The Project Gutenberg eBook of Frammenti letterari e filosofici

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Title: Frammenti letterari e filosofici

Author: da Vinci Leonardo

Compiler: Edmondo Solmi

Release date: April 26, 2022 [eBook #67931]
Most recently updated: October 18, 2024

Language: Italian

Original publication: Italy: G. Barbera

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK FRAMMENTI LETTERARI E FILOSOFICI ***

FRAMMENTI
LETTERARI E FILOSOFICI


LEONARDO DA VINCI


LEONARDO DA VINCI.

FRAMMENTI
LETTERARI E FILOSOFICI

TRASCELTI
DAL
Dr. EDMONDO SOLMI.

FAVOLE — ALLEGORIE
PENSIERI — PAESI — FIGURE — PROFEZIE
FACEZIE.

FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.

1908.

FIRENZE, 549-1907-8. — Tipografia Barbèra Alfani e Venturi proprietari.

Proprietà letteraria.


INDICE


[v]

PREFAZIONE.

I.

O Lionardo, perchè tanto penate?

Codice Atlantico, f. 71 r.

La biografia di Leonardo, nelle sue linee essenziali, è la storia del nascere, dell’accrescere, dell’ingigantirsi e dell’espandersi di un amore intellettuale verso la natura, intento a riprodurne le forme e a conoscerne le leggi. Questo amore, nato in un’umile casa di Anchiano poco dopo il 1452, si allarga con un progressivo svolgersi ad abbracciare la natura nell’infinità dello spazio, del tempo e delle forme.

[vi]

Il primo ricordo, che il Vinci ci serba nei manoscritti, tra i frammenti che risguardano la sua fanciullezza, sembra quasi una profezia: Nella prima ricordazione della mia infanzia, scrive egli rievocando una giovanile visione, e’ mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me, e mi aprisse la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotesse con tal coda dentro alle labbra. (C. A., 161 r.) Una tradizione ellenica narra, che le api annunziarono al mondo in Demostene il più dolce e squisito oratore politico; il nibbio non sembra qui preannunziare il più alto e limpido descrittore della natura? Leonardo stesso è compreso da questo superstizioso dubbio: la vita sua deve essere l’adempimento dell’arduo compito di palesare agli uomini i segreti naturali. Egli segna, accanto alle linee precedenti, questa espressione rivelatrice: par che sia mio destino.

All’aprirsi della sua vita d’artista, attorno al 1472, lo studio del Vinci è di risuscitare nella propria fantasia la figura [vii] delle cose esterne, «andare co’ la imaginativa ripetendo li lineamenti superfiziali delle forme» (Ash. I, 26 r.); e, come la sua mente, il piccolo libro di note, che porta sempre seco, è pieno di profili di visi soavi e mostruosi, di disegni d’animali e di piante, di roccie e di monti. (C. A., 27 r.) Questo studio, da prima subordinato alla pratica, si cambia a poco a poco in un desiderio, indipendente da ogni applicazione concreta, di comprendere il meccanismo dei fenomeni naturali, nei suoi processi e nelle sue leggi: l’arte della pittura diventa «una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme» (Ash. I, 20 r.); e il piccolo libro di note, che porta sempre seco, si riempie di considerazioni e di principî prospettici e anatomici, zoologici e botanici, meccanici e idraulici. (R., § 4.)

Penetrare colla mente nell’ignoto, indagare la natura nelle sue fibre più riposte diventa la passione dominante in Leonardo: «E tirato dalla mia bramosa [viii] voglia, vago di vedere la gran commistione delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale — restando alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa — piegato le mie rene in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, colla destra mi feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso piegandomi in qua e in là per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa, questo vietatomi per la grande oscurità, che là entro era, e stato alquanto, subito si destarono in me due cose: paura e desiderio; paura per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.» (R., § 1339.) La natura è il grande mistero che Leonardo cerca d’investigare.

Ma quanto la sua mente penetra più nella conoscenza delle cose, tanto la coscienza superstiziosa e il pregiudizio dei suoi tempi si sollevano contro di lui. Da prima sono i timidi amici di Dio, che lo [ix] rimproverano di trascurare le pratiche esterne e la preghiera, per l’amore entusiastico della natura. «Ma tacciano tali riprensori, risponde Leonardo, chè questo è il modo di conoscere l’Operatore di tante mirabili cose, e questo è ’l vero modo d’amare un tanto inventore.» (Lu., § 77.) Poscia sono i suoi amici medesimi, che rimpiangono quella lenta e progressiva diserzione dall’arte, che portava inesorabilmente Leonardo a smarrirsi nel laberinto senza fine della scienza. Il Verini lo celebrava allora massimo tra i migliori;

et forsan superat Leonardus Vincius omnes.

Ma subito aggiungeva:

tollere de tabula dextra sed nescit;

e cercava la causa di questa lentezza nella sua incontentabilità:

et instar

Protogenis multis unam perficit annis.[1]

«Hebbe bellissime invenzioni, dirà poi l’Anonimo, ma non colorì molte cose, perchè [x] si dice mai a sè medesimo avere satisfatto.[2]» E il Vasari, come un’eco di questi primi contrasti, ripeterà l’accusa e la tramanderà ai posteri — giustificandola, come il Verini e l’Anonimo, con il concetto di un’eccessiva incontentabilità di Leonardo.[3]

Intanto il cartone di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, la Testa della Medusa, l’Adorazione de’ Magi rimangono imperfetti «come quasi intervenne in tutte le cose sue.»

Nel 1482 il Vinci abbandona Firenze. Il concorso aperto dal duca di Milano per una statua equestre a Francesco Sforza non era stato che la causa occasionale di questa partenza, frutto in realtà della propria miseria e del disgusto suscitato negli altri per lavori assunti e non condotti a termine.[4] Il calore col quale il [xi] Vinci palesò un’idea grandiosa; il buon nome che godeva già in Lombardia per qualche sua opera, forse non ignota; l’essere scolaro del Verrocchio, che la statua al Colleoni rendeva allora famoso, lo fecero prescegliere in questa fortunata occasione ad altri artisti. Si presentò dunque in Milano; donò al duca una bellissima lira in forma di teschio di cavallo, forse anche a nome di Lorenzo de’ Medici; e scrisse quella lettera famosa, nella quale, manifestando le proprie molteplici attitudini pratiche, veniva già, in modo celato, a rivelare i grandiosi progressi teorici della sua mente.[5]

Ma anche in Milano la sua vita è una lenta ribellione ai suoi tempi. Da prima egli dipinge con attività, compone e scompone modelli per la statua equestre, fabbrica disegni di cupole per il duomo, si dà alla costruzione di edifizî pubblici e privati, immagina strumenti guerreschi e opere idrauliche: ma inesorabilmente il suo intelletto [xii] lo porta alla investigazione scientifica. Per un lento progresso Leonardo dal Cenacolo è ricondotto a quel Trattato di luce ed ombra, a cui aveva già dedicato le prime cure in Firenze; dal Monumento allo Sforza al Trattato sulla anatomia del cavallo e sui metodi della fusione in bronzo; dalle varie opere di architettura militare e civile al Trattato sui pesi e sui moti e a quello di Idraulica.[6] L’aneddoto stesso, narrato dal Vasari a proposito del Cenacolo, è un’eco dei contrasti che suscitava in questo tempo il suo modo di vivere essenzialmente speculativo. Prima del 1499 nel Vinci è ormai scomparso il pratico; egli deposita il pennello nelle mani dei suoi discepoli; abbandonando la cerchia degli artisti, si pone nel bel mezzo degli scienziati milanesi, ormai spinto da un solo scopo: risolvere gli infiniti problemi che la natura gli presentava incessantemente. «La natura è piena di infinite ragioni, che non furono mai in esperienza.» (I, 18 r.)

[xiii]

Il secolo XV era ostile a questo passaggio: spinto dalla sete di un rinnovamento domandava non di pensare, ma di fare. Leonardo era invece nato per il travaglio del pensiero. La poesia, la pittura la scultura, l’architettura, la musica, le invenzioni della stampa, della polvere e di strumenti meccanici, le scoperte geografiche, nel loro più meraviglioso fiore, era ciò che il Rinascimento vedeva e ammirava: la legge astratta non veniva apprezzata nel suo giusto valore, quasi non si intendeva la sua ragionevolezza. Leonardo invece passa, per un prepotente bisogno, dal concreto all’astratto, dalla pratica alla teorica, dall’arte alla scienza, portando a sviluppo quella stessa tendenza degli spiriti che, nata intorno a lui, doveva pienamente manifestarsi solo due secoli dopo.

Nel 1500 il carattere della vita del Vinci è ben definito: l’idea dominante è svolgere e condurre a compimento le sue ricerche naturali; il proposito fermo è fare al secolo le minori concessioni possibili. [xiv] Nel 1502 ingegnere militare di Cesare Borgia, sente che le angustie della pratica gli tolgono le larghe visioni della teoria: si ritrae allora in Firenze. Nel 1501 aveva avuto sollecitazioni da Isabella d’Este, per mezzo del generale dei carmelitani Pietro da Nuvolaria «perchè facesse uno quadretto de la Madonna devoto e dolce, come è il suo naturale.» Il Vinci aveva promesso caldamente, e poi, smarrito nelle indagini scientifiche, non ne aveva fatto nulla. «Per quanto me occorre, aveva risposto il frate alla gentile marchesana di Mantova, la vita di Leonardo è varia et indeterminata forte, sì che pare vivere a giornata. Ha facto solo dopoi che è ad Firencie uno schizo d’uno cartone, (dove) finge uno Christo bambino de età circa uno anno. Altro non ha facto se non che dui suoi garzoni fano ritracti, et lui alle volte in alcuno mette mano. Dà opra forte alla geometria, impacientissimo al pennello.» Ora il 13 maggio 1504, dopo una vana attesa, Isabella ritorna alla carica domandandogli per lettera [xv] «uno Christo giovinetto, di età di anni circa duodici, che seria di quella età che l’havea quando disputò nel tempio; et facto cum quella dolcezza et suavità de aiere, che havete per arte peculiare in excellentia.» Il 27 maggio, quattordici giorni dopo, un incaricato, Angelo del Tovaglia, le risponde: «Lui troppo me ha promesso di farlo ad certe hore et tempi, che li sopravanzeranno ad una opera tolta a fare qui da questa Signoria. Io non mancherò di solicitare et esso Leonardo et etiam lo Perugino de quella altra; l’uno et l’altro mi promette bene, et pare habbino desiderio grande di servire la S. V. Tamen me dubito forte non habbino a fare insieme ad gara de tarditate: non so chi in questo supererà l’altro: tengho per certo Leonardo habbi a essere vincitore.» Pietro Perugino adempiva sollecitamente al suo impegno; Leonardo intraprendeva allora il dipinto della Battaglia d’Anghiari, spinto dal bisogno e dalle preghiere dei Fiorentini.

[xvi]

Nel 1506 Alessandro Amadori, zio del Vinci, prende a cuore il desiderio della marchesa d’Este, e si fa promettere dal nipote il compimento di un quadretto soave e dolce: «Et lui al tutto me ha promesso comincerà in breve l’opera per satisfare al desiderio di V. S., alla cui gratia assai si raccomanda.» Isabella risponde poche righe sfiduciate; poi tacque per sempre. Passò il tempo, e Leonardo nulla fece, dimentico della promessa e del pennello. Quasi a compenso delle durezze del Vinci, il suo discepolo Salai, in questi giorni appunto, mostrava «gran desiderio di fare qualche cosa galante per la Marchesa.» La sua profferta non fu accettata.[7]

Intanto la Battaglia di Anghiari, cominciata a disegnare con ogni cura e entusiasmo, fu abbandonata alle prime mosse, allo stesso modo del cartone d’Adamo ed Eva, della Testa della Medusa, dell’Adorazione dei Magi, «come quasi intervenne in tutte le cose sue.»

[xvii]

Quale era la causa di questa insofferenza al dipingere? come mai Leonardo non soddisfece alle istanze di una gentile principessa, nè a quelle universali della sua città natale? Poche date risponderanno luminosamente. Al 1504 risale il Codice sul volo degli uccelli (V. U., 5 r.); al 1505 l’opera matematica intorno alle sezioni sferiche. (R., § 1374.) Le ricerche di prospettiva, iniziate già prima del 1482; quelle di anatomia, condotte sistematicamente fino dal 1489; quelle di meccanica, che lo tenevano intento prima del 1497, sono continuate in Firenze dopo il 1500, insieme agli studi sulla canalizzazione dell’Arno, che diedero germe e vita ai moderni principî dell’idraulica e della dinamica terrestre. Il 22 maggio 1508, come a coronamento di un lungo periodo di indefessa attività scientifica, spunta nella mente di Leonardo l’idea di un provvisorio generale riordinamento delle sue note manoscritte: «E questo fia un raccolto sanza ordine, scrive egli iniziando il Codice del Museo Britannico, tratto di [xviii] molte carte, le quali io ho qui copiate, sperando poi metterle per ordine alli lochi loro, secondo le materie di che esse tratteranno.» (R., 4.)

Questa insofferenza all’arte produttrice, cominciata appena che alla pratica empirica della pittura si sovrappose il concetto che per creare bisogna conoscere le forme e le leggi dei fenomeni; divenuta nefasta in Firenze dopo il 1472; dimenticata per un momento in Milano dopo il 1482; riaffermatasi con maggiore violenza dopo il 1494; divenuta un bisogno all’aprirsi del nuovo secolo XVI; continuata in mezzo a contrasti ormai più deboli fino alla morte, sembrò un delitto ai contemporanei. Essi non conoscevano altra forma d’attività che quella pratica e artistica: la scienza s’era rifugiata nei chiostri, e si chiamava teologia; s’era smarrita nei penetrali della cabala, e si chiamava magia.

Leonardo da Vinci era trascinato dai tempi all’arte, e il suo genio lo portava alla scienza; era spinto dai tempi alla [xix] costruzione meccanica, e il suo genio lo portava alla costruzione matematica. Tutto ciò che egli ha compiuto in pittura e in architettura, per quanto grandioso, fu una concessione fatta al suo tempo, ma una violenza fatta al suo carattere.

Egli si avvia col Perugino e col Credi, col Bramante e col Sangallo sul fecondo cammino della pratica, e solitario si smarrisce nella scienza; le necessità della vita e l’indole del tempo lo inducono a riafferrare per un istante l’arte, ma l’intimo della sua mente lo trascina di nuovo alla investigazione teorica e astratta; la storia della sua vita è il ripetersi di questa perpetua vicenda, che infrange e rovina l’opera e la potenza sua: non è la serena vita della tradizione, ma il naufragio di tutto un essere, che anela a ciò che il suo secolo gli vieta, che vuole ciò che il suo secolo gli toglie.

Veduto sotto questo aspetto Leonardo da Vinci compare nella sua luce storica: il carattere «vario et indeterminato forte» della sua esistenza si comprende nelle sue [xx] intime ragioni; l’incompiutezza della sua opera artistica è rivelata nelle sue vere cause e cessa d’esser l’opera del capriccio individuale; l’ignoranza dei contemporanei in riguardo al Vinci scienziato è giustificata nel suo carattere.

Il giudizio del secolo XVI e dei successivi cade necessariamente.

«Condusse a termine pochissime opere, aveva detto Sabba da Castiglione, spinto da naturale leggerezza e volubilità di talento;» perchè «quando doveva attendere alla pittura, nella quale senza dubbio un nuovo Apelle riuscito sarebbe, tutto si diede alla Geometria, alla Architettura e Notomia.[8]» E il Vasari, raccogliendo poi dalle bocche dei pittori del tempo suo il fallace giudizio, aveva scritto: «Egli si mise a imparare molte cose, e cominciate poi l’abbandonava.[9]»

Noi dobbiamo capovolgere questo giudizio dei contemporanei. Essi misurarono l’intero Leonardo dalle sue manifestazioni [xxi] pratiche, e lo definirono vario, instabile, mutabile; noi, contemplando la sua vasta teoria, alla quale dedicò le forze di tutta la vita, dobbiamo definirlo intento ad un solo proposito e fermo di fronte ad ogni contrasto. Dagli anni primi della giovinezza fino alla morte egli infatti drizzò le sue forze ad un unico intento: la conoscenza delle leggi dei fenomeni, la descrizione delle forme naturali.

Quando Michelangelo rimprovera a Leonardo con un pungente motto, sedendogli accanto sulla pancaccia di Geri degli Spini,[10] le opere lasciate a mezzo; egli, come tutti i suoi contemporanei, non considera che l’opera esterna, visibile, non l’interno, grandioso lavoro affidato ai manoscritti, che doveva naufragare per quattro secoli per approdare nel nostro. Quando il Vasari dice che il Vinci molto più operò con le parole che co’ fatti; egli non sa che la scienza è altrettanto importante dell’arte, e che il viso pieno di dolcezza e di soavità [xxii] della Gioconda non è un’opera meno potente della scoperta di quelle leggi prospettiche e ottiche, che ci servono a vederlo. Quando Leonardo, «a molti cittadini ingegnosi, che allora governavano Firenze,» mostrava voler alzare il battistero di San Giovanni o rizzare il corso dell’Arno, «con sì forti ragioni lo persuadeva, che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che e’ si era partito, conoscesse per sè medesimo l’impossibilità di cotanta impresa.[11]» Ma quale mai di questi «ingegnosi cittadini», condannando il proposito pratico, si sarà fatto a domandare al Vinci quali fossero i principî meccanici o idraulici che lo inducevano a ritenerlo fattibile? S’egli non ha sollevato il San Giovanni, nè incanalato l’Arno, questo non monta: la sua opera vera sta nel Trattato del moto locale e delle percussioni e pesi e delle forze tutte, dove precorre, e in qualche punto avanza, i Dialoghi delle nuove scienze del [xxiii] Galilei; in quello Del moto e misura delle acque, dove è contenuto il meglio che poi diedero il Castelli e il Guglielmini. Aristotile Fioravanti, qualche tempo prima di Leonardo, sollevava una torre in Bologna, e la trasportava da un luogo ad un altro;[12] Luca Fancelli, poco tempo prima di Leonardo, dava i disegni per la canalizzazione dell’Arno, onde bonificare la pianura d’Empoli e i dintorni;[13] ma nè l’uno nè l’altro precorrono il Vinci nella teoria, nella quale egli resta gigante e insuperato nel tempo suo e per un secolo ancora.

Noi dobbiamo giudicare Leonardo non dalla frammentarietà della sua pratica, ma dalla pienezza della sua teorica. La Battaglia di Anghiari non doveva essere altro, se non l’applicazione di quei principî, che Leonardo aveva meditati e svolti nel Trattato della pittura; allo stesso modo che la macchina per volare, la quale, dall’alto [xxiv] di Monte Ceceri presso Fiesole, nella Primavera del 1505, doveva librarsi su Firenze, non sarebbe stata se non un’effettuazione materiale e caduca delle grandiose leggi scoperte sulla elasticità dell’aria, sulla struttura e sulle funzioni dei volatili. L’opera teorica fu compiuta, l’applicazione pratica rimase imperfetta; ma lo scopo della vita del Vinci furono le leggi prospettiche e antropologiche, le leggi meccaniche e matematiche, fondandosi sulle quali egli e i secoli venturi avrebbero colti i frutti più maturi dell’arte e della scienza.

Vi è una espressione del Vasari che ci rivela la falsità del giudizio comune diffuso su Leonardo: «Ancora che il Vinci molto più operasse con le parole che co’ fatti, per tante parti sue sì divine, il nome e la fama sua non si spegneranno giammai.[14]» No, rispondiamo noi, è appunto perchè egli ha operato più con le parole che co’ fatti, che il nome e la fama sua non si spegneranno [xxv] giammai. I soldati guasconi hanno distrutto con l’archibugio il modello della statua a Francesco Sforza; il tempo col suo incessante trasformare ha scolorito il Cenacolo; la critica artistica annienta con l’acuto sguardo l’opera pittorica del Vinci. Ciò che non l’archibugio dei soldati guasconi, nè il tempo, nè la critica artistica potranno distruggere, è la gigantesca costruzione della natura, che sorta nella mente di Leonardo sugli albori della vita moderna, si compì in lui con quelle medesime forme, con le quali doveva poi organizzarsi nei secoli che precedono il nostro e nel nostro medesimo.

Nel 1513, quando Leonardo va a Roma con Giuliano de’ Medici, «che attendeva molto a cose filosofiche e massimamente all’Alchimia,[15]» l’artista era pressochè morto, e lo scienziato giganteggiava nella piena coscienza del proprio valore. Prima di agire bisogna conoscere e pensare. La fecondità della teoria è fondata sulla condizione [xxvi] che la legge abbia a proprio fondamento il senso e l’esperienza, e a propria espressione la matematica. Tutto ciò che eccede il senso e l’esperienza, tutto ciò che non si può dimostrare «per nessuno esemplo naturale,» siede nel regno della fantasia, e fluttua nel sogno. I problemi sulla essenza delle cose, sul fine, sulla natura dell’anima e di Dio, restano quindi nel campo delle infeconde discussioni.[16]

Questo momento dovette essere solenne nella vita del Vinci; infermo per la intensità del travaglio, la gran somma dei suoi manoscritti, messa insieme con un lavoro costante di ogni giorno, dovette apparirgli l’opera più alta e solenne della sua vita. Una nota del Codice Atlantico ce lo mostra in Belvedere nello studio fattogli dal Magnifico, assorto in notturne esercitazioni di matematica. Un’altra nota ce lo presenta a Monte Mario tutto intento a ricercarvi i segni di un passato antichissimo, quando il mare copriva [xxvii] ancora il terreno, sul quale poi doveva sorgere Roma. La fossa di Castel Sant’Angelo gli dà campo ad alcune osservazioni di acustica. I giardini del Vaticano gli offrono materia d’investigazioni zoologiche e botaniche, di esperimenti sul volo degli uccelli. L’Ospedale di Roma apre i suoi battenti a Leonardo, onde le note anatomiche dei manoscritti diventino più piene e numerose.

La passione per lo studio, il fare misterioso di Leonardo, che gli avevano già attirato in Firenze il rimprovero di qualche timorato di Dio, ora, verso il chiudersi della sua vita, destano nella società romana, assorta negli splendori del rinascimento pagano, un certo terrore misto a sospetto. Un Giovanni Tedesco, geloso delle simpatie che Giuliano de’ Medici prodigava al Vinci, trova terreno favorevole a seminare la maldicenza, tantochè uno screzio personale finisce in una vera e propria persecuzione allo scienziato. Un giorno, recandosi all’Ospedale per continuarvi quelle ricerche, che sembravano [xxviii] profanazione alle menti ancora avvolte nelle nebbie medievali, Leonardo trovò il divieto formale d’entrarvi, per ordine superiore.

Fu un momento straordinariamente triste, e il malanimo si diffuse e divenne più cupo: «Quest’altro, dice Leonardo in uno di quei frammenti pieni di sconforto che risalgono a questo tempo, m’ha impedito la Notomia, col Papa biasimandola e così all’Ospedale.» (C. A., 179 r.) In un’altra lettera, che sembra quasi un’autodifesa, egli contrappone ai sospetti contro la sua persona, la propria vita tutta intenta alla conoscenza del vero.(R., § 1358.) Giuliano de’ Medici lo liberò dal peggio; ma quando il 9 di gennaio 1515 questi partì verso la Savoia, tratto da amore di donna, Leonardo si affrettò ad abbandonare Roma, dove il suo spirito nuovo trovava qualche contrasto.[17] Tale è il motivo della partenza del Vinci da Roma, [xxix] svisato da tutti i biografi: il Vasari lo cerca nel prossimo arrivo di Michelangelo;[18] l’Anonimo in un disaccordo con Leone X per una pittura.[19]

Con la tristezza nell’animo Leonardo, poco tempo dopo, nel 1516, abbandonava l’Italia. Ad Amboise nel castello di Cloux, colpito ben presto da paralisi nella mano destra, egli rivolge la lucida mente alla canalizzazione della Francia e alla costruzione di un castello per Francesco I. Il cardinale d’Aragona, come racconta il giornale di Antonio de Beatis, recatosi nel 1517 a visitare il Vinci, lo trovò, inabile del tutto alla pittura, in mezzo alle sue note anatomiche, prospettiche, idrauliche, ancora sconosciute al mondo: «Infinità di volumi et tutti in lingua vulgare, quali se vengono in luce saranno profiqui et molto delectevoli.»[20] Uno sconforto [xxx] profondo offusca l’anima di Leonardo in questi ultimi giorni; la vita sua era stata l’affannosa ricerca delle leggi naturali, ma il contrasto col tempo ne aveva infranta la fibra, e condannata l’opera a rimanere incompiuta. Circondato dai suoi discepoli e da uomini di chiesa, il Vinci cerca di rinnovare nel proprio animo la fede ingenua della sua fanciullezza, ma la morte lo coglie il 2 maggio 1519.

La prima cura del suo testamento era stata quella di lasciare a messer Francesco Melzi, gentiluomo di Milano, «per remuneratione de’ servitii, ad epso grati, a lui facti per il passato, tutti et ciaschaduno li libri, che il dicto testatore ha de presente.» (R., § 1566.)

II.

Lodovico il Moro, tutto intento a innalzare la Corte milanese all’altezza delle altre Corti italiane, si compiaceva di circondarsi di artisti e di uomini di scienza, onde adornare la propria persona dello [xxxi] splendore delle arti e degli studi. Leonardo non fu solo un pittore, uno scultore, un architetto, un musico, nella società milanese del secolo XV, ma fu uno squisito parlatore. Un «Prospectivo Melanese dipinctore», nelle sue Antiquarie prospetiche Romane, assomiglia Leonardo nel parlare all’antico Catone;[21] il Giovio lo celebra come il più squisito dicitore del tempo;[22] l’Anonimo afferma che «fu nel parlare eloquentissimo;[23]» e il Vasari raccogliendo la tradizione giunta fino a lui dice, nella prima edizione delle sue Vite: «Con ragioni naturali faceva tacere i dotti;» e nella seconda: «Ed era in quell’ingegno infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva; e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, [xxxii] che con i ragionamenti vinceva, e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno.» — «Era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sè gli animi delle genti.» — «Con lo splendore dell’aria sua, chè bellissimo era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì e al no ogni indurata intenzione.[24]»

Di questa potenza di ragionamento ci resta anche diretto ricordo nell’opere dei contemporanei. Matteo Bandello ci riferisce che — quando il cardinale Gurcense il Vecchio, scendendo una mattina d’estate ad ammirare il Cenacolo, ancora incompiuto, in Santa Maria delle Grazie, ebbe ad esprimere il suo stupore per le onoranze, che Lodovico il Moro prodigava agli artisti — il Vinci gli rispose con elevate parole. Poi, partito il cardinale, rivolto ai suoi discepoli e ai gentiluomini, che lo circondavano, «narrò una bella historietta» di Lippo Lippi fra i Turchi, per mostrare come in tutti i tempi siano [xxxiii] stati apprezzati gli artisti. Il racconto dell’aneddoto che il Bandello raccolse dalle labbra stesse dell’artista fiorentino, conserva in sè un po’ della freschezza primitiva e della potenza immaginosa propria di Leonardo.[25]

Quando il Vasari vuol cercare la causa del favore, che il Vinci godette alla corte dello Sforza, la trova nella sua arte di parlatore: «Sentendo il Duca i ragionamenti tanto mirabili di Leonardo, talmente s’innamorò delle sue virtù, che era cosa incredibile.[26]» Il memorabile passo dei Manoscritti, che insegna il modo di entrare nelle grazie altrui con l’accorto discorrere, mostra che il puerile racconto ha nel suo fondo qualche cosa di vero. (G, 49 r.) Che che ne sia, è certo che quella parte dei codici leonardiani che conserva qualche sentenza arguta e gentile, che le novelle [xxxiv] e le allegorie, le profezie e le facezie, prima di assumere quella veste mirabilmente letteraria, con la quale ci sono conservate, dilettarono le conversazioni piene di cortesia della Corte milanese del secolo XV.

Leonardo fu elegante parlatore perchè sul labbro suo suonava il dolce idioma toscano, lo fu anche per la natura dell’anima sua delicata e ingenua, piena a volte di vivacità, di vaghezza, di grazia.

Il Vinci parlatore si rispecchia nel Vinci scrittore, con l’aggiunta di quella potente riflessione, che, penetrando nel cuore dell’uomo e nei segreti della natura esterna, coglieva le più profonde ragioni del buono, del vero e del bello. L’idea che Leonardo sia uno scrittore trasandato, nella spontaneità e rudezza del suo discorso, deve oggimai cadere.

Lo scopo supremo di Leonardo è la massima chiarezza nella massima concisione; quel modo di scrivere ridondante e numeroso, primo nemico della purezza del pensiero, nato con le novelle boccaccesche, [xxxv] e perpetuato nella prosa accademica fino ai nostri giorni, sembra sia stato a lui sconosciuto. Una grande semplicità di mezzi, con la maggiore intensità di espressione, non è soltanto la legge della pittura e della scoltura del Vinci, ma è anche quella delle sue dimostrazioni scientifiche, delle sue descrizioni e narrazioni. I manoscritti sono pieni di cancellature, ed ogni cancellatura deterge una lieve oscurità, che vela l’apprendimento del concetto: la lingua, atteggiata nello stile, è il terso vetro al di là del quale si distende limpido il pensiero. La definizione della Prospettiva è ripetuta da Leonardo più di dieci volte con un incessante mutar di spoglie, onde rivestirla della forma più evidente e più semplice (A, f. 3 r. 10 v.); una lettera a Giuliano de’ Medici è scritta e riscritta con continui pentimenti, perchè il pensiero si adegui alla sua forma con la maggiore identità di segno e di significato. (C. A., 278 r.) Allo stesso modo che il Vinci cercava nelle figure esterne della natura la [xxxvi] più mirabile figura, onde esprimere in un quadro la propria eccelsa immagine, così nel dolce idioma toscano, che possedeva tutto nella sua varietà e nella sua vivezza, rintracciava le parole adatte all’alto senso, che il suo spirito, interprete della natura, gli suggeriva. Leonardo da Vinci è anche un artista del linguaggio: l’opera sua letteraria paragonata alla prosa ridondante degli oziosi imitatori dell’antico, fa lo stesso effetto di un raggio di sole sulla campagna oppressa da un oscuro nembo, raggio preannunziatore di un novello risveglio della vita.

La chiarezza si ottiene solo con la precisione dei termini, come la concisione non è possibile se non con la precisione del pensiero. La precisione del linguaggio è ricercata da Leonardo in una serie di studi che i manoscritti ci conservano; la precisione del pensiero è un effetto della sua stessa natura, nemica dell’indeterminato.

Nel Codice Trivulziano vi sono lunghe enumerazioni di parole talora raggruppate [xxxvii] secondo l’affinità del loro senso, talora accompagnate da una breve definizione. Questo catalogo di vocaboli, che ha suggerite le più strane ipotesi agli studiosi del Vinci, fino a quella di ritenerlo pedagogo del giovinetto principe Massimiliano, non è che lo sforzo del fondatore della prosa scientifica italiana di precisare l’esatta significazione dei termini. Leonardo aveva compreso che la scienza, a differenza della poesia, esigeva d’essere poggiata sull’uso costante e ben definito delle parole. Gli studî grammaticali e linguistici, iniziati per il latino nel manoscritto H, continuati per il volgare nel Codice Trivulziano, tolgono di mezzo quella leggenda che solo all’ingenua spontaneità della propria lingua nativa, e non alla riflessione, affidasse Leonardo l’espressione del proprio pensiero. Quando nel Codice Atlantico si trova questa nota, «Donato,» noi dobbiamo pensare al Donatus, De octo partibus orationis latine et italice, Venezia, 1499 (C. A., 207 r.); quando troviamo la frase «Retorica nova,» siamo portati [xxxviii] al Laurentius Guilelmus de Saona, Rethorica Nova, Sant’Albano, 1480 (C. A., 207 v.); allo stesso modo che «Nonio Marcello, Festo Pompeo, Terenzio Varrone,» ci suggeriscono la raccolta Nonij Marcelli, De proprietate sermonum; Festi Pompeij, De verborum significatione; M. T. Varronis, De lingua latina, Milano, 1500. (R., § 1470). Nel manoscritto F è ricordato finalmente un «Vocabulista volgare e latino,» cioè, senza dubbio, il Vocabulista ecclesiastico latino e vulgare utile et necessario a molti, di fra Gio. Bernardo, Milano, 1489. (F, cop. r.)

I codici vinciani per la varietà e l’altezza del loro contenuto, per esser vergati al rovescio dell’uso comune, lasciati come dono prezioso a Francesco Melzi, dispersi da prima nell’Italia, poi nell’Europa intera, furono e sono ancora, per una gran parte, sconosciuti. La inesatta trascrizione che un pittore milanese presentava al Vasari, poco dopo il 1550, della parte di questi codici, che riguarda strettamente la pittura, rimasta sepolta nella Vaticana, [xxxix] e diffusa in modo tronco dall’intransigenza religiosa, è tutt’altro che adatta a dare un’adeguata idea di Leonardo da Vinci come scrittore.[27] Il Trattato del moto e misura dell’acque, che riproduce, con poca fedeltà, una parte dei frammenti di Leonardo riguardanti l’idraulica, è scarsamente diffuso, e per il carattere severamente scientifico dell’opera, quasi impossibile a divulgarsi. La raccolta del Richter, nitida nella forma, ma confusa e inesatta nel contenuto; le pubblicazioni integrali, compiute dal Ravaisson, dal Beltrami, dal Piumati, con successo e perfezione crescenti, sono pressochè inaccessibili alla maggioranza dei lettori.[28] Leonardo da Vinci è ancora sconosciuto ai più come scrittore, e sembrava ormai giunto il momento perchè una modesta raccolta di frammenti ne divulgasse in qualche modo la conoscenza.

Difficoltà molteplici si opponevano al [xl] compimento di un simile lavoro. La inesatta trascrizione dei manoscritti esigeva un confronto continuo con la riproduzione eliotipica dei codici o con gli originali medesimi. L’assenza della naturale divisione delle parole e di ogni segno ortografico rendeva necessaria una faticosa interpretazione preliminare.

Non minori difficoltà presentava la scelta: il proposito d’eliminare ogni frammento di indole schiettamente scientifica, per lasciar solo il posto alle espressioni di idee larghe e facilmente intelligibili, imponeva un continuo discernimento.

Nel disordine originario dei manoscritti, che rende necessario alla mente del lettore il passaggio alle idee più disparate, era poi impossibile trovare un filo conduttore, che desse una norma per l’ordinamento della scelta. Fu quindi necessario indagare nel contenuto stesso dei singoli frammenti il criterio dell’ordine, in modo che ogni concetto si legasse all’altro con una specie di progressione logica, onde ne derivasse un senso [xli] compiuto. Questo sopratutto per le parti che riguardano i pensieri di Leonardo sulla Conoscenza, sulla Natura, sulla Morale e sull’Arte.

Le opere schiettamente letterarie, raccolte dalla loro originaria dispersione, già per il loro carattere stesso distinguibili in alcuni gruppi ben determinati, furono da me ordinate secondo quello che presumibilmente sarebbe stato il concetto del Vinci. Le Favole di Leonardo, preparate dalla secolare elaborazione del Medio Evo, allargano la loro scena dal mondo animale a quello vegetale e inorganico. Le Allegorie, che nel loro complesso formano un vero e proprio Bestiario, sebbene per la maggior parte non originali, conservano le traccie di un’elaborazione nuova e degna di essere apprezzata. Le Descrizioni e i Ritratti, dove si manifesta lo scopo letterario combinato a quello pittorico; le Profezie e le Facezie, dove si palesa lo spirito arguto di un ricercatore combinato con quello di un uomo di mondo, compiono il ciclo delle opere schiettamente artistiche.

[xlii]

Un’ardua questione doveva essere trattata collateralmente allo svolgersi della raccolta dei frammenti, ed è quella della loro originalità. Le Note, che seguono passo per passo la scelta, e sono da ritrovarsi alla fine del volume, indicano la fonte alla quale ha attinto Leonardo questo o quello dei suoi frammenti; ma la questione più generale della originalità della sua opera in ogni sua parte è trattata da me in una monografia Intorno alle fonti dell’opera letteraria e scientifica di Leonardo da Vinci, che verrà quanto prima pubblicata.

Debbo avvertire da ultimo, che le noticine a piè di pagina non hanno altro scopo, che di facilitare al lettore l’intelligenza del testo leonardiano, e di togliere quei dubbî, che potessero offuscare il senso delle espressioni.

I richiami alle opere, che hanno servito di base a questa raccolta, sono stati fatti per ogni frammento nei Sommarii e Riferimenti, con opportune sigle.

[xliii]

TAVOLA DELLE SIGLE.

A. — Les manuscrits de Léonard de Vinci.-Le manuscrit A de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. I). Parigi, 1880.

Ash. I. — Les manuscrits de Léonard de Vinci.-Les manuscrits H de la Bibliothèque de l’Institut; 2038 (Ash. I) et 2037 (Ash. II) de la Bibliothèque Nationale (ed. Ravaisson. VI). Parigi, 1891.

Ash. II. — Idem; ibi.

Ash. III. — Trattato di architettura civile e militare, con note di Leonardo da Vinci. — Biblioteca Laurenziana. Codici Ashburnham, n. 361 (inedito).

B. — Les manuscrits de Léonard de Vinci. Les manuscrits B et D de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. II). Parigi, 1883.

C. — Les manuscrits de Léonard de Vinci. — Les manuscrits C, E et K de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. III). Parigi, 1888.

C. A. — Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Roma-Milano, 1891-1899 (in corso di stampa).

D. — Si veda B.

E. — Si veda C.

[xliv]

F. — Les manuscrits de Léonard de Vinci. — Les manuscrits F et I de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. IV). Parigi, 1893.

G. — Les manuscrits de Léonard de Vinci. — Les manuscrits G, L et M de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. V). Parigi, 1890.

H. — Si veda Ash. I.

I. — Si veda F.

L. — Si veda G.

Lu. — Leonardo da Vinci. Das Buch vom Malerei herausgegeben v. II. Ludwig. Berlino, 1882, 3 vol.

M. — Si veda G.

R. — The literary works of Leonardo da Vinci, compiled and edited from the original manuscripts by J. P. Richter. Londra, 1883, 2 vol.

T. — Il codice di Leonardo da Vinci nella Biblioteca del principe Trivulzio (ed. L. Beltrami). Milano, 1892.

T. M. A. — Del moto e misura dell’acqua di Leonardo da Vinci. Bologna, 1828.

V. U. — Leonardo da Vinci. Il codice del volo degli uccelli ed altre materie (ed. Sabachnikoff e Piumati). Parigi, 1893.

W. An. A. — I manoscritti di Leonardo da Vinci della reale Biblioteca di Windsor. — Dell’Anatomia, fogli A (ed. Sabachnikoff e Piumati). Parigi, 1898.

Del Ludwig e del Richter sono citati i paragrafi; per gli altri il recto o il verso dei fogli.

[1]

LE FAVOLE.

[3]

I. — L’IRREQUIETEZZA.

Il torrente portò tanto di terra e pietre nel suo letto, che fu costretto a mutar sito.

II. — LA CARTA E L’INCHIOSTRO.

Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza dell’inchiostro, di quello si duole; il quale mostra a essa, che per le parole, che sono sopra lei composte, essere cagione della conservazione di quella.

III. — L’ACQUA.

Trovandosi l’acqua nel superbo mare, suo elemento, le venne voglia di montare sopra l’aria, e, confortata dal foco elemento, elevatasi in sottile vapore, quasi parea della sottigliezza dell’aria. Montata in alto, giunse infra l’aria più sottile e fredda, dove fu abbandonata [4] dal foco; e i piccoli granicoli, sendo restretti, già s’uniscono e fannosi pesanti, ove, cadendo, la superbia si converte in fuga. E cade dal cielo; onde poi fu bevuta dalla secca terra, dove, lungo tempo incarcerata, fece penitenza del suo peccato.

IV. — LA FIAMMA E LA CANDELA.

Le fiamme, già uno mese durato nella fornace de’ bicchieri, e veduto a sè avvicinarsi una candela, ’n un bello e lustrante candeliere, con gran desiderio si forzavano accostarsi a quella. Infra le quali una, lasciato il suo naturale corso, e tiratasi d’entro [da entro] a uno vòto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l’opposito fori d’una piccola fessura, alla candela, che vicina l’era, si gittò, e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno tentò tornare alla fornace, donde partita s’era, perchè fu costretta morire e mancare, insieme colla candela; onde al fine, con pianti e pentimenti, in fastidioso fumo si convertì, lasciando tutte le sorelle in isplendevole e lunga vita e bellezza.

[5]

V. — QUELLI CHE S’UMILIANO, SONO ESALTATI.

Trovandosi alquanta poca neve appiccata alla sommità d’un sasso, il quale era collocato sopra la strema altezza d’una altissima montagna, e raccolto in sè l’imaginazione, cominciò con quella a considerare, e in fra sè dire:

— Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, picciola dramma di neve, posto in sì alto loco, e sopportare che tanta quantità di neve, quanto di qui per me essere veduta po’, stia più bassa di me? Certo la mia poca quantità non merta quest’altezza, chè bene posso, per testimonianza della mia piccola figura, conoscere quello che ’l sole fece ieri alle mie compagne, le quali in poche ore dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste più alto, che a loro non si richiedea. Io voglio fuggire l’ira del sole, e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità. — E gittatasi in basso, e cominciata a discendere, rotando dall’alte spiagge su per l’altra neve, quanto più cercò loco basso, più crebbe sua quantità, in modo che, terminato il suo corso, sopra [6] uno colle si trovò di non quasi minor grandezza, che ’l colle che essa sostenea; e fu l’ultima che in quella state dal sole disfatta fusse. Detta per quelli, che s’aumiliano son esaltati.

VI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

La palla della neve, quanto più rotolando discese dalle montagne della neve, tanto più multiplicò la sua magnitudine.

VII. — LA PIETRA.

Una pietra, novamente per l’acqua scoperta, di bella grandezza, si stava sopra un certo loco rilevato, dove terminava un dilettevole boschetto, sopra una sassosa strada, in compagnia d’erbe, di vari fiori di diversi colori ornati; e vedea la gran somma delle pietre, che, nella a sè sottoposta strada, collocate erano. Le venne desiderio di là giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:

— Che fo io qui con queste erbe? io voglio con queste mie sorelle in compagnia abitare. — E, giù lasciatasi cadere, infra le desiderate compagne finì suo volubile corso. E stata alquanto, cominciò a essere dalle rote de’ carri, dai piè de’ ferrati cavalli e de’ viandanti a essere in continuo travaglio; chi [7] la volta, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezzo, quando stava coperta da fango o sterco di qualche animale, e invano riguardava il loco donde partita s’era, in nel loco della soletaria e tranquilla paco. Così accade a quelli, che dalla vita soletaria contemplativa vogliono venir abitare nella città, infra i popoli pieni d’infiniti mali.

VIII. — IL RASOIO.

Uscendo un giorno il rasoio di quel manico, col quale si fa guaina a sè medesimo, e postosi al sole, vide il sole specchiarsi nel suo corpo; della qual cosa prese somma gloria, e rivolto col pensiero indirieto, cominciò con seco medesimo a dire:

— Or tornerò io più a quella bottega, della quale novamente uscito sono? certo no; non piaccia alli Dei, che sì splendida bellezza caggia in tanta viltà d’animo! Che pazzia sarebbe quella, la qual mi conducesse a radere le insaponate barbe de rustici villani e fare meccaniche operazioni! È questo corpo da simili esercizi? Certo no. Io mi voglio nascondere in qualche occulto loco, e lì con tranquillo riposo passare mia vita. — E così, nascosto per alquanti mesi, un giorno ritornato all’aria, e uscito fori [8] della sua guaina, vide sè essere fatto a similitudine d’una rugginente sega, e la sua superficie non rispecchiare più lo splendente sole. Con vano pentimento indarno pianse lo irreparabile danno, con seco dicendo: — Oh! quanto meglio era esercitare col barbiere il mio perduto taglio di tanta sottilità! Dov’è la lustrante superficie? certo la fastidiosa e brutta ruggine l’ha consumata! — Questo medesimo accade nelli ingegni, che in scambio dello esercizio si danno all’ozio; i quali, a similitudine del sopradetto rasoio, perdono la tagliente sua sottilità, e la ruggine dell’ignoranza guasta la sua forma.

IX. — IL GIGLIO.

Il giglio si pose sopra la ripa di Tesino [Ticino], e la corrente tirò la ripa insieme col giglio.

X. — IL NOCE.

Il noce, mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de’ sua frutti, ogni omo lo lapidava.

[9]

XI. — IL FICO.

Il fico stando sanza frutti, nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere laudato da li omini, fu da quelli piegato e rotto.

XII. — LA PIANTA E IL PALO.

La pianta si dole del palo secco e vecchio, che se l’era posto a lato, e de’ pali secchi che la circondano: l’un lo mantiene diritto, l’altro lo guarda dalla triste compagnia.

XIII. — IL CEDRO E LE ALTRE PIANTE.

Il cedro, insuperbito della sua bellezza, dubita delle piante, che li son d’intorno, e fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò per terra diradicato.

XIV. — LA VITALBA.

La vitalba, non istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare co’ sua rami la comune strada, e appiccarsi all’opposita siepe; onde da’ viandanti poi fu rotta.

[10]

XV. — LA CATTIVA COMPAGNIA TRASCINA I BUONI NELLA PROPRIA ROVINA.

La vite, invecchiata sopra l’albero vecchio, cade insieme colla ruina d’esso albero; e fu, per la trista compagnia, a mancare insieme con quella.

XVI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Il salice, che, per li sua lunghi germinamenti, vol crescere da superare ciascuna altra pianta, per avere fatto compagnia colla vite, che ogni anno si pota, fu ancora lui sempre storpiato.

XVII. — IL CEDRO.

Avendo il cedro desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella sommità di se, lo mise a seguizione [compimento] con tutte le forze del suo omore; il quale frutto cresciuto, fu cagione di fare declinare la elevata e diritta cima.

XVIII. — IL PERSICO.

Il persico, avendo invidia alla gran quantità de’ frutti visti fare al noce suo vicino, [11] diliberato fare il simile, si caricò de’ sua in modo tale, che ’l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana terra.

XIX. — L’OLMO E IL FICO.

Stando il fico vicino all’olmo, e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere ardimento di tenere il sole a’ sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: — O olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta che i mia figlioli sieno in matura età, e vedrai dove ti troverai. — I quali figlioli poi maturati, capitandovi una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e diramato e rotto. Il quale, stando poi così storpiato delle sue membra, l’olmo lo dimandò dicendo: — O fico, quanto era il meglio a stare sanza figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato! —

XX. — LE PIANTE E IL PERO.

Vedendo il lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono: — O pero! ove vai tu? ov’è la superbia, che avevi, quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci farai tu ombra colle tue folte chiome! — Allora il pero rispose: — Io ne vo coll’agricola, che mi taglia, e mi porterà alla bottega [12] d’ottimo scultore, il quale mi farà con su’ arte pigliare la forma di Giove Iddio, e sarò dedicato nel tempio, e dagli omini adorato invece di Giove; e tu ti metti in punto a rimanere ispesso storpiata e pelata de’ tua rami, i quali mi fieno da li omini, per onorarmi, posti d’intorno.

XXI. — LA RETE.

La rete, che soleva pigliare li pesci, fu presa e portata via dal furor de’ pesci.

XXII. — NASCE ROVINA DAL SEGUIRE IL FALSO SPLENDORE.

Non si contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per l’aria, vinto dalla dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in quella, e ’l suo giocondo movimento, fu cagione di subita tristizia. Imperocchè ’n detto lume si consumarono le sottili ali, e ’l parpaglione misero, caduto tutto bruciato a’ piè del candeliere, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse: — O falsa luce! quanti, come me, debbi tu avere ne’ passati tempi miserabilmente ingannati! Oh! s’i [13] pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello sporco sevo? —

XXIII. — IL CASTAGNO E IL FICO.

Vedendo il castagno l’omo sopra il fico, il quale piegava in verso sè i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti — i quali metteva nell’aperta bocca disfacendoli e disertandoli [dilacerandoli] coi duri denti — crollando i lunghi rami, e con tumultuevole mormorio disse: — O fico! Quanto se’ tu men di me obbligato alla natura! Vedi, come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle; e, non contentandosi di tanto beneficarmi, ch’ell’ha fatto loro la forte abitazione, e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell’omo non mi possino nuocere? — Allora il fico cominciò insieme co’ sua figlioli a ridere, e, ferme le risa, disse: — Conosci, l’omo essere di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, trarti infra i tua rami, farti povero de’ tua frutti, e quelli caduti, pesti co’ piedi e co’ sassi, in modo che’ [14] frutti tua escino, stracciati e storpiati, fora dell’armata casa; e io sono con diligenza tocco dalle mani, e non, come te, da bastoni e da sassi. —

XXIV. — IL ROVISTICO E IL MERLO.

Il rovistrice [rovistico: pianta, ligustrum vulgare], sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarico inverso essa merla, pregando quella, che, poichè lei li toglieva i sua diletti frutti, il meno non lo privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai cocenti raggi del sole, e che coll’acute unghie non iscorticasse e disvestisse della sua tenera pelle. A la quale la merla, con villane rampogne, rispose: — Oh! taci salvatico sterpo! Non sai, che la natura t’ha fatti produrre questi frutti per mio notrimento? Non vedi, che so’ al mondo per servirmi di tale cibo? Non sai, villano, che tu sarai, nella prossima invernata notrimento e cibo del foco? — Le quali parole ascoltate dall’albero pazientemente, non sanza lacrime, infra poco tempo, — il merlo [15] preso dalla ragna [rete] e còlti de’ rami per fare gabbia, per incarcerare esso merlo, — toccò, infra l’altri rami, al sottile rovistrice a fare le vimini de la gabbia; le quali vedendo essere causa della persa libertà del merlo, rallegratosi, mosse tali parole: — O merlo!, i’ son qui non ancora consumato, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che tu me bruciato! —

XXV. — LA NOCE E IL CAMPANILE.

Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco; pregò esso muro, per quella grazia, che Dio li aveva dato dell’essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole suono, che la dovessi soccorrere; perchè, poichè la non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra ricoperta delle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperò ch’ella trovandosi nel fiero becco della fiera cornacchia, ch’ella si votò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua ’n un picciolo [16] buco. — Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu costretto ricettarla nel loco, ov’era caduta. E in fra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli, in breve, levati sopra lo edifizio, e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri, e cacciare le antiche pietre de’ loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran parte delle sue membra.

XXVI. — IL SALICE E LA ZUCCA.

Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare over condurre alla desiderata grandezza, e drizzarsi al cielo, per cagione della vite e di qualunque pianta li era vicina, sempre egli era storpiato e diramato e guasto; e raccolti in sè tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla imaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella l’universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si potessi, che non avessi bisogno dell’aiuto de’ sua legami; e stando alquanto in questa [17] notritiva imaginazione, con subito assalimento li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, parendoli avere trovato compagnia al suo disiato proposito — imperò che quella è più atta a legare altri, che essere legata. — E fatta tal diliberazione, rizzò i sua rami inverso il cielo, attendea aspettare qualche amichevole uccello, che li fusse a tal disiderio mezzano. In fra’ quali, veduta a sè vicina la gazza, disse inver di quella: — O gentile uccello, io ti priego, per quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, ne’ mia rami trovasti, quando l’affamato falcone, crudele e rapace, te voleva divorare; e per quelli riposi, che sopra me ispesso hai usati, quando l’ali tue a te riposo chiedeano; e per quelli piaceri, che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne ne’ tua amori, già hai usato: io ti priego, che tu truovi la zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di’ a quelle che, nate ch’elle fieno, ch’io le tratterò non altrementi, che se del mio corpo generate l’avessi; e similmente usa tutte quelle parole, che di simile intenzione persuasive sieno, benchè a te, maestra de’ linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai, io [18] sono contenta di ricevere il tuo nido sopra il nascimento de’ mia rami, insieme colla tua famiglia, sanza pagamento d’alcun fitto. — Allora la gazza, fatti e fermi alquanti capitoli [patti] di novo col salice, e massime che biscie o faine sopra sè mai non accettassi; alzata la coda e bassato la testa, e gittatasi dal ramo, rendè il suo peso all’ali. E quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto, e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze. E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co’ piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerchio a esso, essi grani piantò. Li quali, in brieve tempo, crescendo, cominciò, collo accrescimento e aprimento de’ sua rami, a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male — seguendo [venute in seguito, nate e cresciute] le zucche — cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de’ teneri rami inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e indarno crollandosi, per fare da sè [19] esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni in simile inganno, perchè la bona e forte collegazione [l’avviticchiarsi degli steli della zucca al salice] tal pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello soffiò forte. Allora s’aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due parti, insino alle sue radici, e, caduto in due parti, indarno pianse sè medesimo, e conobbe, che era nato per non aver mai bene.

XXVII. — L’AQUILA.

Volendo l’aquila schernire il gufo, rimase coll’ali impaniate, e fu dall’omo presa e morta.

XXVIII. — IL RAGNO.

Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false reti, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto.

XXIX. — IL GRANCHIO.

Il granchio, stando sotto il sasso per pigliar i pesci, che sotto a quello entravano, venne la piena con rovinoso precipitamento di sassi, e, col loro rotolare, si fracellò tal granchio

[20]

XXX. — L’ASINO E IL GHIACCIO.

Addormentatosi l’asino sopra il diaccio d’un profondo lago, il suo calore dissolvè esso diaccio, e l’asino sott’acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò.

XXXI. — LA FORMICA E IL CHICCO DI GRANO.

La formica, trovato un grano di miglio, il grano, sentendosi preso da quella, gridò: — Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi. — E così fu fatto.

XXXII. — L’OSTRICA, IL RATTO E LA GATTA.

Sendo l’ostrica, insieme colli altri pesci in casa del pescatore scaricata vicino al mare, pregò il ratto, che al mare la conduca; e ’l ratto, fatto disegno di mangiarla, la fa aprire; e mordendola, questa li serra la testa e sì lo ferma: viene la gatta e l’uccide.

XXXIII. — IL FALCONE E L’ANITRA.

Il falcone, non potendo sopportare con pazienzia il nascondere che fa l’anitra, fuggendosele dinanzi e entrando sotto acqua: volle, come quella, sott’acqua seguitare, e, [21] bagnatosi le ponne, rimase in essa acqua: o l’anitra levatasi in aria, schernía il falcone, che annegava.

XXXIV. — L’OSTRICA E IL GRANCHIO.[29]

Ostrica. Questa, quando la luna è piena, s’apre tutta, e, quando il granchio la vede, dentro le getta qualche sasso o festuca: e questa non si può risserrare, ond’è cibo d’esso granchio. Così fa chi apre la bocca a dire il suo segreto, che si fa preda dello indiscreto auditore.

XXXV. — I TORDI E LA CIVETTA.

I tordi si rallegrarono forte, vedendo che l’omo prese la civetta e le tolse la libertà, quella legando con forti legami ai sua piedi. La qual civetta fu poi, mediante il vischio, causa non di far perdere la libertà ai tordi, ma la loro propria vita.

Detta per quelle terre, che si rallegran di vedere perdere la libertà ai loro maggiori, mediante i quali poi perdano il soccorso e rimangono legati in potenza del loro nemico, lasciando la libertà e spesse volte la vita.

[22]

XXXVI. — LA SCIMMIA E L’UCCELLETTO.

Trovando la scimmia uno nido di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, i quali essendo già da volare, ne potè solo pigliare il minore. Essendo piena d’allegrezza, con esso in mano se n’andò al suo ricetto; e, cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e, per lo isviscerato amore, tanto lo baciò e rivolse o strinse, ch’ella gli tolse la vita. È detta per quelli, che, per non gastigare i figlioli, capitano male.

XXXVII. — IL CANE E LA PULCE.

Dormendo il cane sopra la pelle d’un castrone, una delle sue pulci, sentendo l’odore della unta lana, giudicò quello dovessi essere loco di miglior vita e più sicura da’ denti e unghia del cane, che pascersi del cane; e sanza altri pensieri, abbandonò il cane. E, entrata infra la folta lana, cominciò con somma fatica a volere trapassare alle radici de’ peli: la quale impresa, dopo molto sudore, trovò esser vana, perchè tali peli erano tanto spessi, che quasi si toccavano, e non v’era spazio, dove la pulce potesse saggiare tal pelle. Onde, dopo lungo [23] travaglio e fatica, cominciò a volere ritornare al suo cane; il quale essendo già partito, fu costretta, dopo lungo pentimento, amari pianti, a morirsi di fame.

XXXVIII. — IL TOPO, LA DONNOLA E IL GATTO.

Stando il topo assediato in una piccola sua abitazione dalla donnola, la quale con continua vigilanzia attendea alla sua disfazione [distruzione, morte], e, per uno piccolo spiraculo, riguardava il suo gran periculo. — Infrattanto venne la gatta, e subito prese essa donnola, e immediate l’ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove d’alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deità; e uscito fori della sua buca a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu, dalle feroci unghia e denti della gatta, privato.

XXXIX. — IL RAGNO E IL GRAPPOLO D’UVA.

Il ragno, stando infra l’uve, pigliava le mosche, che in su tali uve si pascevano: venne la vendemmia e fu pestato, il ragno insieme coll’uve.

[24]

XL. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Trovato il ragno uno grappolo d’uva, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ape e diverse qualità di mosche, li parve avere trovato loco molto comodo al suo inganno. E calatosi giù per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì ogni giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de’ grani dell’uva, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non si guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore, còlta essa uva e messa con l’altre, insieme con quelle fu pigiato. E così l’uva fu laccio e inganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.

XLI. — TRACCIA.

Favola della lingua morsa dai denti.

XLII. — IL VILLANO E LA VITE.

Vedendo il villano la utilità, che resultava dalla vite, le dette molti sostentaculi da sostenerla in alto; e, preso il frutto, levò le pertiche, e quella lasciò cadere, facendo foco de’ sua sostentaculi.

[25]

XLIII. — LEGGENDA DEL VINO E DI MAOMETTO.[30]

Trovandosi il vino, il divino licore dell’uva, in una aurea e ricca tazza, sopra la tavola di Maumetto, e montato in gloria di tanto onore, subito fu assaltato da una contraria cogitazione, dicendo a sè medesimo: — Che fo io? di che mi rallegro io? Non m’avvedo essere vicino alla mia morte e lasciare l’aurea abitazione della tazza, e entrare nelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non bastando tanto male, ch’io ancora debba sì lungamente giacere ne’ brutti ricettacoli coll’altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane interiora? — Gridò inverso il cielo, chiedendo vendetta di tanto danno, e che si ponesse ormai fine a tanto dispregio; che, poichè quello paese producea le più belle e migliori uve di tutto l’altro mondo, che il meno elle non fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il vino beuto da Maumetto elevò l’anima sua inverso il celebro [cerebro, cervello], che lo fece matto, e partorì tanti [26] errori, che, tornato in sè, fece legge che nessuno asiatico besse vino. E fu lasciato poi libere le viti co’ sua frutti.

(in margine)

Già il vino, entrato nello stomaco, comincia a bollire e sgonfiare; già l’anima di quello comincia abbandonare il corpo; già si volta inverso il cielo, trova il celebro, cagione della divisione dal suo corpo; già lo comincia a contaminare e farlo furiare a modo di matto; già fa irriparabili errori, ammazzando i sua amici.

XLIV. — TRACCIA.

Il vino, consumato da esso ubriaco, esso vino col bevitore si vendica.

XLV. — LE FIAMME E LA CALDAIA. (Frammento.)

Un poco di foco, che, in un piccolo carbone, in fra la tiepida cenere rimaso era, del poco omore, che in esso restava, carestiosamente e poveramente sè medesimo notría. Quando, la ministra della cucina, per usare con quello l’ordinario suo cibario offizio, quivi apparve, e, poste le legne nel focolare — e, col solfanello già resuscitato d’esso, già quasi per morto, una piccola [27] fiammella e, infra le ordinate legne quella appresa e, posta di sopra la caldaia — sanz’altro sospetto, di lì sicuramente si parte.

Allora, rallegratosi il foco delle sopra sè poste secche legne, comincia a elevarsi: cacciando l’aria delli intervalli d’esse legne, in fra quelli con ischerzevole e giocoso transito, sè stesso tesseva.

Cominciato a spirare fori dell’intervalli delle legne, di quelli a sè stesso dilettevoli finestre fatto avea; e, cacciate fori di rilucenti e rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre della serrata cucina; e con gaudio, le fiamme già cresciute, scherzavano coll’aria d’esse circundatrice e con dolce mormorio cantando, creava soave sonito....

Rallegrandosi il foco delle secche legne, che nel focolare trovato avea, e in quelle appresosi, con quelle comincia a scherzare tessendole in sue piccole fiammelle, e ora qua ora là, per li intervalli, che in fra le legne si trova, traeva.

E, scorrendo in fra quelle con festevole, giocoso transito, cominciò a spirare, e fra li intervalli delle superiori legne apparía, facendo di quelli a sè dilettevoli finestre ora qua, ora là.

[28]

Vedutosi già fortemente essere sopra delle legne cresciuto e fatto assai grande, cominciò a levare il mansueto e tranquillo animo in gonfiata e insopportabile superbia, facendo quasi a sè credere tirare tutto il superiore elemento [l’elemento del foco] sopra le poche legne.

E cominciato a sbuffare, e, empiendo di scoppi e di scintillanti sfavillamenti tutto il circostante focolare, già le fiamme, fatte grosse, unitamente si drizzavano inverso l’aria.... quando le fiamme più altere, percosser nel fondo della superiore caldara.

XLVI. — LO SPECCHIO E LA REGINA. (Frammento.)

Lo specchio si gloria forte tenendo dentro a sè specchiata la regina, e partita quella lo specchio rimase in le....

[29]

LE ALLEGORIE.

[31]

I. — AMORE DI VIRTÙ.[31]

Calendrino [La calandra] è uno uccello, il quale si dice, che essendo esso portato dinanzi a uno infermo, che se ’l detto infermo deve morire, questo uccello li volta lato, sta per lo contrario e mai lo riguarda; e, se esso infermo deve iscampare, questo uccello mai l’abbandona di vista, anzi è causa di levarli ogni malattia.

Similmente, l’amore di virtù non guarda mai cosa vile, nè trista, anzi dimora sempre in cose oneste e virtuose, e ripatria sempre in cor gentile, a similitudine degli uccelli nelle verdi selve sopra i fioriti rami; esso dimostra più esso amore nelle avversità che nelle prosperità, facendo come lume, che più risplende, dove trova più tenebroso sito.

[32]

II. — INVIDIA.[32]

Del nibbio si legge che, quando esso vede i suoi figlioli nel nido esser di troppa grassezza, che egli gli becca loro le coste, e tiengli sanza mangiare.

III. — ALLEGREZZA.[33]

L’allegrezza è appropriata al gallo, che d’ogni piccola cosa si rallegra, e canta, con vari e scherzanti movimenti.

IV. — TRISTEZZA.[34]

La tristezza s’assomiglia al corvo, il quale, quando vede i sua nati figlioli essere bianchi, per lo grande dolore si parte, con tristo rammarichío gli abbandona, e non gli pasce, insino che non gli vede alquante poche penne nere.

V. — PACE.[35]

Del castoro si legge che, quando è perseguitato, conoscendo essere per la virtù de’ sua medicinali testiculi, esso, non potendo più fuggire, si ferma, e, per avere pace coi cacciatori, coi sua taglienti denti si spicca i testiculi, e li lascia a’ sua nimici.

[33]

VI. — IRA.[36]

Dell’orso si dice che, quando va alle case delle ave [api, come al n. XVI] per tôrre loro il mele, esse ave lo cominciano a pungere, onde lui lascia il mele e corre alla vendetta; e, volendosi con tutte quelle che lo mordano vendicare, con nessuna si vendica, in modo che la sua vita si converte in rabbia, e gittatosi in terra, con le mani e co’ piedi innaspando, indarno da quelle si difende.

VII. — MISERICORDIA OVER GRATITUDINE.[37]

La virtù della gratitudine si dice essere più nelli uccelli detti upica [úpupa], i quali, conoscendo il benefizio della ricevuta vita e nutrimento dal padre e dalla lor madre, quando li vedano vecchi, fanno loro uno nido, e li covano, e li nutriscano, e cavan loro col becco le vecchie e triste penne, e con certe erbe li rendano la vista, in modo che ritornano in prospertà.

VIII. — AVARIZIA.[38]

Il rospo si pasce di terra, e sempre sta macro, perchè non si sazia: tanto è ’l timore, che essa terra non li manchi.

[34]

IX. — INGRATITUDINE.[39]

I colombi sono assomigliati alla ingratitudine; imperocchè, quando sono in età che non abbino più bisogno d’essere cibati, cominciano a combattere col padre, e non finisce essa pugna, infino a tanto che caccia il padre, e tolli la mogliera [e gli toglie la moglie], facendosela sua.

X. — CRUDELTÀ.[40]

Il basalisco [basilisco] è di tanta crudeltà che, quando con la sua venenosa vista non po’ occidere li animali, si volta all’erbe e le piante, e, fermato in quelle la sua vista, le fa seccare.

XI. — LIBERALITÀ.[41]

Dell’aquila si dice che non ha mai sì gran fame, che non lasci parte della sua preda a quelli uccelli, che le son dintorno; i quali, non potendosi per sè pascere, è necessario che sieno corteggiatori d’essa aquila, perchè in tal modo si cibano.

XII. — CORREZIONE.[42]

Quando il lupo va assentito [va cautamente] a qualche stallo di bestiame, e che, per caso, esso ponga [35] il piede in fallo, in modo facci strepito, egli si morde il piè, por correggere tale errore.

XIII. — LUSINGHE OVER SOIE [adulazioni].[43]

La serena sì dolcemente canta, che addormenta i marinari, e essa monta sopra i navili, e occide li addormentati marinari.

XIV. — PRUDENZA.[44]

La formica, per naturale consiglio, provvede la state per lo verno, uccidendo le raccolte semenza, perchè non rinascino; e di quelle al tempo si pascono.

XV. — PAZZIA.[45]

Il bo’ [bove, toro] salvatico, avendo in odio il colore rosso, i cacciatori vestan di rosso il pedal d’una pianta, e esso bo’ corre a quella, e con gran furia v’inchioda le corna, onde i cacciatori l’occidano.

XVI. — GIUSTIZIA.[46]

E’ si può assimigliare la virtù de la justizia allo re delle ave; il quale ordina e dispone ogni cosa con ragione: imperocchè alcune ave sono ordinate andare per fiori, altre ordinate [36] a lavorare, altre a combattere colle vespe, altre a levare le sporcizie, altre a compagnare e corteggiare lo re; e, quando è vecchio e sanza ali, esse lo portano, e, se ivi una manca di suo offizio, sanza alcuna remissione è punita,

XVII. — VERITÀ.[47]

Benchè le pernici rubino l’ova l’una all’altra, non di meno i figlioli, nati d’esse ova, sempre ritornano alla lor vera madre.

XVIII. — FEDELTÀ OVER LIALTÀ.[48]

Le gru son tanto fedeli e leali al loro re, che la notte, quando lui dorme, alcune vanno dintorno al prato per guardare da lunga, altre ne stanno da presso; e tengano uno sasso ciascuna in piè, acciò che, se ’l sonno le vincessi, essa pietra cadrebbe, e farebbe tal romore, che si ridesterebbono; e altre vi sono, che ’nsieme intorno al re dormano, e ciò fanno, ogni notte scambiandosi, a ciò che ’l loro re non venga ’mancare.

XIX. — FALSITÀ.[49]

La volpe, quando vede alcuna torma di gazze o taccole [specie di cornacchia] o simili uccelli, subito si [37] gitta in terra in modo, con la bocca aperta, che par morta, e essi uccelli le voglian beccare la lingua, e essa gli piglia la testa.

XX. — BUGIA.[50]

La talpa ha li occhi molto piccioli, e sempre sta sotto terra, e tanto vive, quanto essa sta occulta, e, come viene alla luce, subito more, perchè si fa nota così la bugía.

XXI. — TIMORE OVER VILTÀ.[51]

La lepre sempre teme, e le foglie, che caggiano dalle piante per autunno, sempre la tengano in timore e, ’l più delle volte, in fuga.

XXII. — MAGNANIMITÀ.[52]

Il falcone non preda mai, se non l’uccelli grossi, e prima si lascierebbe morire, che si cibassi de’ piccioli, e che mangiasse carne fetida.

XXIII. — VANAGLORIA.[53]

In questo vizio, si legge del pagone esserli più che altro animale sottoposto, perchè sempre contempla in nella bellezza della sua coda, quella allargando in forma di rota, e col suo grido trae a sè la vista de’ circustanti [38] animali. E questo è l’ultimo vizio, che si possa vincere.

XXIV. — CONSTANZA.[54]

Alla constanza s’assimiglia la fenice; la quale, intendendo per natura la sua rennovazione, è costante a sostener le cocenti fiamme, le quali la consumano, e poi di novo rinasce.

XXV. — INCONSTANZA.[55]

Il rondone si mette per la inconstanza; il quale sempre sta in moto, per non sopportare alcuno minimo disagio.

XXVI. — TEMPERANZA.[56]

Il cammello è il più lussurioso animale che sia, e andrebbe mille miglia dirieto a una cammella, e, se usassi continuo con la madre o sorelle, mai le tocca, tanto si sa ben temperare.

XXVII. — INTEMPERANZA.[57]

L’alicorno overo unicorno, per la sua intemperanza a non sapersi vincere, per lo diletto che ha delle donzelle, dimentica la sua ferocità e salvatichezza; ponendo da canto ogni sospetto va alla sedente donzella, e se le addormenta in grembo; e i cacciatori in tal modo lo pigliano.

[39]

XXVIII. — UMILTÀ.[58]

Dell’umiltà si vede somma sperienza nello agnello; il quale si sottomette a ogni animale, e, quando per cibo son dati alli ’ncarcerati leoni, a quelli si sottomettono, come alla propria madre, in modo che, spesse volte, s’è visto i leoni non li volere occidere.

XXIX. — SUPERBIA.[59]

Il falcone, per la sua alterigia e superbia, vole signoreggiare e sopraffare tutti li altri uccelli, che son di rapina, e sen’ desidera essere solo; e spesse volte s’è veduto il falcone assaltare l’aquila, regina delli uccelli.

XXX. — ASTINENZA.[60]

Il salvatico asino, quando va alla fonte per bere e truova l’acqua intorbidata, non arà mai sì gran sete, che non s’astenga di bere, e aspetti ch’essa acqua si rischiari.

XXXI. — GOLA.[61]

Il voltore [l’avoltoio] è tanto sottoposto alla gola, che andrebbe mille miglia per mangiare d’una carogna; e per questo seguita (li eserciti).

[40]

XXXII. — CASTITÀ.[62]

La tortora non fa mai fallo al suo compagno, e, se l’uno more, l’altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su ramo verde, e non bee mai acqua chiara.

XXXIII. — LUSSURIA.[63]

Il palpistrello [pipistrello, come al n. LXIII], per la sua isfrenata lussuria, non osserva alcuno universale modo [regolare modo, costante] di lussuria, anzi maschio con maschio, femmina con femmina, sì come a caso si trovano, insieme usano il lor coito.

XXXIV. — MODERANZA.[64]

L’ermellino, per la sua moderanza, non mangia se non una sola volta il dì, e prima si lascia pigliare a’ cacciatori che voler fuggire nella infangata tana — per non maculare la sua gentilezza.

XXXV. — AQUILA.[65]

L’aquila, quando è vecchia, vola tanto in alto che abbrucia le sue penne, e natura consente che si rinnovi in gioventù, cadendo nella poca acqua. E, se i sua nati non po’ [possono] [41] sostener la vista del sole, non li pasce. Nessuno uccel, che non vole morire, non s’accosti al suo nido! Gli animali che forte la temano! Ma essa a lor non noce [Sott.: senza che sia provocata]: sempre lascia rimanente della sua preda.

XXXVI. — LUMERPA [uccello favoloso]. FAMA.[66]

Questa nasce nell’Asia Maggiore, e splende sì forte che toglie le sue ombre, e morendo non perde esso lume, e mai li cade più le penne, e la penna, che si spicca, più non luce.

XXXVII. — PELLICANO.[67]

Questo porta grande amore a’ sua nati, e, trovando quelli nel nido morti dal serpente, si punge a riscontro al core, e, col suo piovente sangue bagnandoli, li torna in vita.

XXXVIII. — SALAMANDRA.[68]

La salamandra nel foco raffina la sua scorza. Per la virtù [detto per la virtù, simbolo della virtù]: questa non ha membra passive [non patisce, non soffre], e non si prende la cura d’altro cibo che di foco, e spesso in quello rinnova la sua scorza.

[42]

XXXIX. — CAMALEON [camaleonte]. [69]

Questo vive d’aria, e in quella s’assubietta tutti li uccelli; e, per istare più salvo, vola sopra le nube, e trova aria tanto sottile, che non po’ sostenere uccello, che lo seguiti.

A questa altezza non va se non a chi da’ cieli è dato, cioè dove vola il camaleone.

XL. — ALEPO PESCE.[70]

Alepo non vive fori dell’acqua.

XLI. — STRUZZO.[71]

Questo converte il ferro in suo nutrimento; cova l’ova colla vista. Per l’arme [detto per l’armi, simbolo delle armi], nutrimento de’ capitani.

XLII. — CIGNO.[72]

Cigno è candido, sanza alcuna macchia e dolcemente canta nel morire; il qual canto termina la vita.

XLIII. — CICOGNA.[73]

Questa, bevendo la salsa acqua, caccia da sè il male; se truova la compagna in fallo, [43] l’abbandona, e, quando è vecchia, i sua figlioli la covano e pascano, in fin che more.

XLIV. — CICALA.[74]

Questa col suo canto fa tacere il cucco [cuculo]; more nell’olio e rinasce nell’aceto; canta per li ardenti caldi.

XLV. — BASALISCO.[75]

Crudeltà. Questo è fuggito da tutti i serpenti, la donnola, per lo mezzo della ruta, combatte con esso, e sì l’uccide.

XLVI. — L’ASPIDO, STA PER LA VIRTÙ.

Questo porta ne’ denti la subita morte, e, per non sentire l’incanti, colla coda si stóppa li orecchi.

XLVII. — DRAGO.[76]

Questo lega le gambe al liofante, e quel li cade adosso, e l’uno e l’altro more. E, morendo, fa sua vendetta.

XLVIII. — VIPERA.[77]

Quest’ha nel suo [ha di proprio, di particolare], ch’apre bocca, e nel fine strigne’ denti, e ammazza il marito; poi i [44] figlioli, in corpo cresciuti, straccian il ventre, e occidano la madre.

XLIX. — SCORPIONE.[78]

La sciliva sputa a digiuno sopra dello scorpione, l’occide; a similitudine dell’astinenza della gola, che tolle via e occide le malattie, che da essa gola dipendano, e apre la strada alle virtù.

L. — COCODRILLO, IPOCRESIA.[79]

Questo animale piglia l’omo, e subito l’uccide. Poi che l’ha morto, con lamentevole voce e molte lacrime, lo piange, e, finito il lamento, crudelmente lo divora. Così fa l’ipocrito, che, per ogni più lieve cosa, s’empie il viso di lagrime, mostrando un cor di tigre, e rallegrasi in cor dell’altrui male, con pietoso volto.

LI. — BOTTA [rospo].[80]

La botta fugge la luce del sole, e, se pure per forza è tenuta, sgonfia tanto che s’asconde la testa in basso, e privasi d’essi razzi. Così fa chi è nimico della chiara e lucente virtù, che non po’, se non con insgonfiato animo, forzatamente starle davanti.

[45]

LII. — BRUCO, DELLA VIRTÙ IN GENERALE.[81]

Il bruco [Sott.: simboleggia la virtù], che, mediante l’esercitato studio di tessere con mirabile artifizio e sottile lavoro intorno a sè la nova abitazione, esce poi fori di quella colle dipinte e belle ali, con quelle lanciandosi in verso il cielo.

LIII. — RAGNO.[82]

Il ragno partorisce fori di sè l’artificiosa e maestrevole tela, la quale gli rende, per benefizio, la presa preda.

LIV. — LEONE.[83]

Questo animale col suo tonante grido desta i sua figlioli, dopo il terzo giorno nati, aprendo a quelli tutti l’indormentati sensi: e tutte le fiere, che nella selva sono, fuggano.

Puossi assimigliare a’ figlioli della virtù, che, mediante il grido delle laude, si svegliano, e crescano li studi onorevoli, che sempre più gl’innalzan, e tutti i tristi a esso grido fuggano, cessandosi [allontanandosi] dai virtuosi.

Ancora, il leone copre le sue pedate, perchè non s’intenda il suo viaggio per i nimici. Questo sta bene ai capitani a celare [46] i segreti del suo animo, acciò che’ nimici non cognoscano i sua tratti [le sue astuzie; i suoi disegni].

LV. — TARANTA [tarantola].[84]

Il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè in quello che pensava, quando fu morso.

LVI. — DUCO O CIVETTA.[85]

Queste castigano i loro schermidori, privandoli di vita, che così ha ordinato natura, perchè si cibino.

LVII. — LEOFANTE.[86]

Il grande elefante ha, per natura, quel che raro negli omini si truova, cioè probità, prudenza, equità e osservanza in religione. Imperocchè, quando la luna si rinnova, questi vanno ai fiumi e, quivi purgandosi, solennemente si lavano, e così, salutato il pianeta, si ritornano alle selve. E, quando sono ammalati, stando supini, gittano l’erbe verso il cielo, quasi come se sacrificare volessino.

Sotterra li denti, quando per vecchiezza gli caggiano; de’ sua denti, l’uno adopra a cavare le radici per cibarsi, all’altro conserva [47] la punta per combattere. Quando sono superati da’ cacciatori e che la stanchezza gli vince, percotesi li denti l’elefante e, quelli trattosi, con essi si ricomprano.

Sono clementi e conoscano i pericoli: e, se esso trova l’omo solo e smarrito, piacevolmente lo rimette sulla perduta strada; se truova le pedate dell’omo, prima che veda l’omo, esso teme tradimento, onde si ferma e soffia, mostrandola all’altri elefanti, e fanno schiera, e vanno assentitamente [cautamente].

Questi vanno sempre a schiere, e ’l più vecchio va innanzi, e ’l secondo d’età resta l’ultimo, e così chiudono la schiera. Temano vergogna: non usano il loro coito, se non di notte di nascosto, e non tornano, dopo il coito, alli armenti, se prima non si lavano nel fiume; non combattono ma’ femmine, come gli altri animali. È di tanto clemente, che mal volentieri, per natura, non noce ai men possenti di sè, e, scontrandosi nella mandria e greggi delle pecore, colla sua mano le pone da parte per non le pestare co’ piedi, nè mai noce, se non sono provocati. Quando son caduti nella fossa, gli altri con rami, terra e sassi riempiano la fossa, in modo alzano il [48] fondo, ch’esso facilmente riman libero. Temano forte lo stridere de’ porci, e fuggan indirieto, e non fa manco danno poi co’ piedi a’ sua che a’ nimici. Dilettansi de’ fiumi, e sempre vanno vagabondi intorno a quegli, e per lo gran peso non possan notare; divorano le pietre, i tronchi degli alberi son loro gratissimo cibo, hanno in odio i ratti; le mosche si dilettano del suo odore e, posandosele adosso, quello arrappa [Qui: aggrinza, increspa] la pelle e, fra le pieghe strette, l’uccide.

Quando passano i fiumi, mandano i figlioli diverso il calar dell’acqua, e, stando loro inverso l’erta, rompono l’unito corso dell’acqua, a ciò che ’l corso non li menasse via.

Il drago se li getta sotto il corpo, colla coda l’annoda le gambe, e coll’ali e colle branche li cigne le coste, e co’ denti lo scanna, e ’l liofante li cade adosso, e il drago schioppa e così, colla sua morte, del nemico si vendica.

LVIII. — IL DRAGONE.[87]

Questi s’accompagnan insieme, e si tessano a uso di ratiti [Plinio: cratium modo, a uso di graticci], e, colla testa levata, passano i paduli, e notano, dove trovan migliore [49] pastura, e, se così non si unissin, annegherebbono. Così fa unione.

LIX. — SERPENTE.[88]

Il serpente, grandissimo animale, quando vede alcuno uccello per l’aria, tira a sè sì forte il fiato, che si tira gli uccelli in bocca. Marco Regulo, consulo dello esercito romano, fu col suo esercito da un simile animale assalito e quasi rotto. Il quale animale, essendo morto per una macchina murale, fu misurato 125 piedi, cioè 64 braccia e ½: avanzava colla testa tutte le piante d’una selva.

LX. — BOA.[89]

Questa è gran biscia, la quale con sè medesima s’aggrappa alle gambe della vacca, in modo non si mova, poi la tetta, in modo che quasi la dissecca. Di questa spezie, a tempo di Claudio imperadore, sul monte Vaticano ne fu morta una, che aveva un putto intero in corpo, il quale avea tranghiottito.

LXI. — MACLI [Plinio: sorta di gran cervo (cervus alces)] PEL SONNO È GIUNTA.[90]

Questa bestia nasce in Iscandinavia isola, ha forma di gran cavallo, se non che la gran [50] lunghezza dello collo e delli orecchi lo variano; pasce l’erba allo ’ndirieto, perchè ha sì lungo il labbro di sopra che, pascendo innanzi, coprirebbe l’erba. Ha le gambe d’un pezzo, per questo, quando vol dormire, s’appoggia a uno albero, e i cacciatori, intendendo il loco usato a dormire, segan quasi tutta la pianta, e, quando questo poi vi s’appoggia nel dormire, per lo sonno cade; i cacciatori così lo pigliano, e ogni altro modo di pigliarlo è vano, perchè è d’incredibile velocità nel correre.

LXII. — BONASO [bisonte] NOCE COLLA FUGA.[91]

Questo nasce in Peonia, ha còllo con crini simile al cavallo, in tutte l’altre parte è simile al toro, salvo che le sue corna sono in modo piegate indentro che non po’ cozzare, e per questo non ha altro scampo che la fuga, nella quale gitta sterco per ispazio di 400 braccia del suo corso — il quale, dove tocca, abbrucia come foco.

LXIII. — PALPISTRELLO.[92]

Questo dov’è più luce, più si fa orbo, e, come più guarda il sole, più s’accieca. Pel vizio, che non po’ stare dov’è la virtù.

[51]

LXIV. — PERNICE.[93]

Questa si trasmuta di femmina in maschio, e dimentica il primo sesso, e fura [ruba, rapisce] per invidia l’ova all’altre, ma i nati seguitano la vera madre.

LXV. — RONDINE.[94]

Questa co’ la celidonia [Sorta di pietra favolosa, che si dice trovarsi in ventre alle rondini; come al n. LXXXVII] ’lumina i sua ciechi nati.

LXVI. — ERMELLINO.[95]

Moderanza raffrena tutti i vizi. L’ermellino prima vol morire che ’mbrattarsi.

LXVII. — LEONI, PARDI, PANTERE, TIGRI.

Queste tengano l’unghie nella guaina, e mai le sfoderano, se non è adosso alla preda o nemico.

LXVIII. — LEONESSA.[96]

Quando la leonessa difende i figlioli dalle man de’ cacciatori, per non si spaventare dalli spiedi, abbassa li occhi a terra, a ciò che là, per sua fuga, i figli non sieno prigioni.

[52]

LXIX. — LEONE.[97]

Questo sì terribile animale niente teme più che lo strepito delle vòte carrette e simile il canto de’ galli; teme assai nel vederli e con pauroso aspetto riguarda la sua cresta — e forte invilisce quando ha coperto il volto.

LXX. — PANTERE IN AFRICA.[98]

Questa ha forma di leonessa, ma è più alta di gambe e più sottile e lunga e tutta bianca e punteggiata di macchie nere, a modo di rosette; di questa si dilectano tutti li animali di vedere, e sempre le starebbon dintorno se non fussi la terribilità del suo viso: onde essa, questo conoscendo, asconde il viso, e li animali circustanti s’assicurano e fannosi vicini per meglio potere fruire [godere] tanta bellezza, onde questa subito piglia il più vicino e subito lo divora.

LXXI. — CAMMELLI.[99]

Quegli Battriani hanno due gobbi, gli Arabi uno; sono veloci in battaglia e utilissimi a portare le some. Questo animale [53] ha regola e misura osservantissima, perchè non si move, se ha più carico che l’usato, e, se fa più viaggio, fa il simile, subito si ferma, onde lì bisogna a’ mercatanti alloggiare.

LXXII. — TIGRE.[100]

Questa nasce in Ircania, la quale è simile alquanto alla pantera per le diverse macchie della sua pelle, ed è animale di spaventevole velocità. Il cacciatore, quando truova i sua figli, li rapisce, subito ponendo specchi nel loco donde li leva, e subito, sopra veloce cavallo, si fugge. La pantera, tornando, trova li specchi fermi in terra, ne’ quali, vedendo sè, li pare vedere li sua figlioli, e, raspando colle zampe, scopre lo ’nganno, onde, mediante l’odore de’ figli, seguita il cacciatore, e quando esso cacciatore vede la tigre, lascia uno de’ figlioli, e questa lo piglia e portalo al nido, e subito rigiugne sul cacciatore, e fa ’l simile insino a tanto ch’esso monta in barca.

LXXIII. — CATOPLEAS [Plinio: catoblepas, sorta di serpente].[101]

Questa nasce in Etiopia, vicino al fonto Nigricapo, è animale non troppo grande e [54] pigro in tutte le membra, e ha ’l capo di tanta grandezza che malagevolmente lo porta, in modo che sempre sta chinato inverso la terra, altremente sarebbe di somma peste alli omini, perchè qualunque è veduto da’ sua occhi subito more.

LXXIV. — BASILISCO.[102]

Questo nasce nella provincia Arenaica, e non è maggiore che 12 dita, e ha in capo una macchia bianca a similitudine di diadema; col fischio caccia ogni serpente, a similitudine di serpe, ma non si move con torture, anzi ma ritto dal mezzo innanzi. Dicesi che uno di questi, essendo morto con un aste da uno che era a cavallo, che ’l suo veneno discorrendo su per l’aste, non che l’omo, ma il cavallo morì. Guasta le biade, e, non solamente quelle che tocca, ma quelle dove soffia; secca l’erbe, spezza i sassi.

LXXV. — DONNOLA OVER BELLOLA.[103]

Questa, trovando la tana del basilisco, coll’odore della sua sparsa orina, l’occide: l’odore della quale orina ancora, spesse volte, essa donnola occide.

[55]

LXXVI. — CERASTE [Plinio: Altra sorta di serpente].[104]

Queste hanno quattro piccioli corni mobili, onde, quando si vogliano cibare, nascondano sotto le foglie tutta la persona, salvo esse cornicina; le quali movendo, pare agli uccelli quelli essere piccioli vermini, che scherzino, onde subito si calano per beccarli, e questa subito s’avviluppa loro in cerchio, e sì li divora.

LXXVII. — AMFESIBENE.[105]

Questa ha due teste, l’una nel suo loco, l’altra nella coda, come se non bastassi, che da un solo loco gittassi il veneno.

LXXVIII. — IACULO [Plinio: serpe velenoso].[106]

Questa sta sopra le piante, e si lancia come dardo, e passa attraverso le fiere, e l’uccide.

LXXIX. — ASPIDO.[107]

Il morso di questo animale non ha rimedio, se non di subito tagliare le parti morse. Questo sì pestifero animale ha tale affezione nella sua compagna, che sempre vanno accompagnati; che, se per disgrazia [56] l’uno di loro è morto, l’altro, con incredibile velocità, seguita l’ucciditore; ed è tanto attento e sollecito alla vendetta, che vince ogni difficultà, passando ogni esercito. Solo il suo nemico cerca offendere, e passa ogni spazio, e non si può schifarlo, se non col passare l’acque o con velocissima fuga. Ha li occhi in dentro e grandi orecchi, e più lo move l’audito che ’l vedere.

LXXX. — ICNEUMONE [Volg.: topo di Faraone].[108]

Questo animale è mortale nemico all’aspido nasce in Egitto, e, quando vede presso al suo sito alcuno aspido, subito corre alla litta [Minutissima arena, che si suol trovare vicino a’ fiumi o torrenti; come al n. LXXXIII] over fango del Nilo, e con quello tutto s’infanga, e poi, risecco dal sole, di novo di fango s’imbratta, e, così seccando l’un dopo l’altro, si fa tre o quattro veste, a similitudine di corazza; e di poi assalta l’aspido, e ben contrasta con quello, in modo che, tolto il tempo, se li caccia in gola e l’ammazza.

LXXXI. — COCODRILLO.[109]

Questo nasce nel Nilo, ha quattro piedi, nuoce in terra e in acqua, nè altro terrestre [57] animale ai truova sanza lingua, che questo, e solo morde movendo la mascella di sopra; cresce insino in 40 piedi, è unghiato, armato d corame, atto a ogni colpo, e ’l dì sta in terra, e la notte in acqua. Questo, cibato di pesci, s’addormenta sulla riva del Nilo colla bocca aperta, e l’uccello detto trochilo [troglodites o reatino], piccolissimo uccello, subito li corre alla bocca e, saltatoli fra i denti, dentro e fora li va beccando il rimaso cibo, e, così stuzzicandolo con dilettevole voluttà, lo ’nvita aprire tutta la bocca, e così s’addormenta. Questo veduto dal eumone [icneumone, vedi n. LXXX], subito si li lancia in bocca e, foratoli lo stomaco e le budella, finalmente l’uccide.

LXXXII. — DELFINO.[110]

La natura ha dato tal cognizione alli animali che, oltre al conoscere la loro comodità, e’ conoscono la incomodità del nimico, onde intende il delfino quanto vaglia il taglio dello sue pinne, posteli sulla schiena, e quanto sia tenera la pancia dei cocodrillo, onde nel lor combattere si li caccia sotto, e tagliali la pancia, e così l’uccide.

[58]

Il cocodrillo è terribile a chi fugge, e vilissimo a chi lo caccia.

LXXXIII. — HIPPOTAMO [ippopotamo].[111]

Questo, quando si sente aggravatola cercando le spine o, dove sia, i rimanenti de’ tagliati canneti, e lì tanto frega una vena, che la taglia e, cavato il sangue che li abbisogna, colla litta s’infanga e risalda la piaga. Ha forma quasi come cavallo, l’unghia fessa, coda torta e denti di cinghiale, còllo con crini, la pelle non si po’ passare se non si bagna, pascesi di biade; ne’ campi entravi allo ’ndirieto, acciò che pare ne sia uscito.

LXXXIV. — IBIS.[112]

Questo ha similitudine colla cicogna, e, quando si sente ammalato, empie il gozzo d’acqua, e col becco si fa un cristero [clistere].

LXXXV. — CERVI.[113]

Questo, quando si sente morso dal ragno detto falange, mangia de’ granchi, e si libera di tal veneno.

[59]

LXXXVI. — LUSERTE [lucertola].[114]

Questa, quando combatte colle serpe, mangia la cicerbita [Linneo: sonchus oleraceus (pianta)], e son libere.

LXXXVII. — RONDINE.[115]

Questa rende il vedere alli inorbiti figlioli col sugo della celidonia.

LXXXVIII. — BELLOLA.[116]

Questa, quando caccia ai ratti, mangia prima della ruta.

LXXXIX. — CINGHIALE.[117]

Questo medica i sua mali mangiando della edera.

XC. — SERPE.[118]

Questa, quando si vol rennovare, gitta il vecchio scoglio [scoglia, la pelle che gitta ogni anno la serpe], comenciandosi dalla testa; mutasi ’n un dì e una nocte.

XCI. — PANTERA.[119]

Questa, poi che le sono uscite le ’nteriora, ancora combatte coi cani e cacciatori.

[60]

XCII. — CAMALEONE.[120]

Questo piglia sempre il colore della cosa, dove si posa, onde, insieme colle frondi dove si posano, spesso dalli elefanti son divorati.

XCIII. — CORBO [corvo].[121]

Questo, quando ha ucciso il camaleone, si purga coll’alloro.

XCIV. — MAGNANIMITÀ.

Il falcone non piglia se non uccelli grossi, e prima more che mangiare carne di non bono odore.

XCV. — GRU.

Le gru, acciò che ’l loro re non perisca per cattiva guardia, la notte li stanno dintorno con pietre in piè.

Amor, timor e reverenza: questo scrivi in tre sassi di gru.

XCVI. — CARDELLINO.

Il calderugio [cardellino] dà il tortomalio [titimalo, titimaglio, pianta del genere euforbia] a’ figlioli ingabbiati. — Prima morte che perdere libertà!

[61]

XCVII. — DELL’ANTIVEDERE.

Il gallo non canta, se prima tre volte non batte l’ali; il papagallo, nel mutarsi pe’ rami, non mette i piè, dove non ha prima messo il becco.

XCVIII. — PER BEN FARE.

Per il ramo della noce, — che solo è percosso e battuto, quand’e’ ha condotto a perfezione li sua frutti, — si dinota quelli, che, mediante il fine delle loro famose opere, son percossi dalla invidia per diversi modi.

XCIX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Per lo spino, insiditoli [innestatogli] sopra boni frutti, significa quello, che per se non era disposto a virtù, ma mediante l’aiuto del precettore dà di sè utilissime virtù.

C. — DEL LINO.

Il lino è dedicato a morte e corruzione de’ mortali: a morte pe’ lacciuoli delli uccelli, animali e pesci; a corruzione per le tele line dove s’involgano i morti, che si sotterrano, i quali si corrompono in tali tele. [62] E ancora esso lino non si spicca dal suo festuco, se esso non comincia a macerarsi o corrompersi, e questo è quello col quale si deve incoronare e ornare li uffizî funerali.

CI. — FRAMMENTO.

Per il pannolino, che si tien colla mano nel corso dell’acqua corrente, nella quale acqua il panno lascia tutte le sue brutture, significa questo ec.

[63]

I PENSIERI.

[65]

PENSIERI SULLA SCIENZA.

I. — LA TEORIA E LA PRATICA.

Bisognati descrivere la teorica e poi la pratica.

II. — DELL’ERROR DI QUELLI, CHE USANO LA PRATICA SANZA SCIENZA.

Quelli, che s’innamoran di pratica sanza scienza, son come ’l nocchiere, ch’entra in navilio sanza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.

Sempre la pratica dev’esser edificata sopra la bona teorica; della quale la Prospettiva è guida e porta, e, sanza questa, nulla si fa bene ne’ casi di pittura.

III. — PARAGONE DEL PRATICO.

Il pittore, che ritrae per pratica e giudizio d’occhio, sanza ragione, è come lo specchio, [66] che in sè imita tutte le a sè contrapposte cose, sanza cognizione d’esse.

IV. — PRECEDENZA DELLA TEORICA ALLA PRATICA.

La scienza è il capitano, e la pratica sono i soldati.

V. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza.

VI. — CONSIGLIO AL PITTORE.

E tu, pittore, che desideri la grandissima pratica, hai da intendere, che, se tu non la fai sopra bon fondamento delle cose naturali, tu farai opere assai con poco onore e men guadagno; e se la farai buona, l’opere tue saranno molte e bone, con grand’onor tuo e molta utilità.

VII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Dice qui l’avversario, che non vuole tanta scienza, che gli basta la pratica del ritrarre le cose naturali. Al quale si risponde, che di nessuna cosa è, che più c’inganni, che fidarsi del nostro giudicio, sanz’altra ragione, come prova sempre la sperienza, nemica [67] degli Alchimisti, Negromanti e altri semplici ingegni.

VIII. — SUL FATTO ANATOMICO DELLO SVILUPPO GRANDE DEL CRANIO NEL FANCIULLO.

La natura ci compone prima la grandezza della casa dello intelletto [il cranio, la testa], che quella delli spiriti vitali [il petto].

IX. — DIVERSITÀ DELLA TEORICA DALLA PRATICA.

Dove la scienza de’ pesi è ingannata dalla pratica.

La scienza de’ pesi è ingannata dalla sua pratica, e, in molte parte, essa [Sott.: pratica] non s’accorda con essa scienza, nè è possibile accordarla; e questo nasce dalli poli delle bilancie, mediante li quali di tali pesi si fa scienza, li quali poli, appresso li antichi filosofi, furo li poli posti di natura di linia matematica, e in alcun loco in punti matematici, li quali punti e linie sono incorporei: e la pratica li pone corporei, perchè così comanda necessità, volendo sostenere il peso d’esse bilancie, [68] insieme colli pesi [Sott.: che] sopra di lor si giudicano.

Ho trovato essi antichi essersi ingannati in esso giudizio de’ pesi, e questo inganno è nato perchè in gran parte della loro scienza hanno usati poli corporei, e in gran parte poli matematici, cioè mentali, overo incorporei.[122]

X. — STERILITÀ DELLE SCIENZE SENZA APPLICAZIONE PRATICA.

Tutte le scienze, che finiscono in parole, hanno sì presto morte, come vita, eccetto la sua parte manuale, cioè lo scrivere, ch’è parte meccanica.

XI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Fuggi quello studio, del quale la resultante opera muore insieme coll’operante d’essa.

XII. — RICORDI DI LEONARDO.

Quando tu metti insieme la Scienza de’ moti dell’acqua, ricordati di mettere, di sotto a ciascuna proposizione, li sua giovamenti, a ciò che tale scienza non sia inutile.

[69]

XIII. — LA DISTRIBUZIONE DEI SUOI TRATTATI.

Da profondare un canale: fa questo nel libro De’ giovamenti, e, nel provarli, allega le proposizioni provate; e questo è il vero ordine, perchè, se tu volessi mostrare il giovamento a ogni proposizione, ti bisognerebbe ancora fare novi strumenti per provar tale utilità, e così confonderesti l’ordine de’ quaranta libri, e così l’ordine delle figurazioni; cioè avresti a mischiare pratica con teorica, che sarebbe cosa confusa e interrotta.

XIV. — VALORE INTRINSECO DEL SAPERE.

L’acquisto di qualunque cognizione è sempre utile allo intelletto, perchè potrà scacciare da sè le cose inutili, e riservare le buone. Perchè nessuna cosa si può amare nè odiare, se prima non si ha cognizion di quella.

XV. — NATURALE ISTINTO DELL’UOMO AL SAPERE.

Naturalmente li omini boni desiderano sapere.

[70]

XVI. — PIACERE, CHE NASCE DALLA CONTEMPLAZIONE DELLA NATURA.

Alli ambiziosi, che non si contentano del benefizio della vita, nè della bellezza del mondo, è dato per penitenza che lor medesimi strazino essa vita, e che non posseggano la utilità e bellezza del mondo.

XVII. — LEONARDO CONTRO GLI SPREZZATOSI DELLE SUE OPERE.[123]

So che molti diranno questa essere opra inutile, e questi fieno quelli, de’ quali Deometro [Demetrio] disse, non faceva conto più del vento, il quale nella lor bocca causava le parole, che del vento, ch’usciva dalla parte di sotto; uomini quali hanno solamente desiderio di corporal ricchezze, diletto, e interamente privati di quello della sapienza, cibo e veramente sicura ricchezza dell’anima: perchè quant’è più degna l’anima che ’l corpo, tanto più degne fien le ricchezze dell’anima, che del corpo.

E spesso, quando vedo alcun di questi pigliare essa opera in mano, dubito non sì, [71] come la scimmia, se ’l mettino al naso, e che mi domandi s’è cosa mangiativa.

XVIII. — CONTRO GLI SPREZZATORI DELLA SCIENZA.

Demetrio solea dire, non essere differenza dalle parole e voce dell’imperiti ignoranti, che sia da soni o strepiti causati dal ventre, ripieno di superfluo vento. E questo non sanza ragion dicea, imperocchè lui non reputava esser differenza da qual parte costoro mandassino fuora la voce, o da la parte inferiore o da la bocca, che l’una e l’altra eran di pari valimento e sustanzia.

XIX. — RIFLESSIONE SULLA STRUTTURA DEL CORPO UMANO.

Non mi pare, che li omini grossi e di tristi costumi e di poco discorso meritino sì bello strumento, nè tanta varietà di macchinamenti, quanto li omini speculativi e di gran discorsi, ma solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca; che, invero, altro che un transito di cibo non son da essere giudicati, perchè niente mi pare che essi partecipino di spece umana, altro che la voce e la figura; e tutto il resto è assai manco che bestia.

[72]

XX. — CONTRO GLI UOMINI, CHE MIRANO SOLO ALLA VITA MATERIALE.

Ecci alcuni, che non altramenti che transito di cibo e aumentatori di sterco e riempitori di destri [latrine] chiamarsi debbono; perchè per loro non altro nel mondo, o pure alcuna virtù in opera si mette, perchè di loro altro che pieni destri non resta.

XXI. — I DUE CAMPI DELLA CONOSCENZA.

La cognizion del tempo preterito e del sito della terra è ornamento e cibo delle menti umane.

XXII. — IL SUPREMO BENE È IL SAPERE.[124]

Cornelio Celso: «Il sommo bene è la sapienza, il sommo male è ’l dolore del corpo: imperò che, essendo noi composti di due cose, cioè d’anima e di corpo, delle quali la prima è migliore, la peggiore è il corpo. La sapienza è della miglior parte, il sommo male è della peggior parte e pessima. Ottima cosa è nell’animo la sapienza, così è pessima cosa nel corpo il dolore. Adunque, sì come il sommo male è ’l corporal doloro, così la sapienza [73] è dell’anima il sommo bene, cioè dell’uom saggio, e niuna altra cosa è da a questa comparare.»

XXIII. — VALORE DEL SAPERE NELLA VITA.

Acquista cosa nella tua gioventù, che ristori il danno della tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento.

XXIV. — GLORIFICAZIONE DELLA SCIENZA.

.... Manca la fama del ricco ’nsieme co’ la sua vita, resta la fama del tesoro e non del tesaurizzante: e molto maggior gloria è quella della virtù de’ mortali, che quella delli loro tesori.

Quanti imperatori e quanti principi sono passati, che non ne resta alcuna memoria! e solo cercarono li stati e ricchezze, per lassare fama di loro.

Quanti furon quelli, che vissono in povertà di denari, per arricchire di virtù! e tanto è più riuscito tal desiderio al virtuoso, ch’al ricco, quanto la virtù eccede la ricchezza.

Non vedi tu, ch’il tesoro per sè non lauda il suo cumulatore, dopo la sua vita, come fa [74] la scienza? la quale sempre è testimonia e tromba del suo creatore, perchè ella è figliola di chi la genera, e non figliastra, come la pecunia.

XXV. — COME PER TUTTI ’VIAGGI SI PO’ IMPARARE.

Questa benigna natura ne provvede in modo, che per tutto il mondo tu trovi dove imitare.

XXVI. — L’INERZIA GUASTA LA SOTTILITÀ DELL’INGEGNO.

Siccome il ferro s’arrugginisce sanza esercizio, e l’acqua si putrefà, e nel freddo s’agghiaccia; così l’ingegno, sanza esercizio, si guasta.

XXVII. — LO STUDIO SENZA VOGLIA NON DÀ ALCUN FRUTTO.

Siccome mangiare sanza voglia si converte in fastidioso notrimento, così lo studio sanza desiderio guasta la memoria, col non ritenere cosa, ch’ella pigli.

XXVIII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Siccome il mangiare sanza voglia fia dannoso alla salute, così lo studio sanza desiderio [75] guasta la memoria, e non ritien cosa, ch’ella pigli.

XXLX. — PER GIUDICARE L’OPERA PROPRIA BISOGNA RIGUARDARLA DOPO LUNGO INTERVALLO.

Sì come il corpo, con gran tardità fatta nella lunghezza del suo moto contrario, torna con più via, dà poi maggior colpo, — e quello, che è di continui e brievi moti, son di piccola valetudine; così lo studio su una medesima materia, fatto con lunghi intervalli di tempo, il giudizio s’è fatto più perfetto, e meglio giudica il suo errore. E ’l simile fa l’occhio del pittore col discostarsi dalla sua pittura.

XXX. — ANTIQUITAS SÆCULI IUVENTUS MUNDI.

La verità sola fu figliola del tempo.

XXXI. — GLORIFICAZIONE DELLA VERITÀ.

Ed è di tanto vilipendio la bugia, che s’ella dicessi ben gran cose di Dio, ella to’ [toglie] di grazia a sua deità; ed è di tanta eccellenza [76] la verità, che s’ella laudassi cose minime, elle si fanno nobili.

Sanza dubbio, tal proporzione è dalla verità alla bugia, qual’è da la luce alle tenebre; ed è essa verità in sè di tanta eccellenzia, che ancora ch’ella s’astenda sopra umili e basse materie, sanza comparazione ell’eccede le incertezze e bugie estese sopra li magni e altissimi discorsi; perchè la mente nostra, ancora ch’ell’abbia la bugia pe ’l quinto elemento, non resta però che la verità delle cose non sia di sommo notrimento delli intelletti fini, ma non de’ vagabondi ingegni. Ma tu che vivi di sogni, ti piace più le ragion sofistiche e barerie de’ palari [frodi de’ giocatori di palla, sotterfugi] nelle cose grandi e incerte, che delle certe naturali e non di tanta altura!

XXXII. — CONSEGUENZA DELLE OPPOSIZIONI ALLA VERITÀ.

L’impedimenti della verità si convertono in penitenza.

XXXIII. — DEFINIZIONE DELLA SCIENZA.

Scienza è detto quel discorso mentale, il quale ha origine da’ suoi ultimi principii, [77] (oltre) de’ quali in natura null’altra cosa si può trovare, che sia parte d’essa scienza: come nella quantità continua, cioè la scienza di Geometria, la quale, cominciando dalla superfizie de’ corpi, si trova avere origine nella linea, termine di essa superfizie; e in questo non restiamo soddisfatti, perchè noi conosciamo la linea aver termine nel punto, e il punto esser quello, del quale null’altra cosa può essere minore.

Dunque il punto è il primo principio di Geometria, e niuna altra cosa può essere nè in natura, nè in mente umana, che possa dar principio al punto. Perchè se tu dirai, nel contatto fatto sopra una superfizie da un’ultima acuità della punta de lo stile, quello essere creazione del punto; questo non è vero, ma diremo, questo tale contatto essere una superfizie, che circonda il suo mezzo, e in esso mezzo è la residenza del punto. E tal punto non è della muteria di essa superfizie, nè lui, nè tutti li punti dell’universo, [Sott.: che] sono in potenza, ancorchè sieno uniti — dato che si potessero unire — comporrebbono parte alcuna d’una superfizie. E dato, che tu ti immaginassi, un tutto essere [78] composto da mille punti, qui dividendo alcuna parte da essa quantità de’ mille, si può dire molto bene, che tal parte sia equale al suo tutto; e questo si prova col zero, ovver nulla, cioè la decima figura de la Aritmetica, per la quale si figura un 0 per esso nullo, il quale, posto dopo la unità, il farà dire dieci, e, se porrai due dopo tale unità, dira’ cento, e così infinitamente crescerà sempre dieci volte il numero, dove esso s’aggiunga; e lui in sè non vale altro, che nulla, e tutti li nulli dell’universo sono eguali a un sol nulla, in quanto alla loro sustanzia e valetudine.

XXXIV. — VALORE DELLE REGOLE DATE DA LEONARDO AL PITTORE.

Queste regole sono da usare solamente per ripruova delle figure: imperocchè ogni omo, nella prima composizione, fa qualche errore, e chi non li conosce non li racconcia; onde tu, per conoscere li errori, riproverai l’opera tua, e, dove trovi detti errori, racconciali, e tieni a mente di mai più ricaderci. Ma, se tu volessi adoperare le regole nel comporre, non verresti mai a capo, e faresti confusione nelle tue opere.

Queste regole fanno, che tu possiedi uno libero e bono giudizio; imperochè ’l bono [79] giudizio nasce dal bene intendere, e il bene intendere diriva da ragione tratta da bone regole, e le bone regole sono figliole della bona sperienza, comune madre di tutte le scienze e arti.

Onde, avendo tu bene a monte i precetti delle mie regole, potrai, solamente col racconcio giudizio, giudicare e conoscere ogni sproporzionata opera, così in prospettiva, come in figure o altre cose.

XXXV. — LEGGE, CHE GOVERNA LO SVOLGIMENTO STORICO DELLA PITTURA E DELLE SCIENZE.

Come la pittura va d’età in età declinando e perdendosi, quando i pittori non hanno per autore, che la fatta pittura.

Il pittore avrà la sua pittura di poca eccellenza, se quello piglia per autore l’altrui pitture, ma s’egli imparerà dalle cose naturali, farà bono frutto: come vedemo in ne’ pittori dopo i Romani, i quali sempre imitarono l’uno dall’altro, e di età in età sempre mandaro detta arte in declinazione. Dopo questi venne Giotti, fiorentino, il quale, nato in monti soletari, abitati solo da capre e simil bestie, questo, sendo volto dalla natura a simile arte, cominciò a disegnare su [80] per li sassi li atti delle capre, de le quali lui era guardatore; e così cominciò a fare tutti li animali, che nel paese trovava: in tal modo, che questo, dopo molto studio, avanzò non che i maestri della sua età, ma tutti quelli di molti secoli passati. Dopo questo l’arte ricade, perchè tutti imitavano le fatte pitture, e così di secolo in secolo andò declinando, insino a tanto che Tomaso fiorentino, scognominato Masaccio, mostrò con opra perfetta, come quegli, che pigliavano per autore altro che la natura, maestra de’ maestri, s’affaticavano invano.

Così voglio dire di queste cose matematiche, che quegli, che solamente studiano li autori e non l’opre di natura, son per arte nipoti, non figlioli d’essa natura, maestra de’ boni autori. — Odi somma stoltizia di quelli, i quali biasimano coloro che ’mparano da la natura, lasciando stare li autori, discepoli d’essa natura!

XXXVI. — CONTRO IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ NELLA SCIENZA.

Molti mi crederanno ragionevolmente potere riprendere, allegando le mie prove esser contro all’autorità d’alquanti omini di gran reverenza, presso de’ loro inesperti judizî: [81] non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera.

XXXVII. — IL SEGUACE DELLA NATURA E IL SEGUACE DELLA AUTORITÀ DEGLI SCRITTORI.

Se bene, come loro, non sapessi allegaro gli autori, molto maggiore e più degna cosa a legger è, allegando la sperienza, maestra ai loro maestri. Costoro vanno sgonfiati e pomposi, vestiti e ornati, non delle loro, ma delle altrui fatiche, e le mie a me medesimo non concedono; e se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati.

XXXVIII. — SUPERIORITÀ DEGLI SCOPRITORI DEL VERO SUI COMMENTATORI DELLE OPERE ALTRUI.

È da essere giudicati, e non altrimenti stimati li omini inventori e ’nterpreti tra la natura e gli uomini, a comparazione de’ recitatori e trombetti delle altrui opere, quant’è dall’obbietto fori dello specchio alla similitudine d’esso obbietto apparente nello specchio, che l’uno per sè è qualche cosa, [82] e l’altro è niente. Gente poco obbligate alla natura, perchè sono sol d’accidental [della parte caduca dell’uomo, la figura esteriore] vestiti, e sanza il quale potrei accompagnarli in fra li armenti delle bestie!

XXXIX. — CONTRO GLI UMANISTI.

So bene che per non essere io letterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare, coll’allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì come Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sì rispondere, dicendo: — quelli che dall’altrui fatiche sè medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliano concedere?

Diranno, che per non avere io lettere, non potere ben dire quello, di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienzia, che d’altrui parole, la quale fu maestra di chi ben scrisse, e così per maestra la piglio, e quella in tutti i casi allegherò.

XL. — REVERENZA DI LEONARDO PER GLI ANTICHI INVENTORI.

De’ cinque corpi regolari.[125] Contro alcuni commentatori, che biasimano li antichi inventori, [83] donde nasceron le grammatiche e le scienze, e fansi cavalieri contro alli morti inventori, e, perchè essi non han trovato da farsi inventori, per la pigrizia e comodità de’ libri, attendono al continuo, con falsi argumenti, a riprendere li lor maestri.

XLI. — VALORE DELLA AUTORITÀ.

Chi disputa allegando l’autorità, non adopra lo ’ngegno, ma più tosto la memoria.

XLII. — SPONTANEITÀ DELLA CREAZIONE ARTISTICA E SCIENTIFICA.

Le buone lettere so’ nate da un bono naturale; e perchè si de’ più laudare la cagion che l’effetto, più lauderai un bon naturale sanza lettere, che un bon litterato sanza naturale.

XLIII. — STUDIO DELL’ANTICHITÀ.

L’imitazione delle cose antiche è più laudabile, che le moderne.

XLIV. — NECESSITÀ DELLA ESPERIENZA E DELLA MATEMATICA NELLE SCIENZE.

Nessuna umana investigazione si po’ dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni.

[84]

E se tu dirai, che le scienze, che principiano e finiscono nella mente abbino verità, questo non si concede, ma si nega, per molte ragioni, e prima, che in tali discorsi mentali non accade esperienza, sanza la quale nulla dà di sè certezza.

XLV. — LA ESPERIENZA.

La sapienza è figliola della sperienza.

XLVI. — LA SPERIENZA NON FALLA, MA SOL FALLANO I NOSTRI GIUDIZI, PROMETTENDOSI DI LEI COSE, CHE NON SONO IN SUA POTESTÀ.

A torto si lamentan li omini della isperienza, la quale, con somme rampogne, quella accusano esser fallace. Ma lascino stare essa esperienza, e voltate tale lamentazione contro alla vostra ignoranza, la quale vi fa transcorrere, co’ vostri vani e instolti desiderî, a impromettervi di quella cose, che non sono in sua potenza, dicendo quella esser fallace. A torto si lamentano li omini della innocente esperienza, quella spesso accusando di fallacie e di bugiarde dimostrazioni.

[85]

XLVII. — NECESSITÀ DELLA SUCCESSIONE DELL’EFFETTO ALLA CAUSA.

La sperienza non falla mai, ma sol fallano i vostri giudizi, promettendosi di quella effetto tale, che ne’ nostri esperimenti causati non sono. Perchè, dato un principio, è necessario che ciò, che seguita di quello, è vera conseguenza di tal principio, se già non fussi impedito; e se pur séguita alcuno impedimento, l’effetto, che doveva seguire del predetto principio, partecipa tanto più o meno del detto impedimento, quanto esso impedimento è più o meno potente del già detto principio.

XLVIII. — LA CERTEZZA DELLE MATEMATICHE.

Chi biasima la somma certezza della matematica si pasce di confusione, e mai porrà silenzio alle contraddizioni delle sofistiche scienze, colle quali s’impara uno eterno gridore.

XLIX. — GENERALE APPLICABILITÀ DELLA MATEMATICA.

La proporzione non solamente nelli numeri e misure fia ritrovata, ma etiam nelli [86] suoni, pesi, tempi e siti, e ’n qualunque potenza si sia.

L. — DELLE SCIENZE.

Nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche, over che non sono unite con esse matematiche.

LI. — LEONARDO AL LETTORE.

Non mi legga chi non è matematico, nelli mia principî.

LII. — DELLA MECCANICA.

La Meccanica è il paradiso delle scienze matematiche, perchè con quella si viene al frutto matematico.

LIII. — LA MECCANICA E LA ESPERIENZA.

A ciascuno strumento si richiede esser fatto colla sperienza.

LIV. — ACCORDO FRA L’ESPERIENZA E LA RAGIONE.

La sperienza, interprete in fra l’artifiziosa natura e la umana spezie, ne ’nsegna, ciò che essa natura in fra mortali adopra, da necessità constretta, non altrimenti oprar si possa, che la ragione, suo timone, oprare le ’nsegni.

[87]

LV. — LA DEDUZIONE.

Non è da biasimare lo mostrare, in fra l’ordine del processo della scienza, alcuna regola generale, nata dall’antidetta conclusione.

LVI. — BISOGNA PASSARE DAL NOTO ALL’IGNOTO.

Per dare vera scienza del moto delli uccelli in fra l’aria, è necessario dare prima la scienza de’ venti, la qual proverem mediante li moti dell’acqua in sè medesima, e questa tale scienza sensibile farà di sè scala per venire alla cognizione de’ volatili in fra l’aria e ’l vento.

LVII. — LA LEGGE DI NATURA DOMINA I FATTI.

Nessuno effetto è in natura sanza ragione; intendi la ragione, e non ti bisogna sperienza.

LVIII. — L’ESPERIENZA È IL FONDAMENTO DELLA SCIENZA.

Ricordati, quando commenti l’acque, d’allegar prima la sperienza e poi la ragione.

[88]

LIX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Io ti ricordo, che tu facci le tue proposizioni, e che tu alleghi le soprascritte cose per esempli e non per proposizioni, chè sarebbe troppo semplice; e dirai così: sperienza.

LX. — DALLA INVESTIGAZIONE DEGLI EFFETTI SI SCOPRONO LE CAUSE.

Ma prima farò alcuna esperienza avanti, ch’io più oltre proceda, perchè mia intenzione è allegare prima l’esperienza, e poi colla ragione dimostrare, perchè tale esperienza è costretta in tal modo ad operare.

E questa è la vera regola, come li speculatori delli effetti naturali hanno a procedere, e ancora che la natura cominci dalla ragione e termini nella sperienza, a noi bisogna seguitare in contrario, cioè cominciando — come di sopra dissi — dalla sperienza, e con quella investigare la ragione.

LXI. — BISOGNA RIPETERE LE ESPERIENZE E VARIARE LE CIRCOSTANZE.

Innanzi di fare di questo caso una regola generale, sperimentalo due o tre volte, guardando se le sperienze producono gli stessi effetti.

[89]

LXII. — ESEMPIO DELLA PRECEDENTE REGOLA.

Se molti corpi, d’egual peso e figura, saranno l’un dopo l’altro, con egual tempo, lasciati cadere, li eccessi de’ loro intervalli saranno infra loro eguali.[126]

La sperienza della predetta conclusione di moto si debbe fare in questa forma, cioè: tolgansi due ballotte d’egual peso e figura, e si faccino lasciare cadere di grande altezza in modo che, nel lor principio di moto, si tocchino l’una l’altra, e lo sperimentatore stia a terra a vedere se ’l loro cadere l’ha ancora mantenute in contatto o no. E questa esperienza si faccia più volte, acciò che qualche accidente non impedissi o falsassi tale prova, che la sperienza fussi falsa, e ch’ella ingannassi o no il suo speculatore.

LXIII. — BISOGNA LIMITARE LA RAGIONE ALLA ESPERIENZA, NON ESTENDERE LA RAGIONE AL DI LÀ DELLA ESPERIENZA.

Quanto più si diminuisce il mobile, il suo motore lo caccia più, proporzionevolmente secondo la sua diminuzione in infinito, sempre acquistando velocità di moto.[127]

E’ seguiterebbe che un atomo sarebbe [90] quasi veloce come la immaginazione o l’occhio, che subito discorre alla altezza delle stelle, per conseguente il suo viaggio sarebbe infinito, perchè la cosa, che infinitamente si può diminuire, infinitamente si farebbe veloce, e infinito cammin si moverebbe (perchè ogni quantità continua è divisibile in infinito). La qual opinione è dannata dalla ragione e per conseguente dalla sperienza.

Sicchè voi, speculatori, non vi fidate delli autori, che hanno sol co’ l’immaginazione voluto farsi interpreti fra la natura e l’omo, ma sol di quelli, che non coi cenni della natura, ma co’ gli effetti delle sue esperienze hanno esercitati i loro ingegni. E riconoscere come l’esperienze ingannano chi non conosce loro natura; perchè quelle, che spesse volte paiono una medesima, spesse volte son di grande varietà, come qui si dimostra.

LXIV. — A COLORO CHE AFFERMANO L’ACQUA TROVARSI ALLA SOMMITÀ DEI MONTI, PERCHÈ IL MARE È PIÙ ALTO, CHE LA TERRA.

Se l’acqua, che surge per l’alte cime de’ monti, viene dal mare, del quale il suo peso la sospignie, per essere più alto d’essi monti; perchè ha così licenza tal particula [91] d’acqua a levarsi in tanta altezza, e penetrare la terra con tanta difficultà e tempo; e non è stato conceduto al resto dell’elemento dell’acqua fare il simile, il quale confina coll’aria, la qual non è per resisterli, che ’l tutto non si elevassi alla medesima altezza della predetta parte? E tu che tale invenzione trovasti ritorna a riimparare naturale, che tu mancherai di tali simili opinioni, del quale tu ha’ fatto grande ammunizione [raccolta, somma] insieme col capitale del frutto, che tu possiedi.[128]

LXV. — LA PROSPETTIVA E LA MATEMATICA.[129]

Intra li studî delle naturali cause e ragioni, la luce diletta più i contemplanti; intra le cose grandi delle matematiche, la certezza della dimostrazione innalza più preclaramente l’ingegno dell’investiganti.

La Prospettiva adunque è da essere preposta a tutte le trattazioni e discipline umane, nel campo della quale la linia radiosa è complicata dai modi delle dimostrazioni, nella quale si truova la gloria non tanto della Matematica, quanto della Fisica, ornata co’ fiori dell’una e dell’altra.

[92]

Le sentenze delle quali, distese con gran circuizione [analiticamente], io le ristrignierò in conclusiva brevità, intessendo, secondo il modo della materia, naturali e matematiche dimostrazioni, alcuna volta concludendo gli effetti per le cagioni e alcuna volta le cagioni per li effetti; aggiugnendo ancora alle mie conclusioni alcuna, che non sono in quelle, non di meno di quelle si traggono, come si degnerà il Signore, luce di ogni cosa, illustrare me per trattare della luce.

LXVI. — LA COGNIZIONE HA ORIGINE DAL SENSO.

Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti.

LXVII. — CONSEGUENZA DEL PREDETTO PRINCIPIO.

Come il senso serve all’anima e non l’anima al senso; e, dove manca il senso offiziale dell’anima, all’anima manca in questa vita la totalità dell’uffizio d’esso senso, come appare nel muto e nell’orbo nato.

[93]

LXVIII. — LA TESTIMONIANZA DEL SENSO È IL CRITERIO DEL VERO.

E se tu dirai, che ’l vedere impedisce la fissa e sottile cogitazione mentale, co’ la quale si penetra nelle divine scienze, e tale impedimento condusse un filosofo a privarsi del vedere; a questo rispondo, che tal occhio, come signore de’ sensi, fa suo debito a dare impedimento alli confusi e bugiardi, non scienze, ma discorsi, per li quali sempre, con gran gridare e menare le mani, si disputa; e il medesimo dovrebbe faro l’audito, il quale ne rimane più offeso, perchè egli vorrebbe accordo, del quale tutti i sensi s’intricano [s’incaricano, s’imbarazzano]. E se tal filosofo si trasse gli occhi per levare l’impedimento alli suoi discorsi, or pensa, che tal atto fu compagno del cervello e de’ discorsi, perchè ’l tutto fu pazzia. Or non potea egli serrarsi gli occhi, quando esso entrava in tale frenesia, e tanto tenerli serrati, che tal furore si consumasse? Ma pazzo fu l’omo, e pazzo il discorso, e stoltissimo il trarsi gli occhi!

[94]

LXIX. — LE VERE SCIENZE SONO QUELLE CHE SI FONDANO SULLA TESTIMONIANZA DEI SENSI.

Dicono quella cognizione esser meccanica, la quale è partorita dall’esperienza, e quella esser scientifica, che nasce e finisce nella mente, e quella esser semimeccanica, che nasce dalla scienza e finisce nella operazione manuale.

Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori, le quali non sono nate dall’esperienza, madre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine o mezzo o fine non passa per nessuno de’ cinque sensi.

E se noi dubitiamo di ciascuna cosa, che passa per li sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli a essi sensi, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende? E veramente accade, che sempre, dove manca la ragione, supplisce le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo, che dove si grida non è vera scienza, perchè la verità ha un sol termine, il quale, essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto, e s’esso litigio [95] risurge, è bugiarda e confusa scienza e non certezza rinata.

Ma le vere scienze son quelle, che la sperienza ha fatto penetrare per li sensi e posto silenzio alla lingua de’ litiganti, e che non pasce di sogno li suoi investigatori, ma sempre sopra li primi veri e noti principî procede successivamente e con vere seguenze insino al fine; come si dinota nelle prime matematiche, cioè numero e misura, dette Aritmetica e Geometria, che trattano con somma verità della quantità discontinua e continua.

Qui non si arguirà, che due tre facciano più o men che sei, nè che un triangolo abbia li suoi angoli minori di due angoli retti, ma con eterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono finite dalli loro devoti, il che far non possono le bugiarde scienze mentali.

E se tu dirai tali scienze vere e note essere di spezie di meccaniche, imperocchè non si possono finire se non manualmente, io dirò il medesimo di tutte le arti, che passano per le mani degli scultori, le quali sono di spezie di disegno, membro della pittura; e l’Astrologia e le altre passano per le manuali operazioni, ma prima sono mentali, com’è [96] la Pittura, la quale è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione sanza la manuale operazione.

Della qual Pittura, li sua scientifici e veri principî prima ponendo, che cosa è corpo ombroso, e che cosa è ombra primitiva e ombra derivativa, e che cosa è lume: cioè tenebre, luce, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali solo colla mente si comprendono sanza opere manuali. E questa fia la Scienza della Pittura, che resta nella mente de’ suoi contemplanti, della quale nasce poi l’operazione, assai più degna della predetta contemplazione o scienza.

LXX. — INGANNO DELLA MENTE ABBANDONATA A SÈ STESSA.

Nissuna cosa è, che più c’inganni, che ’l nostro judizio.

LXXI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Il massimo inganno delli omini è nelle loro opinioni.

LXXII. — CONTRO LA METAFISICA.

Fuggi i precetti di quelli speculatori, che le loro ragioni non son confermate dalla isperienza.

[97]

LXXIII. — SUPERIORITÀ DEGLI ANIMALI SULL’UOMO.

L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso; li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero; e meglio è la piccola certezza, che la gran bugia.

LXXIV. — DAL DIZIONARIO DI LEONARDO.

Sillogismo: parlar dubbioso. Sofismo: parlare confuso, il falso per lo vero. Teorica: scienza sanza pratica.

LXXV. — SUPERIORITÀ DELLA SCIENZA DELLA PITTURA SULLA FILOSOFIA.

La Pittura s’estende nelle superfizie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la Filosofia penetra dentro alli medesimi corpi, considerando in quelli le lor proprie virtù, ma non rimane satisfatta con quella verità, che fa il pittore, che abbraccia in sè la prima verità di tali corpi, perchè l’occhio meno s’inganna.

LXXVI. — NON SI CONOSCE L’ESSENZA DELLE COSE, MA I LORO EFFETTI.

Che cosa sia elemento. Nè la diffinizione di nessuna quiddità delli elementi non è in [98] podestà dell’omo, ma gran parte de’ loro effetti son noti.[130]

LXXVII. — COME LA MASSA DELL’ACQUA, CHE CIRCONDA LA TERRA, HA FORMA SFERICA.

Questa è difficile risposta; ma per questo non resterei di dirne il mio parere. L’acqua, vestita dell’aria, naturalmente desidera stare unita nella sua spera, perchè in tal sito essa si priva di gravità. La qual gravità è dupla, cioè che ’l suo tutto ha gravità attesa al centro delli elementi, la seconda gravità attende al centro d’essa spericità d’acqua; il che se così non fussi, essa farebbe di sè solamente una mezza spera, la qual è quella che sta dal centro in su.[131] Ma di questo non veggo nello umano ingegno modo di darne scienza, ch’a dire, come si dice della calamita che tira il ferro, cioè, che tal virtù è occulta proprietà, delle quali n’è infinite in natura.

LXXVIII. — LA DIVISIBILITÀ ALL’INFINITO È UN’ASTRAZIONE MENTALE.

Ciò ch’è divisibile in atto è ancora divisibile in potenzia, ma non tutte le quantità, che son divisibili in potenzia fieno divisibili in atto.

[99]

LXXIX. — L’INFINITO NON SI PUÒ ABBRACCIARE COLLA RAGIONE.

Qual’è quella cosa, che non si dà e s’ella si dessi non sarebbe? Egli è lo infinito, il quale, se si potesse dare, sarebbe limitato e finito, perchè ciò, che si po’ dare ha termine colla cosa, che la circuisce ne’ sua stremi, e ciò che non si po’ dare è quella cosa, che non ha termini.

LXXX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

De anima. Il moto della terra contro alla terra, ricalcando quella, poco si move la parte percossa.

L’acqua percossa dall’acqua fa circuli dintorno al loco percosso;

Per lunga distanza la voce in fra l’aria;

Più lunga in fra ’l foco;

Più la mente in fra l’universo, ma perchè l’è finita non s’astende in fra lo ’nfinito.

LXXXI. — LA FINALITÀ DELLE COSE TRASCENDE LA MENTE UMANA.

O speculatore delle cose, non ti laudare di conoscere le cose, che ordinariamente, per sè medesima la natura, per sua ordini, naturalmente conduce; ma rallegrati di conoscere [100] il fine di quelle cose, che son disegnate dalla mente tua!

LXXXII. — GLI ANTICHI SI SONO PROPOSTI DEI PROBLEMI INSOLUBILI.

Or guarda, o lettore, quello che noi potremo credere ai nostri antichi, i quali hanno voluto definire che cosa sia anima e vita, cose improvabili, quando quelle, che con isperienzia ognora si possono chiaramente conoscere e provare, sono per tanti secoli ignorate e falsamente credute! L’occhio, che così chiaramente fa sperienzia del suo offizio, è insino ai mia tempi, per infiniti autori, stato difinito in un modo; trovo per isperienzia essere ’n un altro.

LXXXIII. — LIMITI ALLA DEFINIZIONE DELL’ANIMA.

Ancora che lo ingegno umano faccia invenzioni varie, rispondendo con vari strumenti a un medesimo fine, mai esso troverà invenzione più bella, nè più facile, nè più breve della natura, perchè nelle sue invenzioni nulla manca e nulla è superfluo; e non va con contrappesi, quando essa fa le membra atte al moto nelli corpi delli animali, ma vi mette dentro l’anima d’esso corpo componitore.

[101]

Questo discorso non va qui, ma si richiede nella composizion delli corpi animati. E il resto della definizione dell’anima lascio nelle menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per inspirazione sanno tutti li segreti.

Lascio star le lettere incoronate [i libri ecclesiastici e i dogmi], perchè son somma verità.

LXXXIV. — CONTRO GLI INGEGNI IMPAZIENTI.[132]

Gli abbreviatori delle opere fanno ingiuria alla cognizione e allo amore, conciò sia che l’amore di qualunque cosa è figliolo d’essa cognizione.

L’amore è tanto più fervente, quanto la cognizione è più certa, la qual certezza nasce dalla cognizione integrale di tutte quelle parti, le quali, essendo insieme unite, compongono il tutto di quelle cose, che debbono essere amate.

Che vale a quel che per abbreviare le parti di quelle cose, che lui fa professione di darne integral notizia, che lui lascia indietro la maggior parte delle cose, di che il tutto è composto?

Gli è vero che la impazienza, madre della [102] stoltizia, è quella che lauda la brevità, come se questi tali non avessino tanto di vita, che li servisse a potere avere una intera notizia d’un sol particolare, come è un corpo umano! e poi vogliono abbracciare la mente di Dio, nella quale s’include l’universo, caratando [pesandola a carati] e minuzzando quella in infinite parti, come l’avessino a notomizzare.

O stoltizia umana! non t’avvedi tu che tu sei stato con teco tutta la tua età, e non hai ancora notizia di quella cosa, che tu più possiedi, cioè della tua pazzia? e vuoi poi, colla moltitudine dei sofistichi, ingannare te e altri, sprezzando le matematiche scienze, nelle qual si contiene la verità, notizia delle cose che in lor si contengono; e vuoi poi scorrere ne’ miracoli e scrivere ch’hai notizia di quelle cose, di che la mente umana non è capace, e non si possono dimostrare per nessuno esemplo naturale; e ti pare avere fatto miraculi, quando tu hai guastato una opera d’alcuno ingegno speculativo; e non t’avvedi, che tu cadi nel medesimo errore che fa quello, che denuda la pianta dell’ornamento de’ sua rami, pieni di fronde, miste con li odoriferi fiori e frutti.

[103]

Come fece Giustino, abbreviatore delle Storie scritto da Trogo Pompeo, — il quale scrisse ornatamente tutti li eccellenti fatti delli sua antichi, li quali eran pieni di mirabilissimi ornamenti; — e’ compose una cosa ignuda, ma sol degna d’ingegni impazienti, li quali pare lor perder tanto di tempo, quanto quello è, che è adoperato utilmente, cioè nelli studi delle opere di natura e delle cose umane.

Ma stieno questi tali in compagnia delle bestie; nelli lor cortigiani, sieno cani e altri animali pien di rapina e accompagnansi con loro correndo sempre dietro! e seguitino l’innocenti animali, che, con la fame, alli tempi delle gran nevi, ti vengono alle case, dimandandoti limosina, come a lor tutore!

LXXXV. — DELLA VITA DEL PITTORE NEL SUO STUDIO.

Acciò che la prosperità del corpo non guasti quella dello ingegno, il pittore overo disegnatore debbe essere solitario, e massime quando è intento alle ispeculazioni e considerazioni, che, continuamente apparendo dinanzi agli occhi, dànno materia alla memoria, d’esser bene riservate.

E se tu sarai solo tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno [104] sarai mezzo tuo, e tanto meno, quanto sarà maggiore la indescrizione della tua pratica; e se sarai con più caderai in più simile inconveniente. E se tu volessi dire: — io farò a mio modo, io mi tirerò in parte, per potere meglio speculare le forme delle cose naturali —; dico questo potersi mal fare, perchè non potresti fare, ch’assa’ [assai] spesso non prestassi orecchi alle loro ciancie, e, non si potendo servire a due signori, tu faresti male l’uffizio della compagnia e peggio l’effetto della speculazione dell’arte; e se tu dirai: — io mi tirerò tanto in parte, che le loro parole non perveniranno e non mi daranno impaccio —; io in questa parte ti dico, che tu sarai tenuto matto; ma vedi che, così facendo, tu saresti pur solo?

LXXXVI. — CONSIGLI AL PITTORE.

Lo ingegno del pittore vol essere a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa, che ha per obbietto, e di tante similitudini s’empie quante sono le cose, che li sono contrapposte.

Adunque conoscendo tu, pittore, non poter [105] essere bono se non se’ universale maestro di contraffare, colla tua arte, tutte le qualità delle forme, che produce la natura, le quali non saprai fare se non le vedi, e ritenerle nella mente; onde, andando tu per campagne, fa che ’l tuo giudizio si volti a varî obbietti, e di mano in mano riguardare or questa cosa ora quell’altra, facendo un fascio di varie cose elette e scelte in fra le men bone.

E non fare come alcun pittore; i quali, stanchi con la lor fantasia, dismettono l’opera e fanno esercizio coll’andare a solazzo, riserbandosi una stanchezza nella mente, la quale non che vegghino o ponghin mente varie cose, ma spesse volte, scontrando li amici o parenti, essendo da quelli salutati, non che li vedino o sentino, non altrementi sono conosciuti, come s’elli scontrassino altrettant’aria.

LXXXVII. — ALTRO CONSIGLIO.

Il pittore deve essere solitario e considerare ciò ch’esso vede, e parlare con seco, eleggendo le parti più eccellenti delle spezie di qualunque cosa lui vede, facendo a similitudine dello specchio, il quale si trasmuta in tanti colori, quanti sono quelli [106] delle cose, che se li pongono dinanzi. E facendo così, lui parrà essere seconda Natura.

LXXXVIII. — CONSIGLIO.

La mente del pittore si deve al continuo trasmutare in tanti discorsi, quante sono le figure delli obbietti notabili, che dinanzi gli appariscano; e a quelle fermar il passo, e notarli, e fare sopra esse regole, considerando il loco e le circostanze, e lumi e ombre.

LXXXIX. — VITA DEL PITTORE FILOSOFO NE’ PAESI.

Al pittore è necessario la matematica appartenente a essa pittura e la privazione de’ compagni, che son alieni dalli loro studî, e cervello mutabile secondo la varietà delli obbietti, che dinanzi se li oppongono, e remoto da altre cure.

E s’è nella contemplazione e definizione d’un caso, come accade quando l’obbietto muove il senso, allora di tali casi si deve giudicare quale è di più faticosa definizione, e quello seguitare insino alla sua ultima chiarezza, e poi seguitare la definizione dell’altro.

E sopra tutto essere di mente eguale a la superfizie dello specchio, la quale si trasmuta [107] in tanti varî colori, quanti sono li colori delli sua obbietti; e le sue compagnìe abbino similitudine con lui in tali studî, e, non le trovando, usi con sè medesimo nelle sue contemplazioni, che infine non troverà più utile compagnia.

XC. — NECESSITÀ DELLA ANALISI.

Noi conosciamo chiaramente, che la vista è delle veloci operazioni che sia, e in un punto vede infinite forme, nientedimeno non comprende se non è una cosa per volta. Poniamo caso: tu, lettore, guarderai in una occhiata tutta questa carta scritta, e subito giudicherai, questa essere piena di varie lettere, ma non cognoscerai in questo tempo, che lettere sieno, nè che voglian dire; onde ti bisogna fare a parola a parola, verso per verso, a voler avere notizia d’esse lettere; ancora, se vorrai montare a l’altezza d’un edifizio ti converrà salire a grado a grado, altrementi fia impossibile pervenire alla sua altezza.

E così dico a te, il quale la Natura volge a quest’arte, se vogli avere vera notizia delle forme delle cose, comincierai alle particule di quelle, e non andare alla seconda, [108] se prima non hai bene nella memoria e nella pratica la prima; e se altro farai, getterai via il tempo e veramente allungherai assai lo studio. E ricordoti ch’impari primo la diligenza, che la prestezza.

XCI. — CARATTERE DELLE OPERE DI LEONARDO.

Cominciato in Firenze in casa Piero di Braccio Martelli[133] addì 22 di marzo 1508; e questo fia un raccolto sanza ordine, tratto di molte carte, le quali io ho qui copiato, sperando poi metterle per ordine alli lochi loro, secondo le materie di che esse tratteranno; e credo che, avanti ch’io sia al fine di questo, io ci avrò a riplicare una medesima cosa più volte; sì che, lettore, non mi biasimare, perchè le cose son molte e la memoria non le può riservare e dire: — questa non voglio scrivere, perchè dinanzi la scrissi —; e se io non volessi cadere in tale errore, sarebbe necessario che, per ogni caso ch’io volessi copiare, sicchè per non replicarlo, io avessi sempre a rileggere tutto il passato, e massime stando co’ lunghi intervalli di tempo allo scrivere da una volta all’altra.

[109]

XCII. — SUO DESIDERIO INSAZIABILE DI CONOSCERE.

Non fa sì gran mugghio il tempestoso mare, quando il settentrionale aquilone lo ripercote, colle schiumose onde, fra Scilla e Cariddi; nè Stromboli o Mongibello, quando le sulfuree fiamme, per forza rompendo e aprende il gran monte, fulminano per l’aria pietre, terra, insieme coll’uscita e vomitata fiamma; nè quando le infocate caverne di Mongibello, rivomitando il male tenuto elemento [il foco], spigniendolo alla sua regione, con furia cacciano innanzi qualunque ostacolo s’interpone alla sua impetuosa furia.... E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran commistione delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto in fra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna, dinanzi alla quale, — restando alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, — piegato le mie rene in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, colla destra mi feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso [110] piegandomi in qua e in là per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa, questo vietatomi per la grande oscurità, che là entro era, — e stato alquanto, — subito si destarono in me due cose: paura e desiderio; paura per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per vedere se là entro fussi alcuna miracolosa cosa.

[111]

PENSIERI SULLA NATURA.

I. — PROEMIO.

Vedendo io non potere pigliare materia di grande utilità o diletto, perchè li omini, innanti a me nati, hanno preso per loro tutti l’utili e necessari temi, farò come colui, il quale, per povertà, giugne l’ultimo alla fiera, e, non potendo d’altro fornirsi, piglia tutte cose già da altri viste, e non accettate, ma rifiutate per la loro poca valetudine [valore, pregio].

Io questa disprezzata e rifiutata mercanzia, rimanente de’ molti compratori, metterò sopra la mia debole soma, e con quella, non per le grosse città, ma povere ville andrò distribuendo, e pigliando tal premio, qual merita la cosa da me data.

[112]

II. — NATURA E SCIENZA.

La natura è piena d’infinite ragioni, che non furono mai in isperienza.

III. — LEGGI NECESSARIE DOMINANO I FATTI DELLA NATURA.

La necessità è maestra e tutrice della natura.

La necessità è tema e inventrice della natura, è freno e regola eterna.

IV. — LA RISPONDENZA DEGLI EFFETTI ALLA POTENZA DELLA LORO CAGIONE È NECESSARIA.[134]

Ogni corpo sperico di densa e resistente superfice, mosso da pari potenza, farà tanto movimento con sua balzi, causati da duro e solido smalto, [dal percuotere su un piano liscio e sodo] quanto a gettarlo libero per l’aria.

O mirabile giustizia di te, Primo motore, tu non hai voluto mancare a nessuna potenza l’ordine e qualità de’ sua necessari effetti! Conciò sia che una potenza deve cacciare 100 braccia una cosa vinta da lei, e quella nel suo obbedire trova intoppo: [113] hai ordinato, che la potenza del colpo ricausi novo movimento, il quale, per diversi balzi, recuperi la intera somma del suo debito viaggio. E se tu misurerai la via fatta da detti balzi, tu troverai essere di tale lunghezza, qual sarebbe a trarre, con la medesima forza, una simil cosa libera per l’aria.

V. — LE LEGGI DELLA NATURA SONO IMPRESCINDIBILI.

Natura non rompe sua legge.

VI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

La natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive.

VII. — L’EFFETTO SUCCEDE ALLA CAUSA NECESSARIAMENTE.

Quando alcuna cosa, cagione dell’altra, induce per suo movimento alcuno effetto, e’ bisogna che ’l movimento dell’effetto séguiti il movimento della cagione.

VIII. — IL MIRACOLO STA NELLA RISPONDENZA DELL’EFFETTO ALLA SUA CAUSA.[135] (Studiando la natura dell’occhio.)

Qui le figure, qui li colori, qui tutte le spezie delle parti dell’universo son ridotte [114] in un punto, e quel punto è di tanta maraviglia!

O mirabile e stupenda necessità, tu costringi, colla tua legge, tutti li effetti, per brevissima via, a partecipare delle lor cause!

Questi sono li miracoli!

Scrivi nella tua Notomia, come, in tanto minimo spazio, l’immagine [visiva, che si forma nell’occhio] possa rinascere e ricomporsi nella sua dilatazione.

IX. — OGNI COSA OBBEDISCE ALLA PROPRIA LEGGE.

Esempio della saetta fra’ nuvoli. — O potente e già animato strumento dell’artifiziosa natura, a te non valendo le tue gran forze, ti conviene abbandonare la tranquilla vita, e obbedire alla legge, che Iddio e ’l Tempo diede alla genitrice natura!

Oh! quante volte furono vedute le impaurite schiere de’ delfini e de’ gran tonni fuggire dall’empia tua furia; e tu, che, col veloce tremor dell’ali e colla forcelluta coda, fulminando, generavi nel mare subita tempesta, con gran busse [urti] e sommersione di navili, con grande ondamento, empiendo gli scoperti liti degli impauriti e sbigottiti pesci!

[115]

X. — PASSIVITÀ E ATTIVITÀ.

Molte volte una medesima cosa è tirata da due violenze: necessità e potenza. L’acqua piove, e la terra l’assorbisce per necessità d’omore; il sole la svelle [fa evaporare] non per necessità, ma per potenza.

XI. — PROVVIDENZA DELLA NATURA NELLA CONFORMAZIONE DEL CORPO UMANO.

Perche l’occhio è finestra dell’anima, ella è sempre con timore di perderlo, in modo tale ch’essendoli mossa una cosa dinanzi, che dia subito spavento all’omo, quello colle mani non soccorre il core, fonte della vita, nè ’l capo, ricettaculo del signore de’ sensi, nè audito, nè odorato o gusto, anzi subito lo spaventato senso: non bastando chiudere li occhi con sua coperchi [le palpebre] serrati con somma forza, che subito lo rivolge in contraria parte; non sicurando ancora, vi pone la mano, e l’altra distende, facendo antiguardia contro al sospetto suo.

Ancora, la natura ha ordinato, che l’occhio de l’omo per sè medesimo col coperchio (si chiuda), acciò che, non sendo da [116] esso dormiente guardato, d’alcuna cosa non sia offeso.

XII. — PROVVIDENZIALITÀ DELLA DILATAZIONE E RESTRINGIMENTO DELLA PUPILLA.

La pupilla dell’occhio si muta in tante varie grandezze, quante son le varietà delle chiarezze e oscurità delli obbietti, che dinanzi se le rappresentano.

In questo caso la natura ha riparato alla virtù visiva, quando ella è offesa dalla superchia luce, di ristrignere la pupilla dell’occhio, e, quando è offesa dalle diverse oscurità, d’allargare essa luce, a similitudine della bocca della borsa. E fa qui la natura, come quel che ha troppo lume alla sua abitazione, che serra una mezza finestra, e più o men, secondo la necessità; e quando viene la notte, esso apre tutta essa finestra, per vedere meglio dentro a detta abitazione. E usa qui la natura una continua equazione, col continuo temperare e ragguagliare, col crescere la pupilla e diminuirla, a proporzione delle predette oscurità o chiarezze, che dinanzi al continuo se le rappresentano.

[117]

XIII. — CONTRO COLORO CHE SI ARROGANO DI CORREGGERE LA NATURA.

L’atto del tagliare la narice ai cavalli è cosa meritevole di riso. E questi stolti osservan questa usanza, quasi come se credessino la natura avere mancato ne’ necessarie cose, per le quali li omini abbiano a essere sua correttori. Ell’ha fatti i due busi del naso, i quali, ciascuno per sè, è per la metà della larghezza della canna de’ polmoni, donde esala l’anelito, e, quando essi busi non fussino, la bocca sarebbe abbastanza a esso abbondevole anelito. E se tu mi dicessi: — perchè ha fatto questa natura le narici alli animali, se l’alitare per la bocca è soffiziente? — io ti risponderei, che le narici sono fatte per essere usate, quando la bocca è in esercizio di masticare il suo cibo.

XIV. — SUL FENOMENO DELLA SPINTA DELLE RADICI.

L’albero in qualche parte scorticato, la natura, che a esso provvede, vòlta a essa iscorticazione molto maggior somma di notritivo omore la linfa, che in alcuno altro loco; in [118] modo che, per lo primo detto mancamento, li cresce molto più grossa la scorza, che in alcun altro loco. Ed è tanto movente [impetuoso nel muoversi] ess’omore, che, giunto al soccorso loco, si leva parte in alto, a uso di balzo di palla, con diversi pullulamenti, o ver germugliamenti [gorgoglio], non altrementi ch’una bollente acqua.

XV. — SULLA STRUTTURA DELLE ALI.

Li timoni, creati nelli omeri [formati dall’omero dell’ala] che han l’ali delli uccelli, son trovati dalla ingegnosa natura per un comodo piegamento del retto impeto, che spesso accade nel furioso volare delli uccelli; perchè trovò esser molto più comodo, nel retto furore, a piegare una minima parte dell’ala, che il loro tutto.

XVI. — SULLA DISPOSIZIONE DELLE FOGLIE NELLE PIANTE.

Ha messo la natura la foglia degli ultimi rami di molte piante, che sempre la sesta foglia è sopra la prima, e così segue successivamente, se la regola non è impedita.

[119]

E questo ha fatto per due utilità d’esse piante: la prima è perchè nascendo il ramo e ’l frutto nell’anno seguente dalla gemella dell’occhio [gemma o gemmula vegetale], ch’è sopra in contatto dell’appiccatura della foglia; l’acqua, che bagna tal ramo, possa discendere a nutrire tal gemella, col fermarsi la goccia nella concavità del nascimento di essa foglia.

Ed il secondo giovamento è, che nascendo tali rami, l’anno seguente, l’uno non cuopre l’altro, perchè nascono vòlti a cinque aspetti, li cinque rami.

XVII. — LEGGE UNIVERSALE DELLE COSE.

Naturalmente ogni cosa desidera mantenersi in suo essere.

XVIII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Universalmente tutte le cose desiderano mantenersi in sua natura, onde il corso de l’acqua, che si move, cerca mantenere il suo corso, secondo la potenza della sua cagione, e, se trova contrastante opposizione, finisce la lunghezza del cominciato corso per movimento circulare e retorto.

[120]

XIX. — LE COSE FUORI DEL LORO STATO NATURALE TENDONO A RITORNARVI.

Tutti li elementi, fori del loro naturale sito, desiderano a esso sito ritornare, e massime foco, acqua e terra.

XX. — LEGGE DEL MINIMO SFORZO.

Ogni peso desidera cadere al centro per la via più breve.

XXI. — OGNI PARTE DESIDERA ESSERE NEL SUO TUTTO.

Ogni parte ha inclinazion di ricongiugnersi al suo tutto, per fuggire dalla sua imperfezione: l’anima desidera stare col suo corpo, perchè, sanza li strumenti organici di tal corpo, nulla può oprare, nè sentire.

XXII. — SUGGETTO COLLA FORMA.

Muovesi l’amato per la cos’amata, come il senso colla sensibile, e con seco s’unisce, e fassi una cosa medesima.

L’opera è la prima cosa che nasce dall’unione. Se la cosa amata è vile, l’amante si fa vile. Quando la cosa unita è conveniente al suo unitore, lì séguita dilettazione e piacere e saddisfazione.

[121]

Quando l’amante è giunto all’amato, lì si riposa; quando il peso è posato, lì si riposa.

La cosa conosciuta col nostro intelletto....

XXIII. — LEGGE DEL MINIMO SFORZO.

Ogni azione naturale è fatta per la via brevissima.

XXIV. — LA STESSA.

Ogni azione naturale è fatta da essa natura, nel più breve modo e tempo che sia possibile.

XXV. — ANCORA LA STESSA.

Nessuna azion naturale si può abbreviare.

Ogni azion naturale è generata dalla natura nel più brieve modo, che trovar si possa.

XXVI. — LA NATURA È VARIABILE IN INFINITO.

Ed è tanto dilettevole natura e copiosa nel variare, che infra li alberi della medesima natura non si troverebbe una pianta, ch’appresso somigliassi all’altra, e non che le piante, ma li rami o foglie, o frutti di quelle, non si troverà uno, che precisamente somigli a un altro.

[122]

XXVII. — CONTRO GLI ALCHIMISTI.

I bugiardi interpreti di natura affermano lo argento vivo essere comune semenza a tutti i metalli, non si ricordando che la natura varia le semenze, secondo la diversità delle cose, che essa vuole produrre al mondo.

XXVIII. — ANCORA SULLA VARIETÀ DELLA NATURA.

Se la natura avesse ferma [fatta, fissata] una sola regola nella qualità delle membra, tutti i visi delli omini sarebbono somiglianti in tal modo, che l’uno dall’altro non si potrebbe conoscere; ma ell’ha ’n tal modo variato i cinque membri del volto, che, ben ch’ell’abbi fatto regola quasi universale alla loro grandezza, lei non l’ha osservata nella qualità, in modo tale che l’un dall’altro chiaramente conoscere si può.

XXIX. — PRECETTO AL PITTORE.

Dico: le misure universali si debbono osservare nelle lunghezze delle figure, e non nelle grossezze, perchè delle laudabili e maravigliose cose, ch’appariscono nelle opere [123] della natura, è che nissuna opera, in qualunque spezie per sè, l’un particulare con precisione si somiglia l’un a l’altro: adunque, tu, imitatore di tal natura, guarda e attendi alla varietà de’ lineamenti.

XXX. — PRECETTO.

Sommo difetto è ne’ maestri, li quali usano replicare li medesimi moti nelle medesime storie [nel medesimo insieme di figure, episodio], vicini l’uno all’altro, e similmente le bellezze de’ visi essere sempre una medesima; le quali in natura mai si trova essere replicate, in modo che, se tutte le bellezze d’eguale eccellenza ritornassin vive, esse sarebbon maggior numero di popolo, che quello, ch’al nostro secolo si trova; e, siccome in esso secolo nessuno precisamente si somiglia, il medesimo interverrebbe nelle dette bellezze.

XXXI. — VI È UNA OMOGENEITÀ DI STRUTTURA NEGLI ESSERI ANIMATI.

Facile cosa è, a chi sa l’omo, farsi poi universale; imperocchè tutti li animali terrestri han similitudine di membra, cioè muscoli e ossa, e nulla si variano, se non in [124] lunghezza o in grossezza, come sarà dimostro nella Notomia; ecci poi li animali d’acqua, che son di molte varietà, de li quali non persuaderò il pictore che vi faccia regola, perchè son quasi d’infinite varietà, e così li animali insetti.

XXXII. — CONCETTO DELL’ENERGIA.

Impeto è impressione di moto trasmutato dal motore nel mobile.

Ogni impressione attende alla permanenza over desidera permanenza.

Che ogni impressione desidera permanenza provasi nella impressione fatta dal sole nell’occhio d’esso risguardatore, e nella impression del sôno, fatto dal martello di tal campana percussore.

Ogni impressione desidera permanenza, come ci mostra il simulacro del moto [l’impeto] impresso nel mobile.

XXXIII. — LEGGE UNIVERSALE.

Ogni azione bisogna che s’eserciti per moto.

XXXIV. — LA STESSA.

Il moto è causa d’ogni vita.

[125]

XXXV. — DEFINIZIONE DELLA FORZA.

Che cosa è la forza?

Forza dico essere una virtù spirituale, una potenza invisibile, la quale, per accidentale esterna violenza, è causata dal moto e collocata e infusa ne’ corpi, i quali sono dal loro naturale uso [la quiete] ritratti, dando a quelli vita attiva di maravigliosa potenza.

XXXVI. — LA STESSA.

Che cosa è forza?

Forza dico essere una potenza spirituale, incorporea, invisibile, la quale, con breve vita, si causa nei corpi, che per un’accidentale violenza si trovano fuori del loro essere e riposo naturale.

XXXVII. — LA MATERIA È INERTE.

Nessuna cosa insensata [materiale, senza vita e senza sensitività] per sè si move, ma il suo moto è fatto da altri.

XXXVIII. — LEGGE DELLA TRASMISSIONE DEL MOTO E DELLA SUA EQUIVALENZA.

L’impeto è una virtù creata dal moto e trasmutata dal motore al suo mobile, il [126] quale mobile ha tanto di moto, quanto l’impeto ha di vita.

XXXIX. — PRINCIPIO D’INERZIA.

Ogni moto naturale e continuo desidera conservare suo corso per la linia del suo principio, cioè, in qualunque loco esso si varia, domando [chiamo, denomino] principio.

XL. — ORIGINE DELLA FORZA.

La forza da carestia o dovizia [cioè: disequilibrio di potenze] è generata, questa è figliola del moto materiale e nepote del moto spirituale, e madre e origine del peso. E esso peso è finito nell’elemento dell’acqua e terra, e essa forza è infinita, perchè con essa infiniti mondi si moverebbero, se strumenti far si potessero, dove essa forza generare si potesse.

La forza col moto materiale e ’l peso colla percussione son le quattro accidentali potenze, colle quali tutte l’opere de’ mortali hanno loro essere e lor morte.

La forza dal moto spirituale ha origine, il quale moto, scorrendo per le membra degli animali sensibili, ingrossa i muscoli di quelli, onde, ingrossati, essi muscoli si vengono [127] a raccortare o trarsi dirieto i nervi [nervi = tendini], che con essi son congiunti; e di qui si causa la forza per le membra umane.

La qualità e quantità delle forze d’uno uomo potrà partorire altra forza, la quale sarà proporzionevolmente tanto maggiore, quanto essa sarà di più lungo moto l’una che l’altra.

XLI. — ASPETTI VARÎ DELLA FORZA.

La gravità, la forza, e ’l moto accidentale, insieme colla percussione, son le quattro accidentali potenze colle quali tutte l’evidenti opere de’ mortali hanno loro essere e loro morte.

XLII. — ANCORA DEL PRINCIPIO D’INERZIA.

Ogni moto attende al suo mantenimento, overo: ogni corpo mosso sempre si move, in mentre che la impressione de la potenzia del suo motore in lui si riserva.

XLIII. — ANCORA.

Ciascun con violenza mantiene suo essere. — E se possibile fussi dare un diametro d’aria a questa spera della terra, a similitudine [128] d’un pozzo, che dall’una all’altra superfizie si mostrassi, e per esso pozzo si lasciassi cadere un corpo grave; ancora che esso corpo si volessi al centro fermare, l’impeto sarebbe quello, che per molti anni glielo vieterebbe.

XLIV. — SULLA PITAGORICA ARMONIA DELLE SFERE CELESTI.[136]

Della confregazione de’ cieli, s’ella fa sôno o no.

Ogni sôno si causa dall’aria ripercossa in corpo denso e, s’ella sarà fatta da due corpi gravi infra loro, ell’è mediante l’aria, che li circonda, e questa tal confregazione consuma li corpi confregati: adunque seguiterebbe, che li cieli, nella lor confregazione, per non avere aria infra loro, non generassino sôno. E se tale confregazione pure avesse verità, essi, in tanti seculi che tali cieli son rivoltati, si sarebbon consumati da tanta immensa velocità fatta in ogni giornata; e se pur facessin sôno esso non si può spandere, perchè il sôno della percussione fatta sotto l’acqua poco si sente, e meno o niente si sentirebbe ne’ corpi densi; ancora: ne’ corpi politi la lor confregazione fa non sôno, il che similmente accadrebbe [129] non farsi sôno nel contatto over confregazione de’ cieli; e, se tali cieli non sono politi nel contatto delle lor confregazioni, sèguita essere globulosi e ruvidi, adunque il lor contatto non è continuo, essendo così e’ si genera il vacuo; il quale è concluso non darsi in natura.

Adunque è concluso che confregazione avrebbe consumati li termini di ciascun cielo, e tanto quanto più esso è più veloce in mezzo che inverso i poli, più si consumerebbe in mezzo che da’ poli; e poi più non si confregherebbe, e ’l sono cesserebbe e i ballerini si fermerebbono, salvo se i cieli l’un girassi a oriente e l’altro a settentrione.

XLV. — SULLA LEGGE DI GRAVITÀ.

La terra è grave nella sua spera, ma tanto più, quanto essa sarà in elemento più lieve.

Il foco è lieve nella sua spera, ma tanto più, quanto esso sarà in elemento più grave.

Nessuno elemento semplice ha gravità o levità nella sua propria spera.

XLVI. — LA STESSA.

Il moto fatto da’ corpi gravi verso il comun centro, non è per desiderio che esso [130] corpo abbia in sè di trovare tal centro, nè non è per attrazione, ch’esso centro faccia, come calamita, del tirare a sè tal peso.

XLVII. — LA STESSA.

— Il peso perchè non resta nel suo sito?

— Non resta perchè non ha resistenza.

— E donde si moverà?

— Moverassi inverso il centro.

— E perchè non per altre linee?

— Perchè il peso, che non ha resistenzia, discenderà in basso per la via più breve, e ’l più basso sito è il centro del mondo.

— E perchè lo sa così tal peso trovarlo con tanta brevità?

— Perchè non va — come insensibile [come cosa, che non ha vita, nè moto proprio] — prima vagando per diverse linee.

XLVIII. — LAUDE DEL SOLE.

Se guarderai le stelle, sanza razzi [senza quelle false irradiazioni, che provengon dall’occhio] (come si fa a vederle per un piccolo foro fatto colla strema punta da la sottile agucchia, e quel posto quasi a toccare l’occhio), tu vedrai esse stelle essere tanto minime, che nulla cosa pare essere minore: e veramente [131] la lunga distanza dà loro ragionevole diminuzione, ancora che molte vi sono, che son moltissime volte maggiori che la stella, ciò è la terra coll’acqua.

Ora pensa quel che parrebbe essa nostra stella in tanta distanza, e considera poi quante stelle si metterebbe e per longitudine e latitudine infra esse stelle, le quali sono seminate per esso spazio tenebroso.

Mai non posso fare ch’io non biasimi molti di quelli antichi, li quali dissono, che il sole non avea altra grandezza che quella, che mostra; fra’ quali fu Epicuro, e credo che cavasse tale ragione da un lume posto in questa nostra aria, equidistante al centro: chi lo vede, no ’l vede mai diminuito di grandezza in nessuna distanza.

XLIX. — SEGUE LA LAUDE.

E le ragioni della sua grandezza e virtù le riservo nel quarto libro. Ma ben mi meraviglio, che Socrate biasimassi questo tal corpo, e che dicessi quello essere a similitudine di pietra infocata; e certo chi lo punì di tal errore poco peccò.

Ma io vorrei avere vocaboli, che mi servissino a biasimare quelli, che voglion laudare più lo adorare gli omini, che tal [132] sole, non vedendo nell’universo corpo di maggiore magnitudine e virtù di quello. E ’l suo lume allumina tutti li corpi celesti, che per l’universo si compartono. Tutte l’anime discendan da lui, perchè il caldo, ch’è nelli animali vivi, vien dall’anime, e nessuno altro caldo, nè lume è nell’universo, come mostrerò nel quarto libro. — E certo costoro, che han voluto adorare li omini per Iddii come Giove, Saturno, Marte e simili han fatto grandissimo errore, vedendo, che, ancora che l’omo fossi grande quanto il nostro mondo, che parrebbe simile a una minima stella, la qual pare un punto nell’universo; e ancora vedendo essi omini mortali e putridi e corruttibili nelle loro sepolture.

La Spera e Marullo laudan con molti altri esso sole.[137]

L. — SEGUE.

Forse Epicuro vide le ombre delle colonne ripercosse nelli antiposti muri essere eguali al diametro della colonna, donde si partìa tale ombra; essendo adunque il concorso dell’ombre parallelo dal suo nascimento al suo fine, li parve da giudicare che il sole ancora lui fosse fronte di tal parallelo, [133] e per conseguenza non essere più grosso il tal colonna, e non s’avvide che tal diminuzione d’ombra era insensibile per la lunga distanza del sole.

Se ’l sole fussi minore della terra le stelle di gran parte del nostro emisperio sarebbon sanza lume. (Contro a Epicuro, che dice: tanto è grande il sole quanto e’ pare.)

LI. — SEGUE.

Dice Epicuro il sole essere tanto quanto esso si dimostra: adunque e’ pare essere un piè, e così l’abbiamo a tenere. Seguirebbe che la luna, quand’ella fa oscurare il sole, il sole non l’avanzerebbe di grandezza come e’ fa; onde, sendo la luna minor del sole, essa luna sarebbe men d’un piede, e per conseguenza, quando il nostro mondo fa oscurare la luna, sarebbe minore d’un dito del piede; con ciò sia, se ’l sole è un piede e la nostra terra fa ombra piramidale inverso la luna, egli è necessario che sia maggiore il luminoso causa della piramide ombrosa, che l’opaco causa d’essa piramide.

LII. — SEGUE.

Misura quanti soli si metterebbe nel corso suo di ventiquattro ore!... E qui si [134] potrà vedere, se Epicuro disse, che ’l sole era tanto grande quanto esso parea, che, — parendo il diametro del sole una misura pedale, e che esso sole entrassi mille volte nel suo corso di ventiquattro ore, — egli avrebbe corso mille piedi, cioè cinquecento braccia, che è un sesto di miglio.

Ora è che ’l corso del sole, infra dì e notte, sarebbe camminato la sesta parte d’un miglio, e questa venerabile lumaca del sole avrebbe camminato venticinque braccia per ora!

LIII. — DELLA PROVA CHE ’L SOLE È CALDO PER NATURA E NON PER VIRTÙ.

Del sole. Dicano che ’l sole non è caldo, perchè non è di colore di foco, ma è molto più bianco e più chiaro. E a questi si po’ rispondere, che, quando il bronzo liquefatto è più caldo, elli e più simile al color del sole, e, quand’è men caldo, ha più color di foco.

LIV. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Provasi il sole, in sua natura, essere caldo — e non freddo, come già s’è detto. —

Lo specchio concavo, essendo freddo, nel ricevere li razzi del foco, li rifrette più caldi, che esso foco.

[135]

La palla di vetro, piena d’acqua fredda, manda fori di sè li razzi, presi dal foco, ancora più caldi d’esso foco.

Di queste due dette esperienze sèguita, che tal calore delli razzi, avuti dello specchio o della palla d’acqua fredda, sien caldi per virtù, e non perchè tale specchio o palla sia calda; e ’l simile in questo caso accade del sole passato per essi corpi, che scalda per virtù. E per questo hanno concluso il solo non esser caldo. — Il che per le medesime allegate isperienze si prova esso sole essere caldissimo, per la sperienza detta dello specchio e palla, che, essendo freddi, pigliando i razzi della caldezza del foco, li rendan razzi caldi, perchè la prima causa è calda: e il simile accade del sole, che essendo lui caldo, passando per tali specchi freddi, refrette gran calore.

Non lo splendore del sole scalda, ma il suo natural calore.

LV. — PROPAGAZIONE DEI RAGGI NELLO SPAZIO.

Passano li razzi solari per la fredda regione dell’aria e non mutan natura, passan per vetri pieni d’acqua fredda e non mancano di lor natura, e, per qualunque loco [136] transparente essi passassino, è come s’elli penetrassino altrettanta aria.

LVI. — SE LE STELLE HAN LUME DAL SOLE O DA SÈ.

Dicano [Sott.: gli scrittori, gli autori] di avere il lume da sè, allegando, che se Venere e Mercurio non n’avessi il lume da sè, quando esso s’interpone infra l’occhio nostro e ’l sole, esse oscurerebbon tanto d’esso sole, quanto esse ne coprano all’occhio nostro. — E quest’è falso, perch’è provato come l’ombroso, posto nel luminoso, è cinto e coperto tutto da’ razzi laterali del rimanente di tal luminoso e così resta invisibile. Come si dimostra, quando il sole è veduto per la ramificazione delle piante sanza foglie in lunga distanzia, essi rami non occupano parte alcuna d’esso sole alli occhi nostri.

Il simile accade a’ predetti pianeti, li quali, ancora che da sè e’ sieno sanza luce, eglino non occupano, com’è detto, parte alcuna del sole all’occhio nostro.

Seconda pruova. Dicano le stelle nella notte parere lucidissime quanto più ci son superiori; e che s’elle non avessin lume da [137] sè che l’ombra, che fa la terra, che s’interpone infra loro e ’l sole, le verrebbe a scurare, non vedendo esse, nè sendo vedute dal corpo solare. — Ma questi non n’han considerato, che l’ombra piramidale della luna non n’aggiugne [raggiunge, arriva] infra troppe stelle, quello ch’ell’aggiugne, la piramide è tanto diminuita che poco occupa del corpo della stella, e ’l rimanente è alluminato dal sole.

LVII. — LA TERRA È UNA STELLA.

Tu nel tuo discorso hai a concludere la terra essere una stella quasi simile alla luna, e così proverai la nobiltà del nostro mondo!

E così farai un discorso delle grandezze di molte stelle, secondo li autori.

LVIII. — ESSA RISPLENDE NELL’UNIVERSO.

Come la terra è una stella. La terra mediante la spera dell’acqua, che in gran parte la veste, — la qual piglia il simulacro del sole e risplende all’universo, sì come fan tutte l’altre stelle, — si dimostra ancora lei essere stella.

[138]

LIX. — ORDINE DEL PROVARE LA TERRA ESSERE UNA STELLA.

In prima diffinisci l’occhio.

Poi mostra come il battere [il tremolio della luce, del fulgore escitizio delle stelle] d’alcuna stella viene dall’occhio; e perchè il batter d’esser stelle è più nell’una, che nell’altra; e come li razzi delle stelle nascan dall’occhio. E di’ che, se ’l battere delle stelle fussi, come pare, nelle stelle, che tal battimento mostra d’essere di tanta dilatazione, quant’è il corpo di tale stella; essendo adunque maggior della terra, che tal moto fatto in istante sare’ trovo veloce a raddoppiare la grandezza di tale stella; di poi prova come la superfizie dell’aria, ne’ confini del foco, e la superfizie del foco, nel suo termine, è quella, nella qual penetrando, li razzi solari portan tal similitudine di corpi celesti grandi nel lor levare e porre [tramontare], e piccole essendo essi nel mezzo del cielo.

LX. — LA TERRA SEMBRA STELLA AI LONTANI.

Il libro mio s’astende a mostrare come l’Ocean, colli altri mari, fa, mediante il [139] sole, splendere il nostro mondo a modo di luna, e a’ più remoti pare stella; e quest’è provo.

LXI. — LA TERRA NON È CENTRO DELL’UNIVERSO.

Come la terra non è nel mezzo del cerchio del sole, nè nel mezzo del mondo, ma è ben nel mezzo de’ sua elementi, compagni e uniti con lei; e chi stesse nella luna, quand’ella insieme col sole è sotto a noi, questa nostra terra, coll’elemento dell’acqua, parrebbe e farebbe offizio, tal qual fa la luna a noi.

LXII. — COME IN UN’ETÀ LONTANA LA TERRA AVEVA UN PIÙ VIVO SPLENDORE.

Come la terra, facendo offizio di luna, ha perduto assai del lume antico nel nostro emisperio pel calare delle acque, com’è provato in libro quarto: De mundo e acque.

LXIII. — QUESTIONI SULLA NATURA DELLA LUNA.

1. Nessun lievissimo è opaco.

2. Nessun più lieve sta sotto al men lieve.

3. Se la luna ha sito in mezzo ai sua elementi o no.

[140]

E s’ella non ha sito particulare, come la terra, nelli sua elementi, perchè non cade al centro de’ nostri elementi?

E se la luna non è in mezzo alli sua elementi, e non discende, adunque ella è più lieve che altro elemento.

E se la luna è più lieve che altro elemento, perchè è solida e non traspare?

LXIV. — SULLA GRAVITÀ DELLA LUNA.

Nessun denso è più lieve che l’aria.

Avendo noi provato come la parte della luna, che risplende è acqua, che specchia il corpo del sole, la quale ci riflette lo splendore da lui ricevuto, e come, se tale acqua fusse sanza onde, ch’ella picciola si dimostrerebbe, ma di splendore quasi simile al sole; al presente bisogna provare, se essa luna è corpo grave o lieve; imperocchè se fusse grave, confessando che dalla terra in su in ogni grado d’altezza s’acquista gradi di levità, — conciò sia che l’acqua è più lieve che la terra; e l’aria che l’acqua, e ’l foco che l’aria e così seguitando successivamente, — e’ parrebbe che, se la luna avesse densità, com’ella ha, ch’ella avesse gravità e, avendo gravità, che lo spazio, ove essa si trova, non la potesse sostenere, e per conseguenza [141] avesse a discendere inverso il centro dell’universo e congiugnersi colla terra, e se non lei almanco le sue acque avessino a cadere, e spogliarla di sè, e cadere inverso il centro, e lasciar di sè la luna spogliata e sanza lustro; onde, non seguitando quel che di lei la ragione ci promette, egli è manifesto segno, che tal luna è vestita de’ sua elementi, cioè acqua, aria e foco, e così in sè per sè si sostenga in quello spazio, come fa la nostra terra coi sua elementi in quest’altro spazio, e che tale offizio facciano le cose gravi ne’ sua elementi, qual fanno l’altre cose gravi nelli elementi nostri.

LXV. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

La luna densa e grave come sta, la luna?

LXVI. — I MONDI GRAVITANO IN SENO AI PROPRI ELEMENTI.

Il rossume ovver tuorlo dell’ovo sta in mezzo al suo albume sanza discendere d’alcuna parte, ed è più lieve o più grave o eguale d’esso albume; e, s’egli è più lieve, egli dovrebbe sorgere sopra tutto l’albume e fermarsi in contatto della scorza d’esso uovo e, s’elli è più grave dovrebbe discender, [142] e, s’elli è eguale, così potrebbe stare nell’un delli stremi come in mezzo o di sotto.

LXVII. — IL CALORE COME PRINCIPIO DELLA VITA.

Il caldo è cagione del movimento dell’umido, e ’l freddo lo ferma, come si vede la region fredda, che ferma i nuvoli nell’aria.

Dov’è vita è calore; dov’è calore vitale è movimento d’omore.

LXVIII. — LA TERRA È UN GRANDE VIVENTE.

Nessuna cosa nasce in loco, dove non sia vita sensitiva, vegetativa o razionale: nascono le penne sopra li uccelli, e si mutano ogni anno; nascono li peli sopra li animali e ogni anno si mutano, salvo alcuna parte, come li peli delle barbe de’ lioni e gatti e simili; nascono l’erbe sopra li prati e le foglie sopra li alberi, e ogni anno in gran parte si rinnovano; adunque potremo dire, la terra avere anima vegetativa, e che la sua carne sia la terra, li sua ossi sieno li ordini delle collegazioni [aggregazioni] de’ sassi, di che si compongono le montagne, il suo tenerume [143] sono li tufi, il suo sangue sono le vene delle acque, il lago del sangue, che sta dintorno al core, è il mare oceano, il suo alitare e ’l crescere e discrescere del sangue per li polsi, e così nella terra è il flusso e riflusso del mare, e ’l caldo dell’anima del mondo è il fuoco, ch’è infuso per la terra, e la residenza dell’anima vegetativa sono li fochi, che per diversi lochi della terra spirano in bagni e in miniere di solfi e in vulcani, a Mon Gibello di Sicilia e altri lochi assai.

LXIX. — PARAGONE DELL’UOMO E DEL MONDO. COMINCIAMENTO DEL TRATTATO DE L’ACQUA.

L’omo è detto da li antiqui mondo minore, e certo la dizione d’esso nome è bene collocata imperò che, sì come l’omo è composto di terra, acqua, aria e foco, questo corpo della terra è il simigliante. Se l’omo ha in sè ossa, sostenitori e armadura della carne, il mondo ha i sassi sostenitori della terra; se l’omo ha in sè il lago del sangue, dove cresce e discresce il polmone, nello alitare, il corpo della terra ha il suo oceano mare, il quale, ancora lui, cresce e discresce ogni sei ore per lo alitare del mondo; se dal detto lago di sangue dirivan vene, che [144] si vanno ramificando per lo corpo umano, similmente il mare oceano empie il corpo de la terra d’infinite vene d’acqua. Manca al corpo della terra i nervi, i quali non vi sono, perchè i nervi sono fatti al proposito del movimento, e, il mondo sondo di perpetua stabilità, non v’accade movimento, e, non v’accadendo movimento, i nervi non vi sono necessari. Ma in tutte l’altre cose sono molto simili.

LXX. — L’ACQUA.

Il corpo della terra, a similitudine dei corpi delli animali, è tessuto di ramificazione di vene, le quali son tutte insieme congiunte, e son costituite a nutrimento e vivificazione d’essa terra e de’ sua creati.

LXXI. — L’ACQUA È IL SANGUE E LA LINEA DEL MONDO.

L’acqua, che surge ne’ monti è il sangue, che tien viva essa montagna, o, forata in essa o per traverso essa vena, la natura, aiutatrice de’ sua vivi, sendo abbondante nell’aumento di volere riparare il mancamento del versato umore, quivi con curioso [sollecito] soccorso [145] abbonda; a similitudine del loco percosso nell’omo, e’ si vede, per lo soccorso fatto, multiplicare il sangue sotto alla pelle, in modo di sgonfiamento, per sopperire al loco infecto [contuso, per la percussione]; similmente la vite, sendo tagliata nell’alta stremità, manda la natura dall’infime radice all’altezza somma del loco tagliato il suo umore, e quello, essendo versato, essa non l’abbandona di vitale umore, insino al fine della sua vita.

LXXII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

L’acqua è proprio quella, che per vitale umore di questa arida terra è dedicata: e quella causa, che la move per le sue ramificate vene, contro al natural corso delle cose gravi, è proprio quella, che move li umori in tutte le spezie de’ corpi animali.

LXXIII. — L’ACQUA SUI MONTI.

L’acqua, vitale omore della terrestre macchina, mediante il suo natural calore si move.

LXXIV. — TRASFORMAZIONI DOVUTE ALL’ACQUA.

L’acqua è ’l vetturale della natura.

[146]

LXXV. — DELLA VIBRAZION DELLA TERRA.

Li corsi subterranei delle acque, sì come quelli, che son fatti in fra l’aria e la terra, son quelli, che al continuo consumano e profondano li letti delli lor corsi.

La terra, levata dalli fiumi, si scarica nelle ultime parti delli lor corsi, ovvero la terra, levata da li alti corsi de’ fiumi, si scarica nell’ultime bassezze delli lor moti.

Dove l’acque dolci pullulano, nella superfice del mare, è manifesto prodigio della creazione d’una isola, la qual si scoprirà tanto più tardi o più presto, quanto la quantità dell’acqua, che surge, sarà di minore o maggior quantità.

E questa tale isola si genera dalla quantità della terra o consumazion de’ sassi, che fa il corso sotterraneo dell’acqua per li lochi, dond’ella discorre.

LXXVI. — VASTE TRASFORMAZIONI NEL PASSATO E NELL’AVVENIRE.

Come le rive del mare al continuo acquistano terreno inverso il mezzo del mare.

Come li scogli o promontori de’ mari al continuo ruinano, e si consumano.

Come i mediterranei scopriranno i lor [147] fondi all’aria, e sol riserberanno il canale al maggior fiume, che dentro vi metta, il quale correrà all’Oceano, e ivi verserà le sue acque, insieme con quelle di tutti i fiumi, che con esso s’accompagnano.

LXXVII. — L’ACQUA NEI FIUMI.

In fra le potenti cagioni de’ terrestri danni a me pare, che i fiumi, colle ruinose innondazioni, tengano il principato; e non è il foco, come alcuni han voluto, imperocchè il foco termina sua voragine, dove manca il nutrimento; il movimento dell’acqua, ch’è mantenuto dalle inclinate valli, ancora lui termina e more insieme coll’ultima bassezza della valle; ma il foco è causato dal nutrimento e ’l moto dell’acqua dalla bassezza. Il nutrimento del foco è disunito, e disunito e separato fia il danno, e il foco more, dove manca il nutrimento. La declinazione delle valli è unita, e unito fia il danno, col ruinoso corso del fiume, finchè, in compagnia delle sue valli, finirà nel mare, universale bassezza e unico riposo delle peregrinanti acque dei fiumi.

Ma con quale lingua o con quale vocaboli potrò io esprimere e dire le nefande ruine, li incredibili dirupamenti, le inesorabili [148] rapacità, fatte da’ diluvî de’ superbi fiumi? Come potrò io dire? — Certo io non mi sento bastevole a tanta dimostrazione; ma pure con quell’aiuto, che mi dà la sperienza, m’ingegnerò riferire il modo del dannificare, contro ai quali diripanti fiumi non vale alcuno umano riparo.

LXXVIII. — SU UNA CONCHIGLIA FOSSILE.

O tempo, veloce predatore delle create cose, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti, e quante mutazioni di stati e varî casi sono seguìti, dopochè la maravigliosa forma di questo pesce qui morì per le cavernose o ritorte interiora [Sott.: del monte] .... Ora, disfatto dal tempo, paziente giaci in questo chiuso loco; colle spolpate e ignude ossa hai fatto armadura e sostegno al soprapposto monte!

LXXIX. — BASTA UN PICCOLO SEGNO PER RICOSTRUIRE L’INTERO PASSATO.

Perchè molto son più antiche le cose che le lettere, non è maraviglia se alli nostri giorni non apparisce scrittura delli predetti mari essere occupatori di tanti paesi; e se pure alcuna scrittura apparìa le guerre, l’incendi, li diluvi dell’acque, le mutazioni delle [149] lingue e delle leggi hanno consumato ogni antichità: ma a noi bastano le testimonianze delle cose nate nelle acque salse, ritrovarsi nelli alti monti, lontani dalli mari d’allora.

LXXX. — DEL DILUVIO E DE’ NICCHI [le conchiglie fossili] MARINI.[138]

Se tu dirai che li nicchi, che per li confini d’Italia lontano dalli mari, in tanta altezza si veggono alli nostri tempi, siano stati per causa del Diluvio, che lì li lasciò; io ti rispondo che, credendo tu che tal Diluvio superasse il più alto monte 7 cubiti, — come scrisse chi li misurò, — tali nicchi, che sempre stanno vicini ai liti del mare, e’ dovriano restare sopra tali montagne, e non sì poco sopra le radici de’ monti, per tutto a una medesima altezza, a suoli a suoli [a strati, a strati].

E se tu dirai, che, essendo tali nicchi vaghi di stare vicini alli liti marini, e che, crescendo in tanta altezza, che li nicchi si partirono da esso lor primo sito, e seguitarono l’accrescimento delle acque insino alla lor somma altezza; qui si risponde che, sendo il nicchio animale di non più veloce moto che si sia la lumaca, fori dell’acqua, — e qualche [150] cosa più tarda, perchè non nuota, anzi si fa un solco ove s’appoggia, — camminerà il dì dalle 3 alle 4 braccia. Adunque questo, con tale moto, non sarà camminato dal mare Adriano insino in Monferrato di Lombardia, chè v’è 250 miglia di distanza in 40 giorni — come disse chi tenne conto d’esso tempo.

E se tu dici che l’onde ve li portarono, essi per la lor grossezza, non si reggono, se non sopra il suo fondo; e se questo non mi concedi, confessami almeno ch’elli aveano a rimanere nelle cime de’ più alti monti e ne’ laghi, che infra li monti si serrano: come lago di Lario o di Como e ’l Maggiore e di Fiesole e di Perugia e simili.

E se tu dirai che li nicchi son portati dall’onde, essendo voti e morti, io dico che, dove andavano li morti, poco si rimovevano da’ vivi, e in queste montagne sono trovati tutti i vivi, che si cognoscono, che sono colli gusci appaiati, e sono in un filo dove non è nessun de’ morti, e poco più alto è trovato, dove eran gettati dall’onde tutti li morti colle loro scorze separate, appresso a dove li fiumi cascavano in mare in gran profondità. E se li nicchi fussero stati portati dal torbido Diluvio, essi si sarebbero misti separatamente l’un dall’altro, infra ’l fango [151] e non con ordinati gradi a suoli, come alli nostri tempi si vede.

LXXXI. — DI QUELLI CHE DICONO, CHE I NICCHI SONO PER MOLTO SPAZIO E NATI REMOTI DALLI MARI, PER LA NATURA DEL SITO E DE’ CIELI, CHE DISPONE E INFLUISCE TAL LOCO A SIMILE CREAZIONE D’ANIMALI.

A costor si risponderà che s’è tale influenza [influsso degli astri, atto a crear animali fossili] d’animali, non potrebbero accadere in una sola linea se non animali di medesima sorte e età, e non il vecchio col giovane, e non alcun col coperchio e l’altro essere sanza sua copritura, e non l’uno esser rotto e l’altro intero, e non l’uno ripieno di rena marina, e rottame minuto e grosso d’altri nicchi dentro alli nicchi interi, che lì son rimasti aperti, e non le bocche de’ granchi sanza il rimanente del suo tutto, e non li nicchi d’altre specie appiccati con loro in forma d’animale, che sopra di quelli si movesse, perchè ancora resta il vestigio del suo andamento sopra la scorza, che lui già, a uso di tarlo, sopra il legname andò consumando; non si troverebbero infra loro ossa e denti di pesce, li [152] quali alcuni dimandano saette e altri lingue di serpenti, e non si troverebbero tanti membri di diversi animali insieme uniti, se lì da’ liti marini gittati non fussino.

E ’l diluvio lì non li avrebbe portati, perchè le cose gravi più dell’acqua, non stanno a galla sopra l’acqua, e le cose predette non sarìano in tanta altezza, se già a nuoto ivi sopra dell’acque portate non furono, la qual cosa è impossibile per la lor gravezza.

Dove le vallate non ricevono le acque salse del mare, quivi i nicchi mai non si vedono, come manifesto si vede nella gran valle d’Arno di sopra alla Gonfolina, sasso per antico unito con Monte Albano in forma d’altissimo argine, il quale tenea ringorgato tal fiume in modo che, prima che versasse nel mare, il quale era dopo ai piedi di tal sasso, componea due grandi laghi, de’ quali il primo è, dove oggi si vede fiorire la città di Fiorenze insieme con Prato e Pistoia, e Monte Albano seguiva il resto dell’argine insin dove oggi è posto Serravalle. Dal Val d’Arno di sopra insino Arezzo si creava un secondo lago, il quale nell’antidetto lago versava le sue acque, chiuso circa dove oggi si vede Girone, e occupava tutta la detta valle di sopra per [153] ispazio di quaranta miglia di lunghezza. Questa valle riceve sopra il suo fondo tutta la terra portata dall’acqua da quella intorbidata, la quale ancora si vede a’ piedi di Prato Magno restare altissima, dove li fiumi non l’hanno consumata, e infra essa terra si vedono le profonde segature de’ fiumi, che quivi son passati, li quali discendono dal gran monte di Prato Magno, nelle quali segature non si vede vestigio alcuno di nicchi o di terra marina. Questo lago si congiugnea col lago di Perugia.

Gran somma di nicchi si vede, dove li fiumi versano in mare, benchè in tali siti l’acque non sono tanto salse per la mistion dell’acque dolci, che con quelle s’uniscono. E ’l segno di ciò si vede dove per antico li Monti Appennini versavano li lor fiumi nel mare Adriano, li quali in gran parte mostrano infra li monti gran somma di nicchi, insieme coll’azzurrigno terreno di mare, e tutti li sassi, che di tal loco si cavano, son pieni di nicchi.

Il medesimo si conosce avere fatto Arno, quando cadea dal sasso della Gonfolina nel mare, che dopo quella non troppo basso si trovava, perchè a quelli tempi superava l’altezza di San Miniato al Tedesco, perchè [154] nelle somme altezze di quello si vedono le ripe piene di nicchi e ostriche dentro alle sue mura; non si distesero li nicchi inverso Val di Nievole, perchè l’acque dolci d’Arno in là non si astendeano.

Come li nicchi non si partirono dal mare per Diluvio, perchè l’acque, che diverso la terra venivano, ancora che essi tirassino il mare inverso la terra, esse eran quelle, che percuoteano il suo fondo, perchè l’acqua, che viene di verso la terra, ha più corso che quella del mare, e per conseguenza è più potente, entra sotto l’altra acqua del mare, e rimove il fondo, e accompagna con seco tutte le cose mobili, che in quella trova, come son i predetti nicchi e altre simili cose, e quanto l’acqua, che vien di terra, è più torbida che quella del mare, tanto più si fa potente e grave che quella.

Adunque io non ci vedo modo di tirare i predetti nicchi tanto infra terra, se quivi nati non fussino!

Se tu mi dicessi il fiume Era [Loira], che passa per la Francia, nell’accrescimento del mare [nel flusso o alta marea], si copre più di ottanta miglia di paese, perchè è loco di gran pianura, e ’l mare [155] s’alza circa braccia venti, e nicchi si vengono a trovare in tal pianura, discosta dal mare esse ottanta miglia; qui si risponde che ’l flusso e riflusso ne’ nostri mediterranei mari non fanno tanta varietà, perchè in Genovese non varia nulla, a Venezia poco, in Africa poco, e dove poco varia poco occupa di paese.

LXXXII. — CONFUTAZIONE CH’È CONTRO COLORO, CHE DICONO I NICCHI ESSER PORTATI PER MOLTE GIORNATE DISTANTI DALLI MARI PER CAUSA DEL DILUVIO, TANT’ALTO CHE SUPERASSE TALE ALTEZZA.

Dico, che il Diluvio non potè portare le cose nate dal mare alli monti, se già il mare gonfiando non creasse innondazione insino alli lochi sopradetti, la qual gonfiazione accadere non può, perchè si darebbe vacuo.

E se tu dicessi: — l’aria quivi riempirebbe; — noi abbiamo concluso il grave non si sostenere sopra il lieve, onde per necessità si conclude, esso diluvio essere causato dall’acque piovane; e, se così è, tutte esse acque corrono al mare, e non corre il mare alle montagne; e se elle corrono al mare esse spingono li nicchi dal lito del mare, e non li tirano a sè.

[156]

E se tu dicessi: — poichè ’l mare alzò per l’acque piovane, portò essi nicchi a tale altezza; — già abbiamo detto, che le cose più gravi dell’acqua non notan sopra di lei, ma stanno ne’ fondi, dalli quali non si rimovono, se non per causa di percussion d’onda.

E se tu dirai, che l’onde le portassino in tali lochi alti, noi abbiamo provato, che l’onde nella gran profondità tornano in contrario, nel fondo, al moto di sopra, la qual cosa si manifesta per lo intorbidare del mare dal terreno tolto vicino alli liti.

Muovesi la cosa più lieve che l’acqua insieme colla sua onda, ed è lasciata nel più alto sito della riva dalla più alta onda. Muovesi la cosa più grave che l’acqua sospinta dalla sua onda nella superfizie ed al fondo suo. E per queste due conclusioni, che ai lochi sua saran provati a pieno, noi concludiamo, che l’onda superfiziale non può portare nicchi, per essere più grevi che l’acqua.

Quando il diluvio avesse avuto a portare li nicchi trecento e quattrocento miglia distanti dalli mari, esso li avrebbe portati misti con diverse nature, insieme ammontati: e noi vediamo in tal distanza l’ostriche tutte insieme e le conchiglie, e li pesci calamai, e tutti li altri nicchi, che [157] stanno insieme a congregazione, essere trovati tutti insieme morti; e li nicchi solitari trovarsi distanti l’uno dall’altro, come nei liti marittimi tutto il giorno vediamo!

E se noi troviamo l’ostriche insieme apparentate grandissime, infra le quali assai vedi quelle, che hanno ancora il coperchio congiunto, a significare che qui furono lasciate dal mare che ancor viveano, quando fu tagliato lo stretto di Gibilterra.

Vedesi in nelle montagne di Parma e Piacenza le moltitudini di nicchi e coralli intarlati, ancora appiccati alli sassi, dei quali, quand’io facevo il gran cavallo di Milano [la statua equestre a Francesco Sforza], me ne fu portato un gran sacco nella mia fabbrica da certi villani, che in tal loco furon trovati, fra li quali ve n’era assai delli conservati nella prima bontà....

Trovansi sotto terra e sotto li profondi cavamenti de’ lastroni [le profonde cave di macigno], li legnami delle travi lavorati, fatti già neri, li quali furon trovati a mio tempo in quel di Castel Fiorentino, e questi, in tal loco profondo, v’erano prima che la litta [fango di fiume], gittata dall’Arno nel mare, che quivi copriva, fusse abbandonata [158] in tant’altezza, e che le pianure del Casentino fussin tanto abbassate dal terren, che hanno al continuo di lì sgomberato.

E se tu dicessi tali nicchi essere creati e creano a continuo in simili lochi per la natura del sito e de’ cicli, che quivi influisce; questa tale opinione non sta in cervelli di troppo discorso, perchè quivi s’enumeran li anni del loro accrescimento sulla loro scorza, e se ne vedono piccoli e grandi, i quali sanza cibo non crescerebbero, e non si cibarebbero sanza moto, e quivi movere non si poteano.

LXXXIII. — I FOSSILI RISPECCHIANO NEL PASSATO UNA VITA ANALOGA A QUELLA DEL PRESENTE.

Come nelle falde, infra l’una e l’altra, si trovano ancora li andamenti delli lombrichi, che camminavano infra esse, quando non erano ancora asciutte.

Come tutti li fanghi marini ritengono ancora de’ nicchi, ed è petrificato il nicchio insieme col fango.

Della stoltizia e semplicità di quelli, che vogliono che tali animali fussino, alli lochi distanti dai mari, portati dal Diluvio.

Come altra setta d’ignoranti affermano [159] la natura o i cieli averli in tali lochi creati per influssi celesti, come in quelli non si trovassino l’ossa de’ pesci cresciuti con lunghezza di tempo, come nelle scorze de’ nicchi e lumache non si potesse annumerare li anni o i mesi della lor vita, come [allo stesso modo che] nelle corna de’ buoi e de’ castroni, e nella ramificazione delle piante, che non furono mai tagliate in alcuna parte!

E avendo con tali segni dimostrato la lunghezza della lor vita essere manifesta, ecco bisogna confessare, che tali animali non vivino sanza moto, per cercare il loro cibo, e in loro non si vede strumenti da penetrare la terra e ’l sasso, ove si trovano rinchiusi.

Ma in che modo si potrebbe trovare in una gran lumaca i rottami e parte di molt’altre sorte di nicchi di varia natura, se ad essa, sopra de’ liti marini già morta, non li fussino state gettate dalle onde del mare, come dell’altre cose lievi, che esso getta a terra?

Perchè si trova tanti rottami e nicchi interi fra falda e falda di pietra, se già quella sopra del lido non fusse stata ricoperta [160] da una terra rigettata dal mare, la qual poi si venne petrificando?

E se ’l diluvio predetto li avesse in tali siti dal mare portato, tu troveresti essi nicchi in sul termine d’una sola falda e non al termine di molte.

Devonsi poi annumerare le annate delli anni, che ’l mare multiplicava le falde dell’arena e fango, portatoli da’ fiumi vicini, e ch’elli scaricava in sui liti sua; e se tu volessi dire, che più diluvi fussino stati a produrre tali falde e nicchi infra loro, e’ bisognerebbe, che ancora tu affermassi ogni anno essere un tal diluvio accaduto.

E se tu vuoi dire, che tale diluvio fu quello, che portò tali nicchi fuor de’ mari centinaia di miglia, questo non può accadere, essendo stato esso diluvio per causa di pioggie: — perchè naturalmente le pioggie spingono i fiumi, insieme colle cose da loro portate, inverso il mare, e non tirano inverso de’ monti, le cose morte, da’ liti marittimi.

E se tu dicessi che ’l diluvio poi s’alzò colle sue acque sopra de’ monti, il moto del mare fu sì tardo, col cammino suo contro al corso de’ fiumi, che non avrebbe sopra di sè tenute a noto le cose più gravi di lui, e, [161] se pur l’avesse sostenute, esso nel calare l’avrebbe lasciate in diversi lochi seminate.

Ma come accomoderemo noi li coralli, li quali inverso Monteferrato in Lombardia essersi tutto dì trovati intarlati [corrosi dal tempo e dalle varie vicende], appiccati alli scogli, scoperti dalla corrente de’ fiumi?

E li detti scogli sono tutti coperti di parentadi e famiglie d’ostriche, le quali noi sappiamo che non si movono, ma stan sempre appiccate coll’un de’ gusci al sasso, e l’altro aprono per cibarsi d’animaluzzi, che notan per l’acque, li quali, credendo trovar bona pastura, diventano cibo del predetto nicchio.

Non si trova l’arena mista coll’aliga marina [l’alga marina] essersi petrificata, poichè l’aliga, che la tramezzava, venne meno. E di questa scopre tutto il giorno il Po nelle mine delle sue ripe.

LXXXIV. — DE’ NICCHI NE’ MONTI.

E se tu vorrai dire li nicchi esser prodotti dalla natura in essi monti mediante le costellazioni, per qual via mostrerai tal costellazione fare li nicchi di varie grandezze e di diverse età e di varie spezie ’n un medesimo sito?

[162]

E come mi mostrerai la ghiara congelata a gradi [stratificata e cementata in roccie] in diverse altezze delli monti, perchè quivi è di diverse ragioni, ghiare portate di diversi paesi dal corso de’ fiumi in tal sito; e la ghiara non è altro che pezzi di pietra, che han persi li angoli per la lunga rivoluzione e le diverse percussioni e cadute, ch’ell’ha avuto mediante li corsi delle acque, che in tal loco le condusse?

Come proverai il grandissimo numero di varie spezie di foglie congelate [fossilizzate e improntate] nelli alti sassi di tal monte, e l’aliga, erba di mare, stante a diacere mista con nicchi e rena? E così vedrai ogni cosa petrificata insieme con granchi marini, rotti in pezzi, separati e tramezzati da essi nicchi.

LXXXV. — SULLA STRATIFICAZIONE GEOLOGICA E CONTRO IL DILUVIO.

Per le due linee de’ nicchi bisogna dire che la terra per sdegno s’attuffasse sotto il mare a fare il primo suolo, poi il Diluvio fece il secondo!

LXXXVI. — DUBITAZIONE.

Movesi qui un dubbio, e questo è se ’l diluvio venuto al tempo di Noè fu universale [163] o no, e qui parrà di no per le ragioni, che si assegneranno. Noi nella Bibbia abbiam che il predetto diluvio fu composto di 40 dì e 40 nocte di continua e universa pioggia, e che tal pioggia alzò di sei gomiti sopra al più alto monte dell’universo; e se così fu, che la pioggia fussi universale, ella vestì di sè la nostra terra di figura sperica, e la superfizie sperica ha ogni sua parte egualmente distante al centro della sua spera; onde la spera dell’acqua trovandosi nel modo della detta condizione, elli è impossivile che l’acqua sopra di lei si mova, perche l’acqua in sè non si move, s’ella non discende; adunque l’acqua di tanto diluvio come si partì, se qui è provato non aver moto? E s’ella si partì, come si mosse, se ella non andava allo in su? E qui mancano le ragioni naturali, onde bisogna per soccorso di tal dubitazione, chiamare il miracolo per aiuto, o dire che tale acqua fu vaporata dal calor del sole.

LXXXVII. — QUALE SARÀ IL TERMINE DELLA VITA NEL MONDO.[139]

Riman lo elemento dell’acqua rinchiuso infra li cresciuti argini de’ fiumi, e si vede il mare infra la cresciuta terra; e la circundatrice [164] aria, avendo a fasciare e circonscrivere la mollificata macchina della terra [il corpo sferico della Terra, rammollito per le assorbite acque], la sua grossezza, che stava fra l’acqua e lo elemento del foco, rimarrà molto ristretta e privata della bisognosa acqua. I fiumi rimarranno senza le loro acque, la fertile terra non manderà più leggere fronde, non fieno più i campi adornati dalle ricascanti piante; tutti li animali non trovando da pascere le fresche erbe, morranno; e mancherà il cibo ai rapaci lioni e lupi e altri animali, che vivono di ratto; e agli omini, dopo molti ripari, converrà abbandonare la loro vita, e mancherà la generazione umana.

A questo modo la fertile e fruttuosa terra, abbandonata, rimarrà arida e sterile; e, pel rinchiuso omore dell’acqua (rinchiusa nel suo ventre) e per la vivace natura, osserverà alquanto dello suo accrescimento [continuerà a produrre vita e forme], tanto che, passata la fredda e sottile aria, sia costretta a terminare collo elemento del foco: allora la sua superfice rimarrà in riarsa cenere, e questo fia il termine della terrestre natura.

[165]

LXXXVIII. — LA TERRA IMMERSA NELL’ACQUA PER LA LENTA CONSUMAZIONE DE’ MONTI.

Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare, e il contrario son le cime de’ monti, sèguita che la terra si farà sperica e tutta coperta dall’acque, e sarà inabitabile.

LXXXIX. — LE LEGGI MECCANICHE DOMINANO I FENOMENI INORGANICI E ORGANICI.

La scienza strumentale, over macchinale, è nobilissima e sopra tutte l’altre utilissima, conciò sia che mediante quella tutti li corpi animati, che hanno moto fanno tutte loro operazioni; i quali moti nascono dal centro della lor gravità, che è posto in mezzo a parti di pesi diseguali, e ha questo carestia e dovizia di muscoli [disequilibrio di forza nervosa] ed etiam lieva e contra lieva.

XC. — POSSIBILITÀ CHE HA L’UOMO D’IMITARE STRUMENTALMENTE L’UCCELLO VOLANTE.

L’uccello è strumento oprante per legge matematica, il quale strumento è in potestà [166] dell’omo poterlo fare con tutti li sua moti, ma non con tanta potenza; ma solo s’astende nella potenza del bilicarsi. Adunque direm che tale strumento, composto per l’omo, non li manca se non l’anima dello uccello, la quale anima bisogna, che sia contraffatta dall’anima dell’omo.

L’anima alle membra delli uccelli, sanza dubbio, obbidirà meglio a’ bisogni di quelle, che a quelle non farebbe l’anima dell’omo, da esse separato, e massimamente ne’ moti di quasi insensibili bilicazioni; ma poi che alle molte sensibili varietà di moti noi vediamo l’uccello provvedere, noi possiamo, per tale esperienza, giudicare, che le forte sensibili potranno essere note alla cognizione dell’omo, e che esso largamente potrà provvedere alla ruina di quello strumento, del quale lui s’è fatto anima e guida.

XCI. — RICORDO, CHE RITORNA ALL’ANIMA DEL VINCI MENTRE SCRIVE SUL VOLO DEL NIBBIO.

Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio destino, perchè ne la prima ricordazione della mia infanzia e’ mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me, e mi aprissi la bocca colla [167] sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra.

XCII. — PERCHÈ LI PICCOLI UCCELLI NON VOLANO IN GRANDE ALTEZZA, NÈ LI GRANDI UCCELLI SI DILETTANO VOLARE IN BASSO.

Nasce per causa che li piccoli uccelli, essendo sanza piume, non reggano alla immensa freddezza della grande altura dell’aria, nella quale [Sott.: vivono] li avvoltoi e le aquile e altri grossi uccelli, ben piumosi e vestiti di molti gradi di penne.

Ancora li uccelli piccoli, con deboli e scempie [sottili] ali, si sostengano in questa aria bassa, che è grossa, e non si sosterrebbono nell’aria sottile, che poco resista.

XCIII. — FACCIAMO NOSTRA VITA COLL’ALTRUI MORTE.

In nella cosa morta riman vita dissensata, la quale, ricongiunta alli stomachi dei vivi, ripiglia vita sensitiva e ’ntellettiva.

XCIV. — COME IL CORPO DELL’ANIMALE AL CONTINUO MORE E RINASCE.

Il corpo di qualunque cosa, la qual si nutrica, al continuo more e al continuo rinasce, [168] perchè entrare non po’ nutrimento, se non in quelli lochi, dove il passato nutrimento è spirato; e s’elli è spirato, elli più non ha vita; e se tu non li rendi nutrimento eguale al nutrimento partito, allora la vita manca di sua valetudine; e se tu li levi esso nutrimento, la vita in tutto resta distrutta. Ma se tu ne rendi tanto quanto se ne distrugge alla giornata, allora tanto rinasce di vita, quanto se ne consuma, a similitudine del lume della candela col nutrimento datoli dall’omore d’essa candela: il quale lume ancora lui al continuo con velocissimo soccorso restaura di sotto, quanto di sopra se ne consuma morendo; e di splendida luce si converte, morendo, in tenebroso fumo, la qual morte è continua, siccome è continuo esso fumo, e la continuità di tal fumo è eguale al continuato nutrimento; e in istante tutto il lume è morto e tutto rigenerato, insieme col moto del nutrimento suo.

XCV. — CIRCOLAZIONE DELLA MATERIA.

L’omo e li animali sono proprio transito e condotto di cibo, sepoltura di animali, albergo de’ morti, guaina di corruzione, facendo a sè vita dell’altrui morte.

[169]

XCVI. — SULLO STESSO SOGGETTO.

Guarda il lume e considera la sua bellezza. Batti l’occhio e riguardalo: ciò che di lui tu redi, prima non era e, ciò che di lui era, più non è.

Chi è quel che lo rifa, se ’l fattore al continuo muore?

XCVII. — ANCORA SULLO STESSO SOGGETTO.[140]

Anassagora. Ogni cosa vien da ogni cosa, ed ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perchè ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

XCVIII. — SULLA ESISTENZA DELLA MORTE E DEL DOLORE NEL MONDO.

La natura pare qui in molti o di molti animali stata più presto crudele matrigna che madre, o d’alcuni non matrigna, ma pietosa madre.

XCIX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Perchè la natura non ordinò, che l’uno animale non vivesse della morte dell’altro?

La natura, essendo vaga e pigliando piacere del creare e fare continue vite e forme, perchè conosce, che sono accrescimento [170] della sua terrestre materia, è volonterosa e più presta nel suo creare, che ’l tempo col consumare, e però ha ordinato, che molti animali siano cibo l’uno dell’altro: e, non soddisfacendo questo a simile desiderio, spesso manda fuora certi avvelenati e pestilenti vapori, sopra le gran moltiplicazioni e congregazioni d’animali e massime sopra gli omini, che fanno grande accrescimento, perchè altri animali non si cibano di loro; e tolte via le cagioni mancheranno li effetti.

Adunque, questa terra cerca di mancare di sua vita, desiderando la continua moltiplicazione.

Per la tua assegnata e demonstrata ragione spesso li effetti somigliano le loro cagioni: gli animali sono esemplo della vita mondiale.

C. — DESIDERIO DI DISFARSI NELLE COSE E NEGLI ESSERI.

Or vedi, la speranza e ’l desiderio del ripatriarsi e ritornare nel primo caso [nello stato primitivo, anteriore alla nascita], fa a similitudine della farfalla al lume, e l’uomo, che con continui desideri sempre con festa aspetta la nuova primavera e sempre [171] la nuova state, sempre e nuovi mesi e nuovi anni, parendogli che le desiderate cose, venendo, sieno troppo tarde, e’ non s’avvede, che desidera la sua disfazione!...

Ma questo desiderio è la quintessenza, spirito degli elementi, che, trovandosi rinchiusa per l’anima dello umano corpo, desidera sempre ritornare al suo mandatario. E vo’ che sappi, che questo medesimo desiderio è quella quintessenza, compagnia della natura, e l’uomo è modello dello mondo.

E questo uomo ha una somma pazzia che sempre stenta per non stentare, e la vita a lui fugge sotto speranza di godere i beni con somma fatica acquistati.

CI. — COME I SENSI SONO OFFIZIALI DELL’ANIMA.

L’anima pare risiedere nella parte judiziale [parte judiziale = intelletto (qui e altrove)]; e la parte judiziale pare essere nel loco, dove concorrono tutti i sensi, il quale è detto senso comune [senso comune = cervello], e non è tutta per tutto il corpo, come molti hanno creduto; anzi tutta in nella parte, imperocchè, se ella fusse tutta per tutto e tutta in ogni parte, non era necessario li strumenti de’ sensi [172] fare in fra loro uno medesimo concorso a uno solo loco, anzi bastava che l’occhio operasse l’uffizio del sentimento sulla sua superfizie e non mandare, per la via delli nervi ottici, la similitudine delle cose vedute al senso, chè l’anima, alla sopra detta ragione, le poteva comprendere in essa superfizie dell’occhio. E similmente al senso dell’udito bastava solamente la voce risonasse nelle concave porosità dell’osso petroso, che sta dentro all’orecchio, e non fare da esso osso al senso comune altro transito, dove essa s’abbocca, e abbia a discorrere al comune giudizio.

Il senso dell’odorato ancora lui si vede essere dalla necessità costretto a concorrere a detto judizio; il tatto passa per le corde forate [corde = nervi], ed è portato a esso senso, le quali corde si vanno spargendo, con infinita ramificazione, in nella pelle, che circonda le corporee membra e visceri.

Le corde perforate portano il comandamento e sentimento delli membri offiziali [membri offiziali = muscoli], le quali corde e nervi, infra i muscoli e le coste, comandano a quelli il movimento; quelli ubbidiscono e tale obbedienza si mette [173] in atto collo sgonfiare, imperocchè ’l sgonfiare raccorta le loro lunghezze e tirasi dirieto i nervi [nervi = tendini], i quali si tessono per le particule de’ membri, essendo infusi nelli stremi de’ diti, portano al senso la cagione del loro contatto.

I nervi coi loro muscoli servono alle corde, come i soldati a’ condottieri, e le corde servono al senso comune come i condottieri al capitano; adunque la giuntura delli ossi obbedisce al nervo, e ’l nervo al muscolo e ’l muscolo alla corda e la corda al senso comune, e ’l senso comune è sedia dell’anima, e la memoria è sua munizione e la imprensiva è sua referendaria.

CII. — MECCANISMO DELLA SENSAZIONE.

Il senso comune è quello, che giudica le cose a lui date da li altri sensi.

Il senso comune è mosso mediante le cose a lui date da li cinque sensi.

E essi sensi si movono mediante li obbietti, e questi obbietti, mandando le lor similitudini a’ cinque sensi, da quelli son transferiti alla imprensiva [imprensiva = sensitività e percezione] e da quella al comune senso; e lì, sendo judicate, sono [174] mandate alla memoria, nella quale sono, mediante la loro potenza, più o meno riservate.

I cinque sensi sono questi: vedere, udire, toccare, gustare, odorare.

Li antichi speculatori hanno concluso, che quella parte del giudizio, che è data all’omo, sia causata da uno strumento, al quale riferiscano li altri cinque, mediante la imprensiva, e a detto strumento hanno posto nome senso comune, e dicano questo senso essere situato in mezzo il capo. E questo nome di senso comune dicano, solamente, perchè è comune judice de li altri cinque sensi, cioè vedere, udire, toccare, gustare e odorare. Il senso comune si move mediante la imprensiva, ch’è posta in mezzo in fra lui e i sensi. La imprensiva si muove mediante la similitudine delle cose a lei date da li strumenti superfiziali, cioè i sensi, i quali sono posti in mezzo, infra le cose esteriori e la imprensiva, e similmente i sensi si movano mediante li obbietti. La similitudine delle circustanti cose mandano, le loro similitudine a’ sensi, e’ sensi le trasferiscono alla imprensiva, la imprensiva la manda al senso comune, e da quello sono stabilite nella memoria, e lì sono più o meno [175] ritenute, secondo la importanza o potenza della cosa data.

Quello senso è più veloce nel suo offizio, il quale è più vicino alla imprensiva; il qual è l’occhio, superiore e principe de li altri, del quale solo tratteremo, e li altri lascieremo, per non ci allungare dalla nostra materia.

CIII. — SUI MOVIMENTI AUTOMATICI.

La natura ha ordinati nell’omo i muscoli uffiziali, tiratori de’ nervi, i quali possino movere le membra, secondo la volontà e desiderio del comun senso, a similitudine delli uffiziali stribuiti da uno signore per varie province e città, i quali in essi lochi rappresentano e obbediscano alla volontà d’esso signore. E quello ufiziale, che più in un solo caso abbi obbedito alle concessione fattoli di bocca dal suo signore, farà poi per sè, nel medesimo caso, cosa, che non si partirà dalla volontà d’esso signore.

Così si vede spesse volte fare alle dita, che imparando, con somma obbedienza, la cosa sopra uno strumento, le quali li sieno comandate dal giudizio, dopo esso imparare, le sonerà sanza ch’esso giudizio v’attenda.

I muscoli, che movano le gambe, non fanno ancora l’offizio loro, sanza che l’omo lo sappi?

[176]

CIV. — COME I NERVI OPERANO QUALCHE VOLTA PER LORO, SANZA COMANDAMENTO DELLI ALTRI OFFIZIALI DELL’ANIMA.

Questo chiaramente apparisce, imperocchè tu vedrai movere ai paralitici e a’ freddolosi e assiderati le loro tremanti membra, come testa e mani, sanza licenza dell’anima, la quale anima, con tutte sue forze, non potrà vietare a essi membri che non tremino. Questo medesimo accade nel malcaduco e ne’ membra tagliati, come code di lucierte.

CV. — COME L’UOMO TENDE A RIPRODURRE SÈ STESSO NELLE PROPRIE OPERE.

Sommo difetto è de’ pittori replicare li medesimi moti, i medesimi volti e maniere di panni in una medesima istoria, e fare la maggiore parte de’ volti, che somigliano al loro maestro. La qual cosa m’ha molte volte dato ammirazione, perchè n’ho conosciuto alcuno, che in tutte le sue figure parea avervisi ritratto al naturale. E in quelle si vede li atti e li modi del loro fattore.

E, s’egli è pronto nel parlare e ne’ modi, le sue figure sono il simile in prontitudine, e, se ’l maestro è divoto, il simile paiano le [177] figure con lor colli torti, e, se ’l maestro è dappoco, le sue figure paiono la pigrizia ritratta al naturale, e, se ’l maestro è sproporzionato, le figure sue son simili, e, s’egli è pazzo, nelle sue istorie si dimostra largamente, le quali sono nemiche di conclusione e non stanno attente alla loro operazione, anzi chi guarda in qua e chi in là, come se sognassino; e così segue ciascun accidente in pittura il proprio accidente del pittore.

E avendo io più volte considerato la causa di tal difetto, mi pare, che sia da giudicare, che quella anima, che regge e governa ciascun corpo, si è quella che fa il nostro giudizio innanzi sia il proprio giudizio nostro. Adunque ella ha condotto tutta la figura dell’omo, com’ella ha giudicato quello stare bene, o col naso lungo o corto o camuso, e così li ha fermo la sua altezza e figura, ed è di tanta potenza questo tal giudizio ch’egli move le braccia al pittore, e fagli replicare se medesimo, parendo a essa anima, che quello sia il vero modo di figurare l’omo, e, chi non fa come lui, faccia errore. E, s’ella trova alcuno, che simigli al suo corpo, ch’ell’ha composto, ella l’ama o s’innamora di quello, e per questo [178] molti s’innamorano e toglian moglie, che simiglia a lui, e spesso li figlioli, che nascano di tali, simigliano ai loro genitori.

CVI. — UN ISTINTO NATURALE DELL’UOMO LO GUIDA A CERCARE SÈ STESSO NELLE COSE E NEGLI ESSERI.

Deve il pittore fare la sua figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di proporzione laudabile; oltre di questo far misurare sè medesimo e vedere, in che parte la sua persona varia assai o poco da quella antidetta laudabile, e, fatta questa notizia, deve riparare con tutto il suo studio, di non incorrere ne’ medesimi mancamenti, nelle figure da lui operate, che nella persona sua si trova.

E sappi, che con questo vizio ti bisogna sommamente pugnare, conciò sia ch’egli è mancamento, ch’è nato insieme col giudizio: perchè l’anima maestra del tuo corpo è quella, ch’è il tuo proprio giudizio, e volentieri si diletta nelle opere simili a quella, ch’ella operò nel comporre del suo corpo. E di qui nasce, che non è si brutta figura di femmina, che non trovi qualche amante — se già non fussi mostruosa.

[179]

Sì che ricordati intendere i mancamenti, che sono nella tua persona, e da quelli ti guarda nelle figure, che da te si compongono.

CVII. — CONSIGLIO AL PITTORE.

Quel pittore, che arà goffe mani, le farà simili nelle sua opere, e quel medesimo li ’nterverrà in qualunque membro, se ’l lungo studio non glielo vieta. Adunque tu, pittore, guarda bene quella parte, che hai più brutta nella tua persona, e ’n quella col tuo studio fa bono riparo, imperò che, se sarai bestiale, le tue figure saranno il simile e sanza ingegnio, e similmente ogni parte di bono e di tristo, che hai in te, si dimostrerà in parte nelle tue figure.

CVIII. — SUGLI STESSI SOGGETTI.

Questo accade, chè il giudicio nostro è quello, che move la mano alla creazione de’ lineamenti d’esse figure, per diversi aspetti, insino a tanto ch’esso si satisfaccia; e perchè esso giudicio è una delle potenze dell’anima nostra, con quella essa compose la forma del corpo, dov’essa abita, secondo il suo volere. Onde avendo co’ le inani a rifare un corpo umano volontieri rifà quel corpo, di ch’essa fu prima inventrice, [180] e di qui nasce che, chi s’innamora, volentieri s’innamorano di cose a loro simiglianti.

CIX. — SULLA NATURA DEI SENSI.

Quattro sono le potenze: memoria e intelletto, lascibili e concupiscibili [senso e desiderio].

Le due prime son ragionevoli e l’altre sensuali.

De’ cinque sensi: vedere, udire, odorato sono di poca proibizione, tatto e gusto no.

L’odorato mena con seco il gusto nel cane e altri golosi animali.

CX. — PROBLEMA DEI SOGNI.

Perchè vede più certa la cosa l’occhio ne’ sogni, che colla imaginazione stando desto?

CXI. — GIUDIZI INCONSCIENTI.

La pupilla dell’occhio, stante all’aria, in ogni grado di moti fatti dal sole, muta gradi di magnitudine [si dilata o si restringe].

E, in ogni grado di magnitudine, una medesima cosa veduta si dimostrerà di diverse [181] grandezze, benchè spesse volte il paragone delle cose circostanti non lascino discernere tale mutazione d’una sola cosa, che si risguardi.

CXII. — INGANNO DEI SENSI.

L’occhio, nelle debite distanze e debiti mezzi, meno s’inganna nel suo uffizio, che nissun altro senso, perchè (non) vede se non per linee rette, che compongono la piramide [formata dal raggi luminosi], che si fa base dell’obbietto, e la conduce a esso occhio, come intendo provare.

Ma l’orecchio forte s’inganna nelli siti e distanze delli suoi obbietti, perchè non vengono le spezie [le onde sonore] a lui per rette linee, come quelle dell’occhio, ma per linee tortuose e riflesse, e molte sono le volte che le remote paiano più vicine, che le propinque, mediante li transiti di tali spezie; benchè la voce di eco sol per linee rette si riferisce a esso senso.

L’odorato meno si certifica del sito, donde si causa un’odore; ma il gusto e il tatto, che toccano l’obbietto, han sola notizia di esso tatto.

[182]

CXIII. — SUL TEMPO.

Benchè il tempo sia annumerato in fra le continue quantità, esso, per essere invisibile e sanza corpo, non cade integralmente sotto la geometrica potenza, la quale lo divide per figure e corpi d’infinita varietà, come continuo nelle cose visibili e corporee far si vede; ma sol co’ sua primi principî si conviene, cioè col punto e colla linia: il punto nel tempo è da essere equiparato al suo istante, e la linea, ha similitudine colla lunghezza d’una quantità d’un tempo, e, siccome i punti son principio o fine della predetta linea, così li instanti son termine e principio di qualunque dato spazio di tempo, e se la linea è divisibile in infinito, lo spazio d’un tempo di tal divisione non è alieno, e se le parti divise della linea sono proporzionabili infra sè, ancora le parti del tempo saranno proporzionabili infra loro.

CXIV. — SUL CONCETTO DEL TEMPO.

Scrivi la qualità del tempo separata dalla geometrica.

[183]

CXV. — SUL CONCETTO DEL NULLA.

Il minore punto naturale è maggiore di tutti i punti matematici, e questo si pruova perchè il punto naturale è quantità continua, e ogni continuo è divisibile in infinito, e il punto matematico è indivisibile, perchè non è quantità.

Ogni quantità continua intellettualmente è divisibile in infinito.

Infra le grandezze delle cose, che sono infra noi, l’essere del Nulla tiene il principato, e ’l suo offizio s’estende infra le cose, che non hanno l’essere, e la sua essenza risiede appresso del tempo, infra ’l preterito e ’l futuro — e nulla possiede del presente.

Questo Nulla ha la sua parte eguale al tutto e ’l tutto alla parte e ’l divisibile allo indivisibile, e tal somma produce nella sua partizione come nella multiplicazione e nel suo sommare quanto nel sottrarre, come si dimostra appresso delli aritmetici dello suo decimo carattere, che rappresenta esso Nulla [lo zero]. E la podestà sua non si estende infra le cose di natura.

[184]

[Quello che è detto Niente si ritrova solo nel tempo e nelle parole: nel tempo si trova infra ’l preterito e ’l futuro, e nulla ritiene del presente, e così, infra le parole, delle cose che si dicono, che non sono o che sono impossibili.]

Appresso del tempo il Nulla risiede infra ’l preterito e ’l futuro, e niente possiede del presente, e apresso di natura e’ s’accompagna infra le cose impossibili. Onde per quel ch’è detto e’ non ha l’essere, imperò che, dove fusse il nulla, sarebbe dato il vacuo.

[185]

PENSIERI SULLA MORALE.

I. — GLI STUDI DI LEONARDO.

Io scopro alli omini l’origine della prima o forse seconda cagione del loro essere.

II. — PROEMIO DELLA SUA ANATOMIA.

E tu, che dici esser meglio il vedere fare l’anatomia, che vedere tali disegni, diresti bene, se fusse possibile vedere tutte queste cose, che in tali disegni si dimostrano, in una sola figura; nella quale, con tutto il tuo ingegno, non vedrai e non avrai la notizia, se non d’alquante poche vene; delle quali io, per averne vera e piena notizia, ho disfatti più di dieci corpi umani, distruggendo ogni altri membri, consumando con minutissime particule tutta la carne, che d’intorno a esse vene si trovava, sanza insanguinarle, se non d’insensibile insanguinamento [186] delle vene capillari. E un sol corpo non bastava a tanto tempo, che bisognava procedere di mano in mano in tanti corpi, che si finisca la intera cognizione; la qual replicai due volte per vedere le differenze.

E se tu avrai l’amore a tal cosa, tu sarai forse impedito dallo stomaco; e se questo non ti impedisce, tu sarai forse impedito dalla paura coll’abitare nelli tempi notturni in compagnia di tali morti squadrati e scorticati, e spaventevoli a vederli; e se questo non t’impedisce, forse ti mancherà il disegno bono, il quale s’appartiene a tal figurazione.

E se tu avrai il disegno, e’ non sarà accompagnato dalla prospettiva; e se sarà accompagnato, e’ ti mancherà l’ordine delle dimostrazion geometriche e l’ordine delle calculazion delle forze e valimento de’ muscoli; e forse ti mancherà la pazienza, chè tu non sarai diligente.

Delle quali, se in me tutte queste cose sono stato o no, i centoventi libri da me composti ne daran sentenza del sì o del no, nelli quali non sono stato impedito nè d’avarizia o negligenza, ma sol dal tempo. Vale.

[187]

III. — PASSAGGIO DALLA ANATOMIA ALL’ETICA.

Adunque qui, con 12 figure intere, ti sarà mostro la Cosmografia del minor mondo la struttura dell’uomo col medesimo ordine, che innanzi a me fu fatto da Tolomeo nella sua Cosmografia. E così dividerò poi quello in membra, come lui divise il tutto in provincie; e poi dirò l’uffizio delle parti per ciascun verso, mettendoti dinanzi alli occhi la notizia di tutta la figura e valitudine dell’omo, in quanto a moto locale, mediante lo sue parti.

E così piacesse al Nostro Autore, che io potessi dimostrare la natura delli omini e loro costumi, nel modo che io descrivo la sua figura.

IV. — CONSEGUENZE ETICHE CHE DISCENDONO DAGLI STUDI ANATOMICI.

E tu, o omo, che consideri in questa mia fatica l’opere mirabili della natura, se giudicherai essere cosa nefanda il distruggerla, or pensa essere cosa nefandissima il tôrre la vita all’omo; del quale, se questa sua composizione ti pare di maraviglioso artifizio, [188] pensa questa essere nulla rispetto all’anima, che in tale architettura abita, e veramente, quale essa si sia, ella è cosa divina: sicchè lasciala abitare nella sua opera a suo beneplacito, o non volere che la tua ira o malignità distrugga una tanta vita, chè veramente, chi non la stima, non la merita.

Poichè così mal volentieri si parte dal corpo, e ben credo, che ’l suo pianto e dolore non sia sanza cagione.

V. — IL METODO SPERIMENTALE E SUE CONSEGUENZE SULL’AGIRE UMANO.

Queste regole son cagione di farti conoscere il vero dal falso, la qual cosa fa che li omini si promettano le cose possibili e con più moderanza, e che tu non ti veli d’ignoranza, che farebbe, che, non avendo effetto, tu t’abbi con disperazione a darti malinconia.

VI. — LIMITI IMPOSTI DA LEONARDO ALLA SCIENZA.

Come molti stiano con istrumento alquanto sotto l’acqua; come e perchè io non scrivo il mio modo di star sotto l’acqua, quanto io posso star sanza mangiare; e questo [189] non pubblico o divolgo per le male nature delli omini, li quali userebbono li assassinamenti ne’ fondi de’ mari, col rompere i navili in fondo, e sommergerli, insieme colli omini, che vi son dentro, e benchè io insegni delli altri, quelli non son di pericolo, perchè di sopra all’acqua apparisce la bocca della canna, onde alitano, posta sopra otri o sughero.

VII. — CONTRO LA NECROMANZIA.

Delli discorsi umani stoltissimo è da essere riputato quello, il qual s’astende alla credulità della Negromanzia, sorella della Alchimia, partoritrice delle cose semplici e naturali; ma è tanto più degna di riprensione che l’Alchimia, quanto ella non partorisce alcuna cosa se non simile a sè, cioè bugia.

Il che non interviene nella Alchimia, la quale è ministratrice de’ semplici prodotti della natura; il quale uffizio fatto esser non può da essa natura, perchè in lei non sono strumenti organici, colli quali essa possa operare quel che adopera l’uomo mediante le mani, che in tale uffizio ha fatti i vetri ecc.

Ma essa Negromanzia, stendardo e vero bandiera volante mossa dal vento, è guidatrice [190] della stolta moltitudine, la quale al continuo testimonia, collo abbaiamento, l’infiniti effetti di tale arte; e vanno empiuti i libri, affermando che l’incanti e spiriti adoperino, e sanza lingua parlino, e sanza strumenti organici, sanza i quali parlar non si può, parlino, e portino gravissimi pesi, faccino tempestare e piovere, e che li omini si convertino in gatti, lupi e altre bestie, benchè in bestia prima entran quelli, che tal cosa affermano.

E certo se tale Negromanzia fusse in essere, come dalli bassi ingegni è creduto, nessuna cosa è sopra la terra, che al danno e servizio dell’omo fusse di tanta valetudine: perchè, se fusse vero che in tale arte si avesse potenza di far turbare la tranquilla serenità dell’aria, convertendo quella in notturno aspetto, e far le corruscazioni o venti, con spaventevoli toni e folgori scorrenti infra le tenebre, e con impetuosi venti ruinare li alti edifizi, e diradicare le selve, e con quelle percuotere li eserciti, e quelli rompendo e atterrando, e oltr’a questo le dannose tempeste privando li cultori del premio delle lor fatiche: — o qual modo di guerra può essere, che con tanto danno possa offendere il suo nemico di aver podestà [191] di privarlo delle sue raccolte? qual battaglia marittima può essere, che si assomigli a quella di colui, che comanda alli venti, e fa le fortune rovinose e sommergitrici di qualunque armata? Certo quel che comanda a tali impetuose potenze sarà signore delli popoli, e nessuno umano ingegno potrà resistere alle sue dannose forze. Li occulti tesori e gemme riposti nel corpo della terra fieno a costui tutti manifesti. Questo si farà portare per l’aria dall’oriente all’occidente e per tutti li oppositi aspetti dell’universo....

Ma perchè mi voglio più oltre estendere? qual è quella cosa, che per tale artifizio far non si possa? — quasi nessuna, eccetto il levarsi la morte. — E s’ell’è vera, perchè non è restata infra li omini, che tanto la desiderano, non avendo riguardo a nessuna deità?

E so che infiniti ce n’è, che, per soddisfare a un suo appetito, ruinerebbero Iddio con tutto l’universo.

E, s’ella non è rimasta infra li omini, essendo a lui tanto necessaria, essa non fu mai, nè mai è per dovere essere: per la deffinizion dello spirito, il quale è invisibile in corpo; e dentro alli elementi non sono cose [192] incorporee, perchè dove non è corpo è vacuo, e ’l vacuo non si dà dentro alli elementi, perchè subito sarebbe dall’elemento riempiuto.

VIII. — DELLI SPIRITI.

Abbiamo insin qui dirieto a questa faccia detto, come la diffinizion dello spirito è: — una potenza congiunta al corpo, perchè per sè medesimo reggere non si può, nè pigliare alcuna sorte di moto locale. — E se tu dirai che per sè si regga; questo essere non può, dentro alli elementi, perchè, se lo spirito è quantità incorporea, questa tal quantità è detta vacuo, e il vacuo non si dà in natura, e, dato che si desse, sùbito sarebbe riempiuto dalla ruina di quell’elemento, nel qual il vacuo si generasse.

Adunque, per la deffinizione del peso, che dice: — la gravità è una potenza accidentale, creata d’alcuno elemento tirato o sospinto nell’altro; — sèguita, che nessuno elemento non pesando nel medesimo elemento, e’ pesa nell’elemento superiore, ch’è più lieve di lui, come si vede: la parte dell’acqua non ha gravità o levità più che l’altra acqua, ma se tu la tirerai nell’aria, allora ella acquisterà gravezza, la qual gravezza per [193] sè sostener non si può; onde li è necessario la ruina, e così cade infra l’acqua in quel loco, ch’è vacuo d’essa acqua. Tale accaderebbe nello spirito, stando infra li elementi, che al continuo genererebbe vacuo in quel tale elemento, dove lui si trovasse, per la qual cosa li sarebbe necessario la continua fuga inverso il celo, insinchè uscito fusse di tali elementi.

IX. — SE LO SPIRITO TIENE CORPO INFRA LI ELEMENTI.

Abbiam provato, come lo spirito non può per sè stare infra li elementi, sanza corpo, nè per sè si può movere, per moto volontario, se non è allo in su. Ma al presente diremo, come, pigliando corpo d’aria tale spirito, è necessario che s’infonda infra essa aria, perchè s’elli stesse unito, e’ sarebbe separato, e caderebbe alla generazion del vacuo, come di sopra è detto. Adunque è necessario che, a volere restare infra l’aria, che esso s’infonda in una quantità d’aria, e, se si mista [si mescola, si unisce] coll’aria, elli seguita due inconvenienti, cioè, che elli levifica [rende leggera] quella quantità dell’aria, dove esso si mista, per [194] la qual cosa l’aria levificata per sè vola in alto, e non resta infra l’aria più grossa di lei; e oltre a questo tal virtù spirituale sparsa si disunisce, e altera sua natura, per la qual cosa esso manca della prima virtù.

Aggiugnesi un terzo inconveniente, e questo è, che tal corpo d’aria, preso dallo spirito, è sottoposto alla penetrazion dei venti, li quali al continuo disuniscono e stracciano le parti unite dell’aria, quelle rivolgendo e raggirando infra l’altra aria. Adunque lo spirito in tale aria infuso, sarebbe smembrato, o vero sbranato e rotto, insieme collo sbranamento dell’aria, nella qual s’infuse.

X. — SE LO SPIRITO, AVENDO PRESO CORPO D’ARIA, SI PUÒ PER SÈ MUOVERE O NO.

Impossibile è che lo spirito, infuso a una quantità d’aria, possa movere essa aria; e questo si manifesta per la passata, dove dice: — lo spirito levifica quella quantità dell’aria, nella quale esso s’infonde. — Adunque tale aria si leverà in alto sopra l’altra aria, e sarà moto fatto dell’aria per la sua levità e non per moto volontario dello spirito e, se tale aria si scontra nel vento, per [195] la 3ª di questo, essa aria sarà mossa dal vento e non dallo spirito, in lei infuso.

XI. — SE LO SPIRITO PUÒ PARLARE O NO.

Volendo mostrare, se lo spirito può parlare o no, è necessario in prima definire che cosa è voce, e come si genera: e diremo in questo modo: — la voce è movimento d’aria confricata in corpo denso o ’l corpo denso confricato nell’aria (che è il medesimo), la qual confricazione di denso con raro condensa il raro, e fassi resistenza; e ancora il veloce raro nel tardo raro si condensano l’uno e l’altro ne’ contatti, e fanno suono e grandissimo strepito. — È il suono, overo mormorio, fatto dal raro che si muove nel raro, con mediocre movimento, come la gran fiamma, generatrice di suoni infra l’aria; è il grandissimo strepito fatto di raro con raro, quando il veloce raro penetra in mobile raro, come la fiamma del foco uscita dalla bombarda e percossa infra l’aria, e ancora la fiamma uscita dal nuvolo, (che) percuote l’aria nella generazion delle saette.

Adunque diremo, che lo spirito non possa generar voce sanza movimento d’aria, e aria in lui non è, nè la può cacciare da sè, se egli non l’ha; e se vol movere quella, nella [196] quale lui è infuso, egli è necessario che lo spirito moltiplichi, e moltiplicar non può, se lui non ha quantità, per la 4ª che dice: — nessuno raro si move, se non ha loco stabile, donde lui pigli movimento, e massimamente avendosi a movere lo elemento nello elemento, il quale non si move da sè, se non per vaporazione [effusione] uniforme al centro della cosa vaporata, come accade nella spugna ristretta nella mano, che sta sotto l’acqua, dalla qual l’acqua fugge, per qualunque verso, con egual movimento per le fessure interposte infra le dita della man, che dentro a sè la strignie. —

Se lo spirito ha voce articulata, e se lo spirito può essere audito.

E che cosa è audire e vedere: l’onda della voce va per l’aria, come le spezie delli obbietti vanno all’occhio.

XII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

O matematici fate lume a tale errore!

Lo spirito non ha voce, perchè dov’è voce è corpo, e dove è corpo è occupazion di loco, il quale impedisco all’occhio il vedere [197] delle cose poste dopo tale loco: adunque tal corpo empie di sè tutta la circostante aria, cioè con le sua spezie [colle sue immagini].

XIII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Non po’ essere voce, dove non è movimento o percussione d’aria, non po’ essere percussione d’essa aria, dove non è strumento, non po’ essere strumento incorporeo. Essendo così, uno spirito non po’ avere nè voce, nè forma, nè forza, e, se piglierà corpo, non potrà penetrare, nè entrare, dove li usci sono serrati. E se alcuno dicessi: — per aria congregata e ristretta insieme lo spirito piglia i corpi di varie forme, e per quello strumento parla e move con forza; — a questa parte dico, che, dove non è nervi e ossa, non po’ essere forza operata, in nessuno movimento, fatto da gl’imaginati spiriti.

XIV. — STUDI SULLA FISONOMIA.

Della fallace Fisonomia e Chiromanzia non mi astenderò, perchè in loro non è verità, e questo si manifesta, perchè tali chimere non hanno fondamenti scientifici.

Ver è che li segni de’ volti mostrano in [198] parte la natura degli uomini, li lor vizi e complessioni [temperamenti], ma nel volto:

a) Li segni, che separano le guance da’ labbri della bocca, e le nari del naso, e casse degli occhi, sono evidenti, se sono uomini allegri e spesso ridenti; e quelli, che poco li segnano, sono uomini operatori della cogitazione.

b) E quelli, ch’hanno le parti del viso di gran rilievo e profondità, sono uomini bestiali e iracondi, con poca ragione.

c) E quelli, ch’hanno le linee interposte infra le ciglia forte evidenti, sono iracondi.

d) E quelli, che hanno le linee trasversali della fronte forte lineate, sono uomini copiosi di lamentazioni occulte o palesi. — E così si po’ dire di molte parti. —

Ma della mano? Tu troverai grandissimi eserciti essere morti ’n una medesima ora di coltello, che nessun segno della mano è simile l’uno all’altro; e così in un naufragio.

XV. — CONTRO I RICERCATORI DEL MOTO PERPETUO.

L’acqua, che pel fiume si move, o ell’è chiamata, o ell’è cacciata, o ella si move da [199] sè; s’ella è chiamata, o vo’ dire addimandata, quale è esso addimandatore? s’ella è cacciata, chi è quel che la caccia? s’ella si move da sè, ella mostra d’avere discorso: il che nelli corpi di continua mutazione di forma è impossibile avere discorso, perchè in tali corpi non è giudizio [coscienza].

XVI. — SEGUE.

L’acqua da sè non ha fermezza, e da sè non si move, s’ella non discende.

L’acqua per sè non si ferma, s’ella non è contenuta.

XVII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

O speculatori dello continuo moto quanti vani disegni, in simile cerca, avete creato! accompagnatevi colli cercatori dell’oro.

XVIII. — AVVERTIMENTO.

Non si debbe desiderare lo impossibile.

XIX. — CONTRO LE SCIENZE OCCULTE.

Voglio far miracoli! Abbi men che li altri omini più quieti: e quelli, che vogliono [200] arricchirsi in un dì, vivon del lungo tempo in gran povertà, come interviene e interverrà in eterno alli alchimisti, cercatori di creare oro e argento, e all’ingegnieri, che vogliono che l’acqua morta dia vita motiva a sè medesima con continuo moto, e al sommo stolto negromante e incantatore.

XX. — CONTRO I MEDICI.

Omini son eletti per medici di malattie da loro non conosciute.

XXI. — ANCORA.

Ogni omo desidera far capitale per dare a’ medici, destruttori di vite.

Adunque devono esser ricchi.

XXII. — ANCORA.

E ingegnati di conservare la sanità, la qual cosa tanto più ti riuscirà, quanto più da’ fisici [medici] ti guarderai, perchè le sue composizioni son di specie d’Alchimia, della quale non è men numero di libri, ch’esista di Medicina.

[201]

XXIII. — FUNZIONE DEL DOLORE NELLA VITA ANIMALE.

La natura ha posto, nel moto dell’omo, tutte quelle parti dinanzi, le quali percotendo, l’orno abbia a sentire doglia; e questo si sente ne’ fusi delle gambe e nella fronte e naso: ed è fatto a conservazione dell’omo, inperó che, se tale dolore non fussi preparato in essi membri, certo le molte percussioni, in tali membra ricevute, sarebbero causa della lor destruzione.

XXIV. — PERCHÈ LE PIANTE NON HANNO IL DOLORE.

Se la natura ha ordinato la doglia, nell’anime vegetative col moto [gli animali], per conservazione delli strumenti, i quali pel moto si potrebbono diminuire e guastare; l’anime vegetative sanza moto [le piante] non hanno a percotere ne’ contra sè posti obietti, onde la doglia non è necessaria nelle piante, onde rompendole non sentono dolore, come quelle delli animali.

[202]

XXV. — FUNZIONE DELLE PASSIONI A CONSERVAZION DELLA VITA.

Lussuria è causa della generazione.

Gola è mantenimento della vita.

Paura over timore è prolungamento di vita.

Dolore è salvamento dello strumento.

XXVI. — ANIMOSITÀ E PAURA.

Sì come l’animosità è pericolo di vita, così la paura è sicurtà di quella.

XXVII. — IL CORPO È SPECCHIO DELL’ANIMA.

Chi vole vedere come l’anima abita nel suo corpo, guardi come esso corpo usa la sua cotidiana abitazione; cioè, se quella è sanza ordine e confusa, disordinato e confuso fia il corpo tenuto dalla su’ anima.

XXVIII. — INDIPENDENZA DELL’ANIMA DALLA MATERIA CORPOREA.

L’anima mai si può corrompere nella corruzione del corpo, ma fa a similitudine del vento, ch’è causa del sono dell’organo, che, guastandosi una canna, non resultava per quella del vôto buono effetto.

[203]

XXIX. — LA MEMORIA.

Ogni danno lascia dispiacere nella ricordazione, salvo che ’l sommo danno, cioè la morte, che uccide essa ricordazione insieme colla vita.

XXX. — LO SPIRITO È DOMINATORE.

Il corpo nostro è sottoposto al cielo, e lo cielo è sottoposto allo spirito.

XXXI. — RAGIONE E SENSO.

I sensi sono terrestri, e la ragione sta fuori di quelli, quando contempla.

XXXII. — SENTIMENTO E MARTIRIO.

Dov’è più sentimento, lì è più, ne’ martiri, gran martire.

XXXIII. — LA VIRTÙ È IL VERO BENE DELL’UOMO.

Non si dimanda ricchezza quella che si può perdere, la virtù è vero nostro bene, ed è vero premio del suo possessore: lei non si può perdere, lei non ci abbandona, se prima la vita non ci lascia; le robe e le esterne dovizie sempre le tieni con timore, [204] e ispesso lasciano con iscorno e sbeffato il loro possessore, perdendo la possessione.

XXXIV. — LA BREVITÀ DEL TEMPO È UNA ILLUSIONE DELLA MENTE.

A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello esser di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente.

XXXV. — ILLUSIONI DELLA MENTE E DEL SENSO.

Il giudizio nostro non giudica le cose, fatte in varie distanzie di tempo, nelle debite e proprie lor distanzie, perchè molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente, e molte cose vicine parranno antiche, insieme coll’antichità della nostra gioventù; e così fa l’occhio infra le cose distanti, che, per essere alluminate dal sole, paiano vicine all’occhio, e molte cose vicine paiano distanti.

XXXVI. — IDEANDO UN OROLOGIO A PIOMBO.

Non ci manca modi, nè vie di compartire e misurare questi nostri miseri giorni, [205] i quali ci debba ancor piacere di non ispenderli e trapassargli indarno e sanza alcuna loda, e sanza lasciare di sè alcuna memoria nelle menti de’ mortali. Acciò che questo nostro misero corso non trapassi indarno.

XXXVII. — LA VITA VIRTUOSA.

L’età, che vola, discorre [scorre] nascostamente, e inganna altrui; e niuna cosa è più veloce che gli anni, e chi semina virtù fama raccoglie.

XXXVIII. — EPIGRAMMA.

O dormiente, che cosa è sonno? Il sonno ha similitudine colla morte; o perchè non fai adunque tale opra, che, dopo la morte, tu abbi similitudine di perfetto vivo, che, vivendo, farti, col sonno, simile ai tristi morti?

XXXIX. — L’ATTIMO È FUGGEVOLE.

L’acqua, che tocchi de’ fiumi, è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene: così il tempo presente.

XL. — NOBILTÀ DEL LAVORO.

La vita bene spesa lunga è.

[206]

XLI. — LA VITA LABORIOSA.

Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.

XLII. — IL TEMPO DISTRUGGITORE.

O tempo, consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose! e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco, con lenta morte! Elena, quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso, fatte per la vecchiezza, piagne e pensa seco, perchè fu rapita due volte.

O tempo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, per la quale tutte le (cose) sono consumate!

XLIII. — DI QUELLI CHE BIASIMANO CHI DISEGNA ALLE FESTE E CHI ’NVESTIGA L’OPERE DI DIO.

Sono infra ’l numero delli stolti una certa setta detti ipocriti, ch’al continuo studiano d’ingannare sè e altri, ma più altri, che sè: ma invero ingannano più loro stessi, che gli altri. E questi son quelli, che riprendono li pittori, li quali studiano li giorni delle feste, [207] nelle cose appartenenti alla vera cognizione di tutte le figure, ch’hanno le opere di Natura, e, con sollecitudine, s’ingegnano d’acquistare la cognizione di quelle, quanto a loro sia possibile.

Ma tacciano tali reprensori, chè questo è ’l modo di conoscere l’Operatore di tante mirabili cose, e quest’è ’l modo d’amare un tanto Inventore! Che ’nvero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa, che si ama: e se tu non la conoscerai, poco o nulla la potrai amare; e se tu l’ami per il bene, che t’aspetti da lei, e non per la somma sua virtù, tu fai come ’l cane, che mena la coda, e fa festa, alzandosi verso colui, che li po’ dare un osso. Ma se conoscesse la virtù di tale omo, l’amarebbe assai più — se tal virtù fussi al suo proposito.

XLIV. — PREGHIERA.

Io t’ubbidisco, Signore, prima per l’amore, che ragionevolmente portare ti debbo, secondariamente, chè tu sai abbreviare o prolungare la vita alli omini.

XLV. — ORAZIONE.

Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica.

[208]

XLVI. — CONTRO I CATTIVI RELIGIOSI.

E molti fecen bottega, ingannando la stolta moltitudine, e, se nessun si scoprìa conoscitore de’ loro inganni, essi gli puniano.

XLVII. — ANCORA.

Farisei frati santi vol dire.

XLVIII. — TUTTO È STATO DETTO.[141]

Nulla può essere scritto per nuovo ricercare.

XLIX. — COMPARAZIONE DELLA PAZIENZA.

La pazienza fa contra alle ingiurie non altrimenti che si faccino i panni contra del freddo; imperò che, se ti multiplicherai di panni secondo la multiplicazione del freddo, esso freddo nocere non ti potrà; similmente alle grandi ingiurie cresci la pazienza, esse ingiurie offendere non ti potranno la tua mente.

L. — CONSIGLI AL PARLATORE.

Sempre le parole, che non soddisfano all’orecchio dello auditore, li danno tedio over rincrescimento: e ’l segno di ciò vedrai, spesse volte tali auditori essere copiosi [209] di sbadigli. Adunque tu, che parli dinanzi a omini, di chi tu cerchi benivolenza, quando tu vedi tali prodigi di rincrescimento, abbrevia il tuo parlare o tu muta ragionamento; e se altramente farai, allora, in loco della desiderata grazia, tu acquisterai odio e inimicizia.

E se vuoi vedere di quel che un si diletta, sanza udirlo parlare, parla a lui mutando diversi ragionamenti, e quel dove tu lo vedi stare intento, sanza sbadigliamenti o storcimenti di ciglia o altre varie azioni, sta certo che quella cosa, di che si parla, è quella, di che lui si diletta.

LI. — CONSIGLIO, MISERIA E GIUDIZIO.

Ecci una cosa, che, quanto più se n’ha bisogno, più si rifiuta; e questo è il consiglio, mal volontieri ascoltato, da chi ha più bisogno, cioè dagl’ignoranti.

Ecci una cosa, che, quanto più n’hai paura e più la fuggi, più te l’avvicini; e questo è la miseria, che quanto più la fuggi, più ti farai misero e sanza riposo.

Quando l’opera sia pari col giudizio, quello è tristo segno, in quel giudizio; e quando l’opera supera il giudizio, questo è pessimo, com’accade a chi si maraviglia [210] d’avere sì ben operato; e quando il giudizio supera l’opera, questo è perfetto segno; e se gli è giovane, in tal disposizione, sanza dubbio questo fia eccellente operatore, ma fia componitore di poche opere. Ma fieno di qualità, che fermeranno gli uomini con admirazione, a contemplar le sue perfezioni.

LII. — SENTENZE, PROVERBI E SIMBOLI.

Nessuna cosa è da temere più che la sozza fama.

Questa sozza fama è nata da’ vizi.

Comparazione. Un vaso rotto crudo, rotto, si può riformare, ma il cotto no.

Il vôto nasce, quando la speranza more.

Non è sempre bono quel ch’è bello.... E in questo errore sono i belli parlatori, sanza alcuna sentenza.

Chi vuole essere ricco in un dì, è impiccato in un anno.

La memoria de’ beni fatti, appresso l’ingratitudine, è fragile.

Reprendi l’amico in segreto, e laudalo in palese.

[211]

Chi teme i pericoli, non perisce per quegli.

Tale è ’l mal, che non mi noce, quale è ’l ben, che non mi giova.

Chi altri offende, sé non sicura.

Non essere bugiardo del preterito.

La stoltizia è scudo della menzogna, come la improntitudine della povertà.

Dov’è libertà, non è regola.

Ecci una cosa quanto più so n’ha di bisogno manco si stima, è il consiglio.

Mal fai se laudi e peggio se riprendi la cosa, quando ben tu non la intendi.

Ti ghiacciano le parole in bocca, e faresti gelatina in Mongibello.

Le minaccie solo sono arme dello imminacciato.

Dimanda consiglio a chi ben si corregge.

Giustizia vol potenza, intelligenza e volontà, e si assomiglia al re delle ave.

[212]

Chi non punisce il male, comanda che si facci.

Chi piglia la biscia per la coda, quella poi lo morde.

Chi cava la fossa, quella gli ruina addosso.

Chi non raffrena la voluttà, con le bestie s’accompagni.

Non si po’ avere maggior nè minore signoria, che quella di sè medesimo.

Chi poco pensa, molto erra.

Più facilmente si contesta al principio, che al fine.

Nessuno consiglio è più leale, che quello che si dà dalle navi, che sono in pericolo.

Aspetti danno quel, che si regge per giovane in consiglio.

Tu cresci in reputazione, come il pane in mano a’ putti.

Non po’ essere bellezza e utilità? come appare nelle fortezze e nelli omini.

Chi non teme, spesso è pien di danni spesso si pente.

[213]

Se tu avessi il corpo secondo la virtù, tu non caperesti [non saresti contenuto, non vivresti] in questo mondo.

Dov’entra la ventura, la ’nvidia vi pone lo assedio, e la combatte; e dond’ella si parte, vi lascia il dolore e pentimento.

Le bellezze con le bruttezze paiono più potenti l’una per l’altra.

Raro cade chi ben cammina.

Oh miseria umana, di quante cose per danari ti fai servo!

Sommo danno è, quando l’opinione avanza l’opera.

Tanto è a dire ben d’un tristo, quanto a dire male d’un bono.

La verità fa qui, che la bugia affligga le lingue bugiarde.

Chi non stima la vita, non la merita.

Cosa bella mortal passa e non dura.

Fatica fugge, colla fama in braccio, quasi occultata.

L’oro in verghe, s’affinisce nel foco.

[214]

Spola: tanto mi moverò che la tela fia finita.

Ogni torto si dirizza.

Di lieve cosa nasciesi gran ruina.

Al cimento si conosce il fine oro.

Tal fia il getto, qual fia la stampa.

Chi scalza il muro, quello gli cade addosso.

Chi taglia la pianta, quella si vendica colla sua ruina.

L’edera è di lunga vita.

Al traditore la morte è vita, perchè, se usa gli altri, non gli è creduto.

Quando fortuna viene, prendil’a man salva, dinanzi dico, perchè dirieto è calva.

Constanzia: non chi comincia, ma quel che persevera.

Impedimento non mi piega.

Ogni impedimento è distrutto dal rigore.

Non si volta chi a stella è fisso.

LIII. — LA VERITÀ.

Il foco distrugge la bugia, cioè il sofistico, e rendo la verità, scacciando le tenebre.

[215]

Il foco è da essere messo per consumatore d’ogni sofistico e scopritore e dimostratore di verità, perchè lui è luce, scacciatore delle tenebre, occultatrici d’ogni essenzia.

Il foco distrugge ogni sofistico, cioè lo inganno, e sol mantiene la verità, cioè l’oro.

La verità al fine non si cela: non val simulazione.

Simulazione è frustrata, avanti a tanto giudice.

La bugìa mette maschera.

Nulla occulta sotto il sole.

Il foco è messo per la verità, perchè distrugge ogni sofistico e bugìa, e la maschera per la falsità e bugìa, occultatrici del vero.

LIV. — IL BEN FARE.

Prima privato di moto che stanco di giovare, mancherà prima il moto che ’l giovamento.

Prima morte che stanchezza. Non mi sazio di servire. Non mi stanco nel giovare.

Tutte le opere non son per istancarmi.

È motto da carnovale. Sine lassitudine.

Mani, nelle quali fioccan ducati e pietre preziose, queste mai si stancano di servire, ma tal servizio è sol per sua utilità e non è [216] al nostro proposito. Natura così mi dispone, naturalmente.

LV. — LA INGRATITUDINE.

Sia fatto in mano alla ingratitudine.

Il legno notrica il foco che lo consuma.

Quando apparisce il sole che scaccia le tenebre in comune, tu spegni il lume, che te le scacciava in particolare, a tua necessità e commodità.

LVI. — LA INVIDIA.

La ’nvidia offende colla fitta infamia cioè col detrarre, la qual cosa spaventa la virtù.

Questa Invidia si figura colle fiche verso il cielo, perchè, se potesse, userebbe le sue forze contro a Dio. Fassi colla maschera in volto di bella dimostrazione. Fassi ch’ella è ferita nella vista da palma e olivo, fassi ferito l’orecchio di lauro e mirto, a significare che vittoria e verità l’offendono. Fassile uscire molte folgori a significare il suo mal dire. Fassi magra e secca, perchè è sempre in continuo struggimento, fassile il core roso da un serpente enfiante. Fassile un turcasso, e le freccie lingue, perchè spesso con quella offende. Fassile una pelle di liopardo, perchè quello per invidia ammazza [217] il leone, con inganno. Fassile un vaso in mano pien di fiori, e sia quello pien di scorpioni e rospi e altri veneni. Fassile cavalcare la Morte, perchè la Invidia, non morendo, mai languisce: a signoreggiare; fassile la briglia carica di diverse armi, perchè tutti strumenti della morte.

Subito che nasce la virtù quella partorisce contra sè la Invidia, e prima fia il corpo sanza l’ombra, che la virtù sanza la Invidia.

LVII. — LA FAMA.

La Fama sola si leva al cielo, perchè le cose virtudiose sono amiche a Dio; la Infamia sotto sopra figurare si debbe, perchè tutte sue operazioni son contrarie a Dio, e inverso l’inferi si dirizzano.

Alla Fama si de’ dipignere tutta la persona piena di lingue, in iscambio di penne, e ’n forma d’uccello.

LVIII. — PIACERE E DOLORE.

Questo si è il Piacere insieme col Dispiacere e figuransi binati [nati sul medesimo tronco], perchè mai l’uno è spiccato dall’altro; fannosi colle schiene [218] voltate, perchè son contrarî l’uno all’altro; fannosi fondati sopra un medesimo corpo, perchè hanno un medesimo fondamento: imperocchè il fondamento del Piacere si è la fatica col Dispiacere, il fondamento del Dispiacere si sono i varî e lascivi piaceri. E però qui si figura colla canna nella man destra, ch’è vana e sanza forza, e le punture fatte con quella son venenose. Mettonsi (le canne) in Toscana al sostegno de’ letti, a significare che quivi si fanno i vani sogni, e quivi si consuma gran parte della vita, quivi si gitta di molto utile tempo, cioè quel della mattina, chè la mente è sobria e riposata, e così il corpo atto a ripigliare nove fatiche; ancora lì si pigliano molti vani piaceri e colla mente, imaginando cose impossibili a sè, e col corpo, pigliando que’ piaceri, che spesso son cagione di mancamento di vita; sicchè per questo si tiene la canna per tali fondamenti.

LIX. — INFERIORITÀ FISIOLOGICA DELL’UOMO.

Ho trovato nella composizione del corpo umano, che, come in tutte le composizioni delli animali, esso è di più ottusi e grossi sentimenti: così è composto di strumento [219] manco ingegnoso e di lochi manco capaci a ricevere la virtù de’ sensi.

Ho veduto nella spezie leonina il senso dell’odorato avere parte della sustanzia del celabro, e discendere le narici, capace riccettaculo contro al senso dello odorato, il quale entra infra gran numero di saccoli cartilaginosi, con assai vie, contro all’avvenimento del predetto celabro. Li occhi della spezie leonina hanno gran parte della lor testa per lor riccettacolo, e li nervi ottici immediate congiugnersi col celabro; il che alli omini si vede in contrario, perchè le casse delli occhi sono una piccola parte del capo, e li nervi ottici sono sottili e lunghi e deboli, e, per debole operazione, si vede poco il dì e peggio la notte, e li predetti animali vedono (più) in nella notte che ’l giorno; e ’l segno se ne vede, perchè predano di notte e dormono il giorno, come fanno ancora li uccelli notturni.

LX. — SUA INFERIORITÀ ETICA.[142]

Come tu hai descritto il Re delli animali — ma io meglio direi dicendo Re delle bestie, essendo tu la maggiore, — perchè non li hai uccisi, acciò che possino poi darti li lor figlioli in benefizio della tua gola, colla [220] quale tu hai tentato farti sepoltura di tutti li animali?

E più oltre direi se ’l dire il vero mi fusse integramente lecito. Ma non usciamo delle cose umane, dicendo una somma scellerataggine, la qual non accade nelli animali terrestri: imperocchè in quelli non si trovano animali, che mangino della loro specie, se non per mancamento di celabro [di cervello, di senno], (in poche infra loro e de’ madri, come infra li omini, benchè non sieno in tanto numero), e questo non accade se non nelli animali rapaci, come nella spezie leonina, e pardi, pantere, cervieri, gatti e simili, li quali alcuna volta si mangiano i figlioli....

Ma tu, oltre alli figlioli, ti mangi il padre, madre, fratello e amici e non ti basta questi, che tu vai a caccia per le altrui isole, pigliando li altri omini e questi, mezzo nudi li testiculi, fai ingrassare e te li cacci giù per la gola. Or non produce la natura tanti semplici [vegetali], che tu ti possa saziare? e, se non ti contenti de’ semplici, non puoi tu con le mistion di quelli fare infiniti composti, come scrisse il Platina e li altri autori di gola?

[221]

LXI. — CLASSIFICAZIONE DI LEONARDO.

UOMO — la descrizione dell’omo, nella qual si contengono quelli, che son quasi di simile spezie, come babbuino, scimmia e simili, che son molti.

LXII. — L’UOMO COME ANIMALE.

Dello andare dell’omo. L’andare dell’omo è sempre a uso dell’universale andare delli animali di quattro piedi, imperocchè siccome essi movono i loro piedi in croce a uso del trotto del cavallo, così l’omo in croce si move le sue quattro membra, cioè se caccia innanzi il piè destro, per camminare, egli caccia innanzi con quello il braccio sinistro, e sempre così sèguita.

LXIII. — DAGLI ANIMALI ALL’UOMO VI È UN LENTO TRAPASSO.

Fa uno particulare trattato nella descrizione de’ movimenti delli animali di quattro piedi, infra li quali è l’omo, che ancora lui nella infanzia va con quattro piedi.

LXIV. — L’EVOLUZIONE DELLA MODA.

Alli miei giorni mi ricordo aver visto, nella mia puerizia, li omini e piccoli e grandi [222] avere tutti li stremi de’ vestimenti frappati in tutte le parti sì da capo, come da piè e da lato; e ancora parve tanto bella invenzione, a quell’età, che frappavano ancora le dette frappe, e portavano li cappucci in simile modo e le scarpe e le creste frappate, che uscivano dalle principali cuciture delli vestimenti, di varî colori.

Di poi vidi le scarpe, berrette, scarselle, armi, — che si portano per offendere, — i collari de’ vestimenti, li stremi de’ giubboni da piedi, le code de’ vestimenti, e in effetto infino alle bocche, di chi volean parer belli, erano appuntate di lunghe e acute punte.

Nell’altra età cominciorno a crescere le maniche e eran talmente grandi, che ciascuna per se era maggiore della veste; poi cominciorno a alzare li vestimenti intorno al collo tanto, ch’alla fine copersono tutto il capo; poi cominciorno a spogliarlo in modo, che i panni non potevano essere sostenuti dalle spalle, perchè non vi si posavan sopra.

Poi cominciorno a slungare sì li vestimenti, che al continuo gli uomini avevano le braccia cariche di panni, per non li pestare co’ piedi; poi vennero in tanta stremità, che vestivano solamente fino a’ fianchi [223] e alle gomita, e erano sì stretti, che da quelli pativano gran supplicio e molti ne crepavano di sotto; e li piedi sì stretti, che le dita d’essi si soprapponevano l’uno all’altro, e caricavansi di calli.

LXV. — UN DISCEPOLO DI LEONARDO: GIACOMO.[143]

A dì 23 d’aprile 1490 cominciai questo libro, e ricominciai il cavallo.

Jacomo venne a stare con meco il dì della Maddalena nel 1490, d’età d’anni 10.

Il secondo dì li feci tagliare due camice, uno paro di calze e un giubbone, e, quando mi posi i dinari a lato per pagare dette cose, lui mi rubò detti dinari della scarsella, e mai fu possibile farlielo confessare, ben ch’io n’avessi vera certezza. — Lire 4.

Il dì seguente andai a cena con Jacomo Andrea, e detto Jacomo cenò per due e fece male per quattro, imperocchè ruppe tre ampolle, versò il vino e, dopo questo, venne a cena dove me.

Item, a dì 7 di settembre rubò uno graffio di valuta di 12 soldi a Marco, che stava co’ meco, il quale era d’argento, e tolseglielo dal suo studiolo e, poi che detto Marco n’ebbi [224] assai cerco, lo trovò nascosto in nella cassa di detto Jacomo — Lire 1 s. di L. [soldi di Lira] 2.

Item, a dì 26 di gennaro seguente, essendo io in casa di Messer Galeazzo da Sanseverino a ’rdinare la festa della sua giostra, e spogliandosi certi staffieri, per provarsi alcune veste d’omini salvatichi [rustici, del contado], ch’a detta festa accadeano, Jacomo s’accostò alla scarsella d’uno di loro, la qual era in sul letto con altri panni, e tolse quelli dinari, che dentro vi trovò. — Lire 2 s. di L. 4.

Item, essendomi da maestro Agostino da Pavia, donato in detta casa una pelle turchesca da fare uno paro di stivaletti, esso Jacomo, infra uno mese, me la rubò e vendella a un acconciatore di scarpe per 20 soldi de’ qua’ dinari, secondo che lui propio mi confessò, ne comprò anici, confetti. Lire 2.

Item, ancora a dì 2 d’aprile, lasciando Gian Antonio uno graffio d’argento sopra uno suo disegno, esso Jacomo glielo rubò, il quale era di valuta di soldi 24. Lire 1 s. di L. 4.

Il primo anno un mantello: Lire 2; camice 6: Lire 4; 3 giubboni: Lire 6; 4 para di calze: Lire 7 s. di L. 8; vestito foderato: [225] L. 5; 24 para di scarpe: L. 6 s. d. L. 5; una berretta L. 1; in cinti, stringhe.... L. 1.

LXVI. — LEONARDO ANALIZZATORE DELL’UOMO.

Tutti i mali, che sono e che furono, essendo messi in opera da costui, non saddisfarebbono al desiderio del suo iniquo animo. I’ non potrei, con lunghezza di tempo, descrivervi la natura di costui.

LXVII. — FRAMMENTO DI LETTERA A GIULIANO DE’ MEDICI.[144]

Tanto mi son rallegrato, Illustrissimo mio Signore, del desiderato acquisto di vostra sanità, che quasi il male mio da me s’è fuggito. Ma assai mi rincresce il non avere io potuto satisfare alli desidèri di Vostra Eccellenza, mediante la malignità di cotesto ingannatore tedesco; per il quale non ho lasciato indirieto cosa alcuna, colla quale io abbia creduto fargli piacere. E secondariamente invitarlo ad abitare e vivere con meco, per la qual cosa io vedrei al continuo l’opera, che lui facesse e con facilità ricorreggerei li errori, e oltre di questo imparerebbe la lingua italiana, mediante la quale lui con facilità potrebbe parlare sanza [226] interprete; e li sua dinari li furon sempre dati innanzi al tempo. Di poi, la richiesta di costui fu di avere li modelli finiti di legname, com’ellino aveano a essere di ferro, e’ quali volea portare nel suo paese. La qual cosa io li negai dicendoli, ch’io li darei in disegno la larghezza, lunghezza e grossezza e figura di ciò, ch’elli avesse a fare; e così restammo mal volontieri.

La seconda cosa fu, che si fece un’altra bottega, e morse e strumenti, dove dormiva e quivi lavorava per altri; dipoi andava a desinare co’ Svizzeri della guardia, dove sta gente sfaccendata, della qual cosa lui tutti li vinceva. E ’l più delle volte se n’andavano due o tre di loro, colli scoppietti, ammazzavano uccelli per le anticaglie, e questo durava insino a sera.

E, se io mandavo Lorenzo a sollecitarli lavoro, lui si crucciava e diceva, che non volea tanti maestri sopra capo, e che il lavorar suo era per la guardaroba di Vostra Eccellenza. E passò due mesi, e così seguitava, e indi trovando Gian Niccolò della guardaroba, domandailo se ’l Tedesco avea finito l’opere del Magnifico, e lui mi disse non esser vero, ma che solamente li avea dato a nettar dua scoppietti. Di poi, facendolo [227] io sollecitare, lui lasciò la bottega, e perdè assai tempo nel fare un’altra morsa e lime e altri strumenti a vite, e quivi lavorava mulinelli da torcere seta, li quali nascondeva, quando un de’ mia v’entrava, e con mille bestemmie e rimbrotti: in modo che nessun de’ mia voleva più entrare.

Al fine ho trovato, come questo maestro Giovanni delli Specchi è quello, che ha fatto il tutto per due cagioni: e la prima, perchè lui ha avuto a dire, che la venuta mia qui li ha tolto la conversazione di Vostra Signoria.... L’altra è che la stanza di quest’omini.... disse convenirsi a lui per lavorare li specchi, e di questo n’ha fatto dimostrazione, chè, oltre al farmi costui nimico, li ha fatto vendere ogni suo e lasciare a lui la sua bottega, nella quale lavora con molti lavoranti assai specchi per mandare alle fiere.

LXVIII. — I MISERI STUDIOSI CON CHE SPERANZA E’ POSSONO ASPETTARE PREMIO DI LOR VIRTÙ?

E in questo caso io so, che io ne acquisterò non pochi nemici, conciò sia che nessun crederà, ch’io possa dire di lui; perchè pochi son quelli a chi i sua vizi dispiacciano, [228] anzi solamente a quegli uomini li dispiacciono, che son di natura contrarî a tali vizi; e molti odiano li padri, e guastan le amicizie de’ reprensori de’ sua vizi, e non vogliono esempli contrari a essi, nè nessuno uman consiglio.

E, se alcuno se ne trova virtuoso e bono, non lo scacciate da voi, fategli onore, acciò che non abbia a fuggirsi da voi e ridursi nelli eremi o spelonche o altri lochi soletari, per fuggirsi dalle vostre insidie; e, se alcun di questi tali si trova, fateli onore, perchè questi sono li vostri Iddii terrestri, questi meritan da voi le statue e li simulacri....

Ma ben vi ricordo, che li lor simulacri non sien da voi mangiati, come ancora in alcuna regione dell’India[145], chè quando li simulacri operano alcuno miraculo, secondo loro, li sacerdoti li tagliano in pezzi (essendo di legno) e ne danno a tutti quelli del paese — non sanza premio. — E ciascun raspa sottilmente la sua parte, e mette sopra la prima vivanda che mangiano, e così tengono per fede aversi mangiato il suo Santo, e credono che lui li guardi poi da tutti li pericoli.

Che ti pare omo qui della tua specie? [229] sei tu così savio come tu ti tieni? son queste cose da esser fatte da omini?

LXIX. — DIALOGO FRA IL CERVELLO E LO SPIRITO, CHE IN ESSO ABITAVA.

Il quale spirito ritrova il cerebro, donde partito s’era; con alta voce, con tali parole mosse:

— O felice, o avventurato spirito, donde partisti! io ho questo uomo, a male mio grado, ben conosciuto. Questo è riccetto di villania, questo è proprio ammunizione [cumulo, somma] di somma ingratitudine, in compagnia di tutti i vizi.

Ma che vo io con parole indarno affaticandomi? La somma de’ peccati solo in lui trovati sono. E, se alcuno infra loro si trova, che alcuna bontà possegga, non altrimenti, come che me, dalli altri uomini trattati sono; e in effetto io ho questa conclusione, ch’è male s’elli sono nimici, e peggio s’elli son amici.

LXX. — FRAMMENTO DI LETTERA.

Io ho uno, che, per aversi di me promesso cose assai men che debite, essendo [230] rimasto ingannato del suo prosuntuoso desiderio, ha tentato di tormi tutti li amici; e perchè li ha trovati savi e non leggeri al suo volere, mi ha minacciato, che trovate le annunziazioni [accuse], che mi torrà i benefattori; onde io ho di questo informato Vostra Signoria, acciò che, volendo questi seminare li usati scandali, non trovi terreno atto a seminare i pensieri e li atti della sua mala natura. — Che, tentando lui fare di Vostra Signoria strumento della sua iniqua e malvagia natura, rimanga ingannato di suo desiderio.

[231]

PENSIERI SULL’ARTE.

DIFESA DELLA PITTURA CONTRO LE ARTI LIBERALI.

I. — PROEMIO.

Con debita lamentazione si dole la Pittura per essere lei scacciata dal numero delle arti liberali, conciossiachè essa sia vera figliola della natura e operata da più degno senso [l’occhio].

Ond’è a torto, o scrittori, l’avete lasciata fuori del numero di dette arti liberali, conciossiachè questa, non che alle opere di natura, ma ad infinite attende, che la natura mai le creò.

II. — PERCHÈ LA PITTURA NON È CONNUMERATA NELLE SCIENZE?

Perchè gli scrittori non hanno avuto notizia della scienza della Pittura, non hanno [232] possuto descriverne i gradi e parti di quella, e lei medesima non si dimostra col suo fine [l’opera artistica] nelle parole, essa è restata, mediante l’ignoranza, indietro alle predette scienze non mancando per questo di sua divinità.

E veramente non sanza cagione non l’hanno nobilitata, perchè per sè medesima si nobilita, sanza l’aiuto delle altrui lingue, non altrementi che si facciano l’eccellenti opere di natura. E se i pittori non hanno di lei descritto e ridottala in scienza, non è colpa della Pittura, e ella non è per questo meno nobile, poscia che pochi pittori fanno professione di lettere, perchè la lor vita non basta a intendere quella.

Per questo, avremo noi a dire, che le virtù dell’erbe, pietre, piante non sieno in essere, perchè li omini non le abbiano conosciute? — Certo no; ma diremo esse erbe restarsi in sè nobili, sanza lo aiuto delle lingue o lettere umane.

III. — LA PITTURA È SCIENZA UNIVERSALE.

Quella scienza è più utile, della quale il suo frutto è più comunicabile [universalmente inteso], e così, per contrario, è meno utile ch’è meno comunicabile.

[233]

La Pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell’universo, perchè il suo fine è subbietto della virtù visiva, e non passa per l’orecchio al senso comune, col medesimo modo che vi passa per il vedere.

Dunque questa non ha bisogno d’interpreti di diverse lingue, come hanno le lettere, e sùbito ha saddisfatto all’umana spezie, non altrementi che si facciano le cose prodotte dalla natura. E non che alla spezie umana, ma agli altri animali: come si è manifestato in una pittura, imitata da uno padre di famiglia, alla quale facean carezze li piccioli figliuoli, che ancora erano nelle fasce, e similmente il cane e gatta della medesima casa, ch’era cosa meravigliosa a considerare tale spettacolo.

IV. — LA PITTURA NON SI PUÒ DIVULGARE.

Le scienze, che sono imitabili, sono in tal modo, che con quelle il discepolo si fa eguale all’autore, e similmente fa il suo frutto. Queste sono utili allo imitatore, ma non sono di tanta eccellenza, quanto sono quelle, che non si possono lasciare per eredità, come l’altre sustanze.

Infra le quali la Pittura è la prima. Questa [234] non s’insegna a chi natura no ’l concede, come fan le Matematiche, delle quali tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gli ne legge; questa non si copia, come si fa le lettere, che tanto vale la copia, quanto l’origine; questa non s’impronta, come si fa la Scultura, della quale tal è l’impressa, qual è l’origine, in quanto alla virtù dell’opera; questa non fa infiniti figliuoli, come fa li libri stampati. Questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, o resta preziosa ed unica, e non partorisce mai figlioli eguali a sè. E tal singolarità la fa più eccellente che quelle, che per tutto sono pubblicate.

Or non vediamo noi li grandissimi re dell’Oriente andare velati e coperti, credendo diminuire la fama loro col pubblicare e divulgare le loro presenze? or non si vede le pitture, rappresentatrici delle divine Deità, esser al continuo tenute coperte con copriture di grandissimi prezzi? e quando si scoprano, prima si fa grandi solennità ecclesiastiche di varî canti con diversi suoni; e, nello scoprire, la gran moltitudine de’ popoli, che quivi concorrono, immediate si gettano a terra, quelle adorando e pregando, per cui tale pittura è figurata, dell’acquisto [235] della perduta sanità e della eterna salute, non altrementi, che se tale Idea fusse lì presente in vita?

Questo non accade in nessun’altra scienza od altra umana opera. E se tu dirai, questa non esser virtù del pittore, ma propria virtù della cosa imitata; si risponderà, che in questo caso la mente de li omini po’ saddisfare, standosi nel letto, e non andare ne’ lochi faticosi e pericolosi, ne’ pellegrinaggi, come al continuo far si vede.

Ma, se pure tal pellegrinaggi al continuo sono in essere, chi li move, sanza necessità? Certo tu confesserai essere tale simulacro, il quale far non po’ tutte le scritture, che figurar potessino in effigie ed in virtù tal Idea. Dunque pare, ch’essa Idea ami tal pittura, ed ami chi l’ama e riverisce, e si diletti d’essere adorata più in quella, che in altra figura di lei imitata, e per quella faccia grazia e doni di salute, — secondo il credere di quelli, che in tal loco concorrono.

V. — COME LA PITTURA AVANZA TUTTE L’OPERE UMANE PER SOTTILE SPECULAZIONE APPARTENENTE A QUELLA.

L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via, donde il comune senso [236] può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura; e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose racconte, le quali ha veduto l’occhio.

Se voi, storiografi o poeti o altri matematici, non avessi coll’occhio viste le cose, male le potreste riferire per le scritture; e se tu, poeta, figurerai una storia colla pittura della penna, e ’l pittore col pennello la farà di più facile saddisfazione, e men tediosa a essere compresa. Se tu dimanderai la pittura muta poesia, ancora il pittore potrà dire del poeta orba pittura. Or guarda: — quale è più dannoso morso [danno] o cieco o muto? — Se ’l poeta è libero, come ’l pittore, nelle invenzioni, le sue finzioni non sono di tanta saddisfazione a li omini, quanto le pitture, perchè, se la Poesia s’astende con le parole a figurare forme, atti e siti, il pittore si move, colle proprie similitudine de le forme, a contraffare esse forme. Or guarda: — qual’è più propinquo all’omo, ’l nome d’omo o la similitudine [la figura] d’esso omo? — Il nome dell’omo si varia in varî paesi, e la forma non è mutata se non da morte.

Se voi dicessi: — la Poesia è più eterna —; [237] per questo io dirò essere più eterne l’opere d’un calderaio, che il tempo più le conserva che le vostre o nostre opere, nientedimeno è di poca fantasia, e la Pittura si po’, dipignendo sopra rame con colori di vetro, fare molto più eterna.

Noi per arte possiamo essore detti nipoti a Dio. Se la Poesia s’astende in filosofia morale e questa in filosofia naturale; se quella descrive l’operazione della mente, che considera, questa colla mente opera ne’ movimenti; se quella spaventa i popoli con le infernali finzioni, questa colle medesime cose in atto fa il simile. Pongasi il poeta a figurare una bellezza, una fierezza, una cosa nefanda e brutta, una mostruosa, col pittore; faccia a suo modo, come vuole, tramutazione di forme, che il pittore non saddisfassi più [in modo da superare il pittore]. Non s’è egli viste pitture avere tanta conformità colla cosa vera, ch’ell’ha ingannato omini e animali?

VI. — LA PITTURA CREA LA REALTÀ.

Tal proporzione è dall’immaginazione a l’effetto, qual’è dall’ombra al corpo ombroso, e la medesima proporzione è dalla [238] Poesia alla Pittura. Perchè la Poesia pon le sue cose nell’imaginazione di lettere, e la Pittura le dà realmente fori dell’occhio, dal quale occhio riceve le similitudini non altrementi, che s’elle fussino naturali; e la Poesia le dà sanza essa similitudine, e non passano all’imprensiva per la via della virtù visiva, come la Pittura.

VII. — RAPPRESENTAZIONE E DESCRIZIONE.

La Pittura rappresenta al senso, con più verità e certezza, le opere di natura, che non fanno le parole o le lettere, ma le lettere rappresentano con più verità le parole, che non fa la Pittura. Ma diremo essere più mirabile quella scienza, che rappresenta l’opere di natura, che quella, che rappresenta l’opere dell’operature, cioè l’opere degli uomini, che sono le parole, com’è la Poesia o simili, che passano per la umana lingua.

VIII. — ECCELLENZA DELL’OCCHIO.

L’occhio, dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dalli contemplanti, è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita, si priva della rappresentazione di tutte l’opere della natura, per la veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane [239] carceri [il corpo], mediante gli occhi, per li quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura; ma chi li perde, lascia essa anima in una oscura prigione, dove si perde ogni speranza di riveder il sole, luce di tutt’il mondo. E quanti son quelli, a chi le tenebre notturne sono in somm’odio, ma ancora ch’elle sieno di breve vita! Oh! che farebbono questi, quando tali tenebre fussino compagne della vita loro?

Certo, non è nissuno, che non volesse più tosto perdere l’audito o l’odorato, che l’occhio, la perdita del quale audire consente la perdita di tutte le scienze, ch’hanno termine nelle parole; e sol fa questo per non perdere la bellezza del mondo, la quale consiste nella superfizie de’ corpi, sì accidentali [prodotti dall’arte] come naturali, li quali si riflettono nell’occhio umano.

IX. — IL PITTORE VA DIRETTAMENTE ALLA NATURA.

La Pittura serve a più degno senso, che la Poesia, e fa con più verità le figure delle opere di natura, che il poeta; e sono molto più degne l’opere di natura che le parole, [240] che sono l’opere dell’omo, perchè tal proporzione è dalle opere de li uomini a quello della natura, qual è quella, ch’è da l’omo a Dio. Adunque è più degna cosa l’imitar le cose di natura, che sono le vere similitudini in fatto, che con parole imitare li fatti e parole de li omini.

E se tu, poeta, vuoi descrivere l’opere di natura co’ la tua semplice professione, fingendo diversi siti e forme di varie cose, tu sei superato dal pittore con infinita proporzione di potenza; ma se vuoi vestirti de l’altrui scienze, separate da essa poesia, elle non sono tue, come Astrologia, Rettorica, Teologia, Filosofia, Geometria, Aritmetica e simili. Tu non sei allora più poeta, tu ti trasmuti, e non sei più quello, di che qui si parla. Or non vedi tu, che se tu vuoi andare alla natura, che tu vi vai con mezzi di scienze, fatte d’altrui sopra li effetti di natura? E il pittore per sè, sanza aiuto di scienziali [di cose pertinenti alle varie scienze] o d’altrui mezzi, va immediate all’imitazione d’esse opere di natura.

Con questa si muovono li amanti verso li simulacri della cosa amata, a parlare coll’imitate pitture; con questa si muovono [241] popoli, con infervorati voti, a ricercare li simulacri delli Iddii, e non a vedere le opere de’ poeti, che con parole figurino li medesimi Iddii; con questa si ingannano li animali. Già vid’io una pittura, che ingannava il cane, mediante la similitudine del suo padrone, alla quale esso cane faceva grandissima festa; e similmente ho visto i cani baiare e voler mordere i cani dipinti; e una scimmia fare infinite pazzie contro ad un’altra scimmia dipinta; ho veduto le rondini volare e posarsi sopra li ferri dipinti, che sportano fuori delle finestre de li edifizi.

X. — POTENZA ESPRESSIVA DELLA PITTURA.

Non vede l’imaginazione cotal eccellenza, qual vede l’occhio, perchè l’occhio riceve le spezie overo similitudini delli obbietti, e dàlli alla imprensiva, e da essa imprensiva al senso comune, e lì è giudicata. Ma la imaginazione non esce fuori da esso senso comune, se non in quanto essa va alla memoria, e lì si ferma e muore, se la cosa imaginata, non è di molta eccellenza. E in questo caso si ritrova la Poesia nella mente overo imaginativa del poeta, il quale finge le medesime cose del pittore, per le quali finzioni egli vuole equipararsi [242] a esso pittore, ma invero ei n’è molto rimoto, come di sopra è dimostrato. Adunque in tal caso di finzione, diremo con verità esser tal proporzione dalla scienza della Pittura alla Poesia, qual è dal corpo alla sua ombra derivativa, e ancora maggior proporzione, conciossiachè l’ombra di tal corpo almeno entra per l’occhio al senso comune, ma la imaginazione di tal corpo non entra in esso senso, ma lì nasce, nell’occhio tenebroso [il cervello o senso comune]. Oh! che differenza è a imaginare tal luce nell’occhio tenebroso, al vederla in atto fuori delle tenebre!

Se tu, poeta, figurerai la sanguinosa battaglia, mista con la oscura e tenebrosa aria, mediante il fumo delle spaventevoli e mortali macchine, mista con la spessa polvere, intorbidatrice de l’aria, e la paurosa fuga de li miseri spaventati dalla orribile morte; in questo caso il pittore ti supera, perchè la tua penna fia consumata, innanzi che tu descriva appieno quel, che immediate il pittore ti rappresenta co’ la sua scienza. E la tua lingua sarà impedita dalla sete e il corpo dal sonno e fame, prima che tu con parole dimostri quello, che in un istante il [243] pittore ti dimostra. Nella qual pittura non manca altro, che l’anima delle cose finte, e in ciascun corpo è l’integrità di quella parte, che per un sol aspetto può dimostrarsi, il che lunga e tediosissima cosa sarebbe alla poesia a ridire tutti li movimenti de li operatori di tal guerra, e le parti delle membra e lor ornamenti, delle quali cose la pittura finita, con gran brevità e verità, ti pone innanzi; e a questa tal dimostrazione non manca, se non il romore delle macchine, e le grida de li spaventanti vincitori, e le grida e pianti de li spaventati, le quali cose ancora il poeta non può rappresentare al senso dell’audito. Diremo adunque la Poesia essere scienza, che sommamente opera nelli orbi, e la Pittura fare il medesimo nelli sordi. Essa tanto resta più degna che la Poesia, quanto ella serve a miglior senso.

Solo il vero uffizio del poeta è fingere parole di gente, che insieme parlino, e sol queste rappresenta al senso dell’audito tanto come naturali, perchè in sè sono naturali create dall’umana voce, e, in tutte l’altre consequenzie, è superato dal pittore. Ma molto più sanza comparazione son le varietà, in che s’astende la Pittura, che [244] quelle, in che s’astendono le parole, perchè infinite cose farà il pittore, che le parole non le potrà nominare, per non aver vocaboli appropriati a quelle. Or non vedi tu, che, se ’l pittore vol fingere animali o diavoli nell’inferno, con quanta abbondanzia d’invenzione egli trascorre?

E già intervenne a me fare una pittura, che rappresentava una cosa divina, la quale comperata dall’amante di quella, volle levarne la rappresentazione di tal deità, per poterla baciare sanza sospetto. Ma infine la coscienza vinse li sospiri e la libidine, e fu forza, ch’ei se la levasse di casa. Or va tu, poeta, descrivi una bellezza sanza rappresentazioni di cosa viva, e desta li uomini con quella a tali desiderî! Se tu dirai: — io ti descriverò l’inferno o ’l paradiso, e altre delizie o spaventi —; il pittore ti supera, perchè ti metterà innanzi cose, che, tacendo, diranno tali delizie, o ti spaventeranno, e ti movono l’animo a fuggire. Move più presto li sensi la pittura, che la poesia. E se tu dirai, che con le parole tu leverai un popolo in pianto o in riso; io ti dirò, che non sei tu che muove, egli è l’oratore, e è ’l riso. Uno pittore fece una pittura, che, chi la vedeva, sùbito sbadigliava, e tanto replicava [245] tale accidente, quanto si teneva l’occhi alla pittura, la quale ancora lei era finta a sbadigliare.

Altri hanno dipinto atti libidinosi e tanto lussuriosi, ch’hanno incitati li risguardatori di quella alla medesima festa, il che non farà la Poesia. E se tu scriverai la figura d’alcuni Dei, non sarà tale scrittura nella medesima venerazione che la Idea dipinta, perchè a tale pittura sarà fatto di continuo voti e diverse orazioni, e a quella concorreranno varie generazioni di diverse provincie e per li mari orientali. E da tali si dimanderà soccorso a tal pittura e non alla scrittura.

Qual è colui, che non voglia prima perdere l’audito, l’odorato e ’l tatto, che ’l vedere? Perchè, chi perde il vedere, è com’uno, ch’è cacciato dal mondo, perchè egli più no ’l vede, nè nessuna cosa. E questa vita è sorella della morte.

XI. — IMPORTANZA DELL’OCCHIO NELLA VITA ANIMALE.

Maggior danno ricevono li animali per la perdita del vedere, che dell’audire, per più cagioni; e prima, che mediante il vedere il cibo è ritrovato, donde si debbe [246] nutrire, il quale è necessario a tutti gli animali; e ’l secondo, che per il vedere si comprende il bello delle cose create, massime delle cose, ch’inducono all’amore, nel quale il cieco nato non può pigliare per lo audito, perchè mai non ebbe notizia, che cosa fusse bellezza d’alcuna cosa. Restagli l’audito, per il quale solo intende le voci e parlare umano, nel quale è i nomi di tutte le cose, a chi è dato il suo nome. Sanza la saputa d’essi nomi ben si può vivere lieto, come si vede nelli sordi nati, cioè li muti, che mediante il disegno, il quale è più de’ muti, si dilettano.

XII. — LA PITTURA È UNA POESIA MUTA.

Qual poeta con parole ti metterà innanzi, o amante, la vera effigie della tua idea con tanta verità, qual farà il pittore? Qual fia quello, che ti dimostrerà siti de’ fiumi, boschi, valli e campagne, dove si rappresenti li tuoi passati piaceri, con più verità del pittore?

E se tu dici: — la Pittura è una Poesia muta per sè, se non v’è chi dica o parli per lei, quello ch’ella rappresenta —; or non vedi tu, che ’l tuo libro si trova in peggior grado? Perchè ancora ch’egli abbia un uomo, [247] che parli per lui, non si vede niente della cosa, di che si parla, come si vederà di quello, che parla per le pitture; le quali pitture, se saranno ben proporzionati li atti co’ li loro accidenti mentali, saranno intese, come se parlassino.

XIII. — SEGUE DELLA PITTURA E POESIA.

La Pittura è una Poesia, che si vede e non si sente, e la Poesia è una Pittura, che si sente e non si vede. Adunque queste due Poesie, o vuoi dire due Pitture, hanno scambiati li sensi, per li quali esse dovrebbono penetrare all’intelletto. Perchè, se l’una e l’altra è Pittura, de’ passare al senso comune per il senso più nobile, cioè l’occhio; e se l’una e l’altra è Poesia, esse hanno a passare per il senso meno nobile, cioè l’audito.

Adunque daremo la Pittura al giudizio del sordo nato, e la Poesia sarà giudicata dal cieco nato; e, se la Pittura sarà figurata con li movimenti appropriati alli accidenti mentali delle figure, che operano in qualunque caso, sanza dubbio il sordo nato intenderà le operazioni e l’intenzioni degli operatori, ma il cieco nato non intenderà mai cosa che dimostri il poeta, la qual faccia [248] onore a essa Poesia; conciossiachè delle nobili sue parti è il figurare li gesti e li componimenti delle istorie e li siti ornati e dilettevoli, con le trasparenti acque, per le quali si vede li verdeggianti fondi delli suoi corsi, scherzare le onde sopra prati e minute ghiare, coll’erbe, che con lor si mischiano, insieme con li sguizzanti pesci, e simili descrizioni, le quali si potrebbono così dire ad un sasso, corno ad un cieco nato; perchè mai vide nessuna cosa, di che si compone la bellezza del mondo, cioè luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali son dieci ornamenti della natura.

Ma il sordo, avendo perso il senso meno nobile, ancora ch’egli abbia insieme persa la loquela, perchè mai udì parlare, mai potè imparare alcun linguaggio, ma questo intenderà bene ogni accidente, che sia nelli corpi umani, meglio che un che parli e che abbia audito, e similmente conoscerà le opere de’ pittori e quello, che in esse si rappresenti, e a che tali figure siano appropriate.

XIV. — SEGUE.

La Pittura è una Poesia muta, e la Poesia è una Pittura cieca, e l’una e l’altra va [249] imitando la natura, quanto è possibile alle lor potenze, e per l’una o per l’altra si può dimostrare molti morali costumi, come fece Apelle colla sua Calunnia.

Ma della Pittura, perchè serve all’occhio, senso più nobile, ne risulta una proporzione armonica; cioè che, siccome molte varie voci, insieme aggiunte ad un medesimo tempo, ne risulta una proporzione armonica, la quale contenta tanto il senso dell’udito, che li auditori restano, con stupente ammirazione, quasi semivivi; ma molto più farà le proporzionali bellezze d’un angelico viso, posto in pittura, dalla quale proporzionalità ne risulta un’armonico concento, il quale serve all’occhio in uno medesimo tempo, che si faccia dalla musica all’orecchio. E se tale armonia delle bellezze sarà mostrato all’amante di quella, di che tali bellezze sono imitate, sanza dubbio esso resterà con istupenda ammirazione e gaudio incomparabile e superiore a tutti l’altri sensi.

Ma della Poesia, — la quale s’abbia a stendere alla figurazione d’una perfetta bellezza, con la figurazione particulare di ciascuna parte, della quale si compone in pittura la predetta armonia, — non ne risulta altra grazia, [250] che si facessi a far sentir nella musica ciascuna voce per sè sola in vari tempi, dello quali non si comporrebbe alcun concento, come se volessimo mostrare un volto a parte a parte, sempre ricoprendo quelle, che prima si mostrarno, delle quali dimostrazioni l’oblivione [dimenticare] non lascia comporre alcuna proporzionalità d’armonia, perchè l’occhio non le abbraccia co’ la sua virtù visiva a un medesimo tempo.

Il simile accade nelle bellezze di qualunque cosa finta dal poeta, de le quali, per essere le sue parti dette separatamente in separati tempi, la memoria non riceve alcuna armonia.

XV. — LA PITTURA SI PRESENTA ALL’OCCHIO NEL SUO TUTTO IN ISTANTE.

La Pittura immediate ti si rappresenta con quella dimostrazione, per la quale il suo fattore l’ha generata, e dà quel piacere al senso massimo, qual dare possa alcuna cosa creata dalla natura. E in questo caso, il poeta, che manda le medesime cose al comun senso per la via dell’audito, minor senso, [251] non dà all’occhio altro piacere, che se un sentissi raccontar una cosa.

Or vedi, che differenza è dall’audir raccontare una cosa, che dà piacere all’occhio con lunghezza di tempo, o vederla con quella prestezza che si vedono le cose naturali. E ancorchè le cose de’ poeti sieno con lungo intervallo di tempo lette, spesse sono le volte, ch’elle non sono intese, e bisogna farli sopra diversi comenti, de’ quali rarissime volte tali comentatori intendono qual fusse la mente del poeta; e molte volte i lettori non leggono, se non piccola parte delle loro opere, per disagio di tempo. Ma l’opera del pittore immediate è compresa dalli suoi riguardatori.

XVI. — SEGUE.

La Pittura ti rappresenta in un sùbito la sua essenza nella virtù visiva e per il proprio mezzo, donde la imprensiva riceve li obbietti naturali, e ancora nel medesimo tempo, nel quale si compone l’armonica proporzionalità delle parti, che compongono il tutto, che contenta il senso; e la Poesia riferisce il medesimo, ma con mezzo meno degno de l’occhio, il quale porta nell’imprensiva più confusamente e con più tardità [252] le figurazioni delle cose nominate, che non fa l’occhio, vero mezzo intra l’obbietto e l’imprensiva, il quale immediate conferisce con somma verità le vere superfizie e figure di quel, che dinanzi se gli appresenta; delle quali ne nasce la proporzionalità detta armonia, che con dolce concento contenta il senso, non altrementi, che si facciano le proporzionalità di diverse voci al senso dello udito, il quale ancora è men degno, che quello dell’occhio, perchè tanto, quanto ne nasce, tanto ne more, e è sì veloce nel morire, come nel nascere. Il che intervenire non può nel senso del vedere; perchè, se tu rappresenterai all’occhio una bellezza umana, composta di proporzionalità di belle membra, esse bellezze non sono sì mortali, nè sì presto si struggono, come fa la musica, anzi, ha lunga permanenza, e ti si lascia vedere e considerare; e non rinasce, come fa la musica nel molto sonare, nè t’induce fastidio, anzi t’innamora, e è causa, che tutti li sensi insieme con l’occhio, la vorrebbero possedere, e pare, che a gara voglian combattere con l’occhio. Pare, che la bocca, s’è la bocca, se la vorrebbe per sè in corpo; l’orecchio piglia piacere d’audire le sue bellezze; il senso del tatto la vorrebbe [253] penetrare per tutti i suoi meati; il naso ancora vorrebbe ricevere l’aria, ch’al continuo di lei spira.

Ma la bellezza di tale armonia il tempo in pochi anni la distrugge, il che non accade in tal bellezza imitata dal pittore, perchè il tempo lungamente la conserva; e l’occhio, inquanto al suo uffizio, piglia il vero piacere di tal bellezza dipinta, qual si facessi della bellezza viva; mancagli il tatto, il quale si fa maggior fratello nel medesimo tempo, il quale, poichè avrà avuto il suo intento, non impedisce la ragione del considerare la divina bellezza. E in questo caso la pittura, imitata da quella, in gran parte supplisce: il che supplire non potrà la descrizione del poeta, il quale in questo caso si vole equiparare al pittore, ma non s’avvede, che le sue parole, nel far menzione delle membra di tal bellezza, il tempo le divide l’una dall’altra, v’inframmette l’oblivione, e divide le proporzioni, le quali lui, sanza gran prolissità, non può nominare; e non potendole nominare, esso non può comporne l’armonica proporzionalità, la quale è composta di divine proporzioni. E per questo un medesimo tempo, nel quale s’inchiude la speculazione d’una bellezza dipinta, [254] non può dare una bellezza descritta, e fa peccato contro natura quel, che si de’ mettere per l’occhio, a volerlo mettere per l’orecchio. Lasciavi entrare l’uffizio della Musica, e non vi mettere la scienza della Pittura, vera imitatrice delle naturali figure di tutte le cose.

Chi ti move, o omo, ad abbandonare le proprie tue abitazioni della città, e lasciare li parenti e amici, e andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo, la quale, se ben consideri, sol col senso del vedere fruisci? e se il poeta vole in tal caso chiamarsi anco lui pittore, perchè non pigliavi tali siti descritti dal poeta, e startene in casa sanza sentire il superchio calore del sole? oh! non t’era questo più utile e men fatica, perchè si fa al fresco e sanza moto e pericolo di malattia? Ma l’anima non potea fruire il benefizio de li occhi, finestre delle sue abitazioni, e non potea ricevere le spezie de li allegri siti, non potea vedere l’ombrose valli rigate dallo scherzare delli serpeggianti fiumi, non potea vedere li varî fiori, che con loro colori fanno armonia all’occhio, e così tutte le altre cose, che ad esso occhio rappresentare si possono. Ma se il [255] pittore, nelli freddi e rigidi tempi dell’inverno, ti pone innanzi li medesimi paesi dipinti ed altri, ne’ quali tu abbi ricevuto li tuoi piaceri; se appresso a qualche fonte, tu possi rivedere te, amante con la tua amata, nelli fioriti prati, sotto le dolci ombre delle verdeggianti piante, non riceverai tu altro piacere, che a udire tale effetto descritto dal poeta?

Qui risponde il poeta, e cede alle sopra dette ragioni, ma dice, che supera il pittore, perchè lui fa parlare e ragionare li omini con diverse finzioni, nelle quali ei finge cose, che non sono; e che commuoverà li omini a pigliare le armi; e che descriverà il cielo, le stelle e la natura e le arti e ogni cosa. Al quale si risponde, che nessuna di queste cose, di che egli parla, è sua professione propria, ma che, s’ei vuol parlare e orare, è da persuadere che in questo egli è vinto dall’oratore; e se parla di Astrologia, che lo ha rubato all’astrologo; e di Filosofia al filosofo, e che in effetto la Poesia non ha propria sedia, nè la merita altramente che di un merciaio ragunatore di mercanzie, fatte da diversi artigiani.

Quando il poeta cessa del figurare colle [256] parole quel che in natura è un fatto, allora il poeta non si fa equale al pittore, perchè se il poeta, lasciando tal figurazione, e’ descrive le parole ornate e persuasive di colui a chi esso vole far parlare, allora egli si fa oratore, e non è più poeta, nè è pittore; e se lui parla de’ cieli, egli si fa astrologo; e filosofo e teologo parlando delle cose di natura e di Dio; ma, se esso ritorna alla figurazione di qualunque cosa, e’ si farebbe emulo al pittore, se potesse saddisfare all’occhio in parole come fa il pittore.

Ma la deità della scienza della Pittura considera le opere, così umane, come divine, le quali sono terminate dalle loro superfizie, cioè linee de’ termini de’ corpi, con le quali ella comanda allo scultore la perfezione delle sue statue. Questa col suo principio, cioè il disegno, insegna all’architettore a fare, che il suo edifizio si renda grato all’occhio; questa alli componitori di diversi vasi; questa alli orefici, tessitori, recamatori; questa ha trovato li caratteri, con li quali si esprimono li diversi linguaggi; questa ha dato li caratteri alli aritmetici; questa ha insegnata la figurazione alla Geometria; questa insegna alli prospettivi e astrolaghi e alli macchinatori e ingegneri.

[257]

XVII. — COME LA SCIENZA DELL’ASTROLOGIA NASCE DALL’OCCHIO, PERCHÈ MEDIANTE QUELLO È GENERATA.

Nessuna parte è nell’Astrologia, che non sia ufficio delle linee visuali e della Prospettiva, figliuola della Pittura — perchè il pittore è quello, che, per necessità della sua arte, ha partorite essa Prospettiva, e non si può fare sanza linee, dentro alle quali linee s’inchiudono tutte le varie figure de’ corpi, generate dalla natura, sanza le quali l’arte del geometra è orba.

E se ’l geometra riduce ogni superfice, circondata da linee, alla figura del quadrato e ogni corpo alla figura del cubo, e l’Aritmetica fa il simile con le sue radici cube e quadrate; queste due scienze non s’astendono, se non alla notizia della quantità continua e discontinua, ma della qualità non si travagliano, la quale è bellezza delle opere di natura e ornamento del mondo.

XVIII. — PARLA IL POETA COL PITTORE.

Dice il poeta, che la sua scienza è invenzione e misura, e questo è il semplice corpo di poesia, invenzione di materia e misura nei versi, che si riveste poi di tutte [258] le scienze. Al quale risponde il pittore, l’avere li medesimi obblighi nella scienza della Pittura, cioè invenzione e misura; invenzione nella materia, che lui debbe fingere, e misura nelle cose dipinte, acciocchè non sieno sproporzionate; ma che ei non si veste di tali tre scienze, anzi che l’altre in gran parte si vestono della Pittura, come l’Astrologia, che nulla fa sanza la Prospettiva, la quale è principal membro d’essa Pittura, — cioè l’Astrologia matematica, non dico della fallace giudiciale (perdonami, chi, per mezzo delli sciocchi, no vive!)

Dice il poeta, che descrive una cosa, che ne rappresenta un’altra piena di belle sentenze [l’allegoria]. Il pittore dice aver in arbitrio di far il medesimo, e in questa parte anco egli è poeta. E se ’l poeta dice di far accendere li omini ad amaro, ch’è cosa principale della spezie di tutti l’animali, il pittore ha potenza di fare il medesimo, tanto più, che lui mette innanzi all’amante la propria effigie della cosa amata, il quale spesso fa con quella, baciandola e parlandole, quello, che non farebbe colle medesime bellezze, portate innanzi dallo scrittore; e tanto più [259] supera gl’ingegni de li omini, che l’induce ad amare e innamorarsi di pittura, che non rappresenta alcuna donna viva.

E se il poeta serve al senso per la via dell’orecchio, il pittore per l’occhio più degno senso. Ma io non voglio da questi tali altro, se non che uno bono pittore figuri il furore d’una battaglia, e che ’l poeta ne scriva un altro, e che sieno messi in pubblico da compagnia [daccanto]; vedrai i veditori dove più si fermeranno, dove più considereranno, dove si darà più laude, e quale saddisferà meglio. Certo la pittura, di gran lunga più utile e bella, più piacerà. Poni iscritto il nome di Dio in uno loco, e ponevi la sua figura a riscontro, vedrai quale fia più reverita. Se la Pittura abbraccia in sè tutte le forme della natura, voi non avete se non è i nomi, i quali non sono universali come le forme. Se voi avete li effetti delle dimostrazioni, noi abbiamo le dimostrazioni delli effetti.

Tolgasi uno poeta, che descriva le bellezze d’una donna al suo innamorato, togli uno pittore che la figuri, vedrai dove la natura volterà più il giudicatore innamorato. [260] Certo il cimento delle cose dovrebbe lasciare dare la sentenza alla sperienza. Voi avete messa la pittura infra l’arti meccaniche; certo, se i pittori fussino atti a laudare collo scrivere l’opere loro, come voi, io dubito non diacerebbe in sì vile cognome. Se voi la chiamate meccanica, perchè è per manuale [per opera delle mani] che le mani figurano quel che trovano nella fantasia, voi pittori disegnate con la penna manualmente quello che nello ingegno vostro si trova. E se voi dicessi essere meccanica, perchè si fa a prezzo; chi cade in questo errore, se errore si po’ chiamare, più di voi? Se voi leggete per li Studî, non andate voi a chi più vi premia? Fate voi alcuna opera, sanza qualche premio? benchè questo non dico per biasimare simili opinioni, perchè ogni fatica aspetta premio, o potrà dire uno poeta: — io farò una finzione, che significa cosa grande. — Questo medesimo farà il pittore, come fece Apello la Calunnia.

XIX. — RISPOSTA DEL RE MATTIA AD UN POETA CHE GAREGGIAVA CON UN PITTORE.

Portando, il dì del natale del re Mattìa, un poeta un’opera fattagli in laude del [261] giorno, ch’esso re era nato, a beneficio del mondo, e un pittore gli presentò un ritratto della sua innamorata; sùbito il Re rinchiuse il libro del poeta, e voltossi alla pittura, e a quella fermò la vista con grande ammirazione.

Allora il poeta, forte sdegnato, disse: — o re, leggi, leggi, e sentirai cosa di maggior sustanzia, che una muta pittura! —

Allora il re, sentendosi riprendere del risguardar cose mute, disse: «o poeta, taci, chè non sai ciò che ti dica; questa pittura serve a miglior senso che la tua, la qual è da orbi. Dammi cosa che io la possa vedere e toccare, e non che solamente la possa udire, e non biasimare la mia elezione dell’avermi io messo la tua opera sotto il gomito, e questa del pittore tengo con le due mani, dandola alli miei occhi, perchè le mani da lor medesime hanno tolto a servire a più degno senso, che non è l’audire. E io per me giudico, che tale proporzione sia della scienza del pittore a quella del poeta, qual è dalli suoi sensi, de’ quali questi si fanno obbietti.

»Non sai tu che la nostra anima è composta d’armonia, e armonia non s’ingenera [262] se non in istanti [armonia esige contemporaneità di parti], nei quali le proporzionalità delli obbietti si fan vedere o udire? Non vedi, che nella tua scienza non è proporzionalità creata in istante, anzi l’una parte nasce dall’altra successivamente, e non nasce la succedente, se l’antecedente non muore?

»Per questo giudico la tua invenzione essere assai inferiore a quella del pittore, solo perchè da quella non componesi proporzionalità armonica. Essa non contenta la mente dell’auditore o veditore, come fa la proporzionalità delle bellissime membra, componitrici delle divine bellezze di questo viso, che m’è dinanzi, le quali in un medesimo tempo tutte ’nsieme giunte, mi dànno tanto piacere colla divina loro proporzione, che null’altra cosa giudico esser sopra la terra fatta dall’uomo, che dar lo possa maggiore.»

XX. — ALTEZZA DEL MONDO VISIBILE.

Non è sì insensato giudizio che, se gli è proposto qual è più da eleggere o stare in perpetue tenebre o voler perder l’audito, che [263] sùbito non dica voler più tosto perdere l’audito insieme con l’odorato, prima che restar cieco.

Perchè chi perde il vedere, perde la bellezza del mondo con tutte le forme delle cose create, e il sordo sol perde il suono fatto dal moto dell’aria percossa, ch’è minima cosa nel mondo. Tu, che dici la scienza essere tanto più nobile, quant’essa s’astende in più degno subbietto, e per questo più vale una falsa immaginazione dell’essenza di Dio, che una immaginazione d’una cosa men degna; e per questo diremo, la Pittura, la quale solo s’astende nell’opere d’Iddio essere più degna della Poesia, che solo si astende in bugiarde finzioni de l’opere umane.

XXI. — ARGUIZIONE DEL POETA CONTRO ’L PITTORE.

— Tu dici, o pittore, che la tua arte è adorata, ma non imputare a te tal virtù, ma alla cosa, di che tal pittura è rappresentatrice. —

Qui il pittore risponde: — o tu, poeta, che ti fai ancora tu imitatore, perchè non rappresenti con le tue parole cose, che le lettere tue, contenitrici d’esse parole, ancora loro sieno adorate? —

[264]

Ma la natura ha più favorito il pittore che ’l poeta, e meritamente l’opere del favorito debbono essere più onorate, che di quello che non è in favore.

Adunque, laudiamo quello che con le parole saddisfa all’audito, e quel che con la pittura saddisfa al contento del vedere; ma tanto meno quel delle parole, quanto elle sono accidentali e create da minor autore, che l’opere di natura, di che ’l pittore è imitatore.

La qual natura è terminante dentro alle figure della lor superfizie.

XXII. — CONCLUSIONE INFRA ’L POETA E IL PITTORE.

Poi che noi abbiamo concluso, la Poesia esser in sommo grado di comprensione alli ciechi, e che la Pittura fa il medesimo alli sordi, noi diremo, tanto più valere la Pittura che la Poesia, quanto la Pittura serve a miglior senso e più nobile, che la Poesia; la qual nobiltà è provata esser tripla alla nobiltà di tre altri sensi, perchè è stato eletto di volere piuttosto perdere l’audito e odorato e tatto, che ’l senso del vedere.

Perchè, chi perde il vedere, perde la veduta e bellezza dell’universo, e resta a similitudine [265] di un che sia chiuso in vita in una sepoltura, nella quale abbia moto e vita.

Or non vedi tu, che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo? Egli è capo dell’Astrologia; egli fa la Cosmografia; esso tutte le umane arti consiglia e corregge; move l’omo a diverse parti del mondo; questo è principe delle Matematiche; le sue scienze sono certissime; questo ha misurato l’altezze e grandezze delle stelle; questo ha trovato gli elementi e loro siti; questo ha fatto predire le cose future, mediante il corso delle stelle; questo l’Architettura e Prospettiva, questo la divina Pittura ha generata. O eccellentissimo sopra tutte l’altre cose create da Dio! quali laudi fien quelle, ch’esprimere possino la tua nobiltà? quali popoli, quali lingue saranno quelle, che appieno possino descrivere la tua vera operazione?

Questa è finestra dell’umano corpo, per la quale l’anima specula e fruisce la bellezza del mondo; per questo l’anima si contenta della umana carcere, e, sanza questo, esso umano carcere è suo tormento; e per questo l’industria umana ha trovato il fuoco, mediante il quale l’occhio riacquista quello, che prima li tolsero le tenebre. Questo [266] ha ornato la natura coll’agricoltura e dilettevoli giardini.

Ma che bisogna, ch’io m’astenda in sì alto e lungo discorso? qual è quella cosa, che per lui non si faccia? Ei move li omini dall’Oriente all’Occidente; questo ha trovato la navigazione; e in questo supera la natura, che li semplici naturali [le varietà minerali, vegetali e animali] sono finiti, e l’opere, che l’occhio comanda alle mani, sono infinite, come dimostra il pittore nelle finzioni d’infinite forme d’animali e erbe, piante e siti.

XXIII. — COME LA MUSICA SI DEE CHIAMARE SORELLA E MINORE DELLA PITTURA.

La Musica non è da essere chiamata altro, che sorella della Pittura, conciossiachè essa è subbietto dell’audito, secondo senso all’occhio, e compone armonia con la congiunzione delle sue parti proporzionali, operate nel medesimo tempo, costrette a nascere e morire in uno o più tempi armonici; li quali tempi circondano la proporzionalità de’ membri, di che tale armonia si compone, non altrementi, che si faccia la linea [267] circonferenziale [il contorno] le membra, di che si genera la bellezza umana.

Ma la Pittura eccelle e signoreggia la Musica, perchè essa non more immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata Musica, anzi resta in essere, e ti si dimostra in vita, quel che in fatto è, una sola superfizie.

O maravigliosa scienza, tu riservi in vita le caduche bellezze de’ mortali, le quali hanno più permanenza, che le opere di natura, le quali al continuo sono variate dal tempo, che le conduce alla debita vecchiezza! e tale scienza ha tale proporzione con la divina natura, quale hanno le sue opere con le opere di essa natura, e per questo è adorata.

XXIV. — PITTURA E MUSICA.

Quella cosa è più degna, che saddisfa a miglior senso: adunque la Pittura saddisfattrice al senso del vedere, è più nobile della Musica, che solo saddisfa all’audito.

Quella cosa è più nobile, che ha più eternità; adunque la Musica, che si va consumando, [268] mentre ch’ella nasce, è men degna della Pittura, che con vetri [Vedi sopra al n. V] si fa eterna.

Quella cosa, che contiene in se più universalità e varietà di cose, quella fia detta di più eccellenza: adunque la Pittura è da essere preposta a tutte le operazioni; perchè è contenitrice di tutte le forme, che sono, e di quelle, che non sono in natura, è più da essere magnificata e esaltata, che la musica, che solo attende alla voce.

Con questa si fa i simulacri alli Dii; dintorno a questa si fa il culto divino, il quale è ornato con la Musica, a questa servente; con questa si dà copia alli amanti della causa de’ loro amori; con questa si riserva le bellezze, le quali il tempo e la genitrice natura fa fuggitive; con questa noi riserviamo le similitudini degli omini famosi. E se tu dicessi: — la Musica s’eterna con lo scriverla —; il medesimo facciamo noi qui colle lettere.

Adunque, poichè tu hai messa la Musica infra le arti liberali, o tu vi metti questa, o tu ne levi quella.

E se tu dicessi: — li omini vili l’adoprano —; [269] e così è guasta la Musica da chi non la sa.

Se tu dirai: — le scienze non meccaniche sono le mentali —; io dirò che la pittura è mentale, e ch’ella, — siccome la Musica e Geometria consideran le proporzioni delle quantità continue, e l’Aritmetica delle discontinue, — questa considera tutte le quantità continue e le qualità delle proporzioni d’ombre e lumi e distanze, nella sua Prospettiva.

XXV. — PARLA IL MUSICO COL PITTORE.

Dice il mimico, che la sua scienza è da essere equiparata a quella del pittore, perchè essa compone un corpo di molte membra, del quale lo speculatore contempla tutta la sua grazia, in tanti tempi armonici, quanti sono li tempi nelli quali essa nasce e more; e con quelli tempi trastulla con grazia l’anima, che risiede nel corpo del suo contemplante.

Ma il pittore risponde e dice, che il corpo, composto delle umane membra, non dà di sè piacere a’ tempi armonici, nelli quali essa bellezza abbia a nascere e morire, ma lo fa permanente per moltissimi anni, e è di tanta eccellenza, ch’ella riserva in vita [270] quella armonia delle proporzionate membra, le quali natura con tutte sue forze conservar non potrebbe.

Quante pitture hanno conservato il simulacro di una divina bellezza, che il tempo o morte in breve ha distrutto il suo naturale esempio; e è restata più degna l’opera del pittore, che della natura sua maestra!

Se tu, o musico, dirai che la Pittura è meccanica per essere operata coll’esercizio delle mani; e la Musica è operata con la bocca, ma non pel conto del senso del gusto, come la mano (non pel) senso del tatto.

Meno degne sono ancora le parole che’ fatti. Ma tu scrittore delle scienze, non copi tu con mano, scrivendo ciò che sta nella mente, come fa il pittore?

E se tu dicessi, la Musica essere composta di proporzione; ho io, con questa medesima, sèguito la Pittura, come mi vedrai.

XXVI. — CONCLUSIONE DEL POETA, PITTORE E MUSICO.

Tal differenza è in quanto alla figurazione delle cose corporee dal pittore al poeta, quant’è dalli corpi smembrati alli uniti: perchè il poeta, nel descrivere la bellezza [271] o bruttezza di qualunque corpo, te lo dimostra a membro a membro e in diversi tempi, e il pittore tel fa vedere tutto in un tempo.

Il poeta non può porre colle parole la vera figura delle membra, di che si compone un tutto, come il pittore, il quale tel pone innanzi con quella verità, ch’è possibile in natura. E al poeta accade il medesimo, come al musico, che canta solo un canto composto di quattro cantori; e canta prima il canto [Oggi: soprano], poi il tenore, e così sèguita il contralto e poi il basso: e di costui non risulta la grazia della proporzionalità armonica, la quale si rinchiude in tempi armonici. E fa esso poeta a similitudine di un bel volto, il quale ti si mostra a membro a membro, che, così facendo, non rimarresti mai saddisfatto della sua bellezza, la quale solo consiste nella divina proporzionalità delle predette membra insieme composte, le quali solo in un tempo compongono essa divina armonia, di esso congiunto [insieme accordo] di membra, che spesso tolgono la libertà posseduta a chi le vede.

E la Musica ancora fa, nel suo tempo armonico, [272] le soavi melodie, composte delle sue varie voci, dalle quali il poeta è privato della loro discrezione [spartizione o divisione] armonica; e, benchè la Poesia entri pel senso dell’audito alla sedia del giudizio, siccome la Musica, esso poeta non può descrivere l’armonia della Musica, perchè non ha podestà in un medesimo tempo di dire diverse cose, come la proporzionalità armonica della Pittura, composta di diverse membra in un medesimo tempo, la dolcezza delle quali sono giudicate in un medesimo tempo, così in comune, come in particolare. In comune in quanto allo intento del composto, in particolare, in quanto allo intento de’ componenti, di che si compone esso tutto; e per questo il poeta resta, in quanto alla figurazione delle cose corporee, molto indietro al pittore, e delle cose invisibili rimane indietro al musico.

Ma, s’esso poeta toglie in prestito l’aiuto delle altre scienze, potrà comparire alle fiere come gli altri mercanti, portatori di diverse cose, fatte da più inventori: e fa questo il poeta, quando si impresta l’altrui scienza, come dell’oratore, filosofo, astrologo, cosmografo e simili, le quali scienze [273] sono in tutto separate dal poeta. Adunque questo è un sensale, che giunge insieme diverse persone a fare una conclusione di un mercato; e, se tu vorrai trovare il proprio ufficio del poeta, tu troverai non essere altro, che un ragunatore di cose rubate a diverse scienze, colle quali egli fa un composto bugiardo, o vuoi, con più onesto dire, un composto finto. — E in questa tal finzione libera esso poeta s’è equiparato al pittore, ch’è la più debole parte della pittura.

XXVII. — CAUSA DELLA INFERIORITÀ IN CUI È TENUTA LA PITTURA.

Per fingere le parole la Poesia supera la Pittura, e per fingere fatti la Pittura supera la Poesia, e quella proporzione ch’è da’ fatti alle parole, tal è dalla Pittura ad essa Poesia, perchè i fatti sono subbietto dell’occhio, e le parole subbietto dell’orecchio; e così li sensi hanno la medesima proporzione in fra loro, quali hanno li loro obbietti infra sè medesimi, e per questo giudico la Pittura essere superiore alla Poesia.

Ma per non sapere li suoi operatori dire la sua ragione è restata lungo tempo sanza [274] avvocati; perchè lei non parla, ma per sè si dimostra e termina ne’ fatti, e la Poesia finisce in parole, con le quali, come boriosa, sè stessa lauda.

IL PITTORE E LA PITTURA.

I. — VASTITÀ DEL CAMPO DELLA PITTURA.

Ciò ch’è visibile è connumerato nella scienza della pittura.

II. — ORIGINE DELLA PITTURA.

Come la prima pittura fu sol d’una linia, la quale circondava l’ombra dell’omo, fatta dal sole ne’ muri.

III. — COME ’L PITTORE È SIGNORE D’OGNI SORTE DI GENTE E DI TUTTE LE COSE.

Se ’l pittore vuol vedere bellezze, che lo innamorino, egli n’è Signore di generarle; e se vuol vedere cose mostruose, che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è Signore e Dio; e se vuol generare siti e deserti, lochi ombrosi o foschi, ne’ tempi caldi, esso li [275] figura, e così lochi caldi, ne’ tempi freddi. Se vuol valli, se vuole delle alte cime de’ monti scoprire gran campagna, e se vuole, dopo quelle, vedere l’orizzonte del mare, egli n’è Signore, e se delle basse valli vuol vedere gli alti monti o de li alti monti le basse valli e spiaggie. E in effetto ciò ch’è nell’universo per essenza, frequenza o immaginazione, esso lo ha prima nella mente e poi nelle mani; e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempi generano una proporzionata armonia in un solo sguardo, qual fanno le cose.

IV. — LA PITTURA È UNA SECONDA CREAZIONE.

Chi biasima la Pittura, biasima la natura, perchè l’opere del pittore rappresentano l’opere d’essa natura, e per questo il detto biasimatore ha carestia di sentimento.

V. — COME IL PITTORE NON È LAUDABILE SE QUELLO NON È UNIVERSALE.

Alcuni si po’ chiaramente dire che s’ingannano, i quali chiamano bono maestro quello pittore, il quale sol fa bene una testa o una figura. Certo e’ non è gran fatto che studiando una sola cosa tutt’il tempo [276] della sua vita, che non ne venga a qualche perfezione.

Ma conoscendo noi, che la pittura abbraccia e contiene in sè tutte le cose, che produce la natura, e che conduce l’accidentale operazione degli omini, e in ultimo ciò che si po’ comprendere con gli occhi, mi paro uno tristo maestro quello, che solo una figura fa bene.

Or non vedi tu quanti e quali atti sieno fatti dalli omini? non vedi quanti diversi animali e così alberi e erbe, fiori, varietà di siti montuosi e piani, fonti, fiumi, città, edifizî pubblici e privati, strumenti opportuni a l’uso umano, vari abiti e ornamenti e arti?

Tutte queste cose appartengano d’essere di pari operazione e bontà usate da quello, che tu vogli chiamare bon pittore.

VI. — IL PITTORE E LA NATURA.

Il dipintore disputa e gareggia con la natura.

VII. — COME CHI SPREZZA LA PITTURA NON AMA LA FILOSOFIA DELLA NATURA.

Se tu sprezzerai la Pittura, la quale è sola imitatrice di tutte l’opere evidenti di [277] natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme, arie [i fondi o campi delle figure] e siti, piante, animali, erbe e fiori, le quali sono cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienza e legittima figlia di natura, perchè la Pittura è partorita da essa natura. Ma, per dire più corretto, diremo nipote di natura, perchè tutte le cose evidenti sono state partorite dalla natura, delle quali cose partorite è nata la Pittura. Adunque rettamente la dimanderemo nipote di natura e parente di Dio.

VIII. — COME NELL’OPERE D’IMPORTANZA L’OMO NON SI DE’ FIDARE TANTO DELLA SUA MEMORIA, CHE NON DEGNI RITRARRE DI NATURALE.

Quel maestro, il quale si desse d’intendere di potere riservare in sè tutte le forme e li effetti della natura, certo mi parrebbe questo essere ornato di molta ignoranza, con ciò sia cosa che detti effetti son infiniti, e la memoria nostra non è di tanta capacità, che basti.

Adunque tu, pittore, guarda che la cupidità [278] del guadagno, non superi in te l’onore dell’arte, che ’l guadagno dell’onore è molto maggiore, che l’onore delle ricchezze. Sì che per queste e altre ragioni, che si potrebbon dire, attenderai prima col disegno a dare con dimostrativa forma all’occhio la intenzione e la invenzione fatta in prima nella tua imaginativa; di poi va levando o ponendo tanto che tu ti saddisfaccia; di poi fa acconciare omini vestiti o nudi, nel modo ch’in sull’opera hai ordinato, e fa che per misura e grandezza, sottoposta alla Prospettiva, che non passi niente de l’opera, che bene non sia consigliata dalla ragione e dalli effetti naturali: e questa fia la via a farti onorare della tua arte.

IX. — DEL GIUDICARE LA TUA PITTURA.

Noi sappiamo chiaro che li errori si conoscono più in altrui opere, che nelle sue, e spesso, riprendendo li altrui piccioli errori, ignorerai i tua grandi. E per fuggire simile ignoranza, fa che prima sia bono prospettivo, di poi abbi intera notizia delle misure dell’omo e d’altri animali, e ancora bono architetto, cioè in quanto s’appartiene alla forma delli edifizî e dell’altre cose, che sono sopra la terra, che sono infinite forme. [279] Di quante più avrai notizia, più fia laudabile la tua operazione, e in quelle che tu non hai pratica non recusare il ritrarle di naturale.

X. — COME ’L PITTORE DEBB’ESSER VAGO D’AUDIRE, NEL FARE DELL’OPERA SUA, IL GIUDIZIO D’OGN’OMO.

Certamente non è da recusare, in mentre che l’omo dipigne, il giudizio di ciascuno; imperocchè noi conosciamo chiaro, che l’omo, benchè non sia pittore, avrà notizia della forma dell’altro omo, e ben giudicherà s’egli è gobbo, o ha una spalla alta o bassa, o s’egli ha gran bocca o naso od altri mancamenti. — E se noi conosciamo alti omini potere con verità giudicare l’opera della natura, quanto maggiormente ci converrà confessare questi potere giudicare i nostri errori, chè sappiamo quanto l’omo s’inganna nelle sue opere, e se non lo conosci in te, consideralo in altrui, e farai profitto degli altrui errori.

Sì che sia vago con pazienza udire l’altrui opinioni; e considera bene e pensa bene, se ’l biasimatore ha cagione o no di biasimarti: e se trovi di sì, racconcia; e se trovi di no, fagli vista non l’aver inteso o [280] tu li dimostra per ragione, s’egli è omo che tu stimi, la ragione come lui s’inganna.

XI. — DELLA TRISTA SCUSAZIONE FATTA DA QUELLI CHE FALSA — E INDEGNAMENTE SI FANNO CHIAMARE PITTORI.

Ecci una certa generazione di pittori, i quali, per loro poco studio, bisogna che vivano sotto la bellezza d’oro e d’azzurro, i quali, con somma stoltizia, allegano non mettere in opera le bone cose per li tristi pagamenti, che saprebbono ancora ben loro fare come un altro, quando fussino bene pagati. Or vedi gente istolte! non sanno questi tali tenère qualche opera bona, dicendo: — questa è da bon premio; e questa è da mezzano; e questa è di sorte [di basso prezzo] —; e mostrare d’avere opera da ogni premio.

XII. — COME LO SPECCHIO È ’L MAESTRO DE’ PITTORI.

Quando vuoi vedere, se la tua pittura tutta insieme ha conformità con la cosa ritratta di naturale, abbi uno specchio, e favvi dentro specchiare la cosa viva, e paragona la cosa specchiata con la tua pittura, e considera [281] bene, se ’l subbietto de l’una e l’altra similitudine ha conformità insieme.

E sopra tutto lo specchio si de’ pigliare per suo maestro, cioè lo specchio piano, imperocchè su la sua superfizie le cose hanno similitudine con la pittura in molte parti.

Cioè, tu vedi la pittura fatta sopra un piano dimostrare cose, che paiono rilevate, e lo specchio sopra uno piano fa quel medesimo; la pittura è una sola superfizie, e lo specchio quel medesimo; la pittura è impalpabile, in quanto che quello, che pare tondo e spiccato, non si po’ circondare co’ le mani, e lo specchio fa il simile; lo specchio e la pittura mostra la similitudine dello cose circondate da ombra e lume; l’una e l’altra pare assai di là dalla sua superfizie.

E se tu conosci, che lo specchio, per mezzo de’ lineamenti e ombre e lumi, ti fa parere le cose dispiccate, e avendo tu fra il tuoi colori l’ombre e lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li saprai ben comporre insieme, la tua pittura parrà ancora lei una cosa naturale, vista in uno grande specchio.

[282]

XIII. — PRECETTO AL PITTORE.

Ogni ramo e ogni frutto nasce sopra il nascimento della sua foglia, la quale li scusa [gli fa le veci di madre] madre col porgergli l’acqua delle pioggie e l’umidità della rugiada, che li cade la notte di sopra, e molte volte li toglie li superchi calori delli raggi del sole.

Adunque tu, pittore, che non hai tali regole, per fuggire il biasimo delli intendenti, sii vago di ritrarre ogni tua cosa di naturale, e non disprezzare lo studio, come fanno i guadagnatori.

XIV. — LA PITTURA È UN DISCORSO FIGURATO.

Li omini e le parole son fatti, e tu, pittore, non sapendo operare le tue figure, tu se’ come l’oratore, che non sa adoperare le parole sue.

XV. — ORDINE DELLO STUDIO.

Il giovane debbe prima imparare Prospettiva; poi le misure d’ogni cosa; poi di mano di bon maestro, per suefarsi a bone membra; poi di naturale, per confermarsi le ragioni delle cose imparate; poi vedere a uno [283] tempo di mano di diversi maestri; poi fare abito al mettere in pratica e operare l’arte.

XVI. — SULLO STESSO SOGGETTO.

Dico, che prima si debbe imparare le membra e sua travagliamenti, e finita tal notizia si debbe seguitare li atti secondo li accidenti, che accadano all’omo, e terzo comporre le storie, lo studio delle quali sarà fatto dalli atti naturali, fatti a caso mediante li loro accidenti; e porli mente per le strade, piazze e campagne, e notarli con brieve descrizione di liniamenti: cioè che per una testa si faccia uno O e per uno braccio una linia retta e piegata, e ’l simile si faccia delle gambe e busto; e poi tornando alla casa fare tali ricordi in perfetta forma.

Dice l’avversario, che per farsi pratico e fare opere assai, ch’elli è meglio che ’l tempo primo dello studio sia messo in ritrarre vari componimenti, fatti per carte o muri per diversi maestri, e in quelli si fa pratica veloce e bono abito. Al quale si risponde, che questo abito sarebbe bono, essendo fatto sopra opere di boni componimenti e di studiosi maestri; e perchè questi tali maestri son sì rari, che pochi se ne trova, [284] è più sicuro andare alle cose naturali, che a quelle d’esso naturale con gran peggioramento imitate, e fare triste abito, perchè chi può andare alla fonte non vada al vaso.

XVII. — DEL MODO DELLO IMPARARE BENE A COMPORRE INSIEME LE FIGURE NELLE STORIE.

Quando tu avrai imparato bene di Prospettiva, e avrai a mente tutte le membra e corpi delle cose, sia vago ispesse volte, nel tuo andarti a sollazzo, vedere e considerare i siti e li atti delli omini in nel parlare, in nel contendere o ridere o zuffare insieme, che atti fieno in loro, e che atti facciano i circostanti, i spartitori o veditori d’esse cose; e quelli notare con brievi segni, in questa forma, su un tuo picciolo libretto. Il quale tu debbi sempre portar con teco, e sia di carte tinte, acciò non l’abbi a scancellare, ma mutare di vecchio in un novo, chè queste non sono cose da essere scancellate, anzi con grande diligenza riserbate, perchè gli è tante le infinite forme e atti delle cose, che la memoria non è capace a ritenerle, onde queste ti serberai come tuoi autori e maestri.

[285]

XVIII. — DELLO STUDIARE IN SINO QUANDO TI DESTI O INNANZI T’ADDORMENTI NEL LETTO, ALLO SCURO.

Ho in me provato essere di non poca utilità, quando ti trovi allo scuro nel letto, andare co’ la imaginativa, ripetendo li liniamenti superfiziali delle forme per l’addietro studiate o altre cose notabili, da sottile speculazione comprese; ed è questo proprio un atto laudabile e utile a confermarsi le cose nella memoria.

XIX. — MODO D’AUMENTARE E DESTARE LO ’NGIEGNO A VARIE INVENZIONI.

Non resterò però di mettere infra questi precetti una nova invenzione di speculazione, la quale, benchè paia piccola e quasi degna di riso, non di meno è di grande utilità a destare lo ’ngegnio a varie invenzioni: e questo è, se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di varî misti [composte di diverse sostanze], se avrai a invencionare [inventare, ideare] qualche sito, potrai lì vedere similitudine di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, [286] alberi, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti [fisonomie] e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre integra e bona forma. E interviene in simili muri e misti come del sôn di campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo, che tu imaginerai.

Io ho già veduto nelli nuvoli e muri macchie, che mi hanno desto a belle invenzioni di varie cose, le quali macchie, ancora che integralmente fussino in sè private di perfezione di qualunque membro, non mancavano di perfezione nelli loro movimenti o altre azioni.

XX. — LA STANZA DEL PITTORE.

Le stanze overo abitazioni piccole ravvian lo ’ngegno, e le grandi lo sviano.

XXI. — L’IDEA E LA PRATICA DELL’ARTE.

Tristo è quel maestro, del quale l’opera avanza il giudizio suo, e quello si dirizza alla perfezione dell’arte, del quale l’opera è superata dal giudizio.

[287]

XXII. — PROGRESSO INDEFINITO DELL’ARTE.

Tristo è quel discepolo, che non avanza il suo maestro.

XXIII. — QUEL PITTORE, CHE NON DUBITA, POCO ACQUISTA.

Quando l’opera supera il giudizio de l’operatore, esso operante poco acquista; e quando il giudizio supera l’opera, essa opera mai finisce di migliorare, se l’avarizia non l’impedisce.

XXIV. — PRECETTI SULLA PITTURA.

E tu, pittore, studia di fare le tue opere ch’abbino a tirare a sè li sua veditori, e quelli fermare con grande ammirazione e dilettazione; e non tirarli e poi scacciarli, come fa l’aria a quel, che, nelli tempi notturni, salta ignudo dal letto a contemplare la qualità d’essa aria nubilosa o serena, che immediate, scacciato dal freddo di quella, ritorna nel letto, donde prima si tolse. Ma fa le opere tue simili a quell’aria, che, ne’ tempi caldi, tira gli omini de li lor letti, e gli ritiene con dilettazione a prendere lo estivo fresco; e non voler essere prima pratico che dotto, e che l’avarizia vinca la [288] gloria, che di tal arte meritamente s’acquista.

Non vedi tu che, infra le umane bellezze, il viso bellissimo ferma li viandanti e non i loro ricchi ornamenti? E questo dico a te, che con oro o altri ricchi fregi adorni le tue figure. Non vedi tu isplendenti bellezze della gioventù diminuire di loro eccellenza per li eccessivi e troppo culti ornamenti? Non hai tu visto le montanare, involte ne gl’inculti e poveri panni, acquistare maggior bellezza, che quelle, che sono ornate?

Non usare le affettate conciature o capellature di teste, dove, appresso delli goffi cervelli, un sol capello posto più d’un lato che dall’altro, colui che lo tiene, se ne promette grand’infamia, credendo che li circostanti abbandonino ogni lor primo pensiero, e solo di quel parlino, e solo quello riprendano. E questi tali han sempre per lor consigliero lo specchio e il pettine, e il vento è loro capital nemico, sconciatore delli azzimati capegli.

Fa tu dunque alle tue teste li capegli scherzare insieme col finto vento, intorno alli giovanili volti e, con diverso revoltare, graziosamente ornarli; e non far come quelli [289] che gl’impiastrano con colla, e fanno parere i visi, come se fussino invetriati.... Umane pazzie in aumentazione, delle quali non bastano li naviganti a condurre dalle orientali parti le gomme arabiche, per riparare che ’l vento non varî l’equalità delle sue chiome, chè di più vanno ancora investigando!...

PARAGONE DELLA PITTURA COLLA SCULTURA.

I.

Adoperandomi io non meno in Scoltura, che in Pittura, e facendo l’una e l’altra ’n un medesimo grado, mi pare, con picciola imputazione, potere dare sentenza quale sia di maggiore ingegno e difficultà e perfezione l’una, che l’altra. Prima, la Scoltura è sottoposta a certi lumi, cioè di sopra, e la pittura porta per tutto con seco lume e ombra; e ’l lume e l’ombra è la importanza adunque della Scoltura. Lo scultore in questo caso è aiutato dalla natura del rilievo, che lo genera per sè, e ’l pittore per accidentale [290] arte lo fa ne’ lochi, dove ragionevolmente lo farebbe la natura. Lo scultore non si può diversificare nelle varie nature de’ colori delle cose; la Pittura non manca in parte alcuna. Le prospettive delli scultori non paiono niente vere; quelle del pittore paiono a centinaia di miglia di là dall’opera. La Prospettiva aerea è lontana dalla loro opera, non possono figurare i corpi trasparenti, non possano figurare i luminosi, non linee riflesse, non corpi lucidi come specchi e simili cose lustranti, non nebbie, non tempi oscuri e infinite cose, che non si dicono per non tediare.

Ciò ch’ell’ha è che la è più resistente al tempo, benchè ha simile resistenza la pittura fatta sopra rame grosso coperto di smalto bianco, e sopra quello dipinto con colori di smalto, e rimesso in fuoco, e fatto cuocere. Questa per eternità avanza la scoltura. Potran dire che dove fanno un errore non esserli facile il racconciare. Questo è tristo argomento a voler provare, che una ismemorataggine irremediabile faccia l’opera più degna. Ma vi dirò bene che lo ingegno del maestro sia più difficile a racconciare, che fa simili errori, che non è racconciare l’opera da quello guasta. Noi sappiamo [291] bene, che quello, che sarà pratico e bono, non farà simili errori, anzi con buone regole andrà levando tanto poco per volta, che ben conducerà sua opera. Ancora, lo scultore, se fa di terra o cera, può levare e porre, e quand’è terminata, con facilità si getta di bronzo, e questa è l’ultima operazione e la più permanente, ch’abbia la Scoltura, imperocchè quella, ch’è sola di marmo, è sottoposta, alla rovina, che non la ’n bronzo.

Adunque quella pittura fatta in rame che si può, con i metodi della Pittura, levare e porre, è pari al bronzo, che quando facevi prima l’opera di cera, ancor si poteva lei levare e porre. — Se questa scoltura di bronzo è eterna, questa di rame o di vetro è eternissima; se il bronzo rimane nero e brutto, questa è piena di varî e vaghi colori e d’infinite varietà, delle quale come di sopra è, se tu volessi dire solamente della pittura fatta in tavola, di questa son io contento dare la sentenza con la Scoltura, dicendo così: — come la Pittura è più bella e di più fantasia e più copiosa, e la Scoltura più durabile, e altro non ha. —

La Scoltura con poca fatica mostri quel che ’n la pittura pare cosa miracolosa a far parere palpabili le cose impalpabili, rilevate [292] le cose piane, lontane le cose vicine! In effetto la Pittura è ornata d’infinite speculazioni, che la Scoltura non l’adopera.

II.

La Scoltura non è scienza, ma arte meccanicissima, perchè genera sudore e fatica corporale al suo operatore, e solo bastano, a tale artista, le semplici misure de’ membri e la natura delli movimenti e posate, e così in sè finisce, dimostrando all’occhio quel, che quello è, e non dà di sè alcuna ammirazione al suo contemplante, come fa la Pittura, che in una piana superfizie, per forza di scienza, dimostra le grandissime campagne co’ lontani orizzonti.

III.

Tra la Pittura e la Scoltura non trovo altra differenza, se non che lo scultore conduce le sue opere con maggior fatica di corpo, che il pittore, e il pittore conduce le opere sue con maggior fatica di mente.

Provasi così esser vero, conciossiachè lo scultore, nel fare la sua opera, fa per forza di braccia e di percussione a consumare il marmo o altra pietra soverchia, ch’eccede la figura, che dentro a quella si rinchiude [293] con esercizio meccanicissimo, accompagnato spesse volte da gran sudore, composto di polvere e convertito in fango, con la faccia impastata e tutto infarinato di polvere di marmo, che pare un fornaio, e coperto di minute scaglie, che pare gli sia fioccato addosso, e l’abitazione imbrattata e piena di scaglie e di polvere di pietre.

Il che tutto al contrario avviene al pittore, parlando di pittori e scultori eccellenti. Imperocchè il pittore con grande agio siede dinanzi alla sua opera, ben vestito, e muove il lievissimo pennello con li vaghi colori. È ornato di vestimenti come a lui piace, e è l’abitazione sua piena di vaghe pitture e pulita; e accompagnata spesse volte di musiche o lettori di varie e belle opere, le quali — sanza strepito di martelli o altro rumore misto — sono con gran piacere udite.

IV.

Nessuna comparazione è dallo ingegno e artificio e discorso della Pittura a quello della Scoltura, che non s’impaccia della Prospettiva, causata dalla virtù della materia e non dall’artefice.

E se lo scultore dice non poter racconciare [294] la materia levata di soperchio alla sua opera, come può il pittore; qui si risponde che quel che troppo leva, poco intende, e non è maestro. — Perchè se lui ha in potestà le misure, egli non leverà quello che non deve; adunque diremo tal difetto essere dell’operatore e non della materia.

Ma di questi non parlo, perchè non sono maestri, ma guastatori di marmi.

Li maestri non si fidano nel giudizio dell’occhio, perchè sempre inganna, come prova, chi vol dividere una linea in due parti eguali, a giudizio di occhio, che spesso la sperienza lo inganna; onde per tale sospetto li buoni giudici sempre temono, il che non fanno l’ignoranti, e per questo, colla notizia della misura di ciascuna lunghezza, grossezza e larghezza de’ membri sempre si vanno al continuo governando, e così facendo, non levano più del dovere.

Ma la Pittura è di maraviglioso artificio, tutta di sottilissime speculazioni, delle quali in tutto la Scoltura n’è privata, per essere di brevissimo discorso.

Rispondesi allo scultore, che dice, che la sua scienza è più permanente che la Pittura, che tal permanenza è virtù della materia sculta e non dello scultore, e in questa [295] parte lo scultore non se lo debbe attribuire a sua gloria, ma lasciarla alla natura, creatrice di tale materia.

V.

La Pittura è di maggior discorso mentale e di maggiore artificio e meraviglia che la Scoltura, perciocchè necessità costringe la mente del pittore a trasmutarsi nella propria mente di natura, e che sia interprete infra essa natura e l’arte, cementando con quella le cause delle sue dimostrazioni, costrette dalla sua legge; e in che modo le similitudini delli obbietti circostanti all’occhio concorrino colli veri simulacri alla popilla dell’occhio; e infra li obbietti eguali in grandezza quale si dimostrerà maggiore a esso occhio; e infra li colori eguali qual si dimostrerà più o meno oscuro o più o meno chiaro; e infra le cose di eguale bassezza quale si dimostrerà più o men bassa: o di quelle, che sono poste in altezza eguale, quale si dimostrerà più o meno alta; e delli obbietti eguali posti in varie distanze, perchè si dimostreranno men noti l’un che l’altro.

E tale arte abbraccia e restringe in sè tutte le cose visibili, il che far non può la [296] povertà della Scoltura, cioè: li colori di tutte le cose e loro diminuzioni; questa figura le cose trasparenti, e lo scultore ti mostrerà le naturali, sanza suo artifizio; il pittore ti mostrerà varie distanze con variamenti del colore, dall’aria interposta fra li obbietti e l’occhio; egli le nebbie per le quali con difficoltade penetrano le spezie dalli obbietti; egli le pioggia, che mostrano dopo sè li nuvoli con monti e valli; egli la polvere, che mostrano in sè e dopo sè li combattenti di essa motori; egli li fumi più o meno densi; questo ti mostrerà li pesci scherzanti infra la superfizie delle acque e il fondo suo; egli le pulite ghiare con varî colori posarsi sopra le lavate arene del fondo de’ fiumi, circondati dalle ondeggianti erbe, dentro alla superfizie dell’acqua; egli le stelle in diverse altezze sopra di noi e così altri innumerabili effetti, alli quali la Scoltura non aggiunge.

VI. — CONCLUSIONE.

Manca la Scoltura della bellezza de’ colori, manca della prospettiva de’ colori, manca della prospettiva e confusione de’ termini delle cose remote all’occhio, imperocchè [297] così farà cognito li termini delle cose propinque, come delle remote; non farà l’aria, interposta, infra l’obbietto remoto e l’occhio, occupare più esso obbietto, come le figure velate, che mostrano la nuda carne sott’i veli, a quella anteposti; non farà la minuta ghiara di varî colori, sotto la superfizie delle trasparenti acque.

[299]

I PAESI E LE FIGURE.

[301]

I PAESI.

I. — UN EFFETTO DI NUBI SUL LAGO MAGGIORE.

Io sono già stato a vedere tal multiplicazione di arie [condensazione di nubi nell’atmosfera], e già sopra a Milano, inverso lago Maggiore, vidi una nuvola in forma di grandissima montagna, piena di scogli infocati, perchè li raggi del sole, che già era all’orizzonte, che rosseggiava, la tigneano del suo colore. E questa tal nuvola attraeva a sè tutti li nuvoli piccioli, che intorno le stavano; e la nuvola grande non si movea di suo loco, anzi riservò nella sua sommità il lume del sole insino a una ora e mezzo di notte, tant’era la sua immensa grandezza; e infra due ore di notte generò sì gran venti, che fu cosa stupenda e inaudita.

[302]

II. — UN’ASCENSIONE AL MONTE ROSA.[146]

Dico, l’azzurro, in che si mostra l’aria, non essere suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili atomi, la quale piglia dopo se la percussion de’ raggi solari, e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della regione del fuoco, che di sopra le fa coperchio.

E questo vedrà, come vid’io, chi andrà sopra Momboso [il monte Rosa], giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia, la qual montagna ha la sua base che partorisce li quattro fiumi, che rigan per quattro aspetti contrarî tutta l’Europa: e nessuna montagna ha la sua base in simile altezza.

Questa si leva in tanta altura, che quasi passa tutti li nuvoli, e raro volte vi cade neve, ma sol grandine di stato, quando li nuvoli sono nella maggiore altezza; e questa grandine vi si conserva in modo, che, se non fosse la rarità del cadervi e del montarvi nuvoli, che non accade due volte in una età, egli vi sarebbe altissima quantità di diaccio, innalzato dalli gradi della grandine. [303] Il quale di mezzo Luglio vi trovai grossissimo; e vidi l’aria sopra di me tenebrosa; e ’l sole, che percotea la montagna, essere più luminoso quivi assai, che nelle basse pianure, perchè minor grossezza d’aria s’interponea in fra la cima d’esso monte e ’l sole.

III. — TRACCIA.

Descrivi i paesi con vento e con acqua, o con tramontare e levare del sole.

IV. — ALTRA TRACCIA.

Descrivi uno vento terrestre e marittimo, descrivi una pioggia.

V. — VARIE COLORAZIONI DEL MARE.

Il mare ondeggiante non ha colore universale, ma chi lo vede di terra ferma, è di colore oscuro, e tanto più oscuro, quant’egli è più vicino all’orizzonte, e vedevi alcuni chiarori over lustri, che si movono con tardità a uso di pecore bianche nelli armenti; e chi vede il mare stando in alto mare lo vede azzurro. E questo nasce, che da terra il mare pare oscuro, perchè tu vedi in lui l’onde, che specchiano la oscurità della terra; [304] e d’alto mare paiono azzurre, perchè tu vedi nell’onde l’aria azzurra, da tali onde specchiata.

VI. — LA VEGETAZIONE DI UN COLLE.

Quell’erbe e piante saranno di color tanto più pallido, quanto il terreno che le nutrisce è più magro e carestioso [scarso, povero] d’umore: il terreno è più carestioso e magro sopra li sassi, di che si compongono li monti. E li alberi saranno tanto minori e più sottili, quanto essi si fanno più vicini alla sommità de’ monti: e il terreno è tanto più magro, quanto s’avvicina più alle predette sommità de’ monti; e tanto più abbondante il terreno è di grassezza, quanto esso è più propinquo alle concavità delle valli.

Adunque tu, pittore, mostrerai nelle sommità de’ monti li sassi, di che esso si compone, in gran parte scoperti di terreno, e l’erbe, che vi nascono, minute e magre e in gran parte impallidite e secche, per carestia d’umore, e l’arenosa e magra terra si veda transparire infra le pallide erbe; e le minute piante, stentate e invecchiate in minima grandezza, con corte e spesse ramificazioni [305] e con poche foglie, scoprendo in gran parte le rugginenti e aride radici, tessute con le falde [gli strati delle roccie] e rotture [i crepacci] delli rugginosi scogli, nate dalli ceppi, storpiati dalli uomini e da’ venti; e in molte parti si vegga li scogli superare li còlli de li alti monti, vestiti di sottile e pallida ruggine; e in alcuna parte dimostrare li lor veri colori scoperti, mediante la percussione delle folgori del cielo, il corso delle quali, non sanza vendetta di tali scogli, spesso son impedite.

E quanto più discendi alle radici de’ monti, le piante saranno più vigorose e spesse di rami e di foglie; e le lor verdure di tante varietà, quanto sono le specie delle piante, di che tal selve si compongono, delle quali la ramificazione è con diversi ordini e diverse spessitudini [abbondanza di rami frondosi] di rami e di foglie e diverse figure e altezze: e alcuni con istrette ramificazioni, come il cipresso; e similmente degli altri con ramificazioni sparse e dilatabili, com’è la quercia e il castagno e simili; alcuni con minutissime foglie; altri con rare, com’è il ginepro e ’l platano e simili; alcune quantità di piante, insieme [306] nate, divise da diverse grandezze di spazi e altre unite, sanza divisioni di parti o altri spazi.

VII. — DEL MODO DEL FIGURARE UNA NOTTE.

Quella cosa ch’è privata interamente di luce è tutta tenebre. Essendo la notte in simile condizione, e tu vi vogli figurare una storia, farai che, sendovi ’l grande foco, che quella cosa ch’è più propinqua di detto foco più si tinga nel suo colore, perchè quella cosa ch’è più vicina all’obbietto, più partecipa della sua natura. E facendo il foco pendere in colore rosso, farai tutte le cose alluminate da quello ancora loro rosseggiare e quelle che sono più lontane a detto foco più sien tinte del colore nero della notte. Le figure, che sono fra te e ’l foco, appariscano scure nella oscurità della notte e non della chiarezza del foco, e quelle che si trovano dai lati sieno mezze oscure e mezze rosseggianti, e quelle che si possono vedere dopo i termini delle fiamme saranno tutte alluminate di rosseggiante lume in campo nero.

In quanto alli atti, farai quelli che li sono presso, farsi scudo colle mani e con mantegli, a riparo del superchio calore, e, torto col volto in contraria parte, mostrare fuggire [307] da quelli più lontani; farai gran parte di loro farsi colle mani riparo alli occhi offesi da superchio splendore.

VIII. — COME SI DEE FIGURAR UNA FORTUNA [burrasca].

Se vuoi figurare bene una fortuna, considera e poni bene i sua effetti, quando il vento, soffiando sopra la superfizie del mare e della terra, rimove e porta con seco quelle cose, che non sono ferme, colla universal marea.

E per ben figurare questa fortuna, farai in prima i nuvoli spezzati e rotti dirizzarsi per lo corso del vento, accompagnati dall’arenosa polvere, levata da’ liti marini, e rami e foglie levati per la potenza del furore del vento, isparsi per l’aria, e in compagnia di quelle molte altre leggere cose. Li alberi e l’erbe piegate a terra quasi mostrarsi volere seguire il corso dei venti, coi rami storti fuor del naturale corso e le scompigliate e racconciate foglie. Gli omini, che lì si trovano, parte caduti e rivolti per li panni e per la polvere, quasi sieno sconosciuti; e quelli, che restano ritti, sieno dopo qualche albero abbracciati a [308] quelli, perchè il vento non li strascini; altri con le mani a li occhi per la polvere, chinati a terra, e i panni e capegli diretti al corso del vento. Il mare turbato e tempestoso sia pieno di retrosi [aggiramenti vorticosi dell’acqua], e schiuma in fra le elevate onde, e ’l vento levare infra la combattuta aria della schiuma più sottile a uso di spessa e avviluppata nebbia. I navilî, che dentro vi sono, alcuni ve ne farai con la vela rotta, e i brani d’essa ventilando infra l’aria in compagnia d’alcuna corda rotta; alcuni alberi rotti, caduti, col navilio intraversato e rotto infra le tempestose onde; certi omini gridanti abbracciare il rimanente del navilio; farai i nuvoli cacciati dagl’impetuosi venti, battuti nell’alte cime delle montagne, fare a quegli avviluppati retrosi, a similitudine dell’onde percosse nelli scogli. L’aria spaventosa per le oscure tenebre fatte nell’aria dalla polvere, nebbia e nuvoli folti.

IX. — MODO DI FIGURARE UNA BATTAGLIA.

Farai in prima il fumo dell’artiglieria, mischiato in fra l’aria, insieme con la polvere, mossa dal movimento de’ cavalli e de’ combattitori. La quale mistione userai [309] così: la polvere, perchè è cosa terrestre e ponderosa, e ben che per la sua sottilità facilmente si levi e mischi infra l’aria, niente di meno volentieri ritorna in basso, e il suo sommo montare è fatto dalla parte più sottile, adunque il meno fia veduta, e parrà quasi di colore d’aria; il fumo, che si mischia in fra l’aria impolverata, quanto più s’alza a certa altezza, parrà oscura nuvola, e vederassi ne le sommità più espeditamente il fumo, che la polvere.

Il fumo penderà in colore alquanto azzurre, e la polvere terrà il suo colore: dalla parte che viene il lume, parrà questa mistione d’aria, fumo e polvere molto più lucida, che dalla opposita parte; i combattitori quanto più fieno infra detta turbolenza, meno si vedranno e meno differenza fia dai loro lumi alle loro ombre.

Farai rosseggiare i volti e le persone e l’aria e li scoppettieri insieme co’ vicini, e detto rossore quanto più si parte dalla sua cagione, più si perda; e le figure, che sono in fra te e ’l lume, essendo lontane, parranno scure in campo chiaro, e le loro gambe, quanto più s’apresseran alla terra, men fieno vedute, perchè la polvere è lì più grossa e più spessa.

[310]

E se farai cavalli correnti fuori della turba, falli nuvoletti di polvere distanti l’uno dall’altro, quanto po’ essere lo ’ntervallo de’ salti fatti dal cavallo, e quello nuvolo, ch’è più lontano da detto cavallo, men si vegga, anzi sia alto, sparso e raro, e più presso sia più evidente e minore e più denso.

L’aria sia piena di saettume di diverse ragioni: chi monti, chi discenda, qual sia per linea piana; e le ballotte delli scoppietti sieno accompagnate d’alquanto fumo dirieto al lor corso.

E le prime figure farai polverose, i capegli e ciglia e altri lochi piani, atti a sostenere la polvere. Farai i vincitori correnti co’ capegli, e altre cose leggiere, sparse al vento: con le ciglia basse e’ caccia i contrarî membri innanzi, cioè se mandera’ innanzi il piè destro che ’l braccio stanco ancor lui venga innanzi. E se farai alcuno caduto fara’ gli il segno dello sdrucciolare su per la polvere, condotto [ridotto, trasmutato] in sanguinoso fango, e dintorno alla mediocre liquidezza della terra farai vedere istampite [impresse] le pedate degli omini e cavalli di lì passati.

Farai alcuno cavallo strascinare morto [311] il suo signore, e dirieto a quello lasciare per la polvere e fango il segno dello strascinato corpo; farai li vinti e battuti pallidi colle ciglia alte nella lor congiunzione, e la carne, che resta sopra loro, sia abbondante di dolenti crespe. Le fauci del naso sieno con alquante grinze partite in arco dalle narici e terminate nel principio dell’occhio; le narici alte, cagion di dette pieghe; le labbra arcate scoprano i denti di sopra. I denti spartiti in modo di gridare con lamento. L’una delle mani faccia scudo ai paurosi occhi, voltando il dirieto inverso il nimico, l’altra stia a terra a sostenere il levato busto. Altri farai gridanti colla bocca isbarrata e fuggenti; fara’ molte sorte d’arme in fra i piedi de’ combattitori come scudi rotti, lancie, spade rotte, altre simili cose; farai omini morti, alcuni ricoperti mezzi dalla polvere, altri tutta la polvere, che si mischia coll’uscito sangue, convertirsi in rosso fango, e vedere il sangue del su’ colore correre con torto corso dal corpo alla polvere; altri morendo strignere i denti o travolgere gli occhi, strignere le pugna alla persona e le gambe storte. Potrebbesi vedere alcuno disarmato e abbattuto dal nemico volgersi al nemico, con morsi e graffi fare crudele e [312] aspra vendetta; potresti vedere alcuno cavallo leggero correre coi crini sparsi al vento, correre in fra i nemici, e co’ piedi fare molto danno; vedresti alcuno storpiato, caduto in terra farsi copritura col suo scudo, e ’l nemico, chinato in basso, fare forza di dare morte a quello.

Potrebbesi vedere molti omini caduti in un gruppo sopra uno caval morto. Vederai alcuni vincitori lasciare il combattere e uscire dalla moltitudine nettandosi co le due mani li occhi e le guancia ricoperte di fango, fatte da lagrimare degli occhi per l’amor della polvere. Vederesti le squadre del soccorso stare pien di speranza e sospetto, co’ le ciglia aguzze, facendo a quelle ombra con le mani, e riguardare infra la folta e confusa caligine dell’essere attenti al comandamento del capitano; e simile, il capitano col bastone levato e corrente inverso il soccorso, mostrare a quelli la parte dove di loro è carestìa; e alcun fiume dentro cavalli correnti riempiendo la circustante acqua di turbolenza di onde di schiuma e d’acqua confusa, saltante infra l’aria e tra le gambe e corpi de’ cavalli. E non fare nessun loco piano, se non le pedate ripiene di sangue.

[313]

X. — FIGURAZIONE DEL DILUVIO.

L’aria era oscura per la spessa pioggia, la qual, con obbliqua discesa, piegata dal trasversal corso de’ venti, faceva onde di sè per l’aria, non altrementi che far si vegga alla polvere, ma sol si variava perchè tale innondazione era traversata dalli liniamenti, che fanno le gocciole dell’acqua, che discende. Ma il colore suo era dato dal fuoco, generato dalle saette fenditrici e squarciatrici delli nuvoli, i vampi delle quali percoteano e aprivano li gran pelaghi delle riempiute valli, li quali aprimenti mostravano nelli lor vertici le piegate cime delle piante. E Nettuno si vedea in mezzo alle acque col tridente, e vedeasi Eolo colli sua venti ravvilluppare notanti piante diradicate, miste colle immense onde.

L’orizzonte, con tutto lo emisperio, era turbo e focoso, per le ricevute vampe delle continue saette. Vedevansi li omini e li uccelli, che riempivan di sè li grandi alberi, scoperti dalle dilatate onde, componitrici delli colli, circondatori delli gran baratri.

[314]

XI. — SEGUE.

Vedeasi la oscura e nebulosa aria essere combattuta dal corso di diversi venti, e avviluppati dalla continua pioggia e misti colla gragnuola, li quali or qua ora là portavano infinita ramificazione delle stracciate piante, miste con infinite foglie. Dintorno vedeasi le antiche piante diradicate e stracciate dal furor de’ venti. Vedevasi le ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, ruinare sopra i medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati allagavano, e sommergevano le moltissime terre, colli lor popoli.

Ancora avresti potuto vedere, nelle sommità di molti monti, essere insieme ridotte molte varie spezie d’animali, spaventati e ridotti al fin dimesticamente, in compagnia de’ fuggiti omini e donne colli lor figlioli. E le campagne coperte d’acqua mostravan le sue onde in gran parte coperte di tavole, lettiere, barche, altri vari strumenti, fatti dalla necessità e paura della morte, sopra li quali eran donne, omini colli lor figlioli misti, con diverse lamentazioni e pianti, spaventati dal furor de’ venti, li quali con grandissima [315] fortuna rivolgevan l’acque sotto sopra insieme colli morti, da quella annegati. E nessuna cosa più lieve che l’acqua era che non fussi coperta di diversi animali, i quali, fatti tregua, stavano insieme con paurosa collegazione [aggruppamento], infra’ quali eran lupi, volpi, serpi e d’ogni sorte, fuggitori dalla morte. E tutte l’onde percuotitrici de’ lor lidi, combattevan quelli, colle varie percussioni di diversi corpi annegati, le percussioni de’ quali uccidevano quelli, alli quali era restato vita.

Alcune congregazioni d’omini avresti potuti vedere, le quali con armata mano difendevano li piccioli siti, che loro eran rimasti, da lioni, lupi e animali rapaci, che quivi cercavan lor salute. Oh! quanti romori spaventevoli si sentivan per l’aria scura, percossa dal furore de’ tuoni e delle folgori, da quelli scacciate, — che per quella ruinosamente scorrevano, percotendo ciò che s’opponea al suo corso! Oh! quanti avresti veduti colle proprie mani chiudersi li orecchi per schifare l’immensi romori, fatti per la tenebrosa aria dal furore de’ venti misti con pioggia, tuoni celesti e furore di saette!

[316]

Altri, non bastando loro il chiudere delli occhi, ma colle proprie mani ponendo quelle l’una sopra dell’altra, più se li coprivano, per non vedere il crudele strazio fatto della umana spezie dall’ira di Dio. — Oh! quanti lamenti e quanti spaventati si gettavano dalli scogli! Vedeasi le grandi ramificazioni delle gran quercie, cariche d’omini, esser portate per l’aria dal furore delli impetuosi venti.

Quante eran le barche volte sotto sopra, e quelle intere e quelle in pezzi esservi sopra gente, travagliandosi per loro scampo, con atti e movimenti dolorosi, pronosticanti di spaventevole morte. Altri con movimenti disperati si toglievano la vita, disperandosi di non potere sopportare tal dolore: de’ quali alcuni si gittavano dalli alti scogli, altri si stringevano la gola colle proprie mani, alcuni pigliavan li propri figlioli, e con grande rapidità li sbattevan interi, alcuni colle proprie sue armi si ferivano e uccidean sè medesimi, altri gittandosi ginocchioni si raccomandavan a Dio. Oh! quante madri piangevano i sua annegati figlioli, quelli tenendo sopra le ginocchia, alzando le braccia aperte in verso il cielo, e con voci, composte di diversi urlamenti, riprendevan l’ira delli Dei; [317] altri, colle man giunte e le dita insieme tessute, mordevano, e con sanguinosi morsi quel divoravan, piegandosi col petto alle ginocchia per lo immenso e insopportabile dolore.

Vedeansi li armenti delli animali, come cavalli, buoi, capre, pecore, esser già attorniati dalle acque e essere restati in isola nell’alte cime de’ monti, già restrigniersi insieme, e quelli del mezzo elevarsi in alto, e camminare sopra delli altri, e fare infra loro gran zuffe, de’ quali assai ne morivan per carestia di cibo.

E già li uccelli si posavan sopra li omini e altri animali, non trovando più terra scoperta che non fusse occupata da’ viventi; già la fame, ministra della morte, avea tolto la vita a gran parte delli animali; quando li corpi morti già levificati si levavano dal fondo delle profonde acque e surgevano in alto. E infra le combattenti onde, sovra le quali si sbattevano l’un nell’altro, e, come balle piene di vento, risaltavan indirieto dal sito della lor percussione, questi si facevan base de’ predetti morti. E sopra queste maledizioni si vedea l’aria coperta di oscuri nuvoli, divisi dalli serpeggianti moti dello infuriate saette del cielo, alluminanti or qua or là infra la oscurità delle tenebre.

[318]

Vedesi il moto dell’aria mediante il moto della polvere, mossa dal corso del cavallo, il moto della quale è tanto veloce a riempiere il vacuo, che di sè lascia nell’aria, che di sè lo vestiva, quanto è la velocità di tal cavallo a fuggirsi dalla predetta aria.

E ti parrà forse potermi riprendere dell’avere io figurato le vie fatte per l’aria dal moto del vento, conciò sia che ’l vento per sè non si vede infra l’aria. A questa parte si risponde, che non il moto del vento, ma il moto delle cose da lui portate è sol quel che per l’aria si vede.

Tenebre, vento, fortuna di mare, diluvio d’acqua, selve infocate, pioggia, saette del cielo, terremoti e ruina di monti, spianamenti di città.

Venti revertiginosi [raggirantisi turbinosamente], che portano acqua, rami di piante e omini infra l’aria.

Rami stracciati da’ venti, misti col corso de’ venti, con gente di sopra.

Piante rotte, cariche di gente.

Navi rotte in pezzi, battute in iscogli.

Delli armenti, grandine, saette, venti revertiginosi.

Gente che sien sopra piante, che non si [319] posson sostenere, alberi e scogli, torri, còlli pien di gente, barche, tavole, madie e altri strumenti da natare, còlli coperti d’uomini e donne e animali, e saette da’ nuvoli, che alluminino le cose.

Sia imprima figurata la cima d’un aspro monte con alquanta valle circustante alla sua base, e ne’ lati di questo si veda la scorza del terreno levarsi insieme colle minute radici di piccoli sterpi, e spogliar di sè gran parte delli circonstanti scogli; rovinosa discenda di tal dirupamento; con turbolenza del corso vada percuotendo e scalzando le ritorte e globulenti [piene di prominenze, di bulbi] radici delle gran piante, e quelle ruinando sotto sopra. E le montagne, denudandosi, scoprano le profonde fessure, fatte in quelle dalli antichi terremoti; e li piedi delle montagne siano in gran parte rincalzati e vestiti delle ruine delli arbusti precipitati da’ lati dell’alte cime de’ predetti monti, i quali sien misti con fango, radici, rami d’alberi, con diverse foglie, infuse infra esso fango e terra e sassi.

E le ruine d’alcuni monti sien discese nella profondità d’alcuna valle, e facciansi [320] argine della ringorgata acqua del suo fiume, la quale argine, già rotta, scorra con grandissime onde, delle quali le massime percuotino, e ruinino le mura delle città e ville di tal valle. E le ruine degli alti edifizî delle predette città levino gran polvere, l’acqua si levi in alto in forme di fumo, ed in ravviluppati, nuvoli si movano contro alla discendente pioggia.

Ma la ringorgata acqua si vada raggirando pel pelago, che dentro a sè la rinchiude, e con ritrosi revertiginosi in diversi obbietti, percuotendo e risaltando in aria colla fangosa schiuma, poi ricadendo e facendo riflettere in aria l’acqua percossa. E le onde circolari, che si fuggono dal loco della percussione, camminando col suo impeto in traverso, sopra del moto dell’altre onde circolari, che contra di loro si muovono, e, dopo la fatta percussione, risalgano in aria, sanza spiccarsi dalle lor basi.

E all’uscita, che l’acqua fa di tal pelago, si vede le disfatte onde distendersi inverso la loro uscita, dopo la quale, cadendo over discendendo infra l’aria, acquista peso e moto impetuoso, dopo il quale, penetrando la percossa acqua, quella apre, e penetra con furore alla percussione del [321] fondo, dal quale poi riflettendo, risalta inverso la superfizie del pelago, accompagnata dall’aria, che con lei si sommerse, e questa resta nella uscita colla schiuma, mista con legnami e altre cose più lievi che l’acqua, intorno alle quali si dà principio all’onde, che tanto più crescono in circuito, quanto più acquistano di moto: il qual moto le fa tanto più basse quanto ell’acquistano più larga base, e per questo sono poco evidenti nel lor consumamento. Ma, se l’onde ripercotono in varî obbietti, allora elle risaltano indirieto sopra l’avvenimento dell’altre onde, osservando l’accrescimento della medesima curvità, ch’ell’avrebbero acquistato nell’osservazione del già principiato moto.

Ma la pioggia nel discendere de’ sua nuvoli è del medesimo color d’essi nuvoli, cioè della sua parte ombrosa, se già li razzi solari non li penetrassino: il che se così fusse, la pioggia si dimostrerebbe di minore oscurità che esso nuvolo. E se li gran pesi delle massime ruine delli gran monti o d’altri magni edifizî, in lor ruine, percuoteranno li gran pelaghi dell’acque, allora risalterà gran quantità d’acqua infra l’aria, il moto della quale sarà fatto per [322] contrario aspetto a quello che fece il moto del percussore dell’acque, cioè l’angolo della riflession, e fia simile all’angolo della incidenza.

Delle cose portate dal corso delle acque, quella si discosterà più dalle opposite rive, che fia più grave over di maggior quantità. Li ritrosi delle acque nelle sue parti sono tanto più veloci, quanto elle son più vicine al suo centro. La cima delle onde del mare discende dinanzi alle lor basi, battendosi e confregandosi sopra le globulenze della sua faccia: e tal confregazione, trita in minute particule della discendente acqua, la qual, convertendosi in grossa nebbia, si mischia nelli corsi de’ venti a modo di ravviluppato fumo e revoluzion di nuvoli, e la leva al fine infra l’aria, e si converte in nuvoli. Ma la pioggia, che discende infra l’aria, nell’essere combattuta e percossa dal corso de’ venti, si fa rara o densa, secondo la rarità o densità d’essi venti, e per questo si genera infra l’aria una innondazione di trasparenti, fatti dalla discesa della pioggia che è vicina all’occhio, che la vede. L’onde del mare, che percuotono l’obliquità de’ monti, che con lui combinano, saranno schiumose, con velocità contro al dosso de’ detti [323] colli, e nel tornare indirieto si scontrano nell’avvenimento della seconda onda, e dopo il gran loro strepito tornan, con grande innondazione, al mare, donde si partirono. Gran quantità di popoli, d’uomini e d’animali diversi si vedean scacciati dell’accrescimento del diluvio inverso le cime de’ monti, vicini alle predette acque.

Onde del mare di Piombino, tutte d’acqua schiumosa.

Dell’acqua che risalta; de’ venti di Piombino; a Piombino ritrosi di venti e di pioggia con rami e alberi misti coll’aria; votamenti dell’acqua, che piove nelle barche.[147]

XII. — L’ISOLA DI CIPRO.

Dalli meridionali lidi di Cilicia si vede per australe la bell’isola di Cipro, la qual fu regno della dea Venere, e molti, incitati dalla sua bellezza, hanno rotte le loro navi e sartie infra li scogli, circondati dalle vertiginose onde. Quivi la bellezza del dolce colle invita i vagabondi naviganti a recrearsi infra le sue fiorite verdure, fra le quali i venti raggirandosi empiono l’isola e ’l circostante mare di soavi odori.... Oh! quante navi quivi già son sommerse! oh! [324] quanti navili rotti negli scogli! Quivi si potrebbero vedere innumerabili navili, chi è rotto e mezzo coperto dall’arena, chi si mostra da poppa e chi da prua, chi da carena e chi da costa, — e parrà a similitudine d’un Giudizio, che voglia risuscitare navili morti, tant’è la somma di quelli, che copre tutto il lito settentrionale. Quivi i venti d’aquilone, resonando, fan varî e paurosi soniti.

IL VIAGGIO IN ORIENTE.

DIVISIONE DEL LIBRO.[148]

LETTERA I. DESCRIZIONE DEL MONTE TAURO E DEL FIUME EUFRATES.

Al Diodario [Diodarro, devadâr o dervâdâr, specie di Prefetto di palazzo] di Soria [Siria], locotenente del sacro Soltano di Babilonia.

Il nuovo accidente, accaduto in queste nostre parti settentrionali, il quale son certo, che non solamente a te, ma a tutto l’universo darà terrore, (il quale) successivamente ti sarà detto per ordine, mostrando prima l’effetto e poi la causa.

Ritrovandomi io in queste parti d’Erminia, a dare con amore e sollecitudine opra a quello uffizio, pel quale tu mi mandasti, e nel dare principio in quelle parti, che a me pareano essere più al proposito [326] nostro, entrai nella città di Calindra [È la medievale Kelindreh], vicina ai nostri confini.

Questa città è posta nelle ispiagge di quella parte del monte Tauro, che è divisa dall’Eufrates, e riguarda i corni del gran monte Tauro per ponente.

Questi corni son di tanta altura, che par che tocchino il cielo, chè nell’universo non è parte terrestre più alta della sua cima, e sempre 4 ore innanzi dì è percossa dai razzi del sole in oriente; e per l’essere lei di pietra bianchissima, essa forte risplende e fa l’uffizio a questi Ermini, come farebbe un bel lume di luna nel mezzo delle tenebre; e per la sua grande altura, essa passa le somme altezze de’ nugoli per ispazio di 4 miglia a linia retta. Questa cima è veduta di gran parte dell’occidente alluminata dal sole dopo il suo tramontare insino alla terza parte della notte, ed è quella che appresso di voi ne’ tempi sereni abbiam già giudicato essere una cometa, e pare a noi nelle tenebre della notte mutarsi in varie figure, e quando dividersi in due o in tre parti, e quando lunga, e quando corta; o questo nasce per li nuvoli, che ne l’orizzonte [327] del cielo s’interpongono in fra parte d’esso monte e ’l sole; e, per tagliare loro essi razzi solari, il lume del monte è interrotto con varî spazi di nugoli, e però è di figura variabile nel suo splendore.


Perchè il monte risplende nella sua cima la metà o ’l terzo della notte, e pare una cometa a quelli di ponente, dopo la sera, e innanzi dì a quelli di levante.

Perchè essa cometa par di variabile figura in modo, che ora è tonda, or lunga, e or divisa in due o in tre parti, e ora unita, e quando si perde, e quando si rivede.

LETTERA II. FIGURA DEL MONTE TAURO.

Non sono, o Diodario, da essere da te imputato di pigrizia, come le tue rampogne par che accennino, ma lo isfrenato amore, il quale ha creato il benefizio, ch’io posseggo da te, è quello che m’ha costretto con somma sollecitudine a cercare e con diligenza a ’nvestigare la causa di sì grande e stupendo effetto; la qual cosa non sanza tempo ha potuto avere effetto. Ora, per farti ben soddisfatto della causa di sì grande effetto, [328] è necessario ch’io ti mostri la forma del sito, e poi verrò allo effetto, col quale, credo, rimarrai soddisfatto.

Non ti dolere, o Diodario, del mio tardare a dar risposta alla tua desiderosa richiesta, perchè queste cose, di che tu mi richiedesti, son di natura, che non sanza processo di tempo si possono bene esprimere, e massime perchè a voler mostrare la causa di sì grande effetto, bisogna discrivere con bona forma la natura del sito, e mediante quella tu potrai poi con facilità soddisfarti della predetta richiesta.

Io lascierò indirieto la descrizione della forma dell’Asia Minore, e che mare o terre sien quelle, che terminino la figura della sua quantità, perchè so che la diligenza e sollecitudine de’ tua studi non t’hanno di tal notizia privato, e verrò a denotare la vera figura di Taurus monte, il quale è quello ch’è causatore di sì stupenda e dannosa maraviglia, il quale serve alla espedizione del nostro proposito.

Questo monte Tauro è quello che appresso di molti è detto essere il giogo del monte Caucaso; ma avendo voluto ben chiarirmi, ho voluto parlare con alquanti di quelli, che abitano sopra del mar Caspio, i [329] quali mostrano che, benchè i monti loro abbino il medesimo nome, questi son di maggiore altura, e però confermano quello sia il vero monte Caucaso, perchè Caucaso in lingua scitica vol dire somma altezza. E invero non ci è notizia che l’Oriente nè l’Occidente, abbia monte di sì grande altura, e la pruova che così sia è che li abitatori de’ paesi, che li stanno per ponente, veggono i razzi del sole, che allumina insino alla quarta parte della maggior notte parte della sua cima, e ’l simile fa a quelli paesi, che li stanno per oriente.

QUALITÀ E QUANTITÀ DEL MONTE TAURO.

L’ombra di questo giogo del Tauro è di tanta altura, che quando di mezzo Giugno il sole è a mezzogiorno, la sua ombra s’astende insino al principio della Sarmazia [La regione che si estende all’E., dal Tanai sino al mar Caspio], che son giornate 12, e a mezzo Dicembre s’astende insino ai monti Iperborei, che è viaggio d’un mese inverso tramontana; e sempre la sua parte opposita al vento che soffia è piena di nuvoli e nebbie, perchè il vento, che s’apre nella percussione del sasso, [330] dopo esso sasso si viene a richiudere, e in tal modo porta con seco i nuvoli da ogni parte e lasciali nella lor percussione, e sempre è priva di percussione di saette per la gran moltitudine di nugoli, che lì son ricettati, onde il sasso è tutto fracassato e pien di gran ruine.

Questa nelle sue radici è abitata da ricchissimi popoli, ed è piena di bellissime fonti e fiumi e fertile e abbondante d’ogni bene, e massime nelle parti che riguardano a mezzogiorno; ma quando se n’è montata circa a 3 miglia, si comincia a trovare le selve de’ grandi abeti, pini, faggi e altri simili alberi; dopo questi per ispazio di altre 3 miglia, si truova praterie e grandissime pasture; e tutto il resto, insino al nascimento del monte Tauro, sono nevi eterne, che mai per alcun tempo si partono, che s’astendono all’altezza di circa 14 miglia in tutto. Da questo nascimento del Tauro, insino all’altezza d’un miglio non passano mai i nuvoli, chè qui abbiamo 15 miglia, che sono circa a 5 miglia d’altezza per linia retta, e altrettanto o circa, troviamo essere la cima delli corni del Tauro, ne’ quali, dal mezzo in su, si comincia a trovare aria, che riscalda, e non vi si sente [331] soffiamenti di venti, ma nessuna cosa ci può troppo vivere; quivi non nasce cosa alcuna, salvo alcuni uccelli rapaci, che covano nell’alte fessure del Tauro, e discendono poi sotto i nuvoli a fare le lor prede sopra i monti erbosi. — Questo è tutto sasso semplice, cioè da’ nuvoli in su, ed è sasso candidissimo, e in sulla alta cima non si po’ andare per l’aspra e pericolosa sua salita.

LETTERA III.

Essendomi io più volte con lettere rallegrato teco della tua prospera fortuna, al presente so che, come amico, ti contristerai con meco del misero stato, nel quale mi trovo, e questo è che ne’ giorni passati sono stato in tanti affanni, paure, pericoli e danno, insieme con questi miseri paesani, che avevamo d’avere invidia ai morti: e certo io non credo, che, poichè gli elementi con lor separazione disfeciono il gran Caos, che essi riunissino lor forza, anzi rabbia, a fare tanto nocimento alli omini, quanto al presente da noi s’è veduto e provato; in modo ch’io non posso imaginare che cosa si possa più accrescere a tanto male, il quale noi provammo in spazio di dieci ore.

[332]

In prima fummo assaliti e combattuti dall’impeto e furore de’ venti, e a questo s’aggiunsero le ruine delli gran monti di neve, i quali hanno ripieno tutte queste valli e conquassato gran parte della nostra città. E, non si contentando di questo, la fortuna, con sùbiti diluvi d’acque, ebbe a sommergere tutta la parte bassa di questa città; oltre di questo s’aggiunse una sùbita pioggia, anzi ruinosa tempesta piena d’acqua, sabbia, fango e pietre, insieme avviluppate con radici, sterpi e ciocchi di varie piante, e ogni cosa scorrendo per l’aria, discendea sopra di noi; e in ultimo uno incendio di fuoco parea condotto non che da’ venti, ma da diecimila diavoli, che ’l portassino, il quale ha abbruciato e disfatto tutto questo paese, e ancora non vi è cessato.

E que’ pochi, che siamo restati, siamo rimasti con tanto sbigottimento e tanta paura che appena, come balordi, abbiamo ardire di parlare l’uno coll’altro. Avendo abbandonato ogni nostra cura, ci stiamo insieme uniti in certe ruine di chiese, insieme misti maschi e femmine, piccoli e grandi, a modo di torme di capre. I vicini per pietà ci hanno soccorso di vettovaglie, i quali eran prima nostri nimici, e se non fusse [333] soccorso di vettovaglia, tutti saremmo morti di fame.

Ora vedi come ci troviamo! E tutti questi mali son niente a comparazione di quelli, che in breve tempo ne son promessi.

So che, come amico, ti contristerai del mio male, come già, con lettere, ti mostrai con effetto rallegrarmi del tuo bene.

FRAMMENTO.

Vedevasi gente, che con gran sollecitudine apparecchiavan vettovaglia sopra diverse sorta di navili, fatti brevissimi per la necessità.

Li lustri dell’onde non si dimostravano in que’ luoghi, dove le tenebrose pioggia colli lor nuvoli refrettevano.

Ma dove le vampe generate dalle celesti saette refrettevano, si vedeva tanti lustri fatti da’ simulacri de’ lor vampi, quant’eran l’onde che a li occhi de’ circustanti potean refrettere.

Tanto crescevano il numero de’ simulacri fatti da vampi delle saette sopra l’onde dell’acqua, quanto cresceva la distanzia delli occhi lor risguardatori, — com’è provato nella descrizione dello splendore della luna.

[334]

E così diminuiva tal numero di simulacri, quanto più si avvicinavano agli occhi che li vedeano, — com’è provato nella definizione dello splendore della luna, e del nostro orizzonte marittimo, quando il sole vi refrette co’ sua razzi, e che l’occhio che riceve tal refressione sia lontano dal predetto mare.

[335]

LE FIGURE.

I. — LA PITTURA ESPRESSIVA.

La pittura, over le figure dipinte, debbono essere fatte in modo tale, che i riguardatori d’esse possano con facilità conoscere, mediante le loro attitudini, il concetto dell’animo loro. E se tu hai a fare parlare un omo dabbene, fare che li atti sua sieno compagni delle bone parole; e similmente se tu hai a figurare uno omo bestiale, fallo co’ movimenti fieri, gittando le braccia contro all’auditore, e la testa col petto, sportato fori de’ piedi, accompagnino le mani del parlatore: a similitudine del muto che, vedendo due parlatori, benchè esso sia privato dell’audito, niente di meno, mediante li effetti e li atti d’essi parlatori, lui comprende il tema della loro disputa.

[336]

Io vidi già in Firenze uno sordo accidentale, il quale se tu li parlavi forte, lui non ti intendea, e parlando piano, sanza suono di voce, lui t’intendea solo per lo menar delle labbra. Or mi potresti dir: — non mena le labbra uno, che parla forte, come piano? e menandole l’uno come l’altro, non sarà inteso l’altro come l’uno? — A questa parte io lascio dare la sentenza alla sperienza: fa parlare uno piano e poi forte, e pon mente le labbra.

II. — AVVERTIMENTO AL PITTORE.

Poni mente per le strade, sul fare della sera, i volti d’omini e donne, quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede in loro!

III. — LA PITTURA DEVE MOSTRARE LA PASSIONE DELLA FIGURA DIPINTA.

Il bono pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l’omo e il concetto della mente sua. Il primo è facile, il secondo difficile, perchè s’ha a figurare con gesti e movimenti delle membra, e questo è da essere imparato dalli muti, che meglio ’l fanno, che alcun’altra sorte di omini.

[337]

IV. — COME IL MUTO È MAESTRO DEL PITTORE.

Le figure delli omini abbiano atti proprî alla loro operazione in modo che, vedendoli, tu intendi quello che per loro si pensa o dice; li quali saranno bene imparati da ch’imiterà li moti delli muti, li quali parlano con movimenti delle mani e degli occhi e ciglia e di tutta la persona, nel voler esprimere il concetto dell’animo loro.

E non ti ridere di me, perchè io ti propongo un precettore sanza lingua, il quale t’abbia a insegnare quell’arte, che lui non sa fare, perchè meglio t’insegnerà co’ fatti, che tutti li altri con le parole. E non sprezzare tal consiglio, perchè loro sono li maestri de’ movimenti, e intendono da lontano di quel che uno parla, quando egli accomoda li moti delle mani con le parole.

V. — IL PREGIO DELLA PITTURA STA NELLA RISPONDENZA DEL SEGNO AL SIGNIFICATO.

Farai le figure in tale atto, il quale sia soffiziente a dimostrare quel che la figura ha nell’animo, altrimenti la tua arte non fia laudabile.

[338]

VI. — SEGUE.

Come la figura non fia laudabile se in quella non apparisce atto, ch’esprima la passione dell’anima.

Quella figura è più laudabile, che con l’atto meglio esprime la passione del suo animo.

VII. — VARIETÀ INFINITA NELL’ESPRESSIONE DEI SENTIMENTI.

Tanti son varî li movimenti delli omini, quanto sono le varietà delli accidenti, che discorrono per le loro menti; e ciascuno accidente in sè move più o meno essi uomini, secondo che saranno di maggiore o di minore potenza e secondo l’età, perch’altro moto farà, sopra un medesimo caso, un giovane ch’un vecchio.

VIII. — LE ETÀ DELL’UOMO.

Come si deono figurare l’età dell’omo, cioè: infanzia, puerizia, adolescenza, gioventù, vecchiezza, decrepitudine.

Come i vecchi devono essere fatti con pigri e lenti movimenti, e gambe piegate ne le ginocchia, quando stanno fermi, e pie’ e pari, distanti l’uno dall’altro, schiene declinanti [339] in basso, la testa innanzi inclinata, e le braccia non troppo distese.

Come le donne si deono figurare con atti vergognosi, gambe insieme strette, braccia raccolte insieme, teste basse e piegate in traverso.

Come le vecchie si debbon figurare ardite e pronte a rabbiosi movimenti, a uso di furie infernali, e i movimenti deono apparire più pronti nelle braccia e teste, che nelle gambe.

I putti piccioli con atti pronti e storti, quando seggano, e, nello stare ritti, atti timidi e paurosi.

IX. — DEL FIGURARE UNO CHE PARLI INFRA PIÙ PERSONE.

Usera’ fare quello, che tu vuoi che infra molte persone parli, di considerare la materia di che lui ha a trattare, e d’accomodare ivi li atti appartenenti a essa materia: cioè se l’è materia persuasiva, che li atti siano al proposito, se l’è materia dichiarativa per diverse ragioni, che quello che dice pigli colle sue due dita della mano destra uno dito de la mano sinistra, avendone serrate le due minori, e col viso rivolto verso il popolo, con la bocca alquanto aperta, che paia che parli; e, so lui sedeva, che paia che si [340] sollevi alquanto ritto e innanzi con la testa; e se lo fai in piè fallo alquanto chinarsi col petto e la testa inverso il popolo.

Il quale figurerai lì tacito e attento, tutti riguardare l’oratore in volto con atti ammirativi, e fare le bocche d’alcuno vecchio, per maraviglia delle audite sentenze, tenere la bocca con le sua streme basi, tirarsi dirieto molte pieghe de le guancie, e con le ciglia alte ne le giunture, le quali creino molte pieghe per la fronte; alcuni sedenti colle dita della mano insieme tessute tenervi dentro lo stanco ginocchio; altri con l’uno ginocchio sopra l’altro, sul quale tenga la man, che dentro a sè riceva il gomito, del quale la sua mano vada a sostenere il mento barbuto d’alcuno chinato vecchio.

X. — APPUNTI SULLA COMPOSIZIONE DEL CENACOLO.[149]

Uno, che beveva, lascia la zaina [la tazza] nel suo sito, e volge la testa inverso il proponitore.

Un altro tesse le dita delle sue mani insieme, e con rigide ciglia si volta al compagno; [341] l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di quelle, e alza la spalla inverso li orecchi, e fa la bocca della maraviglia.

Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui, e gli porge li orecchi, tenendo un coltello nell’una mano e nell’altra il pane, mezzo diviso da tal coltello. L’altro, nel voltarsi, tenendo un coltello in mano, versa con tal mano una zaina sopra della tavola.

L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda, l’altro soffia nel boccone, l’altro si china per vedere il proponitore, e fassi ombra colla mano alli occhi, l’altro si tira indirieto a quel che si china, e vede il proponitore infra ’l muro e ’l chinato.

XI. — COME SI DEVE FARE UNA FIGURA IRATA.

Alla figura irata farai tenere uno per li capegli, e ’l capo storto a terra, e con uno de’ ginocchi sul costato, e col braccio destro levare il pugno in alto: questo abbia li capegli elevati, le ciglie basse e strette, i denti stretti, e i due stremi d’accanto della bocca arcati; il collo grosso e dinanzi, per lo chinarsi al nimico, sia pieno di grinze.

[342]

XII. — COME SI FIGURA UNO DISPERATO.

Al disperato farai darsi d’un coltello, e colle mani aversi stracciato i vestimenti, e sia una d’esse mani in opera a stracciarsi la ferita; e farailo co’ piè distanti e le gambe alquanto piegate e la persona similmente inverso terra, con capegli stracciati e sparsi.

UN GIGANTE FANTASTICO.[150]

LETTERA I.

La nera faccia, sul primo oggetto [incontro] è molto orribile e spaventosa a riguardare, e massime l’ingrottati e rossi occhi, posti sotto le paurose e scure ciglia, da fare rannuvolare il tempo e tremare la terra.

E, credimi, che non è sì fiero omo che, dove voltava li infocati occhi, che volontieri non mettesse ali per fuggire, chè Lucifero infernale paría volto angelico a comparazione di quello. Il naso arricciato, con l’ampie nari, de’ quali uscivan molte e grandi [343] setole, sotto le quali era l’arricciata bocca, colle grosse labbra, da le stremità de’ quali era pelo a uso delle gatte e denti gialli. Avanza sopra i corpi de li omini a cavallo dal dosso de’ piedi in sù.

E rincrescendole il molto (pazientare), volta l’ira in furore, cominciò co’ piè, dimenati da la furia delle possenti gambe, a entrare fra la turba, e con calci gettava li omini per l’aria, i quali cadeano non altramente sopra gli altri omini, come se stata fussino una spessa grandine. E molti furon quelli, che, morendo, dettò morte; e questa crudeltà durò, finchè la polvere mossa da’ gran piedi, levata nell’aria, costrinse questa furia infernale a ritirarsi indirieto. E noi seguitammo la fuga.

Oh! quanti varî assalimenti furono usati contro a questa indiavolata, a la quale ogni offesa era niente! Oh! misere genti, a voi non vale le inespugnabili fortezze, a voi non l’alte mura de la città, a voi non l’essere in moltitudine, non le case o palazzi, non v’è restato se non le piccole buche e cave sotterranee, a modo di granchi o grilli o simili animali: trovate salute e vostro scampo!

Oh quante infelici madri e padri furono [344] private de’ lor figlioli! Oh quante misere femmine private de la lor compagnia! Certo certo, caro mio Benedetto, io non credo che, poi che ’l mondo fu creato, fusse mai visto un lamento, un pianto pubblico esser fatto con tanto terrore.

Certo, in questo caso la spezie umana ha da invidiare ogni altra generazione d’animali: imperocchè se l’aquila vince per potenza li altri uccelli, il meno non sono vinti per velocità di volo, onde le rondini, colla lor prestezza, scampano dalla rapina del merlo; i delfini con lor veloce fuga scampano da la rapina de le balene e de’ gran capidogli; ma, noi miseri!, non ci vale alcuna fuga, imperocchè questa, con lento passo, vince di gran lunga il corso d’ogni veloce corsiero. Non so che mi dire o che mi fare, e’ mi pare tuttavia a notare a capo chino per la gran gola, e rimanere con confusa morte sepolto nel gran ventre.

LETTERA II. Caro Benedetto de’ Pertarti.

Caduto il fiero gigante, per la cagione della insanguinata e fangosa terra, parve che cadesse una montagna, onde la campagna, [345] squassata di terremoto, è spavento a Plutone infernale. E, per la gran percossa, ristette sulla piana terra alquanto stordito, e sùbito il popolo, credendo fusse morto di qualche saetta — tornata la gran turba — a guisa di formiche, che scorrono a furia, correndo per il corpo del caduto robore — così questi scorrendo per l’ampie membra, laceravanle con spesse ferite.

Onde risentito il gigante e sentendosi quasi coperto dalla moltitudine, sùbito sentesi cuocere per le punture — mise un mugghio, che parve fusse uno spaventoso tuono, e posto le sue mani in terra e levato il pauroso volto, e postosi una delle mani in capo trovosselo pieno d’uomini appiccati a’ capegli a similitudine de’ minuti animali, che fra quegli sogliono nascere; onde, scuotendo il capo, gli omini lancia non altramente per l’aria, che si faccia la grandine, quando va con furor di venti, e trovossi molti di questi uomini esser morti, da quegli, che gli stavano sopra ritti, coi piedi calpestando. — E tenendosi a’ capegli e ingegnandosi nascondere fra quegli, facevano a similitudine de’ marinai, quando è fortuna, che corrono su per le corde, per abbassarle a poco vento. —

[346]

FRAMMENTO.

Nuove delle cose di Levante? Sappi come nel mese di Giugno è apparuto un gigante che vien dalla deserta Libia:.... a similitudine delle formiche furiando.... su per l’arbore abbattuto dalla scure del rigido villano.

Questo gigante era nato nel Mont’Atalante, ed era un eroe, e ebbe a contrastare cogli Egizî e Arabi, Medi e Persi, viveva in mare delle balene, de’ gran capidogli e de’ navilî.

Marte temendo della vita, s’era fuggito sotto la (sedia) di Giove....

E per la gran caduta parve la provincia tutta tremasse.

[347]

LE PROFEZIE E LE FACEZIE.

[349]

LE PROFEZIE DEGLI ANIMALI RAZIONALI.

I. — PROFEZIA.

Vedrassi la specie leonina colle unghiate branche aprire la terra, e nelle fatte spelonche seppellire sè insieme colli altri animali a sè sottoposti.

Usciranno dalla terra animali vestiti di tenebre, i quali, con maravigliosi assalti, assaliranno l’umana generazione, e quella da feroci morsi fia, con confusione di sangue, da essi divorata.

Ancora, scorrerà per l’aria la nefanda specie volatile, la quale assalirà li omini e li animali, e di quelli si ciberanno con gran gridore: empieranno i loro ventri di vermiglio sangue.

Vedrassi il sangue uscire dalle stracciate carni, rigare le superfiziali parti delli omini.

[350]

Verrà alli omini tal crudele malattia, che colle proprie unghie si stracceranno le loro carni — sarà la rogna.

Vedrassi le piante rimanere sanza foglie, e i fiumi fermare i loro corsi.

L’acqua del mare si leverà sopra l’alte cime de’ monti, verso il cielo, e ricaderà sopra alle abitazioni delli omini — cioè per nuvoli.

Vederà i maggiori alberi delle selve essere portati dal furor de’ venti dall’Oriente all’Occidente — cioè per mare.

Li omini getteranno via le proprie vettovaglie — cioè seminando.

II. — DE’ FANCIULLI CHE STANNO LEGATI NELLE FASCIE.

O città marine! io veggo in voi i vostri cittadini, così femmine come maschi, essere istrettamente da forti legami, colle braccia e gambe, esser legati da gente, che non intenderanno i nostri linguaggi; e sol vi potrete isfogare li vostri dolori e perduta libertà mediante i lagrimosi pianti e li sospiri e lamentazione in fra voi medesimi, chè chi vi lega non v’intenderà, nè voi loro intenderete.

[351]

III. — DE’ PUTTI CHE TETTANO.

Molti Franceschi, Domenichi e Benedetti fingeranno quel che da altri altre volte vicinamente è stato mangiato, che staranno molti mesi avanti che possano parlare.

IV. — IL DORMIRE SOPRA LE PIUME DELL’UCCELLI.

Molta turba fia quella che, dimenticato loro essere e nome, staran come morto sopra lo spoglie delli altri morti.

V. — DELLO SCRIVER LETTERE DA UN PAESE A UN ALTRO.

Parleransi li omini di remotissimi paesi l’uno all’altro, e risponderansi.

VI. — DELLE PUTTE MARITATE.

Vedrassi ai padri donare le lor figliole alla lussuria delli omini, e premiare, e abbandonare ogni passata guardia — quando si maritano le putte.

VII. — DELLE DOTE DELLE FANCIULLE.

E dove prima la gioventù femminina non si potea difendere dalla lussuria e rapina da’ maschi, nè per guardie di parenti, nè fortezze [352] di mura; verrà tempo che bisognerà, che padre e parenti d’esse fanciulle le paghino di gran prezzo chi voglia dormire con loro, ancorachè esse sien ricche, nobili e bellissime.

Certo e’ par qui che la natura voglia spegnere la umana specie, come cosa inutile al mondo e guastatrice di tutte le cose create.

VIII. — DELLO SPEGNERE IL LUME A CHI VA AL LETTO.

Molti, per mandare fòri il fiato con troppa prestezza, perderanno il vedere e in breve tutti i sentimenti.

IX. — DEL SOGNARE.

Andranno li omini, e non si moveranno; parleranno con chi non si trova; sentiranno chi non parla.

X. — ANCORA DEL SOGNARE.

Alli omini parrà vedere nel cielo nove ruine; parrà in quello levarsi a volo, e da quello fuggire con paura le fiamme, che di lui discendano; sentiran parlare li animali, di qualunque sorta, il linguaggio umano; scorreranno immediate colla lor persona in diverse parti del mondo, sanza moto; vedranno [353] nelle tenebre grandissimi splendori. — Oh! maraviglia della umana spezie! Qual frenesia t’ha sì condotto? Parlerai cogli animali di qualunque spezie, e quelli con teco in linguaggio umano. Vedratti cadere di grandi alture, sanza tuo danno. I torrenti t’accompagneranno.

XI. — DELL’OMBRA CHE SI MOVE COLL’UOMO.

Vedrannosi forme e figure d’uomini e d’animali, che seguiranno essi animali o omini, dovunque fuggiranno: e tal fia il moto di lui qual è dell’altro, ma parrà cosa mirabile delle varie grandezze in che essi si trasmutano.

XII. — DELL’OMBRA CHE FA L’OMO DI NOTTE COL LUME.

Appariranno grandissime figure in forma umana, le quali quanto più le ti farai vicino, più diminuiranno la loro immensa magnitudine.

XIII. — DELL’OMBRA DEL SOLE E DELLO SPECCHIARSI NELL’ACQUA IN UN MEDESIMO TEMPO.

Vedrassi molte volte l’uno omo diventare tre, e tutti lo seguono: e spesso l’uno, il più certo, l’abbandona.

[354]

XIV. — DELLE LINGUE DE’ DIVERSI POPOLI.

Verrà a tale la generazione umana, che non si intenderà il parlare l’uno dell’altro — cioè un tedesco con un turco.

XV. — DE’ SOLDATI A CAVALLO.

Molti saran veduti portati da grandi animali, con veloce corso, alla ruina della sua vita e prestissima morte. Per l’aria e per la terra saranno veduti animali di diversi colori portarne con furore li omini alla distruzione di lor vita.

XVI. — DE’ SEGATORI.

Saranno molti, che si moveran l’uno contra dell’altro, tenendo in mano il tagliente ferro; questi non si faranno intra loro altro nocimento, che di stanchezza, perchè quanto l’uno si caccerà innanzi, tanto l’altro si ritirerà indirieto. Ma tristo chi si inframmetterà in mezzo, perchè al fine rimarrà tagliato in pezzi.

XVII. — DE’ ZAPPATORI.

Molti fien quegli, che scorticando la madre, le arrovescieranno la sua pelle addosso — i laboratori della terra.

[355]

XVIII. — DEL SEMINARE.

Allora la gran parte delli omini, che resteran vivi, gitteran fuori delle lor case le serbate vettovaglie in libera preda delli uccelli e animali terrestri, sanza curarsi d’esse in parte alcuna.

XIX. — LE TERRE LAVORATE.

Vedrassi voltare la terra sotto sopra, e risguardare l’oppositi emisferi, e scoprire le spelonche a ferocissimi animali.

XX. — I CALZOLARI.

Li omini vederanno con piacere disfare, e rompere l’opere loro.

XXI. — DEL SEGARE DELLE ERBE.

Spegneransi innumerabili vite, e farassi sopra la terra innumerabili buche.

XXII. — DEL GRANO E ALTRE SEMENZE.

Getteranno li omini fori delle lor proprie case quelle vettovaglie, le quali eran dedicate a sostentar la lor vita.

[356]

XXIII. — DEL BATTERE IL GRANO.

Li omini batteranno aspramente chi fia causa di lor vita — batteranno il grano.

XXIV. — DE’ GIOCATORI.

Le pelli delli animali removeranno li omini, con gran gridori e bestemmie, dal lor silenzio — le balle da giuocare.

XXV. — DEL SUONO DELLA VITA.

Il vento, passato per le pelli delli animali, farà saltare li omini — cioè la piva, che fa lo saltare.

XXVI. — DE’ DADI.

Vedrannosi l’ossa de’ morti, con veloce moto, trattare la fortuna del suo motore — i dadi.

XXVII. — DE’ BATTUTI E SCOREGGIATI.

Li omini si nasconderanno sotto le scorze delle scorticate erbe, e, quivi gridando, si daran martiri, con battimenti di membra, a sè medesimi.

[357]

XXVIII. — LE LINGUE DE’ PORCI E VITELLI NELLE BUDELLE.

Oh! cosa spòrca, che si vedrà l’uno animale aver la lingua in culo all’altro.

XXIX. — DE’ VILLANI IN CAMICIA CHE LAVORANO.

Verranno tenebre in mezzo l’Oriente, le quali con tanta oscurità tigneranno il cielo, che copre l’Italia.

XXX. — DE’ BARBIERI.

Tutti li omini si fuggiranno in Africa.

LE PROFEZIE DEGLI ANIMALI IRRAZIONALI.

I. — TIRAN LE BOMBARDE.

I buoi fieno in gran parte causa delle ruine delle città, e similemente cavalli e bufoli.

II. — DE’ BUOI CHE SI MANGIANO.

Mangeranno i padron delle possessioni i lor propri lavoratori.

[358]

III. — DELLI ASINI BASTONATI.

O natura trascurata, perchè ti se’ fatta parziale, facendoti ai tua figli d’alcuni pietosa e benigna madre, ad altri crudelissima e dispietata matrigna? Io veggo i tua figlioli esser dati in altrui servitù, sanza mai benefizio alcuno; e in loco di remunerazione de’ fatti benefizi, esser pagati di grandissimi martirî; e spender sempre la lor vita in benefizio del suo malefattore.

IV. — DELLI ASINI.

Le molte fatiche saran remunerate di fame, di sete, di disagio e di mazzate e di punture e bestemmie e gran villanie.

V. — DELLE CAMPANELLE DE’ MULI CHE STANNO PRESSO AI LORO ORECCHI.

Sentirassi in molte parte dell’Europa strumenti di varie magnitudini far diverse armonie, con grandissime fatiche di chi più presso l’ode.

VI. — DE’ MULI CHE PORTANO LE RICCHE SOME DELL’ARGENTO E ORO.

Molti tesori e gran ricchezze saranno appresso alli animali di quattro piedi, i quali le porteranno in diversi lochi.

[359]

VII. — DE’ CAPRETTI.

Ritornerà il tempo d’Erode, perchè l’innocenti figliuoli saranno tolti alle loro balie, e da crudeli omini, di gran ferite, moriranno.

VIII. — DELLE PECORE, VACCHE, CAPRE E SIMILI.

A innumerabili saran tolti i loro piccoli figlioli, e quelli scannati, e crudelissimamente squartati.

IX. — DELLE GATTE CHE MANGIANO I TOPI.

A voi, città dell’Africa, si vedrà i vostri nati essere squarciati nelle proprie case da crudelissimi e rapaci animali del paese vostro.

X. — LE API CHE FANNO LA CERA DELLE CANDELE.

Sarà annegato chi fa il lume al culto divino.

E quelli, che pascono l’erbe, faran della notte giorno — sevo.

XI. — DELL’API.

E a molti altri saran tolte le munizioni e lor cibi, e crudelmente, da gente sanza [360] ragione, saranno sommersi e annegati. O giustizia di Dio, perchè non ti desti a vedere così malmenare i tua creati!

XII. — DELLE FORMICHE.

Molti popoli fien quelli, che nasconderan sè e sua figlioli e vettovaglie dentro alle oscure caverne; e lì, nelli lochi tenebrosi, ciberan sè e sua famiglia per molti mesi, sanza altro lume accidentale o naturale.

XIII. — DELLE MOSCHE E ALTRI INSETTI.

Usciranno li omini dalle sepolture, convertiti in uccelli, e assaliranno li altri omini togliendo loro il cibo dalle proprie mani e mense — le mosche.

XIV. — DELLE CIVETTE O GUFI CON CHE S’UCCELLA ALLA PANIA.

Molti periranno di fracassamento di testa, e salteranno loro li occhi in gran parte della testa, per causa d’animali paurosi usciti dalle tenebre.

XV. — DELLE BISCIE PORTATE DALLE CICOGNE.

Vedrassi in grandissima altezza dell’aria lunghissimi serpi combattere colli uccelli.

[361]

XVI. — I PESCI LESSI.

Li animali d’acqua moriranno nelle bollenti acque.

XVII. — DE’ PESCI CHE SI MANGIANO NON NATI.

Infinita generazione si perderà per la morte delle grandi.

XVIII. — DE’ NICCHI E CHIOCCIOLE CHE SONO RIBUTTATE DAL MARE, CHE MARCISCONO DENTRO AI LOR GUSCI.

Oh! quanti fien quelli, che, poichè fien morti, marciranno nelle lor proprie case, empiendo le circostanti parti piene di fetulente [fetido] puzzo!

XIX. — DELL’OVA CHE SENDO MANGIATE NON POSSONO FARE I PULCINI.

Oh! quanti fien quegli, ai quali sarà proibito il nascere.

XX. — DELLE TACCOLE [specie di cornacchie] E STORNELLI.

Quelli che si fideranno abitare appresso di lui, che saranno gran turbe, questi tutti [362] moriranno di crudele morte, e si vedran i padri e le madri, d’insieme colle sue famiglie, esser da crudeli animali divorati e morti.

XXI. — DELLE API.

Vivono a popoli insieme, sono annegate per torle il miele; molti e grandissimi popoli saranno annegati nelle lor proprie case.

LE PROFEZIE DELLE PIANTE.

I. — DELLE NOCI E ULIVE E GHIANDE E CASTAGNE E SIMILI.

Molti figlioli da dispietate bastonate fien tolti delle proprie braccia delle lor madri, e gittati in terra, e poi lacerati.

II. — DE’ NOCI BATTUTI.

Quelli che avranno fatto meglio saranno più battuti, e i sua figliuoli tolti e scorticati, overo spogliati, e rotte e fracassate le sue ossa.

[363]

III. — L’ULIVE CHE CADONO DAGLI ULIVI DANDOCI OLIO CHE FA LUME.

Discenderà con furia diverso la terra chi ci darà nutrimento e luce.

IV. — DE’ LEGNAMI CHE BRUCIANO.

Li alberi e arbusti delle gran selve si convertiranno in cenere.

V. — DELLI ALBERI CHE NUTRISCONO I NESTI [i ramoscelli innestati sulla pianta].

Vedrannosi i padri e le madri fare molto più giovamento ai figliastri, che ai lor veri figlioli.

LE PROFEZIE DELLE COSE MATERIALI.

I.

I. — DELLA SOLA DELLE SCARPE CHE SON DI BUE.

E si vedrà in gran parte del paese camminare sopra le pelli delli grandi animali.

[364]

II. — DE’ CRIVELLI FATTI DI PELLE D’ANIMALI.

Vedrassi il cibo degli animali passar dentro alle lor pelli per ogni parte, salvo che per la bocca, e penetrare dall’opposta parte insino alla piana terra.

III. — DELLE LANTERNE.

Le feroci corna de’ possenti tori difenderanno la luce notturna dall’impetuoso furor de’ venti.

IV. — DELLE MEDESIME.

I buoi, colle lor corna, difenderanno il foco dalla sua morte — la lanterna.

V. — DELLE MANICHE DE’ COLTELLI FATTE DI CORNA DI CASTRONE.

Nelle corna delli animali si vedranno taglienti ferri, colli quali si toglie la vita a molti della loro specie.

VI. — DELLI ARCHI FATTI COLLI CORNI DE’ BUOI.

Molti fien quelli che, per causa delle bovine corna, moriranno di dolente morte.

[365]

VII. — DELLE PIUME NE’ LETTI.

Li animali volatili sosterran l’omini colle lor proprie penne.

VIII. — DEL PETTINE NEL TELAIO.

Molte volte la cosa disunita fia causa di grande unizione — cioè il pettine, fatto dalla disunita canna, unisce le fila nella seta.

IX. — IL FILATOIO DA SETA.

Sentirassi le dolenti grida, le alte strida, le rauche e infocate voci di quei che fieno con tormento spogliati, e al fine lasciati ignudi e sanza moto: e questo fia per causa del motore, che tutto volge.

X. — DEL LINO CHE FA LA CURA DELLE GENTI.

Saran reveriti e onorati, e con reverenzia e amore ascoltati li sua precetti, di chi prima fusse legato, sdraiato, o martirizzato da molte e diverse battiture.

XI. — DEL MANICO DELLA SCURE.

Le selve partoriranno figlioli, che fiano causa della lor morte — il manico della scure.

[366]

XII. — IL BASTONE CH’È MORTO.

Il movimento de’ morti farà fuggire, con dolore e pianto e con grida, molti vivi.

XIII. — DE’ LACCIUOLI E TRAPPOLE.

Molti morti si moveran con furia, e piglieranno, e legheranno i vivi, e servirannogli a’ lor nemici circa la lor morte e distruzione.

XIV. — DEL MOTO DELL’ACQUE CHE PORTANO I LEGNAMI CHE SON MORTI.

Corpi sanz’anima per sè medesimi si moveranno, e porteran con seco innumerabile generazione di morti, togliendo le ricchezze a’ circustanti viventi.

XV. — DEI CARRI E NAVI.

Vedrassi i morti portare i vivi — i carri e navi in diverse parti.

XVI. — DELLE CASSE CHE RISERBANO MOLTI TESORI.

Troverassi dentro a de’ noci e delli alberi e altre piante tesori grandissimi, i quali lì stanno occulti, e ben guardati.

[367]

XVII. — DEL NAVIGARE.

Vedrassi li alberi delle gran selve di Taurus e di Sinai, Apennino e Atlante scorrere per l’aria da oriente a occidente, da aquilone a meridie; e porteranno per l’aria gran moltitudine d’omini.

Oh! quanti vóti! oh! quanti morti! oh! quanta separazion d’amici! di parenti! e quanti fien quelli, che non rivedranno più le lor provincie, nè le lor patrie, e che moriranno sanza sepoltura, colle lor ossa sparse in diversi siti del mondo!

XVIII. — DEL NAVIGARE.

Saranno gran venti, per li quali le cose orientali si faranno occidentali; e quelle di mezzodì, in gran parte miste col corso de’ venti, seguirannolo per lunghi paesi.

XIX. — DE’ NAVILI CHE ANNEGANO.

Vedrannosi grandissimi corpi, sanza vita, portare con furia moltitudine d’omini alla distruzione di lor vita.

XX. — LI ANIMALI CHE VAN SOPRA LE TERRE ANDANDO IN ZOCCOLO.

Saran sì grandi i fanghi, che li omini andranno sopra l’alberi de’ loro paesi.

[368]

XXI. — DELLE BAGHE [sacchi, otri di pelle].

Le capre condurranno il vino alle città.

XXII. — DEL PARASOLE.

La percussione della spera del sole apparirà cosa che, chi la crederà coprire, sarà coperto da lei.

II.

I. — DE’ SASSI CONVERTITI IN CALCINA DE’ QUALI SI MURANO LE PRIGIONI.

Molti, che fieno disfatti dal fuoco innanzi a questo tempo, torranno la libertà a molti uomini.

II. — DELLO SPECCHIARE LE MURA DELLE CITTÀ NELL’ACQUA DE’ LOR FOSSI.

Vedrannosi l’alte mura delle gran città sotto sopra ne’ loro fossi.

III. — DEI FORNI.

A molti fia tolto il cibo di bocca — ai forni.

[369]

IV. — ANCORA DEI FORNI.

A quelli, che si imboccheranno per l’altrui mani, fia loro tolto il cibo di bocca — il forno.

V. — DEL METTERE E TRARRE IL PANE DALLA BOCCA DEL FORNO.

Per tutte le città e terre e castelli e case si vedrà, per desiderio di mangiare, trarre il proprio cibo di bocca l’uno all’altro, sanza poter fare difesa alcuna.

VI. — DELLE FORNACI DI MATTONI E CALCINA.

Al fine la terra si farà rossa per lo infocamento di molti giorni, e le pietre si convertiranno in cenere.

VII. — DELLE ARMI DA OFFENDERE.

L’umane opere fien cagione di lor morte — le spade e lance.

VIII. — IL FERRO USCITO DI SOTTO TERRA È MORTO, E SE NE FA L’ARME CHE HA MORTI TANTI UOMINI.

I morti usciranno di sotto terra, e coi loro fieri movimenti cacceranno dal mondo innumerabili creature umane.

[370]

IX. — DELLE SPADE E LANCE CHE PER SÈ MAI NUOCONO A NESSUNO.

Chi per sè è mansueto, e sanza alcuna offensione, si farà spaventevole e feroce mediante la trista compagnia, e torrà la vita crudelissimamente a molte genti; e più n’ucciderebbe, se corpi sanz’anima, e usciti dalle spelonche, non li difendessino — cioè le corazze di ferro.

X. — DELLE STELLE DELLI SPRONI.

Per causa delle stelle si vedranno li omini esser velocissimi, al pari di qualunque animale veloce.

XI. — DEL FUOCO DELLE BOMBARDE.

Oh! quanti grandi edifizî fieno ruinati, per causa del fuoco!

XII. — DELLE BOMBARDE CH’ESCAN DELLA FOSSA E DELLA FORMA.

Uscirà di sotto terra chi, con ispaventevoli grida, stordirà i circostanti vicini, e col suo fiato farà morire li omini, e ruinare le città e castella.

[371]

XIII. — LA PIETRA DEL FUCILE, CHE FA FOCO CHE CONSUMA TUTTE LE SOME DELLE LEGNE, CON CHE SI DISFAN LE SELVE; E CUOCERASSI CON ESSE LA CARNE DELLE BESTIE.

I gran sassi de’ monti getteran fuoco tale che bruceranno il legname di molte e grandissime selve, e molte fiere selvatiche e domestiche.

XIV. — DELL’ESCA.

Con pietra e con ferro si renderanno visibili le cose, che prima non si vedeano.

XV. — DE’ METALLI.

Uscirà dalle oscure e tenebrose spelonche chi metterà tutta l’umana specie in grandi affanni, pericoli e morte.

A molti seguaci lor, dopo molti affanni, darà diletto; ma chi non fia suo partigiano, morrà con stento e calamità.

Questo commetterà infiniti tradimenti; questo aumenterà e persuaderà li omini tutti alli assassinamenti e latrocini e le perfidie; questo darà sospetto ai sua partigiani; questo torrà lo stato alle città libere; questo torrà la vita a molti; questo travaglierà li [372] omini infra loro con molte arti, inganni e tradimenti.

O animal mostruoso! quanto sarebbe meglio agli omini che tu ti tornassi nell’inferno: per costui rimarran diserte le gran selve delle lor piante; per costui infiniti animali perderanno la vita.

XVI. — DE’ DANARI E ORO.

Uscirà dalle cavernose spelonche chi farà, con sudore, affaticare tutti i popoli del mondo, con grandi affanni, ansietà, sudori, per essere aiutato da lui.

LE PROFEZIE DELLE CERIMONIE.

I. — DE’ MORTI CHE SI VANNO A SOTTERRARE.

I semplici popoli porteran gran quantità di lumi per far lume ne’ viaggi a tutti quelli, che integralmente hanno perso la virtù visiva.

II. — DE LI UFFIZI, FUNERALI E PROCESSIONI E LUMI E CAMPANE E COMPAGNIA.

Agli omini saran fatti grandissimi onori e pompe, sanza lor saputa.

[373]

III. — DEL DÌ DE’ MORTI.

E quanti fien quelli che piangeranno i lor antenati morti, portando lumi a quelli.

IV. — DEL PIANTO FATTO IL VENERDÌ SANTO.

In tutte le parti d’Europa sarà pianto di gran popoli per la morte d’un solo omo, morto in Oriente.

V. — DE’ CRISTIANI.

Molti, che tengon la fede del figliolo, sol fan templi nel nome della madre.

VI. — DEL TURIBOLO DELL’INCENSO.

Quelli che, con vestimenti bianchi, andranno con arroganti movimenti minacciando con metallo e fuoco, chi non faceva lor detrimento alcuno.

VII. — DE’ PRETI CHE DICONO MESSA.

Molti fien quelli che, per esercitare la lor arte, si vestiran ricchissimamente: e questo parrà esser fatto secondo l’uso de’ grembiali.

VIII. — DE’ PRETI CHE TENGONO L’OSTIA IN CORPO.

Allora tutti quasi i tabernacoli, dove sta il corpus domini, si vedranno manifestamente [374] per sè stessi andare per diverse strade del mondo.

IX. — DE’ FRATI CONFESSORI.

Le sventurate donne, di propria volontà, andranno a palesare agli uomini tutte le loro lussurie e opere vergognose e segretissime.

X. — DELLE PITTURE DE’ SANTI ADORATE.

Parleranno li omini alli omini, che non sentiranno; avran gli occhi aperti, e non vedranno; parleranno a quelli, e non fia loro risposta; chiederan grazia a chi avrà orecchi, e non ode; faran lume a chi è orbo.

XI. — DELLE SCOLTURE.

Ohimè! che vedo il Salvatore di novo crocifisso.

XII. — DE’ CROCEFISSI VENDUTI.

Io vedo di nuovo venduto e crocifisso Cristo, e martirizzare i sua santi.

XIII. — DELLA RELIGIONE DE’ FRATI CHE VIVONO PER LI LORO SANTI, MORTI PER ASSAI TEMPO!

Quelli che saranno morti, dopo mille anni, fien quelli che daranno le spese a molti vivi.

[375]

XIV. — DEL VENDERE IL PARADISO.

Infinita moltitudine venderanno pubblicamente e pacificamente cose di grandissimo prezzo, sanza licenza del padrone di quelle, e che mai non furon loro, nè in lor potestà, e a questo non provvederà la giustizia umana.

XV. — DE’ FRATI CHE SPENDENDO PAROLE RICEVONO DI GRAN RICCHEZZE, E DANNO IL PARADISO.

Le invisibili monete faran trionfare molti spenditori di quelle.

XVI. — DELLE CHIESE E ABITAZION DE’ FRATI.

Assai saranno, che lascieranno li esercizî e le fatiche e povertà di vita e di roba, e andranno abitare nelle ricchezze e trionfanti edifizî, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico a Dio.

[376]

LE PROFEZIE DEI COSTUMI.

I. — DELLO SGOMBERARE L’OGNISSANTI.

Molti abbandoneranno le proprie abitazioni, e porteran seco i sua valsenti [le loro ricchezze], e andranno abitare in altri paesi.

II. — DELLI OMINI CHE DORMAN NELL’ASSE D’ALBERO.

Li omini dormiranno, e mangeranno, e abiteranno infra li alberi, nati nelle selve e campagne.

III. — DEL BATTERE IL LETTO PER RIFARLO.

Verranno li omini a tanta ingratitudine che, chi darà loro albergo, sanza alcun prezzo, sarà carico di bastonate, in modo che gran parte delle interiora si spigneranno dal loco loro, e s’andranno rivoltanto pel suo corpo.

IV. — I MEDICI CHE VIVONO DE’ MALATI.

Verranno li omini in tanta viltà, che avran di grazia che altri trionfino sopra i [377] loro mali, ovvero della perduta lor vera ricchezza — cioè la sanità.

V. — DEL COMUNE.

Un meschino sarà soiato [adulato beffardamente] e essi soiatori [adulatori] sempre fien sua ingannatori e rubatori, e assassini d’esso meschino.

VI. — PROFEZIA.

Porterassi neve distante no’ lochi caldi, tolta dall’alte cime de’ monti, e si lascierà cadere nelle feste, alle piazze, nel tempo dell’estate.

LE PROFEZIE DE’ CASI CHE NON POSSONO STARE IN NATURA.

I. — DELLA FOSSA.

Staran molti occupati in esercizio a levare di quella cosa, che tanto crescerà, quanto se ne levò.

II. — DEL PESO POSTO SUL PIUMACCIO.

E a molti corpi nel vedere da lor levar la testa, si vedrà manifestamente crescere, [378] e, rendendo loro la levata testa, immediatamente diminuiscono la grandezza.

III. — DEL PIGLIARE DE’ PIDOCCHI.

E’ saran molti cacciatori d’animali che, quanto più ne piglieranno, manco n’avranno, e così, di converso, più n’avrà quanto men ne piglieranno.

IV. — DELL’ATTIGNERE L’ACQUA CON DUE SECCHIE A UNA SOLA CORDA.

E rimarranno occupati molti che, quanto più tireranno in giù la cosa, essa più se ne fuggirà in contrario moto.

LE PROFEZIE DELLE COSE FILOSOFICHE.

I. — DELL’AVARO.

Molti fieno quelli che, con ogni studio e sollecitudine, seguiranno con furia quella cosa, che sempre li ha spaventati, non conoscendo la sua malignità.

[379]

II. — DELLI UOMINI CHE QUANTO PIÙ INVECCHIANO PIÙ SI FANNO AVARI, CHE AVENDOSI A STAR POCO DOVREBBERO FARSI LIBERALI.

Vedransi quelli, che son giudicati di più sperienza e giudizio, quanto egli hanno men bisogno delle cose, con più avidità cercarle e ricercarle.

III. — DEL DESIDERIO DI RICCHEZZA.

Li omini perseguiranno quella cosa, della qual più temono, cioè saran miseri, per non venire in miseria.

IV. — DELLE COSE CHE SI MANGIANO, CHE PRIMA S’UCCIDONO.

Sarà morto da loro il loro nutritore, e flagellato con spietata morte.

V. — DELLA BOCCA DELL’OMO CH’È SEPOLTURA.

Usciranno gran romori dalle sepolture di quelli, che son finiti da cattiva e violenta morte.

VI. — DEL CIBO STATO ANIMATO.

Gran parte de’ corpi animati passerà pe’ corpi de gli altri animali, cioè le case disabitate [380] passeran in pezzi per le case abitate, dando a quelle un utile, e portando con seco i sua danni: quest’è, cioè, la vita dell’omo si fa delle cose mangiate, le quali portan con se la parte dell’omo, ch’è morta.

VII. — DELLA VITA DELLI OMINI CHE OGNI ANNO SI MUTANO CARNE.

Li omini passeran morti per le sue proprie budelle.

VIII. — DELLA CRUDELTÀ DELL’OMO.

Vedrannosi animali sopra della terra, i quali sempre combatteranno infra loro e con danni grandissimi e, spesso, morte di ciascuna delle parti.

Questi non avran termine nelle lor malignità: per le fiere membra di questi verranno a terra gran parte delli alberi delle gran selve dell’universo; e poi ch’essi avranno pasciuto, il nutrimento de’ loro desideri sarà di dar morte e affanno e fatiche e guerre e furie a qualunque cosa animata. E per la loro smisurata superbia questi si vorranno levare inverso il cielo, ma la superchia gravezza delle lor membra gli porrà in basso. Nulla cosa resterà sopra la terra, o sotto la terra e l’acqua, che non sia perseguitata, [381] remossa o guasta; e quella dell’un paese remossa nell’altro; e ’l corpo di questi si farà sepoltura e transito di tutti i già da lor morti corpi animati.

O mondo! come è che non t’apri a precipitarlo nell’alte fessure de’ tua gran baratri e spelonche, e non mostrare più al cielo sì crudele e spietato mostro?

IX. — DELLA LETTURA DE’ BUONI LIBRI.

Felici fien quelli che presteranno orecchi alle parole de’ morti: — leggere le bone opere, e osservarle.

X. — DE’ LIBRI CHE INSEGNANO PRECETTI.

I corpi sanz’anima ci daranno, con lor sentenzie, precetti utili al ben morire.

XI. — DELLA FAMA.

Le penne leveranno li omini, siccome gli uccelli, inverso il cielo: — cioè per le lettere, fatte da esse penne.

XII. — DELLE PELLI DELLI ANIMALI CHE TENGONO IL SENSO DEL TATTO, CHE V’È SU LE SCRITTURE.

Quanto più si parlerà colle pelli, vesti del sentimento, tanto più s’acquisterà sapienza.

[382]

XIII. — DELLA STORIA.

Le cose disunite s’uniranno, e riceveranno in sè tal virtù, che renderanno la persa memoria alli omini: — cioè i papiri che son fatti di peli disuniti, e tengono memoria delle cose e fatti delli omini.

XIV. — IN OGNI PUNTO DELLA TERRA SI PUÒ FARE DIVISIONE DE’ DUE EMISPERI.

Li omini tutti scambieranno emisperio immediate.

XV. — IN OGNI PUNTO È DIVISIONE DA ORIENTE A OCCIDENTE.

Moverannosi tutti li animali da oriente a occidente, e così da aquilone a meriggio scambievolmente, e così di converso.

XVI. — DEGLI EMISPERI, CHE SONO INFINITI E DA INFINITE LINEE SON DIVISI, IN MODO CHE SEMPRE CIASCUNO OMO N’HA UNA D’ESSE LINEE INFRA L’UN DE’ PIEDI E L’ALTRO.

Parleransi, e toccheransi, e abbracceransi li omini, stanti dall’uno all’altro emisperio, intenderansi i loro linguaggi.

[383]

XVII. — DELLE NUVOLE.

Gran parte del mare si fuggirà inverso il cielo e per molto tempo non farà ritorno: — cioè pe’ nuvoli.

XVIII. — LA NEVE CHE FIOCCA, CHE È ACQUA.

L’acqua caduta dai nuvoli, ancora in moto sopra le spiagge de’ monti, si fermerà per lungo spazio di tempo sanza fare alcun moto, e questo accaderà in molte e diverse provincie.

XIX. — LA PALLA DELLA NEVE ROTOLANDO SOPRA LA NEVE.

Molti fien quelli, che cresceran nelle lor ruine.

XX. — DELLE PIOGGIE, CHE FANNO CHE I FIUMI INTORBIDATI PORTAN VIA LE TERRE.

Verrà diverso il cielo chi trasmuterà gran parte dell’Africa, che si mostra a esso cielo inverso l’Europa, e quelle di Europa inverso l’Africa; e quelle delle provincie Scitiche si mescoleranno insieme con gran rivoluzione.

[384]

XXI. — QUESTO SONO LI FIUMI, CHE PORTANO LE TERRE DA LORO LEVATE DALLE MONTAGNE, E LE SCARICANO AI MARINI LITI; E DOVE ENTRA LA TERRA SI FUGGE IL MARE.

Le grandissime montagne, ancorachè sieno remote da’ marini liti, scacceranno il mare dal suo sito.

XXII. — DELL’ACQUA, CHE CORRE TORBIDA E MISTA CON TERRA, E DELLA POLVERE E NEBBIA MISTA COLL’ARIA, E DEL FOCO MISTO COL SUO [Sott.: elemento] E ALTRI CON CIASCUNO.

Vedrassi tutti li elementi insieme misti con gran rivoluzione, trascorrere ora inverso il centro del mondo, ora inverso il cielo, e quando dalle parti meridionali scorrere con furia inverso il freddo settentrione, qualche volta dall’oriente inverso l’occidente, e così da questo in quell’altro emisperio.

XXIII. — IL VENTO D’ORIENTE CHE SCORRERÀ IN PONENTE.

Vedrannosi le parti orientali discorrere nell’occidentali, e le meridionali in settentrione, [385] avviluppandosi per l’universo con grande strepito e tremore o furore.

XXIV. — DELLA NOTTE CHE NON SI CONOSCE ALCUN COLORE.

Verrà a tanto che non si conoscerà differenza in fra’ colori, anzi si faran tutti di nera qualità.

XXV. — DEL FOCO.

Nascerà di piccolo principio chi si farà con prestezza grande; questo non stimerà alcuna creata cosa, anzi colla sua potenza quasi il tutto avrà in potenza di trasformare il suo essere in un altro.

XXVI. — LO SPECCHIO CAVO ACCENDE IL FOCO COL QUALE SI SCALDA IL FORNO, CHE HA IL FONDO, CHE STA SOTTO IL SUO CIELO.

I raggi solari accenderanno il foco in terra, col quale s’infocherà ciò ch’è sotto il cielo, e, ripercossi nel suo impedimento, ritorneranno in basso.

XXVII. — TRACCIA.

Restaci il moto, che separa il motore dal mobile.

[386]

XXVIII. — DEI PIANETI.

E molti terrestri e acquatici animali monteranno fra le stelle: — cioè pianeti.

XXIX. — DEL CONSIGLIO.

E colui che sarà più necessario a chi avrà bisogno di lui, sarà sconosciuto, cioè più sprezzato.

XXX. — DELLA PAURA DELLA POVERTÀ.

La cosa malvagia e spaventevole darà di sè tanto timore appresso a detti omini che come matti, credendo fuggirla, concorreranno con veloce moto alle sue smisurate forze.

XXXI. — DELLA BUGIA.

Tutte le cose, che nel verno fien nascoste sotto la neve, rimarranno scoperte e palesi nell’estate: — detta per la bugìa, che non può stare occulta.

[387]

LE FACEZIE.

I. — DI UN FRATE AD UN MERCANTE.

Usano i frati minori, a certi tempi, alcune loro quaresime, nelle quali essi non mangiano carne ne’ lor conventi; ma in viaggio, perchè essi vivono di limosine, hanno licenzia di mangiare ciò che è posto loro innanzi. Onde, abbattendosi, in detti viaggi, una coppia d’essi frati a un’osteria, in compagnia d’un certo mercantuolo, il quale, essendo a una medesima mensa, alla quale non fu portato, per la povertà dell’osteria, altro che un pollastro cotto; onde esso mercantuolo, vedendo questo essere poco per lui, si volse a essi frati, e disse: — se io ho ben di ricordo, voi non mangiate in tali dì ne’ vostri conventi d’alcuna maniera di carne. — Alle quali parole i frati furono costretti, per la lor regola, sanza altre cavillazioni, a dire ciò essere la verità: onde il mercantuolo [388] ebbe il suo desiderio; e così, si mangiò essa pollastra; e i frati feciono il meglio poterono.

Ora, dopo tale desinare, questi commensali si partirono tutti e tre di compagnia; e dopo alquanto di viaggio, trovato un fiume di bona larghezza e profondità, essendo tutti e tre a piedi, — i frati per povertà e l’altro per avarizia, — fu necessario, per l’uso della compagnia, che uno de’ frati, essendo discalzi, passasse sopra i sua omeri esso mercantuolo: onde datoli il frate a serbo i zoccoli, si caricò di tale omo.

Onde accadde che, trovandosi esso frate in mezzo del fiume, esso ancora si ricordò de la sua regola; e fermatosi, a uso di San Cristofano, alzò la testa inverso quello che l’aggravava, e disse: — dimmi un poco, hai tu nissun dinari addosso? — Ben sai, rispose questo, come credete voi che mia pari mercatante andasse altrementi attorno? — Ohimè! disse il frate, la nostra regola vieta, che noi non possiamo portare danari addosso; — e sùbito lo gettò nell’acqua. La qual cosa conosciuta dal mercatante, facetamente la già fatta ingiuria essere vendicata, con piacente riso, pacificamente, mezzo arrossito por vergogna, la vendetta sopportò.

[389]

II. — DI UN PITTORE AD UN PRETE.

Andando un prete per la sua parrocchia il sabato santo, dando, com’è usanza, l’acqua benedetta per le case, capitò nella stanza d’un pittore, dove spargendo essa acqua sopra alcuna sua pittura, esso pittore, voltosi indirieto, alquanto scrucciato, disse, perchè facesse tale spargimento sopra le sue pitture. Allora il prete disse essere così usanza, e ch’era suo debito il fare così, e che faceva bene, e chi fa bene debbe aspettare bene e meglio, che così promettea Dio, e che d’ogni bene, che si faceva in terra, se n’avrebbe di sopra per ogni un cento.

Allora il pittore, aspettato ch’elli uscisse fori, se li fece di sopra alla finestra, e gittò un gran secchione d’acqua addosso a esso prete, dicendo: — ecco che di sopra ti viene per ogni un cento, come tu dicesti che accaderebbe del bene, che mi facevi colla tua acqua santa, colla quale m’hai guasto mezzo le mie pitture. —

III. — MOTTO DI UN ARTIGIANO AD UN SIGNORE.

Uno artigiano, andando spesso a visitare uno signore, sanza altro proposito dimandare [390] al quale [senza che nulla gli occorresse da chiedergli], il signore domandò quello, che andava facendo. Questo disse, che veniva lì per avere de’ piaceri, che lui aver non potea; perocchè volentieri vedova omini più potenti di lui, come fanno i popolani, ma che ’l signore non potea vedere, se non omini di men possa di lui: per questo i signori mancano d’esso piacere.

IV. — BELLA RISPOSTA AD UN PITAGOREO.

Uno, volendo provare colla autorità di Pitagora, come altre volte lui era stato al mondo, e uno non li lasciava finire il suo ragionamento; allor costui disse a questo tale: — e per tale segnale, che io altre volte ci fussi stato, io mi ricordo che tu eri mulinaro. — Allora costui, sentendosi mordere colle parole, gli confermò essere vero, che per questo contrassegno lui si ricordava che questo tale era stato l’asino, che gli portava la farina.

V. — RISPOSTA DI UN PITTORE.

Fu dimandato un pittore perchè, facendo lui di figure sì belle che eran cose morte, per che causa esso avesse fatti i figlioli sì [391] brutti. Allora il pittore rispose, che le pitture le fece di dì e i figlioli di notte.

VI. — UN AMICO AD UN MALDICENTE.

Uno lasciò lo usare con uno suo amico, perchè quello spesso li diceva male delli amici sua. Il quale, lasciato l’amico, un dì, dolendosi collo amico, e dopo il molto dolersi, lo pregò che li dicesse quale fusse la cagione, che lo avesse fatto dimenticare tanta amicizia. Al quale esso rispose: — io non voglio più usare con teco per ch’io ti voglio bene, e non voglio che, dicendo tu male ad altri di me tuo amico, che altri abbiano come me a fare trista impressione di te, dicendo tu a quelli male di me tuo amico; onde non usando noi più insieme parrà che noi siamo fatti nimici, e per il dire tu male di me, com’è tua usanza, non sarai tanto da essere biasimato, come se noi usassimo insieme. —

VII. — DETTO DI UN INFERMO.

Sendo uno infermo in articulo di morte, esso sentì battere la porta, e domandato uno de’ sua servi chi era, che batteva l’uscio, [392] esso servo rispose esser una, che si chiamava madonna Bona. Allora l’infermo alzate le braccia ringraziò Dio con alta voce; poi disse ai servi che lasciassero venire presto questa, acciocchè potesse vedere una donna bona innanzi che esso morisse, imperocchè in sua vita mai ne vide nessuna.

VIII. — DETTO DI UN DORMIGLIONE.

Fu detto a uno che si levasse dal letto, perchè già era levato il sole, e lui rispose: — se io avessi a fare tanto viaggio e faccende quanto lui, ancora io sarei già levato, e però, avendo a fare sì poco cammino, ancora non mi voglio levare. —

IX. — ARGUZIA.

Uno vedendo una femmina parata a tener tavola in giostra, guardò il tavolaccio, e gridò vedendo la sua lancia: — ohimè! questo è troppo picciol lavorante a sì gran bottega! —

X. — RISPOSTA AD UN MOTTO.

Uno vede una grande spada allato a un altro, e dice: — o poverello! ell’è gran [393] tempo ch’io t’ho veduto legato a questa arme: perchè non ti disleghi, avendo le mani disciolte e possiedi libertà? — Al quale costui rispose: — questa è cosa non tua, anzi è vecchia. — Questi, sentendosi mordere, rispose: — io ti conosco sapere sì poche cose in questo mondo, ch’io credevo che ogni divulgata cosa a te fussi per nova. —

XI. — FACEZIA AD UN VANTATORE.

Uno disputando, e vantandosi di saper fare molti varî e belli giochi, un altro de’ circostanti disse: — io so fare uno gioco, il quale farà trarre le brache a chi a me parrà. — Il primo vantatore, trovandosi sanza brache: — che no, disse, che a me non le farai trarre! E vadane un paro di calze. — Il proponitore d’esso gioco, accettato lo ’nvito, improntò [si procacciò] più para di brache, e trassele nel volto al mettitore delle calze, e vinse il pegno.

XII. — RISPOSTA AD UN MOTTO.

Uno disse a un suo conoscente: — tu hai tutti li occhi trasmutati in istrano colore. — Quello li rispose intervenirli spesso: — ma [394] tu non ci hai posto cura. — E quando t’addivien questo? — Rispose l’altro: — ogni volta ch’e’ mia occhi veggono il tuo viso strano, per la violenza ricevuta da sì gran dispiacere, s’impallidiscono, e mutano in istrano colore. —

XIII. — LA STESSA.

Uno disse a un altro: — tu hai tutti li occhi mutati in istran colore. —

Quello li rispose: — egli è perchè i mia occhi veggono il tuo viso strano. —

XIV. — MOTTO.

Uno disse, che in suo paese nasceva le più strane cose del mondo. L’altro rispose: — tu che vi se’ nato, confermi ciò esser vero, per la stranezza della tua brutta presenza. —

XV. — FACEZIA DI UN PRETE.

Una lavava i panni, e pel freddo avea i piedi molto rossi; e passandole appresso uno prete, domandò, con ammirazione, donde tale rossezza derivassi; al quale la femmina subito rispose che tale effetto accadeva, perchè ella avea sotto il foco. Allora il prete mise mano a quello membro, che lo fece [395] essere più prete che monaca, e, a quella accostandosi, con dolce e sommessiva voce, pregò quella che ’n cortesia li dovessi un poco accendere quella candela.

XVI. — FACEZIA.

Uno, andando a Modana, ebbe a pagare 5 soldi di Lira di gabella della sua persona. Alla qual cosa cominciato a fare gran romore e ammirazione, attrasse a sè molti circostanti; i quali domandando donde veniva tanta maraviglia, ai quali Maso rispose: — oh! non mi debbo io maravigliare? conciossia che tutto un omo non paghi altro che 5 soldi di Lira, e a Firenze io, solo a metter dentro il c..., ebbi a pagare 10 ducati d’oro, e qui metto il c...., i c.... e tutto il resto per sì piccol dazio. Dio salvi e mantenga tal città, e chi la governa! —

XVII. — MOTTO ARGUTO.

Due camminando di notte per dubbiosa via, quello dinanzi fece grande strepito col culo; e disse l’altro compagno: — or veggo io ch’i’ son da te amato. — Come? disse l’altro. — Quel rispose: — tu mi porgi la coreggia, perch’io non caggia, nè mi perda da te. —

[396]

XVIII. — MOTTO DETTO DA UN GIOVANE A UN VECCHIO.

Dispregiando un vecchio pubblicamente un giovane, mostrando audacemente non temer quello, onde il giovane li rispose che la sua lunga età li faceva migliore scudo che la lingua o la forza.

XIX. — FACEZIA.

Perchè li Ungheri tengon la croce doppia.

[397]

NOTE.

1.  De illustratione urbis Florentiæ, Parigi, 1583, pag. 27.

2.  Arch. Storico Italiano. Firenze, 1672, serie III, vol. XVI, pag. 222.

3.  Le Vite (ed. Milanesi). Firenze. Sansoni, 1379, vol. IV, pag. 22.

4.  Uzielli, Ric. int. a L. d. V. Torino, Loescher, 1896, pag. 61.

5.  L. d. V., The literary works (ed. Richter). Vol. II, pag. 395-396.

6.  Pacioli, Divine proportione. Venezia, 1509, c. I v.

7.  Luzio, I precettori d’Isabella d’Este, Ancona, Morelli, 1887.

8.  Ricordi. Venezia, 1555, c. 51 v.

9.  Le Vite, vol. IV, pag. 18, 49.

10.  Anonimo, Breve vita. Arch. Storico Italiano, serie III, vol. XVI, pag. 226.

11.  Le Vite, vol. IV, pag. 50-51, 21.

12.  Libri, Histoire des sciences mathém. en Italie. Parigi, Renouard, 1840, vol. IV, pag. 17.

13.  Uzielli, Paolo dal Pozzo Toscanelli, Roma, Rac. Colomb., 1894 pag. 520.

14.  Le Vite, vol. IV, pag. 50-51.

15.  Vasari, Le Vite, vol. IV, pag. 46.

16.  Solmi, Studî sulla filosofia naturale di L. d. V. Modena, Vincenzi, 1898, pag. 57.

17.  Cfr. G, cop. r.: «Partissi il magnifico Giuliano de’ Medici a dì 9 di Gennaio 1515 in sull’aurora da Roma, per andare a sposare la moglie in Savoia, e in tal dì ci fu la morte del re di Francia.»

18.  Le Vite, vol. IV, pag. 47: «Lionardo intendendo ciò, partì ed andò in Francia.»

19.  Arch. Storico Italiano, serie III, vol. XVI, pag. 226.

20.  Uzielli, Ricerche intorno a L. d. V. Roma, Salviucci, 1884, pag. 459.

21.  Cfr. Atti della R. Accademia dei Lincei. Roma, 1876, serie II, vol. III, pag. 13.

22.  Bossi, Del Cenacolo di L. d. V. Milano, Stamperia Reale, 1810, pag. 19-22.

23.  Arch. Storico Italiano, serie III, vol. XVI, pag. 222.

24.  Le Vite, vol. IV, pag. 21, 40.

25.  Bandello, Novelle. Londra, Harding, 1740, vol. I, c. 363-364. Si ricordi come Matteo Bandello fosse ascritto al convento di Santa Maria delle Grazie. Cfr. Quetif et Echard, Script. Ord. Prædicat., vol. II, pag. 155.

26.  Le Vite, vol. IV, pag. 28-29.

27.  Du Fresne, Il trattato detta pittura di L. d. V. Parigi, 1651.

28.  Si riscontri la Tavola delle sigle.

29.  Si veda: Qui incomincia el Tesoro di Brunetto Latino di Firense, e parla del nascimento e della natura di tutte le cose. Treviso, 1474. Lib. IV, cap. 4. (Ed. di Venezia, 1841. Vol. I, pag. 202), dalla quale opera Leonardo attinge la materia di questa favola.

30.  La leggenda qui narrata da Leonardo non ha nessun fondamento storico, e si deve far risalire probabilmente al Tractato de le piu maravigliose cosse e piu notabile che si trovano in le parte del mondo, redute e collecte sotto brevità in el presente compendio dal strenuissimo cavalieri speron doro Johanne de Mandavilla. Milano, 1480. Folio g. 3 vº, opera che il Vinci stesso ricorda in una nota del Codice Atlantico: folio 207 rº. Per analoghe leggende si veda Prideaux, Life of Mahomet. Pag. 82 e seg.; A. D’Ancona, La leggenda di Maometto in Occidente. Giorn. Stor. d. Letteratura Italiana. Torino, 1897. Vol. XIII, pag. 238.

31.  Si veda: Fiore di virtù che tratta tutti i vitti humani, et come si deve acquistare la virtù. Venezia, 1474. Cap. I, pag. 3-4, libro [398] ricordato da Leonardo nel Codice Atlantico: folio 207 rº, e che è la fonte capitale di tutto il Bestiario del Vinci. Intorno a quest’ultimo si veda: A. Springer, Ueber den Physiologus des Leonardo da Vinci, in Berichte über die Verhandlung der k. sächs. Gesell. d. Wissen. zu Leipzig. Philolog.-hist. Classe. Leipzig, 1884. Fasc. 3-4; e Goldstaub und Wendriner, Ein tosco-venezianischer Bestiarius. Halle, 1892. Pag. 240-254; Anhang zu Kap. VI, Exkurs über den Bestiarius des Leonardo da Vinci, che riavvicina al testo del manoscritto H passi di Solino, di Alberto Magno, di Ugo da San Vittore, di Vincenzo di Beauvais, del Neckam.

32.  Fior di virtù, Roma, 1740. Cap. III, pag. 22-23: Del vizio dell’invidia appropriato al nibbio.

33.  Ivi, cap. IV, pag. 26: Dell’allegrezza appropriata al gallo.

34.  Ivi, cap. V, pag. 29: Del vizio della tristizia appropriato al corbo.

35.  Ivi, cap. VII, pag. 34: Della virtù della pace appropriata al castoro.

36.  Ivi, cap. VIII, pag. 37-38: Del vizio dell’ira appropriato all’orso.

37.  Ivi, cap. IX, pag. 43: Della virtù della misericordia, ed è appropriata a’ figliuoli dell’uccello ipega.

38.  Ivi, cap. XII, pag. 58: Del vizio dell’avarizia appropriato alla botta.

[399]

39.  Donde Leonardo abbia tratta questa allegoria non mi è stato dato di determinare.

40.  Fior di virtù, cap. X, pag. 47: Del vizio della crudeltà appropriato al basilisco.

41.  Ivi, cap. XI, pag. 50: Della virtù della liberalità appropriata all’aquila.

42.  Ivi, cap. XIII, pag. 62-63: Della correzione appropriata al lupo.

43.  Ivi, cap. XIV, pag. 66: Della lusinga appropriata alla sirena.

44.  Ivi, cap. XV, pag. 69-70: Della prudenza appropriata alla formica.

45.  Ivi, cap. XVI, pag. 76-77: Della pazzia appropriata al bue salvatico.

46.  Ivi, cap. XVII, pag. 79-80: Della giustizia appropriata al re delle api.

47.  Ivi, cap. XXI, pag. 98-99: Della verità appropriata alla pernice.

48.  Ivi, cap. XIX, pag. 91: Della lialtà appropriata alla grua.

49.  Ivi, cap. XX, pag. 95: Della falsità appropriata alla volpe.

50.  Ivi, cap. XXII, pag. 102: Della bugia appropriata alla topinara.

51.  Ivi, cap. XXIV, pag. 109: Del timore appropriato alla lepre.

52.  Ivi, cap. XXV, pag. 111: Della magnanimità appropriata al girifalco.

[400]

53.  Ivi, cap. XXVI, pag. 112-113: Della vanagloria appropriata allo pavone.

54.  Ivi, cap. XXVII, pag. 115-116: Della constanzia appropriata alla fenice.

55.  Ivi, cap. XXVIII, pag. 117-118: Della incostanzia appropriata alla rondine.

56.  Ivi, cap. XXIX, pag. 120-121: Della temperanza appropriata al cammello.

57.  Ivi, cap. XXX, pag. 125: Della intemperanza appropriata al liocorno.

58.  Ivi, cap. XXXI, pag. 128: Della umiltà appropriata allo agnello.

59.  Ivi, cap. XXXII, pag. 133: Della superbia appropriata al falcone.

60.  Ivi, cap. XXXIII, pag. 137: Dell’astinenza appropriata all’asino salvatico.

61.  Ivi, cap. XXXIV, pag. 139: Della gola appropriata all’avvoltoio.

62.  Ivi, cap. XXXV, pag. 141: Della castità appropriata alla tortora.

63.  Ivi, cap. XXXVI, pag. 146: Della lussuria appropriata al pipistrello.

64.  Ivi, cap. XXXVII, pag. 152-153: Della moderanza appropriata all’ermellino.

65.  Si veda: Cecco Asculano, Lacerba. Venezia, 1492. Lib. III, cap. III, folio 32 rº e vº: Aquila.

66.  Ivi, lib. III, cap. IV, folio 33 rº: De la natura de lumerpa.

[401]

67.  Ivi, lib. III, cap. V, folio 33 rº: De la natura de plicano.

68.  Ivi, lib. III, cap. VI, folio 33 vº: De quatro animali che vivono de quattro elementi et primo de salamandra.

69.  Ivi, lib. III, cap. VII, folio 33 vº: De cameleone.

70.  Ivi, lib. III, cap. VII: Alepo.

71.  Ivi, lib. III, cap. VIII: De la natura del struzo.

72.  Ivi, lib. III, cap. X, folio 34 vº: De la natura del cygno.

73.  Ivi, lib. III, cap. XI, folio 35 rº: De la natura de la cicogna.

74.  Ivi, lib. III, cap. XII, folio 35 rº e vº: De la natura de la cichada.

75.  Ivi, lib. III, cap. XXX, folio 40 vº: De la natura del basalisco.

76.  Ivi, lib. III, cap. XXXI, folio 40 vº e 41 rº: Del aspido. — Ivi, lib. III, cap. XXXII, folio 41 rº: Del dracone.

77.  Ivi, lib. III, cap. XXXIII, folio 41 vº: De la vipera.

78.  Ivi, lib. III, cap. XXXIV, folio 41 vº e 42 rº: Del scorpione.

79.  Ivi, lib. III, cap. XXXV, folio 42 rº: Del crocodilo.

80.  Ivi, lib. III, cap. XXXVI, folio 42 vº: Del botto.

[402]

81.  Questa allegoria sembra originale di Leonardo.

82.  Questa allegoria sembra originale di Leonardo.

83.  Si veda la Historia naturale di Caio Plinio Secondo tradocta di lingua latina in florentina per Cristoforo Landino. Venezia, 1476. Lib. VIII, cap. XVII e seg., opera che Leonardo ricorda, con la parola Plinio, nel Codice Atlantico: folio 207 rº; e nel Codice Trivulziano: folio 3 rº.

84.  Si veda C. Plinii Secundi Naturalis Historia (ed. Detlefsen), vol. I, Berlino, 1866; e per le discussioni, che si sono levate a proposito della diretta derivazione di questi passi da Plinio, si veda Goldstaub und Wendriner, Ein tosco-venezianischer Bestiarius, pag. 245-247.

85.  In Plinio non mi fu dato di riscontrare il testo di questo simbolo.

86.  C. Plinii Nat. hist., lib. VIII, cap. I, pag. 47; cap. IV, pag. 48; cap. V, pag. 49; cap. XII, pag. 53.

87.  Ivi, lib. VIII, cap. XII, pag. 53-54.

88.  Ivi, lib. VIII, cap. XIV, pag. 54 (36-37).

89.  Ivi, lib. VIII, cap. XIII, pag. 54 (37-38).

90.  Ivi, lib. VIII, cap. XV, pag. 54 (38-40).

91.  Ivi, lib. VIII, cap. XV, pag. 54-55 (40-41).

92.  Non mi è stato dato di precisare con esattezza la fonte di questo simbolo.

[403]

93.  Cfr. C. Plinii Nat. hist., lib. X, cap. LXXIII, pag. 1.

94.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

95.  Ivi, lib. VIII, cap. XV, pag. 55 (41-42).

96.  Ivi, lib. VIII, cap. XVI, pag. 55.

97.  Ivi, lib. VIII, cap. XVI, pag. 57 (52-53).

98.  Ivi, lib. VIII, cap. XVII, pag. 59.

99.  Ivi, lib. VIII, cap. XVIII, pag. 59-60 (67-69).

100.  Ivi, lib. VIII, cap. XVIII, pag. 59 (66-67). Si noti nel brano di Leonardo la confusione fra le parole tigre e pantera.

101.  Ivi, lib. VIII, cap. XXI, pag. 61 (77-78).

102.  Ivi, lib. VIII, cap. XXI, pag. 61-62 (78-79).

103.  Ivi, lib. VIII, cap. XXI, pag. 62 (79-80).

104.  Ivi, lib. VIII, cap. XXIII, pag. 63 (85-86).

105.  Ivi, lib. VIII, cap. XXIII, pag. 63(85-86).

106.  Ivi, lib. VIII, cap. XXIII, pag. 63 (85-86).

107.  Ivi, lib. VIII, cap. XXXIII, pag. 63 (86-88).

108.  Ivi, lib. VIII, cap. XXIV, pag. 63.

109.  Ivi, lib. VIII, cap. XXV, pag. 63-64.

110.  Ivi, lib. VIII, cap. XXV, pag. 64.

111.  Ivi, lib. VIII, cap. XXV, pag. 64-65.

112.  Ivi, lib. VIII. cap. XXVII, pag. 65.

[404]

113.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

114.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65 (97-98).

115.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

116.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

117.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65 (98-99).

118.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65 (99-100).

119.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65-66 (100-101).

120.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 66.

121.  Ivi, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 66 (101-102).

122.  La profonda osservazione, contenuta in questo passo, è stata suggerita a Leonardo dalle contraddizioni e incertezze, in cui s’era avvolta la meccanica presso gli antichi. La leva archimedea non essendo una verga solida, ma una linea geometrica, poteva fornire agli investigatori soltanto dei risultati matematici e astratti; più tardi gli antichi, incautamente, fusero e confusero i dati della aritmetica coi dati della esperienza, rendendo così più acuto quel contrasto fra l’ideale e il reale, che la scienza greco-romana non riuscì a comporre. Il Vinci, intuendo nettamente una scienza interprete e legislatrice della natura, attenua qui il proposito di voler correggere, con [405] critica investigazione, le cifre discordanti, offerte dagli antichi testi. — Si veda sulle caratteristiche dell’antica e della nuova scienza: Höffding, Geschichte der neueren Philosophie. Leipzig, 1895. Vol. I, pag. 84; 176-227. E su Leonardo: Dühring, Kritische Geschichte der allgemeinen Prinzipien der Mechanik. Leipzig, 1877. Pag. 12 e seg.

123.  Questo passo, o più esattamente il seguente, che vi è contenuto, e attinto al Valturio, De re militari libri XII ad Sigismundum Pandulfum Malatestam ........ edente Paulo Ramusio. Verona, 1483. Pag. 12; opera da Leonardo ricordata nel Codice Atlantico: folio 207 rº, con la indicazione: De re militari. Non hanno quindi nessuna ragione le ricerche iniziate dal Müller Strubing in Richter, The literary works of Leonardo da Vinci. London, 1883. Vol. I, pag. 16.

124.  Si veda ancora: Valturio, De re militari. Pag. 12, donde questo frammento è stato tradotto parola a parola.

125.  Il passo qui riferito precede le splendide pagine di Leonardo contro l’ipotesi filolaico-platonica, che assegnava rispettivamente la figura di ciascuno dei cinque poliedri regolari (figuræ mundanæ) agli elementi della terra, acqua, aria, fuoco e universo. — Sul valore matematico di questo concetto, si veda lo Chasles, Aperçu historique sur l’origine et sur le développement des méthodes en géométrie, Paris, 1875, pag. 512-515; e sui passi del Vinci ad esso [406] relativi, i miei Studî sulla filosofia naturale di Leonardo da Vinci. Modena, 1898, pag. 88-89. Per le fonti cfr. Luca Pacioli, Divina proporzione. Venezia, 1509. Pag. LV.

126.  Leonardo, nelle sue ricerche lente e faticose sulla caduta dei gravi, non giunse alla determinazione di quella legge degli spazi proporzionali ai quadrati dei tempi, che rese immortale Galileo Galilei. Il principio qui espresso è che il peso cadente è soggetto ad una forza di accelerazione costante, la quale fa sì che l’aumento della distanza fra i gravi discendenti è eguale e proporzionale ai tempi della caduta. Intorno alle investigazioni di Leonardo sulla discesa dei gravi si veda il Venturi, Essai sur les ouvrages phisico-mathématiques de Léonard de Vinci. Paris, 1797, pag. 16; e le acute pagine del Caverni, Storia del metodo sperimentale in Italia. Firenze, 1895. Vol. IV, pag. 69-80.

127.  Tale concetto intorno ai moti equabili, tratto dalla meccanica aristotelica (Quæstiones mechanicæ. Opera. Venezia, 1560. Vol. XI, cap. II), è affermato vero dal Vinci nei limiti naturali: «Se una potenza moverà un corpo in alquanto tempo un alquanto spazio, la medesima potenza moverà la metà di quel corpo nel medesimo tempo due volte quello spazio, ovvero la medesima virtù moverà la metà di quel corpo per tutto quello spazio nella metà di quel tempo.» Manoscritto F, folio 26 vº. — Ciò che Leonardo [407] combatte nel frammento LXII è l’arbitraria estensione della legge al di là di ogni esperienza e di ogni possibilità di natura, è la tendenza ingenita in certe menti irrequiete di dar forma metafisica alle leggi fisiche, di applicare la vuota astrattezza del termine in infinito alla natura manifestantesi nello spazio e nel tempo finito.

128.  Il frammento è stato compiutamente frainteso dal Ravaisson, per la sostituzione della parola frate alla parola fructo, che si trova realmente nel manoscritto. (Les manuscrits de Léonard de Vinci. Manuscrits F et I de la bibliothèque de l’Institut. Paris, 1889. F, folio 72 vº.)

129.  Leonardo ha tradotto questo passo parola a parola dalla Prospettiva di Giovanni Pecckham († 1292). Si veda in fatti: Prospectiva communis domini Johanni Archiepischopi Cantuariensis fratris ordinum minorum. Milano, s. d., folio a, 2.

130.  Secondo le dottrine aristoteliche, era concesso alla mente umana di conoscere la natura dei quattro elementi terra, acqua, aria e fuoco, risultanti dalla varia mescolanza del grave col leggero, dell’umido col secco, principî ultimi componenti la molteplice varietà delle cose. Si veda Aristotile, De cœlo. Lib. IV, cap. 4. — Leonardo nega qui la possibilità di conoscere la natura degli elementi, che compongono la realtà esterna; come altrove (Codice Atlantico, folio 79 rº, pag. 187) aveva negato, a somiglianza del [408] suo contemporaneo Niccolò Cusano, la possibilità di giungere alla conoscenza di elementi primitivi in generale. Cfr. Lasswitz, Geschichte der Atomistik vom Mittelalter bis Newton. Hamburg und Leipzig, 1890. I, pag. 278.

131.  Son qui profondamente intravveduti gli effetti di quella coesione intermolecolare, che fa che la gocciola d’acqua assume forma sferica intorno al centro della propria figura; e gli effetti di quella più vasta attrazione, che tiene raccolto l’elemento liquido intorno al centro della Terra.

132.  Leonardo ricorda nel Codice Atlantico, folio 207 rº, con la parola Justino: Il libro di Justino, posto diligentemente in materna lingua da Girolamo Squarzafico. Venezia, 1477; libro che gli ispirava questo memorabile frammento. Si veda G. d’Adda, Leonardo da Vinci e la sua libreria. Milano, 1872; e The literary works of Leonardo da Vinci. Londra, 1883. I, pag. 419 e seg.

133.  Pag. 108. Piero di Braccio Martelli, ricordato altrove dal Vinci (codice del British Museum: folio 202 vº. Cfr. Richter, The literary works, vol. II, n. 1420), non solo fu cittadino di grande integrità, ma matematico insigne, singolare ragione perchè fosse caro a Leonardo. Sul principio del secolo XVI, benchè infermo di corpo, se dobbiamo credere al Poccianti, egli compose: Libri quattuor in Mathematicas disciplinas, Epistolæ plures et elegantes, Epigrammata non pauca [409] et acutissima; opere, che, smarrite durante il sacco di Roma (1527), ci hanno forse tolto un nuovo esempio di quella efficacia, che Leonardo da Vinci ebbe su alcuni matematici del tempo suo.

134.  La legge affermata qui da Leonardo è quella stessa che il Galilei dichiarava nei Dialoghi delle scienze nuove (Opere, ed. Albèri. Vol. XIII, pag. 177): scendendo un corpo in varî modi, deviato per obbliquità di rimbalzi, giunge al medesimo punto ch’egli avrebbe toccato, se vi fosse pervenuto senza altro impedimento: «Ogni movimento fatto dalla forza, scrive col suo stile limpido e conciso il Vinci, conviene che faccia tal corso, quanto è la proporzione della cosa mossa con quella che muove; e, se ella troverà resistente opposizione, finirà la lunghezza del suo debito viaggio per circolar moto o per altri varî risaltamenti e balzi, i quali, computato il tempo e il viaggio, fia come se ’l corso fosse stato sanz’alcuna contraddizione.» Manoscritto A, folio 60 vº.

135.  Leonardo accetta in questo frammento il principio che la visione si compia nell’interno dell’occhio, in un punto indivisibile o matematico. (Cfr. Vitellone, Optica edente Fred. Rixnero. Norimberga, 1535, libro ricordato da Leonardo nel Codice Atlantico, folio 243 rº e folio 222 rº.) Fu più tardi, nel progresso delle sue ottiche investigazioni, che egli giunse alla razionale convinzione dell’esistenza di una superficie sensibile [410] alla luce e ai colori, cioè a quella che oggi si chiama la retina. Grandiosa conclusione, alla quale è portato da una serie di scoperte non meno grandiose, raccolte nel manoscritto D, e disperse nei manoscritti F, K, E.

136.  La fonte per le notizie sulle idee di Pitagora intorno all’armonia delle sfere si deve ritenere, in ultima analisi, il De Cœlo d’Aristotele (lib. II, cap. IX); tuttavia il Vinci procede indipendentemente dalle argomentazioni peripatetiche. Secondo la filosofia pitagorea, ogni corpo, mosso rapidamente, genera un suono; i corpi celesti, nel loro eterno movimento, producono anch’essi una serie di suoni, la di cui altezza varia secondo la velocità e la velocità secondo la distanza. Gli intervalli degli astri corrispondono, secondo i pitagorei, agli intervalli dei suoni nell’ottava. — Si veda Zeller, Geschichte der Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung. Tubinga, 1869. Vol. I, pag. 398 e 399.

137.  Leonardo si riferisce alla Spera di Goro Dati [Firenze, 1478] e agli Hymni et epigrammata di Michele Tarcaniota (Marullo) [Firenze, 1497]. Nella prima di queste due opere, le strofe, che vanno dalla 16ª alla 22ª, sono dedicate alle lodi del sole:

Chiaro splendore e fiamma rilucente,

Sopra tutt’altre creatura bella, ec.

e non è difficile rinvenirvi idee ed espressioni simili a quelle usate dal Vinci.

[411]

Negli Hymni et epigrammata del Marullo, il secondo dei Libri hymnorum naturalium si apre coll’inno al sole:

Quis novus hic animis furor incidit, unde repente

Mens fremit horrentique sonant præcordia motu? ec.

Le notizie, che seguono nei frammenti L, LI, LII, intorno alle idee di Epicuro sono tratte, più che da Lucrezio, che Leonardo nomina una sola volta di seconda mano, dal El libro de la vita de philosophi e delle loro elegantissime sententie extracte da Diogene Lahertio e da altri antiquissimi auctori. Venezia, 1480, lib. X (ed. Lipsia, 1833, vol. II, pag. 223).

138.  Il tentativo d’incanalare l’Arno per bonificare tutto il piano d’Empoli e dintorni, già suggerito da Luca Fancelli (si veda G. Uzielli, La vita e i tempi di Paolo dal Pozzo Toscanelli. Roma, 1890, pag. 520), conduce il Vinci, dal campo strettamente pratico, ai più alti problemi di idraulica e di geologia. Il Sasso della Gonfolina, che si trova fra Signa e Montelupo, formava in antico un altissimo argine, separatore di due vasti laghi, l’uno coperto dalle acque salse, l’altro dalle acque dolci (si veda il frammento LXXXI). Secondo Giovanni Villani († 1348), lontano ancora da ogni idea di dinamica terrestre, la mano provvida dell’uomo avrebbe spezzata questa diga, onde lasciare libero il transito al fiume (Cfr. Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani. Trieste, 1861); Leonardo vede nell’opera lenta dell’acqua la causa del benefico effetto. Alte e feconde [412] sono le conclusioni che il Vinci seppe trarre da questo e da simili fatti, ma le puerili credenze del tempo (cfr. Francesco Patrizzi, De antiquorum rethorica. Venezia, 1562) erano radicate così profondamente nell’anima dei ricercatori, che, perfino due secoli dopo, Antonio Vallisnieri (Opere fisico-mediche. Venezia, 1733, vol. II), riguardato come il padre della moderna scienza geologica, ne sa assai meno di lui intorno all’esistenza delle conchiglie fossili e intorno alla meccanica delle trasformazioni terrestri.

139.  Il problema della fine della vita nel mondo preoccupa, come può scorgersi dai frammenti LXXXVII e LXXXVIII, Leonardo da Vinci; ma ciò che è degno di considerazione è che egli, senza ricorrere ad una volontà extramondana, riguarda il finale dissolvimento degli esseri come una naturale conseguenza del successivo operare delle forze fisiche. Due opposte conclusioni si potevano trarre dal trasformarsi lento e continuo della superficie terrestre: nel corso dei secoli le acque si troveranno rinserrate nel fondo di voragini senza fine, per il lavorío dei fiumi che approfondiscono il proprio letto; nel corso dei secoli l’acqua circonderà in ogni sua parte la terra, per l’abbassarsi dei monti, in causa del dispogliamento del terreno, dovuto all’acqua. La prima ipotesi è toccata e combattuta da Aristotele nei Libri metheorologici, lib. II, cap. I, § 1. Cfr. lib. II. cap. 1, § 1-17; entrambe sono espresse qui dal Vinci.

[413]

140.  Secondo Anassagora, ogni cosa nel mondo è composta da una somma di componenti della stessa natura dell’intero, chiamati da lui stesso σπέρματα (Fr. 1, 3, 6 [4]): questi principî ultimi si trovano sparsi da per tutto, sempre eguali a sè stessi, ed entrano nella composizione di ogni essere inorganico e organico. Si veda Zeller, Gesch. der Philosophie der Griechen. I, pag. 875-885. Le medesime espressioni del frammento di Leonardo si trovano nel De umbris idearum, Berlino, 1868, pag. 28, del Bruno, e risalgono probabilmente a Lucrezio, De rerum natura, lib. I, v. 830 e segg.

141.  Si veda: Roberto Valturio, De re militari. Parigi, 1534. Pag. 4, donde è tratto il frammento.

142.  Le notizie su queste costumanze dei selvaggi sono state tratte dal Mandavilla, Tractato de le più maravigliose cosse e più notabili che si trovano in le parti del mondo. Milano, 1480, folio l 4 rº: «e se sono grassi di subito li mangiano, e se sono magri li fano ingrassare.» L’opera del Platina qui citata è il De la honesta voluptate et valetudine et de li obsonij. Venezia, 1487, ricordata nel Codice Atlantico con le parole: De onesta voluptà, folio 207 rº.

143.  Il codice, nel quale si trova questo frammento, contiene, quasi esclusivamente, note intorno al trattato Di luce ed ombra. Il cavallo, di cui qui si parla, è il modello per la statua equestre a Francesco Sforza. [414] Jacomo Andrea, nella casa del quale Leonardo si reca a cena con il discepolo suo Giacomo, è Andrea da Ferrara, profondo conoscitore di Vitruvio e architetto di alto grido, che morì, ucciso per ordine del generale Trivulzio, nel 15 maggio 1500 (Cfr. G. Uzielli, Ricerche intorno a Leonardo da Vinci. Torino, 1896. Vol. I, pag. 377-382). Marco è Marco d’Oggionno, pittore e discepolo del Vinci. Galeazzo Sanseverino, in casa del quale Leonardo dirige quella giostra, che rimase poi sempre famosa in Milano (26 gennaio 1491), è il capitano al quale Lodovico il Moro affiderà il proprio esercito nel funesto 1499, e profondo conoscitore dell’arte militare. Agostino da Pavia è ricordato, insieme con Leonardo da Vinci, nella lettera che Bartolomeo Calco, segretario dello Sforza, dirige al Referendario di Pavia, in occasione del matrimonio di Lodovico con Beatrice d’Este e d’Anna, sorella del duca Galeazzo, con Alfonso d’Este, per richiedere il ritorno degli artisti che si trovavano in quella città (8 dicembre 1490:..... Augustino et Magistro Leonardo....., cfr. Beltrami, Il Castello di Milano. Milano, 1895. Pag. 188). Finalmente Gian Antonio è l’artista Gian Antonio Boltraffio, altro dei discepoli di Leonardo in Milano. L’intero frammento è, quasi senza dubbio, un memoriale per il risarcimento de’ danni e delle spese.

144.  Il frammento è di grande importanza per la biografia di Leonardo e particolarmente per gli anni, che vanno dal 1513 [415] al 1515. Maestro Giovanni degli Specchi e gli altri, ricordati qui vagamente, sono lavoranti o meccanici tedeschi, della cui opera il Vinci si serviva per attuare i suoi molteplici disegni di strumenti, come per esempio il memorabile tornio ovale (si veda: Codice Atlantico, folio 121 rº: fa fare il tornio ovale al Tedesco).

145.  Pag. 228. Non si può negare, come fa incautamente il Richter (The literary works of Leonardo da Vinci. Vol. II, pag. 413), la possibilità di una simile costumanza presso gli abitanti delle Indie, data la scarsa conoscenza che possediamo delle pratiche superstiziose popolari, soggiacenti ai principî più alti delle religioni asiatiche. Ma è più probabile, e nello stesso tempo più naturale, che il Vinci si riferisca, con le parole: come ancora in alcuna regione dell’India; alle notizie che cominciavano a diffondersi sul principio del secolo XVI in Europa intorno agli usi dei popoli americani: e allora le sue parole trovano più di una luminosa conferma nelle pagine del Frazer, The golden bough — a study in comparative religion. Londra, 1890, vol. II, pag. 79-81; e in quelle dell’Acosta, Natural and moral history of the Indies. Londra, 1880, vol. II, pag. 356-360.

146.  Il nome di Momboso è adoperato per indicare il gruppo del Monte Rosa da Flavio Biondo, Roma ristaurata ed Italia illustrata, trad. Venezia, 1542, pag. 165; e da Leandro Alberti, Descrittione di tutta [416] Italia. Venezia, 1588, pag. 435. «I quattro fiumi che rigan per quattro aspetti contrarî tutta l’Europa,» sono «il Rodano a mezzodì e ’l Reno a tramontana, il Danubio over Danoja a greco e ’l Po a levante.» (Mss. di Leicester, c. 10 rº; Richter, The literary works. Vol. II, pag. 247). L’osservazione intorno alla caduta della grandine o «grésil,» quella, ancor più importante ed in contrasto con le idee del tempo, della maggiore tenebrosità del cielo sereno a grandi altezze, confermata più di tre secoli dopo dal De Saussure per le Alpi, e dall’Humboldt per le Cordigliere (Kaemtz, Cours de météorologie. Parigi, 1858, vol. V, pag. 315), portano a ritenere che Leonardo da Vinci è salito oltre i 3000 metri.

147.  Le descrizioni di Leonardo ritraggono per lo più fenomeni realmente osservati. A proposito del passo: «onde del mare di Piombino, tutte d’acqua schiumosa»; si ricordi il disegno di un’onda coperta di schiuma, che si trova nel manoscritto L e la nota che lo accompagna: «fatta al mare di Piombino» (anno 1502). Leonardo da Vinci, Les manuscrits G, L, M, de la bibliothèque de l’Institut. Parigi, 1890, vol. V, folio 6 vº.

148.  La questione del viaggio di Leonardo in Oriente, aperta dal Richter nella Zeitschrif für bildende Kunst. Vienna, 1881, vol. XVI, e esaminata a fondo dal Douglas Freshfield nei Proceedings of the Royal [417] Geographical Society. Londra, 1884. Vol. VI, pag. 323 e segg.; può dirsi, non che risoluta, neppure proposta nei suoi veri termini. Se da una parte la Divisione del Libro suggerisce l’idea di una narrazione fantastica, sia pure condotta con tutta la maggiore precisione storica e geografica propria del genio di Leonardo; resta sempre il spiegarsi l’origine di certe notizie; la ragione di certi schizzi, grossolani e accurati nello stesso tempo, che riproducono uomini e cose asiatiche; il senso di certe espressioni più vaghe su personaggi e costumi orientali, che spuntano inaspettatamente nei manoscritti, come rimembranze di cose vedute, poste ad esempio di principî prospettici o idraulici. La stessa notizia dello splendore notturno del Tauro, può dirsi, piuttosto che una riproduzione dai Libri meteorologici di Aristotele, una rettifica del testo Aristotelico, fatta con argomenti tratti dalla diretta conoscenza dei luoghi.

149.  Se si confronta questa specie di abbozzo del Cenacolo con l’opera finita, si ritroveranno facilmente alcuni degli elementi della prima, seconda e terza figura descritte nella prima figura, alla destra di Cristo (Giovanni); nella prima (Giacomo maggiore) e nella quarta (Matteo), alla sua sinistra. L’artifizio del coltello; il gruppo dell’uomo che parla e di quello che ascolta; l’episodio della tazza rovesciata si ritrovano nell’atteggiamento della terza figura a destra del Salvatore (Pietro), in quello delle due ultime [418] figure a sinistra (Taddeo e Simone), in quello di Giuda. L’uomo che posa le mani sulla tavola e guarda è colla maggiore evidenza l’apostolo Bartolomeo della pittura. La penultima figura a sinistra (Giacomo minore) conserva qualche caratteristica delle ultime linee del frammento.

150.  Quale sia la fonte di questa e della seguente lettera mi è stato impossibile determinare, sebbene qualche punto richiami certe espressioni del Morgante maggiore di Luigi Pulci. Venezia 1488. Ancora più difficile sarebbe precisare lo scopo del contenuto di questa narrazione.

[419]

SOMMARII E RIFERIMENTI.

LE FAVOLE.

Pag. 3. L’irrequietezza. R. 1314. — La carta e l’inchiostro. R. 1322. — L’acqua. R. 1271. — 4. La fiamma e la candela. C. A. 67 r. — 5. Quelli che s’umiliano, sono esaltati. R. 1314. — 6. Sul medesimo soggetto. C. A. 67 v. — La pietra. C. A. 172 v. — 7. Il rasoio. C. A. 172 v. — 8. Il giglio. H. 44 r. — Il noce. C. A. 76 r. — 9. Il fico. C. A. 76 r. — La pianta e il palo. C. A. 76 r. — Il cedro e le altre piante. C. A. 76 r. — La vitalba. C. A. 76 r. — 10. La cattiva compagnia trascina i buoni nella propria rovina. R. 1314. — Sul medesimo soggetto. R. 1314. — Il cedro. C. A. 76 r. — Il persico. C. A. 76 r. — 11. L’olmo e il fico. C. A. 76 r. — Le piante e il pero. C. A. 76 r. — 12. La rete. R. 1314. — Nasce rovina dal seguire il falso splendore. C. A. 67 r. — 13. Il castagno e il fico. C. A. 67 r. — 14. Il rovistico e il merlo. C. A. 67 r. — 15. La noce e il campanile. C. A. 67 v. — 16. Il salice e la zucca. C. A. 67 v. — 19. L’aquila. C. A. 67 v. — Il ragno. C. A. 67 v. — Il granchio. R. 1314. — 20. L’asino e il ghiaccio. C. A. 67 v. — La formica e il chicco di grano. C. A. 67 v. — L’ostrica, il ratto e la gatta. H. 51 v. — Il falcone e l’anitra. H. 44 v. — 21. [420] L’ostrica e il granchio. C. A. 67 v. — I tordi e la civetta. C. A. 67 v. — 22. La scimmia e l’uccelletto. C. A. 67 v. — Il cane e la pulce. C. A. 119 r. — 23. Il topo, la donnola e il gatto. C. A. 67 v. — Il ragno e il grappolo d’uva. R. 1314. — 24. Sul medesimo soggetto. C. A. 67 v. — Traccia. H 44. v. — Il villano e la vite. H. 44 v. — 25. Leggenda del vino e di Maometto. C. A. 67 r. — 26. Traccia. R. 1281. — Le fiamme e la caldaia. C. A. 116 v. — 27. Lo specchio e la regina. R. 1324.

LE ALLEGORIE.

Pag. 31. Amore di virtù. H. 5 r. — 32. Invidia. — Allegrezza. — Tristezza. H. 5 v. — Pace. — 33. Ira. H. 6 r. — Misericordia over gratitudine. — Avarizia. — 34. Ingratitudine. H. 6 v. — Crudeltà. H. 7 r. — Liberalità. — Correzione. H. 7 v. — 35. Lusinghe over soie. — Prudenza. — Pazzia. H. 8 r. — Giustizia. — 36. Verità. H. 8 v. — Fedeltà over lialtà. — Falsità. H. 9 r. — 37. Bugia. — Timore over viltà. H. 9 v. — Magnanimità. — Vanagloria. — 38. Constanza. H. 10 r. — Inconstanza. — Temperanza. — Intemperanza. H. 10 v. — 39. Umiltà. — Superbia. H. 11 r. — Astinenza. — Gola. — 40. Castità. H. 11 v. — Lussuria. — Moderanza. — Aquila. H. 12 r. — 41. Lumerpa, fama. H. 12 v. — Pellicano. — Salamandra. — 42. Camaleon. H. 13 r. — Alepo pesce. — Struzzo. — Cigno. — Cicogna. H. 13 v. — 43. Cicala. H. 14 r. — Basalisco. — L’aspido, sta per la virtù. H. 14 v. — Drago. — Vipera. — 44. Scorpione. H. 15 r. — Cocodrillo, ipocresia. — Botta. H. 17 r. — 45. Bruco, della virtù in generale. — Ragno. H. 17 v. — Leone. H. 16 r. — 46. Taranta. — Duco o civetta [421] H. 18 v. — Leofante. H. 19, 20 r. e v. — 48. Il dragone. H. 20 v. — 49. Serpente. — Boa. H. 21 r. — Macli pel sonno è giunta. — 50. Bonaso noce colla fuga. H. 21 v. — Palpistrello. — 51. Pernice. — Rondine. H. 14 r. — Ermellino. H. 48 v. — Leoni, pardi, pantere, tigri. H. 22 r. — Leonessa. H. 22 v. — 52. Leone. — Pantere in Africa. H. 23 r. — Cammelli. H. 23 v. — 53. Tigre. — Catopleas. H. 24 r. — 54. Basilisco. — Donnola over bellola. — 55. Ceraste. H. 24 v. — Amfesibene. — Iaculo. — Aspido. H. 25 r. — 56. Icneumone. — Cocodrillo. H. 25 v. — 57. Delfino. H. 26 r. — 58. Hippotamo. — Iris. — Cervi. H. 26 v. — 59. Luserte. — Rondine. — Bellola. — Cinghiale. H. 27 r. — Serpe. — Pantera. — 60. Camaleonte. H. 27 v. — Corbo. — Magnanimità. — Gru. — Cardellino. H. 17 v. — 61. Dell’antivedere. H. 98 r. — Per ben fare. H. 98 v. — Sul medesimo soggetto. H 99 r. — Del lino. G. 88 v. — 62. Frammento. G. 89 r.

I PENSIERI.

PENSIERI SULLA SCIENZA.

Pag. 65. La teoria e la pratica. R. 110. — Dell’error di quelli, che usano la pratica sanza scienza. G. 8 r. — Paragone del pratico. C. A. 76 r. — 66. Precedenza della teorica alla pratica. I. 130 r. — Sul medesimo soggetto. Lu. 405. — Consiglio al pittore. Lu. 750. — Sul medesimo soggetto. Lu. 54. — 67. Sul fatto anatomico dello sviluppo grande del cranio nel fanciullo. Ash. I. 7 r. — Diversità della teorica dalla pratica. C. A. 93 v. — 68. Sterilità delle scienze senza applicazione pratica. Lu. 9. — Sul medesimo soggetto. R. 1169. — Ricordi di Leonardo. F. 2 v. — 69. La distribuzione [422] dei suoi trattati. F. 23 r. — Valore intrinseco del sapere. C. A. 223 r. — Naturale istinto dell’uomo al sapere. C. A. 119 r. — 70. Piacere, che nasce dalla contemplazione della natura. C. A. 91 v. — Leonardo contro gli sprezzatori delle sue opere. C. A. 119 r. — 71. Contro gli sprezzatori della scienza. T. 41 v. — Riflessione sulla struttura del corpo umano. R. 1178. — 72. Contro gli uomini, che mirano solo alla vita materiale. R. 1179. — I due campi della conoscenza. C. A. 365 v. — Il supremo bene è il sapere. T. 2 r. — 73. Valore del sapere nella vita. C. A. 112 r. — Glorificazione della scienza. Lu. 65. — 74. Come per tutti’ viaggi si po’ imparare. Ash. I. 31 v. — L’inerzia guasta la sottilità dell’ingegno. C. A. 284 v. — Lo studio senza voglia non dà alcun frutto. R. 1175. — Sul medesimo soggetto. Ash. I. 34 r. — 75. Per giudicare l’opera propria bisogna riguardarla dopo lungo intervallo. C. A. 122 v. — Antiquitas sæculi iuventus mundi. M. 58 v. — Glorificazione della verità. V. U. 12 r. — 76. Conseguenza delle opposizioni alla verità. C. A. 118 r. — Definizione della scienza. Lu. 1. — 78. Valore delle regole date da Leonardo al pittore. C. A. 218 v. — 79. Legge, che governa lo svolgimento storico della pittura e delle scienze. C. A. 141 r. — 80. Contro il principio di autorità nella scienza. C. A. 119 r. — 81. Il seguace della natura e il seguace della autorità degli scrittori. C. A. 117 r. — Superiorità degli scopritori del vero sui commentatori delle opere altrui. C. A. 117 r. — 82. Contro gli umanisti. C. A. 119 r. — Reverenza di Leonardo per gli antichi inventori. F. 27 v. — 83. Valore della autorità. C. A. 76 r. — Spontaneità della creazione artistica e scientifica. C. A. 76 r. — Studio dell’antichità. C. A. 147 r. — Necessità della esperienza e della matematica nelle scienze. Lu. 1. — 84. La esperienza. [423] R. 1150. — La sperienza non falla, ma sol fallano i nostri giudizi, promettendosi di lei cose, che non sono in sua potestà. C. A. 154 r. — 85. Necessità della successione dell’effetto alla causa. C. A. 154 r. — La certezza delle matematiche. R. 1157. — Generale applicabilità della matematica. K. 49 r. — 86. Delle scienze. G. 96. — Leonardo al lettore. R. 3. — Della meccanica. E. 8 r. — La meccanica e la esperienza. R. 1156. — Accordo fra l’esperienza e la ragione. C. A. 86 r. — 87. La deduzione. R. 6. — Bisogna passare dal noto all’ignoto. E. 54 r. — La legge di natura domina i fatti. C. A. 147 v. — L’esperienza è il fondamento della scienza. H. 90 r. — 88. Sul medesimo soggetto. A. 31 r. — Dalla investigazione degli effetti si scoprono le cause. E. 55 r. — Bisogna ripetere le esperienze e variare le circostanze. A. 47 r. — 89. Esempio della precedente regola. M. 57 r. — Bisogna limitare la ragione alla esperienza, non estendere la ragione al di là della esperienza. I. 102 r. e v. — 90. A coloro che affermano l’acqua trovarsi alla sommità dei monti, perchè il mare è più alto, che la terra. F. 72 v. — 91. La prospettiva e la matematica. C. A. 200 r. — 92. La cognizione ha origine dal senso. T. 20 v. — Conseguenza del predetto principio. R. 838. — 93. La testimonianza del senso è il criterio del vero. Lu. 16. — 94. Le vere scienze sono quelle che si fondano sulla testimonianza dei sensi. Lu. 33. — 96. Inganno della mente abbandonata a sè stessa. Lu. 65. — Sul medesimo soggetto. C. A. 153 v. — Contro la metafisica. B. 4 v. — 97. Superiorità degli animali sull’uomo. F. 96 v. — Dal dizionario di Leonardo. T. 12 r. — Superiorità della scienza della pittura sulla filosofia. Lu. 10. — Non si conosce l’essenza delle cose, ma i loro effetti. C. A. 79 r. — 98. Come la massa dell’acqua, [424] che circonda la terra, ha forma sferica. C. A. 75 v. — La divisibilità all’infinito è un’astrazione mentale. C. A. 119 r. — 99. L’infinito non si può abbracciare colla ragione. C. A. 113 v. — Sul medesimo soggetto. H. 67 v. — La finalità delle cose trascende la mente umana. G. 47 r. — 100. Gli antichi si sono proposti dei problemi insolubili. C. A. 119 r. — Limiti alla definizione dell’anima. R. 837. — 101. Contro gli ingegni impazienti. R. 1210. — 103. Della vita del pittore nel suo studio. Ash. I. 27 v. — 104. Consigli al pittore. Ash. II. 1 r. — 105. Altro consiglio. Lu. 58. — 106. Consiglio. L. 53. — Vita del pittore filosofo ne’ paesi. C. A. 181 v. — 107. Necessità della analisi. Ash. I. 28 r. — 108. Carattere delle opere di Leonardo. R. 4. — 109. Suo desiderio insaziabile di conoscere. R. 1339.

PENSIERI SULLA NATURA.

Pag. 111. Proemio. C. A. 119 r. — 112. Natura e scienza. I. 18 r. — Leggi necessarie dominano i fatti della natura. R. 1135. — La rispondenza degli effetti alla potenza della loro cagione è necessaria. A. 24 r. — 113. Le leggi della natura sono imprescindibili. E. 43 v. — Sul medesimo soggetto. C. 23 v. — L’effetto succede alla causa necessariamente. C. A. 169 v. — Il miracolo sta nella rispondenza dell’effetto alla sua causa. C. A. 337 v. — 114. Ogni cosa obbedisce alla propria legge. R. 156 r. — 115. Passività e attività. T. 39 r. — Provvidenza della natura nella conformazione del corpo umano. C. A. 116 r. — 116. Provvidenzialità della dilatazione e restringimento della pupilla. D. 5 r. — 117. Contro coloro che si arrogano di correggere la natura. C. A. 76 r. — Sul fenomeno della spinta delle radici. C. A. 76 r. — 118. [425] Sulla struttura delle ali. E. 52 v. — Sulla disposizione delle foglie nelle piante. Lu. 398. — 119. Legge universale delle cose. Ash. II. 4 r. — Sul medesimo soggetto. A. 60 r. — 120. Le cose fuori del loro stato naturale tendono a ritornarvi. C. 26 v. — Legge del minimo sforzo. C. 28 v. — Ogni parte desidera essere nel suo tutto. C. A. 59 r. — Suggetto colla forma. T. 6 r. — 121. Legge del minimo sforzo. G. 74 v. — La stessa. D. 4 r. — Ancora la stessa. — La natura è variabile in infinito. C. A. 112 v. — 122. Contro gli alchimisti. Lu. 501. — Ancora sulla varietà della natura. C. A. 76 r. — Precetto al pittore. C. A. 1119 r. — 123. Precetto. Lu. 270. — Vi è una omogeneità di struttura negli esseri animati. Lu. 107. — 124. Concetto dell’energia. G. 5 v. — Legge universale. G. 73 r. — La stessa. T. 36 v. — 125. Definizione della forza. T. 36 v. — La stessa. H. 141 r. — La materia è inerte. A. 34 r. — Legge della trasmissione del moto e della sua equivalenza. B. 63 r. — 126. Principio d’inerzia. F. 74 v. — Origine della forza. E. 22 r. — 127. Aspetti varî della forza. I. 68 r. — Ancora del principio d’inerzia. R. 859. — Ancora. V. U. 13 r. — 128. Sulla pitagorica armonia delle sfere celesti. C. A. 122 v. — 129. Sulla legge di gravità. F. 56 v. — La stessa. F. 69 v. — 130. La stessa. C. A. 153 v. — Laude del sole. R. 860. — 131. Segue la laude. F. 5 r. — 132. Segue. F. 4 v. — 133. Segue. F. 6 r. — Segue. F. 8 r. — 134. Della prova che ’l sole è caldo per natura e non per virtù. F. 10 r. — Sul medesimo soggetto. G. 34 r.; F. 34 v. — 135. Propagazione dei raggi nello spazio. F. 85 v. — 136. Se le stelle han lume dal sole o da sè. F. 86 r. — 137. La terra è una stella. F. 57 r. — Essa risplende nell’universo. R. 886. — 138. Ordine del provare la terra essere una stella. F. 56 v. — La terra sembra stella ai lontani. C. A. [426] 112 v. — 139. La terra non è centro dell’universo. F. 25 v. — Come in un’età lontana la terra aveva un più vivo splendore. F. 94 v. — Questioni sulla natura della luna. F. 41 v. — 140. Sulla gravità della luna. F. 69 v. — 141. Sul medesimo soggetto. R. 892. — I mondi gravitano in seno ai proprî elementi. R. 902. — 142. Il calore come principio della vita. K. 1 r. — La terra è un grande vivente. R. 896. — 143. Paragone dell’uomo e del mondo. C. A. 80 r. — Cominciamento del trattato de l’acqua. R. 1000. — 144. L’acqua. A. 55 v. — L’acqua è il sangue e la linfa del mondo. R. 970. — 145. Sul medesimo soggetto. H. 77 r. — L’acqua sui monti. R. 965. — Trasformazioni dovute all’acqua. H. 95 r. — 146. Della vibrazion della terra. K. 2 r. — Vaste trasformazioni nel passato e nell’avvenire. G. 49 v. — 147. L’acqua nei fiumi. R. 953. — 148. Su una conchiglia fossile. R. 954. — Basta un piccolo segno per ricostruire l’intero passato. R. 955. — 149. Del diluvio e de’ nicchi marini. R. 984. — 151. Di quelli che dicono, che i nicchi sono per molto spazio e nati remoti dalli mari, per la natura del sito e de’ cieli, che dispone e influisce tal loco a simile creazione d’animali. R. 987. — 155. Confutazione ch’è contro coloro, che dicono i nicchi esser portati per molte giornate distanti dalli mari per causa del diluvio, tant’alto che superasse tale altezza. R. 988. — 158. I fossili rispecchiano nel passato una vita analoga a quella del presente. R. 989. — 161. De’ nicchi ne’ monti. F. 80 r. — 162. Sulla stratificazione geologica e contro il diluvio. R. 994. — Dubitazione. C. A. 155 r. — 163. Quale sarà il termine della vita nel mondo. R. 995. — 165. La terra immersa nell’acqua per la lenta consumazione de’ monti. F. 52 v. — Le leggi meccaniche dominano i fenomeni inorganici e organici. V. U. 3 r. — Possibilità [427] che ha l’uomo d’imitare strumentalmente l’uccello volante. F. 52 r. — 166. Ricordo, che ritorna all’anima del Vinci mentre scrive sul volo del nibbio. C. A. 161 r. — 167. Perchè li piccoli uccelli non volano in grande altezza, nè li grandi uccelli si dilettano volare in basso. C. A. 66 v. — Facciamo nostra vita coll’altrui morte. E. 43 r. — Come il corpo dell’animale al continuo more e rinasce. H. 89 v. — 168. Circolazione della materia. R. 483. — 169. Sullo stesso soggetto. F. 49 v. — Ancora sullo stesso soggetto. C. A. 376 v. — Sulla esistenza della morte e del dolore nel mondo. R. 846. — Sul medesimo soggetto. R. 1219. — 170. Desiderio di disfarsi nelle cose e negli esseri. R. 1187. — 171. Come i sensi sono offiziali dell’anima. R. 838. — 173. Meccanismo della sensazione. C. A. 90 r. — 175. Sui movimenti automatici. C. A. 119 r. — 176. Come i nervi operano qualche volta per loro, sanza comandamento delli altri offiziali dell’anima. R. 839. — Come l’uomo tende a riprodurre sè stesso nelle proprie opere. Lu. 108. — 178. Un istinto naturale dell’uomo lo guida a cercare sè stesso nelle cose e negli esseri. Lu. 109. — 179. Consiglio al pittore. A. 23 r. — Sugli stessi soggetti. Lu. 499. — 180. Sulla natura dei sensi. T. 7 v. — Problema dei sogni. R. 1114. — Giudizi inconscienti. I. 20 r. — 181. Inganno dei sensi. Lu. 2. — 182. Sul tempo. R. 916. — Sul concetto del tempo. R. 917. — 183. Sul concetto del nulla. Ash. III. 27 v.; R. 918.

PENSIERI SULLA MORALE.

Pag. 185. Gli studi di Leonardo. R. 841. — Proemio della sua anatomia. R. 796. — 187. Passaggio dalla anatomia all’etica. R. 798. — Conseguenze etiche che [428] discendono dagli studi anatomici. An. A. 2 r. — 188. Il metodo sperimentale e sue conseguenze sull’agire umano. C. A. 119 r. — Limiti imposti da Leonardo alla scienza. R. 1. — 189. Contro la necromanzia. R. 1213. — 192. Degli spiriti. — 193. Se lo spirito tiene corpo infra li elementi. R. 1214. — 194. Se lo spirito, avendo preso corpo d’aria, si può per sè muovere o no. R. 1215. — 195. Se lo spirito può parlare o no. C. A. 187 v. — 196. Sul medesimo soggetto. — 197. Sul medesimo soggetto. B. 4 v. — Studi sulla fisonomia. Lu. 292. — 198. Contro i ricercatori del moto perpetuo. K. 101 v. — 199. Segue. F. 30 v. — Sul medesimo soggetto. R. 1206. — Avvertimento. E. 31 v. — Contro le scienze occulte. R. 796. — 200. Contro i medici. R. 797. — Ancora. — Ancora. F. 96 v. — 201. Funzione del dolore nella vita animale. R. 100 — Perchè le piante non hanno il dolore. H. 60 r. — 202. Funzione delle passioni a conservazion della vita. H. 32 r. — Animosità e paura. C. A. 76 r. — Il corpo è specchio dell’anima. C. A. 76 r. — Indipendenza dell’anima dalla materia corporea. T. 32 r. — 203. La memoria. H. 33 v. — Lo spirito è dominatore. T. 34 v. — Ragione e senso. T. 33 r. — Sentimento e martirio. T. 23 v. — La virtù è il vero bene dell’uomo. Ash. I. 34 v. — 204. La brevità del tempo è una illusione della mente. C. A. 76 r. — Illusioni della mente e del senso. C. A. 29 v. — Ideando un orologio a piombo. C. A. 12 r. — 205. La vita virtuosa. C. A. 71 v. — Epigramma. C. A. 76 r. — L’attimo è fuggevole. T. 34 r. — Nobiltà del lavoro. T. 34 r. — 206. La vita laboriosa. T. 27 r. — Il tempo distruggitore. C. A. 71 r. — Di quelli che biasimano chi disegna alle feste e chi ’nvestiga l’opere di Dio. Lu. 77. — 207. Preghiera. R. 1132. — Orazione. R. 1133. — 208. Contro i cattivi religiosi. E. 5 v. — Ancora. [429] T. 68. — Tutto è stato detto. T. 14 r. — Comparazione della pazienza. C. A. 117 v. — Consigli al parlatore. G. 49 r. — 209. Consiglio, miseria e giudizio. C. A. 80 v. — 210. Sentenze, proverbi e simboli. H. passim. — 214. La verità. T. 38 r. — 215. Il ben fare. H. 48 v. — 216. La ingratitudine. — La invidia. — 217. La fama. Ash. II. 22 v. — Piacere e dolore. R. 1196. — 218. Inferiorità fisiologica dell’uomo. R. 827. — 219. Sua inferiorità etica. R. 844. — 221. Classificazione di Leonardo. R. 816. — L’uomo come animale. C. A. 292 r. — Dagli animali all’uomo vi è un lento trapasso. E. 16 r. — L’evoluzione della moda. Lu. 541. — 223. Un discepolo di Leonardo: Giacomo. C. 15 r. — 225. Leonardo analizzatore dell’uomo. H. 137 v. — Frammento di lettera a Giuliano de’ Medici. C. A. 243 v. — 227. I miseri studiosi con che speranza e’ possono aspettare premio di lor virtù? R. 1358. — 229. Dialogo fra il cervello e lo spirito, che in esso abitava. R. 1355. — Frammento di lettera. C. A. 360 r.

PENSIERI SULL’ARTE.

Pag. 231. Difesa della pittura contro le arti liberali. — Proemio. Lu. 27. — Perchè la pittura non è connumerata nelle scienze? Lu. 34. — 232. La pittura è scienza universale. Lu. 7. — 233. La pittura non si può divulgare. Lu. 8. — 235. Come la pittura avanza tutte l’opere umane per sottile speculazione appartenente a quella. Ash. I. 19 v. — 237. La pittura crea la realtà. Lu 2. — 238. Rappresentazione e descrizione. Lu. 7. — Eccellenza dell’occhio. Lu. 24. — 239. Il pittore va direttamente alla natura. Lu. 14. — 241. Potenza espressiva della pittura. Lu. 15; 25. — 245. Importanza dell’occhio [430] nella vita animale. Lu. 16. — 246. La pittura è una poesia muta. Lu. 18. — 247. Segue della pittura e poesia. Lu. 20. — 248. Segue. Lu. 21. — 250. La pittura si presenta all’occhio nel suo tutto in istante. Lu. 22. — 251. Segue. R. 658. — 257. Come la scienza dell’astrologia nasce dall’occhio, perchè mediante quello è generata. Lu. 17. — Parla il poeta col pittore. Ash. I. 13 r. — 260. Risposta del re Mattia ad un poeta, che gareggiava con un pittore. Lu. 27. — 262. Altezza del mondo visibile. Lu. 27. — 263. Arguizione del poeta contro ’l pittore. Lu. 26. — 264. Conclusione infra ’l poeta e il pittore. Lu. 28. — 266. Come la musica si dee chiamare sorella e minore della pittura. Lu. 29. — 267. Pittura e musica. Lu. 30; 31. — 269. Parla il musico col pittore. Lu. 30. — 270. Conclusione del poeta, pittore e musico. Lu. 32. — 273. Causa della inferiorità in cui è tenuta la pittura. Lu. 46.

Pag. 274. Il pittore e la pittura. — Vastità del campo della pittura. Lu. 438. — Origine della pittura. Ash. I. 17 r. — Come ’l pittore è signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose. Lu. 13. — 275. La pittura è una seconda creazione. Lu. 9. — Come il pittore non è laudabile se quello non è universale. Ash. I. 25 v. — 276. Il pittore e la natura. R. 520. — Come chi sprezza la pittura non ama la filosofia della natura. Ash. I. 20 r. — 277. Come nell’opere d’importanza l’omo non si de’ fidare tanto della sua memoria, che non degni ritrarre di naturale. Ash. I. 26 r. — 278. Del giudicare la tua pittura. Ash. I. 28 r. — 279. Come ’l pittore debb’esser vago d’audire, nel fare dell’opera sua, il giudizio d’ogni omo. Ash. I. 26 r. — 280. Della trista scusazione fatta da quelli che falsa — e indegnamente si fanno chiamare pittori. Ash. I. 25 r. — Come lo specchio [431] è ’l maestro de’ pittori. Ash. I. 24 v. — 282. Precetto al pittore. G. 33 r. e v. — La pittura è un discorso figurato. K. 110 v. — Ordine dello studio. Ash. I. 17 v. — 283. Sullo stesso soggetto. C. A. 196 v. — 284. Del modo dello imparare bene a comporre insieme le figure nelle storie. C. A. 27 v. — 285. Dello studiare in sino quando ti desti o innanzi t’addormenti nel letto, allo scuro. Ash. I. 26 r. — Modo d’aumentare e destare lo ’ngiegno a varie invenzioni. Ash. I. 22 v. — 286. La stanza del pittore. Ash. I. 16 r. — L’idea e la pratica dell’arte. Lu. 57. — 287. Progresso indefinito dell’arte. R. 498. — Quel pittore, che non dubita, poco acquista. Lu. 62. — Precetti sulla pittura. Lu. 404.

Pag. 289. PARAGONE DELLA PITTURA COLLA SCULTURA. — I. Ash. I. 25 r. e 24 v. — 292. II. Lu. 35. — III. Lu. 36. — 293. IV. Lu. 33. — 295. V. Lu. 40. — 296. VI. Conclusione. Lu. 41.

I PAESI E LE FIGURE.

I PAESI.

Pag. 301. Un effetto di nubi sul lago Maggiore. R. 1021. — 302. Un’ascensione al monte Rosa. R. 300. — 303. Traccia. R. 471. — Altra traccia. R. 605. — Varie colorazioni del mare. Lu. 237. — 304. La vegetazione di un colle. Lu. 606. — 306. Del modo del figurare una notte. Ash. I. 18 v. — 307. Come si dee figurar una fortuna. Ash. I. 21 r. — 308. Modo di figurare una battaglia. Ash. I. 30 v. — 313. Figurazione del diluvio. G. 6 v. — 314. Segue. R. 327. — 323. L’isola di Cipro. R. 1104.

[432]

Pag. 324. Il viaggio in Oriente.-Divisione del libro. — 325. Lettera I.-Descrizione del monte Tauro e del fiume Eufrates. — 327. Lettera II.-Figura del monte Tauro. — 329. Qualità e quantità del monte Tauro. C. A. 145 r. e v. — 331. Lettera III. C. A. 211 v. — 333. Frammento. C. A. 189 v.

LE FIGURE.

Pag. 335. La pittura espressiva. C. A. 139 r. — 336. Avvertimento al pittore. Ash. I. 21 r. — La pittura deve mostrare la passione della figura dipinta. Lu. 180. — 337. Come il muto è maestro del pittore. Lu. 115. — Il pregio della pittura sta nella rispondenza del segno al significato. Ash. I. 20 r. — 338. Segue. Ash. I. 27 r. — Varietà infinita nell’espressione dei sentimenti. Lu. 373. — Le età dell’uomo. Ash. I. 17 v. — 339. Del figurare uno che parli infra più persone. Ash. I. 21 r. — 340. Appunti sulla composizione del Cenacolo. R. 666. — 341. Come si deve fare una figura irata. Ash. I. 29 r. — 342. Come si figura uno disperato. Ash. I. 29 r.

Pag. 342. Un gigante fantastico. — Lettera I. C. A. 96 v. — 344. Lettera II. C. A. 304 r. — 346. Frammento.

LE PROFEZIE E LE FACEZIE.

LE PROFEZIE.

Pag. 349. Le profezie degli animali razionali. — Profezia. I. 63 r. e v. — 350. De’ fanciulli che stanno legati nelle fascie. C. A. 143 r. — 351. De’ putti che tettano. I. 67 r. — Il dormire sopra [433] le piume dell’uccelli. R. 1297. — Dello scriver lettere da un paese a un altro. C. A. 362 r. — Delle putte maritate. I. 64 r. — Delle dote delle fanciulle. C. A. 362 v. — 352. Dello spegnere il lume a chi va a letto. C. A. 362 r. — Del sognare. C. A. 362 r. — Ancora del sognare. C. A. 145 r. — 353. Dell’ombra che si move coll’uomo. C. A. 362 r. — Dell’ombra che fa l’omo di notte col lume. K. 50 v. — Dell’ombra del sole e dello specchiarsi nell’acqua in un medesimo tempo. C. A. 362 r. — 354. Delle lingue de’ diversi popoli. I. 64 v. — De’ soldati a cavallo. C. A. 362 r. — De’ segatori. C. A. 362 v. — De’ zappatori. I. 64 r. — 355. Del seminare. — Le terre lavorate. C. A. 362 r. — I calzolari. R. 1312. — Del segare delle erbe. R. 1311. — Del grano e altre semenze. R. 1310. — 356. Del battere il grano. I. 65 r. — De’ giocatori. I. 64 v. — Del suono della piva. I. 65 r. — De’ dadi. I. 65. r. — De’ battuti e scoreggiati. C. A. 362 r. — 357. Le lingue de’ porci e vitelli nelle budelle. C. A. 362 r. — De’ villani in camicia che lavorano. — De’ barbieri. R. 1290.

Pag. 357. Le profezie degli animali irrazionali. — Tiran le bombarde. R. 1297. — De’ buoi che si mangiano. C. A. 362 r. — 358. Delli asini bastonati. C. A. 143 r. — Delli asini. C. A. 362 r. — Delle campanelle de’ muli che stanno presso ai loro orecchi. C. A. 362 r. — De’ muli che portano le ricche some dell’argento e oro. L. 91 r. — 359. De’ capretti. R. 1313. — Delle pecore, vacche, capre e simili. C. A. 143 r. — Delle gatte che mangiano i topi. C. A. 143 r. — Le api che fanno la cera delle candele. R. 1297. — Dell’api. C. A. 143 r. — 360. Delle formiche. C. A. 143 r. — Delle mosche e altri insetti. I. 64 r. — Delle civette o gufi con che s’uccella alla pania. C. A. 162 r. — Delle biscie portate dalle cicogne. C. A. 127 v. — 361. [434] I pesci lessi. C. A. 362 r. — De’ pesci che si mangiano non nati. C. A. 362 r. — De’ nicchi e chiocciole che sono ributtate dal mare, che marciscono dentro ai lor gusci. I. 67 r. — Dell’ova che sendo mangiate non possono fare i pulcini. C. A. 362 v. — Delle taccole e stornelli. G. 76 r. — 362. Delle api. R. 1329.

Pag. 362. Le profezie delle piante. — Delle noci e ulive e ghiande e castagne e simili. C. A. 143 v. — De’ noci battuti. I. 65. v. — 363. L’ulive che cadono dagli ulivi dannoci olio che fa lume. C. A. 362 r. — De’ legnami che bruciano. C. A. 362 r. — Degli alberi che nutriscono i nesti. R. 1310.

Pag. 363. Le profezie delle cose materiali. — I. Della sola delle scarpe che son di bue. C. A. 362 r. — 364. De’ crivelli fatti di pelle d’animali. C. A. 362 r. — Delle lanterne. F. 64 v. — Delle medesime. C. A. 362 r. — Delle maniche de’ coltelli fatte di corna di castrone. C. A. 362 r. — Delli archi fatti colli corni de’ buoi. C. A. 362 v. — 365. Delle piume ne’ letti. C. A. 362 r. — Del pettine nel telaio. F. 65 r. — Il filatoio da seta. C. A. 362 r. — Del lino che fa la cura delle genti. C. A. 362 r. — Del manico della scure. F. 64 v. — 366. Il bastone ch’è morto. C. A. 362 r. — De’ lacciuoli e trappole. C. A. 362 r. — Del moto dell’acque che portano i legnami che son morti. C. A. 362 r. — Dei carri e navi. I. 66 r. — Delle casse che riserrano molti tesori. C. A. 362 r. — 367. Del navigare. C. A. 362 v. — Del navigare. C. A. 362 v. — De’ navili che annegano. C. A. 362 r. — Li animali che van sopra le terre andando in zoccolo. C. A. 362 r. — 368. Delle baghe. R. 1317. — Del parasole.

Pag. 368. II. De’ sassi convertiti in calcina de’ quali si murano le prigioni. I. 66 v. — Dello specchiare le mura delle città nell’acqua de’ lor [435] fossi. C. A. 362 r. — Dei forni. I. 66 r. — 369. Ancora dei forni. I. 66 r. — Del mettere e trarre il pane dalla bocca del forno. C. A. 362 r. — Delle fornaci di mattoni e calcina. C. A. 362 r. — Delle armi da offendere. I. 64 v. — Il ferro uscito di sotto terra è morto, e se ne fa l’arme che ha morti tanti uomini. R. 1297. — 370. Delle spade e lance che per sè mai nuocono a nessuno. C. A. 362 r. — Delle stelle degli sproni. C. A. 362 r. — Del fuoco delle bombarde. R. 1297. — Delle bombarde ch’escan della fossa e della forma. C. A. 197 v. — 371. La pietra del fucile, che fa foco che consuma tutte le some delle legne, con che si disfan le selve; e cuocerassi con esse la carne delle bestie. R. 1297. — Dell’esca. C. A. 362 r. — De’ metalli. C. A. 362 r. — 372. De’ danari e oro. C. A. 36 r.

Pag. 372. Le profezie delle cerimonie. — De’ morti che si vanno a sotterrare. C. A. 362 v. — De li uffizi funerali e processioni e lumi e campane e compagnia. C. A. 143 v. — 373. Del dì de’ morti. C. A. 362 v. — Del pianto fatto il venerdì santo. C. A. 362 r. — De’ cristiani. C. A. 145 r. — Del turibolo dell’incenso. R. 1310. — De’ preti che dicono messa. C. A. 362 v. — De’ preti che tengono l’ostia in corpo. I. 65 v. — 374. De’ frati confessori. C. A. 362 v. — Delle pitture de’ santi adorate. C. A. 362 r. — Delle scolture. I. 65 v. — De’ crocefissi venduti. I. 66 v. — Della religione de’ frati che vivono per li loro santi, morti per assai tempo! I. 66 v. — 375. Del vendere il Paradiso. C. A. 362 v. — De’ frati che spendendo parole ricevono di gran ricchezze, e danno il Paradiso. C. A. 362 r. — Delle chiese e abitazion de’ frati.

Pag. 376. Le profezie dei costumi. — Dello sgomberare l’Ognissanti. C. A. 362 v. — Delli omini [436] che dorman nell’asse d’albero. C. A. 145 r. — Del battere il letto per rifarlo. C. A. 362 r. — I medici che vivono de’ malati. I. 66. v. — 377. Del comune. C. A. 36 r. — Profezia. G. 14 v.

Pag. 377. Le profezie de’ casi che non possono stare in natura. — Della fossa. C. A. 362 r. — Del peso posto sul piumaccio. C. A. 362 r. — 378. Del pigliare de’ pidocchi. C. A. 362 r. — Dell’attignere l’acqua con due secchie a una sola corda. C. A. 362 r.

Pag. 378. Le profezie delle cose filosofiche. — Dell’avaro. C. A. 362 r. — 379. Delli uomini che quanto più invecchiano più si fanno avari, chè avendosi a star poco dovrebbero farsi liberali. C. A. 362 r. — Del desiderio di ricchezza. I. 64 v. — Delle cose che si mangiano, che prima s’uccidono. C. A. 362 r. — Della bocca dell’omo ch’è sepoltura. I. 65 v. — Del cibo stato animato. C. A. 145 r. — 380. Della vita delli omini che ogni anno si mutano carne. R. 1311. — Della crudeltà dell’omo. C. A. 362 v. — 381. Della lettura de’ buoni libri. I. 64 r. — De’ libri che insegnano precetti. C. A 362 r. — Della fuma. I. 64 v. — Delle pelli delli animali che tengono il senso del tatto, che v’è sulle scritture. I. 64 v. — 382. Della storia. I. 65 v. — In ogni punto della terra si può fare divisione de’ due emisperi. C. A. 362 r. — In ogni punto è divisione da oriente a occidente. C. A. 362 r. — Degli emisperi, che sono infiniti e da infinite linee son divisi, in modo che sempre ciascuno omo n’ha una d’esse linee infra l’un de’ piedi e l’altro. C. A. 362 v. — 383. Delle nuvole. R. 1297. — La neve che fiocca, che è acqua. R. 1297. — La palla della neve rotolando sopra la neve. R. 1297. — Delle pioggie, che fanno che i fiumi intorbidati portan via le terre. C. A. 362 r. — 384. Questo sono li fiumi, che portano la terre da loro levate [437] dalle montagne, e le scaricano ai marini liti; e dove entra la terra si fugge il mare. R. 1297. — Dell’acqua, che corre torbida e mista con terra, e della polvere e nebbia mista coll’aria, e del foco misto col suo e altri con ciascuno. C. A. 362 r. — Il vento d’oriente che scorrerà in ponente. R. 1297. — 385. Della notte che non si conosce alcun colore. C. A. 362 r. — Del foco. C. A. 362 r. — Lo specchio cavo accende il foco col quale si scalda il forno, che ha il fondo, che sta sotto il suo cielo. R. 1297. — Traccia. R. 1297. — 386. Dei pianeti. I. 66 r. — Del consiglio. C. A. 36 r. — Della paura della povertà. C. A. 36 r. — Della bugia. I. 39 v.

LE FACEZIE.

Pag. 387. Di un frate ad un mercante. C. A. 147 v. — 389. Di un pittore ad un prete. C. A. 117 r. — Motto di un artigiano ad un signore. R. 1283. — 390. Bella risposta ad un pitagoreo. M. 58 v. — Risposta di un pittore. M. 58 v. — 391. Un amico ad un maldicente. C. A. 300 v. — Detto di un infermo. R. 1290. — 392. Detto di un dormiglione. R. 1292. — Arguzia. F. cop. v. — Risposta ad un motto. C. A. 12 r. — 393. Facezia ad un vantatore. C. A. 75 v. — Risposta ad un motto. C. A. 75 v. — 394. La stessa. C. A. 75 v. — Motto. C. A. 75 v. — Facezia di un prete. C. A. 75 v. — 395. Facezia. C. 19 v. — Motto arguto. — 396. Motto detto da un giovane ad un vecchio. T. 8 r. — Facezia. H. 37 r.

INDICE

Prefazione Pag. V
Tavola delle sigle LXIII
Le favole 1
Le allegorie 29
I pensieri 63
  Pensieri sulla scienza 65
  Pensieri sulla natura 111
  Pensieri sulla morale 185
  Pensieri sull’arte 231
    Difesa della pittura contro le arti liberali 231
    Il pittore e la pittura 274
    Paragone della pittura colla scultura 289
I paesi e le figure 299
  I paesi 301
  Il viaggio in Oriente 324
  Le figure 335
    Un gigante fantastico 342
Le profezie e le facezie 347
  Le profezie degli animali razionali 349
  Le profezie degli animali irrazionali 357
  Le profezie delle piante 362
  Le profezie delle cose materiali 363
  Le profezie delle cerimonie 372
  Le profezie dei costumi 376
  Le profezie de’ casi che non possono stare in natura 377
  Le profezie delle cose filosofiche 378
  Le facezie 387
Note 397
Sommarii e riferimenti 419

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice generale a fine volume.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.