Title: L'Italia nel 1898 (Tumulti e reazione)
Author: Napoleone Colajanni
Release date: March 31, 2022 [eBook #67743]
Most recently updated: October 18, 2024
Language: Italian
Original publication: Italy: Società Editrice Lombarda
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
N. COLAJANNI
L’ITALIA NEL 1898
(TUMULTI E REAZIONE)
Il quarantotto italiano, compiuto poi nel ’60, non fu neppure politico, fu strettamente nazionale e meschinamente unitario e dinastico. L’Italia attende ancora il suo quarantotto politico, che le dia le condizioni essenziali della vita moderna, e permetta di studiare il passo sulla via già percorsa dalle nazioni sorelle.
FILIPPO TURATI
MILANO
SOCIETÀ EDITRICE LOMBARDA
Corso Venezia, 13
[1]
Il lettore intelligente sa che non è cosa facile scrivere la storia contemporanea e dire tutta quanta la verità, o quella, che, in buona fede, tale si crede. Non si può dirla specialmente quando essa può procurare molestie e persecuzioni agli attori o ai testimoni; quando si può sospettare, che impedimenti verrebbero posti alla circolazione di un libro, che si proponesse di farla nota tutta intera.
Questa avvertenza serve per coloro, che mi hanno somministrati elementi preziosi sui fatti di Milano e che non li vedranno in queste pagine riprodotti, non ostante che essi si siano dichiarati pronti a sostenere la esattezza delle loro informazioni anche nei Tribunali.
La prudenza che mi ha suggerito di ometterli non ha spiegato la sua azione nello interesse mio [2] personale; ma in quello del libro, che potrà compiere opera utile correggendo errori e pregiudizi, che hanno falsato la pubblica opinione. Il libro mira sopratutto a far breccia in quella che lo Zerboglio ha chiamato la reazione onesta e che costituisce la forza maggiore dei politici partigiani e disonesti.
Così è: nella massa degli avversari del socialismo e della democrazia in genere, in Italia e in questo quarto d’ora, per deficienza di cultura e di conoscenza degli uomini e delle cose, la grande maggioranza è composta di persone che, con tutta sincerità, credono che la reazione presente sia stata provocata dalle colpe e dagli errori dei socialisti e dei democratici di ogni gradazione; e che essa sia necessaria per salvare lo Stato e la società.
Questo libro si rivolge alla reazione onesta nella speranza di richiamarla alla realtà e di ricondurla sopra la retta via. Vi riuscirà? Lo ignoro; per riuscire, però, ho messo ogni studio — anzi si dirà che sono stato esagerato in questo studio — per esporre i fatti quali li presentarono i giornali conservatori o reazionari — Corriere della Sera, Perseveranza, ecc., di Milano; Nazione di Firenze, Corriere e Mattino di Napoli, ecc., ecc., e il periodico I Tribunali di Milano, che pubblicò i resoconti stenografici dei processi svoltisi innanzi ai Tribunali di guerra della stessa Milano col visto [3] del Regio Commissario straordinario Generale Bava-Beccaris. In quanto ai giudizî sulle cause prossime, che generarono i fatti, del pari, ho messo la massima cura nel presentarne una specie di antologia ricavata da articoli e dai libri dei monarchici più autorevoli, più colti e più onesti.
Dai lettori invoco un benevolo compatimento per le deficienze dello stile e della esposizione, che in questo mio libro sono maggiori che nei miei precedenti. Per farmele perdonare dirò loro che scrissi in gran fretta i singoli capitoli e li mandai a stampare uno per uno nella speranza di poterli in ultimo rileggere in una volta per correggerli, coordinarli e completarli. Per ragioni da me indipendenti non potei compiere che assai incompletamente questo necessario lavoro di fusione e di revisione. Ad ogni modo, tale quale esso è rimasto, spero che verrà accolto come la espressione di chi non si è proposto che la ricerca della verità e il bene del proprio paese.
Castrogiovanni, 12 Dicembre 1898.
Dott. Napoleone Colajanni
[5]
Imprendendo a dire, con tutta la prudenza imposta dalla reazione trionfante, dei casi che si svolsero in Italia nella primavera 1898 e che, per colpa del governo, assunsero proporzioni minacciose ed impronta speciale in Milano nelle giornate dal 6 al 9 Maggio, sento il bisogno di riprodurre le pagine colle quali posi termine al libro sugli Avvenimenti di Sicilia del 1893-94, che agli ultimi intimamente si connettono.
Scrivevo adunque nell’autunno del 1894: «I segni precursori del principio della demolizione di tutto ciò che esiste in politica in Italia non mancano e presentano una grande analogia con quelli che nel secolo scorso precedettero lo scoppio tremendo della rivoluzione francese».
«Si legga l’Ancien régime di Tocqueville e di Taine e si vedrà che in Francia prima del 1789, come a Napoli, nelle Puglie, in Sicilia nel 1893 e nel 1894, si sente che c’è un popolo in rivoluzione latente, che aspetta l’occasione per irrompere; che [6] questo popolo manca ancora di organizzazione e di capi, non avendo più fiducia in quelli che hanno l’autorità legale. Anche allora si gridava: «Pane, non tasse, non cannoni! ch’è il grido del bisogno, dice Taine, e il bisogno esasperato irrompe e va avanti come un animale inferocito. E i magazzini, i convogli di cereali arrestati, i mercati saccheggiati. E si grida: Abbasso l’ufficio del dazio! E le barriere sono infrante, gl’impiegati vinti e scacciati... E si danno al fuoco i registri delle imposte, i libri dei conti, gli archivî dei comuni e si fa tutto al grido di: Viva il Re!»
«La scena descritta dal Taine per Bignolles e per altri siti non sembra la fotografia di ciò che è avvenuto a Valguanera, a Partinico, a Monreale, a Castelvetrano, a Ruvo, a Corato? Eppure i contadini di Sicilia e di Puglia non sanno o non conoscono cosa sia la rivoluzione francese, i cui preludî imitano e ripetono!»
«Non basta ancora; l’analogia continua più grande che mai sulle cause, che accelerano la catastrofe in Francia e che potranno accelerarla adesso in Italia. Si disse dei gravissimi imbarazzi finanziari in cui si dibatte il nostro paese; e Gomel ha messo stupendamente in evidenza le cause finanziarie della rivoluzione francese».
«Qualche piccola inversione nell’ordine degli avvenimenti vi potrebbe essere; quando Joly de Fleury si decise all’aumento delle imposte i Parlamenti di Francia protestarono e invocarono la riunione degli Stati Generali. Noi non abbiamo assemblee che per la loro storia si rassomiglino ai Parlamenti [7] francesi, ma abbiamo una Camera dei Deputati, che dovrebbe equivalere agli Stati Generali, la quale sotto l’incubo dello scioglimento ha approvato le imposte proposte dall’onor. Sonnino e che potrà essere disciolta se non farà quell’ultimo sforzo, che si chiama ultimo per ischerzo, ma ch’è sempre seguito dalla domanda di un altro».
«Chi può garantire che in Italia non si cominci da uno scioglimento mentre in Francia si cominciò da una convocazione? E qualche altra differenza ci sarebbe ancora nei protagonisti del prologo. L’Italia da alcuni anni ha visti i Maurepas, i Vergennes, i Calonne, i Brienne, i Joly de Fleury ed anche i d’Ormesson; l’Italia potrà anche trovare il suo Neker; ma in tanta decadenza indarno cerca un Turgot! Dov’è il Ministro che dica coraggiosamente al Re ch’è impossibile ogni ulteriore accrescimento delle imposte; che prestiti non se ne possono fare più; che la salvezza è nelle economie e nelle riforme?»
«E tutto ciò disse Turgot al buon Luigi XVI; ma non fu ascoltato!»
«Lo sarebbe adesso in Italia?»
«Nessuno può dirlo; ma tutti devono riconoscere che gli avvenimenti incalzano e che la scintilla partita dalla Sicilia, che nell’arte, nella coltura, nella organizzazione sociale, in tutto, si trova — come direbbe Giuseppe Ferrari — in ritardo di fronte alle fasi di sviluppo percorse dalla Francia e da altre regioni dell’Alta Italia, che sentirono l’alito della rivoluzione francese: quella scintilla, ove non si provveda in tempo, potrà, varcando lo stretto, far divampare l’incendio nel resto d’Italia».
[8]
«Comunque, se insipienza di uomini di governo o fatalità di cose vorranno che gli avvenimenti non abbiano quel corso pacifico ed evolutivo, che dev’essere vagheggiato da quanti conoscono i danni e gli orrori delle cruenti rivoluzioni, io faccio voti ardenti pel bene del mio paese che il grido: «morte a li cappedda» non possa acquistare quella triste celebrità che al di là delle Alpi acquistò il grido: Les aristocrates à la lanterne!»[1]
Il riavvicinamento tra i prodromi della grande rivoluzione francese e gli avvenimenti di Sicilia, che riporta il nostro paese ad un secolo fa, può oggi essere completato con un altro riscontro storico che somministra l’Inghilterra.
Al di là della Manica l’evoluzione politico-sociale non fu tranquilla e pacifica sempre, come, nelle sue grandi linee, si è andata svolgendo nella seconda metà di questo secolo.
Vi furono due grandi periodi di sommosse, di tumulti, di repressioni sanguinose e di reazione, che ricordano la fase che attraversa l’Italia dal 1893 in poi. Il primo va dal 1799 al 1824; il secondo dal 1837 al 1848. Tra i due periodi non mancarono le agitazioni, che terminarono qualche volta in conflitti sanguinosi — specialmente nel 1819, nel 1831, nel 1832, nel 1839, ecc.; — e non fecero difetto completamente dopo il 1848: astraendo dall’Irlanda — dove gli avvenimenti presentarono sempre caratteri complessi non paragonabili mai con quelli italiani — per [9] tutti basta ricordare la domenica sanguinosa — the bloody Sunday — 13 novembre del 1887.
I due periodi storici inglesi, classici per le turbolenze, il secondo dei quali comprende il movimento cartista, vanno rievocati oggi in Italia per concludere dal confronto — da completarsi più tardi — che se in Inghilterra fossero stati adottati i criteri di governo che formano ormai la gloria non invidiabile della borghesia italiana, il boja avrebbe dovuto lavorare in permanenza; gli anni di galera distribuiti ai ribelli e ai sovversivi avrebbero dovuto contarsi non più a secoli, ma a migliaia di secoli; la costituzione anzichè svolgersi sempre più e continuamente nel senso democratico avrebbe dovuto essere soppressa; la reazione sfrenata, insomma, quale del resto la vagheggiò e consigliò in Inghilterra il partito dell’ultratorismo, vi si avrebbe dovuto insediare sovrana e incrollabile.
Qualcuno potrà obbiettare, che accennando al lavoro del boia si vien meno alle condizioni di una buona comparazione e che viene a mancare ogni analogia, perchè condanne a morte ci furono in Inghilterra — benchè non eseguite — ma non una — eccettuato il caso Barsanti, che non entra nel periodo in discussione — ne inflissero i mal giudicati Tribunali militari Italiani nel 1894 e nel 1898.
All’obbiezione si trova risposta nelle differenze tra i due paesi: nella natura degli avvenimenti, nella proporzione e durata delle repressioni, nella giustizia delle altre pene, nella serena imparzialità dei giudici ordinari — e non eccezionali — nella sapienza e moderazione delle classi dirigenti e dei governanti.
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Le differenze ci sarà occasione di rilevarle, nella misura consentita dall’indole di questo scritto, man mano che procederà la narrazione; e le differenze eloquenti non potranno non richiamare alla realtà triste della nostra enorme inferiorità politica e morale, quanti leggeranno coll’animo intento alla ricerca del vero.
Per ora basta fermare questo: che i tumulti, le sommosse, i tentativi coscientemente insurrezionali che afflissero l’Inghilterra per cinquant’anni circa spesso tolsero a pretesto le riforme politiche; ma il fondo dei movimenti fu e rimase sempre economico. Non cade dubbio sulla natura del movente nel primo periodo dei torbidi inglesi; invece qualcuno vorrebbe negarla pel secondo. E in verità, guardando alla superficie e alle dichiarazioni di alcuni capi del cartismo, si potrebbe credere che questo movimento celebre, durato circa dieci anni, sia stato essenzialmente politico. Erano, infatti, d’indole politica i famosi sei articoli della Charta del popolo; ma nella intenzione dei cartisti delle due scuole, essi dovevano servire come mezzo per ottenere il miglioramento economico delle masse lavoratrici.
I promotori ed organizzatori del movimento trovarono grande seguito per lo appunto perchè tristissime erano le condizioni economiche degli operai nella grandissima maggioranza.
Ciò era a conoscenza dei capi del cartismo; tanto che il reverendo Stephens, uno dei più audaci e dei più infervorati, predicava che il cartismo era sopratutto una quistione di forchetta e di coltello!
Risalendo dal caso particolare all’indole generale dei movimenti politici inglesi, il Rise, ch’è [11] uno degli scrittori che ha iniziato la illustrazione della cosidetta Era Vittoriana, ha scritto queste parole significative non per i soli inglesi ma per tutti i popoli che hanno coscienza delle proprie sofferenze: «John Bull al verde, egli osserva, è il più persistente dei malcontenti e svolge principî politici — ma sempre con un occhio volto agli affari futuri. Quando è sazio di carne e di birra ha poche idee e la sua soddisfazione è colossale». (Rise of democracy. London. Blackie et Son 1897 pag. 129). A provare l’esattezza del giudizio, un poco più oltre aggiunge: «Appena R. Peel risolvette la quistione tributaria, la stabilità fu assicurata alle industrie, alla società, alle istituzioni». (pag. 130).[2]
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Il 1848 trovò disarmato il cartismo dalla precedente riforma; così l’eco della proclamazione della repubblica in Francia, invece di trascinarlo ad una rivoluzione trionfante, ne segnò la morte. La sua, però, non fu opera inutile: destò dal letargo le classi dirigenti, mise sotto i loro occhi i pericoli cui andavano incontro ostinandosi nella resistenza e contando sulla repressione e le costrinse alle trasformazioni economiche e politiche indicate dai tempi, reclamate dal popolo.
I sei articoli della Charta, dichiarati da principio irrealizzabili, incontrarono la sorte di molte utopie e in gran parte oggi sono stati tradotti in leggi; con questo in più: che ogni riforma politica fu seguita — più raramente preceduta — da una riforma economica. Così da questa lezione dei fatti svoltisi in Inghilterra emergono insegnamenti non solo per le classi dirigenti italiane, ma anche per una parte degli elementi avanzati, che — almeno sino a poco tempo fa — tenevano in grande dispregio la politica. La tenne anche in dispregio Roberto Owen, più di sessant’anni or sono, al di là della Manica e smarrì la diritta via per conseguire quelle riforme economiche e morali di cui fu apostolo geniale.
Ma è per le classi dirigenti italiane, che sopratutto sono ricchi di ammaestramento questi raffronti storici dell’Italia colla Francia da una parte e coll’Inghilterra dall’altra.
In Francia la cecità dei governanti nel secolo scorso condusse alla grande rivoluzione con tutti i suoi eccessi e con tutti i suoi orrori, che potranno ripetersi se la degenerata borghesia, che ha in mano le sorti della terza repubblica, non si libera dalle [13] strette del militarismo. In Inghilterra le classi dirigenti, imitando gli esempi dei buoni tempi di Roma, seppero sempre cedere a tempo. Se ricorsero alla repressione, anche energica, non la resero sistematica, facendola assurgere ad esclusivo metodo di governo e risposero ai tumulti da disagio economico con riforme economiche; ai tumulti ed alle agitazioni politiche fecero seguire le riforme politiche. Sinanco quando i movimenti vi assunsero forme decisamente criminose le classi dirigenti inglesi guardarono al fondo e alla sostanza e pensarono di eliminare il delitto allontanandone le cause. Così la borghesia e l’aristocrazia, e sopratutto gli industriali, allarmati ed indignati pei famosi delitti di Sheffield, cominciano nel 1867 una grande inchiesta colla intenzione di riuscire alla repressione severa del fenomeno criminoso; ma appena constatatolo, anche per la confessione di qualche reo, si cambia rotta e si riesce alla sapiente prevenzione colle leggi del 1870 e del 1875, che accordarono agli operai la più ampia libertà di organizzazione, di sciopero e di quel picketing, che sembrerebbe anche una enormità a molti democratici italiani[3].
Di fronte ai tumulti, alle sommosse, alle insurrezioni, adunque, alle classi dirigenti italiane la [14] storia addita due vie tracciate senza incertezze e quasi senza alcuna di quelle oscillazioni e deviazioni ordinarie nel corso degli avvenimenti sociali. Sull’una sta scritto al termine: rivoluzione; è la via battuta dai governanti francesi. Sull’altra, al principio risplende una insegna sulla quale si legge: riforme. È l’insegna antica di casa nostra — l’insegna di Roma; ma l’Inghilterra l’ha rimessa a nuovo e l’ha circondata di affascinante forza di persuasione[4].
L’Italia è in ritardo nella sua evoluzione rispetto alla Francia e all’Inghilterra; ma se questo ritardo sotto molti aspetti è deplorevole, esso ha almeno un lato buono: consente al nostro paese di trarre profitto dei risultati degli esperimenti politico-sociali che furono fatti altrove.
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La formula: riforme o rivoluzione, — formula adottata dal partito repubblicano parlamentare nel manifesto indirizzato al paese all’indomani della repressione dei tumulti di Aprile e Maggio 1898 (Rivista popolare. Anno III, 21) — sembrerebbe adatta a chiudere questo studio; invece la si è allogata nel proemio. Non a caso. Al lume del dilemma che la storia pone ai governanti d’Italia si può esaminare quali le tendenze che si possono constatare per prevedere, entro i limiti delle previsioni sociologiche, se si otterranno le riforme o se si arriverà alla rivoluzione.
Queste tendenze non si possono indurre dalla osservazione degli avvenimenti svoltisi nel corso di pochi anni; nè si può assicurare che le riforme non verranno più tardi solo perchè esse non vengono fatte immediatamente. Ogni riforma la quale vuole raggiungere lo scopo prefisso dev’essere preparata e maturata con intelletto e con amore, con [16] conoscenza piena delle condizioni da modificare e delle altre, che alle medesime si spera sostituire.
Il malessere economico, politico e morale in Italia non data da pochi anni, perchè dal 1870 in poi è andato crescendo, quasi senza interruzione; i segni ne furono manifesti e indussero allo studio delle cause che lo generarono i privati e lo Stato.
Questi studî sono notissimi e non occorre enumerarli; tra i tanti basta ricordare l’Inchiesta parlamentare agraria, che se ha poco valore in alcune parti, ne ha uno sommo nel Proemio e nella conclusione magistralmente esposta da Stefano Jacini.
Dal volume breve di mole e ricco di contenuto dell’illustre senatore lombardo sono scorsi alcuni lustri e di rimedî adottati tra quelli indicati come necessari ed urgenti si ha scarsa notizia e magrissimi risultati. Sicchè da allora ad oggi i mali deplorati, anzicchè diminuire, andarono crescendo in guisa da rendere facile a qualunque osservatore mediocre la previsione di qualche catastrofe, per la innegabile persistenza delle classi dirigenti nel sistema di governo che era riuscito disastroso per tanti anni.
Se il periodo dell’osservazione in Italia fosse soltanto durato da Caltavuturo — 21 Gennaio 1893 — alla primavera del 1898, si potrebbe dire che esso sarebbe stato insufficiente per indurre le tendenze? Ciò potrebbe dirsi pel passato remoto; non più oggi. Nella esperienza sociale c’è acceleramento rapidissimo ch’è in ragione diretta del tempo trascorso e dell’esperienza aumentata in ragione composta dei mezzi di studio sempre più copiosi e perfezionati e degli altri per divulgare i risultati raccolti.
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Infatti in Inghilterra non si comprende la lentezza delle nostre Inchieste e l’oblìo cui vengono condannate dopo compiute — condizioni tra noi divenute inseparabili e che destano un sorriso d’incredulità quando qualcuna nuova ne viene annunziata. Il pubblico, anzi, l’accetta come una indecente mistificazione; ed a giudicarne dalla ordinaria inutilità, non sbaglia.
Dell’Inghilterra, invece, si sa questo: che cominciato lo studio delle condizioni delle Trade-Unions nel 1867 in seguito ai delitti di Sheffield, si venne ai primi provvedimenti nel 1871; che constatata con una inchiesta nel 1868-69 la poca diffusione dell’istruzione, si ebbe il primo Education act nel 1870; che ripreso, con un’altra inchiesta lo studio dell’Irlanda nel 1879-80 il Gladstone dette il grande land act per l’isola Verde nel 1881. Gli esempi potrebbero continuare; e il significato di questa lodevole rapidità nel far seguire il rimedio alla diagnosi non può essere infirmato dalla relativa lentezza sui provvedimenti radicali per combattere la disoccupazione; a riguardo della quale, del resto, alcune misure parziali lenitive si sono prese. Ma qui conservatori, liberali, radicali e socialisti, che hanno rivolto le loro cure al grande problema, con pari ardore, si capisce che devono procedere coi piedi di piombo, perchè si tratta di una delle manifestazioni più salienti della questione sociale.
Quanto diversa corre la bisogna in Italia! Quel capitolo degli Avvenimenti di Sicilia che intitolai dalla desolante inazione del governo di fronte ai mali constatati — Nulla è mutato! — potrei ripeterlo oggi applicandolo all’Italia tutta, e potrebbesi [18] rendere il titolo più espressivo e corrispondente alla verità affermando che da allora ad oggi: Molto s’è peggiorato! Al lume dei fatti si vedrà che questo pessimismo è giustificato.
La necessità e l’urgenza di opportuni provvedimenti che dalla Sicilia si estendessero a tutta la penisola ed alla infelicissima tra le sue regioni, la Sardegna, emergevano evidenti dalle discussioni parlamentari del 1894, continuate ed allargate successivamente.
Furono gli ardenti unitari come Fortunato, Imbriani, ecc., che insistettero nel dimostrare che il disagio che affliggeva le popolazioni al di là dello Stretto, imperversava del pari in tutto il resto del regno. Era vero; ed erravasi soltanto affermando che in Sicilia il malessere non avesse caratteri particolari, che lo rendevano più sensibile.
Qualche cosa si fece per la Sicilia — utilissima l’abolizione del dazio di uscita sui zolfi, che permise la costituzione dell’Anglo-Siciliana; e ciò, in parte, spiega la tranquillità del 1898 di alcune provincie. Ma le condizioni peggiorarono nella penisola, o almeno non furono sensibilmente alleviate. Era prevedibile quindi, e fu previsto, che le manifestazioni del disagio, dovunque non ne erano state rimosse o attenuate le cause, dovessero presentarsi o continuare. La scintilla, perciò, che nel 1892-93, poco mancò non divenisse grande incendio in Sicilia, varcò lo stretto negli anni successivi.
Dal 1894 a tutto il 1897, in corrispondenza della varietà delle condizioni economiche, politiche, morali e intellettuali, che è propria delle diverse regioni d’Italia — fatta federale dalla natura e dalla storia — i [19] segni del malessere profondo sono differenti nel mezzogiorno, nel centro e nel settentrione.
Mentre in Sicilia, nel Napoletano, nel Lazio si tumultua, s’incendiano le case comunali, gli uffici daziari al grido Viva il Re e si continua ad eleggere quei deputati e quei consiglieri provinciali e comunali, cui si attribuiscono i malanni contro i quali si sollevano; nel Piemonte, in Lombardia, nella Emilia, ecc., — regioni dalla maggiore coltura intellettuale e politica e dall’industria maggiormente sviluppata — la protesta assume forme e caratteri moderni e civili: le sofferenze dei lavoratori si traducono in iscioperi, in elezioni di consiglieri e deputati repubblicani, socialisti ed anche conservatori nel senso buono — appartenenti, cioè, a quel gruppo, che fa capo all’onor. Colombo e che da anni domanda un mutamento d’indirizzo nella politica e nell’amministrazione dello Stato.
La storia di questi scioperi — parzialmente illustrati con metodo positivo dall’Einaudi — e di queste elezioni come prodotto del malcontento e del disagio è ancora da farsi e deve mettersi in chiaro l’anomalia del buon successo degli scioperi agricoli a preferenza di quelli industriali. È certo, però, che i governanti, di fronte a queste proteste civili e moderne, tennero un contegno incivile e disumano: non seppero che applicare l’art. 247 ed altri analoghi articoli del Codice penale — che in Italia stanno a fare le veci del picketing inglese! — ricorrere alla violenza ed organizzare la concorrenza nel lavoro dei soldati a benefizio dei capitalisti. Questi esempi, che venivano dall’alto dovevano consigliare i lavoratori dall’affidarsi ai mezzi legali [20] e convincerli, al contrario, che essi non potevano sperare salvezza e miglioramento se non dall’uso della forza brutale.[5]
Si accenna appena a queste manifestazioni legali del disagio illegalmente represse dal governo che sotto Di Rudinì volle acquistare fama non bella a Molinella, come altri se l’aveva assicurata tristissima a Conselice; e si è anche costretti a sorvolare sulla inattesa agitazione agraria delli Castelli Romani — inframescata di violenze, di ferimenti, di arresti e di processi; ma tanto legittima nelle sue cause da accapparrarsi le simpatie e la benevolenza degli ufficiosi del tempo — l’està del 1897 — e di alcuni rappresentanti del potere politico: Bonerba ispettore di Pubblica Sicurezza e Marchese Cassis ispettore generale al ministero dell’interno. È tutto dire! Si fa una semplice menzione della grande manifestazione di Roma contro la ricchezza mobile, che ebbe il suo epilogo tragico in Piazza Navona; e la si ricorda particolarmente: da un lato perchè sintomatica del generale malcontento della borghesia; dall’altro perchè segna la sua illogica e contradditoria condotta. Questa borghesia, infatti, che fa le elezioni, che ha in mano le redini del governo e vuole la politica dispendiosa, ha perduto il diritto di protestare contro la soverchia gravezza delle imposte: se vuole gli obbiettivi dei megalomani deve somministrare i mezzi per conseguirli.
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Si sorpassa su tutte queste manifestazioni che si svolsero dal gennaio 1894 al maggio 1898 che rappresentano gli anelli della catena interminabile del malcontento e che sono degnissime dello studio dello psicologo politico, per venire a quella che rimarrà lugubremente celebre negli annali nostri come la protesta dello stomaco.
La protesta dello stomaco per un momento ridà all’Italia una unità di sentimenti, che le mancava da anni parecchi; la protesta dello stomaco assegna al nostro paese un posto speciale, perchè vide riprodurre fenomeni che non si credevano più possibili nella civile Europa occidentale in questo scorcio di secolo. Infatti solo da noi si ebbero i tumulti per carestia, per fame, per cause che agirono egualmente presso gli Stati del vecchio continente, ma senza produrre gli effetti dolorosi, che rimangono propri ed esclusivi dell’Italia.
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L’anno 1897 erasi chiuso per l’Italia sotto i più sinistri auspici. Nelle Marche, nella Romagna, in vari altri punti del regno, durante l’autunno, quasi per non interrompere la cronaca dei tumulti e delle sommosse, c’erano state delle manifestazioni, ora lievi, ora gravi che costituivano l’indice più eloquente del malessere generale.
A Forlì si assaltano le botteghe nelle quali si vende il pane; la sommossa dura alcuni giorni in Ancona dove si saccheggia la casa di un negoziante di grano; a Macerata gli affamati s’impadroniscono del frumento messo in vendita e si rompono i vetri della casa del Sindaco e del Municipio; a Senigallia si saccheggiano i magazzini di frumento del principe Ruspoli; a Chiaravalle vi sono colpi di revolver ed un carabiniere viene ferito; a Gallipoli si dà fuoco alla casa di un ricco cittadino; a Firenze — la mite e gentile Firenze — scene simili si ripetono e molti agenti di polizia vengono feriti; a Milano, a Napoli, a Palermo, a Ferrara, a Bologna, società [24] operaie ed associazioni politiche protestano contro il rincaro del prezzo del pane e si moltiplicano le riunioni degl’infelici che domandano: pane e lavoro!
Non ci potevano essere e non ci furono equivoci sull’indole di siffatte dimostrazioni; erano la protesta dello stomaco. Tali vennero giudicate con singolare unanimità dalla stampa di ogni partito e dagli uomini politici, che le segnalarono in Parlamento e fuori, ed il giudizio non poteva essere modificato dal grido: Viva la Repubblica! Viva il Socialismo! echeggiato in quei giorni nella minuscola Subiaco. Era evidente l’urgenza di misure che attenuassero almeno le più crudeli sofferenze dei lavoratori e della borghesia magra. Qualche cosa fecero i Municipi specialmente in Sicilia, dove era fresca la memoria dei tumulti del 93-94: e con qualche sacrifizio ed anche con qualche strappo alla legge tennero il prezzo del pane entro limiti normali. Riuscirono con ciò a mantenere la calma. Nulla, o ben poco, fece il governo, su cui pesarono le maggiori responsabilità e che poteva prendere i più efficaci provvedimenti di sana prevenzione; esso non credeva allo spettacolo doloroso delle inaudite miserie, non sentiva il cupo muggito della tempesta che si avvicinava rapida e minacciosa.
Il timore manifestato nel 1894 era già una realtà nell’autunno del 1897: la sommossa aveva valicato lo stretto e dalla Sicilia si era propagata in tutto il continente. Sullo scorcio di quell’anno, però, essa non aveva assunto i caratteri che l’avevano distinta nell’isola. Il fenomeno si riprodusse in tutti i suoi dettagli nell’anno 1898, che rimarrà celebre nei [25] nostri annali per la cronaca sanguinosa della sua primavera.
Ed è la Sicilia, dove sono i centri del dolore, che suona la diana: a Modica ed a Troina si tumultua per fame e rinnovansi le stragi del 1893-94. Sorpassano la decina gli affamati uccisi in Febbraio in quelle due città, e centinaia di feriti cercano salvezza nella fuga, perchè la polizia non contenta delle generose somministrazioni di piombo cerca vittime nuove per le patrie galere.
Passano due mesi in una calma relativa, che non inganna i veggenti, e quando verso la fine di Aprile si esauriscono le provviste locali di frumento e si eleva rapidamente il prezzo per la guerra ispano-americana, che rese più scarsa l’importazione, l’incendio divampa da un capo all’altro d’Italia con una rapidità prodigiosa spiegabile colla facilità e rapidità dei mezzi di comunicazioni di ogni genere; i tumulti e le sommosse assumono le proporzioni di una vera epidemia alla cui diffusione, oltre le cause economiche, politiche e morali persistenti, somministra un contributo considerevole il mimetismo, il contagio psico-sociale.
Ecco la cronaca sanguinosa fatta di date e di cifre; ed avverto che, pur troppo, essa non è completa[6].
I tumulti, le sommosse cominciarono il 26 Aprile a Faenza ed a Finale-Emilia. Si ripetono il 27 a [26] Faenza e Bari; il 28 a Faenza, Foggia, S. Giovanni a Teduccio, Arzano, Benevento, Secondigliano; il 30 a Modugno, Aversa, Palermo, Piove, Pesaro, Ferrara, Rutigliano, Castelsanpietro, Forlì, Rimini, Camerino, Napoli; il 1.º Maggio a Monopoli, Molfetta, Minervino-Murge, Benevento, Ferrara, Napoli, Rimini, Bagnacavallo, Ascoli Piceno, Resina, Ponticello, Giuliano, ecc.; il 2 a Bagnacavallo, Ascoli Piceno, Cesena, Piacenza, Parma, Ferrara, Ariano di Puglia, Salerno, Palermo, Pesaro; il 3 a Pesaro, Figline Valdarno, Avellino, Soresina; il 5 a Pavia, Livorno, Sesto Fiorentino; il 6 ad Avellino, Livorno, Firenze, Pisa, Padova, Palermo, Milano; il 7 a Livorno, Pistoia, Fermo, Porto Maurizio, Milano; l’8 a Firenze, Monza, Como, Padova, Pescia, Genzano di Roma; il 9 a Milano, Napoli, Pontedera, Monza, Saronno, Como, Brescia, Rovigo, Vicenza, Reggio-Calabria, Siracusa, Bologna, Monsummano, Tropea, Castelvetrano, Foggia, Matelica, Livorno, Pisa, Siena, Roccastrada, Bologna, Ferrara e dintorni, Ancona, Velletri, Messina, ecc., ecc.; il 10 a Napoli, Livorno, Genova, Porto-Maurizio, Chiavari, Ravenna, Castelferretti, Tropea, Velletri; l’11 a Caserta, Aversa, Cimitile, Novara, Luino, Messina, ecc.
Col giorno 11 Maggio si può dire che cessa il periodo acuto delle dimostrazioni. I governanti che per oltre quindici giorni sono stati in preda del terrore — altrettanto grande quanto era stata grande la loro precedente incosciente serenità — hanno compiuto la repressione, hanno consolidato lo stato di assedio in tre grandi regioni, delle quali due tra le più agiate e le più colte della penisola, la Toscana [27] e la Lombardia — e possono trionfalmente annunziare che: l’ordine regna in Italia.
La gravità dei fatti non fu da per tutto uguale; ma fu identica la loro fisonomia da Messina a Luino. Per un momento le manifestazioni politico-sociali di questo regno d’Italia malconnesso, lo ripeto, assunsero impronta rigidamente unitaria: da Luino a Messina, unica fu la causa che sollevò la protesta ed uguale dappertutto la forma di questa protesta dello stomaco. Il primo grido che si sentì per ogni dove fu quello di pane e lavoro, cui successivamente e in varia misura si aggiunsero altri gridi sovversivi — altri evviva! ed altri abbasso! secondo il diverso temperamento locale. Ai gridi più spesso si aggiunsero minaccie contro le autorità, contro le persone invise; alle minaccie seguirono i fatti: rotture di fanali, di vetri delle case, devastazioni, incendi, saccheggi; ed a questi le repressioni ora miti ora feroci; gli arresti a migliaia e i massacri.
Una prima e necessaria constatazione: la ferocia della repressione non sta menomamente in rapporto colle gravità ed un poco anche coll’indole dei tumulti. A Bari ed a Foggia i fatti sono gravissimi e stante la importanza delle due città possono riuscire pericolosi; eppure non ci sono i morti di Molfetta e di Modugno. A Faenza, che inizia il movimento e dove sin dal primo giorno si concede il pane a 30 centesimi, si arriva alla costruzione di vere barricate; ma non si deplora un eccidio come a Bagnacavallo. Tra Prato e Sesto Fiorentino, tra Parma e Piacenza da un lato, Monza, Luino e Soresina dall’altro, in ambienti tanto diversi, intercedono le medesime differenze dianzi accennate e [28] che si verificarono anche in Sicilia nel 1893-94. Ciò prova che dovunque le autorità furono longanimi e prudenti si evitò o si ridusse a ben poca cosa il versamento del sangue.
Se in questa diversità di risultati c’entrano le differenze individuali delle autorità locali, c’entra in misura maggiore la mancanza di savia ed uniforme direzione dal centro.
Ho enumerato senza alcun ordine le città, i paesi, i villaggi che somministrano elementi alla cronaca sanguinosa perchè l’apparente disordine si presta a considerazioni d’indole apparentemente geografica che assurgeranno più tardi ad importanza maggiore per giudicarne l’indole. Anzitutto, se in generale si può affermare che i tumulti cominciano nel mezzogiorno per propagarsi gradatamente al settentrione, non è meno vero, però, che la prima scintilla si parte dal centro e dal nord della penisola — Faenza e Finale Emilia — e divampa più qua e più là, mostrando che le cause determinanti esistono in tutta la penisola ed agiscono disordinatamente e contemporaneamente sui grandi e sui piccoli centri, senza che possa affermarsi esservi una prevalenza decisa dei primi o degli ultimi in guisa che possano stabilirsi i primitivi centri d’irradiazione. Solo può rilevarsi che i casi di Milano esercitarono maggiore influenza degli altri se si deve giudicarne dal numero delle località che furono tumultuanti il giorno nove Maggio.
Il fenomeno è naturale ed ha la sua ragione di essere in quella specie di egemonia, che la capitale morale esercitava ed esercita in gran parte d’Italia ed a cui si sottraggono l’estremo mezzogiorno e la [29] Sicilia. Si noti intanto che Firenze non ricordava forse da secoli tumulti quali quelli del 1898; che Napoli abbandona la sua proverbiale indifferenza apatica e memore delle prime prove dell’agosto 1893, persiste per più giorni nei tumulti senza lasciarsi intimidire dagli apparecchi micidiali di guerra teatralmente allineati nelle sue piazze e vede le sue donne smunte, i suoi fanciulli laceri, le sue larve di lavoratori sfidare la forza pubblica ed in qualche momento affrontare serenamente la morte. Il contegno di queste due città da solo somministra all’osservatore politico qualche indicazione, che non dovrebbe andare perduta per valutare al giusto lo intervento delle cause, che riuscirono ai tumulti.
Un’ultima constatazione mercè la quale la geografia e la cronologia alleate rivelano l’indole dei luttuosi avvenimenti in discorso.
Il 1º Maggio, giorno sacro pei socialisti e che avrebbe potuto fornire occasione a dimostrazioni facilmente degeneranti, passa tranquillo dove i socialisti sono forti per numero e per organizzazione. Solo a Rimini, a Bagnacavallo ed un poco a Ferrara, contrade pervase discretamente dalla corrente delle nuove idee, nel giorno della festa del lavoro vi furono tumulti; prevalsero questi nel mezzogiorno — Napoli, Monopoli, Minervino Murge, Molfetta, Benevento, Resina, Ponticello, Giuliano, ecc. — dove possono esservi socialisti, ma non esiste affatto un partito socialista, nemmeno in embrione.
E chiudo questa cronaca sanguinosa con cifre, che, per quanto incomplete, riescono dolorose ed eloquentemente rivelatrici.
[30]
Bisogna rinunziare ad enumerare gli arresti. In un giorno c’erano oltre 500 detenuti per causa dei tumulti nelle carceri giudiziarie della sola Bari; 300 cittadini in una volta furono imprigionati a Livorno; un migliaio circa in più volte in Napoli. In Italia gli arresti, senza timore di esagerare, si può affermare, che nel periodo dei tumulti dovettero contarsi a decine di migliaia.
La statistica dei ferimenti tra i cittadini è ancora più incerta; chi è ferito nei tumulti si presume che abbiavi preso parte. Non si ammette che sul luogo ci si sia trovato accidentalmente o trascinato dalla marea; perciò se fa noto il suo stato è sicuro che egli verrà sottoposto a processo. In questo caso sarà fortuna se uscirà assolto; ma nessuno lo risarcirà mai dai parecchi mesi di carcere preventivo sofferto. Si comprende perciò che il numero dei feriti tra i cittadini denunziati dai giornali dal 26 Aprile alli 11 Maggio debba essere molto al disotto del vero; riuscii a raccoglierne circa duecento, ma con molta probabilità avranno passato il migliaio.
Più sicuro è il numero dei morti e ce ne furono cinquantuno oltre quelli di Milano. La forza pubblica non ebbe che un morto e ventisette feriti; e tra le ferite furono calcolate le leggere contusioni. Nella forza pubblica le lesioni furono quasi tutte lacero-contuse. Il popolo in armi, che movevasi in seguito a complotto preordinato da lunga mano, non possedeva che sassi e bastoni!
[31]
Le notizie delle sommosse e dei tumulti che il telegrafo comunicava ai giornali e che questi diffondevano in ogni angolo d’Italia avevano eccitato la opinione pubblica nella misura consentita dalla inerzia morale e intellettuale, da cui è afflitto il nostro paese; l’eccitamento raggiunse il colmo suo in tutte le classi sociali, nelle sfere politiche, nei rappresentanti del governo, quando corse la prima voce che la sommossa incomposta per fame del mezzogiorno si era trasformata in rivolta a Milano e che la rivolta poteva divenire rivoluzione. Un pubblicista, conservatore di merito in Napoli, non esitò a ricordare la famosa risposta del Liancourt a Luigi XVI. (Corriere di Napoli).
Non poteva essere diversamente. L’importanza della città di Milano e le sue condizioni, note ed in parte esagerate, facevano presumere che i moti del resto d’Italia dovevano assumere carattere diverso riproducendosi nella capitale morale; sicchè appena si seppe delle prime dimostrazioni del giorno [32] 6 maggio osservossi un notevole mutamento nel linguaggio dei giornali conservatori e degli altri, che rispecchiavano le opinioni delle sfere governative.
Si cominciò a tacere delle cause economiche, che avevano determinato i primi tumulti, e si segnalò con accenni vaghi e timidi da principio, più recisi e chiari in appresso, l’azione dei partiti sovversivi — repubblicani, clericali e socialisti, — il complotto, la preordinazione voluta e cosciente di tutti quei movimenti che erano stati considerati con singolare unanimità spontanei, improvvisi, e sottratti all’influenza di qualsiasi partito politico. In questa guisa tutto l’interesse e tutta l’attenzione della frazione della nazione che pensa e partecipa alla vita politica concentrossi su Milano, da cui possono prender nome tutti gli avvenimenti luttuosi della primavera del 1898. E dal carattere reale o artificiosamente attribuito agli avvenimenti di Milano presero l’intonazione tutti i provvedimenti politici, che costituiscono uno dei periodi della più stolta e ingiustificata reazione, che abbia attraversato l’Italia nuova.
A Milano, perciò, si assomma la storia dei tumulti di cui c’intratteniamo ed è indispensabile esporre colla maggiore esattezza possibile quali furono i fatti che vi si svolsero dal 6 al 9 maggio, onde assegnare le rispettive responsabilità agli attori del dramma e riuscire al giudizio complessivo equanime sull’opera del governo.
Non è facile fare la cronaca imparziale, obbiettiva, degli avvenimenti ai quali si ha assistito o si ha preso parte diretta o indiretta; l’impresa è più ardua quando chi scrive è uomo di parte. È bene, [33] però, che chiunque desidera che la luce si faccia intera, a tale impresa si accinga, perchè su ciò che può esservi di errato nella narrazione, dai viventi possa venire la rettifica o la smentita opportuna.
Comincio, adunque, sereno la cronaca dei fatti di Milano; per la quale si ha un documento importante nei resoconti stenografici dei processi, che si svolsero innanzi ai Tribunali militari. A proposito dei quali non si deplorerà abbastanza la condotta insana del Generale Bava-Beccaris, che sottrasse elementi preziosi per la storia colla censura esercitata sulla stampa e coi tagli fatti eseguire negli stessi resoconti stenografici dei processi[7].
I tumulti di Milano prendono le mosse da un manifesto che i socialisti indirizzarono il giorno 6 ai cittadini. In esso si domandava la restaurazione della libertà e della giustizia, l’abolizione dei privilegi, [34] la guerra al militarismo, il suffragio universale e si concludeva chiamando il paese a salvare se stesso per evitare nuove stragi.
Si può discutere sulle opportunità di questo appello; è indubitabile, però, che il suo contenuto non era criminoso: ogni singolo punto del medesimo era stato impunemente più volte e in vario modo discusso ed affermato. Pensarono diversamente le guardie di Pubblica Sicurezza pel malvezzo prevalso d’intervenire sempre e passarono all’arresto di un distributore presso Ponte Seveso.
L’arbitrio era reso pericoloso dall’eccitamento degli animi ed ebbe quelle conseguenze dolorose che la più elementare prudenza doveva far prevedere. Gli operai, in gran parte appartenenti allo stabilimento Pirelli, in via Galilei, protestarono e chiesero la liberazione degli arrestati accompagnando la richiesta con urli e fischi contro gli agenti della forza, il cui contegno fu provocante oltre misura. I sassi volarono contro la delegazione della questura in Via Napo Torriani; e sassi furono lanciati contro lo stabilimento Stigler perchè gli operai non vi lasciavano il lavoro. In questi episodi vennero operati altri arresti.
Una commissione di operai con a capo il socialista Dell’Avalle si portò dalle autorità di pubblica sicurezza scongiurando che si lasciassero in libertà gli arrestati per disarmare l’ira popolare. La preghiera fu ascoltata per metà: due furono rilasciati ed un terzo, Amadio Angelo, venne trattenuto col pretesto che era stato colto coi sassi in mano. L’ottenuta parziale liberazione incoraggiava nella insistenza da un lato, mentre la negata [35] liberazione dell’altro esasperava gli animi maggiormente.
In questo primo tafferuglio non vi furono che delle contusioni, per colpi di pietra; ma non doveva tardare l’intervento della truppa invocato insistentemente dalla questura e che doveva riuscire micidiale. Il primo picchetto, del 47 fanteria alle 15,30 fu schierato verso la fronte dello stabilimento Pirelli, dove lavoravano 2400 persone. Altra truppa arriva un poco più tardi e si dispone sempre nei pressi dello stabilimento suddetto. Alle 16,30 un battaglione del 57 fanteria prese posto nell’Ippodromo del Trotter. Così si trovano di fronte gli elementi dell’incendio e non occorre che una scintilla perchè esso divampi.
Quando più viva era la dimostrazione e gli operai evocano indignati l’uccisione di Muzio Mussi, i deputati Turati e Rondani sovraggiungono sul luogo e si rinnovano i consigli di calma dati prima dal Dell’Avalle; il consiglio avvalorano colla promessa della liberazione dell’Amadio, coll’annunzio dell’abolizione del dazio comunale sulle farine e sui cereali.
Alle ore 18 comincia per gruppi l’uscita degli operai dello stabilimento Pirelli e la gente sulla via Galilei si sfoga gridando: Evviva Turati! Evviva Rondani! Abbasso il governo provocatore! Parlano di nuovo i due deputati socialisti e pare che ogni pericolo di conflitto sia scongiurato.
Ma un gruppo di persone, da 200 a 300 — in gran parte donne e fanciulli — si avviò, cantando l’Inno dei Lavoratori, verso via Ponte Seveso e Andrea Doria e fischiando gli agenti di polizia, tra i quali [36] un certo Viola, el calabres, assai inviso perchè tra i più petulanti nelle provocazioni. Si torna a domandare la liberazione dell’Amadio e si scagliano di nuovo sassi contro l’ufficio della Questura in via Napo Torriani. Alle 19 circa esce dal Trotter una compagnia di fanteria che viene accolta anche essa a fischi ed a sassate. Una pietra, dice il Corriere della Sera, colpì in fronte un soldato. «Questo fatto, continua lo stesso giornale, le cui parole riproduco testualmente, parve l’ordine di reagire con la forza alla forza; e dalla truppa partirono otto o dieci colpi di moschetto, pare, sparati in aria. Fu quello un momento di panico e di confusione. Molti dei dimostranti parevano disposti a resistere anche di fronte alle schioppettate e seguitavano a lanciar sassi; ma i più spaventati fuggivano a rompicollo, spingendo, rovesciando quelli che si trovavano di ostacolo sui loro passi. Le guardie della sotto brigata uscivano con le rivoltelle in pugno, sparando esse pure, mentre altri colpi partivano dalla truppa. Il parapiglia durò pochi minuti, ma ebbe esito letale» (N. 124).
Infatti vi lasciarono la vita nello stesso giorno un certo Savoldi e l’odiata guardia di Pubblica Sicurezza, il Viola, ch’era in borghese e che per dare da vicino la caccia ai dimostranti trovossi insieme a loro fatto bersaglio alle scariche dei soldati. Affermasi, anzi, che fu proprio il Viola che uccise il Savoldi. All’indomani cessò di vivere uno dei feriti più gravi, l’Abbiati. Numerosissimi i feriti. La giornata lugubre ebbe uno di quegli epiloghi di una spontanea teatralità, che impressionano le menti le meno eccitabili. Il Savoldi, raccolto da pietosi [37] operai, fu messo sul tram elettrico per essere condotto all’ospedale dei Fatebenefratelli. Ma durante il tragitto morì. Fu ricondotto, sempre in tram, ed accompagnato da operai in Piazza del Duomo, dove formossi un assembramento di circa 500 persone. La polizia voleva impossessarsene; ma i compagni di lavoro non se lo lasciarono strappare dalle mani e lo condussero al Cimitero Monumentale.
La passeggiata di quel cadavere pareva invocasse vendetta; e vendetta chiedevano gli operai. L’ucciso la meritava. Dalla testimonianza del Commendator Pirelli innanzi al Tribunale Militare si seppe che il Savoldi era un operaio che aveva lavorato tutto il giorno nel suo stabilimento e che si trovava nella folla per curiosità. (Udienza del 28 Luglio).
Qualche cosa di grave sarebbe avvenuto in Milano la sera del 6; ma un provvidenziale acquazzone alle 20 sciolse l’assembramento di Piazza del Duomo. Più tardi la Galleria, i Portici settentrionali e la Piazza del Duomo furono affollatissimi e si cantò l’Inno dei Lavoratori; ma riuscì agevolmente alla forza di fare sgombrare. Vi fu qualche arresto e qualche spiacevole incidente; ma a mezzanotte tutto era finito.
È necessario assodare la responsabilità di questa prima giornata; ciò che avvenne dopo non fu che la conseguenza fatale.
È innegabile l’illegalità dei primi arresti, che procurarono le dimostrazioni e la sassaiuola per ottenere la liberazione degli arrestati. A parte ogni altra considerazione di ordine politico e sentimentale, è del pari innegabile che si continuò nella illegalità [38] nel momento in cui si arriva alla catastrofe. Mancarono infatti i tre squilli di tromba voluti dalla legge per intimare lo scioglimento di una dimostrazione. Il Corriere della sera, la cui narrazione dei fatti pare tutta intesa ad attenuare la responsabilità della forza pubblica e delle autorità, parla di un solo squillo di tromba dato dalle guardie di pubblica sicurezza; ma non fa menzione di alcun squillo al momento in cui la truppa fa la sua scarica micidiale.
I tentativi di resistenza dei dimostranti sono una semplice ipotesi non avvalorata da alcun elemento di fatto; le scariche sin dalle prime dovettero mirare a colpire, perchè la fuga precipitosa cui si dettero gli operai non consentiva, se non come espressione di ferocia, la continuazione del fuoco; e i morti e i feriti caddero colla prima scarica, tanto improvvisa, che non dette tempo alla guardia Viola di ritirarsi.
L’illegalità fu aggravata dalla mancanza assoluta di tatto politico. Anche se l’Amodio fosse stato un pericoloso delinquente — ed era un inerme ragazzo; anche se avesse confessato il grave reato di avere scagliato delle pietre, in quell’ora di grande eccitamento, dinanzi ad una folla numerosa e tumultuante, sarebbe stato atto savio lasciarlo in libertà — salvo a riprenderlo e processarlo più tardi, se di processo e di pena, ritornata la calma, lo si fosse ritenuto meritevole.
Che la prudenza consigliasse la liberazione lo riconobbe il comm. Pirelli, uomo d’ordine per eccellenza e tanto alieno dalla sovversione che non volle contaminato il balcone del proprio stabilimento permettendo [39] che l’on. Turati facesse opera di pace colla sua valida ed ascoltata parola. Fu il Pirelli, che sin dal primo momento chiese telefonicamente alla Questura la liberazione dell’Amodio; e fu il Pirelli che da buon politico avvertiva il Questore dei pericoli cui si andava incontro ostinandosi nel rifiuto, che poscia confessava al Turati — che richiedevalo di notizie delle pratiche fatte inutilmente presso la Questura per rimuovere la causa occasionale del disordine. Quando le pratiche furono rinnovate con insistenza dai deputati Turati e Rondani, il signor Questore all’imprudenza volle aggiungere il mendacio; in un momento insolito di tenerezza per la legalità scusossi di non potere liberare l’Amodio perchè non era più in sua facoltà il farlo, avendolo deferito all’autorità giudiziaria. E non era vero; e la falsità del pretesto venne subito dimostrata dalla risposta data dal Procuratore del Re allo stesso Turati, che rapido era corso da lui per ottenere dall’autorità giudiziaria ciò che era stato negato dalla autorità di Pubblica Sicurezza[8].
Forma un contrasto stridente colla condotta inqualificabile della Questura quella ammirevole e pacificatrice dei socialisti più noti. Il Dell’Avalle sin dai primi momenti fu sul luogo e consigliò vivamente la calma e s’intese col Pirelli nel consigliare a chiedere la liberazione del detenuto. A lui si unirono tosto gli onorevoli Turati e Rondani per tale intento.
[40]
Due volte parlò nelle strade il Turati e parlò pure il Rondani e fece pena il vedere innanzi al Tribunale Militare come si accanisse l’Avvocato Fiscale nel contorcere il senso delle loro parole, astraendo completamente dalla gravità del momento in cui furono pronunziate, dalle intenzioni chiare univoche di coloro che le pronunziavano, dall’effetto prodotto e dallo scopo raggiunto.
Si ammetta pure la versione più rivoluzionaria dei discorsi dei due deputati socialisti e si riconosca pure che essi abbiano voluto scongiurare il pericolo presente promettendo una futura levata di scudi: non è evidente che essi in tal modo soltanto potevano esercitare un’azione moderatrice sulla folla esaltata? Ogni altro linguaggio avrebbe fatto perdere la popolarità agli oratori senza ammansare gli esaltati.
L’intenzione del Turati era tanto retta e pacificatrice che ai tumultuanti annunzia e promette anche ciò che non aveva ancora ottenuto: la liberazione di Amodio; egli era tanto sicuro nel tentativo di disarmare i tumultuanti che si affretta a dare la buona novella della deliberazione della Giunta sul dazio comunale sulle farine e sui cereali; e la opera sua fu così efficace, che dove essa spiegossi raggiunse l’intento. Lo riconobbe il Corriere della Sera.
Erano dunque ben strani rivoluzionari questi socialisti che nel momento del massimo fermento, quando la loro parola può trasformare il tumulto in rivolta, consigliano ed ottengono la calma! E non è una delle minori enormità di questo periodo tristissimo di reazione l’insano tentativo di attribuire [41] a colpa degli accusati ciò che costituiva il loro migliore titolo per ricevere azione di grazie anzichè punizione[9].
[43]
Il sangue corso nelle vie di Milano nella sera del 6 maggio doveva farne versare dell’altro nei giorni successivi. Era facile prevedere che qualche cosa di più grave poteva avvenire e all’indomani le autorità politiche, militari e amministrative avrebbero dovuto prendere provvedimenti adatti per calmare gli animi e prevenire i disordini.
Nulla di tutto ciò; le misure adottate, intese ad intimidire, non potevano che sovreccitare gli animi ancora di più. Solo nel pomeriggio del giorno 7 comparve un manifesto a firma del sindaco Vigoni, che invitava alla calma!
In quel manifesto mancava il calore sincero, che occorreva in quei momenti; era scialbo e rispecchiava lo stato di animo di coloro che lo avevano redatto — coscienti che non c’era corrispondenza di sentimenti tra l’anima del popolo e quella dei suoi rappresentanti legali; ed armonia d’intenti non [44] poteva esservi tra un sindaco e i suoi rappresentati, quando il primo potè proclamare la sua città travolta da un’onda di barbarie e potè invocare in nome della paura lo stato d’assedio, che non avevano potuto ottenere prima i telegrammi del Generale Bava e del prefetto Winspeare (Secolo, 8 Settembre 98). Mai come in questa circostanza fu avvertito il danno e il pericolo di questa dissonanza!
In quanto alle parole di pace del Comandante del corpo di armata e del Prefetto, si comprende che non potevano essere ascoltate, perchè erano ritenuti — a torto o a ragione — responsabili dei fatti del giorno precedente. A loro non restava che far sentire la voce della minaccia e la fecero sentire nelle ore pomeridiane — poco dopo che avevano fatto appello al patriottismo di Milano — colla proclamazione dello Stato d’assedio.
Intanto era dato l’impulso sin dalle prime ore del mattino al movimento, che doveva più tardi terminare tragicamente. Gli operai, addolorati e indignati pei fatti del giorno precedente, volevano manifestare i loro sentimenti astenendosi dal lavoro. La decisione fu presa in principio da quelli dello stabilimento Pirelli; gradatamente venne comunicata ed accettata da quelli di quasi tutti gli altri stabilimenti della città e dei sobborghi.
Si è scritto e detto che gli operai in grandissima maggioranza erano contrari alla cessazione del lavoro: ma la facilità colla quale venne eseguita dapertutto, anche se chiesta da sole donne — come constatano i rapporti ufficiali — prova che ciò non è esatto. Mancarono i segni di un qualsiasi dissenso.
[45]
In questa guisa la valanga dei dimostranti partita dallo stabilimento Pirelli andava ingrossandosi e verso mezzogiorno era composta di parecchie migliaia di persone. Il Corriere della Sera osserva che «all’avanzarsi di quella minacciosa marea si chiudevano precipitosamente i portoni delle case ed i negozi; e quanti ne uscivano andavano ad aumentare la folla dei curiosi.» (N. 125). E che si trattasse di curiosi lo stesso giornale ripete più esplicitamente più oltre in un appello intitolato: A casa, a casa! nel quale deplorava che «quando più grave e penoso si fa il dovere dell’Autorità militare, proprio nei punti ove il tumulto facilmente degenera in tragedia, si affolla una moltitudine di curiosi, quasi fossero devoti ad un nuovo genere di sport».
In questa constatazione preziosa c’è tutto lo spirito che animava la massa dei dimostranti; era composta di curiosi! E mi piace ripetere il punto ammirativo dello stesso Corriere. Che fossero curiosi verrà confermato più in là. Era minacciosa la folla? È una gratuita supposizione non corredata da alcuna prova. Se tra migliaia di persone se ne trova una — dato che il fatto sia vero — che dice ad un grande industriale, il Grondona: È venuta l’ora per noi di non lavorare più e di vedere sgobbare voi altri! ciò dimostra che non mancava qualche esaltato.
Mancò qualunque violenza, qualunque aggressione contro gl’industriali; e se questi furono previdenti ed avveduti, specialmente il Pirelli, gli operai, si potrebbe soggiungere — tenendo conto dei fatti — si mostrarono pieni di benevolenza verso i padroni. Il grido: Morte ai signori! se realmente fu emesso [46] da qualche pazzo, non rispecchiava le intenzioni dei lavoratori.
Ma delle intenzioni pacifiche della immensa massa si ha la irrefragabile testimonianza nei fatti, che valgono più delle insinuazioni. Non c’erano armi tra i dimostranti — e in buona parte erano donne e fanciulli — e non commisero alcun atto che potesse far fede delle loro intenzioni ostili.
In quel giorno malaugurato sarebbe bastato che — come in Roma per la dimostrazione Frezzi — la forza avesse brillato per la sua assenza e Milano dopo poche ore avrebbe ripreso la fisonomia ordinaria di città colta, tranquilla e industriosa. Invece chi stava a capo del governo — invido degli allori raccolti da altri in Sicilia; forse spronato da volontà diverse — volle mostrarsi forte e dette istruzioni conformi ai propositi. Perciò, sin dalle prime ore del giorno, uno squadrone di cavalleria fece una perlustrazione nelle adiacenze degli stabilimenti industriali: adiacenze che presentavano la tranquillità abituale (Corriere della Sera).
La piazza del Duomo venne occupata militarmente da fanteria, cavalleria e artiglieria sotto il comando di Bava Beccaris. Chiuso dai bersaglieri lo sbocco della Galleria verso la Piazza del Duomo; dalla cavalleria lo sbocco della piazza verso il Corso; da alpini e fanteria via Mercanti, via Torino, via Carlo Alberto, via Rastrelli: militarmente occupate tutte le porte della città. Era evidente che l’autorità militare aveva preso tutte le disposizioni strategiche contro una rivolta di là da venire e di cui mancavano i segni precursori. Queste disposizioni, intanto [47] come avviene sempre in casi simili, non potevano esse stesse che provocare la rivolta.
I dimostranti, rei di cantare l’inno dei lavoratori, ebbero le prime cariche della cavalleria nel Corso di Porta nuova e nelle vie adiacenti e fuggirono. «L’intero reggimento di cavalleria, lascio la parola al Corriere della Sera, percorreva di continuo al trotto in colonne serrate e sparse, le vie Principe Umberto, i viali Venezia, Porta Nuova e Garibaldi, via Moscova, corso Porta Nuova ed i bastioni. Tutti i negozi erano chiusi; molte finestre sbarrate; i curiosi si ritiravano spaventati. Ma un residuo del grosso della dimostrazione si ridusse in via Melchiorre Gioia, presso la Dogana. Dinanzi alla cooperativa ferroviaria tennero un conciliabolo, emettendo di quando in quando grida ed agitando in alto i bastoni, i cappelli ed i fazzoletti. Arrivò, dopo poco, una compagnia di fanteria, che venne fermata a spall-arm di fronte ai dimostranti, colla cavalleria alle spalle. Venne ordinato il pied-arm e ciò contribuì alquanto a far allontanare l’attruppamento, che si frazionò poi in gruppi e si disperse. Verso mezzogiorno le vie sunnominate, percorse incessantemente dalla cavalleria, erano quasi sgombre».
Dunque, nel conciliabolo improvvisato su una strada, si scoprono le armi dei rivoltosi: bastoni, cappelli.... e fazzoletti. I rivoltosi erano tanto decisi alla lotta, che si disperdono al semplice comando di pied-arm....
Testimoni oculari, invece, narrano di modi straordinariamente provocatori adoperati da ufficiali e sott’ufficiali, da guardie di pubblica sicurezza e da carabinieri e che contribuirono ad invelenire gli animi.
[48]
Si può ammettere che ci siano delle esagerazioni; comunque, i fatti reali ed un certo cinismo mostrato da militari in via Carlo Alberto e altrove, nulla prova contro l’insieme dell’esercito. Gli esempi contrari e belli non mancarono; ed una nobile esortazione di un ufficiale ai soldati perchè non facessero uso delle armi senza l’esplicito comando, venne narrata dal Secolo; di soldati che spesso sparavano in aria narrano gli stessi testimoni oculari più corrivi ad accusare i militari. Il vero è che in questi casi, ponendo a contatto truppe armate e dimostranti inermi, devono avvenire fatalmente dei conflitti, che si risolvono in massacri; come una miccia accesa accanto alla polvere deve determinare un’esplosione. L’esperimento venne fatto in Sicilia su larga scala nel 1893; ed era stato fatto a San Luri, a Calatabiano, a Ruvo, a Corato, ecc. Ed è istruttivo che le stesse condizioni spesso riescirono agli stessi risultati anche in Inghilterra.
Queste condizioni fecero sì che il giorno 7 in più punti della città, a Porta Venezia, a Porta Vittoria, a Porta Ticinese, a Porta Sempione, in via Torino il fuoco della truppa sia stato più o meno vivo nelle ore pomeridiane e che abbia tuonato anche il cannone.
La narrazione di questi luttuosi avvenimenti che hanno dato i giornali conservatori e reazionari di Milano, lascia intendere chiaramente che mancarono i fatti provocatori degli eccidi da parte dei dimostranti, e che le fucilate vennero sempre determinate dalle insolenze e dalle sguaiataggini delle donne e dei monelli, che rappresentarono la parte più ardita e più persistente dei tumultuanti: molte donne portavano in collo i figlioletti.
[49]
È chiaro dallo insieme delle testimonianze raccolte dai resoconti dei giornali e dalle risultanze processuali, che la costruzione delle poco serie barricate — che non ebbero in verun punto veri difensori — e le deboli offese dei cittadini furono la conseguenza diretta ed immediata delle fucilate dei soldati, che stesero sul terreno parecchi morti e moltissimi feriti. E le offese non furono che quelle, che potevano venire da sassi e da tegole lanciate da mani deboli — da donne e da fanciulli — e da tetti dai quali non scorgevansi nemmeno coloro che avrebbero dovuto essere presi di mira. Ma sulle barricate e sulle armi dei rivoltosi avrò agio di ritornare.
Un testimonio oculare, che assistette a molti incidenti e ad una continuata serie di provocazioni da parte delle truppe, con maggiore precisione accorda una importanza decisiva alla scarica micidiale fatta da un plotone di bersaglieri in via Torino senza che ci fosse stato alcun squillo di tromba. Questo stesso cittadino immediatamente, in una a due altri, raccolsero un bambino di circa otto anni colpito mortalmente e lo portarono davanti al generale Bava Beccaris apostrofandolo vivacemente. Il generale dette ordine di arrestarli; ma non fu ubbidito, perchè il caso pietoso s’imponeva anche ai cervelli ubbriacati dal fumo della polvere. I tentativi di offesa che erroneamente vengono chiamati tentativi di resistenza e le barricate sarebbero stati la conseguenza del sangue versato in via Torino. Questo eccidio non trova alcuna giustificazione: tale non può menomamente considerarsi il fatto dei ragazzi arrampicati su di una scala Porta, che costretti, con cattivi modi [50] a discendere, lanciarono dei pezzi di legno, che non offesero alcuno.
In questa triste giornata, durante la quale fu commesso il cosidetto saccheggio del Palazzo Saporiti, sul quale ritornerò, all’Ospedale Maggiore e in quello dei Fate bene fratelli furono portati dodici morti e quarantanove feriti gravemente. Ma queste cifre non danno che un’idea lontana del sangue versato.
Da ogni parte della Lombardia, dal Piemonte e da Piacenza, nelle varie ore arrivarono rinforzi di truppe: fanteria, alpini e cavalleria; e in ogni punto della città si procedette alle perquisizioni e agli scioglimenti dei circoli, e delle associazioni repubblicane e socialiste e della Camera del Lavoro, con sequestro di carte innocue e di registri.
Alle 17 e mezza tutta la redazione dell’Italia del Popolo, in una a quanti si trovavano nel giornale di Via S. Pietro all’Orto per puro accidente o per doveri professionali — come il moderato avvocato Valentini — e in una all’on. De Andreis, che volle essere condotto in questura per protesta o per atto di solidarietà, viene arrestata e sospeso il giornale.
Alle 22,30 al Comando si apprende che le numerose barricate sono state tutte espugnate.
La giornata si chiude con una grande vittoria del partito moderato lombardo: alle 23 l’ispettore Latini comunica che viene anche sospeso il Secolo. L’avv. Carlo Romussi suo direttore e il suo redattore Emilio Girardi vengono trattenuti in questura.
Il fatto culminante del giorno 7 Maggio fu il saccheggio annunziato e strombazzato del Palazzo Saporiti; attorno al quale saccheggio figurano gli [51] annunziati conflitti in diversi punti della città, la resistenza degli insorti e le facili espugnazioni delle barricate sorte qua e là come segno di protesta e d’indignazione anzichè come vero mezzo di organizzare una insurrezione.
L’alba del giorno 8, in conseguenza, sorgeva in mezzo alla generale preoccupazione ed un certo squallore poteva notarsi sin dalle prime ore nella popolosa, ricca ed allegra città.
La preoccupazione non era fuori proposito. Se realmente nella popolazione ci fosse stata l’intenzione di venire ad una rivoluzione, il giorno 8, perchè festivo, si prestava benissimo; ma la giornata non fu delle più calde.
In Piazza del Duomo, occupata da cavalleria, fanteria e artiglieria, mantiene il suo quartier generale Bava Beccaris, quasi a dirigere le operazioni di guerra; operazioni nelle quali non si potè ammirare l’unità e la intelligenza della direzione, ma che spiccano per la facile e disumana energia.
In molti punti si assicura che sorgono barricate e da molte finestre si afferma che partono colpi di fucile e di rivoltella contro le truppe. Quanto valgano le prime e quanto veri i secondi si vedrà in appresso; rimane certo che la ragazzaglia e molte donne ostentano la loro antipatia all’esercito con qualche insolenza, con qualche innocuo sasso e con molti fischi.
Ufficiali e soldati ricambiano queste manifestazioni con fucilate e puntate di baionetta, che ammazzano e feriscono; e la cavalleria ce l’ha specialmente contro le donne, che contando sulla generosità dei cavalieri, in qualche punto sperarono [52] sbarrare la strada coi loro corpi: furono calpestate inesorabilmente. A Porta Ticinese, in Piazza Sant’Eustorgio, nel Corso e nel Sobborgo San Gottardo, a Porta Ludovica, a Porta Tenaglia, a Porta Sempione, a Porta Romana, ecc., vi furono i soliti incidenti luttuosi cominciati colle rincorse tra soldati armati e ragazzi che urlano e fischiano e terminati colla uccisione e col ferimento di molti cittadini.
Il cannone tuonò lugubremente in diversi punti e in più volte, specialmente al Corso San Gottardo e in Piazza S. Eustorgio. L’affare dovette essere grave in Corso S. Gottardo, perchè c’era da fare contro i 2000 studenti venuti da Pavia e armati di rivoltella: tanto risoluti che i pattuglioni di cavalleria non poterono disperderli e n’ebbe ragione soltanto il cannone! (Perseveranza 9 Maggio).
Nell’insieme la giornata passò in modo migliore di quello temuto: l’avvenimento più caratteristico fu l’arresto dell’on. Turati e della dottoressa Koulichoff e degli on. Costa e Bissolati, ch’erano corsi a Milano alla notizia divulgatasi in Italia della morte del primo.
Tutti i prigionieri furono condotti al cellulare scortati dalla cavalleria e dalla fanteria in piena disposizione di battaglia.
Colla ripresa del lavoro il lunedì, giorno 9, avrebbe dovuto ritornare completamente la calma; così non piacque allo zelo repressivo delle autorità politiche e militari che il lavoro proibirono e che scovrirono il maggior pericolo di rivoluzione che abbia corso Milano e lo distrussero con l’usata energia.
[53]
Lasciando da parte i minori incidenti, il pericolo in discorso fu visto nella zona da Porta Vittoria a Porta Venezia che ebbe per centro Porta Monforte. Qui, secondo la fervida immaginazione del Generale Bava Beccaris e della stampa moderata, nel convento dei Cappuccini si asserragliarono gl’insorti ed organizzarono vigorosa resistenza, coadiuvati dalle fucilate delle case adiacenti; ma superata valorosamente dai bersaglieri, che rinnovarono le prodezze della Cernaia, prendendo di assalto la improvvisata fortezza, sulla quale il cannone aveva aperta una breccia superiore nell’importanza a quella di Porta Pia....
I soldati arrestarono gl’insorti, i cappuccini loro complici e gli studenti travestiti da cappuccini e li condussero nell’atrio della Prefettura prima, e al cellulare dopo....
Di questo movimento i giornali di Milano del 9 e 10 — compresa La Lombardia — dettero una narrazione paurosa; e fortunatamente fu l’ultimo atto dell’insurrezione di cui ebbero ad occuparsi.
Qui si pone termine alla sintetica esposizione dei tumulti della capitale lombarda: cominciati per imprudenza e testardaggine dell’autorità politica il giorno sei; continuati per la fretta d’intervenire e di mettere in contatto truppe e cittadini eccitati il giorno sette — quando si denunzia il preteso attentato contro la civiltà coi saccheggi e colle devastazioni; — il giorno 8 — quando si crede completare la eliminazione delle menti direttive coll’arresto dei deputati socialisti; — e il 9 — quando si pensa di schiacciare la testa all’idra insurrezionale colla espugnazione del convento di via Monforte.
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In due successivi capitoli si troveranno dettagli e schiarimenti, che metteranno il lettore in condizione di potere apprezzare equamente l’entità dei fatti sin qui sommariamente enunziati. Ora mi limito a notare con tristezza le voci corse e i fatti assodati, che possono in modo complessivo fare giudicare il carattere dell’azione militare.
Non raccoglierò le voci che narrano del cinismo di alcuni ufficiali di cavalleria, che parlarono del poco numero dei morti come se si fosse trattato di una battaglia contro nemici stranieri; nè le altre, di ufficiali di fanteria e dei bersaglieri, che sciabolarono i soldati che non volevano sparare o miravano male. Non le raccolgo, quantunque corrano ancora in Milano dopo sei mesi, perchè le credo messe in giro in momenti di eccitamento e di passione, che fanno travedere uomini abitualmente calmi e che pur serbandosi in buona fede inventano o esagerano. Mi piace, invece, insistere sulla condotta umana e prudente di molti ufficiali, che raccomandavano ai soldati di non reagire contro le provocazioni dei ragazzi e delle donne, mostrandosi longanimi e pazienti.
Per quanto si sia intenzionati di gettare un velo sul passato, pure giustizia vuole che si rilevino alcune particolarità innegabili, che indicano la via per trovare i veri responsabili del massacro di Milano.
È innegabile, infatti, che la repressione assunse talvolta un carattere individuale odioso: si sparava ai singoli individui che si affacciavano alle finestre, che attraversavano una strada in fretta per condursi alle loro abitazioni.
Si fecero scariche in punti deserti — come in via Pioppette il giorno 7, dove rimase ucciso un [55] cittadino che transitava. Si sparò quasi sempre sulla folla, che fuggiva. Si sparò dai bastioni contro le case le cui imposte delle finestre erano chiuse e vi furono freddati individui che si portavano da una stanza all’altra[10]. Si dette la caccia ai ragazzi che occupavano i tetti; caccia descritta dalla Perseveranza nei termini seguenti: «Allora i carabinieri salgono colla consegna o di fermare i ragazzi sui tetti o di sparare.... Avviene una caccia sui tetti. Qualcuno si ferma, altri non odono ragione e vengono freddati a colpi di revolver. Sul tetto di casa Saporiti in breve vi sono due morti e quattro feriti gravemente». (Numero del giorno 8 Maggio). E tra quei ragazzi alcuni erano di dodici e tredici anni; ed erano tutti inermi; e nella peggiore delle ipotesi non potevano che scappare senza poter nuocere ad alcuno....
Questi fatti resero credibili alcuni altri insistentemente smentiti; e fu smentito solennemente dall’Avvocato fiscale Bacci l’uccisione di un fanciullo di dieci anni con un colpo di revolver per parte di un carabiniere; alcuni non negano, ma rettificano affermando che la vittima vi perdette soltanto un occhio. Furono riferiti dai giornali e non smentiti questi casi pietosi e raccapriccianti — di cui qualcuno olezzante poesia rivoluzionaria.
Il giorno 7 un gruppo di giovani seguiva un operaio nel Corso Garibaldi, che portava, mostrandolo ai passanti, un berretto contenente materia molle biancastra; diceva che fosse il prodotto dei [56] cervelli di sette ragazzi. La Perseveranza corregge sulla fede di un medico: Nel berretto c’era il cervello di un solo uomo. (N. del giorno 8 maggio). Nello stesso giorno 7, nei giardini pubblici, di fronte al Palazzo Rocca-Saporiti e precisamente nel punto indicato da una pozza di sangue, ove nella mattinata era rimasto ucciso da un colpo di revolver un ragazzo undicenne, fu piantato un palo sormontato da una corona intrecciata di foglie verdi e margherite, e da un cartello con frasi di pietà per la vittima e di sdegno contro gli strumenti crudeli della borghesia (Lombardia N. 125).
Non accordo realtà alla leggenda, che si forma in tutte le guerre civili, del soldato che uccide la sorella che si trova nelle fila degli insorti e che si è ripetuta per Milano; ma non si può negar fede a questo episodio, che per ultimo narro.
Nel settembre, alla redazione del Secolo risorto, presentossi un vecchio abbonato, che consegnò al cronista due lire perchè le destinasse a qualcuno delle famiglie delle vittime dei tumulti di Maggio e narrò: «Sono i risparmi della mia povera nipotina novenne, anch’essa curiosa, ed uccisa nei moti dello scorso maggio». Il giorno era uscita insieme a suo zio per impostare una lettera al padre lontano; nella quale, dati i pericoli del momento, lo si pregava di non ritornare subito in patria. Per via la scheggia di una cannonata — la prima sparata — le squarciò lo stomaco. Fu portata a casa informe cadavere «Oggi, continuò il vecchio, frugando tra i suoi abitini che mi erano venuti tra le mani, in una borsa trovai due lire: erano i suoi piccoli risparmi; a nessun miglior uso possono servire [57] che a beneficare l’orfanello di chi, come lei, cadde vittima della reazione». Il povero vecchio andò via piangendo!
Il dolore suscitato da questi incidenti caratteristicamente tristi delle lotte civili non può essere lenito che dal ricordo degli atti umanitari; e la stampa di quei giorni, con giusta ragione, dette lodi al Senatore Negri, che affaticossi nel fare preparare bende e barelle.... Egli — il capo incontestato degli uomini politici che avevano voluto la reazione e che dalla reazione speravano trarne i maggiori profitti — adempiva scrupolosamente al suo dovere di capo della Croce Rossa!...
[59]
Il movimento politico sociale che in quest’ultimo quarto di secolo si è svolto con meravigliosa rapidità ed intensità tra i popoli civili era stato lento e stentato in Italia. Le cause di questo ritardo nella sua evoluzione sono parecchie e degne tutte di uno studio speciale; qui basta enumerarle: mancanza di uno sviluppo industriale e di relativa concentrazione ed organizzazione delle classi lavoratrici, analfabetismo, miseria, deficiente libertà ed educazione politica rudimentale, esaurimento derivante da un lungo periodo di cospirazioni, di rivolte e di guerre per conseguire l’unità e l’indipendenza dallo straniero, servilismo infiltrato nelle ossa delle popolazioni per la servitù per secoli durata, differenze ed antagonismi regionali che paralizzano molte forze ed energie locali e che, abilmente sfruttate, servono a comprimere le une per mezzo delle altre, ecc.
[60]
Di questo ritardo nella evoluzione politico-sociale si risentono tutte le classi: le dirigenti come le cosidette classi inferiori. Ond’è che mentre nelle ultime manca la coscienza dei propri diritti e l’aspirazione generale ad un tenore di vita più umano — mancanza contrassegnata dalle alternative tra la rassegnazione ignominiosa e le esplosioni selvagge — nelle classi dirigenti, invece, c’è l’avversione verso le innovazioni e la credenza in diritti propri, che rappresentano una sopravvivenza del tramontato regime feudale. Queste condizioni, si sa che sono più vive nel mezzogiorno e nelle isole; il settentrione è stato maggiormente penetrato dalla corrente della vita moderna. Non tanto, però, da aver modificato sensibilmente la costituzione politica e intellettuale della maggioranza delle classi dirigenti, rimaste più reazionarie che sanamente conservatrici. Se n’ebbe la prova, con una certa sorpresa in molti, in occasione dei moti di Maggio.
Per quanto lento il movimento politico sociale elevante le classi lavoratrici, esso allarmava già le classi dirigenti che da un pezzo manifestavano il rammarico profondo e il pentimento per le meschine riforme concesse — e specialmente per la riforma elettorale politica del 1882 ed amministrativa del 1889.
I moti di Sicilia del 1893-94 manifestarono lo stato d’animo delle classi dirigenti, le quali perdonarono a Crispi le brutture di cui era macchiato, in grazia della repressione pronta e severa. Tutto perdonarono col proprio disdoro a chi aveva iniziato con fortunati auspici la reazione.
Venne Abba Garima e fatalmente produsse la Caduta di Crispi; ma caduto il vessillifero, la reazione [61] dava segni d’impazienza per riprendere la marcia trionfale interrotta dal disastro africano, nel quale c’era la complicità innegabile delle classi dirigenti.
I moti del 1898, perfettamente analoghi, e solo più generali e più vasti nelle proporzioni di quelli del 1893-94, somministrarono propizia l’occasione per riprendere l’interrotto movimento reazionario.
Questi moti da principio furono talmente violenti e si propagarono con tanta rapidità, che le classi dirigenti ne provarono paura e sbalordimento, ma rinfrancatesi man mano che il telegrafo dava notizia delle repressioni riuscite e della buona prova fatta dall’organizzazione dell’esercito — per la quale trepidarono fortemente nel momento del richiamo delle classi in congedo — ripresero con energia compensatrice della breve sosta l’opera malvagiamente reazionaria interrotta nel 1896.
Intanto nel mezzogiorno, dove queste classi dirigenti sono meno colte ed hanno minore coscienza collettiva dei propri interessi e delle proprie aspirazioni, si applaudiva al governo per la repressione ed anche la s’invocava più feroce e più continuata, ma venne meno la loro azione diretta; in Toscana e nella Lombardia, dove supponevasi che le classi dirigenti dovessero essere più illuminate e più modernamente conservatrici, invece furono esse gli elementi attivi che presero la mano al governo centrale e quasi gli imposero la reazione. La loro attività in tale senso fu in ragione diretta del pericolo da cui si sentivano minacciate: la perdita del dominio e dell’influenza a causa dei progressi rapidi della democrazia repubblicana e socialista.
[62]
La reazione, per colorire i propri disegni, si servì della menzogna e della esagerazione, che le avevano reso eccellenti servizi nel 1893-94. Allora ai buoni italiani del continente si fece comprendere che in Sicilia non erano i lavoratori che si movevano, stanchi di vessazioni e di soprusi e di spogliazione, che non erano i contadini che reclamavano la terra loro o patti agrari tollerabili se non equi del tutto; ma che l’isola fosse in aperta insurrezione per attentare all’unità della nazione ed erigersi a stato indipendente o porsi sotto la protezione non si sa bene se della Francia, o della Russia: il trattato di Bisacquino non lo definiva chiaramente.
Il giuoco riuscito allora fu ripetuto nel 1898; e sino ad un certo punto con ugual fortuna. Si scrisse che a Napoli si gridava: Vulimme ò re nusto! cioè il Borbone. Si ripetè che in Lombardia si volesse costituire lo Stato di Milano.
Di vero c’era questo solo: che a Napoli, come à Milano, il malcontento era generale e profondo e correvano per la bocca di tutti certi confronti odiosi. Ma era una menzogna che a Napoli e a Milano il tumulto avesse una bandiera politica qualsiasi.
La menzogna poi divenne gigantesca nelle proporzioni date agli avvenimenti dalle classi dirigenti che volevano sfruttarli disonestamente; ciò specialmente in Toscana e in Lombardia. Nella mite e gentile Toscana l’opera dei reazionari sorpassò tutto ciò che era da attendersi dalla paura folle che imperava sovrana a Palazzo Braschi; e i reazionari ottennero lo Stato di assedio, in tutte le provincie, di cui non sentiva il bisogno il Prefetto di Firenze, ch’era pure un avveduto uomo d’ordine e per soprammercato [63] un generale — l’ex deputato Sani. Ed a Pisa il Regio Commissario straordinario per la Toscana arriva a scorgere pericoli dove non ne vedeva il Prefetto Minervini. Sicchè si ebbe in quei momenti: un Prefetto dimissionario perchè seppe proclamate misure non chieste dalla salute pubblica; ed un altro Prefetto punito coll’aspettativa perchè non volle sciogliere delle associazioni non pericolose e non sovversive!
I disordini repressi facilmente e rapidamente nel mezzogiorno e nel centro della penisola non potevano esercitare valida influenza sull’indirizzo politico dello Stato; l’esercitarono invece e vigorosa quelli di Milano, esagerati e falsati con impudenza pari alla persistenza.
E questi uomini non esitarono a spargere in Italia, per ottenere le invocate misure, notizie tali, che fecero rinvigorire i tumulti e le sommosse e crearono pericoli reali non sospettati dagli imprudenti loro inventori e propalatori! Poco mancò che l’annunzio telegrafico: il cannone tuona da otto ore in Milano! non provocasse una vera insurrezione altrove....
«I moti di Milano, si affermò nei giornali e nei corridoi allarmati di Montecitorio, nelle sale di Palazzo Braschi, e in altre più auguste, non solo mirano ad abbattere le istituzioni, a rompere l’unità d’Italia; ma costituiscono un attentato contro la stessa civiltà».
I singoli elementi dovevano essere adeguati al giudizio complessivo e finale; perciò da un lato si ingigantirono tutti gli episodi che facevano fede della forza e della organizzazione dell’insurrezione e dei pericoli conseguenti per lo Stato; dall’altro [64] si somministrarono altri dettagli paurosi dai quali dovevasi argomentare di che cosa fossero capaci i barbari moderni, padroni di una città civile e ricca.
In tal guisa si sospingeva il governo ad una repressione pronta ed energica sino alla ferocia; e non solo si mirava alla repressione, che deve durare sintanto che c’è l’imminenza o l’immanenza del pericolo, come espressione della legittima difesa dello Stato, ma si mirava a giustificare la reazione permanente come mezzo adatto per distrurre le cause, che avevano generato i barbari moderni.
Così si diffusero con amorevole sollecitudine notizie sulle barricate, sul complotto, sulla uccisione degli alpini, sulle bande svizzere, sulla resistenza fiera — anche eroica — degli insorti, sulla impedita partenza dei treni, sulla necessità del cannoneggiamento, sulle case designate al saccheggio e alla distruzione, sul saccheggio avvenuto di Palazzo Saporiti, della Cassa di Risparmio, sulla distruzione della Villa reale di Monza; sui contadini di Corbetta che marciavano su Milano per vendicare Muzio Mussi; sui contadini bolognesi concentrati sulle sponde del Po, ecc., ecc.
Di ciascuno di questi elementi giustificatori della repressione e della reazione dirò qui rapidamente col vivo rammarico di non poterne trattare più ampiamente e di non saperne dire in forma artistica, mescolando il ridicolo colla rampogna, per flagellare gli eroi della menzogna e della calunnia.
Comincio cogli atti che dovevano far designare gl’insorti come i nuovi vandali; e perciò come tanti salvatori della civiltà gli uomini della reazione.
[65]
L’invenzione più grottesca fu quella delle case designate al saccheggio e alla devastazione nella nuova San Barthelemy anarchica e socialista colle lettere rosse — il colore adatto! — B e F che indicavano: Bombe e Fuoco. La notizia corsa per la prima fu delle prime smentite come un prodotto di una morbosa immaginazione e furono gli stessi giornali conservatori a constatare l’esistenza delle famose lettere, che, però, non erano state scritte dai rivoluzionari, ma dagli agenti della autorità municipale; la B indicava che lì presso c’era una bocca di presa dell’acqua potabile; la F era un segno pei lavori di fognatura!
Ebbe sorte più prospera, dal punto di vista degli inventori, la notizia sul saccheggio della Cassa di Risparmio e del Palazzo Saporiti; la notizia fu accreditata a Roma e non fu delle minori nel determinare la proclamazione dello Stato di assedio. Mancava ogni base al saccheggio della Cassa di Risparmio e la notizia circolò per breve tempo; c’era qualche lieve indizio per la seconda ed ebbe la sua discussione innanzi al Tribunale Militare.
E dal Tribunale Militare si seppe ciò che c’era di vero in questo episodio disonorevole per gl’insorti di Milano.
Nel terzo processo il Tribunale Militare si occupò del saccheggio del Palazzo Saporiti. — Gli accusati erano nove: di due non fu indicata l’età; sette erano minorenni tra i 14 e i 18 anni; di uno la polizia dette cattive informazioni e non trova da dire sui precedenti degli altri. Ben terribili questi saccheggiatori e ben grave dovette essere la devastazione compiuta! Sentiamo dal processo.
[66]
Un testimonio oculare, il cocchiere di Casa Saporiti, dice che avevano preso della biancheria... per fare delle barricate. Ma se essi furono arrestati sui tetti! Palazzo Saporiti è tra i più ricchi di Milano; fu completamente in mano dei barbari devastatori per alcune ore; ma in tutto non si accusa che un danno di circa ottomila lire. E fosse vero! Ascoltiamo un testimonio che vale di più del cocchiere e dei portieri; per un caso strano, questo testimone è il difensore di ufficio dei vandali imberbi. Il Barone Di Loreto, capitano dei Lancieri di Firenze, colla ingenuità di chi non apprese nelle Università il diritto e nelle aule l’arte oratoria, dice: «Signori giudici! Basta guardare il fisico e l’aspetto di Molteni e degli altri imputati per convincersi che non potevano essere devastatori e saccheggiatori. E poi, il corpo del reato dov’è? L’atto d’accusa parla di gioielli e biancheria trafugata per il valore di otto e più mila lire, mentre gl’imputati al momento del loro arresto non possedevano un oggetto d’oro, un capo di biancheria, nè altro. Io presi parte alla repressione col mio squadrone, e stetti fermo presso una barricata per dieci minuti, quando fummo avvertiti che i tetti erano occupati dai dimostranti. Dopo i tre squilli molta gente si ritirò nei Giardini pubblici e molti altri entrarono in casa Saporiti...»
È chiaro, dunque, che i saccheggiatori e i devastatori entrarono in Casa Saporiti per paura; e vi rimasero in trappola. Tentarono fuggire dal palazzo Richard, ma vennero arrestati. Se vi avessero avuto seco la res furtiva non avrebbero avuto modo di nasconderla: dal luogo del saccheggio passarono [67] al cellulare. Non importa: il Tribunale li condannava; e dà 8 anni di reclusione al Sormani e 2 anni e 6 mesi ad un Bianchi di quindici anni....
Il saccheggio di Casa Saporiti somministra materia per un altro processo. Si svolge il 26 Luglio e compariscono sullo sgabello.... tre donne. Su di una concentrasi l’accusa: la Ferrari, che piange e si dichiara innocente. Una compagna l’accusa di aver preso della biancheria; l’avv. fiscale è più preciso e tremendo: assicura che prese stoviglie, bicchieri ed altri oggetti che furono poi distrutti... La Ferrari insiste, sempre piangendo, di non aver raccolto che dei fiori....
La sventurata poteva essere creduta: fu proprio la Perseveranza del giorno 8 ad annunziare che le donne misero sossopra i giardini divellendo piante e fiori!
Ad ogni modo non prestiamole fede ed ammettiamo ch’essa abbia rubate tante stoviglie e bicchieri.... quanto ne poteva contenere il suo grembiale. Anche qui manca la res furtiva; ma si conceda che siano stati bene applicati i due anni e mezzo di reclusione appioppatile dal Tribunale Militare.
Si parlò, e ci fu il relativo processo, del saccheggio del gioielliere Amodeo. Ma il Corriere della Sera (N. 125) dà la spiegazione del fatto. Corse voce che l’Amodeo avesse ucciso un popolano con un colpo di revolver. Il colpo fu vero, e il Corriere deplorò l’imprudenza; ma non fu seguito da saccheggio a scopo di furto, sibbene da tentativo di devastazione per indignazione. Dei sei accusati, quattro erano minorenni, come risulta dal 56º processo.
[68]
Ebbene: questi fatti e questi processi autorizzano chicchessia ad atteggiarsi a salvatore della civiltà? In tutte le parti del mondo e in tutti i tempi si legge di tumulti e di sommosse che non siano stati accompagnati da reati più numerosi e più gravi? Vi sono operai, dice Louis Blanc, che la miseria tiene continuamente a disposizione dei casi imprevisti.
Per un momento, durante il perturbamento, da paura o da altro men lodevole motivo si arriva a comprendere che si creda alla menzogna ed alla esagerazione senza che si metta in dubbio la buona fede di chi la menzogna divulga; perciò si può essere disposti a perdonare la Perseveranza del giorno 8 che diceva essere quello degli insorti programma di rivoluzione, di saccheggio, di devastazione. Ma tornata la calma si può e si deve essere inesorabili verso chi continua nel mendacio e nella calunnia. Ed è dopo una settimana circa da che la repressione è compiuta e la verità si è fatta strada in tutti i giornali d’Italia che la Perseveranza scrive: «I nostri agitatori non sdegnano l’appoggio di quegli abbietti per costumi, rotti al vizio od al delitto, che continuamente escono e rientrano nelle carceri con fatale intermittenza di delitti e di castighi, e che, mentre non si mostrano nei momenti di calma, sbucano dall’ombra nei tempi di lotte cittadine; come non sdegnano l’appoggio di quegli anarchici dallo stampo francese qualificati per démolisseurs, ravageurs, barberes de la Société» (15 Maggio). E dire che la Perseveranza è l’organo del filosofo Negri!
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Il saccheggio e la devastazione di Milano ricca e colta furono inventati per suscitare l’indignazione contro i barbari contemporanei; ma queste menzogne forse non erano sufficienti per determinare l’azione energica del governo.
Chi poteva assicurare che al Ministero stessero proprio a cuore gl’interessi delle civiltà! Bisognava creare il pericolo delle istituzioni; inventare, perciò, o esagerare le forze e la resistenza dei tumultuanti. Presto fatto: donne e bambini, uomini inermi furono tramutati in combattenti, cui onestamente accordossi anche l’eroismo, che faceva comodo.
Analizziamo le creazioni dei denunziatori della pericolosa insurrezione di Milano. Ecco un primo gruppo di notizie assolutamente fantastiche: gli alpini uccisi, una compagnia disarmata, gli studenti di Pavia in marcia sopra Milano, ecc., ecc.
Di alpini uccisi si seppe a Palazzo Braschi e nei corridoi di Montecitorio; ma, malauguratamente [70] per coloro cui faceva comodo il grave fatto, nulla se ne seppe a Milano. I becchini non poterono trovare, tra i cadaveri dei cittadini massacrati, alcun soldato alpino ucciso dai tumultuanti, così del pari i superiori non poterono prender conoscenza di alcuna compagnia disarmata; come la cavalleria mandata in perlustrazione fuori Milano, le truppe appiattate nelle cascine non poterono sorprendere in marcia i duemila studenti armati di Pavia. Sperossi di trovarne qualcuno travestito da cappuccino; ma le barbe dei frati arrestati dopo la breccia erano barbe autentiche....
E si passi sopra ai diversi strombazzati assalti della stazione, alla complicità dei ferrovieri per impedire la partenza dei treni: in grazia della esagerazione della confusione, che doveva esservi in una stazione di città cannoneggiata, si ha almeno la soddisfazione di cogliere una preziosa confessione dalla bocca della Perseveranza. Eccola: «Insistente era la voce della sommossa alla stazione, con demolizione della tettoia, sciopero dei ferrovieri, arresti, fuoco, vittime. Quando ieri — il 9 — ci recammo alla stazione per assumere informazioni, trovammo l’ex onor. Zavattari che si affannava a persuadere gli increduli — increduli anche sul posto! — che nulla, nulla era succeduto. Tutti i treni andavano e venivano regolarmente, tranne, come era noto dal giorno precedente, quelli della linea Alessandria in seguito anche ai fatti di P. Genova e di P. Ticinese di ieri l’altro. Però la stazione e il difuori erano garantiti dalla truppa. Dobbiamo una parola di elogio ai facchini della stazione — il seguito dello Zavattari — che si prestarono coi migliori modi ad [71] assistere i forestieri in arrivo, specialmente alla sera, quando non c’erano più nè vetture, nè omnibus. Non ostante l’ora tarda, parecchi accompagnarono i forestieri agli alberghi». (N. del 10 Maggio).
Pare, dunque, che Zavattari si sia adoperato efficacemente per il mantenimento dell’ordine; per ciò, forse, fu arrestato e condotto innanzi al Tribunale militare, che — incredibile dictu! — lo assolvette non ostante il suo riaffermato repubblicanesimo.
Ma se fin qui siamo di fronte al fantastico, entriamo nel campo della realtà colle Bande svizzere, colla complicità di Cipriani ed un po’ anche — come nel Trattato di Bisacquino — della Francia: l’ingrediente necessario per fare effetto sulla immaginazione dei patrioti.
A tumulti finiti — si badi bene — scrivono da Torino alla diligente e onesta Perseveranza. «Voci dall’estero assai esplicite. — Mi si afferma da persona autorevole che a Parigi si sapeva quanto doveva succedere a Milano, dove la preparazione alla sommossa era stata ideata e condotta abilmente da qualcuno di coloro i quali o vennero arrestati in flagrante, oppure presero il largo. Pare che anche il Cipriani non ignorasse ogni cosa, ma che egli abbia consigliato o sconsigliato, ignoro perchè non mi si volle, o non mi si seppe dir di più. Certo la miccia venne accesa a Bari e percorse tutta linea ascendente fino a Milano, lasciando nello scoppio parecchi strascichi e numerosi addentellati a nuovi incendi ovunque il malcontento, la miseria, la corruzione, la malvagità trovavano buona presa davanti il sonno delle cosidette Autorità di vigilanza e di [72] tutela dell’ordine pubblico». (N. del 15 Maggio)[11].
Tutto questo sarebbe stato grave... se fosse stato vero. Non lo era; e a quali innocenti, anzi miserevoli proporzioni si riducesse la partecipazione dell’indispensabile Cipriani lo si apprese dal processo dei giornalisti: allo scambio di poche parole tra Carlo Romussi e il valoroso di Domokos nel passare da Milano per ritornare in Francia.
Ma chi può negare l’esistenza delle bande d’insorti italiani, che dovevano calare dalla Svizzera sopra Milano?
Le avevano organizzate l’on. Rondani e gli altri rifugiati in Lugano, Lausanne ecc; l’on Morgari aveva valicato il confine per condurle in Italia; l’Agenzia Stefani le aveva annunziate; tutta la stampa monarchica aveva protestato energicamente contro l’indegna repubblica elvetica, che non sapeva esercitare i suoi doveri di buon vicinato. È l’Opinione di Roma — l’ufficiosa di tutti i ministeri — che dà il monito alla Svizzera; e Visconti Venosta rincara la dose con una nota diplomatica.
[73]
Quanti erano gl’italiani delle bande? dove erano indirizzati? La stampa monarchica non esitò a valutarne le forze: da 500 a 5000; indicò la direzione o meglio la meta precisa: Milano. Questo è certo: le bande non penetrarono in Italia e non furono arrestate nemmeno dall’esercito, che in forza discreta venne scaglionato al confine per impedire l’entrata di questo pericoloso contrabbando.
In questa creazione delle bande svizzere c’era un nocciolo di verità, che fu ridotto alle sue giuste proporzioni sopratutto dalle risultanze processuali e dalle testimonianze delle autorità federali e cantonali — Camuzzi, Bernasconi, Primavesi e Rupa. — Le notizie false ed esagerate sugli avvenimenti di Milano avevano messo il fermento nella numerosa colonia italiana in Isvizzera; i primi esaltati socialisti — poco più di un centinaio — mossero verso il confine; vi arrivarono in dieci; non avevano nè armi nè denaro; mancavano di pane e di vestiti... (Deposizione del Consigliere di Appello Primavesi, giudice istruttore in Lugano. Udienza del 29 Luglio). Verso il confine potevano arrivare più numerosi; ma ciò fu impedito dai telegrammi, dalle lettere, dai consigli e dalle preghiere degli on. Morgari e Rondani e dell’avv. Tanzi. Rondani e Tanzi rimasero in Isvizzera. Morgari rientra in Italia, di nulla diffidando come chi ha coscienza di aver fatto doverosa opera di pace; ma n’è punito col carcere preventivo e col processo e dovette sentirsi ascrivere a colpa dal Tribunale Militare l’influenza esercitata nello scongiurare un tentativo d’invasione. Punito come Zavattari!
[74]
E siamo alle barricate. L’Italia e l’Europa seppero che a Milano i tumulti si erano trasformati in vera rivoluzione; tanto che vi erano sorte le barricate come a Palermo nel 1860 e 1866; come a Vienna, a Parigi, a Berlino, nella stessa Milano nel 1848 ecc.
La notizia, se anche vera nella sua essenza, non doveva lasciarsi circolare perchè non poteva non esercitare una influenza eccitatrice; e il governo che sopprimeva giornali e telegrammi che dicevano la verità poteva impedire la trasmissione dei dettagli di queste barricate; doveva almeno ridurle a quello che erano in realtà. Che fosse necessaria la riduzione è evidente.
Si sa dalla breve cronaca che barricate erano sorte in vari punti della città e nei tre giorni di conflitto. Stando al Corriere della Sera (N. 125) rinforzato dalla Perseveranza, queste barricate dovevano essere una cosa molto seria la cui espugnazione avrebbe dovuto costare molto sangue alla truppa, se fossero state il prodotto di una rivolta preparata con tutta la calma, mentre la truppa era impegnata in altri punti della città e non l’episodio di un tumulto improvviso. Queste barricate costituivano, secondo i giornali delle reazioni, una fortezza nel punto in cui s’incontrano corso Garibaldi, via Moscova e via Statuto; e ne avevano altre di rinforzo in altre vie collaterali. E la Perseveranza del giorno 8 scrisse che il giorno precedente soltanto a Porta Garibaldi vi furono tredici barricate sapientemente costrutte e tenacemente difese.
Chi conosce la storia delle barricate vere nelle varie rivoluzioni di Europa si attende uno svolgimento tragico. E ci fu la tragedia; molti cittadini [75] lasciarono la vita o furono feriti presso le barricate; non ve la lasciò alcun soldato o ufficiale.
Un criterio veramente infallibile sulla entità di queste barricate l’abbiamo nei processi e nelle condanne del Tribunale Militare. Il 31º processo, ad esempio, per le barricate, per così dire premeditate — quelle del Corriere — di Corso Garibaldi e Via Moscova avrebbe dovuto presentare il maggiore interesse e i più gravi accusati. Invece tra i quindici condannati la maggiore pena inflitta fu di un anno e mezzo di reclusione. Una vera miseria per difensori di barricate, che si suppongono presi colle armi in mano; ai preparatori ideali della insurrezione si appiopparono sei, dieci, quindici anni di reclusione!
Non a Milano soltanto, ma dapertutto le risultanze processuali sono riuscite a smentire le menzogne della polizia sulla gravità dei fatti. Così i delitti dei cittadini di Sesto Fiorentino, che condussero ad altro piccolo massacro, furono così terribili, che le pene inflitte ai colpevoli dal Tribunale militare di Firenze non raggiunsero i sei mesi di carcere!
La verità è diversa da quella che si vorrebbe dare ad intendere per il decoro e per la serietà dei conservatori, dei generali e dei Ministri del regno d’Italia. Queste famose barricate non rappresentano che una specie di esercizio sportivo dei ragazzi e dei dimostranti; erano poco consistenti e mancavano del requisito principale: mancavano di difensori. Si espugnavano senza alcun pericolo, senza fucilate e senza cannonate: a colpi di scudiscio. Erano una parata da teatro che non meritava il sangue di cui [76] furono bagnate. Se i processi e le pene non bastassero per giustificare questo giudizio, ci sarebbe una prova strana — in un certo senso anche umiliante: furono tranquillamente fotografate e dalla parte, naturalmente, nella quale stavano gli assalitori....
Veniamo all’ultima invenzione sbalorditoia: alla resistenza degli insorti ed alla breccia aperta nel Convento dei Cappuccini.
Per giustificare questo ignominioso episodio, s’inventarono rivoltosi e combattenti all’Acquabella e altrove. Nello stesso intento la Perseveranza del giorno 10 Maggio narrò che uno squadrone del reggimento cavalleria Milano, appena arrivato da Lodi, veniva lanciato fuori Porta Monforte e riusciva a prendere alle spalle un gruppo di riottosi, intimando la resa, minacciando la carica colle lance; e il gruppo si arrese: i 150 circa, che lo componevano, erano la più parte armati di rivoltella e altri di coltello; Falso, falso, falso!
Affare grosso quello dei Cappuccini! Infatti, dice la Perseveranza, gl’insorti, inseguiti lungo i bastioni, continuarono a sparare e ripararono nel Convento dei Cappuccini invadendolo e trincerandovisi fortemente. La truppa dovette snidarli mediante un vigoroso fuoco di fucileria. I soldati poterono accerchiare l’edifizio e la chiesa attigua. Furono circuiti e arrestati tutti i combattenti, che non riuscirono a salvarsi.
Qui siamo in piena e vergognosa menzogna. Qui, come alle barricate, mancarono gl’insorti e i difensori dell’improvvisata fortezza; in loro vece c’erano frati caritatevoli, che vennero arrestati in vent’otto, e vecchi e vecchie mendicanti che erano [77] andati a prendere la loro scodella di minestra e vi trovarono la morte.
La menzogna vergognosa viene confessata a denti stretti dal Corriere della Sera (N. 128); più dettagliatamente dalla Perseveranza (giorno 11) che sente il rimorso delle precedenti affermazioni e, forse, voleva farsi perdonare dai suoi buoni amici di una volta, i clericali. La Perseveranza ci narra che la truppa ignorava (!?) l’esistenza del convento e che si allarmò del movimento attorno al cancello — ed erano i poveri che atterriti dalle fucilate cercavano riparo in luogo, che, scioccamente, ritenevano sacro — ed aprì la breccia a colpi di cannone; è la Perseveranza che ci narra che il Padre Isaia venne arrestato e ferito — avrà ricevuto una medaglia il valoroso che lo ferì? — mentre lavava una ferita ad una vecchia....; è la Perseveranza che riproduce dalla Lega Lombarda la notizia della sorpresa che fece allibire il Prefetto Winspeare quando si trovò dinanzi quegli strani prigionieri: i frati cappuccini e i vecchi mendicanti!
Questo episodio dei Cappuccini di Monforte fu tanto enorme che l’Autorità Militare ordinò un’inchiesta; la quale dovette spiegare l’errore di chi ordinò il fuoco e la breccia, ma non potè fare a meno di condurre alla liberazione dei poveri frati — avvenuta il 15 Maggio — che devono solo alle loro condizioni se non ricevettero i loro anni di reclusione anzichè le scuse umilianti di tutte le autorità. In questa liberazione sta, però, l’implicita condanna di autorità militari, che si mostrarono deficienti di tutto — specialmente di prudenza, di umanità e d’intelligenza — e che completarono [78] i trofei raccolti nei giorni precedenti raccogliendo larga messe d’infamia e di ridicolo: infamia per avere ucciso dei poveri in cerca di pane; ridicolo per avere aperto la breccia in un inerme e pacifico convento, con cannonate che sono degne di essere messe alla pari con quelle contro i bovi del pozzo di Tata nella gloriosa campagna contro Re Giovanni nel 1887.
Riassumo. La cronaca e le poche considerazioni esposte in questo capitolo dimostrano che cosa fosse la pericolosa insurrezione di Milano. Ci sono ancora altre prove schiaccianti contro coloro che inventarono pericoli inesistenti o li centuplicarono.
Queste prove vengono somministrate: dal numero dei morti e dei feriti tra i combattenti; dalla natura della morte e delle ferite tra le truppe; dalla condizione delle vittime tra i cittadini.
Con insistenza meravigliosa, nella cronaca delle luttuose giornate di Maggio, dai giornali si narra di fucilate e di colpi di revolver partiti dalle barricate e dalle finestre delle case vicine. Ma da tutti i processi non si potè apprendere che nelle case immediatamente visitate dalla polizia e dai soldati si siano trovate armi da fuoco e combattenti. Se combattenti colle armi in mano si fossero trovati sarebbero stati certamente fucilati. E non mancava l’animo al generale Bava Beccaris di farli fucilare — a lui che avrebbe già voluto far passare per le armi l’onor. De Andreis, cui si trovò in tasca un terribile esplodente: un progetto per la illuminazione elettrica.
L’inchiesta sulla breccia dei Cappuccini avrebbe dovuto condurre alla scoperta di queste case, che [79] davano asilo agli insorti omicidi — di queste case cui il Regio Commissario straordinario consacrò uno dei tanti suoi balordi proclami.
Ma guardate, fatalità: durante l’assalto dei Cappuccini si va ad esplorare una casa dalla quale si supponeva che si fosse sparato; e in quella stessa casa si conduce, per farlo curare, un ufficiale ferito in via Moscova! Almeno a Napoli trovarono da condannare la disgraziata complice di uno studente, che sparò da una casa, ma che fu assolto... per non provato reato. A Milano nulla!
Se gli insorti spararono per tre giorni di seguito in tanti punti, tra i soldati avrebbero dovuto essere numerosi i morti e i feriti per arma da fuoco. Ma la forza non ebbe che due morti; la guardia di Pubblica Sicurezza Viola e il soldato Grazia Antonio Tommazzetti. Il primo venne ucciso da una scarica della truppa; il secondo non si sa (?!) se venne ucciso per arma da fuoco o per una caduta di comignolo sul capo. Così il Corriere della Sera (N. 130). C’è anche chi afferma, che venne ucciso da un ufficiale perchè negavasi di far fuoco contro i cittadini; ma la voce non è accreditata.
Di più. Il Corriere dà nello stesso numero l’elenco nominativo dei soldati ed ufficiali raccolti negli ospedali militari; tra ventidue feriti, due soli lo furono per arma da fuoco; tre da coltello; gli altri presentano ferite lacero-contuse o semplici leggere contusioni. Le lesioni più gravi sono per rottura dei malleoli per caduta dal cavallo. E chi garantisce che i cinque non feriti da arma contundente non siano vittime dei colpi della forza, che sparava e caricava all’impazzata? C’è da sospettarlo: [80] il Corriere (N. 132) infatti constata che il soldato Malinverni ferito da arma da taglio lo fu dalla bajonetta di un commilitone contro il quale urtò accidentalmente nel parapiglia!
Non ci potevano essere, come non ci furono, feriti d’arma da fuoco e da taglio tra i soldati perchè i terribili insorti di Milano — donne e fanciulli in massima parte — possedevano ben curiose e allegre armi. Il Corriere, la Perseveranza e gli altri giornali non videro che cappelli, fazzoletti, bastoni.... e sciabole di legno da bambini. Contro la forza furono scagliati sassi e — inorridite! — un pajo di scarpe.
E che in Milano ci fossero armi più serie lo si vide dal numero dei fucili che vennero portati al Comando Militare quando venne l’ordine del disarmo.
Ma siccome giornali ed autorità parlano con tanta insistenza di colpi di arma da fuoco.... che per tre giorni di seguito in molti punti non ammazzano nè feriscono, bisogna ricorrere ad una curiosa ipotesi: che gl’insorti sparassero a polvere, per intimorire la forza e costringerla a retrocedere amichevolmente. Ma non erano a polvere, però, i colpi di fucili e di cannone sparati dalle truppe; se ne ha la prova dolorosa nella loro micidialità. Intorno al numero dei morti corsero — anche sulla Tribuna — delle esagerazioni: si parlò di 800, di 300 morti. Accettiamo la cifra officiale, benchè ancora discussa: circa 80 morti e 450 feriti.
Se gli uccisi, se i feriti fossero stati insorti veri, anche se armati di scarpe o di sciabole di legno, avrebbero meritato la loro sorte; ma invece «alla statistica dei feriti e dei morti hanno dato una [81] straordinaria percentuale i curiosi, gl’imprudenti, i disgraziati....» Questa la confessione del Corriere della Sera (N. 127). La Lombardia (N. 126) riferì il giudizio di un professionista indignato che nel sobborgo S. Gottardo si fosse sparato non contro bande di rivoltosi, ma contro casigliani endimanchés curiosi e che non sapevano stare in casa in un giorno di primavera. E le cannonate? Non è vero, dice lo stesso professionista, che quelle a mitraglia siano state precedute da quelle a polvere; o almeno l’intervallo di pochi minuti tra le une e le altre toglieva qualunque significato di avvertimento alle ultime. Che più? È la stessa Perseveranza che riconosce che sparasi contro le finestre dalle quali affacciavansi, curiosi; e aggiunge che a Porta Garibaldi, a Porta Ticinese, a Porta Genova, a Porta Vittoria, specialmente sul corso Loreto, tratto tratto le truppe dovevano far fuoco per disperdere i curiosi! (Numero del giorno 10 Maggio). La ferocia dei combattenti di cui ci dettero notizia gli organi del Regio Commissario era tale che.... assistevano i soldati caduti. Ce lo fece sapere la Perseveranza del giorno 8. In Italia, in questo triste quarto d’ora, non è lecito commentare come si dovrebbe l’insieme di queste note sull’insurrezione di Milano; sarà lecito almeno di rilevare che dalle medesime risulta non essere stato mai in pericolo nel maggio 1898, nè la civiltà, nè le istituzioni; se pericoli corsero, nella peggiore delle ipotesi, l’una e le altre lo devono ai rappresentanti dell’ordine, i quali vollero ed eseguirono una carneficina non necessaria; e in politica niente è così disastroso e deplorevole quanto ciò che è inutile.
[82]
In Parlamento e fuori, coloro che difesero l’uccisione di oltre centocinquanta cittadini ed il ferimento di oltre un paio di migliaia, dissero, per attenuare la responsabilità degli omicidi, che lo Stato aveva agito per legittima difesa; ora, pur essendo generosi, non si può accordare che l’eccesso di difesa, che va sempre punita. La punizione verrà; ma dal Tribunale della Storia.
[83]
Qualunque sia stata l’importanza dei tumulti della primavera del 1898 e siano state anche semplicemente sportive le barricate costruite in Milano e tentate pure in Faenza, a nessuno verrà in mente di negare al governo il diritto e il dovere di ristabilire l’ordine, che — bene inteso — è condizione vera di progresso e di libertà ad un tempo. S’intende perciò la repressione immediata, anche se riesca a ferire interessi legittimi e sentimenti alti e rispettabili; ma se ne deve discutere la misura. E nessuno dei pari vorrà negare la convenienza, la necessità anzi, di questa discussione; poichè in politica l’assoluto non esiste e la misura è tutto.
Se la repressione si arresta appena cessata la sua urgente indicazione, quella troverà poche censure [84] e solleverà poche e fiacche proteste. Se la repressione continua quando è cessato il pericolo che la impose allo Stato, in nome del preteso diritto di legittima difesa, diviene reazione, che toglie a pretesto le sommosse e non si propone soltanto il ristabilimento dell’ordine.
Ancora: Della misura, e perciò della legittimità della repressione, si potrà opportunamente giudicare in seguito alla esatta valutazione dei fatti che la determinarono e delle cause di ogni specie che suscitarono i fatti stessi.
Questa conoscenza è indispensabile non solo per assegnare le rispettive responsabilità, ma anche per giudicare e prevedere quale sarà la efficacia dei provvedimenti presi — se riusciranno a mantenere lungamente quell’ordine che sta, almeno in apparenza, in cima dei pensieri dei governanti; e ad impedire, a più o meno lunga scadenza, la ripresentazione dei tumulti.
La semplice cronaca ci ha fatto già conoscere quale sia stata la loro entità; meglio e più completamente l’apprezzeremo al lume delle risultanze dei processi. Le quali saranno tanto più significative inquantochè i processi furono istruiti col minimo di regolarità procedurale e di garanzia nella difesa dei presunti rei e col massimo di severità nei giudici eccezionali, che conobbero e giudicarono dei reati. Queste risultanze, quindi, potranno peccare per eccesso; ma non si potrà sospettare che presentino attenuata la gravità dei fatti. Si può presumere anche la esagerazione, perchè in questa sta il tentativo, l’unica speranza di giustificazione della condotta del governo e delle classi dirigenti [85] che lo inspirarono e spronarono nell’azione repressiva[12].
[86]
Senza anticipare le risultanze processuali e il giudizio che potrà desumersi dalla conoscenza delle cause delle sommosse, per ora continueremo la cronaca della repressione, mettendone in evidenza alcuni dettagli che servono a gettare sprazzi di viva luce sull’indole dell’azione del governo e delle classi dirigenti.
Nelle Puglie, dove i tumulti assunsero gravi proporzioni e furono accompagnati da episodi selvaggi, come quelli di Minervino-Murge, la repressione fu breve e non uscì dai limiti del dovere e del diritto di ogni governo di garantire a tutti l’ordine. Fu in parte merito del Generale Pelloux di non avere trasmodato; in gran parte si deve alla mancanza di stimolo da parte delle classi dirigenti che non sentono alcun pericolo politico e si accontentano dell’ordine materiale.
Mancavano le ragioni di provvedimenti che uscissero dall’ordinario a Napoli e nella sua provincia; dove la repressione pronta ed energica e non duratura al di là della durata degli insignificanti tumulti sarebbe stata più che sufficiente. La proclamazione dello stato d’assedio e la istituzione dei tribunali di guerra, quindi, vennero giudicate intempestive, capricciose, suggerite da preconcetti politici e da ricordi recenti — dal ricordo delle scene dolorose dell’Agosto 1893. Il lusso di cannoni e di cavalleria nelle piazze e nelle strade di Napoli, anche prima che venisse proclamato lo stato d’assedio, venne interpretato come un espediente, pericoloso sempre, per mascherare l’intrinseca e reale debolezza militare del governo. I provvedimenti, infine, furono tanto sproporzionati al pericolo temuto, che [87] fu possibile sospettare che essi siano stati presi in odio ad una persona e ad un giornale invisi all’onor. marchese Di Rudinì e che non si potevano colpire sotto l’impero delle leggi ordinarie. Enunzio l’ipotesi, perchè più volte e da più parti ripetuta, senza nascondere che per quanto poca stima si abbia e per quanto poco stimabili siano i governanti italiani, essa non sembra credibile. Comunque, mi piace constatare che a Napoli, come nelle Puglie, mancò sul governo la pressione delle classi dirigenti in favore di una repressione trasmodante ed a suo onore ricordo, che il sindaco di Napoli, Marchese di Campolattaro, insistette presso il Ministero affinchè lo stato d’assedio, innocuo ed inavvertito per la cittadinanza, dannoso a quanti vivono dei numerosi forestieri e pericoloso solo pei Tribunali militari, venisse tolto al più presto possibile.
Altrettanto ingiustificato fu lo stato d’assedio in Firenze e in tutta la Toscana; odioso perchè fatto nell’interesse di una classe, o meglio di una ristretta casta.
Della assoluta mancanza di necessità dello stato dì assedio nella Toscana si ha la prova nella narrazione e nei commenti ai fatti che dette la Nazione, l’organo massimo dei conservatori toscani e che combatteva il Ministero Di Rudinì, perchè fiacco verso i partiti sovversivi; dei quali anzi lo diceva complice più o meno cosciente. La prova irrefragabile sta poi in questo: l’autorità politica che doveva giudicare sulla convenienza del provvedimento, il Prefetto di Firenze, nulla ne seppe ed apprese il decreto che lo esautorava e gli sostituiva un Regio Commissario straordinario, dal proclama che lesse [88] uscendo da Palazzo Riccardi. Ed il prefetto era un militare ed un accorto uomo politico: il generale Sani. Questo episodio, che non ha precedenti, viene completato dalla punizione inflitta al comm. Minervini, Prefetto di Pisa, perchè si era rifiutato di sciogliere alcune società innocue che mai erano uscite dall’orbita della legalità; scioglimento imposto dal Generale Heusch in un momento di morboso furore reazionario.
A Firenze e in Toscana lo stato d’assedio e i conseguenti Tribunali militari, non giudicati necessari dalle autorità politiche locali, le sole competenti sulle misure opportune e sconsigliati dagli onor. Nicolini e Brunicardi, vennero chiesti ed ottenuti, dalle consorterie politiche locali, verso le quali il Ministero Di Rudinì, nella folle preoccupazione di superare in energia Francesco Crispi, ebbe il torto imperdonabile di mostrarsi condiscendente[13].
Lo stesso avvenne a Milano ed in Lombardia; dove almeno il Prefetto ed il generale comandante la direzione chiesero il provvedimento eccezionale, ma non fu concesso se non in seguito a telegramma del sindaco della capitale morale ed alle pressioni [89] esercitate sul governo da una frazione del partito conservatore lombardo. I fatti di via Napo Torriani del giorno sei, cagionati più che altro dalla imprudenza e dalla cocciutaggine della questura, non avrebbero mai potuto giustificare la proclamazione dello stato d’assedio in una città come Milano; e l’insieme degli avvenimenti autorizza a sospettare poscia che la continuazione dei tumulti, sino alla breccia tragicocomica aperta nel convento dei Cappuccini, furono se non voluti e provocati, come qualcuno si arrischia a dire, certo comodi e ben venuti per dare parvenza di opportunità a misure eccessive e deplorevoli.
I mezzi adoperati dai conservatori toscani e da quelli Lombardi per trascinare il governo, bendisposto a lasciarsi trascinare, furono identici: la calunnia e l’esagerazione. Ma quest’ultima può trovare scusa nella paura grande e nei minacciati interessi; non la prima. Nel calunniare gli avversari e nell’esagerare i fatti, alcuni e qualche giornale non conobbero limiti di decenza: si vide la Perseveranza farsi la denunziatrice sfacciata dei giornali democratici, fraintendendo, sino a disonorarlo, l’ufficio della stampa[14].
[90]
Per singolare coincidenza, in due scritti — l’uno pubblicato a Firenze ed attribuito al Generale Sani [91] o per lo meno da lui inspirato; e l’altro a Ginevra da un profugo — dei gruppi, delle caste, se non delle classi che spinsero maggiormente il governo italiano ad oltrepassare la repressione per abbandonarsi nelle braccia di una reazione rabbiosa, si danno note psicologiche caratteristiche, che si rassomigliano meravigliosamente. Della consorteria di Firenze, che invocò ed ottenne lo stato di assedio, si dice: che manca d’ideale, che accetta la dinastia sabauda come accetterebbe qualunque altra; e che nella monarchia vede un mezzo per mantenere a se stessa il primato in tutte le faccende pubbliche, a scopo di lucro più che altro[15]. Il profugo di Ginevra scrive che i conservatori lombardi, in fondo, sono rimasti quello che erano gli aristocratici ai tempi di Parini e che pochi — nella Costituzionale di Milano non arrivarono che a novanta in circostanze solenni — ma arditi, sotto la guida del Senatore Negri, vollero non la repressione dei tumulti, ma la vera reazione per mantenersi al potere. In Toscana, come in Lombardia, questi gruppi di uomini, queste consorterie, agirono energicamente perchè si sentivano vicini a perdere ogni influenza ed ogni supremazia: la democrazia batteva alle porte e stava per entrare nelle loro cittadelle[16].
Si comprende perciò che questi interessati promotori della repressione energica al di là delle esigenze [92] di una savia politica, abbiamo visto con favore i tumulti ed abbiano inventato essi stessi il complotto, di cui si dirà in appresso. Per loro, come ingenuamente confessò un giornale di Genova, la reazione non era temuta, ma sospirata[17].
Non spenderò parole per stigmatizzare gl’intenti e i mezzi adoperati da queste consorterie per conseguirli e i pericoli che creano pei popoli e pei governi; meglio delle parole servirà la esposizione dei fatti. La loro opera, sommariamente, la farò giudicare da Carlo Luigi Farini, che scrivendo delle sette dei suoi tempi — specialmente delle reazionarie — parve anticipare la fotografia e il giudizio sulle contemporanee. «I governi che istituiscono sette governative o ne accettano gli aiuti, scrisse il celebre moderato romagnolo, vengono a termine di quegli individui, i quali essendo istitutori o direttori delle sette di opposizione, invece di guidarle ne sono guidati, e costretti ad operare, buono o mal grado a posta di quelle. Nessuna idea è più autopetica all’idea di governo, quanto l’idea di sette. Governare vale ed importa moderare l’umana associazione a vantaggio dei più, secondo gli eterni principii della giustizia e della ragione: far setta vale ed importa imporre ai più le opinioni, le volontà, le passioni dei meno, cioè sragionare, scapestrare sovente, sgovernare sempre; le sette governative hanno poi questo peggiore sconcio, che trascinando il governo ad operare ingiustizia, [93] attentano al principio morale dell’autorità, e la rendono così esosa, che gli uomini non la considerano altrimenti come una necessaria tutrice e moderatrice, ma come una nemica da invigilare con istudio e guerreggiare con perseveranza»[18].
È logico e naturale che dove più intensa fu l’opera delle sette per trascinare il governo alla reazione, ivi più clamorose siano state le manifestazioni e gli atti di grazia perchè scongiurati i pretesi pericoli corsi dalla patria e dalla civiltà — cioè dai loro interessi.
A Milano, perciò, non appena cessato il primo periodo della reazione — quello della repressione sanguinosa — si assiste ad un nauseante scambio di ringraziamenti e di congratulazioni che ricorda lo spettacolo vergognoso dei tempi peggiori del servilismo e della tirannide. La deputazione provinciale, il consiglio comunale di Milano, alcune associazioni politiche mandarono al generale Bava Beccaris indirizzi traboccanti di riconoscenza, nei quali l’esagerazione e la menzogna colle forme di rettorica sbilenca arrivano alle lodi smaccate per la energia, per la intelligenza, per gli elevati intendimenti civili e patriottici spiegati nel salvare Milano dal saccheggio e dall’anarchia, e nel conservare all’Italia le gloriose istituzioni vigenti[19].
[94]
Della sincerità e del valore delle manifestazioni di una parte delle classi dirigenti lombarde molti dubitano ricordando che rettoricume analogo venne adoperato sotto l’Austria e in favore dei generali che salvarono le istituzioni di allora contro coloro che, complessivamente, sono i governanti di oggi. La storia somministra parecchi esempi degradanti di questo invertimento di parti e di questi trapassi repentini dalla condanna all’apoteosi, e viceversa. Checchè ne sia della sincerità della riconoscenza manifestata è, però, assai probabile che un militare, ignorante le vicende della storia, l’abbia accettata come oro di coppella e si sia lasciato suggestionare sino a dirigere all’esercito quest’ordine del giorno, che costitusce l’esaltamento più caloroso dell’opera propria:
«Ufficiali, sott’ufficiali e soldati, funzionari ed agenti di Pubblica Sicurezza.
«In questi tristissimi giorni, non badando nè a fatiche nè a disagi, voi avete reso un grande servizio al Re, alla Patria, alla Civiltà.
«Per opera vostra la pace è restituita a questa grande Metropoli, la quale 50 anni or sono, per virtù, per valore e per concordia di tutti i suoi cittadini, seppe risorgere a libera vita.
«I malvagi di ogni partito, concordi nel folle intento di sovvertire le Istituzioni e disfare l’Italia, l’avrebbero ripiombata in una servitù peggiore della prima.
«Voi l’avete impedito: nel nome del Re e della Patria vi ringrazio.
«Milano, 11 Maggio 1898.
«Il regio Commissario Straordinario
Tenente generale F. Bava Beccaris.»
[95]
L’esagerazione interessata, la vera ubbriacatura locale, infine, spiega come e perchè si abbia perduto l’esatta percezione degli avvenimenti a Roma e fa anche supporre la buona fede nei Ministri, che distribuirono medaglie ed onorificenze in numero sbalorditivo e suggerirono al Re questo telegramma, di cui a loro resta tutta la responsabilità:
«Roma, addì 6 giugno 1898 — ore 21,20.
«Ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A Lei poi personalmente volli conferire di motu proprio la Croce di Grand’ufficiale dell’ordine militare di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perchè Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria.
«Umberto».
Dinanzi a questo lusso di ringraziamenti, di lodi e di ricompense, saremmo curiosi di conoscere quali severe parole dovrebbe adoperare l’onorevole Deputato Franchetti, che altra volta si scandalizzò — consenziente l’on. Pelloux allora ministro della Guerra — delle numerose ricompense accordate per la cosidetta battaglia di Coatit, e nelle quali non esitò a scorgere «sintomi, nei gradi supremi dell’esercito, di stanchezza, di rilassatezza nell’apprezzare l’ideale militare, di disinteressamento da quegli interessi alti, il cui complesso, [96] costituisce appunto la forza militare della nazione»[20]. E molti che amano la monarchia e l’esercito, con uno sconforto indicibile, di fronte alla suprema onorificienza militare — il titolo di Grande uffiziale dell’ordine militare di Savoia — accordato al Generale Bava Beccaris, si domandano quale altra si dovrebbe e potrebbe concedere al fortunato soldato che salvasse l’Italia da un invasore straniero![21]
[97]
Se la vittoria ottenuta dall’esercito in Milano, dal punto di vista militare, per denominarla benevolmente, si deve dirla lillipuziana, dall’altro canto non si può dire che brillarono le doti politiche e civili del Regio Commissario Straordinario in guisa da compensare l’assoluta mancanza dei meriti guerreschi — mancanza aggravata da questo ingenuo appello ai cittadini di Milano:
Cittadini!
Da tre giorni la truppa del presidio, in continuo servizio di pubblica sicurezza, si trova talvolta nella impossibilità di provvedere alla confezione del rancio giornaliero.
Questo disagio aggiunto agli altri di questi giorni riesce assai penoso.
Faccio quindi appello al cuore della cittadinanza, fiducioso che essa vorrà concorrere volonterosamente ad eliminare questo inconveniente.
A tale scopo ho autorizzato i signori comandanti dei singoli riparti di truppa a rivolgersi ai privati, ai proprietari delle locande, dei ristoranti, degli alberghi per ottenere da essi la concessione temporanea delle cucine e di quanto occorra per la cottura del vitto.
Dai signori comandanti militari saranno rilasciati, a richiesta, buoni per ottenere, a suo tempo, il rimborso del prezzo delle somministrazioni fatte.
Milano, 10 maggio 1898.
Il tenente generale
R. Commissario Straordinario
F. Bava Beccaris.
[98]
Questo appello, fatto quando era cessato ogni simulacro di lotta, dove non c’erano nemici da respingere, dove i quartieri, i depositi, le vie di comunicazione erano in potere delle truppe, fa comprendere che in una vera guerra guerreggiata, i soldati italiani, in mancanza di cittadini che possano essere incitati a fornirli di rancio, devono morire di fame o provvedere all’esistenza col saccheggio barbarico e medioevale.
Questo appello, non abbastanza notato da coloro che si occupano della difesa dello Stato, dà la misura della organizzazione del servizio delle sussistenze e commenta e completa eloquentemente la guerra d’Africa coi pasti poco omerici forniti dalle cosce di muli morti per esaurimento.
La fantasia ariostesca trascinò il Generale Bava Beccaris, che confidava nei cittadini pel fornimento dei viveri alle truppe, a deplorare che gli stessi cittadini abbiano concesso ai rivoltosi di salire sui tetti per gettare tegole sulla via e di sparare dalle finestre sui soldati... (Manifesto del 10 maggio).
L’opera politica e civile del Regio Commissario Straordinario, infine, può desumersi dai consigli dati al clero, che non aveva preso la menoma parte nei tumulti; dai rimproveri altezzosi rivolti al cardinale-arcivescovo di Milano perchè era venuto meno ai suoi doveri; e dalle ipocrite e stravaganti risposte date agli onorevoli Mussi e De Cristoforis ed al signor Edoardo Sonzogno, che domandavano il permesso — alla fine del mese di maggio — di potere ripubblicare il Secolo. Il consiglio dato al Sonzogno di adibire gli operai, per dar loro lavoro, specialmente nelle pubblicazioni che hanno di mira [99] l’istruzione e l’educazione della gioventù, venendo da un uomo di caserma, riesce un capolavoro di ironia grottesca. (Lettera al sig. E. Sonzogno del 27 Maggio 1898).
Ma tutte queste opere militari, politiche e civili non possono giustificare la dignità senatoria e il più alto grado nell’ordine militare di Savoia, accordati al Generale Bava Beccaris; il quale avrà creduto di ripagare il ministero di tanta generosità verso di lui dimostrata, col famoso rapporto del 29 Maggio.
In questo rapporto si fece strazio della verità con una impudenza non mai riscontrata per lo passato nei documenti ufficiali e non prevedibile neppure, forse, dallo stesso senatore Saracco quando consigliò il Presidente del Consiglio a far conoscere agli italiani una verità a scartamento ridotto. Fra le tante perle colate a getto continuo dalla penna dello espugnatore dei Cappuccini, segnalo queste: L’illustre generale vi afferma che in Borsa, durante le giornate di Maggio, vi era allarme e che molti intendevano sbarazzarsi dei titoli di rendita italiana; che l’Università di Pavia era un covo di rivoluzionarî e i suoi studenti erano venuti a Milano per prendere parte alla rivoluzione; che il legato Loria era divenuto il tesoro di guerra della rivoluzione; che tutte le precedenti autorità politiche erano state deboli, incostanti nella difesa contro i partiti sovversivi; che c’era apatia nel partito dell’ordine ed indifferenza nelle classi dirigenti ecc., ecc.
C’è un metro preciso per apprezzare il valore di questo rapporto: i giornali dell’ordine e delle classi dirigenti, quando il Secolo ne cominciò la [100] pubblicazione a brani staccati, lo fecero supporre alterato o maliziosamente dimezzato. Il documento pubblicato nella sua interezza provò che il giornale democratico non era colpevole dei reati attribuitigli: il vero reo era il suo autore, ch’è stato ufficialmente invitato dal Rettore dell’Università di Pavia, Prof. Bellio, a rimangiarsi le menzogne spacciate — dopo oltre venti giorni dalla data dell’invenzione! — sul conto degli studenti e che potrebbe essere querelato per false notizie dagli agenti e frequentatori della Borsa di Milano!
Non si sa di provvedimenti presi dal governo contro le autorità denunziate come fiacche ed incostanti; ma al generale Bava Beccaris si può tenere conto della verità detta sulle classi dirigenti e della grande prudenza e della grande modestia dimostrata tacendo — eloquentissimo silenzio! — sulla breccia gloriosa dei Cappuccini....
Comunque, se poca gratitudine deve il governo al Regio Commissario Bava Beccaris; se nessuna gliene devono l’Italia, le istituzioni e la civiltà — molta, moltissima; gliene devono i moderati lombardi, o meglio di Milano.
Il Regio Commissario Straordinario consolidò il loro potere con una serie di misure, che avrà potuto illuderli sulla durata delle conseguenze, ma che pel momento, non frenò ma eliminò, soppresse, i loro avversari. Sciolti i circoli repubblicani e socialisti, radicali e clericali — quantunque gli ultimi li abbiano avuti alleati pel passato in quasi tutte le lotte amministrative; sciolta l’Umanitaria, fondata coi milioni lasciati da Mosè Loria, soppressi tutti i giornali e le riviste che potevano dare fastidio — la [101] setta rimase padrona incontrastata del Municipio, della Provincia, della Congregazione di carità, di tutte le istituzioni, dalle quali si può esercitare una qualsiasi influenza economica, politica e morale.
Di tutti questi provvedimenti, i più mostruosi certamente rimarranno lo scioglimento dell’Umanitaria e la soppressione dei giornali, poichè collo scioglimento della prima si arrecò un colpo al Codice Civile e con la soppressione dei giornali si ferì a morte l’opinione pubblica.
Con ciò l’eccesso dell’arbitrio si rese dannoso a coloro che dovevano usufruirne; poichè, mentre si spera che l’indole dell’Umanitaria si sia permanentemente mutata, in guisa da farne strumento docilissimo nelle mani della Setta[22]; mentre ci vorrà del tempo per la ricostituzione dei Circoli disciolti; invece, appena cessato lo stato d’assedio, risorse più gagliardo di prima il Secolo, che rappresenta l’aculeo più doloroso confitto nelle carni dei conservatori lombardi[23].
[102]
Gl’interessi e le ambizioni di una setta, più direttamente feriti in Lombardia e in Toscana, dettero la spinta energica al governo verso lo stato di assedio e verso la trasformazione delle repressione, anche severa ma temporanea, in furiosa reazione duratura; ma la iniziativa dei conservatori dì Milano e di Firenze trovò un terreno ben preparato per attecchire in tutta Italia. Infatti la borghesia alta e gli avanzi dell’aristocrazia dappertutto sentivano che avanzavasi la marea democratica, che doveva sommergerli presto o tardi, quantunque del pericolo non avessero coscienza piena, perchè non lo avevano provato imminente come in Toscana e in Lombardia e in qualche altra regione dell’Italia settentrionale ed un poco della centrale. La reazione perciò, appena cominciata, perdette l’impronta locale e divenne nazionale, senza trovare serie resistenze [103] nella opinione pubblica e molto meno nel Parlamento[24].
Degli uomini e degli organi della reazione bisogna esaminare le dichiarazioni, le leggi, gli atti, tenendo di mira che le dichiarazioni hanno preso il posto delle leggi ed hanno generato gli atti. Sotto questo aspetto e contro la comune opinione, il ministro Pelloux ha segnato un peggioramento su quello Di Rudinì; in quanto che l’ultimo voleva legalizzare la reazione; l’altro la mette in pratica senza sentire il bisogno di nuove leggi, anzi calpestando e consigliando apertamente a tutti i subordinati di calpestare le leggi vigenti.
Una reazione non tradotta in leggi potrebbe e dovrebbe considerarsi come un male minore, perchè lascerebbe sperare la brevità della durata, la limitazione al periodo eccezionale che la suscitò. Ma dove il sentimento della legalità è scarsissimo, [104] per non dire insussistente, come in Italia, l’ostentata, continuata ed impunita violazione di ogni legge, riesce esiziale nei rapporti pubblici e privati, aggrava sino a renderli insanabili i mali esistenti e rappresenta l’inizio di una vera dissoluzione dell’organismo politico-sociale.
La presente reazione non data dalla primavera del 1898, ma rimonta al gennaio 1894 con una sosta notevolissima — è doveroso rendere giustizia ai caduti — dall’aprile 1896 all’aprile 1898. Agli estremi di vita sua il ministero Di Rudinì — cui devesi imputare come colpa grave l’abbandono del primitivo programma militare, — invaso dal demone della paura e dall’ardente desiderio di mantenersi la fiducia delle alte sfere, parve voler far dimenticare il bene fatto in senso legale e liberale e si dette a sfrenata reazione.
La sua caduta è un incidente personale, anzichè parlamentare, che non esercita alcuna influenza sull’andamento della cosa pubblica: la reazione continua pazza, furiosa e rincrudisce quando avviene l’assassinio dell’Imperatrice d’Austria. La differenza sta in questo: Di Rudinì, dopo aver militarizzato i ferrovieri, voleva ristabilire le leggi sul domicilio coatto, modificare il diritto elettorale, infrenare la libertà di stampa, di riunione e di associazione, disciplinare lo stato d’assedio, ecc., mediante nuove leggi o modificazioni delle antiche. Il successore onorevole Pelloux parve più liberale, oltre che per la buona compagnia di ministri che dai loro precedenti dovevano giudicarsi più o meno democratici, anche perchè buttò in mare gran parte di quel bagaglio; e non era, perchè continuò risolutamente [105] per la via battuta dal predecessore. Ebbe il merito della sincerità — elemento mancante ai nostri politici e non trascurabile nella vita pubblica — perchè egli con franchezza davvero soldatesca dichiarò di voler fare senza preoccuparsi di legiferare. Quando non fa, lascia fare tranquillamente ai subordinati, che non solo eseguiscono con disciplina militare, ma interpretano le intenzioni dei superiori con meravigliosa intuizione, che sembrerebbe lettura del pensiero alla Pickmann se non si sapesse ch’è l’effetto delle circolari segrete e delle reversioni storiche. Egli è così che sotto Pelloux si formulano canoni nuovi di governo e si compiono atti che fanno dire al conservatore dianzi citato dell’Idea liberale: «Siamo oggi più che mai in una paurosa condizione di arresto di sviluppo intellettuale e morale, per cui tutto vacilla e scricchiola, mentre ci sta sul capo la minaccia di una crisi orrenda in cui tripudieranno le impulsività ataviche della bestia umana e le libidini feroci di Valentino in sessantaquattresimo che questi anni di pseudo libertà hanno fecondato a legione».
Di questi canoni e di questi atti dell’on. Pelloux ne nunzio, per ora, sette, che si potrebbero chiamare i sette peccati mortali di questo ministero soldatesco, procedendo dal minimo al massimo in ordine d’importanza e che comprendono tutte le principali norme direttive della funzione parlamentare e governativa.
L’on. Pelloux, spronato a dichiararsi di Sinistra, a chi lusingavasi di vedere risorto l’antico partito liberale sotto la protezione di parecchie sciabole, risponde che non ne sente il bisogno e che i sostenitori [106] li prende dove li trova. Spronato da Barzilai, non vuole trovare nemmeno una frase equivoca contro la soluzione incostituzionale delle crisi parlamentari. Telegrafa al Prefetto di Torino per lodarlo di avere sciolto il comizio elettorale pro De Amicis. Permette che il Sottoprefetto Santini presieda una riunione elettorale contro Rondani. Raccomanda di sequestrare qualunque giornale, qualunque rivista che appaia sovversiva, senza preoccuparsi dei processi e degli esiti loro. Dichiara fuori della legge tutti i partiti che non accettano incondizionatamente l’ordinamento politico-sociale vigente. Proclama, infine, che vuol pacificare gli animi con tutti i mezzi, non esclusa la giustizia: concetto cinico che fa il pajo coll’altro più recente di voler dare col suo comodo l’amnistia per poter sfollare le prigioni!
Ciascuna di queste massime e ciascuno di questi atti o è una orrenda bestemmia, o è un arbitrio da Valentino in sessantaquattresimo: la frase che contiene il severo giudizio è di un monarchico liberale, come s’è visto. In altri tempi e in altri paesi uno solo di tali elementi sarebbe bastato a far cadere vituperato un Ministero; certo è che essi non distruggono soltanto il regime parlamentare, ma sovvertono ogni ordinamento civile. È del pari indiscutibile che il cinismo assurge a proporzioni eroiche quando si proclama che nella pacificazione degli animi la giustizia non ci deve entrare che come un mezzo eccezionale. Che razza di pace, con questi mezzi non informati a giustizia si possa conseguire, un avvenire non remoto ci dirà. Per ora basta ricordare che gli strumenti della volontà ministeriale [107] sono prefetti e magistrati provati a malfare e che non avevano bisogno degli incoraggiamenti per continuare peggiorando.
La enunciazione di questi canoni e la conoscenza degli uomini di governo che devono metterli in pratica, dispenserebbero da qualunque enumerazione dei fasti della reazione. Pure, ad eliminare qualunque sospetto di esagerazione ed il dubbio che i fatti siano stati migliori delle parole spavalde e ciniche, giova ricordare qualche data dell’ultima fase della reazione cominciata in Aprile 1898 e che non si sa quando possa aver termine: reazione criminosa che non infuria soltanto dove additossi un pericolo, sia pure immaginario, ma in tutta Italia, anche nelle regioni che non ne somministrarono il minimo pretesto.
Ecco l’elenco doloroso dei fasti della reazione, senza ordine cronologico e senza disposizione ascendente o discendente per la loro importanza.
1. Stato di assedio e Tribunali militari. Vi accenno senza insistervi ulteriormente perchè lo stato di assedio fu dimostrato non necessario, perciò iniquo, dai fatti esposti e dai giudizi non sospetti riportati. Ai giudizî ne aggiungo uno solo: quello dell’on. Pelloux! In un momento di espansione intima — ci vanno soggetti anche i militari e gli uomini politici! — confessò la non necessità del provvedimento all’onor. De Cristoforis. Vennero le smentite dei giornali ufficiosi; non quella diretta del Ministro. Potrà venire; ma se venisse, tra uno che afferma e l’altro che nega, gli Italiani sceglierebbero a seconda delle tendenze e della conoscenza che ciascuno ha degli individui in contrasto. In [108] politica, del resto, i provvedimenti raramente vanno giudicati in sè, ma dai risultati che danno; e lo Stato di assedio, oltre che per le conseguenze economiche e politiche, va misurato dal figlio suo primogenito: il Tribunale militare. La sua opera verrà esaminata a parte.
2. Arresto di deputati. L’art. 45 dello Statuto non è un privilegio, ma una garanzia, nell’interesse collettivo, della libertà e della indipendenza del rappresentante del popolo. Secondo lo stesso Statuto, può essere arrestato il deputato in flagranza di un reato. In forza della sospensione delle leggi ordinarie, deputati vennero arrestati, ad esempio, nel 1862 a Napoli, nel 1894 a Palermo. Si allargò per comodità del governo il concetto della flagranza; ma non si era arrivati ad arrestare nei luoghi non sottoposti allo stato di assedio e quando nemmeno esistono gli elementi più fantastici della flagranza; ciò avviene nel 1898 a danno di Quirino Nofri. Non solo: si arrestò per lo passato, ma non si andò oltre senza l’autorizzazione a procedere della Camera dei Deputati. Se ne fece a meno nel 1898 e si processò e condannò Quirino Nofri prima che fosse chiesta tale autorizzazione. Arriviamo ad un colmo: Quirino Nofri sente il bisogno di rinunziare alle immunità, che accorda quel famoso ed umoristico art. 45 e vuole essere trattato da semplice cittadino.... per paura, volendo godere della immunità parlamentare, di rimanere più lungamente in carcere!
3. Punizioni di Prefetti. Raramente occorse in Italia che un Prefetto venisse punito per avere violato le leggi; non si era mai dato — e forse [109] non si darà mai per lo avvenire, perchè le Autorità sanno ormai a che attenersi — che un Prefetto a punizione venisse sottoposto proprio perchè.... non volle violare la legge. È il caso Minervini.
4. Inchiesta sui testimoni veridici. Vedremo a che cosa sia stato ridotto il sacro diritto della difesa nella discussione sui Tribunali Militari; qui di volo sia menzionato uno stranissimo episodio che fa capo ad un Tribunale civile. Sinora, anche iniquamente, s’incriminarono i testimoni quando furono sospettati ed accusati di dire il falso. Ora si apre un’inchiesta su di un maggiore, Mascilli, ed un capitano, Minto, dell’esercito, che ebbero il torto di dire la verità nel processo Barbato. Che abbiano detto il vero si deve tenere per cosa giudicata, perchè il Tribunale di Palermo non li incriminò come falsi testimoni... Avviso ai militari, che avessero un concetto antiquato sulle leggi dell’onore.
5. Spionaggio obbligatorio. Lasciamo alle fisime della morale o alla poesia dei senza cervello ogni considerazione sull’orrore che desta la spia: limitiamoci ai confronti. Prima si corrompevano, si seducevano, s’incoraggiavano i disgraziati per abbandonarsi al brutto mestiere. Si progredisce colla nuova reazione; e non solo si ricorre alla denunzia anonima come elemento per istruire i processi — come si vedrà più innanzi — ma si arrestano gli onesti cittadini per costringerli a fare la spia: premio la libertà. Caso Gatti in Milano. E dell’esportazione in Isvizzera delle spie che a tempo perso esercitano il mestiere di truffatore, o esercitarono quello di corruttore e di ladro? Informino i casi Santoro, De Benedetti, Mantica, ecc.
[110]
6. Libertà del domicilio. Tra i vantaggi attribuiti alla unificazione d’Italia ci fu quella della libertà del domicilio: il cittadino di qualunque regione acquistò il diritto di stabilirsi dovunque più gli torna comodo, purchè vi viva onestamente e vi si procuri stabile lavoro. Fisime. Si arresta l’avvocato Nino Verso Mendola, che da sette anni esercita la professione a Bologna e lo si traduce ammanettato a Riesi suo luogo di nascita. Non si potè imputare alcun reato, nè grande nè piccolo; non si potè trascinarlo nè dinanzi ad un Tribunale militare nè dinanzi ad un Tribunale civile. Non si potè neppure proporlo — parrebbe impossibile, colla larghezza dei criteri adottati — pel domicilio coatto. Il caso Verso Mendola ha non pochi compagni; uno recentissimo: ad uno studente s’impose lo sfratto da Bologna, perchè meridionale; ma gli si consentì il domicilio a Modena.
7. Domicilio coatto. È istituto posseduto esclusivamente dall’Italia. Un consigliere della Corte di Cassazione e Professore illustre di Diritto penale, il deputato Lucchini, assicurò che esso disonora la terra classica del giure. Si credette di avere attenuato il disonore disciplinandolo, facendo precedere l’assegnazione da una larva di processo e da una difesa. Si torna all’antico, peggiorandolo: si arrestano i cittadini durante lo stato d’assedio e si mantengono nelle isole senza processo e senza condanna, anche quando venne tolto lo stato di assedio. Casi Mocchi, Brambilla, Casilli, ecc. Il Casilli, ex deputato al Parlamento, è tanto ricco quanto onesto. Al domicilio coatto, perfezionato, si assegna altra funzione: quella correttiva dei magistrati, [111] che giudicano secondo coscienza, non secondo l’ordine della polizia. Il Magistrato assolve? L’innocente riconosciuto viene assegnato al domicilio, facendolo pentire, forse, di non avere preferita pochi mesi di reclusione a parecchi anni nello scoglio di Tremiti. Caso Podrecca. Il magistrato dà una pena giudicata insufficiente dalla polizia? Si ricorre al domicilio coatto come supplemento di pena. Caso Modigliani. Il domicilio coatto, infine, diviene strumento comodissimo per eliminare i giornalisti non corrotti ed ammazzare i giornali sovversivi. Caso Garzia Cassola.
8. Piccolo Stato di assedio. Il nome e la cosa sono di origine tedesca; li inventò Bismark per combattere il socialismo; ma li ebbe e li adoperò per legge. Di legge, però, non c’è bisogno in Italia, dove gli arresti arbitrarî e in massa, specie alla vigilia di elezioni e di viaggi reali, sono nella tradizione mai smentita del governo. Anche per questi arresti ora c’è la nota che indica il progresso: le retate a centinaia prima si facevano per maggiore sicurezza delle persone reali; ora si fanno a benefizio dei semplici ministri. Oltre duecento cittadini vennero tradotti in domo petri a Palermo per l’arrivo degli on. Masi, Finocchiaro e Fortis. Questo per amore di verità. Questi arresti — e gli arrestati è noto che possono essere frezzati o suicidati — però, assunsero proporzioni gigantesche, al di fuori di ogni legge e di ogni procedura, coll’ultima reazione. Sicchè alla cosa che c’era Don Chisciotte — giornale monarchico come tutti sanno dette il nome. Casi: tutti i giorni e in tutta Italia.
[112]
9. Soppressione di giornali. Si spiegava quello dell’Italia del Popolo: era un giornale repubblicano e pubblicavasi in una città dove c’era lo stato di assedio. Pareva enorme quella del Secolo, semplicemente democratico; e vada pure pel Secolo, in grazia dei poteri eccezionali del Regio Commissario! Ciò che si applica pure al Mattino di Napoli, quantunque monarchico — anzi entusiasticamente dinastico. Ma come e perchè soppressi i giornali nel resto d’Italia dove si viveva sotto l’impero della legge comune? La cosa fu tanto bestiale, che la riprovò lo stesso Corriere della Sera, anche dopo che la direzione era stata abbandonata da Torelli Viollier, divenuto troppo liberale pei tempi che correvano. Casi a centinaia e per ogni colore — dal monarchico al repubblicano, dal clericale al socialista.
10. Sequestri. La morte violenta è la soppressione. Non è sempre praticabile, ma quando, per un avanzo di pudore, che non voglio nemmeno chiamare ipocrisia, un giornale inviso non viene ucciso di un colpo, si cerca farlo morire lentamente coi sequestri. D’onde l’orrenda bestemmia, cioè la nuova teoria giuridico costituzionale del Pelloux, sui sequestri senza preoccupazione di processi. I Procuratori del Re non sono stati sordi; e dove lo furono, i Procuratori generali li hanno richiamati al dovere: caso Panighetti — quello del processo Cavallini — e si sono avuti i tardivi sequestri per ordine dei Regi Procuratori di Sondrio e di Como; i sequestri e le condanne per gli articoli lasciati passare a Roma; i sequestri dei fregi o dei segni di lutto che da 28 anni portava liberamente l’Unità Cattolica in Firenze; i sequestri degli scritti [113] di Mazzini, che circolano con altrettanta libertà da cinquant’anni; i sequestri in Milano di uno scritto di Leone Tolstoi che ha sperimentato il regime della Russia del mezzogiorno; i sequestri, infine, contro la prosa sovversiva dell’on. Pelloux, purchè riprodotta sulle colonne dell’Avanti; i sequestri delle sciarade dello stesso giornale; i sequestri dell’Asino per avere messo in burletta una cosa sacra ed inviolabile: gli speroni del generale Pelloux: i sequestri di libri che circolano liberamente nel rivoluzionario impero Germanico, come quello di Kantschy sul Capitale di Marx[25]. I fatti hanno avuto il commento più allegro che si possa immaginare: B. Cirmeni ha fatto sapere al mondo che il Generale Pelloux è pieno di buone intenzioni verso la stampa. E chi ne poteva dubitare? Si sottintende che la benevolenza del Presidente del consiglio si esplica a benefizio di quei giornali che interpretano i suoi pensieri![26].
[114]
11. Scioglimenti. Furono sempre incerti i limiti del diritto di associazione; perciò si ebbe un’alterna vicenda di scioglimenti e di ricostituzione di Società dichiarate sovversive. La manìa di colpire quelle esclusivamente economiche era cominciata in Sicilia nel 1894; ma i casi sporadici di allora divennero epidemia spaventevole nel 1898. A migliaia furono sciolte, non solo i circoli socialisti e repubblicani, ma le casse rurali, le cooperative di consumo e di lavoro, generando situazioni giuridicamente strane, a vantaggio di debitori che non sanno più a chi pagare le cambiali; invertendo o sperperando capitali che rappresentano i risparmi sudati dei lavoratori. Dicono che arrivano a circa quattromila questi scioglimenti: rimangono tipici i casi delle Lega dei Ferrovieri, delle Cooperative ferroviarie, dell’Umanitaria, delle Casse rurali. Il criterio dello scioglimento viene esteso ai consigli comunali: sciolto quello di Bruno (Alessandria) perchè sospettato socialista, e destituito il sindaco di Sorso, il sig. Catta, perchè socialista. A quando il ristabilimento del Tribunale della Santissima Inquisizione? Del resto siamo sulla buona: Il Tribunale di Genova, nel processo Festa — il macellaretto — ha assodato che le lettres de chachet e la tortura sono in uso in Italia...
[115]
12. Militarizzazione ferroviaria. È il caso dei casi; rappresenta la novità assoluta nell’arbitrio; mercè la quale si prendono tre piccioni con una fava: si privano del diritto di voto migliaia di cittadini, che non avevano saputo esercitarlo votando pei socialisti; si assicura l’ordine colla minaccia permanente del Tribunale di Guerra, anche in tempo di pace — anche quando è cessato l’artificioso stato di guerra creato collo stato di assedio; si consegnano mani e piedi legati gli operai, che perdono qualunque mezzo per migliorare la propria condizione ed a fare rispettare i propri diritti e si mette a disposizione di una società di speculatori un corpo organizzato militarmente dallo Stato. Vilfredo Pareto chiama questa geniale trovata del Generale Afan de Rivera — che vi guadagnò il suo posto di ministro — semplicemente il ristabilimento della schiavitù.[27] Il provvedimento è tanto più iniquo in quanto che un’inchiesta ufficiale, quella presieduta dal Senatore Gagliardo, ha constatato che il Governo e la Magistratura non hanno saputo, voluto o potuto garantire ai ferrovieri quel minimo di diritto, ch’era stato loro assicurato dalle convenzioni ferroviarie del 1885.
[116]
13. Concorrenza economica. Lo Stato contro i lavoratori. Messo sulla china di servire ai capitalisti privando i ferrovieri dei mezzi di lottare legalmente colle società, che le sfruttano contro legge — le tante vittorie ottenute dai primi nei Tribunali e nelle Corti di appello, ed annullate spesso dalla Cassazione, ne fanno fede — lo Stato si è sentito trascinato a favorire qualunque piccolo o grande proprietario. C’erano già stati dei saggi di concorrenza nel lavoro, fatto per ordine del governo contro i lavoratori in isciopero; ora si rinunziò ad ogni avanzo di pudore e si disse agli operai, della campagna in ispecie, che lo Stato non solo era pronto a sostituire quelli in isciopero coi suoi soldati; ma che metteva la forza a disposizione dei proprietari costringendo i lavoratori a contentarsi dei salari che i primi generosamente avrebbero voluto loro concedere. Il contegno delle autorità negli scioperi era stato sempre indecentemente ostile agli operai; ma a Molinella si mise da parte ogni rimasuglio di decenza. Ora si minaccia il peggio stando a questo brano di corrispondenza da Ferrara ad un giornale ufficioso: «Lunedì prossimo comincerà la mietitura del frumento, e perchè questa segua il suo corso regolare, il generale Mirri ha opportunamente dislocate le truppe. La cavalleria visiterà con apparizioni improvvise e con marcie notturne tutte le località........»[28]. [117] Ogni commento è assolutamente superfluo. Noto soltanto che c’è un progresso dal 1894 al 1898: allora i latifondisti di Sicilia si limitarono a rompere i così detti patti di Corleone sui contratti agrari; ora la cavalleria presiede alla mietitura...
14. La volontà degli elettori. Non è stata militarizzata perchè è incoercibile; ma si è sulla buona via per neutralizzarla. I metodi elettorali adoperati nel Collegio di Cossato e di Torino — dove il Sottoprefetto presiede le riunioni in favore del candidato del governo — lasciano intendere che da ora in poi le conferenze elettorali devono farle i delegati di pubblica sicurezza, visto che non si lasciano parlare i deputati che non vanno d’accordo col governo. Nè i deputati possono tenersi in comunicazione cogli elettori, come vorrebbe il buon regime parlamentare: si è impedito a De Cristoforis ed a Prampolini di parlare ai loro elettori a Milano ed a Reggio-Emilia. Il disprezzo verso gli elettori, poi, venne ufficialmente proclamato nella lettera che il Generale Pelloux rivolse al Generale Tarditi, quando il collegio di Fossano, non ostante le seduzioni e le violenze di ogni genere, non volle scieglierlo a suo rappresentante. Sanno ormai gli elettori che il capo del governo li considera come spregievoli quando non portano i loro voti sui candidati ufficiali. Si stava meglio sotto il secondo Impero.
15. La scuola. I nostri governanti e le nostre classi dirigenti non sono degli sciocchi, che per puntellare il loro dominio confidano soltanto sulla forza brutale, sempre infida, e che a data ora si esaurisce o si ritorce contro coloro che l’adoperano; essi tengono conto anche della forza morale, [118] perciò la loro attenzione si è rivolta alla scuola da un duplice punto di vista. Da un lato vogliono limitare la diffusione dell’istruzione: in questo senso la manifestazione più caratteristica è venuta dal modesto comune di S. Marco in Lamis (Foggia) il cui consiglio comunale ha fatto voti al Governo del Re perchè venga abolita la legge sull’istruzione obbligatoria; però questa esplosione di sincerità risponde al pensiero intimo dei conservatori del resto d’Italia ed è una eco altrettanto sincera di quella voce che si levò nella Sala Ragona di Palermo nel 94.
Da un altro lato si bada con ogni cura alla qualità dell’istruzione che s’impartisce; perciò in alto e in basso si sorveglia, si punisce, si epura il personale insegnante. Si protestò, anche dai conservatori settentrionali, quando nel 1894 corse voce che il Regio Commissario militare per la Sicilia, Generale Morra di Lavriano, aveva fatto ammonire privatamente qualche professore dell’Università di Palermo; ma questi stessi conservatori non protestano più quando s’infligge la censura ad un Professore Pantaleoni, quando si puniscono o si riprovano apertamente Ettore Ciccotti, Fabio Luzzati, Ruggero Panebianco, Giorgio Levi, addetti all’insegnamento in varie Università del Regno; rimossi dall’insegnamento o ammoniti vengono alcuni insegnanti delle Scuole Secondarie. A Milano e Torino, a Rovigo, a Mantova e in altri punti ancora gl’insegnanti delle scuole comunali e delle scuole secondarie vengono ammoniti, sospesi, e licenziati solo perchè professano principii socialisti «benchè, come diceva la relazione del sindaco della capitale morale, non si possedessero prove, che essi abbiano [119] profittato della cattedra per insegnare massime e principii contrari all’attuale costituzione politica e sociale».[29]
Questi insegnanti puniti sono tra i più diligenti, più onesti e più colti; e quelli della provincia di Mantova e di Rovigo furono quasi tutti discepoli di Ardigò. Una volta messi sulla via lubrica della persecuzione del pensiero, non si sa più dove si può arrivare; e mentre organizzasi la più degradante sorveglianza sugli studenti — come risulta da documenti relativi alla provincia di Trapani — lo scandaloso esempio dato dal governo e dai partiti politici che lo sorreggono è stato seguito dai clericali, i quali a Brescia hanno licenziato dalla Scuola commerciale il Prof. Tirale solo perchè è monarchico liberale. Non è il caso di ripetere: qui gladio feriit, gladio periit?
[120]
Contro questo tentativo ignominioso di snidare la libertà di pensiero dall’ultimo baluardo che le rimane in Italia, la scuola, si ebbe la protesta alta e generosa di Cesare Lombroso, rimasta sterile ed isolata. La reazione aspetta tranquilla il ritorno del ministro-carabiniere alla Minerva per compiere la militarizzazione della scuola; e allora essa crederà di avere infiltrato sino nel midollo delle ossa degli italiani, servili per tanti secoli di soggezione, i principii che la informano.
E conchiudo queste osservazioni sull’opera compiuta sinora della reazione con due constatazioni; una di origine italiana e l’altra straniera. Il monarchico Mattino di Napoli dall’esame degli avvenimenti ultimi è indotto ad allarmarsi perchè «tutte le ire e tutti i rancori suscitati dalla politica bestiale del governo si accumulano sull’esercito»; e si domanda: «quale concetto deve, per necessità, scaturire da tutte queste stravaganze — gli atti del governo — e radicarsi nello spirito della plebe? Che i 240 milioni del bilancio della guerra non servono già alla difesa del paese dai nemici esterni, ma alla difesa delle istituzioni vigenti. Ora, quale insensatezza e quale delitto maggiore potreste voi immaginare di questo far apparire le istituzioni, emanate meno di mezzo secolo fa dai [121] plebisciti, come puntellate solamente dalla forza delle bajonette?» (N. del 2 Agosto 1898).
Uno straniero alla sua volta esaminati i fatti recenti conchiude: Lo Statuto costituisce un insieme di franchigie che la dinastia ha concesso in blocco alla nazione e che il potere esecutivo ha ripreso in dettaglio.
E non ci può essere alcuno che vorrà ritenere eccessivo il giudizio dello straniero quando, in ispreto delle leggi e dello Statuto: si esigono le imposte non votate dal Parlamento; si abolisce la libertà del domicilio, di stampa, di riunione e di associazione; si ristabilisce la tortura e si rimettono in uso le lettres de cachet; si uccidono impunemente i detenuti; si sottraggono i cittadini ai giudici legittimi; si falsano sistematicamente le elezioni; si riduce ad una farsa il regime parlamentare.
Nella credenza che si allarga sulla nuova funzione dell’esercito e nel trionfo della reazione che ha annientato lo Statuto, vi sono germi di pericoli gravi ed ammonimenti per tutti: anche pei reazionari.
[123]
Ella passa terribile per la notte... canta il poeta. Chi passa? La giustizia. Quale? Passa la giustizia italiana del 1898.
Questa giustizia procede innanzi secura perchè non è alle sue prime armi. Ha progredito dal 1860 in poi: si è provata in Sicilia e nel mezzogiorno contro Garibaldi e i suoi, contro i renitenti, contro il brigantaggio; ha ripetuto le prove a Palermo nel 1866; nell’Emilia — quando il pane fu impastato col sangue — con Lobbia, con Barsanti, con Tanlongo; si fortificò nel 1894 in Sicilia. Ora è adulta, è forte, è vigorosa.
Ella passa terribile..... ed è cieca affinchè la vista di colui che dovrà essere colpito dalla sua spada non la conturbi e non la trascini a parzialità; ed ha la bilancia in mano affinchè il pro ed il contro venga equamente pesato. Si può sospettare che abbia falsi i pesi e disuguali i piatti? Può [124] anche temersi che, per essere troppo giusta, la questura tolga di mano, alla Dea venerata, pesi e bilancia?
Può sospettarlo un giornale maldicente e farlo sospettare coi suoi pupazzetti (Don Chisciotte); ma per togliere ogni pericolo che le venga arrecata offesa, la forza si è messa a disposizione della giustizia; l’esercito l’ha messa sotto la sua protezione e la fa amministrare nei tribunali militari.
Dicono che questa giustizia italiana del 1898 non sia quella consentita dallo Statuto e voluta dalle leggi; chi lo dice non è un malcontento, un volgare brontolone: è un uomo d’ordine, che presiede la più alta e importante Magistratura del Regno, la istituzione destinata controllare tutta l’azione del governo. È il senatore Finali che nella Gran Corte dei Conti si è rifiutato a registrare i decreti relativi allo Stato d’Assedio, da cui contortamente si volle far derivare il diritto di sottoporre i liberi cittadini a Tribunali eccezionali di Guerra esplicitamente condannati dallo Statuto[30].
[125]
A che pro discutere delle legittimità dello Stato di Assedio e dei Tribunali Militari quando essi sono un fatto che l’Italia ha subìto e che il Parlamento ha approvato? La discussione teorica in questo momento non conta; meglio esaminare se questa giustizia eccezionale ha assolto bene il compito suo sanando anche i vizî possibili della sua origine; più utile indagare se la giustizia, amministrata da questi Tribunali eccezionali, abbia aumentato il prestigio dell’Esercito da cui emanano, colla serietà dei reati puniti, colla correttezza nella istruzione dei processi, colle garanzie indispensabili accordate alla difesa, colla sapienza dei giudici, col tatto nella direzione dei dibattimenti, colla equità nell’applicazione delle pene.
Un uomo d’ordine per il primo nella Camera dei Deputati, l’on. Galimberti, discutendosi l’autorizzazione a procedere contro i deputati Bissolati, Costa, De Andreis, Morgari e Turati osservò: che nel modo come si facevano funzionare i Tribunali di Guerra e colla competenza a giudicare di frivolezze per le quali dovrebbe bastare un Vice-Pretore, si toglie alla istituzione la solennità dei giudizî suoi e si attenta all’autorità ed al prestigio dell’esercito. Fu più esplicito e più alto chi meno era [126] sospettabile di tenerezza per i rivoltosi, chi non può non avere a cuore l’esercito di cui fa parte: il colonnello Siacci, infatti, in Senato ebbe a pronunziare gravi parole sui Tribunali di Guerra istituiti nel 1898 e che egli vide funzionare a Napoli.
«I recenti bandi militari, disse l’illustre Senatore, hanno allargata smisuratamente la cerchia delle attribuzioni dei Tribunali di Guerra, chiamando questi Tribunali a conoscere anche delitti contemplati dal Codice penale comune, delitti le cui figure non sempre si riesce chiaramente a distinguere senza un certo acume, senza una certa pratica di diritto penale. Per esempio, l’istigazione a delinquere. Un articolo di giornale, quattro chiacchiere fatte al caffè, il discorso stesso che ho l’onore di fare in questo momento al Senato, diventano facilmente istigazione a delinquere.[31] Dal Ministro guardasigilli, perciò, invoco che si provveda ad una revisione sollecita, sia pur sommaria, di tutti i processi, e ad una pronta riparazione di molte condanne eccessive, per non dire ingiuste. Egli è ministro di grazia e di giustizia, ma in questo caso la grazia e la giustizia fanno una cosa sola.... Io questo invoco, non solo per amore della giustizia, ma anche nell’interesse del prestigio dell’esercito. Fanno più male all’esercito certe ingiustizie a freddo che venti uomini caduti sotto una scarica provocata da una folla che insulta la [127] truppa; e mal provvede al suo prestigio tanto chi l’obbliga a subire impassibile coll’armi al braccio le replicate offese della piazza, quanto chi gl’impone funzioni odiose, contrarie alla sua stessa natura»[32].
Ma il deputato e il senatore forse avevano le traveggiole scorgendo certi pericoli dove non c’erano? Così pare.
I Tribunali di guerra, invece, si occuparono di certi reati gravi, che avevano davvero bisogno di una punizione esemplare, solenne! Vediamo.
Un Caimi prende due anni di reclusione e 500 lire di multa per rottura di lampioni; un Majocchi viene condannato perchè dà dello stupit, del macaco ad una sentinella. Non è ben sicuro che quelle parole fossero indirizzate alla sentinella; ad ogni modo il capitano De Caroli che tradusse l’accusato in Tribunale, riconobbe che il Majocchi pronunziò quelle parole per fare lo spiritoso! Un Bianchi compare innanzi al Tribunale di guerra perchè chiama cappellone un brigadiere dei carabinieri; Pedotti e Brusa, alla loro volta, vengono condannati perchè chiamano mangiapagnotta un tenente di cavalleria che passava in carrozza. A Firenze si danno otto mesi di reclusione al Cassi perchè chiamò pagliacciate gli arresti. Nella stessa Firenze si procede contro Melani perchè ha chiamato mangiapatate un sott’ufficiale che non può mentire, dice il Presidente. E questa perla di Presidente, ad un accusato che dice di aver deplorato i tumulti, dà [128] una lezione di fierezza esclamando: Come!... voi socialista, deplorate le gesta dei vostri compagni?...
Questi ed altri casi simili a Milano. C’è di meglio — ossia di peggio — a Napoli. Filosa, un ragazzo, prende tre mesi di detenzione per avere gridato: E billoco! (Eccoli!) — una frase trovata nell’agosto 1893 per avvisare l’arrivo di dimostrazioni e degli agenti di polizia. Verniero, il famoso gobbetto il cui caso fu portato in Senato dal colonnello Siacci, ebbe due anni di reclusione perchè leggeva i giornali al caffè e li commentava, manifestando delle simpatie pel socialismo; si badi: lettura e commento precedettero la proclamazione dello stato di assedio. Un ragazzetto si buscò quattro mesi per avere abbattuto(?) un albero; tre donne rispettivamente ebbero un anno, 9 mesi e 7 mesi di reclusione, per aver preso parte ad una pacifica dimostrazione; 2 anni ciascuno ebbero Del Giudice e Carozza per avere presentato al Prefetto, la mattina del 30 aprile, una commissione di donne: erano stati arrestati la stessa sera, ma vennero rilasciati spontaneamente l’indomani perchè non si era trovata alcuna ragione per processarli. Altri tre, nello stesso processo e per gli stessi reati(?) ebbero un anno, due anni e mezzo e tre anni; 18 mesi per uno altri tre ragazzi per avere abbattuto un palo. Bavarese e Fiore di Torre Annunziata, due donne, ebbero tre anni per una, con 6 mesi di segregazione cellulare per avere detto che sarebbe avvenuta la rivoluzione come nel 1848. De Cicco ebbe 8 mesi per avere eccitato all’odio di classe in Pomegliano d’Arco cogli articoli pubblicati a Gallipoli. Alcuni soldati delle compagnie di disciplina [129] ebbero 3, 4 e 5 anni di reclusione come accusati d’insubordinazione e di anarchismo, per avere detto, vedendo maltrattare un compagno: queste sono boiate! Il soldato Muscari fu condannato a 7 anni e mezzo di reclusione per avere sfidato un tale in borghese, che lo aveva insultato perchè gli chiese un cerino per accendere un sigaro. E sì che il Tribunale gli accordò le circostanze attenuanti... Sotto gli abiti di un borghese si nascondeva un ufficiale e il disgraziato ebbe il torto di non accorgersene!
I processi e le condanne per contravvenzioni di ogni genere ai bandi non si contano; e furono tanti che i maligni dissero che si processava e si condannava per giustificare la continuazione dello stato di assedio; mentre si manteneva lo stato di assedio perchè i Tribunali Militari avevano ancora della carne al fuoco... Strano circolo vizioso!
Alla qualità dei processi svoltisi innanzi ai Tribunali Militari naturalmente doveva corrispondere e corrispose la quantità. Si vedrà dal riassunto statistico. Del pari è facile supporre che si sia proceduto con soverchia leggerezza — quale parola più mite potrebbe adoperarsi? — nello imbastire i suddetti processi.
Se la supposizione risponda alla realtà si può argomentarlo facilmente da quanto appresso. Base generale ai processi furono: le confidenze, le denunzie anonime, le asserzioni gratuite... ed umoristiche, altri elementi che se pur avessero avuto un valore intrinseco, c’erano passati sopra tanti anni a farglielo perdere completamente.
Mi sbarazzo alla lesta di questi ultimi e ne cito uno tipico; la lettera di Andrea Costa ad un Bordigiago [130] di Padova... del 1881. Ma questo singolarissimo documento non potè essere valutato dai giudici militari, perchè la Camera dei deputati non gli accordò alcuna importanza, quantunque gliene abbia data una schiacciante l’on. Tommaso Villa! In compenso l’Inno dei lavoratori pubblicati nel 1884, mai sequestrato per lo passato, servì a fare aggravare la pena contro Filippo Turati.
In quanto alle confidenze e alle denunzie anonime, furono il prodotto dello spionaggio rimesso in onore come ai tempi dei passati regimi. A Milano, come a Firenze, come a Napoli, gli amici si guardavano sospettosi e non si comunicavano le impressioni che con straordinaria circospezione. Per Milano il fenomeno fu constatato da parecchi giornali; per Napoli posso aggiungere, per personale esperienza, che in qualche caffè dove riunivansi deputati e senatori, i più prudenti consigliavano spesso di parlare a bassa voce. E la prudenza non era superflua: al gobbetto dell’on. Siacci si appiopparono due anni di reclusione per avere chiacchierato in un caffè.
Lo spionaggio assunse tali proporzioni che ben cinquemila lettere anonime furono indirizzate alla polizia nella sola Milano (Secolo). E la libertà, l’onore, la posizione dei cittadini furono lasciati in balìa dei miserabili che per invidia, per rancore, per bassa speculazione si abbandonarono all’infame mestiere di spia.
Era tanto iniqua la base di questi processi, che la Nazione di Firenze, benchè tardivamente — in Settembre — a proposito della perquisizione in casa del Prof. Pullè, protestò energicamente contro la perfidia dell’anonimo e delle denunzie false.
[131]
Quale influenza abbiano esercitata non solo sui processi, ma anche sulle condanne le confidenze delle spie si apprenderà da questo dato: la pretesa prova più importante contro Gustavo Chiesi fu quella di essere stato visto in carrozza in luogo dove vennero erette delle barricate. Negava l’accusato; affermava il questore Minozzi, che l’aveva saputo da persona che non volle nominare. Meno male se una semplice guardia, un carabiniere, a viso aperto, avesse deposto di averlo visto!
L’insieme delle deposizioni degli agenti della forza pubblica, delle confidenze, delle denunzie portava seco l’impronta evidente della falsità. E per falsi bollò i rapporti alla Questura il tenente difensore Forzano nella udienza del Tribunale di Milano del 18 Giugno. E lo stesso avvocato fiscale in Firenze rimprovera aspramente una guardia di pubblica sicurezza a nome Ghezzi per le sue palmari contraddizioni nell’accusa contro Teschi; ma Teschi viene condannato!
Poteva ammettersi per vero, ad esempio, un rapporto della questura di Milano su certa riunione notturna in casa di un Dottor Ceretti? I convenuti furono designati come anarchici, repubblicani e socialisti. Chiesti i nomi, si rispose dalla questura che non li sapeva! Si designa il colore politico di individui che.... non si conoscono. Siamo in piena amenità — i tempi non consentono adoperare altra parola — a Napoli nel processo pei fatti di Resina. Le guardie barricate in caserma riconobbero i tumultuanti attraverso.... il buco della serratura.
Meno male se i rei riconosciuti in tale strana guisa fossero stati pochi: trattavasi di una vera [132] folla; a ben sessantaquattro individui si distribuirono centoventun’anni e nove mesi di reclusione.
La falsità dei rapporti talora è umiliante.... anche per un poliziotto italiano. Egli è così che la Questura di Milano scrive essere stato visto Angiolo Cabrini insieme ad altri a parlare con la Kulichoff in via dell’Unione il 6 Maggio. L’accusa — se il parlate con amici è un reato — è precisa; ma l’alibi di Cabrini è irrefragabile. Egli insegna nel Ginnasio di Mendrisio e il direttore Borella manda certificato sulla presenza del Cabrini nella scuola per tutto il giorno 6 a fare, come di dovere, le sue lezioni. Cabrini venne condannato in contumacia a tre anni di detenzione ed a 1000 lire di multa. Tal altra la falsità apparisce lampante all’udienza. Nel processo pei tumulti di Resina un brigadiere accusò un imputato di avergli afferrato la sciabola: tanto vero, soggiungeva, che l’accusato ha ancora le mani tagliate. L’accusato leva le mani e le mostra vergini di qualunque ferita; e davvero, in questo caso, potevano essere levate verso il cielo invocando giustizia.
Il record tra i documenti di questi processi viene vinto dalla famosa cartolina-fantasma partita da Firenze. È la cartolina firmata: Speranza 333, il cui sequestro, come quello del cifrario dell’onor. Bissolati, fece annunziare trionfanti agli organi della reazione che si era scoperto e documentato il complotto con tutto il suo seguito. La gioia loro però fu di breve durata, perchè il Generale Heusch — il regio Commissario straordinario per la Toscana: nientemeno! — appena ne fu annunziata là scoperta gloriosa, dichiarò esplicitamente: [133] trattarsi di un artifizio allo scopo di fuorviare il sereno corso della giustizia e di danneggiare le persone nella lettera nominata.
Per credere alla serietà e realtà di una cospirazione i cui segreti comunicavansi per mezzo delle cartoline postali, ci voleva tutta la imbecillità e la malvagità della polizia italiana che aveva prestato fede al proclama firmatissimo di Petralia ed al Trattato di Bisacquino. Ad onore del vero, però, deve avvertirsi subito, che l’avvocato fiscale, a richiesta della difesa, nel processo Chiesi, Romussi e Compagni, dichiarò di non volersi avvalere di un siffatto documento: tanto, era sicuro della condanna degli accusati![33]
[134]
Il Tribunale militare di Firenze chiuse bene la sua vita condannando l’autore della cartolina Speranza 333 e di altri quattro analoghi documenti, lo sciagurato Sciascia-Sicurelli. Ma di questo atto di giustizia finale sentì rammarico la magistratura cosidetta civile; ed a Piacenza, nel processo Verrazzani-Marchesi, condannò in base ad una cartolina rassomigliante al documento Speranza 333 che fu letta e veduta da testimoni di accusa che l’ebbero in mano.... e non la conservarono! La circostanza va notata perchè dà la misura della illusione nutrita da coloro che credono tuttavia che la giustizia sarebbe stata amministrata meglio dai magistrati ordinarî.
Questi mezzi edificanti, presentati come prove contro le migliaia di accusati che passarono dinanzi ai Tribunali militari, lasciano l’adito a pensare che alla difesa in ogni caso sarà riuscito facile la demolizione degli edifizi artificiosi dell’accusa. Il senatore colonnello Siacci che aveva constatato la deficiente coltura giuridica degli avvocati fiscali, causa prima di errori e di esagerazioni, con rara opportunità aveva deplorato vivamente che tale deficienza sia stata maggiore tra gli improvvisati difensori; di talchè il duello tra l’accusa e la difesa avveniva quasi sempre ad armi disuguali — cioè sleale.[34] Quando uno di [135] questi difensori di ufficio, onestamente, confessa la propria ignoranza e domanda un breve rinvio per farsi chiarire, da persone competenti, un punto di diritto per lui indecifrabile, i superiori non mancano di infliggergli una punizione disciplinare[35]. I difensori intelligenti e coscienziosi, del resto, venivano continuamente beffeggiati dall’avv. fiscale e redarguiti in nome della disciplina dal Presidente in piena udienza. Così nel Tribunale di Firenze pel processo pei tumulti di Riglione il tenente Ercolani si azzardò a dire, che quel processo era stato ordito dai preti. Il presidente si alza infuriato e lo redarguisce: «Così non si va! Cotesti apprezzamenti se li tenga per sè. Osserviamo la disciplina, se no rinvio il dibattimento; e allora guai a chi tocca!».
Incredibile dictu: finiti i processi, fu punito coll’allontanamento da Firenze l’avvocato fiscale Gavino Ricci perchè non era stato abbastanza feroce! La misura era tanto punitiva che l’avvocato fiscale Bargalossi, chiamato a sostituirlo, alla prima udienza si disse addolorato pel suo ingiusto allontanamento... (Nazione del 5-6 ottobre). Del resto siamo arrivati a questo: che agli ufficiali s’impone di difendere gli accusati; ma non si lascia loro libertà di difesa; e pare che agli stessi ufficiali le autorità politiche vogliano proibire di dire la verità [136] se chiamati come testimoni in un processo. Parrebbe inverosimile se non fosse vero; ciò si rileva dal processo Barbato e dall’inchiesta fatta contro il maggiore e il capitano di fanteria, che deposero in favore dell’accusato!
Meno male se davanti ai Tribunali militari, come presso tutti i popoli civili, fosse stata sacra la difesa! Ma a questa furono imposti limiti davvero inqualificabili e la si fece svolgere in condizioni, che dovevano renderla assolutamente inefficace, inadeguata. Tale, a mo’ d’esempio, doveva riescire quando ad un solo ufficialetto ignaro del diritto e delle schermaglie procedurali, affidavasi la difesa di dieci, di venti accusati; e per di più, si presentavano in blocco requisitoria e difesa di molti processi in una volta. Così a Milano, si raggrupparono sei processi — dal 41º al 46º in un giorno; ed altri sei — dal 47º al 52º — se ne raggrupparono in un altro.
Il povero ufficiale difensore quasi sempre si rimetteva in questi casi alla clemenza del Tribunale segnalando la buona condotta e i buoni precedenti dei suoi poveri clienti. Oh, se si correva nell’accusare e nel condannare! si correva tanto, che l’avvocato fiscale in Milano, sicuro del fatto suo, dichiarava inutile provare l’accusa.... Era inutile l’accusa perchè era impossibile la difesa.
Gli ostacoli, spesso insormontabili, si sollevano al punto di origine dei documenti della difesa: il Prefetto di Ravenna, ad esempio, negasi, contro legge, a legalizzarne uno che doveva servire alla difesa di De Andreis. Del resto tutti i documenti possibili e immaginabili non pesano nella bilancia dei Tribunali militari.
[137]
Della libertà di difesa consentita agli accusati si avrà un idea da questo breve dialogo avvenuto nel processo pei fatti di Pomigliano d’Arco (Tribunale di Napoli): Imputato: Debbo dire mezza parola. Presidente: Dite pure. Imputato: Domandate al Signor Brigadiere.... Presidente: Oh! ne avete già dette cinque di parole... Basta! — E lo fa sedere. Ancora. Nel processo dei ferrovieri di Napoli: Imputato Fortina: Vorrei s’inscrivesse nel verbale questa circostanza.... Presidente: Qui non state nella vostra lega, ma innanzi al Tribunale di Guerra e basta che noi sentiamo; non occorre inserire nel verbale. In quanto a verbali — afferma Walter Mocchi in un giornale di Roma — gl’istruttori non si curano di fare firmare gl’interrogatori; ed a domanda rispondevano: «Non importa; tanto ve la vedrete col Tribunale il giorno dell’udienza!»
L’ottimo colonnello Mondino, Presidente di uno dei due Tribunali di Napoli, aveva dichiarato non occorrere verbale: bastare che egli sentisse. Avrebbe potuto bastare realmente se egli e i giudici suoi colleghi avessero sentito da tutte e due le orecchie. Disgraziatamente per la giustizia e ancora di più per gl’imputati, i Presidenti dei Tribunali di Guerra non sentivano che da una sola; sicchè la bilancia non poteva che essere falsa perchè la lancia non poteva pendere fatalmente che dal solo lato del piatto esistente, ch’era quello dell’accusa.
Lo dichiarano più volte ed esplicitamente i signori Presidenti dei Tribunali di Guerra, con grave scandalo di coloro che dai medesimi attendevansi giustizia spiccia e sollecita, perchè liberata dalle formalità curialesche, ma giusta. Detti illustrissimi [138] Presidenti dichiarano che non volevano testimoni a difesa, o ne volevano pochi; pochi o molti, del resto, soggiungevano che non avrebbero loro prestato fede.
Queste dichiarazioni fatte caso per caso, improvvise, nel calore del dibattimento — se dibattimenti possono chiamarsi i monologhi dell’accusa — senza consultare i membri del Tribunale, costituivano in sè un’offesa alla dignità di questi ultimi ed erano contro la legge. Il Presidente, come argutamente osservò il Mocchi[36], anticipava la legge sul Giudice unico, e parafrasando il motto del Re Sole esclamava: Il Tribunale sono io!
Non c’è dubbio su questa che sembrerebbe una enormità incredibile se non fosse rigorosamente vera: il partito preso di impedire la presentazione dei testimoni della difesa. Chi percorre i resoconti dei Tribunali di Milano se ne può convincere; ed a Milano occorse il caso più clamoroso della condanna iniqua di un imputato, che aveva un omonimo, di cui non si vollero ascoltare i testimoni a difesa. L’iniquità è stata documentata dallo stesso Avvocato fiscale, che sotto l’aculeo del rimorso ha avanzato egli stesso la domanda di grazia al Re in favore del povero condannato.
Si capisce, però, la renitenza dei Presidenti a sentire i testimoni a difesa: li credevano perfettamente inutili, perchè non degni di fede.
[139]
Lasciamo apprendere al lettore la grave circostanza dal drammatico resoconto dei dibattimenti. Siamo a Firenze nel processo pei tumulti di Figline. Il tenente Thermes, a difesa del colono Nocentini, presenta una lista di otto testimoni; non se ne ammette che uno. Il difensore ci tiene al numero: Presidente: al numero e a qualche cos’altro.... Tenente Thermes: Sta bene: ma se otto testimoni deponessero che il Nocentini non si mosse del lavoro... Presidente: Anche se fossero cinquanta sarebbe lo stesso (Mormorio). I carabinieri e le guardie hanno deposto in modo da non lasciar dubbio, dando prova di possedere una memoria assai lucida. Tenente Thermes: Eccezionalmente lucida... Presidente: Qui non si tratta di far discussione. L’incidente è esaurito. — E Nocentini è condannato. Lo stesso Presidente del Tribunale di Firenze dichiara: Si citano solamente i testimoni che possono deporre su cose importanti! (Processo Guiducci e Teschi).
A Napoli. Processo di Resina. Presidente: D’Antonio Maria, alzatevi. Negate pure se volete: ma vi avverto che non crederò una parola di quanto direte. — Processo di Giuliano. Tenente Susanna: Il mio difeso ha citato quattro testimoni, che non sono presenti. Presidente: oh! se lei lascia fare a quelli lì, faranno venire a testimoniare tutta Giuliano! E fa comprendere che se tutta Giuliano venisse, non servirebbe a scuotere l’edifizio dell’accusa.=Nello stesso processo. Un imputato: Ma io tengo i testimoni... Presidente: Oh! per me i vostri testimoni valgono zero. Per me i testimoni buoni sono i carabinieri e le guardie.
[140]
In quanto a Milano, i dialoghi hanno forma più garbata; ma il succo è lo stesso ed è questo: il Presidente non accorda valore al numero e alle qualità dei testimoni a difesa. Ne accorda tanto poco a tutta la difesa, che a Filippo Turati preannunzia la condanna. E su questa inezia giuridica l’on. Barzilai ha presentato una interpellanza alla Camera dei Deputati. I criterî del magistrato sulla utilità della difesa appaiono nella loro ributtante nudità nella risposta che lo stesso Presidente dette all’onorevole De Andreis: Ma crede lei che il tribunale sia disposto a prestar fede alle sue difese?...
Fermiamoci un istante sulla questione dei testimoni. Il difensore tenente Ponti, nel 36º processo di Milano, con amarezza, che gli fa onore, diceva: «Prima di terminare, noto che le risultanze dei vari processi m’inducono a credere che è assai più facile il venir qui ad accusare che a difendere. È noto: 1º che si ha tendenza a prestare maggior fede a chi accusa che a chi difende; 2º che le classi meno elevate dimostrano di possedere in misura ben ristretta quella qualità che si chiama coraggio civile e che fa ritenere fra i più sacri doveri quello di saper difendere a tempo e luogo il proprio simile, lasciando a parte il timore di conseguenze spiacevoli».
No, tenente Ponti! Non è il coraggio civile che mancò alle classi meno elevate. Egli è che i rappresentanti delle classi più elevate resero assai pericoloso l’adempimento del proprio dovere. I testimoni della difesa andavano incontro al pericolo di essere incriminati, — e si arrestò il Sartori a [141] Firenze perchè l’Avvocato Fiscale dichiarò essersi formato il convincimento ch’esso mentiva — mentre non s’incriminarono mai i testimoni dell’accusa anche quando il mendacio loro era lampante. E poi, a che pro’ esporsi a questi pericoli? Anche quando in favore degli accusati vanno a deporre gli uomini che occupano le più elevate e delicate posizioni sociali, il risultato non muta: si nega a loro la fede, che si accorda intera alle guardie di P. S., ai carabinieri, agli anonimi, alle spie reclutate nei più bassi fondi sociali. Un’enorme quantità di testimoni appartenenti alle classi dirigenti depone in Firenze in favore dell’Avv. Crosti; e Crosti è condannato; il Comm. Pirelli depone in favore di Turati: Turati è condannato. L’on. Colombo depone in favore di De Andreis: De Andreis è condannato. Il capo del gabinetto del Questore di Napoli depone in favore di Lamberto Sbarra: Sbarra è condannato. Il capitano dei carabinieri che ha il servizio politico in Napoli depone in favore di De Cicco: De Cicco è condannato. Il tenente colonnello comandante l’arsenale di Castellammare di Stabia depone in favore di Scognamiglio: e Scognamiglio viene condannato. Il Senatore colonnello Siani depone in favore di Verniero: e Verniero viene condannato....
A che cosa possono servire i testimoni più degni di fede quando un sostituto avvocato fiscale Ricci (processo dei socialisti di Monza, 30 Giugno e 1 Luglio) dichiara che non sono attendibili i testimoni tutti, tra i quali il Sottoprefetto di Monza? c’è di meglio: nell’udienza del 1 Giugno a Firenze, un maresciallo dei carabinieri afferma e il fornaio Beccani nega. E il Presidente: non [142] esito a credere piuttosto al valoroso maresciallo, che al Beccani, ch’è un pusillanime!
Non è tutto. Se mancano i testimoni della stessa accusa, non si manda in libertà l’imputato, ma si rinvia il processo per supplemento d’istruttoria sino a tanto che si riesce a condannarlo per un qualsiasi plausibile motivo. Ciò accadde ad un Raffaele Esposito in Napoli.
Con processi istruiti con metodi assolutamente incivili e nella mancanza completa di una vera difesa, le probabilità in favore di giudizi giusti rimanevano attaccate al filo sottilissimo delle qualità personali dei giudici: dovevano supporsi in loro eccezionalmente sviluppate l’intelligenza e l’equanimità.
In generale, dello sviluppo intellettuale di un individuo si ha un primo ed importante indizio nel tatto, nella garbatezza, nel sapere rispettare quelle che sono le regole del galateo. Questo rispetto imponevasi specialmente di fronte agli accusati, che presentavansi innanzi ai Tribunali militari in così straziante inferiorità.
Usare modi cortesi verso questi poveri inermi costretti a combattere contro uomini ferrati, era un dovere più che una generosità; ma anche ogni residuo di gentilezza venne meno nelle pubbliche udienze e la brutalità della caserma si mise in evidenza in tutta la sua bruttura. Si dice che delle invettive, dei sarcasmi inopportuni, ingenerosi, adoperati dal colonnello Parvopassu nei primi dibattimenti davanti il Tribunale militare, si scandalizzarono anche in alto e gli furono rivolti consigli di temperanza. Ammansato egli arrivò al processo De-Andreis-Turati, [143] nel quale volle dar mostra di gentilezza col rivolgere a Turati qualche complimento — senza sarcasmo — egli stesso fu costretto ad aggiungere — sapendo che non sarebbe stato creduto sincero. Chi alla brutalità ed alle ingenerosità aggiunse i tratti del buffone, fu il colonnello Mondino che credette poter passare alla storia provocando indecentemente l’ilarità del pubblico nel distribuire secoli di galera.
Di lui ricostruì la ributtante silhouette il Mocchi nell’articolo cennato e credo doveroso non insistervi oltre; aggiungo soltanto, che suscitò la nausea il Presidente del Tribunale di Milano quando tentò vilipendere villanamente l’on. Maffi. E che dire di quel tenente colonnello Giacosa che alla fine della udienza del 9 agosto, in Firenze, consiglia gli accusati: se vi vengono tra i piedi socialisti e anarchici, mettete una mano nell’orologio e l’altra nel portamonete?
In questi processi pei tumulti di Aprile e Maggio 1898 non occorreva soltanto l’ordinaria sapienza giuridica; ma era indispensabile pure una discreta conoscenza delle scienze politiche e sociali, senza la quale non potevansi valutare al giusto i fatti e si dovevano scorgere dei reati dove tra i popoli civili non se ne scorge traccia alcuna. Ora, l’ignoranza dei giudici militari su questo si chiarì sbalorditoria ed indusse il colonnello Parvopassu a chiedere all’Ing. Valsecchi cosa s’intendesse dai socialisti per conquista dei poteri pubblici; a Maffi imputava a delitto — eccitamento all’odio di classe — il parlare di sane e pratiche rivendicazioni del proletariato; a Gustavo Chiesi rimproverasi il discredito gettato sull’esercito colle sue critiche della campagna d’Africa del 1887; [144] e sempre si videro terribili reati nelle frasi: lotta di classe, leghe di resistenza, ecc., ecc.
Nel campo giuridico, l’ignoranza non era minore; e preferisco attribuire ad ignoranza certi errori e certe contraddizioni, che altrimenti si dovrebbero ascrivere a brutale malvagità.
Egli è così che Romussi, Chiesi e altri giornalisti vengono condannati come complici nei fatti che procurarono devastazione e saccheggio, mentre la stessa sentenza dichiara quei fatti essere avvenuti indipendentemente dalla loro volontà. Per Valera, Koulichoff, ecc., manca l’estremo delle pubblicità necessarie perchè ci sia il reato imputato. Al gruppo dei giornalisti contumaci, che dovevano rispondere dei reati contemplati negli art. 246 e 247 si regalarono sei mesi di più di quelli che loro spettavano. A Pescetti si danno 10 anni, mentre a Turati e De-Andreis, per un reato minore, se ne danno dodici. Rilevo infine, che si distribuirono pene enormi per reati insussistenti ed anzichè rilevarlo colla parola calda e dotta dei valorosi avvocati che difesero i condannati in Cassazione mi piace farlo con quelle di un modesto difensore militare.
Il tenente Mazza, nell’udienza del 21 Giugno, in difesa di Valera innanzi al Tribunale militare di Milano osserva:
«Trovo scritto in un libro, compilato da una delle menti più eccelse che onorano l’Italia (parlo dell’illustre Zanardelli e del suo Codice Penale, che segnò il trionfo del senso morale e della sociologia) come: «Nessuno possa essere punito per un fatto che secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato». (Articolo 2)
[145]
«Ora, lo stato di assedio coi Tribunali di guerra, per quanto possa modificare la procedura penale, per quanto accordi competenza a reati anteriormente commessi, non potrà mai annullare il dispositivo di un articolo di legge, facendo considerare reato un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, reato non costituiva.
«E che fatti ora incriminati, sia per articoli di giornali o discorsi o conferenze pubbliche, non costituissero reato, lo prova con evidenza l’aver liberamente concesso ai giornali di circolare senza sequestro, il non aver mai spiccato contro i direttori, collaboratori, gerenti e conferenzieri alcun mandato di arresto o di semplice comparizione.
«Se i miei difesi avessero, come sostiene l’accusa, commesso delitti contro i poteri dello Stato, o eccitato a commettere tali delitti, se avessero pubblicamente istigato a delinquere, o fatto l’apologia d’un reato, o incitato all’odio fra le classi sociali, certamente il potere giudiziario sarebbe intervenuto per reprimere il reato coll’azione penale.
«Ora invece il Regio Procuratore mai intervenne contro i nostri difesi e la stessa autorità di P. S., che con i suoi rapporti ha scoperto ora tanto materiale di accusa, non ha mai provocato dal potere giudiziario alcun provvedimento.
«Cosa dice adunque codesto non intervento, se non che discorsi, conferenze, sermoni ed articoli di giornali, che ora si vogliono incriminare, non raggiunsero mai gli estremi del reato, e quindi non si agì a termine di legge, perchè il fatto nel suo assieme non costituiva reato?»
[146]
E non basta condannare per i reati insussistenti; ma si condanna per i reati che avrebbero potuto avvenire, nel processo dei socialisti del Circolo di Chiusi — Firenze, udienza del 13 Giugno — si accusa l’Avv. Crosti pei disordini che si sarebbero verificati se il circolo non fosse stato sciolto....
Questo è di una evidenza sorprendente e si applica alle numerosa categoria dei condannati giornalisti — da Chiesi, Romussi e Valera a Menzione e De Cicco.
La stessa sapienza giuridica fa condannare la povera Maria Marone di Napoli a 12 anni di reclusione come complice dello studente Cupola, suo amante, che si seppe difendere da sè e che perciò venne assolto![37]
Questa ignoranza crassa può spiegare certe sentenze davvero draconiane: 7 anni ad una donna per essersi trovata a capo di una innocua dimostrazione di donne; 100 anni di reclusione a 60 persone accusate di avere incendiato un carrozzone di tram in Milano; 2 anni a chi affrettossi a portare nei casotti i fucili abbandonati dalle guardie daziarie di Resina — ebbe pure le lodi del Presidente! — 20, 22, 25 e 30 mesi di reclusione a quattro imputati di avere dato una sola bastonata ad un agente della forza pubblica in Casoria...
Quattro anni di reclusione ebbe il Trinci per avere scagliato dei sassi innocui in Firenze....
[147]
È chiaro: i Tribunali di guerra, in quanto a somministrazione di pene, adottarono questa savia massima: melius est abundare quam deficere!
Ed abbondano anche contro il parere dell’accusa: a Firenze l’Avv. Fiscale Gavino Ricci domandò sei mesi di detenzione contro Del Buono ed un anno contro Ciotti; il Tribunale ne dette quattro anni e due mesi a quest’ultimo, otto mesi al primo.
Tanta severità viene compensata dalle imparzialità!.. Imparziali sempre i giudici militari passano sopra alla parola del Re e condannano gli amnistiati, i contumaci, i pazzi, gli ubbriachi. Sui reati del borbonico Menzione passano sopra due amnistie e la pena scontata, ma il Tribunale di guerra cancella tutto e condanna. I contumaci erano stati risparmiati sotto Francesco Crispi, che non si lasciò smuovere dallo scrupolo insolito pel rispetto alla legge da chi avvertivalo che sfuggiva alla lontana una grossa preda: Cipriani (Don Chisciotte, N. 208 del 1898); ma furono inesorabilmente condannati nell’anno di grazia 1898. I pazzi furono ritenuti sempre irresponsabili; ma il Tribunale militare di Milano scrive un nuovo capitolo di psichiatrica, e pei fatti di Seregno condanna un Confalonieri il cui solo testimone di accusa — il maresciallo dei carabinieri — lo dichiara pazzo; e condanna Zoppini per avere gridato il 19 Maggio nel corso Vercelli: Viva il socialismo! Viva l’anarchia! La sola data del reato bastava ad assodare lo squilibrio mentale; lo dichiararono irresponsabile tre periti medici; ma Zoppini viene condannato, benchè sia stato diciannove volte al manicomio!
[148]
Si può immaginare se trovarono grazia gli ubbriachi: un De Ambrogi venne condannato per avere emesso non so qual grido sovversivo dopo essere stato per sette ore continuo all’osteria... e per avere gridato: vorrei avere tanta... carta da dare fuoco a tutto il mondo!
Pietà non si ha se non per coloro che nei processi del mezzogiorno risultarono all’evidenza istigatori e promotori dei disordini per gare municipali: nessuno di loro fu condannato. Erano cavalieri, commendatori, uomini d’ordine, che a data ora davano la caccia ai sovversivi e meritarono tutti i riguardi. Nessuno sospettò in questa pietà l’influenza del pregiudizio o dell’interesse di classe!
E se a Milano si condanna Don Albertario, trovano pietà i preti in Firenze, dove vengono assolti tutti quelli del 25 giugno per accuse che avrebbero procurato anni ed anni di reclusione ai socialisti.
Con processi istruiti nel modo che abbiamo visto, senza difesa, coi criteri, colla sapienza e colla imparzialità dei giudici che ci sono noti: i Tribunali di Milano distribuirono anni 1390, mesi 3 e giorni 2 di reclusione; anni 90, mesi 1 e giorni 6 di detenzione; anni 307 di sorveglianza e L. 33,952 di multa a 688 imputati — dei quali 17 donne e molti minorenni. A Napoli vennero condannati 812 individui — tra i quali molte donne e molti minorenni — a 624 anni, 11 mesi e 21 giorni di reclusione e detenzione; 80 anni e 6 mesi di sorveglianza e L. 50,927 di multa. Le condanne più gravi furono quelle del Tribunale di Firenze pei fatti di Figline: un Pampoloni ebbe 27 anni di galera; Fabbricanti [149] e Giani 25, Musuai 24, Laperini, Borghesi e Gabrielli 22, Coloni 20, ecc., ecc.[38] Questa statistica è veramente paurosa e fa temere che i Tribunali di guerra abbiano sparso copiosamente seme di odio; ed è un giornale conservatore, cui non sfugge la realtà, a pensare che le condanne degli uomini politici e dei giornalisti di Milano ha avuto tutto il carattere di una vendetta, più che di un severo atto di giustizia. (Mattino 19 Agosto 1898).
Se la vendetta e l’odio seminati possano produrre la pace o l’amore non so; auguriamoci che l’avvenire sia migliore di quello intravvisto e temuto. Per ora concludiamo col senatore e colonnello Siani: coi Tribunali di guerra si sono avute condanne feroci; feroci sino al ridicolo!
[150]
L’illegittimità dei Tribunali militari, le basi delle accuse, la mancanza della difesa, l’ignoranza dei giudici — il tutto coronato da questa ferocia sino al ridicolo nelle pene, spiegano come e perchè il movimento in favore dell’amnistia si accentui e divenga una valanga irresistibile che schiaccierà coloro che vogliono arrestarla: valanga a cui hanno portato il loro contributo tutti i partiti e tutte le classi sociali. E si vuole l’amnistia, nel senso di giustizia riparatrice, perchè nei condannati si riconoscono delle vittime, non dei delinquenti — nè politici, nè comuni. Di grazia, di perdono hanno bisogno soltanto i giudici.
[151]
Avvenne dei processi svoltisi innanzi ai Tribunali Militari ciò ch’era avvenuto pei tumulti: l’attenzione del pubblico concentrossi a Milano.
Quasi tutte le udienze del Tribunale di guerra consacrate ai tumultuanti di Maggio ebbero la loro speciale importanza in quanto che somministrarono gli elementi migliori pel retto giudizio sull’indole vera dei moti; la sintesi sui vari elementi, poi, si desume chiara e completa dei due processi dei giornalisti e dei deputati, come vennero denominati.
La qualità degli accusati e la natura dei reati che vennero loro imputati spiegano il fenomeno e danno ragione del vivo interesse col quale gl’italiani ne seguirono lo svolgimento. Allora venne in discussione esplicitamente il complotto.
È chiaro: se si fosse provato che le sommosse della primavera del 1898 furono la conseguenza della preesistente organizzazione e della decisa determinazione di un partito per provocarli e riuscire [152] ad una rivoluzione, la gravità delle prime sarebbe stata enorme ed avrebbe potuto giustificare sino ad un certo punto l’allarme delle classi dirigenti e dei conservatori e l’azione spiegata dai governo. Ma la dimostrazione mancò completamente.
Nei moti del mezzogiorno non si tentò neppure di accennare alla esistenza di un complotto, tanto essi furono improvvisi, disordinati, apolitici. Se ne parla in Toscana. Ma a Firenze dove avrebbe dovuto farsi più palese, il complotto fu escluso quando più la paura spingeva alle esagerazioni, anche sincere, dall’organo massimo dei conservatori: dalla Nazione. L’importanza e la natura reale dei tumulti, quando più viva era l’impressione dai medesimi suscitata, può dedursi dai seguenti brani, che tolgo da quel giornale: «Dopo il giorno 6 Maggio, non una mosca venne molestata; nessun disordine fu segnalato dentro le mura cittadine; e nemmeno nel giorno sei nessun disordine sarebbe accaduto... se si fosse operato in altro modo... Questi fatti dolorosi non si sarebbero certo prodotti se, mentre si era esagerato l’allarme con la ingiunzione di chiudere le botteghe e dopo aver fatto uscire la truppa, quando meno ve n’era bisogno, non si fosse abbandonata la Piazza Vittorio Emanuele, lasciando rinchiusi, poco lontani, interi battaglioni di truppa».
Così la Nazione del giorno 7 Maggio, che rincalzava il 9: «Il panico fu superiore ai fatti avvenuti. Giornali esteri e, sopratutto i giornali di certe regioni, che hanno interesse a far concorrenza a Firenze, diffondono le notizie più esagerate. — Ed è obbligo delle autorità il farle smentire».
[153]
Ci fu tanto il complotto, che l’avvocato Fiscale, per i caporioni arrestati a Firenze, chiese il massimo di un anno[39].
E nel processo di Figline, che fu seguito, come sappiamo, dalle più severe condanne, la stessa sentenza ammette l’influenza della propaganda dei partiti sovversivi, ma esclude l’associazione a delinquere ed il complotto.
Per Milano, siccome nei tumulti escludevasi l’azione determinante del disagio economico, così potè sorgere spontaneo e sincero il sospetto della cospirazione e dei motivi politici tanto nella stampa locale quanto in quella del resto del regno. Il sospetto divenne certezza per gli organi conservatori e reazionari.
Il Corriere della Sera, in prima pagina, all’indomani dei fatti del 7 scriveva: «La questione del pane è passata in seconda linea, anzi qui non vi fu mai. Essa servì di pretesto agli organizzatori dei disordini per ispingere giovani incoscienti, operai mal consigliati, donne, ragazzi ad eccessi che a Milano non si sarebbero mai creduti possibili». Meglio informato e più equanime, il cronista in seconda pagina spiega e corregge, ed augurandosi che i rivoltosi dalle misure prese vengano distolti da nuovi pazzi tentativi, soggiunge: «Ce lo fa sperare la mancanza di direzione e di organizzazione nella sommossa. I conflitti avvenuti ieri non indicano da parte dei tumultuanti, nessun [154] disegno prestabilito. Le barricate furono improvvisate senza un concetto tattico e furono abbandonate senza essere difese. Salvo pochi revolvers, non si videro armi da fuoco in possesso degli assalitori(?). Nè si videro materie esplosive. Le colluttazioni avvennero alla spicciolata.... Non si nominano capi che dirigono la sommossa. Non si vedono proclami che diano una direttiva al movimento. Non si ode un grido che abbia un significato qualunque e che accenni ad una meta». (N. 125).
Questa la verità che non teme smentita. C’è voluto tutto l’accecamento partigiano della Perseveranza per affermare: «Il movimento del 7 ebbe un carattere rivoluzionario spiccato. La sommossa scoppiò in varî punti della città simultaneamente. I fatti si svolsero facendo credere ad un grandioso piano prestabilito di rivoluzione, di saccheggio, di devastazione». (Numero del giorno 8 Maggio). E il giorno 9 insiste accusando i repubblicani come autori principali, che trascinarono i socialisti. E la stolta accusa ripete il giorno 12 — quando erano noti tutti i dettagli, quando essa stessa sentivasi umiliata della breccia dei Cappuccini! — parlando dell’accordo dei repubblicani cogli anarchici, coll’imbeccata che i rivoltosi ricevevano dalla vicina Svizzera, in cui risiedeva la mente direttrice(?), lo stato maggiore del partito(?), del complotto ordito dai repubblicani e secondato dai socialisti senza entusiasmo, della distribuzione di rivoltelle fatta dai repubblicani, ecc., ecc. E tutte queste menzogne le dava come notizie precise ricevute da fonte attendibile circa la [155] preparazione e l’organizzazione della rivolta, che troveranno la conferma nelle risultanze del procedimento penale....[40].
In questa criminosa aberrazione, la Perseveranza ebbe complici la Questura e l’accusa. L’identità assoluta del linguaggio autorizza ad ammettere che gli articoli del giornale conservatore, i rapporti del Questore Minozzi e degli altri delegati, gli atti di accusa le requisitorie degli Avvocati fiscali e il rapporto Bava Beccaris abbiano la stessa origine. A tutti le risultanze del procedimento penale inflissero la più clamorosa smentita, la più vergognosa umiliazione. Il Tribunale di guerra, infatti, escluse esplicitamente il complotto in entrambi i processi.
E per quanto quei giudici si siano mostrati sempre ingiustificatamente severi, il complotto non avrebbero potuto ammetterlo senza coprirsi di disonore. Non potevano e non dovevano prestar fede al complotto di casa Ceretti; non a quello presso la redazione dell’Italia del Popolo — dove sedeva il Comitato pro-repubblica che comprendeva il monarchico Valentini; — non all’antico accordo tra repubblicani, socialisti e anarchici, smentito da una serie interminabile di lotte e il cui solo sospetto avrebbe fatto ritornare anti-socialista Edmondo De [156] Amicis. Nè potevano prendere sul serio la bandiera... di carta dell’anarchico Callegari sulla quale era scritto... Evviva la repubblica!
Meno ancora le contraddizioni di un disgraziato Avvocato fiscale Torre, che pei fatti del 6 Maggio, mentre afferma l’organizzazione di un vero e proprio moto rivoluzionario, negli accusati non trova che fannulloni, i quali si sono messi nella dimostrazione per fare del chiasso: fannulloni ai quali fa regalare sette anni di reclusione!
È innegabile: il Tribunale di guerra, escludendo il complotto, più che fare atto di giustizia, provvide alla propria dignità[41].
[157]
Sfumato questo umoristico complotto, che non ebbe capi, armi, programma, nè bandiera, e mancata completamente la dimostrazione della partecipazione ai tumulti dei giornalisti e dei deputati, non si riesce assolutamente a comprendere per quale titolo essi vennero condannati.
I motivi della condanna sfuggono ad ogni ricerca; ond’è che l’onor. Barzilai afferma essere entrato nell’aula dei Tribunali di guerra il simbolismo ibseniano, che fa scorgere in Turati, in De Andreis, negli altri accusati, dei simboli, delle personificazioni dei partiti ribelli. Altri chiama metaforici i reati attribuiti agli accusati e allegorici i processi; nei quali, con fantasia ariostesca, ai verbi parlare, dire, scrivere, professare... accompagnati ora da una ed ora da un’altra espressione avverbiale, come parlare con sarcasmo, parlare in modo sospetto, [158] professare apertamente delle idee, scrivere articoli sui giornali — si attribuisce una speciale efficienza criminosa, quasi che le parole si possano tramutare in bombe, i discorsi in tumulti, le idee e gli articoli in corpi armati, ecc.!
Si sa, però, che non furono allegoriche o metaforiche le condanne!
È bene aggiungere — e lo rilevò l’Impallomeni nel ricorso in Cassazione — che per Turati, oltre la capacità a delinquere — non quella di Chauvet — riconosciuta in tutti e tramutata con un giuoco di bussolotti in reato commesso, come notò il Barzilai, c’era qualche cosa di più concreto, che accennava ad un fatto: egli il giorno sei raccomandò la calma in modo non giudicato ortodosso; e parlò coll’avvocato Cavalla in modo da potere essere sentito dai rivoltosi....
Ben gli stia la condanna! Perchè andare ad esporre la vita per raccomandare la calma? Se qualche parola non fu ortodossa però, il Tribunale riconobbe che le intenzioni erano corrette: disse esplicitamente, infatti, che i capi socialisti e repubblicani, i tumulti non li volevano.
Non insistendo più oltre su queste sentenze del Tribunale di Milano, i cui considerando Barzilai li chiama degni della Papuasia, e smettendo ogni ironia, si può riassumere l’opera tutta di questa magistratura eccezionale, non consentita dallo Statuto, in questo giudizio: essa non ebbe che uno scopo: la persecuzione e la condanna del pensiero, delle idee, della legittima e pacifica propaganda.
Che sia stato questo il fermissimo proponimento dei Tribunali Militari appare chiaro, lampante dalla [159] motivazione della sentenza contro i giornalisti: «l’opera di Chiesi e di Romussi, repubblicano il primo e radicale il secondo, nella quale si mantennero sino alla soppressione dei loro giornali, costituisce il fatto materiale(?) diretto a suscitare la guerra civile, sebbene ciò non fosse in quel momenti da essi desiderato e sia avvenuto per causa indipendente dalla loro volontà».[42]
I motivi generici e specifici di responsabilità di Turati e di De Andreis sono identici: s’imputano all’uno gli articoli del 1896, l’Inno dei lavoratori, ecc.; e all’altro le opinioni repubblicane, la costituzione di circoli e i discorsi repubblicani... La prova [160] delle prove, infine, la ritrovano nelle parole, interpretate loiolescamente, che Turati e De Andreis pronunziarono imprudentemente, — quando il loro animo era abbeverato di amarezza, quando l’indignazione avrebbe eccitato gli uomini più miti e più teneri delle istituzioni! — alla presenza di un ufficiale e di un avvocato Cavalla, che si fece un merito nel denunziarle.
Questa persecuzione e condanna del pensiero, delle idee, della propaganda pacifica ch’era negli intendimenti dei Tribunali di guerra, armonizza perfettamente colla corrente psicologica degli avvocati fiscali e delle Regie questure. Queste ultime trovarono un’aggravante nella stessa temperanza del Secolo; perchè con questa temperanza, disse un testimonio poliziotto, riusciva meglio a fare breccia negli animi[43] mentre il Tribunale non può menar buona a Don Albertario la fine ironia adoperata nei suoi articoli....
In una nota precedente e in altre pagine furono rilevate le accuse sbalorditone scagliate dalle questure del regno agli imputati, nelle quali si parla sempre di opuscoli, di discorsi sovversivi — mai incriminati per lo passato — più specificatamente si rimprovera al De Cicco in Napoli di ricevere e leggere riviste e giornali repubblicani e socialisti; nei certificati rilasciati dalle autorità si rileva spesso la morale buona, ma cattiva la condotta politica; l’avvocato fiscale recede dell’accusa contro Zavattari benchè repubblicano; il rapporto della questura [161] per Valera confessa che non fu possibile aver dati positivi per credere che esso abbia preso parte attiva ai tumulti (pag. 217) ma viene condannato lo stesso per le sue opinioni. Ma perchè cercare elementi ed indizi per assodare questa determinata e voluta persecuzione contro il pensiero?
È il colonnello Parvopassu, che — sapendo di non avere fatti a disposizione per condannare — in uno scatto imprudente, volto a Turati esclama; le vostre idee sono criminose!
Tanto criminose, che non gli consente quella libertà di esporle che il Tribunale Militare di Palermo concesse nel 1894 a De Felice e Barbato...
Chi può negare il progresso compiuto in quattro anni? In Italia non si cammina, si galoppa sulla via della reazione...
Dichiarare criminose le idee; processare il pensiero; condannare la pacifica e legittima propaganda...! Ma per impedire tutto ciò che ritenevasi mostruoso, per acquistare la libertà delle idee, del pensiero, della propaganda, migliaia di martiri lasciarono la testa sul patibolo o gemettero per anni ed anni nelle galere del Piemonte, dell’Austria, del Papa, del Borbone: per conquistare tanta libertà, l’Italia fece cento insurrezioni e parecchie sanguinose rivoluzioni che costarono la vita a migliaia dei suoi figli!
Il gretto e prosaico materialismo contemporaneo risponde a queste evocazioni liriche con una sdegnosa scrollatina di spalle indicante il nessun conto in cui devono tenersi questi ricordi oramai troppo antichi, stantii.
[162]
Ebbene, questa incoercibilità del pensiero, questa legittimità della propaganda delle idee hanno in favore la parola indiscutibilmente autorevole di un contemporaneo: di Giuseppe Zanardelli, in nome del cui Codice Penale si processa e si condanna[44].
Se Zanardelli appare un dottrinario liberale, si rievochi la memoria di un conservatore autoritario, quella di Silvio Spaventa, che non solo la libertà delle idee voleva piena ed intera, ma anche quella di riunione e di associazione[45].
Ad ogni modo confortiamoci. Contro le aberrazioni di Tribunali, i cui giudici educati nella caserma ignorano il diritto, la storia, la politica, la scienza sociale, c’è il correttivo: c’è la suprema Corte di Cassazione di Roma — la cittadella del diritto, la magistratura istituita per mantenere la esatta osservanza delle leggi[46].
[163]
Vero è che il supremo magistrato nel 1894 dette uno strappo allo articolo dell’ordinamento giudiziario, che assegnavale l’altissima funzione di mantenere la esatta osservanza delle leggi, rinunziando a conoscere delle illegalità dello Stato di assedio e dei Tribunali Militari; ma si poteva vivere sicuri che le sentenze dei Tribunali militari, che colpirono le idee, le opinioni, la propaganda pacifica sarebbero state annullate e avrebbero condotto alla liberazione dei cittadini ingiustamente condannati. Ci si poteva contare, perchè la Cassazione nel 1894 — nelle cause Fiorenza e Molinari — aveva proclamato costituire violazione di competenza, sindacabile in Cassazione:
I. il qualificare eccitamento alla guerra civile un semplice danneggiamento, un tumulto, ecc.
II. il qualificare come fatti diretti ad eccitare la guerra civile le semplici conferenze, le lettere, gli articoli di giornali, ecc.
III. il ritenere in rapporto immediato di causalità con gli avvenimenti, che provocarono lo stato di assedio, le conferenze (tenute anteriormente ad essi) nelle quali non si uscì dal campo degli incitamenti a semplici parole ed in cui non si presero accordi o determinazioni per compiere i fatti criminosi poi consumati.
[164]
Non è chiaro che colle massime riconosciute dalla Cassazione nel 1894 la condanna dei giornalisti e dei deputati nel 1898 è ingiusta e sarà cassata? È chiaro come la luce del sole; ma non è utile nel momento storico che attraversiamo e la Cassazione mettendosi in armonia coi tempi e cogli uomini che ci governano, ripudia le massime solennemente promulgate e conferma la sentenza contro la libertà del pensiero e contro la legittimità della propaganda[47]. Da questa minima capitis diminutio alla massima che si ebbe nel 1894, la decollazione della giustizia è compiuta![48]
Commentando quest’ultima sentenza della Suprema Corte di Cassazione di Roma, un giornale amaramente conclude:
[165]
«A noi pare che i giudici della Corte abbiano fatto opera meritevole di elogio per parte d’ogni buon patriota. Essi hanno conferito valore al concetto unitario».
«L’unità politica fu conseguita nel 70.
«L’unità morale è posteriore; è dovuta a uomini di grande pregio, non ultimi il Depretis, il Crispi e il Rudinì; i settentrionali passarono ai meridionali il contagio delle speculazioni; questi insegnarono a quelli il modo di reprimere con energia (vulgo violenza) i tumulti delle folle: per questa via si ebbe l’unità. Ora si aggiunge, terza, l’unità della giustizia.
«Alcuni (i sobillatori non mancano mai) andavano bucinando che, oltre la giustizia militare, una ve ne fosse, detta, non si sa perchè, civile. Tentavano portare una divisione nel campo della giustizia: una specie di lotta di classe con annesso eccitamento, ecc., ecc.
«Ma i giudici della Corte suprema, con pensiero altamente patriottico, han voluto significare con la sentenza d’oggi che la giustizia in Italia è unica ed uniforme. Gli antichi dettaron la massima: cedant arma togae; massima da baggei; noi siam gente moderna, e noi non ci sappiam figurare la giustizia se non armata di spada.
«Concludendo, l’Italia ora può dirsi compiuta. Ha l’unità politica, l’unità morale e l’unità giuridico-militare. Non è ancor perfetta l’unità tributaria, troppe essendo le disuguaglianze tra cittadino e cittadino: ma per la perequazione della miseria sta provvedendo alacremente l’agente delle tasse».
[166]
In questa conclusione sull’unità giuridico-militare raggiunta, c’è da fare una correzione: essa non data dal 1898; pur troppo e più antica!
Le pietre miliari della decadenza della Magistratura cosidetta civile sono innumerevoli: dal processo Lobbia al processo Tanlongo; dalla impunità assicurata ai grandi ladri delle ferrovie a quella accordata agli assassini di Frezzi, di Donati, di Castellano, di Siculiana. Questa magistratura civile, che non ebbe viscere per trovare un responsabile della catastrofe della miniera Virdilio-Mintinella e per assegnare un misero compenso alle desolate famiglie degli ottanta minatori che vi lasciarono la vita; questa magistratura, che non trova modo di colpire i ministri delinquenti; questa magistratura che delicatamente avverte prima delle perquisizioni da fare se i presunti rei.... sono monarchici[49] — oh! questa magistratura civile, e sopratutto umana, trova tutta la sua energia e tutta la sua severità per processare e punire i disgraziati, che rubarono per fame: essa processa e condanna in Torino Margherita Giustetto [167] per essersi impossessata, per trarne profitto, di un chilogramma di frumento del valore di centesimi venti... processa e condanna in Roma un ragazzo a quattro mesi di reclusione per avere rubato quattro grappoli di uva![50]
[168]
Questa magistratura civile ha voluto mostrarsi all’altezza della giustizia militare; perciò essa, che in un momento di aberrazione aveva assolto in Tribunale Barbato, lo condanna nella Corte di Appello di Palermo. E perchè da un estremo all’altro del Regno l’unità sia completa e incrollabile, la Corte di Appello di Milano respinge il ricorso dei contumaci facendo fare un passo tanto gigantesco al giure, da espellerlo dalle aule sacre alla giustizia affermando «che le sentenze essendo state pronunziate per esempio non possono venire modificate!»
E dicano gl’italiani se non è santa l’indignazione del deputato Lucchini, membro della Cassazione di Roma, che vede la magistratura compromessa in uffici più o meno politici e polizieschi e che nei giudizi in discorso scorge la rovina della legge, delle istituzioni e dei principî di ordine e di autorità. Della libertà non parla perchè, egli dice, non conta più nulla![51]
Non pel desiderio di chiudere questa dolorosa narrazione con delle frasi sensazionali, per amore di rettoricume da cui rifuggo, adunque, ma perchè le parole del poeta corrispondono rigorosamente alla realtà dei fatti, torno a ripetere con Rapisardi che «passa terribile per la notte» la giustizia, di cui sghignazza la turba; e passa la giustizia
«C’ha il cervel nella borsa e l’anima nell’epa,
Che al boia dice: salve; ed al povero: crepa;
Ch’erto sul banco traffica l’opra, le forze, il sangue,
L’onor d’una cenciosa plebe che stenta e langue,
[169]
E scannando se stessa i suoi tiranni impolpa,
D’un formicaio umano, cui la miseria è colpa.
La sventura destino, il lamento delitto,
Un patibol la vita ove Dio l’ha conflitto,
L’error pane dell’anima, un tranello l’inferno
La speranza una frode, la giustizia uno scorno...»
Il poeta si rinfranca perchè sente imminente l’arrivo di un’altra giustizia che vince, passa, impugnando la scure di acciaio, squassando la face
«E dal sommo d’un monte, dritta in faccia all’aurora
Grida con bronzea voce di mille tuoni: È l’ora![52]
È l’ora? Lo pensa, lo spera forse, il vate; e bisogna lasciargli questa illusione.
[171]
I giudici più benevoli dei governanti italiani, i cittadini che non sono complici o comunque interessati nella repressione, riconoscono che nell’ultima, ancor prima che si tramutasse in confessata reazione, vi fu eccesso di difesa. Pochi hanno formulato questa colpa del governo italiano con tanta precisione quanto l’on. Galimberti, la cui opinione non è sospetta perchè anche lui è uomo di ordine come vogliono essere chiamati i nostri monarchici. Egli, trattando della vera responsabilità, riconosce che essa sta nell’eccesso della repressione — specialmente a Milano, dove fu adoperato il cannone contro gli inermi. «Contro gl’inermi il cannone! egli continua. Ecco la colpa di tutti i governi deboli, francesi e spagnuoli, da che si dettero le costituzioni: aver adoperato le armi da fuoco contro gl’inermi... Chi si è assimilato la vita inglese, sa molto bene che le dimostrazioni in [172] Inghilterra assumono proporzioni maggiori che da noi. Si dicono e rimangono infatti dimostrazioni pacifiche solo perchè il governo si guarda bene dal provocare la rivoluzione adoperando le armi da fuoco. Esagerare i movimenti popolari, cambiare le dimostrazioni in tumulti, per mezzo di agenti provocatori, e i tumulti in rivoluzioni per mezzo di cannonate contro castelli in aria, è anche rivelazione d’insipienza politica».
Così scrive saviamente e onestamente un ex sottosegretario di Stato e non c’è da aggiungere che questo corollario: chi commette un eccesso di difesa è colpevole in diritto privato e merita una condanna — anche lieve. Non può essere diversamente in politica, dove dal diritto privato, male a proposito, è stato trasportato il principio della legittima difesa[53]. In Italia, nell’anno 1898 — in altri tempi le cose procedevano diversamente: lo vedremo — ai colpevoli anzichè pena toccò in sorte l’apoteosi: l’abbiamo visto. Di più: gli strumenti principali dell’eccesso di difesa, i militari, furono chiamati a giudicare le vittime!
[173]
Era possibile, era umano supporre, che essi sarebbero stati imparziali nella causa propria?
Intanto, per assurda ipotesi, si conceda che non ci sia stata sproporzione tra i tumulti e la repressione; che non ci sia stato l’eccesso di difesa esplicitamente ammesso dal Galimberti. Accettata questa ipotesi, sorge il dovere di un’altra disanima: perchè gl’italiani si abbandonarono alla sommossa?
In nome del diritto della difesa dello Stato si può ammettere che i rivoltosi, i tumultuanti siano anche impiccati; ma più che nel nome della giustizia, in quello della sapienza politica e della vera ragione di Stato, bisogna ricercare quali furono le cause che spinsero i cittadini al tumulto, o alla rivolta.
Questa indispensabile ricerca causale ha doppio interesse: 1.º assegna la vera responsabilità — massime in coloro, che col loro mal governo resero fatale la ribellione; 2.º provvede per lo avvenire: uomini veramente di Stato, infatti, non si contenteranno del ristabilimento momentaneo dell’ordine materiale, ma penseranno ad eliminare le cause che provocarono i tumulti, affinchè questi non si riproducano a scadenza più o meno lontana. Poichè, come ha riconosciuto un pubblicista dei più devoti alle istituzioni, «le cause delle ribellioni non sono mai negli uomini, ma nelle cose; e ogni provvedimento, giudiziario o di polizia, contro gli uomini, non serve a nulla, finchè le cose restino dopo, quali erano prima degli avvenimenti» (Rastignac).
La causa occasionale degli ultimi dolorosi avvenimenti è nota: il rincaro fortissimo del prezzo del pane. Questo fenomeno, però, non fu che la [174] scintilla, la quale dette fuoco alle mine preparate e pronte.
La causa occasionale, del resto, in sè e da per sè era bastevole a produrre i più gravi perturbamenti; poichè il caro del pane fu davvero straordinario: arrivò a 54 centesimi il chilogramma a Soresina; da 50 a 60 in Napoli. L’efficienza di questo prezzo elevatissimo del principale alimento degli italiani — alimento quasi esclusivo nelle masse del mezzogiorno — potrà valutarsi al giusto ponendo mente a queste circostanze: 1.º salari bassi; 2.º disoccupazione prevalente; 3.º consumo del pane scarsissimo, anche prima del suo rincaro. Nel 1895 il consumo giornaliero del grano era in Italia di grammi 330 per abitante, mentre elevavasi a grammi 533 in Francia[54]. Figuriamoci se non si doveva trattare di vera fame nel 1898 quando il prezzo del pane venne raddoppiato!
Ma se il pane divenne carissimo in Italia, perchè prendersela col governo e coi municipi? Le folle furono guidate dall’intuito, che non le ingannò: le imposte dirette ed indirette di ogni genere che governo e municipi fanno gravare su di un quintale di pane, rappresentano il 42,85% del suo prezzo totale. (Fioretti).
Nè si dica che questo abbandonarsi ai tumulti ed alle sommosse per il prezzo e per la scarsezza del [175] pane, cui si riduce nella sua più semplice e genuina espressione il disagio economico, sia propria caratteristica degli italiani: i famosi anglo-sassoni subiscono la stessa influenza ed agiscono alla stessa guisa degli italiani quando stanno male economicamente. Uno dei protagonisti del cartismo, lo Stephens, diceva che il movimento non fu solo politico, ma fu sopratutto una quistione di forchetta e coltello. E più di recente, celebrandosi il 60.º anniversario del regno di Vittoria, un altro scrittore constatava: «John Bull al verde è il più persistente dei malcontenti e svolge principi politici — ma sempre con un occhio volto agli affari futuri. Ma quando è sazio di carne e di birra, ha poche idee e la sua soddisfazione è completa.»[55].
Altri, riferendosi a questi avvenimenti del 1898 esclusivi dell’Italia, giustamente osserva: il nostro paese è assai sciagurato, è il solo in cui fenomeni economici comuni a tutta Europa abbiano una ripercussione così terribile; altrove, mali come questi si sopportano e si tollerano: da noi divengono insopportabili e intollerabili e provocano alla disperazione. Una crisi economica genera subito qui una grande miseria e la miseria genera un movimento tumultuario e folle che lungi dal diminuire il male, lo fa più acuto e lo aggrava di mille doppi; quale speranza di posare, di respirare, di risorgere possono nutrire regioni intere in cui la vita normale, il lavoro, i commerci sono sospesi?»
[176]
Così il Deputato Oliva nel Corriere della Sera (1898 N. 122). Poteva aggiungere che tumulti per il pane non ce ne furono — almeno nelle proporzioni dell’Italia — nemmeno nei paesi, nei quali, sotto la pressione del forte rincarimento del prezzo dei cereali, i governi rifiutaronsi ad abolire, anche temporaneamente, il dazio doganale sui medesimi.
La ragione per cui una crisi economica comune a tutta l’Europa produce soltanto in Italia effetti che non produce altrove, è chiara, evidente e nota da alcuni anni: da noi questa crisi rappresenta la goccia, che fa traboccare il liquido dal vaso; non è una vera crisi, ma la fortissima riacutizzazione di una grave malattia cronica preesistente.
Di una condizione economica morbosa della Italia veramente eccezionale si conoscono da tempo gl’indici diretti ed indiretti — analfabetismo, delinquenza, contrazione di consumi, espropriazioni per inadempiuto pagamento d’imposte, emigrazione, ecc., ecc. — e fu cecità dei nostri uomini di governo e delle nostre classi dirigenti il non avere tenuto conto degli ammonimenti severi ed inesorabili, che venivano fuori da tutte le pubblicazioni statistiche ufficiali del Comm. Bodio e dei loro illustratori.
Non c’era bisogno di attendere i tumulti di Sicilia del 1893-94, nè quelli del resto d’Italia, per prevedere che ogni ulteriore aggravamento del disagio economico esistente — ogni altro accidente che presso popoli in condizioni normali sarebbe passato inosservato, fra noi avrebbe prodotto conseguenze [177] gravi, che all’osservatore superficiale sarebbero sembrate sproporzionate alle cause[56].
I fatti recenti — tumulti di Sicilia, dei Castelli romani, ecc. — aprivano gli occhi anche ai ciechi; figuriamoci a coloro che avevano scienza e coscienza delle vere condizioni economiche dell’Italia!
Egli è così che un conservatore liberale vero e sincero, quale il Marchese De Viti De Marco, nell’Ottobre 1897 spiegava col generale malessere economico quei fenomeni. E l’eminente professore dell’Università di Roma soggiungeva: «La politica del governo va in cerca dei sobillatori; invece è dessa che crea i pericoli.»[57]
La miseria dei lavoratori era trovata eccessiva e tale da non trovare riscontro in Europa se non in Irlanda, sin da quando Stefano Iacini — quale sobillatore! — scriveva il prezioso Proemio all’Inchiesta agraria. D’allora ad oggi la situazione, specialmente pei contadini, è peggiorata.
Quale si era ridotta la situazione giova conoscerlo dalla confessione consacrata in un documento ufficiale ancora più prezioso del Proemio di Iacini. Eccolo: «Il progressivo e costante aumento dell’emigrazione che in un decennio ascende all’altissima cifra di 2,391,139, come si rileva dal prospetto qui unito desunto dall’annuario statistico del 1895, la permanenza delle cause che ingenerano le [178] manifestazioni di questo fenomeno sociale, e cioè il malessere profondo che affligge l’economia nazionale, la depressione generale dell’agricoltura e dell’industria, dovuta a ragioni di concorrenza mondiale e alla mancanza di capitali disponibili a miti condizioni per l’insufficienza del risparmio nazionale, la miseria dolorosa di alcune popolazioni agricole, la sovrabbondanza di lavoratori avventizi ognor crescente di fronte allo estendersi dei latifondi, alla soppressione dei grandi lavori pubblici, l’aumento stesso troppo rapido della popolazione povera, sono fatti di così grave importanza etico-sociale, che esigono la più alta e profonda considerazione da parte del governo.»
Chi è dunque quest’altro pericoloso anarchico, meritevole del domicilio coatto, che denigra l’Italia in faccia al mondo? L’on. Di Rudinì! Col brano sopra riportato, comincia, infatti, la relazione al disegno di legge: Costituzione dei Comuni rurali e delle borgate autonome, presentato alla Camera dei Deputati nella seduta del 13 Aprile 1897....
Potrei centuplicare le citazioni delle previsioni e dei giudizî analoghi al precedente, se non temessi di annoiare; ma non so resistere alla tentazione di riprodurre un brano di un discorso ispirato pronunziato da Giustino Fortunato in mezzo alla religiosa attenzione della Camera: «Io sono stato lungamente l’autunno scorso, diceva il rappresentante della Basilicata, in un angolo remoto del nostro Appennino, ove ho molto guardato intorno, molto osservato, molto ascoltato in tutte le classi sociali; ci sono tornato durante il periodo elettorale, e a me corre l’obbligo di dirvi che noi [179] dormiamo sopra un vulcano! I lavoratori della terra nell’Italia meridionale, che nulla sanno di repubblica, nè di socialismo non hanno bisogno di essere agitati dalla propaganda dei partiti estremi perchè essi sono già abbastanza agitati e sospinti alla disperazione per conto loro; i lavoratori della terra tacciono laggiù, perchè credono di essere ancora deboli, ancora impotenti contro un ordine politico, la cui funzione principale è quella dell’esattore, la cui organizzazione tributaria rasenta il regime della confisca. Ma c’è nell’aria qualche cosa di quell’afa che annunzia e precede gli uragani, qualcosa, non so, come una tempesta sorda di odii e di rancori, che non può, a quanti aborrono, come io ne abborro, dalla violenza e dalla lotta di classe, non farci paventare e prevenire il pericolo. Il disagio economico; questa è la vera debolezza d’Italia; questa la sola forza dei suoi nemici. E la scienza politica non è così miseramente superba, che debba, io credo, non solo rifiutare gli avvertimenti, ma sdegnare financo gli avvisi»[58].
[180]
Nelle parole di Giustino Fortunato che furono materialmente ascoltate con attenzione ed anche con emozione, c’è qualche cosa di fatidico; ma le parole non si tradussero in quella forza affettiva, che conduce all’azione; ed ebbero egual sorte di quelle pronunziate da me il 31 Gennaio 1893 all’indomani della strage di Caltavuturo.
Il discorso del Deputato di Melfi è del Maggio 1897, quando non era sopraggiunta e non era prevedibile la crisi eccezionale del pane, quando non erano scoppiati i moti dei Castelli Romani e meno ancora erano alle viste quelli delle Marche (Ancona, Sinigaglia, Macerata, ecc.); ma non c’era bisogno di questi ultimi svegliarini per sentire ch’era tempo ed era dovere di cittadino e di politico il dare il grido di allarme, perchè la condizione generale, che andavasi maturando da un pezzo era evidentemente disastrosa.
La visione chiara di tale situazione non l’avevano soltanto gli studiosi solitari, che hanno agio di ricercare i dettagli e l’insieme ad una volta, ma s’imponeva anche agli uomini di governo ai quali spesso, per voler guardare lontano e nel complesso, sfugge la percezione esatta della realtà e non si accorgono delle piccole magagne, che, talora all’improvviso, fanno scoppiare una caldaia e con essa tutta la macchina dello Stato.
Per citarne pochi ed autorevoli, ricorderò che ebbe questa percezione esatta della realtà Ruggero Bonghi — un ex ministro di destra — che nel monito famoso dato al principe avvertiva: «Il pericolo di offendere le istituzioni attuali in Italia è maggiore che in Inghilterra perchè l’Italia è [181] messa insieme appena da un terzo di secolo, malamente cementata, vanamente inquieta, conquassata da dolori di ogni sorta, ma tutti pungenti, economicamente disagiata, finanziariamente squilibrata, incerta in tutte le istituzioni sue civili e sociali, incalzata dal disavanzo, ed esitante o divisa tra il mantenere alleanze che le pesano o scioglierle con pericolo di essere minacciata da altre parti. E questo forse è peggio: che ciò che altrove è effetto di ricchezza mal distribuita, qui è effetto di miseria ugualmente distribuita.»[59].
Da Bonghi a Saracco, dalla destra alla sinistra, da un temperamento e da una origine tanto diversa nell’uno e nell’altro, il salto è grande; ma a quattro anni di distanza, il secondo riesce alla esplicita conferma del giudizio del primo; e vi riesce con una dimostrazione che si può risparmiare ai lettori, perchè viene magnificamente riassunta nel titolo dell’articolo: Siamo poveri o non siamo?[60]
Lo stesso Saracco, immemore di essere stato compagno al governo di Francesco Crispi che colle sue follie militari era stato causa precipua del dissesto finanziario dello Stato ed economico della nazione, in una critica mordace delle illusioni e dell’ottimismo di Luigi Luzzati sul fondo di sgravio, dopo aver detto che le leggi in Italia si fanno per ingannare il prossimo, riesciva a questa conclusione [182] ultra sobillatrice: «Che dire della serietà di queste promesse, innanzi ad un programma che le mette tutte bravamente a dormire? Non sarà ancora il protesto, ma sarà per lo meno la moratoria, che precede il fallimento. Ora i popoli sono pazienti, ma non sopportano a lungo di essere ingannati»[61].
Certamente questo è un linguaggio che se fosse venuto da un repubblicano o da un socialista, sarebbe stato ritenuto un eccitamento, una preparazione alla ribellione; ma, ripeto, esso corrisponde alle verità. Va notato altresì, che la condizione del bilancio, se direttamente riguarda lo Stato, rimane un indice eloquente della condizione economica della nazione: l’instabilità o il deficit dell’uno rispecchia la corrispondente situazione dell’altra[62].
Alle illusioni sul bilancio dello Stato fanno riscontro quelle del risparmio nazionale, che dà luogo a tante volate liriche, basate esclusivamente sull’aumento dei depositi delle Casse di risparmio ordinarie e postali. Su questi aumenti in generale deve osservarsi, che sono un fenomeno naturale derivante dall’aumento parallelo della popolazione e dello spirito di previdenza che comincia a penetrare da per tutto e induce molti a collocare a tenui interessi quel peculietto che prima tenevano nascosto nel fondo di una cassetta; nonchè della sfiducia [183] crescente in altri istituti ed in altri impieghi. Infatti l’aumento nelle casse di risparmio ordinarie in lire 277 milioni dal 1886 al 1896 e di lire 205 milioni in quelle postali dal 1886 al 1894 ha la sua dolorosa contro partita nella diminuzione di lire 514 milioni di altre Banche e società di credito dall’anno 1886 al 1894 per alcune e 1895 per altre[63].
I calcoli e le previsioni degli uomini di governo, colla piccineria reale o immaginaria della nostra vita politica, si possono supporre suggeriti da quel pessimismo che viene dalla nostalgia del potere, quando se ne è lontani. Se così fosse, potremmo contentarcene; ma pur troppo ci sono i dati statistici obbiettivi che vengano dal Bodio o dal Mulhall, riescono alla stessa conclusione: alla miseria nostra assoluta, umiliante, messa al confronto colla ricchezza di altre nazioni. Egli è così che il Prof. Federico Flora — un avversario deciso del socialismo — poggiandosi sui dati del Bodio e capitalizzando i 54 miliardi di ricchezza totale della Italia al 5% assegna un reddito medio per ogni famiglia di lire 350 all’anno: reddito buono a lasciarci morire di fame, egli soggiunge[64].
[184]
Questa dolorosa condizione economica si connette intimamente — in gran parte sta con essa in relazione di causa ed effetto — col regime tributario italiano, che pare fatto apposta per assottigliare lo scarso reddito, per impedire la formazione di capitale riproduttivo, per iscoraggiare le industrie nuove. Un rapido sguardo al nostro meccanismo finanziario ed alla sua funzione, tradotti in poche cifre, vale più di molti lunghi discorsi e di qualunque elegante dimostrazione[65].
Ricchezza privata | Per capo | |||
Quinquennio 1873-77 | Miliardi | 42,2 | L. | 1507 |
Quinquennio 1888-92 | » | 54 | » | 1768 |
Aumento | 28% | 17% | ||
Spese pubbliche | Per capo | |||
Quinquennio 1873-77 | Milioni | 1133 | L. | 40 |
Quinquennio 1888-92 | » | 1626 | » | 52 |
Aumento | 40% | 30% |
In Inghilterra il rapporto tra la spesa e la ricchezza è di 1⁄77; in Francia di 1⁄68; in Italia di 1⁄32. E più chiaramente: supponendo una [185] ricchezza di L. 10,000 sulla medesima un inglese pagherebbe L. 130, un francese L. 147, un italiano L. 307. (Flora).
A più amare riflessioni dà luogo la ripartizione del prodotto delle imposte: la spesa.
Nel bilancio del 1895-96 figuravano:
Spese per debito pubblico | Milioni | 685 | il | 42,5 | % |
Spese militari | » | 443 | » | 27,5 | % |
Spese di riscossione | » | 160 | » | 10 | % |
Spese per servizi civili | » | 318 | » | 20 | % |
Si apprende in questa guisa che le spese improduttive rappresentano l’80%; mentre per le produttive non resta che il 20% (Flora). Se si pensa che nelle spese dei servizi civili ci sono quelli che rendono — ad esempio poste e telegrafi — si scorgerà che la quota reale della spesa pei servizi civili è inferiore a quella sopra indicata; che era del 33% nel 1862. Evidente dunque il continuo peggioramento sotto questo aspetto: la contrazione delle spese pei servizi civili — specialmente nei lavori pubblici — spiega il crescente fenomeno della disoccupazione. (Conigliani).
Ma su chi pesano maggiormente le imposte che alimentano le spese pubbliche così malamente ripartite? Ecco il lato più doloroso della questione. Le cifre confermano la sintesi esposta altra volta dall’on. Giolitti, e cioè: che in Italia c’è una progressione tributaria al rovescio. Infatti sui 1361 milioni, che rendono i tributi — imposte sui terreni, sui fabbricati, sugli affari, consumi e lotto — 731 milioni pesano sui meno abbienti e sulle classi lavoratrici (Flora) ond’è che rimangono completamente [186] giustificati questi giudizii manifestati da due eminenti economisti appartenenti a due scuole diverse: «È cominciato un moto di reazione generale contro un sistema tributario selvaggio. Tutti gli interessi antagonistici delle classi dirigenti si rimettono di accordo quando si tratta di scaricare sulla massa dei consumatori una valanga di balzelli incivili e per affidare ai pezzenti il patriottico compito di tenere in pareggio il bilancio». (De Viti De Marco). La disonestà, pari soltanto alla impreveggenza delle classi dirigenti, rese addirittura intollerabile la condizione delle classi lavoratrici. «Nei Comuni si può, sotto l’egida delle leggi, col beneplacito dell’autorità tutoria, dare ascolto alle clientele locali, alle coalizioni di vergognosi interessi aggravando la mano sui più deboli contribuenti,» (Conigliani)[66]. L’iniquità tributaria così è completa: comincia per conto dei Comuni e si completa per conto dello Stato.
Ma vi sono sofferenze e sofferenze; variano per la intensità da una classe all’altra, dall’una all’altra regione.
Dove sono stabilite delle industrie importanti e che rivestono il carattere della moderna grande industria, non si può negare una relativa prosperità non ostante la intransigenza e la pedanteria del fisco, stigmatizzata fieramente da un ex ministro del Tesoro, che spesse volte la costringe ad emigrare[67]. Ma le miserie incommensurabili si riscontrano [187] nelle regioni agricole; perchè il fisco italiano pare che abbia preso di mira specialmente l’agricoltura: con questa c’è la morte. I dettagli di questa persecuzione del fisco contro l’agricoltura sono scandolosi; ma qui basta ricordare i termini estremi di questo esoso e pazzesco fiscalismo. Mentre la terra tra tributi erariali e locali, paga il 16 per cento in Francia, il 15 in Germania, dal 13 al 20 in Inghilterra, in Italia le imposte assorbono dal 30 al 50 per cento del reddito prediale (Flora). In conseguenza di questo brutale sistema l’Italia vince il record nelle espropriazioni per causa d’imposta: ci furono sessantaquattromila vendite d’immobili rustici ed urbani dal 1 gennaio 1884 al 31 dicembre 1895, cioè 567 espropriazioni per ogni 100 mila abitanti e per ogni 3000 proprietari. Il 18,90% dei proprietari è stato espropriato! Queste cifre divengono più imponenti quando si considera: 1.º che nel 1895 il 76 per cento dei beni espropriati rimase aggiudicato al demanio, perchè non trovò acquirenti; 2.º che nel 62,49 per cento dei casi il prezzo di aggiudicazione dello immobile espropriato fu inferiore [188] a 50 lire. Sono cose orribili e vergognose, esclama il Fioretti[68].
E lo stesso Fioretti saviamente osserva che più iniqua dell’imposta fondiaria riesce l’imposta agraria di ricchezza mobile sopratutto, perchè nelle campagne e nei piccoli centri nulla sfugge all’occhio linceo del Fisco, mentre nelle grandi città si può fortunatamente calcolare che almeno il 50 per cento del reddito tassabile sfugge all’imposta. È questa una fortuna singolare, egli soggiunge; se fosse altrimenti, la vita economica dell’Italia sarebbe materialmente strozzata da un giorno all’altro[69].
Con ciò rimane dimostrato che l’antica affermazione del De Laveleye sul collettivismo fiscale non è una immagine rettorica, ma una rigorosa realtà, che induce il Flora e il Fioretti a riconoscere che il vero nemico della proprietà privata in Italia è lo Stato e non il collettivismo; il primo fa fatti; il secondo semina idee; il Fisco rappresenta [189] un pericolo presente; il collettivismo un pericolo futuro e assai remoto[70].
Le maggiori sofferenze dell’agricoltura e delle classi agricole dicono di primo acchito che il disagio economico dev’essere di gran lunga superiore nel mezzogiorno d’Italia e nelle sue due maggiori isole. Questo disagio maggiore vi è sottolineato: 1.º dalla più numerosa emigrazione delle classi agricole; 2.º dai minori consumi; 3.º dal maggiore numero di espropriazioni; 4.º dalla enorme sproporzione nello accumolo dei risparmi. E mi fermo a questi soli quattro indici diretti della condizione economica[71]. Essi bastano ad assodare irrefragabilmente la miseria squallida del mezzogiorno prevalentemente agricolo e la relativa agiatezza del settentrione prevalentemente industriale; o dove, almeno l’industria è tanto prospera che rimargina le ferite sanguinanti dell’agricoltura[72].
[190]
Queste diversità di condizioni economiche spiega tutta la fenomenologia sociale diversa tra il settentrione e il mezzogiorno e dà la ragione dei tumulti più frequenti, che si deplorano nella bassa Italia, sebbene non vi esistano nè socialisti almeno organizzati come partito — nè propagande socialiste e meno ancora repubblicane[73].
È la miseria maggiore, che spinge per fame ai tumulti; e la miseria è determinata da un sistema tributario la cui rapacità supera quella deplorata da Salviano; quella descritta da Vauban nella sua Dime Royal sotto l’Ancien régime. Nessuno si meraviglia più che siffatte cause in Francia abbiano dato come risultato la grande rivoluzione dell’89; c’è da meravigliarsi come non lo abbiano dato altrove. Lo daranno in Italia, se non si muterà strada. Di ciò cominciano ad essere convinti anche i conservatori.
Un conservatore dei più convinti qual’è il Fioretti, nel mezzogiorno riconosce che gli ultimi moti sono stati l’espressione della profonda crisi economica che travaglia la patria nostra; e la crisi alla sua volta è determinata unicamente dalla enormità [191] del nostro sistema tributario. Di che, in teoria, pare che siano anche convinti i conservatori lombardi.
La Costituzionale di Milano, il 7 giugno 1898, votò un ordine del giorno in cui invocava la sollecita restaurazione degli ordini economici ed amministrativi del paese affine di scemare il disagio che lo affligge.
L’on. Colombo in altra riunione della stessa associazione (17 maggio) disse disastrosissime le nostre condizioni economiche. Non fu meno severo l’onorevole Prinetti, parlando al Circolo Popolare (20 Maggio), verso il Fisco e verso il nostro sistema tributario; ivi e allora un Socio dello stesso circolo, l’Albasini Scrosati, disse profonda la miseria del paese. Si commossero anche i giovincelli dell’Associazione monarchica fra gli studenti che trovarono non solo soverchiamente fiscale il nostro sistema tributario, ma anche gravante in modo sproporzionato sulle classi meno abbienti[74].
Mi sono fermato sui giudizi dei conservatori lombardi con particolarità perchè essi sono stati e [192] sono i più rabbiosi nell’invocare ferro, fuoco e galera contro i sovversivi; essi, perciò, erano i più interessati nel diminuire l’importanza delle cause vere dei tumulti. Pure l’evidenza si è imposta anche a loro e li ha costretti a confessioni che suonano condanna severa dei loro metodi di governo; metodi di governo che si riassumono nella esclamazione brutale, ma vera di Don Albertario. «Ah! canaglie, voi date piombo ai miseri che avete affamato e poi vi lanciate contro i clericali!»[75].
Concludo. Ci furono altri e veri responsabili degli ultimi tumulti; coloro che li prepararono e li resero fatali: i governanti e le classi dirigenti[76]. Chi pensa che quei tumulti potevano essere evitati; chi pensa che non si ripeteranno se si continuerà nei vecchi metodi di governo ignora la storia. La grande sobillatrice è stata e sarà la fame; e in Italia il padre premuroso delle sobillatrice è il Fisco.
Ma i tumultuanti, si domanda, colla violenza migliorarono forse la loro sorte? A questa domanda si può rispondere colla esperienza politico-sociale; tutte le grande riforme economico-sociali, anche [193] nella stessa Inghilterra, furono precedute e provocate da tumulti e da violenze. Il poco che si è ottenuto in Sicilia si deve alla insurrezione del 1866 e ai tumulti del 1893; il poco che si è ottenuto in Italia — alleviamento prima, ora abolizione del dazio comunale sulle farine, la sospensione del dazio governativo sui cereali — si deve ai tumulti del 1898! Così non dovrebbe essere; ma così è! I tumulti, perciò, nuociono alle vittime; giovano alle collettività.
A chi biasima e condanna la violenza, che anche io biasimo e condanno, ritorcendo l’argomento si può chiedere: forse furono permesse le dimostrazioni pacifiche? forse i ministri non dissero ricca l’Italia e capace di sopportare nuove imposte? forse la dimostrata irrefragabile miseria indusse il governo a far senno?
E poi: sotto gli stimoli della fame si pretende che gli uomini ragionino! Ma ragionarono mai le folle impulsive? e perchè avrebbero dovuto ragionare in Italia, dove in quarant’anni nulla si fece per elevarne la cultura intellettuale e morale?
[195]
Ebbi occasione di avvertirlo: i tumulti, appena risalgono dal mezzogiorno verso il nord e si ripetono a Milano, avviene un perturbamento profondo nell’animo e nella mente dei monarchici tutti. Essi non sanno o non vogliono rendersene ragione e mutano linguaggio e dopo essersi confessati rei, perchè autori del malgoverno fatto dall’Italia per quarant’anni, si fanno accusatori degli avversari politici, alla cui propaganda sovversiva attribuiscono in Milano ciò che in tutto il resto della penisola avevano attribuito all’azione della collettività governante.
Spiegano e giustificano — spesso in buona fede — il mutamento dell’attitudine colle condizioni economiche di Milano: non intendono che Milano ricca e prospera possa abbandonarsi a quelle sommosse, che altrove scoppiarono improvvisamente per fame.
[196]
Questo mutamento, che — è bene ripeterlo — non sempre è suggerito dalla mala fede, più che ignoranza della storia e della scienza politica, indica l’accecamento, cui tutti andiamo soggetti di fronte a certi avvenimenti che ci scuotono profondamente e ci producono un risveglio doloroso. La paura, il dispetto, la sorpresa, allora riescono all’amnesia più o meno completa; pare che subiamo un improvviso tuffo nel fiume Lete e così dimentichiamo ciò che la storia di tutti i tempi e di tutti i paesi, a qualunque grado di civiltà, ci ha insegnato; e il suo insegnamento chiaro e costante è questo: tumulti, sommosse, insurrezioni, rivoluzioni spesso non traggono origine immediata da cause economiche; e tumulti sommosse e risurrezioni precedono e preparano quasi sempre le rivoluzioni. Sicchè governi e classi dirigenti, che hanno interesse ad impedire le rivoluzioni, nei tumulti dovrebbero scorgere degli avvertimenti salutari.
Riguardo all’etiologia di questi perturbamenti politico-sociali, senza voler fare dell’ecletismo comodo, ma per semplice ossequio alle realtà, ci si deve tener lontani tanto dalle esagerazioni del Loria, che nei medesimi sempre scorge il substratum economico se non l’azione diretta ed immediata delle cause economiche; quanto delle altre di Lombroso, che soverchiamente riduce l’influenza del fattore economico contraddicendo alle teorie del determinismo economico.[77] La verità è che i vari fattori sociali — economici, [197] politici, morali, intellettuali, ecc. — alternano la loro azione nella determinazione dei perturbamenti politici di vario grado; e che tutti, poi, essendo tra loro intimamente connessi, non riesce agevole scinderli ed assegnare a ciascuno di essi l’efficienza precisa ed esclusiva.
Queste considerazioni si applicano a rigore di termini ai tumulti di Milano; i quali inducono a ricercare se nella capitale morale d’Italia, in mancanza delle cause economiche, non avessero potuto agire le cause politiche e morali.
La ricerca sulle condizioni politiche e morali del regno va preceduta da qualche osservazione che ha speciale importanza tra noi.
L’influenza delle condizioni politiche e morali, alcuni, a torto, vorrebbero deriderla e metterla in cattiva luce sotto il nome d’idealismo politico; certo è che tutti, anche i derisori, s’inchinano riverenti verso le manifestazioni di questo idealismo, quando si constatano in casa altrui o si riferiscono a tempi remoti. Così tutti leggono ammirando ciò che Louis Blanc scrisse nella sua magnifica Storia dei dieci anni sulle cause essenzialmente politiche e morali, che determinarono in Francia le due rivoluzioni del 1830 e del 1848. Giuseppe Zanardelli, con parola elevata ed opportuna, nella Camera dei Deputati, [198] onde stigmatizzare le violazioni dello Statuto perpretate da Crispi nel 1895 ricordò, per lodarla, la resistenza del Parlamento e del popolo francese agli arbitri di Carlo X e del suo ministro Polignac, resistenza che doveva fatalmente condurre alle barricate di Luglio. Ed è caratteristico, che le barricate di Febbraio 1848 in Parigi ebbero a pretesto la proibizione dei banchetti elettorali, in risposta sdegnosa al materialismo volgare di Guizot, che da Lisieux aveva gridato ai francesi: arricchitevi! quasi a distorli da ogni preoccupazione di ordine politico e morale.
Non basta. Quanto più le rivoluzioni sembrano sottrarsi alla influenza delle cause economiche, dei disprezzati impulsi partiti dalle contrazioni dello stomaco, tanto più esse vennero esaltate e glorificate da poeti e da storici, da romanzieri e da politici come la espressione ideale dei più nobili sentimenti umani. Questa esaltazione per oltre cinquant’anni formò specialmente tutta la educazione politica e intellettuale degli italiani; e ad essa consacrarono le forze i migliori ingegni del paese, che fecero fiere campagne contro coloro che, immemori delle origini e delle vicende dello Stato italiano, i precedenti rivoluzionarî, con tutti gli annessi martiri ed eroismi, non tennero abbastanza in onore. Chi lo crederebbe? Anche oggi alcuni contro i socialisti non sanno scagliare altra accusa se non quella di sacrificare tutto al culto della materia!
«Se una suggestione più vicina ha potuto favorire l’irreparabile esplosione di malcontento, scrive il Ciccotti, lo si può e deve cercare altrove che non nella propaganda socialista.
[199]
«I fasti della rivoluzione borghese italiana rigurgitano di congiure, di rivolte, di resistenze continue e violente: e il trionfo di quel movimento rivoluzionario ha portato all’apoteosi di tutti questi episodi.
«In ogni città d’Italia si trovano lapidi e monumenti eretti per glorificare quei fatti. Lo stesso regicidio è glorificato nella persona di Agesilao Milano, e una forma di attentato, che in altri casi destò tanta indignazione, ha avuto anch’esso il battesimo della gloria nei nomi di Monti e Tognetti, cantati da poeti di grido (Carducci), raccomandati all’ammirazione dei venturi perfino su mura di pubblici edifici.
Il cinquantesimo anniversario del 1848 ha riportato quest’anno, in folla, la rievocazione e il riconoscimento ufficiale del diritto di rivolta.
«Già, parecchi anni addietro, il re aveva contribuito all’erezione di un monumento a Giuseppe Mazzini, condannato a morte un tempo sotto la monarchia[78].
«Quest’anno le barricate del quarantotto sono state commemorate, festeggiate, ribenedette, in adunanze ufficiali da senatori e conservatori di ogni calibro.
[200]
«Un senatore, già ministro e vice presidente del Consiglio superiore dell’istruzione, ha pubblicato con accompagnamento di parole laudative e pietose in una rivista le memorie dell’ex deputato Polti dei Bianchi, che organizzò il moto abortito del 6 febbraio 1853: e quella congiura segreta si proponeva — come lo stesso Polti dice — di pugnalare all’impensata sulle vie i soldati austriaci, di sterminarli con bombe, di fomentare la diserzione e i tradimenti nella loro fila»[79].
Nulla c’è adunque di più illogico in Italia quanto il biasimo inflitto dalle attuali classi dirigenti a coloro che cercano nella violenza la soluzione dei problemi politico-sociali, la via per porre termine ai tormenti che subiscono. Si risponde dai rivoluzionari antichi, chiamati volgarmente quarantottisti, che bisogna sempre saper distinguere; ed è giusto infatti, che respingendo l’assoluto, si esamini se le condizioni che giustificarono la rivoluzione contro gli antichi regimi sussistano ancora per ispiegare i moti contro l’attuale. È l’esame cui si procederà ora.
Ci è nota la condizione economica degli italiani odierni; la quale certamente non è peggiore di quella di cinquant’anni or sono, ma è più avvertita e resa più penosa dai cresciuti bisogni da soddisfare, dai contatti più frequenti tra classi e classi, tra popoli e popoli che suscitano maggior numero di desideri [201] e che accrescono l’invidia e l’aspirazione al meglio, che sono le grandi molle di ogni progresso. L’istruzione maggiormente diffusa dà più chiara coscienza dei torti che si subiscono e delle iniquità sociali esistenti e lo stesso senso morale più evoluto spinge a proteste ed a tentativi per eliminare le più stridenti ingiustizie.
Il criterio relativo, adunque, che s’invoca per le opportune descriminazioni tra rivoluzioni e rivoluzioni, induce a ritenere che psicologicamente oggi la rivoluzione dovrebbe essere più facile e più giustificata.
Ciò dal lato economico. Il risultato non è diverso procedendo alle constatazioni delle condizioni politiche e morali.
C’è un punto in cui la condizione economica stessa è il prodotto della vita e delle condizioni politiche. La pressione tributaria schiacciante ch’è tanta parte della miseria italiana è filiata dalla pessima politica e dall’amministrazione ora pazza, ora disonesta. Le inchieste, che rimontano se non erro, al 1865, assodarono tale sperpero del pubblico denaro, che sarebbe stato sufficiente a gettare il discredito e la diffidenza sullo Stato, che lo permise o meglio che ne fu l’autore principale.
Il carattere generale precipuo della politica italiana nei suoi rapporti colla finanza fu il difetto assoluto di coordinazione della politica all’economia, della spesa alla ricchezza razionale; sul quale non è uopo insistere perchè venne lumeggiato dai teorici dell’economia — ultimi Pareto Flora e Conigliani — e dai politici non sospetti per idee sovversive da Carmine e Colombo risalendo al marchese Alfieri [202] di Sostegno, a Stefano Iacini, che primo tale politica combattè come megalomaniaca.
Questa politica disastrosa ha i suoi capisaldi: le pensioni, le ferrovie, le spese militari. Le pensioni sono divenute un cancro roditore; rappresentano oltre ottanta milioni all’anno nel bilancio; e crescono dando luogo a scandali grossi e piccini — sia che si riferiscono a cittadini che se la pappano nel fiore degli anni; sia che si accumulino indebitamente su di una stessa persona.
Conseguenze più gravi sul bilancio ebbero le costruzioni ferroviarie. I molti miliardi che costarono furono causa d’ira e di sdegno, più che di critica obbiettivamente economica, tra gli economisti della scuola ortodossa — e sopratutto da parte del Pareto e del De Viti; spesso si dimenticò, però, che le spese ferroviarie che gravano sul bilancio dello Stato, furono causa di risveglio e di prosperità per la nazione. Il compenso vale la pena di essere messo in evidenza; nè può dimenticarsi che la configurazione geografica dell’Italia è tale che necessariamente rende poco remunerative alcune linee — sempre indispensabili per debito di giustizia distributiva — le quali però danno il loro contributo per rendere proficue le altre. Dove la critica si appunta bene e mai abbastanza severa è nella quantità della spesa e nei modi per procurarsi i mezzi per farla. Fra tanti, un discorso parlamentare dell’on. Rava, dimostrò che coi metodi adoperati dai finanzieri italiani per ferrovie e per altre spese si assunsero prestiti che ci fanno pagare l’interesse su 100 mentre s’incassò poco più di 50!
[203]
Come si siano spesi i quattrini che lo Stato ottenne a condizioni di minorenne che fa cambiali a babbo morto, si apprenderà da queste poche cifre: il preventivo della Novara-Pino da 20 milioni salì a 44: della succursale dei Giovi dai 21 ai 78: della Cuneo-Ventimiglia da 38 a 91; della Faenza-Firenze da 40 a 77; della Parma Spezia da 46 a 119... La litania potrebbe continuare e i commenti potrebbero essere più pepati ricordando che alcune di queste linee non sono ancora complete. Queste cifre dicono che le nostre ferrovie avrebbero potuto costare un terzo di meno se onestamente costruite; e che la spesa avrebbe potuto ridursi ulteriormente, se alla medesima si fosse provveduto con intelligenza e prudenza. Non la spesa ferroviaria in sè, dunque, va condannata — perchè se anche sproporzionata produsse e produce del bene — ma il modo dello spendere.
La spesa militare sorpassa di gran lungo quella ferroviaria e con minori risultati: gli otto e più miliardi assorbiti dall’esercito e dalla marina dal 1871 al 1897 hanno lasciato indifeso lo Stato e non gli hanno procurato nemmeno il conforto illusorio della gloria: esercito e marina non possono ricordare che Custoza, Lissa e Abba Carima — tre date, che rendono acutissimo il dolore della miseria economica prodotta dalla loro preparazione; dolore che non può essere lenito in alcun modo dalle vittorie ottenute contro i contadini inermi di Sicilia e di Molinella, contro gli operai del pari inermi di Molinella o di Milano![80]
[204]
Era il Generale La Marmora, poi, che raccomandava di respingere i consigli di coloro che credono o fanno credere che all’Italia non deve bastare la sua indipendenza e la sua libertà e vanno predicando ch’essa ha bisogno di gloria militare, perchè essi sono scellerati e più che scellerati, assurdi.... (De Viti De Marco).
Questa enorme sproporzione tra la potenzialità economica della Nazione, la spesa militare e i risultati suoi fu messa in evidenza centinaia di volte da scrittori ed oratori d’ogni colore; ma per ragioni facili ad intendersi mi piace soltanto di far menzione del Jacini, del Carmine, del Colombo — autentici ed eminenti conservatori lombardi; l’ultimo, con coerenza che altamente l’onora, due volte abbandonò il ministero del tesoro perchè si volle continuare nelle follie militari connesse alla triplice [205] alleanza, aggravate dalle follie coloniali. Affinchè, poi, non si dica che la grettezza e la micromania del Colombo non possono essere adottate a criteri direttivi della politica di una grande nazione — stigmatizzata a varie riprese da sinceri amici dell’Italia nuova, quali Gladstone, De-Laceluy, Castelar, soccorre opportuno il giudizio di chi fu compagno di ministero del megalomane tipico: Crispi.
Nel cennato articolo — Siamo poveri o non siamo? — l’on. Saracco scriveva: «non possiamo sovra tutto non dobbiamo dimenticare questo vero, che qualunque svolgimento di militare potenza che uno Stato intende fare per il mantenimento della sua preponderanza politica, affinchè non risulti precario ed artificiale, deve essere in armonia colle forze economiche della nazione».
La citazione non potrebbe essere più opportuna nel momento in cui si parla di 500 milioni da spendere per la marina!
Il popolo italiano, benchè incolto, avvertì le conseguenze economiche delle spese militari: d’onde germogliarono sentimenti politici, ch’è bene, a scanso di equivoci e di allarmi del Fisco, esporre colle parole d’un monarchico convinto. «Si pensa che la monarchia costituzionale da noi o diventa civile sul modello della inglese o manca alla sua missione nella terza Italia; la monarchia civile sarebbe all’unissono con l’interesse della gran massa dei contribuenti e porrebbe radici profonde nel sentimento del popolo ch’è sempre monarchico; la monarchia militare si mette contro l’interesse della nazione. Due crisi extra parlamentari, che hanno eliminato dal governo, prima [206] uno e poi due ministri lombardi favorevoli alla riduzione delle spese militari, hanno personificato e drammatizzato nella fantasia popolare il contrasto tra la Corona e il Popolo. Così il sentimento antimilitare è divenuto poco alla volta antimonarchico». (De Viti De Marco).
Pensioni, spese ferroviarie, spese militari, che ballano sinistramente sullo sfondo cupo dello sperpero abituale e della malversazione generale, hanno generato rapidamente l’enorme debito pubblico — i cui quattordici miliardi assorbono per interessi gran parte del bilancio italiano, togliendogli ogni elasticità — sino ad impedirgli per molti mesi la sospensione del dazio sul grano, reso inevitabile dalla fame, — circoscrivendolo entro un cerchio di ferro, che costituisce la corona di spine della nazione, la pompa perennemente aspirante delle sue risorse. Così queste condizioni economiche generate dalla politica hanno rigenerato il più profondo e giustificato malcontento politico.
Meno male se l’azione dello Stato avesse trovato un correttivo in quella delle amministrazioni locali; ma queste hanno creduto bene di modellarsi sul primo e ne hanno anche esagerato i difetti e gli errori in tutto e per tutto, aggravando, rispetto ai Contribuenti, le disastrose condizioni create dallo Stato[81]. Con questo in più: che le malversazioni [207] locali più note hanno suscitato maggiore risentimento; che i balzelli si sono resi odiosi; che le passioni locali hanno inasprito tutte le ferite antiche e recenti.
Che cosa fossero e quanto contribuissero a generare il generale malessere economico, politico e morale, le amministrazioni locali fu detto ripetutamente in Parlamento; e più di recente in occasione dei moti di Sicilia del 1893-94 e della legge pel Regio Commissario straordinario civile per la stessa isola in Luglio 1896[82]. Ma nessuno con sintesi mirabile poteva e con maggiore autorità ne scrisse meglio dell’attuale ministro dell’Interno. Proprio il Generale Pelloux in una circolare ai Prefetti del Settem. 1898, rubando il mestiere ai sobillatori, dice:
«Ho potuto nel mio breve soggiorno nelle Puglie nella scorsa primavera e nei pochi mesi dacchè mi trovo alla direzione del ministero dell’interno, rilevare che, in parecchie località, lo stato delle cose lascia a desiderare.... La disonestà nella amministrazione va colpita subito, senza misericordia, con tutta la severità delle leggi.... E la disonestà nelle amministrazioni, bisogna pur dirlo, si può manifestare e si manifesta sotto le forme più svariate: con ogni sorta di abusi, a cominciare talvolta col colpevole favorire gli amici e i congiunti [208] mediante la creazione per essi d’impieghi non necessari; colle destinazioni abusive di essi a posti che non potrebbero coprire; col fare eseguire lavori, e permettere spese non necessarie, a solo scopo partigiano, andando fino alle alterazioni delle liste elettorali comunali; alle falsificazioni dei ruoli d’imposte a danno degli altri (pur troppo anche talvolta a danno dai meno abbienti); al non esigere i pagamenti dovuti alla amministrazione dai proprii amici; al creare così contabilità artificiali che diventano presto indecifrabili e permettono poi ogni specie d’inganni e di frodi; rasentando o toccando persino talvolta l’appropriazione indebita collo storno dei mezzi destinati al servizio pubblico, impiegandoli invece a scopo ben diverso. Se ciò non si frena con tutto il rigore, con tutta l’energia che è del caso, invano si può tentare di sperare di fare argine alle dottrine sovversive alle propagande ostili, le quali diventano tanto più facili in quanto che trovano un terreno preparato a far germogliare le loro idee».
Meglio e più onestamente non si potrebbe dire; in quanto al fare è un altra cosa. Si sa che tra il dire e il fare c’è il mare!
Ma rimane d’importanza capitale l’esplicita confessione del ministro che sta a capo della feroce reazione contro i partiti avanzati: che i veri e diretti responsabili dei tumulti non sono le vittime colpite.
Sta pure in fatto che i più volgari appetiti, le ambizioni più sfrenate, i rancori più profondi in tutto il mezzogiorno soffiarono e soffiano nel fuoco per fare divampare incendi dai quali tutti, disonestamente [209] sperano trarre profitto. E questi sciagurati provocatori di tumulti sono stati quasi sempre i più insistenti nell’invocare misure di rigore contro i sovversivi, che spesso furono soltanto imprudenti e ciechi perchè non si avvidero che servirono di strumento ai biechi fini altrui[83].
Intanto i veri colpevoli rimasero impuniti — talora premiati colla conquista del municipio; le masse incoscienti furono massacrate; i repubblicani, e i socialisti innocenti condannati alla reclusione per discorsi o scritti di data remota e che non potevano esercitare influenza diretta sugli avvenimenti.
Questa vita comunale e provinciale, che da se stessa — dati gli stretti rapporti col potere centrale — deve reagire sulla vita nazionale, per la grande ignoranza delle masse ha fatto accumulare odî contro il governo; poichè tali masse per lo appunto tutte le sofferenze, che loro vengono da cause locali, per la impossibilità in cui si trovano di discernere con esattezza, le hanno addossate allo Stato. Nell’errore sono state dolorosamente confermate dalle repressioni largamente ordinate ed eseguite dalle autorità che lo rappresentano; e in questa guisa, [210] anche tutte le anomalie più o meno criminose di indole locale sono andate ad accrescere il torrente impetuoso del malcontento politico.
A frenarlo, ad inalvearlo per renderlo meno rovinoso, sarebbero occorsi uomini di Stato di grande levatura al centro ed alla periferia; ma certamente se l’Italia li avesse avuti, non sarebbe stata ridotta così a mal partito come si trova oggi. I politici italiani, senza distinzione di partiti — e sarei disposto ad aggravare la mano più su quelli di sinistra che di destra — si sono chiariti impulsivi, impreveggenti, preoccupati degli interessi individuali o di un minuscolo gruppetto — che non diviene partito — senza alcuna grande direttiva d’interesse collettivo, nazionale. Quando hanno sacrificato se stessi ed hanno compiuto qualche atto di abnegazione — caso, del resto, assai raro — il sacrifizio avvenne a beneficio della dinastia; giammai della patria. Gli interessi veri dello Stato, quelli superiori delle Società quasi mai ebbero il sopravvento nelle determinazioni dei politici nelle cui mani rimase il governo per circa quarant’anni; e quando gli interessi individuali furono posposti, giova ripeterlo, non prevalsero che quelli dinastici[84].
[211]
Non faccio entrare nel novero dei fattori politici del malcontento le violazioni ripetute, sistematiche dello statuto, l’adulterazione sfacciata del regime rappresentativo e la riduzione al minimo delle pubbliche libertà: sono notissimi, qui stesso vi si è accennato più volte e basta a proposito di esse rammentare che da soli determinarono in Italia e fuori rivoluzioni, che furono lodate ed esaltate. Giova invece chiudere questa serie di considerazioni con un cenno fugacissimo sulla politica ecclesiastica.
In quasi tutti gli Stati c’è un clero e c’è una religione, che servono di cemento e che quasi sempre funzionano come strumenti di conservazione. Ben diversa è la situazione in Italia; nè c’è duopo rammentare per quali cause lo Stato si trovi in conflitto colla Chiesa dominante. Ora è precisamente in questo conflitto, che si è mostrata — fatta eccezione, è notevolissima, della sapiente legge delle guarentigie del 1871 — tutta l’insipienza e la bestiale indiscrezione della politica italiana, che ha oscillato continuamente tra principî cari a Zanardelli a quelli sottolineati da Prinetti colla sua visita al cardinale Ferrari; contraddizione impersonata talora ed esplicatesi clamorosamente a piccoli intervalli in uno stesso individuo, che ora invoca Dio colla formula del più schietto legittimismo clericale ed ora si affida a Crisostomo per dare consigli al Papato dopo avere inneggiato alla Dea Ragione. Egli è così che clero e religione, che altrove sono fattori di stabilità e di conservazione sui quali lo Stato può contare, tra noi sono divenuti massimi elementi di perturbamento. E meno male che in Italia è [212] fiacco il sentimento religioso, e sono timidi i clericali![85].
Il disagio economico, che arriva alla miseria vera, il dispotismo e l’insipienza dei governanti talora si tollerano e si subiscono in pace quando un soffio di moralità lambisce gli uomini e le istituzioni [213] e in qualche guisa li vivifica e li sorregge. Invece tra noi un fermento putrido virulentissimo s’infiltra dappertutto e spinge alla dissoluzione.
Il fermento putrido nulla ha risparmiato; dalla vita privata si è riversato nella vita pubblica — che per comodità di molti lojolescamente si vollero staccare; e quando nella seconda la sua azione virulenta ha raggiunto il massimo d’intensificazione, è tornata a devastare la compagine sociale.
Egli è così che nella delinquenza abbiamo il tristissimo primato che in Europa nessun altro popolo ci può contendere[86]; e che questa delinquenza, sotto forma larvata talora e tal altra più imprudente e sovvertitrice perchè sicura dell’impunità, ha conquistato i municipi, le provincie, gli uffici pubblici, tutto il complesso organismo dello Stato. Le cifre delle statistiche penali documentano il primato della criminalità; la storia di ogni giorno dei cassieri che scappano; degli istituti che falliscono fraudolentemente; dei commendatori tratti in arresto.... la storia della inchiesta sulle ferrovie meridionali nel 1864 — inchiesta misteriosamente scomparsa —, delle inchieste sulla Regia interessata dei tabacchi e del relativo processo Lobbia.... delle inchieste sulla Banca Romana con relativi amminicoli; la storia meravigliosa sulla influenza che può esercitare un [214] Costanzo Chauvet; i discorsi da ministri e le relazioni parlamentari — per citare i più recenti — di Saracco, di Prinetti, di Brunicardi sui lavori pubblici, ecc., ecc., costituiscono il più doloroso pendant della delinquenza privata e completano il quadro cupo della pubblica moralità che a larghe pennellate, per quanto in forma solennemente ufficiale, ci fece conoscere la circolare del Generale Pelloux sulle amministrazioni locali[87].
Chi vuole avere un quadro rassomigliante al vero, ma sempre più bello del vero, legga sulla [215] degenerazione politica in Italia ciò che scrisse Ruggero Bonghi per commemorare la breccia di Porta Pia[88]. E vorrei possedere tutta l’autorità di cui godeva Ruggero Bonghi e vorrei che in Italia si godesse quella poca libertà di cui si godeva ancora nel 1893, per esporre altre considerazioni importantissime che egli allora espose, rivolgendosi a chi di dovere, in quei famosi articoli sull’Ufficio e sul diritto del Principe in uno Stato libero e che gli valsero la punizione per lui più dolorosa: l’ostracismo dal Palazzo del Quirinale[89].
Ma se certi tasti oggi non è più lecito toccare senza riportare gravi scottature, sarà lecito, però, ripetere ciò che opportunamente disse testè Giulio Prinetti, togliendolo a prestito da Guizot: nelle monarchie moderne, che non discendono da Dio, la sovranità risiede nella giustizia[90]. Or bene, ciò che manca assolutamente tra noi è la giustizia!
Questa mancanza cominciò ad essere avvertita più di venti anni or sono da Marco Minghetti in un libro, che rimase classico; ora non è più da alcuno negata o attenuata e se ne discorre come del fenomeno più pericoloso e meglio constatato. Sin dal principio della XIV legislatura, il Re, nel discorso inaugurale dei lavori parlamentari, promise provvedimenti per ristaurare il regno della giustizia; ma ancora non c’è stato il tempo di prenderli. E [216] senza la giustizia non si sorregge alcuna società civile![91].
Il popolo, che conosce queste condizioni deplorevoli, diffida sempre della giustizia legale e crede spesso di esercitare un sacrosanto diritto facendosela da sè ed a modo suo: more barbarico.
È questo l’ultimo fattore di ordine politico-morale del presente perturbamento italiano su cui ho creduto di dovermi fermare; ed esso solo è tale da rendere possibile qualunque movimento violento inteso a provvedere. Ed il popolo da gran tempo avrebbe provveduto, se in esso la coscienza dei mali e del loro esatto rapporto colle cause vere che li hanno generati non fosse ottenebrata dalla ignoranza crassa e dalla deficentissima educazione politica; avrebbe provveduto, se ogni energia non fosse stata fiaccata dalla lunga servitù ed esaurita da oltre settant’anni di lotta per conquistare l’unità e la indipendenza della nazione.
L’insieme di queste condizioni economiche, politiche, intellettuali e morali quale è stato riconosciuto ed esposto dagli scrittori di ogni colore politico in occasione degli ultimi tumulti,[92] spiega esaurientemente [217] la genesi di questi fenomeni, che mi piace segnalare colla parola di tre uomini, dei quali nessuno metterà in dubbio la devozione all’Italia, alla dinastia, alle presenti istituzioni.
[218]
1. Coloro che amano le istituzioni e vogliono conservarle in Italia hanno poca fiducia in se stessi; e questa poca fiducia ne turba le menti. La confessione amara è dell’on. Di Rudinì in una circolare del Maggio 1898 a tutte le Autorità del Regno, in cui deplorava il malvezzo delle continue richieste di truppa, nella quale soltanto scorgevasi la salute.
2. Nel disagio pubblico, nel disordine delle istituzioni liberali e nello aumento della immoralità si trovano le propizie condizioni della cresciuta forza del brigantaggio e del clericalismo e della diminuzione del sentimento unitario. Ciò riconobbe Ruggiero Bonghi[93].
3. «Le nostre popolazioni sono malcontente e sentono disgusto di un regime, che le condanna ad una vita di privazioni e di stenti, che possono talvolta apparire incomportabili». Questo è il giudizio del Senatore Giuseppe Saracco, che viene ribadito da cento altri pareri, altrettanto espliciti, e tutti di monarchici che constatano con infinito dolore la diminuzione o la scomparsa della fede nelle istituzioni[94].
[219]
Per dire come e perchè gli errori e le colpe degli uomini possano far perdere la fede nelle istituzioni buone — le nostre sono eccellenti! — occorrerebbe lungo discorso. Dal quale mi dispensa il parere autorevole.... di Vittorio Emmanuele II. Fu il gran re per lo appunto che in uno dei discorsi della Corona saviamente ammonì: I popoli apprezzano le istituzioni in ragione dei risultati che danno.
Che cosa abbiano dato le istituzioni sinora in Italia abbiamo visto: i loro prodotti si assommano nel tumulto e nel delitto anarchico. Questi risultati si devono all’opera costantemente sovvertitrice degli uomini che ebbero in mano la cosa pubblica da quarant’anni in qua;[95] e questi uomini meritevoli di gogna o di galera si sono eretti a giustizieri ed hanno punito negli altri le colpe proprie: hanno mandato alla reclusione coloro che altro reato non commisero se non quello di denunziare e di stigmatizzare l’opera di sovvertimento delle istituzioni da loro compiuta!
[221]
La ricerca sommaria sinora eseguita sarebbe bastevole per provare che in Italia esistono tutte le condizioni politiche per rendere intelligibile qualunque moto — anche improvviso, impulsivo e senza scopo preciso — inteso a modificare uno stato di cose dichiarato addirittura intollerabile dagli uomini eminenti che contribuirono a crearlo. È chiaro, del pari, che se in Italia c’è una città o una regione che per le condizioni politiche, morali, intellettuali ed economiche si differenzia dal resto del regno — in questa città o in questa regione più vivo e più intenso deve sentirsi il desiderio o meglio il bisogno di un mutamento radicale. E deve sentirsi urgente questo bisogno, se avvertite le disastrose condizioni delle altre regioni, perchè deve sorgere spontaneo il timore che a lungo andare il male comune intacchi anche le parti sane o meno ammalate. La differenza constatata e la paura del male prossimo danno pure [222] ragione di una tendenza vaga ed indeterminata al separatismo o al rimpianto di una riunione che si crede verificata a proprio danno.
Questa città, che riflette nelle linee generali le condizioni di tutta la regione di cui geograficamente e storicamente è il centro, c’è: Milano; Milano, da tempo chiamata la capitale morale d’Italia, ora con senso di ammirazione e d’invidia — ora con una ironia che nasconde male la poca sincerità di chi la manifesta.
Ho avuto agio di deplorare che Milano soverchiamente si sia inorgoglita della sua prosperità e che abbia misconosciuto quanto essa deve alle altre regioni d’Italia, che apportano il loro contingente per crearla[96]. Mentirei a me stesso se non riconoscessi che Milano merita sul serio la fama buona di cui gode e il titolo di capitale morale.
Le sue condizioni forse saranno inferiori a quelle di parecchie altre grandi città del mondo civile; per lo insieme sono di gran lunga superiori a quelle del resto d’Italia — non esclusa Torino che in qualche cosa la supera.
Gli elementi giustificatori del buon nome di Milano sono numerosi; ma prima di esporli sommariamente giova fermarsi sulla condizione economica sua ed esaminare se cause d’indole strettamente economica, quali furono quelle che determinarono [223] i tumulti nel resto d’Italia, potevano commuoverla.
La miseria generale ed intensa della penisola ha fatto comparire maggiore la prosperità economica di Milano. Epperò di fronte agli ultimi dolorosi avvenimenti parecchie cose sono da osservare:
1. Non è esatto che il benessere nella capitale lombarda sia così grande e diffuso come si vuole far credere; la miseria vi è soltanto minore, meno estesa che altrove. I salari degli operai della Ditta Pirelli esposti dal cav. Calcagno innanzi al Tribunale militare (udienza del 18 Giugno) provano che per la massa essi sono di gran lunga inferiori a quelli delle grandi industrie europee, mentre gli operai della Ditta Pirelli sono tra i meglio pagati d’Italia[97].
2. A Milano, per la minore miseria e per la fama di grassa e ricca di cui gode e per le ristrettezze delle altre parti d’Italia, è supponibile che in ogni tempo siano accorsi operai e spostati dalle altre parti d’Italia a costituirvi l’armata di riserva degli affamati e dei disoccupati. Non si dimentichi che la condizione dei contadini dei dintorni è miserissima. Sicchè si deve prestar fede alla Perseveranza (9 Maggio) quando dei tumultuanti scrive: «Le campagne dettero un contingente di contadini laceri, scalzi, senza cappelli, dalle facce stravolte...»
[224]
Che tra i tumultuanti il massimo contingente sia stato fornito da elementi senza lavoro e residenza stabile, ce lo prova all’evidenza una nota di cronaca del Corriere della Sera che all’indomani della breccia di Porta Monforte constatò che negli stabilimenti industriali quasi tutti gli operai il giorno 10 Maggio erano tornati al lavoro[98]. Sarebbe stata impossibile questa generale ripresa del lavoro cogli 80 morti, col migliaio di feriti e coi 2000 arresti praticati, se ai morti, ai feriti e agli arrestati avessero dato il loro contingente gli operai che stanno relativamente bene e che lavorano regolarmente.
[225]
3. Infine si dimentica un canone di psicologia popolare, indiscutibile oramai, ch’è questo: le influenze dei perturbamenti economici regressivi si risentono più rapidamente e più intensamente dove maggiore è il benessere; invece l’adattamento all’ambiente sociale è tale tra i popoli caduti nell’abbiezione della miseria e della ignoranza, ch’essi divengono insensibili a qualunque male nuovo e a qualunque peggioramento di quelli esistenti. Inversamente cresce il desiderio di benessere, di coltura e di libertà, in ragione diretta dei miglioramenti conseguiti. L’osservazione è di Buckle e fu ripetuta da Spencer e da Lombroso[99].
[226]
Perciò si mossero la Sicilia nel 1893 e la Puglia nel 1898 e rimasero tranquille la Calabria e la Sardegna. Qui la miseria dura ininterrotta da anni ed anni e le popolazioni che le abitano si sono adattate ad un regime inferiore. Il passaggio rapido da un relativo benessere ad un certo grado di miseria spingea a ribellione le prime. Questi principî di psicologia collettiva, che trovarono la loro applicazione ripetute volte, poterono agire a Milano come [227] in varie altre contrade[100]. Milano, che aveva tumultuato il 1 Aprile 1886 per il dazio sul pane e per le angherie degli agenti daziari, non poteva rimanere insensibile quando il prezzo del pane subì nel 1898 un aumento di quasi il 50%[101].
A Milano, inoltre, come si disse, dovettero intensamente agire altre cause, perchè Milano è la capitale morale. Che lo sia lo dicono le cifre, che bisogna lasciar parlare. Cominciamo da quelle relative alla base biologica, che con qualche confronto con quelle della maggiore città del mezzogiorno, Napoli, serviranno a fare apprezzare più al giusto la costituzione bio-sociologica della metropoli del Nord e di quella del Sud[102].
L’aumento della popolazione nella capitale della Lombardia, se non è vertiginoso come quello di alcune grandi città dell’Europa settentrionale o degli Stati Uniti, è assai considerevole. Contava 351,941 [228] abitanti nel 1885 ed arrivò a 441 nel 1895. L’aumento fu più rapido tra il 1881 e il 1891 — da 314 a 414 mila abitanti; mentre Napoli nello stesso tempo da 493 salì a 527 mila. In media a Milano l’aumento fu di circa 10,000 abitanti all’anno, mentre a Napoli non arrivò a 3000.
Questa prima ed enorme differenza acquista un significato economico sociale interessantissimo quando si saprà che la natalità di Milano nel 1895 era molto ai disotto di quella media del regno: rispettivamente di 28,21 e di 38,67 per mille abitanti.
Questa natalità arriva alla cifra dei popoli orientali meno avanzati in civiltà in Napoli: nel 1891 di 41,4 nel quartiere S. Lorenzo, dove nel 1881 mantenevasi a 49,8. Questi altri dati, oltre l’influenza esercitata dalla diversità delle condizioni economiche degli abitanti delle due città, danno ragione in parte della differente mortalità: a Milano, per l’igiene, la pulizia e il rinnovamento edilizio, si spendono Lire 1318,80 per 100 abitanti; a Napoli si arriva a poco più della metà, a L. 693.85.
L’aumento della popolazione, dunque, a Milano, come nelle altre città civili, non è determinato da forte natalità, ma dalla sua minore mortalità ridotta a 24,52 nel 1895 colla media del regno di circa 26 e di Napoli, che mantenevasi a 30,6 nel 1893. L’aumento dovuto alla minore mortalità viene accresciuto dalla immigrazione, che fu di 10,511 nel 1885 e discese a 9545 nel 1895; inversamente l’emigrazione tra gli stessi anni salì da 2944 a 3194. Queste ultime cifre sono interessantissime, perchè dimostrano: 1º la quantità considerevole di persone nate fuori di Milano, che nella ricca [229] città vanno a prendere dimora; 2º che il movimento ascenzionale della prosperità, a giudicarne dalla diminuita immigrazione e dall’aumentata emigrazione, aveva già cominciato a subire un arresto nel 1895.
Occorrerebbe una speciale monografia per illustrare la vita economica industriale di Milano, che non è uguagliata da quella di verun’altra città italiana; vi sarà agio di accennarvi un poco più in là, e qui basta ricordare che la Cassa di Risparmio costituisce l’indice migliore della ricchezza della Lombardia. Gli ottocento milioni all’incirca di depositi e risparmi della Lombardia rappresentano oltre due terzi del totale spettante alle provincie meridionali come si è visto in uno dei capitoli precedenti.
La superiorità di Milano è indiscutibile e considerevole dal punto di vista intellettuale e morale. Milano spende L. 655,20 per istruzione e L. 1,23 per culto ogni 100 abitanti; Napoli invece presenta queste cifre: L. 354 e L. 19,67. Alle due spese corrispondono rigorosamente i dati dell’analfabetismo e quei della superstizione, dimostrabili colla statistica per la prima parte e riconoscibili soltanto dalla cronaca per la seconda. A Milano, infatti, su 100 sposi, un poco più di 16 non sanno sottoscrivere; più di 50 a Napoli. Quasi tutti i ragazzi che hanno l’obbligo della scuola — 96 su 100 — la frequentarono in Lombardia negli anni 1894-95; arrivarono a 63 nella Campania. Aggiungasi che mancarono qui tutte, o quasi, le scuole e le istituzioni complementari, che rendono meno illusoria l’istruzione obbligatoria.
In perfetta armonia coi dati economici e morali sono quelli morali come si può rilevare da questo [230] specchietto che si riferisce al triennio 1893-95. Per 100,000 abitanti:
Milano | Napoli | |
Reati d’ogni specie denunziati | 1316 | 3984 |
Contro il buon costume | 10,48 | 40,54 |
Omicidi | 3,02 | 28,35 |
Lesioni violente | 101,61 | 511,30 |
Reati contro proprietà | 352,97 | 498,25 |
Milano supera tutto il mezzogiorno nel numero delle nascite illegittime (10,2 per 100 nascite); ma si sa che questo è l’indice meno significante della moralità pubblica; tanto che Torino, la quale nell’insieme sta innanzi a Milano per la istruzione e pei reati, la supera nelle quote degli illegittimi, con 14,1. Milano anche in uno degli elementi più dolorosi, si rivela a livello delle regioni più colte di Europa: nel 1895 ebbe 90 suicidi; non furono che 53 a Napoli, con circa 90 mila abitanti in più.
Se dal lato negativo della statistica morale si passa a quello positivo, in qualche modo rappresentato dalla beneficenza e dalla previdenza, riscontriamo dati che armonizzano coi precedenti e li spiegano. A Napoli si spendono L. 118,72 per 100 abitanti per beneficenza pubblica ed a Milano 185,15. Ma queste cifre non danno che una pallidissima idea dello spirito filantropico di Milano, in tutte le sue classi sociali. Chi volesse rendersene conto, legga in Appendice ciò che brevemente ci scrisse persona che conosce la capitale morale e non potrà fare a meno di sentire per essa una viva ammirazione.
Accanto alla beneficenza sta la previdenza. Oltre il Monte di Pietà e la Cassa di Risparmio, a Milano [231] vivono o meglio vivevano, prima che la raffica reazionaria le devastasse, oltre 160 associazioni di mutuo soccorso tra professionisti ed operai di ogni specie. Si può assicurare che i più umili mestieri e i più vari hanno la loro associazione di mutuo soccorso; prima fra tutte l’Associazione generale, che ha un capitale di oltre 600,000 lire e che per potenza economica e numero di soci gareggia con quella di Torino; entrambi sono tra le pochissime in Italia che reggono al paragone delle inglesi. Milano, colle sue diverse opere di beneficenza e di previdenza, spende la bella somma di circa otto milioni e duecento mila lire all’anno.
Floridissima e bene organizzata era la Camera del Lavoro, cui il municipio aveva accordato un sussidio annuo di L. 10,000 e la sede gratuita in via Crocefisso ed a cui facevano capo circa 120 sodalizi che rappresentavano tutto il lavoro manuale e parte di quello intellettuale — associazioni tra insegnanti, ecc. — Serviva come intermediaria tra capitale e lavoro, tra l’offerta e la domanda di lavoro e patrocinava gli interessi dei lavoratori.
L’opera sua fu sempre efficacissima e spesso compose degli scioperi o li evitò; lo stesso Municipio in qualche occasione si rivolse ad essa. L’ultima sua buona opera compiuta fu nello sciopero dei tramvieri, che durò un sol giorno e terminò colla vittoria dei lavoratori contro il Municipio e contro la società Edison. L’ira della reazione non la risparmiò, non ostante che non avesse carattere politico.
E colla Camera del Lavoro possiamo passare alle associazioni schiettamente politiche. Quelle di [232] mutuo soccorso hanno ciascuna una prevalente tendenza politica; l’Associazione generale, ad esempio, è nelle mani dei monarchici moderati che se ne avvalgono ed acquistano una influenza superiore alla loro forza reale. La norma delle associazioni monarchiche è la Costituzionale presieduta dal nobile G. Visconti Venosta e dove si raccolgono i reazionari più feroci, reclutati nell’aristocrazia e nella grassa borghesia: le sue idee vengono rappresentate nella stampa della Perseveranza. Sono monarchiche varie società fra militari ed alcuni circoli elettorali — tra i quali un Comitato elettorale permanente nel terzo collegio, che tra i principali capi di accusa contro i suoi avversari enumera quello di essere appartenenti alla massoneria. Merita menzione speciale il Circolo popolare, che vorrebbe un partito conservatore moderno ben distinto dal reazionario, a cui appartengono Prinetti e Ambrosoli, tra gli altri deputati; ma che sinora non è riuscito ad avere molta fortuna; non ne ha avuto una maggiore l’Associazione monarchica fra gli studenti milanesi.
Un tempo era potentissimo il Consolato Operaio schiettamente democratico e che fu lo strumento della vittoria clamorosa della lista democratica e repubblicana alla prima elezione generale a suffragio allargato nel 1882. Fu battuto in breccia dai socialisti, che gradatamente gli sottrassero molti importanti sodalizi e gli era stato sostituito il Tribunato dei lavoratori, ch’era schiettamente repubblicano[103]; [233] e repubblicani erano molti circoli elettorali ed altre società — compresa una d’irredenti ed altre fra gli studenti raccolti nel Fascio Carlo Cattaneo. Repubblicani e democratici potevano contare su di alcune società di mutuo soccorso, sulla Società democratica tra i Reduci dalle Patrie battaglie e sulle Società Reduci volontari garibaldini.
Erano oltre venticinque le società e trenta gli oratorii cattolici, nei quali stava la forza disciplinata del partito clericale. Alcune organizzazioni avevano scopo esclusivamente elettorale e riuscirono utilissime ai moderati nelle elezioni amministrative.
I sodalizi socialisti sembravano scarsi di numero; ma erano mirabilmente organizzati e di una sorprendente attività. Alla Federazione socialista, all’Associazione elettorale socialista, al Circolo di studi sociali facevano capo molti circoli — alcuni prevalentemente elettorali — ed altre utili istituzioni, come il Ristorante cooperativo di Ponte Seveso che riusciva efficacissimo per la propaganda. L’organizzazione socialista era la più disciplinata e la più forte: la sola che poteva competere col partito clericale. Nè la disciplina veniva rotta dalle diversità della corrente che cominciava a designarsi tra [234] i moderati guidati da Turati e dalla Koulischoff, che volevano accordi coi partiti affini, e gli intransigenti che di accordi non volevano sapere in alcun modo. Gli uni e gli altri — moderati e intransigenti — erano decisamente avversi a qualunque tentativo rivoluzionario, almeno tra gli elementi direttivi e tra gli oratori delle frequenti e frequentate conferenze.
Con un cenno alla Massoneria — scissa durante il governo Crispi, perchè a lui si riteneva troppo ligio il Gran Maestro del tempo — alla Società internazionale per la pace, dove trovano posto uomini di tutti i colori — dal conservatore Albasini-Scrosati ai repubblicani Maffi e Premoli — e al Circolo per la solidarietà internazionale, ch’è una emanazione della precedente, con intendimenti più larghi e più pratici, pongo termine alla rapidissima rassegna delle associazioni di Milano, che possono già dare un adeguato concetto della sua vivace attività politica, che meglio risalterebbe dalla storia dei suoi singoli collegi fatta al lume dei risultati elettorali. Le ultime elezioni, ad esempio, insegnano che nel solo VI collegio, tra socialisti e repubblicani, gli antidinastici sono oltre 3000.
Questi dati politici e intellettuali vengono completati dalle seguenti notizie sulla stampa. Milano ha i giornali più diffusi in Italia, se non i meglio compilati.
Comincio dall’Italia del Popolo che non risorgerà più nella capitale morale e che rivivrà a Roma sotto il semplice titolo: Italia. Benchè intransigentemente repubblicana — talvolta bigotta — e non ben fatta dal lato tecnico e deficientissima pel servizio telegrafico, era riuscita ad avere quattromila [235] abbonati. Era grande il valore morale dei suoi collaboratori — oggi quasi tutti in carcere — ma era maggiore la diffusione delle idee repubblicane; tale da consentirle una tiratura di oltre 15 mila copie, quale non l’ebbero mai L’Unità Italiana, Il Dovere, La Lega della democrazia, non ostante la direzione di uomini che si chiamavano Maurizio Quadrio, F. Campanella, Alberto Mario. E l’Italia del Popolo, per le deficienze indicate, non oltrepassava i confini dell’Emilia.
Tra i quotidiani, il primo posto per la diffusione lo tiene a Milano e in tutta Italia Il Secolo, la cui tiratura oscilla attorno alle 100 mila copie e che esercita una grande e benefica influenza in senso democratico in tutto il regno. E per questa sua azione venne soppresso dal generale Bava Beccaris. Viene dopo Il Corriere della sera, che col volteggiare accorto del Torelli-Viollier, che sapeva a tempo debito secondare l’opinione pubblica e colla grande cura posta nella compilazione, aveva ottenuto una considerevole diffusione. Coll’uscita dell’antico direttore, cui parvero enormi i fasti reazionari dello stato di assedio, si è avvicinato politicamente alla Perseveranza — l’organo più sfacciato della reazione, ma che per fortuna esercita scarsissima influenza, per la sua scarsa diffusione. Non arrivò a guadagnare neppure durante lo stato di assedio, quando ridusse democraticamente il prezzo di vendita da 10 a 5 centesimi.
La Lombardia era un giornale alquanto democratico, non bene definito, ma che per le sue imparzialità godeva di molte simpatie tra la borghesia che non vuole arrivare al Secolo, ma che non può acconciarsi [236] agli organi della reazione; ora ha mutato indirizzo, come è pure mutato tutto il personale di redazione, volontariamente dimessosi per atto di solidarietà con il suo direttore, non avendo voluto il direttore Gianderini acconciarsi a fare un giornale reazionario. Invece è discretamente diffusa La Sera, sempre — almeno sinora — ministeriale, per l’ora tarda in cui si pubblica e che la fa ricercare per le notizie ultime. L’Osservatore Cattolico di Don Albertario e la Lega Lombarda sono i due quotidiani cattolici: la seconda fornica coi moderati e qualche volta assume intonazione conciliazionista.
La Lotta di Classe — risorta sotto il titolo di: Lotta con un valoroso direttore — Claudio Treves — Il Socialista, L’elettore cattolico milanese, il Popolo cattolico, Il lavoratore italiano, clericale, e L’Idea liberale sono settimanali: sarebbe fortuna per tutti se le idee temperate dell’ultima prevalessero tra i monarchici milanesi.
Milano ha inoltre: 23 pubblicazioni commerciali e industriali — tra i quali Il Sole e il Commercio quotidiano; 22 di medicina; 5 giornali giuridici — I Tribunali divennero quotidiani durante i processi politici ultimi; 16 agricole; 22 di moda; 14 strettamente religiose; 29 letterarie, educative, scolastiche, ecc.; 13 per le famiglie ed umoristiche — argutissimo Il Guerrino Meschino e assai popolare L’Uomo di Pietra; 13 teatrali; 3 di viaggi; 5 di pubblicità; 9 di sport, caccia e scherma; 15 di genere diverso; 12 scientifiche — tra le quali Il Pensiero italiano di Pirro Aporti. E chiudo questa eloquentissima enumerazione con un cenno speciale alla soppressa Critica Sociale, che mercè l’opera [237] assidua, intelligente ed amorevole di Filippo Turati aveva acquistato fama grande e meritata in Italia e fuori e che tutti si augurano di vedere risorgere presto e rigogliosa e battagliera, non appena il suo valoroso direttore avrà riacquistata la libertà.
Da tutto ciò si può già concludere che Milano è città essenzialmente politica e intellettuale; e chi conosce la vivacità delle discussioni nei caffè, nei ritrovi familiari, nelle piazze; la frequenza e varietà delle conferenze pubbliche — molte delle quali, naturalmente con diversità d’intenti, organizzate dal florido Circolo Filologico e dalla Società internazionale per la pace — tutte affollate e parecchie tenute nella stessa ora, potrà ancora più agevolmente ricostruire mentalmente l’ambiente psichico di Milano.
Questo ambiente, è naturale, non si formò in un giorno, nè in un anno. Degli anni ce ne vollero perchè quello descritto da Parini si mutasse radicalmente.
Non è qui il luogo per dimostrare quali fattori naturali e sociali abbiano contribuito a preparare e maturare il mutamento facendone un centro attivissimo di vita economica e intellettuale; certamente l’Austria colla sua cura di forche, di piombo e di galera ne ricostituì sano e vigoroso il carattere politico; ne formò la tradizione fiera, indipendente, indomita.
In un solo anno — dall’agosto 1848 all’agosto 1849 — furono eseguite non meno di novecento sessanta sentenze di morte sopra individui accusati o semplicemente sospettati autori di reati politici, compresi taluni pei quali non esisteva neppure il sospetto, ma che vennero giustiziati sol perchè tratti [238] accidentalmente in arresto. Alcune esecuzioni acquistarono celebrità per alcuni episodi eccezionali.
È così che i milanesi vanno orgogliosi del: Tiremm innanz! di Sciesa (1850).
«Il trattamento dei bruti a cittadini che insultati risentono l’insulto, dice il Senatore Piolti de’ Bianchi, segnò tra Milano e l’Austria una macchia indelebile, una pagina d’odio, che nessuno mai straccerà».
E quest’odio spiega come, perchè Milano pacifica e umana fra le città italiane, abbia manifestato un entusiasmo come per una vittoria nazionale all’annunzio dell’assassinio del D.r Vandoni (1851) reo di aver denunziato alla polizia il suo amico Dottor Ciceri[104].
Il moto del 6 Febbraio 1853 — nel quale ebbero parte Visconti Venosta e Depretis — e tutte le successive cospirazioni e impiccagioni consecutive, sino alla liberazione del 1859, non fecero che rinvigorire [239] e rendere adamantino questo carattere politico della Lombardia e della sua capitale.
Una nuova vita avrebbe dovuto cominciare colla cacciata degli Austriaci; e lombardi e milanesi vi credettero tanto a questa nuova vita, che essi, nei primi anni della costituzione del regno, sembrarono tra i più devoti alla dinastia sabauda; tanto devoti, che Enrico Cernuschi, indignato, preferì alla cittadinanza italiana la francese. — Le elezioni politiche erano l’indice migliore dei sentimenti della massa che godeva del diritto di voto. C’erano già dei brontoloni, disgustati che Vittorio Emmanuele non avesse mantenuto l’antico impegno di convocare la Costituente; ma i più erano soddisfatti della liberazione dal giogo austriaco e preoccupati e distolti da altre aspirazioni, dal desiderio ardente di compiere l’unità e l’indipendenza della nazione, sino a tanto che lo odiato e antico oppressore rimaneva accampato nel Veneto. Qualche elezione — quelle di Giuseppe Ferrari, di G. Mussi, e più tardi di Carlo Cattaneo — più che alla influenza della corrente politica che rappresentavano gli eletti — era un omaggio alla eminenza della persona o l’effetto di condizioni locali.
La reazione contro il sentimento monarchico-moderato andavasi maturando man mano che i governanti discreditavansi per errori politici e per immoralità delle quali non potevansi vittoriosamente difendere.
Era divenuta vigorosa all’epoca del Gazzettino Rosa — che potè fare di più per la demolizione delle istituzioni coi duelli de’ suoi redattori viventi en bohemiens, che non gli articoli logici e serrati [240] dell’Unità Italiana — ed esplose colle infamie del processo Lobbia[105].
Passò inosservata, o quasi, la cospirazione repubblicana del 1869 — per la quale venne arrestato sulla Piazza del Duomo il Dott. Pantano, tradito da un ufficiale; ma suscitò maggiore interessamento il tentativo insurrezionale della Caserma di Pavia colla conseguente fucilazione di Barsanti.
I sotterfugi miserevoli di Lanza per negare la grazia del povero caporale, chiesta in nome delle donne italiane da una Pallavicini, al cui consorte grazia non era stata negata dall’Imperatore d’Austria, produsse la più penosa impressione nella pubblica opinione. E la Lombardia cominciò a divenire un semenzaio di deputati schiettamente repubblicani — Sonzogno, Billia, Ghinosi, Mussi, Cavallotti — molti dei quali forniti dal Gazzettino Rosa, divenuto popolare perchè battagliero ed anticesareo. 1 fatti di Via Moscova — 23 Marzo 1879[106] — e tanti altri fasti [241] della polizia, che non lasciava passare occasione per agire austriacamente, accelerarono l’evoluzione di Milano e della Lombardia in senso democratico e repubblicano: evoluzione che trovava il suo terreno ben preparato nella tradizione storica e nella influenza che dovevano esercitare legittimamente, sopra tutti gli elementi intellettuali e sani, un gigante come Carlo Cattaneo, uomini come Giuseppe Ferrari e Gabriele Rosa; evoluzione che divenne ufficialmente palese colle elezioni generali del 1882.
In tal modo si andò preparando in Milano e in Lombardia un ambiente non solo repubblicano, ma schiettamente federalista, con questo in più: che la tendenza federalista non era esclusiva dei repubblicani, ma invadeva più o meno apertamente su tutti gli altri partiti e su tutte le classi sociali, percorrendo una gamma al cui centro stava l’Italia del Popolo coll’indimenticabile Dario Papa, e, agli estremi, da un lato Filippo Turati e dall’altro Giuseppe Colombo.
Date le condizioni tristi del resto d’Italia e data la coscienza della superiorità economica, intellettuale e morale di Milano e della Lombardia, coloro che si sapevano superiori e vedevansi legalmente accoppati da una forte maggioranza avversa, non potevano che riconfermarsi nel sentimento e nell’aspirazione federalista nella quale vedevano una nuova liberazione dai barbari del mezzogiorno. Così formossi la leggenda dello Stato di Milano, in fondo della quale c’era e c’è un assieme di verità, che non dovette rimanere del tutto estranea negli ultimi moti di Maggio[107].
[242]
Milano e la Lombardia si credettero addirittura sottoposti ad un dominio odioso sotto il secondo ministero Crispi: il quale ricambiava i lombardi di cordialissima antipatia e designavali come Galli cisalpini. Antipatia scambievole, sottolineata dai solenni fischi di Milano al Presidente del Consiglio, tanto più significante in quanto che la rottura colla Francia accentuata da Crispi, più che alle altre, economicamente, riusciva profittevole alle industrie lombarde.
[243]
Lo spirito lombardo, in ultimo, parve impersonato in Cavallotti che alla sua tenace e meravigliosa opposizione dette il profumo che veniva dalla questione morale; sicchè le manifestazioni violente di Milano e di Pavia dopo Abba Carima e la successiva caduta di Crispi parvero una vittoria, una rivincita del bardo glorioso della democrazia e dei suoi rappresentati.
Questo l’ambiente politico-morale di Milano; che a buon diritto può essere chiamata la capitale morale d’Italia per lo insieme armonico delle sue condizioni. Torino che l’uguaglia, le sta dappresso o la supera nella vita economica, nell’alfabetismo e nella minore delinquenza, non ha la vivacità e l’energia politica di Milano. E si spiega la calma di Torino durante gli ultimi moti non solo col desiderio di non nuocere al successo della sua Esposizione e colla forte organizzazione del suo socialismo intransigente, ma anche col suo temperamento e colla influenza della tradizione dinastica ancora tanto viva su di un Edmondo De Amicis che manifesta un sacro orrore per l’idea repubblicana innanzi al Tribunale militare, che doveva condannare a dodici anni di reclusione il suo amico e compagno di fede Filippo Turati!
L’ambiente politico-morale di Milano, sovraccitato già in modo straordinario dalla morte e dai funerali di Cavallotti e dalla rassegna delle forze repubblicane e socialiste fatte nella commemorazione solenne del cinquantesimo anniversario delle Cinque Giornate — era tale che sarebbe stato miracolo se i moti per la fame del resto d’Italia non vi avessero ottenuto una forte ripercussione. Sarebbe bastato [244] il contagio psichico, tanto più facile dove il terreno è adatto, a determinarla[108]; l’uccisione di Mussi doveva renderla inevitabile. L’imprudenza — altri forse dirà il calcolo, se la reazione era realmente sospirata — delle autorità politiche e militari dovevano necessariamente riuscire agli episodi sanguinosi di Maggio 1898. Nei quali, per quante ricerche abbia fatte, non sono riuscito a convincermi che vi abbia avuto parte principale la teppa, come da qualcuno, che ha voluto erroneamente scagionare Milano dei tumulti avvenuti, è stato asserito[109].
[245]
La manifestazione primitiva del 6 Maggio fu essenzialmente politica e tali rimasero le successive. Così doveva essere. Se le condizioni d’Italia sono tali che a giudizio di Saracco destano il disgusto del presente regime — e testè gli fecero dire che per salvare l’Italia si dovrebbe ricondurre il senso chiaro, esatto della moralità nella coscienza pubblica, in basso e in alto[110] — non era evidente, non era logico, che questo disgusto prorompesse in pubbliche manifestazioni nella capitale morale, dove identiche esplosioni, per cause minori, c’erano state altre volte? Se questa volta si arriva alle barricate, che nessuno, però, difende, la colpa è tutta delle autorità politiche e militari, che agirono in guisa da far sospettare che abbiano voluto le barricate per arrivare alla reazione.
Per parte mia non esito ad aggiungere che se le barricate rimasero indifese, se i moti non furono più gravi ciò si deve al fatto che mancò assolutamente ogni preparazione ed ogni direzione e sopratutto al dissidio tra i socialisti e una borghesia colta e repubblicana, che ha un obbiettivo determinato, ma che ebbe tagliati i garretti dal socialismo, che le sottrasse le masse. In queste poi poterono più la tradizione, il temperamento, che non poteva essere modificato in pochi anni, anzichè la propaganda [246] sinceramente e costantemente antirivoluzionaria dei socialisti; ed esplosero[111].
La protesta di Milano fu essenzialmente politica e morale; ma credo di avere dimostrato ad esuberanza che non ebbe il menomo carattere di un vero tentativo insurrezionale. Se a Milano, come alcuni, a torto, pretendono, mancò l’influenza economica nella determinazione della protesta, ciò tornerebbe sempre a suo grandissimo onore. I socialisti non deridono a sangue ogni giorno la quistione sociale perchè alcuni socialisti la riducono a semplice quistione di stomaco? Ebbene, diano tutta la loro ammirazione a Milano che si leva in nome delle più sante ed alte idealità!
In quanto alle sozze calunnie di chi disse i moti di Milano e del resto d’Italia voluti e preparati dai socialisti e repubblicani agli ordini ed agli stipendi del Papa e della Francia, esse non meritano che il più profondo disprezzo[112].
[247]
Quattro mesi di reazione non poterono modificare l’ambiente politico e morale di Milano.
La capitale morale rimane uno scandalo per alcune parti d’Italia ed un pericolo — se non si vorrà trarre ammaestramento dagli avvenimenti — per le istituzioni; si capisce perciò che ci sia qualche nuovo Barbarossa, come venne chiamato chi ebbe la triste ventura di spegnere Cavallotti, che la vorrebbe annientata; si capisce ancora che ci sia chi vorrebbe metterla sotto la tutela affettuosa dell’Italia.
Oh! il momento per togliere di mezzo questa minaccia permanente alla tranquillità dello Stato, di porre sotto tutela.... la capitale morale è veramente opportuno! Quando all’estero, per nostra incancellabile vergogna, si discute sulla convenienza di porre l’Italia sotto la tutela dell’Europa perchè non sa guarirsi dalla miseria e dall’analfabetismo, che generarono il pericolo anarchico[113], è giusto [248] che ci sia all’interno chi voglia spento il focolaio di benessere, di sana energia, di vera civiltà che risiede in Milano!
Se i nuovi Barbarossa esprimessero il sentimento della maggioranza degli italiani sarebbe segno che l’Italia non potrebbe tollerare che una sua grande città venisse chiamata la capitale morale....
[249]
Si afferma di ordinario dalle persone che non vogliono darsi la pena di comparare per riflettere ed agire in conformità dei risultati ottenuti dalla comparazione: i confronti sono odiosi. Dovrebbe dirsi invece: i confronti sono dolorosi e vergognosi per coloro che sono costretti a constatare la propria inferiorità e per quanti furono e sono causa della inferiorità stessa.
La comparazione che s’impone quando si è dato il bando all’assoluto è di una indiscutibile utilità nella politica, che vuole essere sperimentale perchè, trovando termini di confronto con dati avvenimenti, si acquistano elementi per una specie di giudizio di appello, ammaestramenti ed indicazioni sulle conseguenze non remote degli avvenimenti comparati a seconda della diversità delle misure adottate di fronte ai medesimi.
Non si deve tacere che nella comparazione e nelle induzioni si deve andare guardinghi, perchè la [250] diversità delle condizioni tra popolo e popolo ed anche tra periodi diversi nella vita di una stessa nazione, può indurre in errore e far formulare previsioni che non si realizzano generando meraviglia e disillusioni; ma, oltrecchè nella fase presente di evoluzione la diversità delle condizioni è in continua attenuazione tra i popoli europei, è innegabile che la comparazione rimane come il metodo migliore per fare della politica sperimentale, pur facendo riserve sulle indicazioni che somministra e ricorrendo a tutti i temperamenti nell’applicazione, che possono essere suggeriti dalla conoscenza delle più salienti diversità di condizioni.
Convinto della eccellenza di questo metodo, mi pare che non si potrebbe conchiudere più opportunamente questo studio sui tumulti della primavera del 1898 e sulla conseguente reazione se non coi confronti sul rispetto delle leggi e delle costituzioni, sulla libertà lasciata ai cittadini, sulle misure adottate dai vari Stati d’Europa in casi analoghi a quelli italiani.
Se si dovesse prestar fede ai grotteschi apologisti del vigente regime italiano, i quali non esitano ad affermare che in fatto di libertà e di osservanza della costituzione il nostro paese nulla ha da invidiare agli Stati più liberi del mondo, e che arrivano all’impudenza di dire che ne gode una maggiore della Francia, si potrebbe stabilire un contrasto stridente ed umiliante per noi, ponendo il paragone tra l’Italia e la Svizzera, tra l’Italia e gli Stati Uniti d’America; ma queste vanterie si devono prendere per quello che sono: per ridicolaggini divulgate con serietà o per ignoranza compassionevole [251] o per insigne e interessata malafede. Perciò rinunzio a qualunque paragone non solo con detti Stati retti a repubblica, ma anche colle monarchie scandinave, dove da anni i tumulti per cause economiche e politiche sono sconosciuti è dove è illimitata la libertà e tutto vi si discute: dal Re alla organizzazione sociale; da questa alle compagine nazionale[114].
I nostri millantatori si avrebbero a male il paragone tra l’Italia, paese a regime rappresentativo, con la Germania o con l’Austria, stati semplicemente costituzionali. Invece sono le due nostre alleate che avrebbero giusto motivo di offendersi del paragone. Il Cancelliere di Ferro, quando volle darsi nelle braccia della reazione, prima contro i cattolici e poscia contro i socialisti, si armò di leggi. Tra noi invece vige da anni, intendiamoci, e non da ieri soltanto, il cosidetto piccolo stato d’assedio, senza [252] che leggi, e nemmeno i famosi decreti-leggi lo abbiano autorizzato. Le leggi talora sono applicate severamente in Germania; ma quando esistono queste leggi, almeno ogni cittadino sa a che cosa attenersi e a quali rischi si espone violandole. Tra noi l’arbitrio sostituito sistematicamente alla legge produce in tutti una incertezza ed un perturbamento, che sono tra le cause maggiori della nostra decadenza politica.
In quanto a libertà di stampa e di riunione, chi legge il Worwärts e gli altri giornali e riviste dei socialisti, chi ha conoscenza delle conferenze innumerevoli che si tengono in tutte le birrerie di Berlino e della Germania, chi ha seguito l’ultimo congresso socialista di Stuttgart, in cui si affermò la dottrina collettivista da un lato e dall’altro si manifestarono voti aperti per la repubblica e si lanciò una sfida solenne all’Imperatore sulla famosa questione degli scioperi — si convincerà che il confronto non regge.
Non regge neppure coll’Austria, che siamo abituati a considerare come sinonimo di dispotismo. Ha certi freni la stampa e i sequestri qualche volta colpiscono anche le riviste — ad esempio, Die Zeit di Vienna; — ma c’è una misura, vi sono criteri stabili. Non parliamo del diritto di riunione; quando i socialisti austriaci promossero l’agitazione pel suffragio universale a Vienna, si fecero dimostrazioni di venti e quarantamila persone, che procedettero ordinate per lo più.
Qualche volta ci furono colluttazioni, anche gravi, colla forza; avvennero arresti e condanne severe — conformi alle leggi; ma il governo austriaco non pensò di sopprimere il diritto di riunione.
[253]
Gravi tumulti in Austria sono avvenuti negli ultimi anni e qualche volta fu proclamato lo Stato di assedio, consentito dalle leggi. Ma nè per la durata, nè per gli episodi che lo contrassegnarono in Boemia per la questione recentissima delle lingue, nè nell’Istria alcuni anni or sono, per l’altra analoga delle tabelle bilingui, si rese odioso come in Italia dal 1894 in poi. Nemmeno il più lontano paragone è possibile per le condanne dei tumultuanti, che furono mitissime anche quando andavano a colpire i cittadini rei di manifestazioni anti-nazionali, come fu il caso nei tumulti per le tabelle bilingui nell’Istria. Chi avrebbe potuto immaginare che l’Austria ci avrebbe dato lezioni di liberalismo e di costituzionalismo?
Il paragone prediletto ai nostri monarchici costituzionali è quello coll’Inghilterra. Essi ci tengono, o meglio ci tenevano[115], a dire che in Italia, in grazia della lealtà di Casa Savoja e dell’affetto popolare da cui è circondata, è stato possibile il [254] godimento della massima libertà e del più perfetto svolgimento del regime rappresentativo. Nulla, intanto, di più grottescamente falso.
Il paragone, sotto tutti i punti di vista, non regge ora; e non reggeva neppure pei tempi migliori della libertà italiana.
Rimontando a sessant’anni or sono per la libertà di stampa ed a più di settant’anni per il diritto di riunione, per i criteri repressivi, per le condizioni lavoratori, deisi potrebbe trovare qualche somiglianza tra l’Inghilterra di allora e l’Italia odierna. Non più oggi.
Due parole sulla libertà della stampa, che è divenuta la libertà fondamentale: essa sola vale quanto gli articoli più larghi di una carta costituzionale, che possono rimanere lettera morta dove c’è un esercito stanziale numeroso e disciplinato[116]; essa sola sostituisce efficacemente ogni più severo controllo sull’opera politica e morale del governo.
Per dare la misura di questa libertà di stampa in Inghilterra, bisogna leggere la collezione del Truth, del Reynold’s News paper, della Modern Society, [255] dell’Irish Weekly Independent, del Labour Leader, di altre riviste o giornali socialisti, repubblicani, radicali e irlandesi. Indarno si cerca nella storia dei processi da anni ed anni qualche cosa che rassomigli all’applicazione dell’articolo 247 del Codice penale e di altri articoli consimili. Le istituzioni politico-sociali vi sono discusse e attaccate con una violenza di linguaggio inaudita; la Camera dei lords, nell’anno di grazia 1898, dal Reynold’s Newspaper viene considerata come un’assemblea di speculatori, di usurai, di ladri.... E non sono meglio trattati la Regina e tutti i membri della famiglia reale. Su i Re tutti d’Inghilterra, da Guglielmo il conquistatore a Vittoria, circola liberamente il libro di I. Morrison Davidson — The New Book of Kings: Il nuovo libro dei Re — di cui si sono fatte parecchie edizioni, e che riporta tutti gli aneddoti più feroci e più scostumati che possano discreditare le persone reali e le istituzioni monarchiche.
Questa non è la libertà che si esercita su coloro che già appartengono alla storia — e che in Italia sono sempre sacre ed inviolabili; — ma si esercita piena, illimitata, sui contemporanei. Nel numero del 17 aprile 1898, Gracchus scrive una lettera al Reynold’s News paper nella quale dimostra il nessun valore politico, intellettuale e morale degli illustri parenti della Regina e della regina dice: «Vittoria ha schivato l’adulterio. E sta bene: l’ammiriamo. E l’ammiriamo in quanto, convinti del dogma della ereditarietà, chiunque avrebbe giurato, che essa avrebbe seguito la grossolana immoralità, che caratterizza i suoi zii particolarmente....».
[256]
Ma se la Regina viene risparmiata da Gracchus — nessuno risparmia il Principe di Galles, ch’è stato messo alla gogna nei Tribunali, nei giornali, nei meetings — non la è da altri. Così l’Irish Weekly Independent nel febbraio 1898 pubblicò un articolo: Is the Queen mad? — La Regina è pazza? — dove si facevano allusioni agli amorazzi antichi della Regina con un suo prediletto e notissimo servitore, che — si assicura — la confortò dopo la morte del Principe-sposo Alberto. Nel numero del 1º maggio, lo stesso giornale, ch’è illustrato, in prima pagina, sotto il titolo: A Jubilea Idyll si vedeva la Regina Vittoria, volante come una furia orrida, con la face in mano, portar la guerra dapertutto, mentre intorno e sotto di lei i cannoni che scoppiano producono incendii, rovina e desolazione... In Italia, un giornale fu sequestrato perchè mise in caricatura... gli speroni del generale Pelloux!
Gli emblemi, i motti allegorici, che si portano in processione, i discorsi che si pronunziano nei meetings sono dello stesso genere; e questo genere violento non è escluso dal Parlamento; dove, ad esempio, il Wakley, direttore del Lancet e deputato di Londra, domandando l’amnistia pei condannati cartisti di Monmouthshire, chiama traditori i Re e parla di royal miscreants, di royal ruffians — canaglie reali, banditi reali...
Questi saggi di massima libertà di linguaggio, che si potrebbero moltiplicare a piacere, rispondono alla sciocca obbiezione che si sente spesso ripetere in Italia: in Inghilterra si può concederla perchè non se ne abusa. Ed a questa obbiezione rispose qualche anno fa Pasquale Villari, senatore, conservatore [257] ed ex ministro del regno, col seguente giudizio: «La stampa più moderata usa in Inghilterra un linguaggio che a noi parrebbe sovversivo, ma che colà è giudicato prova di un vero spirito conservatore. Da noi si direbbe, che questo è un eccitare i tumulti colà si crede che questo sia un conoscere i propri tempi....[117]».
E parliamo di tumulti e di sommosse, ch’è quello che maggiormente importa.
La storia dell’Inghilterra — proprio per ismentire anche su questo quei capi ameni i quali vogliono stabilire certe differenze di trattamento politico in ragione delle differenze di temperamento tra gli italiani e gl’inglesi — è piena di tumulti e di sommosse assai più gravi di quelli che abbiamo deplorato in Italia nella primavera del 1898.
Se ci rifacciamo alla storia del primo quarto di questo secolo, anche al di là della Manica riscontriamo un periodo agitatissimo di fame, di prepotenze, di tumulti, di repressioni, di reazione, che nulla o ben poco ha da invidiare al nostro presente.
È il periodo dell’ultratorismo contrassegnato dal sistema iniquo delle imposte, dalla niuna protezione sociale ai lavoratori, dalla prevalenza megalomaniaca e militaresca, dalla mancanza di libertà politica e di giustizia penale. Fu la vergogna dell’Inghilterra e scomparve più di settant’anni or sono.
Sorpasso sui tumulti del 1829 e accenno appena a quelli che si riferiscono alla prima riforma, per [258] fare comprendere a coloro che non conoscono gli inglesi quale sia la flemma e il rispetto delle persone e delle leggi di questi famosi anglo-sassoni.
Nel 1831, appena Lord Russell presentò il bill di riforma, vi furono luminarie e dimostrazioni di gioia. In Italia gli amici delle riforme si sarebbero contentati di manifestare la propria soddisfazione con degli evviva! In Inghilterra si sentì il bisogno di una vigorosa sassaiuola contro i nemici del bill; e la sassaiuola degenera in gravi tumulti dopo il rigetto da parte dei lords (18 ottobre 1831). Si fanno le elezioni generali sulla questione della riforma e riescono favorevoli al bill; e allora, in previsione della opposizione della Seconda Camera, i lords vengono minacciati e scoppiano dappertutto tumulti sanguinosi. Viene bastonato il duca di Newcastle; schiaffeggiato il marchese di Londonderry; gettato da cavallo il duca di Cumberland — un membro della famiglia reale!
Si riesce ad immaginare che cosa avverrebbe in Italia se casi simili si verificassero? Un milione almeno di cittadini sarebbe gettato in galera; della costituzione non rimarrebbe traccia; meno ancora del disegno di legge. Cedere in Italia alla pressione della piazza: vergogna! orrore! Nulla di tutto ciò in Inghilterra. Il bill ebbe il suo corso e i lords, ammoniti a scongiurare bufera più tremenda, non osarono più respingerlo. Non solo: il Re — oh scandalo! — favorevole al bill, annunziò che avrebbe licenziato le persone di casa reale, che non si adoperassero pel suo trionfo.
Ancora un dato interessante. Scoppia un altro tumulto in Londra il 13 maggio 1833; un policeman [259] viene ucciso, altri feriti. Ebbene, i giurati mandarono assolto l’uccisore per omicidio giustificato.... In Italia, per Decreto reale, sarebbe stata soppressa la giuria. Fermiamoci ai tumulti più caratteristici: a quelli che si riferiscono al movimento cartista durato dieci anni e più — dal 1837 al 1848. Ci dobbiamo fermare a questi tumulti perchè hanno qualche analogia coi nostri e per questo aneddoto di dolorosa attualità.
Paolo Valera — oggi in carcere e ch’era vissuto parecchi anni in Inghilterra — impressionato degli avvenimenti italiani del 1893-94, volle fare conoscere il movimento cartista in una serie di articoli della Critica sociale raccolti in opuscolo con una prefazione di Filippo Turati, nella quale si leggono queste parole:
«Collo studio sul movimento chartista, noi squaderniamo al lettore un brano di storia inglese vecchio di mezzo secolo che varcando la Manica e il Gottardo, si ringiovanisce, diventa quasi dell’attualità. Più ancora: diventa forse ad un dipresso, la storia nostra di domani»[118].
Filippo Turati fu profeta. La storia di 60 anni fa è divenuta la storia di oggi.... peggiorata. Niuno lo sa meglio di lui, che soffre nella tetra cella di Pallanza!
Peggiorata? Vediamo.
In Inghilterra ci furono condanne severissime durante il movimento chartista; Iohn Frost ed alcuni [260] altri furono condannati a morte: la pena fu commutata. Ma queste condanne furono conforme alla legge; non stati di assedio; non Tribunali militari; non processi senza difesa e senza garanzia. Si vide anzi questo caso strano: scambi di cortesia, di parole di stima, di ringraziamenti tra.... giudici e condannati. Cose dell’altro mondo!
Non solo questo; ma le condanne, dal punto di vista della legalità, furono meritate e corrispondevano esattamente ai reati commessi. È facile dimostrarlo perchè i fatti abbondano.
In Inghilterra i tumulti non avvennero improvvisi come in Italia; ma furono voluti e preparati. Quando la carta chiesta dai riformatori venne seppellita legalmente, cominciarono a prevalere i così detti cartisti della forza fisica, la cui denominazione dice chiaramente, che la violenza era l’ingrediente principale del loro programma.
Non si trattava di chiacchiere. In quasi tutte le officine d’Inghilterra si lavorava giorno e notte a preparare picche a tre scellini e mezzo per una per la rivoluzione di domani; e i capi volevano che tutti preparassero armi e alle armi si addestrassero. Il reverendo Stephens invitò le moltitudini ad andare ai meetings con un pugnale nella destra e una face nella sinistra; al meetings in Ashton-Under Lyne, dopo una furiosa requisitoria contro il Ministero Whig, domandò alla folla: siete armati? Parecchi gli risposero con delle scariche in aria. — Va bene, disse il ministro di Dio. Buona notte!
Questi comizi notturni e con gli intervenuti armati; dovevano allarmare naturalmente il governo, [261] che li proibì. In questa proibizione di meetings con esercizi militari illuminati dalle torce si vide un insulto al popolo oppresso e una violazione della costituzione; perciò anche alcuni, che deplorarono le violenze dei cartisti della forza fisica, come Feargus O’ Connor, si resero solidali con Stephens.
I motti sulle insegne e i discorsi che si tenevano in questi comizi erano la prova lampante delle intenzioni dei promotori ed organizzatori: erano schiettamente rivoluzionari. Stephens si proclamava rivoluzionario fino al coltello ed alla morte ed insegnava che «riprendere le ricchezze male acquistate» «non è altro che atto di giustizia». Parlando dei padroni delle fabbriche, incitò la folla a coprire di pece e di penne Iones (un padrone) ed a dargli fuoco. Insegnò ai presenti come prendersi del pane: «colla picca sul petto dite ai prestinai che alla prossima volta vi prenderete la pagnotta colla sua punta».... Il farmacista Pott — un altro fanatico cartista — appendeva alle sue finestre palle di piombo dorate con questa scritta: pillole pei tories!
Dalla preparazione si passò all’azione; e bande armate, con un capo — Iohn Frost — con un programma preciso, il 4 Novembre 1839 dettero l’assalto a Newport. Vi fu conflitto con undici morti e molti feriti; e fu questo l’avvenimento che dette luogo nel 1840 alle severe condanne emanate dalla giuria, di cui si fece precedente menzione.
In Italia non si può trovare un solo fatto, che si possa paragonare a questo assalto di Newport; eppure, data la diversità dei Codici, le condanne pei tumulti di Sesto Fiorentino furono infinitamente più severe. Volendo essere generosissimi coi nostri [262] giudici militari e col governo che li mise a funzionare, i reati maggiori avrebbero qualche lontana, stentata, artificiosa analogia con quelli attribuiti a Stephens. Ebbene, mentre i Rondani, i Turati, i De-Andreis, i Chiesi, i Romussi, per articoli o discorsi scritti e pronunziati alcuni anni prima e che erano infinitamente meno eccitanti di quelli del prete inglese, ebbero dai sedici ai sei anni di reclusione, lo Stephens fu processato a piede libero e non ebbe che diciotto mesi di carcere! In Italia, in mancanza della pena di morte, lo avrebbero condannato al massimo della reclusione o della galera e i giudici sarebbero rimasti dolenti di non potergli dare gli anni di vita di Matusalem per appioppargliene novecento...
I tumulti del periodo cartista non durarono un mese o un anno, ma con maggiore o minore intensità si riprodussero per dieci anni: la fame li rese acuti nel 1842, quando si assaltarono e saccheggiarono anche le Workhouses. Dettero luogo al cosidetto processo mostruoso dei 59, durante il quale ci fu il discorso lunghissimo, commovente e convincente di O’ Connor, che indusse i giudici a dichiarazioni pubbliche di stima e di simpatia verso gli accusati. Si ebbe la sentenza; ma ne venne sospesa l’esecuzione per un errore di forma: l’Inghilterra non ha una Cassazione disciplinata! Il processo non venne ripreso perchè il governo non se ne occupò più. «I Ministri, dice Valera, avevano fiutata l’opinione del paese contraria a questi processi contro le manifestazioni del pensiero».
La diversità dei criteri di governo, del rispetto per la libertà, per le leggi e per la costituzione tra [263] l’Inghilterra e l’Italia, in questi dolorosi casi risulta all’evidenza dalla differenza tra i generali preposti alla repressione. Conosciamo i nostri Bava Beccaris, gloriosi vincitori all’interno; il Valera, e fece bene, ci presentò il generale Napier, che fu mandato a schiacciare il cartismo in undici contee settentrionali. Il generale Napier fece il suo dovere di soldato; ma quale uomo fosse, si può scorgere dal modo come pensava. Dei tumulti riteneva responsabili i governanti e malediceva coloro ch’erano causa delle guerre civili. Le insurrezioni, egli diceva, non sono provocate dai capi del cartismo, ma dal debito nazionale, dalle leggi sui cereali, dalle nuove leggi sulla carità pubblica. Il cartismo è il prodotto della ingiustizia dei Tories e della imbecillità dei whigs. Sferzava i magistrati pusillanimi che divenivano leoni dietro le baionette dei soldati. Deplorava che il Parlamento avesse votato 12,000 sterline per le scuderie reali, mentre altrove si moriva di fame. Sconsigliava l’arresto di O’ Connor e voleva che si dasse la Carta. E concludeva: È crudele ed inutile sopprimere la vita per delle idee. Non è giustizia, è barbarie, è vendetta di partito dominante. Magistrati, lords, duchi sono tutti assetati di sangue.
Ecco in bocca ad un generale la frase, che doveva procurare sei anni di reclusione a Gustavo Chiesi...
Tutto questo sfata l’umoristica ed accreditata leggenda sul carattere inglese e prova a luce meridiana che gli inglesi abusano più dei latini della libertà di parola; che gl’inglesi tumultuano tanto frequentemente quanto gl’italiani quando soffrono ed hanno fame.
[264]
Se le cose procedono diversamente, in ultimo, in Inghilterra e in Italia, egli è che le moltitudini inglesi sanno farsi rispettare e difendono la libertà. Pare che essi abbiano letti i commentarî di Blackstone e vi abbiano imparato che il popolo ha il diritto di manifestare la sua volontà primo colla petizione, secondo colla rimostranza, terzo colle armi. Così il Valera.
Se le moltitudini sono impregnate dallo spirito di Blackstone, i governanti, in generale, da oltre cinquant’anni in qua, sono del pari convinti che il loro dovere è quello di rispettare i diritti del popolo. E rispettandoli, sanno di fare un buon affare nello interesse sociale e delle classi che rappresentano. Se ne dimenticano qualche volta ed avvengono allora perturbamenti gravissimi. Tale quello della domenica sanguinosa (13 Novembre 1887), quando la polizia volle impedire, la riunione di un meeting in Trafalgar-Square e il popolo scatenossi come una furia su Londra, provocando conflitti sanguinosi, devastazioni di ogni genere. Così avviene sempre, ogni volta che la polizia interviene per impedire una manifestazione; il suo intervento in Italia come in Inghilterra genera la sommossa. La sua assenza è la migliore garanzia dell’ordine, sia in Italia come in Inghilterra. Roma vide trentamila cittadini protestare pacificamente per l’assassinio Frezzi con tanto ordine e con tanta compostezza, quanta se ne può riscontrare a Londra durante le più ordinate e pacifiche manifestazioni. Mancava la polizia[119]. [265] E ci fu in Parlamento chi trovò da rimproverare all’on. Di Rudinì questo atto politico e questo rispetto alla legge e ai diritti dei cittadini!
I nostri monarchici — distinzione, onestamente, non si potrebbe fare fra la destra e la sinistra — messi colle spalle al muro dalla eloquenza dei fatti, non si danno per vinti e dopo aver blaterato per tanto tempo sulla solidità delle nostre istituzioni e sulla popolarità della nostra monarchia, confessano umiliati che ciò che riesce innocuo in Inghilterra, dove la monarchia ha secolari radici, non si può consentire in Italia, dove le istituzioni vigono appena da mezzo secolo.
L’obbiezione, mentre li umilia, perchè sfronda molte aureole, si mostrerà che è infondata da un altro punto di vista. Ma prima di venire a questa dimostrazione, ce n’è un’altra da fare, ricorrendo alla storia e alla vita politica del Belgio.
La dinastia che regna nel Belgio non vanta la durata della Sabauda: è nata ieri — nel 1830; le istituzioni presenti non godono del benefizio della tradizione come le inglesi. Le condizioni, adunque, vi sono molto rassomiglianti a quelle dell’Italia. Ed ecco che cosa ci apprende la storia e la vita politica del Belgio.
[266]
Non discutiamo sul diritto di associazione e di riunione; una sola parola lo qualifica: è illimitato per tutto e per tutti — pei socialisti e pei clericali, pei monarchici e pei repubblicani. Bandiere rosse, fiori e nastri rossi, marsigliese, carmagnola, ecc., sono ingredienti immancabili d’ogni comizio republicano o socialista e nel quale la polizia brilla per la sua assenza: perciò vi mancano del pari i disordini. E si grida Viva la repubblica! nei comizi, come lo si grida alla Camera dei Deputati, dopo che vi entrarono i socialisti.
Altrettanto illimitata è la libertà di stampa. Giornali e riviste pubblicano continuamente articoli contro il Re, contro la famiglia reale, contro l’esercito, contro tutte le istituzioni e contro tutti gli individui dichiarati in Italia sacri, inviolabili, intangibili e che sarebbero tra noi severamente puniti come sovversivi. Là passano inosservati in tempi ordinari; ed anche all’indomani dei gravissimi tumulti del 1886, il De Fuisseaux — un sovversivo per eccellenza — potè pubblicare un giornale, il cui semplice titolo tra noi costituirebbe un reato: La repubblique belge.
La misura vera di questa illimitata libertà di stampa viene data da ciò che si scrive sulla vita pubblica e privata del Re e della famiglia reale.
Non esiste l’ipocrito rispetto alla formola menzognera: il re regna e non governa, e al Re si fanno rimontare le responsabilità tutte che tra noi si preferisce addossare ai ministri responsabili. Ci vorrebbe un volume, per riassumere soltanto ciò che si è scritto nella forma più violenta contro Leopoldo II a proposito del Congo; a lui si fa colpa [267] anche di qualche inezia: De Fuisseaux lo attaccò vivacemente nel celebre Catechismo del popolo perchè venne annullata la decisione del Comune di Lacken, che lo sottoponeva all’imposta come qualunque altro cittadino[120]. Questi attacchi sono divenuti violenti nell’està del 1898 per il progettato porto militare di Bruges, combattuto aspramente alla Camera dei Deputati da Anseele come una impresa di Re Leopoldo. Su questo porto militare un giornale di Bruxelles pubblica un articolo dal titolo caratteristico: Un roi encombrant nel quale riassumeva i pareri assai violenti contro il Re di altri giornali — tra i quali La Patrie e Le bien public, monarchici e clericali.
Meno male se il Re lo si attaccasse soltanto come capo dello Stato; ma lo si tratta peggio nella sua vita privata. Così nel Peuple (15 Settembre 98) leggevasi un articolo sul Pericolo congolese nel quale lo si consigliava di andarsene nel Congo e costatava con rammarico che egli preferiva di andare a Parigi per trovarvi Emilia d’Alençon e Cleo de Merode. Il Bertrand aveva già accennato alle relazioni scandalose di Leopoldo II con Madame Ieffries. Al Re non si rinfacciarono soltanto le debolezze per le cocottes parigine, ma gli si rimproverò di essere associato negli utili di una bisca ad Anderme e che stava fondando ad Ostenda un gran Casino da giuoco — uso Montecarlo — insieme al suo amico e protetto Colonnello North.
Ebbene: Leopoldo II non richiese la punizione degli autori di questi scritti pubblicati nel Belgio e [268] vendicossi domandandone il sequestro quando vennero riprodotti in Germania dal Proletario e dall’Eco di Amburge[121]. Chi vuol sapere come vengono trattati i suoi congiunti, legga l’opuscolo di Bertrand: Leopoldo II e la sua famiglia. Vi è detto, ad esempio, che il Conte di Fiandra è un vero tipo di degenerato, che gode di un appannaggio di L. 200,000 per la sola ragione ch’è fratello del re; e ancora ciò non è provato, perchè nel Belgio la ricerca della paternità è interdetta.
Non mi permetto di riprodurre ciò che si scrive nei manifesti e nei giornali del movimento antimilitarista, perchè, trattandosi di una istituzione che vive e funziona anche tra noi, darebbe occasione al Fisco d’infierire; potrà aversene un’idea leggendo tutta la collezione della Caserne e del Peuple di Bruxelles.
L’eccitamento all’odio di classe e il discredito delle istituzioni vi sono versati a piene mani. Preferisco arrivare ai tumulti, ai processi ed alle condanne, che hanno analogia con quelli ultimi d’Italia.
Non rievocherò la lotta per il suffragio universale, strappato al governo ed al Parlamento clericale per mezzo di un atto veramente rivoluzionario: lo sciopero generale. Gli animi erano eccitati, la [269] situazione molto tesa: a Bruxelles e nelle altre città del Belgio migliaia e migliaia di operai in isciopero domandavano minacciosamente il diritto al voto e gridavasi a perdifiato: Viva la repubblica! Non stati di assedio, non arresti, non processo. Fu arrestato uno dei capi ed organizzatori dello sciopero, Emilio Vandervalde; ma per una sola notte!
Mancarono i tumulti, perchè mancò la provocazione e mancò l’intervento della polizia. Ci furono altra volta i tumulti e furono tremendi e dettero occasione a condanne severe: furono quelle dell’Année terrible del Belgio, l’anno 1886.
In quest’année terrible, ripeto, ci furono condanne severe: a vita, a 15 anni di lavori forzati, ecc., per i fatti dei dintorni di Charleroi. Ma tutto per le vie ordinarie, per mezzo dei giurati, senza stato di assedio e senza tribunali militari, non ostante che nel momento della repressione tutti i poteri fossero stati accentrati nelle mani del generale Vandersmissen.
Non ostante queste condanne severe, che suscitarono la generale indignazione, nessuno oserebbe paragonarle a quelle italiane dell’anno 1898, di fronte alle quali risulterebbero assai più miti; e soprattutto giuste.
I tumulti furono cagionati dallo sciopero tra i minatori, cominciato il 25 Marzo a Fleurus.
Si riproducono al vero le scene di Germinal e di Happe-Chaire e divengono persone vive i tipi dei capolavori di Zola e di Lemonnier. Le bande degli operai gridando: Viva la repubblica! cantando la marsigliese, seguendo le bandiere rosse, percorrono eccitatissime il paese; pregano, minacciano, impongono [270] lo sciopero e dalle miniere di carbone lo comunicano alle vetriere.
Da principio il governo non interviene; ma il suo intervento diviene una vera necessità di ordine sociale. Sono gli scioperanti armati di revolver, i primi a far fuoco a Gilly sulla guardia civica il 27 Marzo. A Roux, poco dopo, la truppa fa fuoco, ma per difendere uno stabilimento, che gli scioperanti si ostinavano a voler prendere per distrurlo.
Di che cosa fossero capaci i tumultuanti, si vide in diversi punti. Vi furono scene dì orrore vero e se ci si attenesse alle descrizioni che ne dettero i monarchici e i clericali, si potrebbe credere alla calunnia suggerita dalla passione di parte; invece sono gli scrittori socialisti che confessano i saccheggi, i ricatti, le distruzioni, gl’incendi vandalici degli scioperanti di Marzo[122]. Ciò che fecero da Baudoux, un industriale odiato per i perfezionamenti introdotti nell’industria vetraria, fu incredibile. Una banda ubbriacata di saccheggio e di distruzione, dicono Vandervelde e Destrèe, incendiò tutto lo stabilimento, e saccheggiò l’abitazione del Baudoux, mentre una folla immensa assisteva indifferente, senza prestare soccorso ed aiuto di sorta. Al seguito degli scioperanti, aggiungono gli stessi scrittori socialisti, sbucarono dalle loro tane oscure tutte le bestie immonde, i vagabondi, i pregiudicati, i malfattori, che si fanno innanzi in ogni movimento sociale (pag. 69 e 70).
[271]
Scene analoghe non si videro in Italia; ma ciò che rende veramente caratteristica la differenza fra i tumulti del Belgio e quelli italiani fu sopratutto la causa.
Si sa che la fame fu la grande sobillatrice fra noi. Nel Belgio i minatori soffrivano alquanto; ma non in modo eccezionale da spiegare i barbarici eccessi menzionati. Destrèe e Vandervelde confessano: questo sciopero sembrava che non avesse alcuna ragione particolare; era diretto contro gli speculatori, contro il Governo, contro la Società, contro chiunque... Era una solenne protesta sociale! C’era ignoranza profonda nel popolo sollevato, che non sapeva ciò che voleva.... C’era nella sommossa un desiderio brutale, feroce, incosciente di godimento e di ricchezza.
Da particolare a particolare, questo si chiama furto. Ma da classe a classe, da nazione a nazione, ciò cambia carattere e costituisce il preludio delle grandi rivoluzioni sociali (pag. 65 e 66).
E meno male se gli scioperanti fossero stati i soli minatori; ma i vetrai, continuano i due scrittori socialisti, non erano miserabili e non avevano alcuna seria ragione per porsi in isciopero. Forse si sono esagerate le loro buone condizioni; ma ciò non pertanto esse erano soddisfacenti: la maggior parte avevano una casa, dei risparmi, godevano di un certo comfort, erano una specie di aristocrazia nelle classi operaie e avrebbero dovuto rimanere estranei allo sciopero (pag. 67).
A Milano, a Napoli, a Firenze, nessuno dei condannati si trovò nelle condizioni dei saccheggiatori e degli incendiari del Belgio; ma le condanne non furono inferiori. Nel Belgio sembrarono enormi le [272] condanne di Charleroi, da sei mesi di prigione al disotto, per oggetti rubati negli scioperi e ci fu uno scoppio d’indignazione perchè un Gillet fu condannato ad otto giorni di carcere perchè trovato possessore di un pugnale e perchè minacciò un maggiore dell’esercito. In Italia gli otto giorni sarebbero divenuti otto anni di reclusione; e nessuno se ne sarebbe sorpreso!
Ma la iniquità delle condanne italiane diventa spaventevole quando si paragonano a quelle inflitte nel Belgio agli elementi intellettuali, ritenuti inspiratori e promotori diretti o indiretti dei tumulti. Alfredo De-Fuisseaux, che col suo Catechismo del Popolo, vendutosi a molte decine di migliaia di copie, aveva certo eccitato moltissimo gli animi, venne condannato a sei mesi di prigione dalla Corte di Assise di Bruxelles. Il 4 Giugno, innanzi al giurì di Gand, comparve E. Anseele sotto l’accusa di avere attaccato la forza delle leggi e di avere oltraggiato il Re per un articolo pubblicato nel Vooruit nel quale si scongiurarono le madri di scrivere ai loro figli dell’esercito perchè non tirassero sugli operai in isciopero e per un discorso pronunziato in un comizio nel quale, volto agli operai, consigliando la calma, aveva detto: se voi vi esaltate, il governo non domanderebbe di meglio che massacrare; e in questo giorno vi sarebbe festa al palazzo dell’arcivescovo di Malines ed al castello di Leopoldo II, assassino I.... Anseele confessò di avere pronunziato queste parole a fine di bene e nel momento dell’eccitamento; venne assolto e condannato a sei mesi di prigione per la prima accusa!
[273]
Sei mesi di prigione nel Belgio a chi afferma che il capo dello Stato avrebbe fatto festa per il massacro del popolo, a chi chiama assassino il Re! li hai ben meritati i tuoi dodici anni di reclusione, tu, Filippo Turati, che non pensasti mai d’insultare atrocemente il sovrano d’Italia e che profferisti parole di pace, tali riconosciute dai tuoi avversari!
Non basta. Si assicura già che il governo prenderà l’iniziativa di una legge che dichiarerà nulli i voti dati ai condannati politici.
E nel Belgio? Anseele, proclamato candidato in Bruxelles nell’ottobre 1886, viene messo in libertà, affinchè possa sostenere la campagna elettorale..... Rientra in prigione, perchè non eletto.
Le origini dello sciopero e dei successivi tumulti e gli episodi che li accompagnarono, i processi — tutto contribuisce a stabilire la maggiore gravità dei fatti del Belgio. Eppure non venne proclamato lo stato d’assedio, non sottratti gli accusati ai giudici legittimi, non proposta alcuna misura restrittiva delle libertà di stampa, di associazione, di riunione, non pensata alcuna diminuzione del diritto elettorale.
Appena un mese dopo i tumulti, il 25 e il 26 Aprile, il partito socialista belga potè riunirsi liberamente a congresso a Gand ed una colossale manifestazione in favore dei condannati potè farsi in Agosto a Bruxelles, dove già si era esasperati perchè il borgomastro Buls — senza ingerenza del governo — l’aveva proibita in Giugno; e solenni manifestazioni, punite in Italia, come apologia di reati, si svolsero pacificamente in tutte le città del regno.
Questo avviene nel Belgio, dove la dinastia dei Coburgo regna da sessant’anni appena ed è straniera [274] e non crede di avere speciali benemerenze per la liberazione e per l’unificazione del paese...
In Italia... in Italia, — ricordiamolo, per attenuare l’amarezza che suscita la reazione e l’abbiezione presente, in altri tempi non si procedeva come si procede al giorno d’oggi. Era maggiore il rispetto delle leggi, lo Statuto pareva cosa viva, vi si godeva di un minimum di libertà indispensabile in uno stato civile contemporaneo. Le radici delle istituzioni non erano e non potevano essere più profonde che oggi non siano e le scosse erano forti; ma la reazione, dopo Aspromonte, dopo il massacro di Torino — allora il Re licenziò il ministro che l’aveva consumato — dopo Mentana, dopo i tentativi insurrezionali e le cospirazioni del periodo 1869-71, non raggiunse mai l’intensità e la sfacciataggine di quella odierna.
Non rievocheremo i ricordi dei tempi delle lune di miele del popolo collo Statuto, quando Didaco Pellegrini, eletto mentre era in prigione per reato politico — 2 Dicembre 1848 — venne convalidato e liberato; ma è bene ricordare questo episodio, che si riferisce al periodo più burrascoso della nostra storia. Si era nel 1867 ed a Firenze, appena conosciuto l’arresto di Garibaldi a Sinalunga, una dimostrazione imponente protesta; e protesta con intendimenti, che non ebbero mai i tumultuanti del 1898 nè a Milano, nè altrove; infatti si disarma il picchetto di Guardia nazionale a Palazzo vecchio e si saccheggiano due botteghe di armaiuoli; un brigadiere di P. S. viene ucciso e diciotto agenti feriti. Nulla seguì che possa paragonarsi alla reazione odierna.
[275]
Ma il guasto odierno è immenso e nella speranza di suscitare un salutare risveglio, è necessario che si tracanni sino all’ultima stilla il fiele dei confronti storici.
Faremo l’ultimo, che riuscirà amarissimo ai bigotti della monarchia sabauda e che farà rinnovare l’accusa sciocca di leso patriottismo contro chi lo pone: quello col governo borbonico — col governo negazione di Dio.
Nel mezzogiorno, il popolo ha posto già il confronto; e quando certi movimenti della pubblica opinione esistono, il dissimularseli non sarebbe che una ipocrisia, una menzogna pericolosa. Il popolo ha posto tanto il paragone, che deve riuscire la più degradante condanna della presente reazione, che il poeta dialettale notissimo, Ferdinando Russo, la sua canzone per Piedigrotta — per la festa più popolare di Napoli, la festa nella quale si espande l’anima del popolo, la fa seguire dal ritornello: Franceschiello, Franceschiè....
C’è chi s’indigna ed approva il sequestro di una canzonetta, che per bocca di un tipo di plebeo sordidamente ignorante si aggira su questo ignobile tema: Si stava meglio sotto il Borbone[123]. Questa indignazione è del tutto inopportuna o va riserbata tutta, intera, contro i governanti, che hanno fatto strazio dell’Italia ed hanno reso possibile il paragone[124].
[276]
Ma è proprio possibile questo confronto?
Chi non tiene conto delle mutate condizioni psicologiche, dei progressi politici e intellettuali, dapertutto compiutisi, nega la possibilità di questi confronti, soprattutto perchè non trova oggi in Italia notizia di fucilazioni, che furono tanto frequenti nel regno delle due Sicilie. Costoro non hanno senso storico e dimenticano che Ferdinando II, se oggi governasse ancora a Napoli, non sarebbe quello di sessanta anni fa, anche senza essere stato costretto a trasformarsi da alcuna rivoluzione. I Borboni di Francia, rimessi sul trono dalla Santa Alleanza, non si sognarono mai di potere cancellare la storia — questa stolta idea non albergò che nella mente del [277] Re di Sardegna — e non ostante gli orrori del terrore bianco, nei primi momenti della restaurazione, non credettero mai più di potere riprendere quei diritti assoluti che con Luigi XIV confusero lo Stato colla persona del Re. Dopo l’assassinio del Duca di Berry, i reazionari rovesciarono il Decazes chiamandolo complice di Louvel: il principe, dicevano, è stato pugnalato da una idea liberale. Ma fu cosa transitoria; e durò meno di quella stessa reazione che in termini identici accusò Zanardelli e Cairoli di avere armato il pugnale di Passanante. La ragione dei tempi s’impose, sotto la restaurazione, in guisa che i più convinti monarchici, che altra volta non si scandalizzarono delle Saint Barthelemy e delle Dragonnades, per bocca di Demarcay e di Casimir [278] Perier protestarono fieramente per avere visto i dragoni caricare la folla inoffensiva; questa ragione dei tempi indusse anche i legittimisti a protestare contro la soppressione di un giornale e l’arresto del suo direttore Robert, rese gigante Manuel in Parlamento sotto la restaurazione e mentre assicura la popolarità al mordace Paul Louis Courier, induce i De Remusat, i Thiers a protestare in difesa della libertà della stampa contro le ordinanze di Luglio.
Questa stessa ragione dei tempi, che comincia ad imporsi alla Russia e s’imporrà alla Turchia, non ostante la protezione dell’Imperatore di Germania, avrebbe trasformato Ferdinando II, che si sapeva Re per diritto divino e che nulla credeva dovesse al popolo. Che cosa avrebbe fatto Re Bombase il popolo, colle sue battaglie e coi suoi sacrifizî, lo avesse creato Re d’Italia?
Un parallelo tra le condizioni odierne e quelle del regime borbonico non si può porre in Sicilia, nè prima del 1848. Non in Sicilia, per lo stesso motivo per cui delle istituzioni e della educazione politica inglese non se ne può giudicare vedendole alla prova in Irlanda. Non prima del 1848, perchè il reame di Napoli era vissuto al difuori delle correnti innovatrici europee e della ferocia politica era meno responsabile di quella identica che il governo del Regno di Sardegna spiegò sino a quell’epoca verso la Giovine Italia o verso i liberali del 1821.
Non possono sorprendere anche dopo il 1848 le fucilazioni ch’erano nei codici non solo, ma nella coscienza pubblica. Sarebbero uno spaventevole anacronismo oggi in Italia pei reati politici, quando la pena di morte è stata abolita per gli assassini comuni efferati e pei parricidi.
[279]
Comunque, tale quale la consentivano i tempi e le istituzioni politiche, l’azione del governo borbonico dopo il 1848 nel continente napoletano non perde nel paragone con quello del governo italiano nel 1898. Questo insegnano i fatti, che desumo dalle sorgenti più ortodosse per patriottismo o per italianità[125].
Ricordiamo e confrontiamo. L’avvenimento più clamoroso contro i Borboni fu il sangue versato in Napoli il 15 Maggio 1848. Si disse che Ferdinando II per fare sorgere le barricate ed avere pretesto alla repressione, si sia servito di agenti provocatori. L’accusa trova oggi smentita nella Nuova Antologia per bocca del Masi, e la si deve considerare come una calunniosa fandonia.
Più interessanti sono gli episodi che si svolsero nella triste giornata e che la seguirono.
Il 15 Maggio, in Napoli, si contavano 79 barricate vere — e non uso Milano — con difensori armati, che sparavano ed ammazzavano — difensori che nessuno potè vedere a Milano: la forza non potè acchiapparne uno solo!
Verso le 11 e mezza i primi colpi erano tirati; alla caduta di un granatiere e di un capitano della guardia, il fuoco si accende ben nutrito. Michelangelo Ruberti fa tirare da Sant’Elmo sulla città; ma [280] a polvere — i cannoni sparavano a mitraglia nelle strade di Milano. Un maggiore, sei ufficiali e ventuno soldati vennero uccisi; due colonnelli, undici ufficiali, centottantuno soldati feriti con arma da fuoco. Queste sono, del resto, le perdite dei soli Svizzeri; non vi sono comprese quelle della guardia reale e degli altri corpi militari. A Milano un solo soldato fu ucciso; e nessuno può assicurare che lo sia stato dai tumultuanti.
Dalle perdite delle truppe si dovrebbe argomentare che a Napoli gl’insorti — insorti veri — abbiano dovuto avere perdite enormi; e Nisco calcola che i morti siano stati 500, tra cui 19 donne; ma l’esagerazione è evidente. Più ragionevole pare quindi la cifra che altri dà di 132 morti e 600 feriti tra l’una e l’altra parte. Di poco quindi, in una vera battaglia, sarebbero stati superati i caduti di Milano.
D’Hervey Saint-Denis — un borbonico — afferma che durante la lotta nessun cittadino inoffensivo fu colpito se non a caso. A Milano quasi tutti gli uccisi erano cittadini inoffensivi: non ne fu trovato uno solo armato. Mac Farlane scriveva a lord Aberdeen che il Re avesse detto ad un generale che chiedeva istruzioni: risparmiate i miei sudditi, fate prigionieri, non uccidete! Mettiamo in quarantena questa pietà di Re Bomba, perchè affermata da uno straniero — uno scultore — stipendiato dal governo borbonico; mettiamola in quarantena, quantunque siano numerose le prove della sincerità della pietà di Ferdinando II, ma c’è un atto che fa onore al tatto politico di Ferdinando II e che da nessuno è messo in dubbio: 800 prigionieri furono lasciati liberi [281] all’indomani del 15 Maggio! Quest’atto non compensa la fucilazione dei 27 prigionieri presi coll’arma alla mano, fatta eseguire dal Conte d’Aquila?[126] Qui manca il termine di paragone per l’Italia... Allora come oggi venne proclamato lo stato di assedio; ma quanta differenza, a disdoro dell’Italia una, libera!
Ecco il decreto del Maresciallo Labrano — il Bava Beccaris del tempo — se si può insultare la memoria di un uomo con questo paragone.
L’art. 1 istituiva una Commissione inquirente.
L’art. 2 diceva: «La Commissione ha l’incarico d’inquisire su tutti i reati contro la sicurezza interna dello Stato e contro l’interesse pubblico che sono stati commessi dal 1º Maggio in poi e che si potranno commettere fin che dura lo stato d’assedio.
Art. 3. Dopo l’inquisizione, la Commissione rimetterà gli atti alle autorità ordinarie competenti a norma delle leggi di Procedura Penale.
Art. 4. La Commissione avrà facoltà di fare incarcerare le persone per misura preventiva e ritenerle in carcere per un periodo non maggiore di 15 giorni, dopo i quali dovrà rimandarli all’autorità competente per farli giudicare».
[282]
Dedichiamo questo decreto a coloro che commemorarono in Napoli il 15 Maggio. In questo decreto, la retroattività era stabilita con data certa e non si aveva, almeno, un processo per reati commessi quattordici anni prima... come in Italia.
Lo stato di assedio in Napoli non durò un mese: venne tolto il 14 Giugno 1848. Ma un mese di stato di assedio intensamente applicato in Napoli avrebbe potuto valere ai servizi della reazione quanto i quattro mesi di Milano. Adagio, non calunniamo... i borboni.
Si potrebbe pensare che durante lo stato di assedio siano stati arrestati e processati tutti i liberali — almeno i capi più noti — punita qualunque manifestazione sovversiva; — così almeno si è fatto in Italia. Nulla di tutto ciò. A Napoli avvennero cose addirittura sbalorditive.
A Napoli la Gazzetta Ufficiale pubblicava la lista di sottoscrizione in favore... dei liberati dal carcere politico. A Napoli il tenente De Sauget — morto generale del Regno d’Italia — e il tenente di artiglieria Bellelli rifiutarono le onorificenze date loro per la repessione dei moti rivoluzionarï... e non furono molestati[127]. A Napoli si trovò un Procuratore [283] del Re, De Horatiis, che rifiutossi di sottoscrivere l’ordine di arresto per Silvio Spaventa. Mancano i fatti analoghi nell’Italia nuova e libera.
A Napoli — caso ancora più sbalorditivo — furono imputate 321 persone immediatamente dopo il 15 Maggio; ma solo contro 59 arrestati e 11 contumaci continuò il processo. I capi, i veri promotori del movimento, liberali del resto, non vennero arrestati durante lo stato di assedio — pare impossibile a chi ricorda i recentissimi casi nostri. Ferdinando II, l’odiato e odioso Re Bomba, non voleva abusare della vittoria; non ne abusò sino a quando non ricominciarono le manifestazioni rivoluzionarie e le cospirazioni. Occhio alle date. Il primo arresto pel processo cosidetto dell’unità italiana, nella persona di Nicola Nisco, avveniva in Novembre del 1848; Silvio Spaventa venne arrestato il 13 Marzo, Settembrini il 23 Giugno, Poerio il 19 luglio, Scialoia il 26 Settembre 1849... Un anno e più mesi dopo le barricate di Maggio! Forse il processo non sarebbe continuato se altri gravi avvenimenti non avessero allarmato il Re; il 16 Settembre 1849 un gruppo di liberali volle turbare la benedizione data dal Papa dalla terrazza del Palazzo Reale, gettando delle vipere; e Faucitano veniva arrestato colle vesti abbruciate e le mani annerite per una bomba, che gli scoppiava in tasca.
E come condotti i processi sotto i borboni! Durò otto mesi il processo cosidetto dei 42; si svolse innanzi ai magistrati ordinari; i migliori avvocati difesero gl’imputati[128]. Gli storici liberali [284] deplorano che si sia prestata fede alle deposizioni dei birri del tempo e che si siano istruiti i processi in base a denunzie anonime.... Sappiamo ciò ch’è avvenuto in Italia![129].
Le condanne? Severe: tra le quali sette di morte, tutte commutate, nel solo processo dei 59.
[285]
C’è ancora una statistica più eloquente: quella delle condanne. Mariano D’Ayola, vittima dei borboni, assicura che dal 1815 al 1856, sotto il governo negazione di Dio, ci furono 2067 condanne politiche — in quarant’uno anni![130] In Italia, in pochi mesi, i soli Tribunali militari di Napoli, Firenze e Milano ne condannarono circa 2500!! E non si aggiungono le condanne dei Tribunali ordinari in tutto il resto d’Italia.
Un ultimo confronto: Il trattamento dei detenuti politici. Il governo borbonico si disonorò trattandoli come i detenuti comuni; questo trattamento suscitò l’indignazione di Gladstone. Ma che cosa fa di diverso il governo italiano? Fa qualche cosa di peggio: non concede ai socialisti e ai repubblicani — anche deputati — quella libertà di studio concessa da Ferdinando IIº alle sue vittime: Settembrini traduceva in carcere le opere di Luciano ed a Spaventa si permettevano libri che per quei tempi erano rivoluzionari[131].
[286]
Tivaroni, sdegnoso, protesta perchè si rasero barba e capelli ai detenuti politici e fossero stati condannati come rei comuni sotto il borbone; e dice che a quarant’anni di distanza, certe cose sembrano impossibili. Che diranno i posteri, per lo stesso trattamento fatto subire a Barbato, a De Andreis, a De Felice, a Turati, a Romussi, a Chiesi?
Non lo sappiamo. Sappiamo ciò che pensano i contemporanei — tra i popoli civili e liberi. E sappiamo che l’associazione dei giornalisti inglesi si è [287] rivolta al Re, invocando un trattamento umano; e che questo intervento degli stessi giornalisti inglesi, cui sono associati quelli del Belgio, fa discendere l’Italia a livello della Turchia; sappiamo che Ouida in Inghilterra, Mead negli Stati Uniti hanno rievocato il giudizio di Gladstone e lo proclamano a maggior ragione meritato dal governo italiano. Il Mead, anzi, vorrebbe che l’ambasciatore degli Stati Uniti protestasse ufficialmente in nome della lesa umanità. Sappiamo, dunque, che il libero regime italiano viene [288] giudicato alla pari del dispotico regime dei Borboni[132].
Tutto questo è grave e pericoloso sia per l’Italia che per le sue istituzioni. Credono alcuni, stoltamente, che a garanzia delle medesime stia l’esercito; ma anche i Borboni pensavano lo stesso: fu proprio Silvio Spaventa a constatare, che tutte le cure del governo negazione di Dio erano state rivolte all’esercito e che la reazione che li aveva separati dalla parte morale e intelligente della popolazione, li aveva gettati nelle braccia dei militari. Ma l’esercito non li salvò.
Il Tivaroni, chiudendo il suo studio sul regime borbonico, ricordati i processi, le condanne e i mali trattamenti fatti subire ai detenuti politici, osserva: «con tali mezzi la dinastia borbonica scavava con le sue mani la propria tomba».
Che la dinastia savoiarda possa finire in ugual modo nessuno crede; — honny soit qui mal y pense! — ma è innegabile che alcuni suoi consiglieri mettono dell’impegno per rovinarla. Dopo tutto, se la reazione durerà, sarà la prima volta nella storia, che essa avrà salvato una istituzione ed una dinastia.
Le lezioni della storia, però, non devono essere rammentate soltanto ai conservatori ed agli uomini dell’ordine. La storia insegna pure: «che il quarantotto italiano, compiuto poi nel sessanta, non [289] fu neppure politico, fu strettamente nazionale e meschinamente unitario e dinastico. L’Italia attende ancora il suo quarantotto politico, che le dia le condizioni essenziali della vita moderna e le permetta di studiare il passo sulla via già percorsa dalle nazioni sorelle».
Questo insegnamento dovrebbero ricordare tutti i democratici italiani; e non dovrebbero dimenticare un solo istante soprattutto i socialisti italiani, che la pacifica ed onesta voluzione economica da loro vagheggiata non sarà possibile senza la preliminare conquista della libertà politica. L’ammonimento viene a loro da Filippo Turati; ma se la voce eloquente del recluso di Pallanza non potesse essere ascoltata, dovrebbe essere inesorabilmente ascoltata quella che vien fuori dagli ultimi tumulti, che somministrarono il pretesto alla presente reazione.
DELLO STESSO AUTORE
La libertà e la quistione sociale. Milano 1879 | (Esaurito). |
La repubblica e le guerre civili. Firenze 1882 | (Esaurito). |
Le Istituzioni Municipali. Catania 1883 | L. 3,00 |
La delinquenza della Sicilia. Palermo 1885. (In preparazione la seconda edizione). | |
L’alcoolismo: sue conseguenze morali e sue cause. Catania 1887 | 3,00 |
Oscillations thermometriques et delicts contre les personnes. Lyon 1887 | 1,00 |
Corruzione politica. Catania 1888 (Esaurita la prima e seconda edizione). | |
La Sociologia Criminale. 2 grossi vol. Catania 1889 | 13,00 |
Ire e spropositi di Cesare Lombroso. Catania 1890 | 1,25 |
La politica coloniale. Seconda ediz. Palermo 1892 | 3,50 |
La difesa nazionale e le economie militari. Catania | 1,00 |
Banche e Parlamento. Milano 1893 | 2,00 |
In Sicilia. Roma 1894 | 1,00 |
Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause. Palermo | 2,00 |
Consule Crispi. Palermo 1895 | 1,25 |
PUBBLICAZIONI
DELLA SOCIETÀ EDITRICE LOMBARDA
Felice Cavallotti nella vita e nelle opere IX ediz. | L. 2,50 |
Björnson Il Re (traduzione di F. Fontana) | 2,— |
M. Mazzolani Via Trita — Versi — | 3,— |
Fr. Chiesa Preludio — Versi — (con 19 illustr.) | 5,— |
T. Peyrani Verità e ignoranza (studio critico sulle credenze religiose) | 2,— |
Dario Papa Viaggi (III edizione 500 pag.) | 3,— |
F. Fontana Poesie Vecchie e nuove (III edizione 500 pagine) | 2,50 |
F. Fontana Viaggi in Europa, in America, in Africa (III edizione 500 pagine) | 3,— |
F. Fontana La Polpetta del Re (illustrazioni di L. Conconi) | —,50 |
G. Venanzio Giovani (Goliardica) | 3,— |
L’ITALIA FEMMINILE
GIORNALE SETTIMANALE
Mode, Lavori femminili, Letteratura
Questioni del giorno, Attualità, Varietà
Abbonamento annuo L. 5.
Un numero separato Centesimi 10
Lodi. — Tip. E. Wilmant, 1898
1. (Gli avvenimenti di Sicilia. R. Sandron. Palermo 1894, pag. 505 a 808).
2. La riforma tributaria fu iniziata nel 1842. Fece un passo gigantesco, mercè l’efficacissima cooperazione di Gladstone, nel 1845-46. Fu, si può dire, condotta a termine dal solo Gladstone nel 1853 e nel 1860. Sulla riforma tributaria inglese sono da leggere vari eccellenti articoli pubblicati dal Prof. Ricca Salerno nella Nuova Antologia ed uno del Conigliani (Gladstone e la finanza inglese) nella Riforma Sociale del 15 Luglio 1898. Sul movimento cartista, coloro che vogliono averne piena conoscenza, potranno leggere le opere di Henriet Martineau, di Molesworth, di Justin M’Carthy. Un’idea chiara l’avranno dallo scritto vivace, quasi drammatico, di Paolo Valera: L’insurrezione Chartista in Inghilterra, con Proemio di Filippo Turati. (Milano 1895, presso la Critica Sociale). Paolo Valera, nella cella del reclusorio di Finalborgo, potrà meditare sulla differenza tra l’Italia e l’Inghilterra, ch’egli aveva studiata ed esposta senza sospettare, che doveva poco tempo dopo averne la dolorosa prova personale.
3. Sul Picketing si riscontrino gli accenni del mio opuscolo: La grande battaglia del lavoro. Per più ampie notizie sulla importanza delle leggi del 1870 e 1875 e sulla riconosciuta consuetudine del Picketing che ne risultò, si leggano: Howell: Le passé et l’avenir des Trades Unions; Coniugi Webb: Histoire du Trade Unionisme; K. Lavolléc: Les classes ouvrières d’Europe, Vol. III, Angleterre.
4. Mi sia permesso ricordare che queste idee svolsi sommariamente nel 1879 in un opuscolo: La questione sociale e la libertà. (Milano; Tipografia Gattinoni) Lo ricordo non per vanità, ma per convincere il lettore che non per comodità polemica suggeritami dagli altri avvenimenti ricorro a certi confronti; sibbene perchè gl’insegnamenti che ne scaturiscono formano parte integrale del mio patrimonio intellettuale senza alcuna subordinazione od opportunismo politico di sorta.
5. La diversità di queste manifestazioni ho illustrato in: Mouvements sociaux en Italie. Parigi 1898. Presso la Rivista Popolare. L. 1.
6. Ho raccolto molte date e molte cifre da vari giornali d’Italia e con particolarità dal Secolo di Milano e dalla Tribuna di Roma che ebbero il più largo servizio telegrafico ed epistolare dalle provincie.
7. Il Corriere della Sera annunziò che ciò che stampava naturalmente era sottoposto alla revisione del Regio Commissario Straordinario. I Tribunali, Giornale di cronaca e di critica giudiziaria, non poche volte negli appositi supplementi ha degli spazi bianchi, che rappresentavano i brani soppressi del resoconto stenografico. C’è una soppressione nel dodicesimo processo pei fatti di Sesto S. Giovanni; ma sono quattro nel tredicesimo per le barricate di Porta Venezia. In questo processo venne soppresso anche un brano della requisitoria dell’avvocato fiscale.... Per la narrazione mi sono servito dei giornali locali — con particolarità del Corriere della Sera — e di memorie fattemi pervenire da testimoni oculari.
8. Un caso identico a quello del 6 Maggio si ripetè a Milano nella stessa via Napo Torriani quattro mesi dopo; ma non si venne alle fucilate perchè la polizia fu più prudente.
9. La figura del Questore Minozzi si avrà intera da questa risposta data da lui nell’Udienza del 28 Luglio innanzi al Tribunale militare. Presidente: È vero che disse al Turati «quando c’è lei non succedono disordini»?
Questore Minozzi: Sì, perchè egli sa contenersi molto bene nei discorsi, è padrone delle parole, ha molta influenza sulle masse operaie e quando vuole non succede niente; ma se non vuole sa incitare, per il che, se avvengono tumulti, è perchè egli li ha voluti.
Superflui i commenti alla insinuazione loiolesca.
10. Ho l’elenco nominativo di questi casi. Non lo pubblico per motivi facili ad immaginare.
11. Il sig. Stillman — l’uomo nefasto che per venti anni ha falsato l’opinione pubblica d’Inghilterra sulle cose d’Italia, per mezzo delle sue corrispondenze al Times — ritiratosi in America ha avuto il coraggio di scrivere al Transcript di Boston che i moti d’Italia non furono determinati dalla fame, ma da una cospirazione repubblicana, i cui capi erano al servizio del Papa e della Francia.... La buona e gentile vedova di Dario Papa, Fidelia Dinsmore, ha smascherato l’indegno calunniatore.
12. La Perseveranza ed altri giornali reazionari sperano di poter giustificare le eccessive misure repressive e la reazione bestiale colle relazioni, che ha promesso di pubblicare il governo. È bene si sappia che tali documenti, come tutti i documenti ufficiali, saranno compilati ad usum delphini: conterranno tutto, meno la verità e lo ha confessato coll’abituale franchezza il generale Pelloux. Egli in Senato, rispondendo al senatore Cannizzaro, dichiarò che pubblicherà una relazione sugli ultimi fatti, ma soggiunse che non si può tutto dire al pubblico perchè certe cose è bene che il pubblico non le sappia. Il soldato così prometteva lealmente... di non dire la verità... Per la Storia è bene aggiungere che in questa condotta venne incoraggiato dall’onor. Saracco con le seguenti dichiarazioni che gli fruttarono la Presidenza del Senato:
«Il ministero dell’Interno vedrà quello che si può dire e quello che non si può dire sui moti di Milano e di altri paesi dove fu mestieri ricorrere alla repressione.
«Egli farà, probabilmente, come fanno i ministri degli affari esteri, preparerà cioè il suo libro verde, giallo o nero, ma dirà solo quanto conviene si dica, e nulla più.
«Se domani il ministro degli interni, d’accordo coi suoi colleghi, presentasse una relazione dalla quale risultasse che i moti dello scorso maggio si spiegano in molta parte col disagio economico, pare a me che farebbe opera non solamente vana, ma insana, se non sapesse di poter presentare contemporaneamente i provvedimenti più acconci per migliorare questa disgraziata situazione che fu cagione o pretesto delle sommosse».
Se abbia accettati i consigli e come li abbia messi in esecuzione, vedrassi, dal rapporto del Generale Bava di cui si farà parola più innanzi.
13. Per completare le notizie sulla natura dei fatti che determinarono la proclamazione dello Stato di assedio in Toscana, aggiungo che la Gioventù monarchica portò una vivace protesta contro il contegno provocante della questura di Firenze il giorno 7 maggio al Fieramosca. Questo — giornale monarchico e temperato — scrisse che sarebbe bastata una buona annaffiata per spazzar via la ragazzaglia che si abbandonò ai tumulti.
14. La Perseveranza, del giorno 9 Maggio, ad esempio, denunzia formalmente La Brianza lavoratrice; dice cosa iniqua il non sequestrarla. Dopo avere dato precise indicazioni al Procuratore del Re, si compiacque in un numero successivo che fossero stati esauditi i suoi desideri. Dei singoli privati la stessa Perseveranza scrisse in guisa che la Lega Lombarda ebbe a parlare di delazioni. Il giornale milanese prese gusto al mestiere e denunziò pel sequestro L’Italia Nuova di Lugano, il Dovere e la Rivista popolare di Roma. Un trafiletto della cronaca del Corriere della Sera sul linguaggio dell’Italia del Popolo del giorno 6 Maggio, parve una denunzia per la soppressione avvenuta immediatamente dopo. Parecchi giornali accolsero e commentarono quel trafiletto come vera denuncia. Quando il commento venne riprodotto nella Rivista popolare, il Corriere della Sera protestò energicamente. In quella protesta sta la più severa condanna dell’atto in sè e della Perseveranza che l’ha ripetuto. Sento il dovere altresì di scindere le responsabilità nel parlare dei conservatori lombardi. Una parte di essi inflisse il biasimo più severo alla condotta dei reazionari. La lettera aperta di Torelli-Viollier a Luigi Roux (Stampa di Torino 1898, N. 163) rimane un documento schiacciante contro gli ubbriachi reazionari di Milano. La parte giovane e sinceramente conservatrice della Lombardia fece sentire più volte la sua voce anche durante lo stato di assedio, per mezzo dell’Idea liberale di Milano. Ma tutta l’amarezza dell’animo per lo strazio dello Statuto, della legge e della libertà, detta rivista la manifestò appena potè sentirsi liberata dalla cappa di piombo del generale Bava Beccaris, con una lettera aperta del direttore G. Borelli indirizzata a me (N. del 15 Settembre 1897). Anche tale lettera suona condanna severissima dello stato di assedio e dell’opera compiuta dai reazionari. La voce del Torelli-Viollier e del Borelli hanno eccezionale importanza perchè è quella di due monarchici e per soprassello moderati, che conoscono gli uomini e gli avvenimenti del loro paese. Il Borelli e l’Idea liberale si possono considerare come la espressione dei sentimenti del Circolo Popolare di cui il profugo, che citerò più innanzi, scrive che è un gruppo quasi repubblicano per la monarchia e troppo monarchico ancora per la repubblica e che perciò non potè fare molta strada.
15. Per la verità. Appunti sullo stato di assedio a Firenze del Comm. *** — Firenze, Settembre 1898. pag. 6 e 7.
16. La sommossa di Milano — Note di un profugo — Ginevra 1898, pag. 13 a 29.
17. Note di un profugo, pag. 29. Il profugo è il Professore Ettore Ciocotti.
18. Lo stato romano dall’anno 1815 al 1850 — Firenze — Le Monnier, 1853 — Vol. I, pag. 11.
19. L’ordine del giorno votato dal Consiglio Comunale di Milano su proposta del Senatore Negri venne votato per alzata e seduta. Tutti si alzarono ad eccezione dei consiglieri Majno, Angiolini e Carabelli.
20. Discorso pronunciato alla Camera dai Deputati sul Disegno di legge per l’ordinamento dell’esercito nella tornata del 5 maggio 1897. A proposito di onorificenze si ricordi la polemica sollevata da Massuero — convintissimo monarchico — colla notizia pubblicata sulla punizione grave — la messa in disponibilità — inflitta al colonnello Crotti per avere rifiutato qualsiasi onorificenza agli ufficiali del proprio reggimento. La motivazione del rifiuto era elevata: da soldato che ama il proprio paese. L’Esercito smentì fiaccamente; ma seguitando la polemica potè anche sapersi che chi propose la punizione sia stato il Generale Pallavicini, forse quello che diresse il fuoco ad Aspromonte contro Garibaldi. Se è lui, si vede che invecchiando non ha mutato natura.
21. Molti monarchici protestarono contro le pazzesche manifestazioni di riconoscenza all’esercito; nobilmente il prof. Nitti nella Riforma Sociale. L’aberrazione dei civili fa comprendere perchè, ubriacatisi di lodi, abbiano perduto la testa i militari. Un capitano Ranzi, nei servizi resi dall’esercito nel 1898 trovò la giustificazione del militarismo e l’occasione per attaccare aspramente Guglielmo Ferrero per le sue brillanti conferenze contro la guerra e contro il militarismo — riunite in volume e pubblicate da Treves — alle quali, quasi, si attribuivano i tumulti. Ferrero rispose con un magistrale articolo nella Vita Internazionale di Milano (Novembre 1898) mettendo in evidenza la poca consistenza delle virtù dei nostri ufficiali.
22. Nella seduta del Consiglio Comunale di Milano del 22 agosto 1898, venuta in discussione la trasformazione dello Statuto dell’Umanitaria, il consigliere De Herra adoperò frasi scottanti contro il colpo di mano dei moderati, che trassero profitto dello stato di assedio per impadronirsene. L’amministrazione, anche sotto lo stato di assedio, impose la nuova cinta daziaria. Ci fu chi volle assicurare il maximum della impopolarità alla setta, proponendo il collocamento sulla piazza all’uopo destinata della statua di Napoleone III, nascosta da tanti anni nell’atrio del palazzo del Senato dove la confinò la volontà dei cittadini.
23. Basta leggere l’ultimo numero del Secolo (7-8 maggio) pubblicatosi sotto il regime della sciabola per convincersi della brutalità della misura presa dal Regio Commissario in odio non dei repubblicani e dei socialisti, ma dei semplici democratici. In quel numero, in prima pagina, si parla, è vero, con parole severe del cinquantenario dello Statuto, che doveva celebrarsi l’indomani in Torino; ma le sue parole erano più moderate di quelle di molti altri giornali che non furono neppure sequestrati. In terza pagina poi, a proposito dei tumulti del giorno precedente, c’era un appello che incitava i cittadini alla calma che avrebbe potuto scrivere e sottoscrivere qualunque uomo d’ordine. Nè si dica che la paura od il senso dell’opportunità abbiano suggerito tale linguaggio: in parecchie altre occasioni — e particolarmente nel 1886 all’epoca dei tumulti provocati dai moderati pel dazio municipale sul pane — il Secolo non usò termini diversi.
24. Sino a pochi giorni dopo i tumulti di Milano, faceva pena ad ascoltare i discorsi reazionari fierissimi che tenevano nei corridoi di Montecitorio alcuni deputati ritenuti veramente liberali. La verità sui pericoli corsi dalle istituzioni e dalla civiltà non era ancora conosciuta. Uno studio particolare meriterebbe l’attitudine dei vari giornali liberali, in generale disenzienti dai deputati delle rispettive regioni, dal quale risulterebbe la poca influenza esercitata dalla stampa nel creare le correnti della opinione pubblica. I giornali più ferocemente reazionari si sono affermati in Lombardia, nell’Emilia, nel Veneto, ecc., mentre si può dire che mancano in Sicilia e nel mezzogiorno: ivi manca il pericolo democratico.
25. Un giornale pubblicò una notizia degna di fare la compagnia, se vera, con questo sequestro: alla Biblioteca Marucelliana non si danno più in lettura per ordine superiore i libri socialisti; ad un prete fu negato il Capitale di Marx.
26. In fatto di sequestri va rilevata la vera anarchia nei criteri dei magistrati. Si sequestra in una città ciò che venne liberamente pubblicato altrove. Si sequestra a Varese un articolo di Vamba non sequestrato in Roma. Più tipico il caso mio e della Rivista popolare. Si sequestrò la Valtellina di Sondrio perchè aveva riprodotto un articolo mio non sequestrato in Roma quando comparve sulla Rivista popolare. Si fa il processo; vengo regolarmente interrogato dal giudice istruttore come autore dell’articolo; ma all’ultima ora si lascia in pace me e si condanna dal Tribunale di Sondrio il povero gerente della Valtellina.... Nell’articolo si faceva l’apologia.... della monarchia inglese! Quegli ottimi magistrati nel parallelo che ogni lettore poteva fare videro una offesa alla monarchia italiana.
27. La liberté economiques et les evenements d’Italie. Lausanne 1898. p. 5. Il Pareto narra questo edificante episodio accaduto a Sulmona. Un meccanico ferroviere va dal barbiere e si fa radere quando viene il suo turno. Aveva dimenticato che in forza della militarizzazione dei ferrovieri egli non era che un sergente. Un capitano di fanteria arrivato dopo di lui lo mise agli arresti perchè non aveva ceduto il posto al superiore. Numerosi altri casi consimili si sono verificati in ogni parte del regno.
28. Pareto, pag. 8. Nella Grande battaglia del lavoro (Roma 1898) ha stigmatizzato questa sleale concorrenza che il governo fa fare dai soldati ai lavoratori a vantaggio dei proprietari. In Lombardia i soldati furono anche adibiti per mungere le vacche.
29. Il reato massimo che somministrò il pretesto per la destituzione del Prof. Gottardi fu il suo opuscolo: La boie scritto in dialetto e nel quale così riassume il catechismo socialista: «Amé i vostri bambini, le vostre done, i vostri veci. Per esser socialisti bisogna esser boni. Bisogna sentirse capaci de amar tuti, de no odiar nessuno, altro che el mal». I tre maestri di Milano puniti avevano rispettivamente 19, 23 e 29 anni di servizio. Lina Malnati, una delle punite, mandò al Secolo questa nobile lettera.
«Agli onesti giornali che han difesa la causa dei maestri socialisti, il mio ringraziamento speciale.
«Ventitrè anni e mezzo di onorato servizio — la scrupolosa cura di non portare le mie idee politico-sociali nel sereno ambiente della scuola, non valsero a salvarmi dalla condanna pel delitto di pensare a modo mio, fuori di scuola. Chino la testa innanzi all’ingiusto provvedimento, ma rialzo l’anima nella quale mi riposa tanta altarezza e tanta dignità, da soffocarvi ogni sentimento di rancore o di rivolta. Mi vien tal luce dalla coscienza, che basta essa sola a confortarmi nell’immenso dolore di dover dare un addio alla mia scuola.
Dev. Linda Malnati.
30. Ho esaminato la questione della legalità dello Stato d’assedio e dei Tribunali militari altrove (Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause. Palermo, Remo Sandron 1895, Cap. XXI). La grave controversia più volte si è dibattuta in Parlamento e venne esaminata con rara perspicuità dalla Commissione per l’Esame delle questioni legali riguardanti la difesa davanti ai Tribunali di Guerra (Agrati, Alberti, Ferrari, Majno e Valdata) nominata dall’Associazione Lombarda dei Giornalisti (Milano Tipografia Nazionale di V. Romperti 1898). L’onor. Avv. Carlo Altobelli riassunse brillantemente le ragioni giuridiche costituzionali, che stanno contro lo Stato di Assedio e contro i Tribunali di Guerra iniziando la difesa dei giornalisti e dei deputati condannati in Milano davanti alla Suprema Corte di Cassazione del Regno. L’indole di questo lavoro non si presta a svolgere questo argomento, ripetendo del resto scuse e difese notissime. Qui mi limito ad esporre qual’è stata l’opera dei Tribunali militari in occasione dei tumulti di Aprile e Maggio 1898.
31. Don Chisciotte (15 Luglio 1898) infatti ironicamente denunziò il colonnello Siacci come un nuovo pericoloso pel discorso sovversivo pronunziato in Senato. A quando l’ammonizione?
32. Resoconto ufficiale della Seduta del Senato del 13 Luglio 1898.
33. Essendo passati alla storia il documento firmatissimo e il trattato di Bisacquino, non si può sottrarre alla storia il documento Speranza 333 che fu spedito da Firenze a Turati il 7 Maggio coll’ambulante Firenze-Milano. Eccolo nella sua integrità:
V. V. è stato impossibile spedire. = (per 000) si è tentato farlo Rifredi, Sesto inutilmente. Bicchi non ricevendo 000 combinato Romussi (=|=) tornossene a Livorno dove aveva trattato V per 000 poco fino Genova dove Zandrino avrebbe provveduto per Alessandria dove di qui partito per Villavecchia avrebbe condotto Milano aggiungendo racimolato locale. Avverto che 17 sono stati consegnati solo 270 non essendo pronti gli altri 329. Però Bicchi assicurami che entro domani radunerà 000 manderà li Ciotti Blasi i quali hanno precise istruzioni farmi recapitare non per = ma per (= =). Appena effettuata ||| da Genova Zandrino spediravvi bolletta dichiarata 10 sottosuolo rimanenti 17 complemento. Bicchi operato miracoli. Sesto, Figline, Prato hanno corrisposto ultimo momento Δ messi sospetto non mandarono più rinforzi, modo Firenze rimasero molti 17. Però non dubitate 237-471 alacremente provvedete 000 anche da Pavia. Doveva andare Bicchi = senza spesa; stima però prudente non muoversi aspettando notizie. Blasi non corrisponde....
34. In diritto romano si scusa l’ignorantia juris ai minorenni, alle donne, ai rustici.... ed ai soldati. Ah, quei romani!....
35. Non raccolgo la voce corsa di ufficiali puniti per avere fatto delle difese troppo buone, sebbene la trovi riprodotta da vari giornali. Mi sembra inverosimile la cosa. Tale voce corse pure pei processi di Palermo nel 1894; ed era insussistente.
36. Walter Mocchi: La cosa giudicata. Nella Rivista popolare. Anno IV, N. 8. Francesco Giarelli nel Caffaro di Genova ha confermato la narrazione di Mocchi. L’uno e l’altro assistettero alle udienze del Tribunale di Napoli.
37. Il caso della Marone ha sollevato un grido d’indignazione nella stampa di ogni colore, anche devota alle istituzioni (Tribuna, Don Chisciotte, Mattino, Roma, Corriere de Napoli, ecc.). Ma quanti altri più enormi non ve ne sono?
38. Il Corriere della Sera (N. 127 del 1898) con profetica incoscienza scriveva, prima che incominciassero i processi:
«Alessandro Manzoni, dall’alto del suo piedestallo a San Fedele, pareva guardasse tutto quel tramestìo con aria mesta e dicesse: È in questo modo che i Milanesi hanno pensato di commemorare il venticinquesimo anniversario della mia morte?»
E chi guardava il Manzoni, pensava che il mondo più cambia e più è la stessa cosa; perchè i subbugli di questi giorni egli li aveva già descritti nel suo romanzo, sino nelle più minute circostanze; perchè di ogni arrestato un po’ conosciuto dice quello che il mercante bergamasco diceva di Renzo: «Si sa di sicuro che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c’è descritta tutta la cabala; e si dice che vi anderà di mezzo molta gente».
Oh! se c’è andata di mezzo molta gente! I tempi di Renzo Tramaglino impallidiscono rispetto a quelli nostri.
39. Per la verità. Appunti sullo Stato di assedio a Firenze del Comm. *** Firenze — Settembre 1898, pag. 75.
40. Va rilevato con particolarità il linguaggio della Perseveranza, perchè esso rispecchia il pensiero della frazione del partito conservatore lombardo, che ha in mano il Municipio di Milano ed altre importanti istituzioni locali e che, pur troppo! esercitò poderosa influenza sulle dissennate misure del governo centrale.
41. È bene che si abbia un’idea dei reati attribuiti dalla questura nei suoi rapporti e nelle deposizioni dei suoi rappresentanti e delle prove addotte contro i repubblicani e contro i socialisti. Nel rapporto della Questura si ascrive a colpa del partito repubblicano la chiesta abolizione del dazio sulle farine e la diminuzione delle spese militari... (Povero Czar se capiti tra le unghie del Questore Minozzi!) Sempre secondo la Questura il partito socialista commise queste scelleratezze: fece propaganda, ricevette aiuto dallo straniero... negli scioperi organizzò associazioni... di arti e mestieri e leghe di resistenza, portò suoi candidati anche nei collegi nei quali non avevano probabilità di riuscire.... Alla Koulicioff — questa iniqua che volle sfuggire la galera russa per assaporare le delizie della reclusione italiana — si rimproverarono le conferenze sul miglioramento igienico ed economico delle donne. Tutti questi reati e queste prove furono trasportati di sana pianta negli atti di accusa e nelle requisitorie dell’avvocato fiscale che il 21 Giugno affermava avere raggiunta la prova di una organizzazione solida e completa. Nell’atto di accusa contro i giornalisti, il Bacci, che non trovò modo di far condannare il Barattieri, affermò che Milano era stata scelta come centro della rivoluzione poichè per la sua posizione geografica poteva più facilmente isolarsi dal rimanente del regno onde impedire l’arrivo di altra truppa.... perchè quivi più sollecito sarebbe stato il soccorso già preparato ed organizzato dei fuorusciti italiani residenti in Isvizzera. Disse che i tumulti furono fatti sorgere nei piccoli centri allo scopo di attrarvi le truppe, sguarnire le città e tentarvi un colpo di mano. Concludeva che tutti i moti d’Italia non furono che la conseguenza di una lunga preparazione diretta all’unico scopo di mutare gli ordini politico-sociali.... Queste temerarie affermazioni che fruttarono secoli di galera, non meritano l’onore della discussione. Fanno fede della ignoranza fenomenale degli avvocati fiscali. Oh! se aveva ragione il senatore Siacci ad invocare la riforma dei Tribunali militari! Ciò s’impone nell’interesse dello stesso esercito.
42. Carlo Romussi, dal cellulare di Milano, il 22 Agosto 1898 diresse una nobile lettera all’Associazione fra i giornalisti lombardi e ponevale questi tre quesiti:
1. — Se si può chiamare responsabile un giornale ed il suo direttore di fatti che accadono nella città dove il giornale si stampa e che il giornale stesso sconsiglia e biasima.
2. — Se giuridicamente si possa prendere il complesso di una serie di articoli rappresentanti l’opera giornalistica di un uomo, e portarlo contro di lui come titolo di accusa, dato l’ordinamento nostro per il quale funziona un procuratore generale, incaricato di controllare volta per volta ogni singola pubblicazione.
3. — Se non sia da chiedere al Parlamento che le accuse di reati commessi per mezzo della stampa siano in ogni tempo sottratte ai tribunali militari e sottoposte al giurì.
L’Associazione lombarda e tutti i giornalisti onesti hanno risposto conformemente ai dettami dello Statuto e della giustizia, delle leggi e del buon senso; ma le Sentenze restano e le vittime nei reclusori d’Italia!
43. Il Secolo in dodici anni ebbe in tutto dodici sequestri; e furono gli anni della reazione.
44. Gli Italiani immemori leggano i discorsi di Zanardelli in risposta alla interpellanza Nicotera in maggio 1878 sul permesso congresso repubblicano riunito al Teatro Argentina.
45. Discorso letto la sera del 7 Maggio 1880 nella sala dell’Associazione costituzionale di Bergamo.
46. Sulla interpretazione ed applicazione dell’art. 122 dell’ordinamento giudiziario, che contiene le parole su riportate, si discusse in occasione delle sentenze dei Tribunali militari di Sicilia e di Lunigiana nel 1894. Gli avvocati Marcora e Majno ripresero splendidamente la discussione nel ricorso presentato alla Corte di Cassazione di Roma in difesa di Chiesi, Romussi, Valera, Koulichoff, ecc. La ripresero per dimostrare — e vi riuscirono luminosamente — che la Cassazione aveva il diritto o meglio il dovere d’interloquire sulla legalità dello Stato di assedio e dei Tribunali militari; su questa questione e sulle altre innumerevoli mostruosità e contraddizioni delle sentenze di cui qui si discute si possono leggere con grande profitto oltre la cennata memoria a firma Marcora e Majno, le altre d’Impallomeni, Escobedo, Orzi, Sacchi in difesa di molti condannati dai Tribunali militari del 1898.
47. La stampa liberale a suo tempo (Settembre 1898) si scandalizzò della promozione accordata al consigliere Nazzari che era stato relatore in Cassazione contro i condannati di Milano. La stampa ebbe torto; c’erano i buoni precedenti nella brillante carriera del Tondi, uno dei giudici che condannarono Lobbia.
48. L’indole e la mole di questo scritto non mi permettono di entrare in considerazioni giuridiche sulla sentenza della Cassazione che respinse i ricorsi dei condannati dai Tribunali militari. Ne fece una critica dotta, seria, elevata il Prof. Luigi Majno (Rivista popolare, Anno IV, N. 7). Rilevo qui soltanto che la Cassazione di Roma ha osato completare in fatto le sentenze del Tribunale di guerra, dicendo essa ciò che il Tribunale di guerra ebbe la onestà di non dire — e cioè che Chiesi, Romussi e gli altri vollero i tumulti. Il Tribunale disse esplicitamente che non li vollero! I commenti su questa enormità sarebbero superflui.
49. Leggo nel Don Chisciotte del 5 ottobre e riproduco integralmente:
«Trascrivo dal Messaggero la notizia seguente mandata da Livorno:
«Ieri il sostituto procuratore del re cav. Bertoli, il giudice d’istruzione avv. Sighieri e alcuni agenti di pubblica sicurezza si recarono alla sede dell’Associazione liberale monarchica e fecero una perquisizione che durò più di tre ore.
«Nessun documento fu sequestrato.
«Notate bene che da tre giorni il Consiglio della Monarchica era stato avvisato dalla autorità che i locali della società dovevano essere perquisiti.
«Per conto mio non aggiungo nulla, neppure la conferma della notizia, che non posso dare. Ma è certo che così essa si presta a curiose osservazioni. E prima, anzi principale di tutte: — È vero che una perquisizione si è compiuta previo avviso di tre giorni?
«Poi non posso a meno di notare: quell’associazione così stranamente perquisita era la fucina del crispismo per la provincia livornese».
50. Questi due fatti di cronaca vengono riferiti da Vamba nel Don Chisciotte (1898 N. 248). Casi simili e più dolorosi sono a mia conoscenza personale. Della decadenza e corruzione della Magistratura italiana mi sono occupato in: Corruzione politica. Catania 1888; Banche e Parlamento. Milano 1898; Gli avvenimenti di Sicilia Palermo 1895. Ho riportato fatti numerosi e giudizi autorevoli di uomini appartenenti alle classi più elevate e più colte, che vivono al difuori della politica. I giudizî degli ex ministri Eula e Santa Maria Nicolini, gli articoli di Daneo e del prof. Mortara eliminarono il sospetto che il mio pessimismo, possa essere suggerito da passione di parte. Se qualche dubbio rimanesse ancora, si legga la relazione dell’ex ministro Costa sul processo Tanlongo e le ingenue dichiarazioni dell’ex ministro Calenda dei Tavani nella Camera dei Deputati a proposito del processo Giolitti: suscitarono tale indignazione, che Villa, Presidente della Camera, gli tolse la parola e sospese la seduta.
51. Mario Rapisardi: Giustizia. Versi. Catania 1892. N. Giannetti p. 5.
52. Rivista penale, Settembre 1898, p. 300.
53. Questa giustificazione della legittima difesa fu accampata in Parlamento — pare impossibile! — da un giurista: dall’on. Villa. Ora l’omnes leges omniaque jura permittunt vim vi repellere, non può invocarsi che contro la aggressione presente, per respingere la violenza attuale, così com’è detto nella parte generale del Codice penale. Ma con qual diritto la scusa della legittima difesa si può invocarla quando giudici militari e ministri hanno riconosciuto, che s’intendevano punire i pretesi colpevoli di violenze passate? La legittima difesa può sinanco giustificare le cannonate; giammai i Tribunali di guerra!
54. Giulio Fioretti: Pane, governo e tasse in Italia. Napoli, L. Pierro, 1898. L. 2,50, pag. 67. Il Fioretti è uno dei più colti e battaglieri conservatori del mezzogiorno. Mi riferirò spesso al suo pregevole libro limitandomi ad indicare l’autore.
55. Rose: Rise of democracy. London 1898, p. 129.
56. Feci questa osservazione sin dal 1892 attenendomi agli studi ed ai dati del Bodio, del Pantaleoni, del Delivet. Vedi: La difesa nazionale e le economie nelle spese militari, Catania, N. Giannotta, 1892, p. 10 e 11.
57. Giornale degli Economisti, Ottobre 1797.
58. Discorso sull’Ordinamento dell’esercito del 4 maggio 1897. Da parte mia ripetute volte, sino alla noia, ripetei prima e dopo di Giustino Fortunato le stesse cose nel Parlamento e fuori; più esplicitamente — ed era facilissimo farlo — in Die Zeit del 12 Febbraio 1898 e nella Revue Socialiste dell’Aprile 1898. Era tanto facile fare da profeta, che i tumulti predissero — pare impossibile! — i prefetti del regno d’Italia. Così almeno telegrafava al Corriere della Sera il deputato Torraca nel Gennaio del 1898.
59. Il diritto del Principe in uno Stato libero. Nuova Antologia, 15 Dicembre 1893.
60. Nuova Antologia, 30 Novembre 1897.
61. Nuova Antologia, 15 Gennaio 1898. Il corsivo nel brano riportato ce l’ha messo lo stesso onor. Saracco.
62. Questa corrispondenza viene bellamente illustrata dalle condizioni del bilancio e della prosperità economica dell’Inghilterra.
63. Queste cifre Il Commercio italiano di Roma (14 Agosto 1898) le ha tolte dall’ultimo Annuario statistico.
64. La finanza e la questione sociale. Torino, Fratelli Bocca 1897, p. 93, Nota 1. Pel Delivet il reddito annuo sarebbe maggiore di L. 223,11 per ogni abitante dedotte le spese militari, mentre sarebbe di L. 802 per un inglese. Calcolando che pel mantenimento normale occorre la metà del reddito dell’Inglese, l’Italiano per avere un mantenimento normale si trova con un deficit di L. 97,75: deficit superato soltanto da quello dello Spagnuolo e del Russo.
65. Cifre e confronti sono tolti dal libro di Fioretti: Pane, ecc.; dall’altro pregievolissimo di C. A. Conigliani: La riforma delle leggi sui tributi locali. Modena 1898; dalla prolusione al corso di Scienza della finanza sul Nostro sistema tributario letta nell’Università di Genova il 6 Dicembre 1897 e dall’articolo del De Viti De Marco: Le recenti sommosse in Italia — Cause e riforme (Nel Giornale degli Economisti, Giugno 1898).
66. De Viti De Marco: Cronaca del Giornale degli Economisti. Maggio 1898. Conigliani: Op. cit., p. 7 e 72.
67. G. Colombo: Le industrie meccaniche italiane all’Esposizione di Torino, Nuova Antologia; 1.º Ottobre 1898. I fasti nefasti del fiscalismo italiano sono noti e superano quelli della decadenza dell’Impero Romano. Il deputato Farinet — un conservatore di quattro cotte — ne ha narrato alcuni edificanti nella Stampa di Torino. Come deputato ho avuto conoscenza di molti altri inauditi, e devo aggiungere che spesso una correzione totale o parziale di certe enormità la trovai nell’amministrazione centrale, che s’inspira ad una certa equità. La correzione non si ha, però, che coll’intervento di qualche deputato; ma si sa che i più miseri e i più sacrificati non sempre riescono ad ottenere l’appoggio di un deputato.
68. I dati su queste espropriazioni fanno lagrimare in Sardegna. Quelli sopra Fonni, Bolotana, Lei, Orani, Oniferi, Orotelli, Ottana, Sarulea (provincia di Sassari) fanno spavento. Si leggano nella Nuova Sardegna di Sassari del 2 Luglio e 17 Agosto. Negli Avvenimenti di Sicilia dimostrai che dove era stato minore il numero delle espropriazioni era stato mantenuto l’ordine nel 1893.
69. La rivista popolare (30 ottobre 1897) nell’articolo: Le proteste dei contribuenti a proposito dei precedenti fatti di Piazza Navona in Roma, rilevò pure che i piccoli centri erano più gravati della ricchezza mobile che le grandi città; aggiunse che i piccoli centri non contano nella vita politica e subiscono le conseguenze delle follie dei politicians delle grandi città.
70. Il Fioretti afferma che il sistema tributario italiano s’inspira alle teorie di George; e tra queste e quelle di Sella trova molta analogia anche dal punto di vista teorico.
71. Le espropriazioni per cause d’imposta nel periodo 1884-1895 furono: 48, 47 per 100,000 abitanti nel mezzogiorno; 11,78 nell’Italia centrale; 6,90 nella settentrionale. Inversamente e logicamente al 31 Dicembre 1893 nell’Italia settentrionale con 13.630,904 abitanti c’era ora un miliardo quattrocento novantotto milioni di risparmio; nella meridionale con 11,668,273 abit. non arrivava che a L. 284,172,606! La Sicilia con 3,444,394 abitanti aveva risparmi per Lire 62,752,241; la Lombardia con 4,007,561 abitanti ne aveva per settecento settantuno milioni.
72. L’on. Colombo, nel citato articolo, riconosce questa maggiore prosperità del settentrione. Come non si avvede dunque, ch’è ingiusta la legge sulla perequazione fondiaria, che aggraverà ancora la mano sulle provincie del mezzogiorno?
73. In pochi anni nella sola Basilicata dove i socialisti e i repubblicani si contano sulla punta delle dita vi furono cinque gravi sommosse con morti e feriti numerosi, con assalti in regola alla Caserma dei Carabinieri e alle case Municipali: a Bernalda nel 1888, a Forenza nel 1890, a Palazzo nel 1892, a Montescaglioso nel 1897 e a Picerno in Novembre 1898. Altre sommosse avvennero in giugno e luglio 1898 in alcuni comuni del Napoletano, non ostante la recentissima sanguinosa repressione generale.
74. Una buona osservazione del Fioretti: L’antico motto dividi ed impera dalla fiscalità italiana si è tradotto nel principio: dividi e tassa. Si fanno approvare le tasse aristocratiche (le dirette) col concorso dei democratici; e si grava la mano sui poveri (imposte indirette) colla influenza degli aristocratici. Il Fisco accetta con uguale compiacimento le imposte aristocratiche e le democratiche e infin dei conti socialisti e conservatori restano ugualmente beffati.... e tassati (op. cit. p. 18). Il libro di Conigliani è tutta una tremenda requisitoria contro il nostro sistema tributario dal punto di vista economico, politico e morale.
75. Osservatore Cattolico del 6-7 Maggio 1898.
76. Il Corriere della Sera di Milano nel Numero del 19 Maggio 1898 commentando i discorsi e i voti cennati così li riassume: «In complesso gli oratori della Costituzionale hanno riconosciuto che i partiti dominanti, le classi dirigenti, hanno molta responsabilità ne’ disordini avvenuti in tante parti d’Italia. Nè fucili, nè cannoni, per quanto numerosi e pronti a sparare, potrebbero garantire l’ordine in avvenire, se quei partiti o quelle classi non avessero la coscienza di questa verità».
77. Loria: Les bases economiques de la costitution social. Paris; Lombroso e Laschi: Il delitto politico e le rivoluzioni. Torino. Fratelli Bocca 1890. Questi ultimi considerano le sommosse, le rivolte, ecc., come fenomeni patologici; la rivoluzione sarebbe una esplosione fisiologica. Ma siccome le prime prepararono sempre le rivoluzioni con queste analogie tra la storia e la biologia — si riesce a questa strana conclusione: le condizioni patologiche preparano la condizione fisiologica!
78. Un busto è stato inaugurato testè in Genova alla memoria dei fratelli Ruffini; lapidi e busti ricordano Vochieri ed altre vittime delle insurrezioni contro la dinastia dei Savoia. È tutta un’apoteosi della lotta contro Casa Savoja, la storia dettagliata e documentata che Giovanni Faldella, oggi senatore del Regno, ha consacrato alla Giovine Italia e ai fratelli Ruffini.
79. La sommossa di Milano, pag. 26 e 27. L’apologia della rivoluzione fatta da Crispi tante volte, fu rifatta in modo più solenne il 12 Gennaio 1898 in Palermo. L’on. Rosano, ex sottosegretario agli interni, glorificò nello stesso anno l’insurrezione del 15 Maggio 1848 in Napoli.
80. Un temperato e coltissimo scrittore, il Nitti, accennando alle lodi prodigate all’esercito in occasione delle ultime repressioni, esce in questa sanguinosa ed amara considerazione a proposito della circolare diramata dal Generale Afan de Rivera assumendo il portafoglio della guerra: «Adottare leggi di eccezione può essere una necessità che s’imponga a noi tutti in momenti dolorosi; ma non mai causa di allegrezza; nè i provvedimenti di rigore chiameremo mai atti di genialità. In altri tempi, quando l’onor. Afan de Rivera imparava nell’esercito borbonico i principî che ora esplica, un generale italiano, glorioso per battaglie vere, Enrico Cialdini, all’indomani di una vittoria contro le truppe del Borbone, invitava gli ufficiali ad una messa solenne: non già per rallegrarsi, egli diceva, poichè la vittoria era stata ottenuta contro altri italiani, ma per commemorare insieme i defunti d’ambo le parti». (Le sommosse dell’ieri e le repressioni dell’oggi. Nella Riforma Sociale di Torino. Giugno 1898).
81. Sin dal 1883 nel libro sulle Istituzioni municipali dimostrai il grande marcio e i pericoli che si annidarono nei Comuni e nella Provincia; da allora ad oggi chi sa dire di quanto si siano aggravati i mali?
82. Per la parte che in Sicilia nel 1893-94 rappresentarono i partiti locali — apolitici benchè mascherantisi da socialisti o altro — si legga il mio libro: Gli avvenimenti di Sicilia, ecc., e gli scritti del Deputato Di San Giuliano e del Senatore Pasquale Villari.
83. Anche il Corriere della Sera in una corrispondenza da Foggia (1898 — N. 121) lascia intendere chi furono i responsabili dei tumulti di Bari e di Foggia. Dettagli più sinistri, anche sulla complicità della autorità politica, pei gravissimi fatti di Minervino Murge si possono leggere in un opuscolo di A. Panarelli: Il primo Maggio 1898 a Minervino Murge. Canosa di Puglia 1898.
84. Il citato corrispondente da Foggia al Corriere della Sera scriveva: «Un tumulto, quando è solo un tumulto, è cosa dolorosa, ma passeggera; la gravità di quanto è avvenuto sta più che altro nel contegno delle autorità: il quale dimostra qual misera cosa sia presso di noi l’organizzazione governativa».
85. Enrico Panzacchi, che ci tiene ad essere considerato conservatore, scrisse sulla politica ecclesiastica queste parole:
«Dall’ambigua formula cavouriana abbiamo stillato tutto il succo deleterio che poteva contenere e ce ne siamo fatto un sonnifero. Davanti al problema — così singolarmente grave per il nuovo regno che ha Roma capitale — noi abbiamo riposta tutta la nostra gloria nell’essere astensionisti, reticenti, evadenti; ossia nell’essere nulla.
«Non uno Stato confessionale — co’ suoi doveri, ma anche co’ suoi diritti; non uno Stato laico — nel senso veramente logico e moderno della parola. Con un po’ di buon volere avremmo potuto avere amico e pacifico il basso clero cattolico; e con la incuria, le tirchierie, i mali garbi e le ingiustizie palesi, ce lo siamo inimicato per modo che il meglio che possiamo aspettarci da lui è d’averlo neutrale. La storia racconterà poi, a edificazione dei posteri, le incertezze, le incongruenze d’ogni genere, le provocazioni e le remissioni infelici nelle quali cademmo, abbozzando trattative e modus vivendi che l’alta gerarchia ecclesiastica non volle accettare.
«Intanto tutte le nostre leggi sono riuscite a vuoto. Abolimmo i conventi e l’Italia è piena di frati; incamerammo l’asse ecclesiastico e lo vedemmo sfumare, non si sa bene il come e il dove, tranne l’arricchimento dei pubblicani benemeriti; volemmo comprimere con la libertà il clericalismo, ed esso, con l’aiuto della libertà, risorse d’ogni lato e minaccia di montarci sul capo, ricco, prospero, provocante». — Corriere della Sera, 1898, N. 133.
86. Un tempo passavano per nemici della patria coloro che colla cifra in mano ciò affermavano. L’indignazione sollevata in Europa dall’assassinio dell’Imperatrice d’Europa costrinse anche i patrioti a confessare la verità. Si legga, ad esempio, l’articolo di Scarfoglio: Il nostro primato! — Mattino di Napoli, 1898, N. 177.
87. Per tutto ciò che riguarda molte manifestazioni della nostra degenerazione morale si leggano i due miei scritti: Corruzione politica — Catania 1888, II ediz. — e Banche e Parlamento — Milano 1893. — La documentazione di ciò che ho scritto esige non una breve pagina, ma qualche volume in folio. Tutte le riviste e tutti i giornali negli ultimi tempi ne hanno dato saggi edificanti. I fenomeni morbosi sono stati anche ufficialmente constatati nelle associazioni costituzionali del regno. Tipica la dichiarazione del Senatore Negri. Questi, nella riunione della Costituzionale di Milano, tra le cose erronee, dimostrate tali dai processi, disse questa preziosa verità: I tumulti avvennero perchè in tutta l’azione del governo e del paese, mancò la coscienza del dovere.... Ciò che avvenne si deve al difetto di una politica morale. E cercano i sobillatori! Un altro tratto: Giulio Prinetti, nel Parlamento e nel paese vi godeva di grandissime antipatie — che per parte mia non divisi mai. Bastò che egli mostrasse alquanta energia — non tutta quella ch’era necessaria — verso alcuni grandi ladri, perchè le antipatie si tramutassero in una corrente di calda simpatia e di sincera ammirazione. Tanto sentito è il bisogno di moralità, e tanto eccezionale è il caso di un ministro che se ne faccia paladino!
88. XX Settembre — Nuova Antologia. 15 Settembre 1895.
89. Sono due articoli pubblicati ad un anno di distanza nella Nuova Antologia del 15 Gennaio e del 15 Dicem. 1893.
90. Discorso nel Circolo popolare di Milano nella seduta del 20 Maggio 1898.
91. Sulla denegata giustizia abituale in Italia e sulle disastrose conseguenze sue, ha parole roventi la scrittrice inglese Ouida (An impeachement of modern Italy. Nella Review of Reviews — 15 Settembre).
92. Avevo intenzione di riprodurre i più caratteristici giudizi sintetici emessi da uomini politici, da riviste e da giornali di parte monarchica in occasione degli ultimi tumulti. Vi sono confessioni preziosissime sulle cause vere di detti tumulti e sulla enorme, se non esclusiva, responsabilità degli uomini succedentisi al governo da quarant’anni e sulle classi dirigenti italiane. Ho dovuto rinunziare a questa riproduzione perchè sarebbe stato necessario ad essa sola consacrare un lunghissimo capitolo. Se qualche lettore volesse prendere il lavoro separatamente, farebbe opera utilissima. Io gli vengo sin da ora in aiuto con una lista — incompletissima, badiamo — di riviste e di giornali che enumero senza rispettare nè l’ordine cronologico, nè quello della loro importanza. Eccola qua. Perseveranza, Corriere della Sera, Lombardia, ecc., di Milano coi discorsi dei membri della Costituzionale e del Circolo popolare dei giorni 17 e 20 Maggio, e 7 Giugno 1898; Mattino di Napoli; Corriere della Sera, con articolo di Panzacchi (N. 133), dei giorni 25, 26 e 27, 28 Luglio con articoli di Torraca e della Direzione; La Lombardia con articoli del Prof. Ercole Vidari; Rivista penale del Giugno colla cronaca del Deputato Lucchini, Consigliere della Cassazione; Corriere di Napoli del 4 e 8 Maggio; intera collezione del settimanale Economista di Firenze da Maggio 1898 in poi; Don Chisciotte del 4, 5 e 6 Maggio; Don Marzio del 5 Maggio; Tribuna con articolo di Rastignac del 7 Maggio; Nuova Antologia del 1 Maggio, del 15 Giugno, del 15 Agosto con articolo di Maggiorino Ferraris, di Ugo Pisa, di Ercole Vidari; Giornale degli Economisti di Maggio, Giugno, Luglio e Agosto con articoli di De Viti De Marco; di Racioppi, ecc.; Riforma Sociale di Maggio e Giugno con articoli di Nitti; Idea liberale del 15 e 30 Giugno e del 15 Settembre con articoli di Borelli, Massuero, Vidari; Vita internazionale del 20 Giugno con articolo di Massara; Rivista politica e letteraria di Luglio con articolo di Beroaldo. Tutto il libro del Fioretti è anche da leggere per la parte politica.
93. XX Settembre. In Nuova Antologia del 15 Settembre 1895. I bigotti dell’unità e della monarchia quando affermai alla Camera che il sentimento unitario era in ribasso urlarono. Ora il fatto è riconosciuto da tutti coloro cui la passione e l’ignoranza non fa velo alla mente. Coloro che vogliono saperne di più leggano: Colajanni e Ciccotti: Settentrionali e Meridionali, Biblioteca della Rivista popolare Roma. Remo Sandron. Palermo-Milano 1898.
94. G. Saracco: Siamo poveri o non siamo? Il Borelli sotto il muso del Regio Commissario Bava Beccaris, nell’Idea liberale del 15 Giugno, constatava che «nella massa che mormora sottovoce e pare prostrata mentre osserva ed aspetta non c’è quasi più un barlume di fede; ove fede è, non rassomiglia più certamente alla nostra....»
95. «Le istituzioni sono sovvertite e coloro che le sovvertono sono precisamente coloro che governano e amministrano; cioè, per dir meglio, che dovrebbero governare e amministrare». Ho raccolto questa gemma preziosa nel Corriere della Sera del 25-26 Luglio 1898.
96. D. Napoleone Colajanni: Settentrionali e meridionali. Agli italiani del mezzogiorno. Prof. Ettore Ciccotti: Mezzogiorno e settentrione. Roma-Palermo-Milano, 1898, Prezzo L. 1. Presso la Rivista Popolare e presso Remo Sandron.
97. I capisala hanno L. 4,20 al giorno; i garzoni L. 1; gli operai dalle L. 2 alle 3. Per operai intellettuali e che aspirano ad un elevato tenore di vita sono abbastanza meschini.
98. Vale la pena di riferire testualmente le sue parole togliendole dal N. 127:
«Abbiamo stamani interpellato i principali stabilimenti sulla ripresa del lavoro ed ecco le risposte che ne abbiamo avute:
Tutti gli stabilimenti ci assicurano che regna perfetta calma nel ceto operaio. Alcuni stabilimenti, quali il Centenari e Zinelli e altri che impiegano specialmente donne, hanno rimandata l’apertura a domattina. Altri come il Suffert e lo Stigler, non aprirono perchè ignoravano l’ordine del Comando generale. Gli operai però si presentarono ugualmente al lavoro, ma dovettero esser rimandati.
99. Per l’aumentato desiderio di miglioramenti già conseguiti vedi lo Spencer: Problèmes de morale et de sociologie. Guillaumin et C. Paris 1894 De la liberté à la servitude (pagina 80 a 82). Lombroso scultoriamente sempre: «È stato osservato che, perchè un popolo si sollevi, è necessario che si trovi in uno stato relativo di benessere, perchè nell’eccesso di prostrazione, il popolo come l’uomo non ha abbastanza energia per reagire; sicchè il massimo della sventura umana, almeno quanto alle rivolte, ha quasi un’influenza inibitrice che non il massimo della felicità. È perciò che nel medio evo scoppiarono sommosse in numero maggiore nelle città rette a comuni che nei paesi dove vigeva il sistema feudale, nei quali la plebe era stretta dalla più dura miseria..... Quando le forze del popolo sono consunte dalla fame, esso è men disposto ad usare dell’energia che gli rimane in tumulti sanguinosi, che d’altronde non farebbero che aggravare il suo stato, diminuendogli ancora il lavoro e quindi le fonti della sussistenza. Noi ne abbiamo un esempio sott’occhio in Italia in cui le condizioni del contadino, miserabilissime, non diedero luogo a nessuna sommossa neppure in Lombardia, dove migliaia vivono di una sostanza putrefatta, che li avvelena.» (Il delitto politico, ecc., p. 84 e 85). Forse il Lombroso generalizza troppo la rassegnazione sotto il regime feudale. Il Puviani questi principi di psicologia collettiva li ha applicati al limite di tolleranza delle imposte (Illusione finanziaria mediante associazione delle pene delle imposte fra loro e con altre pene. Nel Giornale degli Economisti Agosto 1898).
100. Avverto il lettore che ho sostenuto e documentato l’influenza del passaggio rapido dal benessere al malessere economico nella manifestazione individuale nella Sociologia Criminale. Catania, 1889. Volumi due, L. 13.
101. Il frumento nostrano ebbe un prezzo massimo di L. 23.75 dal 29 Aprile al 1 Maggio 1897, raggiunse quello di 34,25 dal 28 al 30 Aprile 1898. Il prezzo della farina e del frumento risentirono meno l’aumento. Ringrazio vivamente la Camera di Commercio e il Dott. Clerici segretario del Comune di Milano, che pregati mi fornirono tutte le notizie, che furono in condizione di darmi.
102. Qualche confronto tra Napoli e Milano feci nel Secolo nel luglio 1897. Li ampliai in due articoli — Paralleli igienici e sociali — nel Medico delle famiglie di Boston. (Gennaio e Febbraio 1898).
103. Il Consolato operaio fa fondato dai moderati nel 1860 per avere il monopolio delle dimostrazioni patriottiche. A poco a poco si trasformò in senso radicale per opera di Romussi, Prada e Valera. Vi fu un tempo in cui era il centro di tutto il lavoro utile per la redenzione politica e sociale delle classi lavoratrici. Le elezioni del 1882 e del 1886 segnarono il suo apogeo. Penetratavi la corrente socialista, nacquero nel suo seno vivaci discussioni che lo indebolirono. Il 21 Ottobre 1892 il Consolato — 16 Società contro 11 — decretò la fusione col partito dei lavoratori e accettò la lotta di classe. Le altre 11 società fondarono il Tribunato.
104. Per conoscere meglio la formazione dell’ambiente politico di Milano mi sembra opportunissimo questo brano della relazione del Senatore Piolti de’ Bianchi sul tentativo insurrezionale del 6 Febbraio 1853 che si riferisce per lo appunto all’assassinio del Vandoni: «Milano, città pacifica e umana fra tutte, Milano che il suo poeta sferzava perchè troppo tollerante e troppo molle, Milano che aveva tenuto per mesi fra l’ugne l’aborrito Bolza senza torcergli un capello, Milano in quel dì, ad un ignaro, sarebbe parsa una città di cannibali, tanto gongolava di gioia per un assassinio. Ma il bastone e la verga e la forca avevano trovato degna risposta nel pugnale; ma la ferocia del tiranno muta la natura dei popoli più miti, quando sentono la dignità di sè stessi».
105. In queste dimostrazioni per Lobbia la polizia agì, come sempre, austriacamente; suscitarono indignazione i maltrattamenti fatti subire al maggiore garibaldino Liborio Chiesa, mutilato di una gamba.
106. In occasione della commemorazione delle cinque giornate, la polizia, per sequestrare la bandiera della Fratellanza repubblicana, eseguì una vera feroce agressione contro la popolazione inerme, che venne paragonata a quella dell’8 Settembre 1847 ed organizzata dal Bolza all’arrivo dell’arcivescovo Romelli. Nel processo, il Generale Fumel — quello del brigantaggio — ebbe parole asprissime contro le autorità politiche e militari, che la prepararono ed eseguirono. Era prefetto il Gravina, questore Amour, comandante dei soldati il Maggiore Chiala.
107. L’influenza della tendenza federalista constatata dal Daily Chronicle e da altri giornali viene esplicitamente ammessa da un conservatore lombardo, il Siliprandi ex deputato. Questi, da avversario leale, fa buona testimonianza delle qualità della parte repubblicana e scrive:
«Una parte notevolissima della borghesia lombarda è repubblicana e, mi affretto a dirlo, e con piacere lo affermo, trattandosi dei nostri immediati avversari politici, essa è tanto moralmente rispettabile, intellettualmente colta, e socialmente elevata quanto la borghesia monarchica. Essa vanta tradizioni patriottiche indiscutibili, tenacia di opinioni, attività costante di propaganda, abilità grandissima di procedimenti. La utopia mazziniana è quasi spenta nelle nostre provincie, ma il positivo pensiero di Carlo Cattaneo vive robusto e spontaneo tanto che molti lo nutrono inconsciamente. Esso è magnifica pianta che facilmente obliqua e cresce rigogliosa sul campo lombardo». — «Tradizione monarchica razionale in queste provincie non vi fu mai; sede recente di una repubblica rivoluzionaria e guerriera; vissuta poi per cinquant’anni in ribellione perenne; fornitrici di presocchè intieri i repubblicaneggianti eserciti volontari, durante la guerra del risorgimento italiano, lo spirito di resistenza è cosa facilissima a destarsi in esse». Dott. Siliprandi: Capitoli Teorico-Pratici di politica sperimentale. Mantova 1898. Vol. III, p. 224, nota e seg.
108. Si sa che le epidemie vengono favorite dalle tristi condizioni igieniche e biologiche di una popolazione; ma, una volta sviluppate, non risparmiano gli organismi sani e vigorosi che vivono anche nelle migliori condizioni. Ciò che si dice delle malattie trova riscontro esatto nelle epidemie psichiche.
109. I malviventi nella sommossa di Milano ebbero parte molto minore di quella che in casi analoghi sogliono avere come risulta dalla lettura degli stessi processi. Mancarono i reati comuni caratteristici, che sogliono accompagnare tutti gli sconvolgimenti politici. Con più ragione potrebbe darsi che le dimostrazioni di Napoli furono suscitate dalla camorra: ivi l’obbiettivo principale dei dimostranti per molte ore fu la liberazione dei delinquenti comuni rinchiusi nelle carceri di S. Francesco. Tra i pochissimi giornali d’Italia che hanno visto giusto nei movimenti di Milano, va segnalato il Don Chisciotte. «Che cosa era quello strano, inaudito fenomeno, il quale certo non poteva chiamarsi nè una rivoluzione, nè una sommossa? Adesso si dice: era un movimento teppistico. Ed è una sciocchezza: perchè i teppisti non sfidano le fucilate senza una ragione qualsiasi e una città intera non tollera che per colpa loro, essa sia trasformata in uno spettacolo sanguinoso». Così Luigi Lodi nell’articolo sulla Liberazione di Milano,(1893 — N. 244)
110. Intervista con un redattore della Gazzetta del Popolo di Torino.
111. Il Ciccotti fa eccellenti considerazioni sull’azione della propaganda antirivoluzionaria socialista, e dimostra, che non poteva essere completa. Si contraddice, però, manifestando il proprio rammarico per la dimostrata impotenza ed inettitudine del partito repubblicano (pag. 23). Non è chiaro che l’impotenza e la inettitudine sono dovute per lo appunto alla efficace propaganda socialista? Con leggerezza poi afferma che i socialisti non ebbero parte nei tumulti. Tutti i processi lo smentiscono. Nè questo torna a loro disdoro; anzi!
112. Quel miserabile Stillman, ex corrispondente del Times, che fu sempre agli ordini se non agli stipendi di Crispi, così scrisse in una lettera al direttore del Boston Evening Transcript del 13 Ottobre 1898. Gli rispose onestamente e fieramente Fidelia Dinsmore, la buona e gentile compagna di Dario Papa.
113. In risposta alla conferenza antianarchica promossa dall’Italia, la Frankfurter Zeitung fece tale formale proposta ch’era venuta già da alcuni giornali della Svizzera. Il Journal de Généve, l’Independence Belge e altri autorevoli giornali francesi, svizzeri e tedeschi furono di accordo colla Frankfurter Zeitung. Sulla produzione anarchica poi, l’Economist di Londra (22 Ottobre 1898) scrisse a nostra vergogna:
«Abbiamo detto che l’anarchico è, a nostro giudizio, ordinariamente un criminale o un pazzo, ma nella produzione sia del criminale che del pazzo non devesi ignorare la parte esercitata dallo Stato e dalla società. Lo Stato è, senza dubbio, oggi responsabile di usare mezzi immorali e macchiavellici, educando così i proprii cittadini in idee immorali. Esso è responsabile, in tutti i grandi Stati continentali, di impedire quella libertà di parlare, di scrivere e di associarsi che forma una valvola di sicurezza nel malcontento popolare.
«Il paese, nel quale la politica è nelle mani di.... e le prigioni sono piene di..... è un paese che merita di avere degli anarchici, perchè fa del suo meglio per produrli. Il paese, che sperpera il suo danaro in armamenti oltre i suoi mezzi, nel mentre lascia i suoi poveri morire di fame e porta il peso di una imposta schiacciante, soffrirà dell’anarchismo, e nessuna misura di polizia, per perfetta che sia, ne lo potrà liberare.
«La società, la quale cerca di far moneta in qualsiasi modo, senza riguardo alle leggi della moralità, coltiverà gli anarchici così sicuramente, come lo stagno coltiva i bacilli.
«Non vi è scampo da questa legge, ed è bene per la società umana che nessun scampo vi sia. Se, adunque, le Potenze continentali pensano che riuscirà loro di abbattere l’anarchismo e di eliminarlo con qualche provvedimento di polizia, esse si illudono.
«Si faccia energicamente giustizia contro i criminali, con tutti i mezzi, ma non si dimentichi che l’ingiustizia sociale ed il sistema vizioso di spese pubbliche aiutano a creare l’anarchismo, e che è di gran lunga meglio prendersi un po’ di pena per colpire alle sue cause, che usare tutti i nostri sforzi nell’agire contro i suoi sciagurati effetti».
114. Si sa che nella Norvegia il partito radicale discute e propone in parlamento il distacco della Svezia; la necessità di una separazione completa della Norvegia dalla Svezia venne affermata testè dal Congresso dei socialisti norvegesi. Björnson ha messo sulle scene Il Re, di cui Ferdinando Fontana fece una bellissima traduzione edita dalla Società Editrice Lombarda di Milano, per dimostrarne il danno o l’inutilità. In uno dei tanti processi svolti innanzi al Tribunale militare di Firenze, il Presidente Colonnello Roggero apostrofò l’ufficiale difensore, che ricordò il caso Dreyfus per dimostrare ch’era possibile un errore da parte dei giudici militari, e gli ricordò con burlesco orgoglio che in Italia il caso Dreyfus non era possibile! Ciò che non è possibile in Italia è che si trovi una Cassazione, che al pari della francese faccia giustizia, come nei casi Dreyfus e Picquart, e non renda servizi....
115. A questi chiari di luna, in Italia oggi nessuno ripete che il nostro paese ha poco da invidiare all’Inghilterra. Queste sciocchezze, però, si ha il coraggio di affermarle ancora da qualche italiano che vive al di là della Manica. Un signor Dalla Vecchia, rispondendo ad un articolo onesto e coraggioso di Ouida, ha osato scrivere che l’Italia è ancora il paese che viene immediatamente dopo dell’Inghilterra in quanto alla influenza della pubblica opinione, (It is not to describe Italy as a land where liberty is banished and tiranny rules. All adverse criticism notwithstanding, Italy, as a nation where public opinion rules supreme, comes next only to England). Review of Reviews. Ottobre 1898. pag. 362.
116. Ferdinando Lassalle, in uno dei suoi più arguti pamphlets — Uber Verfassungwesena — a dimostrare che tutti gli articoli delle costituzioni liberali sono una lustra inutile quando c’è un forte esercito permanente agli ordini del capo dello Stato, domandava: se nel vostro giardino avete un melo e vi appendete una tavoletta sulla quale scrivete ch’esso è un fico, per questo l’albero è divenuto davvero un fico? No; e quando voi assicurerete a tutti che quello è un fico, l’albero resterà quello che era e pel prossimo anno produrrà mele e non fichi.
117. Citato dall’onor. Mirabelli in un magnifico discorso parlamentare sulla libertà della stampa.
118. Proemio di F. Turati all’Insurrezione cartista in Inghilterra di Paolo Valera. Milano 1895, p. 5. Ne raccomandiamo la lettura a tutti gl’Italiani fiacchi e smemorati.
119. La longanimità notissima della polizia e il rarissimo intervento delle truppe sono la precipua ragione per cui oggi le dimostrazioni non terminano più in massacri nella Gran Brettagna, nemmeno in Irlanda, che per tanti anni fa trattata da vero paese di conquista e sottoposta spesso alle leggi eccezionali. Ultimamente, in Belfast, in un conflitto colla popolazione, la polizia ebbe 106 feriti. In Italia, per punire i rivoltosi armati, si sarebbe proclamato lo stato di assedio e mobilizzato un corpo di esercito; niente di tutto ciò oltre la Manica!
120. La Belgique en 1886, Bruxelles, Vol. 1.
121. Vedi in Rivista popolare (Anno 3, N. 3) l’articolo: Le roi s’amuse. È bene avvertire che di questa estrema libertà possono godere i cittadini belgi. Si è severi contro gli stranieri. Così fu soppresso il giornale Le national per un articolo intitolato Saligand II in cui si parlava di certi fatti scandalosi avvenuti in Londra. Il direttore del giornale era francese e venne espulso.
122. L. Bertrand: La Belgique en 1886; I. Destrèe et E. Vandervelde: Le socialisque en Belgique. Paris. Giard et Briere 1893.
123. Don Chisciotte. N. 239 del 1898.
124. Lo ha compreso benissimo chi dirige lo stesso Don Chisciotte, che col suo fine intuito politico ha ricordato in numeri immediatamente successivi l’umiliazione che dovremmo provare nel vedere ricordato ed applicato in Inghilterra al governo italiano il giudizio dato da Gladstone sul governo borbonico. (Dal tempo di Gladstone. N. 240 Pei condannati politici. N. 246). Ai bigotti sabaudi che si scandalizzano di questi confronti, Giustino Fortunato — onore del mezzogiorno e della Camera italiana, di sentimenti, purtroppo! fanaticamente unitari e monarchici — inaugurando il 20 Settembre 1898 in Potenza una lapide alle vittime del governo borbonico, ha risposto in questi termini:
«Abbiamo tanto patito, atteso, sperato, e dover poi confessare alle nuove generazioni, che valeva meglio non farne nulla! Abbiamo tanto magnificata l’opera nostra, e date assicurazioni al mondo di costanza e di virtù, perchè poi il mondo meravigliasse nell’udire da noi stessi, che lo scopo è fallito, che le aspettative sono deluse! Abbiamo, insomma, offerto per tanti anni tanta decima di sangue e di danaro, ed essere costretti a conchiudere, che ci siamo solennemente ingannati, perchè la patria è una astrazione e la libertà una menzogna! E questa l’Italia che apparve già meritevole della aspettazione della storia?»
Più tardi lo stesso Fortunato, parlando ai suoi elettori di Palazzo San Gervasio, completava il proprio pensiero con quest’altro periodo, che si raccomanda ai suddetti bigotti sabaudi:
«Il cinquantesimo anniversario dello Statuto non ha significato, in sostanza, se non una cosa: un immenso lutto, l’ora più tragica, il maggior pericolo che l’Italia abbia corso dacchè è surta a dignità di nazione. L’unità, l’indipendenza, il regime libero, il passaggio, insomma da una semplice espressione geografica ad una grande potenza, tutto non era stato se non un miracolo di un pugno di uomini e della buona fortuna. La immane opera affannatamente, affrettatamente compiuta, poteva aver chiesto un dispendio eccessivo, forse anche deprimente, di energie economiche. Nel fatto, la misura era colma e traboccò. La scuola del dolore dovrebbe quindi ammonirci, che un qualsiasi altro disperdimento di forze sarebbe, ormai, criminoso, perchè l’incendio, che cova sotto le ceneri, potrebbe, nuovamente, divampare. E invece...»
125. Gli atti di accusa e la Gazzetta Ufficiale del tempo sono preziosi. Si riscontrino il: Ferdinando II di Mariano D’Ayala; Gli ultimi trentasei anni del Regime di Napoli di Nisco; e sopratutto per lo insieme la Storia critica del risorgimento italiano di Carlo Tivaroni, opera di lunga lena, di grande pregio e molto imparziale. Editori Roux di Torino.
126. Ho dato la cifra dei fucilati e la versione su quel fatto, che corre tra i nemici più fieri del governo borbonico.
Molti negano che il Conte d’Aquila ordinasse la fucilazione; altri affermano che si trovasse soltanto presente. Ciò che il Conte d’Aquila smentì sempre. Gli storici borbonici assicurano che i fucilati in Castelnuovo nel primo furono soltanto 5 o 6 e che le fucilazioni cessarono appena sopraggiunse il generale Luigi Cosenz.
127. Il Generale Pelloux, rispondendo all’on. Bissolati nella Camera dei Deputati in Dicembre 1898, smentì recisamente sul suo onore che il Colonnello Crotti di Costigliole fosse stato punito per aver rifiutato la medaglia al valore militare per la repressione di Milano. Benchè questa circostanza venga riconfermata dalla monarchica Provincia di Como, che per la prima la dette, sono disposto a credere al Generale Pelloux. Sarebbe doloroso, però, il constatare che nell’esercito italiano non ci siano stati ufficiali, che abbiano imitato De Sanget e Bellelli.
128. Sotto il Papa, nel processo innanzi ad un Tribunale militare, l’avv. Palomba difese gli accusati.
129. Benedetto Croce, nipote a Silvio Spaventa, di cui ha cominciato ad illustrare l’opera, così scrive a Vilfredo Pareto: «Lasciando ai competenti il confronto fra i sistemi penitenziarii applicati ora ai condannati politici con quello dei Borboni, e lasciando agli incompetenti che hanno un po’ di cuore e di sentimento giudicare il triste spettacolo che offre ora l’Italia libera, a me pare che il punto sul quale il confronto s’impone irresistibile è sull’indole e sul modo con cui sono stati condotti i processi politici. Perchè si sono spese tante parole e tanti colori rettorici per proclamare iniquo il processo, per esempio, fatto dopo il 1848 a Silvio Spaventa? Cito questo che ho avuto occasione di studiare da vicino. Non certo perchè lo Spaventa non fosse liberale, nazionalista, anzi unitario: in ciò i giudici borbonici non sbagliavano, come non sbagliano quelli di Milano nel giudicare socialisti il Turati e compagni. Ma fu un processo iniquo, perchè, mancando la prova di reati determinati, si volle tuttavia condannare nello Spaventa il liberale e l’unitario, ossia le convinzioni e le opinioni che apparivano certe e non sconfessate. È vero — si potrebbe dire — che i Borboni provvidero a fornire delle prove di reato, stipendiando dei falsi testimoni. Ma ciò prova che il senso giuridico non si era del tutto smarrito! Si riconosceva almeno la necessità delle prove di fatto e dei reati di azione. I giudici di Milano non hanno sentito questo bisogno.... — Vilfredo Pareto — La Liberté Économique — pag. 99-100. Rastignac nel Mattino di Napoli ha esplicitamente riconosciuto che in Italia, come sotto i borboni, i processi si fanno alle idee.
130. Gladstone, nelle famose lettere a lord Aberdeen nel 1851, affermò che i detenuti politici erano nelle provincie napoletane da 15 a 30 mila. Il governo borbonico, in risposta, fece pubblicare una statistica dalla quale risulterebbe che nel 1851 gl’imputati politici, in giudizio, in carcere e in custodia erano in tutto 2024.
131. L’associazione Lombarda dei Giornalisti ha pubblicato un’eloquente memoria nella quale è esposto il trattamento cui sono sottoposti Giornalisti e condannati politici in Italia e all’estero. Il paragone riesce, come sempre, disonorevole per l’Italia! Non parliamo dei modi civili adoperati dal governo del Granduca di Toscana, che permetteva a La Cecilia, ed a Guerrazzi di scrivere le Memorie e L’Asino nelle sue prigioni di Stato. Ma è caratteristica la lettera che il dott. Giuseppe Canella indirizzò al giornale Il Secolo sul trattamento dei detenuti politici in Austria. Eccola:
«Italiano e non altro che italiano, dal 1848 in poi il mio pensiero e la mia opera furono sempre per l’Italia. Ho provato le prigioni politiche dell’Austria, dalla Torre Wanga di Trento a quelle d’Innsbruck, al Castello di Kufstein, a Rattemberg, Capodistria, Gradisca, Lubiana e Gratz.
«Non appartenni, nè voglio appartenere a niun altro partito se non a quello che tende a «fare l’Italia». Qui soffersi molti disinganni ed amarezze, e non ultima quella di vedere, sotto molti riguardi, fatti paragoni tutt’altro che lusinghieri per l’Italia in confronto dell’Austria.
«Leggendo ora sui giornali come sono trattati i prigionieri, severamente condannati dai tribunali militari, ad onta della mia ripugnanza, devo convenire che l’Austria, più avveduta nel reprimere e nel prevenire, si è fatta più ragionevole e più umana nel castigare».
Il podestà di Riva di Trento riassume poscia il regolamento 28 ottobre 1849, firmato dal ministro della Giustizia, Schmerling, che disciplina, anche attualmente, il trattamento dei condannati politici.
Risulta da esso che, per i crimini politici, i condannati sono custoditi in un riparto particolare della prigione, e devesi avere riguardo tanto al loro grado di coltura quanto alla loro età ed al loro anteriore metodo di vita.
Ai condannati è concesso l’uso del proprio letto; possono leggere, scrivere e ricevere visite di parenti, previo il permesso del preposto dello stabilimento.
La spesa per il vitto, che lo Stato sopporta per ogni condannato politico è di 28 soldi al giorno, compresa la razione di pane. Ma i detenuti politici possono però provvedersi una maggior quantità di vitto, spendendo del proprio sino ad un fiorino al giorno, e quindi complessivamente hanno alimenti giornalieri per una somma corrispondente a circa due lire e mezza italiane.
L’onor. Ettore Sacchi, infine, in una importante lettera allo stesso Secolo (N. 11643), dimostra che nè dal punto di vista giuridico nè da quello militare, si possono trattare come delinquenti comuni i condannati italiani dei Tribunali di guerra. Ma il governo italiano, in questo come in tutto il resto, continua nella nobile missione di riabilitare il Papa, l’Austria e i Borboni. Tutte le premure, tutte le gentilezze il governo italiano le riserba pei delinquenti comuni, si chiamino Tanlongo o Costella.
132. Georg Brandes, che ama e conosce l’Italia e che è uno dei più illustri scrittori scandinavi, visitando nella primavera del 1898 il nostro paese, rimase scandalizzato dalla cieca e furiosa reazione cui si abbandonavano i nostri governanti.
A chi legge | Pag. 1 | |
I. | Siamo in ritardo | 5 |
II. | La marcia della sommossa | 15 |
III. | La cronaca sanguinosa | 23 |
IV. | A Milano | 31 |
V. | Dal saccheggio di casa Saporiti alla breccia dei Cappuccini | 43 |
VI. | La menzogna al servizio della reazione | 59 |
VII. | Le istituzioni in pericolo! | 69 |
VIII. | L’opera della reazione | 83 |
IX. | Lasciamo passare la giustizia! | 123 |
X. | La condanna delle idee | 151 |
XI. | Le cause economiche dei tumulti | 171 |
XII. | Le cause politiche e morali | 195 |
XIII. | La capitale morale | 221 |
XIV. | Confronti | 249 |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine volume.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.