Title: I Barbarò: Le lagrime del prossimo. vol. 2
Author: Gerolamo Rovetta
Release date: September 1, 2014 [eBook #46749]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
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I BARBARÒ.
II.
DEL MEDESIMO AUTORE:
ROMANZI E RACCONTI.
Mater Dolorosa (quinta edizione).—Milano, Treves.
Sott'acqua (terza edizione).—Milano, Treves.
Tiranni Minimi.—Milano, Treves.
Montegù (seconda edizione).—Milano, Galli.
Ninnoli (terza edizione).
TEATRO.
Gli uomini pratici, comm. in 3 atti.—Milano, Treves.
Collera cieca, commedia in 2 atti.—Milano, Treves.
Scellerata!, commedia in un atto.—Milano, Treves.
Un volo dal nido, commedia in 4 atti.—Verona, Munster.
La moglie di Don Giovanni, dramma in 4 atti.—Verona, Munster.
In sogno, commedia in 4 atti.—Verona, Munster.
La Contessa Maria, dramma in 4 atti.—Milano, Barbini.
GEROLAMO ROVETTA
o
Le lagrime del prossimo
ROMANZO
Volume II.
TERZA EDIZIONE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1890
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Tutti i diritti riservati.
Milano, Tip. Fratelli Treves.
PARTE TERZA | |
CAP. | PAG. |
I. | 3 |
II. | 19 |
III. | 45 |
IV. | 62 |
V. | 82 |
VI. | 104 |
VII. | 138 |
PARTE QUARTA | |
I. | 155 |
II. | 162 |
III. | 176 |
IV. | 184 |
V. | 208 |
VI. | 214 |
VII. | 231 |
VIII. | 240 |
IX. | 256 |
X. | 270 |
XI. | 281 |
XII. | 294 |
XIII. | 306 |
XIV. | 318 |
XV. | 331 |
XVI. | 343 |
PARTE TERZA
GLI ONORI.
Francesco Alamanni conservava ancora nella sua maschia natura di cospiratore e di soldato le idealità e i poetici entusiasmi dei vecchi romantici del quarantotto. Buono come chi è veramente forte, indulgente come chi è profondamente onesto, era ottimista fino a parere ingenuo. Per le molteplici vicende della sua vita avventurosa, trascorsa fra le cospirazioni, il carcere, l'esilio e le battaglie, non avea avuto tempo nè agio per imparare a conoscer uomini, specialmente gli uomini moderni, e per acquistare la pratica, la vera pratica, delle cose. A sessant'anni, colla bella persona alta e asciutta, col viso in cui spirava la serenità dolce dei forti, e la lunga barba, d'un biondo reso chiarissimo dalla canizie, pareva l'uomo di un'altra epoca; la figura di un eroe magnanimo, che si fosse staccata da un quadro storico dei tempi epici, e che dovesse trovarsi a disagio in mezzo al formicolìo basso e minuto della vita usuale. Quantunque parecchie volte fosse rimasto ingannato[4] dai furbi e dai bricconi, pure l'ipocrisia e la malizia altrui non avevano giovato alla sua esperienza. Egli rimaneva sempre lo stesso; i dolori gli potevano spezzare forse, ma non mutare il cuore. E così era pure del suo carattere, tutto di un pezzo e di grana nitida e lucente, come una statua di marmo pario; così de' suoi sentimenti, così delle sue opinioni. Nulla poteva piegarsi, nè corrompersi in lui; e però se Francesco Alamanni era verso gli altri assai mite e indulgente, era severissimo con sè stesso; e se, come imponeva il dovere di vecchio cospiratore, sapea mostrarsi insensibile alle seduzioni della vita, e dominare e vincere i propri affetti e le proprie passioni, tuttavia, come un soldato, sentiva eccessivamente il punto d'onore.
Mentre si trovava ancora ferito, e gravemente, nello spedale d'Innsbruck, aveva già scritto a qualche suo amico di Milano (gente dell'altro mondo come lui) per avere informazioni intorno al signor Pompeo Barbarò. Queste gli erano state mandate assai contradittorie; ma tali, in ogni modo, da inquietarlo seriamente.
—E Donna Lucrezia,—pensava l'Alamanni fra sè, crollando il capo, dopo aver ricevute quelle notizie,—Donna Lucrezia che mi vantava tanto l'operosità e i talenti del signor Pompeo, e la bontà, il coraggio e il disinteresse del figliuolo?!... Bei talenti davvero!... È proprio senza testa, Donna Lucrezia, proprio senza testa!...—E le scrisse subito una lettera di fuoco, imponendole di allontanare i due giovani quanto più le fosse possibile, e di rimandare ogni risoluzione relativa al matrimonio della nipote, sino al giorno in cui egli avesse potuto recarsi a Milano.
Ma la ferita era assai grave, e fu lunghissima la cura e la convalescenza; l'Alamanni dovette aspettare parecchio tempo prima di potersi mettere in viaggio, e la Balladoro lasciava intanto che i due giovani continuassero a vedersi, brontolando che lo zio Francesco non aveva alcun diritto di mettersi a fare il sior Todero; che non si era mai dato alcun pensiero della Mary; e che bisognava esser matti, proprio matti da legare, a voler porre ostacoli a un'unione che era addirittura un.... un vero idillio, per l'amore sconfinato dei do tosi.... e per tutto il resto.
Ma se era lecito brontolare, quanto a concludere il matrimonio, non c'era verso; bisognava attendere l'arrivo dell'Alamanni. Questi capitò a Milano che non era ancora interamente rimesso in salute, e sulle prime cominciò a dubitare che le informazioni avute intorno a Pompeo Barbarò non fossero veritiere. In fatti i conoscenti, anche i più lontani, lo fermavano per istrada, congratulandosi e compiacendosi con lui per le voci che correvano intorno allo splendido partito che si offriva alla sua bella nipotina. Ma poi, appena ne parlò di proposito con qualche persona fidata, e venne in chiaro del famoso processo dei fornitori, non volle saperne di più; andò sulle furie contro Donna Lucrezia, la rimproverò, la strapazzò per aver messo in pericolo il buon nome della Mary e di tutta la famiglia, e le intimò di dichiarare al figlio di quel certo signor Barbetta di smettere ogni idea, ogni speranza, che avesse potuto concepire sul conto della signorina Alamanni. Alla Mary non parlò meno risolutamente: "Finchè sei minorenne" le disse "mi opporrò sempre a una simile unione; dopo potrai anche accettarla.... qualora ti senti l'animo di far morire tuo[6] zio di dolore e di vergogna." Poi, infine, colla scusa che la sua salute aveva bisogno di rinfrancarsi in un clima più dolce, deliberò di recarsi a Nizza per i mesi d'autunno e d'inverno, e volle che la Mary lo accompagnasse.
—Mia nipote—pensava il brav'uomo—ha un paio d'anni da aspettare, prima di essere maggiorenne. E in un paio d'anni si può guarire anche di una ferita d'amore!
Ma lo zio Francesco in vita sua non aveva avuto altro amore che l'Italia, e però non era molto pratico di certe cose, e dovette avvedersene subito, nelle prime settimane che si trovava a Nizza, perchè mentre lui si rimetteva in salute, la nipote dimagrava e intristiva ogni giorno.
E appunto per lo stesso motivo, cioè per la sua ignoranza delle donne e dei misteri e dei bisogni del loro cuore egli, in quell'occasione, non aveva neppur saputo prendere la Mary per il suo verso; e quantunque le volesse molto bene, aveva finito col parere, e fors'anche coll'essere, un po' troppo severo, un po' troppo crudo, nella sua inflessibilità.
Da quel giorno in cui aveva dichiarato alla Mary di opporsi al suo matrimonio, l'Alamanni, sperando che la fanciulla in tal modo riuscisse più presto a dimenticare, non le aveva più detto una parola che potesse riferirsi al suo gran dolore, alle sue speranze distrutte.... Più nulla; come se Giulio Barbarò fosse morto o, peggio, come se non fosse mai esistito.—Non lo doveva più sposare; perchè ricordarlo, perchè parlarne ancora?...—Da quel suo silenzio medesimo, così fiero, così assoluto, essa doveva convincersi sempre più che ogni tentativo di nuovi accordi sarebbe stato respinto.
Ma Francesco Alamanni non sapeva intanto che, se lui ragionava colla testa, sua nipote, invece, ragionava col cuore, e per ciò essa doveva condursi a risoluzioni meno salde e a conclusioni assai diverse.
La Mary, prima ancora dell'arrivo a Milano dello zio Francesco, e precisamente all'epoca del Processo dei fornitori, aveva cominciato a non sentirsi più tanto sicura sul conto del vecchio Barbarò. L'ambiente del salotto, non più giallo, ma cremisi, colla tappezzeria nuova, rimaneva fedele e molto favorevole al signor Pompeo; ma la fanciulla era inquieta, impensierita, e spesso, dopo aver fatto animo al buon Giulietto, che si sfogava con lei lagnandosi delle calunnie infami che la malignità e l'invidia della gente mettevano in giro contro suo padre, si ritirava in un cantuccio, dove non potesse esser vista, e si scioglieva in lacrime, tutta sconsolata. Ma poi, dopo aver pianto lungamente, il suo cuore medesimo finiva ancora per rassicurarla: il figliuolo non doveva portare la pena delle colpe del padre. E questa massima umana e democratica essa aveva tentato pure, nel primo colloquio avuto collo zio, di farla accettare anche a lui; ma lo zio, pur troppo, non ne era rimasto persuaso.
—Sta bene,—aveva risposto alla ragazza,—sta benissimo, come tu dici, ma in regola generale. Nel caso presente il figliuolo fa il signore e si diverte coi danari rubati dal babbo, e se questo matrimonio dovesse mai succedere, tu, un'Alamanni, una mia nipote, andresti in casa Barbarò a.... a fare altrettanto!
La Mary, in sul primo, n'era rimasta scossa e atterrita; ma poi, ritornando a ragionare a modo suo,[8] sempre col cuore, andava pensando che "il figliuolo" avrebbe potuto rinunciare ai danari del babbo, procurarsi un impiego, vivere del proprio lavoro, e allora.... allora anche lo zio Francesco non avrebbe avuto più niente da dire!
Ma c'era anche un altro ostacolo, e questo creato dalla Mary stessa, e che si opponeva alla sollecita effettuazione del suo disegno. Essa non avea voluto che fosse palesata a Giulio tutt'a un tratto, brutalmente, la vera cagione per cui lo zio Francesco era contrario al loro matrimonio.
—Chi sa—pensava spaventata—chi sa come il poveretto resterebbe colpito da una simile scoperta!—E per ciò volle facessero credere a Giulio Barbarò che lo zio rifiutava il suo consenso per antipatia personale, per divergenza d'opinioni politiche, perchè gli era parso che Giulio Barbarò fosse ancora troppo ragazzo, perchè voleva aspettare a maritar la nipote che fosse maggiorenne; in somma per una specie di capriccio: tutte scuse che non persuadevano Giulio, e che invece impedivano alla Mary di parlar chiaro.
Ma la verità non doveva tardar molto, in ogni modo, a venire a galla, e la fanciulla medesima lo sperava pur consigliando, per il momento, di nasconderla al povero giovane. Desiderava solo che il Giulio, indovinandola a poco a poco, avesse più forza di sopportarla, e di prendere quell'unico partito che rimaneva loro per essere ancora uniti e felici.... sì, felici. La buona Mary si sentiva capace di guarire, di lenire almeno, col suo grande amore, la ferita di Giulio, per quanto profonda e dolorosa!
E con questa speranza da cui solo traeva coraggio[9] per reggere al doloroso distacco scrisse, di nascosto dello zio, una lunga lettera al suo innamorato, prima di partire da Milano; in essa gli diceva aperto "di sperar molto nell'avvenire," e lo assicurava che "se mai non avesse potuto essere sua moglie, non avrebbe sposato nessun altro e che, piuttosto, si sarebbe fatta monaca."
Ma nonostante questi conforti Giulio Barbarò rimaneva accasciato, come istupidito, sotto quel colpo terribile: non aveva la forza di reagire, di lottare, di difendersi; soffriva un gran dolore e un grande avvilimento; si sentiva il cuore rotto, spezzato, e non osava lamentarsi; aveva vergogna e insieme paura delle sue stesse lacrime.
I pietosi inganni della fanciulla non gli avevano giovato: la verità gli era subito apparsa, dinanzi agli occhi, inesorabile, spietata, rendendo vana ogni consolazione, distruggendo ogni speranza.
Donna Lucrezia aveva un bel protestare contro "quel mato che metteva la politica prima del cuor;" aveva un bel gridare il signor Pompeo che l'Alamanni, "ad onta della sua rep.... pubblica cercava pretesti e scuse per non imparentarsi col figlio del suo.... di chi, insomma, non discendeva dalla costola di Adamo." Giulio pallido, stralunato, li lasciava dire, ma pensava sempre alla risposta dello zio che la fanciulla gli aveva riferito a Desenzano: "egli non faceva caso nè della nascita nè delle ricchezze; voleva soltanto che il nome fosse di gente onorata." Dio, Dio! C'era dunque qualche cosa di vero nelle infamie ch'erano state messe in giro?... E l'infelice si chiudeva in casa, non voleva più veder nessuno; non osava interrogare suo padre, nè pretendere una[10] risposta esplicita, nè chieder ragione all'Alamanni.... pensava di partire, di fuggire lontano, ma finiva sempre col non risolvere nulla e collo struggersi sempre più, chiamando la Mary fra le lacrime, disperandosi, invocando la morte.
In quanto poi al signor Pompeo, sebbene avesse indovinato il segreto travaglio del figliuolo, non era molto preoccupato. Gli consigliò, per distrarsi, di fare un viaggio di piacere, di andar a vedere Parigi e Londra. Il signor Pompeo sperava nel tempo; era intimamente persuaso che quel matrimonio, presto o tardi, si sarebbe combinato ugualmente; ma se poi, non per colpa sua, doveva proprio andare a monte, egli, tranquillo nella propria coscienza, e sicuro di aver fatto anche più di quanto avea promesso alla povera Betta, non se ne sarebbe troppo addolorato.
Adesso Pompeo Barbarò era in auge: dopo il prestito delle ottocento cinquanta mila lire offerto spontaneamente alla Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali, il Prefetto lo aveva proposto cavaliere e il Consiglio di Amministrazione, con a capo il marchese di Rho, gli aveva offerto un pranzo d'onore al Ristorante della Borsa. Suo figlio, dunque, non aveva più bisogno, per mettersi a posto in società, d'imparentarsi cogli Alamanni e di sposare una ragazza che non aveva un soldo di dote! Il posto gliel'aveva procurato lui... col sudore della fronte!
Chi un giorno doveva pentirsi di quello sproposito era il Signor rep... pubblicano: Francesco Alamanni!... Bel matto, davvero!... Ma lì sotto, in tutto il pasticcio delle informazioni e del rifiuto, vi doveva entrare anche lo zampino della marchesa Angelica.
—Ah Marchesa, Marchesa!... Bisogna stare in guardia!... Presso la Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali vi sono alcune cambialette colla firma vostra e del marito, e per quella via forse, chi sa, potrò avervi ancora fra le mani.... e vendicarmi!
—E... e Giulio?... Giulio che diventa ogni giorno più magro e sparuto?... Deve mettersi a viaggiare per distrarsi; non c'è altro rimedio!... Deve andare a veder Parigi e Londra!
Ma invece il povero ragazzo, ostinato a rodersi l'anima da solo e in silenzio, non volle muoversi da Milano e finì coll'ammalarsi. Poi, quando cominciò a lasciare il letto, non potè più resistere e scrisse un'ultima lettera alla Mary, facendole intendere, senza dirle nulla apertamente, tutte le pene e le angosce del proprio cuore; soggiungendo che era stanco della vita oziosa e disoccupata, e che avea pensato di procurarsi un impiego... che voleva avere uno stato indipendente... che voleva vivere del proprio lavoro.
Era insomma la risoluzione desiderata, sperata, sognata dalla fanciulla. Essa baciò e ribaciò la lettera cara: si sentì orgogliosa del suo Giulio, e lo amò in quel punto come tanto non lo aveva amato mai. No, no! Non si era ingannata nel giudicarlo; sapeva bene che il suo Giulio era buono, onesto, fiero; che avrebbe tutto sacrificato per lei; che non avrebbe esitato un momento dinanzi all'idea del dovere e dell'onore. Chi si era ingannato invece era stato lo zio Francesco; sì, sì, lo zio Francesco era stato ingiusto... era stato... sì, era stato cattivo, col suo Giulio; povero Giulio caro!... E così la lettera del giovanotto ebbe subito in risposta un'altra letterina[12] della Mary che riuscì, se non a consolarlo, a calmarlo un poco, che gli ridonò un filo di speranza, che lo fece correre a Nizza, perchè anche la fanciulla gli scriveva di essere ammalata e che "lo voleva almeno vedere!..."
Lo zio Alamanni, come per lo più succede in simili casi, non ne avea saputo niente di questi nuovi disegni; soltanto cominciò in breve a tranquillarsi a proposito della Mary, vedendo che riprendeva a poco a poco i bei colori e che tornava a mostrarsi espansiva, colla sua solita allegrezza, piena di brio e di vivacità.
—Abbiamo vinto!... Abbiamo vinto!...—mormorava il buon vecchio fra se, pienamente soddisfatto.—Lo dicevo io che il tempo doveva risanare anche le ferite del cuore!
E tanto più l'Alamanni si compiaceva di questo ottimo esito avendo ricevuto da Milano, appunto in que' giorni, nuove rivelazioni importantissime e non meno edificanti delle altre sul conto "di quella buona lana del cavalier Barbetta!"
—Donna Lucrezia deve proprio aver perduta la testa—mormorava fra sè—per consigliare un simile matrimonio. È troppo di buona fede e troppo facile agli entusiasmi, quella benedetta donna!... si lascia commuovere dalle romanticherie sentimentali e intanto fa continui spropositi per eccesso di buon cuore!... Ma per fortuna sono capitato ancora in tempo.
E contentissimo della risoluzione presa, e soddisfatto assai per il contegno della Mary, una sera, appena ritornato a casa, dopo aver fatto con essa una piacevole passeggiata lungo la spiaggia,[13] mentre la ragazza stava preparando il thè entrò, per la prima volta dopo tanto tempo, a parlare ancora di quel matrimonio, quasi coll'aria di voler ricambiare la sua docile arrendevolezza con altrettanta confidenza.
—Sai, Mary cara, devi proprio ringraziarmi di aver fatto la parte del tiranno, e puoi chiamarti ben fortunata di avermi dato retta.
—Perchè, zio?—domandò la ragazza cogli occhi scintillanti, in cui pareva ci fosse ancora un riflesso della deliziosa passeggiata fatta in riva al mare e al chiaror delle stelle.—Perchè, zio?—e gli offrì la tazza fumante del thè.
—Perchè quel cavalier Barbetta-Barbarò è più canaglia ancora di quanto si credeva. È proprio vero che teneva per suo conto un'Agenzia di prestiti in cui strozzava la gente!... Ma tutto ciò è ancora poco... è un niente in confronto del resto che ho saputo.... Sai come ha incominciato a mettere insieme i primi soldi?... Col far la spia!
—La spia?!—esclamò la fanciulla senza poter reprimere, in sul primo, un moto di ribrezzo e quasi di terrore. Ma poi si calmò prontamente, mormorando:—Non è possibile, zio mio, non è possibile!... Sono esagerazioni, non bisogna credere a tutte le ciarle.
In quel punto, dalla strada, e proprio sotto alle loro finestre, si udì lo strisciare del ferro di un bastone contro il marciapiede. La Mary arrossì leggermente, i suoi occhi scintillarono di nuovo, e cominciò a mostrarsi un po' nervosa e distratta.
—Eppure—continuò lo zio Francesco—quanto ti dico è la pura verità. Il signor cavaliere ha cominciato[14] la propria carriera facendo la spia all'Austria. Per il momento ci mancano i particolari del fatto; ma c'è chi li sta raccogliendo e gli avremo in breve, e allora... allora faremo la festa a questo imbroglione che ci ha mandato a combattere in Tirolo con fucilacci rugginosi, da comparse! È ora di finirla; e di questo signor cavaliere, appena avrò in mano le prove, me ne incaricherò io stesso!
—Ah no, zio, te ne supplico!
—No?... Perchè no?—esclamò l'Alamanni fermandosi a mezzo dal sorbire il thè, colla tazza alzata in una mano, il piattino nell'altra, e fissando attentamente la ragazza.—Perchè no?
Ci fu un momento di silenzio; la Mary pareva confusa, impacciata.... Lo zio crollò il capo, vuotò la tazza d'un fiato, e la posò con un atto di stizza sul vassoio.
—Per Dio, non ci vogliono debolezze verso le canaglie; e ripeto e sostengo che me ne incaricherò io, io stesso, del signor cavaliere!
—No, no, zio mio, sii buono!... Te ne prego, sii buono!... Intanto vedrai... non sarà vero che abbia fatto la spia....
—È verissimo: lo abbiamo saputo da buona fonte!
—In tal caso... gli devi perdonare.—E la fanciulla lo guardava supplichevole, cogli occhi atterriti. Adesso non era più nervosa, nè distratta, quantunque lo stridore del bastone strisciante sul lastrico della strada, che si era un poco allontanato, ritornasse un'altra volta ad avvicinarsi, e a ripassare sotto le finestre.
—Perdonare?... Gli devo perdonare?!—domandò l'Alamanni maravigliato e crucciato insieme....—Perdonare?... A una spia?!
La casetta era posta in riva al mare, e il buon vecchio udiva solo il rumore monotono delle onde che si rompevano contro la scogliera. All'altro rumore, a quello del ferro del bastone, non ci aveva badato.
—A noi, in fine,—riprese la fanciulla balbettando nel cercare una scusa attendibile, e senza pensar bene a quanto stava per dire,—a noi, in fine, non ha fatto niente di male!
—Niente di male... a noi?... E sei tu, la Mary, che parli in tal modo?... Ma dove hai la testa, per ragionar così?... A che cosa pensi in questo momento? Appunto, s'egli avesse fatto del male soltanto a noi, direttamente, allora gli si potrebbe perdonare: ma invece no. È un dovere, un sacro, un imperioso dovere lo smascherare i falsi amici, i mercanti della patria. Noi abbiamo l'obbligo di bollare col ferro infocato questi vermiciattoli che fanno piaga e le infettano il sangue. Le canaglie come il Barbarò sono più dannose e pericolose degli stessi Tedeschi! Questi infine erano nemici aperti, dichiarati; volevano opprimere la patria, opponevano la forza della tirannide alle ribellioni della libertà; ma combattevano alla luce del sole, soldati contro soldati. Costoro invece, dopo averla tradita nell'ombra per arricchirsi, adesso sfrontatamente, sicuri dell'impunità che loro accorda la debolezza, la vigliaccheria e l'interesse altrui, vorrebbero fare della patria nostra il mercato delle loro cupidigie; il porto franco delle loro ladrerie!... Ma noi, gente onesta, noi, come abbiamo combattuto quegli altri, dobbiamo levarci a combattere i nuovi, i più esosi nemici: li dobbiamo combattere all'ultimo sangue, a viso aperto,[16] a costo della nostra pace, dei nostri interessi, del nostro cuore, della nostra vita. Il Barbetta che faceva la spia, o il Barbarò che ci frodava, che ci tradiva durante la guerra è uno di costoro?... Ebbene, lui per il primo, alla berlina!... Alla berlina!...
—Ah no!—gridò la Mary con impeto, sempre più spaventata dalla collera e dalla terribile minaccia dello zio.—No, per carità; abbi compassione di me....
—Di te?!
—Di Giulio. Egli ne morrebbe!...
—E che importa?—rispose l'Alamanni fuori di sè.—Meglio così. Sarà dispersa, sarà distrutta la razza maledetta degli spioni!
—Ebbene—proruppe la fanciulla non più supplichevole nè tremante, ma pallida, risoluta, forte e fiera del suo amore—ebbene, fa ciò che vuoi, ma pensa che io pure sarò disonorata con Giulio, pensa che io pure morrò con lui!
—Tu?... Con lui?... Con Giulio Barbarò?—domandò l'Alamanni rimanendo come oppresso e atterrito.
—Sì,—rispose la Mary semplicemente; ma c'era tutto il sacrificio della sua vita, tutta la più ferma volontà del suo cuore in questa sola parola.
—Ma... ma non sai....
—So ch'egli non è colpevole delle colpe di suo padre, e non ne deve rispondere.
—Sì, ne deve rispondere perchè ne gode i frutti, ed è quasi come se ci tenesse mano!
—Egli ha sempre fatto il suo dovere: è stato soldato: s'è battuto; è un valoroso.... Adesso vuol procurarsi col suo lavoro uno stato indipendente, [17]decoroso.... Quando ci sarà riuscito... ci sposeremo.
—Sposar... te?!
—Sì... e avrò diritto di andar superba del suo amore.
—Ma questi sono romanzi!—esclamò l'Alamanni soffocando la collera e il dolore per trovar modo di persuadere la ragazza.—Come vuoi che da un giorno all'altro possa procurarsi uno stato se non ha mai fatto nulla, se ha sempre vissuto col capo nel sacco?... Sono romanzi, ti ripeto; assurdità, stupidaggini! È Donna Lucrezia, colle sue fanfaluche, che ti riscalda la testa.
—No, la zia non c'entra. È stato Giulio che m'ha fatto questa promessa, e la manterrà.
—Giulio?... Quando?
—La prima volta che mi ha scritto, dopo di essere stato ammalato, e gravemente.
—Ma come?... Ti ha scritto ancora?
—Sempre, zio.
—Se credevo tutto finito fra voi due?
—No, zio.
—Dunque le tue promesse....
—Io ti ho obbedito, ma non ho promesso nulla. In casa del signor Pompeo non ci devo andare, nè ci andrò. Noi vivremo del nostro lavoro colla zia e con te... se vorrai.
Ci fu un altro po' di silenzio: poi l'Alamanni mormorò, crollando il capo e sospirando:
—Ed io, povero illuso, che ti credevo guarita....
—No, zio,—rispose la fanciulla sorridendo;—ammalata... peggio di prima.
L'Alamanni, cupo, imbronciato, non disse più una parola e si ritirò nella sua camera prima del solito, senza nemmeno abbracciare la Mary, come faceva sempre ogni sera.
Passeggiò su e giù per un'ora, e a mano a mano il dolore vinceva la collera. In fine si confortò un poco pensando che la battaglia non era ancora perduta, che aveva quasi due anni di tempo dinanzi a sè, e che certo, per quanto dipendeva da lui, non avrebbe mai avuto il rimorso di aver ceduto d'un punto. Occorrendo avrebbe anche trovato il modo di dare una buona lezione al signorino!
Intanto, era ciò che più premeva per il momento, voleva continuare a tenere la Mary a Nizza... lontana dalle chiacchiere di Donna Lucrezia che le facevano perdere il cervello... e lontana, specialmente, da Giulio Barbarò.
—Che coraggio, per altro, in quella ragazza! E quanta fermezza!
Poi, prima di andare a letto, pensò di scrivere appunto alla Balladoro, lagnandosi anche con lei per quanto era accaduto, e ingiungendole d'imporre in suo nome, al signor Giulio Barbarò, di tralasciare immediatamente di corrispondere anche per lettera, colla signorina Alamanni.
Bisognava tentare ogni via per dividerli quei due ragazzi, e per fare in modo che finissero col dimenticarsi.
Mentre l'Alamanni scriveva a Donna Lucrezia era tutto quiete e silenzio, dentro e fuori della piccola casetta. Solamente fra mezzo al gorgoglìo incessante delle onde del mare si udiva ancora, a volte vicino vicino, a volte più lontano, lo stridore del ferro di un bastone che strisciava sul lastrico della strada... e c'era sempre lume alla finestra della Mary.
Il giornale Il Moderatore aveva già cominciato, in breve tempo, a diffondersi e ad accreditarsi, e il merito di questo buon successo spettava in parte anche al professore Eugenio Zodenigo che, caso raro, era un uomo saggio e fortunato. In fatti, se la fortuna, più che altro, lo aveva messo a capo di un giornale, vi rimase poi, acquistando ogni giorno maggiore autorità per solo merito della propria prudenza.
Col trascorrere degli anni, mentre si inaridiva nel professore Eugenio la fonte poetica, due altre fonti invece, e assai più proficue, cominciarono a scaturire nel suo individuo: quella dell'agitatore elettorale, e l'altra del buon amministratore.... cioè di colui che per fas o per nefas riesce sempre a trovar danari quando gli abbisognano.
Ora, appunto come agitatore elettorale, egli aveva contribuito efficacemente alla rielezione dell'onorevole Silvio Caldarelli, uno dei comproprietari del giornale Il Rinnovamento, in cui lo Zodenigo era scrittore per la parte letteraria, e cronista. Tale rielezione pareva in sulle prime assai pericolante, per ciò il Caldarelli non solo fu grato al Professore del servizio prestatogli, ma lo prese a ben volere e quando, in seguito ad alcune divergenze nelle opinioni politiche, il Caldarelli uscì dal Rinnovamento[20] per fondare il Moderatore, chiamò presso di sè lo Zodenigo, e lo fece amministratore di fatto e direttore di nome del nuovo giornale.
Silvio Caldarelli era uno degli uomini più onesti e simpatici della vecchia Destra; uno di coloro che avrebbero potuto far valere, e non avevan fatto valer mai, tutta una vita spesa in pro del proprio paese. Ma fra molte doti singolari c'era in lui anche un grosso difetto: il codino dell'oggi conservava, come Francesco Alamanni, la buona fede, l'ingenuità, gli entusiasmi dell'antico mazziniano. Pessimista in teoria, era ottimista nella vita pratica, e tutti gli altri giudicava da sè stesso... compreso lo Zodenigo.
Tuttavia, col tempo, e specialmente dopo certi elogi del signor Barbarò apparsi nel Moderatore, il brav'uomo cominciava a modificare un poco la propria opinione sul conto del Professore... quando, improvvisamente, morì a Roma di tifo, e così il giornale restò in piena balìa dello Zodenigo che lo fece uscire per tre giorni listato di nero, e che cominciando a mostrare la sua abilità di buon amministratore, mentre il cadavere era ancor caldo, e la commozione degli amici più viva, raccolse alcune migliaia di lire per pagare certi debiti del Moderatore di cui nessuno prima d'allora aveva mai sentito parlare, e che Silvio Caldarelli, sebbene fosse morto, com'era sempre vissuto, poverissimo, non si era mai sognato di fare.
Eugenio Zodenigo aveva subito compreso che il Moderatore poteva diventare nelle sue mani una fattoria e che il Caldarelli morto gli poteva giovare fors'anche più che vivo. Per ciò si pose con grande impegno a sostenere la parte dell'amico e del discepolo[21] dell'illustre defunto, pretendendo di aver diritto alla proprietà del giornale, come alla eredità politica e morale del compianto fondatore. Ma (e qui mostrò la sua saggezza) diventato proprietario e direttore assoluto del Moderatore, lo Zodenigo continuò a lavorare molto nell'amministrazione e pochissimo nel giornale, dove di suo pubblicava solo di tanto in tanto, nei periodi delle elezioni politiche ed amministrative, alcuni brevi e succosi articoletti, dalla punta avvelenata, di cui egli aveva la specialità. Del resto se non scriveva nel giornale lo leggeva però sempre, e tutto, attentamente, per assicurarsi che non contenesse nulla che potesse urtare contro gli interessi dell'amministrazione, sopprimendo qua e là qualche aggettivo, aggiungendo all'occorrenza qualche elogio o qualche biasimo, accorciando o arrotondando qualche periodo. Chi scriveva da capo a fondo, chi faceva tutto il Moderatore, versandovi la parte migliore del suo sangue sano e rigoglioso, era il dottor Nicomede Carpani, il redattore-capo; uno di quegli uomini rari che intendono il giornalismo davvero come un sacerdozio, e che al trionfo dei principii e degli ideali sacrificano interamente la propria persona, nulla domandando, nulla volendo per sè.
E anche Nicomede Carpani, con tutto il suo ingegno e la sua scienza, era un uomo di ingenua buona fede. Sempre sprofondato nel lavoro, colla vita esteriore limitata al pezzo di strada che faceva due volte al giorno dall'ufficio del Moderatore alla sua cameretta al quarto piano del Corso Garibaldi, non aveva nè tempo nè modo di fermarsi a osservare e a studiare chi lo toccava più da vicino. Egli[22] che conosceva a fondo la mente, la vita, il valore di tutti gli uomini politici più notevoli, non conosceva ancora lo Zodenigo, il suo direttore. Sapeva bene che era un uomo più di apparenza che di sostanza, ma lo reputava un galantuomo dal momento che era stato l'amico del "compianto Caldarelli." Riconosceva che possedeva in sommo grado il tatto e il sussiego dell'uomo politico, e ciò pensava che tornasse utile al giornale e conveniente al partito; onde lo serviva sgobbando in vece sua, giorno e notte, e gli dava autorità e riputazione col proprio lavoro, vivendo miseramente col magro stipendio che riceveva a spizzico, mal vestito, mal nutrito, facendo colazione sul tavolino dell'ufficio, fra le bozze da correggere, soltanto con un pezzo di pane e una fetta di salame, mentre il direttore stava due ore al Caffè Cova a rinforzarsi lo stomaco con buoni beefsteaks à la Chateaubriand, e a godersi l'ammirazione e il rispetto della gente dabbene.
Però ben presto, quantunque il Moderatore continuasse a prosperare, lo Zodenigo invece, appunto per la vita da signore che menava, e per le spese proprie del giornale, tornò a trovarsi colla cassa vuota. Appena morto Silvio Caldarelli egli aveva chiamato a raccolta gli uomini del partito, formandone una società di azionisti, la quale aveva versata una certa somma che secondo i preventivi doveva assicurare la vita al giornale almeno per tre anni... Ma invece, come quasi sempre succede in simili casi, tutto il capitale era già sfumato allo spirare del primo.
Che fare?... Lo Zodenigo tornò a picchiare alla[23] porta dei soliti amici, e ricordando i meriti e le virtù del compianto Caldarelli, "il suo secondo padre, il suo maestro," domandò un nuovo versamento, "perchè il Moderatore, che poteva chiamarsi il suo testamento politico, che era uscito direttamente dal pensiero e dal cuore di Lui.... non dovesse sospendere, dopo tanti sacrifici, e dopo l'ottimo frutto ottenuto, le sue pubblicazioni." E a forza di chiacchiere, di promesse riuscì ancora a racimolare una discreta sommetta... ma appena sufficiente per i bisogni del momento, mentre nella testa del professore Eugenio andavano formandosi nuovi disegni di splendidi allettamenti e migliorie da introdursi nel giornale per invogliare il pubblico ad abbonarsi essendo prossima la fine dell'anno. E pensava di ampliare la tipografia, e avrebbe voluto acquistare una macchina celere di ultimo modello che, rendendo più sollecita e meno costosa la tiratura, gli dovesse assicurare un vantaggio notevole sopra gli altri giornali e un nuovo slancio nella diffusione.
Allora pensò e ripensò al modo di trovare dell'altro danaro, molto danaro, tutto il danaro che ancora gli occorreva per il giornale e per sè; pensò, ripensò, e più volte, sebbene crollando il capo, mormorò il nome di Pompeo Barbarò.
"Ah, se avesse potuto ficcar le mani nella cassa forte del neo cavaliere!"
Ma quel villan rifatto, colle cambiali sue che aveva in portafoglio, e che ormai coll'aumento continuo dei frutti e delle spese di rinnovazione, rappresentavano una somma considerevole, pretendeva che il Moderatore gli facesse la réclame a ufo, senza nè manco pagare l'abbonamento!... Eppure che colpo da maestro,[24] sarebbe stato... cavargli fuori le cambialette e fargli snocciolare anche i bei marenghi per la macchina celere!... Che colpo da maestro sarebbe stato avere i danari, e insieme vendicarsi di quell'avaraccio tirchio e indelicato!
Ma come fare?... Se il Barbarò non aveva la scienza infusa, era per altro astuto e furbo più del diavolo.... Attaccato al danaro non si sarebbe indotto a spendere nemmeno per la lusinga d'essere creato... commendatore!... Poi gli era andato bene il tiro colla Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali, e sebbene, in fin dei conti, non avesse fatto altro che un buon affare per lui, guadagnava terreno ogni giorno nell'opinione pubblica, e del Moderatore, quasi, poteva infischiarsene.... Lo avevano nominato consigliere alla Banca Popolare, membro della Congregazione di Carità... Presidente del Comitato Promotore per le Case operaie e...
"Ma appunto," pensò d'un tratto lo Zodenigo picchiandosi la fronte colle dita, "se giovandosi del vento medesimo che il signor Cavalice aveva in poppa egli lo avesse saputo spingere in sulle secche... e gli fosse occorso l'aiuto del giornale per rimettersi a galla?"
".... Ma in che modo si poteva?... In che modo?... Per Dio, non ci sarebbe stato altro che fare col suo nome una grande campagna elettorale: portare il Barbarò candidato alla Deputazione!..."
A questo punto il professore Zodenigo sorrise seco stesso della propria idea, ma poi, subito, borbottò con un'alzata di spalle:—E perchè no?... Se ne son visti di più asini, di più ignoranti assai... e di egualmente bricconi!... In fine poi, il cavalier Barbarò è[25] un uomo serio, positivo, un uomo pratico... un eccellente amministratore.... Suo figlio è stato con Garibaldi in Tirolo... Il Moderatore può ignorare benissimo il suo passato, e proporlo candidato e sostenerlo in buona fede... Poi, nel calore della polemica, se gli avversari susciteranno qualche scandalo bisognerà difenderlo per l'onore del partito... ma intanto l'orang-outang sarà nelle mie mani.... E, per Dio, la pagherà salata la deputazione!
Del resto la prima idea della candidatura Barbarò non era venuta in mente del tutto a caso al professore Eugenio. In quel tempo, per l'appunto, il deputato del collegio di Panigale era stato compreso in una infornata di senatori; il collegio, in conseguenza, dichiarato vacante, e le nuove elezioni indette per il diciotto del prossimo mese di gennaio. Si era allora alla fine di dicembre; lo Zodenigo non aveva dunque che una ventina di giorni, all'incirca, dinanzi a sè, e urgeva non perdere tempo. Indossò l'abito nero, quello proprio di parata più lungo e più abbottonato degli altri, mise un cappello a tuba nuovissimo, che splendeva al sole, e dopo aver fatto colazione al Caffè Cova, come al solito, ma più del solito serbando fra gli ammiratori suoi che gli facevano corona durante il pasto, il grave silenzio monosillàbico dei momenti solenni, ordinò un brum con voce forte, e si fece condurre dal cavalier Barbarò.
Pompeo, che anch'egli aveva appena finito di far colazione, lo ricevette colla sua cordialità sforzata e chiassosamente volgare; ma siccome non ignorava le visite fatte in que' giorni dal Professore agli azionisti credette, a buon conto, di parare la stoccata[26] assicurandolo subito "che le cambiali in scadenza colla fine dell'anno sarebbero state ugualmente rinnovate per quanto il momento fosse piuttosto critico... " Ma lo Zodenigo, a tanta generosità, rispose appena con un sorriso a fior di labbra e con un cenno del capo quasi più di protezione che di ringraziamento.
—Diavolo,—pensò Pompeo fra sè,—che cosa c'è di nuovo?—e cominciò a provare un po' d'inquietudine.
—Ho sentito che il Moderatore,—disse poi per tastare il terreno,—promette di diventar un affar d'oro per il nostro illustre direttore: bravo!... bravo!... bravo!...—E siccome tutti e due erano seduti l'uno accanto all'altro, sul canapè, così il Barbarò ad ogni "bravo" battè col palmo della mano, per dar maggior forza all'entusiasmo, sulle ginocchia dello Zodenigo. Questi rimase un momento senza rispondere, poi stirandosi sul canapè e abbassando le palpebre con una cert'aria di mezzo tra il diplomatico e l'addormentato:—D'oo no—soggiunse—perchè un giornale in Italia non potrà mai essere un afface; ma si è raggiunto il nostro scopo e ormai il Moderatore ha guadagnato il suo posto ed è una forza. Tuttavia—continuò dopo una breve pausa—devo dire a onooe del vero che gli azionisti non hanno mai indietreggiato dinanzi ai più gravi sacrifici, e anche in questi giorni hanno versato la somma che ci occorreva per metterci in grado di vincere le varie concorrenze e poter entrare fidenti e sicuri nel nostro secondo anno di vita. Insomma anche dal lato pecuniario lo stato del Moderatoee non potrebbe essere migliooe.
Una tale e così esplicita dichiarazione, che avrebbe rassicurato chiunque, rese invece maggiormente inquieto e sospeso il Barbarò, che non potè trattenersi dal lanciare un'occhiata alla sfuggita sul suo compagno.
—Dove diamine vuol andare a parare....—pensò tra sè.
Ma lo Zodenigo si mostrava imperturbabile. Sdraiato, colle braccia stese sui guanciali del canapè, cogli occhi semichiusi, soffiava un poco, perchè cominciava a ingrassare. Adesso ch'egli non scriveva più versi aveva rinunciato alla zazzera, al ricciolo alla rubacuori, ed anche all'etisia.
Ci fu un'altra pausa ancora più lunga delle precedenti: Pompeo Barbarò, oltre all'essere inquieto, cominciava a sentirsi anche un po' seccato da quel gran sussiego.
—In fine—ripigliò sdraiandosi alla sua volta e ficcandosi le mani in tasca—si può sapere lo scopo di questa vostra visita?
L'altro aprì gli occhi, fissò Pompeo sorridendo con astuzia, e battendogli, a sua volta, confidenzialmente sulle ginocchia, gli domandò avvicinandosi:
—Vi sentite l'animo di faae un gran colpo?
—Fare un gran colpo?... Che colpo?... Di che genere?... Non vi capisco!
—Un colpo tale da soddisfare pienamente la vostra legittima ambizione.
Pompeo indovinò che cosa lo Zodenigo gli stava per proporre: ebbe un guizzo di foco negli occhietti furbi, arrossì, si confuse; ma fu un attimo, riprese subito il suo sangue freddo e cominciò a fare lo svogliato.
—Caro Professore, vi prego, innanzi tutto, di non venire a rompermi le scatole!... Io amo la mia quiete, la mia pace. Sapete pure che io sono un uomo d'affari; nient'altro che un uomo d'affari; e come tale la mia ambizione ormai è soddisfatta.... il mio fine è raggiunto.
—Excelsioor... Excelsioor... caro cavaliere!
—Andiamo, parlate chiaro: fuori la bomba!
L'altro continuò a sorridere e ritornò a sdraiarsi sul canapè, a chiuder gli occhi e a soffiare.
—Avanti!... Sentiamo!
—Sapete che il collegio di Panigale è vacante?
—Sì... ebbene....
—Ebbene.... Abbiamo pensato a voi.
—A me?... Per che cosa?
—Accettate?
—Ma che cosa?
—La candidatuua.
—La candidatura!—esclamò Pompeo scattando in piedi e fingendo la più alta meraviglia.—Siete matto?
—No, niente affattissimo.
—La candidatura... a me?!
—A voi, appunto. Siete il più ricco possidente di Panigale; avete in mano vostra il collegio... dovete rendere questo seevizio al paese... al paatito.
Il Barbarò dal primo stupore passò alla collera... quindi si calmò un poco, esponendo i grandi, gl'insormontabili ostacoli che si sarebbero opposti alla riuscita della sua elezione; ma vedendo che l'altro continuava a sorridere e a soffiare cogli occhi chiusi, senza ribattere quelle difficoltà, gli si sedette nuovamente accanto sul canapè e cominciò[29] lui medesimo a trovare talune circostanze in favore: "...certo che a Panigale aveva molto credito... certo che avrebbe potuto disporre di un buon numero di voti..." ma lo Zodenigo rimaneva sempre impassibile.
—Infine parlate una buona volta!... Sentiamo!—esclamò il Barbarò perdendo la pazienza—da chi sarei presentato, portato, appoggiato?
—Da noi.—Lo Zodenigo, a questo punto, aprì del tutto gli occhi e fissò serio Pompeo Barbarò.
—Adagio... adagio.... Bisogna andar adagio.... Non sono cose da risolvere così su due piedi, colla fretta!
Il Barbarò era doppiamente spaventato: spaventato dalla proposta medesima; spaventato dalla paura di lasciarsela scappare.
Deputato!.. Era un bel salto davvero!... Lusinghiero per la sua ambizione; ottimo per l'andamento de' suoi affari. Ma... se invece fosse andato a mettersi in un ginepraio... per avere il gusto di fare un fiasco? Se... No, no, non ci voleva fretta. Bisognava andare adagio, molto adagio!
Invece lo Zodenigo dichiarò esplicitamente che non c'era proprio tempo da perdere, e che per riuscire si doveva aprir subito il fuoco finchè il nemico non si era ancora peepaato. Del rimanente egli aveva pensato al suo nome per il collegio di Panigale, spinto da due motivi. Uno di sentimento: perchè il Modeeatore doveva gran parte della sua fortuna al cavaliere Barbarò; l'altro, e non glielo voleva nascondere, per opportunità. Visto le aderenze e l'autorità e i molteplici interessi che rendevano onnipossente il cavalier Barbarò a Panigale, la vittoria[30] sarebbe stata facile, e al Moderatore, per affermarsi stabilmente, occorreva appunto di ottenere il trionfo in una campagna elettorale.
—I giornalisti sono come i soldati: non si formano altro che alla gueea.
E tante ne disse e ne ripetè, sempre con un sorrisetto che significava lo sprezzo per gli altri e la sicurezza di sè medesimo; sempre con un'aria olimpicamente infallibile, che il Barbarò finì col maravigliarsi di una cosa sola: che non gli fosse venuto in mente anche prima, di farlo deputato.
—Ma... e il padre Cammaroto?—esclamò a un tratto il Barbarò tornando a mostrarsi inquieto.—Che contegno avrebbe tenuto il padre Cammaroto?
—Il Cammaroto è un mattoide: la gente di buon senso, le persone oneste, e aliene dagli scandali, lo hanno abbandonato: La Colonna di fuoco ha oomai fatto il suo tempo...—rispose lo Zodenigo chiudendo del tutto gli occhi e storcendo la bocca in atto di nausea.—È uno sconcio zibaldone senza misura, senza stile, senza gaammatica.
La Colonna di fuoco era un giornale politico che si pubblicava allora a Milano, diretto da un ex frate catanese: Salvatore Cammaroto.
Al primo momento Pompeo Barbarò, sedotto dall'idea della deputazione, aveva obliato il frate e il suo giornale, ma adesso invece, rammentandolo, stentava a rassicurarsi, e fissando lo Zodenigo mormorò, mentre impacciato intrecciava le dita grosse e nocchiute nel catenone d'oro:
—Capirete bene... non vorrei... non vorrei aver [31]dispiaceri... ho molti nemici... troppi nemici.
—Tutta invidia...
—Sicuramente; ma intanto... riderebbero alle mie spalle. I Collalto, specialmente!... Adesso, sapete?... mi han messo contro anche quel vecchio gonzo dell'Alamanni. Se riusciranno a impedire il matrimonio sarà tanto di guadagnato per me e per Giulio, ma.... Ma pure, scommetterei, dev'essere stata la marchesa Angelica, istigata dal Capitano, che mi ha dipinto coi colori dell'orco allo zio Francesco!
—Quel maachese... quel maachese... non muoee mai?
—Lo desiderano troppo, e ciò gli allunga la vita!—rispose il Barbarò con una sghignazzata.—Ma... ritornando alla Colonna di fuoco vi confesso che... per le ragioni che v'ho detto e... in questo momento... mi fa... mi fa... mi fa paura!
Lo Zodenigo sorrise appena, sprezzantemente, senza scomporsi.
Salvatore Cammaroto, il direttore della Colonna di fuoco, era un uomo d'ingegno straordinario e di svariata coltura, ma al quale mancavan, per disgrazia sua... due dita di criterio, di quel certo criterio senza cui, a sentir la gente di buon senso, riescono vane tutte le più grandi virtù della mente e del cuore.
Da ragazzo era stato messo in un collegio presso Catania, diretto dai Padri Scolopi, e subito leggendo la vita di San Giuseppe Calasanzio si accese di un ardore tale per le pratiche religiose da sembrare certe volte un allucinato e da far temere anche per la sua salute. Poi, crescendo cogli anni, s'infervorò nello studio delle discipline religiose diventando un seguace ardentissimo della dottrina dei Minoriti, e però schierandosi fra gli avversari più acerrimi e più battaglieri della scuola teologica dei Domenicani,[32] come se avesse in animo di rinnovare per proprio conto, in mezzo allo scetticismo e alla indifferenza del secolo decimonono, le dispute e le lotte accanite del medio evo. In fine quando i suoi parenti, che dopo essere stati edificati dalla pietà del fanciullo e inorgogliti dal sapere del giovinetto si preparavano a levarlo di collegio, egli dichiarò esplicitamente che si sentiva la vocazione, e che voleva farsi frate.
Frate, il padre Salvatore Cammaroto diventò presto popolare per la foga veemente e colorita delle sue prediche, e per la profonda carità del suo cuore e delle sue opere. Ma ben presto anche nell'interpretare, e specialmente nello spiegare i libri sacri, mise fuori il solito difetto; volle farsi rigido banditore della legge del Vangelo, e urtò contro gli interessi medesimi della Chiesa, suscitando un grosso scandalo, ond'ebbe a risentirsi un abate, appartenente ad un'illustre famiglia dell'aristocrazia romana, il quale non godeva fama di aborrire i piaceri e i beni terreni come il poverello d'Assisi.
Il Priore dell'Ordine chiamò allora a sè il padre Salvatore e lo ammonì severamente, esortandolo a voler temperare colla prudenza (prudentia est virtus directiva, secondo san Tommaso) la sua indole troppo vivace e battagliera. Ma il frate indignato di sentirsi rimproverare di ciò che reputava il più santo dovere del proprio ministero, si rivolse invocando giustizia e protezione al generale dei Francescani; poi, redarguito anche da questo savio prelato che gli ricordò con san Gregorio:... fortissimus qui seipsum vincit, ricorse direttamente al Papa, il quale gli fece rispondere imponendogli per castigo della[33] sua insubordinatezza certi esercizi spirituali da compiersi in un piccolo monastero presso Trapani. Il padre Cammaroto ubbidì al supremo comando più rassegnato che convinto; a poco a poco lo scoramento, il dubbio turbarono, vinsero l'animo suo; pensò che i preti di Cristo, non erano migliori dei sacerdoti di Caifasso, e appena scoppiata la rivoluzione del sessanta corse a raggiungere Garibaldi, e gli si pose ai fianco soccorrendo i feriti, confortando i moribondi, incitando i volontari alla pugna, mettendo Garibaldi in compagnia di Cristo e di Mosè, riunendo in un solo martirologio i martiri della Chiesa e i martiri della patria, e facendosi sospendere a divinis.... Al che il padre Cammaroto rispose scomunicando alla sua volta il Papa con una lettera violentissima che corse i giornali, indirizzata "al Pastore fattosi lupo del proprio gregge"; quindi buttò via la tonaca e s'infervorò nello studio della filosofia. Da prima s'innamorò delle opere postume del Gioberti, e compose un commento alla Protologia e alla Riforma, rimasto inedito per mancanza d'editore; poi, traversato l'heghelianismo, fu attratto dal positivismo di Augusto Compte, della seconda maniera, che innestò a modo suo con idee e simboli della Bibbia, ormai divenuta sangue del suo sangue. In fine scrisse le sue Confessioni al Padre Passaglia, che nessuno lesse in Italia, ma che furono tradotte in tedesco; e continuò imperturbabilmente a combattere il dogmatismo antico per sostituirne uno di nuovo conio, esagerando ancora il misticismo umanitario delle ultime opere del filosofo francese, e scaraventando contro i propri avversari d'ogni specie un profluvio di dottrina e di insolenze.... Dopo[34] aver seguìto Garibaldi a Sarnico, ad Aspromonte, in Tirolo, essendosi ammalato di vaiuolo a Firenze, sposò la serva della sua affittacamere, che lo aveva assistito con pericolo della propria vita.
Fu allora che cominciò a guadagnarsi il pane scrivendo pei giornali, e dando lezioni private di greco e di latino. Ma non potè stare tranquillo un pezzo. Visto che i grandi filosofi, quelli morti specialmente, non rispondevano alle sue epistole, fondò un giornale per combattere la corruzione invadente in ogni ordine dello Stato. Si professava apostolo audace e coraggioso della verità e della giustizia; voleva strappare la maschera ai farisei della patria, ai tartufi della politica, ai Mercadet della finanza, agli ipocriti di tutte le caste, di tutte le classi, di tutti i mestieri: e si pose all'opera senza pensare ad altro, con tutta la sua mente, con tutto il suo cuore, persuaso che il mondo non avrebbe più potuto camminare se non si metteva lui, colla Colonna di fuoco, a rischiarargli la via.
E in fatti, in sulle prime, la Colonna di fuoco maravigliò, sbalordì la gente, più per la novità della cosa, che per la luce stessa.
—Per Dio, aveva fegato quel frate smesso!.... Come sapeva cantarla chiara, sul muso, a tutti quanti, senza lasciarsi intimorire dalle influenze, dalle aderenze, dalle minacce, dai sequestri!...
Bravo, bravissimo, evviva il padre Cammaroto che si era lanciato coraggiosamente, a capofitto nella morta gora della corruzione, sollevando un tanfo di putridume che ammorbava!... Evviva l'apostolo della verità: il braccio forte della giustizia!... E mentre il buon pubblico batteva le mani soddisfatto, era da[35] per tutto un rimescolìo continuo, un brontolìo sommesso, ma invadente, dei colpiti e dei minacciati, finchè nel più forte del combattimento, e sempre per quelle due dita di criterio.... che gli mancavano, il direttore della Colonna di fuoco cominciò a perdere del campo, a incespicare, a rovinarsi colle proprie mani.
Nell'attacco Salvatore Cammaroto era troppo violento e personale, nelle botte a fondo non sapeva conservare la forma nè la misura.
Invece di dire soltanto certe verità e a certa gente, s'era messo a urlare ai quattro venti, a squarciagola, tutte le verità e a tutti quanti, e perciò le persone di giudizio cominciarono a mormorare che la Colonna di fuoco sdrucciolava nel libello.
—Come?... Quel mattoide non era contento di svelare le marachelle dei ministri, degli uomini pubblici, ma metteva in ballo anche i privati?... Le persone che vivono all'ombra lontane da ogni rumore... e che perciò hanno il diritto che nessuno vada a ficcare il naso nei loro affari?... Altro che apostolo!... Altro che braccio della giustizia! Era un pezzo da forca quel frataccio smesso! Alla larga! Alla larga! puzzava di ricattatore!
E allora ognuno temendo per sè, e volendo premunirsi, si affrettò a dichiarare che quel giornalaccio poteva offendere soltanto colle lodi, e che chiunque si rispettasse non doveva più leggerlo... Per il che tutti lo leggevano più che mai; e lo stesso Barbarò il quale gridava ai quattro venti che i biasimi del Cammaroto facevano onore, prima di risolversi ad accettare la candidatura voleva essere sicuro che la Colonna di fuoco non lo avrebbe combattuto, e rispondeva[36] alle obiezioni ed ai sorrisi sprezzanti dello Zodenigo, dichiarando che... per conto suo... avrebbe fatto magari anche qualche sacrificio pure... pur di chiudere la bocca a quel Cerebro.
—Ceerbero—suggeriva il Professore fingendo di non capire dove l'altro voleva arrivare. Egli sapeva benissimo che con Salvatore Cammaroto i quattrini non avevano presa e, d'altra parte, aveva appunto fatto assegnamento per la riuscita dei propri disegni sopra gli assalti della Colonna di fuoco. Era Salvatore Cammaroto che gli doveva dare in piena balìa, con mani e piedi legati, il cavalier Barbarò!
—Non credo,—rispose lo Zodenigo,—che la Colonna di fuoco voglia battersi a tutta oltaanza per il Collegio di Panigale. È troppo al di fuori della zona dei suoi inteessi, quasi esclusivamente locali. Poi, voi non avete ancora un colore spiccato in politica: siete un uomo nuovo e ciò è bene, perchè non potete sollevare nè odii nè aancori eccessivi.
Ma il Barbarò non pareva convinto nemmeno da tante buone ragioni e facendosi più vicino al Professore, sempre sdraiato sul canapè, "tuttavia... tuttavia... se si potesse... " balbettò guardandolo fisso e fregando tra loro l'indice e il pollice con un certo movimento troppo chiaro e significativo perchè l'altro potesse continuare a fingere di non capir nulla.
—Non si può, non sarebbe prudente: il frate in questi giorni non ha bisogno di danaro, e potrebbe approfittare della nostra offerta per fare del chiasso, vantandosi di essere un puritano.
Pompeo rimaneva perplesso. Avea timore di mettersi in un qualche impiccio, ma d'altra parte[37] il riuscir deputato era per lui una forte tentazione. In fine, dopo molte altre chiacchiere, dichiarò che assolutamente ci voleva pensare... che non si sentiva di potersi risolvere affrettatamente, su due piedi, in un affare di così gran momento... che la risposta esplicita l'avrebbe data in capo a tre giorni.... Ma Eugenio Zodenigo se ne andò sicuro che il tiro gli era andato benone.
Quel giorno a pranzo Pompeo Barbarò rimase muto, concentrato e mangiò meno del solito. La sera andò a passeggiare solo fino in fondo al Corso Venezia.
"Che cosa era saltato in testa a quel Dulcamara dello Zodenigo di volerlo cacciare in quell'imbroglio?... Perchè non lo lasciava vivere in pace?... Tanto se sperava aver quattrini da lui, stava fresco: era già molto che continuasse a rinnovargli le cambiali!... Il paatito... il paese... scilinguato maledetto!... Il paese gli doveva essere riconoscente: la sua parte lui l'aveva fatta, e aveva diritto finalmente di godersi il riposo e la pace.... Ma... pure... se fosse stato sicuro di essere eletto... certo... la condizione di deputato offriva molti vantaggi.... Onorevole?... I suoi nuovi amici che gli sorridevano ancora a denti stretti sarebbero crepati dalla rabbia!... Poi... avrebbe certo acquistato maggior autorità e anche per gli affari sarebbe stato assai utile.... Ma... e se invece doveva essere un fiasco?..."
Il giorno dopo lesse più attentamente la Colonna di fuoco e vi trovò un articolo che pareva fatto apposta per lui. Salvatore Cammaroto dichiarava, a proposito dell'elezione di Panigale, che era ormai tempo di mutar sistema e che gli elettori non dovevano[38] più mandare alla Camera "nè i gaudenti dall'epa rotonda, che sonnecchiavano nello stallo di deputato, dove la loro ambizione soddisfatta faceva il chilo eruttando pappagallescamente il sì o il no all'appello nominale; nè gli oziosi titolati, i damerini coll'occhialino, che aspiravano alla medaglietta come a un distintivo qualunque dello sport, e tanto meno le nullità vane e presuntuose, che arrestavano a mezzo le più gravi discussioni per balbettare i loro imparaticci sconclusionati, rendendosi colpevoli del bizantinismo che sgovernava in Babilonia!"
—Gaudenti dall'epa rotonda?—pensava il Barbarò, tutto consolato,—io sono magro come un'acciuga!... Oziosi titolati?... io ho lavorato tutta la vita!... Imparaticci sconclusionati? Io non sarò mai così bestia di aprir bocca, lo giuro!
Lo stesso giorno il professore tornò a fargli un'altra visita... poi la mattina dopo trovò il modo di incontrarlo mentre usciva dalla Banca.... Pompeo si faceva sempre pregare... finalmente lasciò capire che se fosse stato proprio costretto... forse... per il bene del paese si sarebbe sacrificato.... E lo Zodenigo allora, senza più interrogarlo, diede fuoco alla mina.... cioè presentò nel Moderatore la candidatura del cavalier Pompeo Barbarò.
Il Moderatore usciva la sera: Pompeo lo ricevette che era ancora a tavola. Appena scorse il suo nome Pompeo Barbarò, stampato in carattere grosso, in testa di un articolo, si sentì venir freddo, e gli cominciò a ballar la vista; smise subito di pranzare e sebbene fosse solo, andò a chiudersi col giornale nel suo studio.... Si sedette allo scrittoio pallido, colle [39]gocciole di sudore sulla fronte... spiegò il foglio lentamente, e trattenendo il respiro scorse prima tutto l'articolo, poi con un'occhiata guardò la chiusa... poi, facendosi rosso di piacere lo lesse adagio adagio e attentamente da capo a fondo... A lettura finita era tutto rassicurato: sentiva di essere un uomo di merito.
Il Moderatore faceva in succinto l'apologia del cavalier Barbarò, dipingendolo come un uomo moderno. "Uno di quegli uomini," scriveva lo Zodenigo, "che gli Americani chiamano self-man, cioè che si è fatto da sè. Un uomo operoso e sommamente pratico; che aveva l'intelligenza limpida e soda, non ottenebrata da teorie inattuabili, e che di principii prudentissimo sapeva manifestare all'occorrenza, insieme con un tatto non comune, una energia singolare, di cui appunto aveva dato splendide prove anche durante la crisi, tanto grave e pericolosa, attraversata dalla Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali." Accennava alle sue ingenti ricchezze, "le quali garantivano nel Barbarò il candidato dell'ordine, fedele alle istituzioni, singolarmente interessato al buon assetto delle finanze, al miglioramento dell'agricoltura, all'incremento dei commerci." Ricordava di volo le molte opere di beneficenza, e i larghi soccorsi prodigati agli ospedali militari dopo le guerre del cinquantanove e del sessantasei. "E se" continuava l'articolo "molte azioni filantropiche e generose, la modestia del Barbarò voleva si tenessero nascoste, tuttavia lo scrittore imparziale era costretto a ricordare, per amore di giustizia, che nei momenti supremi della Patria, il candidato del Moderatore le aveva offerto ben più del danaro; ma la miglior parte del sangue!... Suo figlio; il suo unico figlio,[40] Giulio Barbarò, il quale nella non ingloriosa campagna del sessantasei si era battuto da valoroso con Garibaldi." Assicurava pure che al Candidato stavano "molto a cuore i bisogni delle classi povere, e specialmente dei contadini; che studiava di continuo per trovare il modo di portare un vero e reale miglioramento alle loro misere condizioni, e che a Panigale appunto sarebbero stati i primi a risentire i vantaggi di tali studi." E, infine, concludeva col dire che anche tutti coloro i quali non volevano che la deputazione fosse data ai gaudenti sonnacchiosi, e tanto meno alle nullità ridicole e vane che aspiravano alla medaglietta del deputato come ad un gingillo da sportman "dovevano, se leali, applaudire alla scelta fatta spontaneamente e serenamente dal Moderatore dopo un lungo, coscienzioso e spassionato esame della situazione, tenuti a calcolo i bisogni del collegio di fronte ai più alti interessi del paese."
Pompeo Barbarò lesse l'articolo due volte, tutto d'un fiato.... poi si alzò per tornare nella sala da pranzo; ma quando fu sull'uscio dello studio lo rilesse un'altra volta in piedi, col lume in mano.
—Adesso sono in ballo, e bisogna ballare,—mormorò.
Tornato a tavola non mangiò più. Si fece portare subito il caffè, ma ne prese appena due o tre sorsi; era troppo caldo, e non aveva pazienza di aspettare che freddasse.
Prese il cappello, il soprabito e uscì a passeggiare... Gli pareva che lungo il Corso Vittorio Emanuele ci fosse più gente, più luce, che tutti lo guardassero, e che parlassero tutti della sua candidatura.[41] Passando vicino a un'edicola di giornali cercò il Moderatore colla coda dell'occhio e lo scorse subito fra tutti gli altri: aveva preso un aspetto nuovo e simpatico. Gli strilloni che correvano gridando il Moderatore lo facevano arrossire: lo gridavano tanto forte, proprio sotto il suo naso, perchè sapevano che c'era quel tale articolo?
Quando incontrava persone di conoscenza, le salutava un poco impacciato: avevano letto sì o no il Moderatore?... E se lo avevano letto perchè non si fermavano per congratularsi? Gli pareva che lo salutassero meno gentilmente delle altre sere.... Se ridevano si sentiva una stretta al cuore. "Certo, ridevano di lui!... Com'era ingiusto il mondo e cattivo!... Era per invidia che non volevano riconoscere i suoi meriti!" E la sua contentezza sparì a un tratto e tornò a sentirsi un po' inquieto.
—Era proprio una stupidaggine il perdere la pace per tutta quella gentaglia che non valeva due soldi! Lo Zodenigo avea avuto troppa fretta!
E continuavano a passare, a tirar dritto, salutandolo senza fermarsi.—Buona sera, Barbarò!... Buona sera, cavaliere!...—e niente più. Erano cretini, o invidiosi.
In fine volle uscire ad ogni costo da quella incertezza penosa; volle proprio sapere come la pensava la gente intorno alla sua candidatura. Possibile che nessuno avesse letto il Moderatore?
Dinanzi al Caffè delle Colonne incontrò appunto un suo collega della Congregazione di Carità. Lo fermò, e dopo averlo salutato si accompagnò con lui. Ma l'amico cominciò a parlare del più e del meno indifferentemente, senza nè manco nominare il Moderatore.
—Lo ha letto o non lo ha letto?—pensava il Barbarò, mentre gli camminava accanto, senza badare a ciò che gli diceva.—È capace di non averlo letto!... È un tanghero costui!... Un uomo dell'altro mondo.—E allora, tanto per assicurarsene meglio, fece cadere il discorso sulla Colonna di fuoco.
—È diventato un giornalaccio libello.... Non si può più leggere.
—Io non l'ho letto mai—rispose l'altro.
—Davvero?
—Mai!... Non leggo giornali!
—Allora nemmeno il Moderatore—pensò Pompeo tra sè.—Che asinaccio! Pure lo Zodenigo....
—Per me lo Zodenigo vale il Cammaroto e viceversa. I giornalisti son tutti uguali: gente che vende bugie per far quattrini.
—Sì... generalmente...—e il Barbarò si sforzò di sorridere.—Pure il Moderatore... almeno... non è scritto male....
—Non me ne intendo.
—Oh, nemmeno io, e nemmeno lo leggo sempre. Qualche volta a pranzo....
—A pranzo io mangio....
—.... Oppure a letto, la sera....
—A letto dormo!
Pompeo lo salutò presto e lo lasciò andare per la sua strada.
"Era un ignorantaccio!... Era uno zoticone insopportabile!..."
Ma pure la freddezza del collega aveva finito per sconcertarlo interamente.
"Quel maledetto Dulcamara aveva avuta troppa[43] fretta!..." e intanto tornò a pensare con inquietudine alla Colonna di fuoco.
"Chi sa come il padre Cammaroto avrebbe preso tutti quegli elogi! Forse lo Zodenigo non era stato furbo.... Trattandosi del primo articolo doveva contentarsi di tastare il terreno... senza metterlo a quel modo sul candeliere!" Se a Milano non ci fosse stato altro giornale che il Moderatore... sarebbe stata una gran bella cosa!
La Colonna di fuoco usciva alle quattro del pomeriggio. Pompeo cominciò ad aspettarla al tocco; poi alle tre mandò a vedere se era in vendita.... Ma quel giorno, per combinazione, arrivò più tardi del solito. Pompeo, appena l'ebbe fra mani, andò ancora a chiudersi nello studio, come aveva fatto la sera prima col Moderatore.... Adesso che l'aveva finalmente, e dopo averla tanto attesa e desiderata, non si risolveva a spiegarla... aveva paura di leggerla.... Finalmente si fece animo.... Diede un'occhiata in fretta alla prima pagina... alla seconda... alla terza... non c'era niente! Di primo acchito si sentì subito sollevato... poi provò quasi un senso di dispetto.
"Che si affettasse di non pigliarlo sul serio?... Che non si volesse nè manco combatterlo?... Che ordissero contro di lui la congiura del silenzio?..." Ma guardando meglio la gazzetta, scorse il suo nome in fondo all'ultima colonna della seconda pagina!
—Ohi, ohi!... ci siamo!
Era un articoletto di cronaca intitolato: Amenità elettorali.
"Il serio, il grave, il mastodontico Moderatore" così diceva "presentando, non si sa in nome di chi,[44] nè di che cosa, il cavalier Pompeo Barbarò, quale candidato al collegio di Panigale, ci dirige la parola, al solito loiolescamente, facendoci l'onore di non nominarci, e cita una nostra frase a proposito delle medagliette dei deputati. Noi, con quella franchezza ignota al Moderatore, e con quel coraggio che il suo direttore conosce... di nome, gli risponderemo una cosa sola: se non vogliamo abbassato il distintivo dei legislatori fino ad essere un ciondolo da sportman, tanto meno poi vorremo permettere si avvilisca al punto di diventare un gettone... una medaglia di presenza. E ciò basti per ora. La candidatura Barbarò è tanto poco seria, che non val la pena... di prenderla sul serio, e noi, prima di combatterla, aspettiamo di conoscere i nomi dei componenti il Comitato elettorale, che scenderà in campo per sostenere Pompeo Barbarò. Che se poi il famoso cavaliere dalla trista figura dovesse proprio rimanere, come crediamo, soltanto il candidato del Moderatore, allora non perderemo con lui il nostro tempo, e, punto invidiosi della gloria di Maramaldo, gli risparmieremo il colpo di grazia. Del resto è lunga la via di Damasco... e il Moderatore potrà ancora convertirsi alla prudenza, se non alla buona fede!"
—Rinnegato!... Canaglia!—borbottò Pompeo fra sè, dopo letto l'articolo. Aveva le labbra pallide dalla bile, era pieno di rabbia e di paura. Quelle poche righe della Colonna di fuoco avevano distrutto il buon effetto della lunga apologìa del Moderatore.
Mentre lo Zodenigo sfruttava gli amici del Moderatore, quelli della Colonna di fuoco sfruttavano invece, colla medesima disinvoltura, Salvatore Cammaroto.
La Colonna di fuoco non era sostenuta, com'è di solito, da un manipolo di uomini politici, ma apparteneva a un editore, che ne ricavava un sufficiente utile, e retribuiva con un onorario fisso l'ex frate catanese, al quale lasciava per altro piena ed assoluta indipendenza nella direzione del giornale.
Gli amici dunque della Colonna di fuoco erano amici platonici... ma la grazia di quel platonismo!
Più scaltri e prudenti del Cammaroto, che infervorato della sua vanagloria d'apostolo, in mezzo all'affaccendarsi di un lavoro incessante e turbinoso, e allo scatenarsi violento delle passioni, aveva sempre la testa in gran subbuglio e si lasciava facilmente menar per il naso da chi lo secondava e gli dimostrava ammirazione, essi, col pretesto di illuminarlo sopra uomini e avvenimenti milanesi, che il Cammaroto, forastiero, non poteva conoscere a fondo, gli svisavano quella stessa verità che gli era tanto cara, facendolo molte volte servire ai propri fini, e sfogando, per mezzo suo, odi e rancori di parte, o anche soltanto personali.
Ma il direttore della Colonna di fuoco non sospettava[46] nemmeno di essere vittima di quei raggiri. Si credeva l'uomo più indipendente del mondo, e non voleva ricevere inspirazione e consiglio altro che dalla propria coscienza, e in secondo luogo "dalla sua signora," l'Apollonia Cammaroto.
L'ex frate, dopo la trista solitudine del chiostro, dopo i faticosi sconvolgimenti di una vita avventurosa, dopo tante persecuzioni, si era in singolar modo affezionato a quella sua compagna un po' burbera e rozza, ma bonacciona, che gli recava il nuovo conforto della casa e della famiglia, che viveva della sua vita e delle sue lotte, che gli dava spesso del somarone perchè non sapeva farsi pagare abbastanza dall'editore cane (la signora era pratese e diceva 'ane, aspirando la c), ma che gli dimostrava la fede più cieca, l'ammirazione più calda e costante, mentre sapeva alternare praticamente le alte attribuzioni di Ninfa Egeria alle altre più modeste di cuoca e di fattorino.
Per tutto ciò, naturalmente, anche gli amici della Colonna di fuoco, sebbene non godessero le simpatie della signora Apollonia, le dovevano fare un po' di corte per rispetto al Cammaroto, e sopportarne i musi e gli sgarbi. E non c'era verso di liberarsene!... La signora Apollonia e il direttore (com'essa chiamava il marito) erano sempre insieme in casa, in ufficio e fuori. Peraltro c'era questo di buono, che sebbene la signora fosse poco divertente non era, in compenso, niente affatto da temersi, e con quattro complimenti e un po' di furberia la rimorchiavano anche lei dietro al direttore.
Era verissimo che il Cammaroto non pubblicava due righe nel giornale senza prima leggerle "alla[47] sua signora;" ma le domandava un consiglio perchè era sicuro di ricevere in cambio un applauso; e tutt'al più l'Apollonia inebriata dai periodoni risonanti e dalla potenza degli aggettivi, mentre gli esprimeva col faccione volgare, sempre gonfio per un qualche bitorzolo in suppurazione, l'ammirazione la più entusiastica, lo eccitava a volerci mettere anche una 'annonata contro que' 'ani de' preti e contro le moderne Bersabee... i due odii innocenti della signora Apollonia, e che medesimamente non incutevano alcun timore agli amici del giornale.
Povera donna!... Essa odiava i preti perchè attribuiva alle loro persecuzioni palesi e occulte le varie peripezie del direttore, e odiava quelle schifosacce (l'aggettivo era proprio suo) che tradivano i loro mariti quasi per un sentimento di riconoscenza verso il matrimonio. Dacchè era divenuta moglie legittima adorava con ardore di neofita l'istituzione che l'aveva come rimessa a nuovo, e difendeva le prerogative coniugali con una virtù arcigna e spietata.
Del resto, 'annonate a parte, la Ninfa Egeria della Colonna di fuoco faceva umilmente da serva al suo caro Numa.
Così la mattina dopo ch'era uscito il Moderatore colla candidatura del cavalier Barbarò, mentre il Cammaroto preparava l'originale per la Colonna di fuoco, la sua signora invece di inspirarlo e consigliarlo era, come al solito, tutta affaccendata a mettere in ordine l'ufficio: uno stanzone a terreno, umido e tetro. Col suo cappello di forma straordinaria, e che non si levava mai, forse nemmeno di notte, collo scialle a colori appuntato sul petto da uno spillone col ritratto di Ugo Bassi, essa spazzava lentamente[48] l'ufficio, cercando di fare il meno strepito possibile per non disturbare il direttore, e fermandosi ogni poco per raccattare le penne e i mezzi foglietti che ancora potevano servire.
Ma poi, quando a un tratto udì battere con un fascio di carte alla finestra che dava sulla strada, nascose subito la granata in un angolo, e si mise a sedere maestosamente vicino al direttore.
—L'avvocato Gian Paolo!...—esclamò Peppino Casiraghi, un giovanottino lungo, giallo, senza barba, seduto al tavolino di faccia al Cammaroto, di cui si professava il più caldo ammiratore. Correttore di bozze e cronista dilettante, era appassionato del giornalismo fino al punto di far debiti a babbo morto per imprestar quattrini all'editore della Colonna.—Cominciano presto, stamattina!...
—Scaldapanche maledetti!—borbottò la signora Apollonia chinandosi e spingendosi fin sotto il tavolino per prendere il fazzoletto turchino che il direttore perdeva sempre, o dimenticava in qualche posto.
—Cascassero morti que' chiacchieroni!—continuò poi mettendo il fazzoletto sul tavolino, vicino al bicchier d'acqua.—A sentirli, promettono sempre Roma e toma, e poi non sono stati boni nemmeno a persuadere quel 'ane del sor Urbano (era il nomo dell'editore) di mettere la direzione in un posto più da cristia....
Ma si fermò a mezzo con la parola: in quel punto, sbacchiato l'uscio, con violenza entrava in ufficio precipitosamente l'avvocato Gian Paolo Serbellini, il quale, senza levarsi il cappello, senza salutar nessuno, cogli occhi spiritati si fermò dinanzi al tavolino del Cammaroto esclamando:
—Hai letto il Moderatore?
Ma il Cammaroto continuò a scrivere in fretta, col naso sulle cartelle, senza risponder nulla.
—Ha letto il Moderatore?—chiese allora l'avvocato alla signora Apollonia, che seria, imbronciata, non si voltò nemmeno a guardarlo.
—Avete letto il Moderatore?—domandò in fine per la terza volta il Serbellini, rivolgendosi a Peppino Casiraghi che gli accennò col capo di sì.
L'avvocato Gian Paolo era uno dei frequentatori più assidui della Colonna di fuoco. Da molti anni egli era dominato da un desiderio innocente, e sempre insoddisfatto: voleva entrare nel Consiglio comunale. Ma per essere eletto dimostrava troppa smania, e gli elettori lo mettevano in ridicolo, eleggendo poi sempre qualcun altro in vece sua, e che magari valeva anche meno. Una simile ingiustizia aveva reso l'avvocato Gian Paolo malcontento di tutto e di tutti; astioso, maldicente, pettegolo; avversario sistematico e accanito di ogni candidato amministrativo e politico. Per farsi mettere in lista era passato dalla Destra, che accusava di servilismo, alla Sinistra, che accusò poi di partigianeria, terminando, in seguito a tali voltafaccia, col rovinarsi moralmente perdendo il credito, e finanziariamente, perdendo anche i clienti.
—Spero bene—ricominciò a gridare voltandosi di nuovo verso il Cammaroto—che gli risponderai per le rime!
L'altro continuava a scrivere, riempiendo le cartelle, come una macchina.
—È una sfacciataggine, un'impudenza inaudita!... Vorrei scriverlo io, un articolo tale, da levar la pelle[50] al Barbarò! E sarei capace di firmarlo col mio nome e cognome!
La signora Apollonia alzò le spalle infastidita da una tale proposta, facendo segno col capo di non disturbare il direttore.
Ma Gian Paolo era troppo fuori di sè per calmarsi, e battendo forte sul tavolino col grosso fascio di carte, che portava sempre in giro per far credere di aver molte cause da trattare, esclamò con voce ancora più concitata:
—Per Dio, bisogna dare una lezione, ma in piena regola!... Devi dire che è l'usura, il furto patentato che invadono il Parlamento!... Scrivi, scrivi, Salvatore, ti detterò io: scrivi che nel corpo elettorale c'è del putrido... più che in Danimarca.
A questo punto il Cammaroto si alzò di scatto; prese in mano i due ultimi foglietti che aveva appena finito di scrivere, e guardando la signora Apollonia dette in una sghignazzata.
Salvatore Cammaroto rideva sempre a quel modo prima di leggere la roba sua; pareva un cavallo che nitrisca mettendosi in ardenza.
La signora Apollonia si rizzò più impettita che mai per ascoltare: Peppino Casiraghi, cacciata la penna dietro l'orecchio, si sdraiò sulla seggiola e alzò, sorridendo, il viso scialbo, pregustando la prosa del direttore.
Era l'articolino che più tardi dovea recare tanto dispetto e tanta paura al Barbarò.
Letto il titolo Amenità elettorali, il Cammaroto fece una prima pausa, guardando la signora Apollonia a traverso gli occhiali per vederne l'effetto. Quindi, soddisfatto, cominciò la lettura, lentamente, colla[51] voce squillante e nasale dei predicatori, spiccando ogni sillaba, sottolineando ogni frase, fermandosi ancora alla stoccata dei gettoni, delle medaglie di presenza, per guardare di nuovo la moglie, poi il Casiraghi, poi l'avvocato Gian Paolo, e ripetendo in fine la risata fatta in principio, ma assai più lunga e più sonora, colla testa alta, cogli occhi scintillanti dietro le lenti, camminando su e giù per lo stanzone, lisciandosi e accarezzandosi l'ispida barbaccia.
Il Casiraghi intanto ballava sulla seggiola fregandosi le mani dalla contentezza, la signora Apollonia offriva l'acqua al direttore, ma l'avvocato non pareva soddisfatto.
—Ci dovevi mettere un'allusione al processo dei fornitori, e dire nel medesimo tempo che a Panigale lo chiamano il Mercante di Pellagra....
—Questo verrà poi; per incominciare la lotta va bene così!
—Una 'annonata alla volta!—brontolò la signora Apollonia.
In quel punto entrò nell'ufficio un altro amico del giornale, poi un terzo, poi un quarto ed altri ancora, finchè lo stanzone fu pieno di gente; e il Cammaroto voleva leggere e leggeva a tutti l'articolo-scaramuccia, riscaldandosi fra gli applausi, mentre si accendeva sempre più e montava in furore per le informazioni intorno al Barbarò, che gli riferivano, a mano a mano, i nuovi venuti.
—Sai, Salvatore, il Barbarò faceva lo strozzino al cento per cento... lo devi mettere sulla Colonna!
—È un villan rifatto della peggiore specie!
—Un ignorantaccio, che non apre bocca senza dire uno strafalcione!
—È un bancarottiere!
—È un ladro!
—Pochi anni fa aveva un'agenzia, in cui faceva commercio... di ragazze!
—Orrore!... Orrore!... Orrore! urlava il Cammaroto gesticolando, pestando i piedi, saltando come uno spiritato, mentre Peppino Casiraghi rideva e piangeva ubriacato dal baccano, e la signora Apollonia tirava il direttore per le falde dell'abito, cercando di calmarlo e di farlo star fermo.
Ma era fatica sprecata: gli amici del giornale, sotto sotto, continuavano ad aizzarlo, come un toro nel circo.
Tutta quella gente gridava e smaniava nel nome della giustizia e della moralità; ma appunto in tutto quel gran rumore, la moralità e la giustizia ci entravano soltanto di nome. Erano i malcontenti, che non facevano guerra al Barbarò perchè lo stimassero disonesto, ma perchè lo invidiavano. Anch'essi avevano tentato di farsi innanzi, di salire, ma non c'erano riusciti, e vedendo montare in alto il Barbarò, lo volevano buttar giù.
C'era di tutto un po' fra gli amici della Colonna di fuoco. Oltre all'avvocato Serbellini, che non aveva mai potuto essere consigliere comunale, c'era il medico, l'ingegnere rimasti a terra in un qualche concorso; l'impiegato che non avea ottenuto il trasloco desiderato, o l'avanzamento; l'artista, lo scrittore, il poeta non apprezzato; l'industriale, il commerciante a cui erano andati male gli affari. C'era il benemerito della patria che non era stato fatto cavaliere: il vigliacco ohe l'aveva a morte coi coraggiosi; l'avaro offeso dal fasto dei prodighi, e così via via, si[53] accumulavano, si univano in lega, tutte le inimicizie, tutti i livori, tutti gli odi più disparati contro il Municipio, contro il Governo, contro il merito, contro la fortuna; contro tutti e contro tutto!... Era l'agitarsi e lo sfogarsi delle piccole ambizioni, più astiose assai delle grandi; il lamentìo petulante dei piccoli bisogni, delle piccole contrarietà, delle piccole disgrazie.... Erano le passioncelle meschine e grette che schizzavano, non già dal cuore, ma dallo stomaco e dal ventre, malamente mascherate sotto la sembianza della giustizia o della moralità... di carta pesta!
Nel frattempo il rumore e la confusione erano arrivati al colmo. Salvatore Cammaroto, per farsi ascoltare, era montato in piedi sopra una seggiola e imponeva il silenzio. La signora Apollonia imbronciata voltava le spalle a tutti, guardando fuori dalla finestra, e brontolando.
—Chi bisogna attaccare e svergognare—gridava l'avvocato Gian Paolo—più ancora del Moderatore, più dello stesso Barbarò, è l'Associazione Costituzionale, che non dà segno di vita, che non si prepara alla lotta!
—Bisogna scrivere contro il governo, che, pur di guadagnare un voto, appoggia i ladri e gli usurai!—esclamava un altro.
—Lasciate fare a me!... Lasciate fare a me!... Sono vecchio del mestiere!... Non ho bisogno di consigli! La tromba d'Israello suonerà un'altra volta, non dubitate, sotto le mura di Gerico; ma se adesso non fate silenzio e continuate a intronarmi la testa, vi faccio saltar dalla finestra, in parola d'onore!
—Sarebbe tempo!—mormorò la signora Apollonia, avvicinandosi di nuovo al direttore e mettendogli il fazzoletto nella tasca di dietro dell'abito.
Era subentrata un poco di calma: Salvatore Cammaroto saltò giù dalla seggiola e spiegò il disegno che aveva in testa alla sua signora.
—Prima di sciogliere le campane, bisogna star a vedere se l'Associazione Costituzionale e il grande partito moderato vorranno poi accettare il verbo dello Zodenigo....
—Il partito moderato?—brontolò l'avvocato Gian Paolo.—Un branco di pecore!... La Costituzionale? Un'accademia!
—Bisogna mettersi d'accordo con tutte le associazioni liberali e democratiche—continuò il Cammaroto, cercando cogli occhi Peppe Casiraghi, e senza badare affatto al Serbellini;—bisogna guadagnar terreno a Panigale, nel cuore del collegio, nel tabernacolo dei nostri nemici!... bisogna far lega cogli altri giornali del partito, per un'azione comune: bisogna in fine raccogliere tutti i nostri suffragi sopra un candidato di valore... da contrapporre al candidato dei valori....
—Bene!
—Bravo, Salvatore!
—....un uomo—concluse il Cammaroto dopo aver riso del proprio frizzo—un uomo la cui vita sia tutta un esempio e valga un programma; il cui nome rappresenti il labaro trionfante dell'onestà e del patriottismo: in hoc signo vinces!
—Oh finalmente!... Queste sono idee! esclamò la signora Apollonia!
—Queste sono idee, evviva!—ripetè come un'eco il Casiraghi.
Ma gli amici invece stringevano le labbra e scrollavano il capo: l'avvocato Gian Paolo fischiettava, battendo il tempo sul palmo della mano col fascio di carte; poi tutti insieme tornarono daccapo a dar consigli e a spronare il Cammaroto.
"Non c'è tempo da perdere!... La Colonna di fuoco deve mettersi alla testa del movimento; aprire la lotta con un attacco a fondo; abbassare, distruggere il Barbarò; smascherare, sventare le trame... amministrative dello Zodenigo!... Deve sperdere la camorra degli affaristi, dei corrotti e dei corruttori che stende le sue reti da un capo all'altro di Milano; deve mettere a nudo coraggiosamente, audacemente le magagne dei nuovi ricchi arruffoni e...."
A un tratto tutte quelle brave persone si calmarono come per incanto, sentendo bussare all'uscio dell'ufficio.... Ma non era altro che un fattorino dell'Unione Operaia, con una lettera per il Direttore della Colonna di fuoco, in cui veniva invitato particolarmente ad una adunanza indetta per quella sera medesima dalla Presidenza dell'Unione Operaia, insieme col Consiglio Direttivo della Lega Democratica, "allo scopo di prendere gli opportuni concerti e deliberare in proposito alla prossima elezione politica del Collegio di Panigale."
—Alleluja! Alleluja!—esclamò festante il Cammaroto, appena ebbe riletto l'invito ad alta voce.—Così va bene; riunirsi per andare tutti d'accordo...: Virium concordiam sequitur victoria!... Ed ora, amici miei, lasciatemi in pace!
La signora Apollonia a queste parole tirò un sospirone di sollievo.
—Ho da scrivere tre altri articoli per il giornale; una rassegna critica sui Quadri fisiologici del Büchner e, in fine, alla vigilia delle grandi lotte bisogna ritemprare le forze nel riposo della mente, nella tranquillità salutare dello spirito!
Chi, proprio, la tranquillità salutare non poteva più averla, era Pompeo Barbarò. Ogni ora che passava gli portava una nuova inquietudine, un nuovo timore. Pochi si mettevano a discorrere con lui dell'elezione di Panigale; pochissime erano le strette di mano gratulatorie.
Gli altri giornali moderati di Milano, come la Perseveranza, il Corriere, il Pungolo, se non si erano schierati subito contro il suo nome, tuttavia avevano giudicata la candidatura del Moderatore una candidatura-sorpresa, e si tenevano in un gran riserbo. Il Barbarò lo aveva capito, ne era mortificato e montava sulle furie contro lo Zodenigo, che gli aveva promesso a priori "l'appoggio unanime di tutta la stampa libeeale-modeeata!"
—Sto fresco, se aspetto l'appoggio unanime—borbottava il signor Pompeo.—Mi odiano tutti perchè mi invidiano e mi temono!... Com'è basso... com'è cattivo il mondo!... Appena un pover'uomo riesce a forza di lavoro e d'intelligenza ad innalzarsi un poco sugli altri, subito si cerca di tagliargli le gambe!
Ma se il dispetto lo rodeva, l'interna inquietudine lo accasciava.
—È lunga la via di Damasco?—ripeteva poi tra sè, pensando all'articoletto del Cammaroto.—Che[57] cosa avrà voluto dire quel sudicio ricattatore?... Mah!... Non ne capisco un'acca!
Per altro s'egli non capiva l'allusione biblica, l'accenno alla prudenza gli faceva indovinare il succo della minaccia.
—Convertirsi alla prudenza?... Chi sa, chi sa, che cosa andranno a pescare, a rimuginare il padre Salvatore e compagnia!... Maledetto quel poetastro scilinguato!... In che vespaio m'ha messo per la smania di affermare il suo giornale! Ma... e se invece il professore Zodenigo l'avesse fatto apposta?... Se fosse stato comperato dai miei nemici per rovinarmi?
E oltre alla Colonna di fuoco, Pompeo Barbarò aspettava e leggeva con ansia tutti gli altri giornali avversari; ma dopo l'articoletto del Cammaroto, nessuno aveva più parlato della sua candidatura.
Anche quegli altri stentavano a risolversi.... C'era la discordia nel campo d'Agramante: chi voleva addirittura un candidato radicale; chi invece riputava più utile un rappresentante della sinistra monarchica. La Lega Democratica e l'Unione Operaia proponevano un nome, e si ostinavano per farlo accettare: i Reduci e il Fascio ne sostenevano un altro con pari calore. Finalmente, per acquetare gli animi di tutti, si stabilì di non darla vinta a nessuno dei contendenti eleggendo un terzo candidato, che all'ultimo momento fu proposto da Salvatore Cammaroto fra gli applausi di tutta l'assemblea.
Per altro, volendo essere sinceri, bisogna dire che non era stato il Cammaroto che avea pensato per il primo a quel nome così illustre e simpatico, no; ma invece era stato suggerito in un orecchio al direttore della Colonna di fuoco dall'avvocato Gian Paolo[58] Serbellini, il quale a sua volta c'era arrivato solamente dopo un discorso che gli era stato fatto dal nipote di un certo Nicola Mazza, banchiere milanese, che da molti anni, scampato per miracolo dalle segrete austriache, si era rifugiato e continuava a vivere a Londra.
—Se fosse proprio vero!... Se il Barbarò fosse proprio una spia!...—pensava l'avvocato—che figura barbina ci farebbero il Moderatore e la Costituzionale!... E gli avversari che gli contrappongono il fratello di una delle vittime?!... Che fracasso deve succedere!... E che colpo, che vergogna per il partito delle livree!... Non vogliono saperne della gente onesta?... Ebbene si godano le spie per loro candidati!...
In quanto a Salvatore Cammaroto, appena egli ebbe sentito il nome che gli proponeva il Serbellini non pensò più, di primo colpo, nè al Barbarò, nè al Moderatore; abbracciò l'avvocato; poi cominciò a correre come un matto su e giù per lo stanzone saltando e battendosi la fronte, e rimproverandosi perchè quel nome non era venuto in mente prima a lui, a lui solo!... In fine si fermò dinanzi alla signora Apollonia, la fissò un momento negli occhi e scoppiò in lacrime.
"È il mio più diletto amico!... Il mio fratello d'armi e di fede!" continuava a gridare il Cammaroto, mentre la signora Apollonia senza commuoversi, seria, impettita, andava in giro per l'ufficio, in cerca del fazzoletto turchino. "È un apostolo, fra i più illuminati e operosi, del patrio vangelo!... È un'anima serafica nel petto di un Arcangelo; è uno di que' pochissimi, rari nantes nel mare putrido di Sodoma, che attestano alle genti scadute come l'uomo sia stato creato a immagine di Dio!..." Poi si avvicinava a Peppino[59] Casiraghi che lo guardava attonito cominciando pure a intenerersi per ispirito d'imitazione, e stringendogli le mani lo assicurava che quella scelta doveva essere l'Arca dell'Alleanza, il gomor della vittoria, e in fine passando dalle lacrime al riso tornava a correre presso la signora Apollonia promettendole con una risata di compiacenza che gli rischiarava la faccia e gli allargava il petto, che quel nome avrebbe fatto più colpo di dieci, di cento cannonate!
E in tutto il giorno Salvatore Cammaroto, infervorato, continuò ad agitarsi e a predicare a onore e gloria del suo candidato... poi la sera, appena lo ebbe proposto all'assemblea dei sodalizi democratici, e lo sentì accogliere da una salva d'applausi, tornò a commuoversi, a piangere nel bel mezzo del suo discorso, e in fine, quando sciolta l'adunanza si presentò alla sua signora che in compagnia di Peppino Casiraghi lo aspettava, sonnecchiando, al Caffè delle Tre Rose, di faccia alla casa dove avea avuto luogo la riunione, era pallido, sfatto, col viso ancor molle di sudore e di lacrime.
—Sursum corda!... Sursum corda!...—balbettò abbracciando l'Apollonia....—È stata una serata memorabile! Le Pentecoste del mio sacerdozio politico!
—Dunque—domandò la signora alzandosi e accomodandosi lo scialle per uscire—Il tu' omo è stato accettato?
—Fra l'esultanza, mia cara, fra l'esultanza e gli osanna del popolo eletto!—Così dicendo, e dopo aver fatto una grande scappellata al proprietario del caffeino, offrì il braccio alla moglie e uscirono, passando come al solito per il Corso, prima di ridursi a casa. Salvatore Cammaroto andava sempre[60] col collo torto e col naso in su, tenendo, per abitudine fratesca, le mani contro il petto, nascoste l'una sull'altra dentro le maniche, mentre salutava tutti affabilmente, e parlava ad alta voce col Casiraghi; la signora Apollonia più grande, più grossa, più larga del marito, se lo teneva stretto sotto il braccio all'ombra del cappellone magnifico, e camminava fiera, come se portasse attorno il Direttore per spaventar la gente.
Pompeo Barbarò non seppe il nome del candidato che gli avevano contrapposto altro che alla mattina dopo; ma il colpo fu così forte che traballò, come se avesse ricevuta una mazzata sul capo, e rimase molto tempo oppresso e sbalordito. In fine, quando riuscì un poco ad orientarsi, corse ancora tutto stralunato dallo Zodenigo.
—Sono rovinato... è un tiro assassino che mi vogliono fare!... Professore, professore... trovate modo d'impedire uno scandalo... a qualunque costo... fate che possa ritirare la mia candidatura... non voglio più saperne!
Lo Zodenigo, che per la prima volta non si era alzato dalla sua poltroncina presso lo scrittoio per salutare il Barbarò, rimase freddo, impassibile davanti a tanta agitazione.
—Caro amico,—gli disse poi lentamente, soffiando ancora più del solito,—voi... non mi avevate detto tutto!
—Ma... sono calunnie....
—Allora... se proprio sono calunnie... e potete provarlo, è un altro paio di maniche.
—Ma... provarlo....
—Non potete... provarlo?—e l'occhio nero dello Zodenigo pareva volesse penetrare in fondo all'anima del suo interlocutore.
—Sicuro che... se volessi.... In ogni modo... vi ripeto... desidero ritirare la mia candidatura, per non aver noie!
—Se vi ritirate in questo momento siete peeduto e peer sempre... ricordatelo bene.
Pompeo si sentì tremar le gambe e si appoggiò con una mano allo scrittoio.
—La vostra rinuncia... ora... sarebbe la più esplicita conferma delle voci che corrono.... Certo... se io avessi saputo... se avessi potuto supporre... non vi avrei certo consigliato un passo simile....
A questo punto la freddezza dello Zodenigo che fissava cogli occhi immobili il Barbarò diventava aspra... quasi minacciosa.
—Facciamola finita!—balbettò allora Pompeo con voce soffocata, ma pure con un certo piglio di risolutezza che gli era dato dalla disperazione,—facciamola finita... sono nelle vostre mani... accetterò tutte le vostre condizioni!
Lo Zodenigo tornò a soffiare chiudendo le palpebre e stirandosi sulla poltrona.
—Prendete una seggiola, caao cavaliere.... Prendete una seggiola e accomodatevi.
Pompeo accasciato, avvilito, prese la seggiola che gli era stata indicata e sedendo e guardando a sua volta lo Zodenigo con una espressione supplichevole, balbettò sospirando:
—È un anno terribile, questo, per me.... Mi sono anche rovinato mezzo coi fondi turchi.
L'altro sorrise storcendo le labbra: "Diamine! quel furbacchione del sor Pompeo piangeva miseria per poter lesinare sul prezzo!"
Salvatore Cammaroto presentò e raccomandò agli elettori la candidatura Alamanni con un inno biblicamente immaginoso di ammirazione e di amore. Prima d'incominciarne la lettura avea detto rivolgendosi alla moglie:—Questa volta, cara Polonnì, abbiamo intinta la penna nel core!—E non rideva di compiacenza, ma dietro gli occhialetti ingrossavano le lacrime; era sudato, ansante, come se l'articolo lo avesse scritto correndo.
E in fatti quella lunga vita intemerata di cospiratore e di soldato era narrata efficacemente coi più smaglianti colori. Il Cammaroto lodava il carattere di Francesco Alamanni, "più limpido e terso della gemma di Sabaoth;" ne levava a cielo "le virtù della mente e del cuore, la illibatezza dei costumi, la salda fierezza dell'animo, e l'eroismo provato in cento battaglie... mentre dal suo occhio ceruleo, che ricordava quello del Messia novissimo dei due mondi, spirava una dolcezza serena, un senso di bontà femminilmente gentile." Insomma, in Francesco Alamanni "c'era il cuore di Leonida nel petto di Arnaldo; la soave amorevolezza di Tobia congiunta alla severa fortezza, allo spirito indomito di Savonarola." E in tutto l'articolo non accennava menomamente nè al Barbarò, nè al Moderatore. Soltanto nella stretta finale ammoniva i "banchettanti della politica,[63] i profanatori e i trafficanti dei sacri ideali della patria, che il nome di Francesco Alamanni doveva risonare terribile come la voce profetica di Daniele; come il Mane-Techel-Phares, precursore miracoloso della vendetta di Jehova."
Ma gli entusiasmi del Cammaroto e i raffronti poetici e le minacce non facevano molta impressione sopra i lettori positivi, cui stava particolarmente a cuore il buon ordinamento della cosa pubblica. Essi, invece, si lasciavano convincere assai più volontieri dalle ragioni pratiche dello Zodenigo, il quale scalzava destramente Francesco Alamanni, pur riconoscendone i meriti patriottici, per non andare contro il sentimento pubblico; e che senza stare a ritessere le lodi già prodigate al Barbarò, si ristringeva a mostrare la convenienza che avevano i moderati di sostenerlo, così per l'utile del collegio come per l'onore del partito.
"Dobbiamo imitare gli Inglesi" diceva il Moderatore, "gli Inglesi il cui esempio ci era spesso additato dal Conte di Cavour. Nel forte congegno del parlamentarismo britannico non solo ogni sentimento di antipatia, oppure di amicizia, ma persino ogni ragione di aspirazioni e di giudizi individuali rimane vinta dalla ferrea disciplina del partito.
"A Panigale il Barbarò ha incontrato subito molto favore.... Arrischiando ora un altro nome alla sorte cieca delle urne, parecchi elettori voterebbero ugualmente per l'egregio e noto gentiluomo che gode le aderenze e presenta i reali vantaggi di un candidato locale.... Quindi lo scandalo di una lotta intestina.... Quindi, e per naturale conseguenza, il trionfo quasi certo del candidato avversario, il quale, mantenendosi[64] i nostri concordi e compatti, non avrebbe alcuna speranza di buon successo.
"Infatti i sinistri, i rossi di tutte le gradazioni, dal rancio tenue al sangue di drago, su chi mai hanno rivolto i loro suffragi?... Quale il nome che gli avversari nostri, i più accaniti, e perciò i meno prudenti, portano già sugli scudi, framezzo al baccano del loro entusiasmo strampalato e assordante come il zun-zun che precede le processioni dei preti... e dei frati?
"È un nome certamente illustre. Un nome caro a tutti gli Italiani e che noi appunto per un sentimento di rispetto e d'amore non vogliamo ancora compromettere.... fino a che la candidatura offerta non venga formalmente accettata.
"....Sinceramente devoti verso le più simpatiche figure del nostro risorgimento, sarà sempre a malincuore che scenderemo in campo per combatterle; e se mai ci fosse concesso di rompere le barriere e di avvicinare questi bei legionari delle nostre aquile vittoriose, vorremmo dir loro, coll'effusione più sincera dell'animo: 'Ascoltate la voce del popolo che s'innalza fino a voi nell'umiltà sapiente del proverbio e ripetete... ripetete colla mente, ripetete col cuore: Dagli amici mi guardi Iddio!...'"
In que' giorni l'ufficio della Colonna di fuoco restava aperto fino alla sera tardi; perciò, dopo uscito l'articolo dello Zodenigo, capitarono in direzione i soliti amici, condotti dall'avvocato Gian Paolo, gridando accalorati e con in tasca una copia, ciascuno, del Moderatore.
—Hai letto, Salvatore!
—Hai letto?... Un capolavoro di perfidia!
—C'è dentro tutta la tristizia e la furberia dello Zodenigo!
—Che Zodenigo!... Che Zodenigo!... Non è capace lo Zodenigo di scrivere in quel modo!
—È farina del Carpani!
—Lo Zodenigo ci avrà messo le virgole.
—E qualche punta avvelenata!
—Sia di chi si sia, è certamente un articolo molto destro.
—Bisogna rispondere subito, Salvatore?
—E senza pietà, senza misericordia!
—Bisogna dar fuoco alla miccia, e tirare le prime cannonate,—esclamò, alla sua volta, Peppino Casiraghi avvicinandosi alla signora Apollonia la quale, più che mai imbronciata, aveva un bel brontolare che il direttore non aveva bisogno di consigli e che bisognava lasciarlo in pace: nessuno più l'ascoltava. Volevano che Salvatore si mettesse subito a scrivere la risposta.
Il Cammaroto, in tutto quel tempo, avea seguitato a camminare su e giù per lo stanzone, meditabondo, con la testa bassa, senza mai dire una parola.... A un tratto si avvicina allo scrittoio... prende un telegramma da un mucchio di lettere e di giornali, lo incolla sopra un foglietto di carta e vi aggiunge in fretta, e restando sempre in piedi, alcune righe.
—Leggi questo, Polonnì!—disse poi quando ebbe finito di scrivere, rivolgendosi alla moglie. E mentre tutti gli altri circondavano curiosi la signora Apollonia, egli tornò a passeggiare su e giù come prima, fregandosi forte le mani, per calmare i nervi.
Il telegramma era di Francesco Alamanni che dichiarava[66] di accettare l'offertagli candidatura, "pronto sempre a sacrificare i propri ideali sull'altare della Patria, finchè rimarranno incompiute la sua indipendenza e unità."
"A tali nobilissime parole, che valgono assai più di qualunque programma," aveva scritto sotto il Cammaroto, "noi non ci sentiamo core, per oggi, di aggiungere nulla di nostro. Sarebbe un scemarne l'impressione forte e serena.... Ci sembrerebbe di commettere un sacrilegio.
"Solamente a quel furbo pazzerellone del Moderatore, che alternando i bons-mots colla perfidia, accusa noi di fare della rettorica per aver campo di sparare i suoi razzi da fiera.... e da mercato, rispondiamo, nella prosa più modesta, che gli scudi sui quali porteremo e coi quali difenderemo il nostro candidato, il candidato dei liberali onesti (diremo così per segnare nettamente le due linee di battaglia) non saranno mai gli scudi... da cinque lire!..."
Da questo momento, come si vede, la lotta che si era accesa a Milano per la conquista di Panigale si faceva più viva fra due soli combattenti: la Colonna di fuoco e il Moderatore. Gli altri campioni pareva che stessero a vedere.
I giornali e le associazioni moderate avevano risolto dopo la proclamazione della candidatura formidabile dell'Alamanni, fatta dagli avversari, a non mettere ostacolo ed anzi a facilitare la riuscita del Barbarò, perchè questi era, se non altro, un uomo d'ordine, un voto sicuro per il Ministero. Ma se lo subivano come una necessità del momento, non ne erano fanatici, e a difenderlo, ad esaltarlo, lasciavano volentieri che si mettesse in prima linea[67] il giornale dello Zodenigo. Dall'altra parte, invece, i giornali democratici amici dell'Alamanni, si erano messi di malavoglia, fiaccamente a sostenere la lotta perchè "la candidatura Alamanni, scelta bene, era stata posta male." Essi erano un poco piccati perchè Francesco Alamanni, essendo stato compagno d'armi del padre Salvatore, aveva mandato il suo telegramma di accettazione, proprio alla Colonna di fuoco. Nè valse a rabbonirli del tutto, nè a far loro perdonare quell'infrazione alle regole gerarchiche la lettera che l'Alamanni stesso avea scritta insieme col telegramma, mandandola direttamente al Comitato elettorale democratico; nella qual lettera poi, più assai diffusamente che non avesse potuto fare in un dispaccio, spiegava il concetto della propria accettazione e i propri intendimenti politici.
Per Francesco Alamanni, tuttavia, c'era questo svantaggio di fronte al Barbarò, che l'azione del Cammaroto rimaneva circoscritta alla Colonna di fuoco. Fuori del giornale, e dove il giornale non era diffuso (come appunto a Panigale), la sua influenza era nulla o presso che nulla. Nè il Cammaroto aveva l'arte, e nè manco le furberie più elementari dei bravi agenti elettorali; ma, quasi quasi, faceva più danno che altro al proprio candidato quando predicava, infuriandosi contro "la fiaccona generale;" anzi, una sera, ebbe la poca accortezza di dichiarare, in piena assemblea, "che se i giovani crociati non si mettevano con più ardore nella guerra santa," Francesco Alamanni avrebbe corso pericolo di rimanere soccombente. Invece il professore Eugenio Zodenigo, sempre serio, sempre composto, dimostrando sempre una sicurezza olimpica, mentre sorrideva di compatimento[68] "per quel povero Alamanni, esposto dai troppo caldi ammiratori ad un fiasco inevitabile," arrivava da per tutto colle sue cento braccia, da Milano a Panigale. Il Carpani, che aveva paura dei radicali, come il diavolo dell'acqua santa, lo coadiuvava nella polemica col fervore dei forti convincimenti; e a Panigale lavorava a fil doppio Beppe Micotti il quale, subito scontata la pena, vi era stato mandato dal padrino. Colà aveva pure un aiutante validissimo in Don Rosario, che in quei giorni sgambettava di continuo per la cura, promettendo un buon raccolto di qua e il paradiso di là agli elettori del signor Cavaliere, e minacciando la grandine e l'inferno a chi avesse dato il voto per quello scomunicato framassone dell'Alamanni.
E Beppe Micotti e Don Rosario scrivevano e conferivano di continuo collo Zodenigo, il quale pure si recava spesse volte a visitare il collegio, intrattenendosi coi pezzi grossi d'ogni Comune, promettendo mari e monti a nome del Barbarò, e spaventando tutti colla "questione grave del proletariato." Prediceva colla faccia scura, che una volta la Sinistra al potere, lo sciopero, l'agitazione dei contadini si sarebbe fatta generale, e la campagna si sarebbe sollevata "armata mano" contro la possidenza.
—La marea monta: le maaea monta! Bisogna riunire tutte le forze; vincere, occorrendo, le proprie ripugnanze, le poopie antipatie e mandare alla Camera degli uomini d'ordine per consolidare la Destra.... Ecco l'unica via se non per scongiurare, almeno per allontanare il peiicolo!
Lo Zodenigo, sempre con l'aiuto di Beppe Micotti e di Don Rosario, si era pure messo con grande impegno[69] per costituire un comitato che proclamasse e sostenesse la candidatura Barbarò, e ci era riuscito pienamente. Il comitato fu detto Degli agricoltori liberali moderati; pubblicò un manifesto agli elettori del collegio di Panigale, sottoscritto da una ventina di nomi abbastanza rispettabili, che raccomandavano l'elezione del cavaliere Barbarò, "uomo d'ordine, devoto alla patria, alle istituzioni, e il cui ricco patrimonio era una garanzia d'indipendenza,—esperto amministratore,—lavoratore indefesso,—filantropo illuminato,—conoscitore dei reali bisogni del collegio,—amantissimo del pubblico bene e del progresso cauto e ragionevole."
Da tutto ciò, com'era facile capire, la cosa si metteva abbastanza bene per il Barbarò.... Ma questi, invece di rallegrarsene, o almeno di mettersi un po' l'animo in pace, diventava ogni giorno più nero, e ogni giorno, come assicurava l'avvocato Gian Paolo, gli cresceva la tremarella. Non mangiava più, non dormiva più, non si lasciava più vedere. Rimaneva chiuso in casa, dalla mattina alla sera, imbronciato, rabbioso, borbottando improperi e maledizioni contro lo Zodenigo, "quell'assassino da strada, che lo aveva uccellato per derubarlo." Ma poi, ad ogni articolo che gli scriveva contro il Cammaroto, si mostrava col professore quasi ossequioso, e sempre tutto sorrisi, premure e complimenti.
—Cooaggio!... Cooaggio!...—gli diceva più volte lo Zodenigo, battendogli sopra una spalla, con un sorriso tra il benevolo e il canzonatorio, ma in cui spirava un'aria di superiorità protettrice.—Cooaggio!... Saete onooevole... Ve lo poometto!—e abbassava le palpebre tornando a sorridere, in quel suo modo particolare.
—Ah!... caro professore.... in quanto a me... lo sapete pure,—balbettava il Barbarò, interrogandolo cogli occhiettini spaventati,—in quanto a me... non desidero altro che... che la burrasca sia passata!... E vi domando soltanto di non irritarlo troppo, di non scatenarmelo contro, quel mattoide fegatoso... Lasciatelo dire... lasciate che si sfoghi... Così la finirà più presto!
—Non dubitate.... sono un gentiluomo e farò sempre una polemica da gentiluomo... coi guanti.
Infatti al telegramma di Francesco Alamanni, accettante la candidatura, egli rispose, come si vantava, conservando la forma e la misura.
"Facciamo il saluto delle armi al nostro illustre avversario, dolenti che l'accanimento di un partito affatto sprovvisto di idee pratiche di governo e in cui certo non vi ha grande abbondanza di statisti, non abbia esitato a trascinare in una lotta ingloriosa un bravo soldato, un carattere indubbiamente integerrimo."
E così, cominciato l'attacco, il Moderatore proseguiva più spedito all'assalto.
"Alea jacta est.... (scriveremo latino anche noi, visto che il latino minaccia di diventare la lingua ufficiale dei nostri avversari) Alea jacta est... e discutiamolo subito, come uomo politico, come legislatore, il signor Francesco Alamanni. Discutiamolo educatamente, ma per lungo e per largo, quantunque i democratici abbiano questo di comune coi clericali... la proclamazione dell'infallibile, anzi degli infallibili, perchè non si accontentano di un papa solo, ma fanno papa 'Ogni villan (pardon!) che parteggiando viene!'
"Discutiamolo dunque, come uomo politico, questo candidato, scelto e proclamato proprio all'ultimo momento, e che per ciò, volendo rispondere a chi ci accusava di aver presentata una candidatura-sorpresa, potremo chiamare, alla nostra volta, il candidato della disperazione!.... Discutiamolo e cominciamo dal chiedere, a chi ce lo sapesse dire: Chi è?... Che cosa vuole?... Che cosa farà?...
"Chi è?... Un onorevole superstite della gloriosa rettorica del quarant'otto... che contribuì a fare l'Italia, ma che adesso basterebbe da sola a disfarla.
"Un vecchio mazziniano, onestamente convinto, un ingegno superiore... ma sempre nelle nuvole, a cui, per ciò, è sfuggita affatto l'evoluzione moderna.
"È anche un bravo soldato...—e chi lo vuol negare? Ma dall'essere un bravo soldato all'avere la stoffa di un buon legislatore (e sopratutto di un prudente legislatore) ci corre.... Oh se ci corre!
"Che cosa vuole?... L'impossibile.—Che cosa farà?... La confusione, il disordine, preludiando, a forza d'ideali, e sempre in buona fede, magari anche alla guerra civile.
"E oltre a tutto questo, un baco perfido e insidioso rode fino alle ossa Francesco Alamanni: il baco della poesia. Cospiratore, rivoluzionario, soldato, uomo privato e uomo pubblico, Francesco Alamanni è stato e sarà sempre, e sopra tutto poeta; e questa è la ragione precipua della nostra piena... sfiducia.
"....Anche noi, da giovani, siamo stati poeti, e... (perchè non confessarlo?) abbiamo avuto la debolezza di scrivere versi!... Erano quelli i giorni amari dell'esilio.... I giorni in cui, perseguitati dalla bieca[72] signorìa che imperava colle verghe e coi patiboli, miseri, sfiniti, andavamo a chiedere, peregrinando, fra i nostri fratelli della riva gioconda:
La carità d'un obolo di rame!
"Sì, allora noi pure eravamo poeti, e dalla cetra ribelle usciva l'inno audace che non vagiva querulo... saettava!... Ma adesso, dopo la esposizione finanziaria di Quintino Sella, cessaro i canti! L'Italia ha bisogno ormai d'impratichirsi nell'aritmetrica e non nella metrica.... Alla Camera non si deve fare poesia e tanto meno tirare schioppettate o preparare barricate.... Oh, se così fosse, noi pure voteremmo unanimi per il valoroso candidato dei nostri avversari! Ma invece, vi saranno, fra molte altre, anche le leggi agrarie da discutere, e vi sono i bilanci da votare... ed è per ciò che, onestamente, raccomanderemo agli elettori di Panigale di eleggere Pompeo Barbarò; l'uomo sorto dal popolo, e che conosce il popolo nelle sue virtù, nei suoi difetti, ne' suoi bisogni; l'uomo che si è creato, col lavoro assiduo e intelligente, un ricchissimo patrimonio, mentre invece il signor Alamanni (sia detto col maggior rispetto) ha finito, o quasi, tutto il suo.
"Elettori di Panigale, ricordate bene: l'Europa non è che un gran vulcano: in questo momento una politica di avventure sarebbe fatale per la patria.
"Votate, dunque, per Pompeo Barbarò.... Mandate alla Camera gente che sa fare i conti; buoni amministratori amanti dell'ordine e devoti sinceramente alle istituzioni.... senza l'equivoco degli ideali!"
L'avvocato Gian Paolo Serbellini e gli amici della Colonna di fuoco tornarono da capo, dopo quest'altro articolo del Moderatore, per cercar di scuotere maggiormente il Cammaroto. "Che cosa mai gli era successo?" pensavano tra loro. "Pareva un altro; non aveva più la foga d'un tempo... si mostrava tentennante... Non sapeva risolversi a risponder chiaro, a smascherare il Barbarò e quel gesuita in guanti gialli dello Zodenigo!.. Che il frate... si fosse lasciato conquidere?..."
Tuttavia, come le altre volte, capitarono ancora in ufficio col Moderatore in tasca; ma le loro facce parevano più lunghe, e se le parole eran quasi le medesime, il tono era più fiacco, e avevano il sorriso amaro, come di gente sfiduciata.
—Hai letto, Salvatore?
—Bada, Salvatore, ti lasci scappare le più belle occasioni.
—Salvatore, accetta il nostro consiglio: spara tutte le artiglierie!
—Tu non conosci Milano.... Tu non conosci Panigale....
—Guai se il Barbarò prende piede!
—Perchè non hai detto francamente che è un usuraio?
—Un ladro?!
—Devi illustrare il famoso processo dei fornitori.
—Insomma, è ora di dir tutto....
—Senza reticenze, senza ambagi, senza paura!
Il Cammaroto, come faceva sempre, camminava su e giù per lo stanzone, senza rispondere, senza guardare in faccia nessuno; colla testa bassa.
—Potresti cominciare a buttar là, con garbo, che[74] il Barbarò ha fatto anche la spia,—soggiunse l'avvocato Gian Paolo, con voce melliflua.
Salvatore Cammaroto si fermò su due piedi, si aggiustò gli occhiali sul naso, e guardò fisso l'avvocato.
—Nicola Mazza non ha ancora risposto...—mormorò dopo un momento.
—Che importa? Se il fatto non è vero, avrai sempre tempo di rettificarlo lealmente, e se è proprio vero, come sembra, allora non bisogna aspettare a spifferarlo che l'Alamanni sia rimasto soccombente!
—E poi,—osservò un altro della comitiva, certo Nannarelli, ragioniere, che aveva concorso in quei giorni al posto di vice-direttore della Banca degli Interessi Lombardi Provinciali, e che non era stato nominato:—e poi, per mostrare quali sono i sostenitori del Barbarò, e con quali mire lo servono, dovresti pubblicare anche la biografia dell'onesto Zodenigo!
—Buono, quello, Salvatore!
—Scrivi, scrivi, che ebbe i giorni amari dell'esilio raddolciti cogli zuccherini delle vecchie.
—Mentre non isdegnava nemmeno di intingere nel guadagno delle giovani!
—Questa è troppo forte! Non bisogna esagerare!—esclamò il Cammaroto rivolgendosi come scandalizzato alla signora Apollonia, che sempre seduta immobile al solito posto, con un cappellone giallo colle gale rosse, storceva la, bocca e sputava in terra per la nausea, mentre Peppino Casiraghi si fregava le mani saltando sulla seggiola, e ridendo come un matto.—Non bisogna esagerare! Io intendo[75] di dire la verità a tutti quanti, ma non voglio calunniare nessuno; nemmeno gli avversari miei!
—Nannarelli non calunnia; Nannarelli dice la verità!—rispose l'avvocato Gian Paolo mettendosi a gridare e a battere col suo fascio di carte sul tavolino.—Ho conosciuto anch'io, due o tre anni fa, una delle tante vittime del professore. Era una certa Rosetta, che faceva la portinaia in Via della Spiga.... Il professore le fece fare un....—ma a questo punto si fermò. La signora Apollonia, pestando i piedi e dimenandosi dispettosamente sulla seggiola, tutta stizzita per quella mancanza di rispetto al suo pudore, gli aveva tolta la parola.
—Un... mi avete capito!—continuò poi l'avvocato.—E subito dopo la povera ragazza fu abbandonata.... Ma quando in appresso la Rosetta diventò madamigella Flora, il professore tornò a frequentarla... nelle ore ch'essa aveva libere!... Ecco, Salvatore mio: questa è la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità!
—Bravo Gian Paolo!
—Hai detto benissimo!—esclamarono tutti gli altri, in coro.
Il Cammaroto fremeva di sdegno.... Tuttavia era ancora perplesso; avrebbe voluto aspettare di aver le prove in mano che il Barbarò era proprio stato una spia, denunciando Giulio Alamanni e Nicola Mazza, per schiacciare, con un colpo solo, lui e lo Zodenigo.... Ma d'altra parte l'articolo del Moderatore, e tutto il gridare degli amici, gli mettevano il fuoco addosso. Guardò la moglie, che rossa, scarlatta, barbottava imbizzita per quel baccano irriverente che si faceva attorno al direttore. Guardò Peppino Casiraghi, e[76] vide bene dal modo come scrollava il capo, che il cronista teneva dalla parte dell'avvocato Serbellini.
—Che ne dici, Polonnì?
—Una 'annonata e non ti 'onfondere!—esclamò la signora con un'alzata di spalle molto significativa all'indirizzo del sullodato Gian Paolo e compagnia.
—Mi pare che da un poco in qua le riceviamo noi le cannonate... nella schiena!—brontolò Peppino, mettendosi di malumore a correggere le bozze.
—In fatti dicono che il fuoco della colonna comincia un poco a raffreddarsi,—soggiunse ghignando il Nannarelli.
—Davvero?—esclamò il Cammaroto prorompendo in una risataccia di sfida.—Dicono così?... davvero davvero? E scotendo la zazzera si sedette di colpo al tavolino, afferrò la penna, tirò su la manica dell'abito fin quasi al gomito, e cominciò a scrivere in mezzo alla prima cartella, mentre la signora Apollonia gli metteva dinanzi il bicchier d'acqua e il fazzoletto turchino:
"Il Candidato della Disperazione."
—Ah! Ah! Ah!... Ti garba, Polonnì? Il candidato della disperazione!... Peppino!... Senti, Peppino?!... Il candidato della disperazione! Ah! Ah! Ah!—Ma poi, finito di ridere, curvandosi sulle cartelle, colle gote accese, colla cravattina bianca disciolta, cogli occhi scintillanti, vuotò tutta l'anima sua, la sua collera, la sua passione, su que' foglietti di carta, che riempiva febbrilmente, colla velocità di uno stenografo, e che la signora, Apollonia, muta, attenta, disponeva in ordine, uno sull'altro.
"E il Barbarò, Pompeo Barbarò, il cavalier Barbarò, il Barbarò lattivendolo, banchiere, portinaio, appaltatore, il Barbarò pignoratario; è lui, lui solo, tutto lui il candidato della disperazione" scriveva il Cammaroto: "e noi dobbiamo innalzare le nostre laudi e render grazie alla sapienza infinita e sicumerica del mirabolano Moderatore, per averci suggerito un titolo così bello, così vero, così parlante, calzante, edificante!
"Il candidato della disperazione!... Oh lettori miei dilettissimi, rivolgete le pupille degli occhi vostri sulle facce sparute dei membri epatici dell'epatica Costituzionale, e vi ravviserete la mestizia dei rassegnati, lo sgomento dei paurosi, l'ira dei traditi, l'abbattimento dei vinti!... Rivolgete, rivolgete gli sguardi vostri sui volti contriti dei moderati liberali e illiberali, e ditelo voi se quelli e questi non sono i disperati dell'ultimo momento, che impauriti dalla minaccia della divisione dei voti, spaventati dal sorgere della formidabile candidatura Alamanni, soffocano la voce della coscienza per l'interesse del partito, ne offendono le oneste tradizioni, ingrossando le squadre della milizia scelta coi Turcos dalla faccia di bronzo, coi Lanzichenecchi dalle granfie rapaci, e infine avendo l'acqua alla gola, si attaccano persino al Barbarò... a questa oscena vescica gonfiata dal Moderatore per il salvataggio dei barcamenanti fra la patria e la bottega!
"Pompeo Barbarò?... Barbarò Pompeo!... Che, prima, il Dio dei galantuomini si copra la faccia, e poi, alla nostra volta, domandiamoci noi pure: 'Chi è?... Che cosa vuole?... Che cosa farà?'... questo generoso [78]filantropo... dei limoni marci?... Questo gnomo strozzatore? Questo truf... faldino lombardo-veneto, sovra il cui capo, dove anche la canizie inonoratamente celandosi, colla frode d'un Figaro, pesa un'accusa terribile, che ci fa fremere di sdegno e di terrore?...
"Chi è costui?... Troni e Dominazioni!... È l'uomo nefasto delle forniture militari; è l'omicciattolo nefando dell'Agenzia di prestiti sopra pegni in via del Pesce!... Ma, come si chiama?... Qui sta il busillis!... Chi lo chiama Barbetta, chi lo chiama Barbarò; non si sa bene dei due nomi quale era quello del portinaio infedele, quale era quello del lattivendolo fallito.... Ognuno si ricorda, per altro, che all'epoca del processo dei fornitori invece del suo, o dei suoi, adoperava il nome di un certo Micotti, detto Sbornia.... A Panigale lo chiamano anche mercante di pellagra... e fra tanti, è questo il solo nome che non gli è contrastato!
"Che cosa vuole?... È presto detto: quattrini vuole!
"Che cosa farà?... Ciò che ha sempre fatto: quattrini! quattrini! quattrini! a qualunque prezzo, per qualunque vergogna; vendendo Cristo come Giuda, ma poi, invece di appiccarsi, impiccando il prossimo coi trenta danari guadagnati!
"Il Moderatore...—A proposito: il Moderatore continua a non nominarci, certamente per rispetto; ma noi lascieremo correre liberamente il suo nome dalla penna perchè in un articolo dove c'entra spesso il Barbarò è inutile lo studio d'evitare i vocaboli poco puliti.... Il Moderatore dunque, ebbe tra le altre anche la portentosa idea di consigliare agli elettori di Panigale di mandare alla Camera il Barbarò perchè....[79] Indovinate perchè, figliuoli miei?... perchè alla Camera vi sono i bilanci da discutere!
"Quali bilanci, di grazia?... I bilanci, forse, di una latteria fallita o di una qualche... suburra in liquidazione?... Oh, in tal caso, noi pure voteremmo unanimi per il competentissimo candidato... della disperazione!... Ma dove si fanno le leggi dello Stato, dove dovrebbe essere raccolto il cuore e la mente della Patria, credete pure, elettori di Panigale, che sarete assai meglio rappresentati dalla specchiata onestà di Francesco Alamanni, che non dall'abilità amministrativa del Barbarò... o Barbetta, se preferite.
"E sopratutto non bestemmiate, o professore... dei Barbarò! Non bestemmiate, per Dio, confondendo la broda dei vostri versacci da colascione colla più alta, colla più sublime poesia che tempera il cuore degli eroi, che forma la grandezza della Patria! No, no, illustre professore... di prosa fatta colla forma e colla misura, come gli stivali; no, no, non bestemmiate la poesia per mostrare ai popoli che quel vostro parvenu spropositante non è un poeta (canchero!) ma un finanziere! Esponete il fatto colla maggiore semplicità, e sarà eloquentissimo in ogni modo. Dite che mentre Francesco Alamanni spendeva il proprio patrimonio per il bene della Patria, il cavalier Pompeo rubava alla Patria per arricchirsi.... Dite tutto ciò, e una volta almeno, avrete detto anche la verità!
"....Ma, al postutto, non te ne ingaricà, professorello dell'anima mia. Gli elettori di Panigale non si lascieranno commuovere certamente dalla pomata (olio e sego) della tua prosa. Gli elettori di Panigale non vorranno certo preferire la bancarotta all'onestà,[80] l'astuzia all'intelligenza, la frode al carattere, la vigliaccheria all'eroismo, le casse di limoni marci alle stimmate sante del soldato italico, il candidato della disperazione al candidato degli uomini liberi, il Barbetta (o Barbarò che sia) a Francesco Alamanni!
"Simili speranze possono appena concepire, nell'epa turgida, certi affaristi della penna; certi esuli-dilettanti che quando noi cantavamo messa (oh che bel latino, figliuoli miei!) fra lo scrosciare della mitraglia, non abbiamo mai avuto l'onore d'incontrarli!... Certa gente che mentre tuonava il cannone di San Martino e fischiavano le fucilate di Milazzo, inteneriva le vecchie sentimentali cantando i lai di Venezia sul mandolino.... Oppure strisciava, invasata di concupiscenza, strisciava nel bugigattolo di una qualche portinaia che aveva la figliuola credula e bella come il fiore di cui le avevano imposto il nome!... E in quel bugigattolo povero e indifeso, il lupo perverso, spendendo un pocolino di cielo azzurro e di casta luna confettato d'idealismo romantico, ingannava la semplice pecorella e.... E per uscir di metafora, diremo che il professore... della moralità, che ci butta in faccia come una vergogna l'aver dato col cuore anche il nome onorato alla diletta compagna della nostra vita; il professore della forma e della misura, la testa quadra, il fabbricatore di legislatori... a 49 al pezzo, soddisfatto all'ombra, come le bisce, il proprio capriccio, manda i figliuoli all'ospizio e le madri al bordello!
"Ebbene, un essere così fatto, che si sforza per scimiottare i gentiluomini, ma che non ha mai imitato i galantuomini, può credere ancora nel trionfo del cavalier[81] Pompeo Barbarò, alias Barbetta (o viceversa), ma noi, no! E se il professore... dei brogli elettorali, può far l'ingiuria delle proprie speranze agli elettori di Panigale, noi, non faremo loro certamente quella dei nostri timori.
"E poichè ci troviamo... a Panigale, un'ultima parola, prima di finire. Ci vien riferito che laggiù un certo figuro, avanzo delle patrie galere, assolda elettori pel candidato della disperazione, al prezzo di cinque lire... e la minestra.... Ci vien riferito che un certo pretonzolo (che non butterà mai la tonaca perchè ci vive dentro e sopra) minaccia la grandine e l'inferno per gli elettori di Francesco Alamanni.... Ebbene, noi diffidiamo gli elettori di Panigale perchè si guardino bene da simili insidie e deferiremo i due allievi... del professore, al procuratore del Re.
"L'ora dei brogli, delle frodi è passata; e sta invece per suonare quella della giustizia.
"Non le pare, cavalier Pompeo, d'essersi messo a un brutto gioco?... Chi troppo in alto sal, cade sovente... con quel che segue.
"La giustizia arriva tardi, ma arriva sempre, e per non disimparare il latino, che dà tanto ai nervi al Moderatore, finiremo con Orazio:
"Numquam antecedentem scelestum
Deseruit pede poena dando."
Quando ebbe terminato di scrivere l'articolo, il direttore rizzò il capo, squassò di nuovo la zazzera, tuffò le labbra nel bicchiere d'acqua e cercò il fazzoletto guardando la moglie, Peppino e tutti gli amici con un'occhiata scintillante che si sciolse,[82] come un lampo, nel fragore di una risata.... Ma poi, appena ebbe finito di leggere, si trovò stretto fra le braccia dell'avvocato Gian Paolo che lo baciava commosso, mentre tutti gli altri della comitiva applaudivano freneticamente.
Il numero della Colonna col "candidato della disperazione" ebbe un successo di vendita strepitoso. In due ore era stata esaurita tutta l'edizione, e si dovette farne tirare una seconda. L'effetto ottenuto poi fu il solito di tutti gli articoli elettorali pubblicati durante il calore delle elezioni. I moderati gridavano che era un'indecenza, un libello: i sinistri, che era il marchio rovente per il Barbarò. Gli uni sostenevano che tutto era falso quanto scriveva il Cammaroto: gli altri, che era verità sacrosanta. E destri e sinistri, erano ugualmente in buona fede.
Giulio Barbarò era ritornato da Nizza a Milano appunto in quei giorni, essendo partito poco dopo ch'era partita anche la Mary, e fu tra i primi a leggere l'articolo scritto dal Cammaroto contro suo padre. Fin dalle prime righe si sentì montare il sangue alla testa, poi, pallido, tremante, senza profferir motto, corse difilato all'ufficio della Colonna di fuoco: voleva schiaffeggiare il direttore.
"Per Dio era troppo!... Era troppo!... Avrebbe pigliato quel manigoldo a calci, a frustate!" Se Giulio Barbarò aveva pur dovuto persuadersi[83] che suo padre non si era condotto negli affari troppo scrupolosamente, tuttavia non lo avrebbe mai potuto credere colpevole delle infamie di cui lo accusava il Cammaroto. Perciò, oltre al dovere, si sentiva il diritto di difenderlo e di vendicarlo. Suo padre, vittima di calunnie atroci, riacquistava nel suo cuore tutta la stima antica e l'affetto.
"Povero vecchio!... Per mene elettorali, basse e vigliacche, gli si erano scagliati addosso come cani arrabbiati!..." Ma lui, suo figlio, lo avrebbe ben saputo vendicare... Per Dio, e come lo avrebbe vendicato! Sì, sì, voleva dare una lezione a quel frate velenoso, a quell'ispido e sudicio ricattatore!
Era sicuro che l'Alamanni, l'avversario di suo padre, onesto e generoso, sarebbe stato il primo a biasimare quelle calunnie, a sconfessare que' suoi amici.
"Perchè mai suo padre era andato a cacciarsi in un simile vespaio?... Maledetta la politica!..."
Quando Giulio Barbarò giunse alla direzione della Colonna di fuoco era già troppo tardi, e trovò chiuso l'ufficio. Allora, dopo aver dato un calcio furioso contro la porta, andò a girare lungo il Corso e in Galleria, dove gli era accaduto sovente d'incontrare il Cammaroto; ma per quella sera, gira e rigira, non gli fu possibile d'imbattersi in lui.
"—Si nasconde, ha paura, quel rospaccio rinnegato!..."
Invece trovò due amici, due garibaldini, compagni suoi di battaglione, che accettarono subito di andare in suo nome, la mattina appresso, all'ufficio della Colonna di fuoco, per sfidare Salvatore Cammaroto.
Dato questo incarico, e sfogatosi a lungo cogli[84] amici, Giulio Barbarò cominciò a calmarsi un poco. "Sì, sì... avrebbe vendicata, lavata col sangue, la terribile offesa fatta all'onore di suo padre!..." E con questa risoluzione nell'animo, fattosi ormai più sicuro di sè, potè recarsi dalla Balladoro, la quale lo accolse con tante espansioni e con tante proteste e dichiarazioni di affetto e di stima per lui, per suo padre, da dargli subito a divedere che il numero della Colonna, col Candidato della disperazione, era giunto a quell'ora anche in Via della Spiga.
Ma dalla Balladoro, dolcissimo e caro conforto, egli trovò la signorina Mary, che adesso doveva stare sempre collo zio anche a Milano, e che avea ottenuto di venire con Angelica a fare un salutino a Donna Lucrezia.
Anche la marchesa Angelica, per una favorevole combinazione, era in quei giorni a Milano. Vi era appena arrivata da Gallarate, dove dimorava abitualmente, per passare le feste del Natale e del Capo d'anno vicino a Stefanuccio, ch'era stato messo nel Collegio militare. E siccome la marchesa si trovava pure alloggiata all'Albergo Roma, dov'erano anche gli Alamanni, che non avevano potuto trovar subito un buon quartierino in affitto, così le due cugine, che dopo tanto tempo che non s'eran più viste, si volevano sempre un monte di bene, naturalmente stavano insieme a tutte le ore.
Tuttavia, la marchesa Angelica non aveva ancora ricevuto confidenze dalla Mary, e non sapeva che avrebbe incontrato Giulio Barbarò da Donna Lucrezia, quantunque avesse notato che l'amabile cuginetta aveva insistito assai per volerci andare. Vedendoselo, per ciò, comparire dinanzi all'improvviso,[85] non potè a meno di sentirsene contrariata, per il ricordo odioso di suo padre. La Mary invece, sebbene colle guance sempre accese, sebbene parlasse e si movesse con insolita animazione, si mostrava abbastanza disinvolta, e abbracciava la zia con certe strette appassionate, e le dava certi bacioni grossi e scoccanti, che il giovanotto doveva sentir risonare nel proprio cuore, come una promessa.
—Basème, basème, viscere mie!—mormorava intanto Donna Lucrezia gemendo col naso gonfio e chiuso, mentre la Filomena compariva sull'uscio, zoppicando, e rammendando la sua calzetta, per mangiarsi cogli occhi la signorina.—Basème, basème, viscere mie, a dispetto di tutti i... i bucefali del mondo!
Il buon Giulietto, quella sera, non sembrava nè timido, nè confuso com'era di solito, e anche la marchesa, passato il primo momento, n'ebbe un'impressione favorevole. Egli pensava che il giorno dopo si sarebbe battuto assai seriamente, che forse... avrebbe dovuto restar molto tempo senza più poter rivedere la signorina Mary; che forse... le sarebbe stato cagione di nuovi dolori, di nuove angosce, e per tutto ciò la sentiva più sua, più intimamente sua, e trovava il coraggio di esprimerle, almeno cogli occhi, tutto il suo immenso amore. Fu ardito al punto di trafugarle uno dei suoi piccoli guantini... voleva averlo sul cuore quando sarebbe andato a battersi....
Poi, mentre le due cugine, sole in un brum, ritornavano all'albergo, successero, fra loro, alcune spiegazioni.
—Dimmi la verità,—cominciò la marchesa,—tu sapevi di incontrare Giulio Barbarò da Donna Lucrezia?...
—Sì, Angelica mia, lo sapevo!—mormorò la fanciulla abbracciando la cugina con un abbandono, con un languore inesprimibile, e sospirando, facendosi pallida.
—Mary, Mary!... è proprio per me questo bacio?—domandò Angelica sorridendo.
—Questo... è proprio per te!—rispose la Mary dandogliene un altro.
Angelica ricevendo quel nuovo bacio si fe' pallida alla sua volta; rispose alla stretta della fanciulla con un tremito di tutto il corpo, e anch'essa sospirò, profondamente. Poi, come volendo scacciare il nuovo pensiero che si era impossessato di lei, si sciolse dall'abbraccio e le domandò con tono più grave:
—Ma... e tuo zio?... Che pensi di fare?...
—Giulio ha in animo di lavorare, di crearsi uno stato indipendente, e appena sarà possibile ci... ci sposeremo. Lo zio, del resto, conosce benissimo le nostre intenzioni.
E la Mary riferì alla marchesa Angelica il colloquio avuto a Nizza con Francesco Alamanni.
—Lo ami tanto?...—domandò Angelica quando la fanciulla ebbe raccontato ogni cosa.
—Oh sì, Angelica... tanto!
—E...—la marchesa esitava, ma poi dopo un momento, spinta dall'affetto e dalla simpatia che nutriva per la Mary, si fece animo e continuò a domandarle:—e... lo credi proprio degno... del tuo amore, e dell'immenso sacrificio che sei disposta a compiere per lui!...
La fanciulla non disse una parola, ma sorrise fissando la cugina e sfavillò negli occhi. Angelica si[87] chinò commossa verso di lei.... Abbassò la bella testina bionda sulla testina bruna della Mary, e le baciò le labbra rosse e fragranti come un fiore. Tacquero tutte due lungamente; i loro occhi si fecero pieni di lacrime, il loro seno gonfio di sospiri.
Il brum, che correva sobbalzando, rallentò a un tratto il monotono frastuono e voltò adagio, per imboccare il corso Vittorio Emanuele. Allora la luce più viva dei fanali e dei negozi ancora aperti, il moto e il rumore delle carrozze e della gente, scossero un poco la marchesa.
—Chi sa—esclamò, dimostrando il più vivo interessamento,—chi sa come il tuo povero Giulio dovrà soffrire in questi giorni....
—Assai, figurati!... Per ciò appunto ho voluto vederlo; per fargli animo.
—Quell'omaccio non ha nè affetto di padre, nè prudenza, nè astuzia!... Non è altro che un farabutto volgare!—esclamò la marchesa con tono aspro e arrossendo subitamente per un impeto di collera.—Non doveva mai arrischiare di porsi in un simile pasticcio.
—Forse chi sa,—soggiunse la Mary chinando il capo,—saran stati gli altri a metterlo in mezzo... a ingannarlo.
—Tu, bimba mia, con queste elezioni, ti trovi proprio tra l'incudine e il martello. Da una parte tuo zio, dall'altra.... Giulio: perchè già, indirettamente, è in ballo anche lui. Ma quel benedetto ragazzo, non ha nessun ascendente in casa?... Non poteva distogliere suo padre da un passo così pericoloso?... Fargli intendere un po' la ragione?
—Che!... Il signor Barbarò sembra non fidarsi di[88] Giulio!... Lo tratta ancora come un ragazzo.... Lo tien sempre lontano da tutte le sue faccende.
—Si capisce!...
—Sono così diversi. Il mio Giulio è buono.... Schietto, leale, onesto.... Non ti ricordi a Villagardiana?...
A Villagardiana!... Angelica non rispose.... Tornò a distrarsi, e non pensò più a Giulietto Barbarò. La sua mente corse invece al bel lago azzurro... alla Casina delle Romilie... e le due giovani signore tacquero, e si riscossero tutte due con un sussulto quando il brum si fermò dinanzi all'albergo.
La Mary, durante tutta la corsa, avea pensato a Giulio vicino.... Angelica, al Martinengo lontano. Andrea, forse un po' anche per merito del Ministro della Guerra che lo teneva sempre di guarnigione nell'Italia Meridionale, aveva mantenuta la sua promessa: non si era più fatto vedere da Angelica: ma Angelica, in ricambio, aveva pure mantenuta la sua, scrivendogli tutti i giorni.
Il capitano Ippolito Redaelli e il dottor Carlo Franchi si presentarono la mattina seguente, un po' prima delle dieci, come avevano promesso a Giulio Barbarò, all'ufficio della Colonna di fuoco; si avvicinarono al tavolino di Peppino Casiraghi, ch'era accanto all'uscio, e domandarono di parlare col signor Salvatore Cammaroto.
Peppino guardò i due, spalancando gli occhi, poi, senza aprir bocca, allungò la cannuccia della penna da scrivere, indicando il tavolino di faccia.
—Salvatore Cammaroto, sono io!—esclamò il direttore ficcandosi le lenti sul naso e alzando il capo, coi capelli e la barba arruffati più del solito.
I due amici si avvicinarono, e fecero prima un grande inchino.
—In che vi posso servire?—domandò il Cammaroto sdraiandosi sulla seggiola, e guardando i due bene in faccia.
In quel punto la granata, ch'era stata buttata in un angolo in tutta fretta dalla signora Apollonia, appena aveva sentito che capitava gente in direzione, strisciò e cadde, battendo forte col manico sul pavimento.
—In che cosa vi posso servire?—ripetè il Cammaroto.
—Ma, si vorrebbe...—e il capitano Redaelli accennò alla signora Apollonia seduta immobile e imbronciata, come un idolo indiano, accanto al direttore.—Si vorrebbe parlare con lei... da soli....
—Parlate pure: non uso aver segreti colla mia signora!
I due padrini fecero un secondo inchino, e il Redaelli accennò al Casiraghi che, ficcata la penna dietro l'orecchio, e appoggiata la spalliera della seggiola contro la parete, s'era messo tutto comodo, e col muso in su per sentire.
—Parlate pure: non uso aver segreti coi miei collaboratori!—ripetè il Cammaroto.
Allora il capitano Redaelli, mentre il suo compagno rimaneva muto, mostrò il mandato che avevano ricevuto da Giulio Barbarò per domandare una soddisfazione all'autore dell'articolo: Il candidato della disperazione.
Appena ebbe udito le parole "domandare una soddisfazione" Peppino Casiraghi ricominciò in fretta, e colla testa bassa, a correggere le bozze.
—Soddisfazione?... Soddisfazione, la dice?—si mise a gridare scattando la signora Apollonia.—Soddisfazione?! Il direttore ha usato del suo dritto di pubblicista!... O che, non ci ha da essere la libertà di stampa, non ci ha da essere?...
Ma il Cammaroto, alzandosi in piedi maestosamente, e stendendo le braccia, impose il silenzio.
—Calmati, calmati, Polonnì!...—Poi si rivolse ai rappresentanti di Giulio Barbarò, e dopo essersi di nuovo ben fermate sul naso le lenti e ravviata la zazzera, continuò con grande solennità di tono e di gesto:
—In teoria, noi siamo avversari aperti del duello: di questo barbaro costume, di barbari tempi. Ma, poichè vincere consuetudinem dura est pugna, come lasciò scritto sant'Agostino, e d'altra parte non dovendosi precorrere coll'evoluzione dei fatti l'evoluzione del pensiero, come ho scritto io medesimo nelle Mie confessioni al Padre Passaglia, pubblicato nel Mediatore di Torino e riprodotte dal Der Staat und die Kirche, di Lipsia, così accetto, ho l'onore di accettare, il cartello di sfida che mi portate in nome di Giulio Barbarò. Solamente nel caso presente dovremo pensare a trovare il modo di conciliare il desiderio del vostro primo colle più alte prerogative della libertà di stampa, coll'inviolabilità intangibile del sacro ministero di pubblicista, coi miei doveri di scrittore e di uomo pubblico.... Però vi prego in cortesia di volermi indicare il luogo e l'ora in cui potrete abboccarvi con due amici miei, che saranno a tal uopo delegati coll'incarico di rappresentarmi e di riferire le mie condizioni.
Il capitano Redaelli, a nome anche del dottor[91] Carlo Franchi, rispose allora che avrebbero aspettato gli amici del signor direttore della Colonna di fuoco, nella prima sala del Caffè Cova, dalle quattro alle cinque pomeridiane.
Salvatore Cammaroto ringraziò con un cenno ossequioso del capo, e volle accompagnare fino sulla soglia dell'uscio i due signori che se ne andarono dopo avergli stretto la mano, ed essersi inchinati col più profondo rispetto all'Apollonia che invece di rispondere voltò le spalle crucciata.
"Che vi pigli un accidente a tutt'e due!"
Chiuso l'uscio dietro ai secondi del giovane Barbarò, Salvatore ritornò in fretta per sedersi al suo tavolo e ripigliare il lavoro che avea dovuto interrompere, ma la signora Apollonia e Peppino gli furono addosso con un monte di parole. La moglie, spaventata, voleva farsi promettere dal direttore che non si sarebbe lasciato sopraffare da quelle millanterie, che avrebbe dichiarato di non volersi battere co' birbaccioni, e che la stampa aveva il dritto di far la luce. Peppino Casiraghi, invece, era solo premuroso di sapere chi avrebbe scelto per padrini e come avrebbe fatto il duello, e propendeva per l'ultimo sangue.
—Polonnì, oh Polonnì!... Per conservare al proprio nome l'autorità necessaria per compiere, coll'aiuto del Sign.... per compiere sulla terra qualche cosa di bene, bisogna, spesse volte, soffocare i propri convincimenti, bisogna chinare il capo e seguire la corrente!... E voi, Peppinuccio mio, statemi in pace e vedrete che, come san Pietro a Malco, troncherò le orecchie a chi osa levare "la proterva mano" sul... sulla Dea Libertà!... Ma, son già le dieci e un quarto—continuò dopo aver guardato[92] l'orologio a pendolo, appeso alla parete.—Presto capiterà in Direzione l'avvocato Gian Paolo... Lui e un altro, il primo che verrà dopo, porteranno a quei signori la mia risposta. Sebbene sfidato, lascio a Giulio Barbarò la scelta delle armi, del luogo, e il fissare le condizioni. Io ne metto una solamente: non voglio battermi prima di lunedì prossimo se le elezioni saranno compiute domenica, o di lunedì a quindici, se vi sarà ballottaggio!...
Ma, in tutta la mattina, nè l'avvocato Gian Paolo, nè gli altri assidui della Colonna di fuoco, non si lasciarono vedere. Era già corsa voce per Milano che Giulio Barbarò avea mandato a sfidare il Cammaroto; che ci dovea essere un duello molto serio; e lo sdegno di questo figliuolo che esponeva la vita per l'onore del padre aveva commossa la sensibilità volubile e retorica del solito pubblico dei caffè, motivo per cui gli amici del Cammaroto stavano al largo, non amando d'incorrere nella impopolarità, nè d'aver brighe.
"Già" mormoravano fra loro "avean sempre predicato inutilmente, a quel benedett'uomo, di conservare la misura nella sua polemica!..."
Peppino, intanto, non vedendo capitar nessuno, perdeva la pazienza, mentre la signora Apollonia, quantunque volesse mostrarsi indifferente, allungava il collo ad ogni passo che sentiva nella strada per vedere se passava dalla finestra la tuba lustra dell'avvocato. La buona donna sperava che il Serbellini avrebbe dissuaso il direttore dall'accettare la sfida, e in ogni modo le premeva di essere presente a tutte quelle pratiche.
—Son le undici e mezzo.... Sono i tre quarti....[93] Son presto le dodici!—diceva ogni momento Peppino Casiraghi, che pareva avesse l'argento vivo addosso.—Ormai può star sicuro, direttore, che non vien più nessuno!... Vuole che faccia io una corsa, per chiamare l'avvocato?
—E che ci deve pensar lei, in tutti i modi?... Lasci un po' stare!...—borbottò la signora Apollonia, stizzita.—Ha una gran smania, lei, di far ammazzare la gente!...
—Non arrabbiarti, Polonnì!... Peppino ha ragione. In queste faccende non bisogna ridursi all'ultimo momento, col pericolo, magari, di non trovar più nessuno!...—esclamò il Cammaroto alzandosi e cominciando a spolverarsi le scarpe rotte, col fazzoletto turchino.—Adesso anderò io stesso in cerca di Gian Paolo nostro. Se non è venuto, vuol dire che avrà da fare, e lo troverò ancora allo studio.
E dalle scarpe, col medesimo fazzoletto, passò a spolverarsi il cappello. Poi, dopo aver fatte alcune raccomandazioni, per il giornale, a Peppino Casiraghi gli voleva affidare, per quel tempo che sarebbe rimasto assente, anche la sua signora, ma questa,, che s'era messa ad aggiustargli il nodo della cravattina bianca, e a levargli qualcuna delle frittelle più vistose dell'abito, non ne volle sapere.
—Come?... Anche lei, sora Apollonia, vuol andare in cerca dei padrini?
—Sicuro, gua'!... E non mi tiene nè manco un reggimento di soldati!
Salvatore, con un sorriso di tenerezza indulgente, voleva persuadere la moglie di attendere il suo ritorno in ufficio, promettendole che le avrebbe riferito tutto esattamente, ma non ci fu verso. La signora[94] Apollonia gli cacciò il fazzoletto in tasca, il cappello in testa, se lo prese sotto il braccio e uscirono insieme, per quanto Peppino brontolasse che la cosa era sconveniente e contraria a tutte le regole della cavalleria.
Il direttore, dunque, e la sua signora, si avviarono direttamente, prima di tutto, allo studio dell'avvocato Spinelli. Ma allo studio l'avvocato non c'era; e non c'era un'anima. A forza di sonare venne una donna sulla scala, col grembiale bianco e la cuffietta, la quale non potè trattenersi dal sorridere vedendo il cappellone smisurato della signora Apollonia, e rispose, come aveva ordine di rispondere sempre a chi veniva in cerca del padrone:
—Il signor avvocato è al Tribunale.
—Ci credo poco al Tribunale!—mormorò la signora Apollonia quando furono in istrada.
Il direttore sorrise, le offrì il braccio, si cacciò le mani dentro le maniche, e si avviò verso il Tribunale, colla sua solita andatura.
Al Tribunale nessuno aveva veduto l'avvocato Pietro Paolo Serbellini, ma un usciere, al quale si erano rivolti per saperne qualche cosa, tenendo gli occhi fissi, anche lui, sul cappello della signora, rispose "di provare a cercar l'avvocato al Caffè delle Colonne, che a quell'ora ci poteva essere a far colazione."
Passarono dal Caffè delle Colonne... l'avvocato non c'era più.
—Sarà un cinque minuti che se n'è andato!—esclamò il cameriere, ma questi senza badare al cappello della signora che aveva già veduta più volte...—Provino alla Patriottica!...
I coniugi Cammaroto si avviarono verso la Patriottica,[95] ma quando furono in fondo al Corso videro l'avvocato che attraversava la piazza del Duomo.
Lo avevano riconosciuto dalla tuba lustra e dal grosso fascio di carte che gli usciva dalla saccoccia del paletò.
—Eccolo, Polonnì!
—Eccola quest'anima dannata!
L'avvocato li avea già sbirciati di lontano colla coda dell'occhio, e affrettava il passo per scansarli.
—Avvocato! avvocato!—cominciò a gridare il Cammaroto, correndogli dietro colla moglie sotto al braccio; ma l'altro tirava di lungo più duro che mai.
—Avvocato!
—Avvocato!—cominciò a strillare anche la signora Apollonia, tutta scalmata.—Avvocato!
Non c'era verso di cavarsela; Gian Paolo si volse col capo, strinse le palpebre dietro le lenti, poi fingendo di riconoscerli in quell'attimo, si fermò facendo le più alte maraviglie.
—Oh Salvatore carissimo! Donna Apollonia, i miei complimenti!
—Siete sordo, giuraddina!—borbottò la signora ansante.
—Sordo no, ma sono intontito dal gran lavorare. È una giornataccia disperata, come non ne capita altro che a me. Ho avuto da discutere una causa in civile per turbato possesso—e mostrò il fascio di carte da una parte.—Adesso devo presiedere un consiglio di famiglia—e mostrò le carte dall'altra parte.—Insomma... non ho tempo da respirare.
—Buono!... E anch'io venivo in cerca di te per una piccola noia che ho da darti!—esclamò il[96] Cammaroto sorridendo, mentre la signora Apollonia fissava muta l'avvocato con un'occhiataccia piena di diffidenza.
—Sempre a' tuoi ordini...—rispose il Serbellini con un tono pochissimo incoraggiante.
—Mi spiccio in due parole: Giulio Barbarò....
—Il figlio di qui' ccane!—grugnì fra i denti la signora Apollonia.
—....mi ha mandato a sfidare!
—Eh... siamo giusti...—l'avvocato strizzava l'occhio sorridendo—v'è di che! sei proprio stato senza misericordia!... E... come hai risposto?...
—Ho risposto che in questo caso, credendo conveniente di derogare ai miei principii, accettavo la sfida....
Gian Paolo sospirò e si strinse nelle spalle, mentre approvava col capo.
—Al mio avversario lascio il dettare tutte le condizioni; io non ne metto altro che una: mi voglio battere a elezioni finite.
L'avvocato Gian Paolo continuava a sospirare e a guardare il Cammaroto con una faccia, come se gli preparasse le esequie.
—Eh... già... quell'articolo, se vogliamo... era assai violento... forse, direi quasi, anche troppo violento.
—Senti! senti!... Troppo violento!... La mi 'anzona, sor avvocato?—si mise a gridare l'Apollonia, ohe cominciava a uscir dai gangheri.—La mi 'anzona?... S'è stato lei a metterlo su?... Se dopo letto l'articolo, saltava come un matto e piangeva come un vitello?...
—Certo... certissimo... ho detto e ripeto... quell'articolo [97]era un torrente di verità sacrosante... ma forse... ci voleva in alcuni punti, un po' più di forma!...
—Be'... adesso, non è di questo che si tratta—interruppe il Cammaroto, ch'era pure un po' seccato per il contegno strano dell'amico Gian Paolo.—Adesso volevo dirti che, naturalmente, avevo pensato a te, prima che ad ogni altro per....
Ma l'avvocato, a questo punto, non lo lasciò finire, e prendendogli una mano e premendola sul proprio cuore—grazie di questa novella prova di amicizia, ma con te già si può parlare chiaro... ti prego... di cercarne un altro. In affari simili, io non ci ho punto pratica. Sono un pacifico padre di famiglia; mia moglie patisce di convulsioni; poi, come t'ho detto—e tornò a mostrare le carte—mi mancherebbe il tempo necessario....
—Ma...—balbettò il Cammaroto—gli è che il tempo stringe e non vorrei trovarmi in... in impiccio....
—Perchè non ti sei rivolto al Nannarelli?... Quello è l'uomo fatto apposta per queste cose!... È anche membro del Tiro a segno.
—Ma... stamattina non s'è visto neppure lui!... E poi, non so bene dove abita....
—Non sai dove abita il Nannarelli?... Ti servo io: Corso Venezia, numero cinquantatrè! Vai dritto, e non puoi sbagliare. Se prendi un omnibus ti ci porta in due minuti.... Guarda, guarda che bella combinazione!—e l'avvocato indicò al Cammaroto un omnibus, che attraversava la piazza a non molta distanza da loro,—l'omnibus del Corso Venezia parte proprio adesso!... Se fai presto, lo puoi raggiungere ancora....
Il Cammaroto si voltò, vide l'omnibus, si cacciò una mano sul cappello a cilindro perchè non gli volasse via e gli corse dietro seguìto dalla signora Apollonia ansimante, mentre l'avvocato, agitando in alto il fascio di carte, faceva segno al conduttore di fermarsi, e continuava a gridare:—Corri, corri, Salvatore!... I miei rispetti, donna Apollonia!
Poi quando vide l'omnibus fermarsi, e il conduttore imbarcare la signora e il Cammaroto, respirò mormorando: "Tant'è, me la sono cavata a buon patto!... Figurarsi, se mi volevo compromettere con quel mattoide!..."
Nel medesimo tempo la signora Apollonia, stretta nell'omnibus, mentre si aggiustava il cappello, che durante la corsa aveva perduto l'equilibrio, dichiarava al marito che "se quel canchero d'un avvocato" avesse avuto tanto ardire da tornare a ficcare il naso in direzione, gliene voleva dir tante, da svergognarlo.
—Calmati, calmati, che non ne mette conto. Tanto o lui o il Nannarelli per me fa lo stesso!...
La signora Apollonia tacque, ma non si calmò, e cominciò subito a guardare i numeri delle case, cogli occhi torvi. Quando l'omnibus fu arrivato al numero cinquantatrè, lo fece fermare.
—Ci siamo, Salvatore.
Scesero, e tutt'e due mormorarono con un sospiro di sollievo, quando il portinaio disse loro che il Nannarelli era in casa:
—Almeno avremo finito di girare!...
Ma invece, povera gente, dovettero girare dell'altro, e per un pezzo!
Anche il Nannarelli, quel giorno, era pieno di faccende.
—È arrivata da Barzanò una cugina di mia moglie, e tutta la santa mattina ho dovuto andare attorno con lei. Auf... non ne posso più!... Ho fatto visita si può dire a tutti i magazzini del Corso. Figurati, Salvatore, ha una figliuola che si fa sposa: non ho più fiato, nè gambe... e non siamo alla fine! Ho appena il tempo di mangiare un boccone lesto lesto e poi... nuovamente di servizio!... Ma s'accomodi, signora Apollonia; e tu, Salvatore... perchè vuoi star in piedi?... Dieci minuti, per bacco, li posso rubare anche a mia cugina!
—Ma... ho... avrei....
—Abbiamo premura anche noi!—esclamò l'Apollonia col solito fare stizzoso. Dal preambolo essa aveva già capito che nemmeno su quello c'era da fare assegnamento.
—Anch'io—continuava intanto il Cammaroto,—avrei una piccola noia da darti.... Amicus fidelis, protectio fortis, secondo l'Ecclesiastico...—e mentre l'Apollonia guardava di traverso il Nannarelli, Salvatore gli prese una mano e sorridendo gli raccontò quanto gli era accaduto, e lo pregò di volersi assumere la briga di fargli da padrino.
—Volentierissimo... sempre a' tuoi comandi... ma... tienmi in serbo per un'altra occasione.
—Andiamo, Salvatore—borbottò l'Apollonia tirando il marito per un braccio.
—Sarebbe un onore, per me, signora mia, si figuri; ma dica lei se non sono proprio disgraziato. Uno zio di mia moglie è ragioniere capo alla Banca del Credito Popolare, dove il Barbarò può fare alto e basso. Se io, come vorrei, accettassi l'incarico del nostro caro direttore, quella canaglia, per vendicarsi[100] di me, che sono andato a sfidare suo figlio, farebbe perdere il posto a mio zio e.... Vedi bene, Cammaroto... vede bene, signora Apollonia, si tratta di un padre... di cinque figli.
—Andiamo, Salvatore!—ripetè l'Apollonia tirandosi dietro il marito, senza badare al Nannarelli. Ma questi volle accompagnare i Cammaroto fin sulla scala, e più li spingeva verso la porta, più si profondeva in offerte e in complimenti, dicendo fra l'altre cose alla signora Apollonia che, alla prima occasione, avrebbe voluto aver l'onore di presentarle sua moglie.—Oggi è tutta sossopra anch'essa per questo benedetto matrimonio di nostra nipote!—E sulla porta, dopo aver fatto i più cordiali augurii all'amico Salvatore, strizzando l'occhio e stringendogli forte la mano, gli raccomandò, se gli fosse stato possibile, di intiepidire un pochino quel suo gran bollore meridionale.... Il Cammaroto gli rispose con un'alzata di spalle, e se ne andò senza nemmeno salutarlo.
—Hai sentito, Polonnì!... Anche lui come quell'altro!...
—Figli di 'ani!...
—E adesso, chi si va a pescare?
Salvatore Cammaroto si strinse nelle spalle, e collo sgomento in cuore d'essere abbandonato sul più bello da tutti gli amici, dai collaboratori morali della Colonna, andò a battere ancora a diverse porte, ma sempre collo stesso bel frutto.
Tizio era spiacentissimo di non poter accettare "quel grande onore che gli voleva fare l'amico Cammaroto" ma partiva sul momento per la campagna: aveva i buoi collo zoppino!—Caio era desolato di non poterlo servire. Suo fratello era amicissimo[101] di Giulio Barbarò, e non doveva accettare per riguardi di famiglia. Un altro non voleva assumersi l'incarico perchè era della Congregazione di Carità insieme col Barbarò; un altro perchè faceva affari colla Banca degli interessi lombardi provinciali, e temeva di crearsi difficoltà per lo sconto; e così di seguito, tutti colle più vive espressioni di rincrescimento; tutti ringraziando dell'onore e impegnandosi per la prima occasione, lo lasciavano in asso, compiangendolo per quella tegola che s'era tirata sul capo; facendo cuore alla povera signora Apollonia, e raccomandando in ogni tono, mentre gli aprivano la porta per farlo uscire "la forma!... la forma!... la forma!..."
—Oh, Polonnì, questa gentaccia mi farà perdere la testa!...—esclamava scorato il Cammaroto che vedeva avvicinarsi le quattro e ancora non avea trovato i padrini da mandare al Caffè Cova.
—Figli di 'ani!—rispondeva sempre la signora Apollonia colla voce rauca e tutta rossa in viso. Era stanca, aveva sete, aveva caldo, quantunque fosse di dicembre; e mentre schiattava di rabbia contro quegli altri, guardava di tanto in tanto il direttore che, abbattuto, piegava il collo sempre di più; lo guardava con un'espressione di tenerezza, di mestizia, d'inquietudine e non aveva più testa nemmeno per aggiustarsi il cappello che ormai le stava tutto di sbieco.
—Se fossi in te, manderei Peppino da que' du' così e farei dir loro che noi non si vuole imposizioni. Poi sulla Colonna vorrei dire le mie ragioni all'avvocato, al Nannarelli... e a tutti quanti!
Ma dei due consigli della moglie il Cammaroto non accettò altro che il secondo. Lasciata l'Apollonia,[102] che non aveva più animo d'insistere per accompagnarlo ancora, all'ufficio della Colonna, prese un brum, si fece condurre alla Società dei reduci, dove gli fu indicata l'abitazione del presidente, vi si recò difilato, e col mezzo suo ebbe i due padrini che gli abbisognavano e che prima delle cinque entravano al Caffè Cova. Poi, accomodata questa faccenda, scrisse la sfuriata, come gli aveva suggerito la signora Apollonia, contro l'avvocato Gian Paolo Serbellini, contro il Nannarelli e compagnia, chiamandoli leoni-conigli, e sfogò tutto il malumore, tutto il dispetto e l'ira sua, narrando per filo e per segno la faticosa via crucis compiuta inutilmente dall'uno all'altro, e l'abbandono in cui era stato lasciato per egoismo, per bassezza, per viltà. E dichiarava che voleva rompere tutti i vetri dell'ufficio "per ritemprare colle aure ossigenate l'ambiente saturo dei loro pestiferi miasmi." "A me solo" prorompeva il Cammaroto nel punto massimo del suo furore "a me solo il disonor del Golgota" e mandava gli apostoli "sfibrati e simoniaci" dove "stava di casa la bramosìa plebea camuffata di gentilomeria accattona; l'astuzia e la vigliaccheria mascherate di prudenza," dove "per forma e per misura si spacciava l'ipocrisia e il gesuitismo."
Ma in questa sua ira il Cammaroto avea fatto un passo falso, e lo Zodenigo se ne approfittò subito, traendo occasione dall'abbandono in cui era stata lasciata la Colonna di fuoco per mostrare come l'opinione pubblica fosse disgustata dall'intemperanze della polemica Cammarotiana.
Era il primo caso in cui il Moderatore si degnava rivolgere la parola direttamente al giornale dell'ex-frate[103] catanese; ma lo faceva coll'aria schifiltosa d'una damina che fa una smorfia e si restringe tutta in sè stessa, mentre sta per lasciar cadere un soldo nel sudicio cappello di un mendicante. Compiangeva più che altro il Cammaroto "che riusciva a lordare, ma non a ferire," e faceva intendere, fra le eleganze dello stile compassato, che era forse ancora più matto che non canaglia, "un soggetto più da processo clinico che da processo penale." E dichiarava pure che il Moderatore "da cortese gentiluomo" sarebbe stato ben lieto d'offrire al Serbellini, al Nannarelli e ai loro egregi amici quella ospitalità che "l'iracondo apostolo... della bugia" voleva infligger loro come una punizione.
"Del resto, Milano aveva giudicato. Milano, che a buon diritto poteva vantarsi come la capitale morale e intellettuale d'Italia; Milano la seria, la forte, l'operosa, l'onesta; Milano aveva già irremissibilmente ripudiata una stampa senza freno e senza pudore; che non aveva nulla di inviolabile, nemmeno le pareti domestiche, nemmeno i più gelosi segreti della vita privata; che non rispettava nulla, nè amici nè avversari, e contro la quale il buon ambrosiano, sulle cui labbra scoppiettava sempre viva la satira di Carlo Porta, aveva inflitto il marchio di un soprannome che avrebbe vissuto più del nome vero, e che sarebbe stata l'unica memoria superstite di quella lotta infelice, di quella polemica sciagurata:
La Colonna... di feccia."
Infine, come se il Cammaroto ormai fosse proprio morto e sotterrato, e di Francesco Alamanni non fosse più nemmeno il caso di discorrerne, annunciava[104] solennemente che "il giovedì di quella stessa settimana (le elezioni erano indette per la domenica) alle ore 11 antimeridiane precise il cavalier Pompeo Barbarò, invitato dal Comitato elettorale degli agricoltori liberali-moderati," avrebbe tenuto una conferenza nella sala del Teatro Sociale di Panigale, per intendersi cogli elettori e manifestar loro le proprie idee intorno alla politica del Governo e alle riforme amministrative.
Quando lo Zodenigo comunicò il proprio disegno circa un discorso politico da tenersi a Panigale, al cavalier Barbarò, questi in sulle prime mandò il professore a tutti i diavoli, e dichiarò che non gli avrebbero aperta la bocca nemmeno coi ferri.
—Siete matto, professore, proprio matto da legare; più matto ancora di quel frataccio infame!...
E a Beppe Micotti, chiamato apposta a Milano dallo Zodenigo per ricevere ordini in proposito, e che gli prometteva una gran dimostrazione, intimò di smettere le pagliacciate, dicendogli mille villanìe.
Ma Beppe Micotti non si lasciava sbigottire, e il professore non si dava per vinto:
—Vogliamo farvi tiionfaae a vostro dispetto—mormorava socchiudendo gli occhi e facendo sempre più l'addormentato.
E senz'altro, quando gli parve fosse il momento opportuno, annunziò il discorso sul Moderatore, e fece[105] affiggere per tutto il collegio avvisi e manifesti, col giorno e l'ora della riunione, tanto che il povero Barbarò dovette ancora piegare il capo e mettersi ore e ore per imparare a mente tutto il discorso che dallo Zodenigo medesimo gli era stato preparato.
"No no; un'altra volta non mi ci piglia di sicuro, quel ladro d'un Dulcamara!" brontolava interrompendosi arrabbiato, mentre passeggiava in lungo e in largo per lo studio, coi foglietti in mano. "Non mi ci piglia più, campassi mill'anni!" Poi si fermava su due piedi e cominciava a declamare, accompagnando la parola con gesti analoghi:
"Onorevoli signori!... Concittadini carissimi!
"Non ho preparato un discorso.... Aborro il frastuono della retorica, la vacuità delle frasi fatte, le viete ripetizioni dei soliti luoghi comuni!... Aborro tutto ciò che è voce e non pensiero—suono e non idea—perchè.... (A questo punto sul manoscritto c'era una nota che diceva: pausa—quindi proseguire rivolgendosi verso l'uditorio con amabile ironia; e il Barbarò storceva la bocca per provarsi a sorridere, e poi continuava dopo una battuta di aspetto)... perchè non sono... oratore!... Ma che volete, signori miei?... Io mi vanto di rappresentare il lavoro, se non l'intelligenza, e all'eloquenza delle parole ho sempre preferito... (nuova pausa—più forte)... ho sempre preferito—gridava Pompeo battendo col pugno nell'aria—ho sempre preferito l'eloquenza dei fatti!..."
Ci saranno applausi—diceva una nuova avvertenza—ma bisogna tirar di lungo, senza ringraziare. E Pompeo continuava: "Pure, trovandomi in mezzo a voi, da voi cortesemente invitato, commosso nel[106] profondo del cuore per tante e così immeritate e inaspettate attestazioni di affetto e di stima, qui dirò brevemente, ma francamente, in camera caritatevolis....—No, bestia, charitatis, charitatis, charitatis!—ripeteva, pestando i piedi, il povero Barbarò, che, arrivato al latino, perdeva la staffa, bestemmiava e sbuffava, finchè, sospirando, tornava un poco a calmarsi, a far di nuovo boccacce per imparare a sorridere amabilmente, a distendere le braccia per salutare gli elettori, e ricominciava daccapo a declamare:
"Onorevoli signori!... Cittadini carissimi!..."
Tuttavia, ad onta di tante pene, e di tante inquietudini, quando Pompeo Barbarò fu giunto al momento difficile, all'ora del gran discorso, non ebbe più tanta paura, tanto orgasmo ed anzi scorgendo, sotto l'atrio del Teatro di Panigale, Beppe Micotti e Don Rosario fra mezzo a tutti i suoi affittaiuoli, i suoi coloni, i suoi lavoranti che lo guardavano impauriti e timorosi, non solo si rincorò pienamente, ma ci trovò gusto, e si sentì commosso per quella imponente dimostrazione di simpatia.
—Cooaggio... e avanti sempee!—gli disse piano lo Zodenigo che gli si era messo vicino, mentre il Presidente del comitato si disponeva, come vuol l'uso, a presentare il candidato, dall'alto del palco scenico, all'assemblea.
Ma il Barbarò gli mostrò la propria sicurezza con un'alzata di spalle, e appena si ristabilì il silenzio, dopo gli applausi che accolsero il suo nome, silenzio imposto cogli zittii formidabili di Beppe Micotti e dei fattori, il Barbarò cominciò a parlare con franchezza e proseguì spedito, non dimenticando una[107] pausa, un'inflessione di voce, e senza mai inciampare, neppure nel latino.
Il trionfo fu completo. Se durante il discorso gli applausi, ai quali Beppe Micotti e Don Rosario davano sempre lo spunto, erano stati a stento repressi, alla fine proruppero in una vera ovazione, e il Barbarò sudante e lacrimante fra i membri del comitato che gli si accalcavano addosso per festeggiarlo, ubriacato dal buon successo, avrebbe voluto aggiungere qualche parola, quasi quasi sarebbe stato disposto a fare il bis.
"Che buona gente!..." e distribuiva commosso strette di mano, sorrisi, saluti, scappellate a tutti quanti.
Se non che, mentre il Barbarò accompagnato dallo Zodenigo, dai sindaci dei vari comuni del collegio, dal Presidente e dai membri del Comitato degli Agricoltori liberali-moderati, stava per uscire dal teatro, la scena mutò a un tratto. Dentro risonavano ancora gli applausi: fuori, la folla si mostrava ostile, e non mancò nemmeno qualche fischio all'indirizzo del cavaliere. Pompeo impallidì, e si strinse al braccio del sindaco di Panigale.
—Ohi!... ohi!... Che c'è di nuovo?... Dove sono i carabinieri?...
I carabinieri erano poco lontani, ma Pompeo non si tranquillò.
"Pellagrosi maledetti!..." Confuso, sbalordito, saltò in carrozza col sindaco, lo Zodenigo e il Presidente, mentre due o tre altri fischi salutarono la comitiva che partiva al trotto verso la sede del comitato, dove ci doveva essere un gran banchetto in onore del Barbarò.
—È una manovra vergognosa!... È un'altra bricconata del Cammaroto!...—esclamò lo Zodenigo, rivolgendosi al sindaco che, maravigliato e mortificato, non sapeva più che cosa dire.
Pompeo Barbarò non avea veduto, non avea capito nulla, ma non osava chiedere schiarimenti: aveva troppa paura in corpo. In un attimo era ripiombato dalle gioie del trionfo nell'avvilimento della sconfitta. "E tutto si fosse fermato lì... ma dai fischi alle bastonate il passo poteva esser breve!" pensava fra sè facendosi piccino piccino in un angolo del landò.
—Bisogna trovar modo di strappaae tutti quei manifesti indecenti!—disse ancora lo Zodenigo al sindaco che, sempre muto, si strinse nelle spalle.
—Come fare?—domandò il Presidente del comitato, pallido anche lui, colla cravattina nera a sghembo, e il pioppino nuovo, troppo stretto, che gli ballava in testa.—Come fare?... Hanno tappezzato tutto il paese!
Infatti mentre il Barbarò nel Teatro Sociale era festeggiato dai suoi elettori, tutto il paese, e specialmente la piazza, la chiesa, il municipio, e persino le colonne della facciata del Teatro, erano state coperte quasi letteralmente da un'enorme quantità di avvisi rossi, verdi, gialli, di tutti i colori, colla scritta che segue:
"Elettori di Panigale!...
"Leggete il presente dispaccio ricevuto da Londra in data d'oggi dall'insigne patriotta milanese Nicola Mazza, colà rifugiatosi dopo essere scampato dalle segrete dell'Austria.
"Caro Cammaroto.—Dite pure agli Italiani che l'attuale candidato proposto dagli avversari di Francesco Alamanni è quel medesimo Pompeo Barbetta che nel 1849 ha fatto la spia a Giulio Alamanni e a me.—Nicola Mazza."
Tuttavia avendo i carabinieri eseguito con precisione e in breve tempo gli ordini ricevuti:—di strappare tutti gli avvisi nel collegio, e ammonire con severe paternali i soggetti più pericolosi—la quiete fu tosto ristabilita, ed anzi i convitati si trovarono abbastanza ben disposti per il pranzo, e dopo la zuppa le conversazioni, rallegrate dai suoni della Banda Civica, cominciarono ad animarsi, il buon umore a farsi generale.
Ma nè la musica, nè il frastuono, nè i fumi del banchetto riuscivano a scuotere, a riconfortare Pompeo Barbarò. Pallido, stralunato, masticava i bocconi senza poterli inghiottire, tanto si sentiva il petto grosso, e la gola secca. Voleva mostrarsi disinvolto, ed era confuso, impacciato; voleva sforzarsi di sorridere amabilmente, e faceva smorfie come se avesse avuto il mal di denti. Voleva parlare, ma non trovava le parole. Gli pareva che il favore, che avea prima dimostrato per lui tutto quel mondo sussurrone, si fosse raffreddato; e per darsi animo cercava spesso con gli occhi lo Zodenigo, che soffiava e faceva la ruota, seduto in mezzo alla tavola fra il sindaco e il Presidente del Comitato elettorale. Il professore mangiava assai, ma con un appetito composto e silenzioso, sempre eguale per tutto il pranzo. Parlava pochissimo, e sorrideva con benigno compatimento ai lazzi[110] di Don Rosario, tutto rosso e rilucente, nel faccione tondo.
Nessuno avea mai osato il benchè minimo accenno alle scenate successe fuori del Teatro, nè alla birbonata da processo del padre Cammaroto. Solamente quando fu l'ora dei brindisi, il solito Presidente del comitato (anche costui era un grosso fittaiuolo del Barbarò) si alzò pel primo, e col viso smorto dalla soggezione, e la cravattina che gli scappava dal colletto, tuonò, con voce fessa e un tantino tremante, "contro le male arti dei sovvertitori dell'ordine pubblico le quali... le quali... non avrebbero fatto altro, del resto, che rendere più imponente la spontanea manifestazione della coscienza popolare!"
Ma appena finito il brindisi, mentre gli applausi scoppiavano più fragorosi, e il Barbarò colla bocca sorrideva ringraziando e col cuore mandava all'inferno tutti quegli ubriaconi imprudenti che avrebbero potuto provocare qualche rumore dalla strada... e qualche sassata, entrò in sala Beppe Micotti, si avvicinò, non osservato, per la gran confusione del momento, allo Zodenigo, e gli bisbigliò in fretta alcune parole all'orecchio.
Lo Zodenigo fece un atto vivissimo, per quanto rapido, e guardò involontariamente il Barbarò. Ma questi, tutto intento a sentire un altro brindisi, non vide il professore che, detta una parola di scusa a' suoi vicini di tavola, uscì subito dietro al Micotti.
—Dov'è?... Dov'è?...—domandò affannato a Beppe quando furono sulla scala, guardandosi attorno come per cercare qualcuno.
—È qui... aspetta nella corte!...—rispose il Micotti scendendo in fretta dinanzi allo Zodenigo.
Infatti, appena furono abbasso, venne loro incontro uno dei ragionieri più vecchi e più fidati del Barbarò. Tutto sconvolto stava per parlare, ma il Micotti gli chiuse la bocca con un cenno, e lo fece passare col professore in una stanzetta appartata, dove non entrava mai nessuno.
—Per Dio!—esclamò il professore, rivolgendosi ansiosamente al ragioniere, mentre il Micotti chiudeva l'uscio....—Quando è successo il fatto?
—Stamattina... saranno state le dieci....
—E... come ha saputo?...
—Antonio, il servitore del signor cavaliere, che stava mettendo in ordine l'appartamento, ha udito lo sparo... è entrato in camera... ha veduto il signor Giulio lungo disteso per terra, privo di sensi... Anzi al primo momento, credette fosse morto sul colpo ed è corso nello studio spaventato, per chiamar gente....
—E chi c'era con lei nello studio?...
—Nessun altro... ero solo.
—Meno male!... E... come lo ha lasciato?
—Agitatissimo. Si temeva assai per la febbre.
—E il medico?... Che cosa dice il medico?...
—Ancora non vuol pronunciarsi.... Dice che sarà un affar grave in ogni modo.... Che la palla gli deve aver perforato il polmone....
—Il fatto, per ora, non si è saputo, fuori?...
—Per ora, no.
—È necessaaissimo che rimanga sepolto... almeno finchè possiamo aver speranza di evitare una catastoofe!... In caso diverso il cavaliere è spacciato!...
—Oh per questo—interruppe il Micotti con un'alzata di spalle—vede bene quanto effetto[112] hanno ottenuto anche le famose rivelazioni del frate, coi dispacci telegrafici da Londra. Un fuoco di paglia.
—Non si può dir niente, ancora. In ogni modo furono pronti i nostri a non lasciarsi prendere.... hanno subito indovinato che quel dispaccio non poteva essere altro che un tranello elettooale!... Ma se invece adesso si sparge la nuova del tentato suicidio, tutti crederanno, anche i più increduli, che l'accusa sia vera... si dirà che Giulio Babaaò voleva ammazzarsi per non poter sopravvivere al disonore del padre, all'infamia del proprio nome... e, in tal caso, anch'io ci farei una figura non toopo... non toopo...—Ma a questo punto si fermò, e dopo aver masticato una bestemmia all'indirizzo degli esaltati, ordinò al Micotti di recarsi subito dal signor cavaliere di trovar modo di chiamarlo in disparte, e di farlo scendere un momento, con una scusa qualsiasi. "...E badasse bene, senza destar sospetti!"
Lo Zodenigo, rimasto solo col ragioniere, continuò a borbottare stizzito, a pestare i piedi, e a domandargli con molta ansia:
—Mi assicura proprio che, fuori di casa, non sia corsa voce del fatto?...
—No... si può sperare almeno. Il medico medesimo ha raccomandato, per il primo, la maggior segretezza. Antonio è muto come un pesce... Di me... si possono fidare... Certo per altro, che se avesse ad accadere una disgrazia, allora... non sarebbe più possibile tenerla nascosta.
—Già... già... sicuaamente... ma intanto facciamo quel che si deve, poi sarà quel che saà!... Se guarisce,[113] si potrà negare tutto... si potrà dire che si è fatto male... per accidente! In somma qualche cosa troveremo, per tener a bada i cuiiosi....
Ma in quel punto si precipitò nella stanza Pompeo Barbarò che, nel frattempo, era già stato informato di tutto dal Micotti.
—Ah, per Dio!... Anche questa mi ci voleva!... Ma la cagione?...—domandò, pallido, ansante.—La vera cagione, si è potuta sapere?...
Il ragioniere riferì che la sera prima era stato pubblicato, pure a Milano, in un supplemento della Colonna di fuoco, il dispaccio telegrafico di Nicola Mazza; riferì che il signor Giulio lo aveva veduto, che ne era rimasto molto colpito e che aveva subito mandato Antonio in cerca del capitano Redaelli e del dottor Franchi.
—Ma Antonio—continuava il ragioniere—ritornò senza aver potuto trovare nessuno dei due. Il signor Giulio, che pareva non avesse il coraggio di uscir di casa, scrisse un biglietto, che mandò subito, ancora per mezzo di Antonio, al capitano.... In quel biglietto, si crede avesse pregato il capitano, e col capitano medesimamente anche il dottor Franchi, di correre da lui questa mattina presto; infatti...
—Ma come ha potuto sapere tanti particolari?...—domandò il Micotti, che stava attentissimo, interrompendo a bruciapelo il ragioniere.
—Antonio m'ha raccontato tutto il.... la cosa....
—Va bene; va bene! Avanti,—esclamò Pompeo vivamente.
—Infatti—continuò l'altro—i due signori capitavano stamattina, un poco prima delle dieci, a[114] cercare del signor Giulio. Il signor Giulio che era già alzato, o che forse non era nemmanco andato a letto, corse loro incontro, li fece entrare nella sua camera, chiudendosi dentro. Il capitano Redaelli e il dottor Franchi uscirono poi quasi subito... con una faccia molto scura... e dovevano essere appena giunti in istrada, quando Antonio udì un colpo di revolver, in camera del signor Giulio.
Beppe Micotti, a questo punto, si strappò un'unghia, che stava rosicchiando da un pezzo, vizio imparato dal padrino.... Lo Zodenigo, invece, e il Barbarò si guardarono in viso l'un l'altro, muti, costernati. Non ci poteva esser dubbio circa il motivo che avea spinto Giulio alla disperazione: i suoi padrini, dopo il telegramma di Nicola Mazza, dovevano aver rifiutato di fare qualche nuovo passo verso il Cammaroto.
In fatti, come si venne a sapere molto dopo, il capitano Redaelli e il dottor Franchi avevano dichiarato quella mattina a Giulio Barbarò, che non solamente non potevano accettare di far nuove pratiche verso il Cammaroto, ma che gli rimettevano anche il mandato avuto per regolare la prima questione, finchè un giurì d'onore, scelto all'infuori di ogni partito politico, non avesse dichiarato falso o infondato il dispaccio del Mazza pubblicato dalla Colonna di fuoco.
—Maledetto frate!... Maledetto frate!...—borbottava intanto il Barbarò fra i singhiozzi.—E maledetto voi,—gridò poscia, a un tratto rivolgendosi col pugno chiuso contro lo Zodenigo.—Maledetto voi, che mi avete rovinato, che mi avete dato in mano ai miei nemici, che siete l'origine di tutte[115] le mie disgrazie!... Maledetto!... Maledetto!... Maledetto!...
—Finiamola!... State zitto!... Non è questo il momento dei lagni, delle recriminazioni!—rispose lo Zodenigo senza indietreggiare, senza scomporsi, ma guardando freddamente il Barbarò, con un'occhiata molto espressiva.—Ve l'ho detto ancooa.... Non potevo mai preveder tutto... tutto quello che ci capita. Pensate che, con voi, mi son messo in serio peeicolo anch'io!...
—Bisogna... bisognerà... ritornare a Milano immediatamente!—disse allora Pompeo, nel quale l'ira furibonda avea subito dato luogo a un grandissimo abbattimento.
—Siete matto? Volete proprio rovinarvi?—esclamò con molta vivacità il professore.—E rovinarvi non soltanto come uomo politico, ma... in tutti i modi!... Pensate al rumore, allo scandalo, che susciterebbe la vostra partenza precipitosa da Panigale. Sarebbe un divulgare per tutto il mondo, quanto più preme di tener nascosto!...
—Ma... e se non si riesce a questo?... La gente dirà allora che invece di correre presso il letto di mio figlio, son rimasto qui a banchettare, e mi lapideranno per un altro verso. Diranno che non ho cuore, che non ho viscere di padre!... Io, che mi farei a pezzettini, per quel figliuolo!... Io, che ho lavorato tutta la vita per lui, per lui solo, per vederlo ricco, grande e felice! E in compenso non ha voluto.... non ha saputo sacrificarmi nemmeno un momento d'orgoglio!... Invece di aiutarmi e difendermi, proprio lui, mio figlio, mi ha dato il colpo di grazia!... Ma—e incominciò a gemere e a singhiozzare—è[116] proprio stato sempre il mio destino quello di seminare benefizi per raccogliere ingratitudine!...
Lo Zodenigo cercò di quietarlo, di rassicurarlo, e gli mostrò tutte le ragioni per le quali non si doveva muovere da Panigale, e doveva invece sforzarsi di dissimulare, in modo non solo da non destare sospetti, ma anzi da dissiparli pienamente, caso mai ce ne fossero.
"Accadendo una catastoofe," soggiungeva poi "o rendendosi impossibile, per qualunque altra circostanza, tener nascosta la disgrazia, allora lui per il primo avrebbe dichiarato in pubblico di non aver voluto che in quei primi momenti lo mettessero a parte di una taagedia così terribile, per non recare un troppo fiero colpo al suo cuore di padre... per aver tempo e modo di poterlo preparare... e confortare!..."
—Fate voi... fate voi, caro professore: sono nelle vostre mani—rispondeva balbettando Pompeo, il quale quando non vedeva più scampo, montava in furore, ma poi, se intravvedeva appena un barlume di speranza, ritornava docile e rassegnato, a raccomandarsi.
Lo Zodenigo, prendendo il pretesto di dover fare il giornale, partì subito per Milano senza rumore. Partì col ragioniere, il quale sarebbe ritornato la sera stessa con le istruzioni per il Barbarò.... Se avesse veduta o ritenuta imminente una disgrazia, allora, non giovando più a nulla la prudenza, avrebbe subito telegrafato.
Durante il viaggio, il professore Eugenio si mantenne silenzioso e meditabondo. La riflessione, succeduta allo sbalordimento del primo colpo, aumentava[117] la gravità del fatto, e a mano a mano gli faceva giudicare sempre più difficili tutti gli espedienti per poterlo tener nascosto, o almeno per mitigarne le conseguenze.
"Pee Dio!..."
Senza quel colpo di testa, le cose sarebbero andate benone, e adesso, invece, il Barbarò era quasi spacciato, e correva il rischio di rimetterci assai del suo credito anche il Moderatore.
"Sì, sì, il cavalier Pompeo aveva ragione; quel ragazzaccio sventato mostrava di non aver gratitudine, nè cuoee, per chi gli aveva dato la vita e... la borsa piena!... Come mai non aveva pensato alla pazzia che stava per commettere?—L'idea dell'onore.—Stupido!—Non capiva, che ammazzandosi, non faceva altro che confermare tutte le accuse messe in giro contro suo padre?... Chi sa per altro, in che stato di esaltazione doveva trovarsi in quel momento!... Forse i padrini col loro contegno—minchioni!—gli avevano fatto sembrare le cose anche più disperate che non fossero in realtà!... Avrà veduto distrutti i suoi disegni matrimoniali... la bella bimba perduta e allora pamfete, un colpo di pistola!...
"L'amore!... È un gran guastamestieri!... maledetto l'amoee.... e maledetti i matti!... Ma... pure... " il viso del professore si rischiarò, come illuminato da una nuova idea:
"Se, invece di essere un guastamestieri, questa volta l'amore accomodasse ogni cosa?..."
"Sì, sì appunto; la signorina Alamanni è la sola che ci possa salvare.... Tutto sta che quel babbuino possa guarire, o almeno tirar avanti per un poco!...[118] Ma... ma come potrò fare per vedere la signorina Mary? Suo zio, certo, non sarà molto ben disposto, per ricevermi...."
Il modo fu più spiccio di quanto non avesse creduto: arrivato appena a Milano, trovò la Mary e la marchesa Angelica che assistevano Giulio Barbarò.
Tutti i giorni, quando battevano le cinque in punto all'orologio di San Carlo, Giulio Barbarò entrava dall'Hagy (il noto liquorista del corso Vittorio Emanuele, in faccia all'Albergo Roma) per prendere il vermouth; tutte le sere, quando battevano le nove, Giulio Barbarò entrava dal tabaccaio (pure sul corso di faccia all'Albergo Roma) a prendere un sigaro; e tutte le mattine, finalmente, egli non mancava mai, alle nove, precise, di ripassare dall'Hagy per bere un centerbe... e mentre, fattosi presso ai cristalli dell'uscio, sorbiva l'amaro dalla tazza spumeggiante, pareva che dagli occhi, fissi ad una finestra del secondo piano dell'Albergo Roma, gli entrasse, misteriosamente, una gran dolcezza in cuore.
Orbene, la Mary, il giorno innanzi il tragico avvenimento, dopo aver veduto Giulio la mattina, lo aveva poi aspettato invano, dietro la finestra della sua camera, alle cinque e alle nove.
Inquieta, agitata, e trovandosi sola coll'Angelica all'Albergo, perchè lo zio era uscito, scrisse in fretta un biglietto che mandò a donna Lucrezia in cerca di notizie. Donna Lucrezia, invece di rispondere, capitò al Roma affannata, scusandosi di non aver avuto cuor nè testa di far la sua solita toilette; e soffiando e sbuffando, col naso intasato "...non sapeva, dove diamine era andata a pescare quel[119] maledettissimo sfredoron!" accrebbe assai, colle sue chiacchiere, il turbamento e le pene della buona figliuola. In ultimo, quantunque Angelica le facesse segno cogli occhi, non potè tacere, e baciandola prima di andarsene, le spifferò ogni cosa, e della Colonna di fuoco, e del dispaccio di Nicola Mazza.
—Tute matae... tutte fandonie... ma, intanto, chi sa, fia mia, come starà quel pôro toso!... Me sento per lù l'anima sanguinante!... Ma la colpa è del governo... De sto governo taconà.... Di questo governo di nani. Permette che si pubblichino in piazza, le cose più segrete!... Permette che si stampi sulle gazzette tutto quanto salta in testa ai mati... perchè quel frate birbon, l'è, come se dise adesso, un mattoide fegatoso!
Appena la Mary sentì nominare la Colonna di fuoco, non pianse più, non si mostrò più tanto inquieta. Pallida, gli occhi infossati, esprimeva, nel viso bellissimo, tutta la calma che danno le forti risoluzioni.
Andata via la Balladoro, e appena Angelica si fu ritirata nella sua camera, essa mandò subito un fattorino dell'Albergo a prenderle una copia della Colonna di fuoco.... Cercò.... lesse ansiosamente il dispaccio di Nicola Mazza. Allora ebbe un tremito, ebbe un singulto, ma insieme uno slancio di pietà e di amore per Giulio Barbarò. Subito si buttò genuflessa accanto al lettino, pregò per il babbo suo, poveretto, per la sua mamma; poi dopo avere pregato, sempre ginocchioni, col viso nascosto fra le mani, rimase ancora con essi lungamente. Erano i suoi timori, era l'affanno del suo cuore, l'effusione dell'anima sua che ricorrevano al babbo[120] e alla mamma in cerca di coraggio, di conforto, di consiglio... ma non di perdono. Il suo dolore era intenso, la sua angoscia amarissima, ma pure in lei non c'era lotta. Mai, nemmeno per un istante, dubitò che le colpe del signor Pompeo dovessero ricadere su Giulio. Per il suo retto sentire, per la fedele tenerezza del suo cuore, egli non era, e non doveva essere in alcun modo responsabile del delitto di suo padre, nè tocco dalla sua ignominia. Ed anzi sentì imperioso l'obbligo di difenderlo, di proteggerlo colle leggi sante dell'amore, contro tutte le ingiustizie degli stolti e dei cattivi; sentì che la sua parte di donna, di sposa, di innamorata era di consolarlo di quell'immenso dolore. Sì; essa sola gli poteva recare il soave balsamo della pace, e colla tenera previdenza dell'augelletta fedele, gli doveva preparare un altro nido, la consolazione della famiglia, un piccolo mondo ricolmo di nuovi affetti.
Ma... e perchè poi non era passato dall'Albergo alle cinque?... Perchè non vi era passato alle nove?
E se trovandosi solo, lontano "dalla sua Mary" non avesse più la forza di sopportare quel colpo fierissimo? Ebbene, gli avrebbe subito scritto, avrebbe saputo lei come consolarlo. Non gli voleva forse tanto più bene, quanto più egli era infelice?
Ma... nemmeno alle otto!... Che cosa era successo?... Doveva essere andato a Panigale da suo padre, per supplicarlo di ritirarsi dalla lotta... Certo, certo non poteva essere altrimenti.
Dio, Dio!... Com'erano lunghe le ore!... non passavano mai!... E se con tanti dispiaceri avesse finito per ammalarsi?...
Insomma lo voleva vedere; gli voleva parlare: lo avrebbe avvertito, e il giorno dopo si sarebbero incontrati da Donna Lucrezia.
Si alzò, e baciò con affettuosa devozione la miniatura della mamma (quella stessa che la fanciulla non sapeva di dovere al signor Pompeo); baciò parimenti una ciocca di capelli che erano del suo babbo, poi, invece di spogliarsi per andare a dormire, accese il caminetto, si avvolse tutta in uno scialle e si sdraiò in una poltrona, vicino al fuoco, rimanendo così per un pezzo, cogli occhi spalancati, a riflettere, a pensare, a temere, a consolarsi, concludendo in fine, che se Giulio non avesse potuto vedersi a Milano, per via di suo padre, sarebbero andati a vivere lontano... soli e felici.
Nel molle abbandono della stanchezza la fanciulla pensava a quel viaggio con un'estasi dolcissima.... Le pene, i timori erano spariti... La felicità traboccava dal suo cuore, l'inondava di beatitudine... e quella felicità era il suo dovere, era la sua missione. L'amore che le prorompeva dal cuore, che le bolliva nel sangue, era benedetto dalla sua mamma, era consacrato da Dio.... Com'era facile.... Com'era bella la vita!...
La candela crepitò, poi si spense. La legna era tutta consumata, e solo i carboni accesi rischiaravano la bocca del camino con un riflesso rossastro. La fanciulla ebbe un brivido di freddo; si strinse tutta nello scialle, ma non ebbe forza di muoversi. A poco a poco abbandonò la testina che le ricadde sopra una spalla... chiuse gli occhi.... Vide ancora il suo Giulio che la guardava mestissimo, supplichevole.... [122]Allora dal seno gonfio uscì un sospiro... sorrise dolcemente... le labbra si schiusero... si mossero per un bacio, e così sognando si addormentò.
Ma la mattina si svegliò prestissimo, intirizzita, e cominciò prima delle otto e mezzo a far la posta, dietro alla finestra, ai primi e scarsi frequentatori dell'Hagy. Fino alle nove non ebbe nemmeno il dubbio che il giovanotto non ci dovesse venire; ma poi quando le nove furono battute e ribattute ed egli non si mostrò ancora, tutta la sua sicurezza, la sua tranquillità svanirono a un tratto; scrisse a Giulio due righe, tremante, colla testa in fiamme: "Che è successo, mio Dio?... Devo parlarti; voglio vederti subito" e gliele mandò per il fattorino dell'Albergo, coll'ordine di non consegnare il biglietto altro che nelle mani sue proprie del signor Giulio Barbarò.
Il fattorino partì di corsa, ma, poco dopo, ritornò ancora col suo biglietto.
—Non si trova a Milano, il signor Giulio?...—domandò la ragazza stupefatta.
—Sì, è a Milano; ma mi fu risposto che non poteva ricevermi.
—Gli avete fatto dire che la lettera veniva dall'Hôtel Roma?
—Si figuri!... Ho parlato io stesso col servitore.
—Con Antonio?—domandò vivamente la Mary.
—Appunto: ho sentito il portinaio che lo chiamava Antonio. Mi ha detto che il suo padrone non voleva veder gente; che dormiva ancora; che avea lasciato ordini precisi perchè nessuno gli entrasse in camera.
La Mary, accigliata, col cuore che le batteva forte, col seno anelante, osservava fissa il buon uomo come[123] per scrutare e pesarne ogni parola. Costui indovinò subito che cosa passava in mente alla signorina, e soggiunse più piano:
—Se devo dirle la verità... mi parevano tutti sossopra in quella casa. Il portinaio non capiva un'acca; il servitore aveva la faccia stralunata e una gran furia di mandarmi via.... A buon conto, come mi aveva ordinato lei, la lettera non l'ho voluta lasciare.
—Avete fatto bene.—La Mary, prese il biglietto, lo stracciò senza aprirlo, poi andò difilato in camera della marchesa Angelica, le disse quanto le accadeva e la supplicò perchè volesse accompagnarla fino dal portinaio di casa Barbarò:
—Antonio mi conosce; lo farò chiamare, e sentiremo che cosa c'è di nuovo.
Angelica si mostrava poco disposta a secondare la cugina, e voleva persuaderla di attendere ancora un poco, di provare a scrivere un'altra lettera; ma la Mary tagliò corto a tutte le obiezioni:
—Se tu non mi vuoi accompagnare, prendo un brum e ci vado sola.
—Quand'è così... piuttosto... verrò anch'io!...
E la marchesa, contro voglia, perchè reputava l'atto sconveniente per la Mary, e perchè le ripugnava di mettere i piedi anche appena sulla soglia di quella casa, si arrese, affidandosi al minor male per impedirne uno maggiore.
La Mary intanto continuava a sentirsi sempre più agitata. Aveva la febbre di sapere... era spaventata al punto che un nonnulla, il più piccolo incidente, sarebbe bastato per spingerla ad ogni estremo. Immaginava che Giulio dovesse battersi in duello: che [124]forse si fosse già battuto... che, Dio Dio, fosse rimasto ferito!... E lo vedeva in un letto... fasciato... coperto di sangue... morente!...
Il suo cuore non l'aveva mai ingannata, e pensava rabbrividendo che non dovesse ingannarla nemmeno allora.
Infatti, appena le due signore furono a vista della casa del Barbarò, scorsero dinanzi alla porta una vettura chiusa, e quasi subito un signore uscir dalla casa e montar lesto nella carrozza che partì. La Mary doveva conoscere bene quel signore, perchè vedendolo si sentì come dare un tuffo al cuore, e mormorando: "Ah, mio Dio, il dottor Rodolfi!" affrettò tanto il passo da mettersi quasi a correre.
Angelica le teneva dietro, sforzandosi di calmarla:—Chetati, chetati!—le diceva—non sarà successo nulla... di grave; speriamo!—ma in cuor suo cominciava pure a temere.
La Mary correva senza darle retta. Essa non sentiva, non capiva più altro che il suo Giulio doveva essere ammalato, o ferito; che una disgrazia gli era successa.
—Chiamate Antonio, subito!—disse al portinaio sbattendo l'uscio dello stanzino.
—Ma...—il portinaio guardava la Mary titubante. Egli non la conosceva. Tuttavia avea subito capito trattarsi di persona cui stava molto a cuore il signor Giulio, e che, forse, era al fatto di ogni cosa.
—Chiamatemi subito Antonio... ditegli che c'è la signorina Alamanni che lo vuole.
A quel nome (il nome della fidanzata del padroncino era ben conosciuto nella casa) il portinaio alzò, istintivamente, le braccia con un atto di sorpresa, di sgomento, di pietà.
—Sta male? Ditemi, sta molto male?...—domandò la ragazza con voce tremante.
Il portinaio invece di rispondere scrollò il capo, uscì in fretta dallo stanzino e corse su per le scale in cerca di Antonio, chiamandolo ad alta voce. Allora la Mary, più esaltata che mai, invece di attendere giù, gli corse dietro, seguita pure dalla marchesa, che in quel momento di ansia non ebbe più testa per pensare ad altro. Attraversarono l'anticamera, passarono in fretta tutte le stanze, chiamando sempre "Antonio, Antonio," ma con voce più sommessa, finchè questi rispose, aprendo l'uscio di un gabinetto attiguo alla camera del padroncino.... La Mary distinse subito, sopra un tavolino, bambagia, fasce, filaccie... udì un lamento, e si precipitò nella camera di Giulio che, preso dal delirio, la chiamava per nome.
Ecco in qual modo era successo che la Mary e la marchesa Angelica furono trovate presso il ferito dal professore Eugenio quando giunse da Panigale.
Giulio Barbarò, dopo un leggiero delirio, era passato al sopore. Di tanto in tanto pareva destarsi... scoteva la testa sul guanciale... apriva, sbatteva le palpebre, ma non riconosceva nessuno e lo riprendeva subito il sonno morboso.
Nel frattempo, prima sempre dell'arrivo dello Zodenigo, c'era stata una seconda visita del medico, in compagnia di un consulente suo amico. Fu giudicato che lo stato del ferito si manteneva sempre assai grave: la palla aveva perforato il polmone sinistro e si era fermata nella parete posteriore toracica, ma per il momento non era possibile l'estrazione.
Insomma, quantunque tutte le speranze non fossero ancora perdute, i medici non nascondevano il timore che potesse succedere la catastrofe anche improvvisamente.
—Io non mi muovo da qui finchè c'è pericolo,—avea detto la Mary all'Angelica.—Pensa tu ad avvertire lo zio Francesco.
E levatosi il cappello e spogliatasi del mantellino, senza versare una lacrima, ma cogli occhi spenti e le guance inaridite dal dolore, si sedette accanto al letto del ferito.
Angelica non tentò nemmeno di smuoverla dal suo proposito: forse essa sentiva in cuor suo che in un caso simile avrebbe fatto altrettanto.
Scrisse invece a Donna Lucrezia perchè venisse subito, presso la nipote, mentre lei sarebbe tornata dall'Alamanni; ma non le disse nel biglietto di che si trattava e nemmeno le anticipò alcuna notizia circa il fatto. Voleva prima, spaventandola un poco, imporle il segreto, essendosi persuasa ormai anche la marchesa che ciò era necessario per tutti.
Donna Lucrezia arrivò come un fulmine, carica d'interrogazioni; ma poi, appena Angelica l'ebbe messa, in breve, al corrente dell'accaduto, alzò le lunghe braccia al cielo, stralunò gli occhi, e spalancò la bocca, ma senza profferire una parola, tanto avea paura di guastar le cose. Solamente, quando Angelica se ne fu andata, Donna Lucrezia (che era rimasta con Antonio nel gabinetto, senza entrare nella camera di Giulio, perchè il medico lo aveva proibito) confidò al servitore che anche lei "in una circostanza tremenda, in cui ghe gera in balo el cuor" avea bevuto "un goto de velèn" e che cinque dottoroni[127] "uno drio l'altro" l'avevano spedita. Era stata la Mary, la sua Mary a salvarla; quel "fior de tosa" dalla quale i barbari del giorno l'avevano divisa per puntiglio e per gelosia, ma senza cavarne alcun costrutto in quanto che, adesso avrebbero dovuto finire anca lori, insieme al Papa, coll'accettare i fatti compiuti. Angelica avrebbe messo al posto el sior Todaro. Oh, la marchesa Angelica aveva un tatto, un garbo, e insieme un'imponenza grande, che incuteva molta sugizion alle persone. A lei no, per altro, niente affattissimo, perchè lei era dello stesso sangue: i Badoero, i Collalto, e i Balladoro erano sempre stati insieme fin dai tempi della guerra di Lepanto e, di più, la marchesa Angelica era sua cugina tanto come Collalto, quanto per via dei Castelnovo, e l'aveva vista nascere e venir su più bella d'un fior!... Povero fior, proprio sacrificà nel suo profumo e nella sua bellezza; perchè so cusin Alberto era "un tiranno, una bestia, tanto quanto" che "ghe n'aveva fate passar a sua mugier de tuti i colori" e che al presente, dopo un colpo che lo aveva preso, prima alle gambe e poi anche alla testa, si ostinava a restar al mondo a dispetto dei santi. Non si poteva più muovere; da poco tempo aveva perduto affatto il ben dell'intelletto... Era diventato grosso, grasso con un faccione tondo come una Pasqua; parlando, balbettava come fa i tati; rideva, pianzeva de niente, aveva imparato a far le calze e tutto 'l dì non faceva altro, mentre lo conducevano attorno nella sua carrozza. Che pena, poveretta, che pena, per sua cugina, la marchesa Angelica, in tuto lo splendore della gioventù! Ma, per altro, poteva proprio dirlo, perchè Angelica, per lei, non aveva mai avuto segreti,[128] era una donna indomita d'altri tempi e che all'occorrenza, sapeva comandare anche alla passion!... E così, Donna Lucrezia continuò a parlare, finchè la marchesa non fu di ritorno. Antonio, allora, prudentemente si ritirò... Aveva la testa gonfiata come un pallone.... La Mary, udito il passo e il sussurro delle vesti di Angelica, venne sull'uscio, in punta di piedi, per sentire la risposta dello zio.
—E così?... Che cos'ha detto quell... quel longobardo?—domandò la Balladoro.
—Ha detto—rispose Angelica avvicinandosi alla Mary in atto di farle coraggio—ha detto che se lo stato di Giulio si mantiene grave, tu puoi rimanergli vicina, perchè, come la coscienza, anche il cuore ha i suoi doveri.
—Bravo!... me piase... e ghe perdono!—esclamò donna Lucrezia, mentre la Mary si gettava piangendo fra le braccia di Angelica. Dopo tante ore di angosce terribili, il pianto avea trovata finalmente la via per prorompere.
Quando, alcune ore dopo, lo Zodenigo entrò nel gabinetto preceduto da Antonio donna Lucrezia non c'era più. Era scappata a casa per mangiare un bocconcin in fretta e in furia; tanto da reggersi in piedi. Al professore bastò un colpo d'occhio, e poche parole fatte prima col servitore, per venire in chiaro di quanto era successo, e approfittarne.
La marchesa lo aveva interrogato con grande premura per sapere quando il Barbarò sarebbe giunto a Milano (non voleva correre il rischio d'incontrarsi con lui). Egli rispose, diplomaticamente, di non avergli detto ancora nulla del figliuolo, perchè in tal caso sarebbe certo precipitato a Milano, destando[129] uno scandalo; onde la rovina del cavaliere, e di Giulio insieme, sarebbe stata inevitabile.
—Non bisogna illudersi, signooina!—esclamò, chiudendo prima gli occhi gravemente, poi aprendoli e soffiando mentre li teneva fissi in quelli della Mary—non bisogna illudersi; non c'è altro che un mezzo per tentare di salvar la vita al figliuolo: bisogna salvar l'onore del padre!
—Fate, fate tutto ciò che sta in voi!—esclamò la Mary congiungendo le mani in atto supplichevole.
Lo Zodenigo s'inchinò con molta gravità e con molta degnazione, poi, tornando a soffiare, guardò la marchesa, come per interrogarla su tal proposito.
—Sì, sì!—rispose Angelica indovinando il pensiero dello Zodenigo,—anche Francesco Alamanni, ormai, non crede più conveniente, nè possibile l'opporsi, e se... e appena il signor Giulio si sarà rimesso un poco, avrà luogo il matrimonio.
Sul viso smorto della fanciulla passò in quel punto una fiamma viva, e abbassò confusa gli occhi, ancora pieni di lacrime.
Il professore Eugenio s'inchinò una seconda volta, esprimendo con una mimica composta, ma efficace, i suoi voti e le sue congratulazioni.
A vederlo di fuori, non tradiva la muta e rigida impassibilità inglese, ma internamente gongolava, e un tremito quasi impercettibile delle labbra sottili avrebbe svelato, ad un osservatore attento, lo sforzo fatto per reprimere la contentezza.
—Dica a Francesco Alamanni,—esclamò poi rivolgendosi alla marchesa con solenne pacatezza e tenendo abbassate più a lungo le palpebre, come volesse concentrare in sè tutta la mente per trovar[130] la forma più adatta al suo pensiero,—dica a Francesco Alamanni che i suoi avveesaai (nemici un Alamanni non ne può avere), sono costretti ad ammiiaae sempee più, da leali gentiluomini, la rettitudine del suo spiito, l'elevatezza de' suoi sentimenti e la bontà squisita del suo cuoee.
Ciò detto prese la manina della Mary, la strinse forte, con una smorfia, e se ne andò inchinandosi, senza aggiungere altro per non commettere la debolezza d'intenerirsi.
Andò prima, sollecitamente, all'ufficio del Moderatore, poi nientemeno che in via della Spiga... da donna Lucrezia!
Il professore, in quei pochi istanti, avea già pensato e fissato bene in mente il proprio disegno.
All'ufficio per prima cosa gli toccò una sorpresa poco gradevole: trovò il Carpani che lo aspettava per dare le sue dimissioni. Era un'altra conseguenza, certo affatto impreveduta per lo Zodenigo, del famoso dispaccio di Nicola Mazza.
—Sostenere l'Alamanni,—gli aveva dichiarato il Carpani per spiegare la propria condotta,—sarebbe in contradizione co' miei principii; ma difendere il Barbarò ripugna troppo, ora, alla mia coscienza. Tacere equivarrebbe ad una diserzione... però preferisco ritirarmi dal giornalismo. Non ci vedo più chiaro!...
—E allora mettetevi gli occhiali!—aveva risposto lo Zodenigo, alzando le spalle stizzito.—Baloodo! Baloodo! I giornalisti non devono avere altra mira che il trionfo del paatito: non sapete che, in politica, il fine giustifica i mezzi?...
Il Carpani crollò il capo e non rispose. Prese fra[131] i giornali vecchi di cambio un numero della Perseveranza, lo distese sul proprio tavolo, vi ammucchiò insieme un piccolo vocabolario francese-inglese, unto e scucito; un calamaio tascabile che usava quando assisteva a qualche adunanza; una giacchetta logora di orleans, che metteva sempre in ufficio; un mezzo pettine d'osso; l'Iliade di Omero; i guanti neri, pei funerali di parata; una lettera di Quintino Sella; un biglietto di visita di Marco Minghetti; il verbale di un duello; un pane ed una fetta di carne fredda, avanzi della colazione: involse il tutto nella Perseveranza (era il suo intero bagaglio giornalistico: le glorie raccolte, e i tesori guadagnati nella lunga carriera), si cacciò il pacco sotto il braccio, e uscì dall'ufficio del Moderatore più lacero e dimesso che non vi fosse entrato... con una ruga di più sulla fronte, e molte illusioni di meno nel cuore.
"Balordo!..." ripetè lo Zodenigo, dopo averlo salutato appena con un cenno del capo, mentre se ne andava. "Dubita forse che, per questo incidente, il Moderatore debba morire?... Balordo! È adesso invece il momento di raddoppiare la tiiatura!"
Un'altra sorpresa, di diverso genere peraltro, e di ben diversa importanza, aspettava lo Zodenigo anche in via della Spiga: la scoperta di un successore alla tavola e nel cuore della vedova romantica.
Lo Zodenigo era passato davanti al bugigattolo della portinaia senza un rimpianto per la Rosetta, alla quale aveva fatto tanto male; senza un rimorso per la povera vecchia, la mamma, finita di crepacuore all'ospedale, e senza nemmeno un pensiero per l'innocente frutto dei canti patrii e sentimentali.
Altri tempi, altre cure!
Ma se il professore Eugenio era dotato di memoria labile, in cambio la vista l'aveva buona, e entrato appena nello stanzino per domandare se la Balladoro era in casa, osservò subito, quantunque fosse di sera, al fioco chiarore d'un lumicino ad olio, la nuova portinaia, che era pure belloccia, e prima d'incamminarsi per le scale le strizzò l'occhio sussurrandole un complimento manzoniano: "Bel sangue lombaado!"
Arrivato sul pianerottolo, mentre stava per tirare il campanello, si fermò sospeso: indovinò allora che aveva un successore. Due voci giungevano ben distinte al suo orecchio, due voci, insieme cogli accordi d'un pianoforte. Una, fessa, tremula, afona, stonata, non c'era dubbio, era la voce di donna Lucrezia; l'altra acuta, sottile, belante... doveva essere quella del rivale.
"Povero diavolo" mormorò lo Zodenigo sorridendo, mentre tirava forte il campanello, "deve aver buono stomaco!"
Quasi subito sentì uno strascicare di zoccoli nell'anticamera. "Oh, guarda!" pensò fra sè "c'è ancora quella vecchia zoppaccia che mi faceva la guerra!"
Infatti fu la Filomena che gli aprì la porta, e al primo momento rimase come stupefatta per quella visita inaspettata.
—Donna Lucheezia sta per andare a pranzo, non è vero?
La Filomena, rimboccando il grembiule greggio, accennò di sì col capo, fissando il professore con un'aria che, tra la meraviglia, si faceva quasi sospettosa.
—Ebbene, non ho da dirle altro che due parole, e poi la lascio in libertà.
Dopo la tirata di campanello il canto era cessato. La Filomena, fatto entrare il professore, lo precedette per annunziarlo a Donna Lucrezia, che, invece del bocconçin in fretta e in furia, aveva pranzo in onore del suo maestro di canto, il quale, aspettando che il riso fosse cotto, le faceva ripassare la Sonnambula.
Al nome dello Zodenigo, proferito dalla vecchia con un tono particolare, Donna Lucrezia si voltò scattando in piedi dal panchetto sul quale era seduta accanto al pianoforte; si strappò gli occhiali dal naso e li ficcò in tasca; poi, chinandosi all'orecchio del maestro (un pezzo d'omaccione con una testa da toro, e due spalle da Ercole), gli sussurrò in fretta, pianino:
—Fermo, tesoro, che lo faremo crepar di rabbia.
Ciò detto, ordinò maestosamente alla Filomena di far passare il professore. La vecchia, dopo aver lanciata sul maestro una di quelle occhiataccie che nei tempi andati erano riservate al professore, spalancò l'uscio....
Il professore tardava a venir innanzi perchè si stava levando il soprabito, ma Donna Lucrezia ebbe intanto un sussulto di gioia. "Corocochè!" Il traditore non l'avrebbe trovata piangente come una Didone nel salotto rimesso a nuovo e senza più nemmeno l'ombra d'un patacon!... L'avrebbe riveduta, il mostro!, al fianco di una persona di merito e di proposito, che... che non aveva gusti plebei. In quell'attimo lanciò pure un'occhiata alla sua toilette: era sfolgorante!... Guardò la tavola preparata con un'abbondanza[134] e un lusso insolito, con sopra due di quelle rinomate bottiglie di barolino che davano la stura al genio dell'esule poeta, e tutto ciò mentre dalla cucina entrava nel salotto, insieme col professore, il profumo dello stufatino famoso, cucinato da lei, colle sue proprie mani!... Allora "Corocochè!" pensò che la vendetta fosse anche più piena, e raggiante in viso e gongolante nell'animo cominciò con enfasi le presentazioni.
—Il maestro Forapan di Verona, celebre compositore, che ha scritto la Regina delle Antille, che sarà applaudita (non fate il modesto fora de logo)—interruppe rivolgendosi al maestro che ascoltava senza scomporsi quegli elogi—che sarà applaudita, quanto prima, in uno dei nostri principali teatri.
A questo punto il maestro Forapan strappò un accordo sul pianoforte coll'aria distratta, ma poi appena sentì pronunziare il nome dello Zodenigo si alzò tutto cerimonioso, gridando forte con una vocina da pecora che contrastava ridicolmente in quel corpaccione macchinoso, e in mezzo a un diluvio di complimenti cominciò subito a lagnarsi del critico musicale del Moderatore perchè non si occupava abbastanza delle composizioni di carattere serio, mentre empiva le appendici colle lodi delle operette.
Lo Zodenigo non soffiava più, ma sbuffava, e risposto appena con un cenno del capo al celebre maestro di Verona, mormorò senza nè manco guardarlo in faccia—Bella città... Verona!—Quindi rivolgendosi alla Balladaro:—Donna Lucrezia,—le disse,—mi spiace assaissimo incomodarvi, ma vi doveei diie due parole..
La Balladoro sfavillò negli occhi per un lampo[135] d'orgoglio. Si rizzò dritta, impettita, esclamando—Sempre a vostra dis...—ma a questo punto si fermò, strizzò le palpebre, spalancò la bocca, alzò la testa al soffitto e scoppiò in uno starnuto, mormorando:—Sempre a vostra disposizion!
—Salute, bella madama!—esclamò il maestro inchinandosi.
—Parlate, parlate pure Euge.... Professore, parlate. Il maestro qui presente conosce tuti i miei segreti.
Lo Zodenigo non badò più che tanto al senso minaccioso e fiero di quella parlata; invece si sforzò di far intendere a Donna Lucrezia che non trattandosi di lei, ma di segreti riferentisi ad altre persone, il colloquio doveva farsi a quattr'occhi.
—Allora, scusatemi un momentino,—disse la vedova volgendosi al maestro.—Vi domando licenza cinque minuti soli!... Già, tanto e tanto, la nostra lezion per oggi la gera bela è andata. Se ne avanzerà tempo ghe daremo un'altra ripassadina dopo pranzo! E chiudendo lo spartito ch'era sul leggìo, canterellò a mezza voce, accompagnandosi con una crollatina di capo:
Ah perchè non posso odiarti,
Infedel, com'io vorrei!
—Professore, vi precedo,—ed entrò nella stanza vicina. Nella sua camera da letto.
Chiusa la porta, Donna Lucrezia sospirò, si soffiò il naso, coll'intenzione di asciugarsi gli occhi, e mutando a un tratto di voce, di viso, di espressione—Per averghe el muso de tola,—esclamò,—de[136] comparirme ancora davanti dopo tanti spasimi sofferti, dopo tante lacrime sparse al vento, bisogna proprio dir che ghe sia un motivo importante assàe!
—Impootantissimo,—rispose lo Zodenigo seccamente, e col tono di chi intende spicciarsi.—Prima di tutto, ditemi, non avete fatta parola dell'accaduto...—e strizzò l'occhio—al compare di là?
—Il maestro Forapan,—proruppe Donna Lucrezia risentita,—è un gentiluomo di garbo! Uno che...—ma si fe' forza, si contenne, e sottolineando le parole,—uno di quei pochi nobili de cuor,—continuò,—in cui una donna pol ancora fidarse sicura che nò i lassa drio de lori "l'amaro fior del disinganno!" Tuttavia siccome il segreto non mi appartiene, basta così: non sono una piavola.
Lo Zodenigo le fece su ciò i suoi complimenti, soggiungendo che era venuto appunto per raccomandarle, a nome del signor Barbarò, il segreto più assoluto. Quindi con destrezza rara di diplomatico, un po' lusingando la Balladoro, facendole intravvedere quanto il cavalier Pompeo le si sarebbe mostrato riconoscente; un po' spaventandola, e minacciandola, che in tutti i casi, visto la guerra di coltello che si faceva, avrebbe ricorso a qualunque spediente pur di non avere la peggio, anche a quello di pubblicare, occorrendo, i documenti conservati dal cavaliere, come ricevute ed altro, le fece scrivere e firmare una lettera diretta a lui medesimo. In essa Donna Lucrezia, protestando contro l'infame accusa lanciata a danno di Pompeo Barbarò, dichiarava ch'egli era sempre stato fedele e devoto alla famiglia Alamanni; che la signora Lucia e Giulio Alamanni avevano sempre riposta in lui fiducia sconfinata,[137] e che, in fine, Pompeo Barbarò, in tutti quegli anni, aveva sempre tenuta la signorina Mary in conto di figlia, e come tale protetta e sorretta. Lo Zodenigo aveva suggerito soccorsa, ma la parola era sembrata troppo bassa alla Balladoro.
—Giuratemi... per quanto nei vostri giuramenti non ci possa più credere,—esclamò la vecchia, mentre consegnava il foglietto al professore,—giuratemi di non pubblicare questa lettera sul Moderatore, in nissun caso, e di farla vedere soltanto al Comitato Elettoral di Panigale!...
—Non dubitate!... Non dubitate!... Ne useremo appena in un caso estremo!—E così dicendo, chiusa la lettera nel portafoglio, lo Zodenigo se ne andò grave e composto, lasciando i saluti per il maestro Forapan.
Il giorno dopo, la dichiarazione di Donna Lucrezia era stampata tutta intera nel Moderatore, e in prima pagina, con un cappello della direzione, in cui era detto soltanto che mentre il cavalier Pompeo Barbarò si riservava di procedere a termini di legge contro la Colonna di Fuoco, il Moderatore, pur tenendo apocrifo il dispaccio attribuito a Nicola Mazza, pubblicava, per edificazione del pubblico la lettera di una strettissima parente di Giulio Alamanni, Donna Lucrezia Balladoro, una di quelle nobilissime gentildonne, il cui eroico patriottismo aveva inspirato i più bei canti dell'Aleardi; ed annunziava pure come "una primizia certo assai gradita ai lettori" la lieta novella del matrimonio di Giulio Barbarò colla signorina Maria Alamanni.
Quelle poche righe di Donna Lucrezia, coll'aggiunta fatta dallo Zodenigo, ottennero un effetto straordinario a Panigale e a Milano. Gli avversari dell'Alamanni si rianimarono e i suoi fautori rimasero sbigottiti da quel colpo imprevisto. Il Cammaroto erasi subito precipitato da Francesco Alamanni per avere spiegazioni, e solo rimase un poco rassicurato dalla serenità del suo amico. In fatti l'Alamanni aveva già telegrafato al Barbarò perchè dichiarasse esplicitamente, e pubblicamente, che nessuno della sua famiglia gli aveva mai chiesto, nè mai aveva avuto un soldo da lui; e dopo il colloquio avuto col Cammaroto, era corso da Donna Lucrezia per chiarire l'equivoco, sicuro che "quella scema" doveva aver operato per inganno e per suggestione altrui, senza intender bene tutta la gravità della cosa, sperando fors'anco di vendicarsi per essere stata allontanata dalla Mary.
Invece Donna Lucrezia, che alle prime domande e ai primi rimproveri dell'Alamanni si era impermalita, avea finito in breve col turbarsi, col cercare scuse e pretesti per attenuare la propria colpa, buttandola tutta su quel gesuitone dello Zodenigo, che l'aveva ingannata.
—Non è di ciò che si tratta,—esclamò l'Alamanni[139] che, notando la confusione della Balladoro, sentiva il sangue montar alla testa,—non è di ciò che si tratta!... Voglio sapere se voi siete caduta così in basso da toccare il danaro di quel turpe uomo, di quella spia?!...
—Ma, per amor di Dio, Checchin, non mi guardate con quegli occhi spiritati!... No' giàsseme l'anima con tanti spaventi!... Santi Numi benedetti, ognuno fa i suoi affari per andar avanti con un pochetto di decoro, e un contratto notificà e scritto in carta bollata non è, come si dice, un atto di favore; non si riceve un' obbligazion!...
—Finiamola colle chiacchiere, colle scenate!—proruppe l'Alamanni afferrando un braccio della Balladoro e scotendolo violentemente.—Avete avuto danari dal Barbetta, sì o no?
—Diventate matto, Checchin?... Per amor di Dio, sono una debole donna!
Il braccio, che si trovava preso come in una morsa, ebbe una stretta più forte.
—Sì, o no?...
—Ahi!... Ahi!... molème, vi dirò tutto!...
—Poche parole!... Sì, o no?...
Donna Lucrezia non poteva quasi rispondere, soffocata dallo spavento.
—In quanto a me,—balbettò,—posso morir subito se dico una busìa, non volevo saperne. È stato il consiglier Spinelli, a pregarmi, minacciarmi, a confondermi!... Quell'austriacante famigerato me ne fece un caso di coscienza, e mi costrinse ad accettare, per via della Mary!...
—Ma se mi toglievo il pane di bocca per la Mary?... Se le ho ceduto tutto il mio?!...
—Voi, si sa bene, avete sempre avuto un vero cuor da Cesare; ma,—sospirò la Balladoro levando al cielo gli occhi stralunati,—certe volte in cui le lettere subivano qualche ritardo.... erano spasimi.... che nò se pol dir!
—Siete in mala fede adesso....
—Oh Checchin.... possa morir se....
—Siete in mala fede!—interruppe l'Alamanni fermandole le parole in bocca.—Perchè non me ne avete mai parlato di questo prestito?... Dichiarerete almeno che io non ne sapevo nulla; che io sono innocente! Che non mi tocca questa macchia, questa infamia!
—Ma.... tesoro mio, pensateci un pochetto e vi ricorderete benissimo che il consiglier Spinelli vi ha sempre informato di tutto!
—No, non mi ha detto nulla! Avrei restituito subito il suo a quell'uomo.... avessi dovuto far danaro anche col mio sangue!
—Ma pure nei bilanci della tutela.... figurava il credito del signor Pompeo Barbarò.... e quei bilanci furono sempre firmati anche da voi!
—Da me?!...
—Sicuro! Del resto è una cosa che se pol verificar: basta dare un'occhiatina ai libri dell'amministrazion! Troverete il nome di Pompeo Barbarò scritto a lettere di scatola!
—Pompeo Barbarò!... Ma io mi ero fidato di voi!... Mi sono sempre fidato di tutti!—gemette l'Alamanni con un singhiozzo.
A questo punto gli si parò dinanzi ad un tratto tutto l'abisso nel quale era stato precipitato per la sua cecità, per la sua buona fede. Si sentiva preso,[141] stretto in una rete ordita da lunga mano, e dalla quale non avrebbe più potuto liberarsi: era perduto per sempre e disonorato.
—Maledetta!—urlò afferrando ancora il braccio della Balladoro, stringendolo in modo da storpiarlo.—Maledetta! Maledetta!... Mi avete tradito!... Mi avete venduto! Sì, voi avete venduto me, come Pompeo Barbetta ha venduto mio fratello!... Lui venduto alla forca, io al disonore; ma il danaro è sempre quello: danaro rubato!
—Misericordia!... Aiuto!... Filomena!...—si mise a strillare la Balladoro come una disperata.—Filomena, el me copa!...
La vecchierella, udita la voce della padrona che chiamava aiuto, venne subito sull'uscio tutta trafelata, e colla scopa alzata in mano, ma vedendo il signor Francesco colla padrona, rimase interdetta. La Balladoro approfittò del momento, riuscì a svincolarsi, e scappò in camera sua dove si richiuse asserragliando la porta. E fece bene, perchè la disperazione dell'Alamanni giungeva al parossismo.
—Gesù Maria!...—balbettava la Filomena,—Gesù Maria!
L'Alamanni urlava e imprecava fra i singhiozzi che pareva gli dovessero schiantare il petto poderoso. Nel salotto metteva tutto sossopra, rovesciava a calci le sedie, e con un pugno scaraventava all'aria il ritratto del maestro Forapan, che troneggiava fra gli altri dei nobili parenti. La Filomena, zoppicando, seguitava da presso il signor Francesco, rimettendo tutto al posto pazientemente, e sospirando e gemendo tentava invano di acquetarlo e di calmarlo un poco.
—Maledetta!... Maledetta!...—continuava a urlare[142] l'Alamanni, che non sentiva più altro che quel suo gran dolore.—Maledetta!... I danari del Barbarò!—e alzava il pugno irrigidito, imprecando contro sè stesso, e contro Dio, contro la patria, contro tutti, e più di tutti contro la sua povertà che lo aveva fatto cadere in mano di una spia.
Dio?... Non aveva ascoltato la voce di suo fratello morente, e non lo aveva vendicato:—Maledetto!—La patria?... Aveva preso il suo sangue, ma glielo buttava in faccia per prostituirsi alla spia che aveva i milioni:—Maledetta!...—La famiglia?... La Balladoro lo aveva venduto.... La Mary, la sua figliuola, lo aveva abbandonato e ingannato, maledetta!...—La povertà, della quale si compiaceva come di una virtù, come dello specchio più limpido della sua vita intemerata, lo rendeva impotente contro i suoi nemici, impotente nella battaglia per l'onore, per la giustizia, per la verità: "maledetta!... maledetta!..."
Dopo questo primo sfogo e terribile, Francesco Alamanni se ne andò contraffatto in viso e barcollando come un ubriaco. Per la strada borbottava sempre e tremava: gli tremavano le gambe, le mani; gli tremavano le parole sulle labbra. Giunto all'albergo, rientrato appena nella sua stanza, cadde come morto, disteso per terra.
Il cameriere, ch'era andato a cercarlo verso sera per portargli un dispaccio, lo trovò ancora in quello stato. Cercò di sollevarlo: era svenuto, e aveva una larga ferita in mezzo alla fronte. Il dispaccio poi veniva da Panigale, ed era la risposta di Pompeo Barbarò, concepita in poche parole:
"Rivolgetevi Donna Lucrezia: avrete spiegazioni necessarie."
Intanto, passato il primo sbalordimento, in tutto il collegio di Panigale, la lotta politica pro e contro il cavalier Barbarò diventava sempre più accanita.
Salvatore Cammaroto, forte delle rivelazioni di Nicola Mazza, ripubblicava il famoso dispaccio nella Colonna di fuoco, facendolo seguire da altre lettere di notissimi patriotti, piene di particolari che si riferivano all'arresto, alla prigionia, alla morte di Giulio Alamanni. Il Cammaroto medesimo raccontava e descriveva sulla gazzetta, coi più vivaci colori, il momento solenne in cui l'Alamanni e il Mazza erano stati graziati ai piedi della forca, dopo aver dovuto assistere alla esecuzione dei loro compagni. Era una pagina terribile che faceva piangere e fremere di pietà, di dolore e di orrore.
Ma, dall'altra parte, Eugenio Zodenigo, valendosi della macchina celere ultimo modello, che gli era appena giunta dal Belgio, innondava tutto il collegio con migliaia e migliaia di copie del Moderatore, portante la dichiarazione di Donna Lucrezia Balladoro, e la conferma del matrimonio concluso e assai prossimo della Mary Alamanni con Giulio Barbarò.
"A chi credere dunque? Al padre Cammaroto o al professore Eugenio Zodenigo?..."
E, come succede in tutte le lotte politiche, gli elettori di Destra continuavano a credere e a giurare pel loro candidato e pel loro giornale, mentre quei di Sinistra s'infervoravano maggiormente per l'Alamanni, tenendo come Vangelo tutto quanto stampava e pubblicava il Cammaroto. E gli uni e gli altri s'inasprivano e si accendevano sempre più.
Se non che, il Moderatore aveva più quattrini del[144] suo emulo, aveva molti quattrini e una forza maggiore e straordinaria di espansione.
Un intiero reggimento di agenti, di fattori, di assistenti, di coloni, un po' per timore, un po' per interesse, facevano pressione sugli elettori dipendenti e imponevano le loro ragioni e il loro candidato. I preti erano col Barbarò per amore del benefizio, e in odio al Cammaroto; la Prefettura, per il voto sicuro; il grosso degli elettori non ne capiva niente di tutti i discorsi di partito e di principî: votava pel signor padrone. Per essi il partito era il podere o la fattoria; il principio, il paiuolo, della polenta; la Nazione, il signor cavaliere. Bisognava servirlo e sostenerlo anche esecrandolo! Bisognava sopportare il male per la paura del peggio. E su quell'onda di affamati il Moderatore navigava sicuro, col vento in poppa, seminando quattrini e promesse.
Mentre la Colonna di fuoco tirava appena un migliaio di copie, lo Zodenigo ne stampava del suo giornale sei o sette volte tanto; e colla maggiore diffusione riusciva più dell'altro a riscaldare i tiepidi, ad appassionare gli indifferenti, a scuotere i pigri, a riempire di rumore le teste vuote.
All'ultimo momento il Moderatore fu anche regalato ai rivenditori; e questi, allora, non ne vollero più sapere della Colonna di fuoco. Per parare il colpo gravissimo, parecchi amici dell'Alamanni noleggiarono varie carrozze, e si misero a girare per il collegio, vendendo o regalando alla lor volta, la Gazzetta del Cammaroto, seguiti da una turba di monelli che strillavano evviva all'Alamanni e morte al Barbarò; ma la chiassata fece più fracasso che effetto.
Nel frattempo era trapelata anche a Panigale una[145] qualche voce circa il tentato suicidio di Giulio Barbarò; pure succedeva di questo fatto come di tutto il resto. Non essendo cosa sicura, era creduto, o negato, secondo il tornaconto.
Fu poi affissa su tutti i muri del collegio una lettera di Garibaldi che raccomandava "agli elettori liberali di Panigale, e a tutti i nemici dei preti e della tirannide" la elezione dell'eroico colonnello Francesco Alamanni "il fratello del generoso martire dello Spielberg!" Destò grande entusiasmo, ma pochi assai furono i voti guadagnati. Invece Beppe Micotti, che non si curava di commuovere il sentimento patrio, ma distribuiva i pezzi da cinque franchi; che non perorava in nome della giustizia e della moralità, ma prometteva la minestra dopo dato il voto al Barbarò, e noleggiava carrozze per gli elettori più lontani del collegio, otteneva nella sua propaganda, un miglior successo. E Don Rosario lo assecondava dal confessionale, spaventando le donne e minacciando tutti i fulmini del cielo se i loro uomini fossero andati a votare per quel framassone dell'Alamanni, sostenuto da un frate rinnegato e scomunicato.
Tuttavia, giunti al sabato sera, alla vigilia cioè della votazione, il Cammaroto e lo Zodenigo, e con essi i componenti i diversi partiti erano certi del pari della vittoria. Anzi i democratici fecero un gran pranzo per festeggiare anticipatamente il sicuro trionfo del loro candidato, all'osteria di San Michele, mentre la banda civica suonava l'inno di Garibaldi; e quegli altri, auspice Don Rosario, stapparono allegramente in canonica una dozzina di bottiglie per la vittoria non meno certa del cavaliere.
La mattina della domenica il capoluogo del collegio era in tumulto; e dal Municipio fu telegrafato alle stazioni più vicine domandando un rinforzo di carabinieri. Ma, cattivo segno per l'Alamanni, erano i suoi fautori che si mostravano più accesi e che gridavano di più. Gridavano in piazza, dinanzi al Municipio; nel caffè, nelle osterie, accusando gli avversari di brogli e di corruzioni; protestando perchè il seggio era stato preso d'assalto dagli agenti del Barbarò; perchè le autorità e il Governo aveano fatta, sottomano, la guerra all'Alamanni; e accoglievano a fischi le carrozze che conducevano a votare gli elettori.... della minestra.
La piazza a poco a poco si era accalcata, stipata di gente: pareva che da un momento all'altro dovesse scoppiare la rivoluzione, e al Municipio erano in grande apprensione perchè i rinforzi domandati tardavano ad arrivare.
Era solo il Barbarò a non saperne nulla del pericolo che correva. Il sindaco di Panigale e il presidente del Comitato degli agricoltori, non facevano altro che congratularsi con lui per il trionfo ormai assicurato. Beppe Micotti e Don Rosario gli contavano i voti accaparrati: lo Zodenigo gli aveva scritto da Milano una lettera rassicurante in cui narrandogli per filo e per segno quanto era successo, concludeva pronosticando che quella mattìa del buon ragazzo, invece di rovinare ogni cosa, come si temeva sul principio, era in procinto di accomodare tutte le faccende.
"Furba l'innocentina!..." pensava fra sè il Barbarò. "Non si è lasciata, scappar l'occasione propizia per riagguantare il marito.... e i miei milioni!... D'altra[147] parte è una ragazza che ha sempre avuto buon senso, e ci vuol poco a capire come l'è stata gonfiata tutta questa storiella del dispaccio. Io non ho mai fatto la spia, e lo posso giurare sul capo del mio unico figliuolo. Calunniatori, mentitori infami!... eccola la verità: sono stato costretto a parlare sotto la minaccia della forca immediata. Volevano impiccar me, e con me anche la mia povera moglie!... Altro che far la spia, buffoni!..." Poi, un altro pensiero lo calmò, e lo fece sogghignare: quello della marchesa.
—Ah, ah, la superba, la schifiltosa, non ha sdegnato questa volta di mettere i piedi in casa mia!... Che il capitano l'avesse piantata?.. Che le cambialette del marchese coll'avallo suo che ci sono alla Banca degli interessi lombardi abbiano finito per persuaderla a mettere giudizio, e approfitti anch'essa della buona occasione per far la pace col signor Pompeo?...
Gli occhietti loschi scintillarono: sulle guance verdognole gli corse una vampa rossa di fuoco, e strappandosi coi denti guasti e aguzzi i peli delle labbra, che si facevano sempre più grossi e più radi, mormorò:
"Voglio averti ancora!... Voglio almeno vendicarmi!... Dovessi buttare anche un monte di quattrini dalla finestra!..."
Ma poi, alla mattina della domenica, mentre contento e tranquillo, ascoltava in chiesa la messa cantata, le mille miglia lontano da ciò che l'aspettava, udì i primi fischi e le grida di morte al suo indirizzo. Allora in un sussulto di paura dimenticò nuovamente la marchesa Angelica, la sua elezione e tutto il resto, per non pensare più ad altro che a mettersi al[148] sicuro, maledicendo al solito la propria imprudenza e la perfidia del professore.
—Dio, Dio, mi vogliono ammazzare!... Aiuto! aiuto! un povero padre di famiglia!... Sono innocente!... sono innocente!...
E non aveva tutti i torti di essere così spaventato, perchè l'esaltazione della folla era giunta al colmo; gli si voleva far la festa per davvero.
Beppe Micotti, Don Rosario, che non ufficiava, e lo scaccino lo nascosero subito in sacristia, e poi dalla sacristia, per una porticina che metteva sopra un vicolo senza uscita, lo fecero scappare in canonica, e lo chiusero a chiave nella camera dell'arciprete. Ma durante la fuga, per quanto precipitosa, il Barbarò avea potuto vedere affissi ai muri delle case e della chiesa, tanto da coprirli per un gran tratto, cartelloni e manifesti con su stampato a grossi caratteri:
"Non eleggete il fornitore ladro.—Non date il vostro voto al mercante di pellagra.—Morte alla spia di Nicola Mazza.—Morte al carnefice di Giulio Alamanni.—Abbasso l'usuraio." Tutta la sua vita insomma pareva riassunta da quei mille fogli a colori, come in un terribile sommario.
Intanto la folla che aspettava il Barbarò fuor di chiesa, avvertita della sua fuga si avviò, urlando e fischiando anche più forte, alla casa dell'arciprete, dove cominciò a lanciare sassate contro la porta e le finestre, e a minacciare di peggio; ma infine (era proprio tempo, perchè le cose si mettevano assai male) giunse il rinforzo dei carabinieri e della truppa, chiesto dal Municipio e allora, arrestati dieci o dodici dei più sfegatati dimostranti, l'ordine fu presto[149] ristabilito per tutto Panigale, dove non si udirono più altre grida all'infuori di quelle delle povere donne, a cui avevano preso il marito, o l'amante.
Ma il povero Barbarò passava il quarto d'ora più terribile di tutta la sua vita. Dalla piena fiducia era ricaduto a un tratto in un tale abbattimento da non aver più nemmeno la forza di muoversi, da non poter più, quasi, nemmeno respirare. Rannicchiato in un cantuccio in fondo alla camera, fra il cassettone e il letto dell'arciprete, tremava tutto, e batteva i denti per la paura. Quando dalla folla scoppiava un urlo, un uragano di fischi e d'imprecazioni contro di lui, si nascondeva il capo fra le braccia per non sentire e borbottava orazioni, pregando Dio e i Santi di salvargli la vita; promettendo che avrebbe espiato, che avrebbe speso tutti i suoi danari, per rimediare al male che aveva fatto.
Come già gli era successo in quella notte di angosce, al tempo del Processo dei fornitori, la verità nuda e terribile mentre lo sbigottiva colla minacciata vendetta degli uomini, gli toglieva ogni speranza nell'aiuto e nel perdono di Dio. Si turava le orecchie coi pugni stretti per non sentire, ma le grida tumultuose di morte alla spia gli penetravano nel cervello e nell'anima e lo agghiacciavano di terrore.
Chiudeva, affannato, gli occhi, ma gli apparivano lontani nel buio, e a poco a poco si avvicinavano e ingrandivano in forme sferiche, roteanti, i manifesti gialli, rossi, scarlatti, tutti colla parola spia, tutti colla parola morte; e più serrava forte le palpebre e più li vedeva grandi e gonfi, con cerchi di fuoco, che mutavansi a volte in immagini spaventose nella[150] faccia scarmigliata e boccheggiante dell'Alamanni, nel viso smorto e contraffatto della povera Betta.
"Assassino!... Spia!... Morte alla spia!" si continuava a gridare dalla strada.
"No! Non è vero!... Dio, Dio, non è vero!... Non ho fatto la spia!... Mi han costretto a parlare colla minaccia della forca!" rispondeva Pompeo con voce smorta.
Una sassata mandò in frantumi tutti i vetri della finestra... un freddo mortale gli corse per la vita.
No.... Dio vedeva tutto, sapeva tutto!... Gli vedeva in fondo al cuore, là dove c'era la Betta e Giulio Alamanni che lo fissavano con occhi fiammeggianti. No, no! non poteva ingannare Dio come avea fatto coi giudici: non lo poteva comperare come aveva fatto coi preti; non lo poteva battere e dominare, come avea fatto collo Sbornia!...
Sì, era stato una spia! Sì, aveva venduto Giulio Alamanni, il suo padrone, non per altro che per rubare le cinquantamila svanziche.... Sì.... aveva soffocata la Betta per paura di essere scoperto!...
Oh l'orefice del Gobbo d'oro!... L'orefice del Gobbo d'oro era più felice di lui!... Almeno era sicuro in mezzo alle guardie, e non correva il pericolo di essere fatto a pezzi da una folla briaca di vendetta.
Si buttò allora in ginocchio, colla faccia per terra, balbettando:—"Perdono, perdono!... La vita!... Non domando altro che la vita!... Farò penitenza di tutto!... Farò dir tante messe!... E continuò così per un pezzo a tremare e a pregare."
Ma a poco a poco, in quel frattempo, gli urli e i fischi erano cessati. Pompeo rialzò la testa, si guardò attorno.... si mosse adagio, cominciando a respirare... quando udì a un tratto un frastuono di voci e di[151] passi che saliva per le scale.... che si fermava sull'uscio della sua camera.... Tese l'orecchio: udì girare la chiave nella toppa....
—Oh Dio!... Vengono ad ammazzarmi!—e tremando più di prima, si rizzò in piedi di scatto, cogli occhi sbarrati, coi capelli irti, colla fronte grondante di sudore.
La porta si spalancò subito, e un gran mucchio di persone entrò precipitosamente nella camera. C'erano fra gli altri Don Rosario e Beppe Micotti, insieme col sindaco di Panigale e col presidente del comitato, che rimasero lì per lì un po' sconcertati vedendo la faccia livida del cavalier Barbarò.
—Che volete? Che cosa mi volete fare?... Lasciatemi in pace!—balbettava Pompeo con voce fioca, e col petto ansante.
—Niente paura!—ghignò Beppe Micotti fissando il padrino con aria beffarda.—Veniamo a portarle i voti: la somma è giusta e il conto torna!
—Vittoria! signor cavaliere!—strillò Don Rosario.
—Vittoria!... Vittoria!...—gridarono tutti gli altri levando in alto i cappelli.
—Tacete, fate piano, per amor di Dio!...—balbettò Pompeo tentando di chiudere la bocca a Don Rosario.—E... l'Alamanni?...
—È rimasto nella tromba con trecento voti meno di noi,—esclamò il presidente del comitato.—Evviva l'onorevole Barbarò!...
—Evviva! Evviva!—rispose in coro tutta la comitiva, meno Beppe Micotti, che continuava a sogghignare.
—Grazie, grazie.... ma non gridate tanto forte,—raccomandò Pompeo, sempre spaventato guardando verso la finestra.—E la dimostrazione?...
—Finito tutto!...—esclamò il sindaco con piglio marziale.
—Sono arrivati i gastigamatti!—tornò a strillare Don Rosario che più rosso, più rubicondo saltava attorno per la stanza ridendo a crepapelle.—Viva il signor cavaliere!
—Viva il nostro deputato!...
Pompeo si arrischiò a guardare dalla finestra: la strada era vuota. Allora respirò più libero, e rispose con effusione ai saluti, alle strette di mano.
"Che paura ho avuta!" pensava intanto fra sè. "Matto, matto!... come mai avevo dimenticato i soldati, i carabinieri?!..."
I vetri tremarono un'altra volta al fragore degli evviva, che rintronavano più fortemente perchè non venivano dalla strada, ma dal cortile della casa.
—Evviva l'onorevole Barbarò!...
—Evviva il nostro deputato!...
Pompeo, ancora sbalordito, ringraziava tutti; raccomandava a tutti la calma, la prudenza, per non inasprire quegli altri; e infine, sorridendo intontito, non sapendo che cosa si facesse, nè che cosa gli facessero, si lasciò trascinare da' suoi elettori più esaltati sopra un loggiato interno, che dava appunto sul cortile.
Da tutte le parti scoppiarono nuovi e più fragorosi applausi: e le stesse trombe e gli stessi tromboni della banda civica, che la sera innanzi avevano suonato l'inno di Garibaldi in onore di Francesco Alamanni, assoldati con doppia paga da Beppe Micotti, intignarono allora, con un tempo allegretto-vivace "La bandiera dei tre colori", a tutta gloria dell'onorevole Barbarò.
PARTE QUARTA
L'AMORE.
Dopo quasi un mese d'incertezze e di ansie per chi gli voleva bene, Giulio Barbarò, superato ogni serio pericolo, entrava a gran passi nella convalescenza, e i medici andavano superbi dell'ottimo risultato, perchè oltre alla gravità della ferita avevano temuto assai anche per la complessione troppo gracile del giovanotto. Ma pure anche la scienza sarebbe stata inefficace se non fosse intervenuto un miracolo... un miracolo compiuto da una santa, dagli occhi neri e profondi. In fatti appena Giulietto Barbarò si riebbe un poco, vedendosi la Mary vicina, si sentì subito consolato e, debole com'era e colla febbre, aprì l'animo ai sogni rosei della speranza, ai vaneggiamenti più appassionati dell'amore.
—Vivrò per te... solo per te... tutto per te. Vivremo lontani, ignorati, sotto altro nome—furono queste le prime parole ch'egli le rivolse balbettando, mentre la Mary gli sorrideva con quel sorriso dolcissimo che le donne innamorate hanno imparato dagli angeli.
E da quel momento, Giulietto volle vivere per la sua cara... poi volle guarire in fretta, per poterla ritrovare.
La Mary, appena avuta l'assicurazione dai medici che ogni pericolo era scomparso, si era subito arresa ai buoni consigli della marchesa Angelica e si era lasciata ricondurre presso lo zio Francesco. Ma nel frattempo anche lo zio Francesco si era ammalato, e tanto più gravemente, in quanto il suo male era un poco nella testa e molto nel cuore. Gli ultimi avvenimenti gli avevano turbato lo spirito, la sua tempra gagliarda aveva ceduto al colpo inaspettato. Dopo il colloquio con Donna Lucrezia aveva la fissazione che "la vecchia matta" lo avesse tradito, e che anche la Mary, acciecata da una passione indegna, non fosse rimasta del tutto estranea al tranello. Per lui non c'era più scampo, non c'era più riabilitazione possibile. Il turpe fango dei danari avuti da un Barbarò, dalla spia di suo fratello, aveva macchiato per sempre il loro nome intemerato. In quei giorni, mandato a chiamare un uomo d'affari di sua piena fiducia, gli avea dato incarico di liquidare subito quanto ancora gli rimaneva di beni, perchè voleva pagare tutti i debiti contratti dalla Balladoro verso il Barbarò, durante la minorità della Mary. Ma tutto il suo non era stato bastante per coprire la somma. Egli certo, a poco a poco, vivendo fra, gli stenti, mangiando appena per aver forza di lavorare, avrebbe restituito tutto fino all'ultimo soldo... e poi si sarebbe ammazzato. Egli, certo, avrebbe abbandonato subito l'Italia, per nascondere a tutti la propria vergogna... Ma intanto non poteva nasconderla a sè stesso; intanto[157] rimaneva sempre debitore... debitore verso Pompeo Barbetta!... Questo pensiero non gli lasciava pace un momento, aumentava il suo furore contro Donna Lucrezia, la sua collera contro la Mary.
—Non è più mia nipote,—mormorava.—Non è più la figliuola di Giulio Alamanni.... È la nuora della spia!—L'espressione di bontà che prima spirava dal suo volto era scomparsa, come erano scomparse dal suo cuore le belle illusioni. Il mondo era tutto pieno di canaglia. Tutti falsi, tutti bugiardi; adoravano un Dio solo: il danaro. La patria?... Che cos'era la patria? Era... gli elettori di Panigale!
Nel mettere a parte la marchesa di Collalto dei suoi nuovi disegni, Francesco Alamanni le lasciò la Mary in custodia finchè il matrimonio fosse stato compiuto. Egli non poteva assistervi: partiva. E partiva apposta per nascondersi, per non vedere tanta vergogna. Poi... voleva andare in America a fare anche il lustrascarpe per pagare tutti i suoi debiti. Poi.... poi si voleva ammazzare!
Angelica lo assicurò che la rottura esistente fra Giulio e suo padre era piena e irrevocabile, ma non ottenne nessun effetto. Allora ricorse alla Mary, sperando che la vista della fanciulla riuscisse a calmarlo, ma fu peggio che mai. In sulle prime egli accolse la nipote con forzata indifferenza, ma poi alle sue lacrime, alle sue preghiere, invece d'intenerirsi, proruppe in un impeto di collera:
—Che io non parta? Vuoi che resti con te?... Vuoi forse che anch'io sieda a tavola coi Barbarò?... Che cerchi un impiego nella banca del signor Pompeo?
—Noi faremo casa a parte, casa da noi, come ti[158] ho sempre promesso: mio marito mi darà da vivere col suo lavoro.—E la Mary alzò il capo con fierezza, e un sorriso le balenò fra le lacrime a quelle magiche parole, mio marito.
—Credi... sì... forse adesso credi di poter fare quanto dici, ma poi? Il danaro, sai, è la gran piovra delle coscienze. Ti allaccierà nelle sue mille spire, ti succhierà colle sue mille bocche ogni idea di dignità e di onestà! Ricordati, non buttarti in mare se non vuoi essere presa! E ricordati che la virtù ha dei limiti, e che la colpa non ne ha!
—Oh zio, zio mio, come mi giudichi male! Come male mi conosci!—balbettò la Mary fra i singhiozzi mentre la marchesa Angelica faceva cenno all'Alamanni di calmarsi.
Ma l'altro non sentiva più freno.
—No, no, adesso ti conosco; adesso ti conosco bene! Dovevi dire invece che prima... prima non ti conoscevo affatto! Ti credevo della nostra tempra, del nostro sangue! Ti credevo capace di morire, ma non di transigere, di abbassarti, d'infangarti! Invece sei anche tu come quella matta di tua zia, senza forza, senza orgoglio, senza cuore... ossia, come tutte le donne, non hai cuore altro che per il tuo amante!
—No, zio, non sei giusto.
—Non hai memoria altro che per lui! Per lui calpesti i più sacri ricordi della tua casa, le leggi più sante del tuo dovere! Non è rimasto più nulla del tuo rispetto, della tua gratitudine, della tua tenerezza per me; non è rimasto più nulla dei diciotto anni della tua vita altro che il momento in cui ti sei imbattuta con quel maledetto che ti ha stregata! Maledetto lui! Maledetta te!
—No! No!—gridò spaventata la Mary singhiozzando fra le braccia di Angelica.
—Non si lasci trasportare così,—esclamava inquieta la marchesa,—è cosa indegna di lei!
—Lasciatemi sfogare!... Ho bisogno di sfogo! Costei, mia nipote, la figliuola di mio fratello, la figliuola di quei povero morto che è la mia religione e il mio orgoglio, costei mi ha strappato il cuore; mi ha reso insopportabile la casa, la famiglia, la patria; mi ha fatto odiare tutto ciò che prima amavo, lei compresa!
—Signor Francesco!... Signor Francesco! Non sa più come parla! Ha perduto affatto la testa!—gli continuava a dire inutilmente la marchesa.
—Che! Che! Ragiono sempre, e ragiono bene! Donna Lucrezia, in fine, non è altro che una vecchia scema; ma costei ha la testa con sè! Costei doveva capire, doveva vedere da che parte venivano i danari.
—No, non è vero. Lo giuro, non è vero, non sapevo nulla!
—Già, è naturale. Tu non avevi occhi altro che per fare all'amore col figlio del serpente; col degno erede di casa Barbetta!
—Se amo Giulio non è una bassezza, non è una viltà!—esclamò la fanciulla sciogliendosi a un tratto dalle braccia della cugina, e guardando ben fissa lo zio.—Se lo amo, se mi sento orgogliosa di amarlo, è perchè lo so degno di me, lo so degno di noi.
—Non bestemmiare! Degno di te.—Soltanto di te!
—Tu stesso, zio, mi hai fatto dire che il cuore come la coscienza ha i suoi doveri.
—Allora non sapevo che tu avessi ricevuto l'elemosina dal boia di tuo padre.
—E lo sapeva Giulio? Che colpa ne ha?—Da che siamo venuti a cognizione di questo fatto doloroso, ma al quale è possibile rimediare, egli si è forse mutato? Non è più lo stesso? E il mio cuore dovrebbe abbandonarlo perchè è uno sventurato?... E dovrei amarlo, dovrei stimarlo meno, perchè tu lo offendi?
Francesco Alamanni, a questo punto guardò alla sua volta la nipote fissamente, e sembrò scosso da quella fermezza.—Ebbene,—le disse con un altro tono di voce,—dal momento che in te c'è tanta forza... su, coraggio... per tutte le nostre memorie, per il nostro onore.... So che ti domando forse più della vita, ma non importa. Ricordati che sei figliuola di Giulio Alamanni. Tronca tutto con quell'altro e vieni via con me!
—È impossibile, zio. Il cuore, come la coscienza, ha il suo dovere.
—Ah, ah, ah! Un dovere ben facile per te!—esclamò l'Alamanni con un amaro scroscio di risa, e ritornando quel di prima.—Sta bene; così vuoi, e così sia. Noi due non ci vedremo mai più, e nemmeno io non voglio più saper nulla di te. E bada, non mi devi più nemmeno ricordare. Non voglio il tuo affetto, non voglio il tuo dolore. Sei la nuora del Barbarò: rifiuto anche le tue lacrime! Andrò lontano, a vivere di stenti, a lavorare per pagarvi il mio debito fino all'ultimo soldo, poi mi ammazzerò; ma tu non devi piangere. No, no, anzi... sei la nuora del signor Pompeo... devi ridere. Voglio che tu rida!
Angelica, vedendo pur troppo che l'esaltazione del vecchio invece di calmarsi si faceva sempre maggiore, trascinò via la Mary che avea ricominciato a singhiozzare.
L'Alamanni, rimasto solo, se ne andò subito, e la mattina dopo partì da Genova per New-York.
Partì cupo e tristo, senza più un affetto nell'anima, senza più voler credere nemmeno al cuore, nemmeno al dolore. Ma il vecchio soldato s'ingannava: ben presto il cuore e il dolore ebbero ancora il sopravvento. Quando il battello salpò da Genova era l'ora del crepuscolo, e la verdeggiante letizia della riviera italica appariva benedetta dal raggio ultimo del sole, mentre le campane dell'Ave Maria lontanissime e confuse ripercotevano un'eco sul mare. Francesco Alamanni, da prima accigliato, era diventato mesto e pensieroso: lo vinceva inconsapevolmente la seduzione dei ricordi. Il battello si allontanava sempre... la riviera avvolta dai vapori della nebbia scompariva quasi, assottigliandosi, fra l'ultima striscia purpurea del cielo, e la distesa plumbea del mare.... L'Alamanni alzò il capo... guardò... guardò fissamente... e ricordò che da quel golfo incantato, dove il mite ulivo si ammoglia alla fragranza degli aranci e alla calda vegetazione delle palme avea spiccato il volo, nella serena notte di Quarto, l'Aquila della libertà.... A poco a poco la solitudine del mare si era popolata di fantasmi. Le spade alte, le baionette in selva, i cavalli che s'impennavano e nitrivano fiutando l'odore della battaglia, e le barricate, fumanti di sangue, al primo sorgere della patria.... Poi, dopo le ebbrezze della vittoria le più care giocondità dei ritorni, e la Mary, la piccola[162] Mary, che gli correva incontro esultante e gli saltava al collo coprendolo di baci. A tanti ricordi, a tante memorie il cuore gli ritornò a battere violentemente. A un tratto si appoggiò alla ringhiera della nave... protese il capo... puntò l'occhio... cercò... cercò fra le nebbie addensate all'estremo confine terrestre, ma la bella riva era scomparsa. Sulle onde larghe e rincorrentisi, calava vasta, silenziosa la notte.... La bella riva non l'avrebbe riveduta mai più! Allora fu preso da un impeto di amore, di dolore, di sgomento, e proruppe singhiozzando in un pianto dirotto.
Il giorno stesso in cui era successo l'incontro coll'Alamanni, Angelica avea condotta la Mary con sè al Villino delle Grazie... come lo zio Diego, sempre galante, avea battezzata la sua casa di campagna presso le brughiere lombarde, tra Somma e Gallarate, dopo che era stata abitata dalla bella marchesa. E appena giunta al Villino delle Grazie la Mary si trovò subito bene, e si consolò presto. Il cugino Alberto la riconobbe, l'accolse dimenandosi vivamente e gridando di gioia. Ormai il marchese non era più altro che mi ammasso informe di carne gonfia e torpida che riempiva tutta la carrozzetta, e in cui non era quasi rimasto di vivo altro che lo stomaco.
—Tata! Tata!... Tata bellinetta!... Bellinetta Tata!—e[163] per un pezzo continuò a gridare e a ridere scrollando il faccione tondo, paonazzo, e salutando la Mary con tutte le smorfie dei bimbi. In fine, quando la sua gioia chiassosa si fu un po' chetata, le mostrò tutte le calzette a maglia fatte da lui medesimo, e che custodiva gelosamente in un cestino che teneva sempre sulle ginocchia.
—Belle bellesine!... Belle bellessine!—Poi prese una calzetta già incominciata e, stentatamente, infilati i ferri nelle dita gonfie e rattrappite, volle insegnare alla Mary come si faceva a lavorare, il che era, da parte del marchese Alberto, la maggior dimostrazione di simpatia.
Per altro non furono le liete accoglienze del cugino che consolarono così presto la buona fanciulla; fu la presenza di Giulietto Barbarò, il quale si era recato a passare la convalescenza e ad aspettare il giorno delle nozze a Nuvolenta, un paesello nelle vicinanze del Villino delle Grazie. E anche Giulietto, invitato dall'Angelica, era venuto subito in casa; ma con lui il marchese Alberto fu di ben altro umore.
—Appena l'ebbe veduto cominciò a strillare, imitando l'abbaiare dei cani:—Via! Via! Bouf! Bouf! e gli scagliò contro furiosamente il cappellone di paglia e il fez che portava sempre in capo, uno sull'altro; poi vedendo che il giovanotto restava lì confuso, senza risolversi ad andar via, si strinse al petto, pauroso che glielo rubasse, il cestino delle calze, e mettendosi a piangere disperatamente chiamò la moglie in aiuto.
Angelica accorse, e per farlo quietare lo minacciò alzando il dito scherzosamente. Ma il povero scemo,[164] che adesso con lei era sempre docile e affettuoso anche quando faceva il diavolo a quattro con tutti gli altri della casa, questa volta non le dette retta, e seguitò a piangere e a strillare.
—Via!... via!... bouf!... bouf!...
Giulietto dovette scappare, e gli fu consigliato di non lasciarsi più vedere. Ma era facile lo schivare la carrozzetta del marchese continuando pure a frequentare il villino. Quando non dormiva, il marchese ciangottava ad alta voce anche da solo, e si sapeva subito dov'era. La sera era sempre a letto. A metà pranzo si addormentava, e russava già mentre lo portavano in camera. Poi... poi i due fidanzati s'incontravano spesso anche fuori del villino, nei folti viali di pini che in quel punto circondavano la brughiera.
L'amore nasce dal sorriso, ma vive di lacrime, e i due giovani, dopo tanto che avevano sofferto l'uno per l'altro, si amavano assai di più.
Giulio aspettava la Mary tutte le mattine nascosto fra i boschetti di pino, un poco al di là del piccolo ponte del Rio, che metteva ad un sentieruolo stretto e ombroso fiancheggiante il torrente, all'estremo confine della brughiera. Prima di pranzo egli la incontrava ancora allo stesso luogo; si vedevano di giorno e si vedevano di sera al Villino delle Grazie. Insomma furono quelli giorni proprio beati pei due giovani sposi. Era tutta pace, era tutto sereno la vita, e se pur qualche nuvoletta compariva ancora in mezzo all'azzurro placido del cielo, era tosto dileguata dal loro bel sole splendente nella solitudine della campagna. Tutto il mondo, per essi, rimaneva circoscritto dal ponte del Rio al Villino delle[165] Grazie, e chiudeva il loro orizzonte il verde scialbo e arsiccio della brughiera sterminata. Al di là c'era il nulla, il buio... non ricordavano più che cosa c'era. Giulio Barbarò aveva quasi perdonato a suo padre; lo aveva quasi dimenticato; e la Mary, alla sua volta, nell'egoismo del proprio amore, non pensava quasi più allo zio povero e lontano. D'altra parte le ore correvano tanto presto, e le giornate erano tanto brevi!... Bastavano appena appena per loro due! Che! bastavano? Non bastavano nemmeno! Non facevano mai a tempo a dirsi tutto quanto avevano in cuore.
Ogni volta guardavano l'orologio con un senso di terrore: era sempre molto più tardi di quanto credevano. Che brutta invenzione quella degli orologi! Col loro tic tac non lasciavano un minuto per respirare. La Mary, per ciò, si faceva aspettare tutti i giorni a colazione e a pranzo, e arrivava in sala rossa e affannata, calmandosi appena quando vedeva il sorriso indulgente di Angelica.
E così il giorno delle nozze si avvicinava a gran passi, quantunque i fidanzati, pareva, non avessero fretta. Sentivano forse nel loro cuore, che il momento più felice è appunto l'aspettativa della felicità?... Pare giunse l'ora in cui le carte erano in regola, e tutte le altre pratiche ultimate. Da Milano erano arrivate le licenze per sottoscrivere il contratto al Municipio di Gallarate, e per celebrare le nozze nella chiesetta del Villino. Allora, mostrandosi sempre irresoluti, lasciarono alla marchesa di fissar l'ora, ed essa indicò le sette del mattino per il contratto, e le otto per la cerimonia religiosa.
In quegli ultimi giorni che precedevano il suo matrimonio[166] anche la Mary non si mostrava più tanto disinvolta. Era diventata timida anch'essa, come il suo Giulio. Non lo guardava più negli occhi coll'usata serenità; ma arrossiva subito, lo guardava appena alla sfuggita, e nello scambiarsi il mazzolino di fiori che si preparavano a vicenda nel recarsi ai convegni, tremavan loro le mani; nel salutarsi, tremava loro la voce. La Mary invece di correre come prima ilare, saltellando, ad attaccarsi al braccio dell'amico, gli camminava dinanzi per il piccolo sentiero, silenziosa e a capo basso.
A un certo punto della passeggiata, dov'era più cupa l'ombra dei pini e dove si fermavano sempre, si fermavano anche allora, ma la fanciulla invece di buttarsi a sedere per terra si voltava sorridendo, e Giulio notava con inquietudine che in quei giorni s'era fatta più pallida e più abbattuta.
—Sei stanca?... Non ti senti bene?
—No, sto bene. Guarda che ore sono: dev'essere tardi, e non voglio farmi aspettare.
—Sono le dieci.
—Son già le dieci?... Dio, Dio, com'è tardi! Giulio, nel ritornare le offriva il braccio, e la Mary vi si appoggiava leggera leggera, diventava di nuovo silenziosa mentre il suo petto si faceva anelante, e gli accadeva spesso d'inciampare.
In quel silenzio quieto della tarda ora del mattino si sentivano i loro cuori che battevano insieme.
Erano sempre le farfallette, le belle farfallette dalle ali smaglianti che venivano in loro aiuto Quando ne vedevano due posarsi l'una dopo l'altra sullo stesso fiore, la fanciulla si fermava e fermava Giulio, perchè non voleva spaventarle; ma[167] nel fermarsi gli si appoggiava al braccio più fortemente.
—Anche noi, Nino, sempre così?
—Sì,—rispondeva appena il giovanotto.
—Sempre?
—Sempre, sempre.
Si guardavano, tutti e due fermi, a braccetto.... poi si guardavano attorno.... La brughiera era deserta: fra i tronchi dritti e brulli dei pini non si scorgeva anima viva. Allora tornavano a guardarsi negli occhi e un bacio, un piccolo bacio, scappava dall'uno all'altra.... Scappavano insieme, impaurite anche le farfallette belle dalle ali smaglianti, ma ormai Giulio e la Mary non pensavano più a loro.
Sebbene assorto nella felicità, Giulietto Barbarò non venne meno ai propri proponimenti. I due fidanzati avevano dovuto abbandonare il primo disegno di andare a stabilirsi in paese straniero, e ciò perchè mancavano i quattrini. Alla Mary, dopo che lo zio Francesco volle disporre di tutta la sua parte per pagare il debito verso Pompeo Barbetta, non restava più se non una rendituccia di un migliaio di lire, colla quale certo non si poteva vivere.... nemmeno d'amore; e fuori d'Italia, anzi fuori di Milano soltanto, Giulio Barbarò, privo di studi e nuovo agli affari, non avrebbe potuto procurarsi un conveniente collocamento. Invece a Milano gli fu facile ottenere un posto di tre mila lire, con diritto all'aumento dopo il primo anno di prova, presso una nuova società industriale a cui dava credito l'avere il figlio del Barbarò negli uffici della propria amministrazione. E intanto con tre mila lire, si poteva campare; [168]quando poi sarebbero stati... in tre, avrebbero avuto diritto all'aumento.—Com'era facile la vita!
Giulietto, per un sentimento di dovere filiale a cui, in nessun modo, non avrebbe mai potuto venir meno, volle dare partecipazione a suo padre di questi nuovi avvenimenti con una lettera che gli scrisse d'accordo colla Mary; una lettera piena di nobiltà e di fermezza, pur nella sua forma più ossequente e rispettosa.
Pompeo Barbarò non gli rispose, ma corse subito a consigliarsi collo Zodenigo, che ormai era il suo confidente generale, anche nei rapporti di famiglia, e persino in materia di galanteria. E il professore appunto, per mostrarsi degno di tutte le attribuzioni di cui era stato investito, gli suggerì un colpo da maestro per il quale, mentre sosteneva la propria dignità in faccia ai figliuoli, avrebbe forse ottenuto pur anche di riavvicinarsi alla marchesa di Collalto, che il Barbarò, in quegli ultimi tempi, incontrava spesso a Milano, e che più di una volta avea tentato inutilmente di salutare.
Lo Zodenigo, insomma, consigliò al suo cliente di scrivere direttamente alla marchesa, di metterla intermediaria fra lui e gli sposi. Se il passo era un po' ardito, si doveva perdonar molto a un povero padre che avea perduto la testa, e poi la marchesa stessa non era stata più di una volta in casa Barbarò insieme colla Mary, mentre Giulietto era aggravato?... E Giulietto medesimo, non continuava a frequentare i Collalto? Non era tutti i giorni al Villino delle Grazie? A chi avrebbe potuto rivolgersi il cavalier Pompeo, per fare intendere le proprie ragioni al figliuolo, se non alla marchesa?
E dopo di avergli suggerito l'idea della lettera, lo Zodenigo gliela dettò anche in parte. In parte soltanto, perchè il deputato di Borghignano ambiva a fare un po' da sè in punto di lettere, e non voleva rinunciare all'efficacia delle proprie espressioni per andare all'accatto di riboboli.
Pensarono insieme di cominciar la lettera facendo le scuse, "per l'ardimento di quell'atto, al quale un povero padre era stato spinto dalla disperazione. Un povero padre" volle aggiungere il Barbarò "ricompensato dei molti ed onerosi suoi sacrifici, colla più ottusa testardaggine e colla più nera ingratitudine." Poi, continuando, il solito padre sentiva il bisogno di ringraziare l'illustrissima marchesa per la degnazione avuta nel prendersi tanto a cuore la sorte del suo signor figlio (più matto forse che cattivo) e per aver superato, con un nobile impulso di pietà, ricordi spiacevoli, onorando colla sua presenza la casa dell'ultimo dei suoi servitori.
"Del resto gli anni che maturavano il cuore," è inutile far notare che questo periodetto era quasi tutto dello Zodenigo, "gli anni che maturavano il cuore e calmavano le passioni, non gli avevano lasciato nell'animo altro che un sentimento di devozione profonda, e confuso di rossore invocava un perdono del quale lo rendeva degno il più sincero pentimento.
"La signora marchesa doveva essere giusta: in quel doloroso frangente a chi mai egli avrebbe potuto rivolgersi se non a lei?... A lei buona, a lei gentile, a lei ospite graziosa della signorina Alamanni?... A lei tanto addentro, per sola sua degnazione,[170] nella confidenza di quel caparbio ingrato? Non era in sua casa che si dovevano celebrare le nozze? D'altra parte Giulio non frequentava altro che il Villino delle Grazie. Giulio non vedeva più nessuno all'infuori della Mary e della illustrissima signora marchesa."
Aggiungeva in oltre che la sua dignità paterna, non gli consentiva di rivolgersi direttamente, per difendersi, a chi, contro tutte le leggi del sangue gli si ribellava, schierandosi fra i suoi calunniatori.—"Oh lui poteva ben mostrare la propria innocenza, ma non lo voleva fare con suo figlio: lo avrebbe fatto, lo poteva fare invece colla signora marchesa... "
E a questo punto difendeva coi soliti argomenti il proprio passato, respingendo tutte le accuse, che per mene elettorali, gli eran state scagliate addosso.
Qual era, infine, il suo gran torto? Quello di non essere stato un eroe, o un matto che dir si voglia. Sì, non aveva vergogna di confessarlo: in quella notte sciagurata, quando erano venuti i croati per arrestare il signor Giulio Alamanni, trovandosi solo e inerme in mezzo a una pattuglia di ubriachi, di belve feroci che lo minacciavano, che lo punzecchiavano colle baionette, che gridavano di voler passare parte a parte la sua povera moglie e il suo figliuolo, lui aveva avuto paura, e si era lasciato strappar di mano le chiavi della casa, invece di farsi ammazzare inutilmente.—Ecco tutto il suo gran delitto; ecco in qual modo aveva fatto la spia! Poi tornava a lamentarsi dei suoi figli, pure terminando col dire che si sapeva troppo dolce di pasta, e che sempre si sarebbe sentito proclive al perdono. La porta della sua casa sarebbe stata aperta ai suoi figli in[171] ogni tempo e ad ogni ora, ma ad una condizione...: "siccome lì sotto ci vedeva lo zampino della signorina Alamanni, che invece di compiacersi di essere il pegno soave della concordia, pareva godersi a seminare la zizzania, così la porta sarebbe stata aperta soltanto quando ci fosse venuto a battere lei stessa, la sua signora nuora. A lei avrebbe aperto; ad altri no."
E qui la lunga lettera, dopo aver rifatto le scuse, finiva coi soliti complimenti; ma nel copiarla, quando lo Zodenigo se n'era già andato, il Barbarò pensò di aggiungervi ancora un poscritto.
PS. "Intrattanto farò il riflesso alla Signoria Vostra Illustrissima che se il mentovato mio figlio Giulio ha potuto buscarsi ancora un bel impiego lo deve, insieme a tutto il restante, per il credito del mio nome in cuanto è sempre un valore. Ma non mi dica grazie, che fa l'istesso. È sempre il mio destino di essere pagato col ingratitudine per corispettivo."
Nel ricevere una tal lettera la marchesa Angelica ebbe un impeto di sdegno:—"Il villano osava scriverle!..." E insieme allo sdegno, paurosa e superstiziosa come tutti coloro che amano, sentì anche uno stringimento al cuore. La lettera del signor Pompeo non gli era stata portata sola, sul vassoio, dal servitore. Sotto la busta grossa e usuale ne nascondeva un'altra elegantissima e profumata collo stesso profumo che usava la marchesa; una letterina dalla forma inglese, col bollo postale di Napoli.
Ma passato lo sdegno, superato il senso di timore sinistro, a mano a mano che rifletteva su quanto le[172] avea scritto il Barbarò, dovette pur convenire che non volendo costui rispondere a suo figlio, e nemmeno scrivere direttamente alla Mary, non gli rimaneva altro partito che rivolgersi a lei.
Tuttavia, anche dovendo giustificare quell'atto, si trovava sempre in un grande impiccio circa al modo di regolarsi. Essa, a sgravio di coscienza, aveva subito fatto leggere la lettera tanto a Giulio, quanto alla Mary, i quali erano andati d'accordo nel risponderle che la loro risoluzione era immutabile. Come doveva dunque comportarsi rispetto a quel... a... al signor Pompeo?
Bisognava fargli avere una risposta. Era il cuore di un padre, che si era rivolto a lei.
—Gli doveva scrivere?—No, no. La ripugnanza era troppa!—D'altra parte doveva pur fargli sapere qualche cosa, anche pensando all'avvenire stesso di Giulio e della Mary.
Con questa idea volle farsi animo, e dominando a mala pena un senso di ribrezzo, prese un suo biglietto di visita, e rimanendo in piedi, presso il tavolino, vi scrisse sotto, in fretta, alcune parole, lo cacciò colle dita tremanti nella busta, vi fece rapidamente l'indirizzo, poi buttò via la penna, chiamò la cameriera, e dopo averle indicato la lettera che non voleva più toccare, "alla posta subito," mormorò, e scese in giardino, ancora tutta rossa e agitata, per respirare all'aperto.
Che fatica, che tormento era stato il suo!... E non supponeva nemmeno come poi il signor Pompeo avrebbe accolto quel bigliettino. Altrimenti non lo avrebbe di certo mandato.
Il Barbarò che già cominciava ad esser inquieto e[173] ansioso, tornando a casa vide subito la lettera, fra le altre, sul tavolino della porteria: corse a prenderla, e la strinse con quel tremito nervoso della mano che non poteva mai vincere quando apriva o intascava i grossi pacchi di biglietti di banca. Poi montò le scale in un lampo. Voleva godersela quella lettera: voleva leggerla solo solo nel suo studio, sicuro di non essere seccato.
Era contento, allegro, trionfante.
—Ha proprio risposto!... S'è degnata di rispondere la superbaccia!—Buon segno! Buon segno! Comincia a mettere giudizio....
Chiuse l'uscio, e si buttò sghignazzando sul seggiolone. Era acceso in viso, ansimava, e guardava, spiava la lettera da tutte le parti cogli occhietti loschi, senza risolversi ad aprirla. Quel bigliettino aristocratico, quell'indirizzo violetto, scritto con un caratterino uguale e sottile, spirante la femminilità più delicata, lo rapiva, lo faceva andare in estasi. Ci vedeva, ci sentiva dentro la marchesa, tutta la marchesa col suo profumo, colla sua eleganza raffinata, col suo fascino voluttuoso.
—Scrivermi è già una gran cosa, dopo quanto è successo fra di noi! È il primo passo verso la riconciliazione. Ma... bisogna andar adagio, non bisogna spaventarla un'altra volta! E sghignazzò di nuovo.
A un tratto strappò la busta, e divorò il biglietto tutto d'un fiato. Sotto il nome c'erano soltanto poche parole.
La Marchesa di Collalto
Le rende noto di aver dato comunicazione al signor Giulio, e alla signorina Mary Alamanni della lettera ricevuta.
La risposta era tanto asciutta che il Barbarò, su quel subito, provò uno spiacevole disinganno. Ma si consolò presto. Essa, infine, gli aveva risposto e questo era l'essenziale. Se proprio, dopo la scena accaduta e dopo la perdita di Villagardiana, non avesse più voluto aver a che fare con lui, non gli avrebbe nemmeno risposto. Non era la quantità delle parole, nè la forma più o meno espansiva, era il fatto per sè stesso che contava. Certo che voleva mostrarsi ancora offesa, prima di perdonare. Voleva essere pregata; voleva far ancora qualche smorfia,—facesse pure; la strada ormai era trovata. Alla prima occasione egli le avrebbe scritto di nuovo; e allora la biondina certamente avrebbe risposto più a lungo.... poi, chissà, sempre con quella bella scusa dei figliuoli, avrebbe potuto chiedere un colloquio, e così tornare ad entrarle in grazia.—Ma bisognava andar cauti, per non rovinare le faccende, ed anche per non fare il minchione e rimetterci più del necessario.
Fosse proprio vero, come gli avevano riferito, che il capitano l'avesse piantata? In tal caso sarebbe stato più facile di farsi innanzi, ma invece avrebbe avuto più gusto a portargliela via, a farlo crepare di rabbia quello spiantato rubacuori!
Ed esaltandosi in questi pensieri, il Barbarò si pasceva golosamente del profumo di quel bigliettino.
Frattanto alla Villa delle Grazie c'era un gran da fare per i preparativi del matrimonio: la Mary, sempre, un po' pallida, conservava per altro la sua testolina a posto, e guidata da Angelica, regolava bene ogni cosa. Invece Giulietto dimenticava tutte le commissioni, non capiva più niente: era incretinito dalla[175] felicità, e non faceva altro che tener dietro ad ogni passo della Mary.
Alla vigilia del giorno solenne, ci fu poi un'altra sorpresa: capitò al villino un sotto-fascia raccomandato, diretto "Agli impareggiabili sposi."
Era una romanza per tenore, che Donna Lucrezia Balladoro offriva in dono per le auspicate nozze, accompagnandola con un proprio scritto.
"Carissima Nipote,
Quantunque bandita dal vostro Eden terrestre per suggestione mefistofelica di quell'Iscariotto dello Zodenigo, non posso a meno di volarti vicina in questo fausto giorno, rivolgendoti un pensiero, inviandoti un accento.
Tuo zio Francesco, inesorabile e spietato, non ha voluto porgere ascolto alle mie discolpe; ma tal sia di lui, ed io non voglio con questa mia rivolgermi altro che al tuo cuore; al tuo cuore dal quale non invoco grazia, ma giustizia. E per ora basta così. In questo giorno di supremo gaudio non voglio turbarti con lugubri fantasmi. Si accendono per te le faci dell'Imene, e tu abbagliata da tanta luce non devi più vedere altro che il caro oggetto che sta per impalmarti, dinanzi all'ara santa dei tuoi voti più ardenti.
Ora lasciami, o cara, che io ti benedica, anche come unica rappresentante della famiglia, nel nome mio e dei nostri antenati che dal cielo ti guardano, e accetta compiacente il mio umile dono.
Il celebre maestro Forapan, di Verona, persona seria e gentiluomo perfetto, che avrò l'onore di presentarti alla prima occasione, non potendo nulla rifiutare alle mie preghiere, ti offre in omaggio una[176] vera primizia: il più bel pezzo, tutt'ora inedito, della sua opera la Regina delle Antille, che verrà quanto prima rappresentata in uno dei nostri principali teatri.
Addio, mia diletta; di più non ti scrivo perchè in mezzo a tanto gaudio volano i giorni, e l'ore!
La romanza, benchè in chiave di tenore, si adatta anche per soprano e contralto. A me, per esempio, va d'incanto: è nelle mie corde. Presenta i miei saluti alla carissima mia cugina Angelica, e al mio carissimo cugino Alberto. Un bacio al tuo sposo.
Ti stringe al cuore
La tua desolata, ma in fondo alle viscere
pur felicissima zia
Lucrezia Balladoro."
"P. S. Anche la Filomena (che diventa sorda e orba come una talpa, e rompe tutta la roba che è una disperazione) vuol esserti ricordata, domandandoti scusa della confidenza.
Ancora una volta: che il Cielo ti arrida propizio ed esultante.
Ricordati i confetti e, se non ti dispiace, aggiungi un piccolo sacchettino anche per il maestro Forapan, che sarà sensibilissimo, poveretto, a tanta attenzione. Ciao, mio unico tesoro!"
Pompeo Barbarò correva troppo colla fantasia. Erano trascorsi ormai vari mesi dal giorno del matrimonio, e i figli ribelli non piegavano il capo. Certo,[177] l'onorario che riceveva Giulietto dalla ditta industriale, anche unito colla misera rendituccia della Mary, non poteva loro bastare, abituati, com'erano, con molta agiatezza. Ma il figlio del deputato Barbarò trovava danari a prestito quanti ne desiderava, e nella sua inesperienza non s'immaginava nemmeno che il credito ch'egli godeva lo dovea tutto a suo padre.
E il signor Pompeo capiva pure di essersi ingannato assai anche sul conto della marchesa di Collalto. Dopo il primo biglietto, egli le aveva scritto ancora, sempre col pretesto dei figliuoli, ma non avea più ricevuto nessuna risposta. Pieno di rabbia contro l'alterigia di quella pitocca, e contro la propria codardia, tornava allora a cercar di persuadersi che era tanto di guadagnato.
—Infine, gli anni passano per tutti ed anche costei non dev'esser più tanto fresca... finirei a spendere un occhio per avere il carico di una rovina sulle spalle!
Desiderava, desiderava con una smania crescente e cocente che la marchesa diventasse tanto vecchia e tanto brutta, da non poter più piacere nè a lui, nè a nessuno.
—Certo, certo; e si vede che il bell'Andrea ha voluto piantarla a tempo.
E sghignazzava rodendosi i baffetti sempre più radi, che lasciavano scorgere di sotto, sulla pelle, l'unto del cerone nero. Ma erano consolazioni che non attaccavano, ed anzi ogni volta che vedeva la marchesa, sempre più bella nella sua pallidezza abbagliante, gli cresceva la febbre. Poi, come tutto ciò non bastasse, venne a sapere che Andrea Martinengo[178] non solo non l'aveva piantata, ma che era stato visto un giorno a Gallarate, mentre a Somma c'erano gli esercizi militari.
—Canchero!... E noi ci facciamo tosare come pecore per mantenere questo bell'esercito di Florindi!
Allora, vieppiù smanioso, il signor Pompeo mutò registro, e invece di cercar conforto, pensò al modo d'imporsi subito alla marchesa, di riagguantarla, ma tanto forte che non gli sfuggisse più; e per ciò stimò opportuno di trar partito dalle cambialette che c'erano alla Banca. In fatti alla loro prima scadenza non fece concedere la rinnovazione dal Comitato di Sconto, in cui c'era una sua creatura; le cambiali furono protestate, e allora Pompeo Barbarò scrisse subito una lettera di gran premura alla marchesa Angelica mettendola a parte dell'accaduto, e in pari tempo assicurandola che avrebbe parlato lui stesso col direttore della Banca perchè non si procedesse oltre cogli atti.
Ma il tiro non gli riuscì. Angelica, appena ricevuta la lettera del signor Pompeo, era corsa a Milano dallo zio Diego, implorando e supplicando il suo aiuto, e siccome la somma delle cambiali, relativamente grossa per i Collalto, non era poi gran che per il marchese Diego, e siccome, per di più, non c'era da scomodarsi a tirar fuori quattrini, ma soltanto da firmare... firmò, per avallo, e il Comitato di Sconto dovette rinnovare le cambiali facendo solo rimborsare alla Banca le spese del protesto.
Il Barbarò allora, fuor di sè dalla rabbia, vedendo di non poter far nulla contro la marchesa[179] volle almeno sfogarsi contro qualcuno, e prese di mira il povero Giulietto.—Gli voleva resistere anche lui, quell'asinaccio?...—Ebbene, avrebbe pagato lui per tutti!...
E cominciò a mettersi in sul grande, a fabbricare, e spendere, anche in opere pubbliche. Diceva a tutti che era stufo di suo figlio, e che non potendo diseredarlo avrebbe fatto in modo che alla sua morte non gli restasse nemmeno un soldo. In breve fra i banchieri, fra i borsisti, fra tutta la gente di affari della gran piazza di Milano, non si parlò più altro che delle grandi spese del deputato Barbarò. Il suo credito, ormai, era assicurato anche moralmente; la sua potenza formidabile. Nessuno osava più di opporglisi; persino il Cammaroto avea dovuto soccombere. Il Barbarò, aiutato anche in ciò dallo Zodenigo, avea potuto comperare di sotto mano la Colonna di fuoco dall'editore che, giusta il contratto, avea subito mandato a spasso l'antico direttore. Il Cammaroto strillò come un ossesso, scagliando anatemi; la signora Apollonia, un giorno che incontrò l'editore sulla porta, gli si avventò contro coprendolo di vituperi e facendo l'atto di pigliarlo per il collo; poi fondarono insieme, "La Sferza di Gerusalemme" colla quale volevano scacciare i trafficanti dal tempio della verità. Ma La Sferza di Gerusalemme fu sequestrata quattro volte in una settimana; fu intentato un processo al direttore, al gerente del giornale, e alla signora Apollonia, come comproprietaria. La Sferza, in seguito a ciò, sospese le pubblicazioni, e Salvatore Cammaroto, minacciato dal fallimento, perseguitato dai carabinieri, dovette scappare in Isvizzera colla[180] sua signora, e coi pochi quattrinelli che gli aveva potuto procurare il buon Peppino Casiraghi... il solo amico rimastogli fedele nella sventura.
Intanto, mentre il padre Salvatore passava il confine, il deputato Barbarò, a cavallo alla sua cassa forte, passava di trionfo in trionfo. "Il delatore del quarantotto" il proprietario dell'Agenzia dei prestiti sopra pegni di via del Pesce, "il mercante di Pellagra" e tutto il resto, non erano più altro oramai che frasi stantie, che non era più di buon genere il ripetere. Appartenevano ad una specie di leggenda inventata sul conto del Barbarò dall'odio e dall'invidia dei falliti e degli spiantati. Ma le persone serie e solide, erano tutte per lui. L'antica diffidenza era scomparsa, lo cercavano, lo accarezzavano, lo stimavano... tanto lo stimavano, che nessuno credeva facesse sul serio quando andava dicendo che voleva dar fondo ai suoi milioni. Chè! Chè!... Il deputato Barbarò non era un minchione, anzi a guardarci bene si vedeva che faceva sempre un affare, anche nelle opere di beneficenza: e questo era il gran talento degli uomini moderni; degli uomini all'americana: associare il bene altrui all'utile proprio.
In fatti si era messo a restaurare Panigale, a ridurre come una reggia quella sua villa... ma per tal modo faceva lavorare la gente del collegio, e raffermava la propria autorità, assicurandosi la rielezione; e per lui, grosso banchiere, sempre in mezzo ai grandi affari, l'essere deputato, oltre all'ambizione soddisfatta, gli portava un utile assai rilevante. S'era mosso a iniziare i lavori per un canale, che prendendo l'acqua dall'Olona doveva [181]irrigare una vastissima zona di territorio... ma egli pure, col nuovo canale, quadruplicava, sestuplicava il valore dei fondi che aveva acquistati per poco o niente, e in grazia di quest'impresa colossale "che dovea emulare" scriveva lo Zodenigo nel Moderatore "le grandi opere Romane" era stato creato commendatore... e si buccinava che, presto o tardi, lo avrebbero fatto conte o marchese di Panigale.
A Villagardiana (sicuro, anche a Villagardiana, che quantunque avesse appartenuto alla marchesa, era quello dei suoi possedimenti che gli stava meno a cuore, perchè rendeva meno degli altri) il Barbarò aveva fabbricato un asilo per l'infanzia... ma col patto di vendere al Comune un fabbricato che, vista la costruzione e la vastità, era per lui inservibile, e imponendo il saggio del cinque per cento sul capitale, in un momento che il danaro era molto abbondante. Tutto faceva così, e gli riusciva bene, e con onore. Già i quattrini fanno i quattrini, e poi il resto, anche la gloria, viene da sè.
Se per altro, ad onta delle sue chiacchiere, il credito del Barbarò rimaneva solidissimo, quello del buon Giulietto, invece, ne scapitava assai. Il Barbarò facea capire che chi stava per suo figlio stava contro di lui, e la gente, adesso, ad aiutare il giovane avea paura di esporsi a qualche rappresaglia. D'altra parte il commendatore stava bene in salute, e prometteva di sotterrare anche il figliuolo, e poi... Poi si raccontava dalla gente che a Panigale spadroneggiava un certo signor Micotti (ormai nessuno più si ricordava del Processo dei fornitori) un certo signor Micotti che per sua grande fortuna possedeva le gambette corte, il viso olivastro, senza barba, e gli occhietti loschi, tale e quale il signor Barbarò,[182] il quale per di più ne manteneva da anni la madre vedova, in una casa di salute, pagando una vistosa pensione.
—E continuasse pure a far l'originale, il signor Giulio, e vedrebbe questo Micotti portargli via i milioni sotto il naso.
I creditori cominciarono allora, intimoriti, a chiudere il borsellino; allora, proprio allora che la Mary gli diede un bimbo, un maschietto, al quale, d'accordo, posero nome Francesco, perchè colle tribolazioni, e colla squallida miseria che batteva alla porta, era loro ritornato in mente anche lo zio lontano.
C'era in casa un gran bisogno di tutto, e tutto cominciava a mancare. La Mary era ammalata, il bimbo gracile e macilento.—Come il suo babbo quando nacque!—diceva la Filomena che era stata ceduta, con grande spargimento di lacrime, dalla Balladoro alla nipote.
—Ringraziame, fia mia, perchè ti affido un tesoro di fedeltà, un mostro per far le conserve. In quanto a me, per il tuo bene mi son ridotta in mani mercenarie.... Una testarda, una beota, e che magna fia mia, magna quanto magna sto governo asenon, che non incoraggia nemmeno le arti!
La buona Filomena vecchia, sorda e mezzo cieca, ormai stentava anche a reggersi in piedi e, tutt'al più, poteva aiutar la famigliuola a digiunare. Tuttavia, se non recava molto soccorso alla Mary le era pure di grande conforto. Mentre era costretta di tenersi a letto, e aveva il marito tutto il giorno lontano, all'ufficio, ella sarebbe stata quasi sempre sola se non avesse avuta la compagnia della Filomena, che[183] le prodigava sempre la sua tenerezza bonacciona e un po' brontolona, come se la Mary fosse rimasta la bimba d'un tempo. Essa ogni poco le offriva da bere vini squisiti, o da mangiare leccornie raffinate mentre la cantina e la credenza erano vuote, e accomodandole la testina sui guanciali le ripeteva ancora che "così malata" cogli occhioni che parevano più grandi e più neri nelle guance pallide e sfinite "somigliava anche più alla sua povera mamma...." E così dicendo la vecchiarella si faceva il segno della croce, come quando nominava la Madonna.
Angelica mandava spesso alla Mary bei cesti di frutta, e burro fresco, e vino, e veniva a trovarla più che poteva; ma col marito che di giorno in giorno peggiorava, dovea diradare assai le sue gite a Milano.
Anche Donna Lucrezia le faceva visita tutti i giorni, ma per empirle la testa di consigli, di rimproveri, di offerte, di proteste e di compassionevoli rammarichi. Donna Lucrezia, a vero dire, non si presentava mai a mani vuote, ed anzi, prima di risolversi a far tutte quelle scale, riposava in anticipazione dalla portinaia per pigliar fiato, e le mostrava i regali che portava a quella sventurata, la quale in fine era del suo sangue "—un sangue, non dico per vantarmi, di prima qualità, tanto è vero, che è quello medesimo della Regina Corner, e basta così!"
La portinaia stupefatta lodava i bei regali; non così la Filomena, la quale un giorno, stizzita, vedendo che Donna Lucrezia non portava alla Mary, altro che vestiti sbrindellati e cappellini impossibili le domandò "se voleva fare della casa di sua nipote il deposito di so' strasc."
La Balladoro si offese, strepitò, poi non portò più niente alla Mary, ma invece le promise di regalarle un pianoforte, perchè la musica "era il sollievo dei mortali!"
Per fortuna la Mary si rimise presto in piedi e potè attendere di nuovo alla casa, e allattare e occuparsi lei del bimbo. Ma per ciò il buon Giulietto non si appassionava meno del suo stato. Tutto il suo amore, adesso, era un grande rimorso. Non sapea darsi pace; vedendo la moglie in tali strettezze si avviliva; ogni poco le domandava perdono di averla rovinata, si struggeva in lacrime, e per tal modo, e a furia di compiangerla e di dolersi per lei, rendeva alla poveretta ancora più penosa la vita.
Giulio Barbarò non era un esperto pilota nel mare torbido e scoglioso dei debiti: la sua navicella si era trovata spesso sulle secche, e faceva acqua da tutte le parti. Egli non dormiva di notte per il pensiero affannoso dei creditori, e di giorno, sempre colla testa nelle nuvole, sbagliava i conti della ditta industriale, mentre lo angosciava pure il ricordo di suo padre, il disonore del suo nome e lo agitava il dubbio (il dubbio e la speranza insieme) che la Mary e lo zio Francesco si fossero, almeno in parte, ingannati.
Qualche volta la tenerezza vigile della moglie, riusciva a confortarlo, a stordirlo, ma l'incanto non[185] durava a lungo... i tristi pensieri tornavano a stormi... e il poveretto ripiombava nello scoramento al riaffacciarsi terribile delle scadenze.
Ne aveva due per la fine del mese. Una di tre mila lire, l'altra di due mila ottocento.
—Come farò a pagare, come farò!... E se non pago, il protesto, gli uscieri, il sequestro!... Che cosa ho fatto di male per essere tanto disgraziato?
Quel poco che avea la Mary era già stato ipotecato; non trovava più danari da nessuno, e i creditori vecchi non accordavano dilazioni....—Lo volevano morto!
—Com'è tristo il mondo e incostante!—mormorava rodendosi dentro.—Prima si mette in lega per abbattere mio padre, adesso regge il sacco a mio padre per opprimer me!
—Eh, incostante, d'accordo!—rispondeva crollando il capo Donna Lucrezia, quando assisteva a quegli sfoghi.—Ma el vecio ga la forza... una forza che fa tremare!
—Io non accuso mio padre, anzi credo saranno tutte calunnie; soltanto voglio vivere. Perchè non mi lasciano vivere?
—Perchè... perchè la ribellion si vede chiara e lampante!... Sapete in fine che cosa dise la gente?... Dice che un figlio non ha il diritto di farsi giudice dei propri genitori, e che voi dovreste dimenticare certe storie ormai disperse in balìa dei venti, per ricordarvi solo che siete padre.... Padre, fio mio, padre!...—E la vedova corrugava la fronte, e alzava tutte e due le mani, con grande solennità.
Donna Lucrezia in quel momento era più che mai infervorata per rappattumare gli sposi col genitore.[186] I restauri e l'assetto di Panigale erano compiuti. Tutta Milano discorreva di grandi feste che vi preparava il deputato Barbarò, e la Balladoro stava sulle spine. Una volta successa la pace si riprometteva d'installarsi a Panigale presso la Mary, e potendo darsi un merito per quella riconciliazione sperava di ottenere l'aiuto del Barbarò per la Regina delle Antille.
—Che splendori, fia mia!—esclamava di continuo anche colla nipote.—Quella sì, che se pol proprio chiamarla la Cà d'oro! E dire che... con un detto solo....—Senti, Mary, parlo come el cuor m'impone:—fa il primo passo... e cerca di poter essere a Panigale, per il giorno dell'inaugurazion. Animo, animo, piavola; ricordati che sei madre, e movete, se non altro per la tua creatura!
Tanto calore e tante chiacchiere, se impressionavano Giulio e sbalordivano la Mary, non riuscivano per altro a smuoverli dal loro proposito. La Mary era inflessibile; aggrottava le ciglia, si faceva pallida, non cedeva d'un punto; Giulietto era sempre dell'opinione della Mary, e anche quando l'eloquenza di Donna Lucrezia lo impacciava un poco, bastava un'occhiata della moglie per rimetterlo in carreggiata. Insomma il coraggio e la costanza non mancavano... così non fossero mancati i quattrini. Invece non venivano da nessuna parte, e si avvicinava la fine del mese.
Dopo continui rifiuti, il poveraccio avea avuta l'idea di rivolgersi alla Ditta Industriale per chiedere un'anticipazione; ma in sul più bello non ebbe il coraggio di farlo. I superiori, da qualche tempo, lo trattavano con insolita durezza e si lamentavano delle sue distrazioni e della sua negligenza. Giulietto[187] ancora non ne sapeva niente, ma la Ditta Industriale voleva metterlo al punto di licenziarsi, per non dar ombra all'onorevole Barbarò.
Conoscenti ne contava parecchi, ma nessuno a cui poter ricorrere. Di amici... di amici ne aveva uno solo: Clementino Scettola, già suo compagno d'ufficio, ma poi licenziato perchè aveva il vizio di alzarsi troppo tardi la mattina. E appunto a Clementino, non avendo da scegliere, si rivolse il buon Giulietto, ridotto proprio in extremis.
Ma quando mai non ci aveva pensato anche prima a Clementino!... Quello era un amico vero, pronto a buttarsi nel fuoco "per Barbarò II, principe ereditario di tutte le Californie!..." Un giovane pieno di espedienti, un furbaccio che in un amen faceva scaturire i soldi a cappellate, uno che si vantava di essere il Baedecker degli strozzini!
Appena Giulietto, arrossendo, gli ebbe confidato il suo misero stato, e il bisogno urgente di danaro in cui si trovava, l'altro gli tirò un forte pugno sopra una spalla:
—Ti chiami Barbarò, sei il principe ereditario di tutte le Califor....
—No, scusa, devi sapere...—obbiettava timidamente Giulietto,—ma l'amico non lo lasciò continuare e gridando ancora più forte: "Hai un nome che vale una Banca, e sei tanto bestia da sgomentarti per poche migliaia di lire?" e gli scaraventò un secondo pugno.
Giulietto si ritirò un poco, grattandosi la spalla.—Scusa... devi sapere....
—Quanto ti occorre?... Sei mila lire?... È poco: facciamo la somma tonda, diciamo le otto....
—Ma....
—Non temere; lasciati guidare da chi ne sa. Più è grossa la somma e più gli usurai sono pieghevoli. Mille lire occorrono soltanto a un disperato, ma otto mila lire è la domanda di un signore. Vuoi che tentiamo il colpo sulle dieci?....
—No... no... otto mi bastano!—rispose Giulietto spaventato.
—Ti bastano?... Le hai in tasca. Mi fai una cambialetta e io la porto al Vacchetti, uno strozzino d'alto bordo, che non mi ha mai detto di no. Non è un secolo, la settimana scorsa ho fatto dare dal Vacchetti quindici mila lire a un ufficiale del Savoia, che le aveva perdute al club e che voleva suicidarsi.—Matto, lascia fare a me!—gli ho risposto,—e Clementino diede un urtone a Giulietto, come quello che dovea aver dato all'ufficiale di Savoia cavalleria.—Lascia fare a me!... Vado dal Vacchetti, era a colazione, ma la serva mi conosce e mi fa passare.—Caro Vacchetti, sono qui per un affare così e così, e gli raccontò la storia. L'altro si alza, e senza dire nè hai nè bai, mi conta l'una sull'altra le dodici....
—Le quindici....
—.... Le quindici mila lire!... Usuraio, ma coi guanti! Oh è vero che non tratta altro che colla prima nobiltà. Soltanto....—Clementino si fece serio a un tratto, sgranò gli occhi, strinse le labbra—soltanto c'è un guaio....
—Che c'è?—domandò Giulietto cui dopo un così gran sollievo si era di nuovo stretto il cuore.
—È capace di pretendere il dieci per cento!...
—Oh, anche il dodici!—esclamò l'altro tornando a respirare.—Anche il dodici!...
—Allora è fatta. Se poi non si potesse combinare col Vacchetti....
—Dunque non è sicuro?
—Sicurissimo, dico per dire,—se non si potesse combinare col Vacchetti, si potrebbe tentare dalla signora Amalia di via Torino.
—Preferisco il Vacchetti.
—Pure, se la signora Amalia avesse la somma... a farle un pochino di corte si contenterebbe di un frutto minore.
—No, no; preferisco il Vacchetti. Non mi hai assicurato che col Vacchetti è affar fatto?
—Per bacco! E poi ci sarebbe anche la Banca.
—La Banca?... Di Banche non ne voglio sapere per via di mio padre.
—Nella Banca che ti dico io, babbo Rothschild non ci ha a che fare. È, nientemeno, che la Banca Cooperativa fra gli agenti e i commessi di negozio!... Vado a pranzo tutte le domeniche all'Arena Nuova col suo direttore, che mi vuole un bene dell'altro mondo.
—Preferisco il Vacchetti.
Giulio e Clementino entrarono da un tabaccaio a comperare la cambiale, che uno firmò, e l'altro mise in tasca esclamando:—È cosa fatta!—Stava per andarsene; ma Giulio lo fermò. Ricominciava ad essere inquieto.
—Scusa e.... quando... quando....
—Lasciami pensare;—e Clementino si fregò la fronte colla mano.—Oggi è un po' tardi; domattina devo andar attorno per un altro affare d'un altro mio amico... Un affare in grande.... Trenta mila lire... ma ti raccomando di non dir niente con nessuno!
—Sta sicuro.
—Alle dodici il Vacchetti (io potrei dirti anche quante volte si soffia il naso in un giorno) alle dodici va sempre dal Campari a bere l'amaro....—Basta che non lo faccia bere anche a noi l'amaro!
Giulietto sorrise a denti stretti.
—....A casa sua,—continuò Clementino,—non si trova altro che alle due. Ci vado alle due in punto, gli lascio la cambiale, torno alle cinque per i danari, alle sei ci troviamo dall'Hagy, ti snocciolo la sommetta (tu preparami la ricevuta, per ogni buon conto) e... ricordati che sei stato Garibaldino, dunque... niente paura! Vorrei averla io la tua firma, principe ereditario di tutte le Californie e del Perù!
Rimasto solo, Giulietto Barbarò si diede una fregatina di mani. Era salvo. Ormai... niente paura, come aveva detto l'amico Clementino. Prima il signor Vacchetti, poi la signora Amalia di Via Torino, poi in caso disperato la Banca cooperativa fra gli agenti e i commessi di negozio. E dal presente che si rischiarava, Giulietto intravide l'avvenire pienamente sereno. Colla signora Amalia avrebbe pagato il Vacchetti, colla Banca avrebbe pagato la signora Amalia, poi sarebbe ritornato da capo, e l'uno avrebbe servito per riempiere il buco fatto coll'altro.
—Se Dio vuole non mi troverò più coll'acqua alla gola!—Che amico, che amicone, quel Clementino Scettola!
La gioia, come succede in tutte le persone buone, gli si tramutava in altrettanta tenerezza. Scappò a casa, dalla Mary, ma dietro via si fermò a comperarle un cartoccio di dolci.
Cara, tanto cara, quella sua donnina! Era un angelo,[191] una santa, era tutto il paradiso!... La baciò, la ribaciò cogli occhi raggianti, chiamandola con tutti i nomi più teneri, e finalmente, dopo infiniti preamboli, le raccontò la fortuna che gli era capitata, facendole grandi elogi dell'amico Clementino.
—Bada,—gli osservò la Mary, che stentava ad infervorarsi,—bada che questo Vacchetti, non sia poi uno strozzino!
—Un po'... sì; ma coi guanti. Non tratta altro che con persone della più alta nobiltà; con tutti quelli del club,—e per rassicurarla meglio, le raccontò l'affare dell'ufficiale di Savoia cavalleria.
Mangiarono insieme una caramella fra due baci, poi il buon Giulietto corse in cucina dalla Filomena, per regalare un dolce anche alla vecchiarella, poi volle vedere il bimbo, gl'impiastrricciò il bocchino di rosolio, e infine domandò alla moglie se aveva scritto alla marchesa Angelica "un angelo proprio vero" e le raccomandò di fare un po' di festa anche alla zia Lucrezia.
—È una balorda, ma non è cattiva!
Insomma, a sentir Giulietto, eran diventati tutti buoni, e il mondo, a differenza del dì innanzi, non era più un mondaccio cane, e ci si poteva stare passabilmente.
—Sì, sì, tutti buoni, ma nessuno per altro come la mia Mary... la mia Meretta... la mia Meruccia... la mia Merinòli!...
In cassa c'erano ancora cinquanta franchi; Giulio li prese tutti con sè prima di uscire, e quando ritornò per il pranzo ne aveva spesi quindici dalla Laforet per portare un paio di guanti, lunghissimi (allora una primizia della moda) alla sua mogliettina bella!... e[192] sotto la Galleria De-Cristoforis ne spese altri cinque per comperare un cavalluccio di gomma elastica al suo bimbo. Quel giorno il desinaretto fu una vera festa, e la Filomena, ogni tanto, compariva sull'uscio col viso ridente fra le grinze e i ricciolini bianchi, per ricrearsi l'animo anch'essa.
C'era tanto bisogno di un po' di buon umore!
Il giorno dopo Giulietto arrivò tardi all'ufficio. Continuava a fare e a rifare il conto dei debitucci che voleva pagare colle due mila lire che gli sarebbero rimaste dopo ritirate le cambiali, e quello delle varie spesette che aveva in mente. Ma ogni volta diminuiva la somma destinata al saldo dei debiti, e arrotondava quella delle spese.
—E... e se il Vacchetti non fosse a Milano?
Giulio, a questo pensiero, si sentì venir freddo, tanto più che ormai non aveva in tasca altro che dodici lire.
—Smemorato che sono!... In un caso disperato si ricorre alla signora Amalia di Via Torino, oppure alla Banca cooperativa.
Tornò a sorridere; per altro non più tanto serenamente, e alle sei, dall'Hagy, visto che Clementino si faceva aspettare, cominciò ad arrabbiarsi.
—Per Dio!... Negli affari bisogna essere precisi!...
Alle sei e mezzo, Clementino non si vedeva ancora.
Giulietto si avvicinò al banco rivolgendosi al padrone.—Se viene Scettola gli dica di aspettarmi un momento. Vado e torno!—E corse, sbuffando, a cercarlo a casa sua.
A casa non c'era; c'era la sorella, e gli disse di provare a cercarlo dall'Hagy.
—Ne vengo adesso!... L'ho aspettato più di mezz'ora! Mi aveva dato appuntamento per le sei.
—Oh, è il suo solito,—rispose la ragazza sorridendo.—Provi a cercarlo in Piazza Fontana, alla trattoria del Numero cinque.
—Lo troverò?
—Può darsi.
Giulio scappò in furia al Numero cinque.
—Voglio insegnare a quel villano,—borbottava fra sè,—che non è questa la maniera di trattare colla gente seria.
Clementino era proprio alla trattoria Numero cinque. Giulio lo scorse subito a una tavola con un altro, e due donnette galanti. Ma appena Giulio lo vide, le sue furie invece di aumentare, si calmarono un poco.
—Vieni avanti, vieni avanti,—esclamò Clementino colla bocca piena.—Ti presento alla Rosa e all'Annetta!
Appena finita la presentazione, Giulio si avvicinò all'amico e gli domandò ansioso all'orecchio:
—E così?...
—Che cosa?...
—Il Vacchetti?...
—Ah!... Ci son stato due volte da quel pela-merli!—rispose l'altro gridando in modo che lo sentivano tutti nella sala, e i vicini si voltavano, mentre Giulio, diventando rosso, gli faceva segno in fretta di parlar piano.—Ci son stato due volte: è in campagna, è andato ai freschi. Ma niente paura. Torna stasera, e domattina alle dieci,—ti va bene alle dieci?—vengo io a trovarti all'ufficio, col morto.
—Ti raccomando, proprio alle dieci precise!... Alle dieci e mezzo ho un altro affare.
—Alle dieci in punto ci sarò, ci saranno, e tu fa conto di averli in portafoglio. Non mi conosci, diamine?... Sono un orologio!
—E ancora non ti sei messo al Monte di Pietà?—interruppe l'altro giovanotto ch'era con Clementino e che fin'allora aveva sempre taciuto.
Le signorine dettero in una risata, e Giulietto se ne andò ridendo anche lui allegramente, intanto che l'amico gli gridava dietro "futuro imperatore di tutte le Californie!"
Ritornò verso casa cantarellando. Credeva che l'altro ci fosse stato davvero dall'Hagy e non passò nemmeno di là per sincerarsene. Passò invece dalla Galleria Vittorio Emanuele e si fermò estatico dinanzi alla mostra del Confalonieri.
—Quanta bella roba!... Più che una vetrina sembra un cielo stellato! E dire che se mio padre fosse un altro, potrei coprire la Mary di brillanti!... "Se domani... basta, domani si vedrà." Egli guardava un braccialettino, un filo d'oro massiccio, con uno smeraldo e un brillante, e pensava. "Quel braccialettino lì, non dovrebbe costare più di otto o novecento lire...."
—Dunque?—domandò subito la Mary al marito, appena questi fa di ritorno...—dunque?...
—Ci sono.
—Ah, finalmente, respiro!...
—Ci sono, e li avrò domattina.
Il respiro si fermò a mezzo.
—Li avrò domattina, alle dieci.
—Hai parlato col Vacchetti?
—No; è fuori di Milano, ma torna subito.
—Allora, Dio mio, sei al punto di prima.
—Niente paura. Il Vacchetti non può dir di no.
—Come lo sai?
—Ho la parola di Clementino.
—Speriamo!... Pensa, che doman l'altro siamo all'ultimo del mese!...
—Pagherò le cambiali, e poi, se mi riesce un certo giro che ho in testa, vedrai... vedrai, Merina, mia, che bella improvvisata!
Invece l'improvvisata l'ebbe il buon Giulietto. Clementino fu puntuale, ma l'altro che lo aspettava dietro i vetri della finestra, capì subito appena lo vide venire dinoccolato, colla testa bassa, in mezzo alla nebbiarella mattutina, che la spedizione era fallita. Non si camminava a quel modo, con otto mila lire in tasca!
—Ha detto di no!... Ha detto di no, e non ho più un soldo!
Gli ultimi spiccioli gli aveva dati alla Filomena per la spesa di casa.
Non ebbe il coraggio di andare incontro a Clementino; si sedette sul canapè, in faccia all'uscio.
—Niente?...—gli domandò appena l'altro fu entrato, con quella voce cavernosa che indica il vuoto dello stomaco e della borsa.
—Non l'ho preso per il collo, quel cane, perchè non volevo insudiciarmi le mani!—Clementino si buttò sopra una sedia, come disfatto.
—Ha detto di no? Non si fida?
—Non ci mancherebbe altro!... Ti darebbe la casa, ti darebbe!... Tutta la casa, e senza nemmeno la firma: basta la tua parola.—So che avrei da fare con un gentiluomo,—ha detto;—ma... Mi confessò di non aver quattrini. Me lo confessò colle lacrime agli occhi.[196] Guarda se non siamo sfortunati: ieri, come ieri, ha prestato ottanta mila lire ad uno dei primi giovinotti della nostra aristocrazia, uno del club che va a Roma a sposare un'americana arcimilionaria come te!
Clementino si era alzato, e camminava per la stanza dandosi pugni sulla testa da sbalordire.
—Vedi, quando si nasce colla iettatura? Io sono nato colla iettatura!
—Sono io, sono io che l'ho addosso la disdetta,—mormorò Giulio, cupamente.—Tu mi avevi fatto la cosa tanto sicura che... che non ho provvisto in nessun modo... capisci, Clementino?...
Clementino era andato alla finestra, e gli voltava le spalle.—Invece di rispondere battè colle dita il tamburello sui vetri, fischiettando piano la marcia funebre della Jone.
—La cambiale di tre mila lire...—seguitò l'altro, colla voce sempre più rauca,—mi scade domani....
—Allora c'è tempo tre giorni.... In tre giorni col tuo nome, si deve trovare a Milano... mezzo milione!...
—Proviamo alla Banca....
—Alla Banca?...—domandò Clementino interrompendo la marcia.
—Alla Banca, sicuro;—alla Banca cooperativa fra gli agenti e i commessi di negozio!
—La Banca non sconta altro che il Venerdì.
—Quasi una settimana da aspettare... È troppo tardi. E... e quella signora Amalia di Via Torino?
—Andiamoci subito: se li ha, li dà.—Figurati; a uno che si chiama Barbarò!...
—Allora non gli avrà,—mormorò l'altro con tono lugubre.
Clementino si cacciò il cappello in testa con un pugno, e poi giù di corsa per le scale, con Giulietto dietro, pallido, ammusato, che continuava a borbottare.—Allora non gli avrà, allora non gli avrà,—ma sempre colla speranza, la speranza è l'ultima che si perde, di sentirsi rispondere il contrario.
La signora Amalia di Via Torino era una donnetta ancora giovane e abbastanza piacente, ma col viso imbellettato e le sopracciglia dipinte. Faceva un po' la sentimentale, un po' la sensitiva, arrossendo con smorfiette pudibonde ai complimenti di Clementino.
Quando sentì la cifra che i due le domandavano, sospirò, alzò gli occhi al cielo, e premendosi le mani sul cuore, mormorò languidamente:
—Otto mila lire?... Otto mila lire?... Oh pazzarello, pazzarellone! Ma come vuole che una poveretta, con tante disgrazie,—e la signora sospirò di nuovo, e di nuovo gemette,—possa disporre... ma è una dote, un patrimonio, ottomila lire!
Clementino non si lasciò battere dai gemiti e le presentò il suo amico, il quale "per un caso, di quelli che succedono a tutti nella vita, si trovava, al momento, in bisogno di poche migliaia di lire. Il signor Giulio Barbarò."
—Barbarò!—esclamò la signora Amalia, con un lampo di cupidigia negli occhi.—Sarebbe forse parente del....
—È suo figlio: suo figlio unico e solo. Erede di tutti i milioni.
—Perdonerà... perdonerà, signore... ecco, le dirò, mio cognato.... Ma prego... mi faccia l'onore... Venga... s'accomodi!—e tutta complimentosa e scodinzolando, la signora Amalia andò innanzi per condurli nel[198] salotto, spalancando gli usci con enfasi, voltandosi quasi a ogni passo con un s'accomodi—scusi tanto, diretto al figlio del Barbarò.
Clementino spinse innanzi Giulietto con un pugno nella schiena, sussurrandogli piano, all'orecchio:
—Siamo a cavallo.... Ti dà le otto mila lire, e poi il cuore, e poi il resto!...
Il salotto era buio; la signora Amalia si affrettò per tirar su le tendine, ed aprir le finestre, ma le cordicelle non giravano, e ci volle l'aiuto di Clementino.
—Non ci vengo mai,—esclamò quando entrò la luce.—Dacchè è morto mio marito,—e sospirò per la terza volta,—vivo così ritirata.... Prima si faceva un po' di musica, adesso non ricevo più... non vedo più nessuno.
Infatti nel salotto spirava un odorino di muffa e di richiuso. Era una stanza di mezzanino, bassa e larga, coi mobili coperti di tela unta, rossiccia. Qua e là vicino agli usci, e sotto le finestre pappagalli e altri uccelli d'America imbalsamati, e dappertutto sulle tavole, sulle mensole, sui palchettini, e appesi alle pareti orologi grandi e piccoli, di ogni forma, di ogni qualità, a molla, a pendolo, a squilla. Il marito della signora Amalia, era stato un orologiaio fallito.
—Si accomodino, signori. E lei,—soggiunse rivolgendosi al Barbarò con tutta la grazietta della sua civetteria,—si compiaccia di deporre il cappello,—e glielo tolse di mano per metterlo sul tavolino.
—Mio marito ha conosciuto moltissimo il signor deputato, e me ne parlava sempre con grande ammirazione. Anche mio marito, sa...—e a questo punto, la sensibile signora Amalia, alzò un'altra volta gli[199] occhi al cielo sospirando,—anche mio marito, non faccio per vantarmi, era una testa fina. Ma il poveretto... non è stato fortunato.
—Non è stato fortunato?... Sacripante! Con un fior di donnina come lei?—esclamò Clementino stringendo i denti e sgranando gli occhi.
La signora Amalia arrossì, e chinò il capo mormorando "pazzarello pazzarellone!" poi facendo le più amabili smorfiette, e colla voce più carezzevole, piegandosi mollemente sul canapè, disse al signor Giulio di ripassare da lei il giorno dopo, che gli avrebbe dato una risposta. Lei, la somma, non l'aveva proprio, assicurava, ma ne avrebbe parlato con suo cognato, e riteneva di poter combinare.
—Per altro... devo avvertirla di una cosa...—Giulio tornò a passare dal batticuore della speranza a quello del dubbio—mio cognato... forse... poveretto, anche lui è tanto disgraziato! non avrà nemmeno tutto il denaro, che le occorre, dovrà rivolgersi a terze persone... e sa bene... in giornata il danaro è molto, molto caro....—Ma la signora Amalia disse quel molto, molto caro, dolcemente, languidamente, rivolgendosi colla testina piegata e socchiudendo gli occhi al giovane Barbarò... come se il molto, molto caro, fosse proprio lui... il molto caro del suo cuore.
—Oh il mio amico è un gentiluomo,—esclamò Clementino, mentre l'altro, che avea riacquistata la parlantina, assicurava la signora, che non faceva questione per il frutto.—Il mio amico si trova per caso in un piccolo bisogno. Ha da fare un viaggetto di qualche giorno.
—Oh il viaggiare!—esclamò la signora Amalia;—come sarei beata di poter viaggiare!
—Deve andare a Genova.
—A Genova? Il mare?... Oh il mare!—e la sensibile signora socchiuse gli occhi, respirando con abbandono.
—Sicuro, e il mio amico non vuol dipendere da suo padre, non vuol rivolgersi, per estrema delicatezza, ai suoi mille e cento ragionieri per cui se suo cognato gli volesse procurare la sommetta, ci sarà il caffè anche per lui.
—Oh, a questo noi non ci si abbada. Se si può fare un piacere si fa... per rendere servizio a una persona di garbo.
Clementino, vista la buona disposizione, domandò se non era possibile aver la risposta in giornata.
La signora disse loro di tornare alle due, e quando gli amici si accomiatarono, stringendo la mano di Giulio mormorò ancora, con voce flebile:
—Mi saluti il mare!... Il mio bel mare!...
Appena in Via Torino, Giulio si sentì piovere un pugno, tra capo e collo.
—L'hai magnetizzata!—esclamò Clementino.—Ti dà tutto quello che vuoi!
Andarono a far colazione: Giulio invitò l'amico in una trattoria, dove era sicuro che gli facevano credito.
Come avrebbe potuto tornare all'ufficio?... Con ottomila lire da intascare alle due?... All'ufficio ci sarebbe andato più tardi.
La colazione fu lietissima: e Clementino contraccambiò l'amico dandogli, a bocca piena, i più preziosi consigli del mondo.
—La signora Amalia, è una gattina,—te lo dico io;—a saperla lisciare, se ne fa tutto quello che[201] si vuole. E poi tu le piaci; si vede! Tu, dà retta a me; gli dovrai usare qualche piccola attenzione: un mazzo di fiori alla sua festa, un panettone al Natale; e vedrai cosa ti dico: ti rinnova per tutta la vita!
Rimasero a tavola fino al tocco e tre quarti. Giulio, cogli occhi lustri, nuotava nell'azzurro.
—Dobbiamo avviarci?—disse per il primo all'amico.
—Andiamo!
—E se la risposta fosse negativa?
—Settemila e cinquecento lire, te le dò io, qui subito, tanto sono sicuro di guadagnare il resto.
Dinanzi all'uscio della signora Amalia si fermarono per infilarsi i guanti, poi fu Clementino, era lui l'uomo d'azione, che suonò il campanello. Ma non si sentì venir gente.
—Ohi,—mormorò Giulietto, di subito impensierito,—che la signora non si faccia trovare?...
—Chè!—rispose l'amico dando una strappata più forte.
Dopo un altro po' di silenzio si udì un rumore di ciabatte nell'anticamera.
—Ecco la serva!...
Ma la serva, apparsa all'uscio, guardò i due quasi in cagnesco, rispondendo loro con voce rauca, da beona, che la signora non era in casa.
—Come,—esclamò Clementino, mentre Giulietto non avea più fiato,—non è in casa?...
—Se sono que' due che dovevan venire per la risposta di suo cognato, ho qui una lettera...—accidenti, dove l'ho ficcata!—La serva lasciò nell'anticamera Giulio e Clementino che si guardavano[202] senza dir motto, e tornò brontolando con una lettera gialla, diretta a Clementino.
—A Clementino?... Brutto segno—pensò Giulietto, e il Chianti della colazione, gli fece nodo alla gola.
Clementino aprì la lettera, ci dette un'occhiata, poi infilò mogio la porta, senza lasciare i saluti per la padrona.
Giulietto gli teneva dietro colla testa bassa: le ottomila lire erano andate in fumo.
Infatti la signora Amalia scriveva, che suo cognato era, come lei, addoloratissimo di non poter servire l'egregio signor Giulio Barbarò, causa i gravi e molteplici impegni della fine del mese.
—Se fo il cappellaio, nasce la gente senza testa!...—esclamò Clementino stracciando la lettera.
—Son io il disgraziato,—borbottò Giulio cogli occhi torvi, e lasciò l'amico salutandolo con un sorriso amaro.
—Maledetto te, e il tuo eccesso di buon cuore! Ora mi trovo senza un soldo, e colla scadenza alla gola! Aveva ragione la Mary, di non fidarsene... Povera Mary!...
A ritornare all'ufficio, per quel giorno non ci pensò nemmeno. Invece corse dalla moglie, a sfogarsi con lei.
Pure, non c'era tempo nemmeno di piangere... un rimedio bisognava trovarlo. D'accordo colla Mary scrisse una lunga lettera al signor Ambrogio Vitalis, uno dei soci della Ditta Industriale, dipingendogli il suo stato, e implorando il suo aiuto per le cambiali: egli lo avrebbe pagato un tanto al mese sullo stipendio. Ma anche scritta, e mandata la lettera, continuò a gemere. La notte, non dormì punto, e la Mary dovette alzarsi due volte: la prima per[203] fargli un caffè, e l'altra una limonata.—Ah,—mormorava Giulietto fra le convulsioni,—se non avessi sbagliato il colpo!... Sarebbe stato meglio per tutti!...
La Mary, rimangiando le sue lacrime, cercava di consolarlo dicendogli che non doveva lasciarsi abbattere in quel modo, e che forse il signor Ambrogio avrebbe potuto rispondere una buona parola.
Ma la mattina dopo, era proprio il giorno della scadenza, il signor Ambrogio invece di una buona parola, mandò un ottimo consiglio, quello che "un giovane per conservare la quiete d'animo, e per vivere onorato, non dovea mai mettersi a far cambiali." In quanto poi alla Ditta, aveva il dispiacere di avvertirlo, che dovendo ridurre il numero dei propri impiegati, per il mese venturo, lo lasciava in libertà.
Il povero Giulietto non disse una parola; si cacciò in letto, e la Filomena fu mandata in cerca del medico. La vecchietta, di sua testa, andò poi anche da Donna Lucrezia.
—È tempo, signora padrona, che si metta in moto per quei poveri ragazzi!...
—Il mio dovere l'ho sempre fatto, siora Pampaluga!
—Bisogna aiutare quelle due creature che mancano di tutto, e che credo minacciate da una gran rovina, per via di un pagamento grosso.
—Bagattelle!—esclamò la Balladoro trasecolata,—ci sarà per aria una qualche cambiale!—Ma poi soggiunse con gravità:—In tutti i casi non abbandonerò il mio sangue; el cuor no l'è una patata!
E gli aiutò in modo che i due giovani furono rovinati intieramente.
Ricorse a un cavalocchio il quale riuscì ad allontanare[204] per altri tre mesi la catastrofe, ma la Mary gli dovette metter nelle mani tutto il suo, e così, con un'ipoteca messa sull'altra, il capitale fu coperto, e alla nuova scadenza c'erano più debiti di prima, senza l'impiego, senza danari, e senza più speranze di poterne trovare.
La Mary voleva resistere ad ogni costo, e resisteva ancora. Si era messa a lavorare, e ricamava e cuciva di bianco, giorno e notte. Voleva resistere e resisteva, ma erano colpi terribili per il suo coraggio ogni volta che vedeva soffrire il marito, sempre ammalato, ogni volta che vedeva il bimbo gracilino, languire e intristirsi. Si era trovata in mezzo ai protesti, ai sequestri, agli insulti dei creditori; si era ridotta a vivere in una soffitta. A poco a poco aveva venduta la roba che le era rimasta, e la Filomena avea rifatte le luride scale delle Agenzie di prestiti. Per il continuo lavorar d'ago le si sciupavano gli occhi; si spezzava il petto sul tombolo, e Giulio imprecava disperandosi, e si dava pugni nel capo, poi le domandava scusa, fra i nodi di tosse. Il medico non prediceva nulla di buono pel bambino, se non lo conducevano ai bagni di mare. Pure essa sentiva il dovere sacro, imprescindibile che le incombeva verso la memoria del padre suo; aveva fede nelle preghiere, in un miracolo della mamma, e si ostinava a resistere fino all'ultimo, quantunque anche la gente si allontanasse da lei perchè tutti la condannavano; tutti, meno la Filomena che non si reputava da tanto di giudicarla, e meno la marchesa di Collalto, che poco poteva fare, perchè era a corto di quattrini anche lei, col marito che precipitava verso la fine, e pareva volesse ingoiare tutta la casa.
Quanto poi a Donna Lucrezia, era un nuovo tormento, invece di un aiuto.
La Mary era costretta colla zia a fingere di essere sempre allegra, se no le piovevano prediche e strapazzate, che non finivano mai. Si sentiva dare della testarda, della mata senza cuor, perchè non voleva fare quell'atto di sommissione, doverosa per una fia, che l'avrebbe ricondotta ad occupare, colla sua famiglia, la prima posizion di Milano!
—In fin dei conti, anche il mondo vol la sua parte, e il mondo ormai s'inchina tutto quanto dinanzi al Commendator, e come se questo non bastasse, anche re Vittorio in persona, el ga stretto la man!... E ricordati, creatura benedetta, che se anche il governo l'è birbon, il re, è sempre il gran re dei galantomini!
E ciò era verissimo. Mentre la soffitta di Giulio e della Mary si faceva sempre più misera, Panigale riempiva i giornali e le bocche dei Milanesi.
In quei dintorni era stata fatta una finta battaglia da un corpo d'esercito, in presenza di Vittorio Emanuele, che per assistere più da vicino alle operazioni militari, abitò due giorni nella Villa del deputato di Panigale.
Vittorio Emanuele non avea mai sentito parlare di Pompeo Barbarò, ma era stato subito informato dagli aiutanti della straordinaria ricchezza del suo ospite, e avendolo invitato a colazione, scherzando con lui, che impacciato non sapeva infilar due parole, gli disse con quella sua bonarietà, finamente sarcastica, di re democratico:
"Mi i soun un re ch'a ubidiss; ma chiel coun i so milioun a l'è un re ch'a coumanda!..."
Per il ricevimento e per la visita reale, Pompeo Barbarò avea speso 50 mila lire, che diventarono 100 e 150 mila nei discorsi della gente. Ed anche il dottore del buon Giulietto ne era rimasto impressionato, tanto da dar pienamente ragione a Donna Lucrezia, e torto marcio alla Mary.
Il brav'uomo, dopo aver tastato il polso all'ammalato e guardato la lingua al bambino:—Biftecche ci vogliono,—esclamava crollando il capo,—biftecche, passeggiate in carrozza all'aria buona, e una cura climatica ricostituente. Poi distrazione, poi tranquillità d'animo. E un giorno a sgravio di coscienza volle parlar chiaro anche alla signora.
—Suo marito,—le disse,—non può rimettersi, se non riprende la vita agiata di prima, e suo figlio finirà col portare la conseguenza tutta la vita, di questo stato di angosce e di privazioni.—Lui non voleva dar consigli, ma ci pensasse la signora... finchè era in tempo.
Queste parole furono una trafitta al cuore per la povera Mary. Ne parlò con Giulio, e Giulio, reso irascibile dal male, le rispose di lasciarlo morire in pace. Si confidò all'Angelica, e questa, pur ammirando il suo coraggio, le disse che, forse, poteva aver ragione il dottore, e che, in tal caso, la salute di suo figlio doveva andare innanzi a tutto.
—Anche tu, anche tu!—mormorò la Mary scossa, e maravigliata.—Anche tu, Angelica, anche tu così buona, anche tu così santa?...
Angelica si strinse al cuore la testina dell'amica e le sussurrò fra i baci:
—Ormai il tuo dovere è quello di dimenticare!...
—Ma tu, nel caso mio, che cosa faresti?
—.... È per la tua creatura: in te non ci può più essere altro che la madre!
Pure la Mary esitava ancora; e si lasciava mettere in croce continuamente. In seguito alla visita reale e all'inaugurazione dei lavori del Canale Barbarò, il commendator Pompeo era stato creato nobile di Panigale, e la Balladoro dichiarava "a tutti quanti" che avrebbe strozzato quella mata da ligàr, colle stesse sue mani, vedendola così ostinata nel rovinarsi.
—La dignità! Le memorie del passato! I giuramenti! Tutta roba bella e bona... ma per chi ga tanto in pentola, da poter dire le proprie ragioni!... A borsa vuota e a digiun, sono... mincionerie!...—Minchionerie inperdonabili! E in quanto alla mia eredità, non stia a far calcoli; il suo nome, sul mio testamento, non lo vede di sicuro!... Sarà questo per la sua punizion... e po'... Poi non son più giovane, è vero, ma forse una certa persona di garbo e di talento potrà preferire alla bellezza passeggiera dell'aseno, la devozione di una sposa fedele, congiunta al tenero cuor di una madre!
La Mary voleva resistere, resisteva ancora e lasciava sempre gridare la zia a sua posta, senza mai risponderle nulla; ma una sera Giulio si era aggravato, il bimbo aveva fame, la cameretta squallida e fredda mancava di tutto, e la Filomena, che avea sempre preso, tacitamente, le difese della Mary le mormorò anche lei a bassa voce:
—Bisogna cedere, padrona, il Signore vuol così!... Non ci aiuta più.
La Mary, disperata, proruppe in pianto, mormorando convulsamente:—padre mio!... Mamma mia, perdonatemi!
Sul tardi venne Donna Lucrezia come al solito, ma quella sera uscì raggiante dalla povera soffitta.
—Corocochè!... La Regina delle Antille anderà in scena di sicuro!
La Mary vinta, non dal proprio dolore, ma dal dolore dei suoi, aveva ceduto, e sarebbe stata posta di mezzo Donna Lucrezia per la riconciliazione.
Successa la pace nella nobile famiglia Barbarò di Panigale, la Mary e l'Angelica si videro assai meno frequentemente, per quanto il commendatore cercasse tutti i modi di mantenere stretta l'intimità fra le due cugine. La marchesa di Collalto schivava di recarsi in casa Barbarò per non incontrare il signor Pompeo, ma d'altra parte, non volendo che la Mary s'accorgesse della sua freddezza, si recava più di rado a Milano, e ci andava solamente nei giorni di visita al Collegio militare, dove Stefanuccio non si diportava troppo bene, e avea bisogno continuamente di prediche e di esortazioni. Era negligente, svogliato, e nemmeno mostrava molta intelligenza. Pieno del suo nome, dei suoi titoli, ogni anno si trovava al punto di dover ripetere gli esami, e ogni poco lo zio Diego doveva raccomandarsi ai suoi amici del Ministero della Guerra perchè non fosse mandato via dal collegio. Angelica ne soffriva assai, e dopo quelle visite, quando sapeva il Barbarò a Panigale, o a Roma,[209] non poteva resistere, e correva dalla Mary prima di ritornare a Gallarate, per sfogare con lei tutte le sue pene.
Questo stato di cose durò così parecchio tempo, finchè un avvenimento assai importante nella vita di Angelica sopraggiunse a mutare totalmente il suo tenore di vita.
Il marchese Alberto, colpito da un nuovo insulto apopletico, era rimasto per quasi tutto un anno immobile, senza poter muovere un dito, nè profferire una parola. Gli occhi soltanto gli erano rimasti vivi per ammiccare al cibo, e la bocca per inghiottirlo. Poi, una sera, la bocca storcendosi non si era più mossa, gli occhi eran rimasti aperti, ma fissi e vitrei: il marchese Alberto era morto del tutto.
La notizia arrivò subito a Milano, e prima ancora che si facessero i funerali giunse da Milano alla marchesa Angelica una busta suggellata col bollo della Banca degli interessi Lombardi Provinciali. Conteneva una cambiale del marchese Alberto, avallata dalla moglie, e che scadeva quel giorno stesso, accompagnata da un bigliettino rispettosissimo del Barbarò, il quale le diceva che sapendola in quel momento troppo sossopra per la disgrazia di cui era stata colpita, avea ritirato lui la cambiale, assicurandola in pari tempo che la Banca l'avrebbe rinnovata colla sola firma dell'Illustrissima Signora Marchesa.
"Che fare?..."
Angelica in sulle prime si sentì offesa da quell'atto. Ricorse allo zio Diego per aver modo di pagare subito la Banca, ma lo zio le rispose che non ce n'era affatto bisogno, dal momento che la Banca[210] stessa, com'era conveniente e naturale, le offriva il proprio credito.
—Il signor Barabao... Barabò non c'entra; deve essere stata una deliberazione presa dal Consiglio di sconto.—E siccome Angelica insisteva, il marchese con galanteria si dichiarò "desolato di non aver tesori da deporre ai piedini mignons della cara nipote.... ma soltanto i voti del suo cuore, ch'ella manteneva in uno stato di continuo bollore."
"Che fare?..."
Angelica, in quelle strette, in quello sbalordimento, non potè riparare il colpo; dovette vincersi, nascondendo il dispetto in fondo al cuore, e far buon viso alla garbatezza del commendator Pompeo, a cui inviò la nuova cambiale con due parole di ringraziamento. Il primo passo era stato fatto, e in breve, perchè quella cambiale non era la sola, e molti erano gli affari che, per la morte del marito, rimanevano alla marchesa da regolare, il Barbarò, legando destramente una cosa coll'altra, riuscì a circondare Angelica come da una fitta rete di cortesie. Sempre per gli affari, o colla scusa degli affari, trovò modo d'incontrarsi spesso con lei, e tornò finalmente ad andarle per casa. Si faceva in quattro per servirla, e si prosternava dinanzi al marchese Diego il quale lo trattava con alterigia, e consigliava alla nipote di star in guardia, di ricordarsi di Villagardiana.... ma poi non faceva nulla per aiutarla.
Angelica soffriva: soffriva nel suo amor proprio, nel suo cuore, nel suo sentimento di donna. Ogni volta che vedeva avvicinarsi il Barbarò, non poteva vincere un impeto di repulsione, ma era costretta a[211] dominarsi.... era bastato un momento, un momento solo, e ormai era stata presa. Pure, essa affrettava con ansia indicibile il giorno in cui tutti gli affari fossero accomodati, il giorno in cui sarebbe ritornata libera, in cui non avrebbe più dovuto sopportare la presenza e i servigi di quell'uomo.... ma se avea fretta lei, non aveva fretta il Barbarò. Col fascino assorbente del danaro, senza che Angelica se ne fosse accorta, era diventato il padrone di casa sua. Il nobile Barbarò di Panigale, deputato al Parlamento, non era più il signor Pompeo, ed ella pure sentiva, non potendo levarselo di torno, di doverlo trattare assai diversamente. Gli altri, dai creditori alle persone di casa, che andavano in visibilio quando arrivava lui, tutti dichiaravano che era stata una gran fortuna per la marchesa, e più per il marchesino, che Don Pompeo di Panigale avesse voluto occuparsi dei loro affari. Era un suffragio universale al quale, tanto più perchè c'era di mezzo suo figlio, Angelica non poteva, non osava ribellarsi.
E poi i danari, questa forza che il Barbarò sentiva di possedere, pareva avessero affinata anche la sua furberia. Al Villino delle Grazie egli aveva saputo rendersi necessario a tutti. Mance non ne dava, ma poteva rendersi molto utile con raccomandazioni. Un suo biglietto di visita poteva far la fortuna di un uomo, ed essendo prodigo di raccomandazioni e di biglietti di visita, diventava popolare a buon mercato.
Il marchesino Stefano, lo avea fatto suo vezzeggiandolo, adulandolo, facendogli credere che lo zio Diego era un ricco sfondato, e che l'unico erede doveva esser lui.
—Che bell'ufficialetto dovrete diventare!—gli diceva spesso.—E ve ne saranno da spendere, perchè se il babbo ha sciupato, lo zio ha provveduto!
Il giovinetto montava in superbia a quelle parole, e non faceva altro che sognar grandezze. Poi quando, più tardi, superati gli esami, si trovò libero a Torino, alla Scuola d'Applicazione, cominciò a spendere allegramente.... tanto più che gli era facile trovar quattrini, perchè c'era sempre qualche usuraio che gli si metteva alle costole, pronto a servirlo.
Per tutto ciò Pompeo di Panigale trionfava allegramente. Alla Banca non lo riconoscevano più: sempre attento agli affari, ma di buon umore. Siccome andava spesso al Villino delle Grazie, aveva mutato il vecchio carrozzone in una victoria elegantissima, e si era fatto canzonare comperando a gran prezzo, e per due puri sangue, una pariglia di poco valore.... Ma a un tratto, quando proprio era al sommo di tutte le speranze, arrivando una sera a Gallarate, vi trovò il maggiore Andrea Martinengo, che gli fu presentato dalla marchesa Angelica, cogli occhi lampeggianti di contentezza.
Il Barbarò fece una smorfia, che dovea essere un sorriso, abbondò di complimenti col maggiore, ma avea la voce grossa, e se ne andò quasi subito.
Non vedeva il momento di trovarsi solo!—Invece quando fu solo si sentì peggio. Era gonfio di gelosia e di odio.
—Quella santocchia mi ha ingannato! Si è servita di me come di un ragioniere! Mi ha tenuto buono, mi ha accarezzato finchè aggiustavo i suoi affari, e adesso che si crede a buon punto fa saltar[213] fuori l'amante e me lo butta in viso!... Svergognata! Sfrontata, peggio di tutte le altre!—Poi, sfogata l'ira, un altro pensiero lo accasciava.—Dunque.... si amano ancora?!... Dunque non è vero che quello spiantato l'abbia abbandonata!... Si amano! Si amano! Potessi farli crepare tutti e due!
Pompeo tornava a infuriarsi, e strapazzava il cocchiere perchè non faceva correre abbastanza i cavalli; ma poi a una voltata si arrabbiò perchè correvan troppo, e lo percosse col bastone sulla schiena.
Non poteva star quieto; e borbottava a mezza voce:
—Le pianterò a mezzo tutti gli affari! Penserà il maggiore a levarla dagli imbrogli. Sì.... Sì.... Domani le scriverò una lettera fulminante. Le voglio dire che non mi garba di portare il moccolo!
I cavalli correvano sempre in mezzo alla notte buia d'estate, senza stelle, senza chiaror di luna, pesa, soffocante. Un odor grasso di campagna faceva presentire la pioggia vicina. Pompeo tacque a un tratto, e si rincantucciò. Stette così lungamente, rimuginando e rodendosi i peli dei baffi.... Pensava.... pensava cogli occhi fissi, spalancati nel buio....
A un tratto si scosse, si rizzò a sedere, come per seguire un'idea che temeva gli sfuggisse.... e in fine, così solo, scoppiò in una sghignazzata.
—Ah! ah! ah!.... Sarà un colpo da disperato, ma non ho da scegliere; e poi, con questo, se non riescirò dove voglio, mi sarò almeno vendicato!
Il giorno dopo egli non scrisse nessuna lettera alla marchesa; invece continuò a prendersi cura de' suoi affari, andando al Villino delle Grazie colla solita frequenza, mostrandosi come prima servizievole e rispettoso,[214] facendo continui complimenti al Martinengo, e esprimendo il desiderio di entrare con lui in buona amicizia.
Il prossimo matrimonio di Angelica e di Andrea era già l'argomento del giorno nei vari discorsi dei conoscenti; ma ancora nè Angelica nè Andrea volevano accettare le congratulazioni. Per tale riserbatezza c'erano due ragioni del pari importanti: una di convenienza, perchè avevano fissato di aspettare che fosse compiuto l'anno di lutto prima di partecipare il matrimonio; l'altra di opportunità, non potendo ancora sapere quando si sarebbero maritati. Nè la marchesa, la cui piccola dote si poteva toccare, nè il Martinengo, che aveva solo la sua paga di maggiore, si trovavano in istato di poter fornire la cauzione. Per questo Andrea avea combinato, d'accordo colla marchesa, di dare le proprie dimissioni e di ammogliarsi appena avesse ottenuto, mediante il suo titolo d'ingegnere, un buon impiego alle strade ferrate. Intanto aspettavano tutti e due, volendosi ogni giorno più bene. Andrea avea chiesta l'aspettativa per ragioni di famiglia, e si era stabilito anche lui a Nuvolenta, vicino a Gallarate, nella stessa casa abitata per tanto tempo da Giulietto Barbarò. L'impiego alle strade ferrate non gli poteva mancare, nè doveva tardar molto a venire, tenuto conto della capacità di cui aveva dato[215] prova, della grande stima che godeva nell'esercito, e delle sue aderenze personali. La felicità dei due amanti era dunque sicura, e il suo compimento non presentava ostacoli; era appena questione di un po' di tempo. Nessuno poteva impedire il loro matrimonio, proprio nessuno, nemmeno lo zio Diego, che, potendo, lo avrebbe fatto molto volentieri.
—La marchesa di Collalto diventare la moglie di un impiegatuccio alle strade ferrate?!... Diventare la signora Martinengo, tout-court!... Era più che una mésalliance, era una dégringolade!... E non soltanto per il decoro del nome, il marchese Diego era irritatissimo, ma anche perchè temeva che i soldi dell'impiego fossero scarsi, e toccasse a lui, a metter mano alla borsa.
Quel matrimonio lo faceva diventar verde come i suoi capelli, e al club gli amici, quando volevano divertirsi alle sue spalle, glie ne facevano le congratulazioni. Allora il marchese montava in bestia, dava del babbuino al Martinengo, e della romantica sventata alla nipote.
—Che bisogno c'è di maritarsi?... Non era libera?... Non poteva fare tutto quel diavolo che voleva, senza impitoccarsi cogli impieghi?—E a chi, in proposito, gli citava la virtù, riconosciuta da tutti, della marchesa di Collalto, il vecchio filosofo rispondeva con un'alzata di spalle:
—La virtù?... Che virtù!... La virtù che apprezza il mondo è una sola, e consiste per gli uomini nell'aver quattrini, e per le donne nell'aver prudenza.
Ma poi, visto che l'arrabbiarsi e il gran predicare non portava nessun frutto, anche il marchese Diego si stancò, Non voleva perdere l'appetito, tanto più[216] che lo stesso Stefanuccio sembrava contento, e invece di gridare cominciò a sfogarsi burlandosi della nipote, chiamandola la signora Guarda-freno, raccomandandole di non mostrarsi troppo alla stazione, perchè avrebbe fatto perder la testa agli impiegati, e accresciuto il numero degli scontri.
In quanto a Stefanuccio, per altro, non era vero che fosse contento del matrimonio di sua madre; non gliene importava un fico. Per il Martinengo aveva la considerazione e il rispetto disciplinare che un allievo professa ad un maggiore di artiglieria: null'altro, e nulla più.
Il giovane scapestrato aveva ben altro in mente che il matrimonio di sua madre. Fra i debiti, i cavalli, il giuoco, le ballerine e la Scuola, era affaccendato tutto il giorno e tutta la notte, sempre colla testa sossopra, sempre in moto, sempre in ansia, trascurando la Scuola per rimediare ai debiti, dimenticando i debiti dietro le donne, trascurando le donne per i cavalli.
Ma se i debiti egli li dimenticava, v'era bene chi li ricordava per lui, e fra gli altri un omino piccolo, colle gambette storte ad arco, il viso da vecchietto e gli occhi loschi. Costui, col cilindro lustro e il grosso catenone d'oro dei giorni d'affari, era seduto a un tavolino del caffè Florian, coll'aria di chi vi aspetta qualcheduno. Ma il qualcheduno aspettato tardava a mostrarsi, e l'omino domandò a un cameriere se sapeva dove abitava il marchese Stefano di Collalto.
—Sissignore: abita in Piazza Vittorio Emanuele, numero 36.
—E... sapreste indicarmi a che ora è più facile trovarlo in casa?...
—Di solito non saprei dire, ma in questi giorni lo deve trovar di certo perchè è agli arresti: portava la visiera del berretto troppo piccola, e il generale Casanova lo ha consegnato.
L'omino sorrise, poi si alzò quasi subito, e scese lentamente i Portici di Po, avviandosi verso la Piazza Vittorio Emanuele.
Beppe Micotti, l'omino non era altri che lui, inviato dal Barbarò con un incarico delicatissimo, rimuginava intanto nella sua testa ciò che dovea dire al marchese.
—Lo liscieremo e lo aduleremo...—e subito trovatosi di fronte all'ordinanza, gli domandò se Sua Eccellenza il marchese era in casa, e lo pregò di andargli a domandare se si degnava riceverlo.
—Chi gli devo dire?...
—Serafino Bianchi,—rispose il Micotti che si era preparato lungo la strada anche a quella domanda.
L'ordinanza scomparve per un uscio a cristalli smerigliati e il Micotti rimase in anticamera ad aspettare. Dopo un momento, dietro i cristalli apparve un'ombra, e dalla fessura dell'uscio si mostrò un'occhio nero che spiava, e un pezzetto di testina riccioluta. Poi l'ombra scomparve, e si sentì squillare nell'interno della camera una risata argentina di donna. Intanto si presentò sull'uscio l'ordinanza ritta, impettita, e senza dir motto fe' cenno all'altro di passare, e gli chiuse dietro la porta, lasciandolo solo col marchese.
Stefano di Collalto si voltò per guardare il suo visitatore, e con la faccetta imberbe rideva ancora dietro alla ragazza che avea fatto scappare nel gabinetto di toeletta. Era un cosino lungo lungo,[218] magrissimo, straordinariamente calvo per la sua età, con la carnagione diafana e lentigginosa dei biondi rossicci.
Il signor Bianchi, col cappello in mano, gli fece un inchino umilissimo.
—Il signor marchese... non mi conosce di certo....
—No, non mi pare.
—Oh, io invece ho avuto l'onore di ammirarla spesso al Valentino a cavallo, e poi in Piazza d'Armi....
—Sarà benissimo!—rispose l'altro seccamente, squadrandolo d'alto in basso, e tenendolo in piedi, presso l'uscio. Il marchesino, dal preambolo, dubitò subito di aver a che fare coll'inviato di un suo creditore.
Invece, l'omino, era proprio un creditore in persona. Sempre col cappello in mano e sorridente, il signor Bianchi levò di tasca un grosso portafoglio, e dal portafoglio, con due dita, una cambiale che dopo fatto un altro inchino, presentò al marchese. Questi guardò alla sfuggita verso l'uscio del gabinetto di toeletta, poi invitando il signor Bianchi ad accomodarsi, gli tolse di mano il cappello che posò sopra una seggiola.
—Oh troppa bontà....
—Saperlotte! L'avevo dimenticata!—esclamò il marchesino dando un'occhiata alla cambiale. Poi calando il tono della voce per non farsi sentire nell'altra stanza:—Senta,—continuò,—non si potrebbe rinnovarla, per qualche giorno? Sono agli arresti, capisce, e non mi posso muovere, non posso provvedere.
—Si figuri!... Se dipendesse da me!... ma io, in questo caso, non fo altro che rappresentare il barone[219] Castagneto di Genova; una persona stimabile quasi quanto vostra eccellenza, e che me l'ha girata per l'incasso... solamente per l'incasso.
—E...—l'altro sorrise facendo l'occhietto al signor Serafino, come usava colle donne quando voleva essere irresistibile,—e... non si potrebbe telegrafare a Genova?...
—Conosco il signor barone, e so com'è fatto. Oggi, scaduta la cambiale, vuole che sia pagata, pronto domani a scontarne una nuova, com'è naturale, avendo da trattare con persona che ha un nome illustre, un ricco patrimonio presentemente, e un avvenire (quello che gli prepara l'illustrissimo marchese Diego di Collalto) di milioni parecchi.—E il signor Bianchi spiegò di nuovo la cambiale, mettendola distesa sul tavolino.
—E allora, quando mi conosce, e sa di poter essere sicuro, mi trovi il modo lei, di rinnovare questa cambiale a tre mesi. In fine non si tratta altro che di mille cinquecento lire, e se non fossi agli arresti....
—So benissimo, signor marchese, so benissimo, che in tal caso non avrebbe bisogno di me. Ma... gli è, vede... che io sono sprovvisto: non sono un banchiere, come il signor barone; sono un agente d'affari e nulla più. Tuttavia cercherò di servirla per due o tre giorni... intanto... regolata questa pendenza, potrà rivolgersi ancora al signor barone e, se crede, penserò io a tutto, mediante una provvigione.
—S'intende, s'intende....
—Io non sono un capitalista, ripeto, e vivo sugli affari che fo per gli altri.
Dopo una simile dichiarazione Stefanuccio si sentì[220] più tranquillo. L'amico, pensava, avea subodorato un buon affare, e per questo era venuto da lui con tanta premura.
Infatti il signor Bianchi, sempre più ossequioso, lasciò sul tavolino la cambiale scaduta, e si portò via la firma in bianco, per duemila lire, del marchese Stefano, che a quelle dimostrazioni di grande rispetto rizzava la testa e, gonfiandosi, faceva la ruota come un tacchino.
Per alcuni giorni l'agente d'affari non si fece vivo e Stefanuccio, prosciolto dagli arresti, si era già dimenticato di lui, del barone Castagneto, e della firma in bianco, quando vedendoselo una mattina comparir dinanzi al Caffè di Parigi, si consolò tutto, pensando che il signor Bianchi gli poteva procurare i quattrini che gli occorrevano per la beneficiata di madamigella Nicoly; un fiore esotico, e molto sbocciato, della compagnia equestre Ciniselli.
—Buone nuove?—gli domandò subito il Collalto che si era allontanato dai compagni, coi quali stava facendo colazione.—Buone nuove?
—Sì... e no, signor marchese.
—Fuori il sì!...
—Mi scusi, l'eccellenza sua, ma dovrei cominciare dal no.
Stefanuccio aggrottò gli occhi miopi.
—L'effetto... sa... non l'ho ancora potuto scontare.
—Quale effetto?
—Quello che mi ha lasciato in bianco, per duemila lire.
—Ah, sicuro! rispose Stefanuccio, lustrando l'occhialino colla pezzuola di battista.
L'altro lo guardò, disponendosi ad ascoltarlo colla più premurosa attenzione.
—Per la cambiale delle duemila lire, ci penserà... con comodo. A me occorrerebbe invece di conchiuder presto un altro affare....
La faccia verde del signor Bianchi si colorì a un tratto.
—Ecco... è appunto intorno a ciò che avrei buone notizie. C'è chi sarebbe disposto a trattare con lei.
—Il barone Castagneto?...
—No: qualche cosa di meglio... di molto meglio!
—Saperlotte!...
—Sarebbe un grosso banchiere di Livorno. Un mio corrispondente. Ma non ho voluto sciuparlo per la bagattella di duemila lire.
—Ha fatto benissimo!... Prende un cognac, signor Serafino?—Cameriere!... Cognac!
—Troppa bontà!... Appena ha udito il nome del signor marchese, m'ha detto Bep...—il signor Bianchi si corresse a tempo,—Serafino,—m'ha detto,—ti lascio trattare per sessantamila lire!
L'ufficiale ebbe una scossa che gli fece saltar la lente fuori dell'occhio, ma l'altro tirò dritto, imperturbabile.
—E quali sono le condizioni?—ho soggiunto io, volendo battere il ferro, mentre era caldo.
—Benissimo! Benissimo!
—Le condizioni sono presto dette.—E il signor Bianchi tacque un momento, per dar più importanza alle parole, mentre l'altro aspettava con ansiosa irrequietezza.
Il grosso banchiere di Livorno, per sua propria garanzia, voleva essere il solo creditore del marchese[222] Stefano di Collalto. Però, colle sessantamila lire, il marchese Stefano di Collalto doveva pagare tutti gli altri suoi debiti, e sottoscrivere una dichiarazione in piena regola, colla quale si obbligava a non firmare nessun'altra cambiale, nè come traente, nè come avallante, nè come giratario.
Le tratte, fino alla ricorrenza convenuta, delle sessantamila lire, sarebbero state rinnovate di tre in tre mesi, sempre che il credito del marchesino Stefano si mantenesse tale quale lo godeva presentemente.
Ma queste parole erano chiacchiere inutili. Stefanuccio non ci badava nemmeno. Egli pensava che con quel contratto, pagati tutti i suoi debiti (erano dalle trentacinque alle quarantamila lire) gli rimanevano ancora ventimila lire da spendere, ed era contento. Accettò senz'altro. In quel momento i tre mesi erano per lui un'eternità: avrebbe sottoscritto per qualsiasi somma, per qualsiasi cosa.
Due o tre giorni dopo tutto era stato convenuto e preparato, e verso sera, un poco prima che il marchesino uscisse per andare a pranzo, ci fu la firma delle cambiali. In piedi presso lo scrittoio, colla lente ficcata nell'occhio, colla sigaretta in bocca, col berretto sotto il braccio, e i gomiti appuntati, egli si sbrigò in fretta di quella noia, mentre il signor Bianchi lo guardava di sottecchi, rodendosi le unghie.
Ma anche quelle ventimila lire durarono pochino, pochino assai, nelle mani bucate dello sventatello. Già, bisogna notare, che ventimila proprio non erano mai state, perchè Pompeo Barbarò, che non voleva buttar via quattrini più del necessario, aveva imposto al Micotti di trattenersi il frutto dell'otto per[223] cento, e di più una provvigione di mille lire. Rimaneva sempre un bel gruzzolo, a ogni modo, ma il marchesino non aveva mai avuto tanto danaro fra le mani; e quel danaro non gli era costato nessuna fatica, e lo sciupava malamente, stupidamente, passando da una bottega all'altra colla foga, colla smania di spendere; empiendosi la casa di roba inutile, pagata il doppio del valore; invitando sempre qualche amico a colazione, e a pranzo; coprendo di regali madamigella Nicoly, che fece passare dal quartierino di via Borgo nuovo, al piano nobile dell'Hôtel D'Angleterre; giocando a rotta di collo, comperando un tilbury, poi un cavallo da tiro, poi un altro cavallo da sella.... In capo a un mese la cassa era vuota, e gli rimaneva ancora da pagare il tilbury, mezzo cavallo e il conto dell'Hôtel D'Angleterre. Madamigella Nicoly era partita per la Russia.
La marchesa, informata in parte della vita allegra del figliuolo, gli aveva scritto una lunga lettera per supplicarlo di aver molto giudizio. Gli ricordava che del babbo non c'era più nulla, che la sua dote era ben poca cosa; lo ammoniva di non farsi troppe illusioni sullo zio Diego, e tutto ciò scriveva in un modo che toccava il cuore e strappava le lacrime. E Stefanuccio pianse davvero: ebbe un giorno di luna, un altro di disperazione.... Anche il tempo aveva la sua parte. Pioveva sempre, con un buio, un vento caldo, un'uggia insopportabile.... Poi in fine, un bel mattino, Superga riapparì sulla cima ridente illuminata dal sole, e anche Stefano di Collalto si rasserenò. Scrisse alla "sua buona mammina" che era stata male informata, e che si mettesse il cuore in pace. Mademoiselle Nicoly era partita[224] per Pietroburgo, il tilbury lo aveva a prova da un amico, il cavallo era sempre quello, che serviva da sella e da tiro; il giuoco lo aborriva, i suoi compagni lo chiamavano il certosino, e lui non faceva altro che studiare, studiare, studiare, tanto che certe volte, gli doleva il petto. Finiva poi coll'inviarle "tanti baci" e col pregarla di ricordarlo con simpatia al carissimo Andrea. Scrivendo la lettera buona si sentì rimesso a nuovo, e allora, fischiettando un'arietta della Bell'Heléne, mandò pure un bigliettino al signor Bianchi:
"Carissimo,
La prego di farsi vedere quanto prima. Venga a cercarmi a casa mia; non al Caffè di Parigi, nè alla Scuola, e ciò per evitare pettegolezzi."
Il marchesino aspettò il signor Bianchi il giorno dopo; ma questi, nè il giorno dopo, nè il seguente non si lasciò vedere. Venne invece la sera del terzo, e a Stefanuccio sembrò assai mutato. Era meno espansivo; tutto pieno di dubbi e di reticenze.
Il ragazzo, tanto per incoraggiarlo, gli lesse una lettera molto affettuosa dello zio Diego.
—Scusi, signor marchese.... scusi se le fo una domanda.
—Dica, dica....
—Da quanto tempo ha ricevuta questa lettera?
—Da una quindicina di giorni.
—Gli è, vede,—continuò l'altro con un tono particolare e assai espressivo,—gli è che in questo tempo... il suo signor zio potrebbe essersi mutato.
—Chè! mio zio non si occupa de' fatti miei.
—No, no,—continuò l'altro lentamente, lisciando il cappello col dito.—Non si dubita di lei. Si dubita che il matrimonio della signora marchesa possa spiacere al marchese Diego.
—Nessuno ha diritto di occuparsi e di parlare di un matrimonio che non è stato ancora partecipato,—rispose Stefanuccio seccamente,—e ciò non deve entrare nei nostri affari.
Il signor Bianchi si scusò, mostrandosi mortificato.
—Ora, da lei, non voglio sapere altro che una cosa: potrei avere due o tremila lire, senza firmare nessuna cambiale?
—Non vuol sapere altro che questo?... Ebbene, no, signor marchese.
Stefano si scosse a quella risposta, si turbò, e guardò bene il signor Serafino.
—Nemmeno.... millecinquecento?... mille?...
—Oggi sa, eccellenza, gli ufficiali sono un po' in discredito presso la gente d'affari.
—Ma io.... io non sono il primo venuto.
—Nella società, nell'alta aristocrazia; ma sulla piazza, mi spiace doverlo dire, il suo nome non è più così solido, come due o tre settimane fa.
—Come mai?... Perchè ho perduto al giuoco qualche migliaio di lire?...
—Chi sa?... Forse per questo... forse,—e qui il signor Bianchi marcò le parole e lisciò il cappello ancora più adagio e ancora più forte,—forse.... per qualche altra ragione.... chi sa?...
L'ufficialetto camminò su e giù per la stanza, colla testa bassa e battendo gli sproni, ad ogni passo. Anche il signor Bianchi stava pensieroso, a capo chino. Non si lustrava più il cappello, che avea[226] messo sopra una seggiola accanto, ma gli anelli d'oro delle dita. A un tratto Stefano gli si fermò dinanzi, e gli domandò a mezza voce:
—Se si facesse la proposta a quello di Livorno.... di portare il suo credito a settan.... a settantacinquemila lire?
—Sarebbe uno sproposito. Se perde la fiducia c'è il rischio che alla fine dei tre mesi non voglia più rinnovare le cambiali.
—Questo è impossibile!—esclamò l'altro vivamente.—È obbligato a rinnovarle! Non è vero, signor Serafino che è impossibile? Che non farà questo tiro?
—Eh!—balbettò l'agente d'affari stringendosi nelle spalle, e alzando gli occhi al soffitto,—speriamo che non lo faccia!
La risposta non era troppo rassicurante; ma c'erano ancora due mesi di tempo alla scadenza, e il ragazzo non voleva cominciare a inquietarsi così per tempo. Del resto era convinto che quella titubanza fosse una tattica dell'omino per farsi valere, e guadagnare un'altra provvigione. Fatta una scrollatina, accese una spagnoletta; e persuaso che con quella gente lì non bisognava mai mostrare di averne troppo di bisogno, se ne sbrigò con poche parole:
—Lei ha capito, signor Bianchi. Se mi può trovare qualche migliaio di lire, ci sarà un buon regalo.
Il signor Bianchi se ne andò mogio mogio, senza dire quando sarebbe tornato, ma il marchesino era sicuro di rivederlo presto coi danari in tasca. Invece non si fece più vivo, se non una settimana prima dello spirare dei tre mesi. Nel frattempo Stefano di Collalto avea vissuto di espedienti; aveva venduto il[227] tilbury, i cavalli (anche quello che gli rimaneva da pagare per metà) oltre a due selle inglesi.
—Senta,—furono le prime parole ch'egli rivolse al signor Bianchi appena lo vide entrare, senza osservar subito che era vestito molto dimesso e aveva il viso stravolto.—Senta, ella mi deve trovare la piccola somma occorrente per i frutti del rinnovo delle sessantamila lire, o ottenermi almeno che quello di Livorno, aggiunga i frutti al ca....
Ma l'altro non lo lasciò finire: spalancò le braccia, mormorando con un singulto:—Altro che frutti!... Altro che rinnovo!... Siamo traditi!... Un momento fa ho ricevuto lettera da Livorno. Cose terribili: non rinnovano più niente!
—Cheèh!—rispose il marchesino impallidendo e curvandosi, quant'era lungo, per guardare in viso il signor Serafino.
—Ah, signor marchese, signor marchese!... mi lasci parlare.... non mi chiuda più la bocca come l'altra volta: è il matrimonio della sua signora madre che rovina lei, che rovina ogni cosa! Non se n'abbia a male, eccellenza, perdoni il mio ardimento, ma al punto in cui siamo bisogna dir tutto;—devo dir tutto.
—Si spieghi.
—Ma....
—Avanti!
—La gente d'affari è sospettosa, paurosa....
—Avanti!—ripetè Stefano battendo i piedi.
—E la fiducia... è riposta soltanto nell'eredità dell'illustrissimo signor marchese di Collalto.
—Questo si sapeva! Ebbene?...
—Ma ora che il marchese Diego va dicendo che[228] il matrimonio della sua signora madre è il disonore della famiglia, e che....
—Non sono io che mi sposo!...
—Ma l'illustrissimo signor marchese dice di averla anche con lei, perchè non si è mosso, perchè non ha impedita la cosa, perchè invece se ne mostra contento, e dichiara a tutti, e grida forte, che nemmeno a lei non lascierà più un soldo!... Tanto forte grida che l'han sentito fino a Livorno, e le cambiali non le vogliono rinnovare!
—Questa, per altro, è un'azionaccia! Avevo la parola per il rinnovo, e ci contavo!
—Oh Dio, si sa bene, la parola.... È al danaro che tengono. D'altra parte... anche in quanto alla parola... loro si vantano di essere in regola.
—Canaglia!...
—Non ricorda la clausola?
—Quale clausola?!... Mi faccia il piacere, anche lei, di non inventarmi storie!—strillò il marchesino sempre più infuriato.
—Scusi, ma....—Non si riscaldi per amor del cielo!... Dopo si sentirà male!...
—Non ci dovrà pensar lei, se mi sentirò male!... Un tiro simile... a bruciapelo.... Mi avesse almeno avvertito in tempo!...
—Ho ricevuto la lettera in questo punto....
—E mi parla di clausole!—continuava a gridare il povero ragazzo, pestando i piedi, camminando rabbiosamente in su e in giù per la stanza.
Il signor Serafino, a buon conto, stava sempre vicino all'uscio: non si sentiva troppo sicuro.
—Legga... legga, signor marchese, la lettera di convenzione. Dice espressamente: "le cambiali saranno[229] rinnovate di tre in tre mesi sempre che il credito del marchese Stefano di Collalto si mantenga quale lo gode presentemente...." E a Livorno invece si crede che, dopo le chiacchiere, le lagnanze e le dichiarazioni del marchese Diego, anche il credito ne abbia molto scapitato.
Stefanuccio, a tali parole, passò dalla collera all'abbattimento il più profondo.
—Mi salvi, signor Bianchi, mi salvi o... succederà una catastrofe!
Il signor Bianchi, inorridito, gli fe' cenno di non dire di quegli spropositi.
—Se fossi in lei, cercherei piuttosto di indurre la marchesa a... a piegarsi al desiderio dello zio. Lo zio è vecchio, la sua signora madre è giovane ancora e... potrebbe aspettare.
—No, mai. Non domanderò mai a mia madre di sacrificarsi per me.
—Che bel cuore!—esclamò il signor Serafino guardando Stefanuccio con ammirazione.—Ma il bel cuore guasta sempre gli affari buoni!
—Mia madre... è sempre stata una....
—Gran dama!
—Una martire....
—Vero, vero!
—.... E io non voglio attraversare la sua felicità. No, no!... Piuttosto, le ripeto, succederà una catastrofe, e il rimorso lo dovrà sentir tutto lei!...
—Per amor del cielo,—io?...
—Sì: è stato lei che m'ha messo in un simile impiccio. Non sapevo io che fossero al mondo nè lei, nè il suo strozzino di Livorno!...
L'ufficiale tornava ad accendersi. Il signor Bianchi[230] si strinse la fronte e gli occhi colla mano come per concentrare i pensieri, poi, dopo un momento di silenzio, "Finiremo" disse "donde avrei dovuto cominciare. Stasera stessa col diretto delle sette vado a Genova, propongo l'affare al barone Castagneto, e domani son di ritorno colla risposta."
—Bravo!... Avevamo dimenticato il barone Castagneto!—esclamò Stefano consolandosi subito.—Egli non era fatto per soffrire. Pensò invece di ingrazionirsi il signor Bianchi e, per renderlo più caldo nel servirlo, uscì con lui, facendo i portici insieme, a braccetto (a quell'ora i suoi conoscenti erano a pranzo, e sperava di non esser visto); gli offrì un rhum al caffè di Roma, e in fine gli strinse forte la mano nell'accomiatarsi, non senza raccomandargli di ritornare subito, con buone notizie. Raccomandazione che, invero, dopo il grande onore che gli aveva fatto, stimava un di più. Era sicuro che l'omino si sarebbe fatto in quattro per corrispondere alla sua benevolenza, come era sicuro di aver proprio sbandito ogni pericolo. Anzi, dopo pranzo, quando venne l'ordinanza al Caffè di Parigi a portargli lo spençer, gli passò fra le mani, senza farsi scorgere dai compagni, un biglietto da portar subito alla Stazione Centrale, al signor Serafino Bianchi. In quel biglietto gl'ingiungeva di trovar modo, nel trattar l'affare, di combinarlo addirittura per settantamila lire.
—Sta a vedere,—pensò poi il marchesino quando l'ordinanza se ne fu andata.—Sta a vedere che, dopo tanto chiasso, finirò col guadagnare diecimila lire!—e allegro e contento fece portare una bottiglia di Sciampagna da bersi cogli amici.
L'ordinanza ebbe un bel cercare alla Stazione Centrale il signor Serafino Bianchi. Invece di partire col diretto delle sette, egli era partito col direttissimo delle otto e un quarto... almeno così disse la sera dopo, al marchese Stefano, che lo interrogava in proposito. Quanto poi al combinar l'affare per settantamila lire, invece di sessanta, erano ancora in tempo perchè anche il barone Castagneto aveva risposto picche. Ma pure il diavolo non era tanto nero come il dì prima; anzi il signor Serafino aveva trovato a Genova la persona che prestava i danari, ma bisognava aspettare un quindici giorni, perchè la somma era impiegata a mutuo, e il mutuo non spirava altro che fra un paio di settimane.
—Allora è come non averli,—rispose l'officialino impensierito.—A me occorrono subito.
—Si può offrire un regalo al mutuante e ottenere che paghi la somma prima della scadenza.
—Sicuro!... Bravo!... Così si deve fare!...
Il signor Bianchi fece un sorrisetto di compiacimento.
—E mi assicura che si potrebbe combinare per settantamila?
—Anche per settantacinque.
—Faccia, faccia tatto lei, come le pare, scriva[232] subito, per il regalo, per i frutti. Mi dirà poi anche la provvigione che le devo. Mi metto nelle sue mani!...
—Ci sei da un pezzo, carognetta,—pensò il signor Bianchi, mentre s'inchinava profondamente.
Stefanuccio era soddisfatto, e anche il giorno dopo si sentiva allegro e leggero, senza quell'uggia addosso, che par foriera di cattive nuove. Eppure il signor Bianchi non ne aveva di buone da dargli. Il mutuante non poteva pagare altro che al giorno preciso della scadenza.
—Saperlotte!... come si fa?
—Scriverò a Livorno: cercherò, pagando, di far pazientare altri quindici giorni.
—E crede, signor Serafino, che riusciremo?
—Perchè no?... in fine, non si domanda altro che quindici giorni.
—E c'è da guadagnare. Faccia lei, combini lei. Posso star tranquillo?... mi assicura che posso star tranquillo?
—Direi di sì.—E per non perder tempo il signor Bianchi scrisse la lettera lì su' due piedi, la fece leggere al marchesino, e la portò subito alla posta.
Intanto passavano i giorni, quello della scadenza era imminente, e non si era a capo di nulla. Anche da Livorno era venuta una risposta tale da mandare il signor Serafino su tutte le furie.
"Non si rinnova senza la firma del marchese Diego di Collalto. In questo caso siamo disposti a portare la somma fino alle ottantamila lire."
Il buonumore di Stefanuccio si era dileguato il signor Bianchi passeggiava sbuffando.
—Non è più possibile avere un soldo!... Bisogna lasciar protestare!
—Protestare?...—ripeteva Stefanuccio, sbigottito.
—Protestare!... È la rovina!... È il disonore!... Che colpo dovrà essere per la illustrissima signora marchesa!... Un colpo mortale!—E il marchese Diego?... Nelle disposizioni d'animo in cui si trova?!...—Così, invece di medicar la ferita al povero ragazzo, il signor Serafino l'inaspriva sempre più; e ogni poco barbottava fra i denti le parole del telegramma spietato:
"Non si rinnova senza la firma del marchese Diego di Collalto!..."
—Canaglia!... Canaglia!... Cana....—A un tratto il signor Serafino si fermò, colla bocca aperta, come sopraffatto da un'idea nuova, e fissando gli occhi in viso al marchesino gli si avvicinò lentamente.
—Ha trovato qualche cosa di buono, signor Bianchi?
—Scusi... come si chiama lei?...
Stefanuccio lo guardò senza rispondere, maravigliato da quella domanda.
—Mi dica il suo vero nome di battesimo.
—Stefano!—rispose il marchese, con un'alzata di spalle.
—Stefano? soltanto Stefano?...
—Stefano, Diego, Maria....
—Diego!—esclamò il signor Serafino giubilante.—Siamo salvi!
—In che modo?
—In un modo semplicissimo, e che a suo tempo sveleremo a quella canaglia di Livorno, che dovrà rimanere con un palmo di naso. Ha mancato di parola con noi?... Ci vuol strozzare per un capriccio, perchè infine non si tratta altro che di un capriccio?...[234] Ebbene, noi alla nostra volta lo pigliamo in trappola!
Il marchesino, senza capir nulla ancora, seguiva coll'occhio, e colle labbra atteggiate a un sorriso ebete, le parole del signor Bianchi.
—Lei lascia il suo primo nome di Stefano nella penna, e firma le cambiali Diego di Collalto....
—Chè?... È matto!...
—Senza falsificare il carattere, ben inteso: fa soltanto la firma un po' più grossa....
—È matto.
—Io stesso mando le cambiali a Livorno—continuò il signor Serafino senza lasciarsi scuotere da quelle interruzioni—con una mia accompagnatoria. lo non nomino alcuno; non dico se le ho avute dall'eccellenza vostra, o dal marchese Diego. A Livorno, appena le ricevono, le chiudono in portafoglio, e fra un paio di settimane vado io stesso a riprenderle. Allora mi deve permettere, signor marchese,—aggiunse riscaldandosi,—mi deve permettere di dare una buona lezione a tutta quella gentaglia, Voglio insegnare laggiù come devono trattare colle persone di alto bordo. Credono forse d'aver per le mani un mercantuccio, un plebeo, uno spiantato qualunque?... Non le pare?
—Non mi pare niente affatto. Lei mi propone una firma falsa!
—Firma falsa?... Mi offenderebbe, signor marchese, se invece non dovessi ammirarla, anche per questi scrupoli, ohe svelano il gentiluomo compito. Firma falsa?...—in che modo? O che non sono nomi suoi Stefano, Diego e Maria?...—Firma falsa?... Non Le dico già d'imitare un'altra scrittura e nemmeno di[235] alterare la sua. Scrivere il nome un po' più grande o un po' più piccolo, è poi la stessa cosa!
—No, non mi pare.
L'ira del marchesino si era un po' calmata. Non era convinto, ma sentendone parlare a lungo tranquillamente, la proposta non gli faceva più tanto orrore. Stava a sentire quell'altro lisciandosi colla mano tesa il cranio pelato, e raccogliendo in una ciocca sull'orecchio, i lunghi capelli della nuca.
—Del resto, caro signore marchese, lei è molto giovane... mi perdoni... è quasi un ragazzo ancora! in certi pasticci, per fortuna sua, non c'è mai stato, e non conosce ancora tutte le arti, tutti i ripieghi degli strozzini. Firma falsa!... Bisogna distinguere. Lei non sa, per esempio, che io conosco capitalisti i quali, adesso che han tolto l'arresto personale, obbligano il debitore, per essere più sicuri di averlo nelle mani e di essere pagati alla scadenza, a mettere un'altra firma, oltre la propria, sulla cambiale? Questa è una firma falsa, ma non è una frode: l'hanno messa d'accordo!
—Nel caso mio non c'è questo accordo.
—Nel caso suo, signor marchese, non c'è nemmeno la firma falsa!
—Lei stesso, poco fa, mi diceva: noi alla nostra volta lo si piglia in trappola!
—È vero, ma che cosa arrischia quel cane?... Siamo sicuri di aver la somma del mutuo fra una quindicina di giorni. Il Genovese non ci ha lasciato una promessa scritta?... Ci pensi un poco, signor marchese, perchè anch'io sono una persona onorata, e ne' miei affari non c'è mai stato niente di men che onesto!... Ci pensi, e mi dica se io le ho[236] mai fatto una proposta simile, quando non eravamo ben sicuri di avere i danari?... Oh, se i danari ci sono, se son nostri (carta canta!) dobbiamo far morire di crepacuore una buona signora... e perdere un'eredità di parecchi milioni, perchè siamo caduti fra le mani di una canaglia di livornese?... Ci pensi, marchesino.... Io sono un minchione e posso sbagliare, ma sono un uomo di cuore.... Ci pensi bene. Al punto in cui siamo non c'è altro scampo: o firmare o lasciar protestare.
Stefanuccio ebbe un fremito, ma si vinse subito, e continuò a lisciarsi la testa e ad accomodarsi i capelli colla mano.
—Dica tutto quello che vuole, signor Bianchi, non riuscirà mai a persuadermi.
—E allora... lasciamo protestare!...
Ma invece il protesto non ci fu. Il giorno dopo il signor Bianchi si trovò due volte col marchesino, e tante gliene disse che lo persuase. "Non c'era tempo da pensarci... L'ora della scadenza era sonata...." Il signor Bianchi gli mostrò ancora la dichiarazione del capitalista di Genova; gli evocò dinanzi lo spettacolo terribile della rovina; la collera dello zio, la disperazione della mamma, tutti i bei sogni di avvenire svaniti... e il ragazzo firmò.
—Un altro favore mi deve fare, caro marchese,—gli disse il signor Bianchi mentre ripiegava le cartoline.
Stefanuccio lo guardò smarrito....
—Mi deve permettere di regalare cinquecento lire a quella canaglia di Livorno, quando andrò a riprendere le cambiali.
—Oh sì, sì! questo sì! anche mille!—esclamò[237] Stefanuccio con enfasi.—E mi assicura proprio... che non corro nessun rischio per quanto abbiamo fatto?...
—Si figuri!—esclamò il signor Serafino, e scappò via. Aveva fretta di mandare le cambiali a Livorno, perchè non c'era tempo da perdere.
Il ragazzo rimase un paio di giorni sopra pensiero. E se il tiro fosse stato scoperto?... E se a Livorno si vendicassero denunciandolo?... Se scrivessero al colonnello?... Ma poi, gli giunse il vaglia bancario colle migliaia di lire della differenza, e tornò a non pensar più ad altro che a spendere. Non c'era nulla da temere.
Le cambiali, e ne aveva una prova nei danari ricevuti, ormai dovevano essere state accettate senza sospetti, e se poi fosse anche successo un qualche ritardo per l'altro affare di Genova, il signor Serafino, che s'era portato via al solito le firme in bianco, aveva detto che, per ogni buon conto, voleva che la rinnovazione fosse per un mese.
Per un mese dunque poteva darsi pace. Ma invece, in capo a una settimana, egli ricevette un telegramma da sua madre che lo chiamava sul momento a Milano. Lì per lì ne rimase atterrito e subito pensò al signor Bianchi, ma dopo un poco, riflettendo che alla scadenza c'erano ancora più di venti giorni tornò a farsi cuore; domandò una breve licenza per esser più sicuro di ottenerla, e partì per Milano quanto più presto gli fu possibile.
Ma durante il lunghissimo tragitto, la campagna deserta e bigia sotto il cielo annuvolato, cogli alberi scoloriti, senza fremiti di vento nell'afa accidiosa, lo riempiva di tedio, e tentava invano di vincere la tristezza[238] invadente con qualche allegro pensiero. Voleva persuadersi che il telegramma non annunziava nulla di grave, e lo leggeva ogni tratto attentamente, ansiosamente, studiando le parole a una a una. Il tono era laconico e imperativo... ma era lo stile dei dispacci....—Contò le parole: erano dodici soltanto....—Ci potevano stare anche i saluti!—E poi, perchè aveva firmato tua madre?—Di solito firmava sempre la mamma!...
Si provò a dormire, ma non poteva. Non poteva nemmeno fumare. Il sigaro gli si spegneva ogni poco fra le labbra. Era solo nel carrozzone vuoto e ciò gli cresceva la malinconia. Il treno faceva fermate lunghissime; il cielo diventava sempre più scuro, e finalmente cominciò a piovere: una pioggerella fitta che crepitava sui vetri e penetrava nelle ossa. Stefano, rannicchiato in un cantuccio del cupé, cogli occhi fissi ai cristalli appannati dalle spesse gocciole stillanti, aveva sbadigli di noia e tremiti di freddo. Il fischio lungo della locomotiva gli irritava i nervi, e in mezzo a quella tristezza plumbea senza confini la cornetta del cantoniere risonava lugubremente come voce di sotterra. Le piccole stazioni cogli smorti fanali rilucenti sulle pozze fangose, erano spopolate. Soltanto i conduttori, come ombre nere incappucciate, correvano sbattendo gli sportelli, gridando, leticando, diguazzando sotto la pioggia. Nessuno scendeva, nessuno montava: la vaporiera soffiava immobile.—Pronti!—gridava il conduttore.—Pronti!—rispondeva da lontano un'altra voce più fioca. Sibilava il fischio acutissimo: sonava rauca la cornetta: ma la vaporiera soffiava immobile.
—Auf!... Che treno infame!...—Stefano borbottava,[239] batteva i piedi.... finalmente le ruote stridevano, le catene cigolavano, si urtavano i carrozzoni con fracasso, il treno si moveva, e il marchesino tornava a rannicchiarsi con un sospiro di sollievo. Una volta gli cadde lo sguardo sul numero del cupé; era il 113, e quel tredici gli fe' provare un senso di cattivo augurio,—ma che!... era proprio inutile inquietarsi per le cambiali!—Certo, lo chiamavano a Milano per qualche novità circa al matrimonio. Forse quell'egoista dello zio Diego, tormentava la mamma....—Povera mamma, tanto buona!
Il ragazzo avrebbe voluto che si trattasse proprio della mamma, e sentiva che l'avrebbe difesa con tutto il cuore.—Povera mamma!... Tanto buona!
La notte calava oscurissima; alla noia gli si aggiungeva la molestia dello stomaco vuoto, e le inquietudini, allontanate ad una ad una, ritornarono a un tratto tutte insieme.
—Se quel cane del Bianchi mi ha tradito, lo strozzo con queste mani!...
In fine, l'affanno, la smania era tanta, ch'egli avrebbe preferito di saper subito la verità, qualunque fosse, piuttosto di soffrir ancora per due ore quell'agonia.... Ma invece quando il treno rallentò il moto sotto la gran tettoia innondata di luce della stazione di Milano, e cacciato il capo fuori del finestrino vide sua madre che lo aspettava, egli avrebbe voluto essere ancora lontano. Dal pallore, dall'espressione del suo viso, dal modo stesso con cui essa gli veniva incontro, capì subito, con una stretta al cuore, che non si era ingannato ne' suoi timori e che quel furfante lo aveva rovinato.
—Mamma! Mammetta cara!—esclamò correndole incontro ed abbracciandola, con straordinaria effusione.—Che cosa è successo per spaventarmi così?... Temevo tu fossi ammalata!...
Angelica si lasciò baciare, ma non abbracciò suo figlio, e con voce rotta, mormorò:
—Lo zio sa tutto! È in una collera terribile!... Non vuol far nulla per salvarti!
Le cambiali delle ottantamila lire, colle firme false, erano capitate all'improvviso, proprio come un uragano d'estate, in mezzo alla tranquillità serena e ridente della buona Angelica.
Il primo colpito era stato il vecchio zio, grazie a un bigliettino del commendatore Barbarò col quale gli si dava avviso che alla Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali erano stati girati da Livorno, per l'incasso, vari effetti colla sua firma.
Diego di Collalto si precipitò alla Banca e fu ricevuto subito dal Commendatore, in persona, il quale, al vederlo, licenziò con un cenno il segretario ch'era nella sua stanza.
—Non c'era bisogno di tanta premura!... S'accomodi; prego.... C'era tempo tutt'oggi, e anche domani, fino alle due.
Il vecchio guardò Pompeo con un piglio suo particolare tra l'altezzoso e l'impertinente, e aprì la bocca per parlare:
—Ma...—e si fermò. Il banchiere, sorridendo ossequiosamente, levava dal portafoglio varie cambiali, che spiegò sullo scrittoio.
—Ma.... ci deve essere uno sbaglio di nome....
—Marchese Diego di Collalto?...—rispose Pompeo lentamente.—Ce ne sono altri del suo illustre casato, che portino lo stesso riverito nome?...
—No....
—Allora guardi bene,—e gli porse una cambiale.—Può capire chi abbia falsificato il suo nome?
Il marchese Diego fissò gli occhi sulla firma, poi, facendosi livido, borbottò più col moto istintivo delle labbra, che non colla voce, alcune parole, che l'altro afferrò a volo.
—Suo nipote?—domandò piano, andandogli più. vicino.—Suo nipote?...
Il marchese si lasciò cadere sopra una poltrona: pareva fulminato.
Pompeo sospirò profondamente, gli prese una mano, e la strinse forte per fargli coraggio.
—Le dico il vero, sospettavo qualche cosa di simile.... Per questo mi sono preso la libertà di scriverle preventivamente, e ho voluto parlarle in persona, così tutto può rimaner segreto fra noi due. In pari tempo ho l'onore di offrire i miei servigi al signor marchese, dato il caso che... le facesse comodo la dilazione di alcuni giorni al pagamento.
Il vecchio, alla parola pagamento, saltò in piedi infuriato.
—Dilazione?... Pagamento?... Che pagamento?... lo non pago niente!... Nemmeno un soldo!...
—Ci penserà, signor marchese, ci penserà meglio,[242] e muterà proposito. Se così facesse, il marchese Stefano sarebbe rovinato irreparabilmente.
—Me ne lavo le mani!... non lo riconosco più!... una canaglia! un truffatore!... non lo riconosco più.!... non voglio più averci che fare!... me ne lavo le mani! me ne lavo le mani!—e il vecchio girava per la stanza, accompagnando l'atto alle parole.
—E l'illustre nome dei Collalto?... Lo scandalo grandissimo... è un'ingiustizia, signor marchese, posso ammetterlo, ma toccherebbe anche lei....
—Anche me?
—Il marchesino è il continuatore della famiglia!...
—E che la famiglia si fermi!...
—Nessuno del... nostro ceto, perdonerebbe a lei di non evitare lo scandalo. A lei... che in fine può farlo.
—È grossa la somma?—domandò l'altro con voce fioca.
—Ottantamila lire.
—Ottantamila lire!—gridò il vecchio, ritrovando a quella risposta tutta la forza dei suoi polmoni.—Ottantamila lire?... Dovrei pagare ottantamila lire? È matto, lei. Non le ho nemmeno io, ottantamila lire!
Il Barbarò strizzò l'occhio con un sorrisetto.
—Il signor marchese non ha da far altro che comandarmi.
Il vecchio guardò fisso l'ex-portinaio, poi storcendo la bocca e alzando le spalle con un moto significantissimo:—A mia disposizione,—pensò,—per strozzarmi di sotto mano;—ma pensò soltanto e non disse niente di simile: tornò invece a sfogarsi contro il nipote.
La sua collera era tanto più terribile quanto meglio[243] egli capiva che in fondo il Barbarò non aveva tutti i torti, e che per la gente, per l'onore del nome, per continuare ad essere ben accolto e rispettato in società, avrebbe dovuto finir col pagare.—Pagare ottantamila lire per i vizi di un ragazzaccio antipatico, e che adesso sentiva di odiare!... Pagare ottantamila lire perchè la madre di quello sciagurato non era mai stata altro che una romantica senza testa!...
—E se non... se non si pagano, che cosa succederà?—domandò alla fine, a denti stretti.
—Prima il protesto, poi, scoperta la falsificazione delle firme, l'arresto personale.
Il marchese Diego trasalì suo malgrado.
—E... ci sarebbe tempo... fino domani alle due?...
—Domani e anche dopo; tutto il tempo che vuole!—esclamò Pompeo con un inchino.—Mi basta una sua parola, signor marchese. Con una sua parola metto le cambiali, come si dice, sotto il calamaio!
Diego di Collalto borbottò alquanto, guardò in fretta l'orologio, poi si rivolse nuovamente al Commendatore.
—Vado subito a Gallarate a prendere mia nipote... la condurrò qui da lei.... Sentiremo, vedremo che cosa ha in animo di fare.
Gli occhietti loschi del Barbarò sfavillarono, e le sue guance avvizzite si accesero subitamente.
—Io già,—continuò il marchese,—non pago niente. Ottantamila lire non le ho, e non voglio mettermi a contrar debiti per gli altri, io che non ne ho mai fatti per me. Stasera lei, sarà ancora visibile alla Banca?
—Certo!... Si figuri!... ma la signora marchesa[244] non deve incomodarsi, diamine! Mi recherò io stesso a inchinarla, dove la signora marchesa mi vorrà far l'onore di ricevermi. Diamine, diamine!... Si figuri! Stasera, anzi, dovevo andare a Roma... volevo parlare alla Camera a proposito dei dazi protettori—(il deputato Barbarò, a sentirlo, doveva sempre parlare alla Camera, e viceversa non apriva mai bocca)—ma ci rinunzierò e mi fermerò a Milano. Per bacco baccone!... Da tanti anni sono... sento... la più gran devozione per la nobile famiglia dei marchesi di Collalto e non vorrei, per tutto l'oro del mondo, rifiutarle proprio adesso, in un momento così... così grave, la mia umilissima servitù.
Il vecchio sorrise con una smorfia e un cenno del capo, che potevan passare per un ringraziamento.
—Guardi bene, per altro,—soggiunse dopo un istante di silenzio,—di non compromettermi con la marchesa, e anzi, mi faccia questo piacere, di aiutarmi a tener fermo. Io voglio sperare che riunendo tutto ciò che rimane a... a quella gente, potranno ancora, se non subito, con un po' di quiete, riparare questo colpo....
Pompeo scosse il capo in segno negativo.
—E allora, peggio per loro!—strillò il marchese tornando a infuriarsi. Io non voglio subire una débâcle per i vizi di mio nipote. Ottantamila lire?... In pochi mesi?—Se fossi anche tanto imprudente da pagare oggi, mi assicura lei che avrei finito, e che sarei sicuro di non dover domani ritornar da capo?
—Oh per questo non c'è da illudersi, il marchesino ha il vizio nel sangue; ha la prodigalità ereditaria. [245]Talis padris...—e il commendatore interruppe il latino che non gli veniva bene con una volgare sghignazzata.
—Vede dunque—esclamò il Collalto cogliendo la palla al balzo.—Vede dunque?... sarebbe inutile!... mi sacrificherei per niente!... mi dà ragione anche lei!...
—No, scusi, signor marchese; non posso darle ragione. Sono disgrazie che quando capitano in una famiglia, bisogna portarne tutte le conseguenze. So anch'io che il boccone è amaro da ingoiare, tanto più col pericolo di tornar da capo..., ma d'altra parte, le par possibile di poter lasciar mettere in prigione suo nipote il suo unico nipote, un Collalto?...—E il processo, signor marchese? E la pubblicità dei giornali?...—Capisce bene, il nome sarebbe rovinato per sempre, e lei, lei stesso, non potrebbe più vivere in società, tenere quel posto così eminente che ha nella nostra aristocrazia....
Il marchese non diceva più una parola: sbuffava di rabbia.
—E poi, oltre all'onore,—continuava spietatamente il Barbarò con un risolino ironico che gli spuntava sulle labbra in mezzo alle espressioni affettatamente ossequiose,—oltre all'onore ella deve compiere il sacrificio delle ottantamila lire anche per quella povera signora....
Il vecchio fece un'altra scrollatina di testa.
—Sì, anche per la signora marchesa,—continuò mellifluamente il commendator Pompeo.—Essa è in tutto degna dei più grandi sacrifici: anche un milione, sarebbe bene speso per la marchesa!...
—Angelica?... mi faccia il piacere!—rispose Diego di Collalto, indispettito dall'enfasi improvvisa del suo[246] interlocutore.—Mi faccia il piacere!... Non è altro che una matta... un'egoista!... una linfatica sentimentale, piena di romanticherie!... Se fosse stata una donna di cuore, una donna di testa, avrebbe pensato a collocarsi in modo da assicurare il proprio avvenire e quello del figlio!—A questo punto il nobile Pompeo di Panigale non sorrise più, si fece serio, quasi melanconico, e sospirando alzò gli occhi al soffitto, per chiamarlo a testimonio del proprio dolore.
—Io l'ho sempre ammirata quella signora,—disse poi, mettendosi una mano sul cuore.—Ho trovato in lei virtù... virtù straordinarie. Per parte mia, le ripeto, sarei disposto a spendere un patrimonio, pur di vederla soddisfatta. Oh vorrei essere in lei, signor marchese, lo confesso con tutta sincerità.... Vorrei essere in lei, per avere il diritto di proteggerla, di consolarla, di collocarla, per modo di dire, sopra un trono... un trono d'oro!—E il signor Pompeo, così parlando era tanto accalorato e commosso, che il vecchio marchese, quantunque miope, se ne avvide, e ne rimase colpito.
—Povera signora,—riprese il Barbarò dopo un momento di pausa,—è sempre stata sfortunatissima, come moglie, come madre e adesso....—Qui fece una reticenza, strinse le labbra sottili, ove il risolino tornò a comparire—adesso—concluse è capitata fra le mani di uno spiantato qualunque, che la inganna colle dimostrazioni del perfetto amore, ma che invece non mira, ad altro che al suo avvenire.
—Avvenire?... Quale avvenire?—domandò il marchese cogli occhi sfavillanti dietro le lenti, e coi baffi più ritti del solito.
—Non se l'abbia a male.... Ripeto, quanto mi è stato riferito. Il maggiore Martinengo avrebbe risposto a chi lo sconsigliava di dare le dimissioni, e di perdere così un posto sicuro, che il vecchio doveva pur crepare, e che non avrebbe potuto portare i suoi milioni con sè... all'inferno!... Il vecchio, non se l'abbia a male, il vecchio sarebbe lei, signor marchese!...
L'altro ebbe un sussulto, diventò rosso, poi pallido, ma riuscì a frenarsi, e ripulendo le lenti che gli eran cadute dal naso, mormorò fra i denti:
—Il ne faut jurer de rien!
Pompeo Barbarò sorrise, e guardò il Collalto senza aggiunger verbo; non aveva ben afferrato il senso di quelle parole.
Il marchese Diego, sebbene avesse avuto la forza di vincersi in faccia a Pompeo, se ne andò via portandosi la spina nel cuore, e arrovellandosi contro suo nipote, contro Angelica, e contro il Martinengo che faceva i conti sulla sua morte.
—E quel Barabò, quel Barabao, quello strozzino arricchito, che dopo aver ingoiata Villagardiana, protesta la sua devozione a mia nipote? impostore!... ipocritaccio!...—borbottava toccandosi le punte dei baffi.
—Pure... pure non c'è da scegliere. In questo momento bisogna fargli un po' di buon viso. Lui solo ha le mani in pasta e può trovar la maniera di accomodare le faccende senza rovinarmi!...—Sicuro... sicuro... è antipatico, ma non si può far senza di lui!... Intanto andiamo subito a Gallarate. Cominciamo a far ballare anche mia nipote: tocca a lei; la madre è lei!
Con tanta bile in corpo il marchese Diego arrivò al Villino delle grazie, più verde dei suoi mustacchi e dei suoi capelli. Angelica passeggiava in giardino con Andrea, e... fu per caso?... fu per misterioso presentimento?... certo è che appena le fu annunciato il marchese Diego, divenne pallida e si sentì una stretta al cuore.
—Mio Dio, che cosa ci sarà di nuovo?—esclamò istintivamente alzando timorosa gli occhi grandi e buoni, in faccia al Martinengo.
—Che vuole che ci sia di nuovo?—nulla!...—le rispose Andrea il quale dava a preferenza del lei anzichè del tu all'amica per un sentimento gentile, di rispettosa tenerezza.—Il marchese verrà a farle una visita.
—Non ci viene mai a Gallarate!—rispose Angelica, e quantunque inquieta, mosse incontro allo zio, sforzandosi di mostrarsi amabile e contenta.
Il marchese Diego, sempre galante, le baciò la mano facendole un madrigale; salutò il maggiore, sorridendogli colla benevolenza di uno zio soddisfatto e chiamandolo—il più fortunato dei mortali.—Poi pregò la nipote, la bella nipotina, di concedergli cinque minuti di colloquio.—Pur troppo,—disse infine rivolgendosi al Martinengo nell'allontanarsi, dopo aver offerto il braccio alla nipote—non sono più in istato di rendervi geloso—e ripetè con più enfasi di prima—mortale fortunato!
Angelica conosceva bene lo zio, e però non si era lasciata ingannare da tutte quelle dimostrazioni di affetto e di galanteria. Anzi, era sempre più inquieta, aspettava con ansia che il marchese le spiegasse il movente della sua visita. Appena furono nel salotto,[249] Diego di Collalto offrì alla marchesa una scatola di dolci, che il servitore aveva tolta dalla carrozza col plaid; chiuse bene le porte, e poi con una brutalità, che appariva più fredda e spietata, per le forme ostentatamente cortesi, le disse che quel bel mobile del suo figliuolo era un Mirabeau, salvo l'eloquenza, che aveva falsificata la sua firma per ottantamila lire; e che lei, la cara nipotina, inebriata dalle dolcezze dell'amore, lo avea lasciato troppo libero, lo aveva troppo abbandonato a sè stesso, e dichiarava esplicitamente che lui non poteva far nulla per allontanare la catastrofe.
Angelica era rimasta come fulminata; tuttavia non aveva ancora compreso.
—Ha falsificato la tua firma?... come? in che modo?...
—Sì, cara, per ottantamila lire!—- E il marchese le riferì e le spiegò, in poche parole, tutto quanto sapeva.
—Non è possibile. È una menzogna, una calunnia!...
—Le cambiali, gioia mia, le ho viste io stesso, co' miei propri occhi.
—E Stefano ha firmato col tuo nome?
—Diego di Collalto.
—Sei sicuro, proprio sicuro, che sia il suo carattere?
—Sicurissimo.
—Allora è caduto in un tranello, e bisogna sentire prima di giudicare. Bisogna sentire le sue ragioni, le sue difese, le sue scuse....
—Gli puoi telegrafare di venir subito a Milano.
—Ah zio, zio mio,—esclamò in fine la poveretta prorompendo in lacrime,—zio mio, abbi pietà,[250] di quel ragazzo.... Perdonagli, te ne supplico, zio, te ne scongiuro!
—Oh in quanto a perdonare, può darsi,—rispose il marchese Diego con un sorriso che in quel punto diventava feroce,—ma pagare no, no di certo. Dove le trovo, ottantamila lire?...—e dondolandosi tutto, e facendo scricchiolare le scarpettine inverniciate,—La plus belle fille du monde,—continuò,—ne peut donner que ce qu'elle a!
—Ma allora... allora che cosa potrà succedere? Che cosa faranno a mio figlio?!
—Eh!...—rispose il vecchio elegante stringendosi tutto nelle spalle e allargando le braccia mentre sibilava quell'Eh!... che passò freddo, come una lama, nel cuore di Angelica.
—Pensa che abbiamo il tuo nome.... Pensa che siamo il tuo sangue. Non ci puoi abbandonare.—Vorrai consigliarci.... vorrai che il nostro onore sia salvo!
Il marchese le prese una mano e gliela accarezzò per farle cuore. Dar quattrini non poteva, perchè non ne aveva; ma in tutto il resto, si metteva a sua disposizione. Andare, girare, parlare, brigare, era disposto a tutto. Era venuto apposta a Gallarate per prenderla e condurla subito a Milano. Si sarebbero abboccati la sera stessa col signor commendator Barabbò e insieme avrebbero cercata la via, se ce n'era una, per riparare, o almeno mitigare quel colpo terribile.
—Il Barbarò?—demandò Angelica facendosi ancora più pallida.—Come c'entra il Barbarò?...
—Per bacco, se c'entra!—esclamò il marchese,—è lui che ha in mano le cambiali!
Angelica si sentì oscurare la vista, e mal suo grado[251] le sfuggì un nome dalle labbra che pareva una preghiera, pareva un lamento,—Andrea....
—Andrea, aspetterà. Ritornerai domani, dopo domani; c'è tempo.—Al punto in cui sia... in cui siete, gli affari prima di tutto!
—Che io lo debba sempre incontrare quell'uomo, sempre sempre!—e Angelica, in mezzo alla sua grande angoscia, ebbe un fremito di terrore.
—Anche il deputato arde della nostra fiamma istessa: ho scoperto stamattina che è un tuo spasimante.
—Abbi pietà dello stato in cui mi trovo, zio,—esclamò la marchesa vivamente,—risparmiami almeno ora questi tuoi scherzi.
—No, no, nipotina cara, non andare in collera perchè è la verità. Il Barbabò mi ha trattenuto a farmi i tuoi elogi per due ore di seguito: e come prendeva fuoco! Non è bello, bisogna convenirne, ma si può proprio dire un uomo d'oro, come lo chiama Donna Ippolita Bellotti, che ho veduto l'altra sera al Cova, e che mi ha detto di salutarti. Sicuro, prendeva fuoco, e mi pare l'avesse a morte col maggiore. Tutta gelosia: bisogna compatirlo.
—Allora, quando si parte?—domandò Angelica risolutamente, per dar termine al discorso. Le pareva che lo zio avesse sulle labbia il sorriso di quell'uomo odioso che le si imponeva come una fatalità, che come un serpe la stringeva nelle sue spire invisibili: un triste sorriso di scherno e di trionfo onde la poveretta sentiva ribrezzo e paura.
Angelica si vestì in fretta, dopo aver messo a parte di tutto, con due parole, il Martinengo; dopo essersi fatta giurare che non si sarebbe mosso da Nuvolenta,[252] finchè lei non fosse ritornata, e che le avrebbe sempre scritto, cominciando da quella sera medesima, tutto ciò ch'egli avrebbe fatto in tutto il tempo che sarebbe rimasto senza di lei. E mettendolo a parte di quel suo gran dolore, e facendogli tutte quelle raccomandazioni, non gli dava più del lei, ma del tu, sempre del tu, continuamente del tu, come per attestare maggiormente che essa era sua, che gli apparteneva, che quel loro legame ormai doveva essere indissolubile. Era la tenerezza, era l'amore che traboccavano dal suo stesso dolore, e che la disperazione rendeva più vivo e più forte.
Andrea Martinengo la confortò. Le disse, e lui stesso ne era convinto, che lo zio avrebbe finito col pagare: era avaro e strillava..., ma strillava appunto perchè capiva che non c'era altro scampo.
Quanto a Stefanuccio, ci voleva un lezione energica; forse la vita dell'ufficiale non era per lui. Avrebbero pensato poi se sarebbe stato il caso di richiamarlo a casa, per sorvegliarlo, e farlo lavorare.
Il marchese Diego, che nel frattempo aveva accarezzato il mento e tastate le braccia della figlia del fattore, appena furono attaccati i cavalli chiamò il Martinengo per mostrargli il sinistro che gli si sfiancava, e non ne sapeva il perchè. Poi appena apparve Angelica la fe' montare in carrozza, e quindi salito anche lui, le si sedette vicino.—Caro maggiore,—esclamò,—benchè vecchio, scommetto che ora vi faccio invidia!... Vela rapisco, e non ve la rendo più!...
Andrea sorrise, ma per quanto Angelica dovesse tornar subito, o in caso diverso, potesse ben raggiungerla lui stesso a Milano, si sentiva commosso per così inaspettata partenza. Angelica lo salutò col[253] capo, colla mano, e più cogli occhi amorosi che fissò in lui lungamente, tenerissimamente. Ma non gli disse più una parola; non poteva; aveva la gola piena di lacrime.
Durante il viaggio lo zio Diego continuò a farle complimenti e a brontolare. Si ostinava, colla galanteria del tempo antico, a tenerle l'ombrellino; le accomodava ogni poco il plaid sulle ginocchia, le offriva da una scatoletta vieux-saxe squisiti lemon's drops per l'arsura della gola, le raccomandava di sfogarsi, e le diceva che faceva bene a piangere. I suoi occhi irresistibili fra le lacrime erano ancora più abbaglianti..., e d'altra parte dovevano essere lacrime di confiteor, perchè molta colpa ne aveva lei della pessima riuscita di quella tarantola divoratrice.
—Parlo chiaro, figliuola mia; non voglio lasciarti vane speranze: io, proprio, non sono in stato di pagare. Ottantamila lire?—Siete matti!—e il vecchio si accalorava, storceva la bocca e arricciava il naso sui mustacchi ingommati.—Siete matti!... matti da chiudere al Dufur! Dove volete (saperlottina!) che vada a pescare ottantamila lire?... Nella tua incantevole testolina bionda tu ti sarai figurata che lo zio Diego sia un milionario!... Cara cara, figliuola mia cara, ricordati, è un'illusione... come tante altre. La mia sostanza, sai bene, è tutta in terreni, e i fittaiuoli che un giorno pagavano, poniamo, il trenta, oggi pagano appena appena il quindici... quando lo pagano. Vendere... si trova difficilmente; poi, una volta venduto non resta più niente, senza contare che colla crisi agraria presente, per ricavare ottanta bisognerebbe vendere per il valore[254] di centosessanta. Dare a mutuo?... un far entrare i tarli nel patrimonio!... E poi, e poi, e poi in fine, questa è bellissima, perchè devo rovinarmi io per i vizi degli altri?—Chi rompe paga!—e il vecchio batteva stizzito contro il sedile la punta delle scarpette inverniciate.—Chi rompe paga!... Paga chi rompe!—Ho ragione sì o no?... rispondi,—ho ragione sì o no?...
Angelica, soffocata, gli accennava di sì, che aveva ragione, con un singhiozzo..., e allora lo zio acquetandosi, tornava a domandarle se aveva troppo caldo se si sentiva stanca, le offriva una sigaretta e le faceva ammirare il paesaggio.
—Non ti senti di fumare? fai benissimo!... è un delitto il fumare quando si hanno denti splendidi come i tuoi!... Lo dicevo anche alla Luisa D'Angola, che li ha bellissimi!...—Guarda, tu che sei tanto poetica, che vista incantevole!... che passeggiata deliziosa,—di' la verità....—E poi in tête à tête con te! Ah se non fossi vecchio!... si vieillesse pouvait!... Ti rapirei!... Quel cocchiere... sarebbe un mio fido travestito.... Ti terrei prigioniera nel mio castello dove il tuo innamorato verrebbe a cantarti la serenata.—E il vecchio, accarezzando sotto la coperta la manina di Angelica, le faceva l'occhio dolce, e piegandolesi vicino svenevolmente, cominciava a canticchiare colla voce tremula e stonata:
"Ro... on... dine... ella, pe... elle... gri... i... ina"
Ma un colpo di tosse interruppe il canto, e allora il marchese inghiottì un lemon's drops, abbandonò la mano della nipote, e tirandosi dritto dalla sua parte,[255] le disse che ormai non poteva più sperare altro che nel commendator Panigali.
—Quel vostro usuraio, il deputato... il mangiatore di Villagardiana, chi sa che non sappia immaginare qualche espediente per levarvi d'impaccio!... Ti ripeto che mi ha parlato di te col maggior entusiasmo!...
—Zio, te ne prego!—supplicò Angelica con un filo di voce.
—Anche gli strozzini hanno un cuore per le belle donne, e non è rimasto insensibile ai tuoi vezzi. D'altra parte, se quel parvenu facesse qualche cosa per te e tuo figlio, non sarebbe altro che un'espiazione. Perchè non potrebbe mettere un'ipoteca sui tuoi fondi, o su quel poco che vi rimane?
Angelica sospirò: fuori della piccola dote, non le rimaneva più nulla.
—Il commendatore è benissimo intenzionato: potrebbe prestartele lui le ottantamila lire, ed io, al caso, aggiungerei una buona parola. Guarda che orizzonte magnifico... e che valletta amena. Ricorda i versi dell'Ariosto:
Giace in Arabia una valletta amena
Lontana da cittadi e da villaggi
Che all'ombra di....
—Hai fame?... Dovrai pranzar tardi stasera. Se credi potremo fermarci dal Cova a prendere una tartina: le fanno eccellenti. Bisogna inghiottire amaro e sputar dolce col commendatore. Tutte le vostre speranze devono essere in lui.—Ottantamila lire?... Una bagattella!...—Io non le ho, non le ho, e non ho!... La crisi agraria mi ha rovinato!... Quel tuo[256] figlio non ha cuore, non ha testa, non ha onore: è uno scellerato!...
Arrivati a Milano, lo zio fece scendere la nipote all'hôtel de la Ville, dove in prevenzione aveva mandato il suo cameriere a fissarle un quartierino.
Angelica aveva già telegrafato a Stefano da Gallarate, e Diego di Collalto scrisse subito un bigliettino al commendator Barbarò di Panigale, avvertendolo che la marchesa Angelica era giunta a Milano e che, com'erano rimasti intesi, desiderava vederlo.
Pompeo Barbarò si fece condurre all'hôtel de la Ville nel suo brum di parata, collo stemma nuovo sugli sportelli: due teste di moro, in campo rosso. Si era abbigliato con più cura; nella cravatta aveva appuntato uno spillone di gran valore, frutto d'uno dei migliori affari combinati dalla florida signora Veronica; nell'indice aveva infilato un anello con un brillante grossissimo, che aveva appartenuto ai gioielli di una gran casa di Milano andata in rovina. Ma per l'occasione, oltre al lusso aveva pensato di farsi bello. I capelli erano più neri del solito, ed anche i baffettini che, corti e radi, mal nascondevano sulla pelle le chiazze della tintura.
Pure, ad onta di tanti vantaggi, al suo proprio presentarsi alla marchesa di Collalto si sentiva molto impacciato, e non riuscì a scusare il proprio turbamento, se non dichiarandosi afflitto è ancora sbalordito[257] per l'accaduto. Balbettava, gli tremavan le mani, non osava guardare in faccia nessuno... ma fu la commozione d'un momento. Dopo le prime parole riprese la franchezza e la parlantina petulante e imperativa.
Il marchese Diego, a un cenno di Angelica, fece portare il caffè e non aprì bocca finchè il cameriere venuto col vassoio non se ne fu andato. Allora, dopo aver offerto la tazza all'Angelica e a Pompeo, e mentre col cucchiaino scioglieva lo zucchero nella sua, proruppe a un tratto nelle maggiori invettive contro Stefano.
Pompeo Barbarò crollando il capo, e sospirando, cercava di calmare il vecchio energumeno, mentre Angelica, tremante, si sforzava per trattener le lacrime. Per un senso delicato di pudibonda alterezza non voleva piangere dinanzi al Barbarò; ma poi, quando questi cominciò a prender le difese di Stefano, spiegando al marchese come il ragazzo dovea essere stato raggirato da certa gente che viveva di bricconate commesse a danno della inesperienza dei figli di famiglia, la povera madre non potè frenarsi, e si nascose gli occhi col fazzoletto singhiozzando. Allora Pompeo osò guardarla; era sempre lei, nobilmente dignitosa anche fra i singulti; più bella e soave nel dolore!...
La lunga pratica e la compagnia delle persone ammodo, se non aveva potuto dirozzare l'animo e ingentilire i modi dell'antico portinaio di casa Alamanni, lo avevano dotato per altro di una certa disinvoltura. Egli si avvicinò premurosamente alla marchesa, le strinse la mano, e si protestò volonteroso di servirla, dichiarando che, se in altri tempi e in[258] altre circostanze, le apparenze erano state contro di lui, adesso non avrebbe mai voluto lasciarsi sfuggire nessuna occasione di mostrarle tutto il suo animo devoto.—Ciò detto, fece una pausa... sospirò (quel giorno pareva una macchina a sospiri il commendator Pompeo), poi rianimandosi, dichiarò risolutamente che il marchese Diego doveva pagare, pagare a ogni costo, e impedire la rovina del suo giovane nipote, e il disonore del suo nome, che era un patrimonio della storia.
—Un nome onorato, un nome illustre è un gran capitale, e non c'è oro che lo paghi!—esclamò Pompeo, toccandosi la spilla di brillanti, per sentire se era al posto.—È un tesoro che non ci appartiene, che noi dobbiamo lasciare in eredità ai nostri... discendenti....
Il marchese Diego, seccato anche da quella boria, rispose con un'alzata di spalle.
—I danari occorrono per domani alle due, ed io non li ho, e non posso far miracoli.
Pompeo di Panigale s'inchinò facendo il solito ghignetto che gl'increspava le labbra.
—Ho già avuto l'onore di mettermi a disposizione della signora marchesa, e del marchese Diego; la somma occorrente posso prestarla io. Oh senza che mi dicano neppure grazie: un prestito d'amico!...
Angelica a quell'offerta, si sentì premere il cuore e le corse una vampa di rossore fin sul collo. Invece il marchese respirò.
—Barabò, presta la somma,—pensò subito tra sè,—e se fosse disposto a concludere direttamente il prestito con mia nipote, senza tirar me nell'impiccio?
—Ma noi,—osservò Angelica sforzandosi di[259] nascondere i singhiozzi colle parole, e rimettendosi un poco dal suo sbalordimento,—ma noi ancora non abbiamo sentito Stefano.... Lo accusiamo alla cieca, troppo in fretta, e pensiamo a provvedimenti... che forse... saranno inutili.
Il Barbarò si strinse nelle spalle, quasi gemendo.
—Pur troppo... da mie informazioni particolari.... Non potrei lasciare su tal proposito... nessuna speranza.
Il marchese Diego pestò i piedi; Angelica si sentì mancare.
—Capisco, del resto, capisco benissimo le loro esitazioni nell'accettare la mia offerta. Io stesso, non avevo coraggio... ma poi l'ho fatta, perchè, al momento, non c'è di meglio. Posso tranquillare per altro la loro delicatezza... sarà il prestito di pochi giorni, e agevolerò al marchese tutte le pratiche necessarie per il mutuo....
—Il mutuo?...—interruppe l'altro con un tono quasi flebile.
—Le consiglierei nel caso suo,—continuò il Barbarò rivolgendosi al marchese,—di fare un mutuo colla Cassa di risparmio: ogni anno, oltre agli interessi, pagherà una rata graduale di capitale....—In una ventina d'anni, gli eredi del suo patrimonio lo avranno intatto.
—Grazie tante!—esclamò il vecchio mostrando i denti con un sorriso che pareva un morso.—Mia nipote ha una dote; di più... qualche piccola porzione del patrimonio dei Castelnuovo e dei Collalto deve esserle rimasta. Può combinarlo col suo il mutuo, senza dar tanti pensieri a me, che non sono più giovane, e che non c'entro.
—Oh sì, sì,—proruppe Angelica,—tutto il mio son disposta a darlo, volentieri, di gran cuore, pur di non sacrificare nessuno!—E così dicendo levò per la prima volta, titubando, gli occhi pieni di lacrime in faccia al signor Pompeo. Oh se avesse potuto pagare col suo sangue, come lo avrebbe dato tutto volontieri!
Pompeo strinse le labbra, abbassando il capo; poi tornò a toccarsi la spilla, a far ballare i ciondoli del catenone...: era assai impacciato a rispondere.
—La dote... non si può toccare. Poi... non sarebbe sufficiente al bisogno. Per concludere un mutuo di ottantamila lire, occorre un fondo del valore, almeno, di cencinquantamila!...
Il marchese Diego, a tali parole, tornò a infuriarsi.
—No! No! No!... non commetterò mai un così grosso sproposito!... Anche lei,—e si rivolse tremante di collera al commendatore,—anche lei mi ha dichiarato stamattina che il ragazzaccio ha il vizio nel sangue, che non si può correggere, e che tappato un buco, mi troverei daccapo con un altro!... Se non ci ha da essere un rimedio, tanto vale abbandonarlo al suo destino senza rovinarmi, senza assassinarmi!...
Angelica e il Barbarò stettero zitti, lasciandolo sfogare senza mai contraddirlo, il che accrebbe per un poco il suo dispetto, ma finì poi collo stancarlo. Dopo tanto gridare non volle prometter nulla, non volle obbligarsi.—Finchè c'è tempo,—pensava, c'è vita!
Non poteva aspettare a risolversi, alle due del giorno dopo?... Ebbene, ci voleva pensare ancora, per[261] quella sera non se ne dovea parlar più; aveva bisogno di calmarsi, di svagarsi, se no, lo prendeva una sincope!...
Borbottando camminò un altro poco su e giù per la stanza, poi fermandosi dinanzi alla nipote, che si asciugava gli occhi, le domandò se Stefano poteva arrivare quella sera stessa, e le dichiarò che non voleva vederlo. Quindi, dopo aver combinato a che ora si sarebbero ritrovati il giorno seguente, si dispose a uscire col Barbarò; ma nel salutare Angelica ritornò garbato, galante, mettendosi a sua disposizione per tutta quella sera, e offrendole di accompagnarla in qualche teatro, oppure al Cova,—se vi voleva fare un'apparizione che (come diceva) avrebbe rivoluzionato!—Angelica, ringraziò rifiutando, e il marchese cominciò a ridere e a scherzare per un altro verso.
—Capisco... si capisce... Avrai promesso a Gallarate di scrivere!... Fortunato mortale!...
Angelica sorrise senza negare. Non volle negare perchè c'era quell'altro presente.
—Il matrimonio, dunque, è cosa certa?—domandò subito il Barbarò al marchese Diego, appena furono soli in istrada.
—Credo... credo di sì. È difficile che una donna come mia nipote, si lasci sfuggire l'occasione di commettere uno sproposito.
—Pare impossibile: un matrimonio così balordo e inopportuno. Vuol dire che sarà molto innamorata.
—Molto o poco, fa lo stesso: l'amore non ha misura. Innamorata lo è di sicuro, e a modo suo, che è il peggiore: un innamoramento di testa. Angelica [262]è sentimentale... è un'esaltata: più che essere innamorata del Martinengo, è innamorata dell'amore, del romanzo!
—E per così poco non ragiona più, e sta per commettere....—Pompeo Barbarò guardò il marchese prima di finire, ma incoraggiato dal suo contegno continuò,—sta per commettere una grossa corbelleria!
—D'accordo,—rispose il vecchio imbronciandosi di nuovo.
—Con questo matrimonio,—seguitò il commendator Pompeo,—rovina sè, rovina suo figlio... e terminerà col rovinare anche lei, signor marchese!
—Anche me?—domandò il Collalto fermandosi sui due piedi.
—Diavolo, con un matto di nipote che divora ottantamila lire ogni sei mesi!...
—La prego di credere, commendatore mio, la prego di credere,—rispose il vecchio con voce sibilante,—che se è matto Stefano, non sono matto io, e finirò col farlo rinchiudere in una casa di correzione.
—Son cose che si dicono....
—Che si dicono, e che si fanno!
I due ripresero a camminare, ma rimasero in silenzio per un buon tratto di via; poi fu ancora Pompeo che ricominciò coi suggerimenti.
—Lei doveva provarsi... a sconsigliare la marchesa....
—L'ho fatto e non ci sono riuscito. È una caparbia!
—Ma, quando lo ha fatto... non era sul punto di dover pagare ottantamila lire per salvarle il ragazzo.
—Questo è vero,—rispose il vecchio facendosi subitamente pensieroso.
Ci fu un altro silenzio: silenzio più lungo del precedente.
Poi il Barbarò ricominciò a parlare, ma con un'enfasi, con un'effusione improvvisa, che mal suo grado lo vinceva, riscaldandolo a poco a poco, trasportandolo a sfoghi, a confessioni, come se ormai non potesse più soffocare l'amarezza e la passione, che tumultuavano prorompenti dall'animo suo.
—Quel matrimonio (lo dichiaro francamente, perchè poi non c'è dentro nulla di male) quel matrimonio è capitato in punto per guastare tutti i miei disegni. Io ho sempre nutrito la più alta stima per i meriti straordinari della marchesa, e siccome, per l'addietro, sono stato accusato di aver rovinato il fu marchese Alberto, così per mostrare un'altra volta a questo mondaccio birbone quanto sono diverso da come mi si giudica, maturavo in mente di rifare la fortuna della moglie e del figlio della mia vittima!
Il marchese Diego camminava più lento per non perder sillaba. L'altro sbuffava, s'era levato il cappello, si asciugava il sudore della fronte col fazzoletto, e continuava a sfogarsi.
—Potevo fare un gran matrimonio di danaro... I danari non sono mai troppi, ma vi ho rinunciato, sempre coll'idea fissa nella marchesa. Nè mi si potrà accusare di balordaggine: se non son più giovane, nemmeno la marchesa non è più una ragazza. È assai ben conservata; tuttavia se ha parecchi anni meno di me, è donna fatta, ha un figlio ufficiale, e tirate le somme, per via dell'età, il matrimonio[264] non è tanto sproporzionato. È assai più bella di me,—e il Barbarò proruppe in una sghignazzata,—ne convengo, ma non voglio tacere che se mi sono invecchiato nel lavoro, ho diritto di godere i miei comodi e di soddisfare i miei gusti, e quando mi sveglio alla mattina, non voglio trovarmi accanto un viso vecchio e antipatico. E poi, la cornice che gli avrei preparato, sarebbe stata degna della sua bellezza. D'altra parte, io certo non avrei mai avuto la pretensione che s'innamorasse di me.—Ho buoni occhi, e vedo di non essere tipo da innamorar le signore.—Un po' d'amicizia, mi sarebbe bastata.—Da parte sua sarebbe stato un matrimonio di convenienza,—anche per riguardo a suo figlio,—e da parte mia, un matrimonio d'inclinazione. È una donna che mi piace... come donna. Ha una bella figura, una bellissima educazione, un bel nome... tutto quello insomma che mi ci voleva per me e per Panigale, dove ho in animo di dare grandi feste... anche per consolidarvi la mia posizione politica. In quanto alla prole... se non ne veniva (non essendo più giovane nè io, nè lei) poco mi premeva. Avrei già avuto due figli, per continuar le due case: il mio, e il suo, che nel mio affetto e nelle mie disposizioni... future... avrei trattato con pari generosità. Insomma, se quel maggiore non si ficcava in mezzo, tutto si sarebbe accordato a maraviglia, perchè anche l'unica sproporzione che ci poteva essere....
—Quella del nome...—interruppe il marchese Diego, tanto compreso dell'argomento, da non badar bene a ciò che stava per dire.
—Oh no, no... il nome no!—esclamò il commendator Pompeo ridendo sonoramente.—Il nome no!—Se la marchesa è la discendente dei suoi antenati, io sono l'antenato dei miei discendenti... e le due nobiltà vanno bene insieme. È così che si rinsanguano le caste!... Volevo dire la sproporzione del patrimonio!... Ma per questa, una donna che non ha un soldo come la marchesa, può sposare un uomo che abbia il mio stato, senza derogare alla propria dignità. La donna è per sè stessa un oggetto di gran valore, e specialmente quando è come la signora marchesa, non c'è oro che la paghi!—Basta... tutto ciò... sia come non detto, e mi perdoni lo sfogo, signor marchese. Dopo averla riveduta... mi sentivo oppresso... e ne avevo proprio bisogno. Pazienza!... Ci vuol pazienza!... In quanto a me, per altro, se son franco abbastanza per dolermene, non sono innamorato a tal segno, da disperarmene!—E qui un nuovo ghignetto fe' punto al discorso.
Il Barbarò andò innanzi due passi, ma poi tornò indietro: il marchese Diego si era fermato, e lo guardava cogli occhi raggianti.
—Chi le dice che se mi ci metto di mezzo io... non si possa accomodar tutto per il meglio?
—Scherza lei; le piace di scherzare! E l'innamoramento?... E il maggiore?... E il matrimonio?
—L'innamoramento?... fanciullaggini.—Il maggiore?... si darà pace.—Il matrimonio?... andrà in fumo!
—Eh!... Eh!... Eh!—fece il Barbarò con tale inflessione di voce che diceva molte cose.
Il marchese Diego si sentiva in orgasmo, prese il Barbarò a braccetto, e proseguirono insieme lungo il Corso.
—Commendator mio, parliamoci chiaro: lei mi ha detto, è vero, di stimare mia nipote?
—E come!
—Ebbene, in tal caso sarà convinto che se io riuscissi a... a smuoverla dalla sua ostinazione, ad indurla a rinunciare a questo malaugurato matrimonio, ciò vorrebbe dire che mia nipote non si troverebbe vis-à-vis del Martinengo compromessa... irrimediabilmente!
—Sì... certo.
—Per me, se devo dire tutto quello che penso, credo ci sarà molta simpatia fra lei e il maggiore, ma simpatia, solamente. Lasciando correre le acque per la loro china, andrebbero a finire al matrimonio; ma questa simpatia non dipende da noi il frenarla?... il fermarla a tempo?
—No, no, signor marchese. Non vorrei che fosse sacrificata la signora Angelica, per tutto l'oro del mondo!—esclamò Pompeo mettendosi una mano sul cuore.
—Lasci fare a me. Sacrificata sarebbe sposando il Martinengo!... Io ho sempre avversato questo matrimonio, appunto perchè voglio molto bene alla mia nipotina, e vorrei vederla felice. Lasci fare a me... lasci parlare a me!
—Parlare no!... Adagio... Bisogna andare adagio!... Parlare è troppo presto!—esclamò vivamente Pompeo, mostrandosi inquieto. Ma l'altro non gli dava retta; si teneva stretto al suo braccio e gli si piegava addosso per parlargli all'orecchio.
—Non le ho detto che mia nipote è innamorata (dato il caso che lo sia) colla testa soltanto?... E dunque, la testa per quanto dura si può sempre piegare!
—Non vorrei... essere un tiranno.
—Un salvatore, Paligani mio! un salvatore!—I nostri giudizi sul suo romanzetto campestre, potrebbero essere anche sbagliati; potremmo averlo immaginato più importante del vero!—Chi ci vede nel cuore di una donna?—Angelica potrebbe essere disposta non solo a combattere e a vincere questa simpatia, ma a farne rifiorire dal suo cuore una nuova, una più ardente, per l'uomo generoso, me lo lasci dire caro Pa....Panigalli, per l'uomo generoso che la mette in una condizione degna di lei, degna di noi, e che assicura a suo figlio uno splendido avvenire! Nulla più della riconoscenza commuove il cuore di una donna, e dalla sua riconoscenza chi le dice che non debba nascere, oltre alla simpatia, oltre alla stima, anche l'a... l'amore?
—Oh... sarebbe troppo!—esclamò il signor Pompeo umilmente.
—Lasci fare a me!... Permetta che le parli io! Se Angelica non mi ascolta vuol dire che è una donna senza testa, senza cuore, senza viscere materne e allora... me ne lavo le mani!—E le ottantamila lire,—aggiunse mentalmente,—ho una buona scusa per non darle più!
—Ma, signor marchese,—replicò Pompeo mostrandosi sempre titubante e inquieto, come se l'altro si fosse approfittato di una sua confidenza, per valersene secondo i propri desideri.—Signor marchese... io non ho detto di nutrir ancora... una speranza. Adesso mi sembra anzi troppo tardi; troppo tardi per la signora Angelica e per... per me!
—Per lei, commendatore, non è mai troppo tardi, trattandosi di fare una buona azione. In quanto poi[268] a mia nipote, non è mai troppo tardi per mettere giudizio!—Lei salva una donna, una famiglia, un nome. E alla sua volta, me lo lasci dire, acquista in mia nipote, la moglie che le conviene proprio per ogni rispetto. Un nome, dei migliori di Milano e d'Italia: poi bellezza, eleganza, riputazione illibata... il n'y a pas de taches dans le soleil!... Insomma par fatta apposta per lei... perchè se la porti nella sua reggia di Pa.... come si chiama precisamente il suo splendidissimo château?...
—Panigale.
—Bravo!... Nella sua reggia di Paniggale. Domani comincio un poco a scoprire il terreno, e le riferirò qualche cosa in proposito.
—Domani no, è troppo presto!—esclamò Pompeo vivamente. I suoi occhietti luccicavano, il sudore stillava più abbondante dalla sua fronte: un sudor nero, per via dei capelli tinti, che macchiava il fazzoletto.
—Non abbia paura; non voglio far altro che scoprir terreno, e sentire le prime impressioni. Intanto, mi dica, può tener le cambiali in sospeso per alcuni giorni?
—Sì, ma....
—Allora per domani, lasciamo correre!
—Ma, intendiamoci, non voglio assolutamente che per parte mia, la marchesa Angelica abbia a soffrire pressioni... odiose!
—Si figuri... Lei anzi, devo apparire come un angelo salvatore.
—Meno le ali!—soggiunse Pompeo ridendo.
—Lasci fare a me!—continuò il marchese vie più infervorato, senza badare all'interruzione. Desidero[269] che mia nipote abbandoni la poesia per la realtà; desidero che si formi un vero concetto sullo stato delle cose. In quanto a me... avrei pagato ottantamila lire, per salvare l'onore del nostro nome, ma adesso, è naturale, non le pago più, dal momento che sarebbe una debolezza, colla quale contribuirei al danno di mia nipote. Anche se oggi dovesse struggersi un poco e fare il bocchino amaro, verrà giorno, passati i bollori, che mi ringrazierà e mi benedirà per essere stato inflessibile.... D'altra parte, se tutti poi dobbiamo fare il nostro comodo, non c'è ragione che mi scomodi io. Se Angelica pensa ai suoi romanzi, io penso al decoro, e all'interesse. Ma mia nipote sarà ragionevole, e si chiamerà contenta, fortunatissima; non ne dubito nemmeno!
—Adagio... adagio!—aggiunse ancora il Barbarò, colla voce grossa.—Adagio... adagio... per ora... intendiamoci, nessuna compromissione da parte mia. Voglio prima veder ben chiaro, come stanno le cose....
—Oh!...—e il marchese, facendo una faccia da bigotto scandalizzato che contrastava assai col suo tipo volteriano,—metto la mano sul fuoco,—esclamò, stendendola dinanzi al signor Pompeo,—metto la mano sul fuoco!
La mattina dopo, quando il marchese Diego si recò all'hôtel de la Ville per vedere se la nipotina abbisognava di qualche cosa, e se avea ricevuto i fiori freschi che le aveva ordinati dal Ferrario, egli non le disse nulla del colloquio avuto con Pompeo Barbarò. Le disse soltanto che questi si trovava nelle migliori disposizioni d'animo verso lei e suo figlio, e che mentre stava forse maturandosi una combinazione assai favorevole per tutti, avrebbe tenuto in sospeso l'affare delle cambiali.
—Saremo sicuri poi, che non ne faccia qualcuna delle sue?—domandò Angelica sempre inquieta, ma non sospettando certo di ciò che l'aspettava.
—Oh,—fece il marchese esprimendo la massima maraviglia per ciò che diceva Angelica, e la massima stima per il commendator Barbarò.—Oh!... che cosa ti salta in mente?... Del resto devi ricordare... che siete tutti nelle sue mani!
In quanto a Stefanuccio lo zio Diego gli volse un'occhiataccia senza dirgli una parola. Ormai la sua collera verso Stefano rimaneva offuscata dalla preoccupazione in cui si trovava riguardo Angelica; se ella non si fosse piegata ai suoi disegni, tutto il suo odio si sarebbe riversato su di lei. Prima di andarsene aggiunse qualche altra parola di elogio[271] per il Barbarò, e le domandò se non avea mai veduto Panigali.
—No, zio.
—È una reggia, nipotina mia; un castello incantato! Poi disse alla marchesa che per un giorno o due essa avrebbe dovuto ancora rimanere a Milano, e le annunciò che quella sera, dopo pranzo, sarebbe venuto a prenderla per condurla alla passeggiata sui Bastioni.
—Noi vecchi, si sa, siamo tutti un po' vani; ed io ho la vanità di farti vedere!—In fine se ne andò, com'era venuto, senza salutare Stefano che dovea ritornar subito a Torino.
Angelica rimase assai angustiata per quei due giorni che doveva ancora passare a Milano, lontana da Andrea. Pensò di farlo venire, ma lo zio non lo vedeva di buon occhio, e per il bene del figliuolo non voleva irritarlo.
"Povero Andrea!... che cosa avrebbe fatto solo solo a Nuvolenta?..." Pure era contenta di saperlo là; là tutto gli dovea parlare di lei, di lei solamente; là, lo sentiva più suo; lo vedeva bene e... e non era gelosa.
Per dir vero la passeggiata ai Bastioni non le sorrideva moltissimo; anzi ne avrebbe fatto senza volentieri; ma non avea avuto il coraggio di rifiutare sapendo quanto lo zio Diego desse importanza a certe cose.
In fatti, subito dopo pranzo, egli si recò all'albergo a prenderla, colla carrozza in gran lusso. Egli stesso era azzimato come un giovinotto; stecchito, leccato, impomatato, con una grossa gardenia all'occhiello.
—Stefano ha confessato tutto?...—domandò poi appena furono soli, in carrozza.
Angelica chinò la testa, accennando di sì, con un grande affanno.
—Che asino!... A pensarci prima sarebbe stato anche inutile di farlo venire.
—Mi ha giurato,—balbettò la marchesa,—che d'ora innanzi farà vita nuova....
—Giuramenti da marinaio!... ha le mani bucate!... Per salvare quel ragazzo, parlo schietto, mia cara, ci vogliono quattrini e molti; se non ne avrà da spendere finirà male; anzi, avrebbe già finito male senza il commendator Pompeo che, ripeto, può proprio dirsi la vostra Provvidenza.
Angelica trasalì, ma non rispose parola.
—Mi ha detto,—soggiunse poi dopo un momento di silenzio,—di domandarti perdono.
—Oh... non ho niente da perdonare.
—....E di assicurarti che la sua gratitudine per te, durerà più della vita.
—Per me?... A me non deve, e non dovrà niente. Accomodandosi le cose, come spero, dovrà la sua gratitudine a te, e al signor Barab... Barabbò!
Angelica tornò a guardare il vecchio attentamente. Nelle sue parole, ne' suoi modi, c'era un mistero che le incuteva vaghi timori, ma che non riusciva a spiegare.
Intanto la carrozza era giunta sui Bastioni di Porta Venezia.
Nell'ora tarda del pomeriggio, il gran faccione del sole, di color rancio e affocato, calava lento, come in un bagno immobile di nubi nerastre; e la dritta e larga via dei Bastioni, si affondava fra la[273] caligine dei vapori del tramonto e pareva metter capo a quell'orizzonte di piombo, a quella lastra di fuoco. Nel mezzo, un trapestìo confuso, ma quieto, uno sfarzo di colori sbiaditi nel chiaror pallido del cielo crepuscolare; uno sfoggio di lusso e di ricchezza monotono, e un via vai di gente compassata e affaccendata ai saluti, fra mezzo alle file delle carrozze, e sotto i grossi alberi frondosi e cupi, senz'alito di vento.
Il marchese Diego, sempre sorridente, faceva scappellate alle signore, e salutava colla mano i giovanotti, ripetendo alla nipote il nome di ognuno e i gustosi pettegolezzi del giorno.
—Non si vede il nostro caro deputato!—disse infine quando la carrozza ritornava d'aver fatto il primo giro.
—Chi?...
—Il deputato Panigali; ha cavalli magnifici. Mi dicevano oggi al club che la scuderia di Panigali è fra le migliori che si conoscano. Sai,—continuò poi il marchese mentre si sbracciava per salutare la contessa di Corleoni, ch'era col suo equipaggio nella fila delle carrozze ferme in mezzo al Bastione,—sai, il Panigali è proprio innamorato di te, e alla follìa; me lo ha confessato ier sera.
—Zio!...—esclamò Angelica infastidita.
—Una tua parola sola... e si mette a' tuoi piedi.
—Te ne prego, zio; è uno scherzo che mi fa male.
—Scherzo?... Tutt'altro che scherzo! Il commendatore mi ha proprio dichiarato formalmente... che sarebbe pronto e felicissimo di sposarti e... fa conto che io ti parli in suo nome.
Angelica, a tali parole, invece di confondersi, di[274] smarrirsi, riacquistò, con un impeto di sdegno, tutto il suo coraggio, e il suo dominio su sè stessa. Guardò il marchese risolutamente, con un tono altero, quasi sprezzante:
—Risponderai al signor Pompeo—gli disse—che lo ringrazio dell'onore che vorrebbe farmi, e che non accetterei mai, in nessun caso. Gli puoi anche aggiungere, se credi, che ho promesso la mia mano al maggiore Martinengo.
—Non gli dirò nulla di tutto questo. Desidero che, prima, tu pensi bene a quello che fai.
—Ma non capisci che non son più libera?... che ho data la mia parola a Andrea?... Tu lo sapevi già, del resto!... per te non è cosa nuova!
—Pensaci, cara; e pensaci bene. Quando hai data la tua parola al capitano, tuo figlio non aveva firmato cambiali false per ottantamila lire. Trattandosi di salvare tuo figlio, mi pare che il Martinengo medesimo, se è uomo d'onore, dovrebbe scioglierti dalla tua parola.
—Ma è un mercato!... Mi si vende!...
—No, cara! non agitarti così!... Calmati, cerca di ragionare. Pensa che, in tutti i modi, non sarebbe altro che un sacrificio momentaneo, da parte tua: un sacrificio nobilissimo.
—Momentaneo, hai detto?... Allora non capisco bene....
—Ho detto momentaneo, perchè credo, sono sicurissimo che passato il primo momento, tu stessa ti stimerai felicissima di....—Guarda la duchessa di Melzo che ti saluta.—Buona sera, duchessa!... Buona trottata!—Come si conserva maravigliosamente bene!—.... Dicevo dunque, che tu stessa ti[275] stimerai fortunata, fortunatissima di ciò che oggi ti si presenta come una contrarietà.
—No,—rispose la poveretta colla voce che le si strozzava in un rantolo.—No, ti proibisco di parlarmene!
—Come vuoi, cara; come vuoi.—Il vecchio tacque per alcuni istanti, mormorando appena:—Povero Stefano!... povero Stefanuccio!—poi, stringendo le labbra, sospirando e battendo la palma della mano sul pomo d'argento della mazzettina con un "mah!" pieno di sottintesi, e che dovea essere come la conclusione de' suoi propri pensieri, si mise a parlar d'altro, ricominciando a passare in rassegna le signore più eleganti, e i giovanotti che più facevan discorrere di sè, motteggiando, come avea l'abitudine, su tutto e su tutti.
La carrozza fece un altro giro, poi un altro ancora, e Angelica, pallida e muta, cogli occhi fissi, immobile al suo posto, non vedeva più nessuno in mezzo al brulichìo rumoroso, non ascoltava, non udiva più nemmeno il continuo chiacchierare del vecchio marchese. Dentro di lei, col dolore più acuto e disperato, ribolliva un impeto di ribellione contro la Provvidenza, contro Dio medesimo, contro il destino, e contro l'egoismo freddo e brutale dello zio Diego. "Non avrebbe ceduto, no!... non avrebbe ceduto!... Era orribile e infame quanto le proponevano!... era uno strazio, e sarebbe stata una colpa, quasi un delitto! Non lo voleva il suo cuore, non il suo onore, non il suo sangue! Era un'offerta impossibile, assurda, ributtante, odiosa; sarebbe morta di vergogna e di ribrezzo. Legarsi, vivere, darsi a... a un essere ignobile che disprezzava e che aborriva!... e[276] tutto ciò quando la sua mente, la sua anima era piena di un altro; quando era innamorata di un altro... quando gli apparteneva!...—Andrea, oh Andrea,—pensava con uno schianto del cuore,—non temere, tua, sempre tua, sì, tua, tua, tua, a dispetto di tutto e di tutti!"
Lo zio le faceva rabbia: quell'individuo innominabile le faceva ira e orrore; lo sprezzava e l'odiava; la sua lurida immagine le metteva i brividi; era uno spasimo, era la repulsione di tutto l'essere suo. Odio le inspirava quell'uomo; odio soltanto; odio e schifo!... E lei avrebbe dovuto.... Oh morire piuttosto, morire, morire, cento volte morire! No, no; era impossibile; lo zio aveva sognato; era impossibile! Non sapevano tutti che amava Andrea?... che era sua, per tutta la vita, per tutta l'eternità,—sempre! sempre!—Non sapevano tutti che lo amava e che si amavano, che lo adorava e che si adoravano?—Andrea! Andrea!—Sarebbe morta piuttosto, sì... sarebbe morta stretta al collo di Andrea, col cuore sul suo cuore, colla bocca sulla bocca sua; sarebbe morta in un bacio... lo voleva un bacio... il primo... l'ultimo... un bacio che sarebbe stata la sua felicità... e la sua vendetta!...
Il marchese, come niente fosse, continuava a chiacchierare e a salutar le signore; Angelica, invece, coll'inferno nel cuore, e con tanto succedersi e affollarsi di pensieri affannosi, di sentimenti i più opposti, d'odio e di amore, rimaneva ostinatamente muta, ma diventava sempre più pallida.
Non poteva vedersi in quel maledetto Milano!... si sentiva soffocare; voleva correr via subito; voleva tornare a Gallarate; voleva, doveva rivedere[277] Andrea:—oh Andrea!—voleva, doveva dirgli tutto! Era sua, lei, cosa sua—sua!—aveva diritto Andrea di saper tutto. Andrea l'avrebbe consigliata, l'avrebbe aiutata, e l'avrebbe vendicata, perchè quell'offerta era un oltraggio... un oltraggio vile!—Gallarate!... com'era bello Gallarate!
Aveva la febbre di essere fuori di Milano, di essere di nuovo in mezzo alla campagna silenziosa, fra la gente ignota e buona; aveva la febbre di essere sola—sola con Andrea—di confidarsi con lui, di sentire da lui la risposta che doveva dare.—Avrebbe fatto sempre ciò che Andrea le avrebbe detto di fare;—le pareva che appena uscita dalle porte di Milano, i suoi tormenti dovessero alleviarsi; le pareva di ritrovare il conforto e la pace. Come voleva bene al Villino delle Grazie!... Andrea era là... pensava a lei... l'aspettava... Andrea!... Andrea!... Andrea!...
E in quei trasporto e in quel sospiro dell'anima per la felicità trascorsa e distrutta, tutto ciò che Angelica ricordava di quei luoghi e del villino, fin le muraglie guaste dal tempo e coperte d'edera, fin lo stridore e il cigolìo echeggiante del vecchio cancello di ferro, le riempiva il cuore di rimpianto e di desiderio.
—Sì... sì... voglio partir subito,—prometteva a sè stessa.—Appena ritornata all'albergo manderò a ordinare una carrozza all'Anonima e via... senza più veder nessuno!—Chi può impedirmi di andar via?... sono libera, sono padrona di me; soltanto Andrea,—oh Andrea, Andrea!—soltanto Andrea ha il diritto di comandare, di imporre la propria volontà; sono sua, tutta sua.
Ma a un tratto, un nuovo pensiero soppraggiunse ad arrestarla in mezzo a' suoi propositi, ad agghiacciarla, a sospenderle per un istante il battito del cuore.
—E le cambiali di Stefano?...
Non poteva più partire; doveva rimanere a Milano. Ma, lì per lì, pensò che appena all'albergo avrebbe telegrafato a Andrea di venire, e con Andrea a Milano, anche quel cielo pesante e ristretto, anche tutta quella gente antipatica, anche quella città uggiosa, prendevano un aspetto meno triste.
Andrea avrebbe pensato e trovato il modo di salvare suo figlio. Oh con Andrea poi non c'era tanto da scherzare; avrebbe dato una buona lezione allo zio Diego, e avrebbe schiacciata la testa alla biscia schifosa. Andrea era pieno di onore e di coraggio, mentre quell'essere... innominabile, era un vigliacco! non aveva altra forza che il suo danaro,—danaro rubato.—Non aveva altro coraggio che contro di lei:—una donna!—Essa lo aveva rimesso al posto, e lui per meglio vendicarsi del disprezzo, della vergogna patita, aveva finto di pentirsi, e nel cuore covava la vendetta. Ma lo zio sognava; aveva esagerato le sue speranze... e lei si angosciava troppo e forse a torto. Ma... e se invece fosse tutto vero?... e se in tal caso, quell'individuo senza coscienza, senza onore, irritato e spaventato dalla presenza di Andrea, rivolgesse tutto il suo astio e i suoi furori contro Stefano?...—Stefano era nelle sue mani!...
A questo punto il marchese Diego, che le avea sempre parlato senza ottener mai una risposta, si era voltato per guardarla e ne rimase colpito. Angelica non era più pallida, ma livida: aveva gli occhi infossati, il volto affilato e contratto. In quei[279] pochi istanti pareva fosse smagrita e invecchiata di più anni.
—Mah!...—sospirò di nuovo il marchese, e come per confortarla, tornando a battere la palma della mano sul pomo della mazzetta, esclamò:—Les enfants sont des soucis!—poi, drizzando il piede, si ammirò lungamente la punta lunga e sottile della scarpetta lustra, e ripetè ancora una volta, ma a mezza voce, e con una cantilena da ritornello di operetta: Les enfants sont des soucis!...
La povera Angelica, per altro, se prima non gli dava ascolto, adesso non capiva più niente; non sapeva nemmeno più d'essere sui bastioni, in carrozza, accanto allo zio.... Più niente!... Il suo affanno era diventato angoscia, e perdeva la testa in mezzo a pensieri sempre più terribili.
—No!... Non doveva telegrafare a Andrea; doveva restar sola a soffrire, a combattere!... L'arrivo a Milano di Andrea, il suo sdegno, la sua collera potevano perdere Stefano... No, no!... bisognava usare molto tatto, molta prudenza.—Suo figlio, la vita, l'onore di suo figlio erano in balìa di quella gente. Se si fosse trattato soltanto di danaro, della carriera, sarebbe stata un'altra cosa.... Ma le firme delle cambiali erano false... sarebbe messo in arresto subito... poi il processo... la degradazione... la prigione!...
—Ti senti male, nipotina?—le domandò lo zio Diego, che si era voltato ancora per guardarla.
—No.
Cominciava intanto a farsi buio; la luce fioca dei lampioni appariva in una doppia fila interminabile sotto le fronde nerastre dei grandi alberi. La gente e le carrozze andavano a mano a mano diradando.
—Vuoi ritornare, cara?
—Sì.
—Torna!—gridò il vecchio al cocchiere colla vocetta secca e tremula; poi chinandosi di nuovo verso Angelica, le domandò:—Vuoi tornar subito all'hôtel, o scendere per una mezz'oretta al Cova?...
—No, no; all'albergo, all'albergo!—rispose Angelica con impeto.
—Hôtel de la Ville!—tornò a gridare il marchese Diego al cocchiere, mettendosi una mano aperta alla bocca per essere udito meglio.
Arrivata all'albergo, Angelica salutò appena lo zio, e si avviò difilato per le scale. L'altro la salutò colla solita effusione, ma poi, appena l'ebbe perduta di vista, mormorò dispettosamente con un'alzata di spalle:—Se sulle prime il calice le sembra amaro, lo troverà dolcissimo fra qualche anno!
Angelica, nel frattempo, aveva licenziato la cameriera dell'albergo, indicandole con un cenno che non avea più bisogno di nulla, e chiusa sola nella camera, si era messa subito a scrivere a Andrea, e gli scrisse cogli occhi pieni di lacrime, col seno anelante; piangendo, sorridendo, delirando; gli scrisse così appassionatamente, con tanta effusione, con tanto abbandono come non avea mai osato, come non avea mai voluto per l'innanzi. Per la prima volta essa gli dava in tutta la lettera del tu, e le parole mia, tua, sempre, Andrea, si seguivano con una frequenza, con una foga febbrile... Andrea nel leggere più tardi quella lettera, Andrea che avea ben fissa in mente l'amica, dovea sentire le calde parole corrergli nel cuore e nel sangue, come altrettanti baci e dovea rimanerne lui pure stordito, inebriato, febbricitante.
Finita la lettera, Angelica la suggellò, chiamò per mandarla subito alla posta, poi, rimasta sola nuovamente, si alzò, si strinse forte la mano sul cuore, come se con quella lettera le fosse fuggita via anche l'anima... si asciugò gli occhi... fe' un atto risoluto, quasi promettendo a sè stessa, al suo amore che sarebbe stata forte, che non avrebbe ceduto; e si preparò lentamente, sopra pensiero, per coricarsi.
Ma poi, quando spogliata e snodate le lunghe e grosse trecce, si avvicinò al piccolo letto, un lettino corto e stretto come il suo del Villino delle Grazie, trasalì improvvisamente.... Tutto il suo corpo sussultò con un fremito.... Si rizzò... tese le braccia... voltò la faccia come per fuggire un'immagine che le faceva orrore... poi si nascose gli occhi fra le mani che strinse nervosamente con un moto, con un urlo soffocato di ribrezzo, e infine disperata si buttò sul letto contorcendosi nello scoppio dei singhiozzi.
....No!... No!... avrebbe supplicato... si sarebbe trascinata ginocchioni dinanzi allo zio, ma non avrebbe subito quello strazio... quella vergogna!...
Non potè chiuder occhio; ebbe tutta notte la febbre; soltanto si assopì un poco verso l'alba, ma fece sogni orribili; poi sul tardi fu scossa di soprassalto dalla cameriera che batteva all'uscio, ed entrava in camera con una lettera di gran premura.
—Mio Dio, che ci sarà di nuovo?...—sospirò Angelica[282] prendendo la lettera e alzandosi a sedere sul letto, mentre strappava la busta.
La cameriera aprì le imposte della finestra, e uscì subito, silenziosamente.
Chi scriveva era lo zio Diego:
"Nipotina cara, bon dì!—Hai dormito!... as-tu réve? E, sopratutto, hai riflettuto bene a' casi tuoi?—Di queste tre cose io ne ho fatto una sola: j'ai réfléchi, bien réfléchi!... Tu hai veduto che io ero dispostissimo, pur facendo un poco il grognard, com'è costume dei vecchi, a compiere qualunque sacrificio per te, per quel cattivo mobile del tuo generale in erba, e per il nostro nome. Non ho altra famiglia; siete voi due la mia tenerezza. Oggi invece, come si son messe le cose, non devo più prestarmi in nulla... devo battere in ritirata.
"Stefano di Collalto, non si direbbe a vederlo, ma è tuo figlio: una cavalletta sbucata da una rosa. È tuo figlio, e sei tu, tu sola, come madre e come marchesa di Collalto, che hai l'onore e l'obbligo di sacrificarti per lui. Oggi, come si son messe le cose, io non c'entro più. Parlo schietto: non ci devo più entrare. Se il sacrificio è possibile, tanto meglio. Se è superiore alle tue forze, io non avrò il rimorso di aver contribuito alla tua debolezza colla mia.
"Il nostro dovere, oggi, è uno solo, e esplicito.
"Tu devi dire di sì a don Pompeo.
"Io devo dire di no a te, se mi domandi ancora di pagare le cambiali di Stefano.
"Il tuo sì magnanimo, sublime, eroico, può salvare Stefano oggi, domani e sempre, procurandogli uno stato splendidissimo, in cui potrà continuare[283] nella sua prodigalità incorreggibile e ereditaria, e sfuggirà al pericolo di essere, un giorno o l'altro, rinchiuso, come il bel Lauzun, alla Bastiglia... la quale a Milano, si chiama, borghesemente, il Cellulare.
"Brrr!... Ti vengono i brividi? E allora animo: facciamo bonne mine à mauvais jeu... e sposiamo... Panicale!...
"Pensa che dipende da te l'occupare una delle prime posizioni, almeno finanziarie, d'Italia.... Una posizione degna della tua bellezza, dei tuoi talenti, della tua virtù, della tua eleganza... e soprattutto del tuo e nostro nome. A Panicale sarai ancora il mio orgoglio; alla Stazione Centrale, o a quella di Smistamento, saresti il mio crepacuore.
"E pensa, infine, che quella stessa Società, la quale ieri avrebbe gridato plagas contro di me, se io non avessi pagato i debiti di mio nipote, oggi giudicherà te, e se la tua risposta sarà negativa, e tuo figlio disonorato, ti condannerà senza remissione.
"As-tu compris, ma belle?
"Ti bacio le mani affettuosamente.—Hai visite o commissioni da fare?... Vuoi che ti mandi la carrozza? Comanda, mia cara. Quel che tu brami, io bramo. Le cambiali scadono oggi alle due; ma per ora non temer di niente. Il commendatore Barbarò è un perfetto gentiluomo, e le terrà in sospeso, come ti ha promesso, ancora per alcuni giorni. Ciao, bellezza.
"Lo zio Diego."
Angelica divorò la lettera in un attimo; gli occhi che erano asciutti, le divennero aridi, quand'ebbe[284] finito. Si alzò subito, si vestì in fretta, scese, ma si fermò per domandare al portiere se non erano venute altre lettere per lei, e alla risposta negativa, volle sapere l'ora della seconda distribuzione.
—Alle undici ore e metzo,—rispose il portiere con forte accento tedesco.
Angelica pensò allora che la lettera di Andrea l'avrebbe trovata tornando, mandò a prendere un brum, e si fece condurre di corsa dallo zio.
Il marchese Diego, sebbene avesse scritto di essere rimasto sveglio tutta notte per riflettere, invece dormiva sempre, a quell'ora, e dormiva saporitamente. La lettera, senza dubbio, era stata preparata e consegnata la sera al cameriere, perchè fosse mandata la mattina dopo al suo destino.
—Entrate dal marchese, ditegli che gli devo parlar subito.
—Ma...—osservò timidamente il cameriere, rimanendo tuttavia un po' scosso dai modi e dall'aspetto della signora marchesa.
—Ditegli che mi riceva pure in camera, senza alzarsi.
Il cameriere, che avea fatto entrare la marchesa nel salotto, se ne andò per annunciarla al padrone, ma non tornò tanto presto.
—Mi ha detto che resti servita....
Angelica non profferì motto, tenne dietro al servitore, ed entrò dallo zio.
Benchè i vetri fossero stati aperti, c'era nella camera un puzzo di rinchiuso, misto coi profumi delle pomate e delle acque odorose.
—Nipotina mia!... che bella apparizione!—esclamò[285] il marchese Diego, seduto sul letto, coperto con una giacca di lana bianca orlata di seta azzurra, con un gran foulard scarlatto intorno al collo, e un berrettino di maglia nera tirato davanti sugli occhi, e dietro sulla nuca, perchè la testa non era stata ancora preparata.—Che bella apparizione!... Prendi anche tu la cioccolata?...
—No, zio,—rispose Angelica tossendo un poco.
—Allora prepara soltanto la mia,—disse il marchese al servitore, che se ne andava.—La metterai al fuoco quando suono.—Vieni qui!... Vieni qui più vicina, bellezza mia,—disse poi stendendo una mano ad Angelica, e tirandola presso la sponda del letto.—Queste visite delle belle signore sono i vantaggi dell'età!... magri vantaggi!—e il vecchio sospirò ridendo.
Angelica, con uno slancio improvviso, si portò alle labbra la mano dello zio e la baciò ripetutamente, sciogliendosi in lacrime.
—Animo... animo... non facciamo tragedie!—borbottò il Collalto colla voce su quel subito diventata stridula, e strappata la mano dalle strette della nipote, la cacciò infastidito sotto le lenzuola.
Angelica cadde ginocchioni piangendo più forte, e nascondendo la faccia contro il letto.
Il marchese, colle braccia tirate sotto le lenzuola, stecchito e immobile come un idolo indiano, la guardò crollando il capo. Ma nè la vista, nè il profumo dei capelli biondi, nè il candore del collo delicato, nè il bel corpo flessuoso che fremeva per l'urto dei singhiozzi, ottennero un sentimento benevolo di pietà. Dagli occhietti rossi e spelati del vecchio, dalia faccetta viscida e rugosa, che spuntava[286] appena sotto la berrettina e dentro le pieghe del foulard, trasparì soltanto un moto di fastidio, e un'espressione, prima di sarcasmo, poi di collera, e quasi di odio, mentre i peli dei baffi verdi, spioventi perchè non ancora incerati, si agitavano rabbiosamente, mettendo in mostra i bei denti bianchi.
—Alzati!... alzati!... sono pianti inutili!... Io non posso più far niente.
—Ma non capisci, zio,—esclamò Angelica balzando in piedi, e col viso ancor tutto in lacrime, rosse le guance, i capelli arruffati,—non capisci, zio, che è impossibile ciò che si pretende... che ciò che si vuol far di me è infame?...
—Infame?... impossibile? Eh, paroloni, e coi paroloni, bimba mia, non si può ragionare. Credi di esser la prima che faccia un matrimonio di convenienza? Chè!... sono gli altri, anzi, i più rari: i matrimoni d'amore... e sono anche quelli che riescono peggio!... In fine, capirei tutte queste lacrime, tutto questo sgomento in una ragazza che... che non conoscesse il mondo... che fosse ancora alle fanciullaggini degli innamoramenti e delle romanticherie.... Ma tu sei una donna fatta; hai un figlio che, fra poco, avrà vent'anni, e devi lasciare da una parte la poesia.
Il vecchio cercò il fazzoletto sotto il capezzale; si soffiò il naso, poi tornò a rizzarsi e ad accomodarsi nel letto, e cercando di addolcir la voce per rendersi più persuasivo, continuò:
—Guarda, per esempio, la contessa di Nave;—te l'ho fatta vedere ier sera sui Bastioni: quella bellissima donna, ancor giovane, con un cappello magnifico, a grandi piume bianche e nere?—Ebbene, da[287] ragazza le fecero sposare, contro voglia, il conte di Nave che avea trent'anni più di lei.... Durante il matrimonio fece una vita brillantissima, senza mai far parlare di sè; soltanto credevamo tutti che, una volta rimasta vedova, avrebbe sposato suo cugino Vidolenghi... Invece sposa adesso suo cognato, maggiore di suo marito di una decina d'anni, e tutti l'approvano, e il Vidolenghi, che è un uomo di testa, per il primo. Con questo matrimonio la sostanza dei Nave rimane tutta in casa!... Nipotina, nipotina cara, l'amore è un di più; il necessario è l'aritmetica!
Angelica si asciugò gli occhi ed aspettò un momento a rispondere. Vedendo che con tutte le sue lacrime non sarebbe riuscita a commuovere quel fantoccio ridicolo e crudele, vedendo che non era, e che non poteva essere nè capita, nè compianta, soffocò in sè stessa tutto il suo grande amore, tutto il suo grande dolore, e cercò altri argomenti meglio adatti a persuadere lo zio Diego.
—Allora ti dirò che rifiuto assolutamente l'offerta che mi vien fatta per un'altra ragione importantissima.
—Quale?
—Non solo amo... un'altra persona; ma questa persona ha pure la mia promessa più sacra e formale.
—Se non vi sono altri ostacoli, mi prendo l'impegno volentieri di andar io stesso a parlare col maggiore. Lo metterò al corrente del pasticcio delle cambiali, delle firme false, gli dirò tutto ciò a cui andrebbe incontro tuo figlio se tu rifiutassi l'offerta che ti vien fatta, soggiungendo pure che tu sei sempre[288] pronta a mantenere la tua promessa ove lui stesso non te ne sciolga volontariamente. E vedrai, vedrai che se non è un matto, o un birbante, ti renderà la tua parola. Che diamine!... quanti matrimoni non sono andati a monte per molto meno!...
—Ma tu non conosci Andrea!—proruppe Angelica sbigottita e fremente.—Mi renderà la mia parola; sì, mi renderà la mia parola... ma ne morrà... poi è capace di tutto, di disperarsi, di uccidersi!...
—Stupidaggini!—strillò il vecchio sempre più seccato, con un'alzata di spalle,—non ci son più altro che gli studenti e le serve che si uccidono!... Vedrai, che anche il tuo capitano si darà pace....
—Peggio, peggio ancora per conto mio, se si desse pace!...—esclamò Angelica fuori di sè.—Non capisci che sarebbe quello che mi spaventerebbe di più, che mi farebbe diventar matta?...
—Ma allora, si può sapere che cosa vuoi?.,.—domandò il marchese tra l'ironico e lo stupito.
—Non mi capisci... non ci possiamo intendere...—balbettò la poveretta buttandosi affranta sopra una poltroncina ch'era accanto del letto.
Il marchese Diego le prese una mano, la posò sulla coperta bianca, e l'accarezzò dolcemente.
—Capisco che tu vorresti da me ottantamila lire; ma tu invece, non capisci un'altra cosa, che cioè ot-tan-ta-mi-la lire si possono pagare, anche quando non si è obbligati, per salvare l'onore della famiglia, ma non mai per combinare un matrimonio che non accomoda per nessun verso. Anche se non vi fosse di mezzo tuo figlio, le cambiali, le firme false, tutti questi imbrogli che m'indispettiscono e mi nauseano, avrei sempre preferito il commendatore Barbarò,[289] che almeno ha una fortuna colossale, e tiene uno dei primi posti nell'aristocrazia della finanza, al tuo Martinengo, il quale non è altro che uno spiantato.
—Ma se tu stesso mi hai sempre detto che il signor Pompeo è un furfante, uno strozzino, una figura losca e abietta?... Se tu non volevi mai venire a Villagardiana per non incontrarti con lui?...
—Allora non era... quello che è presentemente!
—Se anche poco tempo fa hai rifiutato un mio invito a pranzo al Villino per non doverti sporcare, son tue parole, a dar la mano a quella canaglia?
—Avevo torto. Le antipatie, per lo più, sono ingiuste.
—Ma se anche ieri, l'altro giorno, ne parlavi con disprezzo?...
—Conoscendo a fondo don Pompeo, l'ho trovato un perfettissimo gentiluomo.
—E anche un galantuomo l'hai trovato?—domandò Angelica con un accento d'ironia amarissima, che traspariva pur fra l'angoscia.
—Oh Dio,—rispose il vecchio tirando un po' su i guanciali per star più comodo,—l'essere galantuomo è una cosa affatto personale, e molte volte non è di vantaggio a nessuno!..
—Come parli, Dio mio! non sembri più tu!
—Perchè altro è il discorrere così, per modo di dire, per passare il tempo, altro è il parlare d'affari. Gli affari sono gli affari, e hanno un linguaggio più conciso e positivo.
—Allora ti ricorderò... un passato infame.... Quell'uomo ha fatto la spia!
Angelica pallida, fremente di sdegno, si era avvicinata al marchese fissandolo bene in faccia.
—Storie vecchie,—rispose l'altro mettendosi di nuovo a cercare il fazzoletto per evitare quello sguardo,—quarantottate!... nessuno più ci crede, o ci bada!
—È stato sotto processo.
—Ma... ecco, questo particolare, non risulterebbe vero.
—Ha fatto i danari spogliando la povera gente.
—Ne ha fatti troppi!—esclamò il vecchio ridendo,—e non può aver spogliato altro che i ricchi!
—Per le sue ladrerie, per la sua avidità di guadagno, ha mandato i nostri soldati al macello.
—Non credere, sai, nipotina, non credere.... Questa è rettorica patria!...
—Se lo dicevi anche tu?
—Ebbene... ho fatto male anch'io. Quante fandonie non si ripetono... tanto per parlare?
—Dunque... dunque tu non senti orrore che una tua nipote... una Castelnuovo, una Collalto, diventi... la signora Barbarò?
—Scusa, Donna Angelica Barbarò di... Panicale... la cosa è molto diversa.
—Se tu stesso hai sempre riso, quando non ti ci sei arrabbiato, a proposito della nobiltà del signor Pompeo?
—Oh bon Dieu, non metterti adesso a farmi il processo su tutto ciò che ho detto, su tutto ciò che ho fatto! Avrò riso... in principio; ma la nobiltà è come il vino: invecchiando si fa buona, e ha il gran vantaggio, sul vino, che invecchia più presto. E poi—il marchese mal suo grado tradì, a questo [291]punto, un certo dispetto—i tempi son mutati... Non è più l'età delle Crociate, ma delle Banche, e i costumi son democratici in questo, che tutti i titoli sono uguali: basta averne uno!... Anzi, sono gli stemmi più nuovi, quelli che brillano di più. In fine, parliamoci chiaro, che cosa mi offriresti in cambio delle ottantamila lire che dovrei pagare?... di diventare la signora Martinengo presso la Direzione delle Ferrovie dell'Alta Italia!
—Almeno avrei un nome onesto!—rispose Angelica a cui, in quel febbrile contrasto, più diminuivano le speranze, e più cresceva il coraggio.—E questo è un titolo che il tuo... protetto, non ebbe, non ha, non avrà mai!
Essa era sdegnata; le lacrime che le spuntavano dagli occhi rilucenti, si asciugavano tosto sulle guance infocate.
—Chè, chè, chè, bellezza mia! i fortunati non sono mai disonesti! Tutti lo ammirano il tuo... pretendente; tutti lo stimano, lo cercano, lo accarezzano...: presidente di qua, consigliere di là, assessore, sindaco, commendatore.... Che vuoi di più?... il re lo ha creato nobile, e il suffragio popolare lo ha eletto deputato!
—Ma tu che sei tanto tenero del mio nome, che è il tuo, del mio onore, che è il tuo, non pensi a ciò che il mondo, non il mondo di quella gente, ma il nostro, dirà di me se mi vendo... e di te se mi costringi a vendermi?
—Io non ti costringo, ti consiglio soltanto per il tuo meglio. In quanto al mondo, che deve dire? Il mondo, e a ragione, si meraviglierebbe moltissimo se, anche astrazione fatta da tuo figlio, e dai tuoi doveri di madre, tu fossi così matta da preferire un[292] Martinengo, fosse pur nominato capostazione, a un Barbarò di Panicale!...
—Ebbene,—proruppe Angelica accendendosi nuovamente, e nuovamente lasciandosi sfuggire dall'anima ciò che prima avea cercato di nascondervi,—ebbene, se tutto ciò non ti convince, non ti scuote... pensa che lo amo tanto da morirne!... Sì... sì...—Non vederlo più....—E la sua voce fu coperta dai singhiozzi.
--Sciocchezze!—borbottò il vecchio con un'alzata di spalle.—Sciocchezze!... tutte sciocchezze! Tu corri sempre da un estremo all'altro, mentre al mondo, sapendo fare, si può accomodar tutto benissimo!—Non vederlo più!... Chi ti dice, chi ti impone di non vederlo più?...—E il vecchio sorrise, guardando la marchesa in un certo modo, che poteva esprimere molte cose.—Dammi ascolto, nipotina bella, compi il sacrificio per tuo figlio, cosa che farà molto onore al tuo cuore, e non lasciarti sfuggire Don Pompeo, cosa che farà molto onore alla tua testa. Poi, con quattro moine, farai ciò che vuoi di tuo marito, e con un buon cuoco, avrai il mondo dalla tua. Il mondo vedendoti a Panicale esalterà la tua virtù; sapendoti dipendente dagli uffici dell'Alta Italia, sarebbe inesorabile. Ed è naturale: il mondo è indulgente coi ricchi perchè ne ha bisogno; d'altra parte non pretende virtù... impossibili; gli basta un pochino di prudenza. Se tu saprai menager la posizione... don Pompeo... è invaghito di te, io me ne intendo, s'è presa un'ubriacatura da non vederci più.... Con un po' di, mettiamo pure, di abnegazione da parte tua, farai tutti contenti, e potrai esser contenta anche te. Diamine!... Se il prender[293] le cose come fai te, agli estremi, fosse regola comune, tutto il mondo sarebbe sossopra, invece vedi bene, che ci si vive tranquillamente e in buon accordo. Impara dalla contessa di Nave; quella è davvero una brava donna; tutti l'ammirano, la rispettano e fanno la corte a lei.... e al Vidolengo!
Angelica, durante queste parole, aveva sempre guardato lo zio tra indignata e stupefatta.
—Oh!... Oh!... e sei tu?...—proruppe infine con voce sorda,—e sei tu che mi proponi un mercato così vile?!...
—Io?... quale mercato?... paroloni e sempre paroloni!—Il marchese stizzito, si rizzò sui guanciali.—Se è così che fraintendi le cose, non parlo più! Fa come vuoi; per me, me ne lavo le mani. Pensa per altro che tuo figlio non è sopra un letto di rose. Io, in faccia al mondo e alla mia coscienza, non avevo altro che l'obbligo di consigliarti bene e l'ho fatto; a te tocca di scegliere fra Stefano e il Martinengo; sei donna, sei madre, e non hai più vent'anni, quantunque li dimostri appena. Se vuoi sacrificare Stefano al bel maggiore, padrona mia! io ti dico che hai torto, e che non mostri cuore: il cuore prima di tutto!
Angelica, dopo aver pianto, dopo essersi disperata e sdegnata, ora rimaneva come accasciata sotto il peso di quella gran calma, da cui spesso trapelava l'ironia, ma che si manteneva impassibile. La voce tremola dello zio Diego aveva uno stridore sempre uguale, freddo e acuto; non si scaldava, non vibrava mai. La poveretta finiva collo smarrire la coscienza di sè, ed anche del suo stesso dolore, in un grande abbattimento; non trovava più le parole, e aveva[294] quasi perduta la voce; pure continuava a piangere, e non ristava dal pregare, dal supplicare, ma ormai senza lena, senza speranza, come il naufrago che pur sentendosi l'acqua alla gola, si dibatte istintivamente negli ultimi sforzi.
Da ultimo lo zio Diego la lasciava dire senza neanche risponderle; e la poveretta se ne andò, non com'era venuta, ma a capo chino, colle ginocchia tremanti, balbettando confusa, anche dinanzi agli umili saluti del servitore, che l'aspettava fuori, per aprirle l'uscio dell'anticamera.
Il marchese Diego, appena fu solo, trasse un gran sospiro mormorando:
—Anche questa è passata.
Poi suonò perchè gli portassero la cioccolata, e l'aspettò allungandosi sotto le coperte, e disponendosi a fare un altro pisolino.
Gli avvenimenti inaspettati e precipitosi si eran seguiti in quei due giorni senza un sol minuto di tregua tanto che Angelica ne era rimasta come intontita. Le pareva di sognare; non aveva nella mente altro che un punto solo fisso e ben chiaro: Andrea: correre da Andrea, dirgli tutto; farsi salvare da lui.
Salvare?... in che modo avrebbe potuto?...
Non sapeva; ma essa lo credeva capace anche di un miracolo, e il suo cuore d'innamorata aspettava appunto un miracolo da lui.
Appena lasciato lo zio Diego, Angelica ritornò subito all'albergo, mandò all'Anonima a ordinare una carrozza, e ancora nel montar le scale cominciò a leggere la lettera da Nuvolenta, che avea trovata dal portiere, in cui Andrea si mostrava inquietissimo per l'agitazione e l'affanno che traspariva dalle parole scrittegli da Angelica, e la supplicava di lasciarlo venir a Milano o di comunicargli subito tutto ciò che era accaduto di nuovo. Angelica, per dargli un po' di pace, almeno fino a tanto che arrivava lei, gli telegrafò che partiva sul momento per il Villino delle Grazie. Ma non aggiunse una parola di più, e Andrea invece di tranquillarsi rimase più inquieto di prima. Tuttavia (ripeteva fra sè) essa sta per arrivare; questo in ogni modo, era per lui il più importante... era una consolazione che a mano a mano si faceva sempre più viva, e dissipava tutte le incertezze, tutti i timori.
—Arrivava lei!... lei!... Angelica!...
Non poteva pensare ad altro, non poteva star fermo.
—Che cosa sarà mai successo?... che lo zio Diego non voglia pagare?... come sarà inquieta, povera Angelica!... Ah se avessi io ottantamila lire!...—Tornò a guardar l'orologio.—Fra un'ora intanto sarà qui, e sentiremo... Sarà qui!...
La vide in quel punto, sorridente, viva; vide i suoi occhi grandi pieni di dolcezza e di amore....—Fra un'ora!—gridò, e in uno slancio di tenerezza beata che gli traboccava dall'anima, promise a sè stesso di confortarla di tutte le sue pene, di amarla anche di più per tutti i suoi dolori.
—Ah, se fossi ricco!... Che cane quello zio[296] Diego!... Come può resistere alle preghiere, alle lacrime di quell'angelo di donnina?... È tal'e quale il conte Prampero: la buccia un po' più levigata, ma sotto lo stesso egoismo, la stessa durezza... che cane!... Povera bimba mia come la tormentano!... Eh, ma a quel ragazzaccio di Stefano, parlerò io!... Se credesse mai di far crepar sua madre sta fresco! adesso non è più come una volta: adesso ci sono io, e posso mostrarmi, e farmi sentire!...
Mentre faceva seco stesso tanti bei proponimenti Andrea era ancora nella sua piccola cameretta. Pensò che ormai la carrozza di Angelica doveva esser poco lontana, e che avrebbe potuto andarle incontro sullo stradale di Gallarate.
—Sì! Sì!... Angelica buona! Angelica bella! Angelica cara!...
Si rivestì con cura; si mise una cravatta che piaceva ad Angelica, con uno spillino che le aveva regalato lei; una perlina rosea, levata apposta dal piccolo filo ch'essa portava sempre al collo dì e notte: erano le sue perle di ragazza.
Quando fu pronto si guardò un momento nello specchio arricciandosi i baffi, e benchè i suoi capelli folti e forti cominciassero a mostrarsi un poco brizzolati, non si dispiacque. Si cacciò in capo il cappello a cencio, con un piglio tra il militare e il conquistatore, prese i guanti, la mazza, e uscì fischiettando a fior di labbra:
Un dì felice, eterea
Mi balenaste innante....
Per evitar la gente, prese per la brughiera che fiancheggiava la via maestra, con un tratto di bosco.
Angelica, sicura di incontrare Andrea lungo la strada, avea più volte messo fuori dello sportello la testina bionda, per vedere se spuntava da lontano.
—Oh Andrea!—mormorò a un tratto arrossendo e impallidendo con un sussulto di tutto il sangue.
Andrea, che le era apparso all'improvviso, sbucando da un folto di pini, saltò sulla strada.
Era gaio, sorridente, col cappello in mano, e un mazzetto di fiori gialli all'occhiello: i fiori che Angelica preferiva.
—Ferma! Ferma!—gridò Angelica al cocchiere, e balzò dalla carrozza appoggiandosi alla mano di Andrea, il quale, appena vedutala, avea subito mutato di colore, e il sorriso gli si era spento sulle labbra.
—Che cos'è successo?
Angelica lo guardò con occhi spaventati.
—Che cos'è successo?—chiese ancora, e il fremito della voce tradiva lo sbigottimento interno.
La marchesa, voltandosi verso il cocchiere, gli ordinò di andare innanzi, di attraversare tutto il paese e di fermarsi poi al primo villino, che avrebbe trovato a dritta; domandasse se aveva paura di sbagliare: tutti gli avrebbero indicato il villino della marchesa di Collalto.
Essa voleva fare la strada a piedi.
La carrozza si mosse lentamente...; Angelica guardò ancora Andrea con un'espressione indicibile di amore, di dolore, di sgomento e poi, passandogli innanzi, prese un sentieruolo che dalla strada s'internava nella brughiera. Andrea le tenne dietro, senza osare d'interrogarla; capiva che Angelica voleva essere sola, sola con lui, prima di cominciare a parlare.
Ma Andrea, durante quei pochi passi fatti in silenzio, avendo visto che la sua presenza non era bastata a consolarla, s'indispettì, e s'imbronciò.
Egli non era dunque tutto per lei!...
Angelica continuava a camminare finchè, passato il piccolo tratto di bosco, si trovò dinanzi la brughiera immensa e arida. Allora si voltò improvvisamente, mormorando:—Oh Andrea! Andrea!—e proruppe in lacrime. Ma erano lacrime ben più amare di prima; cominciava allora a sentire, a capire tutto il suo dolore.
—Oh Andrea! Andrea!...
—In fine si può sapere che cosa c'è di nuovo?—domandò l'altro seccamente, quasi duramente.
Angelica, prendendogli le mani che si strinse sul cuore, lo guardò lungamente, fissamente: era uno sguardo che pareva uno spasimo dell'anima. Andrea ne rimase vinto e sbigottito: sciolse una mano dalle sue e abbracciando e premendosi Angelica sul petto—per Dio, mi dica,—domandò,—che cosa c'è di nuovo?...
—Più, più....—rispose Angelica balbettando.—Non dobbiamo vederci più!...
Andrea si allontanò da lei vivamente e ristette pallido, accigliato.
—Perchè?...
—Ma ne morrò.... le giuro che ne morrò.... È troppo.... oh, è troppo.... Ne morrò.
—Perchè?—replicò l'altro con maggiore asprezza.
Angelica si asciugò le lacrime col fazzoletto chiuso nella manina inguantata, e fra lo strappo dei singhiozzi, cogli occhi esterrefatti dallo spasimo e dal terrore fissi in Andrea, gli raccontò tutto quanto[299] le era successo, quanto le volevano imporre, quanto le si preparava.
L'altro l'ascoltò immobile, senza profferir parola. Solo quando Angelica ebbe detto tutto, egli era bianco, terreo, e trasalì per un brivido, ma rimase ostinatamente muto. Angelica gli si avvicinò; il suo viso era tutto molle di pianto; il seno anelante come se volesse scoppiare, ma non piangeva più. Essa lo guardò ancora, e tutto il suo cuore, tutta la sua disperazione traboccavano dalle pupille fisse, dilatate. Stese le due mani, si attaccò alle spalle di lui, e leggermente alzandosi sulla punta dei piedi per avvicinare la sua faccia a quella immota di Andrea, così da stordirlo col bagliore degli occhi e le vampe calde del suo alito, gli chiese con una risolutezza improvvisa di modi e di parole:
—Dimmi tu che cosa devo fare; che cosa devo rispondere. Farò soltanto quello che vorrai tu; tutto quello che vorrai tu: sono tua. Parla.... di' su... che cosa devo fare?...
Andrea la guardò freddamente. Poi sorrise.... ma fu un sorriso ghiaccio che trapassò il cuore di Angelica.
—Abbi compassione.... abbi pietà, Andrea... Andrea... almeno tu abbi pietà. È troppo... è proprio troppo!
—Ah! Ah!—proruppe l'altro ridendo ancora,—come sono strane le donne!... Lei pretenderebbe anche che io la confortassi, dopo che viene a... a darmi una mazzata sul capo!...
Andrea sotto quella gran calma forzata nascondeva un'atrocissima battaglia: l'amore in quel punto rimaneva soffocato dal dolore e dalla gelosia. Ciò che[300] c'era in lui di cattivo o di men buono, e che l'amore soave e alto di Angelica era riuscito a vincere e a seppellire nel più profondo della sua anima, risorgeva a un tratto oscurando la nobiltà de' suoi sentimenti, il foco generoso della sua passione. Angelica non lo aveva mai abbracciato in quel modo... ma anche ciò lo irritava, e lo rendeva ingiusto. Pensava che la poveretta, lo facesse per intenerirlo, per renderlo incapace a resisterle, per farlo consentire a quel partito mostruoso. Pensava che, ad onta di tante proteste, essa allora non lo amava, o lo amava molto poco. Il primo suo affetto non era lui, ma suo figlio; il figlio di lei e di Alberto di Collalto: essa non aveva che suo figlio in mente, in cuore; non vedeva se non suo figlio, non tremava se non per suo figlio. Ma invece a lui, proprio a lui, che cosa doveva importarne del marchesino Stefano?... nulla!...—E dietro a quel ragazzaccio cincischiato e stupido, e senza cuore, tutto il ritratto del marito di Angelica, gli appariva la figura esosa del Barbarò, dell'onnipotente Barbarò, che con una manciata d'oro gli portava via la sua donna, la sua amante... come quell'altro, tanti anni prima, gli aveva portato via la sua fanciulla, la sua sposa... sempre debole, sempre incapace di resistere, sempre pronta a sacrificarlo, prima a suo padre, ora a suo figlio. E in quel subbuglio di memorie e di passioni la bellezza di Angelica, fremente e anelante di dolore, anzichè commuoverlo e intenerirlo, trasformava in un impeto improvviso e cieco di odio tutto il suo grande amore.
Angelica aveva mentito; non era vero che fosse tutta sua come essa gli aveva giurato, come egli voleva sempre che gli giurasse! E nel suo cuore le[301] faceva una colpa della sua debolezza, una colpa del suo amore di madre, quasi una colpa anche di ciò che accadeva.
Perchè gli avea voluto raccontar tutto?... perchè gli domandava consigli?... oh, se avesse trovato quella proposta così assurda, impossibile, infame, come infame, impossibile, assurda era veramente, doveva respingerla subito, indignata; essa doveva imporre allo zio Diego di tacere, doveva scacciarlo... ma non doveva tornare al villino per farsi veder piangere, e per chiedergli consiglio!... Se lo domandava era perchè aveva già risolto in cuor suo di... di sacrificarsi. Ma perchè voleva sacrificarsi lei, aveva diritto di sacrificarlo lui, mancando a tutte le sue promesse?... Essa non ragionava più quando si trattava di suo figlio!... suo figlio era stato sempre tutto per il suo cuore!... lui... Andrea, lui era stato per lei l'ideale!... sì... l'ideale... ossia quasi niente!
—Rispondi!... hai capito?... rispondi!...—soggiungeva intanto Angelica stringendogli forte le braccia colle mani nervose, e scuotendolo.
—Dal momento che lei mi domanda un consiglio non posso darle altro che quello buono... accettare!—esclamò Andrea sorridendo di nuovo colle labbra pallide, e sciogliendosi da Angelica con una garbatezza un po' ruvida e ostinata.
—Accettare?... lo dici così?... così... tranquillamente?... Ridendo?...—e Angelica colle piccole mani, che parevan diventate di ferro, gli strinse le braccia e lo scosse ancora più forte.
—Come dovrei dirlo?—Andrea cominciava a non potersi più frenare: le sue labbra tremavano, i suoi[302] sguardi diventavano biechi, la sua ironia si faceva terribile.
—Come lo dovrei dire?... io non posso piangere come lei; io non ho il benefico sfogo delle lacrime!... io sono un uomo e rido, rido sempre, rido di tutti, e rido di me; ma il mio riso avvelena, brucia, ammazza più di tutti i suoi singhiozzi e le sue convulsioni, il mio riso, per Dio, non ha nè tregua, nè sollievo, nè pace!...
—Oh ammazza anche me il tuo riso,—e davvero, sai,—ammazza anche me, ed è cattivo ed è ingiusto. Ti pentirai, oh ti pentirai di essere stato senza pietà. Ma che cosa volevi tu che facessi? che cosa vuoi che io faccia?... abbandonare mio figlio al punto in cui si trova?... ti par possibile?... si tratta di processo, di prigione. Rispondi, Andrea, potevo farlo? posso farlo?
—Queste cose non si chiedono; dal momento che si chiedono si deve rispondere: no.
—Non farmi diventar matta!... Io era corsa da te attaccandomi all'ultimo filo di speranza, e tu questo filo l'hai spezzato brutalmente, aggiungendo le tue offese, i tuoi insulti, al mio dolore. Speravo... no speravo, volevo illudermi che la cosa fosse per sè stessa tanto orribile, che tu mi potessi convincere di rifiutare. Invece tu mi hai dato l'ultimo colpo. Se rifiutassi, tu che non hai il coraggio di consigliarmi a resistere, mi condanneresti nel tuo cuore, come mi condannerebbe il mondo, mio figlio, tutti!...
—Ah non è dunque il tuo sentimento di madre che impone questo sacrificio?... È la paura dei giudizi [303]del mondo... di quello che direbbe la gente?... Non è mai il tuo cuore che ti guida, è sempre la tua testa!
—Non parlarmi di cuore e di testa, tu che la testa me la fai perdere, e che finisci di spezzarmi il cuore... tu che sei ingiusto... e vile.
—Angelica!—proruppe Andrea con impeto.
—Sì, vile, vile, vile!—replicò la poveretta pallida, tremante, senza più una lacrima, con tutta la sua dignità di donna, con tutto il suo cuore di amante, che si dibattevano in lei nell'urto supremo della disperazione.—Vile, perchè tu pure, non sapendo trovare una via di scampo, ti rivolti contro di me. Rispondi, in fine, perchè lo voglio, perchè ho diritto di volerlo. Non frasi, sai; voglio la verità.—Che cosa devo dire a mio zio? che cosa devo fare?...—Non sono consigli che si chiedono, tu mi dici?... Ma lo dici non perchè sia una prova di poco amore il chiederli, sì bene perchè non te ne vuoi assumere la responsabilità. Sì, il tuo cuore vorrebbe,—lo vorrebbe anche il mio, ardentemente, a costo della vita lo vorrebbe,—che io rispondessi un no, e abbandonassi Stefano al suo destino; ma la tua coscienza non vuol parteciparne la colpa e il rimorso con me.
—Guardami, Andrea, guardami in faccia e rispondi: chi è più sincero di noi due?
—Non avresti dovuto permettere al marchese Diego di parlare... di farti una simile proposta!—rispose Andrea, un po' scosso suo malgrado.
—Ah tu... tu non sei madre, tu!... tu non hai un figliuolo.
—No,—replicò Andrea tornando a riscaldarsi,—e per questo ho un solo amore, una passione sola nell'anima. Ho una creatura sola al mondo, nel[304] cuore: tutti gli altri mi han sempre fatto del male, o han goduto del mio male: sono cuori perversi, ed anime ignobili, ed io li sfuggo, e li disprezzo. Ma non dovevo amare nemmeno te....
—No, Andrea....
—Non si può amare veramente quando si ha il cuore diviso, ed io ho sempre fatto male a volerti bene!... ho fatto male prima; ho fatto male dopo!
—No! No! No!—gridò Angelica fuori di sè.
Era pronta a dare la vita, e più assai della vita per suo figlio, ma il suo cuore, il suo amore era tutto di Andrea, e Andrea disprezzava il suo cuore, malediva l'amor suo!... Essa non ragionava più, non pensava più a niente, era come matta. Gli si attaccò al collo, lo strinse, fece ogni sforzo per attirarlo a sè. L'altro, imperterrito, allontanò la faccia, e Angelica gli cadde esausta colla testa sul petto.
Andrea la guardò... ne sentì compassione... e a poco a poco gli ritornò tutto l'amore di prima.
—Mi ama,—pensava,—non ama altri che me; e non avrà il coraggio di cedere.
Sul loro capo i pini odorosi fremevano ai soffi caldi del pomeriggio. Il sole declinava lento dal cielo puro, chiarissimo, dietro le cime nere dei monti lontani, e il verde scialbo della brughiera scoloriva tristamente in quell'ultima ora del tramonto: la campagna si distendeva muta, deserta, infocata. Solo le rondini a stormi passavano e ripassavano come frecce nell'aria ardentissima, e stridevano.
Andrea sentiva sul proprio petto il petto palpitante di Angelica: ne sentiva l'urto dei singulti e il fiato caldo, odoroso.
—No,—continuava a pensare,—mi vuol troppo[305] bene! non mi potrà lasciare!—e la baciò con tenerezza, commosso, la baciò fra i riccioli biondi, e le rose del cappellino.
—Lasciami morire... qui...—balbettò appena la poveretta.
Morire?... Desiderare di morire?... Dunque anche fra le sue braccia, e mentre lui la baciava, pensava sempre a suo figlio e aveva in animo di cedere?... Andrea, di subito, ritornò freddo, tornò spietato, e allontanò Angelica da sè. Essa lo guardò cogli occhi ora fatti mestissimi, chinò il capo, sospirò un'altra volta, ma non disse più nulla.
—Muoviamoci, signora Marchesa, e andiamo verso casa. Chi sa che cosa dirà la sua gente, se non la vede tornare.
—Andiamo.
Angelica, sempre a capo chino, prese il sentiero che metteva al paese. I suoi piedini battevano risonanti sull'erba arsiccia del terreno secco.
Andrea le tenne dietro torvo in viso, spezzando col bastone i ramicelli dei pini e i fiorellini gialli dei campi.
Soltanto quando furono presso al villino Angelica domandò con voce bassa, senza voltarsi:
—Viene stasera?
—È inutile,—rispose l'altro.
Angelica entrò nel cancello. Andrea, senza stringerle la mano, la salutò con una grande scappellata per via del fattore e del giardiniere, ch'erano nel cortile. Poi tirò dritto, e a due passi dal villino, visto il cappellano col quale era solito scherzare, si fermò anche allora, a fare il chiasso con lui.
Ma più tardi, quando capitò a Nuvolenta, cominciò[306] a strapazzar tutti, e buttò all'aria piatti e bicchieri perchè la zuppa era salata, il vino inacetito e il pane duro.
Andrea era rimasto tanto sbalordito dal colpo ricevuto che, come Angelica a Milano, non aveva avuto tempo di sentire l'acutezza del dolore.
Capiva che cosa stava per perdere? Capiva che cosa sarebbe stata la sua vita senza Angelica?... E capiva che la perdeva interamente e per sempre?
Poteva soltanto immaginare che cosa voleva dire il non vederla più, il non averla più, allora che egli era ancor pieno di lei, e di lei era tutto pieno quanto lo circondava, quanto lo avvicinava? No: e per ciò solo poteva pensare al domani, guardare al di là, con una relativa tranquillità di spirito. In quel momento era così fuori di sè, era così lontano dal vero, che di quella terribile scossa non risentiva altro che un gran dispetto contro Angelica, troppo debole, e un odio acuto contro lo zio Diego, e quel cretino di Stefano.
Al Barbarò non pensava più che tanto. L'usuraio arricchito voleva sposare Angelica perchè era la marchesa di Collalto; per riabilitare la casa!... Una ricca non gliel'avrebbero data; prendeva quella, la prima che il caso avea fatto cadere sotto i suoi artigli. E invero il Martinengo non poteva sospettare, come forse Angelica presentiva, che non il solo[307] caso avesse preparato quegli avvenimenti!... Ma lo zio Diego?... Era un egoista, un avaraccio tirchio e schifoso. Stefano?... una canaglietta!...—maledetti i parenti!... Maledetta la famiglia!... Dove c'è una bella donna e una famiglia in malora, è sempre la bella donna che deve aggiustar i conti!...
—Oh si sfoggia tanta rettorica contro i Turchi perchè vendono le donne,—continuava a borbottare,—e gli Europei, non fanno lo stesso, e peggio?... vendono le loro donne con più ipocrisia e a più caro prezzo.
Ma la massima colpa era di Angelica: era sempre stata debole, era sempre stata una stupida! non avea saputo difendersi contro suo padre, e non sapeva difendersi contro suo zio!... Poi aveva sciupato Stefano, mentre avrebbe dovuto correggerlo con buone staffilate!
Dopo pranzo, un pranzo in cui non aveva mangiato altro che rabbia, andò com'era solito, a fumare la sigaretta e a bere il cognac sotto il portico del cortile. Il luogo non era ameno: pochi metri di terra, in cui languivano alcuni fiori e sempreverdi ingialliti, chiusi da pareti alte di muro vecchio, coperto di edera; ma almeno c'era un po' di fresco. Andrea ingollò un paio di bicchierini dondolandosi sulla poltrona di vimini, poi tutto ad un tratto chiamò il servitore, arrabbiandosi perchè non era lì pronto.
—Giuseppe!... dove ti sei ficcato, all'inferno?!... Giuseppe!
—Pronto!—rispose Giuseppe accorrendo, mettendosi in posizione e facendo la faccia da ridere.
Era un'antica ordinanza di Andrea, rimasto con[308] lui anche finito il servizio; un buon giovane, in cui la soggezione produceva l'effetto bizzarro di farlo ridere e di farlo balbettare con moto convulso.
—I miei fucili?...
—Siss... si-signor!...
—Sono pronti?
—Siss... si-signor.
—Domattina, me li porterai in camera.
—Siss... si-signor...—e Giuseppe fece una gran faccia da ridere, perchè voleva domandare qualche cosa al padrone, ma non osava.
—Non mi occorre altro!... Va via!...
—Siss... si-signor!...—e Giuseppe sparì come un lampo.
Andrea, visto che la mattina dopo era libero, voleva finalmente cavarsi il gusto di andare a caccia alle quaglie. Il cane glielo avrebbe prestato il cappellano.—Voleva cacciare tutto il giorno!... Poi, quando sarebbe ritornato a casa, voleva scrivere anche alla contessa Florio, una sua buona, buonissima e carissima amica, piena di spirito, che aveva una splendida villa, al fresco, sul Varesotto; sarebbe andato là, a passare il resto dell'estate; Angelica ne avrebbe sofferto... ma già lui non ne aveva colpa. Rimanere a Nuvolenta senza uno scopo, ci sarebbe stato da crepar dalla noia! voleva scrivere anche al colonnello Doncieu ch'era a Roma, al Ministero della Guerra; se davvero ci fosse stato da far qualche cosa in Egitto o a Tunisi avrebbe ripreso il servizio; aveva fatto una minchioneria a troncare la carriera a un tratto.
E così dondolandosi e sorseggiando il cognac fu preso come da un senso vago di sollievo per la sua[309] piena libertà riacquistata; soltanto la sigaretta era umida, e si spegneva sempre, onde gli entrava il tabacco in gola.
—Sapristi!... Già... a pensarci con calma, sarebbe stato un gran legame. Una moglie?... una famiglia?...—e continuava a dondolarsi su e giù.—Senza quattrini io... senza quattrini lei!...—Forse forse quella soluzione, in ultima analisi, era il meno male per tutti!... Ma un tiro al marchese Diego glielo voleva fare. La prima volta che lo avrebbe incontrato gli voleva dare una spinta da mandarlo in pezzi, così incollato com'era!... Anche quel cane del Barbarò, badasse bene di non darsi l'aria di avergliela fatta!...
Un nuovo pensiero, un lampo sinistro gli attraversò la mente. Si fermò di botto sulla seggiola, e ingollò, d'un fiato, un altro bicchierino di cognac. Poi diè un'alzata di spalle e tornò a far l'altalena.... "Non beveva per stordirsi" pensava tra sè mentre non si sentiva già più tanto forte. "Non aveva bisogno di stordirsi. Soltanto voleva star allegro!... Era così buffa la vita!..."
Avrebbe fatto male, malissimo, a non darsi pace. Quella donna non gli aveva mai voluto bene, come voglion bene le donne quando amano veramente. Anche la prima volta un mare di lacrime, e poi subito la rassegnazione!... In seguito scrupoli, delicatezze, rimorsi senza costrutto.... Mai vedersi, scriversi solamente e, in fine, dopo tanto soffrire, dopo tanto aspettare, dopo tanto sperare, di nuovo un mare di lacrime, e un altro abbandono per salvare suo figlio!... A pensarci c'era da diventar matto... ma non voleva pensarci! non ne metteva conto:[310] essa gli aveva volato bene soltanto colla testa. Le piaceva di sfoggiare sentimento, poesia, ecco tutto. Figurarsi!... in tanti anni, un bacio, proprio un vero bacio, glielo aveva dato quel giorno per la prima volta. Anche lui, del resto, era stato stupido la sua parte. Le donne sono... come si prendono!... forse, se l'avesse presa diversamente, adesso non sarebbe stato più al caso di sposarne un altro. Tant'è, quel signor Barbarò gliela doveva pagar cara.
—Oh, voglio incontrarlo... e solo che abbia il coraggio di guardarmi in faccia, gli rompo il grugno!...
In quel punto venne innanzi Giuseppe sotto il portico e si fermò a due passi dal padrone con una gran paura addosso e la bocca che non gli voleva star chiusa: era agitato da un fiero dubbio; doveva attaccare anche quella sera per condurre il padrone al villino, o non doveva attaccare?
Gli altri giorni il signor maggiore gli diceva subito dopo pranzo: "Attacca, Giuseppe!... attacca! svelto!" Ma quella sera niente!... Non andava proprio al villino, o non avea dato l'ordine credendo che non ce ne fosse bisogno?—Attaccare?... e se faceva male? non attaccare?... e se faceva peggio?...
—Che c'è?—gli chiese Andrea seccato di vederlo lì fermo impalato.
Giuseppe col viso spaurito e ridente balbettò in fretta:
—De-de-devo attattatatac...
Ma il padrone non lo lasciò finire.
—No! Va via!—e Giuseppe sparì come un lampo.
Andrea tornò a dimenarsi sulla poltrona borbottando.[311] Nell'atto innocente del buon Giuseppe, egli ci vedeva sotto un monte di secondi fini: la smania di curiosare, di pettegolare, di voler sapere se lui andava o non andava al villino, di scoprir terreno.
—Chi sa che cosa penserà quell'animale quando saprà che la marchesa sposa il Barbarò!... chi sa quante chiacchiere se ne faranno in paese!... si dirà che il Barbarò me l'ha portata via per i milioni!... eh per dir la verità, una gran bella figura non la faccio!
Qui si alzò di scatto lasciando dondolar vuota la poltrona, buttò via la sigaretta, e la schiacciò col piede.
—Ma il ridicolo,—esclamò fra i denti,—si può vincere col terribile. Se lo infilzassi quell'usuraio ladro?
Continuò un pezzo a passeggiare e a sbuffare su e giù sotto il portico. Era una sera afosa, pesante, non faceva fresco nemmeno lì fuori; doveva esserci un gran temporale in viaggio.
—.... Angelica, per altro, mi avrebbe ben potuto scrivere di andar da lei, a salutarla ancora... un'ultima volta!... Ah! non mi ha mai amato proprio sul serio!...
La domanda inopportuna di Giuseppe gli aveva messo in corpo una stizza che non potea vincere.
—No, non voglio pensarci!... non voglio diventar matto!... voglio stordirmi!...
Ma non c'era verso: giù giù, in fondo all'anima, in un cantuccio che si manteneva ben chiaro per quanto Andrea si sforzasse a far buio anche là dentro, vedeva, sentiva, piangeva amaramente la sua gioia di tutte le sere passate, quando saltava[312] allegramente in carrozza, e andava di trotto al Villino delle Grazie, e Angelica gli veniva incontro rimproverandolo sempre che era tardi... ma ravvolgendolo tutto nella carezza dolce degli occhi innamorati.
....Più!... più!... mai più!...
Se proprio gli avesse voluto il gran bene che diceva... gli avrebbe almeno scritto di andarla a salutare... per l'ultima volta!
Intanto, che cosa farebbe quella sera? era prestissimo ancora! Bisognava farla passare!...
—E domani sera?... E dopo?...
Giuseppe aveva riso nel domandargli se dovea attaccare... cretino!... Auf! che vitaccia!... doveva ammazzarsi?... finirla?! no; avrebbe fatto troppo comodo a quel gran cane del Barbarò!... Il giorno dopo sarebbe partito e allora, lontano da quei luoghi, avrebbe sofferto meno, non avrebbe sofferto più.
—Il rompere le proprie abitudini è sempre una cosa seccante... ma quando ne avrò contratte di nuove... mi troverò benissimo. Cara quella contessa Florio!... se non altro da lei ci sarà più fresco!... ma che dirà a vedermi capitare?...—Allora pensò che gli avrebbe subito domandato di Angelica e ch'egli avrebbe dovuto raccontarle tutto ciò che era successo, e cambiò disegno e preferì di andare in Isvizzera, in un posto fuori di mano, dove non ci sarebbero stati altro che inglesi e tedeschi, dove nessuno conosceva lui, conosceva Angelica... dove non si sapeva niente di niente!
Guardò l'orologio. Il tempo non passava mai: se fosse, andato a letto a quell'ora era sicuro di non dormire.
E se Angelica gli avesse scritto, e quell'imbecille di Giuseppe non gli portasse la lettera?
—Giuseppe! Giuseppe!
—Co... co-comandi!—rispose l'ordinanza presentandosi e mettendosi in posizione.
—È arrivata la posta?
—Siss.... si-signore!
Andrea canterellò, per non far capire a Giuseppe di essere infelice.
Morir sì bella e pura....
—Lettere.... niente?
—Noss.... signore. Sososolo il giornale!
—Che c'è da ridere, imbecille?! va via!—e Andrea, mentre Giuseppe se ne andava in fretta, continuò a cantare:
Morir per me d'amore....
Ma cantava a denti stretti.
Finalmente gli venne un'idea; sarebbe andato a vedere com'era questa famosa Ninetta del Caffè d'Italia. Tutti a Nuvolenta, compreso il cappellano, ne andavano matti!... se proprio non fosse stata il diavolo... perchè no?
Il Caffè d'Italia, come lo chiamavano pomposamente a Nuvolenta, non era altro che uno spaccio di liquori, messo in voga dalla Ninetta, la ragazza che stava al banco, belloccia per una certa freschezza vispa e atticciata. Attorno a lei, in fatti, facevano la ruota tutti i tacchini, e ronzavano tutti i mosconi di Nuvolenta. Andrea non c'era mai stato,[314] e non le aveva mai parlato: ci andò quella sera, e tracannò un paio di bicchierini di zozza; ma si comportò con un'impertinenza così sprezzante, e fu libero di modi e sboccato a segno, da far impermalire la ragazza e arricciar il naso agli avventori.
—El diventa matt, el diventa?
—Maledette le villane!—pensò tra se il Martinengo uscendo uggito dal Caffè d'Italia,—puzzano d'aglio!...
Si avviò a caso per lo stradone dritto e lunghissimo che metteva a Gallarate... ma voltò subito, come se lo avesse preso il capogiro. Quella vista, la vista delle prime casette di Gallarate, che si indovinavano da qualche lumicino sparso nell'oscurità, in fondo allo stradone, era stata per lui come un lampo interno nell'anima; un lampo vivo, di tempesta.
—Auf!... Andiamo a dormire!...
—....E quell'altra che mi sta qui a due passi, può tener duro senza scrivermi!... è proprio risoluta come l'altra volta!... ci sono delle donne che provano voluttà a sacrificarsi, che provano gusto a piangere... quella lì è del numero!
Entrò in casa, soffocava; salì per le scale, senza lume, a tastoni: soffocava. In camera sua (quell'animale di Giuseppe si era dimenticato di aprir le finestre) soffocava ancora di più!... Trovò sul tavolino i fiammiferi, e accese il lume. Il letto, la camera, non erano preparati per la notte; non era mai andato a dormire tanto presto.
—Giuseppe!... Giuseppe!...—Giuseppe era fuori.
—Quando torna,—borbottò Andrea arrabbiatissimo,—gli voglio dare una strapazzata da levargli[315] la pelle!—Aprì la finestra, levò la coperta di colore dal letto, poi cominciò a spogliarsi. Il letto gli pareva un rifugio: aveva fretta di addormentarsi; tutto in quella camera, gli parlava di Angelica! Essa non c'era mai stata, ma tutto gli parlava di lei: i ritratti, i fiori, la copertina per i piedi, il guancialino colle cifre A. M.; e un ombrellino della marchesa, ch'essa aveva rotto nel fare una passeggiata insieme con lui.
—.... Bisogna mettere tutta questa roba in una cassetta, e rimandargliela domattina colle sue lettere. E pensò di scrivere l'indirizzo: Alla marchesa di Collalto, senza mettere il nome Angelica. Essa avrebbe capito perchè non lo voleva più scrivere quel nome: Angelica non c'era più!
Si cacciò nel letto... ma sul comodino c'era un altro ritratto; una fotografia colorata: aveva l'abito bianco, la giacchettina azzurra, il cappello, la cravatta dal fiocco grandissimo; come quella mattina che l'aveva incontrata presso il Casino delle Romilie.
Quel ritratto glielo aveva mandato da Santa Margherita Ligure.... Ne aveva fatto fare uno solo, per lui, ed era il primo che gli aveva dato. Spense il lume, si voltò, chiuse gli occhi per dormire; ma non poteva: faceva troppo caldo!
—Pure,—pensava,—a modo suo... colla testa, soltanto colla testa... ma mi ha voluto bene. Scommetto che non capisce ancora tutta l'importanza di ciò che sta per fare: è ancora sconvolta, sbalordita, spaventata... e suo zio, quell'egoista avaro, approfitta del momento per raggiungere i suoi fini.
—Se così fosse, bisognerebbe salvarla!...—Andrea[316] si rizzò sul letto a pensare, spalancando gli occhi nell'oscurità.
—Il Barbarò, in fondo, è un poco di buono, ma non vuol dire; perchè vorrebbe sposare Angelica, quando sapesse che è innamorata di un altro?
Andrea non sapeva quello che sapeva la marchesa, e non le lasciava alcun dubbio circa la sua sorte. Essa non gliene aveva mai detto nulla, per un sentimento di pudore, e insieme di alterezza.
—Forse... invece di irritarmi subito, e di non risponderle, avrei dovuto cercare di calmarla e di aprirle gli occhi....
—Aprirle gli occhi?... sì, sì, sì, e devo farlo ancora, subito, finchè sono in tempo!... devo farle capire che è caduta in un tranello teso da suo zio... da quel vecchio ripicchiato, e che lei ci casca da buona donna!... Sarebbe stato meglio che stasera ci fossi andato... ma non è colpa mia se non ci sono andato; è colpa sua!...
In fatti egli aveva sempre aspettato e sperato, senza volerlo confessare a sè stesso, che Angelica lo mandasse a chiamare, che gli scrivesse un bigliettino....
—Non è tanto tardi, del resto... potrei andarci ancora... potrei andarci a piedi per non dar nell'occhio....
Un'altra volta, che veniva da Milano, era andato tardissimo al Villino, e anche allora a piedi....
—Sì, sì, sì!... rivederla! rivederla!—Andrea si era buttato giù dal letto, cercando la scatola dei fiammiferi.
Nessuno ormai avrebbe più potuto trattenerlo: si vestì in fretta, in grande orgasmo per paura di non[317] arrivare a tempo, e con una gran contentezza per la risoluzione presa.
In un lampo fu vestito e si trovò in istrada: ah, respirava meglio che in camera sua!
Prese una stradetta pei campi; la più corta, la solita che faceva quando andava a piedi al Villino. Quante volte aveva passeggiato con Angelica in quei luoghi!... Cominciava allora a levarsi la luna, e la notte si faceva chiarissima, bianca: la luce quieta rendeva tutte le cose più vicine, in una tinta più morbida e più intima. Rivide la viottolina dove era solito incontrare Angelica col suo grande ombrellino rosso; lo amava quel colore; gli ricordava l'ombrellino di Villagardiana: e quella viottolina chiara chiara gli fece battere il cuore.—Com'era bella Angelica!...—Più oltre, passò dinanzi a una casuccia adagiata nei verde di un collicello.... Angelica vi si era fermata spesso con lui a bere dell'acqua, un'acqua freschissima che cadeva da una cascatella. Nel silenzio della notte serena, ne udiva più risonante il gorgoglìo....—Com'era buona Angelica!...
—Angelica! Angelica! Angelica!...—E anche il gorgoglìo limpido dell'acqua pareva ripetere il nome di Angelica in mezzo alla luce bianca e quieta.—Com'era cara, Angelica!...
—No, no, non è possibile! non è possibile!... mi ammazzo senza di lei!
Si sarebbe buttato alle sue ginocchia; l'avrebbe pregata, supplicata!... Per salvar suo figlio non aveva diritto di far morir lui disperato! ci doveva essere un altro scampo; l'avrebbero pensato e trovato insieme! Il gorgoglìo dell'acqua si sentiva ancora [318]lontano... lontano... pareva il canto di un usignuolo.
—Angelica!... Oh Angelica!...—C'era una piccola salita da fare, poi il Villino apparve tutto chiuso e muto fra le ombre.
....Fossero a dormire? come avrebbe fatto a chiamarla?...
Affrettò il passo, ma a un tratto, quando fu giunto dinanzi al cancello scorse un'ombra bianca: era Angelica.
Allora, vedendola appena, la sua febbre, la sua smania, la sua contentezza, i battiti stessi del suo cuore si arrestarono di colpo, e gli ritornò tutta l'amarezza di prima e la gelosia fredda e sdegnosa.
—Ancora in piedi, marchesa?...
—Sì, ti aspettavo; sarei rimasta qui tutta notte ad aspettarti; ero sicura che saresti venuto.
—Potevi anche scrivermi.... come facevi sempre.
Angelica non rispose nulla; aprì adagio il cancello perchè non cigolasse, e Andrea entrò. Essa pareva disfatta; aveva un semplice abitino di percallo bianco stretto alla vita da una cintola di pelle, e si era buttato sulle spalle un grande sciallo bigio di lana. Non piangeva più: dagli occhi infossati, dal viso smunto, dalle labbra smorte e gonfie, pareva non avesse più lacrime. I capelli snodati le cadevano a ciocche sulle spalle, mentre l'umidore della sera aveva ammolliti e stesi i riccioli della fronte.
—Entriamo in casa: ho freddo!—e si strinse[319] nello scialle con un tremito. Poi, toccando appena il braccio di Andrea,—faccia piano,—gli disse,—la mia gente è tutta a dormire, e ho detto di essere andata a dormire anch'io.
Angelica camminò innanzi; Andrea le tenne dietro in punta di piedi, per non far rumore sulla ghiaia.
La porta che metteva nel salotto a terreno da lavoro, era socchiusa: vi entrarono come ombre, poi Angelica tirò adagio il catenaccio: allora respirò e tornò a parlare colla sua voce naturale.
—Siamo al sicuro; di sopra non ci possono più vedere, ne sentire.—Ma era affatto buio.—Ha un fiammifero?—domandò più adagino appoggiandosi ad Andrea.
—Sì,—e mentre Andrea con una mano cercava la scatoletta, coll'altra, che le aveva posata sopra una spalla, si strinse Angelica forte, contro il petto.
—Faccia presto!... accenda il lume!
Angelica sospirò; sospirò Andrea, poi il lume fu acceso.
—Ho pensato,—disse l'altro con voce grossa e malferma,—che potrei parlare io stesso a tuo zio.
—Non otterresti nulla,—rispose la marchesa crollando il capo.—Mio zio, oltre al resto, è felicissimo di questa occasione che gli offre il modo di poter rompere il nostro matrimonio. Ti è sempre stato contrario; ci va del suo interesse e della sua ambizione; pensa se potresti indurlo a fare diversamente!
—Ma Stefano... Stefano medesimo dovrebbe opporsi.
—È un ragazzo; e poi, a che fine? Per andare sotto processo, ed essere condannato per falso?
Ci aveva pensato tanto ormai, che Angelica disse queste parole senza nemmen più trasalire.
—Sei sempre stata debole con quel ragazzo: lo hai sempre guastato.
—È vero: non sono stata severa con lui, come avrei dovuto. Ma perchè? perchè avevo te nel cuore, e il rimorso mi faceva essere indulgente. Ah, si sconta tutto a questo mondo... troppo!... troppo!
—E io?—domandò Andrea improvvisamente, fissandola pallido, risoluto.
Angelica, diafana, sfatta dal dolore e dalle emozioni di quei giorni terribili, colle guance ancor molli e soffuse di pianto, come una rosa oppressa da uno scroscio d'acquazzone, lo guardò atterrita, e rispondendo con un brivido a quella domanda, si strinse addosso, sul petto, lo scialle grigio. Le braccia rotonde, che uscivano dalle maniche cortissime, spiccarono sulla lana scura nella lor candida nudità.
—Parlerò io a... al Barbarò,—balbettò Andrea, ancora più pallido.
—È inutile.
—Come?... non ti sposa per il tuo nome... per la tua condizione... per nobilitarsi?... E allora?
Angelica era preparata a quella domanda; riuscì a frenarsi, e crollò il capo. Perchè doveva dire... ciò che aveva sempre taciuto?... In quelle lunghe ore di riflessione e di strazio, essa aveva pur dovuto convincersi che non poteva sottrarsi al suo destino. Perchè doveva dunque accrescere inutilmente la gelosia e la disperazione di Andrea?... e poi, sapendo tutto, egli non avrebbe conservato di lei una memoria meno pura?... meno alta?
—No, no!—rispose,—quell'uomo è tutto calcolo: il mio nome deve dar valore al suo.
—Per questo se sapesse....
—Che io sono innamorata di te?
—Sì....
Angelica non rispose subito; mentire gli costava assai, anche quando doveva farlo, anche quando il mentire era pietà.
—Allora... forse non mi sposerebbe più!... Ma... Stefano?...
Andrea la guardò colla collera che gl'intorbidiva gli occhi, poi in un impeto d'amarezza ironica, in cui c'era tutto il suo amore che in quel punto si tramutava in odio, tutta la sua gelosia che diventava ferocia, esclamò:
—Già!... ottantamila lire... io non le ho!
Angelica si scosse, lo guardò fisso alla sua volta, ma non rimase nè umiliata, nè offesa. Invece essa pure con un sorriso amaro, che in lei faceva più senso, perchè dovea costarle uno strazio ancora più grande,—no, no!—rispose,—non hai ottantamila lire, povero Andrea! Per questo bisogna cedere, bisogna dividerci, bisogna... morire!
Ma per giungere a tal punto, per giungere a dire tali parole, Angelica, solitamente così mite, così tranquilla, e sempre coraggiosa, doveva aver tutto sconvolto in quel terribile urto: il cuore, la testa, i nervi e la coscienza.
In fatti il suo volto aveva un'espressione strana; le labbra erano stirate e tremanti, le narici dilatate, gli occhi scintillanti. Certe volte scrollava il capo con un'alzata di spalle, come per ribellarsi contro tutto il suo passato, contro tutti i suoi pregiudizi di fede,[322] di virtù: sentiva un impeto di sdegno per tutto ciò che fino allora le era stato sacro; un disamore insofferente per tutto ciò che le era stato caro, aveva un bisogno veemente di negare tutto ciò in cui fino allora aveva creduto.
La lampada, coperta da una spessa ventola rossa, illuminava appena un cantuccio del salotto, dove sotto alla finestra grande, chiusa da una giardiniera di palme e di sempreverdi, si stendeva un divano basso, all'orientale, coperto da un gran tappeto e da cuscini ammonticchiati. Angelica vi cadde a sedere, poi stese la mano ad Andrea per chiamarlo vicino.
Andrea fece un passo appena, lentamente, e le si fermò ritto dinanzi. Angelica gli teneva sempre stesa la mano, e lo guardava, ma egli non la toccò.
—Che cosa farai?...
Andrea non rispose.
—Che cosa farai? Voglio saperlo!...—e così dicendo, mentre lo scialle le scivolava dalle spalle, essa prese il braccio di Andrea, poi una mano che strinse fra le sue che bruciavano, e lo tirò a sè così fortemente da farselo cader vicino a sedere, sul sofà.
—Che cosa farai?
—Andrò... dalla contessa Florio!—rispose a capo basso, accigliato, con voce roca.
—Non voglio: devi rimaner solo, capisci? devi rimaner solo, a soffrire come me.—Che cosa farai?
Quei modi, quel fare così strano, fecero più impressione al Martinengo di tutte le lacrime, di tutti i lamenti.
—Scriverò a... Roma, al colonnello Doncieu. Se si fa qualche cosa a Tunisi, o in Egitto... riprenderò il servizio.
—E... non saprò più nulla?
Andrea non capì quella domanda per il suo verso: credè che Angelica avesse in animo di continuare la corrispondenza con lui, come avea fatto quando era ancor vivo il marchese Alberto, e le rispose con durezza. Ma invece si era ingannato: essa sapeva di perdere Andrea per sempre; pure il suo maggior dolore e il suo maggior timore, ciò insomma che la faceva diventar matta in quel momento, era il dubbio di poter essere dimenticata da lui. Non voleva essere un episodio della sua vita, preferiva di essere stata, e sopratutto di essere sempre il suo strazio. Non lo voleva confortato, lo voleva infelice, disperato, come sarebbe stata lei disperata, infelicissima; voleva che la sua immagine gli rimanesse fitta nell'animo eternamente, voleva che la sua memoria gli bruciasse nel sangue: non potendo avere il suo amore, voleva il suo dolore, ma per sempre, per tutta la vita, e anche dopo.
Adesso non era più la fanciulla, era la donna che amava. Per un sacrificio imperioso, disumano, ma pur nobile e alto, poteva rinunciare a vederlo, e morirne; ma che Andrea potesse perderla e darsi pace, questo no! Ed anche in quel turbamento, in quel parossismo di dolore e di amore, essa pensò che non aveva diritto forse a tutto ciò che pretendeva. Essa non gli aveva dato altro che amarezze; mentre Andrea le sacrificava tutto il suo avvenire, tutta la sua vita, ella non avea voluto essere altro che la sua fidanzata... una fidanzata il cui matrimonio andava a monte per la seconda volta!
No, non aveva diritto a un dolore eterno, eppure... eppure lo voleva. Gli occhi suoi ebbero un[324] lampo, non di luce, nè di amore, ma di fuoco.... Ancora era padrona di sè, di disporre di sè stessa... Non aveva ancora firmato il contratto col quale si sarebbe venduta per ottantamila lire....—Che importa?... l'avrebbe detto a quell'uomo, e se l'avesse voluta ugualmente, l'avrebbe presa così....
Stese le braccia aperte sul tappeto rosso, le labbra stirate sorrisero, le nari fremevano, fissò Andrea e gli domandò con la sua voce fioca e con tono strascicato:
—Non saprò più niente di te?
—No.
—Mi dimenticherai dunque?
—Farò di tutto, e ci riuscirò; la seconda volta mi sarà più facile della prima.
—Ti sarà più facile?... ti par possibile?... Andrea!... ti par possibile?!
—Ieri no, non avrei creduto possibile; oggi lo spero. Se ieri mi avessero detto che doveva accadere... qualche cosa di simile, avrei creduto d'impazzire, di strozzar te, di ammazzar me... insomma... tragedie. Invece... un sangue freddo eroico... quanto la tua virtù: ti sto a sentire... e son calmo.
—Oh sì!... troppo calmo, e ragioni anche troppo!
—Troppo no... se basta appena per dimostrarti che, alla fine, non hai nessun diritto su me.
—Ma dunque, tanti giuramenti... tante promesse.
—E i tuoi giuramenti?... e le tue promesse? No!... non voglio amarti più!... voglio dimenticare....
—Non lo dire! almeno non lo dire! abbi pietà!—singhiozzava Angelica.
—E tu hai avuto, hai ancora pietà di me?—Andrea cominciava a perdere la calma di cui davasi[325] vanto; la passione lo vinceva, lo trasportava; ogni sua parola era lenta, asciutta, vibrata come un colpo di pugnale.—Tu fosti sempre la mia infelicità, la mia disperazione, il mio martirio... adesso voglio vivere a modo mio! adesso voglio respirare!... voglio dimenticarti, odiarti, non pensare più a te!
—È troppo!... è troppo!...—mormorò, gridò Angelica, e si buttò singhiozzando distesa sul divano, cacciò la faccia contro i cuscini per soffocare col respiro anche il dolore, li bagnò di lacrime, li morse, li strappò, in fine, storcendosi ancora, sollevando la faccia rossa e graffiata, li strinse sul petto, rabbiosamente, disperatamente per frenare l'urto dei singulti, e i battiti del cuore.
—È troppo! è troppo! non hai cuore, non hai compassione... no, no, no, non hai compassione... mi fai morire.... Andrea, oh Andrea! mi fai morire.
—E tu, per due volte, mi hai straziato l'anima! mi hai assassinato!
Angelica rispose con un grido di angoscia, con un altro scoppio di singhiozzi, e continuò a storcersi disperatamente. I capelli le si eran del tutto snodati, essa si era stracciato l'abito sul petto per poter respirare, ma tutto il disordine di quello spasimo, di quelle convulsioni, invece di pietà, destarono nel cuore di Andrea, una gelosia più feroce.
—Per due volte!...
—Andrea!... oh Andrea!... sii giusto... sii generoso!
—So, so che cosa mi puoi rispondere!... tutte due le volte sei stata vittima; una vittima sublime di virtù, e di eroismo!... Ieri tuo padre... oggi tuo figlio,—e io?... e mia?... mai! Molta virtù!... grande[326] eroismo! troppo!... troppo dell'uno e dell'altra!... non sei morta allora... non morrai adesso!
—Morrò!... morrò!... oh se morrò!...
—Per tuo padre non ero abbastanza nobile.... per tuo figlio... non sono abbastanza ricco... è il caso, il destino, Dio o il Diavolo che mi porti! noi due, si vede, non dobbiamo, non possiamo essere uniti... e pretenderesti che io conservassi la tua memoria nel mio cuore, in eterno, per esser disperato in eterno?... coll'unica consolazione di doverti ammirare? Ah no, ti ammiro, ma voglio dimenticarti!... a forza di ammirarti spero bene che riuscirò a non amarti più!...
Angelica si rizzò a sedere: lo fissò, e gli stese le braccia agitandole con moto convulso: i capelli le cadevano sulle spalle e sulla faccia, li cacciò indietro con una scossa; l'abito di percallo bianco, schiuso sul petto, si apriva per il suo respiro rapido e anelante; tutta la sua persona era presa da fremiti, da sussulti improvvisi. Guardò Andrea negli occhi, co' suoi grandi occhi fissi, battendo forte le palpebre: una tinta sanguigna le infocava le guance più scarne per la contrazione nervosa. E, dopo esser rimasta muta ed immobile a guardarlo così per alcuni secondi, proruppe a un tratto in un riso acuto, stridente, spasmodico, e cadde dal divano dov'era seduta, battendo colla fronte un colpo secco sul tappeto.
Andrea, spaurito, fu pronto a sollevarla, e mentre lei si dibatteva la chiamava per nome teneramente: "Angelica! Angelica mia! Angelica buona!" e così, confortandola l'adagiò pian piano sul sofà; poi fece per sciogliersi da lei, per rialzarsi, ma Angelica all'improvviso,[327] con un nuovo impeto, con un nuovo spasimo nervoso, gli si avvinghiò al collo, tenendolo stretto e quasi soffocandolo tra il freddo delle braccia irrigidite e il bruciore del viso, mentre piangeva, rideva, gemeva, perduta ogni padronanza di sè.
—No, no, no! tua e poi morire, tua e poi morire; dimenticarmi, odiarmi no, tu no! tu no!... no, no, no!—ripeteva febbrilmente,—non lo puoi... non lo devi... non lo voglio, no, no, no!—e continuava a stringerlo contro il petto anelante, contro il cuore che palpitava, a stringerlo con una forza nuova, strana.... Le sue unghiette si affondavano nelle carni, i suoi denti mordevano le labbra di Andrea, che inquieto e turbato e colla voce rotta, cercava di acquetarla, di farla tornare in sè, giurandole che le avrebbe voluto sempre bene, che non l'avrebbe dimenticata mai, che sarebbe morto come lei, con lei.... A tanti baci, rispose infine con un primo bacio.... poi con una furia di baci, stringendola, soffocandola alla sua volta, mentre essa mormorava parole rotte tra risa convulse, coi denti che battevano pel brivido della febbre e gli occhi socchiusi che continuavano a versar lacrime calde, lacrime copiose e silenziose, come se il dolore che colava traboccante dalla sua anima, scorresse a purificare, a lavare quei baci ch'erano gemiti, quelle strette, quelle carezze ch'erano singulti.
Quando Angelica si riebbe, Andrea che seduto vicino le teneva le mani fra le sue, le diede un altro bacio sulle labbra... ma sentì che eran diventate molli, fredde. L'abbracciò ancora... cercò parole tenere per consolarla, ma mentre la guardava in quel[328] disordine dell'abbandono e del dolore non poteva allontanare un'immagine che lo agghiacciava, e lo impietriva; quella del Barbarò.
—Potrai ancora dimenticarmi?—essa domandò con un filo di voce.
—Non potrò dimenticarti più....—rispose l'altro, rauco, e fece uno sforzo per baciarla ancora, sui capelli.
Ma tutti e due sentirono in quel momento che la loro catena, invece di stringersi, si era spezzata.
Angelica si rizzò, si accomodò il vestito, lo appuntò sul seno, raccolse tutti i capelli fra le due mani e li annodò fermandoli in un ammasso solo sul capo, poi prese lo scialle, lo distese sulle spalle e vi si avvolse. Andrea la guardò fare stralunato, non le diede più un bacio, nè Angelica glielo chiese.
Spuntava l'alba, e la prima luce del giorno, che penetrava nella stanza, faceva un contrasto uggioso e spiacevole col chiaror rosso del lume che ingialliva. I mobili, le suppellettili, tutto il salotto, usciva dal buio a poco a poco, scolorito, in disordine, triste. Quella luce scialba che appariva era la loro nuova vita che incominciava... quella luce artificiale che s'infievoliva a poco a poco era il loro sogno che finiva.
Si guardarono ancora: Andrea era livido, scomposto, col colletto molle di sudore, coi capelli e i baffi arruffati; Angelica aveva perduta la sua pallidezza diafana in una tinta da malata. Due solchi profondi le scendevano dagli occhi fino all'angolo della bocca.
—Va, Andrea—disse infine sospirando con un lungo brivido e stirandosi un poco,—va, Andrea.[329] Comincia a farsi giorno; potrebbero vederti.—Essa ritornava prudente.
Andrea si annodò la cravatta, aggiustò gli abiti e coll'occhio cercò il cappello.—Quando ritorni a Milano?—le domandò.
—Stamattina, presto.
—E non hai proprio nessuna speranza di.... commuovere tuo zio?
—Proverò ancora... chi sa!...
Andrea e Angelica fingevano a vicenda. Non c'era più nessuna speranza e lo sapevano, ma in quel momento sentivano entrambi il bisogno di essere soli, di chiuder gli occhi, di provarsi a riposare, a dormire, a dimenticare. E tutti e due si lasciarono, nel separarsi, quel filo di speranza, più che per altro, per render più facile il loro addio.
Quando Andrea riprese, solo soletto, la lunga strada che dal Villino delle Grazie lo riconduceva a Nuvolenta, aveva la testa grave, lo stomaco fiacco, gli occhi pesi. Tante scosse, tante emozioni, e poi il non aver toccato cibo e il gran girare di tutto quel giorno, lo avevano mezzo ammazzato. Camminava strascinando le gambe, coi piedi che gli dolevano, dondolando la testa, dondolando le braccia, chiudendo gli occhi, e anche dormendo di tratto in tratto. La giornata doveva essere assai calda: non spirava alito di vento, e il sole pareva sorgere dietro un grosso muraglione di nubi nere. Andrea non pensava più a niente... altro che ad arrivare a casa: i suoi sensi erano attutiti; l'anima stessa, affranta dalla fatica, non aveva altro bisogno che di quiete.
In quel silenzio profondo della prima ora mattutina,[330] la sottile voce dell'acqua cadente si ripercoteva più forte, ma Andrea non l'udì. Non udì il gorgoglìo dolce come il canto dell'usignuolo, l'eco soave, come il nome di Angelica. La casetta, adagiata in mezzo al verde dell'ameno collicello, appariva tutta bianca e gentile, alla prima luce, colle finestre fiorite di garofani. Ma Andrea vi passò dinanzi assonnato, cogli occhi chiusi; e neppure guardò alla stradetta dove incontrava Angelica, dove la scorgeva da lontano.... Egli non vedeva più che un punto bianco e soffice in una camera buia... il suo letto su cui si sarebbe buttato e addormentato subito. Vi arrivò finalmente, si spogliò in un attimo e, coricatosi, dormì profondamente, senza sognare. Quando si svegliò, ancora intronato, si rizzò di soprassalto e guardò spaventato l'orologio: in quel subito, temette aver fatto tardi per il suo solito ritrovo con la marchesa. L'orologio segnava le undici!... Allora ricordò, ricordò tutto in un lampo... pensò che non avrebbe più riveduto lungo il viottolo dalle siepi alte e spesse la figurina bianca e gentile, l'ombrellino sfolgorante al sole... pensò che il Villino sarebbe stato chiuso, chiuso per sempre... pensò che Angelica non era più sua... un gran vuoto sentì intorno a sè, e dentro di sè una gran desolazione; un nodo di pianto gli salì alla gola, gli s'intorbidirono gli occhi, e preso dalla disperazione gridò piangendo e singhiozzando colla faccia sul guanciale:
—L'ho perduta!... l'ho perduta!...
La gran notizia delle illustri nozze fra il nobile commendatore Pompeo Barbarò di Panigale, deputato al Parlamento, e la contessa Angelica di Castelnovo, vedova del marchese Alberto di Collalto, fu data da tutti i giornali cittadini, e dal Moderatore, con parole enfatiche per la bellezza della sposa, e le virtù pubbliche e private dello sposo. Tuttavia, se c'erano sul Moderatore i complimenti soliti e la solita deferenza per l'onorevole Barbarò, mancava la forma, lo stile eletto dello Zodenigo, e ciò perchè il professore si era definitivamente ritirato dalla baaonda gioonalistica nella quale un gentiluomo, diceva lui, del suo stampo, non poteva reggere a lungo. E però, caldeggiato dalle raccomandazioni del deputato Barbarò, e da altri pezzi grossi, aveva ottenuto, per il momento, una sottoprefettura: quella brillantissima, nella stagione estiva, di Civitavecchia... a due passi dalla capitale e dai ministeri. Se tutte le vie conducono a Roma, quella di Civitavecchia era certamente la più breve.
L'avvocato Zodenigo (adesso in prefettura non lo chiamavano più professore, ma avvocato) aveva venduto il Moderatore, che ormai gli apparteneva interamente, facendo un ottimo affare per la borsa, e insieme anche per la sua dignità e indipendenza di[332] carattere. Egli lo aveva venduto ad una Società di capitalisti Italiani, Tedeschi, Svizzeri, di tutti i paesi insomma, la quale aveva presentato al Comune di Milano una proposta d'appalto per certe grandi opere edilizie; proposta vantaggiosissima, se non per la Città, certo per gli imprenditori. Ma nell'opinione pubblica spirava un'auretta avversa alla camorra dei milioni, come la chiamavano, onde occorreva alla Società un organo diffuso e autorevole, che godesse molto credito fra le teste quadre del Comune... e si rivolsero al Moderatore.
Lo Zodenigo, che già gli attendeva al varco, aveva subito presa un'attitudine di aspettativa vigile e diffidente. Interrogato sulla condotta che in tale argomento avrebbe tenuto il Moderatore, egli la fece cascar dall'alto, gonfiandosi come una balena e dichiarando che in una "questione così gaave, dalla quale poteva dipendere tutto l'avvenire economico e industriale di Milano" lui voleva vederci chiaro e parlar chiaro: vi era impegnato il suo carattere di pubblicista, la sua coscienza di cittadino, la sua lealtà di gentiluomo. In fine, preparava tutte le sue armi per una battaglia accanita... l'ultima forse della sua vita giornalistica; era stanco, sfiduciato, nauseato del mestiere; "la stampa non era più un sacerdozio, ma un impiego privato o governativo... quando non nascondeva un ricatto."
—Oh i bei giooni nostii,—esclamava lo Zodenigo,—quando col compianto Caldarelli, il mio illustre maestro e collega, si combatteva soltanto per un ideale!... Mah!... quei tempi son passati... quegli uomini son quasi tutti mooti....—E il professore apriva gli occhi, si guardava attorno, poi li tornava[333] a chiudere sospirando, col dolore malinconico di chi si trova solo.
La società dei banchieri internazionali capì il latino... l'onorevole Barbarò ci entrò di mezzo... e fu comperato il Moderatore a peso d'oro, pesata insieme anche la tipografia.
Ma, se in seguito a tali avvenimenti, lo Zodenigo non manifestò la propria esultanza per il matrimonio dell'Onorevole di Panigale sulle colonne del Moderatore, la espresse per altro, in una lettera da Civitavecchia all'Egregio Don Pompeo, nella quale si doleva anche, "della stanca mano, che non sapea più trar suoni dalla cetra antica," e dichiarava che quel matrimonio insigne, "pel quale avea concesso Venere i suoi doni più rari, e Minerva e Amaltea," non era soltanto un bel matrimonio, ma una bella azione, che faceva onore al tatto e al cuore, del carissimo Don Pompeo, e che certo doveva ottenere, "un plebiscito unanime di simpatia."
Così scriveva l'avvocato Zodenigo...; così invece non la pensavano Donna Lucrezia e Beppe Micotti, diventati buoni amici in quegli ultimi tempi, perchè stretti da una causa comune: la solenne ingratitudine,—di quel gran can della Scala,—del Barbarò.
I loro servizi non erano stati ricompensati secondo il merito. Beppe Micotti si lagnava colla Balladoro perchè el sciur, dopo essere riuscito deputato, lo avea messo da parte, allontanandolo dagli affari; e Donna Lucrezia era furibonda perchè la pace fra il Barbetta (lei adesso affettava di chiamarlo soltanto col suo nome plebeo) fra il Barbetta e gli sposi, era successa per merito suo, rimettendoci un'ala de polmon, ma viceversa poi la Regina delle Antille era rimasta[334] inedita, ad onta dei più sacri giuramenti, cosicchè il maestro Forapan, invece di dichiararsi, era partito per Pietroburgo con una gran compagniona de cartel.
—Meglio i Russi, tesoro mio,—gridava la Balladoro, schizzando ira e spruzzi di saliva dalle gengive sdentate,—meglio i Russi di un governo impotente che si lascia rubare dai Tedeschi anche la musica, il nostro patrimonio nazionale!... meglio i Croati!... Mi ricordo appena dei Croati perchè a quei tempi ero ancora una piavoléta appena nata, ma mi ricordo e posso dire,—meglio i Russi, i Croati e gli Ottentoti, di un governo di pitocconi!...
—Brava Donna Lucrezia!... e i più pitocchi, sono i milionari!...
Ma la collera di Donna Lucrezia non si sfogava abbastanza cogli epiteti ingiuriosi, e un giorno, conversando col suo nuovo amigòn, cominciò a profetare un cumulo di sventure sul capo di "quel mostro."
—Adesso trionfa il nobile-commendatore-portinaio, ma,—la gioia dei mortali,—caro Bepi,—è un fumo passeggier!—Alle mie supplicazioni, alle mie lettere, alle lettere di una Balladoro la quale oltre al resto, nò fasso per dir, ma sa scrivere con un fiatin più di grammatica, non si è degnato nemmeno di rispondere.—Lù!...—e Donna Lucrezia cogli occhietti spelati fiammeggianti, curvandosi e allungandosi col braccio e l'indice teso pareva volesse trafiggere il Barbarò in effigie,—lù!... quel... spion!... Lù... che con un detto solo, potrei distruggere dalle fondamenta!... Lui, che dovrebbe tremare ad un mio cenno! Ma il giorno della punizion sta per spuntare, caro Bepi, e deve essere un terremoto da far spavento!...
Il Micotti, approvando con cenni del capo e con sorrisi, soggiunse alla sua volta:—Già... con questo matrimonio, non s'è messo sulla buona strada per aver pace!
—Noe, noe, caro Bepi!... È uno spropositon grosso come una casa!...—Ciò detto, Donna Lucrezia spalancò di più la bocca, alzò la faccia a guardare il soffitto, e poi fece un lungo starnuto che echeggiò nella stanza. Amante com'era della pulizia, si era raffreddata, lo avea detto poco prima al Micotti, a star tutta la mattina sguazzando nell'acqua fresca.
—Del resto,—continuò dopo un momento,—il vostro principale non lo fa per amore, ma per sfogare il suo caprizio, e soddisfare la sua ambizion. Una Collalto, una Castelnovo, una mia cugina, è sempre un gran partito anche senza dote, e in tal modo il signor Barbetta riesce a consolidare la sua nobiltà taccada co la spuazza! Ma allegri, Bepi, che quel... Bucefalo, non solo è come si dice predestinato, ma è anzi anticipato.—Sicuro; e parlo... perchè posso parlare: mia cugina, la futura madama Barbetta, avrebbe potuto aiutarmi presso quel bell'amorin del suo sposo, e invece niente! dimenticandosi per altro che ho in mio potere tutti i suoi segreti. Già, in quel tempo, mi mettevo una mano sul cuor e chiudevo un occhio: si sa bene, alla passion, tesoro mio, non si comanda. Ma adesso no, non la stimo più!... darsi in braccio per il solo interesse a quel satiro impatinà!
—Peu!—e Donna Lucrezia sputò per terra,—che schifezza!
—Ha una trentina di milioni...—osservò il Micotti con un ghignetto malizioso, che doveva aver imparato dal suo padrino.
—Una trentina di milioni!—strillò la vecchia indispettita;—non saranno tanti quanti dicono!... e poi, fossero anche, tutti i tesori di quel vecchio bavoso, nò i me fa gola, e lo posso dichiarare altamente, perchè il vostro principale aveva posto gli occhi anche sopra di me,—sicuro!—ma mi, gnaffete!—e così dicendo Donna Lucrezia, che si era messa la mano aperta col pollice sulla punta del naso, la richiuse agitando le dita in fretta.—Mi nol me cuca; e gli ho subito risposto che con tutti i suoi milioni mi faceva angossa!... Noe, noe, noe!... io non sono di buono stomaco come mia cugina!.. e poi, per piacere a me bisogna avere qualcosa qua dentro,—e si battè la fronte,—un pocheto de talento insomma, se no,—no...—e corocochè!...
—Eh capperi, si sa bene: letterati e maestri!—esclamò Beppe Micotti e, tanto per ridere, fece l'atto di volerla abbracciare.
—Giù le mani!—esclamò la vecchia alzando l'indice minacciosamente. Ma fu un lampo solo di collera, che lasciò la nobile signora più affabile e più confidente.
—Dite un po', vecio mio, che cosa contate di fare quando avrete lasciato il servizio?...
—Eh!... Me ne andrò via da Milano.
—Oh povareto; me ne dispiace proprio tanto!
—Andrò a Napoli....
—Così lontan?—esclamò ancora flebilmente.
—Ho concorso all'appalto di un'esattoria.
Beppe Micotti diede quest'ultima notizia senza alcuna importanza, ma gli occhietti della vecchia tradirono di subito una viva inquietudine, e continuò[337] per un poco a stringere e a muovere dentro la bocca chiusa le gengive vuote, prima di rispondere.—Ha concorso all'appalto di un'esattoria?—pensava fra sè;—e il danaro occorrente come lo aveva trovato?—che il Barbarò non voglia comparire nell'affare, e la collera e il disgusto non sia altro che una finta delle solite?—Allora ebbe paura di essersi spinta troppo oltre nel dir male del Barbetta; e infatti, in queste sue supposizioni, non era andata molto lungi dal vero.
Beppe Micotti non era stato allontanato dagli affari di casa Barbarò, ma soltanto da Milano e da Panigale, e ciò perchè il marchesino Stefano non avesse a incontrarsi col signor Serafino Bianchi.
—Oh si tratta di un affare da poco!—soggiungeva intanto Beppe Micotti, il quale aveva indovinato i timori della Balladoro.—Voglio rigirarmi il capitaletto lasciatomi dalla vecchia!...
La Veronica, appunto, era morta in quei giorni nella casa di salute dov'era stata ricoverata; ma Donna Lucrezia sapeva di sicuro che non avea lasciato nemmeno un soldo.
—Che imprudente!... Che stupida sono stata, a dir tanto male del Barbarò.—E continuava a masticare, inquieta e ansiosa di riparare all'errore commesso.
—Tuttavia mi piace d'esser sincera,—esclamò dopo un momento,—il commendator Pompeo in fin dei conti non è mio parente, e non ha nessun obbligo del sangue... e poi gli affari, la politica, la fabbrica di Panigale, la deputazion, il matrimonio!... ha tante cose per la testa, quel benedett'omo, che se pol anche compatirlo, e mi no ghe ne fasso una colpa a[338] lù, ma alla Mary, a Giulio, ai miei due nipoti. Quei do tosi gli ho nutriti, posso dirlo, coi mio sangue!... per educar la Mary, perchè no' la mancasse de' gnente, sono andata in collera anche col mio barba, Francesco Alamanni, che mi ha diseredata; per non abbandonarla, ho rifiutato, un drio l'altro, tutti i più splendidi partiti, perchè quando ero giovane, posso dirlo, facevo girar la testa a tutti quanti, e ho avuti conti, marchesi, e anche un principe rumeno, un bel pezzo d'omo che incantava, ma mi—gnente!—dura—dighe de' no, sempre de' no, e tutto per quella ingrata, al cui confronto, siamo giusti, Don Pompeo diventa bianco come un colombin!...
E così, infilata la strada, Donna Lucrezia durò ancora per un pezzo a scagionare il Barbarò di tutte le sue colpe, e a sfogarsi contro la Mary, e contro Giulio che non avevano cuore, tanto è vero—diceva,—che aveano lasciato morir d'inedia la povera Filomena, una santa donna, un portento di fedeltà e di pulizia, che lei aveva ceduto loro a malincuor, e che aveva amato quelle due creature come una madre sviscerata;—tanto è vero, che non si erano mai curati di sapere se Francesco Alamanni (sempre zio, in fin dei conti) era andato a finir come Giona, in panza a una balena;—tanto è vero che avevano dimenticato fino il nome degli Alamanni, non altro dediti che ai lussi, agli spassi, ai divertimenti, e a far la corte a Don Pompeo, per cavàr bezzi!
—Mah... il danaro!—il vile metallo! è proprio tutto al mondo!—esclamò sospirando, e poi, battendo forte colla mano sul cuore, concluse,—per [339]chi, per altro, no' ga de questo, e... corocochè!
—Brava Donna Lucrezia! Evviva el cuor!—esclamò il Micotti rifacendola con una sghignazzata.
Tuttavia bisogna avvertire che Donna Lucrezia avea trasceso nelle sue accuse, e non poco. La povera Filomena non era morta d'inedia, ma di vecchiaia, e la Mary, dopo averla assistita colla tenerezza di una figliuola, le avea detto, chiudendole gli occhi con un bacio,—salutami la mamma!
Certo che col passare degli anni Giulio e la Mary si erano pienamente assuefatti a vivere della vita del babbo, e anche la Mary avea finito col portare la corona e il titolo di nobile di Panigale sui biglietti di visita, e lo stemma (le due teste di moro in campo rosso) sugli sportelli della carrozza. Al loro secondogenito avevano messo nome Pompeo, ma d'altra parte al cimitero era stato eretto un magnifico monumento in onore dell'Alamanni, colla seguente epigrafe:
A GIULIO ALAMANNI
CHE D'ANIMO E D'ARDIMENTI ITALIANO
IMPERANDO L'AUSTRIA
DANNATO AL CAPESTRO
EBBE GRAZIA SUL PALCO
E MORÌ ALLO SPIELBERG
IL XX APRILE MDCCCLIII
LA FIGLIA
MARIA ALAMANNI BARBARÒ NOBILE DI PANIGALE
Q. M. P.
In quanto poi allo zio Francesco, non era loro colpa, se non ne avevano alcuna notizia: egli si teneva ostinatamente celato alla famiglia. Giulio aveva messo sossopra tutti i consolati dell'America, aveva[340] fatto pratiche dappertutto, anche in Europa e a Londra specialmente, col mezzo del Ministero degli Esteri, ma sempre senza alcun effetto. Forse le loro pratiche avrebbero sortito un miglior esito, se fatte più vicino; forse dal Carpani, che invitato da Marco Minghetti e da Quintino Sella era andato a Roma, a scrivere in un giornale di opposizione, ne avrebbero potuto saper qualche cosa.
Il vecchio giornalista, sebbene potesse vantare l'amicizia e la stima dei più illustri uomini del partito, lavorava assai, ma guadagnava appena di che vivere, specialmente a Roma dove tutto costava caro. Nè col suo carattere indipendente, nè colla sua modestia piena di fierezza egli avrebbe voluto arricchire colla penna. Nicomede Carpani non lavorava per sè, lavorava per il paese: era un combattente: a Roma, abitava in una piccionaia più meschina ancora della cameretta di Milano, sul Corso Garibaldi, e i suoi pasti li faceva in una Fiaschetteria del ponte a Ripetta.... E colà appunto egli notò, fin dai primi giorni, una figura strana d'uomo, che gli fece molta impressione... e non era altro che un venditore di giornali. Assai vecchio, alto della persona, col viso smunto, macilento, colla lunga barba di un bianco giallognolo, coperto da un cappellaccio stinto indurito dall'unto e dalla pioggia, e da una giacchettina di tela logora, stretta stretta, sempre abbottonata e col collo alzato per nascondere la mancanza delle camicia, mentre le braccia rosse, irrigidite dal freddo, uscivan nude fin quasi al gomito dalle maniche cortissime: si era nel cuore dell'inverno, e anche a Roma non faceva caldo.
Pure quella miseria non era volgare: incuteva alle anime buone un senso di pietà e di simpatia.
—Oh, guarda, che bel tipo di Belisario!—mormorò il Carpani fissandolo; poi soggiunse mentalmente—eppure devo averlo già veduto; ma dove?...
Il vecchio attraversava la Fiaschetteria, senza mai gridare il nome dei giornali, senza offrirli a nessuno. Soltanto alle sue pratiche solite, metteva il giornale piegato sulla tavola, dinanzi al piatto, dopo essersi toccato appena il cappello colla mano, e aspettava il soldo, fermo, muto, impassibile. Gli altri, se volevan il giornale, lo dovevano chiamare; e il Carpani in fatti, una sera lo chiamò: in quei giorni, in occasione delle cerimonie e dei ricevimenti del Santo Natale, c'era stata una fiera enciclica del Papa contro l'Italia, e il Carpani voleva leggerla per intero. Gli avevano detto che sarebbe uscita sull'Osservatore Romano, e domandò appunto l'Osservatore.
Il vecchio, che si era fermato dinanzi al Carpani, sentendosi domandare la gazzetta clericale ebbe un moto di collera, e fissando il Carpani cogli occhi lampeggianti, mormorò:
—Canaglia... i preti!...—e se ne andò.
Il Carpani rimase attonito, ma tutti gli altri che erano nella Fiaschetteria si misero a ridere, e gli spiegarono che il venditore di giornali era matto, e che la sua manìa era di non voler vendere altro che giornali radicali, il Dovere, la Capitale, la Lega della Democrazia; essi poi, quando volevan divertirsi, gli domandavano qualche giornale clericale o qualche giornale tedesco, e allora, secondo le lune,[342] o scappava via, come aveva fatto quel giorno, oppure andava in furia e faceva tanto baccano che i camerieri eran costretti a cacciarlo fuori.
—È Romano?—domandò ancora il Carpani.
—No... almeno non parla romano.
—È qui da parecchio tempo?
—C'è da un pezzetto; ma di giorno non si vede mai; esce appena la sera, fa il suo giro, in due o tre locande come questa, poi, dove vada a nascondersi, non si sa.
Il Carpani non domandò più altro; ma il giorno dopo, quando vide entrare Belisario (anche alla Fiaschetteria gli avevan dato quel nome) lo chiamò, e gli domandò la Lega della democrazia.
—Sai, non amo i preti nemmeno io,—gli disse a mezza voce.
L'altro non rispose niente; aspettava il soldo muto, impassibile; soltanto avvicinò la mano che aveva libera dai giornali alla bocca, e ci soffiò sopra per sdiacciarla.
—Sei sempre stato a Roma?
—Sempre!...—rispose il vecchio stizzosamente.
L'altro gli diede il soldo continuando a guardarlo; ma, in quel punto, gli avventori, che ricordavan la scena del giorno innanzi, vollero dare spettacolo al Carpani, e cominciarono a chiamare il vecchio da una tavola all'altra:—Ohi, Belisario, dammi l'Osservatore Cattolico!... Belisario, dammi la Presse di Vienna!... l'Allgemeine Zeitung!
Il vecchio s'irritò, montò in furore, coprì d'insolenze tutta quella gente, piangendo di rabbia, mentre i camerieri lo cacciavan fuori, e gli altri continuavano a ridere a crepapelle, gridandogli dietro[343] per far chiasso, evviva i preti! evviva i Tedeschi!
—Canaglia!—urlò il vecchio sulla porta, preso a spintoni fra i camerieri,—canaglia! canaglia!—Ma un colpo più forte lo mandò a ruzzolare in mezzo al fango della strada, sotto la pioggia che cadeva a rovescio, e una raffica di vento gli sparpagliò lontano tutti i giornali.
La scena aveva disgustato tanto il Carpani, che il giorno dopo scelse un'altra trattoria dove andar a mangiare, e in breve dimenticò il povero matto della Fiaschetteria al ponte di Ripetta.
Le nozze del deputato Barbarò di Panigale, riuscirono magnifiche oltre ogni dire. Il Sindaco in persona, colla sua bella fusciacca e col suo più amabile sorriso, unì civilmente gli sposi, e l'Arcivescovo stesso accettò volentieri di celebrare il matrimonio religioso nella cappella del palazzo nuovamente acquistato dal Barbarò, e appartenuto già all'antichissima casa dei Visconti Bescapè. Il marchese di Rho era il padrino dello sposo, e il marchese di Collalto quello della sposa, la quale fu poi accompagnata in Municipio e assistita, durante la cerimonia religiosa, dalla Mary, la sua dolce amica d'un tempo, che stava adesso per diventar quasi una sua figliuola. La marchesa, colla persona smagrita e incurvata, cogli occhi neri sbattuti, che spiccavano[344] maggiormente sul viso pallido, pareva uscita allora da una gran malattia, sebbene non avesse avuto neanche un giorno di letto. Invece la Mary si era fatta ancora più bella e fiorente; la sua figura aveva acquistato un'aria matronale, una voce più rotonda, modi più risoluti. Quella mattina era poi vestita assai semplicemente, e sembrava anche più giovane: non portava gioielli, ma sul petto aveva appuntato il velo del cappellino, come si usava allora, con una piccola miniatura legata in oro e contornata di grossi brillanti. La miniatura era ancora quella della mamma; invece la montatura era nuova. Stavale dietro, mangiandola cogli occhi, il buon Giulietto Barbarò, un po' impacciato colla sua persona mingherlina, mentre essa dava il braccio a Stefano di Collalto, che per l'occasione pareva diventato più miope e più sottile del solito. Per seguire la moda fino all'ultimo, oltre al gestire e al camminare all'inglese, metteva l'accento inglese anche nelle pochissime parole che diceva. Ma seriissimo e impassibile fuori, dentro di sè era gongolante di quelle nozze: aveva sei cavalli in scuderia, i più belli del reggimento, e, per gratitudine, aveva già cominciato a chiamar papà don Pompeo di Panigale. La calca dei curiosi fuori del Municipio, e alla porta del palazzo era stata enorme. A dar poi anche più lustro a quelle nozze, il Re, che non si era dimenticato di essere stato ospite del deputato Barbarò, mandò a regalare alla sposa uno splendido braccialetto: dono veramente reale. Pompeo Barbarò, che per sua soddisfazione lo avea fatto stimare segretamente dal proprio orefice, ci aveva riscontrato più di quindicimila lire soltanto in pietre preziose.
Alla colazione che precedette la partenza degli sposi per il viaggio di nozze, oltre a tutti gli amici, i migliori del bel mondo, oltre al sindaco, al prefetto, a un paio di generali, e ad una mezza dozzina tra deputati e senatori, c'era pure il marchese Brancaccio, presidente del Luogo Pio dei Sordo-Muti, l'avvocato Terzi, presidente dell'Ospizio di Santa Maria Segreta, e il cavalier Marnulfi, presidente della Congregazione di Carità...: insomma una rappresentanza di tutti i vari luoghi pii milanesi, ai quali il Barbarò nell'occasione del suo matrimonio aveva regalato, complessivamente, la cospicua somma di cinquecento mila lire. Splendida elargizione, che gli procurò lodi universali colla proposta di una medaglia d'oro, da conferirgli al suo ritorno, mentre lo Zodenigo gli telegrafava il proprio plauso da Civitavecchia, con una solo parola: Egregiamente.
C'era stata anche donna Lucrezia al matrimonio, ma giù in strada, dinanzi al Municipio, confusa tra la folla che brulicava in mezzo alle carrozze. La Balladoro aveva scritto di suo pugno prima all'Angelica, poi alla Mary e a quel pandòlo di Giulio, e in fine allo stesso Barbarò, significandogli, in anticipazion, che sarebbe rimasta molto offesa e mortificata se non l'avessero compresa nella lista degli invitati, tanto più che una Balladoro (di quei veri di Venezia) poteva anche essere invitata a corte senza svergognar nessuno. "Ma per via dell'ingratitudine della quale si vedeva ognora corrisposta da tutti quanti, aveva pensato, caso mai, di prevenire lo smacco, non maravigliandosi più di niente!"
Il Barbarò, invece di rispondere, le mandò un suo ragioniere con un biglietto da mille lire, e coll'incarico[346] di farle intendere che, quanto all'ingratitudine, non aveva ragione di lamentarsi, perchè viveva, e viveva bene, colle elargizioni di donna Mary, la quale, non avendo un soldo, era sempre lui che pagava; e circa poi all'invito, doveva capire una volta per sempre, che Don Pompeo avrebbe continuato a chiudere un occhio su ciò che faceva sua nuora, purchè la signora Balladoro se ne stesse tranquilla e sopratutto in disparte.
Donna Lucrezia strepitò, pianse, parlò di ricorrere ai tribunali, ma alla fine prese le mille lire facendosi promettere dal ragioniere che sarebbe ritornato da lei un altro giorno, con più comodo, perchè aveva bisogno di sfogarsi, di aprirgli tutto il suor cuor, di esporgli tutte le enormi ingiustizie delle quali era "vittima giornaliera" per parte della Mary, dell'Angelica, di quel pandòlo del signor Giulio, ed anche del commendatore, quantunque omo de gran talento, ma messo su, contro di lei, da quel birbante dello Zodenigo. Il ragioniere non era più ritornato, ma Donna Lucrezia non avea potuto resistere, era andata al Municipio, il giorno delle nozze, contentandosi, per non dar nell'occhio al Barbarò e non disgustarlo, di rimaner fuori in istrada, a vedere, e a far sapere alla gente che la marchesa Angelica, la sposa, era sua cugina, come marchesa di Collalto e come contessa di Castelnovo, per cui quel gran milionario del commendator Barbarò di Panigale, veniva a essere da quel giorno in poi, suo cugino anca lù, e in primissimo grado.
Don Pompeo e Donna Angelica rimasero lontani da Milano parecchi mesi: visitarono Vienna, Parigi, Londra, poi fecero una lunga dimora in Iscozia. Quel[347] viaggio era argomento di molte curiosità e di molti discorsi, e Diego di Collalto ne riferiva l'itinerario e gli episodi al Club e al Caffè Cova, ridendo cogli altri di Don Pompeo che, poco pratico del francese, faceva un gran studio di dizionari, e lasciava sempre parlar la moglie e il cameriere.
Ma quando gli sposi ritornarono a Milano, e il marchese Diego andò ad incontrarli alla stazione, non rise più. Il Barbarò, più grasso e più elegante, pareva ringiovanito, dacchè smesso l'uso del cerone, aveva adottata una tintura inglese, famosa. Angelica invece non era più riconoscibile: era invecchiata, con quasi tutti i capelli bianchi, col viso livido e smunto, colle guance infossate.... Soltanto gli occhi erano lucidi come prima; ma guardavano fissi, smarriti, con un'espressione di sbalordimento e di terrore: pareva chiedessero pietà e aiuto. La poveretta era molto ammalata: la febbre e la tosse la rovinavano.
—Nipotina mia,—le disse il marchese Diego che si sentiva scosso mal suo grado,—bisogna mettersi in quiete, e curarsi.
—Eh, sicuro,—rispose il Barbarò con un gran sospiro di compunzione,—bisogna curarsi: del resto l'ho fatta visitare dai migliori medici inglesi!—poi soggiunse con una risataccia—e come si fanno pagare, quei ladri!... costa caro anche il crepare in quei paesi!...
I medici avevano dichiarato al Barbarò che la marchesa Angelica, per quante cure facessero, non avrebbe potuto durare lungamente... e il Barbarò riferì subito, appena a Milano, quella sentenza, facendosi compiangere dalle signore, anche presente sua moglie, alla quale poi soleva dire, quando c'era[348] gente, in tono piagnucoloso:—che cosa farò mai, io, senza di te?... che solitudine, se tu mi venissi a mancare!... non potrei più vedermi in una casa così grande: dovrei venderla!
Ma non erano veramente questi i suoi disegni. Don Pompeo pensava già di ammogliarsi una terza volta: ma voleva una giovane sana e allegra... non più un funerale di prima classe. Si era ammogliato una volta per compiere una buona azione, per far tacer la coscienza fino all'ultimo scrupolo, per far la fortuna del marchesino Stefano, che era rimasto forse un po' danneggiato dall'amministrazione di Villagardiana; ma avendo soddisfatto ai suoi scrupoli di galantuomo e di gentiluomo, quest'altra volta voleva soddisfare i suoi gusti: voleva allegria in casa, e voleva ricevere e divertirsi!
Gli affari non lo occupavano più; guadagnava, guadagnava, guadagnava, continuamente, favolosamente, ma senza fatica; i milioni affluivano spontaneamente nella sua cassa. Ormai non era più Pompeo Barbetta che correva dietro ai denari, erano i danari che correvano dietro a Don Pompeo Barbarò. Lui, data appena una capatina alla Banca, per far come il solito e per godere il reverente omaggio de' suoi sudditi, del resto passava le ore in un ozio sfarzoso. Amava adesso la vita politica, e anche la vita mondana: si compiaceva della voga acquistata dal suo nome e dalle sue ricchezze. Dava pranzi sontuosissimi, che dettavan legge alla moda; feste, che facevano chiasso, e alle quali accorreva, con tutta Milano, anche il meglio di Milano.
Ma c'era Donna Angelica che non era fatta, pel tenore di vita prescelto dal commendatore. Intanto,[349] dopo i primissimi giorni, la passione del signor Pompeo per la bella marchesa, si era subito dileguata. Una donna sempre in lacrime, che lo guardava con gli occhi spaventati e che cadeva in convulsioni ogniqualvolta egli le si accostasse, non poteva certo riuscirgli molto gradevole.
—Le lacrime delle donne,—diceva Don Pompeo quando si sfogava su tal proposito col marchese Diego,—sono come il pepe nella minestra: un po' la rende più gustosa: troppo, secca, e va a traverso!...
E oltre alla passione, così presto svanita, nemmeno il suo amor proprio aveva di che esser contento. Dopo tanti anni di desideri e di sospiri, dopo tanti e tanti ostacoli che avea dovuto combattere e vincere, si era trovato... colle pive nel sacco. Invece di rapire l'innamorata al proprio rivale, lui, buonuomo, aveva sollevato l'altro da un peso. E che peso!...
In fatti, Andrea Martinengo si era messo quasi subito a far la corte, con buon successo, alla contessa Florio... e il Barbarò, ch'era stato dei primi a saperlo, andò in bestia contro la moglie, maltrattandola, e dicendole ogni sorta di villanìe, come se essa l'avesse messo in mezzo.
Non poteva più vedersela dinanzi, con quel muso sfatto da moribonda!—se c'era pranzo, levava l'appetito ai comensali; se c'era una festa, la rendeva un mortorio: era una donna insopportabile!—Lui l'aveva sposata per fare il galantuomo fino all'ultimo;—ma costava d'essere galantuomo!... eccome se costava!...—Per il nome, per il titolo non l'aveva sposata davvero!... non aveva da far altro che scegliere, e gli avrebbero dato anche una duchessina[350] di diciott'anni, bella come il sole!—E per di più avea da pagare debiti sopra debiti a quello scimmiotto del figliastro: ma avrebbe pensato lui a farlo rigar diritto; gli voleva assegnare un tanto al mese, e se spendeva di più, lo avrebbe costretto a dar le dimissioni, e lo avrebbe relegato a Villagardiana, a fare il contadino.
Già... lui era un uomo di cuore, e non voleva togliere ai propri figli, per dare agli altri: la sua discendenza l'aveva, erano i figli di Giulio e della Mary. Quelli lì erano Barbarò di Panigale autentici; erano la seconda generazione dei nobili di Panigale!...—E Pompeo, voleva molto bene davvero ai suoi nipotini; era forse il primo affetto sincero, che gli fosse spuntato nel cuore. Amava l'ultimo specialmente, che aveva nome Pompeo, che assomigliava alla Mary, ed era bello come un amorino. Tutti dicevano al Barbarò che era lui, nato e sputato, e il nonno trovandosi grazioso nel visetto del piccolo nipote, se la godeva.
Don Pompeo, quando non aveva pranzi di gala, o ricevimenti, quando non era a qualche Banca, quando non era a Roma, finiva col passar tutto il suo tempo nel quartiere della Mary, dove, con quei ragazzi, c'era più vita, e più allegria: e così Angelica riusciva ad ottenere l'unico bene che potesse desiderare: quello di morire in pace. Non vedeva più nessuno: nemmeno lo zio Diego non veniva quasi più a vederla, perchè gli faceva troppo pena; la Mary passava spesso da lei, ma eran visitine corte; aveva tanto da fare!... entrava dappertutto: asili infantili, visite all'ospedale, fondazione delle piccole suore, feste e fiere di beneficenza:[351] poi le caccie a cavallo, poi le corse a Castellazzo, poi le regate, poi le recite: non aveva un minuto libero. E con tanto da fare stava sempre bene, anzi se s'ha da dire, fin troppo bene. Le sue fattezze si facevano alquanto pienotte, le forme si arrotondavano; la voce e il riso non avevano più lo squillo argentino d'una volta; Giulietto peraltro non se ne accorgeva: il suo amore per la moglie cresceva ogni giorno, come lei e più di lei.
Anche rispetto ai pranzi e alle feste Angelica aveva un po' di tregua: Don Pompeo, pareva li avesse sospesi per il momento, aspettando miglior occasione.
Una delle ultime feste, anzi l'ultima forse alla quale avea assistito Angelica, era stata più che altro una cerimonia di gran parata: le deputazioni dei Luoghi Pii che avevano avuto il mezzo milione, e che avevano in benemerenza decretato una medaglia d'oro con una pergamena miniata al Barbarò, dovevano recarsi in pompa magna a fargliene la presentazione; e quindi ci sarebbe stato un gran rinfresco.
—Patti chiari,—avea detto Don Pompeo alla moglie, annunciandole quella grande solennità,—non ci vogliono smorfie, nè deliqui: ti domando di star bene per un paio d'ore soltanto!... dopo, se ti accomoda, potrai tornare a star male quanto vorrai. Ho telegrafato a Stefano perchè venga anche lui. Tu sciogli la lingua, mi raccomando: prima puoi farti fare una puntura di morfina, per esser sicura di star bene. E ricordati di metterti in gala: ti darò i finimenti di lusso.
Così, Don Pompeo, chiamava le gioie di famiglia (le più antiche delle quali rimontavano fino all'Agenzia di Via del Pesce), gioie che il Barbarò teneva sempre sotto chiave. Quando voleva che la moglie le mettesse, gliele dava, numerandolo a una a una sotto i suoi occhi: poi le riprendeva tornandole a contare, e le chiudeva nello scrigno.
La medaglia d'oro, da presentarsi a Don Pompeo Barbarò di Panigale, non era stata votata a unanimità; anzi aveva suscitato vivaci discussioni, ma finalmente il partito era stato vinto, e il marchese Brancaccio, come presidente del comitato, aveva avuto l'incarico di farla coniare e di portarla in forma solenne a Pompeo Barbarò.
Egli, in fatti, a capo della deputazione (di cui facevano parte tra gli altri il cavalier Marnulfi e l'avvocato Terzi), nel giorno stabilito, fu ricevuto nel Palazzo Barbarò tra due file di servitori, in gran livrea, che facevano ala lungo lo scalone magnifico, coperto di soffici tappeti, adorno di pregevoli statue e di piante bellissime. Altri servitori, ma questi con calze e scarpini a fibbia, erano disposti nelle anticamere, sotto il comando del maggiordomo, il quale invitò la deputazione a entrare in una gran sala. dove la pregò di compiacersi di attendere Don Pompeo di Panigale.
—Che sfarzo!—balbettò uno della Deputazione, un giovanetto magro e irrequieto, che metteva il piede per la prima volta nel palazzo Barbarò. Ma il marchese Brancaccio non rispose: guardava i quadri appesi alle pareti della gran sala, dentro ricchissime cornici dorate.
Dovevano essere ritratti antichi, di famiglia; matrone[353] in guardinfante; guerrieri nelle armature lucenti; magistrati in toga e porporati col cappello cardinalizio... Ma appunto, in uno di quei guerrieri dal viso arcigno e superbo, il marchese Brancaccio, che apparteneva ad una grande famiglia andata in rovina, avea riconosciuto uno de' suoi avi più illustri.
Da un altro canto l'avvocato Terzi (vecchio legale dell'aristocrazia milanese) chiamatisi vicini i colleghi, disse loro con comica gravità, indicando i ritratti:
—Sono i nobili antenati di Don Pompeo di Panigale, comprati a ribasso dal Baslini e dall'Arrigoni!
—Sì?... davvero!...—esclamò ringalluzzito il piccino, che poco prima era rimasto mortificato vedendo lo sfarzo del palazzo Barbarò,—davvero?...
Era costui un giovane rampollo di una ricca famiglia della provincia, stabilitasi da poco a Milano, e l'avevano messo nella Congregazione di Carità, perchè non aveva niente altro da fare.
—Davvero?... già ne ho sentito dire delle belle sul conto del Panigale!...—E rideva, rideva sommessamente, fiutando la maldicenza, col nasetto petulante.
—Che cosa avete sentito dire?—domandò colla sua solita prudenza e gravità, il solenne cavalier Marnulfi.
—Ci saranno esagerazioni,—osservò il Brancaccio,—si sa... l'invidia... ma per dire il vero quella vita esemplare che avete voluto mettere nell'epigrafe, mi par proprio un di più!
—Ci voleva quella parola per la simmetria dell'iscrizione,—osservò[354] l'avvocato Terzi.—Del resto lasciate correre, marchese; uno che dal niente si fa un patrimonio di una trentina di milioni... è un gran bell'esempio!
—È stato creato nobile da poco, non è vero?... e prima, faceva soltanto il banchiere?—domandò il giovanetto provinciale.
—Prima si chiamava Barbetta, e faceva il portinaio!—esclamò l'avvocato.
—Il portinaio?—e l'omino spalancò la bocca e gli occhi dalla maraviglia,—e da portinaio è diventato... trenta volte milionario?
—Parlate piano,—avvertì il cavalier Marnulfi.
—Non ha fatto soltanto... il portinaio,—soggiunse il marchese Brancaccio, accarezzandosi le fedine bianche, e sorridendo.
—No, no!—risposero insieme, pure ridendo, tutti gli altri della commissione.
—Ha fatto anche un pochino... l'usuraio!—osservò uno.
—Già... un pochino!—rispose un altro strizzando l'occhio.
—Ha tenuto persino un'Agenzia di Prestiti sopra Pegno....
—E di collocamento delle ragazze... non da marito!—interruppe l'avvocato.
—Oh!...—fece il provinciale scandolezzato—oh!...
—E colle forniture?—soggiunse il Brancaccio,—ha guadagnato tesori.
—Dava il cartone per cuoio!
—Ferri vecchi per fucili nuovi!...
—Oh!...—continuava a esclamare l'altro,—oh!...
—E ha avuto un processo....
—Anche un processo?... Oh!... oh!... oh!...
—Per altro se l'è cavata bene.
—Ma il paese è stato derubato!
—Parlate piano!—tornò a raccomandare il cavalier Marnulfi, che teneva sempre d'occhio la porta da cui era uscito il maggiordomo.
—Se ha derubato il suo paese... ha fatto lo stesso altrove; a Verona, nel cinquantanove... quando c'erano ancora i Tedeschi....
—Già,—interruppe il marchese Brancaccio, colla voce stridula e tagliente,—i primi danari... gli ha fatti... coi Tedeschi.—Il marchese guardò l'avvocato; l'avvocato guardò il marchese e sorrisero insieme.
—Chi sa poi, se è vero!—disse il cavalier Marnulfi,—ma piano, piano, pianissimo.
—Fra i praticanti del mio studio,—riprese l'avvocato Terzi,—avevo un giovinotto, un buon diavolaccio lui, ma figliuolo d'un figuro, d'un commissario austriaco... d'un tale che chiamavano allora Don Miao... e costui mi ha proprio assicurato....
—Per Dio! parlate piano!—esclamò il Marnulfi, che aveva veduto aprirsi la porta.
In quel momento, in fatti, entrò il maggiordomo, e fece passare la deputazione nella gran sala dei ricevimenti, dov'era Don Pompeo Barbarò di Panigale, circondato dalla sua famiglia.
Il marchese Brancaccio corse ad ossequiarlo, seguìto da tutti gli altri, e fece la presentazione di quelli che non erano conosciuti personalmente dal commendatore.
Don Pompeo vispo, gaio, ridente, accolse la Deputazione con molta cordialità. Egli era pienamente[356] contento, beato. Una volta sola i suoi occhietti ebbero un lampo d'inquietudine: Angelica, assai sofferente, avea piegato il collo assottigliato, aveva chinato la testa, pareva stesse per mancare.
—Ti senti poco bene?—le domandò Pompeo a denti stretti; e poi, dandole un forte pizzicotto nel braccio:—su, su, animo!—le disse piano,—non è questo il momento di svenire.
Angelica si fece forza, e trattenendo un sospiro, rialzò il capo, coperto di gemme.
Scambiati i primi complimenti da una parte e dall'altra, il marchese Brancaccio con acconce parole, in cui si lodavano le virtù private e pubbliche, e la preclara filantropia dell'illustre benefattore, gli consegnò in un astuccio aperto, insieme con una pergamena artisticamente miniata, la medaglia d'oro. Anche la medaglia era un capolavoro: da un lato si ammirava, riprodotto con finissima incisione, il ritratto del Barbarò; dall'altra, la seguente epigrafe:
A POMPEO BARBARÒ
NOBILE DI PANIGALE
CHE NELLA VITA OPEROSAMENTE ESEMPLARE
CON ILLUMINATA BENEFICENZA
DEL PROSSIMO TERSE LE LACRIME
DELL'UMANITÀ SOFFERENTE ALLEVIÒ I DOLORI
LE RAPPRESENTANZE DEI LUOGHI PII MILANESI
INTERPRETI DELLA GRATITUDINE CITTADINA
IL I DI MARZO DEL MDCCCLXXVIII
O. D. C.
La medaglia, l'iscrizione, la pergamena, tutte quelle persone egregie e rispettabili che lo encomiavano e lo ossequiavano, levando a cielo il suo[357] cuore, le sue virtù, la sua bontà, commossero al vivo Don Pompeo.
Guardò attorno... e non vide altro che visi sorridenti: anche la povera Angelica impaurita, si sforzava di sorridere. Allora pensò, sentì nell'animo, con un dolce tepore di contentezza, che l'epigrafe diceva il vero. Nella sua vita operosamente esemplare (esemplare per operosità) egli aveva asciugato le lacrime del prossimo, aveva alleviato i dolori dell'umanità misera e sofferente.—E come no?... aveva regalato mezzo milione ai luoghi pii, aveva fondato ospedali e asili, bonificato terreni.... I suoi occhietti s'inumidirono: lo spettacolo della sua propria bontà lo inteneriva al pari della meritata gratitudine che lo circondava.
—Sì... sono buono,—pensava tra sè,—ma fa bene l'esser buono; fa bene, l'esser galantuomo!
Se involontariamente aveva fatto qualche torto, come aveva saputo rimediarci!... La Mary l'aveva fatta sua figlia, le aveva dato tutto il suo; aveva dato uno stato alla marchesa di Collalto, e a Stefano.... Sì... sì, dovevano adorarlo tutti quelli che lo avvicinavano!...
Il coperto dei Figini era stato abbattuto da molti anni, e da molti anni l'orefice del Gobbo d'oro si era dileguato dalla memoria del Barbarò.... Egli guardò sorridendo la medaglia d'oro, ma sul primo non potè parlare... si strinse la medaglia sul cuore, mentre il marchese Brancaccio, l'avvocato Terzi, il cavalier Marnulfi, tutti i membri della deputazione si mostravano commossi alla lor volta.... Si asciugò una lacrima, poi rivolgendosi alla Mary e a Giulio, che avevano pur gli occhi rossi, balbettò:
—Fate... fate sempre del bene... figliuoli miei... ci troverete una... una grande soddisfazione!...
A questo punto non potè frenarsi e proruppe in un singhiozzo dolcissimo, mentre tutti gli altri assentivano in coro... e s'innalzava nell'ampia sala un mormorio di approvazione.
Fine.
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—L'indice non è compreso nell'opera originale. Ne è stato prodotto ed aggiunto uno dal trascrittore.
—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell'opera originale. L'immagine è posta in pubblico dominio.