Title: Saper vivere: Norme di buona creanza
Author: Matilde Serao
Release date: March 7, 2021 [eBook #64736]
Language: Italian
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
MATILDE SERAO
SAPER VIVERE
NORME DI BUONA CREANZA
MILANO
Fratelli Treves, Editori
1923
—
Quarto migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.
Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera, che non porti il timbro a secco della Società Italiana degli Autori.
Milano, Tip. Treves.
[v]
Amico lettore, non è mio compito insegnarti l'educazione. Tu, per me, come per gli altri che ti conoscono e ti avvicinano, sei una persona educata. Sin da quando eri fanciulletto tua madre, tuo padre, la tua bambinaia, il tuo maestro, ti dissero che non dovevi ficcarti le dita nel naso, che non dovevi portare il cibo alla bocca col coltello e che, in chiesa, entrando, bisogna cavarsi il cappello. Tutti questi dettami onde è celebre, nel tempo dei tempi, quasi quanto il nome di Dante, quello di monsignor della Casa, tutti questi obblighi di civiltà puerile, di cui discorrono, con gravità, Melchiorre Gioia e Sperone Speroni, sono impressi, nella tua memoria, da anni ed anni e son diventati, insieme con tutti gli altri minuti doveri, la consuetudine quotidiana della tua vita. Inutile il soggiungere che, più tardi diventando un giovanotto, facendoti uomo, tu, hai aggiunto, a questa educazione qualche cosa di più, [vi] un certo affinamento: tu, sedendoti innanzi a un superiore, non metti una gamba a cavalcioni dell'altra: tu, parlando a una signora, non tieni il sigaro fra le labbra: e se ti trovi in qualche ritrovo pubblico, abbassi la voce, naturalmente, nel conversare. Dunque, tu sei un uomo educato. E, se ti fermi alle apparenze, questo mio modesto piccolo libro può sembrarti inutile!
Invece, amico lettore, vi è una seconda educazione che tu, probabilmente, non possiedi; e ciò senza nessuna tua colpa, senza colpa di nessuno che ti consigliò e ti guidò, nella prima età, ma per tante circostanze di famiglia, di posizione, di ambiente. Questa seconda educazione, questo saper vivere, è, anche, una cosa tanto fantastica, tanto bizzarra, cambia di colore, di espressione, di tipo, così facilmente! Questo saper vivere è così differente, secondo ogni paese, secondo ogni clima, secondo ogni tradizione! Saper vivere, veramente, in società, nel mondo, diventa un'arte talmente difficile! Ed è, intanto, necessario saper vivere, anche per una creatura umile e oscura, anche per una esistenza solitaria, e modesta, anche per un uomo dall'avvenire circoscritto, anche per una donna dall'orizzonte limitato: è necessario saper vivere, se si vuol vivere, se si vuole svolgere tutta la propria vita, in armonia con le cose e con le persone, in armonia coi nostri pensieri e coi nostri sentimenti!
Ed è molto bene per te, amico lettore, che tu, per tuo istinto di equilibrio, per natural gusto eletto, conosca questo saper vivere, e che, in qualunque [vii] ora della tua vita, tu non commetta mai uno di quegli errori di condotta, di misura, di scelta, che sembrano piccoli e lievi, ma che, talvolta, portano delle conseguenze meno lievi, e, forse, gravi. Più se questa scienza così umana ti manca, se non hai avuto nè il tempo, nè la voglia, nè la facoltà d'impararla, se tu non sai, per esempio, quale sia il tuo dovere di promessa, il giorno in cui tu dai promessa di nozze, se tu non sai come regolarti avendo una udienza dalla Regina, se non sai come vestirti, andando a un pranzo di mezza cerimonia, in estate, il modestissimo mio libro te lo dirà, non come un sermone, non come un ammonimento, amico lettore, ma nella forma più amabile e più cordiale della conversazione con un amico.
E, forse, un maligno — vi è sempre un maligno, un po' dapertutto — potrebbe osservare che io, amico lettore, metto cattedra di saper vivere, mentre nessuno me ne ha elargito il diploma. Chi sa! Io lo ho, forse, questo malinconico diploma. Malinconico, dico, poichè esso mi viene dall'età che, amico lettore, è molto maggiore della tua: poichè mi viene dai costanti e lunghi viaggi, in paesi ove si sa vivere perfettamente: poichè mi viene dai costanti e lunghi contatti, con una società cosmopolita che, non avesse altro merito, sa vivere: e tutto ciò significa esperienza, ed esperienza, talvolta, quasi sempre, vuol dire malinconia. Un ignorante è sempre un ingenuo: e, un ingenuo è sempre una persona gaia. Ma non proseguiamo più oltre quest'analisi psicologica: essa condurrebbe ad osservazioni anche più amare. Che il maligno si rassicuri [viii] e sia contento: tutti i diplomi hanno un fondo di tristezza e contro il legno delle cattedre, palpita quasi sempre, un cuore deluso. Così non sia di te, amico lettore, quando tu sia giunto alla fine delle mie pagine: possa tu ritrovarvi, ogni volta che tu voglia consultarlo, la parola giusta e sincera che ti guidi in una piccola difficoltà della tua vita, possa tu leggere, nelle sue righe, il motto schietto e preciso, a cui si leghi un tuo pensiero e un tuo atto: e che, almeno, il malinconico maestro di saper vivere, a cui la piccola scienza costò degli anni e delle fatiche, senta che le sue parole abbiano efficacia di bene!
Matilde Serao.
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La parola è precisa; ma la cosa è tanto multiforme! Specialmente nei paesi meridionali, in cui basta che un giovanotto e una signorina si siano guardati per cinque minuti, uno dalla terrazza, l'altra dal balconcino, per credersi legati in vita e in morte, tutti quanti si chiamano fidanzati. Ma, realmente, i fidanzamenti, a questo mondo, sono tre: il primo, il più intimo, forse il più saldo, è quello di due che si vogliono bene, intensamente, profondamente e che hanno giurato di appartenersi, preferendo un celibato eterno e uno struggimento eterno, al non appartenersi: il secondo, è quello, più formale, in cui un giovane innamorato fa chiedere o chiede la mano di una fanciulla ai suoi genitori, è accettato ed è ammesso in casa, a fare la sua corte, stabilendo, in un tempo più o meno vicino, la data del matrimonio: il terzo, è il fidanzamento religioso o promessa di nozze, costume oramai caduto quasi in disuso. Del [4] primo fidanzamento, quello tutto sentimentale, nulla si può dire in queste noterelle del saper vivere: il fidanzamento sentimentale non ha norme costanti, non ha consuetudini secondo i paesi e secondo le condizioni, non ha regole che si possano combattere o difendere; è un affare di cuore, in cui gli estranei non debbono entrare e in cui non deve entrare neanche un povero cronista. Ognuno fa quello che vuole nel fidanzamento sentimentale, come ognuno fa quello che vuole, in generale, nell'amore, malgrado i contrasti e malgrado i consigli: gli innamorati combattuti, diciamo così, sfuggono a ogni influenza, che non sia quella dell'amore. Noi li possiamo indurre a qualche cosa, solo quando essi, vinta la lontananza, vinte le difficoltà, passano formalmente nel grado secondo del fidanzamento, cioè in quello di fidanzati bene accetti e di cui il matrimonio non è lontano. Allora soltanto, il saper vivere può servire per loro. Il fidanzamento ufficiale è una materia così delicata e così complicata, comporta tanti diritti e anche tanti doveri, muta così di forma secondo i paesi, secondo i ceti e secondo le idee della famiglia, che il cronista considera con occhio un po' sgomento, tutte le cose che egli deve scrivere, su questo soggetto: e avrebbe bisogno di un potente crogiuolo per condensarle. Tanto più che i fidanzamenti [5] moderni, ahimè; non sono più quelli di una volta! Tanto più che i fidanzamenti sono, purtroppo, la prova del fuoco per le fanciulle e per i giovanotti, fuoco in cui, talvolta, il matrimonio si liquefa!
Il fidanzamento ufficiale di un giovane con una signorina, è sempre preceduto da preliminari ufficiosi, per cui il giovane stesso, o un suo autorevole amico o una sua amica, persona seria, s'intende col genitore della signorina, o con la madre, se non è vivo il padre, o col maggior fratello, se ella è orfana, o col parente più prossimo. Questi preliminari sono necessarii per assodare tutte le condizioni del matrimonio, prima che si faccia la domanda ufficiale; ed essi, spesso, possono condurre alla sconchiusione delle pratiche, senza che se ne faccia pettegolezzi; ognuno si ritira regolarmente dalla sua parte, senza rancore. Così, è necessario scegliere una persona, uomo o donna, piena di finezza e di buona educazione, per questi accordi preliminari: le grandi famiglie mandano i loro avvocati o i loro amministratori: altre [6] famiglie pregano i confessori, i direttori spirituali, a volersene occupare: e, in generale, le persone più modeste di condizione, inviano un parente stretto, una parente, un vecchio amico; e infine, infine, quando lo sposo ha già una certa età, ha già una condizione sua, personale, è egli stesso, che tratta quell'importante affare, che è un matrimonio. Quando tutti gli accordi preliminari sono stati presi, in massima, quando ci si è bene intesi sui punti principali della futura unione, allora soltanto ha luogo la domanda ufficiale della mano della signorina. È di stretto rigore che vada a fare questa richiesta, in casa della fidanzata, al suo parente più prossimo, il più prossimo parente del fidanzato, uomo o donna: talvolta, il fidanzato stesso accompagna il suo parente, ma è molto più elegante che il fidanzato sia assente, come è assolutamente necessario che sia assente la fidanzata. Altri agisce per loro; ed essi aspettano, tutto sapendo, di lontano, che la domanda sia fatta e sia gradita. È il giorno seguente che il fidanzato è ammesso in casa ufficialmente — se la frequentava prima, vuol dire che, dopo, egli assume altro carattere — e trova la fidanzata nel salone. V'è l'uso costante che, in questo primo giorno, egli porti un dono alla fidanzata, consistente, sempre, in un anello: questo sarà più o meno ricco, [7] secondo le condizioni dei fidanzati. Ma è da consigliarsi, nei primi doni, più gentilezza ed eleganza, che soverchia ricchezza. Una fidanzata non è un idolo indiano, da covrirlo subito di gemme. I doni debbono seguire una certa gradazione; massime se ci vuole del tempo, pel matrimonio. La fidanzata, a suo tempo, ricambia il dono dell'anello; può non farlo subito: dà un altro anello, semplice, o un altro dono, mai di grande costo. Per chiedere la mano di una signorina, il parente maschio va in redingote e tuba; se è una signora, in grande toilette da visita. Nella prima visita, anche il fidanzato porta la redingote e tuba; poi, può adottare il tight. Si offrono, dalla famiglia della fidanzata, al parente e, dopo al fidanzato, del caffè, del the, e dei liquori, con bombons, ma naturalmente e senza sfoggio.
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Tutto è mutato adesso! Un tempo, nel buon tempo della severità e della poesia del fidanzamento, i genitori, o i parenti, o i tutori della fidanzata, erano molto rigorosi nell'ammissione in casa del fidanzato, nel numero delle sue visite, negli accompagnamenti: un tempo, si andava in casa una volta o, al più, due volte la settimana, il giovedì e la domenica. E le ragazze si maritavano lo stesso, anche meglio, e gli amori, le passioni erano sempre ardenti, ma più caste e più rispettose, e i matrimoni, diciamolo malinconicamente, riuscivano meglio! Adesso, appena un giovanotto è fidanzato ufficiale di una signorina, è ammesso in casa ogni giorno, e per varie ore al giorno: accompagna la signorina in teatro, alla passeggiata, a messa, nelle visite: va nei medesimi palchi, nella medesima carrozza, siede accanto a lei, nelle visite, nelle feste: infine, diventa la sua ombra. Sembra quasi che i genitori o i parenti della ragazza, temano così fortemente di non maritare la loro signorina, [9] che, acchiappato un fidanzato, non vogliano più lasciarlo sfuggire! Quanti mali produca questa soverchia intimità, questa soverchia familiarità, lo sa Iddio! Anzitutto, per molte ore del giorno, una madre, un padre, un parente, non possono continuare a far la guardia ai fidanzati: ed eccoli soli, questi due. Soli! E se il fidanzato, è un mezzo galantuomo, invece di un galantuomo? Se non è punto galantuomo? Se il matrimonio va a monte? Ne vanno tanti, a monte! Bella figura, per una signorina che si è portata dietro il fidanzato, dapertutto, e che, a un tratto, deve apparire senza costui, abbastanza compromessa, in fondo, da tutta quella troppo prolungata ed esagerata convivenza! E se anche il matrimonio si fa, non è desiderabile che tutta la poesia della intimità, della convivenza, delle uscite insieme, di tutta la vita comune, venga dopo, e non prima? Non è desiderabile che tutte queste piccole gioie — poesia del matrimonio — dello andare dapertutto insieme, dello stare insieme lunghe ore, del comunicarsi ogni impressione, vengano dopo, dopo le nozze, e non prima? Il riserbo, la correttezza, una certa fierezza, l'amore represso dalla educazione, la passione dominata dal rispetto a sè stessa, non sono, forse, le qualità più belle di una fidanzata e di una futura moglie? Non è una migliore [10] speculazione — chiamiamola così — far molto desiderare la presenza di una fidanzata, e tutte le piccole grazie dell'amore, e tutto ciò che è l'incanto tenero dell'amore, anzi che sciuparlo, ogni giorno, prima delle nozze? Non è meglio.... ma questa è una predica che seccherà moltissimo i fidanzati, abituati, oramai, a spadroneggiare in casa della fidanzata. O genitori, pensateci e pensateci voi, ragazze, perchè io ho ragione!
Fra gente per bene, dunque, corretta e anche cordiale, il fidanzato non ispadroneggia, in casa, ma i rapporti si regolano di accordo, con la famiglia, in modo da non creare troppa familiarità, pur contentando gli innamorati. Da due a tre visite per settimana, di sera, per lo più, vale a dire quando ambedue i genitori, se la signorina li ha, si suppone che siano in casa: alla domenica, all'ora della messa, il fidanzato può recarsi nella medesima chiesa, a udire la messa, beninteso, mettendosi a una certa distanza dalla fidanzata, e andandole incontro, quando esce dalla messa, permettendosi di accompagnarla nella via, solo quando [11] ne sia invitato dalla madre o dal padre, camminando sempre accanto alla madre, a cui darà la destra, non avanzandosi mai, innanzi, solo, con la fidanzata. In quanto al teatro, il fidanzato può andar nello stesso teatro, dove va la fidanzata, ma non nel medesimo palco, dal principio dello spettacolo, sino alla fine: può e deve recarvisi, in visita, fra un atto e l'altro, al più trattenendovisi per un atto intero: dopo, ritorna alla sua poltrona, a udire il resto dello spettacolo. In quanto alle feste.... intendiamoci bene, una fidanzata, per quanto le sia possibile, deve astenersi dal partecipare a feste, a balli, a riunioni. Massime se il matrimonio non è a lunga scadenza, per quanto meno va in giro, la fidanzata, tanto meglio è: quindi, poco o niente, come teatri, come feste, come balli, come altri svaghi. E così, anche il fidanzato si astiene dal frequentare simili ritrovi, non va troppo in caffè, non si fa vedere nei restaurants alla moda, insomma fa una vita raccolta, come la fa la sua fidanzata. Più si approssima il matrimonio, e più è permesso uscire insieme, per iscegliere le stoffe dei mobili, i mobili stessi, cercare casa, comperare i vestiti, ordinare i cappelli: ciò è permesso, ma con modestia e moderazione. Durante il fidanzamento, come l'affetto cresce, si viene al tu: ma in presenza di persone di riguardo, [12] quando vi sono visite, è meglio darsi del voi. Il fidanzato dà del voi ai futuri suoceri, alle future cognate e ai futuri cognati: il nome di parentela, suocera, padre, cognato, non si assume se non dopo il matrimonio. Negli onomastici della futura suocera, delle future cognate, il fidanzato manda dei fiori e qualche oggettino di gusto, ma non di gran valore: per il suocero o pei futuri cognati, non ve n'è bisogno, se no, il giro dei doni si allarga troppo. È inutile dire che il compleanno, l'onomastico della fidanzata, la Pasqua, il Natale, il ritorno di un viaggio, comportano sempre dei doni belli e ricchi — se vi sono denari — da parte del fidanzato: la fidanzata li ricambia, spendendo meno denaro, ma non molto meno. Per ogni evento, potendo sconchiudersi il matrimonio, è meglio non abbondare in iscambio di lettere, di fotografie, di capelli. Non si sbaglia mai, essendo affettuosi, sì, ma riservati, in caso di fidanzamento.
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Parliamo del corredo. Dopo la dote, è il più grosso cruccio delle famiglie che debbono maritare una ragazza: ed è, naturalmente, un duplice cruccio, per le famiglie che non dànno dote alle figliuole. Gli è che si può non dare un soldo alla fanciulla da marito, quando va a nozze ma un buon corredo di abiti e di biancheria bisogna darglielo, se non si vuole mandarla via di casa, come una mendicante. A rigore, a rigore, il corredo di vestiti può essere modesto, modestissimo, se la condizione è modesta: ma il corredo di biancheria deve aver sempre una certa larghezza, la maggiore larghezza possibile, anzi. Uno sposo novello, massime se ama la sposa, se ha mezzi, se vede prosperare i suoi affari, non si seccherà mai, anzi sarà felice di poter donare dei vestiti, anche pochissimi mesi dopo le nozze, alla sposa: ma qualunque sposo, ricco, agiato o povero, si seccherà enormemente di dover comperare delle calze, dei fazzoletti e delle sottane alla sposa, il primo anno del [14] matrimonio. Non sacrifichiamo la sostanza all'apparenza, cioè il corredo di biancheria a quello dei vestiti: troppi vestiti indicano vanità, frivolezza, desiderio di troppa libertà mondana, prodigalità: mentre un bel corredo di biancheria, per una sposa, indica amore alla casa, gentilezza d'animo, serietà, poesia familiare, vera eleganza personale. Per dire qualche altra cosa sul corredo di vestiti, il più modesto comporta da quattro a cinque vestiti: quello delle nozze civili, che può servire come vestito da visita, da cerimonia, in istoffa di seta, grigio o lilla: quello delle nozze religiose che può, con un corsage scollacciato, servire per una festa, per un ballo: quello da viaggio che può servire, al ritorno, per uscire di mattina: il tradizionale vestito in velluto nero, in charmeuse nero, che serve in tutte le occasioni: e una vestaglia elegante. È il meno, veramente, che si possa dare a una sposa: ma nei matrimonii più che modesti, si può economizzare ancora il vestito dello Stato Civile, mettendone uno da signorina semplice, e avere il solo vestito nero, per le grandi occasioni. Come crescono i mezzi finanziarii, questi vestiti si duplicano, si triplicano, si quadruplicano: vi si uniscono i mantelli da ballo, da teatro, da mattina, da viaggio, le giacchette, le pelliccie: vi si adattano i cappelli, le sciarpe, gli ombrellini, i ventagli, le [15] scarpe, i boa e.... si arriva a un piccolo disastro finanziario. Il matrimonio di una figliuola, così, equivale, a un grosso incendio! In alcuni paesi, in Francia, ancora si usa che lo sposo doni uno o più vestiti alla sposa: da noi è un costume assolutamente di provincia remota meridionale e, diciamolo, alquanto cafonesco. Del resto, ciò si va smettendo, dappertutto, e tutto il peso, ahimè, di questi corredi, è sulle povere spalle dei genitori!
Tutto era già mutato, prima della guerra, nel corredo di biancheria di una sposa, importantissimo elemento di un buon matrimonio: l'antico abbondante, abbondantissimo, solidissimo, pesantissimo corredo, sessanta camicie da giorno, sessanta da notte, dodici dozzine di paia di calze, eccetera, eccetera, era già trasformato in un molto minor numero di capi, ma molto più fini, molto più leggeri e molto più costosi.... Ma dopo la guerra! La trasformazione è anche più profonda: la tela di Olanda, fondo antichissimo, del corredo, o non esiste più o è costosissima: [16] la battista, non si chiama più battista: la mussolina, non si chiama mussolina: e i corredi di biancheria si fanno, oramai, di linon, di nansouk, e di crespo della Cina, tutto à jour, ricamato, ricamatissimo, con merletti finissimi, con applicazioni pompadour. Un corredo molto ricco, è fatto da trentasei parures complete, camicia da giorno, camicia da notte e copribusto con pantaloncini: dodici parures di linon, dodici di nansouk, dodici di crespo della Cina: un po' meno ricco, ma sempre molto chic è di trenta parures, limitando a sei quelle di crespo della Cina. Un corredo buono, diciamo così, è di ventiquattro parures, cioè dodici di linon e dodici di nansouk, senza le sei di seta, salvo qualche parure, una o due di seta. E in questi corredi così evanescenti, ogni madre prudente, deve introdurre un po' di biancheria seria, diciamo così, camicie da notte con colletto chiuso e le maniche lunghe, camiciuole accollate, per quando la figliuola sia sofferente o puerpera; e unirci delle calze di lana, allo stesso scopo e dei grandi fazzoletti di tela, per quando si ha il raffreddore! Su tutta la biancheria della sposa si ricama l'iniziale del suo nome di battesimo: è roba sua: lei la deve indossare e il suo nome di battesimo non cambia, in casi funesti di separazione, di vedovanza. Qualche sposa, per convenzione di famiglie, porta anche [17] la biancheria da letto e da tavola; non è suo obbligo, ma, certe volte, si stabilisce così. Allora bisogna far ricamare, sulla biancheria da letto e da tavola, la iniziale del cognome dello sposo. Bisogna considerare che egli è il capo della casa; che tutta la roba di casa gli appartiene; che, in caso di separazione o di vedovanza, egli lascia alla sposa o restituisce alla famiglia della sposa, solo il corredo personale di biancheria, mai quello di casa; che in caso di morte dello sposo, egli può disporre della biancheria di casa, come crede! Quindi, iniziale del nome della sposa, sul corredo personale di lei: iniziale del cognome dello sposo, sulla biancheria di casa. Quando il corredo di biancheria della sposa, è molto importante, se ne inserisce il valore di costo e la nota, nella scritta nuziale, dove s'inserisce anche il valore e la nota dei gioielli che porta la sposa e che sono suoi.
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La scelta di un padrino di matrimonio, la scelta, cioè, del compare, si deve fare di perfetto accordo, fra lo sposo e la sposa. Spesso, lo sposo ha un grande amico, o un parente carissimo che gli ha fatto da padre, o un superiore nella sua carriera, o un maestro nella sua professione, a cui si vuol legare con maggiori vincoli, facendogli e ricevendone un atto di deferenza: e la sposa e la sua famiglia accettano questo compare, dalle mani dello sposo. Tante volte è la sposa che ha un cognato, uno zio, un tutore, che le hanno dato le più grandi prove di affetto; ha un qualche vecchio amico, rispettabile, di famiglia; ha un protettore dei suoi fratelli, un grande avvocato di casa, un grande medico di casa, qualche personaggio, infine, per cui l'affetto, la devozione, la riconoscenza, creano un obbligo di eleggerlo compare. E allora lo sposo si contenta, di prendere il compare, proposto dalla famiglia della sposa. A ogni modo, sono proprio i sentimenti di stima, di reverenza, [19] di gratitudine, quelli che debbono determinare gli sposi alla scelta di un compare. Scegliere un compare solo perchè è nobile, e si è vanitosi, sceglierlo solo perchè è ricco, e si vuole un sontuoso dono, è cosa degna di severo biasimo. Questi compari qui, di parata, tolgono subito il carattere di tenerezza e di amabilità alle nozze. Già, i padrini di parata si seccano enormemente di parare, e vengono alla chiesa di malumore, e portano un dono, offrendolo a muso storto, e se ne vanno via, prima che gli sposi partano pel viaggio di nozze: dopo, chi si è visto, si è visto! Il padrino di matrimonio diventa parente — se è tale, la parentela si duplica; diventa amico — se è tale, l'amicizia si rinforza — diventa un consiglio, una guida, un sostegno nella vita. Mettiamoci un poco di poesia, in questa vita! Meglio un anello che costi cinquecento lire, invece di tremila, il giorno del matrimonio e un amico di più nella esistenza. Si fa a meno di chiamare duca o principe, il compare, ma, dagli sposi si può ricorrere a lui, in qualunque circostanza felice o infelice. Forse, per molte coppie, che sono corrose dalla ambizione o dalla cupidigia, queste parole non serviranno a nulla: ma per tutte le altre coppie, serviranno. La famiglia che sceglie il compare, gli fa un invito intimo: quando ha accettato, gli scrive un invito formale. L'altra [20] famiglia conferma l'invito, manifestando la sua compiacenza, la prima volta che incontra questo preconizzato padrino. E per fissare il giorno delle nozze religiose, in cui egli deve esplicare le sue funzioni, bisogna avere la cortesia di consultarlo, perchè egli potrebbe avere altri impegni di affari, di professione. Più si abbonda in gentilezze e in delicatezze, in questo soggetto, e meglio è. Quando si deve esser cortesi, non si è mai abbastanza cortesi!
Esso è anche chiamato padrino dell'anello, e, nelle province meridionali, compare di fazzoletto. Negli altri paesi d'Europa, il padrino di matrimonio è scelto sempre fra i parenti dello sposo o della sposa: quasi sempre è un cognato o uno zio. In Italia, viceversa, si esce dalla famiglia, per questa scelta: e si prende un personaggio di grande condizione sociale, di grande prestigio, che si vuole onorare con questo ufficio e da cui si vuole essere onorati, o qualche diletto amico, con cui si vogliono restringere anche più i legami di tenerezza. Anticamente, il compare donava lui [21] la fascetta d'oro matrimoniale, la fascia d'oro che lega per tutta la vita, l'anello delle nozze, infine, e quindi era chiamato compare dell'anello: ora, a questo anello coniugale ci pensa lo sposo, sempre, e invece il compare di matrimonio dona, alla sposa, ordinariamente, un altro anello, molto ricco, con un solitario, per esempio, con un grosso smeraldo, con una grossa perla, unita a un grosso brillante. Il dono dell'anello è il più pratico di tutti, per il compare: egli si distacca, un poco, dalla tradizione, offrendo un fiore di brillanti, o un braccialetto, o altro, la spesa è doppia, è tripla, e la tradizione svanisce. Nelle province meridionali, un tempo, la sposa, in cambio dell'anello, offriva al compare di matrimonio, un fazzoletto di battista, ricamato con le cifre della sposa: così si aveva il nome di compare di fazzoletto. Nel popolo, in molte famiglie borghesi e anche in qualche famiglia aristocratica, questo ricambio del fazzoletto esiste ancora: ed è un uso molto grazioso! Basta; il compare funziona il giorno delle nozze: va in chiesa in redingote, calzoni a righe, cravatta chiara, guanti tortorella e tuba, come lo sposo: offre il braccio, per lo più, alla madre dello sposo, visto che, alla madre della sposa, lo offre lo sposo: e sull'altare si colloca presso la coppia felice, un poco indietro, salvo ad appressarsi, nel momento opportuno. [22] Difatti, quando è il momento che il prete benedice le nozze e che deve metter l'anello al dito della sposa, è proprio il compare che fa l'atto di metterglielo al dito, e lo sposo compie la gentile opera. Come orazioni speciali, nulla il compare deve fare o dire: al ritorno dall'altare, egli ridà il braccio alla dama, che vi condusse prima. Alla colazione nuziale, egli siede alla destra della sposa; se è oratore, fa un brindisi; se no, è il primo a toccare il suo bicchiere di champagne, con quello della sposa. Tutte le spese, le mance, i regali, in chiesa, sono a carico suo: in casa, deve dare mancie a tutti i servi. Oltre il gioiello di prammatica, il compare molto chic dona anche dei fiori, dei fiori candidi, annodati con una grande sciarpa bianca: ma si può non essere chic ed essere un eccellente compare. A nulla egli è tenuto, verso lo sposo. Beninteso, al ritorno del viaggio di nozze, se egli ha casa, ha famiglia, dà un pranzo, o un ricevimento in onore degli sposi: se è uno scapolo elegante, può dare questo pranzo anche in un grande restaurant, in sala riservata.
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Un tempo, i testimoni di un matrimonio non erano più di quattro, adesso sono diventati dieci o dodici! Contate un poco: due testimoni alla promessa nuziale, se si segue questo costume: due testimoni alla scritta, o capitoli che dir si voglia: quattro, alle nozze civili: quattro testimoni al matrimonio religioso: in tutto dodici! Basta, ora la pompa matrimoniale è diventata così grande, che opporsi a questa moltiplicazione di testimoni, è perfettamente inutile. D'altronde, non è neppure una cattiva cosa, aver da dieci a dodici testimoni. Anzi tutto, si può fare una bella infilata di nomi sonori, appartenenti ai migliori ceti sociali, il che è sempre di buona figura, allo Stato Civile e alla Chiesa, come si legge nelle cronache dei giornali; poi la sposa si assicura da dieci a dodici bei regali; poi, la tavola d'onore riesce eccelsa, con tutti i grandi parenti, il compare, Monsignor parroco e i testimoni; poi, infine, pare impossibile, ma vi è gente che ama moltissimo di [24] far da testimone nelle nozze. Molti fra questi sono scapoli impenitenti; molti sono vecchi aristocratici, che non escono mai di casa; molti sono professionisti, deputati, senatori, talvolta ministri, che non hanno mai tempo per nulla, eppure, tutti, tutti quanti, di diversa condizione, età ed occupazione, tutti abbandonano il loro lavoro, il loro comodo, il loro piacere, per fare da testimoni. Bene! Benissimo! E quando vi è gente che ha proprio la vocazione della testimonianza, perchè privarla di questo piacere? Dunque, il testimone deve essere invitato al suo ufficio, almeno venti giorni prima del matrimonio: è naturale che a lui si dirigano lo sposo, la sposa o i parenti, per questo invito. Il testimone dello sposo se non conosce la sposa e la sua famiglia, deve esserle precedentemente presentato: viceversa la sposa e la sua famiglia presentano allo sposo, quei testimoni che egli non conosce. Il testimonio non può cavarsela con un bouquet di fiori, anche magnifico, anche messo in un vaso prezioso: le spose detestano i bouquets di fiori, dentro i vasi, rammentarselo! Non è necessario che il dono sia molto ricco: deve essere fine ed elegante. Si manda il giorno prima delle nozze, per un servitore, con una carta da visita, dove sia una parola d'augurio. Il testimone porta la redingote, pantaloni chiari, panciotto [25] nero o bianco, cravatta grigia, o bleu, o verde, non chiarissima, con qualche bello spillo: cappello a tuba, guanti grigio-perla. Il testimone prende posto nelle prime carrozze, dopo quella della sposa, sta presso la tavola dell'Ufficio di Stato Civile, sale sull'altare, alla Chiesa, dà il braccio, andando e venendo, a qualche parente importante della sposa e dello sposo, e siede alla tavola d'onore. Dopo le nozze, i doveri e i diritti del testimone, spariscono: e restano, fra lui e gli sposi quelle relazioni di amicizia, di affetto, di stima o di semplice conoscenza mondana, che vi erano prima delle nozze.
Ma è veramente nuova, questa usanza nuziale, vale a dire che testimoni alle nozze religiose, testimoni sovra tutto della sposa, possano essere le donne, invece degli uomini? È da tempo che nelle cronache mondane di Francia, noi vediamo, spesso, spessissimo, una zia, una cugina, una cognata o magari semplicemente un'amica, fare da testimone, in chiesa, alla sua parente, alla sua amica: e abbiamo notato ciò in matrimonii non semplicemente [26] del ceto borghese, ma piuttosto in quello aristocratico. Pare, adunque, che possa avere un carattere di eleganza, questo uso moderno o, forse, rinnovato dall'antico? Pare! Fatta qualche indagine, abbiamo appreso che la Chiesa ammette, ha sempre ammesso, che una signora, parente o amica o semplice conoscente, possa fare da testimone, al rito religioso, a una giovane sposa: e che se non si è profittato prima, o non si profitta molto, ancora, di questo permesso, è, talvolta per completa ignoranza di tale facoltà o per non mutare nulla all'uso di aver testimoni uomini. Altre indagini, ci hanno certificato partecipante alle nozze religiose, la madrina, nientemeno, della sposa, che, in questo modo, viene a prendere il posto del padrino o compare di anello: questo noi abbiamo notato in molti matrimonii dell'Alta Italia, specialmente a Milano. E, diciamolo, questa sostituzione è molto chic. Giacchè questo affare dei quattro testimoni alle nozze civili — la legge si contenterebbe di due, ma, allora il conto non tornerebbe — e di quattro testimoni alla Chiesa, otto uomini, da dover cercare, da dover trovare, con grandi difficoltà, con grandi contrasti e con grandi noie, è, sempre, più o meno, il portato di una banale vanità, o, peggio, di una segreta avidità. Si vogliono dei nomi eminenti, impressionanti: e debbono essere [27] otto, più il compare di anello, nove. Si desiderano nove doni, uno più bello dell'altro.... E così, vi sono personaggi in vista, personaggi doviziosi, che sono testimoni, sempre, che debbono gittare il loro tempo e il loro denaro, così, fatalmente, data la loro condizione. Non insistiamo! Il testimone-donna, vale tanto meglio, sentimentalmente, poichè si tratta, quasi sempre, di una persona a cui si è molto affezionati, da cui si è avuto delle pruove lunghe di affetto: il testimone-donna vale tanto meglio, perchè il suo dono sarà meno ricco, ma più carino, più gentile, più utile: il testimone-donna si sentirà più legato alla novella coppia e vigilerà, come può, sulla sua felicità, il testimone-donna rappresenta qualche cosa di più intimo, di più affettuoso. Esso ci piace. Esso ha un grande avvenire, nelle nozze future.
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Salvo circostanze speciali, non bisogna mai far intercedere più di ventiquattr'ore, fra le nozze civili e le nozze religiose. Niente è più ridicolo quando una sposa, maritatasi civilmente il giovedì, resta non maritata religiosamente, sino alla domenica: è una condizione grottesca, che si deve a ogni costo evitare. Per lo più, le nozze civili si compiono di sabato e quelle religiose la domenica seguente, con un sol giorno di intervallo: la domenica è un buon giorno, bello, poetico e pratico, per celebrazione di pompa religiosa nuziale. Anche a non essere fabbriferrai o impiegati al Catasto, tutti si è più liberi, alla domenica, e si può consacrare più facilmente, più volentieri, una mezza giornata a una festa di nozze. Il matrimonio civile, atto importante, ma scevro di qualunque poesia, si celebra in parentela strettissima, senza nessun'altro: genitori, testimoni, fratelli e sorelle, se ve ne sono, qualche zio, qualche nonno, se esiste ancora. La sposa deve portare una toilette piuttosto [29] ricca, in velluto, in broccato, in foulard, secondo la stagione: toilette che le servirà, più tardi per visite di grande etichetta. Colore chiaro, piuttosto. Mai cappello chiuso, mai cappottina: sarebbe un errore di gusto. Cappello rotondo, molto chic, che le servirà, anche, più tardi, per le dette visite. Sulle spalle un grande mantello ricco; mai, una giacchetta: qualche bel gioiello, scelto fra i doni dello sposo che già debbono essere giunti, al completo. Scarpini di capretto nero, calze di seta nera: guanti bianchi, ombrellino ricco. Lo sposo porta la solita, inevitabile redingote, i pantaloni grigi, la cravatta chiara, le scarpe di pelle lucida, i guanti bianchi. È chic avere un bel fiore, all'occhiello, ma sarebbe ridicolo, se fosse il fior d'arancio. La madre della sposa e quella dello sposo vanno in toilette da visita, al Municipio: i genitori maschi, testimoni, parenti, in redingote e tuba. È naturale che la famiglia della sposa provveda alle carrozze, tre o quattro: che distribuisca le mance ai portieri municipali: che pensi, naturalmente, a ogni amminicolo. Se l'ufficiale dello Stato Civile è persona nota e di conoscenza, bisogna invitarlo alle nozze religiose; tanto più, se è un amico, se offre un mazzo di fiori col nastro bianco e una penna di oro. Nella prima carrozza, all'andare e al venire, si colloca la sposa con suo padre e i [30] suoi testimoni; nella seconda lo sposo, con la madre della sposa, sua madre, se vi sono, e un testimone. Poi, il resto delle famiglie, in ordine gerarchico; quest'ordine non si muta, per il ritorno. Tutto ciò si fa con grande correttezza, senza troppi chiassi, poichè il matrimonio civile, all'inverso di quello religioso, non ne comporta; e, in quelle ventiquattr'ore, la sposa continua a tenere il suo contegno riservato di fidanzata, con lo sposo.
Si perde, oramai, nella notte dei tempi, la epica lotta mondana, tra Francia e Inghilterra, a proposito del vestito che deve indossare lo sposo, alle sue nozze religiose. Lo sposo francese, in qualunque ora accadesse il matrimonio, si vestiva in frac e cravatta bianca: nulla di più funebre, in pieno mezzogiorno, di uno sposo così vestito! Ma la tesi mondana inglese, sostenuta da quel sovrano di tutte le eleganze, che fu il re Edoardo, sovranità di cui nessuno ha saputo raccogliere lo scettro, la tesi della redingote, coi calzoni a righe, col panciotto bianco, la cravatta oscura e i guanti [31] bianchi, questa tesi così squisita, finì, allora, trent'anni fa, venti anni fa, per vincere la fiera battaglia.... Figurarsi che re Edoardo sosteneva che ci si poteva sposare, in grande chic, anche con una redingote bleu o grigio ferro: e lo chic dello chic, l'incomparabile chic, era che questa redingote bleu scura o grigio scura, avesse i bottoni d'oro! Tempi fuggiti. Per cinque o sei lustri, la redingote ha regnato in tutte le parate nuziali, tanto per lo sposo, assolutamente per lo sposo, come per i suoi testimoni e i suoi parenti, e questa moda, dedicata alla memoria di un re che fu assai più grande, nel gusto, che l'antico Petronio, ancora persiste, nella maggioranza. Ma un'audace minoranza vien già creando una nuova usanza, per la toilette dello sposo: ed è quella del tight, in sua forma, che può essere di una ineffabile eleganza. Sì, il tight si diffonde sempre più, in Inghilterra, in Francia, in Italia: esso si accompagna, è vero, coi calzoni di fantasia, col panciotto bianco, con la cravatta di raso scuro, bleu cupo, rosso cupo, grigio piombo e coi guanti bianchi, ma è il tight e non è più la redingote. Questo tight ha un incalcolabile vantaggio, sulla redingote: esso ringiovanisce la persona che lo sa portare, la rende più snella, più disinvolta, più giovane, infine. Per quanto svelta sia la persona che porta la redingote [32] e questo vestito sia bene tagliato, esso è un abito che invecchia: ci vogliono sforzi inauditi, in un bel giovane sposo, per non essere invecchiato dal suo vestito. Così, i passi che ha fatto il tight, sono molto rapidi: e non si può non predirgli un successo sempre più vasto. Beninteso che il tight deve essere fatto da un sarto di prim'ordine, tagliato da una mano magistrale e portato alla perfezione: allora il tight diventa un vestito ideale, per un giovane sposo, come pure per uno sposo maturo. Ed è benintesa un'altra cosa: col tight di nozze, non si può ammettere e non si ammette che il cappello a cilindro, l'antico e ora nuovissimo huit reflets.
L'uso antico! L'uso antico, cioè quello dei nostri avi e dei nostri padri, l'uso che ancora vige in provincia, l'uso che non è chic, ma che è molto semplice, molto grazioso e molto commovente, l'uso antico, ahi, va scomparendo da tutte le classi, anche le più modeste! Ognuno, pure se non ne ha i mezzi, vuol essere chic. La dote è poca, o non esiste: il [33] giovanotto guadagna appena da vivere, modestissimamente, lui e la sposa: non importa, si fanno dei debiti, purchè il matrimonio sia chic. L'uso antico, patriarcale, era di organizzare, al completo, la casa dei novelli sposi: le nozze religiose si celebravano in chiesa e a casa, con un altare improvvisato, quasi sempre di sera; dopo le nozze, gli invitati, aperto il ballo dai due sposi, si davano alle danze, si offrivano sorbetti, dolci, confetti e vini, copiosamente; si ballava di nuovo; a un certo punto gli invitati si raggruppavano e accompagnavano gli sposi alla nuova casa. Talvolta, queste nozze religiose, sempre nell'uso antico, si celebravano di mattina e allora, dopo la cerimonia, si faceva un grande pranzo; dopo il pranzo, accompagnamento degli sposi, alla novella casa. L'uso antico, che non era chic, ma che era tenero e dolce, e con cui migliaia di uomini e di donne si maritavano, pur essendo felici, l'uso antico non comportava nè matrimonio religioso alle dieci del mattino; nè fastosi doni; nè lunch o luncheon; nè partenza per un lungo viaggio; nè viaggio di nozze, quindi; l'uso antico aveva la sua beltà e la sua grazia, con la suocera che aspettava la nuora nella nuova casa, con tutte le leggende di augurio, ma non era chic. Adesso, il più misero impiegato, maritando la figlia, deve dare il luncheon, se no, che figura ci [34] fa? Adesso, il più misero professionista, maritandosi, deve fare il viaggio di nozze; e se no, dove va a nascondersi? E la spesa è sempre molto rilevante, per la famiglia della sposa, sempre molto preoccupante, per lo sposo, e per queste nozze chic, spesso, nelle famiglie che non sono chic, per questi viaggi di nozze, fatti da chi deve restare, al suo paese, a lavorare, cominciano le prime, acri dispute fra gli sposi: e la luna di miele si avvelena! Chi mai fa più il matrimonio religioso, all'uso antico, oramai? In dieci anni, ho assistito a centinaia di matrimoni col luncheon, spesso, a un quinto piano, in tre stanzette modestissime.... basta, non insistiamo, e non ho assistito se non ad un solo matrimonio bello, simpatico, all'uso antico, fatto con larghezza, con signorilità, ma all'uso antico, col bell'uso patriarcale, di sera, col ballo, coi rinfreschi e con l'accompagnamento a casa degli sposi, cioè quando si maritò la prima figliuola di un grande avvocato napoletano. Ebbene, egli che era ricco, che era di una condizione elevata, che maritava la figliuola benissimo, la quale figliuola è stata ed è felicissima, rinunciò al luncheon e a tutte le mode francesi, per rispettare le antiche costumanze!
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Comincia a girare, fra le coppie che debbono passare a nozze, un nuovo orario di cerimonia religiosa. Invece di seguire il costume della grande maggioranza, cioè di celebrare queste nozze alle undici di mattina, con relativa colazione offerta ai pochi o ai molti invitati, invece di sposarsi all'antica, cioè di sera e in casa, ciò che, oramai, non osa più di fare, neanche la nostra piccola borghesia, ecco che il nuovo orario si stabilisce fra le due e le tre pomeridiane, nell'ora, cioè, più bruciata della giornata, anche se sia in pieno inverno. Taluni vanno verso le tre e mezzo o le quattro: vale lo stesso! Sicchè gli invitati a queste nozze, in un orario così bizzarro e così incongruo, debbono fare colazione, in casa propria, con molta fretta e, dopo, vestirsi per la cerimonia: la quale cerimonia non può mai comportare la messa, che è sempre un rito così pio e così tenero, tanto da commuovere anche l'invitato più [36] arido. Niente messa, dunque: e, alle tre, offerta di una table à the, a cui, naturalmente, nessuno fa onore, poichè tutti han fatto colazione poco tempo prima, e sono in periodo di digestione. Tanto peggio, poi, se coloro che si sposano in un'ora così poco plausibile, offrono una table à the renforcée, cioè con sandwiches, con choux alla maionese, con pasticcini di carne: il colmo dell'inopportunità! Giacchè non è possibile, un'ora, due ore dopo colazione, divorare questi rinforzi gustosi, è vero, ma insopportabili a chi non ha più appetito. Dopo di che, la cerimonia finisce alle cinque pomeridiane ed ecco tutto in un pomeriggio distrutto, per gli uomini di affari, per le madri di famiglia, per i giovani gentlemen, mentre la cerimonia delle undici di mattina finisce, al più tardi, alle tre e lascia l'altra metà della giornata libera. Ma perchè mai si sceglie quest'ora delle due o delle tre, così poco favorevole alla poesia delle nozze e così poco comoda per gli invitati? Forse per risparmiare la grossa spesa del lunch? Ma quella della table à the o buffet che si voglia dire, non è mica piccola: e se vi si unisce il sandwich, lo chou, lo champagne-cup e la torta di nozze, costa quasi quanto una colazione. Perchè maritarsi dalle due alle tre pomeridiane? Per abbreviare la cerimonia? Vana speranza: quella cerimonia [37] è quella che è, nulla la muterà, nulla l'abbrevierà. Con tutte le nostre esperienze di cronista mondano, protestiamo contro quest'orario, destinato a rendere manchevole la bella cerimonia religiosa nuziale.
Parliamo dell'uso francese, oramai divenuto generale. Gli inviti per le nozze si mandano almeno dieci giorni prima, alle persone di riguardo: l'invito è sempre fatto a nome dei genitori della sposa, o di chi funziona, in mancanza loro: si manda un bel cartoncino stampato, con le indicazioni ben precise, del giorno, dell'ora, del posto. Ad amici e parenti, agli intimi, infine, l'invito si fa a voce, o per mezzo di una letterina affettuosa. L'ora da scegliere varia dalle dieci e mezzo alle undici del mattino: gli invitati, quasi tutti, verranno sempre mezz'ora più tardi. Se si va, quindi, alla chiesa, l'invito è per le dieci, sino alle dieci e mezzo: se il matrimonio religioso è in casa, l'invito è per le undici, sino alle undici e mezzo. Ordinariamente, ogni invitato che va a nozze di una certa importanza, ha la sua [38] carrozza, o se ne procura una: ma è sempre bene che la famiglia della sposa abbia quattro o cinque carrozze, a disposizione di coloro che non ne avessero, non più di quattro o cinque, massime se il matrimonio è in chiesa. Se il matrimonio è in chiesa, bisogna curare l'addobbo, con molte grandi piante, formandone dei boschetti, ai due lati dell'altare: ci vuole un tappeto nello spazio ove seggono gli invitati, e una striscia di tappeto, tra le due file di sedie che arrivi sino fuori la chiesa e si prolunghi sugli scalini. Nella strada, domandare qualche guardia di più per il servizio regolare delle carrozze: alla porta della chiesa, vi debbono essere almeno due introduttori, parenti o amici della famiglia, che accompagnino le signore e introducano i signori. Meglio scegliere due giovanotti disinvolti, fra i tanti: se sono due giovani belli ed eleganti, molto meglio. Per quanto più si può, puntualità nell'arrivo della sposa e della famiglia: far aspettare, espone a grandi critiche. La sposa entra in chiesa, al braccio di suo padre, o del parente maschio più prossimo o, in mancanza di tutti, del più vecchio amico di casa: la precedono gli introduttori, per farle fare strada. Spesso un paggetto, un nepotino, sostiene lo strascico della sposa: esso deve essere sempre vestito di bianco, di raso bianco. Dopo la sposa, viene sua madre [39] o la sua più prossima parente, al braccio dello sposo; e così ogni coppia, secondo la gerarchia, unendo le due famiglie. I testimoni e il compare seguono le due prime coppie, immediatamente; prendono posto, coi parenti stretti, sull'altare. Il rito nuziale l'ho spiegato, parlando dei doveri del compare. Possibilmente, domandare a Monsignore, un sermone non troppo lungo. Un po' di buona musica, se è possibile, non guasta: ma non oltre i tre pezzi. La sposa, dopo la cerimonia, dopo aver baciato i suoi parenti e stretto la mano ai testimoni e al compare, prende il braccio dello sposo per uscire, e mentre è venuta in carrozza col padre, se ne ritorna in carrozza con lo sposo, a casa. È a casa che gli invitati, arrivati anch'essi, le presentano, mano a mano, le loro felicitazioni. Ella deve avere smesso il velo bianco, ma conservato il vestito bianco, e i fiori d'arancio nei capelli.
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Pel luncheon, dopo le nozze religiose, è molto spesso impossibile avere a disposizione, un così grande salone, per erigervi una sola, lunghissima mensa: e anche avendo questo salone, la grande mensa somiglia troppo a una table d'hôte e, viceversa, le piccole tavole di quattro, di sei, di otto persone, sono così graziose! A ogni modo, una più larga mensa vi deve essere, quella di onore: la sposa si siede al primo posto, avendo alla sua diritta lo sposo, alla sua sinistra il compare, o, se vi è il monsignore, il parroco che ha celebrato le nozze religiose; allora, il compare passa al posto seguente. Dirimpetto alla sposa, all'altro primo posto, vi è sua madre, se l'ha; la quale ha a destra il padre o il più prossimo parente dello sposo, e a sinistra un altro parente immediato dello sposo. Se la sposa ha solo il padre, è lui che le siede dirimpetto, dando la dritta alla madre dello sposo o alla sua più prossima parente, e la sinistra alla parente più immediata, dopo la [41] prima. Così, via via, sono collocati parenti, testimoni, altre notabilità della festa, in questa tavola d'onore. Il menu di questa colazione può esser più o meno ricco: il più semplice è quello che ha una tazza di brodo, un pesce bollito, un pezzo di carne con legumi, un gelato e la torta di nozze, o, se lo capite meglio, il gâteau de mariage. Ad arricchirlo, non ci vuole che del denaro, un buon cuoco e della immaginazione! Ogni invitato ha, davanti, il suo menu, in cartoncino apposito, con le iniziali degli sposi e la data del matrimonio: il menu, poichè la cucina è sempre di piatti francesi, è scritto in francese. Vi è chi offre alle signore invitate un mazzolino di fiori, facendolo trovare accanto al loro piatto. Bene inteso, che quando gli invitati sono molti, bisogna scrivere il loro nome sopra un cartoncino e deporlo sul loro posto, a tavola. I brindisi, i sonetti, le poesie di circostanza, non hanno un carattere chic: sono completamente passate di moda, in certi ambienti. Ma, se vi è un vecchio amico di famiglia, un sacerdote, un parente importante, che voglia fare un brindisi, leggere una poesia, bisogna fargli buon viso: deve rispondere il padre della sposa, o lo sposo stesso. Dopo il gelato, la sposa, al braccio dello sposo, distribuisce le fette della torta di nozze; dispensa, alle sue amiche ancora signorine, [42] i fiori d'arancio della sua acconciatura: dispensa, a signore e a signorine, i sacchetti o le scatole dei confetti (confetti di mandorle, bianchi, alla vainiglia); dispensa agli uomini, prendendoli da un gran vassoio di argento, cucchiaiate di confetti. Questo vassoio deve essere nel salone, sovra una tavola. Per i sacchetti o le scatole di confetti, vi è molta varietà di moda; più elegante e pratico, è il fazzoletto di seta bianco, legato con un nastro, pieno di confetti; esso è utile, alle signore che lo hanno in dono. Come scatola, è di grande chic, un cofanetto di argento: serve, dopo, come portagioielli, e come bel ninnolo da salotto. La sposa, quindi, va a vestirsi per il viaggio di nozze.
Ho espresso già le mie idee contro ciò che vi è di brutto, di sgraziato e di poco poetico, nel viaggio di nozze: e ho sostenuto l'idea alquanto solinga, di andare a passar quindici giorni, un mese, in un sol paese, lontano o vicino, in una sola villa, per fissare questi dolci ricordi della vita. Una elegante minoranza [43] che ha anche della poesia, nello spirito, presceglie sempre questa dimora, in un sol paese, in una sola villa, dove possa filare l'amore più soave, senza disturbo. Una grossa maggioranza preferisce ancora il viaggio di nozze circolare, diciamo così, correndo di paese in paese, di albergo in albergo, senza veder niente, senza capir niente e non rammentandosi, dopo, se non di un grande disagio e di una grande stanchezza. Non importa! Anzi tutto, per un buon viaggio di nozze, bisogna completamente escludere l'estate, anzi i quattro mesi caldi, da tutto giugno a tutto settembre; in questi mesi, proprio si viaggia per giungere in un sol punto, niente altro. Restano otto mesi dell'anno, dall'autunno alla primavera: solo i matrimoni, fatti in questi tempi, sono ammissibili col viaggio di nozze. Bisogna che lo sposo si provveda, diciamo così, di una buona somma di danaro: giacchè, a viaggiare in due, profondamente distratti dall'amore o dal desiderio di sorprendere la propria compagna, si spende molto. Si debbono scegliere dei buonissimi alberghi e dei buoni restaurants: si deve andare in carrozza, per il giro della città, andare ai teatri, e tutto questo, dovendo fare la figura di signori, costa e costa. Agli alberghi è molto meglio di telegrafare un giorno prima, massime se è in novembre, assolutamente da febbraio [44] a maggio, epoca in cui sono pieni di viaggiatori. Da novembre a maggio, anche, per avere lo sleeping car, bisogna avvertire con telegramma; da febbraio a maggio, su quasi tutte le linee, ciò si deve fissare tre o quattro giorni prima. Se poi viene in mente allo sposo di fare dei doni alla sposa durante il viaggio, e se la sposa vuole riportare dei doni a parenti e ad amici, dal suo viaggio, allora ci vuole un'altra grossa somma: per lo più, alla fine del viaggio, la coppia è di malumore, perchè non ha denaro. Naturalmente, gli sposi eviteranno qualunque compagnia: non faranno, nella città che visitano, se non qualche visita importante, di rigore, a persone che conoscono. Con tutto questo, la sposa deve portar seco, tutti o quasi tutti i suoi vestiti eleganti. Non è vero, che in viaggio, ci si vesta semplicemente! Per ferrovia, sì; ma quando ci si ferma, bisogna mettersi sempre in molta toilette. Se lo sposo incontra un amico, una conoscenza, anche un indifferente, bisogna che lo presenti subito alla sposa, perchè costui non creda che egli sia in avventura amorosa illegale; dopo, cortesemente, può licenziarsi da costui e restar libero con la sua compagna. Gli sposi sono tenuti a far sapere loro notizie alle famiglie: ma se si amano molto, se sono felicissimi, si perdona loro, se mandano soltanto dei dispacci. Un [45] viaggio di nozze per persone occupate — voglio dire lo sposo — non può durare più di un mese. Per chi è ricco, e disoccupato, ha il gusto dei viaggi belli, può durare anche sei mesi. Anzi, allora il viaggio diventa chic, quando dura sei mesi.
La partecipazione classica, quella sempre alla moda, è fatta dai parenti della sposa e dai parenti dello sposo, sulle due facciate del duplice cartoncino: vale a dire che genitori, o zii, o fratelli maggiori, o tutori, o qualunque parente faccia le veci dei genitori morti, dichiarano le nozze della fanciulla parente, col giovanotto, del giovanotto parente con la fanciulla. Le partecipazioni, fatte solamente dagli sposi, sono più indipendenti, più audaci: ma mancano di spirito di famiglia e, sovra tutto, fanno supporre che il matrimonio sia stato fatto contro la volontà dei parenti. Le partecipazioni di nozze debbono essere distribuite larghissimamente: si mandano a tutti, parenti, amici, conoscenze, relazioni all'estero, gente che non si vede da anni ed anni, a tutti infine, perchè questo cambiamento di stato, [46] è il più importante di ogni altro, nella vita di un giovane e di una signorina. Le partecipazioni si mandano persino, a chi ha assistito alle nozze, da invitato. Coloro che le ricevono debbono subito mandare delle carte da visita, due alla persona partecipante che più conoscono, della famiglia dello sposo, o della famiglia della sposa: due altre carte da visita, con la parola felicitazioni, agli sposi stessi: e poi basta. Se non si conoscono bene, per esempio, i partecipanti di una famiglia, è superfluo inviar loro delle carte. Una cosa da notare, importantissima, è che la partecipazione, inviata, non è fatta per provocare delle visite, massime quando arriva a conoscenze di saluto, a relazioni del tutto fredde: bastano le carte da visita, per liquidare il proprio dovere di cortesia. Se gli sposi dovessero ricevere la visita di tutti coloro, cui furono partecipate le loro nozze, starebbero freschi! Le carte da visita si possono mandare per posta: se si è nel medesimo paese, è atto più gentile lasciarle a mano, al portiere, tanto a casa degli sposi, quanto a casa dei parenti partecipanti, che più si conoscono. Nulla è più goffo, sotto le partecipazioni personali degli sposi, di quella piccola linea che dice: in casa, il martedì. Ciò vuol dire che si vuol ricevere il mondo intero! Sotto le partecipazioni, ci vuole solo il duplice indirizzo [47] dei parenti, per l'invio delle carte da visita: spesso, non si mette se non la sola città: spesso si mette, in mezzo, il solo indirizzo degli sposi. Coloro, che sono amici e parenti, relazioni strette, anche se dopo debbano mettersi in visita con gli sposi, le carte da visita sempre debbono inviarle o portarle: al ritorno dal viaggio di nozze, gli sposi si compiaceranno di raccogliere queste carte da visita, di leggerne i nomi, di ricordarsi degli amici, di rientrare nella vita.
Otto giorni dopo il viaggio di nozze, gli sposi, essi per i primi, vanno a fare le visite di dovere, cioè: agli stretti parenti; al compare, se ha famiglia; ai testimoni, se hanno famiglia; e, infine, alle persone di maggior riguardo, che presero parte al matrimonio. Queste visite, possibilmente, si debbono fare nei giorni in cui queste persone sono in casa: bisogna saperli, questi giorni, o informarsene minutamente. Queste visite di obbligo non debbono durare molto, se no, è impossibile espletarle, come si deve, in una quindicina [48] di giorni: quindici minuti bastano. Naturalmente, la sposa deve avere una toilette molto chic, un cappello elegantissimo, un sol gioiello bello, ed elegantissimo tutto il resto, ombrellino, ventaglio, borsetta, eccetera. Lo sposo sarà in toilette da visita, cioè redingote, pantaloni grigi o di altra tinta, cravatta chiara, cappello a tuba. Il buon gusto prescrive che si parli poco o nulla della propria felicità: ogni allusione simile sarebbe di cattivo genere. In queste visite, la sposa annuncia il suo giorno di ricevimento, perchè le siano ricambiate le visite. Compiuto questo primo giro, doveroso, si fanno le visite più intime, più simpatiche, con coloro con cui si vuol vivere spesso: a ogni modo, la tenuta è la medesima, mentre la cordialità è più grande. Trovandosi ove sono giovanotti che, magari, intervennero alle nozze o con cui si vuole essere amabili, non è la sposa che indicherà loro il suo giorno di ricevimento, ma lo sposo soltanto. Salvo qualche grandissima amicizia, è meglio concentrare tutte le visite, in quel giorno, per restare liberi il resto della settimana. Per isbrigarsi da tutto ciò, gli sposi hanno bisogno da uno a due mesi di corvée, di visite: poi, il loro ingranaggio sociale è completo. Beninteso che lo sposo, massime se è un lavoratore, accompagna la sposa nelle prime, seconde, terze visite; poi tralascia. Non [49] è nè pratico, nè giudizioso, nè elegante accompagnare, massime nei giorni, la sposa, dappertutto. Gli uomini, in generale, partecipano poco ai giorni di ricevimenti: gli sposi, come ho detto, possono presentarsi insieme, solo all'inizio della loro vita comune. Poi, basta. Anche quando la sposa riceve, le prime volte, in casa sua, al suo giorno, lo sposo sarà presente, due o tre volte, per conoscere meglio, magari, le amiche di sua moglie, per far conoscere meglio, alla moglie, i suoi amici: poi, basta. Ogni tanto, proprio ogni tanto, egli può accompagnarla, se ha mezz'ora di tempo, in una di queste visite: ma non è l'uso. L'uomo deve lavorare, studiare, darsi a cose molto serie: non è fatto per vivere nel five o' clock, di sola importanza muliebre. E ora, lasceremo gli sposi slanciati nella vita, sbrigarsela loro: parleremo di altre norme di saper vivere, ricevimenti, presentazioni, pranzi, altre forme di unioni sociali.
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Prima di presentare un signore a una signora — giacchè mai, mai, si presenta una signora a un signore — o in casa di lei, o nel suo palco, o in un salone da festa, o in un pubblico ritrovo, bisogna assolutamente chiedere il permesso. Nulla è più sconveniente di una presentazione improvvisa, inaspettata, che la signora non desidera, che, forse, l'annoia, per sue ragioni: il presentatore, in questi casi, merita qualunque sgarbo, dalla signora. Se vi è il permesso, la presentazione si fa, nominando solo il nome del presentato, mai quello della signora, giacchè presentato e presentatore, lo conoscono bene. Il gentiluomo presentato s'inchina rispettosamente, non dice neppure una parola, e aspetta che la signora gli parli; costei, immediatamente, saluta con un cenno del capo, fa un lieve sorriso e mette il discorso su qualche cosa. Quella tale frase: piacere.... onore.... massime quando un uomo è presentato a una signora, è assolutamente goffa, è disusata. Fra uomini, si adopera ancora: [54] ma è sempre una goffaggine. La signora limita la conversazione; quando ne ha abbastanza, saluta, l'uomo s'inchina ed ella passa avanti. Il giorno seguente, o, al più, dopo due o tre giorni, bisogna portarle due carte, piegate per metà, portarle personalmente e lasciarle al portinaio. Non si va a fare una visita, in casa, se non si è invitati. Per lo più, è scorretto farsi presentare a signorine, senza conoscere i genitori, o i parenti; ma, in un ritrovo, in un ballo, può accadere. Senza por tempo in mezzo, bisogna, immediatamente, farsi presentare dallo stesso amico, dalla padrona di casa, ai genitori o ai parenti della signorina: mai è permesso ballare con lei, senza essere stato presentato ai suoi. Alle signorine non si lasciano carte: ma ai loro genitori o parenti sì, come al solito. Mai presentarsi in casa, senza esservi chiamato. Appena si è conosciuta una signora, per correttezza, bisogna cercare di conoscerne il marito: egli non deve trovare le carte di un ignoto, dal portiere, nè deve ricambiare le sue carte ad un ignoto. Se la signora è vedova, non restituisce carte al presentato: per le maritate, sempre il marito le deve ricambiare, negli otto giorni. I genitori di una signorina, o i suoi parenti, a colui che fu loro presentato e che ha portato le carte, debbono restituirle, anche negli otto giorni. Ho io detto, che non si dà [55] mai la mano, nè prima, nè dopo, nelle presentazioni? Un gentiluomo non dà mai la mano a una signora, se non dopo averla vista otto o dieci volte: con le signorine, poi, questo termine è anche più lungo. Il parlare in terza persona, è del più assoluto rigore. Chi dà del voi, per la prima volta, a una signora o a una signorina, fa la figura di un ignorante e di un malcreato.
È inutile di dimostrare che, malgrado i suoi difetti, il giorno è la migliore forma mondana, che ha una signora, per raccogliere, insieme, attorno a sè, tutte le sue relazioni mondane, siano basate sulla grande intimità, sull'amicizia o su semplici ragioni di riguardo. Il giorno è una forma egoistica, mondana, è vero, con la quale si mette alla porta, chiunque capiti, in tutto il resto della settimana: ma, del resto, non è necessario salvare il proprio tempo, la propria salute, le proprie occupazioni, e i propri sentimenti, contro la invasione esterna? Per sei giorni, si è liberi di andare, di venire, di leggere, di [56] fumare, di oziare, di amare, di piangere, di ridere e ciò, infine, nella vita, è una grande cosa: posto che la libertà assoluta non esiste, assumiamo almeno una libertà relativa, concessa dai costumi cosmopoliti. Or dunque, la giovane sposa, la signora matura, la vedova, la donna vecchia e persino la vecchia zitella che abbia casa sua e un'apparenza di agiatezza, debbono avere il loro giorno, per potersi creare, poi, nel resto del loro tempo, una vita come loro conviene. La scelta del giorno deve essere fatta con molta cura, con molta riflessione, con molta prudenza, con gli studii più profondi: non bisogna scegliere la domenica, perchè è un giorno in cui si va a conferenze e a concerti, in cui i ragazzi escono dal collegio, in cui vi sono tanti altri doveri da compiere: non il venerdì, che è un cattivo giorno per ricevere, sebbene molti lo considerino come un giorno eccellente, per non muoversi di casa: non il giorno in cui riceve la propria madre, o la propria suocera o la nostra migliore amica, o una dama di grande condizione, presso cui si tiene ad andare. Scelto una volta, il giorno, dopo un lavoro mentale lunghissimo, bisogna tenerlo fisso, perchè nulla è peggio che cambiare il giorno, e nulla è più disastroso che cambiarlo spesso. Si finisce per perdere, a poco a poco, ogni propria relazione; poichè le signore [57] sono di labile memoria e dimenticano questo giorno, che cambia così spesso, poichè anche esse hanno il loro giro di visite, che non amano di vedere spostato: poichè il giorno di una signora elegante e intelligente, deve diventare una istituzione fissa e inamovibile, con una tradizione di spirito e di cortesia. Chi passa dal lunedì al venerdì, dal sabato al martedì, acquista la reputazione di una persona capricciosa e disordinata, che non tiene nè al suo carattere, nè al suo giorno, nè alle persone che lo frequentano. Conosco grandi signore — per chiamarsi tale, non è necessario avere grande nome o grandi ricchezze — le quali, dal giorno che si sono maritate, venti, o trenta, o quaranta anni fa, conservano sempre lo stesso giorno di ricevimento: ed è, questo, un altro atto squisito di amabilità verso amici ed amiche, è un atto di rispetto verso sè stesso e verso la propria casa.
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È naturale che, nel suo giorno, la signora non esca nè prima, nè dopo le ore di ricevimento: se esce prima, potrebbe rientrare troppo tardi: se esce dopo, involontariamente, mette alla porta i visitatori, con la sua fretta. Se ha una casa già molto elegante, bisogna che nel giorno sia elegantissima: la signora stessa vi darà un occhio, cambiando di posto una sedia, un tavolino, un gingillo. Molti fiori freschi, oltre le solite grandi piante verdi, che sono l'anima di un appartamento: badare, che i profumi floreali non siano soverchi. Anche una casa modesta deve avere i suoi fiori, pochi ma gentili, nel giorno: costano così poco, i fiori! Alcune signore profumano i loro saloni o salotti col vaporizzatore, contenente qualche essenza favorita: è una moda simpatica, ma non bisogna abusarne. Meglio i fiori odorosi; non odorosissimi. Secondo il suo grado e la sua condizione, la signora indosserà, quando riceve, un tea-gown ricchissimo, o un semplice vestitino grazioso: ritengo inutile [59] sconsigliare l'uso della vestaglia o robe de chambre, nessuna delle signore, che mi legge, potendo commettere una sconvenienza simile. Qualche bel gioiello, uno solo, o un largo spillo a forma antica, o una grossa catena, da cui pendano elegantissimi gingilli, va d'accordo con il tea-gown: non parlo degli anelli, o uno o due, ma molti belli. E così, una signora semplice, porterà un gioiellino sul vestitino da casa. Bisogna essere vestite dalle tre. In realtà, si riceve dalle cinque alle sette: ma se una persona stravagante arriva alle tre e mezzo, se ha le sue ragioni per arrivare a quell'ora, la metterete voi alla porta? In quel giorno il servitore, o la cameriera, che fanno servizio alla porta, non devono vivere se non fra la porta d'entrata, l'anticamera e il primo salotto, aprendo la porta, precedendo la visita, per annunziarla — il vecchio uso di annunziare, è sempre il migliore — riprendendo la visita, per accompagnarla: entrando e uscendo, il servitore, la cameriera debbono aiutare a deporre o ad indossare il paletot, la pelliccia, dare il cappello e il bastone agli uomini, rapidamente, gentilmente, con la massima disinvoltura. Ci vuole gente svelta, bene educata e taciturna. La signora non accompagna la visitatrice, se non sino alla porta del salotto: non accompagna, se non per un paio di passi, i visitatori. Non deve mai restare [60] seduta più di cinque o sei minuti, presso una sola signora: deve passare dall'una all'altra, senza affettazione: spesso, si deve sedere per pochi minuti, in due ore. È una dura corvée, il giorno di ricevimento.
Appena appena si abbia una posizione modesta, si può e si deve offrire qualche cosa alle amiche e agli amici, quando si ricevono le loro visite, nel giorno. Tre etti di cioccolattini; quattro etti di biscotti fini. Basta mettere questi dolci, i primi o i secondi, in un bel piatto del Giappone, in una bella coppa di cristallo, oggetti che sempre si possiedono e offrire questi, cioccolattini, questi biscotti con buona grazia: e si ha subito l'aria ospitale. Chi può offrire dell'altro, tanto meglio! Viene in prima linea il the: si può offrire nel modo più semplice, cioè per mezzo del cameriere che, appena una signora è seduta, arriva con un vassoino dove sono una tazzina col the, la piccola lattiera e il recipientino con l'acqua calda, per allungare il the, se si vuole: immediatamente, si offrono dei biscotti [61] inglesi, dei wafers, delle pastarelle secche, insieme. Per far questo, basta un cameriere molto svelto; e non grandi arnesi, come tazze, cucchiaini, salviettine, ecc. Ma se si vuole offrire il the, prendendolo da un tavolino, in fondo al salotto, allora l'organizzazione deve essere larga e il lusso pretende mille elegantissime cose. La table à the, imbandita, quando si riceve nelle ore pomeridiane, implica bellissimi servizi di tazze, di piccoli e grandi piatti, di coppe, di vassoietti: implica teiere e lattiere elegantissime: implica un corredo di dolci, di paste, di bonbons, di biscotti, completissimo: implica biancheria finissima, ricamata, con merletti antichi e moderni: implica argenteria di coltellini, di cucchiaini, squisita. Chi lo può fare, tanto meglio! Ora è in moda il servizio di the alla russa: cioè in bicchieri che hanno il piede di argento cesellato, intagliato, traforato: con argenteria dello stesso stile. Ma è un capriccio. Intorno alla table à the, vi è sempre un servitore: e qualche signorina di casa o un'amica offre le tazzine, le fette di baba, di gâteau Margherita, i dolci. Qualche signora offre del cioccolatte, invece del the: tutto il servizio deve essere intonato come tazze, argenterie, biancheria, come dolci. Quando si va verso l'aprile, si offrono delle granite, dei parfaits di cioccolatte, di crema: si adoperano [62] bicchieri di cristallo opaco, colorato, col manico: assai più elegante, il bicchiere con piede di argento. Sulla table à the vi sono sempre delle bottiglie di acqua ghiacciata, di limonata, di aranciata, per chi abbia sete: e bicchieri alti, senza piede, colorati, adattati a ciò. D'altronde il giorno è dedicato alle signore che non bevono liquori e neanche rosolii. La eleganza, la ricercatezza delle signore, è nelle mille cose che rendono squisito ciò che offrono: dai cento oggetti di porcellana, di cristallo, di argento, alla qualità del the, del latte, alla finezza e alla varietà dei biscotti, delle paste, dei dolci. Per lo più, una signora ricercata, si occupa lei, personalmente, di questo servizio, ogni settimana.
Quella istituzione mondana, irta di difetti e piena di virtù che era, che è il giorno di ricevimento, istituzione che aveva, oramai, tale ampia base, da estendersi dalle più alte cime della società sino alle radici più umili, questo giorno di ricevimento, che infieriva largamente, oramai, anche in provincia, comincia [63] a pesare come un giogo, sulla esistenza delle nostre signore. Varie di esse, se non molte, ancora, a Londra, a Parigi, donde ci venne questa moda del giorno fisso, sono seccate dei suoi gravi svantaggi e non ne vedono più, accecate dal desiderio della novità e dal desiderio di una libertà relativa, i serii vantaggi: e hanno trovato una novella forma di ricevere. Esse dicono, e hanno ragione, che il giorno implica una schiavitù e una fatica intollerabile: che, a quel modo, si ha ogni mercoledì, ogni sabato, ogni giorno che Dio manda in terra, una folla di gente nel proprio salone, e che si finisce per non vedere i propri amici e per non parlare con le proprie amiche. Difatti, quando si ha un largo giro di conoscenze, da novembre a maggio, quanti mercoledì di un'amica si possono seguire, se non due o tre, in tutto? Difatti, calcolati i viaggi, le assenze, le emicranie, le grandi feste, le grandi circostanze, i giorni diventano un ritrovo vano e vuoto, di persone indifferenti, non è vero? Ma ci sono gli altri giorni della settimana, per vedere coloro che sono simpatici, che sono piacevoli, che sono graditi, che sono amati! Ebbene, restiamo ogni giorno, — dicono varie signore, di Londra, di Parigi — restiamo, ogni giorno, un'ora, due ore, a casa, per tutti coloro che ci vengono a visitare. E la novella usanza, piena di lusinghe, [64] ma piena anche di tranelli, viene già adottata, con maggior numero di adesioni femminili: e queste signore sono assolutamente contente di aver superato gl'inconvenienti e le fatiche del giorno, e par loro di aver risoluto il problema di ricevere qualcuno, a casa. Due ore, o dalle due alle quattro o dalle sei alle otto, prima di uscire per la spesa, per le commissioni, per la sarta, per la modista, per gli altri giorni, di coloro che tengono ancora al giorno, due ore, forse, dopo la colazione, non bastano, dicono, queste care signore? Due ore, dalle sei alle otto, dopo aver esaurite tutte le noie, tutti i doveri, tutti i piaceri, non bastano forse a raccogliere gli amici errabondi, che vanno di giorno in giorno, non bastano a soddisfare il desiderio che può avere un'amica, desiderio improvviso, di dirvi qualche cosa, di comunicarvi una grande notizia o un piccolo pettegolezzo? Due ore, o in pieno sole o in pieno crepuscolo, nell'ora vibrante dalle due alle quattro o nell'ora snervante dalle sei alle otto, sono una bella trovata per far valere un salotto, il viso di una signora, un elegante tea-gown, una conversazione spiritosa o spirituale. Sono una bella trovata? Noi lo vedremo, lo discuteremo, lo decideremo.
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Ho detto che, in varie signore, in molte signore inglesi e francesi, era sorto il pensiero di abolire il giorno di ricevimento, così faticoso, così pesante, così poco intimo, e, d'altra parte, così elegante, così chic, così fatto per assicurare la indipendenza del resto della settimana. Pensavano, queste signore e, dopo il pensiero, è anche venuto il fatto, di sostituire, al giorno settimanale, un breve ricevimento quotidiano di un'ora, non di due ore, dalle due alle tre, dopo colazione, o dalle sette alle otto, prima del pranzo. La signora Tal dei Tali è in casa, ogni giorno! Ecco la frase che ha lusingato il loro animo gentile e che è parsa, tutta bella, tutta graziosa, inventata apposta per contentare chi riceve e chi è ricevuto. Ecco, col ricevimento di un'ora al giorno, sfollato il salone, dove, una volta la settimana, la gente si accalcava, facendo subire una fatica enorme alla padrona di casa: la folla si disperde in sette giorni: chi non ha potuto esser libero, per far visita il martedì, [66] va il mercoledì e chi il venerdì, il sabato, la domenica, tre o quattro visite al giorno, niente di più. Ecco, col ricevimento quotidiano, dalle due alle tre o dalle sette alle otto, la consolazione di poter fare una conversazione più raccolta, più intima, più spirituale e più spiritosa, il che non può accadere, quando vi sono in un salone trenta persone: ecco, col ricevimento quotidiano, il piacere di poter intrattenersi con una persona amica, di poterle dire, quietamente, due parole, di poter fare uno di quei discorsi vaghi, lenti, un poco tristi, un poco amari, uno di quei discorsi, in cui emana tutta la malinconia riposta nel fondo del cuore: ecco, col ricevimento quotidiano, creato quell'angolo del caminetto, quel cantuccio del salone, di cui parlano, senza saperne niente, una quantità di poeti, che non videro mai un caminetto nella loro vita: ecco, con quell'ora, ogni giorno, la signora che offre ricetto ad un amico, a una amica, in qualche momento disperso della giornata, in un minuto di tristezza, in un minuto di imbarazzo, quando una parola, un sorriso, una stretta di mano, una tazza di the, così, un po' soli, non più di due, non più di tre, possono essere un sollievo, un conforto. Un'ora al giorno, se si giudica dalla apparenza, serve ad alleggerire il peso del giorno, serve a distogliere la schiavitù di quattr'ore [67] di ricevimento, con un rinnovarsi continuo di gente, serve a tenere in casa, in casa sua, e ad amarla di più, alla signora che già l'ama, serve a veder meglio gli amici, serve a pensar meglio con le amiche, serve più allo spirito, serve più al cuore. Serve.... e le cose a cui non serve?
Dunque, la signora è in casa, ogni giorno, dalle due alle tre. Se siete un'amica, dovete, per poterle far visita, far colazione in fretta, vestirvi in fretta, sbrigare in fretta una risposta, un biglietto, un telegramma, per essere pronta alle due; non sarete mai pronta prima delle due e venti. Da lei, alle due e mezzo: ella stessa sta terminando di vestirsi. Altre due o tre persone l'aspettano, non tutte divertenti. Cinque minuti di conversazione, in gran fretta. Sono le tre, la signora guarda l'orologio, bisogna andarsene. Se siete un amico, bisogna che, idem, sbrighiate in fretta il vostro lavoro, il vostro piacere, il vostro dovere, di uomo affaccendatissimo, per poter giungere in tempo: e lusingandovi di poter esser solo, capitate, invece, sovra tre seccatori, [68] a cui è impossibile chiuder la porta, con cui bisogna per forza parlare, mentre, nel giorno di grande ricevimento, si possono disperdere nel salone. La signora è nervosa: giusto, in quel giorno, deve andare alle tre dal sarto, dalla modista, dallo antiquario, al Sacro Cuore. La visita è stentata e noiosa, per tutti. E, a farlo apposta, fra le due e le tre, ogni settimana, capitano convegni, inaugurazioni, conferenze, concerti: la signora rinunzia, sospirando, per due o tre settimane: poi scappa una giornata, dicendo fra sè che, forse, in quel giorno, non verrà nessuno: e, al ritorno, si stringe nelle spalle, quando trova due o tre carte da visita: si tratta di gente a cui tiene poco. In conclusione, una delle cose più semplici e più naturali, è di non trovare in casa la signora, che riceve dalle due alle tre! Qualche altra ha scelto di stare in casa dalle sei alle sette, prima del pranzo. Benissimo! Ci andate alle sei in punto: la signora non è rientrata ancora: poichè siete amico vi fanno salire, sedere in salotto. Prendete un libro, leggete, sono le sei e trenta. Ella rientra affannata, dolente di avervi fatto aspettare: va a togliersi il cappello, i guanti, la giacchetta di pelliccia. Sono le sette meno venti. Alle sette è annunziato il suo parucchiere, o l'arrivo del suo vestito, pel ballo della sera. Ella è gentile, vorrebbe trattenervi, [69] domina la sua leggera impazienza, ma voi ve ne andate, mal contento, seccato. Ancora un caso. Andate da lei, la signora non è rientrata: siete un'amica, entrate nel suo boudoir, rosicchiate un dolce, il cameriere serve il the: la signora non rientra ancora. Voi vorreste andar via: per non mancare al vostro pranzo, ai vostri impicci di casa, al teatro che vi attende; ma dovete dire qualche cosa di urgentissimo alla signora, per l'indomani mattina. Alle sette meno cinque, la signora ha telefonato, mettiamo, dal Grand Hôtel o ha fatto telefonare che non torna a pranzo, andando da un'amica, che ha incontrata alla passeggiata! Voi scrivete il biglietto, pensando che valeva far meglio così, dal principio. Stare in casa dalle sei alle sette? Ma quando il tempo è bello, si sta così bene fuori casa, massime in primavera: significa non vedere più il tramonto. E quando il tempo è cattivo, il tempo è orribile, viceversa, è molto grazioso restare in casa, a quell'ora, ma, viceversa, nessuno vi viene a trovare!
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Questa graziosa, cordiale, elegante forma di ospitalità esiste assai scarsamente in Italia. Cioè, spiegamoci! Nelle regioni settentrionali, e specialmente nei due grandi, civili, mondani centri di Torino e Milano, dove più si sente la influenza dei sontuosi costumi ospitali francesi, ogni specie di pranzo, da quello di alta etichetta a quello intimo, è assolutamente alla moda; chiunque abbia vissuto un poco o molto, a Torino, a Milano, sa bene con quanta larghezza nell'alta società, nella grande borghesia, si pratichi questa forma di convivenza sociale. Come si scende verso l'Italia centrale, e, sovra tutto, come si giunge nella gran regione meridionale, questo uso così bello e simpatico si viene dileguando, sparisce. Fra noi, a Napoli, non esiste, quasi. Un tempo, nella grande vita mondana napoletana, quando venti case aristocratiche ricevevano, allora, sì, vi era questo costume gentile: ma non oltrepassava i limiti della classe patrizia. Poi, a mano a mano, per tante ragioni, più [74] o meno malinconiche, per morti, per partenze, per viaggi, queste case si sono chiuse e di famosi, nell'alta società, non restarono, per un certo tempo, se non i pranzi di un vero gran signore, che era il duca di Castronovo, pranzi perfetti per la loro sontuosità e la loro squisitezza: con la morte del duca, la tradizione finì. Qua e là, dove la dama padrona di casa conserva i leggiadri costumi della ospitalità francese, che imparò per la educazione, a Parigi, per la dimora colà, vi sono dei pranzi eleganti: ma fuori quella stretta cerchia, niente! Gente che ha una bella casa, molti denari, buona servitù, argenterie, porcellane, cristallerie, non pensa mai ad invitare un amico, un'amica a pranzo: — gente, che non ha nulla da fare, che si annoia, che cerca compagnia, non pensa a questa forma così attraente di riunione: niente! Da che dipende? Dalla pigrizia delle signore? Dalla organizzazione, un po' difficile, di quanto ci vuole per dare un buon pranzo? Da uno spirito di grettezza? Da quell'inclinazione che hanno molti ricchi, fra noi, a concentrare tutto il loro lusso solo nei cavalli, gli uomini, solo nelle toilettes, le signore? Chi lo sa! Negli ultimi tempi, qualche passo è stato dato, anche nei paesi meridionali: negli ultimi tempi qualche pranzo è stato dato, si dà, in qualche grande albergo, per non avere fastidi in casa. Speriamo bene.
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Gl'inviti per un grande pranzo, si inviano almeno quindici giorni prima: il tempo più ristretto, è di otto. L'invito si fa su un cartoncino elegante, elegantissimamente stampato, coi nomi del padrone e della padrona di casa — sempre prima, il nome del padrone — e con uno spazio bianco per iscriverci, a mano, il nome dell'invitato. (Inutile indicare la toilette: solo un cafone non sa come vestirsi, a un grande pranzo: solo un cafone può andarci in abito montante). Sotto, si fanno stampare le lettere: r. s. v. p. Ciò significa: réponse, s'il vous plait. Poichè i posti sono stabiliti, ai grandi pranzi, l'invitato che non vi può intervenire, lo deve far sapere. E si fa sapere, al più presto, perchè i padroni di casa debbono poter variare, a tempo, i loro inviti. Nei grandi pranzi, la signora che invita deve essere pronta, e in salone, almeno una mezz'ora prima: inutile soggiungere che ella indossa il suo vestito più elegante da pranzo, con quel décolleté speciale, che serve per tali riunioni, [76] e con molti gioielli. Il marito, o chiunque fa gli onori di casa con lei, anche deve essere in salone, mezz'ora prima dell'ora stabilita. L'invitato che arrivasse proprio mezz'ora prima, fa una figura goffa: bisogna giungere da dieci a quindici minuti più presto, il tempo di lasciar la pelliccia, di scambiare una riverenza, quattro parole, in piedi, niente altro. E non si arriva mai tardi, ai grandi pranzi. Meglio non andarci, se si è fatto tardi, e mandare un telegramma straziante ai padroni di casa. Certo, se l'invito è alle otto, qualche minuto dopo le otto, mentre le coppie si formano, si perde: ma qualche minuto. Per lo più, la padrona di casa presenta a ogni signora, colui che la condurrà a tavola, dandole il braccio: a un certo punto, il marito dà il braccio alla dama più autorevole, la marcia comincia, senza fretta, una coppia distante dall'altra e la padrona di casa, alla fine, con il cavaliere più degno. A tavola, la padrona di casa ha, a diritta e a sinistra, e così via via, i personaggi più importanti: il padrone di casa, le due signore più importanti dell'invito e così via via. Questo assegnamento di posti implica una grande finezza: è così facile non misurar bene l'importanza di una signora, di un individuo! I nomi sono scritti sovra un cartoncino, posato sul tovagliolo. Ogni posto, oltre la batteria di argenteria, di [77] cristalleria, di piccoli oggetti d'argento di moda inglese, ha un piccolo cavalletto d'argento dove è posato un menu elegantissimo, scritto a mano o acquarellato. Le signore non tolgono, in generale, i lunghi guanti scamosciati: li sbottonano e ne rovesciano la parte che covre la mano, sul polso; il braccio resta coperto. Inutile dire che questi grandi pranzi, appunto per la loro etichetta, la sontuosità dell'apparecchio, dei fiori, sono un po' freddi: la conversazione vi è languida. La padrona di casa dà il segno della fine, alzandosi, ma aspetta che tutti e tutte siano alzati, per riprendere il braccio del suo cavaliere e aprire la marcia verso il salone. Beninteso, che non vi si fuma. Chi fuma, va al fumoir; alcuni, non fumatori, restano a conversare con le signore.
Gli inviti a questi pranzi si mandano sempre otto giorni prima, specialmente se si è in una stagione in cui vi sono molte riunioni mondane, circoli, ricevimenti, balli: chi ha molti inviti, deve potersi decidere a tempo, e chi molto invita, deve sapere chi interverrà al suo [78] pranzo. Però, non vi è bisogno del cartoncino stampato, per questi inviti; bastano due parole gentili, scritte dalla padrona di casa, poichè è sempre lei, che invita, a nome di suo marito. Bisogna rispondere subito, se si accetta o no. Nei pranzi di mezza cerimonia, la sontuosità è minore, ma la raffinatezza è maggiore, si deve vedere che la signora si è occupata di persona del menu, delle primizie, come legumi, frutta, caccia, che si è occupata dei fiori, dell'addobbo della tavola. Ella è sempre in abito scollacciato, ma meno che nei pranzi di cerimonia: la scollacciatura è a scialle, a quadrato: lo strascico è meno lungo: i gioielli sono elegantissimi, ma non ricchissimi. Il padrone di casa è sempre in marsina, ma non in cravatta bianca: appena spunta maggio, può indossare lo smoking e il panciotto bianco: così, i suoi invitati porteranno la marsina e la cravatta nera, e nella crescente primavera lo smoking e il panciotto bianco. Nei pranzi di mezza cerimonia, si è meno rigorosi sull'ora dell'arrivo: vi è il così detto quarto d'ora di rispetto, il quale, talvolta, si prolunga sino a trenta minuti. La padrona di casa, quindi, in quell'intervallo, fa sedere i primi arrivati, apre delle conversazioni, cerca di avere molta vivacità, per calmare le impazienze di quelli che hanno fame e non vogliono dimostrarlo. Il cerimoniale [79] per recarsi nella sala da pranzo, è sempre il medesimo: chi si avvia primo, è il padrone di casa con la signora più importante, e la padrona di casa chiude la marcia. Il pranzo di mezza cerimonia è più breve ed è più divertente. Vi si può fare una conversazione generale più briosa, mostrare il proprio spirito, intavolare una discussione viva, ma amabile: ciò è richiesto, anzi, e gli uomini e le donne di spirito sono invitati a questi pranzi, appositamente. Curare che il servizio sia rapido: che regni più gaiezza che imponenza: mettere accanto le persone che si simpatizzano, ma non le coppie d'innamorati, che sono odiosi, in società, perchè s'isolano dalla conversazione, per tubare o per litigare. Badare molto alla bontà e alla generosità dei vini: nei pranzi sontuosi, la sostanza è molto trascurata. Finito il pranzo, si passa in salone, col medesimo ordine: ma, anche lì, vi è più familiarità, arriva qualche amico, qualche amica — le «pastiglie di Vichy» dei pranzi, perchè aiutano la digestione — si ride modestamente, si fa persino della musica, si flirta un poco e, persino, si passa una buona serata. Il che non accade mai nei pranzi sontuosi.
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Non è, forse, una colazione una delle forme più graziose della ospitalità? Non è quella che le signore mondane e gli uomini di affari, per non citare che due categorie, accettano più volentieri? Una colazione, è un convegno meno sontuoso, meno pretenzioso e meno preoccupante di un pranzo: ha qualche cosa di breve e di disinvolto, di brioso e di cordiale: le signore vi possono intervenire in tailleur, leggermente più ricco del tailleur sec, con un cappellino più vezzoso che complicato e gli uomini vi possono andare in tout de même: e se si tarda più dei quindici minuti di compiacenza, non importa: e se si va via dieci minuti dopo aver preso il caffè, nessuno va in collera. La padrona di casa che dà una colazione, può sbizzarrirsi in leggiadre fantasie, sulla sua mensa, con tovaglie e tovaglioli di colore, con chemins de table più originali che ricchi, con piatti di antica ceramica, con bicchieri finissimi ma semplici: anche l'argenteria può essere più [81] carina che pomposa: e i fiori freschi, messi graziosamente alla rinfusa, non debbono aver nulla di troppo approntato. Anche la minuta di una colazione deve avere lo stesso tono: vale a dire non bisogna caricarla di pietanze troppo saporite, le quali piacciono, sì, ma conducono gli invitati a doversi ritirare in casa, per digerirle. Una colazione può cominciare con un leggero antipasto, cioè crostini di caviale e burro, su pane nero, crostini di fois gras su pane bianco e un piatto di bel prosciutto, cotto o crudo: poi, viene un piatto di uova o di pesce, sempre piuttosto leggiero, e, subito dopo, un piatto più importante, diciamo così, il solo importante della colezione, cioè di carne o di pollo: finire con un dolce di cucina e delle magnifiche frutta. Due vini, solamente: uno rosso, da pasto, e del marsala, o del malaga alla fine. Se la colazione ha un fondo di serietà, per la qualità degli invitati, la minuta diventa dinatoire: cioè si unisce all'arrosto una insalata russa, si offre del buon formaggio, cosa rara, oramai, si dà un gelato con biscotti, invece del lieve dolce di cucina, si dànno dei bonbons dopo la frutta. Mai champagne, a colazione, salvo che si debba celebrare qualche avvenimento familiare, qualche cosa che sia un premio, una medaglia, una decorazione: se no, mai champagne. Del buon caffè servito presto presto: [82] e un sol liquore, di quelli che permettono, dopo colazione, di badare ai propri affari. È sempre molto carino mettere qualche fiore accanto ai posti delle signore, perchè possano portarli via. Curare molto il pane, l'antipasto, le frutta, i dettagli, infine. Il dettaglio è tutto, a colazione e a pranzo!
Esso è composto in Francia di otto piattini diversi, di quindici piattini, di quarantacinque piattini! Come pesci, pesciolini in salsa e senza salsa; gamberetti rossi; gamberetti grigi; aringhe sott'olio: aringhe del Baltico, in salsa bianca; uova di aringhe russe: caviale ricoperto da cipolla, triturata minutamente; sardine francesi; sardine dell'Atlantico in salsa piccante, ricoperte di pepe; lattaruoli di aringhe in salsa; acciughe francesi, inglesi e russe, in tutte le salse! Come insalatine diverse: insalatina di testina di vitello, olio e limone; insalatina di pomidoro a fettine sottili, un po' di cipollina, olio e aceto; insalatina di radici di sedano, con salsa maionese; insalatina di citrioli freschi, olio e aceto; [83] insalatina di rape e barbabietole, alla maionese: e me ne scordo varie! Queste insalatine non si servono come insalate, non vi confondete, si servono come antipasto! E poi vi sono altre leccornie venute dall'Inghilterra, come tutti i pikles che Dio ha mandato in terra, venute dalla Russia, come certe lingue affumicate, certi salmoni, certi piccoli rafanelli di origine del tutto italiana; e ne dimentico! Nulla di più copioso, di più svariato, di più immaginoso che l'antipasto: niente toglie più l'appetito, che volergli far onore. Per lo più, questo antipasto non si offre, così largamente, se non prima di colazione, quando, cioè, si ha più fame: e non è necessario avere tutte le qualità di antipasti, per fare buona figura, basta averne sette od otto, ma scelti con sapienza, ma squisiti, ma accompagnati sempre da conchiglie ricciute di burro finissimo: il quale burro è destinato a far digerire qualunque antipasto indigesto. Questi piattini sono molto attraenti, destano la curiosità, massime se contengono cose esotiche, solleticano la golosità e sono, spesso, tutto il successo di una colazione: se avete dato un perfetto antipasto e la colazione è debole, è mal riescita, nessuno se ne accorgerà. Non in tutti i paesi ci si può procurare tutte quelle varietà di pesci, di legumi, di verdure, di salse, ma una parte di esse, [84] sì. Pensarci! Se un pranzo debole o mediocre, si salva per la ricchezza del suo dessert, il clou di una colazione è negli antipasti. Una signora, ordinariamente, non va in cucina, le basta conferire col cuoco o con la cuoca, quando ha gente a colazione o a pranzo, ma del dessert nei pranzi e dell'antipasto nelle colazioni, si deve occupare lei, personalmente. Un buon antipasto è un dolce ricordo, dato al palato di un invitato e un dolce ricordo nel suo cuore di goloso!
Credete voi che io ve lo darò qui? Perchè dovrei darvelo? Sarebbe un non senso. Se voi, lettrice, lettore, siete abituati a dare dei pranzi di grande e di mezza cerimonia, vuol dire che avete un buon cuoco pieno di fantasia o una buona cuoca, piena di abilità: e che avete, di accordo con loro, combinato dei «menus» di stagione, per questi pranzi. A voi, nulla serve. Per chi dà più raramente dei pranzi, ma pure è costretto a darne, non ci vogliono se non delle regole generali, delle linee, diciamo così, perchè la sua ospitalità sia gradita al palato e allo stomaco dei suoi [85] invitati. Nei pranzi, anzitutto, bisogna curare i particolari: ricchezza e finezza di biancheria, di argenteria, di porcellane, di cristalli: ricchezza di lumi; ricchezza di fiori: stanza calda in inverno, fresca in estate: sedie comode, sgabello sotto i piedi delle signore, servitù attentissima, garbata, taciturna. Una zuppa leggera, leggerissima, dopo le ostriche; un pesce bollito, con salsa, o meglio se con due salse, a scelta dell'invitato, e se il pesce è caldo, salsa calda, se è freddo, salsa maionese o piccante; un piatto leggero di carne, come filetti di pollo, o riz de veau o costolettine di montone o altra delicatezza simile; una verdura che sia, asparagi, carciofi, cardi, cavoli, sedani, con burro, o con salsa bianca; un arrosto importante, tacchino, pollanca di Bresse, caccia contornata da un'insalata di crescione; un gelato; frutta svariata, ricchissima, copiosissima; biscotti inglesi o bonbons dopo le frutta, senza dimenticare che, col gelato, va unito sempre un piatto di pasticceria. Pei vini: uno bianco per la zuppa e il pesce, due rossi per i quattro piatti di mezzo; un vino d'Italia o di Spagna, insieme col gelato: lo champagne con frutta e i dolcetti della fine. Il vino non deve essere in tavola, ma versato dalle bottiglie originali, dai camerieri, che ne debbono dire anche il nome. Questo menu generale, che ho dato, [86] può essere un poco diminuito e non molto aumentato. Ogni pranzo, per essere chic, deve avere una primizia, come caccia, come verdura, come frutta, qualche cosa di esotico, di mai visto, di mai assaggiato. Il caffè, nei grandi pranzi, non si serve mai a tavola: neppure nei pranzi di mezza cerimonia. In salotto, coi liquori, cognac vecchissimo, kummel fine, chartreuse autentica o qualche altro straordinario liquore. Solo se è fra amici, la signora permette che si fumi in sua presenza, dopo il pranzo: un salotto, uno studio del padrone, una stanza qualunque, si trova sempre, per fumare. E ora, buon appetito!
Già, un poco prima della guerra, i «menus» dei pranzi non di grande cerimonia, ma di mezza cerimonia e, sovra tutto, dei graziosissimi pranzi intimi, si erano trasformati. Le sei portate che nei pranzi di Corte, nei pranzi diplomatici son rimaste sempre sei, cioè, il potage, il piatto di pesce, quello leggiero di carne, di legume, l'arrosto e il copioso dessert, sono molto diminuite: poi, nella [87] guerra e dopo la guerra, sono diminuitissime. Nessun pranzo intimo o di mezza cerimonia, in cui appaiano le ostriche, la cui cattiva reputazione, è diventata invincibile; si dà sempre il potage, ma è l'ombra di un sogno fuggente; si dà il piatto di pesce: e i due piatti di carne si riducono a un solo e se non è di arrosto, questo unico piatto di carne, non si dà insalata. Anche il legume si abolisce, spesso. Viceversa, quello che si perde in quantità, si guadagna in qualità: i pranzi moderni, nella loro voluta semplicità, sono di una rara squisitezza culinaria. Intorno al pesce, per esempio, un cuoco geniale fa delle fantasie, con le salse, riempie le conchiglie d'insalatine: intorno al pezzo di carne, sempre, vi sono tre o quattro contorni, in cui si sbizzarrisce la elegante immaginazione del cuoco, croquettes e bouchées e purées svariate, di ogni specie. E il pezzo di carne, o pollo, poi, diventa un'opera di arte. Si faceva, a Parigi, nell'anteguerra, il bœuf à la cuillère, cioè un magnifico pezzo di manzo, che cuoceva, per due intieri giorni, nel suo sugo, nel vino, negli aromi e che si mangiava, come una purée di un sapore intenso e profondo. Una zuppa, anche leggierissima, dei filetti di sogliola al vino bianco e del boeuf à là cuillère, che pranzo ideale, in cambio dei sei o sette piatti dei banali pranzi di grande cerimonia! Però, [88] come ho detto, questo novissimo «menu», implica molta attenzione da parte degli anfitrioni, perchè i pochi piatti siano perfetti, perchè la mousse fredda sia deliziosa, e perchè il dessert che rimane sempre ricco e svariato, completi la felicità gastronomica dell'ospite. O care padrone di casa, che date colazioni o pranzi, rammentatevi che la grande moda, messa su anche dai medici, specialmente da loro, è di mangiare molta frutta. Esse costano favolosamente: ma sono il lusso vero di una colazione o di un pranzo!
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Prima di dare una grande o una piccola festa da ballo, bisogna pensarci, pensarci assai! Piccola o grande che sia, essa costa più o meno denaro, ma ne costa sempre molto, troppo; essa costa molte cure, molte fatiche, molti fastidi e molte noie; essa vi può procurare molti invidiosi e molti nemici: e bisogna vedere bene, se valga la pena di affrontare tutto ciò, se la ragione di convenienza, di obbligo morale, di decoro, d'interesse, che v'induce a dare questa festa, piccola o grande, sia abbastanza possente, da compensare tutto questo. Io so di un principe, mio grande amico, uomo d'intelligenza, di spirito, pieno di chic, che dette una splendida e simpaticissima festa da ballo: cinque giorni dopo, uno dei suoi più importanti coloni, gli scrisse una lettera, dichiarandogli di non poter pagare l'affitto, e domandando una dilazione, tanto più — diceva il colono — che Vostra Eccellenza ha dato una ricca festa, e non ha bisogno di denaro! Or dunque, pensarci [92] un poco. Un altro inconveniente delle grandi feste o piccole, è che esse vi espongono alle critiche più amare, più aspre, più crudeli dei vostri invitati. Per uno strano fenomeno psicologico, i vostri invitati, coloro che voi avete chiamati a divertirsi, in casa vostra, a cui avete offerto un appartamento sfarzosamente adorno di piante e di fiori, illuminato a meraviglia, una raccolta di persone elette, di belle donne, di gaie signorine, dei rinfreschi squisiti, una cena sontuosa, tutti costoro vi diventano acerrimi nemici. Tutto è pessimo, per essi, da voi; i fiori odorano troppo; le piante, ve le siete fatte prestare; i gelati puzzano di petrolio; la luce elettrica, è volgarissima; il the sa di paglia; la cena è meschina e scarsa; e le donne, poi, le donne, tutte brutte, tutte mal vestite, che orrore! Una sera, in un ballo, poco prima di andare a cena, io ho udito, inavvertita, due perfetti gentiluomini, correttissimi, sorridenti, profferire, a voce sommessa, tali infamie sul conto del padrone e della padrona di casa, da far arrossire qualunque ingenuo: e, dopo, avviarsi placidamente a mangiare la squisita cena. È scoraggiante! Ma, naturalmente, vi è chi, per onorare il proprio nome e il proprio censo, per celebrare un anniversario, un compleanno, un onomastico, una promessa di nozze, deve dare una festa; vi è chi ama [93] tanto poco sè stesso e tanto il proprio prossimo, da voler, assolutamente, esercitare la ospitalità; vi è chi, infine, ha bisogno, per suoi interessi, per suoi fini, di farsi vedere ricco e ospitale.
Gli inviti per una grande festa da ballo, si mandano almeno un mese prima: tanto più, se si è nella grande stagione dei ricevimenti e delle feste. Le signore debbono pensare al loro vestito! Le signore sono il clou di ogni festa, bisogna invitarle un mese prima, se volete che arrivino sfolgoranti di beltà e di eleganza, se volete che formino un quadro indimenticabile. È inutile dire quale prudenza e quanta finezza è necessaria, nella distribuzione degli inviti: non bisogna dimenticar nessuno: e quando volete dimenticar qualcuno, bisogna esser pronti a subirne l'odio mortale. Non dimenticar nessuno, ma non ammettere, facilmente, nuovi arrivati, gente più o meno nota, gente purtroppo nota e che cerca d'imporsi, penetrando negli ambienti aristocratici, eletti, eleganti. Un signore e una signora sono padroni in casa loro, e debbono [94] saper tenere lontani i seccatori, i maleducati, gli inframmettenti, gli intriganti. Nelle feste di Corte, purtroppo, ciò non è possibile ed è questo uno dei difetti della Corte, che non può fare, essendo un ente impersonale, certe esclusioni: ma, in questi balli, è tale la folla, che questi inconvenienti non diventano gravi. Viceversa, in una grande casa privata, i padroni si possono dare il lusso di eliminare gente, che è insopportabile persino nei caffè e nelle birrarie; lusso, che rende la loro unione veramente fine e veramente signorile. Chiudiamo la parentesi. Nella scelta, dopo aver invitato tutte le notabilità, più o meno cariche di onori e di anni, si deve invitare molto l'elemento giovane, giovani signore, giovani vedove, signorine, giovani signori, giovanotti: ciò forma il brio della festa. I goffi, gli inceppati, i poseurs, che non sanno o non vogliono ballare, vi saranno sempre: avere un fondo sicuro di ballerini e di ballerine, ecco la scienza! Scienza grande, questa, dell'invito a una festa da ballo: ai fiori ci pensa il fioraio, alla cena, Van Bol: agli addobbi, i tappezzieri: basta mettersi in buone mani, avere un po' d'occhio a tutto, avere una servitù bene organizzata, un portinaio maestoso, inondare di luce la strada, il cortile, la scala, e i saloni, va bene: ma saper invitare, saper comporre la propria festa, in modo che gli [95] invitati formino una folla armonica, dove ogni elezione di classe sia rappresentata, questa è una sapienza profonda, tutta femminile. Vi sono donne che non l'acquistano mai; vi sono donne che l'hanno per tradizione e la insegnano alle altre.... che non la sanno imparare!
I padroni di casa, che dànno una festa da ballo, debbono essere pronti a ricevere, cioè in grande toilette, almeno tre quarti d'ora prima del loro invito: non si sa mai, vi sono sempre degli invitati che vengono prestissimo! Poi, è sempre necessario dare un ultimo sguardo alle sale, ai lumi, ai fiori, alla table à the, al buffet. Se non vi sono, fra gli invitati, o sovrani o principe del sangue, basta che i padroni di casa stiano nella seconda anticamera, quella che viene subito dopo il guardaroba: colà essi aspettano i loro invitati per salutarli, per iscambiar con loro qualche frase, per accompagnarli sino alla porta del primo salone, non più oltre, ritornando a mettersi al proprio posto, nella seconda anticamera, subito. Se vi sono sovrani o principi [96] del sangue, il padrone di casa, il solo padrone di casa, con la sua ambasciata, se è un ambasciatore, con la sua famiglia maschile, se è un semplice privato, principe o duca che sia, attende i sovrani o i principi del sangue, ai piedi dello scalone: vale a dire che ha combinato un sistema di avvisi e di staffette, per cui scende ai piedi delle scale, giusto cinque minuti prima che arrivino i sovrani o i principi del sangue. La padrona di casa aspetta nell'anticamera. Ricordarsi che ovunque entrano i sovrani o i principi del sangue, diventano essi, immediatamente, i padroni di casa, e costoro i loro invitati, tenendo il secondo posto dappertutto, nei saloni, nella quadriglia di onore, alla cena, dovunque. Nei balli, ove non sono sovrani o principi del sangue, i padroni di casa restano nella seconda anticamera almeno dalle dieci alle dodici: coloro che arrivano dopo mezzanotte, non meritano di essere attesi particolarmente. In un ballo grande, i padroni di casa, dopo la mezzanotte, specialmente, non finiscono di occuparsi dei loro invitati: debbono restare in piedi, nei saloni, passare di gruppo in gruppo, dire una parola alle persone solitarie, fare delle presentazioni richieste, invitare qualche persona più autorevole a passare alla table à the: talvolta, per atto di familiare cortesia, prendere un sorbetto dal vassoio che il cameriere porta in [97] giro e darlo a un'amica, a un amico. Tutto questo, senza aver l'aria di pesare sui proprii invitati, non disturbandoli quando si vedono bene occupati, a chiacchierare gaiamente, a flirtare, a ballare, a cenare: farsi dimenticare, infine. Ricordarsi, i padroni di casa, in una grande festa, che l'arte sublime della ospitalità, deve essere esercitata con un tatto sublime: e che la propria personalità non esiste, dalle nove della sera alle sei del mattino. I padroni di casa, che non si sentissero le gambe infrante, la testa piena di ronzii e pesante, che avessero bene cenato, che si fossero divertiti, insomma, alla propria festa, sarebbero degni, l'indomani, del pubblico disprezzo.
Una delle cose più importanti, in una festa da ballo, è la questione del trattamento. Perchè esso sia completo, lauto, sontuoso, deve constare di tre parti: di rinfreschi, cioè gelati e gramolate, che si servono in giro, dai camerieri, e che, in un ballo, debbono apparire da due a tre volte; di una table à the, aperta dal principio del ballo: di una cena, [98] che si apre solo verso l'una del mattino. La table à the, non renforcée, poichè è inutile di rinforzarla, quando vi è la cena, è composta di caffè, caffè e latte, the e cognac, limonata in bottiglia, aranciata in bottiglia, paste, petits fours, pastarelle, bonbons, fondants, marrons glacés, vini da dessert come Marsala, Moscato, Lunel, Frontignano, qualche buono e vero vino di Spagna, preferibilmente lo Xères de la Frontera, qualche buon liquore; tutto questo dato con larghezza, con profusione, specialmente a coloro che non ballano e che sono, naturalmente, i devastatori più accaniti delle tables à the; e che quanto è paste, dolci, babas, gâteaux, pastarelle sia scelto dal padron di casa stesso, da un pasticciere di prim'ordine, perchè la golosità e la raffinatezza nulla trovino a ridire, su questa table à the. La sala della cena si apre all'una; e la grande sontuosità ammette il servizio per piccole tavole di quattro, di sei, di otto persone, in cui si può spiegare un lusso altissimo, cominciando dall'argenteria, dai cristalli, dai fiori, terminando alla folla di camerieri e servitori, che fanno il servizio. Costoro debbono essere silenziosi, austeri, rapidissimi, cortesissimi e capacissimi: da loro dipende, in gran parte, il successo di una cena, la cui minuta, naturalmente, deve essere quella di un gran pranzo, freddo: dall'antipasto squisito, [99] passando alla tazza di consommé, al pesce di taglio, con una salsa originale ed eccellente, al filet guarnito, alla mousse de foie gras, al faisans et perdrix in bellevue, alla salade russe, a un altro servizio completo di dessert, cioè gelato, pasticceria, frutta, bonbons. Per lo più, tre tipi di vino: uno bianco dall'antipasto al pesce, uno rosso sino all'arrosto, uno da dessert e, infine, come quarto, lo champagne cup, cioè mescolato con aranciata, con maraschino e via via. Ciò costa enormemente: ma chi dà una grande festa da ballo, lo sa bene, quello che deve spendere! Per una festa da ballo di minore importanza, la cena non è necessaria: ma, oltre i rinfreschi, allora, si deve rinforzare la table à the, con sandwichs, svariati, da quello di salmone a quello di caviale, da quello di foie gras a quello di caccia, con pasticcini alla montglas e pasticcini di maionese di pesce, con altri rinforzi simili. La cosa costa anche molto, ma si può limitare la spesa. E, infine, in una piccola festa da ballo, si possono dare solo rinfreschi in giro, e avere un piccolo buffet col the, col caffè, con qualche vino, con qualche dolce. È il trattamento più modesto che si possa offrire.
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Come quella della marsina rossa, neppure la desiderata e incantatrice presenza delle giovanette nei piccoli e grandi balli, dovrebbe poter dare occasione a una questione mondana. È così assoluto ed incontestabile il regno della fanciulla, nel ballo, quanto è invincibile la consuetudine della marsina nera. Ma poichè vi è della gente in vena di fare del bizantinismo mondano, poichè vi è chi tenta, anche danzando, di voler rifare il mondo, ecco entrata in discussione questa dolce e soave presenza, ecco che dobbiamo parlare anche di questo! Ma per discorrerne un pochino, così, accademicamente, fra noi, cominciamo per vedere che cosa fa l'altra gente elegante, quella estera, che è, mi duole il dirlo, alquanto più elegante, nella mondanità, che la gente italiana, in generale, e la napoletana. È vero, furiosamente vero, che Napoli rassomiglia a Parigi; ma ad un decimo di Parigi, non a Parigi tutta intera! È vero, anche, [101] che è il sesto di Londra: ma le altre cinque parti di Londra portano una certa differenza. Ora, a Londra, prima di tutto, le ragazze vanno, dall'età di diciotto anni in poi, sempre, in tutti i balli: e le cronache mondane sono piene di nomi di giovanette e, venendo in Italia, queste ragazze si meravigliano, che qui ballino troppo le signore maritate. Di Parigi, non ne parliamo neppure: le fanciulle sono le regine dei balli, mentre le maritate, anche le giovanissime, ne sono la decorazione, elegantissima, splendida, ma la decorazione soltanto. I figurini di mode sono pieni di abiti da ballo per signorine; le cronache non parlano se non di loro, il cotillon è sempre condotto da un giovanotto e dalla figliuola della padrona di casa, o da una nipote; infine, da una giovinetta di famiglia. E come se questo non bastasse, perchè le ragazze possano anche più ballare, si sono inventati i bals blancs, dove addirittura le signore maritate fanno la tappezzeria. Dal Figaro alla Vie Parisienne, dall'Echo de Paris al Gaulois, dal Journal al gravissimo Temps, è una cronistoria mondana assai più aggirantesi intorno alle fanciulle, che alle giovani maritate. E per arrivare fra noi, nei balli del Quirinale, lo sciame delle giovanette era così bello, così giocondo, così disposto a divertirsi, che formava, a esso, tutto, tutto il [102] brio di quelle feste, dove, naturalmente, le dame, mature e giovani, andavano per parata, per mostrare la loro beltà, le loro vesti, i loro gioielli e per ricevere una simpatica parola da Sua Maestà la Regina. La nostra Graziosa Signora Margherita amava molto tutto questo elemento giovanile, lieto, nelle sue feste, ed era contenta quando qualche altra fanciulla compariva nella vita mondana romana, ad accrescere il simpatico e vivace reggimento delle ragazze danzanti. Ciò è storia del passato: ma è storia.
Perchè, infine, che cosa è un ballo? Se è un grande ballo, è una festa dove si debbono riunire la ricchezza delle sale, dei lumi, dei fiori, alla beltà ed all'eleganza delle persone: ma vi è un elemento indispensabile, perchè esso riesca, ed è che vi sia il buon umore: il brio, l'entusiasmo debbono sopperire e sopperiscono, talvolta, così bene! Ora, diciamolo, la gaiezza, la giocondità, il sorriso spensierato, la gioia di vivere, non li portano, nei balli, se non le signorine. Le maritate, anche giovani, portano tutt'altra cosa: desiderio di [103] apparire belle, di piacere; desiderio di avere il più bell'abito e la più bella collana di perle; desiderio onesto di affascinare: ma tutto questo è soddisfazione personale, è pensiero che si raccoglie da tempo, è studio di colori, di tinte, di armonie, è lunga preparazione remota, e, quindi, se è perfetto dal punto di vista della raffinatezza, non è nè spontaneo, nè improvviso. Una signorina, invece, mette, per la decima volta, il suo vestito bianco, si pettina da sè, o si fa pettinare dalla cameriera, non si preoccupa nè dei gioielli, nè del ventaglio, nè della sortie e corre al ballo con una vivacità e una semplicità, che rallegrano lo spettatore più annoiato. Vedetele entrare, una signora e una signorina, nel ballo: entrambe hanno l'aria serena e semplice: ma la prima aria è artificiale, la seconda è naturale: ed è necessario che la prima sia artificiale, mentre è graziosissimo che la seconda sia naturale. Le gioie delle giovani signore — non i gioielli — nei balli, talvolta non durano oltre la soglia, giacchè si trova che il vestito di quell'amica è più bello, si trova che quell'altra ha un nuovo diadema, si trova che.... passiamo sopra. Le signorine, invece, hanno una lietezza a tutta prova, non s'incaricano di nulla, ballano con tutti, scherzando, trovando amabili tutti i loro cavalieri, per uno che le abbandona, sanno che ne troveranno [104] dieci in cambio, trovano sempre grazioso il cotillon, non vanno al buffet se non per mangiucchiare dei dolci e intingere appena le labbra nello champagne, e dappertutto portano questo brio e questo entusiasmo, che sono il fascino di un ballo. Le giovani signore non possono fare questo simpatico chiasso, nè sorvolare come farfalle, nè abbandonarsi a tante danze, se no, sembrerebbero tante pazze o delle dame ridicole: esse debbono, al ballo, rappresentare la suprema beltà, la suprema squisitezza, ma debbono passare a traverso le feste come Dee, non saltellare, come le fanciulle. Un ballo, senza signorine, tutto può essere, salvo che allegro: e se è allegro, non è allegro bene.
Ora io credo, che le giovani signore maritate da uno, da tre, da cinque, o magari da dieci anni (poichè si può essere benissimo giovane signora, anche maritata da dieci anni) dovrebbero esser loro a desiderare le fanciulle nei balli. Si sa che l'armonia viene, quasi sempre, da contrasti, e che una beltà splendida rifulge anche di più, presso una beltà [105] modesta e semplice. Il gaio sciame delle ragazze forma un fondo, diciamo così, umile e gentile alla maestà piena di grazia, alla eleganza piena di fascino, alla raffinatezza irresistibile delle giovani signore. Ripetiamolo ancora una volta, ed in questo diamo ragione ai poveri mariti, che sono costretti a fare da cariatidi sotto le porte, mentre le mogli danzano, passando di cavaliere in cavaliere; le signore vanno al ballo, per apparirvi, per passarvi, quali sorridenti dee, per lasciare un susurro di ammirazione dovunque trascorre la loro bella persona, ma non già per abbandonarsi completamente alla gioia troppo puerile della danza. Lo scopo della danza è, anzitutto, un esercizio fisico di grazia e di gaiezza, di cui le signore non hanno nessun bisogno, ed è secondariamente, il permesso di filare, di flirtare, di amoreggiare, ingenuamente, di cui io suppongo, io credo fermamente, le signore non debbono aver più bisogno. Escludendo le ragazze, le signore rinunziano ad una cornice, che vieppiù farebbe risaltare la loro bellezza, e ingenerano una monotonia di espressione al ballo, che è nemica di ogni successo: escludendole, dimostrano anche varie cose tutte poco graziose, per esse signore maritate. Prima di tutto, le maritate hanno l'aria di non sentirsi più giovani, e di temere, fortemente, la concorrenza [106] delle zitelle. Secondariamente, esse offendono le loro sorelle, le loro amiche, le loro parenti, ancora fanciulle, non ammettendole ad un divertimento, che, quasi quasi, si può dire riserbato solo alle giovanette. Terzo, hanno l'aria di voler accaparrare i corteggiamenti, naturalmente innocenti, de' giovanotti, tutti per esse. Quarto, e questo mi sembra impossibile in una società per bene, hanno l'aria di voler essere troppo allegre, di voler fare discorsi che le signorine non possono ascoltare, e via via dicendo, non oso di continuare. Se le signore maritate fossero veramente furbe, e sapessero fare i loro interessi mondani, dovrebbero, viceversa desiderare ampiamente la presenza delle fanciulle, per potersi affermare più belle, più attraenti, più irresistibili, ed anche più libere nella folla, nella confusione del ballo, di esercitare, con tutta innocenza, io credo, le loro seduzioni.
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Si cambii casa il ventinove di settembre, come a Milano, o il quattro maggio, come a Napoli, e a qualunque mese, come a Roma, la prima questione è sempre la stessa: bisogna conoscere i nuovi vicini? L'antico costume, sovra tutto meridionale, lo impone. Antico costume abbastanza cafonesco e che, man mano, si è venuto illanguidendo: antico costume che dovrebbe completamente sparire, nelle grandi città. Si comprende, questo costume, fra gli abitanti dello stesso villaggio — o Ventaroli, di Sessa Aurunca, o terra della mia stirpe, di voi parlo! — che hanno bisogno di stringersi insieme, di prestarsi amicizia, assistenza, soccorso, in qualunque circostanza; si capisce, fra gli abitanti della stessa piccola città di provincia, per le medesime ragioni: si capisce, in estate, ai bagni, in villeggiatura, in albergo, per farsi compagnia, per formare una côterie: si capisce, dovunque la gente è poca, dove molte cose mancano, dove la solidarietà umana è più necessaria. Ma in una grande città, dove tutto vi è, a portata di mano, di voce, di passo: in una grande città, dove basta escire dal portone per trovare anche la pietra filosofale, [110] che, si dice, non fu mai trovata; in una grande città, a che può servire di conoscere i propri vicini? A che aumentare le proprie relazioni, inutilmente, quando quelle che si hanno, d'ordinario, sono soverchianti? A che mettersi in rapporto con gente nuova, ignota, forse estranea a ogni proprio gusto, forse antipatica, forse equivoca? Perchè conoscere, proprio i vicini, quando il più savio consiglio è di restringere alle persone più tenere, più simpatiche e più utili, le proprie relazioni? E, veramente, esiste una vicinanza, in una grande città, in una grande strada in un grande palazzo, o non si è, veramente, anche gli inquilini di questo medesimo palazzo, completamente estranei, l'uno all'altro? E in tanto lavoro, in tanti pensieri, in tanti svaghi, in tanti affanni, chi mai s'incarica del proprio vicino? Il vicino non esiste, in un ambiente di metropoli. E non dovrebbe esistere, quindi, la profferta di servigi, barocca e inutile; non dovrebbe esistere l'offerta della visita, che, quasi sempre, è inopportuna e mal gradita; a rigore, non dovrebbe esistere neanche lo scambio dei biglietti da visita. Per questi, passi. Ma non oltre! Non parlo, poi, qui, dei danni delle nuove conoscenze, quasi sempre pericolose, fra nuovi e vecchi inquilini: pensateci voi, o genitori, voi, o mariti, voi, o fidanzati, a questi danni, calcolateli, essi possono essere irreparabili!
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Nulla è più grazioso, più attraente, che una festa di battesimo, la quale ha un carattere di grandissima tenerezza: ma bisogna saperla regolare bene, poichè è cosa molto delicata. Anzi tutto, molti hanno l'abitudine di celebrarla quando la mammina, la puerpera, è già alzata dal letto; il che, dato un mese di puerperio, fra il letto e la convalescenza, ritarda di trenta o quaranta giorni il battesimo. Ciò non è molto conveniente, anche per riguardi religiosi: più presto si battezza un bimbo, e meglio è. Viceversa, l'uso patriarcale e molto simpatico nostro, è di celebrare il battesimo, dieci o dodici giorni dopo la nascita, non di più, previa una primissima benedizione, data dal sacerdote al neonato: la puerpera fa adornare riccamente la sua camera da letto, indossa, in letto, una vestaglia bianca, carica di merletti e di nastri, mette una cuffia o un'acconciatura capricciosa di merletti sulla testa, si adorna di un magnifico paio di solitarii, infila i suoi anelli più [114] belli e, sollevata sui suoi guanciali guerniti di trine, riceve i saluti e gli augurii degli invitati. Una festa di battesimo, quando la sacra funzione si celebra in casa, si fa verso le due pomeridiane: si prepara un altarino, in salone, e quanto serve per la mistica cerimonia. Il padre del neonato, i parenti, gli invitati indossano la solita redingote o il tight, che sono i vestiti di mattina, coi pantaloni bigi, il panciotto nero o bianco, il rabat o la cravatta chiara, i guanti tortorella: le signore vanno in grande toilette da ricevimento, con cappello chiaro e molti bei gioielli. Nella festa di battesimo, se vi è un po' di musica sacra, tanto meglio; se vi è musica profana, deve esser fine. Non si balla, mai. La madrina, il padrino, la nutrice, la levatrice, prendono parte alla funzione religiosa, come ho detto: i doveri del padrino e della padrina, li dichiaro più avanti. Il trattamento per festa di battesimo, varia secondo l'ora: se è alle due, ci vuole una table à the appena appena renforcée, ma con molti dolci, molti confetti, molti bonbons, le così dette dragées du baptême. Alcune famiglie offrono dei confetti nei sacchetti e nelle scatole, come per i matrimoni; altre fanno coniare delle medagline d'argento, in memoria, e si distribuiscono ai convitati. Una festa di battesimo, nelle ore pomeridiane, non deve durare più [115] di un'ora e mezzo, o due; se no, stanca. La casa deve essere adorna di fiori candidi: anche l'altarino. Curare la toilette della creaturina: farla condurre in giro, perchè tutti gli invitati la vedano. Oltre le cinque pomeridiane, non si celebrano feste battesimali: il battesimo si fa presto in chiesa, e alla sera si dà un ricevimento. Esso entra nell'ordine degli altri ricevimenti, allora, di cui ho già parlato.
In generale, è un uso sociale alquanto greve, se non è il padrino che ne assuma una parte, nel battesimo. Poichè, se non vi è padrino, la madrina di battesimo può essere più modesta nel fare il dono alla puerpera e al neonato, scegliendo un gioiello di meno costo, regalando al piccino o alla piccina qualche cosa di più semplice, ma deve fare le medesime spese che farebbe lui, per la carrozza, per il parroco, per il sacrestano, e pel chierico: deve fare gli stessi doni di danaro alla levatrice, alla nutrice, alla servitù: portare confetti, se si usa, e via via. Se vi è il padrino, che s'incarica di tutto questo, allora [116] la madrina è tenuta semplicemente al dono verso la puerpera, che non deve essere mai di grande valore, il dono verso il bimbo o la bimba, il solito dono di un oggetto di argento, bicchiere, o tazza, o posata, e una mancia modesta alle persone di casa, di accordo col proprio stato e con la condizione della casa ove è il battesimo. Per lo più, la madrina va alla chiesa in toilette ricca, di seta, di broccato, di velluto; mai vestita di nero, con un cappello chiaro e con qualche gioiello, addosso, per onorare il piccolo cristiano. Se è una signorina, si vestirà di chiaro, col suo migliore abito, e se la stagione lo permette, addirittura di bianco, guanti grigio perla, qualche gioiello. Alla chiesa, è sempre la madrina che sostiene sulle braccia il neonato, presso il Sacro Fonte: deve portare una candela di cera, grossa, che si lascia, poi, alla chiesa: se è madre di famiglia, saprà di dover portare un po' di zucchero in polvere, in una carta, per metterlo sulla boccuccia del neonato, che dopo il sale della sapienza, strilla per lo più, disperatamente. In carrozza, la madrina lascia il posto a destra alla nutrice, che regge sulle braccia il piccolo battezzato: il padrino va dirimpetto. A casa, ella accompagna al letto materno il corteo che trasporta il cristianello, subito dopo il padrino: se costui non vi è, è lei che porta [117] il bimbo alla madre. Se la intimità con la famiglia è grande, spesso la madrina dona il vestito da battesimo o il porte-enfant col cuscino di raso: ma ciò non è di obbligo. Se si rimane in relazioni grandi con la famiglia del figlioccio, la madrina deve aver cure tenere con la creaturina: e darle l'anello di avorio sospeso alla catenina di argento, il primo balocco di argento col fischietto, qualche crocetta di oro o di argento, il primo scapolare della Madonna. E la figlioccia o il figlioccio deve amar la madrina, come un'altra mamma.
È un onore che non si può rifiutare! Ed è, se vogliamo, alquanto pesantuccio, qualche poco più pesante del padrino di matrimonio. Or dunque, il padrino di battesimo è tenuto, nel giorno del battesimo, a offrire alla puerpera un dono, più o meno ricco, secondo la propria condizione, e secondo quella della puerpera, ma sempre un gioiello; a offrire al neonato o alla neonata una posatina completa, di argento, in iscatola, con le cifre del bimbo, ovvero un bicchiere di argento, dorato [118] dentro, sempre con la cifra e sempre nell'astuccio; a portare la carrozza con cui si deve andare alla chiesa e pagarla lui; a regalare, in sacrestia, al prete, al sacrestano, al chierico: al primo una somma variabile da venti a cinquanta lire, al secondo dieci lire o cinque, al terzo, cinque o due lire; se si vuol fare qualche elemosina ai poveri, fuori la chiesa, tanto meglio. Durante la funzione, il padrino di battesimo tiene la mano sulla spalla del bambino e risponde, per lui, alle domande del prete, che gli chiede se rinunzia al mondo, se rinunzia alla carne, se rinunzia al diavolo; infine, tre ab renuntio; risponde al vis baptizari, chiesto dal prete, con un volo, sempre per conto del bambino; infine, dice il Credo insieme al prete, con la madrina, con la nutrice, se vi sono, e con tutti gli astanti. Per lo più, se il padrino è molto ignorante di queste risposte latine, vi è chi gliele suggerisce. Dopo il battesimo, il padrino rientra in carrozza, arriva a casa, ed è lui che presenta alla madre e al padre, il nuovo cristianello o la nuova cristianella: in quel momento, dà i doni alla puerpera e al neonato. Poi, la sua corvée non è finita ancora, poichè egli deve regalare alla levatrice, alla nutrice, alle persone di servizio della casa, alla prima una somma variabile da venti a cinquanta lire, alla seconda da dieci a venti [119] lire, agli altri da cinque a dieci lire: tutto questo, partendo da un punto di vista di agiatezza sua e della famiglia, perchè queste mance si possono estendere o ridurre, a volontà. In Francia vi è l'abitudine di offrire anche scatole di confetti, confetti bianchi simili a quelle delle nozze: è sempre il padrino, che li offre, les dragées du baptême; ma in Italia non si usano. Se vi è madrina, bisogna fare un dono, ma modesto, anche per essa: un piccolo gioiello, magari una medaglia, con una data, basta. In chiesa bisogna andare in tight o in redingote; guanti non tortorella, ma chiari, cravatta non bianca, ma d'accordo con la redingote. Se le relazioni fra il padrino e il figlioccio sussistono, il padrino è tenuto a un dono, nell'onomastico e nel genetliaco, e il figlioccio lo ricambia, egualmente, nell'onomastico e nel genetliaco. Alla madre del figlioccio, dei fiori, nell'onomastico. E scusate se è poco!
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Nelle classi del popolo, specialmente nelle provincie meridionali, si usa di far cresimare molto presto giovinetti e giovinette: anzi dirò ragazzi e ragazze. Come si va nelle classi più alte, non si fa la prima comunione di ragazzi e ragazze prima di nove o dieci anni, non si cresimano ragazzi e ragazze prima di dodici anni. Ora, si fa anche più presto. Bisogna pensare sempre a una buona preparazione religiosa del cresimando e della cresimanda: dirigersi al parroco della propria parrocchia, a un colto monsignore. Dopo di che, si sceglie la madrina o il padrino di cresima. Scegliendolo, obbedire più a ragioni di affetto, che di interesse o di vanità: scegliere un amico vero, una persona simpatica, una persona rispettabile. Il vestito della cresimanda, è sempre bianco, massime se essa ha meno di quattordici anni: dalla mussolina di seta, tutte le stoffe bianche vanno bene: e quindi velo bianco, scarpette di raso bianco, calze di seta bianca: nelle famiglie più modeste, [121] pur mantenendo il color candido, si riduce la spesa, secondo i propri mezzi. Per giovinette oltre i quattordici anni, basta un vestito di una certa eleganza, chiaro: e il cappello, si vada in chiesa e in casa del monsignore, bisogna sempre toglierselo, poichè non si può prendere il sacro crisma, sulla fronte, con cappello sul capo! Al cereo, alla carrozza e a tutto il resto, pensa il padrino e la madrina di cresima. Il giovinetto si veste di un abito nuovo, con una fascia di raso bianco al braccio, con un ciuffo del nastro. Ordinariamente, nel giorno di cresima, il cresimando o la cresimanda sono invitati a pranzo in casa del padrino o della madrina di cresima, salvo che il padrino sia scapolo o la madrina non abbia casa organizzata a ciò: questo invito è facoltativo. E così, la domenica seguente, la famiglia del cresimando o della cresimanda, invita a pranzo la madrina o il padrino: anche ciò è facoltativo. Ora è invalso l'uso che, oltre la madrina e padrino, facciano dei doni al cresimando o alla cresimanda, anche i parenti: abitudine di lusso e di vanità, che guasta il cuore dei giovinetti e delle giovinette. Basta, semplicemente, un piccolo ricordo pio dei genitori: e non già dei fili di perle o delle scrivanie intagliate, come ho letto, in un giornale francese!
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Il padrino di cresima, in generale, come la madrina di cresima, non deve essere scelto troppo giovane, poichè deve esercitare un certo prestigio morale sul cresimando, e la poca differenza di età, impedisce che si prenda influenza sul figlioccio. Come la madrina, il padrino di cresima deve amare e proteggere, costantemente, il giovane a cui promise di esser secondo padre. In quanto ai piccoli doveri della cresima, essi sono identici, cambiato il sesso, a quelli della madrina: per un cresimando, la spesa è sempre minore di una cresimanda. Il padrino — ricordarsi che non si può cresimare, se non si è cresimato — deve occuparsi lui di combinare il giorno e l'ora della cresima, in una chiesa, o in una cappella privata, da qualche monsignore: così che ogni regalo che si debba fare al clero, al chierico, al sagrestano, spetta assolutamente a lui; nè il cresimando, nè la sua famiglia vi debbono pensare. Organizzata, così, la festa mistica, il padrino di cresima va a [123] prendere, in carrozza, in un bell'equipaggio, possibilmente, il fanciullo o il giovanetto che deve avere il Sacramento della Confermazione e gli porta un grosso cereo, di buona cera, a cui è annodato un bel nastro di raso bianco, con un ciuffo. La toilette del padrino deve esser secondo la sua condizione sociale: ma essa si aggirerà sempre fra il tight e la redingote, cappello duro nero o cappello a cilindro, guanti chiari, cravatta chiara. Si sa bene che il cresimando porta un vestito nuovo, alla marinaia o da ometto, a cui si aggiunge una fascia di raso bianco al braccio destro, con un bel ciuffo. In chiesa, in cappella, non vi è che da tener la mano destra sulla spalla del figlioccio inginocchiato. Come dono, bisogna cominciare dal dare un libro di messa o altro libro di religione, come la Imitazione di Cristo — il libro dei libri — o la Filotea, infine, un ricordo pio, di quella giornata, con una parola di dedica. Poi, vi è il dono profano, consistente, per un giovanetto, in un orologio d'argento con catena d'argento, o in una bottoniera d'oro, se è già grandicello, o in un lapis d'oro: o se non ama questi ornamenti, in un dono utile e dilettevole, una macchina fotografica, una scatola di compassi, un atlante. Nessun dono bisogna fare alla madre e ai parenti del figlioccio. Se ha casa, il padrino invita a pranzo il suo figlioccio: [124] in nessun caso condurlo in trattoria o ad una scampagnata, nel giorno della Cresima. Conservargli, se la vita lo promette, un affetto paterno, una protezione paterna.
Il legame spirituale, che è creato dalla cresima, fra madrina e figlioccia, è, quasi sempre, molto più affettuoso e duraturo del legame creato dall'aver tenuto al fonte un bimbo o una bimba: ciò dipende, in generale, perchè la cresimanda ha già una certa età e può ricambiare, subito, di tenerezza e di devozione, la protezione amorosa della madrina. I doveri morali, dunque, di costei sono più larghi e più austeri. I doveri sociali consistono nell'accettar subito il compito di madrina, quando vi si è invitata e nel sapere, poi, se la cresimanda si è bene preparata, religiosamente parlando, a quel sacramento, che è molto importante. Nel giorno della cresima, la madrina va essa, con una bella carrozza, a prendere la figlioccia, per portarla alla chiesa: vanno con loro due, i genitori della cresimanda, se li ha, o i più prossimi [125] parenti. Oltre la carrozza, la madrina porta anche il grosso cero, stretto, alla metà, da una fascia di faille bianco, con relativo nodo a grosso ciuffo: il cero deve essere tenuto dalla cresimanda e si lascia, dopo la funzione, alla chiesa. Durante il rito, la madrina deve tenere, continuamente, la mano sulla spalla della cresimanda, che è inginocchiata, ma nulla deve rispondere. Spesso, nel medesimo giorno, per renderlo più solenne, madrina e cresimanda fanno la comunione insieme, prima e dopo la cresima. Quando si ritorna a casa, la madrina offre alla cresimanda un dono ricordevole: o una catenella d'oro con una crocetta: o un braccialettino d'oro con una medaglia sospesa: o una bella broche: infine, un dono non troppo ricco, ma bello e durevole. Insieme a questo, le dà sempre un ricordo pio: o un bel libro da messa, o una bella immagine della Vergine: sempre con la data della cresima, scritta o incisa in qualche parte. A Parigi usano certe collanette, certi braccialetti adorni, intorno intorno, da medaglie religiose, molto belle: ma in Italia non ne ho mai visto. Quando la intimità è grande fra la madrina e la cresimanda, spesso, la madrina, le regala anche il completo vestito bianco della cresima, dalle scarpette al velo: ma ciò è più affettuoso che obbligatorio. Nel giorno della cresima, la madrina, per lo più, [126] dà un pranzo, in casa sua, alla cresimanda e alla famiglia di lei: questo è un costume assolutamente meridionale. In chiesa e in casa vi sono pochi regali, in denaro, da fare ai chierici, sagrestani e servi; ma quei pochi spettano alla madrina. Ma nulla essa è tenuta a donare alla madre o ai parenti della figlioccia. Più tardi, secondo i rapporti, ella fa un dono al compleanno o all'onomastico della figlioccia e così ne riceve il ricambio.
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La signora che desidera essere presentata a Sua Maestà la Regina, deve prima pensar bene, se il suo ceto, la sua condizione, la sua posizione in società, le possono far concedere quest'onore: ed è, quindi, ben fatto parlarne a qualche dama della Regina, la quale, a sua volta, interpelli diplomaticamente la dama di Corte, che è più accanto alla Regina. Quando si è certi, ufficiosamente, che la domanda sarà bene accolta, allora si farà una lettera-domanda, dalla signora stessa, diretta a questa dama, in forma ufficiale. Ordinariamente, l'udienza viene sempre accordata, quindici o venti giorni dopo la domanda, e la signora ne è avvertita da otto a dieci giorni prima, con lettera della dama di Corte. La signora, per andare a quest'udienza, non veste mai di nero: porta un vestito di velluto, o di broccato, o di grosse soie, una stoffa molto ricca, infine, sempre di seta, mai di lana, mai di panno: questo vestito ha un lieve strascico, come tutti i vestiti di grande cerimonia. Non [130] si porta mai giacca, mantello, mantellina, sia pure del più prezioso ermellino: se si ha, si lascia in anticamera: il boa è escluso, come troppo famigliare. Cappello di grande cerimonia: se è una sposa giovane, può arrischiare la toque rotonda, ma ricca, carica di piume: oltre i trent'anni, sempre il grande cappello sontuoso: veletta mai. La signora che va in udienza reale non porta nè manicotto, nè ombrellino, nè porte-mouchoirs, nè portabiglietti, nulla che indichi la passeggiata, altra visita, e via via: se ha le lenti, le può tenere: adoperarle, mai. Su questo vestito da grande cerimonia, bisogna portare un grande gioiello, un magnifico paio di orecchini, per esempio, o una catena sautoir splendida, o un grosso filo di perle, sul colletto stretto del vestito: i braccialetti sono ammessi: un solo splendido anello. I guanti sono glacés, grigio perla o bianchi: ma la mano destra deve esser nuda. La signora va sola, all'udienza reale: arriva almeno dieci minuti prima dell'ora stabilita e attende il suo turno, nella terza anticamera, prima del salotto della Regina. Quando la dama, entrata prima di lei, viene via, la signora presentata è accompagnata, preceduta, sino alla porta del salotto della Regina, dalla dama di servizio, che, facendo una riverenza sulla porta, annunzia a Sua Maestà la signora. Costei [131] deve fare tre belle riverenze: una, sulla soglia: una, nel mezzo del salotto: una, presso Sua Maestà, che attende, in piedi, presso un divano e che ha sempre la bontà di stendere la mano alla nuova arrivata, invitandola a sedere. Baciare la mano alla Regina non è obbligo, alle signore: ma è atto gentile. Bisogna aspettare di essere interrogata, sempre, per parlare: rispondere brevemente: attendere da Sua Maestà, la conversazione. Beninteso che per tutte le signore d'importanza, l'udienza è da sola a sola, non assiste neanche la dama. A un certo punto, amabilmente, Sua Maestà fa intendere che l'udienza è finita. La signora si leva, ringrazia Sua Maestà dell'onore concessole e, indietreggiando, fa le tre riverenze, andandosene, mentre la Regina resta, ritta, presso il divano. Per la presentazione a principesse ereditarie o semplicemente reali, il cerimoniale è il medesimo.
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Non potendo nessun signore e nessuna signora intervenire ai balli di Corte, senza esser presentati, uomini e donne, a Sua Maestà la Regina, verso la metà e la fine di gennaio, vi è sempre un'udienza generale, diciamo così, a cui sono ammessi questi signori e queste signore, che ne fecero domanda, a questo scopo. È naturale che tali domande siano bene vagliate, da chi si deve: per gentiluomini e gentildonne straniere, fa la richiesta l'ambasciatore o il console dello Stato cui appartengono. Questa udienza generale, è sempre nelle ore pomeridiane: le signore v'intervengono in grande toilette di cerimonia, vestito di velluto, di broché, di altra stoffa sontuosa, guarnito di merletti, di pelliccia: non indossano mantello, di nessuna specie: hanno un cappello di grande ricchezza: guanti grigio-perla e i più bei gioielli che si possano portare di giorno. È la medesima toilette che si farebbe all'udienza particolare, salvo che bisogna pensare al paragone [133] con le altre signore, egualmente vestite o meglio vestite, e cercare di essere elegantissima. Gli uomini vanno a quest'udienza pomeridiana in redingote nero, pantaloni chiari, cravatta di raso a rabat di fantasia, guanti grigio-perla: se si è in lutto, si spezza il lutto. Già, quando si è in gran lutto, non si va a Corte: e il lutto stretto o il mezzo lutto, si può spezzare per un giorno. Tanto gli uomini quanto le signore formano due gruppi, staccati l'uno dall'altro, e quando Sua Maestà la Regina si degna di apparire, si formano in due file. Ella, ordinariamente, con la suprema grazia che la distingue, passa, di signora in signora, e ognuna di esse le è presentata dalla dama di servizio, in quel mese: e, presso ognuna delle signore, si ferma un momento, dice due o tre parole, o anche una frase, ma è sempre opportuna, appropriata, squisita. Quando ha finito di conoscere, diciamo così, le signore che le sono state man mano presentate, Sua Maestà si fa presentare, man mano, dal suo cavaliere d'onore, tutti gli uomini, dice a ognuno una parola e passa innanzi. Solo quando Ella si è ritirata, vanno via tutti, uomini e donne. Dopo di che, ognuno di costoro ha acquistato il diritto di essere invitato ai balli di Corte: ma ciò non si acquista facilmente, poichè si deve passare per un primo periodo, dopo la domanda, di [134] esame, fatto molto prudentemente, molto benignamente, ma esame! Il cerimoniale per prendere parte ai balli presso i principi ereditarii o principi reali, è perfettamente il medesimo.
L'errore comune, nella folla di gente che si dirige, per lettera, per supplica, per domanda, alla Regina, è che Sua Maestà non riceva ciò che le è indirizzato. Tutto ciò che le vien diretto, le giunge puntualmente e se il suo ufficio di segreteria fa un certo spoglio nella corrispondenza di tal genere, è sempre per riferirne esattamente alla Regina. Le suppliche comuni, quelle che chiedono un qualche sussidio, vanno, dopo lette, agli uffici di beneficenza reale, che provvedono in una misura equanime, a tali carità: tutte le lettere stravaganti, bizzarre che domandano duemila lire, cinquemila lire, venticinquemila lire, persino, non possono essere soddisfatte, visto che nè la Regina nè il Re potrebbero fare simili elemosine! Le domande di grazia ai carcerati, d'impieghi, di pensioni, di concessioni [135] non possono, naturalmente, aver risultato, poichè Sua Maestà la Regina, in un regno costituzionale, non ha poteri per disporre di ciò. Eccezionalmente, chi ha una domanda grave da fare alla Regina, deve chiedere l'intervento di qualche sua dama, la quale può anche informare Sua Maestà della verità delle cose, offrir testimonianza, infine, in proposito: e così la pietà infinita della Regina si può manifestare, con qualche soccorso materiale o morale, che oltrepassi i limiti usuali della carità. Chi voglia offrire un libro alla Regina, non deve mandarglielo mai in brochure: una gentile legatura, è di obbligo: non si deve mai scrivere, dentro, la dedica a mano. Meglio è spedirlo, con una lettera di omaggio, alla dama di servizio. Le più belle legature si fanno in pergamena bianca, in istoffa antica, in pelle di guanto, con qualche borchia di oro o di argento, disegnata da qualche buon artista. Per la musica, bisogna pensare egualmente a farla rilegare o metterla in una fine copertina di stoffa, di marocchino, di pelle, con qualche gentile fregio di oro, di argento. Chi voglia proprio offrire un dono a Sua Maestà, dono che abbia un valore intrinseco ed estrinseco, bisogna che prima ne domandi il permesso, altrimenti ognuno tenterebbe una via simile, per ottenere qualche cosa in ricambio: e ciò [136] non avrebbe limiti. Chi voglia dedicare un libro, della musica, un'altra opera d'arte o del lavoro manuale, dedicare semplicemente, non altro, deve anche chiederne il permesso. Sua Maestà la Regina fa ringraziare sempre, per mezzo della dama incaricata, chi le invia libri e musica, in dono: a persone, che le hanno offerto qualche cosa, col suo permesso, manda un gioiello, con la cifra. Quando un maestro di musica, un concertista, è chiamato a Corte, per un concerto, riceve sempre un bellissimo gioiello, in compenso: anche quando un'attrice o un attore vi recita, un ricco ed elegante gioiello, è il suo compenso. Se la Regina interviene a una serata di onore di una grande attrice, di una grande cantante le offre sempre un braccialetto o un anello. Costoro, naturalmente, oltre le lettere di ringraziamento che inviano, domandano una udienza, per i ringraziamenti personali.
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Gli inviti per un ballo al Quirinale sono fatti dal Prefetto di Palazzo e dalla Dama di Onore a nome delle Loro Maestà il Re e la Regina: sono indirizzati sempre al nome del marito invitato e vi si aggiunge il nome della sua signora: sono strettissimamente personali. L'invito, al Quirinale, è per le dieci: la Corte, entrando alle undici precise, tutte le signore si affrettano a trovarsi puntuali, per vedere l'entrata dei Reali. È molto da poseuse o da ignorante, per una signora, arrivare tardissimo ad un ballo di Corte: nessuna signora elegante, finemente educata, lo fa. Al Quirinale, mentre aspettano la Regina, le dame si dispongono per gruppi: dame di Corte, cavalieresse dell'Annunziata, dame del Corpo Diplomatico, mogli di ministri, ed alti funzionari dello Stato. Quando la Regina entra, fa pochi passi e una profonda riverenza, con cui ha l'abilità di salutare trecento signore e più, tutte quante: e tutte in fila rispondono con una profonda riverenza. [138] Ella, poi, si siede sovra una poltrona preparata nel centro della sala: sull'altra, non siede mai il Re, che ama stare in piedi, e che subito si mette a discorrere con qualche ministro. Vanno a riverire la Regina, subito, per ordine: le mogli dei cavalieri dell'Annunziata e sono invitate, esse sole, a prender posto sugli sgabelli, tabourets, messi accanto alle poltrone reali, poichè, come si sa, i cavalieri dell'Annunziata e le loro signore, sono cugini e cugine del Re: le dame di Corte man mano si schierano, in piedi, dietro le poltrone della Regina. La quadriglia reale si fa subito dopo: la Regina la balla con l'ambasciatore o col ministro più anziano del Corpo Diplomatico: ha per vis-à-vis, o un principe reale con la dama più anziana del Corpo Diplomatico, o un altro ambasciatore: non ha coppie, accanto, e la sola sua coppia dirimpetto. Sui lati le coppie sono tre o quattro, con relativi vis-à-vis. Nel ballare, non si passa mai davanti alla Regina, volgendole le spalle: nè si passa senza salutarla. Finito questo, la Regina non balla più: quando era principessa di Piemonte, ballava anche in giro, e qui, a Napoli, vi è qualche gentiluomo con cui ha ballato un giro di polka o di valtzer: e il cerimoniale portava che fosse lei, per mezzo di un suo cavaliere d'onore, a invitare qualche gentiluomo, successivamente. Dopo, la [139] Regina passa, a sua volta, di dama in dama, ora fermandosi un minuto, ora pochi minuti, secondo la loro importanza e secondo la particolare stima che fa Sua Maestà: presso alcune si siede e conversa un poco. È naturale, che ella non possa parlare a tutte. La signora, prescelta fa una riverenza al principio e alla fine, della conversazione: e non stende la mano, se la Regina non porge la sua. In questo frattempo, le signore cui è poco probabile che possa toccare questo onore, le signorine, ballano. Se s'incontrano sul cammino di Sua Maestà, si scostano, voltandosi a lei, facendo la riverenza. All'una precisa la Regina ha compito il suo giro, si ferma, si volta, saluta con uno dei suoi grandi saluti la società e sparisce. È naturale che le signore vadano al ballo di Corte col loro vestito più suntuoso e coi loro più bei gioielli: a Corte non si va con vestiti di ripiego. Anche le signorine debbono avere una toilette nuova e fresca. Gli uomini portano assolutamente la cravatta bianca, guanti bianchi e i pumps di pelle lucida. Pel cappello va bene il gibus, da portare in mano, chiuso: o quello morbido nero, o il duro rotondo, che si lasciano al guardaroba. Il gilet bianco è ammesso. Per i balli presso i principi ereditarii o principi reali, il cerimoniale è il medesimo.
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Appena la primavera lo permette e se la occasione è importante, nei giardini del Quirinale, a Roma, o in quelli della Reggia di Capodimonte, a Napoli, la nostra Regina dà volentieri qualche garden party. Questo uso, come si vede dal suo nome, è completamente inglese: la società francese se lo è subito assimilato, e, in Italia, le grandi case, qualche ambasciata, a Roma, dànno, spesso oramai, di queste gardens parties. Per quella di Corte, le signore indossano dei vestiti di seta, di broché, di taffetas, di crespo di Cina, di tutte le stoffe seriche non troppo pesanti e non troppo scure: la garden party, dandosi fra aprile e maggio, fra settembre e ottobre, permette di portare delle toilettes seriche, molto chiare: se è alla fine di maggio, alla metà di settembre, si possono portare delle sete leggere, dei foulards, delle mussoline di [141] seta, dei crespi della Cina. Il cappello di una signora, a una garden party deve essere un piccolo poema di freschezza e di novità: curarlo molto. Anche le signore che hanno passato i quarant'anni e si accostano ai cinquanta, possono portare la grande toque tutta di fiori artificiali, purchè non siano fiorellini da giovinetta o sposina. Scarpette mordorés: oppure alto soulier Luigi XV, di una pelle colorata, intonata col vestito, e guernito di fibbie di strass. Grande mantello non pesante, da primavera, da gittare sul vestito, quando si esce: oppure collet di chiffon e merletti, ricchissimo. Un filo di perle, una bella broche, niente altro: ombrellino chic, dal manico artistico. Gli uomini vanno in vestito da mattina, alla garden party: cioè redingote o tight, pantaloni di un grigio tenero, di una lavagna chiara pantaloni eleganti, infine, panciotto bianco, cravatta chiara a grosso nodo, cappello a cilindro, scarpe di pelle lucida e guanti grigio perla: il fiore all'occhiello è sempre ben visto. Il cerimoniale della garden party è meno rigoroso del ballo di Corte, ma solo un poco: dove la Regina interviene, le regole sono sempre le medesime e sono basate sovra un alto rispetto dell'Augusto Ospite. E così, in una garden party privata dove Ella interviene, la padrona di casa è in cappello e guanti, poichè essa diventa [142] ospite della Regina: e gli invitati, come le invitate, debbono essere tutte persone presentate a Corte: e le toilettes, come il cerimoniale, sono sempre le medesime. Anche la garden party a Corte ha una quadriglia reale; un giro per discorrere con le signore e infine Sua Maestà si ritira, dopo avervi partecipato per un paio di ore.
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I miei lettori sanno che questo modesto libro fu da me scritto anni fa, che se ne sono fatte molte edizioni, non per mio merito, ma, forse, per la sua utilità e che, ogni volta, io ho avuto cura di correggere, rifare, completare il mio testo, visto che gli usi e i costumi mondani si venivano mutando, alcuni, anzi, radicalmente. In questa ristampa, intieri capitoli sono scomparsi e molti nuovi vi sono stati inseriti. Ma per quanto riguarda questa parte «Nelle case del Re» non si trattava di addebitare i cangiamenti in questa parte protocollare della vita italiana, poichè, in fondo, il protocollo reale non è stato mai mutato, ma di dire che mutate le persone e gli eventi, necessariamente, a Corte, vi è profonda diversità di vita. Ognuno rammenta gli splendori sotto il felice regno di Umberto e Margherita: e come il Quirinale in quei tempi che parvero beati, rifulgesse come un astro. Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia, sovrani di gran cuore, pensosi di tutti i bisogni crescenti del loro popolo, pietosi a tutte le tristezze, di gusti semplici, di virtù intime ammirabili, hanno regnato e regnano a traverso periodi di alta difficoltà sociale e, infine, a traverso sette od otto anni, [144] fra guerra e armistizio, in cui essi sono stati capaci dei sacrificii più eroici. Ed è naturale che i grandi pranzi e le feste e i balli a Corte, in questo ultimo tempo, fossero eliminati e si facessero solo per ricevere un sovrano amico: la famiglia reale riceve, ora, ma sempre in una forma privatissima, per dare svago alle figliuole. Pure, la prammatica di Corte esiste sempre e conveniva che i miei lettori la conoscessero, nel caso che avessero bisogno di una guida, di un consiglio, per gli eventuali loro rapporti coi sovrani.
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Ora, è in viaggio, bisogna decidersi a uno dei due partiti estremi: essere una persona male educata o una persona bene educata. Soggiungo, anche, che tre quarti della umanità viaggiante, si è decisa fermamente a essere male educata, trovando, pare, in questa mala educazione, i maggiori vantaggi. La persona che vuol essere male educata, in viaggio, cerca sempre di aver il miglior posto, in vagone semplice, nello sleeping, in carrozza o in battello, alla faccia e alle spalle di tutti i viaggiatori, maschi o femmine, giovani o vecchi, belli o brutti. La persona male educata, in viaggio, non cede la destra, non si cava il cappello; non saluta; non s'inchina; non presta il suo giornale; non presta il suo orario; non solleva il cristallo dello sportello; non tira la tendina contro il sole; non dice il nome della stazione, a cui si è arrivati; non ha freddo quando gli altri hanno freddo; non ha caldo quando gli altri hanno caldo; e non lascia di fumare nel vagone dove non si [148] fuma. Egli mangia, beve, dorme in treno, come se niun altro vi fosse; fa la sua toilette, sfoglia i suoi libri, va e viene attraverso il vagone, senza chiedere mai il permesso. In albergo, la persona male educata fischia, canta, strepita, nella sua stanza, senza curarsi del vicino: gitta le sue scarpe contro il muro, se ode un rumore: chiama il cameriere e la cameriera a distesa, senza occuparsi se gli altri dormono: scende alla table d'hôte tardi e vi legge il giornale: si serve del miglior pezzo e se vi è un residuo d'insalata, lo prende tutto: comincia a fumare il suo sigaro a tavola e in sala di lettura, prende, per un'ora, i più importanti quotidiani ed illustrati. La persona male educata non cede mai il suo posto in battello, in barca, alla dogana, in carrozza, in omnibus, in ascensore, all'ufficio postale, a quello telegrafico, dovunque sarebbe amabile il cederlo; in teatro, in sala da giuoco, al café-concert esercita tutti i suoi diritti di primo arrivato, senza badare nè al sesso, nè alla condizione dei suoi vicini. In trattoria, il viaggiatore male educato occupa il miglior tavolino, presso il caminetto, lontano dagli tziganes che suonano troppo forte, e sequestra il miglior cameriere: nei musei, nelle gallerie, nei ritrovi pubblici, egli è sempre dove si sta meglio, dove non si ha caldo e dove non si ha freddo. Il viaggiatore male [149] educato, facendo questo per principio, è male educato anche con i suoi amici di viaggio e, magari, con la sua compagna di viaggio. Questo viaggiatore male educato, è perfettamente felice, in viaggio: salvo quando incontra un altro viaggiatore, male educato più di lui. Il che accade: accade spesso!
L'uomo perfettamente bene educato, in viaggio, deve vincere ogni egoismo, ogni suo agio particolare e sacrificare ogni suo comodo, alla più nobile e più pericolosa virtù umana, che è quella dell'altruismo. Egli deve cedere il passo alle signore, ai vecchi, ai bimbi, dappertutto: agli sportelli dei biglietti, in stazione, e in ferrovia, negli sleeping, nei wagons restaurants, nelle dogane, nei caffè di frontiera; dovunque è bene arrivare per il primo e profittare del tempo e dell'occasione. L'uomo perfettamente bene educato deve sopportare il caldo, il freddo, il digiuno, in viaggio, senza protestare, quando i suoi compagni o le sue compagne di viaggio vogliono fargli subire tutte queste angarie, essendo [150] egoisti e male educati. Egli deve finir di fumare, quando ne ha voglia ancora: svegliarsi quando gli piace ancora di dormire: addormentarsi, quando vorrebbe stare sveglio e ammirare il paesaggio: tenere gli sportelli chiusi, quando andrebbe bene una boccata d'aria e non muoversi dal suo angolo, quando vorrebbe passeggiare nel vagone, per isgranchirsi le gambe. L'uomo perfettamente bene educato deve prestare il suo giornale, il suo orario, il romanzo che legge, alla prima richiesta di un compagno o di una compagna di viaggio: deve sempre sapere il nome della stazione, in cui si arriva: deve sempre aprire o chiudere lo sportello, sollevare o abbassare le tendine, chiamare il conduttore, il facchino, parlamentare col capostazione. L'uomo perfettamente bene educato, in barca, in omnibus, in carrozza, in ascensore, in automobile, in cima a una torre, in fondo a una cripta, deve sempre eclissarsi innanzi alle signore, lasciando loro il miglior posto, o guidandole, scortandole, proteggendole. Egli, in albergo, non fa chiasso, non canta, non ride, non urta nei mobili, non batte alle porte, non suona a distesa: in ascensore, sta sempre col cappello in mano, se vi è qualche signora; a table d'hôte viene in frack o in smoking, sempre a tempo; si serve modestamente, non mangia molto, non si ciba, ma gusta il pranzo; [151] non si mette a fumare, prima di arrivare al fumoir; non sequestra i giornali nel salon de lecture; non legge quello che scrive la sua vicina nella salle d'écriture. L'uomo perfettamente bene educato, nei teatri, nei cafés-chantants, nei musei, nelle gallerie, non toglie la visuale a nessuno e se la lascia togliere, senza mormorare. L'uomo perfettamente bene educato, in viaggio, è una vittima: ma ha qualche consolazione. Talvolta, egli incontra una compagna di viaggio che, stupita di trovarsi con un uomo bene educato, dopo aver incontrato tutti uomini male educati, s'innamora perdutamente di lui.
Non basta, se siamo in estate e non in inverno, smettere le pellicce odorose, le vesti di panno e le mantelline di velluto, per darsi alle batiste, ai crespi e alle garze: non basta, se siamo in estate e non più in primavera, abbandonare le vesti di leggero drappo, e le giacchette meno pesanti, e le gonne di seta, per chiedere al tussor, al foulard, allo chiffon, le loro aeree mollezze: vi è tutta [152] un'altra categoria di cose, nella toilette femminile, che segna la profonda differenza fra l'estate e l'inverno, fra l'estate e la primavera. Prendiamo, per esempio, l'acconciatura dei capelli. Credete voi che, d'estate, ci si possa acconciare come d'inverno? Quei leggeri edifizii o quei pesanti edifizi ricciuti, e adesso già abbastanza complicati, non reggono in estate: qualunque leggiadra pettinatura, opera di mani pazienti, dopo due ore, è un ammasso informe. Il calore disfà i ricci, e le ondulazioni non naturali, ed esercita la sua azione demolitrice, anche su i ricci naturali. Vorreste voi, in estate, portare i capelli molto bassi sulle orecchie, molto bassi sulla nuca, e molto bassi sulla fronte? E non vi darebbero un fastidio enorme? Ed ecco, che l'estate consiglia la pettinatura bassa a radici diritte, libera la fronte, libere le tempie, libera la nuca, e rialzati, questi capelli, sul sommo della testa. Prendete, per esempio, i guanti: vorreste voi, in estate, portare l'elegantissimo guanto glacé dell'inverno, che modella la perfetta mano, e non preferite voi il guanto largo, la pelle di Svezia, che si leva e si mette ogni minuto, di cui si può gittarne un paio anche ogni due giorni? Prendete, per esempio, le calze: vorreste voi portare, in estate, la indispensabile, ineluttabile calza nera dell'inverno, quella calza nera, che è la [153] civetteria egualmente delle gambe troppo sottili e delle gambe troppo grosse! Quella calza nera, che è la più profonda delle illusioni umane? Voi sapete bene che l'estate discaccia la calza nera, e permette ai piedini femminili di adornarsi dei colori più delicati e più estetici, che si intravvedono dalla scarpa di bulgaro, alla scarpa bianca, che bene si vedono dalla scarpetta nera. E voi sapete, sopra tutto, che l'estate rende immortale la fine, morbida, sottile calzetta di filo, la calza da viaggio o da escursioni, la calza da spiaggia e da montagna. Vorreste voi, come nell'inverno, adornarvi di molti, di moltissimi gioielli? Essi vanno d'accordo con le stoffe pesanti, coi drappi serici, con le pellicce esotiche, e sono troppo grevi, troppo ricchi, troppo di lusso, per le trasparenti vesti dell'estate. Qua e là, un fermaglio, una barrette, un sottile filo d'oro, da cui pendono gli oggettini delle escursioni estive, ecco quello che l'estate vi consiglia: cioè, un completamento di toilette più semplice, più disinvolto, che quasi sempre ringiovanisce e rende più gaie le fisonomie.
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(Passare in rivista le diverse circostanze in cui si può avere bisogno di vestiti speciali. Per evitare le dimenticanze, riunire, metodicamente, sovra una tavola, gli oggetti da portar via, cominciando dai piedi e terminando alla testa.)
Oggetti di «toilette». — Spazzola da unghie; spazzola da denti; pettini; lampada e ferro da arricciare; forcinelle ordinarie; forcinelle invisibili; saponi in iscatola di metallo; scatole da polvere di riso; acque e polvere dentifricie; acqua di Colonia; acqua di toilette; boccette di essenza; limette per unghie; specchio a tre compartimenti; sacchetti d'odore; pietra pomice; nettadenti; nettaorecchi; sacco di tela per la biancheria sporca; paracqua; ombrellino; en-cas; salviette; spugne.
Oggetti diversi. — Spille; aghi; ditale; forbici; filo nero e bianco; filo simile alle calze; seta simile ai vestiti; elastico; bottoni diversi; nastri per la biancheria; nastri da scarpe; temperino; calamaio da tasca; cartella; penne, portapenne e lapis; carta da lettere e buste; [155] carta a quaderni; francobolli e cartoline postali; suggello e ceralacca; fiammiferi; lampada da spirito; coltello; forchetta e cucchiaio; cavaturaccioli; sacchetto da viaggio a chiave; plaids; portaritratti che si chiude; porta-orologi; libro di preghiera; libro di conti e libro di indirizzi.
Biancheria, vestiti, scarpe. — Calze; pantofole; stivalini; scarpette; legacce; pantaloni; busti; copribusti; camicie; camicie da notte; camiciuole; accappatoi per pettinarsi; sottane: sottanino di flanella; matinée; vestaglie; corsages di fantasia; vestiti; sacchi per avvolgere i vestiti; mantello corto; giacchetta; grande mantello da viaggio; cappelli; spilloni da cappello; guanti; fazzoletti; foulards; merletto spagnuolo; scialletti di seta; sciarpe; colletti e cinture da adattare a ogni vestito; jabots; colletti di merletto; costume da bagno; accappatoio da bagno; scarpette da bagno; cuffia di cautchouc.
Piccola farmacia da viaggio. — Taffetà ingommato; collodion; ovatta idrofila; cartine di bismuto; cartine di chinina, di venticinque centigrammi; cartine di antipirina, di un terzo di grammo; pastiglie di sublimato, da un grammo; un pacchetto di garza fenicata; lapis antinevralgico; acqua di melissa; camomilla; tiglio; striscette di tela arrotolate e tela; spilli da nutrice.
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Oggetti di «toilette». — Spazzola per abiti; spazzola per i capelli; pettine; rasoio; cuoio da rasoio; pennello per la barba; polvere di sapone; pasta da rasoio; spazzola da denti; acqua e pasta dentifricia; spazzola da unghie; nettaorecchi; nettadenti; sapone nella scatola di metallo; spugne, in un sacchetto di cautchouc; pietra pomice; forbici; tagliacalli; vasellina; acqua da toilette; polvere di riso; specchietto da tasca; allacciabottoni; calzatoio; forma di legno per gli stivali; vernice e crema gialla per lustrare; sacco per la biancheria sporca.
Oggetti diversi. — Spilli ed aghi; filo bianco e nero; pezzetto di flanella; bottoni di ricambio; bottoni da camicia; laccetti da scarpe; coltello; temperino; cavaturaccioli; corregge; spago; fiammiferi a candeletta; sveglia; canocchiale; libro d'indirizzi; carta e buste; francobolli; pesalettere; cartoline postali; penna da tasca; lapis; calamaio; ceralacca [157] e suggello; cartella chiusa a chiave; biglietti da visita.
Biancheria, scarpe, vestiti. — Costume da mattina; costume da viaggio; redingote con relativo panciotto e relativi pantaloni; marsina o smoking; costumi da sport; cioè: costume da cavallo, da velocipide, da tennis, da polo, da caccia, da canottiere, da alpinista, da bagno di mare, da scherma (in tutto nove!): mantello impermeabile, mantello da viaggio, in alpagas grigio, paletot; calzette di filo: calzette di seta e di lana; reggicalzette; sottocalzoni; camicie bianche; camicie di colore; camicie bianche non inamidate; camicie di colore non inamidate; camicie di seta; camicie da notte; piyamas variati; colletti staccati; polsini staccati; foulards pel collo e pel sudore; fazzoletti bianchi, di battista; guanti; scarpe di vitello nero; scarpe di copale nero; scarponcini di copale; scarponcini gialli; stivaletti; stivaloni; stivaloni in coutchouc; scarpe da tennis; scarpe da scherma; cappello a cilindro (non si sa mai); cappello floscio nero, cappello floscio bianco; cappelli di paglia; sette od otto berretti da viaggio, da velocipede, da canottaggio....
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In fondo, questo affare della villeggiatura, come tante altre cose della vita, è tutta una questione d'imitazione, di preconcetto, di amor proprio: non è quasi mai una questione di iniziativa, di indipendenza, di vera necessità. La Tale dice di voler partire, perchè si è giunti alla metà di luglio, non per altro: e, subito, un séguito di signore si decide a partire, perchè la prima lo ha detto. Il Tale Altro dice di dover partire, perchè lo aspettano nel suo collegio elettorale, o nelle sue terre, o perchè ella lo aspetta altrove: e, subito subito, un séguito di signori, amici e conoscenti, inventa qualche ragione impellente per doversene andare al più presto. La Tale signora dichiara di sospendere ogni visita da fare o da ricevere, proclama che ella ha fatto togliere i tappeti, covrire i mobili con le fodere, voltare i quadri contro il muro, e conservare i bibelots nelle vetrine, perchè così le è piaciuto, perchè ella ha avuto il preconcetto [159] della liberazione: e, immediatamente, tutte le altre case, di amiche e di conoscenti, sono in rivoluzione, coi mobili in aria e i libri per terra. Chi oserà mai disporre della propria volontà, in questo problema della villeggiatura? Chi avrà il coraggio di partire, quando gli piace, di andare dove gli conviene, di trattenersi quanto tempo vuole, di ritornare presto, di ritornare tardi, di non fare i bagni, o di non fare la cura climatica, di fare, infine, il proprio comodo? Chi, chi mai avrà il coraggio di non partire, se ciò non gli accomoda? O, almeno, chi avrà il coraggio di dichiarare, restando, di restare? Chi rinunzierà alla ipocrisia di questa finta partenza? Solo, qualche progresso, da qualche anno a questa parte, si vede, nelle grandi città, in fatto di sincerità, d'iniziativa, di libertà, per questo affare della villeggiatura: vi è già un grande, un grandissimo gruppo di gente, che crede fermamente alla bontà dell'estate, in città, fra il luglio e l'agosto: vi è chi crede esser meglio fare, a Napoli, i bagni di mare, non incomodandosi ad andare sovra un'altra spiaggia, o di passare a Roma, a Villa Borghese, l'estate restando nel proprio paese, che è sempre più bello degli altri, restando nella propria casa, che è sempre più comoda delle altre: vi è chi crede di non dover spendere troppo denaro, di non [160] doversi stancare, affaticare, annoiare, andando altrove, in un posto qualunque, ahi, molto qualunque! Sicchè, una gran folla va via, non per idea propria, non per proprio desiderio, ma per fare quello che gli altri fanno: un'altra folla, meno grande, resta in città, beandosi delle serate fresche e delle notti profonde di beltà. E l'una che resta, dice male, molto male dell'altra che è partita: l'altra, di lontano, critica quella che è rimasta....
— Ma con quale denaro è mai andata via, la Tale? Non col suo!
················
— Che miserabili avari, i Tal dei Tali, che sono in città, a crepare!
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Vi è gente, nel mondo, che è condannata a sbagliare sempre i proprii calcoli: gente, a cui manca, nel cervello, la facoltà aritmetica, per cui, ad ogni passo, mentre crede di aver risoluto il problema dello spender poco o dello spender nulla, si trova a spender molto. Questa gente, per esempio, ha giurato, a principio d'inverno, di fare economia, di dare otto pranzi, invece di due grandi balli: e, alla fine dell'inverno, si accorge di avere gittato, in questi otto pranzi, più che nei due balli, perchè si è dovuta rinnovare l'argenteria, perchè si è smembrato il servizio di Sèvres, rompendosene due piatti, perchè, dopo ogni pranzo, si è sempre ballato, perchè..., perchè così è! Vi è gente, che non va a Nizza, fra il marzo e l'aprile, perchè la vita, colà, è diventata enormemente costosa, ma che, invece, giuoca sulle corse di primavera, nella propria città, tutto il denaro che avrebbe seminato sulla Cornice, e forse più. [162] Vi ha gente che, avendo speso molto in inverno, in primavera, si decide a giugno, di partire per una piccola villeggiatura modesta, per un paesello rustico, dove si stia in famiglia, dove vi siano i bagni e la campagna, dove si possa restare da luglio a ottobre e dove non si spenda nulla. Illusione! Illusione! Errore! Grave errore! Bisogna andare con la idea semplice e precisa, che qualunque villeggiatura, costa sempre moltissimo, per umile che sia: bisogna convincersi che i borghi, i paeselli, gli alberghetti, le pensioncelle, finiscono per essere sempre carissimi, sotto le loro lusinghevoli apparenze di modestia. Voi mettete in bilancio mille lire e ne spendete duemila: voi volevate restare due mesi e restate quindici giorni, tornando in città, nella pienezza dell'estate, senza quattrini. Voi volevate spendere millecinquecento lire, per la villeggiatura di tutta la famiglia: ne spendete tremila e tornate a casa col figlio malato, con la cameriera impazzita, col borsellino vuoto, e con qualche debito sulla coscienza. Non vi fate ingannare! Nei paesi, dove meno vi è da spendere, più voi spenderete: nei paesi dove non si compra nulla, voi troverete tutto in vendita e a che prezzo! È una pessima speculazione finanziaria, convincetevene, qualunque villeggiatura: ognuno ne torna, il più ricco, seccato, il più povero, preoccupato. La [163] migliore speculazione, sapete quale sarebbe? Quella di rimanere in città, nella propria casa, in solitudine beata, al fresco, nell'ombra, in silenzio pensoso, o non pensoso, conservando preziosamente le mille, le duemila le tremila lire della villeggiatura. Questa sarebbe la migliore finanza: isolamento, permanenza e raccoglimento. Sarebbe, ma....
.... infine, poichè la villeggiatura è, come dicono molti, un male sociale necessario, o come dicono altri molti, un bene fisico, più che necessario, poichè in villeggiatura, per un gran numero di persone, vi sono molte misteriose e imperiose ragioni di andare, il miglior consiglio, è di affrontare questo assillante problema annuale, con tutta la saggezza di cui si può disporre. Anzi tutto, con una indagine veramente poliziesca, lettere, informazioni, interviste, mettersi al corrente di tutti i vantaggi e di tutti gli inconvenienti del posto dove si deve andare. In quel paese, fa più [164] caldo che in città: in quest'altro paese, ci piove sempre: in quell'altro, manca l'acqua: in quell'altro, ancora, gli indigeni odiano i villeggianti.... Tutto questo si può sapere, a marzo, ad aprile e, così, possibilmente, trovare un posto meno caldo, o meno piovoso, o dove ci sia l'acqua, o dove non manchi lo spirito di ospitalità. Dopo di che, lunga corrispondenza epistolare con albergatori, con locatori di ville, di villini, di appartamenti: dispute minuziose: finzione di rifiuto, pel prezzo troppo caro: ripresa di trattative: conclusione, quasi soddisfacente. Poi, affrontare la grande battaglia familiare, poichè questo problema della villeggiatura, è un vero pomo di discordia, in casa. Che pensa, che desidera, che vuole e che non vuole, la signora moglie, per questa villeggiatura? Discutiamo: cerchiamo di comprenderci: accomodiamoci: e stabiliamo tutto, il numero dei vestiti, il numero dei mantelli, il baule nuovo, il giorno della partenza, quello del ritorno, va bene, va bene, quel che la signora moglie chiede, si tenterà di fare come meglio si può, per contentarla. Che pensa il signor figlio primogenito, che decide, che farà di sè stesso, del suo tempo, in villeggiatura, che cosa bisognerà fornirgli in abiti e in denaro? E la signorina figlia, la grande, la più pretensiosa, la più posatrice, che ne dice, qual è la sua [165] opinione, quali sono i suoi gusti, qual è il suo capriccio, avanti, si spieghi, chiarisca, dia il suo consenso, o metta il suo veto. E dei servi, che faremo, Dio mio, terribile idea condurli seco, anche più terribile quella di lasciarli indietro, quadratura del cerchio, tu non sei nulla, al confronto di questo ultimo problema.... Dopo di che, o marito, o capo di famiglia, non ti scoraggiare più oltre: sii ottimista, anche per questa villeggiatura, che ti sembra una croce estiva, che ti piomba sulle spalle, ogni anno. Può darsi che essa faccia bene alla tua salute; può darsi che ti dia l'occasione di un buon affare; può darsi che tua figlia trovi un buon marito, colà; può darsi che tua moglie guarisca i suoi nervi, sempre vacillanti; può darsi che tuo figlio si conduca quasi bene, per eccezione; può darsi che, in cambio di una pessima cameriera che se ne è andata, per la villeggiatura, tu ne trovi un'altra, quasi possibile: chi sa, chi sa, chi sa! La villeggiatura non è, forse, una parte dell'ignoto?
[166]
Poichè, moltissima gente, per isvariate ragioni, di cui una, possente, la mancanza di denaro, è costretta di restare in città e ad affrontare il caldo cittadino, con cui non si scherza; poichè anche quelli che vanno in campagna, hanno caldo; e hanno caldo anche quelli che vanno sulle spiagge del mare; poichè su milioni e milioni di persone, nel mondo civilizzato, solo dieci o quindicimila salgono a duemila metri, in montagna, per battere i denti dal freddo, in pieno agosto, e sono ritenuti per pazzi; poichè questo problema del caldo bisogna affrontarlo, studiamo i due metodi con cui si può trascorrere la vita, nel sommo del calore, fra il quindici luglio e il quindici settembre. Primo metodo: ovunque si sia, in città, in campagna, al mare, sulla collina, nel bosco, fuggire il caldo. Cioè, dalla mattina alle nove, dopo aver fatto circolare l'aria mattinale per la casa, chiudere ermeticamente le persiane, i cristalli e le imposte di tutte le finestre e di tutti i balconi. Non uscire, assolutamente, dalle nove alle [167] cinque pomeridiane. Vivere chiuso fino a che il sole saetti: non obbligarsi a portare i colletti alti e duri se uomo, dei plastron soffocanti, se donna: vivere, all'ombra o in penombra, in vestaglia, in veste da camera, in pianelle. Fra mezzogiorno e l'una, fare una colazione o un pranzo, leggieri ma sostanziosi, di uova, latticinii, pesci, verdure, frutta, cucinati finemente: dopo fumare, leggere, passeggiare, sempre in casa, sempre in penombra: e, infine, andare a letto, per la siesta, ma come ci si va di notte, spogliandosi, cioè, e sentendo tutto il refrigerio della tela fresca e fine. Rinviare tutti i bagni, le passeggiate, le escursioni, alle sei pomeridiane, quando il forte caldo, è trascorso: aggirarsi in campagna, o in città, di sera, di notte: rientrare stanco, ma rinfrescato dall'aria notturna, dormire subito. In caso che si debba assolutamente escire, quando vi è il sole, ripararsi contro esso con veli, con vestiti bianchissimi, con guanti ermetici, con nessun angolo di pelle, del collo, delle braccia, delle mani, esposto al sole e alla polvere. Cambiarsi di vestito, due tre volte al giorno: aspergere sè stesso e la propria camera sei volte al giorno, di acqua di Colonia. Non bever freddo, è peggio: non prender granite o gelati, è molto peggio. È un metodo che dà buoni risultati, se non ottimi. Vedremo, poi, il secondo metodo.
[168]
È quello che fa affrontare il caldo, in tutta la sua violenza. Lasciare che, dalla mattina, penetri l'aria nelle stanze, ma che vi penetri anche il sole: esso uccide, dicono, tutti i microbi, e le case ne sono piene! Uscire coraggiosamente nelle ore più ardenti e a piedi, magari, attraversare le piazze più bruciate dal sole; o, in carrozza, non far neppure sollevare il soffietto: e rientrare abbrustolito, e grondante sudore. Dicono che si deve sudare, in estate: dicono che il sudore sia una salvazione: e che chi non suda, ha molta probabilità di tenersi in corpo una malattia infettiva. Prendere il bagno di mare fra le nove e le undici della mattina, cioè nell'ora in cui più Apollo, chiamiamolo così, dardeggia i suoi raggi infuocati, sulle acque azzurre e scintillanti: avere un costume con le maniche corte, cioè che lascia le braccia nude, e, magari che lasci libero il collo, per poter respirar bene l'aria di mare, per poter nuotare, [169] per agitarsi in tutti i modi, finchè il bagno di mare diventi giovevolissimo. Invece di rientrare in camerino, per rivestirsi, stare un po' disteso sull'arena calda: dicono che faccia molto bene. Dopo, rientrare in tram, attraverso le vie infuocate, agitando un ventaglio giapponese da due soldi. E mangiare le cose che più piacciono, in estate, che più lusingano il palato: cioè dei vermicelli al pomodoro, o risotto giallissimo, o minestrone magari due volte al giorno: cioè dei pollastrelli alla diavola; cioè delle costolette alla pizzaiuola, panate, alla milanese; cioè dei peperoni ripieni; cioè delle fritture di pesce e andare, anche, a mangiar questo, nelle trattorie delle spiaggie, nelle piccole taverne di moda, in estate. Prendere moltissime bibite fresche; sciroppi alla neve: menta alla soda: cock tails americani carichi di ghiaccio: bere molta birra: bere molt'acqua: prendere molte granite, qualche gramolata, qualche gelato. Fare delle escursioni per ferrovia, la domenica: fare delle escursioni per mare: concertare dei pique-niques; organizzare delle serenate con mandolini e chitarre: dimenarsi da mattina a sera, come se si fosse nell'inverno più rigido. E il caldo, pare, finisca, per esser vinto: il viso, le mani, il collo si fanno bruni, ma il bianco d'uovo battuto ci pensa: invece di dimagrare, s'ingrassa: e, forse qualche [170] indigestione ci si prende, forse, qualche furioso mal di capo, o una insolazione ci scappa. E forse, si sta meglio di prima, alla fine dell'estate. Dio è provvido, sovra tutto con la gente semplice, che prende il mondo come viene, si acconcia con tutto e si diverte di tutto!
Lavori, per modo di dire, lettrici mie, giacchè è impossibile che una villeggiante, abbia quindici anni o ne abbia settanta, lavori, sul serio, quando può chiacchierare con un'amica, fare la partita col cappellano, flirtare con un giovanotto: è impossibile che l'uncinetto, o l'ago di ricamo, o i ferri da far maglie, o la tappezzeria, possano troppo andar d'accordo con la conversazione, col giuoco, col flirt. Se voi siete sola, solissima in un villaggio, in un'isola abbandonata (e non si è mai assolutamente soli, anche in un deserto e anche in un'isola, esempio Robinson Crusoè), allora potrete anche fare una intera coltre al filet, potrete ricamare un intero mobile di un [171] salotto, a punto antico, potrete, persino, fare degli arazzi di alto liccio; ma, se appena siete in tre, in quattro, in cinque, sarà una gran cosa, se metterete cinquanta punti nel vostro ricamo, se potrete fare due quadretti di filet, se potrete dare una sola stella di colori argentei alla vostra bizzarra tapezzeria, che imita l'antico. Non lo sperate, i vostri lavori domestici ritorneranno in ottobre, quasi intatti, alla città. Eppure, dovete portarli con voi! Vi sono momenti, vi sono ore, in cui un lavoro fra le mani, sotto gli occhi, è di una necessità assoluta: esso è una scusa, un pretesto, un diversivo, un derivativo; esso è una salvezza, per esso gli occhi possono abbassarsi o alzarsi come vogliono, le mani sono occupate, la persona sembra distratta: esso calma i nervi, regola la voce, mette delle pause sapienti nella conversazione. Una donna che ricama è venti volte più padrona di sè stessa, accanto a un uomo, che una donna, la quale non faccia nulla: una donna, che fa l'uncinetto, è molto più la padrona di suo marito, che non una donna disoccupata.... Io non approfondisco il soggetto, perchè voi già lo avete tutto inteso, care lettrici: il lavoro è, dunque, un'arma di difesa e di offesa, in villeggiatura. E chi di voi vorrebbe andare alla guerra, senza corazza e senza spada?
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Come se si fosse nel più pieno inverno, come non si fosse ballato tutto l'inverno e tutta la primavera, si balla, in estate, in ogni salone di albergo, grande o piccolo, sulle rotonde degli stabilimenti di bagni, sulle terrazze delle ville e nei giardini odorosi. E tutti coloro, che sono restati, in città di buona voglia o per forza, tutti coloro che hanno scelto un paese di bagni dove non fiorisce nessun divertimento, o che sono capitati in un albergo pieno di gente di malumore, tutti costoro, sorpresi e disgustati, esclamano: come è mai possibile ballare anche in estate? O gente malinconica, o gente sempre scontenta, o gente scettica, per voi la spensieratezza, la gaiezza, il bel fremito della gioventù e della salute, non esistono, in nessuna stagione! Sappiate che non solo si balla molto in estate, ma si balla, anche, con maggior gusto, con maggior trasporto. Quando i vecchi sono andati a giocare alle carte e i mariti si sono collocati intorno a un biliardo, [173] che cosa fare, quando si ha da sedici, da diciotto, da venti a cinquanta anni — sì, anche cinquanta — o la serata è bella, e il pianoforte suona una vivace fox-trot o l'orchestrina un one-step? Quando, in una giornata, si è già preso il bagno, si è fatto una passeggiata, si è fatta colazione, si è andati in giro, per cercar fiori, si è chiacchierato, si è riso, si è pranzato, e, durante tutte queste cose, si è sempre leggermente flirtato, che cosa fare, alla sera, quando l'aria è dolce, la luna è dolce, e l'ampiezza del salone v'invita a flirtare, ballando, o a ballare flirtando, che è precisamente lo stesso? Quando vi sono delle stelle nel cielo, dei lampioncini sospesi sugli alberi di un giardino o alla ringhiera di una terrazza, e degli occhi, più seducenti di qualunque lanterna giapponese o di qualunque costellazione, che cosa fare, se non ballare? Quando le donne sono belle e giovani, e gli uomini hanno la fantasia sana e il cuore sanissimo, e il vento del mare è profumato, e i leggeri abiti bianchi sembrano di neve, che cosa fare, se non ballare? Quando non vi è altro mezzo per toccare la mano di una donna, per circondarle col braccio la cintura sottile, per tenerla con sè, in una illusione fugace, e quando la notte è piena di farfalle nere, volitanti intorno alle lampade, e i suoi profumi sono irresistibili, come fare a non ballare?
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E adesso, care donne, cari uomini, che siete tutti tornati dalla villeggiatura, come volete voi «liquidare», diciamo così, l'assenza e il ritorno? Avete una idea delle visite che dovete fare e di quelle che dovete ricevere? Sapete voi a chi dovete chiedere scusa, e da chi dovete ricevere scusa? È una materia piuttosto delicata, questa, ed è proprio in questa «liquidazione della villeggiatura» che bisogna portare molto tatto. Anzi tutto, voi avete fatto molte, troppe, troppissime conoscenze, colà, perchè è impossibile non conoscere tutta la umanità villeggiante, quando si è sovra una spiaggia frequentata, sovra una montagna celebre, sovra una collina famosa: troppissime conoscenze! E alcune, così poco accettabili, alcune così indesiderabili! Ebbene, già verso gli ultimi giorni della villeggiatura bisogna, con garbo, escludere, pian piano, i non accettabili, i non desiderabili: [175] e, infine, partendo, dimenticare di averli mai conosciuti, di aver parlato, scherzato e persino ballato con loro. In città, essi non esistono più, per voi: voi non esistete più per loro. Vi è una seconda categoria, che si può raccogliere in una zona neutra, gruppi di persone simpatiche, così e così, importanti così e così, con cui, in fondo, non fa nè male nè bene, essere in rapporti: e, allora, con costoro, prima di tornare in città, si scambiano saluti cortesi, ci si promette di ritrovarsi, di rivedersi, ci si dà qualche vaga promessa, qualche vago convegno: e, dopo, man mano, in città, tutto questo impallidisce, svanisce, si dilegua. Ma rimane un piccolo gruppo, tre a quattro persone, molto interessanti, molto simpatiche, abbastanza importanti, con cui si ha desiderio e necessità sociale di restare in rapporti, in città. E ci si resta! Ci si resta! Talvolta, care donne, cari uomini, queste persone, è una sola. Su questo, nulla debbo soggiungere. Quando si è ritornati in città, bisogna dividere in due categorie parenti e amici che si debbono rivedere: parenti e amici a cui si tiene molto, di riguardo e a cui si va a far visita: parenti e amici che tengono, essi, molto, a voi e voi, molto meno a loro e, allora, sono essi che vi debbono venire a salutare al vostro ritorno della villeggiatura. Vi è gente di riguardo, a cui avete [176] dimenticato di mandare anche una sola cartolina con finezza, con grazia, bisogna riparare quest'oblio. Vi è gente che vi ha dimenticato: bisogna aspettarne le scuse e accettarle con disinvoltura. Dopo di che badare molto a non commettere la indelicatezza di esaltare la villeggiatura a tutti coloro che non si son potuti muovere dalla città.
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Una simile domanda, fatta quindici o venti anni or sono, avrebbe scandalizzato le persone di idee più liberali: viceversa, adesso, è una domanda oziosa. Moltissime signore fumano e molto: e fumano anche le signorine. Fanno male, fanno bene, dove è la verità, e la via? La verità è questa: che la sigaretta può essere fumata da una signora e anche da una signorina, ma non per regola costante di vita. Ogni tanto, in campagna, in viaggio, in una gaia brigata, una signora può fumare una sigaretta, senza che la poesia della sua immagine ne sia offuscata; allora, come non mettersi nell'unisono dell'ambiente, della lietezza, della libertà generale? E come avere questo riserbo, dove tutti gli uomini fumano, e dove già molte e molte signore fumano? Oramai per le donne che si son date a tanti esercizi maschili, bisogna saper anche fumare, ma non fumare sempre. Si può sempre accettare una sigaretta, ma non fumarne dieci o quindici al giorno. Il fumo, anche della [180] sigaretta, fa male alla bocca, e sopratutto ai denti delle donne, e lo sa Iddio se una donna ha sempre bisogno di una bocca bella e sana, per sorridere, per parlare, per baciare! L'alito di una donna non dovrebbe odorare di fumo, come quello di un uomo, perchè verrebbe a mancare una delle grazie più ineffabili della seduzione femminile. Certo, una donna che fuma può spesso avere un aspetto grazioso, ma quanto non è anche graziosa una donna che non fuma? D'altronde è anche da tenersi conto del genere della propria beltà e del proprio carattere, se bisogna decidersi a fumare o a non fumare. Una donna dalla beltà classica, imponente, dalla persona giunonica, è senz'altro ridicola, con una sigaretta tra le labbra; mentre una donna piccola, viva, irrequieta, dalla beltà più espressiva che lineare, può adottare la sigaretta, senza commettere stonature. Una donna sentimentale, malinconica, diciamo la parola, piagnolosa, non dovrebbe mai fumare, mentre tutte le donne di buon umore, spensierate, superficiali, possono adottare la sigaretta. Essa è in generale un sicuro calmante de' nervi femminili; e i mariti infidi, gli amanti perfidi, dovrebbero insegnare alle loro donne a fumare, perchè è una salvaguardia contro molte scene. Però, il fumo è anche uno stupefacente, e toglie allo spirito femminile [181] quella lucidità e quella vivezza, che ne formano il pregio. Per questa ragione, e per tante altre, alle signore che già hanno cominciato a fumare, è consigliabile di non abusarne. In quanto alle signorine, un solo consiglio si dovrebbe dare: di non fumare. Ma esse non obbediranno!
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Infine, eccoci a quel simpatico periodo dell'anno, che i francesi chiamano, con frase molto efficace, la trève des confiseurs; essi vogliono indicare, con queste parole zuccherine, quei giorni che passano, fra il quindici dicembre ed il sei di gennaio, tempi in cui si fa tregua ad ogni noia, ad ogni disgusto, ad ogni preoccupazione, per abbandonarsi alle tenerezze natalizie e di Capo d'Anno, tenerezze che sono rappresentate dai doni, principalmente, e i doni sono principalmente rappresentati da' dolci; dunque trève des confiseurs, tregua dei confetturieri, cioè riassunto delle affettuosità annuali, troppo dimenticate e troppo trascurate, in una somma breve e intensa di affettuosità. I francesi hanno usi leggermente diversi dai nostri, perchè essi, imitando i tedeschi, fanno l'albero di Natale e non fanno il presepe, mentre da noi, nelle provincie meridionali, il presepio gode assai più grande popolarità. I bimbi francesi mettono la scarpettina, sotto il camino, la vigilia [186] di Natale, e i nostri bimbi mettono una calzetta, la notte dell'Epifania. Il colmo dei doni francesi si riunisce nel giorno di Capo d'Anno, giorno più o meno fatale, secondo la capacità delle borse, mentre, da noi, i doni alle persone grandi si usano, sì, ma non generalmente e non hanno un giorno ben determinato. Ed è quest'ultimo costume, che dovrebbe acclimarsi più largamente tra noi: vale a dire, che ognuno, nella misura del suo affetto e dei suoi denari, doni qualche cosa alle persone che ama. Non solo i bimbi sono felici di aver de' doni, ma tutti, più o meno, abbiamo un delicato piacere nel ricevere, un delicatissimo piacere nel dare. È vero, che i bimbi hanno studiato, si son condotti bene tutto l'anno, hanno sopportato, con pazienza, le loro piccole indisposizioni, hanno prese le medicine, hanno rinunziato, senza mormorare, a ficcarsi le dita nel naso; ed è anche vero che il bambino Gesù viene per essi, e che il Capo d'Anno è, sopratutto per essi, una data gioconda, perchè i loro anni sono pochi; ma, Dio mio, anche i grandi, durante l'anno, si sono seccati, ed hanno sofferto, hanno ingoiato pillole amare, hanno usato un'interminabile pazienza nei disgusti dell'esistenza, e un certo premio anche lo meritano. Il bimbo Gesù viene pure pei grandi, ed è apportatore di consolazione, di amore e di benessere; [187] e se il Capo d'Anno è una data un po' triste, pei grandi, perchè non rallegrarla, con qualche dono gentile? Il valore, poco importa, ma l'uso delle strenne da Natale a Capo d'Anno, dovrebbe diventare più popolare, più largo fra noi: procurare una gioia, anche fugace, alle persone, che noi amiamo, non è, infine, fare un dono anche a noi stessi? Sorridere di un sorriso, quale cosa ineffabile!
Alle fantasie più vivaci, alle immaginazioni più ardenti, ai temperamenti più sensibili e più curiosi, alle anime più mobili e più inquiete, alle buone, deliziose e talvolta perfide creature, che hanno tutto in sè, e che, quindi, più aspettano, più desiderano, più invocano il dono: ai bambini e alle donne! Questa è la tenera sapiente legge umana, che viene dall'alto criterio della forza e della debolezza, della grandezza e della piccolezza, di chi deve proteggere e di chi deve esser protetto: tenera e savia legge, che mette nelle nobili mani degli uomini, che sanno pensare, sanno lavorare, sanno amare, anche [188] la sorgente delle gioie infantili e muliebri. L'idea schietta, l'idea semplice, in tutte le cose: l'uomo deve donare alle donne e ai fanciulletti. È lui che provvede al necessario, egli deve provvedere al superfluo: è lui che dà la forza, egli deve premiare la grazia: è lui che dà la pace, egli deve dare la lietezza. Così sempre è stato, così sempre è, e così sempre sarà. Un dono dato da una donna a un uomo, da un bambino a un uomo, sono fatti strani, fatti eccezionali, prove di una bizzarra trasformazione dello spirito, prova di una singolare deviazione del sentimento, di soverchio amore da una parte, di troppa freddezza dall'altra. La bella regola, è che l'uomo doni, non importa se egli compia l'atto materiale di comperare il dono: è lui che vi pensa, sempre, è lui che dà gli ordini, le istruzioni, è lui, sopratutto che dà i denari: l'uomo! È vero, vanno in giro le nonne, le mammine, le zie, le sorelle, per comperare i doni: ma chi forma il nerbo di queste passeggiate e di queste compre, è l'uomo. Oh santo diritto, nobile e sacro diritto di fare la felicità delle persone che ci amano, chi vorrà, chi saprà mai rinunziarvi? Quello di vedere il tremore di emozione nelle manine dei piccoli e il luccicare degli sguardi femminili, innanzi al dono, è un diletto dell'animo così squisito, che tutti i buoni e onesti [189] cuori degli uomini, lo pregustano con delizia. È così raro un minuto di felicità, il mistico minuto, di cui parla Faust, che il poterlo dare, il poterlo vedere, il poterlo sentire, felicità della felicità, fa segretamente benedire, all'uomo più scettico, il ritorno di questi giorni, poetizzati dalla nascita del più affettuoso e più amato fra i bimbi, del Piccolo Figlio, poetizzati dalla maternità di Maria!
Dono semplice, privo d'immaginazione e sbrigativo: un vestito. Si può dare a una mamma, a una sorella, a una moglie. Dono di mediocre effetto, accolto con freddezza dissimulata. Le donne non amano i regali che si consumano.
Dono utile, leggermente fantasioso nella forma e spesso superfluo: un ombrellino, un manicotto, un boa di piume. Si dà, idem, a persone femminili di famiglia, talvolta, a persone femminili molto intime, ma fuori famiglia. [190] La differenza è che l'ombrellino per donna, in casa, costa ottanta lire: per donna fuori di casa, trecentocinquanta.
Dono pratico, meditato da lungo tempo: un servizio di piatti, di bicchieri, di tazze, che il marito offre alla moglie. Ne mancava, la casa, da tanto tempo! Ma la moglie fa una smorfia agrodolce.
Dono elegante, fine, squisito: un orologetto da tavolino, un piattello d'argento per lettere, col coltellino attaccato per aprirle, una lampadina inglese, ecc. Si può offrire a un'amica tenera, a una con cui si flirta. È bene accolto, se la persona è fine.
Dono pericolosissimo: un calamaio artistico, una cartella di cuoio impresso, una penna d'oro, un buvard in istoffa antica. A qualunque donna facciate questo dono, essa lo adoprerà contro di voi.
Dono sentimentale: fiori rari e freschi. Alla donna che amate. Ma non dimenticate di offrirglieli in un vaso di maiolica antica, o in un'anfora di Boemia: giacchè le donne sono come Calcante: trop de fleurs!
Dono dolce e fugace: dei dolci. Alla donna amata. Ma, come sopra, in una bomboniera di Satzuma, o in una tazza di Sèvres, o in una coppa d'argento antico.
Dono individuale: una tabacchiera alla nonna, un rosario alla zia monaca, un paio [191] di occhiali montati in argento, all'altra zia, una borsa alla mamma. È sempre messo a buon interesse, questo dono!
Dono raro: cercare quello che più piace e che è meno possibile trovare, per la donna amata. Ebbene, dopo grande fatica, molto denaro e grande speranza, la donna amata, ottenuto il dono, resta delusa; e non arriva a nascondere la sua delusione. Voi, siete delusissimo.
Dono comune, volgare, che tutti possono fare, che tutti fanno: un gioiello, ricco o semplice, bello o brutto. Tutte le donne più fini, più eleganti, più sentimentali lo accolgono con entusiasmo!
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(Queste idee sono esposte per chi può ed ama spendere: e i doni debbono essere destinati a persone ricche e di buon gusto. Parlerò poi dei doni più semplici e dei semplicissimi). Legature antiche: cercando bene, dagli antiquari, si trovano dei bei pezzi di stoffa antica, di cui si possono fare legature di libri, stracciacarte, astucci per musica, e via via. Vasi e mobili: piccoli mobili inglesi di stile Liberty, cioè tavole, scansiette, scaffali; vetri veneziani; piccoli cornetti in argento, con le iniziali incise, per attaccarli nel coupé o nell'automobile e mettervi dei fiori; orologio da carrozza, da automobile. Ceramiche d'arte: vasi, piatti, bomboniere, delle più importanti fabbriche italiane, ma di quelle che riproducono esattamente lo stile antico. Sacchi e sacchetti: in istoffa antica, sacchetti pel ventaglio, per l'occhialino, ecc. Oggetti d'arte: una incisione antica, un bronzo, una miniatura antica, una statuetta di Tanagra. [193] Ninnoli eleganti: stecca montata in oro: porta-odori montato in oro o in argento; borsetta a maglie d'oro; pomo e punta di oro per ombrellino; orologio da scrittoio; paralume con incisioni antiche; ventaglio; ricami di fantasia. Oggetti pratici: tête-à-tête di porcellana di Sassonia o giapponese antico; paravento artistico; tavolo dell'Impero; specchio con cornice di argento; copripiedi di ricamo antico; ventaglio antico; guarnizione di bottoni o di fibbie antiche, per vestito. Regalo alle persone che hanno tutto: marmitta montata in argento, per portare il brodo in tavola; guarnizione di toilette in argento o in vermeil; piccolo cane di razza giapponese, di razza purissima, difficile ad avere; catena d'oro, con pietre fini, lunga un metro e cinquanta; vetri antichi e vetrerie eseguite sovra ordinazioni, da un artista, con le armi di famiglia e che servono per le finestre della stanza da pranzo, della stanza da toilette: tutte le partizioni delle opere di Wagner, legate all'antica tedesca; collezioni di autografi rari, in un casellario; servizio da scrittoio, per carrozza; lampada elettrica per il coupé: disegni originali di artisti conosciuti; miniature del secolo Decimottavo; vaso di Venezia antico, con orchidee; bomboniere Luigi XIV o Luigi XV, con dolci francesi; orologio a sveglia, antico, inglese, pendule de Westminster; [194] piccolo orologio minuscolo, per portare all'occhiello e che sostituisce il braccialetto-orologio; pelle di daino, montata con seta, per il viaggio, molto pratica per evitare il contatto con le lenzuola di albergo. A bambine fortunate: spillo col nome, con perle fine; anello con rubino: portafortuna di oro o di argento; piccolo sacco da viaggio; piccola poltrona di giunco dipinto; tavolinetto da lavoro. A ragazzi fortunati: oggetti diversi, con luce elettrica; busta di oggetti per bicicletta; orologio; taccuino; calamaio; carta da lettere; apparecchi fotografici; bel temperino; bastoncino; scatole con collezioni varie per esperienze di fisica, di chimica, per costruzioni.
Innamorate che debbono tener segreto il dono. — Grande medaglione di cristallo montato in argento, con fiore simbolico, dentro; cuoricino d'oro, che si apre, a medaglioncino; medaglina d'oro o d'argento dorato, da sospendere; ditale di argento; ventaglietto per teatro; pettinessine con strassi; ferma chignon [195] di vera tartaruga o di pastiglia; penna di avorio; ogni specie di piccoli portafortuna, di argento; scatola di profumeria; scatola di carta da lettere; biglietto elegantissimo di augurio. Sono doni molto modesti, ma carini, a cui l'innamorata può assegnare un'altra origine.
Innamorate, che possono mostrare il dono, poichè i genitori sono favorevoli all'amore. — Catenina d'oro con crocetta; cintura di pelle, con borsetta compresa; en-cas con manico di avorio; tour de cou di pelliccia; sciarpa di seta chiara, per metter sulla testa, a teatro; manicotto (oggi quasi fuori d'uso); nécessaire da lavoro; nécessaire da scrittoio; ventaglietto; catena d'argento, per sospendere le lenti o il ventaglio; lenti di tartaruga (se è miope): anellino e catena, di oro, senza pietre; fazzolettini di seta, ricamati a fiori (mezza dozzina); portafazzoletti di seta dipinta. Tutti questi doni costano dalle cinquanta alle centocinquanta lire, non oltre.
Fidanzate che non pretendono molto e con cui il matrimonio è ancora lontano. — Anellino di oro con qualche perlina; braccialetto di oro, con campanelluccio sospeso; orologetto di argento bruciato o di acciaio, con cifre rilevate di oro; piccolo nodo di amore di oro e smalto, per sospendere l'orologetto sul petto; catena di argento con lapislazzuli, [196] per sospendere le lenti; orecchini di granate e perle; spilloni di argento per cappelli, non meno di due, ma eleganti; sei forcinelle di tartaruga bionda; un buvard di cuoio impresso o di stoffa antica; libro da messa, legato in avorio e argento. Doni che cominciano da cento e che si accostano, ma non oltrepassano, le trecento lire.
Fidanzate molto chic, e con cui il matrimonio è imminente. — Enorme cuore d'oro inglese, a medaglione, con trifoglio di turchesi in un lato; plaid da viaggio, venuto da Londra; anello con grossa perla e grosso brillante; libro da messa, legato in pergamena antica e tutto alluminato; portabiglietti di argento bruciato, disseminato di turchesi; broche con figura di medaglia; braccialetto gourmette, scintillante di gemme; borsa in peau d'antilope, ricamata di acciaio; sacco con ventaglietto da teatro; tour de cou di volpe azzurra; sei fazzoletti con bordo di merletto antico; penna in oro; châtelaine con vari gingilli sospesi, di oro; fascio di portafortuna, di oro, sospesi a un anello d'oro; tre piccoli fili di perle. È inutile parlare del prezzo!
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(In generale, gli uomini, innamorati, fidanzati, mariti, fratelli, padri, parenti, amici, ricevono molto meno di quello che danno. A ogni modo, notiamo!)
Doni eseguiti, gentilmente, con le proprie mani. — Stracciacarte, da sospendersi al muro; cestino di paglia ricamata, per carte; copertura da avvolgere ombrelli e bastoni, ove è ricamato: buon viaggio; pianelle; stracciacarte di seta, ricamato, con fiori simbolici; buvard, ricamato a punto antico: portaritratti a scudo, ricamato; fazzoletti ricamati; striscia di lana ricamata, per coprire la tastiera del pianoforte (se è maestro di musica); segnalibro ricamato; portaspazzole ricamato; portagiornali ricamato.
Doni di affetto. — Un portafogli di pelle; un portabiglietti, idem; un taccuino; un lapis d'argento; un bocchino di schiuma; un bastone, con pomo di avorio; una catenella di argento, da sospendervi le chiavi: una châtelaine di argento bruciato e platino; sei fazzoletti [198] di batista; quattro cravatte inglesi; una cintura di cuoio, per l'estate; un cache-nez; una cartella di pelle; un suggello di argento; un portasigari di pelle, con cifra d'argento; un portasigarette, idem; un portafiammiferi di argento; un ombrello per la pioggia; quattro paia di guanti inglesi, assortiti; un calamaio di media grandezza, con coperchio di argento. Variano da cento lire a trecento.
Gioielli, gioielli! — Anche gli uomini, li amano! Bottoniera per camicia, da giorno; Bottoniera di perle, per frack, con bottoni da polsi in ismalto bianco, circondati di brillanti; bottoniera bizzarra di oro inglese, per camicia da estate; grosso anello a serpe, che piglia tutta una falange; catenina sottile, per frack: orologio Pateck; orologio cronometro; grossa perla bianca, per cravatta; grosso anello per cravatta, di oro e brillantini; anello di brillanti, solitario; anello di acciaio e grande brillante; spillo artistico, per cravatta; grosso smeraldo, in anello, legato all'antica. È inutile parlare del loro valore, si capisce!
Doni capricciosi, talvolta utili, sempre graditi. — Fucile da caccia; cane danese; frustino con pomo cesellato; enorme calamaio di cristallo di rocca, con coperchio in vermeil; nécessaire da viaggio; nécessaire per pranzare, in viaggio; allacciaguanti, allacciascarpe, [199] di argento; rasoi inglesi; macchinetta da caffè, di argento; verre d'eau; portasigarette di argento, disseminato di perle; pelle di orso bianco, scendiletto; piumino di raso, per letto; servizio da fumare di Knight; orologio da tavolino, stecca, portafiammiferi, di Janetti; statua di Tanagra.... e mi fermo! Tutto ciò costa, costa!
Voi, mia elegante lettrice, direte, con un moto sprezzante del vostro bel labbro sdegnosetto: Biglietti di augurio? Li mandano i soldati alle serve. Certo, è meglio fare un ricco e squisito dono, per questa festa; è meglio dare dei cioccolatini, idealmente gustosi; è meglio dare dei fiori freschi; è perfino meglio fare un telegramma di augurio, non costa molto, anche con le nuove tariffe. Ma, pensateci, elegante lettrice, che questo biglietto d'augurio, di cartoncino lucido e carta ricamata, con una fantastica decalcomania sopra, questo biglietto che porta dei fiori impressi, o un cuore, o le colombelle, o [200] un ramoscello di biancospino, o una bamboletta bionda, incappucciata di bianco, questo biglietto di augurio, di mille forme, ingenuamente sentimentali e talvolta anche comiche, è una gran risorsa, in questi giorni. Anzi tutto, non costa troppo ed ha l'aria graziosa; poi, porta un motto, sempre, e ciò risparmia degli sforzi d'immaginazione, a chi sente qualche cosa e non la sa esprimere; poi, per quanto banale possa essere, dice sempre che qualcuno ha pensato a voi, con tenerezza. Povero biglietto di augurio, è vero che se ne servono i nostri cari soldatini, per mandare i loro teneri pensieri alle loro belle: ed è per questo che noi non possiamo guardarli senza una certa emozione, nelle vetrine dei cartolai, questi messaggi di affetto! Ed è vero, anche, che il biglietto di augurio, con le sue figurine, coi suoi fiorellini, coi suoi cuoricini, con le sue bambolette, coi suoi mottetti, con le sue lucidità e i suoi colori gentili, è il messaggio della gente semplice e amorosa, della gente piena di cuore e scevra di rettorica, della gente che ama e che non trova parole per dire il suo amore, della gente che soffoca di tenerezza, ma non sa scrivere una lettera tenera. E poi, e poi, lettrice elegante mia, questo costume del biglietto di augurio, viene dall'Inghilterra: sì, sì: dalla elegantissima, dalla squisitissima Inghilterra, dal paese di [201] tutte le supreme eleganze. Il biglietto d'augurio inglese è più carino, è più bello, è più gentile, che importa? In fondo, il sentimento è sempre il medesimo, tenero e forte, anche se è muto, tenero e forte come la morte, specialmente se è muto!
La moda delle carte da visita, per Capo d'Anno, se non è completamente finita, è molto, ma molto diminuita! È naturale che un diplomatico, un uomo politico, un alto funzionario abbia sempre il dovere strettissimo di distribuirne una larga parte: e che molti privati, anche per il giro antico delle loro relazioni, non possano sfuggire a questa distribuzione automatica. Ma molti privati e, anche, nella più elegante società, all'estero o in Italia, a poco a poco hanno smesso d'inviare o di deporre, queste carte da visita di Capo d'Anno: e se ne lasciano un centinaio, rigorosamente indispensabili, in cambio di mille, è tutto! Viceversa, piglia sempre più vigore la moda, ed è una moda leggiadra, poetica, adorabile, del Christmas card, dell'augurio, [202] infine, sotto forma di un gentile cartoncino illustrato, sotto forma di un minuscolo calendario, sotto varie forme in cui, anche, l'arte può portare il suo contributo più fine. Giacchè, oramai, il Christmas card, l'augurio, il calendario, la piccola incisione, si fanno nelle forme più delicate e la fantasia degli artisti, degli artefici, si sbizzarrisce in una varietà grande. La banale carta da visita sparisce, con le sue due banalissime iniziali p. a.: per augurii: viceversa, l'augurio, in ogni sua manifestazione come carta d'augurio, come cartolina gentilmente illustrata, come calendarietto, si moltiplica, e i cartolai preferiscono vender queste cose qui, anzi che fare cento carte da visita, e ogni persona di animo affettuoso preferisce inviare l'augurio, il Christmas card, anzi che la carta da visita, e ognuno preferisce ricevere il calendarietto o la cartolina allegorica, invece della carta da visita. Ma non si può mandare a tutti un augurio in cartoncino, una cartolina illustrata, un calendario: è vero: ci vuol troppo tempo: e ci vuole anche una spesa maggiore: è vero! E non tutti gli amici e le amiche noi amiamo, in modo da volerci ricordare ad esse, così! Ebbene, un regime misto, allora, è consigliabile: cioè sbrigarsi di tutti gli estranei e di tutti gli indifferenti, con le carte da visita, diminuendo, naturalmente, [203] il numero di costoro allo stretto necessario: e a coloro che amiamo, che ci vogliono bene, che ci sono lontani e per cui il nostro cuore, la nostra memoria, fremono di simpatia ininterrotta, mandare l'augurio illustrato, la cartolina artistica, l'artistico calendario. E ciò si può fare anche a Natale, come a Capo d'Anno: cominciando dal bel giorno in cui nacque il Divino Fanciullo e finendo nel nuovo anno!
Ebbene, quando si è molto giovani, meno giovani, o solo maturi, bisogna farle, queste visite: e quando si è vecchi, bisogna riceverle. Ma bisogna, poi farle tutte, tutte, queste visite? E allora, se si fanno tutte, tutte, devono passare quindici giorni, a trasportarsi da un capo all'altro della città, a salire al primo, al terzo e al quarto piano? La vita sarebbe ben penosa, se tutte le visite di obbligo e di non obbligo si dovessero fare, in questi quindici giorni! Invece, una delle cose più savie, è quella di pensarci su, bene, un pomeriggio tranquillo o una serata tranquilla [204] e fare una noticina, magari, per stabilir bene l'itinerario del cuore e del dovere. Giacchè le visite del cuore, è vero, voi le farete bene? Quelle ai parenti amati e rispettati, che riceveranno questo vostro atto di tenerezza, con una emozione di piacere: quelle alle due o tre amiche dilette, con cui sempre si passa un'ora di bene morale, durante l'anno, ma di cui qualcuna, da tempo, voi non avete veduta, l'esistenza è talmente bizzarra, essa combina talmente l'unione di coloro che non si amano e la disunione di quelli che si amano! E la visita rara, quella a una vecchia dama simpatica e buona, che tutti, a poco a poco, hanno tralasciato di visitare, quella a un vecchio amico infermo, da lungo tempo infermo, e che, purtroppo, passa i suoi giorni in solitudine, la visita rara, una persona di cuore, la deve far bene, per soddisfazione di affetto? E la visita umile, oscura, a un parente povero, a una amica della giovinezza, quella visita che è una consolazione, un atto di profonda carità umana, non la volete voi fare? Poi, le visite di obbligo: scartandole, quelle di obbligo così così, quelle di mezzo obbligo, quelle di un obbligo indiretto: e lasciandovi solo quelle di obbligo assoluto, a cui voi dedicherete non più di dieci minuti, ognuna; tanto vuole il cerimoniale. Se restate più di dieci minuti, in una [205] visita di obbligo, siete perduta! Per fortuna, vi è sempre il bel caso, cioè che voi non troviate in casa, nei giorni consecutivi, cinque, sei, otto visite di obbligo e voi, con un sospiro di soddisfazione, represso sotto un lieve sorriso di rammarico, lasciate la vostra carta da visita, piegata di traverso e fuggite via, via, a un'altra visita, guardando il taccuino e consolandovi del molto che avete compiuto, del poco che vi resta a compiere!
Oh non è mai una superstizione tener molto, tener immensamente a quel che accade, fra le undici di sera del trentuno dicembre e le undici di sera del primo gennaio! Da cento testimonianze particolari e da una individuale esperienza, vi è qualche cosa di fatidico, da una mezzanotte all'altra: e il presagio non può sbagliare quasi mai, o sbaglia pochissimo. Se, anche per caso, voi siete triste e nervoso verso la mezzanotte, quando l'anno finisce, il vostro anno non sarà lieto e il vostro spirito sarà agitato: se nella giornata di Capo d'Anno voi avete un fastidio o ve lo procurate [206] quasi apposta, ebbene, l'anno vostro sarà carico di fastidii, di seccature, di complicazioni. E, allora, giacchè vi è questo, cercate di saper vivere l'ultima sera dell'anno e cercate, ancora, di saper vivere il primo giorno dell'anno, e come v'imporrete con la volontà, in quella sera, in quel giorno, agli avvenimenti e a voi stesso, così finirete per imporvi, tutto l'anno. La sera del trentuno dicembre, fuggite i ritrovi dove si sbadiglia: fuggite gli spettacoli, dove si muore di freddo spirituale: evitate ogni incontro con la gente pesante o irritante. Se avete un gaio ritrovo di amici, andateci subito e passate, così, il fatidico momento della mezzanotte, e abbiate una emozione di allegria, non una emozione di ricordi: se avete un elegantissimo ritrovo mondano, dove sapete di trovare della gente molto simpatica, un vostro amabile flirt, un amico spiritoso, andateci subitissimo a flirtare e bevete dello champagne e abbracciate lietamente l'amico: evitate la solitudine: evitate i ricordi: non guardate gli antichi ritratti: non guardate nei cassetti che da tempo non avete aperti: la tentazione è grande, ma vincetela, se no, voi rimpiangerete troppo il passato e finirete per piangere. Ciò è di pessimo augurio! E nel giorno di Capo d'Anno, abbiate la ferma volontà di esser sereno: di non trovare troppo meschino il dono che vi si [207] fa e di non badare al dono che manca: di accogliere bene ogni più umile voto: di contentarvi di quanto la vita vi dà: di non aver nervi: di compatire ai nervi altrui: di aver della bonomia nel cuore e dell'equilibrio nella mente: di perdonare ogni capriccio e di non aver capricci: di lasciarvi andare quietamente alla corrente dell'esistenza, senza trovarla nè troppo buona nè troppo cattiva. Fate le visite che più vi piacciono: abbiate una filosofia ottimista o, almeno, uno scetticismo giocondo. E rammentatevi che chi sa vivere un giorno, sa vivere un anno, e che un anno può governare tutta la vostra vita.
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Vi è una speciale educazione di cui ogni uomo e ogni donna deve fare sfoggio, in chiesa: una educazione non solo da persona pia, ma da persona correttissima, nella pietà religiosa. Una signora, o una signorina che sia, non andrà mai in chiesa vestita con colori vistosi, con cappellini chiarissimi, con le mani imbarazzate dall'ombrellino, dal porte mouchoir, dal manicotto; non vi farà grande pompa di gioielli; non vi andrà mai, mai, in abito velato, o con maniche leggere, che lasciano vedere il collo e il petto. Vi è una toilette elegante, elegantissima anche, ma molto discreta, da servire per la messa, vi sono abiti, cappelli, mantelli, di tinte discrete, di taglio sobrio, adattatissimi per questo scopo. Non si fa se non una sola eccezione a tale regola assoluta, vale a dire quando si va a un grande matrimonio, in chiesa. In chiesa non si parla mai forte, con la propria vicina; non si parla, in generale, se non per scambiare qualche rapida parola, con voce sommessa, chinandosi verso la vicina; non si sorride; non si ride; non si fa rumore, sedendosi, [212] alzandosi, inginocchiandosi; non si agita mai il ventaglio, contro il caldo; non ci si volta mai indietro, per vedere chi è entrato, chi entra; non si saluta, di lontano, un amico, un'amica. Rammentarsi sempre, che la chiesa è fatta per il silenzio, per il raccoglimento, per la preghiera. In quanto all'uomo che entra in chiesa, egli è obbligato a una correttezza, anche maggiore di quella femminile: egli deve aver l'aspetto dell'uomo raccolto se non nella preghiera, nei suoi pensieri. L'uomo sta quasi sempre in piedi, in chiesa: senza voltarsi troppo a destra, o a sinistra, senza mai voltarsi indietro; se è seduto, non incavalcherà mai una gamba sull'altra, non si sdraierà mai sulla sedia; se si deve inginocchiare, s'inginocchierà senza chiasso e senza ostentazione; se deve pregare, pregherà sempre mentalmente, con modestia; se deve uscire, entrare, camminerà sempre senza fare nessun rumore. Un uomo bene educato non fa l'occhietto alle signore, alle signorine, in chiesa, perchè è della massima sconvenienza; non si accorge di avere un'amica, una conoscenza, in chiesa, e, quindi, non la saluta; non commette la cafonata, purtroppo molto in uso, a Napoli, di pagare le sedie alle signore e alle signorine di sua conoscenza. In chiesa non si sputa mai, perchè è una grave ingiuria al Signore, oltre che una sudiceria; [213] non si tossisce, potendo reprimersi, e se si è malati, non ci si va. Le prediche si ascoltano attentamente, seriamente; senza dare segno di approvazione, crollando il capo; per chi si confessa o si comunica, è inutile dare regola di condotta in chiesa; poichè si tratta, allora, di persona assolutamente abituata a rispettare il Signore e la sua Casa.
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Non è inutile un piccolo preambolo. Vi sono degli originali, originali a base di egoismo e di aridità di spirito, i quali dichiarano che il lutto delle vesti, della casa, dei costumi, delle consuetudini, è una vana formula; questi medesimi originali hanno trovato la comoda frase, per esentarsi da tanti doveri, da tanti obblighi, da tanti riguardi: il lutto si porta nel cuore. Benissimo! Ma si deve portare, oltre che nel cuore dolente, anche nelle vesti, anche in quanto vi circonda, bisogna anche che questo lutto si ripercuota nella vita stessa, vostra, se voi volete rendere pubblico, l'omaggio di tristezza e di rimpianto a colui che è sparito. No, il lutto non è una vana formula: gli abiti neri e opachi, i grandi veli di gramaglie, le stoffe semplici, di taglio sobrio e austero, sono più di questo: l'astensione dalle feste, dai teatri, dai circoli, dai ritrovi, è più di questo: questa [218] specie di gravità pensosa, di cui tutte le cose dell'esistenza, intorno, si ammantano, dalla livrea dei servi alle carrozze, dai saloni chiusi ai gioielli serrati nei loro astucci, finchè il lutto non cessi, tutto ciò, veramente, non è una vana pompa, non è una posa sociale, non è una convenzione glaciale, è qualche cosa di molto importante, come estrema devozione verso la persona che è morta. Il lutto nel cuore, sì: ma deve essere confermato da ogni vostro aspetto, da ogni vostro atto, se non volete che la gente dimentichi la perdita che avete fatta, se non volete dimenticarla voi stesso. Così è: le gramaglie, i veli neri, la carta listata di nero, tutto serve a fermare meglio, in voi, il malinconico rimpianto di colui che non è più: il non ornarvi di gioielli, il non partecipare ai balli, il non farvi vedere nei caldi e scintillanti teatri, il non ricevere, tutto serve a consacrare, più seriamente, più altamente, in voi, il ricordo mesto. L'uomo non deve lasciarsi vincere e perdere dal dolore: ma deve, di questo dolore, curare tutte le fasi successive, dallo strazio, dalla disperazione, sino alla più dolce mestizia. Ricordatevi di vivere: ma non dovete dimenticare i morti, che vi hanno amato, che hanno sofferto per voi. Se, dopo poco tempo dalla morte di un vostro caro, voi vi vestite di bianco, andate a un ballo, date una [219] festa in casa vostra, voi non farete credere a nessuno, che il lutto è in fondo al vostro cuore. E, difatti, se guardate bene, voi stesso, in fondo al cuore, questo lutto non lo troverete.
La durata del lutto è regolata, in tutti i paesi civili, dalla consuetudine antichissima, da una tradizione passata di generazione in generazione: le variazioni, fra paese e paese, non sono molto gravi. Però anche il tempo, che deve durare un lutto, subisce delle modificazioni, tutte personali, secondo le proprie idee e i propri sentimenti; e il lutto si allunga o si abbrevia, così, come si vuole. E, difatti, vi muore una zia, che vi faceva da madre, verso cui avevate tenerezza, devozione, gratitudine, profonda: chi v'impedirà di portare, per lei, un lutto più lungo, che quello di zia non comporti? In un paese lontano vi muore uno zio, di cui non v'importa niente, che vi ha sempre mediocremente trattato, che non vi ha lasciato un soldo: chi farà osservazione, se voi, appena appena, metterete il crespo al cappello? Tutto è relativo, [220] a questo mondo: vi sono vedove, che piangono sul serio i loro mariti, e vedovi che piangono troppo allegramente le loro mogli: vi sono donne che odiano il nero nei vestiti, e donne che lo adorano. Tutto è relativo, ed è meglio, allora, per me, dare qui le norme generali della durata di un lutto: durata che si può allungare come si vuole, per sentimento, per dovere: durata che si può abbreviare, per indifferenza, per economia, per necessità. Queste regole non sono assolute, e niuna legge vi è che non trovi modificazioni. Or dunque, ogni lutto grave è diviso in due periodi: grande lutto, lutto stretto, mezzo lutto. Per morte di marito o di moglie, in generale, due anni di lutto: un anno di gran lutto; sei mesi di lutto stretto; sei mesi di mezzo lutto. Per morte del padre o della madre: un anno di gran lutto; sei mesi di lutto stretto; sei mesi di mezzo lutto, in tutto due anni. Per suocero o suocera: nove mesi di gran lutto; sei di lutto stretto; sei di mezzo lutto (questa è la consuetudine francese, un po' esagerata: da noi, è meno) e, in tutto, ventun mesi. Per figli, generi, nuore, quindici mesi di lutto: sei di lutto grave; sei di lutto stretto; tre di mezzo lutto. Per fratello e sorella, un anno di lutto: sei di gran lutto; tre di lutto stretto: tre di mezzo lutto. Per cognato o cognata, [221] nove mesi di lutto: tre di gran lutto, tre di lutto stretto; tre di mezzo lutto. I piccoli lutti sono regolati così: per zio o zia: tre mesi di lutto stretto; sei settimane di mezzo lutto, in tutto, quattro mesi e mezzo: per cugino o cugina, tre settimane di lutto stretto e sei settimane di mezzo lutto, in tutto, due mesi e mezzo; per cugini, figli di cugini, sei settimane di lutto stretto, senz'altro.
Nel periodo del lutto strettissimo, le signore indossano tutte le lane, a fondo unito, di tinta opaca, di superficie matta e cioè: crespo di lana; grosso crespo; sargia; armure; cheviot; stoffa natté; whipcord; panno leggero; panno pesante; casimiro d'India; casimiro francese: il tutto guarnito di crespo inglese, nero. Nell'estate, sono ammessi: velo nero; batista; organdi; satinetta opaca; tela di cotone; crespo di cotone. Queste stoffe servono per un anno, in morte di marito o di moglie; per nove mesi, in morte di padre o di madre; per nove mesi, in morte di suocera [222] o suocero; per sei mesi, in morte di nonna o nonno; per sei mesi, in morte di fratello o sorella; per sei mesi, in morte di cognato o cognata. Nel secondo periodo, cioè in quello del lutto stretto, meno rigoroso, le signore indossano: tutte le lane nere di fantasia, cioè i brochés, i pékinés guarniti di seta matta: tutte le seterie unite, matte, cioè la peau de soie; peau de Suède; taffetas gros grain matto; surah matto. Come guarnizioni: passamani; merletti neri; nastri di seta matta; jais matto; legno duro; alette nere matte. Come pelliccia: l'astrakan e la capra di Mongolia. Queste stoffe si indossano per sei mesi, dopo il periodo del grande lutto, per morte di marito o di moglie, per sei mesi dopo lo stesso periodo, per morte di padre o di madre; per sei mesi dopo il lutto grave, per suocero o suocera; per tre mesi dopo il lutto grande, per figli, generi, nuore; per tre mesi, nonno o nonna, dopo il gran lutto; per due mesi, fratello o sorella dopo il primo periodo; per due mesi, dopo il primo periodo, per cognato o cognata. Le stoffe, per l'ultimo periodo del lutto, cioè il mezzo lutto, sono: tutti i tessuti di seta nera, matta o brillante, velluto, lana, come tutti i toni del grigio e del violetto. Come guarnizioni, merletti, piume di struzzo, jais, fiori violetti, fiori grigi. Il nero e bianco, nella lana [223] è ammesso. Questo mezzo lutto è portato per sei mesi dopo i due primi periodi, per morte di marito o di moglie; per tre mesi, per morte di padre o madre; dopo i due primi periodi; per tre mesi, dopo i due primi periodi, per figli, generi, nuore; per tre mesi, per nonna o nonno, dopo i due primi periodi; per due mesi, per morte di fratello o sorella, dopo i due primi periodi; per due mesi, per morte di cognato o di cognata, sempre dopo i due primi periodi. Nel gran lutto, non si porta nessun gioiello; nel lutto stretto, si arrischia qualche filo di perle, qualche orecchino di brillante; nel mezzo lutto, si porta ogni gioiello, ma con moderazione. Più appresso, dirò come si vestono gli uomini, in lutto.
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Come quelle di matrimonio, le partecipazioni di morte debbono essere distribuite su larga scala, perchè tutti conoscano la sventura patita dalla famiglia che partecipa. Bisogna che un parente, un amico zelante si occupi di questa spedizione. I biglietti di visita che vengono, dopo le partecipazioni, non si ricambiano. Almeno per due settimane, se il lutto è grave, per una settimana, se è meno grave, non si ricevono visite: e, anche, si cominciano a ricevere, dopo quindici giorni, solo le visite di condoglianza degli intimi. Non bisogna che un grave lutto, diventi la scusa per organizzare dei ricevimenti! Se il lutto è grave, le signore e signorine restano in casa, da tre a quattro settimane; per gli uomini, una settimana basta. Ma, se si tratta di uomini di affari, di chi si deve recare ai proprii doveri pubblici, al lavoro, bastano tre o quattro giorni di casa. Le donne, invece, che non hanno questi obblighi, possono e [225] debbono restare in casa, il tempo stabilito. È naturale che, appena si esca, si vada solo in posti raccolti, in chiesa, a restituire man mano, e non nei giorni di ricevimento, le più doverose e le più intime visite di condoglianza che si sono ricevute. È anche naturale che, in tutto l'anno di lutto grave, per morte di genitori o di marito, non si frequenti nessuna festa, nessun ballo, nessun teatro, nessun concerto, nessun ritrovo di mondanità: il lutto è una cosa assoluta, si rispetta o non si rispetta. Passati i primi mesi, si può andare a qualche ritrovo di carità mondana, a qualche conferenza, a qualche concerto di musica seria; niente altro. Se, per caso, nell'anno di lutto grave, vi sia una solennità, in famiglia, un matrimonio, un battesimo, allora, solo per quel giorno, si spezza il lutto, che si riprende subito il giorno dopo. Se si va, per obbligo, a una festa di Corte, si porta una toilette completamente bianca, come è il lutto di Corte. Il gran velo nero, abbassato, dal cappello, innanzi agli occhi, e alla persona si porta così, per i primi sei mesi: dopo, sino alla fine dell'anno, si rigetta indietro: e ciò serve per le signorine, nel lutto dei genitori, per le maritate nel lutto di marito e di genitori. Nei primi tre mesi di lutto grave, non si apre il pianoforte in casa, nè si prende lezione di canto; basta un mese [226] di questo rispetto, per i lutti meno gravi. La carta di chi è in lutto, i biglietti da visita, saranno sempre listati di nero, per qualunque occasione. Chi è in lutto, uomo o donna, non porta mai fiori sulla persona; non festeggia nè compleanno, nè onomastico; ma può, per lettera, partecipare agli onomastici o compleanni di persone amiche.
Gli uomini portano il lutto pel medesimo tempo che le donne, salvo ad aumentarlo o diminuirlo, secondo condizioni specialissime. I ragazzi e le ragazze, al disotto di dodici anni, portano il lutto senza crespo inglese, in nero e bianco, in bianco e grigio. Il lutto è facoltativo per bimbi e bimbe, sotto i quattro anni e, ordinariamente, non si mette, salvo che si tratti di padre o madre dei bimbi: allora il lutto è obbligatorio. I bimbi in fasce non portano mai segno di lutto; ma se è loro morto uno dei genitori, porta il lutto la nutrice che li ha in braccio. Le persone di servizio delle grandi case portano il lutto dei [227] padroni, in abiti neri, col crespo inglese o senza, durante tutto il tempo prescritto. Il gran lutto, per uomini, è il vestito nero di panno matto, nelle stoffe inglesi, senza alcun lucido; il gilet deve essere della medesima stoffa e, nei primi sei mesi, anche la cravatta deve essere di crespo di lana, nera. Nel secondo periodo, si può portare il gilet bianco, ma senza metterci i bottoni neri: cravatta nera, di faille. I guanti di pelle nera vanno bene nel primo e nel secondo periodo del lutto maschile. Alla camicia e ai polsi si portano bottoni di legno nero, matto, nel primo periodo, e niente spilla alla cravatta, niente catena all'orologio, niente anelli di brillanti. Nel secondo periodo, si possono portare bottoni di smalto nero ai polsi, qualche anello con brillante, ma si continua a non portare catena all'orologio, che è, del resto, una moda molto chic. Volendo spezzare il lutto, per un ricevimento, si porti pure il gilet bianco e la cravatta di batista bianca, ma i guanti siano sempre neri. Quando si è in una condizione modesta di fortuna, si può rinunziare al lutto generale, nei vestiti, e portare, semplicemente, una fascia di crespo inglese al braccio sinistro, e il crespo al cappello: ma ciò non potrebbe essere ammesso, per lutto di moglie o di genitori. L'altezza del crespo al cappello a tuba, degli uomini, è di quindici centimetri [228] per lutto di padre, madre, suocero, suocera, moglie; di dodici centimetri per figlio, genero, nuora, fratello, sorella, cognato e cognata; di otto centimetri, per lutto di zio, zia, cugino, cugina. Nella carta di commercio, gli uomini non mettono segno di lutto: nella corrispondenza particolare, sì. Le scarpe gialle non vanno, col lutto; quelle di copale vanno nel secondo periodo di lutto.
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Nel codinismo che ogni dì più cresce, nel mio spirito, io non posso non rimpiangere la folla di giovanette e di donne che si spostano, sempre più trascinate da una inquietudine invincibile, che non viene da agenti esterni, ma dalla loro stessa condizione femminile e che, quindi, non troverà mai riparo. Uno dei principali spostamenti e il più seducente, senza dubbio, non è, forse, il tentare studii del tutto maschili, superiori alla media della intelligenza femminile, l'intraprendere fatiche mentali troppo forti e troppo alte, il mettersi per vie scabre, che sono piene di triboli e che dopo aver sacrificato gli anni giovanili e la salute e la gaiezza delle giovanette, non conducono a nessuna mèta sicura e onorevole? Forse che tante giovani, oramai, non frequentano ginnasi e licei e università, mescolati agli uomini? E che serve predicar loro, che questa scienza mal appresa, mal digerita, ha sottili fonti di veleno, nelle vene muliebri? E non è, anche, doloroso dover predicare l'ignoranza, [232] per salvare qualche anima dai turbamenti, che il cosidetto feminismo impone loro? Triste: ma inevitabile. Almeno qualche rimedio vi si ponga, nella forma, se non nella sostanza: che queste assetate di scienza, almeno, non debbano anche immolare una parte del loro riserbo, studiando fra giovanotti, non sempre rispettosi e non sempre onesti. La Germania, dove la gioventù maschile è così austera e la gioventù feminile così semplice e seria, ha già provveduto a questo, fondando dei ginnasi feminili, dei licei feminili, per tutte coloro il cui spirito agitato e malcontento domanda alla scienza un pane dell'anima e del corpo, che, spesso, la scienza non può dare: e se, fra noi, troppo ci vorrebbe, troppo costerebbe, troppo sarebbe difficile, di fondare molti di questi ginnasi e di questi licei, almeno che i ginnasi maschili abbiano, fra le tante sezioni una sezione tutta feminile, quando se ne sente il bisogno: una sezione feminile in cui le studentesse siano sole, non unite a studenti, non esposti a dileggi e a tentazioni. Imparino il latino e il greco, le giovanette, se sperano che giovi alla loro felicità: ma che quando si giunga a un passo scabroso della letteratura italiana, latina, greca, siano sole col professore e non in una folla di studenti, che se la ridono, mentre esse arrossiscono!
[233]
Da dodici anni in poi si finisce di esser bimbe, si è giovanette. E nella svegliata intelligenza muliebre delle giovanette stesse, come nella esperienza materna, come nella sagacia di zie, di sorelle grandi, bisogna porre molto mente al periodo fra i tredici e i sedici anni della giovinetta. Tutto è questione di mezze tinte, di sfumature: la giovinetta fa ridere, se è troppo puerile, in quella età, e fa preoccupare, se è troppo signorina. Badiamo alle mezze tinte! Fino ai tredici anni, si può portare la gonna che mostra il piede e anche il collo del piede: a quattordici anni, non si vede più se non il piede: a quindici anni abbia un grande sviluppo la giovanetta o sia restata gracile, veste lunga. Fra i tredici e i quattordici anni, si può portare ancora la treccia lunga, sulle spalle, o i capelli increspati o legati con un nodo di nastro, alla coda: dopo i quattordici anni, i capelli si debbono rialzare sulla testa, pettinandoli semplicemente, con grazia giovanilmente, senza troppo seguire [234] la moda. Fra i tredici e i quattordici anni la giovanetta può portare ancora i colori molto vivi, delle vesti azzurro cupo con giacche rosse, delle vesti beige con giacche bianche, degli abiti scozzesi, dei mantelli di panno con pellegrina e con grossi bottoni, qualche cosa di molto grazioso, bene tagliato, ma senza lusso; può portare dei grandi cappelli di feltro, con cocche di nastro, in inverno, o delle canottiere di castoro, dei grandi cappelli di velo e nastro, in estate, o canottiere di paglia: le piume, i fiori, sono esclusi. Qualche gioiellino gentile, ma senza gran valore: una catenella d'oro al collo, a cui è sospesa una crocetta: qualche filo d'oro, come braccialettino, a cui è sospesa una medaglia, un campanellino: due perline alle orecchie, o due diamantini. In casa, la giovanetta porta, sino a quindici anni, i grembiuli, molto carini, di seta, di surah, scozzesi o a disegno turco: dopo quindici anni, li smette. Nei giorni di ricevimento, ella non è sempre nel salone, ma vi apparisce e sparisce; serve il the, se non vi è una sorella grande; non fa conversazione, non si mescola ai gruppi, va via presto. A quell'età, la giovanetta va raramente a teatro, salvo a quello di musica; in qualche concerto; in nessun ballo ufficiale; in nessun ballo di cerimonia; non balla, se non quando si fanno quattro [235] salti, in campagna. Tutto in lei deve essere semplice, gentile, grazioso, ma non lezioso, ma non civettuolo: se ha molta gaiezza, bene, ma deve moderarla: se ha dello spirito, lo lasci maturare, è meglio, se ne servirà meglio più tardi. Infine, deve prepararsi a essere signorina, imparando a esser cortese, piacevole, giustamente colta, con qualche arte coltivata particolarmente, imparando ciò, ma non facendone sfoggio, se non più tardi, abbastanza più tardi.
A questa età, si è già signorina e se la educazione, in generale, è finita, bisogna continuare a occuparsi di musica, di disegno, di lingue straniere, di bei lavori donneschi; tutte cose che rendono piacevole, piacevolissima, anche una signorina non bella e non ricca. A sedici anni, è inteso che non si va ancora nel mondo, ufficialmente: ma si possono già frequentare molto concerti, teatri di musica, qualche serata bianca al teatro di prosa, qualche piccola soirée intima. Di sera, la signorina di sedici anni deve preferire sempre il bianco, vestito rotondo, senza strascico, [236] aperto, un poco, intorno al collo e con guanti molto lunghi, che raggiungono le maniche corte; molta semplicità e molta grazia, in questa toilette: le altre tinte, rosa, azzurro, crema, debbono essere sempre pallide e non guarnite vistosamente. Di mattina la signorina veste di lana nera, di lana grigia, di lana azzurro cupo, mai di colori vistosi, come si usa fra noi: porta sempre una mantellina o, preferibilmente, una giacchetta dal bel taglio, e non va in vitino, come si usa da noi. Di gioielli ne può portare qualche po' di più della giovanetta quattordicenne: qualche bella collana, una bella broche, una bella châtelaine, non ricche, ma eleganti, le sono permesse. La signorina a sedici anni può portare la veletta; preferibilmente bianca. Nel salone di sua madre, in visita, altrove, la signorina serba un contegno semplice, nè malinconico, perchè sarebbe ridicolo, nè altiero, perchè sarebbe odioso, nè troppo allegro, perchè sarebbe sconveniente. Sia naturale! Presentata alle signore, deve fare una riverenza e aspettare che le diano la mano, per dare la sua: se le presentano un signore o un giovanotto, un bel saluto col capo, la mano, mai. In generale, la signorina non dà mai la mano ai giovanotti, salvo stretta parentela, antica familiarità, antica conoscenza. Non balla mai, nelle soirées intime, con chi non le è stato presentato: [237] se la padrona di casa le presenta qualcuno, ella balla con lui, ma, dopo, deve immediatamente presentare questo giovane ai suoi genitori o a chi l'accompagna: trattandosi di serate intime, grandi inconvenienti, in queste presentazioni, non possono accadere. La signorina bacia sempre la mano ai nonni, alle zie, alle cugine di maggiore età, alla madrina, ai sacerdoti: agli zii, non è necessario. Non bacia mai le amiche nella strada; mai, in casa, se vi sono estranei e specialmente uomini, presenti. Dà sempre del lei agli uomini, vecchi e giovani: alle signore di grande rispetto, anche il lei. Del tu solo, come uomini, ai fratelli e nipoti. Infine, il riserbo unito all'amabilità e alla buona grazia, ecco quello che deve essere il contegno di una signorina, a sedici anni, in pubblico e in privato.
[238]
È questa l'età in cui una signorina è presentata in società, può partecipare a feste di battesimo, di matrimonio, balli ufficiali e balli di Corte: ma è anche bene, per la sua serietà, di non andare ogni sera in giro. Dai diciotto anni in poi, una signorina deve badare moltissimo al suo contegno, in pubblico: contegno riservato, ma grazioso: contegno gentile, ma non famigliare: conversazione vivace, — se è vivace — ma non eccessiva: allegria moderata, non musoneria: giusta serietà e non posa di tristezza. Con gli uomini molta grazia, ma non civetteria; molta finezza, ma non disputa di spirito; molto garbo, con una leggera tinta di freddezza. A diciotto anni, una signorina non chiama per nome, come uomini, se non i fratelli, e un poco i cugini, se vi è stata assieme nell'infanzia: chiama tutti gli altri per cognome e dà loro del lei. Non balla mai troppo con lo stesso cavaliere e se ne vuol rifiutare qualcuno, deve avere l'arte di saperlo fare; non si deve allontanare [239] nelle altre sale, al buffet, sulle terrazze, lontana dagli occhi di chi l'accompagna: non deve preferire sempre lo stesso cavaliere, nel cotillon. La sua toilette al ballo sarà molto giovanile, leggera, con un décolleté non troppo esagerato, anzi modesto, con lunghi guanti bianchi: mantello di lana bianca, con ricami, con un po' di pelliccia, preferibilmente di mongolia, bianca. A teatro, la signorina prende posto, sempre nel mezzo, quando vi sono due signore; non adopera mai l'occhialino, o pochissimo, per fissare i palchi, mai per fissare le poltrone: ascolta la musica attentamente; non chiacchiera; non fa rumore; non si volta indietro, quando arriva qualche visita: non cambia posto: si disinteressa del ballo. In salone, ricevendo visite, la signorina aiuta costantemente sua madre o sua sorella maggiore, o fa gli onori, fa sedere le signore, conversa con quelle che sono sole, negli angoli, offre il the, i dolci, passa di persona in persona e accompagna chi va via, sin al secondo salotto. Facendo visita, con la madre o con altri, ella fa un poco la parte muta, salvo se trova altre signorine. In società, se la signorina sa cantare, sonare, recitar bene, solo allora si può produrre; se no, fa ridere. E quando sa far bene questo, si produca senza farsi troppo pregare e non s'inebbrii degli applausi; se sa sonar bene, si rassegni amabilmente, [240] talvolta a fare da accompagnatrice e a sonare dei ballabili. E si rammenti, in generale, la signorina di diciotto anni, che, nel mondo, si riesce più con la naturalezza corretta dell'educazione, che con qualunque artificio, più con la semplicità gentile che con altre seduzioni, e più con la modestia, che con l'alterigia. Riescire nel mondo, per una signorina, che significa? Maritarsi, maritarsi, in nome di Dio!
E anche questo stato, che fa orrore a tante donne, può avere le sue dolcezze! Tutto sta ad elevarsi sovra il rammarico di non aver trovato marito, ed avere molto spirito e molto cuore, per poter godere tutti i vantaggi che dà lo stato di vecchia zitella. E così, dai quarant'anni in poi — giacchè calcoliamo da questo limite, lo stato di vecchia zitella — si può uscire sola; viaggiare sola; vivere sola, con qualche fedele persona familiare; ricevere sola: tutto ciò, senza che nessuno vi trovi a ridire. Viceversa, una vecchia zitella può farsi accompagnare, per la via, in un teatro, in un ritrovo, da un amico di casa; può fare delle [241] conversazioni, con uomini di spirito e simpatici, anche a lungo; può ballare quanto vuole e con chi vuole; può, magari, filare, flirtare sentimentalmente, al solo scopo di passare un'ora graziosa: e tutto ciò senza essere criticata. Oh la vecchia zitellanza, diciamo così, ha i suoi beneficii! Si può andare, venire, discorrere, scrivere, partire, ritornare, senza dare troppi conti, a nessuno: si può amministrare la propria sostanza, grande o piccola, come si vuole, senza tutele e senza osservazioni: si può fare del bene, come si desidera: ci si può dedicare a qualche lavoro d'arte, di pensiero, senza ostacoli: si può consacrare la propria vita a l'amore dei nipoti, o alla beneficenza, o alla religione, senza le critiche del pubblico. Una vecchia zitella può vestirsi come le pare, purchè rispetti il suo stato e la sua età; può ricevere delle visite quando vuole, naturalmente nei limiti del rispetto; può avere delle carte da visita, può mettere il suo monogramma sulla carrozza, se l'ha, può mettere i gioielli di sua madre, se gliene ha lasciati; può, infine, godere di una onesta libertà di azione, di cui non godono punto, nè la signorina a diciotto anni, nè quella a venticinque, nè quella a trentacinque. La vecchia zitella si rammenti, sempre, che gli uomini sono disposti, nella loro vanità, a trovarla sempre ridicola: ella [242] faccia in modo da avere tanta serietà, tanto spirito e tanta disinvoltura, da far loro rimangiare la voglia di burlarsi di lei. Non caschi nell'errore di proteggere gli amori altrui, di diventar una marieuse: resti in una linea di semplicità e di distacco, a proposito di amore e di matrimonio. Si crei delle buone affezioni, delle care amicizie, delle devozioni sicure, intorno a sè; sia benevola, indulgente, gaia, savia, buona consigliera, fedele amica: e la sua vita sarà dolce. Maritarsi è bene, ma è anche male: non maritarsi, è male, ma è anche bene.
FINE.
[243]
Pag. | ||
Avvertenza | V | |
Grande vincolo | 1 | |
I. | Il fidanzamento | 3 |
II. | Richiesta di nozze | 5 |
III. | Il fidanzato spadroneggia | 8 |
IV. | Diritti e doveri del fidanzato | 10 |
V. | Il corredo | 13 |
VI. | Il corredo di biancheria | 15 |
VII. | Padrino di matrimonio | 18 |
VIII. | Doveri del padrino | 20 |
IX. | Testimoni | 23 |
X. | Le donne testimoni | 25 |
XI. | Nozze civili | 28 |
XII. | Ci si veste diversamente! | 30 |
XIII. | Nozze religiose | 32 |
XIV. | L'ora stupida | 35 |
XV. | Nozze religiose: L'uso moderno | 37 |
XVI. | Luncheon | 40 |
XVII. | Viaggio di nozze | 42 |
XVIII. | Partecipazioni | 45 |
XIX. | Visite di nozze | 47 |
[244] | ||
L'unione mondana | 51 | |
I. | Presentazioni e visite | 53 |
II. | Giorni, giorni! | 55 |
III. | Il giorno: gli obblighi | 58 |
IV. | Che si offre il «giorno» | 60 |
V. | Quando? a quale ora? | 62 |
VI. | Un'ora, ogni giorno? | 65 |
VII. | La nuova usanza | 67 |
Lieta mensa | 71 | |
I. | Invito a pranzo | 73 |
II. | Grandi pranzi | 75 |
III. | Pranzo di mezza cerimonia | 77 |
IV. | «Menu» di una colazione | 80 |
V. | Intermezzo: antipasto | 82 |
VI. | Il «menu» di un pranzo | 84 |
VII. | Nuovo «menu» di pranzo | 86 |
Festa da ballo | 89 | |
I. | Festa da ballo | 91 |
II. | Festa da ballo: gli inviti | 93 |
III. | Festa da ballo: gli obblighi | 95 |
IV. | Festa da ballo: il trattamento | 97 |
V. | Questioni mondane: le fanciulle nei balli | 100 |
VI. | Segue: le fanciulle nei balli | 102 |
VII. | Segue: le fanciulle nei balli | 104 |
Piccolo intermezzo | 107 | |
Si cambia casa: nuovi vicini | 109 | |
[245] | ||
I legami dello spirito. I Sacramenti | 111 | |
I. | Festa di battesimo | 113 |
II. | Madrina di battesimo | 115 |
III. | Padrino di battesimo | 117 |
IV. | Cresima | 120 |
V. | Padrino di cresima | 122 |
VI. | Madrina di cresima | 124 |
Nelle case del Re. Prammatica di Corte | 127 | |
I. | Presentazioni a Corte | 129 |
II. | Altre presentazioni a Corte | 132 |
III. | Lettere, suppliche, dediche alla Regina | 134 |
IV. | Ballo di Corte | 137 |
V. | Garden party a Corte | 140 |
Avvertenza | 143 | |
Fuori di qui | 145 | |
I. | L'educazione in viaggio | 147 |
II. | Ancora l'educazione in viaggio | 149 |
III. | Di estate, qui e fuori | 151 |
IV. | Andar via: la valigia della signora | 154 |
V. | Andar via: la valigia del padrone | 156 |
VI. | La villeggiatura: perchè ci si va? | 158 |
VII. | La villeggiatura: quello che si spende | 161 |
VIII. | In villeggiatura: poichè ci si deve andare.... | 163 |
IX. | Il caldo: i due metodi | 166 |
X. | Il caldo: il secondo metodo | 168 |
XI. | La villeggiatura: i lavori donneschi | 170 |
XII. | Si balla più che mai, in estate | 172 |
XIII. | Saper vivere: ritorno dalla villeggiatura | 174 |
Intermezzo: possono, debbono fumare le donne? | 177 | |
La sigaretta: le donne, possono debbono fumare? | 179 | |
[246] | ||
Fra Natale e Capo d'Anno | 183 | |
I. | Doni, doni, doni | 185 |
II. | Il dono: a chi si deve donare? | 187 |
III. | Il dono: quel che si deve donare | 189 |
IV. | Idea per i doni di Natale e Capo d'Anno | 192 |
V. | Ciò che si regala a innamorate, a fidanzate | 194 |
VI. | Doni da farsi agli uomini | 197 |
VII. | Christmas card (biglietto di augurio) | 199 |
VIII. | Carta da visita | 201 |
IX. | Visite di Natale e Capo d'Anno | 203 |
X. | Fine d'anno | 205 |
Altro intermezzo: L'educazione in chiesa | 209 | |
In chiesa | 211 | |
La nota dolente | 215 | |
I. | Il lutto | 217 |
II. | Durata del lutto | 219 |
III. | Il lutto: come bisogna vestirsi | 221 |
IV. | Il lutto: condoglianze, visite, eccetera | 224 |
V. | Il lutto: uomini, bimbi, persone famigliari | 226 |
Per voi, care fanciulle | 229 | |
I. | Per la convenienza | 231 |
II. | Da tredici a quindici anni | 233 |
III. | A sedici anni | 235 |
IV. | A diciotto anni | 238 |
V. | La vecchia zitella | 240 |
Opere di MATILDE SERAO
(edizioni Treves).
La ballerina, romanzo | L. 8 — |
Suor Giovanna della Croce, romanzo | 8 — |
Parla una donna. Diario feminile di guerra (maggio 1915-marzo 1916) | 8 — |
Ella non rispose, romanzo | 8 — |
La vita è così lunga!, novelle | 5 — |
Evviva la vita!, romanzo | 8 — |
Dopo il perdono, romanzo | 8 — |
Nel paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina | 8 — |
Il paese di cuccagna, romanzo napoletano | 8 — |
Ricordando «Neera», conferenza | 2 — |
Preghiere. Elegante edizione stampata in rosso e nero | 7 50 |
Addio, amore!, romanzo | 8 — |
Castigo, romanzo | 7 — |
Saper vivere, norme di buona creanza | 8 — |
IN PREPARAZIONE: | |
«Mors tua...», romanzo. | |
L'ebbrezza, il servaggio e la morte, romanzo. |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.