Title: Il Ricciardetto, vol. I
Author: Niccolò Forteguerri
Contributor: Giovanni Procacci
Release date: May 21, 2019 [eBook #59568]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online
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CLASSICI ITALIANI
NOVISSIMA BIBLIOTECA
DIRETTA DA
FERDINANDO MARTINI
SERIE III
VOLUME LVII
FORTEGUERRI
IL RICCIARDETTO
CON UNO STUDIO DI GIOVANNI PROCACCI
ISTITUTO EDITORIALE ITALIANO
MILANO
[6]
Il favore che ottenne dal pubblico la prima serie della nostra BIBLIOTECA DI CLASSICI, sì da richiederne una seconda edizione già sotto ai torchi, e gli incoraggiamenti che da ogni parte ne vennero al nostro Istituto, ci inducono a proseguire nella impresa, guidandoci con più larghi criteri a maggiori intendimenti. I quali forse non consentirebbero che alla raccolta si mantenesse l'antico titolo di BIBLIOTECA DI CLASSICI; ma noi lo manterremo: che se non a tutti gli scrittori ai quali daremo luogo, si conviene quell'appellativo com'è comunemente inteso, tutti meritano d'essere divulgati e ancor letti. E la Biblioteca nostra se non di classici, certo di scrittori eccellenti, conterrà così quanto la letteratura italiana ha in tutti i secoli di più pregiato e famoso.
L'ISTITUTO EDITORIALE ITALIANO
[7]
NICCOLÒ FORTEGUERRI
IL RICCIARDETTO
(VOLUME I)
[9]
[11]
Di Niccolò Forteguerri parlano gli storici della nostra letteratura in modo o inesatto o incompleto. Alcuni giudicano del Ricciardetto come non avessero pur veduto la lettera ad Eustachio Manfredi[1], dove l'autore dichiara l'occasione e l'indole del Poema. I men trascurati limitano al Poema i loro giudizi, e si aiutano d'ingegnose induzioni, dimenticando le poesie minori, e anche le Epistole in versi che vanno sotto il nome di Capitoli, senza lo studio delle quali non si può bene intendere né il Ricciardetto nè il suo poeta. È di questi Capitoli, indegnamente dimenticati, che io intendo principalmente occuparmi; e perchè rivelano tutto l'animo del Poeta, e perchè danno carattere storico e autorità morale alla satira toscana della prima metà del secolo XVIII.
La pubblica biblioteca del R. Liceo pistoiese, oltre ad un codice contenente venticinque Capitoli, già tutti pubblicati[2], ha anche un MS. intitolato: «Vita dell'Ill.mo [12] e Reverend.mo Monsignor Niccolò Forteguerri»; breve scrittura di uno dei due fratelli del Poeta, il Prior Bernardino, inedita, secondo io credo, e meritevole di rimaner tale. Ma poche e difettive sono le biografie del Forteguerri, nè al tutto scevra d'errori è la bella Vita che ne scrisse latinamente Angiolo Fabbroni, che pur fu assistito nell'opera da Mons. Giacomelli, concittadino e amico del Poeta[3]. È per questo che la scrittura del fratello Bernardino non può trascurarsi. Essa è studiabile anche nei suoi silenzi, anche nelle sue ingenuità, per non dire ne' suoi errori; ed io ne prendo ora occasione a qualche notizia circa il Forteguerri e i suoi tempi.
D'ordinario il fratello biografo si allarga nelle cose familiari e minute; quelle che a noi sembrano più importanti, [13] o le omette, o le accenna fuggitivamente. Ci fa sapere che Niccolò è nato nel 1674, il 6 Novembre, a mezz'ora di notte; ci recita tutti i nomi di battesimo, e i nomi e i titoli del compare, e anche del suo sostituto; ma dei veri titoli di gloria del suo fratello non se ne cura. Narra che nel 1716 Monsignore è a Pistoia per l'incoronazione della Madonna dell'Umiltà, e fa bene a occuparsi di codesta festa, perchè Niccolò ne fu veramente il promotore e la parte principale[4]; ma della scommessa amichevole che dette origine al Poema, fatta in [14] quello stesso anno, anzi proprio in codesta occasione[5], neppure una parola. «Giudica bene apporre in fine la Nota di tutti i libri sì manoscritti che stampati e delle tante altre composizioni che son venute alla luce tanto in vita che dopo morte di detto Monsignor Niccolò»; e fra i libri e i manoscritti ne annovera soltanto cinque, mentre a noi per solamente contare i manoscritti ora esistenti ci è voluto del tempo, e dimolto. Fu prudenza o ignoranza quella del Prior Bernardino? Certo egli è più fratello del Don Abbondio manzoniano che dell'autore del Ricciardetto, e continua, credo io, a far le parti del furbo e del pauroso per conto di Niccolò anche dopo la sua morte.
La giovinezza del Forteguerri s'incontrò nel bel mezzo del ducato di Cosimo III, nel fiorire del Gesuitismo e nel nascere e fiorire dell'Arcadia. Non è un bell'incontro! Ma l'aria ossigenata dell'appennino toscano tutto ottunde e consuma, e domò anche, almeno in parte, la ferrea natura di Cosimo. A ogni maniera di prepotenze e di affettazioni il popolo toscano oppone un'arme invincibile, il ridicolo; e non quel ridicolo romoroso e volgare che si annunzia e ti dà difesa, ma quel ridicolo fine e silenzioso che non scopre il feritore ed ammazza il ferito.
Spesso la storia della stampa di un libro è la storia di un governo. Nella pubblicazione del Lucrezio del [15] Marchetti c'è tutta la storia del dispotismo ipocrita di Cosimo III. Protesta il povero traduttore del suo cattolicismo, e vuol mettere il lavoro sotto l'egida del Sovrano; ma il Sovrano ha più paura del traduttore e non se ne fa nulla. Il lavoro è chiesto in copia da gran letterati stranieri, da principi, da cardinali, e gira per tutta Italia e fuori, come, qualche anno dopo, il Ricciardetto, come, un secolo più tardi, i Versi del Giusti. Non importa; giri il Lucrezio, giri il Ricciardetto, girino i Versi, ma non si faccia lo scandalo della stampa. Che povera e ugual cosa è il dispotismo di tutti i tempi!
Dai legami di così bassa e corrotta società si liberò il Forteguerri per la singolare bontà e semplicità dell'animo, come più tardi per la forza e libertà dell'ingegno doveva sciogliersi da ogni servilità accademica. Dannato dalla nascita al clericato, di dodici anni ricevè la prima tonsura[6]; e ognun sa che a codesto fato anche le nature più ribelli finivano col sottomettersi, per non avere il danno e le beffe, e non prolungare di troppo quella crudele ipocrisia dei festeggiamenti, così bene svelata nei Promessi Sposi, con la quale, e monache, e frati, e preti erano accompagnati al sacrifizio. Niccolò ci fu accompagnato anche con pensioni e benefizi, del che si rallegra il Prior Bernardino che pare fosse, oltre che lo storico, anche il fattore della nobile ma non molto ricca famiglia. Dopo gli studi primi nei Collegi di Pistoia e di Siena e dopo la laurea di Pisa, «da noi e da molti dei nostri parenti (dice il fratello biografo dandosi un po' d'aria) si pensò di doverlo mandare a Roma»; per dove infatti partì il 1 Decembre 1695. Ritrovati qui alcuni vecchi condiscepoli e fatta camerata con loro, entrò allegramente nella baraonda curiale senza dimenticare la vita pistoiese, rammentatagli caramente dalla presenza dello Zio materno, Mons. Agostino Fabbroni (creato poi Cardinale nel 1706), al quale la madre Marta lo aveva raccomandato.
Col principiare del secolo, a venticinque anni, egli [16] diè pubblicamente il suo primo e solenne saggio letterario, recitando in Vaticano l'orazione latina nei funerali di Innocenzo XII. Inutile il dire che confermò in così grande occasione la buona fama che già si era acquistata negli studi delle lettere e della giurisprudenza.
La Curia Romana avea sempre più bisogno d'ingegni forti ed acuti per difendersi contro lo spirito di riforma che agitava anche gli uomini più schietti e timorati, e per mandare innanzi quella politica doppia e simulatrice che adoprò sempre utilmente sotto specie d'imparzialità. Ora poi che la guerra della successione di Spagna minacciava tutta l'Europa, un'ambasciata a Filippo V era proprio il fatto suo. Ne fu incaricato Mons. Zondadari, e gli eletti a seguirlo come Segretari furono l'abate Grimaldi e l'abate Forteguerri.
Se fosse stato vero ciò che di quel Monarca cantava un caro e venerato amico di Niccolò, Eustachio Manfredi, cioè che innamorava con gli occhi i venti e le onde, talchè pacificava le sue mille Provincie
Usando il ferro no, ma il guardo altero,[7]
bisognerebbe dire che S. M. cattolica dovette essere in codesta occasione molto avara delle sue occhiate. Infatti gli ambasciatori, appena imbarcati a Genova, furono subito dall'ira dei venti e delle onde balestrati sulle coste della Sardegna; e giunti con gran pena a Madrid, trovarono il Re, che, avaro sempre delle suddette occhiate pacificatrici, si preparava a partire per l'Italia, dove il principe Eugenio correva vittorioso i suoi domini. L'ambasciata dovè partire col Re, si trovò alla battaglia di Luzzara, e quando la Corte, per altre necessità di guerra, ritornò in Spagna, dovè pur seguitarla.
Un viaggio così fortunoso e affrettato non fu senza danno della salute di Niccolò; sebbene il fratello biografo, lasciando della salute, ci dice soltanto «che moltissime [17] spese la casa dovette fare per simile congiuntura». Però da varii luoghi delle lettere familiari si rileva che Niccolò era annoiato della dimora in Madrid e dell'ufficio di segretario, onde chiese ed ottenne il richiamo, che dovette essere sui primi del 1705.
Da questo momento egli rientra nella gran vita curiale, di cui percorre di grado in grado gli uffici fino al segretariato di Propaganda[8], e dimora in Roma (tranne qualche villeggiatura o missione) fino alla morte (17 Febbraio 1735); non odiato da nessuno, stimato dai dotti, benvoluto dai quattro Pontefici che servì, e solamente un po' trascurato sotto Benedetto XIII per aver partecipato alla nobile opposizione del Cardinale Fabbroni, nella nomina del vituperevole Mons. Coscia al cardinalato.[9]
[18]
Il ventennio che corre tra il ritorno da Madrid e la elezione di Benedetto XIII è veramente il bello e operoso periodo della vita di Niccolò. Gli affetti familiari; gli amori femminili tanto in lui più tremendi quanto più contrastati nella loro legittima affermazione; gli uffici suoi pieni di noie e di contese; le ansie mescolate d'applausi infruttuosi per le sue poesie più franche e vivaci[10]; le ambizioni spesso deluse e sempre invano combattute, fanno tempesta nell'animo suo onestissimo, la quale non tace affatto nei versi per monacazione, si annunzia di tratto in tratto nel Ricciardetto e romoreggia tutta nei Capitoli.
Lo studio di questi, utilissimo a chiunque brami conoscere i costumi romani, e specialmente della Curia, nel Secolo XVIII, è assolutamente necessario, come dissi, a chi voglia bene intendere l'ingegno e l'animo del Forteguerri. Nè vi mancano preziosi accenni al suo Ricciardetto. In un Capitolo del 1725, per citare un esempio, è detto chiaramente così:
Ho dato alla perfine compimento
A quel poema di Ricciardo mio.[11]
[19] La qual cosa, scritta a un amico con cui ha continua relazione epistolare, ci fa certi che il poema fu terminato non prima di codesto anno, come siam certi che fu cominciato nel 1716[12]. Ora se avesse letto i Capitoli, e veduto codesto luogo, non avrebbe un illustre storico moderno sentenziato, fra le altre cose, che il Ricciardetto fu scritto per iscommessa un canto al giorno.[13]
Le persone a cui egli manda i Capitoli sono i pochi e più intimi amici. Ai fratelli, a cui dava del Lei, nessuno. Tra gli amici quello a cui più tocca delle sue confidenze, è Liborio Venerosi[14], fratello a Brandaligio di arcade fama; patrizio pisano dei Conti di Strido, ma [20] nato da una pistoiese e dimorante in Pistoia; uomo pieno di studi, e, per i tempi, liberissima e schietta natura. Si lascia andare anche col Tolomei[15] e col Buti;[16] ma le gioie, i dolori, gli sdegni, li versa tutti nel cuore del suo Venerosi. Sono mandati quasi tutti da Roma a Pistoia, e scritti come improvvisando, senza ricopiare, e talora anche senza rileggere, come è chiaro per certi [21] poscritti che sono negli autografi[17]; cosicchè il contrasto tra i suoi uffici e la sua vocazione vi è espresso con ammirabile candore ed efficacia. Il sentimento che vi domina, con forma alternata d'elegìa e d'invettiva, è di paragone e di antitesi tra la libera quiete della sua città, a cui anela, e il servilismo e la lussuria di Roma che detesta:
O mio Liborio, se vedessi quello
Ch'io veggo troppo spesso e che m'annoia
Sì che invidio chi dorme entro un avello,
Perdio non usciresti di Pistoia,
Ancor che Dante la chiami una tana
E dove d'ozio si marcisca e muoia,
E ti parrebbe cosa assai più sana
Andar pescando broccioli e lamprede
Su per la Stella o la brecciosa Brana,
Che stare appresso a questa santa sede,
Ov'io non so per quale alto mistero
Poco di bene e assai di mal si vede.
Onde aspettando io sto che il mio San Piero,
Stanco del più soffrire, un dì ci metta
La santa mano sua ma daddovero.[18]
Questo sentimento dominante non scade mai: è nei Capitoli del 1718, come in quelli del 1734; e dal putre aere di Roma sospira egli sempre alla pace dei suoi colli nativi:
. . . . . . . . . se potessi
Lascerei questo ciel di buona voglia;
E cangerei, per Giove, coi cipressi
Di Giaccherino le guglie di Roma
E i suoi palagi sontuosi e spessi.[19]
[22]
E poco dopo:
Liborio, io non canzono, e remo o boia
Mi venga in mano e mi salti sul collo
Se mi piace più Roma che Pistoia[20].
Talora codesto sentimento, in luogo di invettive, gl'ispira co' suoi dolci ricordi affettuosissime descrizioni, com'è quella del Capitolo XXI, e che comincia così:
Signor Giuseppe, se ben vi ricorda,
Partii dalla mia villa alle nove ore,
Come si dice, alla muta e alla sorda.
Le dipartenze sono un crepacuore
Però le fuggo, chè l'ultimo addio
È come l'olio santo a chi si muore.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Adunque io presi l'ambio zitto zitto,
E nel calesse ponendo il sedere,
Mi parve da un coltello esser trafitto.
Rivoltai gli occhi verso Belvedere,
E poi li girai presto intorno a casa,
E crebbe a dismisura il dispiacere.
Le collinette e la campagna rasa
Di Cecina, Lardano e di Castello,
Ove cotanta cacciagione è spasa,
Mi furo alla memoria un tal flagello
Che quelli ch'hanno in uso i missionari
Sarebber come gusci di baccello.
Ma le nipoti e i nipotini cari,
La madre, la cognata e il fratellame
Tutti si trasformaro in rei sicari.
Dormivan essi . . . . . . .
E qui seguita la descrizione così piena di sentimento familiare, che il Berni e tutti i berneschi non sognarono mai.
Ma la buona e franca natura di Niccolò, meglio che [23] negli amori, si manifesta negli sdegni suscitatigli dalla presenza dei vizi tra i quali è costretto suo malgrado di vivere. Della verità del suo sentimento religioso non è nemmeno a dubitare; e quando non apparisse chiaro dai suoi scritti, gli uomini più savi e pii del suo tempo ne farebbero fede[21]. Ma la veracità di codesto sentimento è ciò appunto che più accende i suoi sdegni contro ogni maniera d'ipocrisie, dai quali si salva appena la persona del Papa. Alla morte di Benedetto XIII ha proprio sulle labbra il nunc tandem redit animus[22] di Tacito, e per isfogarsi un po' contro gl'impauriti beneventani (i venuti a Roma da Benevento insieme col Papa che vi era stato arcivescovo) scrive al suo Venerosi:
Liborio, eccoci giunti finalmente
A quel tempo felice e benedetto
Di gastigare e di premiar la gente.
Se più durava il regno maledetto
Della canaglia rea beneventana,
Ella era cosa da passare in Ghetto,
Od in Biserta o nella Tingitana,
E quivi alzare il dito, tanto guasta
S'era per essi la terra cristiana.
Ma venne alfin chi diede loro il basta,
E se piace al Signore, Amico, io spero
Che si farà di tutti una catasta.[23]
E qui viene a parlare delle paurose fughe del Fini e del Coscia, i due più terribili beneventani. Nè pare che questo sia sfogo vigliacco contro i caduti, poichè soggiunge subito francamente:
. . . . eppur l'altr'ieri e questi e quello
Come reliquie in vago tempio esposte
[24]
Eran di Roma l'idolo e il flagello,
Ma non già mio, chè sempre di costoro
Ebbi dispregio e mi piacea d'avello.[24]
È questo il solo Capitolo, dove l'ira, mescolandosi alla gioia, lo tira in qualche personalità. Ma ricordiamo che egli mormorava questi suoi sdegni nelle fide orecchie di un amico; che il Menzini e il Sergardi avevan fatto ben altro; nè scandalizziamoci poi tanto anche noi, che cominciamo, o mi sembra, a far peggio.
Ma o innanzi, o durante, o dopo il pontificato di Benedetto, il Forteguerri, parlando della Curia Romana, non si smentisce mai. Nè occorreva poco coraggio in quel tempo per mandar lettere, sia pure ad amico fidatissimo, dove i propri sentimenti sono espressi in questa forma:
Liborio, qui si fanno assai commedie,
Ma io non vovvi, e bado a quelle, dove
Non v'è cortine e non si pagan sedie;
Ove gli attori son Natura e Giove
E il mondo tutto e quella sciaurata
Di Fortuna che fa sì pazze prove.
Perdio che spesso ne fo tal spanciata
Che per ben digerirla, alcuna volta
Non valmi lunga ed aspra passeggiata.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Sai tu chi sono i Pulcinelli miei,
I Zanni, i Coli e le servette argute
In questa scena d'uomini e di Dei?
Coloro sono su' quali piovute
Vedrai dovizie, ed han l'istesse insegne
Ch'hanno coloro che adornò virtute;
I quai sen van come le donne pregne
Per l'ampio palco, e con un sputo tondo
Dicon per gnome parolaccie indegne,
[25]
E ignorantacci dalla cima al fondo
Opran sì strane e così pazze cose
Che rider fan la gran platea del mondo[25].
E con che fina analisi guarda codesta commedia curiale il nostro Poeta! Muore nel Marzo del 1721 papa Clemente XI. Niccolò, sinceramente addolorato, va alla funebre cerimonia, dà un'occhiata investigatrice, vede la brutta rappresentazione, e manda il suo Bozzetto, come oggi si direbbe, all'amico Venerosi:
Liborio, ho visto il Papa in sulla bara
E sono stato con la torcia in mano
Servendo lui in occasion sì amara.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
O morte, tua mercè, quanto si varia
L'umana scena! e qual si fa tragitto
Da ciò che piace alla parte contraria.
Tal vidi altiero e pieno di dispitto
A' quindici di Marzo, e nel diciotto
Il vidi umile, languido e sconfitto.
Insomma andati sono ora al di sotto
Que' ch'eran sopra, ed alzano la testa
Le rozze smesse e comincian lor trotto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Povero Papa! In due sol giorni amari
Ti ci tolse la morte, e fecci un danno
Che chi sa se mai fia che si ripari.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Eppur nol crederai; ne' dì giulivi
Del pazzo carneval meno si sgrigna
Dai giovinastri del buon senno privi,
Come con faccia di crudel matrigna
Sul male del figliastro, con ischerno
Roma lo guarda estinto e ne sogghigna.[26]
[26]
Ma l'egoismo e la venalità non sono, secondo lui, malanno di Cardinali e di Prelati, ma dei preti in generale:
Noi altri preti siamo tutti involti
Nell'amor proprio, ond'è che ognun se adora,
E tutti i voti a se sono rivolti.
E ci piace il buon tempo e la buon ora,
E si strapazza e si lascia l'ufizio,
E per il giulio a messe si lavora;
E s'apre alcuna volta a più d'un vizio
L'uscio dell'orto e quello della via
E vassi enormemente al precipizio.
Liborio, infra noi due detto ciò sia,
Riescono pur troppo iniquamente
Le chierche fatte per economia.[27]
Le quali ultime parole sono un accenno, non senza mestizia, all'uso de' suoi tempi e al suo proprio destino, essendo anch'egli, come sappiamo, una chierica fatta per economìa. Del resto, chi volesse un espressivo ritratto della vita prelatizia del secol passato non avrebbe che a leggere i Capitoli XIV e XV, dei quali la lunghezza del tema (per non dir altro) non mi permette di referire alcun saggio.
Dei frati, come ignoranti ed oziosi, non vorrebbe inquietarsi. Scrivendo alla Lisabetta Montemagni a cui si facea cappuccino un fratello, si frena assai; ma codesto frenamento gli presta un'ironìa così fina e garbata ch'io non so davvero a qual'altra paragonarla dei contemporanei. «Che bella cosa, Bettina, farsi frate! Io mi voglio male perchè non mi feci. Quel non pensare a niente, neanche a andare pulito, neanche a spogliarsi e a vestirsi per andare a letto.
Appunto, appunto, come i can barboni!
E poi c'è di meglio; quell'esser libero dai vostri lacci, o donnette terribili; ed egli, vedi, il tuo fratello s'è levato [27] d'ogni pericolo; non penserà che a fare spropositi per dar nel genio al padre guardiano[28]»,
E quell'ariona di Montepulciano
Dove fa il nettar dell'etrusca gente
Lo ingrasserà come un porcel di piano.
Ma quando scrive al suo Venerosi l'ironia non gli basta; allora anche i frati levan le berze sotto la sua frusta. Essi odiano la fatica
Siccome il volo l'affricano struzzo,
e con la benedizione dell'uva, delle spighe e dei cavalli
Si fan provvista più della formica;
e conclude:
Ah cangia, Italia, i moccoli in bastoni,
E benedici lo suo gran bestiame
Dove vuoi, tutti a benedir son buoni.[29]
Però più che della loro furberìa e del loro sucidume s'inquieta della loro ignoranza. Un Tani ha rubato dei libri alla biblioteca di un convento di Roma; e la sua famiglia sta in pena per il processo. Egli scrivendo al suo Venerosi, manda a consolar la famiglia con pie parole, alle quali mescola una sua bizzarra difesa, della quale ecco una parte:
Ogni libro stampato, ogni scrittura
Si rodono le tarme nei conventi
Pieni di bestie solo da vettura.
Or che ha fatto il buon Tani? ha scossi e spenti
Quei bacherozzi, ed a migliori ingegni,
Alle bell'opre ai chiari studi intenti,
[28]
Gli ha dati a poco prezzo; ed atti indegni
Si diran questi? e saranno bastanti
Perchè l'onor di casa sua si spegni?
C'insegnò Cristo molto tempo avanti
A non gettar le margherite ai porci,
E il torle a loro sarà da furfanti?[30]
Talora dalle rime del Forteguerri spira un alito di quella satira edificatrice che dovea più tardi fiorire col Parini e col Giusti. Vede egli i perditempi e le fredde cerimonie del suo secolo, e scrive un Capitolo contro il Cicisbeismo, dove lodando la mala creanza, non fa sfoggio d'ingegno come i berneschi d'un secolo innanzi, ma esprime sentimenti, esagerati se vuolsi, ma vivi e veri. Vede l'abuso dei tridui e delle novene che allontanano le madri da casa e sviano gli uomini dal lavoro; ed egli, degno contemporaneo ed amico del Muratori, assale codesto abuso in un bel Capitolo, tuttora inedito, che incomincia così:
Uscir, Liborio, non vorrei di riga
In dire alcun sproposito solenne
E aver col sant'ufizio qualche briga.
La voglia di dir tutto e la paura di dir troppo, anche nell'intimità dell'amicizia, si manifesta spesso nei Capitoli, e quando le due voglie pugnano insieme, allora n'escono terzine come queste:
O quanti dentro al bagno di Livorno
Starieno meglio che dov'or si stanno
Con perpetuo di Roma affanno e scorno!
Ma qui m'azzitto, ancor che mi fa danno
Il trattener la bile che gorgoglia
Come nel tino le vinaccie fanno;[31]
[29]
sebbene codesta bile finiva sempre per traboccare; ed una volta uscì, a proposito della Curia, con questa suprema conclusione:
Però gli è tempo omai e venga ei pure
Che su quest'arbor da' maligni frutti
Io vegga un giorno balenar la scure.[32]
Tale era il voto sdegnoso del Prelato pistoiese, mezzo secolo innanzi le riforme leopoldine, e settant'anni avanti la rivoluzione di Francia! Io non so veramente come non avesse le brighe che egli temeva, da cui pure non si salvarono affatto altri suoi illustri contemporanei, e più di lui temperati, come Antonio Vallisnieri, Lodovico Antonio Muratori e Scipione Maffei.
Ma il Forteguerri fu anche un Arcade. Certamente. Com'era fatale che Niccolò nobile e terzogenito fosse prete, era anche fatale che Niccolò prete e impiegato della Curia romana fosse pastore arcade. D'altra parte, chi, anche dei più severi scienziati, non fu ascritto al famoso sodalizio?
..... In Arcadia nostra oggi son scesi
Così sublimi e nobili pastori
Che son di tutte le scienze intesi;
Ci son poeti, ci sono oratori
Che passan quelli degli altri paesi,
canta nel Ricciardetto[33] il nostro poeta; e noi dobbiamo ritenere che egli accogliesse con molto piacere la sua elezione accademica, che fu nel 1710 col nome di Nidalmo Tiseo.[34]
[30]
Se il Forteguerri non stava di mala voglia in Arcadia come nel sacerdozio, non è da creder però che egli fosse un pastore modello. L'obbligo perpetuo dell'argomento amoroso e della divisa pastorale non era per lui, animo libero e ingegno originale. Certo anche Nidalmo ha il diritto di avere un obiettivo femminile ai suoi sonetti amorosi, che nei più freddini si chiama Niside o Fille, nei più riscalducciati si chiama Dorinda (a cui è pur dedicato un grazioso Capitolo), ma in quelli di sentimento più vero ed umano si chiama Argìa e ispira sonetti come questo, che nel concetto fondamentale e nel colorito, ha piuttosto del foscoliano che dell'arcadico.
La rocca del mio cor non è più forte
Come soleva e gran nemici ha drento,
E già veggo per l'aspro tradimento
La deploranda sua ultima sorte.
Chè di Ragion le cure saggie e accorte,
Come nocchier ch'ha il mar contrario e il vento,
Non pon far sì ch'Amore a suo talento
Non apra com'ei vuol ripari e porte.
Anzi lo veggio in queste parti e in quelle
Spiegar la vittoriosa sua bandiera
E gridar Viva Argìa fino alle stelle;
[31]
E Viva Argìa gridar lieta ogni schiera,
E Ragion, posta tra le vili ancelle,
Pianger la persa signorìa primiera.[35]
Così degna e forte battaglia fa l'amore nell'onesto animo del Forteguerri, in un secolo, che o lo velava delle ipocrisie platoniche, o lo scopriva nelle indecenti arguzie del Conte Algarotti. Non voglio dire per questo che Niccolò andasse esente dal tributo di moda al platonismo; chè anzi la sua Canzone
Qualora io penso e qualor gli occhi volgo[36]
non bastò ad Angelo Fabbroni dichiararla fra le poesie di Niccolò la più pregiabile, ma volle anche soggiungere che è splendida, ingegnosa, elegante, nella quale più cose inserì tratte dalla più recondita filosofia di Platone.[37] Ma è notabile che il platonismo del Forteguerri non si rivela che nelle forme allora più afflitte dalla malattia accademica, come le Canzoni e i Sonetti, e mai nei Capitoli e nel Poema, dove l'espressione dei suoi sentimenti è sempre libera ed originale. Ecco, in prova di ciò, un'ottava del Ricciardetto (XXII, 33)
Però ridete pur quando ascoltate
Che son le belle donne come scale
Per girsene al Fattor che l'ha formate,
Perchè per esse a contemplar si sale
Le divine bellezze a noi negate.
Avanti del peccato originale
[32]
Forse questo accader potea nel mondo,
Ora son buone per mandarci al fondo.
Come poi la scortese dichiarazione di questa ottava possa mettersi d'accordo con la filosofia platonica della Canzone, sarebbe indiscreta domanda a un Poeta del settecento.
Del resto, pochi, mirabilmente pochi, sono i versi amorosi del Forteguerri, massime se si pensa alla fecondità della sua vena e al mal'esempio dominante.
Dopo l'amore, la religione. Parole e cose sante, ma che tradotte nel linguaggio dei settecentisti significano Arcadia e Gesuitismo, dalla cui unione nacque la numerosa e noiosa prole degli Applausi poetici per vestizioni, nozze e messe novelle.
Chi ha dovuto, come me, pescare per qualche pagliuzza d'oro nel loto delle Raccolte del 700[38], pur sorridendo talora, si sarà vergognato del punto estremo a cui è scesa la cultura italiana. Bassi e scempi gli argomenti, povera e spesso ridicola l'invenzione, sciatta, non senza pretensione d'arguzia, la forma. Vi si trovano dialoghi tra la Sposa monaca e il Demonio, dove i due interlocutori si vantano e si minacciano in senari sdruccioli che è un gusto a sentirli. Ci sono Canzoni distinte in capitoli e strofe; e in una di queste, che è un dialogo tra il Crocifisso e la Sposa monaca, la cosa va tanto per le lunghe che non avrebbe più fine se non intervenisse come terzo, e non davvero importuno per questa volta, l'Autore, che intìma alla Canzone di chetarsi per l'ottima ragione che «lingua mortale non può ridire lo sposalizio di lassù».
Eppure tutto ciò sarebbe ancora sopportabile senza le continue proteste, ora di cattolicità a proposito del linguaggio mitologico; ora d'ignoranza a proposito dei titoli e degnità de' poeti; ora di rispetto alla uguale eccellenza di tutti gli autori nonostante l'ordine tenuto nella Raccolta, poichè uno bisognava pure tenerlo. Or bene, [33] tra codeste bassezze morali, tra codeste forme false e puerili, il nostro Forteguerri è un gigante. Di rado egli scrive per le Raccolte, di radissimo per monacazioni, anzi soltanto quando non può farne a meno, perchè le monacande son sue nipoti; sebbene di queste gliene procurò tre in tre anni il fratello Atto. Della prima nipote egli canta umanamente così:
. . . . . Ella s'affanna e appella
Il Padre che non più sente vicino,
E s'industria a far lungo il suo cammino.
Ma il padre obbedisce all'avaro e crudele uso dei suoi tempi, e seguita a far monache le figliole, e invano lo zio mette fuori con garbo le comparazioni di Ecuba e d'Ifigenìa.[39]
A chi desiderasse la ragione prima di codesto uso, allora comune, delle forzate monacazioni, la svela il Forteguerri stesso in un Capitolo inedito, dove deridendo il miserabile fasto de' suoi contemporanei, conchiude:
Che se non fosse lui, Piero ed Antonio
Avrebber figli, e, chiuse in monastero,
Non si darien più monache al demonio.
Del resto gravi e solenni sono le tre canzoni accennate, e una di esse ha questa eroica introduzione:
Allor che Serse di cavalli e fanti
Vide ingombrato interminabil suolo
E disparire il mar di Salamina
Per le gran navi e i bianchi lin tremanti,
Fama antica ragiona come solo
Salisse sovra bella alta collina,
Ed ora alla marina
[34]
Gli occhi volgendo, ora alle tende sparte,
Desse un sospiro e lacrimasse un poco
Nel pensar che tra poco
Tutto doveva in cenere cangiarsi
Il fior di tante genti,
E quindi divenir gioco dei venti.
A chi di noi la movenza di codesto Serse non rammenta il Simonide del canto leopardiano? E ugualmente gravi e solenni sono le altre due Canzoni sullo stesso argomento.
Ma nè il Forteguerri nè alcun altro poteva con siffatti mezzi promuovere la riforma morale e letteraria del nostro paese.
Esterminare il cattivo gusto e procurare che più non avesse a risorgere non era cosa tanto facile e piana come parve a quel buon'uomo di G. M. Crescimbeni quando dichiarava il fine propostosi dalla nuova Accademia. Anche l'Arcadia rappresenta un periodo importante nella storia della nostra cultura, e lo rappresenta non tanto nella buona intenzione di curare la malattia quanto nell'errore della cura. Ella prese come segno di eccessivo vigore la turgidezza delle forme, e curò il male col dissanguamento, costringendo parecchie generazioni a morir di languore, da cui si salvarono, per singolare complessione, pochissimi fortunati. Ciò che veramente salvò dalla malattia secentistica e dalla cura arcadica le lettere nostre fu l'introdurvisi di due giovani e vigorosi elementi, lo scientifico e il popolare, i quali presero presto il di sopra, e divennero, come oggi sono, nerbo e sostanza della letteratura moderna. Centro dell'elemento scientifico fu la scuola galileiana con le sue accademie, le sue cattedre, i suoi libri; centro dell'elemento popolare, la satira, con la sua larga e libera accettazione degli schietti ed arguti parlari toscani.
Da qui innanzi l'ingegnosa ma spesso incivile poesia [35] bernesca cede il campo alla nuova satira contro le ipocrisie, letterarie, politiche e religiose; satira che ripigliando le traccie delle invettive dantesche e petrarchesche, delle ironìe dell'Ariosto e del Machiavelli, si determina in una forma semplice e precisa qual'è rimasta su per giù fino ai nostri giorni.
Stanno sulla soglia del secolo XVII e aprono la doppia battaglia, due poderosi ingegni, il Galilei e il Tassoni, e la seguitano valorosamente i galileiani e i satirici del secento e del secolo susseguente. Talora uno solo adopra le doppie armi, e Galileo stesso, tra le sue speculazioni scientifiche, crea nei Dialoghi il tipo del Simplicio (di cui non è che una graziosa caricatura il Don Ferrante dei Promessi sposi); nel Capitolo In Biasimo della Toga, dopo mille bizzarrìe sugli inconvenienti di quella veste, così morde le vanità professorali:
Se per disgrazia un povero Dottore
Andasse in toga e fosse scompagnato,
Ci metterebbe quasi dell'onore.
E se non è da trenta accompagnato
Mi par sempre sentir dalle brigate:
Colui è un ignorante smemorato.
Talchè sarebbe meglio farsi frate
Che almanco vanno a coppie e non a serque
Come van gli spinaci e le granate.
concludendo:
Sappi che questi tratti tutti quanti
Furon trovati da qualche astuto
Per dar canzone e pasto agl'ignoranti.[40]
[36]
Certamente non tutti i Satirici poterono, come i Galileiani, mettersi sotto la protezione dei Principi; che anzi dovettero non di rado nascondere i loro attacchi sotto la coperta, che non sempre bastò, della Poesia giocosa e dell'Apologo. Eran tempi codesti nei quali, come direbbe Tacito, perdemmo anche i nomi delle cose[41], e non sarebbe opera perduta ricercare i primi moti della satira civile moderna nei molti volumi delle Rime piacevoli del secento. A noi, lasciati da parte i poemi dei due grandi odiatori de' Gesuiti, il Nomi e il Moneti, e il San Miniato del Neri[42], basti accennar di codeste Rime qualche tratto dei più caratteristici. Al suo signore, che teneva stretta la borsa, così parla sfacciatamente Romolo Bertini:
. . . . . apra adunque le porte
Della pietate e non se la minchioni
Ch'hanno le Muse ancor bombarde e suoni.
Parole che ne richiamano altre, più degnamente ardite, di un prosatore moderno, Pietro Giordani, nella conclusione della sua Querela al governo parmense contro i Gesuiti.[43]
[37]
Anche Piero Salvetti ha luoghi satirici squisitissimi come quello sui re spodestati nel Lamento per la perdita d'un grillo:
. . . . . scappato d'Inghilterra
Più che di passo il re non mi contrista;
Di già gli è sulla lista
De' grandi ch'hanno a diventar piccini,
Che privati del Regno,
Se e' s'hanno a far le spese con l'ingegno,
Saranno spelacchiati cittadini,
E con tutta la loro autorità
Avran di grazia andar per Podestà;[44]
e quest'altro nel Soldato Poltrone che ricorda il famoso sonetto in dialetto romanesco del Belli, Er Civico de corata:
Di più per rincorarmi
Voglion ch'io porti addosso
Una carrata d'armi;
Ch'i' arrabbi se le posso.
E poi ve lo vo' dir: sarei codardo
S'io potessi vestirmi un baluardo.[45]
Ma chi più mi preme menzionare, tra i secentisti, perchè più dimenticato, è Niccolò Villani, pistoiese, detto l'Accademico Aldeano, antecessore del Redi col suo Ditirambo giocoso[46] (che a me sembra stupendo), e autore del Ragionamento sulla poesia giocosa de' Greci, de' Latini e de' Toscani, opera eruditissima e quasi sconosciuta ai moderni, che pur si mostran così propensi a questo genere di poesia. Sebbene religioso fino a scandalizzarsi dei troppi e troppo profani amori della Gerusalemme del Tasso, anche l'Aldeano ha poca stima dei [38] preti del suo tempo, che, secondo lui, sono menzogneri, amano le sottigliezze e i buoni bocconi e cantano come il nibbio, mio, mio[47]. Egli ha in mezzo alle sue Rime piacevoli due sonetti senza titolo, che mi sembrano una finissima e potente satira contro le due ipocrisie, tanto comuni in quel tempo, del disprezzo delle ricchezze e dell'ascetismo contemplativo. Come cose belle e non facili a trovarsi, li riferisco ambedue:
L'argento e l'or che ognun desira e chiede
E cui gran tempo accoglie, un ora sgombra,
Già non bram'io, che la lor luce adombra
L'anima sì che la virtù non vede.
E quanto se ne fan più ricche prede
Di pensier più molesti il cor s'ingombra:
[39]
Cresce l'oro il desìo com'arbor ombra,
E posseduto il suo signor possiede.
Pago e lieto io men vivo in rozzo speco,
Dell'oro prigionier non già prigione,
E libertate a me medesmo ho meco. —
Così cantando il pastorello Egone
Già per le selve, e d'ogn'intorno l'Eco
Gli rispondea dagli antri: Oh gran c...
* * *
Ad un vecchio di salcio arido stelo
Appoggiatosi Egon, fissi tenea
Gli occhi alle stelle, e nel suo cor dicea:
Oh com'è bello il tremul'or del cielo!
Oh come dolce il tenebroso velo
Pinge alla notte! Oh come avviva e bea
Questo mondo quaggiù, mentre in lui crea,
Tante forme animando, il terren gelo!
Oh che luce egli vibra ardente e viva!
Oh come certo, e senza errare, egli erra!
Ma quale è il Creator d'opra sì diva?
Deh perchè lui non veggio? E chi mel serra?
Or mentre contemplando ei così giva,
Si ruppe il salcio e diè del c... in terra.
Codesti sonetti nell'andamento e nell'improvviso della chiusa ne richiamano alcuni recentissimi del nostro bravo Fucini, come La Tavola girante e La meccanica universale. Ma quel che preme concludere è che tutta la satira sopra accennata va sotto il nome di Poesia giocosa, come sotto il nome di Rime piacevoli, vanno anche i Capitoli di Niccolò Forteguerri.
Nel secolo successivo, rimanendo fermo lo scopo antiautoritario, la satira piglia forme sempre più varie e moltiplici; ora grave e allegorica negli episodi dei poemi, ora svelta e leggiadra nelle canzonette e negli epigrammi, [40] ora sdegnosa ed ironica nei sonetti e nei Capitoli. Essa comincia a sentire la virtù dell'influenza popolare, la quale, al contrario dell'influenza accademica, è appunto varia e multiforme. Ma codesta virtù non dà subito frutti generali e adeguati. «Nella prima metà di questo secolo (osserva uno scrittore moderno)[48] agitata da tante guerre e mutazioni politiche alle quali i popoli soggiacquero senza prendervi parte, mal potevano trovar luogo le lettere; giacchè mancavano per dar loro vita e vigore, gli agi della pace e le passioni dei tempi burrascosi.» Ma se dopo la pace di Aquisgrana i nuovi dominatori, vista la necessità di sottrarre il nostro paese ai pregiudizi, agli errori, alle ingiuste disuguaglianze introdotte dal Governo spagnolo, poterono efficacemente favorire gli studi della giurisprudenza e della pubblica economia, e riformare gli stati, non fu certamente senza influenza della scuola satirica, specialmente in Toscana. «Può la satira (dice il Giusti) quando ha cessato di essere uno specchio delle cose che sono, rimanere a documento di quelle che furono, e in certo modo supplire alla storia.»[49]
Abbiamo veduto nei Capitoli la satira del Forteguerri; vediamo ora brevemente quella del Gigli, del Carli e del Crudeli, che furono, insieme al nostro, gl'immediati precursori del Gozzi, del Baretti e del Parini.
Girolamo Gigli (1660-1722) ha con la schietta favella tutta l'ingenua franchezza, gl'impeti passionati, le bizzarre fantasìe del suo popolo, più quello che non poteva mancare a un buon senese di quel tempo, un po' d'odio contro Firenze. I suoi scritti satirici sono molti e vari, in prosa e in versi, commedie e racconti, storie e aneddoti, ritratti e caricature. Notabile per bizzarria fra tutti questi scritti è il Gazzettino[50], e nel Gazzettino la diciottesima [41] Spedizione, contenente La finta conversione di Madama Adelaide, scrittura che compendia tutto il veleno della satira del Gigli. Laico e ricco, egli non ha i ritegni del Forteguerri a pubblicare i suoi scritti, e l'ingegno seconda mirabilmente la libertà dell'animo. Egli si ricongiunge per molte parti al Tassoni, da cui ha pure imprestato un nome, quello del Conte di Culagna per appiccicarlo al Conte Fede[51], gran bacchettone e amministratore di Cosimo III in Roma. Anche il Gigli ha il suo aristotelismo da combattere ed è la Crusca; il suo spagnolismo ed è la Compagnìa. E tutto ei fa servire da arnese di guerra, anche le opere filologiche, come il Vocabolario Cateriniano, contro di cui tanto si accesero le ire cruschevoli del Granduca da ordinarne un bel falò.[52]
[42]
L'ipocrisìa era per il Gigli la pestilenzia toscana,[53] e in Toscana era quello il secol d'oro della ipocrisìa; contro di essa dunque bisognava volgere tutte le ire. Nè con questo egli circoscrive troppo il campo delle sue pugne, perchè tutti gli altri vizi non sono per lui che una brutta famiglia di codesto mostro.
Mentre dice costui l'avemmaria
(è il poeta che parla a una Signora)
Ruba, uccide e distrugge, ed in quest'ora
Qualche bellezza a te vuol portar via.[54]
Tutti sanno l'orgoglio professorale de' Gesuiti; egli lo morde in un sonetto dove finge che un fanciullo, andatosi a confessare nella loro chiesa di San Vigilio, domandi al padre confessore il segreto d'imparare presto e bene il latino. Il Padre, allungando il dito verso un quadro rappresentante S. Anna che insegna leggere alla sua bambina, risponde:
Figlio, quella è la Vergine Maria
E non farà miracoli finch'Ella
Non venga a scuola nella Compagnìa.[55]
E dei danni della educazione gesuitica parla nelle liberissime ottave intitolate Il Seminario degli affetti, recitate nell'Accademia senese, presente Mons. Forteguerri, a cui toccan gli ultimi e iperbolici complimenti [43] del Poeta[56]. Il Gigli amava e stimava molto il nostro illustre concittadino, e se lo finge anche cooperatore nella sua spropositata corrispondenza da Roma col Cav. Luigi Medici fiorentino, che era un balordo e si teneva gran letterato.
Accanto ai Gesuiti mette il terribil senese i loro seguaci, o, com'ei li chiama, i Don Piloni, brutta e numerosa compagnìa di beghine, di barboni e di adoratori di San Cresci, il nuovo santo di Cosimo, che la Chiesa, con suo gran dispiacere, non gli riconobbe.[57]
[44]
Gli scritti del Gigli sono una delle più belle e forti proteste della libertà e dignità umana in un tempo nel quale di codeste virtù era perduto anche il nome, e tutto anzi il linguaggio dalle falsità accademiche era facilmente degenerato nelle falsità morali. Nè ci voleva meno di questa satira con fine certo ed accettabile anche dagli onesti; spesso trascendente a accenni scandalosi e a sfacciataggini personali; armata di stile appuntato non nelle officine dei grammatici ma sul lastrico delle vie, all'aere aperto e spazioso delle vecchie piazze plebee, per far risentire la putrida società toscana di codesto tempio.
Due cose sono veramente riprovevoli nella satira gigliana, una invincibile tendenza alla personalità, e la ipocrisìa delle lodi a Cosimo III, che era pure il gran protettore degli odiati Don Piloni. Del primo peccato lo assolve in parte la infelicità del secolo, che, fatto silenzio sui principii, anelava la satira personale che li adombrasse; al contrario del secol nostro che vuole, o almeno dice di volere, una pura discussione di principii. Oltre che il mal'esempio, ai tempi del Gigli, veniva dall'alto, e le sue Lettere al Medici non sono che una obbedienza al gran Principe di Toscana che pure ordinando la canzonatura dichiarava il canzonabile cavaliere di ottimi e cristiani costumi, e di nascita nella sua insigne patria delle più ragguardevoli, e per ambedue i capi meritevole d'ogni stima[58]. Quanto alle lodi al Granduca vorrei poter dire che sono un'ironia e la forma iperbolica vi si presterebbe, se non fosse comune in quel tempo. Pur troppo su questo punto è men difendibile che sull'altro della ritrattazione, fatta quand'era già povero e vecchio e dopo molte persecuzioni.
[45]
Con meno larghe e audaci intenzioni, ma con personalità anche più insistente, e però con arte che più sente la efficacia delle forme dialettali, procede la satira di Paol Francesco Carli (1680-1752). Egli da Monsummano, dove era Vice-Parroco, si recava spesso alla prossima villa Ferroni con tre o quattro amici per canzonare con impareggiabili sonetti Giovan Paolo Lucardesi, maestro del Borgo a Buggiano, prosuntuoso grammatico e poeta officiale di tutte le feste dei dintorni. A lui, col nome di Bietolone, è dedicata l'Accademia dello Scherno; per lui scrive Pier Francesco Bertini la Gianpagolaggine, prosa polemica miracolosa a que' tempi; per lui compone il Carli la Svinatura, e più arguti della Svinatura i Sonetti, dove torna ricucinato con mille salse sempre nuove e piccanti il famoso sproposito del Cristo crocifisso e trino messo dal Lucardesi in un sonetto per un Predicatore. Nessuno meglio del Carli seppe rapire le più tenui fragranze e i colori più vivi a codesto fiore della poesia popolare. Nativo e abitante di quella Val di Nievole, che un secolo dopo dovea produrre Giuseppe Giusti, non ha nè può avere di questo gl'intenti civili, ma ne ha il gusto infallibile e delicato. Le finezze della sua satira non si ritraggono per descrizioni; bisogna citar degli esempi. Eccone alcuni.
Ove il discorso sia un po' concitato e breve la proposizione, il nostro popolo ha non di rado l'uso della battologìa, uso ripreso da tutti i Vocabolaristi come vizioso, e che un mio caro e spiritoso maestro, Jacopo Jozzelli[59], chiamava, un parlare col manico. Il Carli, alludendo [46] sempre all'accennato sproposito del Cristo trino, adopra mirabilmente codesto vizio popolare, e mette in bocca a una vecchina questo lamento:
Uh! che gentacce, Vergine Maria!
Che cosa ha detto mai che cosa ha detto
Che voi gli abbiate a perdere il rispetto
E trattarlo con tanta scortesia?
Fare ad un prete simile angheria
Non cadde in petto mai non cadde in petto
Al più perfido ebreo che giri il ghetto,
Al turco più crudel della Turchia.
[47]
E che ha a durare sempre e che ha a durare
Questo bordello? Eh via, povero Prete,
Finitela e lasciatelo campare.
E che ha a 'mportare a voi e che ha a 'mportare
Se c'è tre Cristi o quindici? Gli avete
A far le spese voi gli avete a fare?[60]
E perchè questa è poesia che ha bandito ogni regola accademica e ogni frase del cassone, nè ha più formule fisse per determinare i confini e le quantità delle cose, come il Da Battro a Tile, gli espèri e i lidi eoi, le nottole di Atene e i vasi di Samo, gli spropositi di Bietolone son dichiarati innumerabili col seguente sonetto:
Non ha tant'agli Prato e Siena matti,
Sparagi Pescia e Scarperia coltelli,
Roma indulgenze e Montelupo piatti,
Fogli di carta Colle e Lucca ombrelli;
[48]
Non miagola in gennaio tanti gatti,
Non tanti il maggio ragliano asinelli,
Non son tanti pagliai di luglio fatti,
Nè si piglian d'ottobre tanti uccelli;
Non fa tante frittate la Certosa,
Non compon tanti impiastri un ciarlatano,
Nè tanti testi storpiò mai la glosa,
Quanti dice in latino ed in toscano
Spropositi solenni in versi e in prosa
Bietolon pedagogo da Buggiano.
Il Prete Lucardesi è per gli Accademici dello Scherno ciò che era il Cav. Medici per il Gigli e compagni. Anzi il Lucardesi ed il Medici hanno un canzonatore a comune in quella buona lana del medico Bertini, che al primo dedicava la Giampagolaggine, e al secondo dava i suoi responsi medici per il Gigli, il quale ce lo mandava per aver consulti sui suoi fierissimi dolori endecasillabi[61], di cui impietosiva il Medici con le sue lettere romane.
Bietolone sulle prime fece vista di non pigliarsi della canzonatura, e continuò a buttar giù versi e spropositi, tra cui quello di fare ammazzare, in un sonetto per monacazione, il gigante Golìa da Giuditta; sproposito raccolto subito dagli Accademici dello Scherno. La risposta prediletta del pedagogo buggianese era che gli autori de' sonetti non erano versati nella buona lingua, e il Carli rispondeva per tutti:
Non siam cruscanti noi, o Lucardesi,
E ce ne crepa il cor, ma sol ci basta
Quando vi diam del bue d'essere intesi.
Da questo momento il povero Bietolone non si può più muovere, che ha sempre addosso l'acuto sguardo del Carli. Cerca egli di scansarlo, e di attaccarla con altri, ma il Carli risponde sempre per tutti; e ogni festa [49] dell'anno, ogni atto vero e supposto del pover'uomo gl'ispira sonetti cari e terribili. Siamo all'Epifania, e il Poeta vuol fare la capannuccia. Ho quasi ogni cosa (egli scrive ad un amico) i Re Magi, i pastori, la Vergine, il Bambino,
Ma perchè non ho l'asino nè il bue
Mandatemi di grazia Bietolone
Il qual mi servirà per tutt'e due.
Si fa al Borgo una festa del Crocifisso, e s'intende che è il Crocifisso trino di Bietolone; ci è un pubblico banchetto, e il pettoruto grammatico è a sedere sopra un seggiolone di raso
Facendo pompa del suo grave aspetto
Alla sinistra del Gonfaloniere.
Il Poeta è nella folla, lo vede, e così entra ne' fatti suoi:
Ma perch'ei macinava a due palmenti
Senza pur dar ristoro all'ampia gola,
Io dissi ad un di quei ch'eran presenti:
Se fe' costui co' suoi goffi argomenti
Cristo in tre pezzi e oprò la lingua sola,
O pensa tu s'egli adoprava i denti.
Di così singolare scrittore poco è noto oltre il Ditirambo; e noi aspettiamo da quei valentuomini che posseggono MS. carliani, la pubblicazione di altre cose inedite.[62]
[50]
Nè molto più noto del Carli è Tommaso Crudeli, (1703-1745); e sentì certamente meno di lui la popolare influenza nello stile e nella lingua. Egli per questo lato più che al Gigli e al Carli si ricongiunge al Forteguerri, e rappresenta come questo gli sdegni del suo tempo con più serietà e vigore. Ma i suoi stupendi Apologhi ebbero men lieta fine dei Capitoli forteguerriani. Quando nel Gatto eletto giudice concludeva:
Lettor, tienti la favola a memoria,
Che se praticherai pe' tribunali
Ti passerà la favola in istoria;
[51]
non avrebbe mai pensato il povero Poeta che proprio a lui si sarebbe cangiata in istoria un'altra sua favola, quella della Corte del Re Leone, dove l'orso,
Non potendo soffrir quel tetro avello,
Il naso si turò, poco prudente.
Il favolista non era un cortigiano; aveva anzi renunziato la carica di regio poeta alla Corte di Napoli offertagli dal Tanucci, e i suoi lamenti poetici non avevano nemmeno quella velata personalità che talora si scorge, per citare un esempio illustre, anche nella satira ariostesca. Pur non ostante, per i suoi liberi scritti s'ei non fu direttamente mandato, come l'orso della sua favola, da Ser Plutone a fare il disgustato, fu cacciato nel maggio del 1739 nelle carceri della inquisizione di Firenze e poi nella fortezza da Basso; e, relegato da ultimo a Poppi, suo paese nativo, vi morì di dolore: ultima e memorabile vittima dell'inquisizione toscana.
Non fu certamente senza influenza di Francia questo nuovo e libero movimento della nostra cultura. Fan prova di ciò le dottrine quesnelliane attribuite con tanto operosa malignità da certuni e tanto inutile vantazione da certi altri, a molti e bravi preti toscani di questo tempo, e anche all'amico del cuore di Niccolò, Liborio Venerosi[63]. Ne fanno prova alcune forme letterarie rinnovate [52] di nuovo sangue, come le odi, le canzoni e i melodrammi; nè sarebbe forse nato senza il Tartufo di Molière il Don Pilone gigliano. Quanto agli Apologhi poi, tutti i favolisti di questo secolo sentono l'influenza di quelli del La Fontaine, e la Corte del Re Leone del Crudeli non è che la fedele traduzione della Cour du Lion del Poeta Francese.
Però non è da credere che tutto codesto movimento si debba ai nostri vicini d'oltr'alpe, come vanno spacciando coloro a cui giova dipingere gl'Italiani naturalmente pazienti d'ogni oppressione, e ne fanno quasi un vanto nazionale. La scuola galileiana e la nuova satira che si unì subito a lei sono una risposta trionfale contro codesti uomini, di cui le patriottiche intenzioni sono tutt'altro che dubbie. Il Crudeli stesso che abbiam visto negli apologhi così facile imitatore, e che al Carducci parve nelle odi conciliasse il sensualismo filosofico di Francia col naturalismo dei vecchi toscani[64], anch'egli, dico, sa trovare ispirazioni satiriche tutte italiane e dar forma paesana alla sua ironia, come quando improvvisa questo epigramma:
Due colombine intatte
Candide più del latte
Bella donna mi diede
In premio di mia fede.
Servo crudel me l'ammazzò ad un tratto,
Or voi v'indovinate
Che cosa n'abbi fatto?
Io me le son mangiate.
Stupenda satira contro le candide ipocrisie dei Pastori Arcadi e le loro bestiole predilette! Tanto più che per le colombe la cosa non procede netta come per gli agnelli, [53] dopo la famosa comparazione dantesca del V dell'inferno a proposito di due adulteri, poco castamente illustrata da Cristoforo Landino.[65]
Nei veri artisti l'influenza popolare spesso più che formale ed esterna è intima e sostanziale, resultante cioè da quel complesso di sentimenti e d'immagini, di costumanze e di tradizioni che disegnano la fisonomia d'un paese. Ho già accennato che la parte formale di codesta influenza fu sentita massimamente dal Gigli e dal Carli, in minor grado dal Crudeli, e men che tutti dal Forteguerri. La pratica degli affari e la lunga dimora in Roma han dato allo stile del prelato pistoiese maggior severità e comprensione, e alla sua lingua una più larga italianità. A conferma di ciò sarebbe superfluo ripetere citazioni già fatte dei Capitoli; ma perchè si potrebbe obiettare che in codesta satira fiera e sdegnosa anche lo stile è naturalmente grave e concitato, ricorriamo pure al Poema, e particolarmente a quel luogo del Canto XII dove Ciapino e Lisa improvvisano alcune ottave villesche. Leggiamo soltanto le prime due:
L'amore ch'io ti porto, Lisa mia,
La non è mica cosa naturale,
Io stimo ch'ella sia qualche malìa
Fattami da talun che mi vuol male;
Perchè a far nulla non trovo la via,
Se mangio l'erbe non ci metto sale,
Nè distinguer so il vino dall'aceto,
E penso andare innanzi e torno indreto.
La notte tengo spalancati gli occhi,
Nè si dà il caso ch'io li serri mai,
E in qua e in là a guisa de' ranocchi
Saltello per li palchi e pe' solai,
E grido come se il fuoco mi tocchi,
E tu la cagion se' di tanti guai,
[54]
Perchè s'io non t'amassi dormirei
Nè che cosa è dolore ancor saprei.
Non occorre, mi sembra, una profonda conoscenza dei diversi parlari toscani per intendere che codesta poesia non rende immagine di nessuno di essi in particolare, ma che tutta la lingua dell'uso le ha dato de' suoi colori e delle sue grazie. Eppure anche il bravo e buono Arcangeli, scrivendo di Jacopo Lori,[66] altro poeta compaesano, par che indichi il Forteguerri come squisito ammannitore di ghiottornìe toscane, e specialmente codesto luogo del Ricciardetto come fonte di vocaboli e modi pistoiesi!
Quello che veramente sentì il Forteguerri poeta, fu lo spirito innovatore de' suoi tempi; e le sue satire contro la Curia e la Corte romana, tanto più sincere quanto più fatte per la intimità epistolare, tanto più efficaci e precise quanto più lontane da ogni pretensione letteraria e ispirate dalla presenza dei fatti, completano e raffermano, e correggono ove occorre, gli ardimenti degli altri tre suoi contemporanei di cui abbiamo discorso. Della onestà, anzi della religiosità del Forteguerri, come della illibatezza dei suoi costumi, è generale la testimonianza; onde non senza ragione sul principio di questo scritto dicemmo che i suoi Capitoli danno carattere storico e autorità morale a tutta la satira toscana della prima metà del secolo decimottavo. Del resto alle querimonie e agli sdegni del Prelato pistoiese dettero sanzione solenne dopo scrupolose cautele e discussioni dottissime, non solo le riforme leopoldine e ricciane, ma anche i provvedimenti disciplinari di Pontefici grandi e venerabili come Benedetto e Clemente XIV. Dopo ciò, che dire di coloro che anche oggi, nello stato presente delle pubbliche credenze, dubitano della utilità di quelle riforme, e della salutare influenza del movimento letterario che le precedette?
[55]
Oltre allo spirito del tempo sentì il Forteguerri, come abbiamo accennato, l'influenza intima e sostanziale del popolo suo. Egli ha così bene equilibrate e contemperate le facoltà del raziocinio e della fantasia, che bene apparisce nativo di quel paese dove lo stornello fiorisce accanto alla più decisa attitudine alle scienze esatte, e rappresenta quanto all'animo ed all'ingegno il tipo pistoiese nella sua forma più elegante e perfetta. Alla perfezione dell'animo conferirono, l'abito signorile della famiglia, le elette conversazioni, le larghe e quasi cosmopolitiche relazioni che gli venivano dagli uffici curiali. Alla perfezione dell'ingegno, così bene elementato dalla natura, contribuirono i suoi studi legali, la cultura delle scienze fisiche e naturali, (di cui restano buoni saggi nelle sue prose), la scuola dell'Averani e del Marchetti, l'amicizia intima col Manfredi, e, più che tutto, la continua pratica degli affari; onde l'Autore del Ricciardetto potè finire la vita pubblica come l'aveva incominciata, con una missione diplomatica[67]. La qual cosa, se sarà cagione di stupore agli stolti, sarà nuova conferma pei savi che in codesta diversità e quasi contrasto di attitudini sta appunto la misura del vigore intellettuale così di un uomo come di un popolo.
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Salute e felicità
Non mi sono mai dimenticato, valorosissimo e virtuosissimo Aci, onore e gloria sempiterna d'Arcadia, di quella volta, che io passai da Bologna, che sono degli anni parecchi, dove ebbi la occasione di vedervi, e di trattarvi con tale dimestichezza, che mi lasciai indurre a farvi vedere alcune mie coserelle poetiche; e voi poi le voleste con le vostre lodi far grandi, e di più le faceste comparire alla pubblica luce. Da quel tempo dunque, conforme sapete, infino ad ora v'ho tenuto per mio Maestro; nè ho fatto cosa, che non v'abbia, siccome egli era di dovere, participato. Questa bontà dunque vostra verso di me mi vi ha obbligato di maniera, che stimerei di farvi torto, se vi celassi un accidente, che mi è succeduto di fresco, e per cui sono certo che avrò, in caso di bisogno, tutta la più valida e affettuosa assistenza da voi. E perchè sappiate la cosa tutta, incominciando dall'A. sino al Ronne, vi dirò come trovandomi del 16. di questo secolo 1700 in Pistoia mia patria nel gratissimo tempo dell'autunno; mi portai con tutti di mia casa in villa, per ivi attendere, conforme da ciascheduno si suole, ma da' Toscani specialmente, a diverse sorte così di cacce, come d'uccellari: e perchè la sera tutti i villeggianti di quelle collinette all'intorno venivano a veglia da noi, per essere la mia villa fabbricata quasi affatto nel piano, e quindi radunatisi insieme, alcuni di essi giuocavano, [60] alcuni stavano a vedere. Io, che di giuoco poco o nulla dilettomi, mi tratteneva separato da quelli in un'altra stanza con alcuni eruditissimi giovani; e quivi con esso loro quando leggeva il Berni, quando il Morgante, quando l'Ariosto, con un godimento veramente straordinario. Accadde una sera, che nel prendere qualche riposo dopo una ben lunga lettura, disse uno di que' giovani: Iddio lo sa, quanta fatica sarà ella costata agli autori di questi Poemi, non dico la fabbrica d'un Canto intero, ma d'una dozzina d'Ottave. Certa cosa si è, che quanto maggiore apparisce in essi e la facilità, e la felicità de' versi e delle rime, altrettanto sudore egli è stato sparso da loro. E gli altri che quivi pur erano, lo stesso ad una voce affermavano. Io meno accorto, o senza dubbio più animoso di tutti loro, mettendo la cosa in riso: Affè (dissi) ci avranno sudato essi meno, che voi per avventura non vi credete; avvegnachè nel poetare, se non tutto tutto, almeno più della metà si debba alla natura, e colui, che non sia da essa benignissimamente aiutato ed assistito, può lasciare a sua posta un così nobile e dilettevol mestiere, e darsi a qualche altro esercizio, dove signoreggi più l'arte, che la natura. E perchè le parole non s'infilzano; io, che sono pronto a provarvi co' fatti quanto di presente vi dico, vi prometto portare un Canto domani a sera, mescolato dello stile di tutti e tre, giacchè la natura m'è stata piuttosto liberale, che scarsa de' suoi graziosissimi doni. Fu con lieto volto accettata la mia promessa da tutti, e quello che è peggio, finita la cena, e ritiratomi in camera, puntualmente la mantenni; e la susseguente sera lessi il nuovo Canto, e fu ascoltato con piacere non ordinario.
Qui, gentilissimo Aci, pareva che dovesse terminare questa mia, non so se io dica o prova d'ingegno, o leggerezza di mente; ma di qui giusto ebbe principio, mezzo e fine un Poema di trenta Canti, nel corso di pochi anni, ed a tempi rotti, ed avanzati alle occupazioni più gravi. Teneva dunque questo mio Poema legato rozzamente sopra d'un tavolino, dove per lo più soglio scrivere: quando eccoti un uomo da me conosciuto appena di vista, ma che aveva grido d'esquisitissimo letterato, [61] il quale postomisi a canto a sedere, interrogommi di molte cose; alle quali ho io brevemente risposto, siccome era desiderosissimo di spicciarmene; ed egli che forse si era di ciò avveduto, stava per alzarsi in piedi e partire. Quando dette d'occhio su quel mio benedetto libro, e mi richiese che cosa egli si fosse; ed io sorridendo: Egli è un Poema nuovo (gli dissi) tirato giù in fretta, ed alla peggio, e per puro divertimento da un mio carissimo amico il quale ha voluto piuttosto onestamente spendere in questi dolcissimi studi quelle ore, che gli altri senza valutarne la perdita gettano via, o ne' pazzi amori, o ne' pericolosi giuochi, o nelle inutili conversazioni, ancorchè la malignità de' tempi sia tale, che non si stimi altro tempo perduto che quello solo, che nelle belle arti consumasi. A questa voce egli mutossi subito di colore, e fieramente turbatosi prese di tal maniera a divincolarsi ed a sbattersi, che lo credetti invaso dal fistolo, o tormentato da qualche stravagante malore: e, preso con furia quel disgraziato libro, gettollo sopra il tavolino, e volendo alcuna cosa dire, per la sfrenata rabbia non poteva formar parola, ma a guisa d'un calabrone rinchiuso in un fiasco, o d'un pajuolo che forte bolla, egli era il suono delle sue voci incomposte, talchè mi s'ebbe a gelare il sangue nelle vene per lo spavento. Ma sfogato ch'egli ebbe un tal poco l'impeto dell'ira sua maladetta: Sapete voi (con torvo sopracciglio mi disse) che cosa vuol dir Poema? Ed io a lui, così sbalordito com'era: Lo so, e non lo so (subitamente ripresi) vo' dire, che lo so tanto quanto, da poter anch'io mettere il becco in molle; ma non ne so in modo da farne il maestro, come forse e senza forse lo farete voi. Ed egli con le labbra sbiancate, che gli tremavano tuttavia, come se vi avesse il parletico: Dite pur francamente di punto non saperne; perchè se lo sapeste, avreste lacerato su gli occhi stessi di quel vostro inesperto e semplicissimo amico il libro che egli vi diede; e se foste del temperamento collerico, che son io, gli avereste fatto ancora qualche altro scherzo più tristo. Ed io a lui: Iddio non voglia mai, che si faccia alcuno benchè minimo dispiacere a quel galantuomo, onorato e da bene; anzichè lo possa io vedere [62] ogni dì più prosperato e contento. Ora non sapete voi (seguitò egli sdegnosamente a dire) che il Poema epico è la più grande, e la più bella, e la più ammirabile cosa, che s'abbia la Poesia, ed è l'opera dell'umana mente la più nobile e la più perfetta? Tutta la sublimità degl'ingegni i più stupendi appena può esser bastevole a sopperire di tutto ciò che abbisogna ad un Poeta eroico. La difficoltà sola di trovare un giudizio, una fantasia, un sangue così ben temperato di caldo e di freddo, cioè d'impeto e di posatezza, cagionano la rarità di questo carattere, e di questa mescolanza felice, che fa il Poeta perfetto. In somma per ben riuscire in un Poema, ci vuole un giudizio sì saldo, un discernimento sì fino, una cognizione così intera della lingua nella quale si scrive, uno studio così costante, una meditazione così profonda, una estensione di capacità così vasta, che gl'interi secoli appena possono produrre un ingegno atto alla tessitura d'un buon Poema: ed è, a dirvela in due parole, una impresa di tanto ardire e di tanta malagevolezza, che ella non può venire in mente ad alcuno senza atterrirlo e spaventarlo. E voi mi dite, che questo è un Poema? e che è stato fatto in pochi anni, e per puro divertimento? e quello che è più strano, d'avanzugli e di ritagli di tempo, come de' menomi scampoli de' sartori le povere vesti loro i baroni si fanno? E qui tornò a strapazzare il mio libro, ed a sbatacchiare le mani sul tavolino con sì poca grazia, che buttommi il calamaio e il polverino per aria, che poi tornato all'ingiù capivolto scarabocchiommi delle scritture parecchie. Nulladimeno sembrando a me, che egli avesse ragione da vendere, stetti chiotto chiotto, e tacitamente meco mi rallegrai di non essermegli scoperto per autore di quel benedetto Poema. Quindi per non parere d'essere un piccione di quei di gesso, o d'aver lasciato la lingua al beccaio: Per verità io non credeva (gli dissi) che ci volesse tanto per essere un bravo tessitor di poema. Ed oh non avessi aperto mai bocca, che egli a questo mio dire diede la stura alla piena, e m'ebbe ad affogare; massime allora, che messe ambe le sue mani su le mie braccia, e con la testa sua quasi toccante la mia, ferocissimamente esclamò: [63] Non ho neppure cominciato a dire quello che vuolci, per fare un vero e perfetto Poeta. Imperocchè vuolci, oltre a ciò, che poco fa dissi, una mente che esca affatto da' limiti dell'ordinario, ed uno spirito che abbia più del celeste, che del terreno; acciocchè possa muovere gli affetti, e cagionare que' trasporti d'ammirazione che si aspettano dalla vera Poesia. Nè questo per avventura egli è il tutto: avvegnachè due fini si abbia da proporre il Poeta, cioè uno di arrecar diletto, l'altro di apportar giovamento. E qui sorgono due spaventose montagne, che quasi niuno giunge a salirle; e dove ancora i nobilissimi ingegni per mancanza di senno si perdono; e sovente alle radici delle medesime, dopo d'averne sormontata gran parte, vergognosamente precipitano. La vera maniera dunque del dilettare consiste nella mozione degli affetti; imperocchè quel movimento egli è cosa gratissima all'anima, che gode della mutanza degli oggetti, per compiacere alla immensità de' suoi desiderj: e quindi, per ciò più facilmente ottenere, si serve del numero e dell'armonia, anima i suoi ragionamenti con maniere ed espressioni vivissime, permette alla sua immaginazione una pienissima libertà, e tutto quello che dice, lo dice con ornamento e vaghezza, formandolo da tutto ciò, che gli è più aggradevole nella natura degl'Idoli graziosissimi; de' quali nel Poema quanto la frequenza è maggiore, egli tanto più viene a riuscire dilettevole e grato. In fine ella, ad oggetto di piacere, è grande nelle sue idee, sollevata nelle sue espressioni, ardita nelle parole, appassionata ne' suoi movimenti, e si studia di comparire in qualunque sua parte tutta colma di bellezze, di grazie, di fiori e di leggiadrie. E questo diletto tanto più si dee riputare degno di stima, quanto che il buono e costumato Poeta lo fa servire a rendere la virtù (la quale ha sempre a prima vista dell'austero e dell'aspro) oltremodo grata e soave; distinguendosi in questo ancora la Poesia dalle altre Arti, le quali senza punto pensare al dilettevole, pongono tutta la cura loro nell'ammaestrarci nell'utile e nell'onesto: lo che essa facilmente ottiene col proporci spesso diversi esempi di grandissime virtù, e d'enormissimi [64] vizj, incitando gli uomini per tal via all'amore ed alla imitazione di quelle, ed all'odio ed alla fuga di questi. Ma una tal maniera di dilettare ella è delle più scabrose cose, e delle più difficili della Poesia. Imperocchè consistendo principalmente il diletto nella novità, che è madre della maraviglia, e questa per lo più nascendo dal finto, conciossiacosachè non vi può essere cosa alcuna mirabile, se non fuora del corso ordinario della natura, ed il finto avendo obbligazione di comparir verisimile, cioè, non discordante dall'opinione comune; chi non vede la grandezza e la malagevolezza dell'opera? Mentre egli così diceva, vi giuro, Aci, per i monti, per i boschi, e per i fiumi più sacri e più rinomati di Arcadia, che m'era già tirato il miserabile mio Poema sotto del tavolino, e messomelo fra le gambe con animo deliberato di strapparne ora uno, ed ora un altro foglio (come le donne, dopo che hanno tirato loro il collo, s'arrecano in grembo o le galline, o l'anitre per pelarle) e di non parlare giammai più di lui, come d'una memoria se non infame, almeno infelice. Nientedimeno come i padri de' figliuoli o storpi, o scempiati sono sempre padri, e di mala voglia s'arrecano a strapazzarli; così ancor io andava a rilento a fare in brani quella mia ancorchè goffissima creatura; quando m'avvenne cosa, che (conforme udirete) mi fece mutare a un tratto di sentimento, e mutare in modo, che sarei pronto a far questione con chi volesse lui torcere un sol capello.
I Greci soli (riprese egli in un tuono veramente grave e sonoro) hanno spianata questa difficoltà; perchè essi unicamente appresero per se stessi, ed insegnarono agli altri l'arte maravigliosissima di tessere il finto col verisimile, e cagionare per esso tutto quell'incredibil diletto, che dall'ammirabil deriva: e per non divagarmi e confondermi nella moltiplicità degli esempi, vi ridurrò a memoria quel terribile cangiamento della afflittissima Niobe in sasso; mutazione la quale (come vedete) esce fuora del tutto dal corso della natura, ma che però nel medesimo tempo non ha cosa alcuna d'inverisimile, conciossiacosachè la potestà di cangiamento sì strano ad un celeste nume si ascriva. Ma non così hanno [65] pensato, nè in così fatta maniera (a dirla chiaramente fra di noi) si sono regolati i nostri Poeti Italiani, e l'Ariosto in primo luogo, il quale in questo genere ha così sconciamente mancato, che quel suo Poema dell'Orlando Furioso non si merita altro nome, che d'un confuso ammassamento d'immaginazioni pazze e stravolte, non di Poeti ingegnosi, ma di ammalati frenetici, le quali spogliate affatto d'ogni colore verisimile, muovono piuttosto a compassione, che a diletto gli uomini d'erudizione e di senno. In quanto a me che l'ho letto e riletto non ho saputo mai capire, come per esso si sia non solo per tutta l'Italia, ma per tutta la Francia, e per la Spagna ancora alzata una nominanza sì celebre; nè come mai egli s'abbia per queste nobilissime nazioni avuto tanti imitatori, di modo che per esso si è guastata e perduta, e tra loro e tra noi, tutta l'arte del ben poetare; quando per altro non sarebbe mancato loro per esempio d'un ben fatto Poema l'Italia liberata del Trissino, che a mio giudizio è l'unico fra noi, il quale s'accosti alla perfezione del Poema. Imperocchè in esso e vi sono moltissime di quelle cose, che egli debbe avere, e nessune di quelle, delle quali doverebbe esser privo: avvegnachè nè vi sono gli anelli, che rendono altrui invisibile; nè i gigantoni ben tarchiati e paffuti; nè le femminelle, che vestite di piastra e di maglia facciano mirabilia con lancia e con spada; ed altre simiglianti bestialità per le quali ne va sì pettoruto e sì gonfio quel buon Messer Lodovico, il quale è tanto lontano dal meritarsi nella savia e ben purgata opinione degli eruditi il nome di buon Poeta, che essi appena appena gli accordano quello d'un Versificatore felice.
Nel mentre che egli così pazzescamente bestemmiava, non vi potrei dire, riveritissimo Aci, le strane cose che mi passarono per la mente. Pensai infino di mettergli le mani addosso, e col temperino che aveva lì pronto per acconciare le penne, fargli un brutto sette sul viso, per insegnargli per un'altra volta a parlare con più giustizia delle persone di merito. Ma pure per non guastare così in un subito i fatti miei, repressi gl'impeti del giusto sdegno, e con sembiante tranquillo: Signore (dissi [66] lui) che cosa avete detto mai? Per verità tutt'altro mi farete voi credere, che quello che è stata vostra intenzione di persuadermi. Io vi meno buono, quanto avete detto di grande e di sublime intorno all'epica Poesia; e vi meno buono altresì, che rarissimi siano quegli ingegni, che possano tessere un bel Poema; e conchiudo con esso voi, che i due fini principalissimi dell'epica Poesia sono il dilettare e il giovare; anzi v'aggiungo, che quel Poema sarà il più bello ed il più perfetto, che sarà più ripieno di cose, che diletteranno e saranno giovevoli insieme: ma per questa ragione appunto io non solamente mi discosto, ma del tutto mi divido dalla vostra, non so se invidiosa e maligna, ma certissimo stravolta opinione, che avete conceputa dell'immortale, ed in ogni tempo celebratissimo Ferrarese; e siccome, mentre avete voi favellato, non siete stato giammai da me interrotto, così usate meco altrettanto di cortesia nell'udire le ragioni, per le quali pretendo che voi siate in un manifestissimo errore. Nè dubitate che io sia per dilungarmi troppo; perchè (conforme vi è noto) il vizio, o forse la necessità d'essere oltre modo prolisso, egli è per ordinario il solito rifugio di tutti coloro, che conoscendo di avere il torto, si lusingano di oscurare la verità con le ciarle. Voi avete detto, che nel dilettare principalmente consiste la bellezza del Poema epico, e che la novità e la maraviglia, il verisimile e il finto ben regolati e ben tessuti, cagionano una soavità ed un piacere così maraviglioso nelle menti degli uomini, che li leva affatto fuora di se stessi, e li conduce dovunque aggrada all'ingegnoso Poeta: ed in prova di questo raro mescuglio di mirabile e di verisimile, avete portato il cangiamento di Niobe in sasso; cosa rara, come ognun vede, e perciò maravigliosa, ma fattibile, perchè operata da un Dio, e perciò verisimile. O siate mille volte benedetto! e udite pazientemente quello che sono per dirvi. Se quel Poema sarà il più bello ed il più compiuto, che arrecherà diletto maggiore; bisognerà pure che voi confessiate, che il Poema dell'Orlando Furioso sia sopra d'ogni altro bellissimo e perfettissimo. Ma voi crollate la testa, e sorridete? L'Ariosto (al vostro dire) con le sue fantasie [67] ed immaginazioni bestiali si è tirato appresso tutta l'Italia; que' suoi Ippogrifi, quegl'incantesimi, que' sogni d'ammalati frenetici, che fanno compassione agli uomini di senno, si leggono da ogni genere di persona, non solamente senza nausea e senza ribrezzo, ma con una incredibile avidità e piacere. Alle mense de' gran Signori si cantano per rallegrarli le sue leggiadrissime Ottave; ne' ridotti degli uomini letterati, chi recita l'impazzamento d'Orlando, chi le querele d'Isabella, chi le smanie di Mandricardo, chi il tradimento di Olimpia, e chi altro simile avvenimento. Ma che spendo più parole, e parlo di letterati e di signori? I marinai, i vetturini, le donnicciuole stesse, mentre quelli viaggiano, e queste tessono, scemano il peso delle fastidiose lor cure col cantare i versi dell'Ariosto; là dove del vostro Trissino, per nobilissimo Poeta ch'egli si sia, come spogliato di quel saporitissimo dolce, che tanto piace, non è alcuno che ne parli, ma viene egli consumato dalla polvere e dalle tignuole, e lasciato non altrimenti in un canto, che dagli amorosi giovani nelle strepitose feste di ballo alcuna curva vecchierella e bavosa. A che dunque, per vita vostra, attribuirete voi questa sfrenata voglia, che accende gl'Italiani tutti di leggere, o di udir leggere l'Ariosto, e quella avidità insaziabile di vederne, se essi potessero, il fine senza punto d'interrompimento? Non ad altro certissimamente che a quell'infinito piacere, che inonda gli orecchi e gli animi di tutti coloro, che lo leggono; il quale piacere (come voi pure diceste poco fa) è di tanta possanza, che ha tirato a se con la dolcissima sua violenza non solamente gl'Italiani, ma gli uomini ancora di là dall'alpi e dal mare: cosa appresso di me cotanto mirabile, che non ho parole da spiegare la stima e la venerazione, che io ho per quel gloriosissimo e divino Poeta. Poter di Giove! Quale bellezza mai Greca o Latina, vista e rivista dagli uomini, avventò così gran copia d'amorose fiamme ne' petti loro; come poco o nulla veduto (per così dire) ha di se l'Ariosto invaghito la maggior parte, e la più coltivata d'Europa? Imperocchè, toltine noi altri Italiani, e quelli tra di noi d'un gusto più raffinato nelle lettere, chi vi è o Francese o Spagnuolo, [68] che possa mai essere un ottimo conoscitore delle tante bellezze, che fanno bellissimo l'Ariosto? Certa cosa si è che per molto studio che si faccia da noi in una lingua forestiera, non si giunge mai a penetrarne quell'ultima bellezza, che vi sanno conoscere solamente quelli, che in essa nascono, ed in essa si studiano di comparire. Se dunque i nudi segni, e senza bellezza di contorno, senza varietà di colori, senza aria, senza gradazione, e senza quella simmetria, che risulta dal tutto, hanno potuto tanto in quelle straniere nazioni, che maravigliosi amori avrebbero in esse risvegliato, se li potessero vagheggiare, siccome noi, nella loro perfezione e nella loro propria veduta? Ma discendiamo al particolare, e vediamo se veramente quelle, che voi chiamate stravaganze e bestialità nell'Ariosto, sono tali. Voi dite che quegl'Ippogrifi non li potete soffrire; ma non mi dite il perchè. Patite voi forse di vertigini? e quello immaginarvi di volare vi conturba forse e spaventa? Se questo egli è, purgatevi, e prendete a bere del vino amarissimo, dove abbia bollito per molto tempo l'assenzio: che così confortato di testa potrete leggere con quel piacere, che leggo io il volo del fortunato Ruggiero con la sua bellissima Angelica in groppa. Ma se poi vi dispiace come una finzione non verisimile; per questo motivo avete il torto, sì perchè appresso i Poeti è antichissimo il cavallo Pegaseo, sì perchè il forte Perseo assai prima di Ruggiero aveva liberata, stando sopra d'un alato cavallo, Andromeda legata al duro scoglio. L'anello, che rendeva invisibili tutti coloro che sel tenevano in bocca, l'armi fatate, i palagi incantati, e cose simili, voi li chiamate sogni e delirj d'ammalati frenetici. Non è così? Ma ditemi per vita vostra: per qual motivo ho io da lodare come bellissimo il ritrovamento di cangiare Niobe in sasso, e debbo vituperare tutte queste altre invenzioni dell'Ariosto? Perchè (dite voi) nel cangiamento di Niobe vi ebbe mano alcun Dio. Ed io vi soggiungo, che nelle cose straordinarie dell'Ariosto vi hanno avuto mano ben parecchi Demonj, la potestà de' quali ella è infinitamente maggiore di quello, che noi possiamo pensare. Sicchè nè pure per questo capo si rende l'Ariosto spregevole. [69] Vi danno fastidio i giganti? Ma forse temete voi di essere condannato a rivestirli, e fare loro le spese? Sono essi forse un ritrovamento dell'Ariosto, di modo che solo abbiamo avuto notizia di costoro per mezzo suo? Essi (come ben sapete) sono antichissimi, ed è di Fede, che sonvi stati. Ma (direte voi) non così grandi. State zitto, che hanno bevuto più grosso di noi i nostri antichi; e basti per convincervi quel solo gigante, chiamato Encelado, che tiene il capaccio sotto il Vesuvio, la sterminata pancia nel mare, e le grandissime cosce co' mostruosi piedi sotto Etna: che se siete buon Geometra, voi vedrete che egli è un gigante da non misurarsi col passetto, ma con la scala de' gradi a maniera delle provincie. Ora di questi l'Ariosto non solo non n'ha veruno, ma a mettere tutti i suoi giganti insieme per largo e per lungo, non prenderebbero tanto spazio, quanto vi corre dal bellìco all'inforcatura di questo sol gigantaccio. Ma che accade, che io più mi distenda sopra di ciò; quasi che voi non sappiate che sorta di smisurati bestioni fu quella, che mosse la formidabile guerra a Giove; dalle mani de' quali uscivano sassi così sterminati, che se cadevano in mare, formavano l'isole, e se cadevano su la piana terra, formavano i monti. Tutte cose, padron mio garbatissimo, da fare sbalordire un mulino a vento che sempre gira, non che un uomo di qualche senno; e pure sono migliaia d'anni, che sono state dette, e forse credute, e nessuno fino a qui si è preso collera, nè si è voluto sbattezzare per causa loro, conforme per molto meno mi avete cera di volere far voi.
Della bravura poi delle Bradamanti e delle Marfise, che a voi pare sì stravagante, e che vi rivolta lo stomaco, e v'amareggia il palato, io non voglio parlarvene; perchè non merita riguardo alcuno questo vostro dispiacimento, essendoci state infinite donne, e nella destrezza delle persone, e nel valore dell'armi celebratissime. Ma penetriamo un poco la materia più a dentro, e vediamo che cosa hanno preteso i Poeti con queste loro invenzioni.
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Questi draghi fatati, questi incanti,
Questi giardini, e libri, e corni, e cani,
E uomini salvatichi, e giganti,
E fiere, e mostri ch'hanno visi umani,
Son fatti per dar pasto agl'ignoranti:
Ma voi, che avete gl'intelletti sani,
Mirate la dottrina, che s'asconde
Sotto queste coperte alte e profonde.
Le cose belle, preziose e care,
Saporite, soavi e delicate
Scoperte in man non si debbon portare,
Perchè da' porci non sieno imbrattate.
Dalla natura si vuole imparare,
Che ha le sue frutte, e le sue cose armate
Di spine, e reste, e ossa, e buccia e scorza
Contro la violenza, ed alla forza
Del ciel, degli animali e degli uccelli;
Ed ha nascosto sotto terra l'oro,
E le gioje, e le perle, e gli altri belli
Segreti a gli uomin, perchè costin loro:
E son ben smemorati e pazzi quelli,
Che fuor portando palese il tesoro
Par che chiamino i ladri e gli assassini,
E il diavol, che li spogli e li rovini.
Poi anche par, che la giustizia voglia,
(Dandosi il ben per premio e guiderdone
Della fatica) che quei che n'ha voglia,
Debba esser valente uomo, e non poltrone;
E pare anche che gusto e grazia accoglia
A vivande, che sien per altro buone,
E le faccia più care e più gradite
Un saporetto, con che sien condite.
Però quando leggete l'Odissea,
E quelle guerre orrende e disperate,
E trovate ferita qualche dea,
O qualche dio, non vi scandalezzate:
Chè quel buon uomo altro intender volea
Per quel che fuor dimostra alle brigate,
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Alle brigate goffe, agli animali,
Che con la vista non passan gli occhiali.
E così qui non vi fermate in queste
Scorze di fuor, ma passate più innanzi;
Che se esserci altro sotto non credeste,
Per dio areste fatto pochi avanzi,
E di tenerle ben ragione avreste
Sogni d'infermi e fole di romanzi.
Or dell'ingegno ognun la zappa pigli,
E studi, e s'affatichi, e s'assottigli.
(Berni, Orlando Innamorato, l. I, c. 25)
Sicchè dunque, per venire alla conclusione, non è poi l'Ariosto un Poeta così triviale, come lo fate: anzi se non volete impugnar la verità conosciuta, egli è senza fallo uno de' primi lumi della volgar Poesia.
Forse soggiungerete: Egli non ha osservate tutte le regole, che sono state poste al componimento del Poema epico, e che però per dolce e soave ch'egli si sia, non gli si debba guardare in viso; anzichè di gran lunga posporlo a qualunque Poemetto arido e disgustoso, ma fatto con regola. Su questo punto io non voglio attaccar briga nè con voi, nè con altri; ma servirà per rispondervi (quando mi promettiate di non averlo per male) la narrazione d'un certo Apologo, che a me pare che al caso nostro mirabilmente egli faccia.
Avete dunque da sapere, che vennero un giorno a lite fra di loro, a cagione del canto, il Rusignuolo e il Cuculo, stimandosi l'uno all'altro d'essere superior di gran lunga. Diceva il Cuculo, che il suo canto era continuato, naturale, e con misura? Il Rusignuolo asseriva aver egli assai più armonia di quella, che qualunque altro uccello s'avesse: e quindi per non venire alle brutte, si conchiuse tra di loro di rimettere il loro litigio al giudizio d'un terzo, qualunque si fosse; e preso il volo, nel passare sopra un verde prato, vi scorsero un solennissimo Asino con un pajo d'orecchi, che erano poco meno di mezzo braccio l'uno. Onde tutto lieto il Cuculo: Non andiamo più innanzi (disse al Rusignuolo) che i pietosi [72] Dei ci hanno fatto dare nel giudice; perchè consistendo tutta la scienza di questa materia nell'udito, chi meglio di lui potrà dare una giusta e ben proporzionata sentenza? E detto fatto, se ne volarono sopra un basso arboscello di pere, e sopra i suoi rami, stretti su l'ale si stettero, e quindi umilmente pregarono l'Asino che dar volesse un incorrotto giudizio sopra la loro quistione. L'Asino, che aveva più voglia di mangiare, che di fare da giudice, appena alzò la grave testa da terra, e ritornolla ad abbassare, e date un pajo di strepitose crollate d'orecchi, fece capire a' due litiganti, che per quel giorno non teneva giustizia: ma essi lo pregarono tanto, che egli per fine levatosi dal pascolare, tenendo alta la testa, e gli orecchioni ritti ritti, a maniera di lepre quando cammina: Cantate via (disse loro) e spacciatevi; che come ascoltati io vi averò, vi dirò subito il mio debole sentimento. Il Cuculo si mise il primo in assetto, e disse: Attendete ben, Signor giudice, alla bellezza del canto mio, che in questo punto udirete; e sopra il tutto badate all'artifizio, con cui lo compongo. E quindi fatto otto o dieci volte cu cu, gonfiatosi alquanto, e scosse tutte le sue penne, si tacque. L'Usignuolo allora senza usare verun proemio, incominciò il suo graziosissimo gorgheggiare, e tanta varietà, bellezza, armonia risultava da' suoi soavissimi versi, che non vi era fiera in quei boschi, che tratta dall'incredibile dolcezza che da loro pioveva, a lui non corresse; e nel mentre che egli s'andava vieppiù nel suo canto ingolfando, il giudice annoiato dalla lunga pruova, mandato fuora un villanissimo raglio: Egli può essere (disse al Rusignuolo) che il tuo canto abbia più grazia di quel del Cuculo; ma quel del Cuculo ha più metodo.
La favola significa. Padrone mio bello, che secondo la sentenza di quel giudice da quattro piedi, io ho tutti i torti, e voi avete tutte le ragioni; e siccome io non m'affanno per aver perduta la causa, così prego voi a non v'incollerire per averla vinta: anzi vi consiglio a darvi pace, e stare allegro, e ad industriarvi a sputar dolce, con tutto che mastichiate del fiele; e giacchè ho preso qualche confidenza con voi, e che a dirvela giusta non [73] mi fate punto paura, vi vo' dire in segreto una cosa che vi farà certamente maravigliare. Quel Poema, che v'ha mosso i vermini, e v'ha fatto tanto scorrubbiare contro di me e contro del mio amico, sappiate ch'egli è farina del mio sacco, opera delle mie mani, e in una parola che l'ho fatto io, e l'ho fatto a pezzi e bocconi, conforme m'è paruto e piaciuto, e sono andato avanti (come si suol dire) a occhi e croce, nè ho pensato più che tanto alle regole, ed a' precetti, ma solamente ho avuto un certo discernimento di non fare qualche cosa di mostruoso, cioè a dire di non fare un corpo con cinque o sei capi, ma con un capo solo, e così dell'altre parti, che, data proporzione, ad un ben fatto corpo convengonsi. Del resto io non ho avuto altro fine, che di piacere, e principalmente a me, e poi di mano in mano a coloro, che forse una volta lo leggeranno. Imperocchè gli uomini, quando sono veramente oppressi o dal peso delle fatiche o dalla malvagità della fortuna, o dalle pubbliche cure, vogliono rallegrarsi: e siccome la maestra natura conduce quasi a mano gli animali tutti a cercare quella sorte di cibo, che loro più si confaccia; così per la medesima siamo internamente mossi nell'avvilimento dello spirito a cercare di conforto e di sollievo, ne alcuno ve n'è più atto, nè più efficace a rallegrarci in un subito, che d'un grazioso componimento poetico. Onde se questa mia operetta verrà mai ad ottenere un fine così discreto ed umano; vi giuro che ne sarò contentissimo, assicurandovi che verun conto non farò mai di quello, che possiate dir voi, o gli uomini, siccome voi, quando fate un giudizio così pazzo e bestiale del più celebre e del più ragguardevol Poeta, che abbiamo. Ciò detto mi tacqui: ed egli ad un tratto nelle sue smanie tornato, senza altro dirmi partissi.
Ed eccovi narrata, Aci reveritissimo, la dolente, ma vera istoria delle mie non pensate avventure. Quello che da questa inimicizia sia per venirmene addosso, io non lo so. Di ragione non avrebbe da farmi altro insulto, che di dir male di me e dell'opera mia; nel qual caso vorrei un poco d'ajuto, perchè io non so veramente, se gli abbia risposto bene o male: e non ve ne maravigliate, [74] perchè oltre al sapere io poco o niente di tutto, e massime di queste materie, e l'essere stato colto da lui all'improvviso, non ho tempo da respirare, non che da mettermi in istato da pormi a tu per tu con gli uomini letterati. Però voi che sapete tanto, e che state in un paese, dove le belle arti e i leggiadrissimi studj hanno preso casa e ci covano, e le muse tutte con sicurezza e con diletto soggiornano, aiutatemi quel più che potete, ed avvisatemi se ho detto cose da non poter sostenere; perchè in quel caso io non m'ostinerò certamente in difendermi, ma confesserò d'avere il torto, massime quando mi venga detto da voi. Subito che potrò, manderovvi questo benedetto Poema, quale voi leggerete con tutta segretezza; e se vi parerà che egli non abbia il viso di dietro, e che possa fare ancora egli la sua comparsa, e noi ne faremo la mostra: se poi ne giudicherete altrimenti, o noi ne faremo un bel falò, o non ci mancheranno buchi dove appiattarlo. Conservatemi la vostra stimatissima grazia, e perdonatemi la confidenza e l'ardire: ma come sapete, il bisogno per lo più ha sempre poca creanza, e la necessità non ha legge; e resto tutto vostro.
[75]
RICCIARDETTO
Il re de' Cafri intima un'aspra guerra
A Carlo Mano per placar Despina.
Stella insegna ai guerrier nella sua terra
Dell'incantato vin la medicina.
Rinaldo l'oste e i due giganti atterra:
Fa della maga una crudel cucina.
Ai cari amanti il primo aspetto rende;
E dal corrier la nova guerra intende.
E' mi è venuta certa fantasia,
Che non posso cacciarmi dalla testa,
Di scriver un'istoria in poesìa,
Affatto ignota o poco manifesta.
Non è figlia del Sol la Musa mia,
Nè ha cetra d'oro o d'ebano contesta:
È rozza villanella, e si trastulla
Cantando a aria, conforme le frulla.
Ma con tutto che avvezza alle boscaglie,
E beva acqua di rio e mangi ghiande,
Cantar vuole d'eroi e di battaglie,
E d'amori e d'imprese memorande;
[76]
E se avverrà che alcuna volta sbaglie,
Piccolo fallo è in lei ogni error grande,
Perchè non studiò mai, e il suo soggiorno
Or fu presso un abete, or presso un orno.
E in tanto canterà d'armi e d'amori,
Perchè in Arcadia nostra oggi son scesi
Così sublimi e nobili pastori,
Che son di tutte le scïenze intesi;
Vi son poeti, vi sono oratori
Che passan quelli degli altri paesi:
Or ella, che fra loro usa è di stare,
Si è messo in testa di saper cantare.
Ma, come voi vedrete, spesso spesso
S'imbroglierà nella geografia,
Come formica in camminar sul gesso,
O sulla polve, o farina che sia;
O come quel pittor ch'alto cipresso
Nel bel turchino mare colorìa,
E le balene poi su gli erti monti:
Così forse saranno i suoi racconti.
Ma non per questo maltrattar si dee,
Nè farle lima lima, e vella vella.
La semplicetta non ha certe idee
Che fan l'istoria luminosa e bella;
Nè lesse mai in su le carte achee,
Ovver di Roma o di nostra favella
Le cose belle che cantâr coloro
Ch'ebber mente divina e plettro d'oro.
Ma canta per istare allegramente,
E acciò che si rallegri ancor chi l'ode;
Nè sa, nè bada a regole nïente,
Sprezzatrice di biasimo e di lode,
[77]
Qual tiranneggia cotanto la gente;
Che v'è infino chi l'ugna si rode,
E il capo si stropiccia, e 'l crin si strazia,
Per trovar rime ch'abbian qualche grazia.
Voi la vedrete ancor (tanto è ragazza)
Or qua, or là saltar come un ranocchio:
Nè in ciò la biasmo, nè fa cosa pazza;
Chè dagli omeri infin sotto il ginocchio
La poesìa ha penne, onde svolazza,
E va più presto che in un batter d'occhio
Or quinci, or quindi; e così tiene attente
L'orecchie di chi l'ode, e in un la mente.
Così veggiamo nel furor dell'armi,
Tra il sangue, tra le stragi e le ruine,
In un momento rivoltarsi i carmi
Ai dolci amori, e quindi alle divine
Cose, e parlar di templi e sagri marmi;
Indi volare su l'onde marine,
E raccontar le lagrime e il cordoglio
D'Arïanna lasciata in su lo scoglio.
Ma già si è posta in man la sua zampogna,
E canta sotto voce, e non si attenta.
Non la guardate ancor, chè si vergogna,
E come rosa il volto le diventa;
Ma presto passa un poco di vergogna:
Principiato che ell'ha, non si spaventa;
E già incomincia. Or noi dov'ella siede
Taciti andiamo ed in punta di piede.
Io vo' cantare una guerra crudele
Che lessi un giorno su certa scrittura,
Che non so s'è mendace o pur fedele;
So bene che colmommi di paura
Il suon delle afflittissime querele
Degli assediati dentro delle mura
[78]
Di Parigi da tanta orribil gente
Venuta qui da Levante e Ponente.
L'aütore che scrive questa istoria
È nomato maestro Garbolino,
Il qual la vide e ne tenne memoria,
E la scrisse in volgare ed in latino.
Il padre mio, che d'aver libri ha boria,
Comprolla da un pastor del Casentino,
Che in casa nostra venne per caprajo,
E diegli in cambio un par di scarpe e un sajo.
Narra dunque costui gli sdegni e l'ire
D'Africa e d'Asia contro Carlo Mano;
E dice che de' Cafri il fiero sire
Con l'orrendo Lappone e l'inumano
Negrita, ed altri ch'or non voglio dire,
Ebbero in cuor di spegnere il cristiano
Seme, e ne' sagri venerandi tempj
Erger idoli infami, iniqui ed empj.
Ma voglio, prima che m'esca di mente,
Dirvi, che quando io parlerò d'amore,
Non vi cadesse in animo nïente,
Che io abbia mai sentito il suo valore;
Non so se grato sia, o dispiacente:
Libero sempre ebb'io l'animo e 'l cuore
Da' lacci suoi; e nel parlar di lui
Non dico i casi miei, dico gli altrui.
Finita appena era l'orribil guerra
Contro di Carlo, tanto nota al mondo,
Che l'inferno di nuovo si disserra
A' danni suoi, e muove a tondo a tondo
I Saracini di ciascuna terra,
Per cacciare Parigi e Francia al fondo.
[79]
Udite or come e da quali cagioni
Nacquero queste nuove dissensioni.
Lo Scricca, re de' Cafri, aveva un figlio
Robusto sì, che un Ercole parea,
E di color sì candido e vermiglio
Da innamorar la bella Citerea.
Costui, vago di risse e di periglio,
In Francia andò dove la pugna ardea;
E combattendo un giorno a petto a petto,
L'uccise finalmente Ricciardetto.
Una sorella sua, detta Despina,
Che avea per occhi due lucenti stelle,
E ch'era col german sera e mattina,
E sì l'amava che le genti felle
Stimavan che gli fosse concubina;
Udendol morto, si graffiò la pelle,
Si svelse i crini e si stracciò la veste,
E diè bando alle giostre ed alle feste.
E tanto seppe dire al genitore,
Che a vendicare il figlio si dispose.
Nella corte di lei tratte da amore
V'eran alme guerriere e generose.
Despina a quegli in dono offerì il core,
Che con le mani lorde e sanguinose
Le avesse fatto dono della testa
Di Ricciardetto, a lei tanto molesta.
Bulasso, de' Negriti orrido sire,
Gigante smisurato e pien di possa,
Fece la sua terribil gente unire
All'esercito Cafro, e seco mossa
La volle di persona egli seguire;
Ed ha una mazza più che trave grossa,
E scotendola avanti alla regina,
Dice: Questa ha da far la medicina.
[80]
Del Soldano d'Egitto un figlio ancora
Vi fu che per Despina era consunto;
Il qual partissi subito in quell'ora
Per girne al padre, e formare in un punto
Gente da guerra che Macone adora:
E lo Sgraffigna setoluto e smunto,
Che impera alla Lapponia e d'amor geme,
Le promise di por sua gente insieme.
Di venturieri poi e di cadetti
Racconta il Garbolin che fur seimila.
Chi raggiusta le selle e chi gli elmetti,
E chi per lo timor fa Marco sfila.
Si rallegra Despina a questi oggetti;
Chè già le sembra di troncar le fila
Della vita di lui che il suo germano
Le tolse, e diello a crudel morte in mano.
In questo mentre, come far si suole
Da' villanelli dopo il verno crudo,
Che, coronati il capo di vïole,
Vanno formando col piè scalzo e nudo
Sovra l'erbette amorose carole;
Così le acute lance e il grave scudo
Aveano appeso i paladini al muro,
Tenendo in pace il lor viver sicuro.
E chi cantava della Senna in riva,
Sedendo all'ombra delle verdi piante;
E chi adornato della bianca oliva,
Assiso a mensa, di buon vin spumante
Di cristal di Muran le tazze empiva;
Ed ogni donna col suo saggio amante
Stavasi in gioja, e benediva il giorno
In cui la pace a lor fece ritorno.
Sol Carlo era doglioso per l'avviso
Ch'egli ebbe dell'orribile pazzìa
[81]
D'Orlando; e di cercarlo ebbe in avviso:
Ma tutta quanta la sua baronìa
Pregollo con gran lagrime sul viso,
Ch'ei stesse fermo, e che andato sarìa
Ciascun di loro a ricercarlo; e tosto
Alla partenza ciascun fu disposto.
Chi vêr Levante andò, chi vêr Ponente.
Rinaldo volle ir solo; in compagnìa
Andaro gli altri, e fur parecchia gente.
Di Persia prese Rinaldo la via;
Astolfo, Alardo e Ricciardo valente
Preser la Spagna, ove credon che sia;
Olivieri e cento altri paladini
S'indirizzaro per altri cammini.
In compagnia di Carlo appena trenta
Paladini restaro in arme chiari:
Quando dopo due mesi si presenta
Alla corte un araldo, e in sensi amari
Spiega come lo Scricca gli appresenta
Guerra crudele; e però si prepari;
E che vuol morto ciaschedun Cristiano,
O gli si dïa Ricciardetto in mano,
Che diede morte all'unico suo figlio.
Rispose Carlo: Al tuo signor ritorna,
E digli che crudele è il suo consiglio,
E folle insieme, e che equità non orna.
Se Ricciardetto fece il suol vermiglio
Di quel sangue che il senno a lui frastorna,
Ne incolpi la Fortuna, che talvolta
Sdegnata e pazza contro i suoi si volta.
Ricciardetto non è campion da frode:
Pugnò con lui come pugnare è uso
Guerrier che merca a sì gran rischio lode;
Nè in dirti questo, io mi difendo o scuso:
[82]
Ciascun de' miei soldati assai più prode
È de' suoi Cafri; nè l'orribil muso,
Nè le gran membra o la strana figura
Agli uomini di Francia fan paura.
Digli ch'ei venga pure, e che su' merli
Di Parigi vedrà fanciulli e spose,
Che su vi monteranno per vederli.
L'araldo freme udendo queste cose,
E dice: Come falco addosso ai merli
Verrà lo Scricca sopra l'orgogliose
Genti francesche; e che spera fra poco
Veder tutto Parigi in fiamma e foco.
Vassen l'araldo; e Carlo fa consiglio
Co' suoi baroni, e si parton gli uffizj.
Chi ha un impiego e chi all'altro dà di piglio;
Chi bada ai muri, e guarda se hanno vizj;
Chi pensa della fame al gran periglio,
E grani ammassa e vieta gli stravizj;
Chi avvisa i paladini con staffette,
Che vanno come avesser le pecette.
Ma lasciam questi, e seguitiam la pesta
Di Ricciardetto, d'Astolfo e d'Alardo,
Che van cercando con la faccia mesta
Orlando pazzo, il paladin gagliardo,
E in ogni parte ne fanno richiesta;
Ma avviso non ne trovan se non tardo:
A quel però, che ponno immaginare,
Credon che in Spagna certo egli abbia a stare.
Passano i Pirenei e Catalogna,
E presto presto sono in Aragona:
Qui senton cosa, che alle lor bisogna
Molto confassi, da certa persona
[83]
Che narrò loro, come in una fogna
Ritrovò il conte in su l'ora di nona
Presso a Valenza ne' giorni passati,
Che urlava peggio degli spiritati.
Piegaro su la manca a questo dire
I paladini; e, secondo l'intesa,
Verso Valenza incominciarno a ire.
Un dì nel gran deserto d'Oropesa
Più assassini li vennero a assalire,
E fecero una nobile difesa:
Astolfo sol con la lancia fatata
Gittò per terra tutta la brigata.
Già il Sol baciava il volto alla marina,
E gli alti monti si faceano oscuri;
E gli augelletti alla selva vicina
Volavano su' rami più sicuri,
Timorosi d'insidie o di rapina;
E i pigri tassi fuor de' lor tuguri
Moveano il piede; e i pipistrelli e i gufi
Lasciavan lieti gl'incavati tufi:
Quando videro un fuoco non lontano,
E s'avvisâr che fossero pastori.
Là vanno; e loro viene incontro un nano
Che porta in mano tre mazzi di fiori;
E da lui salutati in atto umano,
Disse: Mi manda a voi, cari signori,
La mia padrona, e vi presenta questi
Mazzi, che son di mille fior contesti.
Questa, se nol sapete, è la più bella
Donna che in Spagna mai si sia veduta:
Ella ha sotto di sè terre e castella,
Ma non cerca marito, e lo rifiuta;
Il nome suo egli è madonna Stella:
Se canta, un usignuolo si reputa;
[84]
Se balla, agli occhi di ciascuno appare
Clori per l'aria, o Galatea sul mare.
Astolfo, a questo dir, si mette in tasca
La mano, e trânne fuora un pettin rado,
E me' che sa i suoi capelli sfrasca,
E si rende pulito come un dado.
Ridono i due e dicono: Che frasca
È mai costui! egli è del parentado
Certamente di Venere e d'Amore,
Che ogni donna gli ruba e senno e core.
In ciò dicendo, ecco da mille e mille
Accese faci che sono incontrati,
Giovani vaghe con liete pupille
Portano in mano i bei doppier dorati;
E con strumenti confacenti a ville
Si fan più sinfonìe sopra que' prati;
E la padrona poi in mezzo a quelle
Viene, e sembra la luna infra le stelle.
Era vestita d'un color celeste,
E il biondo crin legava un nastro d'oro:
Nude le braccia avea, corta la veste;
Ma non perdeva grazia nè decoro:
Una cetra d'avorio con due teste
Di cigni (e Dafne mi parea fra loro)
Aveva al collo, che sì bianco egli era,
Che latte e neve appresso lui par nera.
Ella cantando disse: O dolce, o bella,
O santa libertà, quanto sei cara!
Per oro, per cittadi o per castella
Ben si compra e mal vende così chiara
E nobil merce. Libertade è quella
Che noi dispoglia d'ogni cura amara:
Ella sol basta a fare in ogni stato
Un uom, d'afflitto e misero, beato.
[85]
Ma quella libertà vie più s'apprezza,
Che siede qual regina in mezzo al core;
Libertà lieta, che dileggia e sprezza
Tutt'i legami del crudele Amore.
Felice chi da piccolo s'avvezza
A non curare questo traditore!
Io l'ho sempre fuggito, e nol conosco,
Amica sol di questo ombroso bosco.
Ma quando a sè vicini ella gli scorse,
Ruppe il bel canto, e con gentil sorriso
Verso di lor nè camminò nè corse;
Ma venne con tal grazia e con tal viso,
Che Astolfo i labbri per stupor si morse,
E disse: Amici, siamo in paradiso:
Sì bel suon, sì bel canto e sì bel muso
Delle mortali cose ên fuor dell'uso.
E qual fortuna, disse, o cavalieri,
Al bosco della Stella v'ha condutti?
Se piacer di falconi o di levrieri
V'ha stimolati, e a qua venire indutti,
Son certa ch'io vi do mille piaceri,
Chè a cacce son tutti costoro istrutti;
Ma, dalla caccia in fuori, mi è negato
Darvi piacer che appaghi il vostro stato.
Ninfa del terzo ciel, rispose Astolfo,
Non parliam di levrieri e non di falchi,
Chè in piaceri di cacce non m'ingolfo;
Nè fia che presso alle lepri cavalchi,
Quando m'abbatto per lanciato golfo
In tal fortuna; chè se tutta io calchi
La terra a tondo, non avrò l'eguale
Di veder questa tua beltà immortale.
[86]
E qui diede un sospiro e si fe' rosso.
Ad entrar nel suo nobile palazzo
Ella gl'invita, e loro avanti ha mosso
Il piede; e Astolfo, per amor già pazzo,
Le va sì presso, che l'è quasi addosso,
E le dice all'orecchie: O ch'io m'ammazzo,
O che voi mi guardate in dolce guisa,
Occhi, che avete la mia pace uccisa.
Tira avanti la donna, e non risponde;
Ma sottocchi le astute damigelle
Co' labbri chiusi al riso fanno sponde.
Mense fra tanto sontuose e belle
Apparecchian le giovani gioconde.
Astolfo, fiso nelle vaghe stelle
Di quel cielo che tanto l'innamora,
Non bada a nulla, e quelle solo adora.
Ricciardetto lo scuote, ed ei non sente.
Fuma la mensa; e madonna s'asside,
E gli altri seco; ma Astolfo nïente
Si muove, e lei riguarda, e or piange, or ride.
Alardo fuor di modo n'è dolente:
Donna Stella, che di questo s'avvide,
Disse: Guerriero, sta pur di buon cuore,
Ch'io guarirollo presto dall'amore.
E gli diede una noce del Brasile,
E disse: Quando nel letto si corca,
Con punta di coltel sottil sottile,
Trattane pria la scorza nera e sporca,
Una dramma ne raschia, e in vin gentile
L'infondi e sbatti, e fanne come morca;
E con questo gli bagna e bocca e petto,
E seguiranne il desïato effetto.
[87]
La dolce madre mia, che fu sì bella,
E che amò tanto il caro suo consorte,
Che l'Artemisia in paragon di quella
Odiava il suo (or ve' s'egli era forte),
Quando il furore della nostra stella
Miseramente lo condusse a morte,
Per l'acerbo dolor divenne tale,
Che a tutta Spagna ne sapeva male.
La meschina ridotta in pelle ed ossa
Era, e i begli occhi non vedean più lume;
Sparute eran le guance, ed una fossa
V'avean lasciata, ove correva un fiume
Di pianto che m'avea tutta commossa.
Or mentre avvien che così si consume,
Capita in casa nostra una mattina
Un vecchio dell'Olindica marina;
E dice: Se d'amor guasta è costei,
Io guarirolla; e, presa questa noce,
Fe' tutto quello prestamente a lei,
Ch'io t'ho narrato: ed ecco che la voce
Torna più chiara, e tornan lieti e bei
Gli occhi; nè son di lagrime più foce:
In fin non era ancor passato un anno,
Che tornò come prima, e senza affanno;
Perchè ha virtù di far dimenticare
La cosa amata; e disse che la fece
Próteo per una sua ninfa del mare,
Che mentre ama un pastor, che a lei non lece,
E per marito non lo può pigliare,
In poco tempo tutta si disfece:
Onde ei con questa noce rassettolla,
Ed ella poscia un giorno a me donolla.
[88]
Donolla a me, che sopra d'uno scoglio
Sedea piangendo il mio crudel destino;
Chè bella donna, ma piena d'orgoglio,
Amava io tanto, che sera e mattino
Mi moriva d'affanno e di cordoglio,
Perchè m'odiava lontano e vicino.
Ella, mossa a pietà del mio tormento,
Mi fe' quel dono; e ne restai contento.
Quindi soggiunse che alla vaga Eléna
Altra ne diè che, stemprata nel vino,
Toglieva ogni dolore ed ogni pena.
Agamennon la bevve, e il picciolino
Telémaco; e fe' lor bella e serena
Tornar la fronte; e l'ire del destino
E i passati travagli si scordaro
In ber quel vino così buono e raro.
Ciò detto, s'alza la gentil donzella
Da mensa, e prega la notte felice
A ciascuno, e ciascun la prega ad ella.
Astolfo a lei pian pian s'accosta, e dice:
Ove mi lasci, o desïata Stella?
Se parti, io resto misero e infelice.
La donna finge non udirlo, e parte;
E dice a Alardo non so che in disparte.
Prendono in mezzo Alardo e Ricciardetto
L'innamorato Astolfo che sospira,
E si vuol trarre il cuor di mezzo al petto,
E mandarlo a madonna che il martira.
Essi ridendo gli fanno dispetto.
Ed ebbe dal dispetto a nascer l'ira;
Ma temperò lo spirito feroce
Il fatto a tempo impiastro della noce.
[89]
Appena l'incantata raschiatura
Toccògli il caldo petto e l'arsa bocca,
Che di madonna Stella non si cura,
E gli par brutta, attempatella e sciocca;
E dice: Non guastiam nostra ventura
In soffermarci in questa biccicocca.
E' dorme un par d'orette, e pria del giorno
Sveglia i compagni suoi a suon di corno;
E dice: Si fa tardi; andiamo via;
Andiamo a ricercar del nostro conte.
Rispose Alardo: Da maggior pazzìa
Noi te guarimmo con le grazie pronte
Di questa ninfa così bella e pia.
Un segno della croce in su la fronte
Fassi Astolfo; e non sa che dir si vuole
L'oscuro suon di quelle sue parole.
Ma per la via noi ti diremo il tutto,
Ripreser quelli; ed intanto vestiti
Lascian l'albergo, e l'incantato frutto
Riportaro a madonna; ed infiniti
Complimenti le fêr; che ognuno istrutto
Era ne' modi civili e puliti.
Ma lasciam questi, e cerchiam di Rinaldo,
Di cui non v'è chi in sella stia più saldo.
Se vi sovviene, egli partì soletto
Vêr Persia, ed imbarcossi alla Rocella;
E nell'Eusino con suo gran diletto
Giunse sul comparire della stella,
Che trasse sul dorato suo carretto
L'amato vecchio colà dove bella
Ell'è negrezza; io dico in Etïopia;
E lì di sè gli fece dolce copia.
[90]
Sbarca in un porto, e subito domanda
Per il destriero suo buon orzo e fava:
Più non v'è piazza, osteria o locanda,
Dov'ei non chiegga del signor di Brava:
Ma nulla di lui suona in quella banda;
E quanto cerca più, men ne ricava:
Onde d'entrare in terra si dispone,
E cercarlo per quella regïone.
Fatte ancor non avea diciotto miglia,
Che vede in fuga molte vacche e buoi,
E una villana candida e vermiglia
Che piange, e strappa i rozzi panni suoi,
Ed i ricciuti crini si scapiglia,
E va gridando: Ahi miserelli noi!
Si ferma il paladino; e in questo mentre
Vede un serpente lungo e di gran ventre,
Che con la bocca aperta insegue e incalza
La villanella che fuggendo stride.
Allor di sella il cavaliero sbalza
Al suolo, e il serpe con la lancia uccide.
Ma la veloce pastorella scalza
Non si rivolta; nè per quanto ei gride:
Morto è il serpente; ferma il piè, fanciulla;
Non ode mai, nè volgesi per nulla.
Onde egli segue il suo cammino; e intanto
Gli si fa notte presso d'un castello;
In una casa ode allegrezza e canto,
E si figura sia un qualche ostello,
E tale è appunto, ma meschino alquanto;
Nulladimen la fame gliel fa bello.
Smonta Rinaldo: e lieta assai l'accoglie,
Dell'ostiero l'allegra e bella moglie.
[91]
Chiede da cena, e vuol stare in cucina,
E dà di mano anche a girar l'arrosto;
Chè vuol parer un uomo da dozzina:
Ma l'oste che lo guarda di nascosto,
S'avvede com'egli ha la pelle fina,
Ed è sì ben della vita disposto,
Che guerrier sembra da far molte prove,
Tutte ammirande, e tutte eccelse e nove.
Onde, rivolto a lui, disse l'ostiero:
Signor, se corrisponde il valor vostro
Alla presenza d'illustre guerriero
Potreste fare a questo luogo nostro
Un gran piacere, e da un crudele e fero
Orribil tanto e detestabil mostro
Liberar noi e due gentili amanti,
Che tiene questa fera in doglia e in pianti.
Disse Rinaldo: Non ho da far nulla,
E l'ozio non alligna in casa mia;
Dimmi il garzone e dimmi la fanciulla,
Che tanto affanna questa bestia ria;
E, come dir si suole, dalla culla
Narrami questa istoria in cortesia;
Chè dolce cosa ell'è fra le vivande
Udire narrazioni memorande.
Hai da saper che Baccola è nomato
Quel castello che sta qui sopra a noi:
Questo era d'un signor bello e garbato,
E grande e forte come sete voi:
Per sua disgrazia pazzamente amato
Fu dalla Fata Nera, che de' suoi
Begli occhi e delle sue maniere accorte
Ardeva sì, che ne correva a morte.
[92]
Ma egli che donato il core avea
Alla Brunetta, che d'un gran villaggio,
Ch'è presso al suo, signoria tenea,
Presenti, preghi, nè tema d'oltraggio
L'indussero a far quello che volea:
Onde aspettò nel dì del maritaggio
Di far questa crudele opra sì strana
Che di simil non v'è memoria umana.
Quando vien la Brunetta in bianca vesta,
Coronata il bel crin di gigli e rose,
E va Baccola tutta in gioja e festa,
Ecco la Fata che tra l'altre cose
Mostra star lieta, ancor che stesse mesta.
Saluta la Brunetta e le vezzose
Compagne, e dice: Andate a più bell'agio;
Chè lo sposo ancor è dentro il palagio.
E vuol che all'ombra di un alto cipresso
Aspettin lui, che già venìa cantando;
E quando vide che molto era presso
Lo sposo a lei, che sola andava amando,
Dal negro inferno le comparve un messo,
Ch'acqua le diè del Tartaro nefando:
D'essa gli sposi la crudele asperse
E quella in cagna, in cervo lui converse.
E il cervo cominciò tosto a fuggire,
E la cagna a inseguirlo; e son dieci anni
Che provano ambiduo questo martìre,
Nè v'è chi trarre lor possa d'affanni;
Chè un erto monte bisogna salire,
Erto così, che vi vorrebber vanni;
E in cima poi evvi una grossa torre,
Dove questa crudel vassi a riporre.
[93]
Di più vi stanno a guardia due giganti,
Uno detto il Traggea, l'altro lo Striscia,
Da far paura ancora agli angel santi:
Sono vestiti di pelle di biscia,
Ma pelle da stivali, e non da guanti;
Ed hanno in mano una certa scudiscia,
Che in suo paraggio un stollo da pagliajo
Parrebbe un manichino di cucchiajo.
Or se potessi uccidere costoro,
Vincer la rocca, e far colei prigione,
Vedremmo usciti fuora di martoro
La giovin bella e il nobile garzone,
E ritornati alle sembianze loro.
Disse Rinaldo: O ve' pretensïone!
Che? sono un paladino di Parigi?
E sorrideva sotto de' barbigi.
Io sono un uomo che non vaglio un fico,
Ed ho paura infin dell'ombra mia;
O pensa d'un sì orrido nemico,
Come di' tu, che quella Fata sia!
Io credo che il mio padre Lodovico
E la mia madre madonna Lucia
Nel generarmi, se mal non m'appiglio,
Mangiasser sempre carne di coniglio.
E disse all'oste: Quei brutti giganti
M'han messo tanto orrore questa sera,
Che mi pare d'averli sempre avanti.
Oimè, che sozza e spaventevol cera!
Non dormo solo, affè di tutti i santi;
Ma vo' dormire con la tua mogliera.
Rispose l'oste con la faccia arcigna:
Il mio non è terren da piantar vigna.
[94]
E preso in mano un pezzo di bastone,
Pagami, disse, e vanne a precipizio.
Rinaldo gli si butta ginocchione,
E gli chiede perdon come un novizio;
E l'oste che lo stima un bel poltrone,
Gli affibbia un pugno sopra l'occipizio.
A Rinaldo la flemma a un tratto scappa,
E le gambe dell'oste afferra e acchiappa;
Poi s'alza, e a tondo per la stanza il gira,
Come la fionda il giovinetto Ebreo,
Con cui tutta fugò la gente Assira,
E il gigante fierissimo abbatteo.
La moglie di dolor piange e sospira;
E tanto in lui il piagnere poteo,
Che non l'uccise, ma lasciollo in forma,
Che non sa dove sia, e par che dorma.
Quindi vanne alla stanza, e ponsi a letto;
E al primo albór della vermiglia aurora
Lascia le piume, e cingesi l'elmetto,
E a piedi e solo dell'ostello fuora
Esce, e dà d'occhio a un certo suo libretto,
Che diegli in Francia una bella signora
Che s'intendeva di stregoneria,
Per saper questa impresa come sia.
E legge a carte settecento e tre
Tutto questo negozio come sta;
E che legare la Fata si de',
E darle fuoco senza aver pietà;
E le ceneri poi portar con sè,
E in lunga lista spargerle colà,
Dove la cagna e il cervo in su e in giù
Vanno correndo, acciò vi passin su;
[95]
E nel passarvi lasceran le spoglie,
Di cagna questa, e di cerviotto quello;
E prenderà la sua Brunetta in moglie,
E meneralla lieta al suo castello.
Ma ve' che non t'inganni e non t'imbroglie;
Chè se la sciogli, sei morto, fratello.
Chiude il libro Rinaldo, e muove il piede
Verso del monte, lo qual già si vede.
Un de' giganti che guarda la destra,
Vedendo a sè venire il paladino:
Vien, che vo' darti il pan con la balestra,
Gli va dicendo in suo sciocco latino.
E tu per Dio non mangerai minestra,
Dice Rinaldo, e gli si fa vicino;
A due mani il gigante un sasso prende,
E glie lo tira; ed egli si difende,
E fa un gran slancio, e sotto se gli caccia,
E lo ferisce presso all'anguinaglia
Con quella spada che rompe e che straccia
Ogni forte armatura, ogni gran maglia.
Cade al suolo trafitta la bestiaccia;
Mugge così, che irato toro agguaglia.
Rimbomba il monte, e corre a quella voce
L'altro gigante più di lui feroce.
Un lampo, un tuono, un fulmine parea;
E venne addosso al cavalier sì ratto,
Che volendo fuggirlo, non potea;
E, quella trave sua alzata a un tratto,
Tirògli un colpo, il qual se lo giungea,
L'avrebbe certo in polvere disfatto;
Ma Rinaldo lo sfugge, e fere lui
Su' polsi, e li recide tutti dui.
[96]
Stride il gigante, e con i moncherini
Vuol seguir la battaglia; ma ben presto
Rinaldo il mena agli ultimi confini
Del viver suo: onde il gigante lesto
Dassi alla fuga come i malandrini
Che han timor di galera o di capresto.
Rinaldo il segue, ed in un tempo stesso
Entrano nel castel l'un l'altro appresso.
E, nello entrar, ne' fianchi egli gl'immerge
La spada, e grida: Traditor, se' morto.
Parte cade il gigante e parte s'erge;
Infin nel sangue suo, misero! assorto,
Muor l'infelice. Ei la sua spada terge;
Poi va più avanti, e vede in un bell'orto
Una donzella che piange e sospira,
E il cavalier tutta pietà rimira.
Non era ignuda e non era vestita,
Candida sì, che il candido alabastro
Sarìa paruto come calamita;
I biondi crini non legava nastro,
Ma givan tutti sciolti per la vita:
Nè sì il notturno, nè il mattutin astro
Fan bello il ciel col lume lor diviso,
Come gli occhi di lei il suo bel viso.
Rinaldo a lei si accosta, ed ella trema,
E tremando si fa più bella assai.
A poco a poco s'infiacchisce, e scema
Nel guerrier l'ira al lume di que' rai.
La donna allora di malizia estrema
Lo guarda, e manda fuori un flebil ahi,
E dice: Cavalier d'alto valore,
Abbi pietà del giusto mio dolore.
[97]
Rinaldo, a quel parlar tutto commosso,
Si fe' di pietra, e gli cadde la spada:
Allor la maga gli si lancia addosso;
Nè più dagli occhi suoi cade rugiada,
Ma esce un foco affumicato e rosso.
In sè ritorna il paladino, e bada
A sì gran mutamento, e si ricorda
Del libro, e dà di man presto alla corda.
Quindi la lega, come il contadino
Lega le frasche, quando le affastella;
E, avvoltala ad un albero vicino,
Le recide la bionda treccia bella:
E allor, come mostrava il libriccino,
Non parve più vezzosa verginella,
Ma una vecchiaccia sporca e puzzolente,
Bavosa, tutta grinze e senza un dente.
Rinaldo allor di legne una catasta
Le pone intorno, e le dà fuoco; e in alto
Il fumo sale, e con l'aria contrasta.
Stride la vecchia, e far vorrebbe un salto,
Quando sente la fiamma che la tasta;
Ma sta legata, e muore al primo assalto
Della fiamma vorace che la strusse,
E in cener 'n un momento la ridusse.
Presto presto Rinaldo allor raccoglie
Il cenerume, ed obbedisce al libro;
Poi verso quella via il passo scioglie,
Dove gli afflitti d'un stesso calibro
Denno arrivar per loro affanni e doglie:
E là giunto, riponlo in picciol cribro,
E di sparger la strada s'apparecchia
Del cener secco dell'infame vecchia.
[98]
Le terre più vicine avean veduto
La morte de' giganti, e come entrato
Era Rinaldo nel castello acuto,
E n'era uscito come v'era andato,
Libero e sano senz'alcuno ajuto;
Corsero a lui, e fu da lor lodato:
E in questo mentre ecco il cervo e la cagna,
Che menan quanto posson le calcagna.
E nel passar sul cenere che fanno,
Riprendono ambeduo la lor figura,
E mille abbracci infra di lor si danno.
Rimbomba il monte, il colle e la pianura
Del miracol che veggiono; e non sanno
Come andata si sia cotal ventura;
Ma lor narra il guerrier cosa per cosa,
E lui ringrazian lo sposo e la sposa;
E l'invitano a star con esso loro.
In questo mentre ecco giunge un corriero,
Che viene da Ponente, e di martoro
Par nunzio; chè vestito egli è di nero.
Rinaldo il guarda, e dice: Questi è il Moro
Che vien di Francia. Ed egli: Alto guerriero,
Carlo ti chiama; chè gli ha mosso guerra
Il Saracino, e con assedio il serra.
Udito ciò, sen corre all'osterìa;
Monta a cavallo, e ad imbarcar si torna
Il buon Rinaldo, e dice: In fede mia,
Vo' fiaccare a que' barbari le corna;
Ma pria che giunga là dove desìa,
Più d'un impresa nuova lo frastorna.
Ma pria ch'io metta mano ad altre cose,
Conviene che respiri e mi ripose.
[99]
Rinaldo, per salvar Lucina bella
Legata all'orno, i due gran rospi assale:
Per la bocca entrò ad un nelle budella,
E uscì dal culo senza farsi male.
Arde Rinaldo ai begli occhi di quella;
Ma il raffrena il timor del temporale.
Trova ella nella grotta il suo Lindoro:
Crede Rinaldo non star ben con loro.
Il cuor mi trema tuttavìa nel petto,
Perchè ho timor d'aver cantato male,
Nè avervi dato tutto quel diletto,
Che avrìa voluto, al vostro merto uguale:
Ma Febo non mi schiara lo intelletto,
Nè con lo santo suo furor l'assale;
Chè allor sarebbe il canto mio gradito,
E sare' forse anch'io mostrato a dito.
Ma non andate via; solo ancor questo
Novello canto udite; e fate poi
Quel più vi piace, ch'io non vi molesto.
Tutte le cose, siccome ancor noi,
Han tenero principio, e presto presto
Divengono fortissime da poi:
Così crescendo questa storia mia
Averà forse grazia e leggiadrìa.
[100]
Rinaldo, come detto si è di sopra,
Udito Carlo Mano imperatore,
E che tutto Parigi va sossopra,
Di andarlo a ritrovar si mise in cuore;
Ed in cercare una nave si adopra:
Ne trova una di un veneto signore,
Che passa in Grecia, e di Grecia in Ponente;
Ond'ei vi sale, e parte immantenente.
Dopo una buona navigazïone,
Ecco tempesta orribile e crudele,
Che i nocchier mette in tal confusïone,
Che senza alberi omai e senza vele
Correvan tutti a certa perdizione.
Chi prega Cristo, chi l'Angel Gabriele,
Che cessar faccia l'impeto de' venti;
E chi tarocca e bestemmia fra' denti.
In fin si calma l'orrida marina,
E si trovano presso a Barberìa.
Dice Rinaldo: Alla terra vicina
Guidatemi, chè scendere vorrìa.
E così fanno; e quando il Sol declina,
Discende il fior della cavallerìa
Nell'africana arena, e seco scende
Il suo caval, che co' venti contende.
Parte la nave, ed ei solo rimane;
Se solo si può dire un uomo forte,
E che ha il demonio proprio nelle mane.
Uomo temuto infino dalla Morte;
Tai fece imprese memorande e strane.
In giro mena le sue luci accorte,
Ma non vede nè uomini nè case;
Onde pensoso alquanto si rimase.
[101]
Splendea la luna, e gli usignuoli e i grilli,
Chi sopra il buco e chi su gli arboscelli,
Facevan dolci canti e dolci trilli:
Quand'egli fra scoscesi burroncelli,
Ove le acque divise in più zampilli
Facevan grati mormorìi, tra quelli
Spinse il suo fiero e nobile cavallo,
Che niun de' quattro piè mai pose in fallo.
Camminando, alla fin gli si fe' giorno:
E lungo tratto si trovò lontano
Da Marocco in un largo prato adorno.
Dove in mezzo del vago e verde piano
Era un cotale e sì terribil orno,
Che venti miglia e più dell'aër vano
Prendea co' rami, e fea con l'ombre sue
Riparo a mille bovi, e forse piùe.
A piè di questa smisurata pianta
Vide legata una gentil donzella,
Che i crini d'oro con la man si schianta,
E si affligge e si affanna e si arrovella;
Ma, come dir si suole, ai sordi canta:
E, quel che par più cosa atroce e fella,
Le vide star da dritta e da sinestra
Due bestie, lunghe un tiro di balestra.
Eran questi due rospi velenosi,
Grossi così, sì sporchi e disadatti,
Che avrìan fatto di loro timorosi
Non pur la donna degli angelici atti,
Ma gli orsi ed i cinghiali setolosi,
E se altra è fera che in bosco si appiatti;
Chè ognun di loro egli era fatto in guisa,
Che avrìa co' morsi una balena uccisa.
[102]
Rinaldo biancheggiar vide all'oscuro
La bella donna, come neve bianca,
O come gelsomin candido e puro,
La cui bianchezza per ombra non manca;
E disse: Questo non mi par sicuro
Cibo da bestie; e con la man non stanca
Dà subito di piglio alla sua lancia,
Ed un rospo colpisce nella pancia.
Hai tu visto, lettor, per gli spedali,
Quando il chirurgo va col gammautte
A tagliar porri, fignoli e cotali
Morbi, che fanno gonfiature brutte;
E giù la marcia piovene a boccali,
Onde si ammollan le lenzuola asciutte?
Tale ti pensa a giusta proporzione
Il rospo aperto sopra il pettignone.
Fece un lago di marcia assai più vasto,
Che non è quel di Biéntina o Fucecchio;
Ed annegato vi sarìa rimasto,
Ma in sì gran spazio non alzossi un secchio.
La fera intanto per quell'aspro tasto
Rabbiosa sollevò sopra l'orecchio
Due lunghi corni; chè un sì fatto arnese
Hanno i rospacci di quel reo paese.
E ritta su le due zampe di dietro,
Con la bocca più larga di sei forni,
E con gli occhiacci lustri come vetro,
Lo qual di dietro una gran face adorni
(Ma face da mortorio e da ferétro),
Con urli che parean campane e corni,
Lo aggraffigna e lo inghiotte (ahi caso crudo!)
Col cavallo, con l'armi e con lo scudo.
[103]
Pensate or voi, se si rimase brutto
Il povero Rinaldo a quel boccone:
Fortuna che trovò il corpaccio asciutto
Per quella piaga sopra il pettignone:
Pur si rinfranca, e, invigorito tutto,
Il suo buon Vegliantin batte di sprone,
E corre a tutta briglia la gran pancia,
E pel cul gli esce il paladin di Francia.
Si volse a rimirar ciò che stato era,
Il rospo; ed in quell'atto nella fronte
Gli diè Rinaldo tal percossa fera,
Che fe' di sangue altro che fiume o fonte;
E restò morto. Ma dell'altra fera
Chi dirà l'ire e i fieri oltraggi e l'onte?
Ella ha una pelle grossa un braccio e piùe,
Tutta d'acciajo: guardilo Gesùe!
La giovinetta misera e dolente,
In parte rallegrata in veder morta
La spaventosa belva puzzolente,
Or che vede in quest'altra esser risorta
La morta suora, e far lei più possente,
Si tapina, si affanna e si sconforta;
E teme con ragion che non prevaglia
Il suo campione in quest'altra battaglia:
E fa preghiere e voti ad Apollino,
Che salvi lui in così dura guerra.
Rinaldo intanto sovra l'acciar fino
Dà con Fusberta, e colpo mai non erra.
Ma che far può senza ajuto divino?
Opra questa non è da un uom di terra;
Onde ascolta dal ciel voce che dice:
Sbarba, campion di Dio, quella radice
[104]
Che ha poche foglie, e statti al destro lato;
E quando apre la sua terribil bocca,
E tu la scaraventa nel palato,
E subito vedrai che così tocca,
Verralle un sonno sì spropositato,
Che non la desterìa cannon di rocca:
Allor le immergi la pungente spada
Nell'occhio manco, e non più stare a bada.
Rinaldo corre presto alla radice,
La svelse, ed a quel rospo l'accostòe,
E fece come l'Angelo gli dice:
Giù pel palato la scaraventòe.
Si addormenta la bestia, e fa felice
Col suo dormir Rinaldo, che montòe
Sopra il gran rospo; e valoroso e franco
La spada gli cacciò nell'occhio manco.
E subito morì quella bestiaccia
Tanto crudele, dolorosa, infame.
Rinaldo allor prende le belle braccia
Della donzella, che gli muovon fame:
Ella sospira, e da sè lungi il caccia,
Dicendo: Ancor tu puzzi di letame;
Ancor tu porti, o mio campione, il viso
Di quello sterco sporcamente intriso.
Rise Rinaldo, e corse al vicin fonte;
E, toltasi di dosso l'armatura,
Da' piedi si lavò sino alla fronte;
Poi rivestissi: e mentre con sicura
Speme si accosta alle bellezze conte,
Ecco venire per la gran pianura
Due giganti sì vasti e sterminati,
Che parean refettoríi di frati.
[105]
Eran questi Bafusse e la Cagnasca,
Marito e moglie, e de' rospi parenti:
Han piena di saette una gran tasca,
E coperti ên di cuojo di serpenti.
Mal chi con essi o s'imbroglia o s'infrasca;
Chè costor non fan mica complimenti;
Han pini in mano cento braccia lunghi;
D'uopo è del prete, ov'è che il colpo aggiunghi.
Rinaldo dà un'occhiata alla donzella,
E ridendo la stringe; e poi si volta
Verso i giganti, e ben si chiude in sella;
E correndo vêr essi a briglia sciolta,
Bafusse sventra, e gli escon le budella;
Indi si mette in resta un'altra volta,
E la Cagnasca per lo mezzo spacca;
Poi scende, e Vegliantino all'orno attacca.
Indi tornando là dove splendea,
Benchè languido ancora, il dolce lume
Di quella, dir non so se donna o Dea,
Tutto ripieno di gentil costume,
Con voce che di amante esser parea,
Che dolcemente Amore arda e consume,
Disse: Donna gentil, vostra sventura
A voi certo è crudele, acerba e dura;
A me dolce cotanto e tanto cara,
Che immaginar non sonne altra migliore;
Perchè per essa Amore mi prepara
Un nobil troppo, e troppo bello ardore.
Chè se la voglia assai rapace e avara
Di chi vi tolse al caro genitore
Restava spenta da benigno fato,
Quando stato sarei sì fortunato?
[106]
Quando veduto avrei un sì bel viso,
Un sì bel petto, e membra sì ben fatte,
Che miglior non si fanno in Paradiso?
Qual rosa che pastor ponga sul latte,
Rosseggiò della donna il bianco viso;
E a lui rivolta: Intemerate, intatte
Fa che sian queste membra, e non volere
Alla onestade mia far dispiacere.
Rinaldo le promise; ma, sciogliendola,
D'aver promesso gli venne rammarico;
Chè sì pienotta e candida vedendola,
Disse: Ho promesso, è ver; ma se prevarico,
Ed il volere al peggio inclina e pendola,
Dalla bellezza tua vien tutto il carico.
E in ciò dire, le ha sciolto e piedi e mano;
Ed ella tosto va da lui lontano;
E prese un par di foglie di quell'orno,
Ch'erano larghe almen dodici braccia,
E se le avvolse tutte tutte attorno.
Sì che di nudo non ha che la faccia.
Rinaldo la riguarda, e vàlle intorno.
Ed or parla, or sospira ed or minaccia;
E mostra a mille segni il fuoco acerbo
Che gli arde ogni osso, ogni vena, ogni nerbo.
E in fatti verso lei corre veloce,
Più che barchetta quando l'urta il vento:
Ma s'ode intanto un'indistinta voce
Che l'aere introna, e quindi a cento a cento
Fanti e cavalli, e gente in viso atroce.
Rinaldo, al quale ignoto è lo spavento,
Lascia la donna, ed a color va incontro,
E domanda chi sieno al primo scontro.
[107]
Gente siam noi dell'isola Grifagna,
Che tanto tempo sotto di Bafusse
L'oppresse di dolore una montagna;
Chè questi ognor ci dava delle busse,
E fece al nostro onor sempre magagna:
Basta che noi e il nostro aver distrusse
Per mantener due rospi suoi figliuoli,
Che nati appena parevan fagiuoli;
Poi crebbero ogni giorno in guisa tale,
Che in un mese si feron come case;
Ed in un anno tanto madornale
Si fe' ciascun, che in fin si persuase
Bafusse di mandarli in tale quale
Luogo, ove fosser le campagne rase,
A crescere a lor modo; e tutti noi
Condannò per cibarli in vacche e in buoi.
Or che per vostra man, signore invitto,
Giacciono al suolo i perfidi tiranni,
Venite a noi, ed a vostro prescritto
Tutti vivremo; e de' passati affanni
Ristorerassi l'isolano afflitto.
E qui lo scettro, e di purpurei panni
Vesti gli diero, e lo acclamaro Augusto.
Disse Rinaldo: A questo non ho gusto:
Ritornatevi tutti a casa vostra,
Chè or non mi piace aver qui compagnìa;
E con la man la strada lor dimostra,
Perchè scorciare possano la via;
Poi si rivolta alla donzella, e, O nostra,
Disse, bella tiranna acerba e ria;
Ti sei mutata punto di parere?
Ed ella a lui: Per nïente, messere.
[108]
Non sai tu come io nacqui alta regina,
Figlia di Galafron, re di Baldacca,
Che tutta l'Asia e l'Africa domìna?
E se fortuna avversa mi distacca
Dal regio soglio, e a basso mi rovina,
Di questo non mi calse, o cale un'acca:
Ho dentro del mio cor, ch'unqua non trema,
E regno e scettro e soglio e dïadema.
Come se accade mai che in campo aperto
Vegga da lungi il cacciator la cerva,
Cerca appressarsi a lei cheto e coperto,
E di sua morte gran letizia serva:
Ma quando poi s'accorge che un bel serto
D'oro il collo le cinge, e lei preserva,
Si astiene dal ferirla, e mesto e lasso
Rivolge indietro l'affannato passo:
Così torna Rinaldo in sua ragione,
Da poi che l'esser della donna intende;
E le dice: Quand'io ebbi intenzione
Di quel che Amor ne invoglia e istiga e incende
Pel vostro bello le nostre persone,
Io non pensai che dentro a regie tende
Voi foste nata, e che foste regina;
Ma vi credetti donna da dozzina.
Or ditemi, signora, se v'aggrada,
Come andò questo fatto così fiero;
Perchè io su questa lancia e questa spada
Vi giuro vendicarvi da dovero.
La donzella di flebile rugiada
Bagnò le gote, e disse: Cavaliero,
Ben è dover che tu sappia ben tutte
Le mie sventure spaventose e brutte.
[109]
Amor fu la cagion de' miei tormenti.
Or odi come: In Asia le donzelle
Stan chiuse tanto agli occhi delle genti,
Che appena veggion Sol, veggiono stelle;
Nè fia che regia culla alcuna esenti:
Solo un giorno dell'anno le più belle
Vanno al tempio ove Venere s'adora;
Ed io v'andava con mille altre ancora.
Tre anni sono (ed ahi perchè non era
Io morta prima di quel dì fatale!)
Tra molta e molta gente forestiera,
Giovane tutta e tutta quanta gale,
Il figliuolo del re della Riviera
Vi venne; ed era bello, appunto quale
Ganimede dipingesi, o Narciso;
Ma vie più bello ancora era il suo viso.
C'incontrammo con gli occhi, e in un baleno
Io mi sentìi ben divampare il petto;
Ed egli dimostrommi arder non meno.
Tutto quel giorno (ahi giorno maledetto!)
Nostre pupille senza guardia o freno
Fermate e fise nel soave aspetto
Non vider altro, insino che non giunse
L'invida notte, ed ambedue disgiunse.
Quando tornai nella mia usata stanza,
Pensa s'io piansi e s'io mi disperai;
Chè nutrir non potea tanta speranza
Da rivederlo un'altra volta mai.
Ma che non puote la somma possanza
D'Amore e de' pungenti almi suoi strai?
Trovò maniera il giovin tutto fuoco
Di venirmi a trovar nel chiuso loco.
[110]
Presentossi al mio padre Galafrone
Vestito ad uso delle donne d'Ida;
E disse, come aveva intenzïone
Di esser una di mie ancelle fida.
La bella faccia del gentil garzone,
Sempre modesto, o che parli, o che rida,
Non fece sospettar di alcun inganno.
Così per serva il mio bel Sol mi danno.
Ciò che seguisse poi, bello è il tacere.
Basta che in poco tempio io venni donna:
M'ingrossò il ventre; e s'alto dispiacere
Io n'ebbi, il pensa. Nè la lunga gonna
Potea più ricoprir l'opre mie nere:
Ond'egli, Ne' perigli chi si assonna,
Mi disse, non ha spirito regale;
Nè vi è senza rimedio al mondo male.
Noi fuggirem, se ti dà il cuor, Lucina
(Chè tale è il nome mio), da questo albergo,
E nel mio regno tu verrai regina.
Diamo, gli dissi, pure al padre il tergo;
Lasciam Baldacca e l'ampie sue confina:
Nè il mio fuggir di poco pianto aspergo;
Perchè dove tu sei, vago Lindoro,
È il mio padre, il mio regno, il mio tesoro.
Aspettiamo una notte tenebrosa,
Orrenda per le piogge, lampi e tuoni
(Che non fa donna quando ella è amorosa!);
E giunta, andiamo per sentier non buoni,
Ed entriamo in un bosco; e quivi ascosa
Seco mi stetti tra tigri e lïoni
Due giorni. Indi partimmo in verso il mare;
Ma legno alcun sul lido non appare.
[111]
La notte, ecco una fusta di pirati
Che viene a terra per cercar conforto;
Da' quai fummo in un subito legati,
E l'amor mio piagâr sì, che fu morto.
Me poi donaro gli uomini spietati
A quel gigante che tu festi corto;
E quei mi diede poscia in guardia a quelle
Belve cotanto mostruose e felle.
Or eccoti narrati i casi miei,
Che muovere a pietà dovrìano il cielo.
Dimmi ora tu, forte campion, chi sei.
Rispose allor Rinaldo: Sebben celo
Il nome mio, e ad altri nol direi,
A te, bella Lucina, ecco lo svelo.
Io son Rinaldo, il sir di Montalbano,
Degno cugin del senator romano;
Ed in Baldacca ti rimeneròe
Alla barba d'Apollo e di Macone,
E con tuo padre ti raggiusteròe.
Ma se Lindoro è morto, e non si pone
In dubbio; se felice esser potròe
O per amore o per compassïone,
Io ti prego, Lucina, di pigliarmi
Per tuo marito, e voler sempre amarmi.
Eh! non è tempo di parlar di nozze
(Disse Lucina, e fecesi più bella):
Le bionde trecce scarmigliate e mozze,
La faccia oscura troppo e abbronzatella,
E queste vesti anche a vil donna sozze
Odiano d'Imeneo l'alma facella.
Aspetta un po', non esser così caldo;
A casa mia ti sposerò, Rinaldo.
[112]
Il sir di Montalbano a quel parlare
Fece del viso una strana figura,
Com'uomo il quale mettasi a mangiare
Mela cotogna, o sorba non matura;
E disse: Proverommi ad aspettare;
Ma io m'attacco al ben della natura;
E ciò che l'arte aggiunge al vostro bello,
Io non lo stimo un marcio ravanello.
Però, se tu non sei d'oro vestita,
E non ti han fatto le camicie i ragnoli,
Senza capelli, nè molto pulita,
Non è che io di ciò dolgami, o ne sguagnoli;
Chè la salsiccia allora è più squisita,
Che ci metton più lardo i pizzicagnoli:
Ma pur, se vuoi che aspetti, io non ricuso;
Dico sol ben che questo è un cattiv'uso.
In così dire, uscîr della foresta.
Era Rinaldo sopra Vegliantino;
Lucina una giumenta assai modesta
Va cavalcando sempre a lui vicino:
Quando s'ode per aria una tempesta
Di lampi e tuoni, che il furor divino
Conoscere facea lontan le miglia:
Onde a Rinaldo s'inarcâr le ciglia;
E cominciossi a percuotere il petto,
E domandar perdon de' suoi peccati;
E si doleva d'esser sì soletto,
E non poter trovar preti nè frati,
Per far de' suoi peccati un fardelletto,
E porlo a piè degli uomini sacrati.
La donna nel vedere atto sì strano,
Disse: Che è questo? Ed egli: Io son Cristiano.
[113]
In questo mentre vedono una grotta,
E vi s'insaccan entro tutti due.
Il cielo intanto mormora e borbotta,
E ogni momento s'annerisce piùe;
Ed Austro ed Aquilon fanno alla lotta,
E i fulmini e le grandin cascan giùe.
Lucina spaventata stringe al collo
Rinaldo, ch'era gallo, e parve un pollo;
Perchè di queste cose avea paura
Il paladino, e non arebbe fatto
Mezzo peccato in quella congiuntura;
Benchè poi dopo si diede del matto
In ricordarsi quella positura:
Ma quando un uom si trova sopraffatto
Dal timore, riman tanto avvilito,
Che non ha forza pur di alzare un dito.
Venne la notte, e cominciò Lucina,
Poichè cessati fûro i lampi e i tuoni,
A interrogar Rinaldo, se confina
La legge e le cristiane funzïoni
Con i riti e la setta saracina;
E quai sono fra lor le distinzioni.
Disse Rinaldo: Io credo in Cristo al certo:
Del resto poi io non son troppo esperto;
E studiai poco più dell'alfabeto;
Chè diei la santacroce in capo al mastro;
Poi corsi armato alla fortuna dreto,
E soffersi più d'uno aspro disastro:
Onde non so dove ci dian divieto;
So ben che l'erbe in terra, in cielo ogni astro
Ha fatto il nostro Dio; e che vuol solo
Seco i Cristiani, e i Saracini in duolo.
[114]
E cominciava a dir qualche altra cosa,
Quando sentono smuovere una pietra,
Indi apparire una luce dubbiosa;
Onde la donna e il cavalier s'arretra:
Ed ecco uscir con faccia dolorosa
Uom che gli occhi volgea sovente all'etra,
Per veder se finita era la pioggia,
Che cadde il giorno in così dura foggia.
La donna fe' un starnuto; e cadde il lume
Per la paura all'uomo ch'io vi ho detto.
Rinaldo, ch'ebbe sempre un bel costume,
Disse: Sgombra il timore dal tuo petto,
Chïunque sei, che di duol ti consume;
E dicci, se non t'è noja o dispetto,
Perchè chiuso stai qui tra questi massi,
Misero imitator di volpi e tassi.
Diede un sospiro quell'uomo infelice,
Che avrebbe dato moto a una galera;
Poscia singhiozza, e risospira, e dice:
Bench'io faccia una vita qui da fera,
Bevendo acqua e mangiando erba e radice.
Regia culla mi accolse, e culla altera;
Ch'io nacqui il primo, e posso ancor, se voglio,
Mutar questa spelonca in regio soglio.
Ma qual vaghezza mai d'illustre trono
Aver può chi nemico è d'ogni spasso?
Fortuna e Amor mi fêro un dì tal dono,
Che un regno e cento egli è un confronto basso,
E tutto il mondo, se a lui il paragono.
Esse fêr di bellezze un ampio ammasso,
E poscia ne formaro una donzella,
Di cui non fu giammai cosa più bella;
[115]
E mi amava colei tanto di cuore,
E cotanto di cuore amava io lei,
Che non fu mai un sì perfetto amore,
O vogliate fra gli uomini o gli Dei:
Ma Fortuna, che varia a tutte l'ore,
Sparse di fiele i dolci piacer miei,
E mi tolse in un giorno il mio tesoro;
Per che mirabil cosa è, s'io non moro.
Lucina, a pietà mossa di tal caso,
Chè lo trovava al suo molto simile,
Chi sei? gli disse; ed egli: Dall'Occaso
All'Orto, o corri pur da Battro a Tile,
Uomo, qual sia in odio più rimaso
Alla Fortuna, e sè più tenga a vile,
Di me non troverai; però mi lascia
Ignoto sospirare in tanta ambascia.
Ma la donna, che fatta è da natura
Piena di voglie e di curiositade,
Quanto ei più nega, ed ella più procura
Di sapere il suo nome e sua cittade:
Ond'egli: Benchè ciò mi è cosa dura,
Io lo dirovvi; abbiatemi pietade:
Questo sepolto in grotta così nera,
Egli è il figliuol del re della Riviera.
Il disse appena, che Lucina un grido
Diede, e poi disse: O mio dolce Lindoro!
O sospirato mio marito fido!
O perduto finora almo tesoro!
O cara grotta, o di delizie nido!
Aimè, che per dolcezza io manco e moro!
Ma come vivi, e come qui venuto
Se' tu? con quale scorta e quale ajuto?
[116]
Allora ei le narrò come un pastore
Piagato lo trovò su la marina,
Che dell'erbe sapea l'alto valore,
E alle ferite sue fe' medicina;
Onde lo spirto rïebbe in poche ore,
E risentissi sano la mattina;
E pel dolor di non averla seco,
Disperato si chiuse in quello speco.
Rinaldo, che informato era di tutto,
Fece i conti che meglio era partire;
Già ch'è un cattivo stare a dente asciutto,
Quando si vedon gli altri assaporire
Totani e sfoglie fritte nello strutto,
Che hanno un odor che ti farìan guarire
Un'ora dopo ancor degli olj santi.
Partissi dunque, e lasciò lì gli amanti.
Or qui s'incominciò la bella festa
Fra i lieti amanti e le dolci parole,
Che a narrarle sarìa opra molesta:
Tanto più che da me non mai si vuole
Parlar di cosa all'onestade infesta.
Eh parliam di Rinaldo, che si duole
Di aver perduta ogni speranza, e cheto
Fugge pel bosco, e piange in suo segreto.
Cavalcò fino a giorno, e al far del die
Si ritrovò nel mezzo a due montagne,
Alte così, così perverse e rie,
Che non le avrian salite o volpi o cagne;
Ed eran tutte ricolme di Arpìe,
Di quelle che si chiamano grifagne.
Or qui comincia una guerra crudele:
Ma vo' per poco ora raccor le vele.
[117]
Su per le schiene d'orrida montagna
Col ferro mille Arpìe Rinaldo uccide.
Al suo morto destrier nella campagna
Alza un sepolcro, e un epitaffio incide.
Trova ricovro, dove beve e magna;
E d'un romito strano assai si ride.
Sopra Angelica alfin venne alle brutte
Col reverendo padre Ferrautte.
Chi campa, si ritrova a cose strane;
E niuno sa com'ella ha da finire.
Se oggi si ride, si piange domane;
Se oggi ti trovi in tasca cento lire,
E avanzeratti a mensa il vino e il pane,
Un altro dì ti sentirai morire
Per la gran fame; e sì delle altre cose
Avvien, ch'ora son liete, ora dogliose.
Ho visto, e non son vecchio, a' tempi miei
Gente vestita tutta quanta d'oro,
Con gran staffieri e belle mute a sei
Andar per Roma con tanto decoro,
Che detto avresti: O questi sono Dei,
O cardinai che vanno a concistoro;
E quei stessi veduti ho pur meschini
Chiedermi per mercè pochi quattrini.
[118]
In somma la virtù sol non vien meno,
E non si cangia per quella sguajata,
A cui del male e ben diè in mano il freno
La turba de' mortali sconsigliata;
Dico Fortuna, che in men d'un baleno
La vedi in mille guise trasformata:
Fortuna, femminaccia di bordello,
Che sempre muta o con questo o con quello.
Rinaldo, che fu sempre spelacchiato,
E non ebbe due soldi al suo comando,
E quando gli ebbe, non fu misurato,
Chè gli spese or bevendo, ora giocando;
Pur, perchè di valore ei fu dotato,
Di Fortuna si rise col suo brando;
Quel brando fatto dalle streghe in fretta,
Che ferri e marmi, come rape, affetta.
E se mai ebbe d'uopo d'esser forte,
E di saper menar le mani bene,
Fu questa volta, in cui presso alla morte
Sarìa ridutto; chè, se vi sovviene,
Da Lucina partito, e suo consorte,
Entrò ben tosto in un gran mar di pene;
Perchè appena ammezzata ebbe la via
Dell'aspro monte, che il vide un'Arpìa;
E tosto sopra lui calò di piombo,
E diede segno all'altre sue compagne;
E come falco che aggraffia il colombo,
Se avviene che dagli altri si scompagne;
Così, facendo un spaventoso rombo,
Cadder sul cavalier le Arpìe grifagne;
Il qual, sentendo stringersi la testa,
Disse: Poffariddio! che cosa è questa?
[119]
Ed alzate le mani in un istante,
Sentì le zampe e le ugnacce ferine;
E presane una con forza bastante,
Le tirò il collo come alle galline;
Poi con la nuda spada e fulminante
Si mise a dar dei colpi senza fine;
Ed a chi il becco, a chi l'ali tagliava;
Nè colpo in vano mai da lui si dava.
E già d'intorno s'era fatto un monte
Di artigli e penne, e di bestiacce uccise.
Ma che pro, se un migliajo ei n'ha alla fronte,
E mille a tergo e d'avanti divise?
Cento e più mila, che poi furon conte,
Eran le Arpìe con le quali si mise
A pugnar solo il povero Rinaldo:
Ora pensate voi, s'egli ebbe caldo.
Fortuna ch'egli avea l'armi fatate,
E non poteansi rompere per nulla;
Altrimenti le avrebbero spezzate,
E morto lui come un bambin di culla.
Vegliantino, scordato dalle Fate,
Fu fatto in pezzi. Or pensate se frulla
Il cervello a Rinaldo, che si vede
In tal periglio, e di più messo a piede.
Ma pur con la fatica a lui la lena
Sempre si accresce, e fa de' colpi belli:
Parte un'Arpìa per mezzo della schiena,
Ne sfonda un'altra, ed esconle i budelli;
Un'altra senza capo in su l'arena
Getta, e ad un'altra pota ambo gli ugnelli.
In somma morîr tutte; e le ferite
Furon diverse, e fur quasi infinite.
[120]
Dopo un sì strano orribile macello,
Cadde Rinaldo stracco in su la terra;
E poscia rïavutosi da quello,
Che mi val, disse, da sì dura guerra
Esser uscito con onor, se il bello
E forte mio destriero ito è sotterra?
Se Vegliantino mio è ucciso e morto,
Vegliantin mio compagno e mio conforto?
E qui raccolse le sue membra sparte,
E rïunille al meglio che potette;
E fatto un fosso, dove in due si parte
Un monticel che ha mille varie erbette,
Dentro vel pose: e ciò fe' con tal arte,
Che parve intero; e poscia vel chiudette
Con spine, sassi e terra; e in fin si messe
Inginocchioni, e un bacio su v'impresse.
E perchè non svanisse in modo alcuno
La memoria di bestia sì gradita,
Pensò Rinaldo di vestirsi a bruno,
E andare a piè per tutta la sua vita,
E di ciò dirne la ragione a ognuno;
E perchè vuole che resti scolpita
La sua fama in eterno, queste note
Scrisse, bagnando di pianto le gote:
Qui giace Vegliantin, caval di Spagna,
Orrido in guerra, e tutto grazie in pace:
Servì Rinaldo in Francia ed in Lamagna,
Ed ebbe ingegno e spirto sì vivace,
Che averebbe coi piè fatto una ragna:
Accorto, destro, nobile ed audace,
Morì qual forte e con fronte superba:
O tu che passi, gettagli un po' d'erba.
[121]
Scritto questo epitaffio sopra un sasso
Col sangue delle Arpìe e con la spada,
Seguitò il suo cammino passo passo;
Ma non sa dove sia, nè ove si vada:
Quando vide da lungi a piè di un masso
Un uom che fiso in verso il ciel sol bada;
A lui s'accosta, e lo vede vestito
Di rozzo sacco a guisa di romito.
Avea Rinaldo ancora la visiera,
Chè teme pure di qualche altra Arpìa;
Ed armato così, la buona sera
Dàgli; e il romito dice: Avemmarìa;
E narra come un peccatore egli era.
Rinaldo: Vorrei farvi compagnìa,
Disse, stanotte. Ed ei: Ne son contento;
E così nella cella entraron drento.
E in levarsi la pesante armatura
Narrògli come affatto avea distrutte
Quelle Arpïacce che gli fêr paura.
Il buon romito le pupille asciutte
Non tenne pel piacer di tal ventura,
E disse: Cavalier, son morte tutte?
Morte son tutte, e le ho morte sol io.
Ed ei: Campione, ringrazianne Dio.
E dissero un Te Deum sì scimunito,
Che non storpiaron tanto Vegliantino
Quegli uccellacci dall'artiglio ardito,
Quanto essi quel bel cantico divino;
Perchè Rinaldo non ebbe appetito
In vita sua di volgare o latino;
E l'altro l'ebbe a noja a' giorni suoi:
In conclusione egli erano due buoi.
[122]
Finito il prego, Rinaldo gli disse:
Chi siete, padricello? Ed ei: Non posso
Dirlo a veruno; ed ho fatto più risse
Per occultarmi: e qui si fece rosso.
Rinaldo aveva in lui le luci fisse;
Nè al buon Rinaldo levava d'addosso
Il romito le sue: e in questa guisa
Stati un poco, poi dieder nelle risa.
Ed esclamando il sir di Montalbano,
Disse: La volpe vuol ire a Loreto.
Ferraù frate? Ferraù pagano?
Deh! sciframi per Dio questo segreto;
Ch'io non so se mi sia in monte o in piano,
In una cella, o pur 'n un sughereto.
Tu col cappuccio, e con la fune ai fianchi?
Tu, Ferraù, percotitor de' Franchi?
Ma se tu sei del buon umor di pria,
Costerà caro a queste pastorelle
Cercar funghi, o passar per questa via;
Chè se avesser di piombo le gonnelle,
Tu le alzaresti con gran leggiadrìa:
Lo san di Francia le madamoselle,
Che fûro il segno della tua lussuria;
Onde ora v'è di vergini penuria.
Rinaldo mio, io son già morto al mondo,
E più non penso a queste porcherie,
Che danno gusto, ma mandano al fondo
Del brutto inferno, ove son altre Arpìe,
Che quelle del cui sangue festi immondo
Il vicin monte: v'ên bestie più rie
(Rispose Ferraù modesto in viso):
E i lascivi non vanno in paradiso.
[123]
Io questo ben sapea ch'era tantino,
E il numero dicea delle peccata:
Onde il maestro davami il santino
(Disse Rinaldo). Ma tu qual chiamata
Avesti per passar da Saracino
Alla greggia di gente battezzata?
Ed egli a lui: La storia è un po' lunghetta.
E Rinaldo: Di' pur, chè non ho fretta.
Ma meglio fia che noi mangiamo un poco,
Avanti che cominci il tuo racconto.
Ferraù disse: Io non accendo foco;
Vino non bevo, e non mangio dell'onto,
E la spesa risparmiomi del cuoco:
Con lo digiuno le mie colpe sconto;
Ma se vuoi fichi secchi ed uva passa,
Io n'ho di molti dentro a quella cassa.
Già che tu non hai altro, io mangerò
E l'uva e' fichi, amato Ferraù.
E a' piedi della cassa si assettò;
E il frate con le man fece Gesù,
Benedicendo il cibo; e divorò
Rinaldo sì, che nella cassa più
Da mangiar non rimase; e fuor po' uscì,
E bevve a un fonte ch'era su di lì.
E quindi ritornato nella cella:
Orsù, comincia adesso la tua storia,
Che mi figuro che voglia esser bella.
Ed egli per svegliare la memoria
Grattossi il capo, e scosse le cervella,
E disse: Sia di Dio tutta la gloria;
Chè tutta è grazia sua, tutto è suo dono,
Se quel che un tempo fui, or più non sono.
[124]
Hai dunque da saper, forte Rinaldo,
Che quando sì d'Angelica mi accesi,
Che non fu ferro al fuoco mai sì caldo,
Quant'io era, sua mercede (O male spesi
Pianti e sospiri! O mal costante e saldo
Amor, per cui lo mio Fattore offesi!
Ma il fatto è fatto, e non si può disfare;
E spero in Dio che se n'abbia a scordare);
Feci per lei, se ben te ne sovviene,
E teco e con altrui battaglie strane;
Ed uccisi tanti uomini da bene,
Che a narrarli non bastan settimane:
Ma la crudel non volsemi mai bene,
E strapazzommi sempre come un cane:
Alfin fuggissi in India con Medoro;
Che quando il seppi, io caddi di martoro;
E mi prese tal voglia di morire,
E terminar così la mia disgrazia,
Che nel Cattai mi risolsi d'ire,
E colà guadagnarmi o la sua grazia
Con le belle opre o col lungo servire,
O disperato in fine lei far sazia
Del sangue mio. E così stabilito,
Vo cercando di navi in ogni lito.
Una ne trovo al porto di Valenza,
Che andava proprio al regno di Cattai,
E conduceva quantitade immenza
D'uomini e donne, e d'altre cose assai.
Il nocchiero mi accorda la licenza
Di salir sopra; e il nolito fermai:
Il dì dipoi si sciolsero le vele;
E il mare or fu benigno, ora crudele.
[125]
I tuoni, le procelle e le tempeste
Non ti so dire, ed i mortai perigli:
Ma per me tutte erano gioje e feste;
Chè aveva di morir mille consigli:
E sol talora m'erano moleste;
Chè ricreare un'altra volta i cigli
Avrei voluto col mirar quel viso,
Che mi pareva proprio un paradiso.
Nè nulla ti dirò dei fieri mostri
Che vanno errando per quelle marine:
Non sono punto somiglianti ai nostri;
Chè hanno più teste e più pungenti spine:
E le balene, che pe' mari vostri
Sembran grandi, appo lor son piccoline.
Basti di dir, che spesso là rïesce
Equivocar tra un'isola ed un pesce.
Un dì che irato il tridentier Nettuno
Tentò rapirci nel suo sen profondo,
Cozzò la nostra nave all'aër bruno
'N un'isola, e si aperse, e quasi al fondo
Ella ebbe a andare; e ne temette ognuno.
Scendemmo in terra, e d'ogni grave pondo
L'alleggerimmo, e rassettammo appresso;
E più dì stemmo in su quel luogo stesso;
E, come si costuma, immenso foco
Si accese per cibar tanta genìa
Che scesa dalla nave era in quel loco:
Quando ecco l'isoletta che va via,
E la nave va seco; e a poco a poco
Ci accorgiam come cosa viva sia.
Per entrar nella nave ognun si affolla,
E pel timor chi affoga e chi si ammolla.
[126]
Dopo due ore di ravvolgimento
L'orca spietata ci mostrò la fronte,
E poi l'immensa bocca, e il brutto mento.
Alta e larga così, che arco di ponte
Non vidi mai (e n'ho visti da cento
Su le fiumane più famose e conte);
E di sopra e di sotto acuti e spessi
Denti ella aveva a guisa di cipressi.
Il nostro capitan disse: Siam morti:
Ecco che tutti ella c'ingolla crudi,
Nè v'è chi ci difenda e ci conforti;
Chè qui non servon nè lance nè scudi,
Nè cavalieri generosi e forti,
O coperti di maglia o affatto ignudi.
In un boccone, in un serrar di bocca
Nel suo gran ventre la nave trabocca.
In questo mentre, a guisa di ranocchio,
Presa un'antenna in man, gli salto sopra
La testa, e glie la pianto in mezzo a un occhio.
L'orca per lo dolor urla, e s'adopra
Di trarsi fuor quel gambo di finocchio;
Ma io non perdo mica il tempo e l'opra:
Ne prendo un'altra, e fo il medesimo atto,
E la bestia crudele accieco affatto.
Così ci liberammo quella volta.
Or vedi come son quei pesci grossi.
Giunsi in fine al Cattai, e in fretta molta
In verso di Baldacca il piede io mossi;
Baldacca, dove ogni bellezza è accolta,
Che feo varj terren di sangue rossi:
Tanti erano i desìi, tante le voglie,
Che aveva ciaschedun di averla in moglie.
[127]
Entro in Baldacca, e trovola dogliosa
Per la morte del principe Medoro;
E la sua corte oscura e tenebrosa.
Di Angelica dimando ad un di loro;
E mi risponde, com'è lacrimosa,
E come strappa i suoi capelli d'oro,
E come chiusa in solitaria stanza
Odia ogni festa, ogni gioja, ogni danza.
Ma che il suo vecchio padre Galafrone
Pensa a trovarle un novello marito,
Il qual sia in armi un celebre campione;
Perchè è signor d'un popolo infinito,
Ed ha nemici c'han grosso rognone,
E lo potrebber porre a mal partito:
E disse che volea spedire a posta
Al conte Orlando, e fargliene proposta.
Risposi: Vanne a Galafrone, e dilli
Che non spenda monete nel corriero;
Chè Orlando ha pien la testa ancor di grilli,
Ed è per tutti i capi un pazzo vero:
Ma che c'è un tal, che fuora è de' pupilli,
Perfetto spadaccin, perfetto arciero;
Uom che solo potrebbe, e disarmato,
Tutto quanto difendere il suo Stato.
Ebbe a scoppiar quell'uomo dalle risa,
Udendomi parlar di cotal modo;
Ma pur disse: Farò come divisa
La tua persona, che per franca io lodo;
Ma non so poi se nella stessa guisa
L'opre saranno alle parole che odo.
Poca uva fa la vigna pampinosa;
E il dire e il far non son la stessa cosa.
[128]
Io, che mai non conobbi pazïenza,
Nè vo' che mi si replichi parola,
Vedendo che al mio dir poca credenza
Mostra colui, lo prendo per la gola,
E glie la stringo con tanta potenza,
Che l'alma dal meschin tosto sen vola.
Corre tutta la piazza a questo fatto,
E mi son sopra più di mille a un tratto.
Io con quello strozzato ancora in mano
Lo giro a tondo, e mi faccio far lato;
Poi lo scaglio da me tanto lontano,
Che Galafron, ch'era al balcone andato,
Udendo quel tumulto così strano,
Ebbe a restarne quasi sfragellato:
E lo spezzava appunto come un vetro;
Ma lo colpì con le parti di dietro;
E disse: Corpo del nostro Apollino,
Chi fa volar sì in alto le persone?
Non soffia già Scirocco nè Garbino,
Nè gli uomini son foglie o polverone,
Che facciano per l'aria il lor cammino:
E manda in piazza il duca del Cordone,
Onde s'informi di quella faccenda;
Ed il chirurgo intanto lo rammenda.
Arrivato non era ancora in piazza
Il duca, che, snudato il fiero brando,
Aveva ucciso ormai di quella razza
Più di un migliajo; e pur ferìa scherzando:
Onde slargossi il cerchio; e, Ammazza, ammazza,
Diceano da lontano, e ancor tremando.
Il duca, nel veder sì gran macello,
Mi fe' un saluto, e si cavò il cappello;
[129]
E disse: Generoso cavaliere,
Perchè avvilirti con questa canaglia?
La quale, se t'ha fatto dispiacere,
Non ha viva nè morta come vaglia
A soddisfarti conforme è il dovere.
E prega seco che in palazzo io saglia;
E mi assicura che il re Galafrone
Mi vederà con gran soddisfazione.
La cortesìa fra l'armi non disdice,
Io dissi a lui, e rinfodrai la spada.
Fra tanto al re corre un staffiero, e dice,
Come io per girne a lui preso ho la strada.
Galafron vienmi incontro, e maledice
Il punto e l'ora nella quale io vada
A ritrovarlo; pur compone il viso,
Meglio che puote, a contentezza e a riso;
E mi abbraccia, e mi bacia nella fronte,
E vuol ch'io sieda sotto il baldacchino;
Nè v'è baron, nè v'è marchese o conte
Che mi parli, se non col capo chino.
E dettomi di lodi un mare, un monte,
Mi chiese s'i' era Franco o Saracino.
Saracino, risposi; e men compiaccio,
E adopro per Macon la spada e il braccio.
Quindi gli presi a dir, come a Parigi
Fui qualche tempo, e d'ogni paladino
Provai le lance, e vi feci prodigi;
Nè tu, nè il tuo sì celebre cugino
Abbatter mi potero, e Malagigi,
Ancorchè avesse i diavoli in domìno:
In fin gli dissi, come Amor mi prese
Della sua figlia, e di lei il cor mi accese;
[130]
E ch'appunto venuto era al Cattai
Per vederla di nuovo, e poi morire.
E in ciò dicendo, di pianto bagnai
Le gote, e fei quel vecchio impietosire;
Talchè mi disse: Forestier, che hai?
D'ogni male si può sempre guarire,
Toltane morte; però ti consola,
Che per moglie averai la mia figliuola;
E con essa vo' darti in dote il regno,
Giacchè Lucina l'altra figlia mia,
Da noi fuggendo, fece un atto indegno.
Rinaldo disse allor: Non molta via
È da noi lunge, e consorte ben degno
Ha seco, e sono bella compagnìa.
E tutta a lui narrò la varia istoria
Di quegli amanti, degna di memoria.
Poi gli disse: Ripiglia il tuo racconto;
Chè l'ora passa, e il moccol si consuma.
Rispose Ferraù: Sempre son pronto;
E se questo si estingue, altro si alluma;
Chè di cera non tengo molto conto.
Ho di molte api; e nell'orrida bruma,
Quando l'aria è più fredda e più crudele,
Io mi diverto in far delle candele.
Ferraù, tu mi fai strasecolare,
Disse Rinaldo, e si battè su l'anca.
Tu prima non volevi che trescare
In bordelli e in taverne, e su la manca
E su la dritta ed in giro trottare;
Ed or ti metti a far la cera bianca?
Ma tu non mica puoi durarci assai;
Chè il pel si cangia, e 'l costume non mai.
[131]
La grazia del Signor qui mi tien forte.
Ma ritorniamo al nostro Galafrone,
Che mi vuol dar la figlia per consorte.
Quando egli tanta grazia mi propone,
Mi diè per lo piacer quasi la morte;
E feci sul terreno un stramazzone,
Che fui creduto morto; ma ben presto
Ritornai in piedi vigoroso e lesto.
Intanto egli spedito alla sua figlia
Aveva un messo, acciò venisse in fretta:
Quando che io vedo (o rara maraviglia!)
Farsi l'aria più quieta e più perfetta,
E splender tanto, che strigner le ciglia,
Per non vederla, l'alma fu costretta:
Alfin le apersi, e le apersi in quel punto
Che il bell'idolo mio era lì giunto.
Non ti so dir quel che mi parve allora
La bella donna: certo mortal cosa
Non la credetti, e non la credo ancora.
Sotto un oscuro velo era nascosa;
Ma di lei parte ne apparìa pur fuora,
Siccome sul mattin vermiglia rosa,
Che tutta non si mostra e non si cela,
O come il Sol che per nube si vela.
Apparivan di fuor la bocca e il mento,
L'eburnea gola e il delicato seno;
Ma il vel sì non copriva il bel di drento,
Che fuor non tralucesse il bel sereno
Degli occhi suoi, benchè tal poco spento
Dal duolo, onde il suo cor era ripieno:
Ma rugiadose ancor, sempre son belle
In cielo le vivaci e chiare stelle.
[132]
Ma perchè teco la beltà di lei
Cerco adombrar, che n'hai notizia tanta?
In somma riguardandola perdei
E voce e moto, e rimasi qual pianta
Un dì restò sopra il Penéo colei
Ch'ora è mercede a chi gentil più canta.
Volli parlare, e non formai parola;
Chè la voce restommi entro la gola.
Alzato in fine l'odïoso velo,
Guardommi, e parve serenarsi in parte;
Ma ritornaro tosto in quel bel cielo
Più nuvolette, benchè rare e sparte.
Quindi, qual fior che sul nativo stelo
O l'aura tocca, che d'Africa parte,
O lieve pioggia, od altro avvenimento,
Che si vede mancare in un momento;
Così, nel veder me, tutte ad un tratto
Le sovveniro le cose di Francia;
E di Medoro suo, d'Orlando matto
Rammemorossi, e impallidìo la guancia;
E venne meno in un baleno affatto,
Quasi percossa da colpo di lancia.
In braccio me la reco, e la conforto;
E a darsi pace, quanto so, l'esorto.
Vengon le donne, e la pongono a letto,
E il medico si chiama; e incontanente
Le tasta il polso, e negli omeri stretto,
Dice: Qui l'arte mia non fa nïente;
Che Angelica mi par morta in effetto;
Chè non vede, non ode e nulla sente.
Ciò detto, s'alza un pianto sì crudele,
Che fino al ciel ne vanno le querele.
[133]
Pensa, Rinaldo mio, come restassi:
A quella vista mi volli ammazzare;
E poco andò che allor non mi gettassi
Da una finestra; e si potea ben fare;
Ch'era alta almeno cinquecento passi:
Ma Iddio, che voleami riserbare
A questa vita santa e luminosa,
Mi mise in testa un'altra miglior cosa:
E fu di ritornare al mio paese;
Giacchè fortuna m'era sì contraria.
Dunque con Galafrone io piansi un mese;
Poi quando a intiepidir cominciò l'aria,
Presi una nave tutta a proprie spese;
Chè andar con gente molta e gente varia
Mai non mi piacque; ed alfin salvo e sano
Un giorno mi trovai sul lito ispano.
Rinaldo, riguardandolo in cagnesco,
Gnaffe! gli disse, tu la festi grossa:
Angelica trattotti da Tedesco;
Ch'ella non morì mai; chè bianca e rossa
Vive, ed un altro amante have al suo desco.
Tu mi faresti ritornar la tossa,
Ferraù gli rispose; e Dio ringrazia,
Che ho voto di far bene a chi mi strazia.
Senza voto, darestimi di barba
Due dita, e un poco più sotto le rene,
Disse Rinaldo con la faccia sgarba.
E Ferraù: Gli è Cristo che mi tiene
In pace; onde il demonio non mi sbarba
Del mio proposto di farti del bene;
Ma mi faresti il bel servizïone
A non mi porre nell'occasïone.
[134]
Io non ti levo, e non ti pongo in essa,
Disse Rinaldo; ma vo' dire il vero:
Angelica con te sempre è la stessa,
E t'odia più, che lepre un can levriero.
Cotesta barba tua sì folta e spessa,
Cotesto viso smunto, giallo e nero,
Cotesto corpo vôto di carname,
Ti pajon cose da piacere a dame?
S'una donna trovassi a te simìle,
Che dovessi per forza avere in moglie,
Seppellir vivo in mezzo d'un porcile
Mi farei prima, e patire' altre doglie.
Angelica sì bella e sì gentile,
Ove ogni grazia certo si raccoglie,
Avea trovata la bella ventura
A pigliar sì terribile figura.
Di' pur, fratello mio, ch'io ti perdono:
E presa Ferraù la disciplina,
Batteasi forte sì, che parve un tuono.
Disse Rinaldo: Sino a domattina
Per me séguita pur cotesto suono.
Ma quella fune è troppo piccolina:
S'io fossi in te, o Ferraù beato,
Mi frusterei con un bel coreggiato.
Io ti vorrei corregger con modestia,
Se si potesse, disse Ferraù;
Ma tu sei troppo la solenne bestia;
E, a dirla giusta, non ne posso più.
Disse Rinaldo: Disprezzo e molestia,
Sofferta in pace, è grata al buon Gesù.
Ma tu sei, per la Vergine Maria,
Romito falso, e più briccon di pria.
[135]
A quel dir Ferraù gli diè sul grugno
La disciplina sua cinque o sei volte;
E Rinaldo affibbiògli un cotal pugno,
Che gli fe' dar dugento giravolte.
Dicea Rinaldo: Frate, s'io t'augno,
Le tue basette non saran più folte.
Ferraù non risponde, e intanto mena
A Rinaldo la frusta in su la schiena.
Prende Rinaldo il frate pel cordone,
E sì lo tira, che quasi l'ammazza.
Un zoccol Ferraù nel pettignone
Scaglia a Rinaldo, e a terra lo stramazza,
D'onde sorge, e ritorna alla tenzone.
Ma nel mentre che ognuno urla e schiamazza
S'ode un gran picchio all'uscio della cella,
Che introna a' combattenti le cervella.
E grida Ferrautte: Ave Maria;
E mena intanto un pugno al buon Rinaldo.
Gridano, Aprite, quelli della via;
Ma niun si muove, ed in pugnar sta saldo.
Pur Ferraù dall'oste si disvìa,
E sbuffando per l'ira e per lo caldo,
S'affaccia al bucolino della chiave;
Poi spranga l'uscio con pesante trave;
E grida: Aprir non voglio a gente armata.
Risposer quei di fuora: Con le nocca
Questa porta t'avrem presto sfasciata.
Rinaldo, che ode il frate che tarocca,
Ogn'ingiuria da lui presto scordata,
Apri pur, disse, a questa gente sciocca;
Chè assai ben presto li farem pentire
Di tanta lor baldanza e tanto ardire.
[136]
Aperse il buon romito; e dentro entraro
Quattro soldati forti e nerboruti.
Or, belle donne, voi avreste a caro
Saper chi ên questi, e perchè qui venuti.
Abbiate flemma, e non vi sembri amaro,
Se mi riposo; e se il Signor ci ajuti,
Nell'altro canto voi saprete il tutto,
Qual forse forse non parravvi brutto.
[137]
I paladini, ritrovato Orlando,
Lo tornan savio col pestargli il corio;
Trovan Rinaldo che si sta sgrugnando
Con frate Ferraù nel romitorio.
Carlo è assediato; e intanto essi incappando
Dentro la rete, cantansi il mortorio.
Ferraù i due giganti a Dio converte:
Con le ragazze Astolfo si diverte.
Amore ed il vajuol sono due mali,
Che tristo quei che gli ha fuor di stagione:
Pe' giovinetti son medicinali,
Chè migliorano lor la complessione;
Ma pe' vecchi son critici e mortali;
Chè un gli ammazza senza discrezione,
E l'altro ognora a tal pazzìa li mena,
Che li fa di ciascun favola e scena.
Quando si giugne ad una certa età,
Ch'io non voglio descrivervi qual è,
Bisogna stare allora a quel ch'un ha,
Nè d'altro amante provar più la fè:
Perchè, donne mie care, la beltà
Ha l'ali al capo, alle spalle ed a' piè;
E vola sì, che non si scorge più
Vestigio alcun ne' visi, dove fu.
[138]
Nè uomo avanzato a giovinetta acerba
Pensi piacere, ancor che lo mostri ella;
Chè sempre pasce volentier più l'erba,
Quando verdeggia, la vezzosa agnella,
Che il fieno che pel verno si riserba:
Nè smanigli, nè vezzi o molte anella,
Che tu le doni, il cor le fanno lieto,
Sì ch'ella non ti abborra in suo segreto.
Ma perchè la natura v'ha formate,
Donne mie vaghe, come le cipolle,
Cioè di mille scorze v'ha cerchiate,
Che non vien fuor quel che dentro vi bolle;
Con gran facilitade c'ingannate:
E tal per vostro amor s'alza e s'estolle,
Che voi l'avete in odio; e tal condanna
Vostro rigor, che amor per lui v'affanna.
Felice il nostro senator romano,
Io dico Orlando, se a questo pensava,
Quando invaghito del bel viso umano
D'Angelica, per lei sì sospirava,
Ch'era sentito le miglia lontano;
E se ben era una persona brava,
Amor di lui non dimostrò temenza,
Ma lo trattò con somma impertinenza:
Perchè gli tolse di modo il giudizio,
Che matto eguale a lui non ebbe il mondo.
Mandò Provenza e Spagna a precipizio;
E in Gibilterra delle vesti il pondo
Lasciato, in mar gettossi, e prese ospizio
D'Africa opposta nel lido infecondo;
Dove morto restava certamente,
Senza l'aita della Franca gente:
[139]
Perchè, come narrai nel primo canto,
Udito Carlo sì strano successo
Del suo buon conte, si disfece in pianto,
E voleva cercarlo da sè stesso;
Ma da' baroni, che gli erano accanto,
In modo alcuno non gli fu permesso;
Ma tutti si offeriron di cercarlo,
E, o pazzo o savio, a casa rimenarlo.
Si uniro insieme il valoroso Alardo,
Come s'è detto sopra, e il duca Astolfo,
E ne venne per terzo il buon Ricciardo;
E l'arrivaro allora che pel golfo
Di Gibilterra senza alcun riguardo
Iva sì presto, che di nitro e zolfo
Pieno per l'aria non volò mai razzo,
Come vide per l'acque andar quel pazzo.
Lo trovaron disteso in su l'arena
Con poca forza: e ciò fu buona cosa;
Perchè lo cinser di forte catena,
E lo portaro in fresca grotta ombrosa,
Ove del collo gli apriron la vena;
E venne il sangue in copia prodigiosa,
E parve allor che migliorasse a un tratto:
Ma non sì presto si guarisce un matto.
Cinquanta bastonate a ciascun'ora
Gli davano i pietosi paladini,
E pane asciutto ed acqua della gora:
Rimedj in vista barbari e ferini;
Ma senza lor sarebbe pazzo ancora;
Sicchè quei furon rimedj divini:
E ritornaro Orlando in sanitate
Molt'acqua, poco pane e bastonate.
[140]
Altri cantò, che in corpo della luna
Astolfo ritrovò quelle anguistare,
Ove il cervel de' pazzi si raduna;
Ma fu menzogna bella e singolare;
Chè nel suo grembo non v'è cosa alcuna:
Ma il mangiar poco e il molto bastonare
È l'anguistara sì miracolosa,
Che fa tornare il senno ad ogni cosa.
Venuto dunque in sanitade Orlando,
Guardò fisso nel viso a tutti tre,
E disse: Ove siam noi? e dove e quando
Io venni qua, e voi siete con me?
Dissegli Astolfo: Non star domandando,
Ed umile ringrazia il sommo Re,
Che liberato t'ha da un gran malore,
Da cui son rari quei che n'escon fuore.
Ma qui volendo sapere il suo male,
Gli disser come egli s'era ammattito,
E fatta aveva una vita bestiale;
E che da Carlo sì gran caso udito,
Spedita avea la corte baronale
Per ritrovarlo. Onde in volto arrossito
Disse Orlando: Amor dunque iniquo e fello
Tolto m'aveva tutto il mio cervello?
Or mentre stavan essi in gioja e festa,
A loro venne di Francia un araldo
Con nuova acerba, dolorosa e mesta,
Che per pioggia, o sereno, o gelo, o caldo,
Di Spagna ripigliassero la pesta;
E chiese, se fra loro era Rinaldo;
Perchè Carlo assediato orribilmente
Era da immensa saracina gente.
[141]
Udito ciò, si posero in cammino
Subitamente i forti cavalieri:
Ma non sapendo il sentier più vicino
Per terra (e a riva non v'eran nocchieri),
Si dieder nelle mani del destino;
E camminato da due giorni interi,
A sorte s'incontraro una mattina
Entro una selva insieme con Lucina,
La qual sedeva appresso a suo consorte
Lieta così, che non si può ridire;
E ciarlava e rideva tanto forte,
Che lo stesso vederla era un gioire.
Orlando intanto e sua pregiata corte
Le sono avanti, e la fanno arrossire;
Perchè la salutaro umìli, ed ella
Risalutolli grazïosa e bella;
E richiesta da lor, s'ella sapea
Novella di Rinaldo, essa rispose,
Ch'obblighi eterni al suo valore avea;
E come spesso pugnando le pose
La vita in salvo, che fortuna rea
Volea levarle; e poi fra l'altre cose
Disse, che il terzo giorno era compito,
Che Rinaldo da lor s'era partito:
E con la mano mostrò lor la via
Ch'esso intraprese, e con calde preghiere
Ingiunse loro, che quando avvenìa
Di ritrovarlo, le fesser piacere
D'un saluto ripien di cortesìa,
Come mertava un tanto cavaliere;
E che dicesser lui, che sempre saldo
Nella sua mente starebbe Rinaldo.
[142]
Intanto Orlando guardava in cagnesco
Quella donzella, e disse a Ricciardetto:
Andianne, perchè son savio di fresco,
E quel mostaccio mi riscalda il petto.
Intese Astolfo, e gli disse in francesco:
Or taglio un palo, e presto presto il netto;
E ritorniamo a quella medicina,
Che noi ti demmo appresso alla marina.
Orlando chinò il capo, e partì via;
E gli altri tre gli vennero poi dreto,
E trovâr camminando una badìa
In mezzo d'un freschissimo lecceto.
Eran monachi di San Geremìa;
Mangiavan erbe, e bevevano aceto:
A tal che Orlando in vedergli pranzare,
Disse: Oh questi son pazzi da curare.
Disse Astolfo: Per Dio, ci manca il meglio,
Io voglio dire un pezzo di bastone.
Alzossi allora dalla mensa un veglio,
Ch'a guardarlo movea devozïone,
E disse: In noi, siccome in chiaro speglio,
Guardate voi, che a vana opinïone
Andate appresso, e il vero non vedete,
E vi par d'esser saggi, e non sapete.
Questa vita mortal, siccome fiore,
Inlanguidisce presto e si vien meno;
L'alma non già, ch'eterno è il suo vigore;
Che, se ben fece, al suo Fattore in seno
Lieta ritorna, e cinta di splendore;
Ma se scotendo di ragione il freno,
L'offese, e poi non pianse, in duro loco
Misera sempre è condannata al foco.
[143]
Or noi per isfuggire un male eterno,
Soffriam con pace questa vita acerba:
Acerba a voi però, a quel ch'io scerno;
A noi non già; che più ci disacerba
Il gran pensiere del profondo inferno,
Che 'l caldo e 'l gelo e 'l mangiare un po' d'erba.
Quanto meglio fareste, o sventurati,
A depor l'armi, e vestirvi da frati!
Orlando disse: Non ci possiam fare;
Chè in Francia andiamo a difender la Fede:
E poi noi ci vorremmo un po' pensare;
Chè tutti l'Evangelio non richiede,
Che per salvarsi s'abbino a infratare.
Se questo fosse, in ciel solo una sede
Vi sarebbe, e sol una abitazione;
E questo è contro a ciò che Dio propone.
Disse l'abate: Ben discorri, o figlio
(E avea sua faccia d'alma luce accensa),
Che altra cosa è il precetto, altra il consiglio;
Ma chi sul serio alla salute pensa,
E vede quanto è pieno di periglio
Il viver nostro, e che il ben che dispensa
Il mondo, è ben fallace; facilmente
In questi chiostri scampa dalla gente.
Gran tempo vissi anch'io, seguì l'abate,
Trastullo e gioco di fortuna e amore;
E su le prime giovanili entrate
Mi fecero ambidue gran festa e onore
Con belle donne d'ogni grazia ornate,
E con possente, illustre, alto signore;
E or questi, or quelle sì mi favorivano,
Che gli altri dall'invidia si morivano.
[144]
Ma assai ben presto si mutò la scena.
Colei ch'io amava tanto fedelmente,
Ed ella del mio amore era sì piena,
Che di me parea morta veramente,
D'altri si accese, e volse altrui serena
La faccia sua, e in verso me spiacente:
In somma, mentre che per lui sospira,
Me fugge ed odia, ed ha in dispetto e in ira.
Dall'altra parte poscia il signor mio,
A cui pensava d'esser così grato,
Ogni altro sollevare ebbe in desìo,
Che me, il qual sempre voleva al suo lato;
Ed in cacce ed in giostre era sol io
Tra tanti e tanti a seguir lui chiamato;
Ma le cariche pingui e le migliori
Donava sempre a' suoi servi peggiori:
Talchè compresi gli amorosi inganni,
E ch'è sciocchezza il servir nelle corti,
Dove i signori son sempre tiranni.
Per non soffrir cotanti ingiusti torti,
Fuggii qua dentro, e mi cangiai di panni;
E i caldi e lunghi, e i nubilosi e corti
Giorni consumo in laudi alte e divine,
Con la speranza d'un beato fine.
Nè vi prenda stupor, se ci vedete
Abitar fra la gente saracina,
Senza che alcun di lor ci affanni o inquiete:
Perchè il Fattore e la grazia divina,
Che assai più val di tutte le monete,
Ci assiste sempre, e nostre opre incammina;
E fa che sopra ancora de' Pagani
Miracolose sien le nostre mani.
[145]
Così non mai da lor volendo nulla,
E noi facendo ognora a lor vantaggio,
Siccome è fama che a bella fanciulla
Il lïonfante non arreca oltraggio,
Ma l'ire ammorza, e seco si trastulla;
Così ci danno libero il passaggio,
E ci donan talvolta delle cose
Nelle stagion più afflitte e bisognose.
Qui l'abate si tacque; e i guerrier Franchi,
Mangiati in piede in piede due bocconi,
Dissero: Padre, dal cammin siam stanchi;
Ed egli diede loro de' sacconi;
Ma non v'eran coperte o lenzuol bianchi;
E disse: Qui in Dio, forti campioni,
Riposate sicuri; e d'acqua santa
Gli asperge due o tre volte, e poi li pianta.
Un sonno intero almen di dodici ore
Dormiro i paladini; e poi svegliati,
Chiesta licenza all'abate e al prïore,
Per la lor via si fûro incamminati;
E vïaggiaron con tanto vigore,
Che dalla notte furono chiappati
Presso alla cella, dove si sgrugnavano
Rinaldo e il frate, e i menti si pelavano.
Come si disse, dunque entraron drento
I guerrieri; e veduto scarmigliato
Rinaldo, e pien di graffi il viso e il mento,
Disser: Co' gatti forse ti se' dato,
O con la scimia, o simile stromento?
Rise Rinaldo, e disse: Ho un po' scherzato
Con sto padre per fare ora di cena;
Chè stare in ozio m'è di somma pena.
[146]
Ma quando lor diè conto del romito
Rinaldo, e disse ch'era Ferraù,
Restò dallo stupore ognun smarrito,
E ad una voce gridaron: Gesù!
E tutto il caso e tutto il fatto udito,
Disse Astolfo: Non vo' sentirne più:
Se si salva costui, e va tra' Santi,
Una gran speme hanno avere i furfanti.
Ma lasciam questi nella santa cella;
Chè mi conviene ritornare in Francia,
Dove ogni buon guerrier si è posto in sella;
E provvisto di spada e forte lancia,
Meglio che può col nemico duella.
Sol Ganellone si gratta la pancia;
Chè gode di veder Carlo in periglio
Di prigione, di morte, o pur di esiglio.
Una turba infinita di Lapponi
Era venuta co' Cafri e Negriti,
Con animo di far tutti prigioni
I celebrati paladini arditi.
Quei di Cafria parevano torrioni,
E tali mazze avevano fra' diti,
Che un vecchio pino talvolta è più corto:
Carlo in vederli egli ebbe a cascar morto.
Ma i Lapponcelli fûro i più dannosi,
Perchè il più grande t'arriva al ginocchio:
Son però forti, grossi e setolosi,
Ed agili in saltar come un ranocchio;
Lunghe han le braccia, i diti mostruosi,
Larga han la bocca, e piccinino han l'occhio;
E portan corta spada e corta lancia,
Qual piantano a' cavalli nella pancia.
[147]
Poi tra le gambe della fanterìa
Con quelle ugnacce fanno prese strane;
E non ci è modo di cacciarli via:
Talchè di Carlo in poche settimane
Era finita la cavallerìa,
O almeno poca assai glie ne rimane;
E di più li suoi miseri soldati
Tutti tornaro a Parigi castrati.
E fûro tai lamenti e tali doglie
In fra tutte le femmine francesi,
Che avrìano dato certo l'altre spoglie
De' lor mariti, fuor che quegli arnesi.
Inutile al marito era la moglie;
E sarebbe finita in pochi mesi
L'alta franzese inclita nazïone,
Se più tardava la proibizione;
Chè Carlo divulgar fece un editto,
Che di Parigi alcuno non uscisse,
Quantunque fosse cavaliere invitto;
Ma che su' muri ciascuno salisse,
E come palo su vi stèsse fitto,
E che con archi e balestre ferisse;
E su tutto ferisse i rei Lapponi,
Che i galli trasformavano in capponi.
I Cafri ed i Negriti, che giganti
Erano tutti, corsero alle mura;
E con le mazze loro aspre e pesanti
Empiro gli assediati di paura.
In Parigi pregavan tutt'i Santi
Le verginelle dalla mente pura.
Carlo fece la distribuzïone
Di dieci paladini per torrione.
[148]
Spuntava in ciel la mattutina stella,
E l'aria intorno le si fea vermiglia;
E la rugiada che piovea da quella,
Confortava la terra a maraviglia,
Che vie più s'arricchìa d'erba novella.
In somma d'Iperïone la figlia
(Io voglio dir l'Aurora) venut'era,
E al suo venir fuggìa la Notte nera:
Quando s'odon, non già trombe o tamburi,
Ma gridi orrendi e strepiti di corna;
E girano con questi intorno a' muri,
Finchè chiaro per tutto non si aggiorna.
I paladini intrepidi e sicuri
Miran con strali dove più lor torna,
E di quei monti orribili di carne
Un precipizio a terra fan cascarne.
Ma come avvenir suol ne' tempi estivi,
Quando di mosche la casa è ripiena,
Che se mille di lor con mano arrivi,
E lor scofacci la testa o la schiena,
Son tante l'altre che restan tra' vivi,
Che la mancanza vi si scorge appena;
O come quando il suol pieno è di foglie,
E l'arbor miri, e par non se ne spoglie;
Così, benchè non gisse dardo in fallo,
Non parea che mancasse alcun di loro.
Erano a piedi; chè non v'è cavallo
Che mai possa portar un di costoro,
Benchè fatto abbia a grosse some il callo,
E ancor che fosse stato Brigliadoro.
Su gli elefanti toccan co' piè terra,
E così sempre a piè fanno lor guerra.
[149]
Sedici braccia e qualche cosa meno
È fra di loro la giusta misura:
Uno di dieci per nano l'avriéno.
Ora giunser costor presso alle mura,
Pensando ch'elle fossero di fieno;
Ma si avvider com'eran cosa dura,
E per andarvi sopra con un salto,
S'accorser che quel muro era troppo alto.
Così fanno consiglio, e si conchiude
Che porti un Cafro un altro a cavalcione
Armato tutto, e sol le cosce ignude,
Ma dalla parte di dentro il calzone,
Per non far mal con quelle maglie crude
Al collo del compagno suo bestione;
E quando il muro i due non agguagliassero,
A' due un terzo, e un quarto anco innestassero.
Così canna talor congiunge a canna,
Per far cadere i più lontani frutti,
Il villanello; e se indarno s'affanna,
Ponvene un'altra, e sì li atterra tutti,
Fatti già del suo core esca tiranna.
Ma spero in Dio che rimarranno brutti
I Cafri, più di quello che non sono;
E vedran che l'innesto non fu buono.
Al torrion che si dice della Senna,
Comandava un nipote di Zerbino:
A quella volta di venire accenna
Un drappello di Cafri; e a lui vicino
Uno monta su l'altro, e non tentenna.
Ma perchè vi correva anche un tantino,
Su i due il terzo monta; e allor le mura
Gli giungon per appunto alla cintura.
[150]
Con quella mazza orribile e tremenda
Dà un giro attorno, e cento uomini uccide:
Poi salta sopra il muro, e con orrenda
Voce in tal guisa egli schiamazza e stride,
Che tutta la città forza è l'intenda:
Poi guarda il campo, indi sogghigna e ride.
Ed il compagno suo prende per mano,
E a sè lo tira; e gode ogni Pagano.
Di Zerbino il nipote e un suo fratello
Lor vanno addosso con pesante lancia,
E fanno tutti due un colpo bello;
Perch'uno glie la immerse nella pancia,
L'altro in un fianco. Cade morto quello,
Questo non già; ma contro lui si slancia,
Ed un colpo gli tira con la mazza,
Che se l'arriva, di certo l'ammazza.
Ma il giovinetto si tirò da parte,
E il colpo non andò dove indrizzollo
Quell'animal che non avea grand'arte;
Qual piegossi col colpo, e diè tal crollo,
Che cadde al suol su la sinistra parte.
Allora gli andò sopra a rompicollo
Il Franco, e gli ficcò per la visiera
La spada, e fèlla del suo sangue nera.
In questo mentre un sasso sterminato
È tratto verso quel torrion di carne
Da Malagigi col braccio incantato;
Sì che avviene che nel capo s'incarne;
E cade, ed è dagli altri accompagnato.
Freme il campo contrario, e vuol mostrarne
Il dispiacere insieme e la vendetta;
E van tutti alle porte con gran fretta.
[151]
Di sopra i paladin scoccano strali,
Gittano pietre e merli dalle mura.
Ma sono tanti e sì forti animali,
Che non sentono morte, o n'han paura.
Le porte in fine, come vetro frali,
Sono spezzate; e quei che n'hanno cura,
Non han più forza a ritener la piena.
Carlo sospira, e muorsi dalla pena.
Così talora turba di villani,
Quando il cielo è più rotto e più piovoso,
Su l'argin corre per frenar gl'insani
Flutti del fiumicel fatto orgoglioso;
E con sterpi e con sassi a piene mani
Or qua or là rassetta il periglioso
Argin che piega; ma cresce sì l'onda,
Che apre la ripa, e i vicin campi inonda.
Così in Parigi entrati ancor sarièno;
Ma un largo fosso e fondo costruiro
I Franchi, e quindi alzâr molto terreno
Intorno al fosso, e di canne il copriro,
Che d'erba fresca vestito l'aviéno.
I Saracin che a ciò non avvertiro,
Ciascun, com'era dallo sdegno mosso,
Cadde precipitoso in mezzo al fosso.
E gli altri che venivan loro appresso,
Vi cadder pure; ed era quasi affatto
Ricolmo il fosso. Così al modo stesso
Il lupajo formar suole l'agguatto
O presso un orno, o un abete, o cipresso
Al tristo lupo: onde gli cade a un tratto
La terra sotto, e vi riman prigione;
E il cacciator l'ammazza col bastone.
[152]
Que' di Parigi, senza far dimora,
Della gran fossa corrono alla proda;
E se qualcun mette la testa fuora,
La tentan col baston siccome è soda.
Così, sendo io fanciul, sovvienmi ancora,
Traendo di balestra con mia loda,
Se dal mio lago uscivano i ranocchi
Col capo fuor, lor tirava negli occhi.
Ma si fe' notte; e i Saracini al campo
Tornaro; e i Franchi richiuser la porta,
Dio ringraziando, che lor diede scampo.
A Carlo intanto uno spïon riporta,
Che d'Egitto è venuto, come un lampo,
Popolo immenso; e come seco porta
La figlia del Soldan che usbergo veste,
Porta cimiero, e non ghirlande o creste;
E che al campo african giunta pur era
Despina, che a vederla un Sol parea;
E che in abito anch'essa di guerriera,
Di sdegno e d'ira ne' begli occhi ardea.
Carlo si gratta il capo e si dispera,
E si strappa que' pochi ch'egli avea
Capelli bianchi; e vecchiezza gli duole,
Chè non puote più far quello che vuole.
Ma ritorniamo alla beata cella,
E lasciamo il buon Carlo nelle peste.
Orlando dalle risa si smascella,
Vedendo Ferrautte in quella veste.
Dolgono agli altri i fianchi e le budella,
E gli dicono il nome delle feste.
Ferrautte divoto e penitente
A occhi bassi non risponde niente.
[153]
Ma come grosso can di macellajo
De' cagnoletti l'abbajar non cura,
O ch'egli parta, o ritorni al beccajo;
Così il romito non si prende cura
Dei detti loro; e, qual lepre al rovajo,
Nel suo covaccio più si ferma e indura:
Così ascolta, sedendo sopra un scanno,
Ferraù tutto quel che dir gli sanno.
E quando parve a lui ch'abbian finito,
Disse: Fratelli, a che gioco giochiamo?
Il Cristianesmo non è il vostro rito?
Rispose Orlando: E che vuoi tu che siamo?
S'io nol sapessi, riprese il romito,
Foglie vi crederei d'un altro ramo,
E tralci d'altra vite che di quella
Con cui sè Cristo e i suoi fedeli appella.
Burlar chi fa del bene è brutta cosa;
Ancor che chi fa ben, fèsse del male.
La carta ch'è sì candida e vistosa,
Fu pria sporca camicia, o fu grembiale
Di qualche vecchia putrida e bavosa,
O fu strumento forse da pitale:
Così chi lascia il vizio e torna a Dio,
Diventa bello, e tal son forse or io.
Orlando disse: Lasciata ogni ciancia,
Sia benedetto il nostro Salvatore,
Il qual ti aperse con sua forte lancia
La chiusa mente e l'indurato core,
E ha dato un nuovo campione alla Francia,
In tempo che la misera si muore
Oppressa dal furore e dalla possa
D'Africa e d'Asia, che vêr lei s'è mossa.
[154]
E se, come cred'io, ardi di zelo
Di Chiesa santa, e la Fede ti preme,
Lascia questa tua cella e questo cielo,
E nosco in Francia te ne vieni insieme.
Questo, con cui mi vesto orrido pelo
Dal collo infino all'ime parti estreme,
Disse il romito allor, mi vieta, Orlando,
Di trattar lancia, o maneggiare il brando.
Sorrise il conte, e disse: Ancora i frati
Cingon la spada, quando si combatte
Contro de' Turchi e contro i rinnegati;
E i monaci che mangian uova e latte;
E quei che i ceci ed i pesci salati;
E quelli che non portano ciabatte:
In somma tutti, o col cappuccio o senza,
Per queste guerre il papa li dispenza.
Com'egli è questo, disse Ferrautte,
Verrò con voi: ma ritorniamo in Spagna;
Perch'io nascosi le mie armi tutte
In certa grotta tenebrosa e magna,
Detta in spagnuol la cueva di Margutte,
Cui un granchio marin nelle calcagna
Mordendo uccise; ed evvi opinïone
Che il seppellisser dentro a quel grottone.
Ognun fu lieto di sì bello acquisto;
E dice Ferrautte nel partire:
Passar si deve per un luogo tristo,
Se ad un porto di mar noi vogliam ire,
Che di navi star suol sempre provvisto.
Dice Orlando: Con ciò, che vuoi tu dire?
Noi di lïoni infra le forti branche,
Noi passerem de' diavoli fra l'anche.
[155]
Già del vostro valor non mi sconforto,
Riprese Ferraù; vi dico bene
Che grande è questa impresa, ove io vi porto,
Dove e senno e valor molto conviene;
E, più che forte, è d'uopo essere accorto.
Del monte in parte a rïuscir si viene,
Dove la strada è stretta, ed è tant'alta,
Che un dì ruotola il monte chi la salta.
Dalla sinistra parte e dalla destra
Di questa tanto perigliosa via
Vi son due massi, che mano maestra
Ridusse a torri, qual dicon che sia
Sul celebrato mar, per la finestra,
D'onde d'Ero la fiaccola apparìa,
Doppio castello che le navi affrena;
Tal fanno quelli al passeggier catena.
Quando uno arriva in mezzo a' due castelli,
Come fa pescatore in alto mare,
Gettan questi terribili fratelli
Una rete, che sembra da pescare;
Ma son di acciajo i congegnati anelli;
E mille libbre in circa può pesare.
Se tu restassi sotto questa, Orlando,
Che ti varrebbe la fortezza e il brando?
Ma voglia ancor benigna la fortuna,
Che non incappi in questa brutta rete;
A mezzo dì ti mostreran la luna,
Quand'essi, chiusi nel duro parete,
Con pietre, che una macina è ciascuna,
Ti faran chierche che non porta il prete;
E quando tu resista ancora a questo,
Tu ben conosci che il più duro è il resto;
[156]
Ch'ambi ad un tratto scapperanno fuora;
E tu co' due allor che far potrai?
Verrem noi forse a darti ajuto allora:
Ma quanto è il cammin stretto, tu ben sai;
E chi lo sbaglia, egli è forza che muora.
Rispose Orlando: Non pensiamo a guai.
Mi par mill'anni d'essere là sopra
Quell'erto monte, e por le mani in opra.
Partono, e avanti a lui va Ferraù,
Masticando Ave ed altre orazïoni;
E parlan gli altri del meno e del più,
Conforme si dan qui le occasïoni.
E a mezzo dì si trovan giunti su
Dell'alto monte, e veggono i torrioni.
Orlando si sofferma, e fa consiglio
Di chi deve andar prima a quel periglio.
Il più forte di tutti è il conte Orlando,
E dopo lui è il sir di Montalbano,
Ferraù il terzo; ma nè pure ha brando:
Gli altri son dita d'una stessa mano.
Il conte dice: Io sarò il primo; e quando
Io perda, e vinca il barbaro Pagano,
Rinaldo, accorri, e porgimi conforto;
Chè, come sai, non posso restar morto.
Ferraù resta addietro a tutti quanti;
Chè altro ci vuol che zoccoli e cordone
A prender briga con que' due giganti;
Ma segue a snocciolar delle corone,
E prega Dio con tutti quanti i Santi.
Ed ecco Orlando vicino al torrione;
Eccolo giunto al periglioso passo;
Ecco che piomba la gran rete abbasso.
[157]
Come pernice, come starna o quaglia,
Che il cane a un tratto ferma al suo signore
Tra l'erba fresca o nella corta paglia,
E circonda con rete il cacciatore;
Ch'alza il volo, ma subito s'incaglia,
E si perde nel filo traditore;
E quanto più s'affanna per l'uscita,
Quel più s'intriga, ed è quel più impedita;
Così sotto la rete il forte Orlando
Cerca co' piè, co' denti e con le mani
Di svilupparsi, e più si va imbrogliando.
Corre Rinaldo, e grida: Brutti cani,
Uscite fuora; e mette mano al brando,
E dà sopra la rete i colpi vani;
Chè ha così forti e così duri anelli,
Che più gentili ha il diavolo gli ugnelli.
Ma mentre ch'ei fatica e che tarocca,
Ecco che piomba ancor sopra di lui
Un'altra rete da quell'altra rocca,
E restano prigioni tutti dui.
Son tratti in alto, e per un'ampia bocca,
Che ogni castello apre ne' fianchi sui,
Son messi drento, e son cacciati al fondo,
Privi del lume che fa bello il mondo.
Alardo e Ricciardetto disperati
Si fanno avanti; e Ferraù si lagna,
E piange e incolpa i molti suoi peccati,
I quali han fatto ai paladin la ragna,
Onde vi son restati avviluppati;
E giù si butterìa dalla montagna:
Ma non lo fa per tema di dannarsi,
Perchè niuno da sè deve ammazzarsi.
[158]
Quand'ecco l'aria che di nuovo fischia,
E cadono le reti su i guerrieri:
Nè tordo sì su la frasca s'invischia,
O nella gabbia il credulo pittieri,
Come s'imbroglia in quelle maglie, e mischia
L'uno e l'altro de' presi cavalieri.
Astolfo che ciò vede, all'impazzata
Va verso loro con l'asta fatata.
Questa è la lancia di cui tanto parla
Il divin Ferrarese, tutta d'oro,
Che non si rompe mai e non si tarla.
Non v'è scoglio nel mare o promontoro,
Nè armatura che nel sol toccarla
Non cada; tal potenza ha il suo lavoro.
Con questa Astolfo mena le man bene,
E spezza delle reti le catene;
E gl'intrigati paladini scioglie.
Un de' giganti con orribil trave
Esce fuor colmo di sanguigne voglie:
Ma Astolfo vagli incontro, e nulla pave;
E nel bellìco con l'asta lo coglie;
Ed egli cade, e sembra una gran nave,
Quando il vento ed il mar, pieni d'orgoglio,
L'urtan rabbiosi in terra o in qualche scoglio.
L'altro che sente questo precipizio,
Esce a difesa; ed Astolfo lo tocca
Con l'asta appena (Oh vedi che artifizio!),
Che in terra dà il gigante della bocca.
Gli salta Astolfo sopra l'occipizio,
E con la rete sì lo stringe e blocca,
Che mover non si può punto nè poco;
E quindi all'altro fa lo stesso gioco.
[159]
Ferraù resta a guardia de' prigioni:
Entrano gli altri nella forte torre
A cercare de' due prodi campioni;
Ma non san dove sieno, e male apporre
Sen ponno; in su e in giù per i torrioni
Vanno, come andar sogliono a raccorre
I grani che giù cadon dalle ariste,
Delle formiche le sì lunghe liste.
Ma nel girar che i paladini fanno,
Non perde tempo il saggio Ferraù;
Ed a' giganti, che legati stanno,
Spiega la legge e i dogmi di Gesù.
Parla lor della gioja e dell'affanno,
C'hanno i beati o i miseri laggiù;
E parla loro della prima colpa
Che c'infettò lo spirito e la polpa.
E mostra come è perfido Macone,
E che un nume da burla è Apollino;
E tanto dice, che in conclusïone
La mente loro un bel raggio divino
Rischiara, e fanno la professïone
Di Cristianesmo; e il rito Saracino
Rifiutano ambidue, e han voglie pronte
Di battezzarsi alla primiera fonte.
E per mostrar che dicono da vero,
Dissero: Amico, que' due cavalieri
In parte stanno, ove non è sentiero
Per ritrovarli: in così cupi e neri
Fossi stan posti, e in carcere sì fiero.
Però, se tu mi sciogli, volentieri
Anderò io a trarli di laggiuso;
Nè temer che ti faccia alcun sopruso.
[160]
Disse il romito: La prudenza insegna
Che non si creda presto alle persone.
Io son senz'armi, e in voi tal forza regna,
Che far non puossi fra noi paragone.
Dimmi tu il luogo, e, come puoi, mel segna.
Disse il gigante: In fondo del torrione
È il carcer tetro; ed un masso lo copre,
Intorno a cui è in van che tu ti adopre.
Scioglimi adunque; e per la nuova Fede
Io ti prometto sicurezza e pace.
Il romito or gli crede, or non gli crede,
E la barba si liscia, e pensa e tace.
Astolfo intanto dal castello riede
Afflitto, e su i giganti, qual rapace
Lupo sul gregge delle bianche agnelle,
Si scaglia e grida, che l'odon le stelle:
Rendetemi i compagni, o ch'io v'uccido;
Ed in alto rotava il fiero brando.
Ferraù disse: All'ovil santo e fido
Tornâr costoro, e dier perpetuo bando
Al Paganesmo; ma ancor non mi fido
Di sciorgli, perchè cerchino d'Orlando,
Che mi han promesso di condurlo a noi,
Se gli sciogliamo. Or che ne dite voi?
Si disciolgano pure uno alla volta.
E così fatto, il libero gigante
Con gran modestia e riverenza molta
Baciò del fraticello ambe le piante.
Poscia inverso la rocca il cammin volta;
Ed Orlando e i compagni in uno istante
Discioglie, e nuovamente li conduce
A vagheggiar del Sol la bella luce.
[161]
Quanto fosse il piacere e l'allegrezza
Di rivedersi tutti salvi e sani,
Non è da dirsi con tanta prestezza.
Ma il piacer crebbe, quando da' Pagani
Udîr che il Cristianesimo s'apprezza,
E che han fermato di farsi cristiani.
Or qui sì, che a Rinaldo e al buon Orlando
Le lagrime dagli occhi ivan sgorgando.
L'altro gigante dunque ancor disciolgono,
E l'aspro monte allegramente scendono.
Raggiustano le reti, e le raccolgono
I giganti, e su gli omeri le prendono.
A mano ancora le lor travi tolgono
E grossi cuoi, co' quali si difendono
Dalle punte de' strali, che pur sventrano
Anche i giganti, se nel corpo gli entrano.
Trovano un ruscelletto per la via,
E qui lor Ferraù battesmo dona.
Ma i nomi lor rimaser quei di pria,
Perchè tornavan bene alla persona.
Uno era detto in Arabo Skilìa,
Che in nostra lingua giusto giusto suona
Il Fracassa; e quell'altro Nighibesta,
Che nel nostro volgar vuol dir Tempesta.
Appena giunti a piede eran del monte
Che odon strepito d'armi e di cavalli;
E veggon presso d'una bella fonte
Tra mille fiori rossi, verdi e gialli
Una donzella con afflitta fronte,
Ancorchè attorno a lei leggiadro balli
Coro di Ninfe: e forse erano Dee,
Ed a dir poco, o Drïadi o Napee.
[162]
Astolfo tosto vuol saper chi sia,
E vâlle avanti, e le dice: Signora,
Onde provien questa malinconìa?
La giovin si riscuote, e in poco d'ora
Gli risponde con somma cortesìa:
Il mio mal di rimedio è affatto fuora:
Perciò séguita pure, o cavaliero,
Senza altro più sapere, il tuo sentiero,
E vanne presto, che non sia veduto
Da quei che m'hanno in guardia, e non sia morto.
Astolfo a un sonator toglie il lïuto,
E suona, e canta, e balla per diporto.
Ciascun per lo stupor si resta muto.
Quando di questo un Saracin s'è accorto,
Gli viene addosso; e si attacca fra loro
Battaglia, qual si fa tra toro e toro.
A quel romore corre l'altra gente,
E trentamila omai sono i Pagani.
Orlando sta alla giovane presente,
E qualche volta ancor mena le mani.
Rinaldo, ora di punta, or di fendente
Tirando, ha dato certi colpi strani,
Che dice il Garbolino, e se lo crede,
Che partì molti dalla testa al piede.
Ferraù sta nel mezzo de' giganti,
Che scaglian le lor reti con gran festa,
Ed hanno presi de' Pagani tanti,
Che vivo poco numero ne resta.
Fuggono gli altri. Alla donzella avanti
Vengono i paladini. Ella men mesta,
Ma non allegra ancor, saluta, e chiede
Che la lascin lì sola per mercede.
[163]
Non sia mai vero ch'a' lïoni e a' lupi
Lasciamo esposta sì gentil donzella:
Le città grandi, non boschi e dirupi,
Albergar denno giovane sì bella.
Però lasciate questi negri e cupi
Boschi, e venite nosco ove v'appella
Miglior fortuna; e ci narrate intanto
I vostri casi. Ed ella diè in un pianto;
E con un bianco lin che in mano avea,
S'asterse due o tre volte i rugiadosi
Occhi, co' quali ancor piangenti ardea:
Or pensa quando son lieti e giojosi.
Ma pria che questa vaga e mortal Dea
Racconti i casi suoi tristi e dogliosi,
Posiamci alquanto; chè non ho più lena,
E il roco canto mio s'intende appena.
[164]
La sconsolata e bella Filomena
Narra i suoi casi, e del suo bel Tangile.
Carlo è tradito dal furfante Mena,
Ch'empie Parigi della gente ostile.
Selvaggio e gli altri in corpo alla balena
Trovan convento, chiesa e campanile;
Usciti incontran Psiche, ed un naviglio
Che dentro ha una sol donna ed un sol figlio.
Non si può ritrovar, al mio parere,
Cosa nel mondo che più bella sia,
E che ci apporti più dolce piacere,
E sia cagion di pace e di allegrìa,
Quanto è l'udire e il dir parole vere,
Senza sospetto d'inganno e bugìa;
E la data parola e stabilita
Mantenere, anche a prezzo della vita.
Come al contrario la pace rovina,
E del vivere ogni ordine confonde
La lingua che col core non confina,
Ed una cosa mostra, una ne asconde.
La veritade ell'è cosa divina,
E in noi dal primo vero si diffonde:
La menzogna del diavolo è figliuola,
E con esso va sempre ovunque vola.
[165]
Felici queste selve e questi boschi,
U' peste sì crudel non giunse ancora:
Qui non si vedon lagrimosi e foschi
Occhi, che il vostro mal piangan di fuora,
E il piangan solo, perchè tu il conoschi;
E poi dentro del cor festa e baldora
Faccin de' mali tuoi, conforme fanno
Quelli che in mezzo alle gran corti stanno.
Qui non sono nè sbirri nè notai,
Nè carceri nè funi nè berline,
Nè Fiorentini che co' negri sai
Menino i malfattori a tristo fine.
Ma la fè ch'è di lor più forte assai,
Fa sì che niun dal giusto mai decline;
E la data fra noi parola basta
Più che di protocolli una catasta.
Ma più d'ogni altro poi prezzar si suole
La fè che tra di lor dansi gli amanti;
Che pria vedrassi senza luce il sole,
Che pastorelle o pastori incostanti.
Niuno di tradimento qui si duole:
Dal dì, dall'ora, da que' primi istanti
Che d'amarsi l'un l'altra afferma e giura,
Quel solo amor sino alla morte dura.
Nè, a quel ch'io veggo, così bella usanza
Solamente è nelle arcade contrade:
La fedeltade ancora in Persia ha stanza,
Come udirete, quando che vi aggrade,
Se di narrarlo avrò tanta possanza.
Le dolorose flebili rugiade
Asciugate s'avea la giovin bella,
Quando che prese a dire in tal favella:
[166]
In Bahia io nacqui, città ricca e vaga,
Che del Mar Nero in su la riva siede;
Gente di mercantar cupida e vaga
Là dirizza le vele, oppure il piede.
La casa mia era contenta e paga
De' beni che fortuna ci concede;
Perchè di Persia, toltine ben rari,
Niuno avea più di noi terre e danari.
Me sola il genitore ebbe, e sol io
De' giovani persiani era la brama;
E la bellezza ancor del volto mio,
Che del vero maggior dicea la Fama,
Accresceva in ciascun voglia e desìo
D'avermi in moglie; e ciaschedun me chiama
Sua vita e suo conforto: e mille e mille,
Nol sapendo, d'amor spargo faville.
Ma non comprende giovinetta acerba
Sì facilmente i segnali d'amore:
Onde detta sprezzante era e superba,
E che di vivo sasso aveva il core.
Ma come angue talor tra i fiori e l'erba
Si cela, e morde poi chi coglie il fiore,
Così Cupido si nascose un giorno
Negli occhi d'un garzon vago ed adorno.
E mentre seco parlo, a poco a poco
Nascer mi sento un non so che nel seno,
Ch'ora mi pare ed or non mi par foco.
La solita allegrezza in me vien meno,
Nè mi diletta più festa nè gioco;
E di desìo mi sento il cor ripieno
Di riveder quel giovine, e con esso
Ragionar sempre, e sempre averlo appresso.
[167]
Se quando andava per diporto in mare,
Non lui vedeva con la sua barchetta,
Il cor nel petto mi sentìa scoppiare,
E ritornava al lido in fretta in fretta
Di pensieri ricolma e voglie amare.
Se in questo mentre poi la benedetta
Fortuna lo portava al mio cospetto,
Tutto il dolor volgevasi in diletto.
Del signor di Darete un figlio egli era,
Ricca provincia della Persia, e grande:
Una pupilla avea sì vaga e nera,
Che più regine fecero dimande
D'averlo in sposo, e aggiunsero preghiera.
Fra l'altre la regina di Derbande,
Che alla Servania impera, ardeva in guisa
Per lui, che alfin d'amor rimase uccisa.
Tangile era il suo nome; e d'egual fiamma
Ardeva anch'esso, e non diceami nulla.
Ma come in legno verde a dramma a dramma
Entra il foco, ed in fin l'umore annulla,
Onde improvviso e subito s'infiamma;
Così, sendo ei garzone, ed io fanciulla,
Stentammo a prender foco; o, per me' dire,
Non lo potemmo che tardi scoprire.
Un dì (non m'uscirà mai del pensiero
Giorno sì dolce, dilettoso e grato)
In un bel bosco per grand'ombra nero
Io mi sedeva nel calor più ingrato,
Quando viene l'amato cavaliero,
E senza nulla dir mi siede a lato.
Ci guardammo; e, tacendo, mille cose
Si dissero fra lor l'alme amorose.
[168]
Tutto tremante poi la man mi prese,
E sospirando disse: Io te sola amo.
Di vivo foco il volto mio si accese,
Poi soggiunsi ancor io: Te solo io bramo;
Ma non sperar che mai ti sia cortese,
E Giove a' detti miei presente io chiamo,
Se non mi giuri d'essermi consorte:
Altrimenti son pronta a darmi morte.
Tangile allora invocò tutti i Numi
Del cielo, dell'inferno e della terra,
E quei de' mari e quelli ancor de' fiumi;
Perchè dice sposarmi; e vuol, s'egli erra,
Che co' fulmini il cielo lo consumi,
E Nettuno e Pluton gli movan guerra.
Ei mentre così parla, dalla gioja
Io vengo meno, ed egli par che muoja.
Il dì seguente il padre mio ritrova,
E senza altro indugiar mi chiede in moglie.
Ciò molto in suo segreto il padre approva;
Ma son sospette giovinette voglie,
E chi lor crede, ingannato si trova.
Però ne' suoi pensieri si raccoglie,
E dopo assai pensar gli dice: O figlio,
Per risponderti io vo' tempo e consiglio.
Tu sei signor di ricco e bel paese,
E merti moglie a tua grandezza eguale.
Da regie vene anche il mio sangue scese;
Ma senza Stati signorìa che vale?
Onde non posso convenenti spese
Far per l'allegro giorno maritale;
Nè le fortune mie giungono a segno
Di darti quella dote onde sei degno.
[169]
Soggiunse allor Tangile: Io voglio solo
La mia soave e dolce Filomena:
(Chè tal m'appello; e or l'assomiglio al duolo,
Allora no, ma s'è cangiato scena.)
Ella val più che l'uno e l'altro polo
Aver soggetto, e l'africana arena,
Non che il Mar Caspio; e senza lei mi pare
Che fora nulla aver la terra e il mare.
Ma il padre tuo, riprese il genitore,
Che dirà egli, e 'l popol di Darete?
Scusa i figli appo il padre un forte amore,
Disse Tangile; e forse voi 'l sapete.
Opra non fo che arrechi disonore
Nè a me nè a lui; e l'anime discrete
Mi daran lode, e chiameran beato,
Che m'abbia Amor tanta beltà donato.
Silvano allor (chè tale egli si noma
Il padre mio) disse: Figliuolo, io voglio
Che tu riguardi pria questa mia chioma
Che già biancheggia, e pensi al gran cordoglio
Che urterà questa mia cadente soma
Quel più presto, se mai per te mi toglio
La dolce figlia. Ed ei: Tu sempre appresso
A lei sarai, e le sarai lo stesso.
Tu non comprendi ciò ch'io ti vo' dire.
Riprese il vecchio padre: non si puote
Far questa cosa, se non col fuggire;
Fuggi con Filomena in parti ignote:
Io mostreronne dolore e martìre,
E bagnerò di lagrime le gote;
Poi là verronne dove voi sarete,
Arrecator di nuove o triste o liete.
[170]
Piacque a Tangil la subita proposta;
E la notte seguente una peotta
Arma di gente sua forte e disposta
A girne ove da lui sarà condotta:
Poscia soletto a casa mia s'accosta;
Mi chiama, io scendo, e per obliqua e rotta
Strada mi guida al mare, e c'imbarchiamo;
Sciogliam le vele, e il lido abbandoniamo.
Verso Biserta volgemmo la prora;
E già tre notti, e già tre giorni interi
Eramo scorsi, quando su l'aurora
Ecco due fuste di ladroni neri
Che ci son sopra; ed all'usanza mora
Ruotan le sciable, e dan colpi sì fieri,
Che ognun de' nostri egli è piagato o morto,
E ancor Tangile è nel suo sangue assorto.
Qual io restassi allor, senza che il dica,
Voi vel pensate: presi in man la spada
Del mio Tangile per morir pudica:
E già mi apriva in mezzo al cor la strada,
Quando un Moro mi afferra, ed a fatica
Mi tiene, che sul ferro infin non cada.
Poi lieti dan per la vittoria un grido,
E smontan tutti sul vicino lido.
I morti affatto li gettaro in mare,
E preser qualche cura de' feriti,
Per veder se li possono sanare,
E vendergli agli Ardioti ed a' Negriti.
Poi la preda si mettono a guardare;
Ma di me sono tutti incaloriti:
E mentre ognun mi chiede, ognun mi vuole,
Vengon tra loro ad acerbe parole.
[171]
Dalle parole poi vengono a' fatti,
E si danno le sciable per la testa:
Sicchè si sono omai quasi disfatti.
Un drappello di pochi ancor ne resta;
Ma questi pur si batton come matti.
Che più? con sommo mio piacere e festa
Veggo i nemici miei condotti a morte,
E il ciel ringrazio di sì bella sorte.
Poi chiamo il mio Tangile ad alta voce,
E lo cerco, piangendo, in mezzo al sangue;
E temo di trovarlo, e al par mi nuoce
Il non trovarlo. Talor freddo esangue
Un cadavere smovo; indi feroce
Il guardo; chè fortezza in me non langue:
In questo mentre sospirar lo sento,
E chiamarmi con roco e basso accento.
Corro a quel suono, e lui veggo cosperso
Di sangue, parte suo, parte d'altrui;
Che il suo languido ciglio in me converso,
Mi disse: O cara, che sarà di nui?
Speriam, gli dissi; in ogni caso avverso
Manda Giove benigno i doni sui;
Quindi gli astergo le ferite e lego,
Ed a sperar sorte migliore il prego.
Su la nostra peotta io molte cose
Torno a ripor, che stavano sul lido;
E di balsami e d'erbe prodigiose
Prendo un involto, in cui molto mi fido;
E bagno le ferite sanguinose
Dell'adorato mio marito fido;
E ne riceve in breve tal conforto,
Che s'alza, e muove il passo inverso il porto.
[172]
Entriamo in barca; ed egli: O Filomena,
Sciogli, mi disse, pur tutte le vele.
Lasciamo al ciel di noi la cura piena;
Egli ci faccia il mar mite o crudele;
Egli il premio ci dia, o pur la pena,
Se merta pena il nostro amor fedele,
Io fo come egli dice; e in alto mare
Ci vediam tosto da' venti portare.
Pinoro, re d'Algeri, uomo già fatto,
Di nove lustri in circa, era a ventura
Venuto in mare, da vaghezza tratto
Di predar pesci e alleggerir sua cura.
Una sorella sua di gentil atto
Era con esso, e di bella figura.
Da questi fummo noi veduti appena,
Che vennero a incontrarci a vela piena.
Or qui comincia il mio sommo dolore,
E che per morte solo averà fine.
Pinoro nel vedermi arde d'amore,
Ed arde per Tangile anche Lucrine
La sua sorella: ci fan festa e onore;
S'apprestano chirurgi e medicine
Pel mio Tangile; e la real donzella
Vuole alla cura sua assister ella.
Pinoro assegna una stanza vicina
A quella ove egli dorme, al mio marito;
Dove può, quando vuole, entrar Lucrina,
Che fammi a seco star gentile invito.
In fine riposati, la mattina
Pinoro, da' più nobili assistito,
Va da Tangile, e là mi fa chiamare;
Che i nostri casi ha gusto d'ascoltare.
[173]
Tangile francamente espose loro,
Come era figlio del re di Darete;
E come Amor con la saetta d'oro
Ferì noi due, e prese alla sua rete.
A questo dire impallidì Pinoro,
E si offuscaron le sue luci liete;
Lucrina ancora scolorissi, e poi
All'improvviso fuggì via da noi.
Le navi mie nel mar di Salamina
Arser, guari non è, li tuoi navigli,
Disse Pinoro; e con furor cammina.
Tangil mi guarda, e dice: Quai consigli
Prendiam, mia vita? Ed io: Amor si affina,
Siccome ogni virtù, ne' gran perigli;
Chè alla perfine è facile ogni uscita
A chi uscir vuole dall'odiosa vita.
Sol temo (e non ti dolga, se ti taccio
Di poco amore e di sospetta fede),
Temo Lucrina che non sciolga il laccio
Che mi ti stringe, e non la facci erede
Dell'amor mio, ed io ti sia d'impaccio.
La lunga età fa più ch'uomo non crede;
Non piglia il primo assalto una cittade,
Nè a un colpo sol di scure il pino cade.
Ma in fine ora con foco, or con penuria
Fa tanto l'inimico, che si arrende;
E tanti colpi mena e con tal furia
Il villano, che il pin cade e si rende.
Tempo verrà che non parratti ingiuria
Di fare all'amor mio; e meno orrende
Ti saran l'ombre de' traditi Numi,
Perdute nel fulgor di que' bei lumi.
[174]
Ma pria che ciò il destin veder mi faccia,
Vo' che la terra ovvero il mar m'ingoi.
Qui taccio, e il pianto agli occhi miei s'affaccia.
Queta, grida Tangile, i sdegni tuoi;
E me' che può m'accarezza ed abbraccia,
E dice: A che temer, cara, tu vuoi
Di quel che certo non sarà giammai?
E s'io parlo di cor, sola tu il sai.
Mentre stiam noi così fedeli amanti,
E fra noi ci giuriam perpetuo amore,
Ecco due fieri ed orridi giganti,
Che prendono, un Tangile con furore,
L'altro me prende, che mi sfaccio in pianti;
E in un carcer profondo e pien d'orrore
Messo è Tangile, e in una rocca forte
Posta son io; e serrano le porte.
Quel che avvenisse poi al mio marito,
Nol so di certo, ma me lo figuro;
Chè un stesso inganno fu ad entrambi ordito:
Udite quale. Al chiaro ed all'oscuro
Pinoro a me venìa d'amor ferito;
E non lasciava voci sacre e giuro,
Per indurmi a volerlo per isposo,
Ora in atto crudele, ora pietoso.
Ma quando egli s'accorse che tendea
Le reti a' venti, e seminava il lido,
E che nel mare i solchi suoi traea,
Mutò pensiero, e con parlare infido
Mi disse un dì, che già ch'egli vedea
Ch'io aveva il cor troppo amoroso e fido,
Volea lasciarmi, e in fin restituire
Al mio consorte, e poi di duol morire.
[175]
E in fatti il giorno appresso a me portosse,
E disse: Filomena, ho stabilito
Che doman tu ti abbelli, e vesti rosse
Drotti, o celesti, come n'hai appetito;
Chè queste che tu hai, son troppo grosse,
Nè si confanno a chi vanne a marito.
Verrai su cocchio d'oro alla mia corte,
Ove sarà Tangile il tuo consorte.
Tutta mi rallegrai a questi accenti;
E senza sospettare alcuna frode,
Mi abbellisco con tutti gli ornamenti
Che possano a donzella recar lode.
Viene il giorno prescritto; e di concenti
Una dolce armonìa per l'aër s'ode.
Monto sul carro, e il popolo s'affolla,
E di guardarmi niuno si satolla.
Giungo a palazzo, e m'incontra Pinoro,
Vestito anch'egli a gala ed allegrezza.
Di nobili fanciulle un gentil coro
Mi pone in mezzo, e lieto m'accarezza.
Vanno esse avanti, ed io dopo di loro;
E ad un balcone di mediocre altezza
Guidata son, di dove il popol tutto
Vedea, che nella piazza era ridutto.
Domando di Tangile, e mi vien detto
Che già veniva; e il rio Pinoro intanto
Mi viene al lato pieno di diletto:
Ed ecco odo da lungi suono e canto,
Ed il marito mio veggo in effetto;
Ma veggo gli occhi suoi pieni di pianto;
Affilato lo veggio, e mezzo morto;
Mi guarda, e grida: Mi offendesti a torto.
[176]
E pieno d'aspra voglia di morire,
Toglie l'arco di mano ad un soldato,
E trae, pensando Pinoro colpire;
E leggier mi piagò nel manco lato.
Poi disperato mettesi a fuggire;
E ancora non si sa dov'egli è andato:
Manda Pinoro tutti i suoi famigli,
E vuol ch'ove si trova, ivi si pigli.
Come augellino che per l'aria vola,
Se de' compagni suoi il canto ascolta,
Si riconforta tutto e si consola,
E drizza le sue penne a quella volta;
Ma non sì tosto il misero trasvola
Pe' verdi rami, che con furia molta
S'alza una rete che lo fa morire,
E il cacciator rïempie di gioire;
Così si volse in pianto il mio piacere,
E il barbaro rideva sul mio affanno;
E disse: Non udrai mai più preghiere
Dalla mia bocca. Chiamami tiranno,
Chiamami uomo nudrito in fra le fiere:
Parlar di donna non fe' mai gran danno.
Tre giorni soli io ti concedo; e questi
A te sta che ti sien lieti o funesti.
Quindi si parte; ed io fra mille e mille
Uomini armati, e con quelle donzelle
Vo fuor della città per queste ville,
Pensando all'opre niquitose e felle
Di Pinoro, e struggendo le pupille
In pianto tal da impietosir le stelle.
Col canto e il suon le giovani amorose
Cercan le pene mie far men dogliose.
[177]
In questo mentre voi giungeste. Appena
Ella pon fine al suo ragionamento,
Che con le man legate in su la schiena
Venir si vede sopra un vil giumento
Un uom ricolmo di gran doglia e pena.
Ma m'interrompe questo avvenimento
La pietà c'ho di Carlo, il qual si trova
Oppresso sempre più da gente nova.
Aveva Carlo un certo suo scudiere,
Che a parole era un Ercole, un Sansone;
Ma se piegavan punto le bandiere,
Era sì gran vigliacco e sì poltrone,
Che per timor fuggiva a più potere;
Vizioso, porco, perfido, briccone;
Che sol col pregio di servire in corte,
Niuna casa per lui avea le porte.
Figliuol d'un contadin di Piccardìa
Era costui, e si chiamava il Mena.
La mano sua ell'era man d'arpìa,
E di gran somaraccio avea la schiena.
Gran copia d'oro e gran mercede avìa;
Ch'era buffone, ed avea mente amena;
Ed entrò in grazia a Carlo di tal modo,
Che vi parea confitto con un chiodo.
Ora costui vedendo a mal partito
Carlo e Parigi, un alto tradimento
Macchinò nel suo core infellonito.
Si traveste una notte, e all'aere spento
Per un condotto, da niuno avvertito,
Esce fuor delle mura a salvamento,
E dallo Scricca corre a dirittura,
E dice: Io vengo per vostra ventura.
[178]
Io vo' darvi Parigi e Carlo in mano,
Che dopo tanti miei lunghi servigi
Scacciato m'ha per un sospetto vano
Dalla presenza sua e da Parigi.
E qui sospira il perfido villano,
E si strappa i capelli ed i barbigi.
Dice lo Scricca: Se questo succede,
Io ti vo' far di mezza Cafria erede.
In questa stessa notte, se vi piace,
Io condurrovvi dentro alla cittade
Pochi alla volta; chè non è capace
Il condotto di molti; e sole spade
Portar potrete, perchè alquanto giace
La bassa volta, ed in angusto cade.
Piace al barbaro re questa proposta,
E la gente all'impresa è già disposta.
Avanti a tutti camminava il Mena,
E nella buca subito si caccia.
Lo seguon gli altri; ed ei stretta alla schiena
Accesa porta una sua lanternaccia,
Onde di luce quella fossa è piena.
Sbocca in Parigi, e si copre la faccia,
Acciocchè alcun nol vegga e nol conosca,
Con una mascheraccia brutta e fosca.
E già vicini essi erano al palazzo,
Quando le guardie si fûro avvedute
Del tradimento, e ne fanno schiamazzo.
Corron le genti d'armi, e di ferute
Si fa per ogni via di sangue un guazzo.
La fortuna e il valor gli assista e ajute;
Chè intanto che si danno su' cimieri,
Io vo' dir qualche cosa d'Ulivieri.
[179]
Ulivieri, Selvaggio e Dudon forte
S'imbarcaro a Calesse, e navigaro
Alla man destra che riguarda il Norte;
Ed a man manca l'isole lasciaro,
Che fûro al navigar l'estreme porte
Ne' tempi antichi, quando i buoi parlaro;
E nel mar di Norvegia si trovarno,
E nol sapendo, in un gran pesce entrarno.
Una balena larga dieci miglia,
E lunga trenta, entro quell'acque giace:
E la sua bocca, quando che sbadiglia,
Sembra un porto, ed un porto anche capace.
In questo entra Ulivieri e sua famiglia,
E si promette sicurezza e pace,
Perch'era il mar turbato e tempestoso;
E quivi pensa ritrovar riposo.
Ma non sì tosto egli entra, che si avvede
Che quel porto di mare un pesce egli era,
Il qual chiude la bocca, e prender crede
Fra' denti i naviganti e la galera;
E lor diede vicino un braccio o un piede:
Onde i lor volti fecero di cera
I paladini afflitti e spaventati,
Vedendo che in un pesce erano entrati.
Ma, seguitando pure la corrente,
Vanno oltre, e son portati in un gran stagno,
Dove veggion pescar di molta gente.
Su le ripe son piante di castagno,
Di lauri e lecci; e popolo frequente
Evvi, che compra e vende per guadagno.
Guardan più avanti, e veggon case e buoi,
Marre ed aratri, come abbiamo noi;
[180]
Che il sole per gli orecchi e per la bocca
Vi passa dentro, e le cose produce.
L'uva annegrisce in su la spessa ciocca;
Il gran biondeggia, e come oro riluce.
La notte la rugiada pur ci fiocca;
E la luna i suoi raggi v'introduce.
Vi sono uccelli, e lor nidi vi fanno:
E chi non lo vuol credere, suo danno.
Ma tra le molte cose nuove e strane
Rimasero di sasso i paladini,
Quando che udiro il suon delle campane,
E vider tra i cipressi e gli alti pini
Una chiesuola, e carichi di pane
Muoversi verso lei due cappuccini:
Ond'escono di barca, e come vento
Vanno a trovar quel povero convento.
V'era guardiano un certo da Pistoja,
Che al secol si chiamò messer Francesco.
Era buon uom, ma senza salamoja:
Giuocar a' dadi, e seder molto a desco
Al mondo fu la sua più cara gioja.
Diceva a mente sana e a cervel fresco
Cose sì pazze e sì spropositate,
Ch'era il piacer di tutte le brigate.
Stava a ventura sulla porterìa,
Quando giunsero i Franchi cavalieri,
Quai tosto ad incontrare egli s'invìa,
Ed offerisce lor mensa e quartieri.
Accettano i campion la cortesìa.
Dice il guardian: Ci stien pur oggi e jeri,
E jeri l'altro, e quanto che vorranno;
Chè ci fan grazia, e spesa non ci danno.
[181]
Ma sento scucchiarare le forcine,
Segno che a cena il cucinier c'invita.
Non vi darem nè polli nè galline,
Ma vi daremo roba digerita.
Ulivier lo ringrazia senza fine,
Ed alla bocca si pone le dita;
Chè tanto il riso trattener non vale,
Che non gli scappi, e il frate l'abbia a male.
Entrano in refettorio, e in cima in cima
Siedono tra il guardiano e i superiori.
Si dispensa il silenzio per la stima,
La qual si debbe a così gran signori.
Portan di rape una minestra in prima;
Poi uova, maccheroni e caci fiori,
Ottimi vini, e pan sì buono e bello,
Che il papalin non ha che far con quello.
Chiede Ulivier, terminata la cena,
Al guardiano in che modo ei sia qua drento,
E come in corpo a così gran balena
Abbiano fabbricato quel convento.
La bianca barba sua con la man piena
Prende il guardiano, e dice: Io son contento
Di dirvi il tutto; e acconcia sua persona,
Bassa il cappuccio, ed in tal guisa intuona:
La storia è corta corta: giovinetto
Mi feci frate; ed andato a Livorno
Con quel padre che stammi a dirimpetto,
Un dì vedemmo un bel naviglio adorno
(Inglese credo, a quel che mi fu detto),
Ed era nominato l'Alicorno.
V'entrammo per vederlo; e in un momento
Dieder le vele i marinari al vento.
[182]
E dopo un lungo navigare, alfine
Giungemmo in questi mari, e fummo preda
Di sì gran pesce senza fondo e fine.
Ed il convento, per quel che si creda,
È molto antico. In lettere latine
Sta scritto il tutto; ed acciò che si veda,
L'hanno scolpite in marmo: e, sottosopra,
Di cent'anni sarà forse quest'opra.
Di qui partiamo quando che ci pare,
E ritorniamo a nostro piacimento,
Conforme entra nell'orca ed esce il mare.
Disse Ulivieri: Io son molto contento,
Che possiamo di qui presto scappare.
Domani all'alba ho di partir talento;
Chè in Francia ritornare m'abbisogna;
Chè ormai lo più tardar merta rampogna.
Riprese un fraticello: Andate presto;
Ch'io di là vengo che son pochi giorni.
Africa ha messo Carlo fuor di sesto;
Francia è piena di timpani e di corni.
Disse Selvaggio: Che parlare è questo?
Chi ha mosso guerra a que' nostri contorni?
Soggiunse il frate: Io non so tante cose;
Ma so che vi son guerre sanguinose.
Udito ciò, se ne vanno a dormire,
E la mattina ritornano in barca;
E stanno tutti attenti per uscire,
Quando la bestia la gran bocca inarca,
E l'acqua con lo mar si torna a unire.
Pigliano il tempo; la barchetta scarca
Nell'ampio mare trascorre veloce:
Ulivier si fa il segno della croce.
[183]
Ma perchè non han bussola nè vele,
Si ritrovano tutti a mal partito;
E pensan che se il mar si fa crudele,
Il lor pellegrinaggio egli è finito.
Non hanno pan, non hanno noci o mele
Da cavarsi al bisogno l'appetito.
Or mentre stanno in questo gran pensiero,
Ecco che l'aere ingombra un nuvol nero,
Qual distesosi sopra la barchetta,
S'apre, e si muta l'orrido in fulgore.
Cinta di luce un'alma giovinetta
Veggon che un grande augel tutto candore
Porta sul dorso, e il peso gli diletta;
E dice lor: La sposa son d'Amore,
Che il vo cercando, e non lo so trovare,
Perchè fermo in un loco non può stare.
Non crediate però che i paladini
Si credessero Psiche esser costei;
Perchè le Fate han centomila fini
Per celar lor persone a questi e quei:
Onde non vuolsi or fare da indovini
Per dire la ragion che mosse lei
A fingersi in tal guisa. Basti questo,
Che fu ai baron l'inganno manifesto.
Ma facevano il gonzo i corbacchioni
Per lo vantaggio, e non pagar gabella.
Ed in questo do lor mille ragioni;
Chè il guastare per una bagattella
I fatti propri è cosa da minchioni.
Però la lascian dir come vuol ella;
E le fan mille inviti e baciamani,
Perchè punto da lor non s'allontani.
[184]
Scende sul legno, e chiede a' cavalieri,
Se san nulla di lui. Disse Guidone:
A dirla, noi facciam certi mestieri,
Che col toglier la vita alle persone
Non si confà gran cosa co' piaceri,
Tra' quali il vostro sposo si ripone;
Ma guidateci a terra, e cercheremo
Di lui quel più, madonna, che potremo.
Si pone su la poppa la donzella,
E lega i piè del cigno volatore
Con un'azzurra e lunga cordicella;
E quello verso là dove il Sol muore,
Vola e tira con sè la navicella.
In questo mentre, per trapassar l'ore,
Chiede a Psiche Ulivier, per qual motivo
Amor sia un'altra volta fuggitivo.
Forse con la lucerna un'altra volta
L'hai tu veduto, quando che dormìa?
Ed ella tutta in lagrime disciolta:
Non caddi più nel grave error di pria;
Ma la presenza sua da me si è tolta
Mercè i desir della suocera mia,
Ch'or per sè, or per gli altri il manda in giro:
Ond'è che spesso sola io lo sospiro.
Vidi l'altr'ieri il furibondo Marte,
Che con la suora sua iva a Parigi;
Il quale in fretta chiamommi in disparte,
E mi disse che a far certi servigi
Per Venere Cupido era ito in parte
Ch'Africa è detta, e là farà prodigi;
Che ha desìo ch'egli abbruci e che saetti
Le africane donzelle e i giovinetti;
[185]
Perchè nemica alle cristiane genti,
Vuol che il furor dell'armi e l'ira atroce
Per via d'Amor s'accresca e s'augumenti.
Così divien più duro e più feroce
Toro con toro in vista degli armenti;
Ch'Amor lo punge, lo sferza e lo cuoce
Per la bramata e combattuta vacca;
E quanto pugna più, meno si stracca.
Ma una certa domestica di casa,
Che si dice madonna Epimelìa,
Stretta di bocca e con l'orecchia spasa,
E ch'ogni fatto ed ogni cosa spia,
È d'un'altra ragione persuasa,
Che cruccia e affanna assai l'anima mia:
Mi disse, come innamorato egli era
D'una donzella vaga e lusinghiera:
E disse, come là dell'Arbia in riva
Era nata di sangue illustre e chiaro,
E che del terzo lustro appena usciva,
Nè le fu il cielo di bellezza avaro;
Nel volto giglio e rosa le fioriva:
E aggiunse ancor, ch'aveva un dir preclaro,
Ed invaghiva ognuno che l'udìa:
Tanto era pien di grazia e leggiadrìa:
E ch'ella stava di presente in Roma,
Acclamata, gradita e ben veduta:
Fortuna in man le avea data sua chioma;
Ond'è felice qualunque saluta:
E disse ancor, come Gingia si noma,
E che ha due occhi che fanno feruta;
E che il marito mio con sua famiglia
Or le vola sul seno, or su le ciglia.
[186]
Ma il cane che provò l'acqua bollita,
Fugge la fredda: ancor così faccio io,
Che, per dar fede a ciarle, fui tradita,
E caddi in ira al dolce signor mio.
Però fo finta non averla udita,
Nè il fatto come stia saper desìo;
Chè il cercar di saper quel che saputo
Accresce duolo, non m'è mai piaciuto.
Disse Guidon: Signora, fate bene;
Chè son pazzi i mariti e ancor le mogli,
I quai cercan di ciò che lor dà pene.
Ed io, s'avverrà mai ch'unqua m'imbrogli
In queste d'Imeneo sacre catene,
Non vo' cercar d'imbasciate o di fogli,
E se la mia consorte di soppiatto
Fa quel che non vorrei mi fosse fatto:
Perchè ho sentito dir da certi vecchi,
Che le donne quando hanno fermo in testa
Di far gli accorti lor mariti becchi,
Se con la pece o con la carta pesta
Tu lor stoppassi i luoghi mai non secchi,
E lor facessi di piombo la vesta,
E le chiudessi ancor con un lucchetto,
Avrà il disegno lor sempre l'effetto;
E che da questo affronto vanno esenti
I consorti discreti e non gelosi.
Disse Ulivier: Ancor chi non ha denti
Può mangiar i limoni più sugosi.
Tu non hai moglie, e però non paventi;
Ma gli ammogliati sono timorosi.
Così dicendo, omai scopron terreno,
E lo veggion di popolo ripieno.
[187]
Van poco avanti, e veggono un naviglio
Coperto tutto d'una tela oscura,
Mezzo sdruscito, e che già sta in periglio
D'andare a fondo; e morta di paura
Vi veggono una donna con un figlio.
Più belle cose non fe' mai natura.
Psiche la barca a quel naviglio appressa,
E la man stende alla donzella oppressa,
Qual di subita gioja ebbe a morire,
Quando col figlio suo si vide salva.
Dal lido intanto si sentìa muggire
La gente nel mirar ch'ella si salva.
Disse Psiche: La meglio ella è fuggire;
Chè l'occasione ha la fronte calva;
E se non si prende ora, indarno poi
Noi ci dorremo e di lei e di noi.
Ulivieri, Selvaggio e il buon Dudone
Ebbero a male un sì fatto parere.
Psiche in veder la loro intenzïone,
Disse: Deh non abbiate dispiacere,
S'ora vi tolgo da sì gran tenzone.
Io non temo di voi: vostro potere
E vostra gagliardìa veggo a più segni;
Ma non è tempo di pigliare impegni.
Ecco che mosse son già mille navi:
Queste verranci sopra, e sol col peso
Ci affonderanno, e con balestre e travi:
E il picciol figlio come fia difeso,
E la sua madre da quegli uomin pravi?
A me il fuggir non sarà mai conteso.
Che dunque serviravvi una vittoria,
Che di duol sempre vi sarà memoria?
[188]
Così dice d'Amor la bella moglie,
E il cigno nuotator volge a man manca,
Che sì presto i suoi piè spiega e raccoglie,
Che dietro al suo cammino il vento manca.
Le navi ostili di vista si toglie
La dolente donzella, e si rinfranca:
Psiche pietosa la riguarda, e poi
La prega a raccontarle i casi suoi.
Ma il venticel che increspa la marina,
Fa che ondeggi la barca, e noja apporte
Alla dolente e bella pellegrina;
Onde rispose con parole corte:
Giacchè la terra ci compar vicina,
Scendiam sopra essa; e poi della mia sorte
Narrerovvi il tenore aspro e feroce;
Ch'or la marèa mi toglie e forza e voce.
Ciò detto, verso terra il nuoto prende
Il forte cigno: e già boscaglie e prati
Si vedono, ed il canto già s'intende
De' dipinti augelletti innamorati.
Già il cigno è sopra il lido, e giù discende
Psiche, e con essa i tre guerrieri armati.
La pellegrina col fanciullo al seno
Balza lieta ancor ella in sul terreno.
E se ne vanno verso una capanna,
Che, sendo presso al mar, credo che fosse
Di pescatori; e lì sopra una scranna,
Giunti che fûro, ognuno accomodosse.
V'era un garzon che un zufolo di canna
Sonava, e al lor venir tosto chetosse.
Or qui la pellegrina stata alquanto,
Principiò la sua storia, e Psiche il pianto.
[189]
Ma vedo già più d'una infra di voi,
Donne leggiadre, che spesso sbadiglia;
E lo sbadiglio ben sappiam fra noi
Che per sonno o stracchezza egli si piglia,
O per cosa talvolta che ti annoi:
Però l'uom saggio in caso tal consiglia
Di prender fiato e rompere il sermone;
Se no, si viene in odio alle persone.
Però mi cheto, e nel canto venturo
Io vi dirò la storia di costei,
Della quale or ne sono anch'io all'oscuro,
E se potessi, la tralascerei;
Chè temo d'alcun caso acerbo e duro,
Tutto contrario a' desiderj miei;
Perchè mi piaccion le minchionerìe,
Non le storie crudeli, inique e rie.
[190]
Pinoro ucciso, tutta la brigata
S'imbarca, e un'osteria si mangia intera.
La ria strega, come asini, legata
Manda a Valenza degli eroi la schiera.
I due giganti con una pisciata
Smorzano un foco grande che acceso era;
Castigano la strega, e il fier Cristierno
I paladini mandano all'inferno.
L'ambizïone e voglia di regnare
Accieca sì le menti de' mortali,
Che ogni opra più crudel gl'istiga a fare.
L'ambizïone ha seco tutti i mali;
E tristo quei che non le sa tarpare
Su' primi voli suoi le penne e l'ali;
Chè quando ha preso punto di vigore,
Addio amicizia, addio pietade e onore.
Le madri stesse hanno scannati i figli,
Uccisi i padri, i fratelli, i mariti,
Per dominar lontane da' perigli.
Taccio gli amici scacciati e traditi;
Taccio le trame e i perfidi consigli,
E i tanti inganni all'innocenza orditi
Sol per desìo d'impero: empio desìo,
Che l'uom fa bestia ingrata al mondo e a Dio.
[191]
Ho per me tanto questo vizio a noja,
Che non domando nulla, e nulla cerco;
E il poco quanto il molto mi dà gioja.
Coltivo l'amicizia, e non ci merco,
E non adulo, e non do mai la soja
A' signori, nè fiuto il loro sterco,
Perchè mi faccian divenir gran cosa,
Onde mi vesta di color di rosa.
Un uom dabbene, amico di onestade,
Soffre più volentieri un stato basso,
Ancorchè oppresso sia da povertade,
Che fare il gran signore e lo smargiasso
A forza d'ignominie e di viltade,
Come fan tanti che han parenti in chiasso:
Razza di boja, di sbirri e di spie,
Che possan esser pasto delle arpìe;
Che col fare il buffone ed il mezzano,
Son giunti a tale, che chi vuol salire
A qualche onore, ei s'affatica invano,
Se con questa canaglia non vuol ire,
E non implora lor possente mano,
Che possan tutti ad un tratto basire,
Padri del vituperio, e peste vera
D'ogni bell'arte nobile e sincera.
Or questi idoli dunque e questi numi,
Che poco fa di fango eran coperti,
E le lor vigne eran fontane e fiumi,
E i lor pranzi, di starne or ricoperti,
Eran per Pasqua cicerchie e legumi;
Questi ora dunque co' capi scoperti
Sarà forza che adori un uom ben nato,
A star con Febo e con le Muse usato?
[192]
Ma qui lo zelo mi trasporta fuora
Del mio cammino, e mi leva di mente
La storia, e quel che vi promisi or ora
Di dirvi chi si fosse la dolente
Donna che fuor della sdruscita prora
Psiche condusse frettolosamente:
Ben mi rammento, e a tempo suo dirollo;
Ma altrove or deggio andare a rompicollo.
In Africa convien che presto presto
Io torni a rivedere il nostro Orlando,
E Filomena e Ferraù modesto
Co' suoi giganti, e Astolfo memorando,
Con Rinaldo e Ricciardo ardito e lesto;
E dir che, mentre stavano ascoltando
Filomena, passò davanti a loro
Un uom legato e colmo di martoro.
A duemila soldati in mezzo egli era
Sopra un giumento, e stava a capo chino.
A' due giganti Ferrautte impera,
Che faccian con le reti il giuocolino;
Ed il Fracassa tira la primiera,
La seconda il Tempesta a lui vicino;
E in due retate prendon tutti quanti
(O ve' che pesca!) e cavalieri e fanti;
E li portano tutti a Filomena.
Guizzano nella rete i prigionieri;
Ed or mostrano il viso, ora la schiena,
Come i pesci, allorchè scalzi e leggieri
I pescator li traggon su l'arena.
Ad alta voce domandan quartieri:
Ottengon facilmente ciò che vogliono;
E presto presto il prigioniero sciogliono:
[193]
E vedono siccome era Tangile.
Filomena vien men per l'allegrezza:
Ma si solleva al giovine la bile,
E la riguarda pieno di fierezza;
E poi le dice con acerbo stile:
Donna che amore e fede non apprezza,
Ancorchè bella, ancorchè vaga sia,
È una furia d'inferno iniqua e ria.
Ritorna al tuo Pinoro, e statti seco;
Nè testimonio della tua nequizia
Voler ch'io sia: ma prima morto o cieco
Sarò, che spettator di tua letizia.
E qui con volto minaccioso e bieco
Si tace. Orlando amante di giustizia:
Sbagli, disse, o Tangile; la tua donna
È di vera onestà salda colonna.
E qui raccontò lui cosa per cosa:
Talchè pianse Tangil per lo contento;
Ed abbracciata la sua cara sposa,
Baciolla in fronte cento volte e cento.
Con gente intanto armata e numerosa
Vien Pinoro ripien di mal talento.
S'arma Tangile; ed uno de' giganti
Si pon qual torre a Filomena avanti.
Astolfo adopra la sua lancia d'oro,
Orlando Durlindana, e con Fusberta
Rinaldo si fa largo infra di loro;
E il gigante l'esercito diserta;
Chè cento almeno prende di coloro
Con la sua rete non affatto aperta,
E poi li gira con le forti braccia,
E gli abbacchia sul suolo e gli scofaccia.
[194]
Così si legge che del mare in proda
Si pon la volpe libica a sedere,
Ed immerge nell'acqua la sua coda;
Onde i gamberi su vi vanno a schiere,
Che non temono alcuna insidia o froda:
Quando ecco esce dal mare, e a più potere
Batte la coda in questo sasso e in quello,
E de' gamberi fa crudel macello.
Ricciardetto fa cose da stupire;
Ferraù, che non ha spada nè lancia,
Tira de' sassi, e si spassa a colpire
Or quello in testa, or questo nella pancia:
Filomena, ripiena di gioire,
Gli dice: Frate, ti vo' dar la mancia;
Ti voglio dare un orïuolo d'oro,
Se nella fronte tu côgli Pinoro.
In questo dire Orlando un colpo mena
Sovra Pinoro così bestialmente,
Che la testa gli parte, e collo e schiena,
E lo divide in due veracemente;
Poi passa sul cavallo, e non si affrena
L'impeto orrendo di sua man possente:
Parte il cavallo, e ficca nel terreno
La spada dieci palmi, o poco meno.
Visto colpo sì strano, i Saracini
Fuggiron come cervi o caprïoli
Che s'odono latrare i can vicini:
Talchè restati i paladini soli,
Orlando disse: Pria che s'avvicini
(Non so s'io dica fratelli o figliuoli)
La notte, andiamo a ritrovare il mare,
E vediamo se alcun naviglio appare;
[195]
Ch'io sto sopra le spine, infin che giunto
Non sono in Francia, e Carlo mio difendo.
Rinaldo anch'ei d'onore e gloria punto:
Andiamvi pure; io d'ira già mi accendo,
Soggiunge; e al suo parer non va disgiunto
Quel di Ricciardo e d'Astolfo tremendo;
Tremendo per la sua lancia fatata,
Che sola trïonfar può d'un'armata.
Tangile anch'esso e la sua Filomena
Di ritornare in Persia hanno desire.
Cavalcan dunque in su la molle arena;
E quando il sole s'accosta al morire,
Veggion l'onda del mar cheta e serena,
E da lungi cominciano a scoprire
Una nave che porta una bandiera
All'uso Perso, mezza bianca e nera.
Tangile, più degli altri desïoso,
Sprona il cavallo, e giunge prestamente
Sul margine del mare strepitoso;
E vede omai del legno ancor la gente:
Onde co' cenni e co' moti voglioso
Mostra come vorrebbe immantinente
Che la lor nave s'accostasse a lui,
Pria che s'annotti, e l'aëre s'abbui.
Onde i nocchieri volgono la prora
In verso il lido, e v'arrivano presto;
E giungono alla riva alla stessa ora
I paladini e il fraticel modesto,
Che ragiona di Dio con la signora.
A terra smonta vigoroso e lesto
Un forte vecchio; ed è disceso appena,
Che, Ecco mio padre, grida Filomena.
[196]
E tosto corre, e gli si getta a' piedi.
Tangile fa lo stesso: e qui tra loro
È gioja tal, che nelle elisie sedi
Egual non sente il più felice coro
Dell'alme illustri e del piacere eredi;
Nè forse Giove, allor che in tazza d'oro
Il nèttar beve, e Ganimede il mesce,
Che tanto a Giuno sua spiace e rincresce.
Terminati alla fin gli abbracci e i baci,
Narrò Tangile a' nobili guerrieri
Chi fosse il vecchio, e i marinari audaci
Che sapevan del mar tutti i sentieri.
Disse Orlando: Signor, se ti compiaci,
Dacci imbarco; chè abbiamo di mestieri
D'andare in Spagna. E rispose Tangile:
Io condurrovvi ancor di là da Tile.
Ciò detto, senza por più tempo in mezzo,
S'imbarcan tutti, e sciolgono le vele.
Vêr Mezzodì vanno correndo un pezzo,
E con piacer; ch'è il mar cheto e fedele.
Poi vêr Ponente si muovon da sezzo,
E in poco tempo già son sopra de le
Isole di Majorca e di Minorca,
Dove corser pericol per un'orca;
La qual gittò dall'orride narici
Tal fiume d'acqua dentro della nave,
Che stiè per affondarla e farla in brici.
S'affatica ciascun perchè si cave
L'onda che fa le merci natatrici,
E si raggira per le parti cave
Del legno; e con la lancia Astolfo intanto
S'è quell'orcaccia levata da canto.
[197]
Dopo questo timor, che non fu poco,
Giunsero il dì seguente a Denia in faccia.
Orlando disse: Eccoci giunti al loco
Dove sbarcar vorremmo, se vi piaccia.
Disse Tangil: Voi vi prendete gioco
Di noi; e lo si accolse tra le braccia.
E mentre al porto la nave si appressa,
Tutta di duolo è Filomena oppressa;
E sospira, e si affanna, e si lamenta,
Chè lasciar dee sì nobil compagnìa.
La Franca baronìa pur si sgomenta,
Ch'era invaghita di sua leggiadrìa,
E starne senza molto la scontenta.
Ma disse Orlando: Bisogna andar via;
E saltò primo su la rena asciutta,
E fe' lo stesso poi la gente tutta.
La nave in alto mare si ritira;
E Filomena piangendo saluta
I cavalieri, e fissa li rimira;
E quella par che in rupe si trasmuta,
Quando uccisi i suoi figli a' piè si mira.
Ciascun de' paladin la risaluta;
Ma il vento gonfia sì tutte le vele,
Che convien che la nave al fin si cele.
A dirittura vanno all'osterìa
I paladin, che crepano di fame;
Entrano a mensa, e in due boccon va via
Quanto c'è sopra d'uova e di carname.
L'oste che vede tanta ghiottornìa,
E che si mangian l'uova col tegame,
Disse: Il Signor mantengavi la vista;
Chè d'appetito avete assai provvista.
[198]
L'ostessa in questo mentre ch'è in cucina,
E serve a desco i due forti giganti,
Grida, che sembra a punto una gallina
Che ha fatto l'uovo, e invoca uomini e Santi;
E grida: Fuora, razza malandrina,
Se non, ci mangerete tutti quanti.
Di questo la ragion era, che in due
S'eran mangiati una vitella e un bue,
Ch'avevan compro al vicino macello,
E portati se gli eran di nascosto
Come pollastri sotto del mantello,
E poi girati gli avevano arrosto,
E dispolpati in men d'un quarticello.
Poi volevano il lesso ad ogni costo,
Con quattro polpettine e due bragiuole,
Come ad un pranzo familiar si vuole.
Poi s'eran messi intorno ad una botte,
Ed a due mani come un barilozzo
L'alzavano, e le davan certe botte,
Che s'ella fosse stata ancora un pozzo,
Vôtato l'averìano in quella notte.
Trenta barili ormai per il lor gozzo
Eran passati, e fresca era lor mente,
Come avesser bevuto ad un torrente.
Le ventresche, i salami ed i presciutti,
E quanto l'oste aveva, essi mangiaro.
Di questo fatto si stupiron tutti.
Ma i paladini in gran pensiero entraro;
Chè i borsellini lor son troppo asciutti,
Nè san come trovar tanto danaro
Da pagar l'oste, e non far villanìa
A sè con non pagarlo, e fuggir via.
[199]
Fanno dunque consiglio; e si conclude
Che vada Ferraù limosinando,
E che le spalle e le braccia si nude,
E si sferzi così di quando in quando.
Il capo nel cappuccio egli si chiude,
Si dispoglia, e per Denia va gridando:
Peccatori fratelli, sovvenite
Due anime di fresco convertite.
E Ricciardetto col suo bussolotto
Gli andava appresso, e pigliava i quattrini.
Astolfo a questo non potea star sotto,
Veggendo due sì forti paladini
Ridotti, per cagione dello scotto,
A birbantare tra que' cittadini;
E rivoltosi al conte ed a Rinaldo,
Disse: A questa ignominia io non sto saldo.
E tu trova i quattrini in altra guisa,
Riprese il conte. Il far male è vergogna,
E no il mutare figura e divisa,
Massime qui, dove nïun si sogna
Che noi quei siam che il mondo imparadisa.
Quest'è un picciol castel di Catalogna,
Dove non son guerrieri d'alto affare,
Che in modo alcun ci possan ravvisare.
In questo mentre torna il penitente,
E cento pezze egli ha fatte di accatto;
Chè gli Spagnuoli sono buona gente,
E come n'hanno, li danno ad un tratto.
Con un bagnol di vin caldo e possente
Le schiene, che parevan di scarlatto,
Bagnan del frate, e lo mandano a letto,
E fan mille carezze a Ricciardetto.
[200]
Pagano l'oste, e vansi a riposare.
E parton di buon'ora la mattina;
Chè voglion la spelonca ritrovare,
Ov'è del frate l'armatura fina.
Prendono a Mezzodì la via del mare;
Chè nell'oscura macchia saguntina
Oltre Valenza quella grotta è posta.
U' la detta armatura sta riposta.
Avean prese le lor cavalcature,
E toccavan con esse forte assai;
Ma nel calar da' monti l'ombre oscure,
Si trovaro una notte in mille guai;
Talchè temerò l'alme lor sicure
Di non uscir da quel periglio mai.
Si persero in un bosco orrendo e strano,
Che da capanne e ville era lontano.
Così senza mangiare e senza bere
Passâr la notte ed il giorno seguente.
Il terzo giorno furon di parere
D'ammazzare un cavallo il men valente,
E del suo sangue colmare un bicchiere,
E spegnere così la sete ardente:
Ma sentiron muggir da lungi i tori;
Onde, preso vigore, usciron fuori.
Uscîr dal bosco in una gran pianura,
Ma quasi morti, i paladin di Francia:
Avevan pel digiun la faccia oscura,
E così vôta e sì smilza la pancia,
E brutti sì, che facevan paura.
La fame, disse Astolfo, ella è una lancia
Ch'è più sicura di quella ch'io porto,
Da cui senza ferita omai son morto.
[201]
Ed ecco cade ognuno da cavallo.
Orlando è il primo; Rinaldo il secondo;
Ricciardo il terzo; il quarto, se non fallo,
Astolfo il cavalier vago e giocondo;
Ferraù il quinto, segaligno e giallo,
Chè digiun tale mai non fece al mondo:
I due giganti cadono ancor essi,
E sembran nel cader pini o cipressi.
Or mentre stanno i poveri Cristiani
Stesi sull'erba col bellìco all'aria,
Ecco una Fata che per quei gran piani
Coglie insalata odorosetta e varia;
E visti que' corpacci afflitti e vani,
Prima sopr'essi guardando si svaria;
Poi dice lor: Che fate qui per terra?
Risposero: La fame ci fa guerra;
E presso siamo all'ultima partita;
Perch'ella è il nostro boja che ci scanna.
La Fata allora, d'essi impietosita,
Certo liquor ch'aveva entro una canna,
Dà loro a bere; e ritornano in vita,
E gridan tutti per piacere: Osanna.
Indi montati in sella, se li mena
A casa sua, e dà loro da cena.
Ma perchè intese ch'eran battezzati,
E in lor vedeva tanta gagliardìa
Da fare i Saracini sconsolati,
Si mise a fare certa sua magìa,
Che agli uomini robusti e ben piantati
Tutte quante le forze porta via;
E per fare le cose da maestra,
Pose quella magìa nella minestra.
[202]
Ai giganti però ch'erano stracchi,
Come venuti giorno e notte a piede,
Non diè l'incanto; chè a guisa di bracchi
Presero nella stalla e letto e sede:
E già dormivan come monne e Bacchi;
Chè lor del vino e molta carne diede
La serva della Fata, che a' giganti
Vuol bene, e stassi lor sempre davanti.
La zuppa a pena in su la mensa venne,
Ch'ancor ch'ella bollisse forte forte,
Di darvi dentro niun di lor si tenne;
E se bene facean le bocche storte,
Pur dal mangiarla alcun non si ritenne.
La maga intanto di funi e ritorte
Reca un gran fascio, e di sua mano poi
Li lega tutti come fosser buoi.
Orlando volle darle uno sgrugnone,
Quando la Fata a legarlo si mise;
Ma come suole il nobile falcone,
A cui l'ugne feroci abbia recise
Il cacciator, restare un babbïone,
Così rimase Orlando: ed ella rise.
Gli altri fan pure quanto ponno e sanno;
Ma da spezzare un fil forza non hanno.
L'alba appariva in Orïente appena.
Quando a Valenza, luogo non lontano,
Legati tutti quanti a una catena
Guidolli, in odio del nome cristiano,
La Fata al re, chiamato la Balena
(Tanto era grosso, smisurato e strano).
Questi era figlio di quel Saracino
Che Spagna sottomise al suo domìno.
[203]
Chi ha visto mai per ville e per castella
Portare i lupi, presi alla tagliuola;
O pur la volpe così trista e fella,
Che ognun lor dice qualche aspra parola;
Nè si trova pastore o villanelle,
La qual con tutta la sua famigliuola
Non gli strappi del pelo e non l'angari
Quanto che puote con strapazzi vari:
Così chi tira lor torsi di cavolo,
Chi pere cotte, chi mille sporcizie.
Pensa, Lettore, se si danno al diavolo;
Ma pur con facce tutti da novizie
Chi Piero invoca, chi chiama san Pavolo,
Acciò lor salvi da tante sevizie:
E in questa guisa e con tanto strapazzo
Del re Balena giungono al palazzo.
Stava per avventura alla finestra,
Ch'era a terreno, un figliuolo del re,
Il quale diè di mano a una balestra,
E colse Orlando, il qual disse: Cos'è?
Rinaldo con un viso di ginestra
Gridò: N'è venuta una ancora a me.
Ricciardo: Oimè il mio viso! Oimè il mio mento!
Diceva Astolfo pieno di spavento.
Saliti poi le scale, e giunti avanti
Al brutto ed orgoglioso Saracino,
Olà, disse, s'impicchin tutti quanti;
Che non han fede nel nostro Apollino:
E in un baleno venner due furfanti
Con de' capestri. Orlando a capo chino
Disse: Signore, e qual sorta di bene
Da questa impiccatura a voi ne viene?
[204]
Ben potete voi far quel che vi piace;
Ma non ne avrete vantaggio nè onore.
Siam bassa gente che tra il volgo giace,
E stiamo ognun di noi per servitore.
Impiccate chi turba vostra pace,
Ed ha ricchezze, credito e valore;
Non gente vile, ed a servir sol atta,
E che d'umano sangue non s'imbratta.
E chi siete? allor disse il re Balena.
Rispose Orlando: Io fo da spenditore.
Rinaldo: Io il cuoco, e faccio ben da cena.
Ferraù disse: Il poco mio valore
Mi fa grattare a' cavalli la schiena.
E tu? a Ricciardo: Io son barbitonsore.
Disse il Turco: Che dici, scioccherello?
Dico ch'io fo la barba a questo e a quello.
Astolfo non sapeva che si dire;
Chè non apprese mai verun mestiero:
Pur disse francamente: Eccelso sire,
Ho fatto a casa mia sempre l'ostiero,
E con poco faceva ognun gioire:
Teneva vino bianco e vino nero,
E dava certi piccioncini arrosto,
Che a mangiarli correvan di discosto.
E subito ordinò che sciolti fussero,
E si dèsse a ciascuno il proprio uffizio.
Alla dispensa il buon conte condussero;
In cucina Rinaldo al suo esercizio;
E Ferraù nella stalla introdussero.
Si fe' tra gli osti l'Inglese novizio:
E in fin diero a Ricciardo de' rasoi,
Sapon, stuzzica orecchi e sciugatoi.
[205]
O gran miseria delle umane cose!
O crudeltà di barbara fortuna!
Ecco l'onor dell'armi, e le famose
Destre ch'ove il Sol muore, ove ha la cuna,
Sempre fûro e saranno glorïose:
Destre che invan non fêro impresa alcuna,
Ridotte adesso a far delle polpette,
A menar striglie, ad arricciar basette.
Or mentre stanno in tanto vilipendio
I campioni infelici e rovinati,
Ne' petti de' giganti un vero incendio
S'accese d'ira, subito svegliati;
E il tradimento videro in compendio;
Chè l'aste e l'armi e gli arnesi fatati
Miraron della casa in un cantone;
E pianser d'ira e di compassïone.
Prendon la fante poi per i capelli,
E la minaccian di farla morire;
E voglion loro mostri ove son quelli
Che la padrona sua seppe tradire,
Almi guerrieri e di valore ostelli,
E d'onestade e di senno e d'ardire.
La donna si contorce come biscia
Per la paura, e tutta si scompiscia.
Poi con voce tremante lor domanda
Che la rimettan sopra il pavimento,
E dirà loro l'opera nefanda:
Che tratta in alto con suo gran tormento
Stava in man del gigante, che la manda
In qua e là, come impiccato il vento;
E teme ch'alla fin non l'arrandelli
Per la finestra, e affatto la sfragelli.
[206]
La ripone il gigante sul terreno,
E dopo alquanto la donzella dice:
La mia padrona sa fare un veleno
Con certe erbucce e con certa radice,
Che chi 'l gusta, il valore in lui vien meno;
Talchè a picciol fanciullo ancora lice
Guerrier che sia delle battaglie il mastro
Seco condur legato con un nastro.
E per tal modo fûro i cavalieri
Da costei presi e condotti in Valenza.
Ma lasciate, per Dio, questi quartieri;
Che s'ella torna, con la sua potenza
Cangeravvi in somari od in destrieri;
Che in quella stanza ha certa quint'essenza
Di cranj di fanciulli e di donzelle,
Con cui di giorno fa veder le stelle.
E quei piccioni là, quelle galline,
E quelle vacche e quei superbi tori,
Che voi vedete errar per le colline,
Son tutte dame e nobili signori,
Che han fatto, sua mercè, sì tristo fine:
Però fuggite via, fuggite fuori
Di queste mura barbare e spietate,
Ove non è nè fè ne caritate.
In questo dire, ecco che aprir si sente
La porta, e già la strega è per le scale,
Che batte per furor dente con dente:
Il Fracassa terribile l'assale
Con quella lancia d'oro onnipotente,
Contro di cui incantagion non vale;
Ed ella cade al suolo tramortita,
E gli domanda per pietà la vita.
[207]
Disse il Fracassa: Io te la do, se in loro
Sembianze torni quei ch'eran qui attorno.
Disse la strega: Assai lungo lavoro
Vuolci per l'ammirabile ritorno.
Aprite quella stanza, ove io lavoro
L'opere mie; e quivi un alicorno
Vederete di bronzo; e quanto ei dura,
Ha da durar la trista lor figura.
Gettan la porta a terra i due giganti;
E l'alicorno hanno toccato appena
Con l'asta disfattrice degli incanti,
Che batte sopra il suolo con la schiena,
E tutti i membri suoi restano infranti:
E il Fracassa tai colpi su vi mena,
Che l'ha ridotto in polvere da scrivere.
Piange la strega, e teme del suo vivere.
Ciò fatto, ecco le dame e i cavalieri
Che vengon senza penne e senza corna;
Ma ne' sembianti loro umani e veri.
E ciascun, quanto può, di laudi adorna
I due giganti, e dicono improperi
Alla strega; ed ognuno la contorna,
E vorrebbe levarle il cor dal petto:
Ma da' giganti lor viene interdetto.
E le dice un di loro: Or via, c'insegna
Il rimedio al veleno ingannatore.
Ella un armadio con mano gli segna,
E dice: Colà dentro è quell'umore
Che le perdute forze riconsegna
A chi le perse, e con virtù maggiore.
Il Fracassa lo prende, ed escon fuora
Di quella stanza, e della casa ancora;
[208]
Poi danno foco a quell'empio abituro;
E mentre al cielo va la fiamma ardente,
Disse il Tempesta: Sare' io spergiuro,
Io, che a costei non risposi nïente,
Quando la vita ti chiese in sicuro,
S'io l'ardessi? Rispose unitamente
Ciascuno: No per certo; ed il Tempesta
Buttovvela; e si fe' da tutti festa.
Indi verso Valenza se ne vanno,
E per la via conoscono i giganti,
Che in compagnìa de' paladini stanno
Quei che disciolti avevan poco avanti.
V'eran fra gli altri, di quei che si sanno,
Un figlio di Ruggieri e due Agolanti;
V'eran d'Orlando e d'Astolfo i cugini,
E v'erano molti altri paladini.
Al figlio di Ruggier, detto Guidone,
Dan l'anguistara, e gli dimostran come
Si ha da portare in quella funzïone:
Lo vestono alla turca, e l'auree chiome
Gli recidono senza discrezione;
E dicon che si muti ancor di nome;
Chè non voglion venire essi in Valenza,
Per non far peggio con la lor presenza.
Entra in Valenza il figlio di Ruggiero,
E va cercando tutte le osterìe;
Ritrova alfine il desïato ostiero,
Astolfo, il padre delle leggiadrìe;
Ma sporco, guitto, e con un grembial nero;
Il qual cantando diceva follìe.
Il giovin lo saluta, e poi gli espone
Come desìa di far colazïone.
[209]
Una tavola tosto gli apparecchia
Con uova e caci e frittata rognosa,
E del pan bianco, e vino con la secchia.
Or dopo che mangiato egli ha ogni cosa,
Chiama l'ostiero, e gli dice all'orecchia,
Com'egli è di Ruggier prole famosa,
E ch'è mandato a lui da' due giganti
Per tornargli il vigor che aveva innanti.
L'abbraccia Astolfo, e vanno in una stanza,
E beve un sorso di quell'anguistara,
E sente invigorirsi alla sua usanza;
Poi dice: Andiamo al ponte della giara,
Dove Orlando venire ha costumanza,
Per comprar roba al re squisita e rara.
Non perdon dunque tempo, e vanno al ponte,
E presto presto si abbatton nel conte.
Astolfo narra a lui cosa per cosa,
E beve un buon bicchier di quel liquore;
E sua persona si fa vigorosa,
Che pargli ancor d'aver forza maggiore,
Che pria non ebbe; e quindi alla fumosa
Cucina vanno dell'empio signore,
E lì ritrovan il cuoco Rinaldo
Tutto affannato, e che morìa di caldo.
Mandan per Ferrautte e Ricciardetto;
Ed arrivati ancor essi in cucina,
Ricevon con moltissimo diletto
La tanto desïata medicina;
E pieni di valor l'anima e il petto,
Fanno da brusco, e batton la marina;
Ed armati di spiedo e di forcone
Van del Balena alla real magione.
[210]
Le guardie voller lor far resistenza,
Ma le infilzaron come perniciotti.
E giunti del Balena alla presenza,
Rinaldo il piglia tosto a scappellotti.
Disse il Balena: Ve' che impertinenza!
E comanda che in carcer sien condotti.
Rinaldo aperse la finestra, e poi
Disse al Balena: Or or ti aggiustiam noi.
Tu ci vuoi porre come uccelli in gabbia,
E noi pensiamo di farti volare.
Pieno il Balena di spavento e rabbia
Non sa più che si dir, nè che si fare;
E batte i piedi, e si morde le labbia.
Orlando grida: Non vuolsi indugiare.
Rinaldo a quel parlar piglia il Balena,
E il getta in piazza, che di gente è piena.
Vengono i figli, e del lor padre infranto
Cercan vendetta; e quel della balestra
Appena riconobbe il frate santo,
Che andogli appresso, e con maniera destra
Avviluppollo dentro il regio ammanto,
E poi lo gettò giù dalla finestra;
E con esso fêr pur simili voli
Gli altri del re Balena empj figliuoli.
Veduta i cittadini sì gran cosa,
Circondano il palazzo di fascini;
Chè contra gente tanto vigorosa
Non voglion far da bravi spadaccini;
E gli dan foco. Bella e luminosa
S'alza la fiamma: afflitti i paladini
Non sanno come uscir da quell'impiccio;
E già fuma il palazzo, e sa d'arsiccio.
[211]
Quando ecco comparire i due giganti,
Che col solo pisciar sopra quel foco
Di smorzarlo in gran parte fûr bastanti:
E pur la sera avean bevuto poco.
Rinaldo e il conte allora e tutti quanti
Ripreser lena, e vennero a quel loco,
E in braccio de' giganti si gettaro;
E così tutti quanti si salvaro.
Alcun forse dirà che iperbol sia
Smorzar gl'incendj in sì fatta maniera:
E ben dirà; che anch'io l'ho per follìa:
Ma l'ho trovata scritta; e tal qual era,
L'ha voluta cantar la Musa mia.
E forse forse la fu cosa vera;
Perchè certo io non posso saper mica
Quanto tien d'un gigante la vescica.
Poi col foco ancor vivo ad una ad una
Arser le case ed arsero Valenza;
E fatta sera, al lume della luna
Fan per Parigi la lor dipartenza.
Qui i parenti e gli amici e lor fortuna
Odono, e fansi cortese accoglienza:
Ma lasciamogli andare a buon vïaggio,
E in Danimarca rifacciam passaggio.
Io vi dicea (se ancor ve ne sovviene;
Chè in ver mi sono dilungato molto)
Come in atto di dire le sue pene
Stava una donna; e con pietoso volto
Psiche l'udìa, che tal pietà sostiene
In udirla, che in pianto ha il cor disciolto.
Avete a saper dunque che questa era
Del morto re di Dania la mogliera;
[212]
Figlia d'un re di Svezia, e così bella,
Che in quei paesi non ebbe simìle;
Ed era d'onestà lucida stella:
E girate pur voi da Battro a Tile,
Che donna non vedrete uguale a quella.
Ora costei con bel modo e gentile
Incominciò la storia sua dolente
In queste voci, languida e piangente:
Morì il marito mio, ch'or farà l'anno,
E gravida restai di questo figlio.
Un mio cognato di farsi tiranno
Si mise in core, e effettuò il consiglio;
E tale ordimmi scellerato inganno,
Che mi condusse poscia a quel periglio
Che voi sapete, e donde tratta io fui;
Chè l'innocenza ha i protettori sui.
Andar solea sovente ad un giardino,
Solo ristoro al mio crudel martìre:
Quando un ladro, cred'io, o un malandrino
Veggon le guardie da' muri fuggire,
Vestito come veste un contadino,
E forse tale ancora si può dire.
Lo mettono in prigione, e il mio cognato
Vâllo a trovar, da niuno accompagnato;
E poi l'induce, per fuggir la morte,
A dir siccome egli era un gran signore
Di Svezia, ed allevato in quella corte;
E che per forza del soverchio amore
Che di me il prese, e lo premeva forte,
Di venirmi a trovar gli cadde in core;
E venne, e seppe tanto dire e fare,
Che mi fece di lui innamorare.
[213]
Ciò fatto, radunar fa nella sala
La più famosa nobiltà del regno,
E giudici e notai ed altra mala
Gente, e con essa il contadino indegno,
Che mercè chiede, e l'infame propala
Esecrando terribile disegno;
E dice, come il figlio che mi è nato,
Non del re, ma di lui è generato.
Stupisce ognuno a ragionar sì fatto;
Poi lo stupore si trasmuta in ira;
E ciascun lo vuol morto ad ogni patto.
Il mio cognato s'affanna e sospira,
E il contadino fa sparire a un tratto:
Poi i giudici e notai fiso rimira,
E dice lor che parlino conforme
Dettan del regno le sacrate norme.
Quelli fanno gli afflitti ed i dolenti,
Stringon le spalle e chiudono la bocca,
E le parole mastican tra' denti.
Il mio cognato allor gli sprona e tocca
A dire: ond'essi in fiochi e rotti accenti
Dicon, come mortal saetta scocca
La legge contra le mogli e i mariti
Che sfogan con altrui loro appetiti;
E che la forca e il fuoco è pe' villani;
Per le matrone la tagliente spada;
Ma che non denno d'uomini le mani
Far che la testa alla regina cada;
Meglio è esporla del mare a' flutti insani
Con la prole. Ed allora una masnada
Mi prende, e mi conduce alla marina;
E il popol, che mi vede, si tapina.
[214]
Là giunta, io chieggo lor per qual cagione
Debba esser posta crudelmente in mare.
Un de' custodi disse: La ragione
Chiedila a lui, che questo ci fa fare;
Al tuo cognato, io dico, che ti appone
Delitto, come credo, d'alto affare.
Intanto un legge la sentenza, e dice
Come io sono una sozza meretrice.
Caddi per lo dolore in su l'arena,
E mi svenni; e in quel mentre fui condotta
Sopra la nave, in cui gran sassi e rena
Avean portato, ed era mezza rotta;
E dal lido scostata io m'era appena,
Che voi veniste, cavalieri, allotta,
E mi toglieste a morte, e deste vita;
Ma vostra grazia non è qui finita.
Venite meco a far la mia vendetta:
Uccidete il cognato traditore,
Che m'ha fatto sì sporca cavalletta;
Rendete il regno al suo vero signore.
Disse Ulivieri: Chi la fa, l'aspetta:
Andiamo pure; chè non ho timore.
Psiche pur vuole andarvi; chè ha contento
Di veder la regina fuor di stento.
Nella capanna dormon quella notte;
Poi la mattina prima dell'aurora
Con quelle genti del cammino dotte
Van per un bosco che tutto s'infiora;
Ed a fiorir le vie son pur ridotte,
Che preme il piè di Psiche, la signora
E consorte di lui, che il tutto muove
In cielo, in terra, nell'inferno e altrove.
[215]
Veggono a Mezzodì la gran cittade
Che sta sul mare, e Coppenaghe è detta.
Psiche di nubi trasparenti e rade
Sè copre e la regina sua diletta,
Che, non veduta, vuol che veda e bade,
Ed oda ciò che il popolo cinguetta.
Giunto Ulivieri alla gran porta appresso,
Suona il suo corno; e Guidon fa lo stesso:
E fan sapere al perfido Cristierno
(Chè così si chiamava quel tiranno)
Come egli ingiustamente ha quel governo,
Perchè n'ha fatto acquisto con inganno;
E che l'aspetta il diavol dell'inferno,
Al quale essi tra poco il manderanno;
E dicon come intendon di far noto
Che la regina non ruppe il suo voto.
Cristierno a questo dir s'arma di botto,
E bestemmia ed infuria come un matto,
E dice: Ci mancava questo fiotto:
Ma ben voglio levare il ruzzo a un tratto
A queste figurine del Callotto,
E monta sopra un cavallo ben fatto;
Esce fuor della porta, e soffia e sbuffa;
Sfida Ulivieri, e tira giù la buffa,
E dice: Io scendo in campo a mantenere
Come la mia cognata ha partorito
Non del germano mio, ma d'un straniere.
Ed io ti mostrerò come hai mentito,
Tutto sdegnato ripiglia Uliviere.
Ciò detto, sprona il suo cavallo ardito
Verso Cristierno; e si danno tal botta,
Che l'una e l'altra lancia resta rotta.
[216]
Metton mano alle spade, e si dan colpi
Che a chi stagli a veder metton paura.
Dice Ulivier: Razza di lupi e volpi,
Obbrobrio e vitupèro di natura,
Ancor se' vivo? ancor non ti discolpi
Dell'onor tolto a donna così pura?
Che aspetti, traditor? chè non confessi
I tuoi maligni ed esecrandi eccessi?
Cristierno non risponde, e dà di taglio
Con la sua spada ad Ulivieri in testa,
E gli recide, come un capo d'aglio,
Del lucido cimier tutta la cresta;
E giunse con quel colpo a repentaglio
Di terminare in quel punto la festa.
A due mani Ulivier la spada prende,
E lui fere nel capo, e glie lo fende:
Onde egli cade, e mugghia come un bove,
Quando gli dà il beccajo infra le corna;
E così muorsi: e l'alma sua va dove
Eterno foco la copre e contorna.
Ad Ulivier, siccome al sommo Giove,
Tutti fan festa; e di splendore adorna
Compare all'improvviso e repentina
Avanti a lor con Psiche la regina.
Or si pensi ciascuno l'allegrezza
Che si fa in corte per un tal successo.
Vanno a palazzo, e piangon di dolcezza
Le genti tutte che si stanno appresso
Alla regina, che assai le accarezza,
E si rivolge a rimirarle spesso.
Gettan Cristierno fra certi dirupi,
Perchè sia pasto d'avoltoi e lupi.
[217]
Psiche dopo due giorni partir volle,
Non senza pianto d'una e l'altra banda;
E col bel viso di lagrime molle
Bacia l'amica, e se le raccomanda;
Poi s'asside sul cigno, ed ei s'estolle,
E spiega il vol per dove ella comanda.
Il giorno appresso i paladini ancora
Si parton dalla nobile signora,
Che ha fatto loro apparecchiare in porto
Una nave con tanti marinari,
Che posson ire dall'Occaso all'Orto
Senza timore di venti contrari.
Prega Ulivier che pel cammin più corto
Condotto venga di Francia ne' mari;
E lor promette il capitano esperto
Che in otto giorni vi saranno al certo.
Io già m'accorgo, ancor che niun favelli,
Come avete disìo che qualche cosa
Di Carlo io vi racconti, e ancor di quelli
Che a lui fan guerra acerba e sanguinosa.
Ma sapete perchè son vaghi e belli
I prati? perchè varia è l'odorosa
Famiglia che gli adorna; e i color mille
Il piacer son delle nostre pupille.
Come il pittor, ch'a mosaico si dice,
Deve esser il poeta, a mio parere;
E quegli è riputato il più felice
Che meglio accoppia pietre bianche e nere,
E rosse e gialle; e poi di tutte elice
Una fera, una donna, un cavaliere:
Così deve il poeta, se sa fare,
Di varie cose il suo poema ornare.
[218]
Però la Musa mia, come vedete,
Non sa star ferma, e fa voli bestiali:
Ma non l'abbiate a male, e non temete
Che non rivolga ancora a Carlo l'ali.
Nel canto, c'ha a venir, la sentirete
Sempre intorno a Parigi; e tante e tali
Battaglie narreravvi, e sì crudeli,
Che vi farà forse arricciare i peli.
Ma non vi spaventate; anzi v'esorto
A figurarvi il mal sempre peggiore.
Così soglio far io: ond'è che porto
Con molta pace ogni grave dolore;
Chè in questo viver nostro così corto,
Dove rare del ben scintillan l'ore,
E vi s'affollan quelle del martìre,
E' bisogna ingegnarsi a men patire.
Io mi figuro sempre carestìa,
E peste e guerre e ladri per la casa,
Che quel poco che i' ho mi portin via;
E mal maligno, o altro mal che invasa:
Ond'è che grave non mi par che sia,
Se scarsa la raccolta m'è rimasa,
Se muore qualcheduno, od è ammazzato,
E se poco peculio m'è restato.
Però pensate di Carlo la peggio,
E che distrutti i paladini sieno.
Ma riposiamci; che quasi vaneggio
Pel canto così lungo. E mentre il fieno
Al caval Pesagéo cerco e proveggio,
Perchè batta col piè l'arso terreno,
E mi secondi a cantar altre cose,
Vado lunge da voi, donne amorose.
[219]
Lo Scricca tutte le bandiere spiega.
Giungono a Carlo i cavalieri erranti.
Nella battaglia chi pugna, chi piega.
Guida Despina lo stuol de' suoi amanti.
Il frate per Climene Iddio rinnega;
Vuol finir col capestro i giorni santi.
Ricciardetto a Despina s'appresenta;
Ella il discaccia, e par che duol ne senta.
Fra tanti guai che son sopra la terra,
Che son più che le pulci addosso un cane,
Non è mica il minor quel della guerra.
Tristo colui che assediato rimane,
E tristo quegli ancor che gli altri serra.
In somma quel menar sempre le mane,
Quel darle, quel toccarle ogni momento,
Non è mestier che apporti alcun contento.
La guerra in fine è composta di boi,
Che or son ministri ed or son malfattori
Or impiccate, or siete appesi voi;
Or ricevete, ed or date dolori.
E si fa male, e non si pensa al poi;
Il giusto e la pietà stanno al di fuori;
Ed è il soldato sì tristo animale,
Che a chi vien per far bene, ancor fa male.
[220]
Ma quello poi ch'io non so ben capire,
Si è, che quei che muovono la guerra,
Dico i gran regi, e che fanno morire
Tanta gente, che spopolan la terra,
Si stanno in corte, e si fanno servire;
E mentre l'inimico abbrucia e atterra
Le città sue, ei si diverte a caccia,
E qualunque piacere si procaccia.
Ma di Carlo non può già dirsi questo;
Chè ancor che vecchio, e ancora che cadente,
Va in mezzo del periglio manifesto,
Ed uno pare della volgar gente.
Ei sale su le mura ardito e lesto,
E ancor combatte valorosamente;
Ma son ridotte omai le cose a segno,
Ch'è per perder la vita insieme e il regno.
Già le sue squadre aveano ucciso il Mena,
Quei che fece al buon Carlo tradimento;
E volta i Cafri omai avean la schiena,
Ed eran nel canale entrati drento,
Che fuor della città sotterra mena;
Quando ogni cosa s'empie di spavento,
Perchè a Carlo una spia dice all'orecchia,
Come l'oste all'assalto s'apparecchia:
E che da' generali e lor consiglio
S'è stabilito fra due giorni darlo;
E che già se ne udìa qualche bisbiglio.
A Dio si volta inginocchiato Carlo,
E il prega, per l'amore del suo Figlio,
Che voglia in tal pericolo ajutarlo;
E me che può rinforza e muri e porte,
E cerca dar coraggio alla sua corte.
[221]
Despina sopra un candido cavallo
Armata tutta, dalla testa in fuore,
Or correa per l'aperto ed or pel vallo.
Nè così vaga è mai d'alcun bel fiore,
Nè così corre villanella al ballo,
Com'ella affatto si consuma e muore,
Perchè cominci la crudel battaglia,
E mostri ai Franchi quanto in armi vaglia.
Ma quel che a lei dispiace e grava molto,
È il saper che lontano è Ricciardetto:
Chè se l'uccider lui a lei vien tolto,
Spianar Parigi ed ardere il distretto
Nulla le par: cotanto sdegno accolto
Ha contra l'innocente giovinetto:
Pur si lusinga che debba venire,
E debba ancora di sua man perire:
Ed ha già fatto a ognun comandamento
Che non ardisca di pugnar con esso;
Ch'ella ha nel core un tal presentimento
Ch'abbia a restar dal suo valore oppresso:
Con tal pensier consola il suo tormento.
Gli amanti che le son sempre da presso:
Questi i patti non son, dicon, con cui,
Donna gentil, venimmo qui con vui.
Ognun di noi qui trasse la speranza
D'averti in moglie; e il capo di Ricciardo
Esser dovea per te mercè a bastanza.
Or se ci neghi d'incontrar l'azzardo,
A sperar più per noi che omai ne avanza?
Girò Despina amorosetta il guardo;
Poi disse: Io non vo' più che l'altrui morte
M'apparecchi le nozze ed il consorte.
[222]
Se voi m'amate, conforme mi dite,
Non mancheranvi modi onde obbligarmi:
Nè solo degli amanti son gradite
L'opre famose che si fan con l'armi;
Ma son molte altre cose, anzi infinite,
Con cui potete l'anima adescarmi:
Ma l'amor non s'insegna; e chi vuol bene,
Mille senza pensarvi ne rinviene.
Or mentre così stanno ragionando,
Lo Scricca suona il corno del consiglio;
E per tutta l'armata manda il bando,
Che il dì seguente s'ha da dar di piglio
All'armi, e con assalto memorando
Prender Parigi, e metterlo in scompiglio;
E che la gente su l'arme si metta,
Chè le vuol dare una rivista in fretta.
I Cafri in tutto eran dugentomila,
Trecentomila i perfidi Lapponi;
D'Africa e d'Asia ancor v'era una fila,
Che ci vorrieno computisti buoni
Per numerarla. Ognun le sciable affila,
Prende l'aste, polisce i morïoni;
E chi ferra cavalli, e chi raggiusta
Sella, sproni, stivai, redini e frusta.
Fra' cavalieri in armi più famosi
V'è il re de' Cafri, benchè un po' maturo;
I due giganti, chiamati i Pelosi,
Che disfan con un pugno un grosso muro.
Di cuoja di serpenti velenosi
Coperti sono, e di colore oscuro;
Hanno baston ferrati e così fieri,
Da mutar le cittadi in cimiteri.
[223]
L'un si chiama Falcon, l'altro Sparviere;
E soli trïonfar ponno di tutti.
Vi sono ancor le due leggiadre arciere;
Despina dico, che seco ha condutti
Tanti campion di grido e di potere,
Onde i Cristiani resteran distrutti;
E Climene d'Egitto, che ancor ella
Forse quanto Despina è forte e bella.
V'è il fior dell'armi, il forte e bello Oronte,
Re tributario al Persico signore;
E v'è di Tracia il fiero Alcimedonte,
Che ha pochi eguali in arte ed in valore;
E v'è di Nubia l'aspro Serpedonte,
Che non conosce che cosa è timore;
V'è fra' Negriti poi il Fiacca e il Ficca,
Che sono i consiglieri dello Scricca.
Ve ne sono altri ancor su questo andare,
Ma li saprete quando fia bisogno;
Chè la memoria or non mi vo' straccare,
E dir ch'io non li so, me ne vergogno.
Que' di Francia si posson raccontare;
Chè son sì pochi, che mi pare un sogno
Com'abbian resistito infino ad ora
A tanta gente, e sieno vivi ancora.
I guerrier scelti e d'esimio valore
Son cinque o sei fra tutti i paladini.
V'è di Zerbino il figliuolo maggiore,
Detto Lurcanio, che come pulcini
Schiaccia con l'asta sua le genti more,
Speme di Francia, orror de' Saracini;
V'è Malagigi con la sua magìa,
Ed ha l'inferno tutto in sua balìa.
[224]
V'è un fratello d'Avolio, uno d'Ottone:
Mario quegli, e Scipion questi s'appella,
Che son due spade veramente buone,
E guastan spesso a' Turchi le cervella.
L'altre son genti avvezze alla tenzone,
Capaci ancor di far qualch'opra bella;
Ma non vi si può far su fondamento,
E mandarne un di loro incontro a cento.
Se a tempo tornan quelli che son fuora,
Come cred'io che torneranno presto,
Molto non riderà la gente mora;
Chè son persone da darle un tal pesto,
Che le budella le trarranno ancora.
Narrare io v'ho voluto tutto questo,
Perchè sappiate, quando io ne ragiono,
Questi guerrieri che persone sono.
Or mentre a far l'assalto ognun s'appresta
De' Saracini, e Carlo ancor s'adopra
Per ripararsi da sì gran tempesta,
Terrapiena le porte, e monta sopra
Le mura, e aggiusta quella cosa e questa,
E non tralascia diligenza ed opra,
Ritorniamo ad Orlando, il qual passato
Ha i Pirenei, ed è già in Francia entrato;
E seco è Ferraù cinto d'acciajo,
E sopra l'armi porta la pazienza,
Perchè pensa nel prossimo gennajo,
Soccorso Carlo, rifar penitenza;
Chè di peccati egli ha più d'un migliajo,
E son peccati tutti di semenza,
Voglio dir con la coda; e ci vuol molto
Perchè un ne sia veracemente assolto.
[225]
In una grotta, conforme s'è detto,
Vicino al mar, di qua da Cartagena,
Ritrovò l'armi il frate benedetto,
Che stavan sotterrate nella rena:
Ruggine non avean nè alcun difetto,
E v'era l'asta d'osso di balena;
V'era la spada che fecero i diavoli,
Che i ferri taglia come rape o cavoli.
Orlando tosto un suo scudiere invìa
A Carlo, acciò gli dica ch'è vicino,
E che d'un giorno al più tardar potrìa;
Ch'entrare ei vuole assai di buon mattino
In Parigi. Ricolma d'allegrìa
Carlo questa novella; ed il divino
Ajuto, quanto può, ringrazia; e vede
Che andran le cose sopra un altro piede.
Ma più s'accrebbe in Carlo l'allegrezza,
Quando sentì ch'è Ferraù cristiano,
E che seco ha di sterminata altezza
Due giganti, appo i quali Orlando è nano;
E che Rinaldo ripien di fortezza
È seco, e il buon Ricciardo e Astolfo umano,
Ed altri armati di spada e di lancia,
Venuti tutti per soccorrer Francia.
Or mentre sua vecchiezza egli conforta
Con sì buone novelle, un altro messo
Da Ponente gli viene, che gli porta
Come a Parigi egli ha lasciato appresso,
E che saranno ormai giunti alla porta,
E forse entrati in quel momento stesso,
Ulivieri, Selvaggio e il buon Dudone,
Che han mano e petto e fronte di lïone,
[226]
Quando in Parigi si sparse la nuova
Che i tre son entro, e gli altri non son lunge,
Della città la faccia si rinnova,
Nè tema nè dolore alcun la punge.
Carlo esce fuora, e a quanta gente trova,
Parla di loro; e alle parole aggiunge
Lagrime di dolcezza e di conforto,
E dice: Or non mi cal, se sarò morto.
Ma vien la notte, del gran dì foriera,
Che dar si dee l'assalto generale.
De' Turchi ognun sotto la sua bandiera
Si pone, e fan lo Scricca generale.
Climene armata a centomila impera,
Gente crudele, orribile, bestiale:
La sopravveste ha di color di brace,
E v'è scritto: Da me niun speri pace.
Despina anch'essa ha il diavol nella pelle,
Nè ritrova la via d'andare a letto:
Or riguarda le briglie, ora le selle;
Or si prova l'usbergo, ora l'elmetto.
Un manto d'oro fregiato di stelle
Si pone; e scritte di dietro e sul petto
V'eran queste parole: Un sol m'importa,
E il voglio ucciso, o resterovvi morta.
Comando ella non vuole, e sol co' suoi
Amanti brama andar dove le piace.
Ma già l'aria rosseggia, e i forti eroi
Arde di Marte la terribil face.
Chi si veste di duri e grossi cuoi
Di tigri e d'orsi, come è l'uso trace;
Chi di piastra e di maglia, e chi spogliato
Monta a cavallo siccome egli è nato.
[227]
L'esercito de' perfidi Lapponi,
Che son trecentomila, non s'è mosso;
Ma per le ville se ne va gironi,
E ammazza e ruba, e poi si reca addosso
Quanto può di galline e di capponi;
Indi si mette dentro a un qualche fosso,
E divora così le altrui fatiche;
E sembra un'adunata di formiche.
Sovra d'un colle a Parigi vicino
Cinque o sei miglia, giunge a mezza notte
Orlando, e seco ogni altro paladino;
E vede tante genti insiem ridotte
Sotto Parigi al prossimo estermìno:
Pensa e bestemmia chi l'ha lì condotte.
Vede pennacchi, e andar bandiere attorno;
Chè la luna lucea come di giorno.
Fan consiglio fra loro se sia bene
Entrar dentro Parigi, o starsi fuora;
E star fuora da tutti si conviene.
Orlando, Astolfo e Ricciardetto ancora
Staranno insieme e attaccheran le schiene
Alla diritta della gente Mora:
Rinaldo alla sinistra con Leone;
E così fare qualche diversione.
In mezzo Ferraù co' due giganti
Attaccherà con tutta sua potenza;
E gli altri paladini poi pe' canti
Inquieteranno quella rea semenza.
Per vie sicure un uom mandano avanti
A Carlo, acciò, venendo l'occorrenza,
Li ajuti, e sappia ciò che voglion fare,
Credendo ch'egli debbalo approvare.
[228]
Ode Carlo il messaggio, e il tutto approva,
E fa consiglio con i suoi baroni;
E vuol far cosa inaspettata e nuova.
Io penso, dice, sopra i torrïoni
E su le mura, ove in ozio si cova
La forza e il fiore de' miglior campioni,
Poca gente lasciarvi, e quella ancora
Che al mestier di pugnar venne pur ora;
E in tre corpi partir le nostre genti;
E quando l'oste ad assalir ci viene,
Tutti e tre per tre strade differenti
Andargli addosso, come si conviene.
Così a Orlando sarem corrispondenti;
E spero che la cosa anderà bene.
Piace il consiglio a tutti; e ad Ulivieri
Dà il primo corpo ed i miglior guerrieri;
Il secondo a Scipion, l'altro a Selvaggio:
Carlo resta in Parigi alle bisogna.
Già moveva il suo lucido vïaggio
La bella stella; e tinta di vergogna
L'Alba venìa, che le vien detto oltraggio,
Perchè d'amor per vecchio sposo agogna;
Quando fiero e terribile rimbomba
Là il corno Moro, e qui la Franca tromba.
Come il turbato mar l'onde sue spezza,
E le solleva fieramente in alto,
Biancheggiando alla riva, e con prestezza
Vengon l'una appo l'altra, e tutte a salto
Sembran destrier che rotta han la cavezza;
Così per dare a Parigi l'assalto
Veniva in vista più superbo e atroce
Il saracino esercito feroce.
[229]
Ma come appunto, allor che il lido tocca,
Lo strepitoso mar perde sua forza,
E torna indietro, e si chiude la bocca;
Così l'ardire in un tratto s'ammorza
In quella tanta gente Mora e sciocca,
Vedendo che a combattere la sforza
Il Cristiano già fuora delle mura;
Onde si ferma, e s'empie di paura.
Grida Climene, e bestemmia lo Scricca,
E fa il diavolo a quattro ancor Despina;
E di là il Fiacca, e di qua corre il Ficca
Per tener la milizia in disciplina.
Orlando intanto dietro lor s'appicca,
E con la spada tutti li rifina.
Astolfo e Ricciardetto fan lo stesso;
Ed hanno un monte già di morti appresso.
Rinaldo e il fier Leon menan le mani
Spesso così, che sembrano su l'aja
Battere la saggina, oppure i grani.
I due giganti n'han morti migliaja,
E nel campo hanno fatto di gran vani;
Chè quelle reti non sono una baja,
Perchè ne prenderan mille alla volta,
E poi con essi van girando in volta.
I Saracini assaliti davanti,
Vanno fuggendo indietro pel timore;
E quelli offesi indietro, vanno innanti:
Onde nel mezzo si fa tal romore
E stretta tal, che da sè stessi infranti,
Or l'uno or l'altro illanguidisce e muore.
Lo Scricca, che perdente omai si mira,
Con quei pochi che puote si ritira.
[230]
Fa Carlo anch'esso sonare a raccolta,
Ma i paladini non l'odono ancora;
E là dove l'armata ella è più folta,
Fan correre di sangue un'ampia gora.
Sol Ferraù l'amica tromba ascolta,
Ed esce tosto di battaglia fuora;
E nell'uscir s'incontra con Climene:
Ella in vederlo il suo caval trattiene;
Indi lo sfida a singolar tenzone
In parte dall'esercito discosta.
Ferraù che la reputa un campione,
Accetta allegramente quella posta.
Ella si muove, ed entra in un vallone:
Ferraù l'accompagna costa costa;
E quando soli sono in un bel piano,
Alle lancie ambidue danno di mano.
Climene Ferraù colpisce in fronte,
E Ferraù Climene in mezzo al petto.
Braccio più forte Orlando e Rodomonte
Non hanno, disse il cavalier eletto.
La donzella a quel colpo par che smonte
Dal destrier; così duro fu in effetto:
Pur si rafferma in su la sella; e intanto
Le rotte lancie lor metton da canto,
E dan di mano alle spade taglienti,
E sembran fabbri in su la forte incude.
Diluviano le punte ed i fendenti;
Ma nïun de' due, benchè molto sude,
Impiaga l'altro. Serra bene i denti
Il frate, e pien di voglie acerbe e crude
Mena un colpo su l'elmo alla donzella,
Che se la coglie in pieno, la sfragella.
[231]
Per sua fortuna la prese da parte,
E tanto ne tagliò, quanto ne prese:
Ed ecco biondeggiar le chiome sparte,
E folgorar due belle luci accese
D'ira e vergogna, da piagare un Marte.
Rimase il frate con le braccia stese,
Apre la bocca e spalanca le ciglia,
Attonito per tanta maraviglia.
Così talora il pellegrin, dolente
Per povertade, e rotto dal cammino,
Vinto dal mal della fame presente
Non sa che farsi, e se ne sta tapino;
Ma se a sorte col piede di repente
Urta in qualche moneta d'oro fino,
La guarda, e pel piacere si scolora;
Tale in quell'atto fêssi il frate allora.
Getta la spada a terra e le s'inchina;
E le chiede perdono del mal fatto;
Indi al destriero suo ei s'avvicina,
E la prega a discendere ad un tratto.
Placata allor la barbara regina
Discende, e il guarda assai cortese in atto;
E dice lui di vergogna dipinta:
Tu se' il mio vincitore, io son la vinta.
Ferraù gentilmente le risponde,
Che vincitor di donne non fu mai.
Ella raccoglie le sue trecce bionde
In aurea rete, e co' suoi dolci rai
Guata il guerrier, che alquanto si confonde,
E si sente nel cor del foco assai.
La donzella lo prega che si scioglia
L'elmo; chè di vederlo in viso ha voglia.
[232]
Ferraù l'ubbidisce; e su l'erbetta
Stracchi ambidue si mettono a sedere.
Climene di suo stato e di sua setta
Gli parla; ed ei l'ascolta con piacere.
Amore intanto nel cor lo saetta,
E lo riduce tutto in suo potere;
Onde strappa il cappuccio e la pazienza,
Nè vuol più cella, nè più penitenza:
E comincia sott'occhio a riguardarla,
Ed a scusar la fragile natura;
E con le mani innaspa, mentre parla.
Tenerlo addietro Climene procura,
E dice: Cavalier, ragiona e ciarla
Quanto tu vuoi; ma tieni alla cintura
Coteste mani. Ed egli le ritira,
E borbotta fra' denti, e poi sospira;
E quanto più la guarda, più s'imbroglia.
S'alza Climene; ed ei si raccomanda,
Che seco un altro poco seder voglia,
E ch'egli metterassi più da banda.
Proposito d'amanti è come foglia,
Dice la donna, che il vento tramanda:
S'io ti siedo vicino un'altra volta,
Tosto il cervello tuo torna a dar volta.
Pur voglio compiacerti, e veder quanto
È il tuo valore; e di nuovo s'assetta.
Astolfo errando sopra un colle intanto
È giunto, e vede i due sopra l'erbetta;
Onde s'accosta loro, ed in un canto
Si pone, e la leggiadra giovinetta
Riguarda spesso e il cavaliero scaltro;
Ma conoscer non può l'una nè l'altro.
[233]
Alfin s'accorge ch'era Ferraù,
Quell'eremita santo e benedetto,
Quel tanto innamorato di Gesù,
Che poneva le spine sopra il letto,
Nè voleva del mondo saper più;
E sente come tutto pien d'affetto
Prega la donna che gli abbia pietade,
E che gli voglia ben per caritade:
E le comincia a dir cento bugìe,
Com'egli è re di Murcia, e che la vuole
Prendere in moglie. Ed ella: Un altro die
Ci rivedrem; chè il capo ora mi duole;
E poi le sacrosante leggi mie,
Che tutto Egitto riverisce e cole,
Non vo' prevaricar. Tu se' Cristiano;
Ed io non credo che nell'Alcorano.
Se ti facessi Turco ancora tu,
Forse allor mio consorte io ti fare'.
A Climene si volge Ferraù,
E la riguarda, e dice: O santa Fè,
Soffrilo in pace: io non ne posso più.
E dice: Io mi farò, donna, per te
Tutto quello che vuoi. Ed alza il dito,
E grida: Ecco un novello convertito.
Astolfo allor di santo zelo avvampa,
E scappa fuora, e dice: Frate porco!
Si vede ben che sei di mala stampa.
Chè non s'apre la terra, e giù nell'orco
Non piombi, pasto dell'eterna vampa?
O ve' che anima sozza e core sporco!
E con la spada addosso se gli serra,
E principian tra loro un'aspra guerra.
[234]
Vista Climene attaccata la zuffa,
Si slontana da loro, e fugge via.
Vedendola fuggire, il frate sbuffa;
Ma Astolfo il batte con gran gagliardìa,
Chè i pensieri d'amor gli guasta e arruffa;
Chè se col capo nulla si disvìa,
Si sente su le spalle e su le rene
Colpi che il fanno tritolar, ma bene.
Ferrautte nell'armi era più destro
D'Astolfo, e più robusto e nerboruto;
Ma per allora Iddio fece maestro
Il buon Inglese contra quel cornuto,
Che di lussuria portato dall'estro,
Fece di Cristo il perfido rifiuto:
Talchè ferillo, ed a terra gittollo;
Poi gli andò sopra per tagliarli il collo.
Miserere di me! tutto piangente
Il frate disse; e detestò sua colpa;
E giurò che alla vita penitente
Sarìa tornato, ove virtù s'impolpa,
E il vizio smagra e ritorna a niente.
Astolfo allor s'impietosisce, e scolpa
Il suo fallir; ma dice: Fratel mio,
È un gran peccato rinnegare Iddio.
Poi gli cura la piaga, e glie la fascia;
Ed era piaga da guarirne presto.
Indi si parte, e soletto lo lascia,
Per girne a Carlo. Addolorato e mesto
Ferraù cade in così grande ambascia,
Che disperato si forma un capresto
Della cavezza del cavallo, e gira
Con gli occhi, per veder se un arbor mira;
[235]
Chè, parte per orror del suo peccato,
Parte in pensar che Astolfo l'avrà detto,
Onde da ognun sarà villaneggiato,
Gli venne quel pensiero maledetto.
E già sopra una quercia egli è montato,
E ricerca d'un ramo il più perfetto
Per legarvi la corda; ed un ne trova,
Che non si romperà certo alla prova.
Quivi il capestro suo lega di botto,
E sta su l'orlo di gettarsi a basso:
Quand'ecco appunto appunto all'alber sotto
Si trova Orlando nell'andare a spasso;
E sentendo per aria questo fiotto
Del frate che si dava a Satanasso,
Si volge; e visto Ferraù in quell'atto,
Disse: Romito mio, non se' già matto?
Io non son matto, disse Ferrautte;
Sono un malvagio tinto in cremisino;
Ed ora voglio mie nequizie tutte
Finir, morendo come un assassino.
Di mal seme son queste male frutte:
Non son nè Cristïan, nè Saracino,
Nè son soldato, nè son penitente,
Nè in questa vita son buono a nïente.
Orlando si strabilia, e dice: Frate,
Tu fai cosa per certo iniqua e ria;
Ed anderai tra l'anime dannate,
Se tu finisci per sì trista via.
Una sono dell'alme disperate,
Egli ripiglia, e sol la morte mia
Può raggiustarmi. E in questo dir, si pone
La corda al collo, e va giù penzolone.
[236]
A dirla, in quanto a me, s'era nel conte,
Per Dio ch'io lo lasciava sgambettare,
E forse forse con le mani pronte
Lo stirava pe' piedi a tutto andare;
Come ho veduto costumare a Ponte,
Quando qualcuno è dato a giustiziare:
Tanto più che nessun m'avrebbe visto,
E avrei levato dalla terra un tristo.
Ma egli in cambio piglia Durlindana,
E taglia il ramo e il capestro di netto,
E su le braccia con maniera umana
Riceve nel cadere il poveretto;
E spruzzatol con acqua di fontana,
(Spezzato prima il laccio maledetto
Che aveva intorno al collo) lo distende
Su l'erba; e poi in tal guisa a dirgli prende:
Che stravaganza, Ferraù mio caro,
È stata questa tua che t'ha sospinto
Ad atto contro te sì crudo e amaro?
Io veggo ben che tu sei stato vinto
Da disperata voglia, onde il tuo chiaro
Intelletto ne fu macchiato e tinto.
Ma perchè disperarti? e qual mancanza
Fêsti, che fuor ti ponga di speranza?
Se il grave peso delle colpe tue
T'ha indotto a questo, tu se' stato matto,
Ed empio insieme col nostro Gesùe;
Chè niun peccato al mondo mai fu fatto,
Che della bontà sua pesasse piùe,
E non fosse col piangerlo disfatto;
Chè chi dispera d'ottener pietade,
Troppo offende sua immensa caritade.
[237]
Ferrautte a quel dir si riconforta,
E dice: Conte, tu favelli bene;
Ma quando in noi santa ragione è morta,
O viva malamente si mantiene,
Si bada poco a quello che più importa;
E s'infosca un così, che là poi viene
Dov'egli non vorrebbe esser mai giunto:
E suol questo avvenir spesso in un punto.
Io m'era messo in un aspro deserto,
Senza pensier di veder più cittade,
Ma per i boschi e sempre a cielo aperto
Passare il rimanente dell'etade;
Ch'io ben sapeva, e ben m'era scoperto,
Come uom vacilla facilmente e cade
Nell'occasione; e da essa lontano
Forte si regge, e sta robusto e sano.
Ma la vostra venuta, ed il periglio
Di Carlo e della Fede mi sommosse,
E per mio mal mi fe' mutar consiglio.
Quanto era ben, che stato ancor là fosse!
Che non m'avrebbe un amoroso ciglio
Piagato. E qui fece ei le guance rosse;
Qui sospirò; qui diede in un gran pianto;
E senza nulla dir si stette alquanto;
Poscia riprese: Per mortal bellezza
Io giunsi a tal, che rinnegai fin Cristo.
O questa, disse il conte, ella è di pezza,
E v'è di matto e di briccone un misto:
Ma accrescere io non vo' la tua tristezza.
Facesti almeno della donna acquisto?
Perdei Dio, perdei lei, perdei me stesso;
E senza te perdeva l'alma appresso.
[238]
E' non è stato in vero un mal da biacca,
Rispose il conte, questo tuo peccato,
Nè un mangiar pollo in cambio di saracca,
In tempo che mangiarlo c'è vietato;
Colpa pur essa, e che da Dio ci stacca:
Ma l'avere il battesmo rinnegato,
Fratello, è cosa, a dirla in due parole,
La più infame che avvenga sotto il sole.
Infino ad impazzare per amore,
L'ho fatto anch'io, e lo fan tanti e tanti,
E tutti quei che lui tengon nel core:
Ma rinnegar per esso e Cristo e Santi,
È altro, Ferraù, che pizzicore.
Pur se con preghi, con sospiri e pianti
Chiedi perdono a Dio, l'avrai per certo;
Chè il tesor delle grazie ha sempre aperto.
Qui fece Ferraù degli atti buoni:
Riprese l'armi, e sopra esse si mise
La pazienza e il cappuccio; ed i perdoni
Vuol prender di Loreto e quei d'Assise,
E far molte altre sante devozioni.
Il conte intanto di tacer promise
L'opra sua fella; e quando a tempo sia,
Farà che Astolfo anch'ei tacito stia.
Così a Parigi sen vanno d'accordo;
E Ferraù per via sempre singhiozza.
Sta lieto, disse Orlando: io ti ricordo
Che la pietà di Dio non fu mai mozza,
Anzi è infinita. Io merto che sia sordo
Al mio pregar, tal feci opera sozza,
Ripiglia il frate d'umiltà ripieno,
E sempre tiene gli occhi in sul terreno.
[239]
Giunti in Parigi, del palazzo fuora
Gl'incontra Carlo, e fa loro accoglienza.
V'era anche Astolfo, e dice a Carlo allora:
Ecco il soldato della penitenza,
E che sì bene la vigna lavora.
Orlando dice: O via, è impertinenza;
S'egli ha fallito, n'ha chiesto perdono.
E noi che siamo? e gli altri uomin che sono?
Carlo s'infinse di non saper nulla;
E vanno in corte, e poco dopo a cena;
Che prima ch'esca il nuovo dì di culla,
Vuol far consiglio in adunanza piena.
Climene intanto, la bella fanciulla,
Crede a sè stessa e a sua fortuna appena,
D'esser fuggita in un tratto di mano
Di così forte ed orrido Cristiano;
E ride con i suoi, e narra loro
Come in un lampo il suo nimico accese
Di sua bellezza, e co' suoi crini d'oro
Legollo sì, che prigionier sel rese.
Se i più forti di me dunque innamoro,
E se i men forti al suol mia destra stese
(Sorridendo dicea), chi può negarmi
(Ed arrossì) ch'io non sia Dea dell'armi?
Ricciardetto fra tanto andava in volta
Per ritrovar l'amabile Despina,
Che la crede un guerriero; e tra la folta
Gente trapassa; e ciaschedun l'inchina,
Sì perchè la battaglia era disciolta,
Sì perchè ben con la spada sciorina:
Ma quanto più ne cerca, ne sa meno;
S'arrabbia, e par che mastichi del fieno.
[240]
Alfin s'abbatte in uno che gli narra,
Come il guerrier, di cui egli richiede,
Di strali armato, d'asta e scimitarra,
È donna, ed è di tutta Cafria erede,
E che ha le perle ed i rubini a carra,
E si può dir felice chi la vede.
E qui comincia a dirgli una per una
Le beltà che il suo bello in sè raduna.
Mescolate di porpora e di giglio,
Dice, son le sue guance, come rosa;
Sottile il labbro, e molto è più vermiglio
Delle guance; la bocca ha grazïosa;
Purissima negrezza orna il suo ciglio;
Il naso è dritto, che ben siede e posa
Gentilissimo anch'esso, e pur sottile,
Acciò non sia da' labbri dissimìle.
Gli occhi ha grandi, vivaci e risplendenti
Di pura luce; e ciò ch'è in lor di nero
Non puote esser più nero: i carbon spenti
Sono un lontano paragon non vero;
Dove biancheggian poi, nevi cadenti
Non dicon quanto io chiudo nel pensiero;
Nè me lo spiega il latte, nè la brina,
Nè la spuma più candida marina.
E riceve il bel nero dal bel bianco
Vicendevol conforto e leggiadrìa.
Crespa la chioma le scende sul fianco,
E di giacinti tutta par che sia;
La pettinâr le Grazie e Vener anco;
Tanto spartita ell'è con simmetrìa.
Bianca ha la gola, dilicata e tonda,
E bel monil di gemme la circonda:
[241]
E son le gemme in modo congegnate,
Che dicono così: Despina bella.
È grande di statura; e ricamate
Son d'oro le sue vesti onde s'abbella;
E vi son rose di rubin formate,
Gigli di perle; ed ha in petto una stella
Di topazi orïentali, che arreca
Tanto splendor, che gli occhi quasi accieca.
Se poi si muove, ha passo corto e breve,
E sembra palma ovvero alto cipresso,
Quando da un venticel moto riceve:
Ma chi lei move non è già lo stesso.
Lei move delle Grazie un'aura lieve,
Che le van sempre innamorate appresso.
Ha bello il seno poi, il qual sospinge,
Quanto egli può, la fascia che lo cinge.
Ma se la spada impugna, e con cimiero
Copre il bel viso, e veste piastra e maglia,
Tu vedresti qual sembra alto guerriero,
Ed atto quanto ad orrida battaglia.
Così dice a Ricciardo il cavaliero:
Ei finge che tal cosa non gli caglia,
E da lui parte; e in quel punto e in quell'ora
Della nemica sua ei s'innamora;
Ed alla regia tenda a dirittura
Va di Despina, e chiede d'inchinarla.
Una sua damigella ivi a ventura
Incontra, e del suo amor con essa parla,
E la regala: ed ella allor gli giura
Che vuol, per quanto puote, a lui piegarla;
Ma teme di far poco, e forse nulla,
Perchè troppo odia i Franchi la fanciulla.
[242]
Perchè dal dì che l'empio Ricciardetto
Il fratello le uccise a tradimento,
Ha cotanta ira, ha cotant'odio in petto
Contro voi altri, che vorrebbe spento
Il vostro nome: ma del giovinetto
Vuole ella di sua mano aver contento
Di recider la testa; e a tal riguardo
Tanto ha popol con sè forte e gagliardo.
Se questo egli è, Ricciardetto rispose.
Vanne a Despina, e fàtti dar la mancia;
Chè condurre io le vo' per vie nascose
Il paladino senza spada o lancia.
L'ali a' piè la donzella allor si pose;
Vanne a madonna, e dice: Un uom di Francia
Vuol ragionarti; e se a grado ti sia,
Ti darà Ricciardetto anco in balìa.
L'armatura e il cimier già s'era tolto,
Nè busto aveva; e il bel candido lino
Al seno le tenea stretto ed accolto
Un zendado trapunto d'oro fino,
Che s'era intorno gentilmente avvolto.
Ha nudo un braccio e l'omero vicino;
Ma ricoperto egli è da' suoi capelli,
Che sembran rai di Sol, tanto son belli.
Breve ha la gonna di color cilestre,
D'oro il coturno, e il piè vago e gentile.
Così Diana in un campo silvestre
Si dipinge, la Dea ch'Amore ha a vile.
Di gigli e rose e d'aurate ginestre
Fregiato un velo avea sottil sottile:
Quello si pone intorno al collo bianco,
Poi dice che a lei passi il giovin Franco.
[243]
Ricciardetto era un garzoncel ben fatto,
E che sempre alle donne piacque molto.
Non era bianco assai, nè bruno affatto;
Ma d'un color che gli fea bello il volto;
Colore ad un guerriero assai ben atto.
L'occhio bruno egli aveva, e in esso accolto
Era tutto quel brio di cui son pieni
Gli astri d'inverno ai cieli più sereni.
Grande era di statura, ma non tanto
Ch'egli uscisse da' limiti del giusto:
Era forte, era allegro e magro alquanto,
Ma ben piantato, ed agile e robusto.
Se l'udivi parlare, era un incanto;
Che nell'arte del dire avea buon gusto.
Era affabile ancora, era cortese,
Com'esser suole ciaschedun Franzese.
Giunto avanti a Despina il giovinetto,
Vuol salutarla, e perde la parola;
E il cor gli batte forte forte in petto,
Nè gli escon che sospiri per la gola:
Pur prende lena, e in suono languidetto
Dicea: Donna in bellezza al mondo sola,
Ho sentito di voi ragionar molto;
Ma più mi dice adesso il vostro volto.
E intendo or come le parole elle hanno
Forza minor degli occhi e del pensiero;
E per molto che dicano, non sanno
E non possono mai giungere al vero.
Tante ricchezze in voi raccolte stanno,
Che ben si vede che in voi sola impero
Han le Grazie ed Amore e il sommo Giove;
Onde nova beltà sempre in voi piove.
[244]
Ma pur queste bellezze, onde splendete,
L'innamorata mente alquanto intende:
Ma chi potrà discernere le mete
Della luce che sì chiara vi rende?
Luce onde l'alma vostra ornata avete,
E che di fuor sì ben traluce e splende,
Come facella che traspar per velo,
E come il Sol per nubiloso cielo.
Veggio nel lume de' begli occhi vostri
Folgoreggiare il vostro bello interno,
O bella donna, onor de' tempi nostri,
E alle future età dolore eterno;
Degna che tutti i più pregiati inchiostri
Parlin di voi, se il giusto ben discerno.
Spero che forse non avrete in ira,
Se il mio core per voi piange e sospira.
Io so che in odio avete il nome Franco,
E che morto bramate Ricciardetto;
Ma viemmi ognor bella speranza al fianco,
Nè vuol ch'io spenga il principiato affetto.
Io vi darò senz'armi e prigion anco
Lo sfortunato incauto giovinetto;
Chè pur ch'io ottenga il vostro dolce amore,
Non mi cal s'io divento un traditore.
Despina, mentre seco egli favella,
Lo guarda fisso in viso, e divien rossa;
E in quel suo rosseggiar divien più bella;
Poi gli risponde: Cavalier di possa,
Non sdegno chi mi loda e chi m'appella
Vaga e gentil; chè affronto, nè percossa
È questa per chi il ciel fe' nascer donna,
Ancorchè lasci per pugnar la gonna;
[245]
Ma di Ricciardo al pari, Amore ho a sdegno.
Solo ti posso dir per tuo contento,
Che niuno appresso a me mai giunse al segno
Che tu giungesti; chè per te mi sento
Cor men feroce e men crudele ingegno:
E se altro duce a me, che il tradimento,
Ti guidava, saresti oltre più giunto;
Ma mi spiacesti, e t'abborrìi in quel punto.
Ti torno a dir che Ricciardetto avrai,
Rispose il Franco; nè, come ti credi,
Sarò chiamato traditor giammai.
E qui piangendo se le getta a' piedi,
E dice: Avanti a te quel perfido hai,
Quel Ricciardo di cui la testa chiedi;
Quel Ricciardo a' cui danni ti se' mossa,
Tutta menando l'africana possa.
E se tu vuoi che per tua mano io cada,
Qual morte sarà mai più fortunata?
Indi denuda la sua propria spada
Per darla a lei, che in viso assai turbata,
A quel che le dice or, nulla più bada;
Ma dolce dentro, e di fuor aspra il guata,
E dice: Traditore empio e villano,
Tu se' quel che uccidesti il mio germano?
Fuggi dagli occhi miei; fuggi, crudele;
Sarà mia cura il ritrovarti in campo.
Nè così presta in mar, sciolte le vele,
Nave si fugge, o disparisce il lampo,
Come ella tutta lagrime e querele
Parte da Ricciardetto, che niun scampo
Vedendo all'amor suo, tristo e pensoso
Torna a Parigi, e di morir voglioso:
[246]
E dice tra sè stesso per la via:
Che fia di me, se m'odia la mia vita?
Se la mia speme è la nimica mia?
Amore, a te mi volgo; a te di aita
Bisognoso ricorro in così ria
Tempesta, che tu sol puoi far finita.
E mentre così prega, una colomba
Ecco che sopra lui s'aggira e romba.
Onde felice augurio egli ne prende,
E tempra in parte il giusto suo dolore;
Entra in Parigi, ed in palazzo ascende,
E si rassegna a Carlo imperatore;
Poi vanne al quartier suo, nè foco accende;
Chè non vuol cena. Pien di tristo umore
Vassene a letto; ma non dorme mica;
Chè gli sembra giacere in su l'ortica.
Despina anch'essa non ritrova pace;
Chè l'è piaciuto Ricciardetto molto;
Ma pur come nemico le dispiace:
Or prigion lo vorrebbe, ora disciolto;
Ora piagato a morte, ora vivace;
Ora i begli occhi e il grazïoso volto
Del giovinetto in lei lo sdegno ammorza;
Or lo raccende, e l'ardor suo rinforza;
E sembra madre in mezzo a due figliuoli,
Ambo feriti, ambo vicini a morte;
Che appena avviene ch'un di lor consoli,
Che piange l'altro, e vuol che lo conforte:
Ond'ella, acciò non restino mai soli,
Stringe l'un, guarda l'altro, e la lor sorte
Deplora, e in un la sua; e in questa guisa,
Perchè ama entrambi, stassi in due divisa.
[247]
E che dirà, dicea, raccolta insieme
Africa, e il padre e l'ombra del germano,
Quando vedrà che Amor mi calca e preme
Col suo piede, non sol per uno strano
Nato d'Europa nelle parti estreme:
Ma, quel che monta più, per un Cristiano,
Per l'uccisor di mio fratel, per cui
Condussi armata in Francia Africa e lui?
Che dirà il fior de' giovan saracini,
Verso l'ardor de' quai fui sempre un gelo,
Quando saprà com'io mi pieghi e chini
All'amor d'un per cui gli uomini e il cielo
Pregai contrarj e i suoi e i miei destini?
Ah! pria ch'io stenda un così nero velo
Su le bell'opre e sul candor degli avi,
Subita morte le mie luci aggravi.
Ma che potrò far io? e quale schermo
Trovare in tanta mia miseria estrema?
S'io lo sfido a battaglia, il core infermo
Già prima di sfidarlo in sen mi trema;
S'io non lo sfido, e tengo saldo e fermo
Fuggirlo, il campo per leggera e scema
Terrammi, e forse timida e da nulla,
E che son veramente una fanciulla.
O sommo Amore, onnipotente Dio,
Or di te il tutto credo; ora conosco
Che niun può contrastare al tuo disìo.
Tu i pesci in mare, e tu le fere in bosco,
Tu per l'aria gli augelli, e quanto uscìo
Dal caos fuora inordinato e fosco,
Tu Giove in cielo accendi, e gli altri suoi
Numi; e giù nell'inferno ancor tu puoi.
[248]
Cedo alla forza tua, cedo al valore;
Ed Africa ragioni a suo talento.
Ma sarà vero, ed avrò tanto core
D'amare un che il germano, aimè! m'ha spento?
Un germano, non vinto per valore,
Ma per insidie e infame tradimento?
Ah che dentro dell'anima mi sgrida
L'ombra sua, e m'appella iniqua e infida.
Sorella infida, e barbara Despina,
Dell'omicida mio perduta amante!
Sarai tu dunque, ahi! più ch'onda marina,
Più che foglia volubile e incostante?
Tu dunque stringerai sposa e reina
Una destra del mio sangue grondante?
E sarà la tua gioia e il tuo conforto
Un ch'odia i nostri Dei, un che m'ha morto?
Ove sono i sospiri e i lunghi omei
Che alla trista novella di mia morte
Spargesti? e dove i voti a' sommi Dei
Di vendicarmi vigorosa e forte?
Troppo di me scordata tu ti sei,
Ma più di te; nè in ciò colpa ha la sorte:
Tutto il peccato è tuo. Amor non puote
Sopra alma grande che da sè lo scuote.
Così lo spettro del germano estinto
Seco ragiona: e l'afflitta donzella
Or ha di morte il viso suo dipinto,
Or di Ricciardo la sembianza bella
La riconsola, e il superato e vinto
Suo spirto allegra, come suol facella,
Quando di quell'umore che le manca,
Altri le porge, e sua virtù rinfranca.
[249]
Passò tutta la notte in tristi e vari
Pensieri, e finalmente in un si ferma,
Qual è, soletta di passare i mari,
E girne in parte solitaria ed erma,
Finchè il nemico a disamare impari,
E sana torni di piagata e inferma;
E chiama Adrasto, il vecchio suo scudiero,
E gli apre questo suo strano pensiero.
Resta il vecchio a quel dir stupido affatto,
Nè le sa dare, nè le può risposta.
Pur dopo essere stato un lungo tratto
Muto, le dice: Che folle proposta
È quella che mi fai? Fuggir sì ratto
Dal padre, ancor non sai quel che ci costa?
A te costerà infamia, a me la morte;
Benchè per tua cagion ciò non m'importe.
E quando veramente ferma sia
Di volerti partir, deh! lascia almeno
Che vengan con noi due in compagnìa
Lo Sparviere e il Falcone, in cui non meno
Alberga fè che ardire e gagliardìa.
Africa ed Asia in tutto il lor terreno
Non han giganti simili a costoro.
Disse Despina: Or vanne dunque a loro.
Adrasto cerca e trova i due giganti,
E dice loro, come vuol Despina
Averli seco; chè certi arroganti
Cristiani porre a morte ella destina;
Ma che del partir loro a niuno avanti
Parlin; chè l'opra ha esser repentina.
E seco alla regina li conduce,
Quando appunto del dì venìa la luce.
[250]
S'arma da capo a piede la donzella,
E nel vestirsi lagrima e sospira;
Poi bacia e abbraccia la sua damigella,
Ed ora i suoi, or Parigi rimira;
E, oh me beata, s'era manco bella!
Dice tra sè. La fante si martira,
Chè non sa quello che la sua signora
Ha dentro il cor, che tanto l'addolora.
E perchè teme di sinistro evento,
Quanto ella può la supplica e scongiura
Che lasci per quel giorno ogni cimento.
Despina allora: Non aver paura,
Le dice in fioco e tremolante accento;
Poi le soggiunse: Alla tua fede e cura
Commetto che nascosta ora tu vada
A Ricciardetto, e gli dia questa spada;
E gli dica: Despina a te mi manda
Con questo dono, crudel dono e fiero,
Come a nemico; e insiem si raccomanda
Alla memoria tua, al tuo pensiero.
Questo era il ferro onde sperai ghirlanda
Porre d'alloro sopra il mio cimiero,
Per la vendetta del germano estinto;
Ma in altra parte il core Amor m'ha spinto.
La damigella parte frettolosa
Verso Parigi, e Despina si move
Co' suoi compagni. Tacita e pensosa
Esce dal campo, e va, ma non sa dove.
Sul mezzogiorno in una valle ombrosa
Tutta di piante verdeggianti e nuove
Giunge, e s'asside colma di tormento
Sopra un ruscel che avea l'acque d'argento.
[251]
Ma della cetra or s'è rotta una corda,
Perchè sonata io l'ho più del dovere.
Or mentre la rïarmo, e che s'accorda,
Parlate tutti e datevi piacere;
Tanto più che allegrezza non concorda
Col nuovo canto pieno di spiacere;
Ma non per questo vi sarà men grato,
Se averò Febo, come io soglio, a lato.
[252]
Il frate torna a delirar d'amore.
Parte Despina, e Ricciardetto trova.
Climene fugge dal fratesco ardore,
Despina da Ricciardo, e il duol rinnova.
Lo Scricca un sogno fa pieno d'orrore,
E tutto in fatti poi vero lo prova.
Orlando capitano ordina un pozzo,
Che s'empie di Lapponi infino al gozzo.
La Fortuna è una Dea senza cervello;
E però tutto il giorno fa pazzìe:
Or questi abbassa, ed ora innalza quello:
Delle genti ama sempre le più rie;
Ed è della virtù vero flagello:
Ha una mano gentil, l'altra d'Arpìe;
Quindi è, che sempre ruba e sempre dona,
E consola e tormenta ogni persona.
E come il Sole, a noi quando compare,
Spoglia di luce le lontane genti;
E quando torna ad attuffarsi in mare,
Rallegra gli altri, e noi restiam dolenti:
Così Fortuna appunto usa è di fare;
Chè giorni non vi sono, ore o momenti
Che sien felici altrui, che quegli stessi
Non rendan gli altri di miseria oppressi.
[253]
Carlo l'altr'ieri era ridotto a tale,
Che il regno dato avrìa per tre quattrini;
E si formava l'arco trïonfale
L'altero Scricca co' suoi Saracini.
Ora lo Scricca s'è condotto male
Per l'arrivo de' forti paladini;
Ma molto più quando saprassi in campo
Che Despina è partita come un lampo.
La damigella dunque a Ricciardetto
Dice quanto le ha detto la padrona:
E lo trova che ancora egli era a letto,
E che dormiva appunto in su la buona.
Gli balzò il core subito nel petto;
E guardando la spada, che gli dona
La bella donna, cento volte e cento
La bacia, e va piangendo pel contento.
Poi dona alla donzella cento doppie,
E dice: Torna al mio bel sole, e dille
Ch'ardo per lei, più che non fan le stoppie,
Quando il villan le sparge di faville.
Ma ve' che l'ambasciata non mi stroppie:
Altrimenti finite son le spille,
Finiti gli aghi, le stringhe e gli aghetti,
E quanto penso ch'a donna diletti.
Lasciate fare a me, gentil signore,
Dice la donna, e statevi sicuro.
Indi si parte con allegro core;
Perchè il danaro è rimedio sicuro
Per temperar d'ogni animo il dolore.
Giunge alla tenda, e vede in faccia oscuro
Alcimedonte e lo Scricca dolente,
E il Fiacca e il Ficca e tutta l'altra gente:
[254]
Ed appena l'han vista, che ad un tratto
Voglion saper da lei dov'è Despina.
Dice la donna dolorosa in atto:
L'ho vista dipartir questa mattina,
Di piastra e maglia, e tutta armata affatto.
Disse d'andare sopra una collina
Per dar la morte a certi masnadieri;
Ed eran seco il Falco e lo Sparvieri;
E v'era Adrasto ancora: fuor di questo,
Altro non posso dirvi. Immantinente
Serpedonte di Nubia pronto e lesto
Va verso il monte che sta ad Orïente:
Alcimedonte doloroso e mesto
Vuol prendere il cammino di Ponente;
Il Fiacca e il Ficca vanno in altra parte;
Lo Scricca bada al campo, e non si parte.
Già pel tranquillo ciel fuggivan via
Le stelle; e sparsa di color vermiglio
L'alma luce di Venere apparìa;
E bianco gelsomino, e bianco giglio
Ora di grembo, ora di man le uscìa;
E già già Clori con ridente ciglio
Volava per l'allegro aer turchino,
Mossa dal Sol che le venìa vicino:
Quando Carlo si desta, e fa sonare
Del gran Consiglio la campana; e intanto
Si mette con Orlando a ragionare,
Come possano alfin portare il vanto
Di sì gran guerra, che lo fa tremare.
Dice Orlando: Il timor vada da canto;
E piuttosto pensiam come assaltarli,
E come tutti romperli e disfarli.
[255]
In questo mentre viene avviso come
Gli scanni del Consiglio ên pieni zeppi
Tutti di gente c'hanno vinte e dome
Province e regni, e messi i regi in ceppi,
Non che tagliate a' lïoni le chiome:
Gente che di valor su gli erti greppi
Seppero camminare in pelle pelle,
Sempre facendo opere illustri e belle.
Carlo tosto si muove e seco il conte,
Ed entrano ambidue nel gran salone.
China il ginocchio, e scopresi la fronte,
Mentre egli passa, ogni duce e barone.
Carlo con cenni e con occhiate pronte
Consola tutte quante le persone;
Sale alfine sul trono, e là si assetta,
E vuol che ognun si metta la berretta.
Ma perchè Carlo è un uomo che si spiccia,
Non vuole esordio, e subito comincia:
Gran tempo egli è che ci confonde e impiccia
L'Egizio e il Moro, e ci divelle e trincia
Gli alberi, e miete alla stagione arsiccia
Le nostre biade; e ogni anno ricomincia
Questo fastidio, o più tosto rovina:
Onde vuolci ben presto medicina.
Venir bisogna a battaglia campale,
E snidar tutta questa empia genìa
Da' nostri Stati. Io veggo valor tale
Ne' vostri petti, e tanta gagliardìa,
Che niuna impresa ci anderà mai male.
Risposer tutti: Come vuoi, pur sia.
E disser ciò con tale alta favella,
Che parve un tuono in orrida procella.
[256]
A queste voci Carlo si compone
In lieto aspetto, e poi dice: Mal crede
Gente crudel, nimica di ragione,
Delle belle opre e della santa Fede,
Se in numero infinito a noi s'oppone
Per discacciarci dalla nostra sede;
E in van fin qui pugnaro, e pugneranno
In avvenir, nè danno a noi faranno.
Già molto egli è che questi orridi mostri
Ci stanno intorno, e nuocer non ci ponno;
Ma sazj ben si sono i ferri vostri
Del sangue lor, che quasi uomin fra il sonno
Uccideste, e mandaste ai negri chiostri;
Chè ognun di voi di molti loro è donno:
E puote un Franco solo, e lo vedeste,
Pugnar con venti, e troncar lor le teste.
Chè non torri superbe e forti mura,
Non larghi fossi, non fiumi vicini
Fan da' nemici una città sicura;
Ma la fede e il valor de' cittadini,
Che tutti accenda una medesma cura
Del ben comune, e non abbia altri fini;
E amor di libertà, più che de' figli,
Mova il lor braccio, e regga i lor consigli.
Però non temo della gente Mora,
Nè de' giganti orrendi e smisurati;
Temo sol dell'invidia traditora,
Che nascer suol tra i capi più pregiati.
Chè se tra i capi sarà pace, ancora
Sarà concordia tra i minor soldati;
Chè l'umor che verdeggia nelle foglie,
Convien dalle radici che germoglie.
[257]
Il conte Orlando ha già passati i segni
E i confin dell'invidia; e questi io voglio
Che duce sia di cavalier sì degni.
Gente non fia tra voi di tanto orgoglio,
Che d'ubbidire a tal guerrier si sdegni:
E se bisogna, io scenderò dal soglio,
E ubbidïente chinerò la fronte
Insiem con gli altri al valoroso conte.
A lui dunque ubbidite. Molti capi
Rovinano le imprese. Un rege solo
Voglion fin le dorate ingegnose api,
Ed al piacer di lui reggono il volo;
Nè fia che alcuna contro lui s'incapi,
Altrimenti vien morta, o messa in duolo.
Natura è gran maestra, e mai non erra.
Qui tacque, e poi fe' pubblicar la guerra.
Ma nel mentre che Orlando al tavolino
Si mette a immaginar gli stratagemmi,
Torniamo a Ferraù, che sta vicino
Di principiare i mali suoi dagli EMMI,
O d'esser matto, o di morir tapino.
Esser vorrebbe in Scizia o fra i Boemmi:
Chè lo stare in Parigi lo rïempie
Di vergogna dai piè sino alle tempie.
Passò tutta la notte in doglie e in pene
Pel suo delitto; ma dal cor non gli esce
L'amor della bellissima Climene.
Non vorrebbe vederla, e glie ne incresce;
Ma il pensier glie la pinge così bene,
Che al vecchio foco nova fiamma accresce.
Volge altrove la mente, ma non giova;
Chè in ogni cosa Climene ritrova.
[258]
Se fino pensa alla beata cella,
Gli viene in testa di farla cristiana,
E poi con essa ricondursi a quella.
E non gli par mica proposta insana;
Ch'ei non ha voti, e voti non ha ella,
E il matrimonio è cosa buona e sana.
Onde fa conto d'averla in mogliera;
E già già pensa a quella prima sera.
Ma quando gli sovvien ch'ella è figliuola
Del re d'Egitto, e adora Macometto,
Dà nelle furie, e strappa le lenzuola,
E pargli avere un coltello nel petto,
O qualche grosso canapo alla gola;
E per la smania balza giù di letto,
E passeggia, e s'arrabbia, e non sa quale
Rimedio trovar possa a tanto male.
Se puolla avere in moglie, pare a lui
D'avere accomodate le sue cose
Con Dio, col mondo e con gli affetti sui.
Onde, per quanto dure e spaventose
Gli vengano davanti a dui a dui
Le dure imprese, in core egli si pose
Di tentar sua fortuna; e travestito
Lascia Parigi, da niuno avvertito;
E va cercando della sua Climene;
Ma non la trova, ch'è andata ancor ella
A cercar di Despina, a cui vuol bene,
Ancor che l'una e l'altra sia sì bella:
Nel qual caso l'amor di rado avviene;
Ma vi è sempre astio, invidiuccia e rovella:
E sebbene s'abbracciano e fan festa,
Dentro, come si dice, è chi le pesta.
[259]
Pur gli vien detto che verso del monte
È gita; e che seco era un giovin Franco
Di bella vita e di serena fronte,
Di capel biondo, e color rosso e bianco;
E giovin sì, che appena par che impronte
La lanugine il volto: e gli dice anco
Che non è giorno ch'egli non sia seco,
E ch'ella non lo guarda d'occhio bieco;
E dice che l'udì nomar per via
Guidone, se non erra. A questo dire
Ferraù resta, qual chi tocco sia
Da fulmin che di dentro incenerire
Un corpo suole, e far che intero stia:
Poi quando principiossi a rinvenire,
Spronò il cavallo in verso la montagna,
E gelosìa gli è sempre alle calcagna.
Ma lasciam questo frate innamorato,
E torniamo alla nostra alma Despina,
Che porta di Ricciardo il cor piagato,
E sopra un fonte d'acqua cristallina
Siede su l'erba a' due giganti a lato.
Fuor duol non mostra, e dentro si tapina;
Ed ora con Adrasto, or co' giganti
Parla di cose dal suo amor distanti.
E perchè teme che i giganti suoi,
Quand'ella sarà giunta al mare in riva,
Non vogliano andar seco: Ancora a voi
(Dice rivolta a lor lieta e giuliva)
Io vo' narrar, qual mi punga e m'annoi
Pensier che in mezzo del mio core arriva;
Per cui fuggo Parigi e fuggo il padre,
Ed abbandono le mie tante squadre.
[260]
E torna a lor memoria il giuramento
Che in Cafria fe' di uccider Ricciardetto;
E come tutta l'ira in un momento
Si sentì raffreddar dentro del petto;
Talchè ogni odio, ogni rancor fu spento
Alla vista del vago giovinetto:
E fatto il viso di color di rose,
Aperse lor le fiamme sue nascose.
E che molto pugnò dentro il suo core,
Se amare il suo nimico ella dovea,
Oppur fuggendo trïonfar d'Amore:
Che infin prevalse quel che men volea,
Cioè la gloria e il bel desìo d'onore;
Ma che tanto al suo grado si dovea:
E infin concluse che così romita
Volea passare il resto della vita.
S'impietosiro i due forti giganti
A queste voci, e le giuraron fede
E compagnìa; e che sempre costanti
Seguiteranno l'orme del suo piede.
Li ringrazia Despina, e vuol che avanti
Si vada, perchè il dì mancar si vede.
Movesi dunque, e in un bosco vicino
Entra; chè vuol celare il suo cammino.
Il fin del lor vïaggio egli era il mare;
Onde van con la testa inver Ponente,
Sicuri che in quel verso egli ha da stare.
Frattanto il Sol con sue fiammelle spente
A poco a poco agli occhi lor dispare.
Adrasto dice allora: Inconveniente
Parmi l'andar più oltre, or che s'annotta;
E meglio fia l'entrare in questa grotta.
[261]
Era a man dritta un masso alto e scosceso,
Nel mezzo aperto; e caprifichi e lecci
Avean messo radice e loco preso
Fra pietra e pietra; e fean sì begl'intrecci
I rami lor, qual alto e qual disteso,
Che parve loro tra que' boscherecci
Luoghi il più bello; ed uno de' giganti
Entra nel masso alla donzella avanti.
Battono il foco, e guardan da per tutto,
E veggono più addentro altra apertura;
Ed evvi un camerin bello ed asciutto:
E dicon: Questo è la nostra ventura;
Chè per Despina par proprio costrutto.
Raccolgon presto erbetta asciutta e pura,
E la distendon sopra del terreno;
Giacchè copia non han di paglia o fieno;
Ed i tabarri lor vi stendon sopra,
E mangian due bocconi in fretta in fretta.
Adrasto intorno alla donna s'adopra;
E mentre ch'ella per dormir s'assetta,
Le dice che stia calda e che si copra,
Perchè l'aria là dentro ell'è freschetta,
E ci vuol poco a prender un catarro;
E le dà, se bisogna, altro tabarro;
Poi esce fuora, e accendono un gran foco;
Chè avevan freddo, ancor che fosse agosto;
E mentre un de' giganti dorme un poco,
L'altro passeggia, e sta guardando il posto.
Ricciardo intanto in questo ed in quel loco
Cerco aveva all'aperto e di nascosto,
Dal primo primo albòr fino a quel punto,
Della sua donna, e a caso era ivi giunto.
[262]
L'aperto masso e la notte inoltrata
Lo consigliaro a quivi riposarsi;
Ma contesa gli vien tosto l'entrata
Dal fier gigante, ed ei non vuol ritrarsi;
Ma pensa con la lancia alla sfatata
Tirare un colpo, e subito sbrigarsi
Da quel cimento: e di fatto tirollo,
E gli prese la mira in mezzo al collo.
Splendea la luna, e del suo puro argento
Era bello a veder sparse l'erbette;
Quando il gigante pien di reo talento
Con la ferrata mazza il percotette;
Onde al suol cade; ed ei d'averlo spento
Certamente nell'animo credette.
Si sveglia a quel romor Despina bella,
Ed esce fuor della sepolta cella;
E intesa la battaglia, veder vuole
L'ucciso cavaliere; e il vede appena,
Che si fa del color delle vïole,
E quasi cade per soverchia pena.
Adrasto vuol saper cosa le duole:
Ella non parla, e guarda su l'arena
Tutta dolente il morto giovinetto,
E dice: M'uccideste Ricciardetto.
Adrasto corre subito, e dislaccia
La visiera al garzone, e il polso tasta;
Ma gli par freddo, e che affatto egli taccia.
Despina anch'essa intorno al cor gli attasta;
E credendolo morto, indi l'abbraccia,
E dice: Senza te dunque rimasta
Sarò, Ricciardo mio? E qual gradita
Cosa senza di te sarammi in vita?
[263]
Io per fuggirti, e tu per ricercarmi,
Ci avrà Fortuna finalmente estinti?
Ah perchè volli meco uomini ed armi?
E voi, chi meco a vïaggiar vi ha spinti?
Ben teco, Adrasto, ho di che querelarmi,
Che le prime mie voglie, i primi istinti
Mutar volesti: ch'io te sol pregai
A venir meco, e ad altri io non pensai.
Troppo fu stolto e barbaro il consiglio
Di prendere costoro in mia difesa.
Era io pur certa che in simìl periglio
L'anima tua sol del mio amore accesa
Venuta ella sarebbe; e che vermiglio
Avresti fatto alla prima contesa
Del tuo bel sangue il suol, Ricciardo amato.
Oh quanto costa un pensier mal mutato!
So ch'eri forte e ripieno d'ardire.
Ah fossi stato nell'ardir men caldo,
Che fatto non ti avrìa costui morire!
Ma Orlando tu non eri nè Rinaldo;
Chè l'età tua ciò non potea soffrire.
Col tempo certo ancor di lor più saldo
Saresti stato, e allor con tutti quanti
Avresti ben pugnato aspri giganti.
Or non dovevi, la mia dolce vita,
Imprender pugna tanto disuguale.
Ma il sonno ha te pur anco e me tradita:
Che s'io era desta, non v'era alcun male;
Ch'io subito sarei qui fuori uscita;
E ravvisatoti a più d'un segnale,
Avrìa gridato al custode: Crudele,
Questi è Ricciardo, il mio amator fedele.
[264]
E mentre così dice, il viso bagna
Di Ricciardetto con un caldo pianto,
Che sempre cresce, e punto mai non stagna.
Per quell'umore si risente alquanto
Ricciardo, e in suono languido si lagna.
Despina in sentir ciò si pon da canto,
Ed ordina ad Adrasto che portato
Sia nell'antro, e con balsami curato:
Poi si ritira nella sua celletta,
Tutta speranza che sano egli sia.
Adrasto intanto quanto può s'affretta
Perchè ritorni tosto in gagliardìa;
Quando Ricciardo in voce languidetta
Dice: Despina cara, anima mia,
Ecco io mi muojo; e ciò lieve mi fora,
S'io ti vedeva un'altra volta ancora.
Un'altra volta ch'io t'avessi visto,
Sarei stato quaggiù tanto beato,
Che nè men morte m'avrìa fatto tristo.
Ma giacche così scritto era nel fato
Ch'io non dovessi di te fare acquisto,
Despina bella, o almen morirti a lato,
Sola una grazia mi farìa contento
In questo estremo mio crudel tormento.
La sola grazia che qualcun di voi
(E rivolse ad Adrasto ed a' giganti
Languidi e lagrimosi i lumi suoi)
Se alla bella Despina unqua davanti
Giungesse, morto ch'io sarò da poi,
Le dica: Il più fedel de' tuoi amanti,
Il Franco Ricciardetto nel cercarti
Restò morto, e vuol morto ancora amarti.
[265]
E qui divenne un gelo, ed oscurosse,
Qual Sol per nuvoletta il suo bel volto,
E d'un freddo sudor tutto bagnosse;
Talchè del viver suo temette molto
Despina, e verso lui ratta si mosse,
In lagrime amorose il cor disciolto:
E mentre è intenta a sue mortali angosce,
Ricciardetto apre gli occhi, e la conosce.
Qualor la faccia del sereno cielo
Austro di nubi portator confonde
Con largo troppo e tenebroso velo,
Onde a noi Giuno la pioggia diffonde;
Se Bórea sparso il crin di neve e gelo,
Bórea che il vago piè trattiene all'onde,
Gli esce contro improvviso, in un baleno
Fuggon le nubi, e torna il ciel sereno;
Così tornaro serene e tranquille,
Al comparir della bella Despina,
Dell'amoroso giovin le pupille;
E per soverchia gioja si rifina,
E vuol parlare, e mille volte e mille
Si prova; e quando a' labbri s'avvicina,
Per cominciare la prima parola,
Il timor glie la torna nella gola.
Despina anch'essa lui riguarda, e tace,
Nè sa, nè può formare un solo accento;
Ma or s'arrossisce come accesa brace,
Or trema come canna esposta al vento;
Or gode d'esser seco, or le dispiace;
Or piange per dolore, or per contento:
In somma non si sa quel che si voglia;
Chè or una impera ed ora un'altra voglia.
[266]
In fine i chiari spirti e generosi
Tutti raccoglie; e in maestà composta,
Gli dice: I casi tuoi son sì pietosi,
Che ad usarti mercè m'hanno disposta;
Mercè che a te convenga e a' glorïosi
Natali miei, ancorchè in parte opposta
All'ombra invendicata del germano,
Che contro te mi pose il ferro in mano.
Fora ben giusto ch'io tornassi al campo
Col teschio tuo reciso, or che mel porge
Fortuna in dono, e niun conforto e scampo,
Come tu vedi, al tuo fuggir si scorge.
Ma vivi; che sebbene io d'ira avvampo
Contro di te, ragione e pietà sorge
A tuo vantaggio, e vuol ch'io sia cortese
Con un che in foggia sì crudel m'offese.
Indi esce fuora della grotta oscura,
Monta sul suo cavallo, e fugge via;
E con le mani la bocca si tura
Per non dar segno della doglia ria
Che il cor le spezza, e l'anima le fura;
E la sua gente appresso a lei s'avvìa.
Ricciardo nella grotta resta solo,
Pieno di maraviglia e in un di duolo.
Pur, come può, rimonta sul destriere,
E vuol seguirla; ma tanto è lontana,
Che di giungerla è forza che dispere.
Ma lasciamlo ire, e lasciam che inumana
Chiami Fortuna, ed empia a più potere;
E ritorniamo al frate, che l'umana
Amabile Climene va cercando
Per l'erto monte, e sempre sospirando.
[267]
Sorte benigna glie la fa trovare
In mezzo a cento lupi, e quasi morta;
Chè contro tanti non si può ajutare.
Infra que' lupi il romito si porta,
E con la spada in mano fa un tagliare
Di lor, che la metà quasi n'ha morta.
Fuggono gli altri: resta il frate ed ella
Soli in un bosco. O ve' che cosa bella!
Qui senza porla molto in sul lïuto,
Le disse Ferraù candidamente,
Come Amor del suo bel l'avea feruto,
E in moglie la volea sicuramente;
E in caso di strapazzo o di rifiuto,
Ch'era disposto allora immantinente,
Col testimon di un leccio o d'un cipresso,
Del corpo suo di prendere possesso.
Climene a quel parlar restò di pietra;
Poi preso spirto, Cavalier, gli disse,
Dal tuo il mio voler già non si arretra;
E quel sarà di noi che il ciel prefisse.
Ma senza canto e senza suon di cetra,
Tra queste di augelletti antiche e fisse
Case fronzute ed alberghi di fiere,
Proverem d'Imeneo l'almo piacere?
Salghiam quel colle ove un pastore alberga:
Ivi sarai mio sposo, io tua consorte.
E par che in così dire ella si asperga
Tutta nel volto di color di morte,
E che il romìto nel piacer s'immerga;
E dice: A quel cammin le vie son corte;
Andiamvi pure. E la prende per mano,
E glie la stringe il furfanton pian piano.
[268]
Per via frattanto gli dice Climene:
Giacchè la vita da te riconosco,
E d'Imeneo mi stringon le catene
All'amor tuo che sì grande conosco,
Fammi un piacer, signor, se mi vuoi bene.
Finiam la nostra vita in questo bosco.
Rispose Ferraù: L'Angel di Dio
T'ha mostrato sicuro il desir mio;
Chè ad altro io non pensava che al ritorno
Della mia cella in Spagna. Ma che importa
Che in Francia o in Spagna sia nostro soggiorno?
Ma come la tua mente si conforta
A star ne' boschi, e non andar attorno
A feste, a giuochi, come l'uso porta
Delle cittadi? Ed ella: S'io son teco
(Ve' s'era furba!), a nulla ciò m'arreco.
Mentre van ragionando in questa guisa,
E fa smorfie al romito la donzella,
E di sangue di lupi tutta intrisa,
Gli dice, e ride: Oh questa veste è bella!
E pare proprio di nozze divisa;
S'ode una voce che Climene appella.
Climene a quella voce a sè ritira
La mano, e il frate co' morsi martira.
Come suol cagnolino che tra via
Perduto abbia il padrone, e fame il morda,
Al primiero che gli usa cortesìa,
Fa festa e salta, e a seco gir s'accorda;
Ma se ode il fischio usato, a quel s'invìa,
Nè del nuovo signor più si ricorda;
Anzi, se vuol fermarlo, d'ira ardente
Rabbuffa il dorso, e a lui digrigna il dente;
[269]
Così del caro suo Guidone amato
Sentendo ella la voce, a lui s'indrizza;
E fugge sì, che cervo spaventato
Sembra pe' campi, o giostrator per lizza.
Rimane Ferraù strasecolato
Alquanto; poi ripien d'ira e di stizza
Le corre appresso. Or noi che far vogliamo?
Seguirli, oppure a Carlo ritorniamo?
Torniamo a Carlo, e ragioniam di guerra
(Chè il favellar d'amor sì di seguìto
Viene a fastidio); e mentre gira ed erra
Dietro a Climene il cupido romito,
Miriamo la battaglia e il serra serra,
E il parapiglia e il popolo infinito
Di combattenti tra Mori e Cristiani,
Che menan tutti due bene le mani.
Conforme io vi narrai, preso il comando
Dell'armi, il conte si diede a pensare
Al luogo, al tempo, alla maniera, al quando
S'ha a dar battaglia, e come s'ha da fare.
Se aspetta l'inimico, oppur col brando
L'assale in campo; e questo a lui ben pare
Miglior consiglio, ancor che molti intoppi
Ci sien; ch'essi son pochi, e quei son troppi.
Ma la virtude ed il valor sovrasta
Al numero di molti. Adunque ei ferma
Che allo spuntar del dì, di spada e d'asta
S'armi ciascuno; e la per anni inferma
Gente in Parigi che sarà rimasta,
Vuol che salga su i merli, e lì stia ferma
Per apparenza, e per mostrare in vista
Che di soldati è la città provvista.
[270]
Ordina poscia che Astolfo conduca
Cinquemila cavalli; e vuol che tutti
Vestan di un color d'oro che riluca;
E son da lui della maniera instrutti,
Che han da tener tosto che il giorno luca.
Sotto Rinaldo poi solo ha ridutti
Cento guerrieri; ma di valor tale,
Ch'Africa tutta manderìano a male.
Di ventimila fanti dà l'insegna
Al buon Dudone: ad Ulivier commette
Un drappello di gente eletta e degna,
Che vuol che vada ove più gli dilette;
A' due giganti poscia egli consegna
Della più bella gioventude elette
Forse due mila; e di falci da fieno
Gli arma, e di zappa da scavar terreno;
Perchè vuol che costor contro i Lapponi
Vadano, quando vederanno accesa
La pugna con lo Scricca e suoi campioni,
E che Dudon si troverà in contesa
Co' fieri Egizj e con gli altri baroni;
Perchè vuol che l'entrata sia contesa
A coloro nel campo, perchè fanno
Troppo crudele e non previsto danno.
E loro ha poste quelle zappe in mano,
Perchè facciano un fosso alto e profondo,
Dove andranno i giganti a mano a mano
Scaricando le reti del lor pondo;
E con le falci in modo acerbo e strano
Andran mietendo, col menarle a tondo,
E gambe e pance e colli di que' mostri,
Degni di star giù ne' tartarei chiostri.
[271]
Egli poi col figliuolo di Zerbino,
E con quegli altri paladini illustri
Terrà dal campo lontano il cammino,
E per boscaglie e per luoghi palustri
Dietro allo Scricca si porrà vicino;
E sarà pensier suo, come s'industri
D'attaccarlo nel tempo e la stess'ora
Che Astolfo attaccherà la gente Mora.
Cercato han di Guidone e del romito
E del buon Ricciardetto; ed han timore
Che ciascuno non sia morto o ferito.
Imperocchè l'immenso lor valore
Non sfuggirebbe un così dolce invito
A bella gloria, a sempiterno onore,
Qual è quel di difender da' nimici
I parenti, la patria, e in un gli amici;
E dopo gran ricerca, vien lor detto
Che sono stati visti dalle mura
Uscir; ma che ciascuno iva soletto,
E in cor chiudea non so qual aspra cura;
E che v'era talun che avea sospetto
D'un qualche tradimento o di congiura.
Orlando grida: Questo esser non puote;
Chè per lungo uso l'opre lor son note.
Nulladimen, perchè la cosa è grave,
Ed importa saperla veramente;
Chè talvolta di dove men si pave
Ne viene la sventura di repente,
E son le umane menti tanto prave,
Che ben fa chi non fidasi nïente;
Fa molti a sè chiamar di quei spïoni,
Che de' nemici osservano le azioni:
[272]
E sa da loro, come il buon Guidone
Acceso per Climene egli è d'amore,
E che lei segue, e che v'è opinïone
Ch'ella senta per lui lo stesso ardore:
Che, persa il frate la divozïone,
Per quella stessa abbia piagato il core;
E in somma, che Ricciardo per Despina
S'affligga per amor sera e mattina.
E narra come Despina è fuggita,
Nè si sa dove; e che i miglior guerrieri
La van cercando; e come pure è gita
Climene, e seco ell'ha di cavalieri,
Per ritrovarla, una turba infinita.
Orlando rasserena i suoi pensieri
A queste voci, e dice sorridendo:
Chi pecca per amore, io non riprendo.
Ma se mancano a noi tre forti eroi,
Spogliato l'inimico affatto affatto
(Come sentite) egli è de' campion suoi:
Però domane egli sarà disfatto.
Io veggo la vittoria ch'è per noi.
E disse questo in così nobil atto,
E con tanta allegrezza, che ognun crede
Già di vedersi l'inimico al piede.
Stabilita la cosa in guisa tale,
Vanno a dormire, e ciaschedun soldato
Fa qualche sogno orribile e bestiale.
Ma lo Scricca ancor esso ha ben pensato
Per fare a Carlo, quanto ei può, del male;
Ma il suo disegno troppo gli ha guastato
La fuga della figlia, e con la figlia
Il più bel della marzïal famiglia.
[273]
Il campo egizio ancor sta sottosopra,
Perchè Climene in busca di Despina
È gita; e mentre in cercarla s'adopra,
La forte gioventù seco cammina.
Onde convien che scarso valor copra
L'armata; e se fortuna ai Franchi inclina
Il favor suo, chi riterrà la piena
Dell'armi che Vittoria in giro mena?
Pure in tre corpi il campo hanno diviso:
Uno è tutto di Cafri e di Negriti,
Gente d'acerbo e formidabil viso;
E tanti son che sembrano infiniti.
Lo Scricca lor comanda, e in soglio assiso
Ragiona ai capi, e dice: Siate arditi;
Chè la fortuna ajuta i coraggiosi,
Nemica de' codardi e neghittosi.
Un altro è di quei tristi Lapponcelli
Nimici capitali di natura.
Vanno a brigate come van gli agnelli,
Incapaci però di far bravura;
Ma di soppiatto, come i ladroncelli,
Fanno gran danno, e più se l'aria è oscura.
Questi non hanno imperadore o duce,
Ma van dove il capriccio li conduce.
Il terzo egli è di Egizj e di Persiani:
E tanti son, che d'armi e di bandiere
Empiono gli alti monti e i larghi piani,
E fan, fuorchè a' Franzesi, un bel vedere:
E chi ha mazze ferrate nelle mani,
Chi torte sciable; e tutti han fosche e nere
Le sopravvesti; ed è gente feroce,
E molto più che non si spiega in voce.
[274]
Il suo gran male egli è che s'è smarrita
Climene, la sua bella e valorosa
E saggia guida; ond'è mezza stordita;
E ancor che tanta sia, sta timorosa,
Nè puote esser da alcuno incoraggita;
Chè i migliori guerrieri l'amorosa
Fiamma che li arde per Climene bella,
Li ha tratti fuor del campo a cercar quella.
Il Consiglio di guerra fu d'avviso,
Che il dì seguente non si dia battaglia,
Per veder se fra tanto viene avviso
Che torni alcun di quei guerrier di vaglia,
Che van perduti appresso d'un bel viso.
Ma questa volta lo Scricca la sbaglia;
E s'avvedrà che cosa si vuol dire
O l'essere assaltato, o l'assalire.
Già il negro manto suo di stelle asperso
Da per tutto disteso avea la notte;
E la civetta col suo tristo verso
Cantava in cima alle muraglie rotte;
E 'l Sonno di papaveri cosperso
Usciva fuor delle cimmerie grotte,
Per far che l'uomo stanco si ripose
Dalle opere del dì gravi e nojose;
Quando lo Scricca si pone a dormire,
E poi sul far del dì fa un sogno strano,
E strano sì, che non lo sa capire.
Pargli tener tigre crudel con mano,
Che d'uman sangue la vede sitire;
Poi scorge un giovin Franco da lontano,
Che vàlle incontro; e al suo venir si stacca
Da lui la tigre, e col giovin s'attacca.
[275]
Ma quando pensa che piagato e morto
Ell'abbia il Franco, vede che pentita
Del suo rigor, non gli fa danno o torto,
Ma l'accarezza; e quegli a sè l'invita,
E mostra in seco star gioja e conforto:
Poi dagli occhi improvvisa gli è sparita;
E vede il Franco che pel suo partire
Si sente di dolor quasi morire.
Quindi in un tratto vede immenso mare,
E la tigre che l'onde portan via,
E in terra ignota la scorge approdare;
Indi la vede che al bosco s'invia,
Ed inselvata poi più non appare.
Mira alfine che il Franco la giungìa.
Che della tigre va seguendo l'orme,
E per cercarla non mangia e non dorme.
E mentre ei sta guardando il cavaliero,
Ecco che vede cinta di catene
La tigre, tratta da un gigante fiero;
E vede come il Franco a guerra viene
Con quel superbo, e che di sangue nero
Tinge il suo ferro e quelle asciutte arene;
Onde muorsi il gigante; e ch'ei ferito
Scioglie la tigre, e poi cade sul lito:
E vede che la tigre, come puote,
Gli dà conforto; e che, la sua mercede,
Da quel subito male ei si riscuote.
Poscia un'estrema maraviglia vede,
Che l'occhio e l'intelletto gli percuote,
E che sognando ancora non la crede:
Vede la tigre che con bassa fronte
Va con quel Franco ad una bella fonte;
[276]
E quivi giunta, l'elmo si discioglie
Il cavaliero, e di quell'onda l'empie;
Indi asperge la fiera che raccoglie
L'umore appena in su l'irsute tempie,
Che dell'esser di tigre par si spoglie;
Nè più d'ugne crudeli, acerbe ed empie
Son guernite sue zampe, e donna sembra
Di vaghe e belle e grazïose membra.
E mentre egli la guata fiso fiso,
Si ruppe il sonno, ed il sogno disparve;
Lo qual lo Scricca ora egli mise in riso,
Chè volentier si burla delle larve;
Or da' varj pensieri fu conquiso:
Ch'esser la tigre simile gli parve
Alla sua figlia; e allor meno comprende
Di quel che ha visto, e sonno più non prende.
Orlando intanto e gli altri suoi guerrieri
Già di Parigi sono usciti fuora,
E tutti sono per i lor sentieri;
Talchè prima che in ciel la bella Aurora
Tutta ornata di rose coi destrieri
Compaja, sopra della gente Mora
Saranno i paladini; ed improvvisa
Côlta da lor, sarà disfatta e uccisa.
Le sentinelle del campo africano
Non posson veder nulla, perchè il cielo
È nubiloso: e poi dal basso piano
S'alza una nebbia, che d'un nero velo
Li copre; nè veder ponno lontano,
Non dico mica un gran tratto di telo,
Ma neppure una spanna: e tai prodigi
È fama che facesse Malagigi.
[277]
Giunto alle tende de' Cafri feroci,
Astolfo fa sonar trombe e tamburi.
Lo Scricca e gli altri si armano veloci;
Ma i Franchi omai intrepidi e sicuri
Comincian la battaglia: e gridi e voci
S'odono, e colpi da spezzare i muri.
Orlando anch'esso attaccata ha la mischia,
E il buon Dudone agli Egizj la fischia.
I giganti frattanto hanno abbozzato
Il largo e fondo pozzo; e ognun lavora
Per far che quanto prima sia formato.
Chi lo smosso terreno porta fuora,
E chi portato lo mette da lato:
In somma molto prima dell'aurora
Han fatto un pozzo largo venti braccia.
Nè vede il fondo suo chi vi s'affaccia.
Sul far del giorno sentono i Lapponi
Come anitre cianciar dentro agli stagni,
E l'Alba salutar con certi suoni
Che sembrano zampogne di castagni.
Urlano i due giganti, e sembran tuoni;
E con essi urlan pure i lor compagni,
Che con le adunche falci in un momento
Entrano in mezzo al loro alloggiamento:
E mentre van tagliando come fieno
E teste e colli e petti e gambe e mani,
I due giganti che le reti aviéno,
Come gli storni per i larghi piani,
Allora che anneriscono il terreno,
Prendono a sacchi gli accorti villani:
Così prendevan quelli tratto tratto
I Lapponi, ch'egli era un gusto matto.
[278]
E qui correvan subito al gran pozzo,
E sbattutili prima in su l'orliccio,
Li traevan nel fondo orrendo e sozzo;
E tante volte fêro questo impiccio,
Che arrivavano quasi fino al gozzo
Dello scavato; ond'io mi raccapriccio
In ripensare a quella orribil caccia:
Quindi è che in fuga ogni Lappon si caccia.
Ma non son soli i Lapponi a fuggire;
Chè l'esercito Cafro è anch'ei disfatto;
Onde allo Scricca infin convien partire;
Ma perchè vil non vuol parere affatto,
Infra i Cristiani si mette a ferire;
Quando ecco Orlando sopraggiunge a un tratto,
La cui venuta lo sturbò in tal modo,
Che disse: Io scappo, e chi mi segue io lodo.
Ma negli Egizj la virtù non langue,
E fanno cose in verità stupende.
Dudon piagato versa molto sangue,
E prigioniero condotto è alle tende.
Rinaldo, inteso questo, come un angue
Sopra i nimici rabbioso discende:
E qui s'attacca una mischia sì dura,
Che al sol pensarla muojo di paura.
Or lasciam queste guerre maladette;
O se pur hassi a ragionar di guai,
Ragioniam delle belle lagrimette
Che mandan fuori di Despina i rai.
Sembrano perle orïentali schiette;
Ma di lor hanno più valore assai,
Non presso a ciaschedun, ma presso a quello
Che de' begli occhi suoi è cattivello.
[279]
E parleremo in questa congiuntura,
Com'è dover, del miser Ricciardetto,
Che si dispera, e dassi alla ventura,
Tanto è l'aspro dolor che chiude in petto,
Per lei seguir, che il fugge e il cuor gli fura.
Ma prima andiamo a cena, e poscia a letto;
Chè con voglia di fame e di dormire
Ben si può sbadigliar, ma non già dire.
[280]
Lasciato il bel Ricciardo in grande arsura,
Despina al lido naufraga sen viene:
Ferraù più di Cristo non si cura;
Cade, e si storpia per seguir Climene.
Astolfo è presso a un'aspra impalatura,
Da cui Dio scampi ogni anima dabbene.
Fioretta abbraccia la Fede cristiana.
Ferraù per miracolo risana.
Udito ho dir da certi saputelli,
Che dan di naso alle fatiche altrui,
E mezzi buoi e mezzi somarelli
Hanno del tutto gl'intelletti bui;
Che le Muse son peste de' cervelli;
E che chi vuol far bene i fatti sui,
Fugga Apollo più ratto, che non feo
La ritrosetta figlia di Penéo.
A costoro, che han l'anima per sale,
Acciocchè lor carnaccia non si guasti,
Che non sanno che cosa è bene o male,
Rispondere io non voglio; ma sì guasti
Gli uomini sono nell'universale
Di giudizio, che ognor fanno contrasti
Contro chi delle Muse è innamorato,
Che a dir pur qualche cosa io son forzato.
[281]
Nè parlo in mia difesa; che non sono,
Mia sventura, ad Apollo accetto e grato:
Parlo per qualcheduno ingegno buono,
Dalla natura a gran cose formato,
Che non potendo chiuder sì gran dono
Entro i soli confin dell'Inforziato,
Or con le Muse in Pindo si consiglia,
Or va tra filosofica famiglia:
Ed or le greche, or le latine carte
Volgendo a lume d'olio o pur di sole,
In sè raduna le sentenza sparte
Per le romane e l'ateniesi scuole;
E appresa del ben dir ciascuna parte,
Guida gli uomini poscia ovunque vuole.
Questi, che spende i giorni in tal fatica,
Per detto di costor s'ha stimar cica?
E stimerassi uom saggio, e a' sommi onori
Quei s'alzerà, ch'averà meglio in mente
Il Ridolfino e simili dottori?
E chi cantando dolcissimamente
Di sua man Febo adornerà d'allori,
Sarà mostrato a dito dalla gente,
Come uno sciocco, come un spensierato,
E come uom a far nulla in terra nato?
Tal ha le carte in mano e giorno e notte,
Perch'è un somaro, ed il latin non cape,
E non è posto fra le genti dotte,
E sol di curia un qualche poco sape.
Non gli son dalle lingue aperte e rotte
Le vesti, e posto infra le menti sciape,
Se ne fa conto; e sol guai a colui
Che non giuochi, ma canti un verso o dui.
[282]
Altri servo è d'Amore, altri dell'oro:
Quegli piange perchè madonna è cruda,
E questi perchè fa poco tesoro:
Quei, per piacere alla sua bella druda,
Ogn'impiego acciabatta, ogni lavoro;
Questi per guadagnar s'affanna e suda;
E compatito è quei, questi invidiato,
Ed il poeta solo è biasimato.
Ma perchè non m'offusca sì la vista
La difesa ch'io prendo de' poeti,
Ch'io voglia porre in così chiara lista
Subito quei che la marina Teti
Sanno nomare, e la palude trista
D'Averno, e di Vulcan le industri reti;
E sanno dir begli occhi ed aureo crine,
Fronte d'avorio e labbra coralline;
Io dico chiaro, che nessuna stima
Ho di chi solo accozza tanto quanto
Quattordici versacci con la rima.
Il gran poeta non l'annaso al canto
Unicamente, ma vo' che m'imprima
Un non so che di nuovo, che d'incanto
Abbia sembianza; e voglio che in lui sia
Una bella e divina fantasìa.
Vo' che le umane e le divine cose
Sappia, quanto saper puote un mortale;
E con le vaghe idee e luminose
Per l'aëre più puro ei batta l'ale;
E della terra nelle parti ascose
Entri, e discorra come l'acqua sale
In cima a' monti, e come perdut'abbia
Il sal che avea nella marina sabbia.
[283]
In somma, quando io dico un buon poeta,
Dico una cosa rara e pellegrina,
Che grazia di natura e di pianeta
A nascere fra noi raro destina:
Ma non vo' già che dall'alba a compieta
Diguazzi ognor nell'onda caballina;
Nè che ad ogn'or sul Menalo e 'l Permesso
Riposi, sol contento di sè stesso.
Chè quasi in ogni età fûro ben molti
E sommi duci e sommi imperadori,
Che in braccio ancora delle Muse accolti
Bella vittoria coronò d'allori:
Anzi d'april non son sì spessi e folti
Per le campagne i leggiadretti fiori,
Come gli uomini illustri che del paro
Trattâr la penna ed il fulmineo acciaro.
E quanti fur, che con la toga in dosso
In mezzo ai Padri nell'ampio senato
Il poetico foco da sè scosso,
In grazïoso sermone e posato
Dier salute alla patria, ed il già mosso
Periglio a' danni suoi fu dissipato?
Ma non ho tempo, e Despina non vuole
Ch'io spenda qui tutte le mie parole.
Se vi sovvien, la povera ragazza,
Lasciato il suo amoroso Ricciardetto,
Se ne andava, di duolo e d'amor pazza,
A tutta briglia per entro il boschetto:
E non le importa se casca la guazza,
E se un ramo le graffia il viso e il petto;
Chè nol sente, e se il sente non le importa:
Ch'esser vorrìa sepolta, non che morta.
[284]
Perchè quando han bevuto daddovero
Il veleno d'Amor le poverelle,
Non sol non han più voglia nè pensiero
Di feste e giuochi e d'altre cose belle,
Ma si starìano dentro un cimitero
Senza vaghezza di veder più stelle,
E saprebber morire: e ne son morte
Per troppo amor, ma non già del consorte.
Ma la malizia loro è tanta, e tale
È la vergogna, che sono capaci
Di mostrar odio ferino e mortale
A chi consumerebbero co' baci,
E di far vezzi a quei che voglion male.
Nell'opre in somma e ne' detti mendaci
Nascondon così bene il lor desìo,
Che appena appena lo conosce Iddio.
Così fuggendo il suo piacer, Despina
Camminò il resto della notte oscura,
E ritrovossi poscia la mattina
In un'aperta e fiorita pianura;
E visto il tremolar della marina,
D'andar al lido, quanto sa, procura.
Vi giunge alfine, e vi trova una barca,
E tosto con i suoi sopra v'imbarca.
Ricciardetto, che andolle sempre appresso
(Ma con svantaggio; chè partì primiera),
Giunse nel piano in quel momento stesso
Che la donzella in barca montata era.
Se restasse quel misero di gesso,
Il pensi chi d'Amore è nella schiera.
Volle gridare: Aspetta, non partire;
Ma non potè nè men la bocca aprire.
[285]
Pur corre a quella volta come puote
Speditamente, e vede ancora il legno.
Col bianco fazzoletto mille ruote
Fa, perchè intenda la crudele il segno.
Despina il vede, e si bagna le gote
Di pianto, per lasciar giovin sì degno;
Ma l'onestade in lei ha tal vigore,
Che vincer può la signorìa d'Amore.
Onde non solo non ritorna al lido
Con la sua barca, ma fa tutte sciorre
Le vele, e dassi affatto al mare infido;
Sopra il cui dorso non cammina o corre,
Ma vola il legno, e dell'amante fido
Si cela agli occhi, che non si san tôrre
Da quella vista; e piange e si dispera,
E chiama ingrata la sua donna e fera:
E dice tali e sì triste parole,
Che fino i sassi hanno pietà di lui;
E le fiere e gli augelli, e l'aura e il Sole
Par che mostrin dolor de' casi sui;
E il mar, che sordo e barbaro esser suole
Alle querele ed a' sospiri altrui,
Pur si commosse; ed al lido ogni pesce
Corre ad udirlo, e del suo mal gl'incresce.
Ma lasciam che si dolga in su la riva,
Ed aspetti l'imbarco; chè non voglio
Seco star, finchè un legno non arriva;
E seguitiam Despina, che l'orgoglio
Prova de' venti, e misera e cattiva
Si vede aprir la barca in uno scoglio,
E il vecchio Adrasto con i due giganti
Perire, e tutti gli altri naviganti.
[286]
Ella sola si salva; chè s'aggrappa
A certi sassi, e generosa e franca
Meglio che puote dalla morte scappa;
Indi cade sul lido, e da man manca
Vede un vecchio villano con la zappa.
Avea costui una gran barba bianca,
Placido in vista e di buone maniere,
Quanto permette il rustico mestiere.
Ma la bella Climene e il fraticello
Mi fanno cenno ch'io ritorni a loro;
Però lascio Despina e il villanello,
E in man riprendo quest'altro lavoro.
Climene, udita di Guidon suo bello
La voce, che la trasse di martoro,
Fuggì verso di lui, e lasciò in asso
Il frate che si dava a Satanasso.
Il qual, mentre a seguirla si dispone
Acciecato dall'ira e dall'amore,
Cade alla peggio in mezzo d'un burrone,
Ed ebbe di morir giusto timore.
Si ruppe un braccio, e si sciupò un gallone;
E fu tal l'acerbissimo dolore,
Che perse la favella, il senso e il moto,
E restò tra que' sterpi come un voto.
Certi pastori poi, che lo trovaro,
Mossi a pietade del suo tristo caso,
Alla capanna loro lo portaro,
Ch'essere il dì potea verso l'occaso.
Qui pure in breve tempo capitaro
(Ve' se Fortuna gli vuol dar di naso!)
Climene con Selvaggio, ed è lor dato
Piccol tugurio al buon romito a lato,
[287]
Che nel vederli si muore di rabbia:
E perchè non si puote ruticare,
Sta zitto zitto, e si morde le labbia,
E di core si mette a bestemmiare.
Quei, che tartassa l'amorosa scabbia,
Comincian dolcemente a ragionare;
E si dicon parole inzuccherate,
Che sono al frate tante stilettate.
Se ode a ventura rompersi una frasca,
O nulla nulla tremolare il palco,
Subitamente pare che s'irasca,
Come destriero al suon dell'oricalco.
Climene intanto si leva di tasca
Uno specchio, che fatto era di talco,
Per ricomporsi il crine, e farsi ognora
Più bella per colui che tanto adora.
Il qual dice: Climene, il nostro amore
E' non è nato, come gli altri, in terra:
Ha principiato in ciel: che assai poche ore
I tuoi begli occhi al cor mio fecer guerra.
Appena appena il mattutino albore
Apparve in cielo, allor che Cloride erra
Presso Zeffiro suo, che ci guardammo;
E poco dopo, come sai, ci amammo.
Dolce mia vita, ho sempre avanti agli occhi
Quel giorno lieto, quel dolce momento,
Che da sì grato amor noi fummo tocchi.
Ma quando mi farai, bella, contento?
Il frate allor (come fulmin che scocchi
Da nera nube spezzata dal vento),
Non mai, rispose, infin ch'averò vita;
E a questo dire si morde le dita.
[288]
Si riscosse Climene a quella voce.
Guidon, che il vede in sì misero stato,
Chi t'ha posto, gli dice, a cotal croce,
Che mi rassembri un spirito dannato?
Il romito, che amore ed ira cuoce,
Lo guarda con un occhio stralunato,
E non risponde; e pare un pipistrello,
Quando un lo affligge con lo zolfanello:
Che il naso e i labbri move in forme strane:
E se non fosse fracassato tanto,
Adoprerìa più volentier le mane.
A cui Guidone, Un uom, come te, santo,
E superiore alle miserie umane,
Disse, dovresti con letizia e canto
Sopportare cotesta tua disgrazia,
Che a' buoni è cara più, quanto più strazia.
Disse un pastore: Il pover uomo ha rotto
Il destro braccio e fiaccata una coscia.
Seguir tu mi dovêi con minor trotto,
Disse Climene, e più pensare al poscia;
Chè adesso tu non sei sì giovinotto
Da poter faticare senza angoscia.
Allora Ferrautte disperato
Urla, che sembra proprio un spiritato,
E le dice: Crudel, perchè m'insulti?
Vanne col vago tuo, dove ti piace,
E lascia me per questi orridi e inculti
Luoghi a cercar la mia perduta pace.
E perchè pare a lui che lieto esulti
Guidon di quel tormento che lo sface,
Gli dice: Se avverrà ch'io mai risani,
Vedrai quanto è il valor di queste mani.
[289]
Guidon, che stima questo tempo perso,
A piè del letticciuolo del romito
Sopra del fieno stesosi a traverso,
Alla sua donna fa cortese invito,
Ch'ivi pur venga; e nel piacere immerso
Canta, che pare un musico perito;
Ma termina in sospiri il dolce canto,
In acerbe querele e largo pianto;
Perchè Climene in conto alcun non vuole
Far cosa che a donzella si disdica;
E sopra ciò gli dice più parole,
Che sono al buon Guidon spina ed ortica.
Gli dice ben, che pria fia nero il sole,
E salirà su in cielo una formica,
Ch'ell'ami altri che lui; e che in consorte
Lo accetta, e lo terrà fino alla morte.
E lo prega d'andar seco in Egitto,
Ove già al padre ella ha spedito un messo,
E di questo amor suo a lungo ha scritto:
E certo tien che le sarà concesso,
Sendo egli figlio di Ruggieri invitto.
Di cui il Soldano have il ritratto appresso;
E dì non passa ch'ei non ne favelle
Or con queste persone, ora con quelle.
E tanto sa ben dire e consigliare,
Che Guidone s'acqueta e s'addormenta.
Lo stesso pur Climene viene a fare;
E de' begli occhi l'alma luce spenta,
Vicino al frate si lascia cascare:
Lo quale tanto il diavoletto tenta,
Che le voleva fin col braccio rotto
Darle, non so in qual parte, un pizzicotto.
[290]
O vizio maledetto della carne,
Che di senno ci spoglia e d'ogni cosa!
Felice chi ti fugge, e chi può starne
Lungi, come da peste mostruosa!
Nè sì dal falco fuggono le starne,
Come da donna bella e grazïosa
Fuggir dovrebbe chi brama conforto
In questa vita, e dopo ch'egli è morto.
Ora in quel moto al misero romito
Uscîr di sesto l'ossa un'altra volta,
E mugghiava come un toro ferito.
Ma per quanto egli gridi, niun l'ascolta;
Tanto era dolce il sonno e saporito
Della gente che quivi era raccolta.
Pur si sveglia Climene, e lo richiede
Di che si dolga; ed ei grida: Mercede!
E le mostra pendente il braccio destro:
Ed ella che sapea di chirurgìa,
Glie lo raggiusta proprio da maestro,
E lo lega con tanta leggiadrìa,
Che preso il frate di dolcissimo estro,
Su la man, che d'avorio par che sia,
Dà un bacio, e dice: Suora, Iddio vel merti,
E suoi don sopra voi sien sempre aperti.
Ma già per più spiragli entra la luce
Nella capanna, e cantan gli augelletti.
Guidone, il forte e generoso duce,
S'alza, e prega con dolci e grati detti
Il frate (giacchè a tale lo conduce
La sua fortuna) che a guarire aspetti;
E gli promette mandargli tra poco
E medici e chirurgi, e servi e cuoco.
[291]
E per man presa la bella Climene,
Parton dalla capanna allegramente;
E appena usciti, veggono che viene
In verso loro un nano egro e dolente.
Ma della guerra più non ti sovviene?
(V'è chi mi dice disdegnosamente).
Me ne sovviene; e se aspettavi un poco,
Vedevi ch'era giunto ora il suo loco.
Dietro allo Scricca, che il diavol sel porta,
Va Orlando e seco gli altri paladini;
Giacchè tutta è disfatta e quasi morta
L'Egizia gente. Il Cafro, che vicini
Ode i nimici, al mare si trasporta,
Ove ha sue navi; ed ancore ed uncini
Fa tagliare in un attimo, e si parte
Con tutte l'ampie vele all'aura sparte.
Sopra Franco naviglio entrano anch'essi,
E dan la caccia alle fuggenti vele:
Ma già per l'aria spaventosi e spessi
I nuvoli appariscono, e crudele
Minaccian pioggia; onde umili e dimessi
Pregano i naviganti che si cele
La nave lor nel sen d'un'isoletta,
Ch'è nominata l'Isola Perfetta.
Questa era l'isoletta della Giara,
Conforme scrive il nostro Garbolino,
A' signori di Scozia un dì sì cara,
Finchè non cadde nel crudel domìno
Di Manganoro e di sua gente amara,
Tutta quanta del rito Saracino;
Il qual la fece con ripari assai
Sicura sì, da non pigliarsi mai.
[292]
E voltata la prora a quella via,
Tanto fêro, ch'in tempo v'arrivaro,
E scampâr da procella iniqua e ria.
La notte entro del porto si fermaro
In una bella e comoda osterìa.
Venuto il giorno, lieti si levaro;
E quale andò per l'isola a diporto,
E qual volle fermarsi dentro il porto.
Astolfo pose il piede in un boschetto,
E andò tant'oltre, che smarrì la strada.
Ritornò verso il mare, e un ruscelletto
Vede sì chiaro, che molto gli aggrada
La sua vista, e di gioja gli empie il petto:
E mentre all'erba, ed ora all'onda ei bada,
Vede un angiol del cielo addormentato
Su quell'erbetta; ed ei gli siede a lato.
Donzella sì gentil non fe' natura,
Com'ella era costei; onde l'Inglese
Ringraziando la sua buona ventura,
Senz'altro dire in braccio se la prese.
Ella svegliata, colma di paura,
Grida: Villano! e fa le sue difese.
A quelle grida vengono infiniti
Uomini d'arme e cavalieri arditi.
Astolfo, ch'era lieve di cervello,
S'era levato l'elmo, ed in disparte
Posta la lancia per parer più bello;
Onde assalito poi per ogni parte,
Cesse al destino suo crudele e fello;
Nè gli valse virtù, vigore ed arte;
Chè colto all'improvviso e in quel contrasto
Ercole ancora vi sarìa rimasto.
[293]
Egli dunque restò preso e legato,
E condotto davanti al Saracino,
Che Manganor per nome era chiamato.
V'era Fioretta sua, che 'l paladino
Avea di sottomettersi tentato,
La quale se ne stava a capo chino.
Giunto davanti al Turco il cavaliero,
Quei più dell'uso dimostrossi altero;
E disse: Brutto traditor villano,
Tu porre insidie al mio reale onore?
Tu di mia figlia ardisti, iniquo e insano,
Macchiare il puro e virginal candore?
Or ti voglio impiccar di propria mano,
E aprirti il petto, indi strapparti il core.
Ma non è da capestro il tuo peccato;
Vo' che di dietro un pal ti sia ficcato.
Quindi ordina che sia condotto in piazza,
Ed impalato all'usanza turchesca.
Astolfo guarda la gentil ragazza,
E pietà chiede in favella moresca;
Ma di parole anch'ella lo strapazza,
E dice: Come vuoi che mi rincresca
Di vederti far male, se testè
Tu volesti far male ancora a me?
Singhiozza Astolfo, e le dice fra' denti:
Poter di Giove! i nostri mali sono,
Bella Fioretta, troppo differenti.
Io mi pensai di farti un dolce dono,
Dono che seco non avea tormenti;
Ma tu mi lasci al boja in abbandono.
Deh! almeno non voler, bella Fioretta,
Che m'impalin costor con tanta fretta.
[294]
Muori pur, disse la cruda donzella,
E dal balcone vo' starti a vedere.
Or mentre seco Fioretta favella,
Egli è tratto da' birri a più potere
Nella gran piazza in maniera aspra e fella;
E quivi il boja gl'ignuda il messere,
Ed a' ginocchi poi le man gli lega.
Sospira Astolfo, e tutti i Santi prega:
E chiede per pietade un quarto d'ora
Per Dio pregare; e il sir glie lo concede:
Ma quel palo in veder tanto lo scuora,
Che d'apprensione pria morir si crede.
Pensa all'entrata, e come ha da uscir fuora:
Già per la gola passar se lo vede,
E dice, vôlto al cielo, umile e queto:
Domine, non vorrei quel palo dreto.
Ma se le colpe mie sì gravi e spesse
Meritan questo sì crudel martoro,
Le voglie mie ho nelle tue rimesse:
Vissi Cristiano, e da Cristiano io moro.
Non ho colpa di boria o d'interesse:
Sopra la carne ho fatto un reo lavoro.
Signor, riguarda a tua bontà infinita,
Non alle colpe di mia trista vita.
Ma il quarto è già passato, e dalla loggia
Fa cenno Manganor ch'egli s'impali.
Tratto è per aria in aspra e crudel foggia
Il mesto Inglese da due funi eguali;
E il boja dietro il palo omai gli appoggia;
Quale in sentirlo diede in smanie tali,
Che legato com'era fece un moto,
Che il messer per allor gli restò vôto:
[295]
E faceva sì bene all'altalena,
Che il boja non potea far ben l'offizio.
Or lo tocca col palo in su la schiena,
Nelle cosce or, nè mai nell'orifizio.
Tutta rideva la di popol piena
Ritonda piazza a sì strano esercizio;
Quand'ecco il buon Rinaldo ed ecco Orlando
Che van slargando la folla col brando;
E giunti dove Astolfo era pendente,
Lo sciolser presto presto, ed un macello
Fecer di quella saracina gente.
Poi van dove del rege era l'ostello;
E Manganoro, già di sdegno ardente,
Lor viene incontro armato d'un martello,
Che dove batte, stritola e rovina,
Se fosse una colonna adamantina.
Fioretta anch'essa del padre in soccorso
Manda la gente in arme la più chiara.
Rinaldo verso il rege a tutto corso
Si move, e con la sua nodosa e rara
Lancia lo fere; ma, come ape all'orso,
Fu quel suo colpo al sire della Giara,
Il quale tira a lui tal martellata,
Che n'ebbe quasi a fare una frittata.
Cade Rinaldo, e sembra come estinto:
Orlando piange sotto dell'elmetto;
Poi trae la spada, e verso il re si è spinto,
E grida: Hai morto il mio cugino eletto;
Ma tosto fia che del tuo sangue tinto
Io vegga il suolo, e il corpo tuo negletto.
Ed in ciò dir gli dà colpo sì strano,
Che il martello gli fa cader di mano;
[296]
E con un altro gli taglia la testa;
Quindi torna a Rinaldo, e si consola,
Chè vede come ancora in vita ei resta.
Sen fugge l'altra gente, anzi sen vola
Al rudo aspetto di sì rea tempesta,
E lasciano Fioretta sola sola;
Alla qual corse Astolfo, e disse in fretta:
Bella mozzina, chi la fa l'aspetta.
Io voglio impalar te con quello stesso
Palo con cui tu me impalar volesti.
Piange Fioretta, e con volto dimesso
E con accenti dolorosi e mesti
Lo prega che non dia 'n un tale eccesso;
Chè non mancan mannaje nè capresti.
Quando ei voglia usar seco sua sevizia.
E fare un'apertissima ingiustizia.
Rispose Astolfo ripieno d'orgoglio:
Non ragionar di forca o di mannaja;
Hai da morir di palo: io così voglio,
E godo che ciò asprissimo ti paja:
E per non perder tempo, già ti spoglio.
Fioretta allora, come una ghiandaja
Grida, ed un morso appicca su le mani
Ad Astolfo, che fallo dare a' cani.
Orlando, ch'ode sì fatta contesa,
Disse ad Astolfo: Di che si quistiona?
Ed egli al conte: La medesma offesa
Vo' fare a questa ragazza poltrona,
Ch'ella a me fare era pur dianzi intesa.
Rispose Orlando: Il Cristiano perdona,
E rende ben per male: e spezialmente
Quando del fatto il nimico si pente.
[297]
Ma quando d'una femmina si tratta,
Non vedrai libro di cavalleria,
Che niuno, se non è persona matta,
Esorti a farle affronto o villanìa.
Ancor se del tuo sangue ella s'imbratta,
La donna è gentil cosa, e non è ria.
La bellezza è il suo dono di natura;
Nostro è il senno, l'ardire e la bravura.
Però non ponno, e non san fare offese,
E van del paro con li fanciulletti,
Che capaci non sono di difese,
Per non aver ben fermi gl'intelletti,
E senno tal da maneggiare imprese.
Però, se vuoi tra' cavalier perfetti
Aver luogo, convienti perdonare.
Rispose Astolfo: Io non lo posso fare.
Vedi quel palo là di sorbo o fico?
Se tu tardavi, d'ordin di costei
M'entrava ove si soffia al beccafico.
Or questo palo entri un po' dietro a lei:
E s'io non faccio questo che ti dico,
Di dietro a me ne possano entrar sei.
Rispose Orlando: Corpo di san Piero!
Astolfo mio, tu se' pazzo da vero.
Alla Fioretta poi si volge il conte,
E le domanda che gli voglia dire
Per qual cagione tali offese ed onte
Fêsse ad Astolfo. Ed ella: Eccelso sire,
(Disse con bassa e vergognosa fronte)
Il padre mio dannò questi a morire,
E non già io; se ben l'opere sue
Furon degne di morte e ancor di piue.
[298]
Io me ne stava un giorno per piacere
In una selva alla città vicina,
Con le compagne mie cacciando fere.
In seguirne una, verso la marina
Mi trovo, e stracca mi pongo a sedere
Su l'erba presso l'onda cristallina
D'un fiumicello; e la stanchezza e il loco
Mi fêro addormentare appoco appoco.
Or quando sono nel sonno più forte,
(Vedi, signor, quanto rossor mi tinge
Il volto, e pare che a tacer m'esorte;
Ma la giustizia a favellar m'astringe)
Ecco costui che con maníere accorte
M'annoda con le sue braccia e mi stringe:
Mi sveglio, e grido, e fo cose di fuoco;
E cielo e terra a mio favore invoco:
E mentre io mi difendo, ed ei m'assale,
Ecco i miei cacciatori all'improvviso
Che fan prigion quest'uomo sensuale,
Ed un corre a mio padre a darne avviso.
Pensate voi se glie ne seppe male.
Accesa brace si fece il suo viso:
E m'incontra gridando: Figlia mia,
Ov'è colui che ti fe' villanìa?
Ed ecco in questo dire il baron degno:
Ed egli tosto condannollo a morte.
Vedi, signor, se un cotal fatto è indegno,
E se merito avea di miglior sorte.
Orlando ch'ebbe sempre un buon ingegno,
Disse a Fioretta: Le tue guance smorte
Rallegra pure, e non temer di nulla;
Chè oprasti da onestissima fanciulla.
[299]
Duolmi sol di aver dato acerba e trista
Morte a tuo padre, a cui non si dovea.
Poi disse a Astolfo: Or vedi che si acquista
Per gir dietro a una voglia iniqua e rea?
Che bella cosa, degna d'archivista,
Sarebbe stata, se in quella platea
Eri ammazzato in foggia così brutta,
Con tua vergogna e della Francia tutta?
Astolfo disse sospirando: Io veggio
Che feci mal; ma fu l'occasïone
Che il mio giudizio fe' balzar di seggio,
E lo mandò in un'altra regïone;
Che spesso un vede il bene, e segue il peggio,
Nè sempre al senso domina ragione:
E s'io potessi disfare il già fatto,
Vorrei col sangue disfarlo ad un tratto.
Riprese Orlando: Or parli da Cristiano:
E perdona anche a lui, Fioretta bella.
Rinaldo intanto se ne vien pian piano
Là dove il conte ed Astolfo favella;
E narrano anche a lui di mano in mano
L'opra d'Astolfo temeraria e fella:
Onde gridò: Se lo sapeva io prima,
Lasciava il corso libero alla lima;
Chè daresti di naso a quante sono
Donne del mondo, o sieno belle o brutte;
E sempre abbiam per te qualche frastuono.
Rispose Astolfo con le labbra asciutte:
Odi il nuovo Giuseppe: odi in che tuono
Parla, contrario all'amorose lutte,
Come se al mondo egli non fosse chiaro
Che se' peggior d'un gatto di gennaro.
[300]
Disse Rinaldo: Io non ti dico mica
D'aver fatte ad ogn'ora opere pie;
Ma usato non ho mai forza o fatica
Per far le belle donne tutte mie.
Voglion sferze di rose, e non d'ortica
Femmine e mule, quando son restìe:
Uomo che ha senno, forza non adopra
Contro esse, e sol mette il pregare in opra.
Finiamola, disse Orlando: non sta bene
Parlar così davanti a una fanciulla;
E vediam che per noi far si conviene,
Ond'ella senta almeno poco o nulla
Di tante che le demmo acerbe pene.
Fortuna co' mortali si trastulla,
E fa nascere il ben dopo alcun male;
Chè quando scende l'un quell'altro sale.
Onde disse a Fioretta: Il danno fatto
Non può disfarsi; ma se utile alcuno
Vi possiam far, ve lo faremo a un tratto.
Disse Fioretta: Amor m'ha preso d'uno
De' miei baroni; ed egli è sì disfatto
Per l'amor mio, che uguale a lui fu niuno
Nel vero amor: ma per amarmi troppo,
Diede il meschino in un crudele intoppo;
Chè il padre mio, il qual di ciò s'accorse,
Lo mise in ceppi dentro un'aspra torre,
Donde non può, nè potrà mai ritorse;
Chè un fier gigante, detto Bicciborre,
Evvi a sua guardia, e seco son due orse;
Ed evvi un fiume a cui simìl non corre
Torrente alcuno, e non si può guadare,
E non v'è ponte sopra cui passare.
[301]
Andiamo a questa torre, disse il conte.
Andiamci, ch'ella vi è poco lontana
(Disse Fioretta con allegra fronte).
Questa è la torre detta della Rana;
Perchè una Fata di bellezze conte
Usciva spesso fuor d'una fontana
Con quelle spoglie, e giunta sul terreno
Si fea bella fanciulla in un baleno.
Questa s'accese un dì d'un cavaliero
(Come dice l'istoria del paese),
E parmi il nome suo fosse Ruggiero;
E tanto affetto e tanto amor gli prese,
Che temendo cangiasse un dì pensiero,
Fe' quella torre in meno assai d'un mese;
E vi pose quelle orse e quel gigante
A guardia, e il fiume rapido e sonante.
Or chïunque alla torre s'avvicina,
Scappa un'orsa, l'acciuffa e dentro il porta:
Ma pure egli fuggissi una mattina
Su l'ali d'un augel, senza aprir porta.
Onde cadde d'affanno la meschina;
Poi mangiò d'erbe una certa sua torta,
Che fa dormire; e quindici anni sono,
Che tien tra il sonno i sensi in abbandono;
Chè negato il morire egli è alle Fate:
Onde dormendo, il male suo non sente.
V'ha dentro damigelle assai garbate,
Che trattano i prigioni gentilmente.
Astolfo allor le disse: Che mi date,
Se dello sposo vi faccio un presente?
Chè questa impresa a me solo appartiene,
Nè ad altri mai potrebbe avvenir bene.
[302]
Rinaldo guarda Orlando, indi sogghigna,
E dice: Astolfo s'è scordato presto
Del mo' che qui si tiene in palar vigna.
Poco fa tu non eri sì rubesto,
Gli dice il conte. Ed Astolfo digrigna
I denti, e dice: In questa lancia e in questo
Braccio vedrete voi quel ch'io so fare.
Ed ecco omai che la gran torre appare.
Rinaldo vanne il primo; e giunto a riva,
Ecco un'orsa che vienlo per ghermire.
Ei si ritira a tempo, e quella schiva;
Poi con Fusberta la cerca ferire:
Ma par di senso quella bestia priva;
Chè niun de' colpi suoi mostra sentire:
Or mentre con quest'orsa egli combatte,
Eccoti l'altra dietro che l'abbatte;
E come lupo che s'arreca in spalla
La pecorella, e nel bosco sen fugge;
O come il ragnol porta la farfalla
Nelle sue reti, e po' il sangue le sugge;
Così pel fiume, come fosse galla,
Va l'orsa col prigion che d'ira mugge.
Ma null'altro può fare; chè perdute
Son tutte le sue forze e sua virtute.
Orlando a questo fatto estranio tanto
Si ferma un poco, e dice: Ho fatto male,
Quando si tratta di cose d'incanto,
A lasciarvi ir Rinaldo. Astolfo vale
Contra il demonio; non perchè sia santo,
Ma per quell'asta che a tutte prevale
Incantagioni di qualunque sorta;
Tanta seco virtù quest'asta porta.
[303]
Ordina dunque ad Astolfo che vada
A quella impresa; ed ei vi va di botto.
S'affaccia al fiume; e mentre l'orsa il guada,
La prende in mira a guisa d'un merlotto,
Senza dubbiar che al primo colpo cada.
Uscita l'orsa di serrato trotto,
Vien per la ripa incontro Astolfo, il quale
La tocca; ed ella muor senz'altro male.
Al cader della prima, immantinente
Viene l'altra orsa orribile e feroce;
Ma cade quella ancora similmente,
E nel cader diè un urlo tanto atroce,
Che fe' tremar la più lontana gente.
Quand'eccoti il gigante che a gran voce
Grida; ed era tanto alto e smisurato,
Che con un salto il fiume ha trapassato.
Nelle mani ha una trave grande e grossa,
Che alber di nave è scarso paragone.
Astolfo dice: Una mezza percossa
M'avanzerebbe di questo bastone.
Però lo schiva con tutta sua possa,
E con l'asta lui fere nel tallone
Leggier leggieri; e subito trabocca
Quel gran gigante, e si rompe la bocca,
E muore anch'egli. Ma che serve questo,
Ripiglia il conte, se il guadar ci è tolto?
Astolfo dice: Or noi faremo il resto;
Chè s'il fiume è per incanto raccolto,
Io lo rasciugo, conte, presto presto:
E nel fiume che rapido era molto,
Immerge l'asta d'oro; ed oh portento!
Fugge la ripa e il fiume in quel momento.
[304]
Lo stesso accade alla torre incantata,
Che vanne in fumo per virtù di quella
Asta, abbastanza non giammai lodata
Nè si vede alcun paggio o damigella,
Ma v'è di cavalier molta brigata;
E veggon sul terreno una donzella
Con una face accesa, e morta sembra,
Sì forte sonno lega le sue membra.
Ma non sì tosto l'Inglese la tocca,
Ch'ella si sveglia, e tiensi per tradita,
Non più vedendo gigante nè rocca:
Onde ponsi a fuggir pronta e spedita.
La segue Astolfo; ma quella trabocca
Nel fonte, ed èssi in rana convertita.
Torna Astolfo a' compagni, e narra il fatto
Strano sì, che qualcun lo tien per matto.
Fioretta già si stava con Aliso,
Il suo vago e pregiato giovinetto;
E spesso spesso scoloriva il viso,
Mentre per man se lo teneva stretto.
Orlando disse lor con un sorriso:
Del piacer vostro, amanti, io n'ho diletto;
E già che sì v'amate, egli è ben giusto
Che onestamente vi pigliate gusto.
Ma voglio prima una grazia da voi,
Che abbandoniate la fè saracina,
E in quel crediate, che crediamo noi.
E qui si mise a fare la dottrina
Orlando, capo de' famosi eroi;
E convertito Aliso e la regina,
L'isola diede loro; ma con patto
Che mandassero ogni anno a Carlo un piatto.
[305]
Ma giacchè la mia Musa è in braccio a' venti,
E quasi Galatea corre pel mare,
Di Ricciardetto i miseri lamenti,
O di Despina vogliam noi narrare?
O del re Cafro le vele fuggenti
Vogliamo a tutta forza seguitare?
O fermati co' due diletti sposi,
Nell'isola goder dolci riposi?
Ordine vuol di bella cortesìa,
Ch'ogni altro io lasci, e ritorni a Despina,
Che nella sua sventura acerba e ria
Un vecchio vede che a lei s'avvicina,
Il quale con maniera onesta e pia
La chiama a nome, e l'appella regina;
Talchè restò, per la cosa impensata,
Tutta da capo a' piè fredda e gelata.
Ei fischia intanto, e discendono al basso
Due leggiadre e modeste villanelle,
Che balzando venìan di sasso in sasso
Come cervette o caprïole snelle.
Un dardo aveano in man, dietro un turcasso,
Corte le trecce e corte le gonnelle,
E d'un color sì candido e vermiglio,
Che tal rosa non sembra unita a giglio.
Giunte a Despina queste forosette,
La salutaro e la pregaro insieme,
Che salir voglia per quell'aspre e strette
Valli ad un colle che nebbia non teme,
Dove son lor capanne poverette,
Ma dove mai nessun sospira e geme;
Tale è la pace, e tale è l'allegrezza,
Che si ritrova in quella loro asprezza.
[306]
Si rallegra Despina a questi accenti
E segue le sue liete condottiere;
E dopo gran fatiche e lunghi stenti
Entran, finito l'orrido sentiere,
In un gran prato d'erbette ridenti,
Rotte da chiare e limpide riviere,
Che ornate avean le rive d'arboscelli
Per fronde e frutte estremamente belli.
Là vacche e tori, e qui bianchi capretti,
Qui pecorelle candide, là more
Vede; ma non già vede in quai ricetti
Guidate sieno da verun pastore,
Nè forti cani a lor custodia eletti
Per guardarle dal lupo traditore.
Vanno esse a lor talento, e ciascheduna
Dorme ove vuole, quando il ciel s'imbruna.
Del suo maravigliar Leucippe accorta
(Una di quelle due Ninfe vezzose)
Le disse: Arturo qui verno non porta,
Ma a sempiterni autunni ed a odorose
Primavere il buon Pan apre la porta:
Nè lupi, nè altre bestie insidïose
Sono per questi boschi e questi prati;
Però non è chi il gregge osservi e guati.
Nè s'ascolta fra noi quel duro detto:
Questo gregge egli è mio, mio questo armento;
Ma ciascun bever puote a suo diletto
Il latte, e pigliar puote a suo talento
Vitella, agnello o tenero capretto.
Nè per amor qui alcun piange scontento;
Chè di venir qua su nè gelosìa,
Nè l'empia infedeltà sanno la via.
[307]
E Niside seguìo (l'altra sorella):
Leucippe mia la non t'ha detto ancora
Quello che più soggiorno tale abbella,
E i nostri giorni del continuo infiora:
Ma giunta che sarai, Despina bella,
Al nostro albergo, e giungeremvi or ora,
Tu lo saprai; e n'avrai tal diletto,
Che questo dì per te fia benedetto.
Or mentre van costoro alla capanna,
Udiam un po' ciò che racconta il nano:
Il nano, che nel dir piange e s'affanna
Alla vaga Climene ed all'umano
Guidon, che chiama sua stella tiranna,
Perchè dar non gli vuol, se non la mano,
La sua sposa leggiadra, e vuol che aspetti
A fare il resto ne' paterni tetti.
Disse il nano: Regina, il nostro campo
Egli è disfatto; e quei che non son morti,
Sono fuggiti come razzo o lampo
In verso il mare, pe' sentier più corti.
I guerrieri migliori al vostro scampo
Pensaro un pezzo, e contrastâr da forti;
Ma Rinaldo ed Orlando e due giganti
Li fecero morire tutti quanti.
L'esercito Lapponio anch'esso è spento;
I Cafri son fuggiti a rompicollo.
Però venuto a voi ratto qual vento
Sono, e qual vedi, di sudor ben mollo,
Nunzio infelice di sì tristo evento;
Perchè, se il cielo ancor non è satollo
Di tanto sangue, ancora il tuo non versi;
Chè allora sì che noi saremmo persi.
[308]
Bagnò di belle lagrime le gote
A questo annunzio la real donzella.
La consola lo sposo in dolci note,
E promette in Egitto andar con ella:
E perchè del gran Carlo egli è nipote,
Vuole che seco la sua donna bella
Vada a Parigi; ed ella non disdice
A ciò che il suo Guidon di voler dice.
Giunti a Parigi, Guidon non si scorda
Di mandar al romito i due giganti,
Ch'ei fe' cristiani, e tolse dalla lorda
Setta de' Saracini empj e furfanti.
V'andò un dottore, detto Tiracorda,
Ed un chirurgo con unguenti tanti,
Che basterìan per un ampio spedale;
Tanto a Carlo di lui sapeva male.
Giunti costoro al mesto Ferrautte,
Lo trovaro che presso era al morire;
Nè serviva lancetta o gammautte,
O impiastro alcuno per farlo guarire.
Bestemmiava il meschino a labbra asciutte;
Onde il dottore lo volle ammonire,
E disse: Signor mio, questa è la pena
Di chi nasce, che nato ei muore appena.
Bisogna sopportar con pazïenza
Il mal che Dio ci manda. E questo stesso
I giganti dicean con riverenza.
Al dottore, che stavali più appresso,
Diè Ferrautte con somma potenza
Nel viso un pugno, che restògli impresso
Il segno infin che visse; ond'ei comanda
Che lo leghin ben ben per ogni banda.
[309]
Quindi per certo fraticello invìa,
Che stava a far del bene in quel deserto.
Giunto all'albergo, dice: Ave Maria:
E gli è subitamente l'uscio aperto.
Vieni pur col malan che Dio ti dia,
E come certamente fia il tuo merto,
Ferraù grida, e si morde le labbia,
E getta spuma per l'insana rabbia.
S'accosta il buon padrino al letticciuolo,
E gli dice: Fratel, morir bisogna.
Io compatisco il vostro affanno e il duolo;
Ma tanto è il bene al qual da noi s'agogna,
Che a patir tutti i mali un uomo solo
Sarebbe meno che un tagliuzzo d'ogna,
In paragon del guiderdone immenso,
Che Dio ci dona, ignoto al nostro senso.
I mali di quaggiù son lieve cosa.
Ferraù, che si sente lacerare
Dalla infiammazion sua tormentosa,
Rinnova il suo tremendo bestemmiare,
Che sembra al frate cosa mostruosa;
Onde si pone ginocchioni a orare,
E prega Dio che ravveder lo faccia,
E gli renda salute, ove gli piaccia.
In questo mentre che il romito prega,
Si disacerba molto il suo dolore;
Onde in sè ritornato, il capo piega
Pentito al crocifisso suo Signore:
Ed il medico allor lieto lo slega.
Circonda il padricello almo splendore,
Il qual con quella luce alzato in piede,
E colmo il petto d'una viva fede,
[310]
Comanda a Ferraù ch'esca di letto:
Ed egli n'esce risanato in guisa,
Che a' suoi giorni non fu mai sì perfetto.
Poi con voce che l'alme imparadisa,
Gli fece uno strettissimo precetto
Di ritornare alla montagna Elisa,
Dov'ei faceva prima penitenza
Con una esemplarissima astinenza.
Ferraù gli si getta ginocchioni;
E la sua confessione generale
Fatta ch'egli ebbe con molti atti buoni,
Vestitosi da Fra Conventuale,
Gettata la camicia ed i calzoni,
Partissi, come a' piedi avesse l'ale,
Verso il monte d'Elisa; e vangli avanti
Ambo i suoi dilettissimi giganti.
Or vanne, fraticello, al monte sacro,
E là ti scorda della tua Climene
Con digiun aspro, onde diventi macro;
E con cilizi e nerbi in su le rene
Fàtti di sangue proprio un bel lavacro;
E fa talora anche per me del bene,
Chè n'ho bisogno. Ma tempo ben parmi,
Donne gentili, omai di riposarmi.
[311]
Invisibil Despina in barca appare
Al suo Ricciardo, e scioglie le ritorte.
Buttano l'empio Fiorentino a mare.
Nalduccio ed Orlandin frustan la Morte.
Despina giunge in tempo a liberare
E Climene e Guidon da dura sorte.
Risponde Carlo all'amara imbasciata.
Scende Orlando nell'isola incantata.
Quei gode lieta e avventurosa sorte,
Che vive in parte solitaria ed erma,
Nè sa che cosa sia cittade o corte;
Nè ora si distrugge, ora s'inferma
Per van desìo di viver dopo morte;
Nè le sue voglie ognor stringe e rafferma
A' cenni altrui; nè tra speme e timore
Misero invecchia, e più miser si muore.
Quel piacer che si cerca, e che si crede
Che stia ne' gran palazzi e in grembo all'oro,
Tempo è che ignudo alla superna sede
Rimenò delle Grazie il santo coro;
E delle spoglie sue rimase erede
Per nostro scherno il barbaro martoro,
Il qual vestito de' suoi lieti panni,
Chiunque lo ritrova, empie d'affanni.
[312]
Solo tra' boschi e le romite ville
L'allegra del piacer dolce famiglia
Alloggia, e gode l'ore sue tranquille:
Ed ei spesso dal cielo il cammin piglia
Verso le selve, ed or nel cor di Fille,
Ora alberga di Nice in su le ciglia;
Quindi ritorna a rallegrar le stelle,
Ne fa distinzïon tra Giove e quelle.
Ond'è che in verno si lusinghi e spere
Unire a signorìa vero diletto,
Chi tien parte del mondo in suo potere;
Chè acerbe cure egli ha a covare in petto,
E d'ogni cosa sempre ha da temere:
E con ragion, perchè il Fabro perfetto,
Che con peso, con numero e misura
Fa il tutto, in questo pose ancor gran cura.
Povero sì, ma dolce e saporito
Il cibo diede al rozzo villanello;
E gli diè sonno placido e gradito,
Se letto non gli diede ornato e bello.
Nè per quanto sia grinzo e incanutito,
V'è chi lo brami chiuso in un avello,
Per dar di mano all'oro ed all'argento,
E poter dissiparlo a suo talento.
La vecchierella alla più fredda bruma
Si siede al fuoco con la sua conocchia,
E le dita filando si consuma,
E tien la nuora in luogo di sirocchia;
Talchè lite fra lor non si costuma:
Nè v'ha chi scaltro ed amoroso adocchia
La donna altrui; chè al villano par bella
La propria, e amor per altra nol martella.
[313]
Non s'odono per quelle amene spiagge
Furti, veleni e sporchi tradimenti;
Nè chi, presente voi, vi palpi o piagge,
E poi lontan vi laceri co' denti,
E vostro onore e vostra fama oltragge.
Puri costumi in somma ed innocenti,
Contrarj affatto alla vita civile,
Albergan sempre in quella gente umìle.
Ma questa conoscenza più m'accora;
Chè son costretto in così chiara corte
A stare infin che non avvien ch'io mora.
Deh, perchè non trovai chiuse le porte,
Roma superba, in quel punto e in quell'ora
Che a te guidommi la mia trista sorte!
Chè ritornato indietro allor sarìa,
E vivrei lieto in qualche villa mia.
Chè sebbene m'hai dato onore e robba,
M'hai messo ancora un grave peso addosso;
Onde forza è che con la schiena gobba
Vada, e mi dolga ciascun nerbo ed osso:
Chè quel destrier che più s'orna e s'addobba
Di briglia d'oro e di pennacchio rosso,
Par, ma non è, di più felice stato
Di quei che sciolti corron per lo prato.
Ma che ha da far con questa nostra istoria
Il mio travaglio e la disgrazia mia,
Che quasi m'ha levato di memoria
Quel che cantar di Ricciardo volìa?
Il qual sul lido s'affligge e martoria,
Mentre Despina sua fugge e va via.
Torniamo dunque a lui; e ognun frattanto
Su' mali suoi versi in segreto il pianto.
[314]
Se vi sovvien, lasciammo Ricciardetto
Che s'affannava intorno alla marina;
Chè del suo caro ed amoroso oggetto
Ne fêro i venti subita rapina.
Or mentre ei piange e si percuote il petto,
Piccola barca al lido s'avvicina,
Ma spogliata è di vele e di nocchiero,
Ed era anche un po' rotta, a dire il vero.
Il giovin che non vede altra per l'onde
Nave aggirarsi, per quanto egli guardi
Di qua di là fino all'estreme sponde
Dell'orizzonte, senza altri riguardi
Vi monta sopra, e s'addrizza là onde
I suoi desiri fervidi e gagliardi
Lo van spingendo, fermo d'affogare,
O la sua donna per tal via trovare.
Ma che far puote senza remi e vele,
E senza chi per quelle ondose vie
Lo guidi? O germe nobile, e fedele
Amatore! io vorrei in men d'un die
Condurti a lei che ti fugge crudele:
Ma poco ponno in mar le forze mie:
Però, se non ci veggo altra maniera,
Poco ti scosterai dalla riviera.
Or mentre Ricciardetto si tapina,
E del flusso e riflusso il moto prende,
Ch'or l'allontana ed ora l'avvicina
Alle spiagge, di cui tanto s'offende,
Che pria vorrebbe una tigre vicina;
Preso dal sonno sul legno si stende;
E quando dorme, ecco una fusta inglese
Di pirati, che lui e il legno prese:
[315]
E perchè veggon ch'egli è ben disposto
Della persona, con cento catene
Lo legano, e gli stanno anche discosto.
Appena egli dal sonno si rinviene,
Che muover non si può punto dal posto
In cui l'han messo; e ne sente tai pene,
Che fa fuoco per gli occhi, e dalle labbia
Gli cola giù la bava per la rabbia.
Despina intanto da Silvano ha inteso
Cose stupende, e segreti sì belli
Ella ha da lui e da sue figlie appreso,
Che ne san meno certo i farfarelli.
Ad essa egli donò di leggier peso
Una pietra che spezza i chiavistelli;
E di ferro non è catena o toppa,
Ch'ella non rompa come un fil di stoppa:
Ed altra le ne diede ancor più rara,
Che invisibile fa chi tienla in mano;
E può passar (vedi che cosa cara!)
Con questo sasso certamente strano
Ovunque vuol, nè alcun glie lo ripara;
Chè come spirto rende il corpo umano:
E questa pietra non è l'Elitropia,
Che nasce ne' deserti d'Etïopia;
Ma è una pietruzza gialla, liscia liscia,
Ch'ora nasce nel cuore, or nella testa
D'una feroce e velenosa biscia,
Che come un gallo in capo ell'ha la cresta,
E suona un campanello quando striscia,
E va correndo dentro alla foresta.
Ma queste cose tutti non le sanno;
Nè tutti che le bramano, pur l'hanno.
[316]
Le diede ancora in una scatoletta
Erbe diverse, che col tatto solo
Fan medicina subita e perfetta;
Di modo che trattengono nel volo
L'alma, quando d'uscir da noi s'affretta.
Ma de' morti quando un scritto è nel ruolo,
Non han virtù di farlo tornar vivo:
Nè dico cose false, e non le scrivo.
Di queste alcune fanno addormentare;
Altre col solo odor tengono in vita.
Ma a tempo suo l'udirete contare;
Ch'or non importa. Or dunque sì arricchita
Despina d'erbe e di pietre sì rare,
Nella capanna sua lieta e romita
Lascia Silvano con le sue figliuole,
Dopo aver fatto insieme assai parole;
E torna al lido, e vede in su la riva
De' naviganti; onde in mano si pone
La gialla pietra, e in mezzo a loro arriva;
Ma non intende l'anglico sermone:
E monta in barca, che del tutto priva
Era di gente, in fuora che al timone
Vi stava un marinajo, e al destro lato
Del legno vide un uomo incatenato.
S'accosta, e vede ch'egli è Ricciardetto;
E per pietà si mette a lagrimare:
Ma pur chiudendo il suo dolor nel petto,
A consiglio miglior vuolsi appigliare.
Prende quell'erba del sonno perfetto,
E fa il nocchiero tosto addormentare;
E poi taglia le gomene, e discioglie
Le vele; ed il naviglio se la coglie.
[317]
All'impensato caso i marinari
Si gettaro nel mar tutti di botto;
Ma i venti freschi i due leggiadri e rari
Amanti si portavano di trotto;
Ond'essi ritornaro afflitti e amari
Al lido, affatto privi di biscotto.
Ma di costoro non m'importa un fico;
Però li passo, e nulla più ne dico.
Despina, poichè fu molto inoltrata
Nell'ampio mar, s'accosta a Ricciardetto;
E fisso fisso sì dolce lo guata,
Che par che l'esca l'anima dal petto.
Egli intanto sospira, ed aspra e ingrata
Chiama sua sorte e il destin maladetto,
Che lo conduce a morte sì crudele,
Lontano dalla sua donna fedele.
Despina non volea farsi vedere;
Ma finalmente si levò di mano
La pietra gialla c'ha tanto potere,
E lui scoperse il suo bel volto umano.
Se Ricciardo di ciò n'ebbe piacere,
Sel pensi pure ogni fedel Cristiano.
Io credo che ne avesse tanto e tale,
Ch'è impossibile al certo averlo eguale.
Poi con la pietra spezza-chiavistelli
Gli ruppe le catene tutte quante,
Come fossero state vermicelli.
Vistosi sciolto il fortunato amante,
Di Despina negli occhi accesi e belli
Volse la faccia sua tutta tremante,
E disse: Non se' già, vaga Despina,
Morta, e fatta su in ciel cosa divina?
[318]
Chè nel viso e nell'opre e in ogni cosa
Non serbi più della natura umana.
Ed ella a lui, ridente e grazïosa,
Dice: Ancora non sono un'ombra vana;
Ancora in questo velo sta nascosa
L'alma, ed ancora è per amore insana,
Nè la posso guarire a te d'appresso;
Tanto l'amor di te m'ha il core oppresso.
Nè l'ombra nera del german tradito
(Da te tradito, o dolce mio Ricciardo)
Nulla m'ha l'aspro incendio intepidito,
Nel quale ognora io mi consumo ed ardo.
Cercai fuggirti, e roppe il legno al lito;
E quando men ci penso, ecco al mio sguardo
Amor di nuovo, e Fortuna ti mena,
Perchè non abbia fine unqua mia pena.
Ricciardo umìle le si getta al piede,
E dice: Traditore io non fui mai.
Despina lo conforta, e che gli crede
Soggiunge, e dice: Poniam fine a' guai,
Parliam di noi; giacchè, la Dio mercede,
Siamo qui soli, e siam lontani assai
Da' nostri alberghi; e giuriam, se ti piace,
Sempiterni fra noi amore e pace.
Ma perchè senza remi e senza guida
La navicella va dove la mena
Il mare, al quale è pazzo chi si fida,
L'erba che fa svegliar, sul viso mena
Del marinajo, ed alto il chiama, e grida.
Quegli si sveglia, e risvegliato appena
Non sa dove si sia; tal maraviglia
Gli occupa il cuore, e confonde le ciglia.
[319]
Despina il guarda, e gli chiede chi sia.
Ed egli disse: Io sono un Fiorentino,
Che andava in mare a far mercatanzìa,
Perchè, annojato d'esser poverino,
Volli tentare la fortuna mia.
Io feci da ragazzo il vetturino;
E per nulla tacervi, alta signora,
Io feci l'oste, e feci il birro ancora.
Ma que' nostri paesi son sì tristi,
Che non si può rubare anco a volere:
Onde bramoso un dì di fare acquisti,
Incominciai del mar l'aspro mestiere;
Ma mi fecero presto il repulisti
D'ogni guadagno mio, d'ogni mio avere
I padroni di questo navicello,
Che in non vederli mi gira il cervello;
Chè tu stavi legato, e tu non v'eri;
E te veggio, e non loro, e tu disciolto:
Onde fan l'arcolajo i miei pensieri,
Nè capisco l'ingergo o poco o molto.
Disse Ricciardo: Di questi misteri
Nulla capisco anch'io. In lieto volto
Riprese allor Despina: Il ciel cortese
Ad oprar sì gran cose egli m'apprese.
E qui raccontò lui una per una
La virtù delle pietre sì stupende,
E dell'erbe qual ha forza ciascuna.
Il Fiorentin, che tali cose intende,
Prestare non le vuol fede veruna,
Se non le vede; e schiamazza e contende.
E dice che son ciance e be' trovati
Di romanzieri pazzi e spiritati.
[320]
Ma non sì tosto Despina si pone
Nella man destra la pietruzza gialla,
Che via dispare; e per quanto tentone
La ricerchi Ricciardo, ognor gli falla
Il pensier d'incontrarla. Si ripone
Il sasso in seno, ed ecco torna a galla:
Ritorna, dico, a farsi rivedere
La giovinetta con suo gran piacere.
Aveva ancor di marmo bianco e schietto
Una figura ignuda; e questa pure
Era d'un pregio sì raro e perfetto,
Che non si trova nell'altre figure.
S'uno covava dentro l'intelletto,
Contro di chi l'avea, torti e sciagure,
La bella figurina in un momento
Cangiava in nero il suo color d'argento.
Il Fiorentino a tal vista sorpreso
Della pietra che fa sparir la gente,
Di desìo di rapirla fu sì acceso,
Che cominciò a rivolger nella mente
Pensier crudele, e in Scizia appena inteso,
Di dare in capo la notte veniente
Prima a Ricciardo, e dopo lui a Despina,
E far la bramatissima rapina.
Ma sua sventura, e la bontà di Dio,
Che l'innocenza protegge da vero,
Fece andar male un così reo desìo;
Chè il marmo dato a lui diventò nero:
Onde Despina: Uom malvagio e rio,
Ho ben compreso ciascun tuo pensiero;
E rivolta a Ricciardo, disse: A questo
Bisogna dare in capo, e dargli presto;
[321]
Chè nera questa pietra non diventa,
Se non in man di chi ci vuol far male.
In questo dir Ricciardo se gli avventa,
E dice: Infame, ti vo' porre in sale;
E dalla barca fuor lo scaraventa,
Come fatto averebbe d'un boccale.
Cade il meschino, e van subito a quello
Pistrici ed orche, e ne fanno macello.
Ricciardo liberossi volentieri
Dal Fiorentino con fargli da boja,
Perchè molto impediva i suoi piaceri:
Chè non è cosa che guasti la gioja
Di due bei cuori innamorati veri,
Che un terzo sciocco apportator di noja;
Anzi non credo che al mondo si dia
Tormento più crudel, pena più ria.
Rimasti soli i due fedeli amanti,
Donne gentili, che vi dice il core?
Quai credete che fosser lor sembianti?
Voi mi direte, che mel dica Amore.
Ma io saper non voglio ora più avanti;
Chè vo' tornare a Carlo imperadore,
Che in un momento libero si vede
D'assedio sì crudele, e appena il crede.
Qual fosse l'allegrezza ed il piacere
Del nobil vecchio e di tutto Parigi,
Il non più rimirare aste e bandiere,
Nè afflitti udir ognora i bianchi, e bigi,
E neri frati struggersi in preghiere;
Sel pensi chi di questi aspri litigi
Ha qualche prova, e da vicino ha visto
Il ceffo della guerra orrendo e tristo.
[322]
Si fecer feste per ogni contrada,
E in ogni piazza v'eran giochi e balli.
Di frondi e fior coperta era ogni strada;
E in vece del nitrito de' cavalli,
E suon di trombe che sì poco aggrada,
V'eran di bianco avorio e bossi gialli
Flautini così dolci e delicati,
Che appo lor gli usignuoli son men grati.
D'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni stato
Si rallegra la gente parigina:
E non vedendo più veruno armato,
Esce del bosco fuor la contadina
Con monsù Menco e monsù Gianni a lato,
Che van ballando una minuettina;
E in poco tempo per il regno tutto
Si volge in riso il trapassato lutto.
Degli amanti storpiati e affatto morti
Si scordano le vaghe damigelle,
E van girando i lor begli occhi accorti
Per fare in luogo lor prede novelle.
V'è chi vaghi li vuol, chi li vuol forti,
E chi di bianca e chi di fosca pelle;
Chi li vuol rozzi, e chi complimentosi,
Chi senza un pelo, e chi tutti pelosi.
Alla corte ogni dì si fa banchetto,
E vi si mangia e vi si beve bene.
In somma da per tutto erra il diletto;
E i passati travagli e l'aspre pene
S'affogano in un mare di claretto:
Chè dell'oblìo le favolose arene
Hanno men forza assai di quel liquore,
Onde sale Avignone in tanto onore.
[323]
Ma perchè il vino è padre delle risse,
E di tragiche cose e dolorose,
Come in più luoghi quel gran Savio scrisse;
Di Carlo a mensa più donne vezzose
Erano un giorno; e in lor tenendo fisse
Orlandino le luci dispettose,
Orlandino d'Orlando il primo figlio,
Disse: D'Amor non sarò mai famiglio.
E Rinalduccio, il figlio di Rinaldo,
Rispose acerbamente motteggiando:
Tu farai bene ancor; chè il troppo caldo
Non fa gran bene alla schiatta d'Orlando,
Che aver suole il cervello poco saldo.
A questo dire diè di mano al brando
Orlandino, e lo stesso l'altro fece,
Fatti per ira neri come pece.
Carlo, in vedere si strana baldanza,
Diè nelle furie, e li cacciò di corte,
E lor diè bando da tutta la Franza
Sotto pena d'infame e trista morte;
Di che s'allegra Gano di Maganza.
Il dì seguente all'aprir delle porte,
Fatta pace tra loro, i due cugini
Si misero pel mondo pellegrini.
Avevano venti anni i giovanetti,
E quanto i padri loro avean valore:
Eran poi belli come due angioletti;
L'un bionde avea le chiome, e l'altro more:
Leggiadri in tutti i moti e in tutti i detti,
E pieni l'alma di desìo d'onore;
Talchè, se avranno vita, io spero certo
Che adegueranno dei lor padri il merto.
[324]
Ma prima d'uscir fuor della cittade,
Spediron messi per mare e per terra
Ai padri loro per tal novitade:
Dico a' due lampi, a' due fulmin di guerra,
Rinaldo e Orlando, onor di lance e spade.
Or mentre vanne così sola, anzi erra
Questa coppia gentile e valorosa,
Si oscura il cielo in foggia spaventosa,
E comincia la grandine e la piova;
Talchè s'intimoriro i lor destrieri:
Quando Orlandino una gran buca trova
Nel monte nominato de' Sparvieri:
Discende da cavallo, indi si prova
D'entrare in essa, e v'entra volentieri:
Chè stavvi asciutto; e Rinalduccio chiama
Che venga a lui, se di star bene ei brama.
V'accorse Rinalduccio; e con del fieno
Accesero un bel foco e s'asciugaro.
In questo mentre a guisa di baleno
Una luce lontana rimiraro
Dentro del monte: onde Orlandin ripieno
D'ardire, e seco Rinalduccio a paro
Vanno in quel verso, e giungon finalmente
Là dove usciva la fiammella ardente;
Per cui la grotta sì chiara appariva,
Come di mezzo giorno, o poco manco.
Da una porta di ferro il fuoco usciva,
E v'era scritto in un bel marmo bianco
Sopra la stessa in lettera corsiva:
Chi non è fuor di modo ardito e franco,
Non s'accosti a quest'uscio, e fugga via;
O pur s'aspetti morte acerba e ria.
[325]
Letti appena que' versi, ambo ad un tratto
Snudâr le spade, e percosser la porta,
La qual s'aperse prestamente affatto;
Ed una mummia ed una cosa morta
Venne su l'uscio col corpo rattratto,
E disse loro: Qual diavol vi porta
A questo albergo, a questa sepoltura,
Dove or ora morrete di paura?
Se nol sapete, in questa buca, in questa
Alberga Morte e la sua corte acerba.
Rinalduccio la guarda, e in su la testa
Le dà col ferro, e come un filo d'erba
Glie la divide; e il colpo non s'arresta,
Ma va più oltre; onde orrida e superba
Esce fuor Morte con la falce in mano,
E grida: Morto sei, guerrier villano!
Ma le mena Orlandino un tal roverso
Su quelle dita secche, e bestïale,
Che le cade la falce per traverso,
Sopra di cui fa tanto capitale.
Allor la brutta il ceffo reo converso
Ai giovani, pigliar volle uno strale
Dalla faretra, e stenderli ad un tratto;
Ma, come volle, non le venne fatto;
Perchè mentre Orlandin la falce fura,
Rinalduccio al turcasso dà di mano.
Pensate se allegrosse la Natura
In veder Morte che s'arrabbia in vano,
E d'ammazzar perduta ha la bravura!
Ond'ella in suono più cortese e umano
Lor chiese in grazia la falce e gli strali,
Che fanno ed hanno fatto tanti mali;
[326]
E giura loro di lasciarli stare;
E che saranno fuor di suo domìno,
Se quel che lor dirà vorranno fare.
Favella dunque (le disse Orlandino),
Acciò possiamo i detti tuoi provare.
Ed ella: In questo avello a me vicino
Ci sono due armature così fatte,
Che il mio stral contra loro in van combatte.
Aperse Rinalduccio il chiuso avello,
E trovò l'armi, e due lance e due spade;
E vestitele presto il giovin bello,
Disse al compagno: E tu che fai? che bade,
Che non vesti quest'altre? Ed ei: Bel bello,
Ch'io non vo' che costei ci assalga e rade
La testa, mentre stiamo attenti altrove.
All'uom di senno sempre amico è Giove.
Vestito Rinalduccio, prestamente
Armossi ancora il nobile Orlandino
D'un'armatura sì bella e lucente,
Che pareva d'un oro schietto e fino.
Morte, di sdegno e di vergogna ardente,
Gridò: Tornate al mio primo domìno
La falce e i dardi. Ed Orlandino: Fuora
Esciamo, e avrai li tuoi stromenti allora.
Ed ella: Io qui li voglio. E corse addosso
A Rinalduccio; ed Orlandin le mena
Un colpo in fronte, che le smuove ogni osso;
E Rinalduccio le batte la schiena.
Onde, se far poteva il viso rosso,
Fatto l'avrebbe allor, sì per la pena,
Sì per vedersi far da due ragazzi
In casa propria così gran strapazzi.
[327]
Ma quando Morte non ci può ammazzare,
Diviene una buffona, una sguajata.
Or ella che si vede malmenare,
E teme di restare disarmata,
Lor dice: A vostro modo io voglio fare;
E perchè siete una coppia garbata,
Vi voglio dire che queste armi sono
Fatte su in cielo, e date a Marte in dono.
Ed egli una ne diede a sua sorella.
Ma venuti una volta quaggiù in terra
Per l'orrenda di Troja acerba e fella
E per tanti anni sanguinosa guerra,
Io feci in modo che a Pallade bella
Rapìi la sua; e mentre al sen si serra
Marte la Dea che al terzo cielo impera,
Ancor l'altra rubai presta e leggiera,
Per timore che in man d'alcun mortale
Non giungessero mai, ed io restassi
Schernita, e senza forza ogni mio strale.
Ma contro il Fato prevenire i passi,
Od altra cosa fare, a nulla vale.
E in questo dire dagli oscuri sassi
Escono fuora, e dan, conforme il patto,
La falce e i dardi all'aspra Morte a un tratto.
Ed essa, per mostrar che disse il vero,
Vibrò rabbiosa uno strale puntuto
Del gentile Orlandino nel cimiero,
Che si fe' in pezzi; e un pezzo io n'ho veduto
A Brava in casa d'un buon cavaliero,
In un museo che raro è assai tenuto,
E v'è scritto: Frammento d'uno strale
Di Morte, che a Orlandin non fece male;
[328]
Indi nel masso si tornò a riporre:
E i giovinetti allegri oltre misura,
Certi che Morte non li può più côrre,
A ricercare ogni strana avventura
Si miser, qual destrier che al palio corre;
E verso Tramontana in dirittura
Preser la via. E noi lasciamli andare;
Chè d'altre cose or mi convien parlare.
Il buon Guidon da Carlo avea già preso
Il suo comiato; e la bella Climene
Avea dell'amor suo Parigi acceso;
E giunti già su le marine arene,
Egizia nave scarica di peso
Aspettavano, ond'essa a vele piene
Li trasportasse, a guisa di saetta,
Dal mar di Francia a quel d'Alessandretta.
Venuto il legno, vi saliron sopra,
Ed ebbero la solita tempesta,
Ed al solito il mare andò sossopra:
Ma giunsero alfin salvi; e con gran festa
Fur ricevuti dal Soldan che adopra
Ogni gran gentilezza manifesta;
Ma nel suo cor maligno altri raggira
Pensieri acerbi, e tutti colmi d'ira.
Il vedersi disfatto il campo intero,
E che la figlia n'è stata cagione,
Che, donate ad amor voglie e pensiero,
E accesa morta d'un Franco barone,
Per godersi l'amato cavaliero
Avea lasciato il regio padiglione;
Gli fêr venire un barbaro desire
Di far la figlia e il cavalier morire.
[329]
E senza dirne ad alcuno parola,
Mentre la notte dorme il giovinetto,
In una stanza separata e sola
Legar lo fa da quattro uomini in letto,
E gli fa porre un canapo alla gola;
E legato in tal guisa stretto stretto
Lo fa condurre in un castello forte,
Per dargli a tempo suo condegna morte.
Ed a Climene pur fa far lo stesso;
E in un castello a quello dirimpetto
Chiuder la fece senza altro processo.
Ella si strappa i crini, e graffia il petto;
Ed il suo padre, lagrimando, spesso
Chiama tiranno e spogliato d'affetto.
S'ode frattanto per l'egizia corte,
Come gli sposi son dannati a morte;
E che fra dieci giorni moriranno
Per man di boja, come traditori.
Ma non vi date mica alcun affanno,
Gentili donne e cortesi uditori;
Chè questa acerba morte scamperanno:
Chè a gioventù non mancan protettori.
Io non lo so di certo, ma lo dico;
Chè troppo son di crudeltà nimico.
Le donne d'Alessandria e i cavalieri
Vestiti a bruno andaro dal Soldano,
Perchè mutasse gli aspri suoi pensieri,
E divenisse più dolce ed umano:
Perchè Guidone co' begli occhi neri
Era piaciuto ad ogni cor pagano;
E Climene, oltre all'esser lor signora,
Era gentile e molto bella ancora.
[330]
Ma l'aspro vecchio, fisso in suo decreto,
Si chiude a tutti; e nella gran platea
Già s'alza il palco, ed egli solo è lieto,
Mentre tutta Alessandria egra piangea.
E già il decimo giorno cheto cheto,
Il giorno funestissimo giungea,
Anzi era giunto; e fuor de' due castelli
Uscivano gli amanti cattivelli.
Climene in rimirare il suo consorte
Così legato, e sì presso al morire,
Diede un sospiro tanto caldo e forte,
Che fece ogni aspro core intenerire;
Poi con le luci e con le labbra smorte
In questa guisa ella gli prese a dire:
Guidon, i Dei lo san, se ho parte alcuna
In questo colpo di crudel Fortuna.
Ma quando i Fati il lor decreto han fisso,
Fuggire non lo possono, e nol sanno
Consigli umani: e lo guardava fisso.
Ed egli a lei: Mi pesa un tanto danno,
Lo qual ti opprime: e se a me sol prefisso
Avesse il laccio il perfido tiranno,
Morrei contento; ma non so soffrire
Come tu debba, anima mia, morire.
Mentre così ragionano gli amanti,
E s'alzan da per tutto e pianto e strido,
E al nero palco omai sono davanti,
Ecco che giunge una barchetta al lido
Senza piloto e senza naviganti;
Alla cui vista d'allegrezza un grido
Subitamente da ciascun si diede,
Perchè un ottimo augurio esser si crede.
[331]
Questa è la nave dove vanno a spasso
Il buon Ricciardo con la sua Despina,
Che a tempo giunse a render vano e casso
L'aspro disegno, e salvar sua cugina;
E si presero ancora tanto spasso,
Come udirete, in quella gran mattina,
Ch'ebbe Alessandria per le maraviglie
Ad impazzire e dar nelle stoviglie.
Primieramente senza esser veduti
S'accostaro all'orecchie de' prigioni,
E disser loro: Il nostro Dio v'ajuti:
Noi siam vostri parenti e amici buoni.
E dissero i lor nomi e le virtuti
Ch'avean con seco; onde a' due bei garzoni
Tornò tanta allegrezza nel bel viso,
Che Angioletti parean del Paradiso.
Il giustiziere al boja aspro si volge,
E dice: Mena sul palco costoro.
Despina intanto l'erba a' ferri avvolge,
E tutto si conquassa quel lavoro,
E la macchina affatto si sconvolge.
Vanno a terra le forche; e per lo foro
Grida ciascuno: Evviva l'innocenza,
Che Iddio protegge con la sua potenza!
Ma il Soldan, che ciò vede dal balcone,
Ordina che lor sia tolta la vita
Con la sciabla; ma nel fodero pone
L'erba Despina, e tutto il ferro trita:
Onde fuora di senso e di ragione
Riman la gente attonita e stordita.
Ma quello che li fe' trasecolare,
In modo certamente singolare,
[332]
Fu quando in mano a Guido ed a Climene
Miser le pietre gialle, e insieme stretti
Minuti più delle minute arene
Divennero, nè fur più d'occhio oggetti.
Perchè quando con man la man si tiene
Di chi ha la pietra di sì rari effetti,
Invisibile anch'egli fassi allora:
E chi nol crede, vada alla malora.
Il popol nel veder cosa sì strana,
Corre rabbioso al palazzo reale
Per ammazzar quell'aspra ed inumana
Persona, veramente empia e brutale,
Che uccider volle l'innocente e umana
Sua figlia, e un cavalier di valor tale,
Qual era il buon Guidone: ma non vuole
Climene, e di suo padre assai le duole;
E grida non veduta: Io son placata;
E niuno offenda il dolce padre mio.
Nel viso l'uno con l'altro si guata;
E v'è chi dice ancor: Poffareddio!
Oggi Alessandria ell'è tutta incantata.
A que' prodigi fassi umile e pio
Il Soldan fiero, e perdono domanda
Alla figliuola, e le si raccomanda.
Ma mentre che presa è da maraviglia
Tutta Alessandria, Orlando e il pro' Rinaldo
Gettan fuoco dal naso e dalle ciglia
(Tanto hanno il cuor di sdegno e d'ira caldo),
Perchè fatto abbia contro lor famiglia
Carlo un decreto sì iniquo e ribaldo;
E giuran non veder più Carlo in viso,
Nè forse ancor guardarlo in Paradiso.
[333]
E perchè non si ponno immaginare
Qual sentiere abbin preso i lor figliuoli;
Orlando tener vuol la via del mare,
E Rinaldo di terra; e vanno soli.
Astolfo ed Ulivier ponno pregare;
Chè niun de' due avviene che consoli
Le lor preghiere; chè son risoluti
D'andar pel mondo raminghi e perduti.
E scrive Orlando a Carlo due versetti,
Ma saporiti, ne' quali gli dice,
Che degl'ingrati veri e più perfetti
Egli è capo, egli è corpo, egli è radice;
Ma che s'altri fa mal, ben non aspetti,
E ch'egli non sarà sempre felice:
Ed altre cose sopra questo andare,
Che lo potranno certo disturbare.
E datala ad Astolfo, dalla Giara
Si parte sopra un pinco catalano,
Che ad andar in Egitto si prepara.
Rinaldo sopra un vascelletto ispano
Sale, che torna alla sua patria cara:
Che di là pensa sul lido africano
Andare prestamente: che altre volte
Ha fatte quelle vie dure ed incolte.
Or mentre i padri cercano i lor figli,
I figli fanno cose da stordire.
Nell'isola chiamata de' Conigli,
Tra la Svezia e Norvegia a vero dire,
Scesero i due garzoni; e rose e gigli
Avean nel viso, che facean stupire:
Onde all'aspetto lor l'isola tutta
Arse d'amore, e ne restò distrutta.
[334]
Ma più d'ognuna fur prese e piagate
Due figlie del signor di quel paese,
Ch'erano anch'esse belle e dilicate:
L'una era detta Argea, l'altra Corese.
Ma quell'anime a Marte consacrate
Difficilmente Amor vinse e si prese:
Pur vinse alfine, ed Orlandino Argea,
E Nalduccio Corese si godea.
Il che saputo da due rei giganti,
Signori di certe isole vicine,
Sfidan con fieri ed orridi sembianti
I due garzoni; chè voglion por fine
Ai loro affanni, che son tanti e tanti,
Col toglier loro queste due regine:
E vennero con armi così fatte,
Che avrebber torri, anzi città disfatte.
Orlandino ridendo disse loro,
Che l'offerta battaglia ricevea;
E Nalduccio con grazia e con decoro
Disse a Corese sua, che già piangea:
Non disperarti, dolce mio tesoro;
Chè fortuna per noi non sarà rea;
E rivolto ai giganti similmente,
Disse ch'era di pugna impazïente.
I giganti in veder que' due ragazzi
Sottili di persone e senza barba,
Disser: Per Giove, costoro son pazzi.
Ma a queste donne che piace e che garba
In que' lor mostaccini da pupazzi?
Per Macon, che son pazze; e non si sbarba
La pazzìa da' lor capi per ragione,
Ma vuolvi sdegno, disprezzo e bastone.
[335]
Uccisi che avrem noi questi puttelli,
Vo' che noi le trattiamo come cagne,
O come son trattati i somarelli.
E piangan pure, e ciascuna si lagne,
E s'attristi e s'accori e s'arrovelli,
Chè tenderanno a' bufali le ragne.
Così l'un dice, e l'altro con la testa
Conferma il detto, e ne dimostra festa.
La notte che del giorno era foriera
Della battaglia, Corese ed Argea
Piangevan le meschine di maniera,
Ch'era cosa a vederle orrenda e rea:
Ed or facevan ambedue preghiera
Al Dio d'Amore ed alla santa Dea,
Che salvasser dagli orridi giganti
I lor sì belli e grazïosi amanti;
Ora le braccia ognuna al suo consorte
Gettava al collo: e per molto sermone
Che lor faccia Orlandino, e le conforte,
Regolar non si lascian da ragione:
E tutte addolorate e mezze morte
Passan la notte in somma afflizïone;
Ma quando il sole appare nella stanza,
Allor sì che non hanno più speranza.
Intanto s'ode il corno spaventoso
Che suonano i giganti in su la piazza.
Orlandino si veste furïoso,
E Rinalduccio grida: Ammazza, ammazza.
Le due donzelle col viso doglioso
Li seguono, e ciascuna è di duol pazza.
Stanno i giganti con due travi in mano
Lunghe e nodose, e d'un invito strano.
[336]
Onde Nalduccio, ch'era testa amena,
Vi salta sopra con la spada ignuda.
Il gigante lo scuote e lo dimena,
Ma staccar non lo puote, e invano suda.
Egli intanto s'accosta, ed a man piena
Con la sua spada, sì tagliente e cruda,
Gli percuote la trave e glie la incide.
Cade la trave in terra, e Naldin ride.
Poi lo colpisce in su la gamba manca,
E glie la mozza subito di netto.
Quella bestia, che prima era sì franca,
Rovescia a terra; ed ei gli passa il petto;
Onde al gigante la faccia s'imbianca:
E Corese ripiena di diletto
Si stringe al seno il vincitor che adora;
E poco va che di piacer non mora.
Ma non istà così l'alma d'Argea,
Che vede il fier gigante inferocito,
Perchè morto il compagno si vedea.
Orlandino però saggio ed ardito,
Mentre alza egli la trave acerba e rea,
Gli corre sotto subito e spedito,
E fatto un salto gli taglia la gola.
Ei perde il capo e perde la parola.
Or qui pensate voi se va in dolcezza
Il cuor d'Argea, che sè chiama felice,
Mentre ha un marito di tanta prodezza:
E lo stesso Corese di sè dice;
E fansi un baciucchiar ch'è una bellezza;
Ma tra marito e moglie il tutto lice;
Sebben non era matrimonio fermo;
Chè molte cose lo faceano infermo.
[337]
Nulladimeno un matrimonio egli era
All'uso di quell'isola pagana.
Ma questa vita dolce e lusinghiera
Ad Orlandino sembra molto vana.
Gloria lo punge a più nobil carriera:
Ed a Nalduccio pur, che ha mente sana,
Non piace nel più bello della vita
Far da stallon 'n un'isola romita.
E fra di loro, un dì ch'erano andati
A caccia, tennero un savio discorso
D'abbandonare i letti dilicati,
E gir pel mondo, e principiare un corso
Tutto di fatti nobili e pregiati.
Avevan solamente ambo rimorso
D'abbandonar quelle due giovinette
Tanto fide in amore e tanto schiette.
Onde risolvon di far lor palese
Quel c'hanno risoluto voler fare;
E o condurle di Francia nel paese,
Se insiem con loro vi vorranno andare;
Od in sembiante placido e cortese,
Se non vorran venir, lasciarle stare:
In somma fare quel ch'esse vorranno,
Purchè alla gloria lor non sia di danno.
Ed aperto il segreto alle donzelle,
D'andar con essi si mostraro pronte;
E preso molto argento e gioje belle,
Di fino acciajo si coprîr la fronte;
E quando il cielo sparso era di stelle,
Fatto abbassar del porto il nobil ponte,
Entraro in una nave ben guarnita,
Ch'era nomata la Guerriera ardita.
[338]
Questa creanza, quest'atto amoroso
Che han fatto alle lor donne i due garzoni,
A me che alquanto ho l'animo pietoso,
È piaciuto in estremo. Eroi scorzoni
Son quelli che dolente e lagrimoso
Rendon quel viso che li fe' prigioni;
E per mostrar che prezzano virtude,
Lascian su i lidi le donzelle ignude.
Intanto giunti eran di Carlo in corte
Astolfo ed Ulivieri; e a Carlo in mano
Dato il biglietto Astolfo, fece smorte
Carlo le guance a quel linguaggio strano:
Poscia infierito il nobil vecchio e forte
Disse: Me chiama ingrato ed inumano
E assai s'inganna; ch'io son giusto e pio,
Com'esser dee chi sta 'n luogo di Dio.
Chè se la sua virtù ci ha liberato
Dall'assedio crudele, abbiasi pure,
Quando che il voglia, mezzo questo Stato.
Ma se il suo figlio ed ei medesmo pure
Offende nostre leggi, il braccio armato
Della giustizia e la tagliente scure
Sfuggir non deve: e chi il contrario afferma,
Ben dimostra d'aver la mente inferma.
Ma perchè la giustizia esser dovrìa
Spesso temprata da misericordia,
E l'opra buona snerva assai la ria,
Per rïunirmi con questi in concordia,
Voglio che il bando rivocato sia;
E ripostasi in pace ogni discordia,
Tornino i figli coi lor padri in corte;
Ch'io vo' l'emenda lor, non la lor morte.
[339]
E ciò detto, spedir fece corrieri
Per ogni banda; ma il signor d'Anglante
Scorrendo per i liquidi sentieri
Del mar, trovossi ad un'isola avante
Ripiena tutta d'alber grandi e neri.
Questa isola detta è del Negromante:
E tristo chi discende a quella proda;
Chè tosto il mago con reti l'annoda;
Ciò che sapeva bene il marinaro:
Onde in alto condur volle il naviglio;
Il che parve ad Orlando troppo amaro,
E disse: Andare a terra io vi consiglio.
Assai, signor, ci costerebbe caro
(Gli rispose il nocchier con mesto ciglio);
Chè non giunge persona a quella riva,
Che per un giorno vi rimanga viva.
In quell'isola alberga un fiero mostro,
Stregone esimio e di forza tremenda,
Che a tutto impera il sotterraneo chiostro.
Greggia di tigri, spaventosa e orrenda,
Siccome noi d'agnelli all'aer nostro,
Guida ed alberga sotto nera tenda;
E serpi e draghi che vomitan tosco
Errano a sua difesa per il bosco.
Ha poi di vaghe e nobili donzelle
Ripiena un'alta ed afforzata torre.
A chi lo sprezza trae viva la pelle,
E delle tigri alla fame soccorre
Con quelle carni fresche e tenerelle:
Ond'è che spesso per lo mare scorre,
E di donne di Scozia e d'Inghilterra
Già più di mille in quella torre ei serra.
[340]
E quanti hanno voluto, o per amore
Che avevano a qualcuna prigioniera,
O pur per voglia di mostrar valore
Scendere armati su quella riviera,
Ci han lasciato con danno e con rossore
E vita e nome in una sola sera.
Però non ti stupir, s'io m'allontano
Da questo lido infame ed inumano.
Orlando disse: L'eterna giustizia
Non sempre dorme; e quando un men sel crede,
Allor punisce la nostra malizia.
In quell'isola io voglio or porre il piede.
Il nocchiero ripieno di tristizia,
Non far, grida, signor, prestami fede.
Ma giacchè lo conosce così fermo,
Monta, gli dice, sopra il palischermo.
Almeno fuggi la parte del bosco;
Chè all'aperto farai maggior difesa;
E poichè tanta in te virtù conosco,
Se vuoi por fine a così grande impresa,
Scendi sul lido all'aer bruno e fosco;
E quando tutta di porpora accesa
Appare in ciel l'Aurora, e tu t'accosta
Colà, dove vedrai la tenda posta.
Egli verratti incontro disarmato;
Ma avrà tra mano qualche abete o pino,
E cento tigri condurrassi allato,
Che nel vederle resterai meschino.
Se tutte tu le uccidi, o te beato!
Ma pur non fuggirai lo tuo destino;
Perchè verranno i draghi e l'altre bestie,
Che ti daranno l'ultime molestie.
[341]
Ma se queste tu vinci, oimè! ti resta
L'impresa più difficile e tremenda.
Quel negromante si pone una vesta
Cui spada esser non può che rompa o fenda;
Di maglia così dura ella è contesta.
Orlando ride, e dice: Vo' s'intenda
Urlar questa bestiaccia sì lontano,
Che l'oda il Franco e l'oda il lido Ispano.
E così detto, salta d'ardir pieno
Sul palischermo, ed al lido s'accosta;
E vôlto il viso inverso il ciel sereno,
Rammenta a Dio il sangue che a lui costa
L'uomo sanato dal mortal veleno;
E dice che sa ben come disposta
È sua pietade a chi glie la domanda;
E a quella, quanto sa, si raccomanda.
E mentre così prega, eccolo giunto
Alla crudele e spaventosa sabbia.
Io non ti sono amico, nè congiunto,
Orlando mio; e mi treman le labbia,
E il sangue mi si gela in questo punto,
Pensando a tanto strazio e a tanta rabbia
Cui tu ti esponi di quel traditore.
Ah! torna indietro, e frena il tuo valore.
Ma i' canto a' sordi, e mostro a' ciechi il Sole:
Eccolo sceso in su la trista arena.
Per verità ch'io perdo le parole;
Tanto di lui mi prendo affanno e pena;
E so che ancora a voi, donne, ciò duole,
E ritenete il largo pianto appena.
Ma non ci disperiamo così presto,
Ancorchè sia il periglio manifesto.
[342]
Sen fugge via con la testa tagliata
Per man d'Orlando il re degli stregoni:
E lo scolar con la pietra affatata
Scopre gli occulti ipocriti bricconi.
La gelosa Climene addolorata
Altrui dicendo va le sue ragioni.
Ancor Dorina a lei narra le trame
E l'opre inique della vecchia infame.
Ciascun si duol perchè deve morire;
E n'ha ragion; che il vivere diletta:
E quel dovere ad un tratto basire,
E star sepolto in una fossa stretta,
E presto presto tutto inverminire,
E in poca ritornar polvere schietta,
Ell'è mutazion sì dolorosa,
Che fa perdere il gusto ad ogni cosa.
Ma vi è di peggio, che dopo la morte
Bisogna render conto alla minuta
Al tribunal di Dio, che giusto e forte
Al fuoco eterno i malvagi deputa,
E chiama i buoni a sua celeste corte.
Ond'alma che quaggiù male è vissuta,
Esce di trista voglia; chè ha timore
Di giù piombar nel sempiterno ardore.
[343]
Io però volentier mi sottoscrivo
A questa legge: e quando non ci fosse,
Me ne dorrebbe; chè mi vedrei privo
D'un gran piacer: che le tombe e le fosse
(Quando accolgono in loro un uom cattivo,
Che per amici, o per oro, o per posse
Facea tremar qualunque era men forte)
Mi danno gusto che ci sia la Morte.
E così facess'ella il proprio offizio
Com'ella deve; e dèsse in capo a quelli
Che sono la sentina d'ogni vizio;
E non aprisse, che tardi, gli avelli
Agli uomini dabbene e di giudizio;
Ch'io le vorrei con marmi e con pennelli
E con inchiostro farle elogi tali,
Che uscirebbe dal numero de' mali.
Ma ell'è una secca stravagante e pazza,
Che va menando la sua falce in giro:
Onde senza saperlo i buoni ammazza;
E color che di sangue e pianto empiro,
E di lussuria ogni albergo, ogni piazza,
Lascia invecchiare: ond'io ne vo deliro,
E attaccherei per rabbia e impazïenza
Un pocolin la santa Provvidenza,
Se non vedessi in quale uso gli adopre,
Mostrandoci ad ogn'or ch'ella li serba
In vita, e spesso da morte li copre,
Perchè a pena più cruda li riserba:
E con le infami loro ed indegne opre,
E con la naturaccia lor superba
Raffinan degli eletti il santo coro,
Come per fuoco si raffina l'oro.
[344]
Nè sempre è vero ancor, che lor capelli
Veggan canuti gli uomini tiranni;
Ch'io n'ho veduti molti ne' più belli
Morire, e ne' più freschi e più verd'anni:
Perchè costoro son come i flagelli
Che il padre adopra de' figliuoli a' danni;
Che corretti che sono, egli li frange
Avanti agli occhi del fìgliuol che piange.
A questo fine ei diede il memorando
Valore e il cuor magnanimo e feroce
Sopra ciascuno al valoroso Orlando,
Di cui non morirà giammai la voce,
Nè del fatale suo terribil brando,
Dall'onda Caspia alla Tirintia foce;
Perchè gl'iniqui togliesse di vita
In loro età più ferma e più fiorita.
E se al mondo fu mai sopra ogni esempio
Un uomo scellerato, un uomo infame,
Fu senza dubbio quel negromante empio,
Che chiuso aveva il fiore delle dame
In una torre, e di lor feane scempio,
Gettando delle oneste il bel carname
Alle tigri, e sfogando brutalmente
Con le men caste la sua brama ardente.
Ma l'ora è giunta che fia posto fine
Alla tua crudeltà, mostro nefando.
Come io vi dissi, nell'onde marine
Già il biondo Sol s'era tuffato, quando
Pose il piè su le spiagge empie e ferine
Dell'isola ch'io dissi, il conte Orlando;
E si moveva a passo grave e lento,
Sempre con l'occhio e con l'orecchio attento.
[345]
Ma la notte si fece oscura tanto,
Che pensò di fermarsi in su la spiaggia;
Quand'ei s'accorse che lontano alquanto
Per angusto forame un lume raggia:
Onde in quel verso egli si muove; e intanto
Ch'egli guardingo e tacito viaggia,
Vede una face, e vede la gran torre,
E lo stregon che in lei vassi a riporre.
Egli spedito allor corre, e si porta
Alla torre medesima, e si pone
Dal destro canto della stretta porta,
E qui sta fermo con intenzione
Di far la lunga bestia a un tratto corta,
Quando esca fuor del chiuso suo grottone:
E mentre ei sta così, sente di drento
Un doloroso femminil lamento.
Crudele (udiva dir da una donzella).
Strazia pur queste membra, e fammi in brani;
Ch'opra non farò mai sì brutta e fella:
E tutta pria mi mangeranno i cani,
E mi trarranno i corvi le cervella,
Ch'io mai secondi i desir tuoi villani.
E il negromante le dicea: Tra poco
Su la tua pelle io drò principio al gioco.
E quindi un grido, un misero lamento
S'udìan dell'altre sventurate donne.
Orlando pieno allora d'ardimento.
Quale Sanson le filistee colonne,
Scosse l'uscio, l'aperse, e v'entrò drento;
E vide in mezzo a femminili gonne
Lui, che nudata aveva una donzella,
Di cui certo non fu mai la più bella;
[346]
E distesala sopra un rozzo banco,
Le voleva la pelle trar di dosso;
Quando sopra lui viene il baron Franco,
E gli si serra in un attimo addosso.
S'intimorì quell'empio, e fessi bianco;
Ma dal timor non s'era alcun riscosso,
Quando il buon conte con molta tempesta
Gli tira un colpo, e gli taglia la testa.
E o nova, o fiera, o strana maraviglia!
Non cade il tronco busto, anzi si china,
E la recisa testa in mano piglia,
E le scale discende, e s'incammina
Verso la porta. Stupide le ciglia
Orlando tiene, e dietro lui cammina.
Così fuor della torre al verde piano
Esce quel mostro con sua testa in mano:
Indi si ferma, e dalle labbia fuora
Il mozzo capo un sibilo tramanda;
E si veggon venire in men d'un'ora
E serpi e tigri e mostri d'ogni banda.
Il tronco busto scaglia in alto allora
La testa, e forse un miglio in su la manda:
Quindi egli cade; e le tigri e i serpenti
Gli van sopra, e lo laceran co' denti.
Intanto torna giù l'orribil testa;
E quasi fosse un giuoco di pallone,
Come in Siena talor fassi per festa,
Per l'aere vano la fanno ir girone:
Poi nojati del giuoco ognun s'arresta
De' fieri mostri. Orlando non s'oppone
A quelle bestie, e riguarda con ozio
Come abbia a terminare quel negozio.
[347]
Quand'ecco d'improvviso che si rompe
La terra, ed esce fuora un fumo nero
Misto a gran fiamma che l'aer corrompe.
Indi Pluton, che men dell'uso è altero,
Senza l'usate sue deformi pompe
Quasi lieto s'accosta al cavaliero,
E gli dice: Signor, grazie infinite
Ti dà dell'opra il Regnator di Dite.
Tu col dar morte al brutto negromante,
Tornato m'hai al mio supremo soglio;
Perchè costui avea virtù bastante,
Che non valeva il mio dirgli: Non voglio.
Me stesso ei si facea venir davante;
E pien di tirannìa, pieno d'orgoglio,
Or mi cangiava in pianta ed ora in sasso,
Ora in cane, ora in volpe ed ora in tasso.
E senza spirti quasi era rimasto:
Perchè questa isoletta, come vedi,
Tutta colmò quell'animal da basto
Di spiritelli; onde da capo a piedi
Tutta quanta è di diavoli un impasto:
E queste stesse ch'esser tu ti credi
Tigri, son diavoletti; e i pini e gli orni
Sono pur tutti demonj coi corni.
La torre ancora di demonj è fatta:
E quanti sassi son, quanti mattoni,
Tutti son spirti della stessa schiatta;
I gangheri e le porte son demoni,
Demonj i topi e demonia la gatta,
Demonj i palchi, i tetti e i cornicioni,
Demonj i chiodi, demonj il solajo;
Or vedi se n'aveva più d'un paio.
[348]
E intanto possedea questa divina
Virtude, a cui per forza era io soggetto,
In quanto la mia dolce Proserpina,
Venuta un giorno al mondo per diletto,
In quest'isola scese alla marina;
E slacciatasi un poco il bianco petto
Per prender aria, le cadde dal seno
Un mio biglietto scritto in pergameno;
In cui io m'obbligava strettamente,
E più che in forma cameræ i Romani,
D'ubbidire alla cieca, immantinente
A' suoi comandi; e fossero pur strani:
E sì il cervel m'avea tratto di mente
Amor, ch'anco i demon fa sciocchi e insani,
Che qualor nominasse ella il mio nome,
Tosto farei per lei e rome e tome.
Or non s'accorse la mia bella moglie
D'aver perduto quel mirando scritto:
E mentre erra pel lido, e che raccoglie
Chiocciole e nicchj, da un porto d'Egitto
Questo stregon le vele sue discioglie,
E con la prora appunto dà diritto
In quel luogo ove il breve caduto era
Alla mia troppo semplice mogliera:
E perchè sapeva egli molto bene
Le nostre cose, ne fu sì contento,
Che saltò per piacer su quelle arene.
Poi mi comanda che il porti qual vento
Colà, dov'era il mio unico bene
(Ch'il breve avea il suo nome, e fuora e drento);
E vistol, se n'accese, e in mia presenza
Tentò l'infame farle vïolenza.
[349]
E perchè non voleva per niun patto
La giovin compiacerlo, egli in vigore
Di quel mio troppo misero contratto
M'astrinse a fargli agevole il favore;
Ond'ei rimase appieno soddisfatto,
E in me doppiossi l'affanno e il rossore:
Chè, benchè nell'inferno io peni assai,
Come quel dì non fui misero mai.
Ed allor fu, signor, la volta prima
Che m'apparver le corna in su la testa,
Le quai subito rasi con la lima,
Perchè l'opra non fosse manifesta.
Ma il mondo egli n'empì da fondo in cima;
Onde pensa se ognun ne fece festa;
E quindi fui, di corna il capo cinto,
Sculto ne' marmi ed in tele dipinto.
Quindi egli sempre più resosi certo
Della virtù che il breve nascondea,
Ad ogni infamia il varco s'ebbe aperto,
E nessuno resistergli potea;
Chè altrimenti da lui era diserto,
Nè nuova più di lui se ne sapea,
Onde grazie ti rendo, o baron forte,
C'hai data or a costui condegna morte.
Nè ti maravigliar, se tu l'hai visto
Andare in giro con la testa in mano;
Perchè un folletto il più malvagio e tristo
Gli misi addosso; ed in modo sì strano
S'era con esso avviticchiato e misto,
Che non l'avrìa scacciato alcun Piovano.
Or morto lui, rimase quel folletto.
Che dell'anima in lui facea l'effetto.
[350]
Ciò detto, trema il suolo, il ciel s'oscura,
S'apre la terra, e le tigri e Plutone
Vi cadon dentro, e ogni altra bestia impura.
Fuggon le piante, e dispare il torrione,
E l'isola riman senza verdura:
Le donzelle che stavano in prigione,
Si trovano disciolte e liberate;
Di che altamente son maravigliate.
Quei della nave, al comparir del sole,
Veggendo il lido d'alberi spogliato,
Persero i sensi e perser le parole;
Tanto restò ciascun di ciò ammirato.
Ogni donzella intanto adora e cole
Con laudi ed inni il cavalier pregiato;
Ed ei fa cenno con un bianco lino
Al legno che si faccia a lui vicino.
Viene il naviglio colmo di piacere,
E d'udir vago il fin di tanta impresa:
E sceso il duce con ciascun nocchiere,
Ebbero appena la grand'opra intesa,
Che commendato il forte cavaliere,
Mostrò ciascuno la sua voglia accesa
D'andare in Inghilterra, e là far chiaro
Un fatto così bello, inclito e raro.
Ed Orlando restò con le donzelle,
Le quai rivolte umilemente a Dio
Giurâr di conservarsi verginelle
In chiuso loco, onesto, santo e pio.
Le loda il conte infino all'alte stelle,
E dice lor: Sarebbe il parer mio
Che vi chiudeste in questa isola stessa;
Ed io vi troverò breviarj e messa:
[351]
E scelse il luogo presso alla marina,
E disegnovvi un orto grande grande,
Dove fossero erbette e insalatina,
E varj fiori da intrecciar ghirlande:
E perchè sien sicure da rapina,
Vuol che il convento da tutte le bande
Con torri, con fortezze e baluardi
Da gente armata sempre si riguardi.
Ed ecco intanto che biancheggia il mare
Per le gran vele che vi corron sopra;
E d'Irlanda e di Scozia e d'Anglia appare
La flotta, che il mar sembra che ricopra.
Sul viso delle vergini compare
Tanto piacer, che le manda sossopra;
E batton palma a palma, ed alla riva
Corron veloci, e gridan tutte: Evviva.
Chi il padre abbraccia, chi il dolce fratello;
Chi discorre del mago e chi del conte:
Chi narra il colpo fortunato e bello,
Che privò il mostro dell'altera fronte:
Chi dell'amica l'orrido macello;
Chi descrive le tigri al mal sì pronte;
Chi le serpi, chi i draghi e chi gli affanni
Che soffersero in carcere molti anni.
Poi rïavute da tanta allegrezza,
Scoprono ai lor parenti il buon desire
Che han di sacrare a volontaria asprezza
La vita loro, e di voler servire
Al sommo Dio in verginal mondezza.
Questo parlar li fece impietosire,
E piansero un tal poco; ma alla fine
Disser ch'eran di sè donne e regine,
[352]
E ciò facesser che a grado lor era:
E chiamati ferraj e legnajuoli
E muratori, e tutta quella schiera
D'uomini che non possono oprar soli,
Dieron principio ad una mole altera,
Che uguale non fu vista fra i due poli;
Chè lungo trenta miglia, e largo venti
Fu quel convento, gloria de' conventi.
Fui da tremila e più le monacelle:
Vestivan lana bianca e lana negra;
Nè lino più toccava lor la pelle.
Giovani tutte, e con la faccia allegra,
Vaghe, gentili, grazïose e belle,
Che in sol vederle il cuore si rallegra.
La più vecchia fra lor fecer prïora,
Che a diciotto anni non giungeva ancora.
Questo convento fammi uscir di via,
E tralasciar la storia incominciata;
E fammi ritornar a casa mia,
Dove ho di nipotine una brigata,
Che mettono al pan bianco carestìa:
E mi ritrovo una certa cognata
Che ogni anno ne fa una: onde, se dura,
Vo' là mandarle a tentar lor ventura.
Perchè in Pistoja noi stiamo a quattrini,
Siccome San Cristofano a calzoni.
Ma il mal è, che sebben siam poverini,
Vogliamo fare da ricchi Epuloni:
Vogliam giuocare, vogliamo festini,
Vogliamo vesti belle e buon bocconi;
E spesso spesso facciamo in un mese
Anticipate d'un anno le spese.
[353]
Il maladetto lusso da per tutto
Entrato è sì, che un angolo non resta
Del mondo, il più meschino ed il più brutto.
Che messo non si sia in gala e in festa:
Onde ciascuno ne riman distrutto;
E chi ha da dare, si gratta la testa;
Ma per contrario quegli che ha da avere,
Si può a sua posta grattar il messere.
Ma nelle gran città quest'atra peste
Fa maggior male e più rovina assai.
Lo stato d'una casa una sol veste
Costa talor, chè son banditi i sai:
E tra nastri, tra maniche e tra creste
Si van spendendo piastre e doppie a stai,
E tra svimeri, sterzi, stufe e cocchi
I poveri mariti spendon gli occhi.
Le stalle piene e gli argenti infiniti
Non per la mensa sol, ma per lo cesso,
E per gli sputi marci e inverminiti
Chi può narrare? E raccontare appresso
Le perle ed i diamanti, onde guarniti
I membri sono del femmineo sesso?
Ah sciocchi noi, ed esse pazzarelle,
Che godono esser più ricche, che belle!
Ma ritorniamo all'isola del mago;
Chè mia mogliera non darammi spesa;
E s'io sarò di spender punto vago,
Non ho timor di ritirarmi in chiesa,
Ed isfogar con qualche sacra immago
Quell'apra doglia che m'aggrava e pesa.
Con una chierca mi sono aggiustato,
Tanto c'ho in tasca la Fortuna e il Fato.
[354]
Fatto il convento, e cinto intorno intorno
Di forti rocche e d'afforzate mura,
Stiè con loro alle grate più d'un giorno
Il conte Orlando contro sua natura;
Chè monache non mai volle d'attorno:
E rammentando loro la clausura,
La castitade e l'uffizio divino,
Su la sua nave riprese il cammino.
Ma tempo è omai che torniamo a Climene,
Che non veduta col padre favella;
Ed a Guidone che pur mille scene
Or fa con questa dama, ora con quella.
Ad una batte bel bello le schiene,
Ad una il mento, ad una una pianella;
Ma questo giuoco a lungo andar non piace
A Climene, e perturbale la pace;
Perchè tra l'altre dame della corte
Una ve n'era bella a maraviglia:
Onde Climene, ingelosita forte,
Se la tocca lo sposo, si scapiglia,
E le viene il sudore della morte.
E appunto appunto con questa si piglia
Il suo busto Guidone; ma non crede
D'offender punto la giurata fede.
Lidia si nominava la donzella:
Vaga era tutta, ma sopra ogni cosa
Avea la bocca sorridente e bella.
La man Guidone sopra quella posa,
E lieve con un dito la flagella;
Per che Climene venne sì sdegnosa,
Che, senza altro pensar, dal balcon fuore
Trasse la pietra di tanto valore;
[355]
La qual diè in capo a un povero studente,
Che dal terreno la raccolse appena,
Che agli occhi di ciascun sparve repente.
Di cercatori la piazza è ripiena,
Per ritrovar la pietra sì valente:
Ma se non voglion ire a pranzo e a cena,
Prima che non la trovino, staranno
Tanto senza mangiar, che si morranno.
Senza la pietra di sì raro effetto
Climene a ciaschedun visibil fue,
E con essa Despina e Ricciardetto:
E sorte fu ch'era già rotta in due;
Onde a Despina restonne un pezzetto
Per gran conforto alle bisogne sue.
La loro apparizion tanto improvvisa
Empì la corte di piaceri e risa.
E Lidia nel vedere il giovin bello,
Che invisibil le fe' burle cotante,
Arder di dentro si sentì bel bello
Di quel leggiadro angelico sembiante.
E Guidone, che pure era un monello,
La riguardava con occhio d'amante;
Di che Climene accorta si tapina,
E verso le sue stanze s'incammina,
E da guerrier 'n un attimo si veste;
E scritto di sua mano un lungo foglio,
A Guidone lo manda: e v'eran queste
Note di sdegno e note di cordoglio:
Crudel, ti lascio, e per erme foreste
Misera errare infino a morte io voglio;
Giacchè per altra omai ti veggo acceso,
Ed io ti son forse d'affanno e peso.
[356]
E datolo a una sua fedele ancella,
Partissi, e ancor non so per qual sentiero.
Guidone, udita sì strana novella,
Perchè l'amava molto e daddovero,
Piange, sospira, e sè infelice appella;
E la corte par fatta un cimitero;
Tanto silenzio e cotanta tristizia
Si scorge in essa, ed orrida mestizia.
Despina e Ricciardetto fanno core
Allo smarrito giovine dolente;
E tutti e tre si trovan d'un umore
Di ricercar la donzella piangente,
E così terminare il suo dolore,
Ch'ebbe alla fine origin da nïente;
Ma l'aspra gelosìa leva il cervello,
E un bruscol fa parere un travicello.
Il Soldano l'approva; e detto fatto,
Partono d'Alessandria quella notte.
Ma intanto d'allegrezza quasi matto
Lo scolare che avea le scarpe rotte,
Trovato avendo a così buon baratto
La sua fortuna, l'adunanze dotte
Tralascia, e sempre con quel sasso in mano
Il tutto tenta, e nulla tenta in vano.
Amò un tempo costui, per sua disgrazia,
Una moglie d'un certo sacerdote,
Di quei che il tempio d'Iside ognor sazia.
Era di fresche e ripienette gote,
E colma di beltà, colma di grazia;
Ma fredda più dell'Orsa di Boote
Sempre mai dimostrossi allo scolare;
Onde convenne a lui lasciarla stare;
[357]
E la credeva un'onesta Sibilla,
Sì spesso la vedeva entrar nel tempio.
Un ago solo, un capo sol di spilla
Che prendesse ella mai non v'era esempio:
E dir solea che nè per terra o villa,
Nè per regno averìa mai fatto scempio
Dell'onor suo, che solo ella pregiava
In questa vita, e null'altro curava.
Ora in casa costei di primo salto
Va lo studente all'aria bruna e denza,
E trova com'ell'abitava in alto:
Chiusa è la stanza; ed ei senza licenza
V'entra, e la vede in amoroso assalto
Con un uom che al Soldan fa la dispenza.
Partito quei, si ferma lo scolare,
Ed ecco in breve un altro che compare.
Era questi lo sguattero del cuoco,
Ma del cuoco di corte; e mezzo bue
Portolle in don dell'amoroso giuoco.
Ma che più ciarlo? Infino a ventidue
Un dopo l'altro vennero a quel loco,
E portava ciascun chi men, chi piùe.
Ma quel che fece rider lo studente
(E n'aveva ragione certamente)
Fu, che stavan famigli e damigelle
Alle finestre, alle porte, alle scale
A far da vigilanti sentinelle,
Ed avvisare in tempo, quando sale
Il prete, che le avrìa tratta la pelle
(Ve' s'eran tristi e sguazzavan a sale!)
Se avesse avuto il menomo sospetto
Che macchiar gli potesse il santo letto.
[358]
Onde gli amanti sciocchi e sempliciotti
Si credevan ber latte di gallina,
E mangiare fagiani e perniciotti;
Ma, come dir si suol, beveano orina,
E trangugiavan bocconi mal cotti
D'una carnaccia d'antica vaccina:
Perchè una donna, quando ella comincia
A vender carne, per tutti ne trincia.
Pure egli venne, e postosi a dormire,
Udì che 'l prete sghignazzando forte,
Alla mogliera sua sì prese a dire:
A quante bestie della nostra corte
Hai tu levato l'altura e l'ardire?
Ed ella: Dato ho lor la mala sorte,
E fatigati io gli ho di tal maniera,
Che non tutti verran domani a sera.
Gnaffe! (le disse il prete) tu se' lesta;
Ma fammi un poco il novero dei doni.
Il paggio del Soldan diemmi una cresta,
Lo spenditore pollastri e piccioni,
Il fornajo di pane una gran cesta,
E il cantinier di vini scelti e buoni
Due barilozzi, e di casa il maestro
Un bel vestito dentro d'un canestro.
Gli altri poi tutti mi dieder danaro:
Ma mi vien sonno, e sono molto stracca.
Dormi (rispose il buon prete cornaro),
Che per Giove tu se' una buona vacca;
E me felice, se n'avessi un paro.
E sì dicendo, al sonno anch'ei s'attacca.
Lo scolar si strabilia, e appena crede
A quello ch'egli ascolta, a quel che vede.
[359]
Indi si parte, ed entra in un gran chiuso
Che i penitenti d'Iside racchiude.
Questi han per disciplina, hanno per uso
D'andare a piedi, e con le piante ignude:
Tengon la fronte, e tengon gli occhi in giuso;
Mangian pan secco ed erbe amare e crude,
E veston setoluto orrido sacco,
Inimici di Venere e di Bacco.
Fuggon le donne, qual dai falchi fugge
La starna intimorita e la colomba,
E come vacca da leon che rugge.
Ove son feste, ove allegrezza romba,
Niuno appare di loro. Il popol sugge
Da' labbri lor, che degli Dei son tromba,
Mel di precetti, ed impara da loro
A seguir povertade e sprezzar l'oro.
A questi corre il credulo Soldano,
Qualora il Nilo si racchiude e serra
Nelle sue ripe, e non inonda il piano:
A questi il villanello, a cui fa guerra
Verme crudel che gli divora il grano:
E balza appena dalla nave in terra
Il nocchier che sofferse aspra tempesta,
Che a questa gente egli ricorre, a questa;
E parte appende delle rotte vele
Intorno intorno alle sacrate mura;
E dipinge in un quadro il mar crudele,
E sè co' suoi ricolmo di paura;
E pinge in aria il soccorso fedele
E questa gente penitente e pura,
Che mentre s'apre il legno, a tempo giunge,
E placa il mare, e il fesso ricongiunge.
[360]
In somma quel che i santi fraticelli
In grembo fanno della vera Fede,
Vuole il demonio ancor che faccian quelli,
E mostrino di fare a chi lor crede.
Ora tra questi santi romitelli
Lo studente non visto pone il piede;
E vede cose tanto infami e sporche,
Che pare un chiuso di verri e di porche.
Delle lussurie non vo' dirvi nulla:
Tanto son scellerate e infami tanto.
Che fin l'abate vuol far da fanciulla,
E sempre dorme col novizio accanto.
Un altro con la ciuca si trastulla,
L'altro col mulo che porta il pan santo,
Cui fan limosinando i cercatori,
Tozzolando alle porte de' signori.
E chi imbrïaco in suo vomito involto
Giace nel tempio, e russa come un porco;
E chi nel giuoco s'affatica molto,
E nello stesso è barattiero sporco;
E chi men empio con donnesco volto
Stassi in suo letto rannicchiato e corco:
E questi forse egli è il miglior campione
Ch'abbia tra' suoi beati il rio Macone.
Altri crepa d'invidia, altri di sdegno;
Tutti uccide la pazza ambizïone.
In somma egli era un conventaccio indegno,
Di vizj pien, non di religïone;
E in Alessandria non v'era un ingegno
Che avesse pur tanta distinzïone
Da conoscer un po' quella canaglia,
Che sembrava oro, ed era strame e paglia;
[361]
Pagliaccia e strame che arderà in eterno
Nel foco acceso per l'ipocrisìa,
Ch'ella è un inferno dello stesso inferno;
Perchè al mondo non c'è peste più ria
Di quei che sembran angeli all'esterno,
Ed hanno dentro una tigre, un'arpìa,
Un demonio per anima; e non visti
Son fuor di modo scellerati e tristi.
E di costoro abbonda il secol nostro,
E Italia nostra più che Egitto assai;
C'hanno il core più nero dell'inchiostro,
E non credono in Dio, nè credêr mai;
E vaghi solo d'ammantarsi d'ostro,
O d'altri ricchi e venerandi sai,
Si fingono Macarj e Ilarïoni,
E son Decj, Caligoli e Neroni.
Lascia costoro, e in corte se ne passa,
E lì ci trova cotanta nequizia,
Che di là dal credibile trapassa.
Ne' ministri è ignoranza ed avarizia;
Misera geme, e chiusa in una cassa
La Fede, l'Innocenza e la Giustizia:
Il Merto rode gli ossi come i cani,
E sguazzano gli adulteri e i ruffiani.
Esce di corte, e dovunque s'aggira,
Vede ogni cosa piena di lordure;
Onde uscir di cittade egli sospira,
E trovar terre più innocenti e pure.
Così pel nuovo Sol mentre respira
E l'aura e il cielo e i colli e le pianure,
Esce non osservato fuor di porta
Della città che in ogni vizio è assorta.
[362]
Climene intanto sospirando è giunta
A una spelonca, dove una donzella
Vede di fame e di dolor consunta,
Che aveva un figliuolino alla mammella,
Che la succhiava; ma di latte smunta
Era pur troppo ed avvizzita quella;
Ond'ella mira con pietoso ciglio
Presso al morir la madre in un col figlio.
E dolce la saluta e la consola
Meglio che puote; ed a sperar la invita
Sorte miglior, bench'ella così sola
Dar non le possa salute compita.
Quella infelice senza far parola
Lei guarda, come attonita e smarrita;
Indi le dice: O tu, che a me ne vieni,
Angel forse di Dio dai ciel sereni;
Se vuoi veder la mia bramata morte
(Che se di cuor la bramo, i Dei lo sanno),
Giungesti a tempo; chè omai su le porte
Stassi l'anima mia, e senza affanno
Già rotte ha quasi tutte sue ritorte
Che la tennero in me per ventun anno;
E aspetta sol che il dolce mio figliuolo
Sciolga prima del mio il suo bel volo.
Climene, Ah non voler, bella fanciulla,
Morir sì presto, piangendo le dice.
Ed ella: Il viver non m'importa or nulla;
M'importò quando fui lieta e felice.
Or che di me Fortuna si trastulla,
E si rallegra in vedermi infelice,
Odio la vita, e non posso gioire
Se non pensando al mio vicin morire.
[363]
E perchè rimembrare il ben perduto
Fa più meschino lo stato presente,
E l'animo al morir più risoluto,
Io ti dirò la storia mia dolente,
E il caso acerbo e forse non creduto,
Che mi avvenne per una fraudolente
Che mi tolse il marito, e fu cagione
Che or muojo sola in questa regïone.
In Spagna io nacqui, ed i parenti miei
Fur di sangue real, se non fur regi.
Piccola ancora i genitor perdei;
Ma due saggi tutori, onesti, egregi
Ebbi in lor luogo; e già sei anni e sei
Avea compiuto; e di beltà nei pregi
(Ancorchè a dirlo a me bene non stia)
Cedeva ognuna alla bellezza mia.
Il sire d'Aragona aveva un figlio
Detto Leon, che per fama s'accese
Di mia persona, e con savio consiglio
Cacciando un giorno a casa mia discese.
Avanti a lui vo con modesto ciglio;
E il mio tutore non riguarda a spese
Per alloggiare un ospite sì grande,
E fa un banchetto di scelte vivande.
Il giovine mi guarda e mi riguarda,
E si scordò di bere e di mangiare;
Poi perchè l'ora si faceva tarda,
Volle al proprio palazzo ritornare.
Ma piagato l'avea con sì gagliarda
Saetta Amor, che lo fece infermare,
E giunse in pochi giorni in tale stato,
Che i medici lo fecer disperato.
[364]
Il re dolente e mesta la regina
Non lasciano di far ampie promesse
A chi lo sanerà per medicina,
O per altra maniera che sapesse:
Quando egli, sospirando una mattina,
Da sè medesmo il suo bisogno espresse;
E disse al caro padre a solo a solo,
Che l'uccideva l'amoroso duolo:
E che sarebbe morto senza fallo,
S'ei non aveva me Dorina in moglie.
Onde il re stesso montato a cavallo
Corse ben presto alle mie patrie soglie,
Che appena appena avea cantato il gallo;
E a' miei tutori racconta le voglie
Del principe che m'ama, anzi m'adora;
E come egli di già m'accetta in nuora.
Entro il giorno seguente in Saragozza,
E il popol tutto si rallegra e gode;
E v'è chi pel piacere ancor singhiozza.
Là suon di cetre, e qua di flauti s'ode;
E per le strade s'aduna e s'accozza
Gente infinita, e mi dà molta lode,
Mentre ch'io passo; e con pallida faccia
Lo sposo mio al suo balcon s'affaccia.
In pochi giorni si rimise affatto
Il principe in salute, e pien di gioja
Senz'altro indugio vuol sposarmi a un tratto.
Giorno felice, onde convien ch'io muoja,
Come diverso mai or ti se' fatto
Da quel d'allora! Una superba gioja
Legata in un anello egli mi diede,
In testimonio d'amore e di fede.
[365]
Otto anni stemmo dolcemente insieme,
Nè fu mai fra di noi mezza parola.
Me suo piacer chiamava, io lui mia speme:
Nè Sol, nè Luna mai mi vide sola,
Ma sempre seco. Ah perchè l'ore estreme
Non mi colsero allor? perchè sua spola,
Ove avvolto era il filo di mia vita,
Morte allor non troncò presta e spedita?
Ch'io sarei certo un fortunato spirto
Nel bel regno d'Amore; e fra gli Elisi
Coronata anderei di rose e mirto;
Ch'or di neri cipressi e fioralisi
Ghirlanda avrò su l'arruffato ed irto
Capel, perchè di man propria m'uccisi;
E anderò con Didone e l'altre a paro,
Che per tradita fede s'ammazzaro.
Or mentre in così lieto e dolce stato
È l'amor nostro, di Granata arriva
Un cavaliere nobile e pregiato,
Di bello aspetto e di faccia giuliva.
Si conduceva una sorella a lato
Bella così, che pareva una Diva.
Accolgo l'uno e l'altra volentieri,
E fo lor, quanto so, grazie e piaceri.
Fernando quegli, Emilia essa si appella,
Di sangue illustre, e noto a tutta Spagna:
Leggiadro l'un, l'altra modesta e bella.
Ma come il tarlo che il legno magagna,
Che regge il palco e la casa puntella,
Onde conviene che alla fin s'infragna,
E rotto poi, rovina in un momento
Tutta la casa, e quanti vi son drento;
[366]
Così la gelosìa, verme d'Amore,
Entrò nel mio e nel cuor di Leone.
A me mordeva per Emilia il core,
Ed a Leone per lo bel garzone.
Se Emilia egli guardava, aspro dolore
I sensi m'occupava e la ragione;
Ed ei s'impallidiva e si struggea,
Se a Fernando talor gli occhi io volgea.
Or egli me, ed io dannando lui
Di poco amore e di tradita fede,
Nacque in breve tant'ira infra di nui,
Che un dì Leon di Saragozza il piede
Fuora ne trae con pochi de' sui;
E ch'io seco non vada mi richiede,
Anzi ancor mi comanda. Io resto, e intanto
Fo sì che egli abbia mille spie d'accanto:
E riferto mi vien ch'ei stassi in villa,
E che seco è Fernando con la suora.
Allor la gelosìa in me non stilla
Veleno a gocce, qual fe' sino allora;
Ma come il tino là di ottobre spilla
Il villano, e di vino apre una gora,
Così m'inonda la tiranna il petto
Del suo tossico acerbo e maledetto.
E giunse a tale il mio crudele affanno,
Che vedutomi tolto il mio consorte,
Quel volli far, che i disperati fanno:
Cioè tutto tentar, poi darmi morte,
Se a vuoto affatto i tentativi vanno.
Così una donna vecchia assai di corte
Da me si chiama; e venuta, si prega
Che alcun mi trovi o fattucchiere o strega.
[367]
Questa al principio ed increspa le ciglia,
E i labbri aguzza, e rannicchia le spalle,
Ed alza ambe le man per maraviglia:
E vuol mostrar quanto m'inganni e falle
A prender lei di quella rea famiglia;
Che imperar puote alla Tartarea valle:
Nè vidi io mai (dice con bassa voce)
Di Benevento la terribil noce.
Ma tanto io le so dir, la prego tanto,
Che mi dice d'aver certa sua amica
Che sa far mirabilia per incanto,
E discendere fa senza fatica
Per la sola potenza del suo canto
Dal ciel la Luna, e il corso al Sole implica:
Fa d'inverno fiorire i praticelli,
E d'agosto gelar fonti e ruscelli:
E che questa verranne a mezza notte.
Indi si parte, ed all'ora prefissa
Viene, e mi guida a certe antiche e rotte
Case, u' sepolta dice esser Melissa,
Tanto stimata dalle maghe dotte:
E, fatto un cerchio, in mezzo a quello fissa
Un piede scalzo, e disciolta i capelli,
Gira con l'altro, e chiama i farfarelli.
E perchè da timor presa io non sia,
Vuol che mi scosti; indi in meno d'un'ora
Ritorna e dice: Alta signora mia,
Fatto è l'incanto; e voi di dolor fuora
Presto sarete, e fuor di gelosìa,
Come Plutone m'ha promesso or ora;
Ma vuolci pur, che dalla parte vostra
Facciate quello che l'arte mi mostra.
[368]
La guardo in viso, e veggo ch'ella è dessa
La vecchia che negommi il suo mestiero.
Sorrido, e dico che mi faccia espressa
La sua sentenza; chè ubbidirla io chero.
Ed ella dice: Di tua mano stessa
Devi trar sangue, e porlo in un bicchiero,
Dalla parte del cuor di tuo marito;
Se non, l'incanto non fia mai finito.
E darotti una polvere sì fatta,
Che quando il tuo Leon l'averà presa,
Resterà con la mente stupefatta,
E porrassi a dormire alla distesa.
Questa picciola spada allor tu tratta
Di sotto alla tua gonna, lieve offesa
Gli farai nella parte che t'ho detto:
Poi seguiranne il desïato effetto.
E la polve mi dona, e il ferro ancora.
Io torno alle mie stanze, ella alle sue,
Che appunto in cielo spuntava l'aurora.
Ma colei (come poi detto mi fue)
Di Fernando fu balia e della suora;
E tanto amore aveva a questi due,
Che si credette con la mia rovina
Far d'Aragona Emilia sua regina;
E andonne al mio Leone a dirittura,
E le disse all'orecchio (ahi malandrina!)
Signor, la morte tua cerca e procura
Per ogni via la tua moglie Dorina,
Che in Fernando posto ha sua mente e cura.
Da te verranne forse domattina;
Faratti festa, e mostreratti affetto,
E comune vorrà la mensa e il letto.
[369]
Ti darà certa polve, e tu la piglia;
Chè non è cosa che offender ti possa.
Presa che tu l'avrai, chiudi le ciglia,
E vanne a letto, e mostra nella grossa
Di dormir dolcemente a maraviglia.
Allora ella di sen con somma possa
Trarrà un coltello per farti morire.
Tu t'alza a tempo, e mostra senno e ardire.
Ordito questo infame tradimento,
Parte la vecchia; e il credulo mio sposo,
Perduto il naturale avvedimento,
Di quanto ha udito non istà dubbioso,
Ma il crede certo, e ne aspetta l'evento.
Io, che fra tanto il cor mi sento roso
Da gelosìa, mi pare un'ora mille
Che il sangue pel rimedio egli distille:
E vollo a ritrovar la stessa sera,
E lo mando a pregar che mi perdoni,
Se manco in parte a quello ch'ei m'impera:
Che più dei regi e di tutti i padroni
Amore è forte; e chi è di sua schiera,
Non può non ubbidire a' suoi sermoni.
Però, s'egli mi nega che a lui vada
Per ricercarlo, Amor mi spinge e istrada.
Finge d'esser placato, e tutte obblìa
L'ire, gli sdegni e le passate offese.
Ceniamo entrambo in dolce compagnìa;
E in un certo boccon la polve prese;
E subito sbadiglia, e me ricrìa,
Chè la virtù di lei veggo palese.
Andiamo a letto; ed ei dorme profondo,
Sicchè del tutto par fuori del mondo.
[370]
Io prendo il lume con la man sinistra,
E con la destra tengo il ferro; e appena
Vo' l'opra cominciar tanto sinistra,
Ch'egli si sveglia, e la mia mano affrena,
Che di sua morte egli credea ministra,
E chiama aita: in un attimo piena
È la stanza di donne e cavalieri,
E di paggi con torce e con doppieri.
Come il ladro rimane sbigottito,
S'egli è côlto su l'opra dalla corte,
Che parte del tesoro che ha rapito
(Certa cagion di sua vicina morte)
Tiene anche in mano, e tien (tanto è stordito)
I ferri ancor con cui spezzò le porte;
E in mezzo alla sbirraglia che l'infuna,
Non si difende, o dice cosa alcuna;
Tal io restai con la spada tagliente
Nella man destra, e nell'altra col lume;
Nè dissi allor, nè potei dir nïente.
Persero gli occhi miei l'usato lume;
Il color mi disparve immantinente.
Il re, la corte e ognuno mi presume
Per micidial del mio proprio marito;
E son mostrata da ciascuno a dito.
Il re comanda che con nero ammanto
Mi ricopran dal capo insino a' piedi;
E a un fido suo ministro impera intanto
Che una gran nave egli ponga in arredi:
Indi mi guarda, e poi non senza pianto
Dice: Crudel, l'ultima volta or vedi
Il tuo marito che t'amò sì forte,
E tu pensasti, ingrata, a dargli morte.
[371]
Volli dirgli: Signore, io fui tradita;
Ma l'affanno mi tolse la parola.
In questo mentre, ecco ch'io son rapita
Da gente armata che non va, ma vola.
Allor pensai di terminar mia vita
O con laccio, o con ferro nella gola:
Nè questo mi dolea; sol mi dolea
D'esser creduta tanto iniqua e rea.
Ma son condotta alla spiaggia marina,
E messa dentro d'un forte vascello.
Il capitano piangendo m'inchina,
E poi dice: Signora, di coltello
A voi Leone la morte destina;
Ma perchè siete gravida, ed il fello
Peccato è vostro, e non di quella prole
Che ancor visto non ha raggio di sole,
Vuol che per mar vi guidi infino a tanto
Che voi non partorite. Io piango e dico
E giuro per lo più divino e santo
Ch'abbiano i cieli, e giuro pel pudico
Amor che pel marito avere io vanto,
Che non ebbi pensier crudo e nemico
Contro il mio sempre caro e amato sposo;
Ma fu d'amore, e fu d'amor geloso.
Il capitano allor soggiunge: Assai
Chiaro è, signora, il tuo crudel talento:
Chè se la vecchia, a cui confidato hai
L'opera indegna, non faceva attento,
Nè rilevava i suoi vicini guai
Al buon Leon, tu l'averesti spento.
E qui narrommi allor, cosa per cosa,
Ciò che disse la vecchia maliziosa.
[372]
Rodrigo (io dissi allor; chè tale egli era
Il nome di quel fido capitano),
L'anima mia in foco eterno pêra,
Se ferro alcuno mai strinsi con mano
Per dare al mio Leon morte sì fera.
Mi fece Emilia l'intelletto insano
Per la gran gelosìa ch'ebbi di lei:
E s'io mento, lo sanno i sommi Dei.
Ma la perfida vecchia ella fu solo
Che m'indusse a far quello onde fui presa
(Come credesti) in manifesto dolo:
Perchè facil le fue, a donna accesa
D'amore, e strutta da geloso duolo,
Persuader sì temeraria impresa
Di trar di sangue due o tre gocce almeno
Del mio marito dal piagato seno:
Che certo impiastro n'averebbe fatto,
Che l'amore d'Emilia avrìa disciolto.
Rodrigo a questo dire stupefatto
Rimane, e di pietà copre il suo volto:
E scritto un foglio, invìa quello ad un tratto
Al rege, che per ira anco era stolto;
E gli scrive la cosa come ella era;
Ma una falsa ei mi crede e menzognera:
E rispedisce subito, e comanda
Ch'io entri in mare, e si sciolgan le vele.
Così si fece; e dopo una nefanda
Tempesta, ed un mar orrido e crudele,
Ci spinse il vento in questa estrania banda,
Dove il buon capitano, a mie querele
Fatto pietoso, in modo alcun non volle
Fare del sangue mio la terra molle:
[373]
E qui lasciommi sola, ove a ventura
Un pastor vecchio mi venne davante,
Che si prese di me pensiero e cura:
E perchè lo mio parto era in istante,
E mi vedea d'affanno e di paura
Ricolma, con la sua mano tremante
Prese la mia, e guidommi bel bello
Al suo tugurio onesto e poverello:
E consegnommi alla sua vecchia moglie,
Che m'accolse benigna e volentieri.
La stessa sera mi preser le doglie,
E sopra fieni seccati e leggieri
Mi coricai con queste stesse spoglie,
Ed in poche ore con affanni fieri
Diedi alla luce questo mio figliuolo,
Che nel vederlo mi rinnuova il duolo.
Tacque ciò detto, e di color di morte
Asperse il viso, e cadde sul terreno.
Climene allora con maniere accorte
Le bagna d'acqua fresca il volto e il seno;
Sicchè richiama dalle stigie porte
L'anima sua, che ormai senza alcun freno
Là s'indrizzava: e tanto le sa dire,
Che le promette non voler morire.
Or mentre si consolan fra di loro,
E Climene le narra il suo tormento,
Eguale in parte di Dori al martoro,
Nella stessa spelonca entraron drento
Una donzella coi capelli d'oro,
Tutta vestita di color d'argento,
E a sua difesa nobilmente armati
Due cavalieri, in vista alti e pregiati.
[374]
La lor venuta m'ha rimesso il fiato:
Così m'aveva la pietà di quelle
Da capo a' piedi tutto sconturbato:
Chè quanto ho più desìo di bagattelle,
E di cantar con allegrezza a lato,
Vie più m'abbatto in cose acerbe e felle,
In piagnistei, in morti, in tradimenti,
E in simili bruttissimi accidenti.
Mutiam dunque le corde, e mutiam anco
La cetra e il canto, e in lieti modi e belli
Cantiamo in avvenir; chè troppo stanco
Son d'udir lagrimare or questi or quelli.
E tu mi colma di vin nero e bianco,
Nice, due nappi, e fasciami i capelli
D'edera verdeggiante; e a me discenda
Bacco; ed Apollo il lauro suo si prenda:
Chè più godo campare un giorno o due,
Ridendo con gli amici alla distesa,
E nel gregge poetico esser bue,
Che dopo ch'io sarò sepolto in chiesa,
Mi lodin quanto l'Arïosto e piùe,
E sia del nome mio la fama stesa
Per ogni parte: chè questo desire
È da matti, o da chi vuole impazzire.
Ma ve' che Nice vien con due gran fiaschi.
Beviamo dunque. Oh che liquor celeste!
Felice il loco ove germogli e naschi,
Vite gentil! De' tuoi pampin la veste
Bacco si faccia, e sopra te non caschi
Grandin sonante, e capro non t'infeste.
Ma già mi sento rallegrare: or via,
Principio al nuovo canto omai si dia.
[375]
Le dame e i cavalier menando vanno Con le villane in balli il giorno lieto. Rinaldo, Alfonso togliendo d'affanno, Scopre alla vecchia ria tutto il dereto. I due cugini a contrastar si danno Contro i Folletti, e cascano ad un peto, Il quale fu sì puzzolente e strano, Che Dio ne scampi ogni fedel Cristiano.
La vita umana ell'è com'una stanza
Di varj quadri vagamente ornata.
Colà vedi Maria, nostra speranza,
Sul Figlio estinto afflitta, addolorata:
Qui ravvisi di Giobbe la sembianza
Piagato, ignudo; e la mogliera il guata:
Là mari e monti, e terre erme e diserte:
Qui Táidi e Frini e Veneri scoperte.
Così l'uomo ora balla, ora sospira;
Ora bestemmia, ed or si batte il petto;
Ora d'amore, ora s'accende d'ira;
Or dona qualche cosa al poveretto,
Or fura a un altro, conforme gli gira;
Or l'avarizia il priva d'intelletto.
Si muta in somma ogni ora, ogni momento,
Siccome banderuola ad ogni vento.
[376]
E questa cosa qualche volta è male,
E questa stessa alcuna volta è bene.
Ma non voglio qui farla da morale,
E dir quel che conviene e non conviene
All'uomo, come bestia razionale;
E quando a colpa grave egli perviene,
E quando neppur pecca leggermente,
S'egli si muta d'animo e di mente.
Quel che ho da dire (e lo voglio dir presto;
Chè a raccontarlo ci ho troppo piacere)
È, che non vedo più turbato e mesto
Il volto di Climene, e che godere
Dori vegg'io, che or ora a pollo pesto
Era ridotta, e quasi al miserere;
Tanto i lor volti fûro serenati
Dalla donzella e dai garzon pregiati.
Senza che il dica, già ciascun m'intende,
Ch'io parlo di Despina e di Ricciardo,
E di Climene, e di lui che l'accende
Come esca foco con un solo sguardo.
Guidon, dich'io, che umile al suol si stende,
Senza ch'ei s'abbia il minimo riguardo;
E le chiede perdono, e l'assicura
Che lei sol ama, e Lidia più non cura.
Climene l'accarezza e gli perdona,
E l'abbraccia con tanta tenerezza,
Che non lasciollo per un'ora buona.
O ve' s'ell'era donna di saviezza,
Lieta e gentil, non burbera e scorzona,
Com'esser suol chi ha il don della bellezza,
Conforme avea costei, che, a dirla schietta,
Pareva propriamente un'angeletta.
[377]
Indi saputo il caso di Dorina,
Le fanno cuore, e le danno promessa
Di far che torni ad essere reina.
Obbligo immenso ai cavalier confessa
La donna; e già le par d'esser vicina
A godere, nè più si sente oppressa
Dal giusto duol, che sino a quel momento
L'avea colma d'affanno e di tormento.
Escon fuor della grotta, e fra non molto
Giungono in parte ove son molte insieme
Capanne, e in un drappel veggion raccolto
Coro di donne, che ballando preme
Col piè scalzo il terren rozzo ed incolto.
Cetre e zampogne che han dolcezze estreme,
Suonano; ed ivi tanto gaudio piove,
Che par che vi villeggi Amore e Giove.
All'apparir dell'armi luminose
Si turbaron le belle forosette;
Ma le tre donne vaghe e grazïose
Fêr sì che niuna più in timor si stette.
Despina le sue vesti prezïose
Depone, e d'altre rozze sì, ma schiette
Si veste: fa lo stesso ancor Climene;
Nè più d'esser regine a lor sovviene:
E vestite così da villanelle,
Posta di fiori in capo una corona,
Liete sen vanno a carolar tra quelle:
E perchè si sonava la ciaccona,
Dorina col figliuolo alle mammelle
Move sì gentilmente sua persona,
Che ogni Ninfa e pastor si maraviglia,
E la bocca apre, e inarca ambe le ciglia.
[378]
Ma perchè l'aria si faceva oscura,
Fu posto fine alle belle carole;
E dentro una capanna la più pura
Sono invitate con schiette parole
Da quella rozza gente; e ognun procura
Di far loro, non già quello che vuole,
Ma quel che puote; e i forti cavalieri
Già deposto han gli usberghi ed i cimieri.
Or mentre stanno a mensa, ecco da un canto
Una fanciulla con un chitarrino,
Vestita di colore d'amaranto;
E dirimpetto a lei molto vicino
Sedeva, pronto al boscareccio canto,
Un assai destro e giovin contadino.
Or mentre che le corde ella percuote,
Egli sciolse la lingua in queste note:
L'amore ch'io ti porto, Lisa mia,
La non è mica cosa naturale:
Io stimo ch'ella sia qualche malìa
Fattami da talun che mi vuol male;
Perchè a far nulla non trovo la via:
Se mangio l'erbe, non vi metto sale;
Nè distinguer so il vino dall'aceto;
E penso andare innanzi, e torno indreto.
La notte tengo spalancati gli occhi,
Nè si dà il caso ch'io li serri mai;
E in qua e in là, a guisa de' ranocchi,
Saltello per li palchi e pe' solai;
E grido, come se il fuoco mi tocchi.
E tu la cagion se' di tanti guai:
Perchè, s'io non t'amassi, dormirei,
Nè che cosa è dolore ancor saprei.
[379]
Ma pure soffrirei con pazïenza
Il male che mi fa questo assassino,
Se tu mi usassi un poco di clemenza:
Ma tu sei dura più d'un travertino.
O maladetta, Amor, la tua potenza!
Ma se un giorno t'acchiappo, o malandrino,
Del mio pagliaio vo' legarti in cima,
E dargli fuoco, e farti lima lima.
E quando egli sarà tutto arrostito,
Allor più non sarai sì fumosetta;
Nè col tuo viso arcigno, inferocito,
Mi darai più quella continua stretta,
La qual m'ha morto e quasi seppellito.
Ma che dich'io, o dolce mia Lisetta?
Amore è un Nume, ed io sono un villano;
E tu se' bella, ed hai il mio core in mano.
Tu hai il mio core; il tuo non ho già io,
Nè sperar posso mai che tu mel doni:
Ma se di far da ladra hai tu desìo,
Ruba le mie galline e i miei capponi,
Ruba il giovenco e ruba l'asin mio,
Rubami il sajo e rubami i calzoni;
Ma rendimi il mio core, o mi concedi
D'essermi moglie in meno di tre credi.
Qui tacque Ciapo; e Lisa stropicciosse
Gli occhi e la fronte con la bella mano;
E fatto un pocolin le guance rosse,
Tossì due volte; e poi con volto umano
Guardando intorno, della cetra scosse
Le corde sì, che udissi da lontano;
E incominciò: Ciapin, ti vo' più bene,
Che tu non pensi; e dà pur fede a mene.
[380]
Quando io ti cominciai a ben volere,
Erano i grani del color dell'oro,
E le cerase diventavan nere:
Io me ne stava all'ombra di un alloro
Il dì che Amore mi ti fe' vedere:
Egli era teco Gianni e Ghirigoro:
Festi un starnuto alla presenza mia,
Ed io ti dissi allor: Buon pro ti fia.
Eri vestito d'una pelle d'orso,
Ed avevi un berretto di scarlatto:
Mi festi un ghigno, e al cor mi desti un morso.
E con quel morso m'hai tutto disfatto.
E solo trovo conforto e soccorso,
Quand'io cicalo teco di soppiatto,
Che la mamma ed il babbo fan la nanna,
E vieni al buco della mia capanna.
Beata mene! s'io t'ho per marito,
Sono più ricca d'una cittadina;
E allora il cielo toccherò col dito.
Ma la fortuna mia sì mi trassina,
Che ho timor che tu cerchi altro partito.
So che vatti a fagiuol la Gelsomina,
Nè ti spiace la Sandra nè la Cecca.
Deh non mi far, Ciapino, la cilecca.
Che se d'altra tu se', i' vo' morire.
Qui disse un vecchio: Il canto è buono e bello,
Ma questa è l'ora d'andar a dormire.
Tacque allor Lisa, e Climene un anello
Donolle, che valea trecento lire.
Un altro pur su lo stesso modello
Diede a Ciapo Despina, e di contento
Tutto l'empiè, come un otre di vento.
[381]
Le tre regie donzelle insieme accolte
Stanno a dormire, e avanti alla capanna
I cavalieri in su le paglie folte;
Quando ecco, mentre il buon Titon s'affanna
Perchè la sposa con le trecce sciolte
Gli esce di braccio, ed a star sol lui danna,
E di purpurei fior, candidi e gialli,
Orna il freno e la testa a' suoi cavalli:
Un cavalier sopra un nero corsiere
Veggiono, ed esso ancor con bruna veste,
E tutte l'armi sue pur eran nere:
Avea dipinto su la sopravveste
Di candido colore un can levriere,
Che smarrito abbia per aspre foreste
Il caprïol, col motto: O ch'io t'arrivo,
O che tra poco non sarò più vivo.
Al comparire di quest'uomo armato
Si sbigottîr le Ninfe ed i pastori,
Non già Guidon nè Ricciardo pregiato;
Ma, dato mano all'armi e a' corridori,
Gli vanno incontro: e perch'egli è peccato,
E di quelli che vanno tra' maggiori,
Contra un combatter due, Guidon Selvaggio
Dà della pugna a Ricciardo il vantaggio,
Sol perch'egli era nel cammin più innante,
E non per altro; ed ei stassi a vedere.
Il negro cavaliere aspro e arrogante
Grida: Chi al mondo altro non vuol nè chere
Che trovar morte, di morte è sprezzante.
Però nel mezzo a mille aste e bandiere
A por m'andrei; chè ho in odio quella vita
Che forse a te, baron, sarà gradita;
[382]
Però non mi chiamare alla battaglia,
Chè i nostri fini ên troppo diseguali.
Tu pugni sol perchè il tuo nome saglia
In laude e stima, e perchè si propali;
Io di dentro e di fuor tutto a gramaglia
Cerco le strade onde il mio spirto esali;
Ma le cerco da forte; chè viltade
In regio cor di rado o mai non cade.
Quindi si tace; e Ricciardo ripiglia:
Campion, si vede ben che grato sei
Alla celeste ed immortal famiglia;
Mentre tal grazia t'han concessa i Dei,
Che spavento di morte non t'impiglia,
Anzi mostri desìo d'andar da lei.
Ond'io spero, se soglio esser lo stesso,
Che quel che brami ti sarà concesso.
Finito appena ha di parlar Ricciardo,
Ch'egli impugna la lancia, e disdegnoso
Lenta la briglia al suo destrier gagliardo
Contro Ricciardo: e quegli furïoso
Si move anch'esso; e senza alcun riguardo
S'incontran sì, che sul terreno erboso
Cadono entrambi: colpa de' destrieri,
Che non potêr soffrir colpi sì fieri.
Le belle donne giunsero in quel punto
Ch'essi cadéro, e si morser le labbia
Per vaghezza di riso: di che punto,
Fu sì il cor di Ricciardo, che per rabbia
Nudato il ferro sovra il Nero, e giunto,
Dàgli un fendente, e su l'asciutta sabbia
Lo fa cadere: ed è sì inviperito,
Che lo vuol morto a ciaschedun partito.
[383]
Gli aveva sì intronate le cervella
Con quel rovescio il forte paladino,
Che il Nero non vedea se sole o stella
Faceva chiaro il bello aere turchino;
Ma senza moto, e privo di favella,
Pareva morto, od a morir vicino:
Onde Climene gli disse: Non fare,
Ma lascial pria ne' sensi ritornare.
E in questo dir gli slaccian la visiera:
Qual visto è appena, che quella boscaglia
Divenne per tal giorno e per tal sera
Il bosco del piacere; e la battaglia
Fu di pace e d'amor nunzia e foriera.
Ma sebben di saper molto vi caglia
Chi sia costui, scusatemi, se alquanto
Taccio or di lui, e volgo altrove il canto.
Un'ora egli è che il sir di Montalbano
Dalle rive di Spagna, ov'egli è sceso,
Mi fa, com'egli può, cenno con mano
Che di lui parli, e dal cammino preso
Ritolga i passi; e ben sarei villano,
S'io mi fingessi non averlo inteso:
Ch'innamorato son del suo valore,
E gli darei, non che la voce, il cuore.
Venti miglia vicino alla Corogna
Scese Rinaldo sul calar del sole:
E perchè d'ombra più non gli bisogna,
Che nella state ricercar si suole,
Va lungo il mar, che contende e rampogna
Col lido, che fermar suo corso vuole:
E mentre così tacito cammina,
Pargli udire una voce assai vicina.
[384]
Si ferma, e vede che tra scoglio e scoglio
D'ora in ora una fiaccola balena.
Ei va in quel verso allor zitto come oglio;
E in quel tempo Fortuna ivi lo mena,
Che, in tal guisa ripiena di cordoglio,
Distesa sopra della molle arena,
Diceva una fanciulla a Dio rivolta,
Tutta piangente, e il biondo crin disciolta:
Rendimi il dolce mio marito fido,
Giusto Re de' mortali e degli Dei.
Qui mi fu tolto; e tu su questo lido
Per tua giustizia render me lo dêi:
E se mel neghi, io mi ferisco e uccido.
E sebben far tal opra io non dovrei,
Pur quando il duolo passa la misura,
D'oprar con senno chi più s'assicura?
Stavano intorno a lei due damigelle
Triste così, che facevan pietade.
Entra improvviso il paladin tra quelle,
E domanda che cosa loro accade.
S'intimoriro pria le tapinelle;
Poi asciugate degli occhi le rugiade,
In ripensando al lor misero stato
Si rallegrâr d'avere un uomo a lato;
E gli disser cortesi: Almo signore,
Elmira questa misera s'appella,
Del regno di Leon donna ed onore;
Che sì amica finora ebbe ogni stella,
Che ha saputo oggi sol cosa è dolore.
Ch'oltre all'esser regina e l'esser bella,
Ella ebbe per marito i dì passati
Il più bello di quanti ne son stati:
[385]
E s'amavan così, che neve schietta,
In suo paraggio, è l'amorosa fiamma
Che scalda il cervo per la sua cervetta,
O il caprïol per la sua lieve damma.
Avean de' cuori un'amistà perfetta;
Nè mai del suo velen pur mezza dramma
Vi pose la Discordia: in ciel neppure,
Dico per dir, vi son tali venture.
A visitar l'Apostol di Galizia
Uscimmo di Leone oggi fa un mese.
Ma mentre andiamo pieni di letizia
Ora guardando il mare, ora il paese,
Or de' pesci, or de' frutti la dovizia,
Ecco venire a noi lieto e cortese
Un nano sopra d'un bel cavallino,
Che ci saluta, giunto a noi vicino,
E dice: Son più giorni che v'aspetta
Al suo palazzo la padrona mia.
Qui intorno non vi è casa nè villetta
Da potervi alloggiar, nè osterìa;
Però venite meco. E sì ci alletta,
Che dal nostro cammino ci disvìa.
Egli va innanzi, e noi lo seguitiamo,
E là in quel bosco prestamente entriamo.
Non torre e non palazzo; un corto e angusto
Pozzo troviamo, e lì si ferma il nano,
E dice: Confacente al vostro gusto
Qui nulla appar; ma appena per lo vano
Voi calerete, che superbo, augusto
Edifizio vedrete, e nuovo e strano.
Così dicendo, per lo pozzo scende,
Ch'era a gradini, e per la man me prende.
[386]
Alfonso, chè in tal guisa il re si noma,
Guarda la donna nostra che sospira;
E le dice ridendo: O qui si toma,
O qui la volpe certo si ritira.
Quindi a scender principia, e in dolce idioma
Pur la lusinga, e seco giù la tira:
Noi pur scendiamo; e siamo scese appena,
Che un'aria ritroviam pura e serena.
Non ti pensar che negromante o fata
Abbia ciò fatto per virtù d'incanto;
Che questa è una montagna traforata,
Come vedrai 'n un angolo, 'n un canto,
Se di vederla ti fia cosa grata,
O s'hai qualche pietà del nostro pianto:
E quel forame poscia ci conduce
In un bel piano, e nell'aperta luce.
Intorno intorno la montagna gira
Alta così, che augel su non vi vola.
Nel piano poi una città si mira,
Nel mondo tutto certamente sola;
Piena zeppa di gente che delira,
Dedita al senso e dedita alla gola.
La governan le donne, e i magistrati
Sono tutti di femmine formati.
Gli uomini stanno in casa; e se talora
Per alcuna bisogna son forzati
Ad uscir, vanno con la fante fuora;
E quando in casa si son ritirati,
Ora da questa, or da quella signora
Cortesemente sono visitati,
E trattenuti all'ombre, a' tarocchini,
A primiera, a tresette, a' trïonfini.
[387]
E come il cavalier fa con la dama,
Quivi la dama fa col cavaliere.
Ciascuna di servirlo anela e brama,
Ed è per questo capo un bel piacere:
Ma se in privato o in pubblico si trama
Cosa alcuna, si sta l'uomo a vedere.
In somma, in fuor che non è sì gentile,
L'uomo là in tutto a femmina è simile.
Miseri noi, se questa strana usanza
S'introducesse nel nostro paese;
E che mentre ne stiam soletti in stanza
Leggendo istorie ovvero forti imprese,
Avesser tanto ardir, tanta baldanza
Le donne di trovarci! Allor le chiese
Si potrebber serrare: almen fintanto
Che bella gioventù ci stesse accanto.
Donna e madonna di questa cittade
Ella è una vecchia orribile e severa,
Nemica acerba della castitade,
Che d'ogni cittadin fassi mogliera.
E di più il nano per tutte le strade
Manda a cercar di gente forestiera;
E trovatala poi, conforme ho detto,
Giù glie la mena per quel pozzo stretto.
Giunti che fummo alla città donnesca,
Ebbimo incontro mille damigelle
Vestite tutte all'usanza moresca,
Armate d'archi e fieramente belle;
Che in maniera tra brusca e gentilesca
Ci salutaro, e chiesero novelle
E del mondo e di noi e della terra
Nostra, e se siamo in pace, oppure in guerra.
[388]
E date le risposte convenienti,
Siamo condotti al palazzo reale,
Dove giunti, di musici strumenti
Veggiam pieno il cortil, piene le scale:
E dier principio a così bei concenti,
Che non ci parve cosa naturale;
E un musico gentil sopra una loggia
Sciolse la voce al canto in questa foggia.
O pellegrini che venite a noi,
Si vede ben che Giove vi è cortese;
Chè non vedeste e non vedrete poi
Simile a questo mai verun paese:
Qui niuna cosa fia ch'unqua v'annoi,
Non dispetti, non risse e non offese;
Ma dovunque anderete, in ogni loco
Verran con voi e l'allegrezza e il gioco.
Qui non si muor che di troppa vecchiezza,
E niuno invecchia mai per gran pensieri,
Che fan la febbre e fanno la magrezza,
Ed empiono gli avelli e i cimiteri.
I suoi piaceri ha qui la giovinezza;
E chi s'invecchia ha pure i suoi piaceri.
E o voi beati, seguiva a cantare;
Quando ecco la regina che compare.
Era zoppa, era gobba e alquanto lusca,
Vestita d'un tabì candido e schietto,
Con una cresta del color di crusca,
E come un tavolino aveva il petto.
La barba ha al mento, qual barbon che busca,
Larga di faccia e bocca, e capo stretto;
Piccola, nera, tutta culo e pancia;
E ride e si dimena, e guarda e ciancia.
[389]
Dà nel gomito Alfonso alla consorte
In vedere quell'orrida befana;
E poco andò non si tenesse forte,
E non facesse una risata strana.
Pure sta saldo, e con parole accorte
La inchina: ed ella già d'Alfonso insana
Non gli risponde, e parte con tal fretta,
Che, così zoppa ancor, sembrò saetta.
Noi restiamo ammirati; e ch'ella sia
Scema di senno, concordiam tra noi:
Quando ecco che ripien di cortesìa
Alfonso appella uno de' paggi suoi,
Dicendo che madonna lo desìa;
E a noi rivolto: Rimanete voi,
Ci dice; indi si parte; e noi restiamo
Sole, e che in breve ei tornerìa, pensiamo.
Stemmo gran tempo, e d'Alfonso il ritorno
Ancor non si vedea. Lo chieggo a molti;
E niun risponde: viene a fine il giorno,
E dalla notte in palazzo siam côlti;
Nè Alfonso pur si vede. Infine un corno
S'ode sonare; e lieti e disinvolti
Uomini e donne ci vengon davanti
Con lieti tranquillissimi sembianti:
E ci chiaman beate, e invidia ci hanno,
Che la regina in suo castello ha chiuso
Il bello Alfonso con felice inganno,
Dove ella lo ritiene al suo proprio uso.
Non ci potemmo mai sì strano danno
Immaginare da quel brutto muso;
Onde a fatto sì acerbo ed improvviso
A tutte noi sparve il color dal viso:
[390]
E questa sfortunata, che tu vedi
Per lo dolore a morir già vicina,
Tanta ira n'ebbe, che corse, e co' piedi
Urtò le porte dell'empia regina.
Poi di noi altre a' costumati arredi,
Che sono i pianti, si volse tapina,
Chiedendo, e noi con lei, il signor nostro
A quell'infame e spaventevol mostro.
A questa vista ciaschedun dispare;
Noi restiam sole nel nostro dolore:
Quando un drappel d'armate donne appare,
Che del palazzo ci conducon fuore;
Indi nel pozzo ci sforzano entrare,
E mostran gagliardìa, mostran valore,
Perchè il salghiamo: e quello poi salito,
Ci menano rabbiose a questo lito;
D'onde siam ferme non voler partire,
Se il nostro Alfonso non ritorna a noi;
Nè più gran cosa ci sembra il morire.
Credei con tigri, ma dovrò con buoi,
Donne, pugnar, secondo il vostro dire
(Disse Rinaldo): serenate or voi
La vostra faccia, e state allegramente,
Ch'io vi rimeno Alfonso immantinente:
E se la cosa ell'è come voi dite,
Non vo' portare nè spada nè lancia;
Ma vo' tagliar due vermene pulite
Da frustar ora il cesso ed or la pancia
Di quella porca la qual v'ha tradite.
Ma il tempo passa, e assai mal fa chi ciancia
Quando ci voglion l'opre. E detto questo,
S'avvïò verso il bosco ardito e presto:
[391]
Nè fatto aveva ancora un mezzo miglio,
Ch'eccoti il nano sopra il cavallino,
Che l'invita a imbucar, come un coniglio,
Entro del pozzo, e gl'insegna il cammino.
Rinaldo accetta con allegro ciglio
L'invito, e giù nel pozzo a capo chino
Discende prestamente; e giunto al piano,
In verso la città vassen pian piano.
Giunto alla porta, dugento guerriere,
Che il lor corpo di guardia quivi fanno,
Voglion fermarlo, come è lor mestiere.
Ride Rinaldo; e quelle, che non sanno
Qual sia forte e terribil cavaliere,
Addosso a lui, siccome cagne, vanno
Per farlo schiavo e per dargli tormento;
Ed ei le bacia e le piglia pel mento.
Al romor corron l'altre; ed in breve ora
Seimila donne, e tutte quante armate
L'han posto in mezzo; e acciò non esca fuora,
Hanno canapi e corde lì portate,
E lo voglion legar senza dimora.
Rinaldo dice loro: Eh via, non fate;
Che se mi salta punto il moscherino,
Per Dio, che vi diserto e vi rovino.
Musana, la regina, anch'ella accorre
Al gran tumulto con la spada in alto,
E grida: Io vo' costui nella mia torre;
E segno fa che gli si dia l'assalto.
Rinaldo omai, che gioco tale aborre,
Sopra un vuoto destrier monta d'un salto,
E va battendo sol con la vermena
A questa il capo ed a quella la schiena:
[392]
E con gli schiaffi e con gli scappellotti
S'è fatto largo sì, che ognuna scappa.
Così smeriglio tra molti merlotti
Ho visto far, che or questo or quello acchiappa,
E fuggon via quelli che son più dotti:
Quando Musana nel guerriero incappa,
Il quale, vista cosa sì deforme,
Ammazzarla volea 'n tutte le forme:
Ma udendo dir che la regina ell'era,
La man le pose ne' bianchi cappelli,
E disse a lei: O donna, o furia, o fera,
Che tu ti sia, e conforme ti appelli,
Rendimi il cavaliere che jersera
Rubasti con maniere e modi felli
Alla sua sposa, o ch'io ti fo volare
Sopra que' monti, e ancor di là dal mare.
La brutta vecchia per la gran paura
Inaffiò d'acqua lanfa assai terreno,
E più di pria si fe' brutta figura;
Talchè un demonio egli era brutto meno.
Pur prende lena; e fatta più sicura,
Dice: Signore, all'amoroso freno
Siamo tutti soggetti, e non accade
Aver per fuggir lui canuta etade.
La bellezza d'Alfonso m'ha levato
E senno e libertade; onde piuttosto
Ho meco di morir determinato,
Che di viver, s'ei fia da me discosto.
Dice Rinaldo: Viso d'impiccato,
Anzi d'un porco abbronzito ed arrosto,
Ti pare egli ora, spennata civetta,
Di tor l'amante a vaga giovinetta?
[393]
Insegnami la torre ed il castello
Dove sta chiuso, o ch'io viva ti squarto:
E la prese pe' piedi: ed il guarnello
Le andò sul capo, e l'uno e l'altro quarto
Mostrò di quel paese orrido e fello,
Che avea bisogno di pialla e di sarto:
Tanto era da una parte rilevato,
E dall'altra sdrucito e sconquassato.
La disgraziata tutta si dimena,
E chiede ajuto; ma niuno la sente:
Pur vinta in fine da vergogna e pena,
Di dargli Alfonso piangendo consente.
La capivolge allora, e su l'arena
La posa; ed ella lo guida piangente
Al castello; ed apertol, fa venire
Alfonso, e nel vederlo ebbe a morire.
Ma restò fuor de' sensi affatto affatto,
Quando lo vide accinto alla partenza.
Egli la guarda stomacato in atto,
Ed ha di vomitar grande appetenza.
Indi le dice: Vorre' il tuo ritratto
Per consolarmi nella fiera assenza.
Ma quel che Alfonso dice, ella non ode:
Tanto dolor l'alma le opprime e rode.
E senza metter punto tempo in mezzo,
Salgono il monte; e giunti all'aer chiaro,
Rinaldo prende d'un gran sasso un pezzo,
E il butta dentro il pozzo, e lo turaro;
E così seppellîr l'obbrobrio e il lezzo
Di natura e del mondo; e a paro a paro
Andaron verso il lido; e mira mira,
Non veggon più la desïata Elmira.
[394]
Vanno sul luogo dove la lasciaro,
E veggon de' capelli, e veggon anco
Cosa di che poi tanto lagrimaro:
Veggon d'Elmira in terra un velo bianco,
E più d'un altro segno infausto e amaro:
Onde Rinaldo, ancor che baron Franco,
Si fe' di gelo, e dolsesi in segreto,
Benchè mostrasse speme e volto lieto.
Lo sventurato Alfonso poi rimane
Quasi di sasso, e guarda sbigottito
Con gli occhi fatti di pianto fontane
Ora il piano, ora il monte ed ora il lito;
Quando Rinaldo, che a foggia di cane
Non lascia intatto della spiaggia un dito,
La trova, e grida: Cavalier, qua vola;
Che vedrai lei che l'amor tuo consola.
Come se uscir l'avaro veduto abbia
Alcun, di dove il suo tesoro stanza,
E rotti gli usci, e smossa ancor la sabbia,
Sotto cui d'occultarlo avea speranza,
Si muor di tema, d'affanno e di rabbia;
Ma mentre l'occhio con la mano avanza
Nel ripostiglio, e vede l'oro e il tocca,
Per lo piacer si sviene e al suol trabocca:
Così l'afflitto prence di Leone
Dall'improvviso gaudio a terra cade;
E cade ancor per la stessa ragione
Elmira. Il buon Rinaldo per pietade
Sospira, e invidia delle due persone
La bella fede e la gran caritade;
Poi dice alle donzelle: Io vo' partire:
Salutate madonna e il vostro sire.
[395]
Ma lasciamo ir Rinaldo al suo cammino,
E lasciamo gli amanti tramortiti,
E torniamo a Nalduccio e ad Orlandino,
Che mi sono sì cari e sì graditi,
Che a Bacco non è sì gradito il vino,
Nè i pampinosi tralci delle viti.
Quando io li veggo, oppur n'odo parlare,
Mi sento proprio tutto ricreare.
Se vi sovviene, co' lor dolci amori
Nalduccio ed Orlandino s'imbarcaro
Per Francia, a ritrovare i lor maggiori,
E per più giorni lieti navigaro.
Ma, come in terra nascon funghi e fiori,
Sì le tempeste in mar nascon del paro.
Ebbero una tempesta indiavolata,
E rimase la nave sconquassata.
Nè qui ci son delfini nè tritoni,
Che li portino al lido; nè ci ên Fate,
Che vengan suso per la via de' tuoni
Apportatrici lor di sanitate:
Ma ci son, grazie a Dio, de' tavoloni,
Sopra li quali le donne affannate
Si condurranno co' mariti loro
In qualche luogo, ed avranno ristoro.
Dopo lunga fatica e lungo stento
Giunsero tutti quattro a un'isoletta,
Ch'è detta l'Isoletta del Portento.
Orna le spiagge sue fiorita erbetta;
Ed un ruscello, che di puro argento
Ha l'acque sue, ed al mar corre in fretta,
Or quinci or quindi in tortuosa foggia
La bagna sì, che non cura di pioggia.
[396]
Questa isola, per voce antica molto,
È fama che l'alberghino i Folletti,
Che fan con tanti scherzi ogni uomo stolto:
Or tiran le lenzuola di su i letti,
Ora prendon di donna o d'uomo il volto,
Or si fanno orsi, or gatti, ora micchetti.
In somma chi si abbatte in questo loco,
Diviene di color favola e gioco.
Ma non fan male alcuno; anzi sovente
Fanno del bene, e insegnano tesori
E modi da campare allegramente,
E di birbanti divenir signori.
Sopra la rotta nave finalmente
Tutti bagnati e tra mille timori
Quivi le donne e i giovani sbarcaro,
E come bisce al sole s'adagiaro.
Quindi asciugati, presso alla marina
Veggono un vago e nobile edifizio
D'architettura tal, che par divina.
Disse Orlandin: Deh fosse qualche ospizio;
Chè andrei a pormi di botto in cucina:
Chè il navigar è un buono esercizio;
E mangerei, s'egli mi fosse dato,
Un cane, un lupo, un asino attempato.
Ride Nalduccio, e dice: Fratel mio,
Se tu senti la fame, ed io la veggio.
Che cosa brutta fe' Domeneddio!
Secondo me, non poteva far peggio.
In vederla mi viene il tremolìo:
Più volentieri con la morte armeggio,
Che con costei, che rosicate e strutte
M'ha le interiora e le budella tutte.
[397]
Ma siam pur pazzi, ripiglia Orlandino,
A star qui fermi, e non andare al loco
Che c'è, come veggiam, tanto vicino.
Lì troverem buona cucina e cuoco;
E se il padrone non è Fiorentino,
Ci darà da mangiare o molto o poco.
Ciò detto, a quella volta se ne vanno;
E giunti, l'uscio ivi trovar non sanno.
Girano intorno intorno il gran palazzo,
Nè da niun canto vi trovan l'entrata.
Odon gente che mangia e sta in sollazzo,
E sentono l'odor della frittata,
E de' brindisi spessi lo schiamazzo.
Con alta voce lor fan la chiamata;
Ma niun risponde, e seguono a mangiare:
Onde questi si danno a taroccare;
E tirano sassate dell'ottanta
Nelle finestre, e rompon l'invetriate.
In questo mentre ecco che un mostro agguanta
Le donne; e gridan come spiritate;
E se le porta via con fretta tanta,
Che appena pôn seguir le sue pedate
I giovanetti, e gridan: Posa, posa,
Con terribile voce ed affannosa.
Ma quei, come la volpe quando è côlta
Da' cani, che si dà tosto a fuggire,
Nè pel timore indietro mai si volta;
Ma quando li ode sì presso venire,
Che ne comprende vicinanza molta,
Allor fa cosa che ho rossor a dire;
Sì tristo fiato fassi uscir di dreto,
Che per la puzza i can restano addreto;
[398]
Così quel mostro porco un così strano
Vento egli fece, e cotanto fetente,
Che Nalduccio e Orlandin caddero al piano,
E il mostro dileguossi di repente.
Rïavutosi poscia, ognuno insano
Rimane pel novissimo accidente,
E si guardano in viso, ed hanno pena
Che un peto gli abbia stesi su l'arena.
Ma quando poi non veggion le dilette
Consorti loro, e credono sicuro
Che quel mostro se n'unga le basette,
E se le spolpi in qualche luogo oscuro,
Fanno versacci che pajon civette;
E tal sentono affanno acerbo e duro,
Che lo star 'n una fervida caldaja,
Appetto a quel, lor parrebbe una baja.
In questo stato ascoltano una voce
Flebile sì, che non si può sentire.
In quel verso Naldin corre veloce,
E gli pare la sua consorte udire.
Pensate voi se ciò lo punge e cuoce.
D'amore acceso e ripieno d'ardire
Là corre, e regge con l'orecchio i passi,
Nè cura sterpi, nè bronchi, nè sassi.
Vede Orlandino poi dall'altra parte
in man d'un satiraccio una donzella
Mezza spogliata e con le chiome sparte,
E in qua e in là strappata la gonnella.
S'inferocisce subito, e qual Marte,
Quel satiro col ferro egli martella;
E tanto più lo fa di buona voglia,
Che pargli Argéa colei cui vede in doglia.
[399]
Ma quando crede aver piagato e morto
Il satiro, e disciolta la fanciulla,
L'un si rannicchia, e fassi corto corto,
E corto sì, che si riduce a nulla;
L'altra diviene una mummia, un aborto.
A vista tal, come un bambin di culla
Orlandino rimane; e tra sè stesso
Non sa capir quel che gli sia successo.
E Nalduccio arrivato a piè del monte,
Donde la voce gli parea che uscisse,
Vede una fresca, oscura e bella fonte,
E in un alber vicino crocifisse
Due giovanette, ed una che la fronte
Mostrava, e il tergo l'altra; ed a lui disse
Una di loro: Rinalduccio ingrato,
Così presto di me ti se' scordato?
Rinalduccio a tal voce si riscuote,
E grida: O mia dolcissima Corese,
Non dubitare. E col ferro percuote
L'albero; e quando con le braccia stese
Vuole abbracciarla, e nelle belle gote
Porre di casto amor le labbra accese,
L'alber principia subito a girare
Come paléo, e non si può fermare.
Nalduccio alla sua donna dà di piglio,
E con essa principia anch'egli il giro:
Quando ad un tratto d'un color vermiglio
L'alber diventa, e i rami di zaffiro,
E le foglie più candide del giglio.
Quindi le belle donne dispariro;
Chè l'una e l'altra subito divenne
Un vago cigno dalle bianche penne;
[400]
E volando tuffossi in un laghetto,
E dolcemente si mise a cantare;
Indi a non molto dall'alber suddetto
Tutte le foglie si veggon volare,
Fatta chi uno, e chi altro uccelletto;
Ed il fusto si vede al suol cascare,
E caduto diviene una gran biscia,
Che giù pel monte sibilando striscia.
Or mentre l'uno e l'altro disperati
Erran pel bosco, e colmi di stupore,
Corese e Argéa de' cavalier pregiati
Vanno cercando, e piangon di dolore:
E giunte appena in mezzo a certi prati,
Li veggon morti, e di sanguigno umore
Veggon tinta l'erbetta: onde a tal vista
Chi dir può quanto ognuna si rattrista?
E strappansi i capelli, e il petto bianco
Si laceran con l'ugne; e fan lamenti,
Che par ch'abbian le doglie o il mal di fianco;
E dan di mano alle spade taglienti,
Ch'eran de' lor mariti al lato manco,
Per ammazzarsi: ed ecco, alti portenti!
Le due spade si cangiano in lor mano
Una in giunchiglia, e l'altra in tulipano.
I cadaveri poi (chi 'l crederebbe?)
Si strusser come cera al foco appresso;
E l'uno e l'altro in bella fonte crebbe.
Rimaser come due statue di gesso
Le donne, e lor tal cangiamento increbbe;
Chè segno alcuno, alcun vestigio impresso
Non vedevano in lei de' lor mariti,
Come prima, se ben morti e finiti.
[401]
Dallo stupore alquanto rïavute
Si risolsero entrar nella fontana,
Indi bagnarsi, e far delle bevute
Di quell'acqua che pria fu carne umana.
Si spoglian dunque da nessun vedute,
E lascian la camicia e la sottana,
Il busto, le mutande e le calzette,
Tutte distese su le verdi erbette.
Quando ecco, mentre stan così spogliate
Diguazzando nell'onda maritale,
Di donne e cavalier molte brigate,
Che così nude nell'acqua le assale.
Voller fuggir, ma furon raffermate
Da vergogna, che in lor tanto prevale:
Cercan l'acque turbar; ma sotto è breccia;
Onde si copron con la lunga treccia.
Due cavalieri allor saltan nell'onda,
E vanno per ghermirle: in quel momento
Si asciuga l'acqua, e fugge via la sponda,
E dame e cavalier si porta il vento:
E nebbia così folta le circonda,
Che ogni raggio di luce è affatto spento;
Indi l'ombra dispare, ed in breve ora
Ogni cosa di luce si colora.
Non tanti aspetti, non tante figure
Soglion le rotte nuvole ben spesso
Formare in cielo nelle notti oscure,
S'Austro piovoso lor svolazza appresso;
Che or si fan navi, e quelle stesse pure
Or si fanno un gigante, ora un cipresso;
Come esse veggion, ma senza diletto,
La cosa stessa ognor mutar d'aspetto:
[402]
E a sospettar cominciano che quivi
Alberghino le Fate e i diavoletti,
E vi sian que' più perfidi e cattivi
Che fanno dar di volta agl'intelletti:
E vengono in speranza che sian vivi
I lor mariti, e che abbian de' dispetti,
Siccome esse hanno, da que' diavolini
Che fanno i buffoncelli e i mattaccini.
Ma per non vi tediar, donne garbate,
Raccontando gli scherzi e le burlette
Ch'ebber costoro per molte giornate,
Che furon certamente più di sette,
Vi dirò come furon liberate.
E mastro Garbolino ci scommette
Un par di guanti, se vi date drento
A indovinar chi sfeo l'incantamento.
Vi ricordate voi di Ferraù,
Quando dal bosco risanato uscì,
E fece voto a' Santi ed a Gesù
Di tornare alla cella e morir lì,
Ed a Climene non pensar mai più,
A Climene che tanto lo ferì;
E i due giganti ancor menò con sè,
A' quali fece abbracciar la santa Fè?
Or a questo romito serbò Iddio
Il discacciar da quel luogo i demoni;
E fu cagion che del cammino uscìo,
E che in vece d'andarsene pedoni,
Entrasse in mare, e che il provasse rio;
Tante fur le saette, i lampi e i tuoni,
E le tempeste e le piogge ed il vento,
Che se non si sommerse, fu portento.
[403]
Onde sbalzato fuor dell'onde insane
Tremila miglia e più lunge da Spagna,
Ed in quel lido pien di cose strane,
Piantò sul far del giorno le calcagna
Co' due giganti, vogliosi di pane,
Mercè della gran fame che li magna:
E mentre questi sbarcan da Ponente,
Vi sbarca da Levante anco altra gente.
Or qui conviemmi in tutte le maniere
Troncare il canto, e cercar di riposo;
Chè nel canto che vien mi fa mestiere
Star vigilante, allegro e spiritoso:
Perchè son certo di darvi piacere;
E l'udirmi saravvi sì gustoso,
Che se per sorte chetar mi volessi,
Mi preghereste perchè più dicessi.
[404]
Rinaldo e Orlando son trasfigurati
In dura pietra all'Isola del foco.
Ferraù gli scongiuri ha preparati,
Ma torna per amore al primo gioco.
I Pretoni di lui scandalizzati
Dentro la rete lo tengono un poco.
Il pescatore racconta allo Scricca
D'una che il morto suo marito appicca.
La maraviglia nasce da ignoranza:
Perchè chi sa come vanno le cose,
Se fra di lor non dassi discrepanza,
O se affatto non son miracolose,
Non istupisce; e in dire non s'avanza
Contro quel tal, che alcun fatto propose,
Che di cosa impossibile viso abbia;
Nè inarca il ciglio, o si chiude le labbia.
Chi non avesse mai veduto mare,
Nè fiume o fonte, nè acqua nïente,
Noi lo faremmo affè trasecolare
In dirgli come è fatto, e da qual gente
Viene abitato, e le diverse e rare
Nature d'esso, e come è trasparente,
E come nave di piombo ripiena
Vi galleggia, e v'affonda un gran di arena.
[405]
Chi crederà, come la sacra a Giove
Annosa quercia, che cotanto prende
D'aria e di terra, e che vento non move,
In una ghianda tutta si comprende?
E come nella vacca il bue si trove
Quando ella il toro a compiacer s'arrende?
E come un gran di miglio o di frumento
Sia produttor di cento grani e cento?
In somma dico: L'uomo sapïente
Non è siccome chi non ha studiato,
Ch'è protervo, e fa sempre il miscredente;
E ciò che non ha visto, oppur toccato,
Creder non vuole il barbaro nïente.
Onde io sarei del certo disperato,
Se questa storia giungesse in lor mano,
Che ha qualche fatto che pare un po' strano.
E trovar non potrei verso nè via
Che mi dessero certa e piena fede;
Massime in questo canto, ove la pia
Mente del sommo Dio sì ben provvede
Al mal di quella sfortunata e ria
Isola, fatta di Folletti sede:
Chè non può venir lor neppur in testa
Il frate co' giganti e la tempesta.
Ma grazie a voi, divine ed immortali
Donne gentili, io vo' render tuttora,
Che siete dotte e savie, e tali quali
Cose vi narro, voi credete allora;
E s'io dicessi che un asino ha l'ali,
E il foco va con l'acqua della gora,
Siete tanto discrete e manierose,
Che mostrereste credermi tai cose.
[406]
A voi dunque mi volgo, e omai ripiglio
Il tralasciato canto; e se non sbaglio,
Io dissi, come con turbato ciglio,
Bagnato, ignudo, ma col suo bagaglio,
Aveva Ferraù dato di piglio
All'Isola dei scherzi e del travaglio
Co' due giganti; e come da Ponente
Pur discesa in quel lido era altra gente.
E qui bisognerebbe ch'io dicessi
Ogni minuzia fino ad un puntino.
Ma so che brevitade io vi promessi;
E più tosto restar senza un quattrino
Vo', che mancare a quello ch'io v'espressi.
Dirovvi dunque in mio schietto latino,
Che con le mogli lor Ricciardo e Guido
Sceser senza saperlo in su quel lido:
E che Rinaldo ed il signor d'Anglante
Vi sceser pure per diverse strade:
Perchè a chi fa il mestier del navigante,
Domandar suo cammino non accade.
Tal vuol ire in Ponente, e va in Levante.
Il vento è il Dio dell'onde; e ovunque aggrade
A lui di fare andar questo e quel legno,
Conviene andare e romper suo disegno.
Sol vi dirò due cose, che mi penso
Che sieno necessarie a raccontarsi:
Una, ch'io vi racconti quell'immenso
Piacer di cui vedeste inebbrïarsi
Le donne e i cavalieri, e senza senso
Restar Dorina, e affatto abbandonarsi,
Conoscendo all'aprir della visiera,
Che il campion nero il suo marito egli era,
[407]
Acciocchè non istiate con pensiero,
E a lungo andare non m'esca di mente.
Riconosciuta adunque il campion nero
La sua bella Dorina ed innocente,
Più ratto assai che a lepre il can levriero,
Le corse a' piedi, e le chiese piangente
Perdon di quanto aveva e detto e fatto,
Reso per gelosia crudele e matto.
Il Garbolin di questi più non dice:
Ma saranno tornati a Saragozza,
Ove avran fatto una vita felice:
In somma qui la storia loro è mozza.
L'altra cosa da dirsi, e che radice
È del canto, e senza essa non si accozza
La storia, è che bisogna che del frate
Vi narri certe cose tralasciate.
Come vi dissi, se non prendo errore,
Due canti addietro, Ferraù partissi
Dalla capanna con divoto core,
E co' pensieri risoluti e fissi
Di darsi in avvenir tutto al Signore:
E i due giganti al mondo crocifissi
Partiron seco, e giunsero in Provenza,
Ed in Antibo fecer permanenza.
Quivi studiaro come disperati,
E si fecero bravi latinanti,
Nè fûro dal maestro mai frustati;
E andaron tanto con lo studio avanti,
Che dal vicino vescovo chiamati
Fûro, e promossi agli ordini più santi:
E da Tolon venivano a Marsiglia
Le genti per veder tal maraviglia.
[408]
Il dì di San Cristofor disser messa,
Ed ebber facoltà di confessare:
Ma don Fracassa però non confessa,
Perchè il segreto non sa conservare;
Ma l'altro ch'è la segretezza stessa,
Io dico don Tempesta, uom singolare,
Confessa; ed è sì buono e sì clemente,
Che non disgusta verun penitente.
Or posto questo, ritorniamo al lido,
E narriamo le cose bestïali
Che avvenner quivi. Di già me la rido,
Vedendo i due giganti co' piviali,
E con l'asperge, e con orrendo grido
Precettare i demonj capitali;
E quinci uscire a farvi missïone,
E intrecciarvi talor qualche sermone.
Ma lasciamo per ora i missionari,
E parliamo del conte e di Rinaldo,
Che mentre erran per l'isola, e di vari
Casi van ragionando, da gran caldo
Presi son sì, che fan sospiri amari:
Nè il buon conte potendo star più saldo,
Dice a Rinaldo: Mi par questo loco,
S'io non m'inganno, l'Isola del foco.
E van cercando di fontane e grotte;
Ma le fontane tutte son diacciate:
Onde forza è che ognun fra sè borbotte
In veder gelo, e sentir poi l'estate.
In questo mentre li giunge la notte
Con ombre tanto nere e sì serrate,
Che non si veggon più l'un l'altro in viso,
E li prende un gran freddo all'improvviso.
[409]
Disse Rinaldo: Dolce cugin mio,
In qual paese mai siam capitati?
Rispose il conte: Non tel so dir io;
Ma certo siamo in qualcun di quei lati
Che si è serbato lo sdegno di Dio
A castigare i tristi e scellerati;
Ed è l'inferno, o cosa che somiglia;
Tanto è il dolor che l'anima m'impiglia.
Se questo fosse, cugin mio, l'inferno
(Disse Rinaldo), ci sarìa più folla:
E qui, fuor di noi due, niun altro scerno.
Allor, qual tin che per vinaccia bolla,
E di fuor gorgogliando e per l'interno,
Alza all'intorno or una or altra bolla;
Si senton sotto i piè la terra alzare,
E susurrar d'intorno e cigolare.
Indi uscîr fuor con accesi tizzoni
Lamie, centauri e simile bestiame;
E vanno sopra a' nobili baroni,
E fan le lor persone afflitte e grame.
Si mette il buon Orlando in ginocchioni;
Chè non ci ên spade di sì buone lame
Da far difesa in simile tempesta;
E qualche volta si gratta la testa.
Rinaldo si dibatte e si dimena,
Ed or fère una lamia, ora un centauro:
Ma ridon essi, e a lui sopra la schiena
Battono, e il fanno come Etíope o Mauro.
Ma il buon Orlando con la faccia piena
Di pianto chiede a Dio qualche ristauro;
E mentre ei prega, ogni mostro dispare,
E si tranquilla il ciel, la terra e il mare:
[410]
E di fiori e d'erbette si riveste
La terra da per tutto; e frutti e foglie
Mostran le piante in quelle parti e in queste:
Ed ogni augel la lingua al canto scioglie,
Da volgere in piacere le più meste,
E le più crude e tormentose doglie:
Ma quel che rallegrar li fece affatto,
Fu la comparsa di più ninfe a un tratto.
Venner di non so dove, a sette a sette
Prese per man, le più belle ragazze
Che si vedesser mai, sincere e schiette.
Nude eran tutte; e in una man le tazze
Avevano, e nell'altra le fiaschette:
Parte erano imbrïache e parte pazze.
Una di loro ad Orlando s'accosta,
E gli fa sorridendo tal proposta:
Signor, la vita come lampo fugge,
E come pellegrin giunge e va via.
Pazzo è colui che in armi si distrugge,
E su le carte solo si ricría.
Quel vive lieto, che di Bacco sugge
Il buon licore, e la soave e pia
Madre d'Amore inchina, e del suo figlio
Segue i diletti con saggio consiglio.
Deh, prima che ti colga il dì fatale,
E poca polve il cener tuo ricopra,
Lascia quest'arme, che a sì poco vale,
Ch'ogni nome perisce, ogni bell'opra,
E godi nosco. Anche il piacere ha l'ale;
Ma per goder, fatica non si adopra.
Però, se saggio sei, come tu mostri,
Spògliati, e vieni negli alberghi nostri.
[411]
E un'altra al pro' Rinaldo avea già presa
La destra mano, e gli facea carezze;
Talchè, senza la menoma contesa,
Vinti fûro ambiduo dalle dolcezze
Di queste ninfe; ed han la faccia accesa
Di caldo amor, che pare il cor lor spezze;
E vanno sbevazzando, e fanno quello
Che avrei rossor di dirlo anche in bordello.
Ma durò poco questo loro spasso;
Chè le ninfe divenner tante botte,
E tanta roba loro uscìa da basso
Di piscio e sterco, che pignatte rotte
Sembravano, o qualcun forato masso,
D'onde l'acqua zampilla giorno e notte:
E gettò tanto questa sporca polla,
Che Orlando qualche poco ancor ne ingolla;
E vuol gridare; ma cresce la piena,
Ed a Rinaldo pur passato ha il mento.
Onde pensate voi, donne, la pena
De' paladini, e l'atroce tormento
D'aver sì brutto pranzo e brutta cena.
Orlando pieno di crudel talento
Vuole ammazzarsi, ma non può morire;
Nè sa l'altro che farsi, o che si dire.
Quando ecco che lo stagno puzzolente
Tutto s'indura, e fassi bianca pietra;
Ed il buon conte e Rinaldo valente,
Dal capo in fuora, misero s'impietra.
Non han più moto nè senso nïente:
Quando ecco piomba orribile dall'etra
Un fulmine sul masso, e lo dissolve,
Da' paladini in fuor, quanto era, in polve:
[412]
E ritornati quelli ad esser carne,
Ecco imbandir le dilicate mense;
E v'eran piatti di fagiani e starne,
Ed altre cose di dolcezze immense.
Dice Rinaldo: Io voglio un po' mangiarne.
Rispose Orlando: A ciò non fia ch'io pense:
Sì m'han turbato i pesci di quel lago,
Ch'odio più il cibo, che toccare un drago.
Rinaldo dà di mano alla forchetta.
Ed infila un fagiano, e quel sen vola;
Chiappa una starna, e mentre con gran fretta
La vuol tagliar per cacciarsela in gola,
Fugge, e con essa ogni altra pur sgambetta;
Talchè rimasta è la tovaglia sola.
Dice Orlando: Tu hai fatto molto presto!
Tace Rinaldo, e sta turbato e mesto.
Or mentre con Rinaldo Orlando stassi
Stupido in mezzo a tanta maraviglia,
Ferraù co' giganti a lenti passi
Va per un bosco, e un serpe l'avvinciglia:
E i due giganti sono presi a sassi,
Che vengon sopra lor lontan le miglia;
E gridan, quanto sanno, di concordia:
Nazareno Signor, misericordia!
A questa voce il serpe si disciolse,
E prese il frate un poco di respiro,
E nessun sasso più i giganti colse.
Perchè il buon Ferraù, dato un sospiro,
Di scongiurar quel loco si risolse;
E la cotta si mise, e si vestiro
Anche i giganti da capo alle piante
Di vesti sacre, e preser l'acque sante.
[413]
Ma prima che comincin lo scongiuro,
Climene e Ricciardetto con Despina
Ecco, e Guidone il giovine sicuro,
Con l'altra gente che il bosco cammina:
E visto il frate in abito sì puro
Con que' due cherchi dalla cappellina,
Dieder 'n un riso sì spropositato,
Che Ferraù ne fu scandalizzato:
E con arcigno viso là rivolto,
Donde venire udìo sì strano riso,
Crede che di demonj un drappel folto
Volato lì ne fosse all'improvviso;
Ma quando di Climene ei vide il volto,
Allora certamente fu d'avviso
Che un diavol preso avesse quell'aspetto
Per ingannarlo, e per fargli dispetto:
E pien di santa collera l'acchiappa
Per li capelli, e il mostaccio le sbruffa
Con l'acqua santa. Ella si copre e tappa
Meglio che puote, e seco s'abbaruffa;
Ma nelle mani de' giganti incappa;
E si attacca di subito una zuffa
Tra loro e i paladini; e si dan botte,
Che fanno in brani i piviali e le cotte.
Ferraù grida: Da parte di Dio
Io vi comando, spiriti dannati,
Che danno non facciate al clero mio,
E stiate sotto me subordinati.
Ma quelli che di pugna hanno desìo,
Van lor sopra, e dan lor colpi spietati.
Ferrautte a quel dir dice ai giganti:
Meniam le mani, e non facciam più i santi;
[414]
Chè questi son demonj, a quel ch'io veggio,
Che non hanno paura d'esorcista.
Risposero i giganti: Farem peggio.
A queste voci Ferraù s'attrista;
E vôlti gli occhi verso il divin seggio,
Dice: Signor, perchè l'iniqua e trista
Progenie ora da te sì si protegge
Contro chi segue la tua santa legge?
E tutti tre si metton ginocchioni;
E i paladini si metton da parte,
Nè dan loro più calci nè sgrugnoni.
Da' compagni Climene si diparte,
E a Ferraù che stava in orazioni,
Dimmi, gli dice, sacrosanto Marte,
Che credi tu che siamo? Egli la guarda,
E fa un sospir che pare una spingarda;
E si fa segni di croce a bizzeffe;
Ma vedendo che punto non si muove,
Dice tra sè: Queste non son già beffe
Di spirti, che non reggono a tai prove:
E volle fare come il buon Gioseffe,
Fuggire; ma nel mentre che si move,
Climene piglia in mano il suo cordone,
Ed al romito vien la tentazione;
E lo leva sì tosto di cervello,
Che l'asperges gli cade giù di mano;
E fisso in riguardar quel volto bello,
Ch'altre volte lo fece di Cristiano
Diventar Turco, e mandar in bordello
La pazïenza, il cappuccio e il gabbano,
Disse: O tu sia Climene, od il demonio,
Vorrei far teco il santo matrimonio.
[415]
Allora don Tempesta sacerdote,
Che sua mercede ebbe il battesmo santo,
Si fece come un peperon le gote,
E disse: Padre, or sfacciam noi l'incanto
Con sì calde orazioni e sì divote?
Io mi vergogno di più starti accanto.
Dov'è la tua virtude e il tuo giudizio?
Ritorna indietro, e fuggi il precipizio.
E don Fracassa anch'ei sèguita a dire
Parole sacre, tratte dal breviario;
Cioè che pensi come ha da morire;
E che non può pigliarsi un tale svario
Chi voto feo di castità soffrire.
Talchè principia sul suo calendario
Ferrautte ad averli tutti due;
E segni fa, che non ne può già piùe;
E dice loro: Quando io feci il voto
Di vivere e morir come la zucca,
Il core e il capo avea del tutto vuoto
Di quel visin che l'alma mi pilucca;
Ed era umìl, pazïente e divoto:
Ma quella vita tanto santa stucca;
E per quanto uom s'ingegni di star fermo,
Il senso ci travia guasto ed infermo.
Se in voi facesse quell'effetto stesso
Che in me fa sempre il volto di costei,
In breve avreste il vostro voto smesso,
E piangereste e gridereste oimei.
Così il severo giudice il processo
Fa con somma giustizia contro i rei;
Che se dovesse a sè formarlo poi,
Quanto men giusto lo vedreste voi?
[416]
Ci vuol pur poco a mettere a romore
Il vicinato, e biasimare altrui,
E un frate lacerar vinto d'amore.
Figliuoli miei, che vi credete vui
Che il tonachino ci pari l'ardore
Che mandan fuori largamente dui
Occhi leggiadri, nè possano i frati
Diventare in niun tempo innamorati?
Forse ci manca nulla ch'altro uom abbia,
O siamo fatti di quercia o di faggio?
Benchè arbore non sia, in cui sua rabbia
Non sfoghi Amore, e tenga in suo servaggio.
Altro ci vuol che dir: Domine, labbia,
E bever acqua, e cibarsi d'erbaggio,
Per non sentire o vincerli sentiti
Gli orgogliosi d'amor dolci appetiti.
Fuggir bisogna al primo primo sguardo
Di donna che ti piaccia, e allor diviene
Il nostro cuor magnanimo e gagliardo:
Ma se non dài di subito le rene
A quel bel viso, diverrai codardo;
E Amor porratti pesanti catene
Al collo, a' piedi, a' fianchi ed alle mani.
E giorno e notte farà darti a' cani.
Così fatto avess'io quel dì fatale
Ch'io vinsi gli altri, e me vinse costei.
Ma chi potea pensar che tanto male
Da sì bel volto ritratto ne avrei?
Il pianger dopo il fatto a nulla vale;
Nè il mio danno fuggir seppi o potei.
Sola mercè del guasto mio consiglio;
Chè veggo il bene, ed al peggior m'appiglio.
[417]
Però se avete un po' di caritade,
O di prudenza, o di discrezione,
Che tra noi altri sono cose rade,
Dite un po' voi la santa orazione
Da mandar via da queste contrade
I demonj; sebbene ho tentazione,
Che se 'l diavol può farsi un sì bel viso,
Di seco star senz'altro paradiso.
A tal bestemmia il savio don Tempesta
Lascia il breviario, e piglia la sua rete,
E sovra Ferraù la scaglia, e resta
Quegli prigion. Come creder potete,
Climene e gli altri ne fanno gran festa;
E la furbetta con sembianze liete
Gli va d'intorno, e vistolo in tal guisa,
Pianger vorrebbe, e le scappan le risa.
E quindi risonar l'isola tutta
S'ode di pentolacce e di fischiate.
Come di carneval, quando in bautta
Ed in maschera vanno le brigate,
Che in larga piazza la gente ridutta,
In veggendole fàlle le risate;
Così i demonj, a vederlo in quel modo,
Ridevan fra di loro sodo sodo.
Ma non durò gran tempo il piacer loro;
Chè don Tempesta a esorcizzar si mise
L'isola tutta con sommo decoro;
Talchè il diavol, se prima allegro rise,
Ora si trova in un crudel martoro.
Risponder non vorrebbe in niune guise;
Ma lo costringe il buon prete sì forte,
Che bisogna che parli, e parli forte;
[418]
E dice come ha nome Foratasca,
Ed ha seco di diavoli un milione;
E che se il sole dal cielo non casca,
D'abitar quivi è sua opinïone.
Taci, gli disse, mozzorecchio e frasca,
Il prete; ed incomincia l'orazione;
E mentre egli la canta, il lido freme,
E par che sia tutto l'inferno insieme.
Incalza il prete la bestia infernale,
E le comanda che prima d'uscire,
Gli narri, come dispiegasse l'ale
In questo lido, e chi le diè l'ardire.
Mostra ben ella avere ciò per male,
E a patto alcun non lo vorrebbe dire;
Ma Dio vuol per sua lode e per sua gloria,
Ch'egli lo dica, e ne resti memoria.
Comparve dunque in figura di nano
Il demonio, e montò sopra uno scoglio;
E sopra il fianco tenendo una mano,
Guardava il prete, tutto pien d'orgoglio:
Poi d'ira e di dolore ebro ed insano,
Disse: Giacchè a colui, al quale io voglio
Perpetuo male, or piace ch'io ragioni,
Udite tutti quanti i miei sermoni.
Questa una volta fu la più beata
Isoletta che mai bagnasse il mare;
Ma divenne in un dì sì sfortunata.
Ch'altra simile a lei non so pensare,
Pigliando dalla Caspia onda gelata
Alla sì calda che potrìa scottare.
Udite or come, di tanto felice,
La meschina si fe' trista e infelice.
[419]
Il signore dell'isola e la moglie
Moriro un dì da fulmine percossi;
Talchè tutto s'empì d'affanni e doglie
Il bel paese: e qual da turbin scossi,
Gli alber che prima avean sì belle foglie,
E sì bei pomi, verdi, bianchi e rossi,
Fan paura e pietade ai riguardanti;
Tali eran di quell'isola i sembianti.
Nulladimeno infra cotanto amaro
Qualche poco di dolce e di ristoro
Le genti di quell'isola trovaro;
Chè due figliuole, come coppe d'oro,
Gli estinti genitori a lor lasciaro,
Nate ad un parto, e con assai martoro
Della misera madre, e belle tanto,
Che parevano fatte per incanto.
Nè rosa a rosa mai, nè stella a stella
Simil tanto è, quanto simile ell'era
Una sorella all'altra sua sorella.
Io stesso, che a tentarle giorno e sera
Mandato fui dalla prigion mia fella,
Sbagliai più volte: di cerasa nera
Ambe una voglia avean nel braccio manco,
Ed un bel neo nel fin del destro fianco.
Le grazie, il brio e l'estrema dolcezza
Che avevano parlando, chi dir puote?
Or giunte queste a quella giovinezza
Che alla vista dell'uomo si riscuote,
E s'allegra d'aver grazia e bellezza
Per lui piacere, un perfido nipote
Del morto padre, di sfrenate voglie,
Arse d'avere l'una e l'altra in moglie.
[420]
Pensate or voi se in così tristo foco
Io soffiassi di cuore e giorno e notte;
Talch'ei, non più pace trovando o loco.
Ad una villa sua l'ebbe condotte;
E quivi in suono tremolante e fioco,
E con parole da pianto interrotte
Aperse loro il suo folle desire,
Che nell'udirlo elle ebbero a morire.
E tutti e tre racchiusi in una stanza,
Giurò di non voler quindi uscir mai,
S'ei non giungeva al fin di sua speranza:
O di finir per fame ivi i suoi guai,
Ed esse seco. In orrida sembianza
Disser le giovinette: E tu morrai,
E noi teco morremo volontieri;
E inventa pur, se sai, modi più fieri.
Il primo giorno scorse ed il secondo;
E già, qual fior che per troppo calore
Illanguidisca, il bianco e rubicondo
Color del volto lor d'atro pallore
Si ricoperse, e non fu più giocondo.
Allora quel maligno traditore
Cercò con acque e balsami possenti
Rinvigorir le forze lor cadenti.
Ma le oneste sorelle si abbracciaro;
E vôlti i prieghi a lui che mai è crudele,
Io dico a Dio, sì ben si confortaro,
Che, in cambio di lamenti e di querele,
Vicine al morir lor si rallegraro;
E quasi due bianchissime candele
Ch'ardano, e il vento le assalga improvviso,
Restò d'entrambe il bellissimo viso.
[421]
Viste morte le due vaghe sorelle,
Il misero squarciolle a brani a brani,
E poi li sparse in queste parti e in quelle,
Pasto di volpi, d'avoltoi, di cani.
Quella notte dal ciel fuggîr le stelle,
In veder fatti sì crudeli e strani;
E Dio sdegnato volle in carne e in ossa
Ch'ei giù piombasse nell'eterna fossa;
E diede a noi quest'isola in domìno.
Or tu, come entri a farci dipartire?
Qui il folletto si tacque, e a capo chino
Stiè del gigante la risposta a udire.
Ed egli: Io voglio, brutto malandrino,
Ajutato dal mio superno Sire,
Che quinci tu ti parta, e parta adesso;
Se no, ti frusto senz'altro processo.
E fattogli il comando nelle forme,
Ecco che tutta quanta si riscuote
L'isola, e sveglia, se alcun v'è che dorme:
E dalla parte di verso Boote
L'aria annerisce: e come vanno a torme
I negri stormi e fanno larghe ruote,
Così dall'isoletta a schiere a schiere
Givan fuggendo quelle bestie nere.
Liberata la terra da sì dura
Ed aspra servitude, ecco ad un tratto
Corese e Argéa che han tuttavìa paura
Di qualche strano incantamento e matto:
E la coppia sì franca e sì sicura
Dei due che tante belle imprese han fatto,
Io dico d'Orlanduccio e di Naldino,
Che han proprio braccio e spirito divino:
[422]
Ed ecco Orlando e il sir di Montalbano,
Che quivi in ritrovare i figli loro
Segni di croce si fecer con mano:
Ma usciron presto d'affanno e martoro,
Quando essi con parlare umile e piano,
Ma colmo di grandezza e di decoro,
Disser le cose come eran passate,
E lor mostraro le lor donne amate.
Di che i lor padri n'ebbero piacere;
Ma la festa s'accrebbe in infinito,
Quando fra tante e sì diverse schiere
Di genti capitate entro a quel lito
Potêr Despina e Ricciardo vedere,
E Guidone e Climene ed il romito,
Che nella rete tutto si dimena,
E mostra averne gran vergogna e pena
Onde Rinaldo prega don Tempesta
Che lo disciolga; e udita la cagione
Perch'ei gli pose quella rete in testa,
Gli dà parola e fa promissïone
Ch'ei farà vita in avvenir modesta:
Tanto più che Climene ella ha padrone.
Lo scioglie dunque, ed egli si ritira
In un cantone, e lagrima e sospira.
Or mentre qui si fan gli abbracciamenti,
Ecco che s'empie l'isola a romore;
Chè non so come, portati da' venti,
Qui si trovaro i piagati d'amore
Per la bella Despina, i re valenti
Che in Francia venner per mostrar valore,
Ed uccider Ricciardo, e per mercede
Aver Despina della Cafria erede.
[423]
V'era il persiano Oronte e il Signor trace,
E il re di Nubia di tal gagliardìa,
Che seco Marte vorrebbe aver pace.
Questi prende Despina, e fugge via,
Non altrimenti che lupo rapace
Semplice agnella che pel bosco stia;
E salta ardito sul primo naviglio
Ch'ei trova, e lascia l'isola in scompiglio.
E a tutti quanti i marinari impera
Che sciolgano le vele; e quelle sciolte,
Gonfia al principio un'auretta leggera,
Che sempre cresce: onde già miglia molte
Ha fatte, ed oramai viene la sera.
Su le altre navi vanno d'ira stolte
Le genti Franche; e il mesto Ricciardetto
Piange, e si batte per la doglia il petto.
Di questo fatto n'ho tanto dolore,
Che non ne posso mica più parlare,
Almen per qualche poco, onde il mio core
Si possa rïavere e confortare;
E vo' frattanto dell'isola fuore
Gire ancor io, e lo Scricca cercare,
Che giunto in Cafria si morde le mani,
Per esser stato vinto da' Cristiani.
E senza figlia e senza baronìa,
E senza erede, e inoltrato negli anni
Si muor di noja e di malinconìa.
Pur vuole, per scemare i gravi affanni,
Cosa provar che men dura gli sia;
E dispogliato de' suoi regj panni,
Al Fiacca e al Ficca lascia in guardia il regno,
E prende seco un baron forte e degno;
[424]
E vuol con esso andar girando il mondo,
E in tal guisa tentar la sua fortuna;
Chè spïando la terra a tondo a tondo
Di là dove il Sol muore e dove ha cuna,
Spera avviso trovar lieto e giocondo
(Se sempre il Fato la via non gl'impruna)
Della sua figlia: e con questo pensiero
Lascia il paterno suo famoso impero.
Si fa chiamare il Cavalier del Pianto;
E giunto un giorno in riva alla marina,
Ode di pescatori un lieto canto,
A' quai cortesemente s'avvicina;
E vede come ciascun tiene accanto
Una leggiadra e lieta contadina;
E cocendo sardelle in su la brace,
Se le mangian cantando in santa pace.
In vederli restaro un qualche poco
Gli allegri pescatori, e con buon viso
Poi gli guardaro, e lor fecero loco,
E seguitaron l'allegrezza e il riso.
Il Cavalier del Pianto anch'esso al foco
S'accosta; e presso a una fanciulla assiso,
Una sardella anch'egli ponsi in bocca,
Che nel mangiarla l'anima gli tocca.
Or questi seguitando il mestier loro,
Una a solo cantava dolcemente;
La qual tacendo, ripigliava il coro.
Cantava dunque: O fortunata gente,
Che aveste vita nell'età dell'oro,
E che viveste sempre allegramente,
Perchè non vi diè mai pena e cordoglio
Desìo di roba, o ambizïon di soglio!
[425]
Ma come or noi viviam, viveste voi;
Poveri sì, ma senza tema alcuna.
L'acqua de' fonti è dolce vin per noi;
E il verde prato, il mare e la laguna
Cibo ci dà, che non ci aggrava poi;
Nè sappiamo cosa è sorte o fortuna.
E ripeteva la bella brigata:
O gente felicissima e beata!
Ma perchè il sole già si tuffa in mare,
E l'ombre van cadendo giù da' monti,
Tempo lor par nella capanna entrare;
E cenno fanno con allegre fronti
Al cavalier, che voglia seco andare.
Egli, che molto più de' duchi e conti
Stima coloro, accetta il dolce invito,
Entra nella capanna, e lascia il lito:
E quivi entrato, nel mentre che or questi
I pesci lava, e quell'altro li cuoce,
Intorno al fuoco co' visi modesti
Stanno le donne, e con soave voce
Propongon giuochi, onde si tengan desti
I giovinetti; or quello della Noce.
Or quel dell'Uovo: e fatti questi e quelli,
Ne propongono sempre de' più belli.
Ma quel che piacque più, fu quel del Fiore;
Perchè una d'esse a un pescator dicea:
Tu se' un bel fiore. Ed egli pien d'amore:
Che fior son io, fanciulla? rispondea.
Ed ella co' begli occhi tutt'ardore
Guardandolo, diceva, e insiem ridea:
Tu sei, se non isbaglio, un fior di pero:
Dici d'amarmi, ma non dici il vero.
[426]
E quegli rispondeva similmente:
Voi siete un fior di rosa e di vïola,
E siete in beltà sola veramente.
E così intanto il tempo fugge e vola,
E si fa l'ora da sbattere il dente,
Ora che tanto gli uomini consola.
Viene la cena; e il Cavalier del Pianto
Anch'ei s'asside, e si rallegra intanto.
E dopo aver mangiato bene bene,
E bevuto anche meglio, un pescatore
Dice: Signor, dopo le nostre cene
Abbiamo un uso, che non è il peggiore,
Di cose dir piacevoli ed amene;
E il novellar ci dà gusto maggiore:
Però, s'egli v'aggrada, a lunghe e corte
Paglie vedremo a chi tocca la sorte.
Chi tira la più lunga, a quel s'aspetta
Dir la novella. Un uomo vecchio prese
La paglia in mano, e la teneva stretta:
Toccò la sorte a un pescator cortese,
Che tace in prima, e a ragionar si assetta;
Poi 'l viso di rossor tutto s'accese,
E detto ch'era rozzo parlatore,
Principiò sua novella in tal tenore:
In un paese assai di qua lontano
Donna trovossi sì piena d'amore
Del suo marito, che fu caso strano;
Talchè venendo quello all'ultime ore,
Vinta dal duol, prese un coltello in mano
Per trapassarsi banda banda il core:
Ma questo parve a lei poco tormento,
E si risolse di morir di stento.
[427]
Colla sua fante dunque ella s'invìa
Al loco ove il marito era sepolto:
Nel sepolcro discende, e vuol che stia
Seco ancor ella, e di lagrime il volto
Bagna, e sospira, e nulla si ricrìa;
Chè mangiare non vuol poco nè molto.
E già il secondo giorno egli è passato,
Che ha sempre pianto, e non ha mai mangiato.
La supplica la fante e la scongiura
A non voler morir sì crudelmente;
Ma l'amorosa donna nulla cura
Il suo pregare. E più già d'un parente
Ivi è giunto, e di vincere procura
Tanta durezza; ma non fa nïente;
Chè ferma ell'è voler così morire:
Serra l'avello, e niun più vuole udire.
Era il sepolcro del suo buon consorte
Fuora della cittade un trar di sasso;
E in quei contorni soleva la corte
Alzar le forche sopra un certo masso.
Avvenne dunque che dannato a morte
Fu un uomo tristo, detto il Satanasso;
Tanto era iniquo, e tanti latrocinj
Fatto egli aveva, e stupri e lenocinj.
Ed il giudice savio, per esempio
Degli altri, volle che niun lo spiccasse;
E giurò fare un memorando scempio
Di chïunque dal legno lo staccasse:
Nè palazzo real nè sacro tempio
Lo farà immune, se in lui si salvasse:
E vuole a questa pena sottoposto
Anche il soldato che a guardia ci ha posto:
[428]
Chè se per oro, o pur per negligenza
Lascerassi rubare il corpo morto,
Lo condanna alla stessa penitenza,
E allungheragli il collo, se l'ha corto:
E per le piazze affissa la sentenza.
Un giovine soldato bene accorto
In guardia delle forche fu lasciato;
Lo che del morto afflisse il parentato.
Passa quel giorno, e vien la notte oscura
Più del costume, ch'era nuvolosa.
La donna intanto nella sepoltura
Vie più si lagna ed è vie più dogliosa.
Usciva fuor di quella pietra dura
Qualche splendor della lucerna ascosa:
Verso il sepolcro il soldato s'accosta,
Ed ode il pianto e gente ivi nascosta.
Alza la pietra, chè robusto egli era,
E vede quella donna addolorata:
E se bene ella avea pallida cera,
Da dolore e da fame consumata,
Vede che bella è molto, e che mogliera
Sia di quel morto crede. Ella nol guata,
E séguita il suo pianto e sue querele,
E chiama sè meschina, e il ciel crudele.
Torna il soldato al posto, e prende seco
La fiasca e la sua cena, e là sen riede,
Dove sepolta dentro al freddo speco
La donna tutta amore e tutta fede
Stassi, e la fante, che con occhio bieco
La sgrida, e prega che almen per mercede
Del suo lungo servizio prender voglia
Qualche ristoro, ed allentar sua doglia.
[429]
Ma la stolta d'amor vie più s'ostina:
Quando il soldato in mezzo a lor si pone,
E dice: Qual pazzìa sì vi rovina,
Bella signora, e leva di ragione,
Ch'esser deve d'ognun donna e reina?
Il vostro sposo è in tale regïone,
Che de' vostri dolori non sa nulla,
E stassi allegramente e si trastulla.
Finchè egli visse, voi faceste bene
Ad amarlo con tutto il vostro core;
Ma or ch'è morto, e qual fede vi tiene
Di ritener vêr lui lo stesso amore?
Voi siete pazza da mille catene,
Se vi ostinate in così tristo umore.
Deh lasciate, signora, tanti affanni:
Non mancherà chi rifaravvi i danni.
E la prende per mano, e la conforta.
Lo stesso fa la fante; e spiega intanto
La tovagliola, e il morto in là trasporta,
E la sua cena le apparecchia accanto;
E la prega sì bene e sì l'esorta,
Ch'ella pon fine alcun momento al pianto,
E mangia un poco, e beve del vin nero
A un rozzo sì, ma polito bicchiero.
E s'inoltra la cosa tanto avanti,
Che del soldato in breve s'innamora;
E fan tra lor, siccome fan gli amanti,
Quando il permette la fortuna e l'ora.
Ma mentre che costoro han vôlto i pianti
In gran dolcezza, e il guardia non è fuora,
I parenti del morto presto presto
Van su le forche, e tagliano il capresto;
[430]
E se lo portan via subitamente.
Il soldato frattanto si ricorda
Dell'impiccato, e manda immantenente
La fante, perchè vegga se alla corda
Legato egli si stia, e ancor pendente;
Chè dell'aspra sentenza non si scorda.
Torna la fante, e piange e si dispera,
Perchè quell'impiccato più non v'era.
A tal nuova il soldato e la matrona
Fecer gran pianti: perchè è cosa certa
Che il pretor la mattina a lui la suona,
S'egli non fugge alla campagna aperta,
E sua donna gentil non abbandona:
Sicchè di nuovo misera e diserta
Si rivede la donna, e ancor non sanno
Come sfuggire l'uno e l'altro danno.
In queste angustie e dubbiezza di mente,
Alla donna sovviene in su due piedi
Un ripiego assai bello ed eccellente,
E disse: Sposo mio, come tu vedi,
La Fortuna m'ha in odio veramente;
E se con l'amor tuo tu mi concedi
Sommo piacer, costei colma di sdegno
Si pon tra noi, e guasta ogni disegno.
Ma questa volta romperassi i denti
Quella crudele, e non farammi male.
Prendiamo questo morto, e mi consenti
Che salghiam delle forche ambo le scale,
E impicchiam lui, e inganniamo le genti;
Giacchè uomo morto a nulla affatto vale.
Piacque assai la proposta, e in un momento
Traggono il morto fuor del monumento;
[431]
Ed alle forche l'attaccan di botto;
Nè se n'accorse alcuno la mattina.
Ma non gran tempo stiè tal fatto sotto,
Chè venne a galla, e il seppe la regina,
E al marito suo ne fece motto,
Che assai lodò l'astuzia femminina;
Poi sorridendo disse alla consorte:
Donna che sia pregata, non sta forte.
Qui finì sua novella il pescatore,
E ognuno alzossi per ire a dormire.
Al Cavalier del Pianto fanno onore,
Ed alla stanza lo voglion servire.
Li ringrazia egli del cortese amore,
Ed all'albergo suo solo vuol ire.
Vassene adunque, e tosto s'addormenta:
Or noi dunque aspettiam che si risenta.
[432]
Despina a Serpedonte è destinata.
Libera Ricciardetto i suoi cugini.
Don Fracassa nell'isola infocata
Fa molto frutto co' suoi sermoncini.
Ferrautte, partendo la brigata,
Missionario riman de' Babbuïni.
Vuol l'afflitta Despina anzi la morte,
Che pigliar Serpedonte per consorte.
Chi sta nel mondo un par d'ore contento,
Nè gli vien tolta ovver contaminata
Quella sua pace in veruno momento,
Può dir che Giove drittamente il guata,
C'ha il mar benigno, e gli dà in poppa il vento:
Perchè nostra natura ella è formata
Dal Fabro eterno in modo tal, che accanto
Alle allegrezze stassi sempre il pianto.
E questa cosa ell'è cotanto vera,
Che a dirla giusta, non fallisce mai.
Però ne' casi avversi il saggio spera,
E in grembo alle fortune ha mira a' guai:
Chè il chiaro Sole ci apporta la sera,
E la sera del Sol ci apporta i rai;
E il bell'autunno al verno reo ci mena,
E il verno a primavera alma e serena.
[433]
Onde chi ben conosce sua natura,
E come son le cose de' mortali,
Quando ha del bene, goderlo procura,
Pria che s'impiumi, e poi disciolga l'ali:
E quando giace in alcuna sventura,
Sperando il bene disacerba i mali;
E non fa come il nostro Ricciardetto,
Che vuol per doglia trarsi il cuor dal petto.
Il re di Nubia ebbe miglior cervello,
Che tanto tempo perduta Despina,
Non cercò di capestro o di coltello
Per fare al suo dolore medicina;
Ma dormì queto; e del buono e del bello
Mangiò sempre la sera e la mattina;
E bevve, ancor che il vieti l'Alcorano,
Per istar lieto, del Montepulciano.
Chè per amore volersi ammazzare,
Oltre che è cosa sciocca e pazza bene,
E ad ogni conto si deve biasmare;
Talchè neppur vorrei che su le scene
Sciocchezza tale si vedesse fare;
Son gli affanni d'Amore e le sue pene
Cose da nulla e mere bagattelle,
Rispetto a gotta, calcoli e renelle.
E così si potesse egli guarire,
Siccome dall'amor, da questi affanni,
Che alla fin fine ti fanno morire;
Che in pochi giorni, non in mesi o in anni,
Amor dal nostro sen si fa partire:
Basta stringergli addosso bene i panni,
Nè dar fede a' sospiri e lagrimette
Di queste ragazzacce maladette.
[434]
Ma il mele, che anche agli orsi piace molto,
Fa che il dolce d'amor ci alletti troppo:
Onde ognun corre alla beltà d'un volto,
E nel ritorno egli è inchiodato e zoppo.
Pur quanto in sua virtù s'è un uom raccolto,
Discioglie e rompe ogni amoroso intoppo:
Ma queste cose non si voglion fare,
E però ci conviene lagrimare.
Se amicizia avess'io con Ricciardetto,
Vorrei far sì ch'egli si desse pace.
Ma seguitiam l'istoria. Io già v'ho detto
Che il re di Nubia, qual lupo rapace,
Si portò via Despina suo diletto,
Che in lagrime e sospiri si disface,
E lo chiama tiranno ed assassino,
Nè vuole averlo in modo alcun vicino.
Il principe feroce usa sovente,
Per addolcirla, pietose parole;
Ma l'affannata giovine non sente,
E del suo caso misero si duole.
Ma quello che l'accora veramente,
E per cui senza fallo morir vuole,
È che la pietra gialla al suo Ricciardo
In man restò, non so per qual riguardo.
Onde non sa come fuggir di mano
Al fiero amante, a cui già già rincresce
D'esser trattato in modo così strano.
Esser vorrebbe la meschina un pesce,
O qualche augel, per gir da lui lontano;
Ma in questo mentre il desiderio cresce
Nel sir di Nubia in sì fatta maniera,
Che o la vuol morta, o vuolla per mogliera;
[435]
E le dice: Despina, assai cortese
È chi domanda quel che ha in suo potere:
Io vorrei l'amor tuo senza contese;
Ma quando questo non possa ottenere,
Avrollo a forza. E furibondo stese
Vêr lei le braccia vinto dal piacere;
Ond'ella il prega che in Nubia la guidi,
Oppur di Cafria ne' paterni lidi:
Ed ivi gli sarà, conforme ei brama,
Sposa e regina; e finse serenarsi.
Il principe, che sì l'adora ed ama,
Le crede, e giura che potrà sforzarsi,
E porrà fine alla cocente brama;
E i marinari suoi prega a sbracciarsi
Quel più che ponno, e prega i Dei del mare
E i venti che lo vogliano ajutare.
E gli fur sì benigni e tanto amici,
Che una nuvola in ciel non fu mai vista;
Ed aure dolci, placide e felici
Spiravan sì, che un dì vennero a vista
Delle africane ed aride pendici:
Di che fu nel suo cor dolente e trista
L'infelice Despina, e in suo segreto
S'affligge, e di fuor mostra il volto lieto.
Spedisce con la picciola barchetta
Un marinaio al porto, a dare avviso
Com'egli è giunto; e dal porto a gran fretta
In Nubia passa con allegro viso
Al padre suo spedito per staffetta
Un giovinetto, che di polve intriso
E di sudore non corre, ma vola;
E con tal nuova la corte consola.
[436]
Serpedonte nel porto a mezzo giorno
Entra; e di voci barbare risuona
Il porto e tutto quanto il lido intorno.
Egli era grande assai della persona,
E bello ancor, ma nulla affatto adorno
Di quelle grazie che natura dona;
Chè aveva aspetto e maniera superba,
Un parlar aspro e guardatura acerba.
Discende questi; e la bella Despina
Presa per man da lui discende ancora.
Egli impera a ciascun che in sua regina
Lei prenda da quel punto e da quell'ora:
E mentre ognuno l'adora e l'inchina,
E gode avere sì gentil signora,
Ecco di Serpedonte il vecchio padre
Tutto attorniato da guerriere squadre,
Che il figlio abbraccia, e della lunga assenza
Ristora i danni e le passate angosce,
Vedendol sano. Alla real presenza
Despina ei guida; e perchè in lei conosce
Quanto puote modestia e riverenza,
Non temer, dice, chè in te riconosce
Mio padre a più d'un segno, che tu sei
Figlia di regi, oppur di sommi Dei:
E non sol goderà d'averti in nuora,
Ma farà fare anche l'usate feste.
E in ciò dir la conduce al padre allora,
E dice: Questa che in sembianze oneste
Vi meno avanti, di Cafria è signora,
Ed è mia sposa. Il rege manifeste
Dimostrò sue allegrezze a tale avviso;
Tanto piacer gli comparve sul viso:
[437]
Ed ordinò la giostra di tre giorni,
E che frattanto se ne desse parte
Non sol nel vicinato e ne' contorni,
Ma alle genti remote; e messi e carte
A dame invìa e a cavalieri adorni;
E quindi forma con mirabil arte
Su la spiaggia del mare uno steccato,
Che mai più bel si vide in nessun lato.
Fece spiantare dai boschi vicini
Abeti e faggi, e querce alte ed annose,
E platani e cipressi ed alti pini;
E tutti quanti in bell'ordin dispose,
Perchè il cocente Sole non rovini
Con le sue fiamme troppo luminose
Il piacer della festa; e mise in giro
Sedili d'oro ornati di zaffiro.
Il vano poi della nuova boscaglia
Fece coprire d'un candido bisso
Tutto a fior d'oro che la vista abbaglia.
Quindi nel mezzo di cristallo fisso
Un cilindro è, che par che un miglio saglia,
Dove posa quel cielo e stavvi affisso;
E intorno intorno pon d'oro e d'argento
Tele, che in veritade era un portento:
E fe' venir lontano cento miglia
Una fontana d'acque cristalline,
Che in alto sale, e tutta si scompiglia,
E par composta di minute brine;
Poscia cadendo forma a maraviglia
Un bel laghetto, che ha per suo confine
Un orlo di smeraldi: e il cavo spazio
Formato egli è d'orïental topazio:
[438]
E un'isoletta in mezzo al piccol lago
Compon tutta di perle e di carbonchi;
E quivi un trono fa metter sì vago,
Che innamora a vederlo: interi e tronchi
Vi son coralli, che formano immago
D'un vago scoglio; e da purpurei bronchi
Pendono ove diamanti e dove perle,
Che una rara bellezza era a vederle.
Quivi tre sedie nobili fa porre
Per sè, per la regina e per il figlio;
E al vincitore un premio fa proporre,
Che non puote idearsi uman consiglio;
E s'io nol dico, pensarvi che occorre?
Questo di perle egli era uno smaniglio;
Ed ogni perla come un uovo ell'era
O di gallina, o d'anitra cianciera.
Ma nel mentre che il re pensa alla giostra,
E Serpedonte l'opera dispone,
Despina nella più segreta chiostra
Nascosta s'è della real magione;
E piange e si dispera, e ben dimostra
Quanto ella adori il bel Franco garzone,
E quanto l'addolori e le dispiaccia
Vedersi di quest'altro infra le braccia;
E dice: Dunque non avrà riparo
Questa d'affanni sì terribil piena?
E pur de' casi nostri non è ignaro
Il sommo Giove, che l'aria serena
E il tutto regge, e si diletta al paro
Dar premio al giusto, e al peccator sua pena.
Or come dunque egli potrà soffrire
Vedermi ognora d'affanno morire?
[439]
Egli ben sa che del mio Ricciardetto
Io porto il cuor, nè posso esser d'altrui;
E che il mio cuore si sta nel suo petto,
E che una cosa sola siamo in dui.
Or perchè dunque si piglia diletto
Che venga un terzo a mettersi fra nui,
E quello al suo, e me tolga al mio bene,
E ci empia entrambi di tormenti e pene?
Ah che ho timore, e sia pur pazzo e vano,
Ch'egli, contento in sua beata sede,
Non curi il nostro male acerbo e strano:
Chè chi può rimediare al mal che vede,
E non vuol farlo e stassene lontano,
Ch'egli lo voglia, da ciascun si crede;
E chi senza ragion vuole alcun danno,
È micidiale e barbaro e tiranno.
O Ricciardetto mio, o mio tesoro,
dolce sposo, ove adesso sarai?
Io misuro dal mio il tuo martoro,
E i sommi affanni tuoi dalli miei guai:
Ma non temer, che nè beltà, nè oro,
Nè regni a te m'involeranno mai.
A te donommi Amore e mia Fortuna,
Nè a te mi torrà mai cosa veruna.
E qui rinforza l'afflitta Despina
I suoi lamenti e l'alte sue querele.
Ma torniamo al garzon che si tapina
Su l'isoletta, e chiama Dio crudele,
Perchè ha permesso l'orrida rapina;
Ed ha veduto già sparir le vele
Della nave che porta furïosa
La sua sì bella e sì diletta sposa.
[440]
E perchè dietro alla nave fugace
Tutti son mossi, ed ei restato è solo,
In un mare di pianto si disface.
Ma quello per cui più cresce il suo duolo,
È che nel porto niun legno capace
V'è di portarlo; ed ei levarsi a volo
Nè sa, nè puote: onde affatto dispera
Di più trovar l'amata sua guerriera.
Quel che si dice della tortorella,
Quando il falcone o il cacciatore avaro
Le ha presa o morta la compagna, ch'ella
All'aer bruno, all'aer puro e chiaro
Sempre geme e sospira, e sempre appella
Lei che non l'ode in quel suo pianto amaro;
Lo stesso di Ricciardo dir si puote:
Con tante strida l'isola percuote.
Ma quando alla ragione diede loco,
E il core afflitto rallentò sua pena,
E i generosi spirti preser foco,
Talchè di sdegno ha l'anima ripiena;
Alla sua donna non più pensa o poco,
Ma pensa alla vendetta; e su l'arena
E ne' porti di Nubia esser vorrìa
Apportator d'aspra tempesta e ria.
Nè or più nell'amorosa anima pinge
Il dolce Amore a lui gli occhi e i capelli
Della sua donna, nè con rose cinge
I bei denti d'avorio, e i grati e belli
Modi con cui sì lo incatena e stringe;
Ma in mano del furor sono i pennelli,
Che a colore di sangue orrido e nero
Pinge di Serpedonte il volto fiero:
[441]
E gliel dipinge nella guisa stessa
Con cui lo vide quando portò via
La sua Despina da dolore oppressa.
S'arma egli adunque, e quasi si ricrìa,
Pensando al giorno che gli sia permessa
Quella battaglia ch'or tanto desìa:
E già gli par la temeraria fronte
Aver recisa all'empio Serpedonte;
E di ascoltare dalla sua Despina
Gli sdegni e l'arti e i fortunati inganni
(Di cui n'hanno le donne ampia fucina)
Ch'ella usò in mezzo a quei fieri tiranni
Per conservarsi sua sera e mattina;
E gli pare anco de' passati danni
Seco parlando averne tal gioire,
Che può pensarlo, e non lo può ridire.
Con la dolcezza di questi pensieri
Gli torna in mente come tutte ha seco
Della sua bella donna in un forzieri
Le pietre e l'erbe, che nell'alto speco
A lei donò Silvano; e a lui fur jeri
Date da lei, prima che l'atto bieco
Commesso fosse: e principia a sperare
Di poter quinci, lor mercè, scappare.
E la pietruzza gialla in man si prese,
Che invisibile fàllo a chi che sia;
Ed all'estremo lido indi discese
Per vedere se alcun legno giungìa.
Or qui lasciamlo, ed in altro paese
Andiam seguendo della Musa mia
Il presto volo; e parliam, se v'è grato,
Di Rinalduccio e d'Orlandin pregiato.
[442]
Dopo aver navigato cinque giorni,
Giunser costoro con la lor barchetta
'N un mar che non ha lido che il contorni;
Sol giace in mezzo ad esso un'isoletta
Bella ed aprica, e d'alti faggi ed orni
Ornata sì, che a vederla diletta.
Quivi pregano Argéa, quivi Corese
Di scendervi, e di starvi almanco un mese.
Il suo nome non sanno i naviganti.
Nè qual gente vi stanzi, o a chi s'aspetti;
Ma Naldin disse: Non pensiam più avanti,
E a pigliar terra ognun di noi s'affretti.
Già il giorno scoloriva i suoi sembianti,
E già mossa era da' suoi neri tetti
La notte, che ricchissima di stelle
Par che ci tolga, e dà cose più belle;
Quando son presso all'isoletta tanto,
Ch'odon le voci e veggion le persone.
Ma perchè l'aria ell'era oscura alquanto,
Veggiono poco o nulla. In conclusione
Starsi nel porto quella notte intanto
Pensa il piloto, come è di ragione;
Ch'entrare in casa d'altri all'impazzata,
È cosa che non puote esser lodata.
E prender lingua frattanto procura,
E che si stia su l'armi ognuno avverte;
Benchè non v'è pericol di paura,
Ma che più tosto l'isola diserte
De' due cugini l'immensa bravura;
Che avean le mogli lor sotto coperte,
E stavano a vedere su la poppa
Giocare i marinari a massa e toppa.
[443]
Passò presto la notte; chè in quel loco,
Qual è vicino alla fascia bruciata,
Il miserello Sol riposa poco;
Ma da' suoi raggi è tanto travagliata
L'isoletta, che par fatta di foco:
Pur delle piante fa la dolce e grata
Ombra, e le fonti che scorron per essa,
Che l'abitazïon vi sia permessa.
Venuto il giorno, saltan sul terreno
Le donne, i cavalieri e i marinai;
E lo veggion di popolo ripieno,
Ma brutto molto e scontraffatto assai.
Quand'ecco sotto un baldacchin di fieno
Balzar tra ginestreti e gineprai
Il rege e la regina, e per l'incolto
Luogo trar seco un popol lungo e folto.
All'apparir che fecero costoro,
I giovani e le donne stupefatte
Restaro, e si ammutiron tra di loro:
Chè nella valle star di Giosafatte
Stimâr; chè di tai genti il tristo coro,
Siccome da natura furon fatte,
Avea le membra; e quelle eran sì sporche,
Che a vederle parean pistrici ed orche.
Uomini e donne con la testa calva,
E senza pelo ancor le ciglia e il mento,
Avean la pelle di color di malva,
Schiacciato il naso, e le due labbra indrento,
Lunghe le mani; e chi da lor si salva,
Può dir ch'egli è simile ad un portento,
Tanto son ladri; ed hanno brevi e corti
I piedi, e gialli come gli hanno i morti.
[444]
Giunti costoro avanti a' paladini,
Incominciaro a far risa da matti,
Parendo lor che fossero orsacchini,
O simili animali scontraffatti.
Disse Nalduccio: A questi burattini,
A queste scimie, a questi brutti gatti
Mi vien pur voglia di levare il ruzzo;
Chè già principia ad annojarmi il puzzo.
Ed Orlandino pur presa la muffa
Avea per quello così pazzo riso:
Onde, senz'altro dire, a fiera zuffa
Venne con essi; e fu di sangue intriso
Il suolo sì, che il ginocchio vi tuffa;
E tanto fuvvi popolaccio ucciso,
Che pochi la scamparo, e solo resta
Il re con la regina afflitta e mesta;
E chieggono pietade ad alta voce
A' due guerrieri, e giuran, se vorranno,
L'isola dargli, e scampar cotal croce;
Chè scegliere de' due il minor danno
È gran saviezza: e se ben molto nuoce
L'alta discesa dal reale scanno,
Nulladimeno quel salvar la pelle
Si ripon sempre tra le cose belle.
I due guerrieri, onor del nome Franco,
Rinfodraro le spade a tali accenti,
Ed abbracciare i regi, e lor fêr anco
Mille gentili e grati complimenti;
E messisi ambidue presso al lor fianco
Con le lor belle donne, che lucenti
Astri pareano per la gran beltade,
Con essi entrâr nella real cittade.
[445]
Non torri, non palazzi o templi augusti,
Non larghe piazze, non teatri o logge,
Non statue, nè obelischi alti e vetusti
In essa son; chè a differenti fogge
Formata ell'è, e di diversi gusti;
Perchè a fuggire il sole e le gran piogge
Han buche e grotte ed altri ripostigli,
A maniera di tassi e di conigli:
Ed un gran sasso è la porta di casa;
Ma dentro, dalle provide formiche
Han preso esempio. Qui pulita e spasa
Evvi una stanza, ove non grani e spiche,
Ma v'ên di mele, di pere e cerasa
(Cibo lor proprio) monticelli e biche:
Qua varie celle; e di tutte l'uscita
È facile oltre modo ed è spedita.
Non vogliono che il Sol mai vi penétri,
Tanto è cocente; ma certi animali,
Che sembran fatti di cristalli e vetri,
E tutti luce, lor fan da fanali.
Di questi ornan lor tombe e lor ferétri;
Alla lucciola nostra in parte eguali
Sono; ma questa di dietro riluce,
E quelle sono tutte quante luce.
Il palazzo reale era il più basso
E il più profondo d'ogni altro tuguro.
Così forse tra noi la volpe e il tasso
Hanno lor tane e lor luogo sicuro.
L'atrio era grande, e tutto era di sasso;
E quinci e quindi alzato v'era un muro
Non già di quadri adorno o fregi illustri,
Ma di canne lievissime palustri.
[446]
Nella gran sala, ovvero nel gran piano
Della regia spelonca, il più bel fiore
Accolto s'era del popolo strano,
Che, come dissi, di verde colore
Avea la pelle, e lunga assai la mano.
Ora questi, per fare un qualche onore
Agli ospiti sì forti e valorosi,
Fecer lor feste e giuochi curïosi.
Dodici donne co' piedi legati
Di dietro, e con le mani alla cintura,
Ballavan come gatti innamorati,
A cert'aria di suono acerba e dura,
Che il ballo esser parca de' spiritati.
Venivano poi loro in dirittura
Dodici giovinetti, anch'essi presi
Per ambo i piedi, ed ambo i contrappesi.
Le funi delle donne in man tenea
La regina che stava sopra il trono;
Ed il re quelle degli uomini avea.
Or quando il loro ballo era sul buono,
La regina una fune a sè traea;
Onde se stata forte più d'un tuono
Fosse la donna, ella è ben cosa chiara
Che far doveva una caduta amara.
Così la fune tirando ambidue,
Andaro in terra tutti i ballerini,
Con la pancia sul suolo, e il dorso in sue:
E mentre questi miseri e tapini
Stavan col volto in guisa tale in giùe,
A suono di chitarre e vïolini
Il re e la regina e i cavalieri
Pizzicando gli andavano i messeri.
[447]
Poi terminato il ballo, d'odorosi
Fiori e d'erbette altrettante corone
Portava un paggio, e su' capi dogliosi
Le riponeva di quelle persone
Che fur gettate a terra; e con giocosi
Canti, da farsi in casa di Plutone,
Li menavano in giro per la stanza,
Finchè non serenasser lor sembianza.
Quindi sopra un gran palco erano posti,
Ch'era maggior del regio trono ancora;
E qui, siccome a Dei, gli eran proposti
Indovinelli e dubbj a ciascun'ora:
Ed essi or a' vicini, or a' discosti
Davan risposta senza far dimora;
Talchè del giuoco Naldino s'invoglia,
E porta un dubbio, e vuol che se gli scioglia.
Ed il dubbio fu questo: Se si possa
Una donzella conservar fedele
Al primo amante, se d'un altro in possa
Si trovi, che lei chiami aspra e crudele,
Ed or tremante, or con la faccia rossa,
Or dolente, or pietoso si querele;
Massime quando quell'altro è lontano,
E di più averlo lo sperar sia vano.
Risposer tutti ad una voce sola,
Che fedeltade in donna non alligna.
Canaglia! voi mentite per la gola,
Disse Corese con la faccia arcigna.
Argéa di poi non sale già, ma vola
Sopra del palco, ed i denti digrigna,
E strappa le corone a questo e a quello,
E vacca par fuggita dal macello:
[448]
Ed ecco a un tratto tutti le son sopra.
A questa vista i forti paladini
Fan lama fuora, e si comincia un'opra
Che passa del credibile i confini.
Va il palco a terra, e la gente sossopra:
Chi più fugge, ha più senno: i re meschini
Non scendono dal trono per paura,
E stan guardando de' suoi la sventura.
La bella Argéa fu presto liberata;
Tanto spavento ciascheduno impiglia.
Ma mentre quella coppia infurïata
Uccide, storpia, rovina e scompiglia,
Eccoti cosa barbara e spietata,
Che in un mi fa spavento e maraviglia:
Una furia, un fantasma, un mostro tale,
Che ha di demonio più che d'animale.
È nero assai e grosso come un porco,
Ed ha la testa e il dorso e piedi e coda
Tutta piena di zampe, e sembran d'Orco:
Ha lunghi i denti, e la pelle sì soda,
Che vince il bronzo; ed un grugno sì sporco,
Che cola sempre di sanguigna broda.
Or questi apparve in meno d'un baleno,
Non si sa come, rompendo il terreno;
E con le branche e con l'ugne d'arpìa
Ghermì le belle donne, e presto presto
Ritornò sotto terra, e fuggì via.
Nalduccio, ch'era un garzoncello lesto,
Non istà punto a misurar la via,
Ma salta dietro il mostro: afflitto e mesto
Resta Orlandino, ed al trono reale
S'invìa alla peggio, come un animale.
[449]
Ma quelli non lo stettero a aspettare,
E si precipitâr di dietro al trono;
Poi si misero entrambi a sgambettare
Per certe buche, e già salvati sono.
Orlandino non sa più che si fare;
Ma non per questo dassi in abbandono;
Anzi in man prende un di quelli animali
Che fanno lume a guisa di fanali;
E per le buche, dove entrò la bestia
Con le donne leggiadre e Rinalduccio,
Passa sicuro; e non gli dà molestia
Entrar, come dir suolsi, in bocca al luccio;
Anzi grida feroce, e più s'imbestia
Quanto più scende: sì lo tocca il cruccio
Pel suo cugino e per la sua consorte,
Ch'odia la vita, ed ha in desìo la morte.
Or mentre egli va innanzi, ode un rumore
Di gente che combatte, e insieme ascolta
Sospiri e pianti e voci di dolore.
Ma diremo di questi un'altra volta;
Perchè ora, tra l'affanno e tra l'orrore,
Non so che dirmi; e se non si rivolta
Fortuna a lor favore, ho gran spavento
Che non muojano tutti colà drento.
La gioventù va via, e non riflette,
Che dopo il danno, a quel che vien da poi;
Però quando uno imbianca le basette,
Guida in altra maniera i fatti suoi.
Ma così fanno tutti, e non si mette
Giudizio che col tempo: ancora noi
Femmo lo stesso; e gli altri che verranno
Dopo di noi, lo stesso pur faranno.
[450]
Però diceva ben quell'uomo saggio,
Che giovin non si loda per saviezza,
Come per frutti non si loda il maggio,
Nè l'inverno per fiori. Ha giovinezza
I proprj doni; e ben le arreca oltraggio
Chi prudenza in lei vuole, e vuol fermezza:
Il meno pazzo al mio parere è quello
Che tra' giovani ha un'oncia di cervello.
Ma io vi veggio in sì strano dolore,
Se lascio in tal periglio, in tale affanno
I bei garzon, che ve ne scoppia il core;
Ed ho timor che non n'abbiate danno,
Donne gentili: onde per vostro amore
Salto l'istoria; e quelli che la sanno
Non mi sgridin per questo; chè alla fine
De' poeti le donne son regine.
Or dunque per seguir la tela ordita,
Venghiamo a don Tempesta e a don Fracassa,
E insieme al pentitissimo eremita,
Che col suo pianto ogni gran fallo cassa,
Di cui abbonda la sua trista vita;
E tale esempio, dovunque egli passa,
Dà d'umiltade e di devozïone.
Che vien preso per santo Ilarïone.
Tiene una fune a' fianchi ed una al collo;
Nude ha le spalle, e tanto se le batte,
Che par ch'egli percuota un qualche stollo,
O sia sua pelle cuojo da ciabatte.
Guarda la terra, e par gallina o pollo
Quando per pioggia grondante s'abbatte;
E dice misereri e de profundis.
Ut salvetur a diabolis immundis.
[451]
E perchè don Tempesta tien per certo
Che sia opera santa il dar soccorso
A lei, che già nel libico deserto
Portata s'è, qual caprïola l'orso,
Il sir di Nubia, che un torto sì aperto
Fece a Ricciardo senza alcun rimorso;
Però vuole imbarcare, e seco chiama
Anche Ricciardo, che cotanto egli ama.
Ed in quel giorno appunto (ve' che sorte!)
Giunse all'isola un legno di Levante,
Sbalzato da burrasca orrenda e forte;
Di che se s'allegrasse il saggio amante,
Il pensi chi fu mai di quella corte.
Dalla testa tremò fino alle piante
Pel soverchio piacere, ed improvviso
Ei fe' di latte e poi di rosa il viso.
La travagliata nave in tempo breve
Le rotte vele e le troncate sarte
Ricompone, e al soffiar d'un'aura lieve
Scioglie dal lido; e seco si diparte
La compagnìa, che in sè mai non riceve
Timor, sebben nemico avesse Marte;
E giunser presto presto all'isoletta
Da me poco anzi nominata e detta.
E giunser ivi appunto nel momento
Che venne il mostro, e portò via le donne;
Ed Orlandin nella buca entrò drento,
Gridando forte Kirieleisonne,
Per cristiana pietà non per spavento,
Che mai non fia ch'egli di lui s'indonne;
E l'isola faceane un gaudio strano
Con corni e pive e battere di mano.
[452]
Di piacer tanto chiede don Tempesta
La cagione a color ch'eran nel porto;
E gli fu detto che quella gran festa
Si fea a cagion, che a favor loro insorto
Era il Nume dell'isola, che mesta
S'era ridotta per lo strano torto
Che le fêr due garzoni e due donzelle,
Spinte colà da lor nemiche stelle.
E appena raccontò come in sembianza
Di fiero mostro feo l'aspra rapina,
E che un di loro con strana baldanza
Gli corse dietro per tanta rovina,
Che il credon morto, o almen n'hanno speranza;
Che di pietade e d'ira si tapina
Il buon Ricciardo, e sbalza sul terreno
Presto così, che rassembrò baleno.
Fan lo stesso i giganti e Ferrautte;
E preso uno dell'isola, di morte
Lo minacciano e d'altre cose brutte,
Se non li guida per le vie più corte
Là dove sono in periglio ridutte
Le genti Franche: e per benigna sorte
Diedero in un che li condusse presto
Al luogo infelicissimo e funesto.
Giunti alla buca, grida Ricciardetto:
Siete ancor vivi, dolci miei cugini?
Nè sentendo risposta, per dispetto
E per doglia si strappa e vesti e crini:
Indi ancor egli per quel foro stretto
Salta in soccorso de' suoi paladini;
E cade in tempo che la bella Argéa
Per morta dal marito si piangea.
[453]
Senz'altro dire, con la forte spada
Percuote il mostro, ma il percuote in vano;
Chè par che il colpo sopra un masso cada.
Ond'egli prestamente dà di mano
All'erba tanto prodigiosa e rada
Che fa venire il sonno da lontano;
E con essa percuote il grugno all'Orco,
E fa che dorma e russi come un porco:
E con l'erbe salubri il petto e il volto
Tocca d'Argéa e di Corese ancora;
Talchè ritorna in loro il quasi sciolto
Spirto, e le guance loro ricolora:
Ma di tornare in suso il modo è tolto,
E il più star ivi è troppo rea dimora;
Onde grida Ricciardo a voce piena:
Qui d'uopo è di calar fune o catena.
Ferrautte a quel dire si discinse
La corda che tenea per penitenza,
E in cento giri su i fianchi si strinse,
E giù calolla con somma avvertenza;
E don Tempesta alla man la si avvinse
Per su tirarli con la sua potenza.
Giunta la fune a basso, quella ria
Bestia legaro per le zampe in pria;
E dissero: Tirate allegramente;
Chè viene uno storion di que' paffuti.
A sè tira la fune prestamente
Il buon gigante, e dice: Iddio ci ajuti,
Quando sei vide a' piedi veramente:
Restar on gli altri sbigottiti e muti;
Tanto orrido e feroce egli era in vista,
Da far paura a un San Giovambatista:
[454]
Ed alla rete dan tosto di mano,
E lo copron così nel sonno oppresso,
Acciò svegliato egli si arrabbi in vano;
Poi ricalan la fune per lo stesso
Terribil tanto e periglioso vano.
Legano a quella i giovani; in appresso
La bella Argéa, e dopo lei Corese;
Di che si dolser poi per più d'un mese.
Alfin, per farla corta, ognun fu tratto
Da quella tomba, e rimirò la luce;
Di che n'ebbero tutti un gusto matto.
Perchè là dove tace e non riluce
La bella fiamma, ch'è di Dio ritratto,
E che mantien le cose e le produce,
Non è vita o piacer di sorte alcuna,
Ma inferno, ove ogni affanno si raduna.
Riprese Ferraù divotamente
La benedetta fune, e intorno a' fianchi
Se la ricinse tutta strettamente,
Ed abbracciò que' giovinetti Franchi;
Il che fêro i giganti similmente:
Poi disser lor: Questo padre de' granchi,
Questo demonio è bene che si desti,
E che il nostro valor si manifesti.
Disse Orlandin: Lasciamolo dormire;
Chè non è bestia al mondo a lui simile;
Chè ha forza tal, che non si può ridire.
Disse il Fracassa: Lo stimo un barile,
Chè con un calcio lo faccio basire.
Ma don Tempesta, che noi tiene a vile,
Disse: Io 'l vo' prima dentro il mio retino;
E poi si desti, e stiamogli vicino.
[455]
Desta che fu la spaventosa fiera,
Fe' cose ch'io ne tremo a dirne solo;
E se la rete fatata non era,
Squarciata l'averìa come un lenzuolo.
Si storce e sbuffa, e d'una bava nera
La rete imbratta, e ne rïempie il suolo;
Ma don Fracassa ride, e la strascina
Per la cittade insino alla marina.
Quivi il popol dell'isola ridutto
S'era, e piangeva lo suo Dio prigione;
Quando il Fracassa vôlto al popol tutto
Incominciò una bella orazïone,
Che fece, grazie a Dio, di molto frutto:
Perchè dimostrò loro in conclusione,
Che il vero Iddio è in cielo ed è immortale,
E che quel loro era un brutto animale.
Quindi spiegògli della santa Fede
I misteri più alti e più nascosti;
E che niun giunge alla beata sede,
Se al battesimo fia che non s'accosti.
Onde ciascuno il battesimo chiede;
E a tutti quanti in lunghe file posti
Dan battesmo i giganti e Ferraù;
E grida ciaschedun: Viva Gesù.
Poi don Fracassa s'accosta alla bestia,
E fa che monti maggiormente in ira;
Onde non vi so dir come s'imbestia,
E se adopra le granfie, e il grugno gira:
Ma per trarla alla fine di molestia,
Prende la rete, e intorno la raggira;
Poi sopra d'una pietra egli la scaglia,
E spezza il mostro come un fil di paglia.
[456]
Così col sorcio noi vediamo il gatto,
Che si mette talvolta a giocolare;
Poscia nojato di spasso sì fatto,
L'afferra sì che non può più scappare,
E vivo vivo se lo ingolla a un tratto.
Sì la volpe alla lepre usa è di fare;
Che scherzando con lei s'imbroglia e mischia,
Poi nel più bel del giuoco glie la fischia.
Morta la fiera, e gettata nel mare,
Disse il buon Ferraù: Son risoluto
Di qui fermarmi, e Cristo predicare
A queste genti, ed esser lor d'ajuto.
E mi vo' questa fune anco levare;
Chè il dïavol qui può sonare il liuto;
Chè donne così brutte e sì sgraziate
Al par di queste non ne son mai nate.
E se con queste il diavol non m'adesca,
Per altra via di certo non m'acchiappa:
Con un bell'occhio ed una faccia fresca
Di man della ragion tutto mi strappa.
Or qui non sarà mai che gli rïesca,
E su gli ugnelli si darà la zappa.
Approvano i giganti il suo concetto,
E vien da lor più volte benedetto.
Il dì seguente ritornano in mare,
Seguendo gli altri il lor preso cammino;
E Ferraù si mise a predicare
E a far del ben, se mal non l'indovino.
Ma non so già come abbia a terminare
Questo istituto suo tanto divino:
Guardilo il ciel che a quel lido non giunga
Qualche donzella, e l'anima gli punga.
[457]
Or mentre questi prega, e quelli vanno
Per le gran vie del gran padre Oceáno,
Venite meco a morire d'affanno,
Se avete il cor pieghevole ed umano,
Donne gentili, che all'estremo danno
Giunta vedrete sul lido africano
La bella e infelicissima Despina,
Che a crudel morte ognora s'avvicina.
Il giorno eletto alla giostra reale
Ed all'odiato e barbaro imeneo,
Giunse sopra d'un carro trïonfale
(Là dove in suo dolore acerbo e reo
Stava Despina pensando al suo male)
Il fiero sposo; e con quanto poteo
Terribil voce, lei chiama che scenda
Sul nobil carro, e la mano gli stenda.
Tremò la giovinetta a quella voce,
Come al rombo di falco tortorella,
Od al ruggito di lïon feroce
Sola nel bosco timida vitella;
E gela, e suda, e della morte atroce
Già l'immagine scorge acerba e fella;
Ma tanto è il ben che al suo Ricciardo vuole,
Che il perder lui più del morir le duole.
E nel suo cor magnanimo propone
Quel giorno per l'estremo di sua vita;
Ed affacciata al vicino balcone
Senza speranza, e però fatta ardita,
Dice: Signor, se in te puote ragione,
Sarò con pace e ancor con laude udita;
Ma se fuor sei di suo dominio o possa,
Io là ritornerò, donde son mossa.
[458]
Come ladron di via che a salva mano
Crede spogliar l'incauto passeggiero,
Che aveva discoperto da lontano,
E vagli addosso impetuoso e fiero;
S'ei gli resiste, onde fallito e vano
Rïuscire si veggia il suo pensiero,
Per l'impensato caso si tapina;
Tal Serpedonte restò per Despina:
Chè in testa mai non gli sarìa caduto
Di vederla sì torbida e pensosa,
E quasi in atto di fargli un rifiuto
D'esser donna di Nubia, e in un sua sposa.
Quindi le dice: Io qui non son venuto
Per veder quanta è in te virtù nascosa,
Ma per condurti alla gran giostra, e poi
Queto dormir tra i dolci amplessi tuoi.
E monta sopra gli argini del carro,
E verso del balcon salta, anzi vola;
Indi con viso torbido e bizzarro
La guarda alquanto senza far parola.
Ma perchè queste cose ora vi narro,
Pietose donne, e in mezzo della gola
Io non chiudo gli accenti? Chè son certo,
Come tacendo acquisterei più merto.
Ma giacch'egli v'è in grado ch'io favelli,
Come voi mi mostrate a più d'un segno,
Udite dunque. In aspri modi e felli
Prende la verginella, e con disdegno
Sul carro la strascina pe' capelli.
Nubia turbossi all'atto acerbo e indegno,
Ancorchè fosse barbara e villana,
E poco avesse della mente umana.
[459]
E con Despina più morta che viva
Al campo giunge; e cavalieri e dame
Si muovono a incontrarlo; e mentre arriva,
Il vecchio padre anch'esso, del reame
Con la più illustre e nobil comitiva,
Vàllo a trovare, e del nuovo legame
Del bramato imeneo scherza con esso,
Ignaro ancor di quel ch'era successo.
Quando egli s'ode dir: Padre, costei
O in questo punto diverratti nuora,
O io fo giuro a tutti i sommi Dei,
Che in questo punto converrà che mora.
La sciocca sdegna i dolci affetti miei,
Perchè d'un altro ella è invaghita ancora:
Perciò risponda e dica ciò che vuole;
O viva o mora per le sue parole.
S'alza Despina in piedi, e attorno attorno
Guarda le donne, i duci e i cavalieri;
Indi col viso d'ogni grazia adorno,
Che fuor mostrava i nobili pensieri,
Vôlta colà dove si muore il giorno,
Quasi guardasse i suoi perduti imperi,
Un cenno fece con la bianca mano
D'essere udita, e non lo fece in vano.
Ed ecco ognun s'affolla per udire
Ciò che dirà l'illustre pellegrina.
Ma io che so com'ella vuol morire,
Spezzo la cetra, e di questa meschina
Non vo' nulla ascoltare e nulla or dire.
Oh di fede e d'amor bella eroina,
Letta non avess'io tua trista istoria,
O almen mi fosse uscita di memoria!
[460]
Chè tal pietà di te mi serra il core,
Che mei soffoga, e perdo i sentimenti.
O dove sei, Ricciardo? ove dimore,
Ora che giunto agli ultimi momenti
Per troppo amarti è il tuo sì dolce amore?
Ahi donde ei stassi, l'arrechino i venti
Su le libiche spiagge, acciò che porte
A te soccorso, o veggia almen tua morte!
Ma dove volgo le mie triste rime
A chi non m'ode, o non sente pietade?
Omai dalle supreme alle parti ime
Mi prende un gelo, onde a terra mi cade
La mesta lira, nè più il labbro esprime
L'usate voci; ma di tronche e rade
Note tesso i miei versi, e di gran pianto
Tutte le aspergo: onde lasciamo il canto.
[461]
Despina condannata a star sepolta,
Dal padre prigioniero è visitata.
Carlo risana, e porta gente molta
Nella Spagna da' Mori assassinata.
Ferraù torna all'uso un'altra volta
Con una brutta vecchia sganganata.
Ricciardo tragge fuor con largo scempio
Despina sua dall'africano tempio.
Penso sovente che l'umana vita
Ricolma ell'è di tutti quanti i mali,
E che niuna dolcezza è mai compita;
Ma quali in guerra viva i dardi e strali
Vibransi ognor su la città assalita,
Così piovon su i miseri mortali
Da ogni parte miserie e sciagure;
Ond'è mirabil cosa, come dure.
La povertà ci affanna, e la ricchezza
Ci fa odiosi, superbi ed ignoranti:
L'amore ci rïempie di tristezza;
L'ira e lo sdegno ci turba i sembianti:
Un mar turbato sembra giovinezza,
Pieno di rotte sarte e legni infranti:
È la vecchiezza languida e da poco,
E la virilità dura pur poco.
[462]
In somma in ogni tempo, in ogni stato
Non ha mai requie e non ha mai conforto:
E quegli al parer mio solo è beato,
Che nato appena, o poco dopo è morto.
Perchè, sebben c'è qualche fortunato
Il cui naviglio già si trova in porto,
Pure in guardando le miserie altrui,
Moveransi a pietà gli affetti sui.
Perchè, siccome le diverse corde
D'uno strumento, se son ben temprate,
Fanno un suono dolcissimo e concorde,
In cotal guisa le genti create
Convien fra loro che natura accorde;
Onde non ponno l'une esser toccate,
Che non rispondan l'altre: e di qua viene
Che abbiam tanto dolor dell'altrui pene.
Che se non fosse questa gran catena,
E si vivesse come querce o abeti
Fissi ad ogn' or su la paterna arena;
Siccome a quei non duol che spezzi e inquieti
La scure l'altre piante, e non han pena;
Così staremmo noi contenti e lieti
Su le miserie di questo e di quello:
Ma natura ci diè senso e cervello;
E ci diede per quello gentilezza,
E per quest'altro senno e intelligenza:
Onde per l'una il male altrui s'apprezza,
E fassi nostra ancor la sua doglienza;
E per l'altro s'accresce l'amarezza:
Chè (come dice il Savio in sua sentenza)
Quei che aggiunge sapere, aggiunge affanno,
E men si dolgon quelli che men sanno.
[463]
E oh quanto volentieri or mi porrei
In cotal truppa! e viverei più lieto,
E tra me stesso non maledirei
Il dì ch'io presi in mano l'alfabeto,
Onde a leggere appresi, e m'abbattei
In quel racconto, in quel crudel decreto,
Che, come dissi, per sua dura sorte
Condannava Despina a fiera morte.
Fatto ella dunque con la man di neve
Segno a ognun che tacesse, diede in pria
Un ardente sospiro, e quei fu breve;
Poi disse ad alta voce: Io non son mia,
Nè di quel d'altri disponer si deve
Senza permissïon da chi che sia.
A Ricciardo donai me stessa e il core;
Ond'egli è solo il dolce mio signore.
Ed ho sì gran piacer di questo dono,
Che niun tempo verrà ch'io me ne penta;
E se ben tanto presso a morte io sono,
Che già mi vedo trucidata e spenta,
Odio la vita, e pongo in abbandono
Quanto oggi qui da te mi si presenta,
Principe ingiusto, che discioglier brami
Questi dell'amor mio sacri legami.
Serpedonte a quel dir, come mastino
Che veduto abbia la nemica fera,
Con l'aspra mano il collo alabastrino
Le serra, e vuol che onninamente pera.
Ma tante strida il popol Saracino
Diè, che interruppe quell'opera nera;
E colmo d'ira in verso lui si volse,
E in guisa tale la sua lingua sciolse:
[464]
Se voi sapeste quale alberga in questa
Donna, anzi furia del tartareo chiostro,
Alma crudele ed agl'inganni presta,
Risparmiato avereste il pianto vostro,
Nè la sua morte vi saría molesta:
Ma voi le bianche perle ed il vivo ostro
Di lei mirando, e i suoi begli occhi neri,
Più là non penetrate coi pensieri.
Questa adescommi, un lustro è già compiuto,
Nell'amor suo in maniera sì strana,
Ch'io n'ero morto, e ancor ne son perduto;
Ed al principio mi comparve umana;
Poi di me fece un barbaro rifiuto,
E si fuggì, resa d'amore insana,
Con uno, alla cui morte ella col padre
In Francia andò con tante armate squadre.
Ma non rende ragione a' suoi vassalli
Di quel ch'egli opra un supremo signore:
E perchè lieve pena a tanti falli
È presta scure e subito dolore,
Di lunga morte i tormentosi calli
Voglio che prema in un perpetuo orrore.
E qui rivolto alla donzella il viso,
Guardolla con disprezzo e con sorriso:
Ed ordin diede a quattro cavalieri
Che la guardasser dentro d'una tenda
Insino a tanto che de' suoi pensieri
Tutta la somma il fabbro non comprenda,
Che formar deve il misero quartieri
Della donzella, anzi la tomba orrenda:
E perchè questa presto sia finita,
I lavoranti a molto prezzo invita.
[465]
Nell'isoletta, se ve ne sovviene,
Dove le regie tende egli fa porre,
Vuol che si formi il loco delle pene.
Onde la gente tutta colà corre,
E fan gran fosso nelle asciutte arene:
Nè in questo mentre alcun viene o soccorre
L'innocente fanciulla; e intanto bolle
L'opra, e sul fosso un gran tempio s'estolle.
A guisa del famoso Panteonne
Formato sembra; e v'è di più, che attorno
Ci son di nero porfido colonne;
Di neri marmi ancora è tutto adorno
L'infausto tempio: e di abbrunate donne
Un drappel vuol che dentro al suo contorno
Abiti; e questo quasi ogni momento
Mandi fuori un mestissimo lamento.
Poi fa dipinger sopra d'ampie tele
Tutti i casi di donne sventurate,
Ch'ebbero il cor superbo, o pur crudele;
E di queste le mura sono ornate
Della gran volta: e di nere candele
Vuol che arda in esso tanta quantitate,
Che a lui, che il giorno splendido ne adduce,
Soprastar possa la racchiusa luce.
Quindi in mezzo del tempio erge un avello
D'un bel dïaspro che ha la porta d'oro;
E d'oro ha pure il grosso chiavistello,
Per cui dal cieco sotterraneo foro
Vassi al carcere iniquo, orrido e fello,
Dove Despina per suo reo martoro
Deve condursi a terminar sua vita.
Ed oh che l'opra omai è già finita!
[466]
Finita l'opra, d'un gran manto nero
Fanno vestir la povera Despina;
E ogni altra donna, ogni altro cavaliero
Si veste a bruno per quella mattina:
E verso il loco dispietato e fiero
Tacita e pensierosa ella cammina:
Entra nel tempio, e Serpedonte è seco,
Che la riguarda minaccioso e bieco.
Apre un soldato la dorata porta,
E, Qua, le dice, misera fanciulla,
Entrar convienti e rimanerci morta.
Essa lo guarda, e non risponde nulla:
Quand'ecco il vecchio rege che l'esorta
A non passar sì presto dalla culla
A tomba sì crudele e spaventosa,
E ch'esser voglia a Serpedonte sposa.
Le dame e i cavalieri a mille a mille
Le son d'intorno, e le stesse preghiere
Le fanno: ed ella in sembianze tranquille
Lor si dimostra, e quelle lusinghiere
Voci non cura; ma con le pupille,
Di cui natura non fe' le più nere,
Si fissa in Serpedonte, e immantinenti
Tali gli vibra al cor detti pungenti:
Eccomi giunta alla soglia fatale,
Donde si varca al regno della Morte.
Questo è l'ospizio, uomo micidiale,
Questo è il palazzo e la superba corte
Ove tu alloggi una donna reale?
Or vanne pure, e vantati di forte;
E la fama di te dica, ovunque erri,
Come vive le femmine sotterri:
[467]
E le sotterri, perchè troppo fide
Sono agli sposi loro, a' lor mariti.
Africa sola e le spiagge Numide,
E più d'ogni altro della Nubia i liti
Veggon tai cose: altrove sol si uccide
Chi fede rompe per minacce o inviti,
O per forza d'amore al suo consorte;
E qui sol chi è fedel si danna a morte.
Crudel, se data t'avess'io parola
D'esser tua sposa, e t'avessi mancato,
Ben mi starebbe addolorata e sola
Viver morendo in loco tanto ingrato;
Nè mi dorrebbe vedermi alla gola
Pungente ferro, o il petto mio piagato;
Chè merita abbreviare i giorni sui
Chi tradisce il suo sposo, e dassi altrui.
Ma a voi, donne di Nubia e cavalieri,
I Genj di queste orride contrade,
E su del cielo e degli abissi neri,
E i Numi ancor che le marine strade
Scorrendo vanno placidi e leggieri,
E i gran Numi di fede e di onestade
Parlino a mia difesa; e chiara sia
La sua calunnia e l'innocenza mia.
Nè gran tempo anderà ch'aspra vendetta
Faran di me più spade peregrine:
E forse forse l'amor mio s'affretta
Per ritrovarmi su l'onde marine.
Deh, se prego mortale in ciel s'accetta
Da quelle immense potestà divine,
Fate, gran Dii, che in questa tomba io viva,
Sino a che il mio Ricciardo non arriva;
[468]
E non ti tragga, traditor, dal petto
L'indegno core, e dica a me: Tel dono.
Quel poi guardando entrambi con diletto,
Diremo entrambi ancor: Quivi ebbe il trono
L'amor da prima, e poi l'ira e il dispetto
Contro una che lasciata in abbandono
Era da tutti; e questo uomo sì forte
La racchiuse tra barbare ritorte.
Nè ti allegrar con la vana speranza
Che una lagrima sola, un sol sospiro,
Un pallor breve su la mia sembianza
Abbi a vedere in tanto mio martiro.
Al par di tua ferocia avrò costanza:
E s'egli è ver che, terminato il giro
Di questa vita, ogni anima disciolta
Si trovi con chi ell'ama un'altra volta;
Qual sarà il mio piacere e il mio conforto
Nel ritrovarmi col mio Ricciardetto?
Qual gioja trarrem noi da questo torto,
Da questo sdegno e questo tuo dispetto?
Io lui dirò come in crudele e corto
Carcer fui spenta per l'estremo affetto
Ch'io volli conservargli; e più gradita
Mi fu santa onestà, che lunga vita.
Questa sola speranza ella è bastante
A farmi lieta in compagnia di Morte.
Ma tu nulla rispondi, e nel sembiante
Ti cangi, e tieni le tue luci smorte?
Forse ti duol che alla tua gente avante
Spalancate del vero abbia le porte,
Onde veggano a qual tristo signore
Debbano soggettar la roba e il core?
[469]
Povera Nubia e misere pendici,
Che aspettar vi potete da costui?
Se me distrugge, farà voi felici?
Me che tanto d'amore accesi in lui?
E se chi ama, tratta da nimici
Dannando a morte in luoghi acerbi e bui,
Di color che avverrà ch'egli non cura,
Se non la stessa sorte, e ancor più dura?
Però, s'io mal non veggo, il più beato
Sotto costui è quel che muorsi presto.
Misero certo e doloroso stato
Ad un cor vile che non pensi al resto;
Ma felice, soave e fortunato
A chi il futuro è tutto manifesto,
E che legge ne' fati e nelle stelle
Il gran tragitto alle cose più belle.
Però, donne amorose e cavalieri,
Non vi prenda pietà del morir mio.
Ch'oltre ch'io muojo tanto volentieri,
Ch'altro non ho che di morir desìo,
Ho gran piacer che questi si disperi
In non avermi, e sì ne paghi il fio;
E mi diletta più d'ogni altra cosa,
Ch'io muojo onesta, e di Ricciardo sposa.
Volea più dir; ma generosa e forte
Varcò la soglia, e con l'eburnea mano
A sè tirò le spaventose porte,
E si riacchiuse nell'oscuro vano,
U' nera face con fiammelle smorte,
Che la luce movea poco lontano,
Le fe' vedere il tenebroso avello,
Più crudo assai di qualunque coltello.
[470]
Chiusa Despina, si fece un gran pianto
Dalle abbrunate femmine pietose;
E Serpedonte infurïato intanto
A custodia del tempio mille pose
Uomini d'armi, che famoso vanto
S'acquistaro per opre glorïose:
A guardia poi della tomba spietata
Egli si pone, ed altri non la guata.
E vuol, chïunque nel tempio penètra,
Despina rea, e lui giusto confessi;
E chi ciò nega, fa scrivere in pietra,
O che coi mille alla pugna s'appressi;
O se pur grazia dalle stelle impetra,
Essendo ei sol, che quei restino oppressi,
Debba seco pugnar, del cui valore
Libia avvezza ai spaventi n'ha terrore:
E chi vinto rimane (odi che furia,
Odi che mostro orribile e spietato!)
Vuol che di tutto patendo penuria,
Sia vivo per tre giorni riserbato;
Poi con affanno e con estrema ingiuria
Sopra l'avello rimanga scannato;
E fuor venga Despina in quei momenti,
Acciò vegga il suo sangue, oda i lamenti.
Ciò decretato, alle femmine impera
Che attorno attorno all'avello funesto
Facciano un tristo canto in su la sera,
Perchè il carcere a lei sia più molesto.
Onde due giovinette in veste nera
Andaro avanti, e in tuon lugubre e mesto
Il canto principiaro; e l'altre appresso
Piangendo ripetevano lo stesso.
[471]
O verginella, dove mai ti trovi
Separata da' vivi in una oscura
Tomba, ove morte ancor viva tu provi?
Quando nascesti, ogni mala ventura
Teco pur nacque. A pietà mi commovi:
Ma se non eri al signor nostro dura,
Avresti regno e vita lieta e bella.
E il coro rispondeva: O verginella!
E quindi in tuono più roco e languente
Seguìano: O d'Amatunta, o di Citera
Leggiadra Dea, che fai bella e ridente
Del terzo cielo la feconda sfera,
Piega la dura ed ostinata mente
Di questa verginella aspra e severa,
Acciò di sè le incresca, e si rivolga
Al nuovo amore, e dal primo si sciolga.
Ma non tardar, se sei così pietosa,
Come fama di te fra noi favella;
Chè dentro all'atra tomba e spaventosa
Potrà poco durar la vergin bella.
Dunque impera alla tua prole famosa,
Che armata di acutissime quadrella
Nel carcere penétri, e il cor le spezzi
Per Serpedonte, e Ricciardetto sprezzi.
E mentre quelle cantavan di fuore,
Dalla profonda tomba a lor risponde
Despina, e dice: Del vostro dolore,
Donne, ho pietà; ma pria di sasso l'onde
Del mar faransi, e sentiranno ardore,
O nere si faran le chiome bionde
Del sempre chiaro apportator del giorno,
Ch'io faccia all'amor mio oltraggio e scorno.
[472]
In questo dir, di guerra aspra nascenza
S'ode fra i mille; onde spezzano il canto
Le meste donne vinte da temenza,
E del gran tempio s'ascondon 'n un canto.
Un guerriero di forza e di potenza
Combatte; e questi è il Cavalier del Pianto,
Il padre della giovine racchiusa,
Che d'uomo ingiusto Serpedonte accusa.
Errò tanto costui per aspri e vari
Luoghi, che giunse a quell'orribil porto,
Dove udì della figlia i casi amari,
E n'ebbe per dolore a restar morto:
E se ben sa che con mille contrari
Vincer non puote e vendicar suo torto,
Pur ama meglio una morte spedita,
Che senza lei più mantenersi in vita.
Quindi è che disperato egli si caccia
In mezzo a loro, e col brando tagliente
A questi il collo, a quei tronca le braccia.
Ma or più non è quello Scricca valente,
Ch'allora ei fu che su la fresca faccia
La nera barba ruvida e pungente
Segno faceva e mostra di vigore;
Or ella è bianca, ed egli ha men valore:
Ond'è che vinto e prigioniero ei resta,
Ed è condotto al fero Serpedonte;
E l'elmo duro trattogli di testa,
Conobbe ei tosto la real sua fronte,
Che gli era per lungo uso manifesta;
E con parole dispettose e pronte
Gli dice: Gran mercè debbo agli Dei,
Se in questo giorno mio prigion tu sei;
[473]
Chè già la legge ed il fatal decreto
Saper ben dêi del tuo prossimo fine.
Ma s'esser tu vorrai uomo discreto,
Questa sventura tua giunta al confine
Non sol farai ch'ella ritorni indreto,
Ma rose diverran tutte le spine
Che or pungono il cor tuo, e quello ancora
Di tua figlia che tanto ti addolora.
Io t'aprirò la porta dell'avello,
E tu discendi seco a parlamento;
E se addolcisci lo suo cor rubello
Per me, cangerò teco anch'io talento:
Sarò suo sposo, e non sarò più quello
Che or sono, ad ambo voi tutto spavento;
E queste squadre e il braccio mio saranno
In avvenir de' tuoi nemici in danno.
Nè, gran rege de' Cafri, io ti dimando
Ingiusta cosa. Anzi, se t'enno a core
I patrj Dei, a' quali io raccomando
Me stesso e l'opra e il lor macchiato onore.
Dovresti far con paterno comando
Ch'ella spegnesse il mal acceso ardore:
Chè donna saracina ad uom cristiano
Non deve unirsi, o il matrimonio è vano.
E qui raccontò lui di Ricciardetto
E di Despina gli teneri amori;
E come egli rapilla per affetto;
E gli sdegni di lei, l'ire e i furori
Contro di lui per quel suo giovinetto.
S'empie lo Scricca tutto di stupori
A quelle voci, e fassi aprir la porta
Dell'urna, ed alla figlia egli si porta.
[474]
Ma ritorniamo un poco, se vi piace,
Al nostro Carlo, e partiam da Despina,
Or che col padre suo in santa pace
Si trova dentro a quella sua cantina.
Ma duolmi che ammalato Carlo giace,
Ed ha presa la terza medicina,
E gli han cavato sangue, e messi gli hanno
I vescicanti che gran duol gli fanno.
E già s'era ridotto a mal partito,
Quando San Dïonigi di persona
Gli apparve, ed era di bianco vestito,
E disse: Carlo Magno, nuova buona:
Il moccolino tuo non è finito.
Ciò detto, disparisce e l'abbandona.
Carlo s'alza sul letto, per far prova
S'egli è guarito, e sano si ritrova.
Di che si rallegrò tanto Parigi,
Che quasi se ne andò tutto in baldore;
E allor fu fabbricato a San Dionigi
Quell'ampio tempio e di tanto valore,
Di cui ancor si veggono i vestigi,
E di cui Francia non vide il maggiore:
E questa grazia ciaschedun più prezza,
Perch'era presso all'ultima vecchiezza.
E mentre si fan feste da per tutto,
Ecco che a mezzodì giunge un corriero
D'Alfonso il casto con vestito a lutto,
Che vien di Spagna, e dice come il nero
Popol di Libia ha il suo signor distrutto;
Onde ha sua speme nel francesco impero;
E prega Carlo con sospiri e pianti,
Che a lui voglia mandar cavalli e fanti:
[475]
Ma che non ponga punto tempo in mezzo;
Chè qual torrente che rotte ha le sponde,
Va l'Africano a fiere stragi avvezzo
Per le ispane contrade, ove confonde
L'umane e sacre cose, e con disprezzo
Insulta tutti, e niuno a lui risponde:
Cotanto de' Spagnuoli è lo spavento,
Che dieci Mori ne disfanno cento.
Nè tacque i santi letti maritali,
Nè le sacrate a Dio vergini pure,
Fatte trastullo di quegli animali.
Onde mosso a pietà di lor sventure,
Rispose Carlo, che d'aquila l'ali
Avrìa voluto in quelle congiunture,
Per ritrovarsi vie più presto in Spagna,
E dar principio a una crudel campagna.
Ma che non averìa troppo indugiato
A mandarvi soccorso e venirvi esso.
E corrieri spedì per ogni lato,
E diede lor comandamento espresso
Di ricercare Orlando suo pregiato,
E il buon Rinaldo che gli andava appresso,
E quale altro trovasser nel cammino
Famoso in armi e chiaro paladino.
E volle la fortuna dei Spagnuoli,
Ch'Ulivieri e Dudone, ed altri molti
Bravi soldati, in guerra rari e soli,
Giungessero in quel punto, e insiem raccolti
In Parigi: onde avvien che si consoli
Carlo in vederli; e stampò su i lor volti
Baci di gioja e di allegrezza estrema,
E fa dire ad Alfonso che non tema.
[476]
Ed unisce un'armata presto presto
Di trentamila e forse più cavalli,
E pedoni altrettanti; ed esso lesto
Va loro avanti fra trombe e timballi,
E fa il suo ardire a tutti manifesto:
Che non sì corre villanella ai balli,
Com'egli a quella guerra correr sembra,
Col bianco crine e l'invecchiate membra.
Ma mentre egli cammina in questa guisa,
Torniamo a Ferraù che pur dimora
Nell'isoletta dal mondo divisa,
Ed ha fatto degli occhi doppia gora
Per lavar l'alma sua di colpe intrisa.
Ma il demoniaccio, che sempre lavora,
Gli guastò tanto il debole cervello,
Che ancor di nuovo a Dio si fe' rubello.
Non aspettò che all'isola giungesse
Tornata al mondo qualche nuova Eléna,
Che co' begli occhi e le dorate e spesse
Ricciute chiome, in amorosa pena
Ed in voglie caldissime il ponesse,
Talchè obblïasse desinare e cena;
Ma fece seco in modo che in un mese
D'una donna dell'isola s'accese.
Cosa più brutta certo di costei
Non fe' natura, e farla non la puote.
Di statura simìle era a pigmei,
Con un gran capo, tutta bocca e gote,
Gran ventre, gambe grosse e lunghi pièi,
Le schiene grosse; e l'altre cose ignote
Eran nefande tanto, che mi viene
Stomaco, ognora che me ne sovviene.
[477]
Gli occhi poi tutti bianchi e infora infora,
Siccome le locuste, e sopra il petto
La lana avea, qual di pecora mora,
Che giù scendeva e s'univa al boschetto,
Che a darle fuoco, certo la baldora
Sarìa durata qualche buon pezzetto:
Stiacciato il naso, e i denti lunghi e storti,
Come si dice che il cinghial li porti:
Corte le braccia e grosse, e corta e grossa
La mano: in somma pareva una Furia.
Ma vedi del tristo abito la possa
Ed i prodigj della rea lussuria!
Che siccome fa bere acqua di fossa,
De' fonti e de' ruscelli la penuria
A chi si muor di sete, e di letame
Cibarsi quei che muorsi dalla fame:
Così quando dal senso l'uomo è preso,
Ogni cosa gli piace e gli par bella;
E per tal via il buon romito acceso
Restò di quella cosa trista e fella.
E perchè questo fatto è male inteso
Nell'isola, e mal pur se ne favella,
Un dì con questa strega maladetta
Fuggissi il frate sopra una barchetta.
E perchè la sguajata lagrimava
Abbandonando il patrio suo terreno,
Il fraticello stretta l'abbracciava,
E le diceva: Anima mia, pon freno
A questo duol che l'anima ti cava;
Chè se tu miri bene in questo seno,
Vedrai che c'è chi ti porta più amore
Della tua madre e del tuo genitore.
[478]
A queste voci quella cosa brutta
Rise, qual ciuca in sul fiutar l'orina;
Ed al suo collo gettatasi tutta,
Pian pian gli dice all'orecchia mancina:
Ovunque io sarò mai da te condutta,
Per terra estrania o lontana marina,
Mio cor, mia vita e mia dolce speranza,
Sarà l'usata mia paterna stanza.
Il capitano e la gente di barca,
Ch'erano, se non sbaglio, d'Inghilterra,
Stimaro il frate de' pazzi il monarca,
Mentre sì brutta cosa al sen si serra:
E quinci il ciglio ciascheduno inarca
Per vedere or quel mostro della terra,
Ora quel frate impazzito per lui;
Nè sanno qual più ammirin di que' dui.
Ma consolata la sozza piangente,
S'accorse Ferraù come il padrone
Si rideva di lui apertamente;
Onde gli diede un cotal sorgozzone,
Che gli fece inghiottire più d'un dente.
Danno i soldati di mano al bastone
Per castigare il pazzo temerario;
Ma la cosa per loro andò al contrario.
Perchè una spada datagli alle mani
La maneggiò sì presto su coloro,
Che li fe' tutti dell'anima vani.
Onde soli rimasero fra loro,
E poi per rabbia si davano a' cani;
Ch'ei non sapeva il nautico lavoro,
Nè quando dare, oppur raccor le vele,
O come governarsi in mar crudele.
[479]
Ma tanto egli è il piacer ch'egli risente
Nel rimirarsi l'amor suo sì presso,
Che il mare e l'aura non gli cal nïente,
E non gli cal se in lui rimane oppresso.
O Ferraù briccone veramente,
Deh apri gli occhi omai, torna in te stesso:
L'offender Dio per cosa sì bestiale,
Se tu nol sai, ti fa peggior nel male.
La barca intanto su l'onde galleggia;
Chè il vento e la corrente non la move.
Il Sol già cade, e nel cader s'ombreggia
L'aria di nubi, e fra non molto piove,
E con la pioggia tuona e lampaneggia,
E fassi un tempo da spaventar Giove;
Ed ecco cade un fulmin d'improvviso
Della donna bruttissima sul viso;
E non contento d'averla bruciata,
Sfonda la barca, e d'acqua è già ripiena,
E già s'affonda, anzi ella è già affondata,
E già si posa su l'ultima arena.
Il frate con la donna fulminata
Sul collo, nuota come una balena.
Cessa la pioggia, e Dori e Galatea
Corron pel mar che placato ridea:
E visto quel bruttissimo romito
Nuotar con peso di tanta bruttezza,
Un Tritone mandâr di lito in lito
Próteo ad avvisar che con prestezza
Dall'orrido suo gregge circuito
Colà venisse; e pieno d'allegrezza
Spediro da per tutto l'Oceàno:
Sì lor sembrò lo spettacolo strano.
[480]
Nè guari andò che al regnator del mare
Giunse tal voce; onde fe' porre il freno
A due balene; e là si fe' portare,
Ove il romito veniva già meno
Per lo timor di doversi annegare:
E le belle Nerëidi non meno
Quivi n'andaro pe' flutti marini,
Portate da prestissimi delfini.
Non tanta festa, non tanta allegrìa
Fanno d'attorno al gufo gli augelletti,
Come di riso e di piacer moría
Nettuno; e vuol che Próteo suo s'aspetti
Con quella d'atri mostri aspra genía;
Chè veder vuol se fra cotanti aspetti
Orridi e spaventosi un se ne veda,
Che la bruttezza della morta ecceda.
Ed ecco il gran pastor del marin gregge,
Che dal Carpazio mar tutte traea
Le foche e l'orche ch'ei governa e regge,
Per ubbidire all'alma Galatea;
Chè per lui ogni sua parola è legge:
Alla cui vista ogni Nume, ogni Dea
Gli andaro incontro, e gli accennâr con mano
Quel nuotator col carico sì strano.
Ancorchè avvezzo a cose spaventose,
Próteo s'inorridì per quella vista;
E le sue bestie divennero ombrose,
E fuggîr via: così lor parve trista
Colei che tanto amabil foco pose
Nel romito, che par che ancor persista
In adorarla: e pur questi è quel frate
Che d'Angelica amò sì la beltate.
[481]
Di che n'ebber trastullo singolare
Que' Numi; e rider Ino fu veduta
La prima volta da che cadde in mare;
E Scilla che crudel tanto è tenuta,
Che fa Triquetra e il mar vicin tremare,
Dall'antro uscita e colà pur venuta,
Non volendo, sorrise; e rise ancora
Cariddi che le navi si divora.
Ma Teti con lo stomaco rivolto,
E perchè gravida era, intimorita
Di non fare un figliuol con simil volto,
In un pesce ordinò che convertita
Fosse colei, e sì gli fosse tolto
Sì strano aspetto e vista sì sgradita.
Fu fatta seppia: indi partissi ognuno;
E del frate pensier n'ebbe Nettuno,
Che gli fe' far dugentomila miglia
In una notte, e trasportollo in Francia.
Di che cotanta il prende maraviglia,
Che crede di sognare, e tien per ciancia
Quel che pur vede con aperte ciglia:
E il bello è, che scudo, spada e lancia
Si mira appresso; onde quel più s'imbroglia:
Ma più parlar di lui or non ho voglia.
Mi sta nel core il mesto Ricciardetto,
Che chiama l'amor suo, e non l'ascolta.
Oh se sapessi, meschin giovinetto,
Come Despina tua si sta sepolta
Viva dentro un avello oscuro e stretto,
Solo perchè dall'amor tuo disciolta
Esser non vuole; se di duol si muore,
T'ucciderebbe certo il gran dolore.
[482]
Come dicemmo, i forti cavalieri,
Ucciso il fiero mostro, s'imbarcaro
Inverso Nubia, dove i suoi pensieri
Avea Ricciardo, chè del furto amaro
Troppo gli duole, e assai mal volentieri
Soffre ogn'indugio; e già col crudo acciaro
Esser vorría con l'empio Serpedonte,
Col suo rivale combattendo a fronte.
E già sei volte e sei fuora dell'onde
Il Sole era comparso, ed altrettante
S'era in esse sommerso; e lido e sponde
Non si vedeano ancora: e il fido amante
Se si dispera, e le sue chiome bionde
S'egli si strappa, e Scirocco e Levante
Prega che soffi, ed empia ben le vele,
Sel pensi chi d'Amor servo è fedele.
Ma pur l'ottavo giorno in su la sera
Veggon la terra tanto desïata,
E la deserta ed orrida riviera
Sol da lïoni e da tigri abitata,
Dove sepolta viva Despina era:
E quando di bei fiori inghirlandata,
Vergognosetta in ciel splendea l'Aurora,
Toccare il lido con l'acuta prora.
Primiero sul terren Ricciardo scende,
Di poi le donne e i due forti cugini,
E da un vecchio nocchiero i casi intende
Della sua donna, e gli orridi destini.
Pensate voi se d'ira egli s'accende;
E vestiti gli usberghi e gli elmi fini,
S'invìano a gran passo inverso il tempio,
Di far vogliosi un memorando scempio.
[483]
Il Cavalier del Pianto, l'infelice
Misero padre dell'alma Despina,
Sebbene molto prega e molto dice,
Perchè si tolga da tanta ruina,
E faccia lui e faccia sè felice,
Nulla intanto la smove: e già vicina
È l'ora ch'egli deve in su la tomba
Morire; e roca già suona la tromba.
Piange Despina il duro caso acerbo
Del genitore, e vorrebbe morire
In cambio suo; ma il principe superbo
Nulla affatto del cambio vuole udire;
Anzi le dice: In vita ti riserbo,
Perchè mi piace vederti patire.
Ed ecco fuor dell'avello crudele
Son tratti il padre e l'amante fedele.
D'un nero panno ricoperto egli era
L'avello tutto; e la tagliente scure
Teneva in mano un uom d'orrida cera.
Vicine al duro ceppo in vesti oscure
Stavan le donne, che mattino e sera
Piangevan di Despina le sventure;
E in mezzo a loro v'era un basso scanno
Coperto pur d'un nerissimo panno.
Quivi fa porre il barbaro Africano
La misera Despina, acciò che veda
Morire il padre, il qual dolce ed umano,
Figlia, diceva, il giusto Dio proveda
Al tuo dolore: il mio fato inumano
E il tuo ci han fatti una misera preda
Di questo mostro, che ragione e Dio
Non cura, e segue solo il suo desío.
[484]
Un pezzo io ti pregai che tu stringessi
La tua con la sua mano, e in questa guisa
Te alla tomba, e a morte me togliessi:
Ma quanto or lieto nella valle elisa
Vo, perchè dura a' miei comandi espressi,
Figlia, tu fosti! che piuttosto uccisa
Io ti vedrei, che consorte a costui,
Di cui peggior non v'è tra' regni bui.
Segui dunque, dolcissima Despina,
Ad odiar questo mostro: e se riserba
L'alma in passar la stigia onda divina
Il giusto sdegno e la giusta ira acerba,
Temi, ribaldo, pur, temi vicina
La vendetta che Giove a te pur serba.
L'African non risponde, e fa con gli occhi
Cenno al ministro che il gran colpo scocchi.
Alza quegli la scure; ma nell'atto
Che vibrar vuole il reo colpo fatale,
Sorge Despina furibonda a un tratto,
E il feritore abbraccia: e tanto vale
Sua forza, che al ministro non vien fatto
Troncar del padre lo stame vitale;
Ma dura gran fatica e stenta molto,
Che il ferro dalla man non gli sia tolto.
Or mentre questo succede nel tempio,
Già co' mille attaccata era la mischia
Da' tre guerrieri, che ne fanno scempio.
Tristo è colui che alla pugna s'arrischia;
Chè danno colpi che son senza esempio:
E il rombo delle spade tanto fischia,
Che s'ode dentro al tempio; e d'ira insano
Esce fuor Serpedonte al caso strano.
[485]
Despina intanto, generosa e forte,
Discioglie il padre, e intrepida e sicura
Corre del tempio a spalancar le porte;
E già dentro del core si figura
Che il suo Ricciardo per benigna sorte
Il guerrier sia che lei salvar procura;
E gli altri due che pugnano per lui,
Sieno i tanto famosi cugin sui.
Ricciardo appena Serpedonte ha visto,
Che lo corre a investir, siccome toro
Il suo rivale, e grida: Iniquo e tristo
E perfido ladrone, ove è il decoro
Di real sangue? per rapina acquisto
Far delle donne, e a forza di martoro,
Di catene, di carceri e di morti
Tentar di superar l'alme più forti?
Con questo (che pur anco e fuma e gronda
Del vil sangue de' tuoi) ferro che stringo,
Perchè l'altrui superbia si confonda,
Di trapassarti il core io mi lusingo.
Qual torbido torrente che la sponda
Rompa improvviso, e del villan guardingo
Ogni riparo, e con l'altera fronte
Tutto abbatte; tal féssi Serpedonte.
Fumo dagli occhi e foco dalla bocca
Usciva all'Africano in copia molta;
Chè Amore in mezzo all'anima lo tocca,
E pel sangue gli corre un'ira stolta,
Ch'assai di là dal giusto lo trabocca;
E invêr Ricciardo la spada rivolta,
Gli tira un colpo sopra dell'elmetto,
Che gli ebbe il capo a tagliare di netto.
[486]
Ma il Fato amico e la tempera fina
Lo salvaron; perchè calò di piatto
Il ferro, e non oprò quella ruina
Che col taglio averìa di certo fatto.
Ricciardo intanto un colpo a lui destina
Di punta (chè lo vuol morto ad un tratto)
In verso il core; ma il ferro non passa,
E nell'usbergo la punta gli lassa.
Di ciò si duole il forte Ricciardetto,
E con le braccia quanto può lo cinge
Per trarlo a terra a suo marcio dispetto:
Ma l'Africano anch'esso sì lo stringe,
Che a veder quella lotta era un diletto.
Pur l'un dall'altro alfine si discinge;
E riprese le spade, si dan botte
Da far vedere il Sole a mezza notte.
Di Ricciardetto intera è l'armatura.
Dell'altro quasi tutta è rotta o guasta;
Talchè non più trovando cosa dura,
Fa piaghe il ferro ovunque il corpo attasta.
Ma l'Africano, privo di paura,
La vittoria col brando a lui contrasta;
E gli dà così dura e rea percossa,
Che fa la terra del suo sangue rossa:
Per cui di tanta collera s'accende
Il Franco giovinetto, che a due mani
(Terribil cosa!) la sua spada prende,
E l'alza, e poi (il ciel ne guardi i cani)
Glie la piomba sul capo, e glie lo fende
Insino al mento: vedi colpi strani!
Muor Serpedonte, e Ricciardo meschino
Pur di sua piaga a morte egli è vicino.
[487]
Corre Despina, e fascia le ferite
Colli recisi suoi capelli biondi;
E di lagrime calde ed infinite
Lo bagna; e tanto avvien ch'il duolo abbondi
In lei, che manca. Le dame compite
Le disciolgono il busto, e fiori e frondi
Ed acque fresche le spruzzan sul volto,
Perch'ella si riabbia o poco o molto.
Lo Scricca intanto con olio pietrino
(Ma di quello di pietre prezïose,
E non del nostro, ovver del Casentino,
Che val tre soldi, o due crazie fecciose)
Della figlia unse il volto alabastrino,
E tornò in vita: molto poi ne pose
Nella piaga del vago giovinetto,
Che lo guarì prestissimo in effetto.
Quanta allegrezza i due fedeli amanti
Provassero in vedersi, ognun sel pensi;
Ch'a dirlo non ho io forze bastanti.
Ora coi volti come fiamme accensi
Si guardaro, or con pallidi sembianti;
Ed or perdendo or ripigliando i sensi,
Aprìan le bocche, e non potevan dire,
E si sentivan di piacer morire.
Pure alla fine sciolse Ricciardetto
La debil voce, e disse: Ancor ti veggio,
Despina, mio conforto e mio diletto?
Ed ella: Son pur desta, e non vaneggio:
Questo del mio Ricciardo egli è l'aspetto,
A cui me stessa ed ogni cosa io deggio.
Rispondeva or con voci, or con singulti;
Quando s'odon vicini aspri tumulti.
[488]
O questo fatto sì che mi vien nuovo,
E viemmi in tempo che molto m'incresce:
Che in somma se una volta mi ritrovo
A qualche istoria che lieta rïesce,
Ecco che viene chi mi rompe l'uovo,
E mi strappa la rete, e fugge il pesce.
Mi porti in avvenire l'aversiere,
Se mai più vo' cantare istorie vere.
Che se non avev'io sì forte impegno,
Nè seguitassi l'opera intrapresa,
Tutte le forze del mio scarso ingegno
Spender voleva solo in questa impresa;
E d'un amante così bello e degno,
E d'una donna sì d'amore accesa
Voleva dir con dolcezza infinita,
Da farvene leccar forse le dita.
Perchè le guerre e l'orride battaglie
E l'opere famose degli eroi
(Donne gentili, può esser ch'io sbaglie)
Non sono cose da me nè da voi.
Gli archibusi, gli spiedi e le zagaglie,
Per vostra fede, che hanno a far con noi?
Maneggin questi gli uomini spietati,
Ch'odiano Amore, e i servi suoi pregiati.
E noi, s'egli è di verno, intorno al foco,
Oppur d'estate all'ombra ragioniamo
Quanto piacere e quanta festa e gioco
Apporti Amore, e lui benediciamo.
Ma spero in Dio ch'ell'abbia a durar poco
L'aspra battaglia che noi ci aspettiamo;
Ma pur, s'ella durasse troppo troppo,
Io son persona da farci un intoppo.
[489]
Frattanto riposiamci, e in questo breve
Spazio di tempo pensiamo a Despina,
Che da' begli occhi di Ricciardo beve
L'ambrosia vera, e quella più divina,
Che tal su in cielo certo non riceve
Dal bel garzone Ideo sera e mattina
Il sommo Giove; e pensiamo a Ricciardo,
Chè versa tutta l'anima in un guardo.
Fine del Volume Primo
[491]
Giovanni Procacci: Niccolò Forteguerri e la satira toscana dei suoi tempi | Pag. 9 |
Nidalmo Tiseo ad Aci Delpusiano | 59 |
RICCIARDETTO | |
Canto primo | 75 |
Canto secondo | 99 |
Canto terzo | 117 |
Canto quarto | 137 |
Canto quinto | 164 |
Canto sesto | 190 |
Canto settimo | 219 |
Canto ottavo | 252 |
Canto nono | 280 |
Canto decimo | 311 |
Canto undecimo | 342 |
Canto duodecimo | 375 |
Canto decimoterzo | 404 |
Canto decimoquarto | 432 |
Canto decimoquinto | 461 |
[493]
A MILANO,
NELLE OFFICINE DELL'ISTITUTO EDITORIALE ITALIANO,
compose e stampò questo volume la maestranza: Ubaldo Antoniani, Pietro Betteni, Serafino Nicolini, Giuseppe Riva; curarono la rilegatura: Francesco e Gino Radice.
Collazionò il testo l'avv. Tommaso di Pella.
Disegnò i fregi il prof. Duilio Cambellotti.
1. Nidalmo Tiseo ad Aci Delpusiano, salute e felicità. Lettera premessa al Ricciardetto in quasi tutte le edizioni.
2. Tanto il Ricciardetto che i Capitoli furono pubblicati dopo la morte del Poeta. La prima edizione dei Capitoli è intitolata: Raccolta di Rime piacevoli di Niccolò Forteguerri fra gli Arcadi Nidalmo Tiseo non mai per avanti pubblicate, Genova, 1765. Il primo volume contiene undici Capitoli. Il secondo volume, del medesimo formato e titolo, è del 1773, contiene quattordici Capitoli, ed è fatto con gran cautela di puntini nei luoghi dove si ricordano nomi di città, di persone, ecc. Le edizioni venete del Ricciardetto riproducono anche la prima parte della Raccolta genovese delle Rime. L'edizione citata da noi è quella di Milano, in tre volumi (Società Tipografica dei Classici Italiani, 1813); nella quale sono pubblicati, dopo il Ricciardetto, trentatre Capitoli. Altri tre, non compresi nella edizione milanese, furono pubblicati, insieme ad un Poemetto imperfetto, nella Raccolta intitolata: Poemetto e Capitoli, opere postume di Mons. Niccolò Forteguerri date in luce in applauso poetico alle fauste nozze del Sig. Giuseppe Forteguerri colla Sig. Luisa Albergotti, Pistoia, 1812, presso Gherardo Bracali. Il Capitolo dato come forse inedito da Enrico Bindi (in nome di Luigi Vangucci) nella Raccolta intitolata: Tre Epistole Poetiche ed altri versi di Niccolò Forteguerri pubblicati a festeggiare le fauste nozze del Sig. Giuseppe Albergotti-Forteguerri con la sig. Luisa Casini (Pistoia, Tip. Cino, 1851), è pubblicato fino dal 1813 nella edizione milanese sopra accennata, e nell'altra, con falsa data di Lugano del 1831, che riproduce precisamente la milanese. Queste due edizioni sono le più pregevoli per le varianti del Poema e per l'abbondanza dei Capitoli. Anche i quattro Capitoli pubblicati (non integralmente) dall'Ab. Lodovico Lotti nel 1874 per Nozze Forteguerri-Guicciardini, sono compresi nelle edizioni milanese e luganese già ricordate. Oltre i trentasei Capitoli contenuti nelle citate edizioni, ce ne sono altri dieci inediti, che si conservano gelosamente con gli altri manoscritti del Poeta, nella biblioteca privata del Cav. Giuseppe Forteguerri, che mi ha dato graziosa licenza di consultarli.
3. Michelangelo Giacomelli nacque in Pistoia nel 1696 e morì a Roma nel 1774. Vedi la Notizia Biografica premessa dal Can. Professor Enrico Bindi al Volgarizzamento del Sacerdozio di S. Gio. Crisostomo, Prato, Tip. Guasti 1852. Egli era tra quei giovani pistoiesi che nel 1716 facevano corona a Niccolò Forteguerri quando nacque l'idea e il primo esperimento del Ricciardetto.
4. «Questa mattina fu coronata la sacra immagine della SS. Vergine dell'Umiltà con il Bambino Gesù inter Missarum solemnia per mano di Mons. Niccolò Forteguerri Can. di S. Pietro di Roma, e fu coronata con corone di oro a nome del suo Capitolo, e tale funzione fu celebrata con la maggior pompa che fu possibile, e vi furono presenti il Serenissimo Giov. Gastone Gran Principe di Toscana e la Serenissima Gran Principessa Violante di Baviera già vedova del Serenissimo Prencipe Francesco stato Cardinale, quali tutti apposta si partirono di Firenze e vennero in questa loro città a dove si trattennero per tre giorni continui nei quali durante la detta festa Li furono dati nobili divertimenti di due bandiere corse da' Barberi, fochi artificiati et un nobile Oratorio nel palazzo de' Signori Priori, a dove da per tutto vi si trovarono detti principi, et una sera fu data festa di sono nel Palazzo del Sig. Commissario a dove vi sonò il Laurenti eccellent.mo sonatore di Viola e Violino che innamorò tutti, e il dº Professore era bolognese, che le Serenissime Principesse vi ebbero sodisfazione a sentir sonare quel bravo Professore. La chiesa poi della Madonna restò tutta nobilmente apparata con nobile simetria e con infinito numero di torce alla veneziana e molti ceri e lumi di modo che fece una vaghissima e non più veduta comparsa e in particolare il gran numero de' forestieri accorsi e il gran contado e terrazzani. In tutto dissero che nella Città vi era da quarantamila persone, e la festa si rese grandiosa per diversi motivi et accessori, tra' quali la comparsa della compagnia di settanta Corazze tanto ben vestite di una livrea frangiata d'oro e di altrettante Cherubine tutte a cavallo, di poi delli quattro quarti (sic) dell'infanterìa squadronati per la città per di dove passava la gran processione la vigilia, e con le salve reale della Artiglierìa della Fortezza replicate per tre volte nel coronarsi scoprirsi e ricoprirsi la santissima imagine. E non mi estendo da vantaggio di descrivere tal festa per avere fatta a parte una distintissima Relazione di cinque fogli assai più copiosa e non mancante come un'altra relazione stampata alla quale è molto mancante.»
Ho scelto questo cenno che dà della festa Giov. Cosimo Rossi in certe sue Memorie inedite di cose pistoiesi dal 1705 al 1730; e la scelta non è stata fatta, com'è facile capire, per ragione di eleganza, ma solo di brevità. Ci è anche una Relazione a stampa (Tip. G. S. Gatti 1716) ripubblicata anche nel 1839 (Tip. Cino); e ci sono anche due Relazioni manoscritte, una del Cav. Annibale Brunozzi, e un'altra di Pompeo Scarfantoni; ambedue inedite, e che fan parte, come le Memorie surricordate, della ricca Collezione Pistoiese messa insieme con onorevole zelo dal mio ottimo amico il Cav. Filippo Rossi-Cassigoli. Tutti codesti documenti fanno promotore e parte principale della Festa il Forteguerri; al quale pure è dedicata con amplissime parole una delle due Raccolte poetiche (la più importante), dove è anche una bella Canzone del Giacomelli.
5. V. Lettera citata di Nidalmo Tiseo ad Aci Delpusiano, in principio.
6. Vita di Niccolò del Prior Bernardino. MS. inedito nella Forteguerriana.
7. Rime di Eustachio Manfredi, Nizza MDCCLXXXI pag. 18, nel sonetto che comincia:
Tal forse era in sembianza il garzon fero.
8. L'ottenne nel 1730. «La segreterìa di Propaganda (nota il Prior Bernardino) è una carica di molto merito ed onore, perchè tre Segretari ultimamente uno dopo l'altro senza passare ad altri impieghi, furon creati Cardinali, che uno fu il Card. Fabbroni, l'altro il Card. Caraffa, il terzo il Card. Ruspoli, in luogo del quale fu fatto segretario Mons. Niccolò.» Avrebbe egli avuto la fortuna dei suoi predecessori? La morte lo liberò forse dall'ultimo disinganno; poichè, sebbene il Prior Bernardino non ne dica nulla, si sa dal Fabbroni che il Card. Corsini, fratello del Papa, potè mettergli innanzi un suo favorito nel Segretariato della Consulta, ufficio dal Papa stesso destinato al Forteguerri. Egli se n'appagò da prima, ma se ne pentì poi, e tanto ne fu addolorato, che codesto dolore fu forse la principale cagione della sua morte.
9. Dopo la morte di Benedetto XIII il Coscia fu molto perseguitato, dovè restituire dugentomila scudi, e fuggì da Roma nel Marzo 1731, trovando appoggio nel conte Harrach vicerè di Napoli. Il Papa lo scomunicò, ma il Coscia continuò a difendersi. Nell'anno 1732 tornò a Roma ove visse rinchiuso nel Castello di Santa Prassede fino alla sentenza pronunziata il 9 Maggio 1733, colla quale veniva condannato alla prigionia per dieci anni nel Castel S. Angelo, e alla scomunica che non poteva esser tolta se non dal Papa in articulo mortis. Fu condannato anche alla perdita di tutti i benefizi e provvisioni, e privato del voto nella elezione del Papa. (V. Muratori vol. XVII p. 49-72).
10. Questi applausi infruttuosi crebbero nel quinquennio che visse dopo la morte di Benedetto XIII. Ecco che cosa scrive il Prior Bernardino: «In questo mentre è da notarsi come era gratissima a questo Papa (Clemente XII) la conversazione di Monsignore, quale dovea rassegnarsi per due sere d'ogni settimana destinateli dal detto Papa, che volentieri lo accoglieva, e con istraordinaria confidenza servendosi di lui non poche volte per affari di somma importanza; ed avendo piacere di sentirsi spesso leggere da lui le varie dotte composizioni, che per proprio suo divertimento faceva, le quali tutte si noteranno con ordine in fine di questa Relazione, perchè stanno appresso di noi.» I due luoghi già citati (e che non sono de' peggio) giustificheranno, spero, il giudizio da me dato su questa Vita. Le composizioni del fratello che si vogliono notare, tutte e per ordine, già lo sappiamo, non sono, per il Prior Bernardino, che cinque; e i Capitoli, s'intende, non entrano nel conto.
11. Capitolo X, secondo la numerazione della edizione Milanese (Società Tipografica de' Classici italiani, 1813), che noi seguitiamo sempre in queste citazioni.
12. La già citata lettera di Nidalmo Tiseo ad Aci Delpusiano ci dà notizia precisa dell'incominciamento del poema. Quanto al termine del lavoro ho detto pensatamente non prima del 1725, perchè è certo che dopo la elezione di Papa Clemente XII (1730) egli ne modificò la chiusa per celebrare le lodi di lui, abbandonando su questo punto l'antecedente lezione, che è forse quella che si vede in un manoscritto della privata libreria del Cav. Forteguerri.
13. Cantù, Storia della letteratura italiana, pag. 358, Firenze, Le Monnier 1865.
14. Che il Venerosi fosse uomo di molto sapere e autorità ce lo provano, oltre questa intimità poetica col Forteguerri, l'essergli stata confidata dal Card. Fabbroni la magnifica librerìa che lasciò alla nostra città. Attesta del suo sapere anche E. Bindi nelle annotazioni alle tre Epistole pubblicate da Luigi Vangucci nel 1851. È, molto probabilmente, sua una canzone a stampa (con le iniziali L. V.) per il Padre Giuliano di S. Agata, Scolopio, che predicava nella nostra Cattedrale nel 1717. Poichè è tanto raro e scarso quel che può trovarsi di questo amico del Forteguerri, ecco, come saggio del suo scrivere, la VI strofa di questa canzone:
A trar dal forte inganno ove riposa
Il cieco Mondo nel suo male assorto
Per infinito provvido Consiglio
Sorgean Profeti, e in voce disdegnosa
Lui minacciando del crudel periglio,
Spargean d'ira e di morte orridi segni;
Ma quale a vendicar l'iniquo torto
In sì grand'uopo è sorto
Con più bell'ire e più soavi sdegni?
E qual temprando il minacciar feroce
Con le dolci speranze, in nuovi modi
Strinse di più bei nodi
E ricongiunse alla Divina Croce
Il traviato popol, che in oblio,
Se Tal non era, avria se stesso e Dio?
Alla stessa persona del Venerosi così accenna ridendo col suo bel faccione il nostro Niccolò:
..... sei così sparuto e asciutto
Che sembri a saltabecche esser pasciuto.
Fu fratello al noto versificatore Brandaligio, chiamato di arcade fama dal Carducci nella Prefazione al Lucrezio del Marchetti, Ed. diam. Barbera 1864.
15. «Giuseppe Tolomei pistoiese, filosofo e matematico assai dotto, che contribuì non poco a stenebrare le patrie scuole dai vecchiumi peripatetici. Studiò prima in Perugia e poi in Firenze, dove godè la stima e l'amicizia del Viviani, del Magalotti, del Buonarroti, del Quirini e di altri insigni. Lasciò manoscritti vari opuscoli di matematica, e una Relazione sopra lo stato del territorio di Pistoia.» Così annota il Bindi nella già citata pubblicazione del Vangucci. Il Forteguerri amava moltissimo il Tolomei; entra scherzosamente ne' fatti suoi quando ripiglia moglie, e chiede sempre al Venerosi se codesto amico, ravvolto nelle sue matematiche figure, lo abbia dimenticato.
16. Niccolò Buti, pistoiese (1668-1748),
Piccol di membra e nel saper sì magno
come lo chiama il Forteguerri, fu Avvocato e Maestro abilissimo di lettere e filosofia in Pistoia. (V. Lombardi St. della Lett. it. vol. 6; Mazzucchelli Scrittori ec. vol. II, e G. Arcangeli Biog. ec. del Tipaldo vol. VII). Sono del Buti le epigrafi latine che adornarono il tempio dell'Umiltà nella festa della incoronazione, e che si riportano nella Relazione a stampa già da noi ricordata. Molte cose di lui sono inedite; ed E. Bindi scrisse nel 1852 (V. Ediz. pratese del Sacerdozio del Giacomelli) di avere presso di se un MS. di lettere e orazioni latine, epigrammi ec.
17. Basti citare, tra gli altri, questo che si legge in un Capitolo del 5 Nov. 1718, a Giuseppe Tolomei: Ho scritto alla peggio, in fretta e tutto d'un fiato: quello che ho scritto lo saprete voi, perchè io non lo so e non ho tempo di rileggerlo.
18. Capitolo IV.
19. Capitolo I.
20. Cap. I.
21. V. le belle parole che chiudono la Vita di Niccolò scritta in latino da Ang. Fabbroni. Vitae Ital. Vol. IX.
22. Vita d'Agricola.
23. Capitolo XIII.
24. Capit. XIII.
25. Capitolo XXII.
26. Capitolo II.
27. Capitolo XXV.
28. Capitolo XV.
29. Capitolo IV.
30. Capitolo IV.
31. Capitolo X.
32. Capitolo IV.
33. Canto I, ott. 3.
34. Che Niccolò avesse in gran conto l'Arcadia è chiaro, oltre che per la bella ottava 3ª del Iº Canto del Ricciardetto, anche per vari accenni a codesta istituzione nei Capitoli, come in questo luogo, nel quale dopo aver parlato seriamente di sè, esclama:
Nè perdut'ho la purità d'Arcadia
Nè perderolla, e non m'importa un ette
Se poi ogni cosa a me solo mal vadia.
E non è da credere che l'essere ammesso tra gli Arcadi fosse un onore che avesse almeno il pregio della rarità, perchè G. M. Crescimbeni, General Custode, nell'adunanza del 1712 (22 anni dalla istituzione) potè con suo gran diletto annunziare che i Pastori erano già il bel numero di 1300, tra cui Cardinali, Principi, Prelati d'ogni ordine e finalmente non poche dame. Ma mostrerebbe di mal conoscere gli uomini chi facesse le meraviglie per la importanza che allora davano scienziati e letterati a codesta ammissione. Il numero non guastava per gli Arcadi del 700, come non guasta per i Cavalieri dell'800.
35. Ho cavato questo Sonetto dai manoscritti, credendolo inedito, ma ho trovato poi che fu pubblicato in una Raccolta lucchese del 1719 intitolata — Rime scelte di Poeti illustri de' nostri tempi.
36. È pubblicata nella Raccolta che va sotto il nome del Gobbi (Bologna, Pisarri 1711).
37. «Inter carmina Nicolai meo judicio praestat omnibus ode illa amatoria, cuius initium est
Qualora io penso e qualor gli occhi volgo
grandis illa quidem, splendida, ingeniosa, concinna, in qua plura admiscuit ex intima Platonicorum philosophia. Vitae Ital. 1. c.
38. Anche le Raccolte del 700 rappresentanti il movimento letterario pistoiese, me le ha somministrate la Collezione Cassigoli.
39. La similitudine di Ecuba è nella Canzone, quella d'Ifigenìa nel Capitolo al Petrosellini (XVI).
40. In questo Capitolo Galileo mette in ridicolo la prammatica che astringeva i Professori dello Studio Pisano a fare uso della Toga non solo leggendo in cattedra, ma ancora passeggiando per la città o visitando gli amici. L'autenticità di questo componimento poetico, oltre la confessione che resulta dalla seguente terzina:
. . . . . io non son mica Ebreo,
Sebbene e' pare al nome ed al casato
Ch'io sia disceso da qualche Giudeo;
vien confermata dal Padre Ranieri lettore in Pisa in una sua lettera del 26 Febbraio 1641 a Galileo, la quale si conclude col seguente periodo: «Di nuovo non ho che dirle: solo che il sig. Auditor Fantoni ha fatto spolverar le toghe a' Dottori, onde adesso non si vede altro che togati, e sarebbe molto a proposito il Capitolo che fece già Vossignoria Eccellentissima, alla quale bacio affettuosamente le mani.» Così annotano i dotti pubblicatori delle Opere Galileiane, Ediz. fiorentina Vol. XV, pag. 207.
41. Vita d'Agricola.
42. Circa Ippolito Neri vedi i Cenni biografici e critici scritti dall'egregio mio collega ed amico Prof. Mariano Bargellini — Empoli Tip. Monti, 1873.
43. «Ho aspettato, e dovevo aspettare, la giustizia del governo: devo credere che non mi mancherà. Se mai mi mancasse... non perciò gl'iniqui sfuggirebbero alla mia giustizia: perchè Dio mi ha dato una potenza che nessun re mi può togliere, mi ha dato un'artiglierìa che tira più lontano, tuona più lungo, e conquassa più forte de' cannoni.» P. Giordani, Opere; Appendice — Tip. Le Monnier 1851.
44. V. Rime Burlesche di Eccellenti Autori, raccolte, ordinate e postillate da P. Fanfani — Firenze, Felice Le Monnier, 1856.
45. Ibid.
46. V. Nuova Antologia (vol. V, Fasc. VIII, 1867), Discorso di P. Fanfani sulla poesia giocosa in Italia.
47. Queste frasi sono del Capitolo Primo, che è una supplica per ottenere un lenzuolo ad un soldato. Dice che il supplicante ha varie speranze di far denari, ma, sopra tutto, spera in uno Zio prete, il quale ha grosse entrate...
Ma canta come il nibbio: mio, mio.
Ed ha tutte le oneste intenzioni
Ch'hanno i . . . . moderni; è menzognere.
Ama le sottigliezze e i buon bocconi.
E vuole a lui quel ben che lo sparviere
Vuole all'acceggia, o Satanasso a quello
Arbor che aperse al mortal' uom le spere.
E sente gran piacer ch'egli in bordello
Sen venga là per la marina egea
Perchè spera di mai non rivedello.
Or l'altra notte a Bartolo parea
Sognando appresso il dì che questo. . . . .
Di zecchini e di doble il sen gli empiea;
Onde ha fatto pensier con tai monete
Il lenzuolo pagarvi, e tutte l'altre
Partite cancellar che seco avete.
La cautela dell'editore, come vedete, è resa inutile dalla evidente rima di monete con prete. Infatti nell'esemplare che ho davanti (appartenente alla Collezione Cassigoli) un vecchio lettore del secolo passato ce l'ha già scritta codesta parola. L'edizione da noi citata è di Venezia, MDCXXXIV, appresso Giov. Pietro Perelli.
48. Francesco Ambrosoli, Manuale della Letteratura italiana (Firenze, Barbera editore) vol. III, p. 244.
49. Discorso sulla vita e sulle opere di G. Parini, Firenze, Le Monnier, 1856.
50. «Ritrovandosi il detto Sig. Girolamo in Roma (scrive il Corsetti nella vita del Gigli) per sodisfare alla curiosità di alcuni suoi amici in Siena, soleva spesso comporre foglietti di finte ingegnose novelle, e quelle mandare al Sig. Canonico Mariani, che con la sua facilità a credere de le frottole, et ancora insinuare altri a crederle dava occasione al novellista di calcar sempre la penna.» La serie di codeste novelle, o avvisi ideali, prese il nome di Gazzettino. Ne abbiamo due recenti edizioni, una fiorentina del 1861 in CXXV esemplari numerati, curata da P. Fanfani; l'altra milanese del 1864 fatta per la Biblioteca rara del Daelli da Luciano Banchi; il quale ne pubblicò poi un'altra Spedizione (la 18.ma) nel Vol. III della Piccola Antologia Senese, intitolato: «Scritti satirici in prosa e in verso per la maggior parte inediti raccolti e annotati da Luciano Banchi» Siena, L. Gati editore, 1865 — È da questo volume che noi citiamo i versi del Gigli.
51. Anton Maria Fede, o Fedi, del contado pistoiese, è menzionato e deriso sopra tutti nel Gazzettino, e soprannominato il Conte di Culagna. Ministro di Cosimo III a Roma, gran furbo e gran bacchettone, entrò in grazia d'Innocenzio XII, di Clemente XI, e di molti cardinali e ministri esteri. Ne fa liberamente il ritratto anche il Galluzzi nella Storia del Granducato di Toscana. Nel Capitolo di Pasquino zelante, attribuito al Settano, è chiamato
Il Conte Fede, il conte di Culagna,
Superbo contadin del pistoiese
Nodrito di farina di castagna.
Morì in Roma il 15 Giugno 1718.
52. Pochi furono gli esemplari del Vocabolario che si salvarono dalla condanna del bruciamento eseguito in Roma a richiesta di Cosimo III, per le ingiurie contenute in quel libro contro la Crusca e la lingua e la pronunzia fiorentina. Codesti pochi esemplari sono tutti in egual modo mutilati al principio e alla fine, come si vede in due che se ne conservano nella Biblioteca del Liceo Forteguerri, provenienti l'uno dalla Librerìa Franchini-Taviani e l'altro dalla Librerìa Puccini.
53. Ciò dice nella Scivolata, e ripete nell'ottava XLI del Seminario degli affetti.
54. Scritti satirici, Ediz. cit.
55. Ibid.
56. Ecco le due ultime ottave: (IL e L)
Nemmen Pistoia al Sacerdozio infido
Prestò ricetto ed inalzò gli altari:
L'Ombrone illustre, alla nostr'Arbia fido,
Uguali all'Arno e all'Arbia ha gli umor chiari.
Volgete il guardo là nel lazio lido,
Ove di Pier la nave da contrari
Venti agitata, al combattuto regno
Ha da Pistoia il suo maggior sostegno.
E tu, pastor gentil, cui siedo accanto,
Che sei di Siena e di Pistoia onore,
E che alla nave ormai t'accosti tanto,
Ministro eletto al suo nocchier maggiore,
Per tua luce sincera il vel fia franto
A ogni coperto mascherato errore;
Come scopristi le profonde cose
Che l'avara natura ci nascose.
Queste ottave (annota il Tondelli) le disse il Gigli sedendo a lato a Mons. Forteguerri nell'Accademia Senese, dov'egli aveva detto il suo discorso pastorale intorno alle cose maravigliose sotterranee. E aggiunge Luciano Banchi pubblicatore degli Scritti: «Il Forteguerri era di Pistoia, di quella cara città, madre a tanti eletti ingegni, da Cino poeta all'Arcangeli.» Io mi sento in dovere di ringraziare l'egregio amico mio delle parole benevole e affettuose per la nostra città. Fra Pistoia e Siena fu sempre ricambio di affetti sinceri; ed anche recentemente un bravo Pistoiese, Pietro Odaldi, chiamava Siena sua seconda patria. In codesto tempo in cui ci fu il Forteguerri, dimorava in Siena un altro pistoiese, il Cav. Aurelio Sozzifanti che vi fu auditore generale del governo dal 1699 al 1727.
57. Barboni per frati dice spesso il Gigli. V. il ritratto del P. Campana negli Scritti satirici, Ed. cit., pag. 6, nota 1. — Per il culto di San Cresci, vedi Annot. 1.ª alla Spediz. XVI del Gazzettino, Ediz. Fanfani. Il Santo ricordato scherzosamente dal Boccaccio, fu una grande occupazione pei bacchettoni di quel tempo, e un grande spasso pei letterati. Il Padre Campana, il Canonico Mozzi, l'Abate Gondi e il Conte Fede sono i Cresciani più derisi dal Gigli.
58. Lettera di Francesco Onorato Tondelli scritta al Gigli per ordine del Serenissimo Gran Principe Giov. Gastone; premessa alle Lettere Medicee nel Vol. degli Scritti satirici.
59. Morì a 58 anni nel 1853. Fu prete, e come il Forteguerri, buono d'animo, vivace d'ingegno, e nemico d'ogni ipocrisia e d'ogni affettazione. Se il Forteguerri ebbe pei suoi sali il soprannome di Lepido, anche le facezie dell'Jozzelli erano e son rimaste popolari in Pistoia. Noi che siamo stati suoi alunni, sappiamo quanto nell'imparare ci risparmiasse di fatica la sua parola chiara ed arguta, e sappiamo anche la differenza del piacere e del profitto tra la sua e la lezione d'ogni altro. Poco egli scrisse sì in verso che in prosa, e questo poco fu raccolto dopo la sua morte e pubblicato, con un cenno biografico, da Giuseppe Arcangeli (Pistoia Tip. Cino 1853). Ci è anche qualche altra cosa d'inedito, che può essere pubblicata, e spero che sarà presto. Ecco intanto il Sonetto contenente il suo ritratto che mandava al suo caro e spiritoso amico Dott. Luigi Capecchi, sonetto che il compianto Capecchi mi dava già il permesso di pubblicare nel Giornale dei Comuni di Pistoia (Febbraio 1867) e che qui riproduco con la letterina che l'accompagna:
Caro Dottore
Pistoia 5 Giugno 1845.
Eccoti in quattordici versi un Ritratto che potrai, volendo, appiccare ad una pagina del tuo bellissimo Album. Ho voluto delineare nel fisico, nel morale e nelle sue circostanze, un prete amico nostro, di buonissimo umore, a me caro tra quanti ne conta la Tribù di Levi. Io lo conosco intus et in cute perchè visse continuamente con me, e nacque da mia madre, nel medesimo giorno, anno ed ora in cui nasceva io stesso. È prete spicciolo che non è nulla nella Gerarchia Ecclesiastica; neppur Canonico.
Pallido, emunto, ma sereno il volto
Che mal nasconde del pensier l'arcano;
Il piè leggiero, agile il fianco e sciolto;
Asciutto il ventre e scarso il deretano;
Festivo ingegno e poco in se raccolto;
Libero spirto ma temprato e piano;
Tenero cuore all'amicizia vôlto,
Avverso ai tristi ed ai bigotti estrano.
Lingua che ratta come dardo scocca,
Sincera, audace, arguta, e che a gran stento
Morir si lascia una parola in bocca;
Miglior ventura a fabbricarsi intento,
Prete si fè; ma dieci lustri or tocca
E di prete non ha che il sacramento.
Il miglior ventura a fabbricarsi intento rammenta le chieriche fatte per economìa; e davvero anche l'Jozzelli, figlio di poveri contadini, non potè a meno d'esser prete. Del suo destino si vendicava scrivendo degli scherzi sulle coperte del Calendario, tra i quali trovo questo distico:
Hic liber a nobis emptus ter quinque per annos
Abstulit argentum, tempus et ingenium.
60. Questo Sonetto e tutti i versi del Carli, che successivamente si citano, sono tolti dalla pubblicazione carliana fatta dall'ottimo amico mio il Cav. Avv. Amerigo Seghieri nella Viola del Pensiero (Nuova Serie), Livorno, 1863, pei Tipi di Francesco Vigo. Sono otto Sonetti, che egli non garantisce (sebbene lo creda) che sieno tutti del Carli e tutti inediti. Gli Scherzi poetici dell'Accademia dello Scherno formarono un grosso volume che, a proposta del Carli, doveva intitolarsi: Il Campanaccio sonatosi dagli Accademici dello Scherno per lo scoprimento del Cristo trino fatto da M. Bietolone da Lucardo l'anno 1711.
61. Lettere a Luigi Medici. Lett. IV. Scritti satirici ec. Ed. cit. pag. 44.
62. Fino dal 1859 si diè notizia nel Piovano Arlotto, An. II, pag. 291 e seg., di un MS. carliano posseduto dal Prof. Rigutini, e ne fu pubblicata una parte. Si è parlato anche di un Ms. della Bietoloneide, posseduto dal Sig. Pietro Fanfani; e finalmente l'Avv. Seghieri, nella prosa premessa alla pubblicazione livornese del 1863, dice di avere avuta in mano la copia originaria (sebbene molto assottigliata) della Raccolta degli Accademici dello Scherno, offertagli, perchè l'adoprasse a suo talento, dal possessore Sig. Cammillo Vitelli di Borgo a Buggiano. Intanto pubblichiamo noi, da un MS. di proprietà del Cav. Cassigoli, un Sonetto che abbiamo ragione di credere inedito; confortati anche dall'autorevole opinione del ricordato Cav. Seghieri che ci ha fatto il favore di riscontrarlo col MS. Vitelli, dove è anche il titolo che qui si legge:
Riflessione avuta da Bietolone sopra il miracolo che fece Gesù Cristo nelle nozze di Cana di Galilea.
Sonetto del Beffa
Si discorrea l'altr'ier fra più persone
Delle nozze di Cana ove andò Cristo,
Con stupor che sì mal fosse provvisto
Di vin lo Sposo in simile occasione.
Ma non stupite — disse Bietolone —
Perocch'egli era un uomo accorto e tristo,
E, fatti i suoi scandagli, avea ben visto
Ch'era al bisogno ugual la provvisione.
E in verità, di lui tutti appagati
Restaron dal più grande al più piccino,
E si chiamorno molto ben trattati.
Chè se alfin gli mancò quel po' di vino,
Fu perch'egli contò fra i convitati,
Cristo per uno, e poi trovollo trino.
Ma Cristo, acciò il meschino
Non restasse scornato in faccia a tanti,
Gli fe' l'acqua passar per vin di Chianti. —
63. Reginaldo Tanzini nella dotta Prefazione alla Istoria dell'Assemblea degli Arcivescovi e Vescovi della Toscana tenuta in Firenze l'anno 1787 (Firenze, Stamp. Granducale 1788) tocca dello stato della Diogesi pistoiese alla metà del Sec. XVIII; e venendo a parlare del Vescovo Ippoliti, dice: «Mons. Giuseppe Ippoliti secondò a maraviglia il piano che gli avea disegnato il suo antecessore, ed era per condurlo al suo compimento, se la morte non lo avesse rapito dopo pochi anni del suo passaggio dalla cattedra vescovile di Cortona a quella della sua patria. Allora fu che cominciarono per opera sua a girare tra le mani degli ecclesiastici i libri de' Porto Realisti. L'Arnaldo, il Nicole, il Duguet, il Gourlin, il Quesnello non furono più per la Diogesi di Pistoia nomi incogniti, nè le loro opere straniere a quel Clero. Il P. Liborio Venerosi era stato il primo a farle conoscere e gustare all'Ippoliti nel tempo che dimorò con lui nell'Oratorio dei PP. di S. Filippo di quella città.»
64. Della Poesia Melica italiana e di alcuni poeti erotici — Discorso premesso all'ediz. diam. dei Poeti Erotici del Sec. XVIII pag. XVIII; Fir., Barbera, 1868.
65. «È la colomba (commenta il Landino) animale molto lussurioso, e per questo gli antichi dedicarono la colomba a Venere.»
66. Del Pievano Jacopo Lori di San Marcello, Lezione recitata alla Società Colombaria il 16 Gennaio 1853; nelle Prose del Prof. Giuseppe Arcangeli (Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., 1857), pagina 376.
67. La missione fu a Gian Gastone, nel Luglio 1773, per alcuni affari importanti della Congregazione di Propaganda; e ciò si rileva dal Breve pontificio (che il Prior Bernardino riferisce) molto onorifico per Niccolò, il quale da Clemente XII è presentato al Granduca come figlio diletto, genere virtute doctrinaque conspicuum. Compiuto l'alto ufficio con moltissimo suo onore e sodisfazione di tutti, venne a Pistoia; dove si trattenne fino al 20 Novembre per godere della sua cara villeggiatura, che fu l'ultima cominciandogli già i segni della mortale malattia.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.