The Project Gutenberg eBook of La peste di Milano del 1630

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Title: La peste di Milano del 1630

Author: Giuseppe Ripamonti

Translator: Francesco Cusani

Release date: March 21, 2023 [eBook #70335]

Language: Italian

Original publication: Italy: Pirotta

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PESTE DI MILANO DEL 1630 ***

La
Peste di Milano
del 1630


LA
PESTE DI MILANO
DEL
1630

LIBRI CINQUE

CAVATI DAGLI ANNALI DELLA CITTÀ
E SCRITTI PER ORDINE DEI LX DECURIONI

Dal Canonico della Scala

GIUSEPPE RIPAMONTI

ISTORIOGRAFO MILANESE

VOLGARIZZATI PER LA PRIMA VOLTA DALL’ORIGINALE LATINO
DA
FRANCESCO CUSANI

CON INTRODUZIONE E NOTE

Milano
Tipografia e Libreria Pirotta e C.
1841.


INDICE


[v]

A
SUOI CONCITTADINI
QUESTA NARRAZIONE
DI
TREMENDA CATASTROFE
CHE DESOLÒ LA COMUNE PATRIA
DAL PIÙ ELOQUENTE STORICO MILANESE
DI QUELLA ETÀ
TRAMANDATA AI POSTERI
NELL’IDIOMA DEL LAZIO
ORA
SVOLTA NELLA LINGUA D’ITALIA
PERCHÈ SIANO A TUTTI ESEMPIO
LA VIRTÙ GLI ERRORI LE SCIAGURE
DEI NOSTRI AVI
OFFRE
CON CANDIDO ANIMO
FRANCESCO CUSANI


[vii]

Introduzione DA UN RAGIONAMENTO INEDITO
SUI PRINCIPALI STORICI E CRONISTI MILANESI

DI

FRANCESCO CUSANI

I.

Siamo all’epoca spagnuola, che comprende un periodo di cento settant’anni, d’allora che le armi vittoriose di Carlo V e il Trattato di Cambray aggiunsero anche il nostro paese agli sterminati possedimenti di quel monarca, fino alla venuta degli Austriaci sull’incominciare dello scorso secolo. Epoca fatale e di amara ricordanza pei Lombardi! Re lontani e di tanto più difficile accesso, che per giungere a Madrid era d’uopo traversare la Francia quasi sempre in guerra colla Spagna, ovvero altri Stati Italiani per prendere imbarco in qualche porto del Mediterraneo. Governatori, che rappresentavano il Sovrano, estranei alle leggi, alle abitudini, alla [viii] lingua nostra, avidi di saziare la loro ambizione e l’avarizia, non reggevano, ma angariavano il paese ad essi per tre anni lasciato in balìa. Un Senato, composto in buona parte di Spagnuoli, che giudicava inappellabile come Iddio. Il Consiglio segreto di Stato; il Magistrato di Sanità; i Sessanta Decurioni; il Capitano di Giustizia; il Magistrato ordinario, lo Straordinario, tutti poteri che agivano indipendenti nella propria sfera, urtandosi e collidendosi sovente nell’esercizio dei loro attributi non troppo chiaramente definiti. All’allegria ed all’attività ingenita nei Lombardi sottentrò il cupo sussiego, l’albagia e l’indolenza spagnuola; quindi i nobili abbandonarono il commercio, riputandolo disonorevole al casato; le manifatture andarono in decadimento, le arti e gli studj furono negletti, le opere pubbliche trascurate, in breve il nostro paese, consumandosi per lenta inedia, da florido e ricco che era, fu ridotto sterile e inerte per mancanza d’industria agricola e manifatturiera e di civile energia.

Però l’attribuire il decadimento e la ruina della Lombardia esclusivamente al dominio spagnuolo, come fecero parecchi scrittori, mi sembra un peccare d’esagerazione. E valga il vero: que’ disordini erano in buona parte conseguenza del trambusto d’idee e di passioni, generale fra i popoli d’Europa, che, usciti di recente dall’età di mezzo, incominciavano a stabilire su nuovi principj i loro governi.

Ma, per tornare a noi, in due periodi credo si possa dividere l’epoca spagnuola: dal 1537 al 1632, e da quest’anno al 1705 in cui vennero gli Austriaci. Le due pestilenze del 1576 e 1630 sono fatalmente i fatti più importanti del primo; come S. Carlo e Federico Borromeo ne sono i più celebri personaggi. Il secondo non è segnato da verun grandioso avvenimento, giacchè prostrata dalla carestia e dai contagi, e rallentato l’impulso dato al clero ed al popolo da quei due arcivescovi, la Lombardia giacque in un letargo sempre più profondo.

Esaminando quali sieno le tradizioni storiche, conservate tra il popolo fino a noi, ho dimostrato essere poche e confuse, e procurai [ix] indagarne le cause[1]. Or bene, del dominio spagnuolo, il più lungo di tutti fra noi, altra memoria non sopravvisse nel volgo fuorchè quella di S. Carlo e della peste avvenuta sotto il suo pontificato.

Le visite fatte in tutta la milanese Diocesi, le riforme di tanti abusi, l’istituzione delle scuole della dottrina cristiana, le generosissime e continue limosine agli indigenti d’ogni classe; lo zelo e l’esimia carità di lui durante la peste, radicarono profondamente negli animi dei cittadini e dei campagnuoli la memoria di S. Carlo.

La congregazione degli Oblati, che lo ebbe a fondatore, mantenne d’età in età, per mezzo de’ Seminarj, viva nel clero milanese la ricordanza de’ suoi benefizi. Aggiungasi la venerazione del popolo, il quale accorre a pregare al sepolcro del santo arcivescovo, ed ogni anno, ricorrendo la festa di lui, soffermandosi dinanzi i quadri, che rappresentano i principali fatti della sua vita, ne rinnovella la memoria. In tal guisa si andò perpetuando questa tradizione religiosa e civile ad un tempo; e se ben consideriamo i meriti esimj del Borromeo, non è meraviglia che il nome di esso rappresenti tutta un’intera epoca pel popolo milanese. De’ tanti governatori spagnuoli e dei nostri concittadini, che pure furono celebri per virtù o delitti, non conservò il medesimo la ricordanza di un solo nome.

Ed a chi mi citasse il cardinale Federico, degno imitatore delle virtù di S. Carlo, e la peste del 1630, senza confronto più micidiale della precedente, risponderei che sarebbe errore il credere che avanti la pubblicazione dei Promessi Sposi se ne fosse conservata una tradizione popolare. Il voler qui indagare le ragioni presumibili d’un tale obblio sarebbe troppo lungo. Basti il dire che Federico, per carattere e pe’ suoi studj, fu di gran tratto meno popolare [x] del cugino. Quanto al contagio del 1630, il popolo, che confonde assai sovente le epoche, ne fece un solo coll’antecedente, di cui aveva conservata memoria a motivo sempre del Borromeo. In prova di che, interrogate anche in oggi gli uomini volgari intorno la peste di Milano, e vi risponderanno citando sempre quella di S. Carlo, come se mai vi fossero state altre pesti.

Onore dunque ad Alessandro Manzoni, che, adoperando con tanta potenza d’ingegno i materiali copiosissimi di cui riboccano le storie e gli archivii, sparse di luce sì viva quel luttuoso episodio della nostra storia, e richiamò gli studj e l’attenzione sopra uomini e vicende, caduti pei più in dimenticanza!

Ora, venendo agli storici ed ai cronisti milanesi dell’epoca spagnuola, incomincerò da[2]...

II.

Eccoci a Giuseppe Ripamonti, uno de’ più illustri e benemeriti scrittori delle cose patrie. Parlerò delle sue opere e della sua vita più a lungo che non abbia fatto degli altri storici, perchè le prime sono importantissime, e la seconda rimase finora ravvolta in una specie di nube misteriosa, che tenterò diradare.

Tutti gli scrittori milanesi contemporanei, i quali parlano del Ripamonti, lodandone alle stelle il sapere e l’elegante latinità, pochissimo dicono delle sue vicende. E per quanto io frugassi, non mi venne fatto di trovare neppure una parola intorno al processo e ad una prigionia di cinque anni da lui subíti.

Anche nella Biblioteca Ambrosiana, di cui fu dottore, non se ne rinviene traccia, meno un’annotazione[3], in cui è detto che il [xi] Ripamonti fu escluso, poi riammesso nel collegio, e null’altro. Girolamo Legnano, uno de’ 60 Decurioni, il quale lo incaricò di scrivere la storia di Milano, e che dopo la morte di lui pubblicò la Decade V.ª, contenente la vita di Federico Borromeo, serba egli pure un assoluto silenzio. Nella breve vita che premise a quella V.ª Decade dice: «Provò varj casi di fortuna, ora prospera, ora avversa; ma l’animo suo fu sempre imperterrito;» concetto così vago che significa un bel nulla. L’accusato medesimo, nelle sue opere posteriori, mai si lascia sfuggire parola intorno a’ proprj casi. Eppure il processo era stato sì lungo e clamoroso, che i contemporanei era impossibile l’ignorassero. Perchè dunque un sì generale ed assoluto silenzio? Per deferenza a’ dottori dell’Ambrosiana ed alla congregazione degli Oblati, parecchi membri della quale non figurarono troppo bene in quel processo. E la venerazione altresì al cardinale Federico indusse probabilmente al silenzio, giacchè, quantunque Egli non solo mitigasse la pena al Ripamonti, ma lo tenesse in seguito vicino a sè, colmandolo di favori, pure è sempre vero che lo aveva lasciato languire in carcere molt’anni per lenta procedura. Tutte le quali cose appariranno chiare da ciò che verremo esponendo.

Il primo a sparger luce sulla vita del Ripamonti fu Ignazio Cantù, consacrandovi il capitolo XLI delle sue Vicende della Brianza.

Egli esaminò il voluminoso processo sostenuto dal nostro storico, e che si rinvenne nell’archivio dell’Ill. Famiglia Borromeo, archivio prezioso per documenti importantissimi di storia patria[4]. Avendomi il conte Vitaliano Borromeo, colla cortesia che il distingue, permesso di esaminare i documenti relativi al Ripamonti ed alla Peste del 1630, io ne cavai molte nuove particolarità che varranno, di certo, a mettere del tutto in chiaro questa specie di mistero storico, non senza compiacenza degli amatori delle cose patrie.

[xii]

III.

Nacque Giuseppe Ripamonti nel 1577 a Tegnone[5], paesello della pieve di Missaglia in Brianza[6]. I parenti di lui non erano ricchi, ma, senza coltivare la terra, vivevano con parsimonia del ricavo de’ loro campi. Il fanciullo, di belle forme, cresceva robusto nell’aria balsamica di que’ ridenti colli; e siccome appalesava ingegno precoce e svegliatissimo, fu dai genitori destinato alla carriera ecclesiastica, che allora schiudeva largo campo d’onori e di fortuna anche ai giovani del ceto medio.

È bello sentire lo stesso Ripamonti raccontare quali furono i suoi studj.

«Sino alli 17 anni io sono stato allevato da mio zio curato di Barzanò[7], chiamato prete Battista Ripamonte, che è morto. Studiavo grammatica che m’insegnava detto mio barba. Io andai dopo li 17 anni in Seminario ad interessamento di mio barba suddetto, il quale m’haveva insegnato parte della lingua Hebraica della quale il sig. Cardinale si dilettava, e da esso sig. Cardinale fui esaminato e da lui posto nel Seminario in Canonica, nel quale stetti un anno. Et in detto Seminario il sig. Cardinale mi fece attendere alla lingua Hebraica et io l’insegnavo a certi altri giovani. Et perchè mio barba non poteva o non voleva pagare la dozzina del Seminario, uscii fuori, e mi misi in una camera vicino a Brera in compagnia d’un prete Antonio Giudici di Macconaga, et andava a Brera a scuola alla logica, et lì stetti un anno. Finito poi l’anno, mi ruppi con questo mio barba, [xiii] et andai a stare con il sig. Giacomo Resta in Milano per maestro d’un suo figlio che hoggi si chiama il sig. G. Battista, con il quale io stetti quattro anni. Dippoi andai a stare con il vescovo di Novara, monsignor Bescapè, quale mi voleva introdurre per scrivere sue lettere, con il quale stetti sei mesi. Dippoi ms. Settala, arciprete di Monza, mi fece andare a Monza per maestro di quella Comunità dove stetti duoi anni, et da Novara mi partii perchè non mi piaceva servire quel vescovo, et da Monza partii chiamato dall’Illustr. sig. Cardinale Borromeo nel Seminario di Milano, dove stetti per maestro di Grammatica per lo spatio di quattro anni circa. Nel qual tempo con li ammaestramenti et indirizzi dello stesso sig. Cardinale fui incamminato allo studio della Historia, et insieme della lingua Greca, Hebraica et Caldaica; nelle quali lingue avendo fatto qualche progresso, esso Cardinale, comandò ch’io attendessi solamente all’Historia. Et finiti detti quattro anni[8], dopo essere stato due anni nel detto Seminario a studiare ciò che il sig. Cardinale mi aveva ordinato, fui aggregato al Coleggio Ambrosiano et ivi addottorato, sebbene stetti altri quattro anni nel Seminario della Canonica. Poi per le liti che aveva coi rettori del Seminario, i quali pretendevano ch’io pagassi la dozzina, et io non pretendeva pagarla, il Cardinale per sua cortesia m’accettò in sua casa a sue spese, attendendo io al Coleggio Ambrosiano, dal quale era stipendiato di lire 1000 all’anno[9]».

Da questo passo apparisce chiara la predilezione che Federico ebbe pel Ripamonti, fin da quando lo conobbe giovanetto. Nel 1609, instituendo l’Ambrosiana, lo nominò dottore, affidandogli l’onorevole incarico di scrivere la storia patria; e più tardi, per toglierlo alle brighe in cui era avvolto coi colleghi del Seminario, l’accolse nel suo palazzo arcivescovile. Ne ottenne Federico gratitudine? [xiv] non troppa. Il Ripamonti, d’indole altiero e irrequieto, e facile a sparlare d’altrui, era, bisogna pur dirlo, un accattabrighe: s’inimicò il rettore del Seminario, un Bernardo Rainoni, dileggiandolo di continuo perchè balbuziente, e gli altri colleghi, non volendo uniformarsi alle rigide discipline della congregazione. È vero che essendo costoro uomini di poco ingegno e pedanteschi, mal sapevano tollerare la superiorità d’un letterato il quale viveva tutto solo intento agli studj.

Nè le cose camminavano meglio coi dottori dell’Ambrosiana, tra per l’irascibilità di lui, tra per l’invidia che il favore del Cardinale gli suscitava contro. Uno dei colleghi, il teologo Antonio Rusca, una volta trafugò e nascose la medaglia che il Ripamonti portava al collo, come distintivo della carica. Corsero tra l’offeso e l’offensore dapprima parole d’insulto, poi vennero alle mani. Anche col primo bibliotecario Antonio Olgiato col Giggeo ed il Salmazia, furonvi aspri e ripetuti alterchi, i quali, sebbene eccitati da frivoli cause, esacerbarono in guisa gli animi contro il Ripamonti, che non tardò a scoppiare la tempesta. Uscita in luce nel 1617 la prima Decade della Storia Ecclesiastica di Milano, ottenne elogi universali, e lo stesso Federico ne lodò l’autore. Ma i suoi avversarj lo accusarono di aver narrato i proprj casi, e così pure di avere qua e là denigrato con maligne allusioni il buon nome di parecchi suoi colleghi, tanto del Seminario che della Biblioteca, e di avere, nel raccontare le vicende di un prete Fortunato, falsate le lettere di S. Gregorio Magno, d’onde aveva tolto quell’episodio.

Vociferavasi che, durante la stampa, avesse intrusa quella storia nel manoscritto già approvato dal censore Bariola, membro del Santo Uffizio.

Rispondeva il Ripamonti, averne avuta licenza a voce, ma siccome il censore era morto nel frattempo, riusciva impossibile dicifrare il vero. Frattanto, l’istabilità di carattere, l’amore di lucro e forse più di tutto il presentimento delle vendette minacciate, invogliarono il Ripamonti ad accettare l’offerta del conte di Toledo, [xv] governatore di Milano, il quale voleva condurlo in Spagna, stipendiandolo per iscrivere storie. Federico, zelante protettore degli studj, e buon letterato egli stesso, non poteva di certo essere indifferente alla perdita del suo protetto, il quale, ad onta d’un carattere irascibile e irrequieto, dava lustro al nascente Collegio Ambrosiano, ed avrebbe fatto onore all’arcivescovo ed alla patria, continuando a pubblicare le sue Decadi. Però Federico, come esigeva la dignità sua, non pose ostacolo all’andata di Ripamonti, limitandosi ad una tacita disapprovazione. Questa bastò a rendere dubbioso il nostro scrittore, che era d’un’instabilità senza pari.

Chiunque non abbia avuta la flemma di scorrere il lunghissimo processo di lui, mal crederebbe quante volte mutasse consiglio; ora lietissimo di recarsi in Spagna, ora pentito d’abbandonare la patria ed il suo illustre mecenate. In queste dubbiezze trascorse la primavera del 1618. Alfine lo stipendio di 400 ducatoni annui e la metà di questa somma che gli venne sborsata nel luglio dal segretario del Toledo, vinse la titubanza del Ripamonti a partire senza l’esplicito consenso del Cardinale. Ma, pochi giorni dopo, si pentì per la centesima volta, e col mezzo d’un Padre Ignazio cappuccino, «il quale fece il servitio[10]», fece restituire i 200 ducati. Mandò in pari tempo l’abbate di Chiaravalle ad intercedere perdono da Federigo, il quale trovavasi nella sua villa di Groppello, supplicando gli permettesse di rimanere ivi, perchè temeva una vendetta del governatore. L’arcivescovo non volle riceverlo, e rispose: «facesse quello che gli tornava a conto, che egli non ne voleva saper altro[11]». Suggerì però che si recasse in casa del proposto Melzi alla Canonica, presso Vaprio (29 luglio): «Et gli piacque (al Ripamonti) et andò et pregò me che subito fatta la restituzione dei suddetti denari dal Padre Capucino, io l’hauisassi subito per un uomo a posta per sua consolatione, perchè non [xvi] hauria potuto dormire fin a tanto che non haueva nuova della restituzione: di che lo consolai la mattina seguente[12]». Ma la consolazione fu assai breve, perchè ai primi d’agosto venne ivi arrestato.

Vistosi a mal partito, trovò il mezzo di spedire segretamente una lettera al segretario del conte di Toledo: Mi vien fatta violenza, scriveva, dimani mi porteranno altrove e non so il luogo. Perciò supplico V. E. a cavarmi dalle mani, perchè ad ogni modo voglio venire in Spagna seco[13].

Ma il vecchio e bizzarro spagnuolo, per quanto ambisse d’avere al suo servigio un elegante storico, non era uomo da tirarsi addosso una seria contestazione coll’autorità ecclesiastica, per difendere un uomo di carattere così volubile[14]. Ripamonti fu tradotto il giorno seguente a Milano, dove ebbe per carcere una stanza del palazzo arcivescovile; e si aprì l’inquisizione.

I capi d’accusa furono:

D’avere nella Decade Prima della sua Storia Ecclesiastica di Milano intruso, mentre stampavasi, la storia del prete Fortunato dopo la revisione del censore, raccontando sotto il nome di Fortunato i casi del Rainoni, rettore del Seminario. — D’avere ricordate certe azioni di S. Agostino prima della sua conversione, che era bello tacere, e di aver derisa la canonizzazione di S. Carlo. — Gli si imputava che sotto il nome di certi finti religiosi, vissuti all’epoca di S. Ambrogio, raffigurasse alcuni suoi colleghi, deridendoli con maligne allusioni. — Che negli anni in cui era maestro in Seminario, trascurasse i doveri religiosi a tale che non l’avevano mai veduto recitare l’ufficio, e neppure farsi il segno di croce. — Da ultimo accusavasi perfino di ateismo, e di negare l’immortalità dell’anima. — Ripamonti venne imputato anche di vergognose turpitudini; ma fin da principio emerse sì patente la calunnia, [xvii] che di ciò non si fece più motto durante la procedura o nella sentenza.

Oppresso da sì gravi accuse e spinto dal naturale desiderio della libertà, l’inquisito cercò sedurre il carceriere, promettendo venticinque scudi se voleva dargli mano, e rifugiarsi seco presso il Duca di Savoja, il quale, come dicemmo, l’aveva invitato alla sua Corte con largo stipendio. Trovato incorruttibile colui, una sera uscì pian piano, e, serratolo a chiave nella vicina stanza, stava già per uscire quatto quatto dall’arcivescovado, allorchè fu raggiunto dal custode, che i compagni accorsi alle sue grida avevano liberato.

Codesto tentativo d’evasione, di cui il Ripamonti cercava giustificarsi, dicendo temere che il Cardinale volesse farlo morire in prigione, complicò il processo, tanto più che il carceriere, per stolidaggine o per vendetta, l’accusò d’essere indemoniato. Crebbero i rigori, nè gli fu conceduto altro libro che il Breviario; soltanto a Pasqua 1619 gli si accordarono le Opere di Cicerone. La quale mancanza di libri dovè riuscire penosissima ad un uomo avvezzo dall’infanzia a studiare gran parte del giorno. Vennero esaminati tutti i dottori dell’Ambrosiana, gli Oblati del Seminario e quanti avevano avuta relazione in qualsiasi modo col Ripamonti, e le deposizioni loro furono aggravanti per l’accusato.

Il vicario ecclesiastico criminale Arcelli, cui era devoluta la causa, era suo personale nemico, e per soprappiù uomo da poco[15].

I torti reali del Ripamonti, e le suggestioni de’ molti suoi nemici, bilanciavano in cuore del Cardinale la stima e l’affetto che nutriva per esso, per cui mal sapeva indursi a condannarlo o ad assolverlo. Riferiremo in prova alcuni brani di lettere scritte a’ suoi procuratori presso la Corte di Roma che palesano l’animo benevolo e moderato dell’esimio Federico.

[xviii]

A Monsignor Settala.

Roma, 19 Settembre 1618.

Il Ripamonti non sta in privato carcere ma in prigione formale da quei primi giorni in qua, che si tenne in una camera sinchè si terminassero alcune cose concernenti la sua persona. Ne si trattiene per impedirgli l’andare e servire il Sig. D. Pietro di Toledos; ma per le cause che si vedranno a suo tempo dal medesimo processo, il quale si va facendo giuridicamente. Avvenga che si stimi d’andar procurando la verità con qualche destrezza e con un poco tempo, anzichè usare certi termini rigorosi di torture, e simili. Non essendo possibile d’ovviare che il mondo non dica ciò che le pare in questo come nel rimanente, Vostra Signoria assicuri Nostro Signore, et ogni uno con chi occorrerà trattarne, che dal vedere il processo quale si manderà, resteranno soddisfati della maniera con cui si procede, e vedranno i fini che si hanno in questa causa, ec.

A Monsignor Besozzo.

28 Marzo 1619.

Attendete voi a spedire il negozio del Ripamonti, restate in concerto col Padre Commissario che di tutto quello che qui seguirà, se ne darà parte costì. Et che bisogna solo pensare alla sicurezza, acciocchè non ci dia costui un giorno da sospirare a tutti; et che questo è il mio fine et timore. Perchè se non fosse questo io già l’hauerei lasciato di prigione 6 mesi sono, ec.

[xix]

A Monsignor Besozzo.

17 Aprile 1619.

Alla carcere perpetua che certi disegnano condannare il Ripamonti, io non posso inclinare tenendola per troppo gran pena. Ma vorrei che fosse per qualch’anni, come già vi scrissi. Et con disegno di poterlo anco dopo alcun tempo habilitare per ajutarlo con ogni possibile mezzo, e non lasciarlo cadere in qualche miserabil stato o disperatione. Vedete però di operare che l’ispedizione sia tale che ci resti maniera di usarle misericordia, se si vedrà emendato, et speranza di ridurlo in buon segno. Almeno si potrà pigliar l’espediente di soprassedere un poco nella causa et tenerla alquanto sospesa, et dare un poco di tempo per poter meglio deliberare. Et il tempo mostrerà quello che si ha da fare. E se S. Santità dubita di qualche molestia che possa ricevere per questa causa tenuta così in sospeso, rispondere quando si sentirà alcuna cosa all’hora si potrà poi deliberare subito senza dimora. Così veremo a fuggire pericoli da tutte due le parti, ec.

Al medesimo.

11 Maggio 1619.

Nel negotio del Ripamonti per far bene bisogna che non sappia quello che si è deliberato costì perchè entrerebbe in superbia e sarebbe peggiore ogni dì più. Però desidero che lo tenghino in timore, poi staremo a vedere, ec.[16].

[xx]

Da queste lettere avrete scorto, o lettori, come il Pontefice e la congregazione de’ Cardinali avessero avocato a loro, quai giudici supremi in materie ecclesiastiche, l’affare del Ripamonti. Il padre dell’accusato si rivolse al Papa nella primavera del 1619, col seguente ricorso che trovasi negli atti del Processo, e che riferiremo come documento importantissimo.

«Bartolomeo Ripamonti devotissimo servitore di Vostra Santità umilissimamente li espone qualmente Giuseppe suo figlio sacerdote ed autore dell’Historia Ecclesiastica di Milano, doppo longo servicio fatto al Sig. Cardinale Borromeo così nel Seminario come nel coleggio ambrosiano et in altre occasioni, a persecutione d’alcuni suoi emuli et maleuoli che con diaboliche suggestioni et falsi pretesti gli hanno implacabilmente irrittato contro il Sig. Cardinale viene ritenuto prigione a quella corte archiepiscopale da molti mesi in qua, senza sapersi il pretesto della sua carcerazione. Et per molte istanze che si siano fatte di haver copia degli indiccj, o di habilitarlo con sigurtà, et promesse haute della sua liberatione, non si è però potuto mai conseguire cosa alcuna, nemeno vedere che si formi altro processo contro di lui. Disperando pertanto il povero petente di poter hauere altro compimento di giustizia a quella corte, ne da alcuno de’ suoi ministri, et vedendo già in manifesto pericolo il figlio per la poca sua sanità offesa anche dal patire longo delle carceri, supplica humilissimamente Vostra Santità a degnarsi ordinare che la causa sia conosciuta per giustizia, e terminata da alcuno de’ Cardinali della Sacra Congregazione dei Vescovi, o da altro giudice di questa corte, con commandare che sia trasmessa la inquisitione, et processo contro di esso fabbricato quando ve ne sia, che sarà gratia della molta pietà di Vostra Beatitudine quam Deus, ec.

Giovan Ambrogio Crivelli
Per il Supplicante.

[xxi]

Infatti i cardinali Millino e Cadonisi scrissero, d’ordine del Papa, a Federico, che facesse terminare il Processo, custodendo frattanto l’accusato, ed informando a Roma de’ suoi diporti[17]. Ma che fosse, che non fosse, per due anni l’affare rimase stazionario, e trovasi una lacuna nella procedura dal 1620 al 1622.

Il prigioniero, languente in carcere da quattro anni, e ridotto a pessimo stato di salute, instava che lo mandassero a Roma per essere giudicato; anche la Congregazione lo reclamava colà; e infatti il cardinale Millino, tra le altre lettere, scrisse il 22 aprile 1622 avere il padre del Ripamonti presentato un nuovo ricorso al Papa: Il quale ordinò che si faccia venire a Roma insieme al suo processo, et per l’esecuzione S. S. mi ha comesso di scrivere a V. S. Ill. perchè il suddetto Giuseppe sia rilasciato con rinnovare la sigurtà data altre volte di 4000 scudi di venir qui addirittura tra 20 o 25 giorni et presentarsi a questo S. Ufficio, col mandare al tempo stesso le scritture relative[18]. Allora Federico, posto alle strette, nè trovando conveniente che un uomo così irascibile, ed inasprito da lunga prigionia, si recasse a Roma, affidò la causa all’inquisitore generale Abbondio Lambertenghi ed al vicario Antonino, succeduto all’Arcelli. Nel luglio vennero uditi per la prima volta, dopo sì lungo tempo, i testimonj in difesa. Il confessore del Seminario, varj parrochi e sacerdoti, alcuni segretarj del Senato e molte persone d’integra fama di Milano, Pavia, Lodi ed altre città, deposero tutti a favore del Ripamonti. Un canonico Rossignoli del Duomo, nominato difensore d’Ufficio con altri due causidici, sventò di molto le accuse, ed il 16 agosto di quell’anno venne finalmente emanata la sentenza.

Dichiarato nel preambolo essere egli meritevole di severo gastigo, ma che pure volevasi usare qualche benignità, venne condannato:

I. Ad incorrere nelle censure ecclesiastiche del Concilio Lateranense, con facoltà però d’invocarne l’assoluzione.

[xxii]

II. A tre anni di prigionia nelle carceri arcivescovili e ad altri due anni in qualche luogo pio a scelta dell’arcivescovo, e ciò a titolo d’emenda, e coll’obbligo di dare idonea sigurtà.

III. Sospesa la sua storia finchè non si ristampi colle debite correzioni.

IV. Proibita la pubblicazione di altre opere senza speciale autorizzazione del Santo Ufficio.

V. Gli fu ordinato di digiunare per un anno tutti i venerdì, e di recitare il rosario ogni settimana.

Venne lasciata facoltà all’Arcivescovo ed agli Inquisitori di commutare ed alleggerire la condanna.

Fu equa codesta sentenza ed il severo castigo pari alla gravità delle colpe? Ecco il dubbio che sorge nell’animo di ogni lettore imparziale. Siami quindi conceduto di esporre quanto, dopo il minuto esame ch’io dovetti necessariamente fare del Processo e d’altri documenti, emerge, a senso mio, di vero o almeno di molto probabile.

L’accusa d’aver falsato il passo di S. Gregorio, narrando i casi di prete Fortunato, è falsa, e basta a provarlo il semplice raffronto dei due testi[19]. Quanto ai passi, nei quali il nostro Autore venne accusato di sparlare di S. Carlo e di S. Agostino, è un’imputazione assai vaga e insostenibile, per poco che si ammetta una ragionevole libertà di opinioni nello storico.

L’accusa gravissima di ateismo e di materialismo, non solo manca di prove reali, ma è sventata da validissime testimonianze in contrario. Le quali testimonianze d’uomini riputati per dottrina e pietà non mancarono al Ripamonti per giustificarlo altresì di aver sempre trascurati i proprj doveri ecclesiastici.

[xxiii]

Una riprovevole freddezza nell’adempiere gli obblighi del suo stato non curandosi d’altro che degli studj, un carattere irascibile e impaziente di qualunque disciplina, la facilità di mettere in ridicolo chiunque non gli andasse a genio, l’amor del denaro un po’ spinto e la poca gratitudine per l’Arcivescovo suo benefattore; ecco i veri e provati torti del Ripamonti, che lo rendevano meritevole di gastigo, ma che vennero oltre misura ingranditi dall’astio profondo de’ molti suoi nemici.

Persuaso di non aver meritato le severe pene inflitte dalla sentenza, egli voleva appellarsene a Roma; ma calmato il primo sdegno, con più savio consiglio invocò grazia dall’Arcivescovo, il quale, d’animo benigno e ritenendolo abbastanza punito, mutò la prigionia in un semplice arresto nel suo palazzo. Esultante il Ripamonti per tale grazia, che mitigava quasi per intero la rigorosa sentenza, dettò, la mattina del 29 settembre, la seguente dichiarazione:

«Constituito io Prete Gioseffo Ripamonti alla presenza di noi Notaro e testimonij infrascritti: Dico e protesto che mia mente non fu, nè di presente è, che hauendo io renontiato all’appellatione ch’era stata da me interposta dalla sentenza data contro di me dai signori Giudici Deputati da Monsignor Illustrissimo Cardinale Borromeo Arcivescovo di Milano mio Signore e Padrone con rimettermi del tutto alla pietà del Signor Illustrissimo acciò modificasse le pene e penitenze impostemi in detta sentenza, persona alcuna facesse più ricorso dal sommo Pontefice nè da altro superiore per ottenere la reuisione o altr’ordine contra detta sentenza, et se tal ricorso è stato fatto dopo detta mia renuntia, ciò non è stato fatto di mio consenso et più non uoglio che sortisca effetto alcuno. E perchè detto Monsignor Illustrissimo hieri per quanto da te notaro mi fu notificato, ordinò che io fossi allargato con assegnarmi (per sua mera gratia e benignità) tutto il palazzo arcivescovile, con che io dia prima sicurtà di non partirmi poi senza prima speciale licenza, dico et protesto, che l’intentione mia è, che quando io sarò posto in tal libertà, nel qual caso io potrò a mio piacere trattare con miei parenti et amici e dargli quei ordini che a me pareranno [xxiv] necessarj per mio seruitio se di nuouo fosse tentata cosa alcuna col far ricorso in mio nome, o in fauor mio al sommo Pontefice o ad altri superiori come sopra, ciò non sarà, ne uoglio che s’intenda fatto di mio consenso, se di ciò non constarà per qualche scrittura fatta o almeno firmata di mia mano perchè non intendo di far ricorso ad altro superiore per mio aiuto che al suddetto Monsignore Illustrissimo mio Signore e Pron. dalla cui pietà spero ottenere ogni giusta gratia[20]».

La lezione era stata amara, ma non inutile al nostro storico, poichè, rimessosi egli con ardore agli studj interrotti, ricuperò l’amicizia la protezione di Federico, e si aprì larga carriera di onori e fortuna. «Fu riammesso nei Dottori dell’Ambrosiana, anzi dichiarato di non licenziarsi mai, e graziato di aumento di soldo in lire 1600 all’anno in esecuzione della mente del Cardinale[21]».

Nominato dal re di Spagna canonico di Santa Maria della Scala, e storiografo regio[22] dal marchese di Legnanes, governatore di Milano, che lo tenne alcun tempo presso di sè[23], stampò la seconda (1625), indi la terza parte (1628) della sua Storia Ecclesiastica di Milano.

Cessata la peste, il Consiglio Generale lo incaricò di scriverne la storia, e Ripamonti la pubblicò nel 1640. Tre anni dopo diede in luce i primi dieci libri d’un grandioso lavoro affidatogli dal Consiglio medesimo, che l’aveva eletto a cronista patrio, vale a dire la Storia di Milano, dal 1313, dove ha termine quella di Tristano Caleo, fino alla morte di Federico Borromeo[24]. E attendeva a compiere quest’opera, ma i lunghi e laboriosi studj e la sofferta [xxv] prigionia avevano logorato il robusto temperamento di lui. Soprappreso da lenta febbre, gli si enfiarono, per idropisia, il ventre e le gambe. I più esperti medici, per decreto pubblico, ne intrapresero la cura; ma vani furono i rimedj[25]. Allora decisero, come sempre, che l’unica speranza di guarigione stava nel respirare l’aria nativa. Il malato andò sui colli briantei a Rovagnate in casa del parroco, ma cresciuta l’idropisia, il 14 agosto 1643, con cristiana rassegnazione trapassò[26].

L’annunzio della sua morte rattristò Milano e i letterati[27], e trovai scritto in certe Memorie che il Senato sospese la seduta a solenne testimonianza di lutto per la perdita dell’istoriografo della patria. Ma fu momentaneo entusiasmo, che si esaurì in gran numero d’epigrammi, nei quali, con tutta la gonfiezza del seicento, si portavano alle stelle l’ingegno e le opere di lui, e s’inveiva perfino contro la Parca che ardì troncargli la vita. Io ve ne fo grazia, o lettori, e se v’aggrada conoscerli, li troverete stampati in fronte ai diversi volumi delle sue storie. Neppure fu posta una lapide, che nella chiesa di Rovagnate ne additasse il sepolcro, anzi cadde in tale dimenticanza, che le sue vicende, e perfino l’epoca della sua morte, rimasero una specie di mistero fino ai giorni nostri. Del che niuno vorrà farsi meraviglia, infiniti essendo in tutte le epoche gli esempj di noncuranza e ingratitudine verso gli uomini benemeriti del proprio paese!

[xxvi]

Chiuderemo questa biografia, che i lettori mi perdoneranno d’aver forse allungata di soverchio, per la simpatia che ho a questo storico, e per il desiderio di rivendicarne la memoria, col ritratto che di esso ne lasciò un contemporaneo. «Imparò con tanta prestezza lettere greche et hebraiche, et arrivò tant’oltre nella perfezione di queste lingue, che facilmente si sarebbe fatto credere agli huomini d’esser nato et allevato piutosto in Atene o in Gerusalemme che in Lombardia. Ch’egli poi vaglia molto nella lingua latina, non m’affaticherò in accennarlo, posciachè riesce così mirabile in quella, come altri nella materna. Favorillo il cielo d’una sì tenace memoria, che di quanto ha letto distintamente si ricorda, e di questa virtù particolare se ne servì più volte nel sentire le prediche, le quali da esso nel tesoro della sua memoria portate a casa, nel latino idioma trasportava, come le aveva sentite in volgare. Al presente va componendo la vita del cardinale Federigo[28]».

IV.

Ora veniamo all’esame delle opere del Ripamonti in ordine cronologico. La Storia Ecclesiastica di Milano...

La Storia della Pestilenza del 1630 scritta, come abbiamo notato, per ordine dei 60 Decurioni, fu data in luce nel 1640 e dedicata al Consiglio Generale ed ai medesimi. È un volume in 4.º, di pagine 400 circa, diviso in cinque libri. La Carestia e la Peste. — Gli Untori. — Gesta di Federico Borromeo e del Clero durante il contagio. — Atti della Sanità ed altre magistrature. — Paralello fra gli antecedenti contagi e quello del 1630.

È libro importantissimo per autenticità, sì perchè l’autore fu [xxvii] testimonio oculare di gran parte degli avvenimenti, come perchè ebbe a sua disposizione gli archivj pubblici pei documenti necessarj. Il racconto è maestoso, energico, pittoresco; la lingua forbita, elegante, chè il Ripamonti conosceva e maneggiava il latino da maestro. Lo stile però si risente del falso gusto del tempo; quindi periodi intralciati, antitesi, arzigogoli, turgidezza di pensieri e d’immagini. I quali difetti rendono assai difficile ad intendersi, anche pei valenti latinisti, codesto libro.

Manzoni, che lo cita più volte ne’ Promessi Sposi, dice «questa narrazione va di gran lunga innanzi a tutte e per la scelta dei fatti e ancora più pel modo di vederli».

Le Decadi III, IV, V della Storia in continuazione di Tristano Calco...

V.

Alessandro Tadino, di antica e nobile famiglia milanese, fu aggregato al Collegio medico nel 1603. «Uomo, dice l’Argellati, che ad un grande ingegno e sapere univa molteplice esperienza e destrezza negli affari». Inviato dal Magistrato di Sanità come commissario sul lago di Como e nella Brianza, all’avvicinarsi della peste diede ottimi provvedimenti. Penetrato il contagio in Milano, il Tadino s’adoperò con zelo instancabile, e sostenne, si può dire, solo il grave incarico del Tribunale di Sanità, di cui era uno dei conservatori, stantechè il protofisico Settala era reso inabile ad operare dalla vecchiaja.

Tadino morì ottuagenario[29] il 26 novembre 1661, e fu sepolto nella chiesa de’ Cappuccini di Porta Orientale, benchè fino dal 1617 [xxviii] avesse posta, giusta una consuetudine non infrequente in quel secolo, la seguente lapide in Santa Maria della Passarella.

ALESSANDRO TADINO FILOSOFO E MEDICO
E GIOVANNA TADINO DONEGANA
CONJUGI CONCORDI
POSERO

Lasciò varie opere di medicina e la relazione della pestilenza del 1630, di cui diremo, avendolo appunto per essa annoverato fra i nostri storici. Ha il titolo pomposo di «Ragguaglio dell’Origine et Giornali Successi Della Gran Peste Contagiosa Venefica et Malefica seguita in Milano e suo Ducato dall’anno 1629 al 1631». Un volume in 4.º di pag. 150, stampato nel 1642, e dedicato al vicario di provvisione Francesco Orrigone.

Il Tadino dice che rimase perplesso in quale lingua scrivere, «sendoche in idioma latino dal fu D. Giuseppe Ripamonti alcuni anni sono fu data fuori. Ho risoluto valermi del naturale linguaggio anche perchè così dal pubblico era molto desiderata, come che con maggiore facilità da ogni qualunque persona potrà essere letta...... La mia fatica qual si sia contiene ciò che in questo contagio dal principio al fine è occorso. Un racconto minuto et distinto di tutti i casi di tempo in tempo et luogo seguiti in generale et in particolare, con molti ordini et provigioni fatte per beneficio publico».

Ed è veramente tale, offrendo questo Ragguaglio di particolarità storiche, mediche, statistiche, che invano si cercherebbero altrove. Quanto poi al pregio letterario del libro, il Tadino sta al Ripamonti come un disadorno ma esatto racconto prosaico sta ad un’elegante ed immaginosa narrazione poetica.

Un Agostino Lampugnani, benedettino, morto nel 1646 in S. Simpliciano, dov’era priore, pubblicò nel 1634 un libriccino, in cui nulla trovasi d’importante, e dettato con uno stile sì falso [xxix] e barocco che non si potrebbe far peggio. Lo cito soltanto per essere stato il primo a scrivere intorno la Peste: «Correndo il quart’anno, dic’egli, ch’è cessata, ne veggendosene ancora alcun volume alla luce, ho voluto intraprendere io a raccontarti quel poco che, trovandomi in essa, ho avvertito».

Pio della Croce, guardiano de’ Cappuccini, cinquant’anni dopo compilò, servendosi, a quanto pare, di una cronaca esistente nel suo convento a Porta Orientale, la Memoria delle cose notabili successe in Milano in quel contagio e del Ricorso dei signori della città ai Padri Cappuccini pel governo del Lazzaretto. Il libro è dedicato al marchese Giuseppe Arconati, pronipote di quello che si distinse nel 1630 come presidente della Sanità, e tratta per diffuso di quanto operarono i Cappuccini durante il contagio. Sotto quest’aspetto è di molto interesse, perchè è noto il gran bene che fecero quei Padri adoperandosi con uno zelo superiore ad ogni encomio.

Il conte Carlo Cavazzo della Somaglia nel suo Alleggiamento dello Stato di Milano per le imposte, ec., opera di cui ragioneremo più innanzi, offre importanti particolarità di statistica ed economia intorno il contagio.

Omettendo parecchi altri libri e scritti su questo argomento, che riuscirebbe nojoso e superfluo l’enumerarli, conchiuderò con uno di sommo rilievo. È un manoscritto del cardinale Federico Borromeo che si conserva nell’Ambrosiana tutto di sua propria mano, col titolo: De Pestilentia quæ Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. L’esposizione di varj fatti dei quali Federico fu testimonio, le sue opinioni intorno gli Untori, l’impulso che diede al proprio clero, sono dati preziosi a chi studia codesto periodo. Il Ripamonti trasfuse nel libro III della sua storia i passi più rilevanti di esso racconto.

E basti, poichè di editti, processi, lettere e documenti d’ogni genere intorno la Peste del 1630 riboccano i nostri archivj pubblici, e varj delle famiglie private, in guisa che lo storico, nell’abbondanza dei materiali, trovasi imbarazzato a scegliere.

[xxx]

Venendo ora agli storici milanesi che scrissero durante il secondo periodo del dominio Spagnuolo, ecc....


Il desiderio di far conoscere a’ miei concittadini questa storia della Peste che rimaneva necessariamente ignota al più de’ lettori, m’indusse a tradurla. Come vi sia riuscito, ne giudichino gl’intelligenti latinisti, i quali condoneranno, spero, i difetti della versione, in vista della somma difficoltà del testo talvolta quasi inintelligibile.

Quanto alle note, io le desunsi dagli autori contemporanei e da documenti inediti, nè mi si farà, spero, rimprovero d’avere in esse ecceduto, ove si consideri che valgono a mettere in luce il più fatale e miserando periodo della storia milanese.

Il Traduttore.

[xxxi]

Agli Illustrissimi Signori IL VICARIO ED I SESSANTA DECURIONI DEL CONSIGLIO GENERALE DELLA CITTÀ DI MILANO

Volge il terz’anno dacchè il Consiglio Generale, per decreto degli Illustrissimi Decurioni, affidommi la cura di raccogliere i documenti della patria storia, e di ordinarli in continuata narrazione dall’origine della città nostra fino al principio del regno di Filippo II ed alla morte di S. Carlo. E siccome la nostra Opera riuniva sotto un titolo ecclesiastico [xxxii] le cose sacre e le profane insieme, fu decretato, per servire alla fama di Milano, che le Memorie da me anche posteriormente raccolte fossero scritte nella lingua del Lazio, come quella che sempre venne giudicata propria alle storie, e che sola può rendere sempiterna la ricordanza degli umani eventi. Così statuirono i due sapienti decurioni Giovanni Maria marchese Visconti e Gerolamo Legnani[30], a’ quali era affidata la tutela della storia patria. Opinarono essi che i miei scritti aggiunti a’ volumi già da me dati in luce, formerebbero uniti un corpo di storia completo e d’uniforme tenore; monumento che fra tanti d’Insubria manca tuttora al desiderio degli studiosi.

Le memorie dell’Insubria e di Milano, dalla sua fondazione fino ai giorni nostri, ci furono, è vero, tramandate da molti e chiari autori; ma nè l’arte, nè la diligenza sono eguali in essi, nè tutti servironsi, nel compilarle, della medesima lingua. Talvolta si contraddicono gli uni gli altri; e la storia di Milano, come quella dei grandi imperj, pecca per soverchia copia di materiali, laonde soccombe, per così dire, sotto il proprio peso.

Non facilmente si troverebbe altrove una schiera numerosa di scrittori quale ne offre Milano, città dal poeta Ausonio, precettore dei Cesari, chiamata Roma Seconda; a misura che in essa succedevansi gli avvenimenti, cresceva tra gli uomini d’ingegno il desiderio di lasciarne memoria nei loro scritti. Ciò accadde ai tempi della Repubblica, allora cioè che i Milanesi liberi governavano l’Insubria [xxxiii] con regime quasi eguale a quel de’ Romani, e vieppiù allorquando essa Repubblica cadde in eredità dei duchi. Da ultimo crebbe il numero degli scrittori dappoi che, spenta la milanese repubblica ed estinta poscia la stirpe dei duchi, venne la città nostra aggregata all’impero del cattolico monarca.

Fuvvi adunque, ripeto, una turba di storici i quali scrissero o di proprio moto o per ordine di chi comandava, e che sono diversi tra loro per indole e per tendenze. Galvano Fiamma inclina volontieri a’ favolosi racconti, derivando da’ tempi eroici i nomi delle più illustri famiglie, mescolando sempre qualche miracolo all’accaduto, vago di narrare cose incredibili anche laddove la nuda verità basterebbe ad allettare i leggitori. Altri, scrittore sincero, si smarrisce nella caligine dei tempi, e non dà per sicuro se non quanto rinviene negli archivj. Alcuni de’ nostri storici studiarono la brevità dello stile, invece l’Arluno, coll’ampollosità de’ vocaboli e lo scrivere prolisso, guastò le sue storie colla vaniloquenza, come del declamatore Alcidamante riferisce Platone.

Taluni lasciarono giornali delle cose accadute a’ tempi loro in Milano. Bonaventura Castiglioni, già canonico della Scala e nostro collega, fece raccolta di iscrizioni e di marmi, e con non lieve fatica, sebbene da molti stimata pedantesca, notando luoghi, epoche, nomi, e colla durevole memoria delle lapidi fe’ in guisa che la patria, per così dire, narrasse i proprj casi, divenuta storica di sè medesima. Tristano Calco e Simonetta, i soli due tra i nostri che si sforzarono di raggiungere il genio dell’antica storia romana, lasciarono imperfette le loro opere; il Simonetta la sua Sforzeide ed il Calco la Storia di Milano, che non continuò oltre la morte dell’imperatore Enrico III.

Per la qual cosa i due sullodati Decurioni stimarono partito più facile e più idoneo che io, ripigliando il filo delle [xxxiv] storie milanesi, le quali scrissi e pubblicai in addietro, le continuassi collo stesso metodo. Sono tre anni che m’affidarono codesto incarico: morto nel frattempo il Visconti, il superstite collega di lui, Legnano, continuò ad instare perchè dessi mano alla storia di cui m’aveva incaricato, e che avrebbe potuto scrivere benissimo egli stesso. Io non reputai quindi di oltre procrastinare, e pigliate le mosse dalla fine del regno di Filippo II e dai principj dei due Borromei, dapprima reggente il vicario Sormani, indi il vicario Archinti, stabilii narrare i casi e le azioni di questo periodo, e la guerra che ora si combatte implacabile ed atroce fra i due re, e che sarà famosa anche alle venture generazioni. Un volume di questa storia consegnai al decurione Legnano perchè, esaminatolo giusta l’ufficio suo, decida se debbasi tosto dar mano a stamparlo, ovvero sospendere, secondochè approverà o no il mio scritto. Frattanto, avendo io raccolte parecchie note e memorie intorno la peste che fu in Milano nel MDCXXX, risolvetti, tra per sdebitarmi in parte col Legnano, tra per le vive istanze del vicario Castiglioni, poi dell’Alfieri, suo successore, di pubblicare il racconto di essa peste diviso in cinque Libri, stampandoli senza indugio, staccati dal corpo delle storie. E ciò, dietro l’esempio di celebri storici, i quali staccarono alcun brano dell’opera loro, allorchè o la grandezza d’un avvenimento superava ogni altro, ovvero l’ammirazione ond’erano compresi li infiammava ad illustrarlo con maggior cura. — Siami lecito imitare l’esempio loro, quantunque non possa eguagliarne i pregi.

Cercai procacciare un grand’onore a questo mio lieve e melanconico lavoro, pubblicandolo in nome del Consiglio Generale, e dedicandolo a voi, Illustrissimi Decurioni, com’era di diritto. Nato sotto i vostri auspicii, a voi era devoluto, che foste in quell’epoca funestissima padri della [xxxv] patria e di codesta città. L’ordine vostro, durante quella strage, erogò denaro in tal copia, che alle altre genti sembrerà incredibile come siasi potuto raccogliere, qualora con minuto esame de’ giornali e de’ libri non vedano in che fu speso. E invero, le generose vostre offerte furono tali da equivalere al valore di altre città.

Giuseppe Ripamonti

[1]

LIBRO PRIMO CONDIZIONE DI MILANO PRIMA DEL CONTAGIO. — LA CARESTIA. — LA PESTE.

[3]

I[31]

Scrittori sì nazionali che stranieri narrarono l’origine ed i primordj della città di Milano, e quanto in essa accadde poscia di memorabile per vizi e virtù cittadine, e pel volgere delle umane sorti. Noi pure imprendemmo, non ha molto, a trattare questa storia, esponendo in trenta libri molti avvenimenti degni di ricordanza. E in vero, dopo l’epoca romana, e quel Senato che governava il mondo, non fuvvi, a mio credere, repubblica o popolo alcuno che più del milanese offrisse esempj di beni e di mali, e un più continuo avvicendarsi di paci, di guerre e di studj civili. A Milano fiorirono, più che altrove, codesti studj, e gli scrittori qui [4] volsero l’ingegno alla istruzione degli uomini. Tutte le quali cose io credo averle esposte nella citata mia storia.

Ma ora che m’accingo a narrare le orrende stragi della peste, la città stremata dalle morti, e i diritti più sacri di natura violati, m’è d’uopo impetrare indulgenza dai lettori, i quali, nella loro politica gravità, forse spregeranno me ed il mio racconto al leggere codesta atroce e mesta storia simile a squallido deserto. Però non fia inutile rivolgervi la mente: gli uomini onesti, stanchi delle frodi e delle tristizie che deturpano i nostri annali, vedranno in questo racconto il gastigo dei vizj, e stimeranno adequatamente cose che loro danno sì gran pensiero, qualora vedano tante migliaja di uomini essere periti pel loro alito avvelenato, tante famiglie rimaste senza eredi; la metropoli fatta deserta, e insultata la gloria e la rinomanza del nome. Da ultimo, per mostrare quanto più sia fatale codesta rinomanza, di cui taluni cotanto insuperbiscono, e perchè viemeglio si conosca la fierezza della pestilenza, e da quali principj originata, grado a grado diventasse così desolatrice, io premetterò alcuni cenni sulla posizione e lo stato di Milano prima della catastrofe che per poco non la distrusse.

II. Posizione e stato della città avanti la Peste.

Milano, situata in un’aperta pianura, riceve purissimi i raggi del sole, vantaggio non comune ad ogni città. L’aria salubre non è contaminata dai vapori degli irrigati terreni, i quali danno abbondanti raccolti, laonde il mite clima e [5] il suolo ubertoso nulla lasciano desiderare di quanto serve a nutrire gli uomini ed a rendere loro piacevole l’esistenza; nè più lunga, nè più felice scorre altrove la vita, purchè l’intemperanza non distrugga l’effetto di tanti doni di natura. Buona copia di frumento si esporta fra gli Svizzeri, i Grigioni ed altre genti che scarseggiano di terre coltivabili; e con tal mezzo si riesce spesso ad averli alleati, e si ottiene dai medesimi pegno di fede che non apriranno al nemico i passi dei loro monti verso la Lombardia. Così anche il principe, per rimunerarli della fedeltà, concede talvolta agli stessi licenza di estrarre granaglie, dividendo a metà il guadagno dei trasporti. I governatori poi adoperarono sovente questo modo speditissimo di far denari, sì grande è l’esuberanza dei grani nell’ubertoso agro milanese.

I due celebri fiumi, l’Adda e il Ticino, agevolano l’importazione e l’esportazione. Uscendo il primo dal Verbano, il secondo dal Lario, abbracciano, in tutta la sua larghezza, il milanese territorio, e andando a gettarsi per diversa via nel Po, il quale mette foce nell’Adriatico, avvicinano in certo modo l’Oceano alla città nostra. Imperocchè ogni merce che o viene dal mare o ad esso si deve condurre, trasportasi per un canale navigabile, che, estratto dall’Adda e dal Ticino, fa il giro delle mura, e la congiunge co’ due fiumi anzidetti.

Milano, potente per uomini, armi e ingegni, non è soltanto dominatrice de’ confinanti popoli, ma nutrice altresì di estranee genti. E l’essere non ultima cura del re Cattolico cui è suddita, accresce vieppiù lo splendore del suo nome, che in uno coll’Italia è il più bell’ornamento e la forza dell’impero di lui, che si estende su due mondi. Non ha Milano più di sette mila passi in circuito, ma fu tanto popolata, che molti de’ suoi quartieri somiglierebbero ad altrettante città qualora venissero isolati. Contava un tempo [6] trecento mila abitanti; duecento mila avanti la peste, cui mi sono proposto descrivere. Le abitazioni ed il vestire dei cittadini erano tali, che appalesavano ricchezza principesca; i grandi poi imitavano il fasto reale: i negozianti ed i banchieri erano divenuti sì ricchi, che, abbandonato il commercio e sprezzando ulteriori guadagni, innalzavano l’animo al dominare, e molti ambivano fregiarsi di coronati stemmi, ignoti ai loro oscuri antenati. Il mediatore si faceva coraggio di occupare i luoghi da essi abbandonati, l’infima plebe deponeva i cenci, e il marito spregiava la moglie se non indossava veste di seta ricamata in oro. L’abito di pura seta veniva ormai lasciato ai mendichi; il portar gemme, anello di gran valore in dito o orecchini divenne ostentazione spregiata, e le nobili matrone, cui tali ornamenti erano venuti a noja, quasi per soverchiare le donne del volgo, sfogavano la superbia vestendo con tutta semplicità. Del pari gli uomini facevano pompa di quadri, statue e d’altri miracoli dell’arte antica in sì gran copia, che io stimo non ve ne fossero tanti a Siracusa o nell’Attica, allorquando Marcello e Filippo il Macedone per diritto di guerra le devastarono.

Monumenti pubblici, oratori e poeti fanno fede che a Milano non fiorivano soltanto le belle arti, le quali, inventate dai Greci, dilettano gli occhi e l’udito, ma altresì le scienze educatrici degli uomini. Molti coltivarono con buon esito l’eloquenza e la poesia, lasciandone prova nelle opere loro. E come nella felice etade antica gli imperatori lavoravano colle proprie mani la terra, che, fessa da regio vomere, pareva dare più rigogliosi frutti, così a Milano i più nobili cittadini, applicando l’ingegno agli studj, ne traevano abbondevole messe. Nè la pestilenza, che tanti danni arrecò, mutando quasi interamente le cose, potè gran fatto nuocere alle lettere.

[7]

In esse coi ricchi gareggiavano anche i poveri, spronati, non come i primi, dalla gloria e dal desiderio di accrescere l’avita nobiltà, ma dall’amor del guadagno, e dalla speranza di premj in una città dove le lettere ottenevano la preminenza appo i dominatori. Infatti fu in ogni tempo sì grande la liberalità de’ principi nostri verso gli studiosi, che i fanciulli poveri ebbero agio ad istruirsi quanto i ricchi, e l’intera città sembrava un tempio sacro alle muse, se ponevasi mente alle scuole, ai collegi ed alle pubbliche librerie della medesima.

Così Milano, ricca, fiorentissima e beata un tempo, indi ridotta misera per intestine e continue discordie, superò altre città e popoli nelle scienze e nelle civili discipline. L’affetto alla religione primeggiava su tutto; e i costumi e le leggi del popolo milanese accrebbero fama alla metropoli per aver riunite cose fra loro disparate, e fatto sì che regnassero a vicenda la ricchezza pubblica e la temperanza, l’irrequietudine e l’ubbidienza dei cittadini, la carità pubblica ed il fasto, e quanti vizj per l’indole umana sono in continua lotta colle opposte virtù.

III. Come gli apparecchj di guerra, indi la fame, cominciassero ad affliggere Milano.

La pace inveterata e il lungo disuso delle guerre estere, che sono sorgente di beni e di mali per ogni città, avevano radicati i costumi e le abitudini da noi più sopra descritte. Dopo le guerre combattute tra Francesi e Spagnuoli [8] sotto i re Carlo V e Francesco I, per le quali con gran strage d’ambe le parti fu decisa la sorte del milanese ducato, nemico alcuno non aveva più disturbata la metropoli lombarda. E siccome ella non mosse guerra ad alcuno, rimase per quasi cento anni (1535-1630) tranquilla, siccome mare cui non agita il più lieve soffio di vento. Ma dappoichè i capi di molti regni e provincie, congiurati col fiero Enrico re di Francia, cominciarono ad armarsi, quel mare, immagine della città nostra, s’agitò con moto sì intestino che esterno, suscitando tale una burrasca, che ne addusse la guerra, la fame, e da ultimo la pestilenza, che quasi interamente ne distrusse. La mano ed il furore d’un solo uomo, seppure non fu la mano d’un nume, fiaccò ad un tratto quella tremenda congiura che minacciava principalmente la nostra città[32]. Ma i semi di quella congiura, sparsi da lontano, furono causa di molte vicende, che misero sossopra re e principi minori cogli odj, i sospetti, la tema per le atroci insidie che si erano tese gli uni gli altri, aizzati a ciò segretamente dai loro ministri. Durante il qual tempo, la nostra provincia, in mezzo a continui apparecchi guerreschi, attendeva che scoppiassero le ostilità, come conseguenza inevitabile della congiura.

[9]

IV. Dei governatori di Milano Fuentes, Velasco e Mendozza, e ancora dell’origine e delle cause di guerra.

Governava a que’ giorni Milano Azevedo, conte di Fuentes, il quale, mentre tutte le cose erano sicure e quiete, non si abbandonava al riposo. Educato fin dalla prima gioventù alle armi, che gli avevano procacciata fama di valoroso, ora che già vecchiezza il premeva, più che la stessa morte, abborriva dal terminare tranquilli i suoi giorni. Egli, per indole guerriero in tutta la sua vita, impaziente d’ozio, irrequieto, smodato ne’ desiderj, acceso della gloria, ansioso per inveterata fedeltà al suo re, d’ogni cosa sospettoso, a tutti sospetto egli stesso, simulatore, indagatore degli altrui pensieri, stipendiava uomini che spiassero non solamente le aule, ma i pensieri de’ principi inimici. E radunando ad un tempo armi e soldati ed ogni apparecchio di guerra, aveva ridotto a tale le cose, da tener assopiti, in una falsa sicurezza, i nemici, e da poter egli stesso co’ suoi preparativi farli avvertiti del pericolo in cui si trovavano, suscitandoli a muoversi. Ma già i mal certi suoi alleati, che in segreto gli erano nemici, di loro spontanea volontà si agitavano, ed ordivano macchinazioni. Rimane ancor dubbio se il vecchio governatore le avesse sottomano suscitate, ovvero se ignorandole, morisse di dolore posciachè le ebbe scoperte.

Comunque sia, per mirabile coincidenza opportunissima a mantenere la quiete, l’assassinio del re di Francia e la morte del conte di Fuentes accaddero quasi al tempo stesso. Il qual ultimo non saprebbesi dire se mancasse di vita per [10] vecchiaja o pel rammarico della sua congiura di repente sventata. Allora, per reciproca dissimulazione delle parti, non fu turbata la pace tra Francia e Spagna; e la Lombardia rimase più sicura che prima nol fosse nella vacillante pace.

Era questa però affatto precaria, e l’odio ed i guerreschi apparecchi tenevano in sospeso gli animi. Al morto Fuentes succedettero governatori Velasco e Mendozza, grandi di Spagna, nè temuti dai nemici, nè intenti a spiarne le mosse. Il Velasco, dedito agli studj ed ai piaceri, il Mendozza alquanto più attento all’ufficio suo, entrambi paghi della gloria dei loro avi, venivano lodati dai saggi perchè, malgrado le istigazioni di molti, mantenevano la pace e la tranquillità degli animi, cotanto necessaria a quell’epoca. Ruppe la quiete e l’ozio del Mendozza il duca di Savoja, il quale, nemico di suo genero, invase colle sue truppe il Mantovano, turbando la pace d’Italia, e dando un pessimo esempio agli altri principi col trascendere i limiti della moderazione. Le armi del re di Spagna s’interposero a difesa della parte più debole, e da ciò ebbe origine la calamità d’introdurre in Lombardia soldati stranieri, i quali vi diffusero il contagio. A questo precedette la carestia, di cui narrerò gli andamenti in quanto servono a rischiarare la storia di essa terribile pestilenza.

V. Toledo, Figueroa, Consalvo di Cordova governatori di Milano. — Origine della carestia.

Scoppiata, come dicemmo, la guerra, ed introdotti gli stranieri, si schiuse larghissimo adito alla fatale carestia ed [11] alla peste desolatrice, che per ordine naturale sovente le tiene dietro. Gli artifizj e la tristizia dei dominatori, non che la malvagità degli uomini accesero la guerra, e da questa scaturirono la fame e la pestilenza.

Le vettovaglie in vero bastavano a Milano, a’ suoi cittadini, a’ forastieri, alle truppe, e fino al nemico avventizio, giacchè da quindici anni alternavasi la guerra e la pace, durante la quale, esportavasi più frumento all’estero di quanto se ne consumasse per gli abitanti e pe’ soldati.

Codesta abbondanza di granaglie era dovuta in parte ai saggi regolamenti dei due governatori mandati da Spagna a reggere il milanese ducato, il conte di Toledo ed il Figueroa, tanto lodati dal pubblico quanto vennero biasimati i loro due antecessori.

Il conte di Toledo, che correva fama appartenesse alla famiglia reale di Spagna, era uomo cupo, avido di gloria, insofferente di rivali, sprezzatore di tutti in cuor suo, esperto nell’armi, aspro in tempo di pace: tutta la vita conformò ad esempio dell’antichità. I prudenti del nostro secolo però ardivano dare ben altri nomi alla virtù, all’innocenza ed alla severità del conte di Toledo. Ora agevolando, or restringendo l’esportazione delle vettovaglie, secondochè l’annata prometteva scarso od abbondante raccolto, e bilanciando le spese coi redditi come un diligente padre di famiglia, egli sempre provvide alle vettovaglie, e in tempo di guerra e quando per l’inclemenza delle stagioni scarseggiavano i grani. Mercè tali provvidenze, la carestia era scomparsa, e neppure se ne ricordava il nome.

La medesima sicurezza continuò sotto il Figueroa, che gli succedette. Benchè fosse giovane, non era inferiore per senno e per esperienza al Toledo, il quale, ormai decrepito, gli rendeva giustizia, non sdegnandosi punto che venisse [12] paragonato, e fino anteposto a lui. E veramente lo superava nella gentilezza dei modi e nelle arti d’ingannare gli scaltri, i quali si burlavano del vecchio e rabbuffato suo predecessore.

Dopo un breve interregno, ricominciando più accanita la guerra, venne governatore il Consalvo, uomo d’illustri natali e di animo grande; ma cui la sorte riuscì contraria negli affari d’Italia.

Dopo Consalvo, lo Spinola, tutto occupato nell’assedio di Casale. Per tale impresa, migliaja di soldati tedeschi discesero in Lombardia: il paese fu oppresso da imposte; i ricchi ammucchiavano grano, e la terra non dava raccolti. In tal modo, col trasportare il frumento pel campo, sprecarlo od occultarlo per avidità di guadagno, cominciò a patire la fame il nostro popolo, che dianzi alimentava le altre genti, e fu ridotto a tale, che anche vendendo ogni suppellettile, non trovava da comperare gli alimenti necessarj alla vita[33].

VI. Della fame che precedette la peste.

Molti e orribili esempj di fame trovansi raccolti negli storici, come più volte gli abitanti delle città assediate siansi nudriti de’ più schifosi animali, d’erbe e fin di cuojo, [13] e come talora per smania di cibo taluni si gettassero dalle mura, offrendo l’inerme petto ai colpi del nemico, per morire di ferro anzichè spegnersi in lenta inedia, ai quali delitti spingeva la disperazione della fame. Ma io racconterò non già esagerazioni scritte per amor del meraviglioso, sibbene quanto ho veduto e pianto co’ miei occhi medesimi. Questa fatale carestia si diffuse tra il popolo non all’improvviso, ma grado a grado, e, sto per dire, metodicamente. Gli abitanti del contado furono i primi a morir di fame, poscia i campagnuoli più doviziosi, cui le glebe, oltremodo da loro stancate, negarono quasi a gastigo le messi.

Il lusso e i vizj de’ cittadini furono domati dalla calamità. La quale, se non fosse stata sì forte da istupidire le menti, avrebbe offerto uno spettacolo ridicolo, e in uno mortificante l’umana alterigia. Coloro poc’anzi terribili al popolo pei soprusi e pe’ bravi che loro facevan codazzo, pronti al menomo cenno ad eseguirne i sanguinarj capricci, ora giravano soli, mansueti, ad orecchie basse, con volto che sembrava implorar pace; e taluni colle vesti sdruscite appalesavano chiaro il mutamento delle cose.

Un somigliante spettacolo offrivano anche i servi ed i bravi, dianzi azzimati e profumati, ed ora vagabondi per la città, seminudi, e stendendo la mano a chiedere elemosina; a tal segno la fame aveva prostrata la superbia dei viziosi! Ma più aspramente furono colpiti gli innocenti contadini, gli artefici, l’infima classe quasi indigente, ed i mendicanti.

Dapprima cessarono i lavori, che, servendo al pubblico uso, e, diciam anche, a fomentare i vizj, alimentavano però un gran numero d’individui. Si cominciò dal chiudere le botteghe, dalle quali il popolo nelle città trae in gran parte la sussistenza; e le poche rimaste aperte, somigliavano a deserto [14] campo, reso squallente dalla sterilità e dalla carestia. La plebe, priva di lavoro con cui guadagnarsi il pane, senza traffico alcuno, costretta a marcire nell’ozio, non usa a patire entro la città, anzi emulante perfino nel vestire e nelle vivande il lusso dei ricchi, la plebe cominciò a stentare, indi a languir per fame, e da ultimo moriva. Cessata qualunque elargizione, era la moltitudine divenuta tutta quanta mendica, gli accattoni novizj in ciò solo diversi dai vecchi, che mal sopportavano con pazienza le frequenti repulse.

Sfiniti per mancanza di cibo, cadevano morti per le strade, ovvero vagolavano per le piazze ed i tempj con faccia cadaverica. Nè scemava di numero quella turba infelice, poichè tanti più ne rapiva la morte, e tanto più ingrossavano i rimasti per le famiglie che ogni giorno piombavano nell’ultima miseria, trascinandone seco altre, sia col cessar di soccorrerle, sia col defraudarle con malizia de’ loro crediti. E quasi non bastasse la folla de’ mendichi accorrenti verso la città dalle nostre campagne e colline, ve ne giungevano altresì dalle città limitrofe e dall’estero come in asilo sicuro, dove non mancherebbe alimento, illusi dal nome di Milano, ed ignorando in che triste condizione fosse caduta.

Era uno spettacolo lagrimevole il vedere cittadini, campagnuoli e forastieri elemosinare insieme spinti dalla fame, mentre i nostri Milanesi andavano nelle campagne e nelle vicine città in cerca di pane. Ma delusi tutti egualmente nelle vane speranze, morivano per le strade o in terra straniera.

Vid’io, passeggiando con alcuni compagni lungo le mura sulla strada militare, una donna con un fardelletto sul dorso ed un bambino in fasce pendente dal seno, la quale, non trovando alimento, erasi, a quanto sembra, indotta ad uscire dalla città, seco recando il bimbo e i pochi oggetti [15] più cari; ma sopraggiunta dalla morte, cadde estinta appena fuori delle porte. Le usciva di bocca un pugno d’erba semimasticato, il cui sugo verdastro le imbrattava le fauci, prova della rabbiosa fame: il bambino vagiva sul cadavere della madre. Noi rabbrividimmo a quell’atroce caso, e sopraggiunte alcune persone compassionevoli, raccolto il lattante, ne presero cura.

Parecchi casi simili, ed alcuni anche più atroci, si raccontavano giornalmente da persone che li avevano veduti o uditi da testimoni oculari. Per quegli infelici, ridotti a tanta miseria, la morte era il più lieve dei mali.

È legge di natura che l’uomo, animale ragionevole, nato alla virtù ed al cielo, si nutrisca di pane, che fu suo cibo dacchè abbandonò il vivere ferigno tra le selve, pascendosi di ghiande[34]. Ora in que’ giorni, mancato il pane ai contadini, e costretti a rosicchiare erbe come gli animali, vivacchiarono con corteccie d’alberi, che in breve li traevano a morte.

I contadini, tanto benemeriti della società, perchè colle fatiche alimentano anche gli oziosi, esalavano l’anima lungo le strade e sulle glebe medesime, che, bagnate dai loro sudori, diedero sovente copiose messi.

Ve ne furono molti i quali fuggirono in città, e coll’aspetto macilente, e il racconto della patita miseria, spinsero molti altri ad abbandonare la città stessa[35]. Le vedove coi [16] figliuoli, il marito colla moglie, portando sulle spalle i bambini e i pochi attrezzi rusticali, si trascinavano alla volta di Milano, dove, arrivando giornalmente a frotte, sdrajati per terra sotto le grondaje, empievano le contrade frammisti ai vecchi mendicanti. Il tanfo che esalavano per sudiciume, i visi grami, e più l’immagine ributtante di miseria che in tutta la persona appariva, ispirava tal ripugnanza ai passaggieri, che questi turavansi la bocca e le nari, quasi camminassero in mezzo ad appestati. La misera turba rattristiva la città: il giorno coll’aspetto, la notte coi gemiti; ed era una nuova calamità, perchè ciascuno dava in parte a sè la colpa della disperazione cui vedeva ridotti que’ sciagurati.

In siffatto disordine, nulla conturbava maggiormente gli animi compassionevoli, quanto il mirare i semplici ed innocenti agricoltori ridotti come scheletri, e moribondi di fame. Come il bue dell’aratore, che, dopo aver lavorato l’intero giorno sotto la sferza del sole, tirando il pesante giogo per aprire i solchi, s’infuria, allarga le narici, e gira minaccioso il muso se gli viene negato il suo pasto; così i contadini giravano torvi gli occhi spalancati e invasi da egual furore, trovando di non aver potuto, col tanto affaticare, sottrarsi ai tormenti della fame, anzi ridotti, per mancanza d’ogni sussidio, a non poter lavorare. Vedevansi colle facce abbronzate dal sole, gli occhi stravolti, i petti vellosi, la pelle informata sull’ossa, lacere le membra, vergognarsi della loro nudità. E i cittadini arrossivano come di pubblico disonore al mirare in loro sì avvilita l’agricoltura, che dagli stessi romani imperatori venne cotanto nobilitata.

[17]

VII. Del pubblico Consiglio, ossia dei LX Decurioni di Milano che provvidero alla miseria generale.

Fra i magistrati di Milano, vi sono i sessanta Decurioni, scelti tra il fiore dei nobili, i quali hanno l’incarico di regolare l’annona, e d’amministrare il patrimonio municipale. Vengono eletti dal governatore tra i patrizj originarj, nè alcun straniero viene ammesso in questo Consiglio. Zelanti, istrutti nelle cose patrie, concordi, gareggiano pel bene dello Stato, e loro precipua cura è di conservare ed accrescere l’antico lustro di Milano, col ristaurarne gli edifizj. Un tempo novanta, sono oggidì sessanta, numero sufficiente pel decoro del corpo e pel disimpegno delle loro funzioni.

V’hanno fra essi alcuni educati alle pacifiche discipline, altri che conobbero le arti della guerra, secondochè sortirono dalla natura indole mansueta o focosa. Taluno vi entrò per bontà di animo e per sentimenti religiosi, tal altro, esacerbato per i vizj degli uomini, si trova costretto a immischiarsi fra le umane nequizie per l’ufficio suo. Questi opera con cautela, quegli propende sempre a facili concessioni, e cotanta varietà di opinioni giova mirabilmente al bene della patria comune, siccome notarono gli antichi Saggi, immaginando un perfetto governo, giacchè erano d’avviso che le aspre e blande sentenze temperandosi fra loro, riescano utilissime alla pubblica amministrazione. Ed io stimo che fu ottimo pensamento di scegliere, istituendo il Consiglio, per membri appunto coloro che hanno il [18] maggior interesse alla prosperità del paese, e che ponno contribuirvi colle loro ricchezze.

I sessanta Decurioni vedendo il misero stato cui era ridotta per la carestia Milano, dove il popolo moriva di fame come fosse in un meschino abituro, per dar coraggio, aprirono il Lazzaretto, come un generale asilo ai bisognosi[36].

VIII. Del Lazzaretto e della moltitudine dei poveri in esso ricoverati.

Il Lazzaretto venne edificato dal duca di Milano all’epoca in cui Francesco Sforza, salito al trono, cercava renderlo ereditario nella sua famiglia. I successori di lui abbellirono la città, innalzando molti pubblici edifizj, tra i quali il Lazzaretto fa prova che l’animo de’ nuovi principi era superiore all’umile loro origine[37]. La porta che dicesi [19] Orientale, perchè a destra guarda ad oriente, apresi nella parte più salubre di Milano, rimpetto alle colline donde spira un’aria mite. Non vi sono all’intorno fetide paludi che corrompano l’aere come in altri siti, e lo rendano greve[38]. Colà innalzarono il Lazzaretto gli Sforza, ricovero degli appestati, perchè in caso di contagio si provvedesse alla pubblica salute, dividendo i malati ed i sospetti dai sani. Credo che derivasse il nome da Lazzaro, il quale viene ricordato dal Vangelo, coperto di piaghe, come esempio della giustizia e in uno della misericordia divina.

L’edifizio è quadrato, e racchiude un gran campo; lo circonda una fossa piena di acqua. Ha tante stanze quanti sono i giorni dell’anno[39]; ciascuna capace di otto o dieci persone, oltre i portici che corrono all’ingiro dai quattro lati, e servono di ricovero ai malati, piene che sieno le camere. Inoltre sorgevano allora nel campo fila di capanne per iscaricare il numero soverchiante de’ malati, quasi in altrettanti cortili del Lazzaretto, come ricordavasi aver fatto i nostri padri allorquando la peste afflisse Milano. Sorge in mezzo la cappella visibile d’ogni parte, coperta da un tetto sostenuto da un portico a colonne che la circonda, affinchè nè la vista sia impedita, nè il vento o la pioggia turbino i sacri misteri in essa cappella celebrati.

Il Lazzaretto, fabbricato per caso di peste, diventò utile anche per la carestia, quantunque scorso poco tempo tornasse all’antica destinazione, ricoverando colà gli appestati. [20] Tutti i poveri che trovavansi nella città, i venuti dalle campagne, e quanti vagavano o giacevano per le strade e le piazze, ignudi e famelici, vennero raccolti con decreto in quell’ospizio pubblico[40]. Il Municipio ed il Governo, scordando le proprie strettezze, provvidero largamente ai bisogni. Erasi indugiato alquanto ad aprire il Lazzaretto per timore di dar fomite all’imminente contagio, il quale, preceduto dalla fame, avvicinavasi minaccioso alla città nostra, dopo aver desolati i paesi limitrofi. Quindi tutte le merci provenienti da luoghi o da gente sospetta, venivano ivi rinchiuse, e in breve il Lazzaretto ne fu tutto quanto ripieno.

IX. Discipline stabilite al Lazzaretto e nell’ospitale della Stella.

Sussidiò il Lazzaretto un secondo locale di mendicanti, abbastanza vasto pel momento, e per la sua posizione, vicino a grandi ortaglie, facile, occorrendo, ad ampliarsi. [21] Quel ricettacolo della più abbietta miseria chiamavasi ospitale della Stella, e vi si alimentavano fanciulli e fanciulle senza parenti, senza tetto, e ignari di loro origine, quasi fossero nati dalla terra.

In questo ospitale si raccolsero pel momento le turbe degli affamati, vecchi cadenti, giovani d’ambo i sessi, pei disagi sofferti simili ai vecchi, fanciulli, cittadini e forensi insieme; coloro che da lungo tempo pativano la fame e quelli che da poco penuriavano, i vergognosi per nuova miseria, gli sfrontati per vecchia abitudine, tutti spinti dalla fame e dal bisogno, vennero colà radunati. A misura che aumentavasi ogni giorno il numero, s’allargavano i confini dell’ospizio, e cresceva adeguata ai bisogni la munificenza dei cittadini.

Parecchi nelle domestiche strettezze restringevano i cibi, mandandone parte colà in elemosina, altri venuti a morte, deludendo la speranza e la cupidigia de’ parenti, legavano le sostanze alla Stella, per cui tanta moltitudine di poveri viveva in separate camere, e divise le mense secondo il sesso e l’età. In pochi giorni salirono a tre mila, e giornalmente crescevano. Ma fu osservato e conosciuto a prova la verità di quel proverbio che si diceva per ischerzo: «Esservi nel mendicare una tal quale dolcezza». Uomini e donne senz’asilo il giorno, senza ricovero la notte, nè certi di procacciarsi il giornaliero nutrimento, che sdrajavansi esposti ai venti ed al gelo, ora si trovavano al coperto, avevano cibo, letto e quiete. Cionnondimeno era d’uopo farveli condurre legati dai bargelli, i quali ricevevano dal magistrato due soldi per ogni povero che là traducevano. Era chiaro preferire i nostri accattoni il questuar per le strade e il piagnuccolare all’aperto, all’essere pasciuti e dormire rinchiusi nell’ospizio. Ormai i molti bagagli venuti dall’estero e mercanzie d’ogni genere sospette di peste, le [22] quali ne’ primi giorni ingombrarono il Lazzaretto, spurgate co’ suffumigi e raccolte in un sol luogo, davano agio a potere ivi raccogliere i poveri, che l’ospizio della Stella ormai più non capiva. Laonde, aperto anche il Lazzaretto, una parte de’ medesimi fu trasferita colà, dove ebbero stanza un tempo gli appestati, ed aver la dovevano di nuovo tra breve.

Entrambi i luoghi in breve furono zeppi, venendovi ogni giorno alcuni spontaneamente, altri molti trascinati a forza; pure non iscemava la sollecitudine per nutrirli.

Ammiratori noi dell’antica età, e poco curanti di quanto è recente, non lodiamo per consueto le virtù dell’epoca nostra, spregiando quanto essa offre di splendido e di ammirabile. Ma io, quand’anche ritornassero i tempi lodati degli Spartani e le vecchie loro leggi, non credo che possano offrire istituzioni migliori per nutrir una folla di poveri in chiuso recinto, di quelle che adottarono in allora i nostri magistrati. Erano scomparsi l’inumano rigore e durezza, e quell’indulgenza che spinge a nuove colpe; difetti che, fuor di dubbio, deturpavano le antiche ed encomiate istituzioni dei Greci, allorquando, uniti nei medesimi recinti gli abitanti d’una provincia, mescolavansi i loro vizj e virtù. Presso di noi non stimavasi virtù la sfrenata libidine ed il furto come già nelle riunioni profane di quelle antiche genti. In un’accozzaglia d’uomini, prese le dovute cautele per l’onestà, si cercò, con tutto lo zelo, di rivolgere le menti di quei traviati ai doveri religiosi ed ai riti della Chiesa, da essi posti in dimenticanza. I magistrati ed i nobili milanesi offrirono in que’ giorni un esempio luminoso di cattolica pietà, alimentando ed instruendo ad un tempo il popolo. Nè i superbi politici mi faranno carico se faccio qui un cenno della disciplina introdotta nel Lazzaretto e delle sacre funzioni, alle quali più d’una volta io assistetti con indicibile piacere.

[23]

Celebravasi ogni giorno la messa nella cappella, sorgente, come dissi, in mezzo al campo, e che aperta all’intorno, è visibile da tutto il circostante portico. Dal quale e dagli usci delle stanze ciascuno poteva assistere all’incruento sacrifizio, in cui il figliuol di Dio è immolato per la salute del genere umano. Dappoi, andavano i poveri al lavoro, ciascuno secondo il mestiere che professava, procurando qualche utile al luogo, e sfuggendo l’ozio, dannosissimo anche ai più miserabili. Molti infingardi giravano qua e là sciupando il tempo fino all’ora del desinare. Costoro molestavano gli altrui lavorerj, nè fu possibile mantenere sì rigorosa la disciplina, che non pullulassero alcuni vizj tra quella moltitudine.

X. Il Lazzaretto è riprovato e si sgombra.

Ma ben più degli animi si viziavano i corpi, e ne seguirono tante morti, che quasi poteva chiamarsi un piccolo contagio. Certuni attribuivano la causa alla furfanteria degli inservienti, che avessero adulterato il pane, meschiando la farina con sabbia. Ma io sono d’avviso che la mortalità fosse attribuibile al caldo eccessivo di quell’anno, al sudiciume ed ai pidocchi, brutali compagni, quasi indivisibili dei mendici, e che ivi pel contatto più schifosamente li affliggevano. Intanto que’ poveri gementi e frementi, per aver perduta la libertà ed il diritto di vagabondare, anelavano le antiche ed a loro sì care abitudini. La noja, la melanconia, la disperazione e l’odio pel Lazzaretto trasparivano [24] su tutti i volti: crescevano sempre più le lagnanze. Gridavano che per certo erano stati chiusi in quel recinto a morirvi fuori della patria senza che nemmeno volger potessero alla medesima gli occhi moribondi; così imprecando, esalavano molti l’ultimo respiro. I nobili anch’essi vergognavano e sdegnavansi che tante cure e la liberalità stragrande in quelle pubbliche angustie, non avessero servito che a far morire in maggior numero i poveri che si volevano nutrire[41]. Perciò, riferita la cosa in consiglio, trovarono che l’unico spediente era il mettere al più presto in libertà quella poveraglia, lasciando che tornasse, come per l’addietro, ad accattare. Ciò stabilito, si aprì il Lazzaretto, e le turbe irruppero con pazza gioja e gratitudine maggiore di quando, vagabondi senza fuoco e senza tetto, avevano ottenuto ricovero e nutrimento.

La città, liberata per poco dall’esosa vista dei mendici, ne rivide il funesto spettacolo; anzi s’accrebbe la pietà in coloro che pensavano come tanti poveri fossero morti, ad onta dei sussidj della pubblica carità, per cui ne arrossivano più ora che in prima, alloraquando li vedevano morire di fame.

[25]

XI. Tumulto popolare per la carestia[42].

Il giorno di S. Martino di quell’anno 1628 si tumultuò in Milano per la carezza del frumento. Rade volte in passato erano accaduti simili tumulti, giacchè, siccome accennai fin da principio, l’agro milanese, ubertissimo, forniva annualmente in copia i grani, non solo alle vicine popolazioni, ma altresì alle lontane. Narrerò l’origine e la fine di questa sommossa, quali disordini commise la plebe, e come vennero repressi, quali furono le misure adottate dal Consiglio, e per frenarla al momento e perchè non si rinnovasse, affinchè la plebe, animale di molte teste, terribile sempre alle città più potenti, avesse un gastigo condegno al suo ardire, nè s’attentasse alzar di nuovo il capo.

Reggeva la città e il ducato in quel tempo, trovandosi assente il governatore Consalvo, occupato nell’assedio di Casale, il gran cancelliere Ferrer. Egli, crescendo giornalmente [26] la penuria del grano, nè trovandovi riparo, e sentendo il fremito ed i lamenti del popolo, immaginò un ripiego, che non tolse il fomite della sedizione, ma solo la protrasse. Al qual ripiego, i negozianti di frumento ed i fornaj, gente che conveniva blandire in quel tempo, esacerbati, minacciavano un’estrema ruina, d’abbandonare cioè il traffico dei grani, la fabbricazione e la vendita del pane. Il prezzo minimo del frumento era dalle quarantacinque alle cinquanta lire; prezzo adeguato e volgare, che il venditore non arrossiva domandare, nè gli acquirenti udivano con indegnazione. Ma gli incettatori danarosi, gli sfrontati usuraj ed i ricchi possidenti, fissato in segreto fra loro il prezzo, dissero, pronunziarono, richiesero con infame e sfrenata cupidigia prezzi enormissimi, quasi che fossero arbitri della vita dei cittadini, od essi solo avessero diritto di vivere. Mi consta che vi furono certuni, e li ho conosciuti, i quali pretesero cento lire al moggio, e non ancora contenti, per avidità di maggior guadagno in avvenire, tenevano chiusi i granaj, insultando la pubblica fame. Nè giovarono contro siffatta cupidigia, anzi rabbia degli avari, le solite gride con cui ordinavasi che ciascuno notificasse la quantità di frumento che aveva in casa.

Il gran cancelliere, in mezzo alle frodi ed all’avarizia degli uomini ed alla penuria di grano, in que’ difficili momenti, aveva immaginato, tenendo una via di mezzo, di far sopportare a’ fornaj il danno derivante dalla calamità dei tempi e dall’umana malizia. Ordinò che si facesse e si vendesse il pane al peso prescritto ad una meta che ragguagliavasi a lire trentatrè al moggio, fissando questo limite ai venditori ed ai compratori. Credeva egli per avventura che lo scapito si compensasse coi precedenti guadagni de’ fornaj, e con quanto lucrerebbero in appresso. Fors’anche aveva loro data lusinga, calmata quella burrasca, [27] di compensarli a spese dell’erario; ma codeste erano speranze vaghe, e intanto la perdita sicura rendeva insopportabile l’editto. Schiamazzarono i fornaj, protestando senza tregua che avrebbero chiusi i forni ed abbandonata l’arte loro. Il gran cancelliere punto non si smosse, fermo nel voler eseguito il suo decreto, ed il popolo, quasi per rapire a gara il pane a sì buon prezzo, che era una specie di regalo, assediava l’intero giorno i forni con tanta importunità, che i fornaj, per quanto si sbracciassero a cuocere, non riuscivano a soddisfare i compratori. Rinnovaronsi più forti le grida e le lagnanze, cui i magistrati non sapevano ormai come rispondere. I Decurioni scrissero al governatore, al campo, e stabilirono di concerto con esso lui di trovare un temperamento. Consalvo nominò il presidente del Senato, i presidenti dei due magistrati e due fra i questori, i quali, adunatisi, fissassero il prezzo del frumento, tanto allo stajo, in modo che i fornaj potessero continuare a fare il pane. Favoriti i fornaj, venne cresciuto il prezzo di dieci soldi il moggio.

Grande fu la rabbia ed il furor della plebe per tale accrescimento, che dava agio a respirare ai fornaj, poichè aspettavasi che si calasse il prezzo del pane anzichè aumentarlo. Visto essere caduta in peggior condizione, non si curò altro di editti e tariffe, e si fece ella stessa padrona e dispensatrice dei grani. Allora in Milano, città rinomata dai tempi più remoti per ossequio ai governanti e per modestia degli abitanti, fu conosciuto a che servano le armi contro il popolo infuriato, anzi contro una turba imbelle di donne e ragazzi spinti dalla fame.

Correva il dì di S. Martino, giornata allegra sempre e geniale, perchè si finiscono le vendemmie, si mettono in botte i vini, e chiudonsi nelle case de’ ricchi i prodotti dell’annata. All’albeggiare molti garzoni di fornaj uscivano in volta [28] con gerla e canestri pieni di pane per recarlo ai monasteri ed alle case dei signori, o per venderlo al minuto in altri luoghi. Il popolo si pigliò tutto quel pane come suo, e come se avesse già pattuito che dovessero portarglielo a casa. Drappelli di ragazzi, di giovanetti, donne e vecchi senz’alcun arme, ma forti pel numero, ed aizzati dal bisogno, mossero incontro ai garzoni de’ fornaj, che portavano in ispalla il pane, e quanti ne trovarono, costrinsero colla violenza a fermarsi e deporre il carico, intimando poscia che se ne andassero. Bisognava ubbidire, perchè, circondati all’improvviso, sbalorditi, gettavano il peso, e fuggivan a gambe, temendo di peggio: chiunque tentava opporsi, veniva malconcio a pugni ed a calci. Così ebbe principio la sommossa della plebe, che, adescata dalla gustosa preda ottenuta senza sangue, imbaldanzì, credendosi capace di tutto purchè l’osasse, e giudicando che la sofferta miseria era una conseguenza della mansuetudine fin allora usata. Il popolo erasi fatto superbo ed audace per aver rapito il pane con la sola intimazione, forzando pel momento a starne senza le famiglie cui recavasi. I magistrati però, invece d’irritarsi, compassionavano que’ traviati, ridendo essi medesimi, di dover in quel giorno aspettare assai tardi il pane. Ma il popolo proruppe a misfatti più gravi, e risoluto a distruggere il forno, s’avviò alla volta del medesimo senz’alcun capo, chè l’innumerevole turba era guida a sè stessa. Vociferavansi sediziose grida, strepitavano che avrebbero distrutte le botteghe de’ fornaj, centri di raggiri, di fame e della calamità pubblica.

Capitarono a caso dinanzi il forno di porta Orientale[43]. [29] La moltitudine erasi già armata di bastoni, di sassi e di quanto gli capitava alle mani, come se andasse a battagliare[44]. Scassinarono le porte, e vi diedero fuoco, e rotti i cancelli, fecero man bassa su tutta la farina ed il grano ivi raccolti, spargendone per terra, e gettandolo anche in istrada per disprezzo.

Alcuni empirono di farina i sacchi rubati, e via se li portarono; altri caricarono con carri, e tornarono più volte senza che veruno si opponesse al loro depredare[45]. Le contrade per dove andavano e venivano i saccheggiatori, biancheggiavano di farina come se fosse nevicato, ed era preda dei poveri e dell’infima plebe, che s’affaccendava a raccoglierla. Intanto i caporioni della turba, avendo trovato il banco del fornajo in cui eravi il denaro di molti giorni, lo rubarono tutto quanto. Sfogata in tal guisa la rabbia sopra quanto aveva eccitata la sommossa, e più nulla restando da rubare, sfogarono da ultimo il furore sulle tavole, i banchi, i canestri e gli altri utensili da bottega, che non eccitavano l’avidità dei saccheggiatori, e fattone un mucchio, vi diedero il fuoco, quasi olocausto a Cerere, alla carestia ed in uno al Santo, la cui festa avevali riuniti a quell’impresa! Gettarono altresì tra le fiamme tutti i giornali ed i registri del negozio, e v’avrebbero gettati anche il fornajo ed i suoi garzoni, se questi, per [30] buona ventura, non si fossero salvati fuggendo o appiattandosi. Il capitano di giustizia, co’ suoi satelliti armati accorso per ultimo spediente per sedare il tumulto colle armi, côlto da una sassata, mentre fuggiva, ebbe la buona sorte di rifuggirsi nella casa del fornajo, e nascosto in una soffitta, vi rimase in un angolo finchè, dispersa la folla, potè uscire a salvamento[46].

Trascorsa in tali fatti la mattina, la plebe giunse al colmo dell’atrocità, correndo delirante e furibonda per uccidere il vicario di provvisione (magistrato milanese, che viene eletto annualmente, ed è capo del pubblico consiglio, e quasi della città stessa), nobilissimo ed ottimo personaggio, contro il quale esternava un odio accanito[47]. Il suo nome, profferito forse da qualcuno a caso, risuonò in un subito per tutta la città. Il vicario, o sentito lo strepito o avvisato che fosse, si teneva chiuso e nascosto in casa.

Siccome la tempesta scoppiata da un negro nembo tutto riempie il paese d’acqua, di lordure, di spavento, così le caterve de’ plebei accerchiarono di repente la casa, traendo [31] a sè dietro la morte e l’ignominia se riuscivano nell’intento. Recavano seco scale e ferri per spezzare le porte ed introdursi dalle finestre od anche dal tetto. Imposte e ferriate sarebbero riuscite inutili a schermo contro l’impeto della romoreggiante moltitudine, la quale voleva penetrare a tutta forza, ed era sicura di riuscirvi. Fu veduto un vecchio che portava chiodi, un martello ed una corda, e andava dicendo di voler impiccare il vicario alla porta della sua casa, dove sarebbe straziato ed ucciso dal popolo.

Con tali intenzioni assediavano la casa, battendola con spessi colpi, e tentando d’ogni parte la scalata. I magistrati chiamarono, dal prossimo castello di Porta Giovia, una squadriglia di soldati spagnuoli, per mandarla a presidiare la casa del vicario; ma quei soldati, invece dell’incutere timore, furono côlti da subita paura al vedere il popolo che circondava, come un esercito, quell’abitazione. Che far potevano cogli archibugi, scaricati che li avessero sulle donne ed i fanciulli misti cogli uomini? dar mano alle spade? Non ne avevano l’ordine, e d’altronde avrebbero inferocita vieppiù la moltitudine, la quale, già rotto ogni freno, correva agli estremi delitti. Titubarono gli Spagnuoli, e si tennero lontani, mentre il popolo gl’insultava insieme ai loro archibugi, che temuti sempre perchè colpiscono da lungi, allora diventavano inutili e soggetto di scherno. L’arrivo dei soldati non rallentò punto la furia di quelli che battevano la casa.

A frenare alquanto l’impeto loro, sopraggiunse il gran cancelliere Ferrer, venerabile per vecchiaja, e che si guadagnò la simpatia del popolo, appunto perchè non temeva di esporsi in quel parapiglia. Avanzandosi in carrozza tramezzo la folla, ora chiedeva colla mano silenzio, supplicando che lo ascoltassero, ora coll’alzar delle spalle e col piegar la testa interrogava che cosa volessero. E quando, [32] cessato un momento il fracasso, poteva farsi sentire, egli, ponendosi la mano al petto, imprometteva pane a josa, sedando colla sua dolcezza il tumulto. Ma più gli giovò l’arte, che riuscì sempre anche nelle antiche sedizioni utilissima agli uomini, che il popolo voleva uccidere. Affermava il gran cancelliere ch’egli veniva per condurre il vicario colla sua carrozza in castello, dove, se era colpevole di qualche ingiustizia contro una tanto benemerita popolazione, sarebbe punito giusta gli antichi statuti di Milano. Questa promessa calmò la plebe, ed il vicario, messo in carrozza, sotto finta di condurlo al supplizio, evitò, in quel terribile incontro, la morte[48].

Era già tardi, e tra per la sorvegnente notte, tra per la fatica e la sazietà, tutti a poco a poco si ridussero alle proprie case, contenti del bottino e della vendetta che loro pareva aver fatta de’ sofferti stenti; e tra le domestiche pareti gustavano il riposo, e raccontavano gli avvenimenti di quel giorno. Non riposavano però i magistrati ed i decurioni, timorosi che durante la notte si commettessero nuovi delitti; assicurarono la casa del vicario con travi[49], e vi posero a guardia una mano di soldati; indi si raccolsero a consulta.

Provvidero in prima affinchè l’indomani, che era domenica, vi fosse pane in abbondanza: i forni lavorarono tutta [33] la notte. Al tempo stesso diedero gli ordini opportuni che si cercasse dappertutto frumento, onde non mancasse. Nominarono gli anziani, che, recandosi ciascuno di buon mattino al suo posto, custodissero il forno del loro quartiere coll’autorità del nome, cercando, col favore di che godevano presso il pubblico, d’impedire il tumulto qualora ricominciasse, siccome accadde. Spuntato il giorno, il popolo era tranquillo, ed uscendo, mezzo sonnolento, a comperare i viveri, ciascuno andava per la sua strada, appena soffermandosi per scambiar parole. Avresti detto che erano confusi per vergogna della precedente sommossa.

Ma fu una breve sosta, ed ecco infuriare, con più violente impeto, la plebe, non tanto per far bottino nelle botteghe de’ fornaj, quanto per atterrarle dai fondamenti e darvi il fuoco.

La nuova rabbia mirava principalmente al forno del Cordusio, e già dilapidata quanta farina vi si trovò, il frumento e ogni utensilio, stavano per incendiarlo e involgere tutto il caseggiato nelle fiamme, sia che non badassero alle conseguenze, sia coll’intenzione di propagare l’incendio alle vicine case, indi alle lontane. Mentre stavasi per commettere il delitto, un uomo pio del vicinato, scorto il pericolo, riuscì, se non a calmar subito la ferocia della plebe, almeno ad evitare un’irreparabile sciagura. Prese egli un crocifisso, ed accese alcune candele, lo calò d’improvviso innanzi la bottega. Il Salvatore pendente dalla croce, che salvò il genere umano, sembrava chiedesse il termine della follia e dei misfatti. I tumultuanti si mitigarono un poco, chè i Milanesi, anche nei tempi più calamitosi, non obbliarono giammai l’avita pietà; al mirare l’immagine di Cristo crocefisso rimasero stupefatti.

Giunse nel frattempo[50] tutto il clero della metropolitana [34] a croce alzata: i canonici colle cappe procedenti in fila si mescolarono tra la folla[51]. Avevano lasciato in Duomo gli arredi solenni per timore della sommossa. In tal modo si evitò il minacciato incendio. La minuta plebe allora corse alle botteghe di secondo ordine, in cui vendevasi il pane nero; e cessò dal tumultuare allora soltanto che il gran cancelliere ebbe fissata la tariffa di quello e del pane di frumento ad un prezzo che non potevasi desiderare più vile. Fu decretato che il pane nero di otto oncie costerebbe un soldo, e l’altro migliore si vendesse in ragione di tre lire lo stajo[52]. A tale annunzio i plebei tripudiarono con pazza gioja, ridevano amaramente, e su per gli angoli delle vie e nelle taverne si millantavano d’aver essi medesimi creata così bassa la tariffa. In pari tempo cavillando, borbottavano che finirebbe in breve la baldoria: dicevasi il pane esser mescolato con materie venefiche, non aver fiducia in sì gran beneficio, però volerlo intanto godere. Laonde correvano in folla ai forni, comperandone oltre il bisogno; o ne empivano le casse, le caldaje, gli orciuoli, nascondendolo in mille guise, come se ormai [35] fossero i medesimi venditori quelli che dovevano rapir loro il pane di bocca.

Io fui spettatore di tutti questi avvenimenti: testimonio per caso del principio della sommossa, il desiderio di ben conoscere l’indole umana in quella circostanza, mi spinse ad osservarla fino al termine, lontanissimo dal pensare che un giorno avrei dovuto esserne lo storico. In seguito trovai esattamente registrato, negli atti della città, l’origine e il crescere del tumulto, non che il finire e reprimersi spontaneo di esso, come appunto io aveva veduto.

La sommossa della plebe milanese afflisse ed angustiò il pubblico Consiglio, il quale altresì ne arrossiva, come un padre di famiglia se scopre svergognato il casato, violato il pudore dei figli e macchiato il suo buon nome. Un’altra volta, a nostra memoria, fuvvi penuria in Milano di granaglia, perchè vendevasi il frumento sette lire lo stajo ed anche più; ma non per questo il popolo, amato e stimato dai nobili, e per la sua fedeltà ed ossequio verso il monarca, tenuto come un’altra classe di nobili, non per questo ruppe il freno all’ubbidienza, nè ribellossi ai decreti del Consiglio. Ora invece aveva calpestata l’autorità pubblica, insultando lo stesso re e la patria nostra, a lui carissima, perchè nutrice sempre di uomini forti e in uno modesti.

Siffatti riflessi angustiavano i magnati, per tema che la notizia dell’accaduto, misto il vero col falso, non pervenisse al monarca, come se la popolare sommossa per la carestia fosse scoppiata per colpa del Consiglio. Aveva la città, per altre sue faccende, spedito al re cattolico un legato[53], il quale trovavasi allora in Madrid, con buona speranza di [36] riuscita in alcuna delle trattative affidategli, di altre disperando. A lui il Consiglio inviò, con apposito corriere, lettere del seguente tenore.

Pochi dell’infima plebe, colla speranza di rubare, aver eccitati da principio ragazzi e donne, a questi essersi uniti altri, poi altri, finchè il tumulto, per la carezza del pane, diventò una specie di sommossa. Dilapidati i forni, il vicario di provvisione cercato a morte, e quanto avvenne dappoi. In conseguenza scrivevano al legato, si presentasse, quanto prima, ai piedi del re, ed esposto il caso, soggiungesse: Che fu un impeto repentino ed una follia del popolo, non mai una meditata rivolta, chè la nobiltà conservava intatta la fede ereditata dai suoi maggiori verso Sua Maestà, che non eravi in Milano alcun nobile il quale titubasse a sacrificare la vita, se quella popolare agitazione non si calmava[54].

I membri del Consiglio aggiunsero a questa altre lettere, di cui doveva servirsi il legato a tempo e luogo, ove mai, sotto pretesto dell’accaduto, si tentasse ledere gli antichi statuti della città, e indurre il re a gastigarla, promulgando nuove leggi. Raccomandavano di esporre la premura del Consiglio, le spese sostenute, e la non interrotta diligenza affinchè non mancassero al popolo i viveri. E come recentemente avesse comperato a spese pubbliche quindici mila moggia di frumento e dodici mila di segale, trattando inoltre, per un acquisto maggiore, da trasportare in città, alla quale non sarebbe giammai mancato grano, se si fosse eseguito quanto i Decurioni avevano impetrato [37] dall’autorità suprema, vale a dire, che a chiunque non fosse lecito l’esportazione. Invano avevano i medesimi implorato si decretasse con leggi e pene gravissime che non potessero gli incettatori venire dagli estremi confini del Verbano fino sulle porte della città co’ somari a far compera di grano, e poscia dalle loro case portarlo ai confinanti Svizzeri, come loro riusciva facile per la vicinanza.

Ed eziandio si proibì di trasportare in esteri paesi il frumento della Lumellina, che è il granajo di Milano. Ai fornai ed ai mugnai di questa città era stata negata la chiesta licenza di comperarlo e trasportarlo ne’ loro magazzini.

XII. La peste scoppia in Milano.

Sono il Ponte Vetro ed il borgo di Porta Orientale quartieri di Milano, paragonabili, per ampiezza, a due piccole città. In essi apparvero i primi sintomi della peste, la quale, al pari di fiamma sbuccante dai tetti, doveva invadere le vicine case, percuotere quasi tutti i cittadini, e diffondersi lontano nelle campagne, cessando soltanto allorchè, ministra dell’ira celeste, avesse ogni cosa purgata. Non fia inutile notare in che luogo e in che giorno scoppiò il contagio, e quali persone furono le prime colpite per vedere, come da lievi principj, ingrossata la tremenda procella, invase l’intera città, uccidendo tante migliaja di vittime. Il primo fu un soldato di nome Pietro Paolo Locato, il quale, trovandosi di quartiere a Chiavenna, a motivo delle agitazioni [38] della Valtellina, ebbe un permesso dal suo comandante. Entrato in Milano il 22 novembre[55], recossi da certa Elisabetta sua zia, e vi rimase per tre giorni nè visitato, nè custodito, quantunque proveniente da luoghi infetti. Ammalò, e peggiorando, venne trasportato all’ospital grande, non avendo mezzi da farsi curare in quella casuccia. A capo di due giorni morì, e fatta l’autopsia del cadavere, si trovarono i bubboni, indizio sicuro di peste, non mai riscontrati per l’addietro in città, benchè il volgo molto ne cianciasse. Morirono in breve quanti abitavano in quella casa, togliendo ogni dubbio che la peste fosse introdotta in Milano. Denunziato il caso al magistrato di Sanità, venne posta sotto sequestro la casa di cui era proprietario un Colona, il quale morì egli pure insieme alla moglie ed ai figli[56].

[39]

Il morbo incominciò a serpeggiare lentamente, quasichè Iddio misericordioso, concedendo respiri ad intervalli, desse campo ad usare rimedj. Ma i nostri nobili, nelle cui mani risiedeva il governo dello Stato, non giovandosi della bontà divina, non curanti opponevansi alla strage, come accade sempre quando il cielo vuol gastigare gli uomini. Furono lenti i rimedj, quantunque la peste, che minacciava la città, ne’ primi giorni si nascondesse come timorosa.

L’essere disceso il contagio dalle valli Rezie, e rimanendo pochi giorni in casa del Colona, fu causa, e per la distanza del luogo donde veniva e per la lentezza a diffondersi, che si considerasse come tutt’altra malattia. Eppure, prima dei suaccennati casi, verso il principio del febbrajo 1627 erasi sparso un vago romore di vicina pestilenza: più tardi giungevano ogni dì avvisi funesti, che la calamità ne sovrastava. Ormai era venuta, ed in segreto, e quasi di furto, colpendo i cittadini, alcuni ne prostrava a viva forza; sostava, irrompeva di nuovo, alternando così, giusta l’indole degli uomini, la speranza e i timori, per cui ora si davano a credere aver esagerato per vano sospetto il pericolo, ora di non aver usate sufficienti cautele per guarentirsi dal medesimo. Quindi furono posti cancelli e guardie a ciascuna porta, istituite le quarantene ed altri consueti provvedimenti; ma non andò molto, che si levarono, negligentando per indolenza le precauzioni con tale volubilità ed incostanza, che sembrava uno dei fenomeni della peste.

Scorsero circa tre anni fra le ansie cure e la fatale trascuranza; scoppiata la peste in casa del Colona, non più di cento morirono nel decorso di quattro mesi; piccolo [40] numero, avuto riguardo alla natura del male, all’ampiezza di Milano ed alle tante migliaja che tra breve dovevano caderne vittima.

Ben presto però la belva, irritata dai vincoli che la raffrenavano, gli spezzò, lacerando senza contrasto i corpi. E furono veri strazj, quantunque non fatti da armi o ferite. Spettacolo più orribile le morti pel contatto, l’alito e l’occulta tabe, che non è il vedere sul campo lacerate viscere, sparse cervella, tronche braccia ed altre orrende ferite, allorchè due nemiche schiere, spinte dal furore, vengono a battaglia.

XIII. Furore e stoltezza della plebe circa la credenza della peste.

Io son d’avviso che tra i fomiti del contagio, molti pur troppo e fatali, nessun altro contribuì di più ad accrescerla, quanto l’ostinazione della plebe in negarlo, insultando con fischi, con ghigni ed improperj chiunque ne profferiva il nome[57]. E tale follia non era invalsa soltanto tra la plebe: ma anche in alcuni medici, i quali, perdendosi in dispute interminabili, ridevansi de’ bubboni e della gonfiezza degli inguini, chiamandoli effetti di sfrenata libidine ogni qual volta un appestato mostrava loro quei [41] segnali certissimi di peste, e chiedeva rimedj. Quegli ignoranti[58] andavano vociferando ne’ crocchi, che le stesse febbri sono un contagio, e che molti morivano all’improvviso per mancanza di vitalità, ovvero per occulti guasti de’ visceri. Con tali assurdi e con altre dicerie, proprie dell’arte loro fallacissima, distolsero i malati dal prendere i rimedj cui bisognava ricorrere in tempo. Codesti medicastri si guadagnarono il favore del volgo a segno, che i savj, i quali, ben altrimenti opinando, convinti esistere omai la peste in città ed essersi l’influenza morbosa indonnata dei corpi, predicavano doversi usare ogni cautela, furono trattati come impostori, anzi quai nemici della patria[59]. Gridava la plebe che essi cercavano occupazione, e che per avidità di guadagno introdurrebbero la peste anche dove non esisteva.

XIV. Pericolo corso dal protofisico Lodovico Settala all’incominciare della peste.

Ricorderò il caso di tale cui la pubblica catastrofe sopraggiunta avrebbe potuto accrescere gloria, se egli non ne avesse già raggiunto l’apice per chiari studj e ingegno grandissimo. [42] Era Lodovico Settala, il primo dei medici e dei filosofi, e letterato esimio[60]. Alla dignità dell’arte sua aggiungeva [43] una vita illibata, ed il disprezzo del denaro ogni qual volta veniva chiamato dai poveri o dai letterati ed amici, [44] menomo questo de’ suoi pregi. Vecchio e sommamente autorevole per l’esattezza de’ suoi pronostici, l’Ippocrate del secol nostro godeva un’illimitata fiducia anche tra i più circospetti, e la plebe l’aveva in gran venerazione prima ch’ella s’infatuasse nella sua pazza credenza. Un giorno che il Settala recavasi a visitare i suoi ammalati in lettiga, a cagione della vecchiaja, fu insultato con tali urli da’ facchini e donnicciuole, che i portatori della lettiga, temendo per la sua vita, entrati nella vicina casa d’un amico, vi si trattennero finchè, quetato il subbuglio, quei mascalzoni si fossero dispersi.

Vociferavano tutti in coro, essere il protofisico capo di coloro che asserivano vera la peste, spargere egli colla barba e col cipiglio il terrore in tutta la città, affinchè non rimanesse in ozio la turba de’ medici e si trovasse modo da occuparli. In tal guisa l’ottimo vecchio, che aveva salvata la vita ad un gran numero di persone colla perizia dell’arte e col largire il proprio denaro, corse un grave pericolo per la stolidaggine e la petulanza del volgo. Il quale non insultò lui solo, ma gli stessi tribunali e la santa giustizia, osando deludere le leggi sanitarie come inutili ed ispirate dal solo timore alle pubbliche autorità.

XV. I Magistrati pensano a più efficaci rimedj.

Ormai la peste era patente, confessata anche dai più ostinati contraddittori, e faceva mostra di sè colle stragi e i mucchj di cadaveri come in battaglia, invadendo ogni [45] parte della città: pur nondimeno molti disprezzavano la furia e la tremenda possa di lei. Fu necessario istituire tribunali, mettere guardie, pubblicar editti, e d’ogni cosa aver cura con somma attenzione e previdenza.

Furono eletti a presidenti della Sanità due gravissimi senatori; Giovanni Battista Arconati, e M. Antonio Monti suo successore[61]. Entrambi con vera carità della patria esposero la vita nell’ufficio loro, sprezzando il pericolo per difendere con prudenza, fedeltà e vigilanza le reliquie della misera città e la nostra milanese provincia, bellissima tra le contrade soggette al cattolico re.

Il regime fu il seguente: tutti gli altri magistrati e i primarj nobili davano consiglio ed ajuti alla Sanità, a misura del coraggio di ciascuno e della prudenza nel pericolo. In ogni porta e regione di Milano vennero fissati i giorni e le volte che ciascun nobile doveva visitarle, e gli uffici da esercitarvi. Si ordinò primamente che uomini, animali e merci non si lasciassero entrare in città senza prima esaminare le bollette comprovanti la provenienza loro da’ luoghi sani. E perchè non si sforzasse il passo, si misero cancelli fuor delle porte, e dietro i cancelli s’innalzarono capanne, dove stavano giorno e notte i soldati a custodia.

Altri nobili e persone dai medesimi elette, giravano ogni giorno nelle regioni, nelle parrocchie e nei borghi di Milano, visitando le case e provvedendo ai bisogni di molti a spese pubbliche, ed anche con private elemosine.

Quanto al male, ai sospetti ed ai casi giornalieri di peste, fu proveduto nel modo seguente. Quelli che ammalavano venivano immediatamente trasportati al Lazzaretto, in [46] uno colla famiglia, e quanti dimoravano sotto lo stesso tetto; ovvero se esternavano il desiderio di rimanere in casa, si custodivano, postevi le guardie di Sanità[62]. Coloro poi su’ quali non eranvi che vaghi sospetti, venivano per cautela segregati, ma con meno severa custodia, ricevendo gli alimenti dal pubblico se riconosciuti poveri. I cadaveri trasportavansi sopra carri, preceduti da un fante, il quale, gridando, allontanava i passaggeri, avvisando ad alta voce chiunque venisse all’incontro di tirarsi in disparte, d’astenersi da qualunque contatto e scansare i Monatti, chè erano ivi i morti, ivi la peste. Furono scavate immense fosse profonde sino al livello dell’acqua, e depostivi i cadaveri, gettavasi sopra ogni fila uno strato di calce viva, perchè col suo caustico più presto assorbisse il putridume, pericoloso anche da sotterra, alla vita ed alla comune salute[63].

[47]

Ma ormai sembrava non esservi più speranza di vita e salute, chè quanti più morti seppellivansi ogni giorno, e tanto più ne cresceva ad ogni momento il numero. Riempite quelle immani voragini, altre ed altre se ne scavarono, e neppur queste bastavano.

XVI. Il corpo di S. Carlo viene trasportato solennemente per Milano, onde impetrare che cessi la Peste.

I Magistrati, visto che umani provvedimenti più a nulla giovavano contro sì fiero morbo, ed il terrore della moltitudine, impetrarono, dal cardinale arcivescovo Federico, che aperta l’arca in cui riposava il corpo di S. Carlo, venisse reso alla luce e trasportato per la città. Nutrivano vivissima speranza che le spoglie mortali del Santo, rivedendo le contrade un tempo percorse, il cielo e l’aure della città natìa, ne scaccerebbero la tabe, il veleno e qualunque influsso spirava funesto ai corpi ed alla vita. L’eminentissimo [48] Borromeo annuì alla preghiera fatta dai Decurioni a nome della città, e permise che, tratto dal sepolcro il corpo di S. Carlo, venisse portato per Milano. Senz’indugio si disposero apparati e pompe, in guisa che le vie, le pareti e fino i tetti delle case, l’aspetto del popolo supplichevole, e, sto per dire, l’aere circostante, facessero palese testimonianza del vivo affetto pel Santo, avvalorando, per così dire, le preci al medesimo indirizzate.

La privata magnificenza gareggiò colla pubblica, e i cittadini non badarono a dispendio in quelle pompe, con cui la misera umanità pretende onorare il supremo Fattore. E la gara non fu soltanto tra privati e privati, ma di questi col municipio, forzandosi superare quanto i Decurioni ordinarono co’ loro editti. Aveva il Vicario[64] pubblicato un ordine, che in tutti i luoghi pei quali transiterebbe il cortèo, ciascuno adornasse colla maggior pompa la fronte della sua abitazione, aggiungendo che ove i cittadini si fossero mostrati indolenti e avari non avrebbero forse avuta mai più occasione di dar prova della divozione e dell’agiatezza loro. Ogni casa senza padrone, ovvero abitata da poveri inquilini, veniva adorna a spese di qualche ricco vicino o dell’erario. Da ultimo fu imposto che per quel giorno non potessero girare carrozze carri ed altri impedimenti, affinchè le strade tutte e le piazze dove passerebbe le processione rimanessero sgombre alle reliquie del Santo, del quale imploravasi il patrocinio. Anche il cardinale arcivescovo emanò un cerimoniale pel clero: che si raccogliessero i sacerdoti nel giorno e nell’ora fissata in Duomo, e purificati prima coi Sacramenti, procedessero in modesta schiera cogli occhi proni a terra, senza tumulto e senza distrazioni.

[49]

L’ordine della processione, le fermate dell’arca, il giro vennero stabiliti come segue:

Dal Duomo doveva avviarsi per la strada detta anticamente Decumana, indi piegando per la contrada dei Tre Re, al Bottonuto, poscia per la contrada Larga e la piazza di Santo Stefano, svoltare nel corso di Porta Tosa, fin dove sorge la croce vicino agli olmi. Di là entrar nella via che mette alla cloaca di essa porta; indi alla croce di Porta Orientale, donde procedendo in linea retta, dopo la chiesa di Sant’Andrea, giungerebbe a capo della contrada ove s’innalza la croce di Porta Nuova. Presa una scorciatoja, pel vicolo di Sant’Agostino, venire alla croce del Ponte Vetro, poi alla chiesa di San Tomaso, e piegando per la contrada dì San Prospero, alla croce di Porta Vercellina; indi alle Cinque Vie, a San Sepolcro, al Cordusio, e finalmente per la Piazza dei Mercanti, far ritorno in Duomo. Stabilito in tal modo il giro, si fecero i preparativi con siffatta pompa, che non avresti detto essere la città in preda allo squallore per tremenda pestilenza, bensì celebrare con pubblico tripudio una festa nazionale. In quel giorno la stessa letizia de’ Milanesi e l’apparato festivo dei proprj funerali era spettacolo lugubre. Ne lieve saria stato il dolore e la compassione de’ nazionali come pure degli stranieri, qualora avessero posto mente a tali pompe e presagito quanto stava per accadere. Avrebbero essi contemplata l’allegria e la magnificenza d’una città già invasa dalla peste, e di una popolazione tra breve moritura; le ricchezze profuse e un’ingegnosa gara per ricevere, con modeste acclamazioni, le ossa dell’Arcivescovo, il quale, vivente, aveva, giusta la popolare credenza, scacciata la peste da Milano. Ma come presagire l’immensa strage imminente, e che, coloro i quali addobbavano a festa la città, per trarre in luce il cadavere del Santo, tra breve, quasi Iddio si [50] fosse irritato del pubblico supplicare, giacerebbero ammucchiati cadaveri!

Tre soli giorni v’ebbero pei preparativi, ed in tempo sì corto, le vie tutte ed i crocicchj assunsero un aspetto trionfale, che teneva dell’antica magnificenza romana: anche le iscrizioni erano nell’idioma latino. Tanto fecero i cittadini, che l’ingegno natio e la peste già contratta agitavano con febbrile inquietudine. Emblemi, versi, cento e cento iscrizioni a lettere cubitali dorate, rammentavano le virtù del defunto Arcivescovo, e sentenze sublimi a consuetudine degli antichi Romani, quasichè la festa nel Lazio si celebrasse, e non in una città longobarda. Sorgevano frequenti archi ed altari, e cori posti sui balconi, udivansi ad ogni angolo di strada dove svoltava la processione. Arazzi, quadri, drappi d’ogni genere, vasi e tutto quanto di prezioso e d’antico possedeva ciascuna famiglia, fu esposto per dove passava il cadavere di S. Carlo. I tetti e le mura delle case de’ poveri risplendevano per lusso regale: tutta la strada era coperta al disopra con drappi, che difendevanla dai raggi del sole, e qua e là rami d’alberi, fiancheggianti la via, ancor più l’abbellivano. Invero che se non era statuito negli eterni decreti di purgare od ammonire il popolo, io sono d’avviso che tanto ossequio e tante preci avrebbero placata l’ira divina salvando la città nostra dal fatale eccidio.

Il corpo di S. Carlo, o piuttosto le reliquie di esso, sopravanzate alla voracità del tempo, che distrugge fino i più duri metalli, giaceva entro un’arca coperta d’un drappo di seta bianca con ai lati finestrette di cristallo, traverso le quali intravedevasi la consunta faccia del Santo, più venerabile agli occhi dei divoti, che se fosse stata intatta. Portavano l’arca i canonici della metropolitana, preceduti da una parte del clero e del popolo, seguìti dal [51] restante; adorni delle loro insegne venivano i sacerdoti, i magistrati, i più cospicui della città, con doppieri accesi; molti a pie’ scalzi e colle vesti strascicanti quai penitenti, palesavano la costernazione dell’animo. Però gli sguardi d’ognuno, non distratti dai circostanti oggetti, rivolgevansi ansiosi alla calva e mitrata testa di S. Carlo, alla bocca semiaperta, ai pochi denti, che più la sformavano, alle livide e vuote occhiaje, chè in tal guisa la morte, coll’ineluttabile sua possa, aveva guasto il venerabile capo del santo Arcivescovo. Pur nondimeno rimanevano alcune tracce indicanti la benevola fisonomia del Pastore quale la tramandarono ai posteri gli antichi simulacri.

Ad esso erano rivolte le preci di mille labbra, che osavano quasi per diritto implorare che di nuovo difendesse colla sua intercessione, appo Iddio, il popolo già da lui altra volta salvato. Il guardavano ed oravano, e da quel teschio inanimato e corroso, volgendo le preci e la speranza al vivente capo della Chiesa milanese, ad alta voce supplicavano il cardinale arcivescovo Borromeo, il quale seguiva da vicino l’arca, che offerisse i pubblici voti al cugino, cui egli andava dappresso per parentela, per dignità, per meriti[65].

XVII. Dopo la processione s’accresce la peste.

Riuscirono vane le preci; e la pestilenza, quasi eccitata dal vociferare de’ supplicanti, più crebbe e inferocì. Non [52] è lecito a noi l’indagare le cause di sì grande arcano, ed il voler determinare per qual motivo il contagio, che prima lentamente serpeggiava, si diffondesse terribile appunto dopo la traslazione del corpo di S. Carlo. Gli uomini savj e pii, vedendo la violenza del morbo crescere a dismisura, dopo che s’era invocato il celeste patrocinio, lo dissero un gastigo divino; gli stolti invece sostenevano che neppur lo stesso Iddio poteva domarlo[66]. Da alcuni mesi la peste, nascosta, s’era mostrata ad intervalli qua e là; ma ormai infuriava a tutto potere.

L’undici di giugno, giorno sacro a S. Barnaba, erasi fatta la solenne processione con somma gioja de’ cittadini, e da quel giorno veramente la peste acquistò nome, forza e impero, giacchè dianzi non esisteva che l’ombra di essa[67]. È da notare che tutti i contagi e simili mali che afflissero e noi ed altri popoli e città, assumono il nome improprio di peste.

[53]

L’arca in cui giaceva il cadavere del santo Arcivescovo in abiti pontificali e mitrato, rimase otto giorni e altrettante notti esposta in Duomo sull’altar maggiore. Il popolo v’accorreva in folla, implorando, con lagrime ed orazioni, quell’ajuto che per gli imperscrutabili decreti divini era ormai ad esso inesorabilmente negato.

In que’ giorni molti perirono, come se le morti fossero la risposta del Cielo. E perchè niuno ne dubitasse, cresceva giornalmente il numero delle vittime, finchè giunse a mille e ottocento[68] per giorno. Vuotavansi le case, e si trasportavano sui carri i cadaveri d’ogni età, sesso e condizione, chè la morte non perdonava ad alcuno. Le grandi fosse scavate fuori della città non bastavano a seppellire i cadaveri, come le stanze del Lazzaretto erano poche alla moltitudine degli agonizzanti appestati che invocavano, come un sollievo, la morte.

E costoro erano più sgraziati di quelli che il terribile morbo repentinamente uccideva.

XVIII. Aspetto ributtante di Milano pe’ mucchi di cadaveri e l’insolenza dei Monatti.

Miserandi spettacoli degli umani eventi pei furori guerreschi o per le stragi della morte, che i sommi agli infimi adegua, vengono descritti nelle storie; ma io son d’avviso che [54] in nessun luogo mai fu visto tale ludibrio quale presentava Milano in quel tempo ad ogni ora della giornata. Nessuno ignora che razza d’uomini fossero i Monatti, disperati ministri della peste, ed i becchini, i quali, sprezzatori della morte, affrontavano qualunque pericolo.

Il loro nome deriva dalla solitudine in cui devono stare, chè ad alcuno non è conceduto l’immischiarsi con essi[69]. Codesta genia maneggiava, senz’alcuna precauzione, morti e moribondi, toccando i bubboni, la tabe, le membra sanguinanti, e perfino facendo gozzoviglia con pazza gioja sopra i mucchi de’ cadaveri. I Monatti, arrossisco in narrare tanta turpitudine! violarono gli stessi cadaveri, ultimo eccesso della libidine e dell’umana pazzia, che neppure riscontrasi fra le belve! Introducendosi in ogni casa, fosse o no sospetta di peste, perchè ormai era lecito il sospettare di tutti, afferravano i mariti, le mogli, i figliuoli per trascinarli al Lazzaretto, se non redimevansi sborsando denaro. Alcuni giovani sfacciatissimi, legatesi le campanelle [55] a’ piedi, s’introdussero per le case, frugando le stanze, ed anche per le strade facevano quanto loro saltava in capo come se fossero Monatti rivestiti di pubblica autorità[70]. Accadde una volta che nella casa medesima s’incontrassero codesti Pseudo-Monatti coi veri, e ne seguirono risse e colpi, nè l’alterco terminò senza sangue. Fu altresì una calamità pubblica il modo con cui i magistrati provvidero a simili disordini, perocchè gli stessi impiegati subalterni ed i satelliti irrompevano nelle case, commettendovi, colla maggior petulanza e impunità, i furti, le rapine, le ingiurie cui sempre sono usi. E non cessarono dal rubare e dall’estorcere denaro, finchè accusati e presi alcuni di essi, vennero, per gastigo ed esempio, condannati alle forche. Un giorno che si doveva impiccarne tre, mancando il carnefice, si esibì ad uno la grazia qualora volesse farne le veci: accettò con gioja, e strangolò i compagni.

Ma la ciurma de’ Monatti maltrattava a sua voglia e viventi e morti, trascinandone i cadaveri, come il beccajo trascina al macello, legati tutti con una sol corda, vitelli e capretti. Andavano a fascio uomini e donne, adolescenti, fanciulle, bambini pendenti dalla poppa materna, giovani, vecchi. Il servo coricato addosso al padrone pestandogli coi piedi la faccia, ricchi e poveri ignudi, raro essendo che un cencio loro coprisse per pudore le nudità, e se a caso veniva gettato sovr’essi un lenzuolo, tosto gli avidi becchini via lo strappavano. Teste, braccia, gambe spenzolavano dal [56] carro, s’intricavano fra le ruote, ed i cadaveri rotolavano qua e là per terra![71]

FINE DEL LIBRO PRIMO.

[57]

LIBRO SECONDO GLI UNTORI.

[59]

I

A molti era entrata nell’animo la persuasione che la peste fosse seminata e diffusa per frode dei principi congiurati, affine d’invadere la città e il territorio di Milano con buon esito, dopo che invano l’aveano tentato altrimenti. Devastate così, e rese dappertutto squallide le campagne per mancanza d’agricoltori, nè più essendovi chi impugnasse le armi, avrebbe chiunque potuto occupare il nostro paese inerme e deserto. Re potenti, e ministri loro, si accusavano autori di sì disperato consiglio, e il publico, nell’impeto della sua disperazione ingiuriava altresì coloro che forse commiseravano altamente i nostri guai. Nè faccia meraviglia se in tal guisa agivano i cittadini, incriminando lontani ed estranei, poichè nutrendo eguali sospetti, si diffamavano a vicenda gli uni gli altri.

[60]

La quale agitazione degli animi, non meno fatale della strage della peste, dobbiamo attribuirla agli imperscrutabili decreti della Provvidenza. E tanto crebbe la cosa, sia per calamità e miseria, sia per superbia e pazzia, che ogni giorno si punivano gli Untori in città, mentre al tempo stesso nel Lazzaretto, simile ad una pubblica sepoltura, i sospetti e gli indizj del loro delitto sussistevano e in una svanivano.

Mirabile a dirsi! si trovarono nel Lazzaretto alcuni con indosso cassettine, ampolle e tutti gli altri utensili del delitto. Confessarono, e non ricredutisi sotto il cruccio della tortura, vennero tradotti al patibolo. Ma ivi nelle mani del carnefice, che già avea loro posto al collo il laccio, protestarono d’essere innocenti, gridando al popolo che morivano volontieri per altri misfatti da loro commessi, ma che giammai avevano praticata l’arte di ungere, ignari di qualunque veneficio e incantesimo. Tale era l’infamia degli uomini, ovvero la malvagità ed il livore del demonio. Per tal modo sempre più si confondevano gli indizj, e gli animi dei giudici rimanevano perplessi.

Il primo e fondatissimo sospetto degli unguenti sparsi dall’umana malizia per creare od alimentare la peste, nacque allorchè fu visto in tutta la lunghezza della città le pareti delle case a destra ed a sinistra contaminate qua e là di grandi macchie. Ciò accadde il 22 aprile allo spuntare del giorno, che era sereno, cosicchè ognuno vedea chiaramente co’ proprj occhi tali macchie. Alcuni che uscivano pei loro affari sull’albeggiare le videro; poi altri che eccitarono i passanti ad esaminarle, finchè cresciuta la curiosità v’accorse il popolo in folla. Erano codeste macchie sparse e sgocciolanti in diverse guise, come se alcuno avesse imbevuta una spugna di marcia, appiccicandola alle pareti. Anche le porte delle case e gli usci qua e là scorgevansi [61] bruttate da quell’aspersione. Funesto delitto di recente commesso quasi per insultare il popolo, e che io pure andai a vedere. Inorridirono i circostanti, ma, giusta il consueto, presto le ebbero dimenticate; se non che crescendo il male e le stragi quotidiane, tornarono loro più vivamente al pensiero le vedute macchie. Ogni dì si andava narrando essersi trovati oggetti unti e bisunti, ed avere in un subito contratta la peste coloro che li toccarono. Diffusa tale credenza, si ritenne che venissero unte altresì le persone, cosicchè nel gran numero dei morti pochi si credeva non fossero stati in tal guisa infetti; sia perchè unti all’insaputa loro, sia pel contatto avuto con altre persone già contaminate con quel veleno, sia finalmente per aver tocco legni, muri, o checchè altro serve ad uso giornaliero. In breve la pubblica credenza s’accrebbe a tale, che non solo i ferri, i legni, e simili oggetti, ma le contrade medesime della città e l’aere si temevano infettati dagli untori. E siccome correva quella stagione dell’anno in cui il frumento ammucchiasi, secondo l’usanza, sulle aie e nei campi, il timore persuase fosse appestato anch’esso. La pubblica voce aggiungeva avervi parte gli incantesimi, e che i demonii erano congiunti cogli uomini per desolare Milano e il suo territorio[72].

[62]

II. D’un terribile e falso rumore divulgato in Milano ed all’estero.

Non ignoro che a taluni sembreranno esagerate le cose che narrai e quelle che mi rimangono a dire; ed io suppongo altresì favoloso quanto a que’ giorni venne divulgato e creduto tra simili vaneggiamenti degli uomini o esempii di calamità. Fu adunque in Milano comune la credenza, non isventata come assurda nemmeno dagli uomini di senno, [63] tenere i demonii sicure stanze in essa città, nelle quali avevano stabilito l’emporio delle loro arti per dispensare gli [64] unguenti. Molti osavano indicare il quartiere dove erano situate quelle case, nominandone perfino i proprietarii. Finalmente citavasi a nome, e s’indicava a dito un tale che faceva il seguente racconto.

Essendo un giorno fermato a caso sulla piazza del Duomo, vide venire un cocchio tirato da sei cavalli bianchi, nel quale, scortato da numeroso seguito, sedeva un uomo con aspetto da principe, ma con fronte infocata, occhio fiammeggiante, irti capegli, labbro minaccioso, e con una fisonomia che mai egli non aveva veduta l’eguale. Mentr’ei stava guardando a bocca aperta lo strano personaggio, il cocchiere, tirate le briglie a sè, arrestò la carrozza, e gli disse di salire e andar con loro. Avendo annuito per cortesia, lo condussero alquanto in giro per la città, finchè giunti dinanzi la porta di una certa casa, scese e v’entrò insieme coi forastieri.

Quella casa, continuava il narratore, gli parve somigliantissima a colui che l’aveva fatto montare in carrozza, e i cui ordini osservò che là venivano da tutti ubbiditi. La descrizione [65] della medesima, si può dire eguale a quella che fa Omero, immaginando nella Odissea l’antro di Circe. Orrori congiunti a maestà, un non so che di ameno e di terribile: qua fulgori e luce, là tenebre e notte artificiale; dove larve sedute in giro quasi a consesso, dove vasti deserti, sale, boschi, giardini, e dall’orlo di nereggianti scogli acque cadenti con gran fracasso nel sottoposto bacino. Altri portenti meravigliosi aggiungeva il nostro narratore, i quali, esaminati sul serio, divengono insulsi e ridicoli. Da ultimo conchiudeva che in quella casa gli furono mostrati immensi tesori, e scrigni pieni di denaro, colla promessa che ne avrebbe la sua parte, e di più quanto mai potesse desiderare, purchè, giurando in nome del principe, coadiuvasse a quanto si doveva fare. Ove gli offerti patti accettasse, desse il segnale del consenso, alzando il dito, facendo un giro sulla persona e piegando il ginocchio a terra. Il che avendo egli ricusato di fare, repentinamente si trovò trasportato sulla piazza del Duomo dov’era salito in cocchio.

In simil guisa impastoiava colui la sua favola, che molti ritennero desunta da un fatto riferito nell’antica storia. Credettero i Milanesi, credettero gli esteri, ed i libraj di Germania trassero partito da quella fola per guadagnar denaro, alle spalle della curiosità pubblica, vendendo una stampa rappresentante il supposto mirabile avvenimento.

Ho veduto io stesso frammenti di un disegno in carta eseguito in Germania, sul quale scorgesi il demonio sopra un alto cocchio, e con sotto un’iscrizione in lingua tedesca, in cui è detto qualmente l’apparizione di lui illudesse i Milanesi. Ho veduto altresì lettere scritte dall’arcivescovo di Magonza al cardinale nostro, richiedendo lo informasse sulla veracità dei maravigliosi avvenimenti che la fama divulgava accaduti tra il suo popolo. Gli venne rescritto che nessun cocchio infernale, spettro nessuno erasi veduto in [66] Milano. Così le estranee genti non davano piena credenza a tali fole, perchè vivendo da noi lontani, poco interesse vi prendevano, fra noi invece il malore crescente ogni dì sotto gli occhi, e nell’ime viscere, rendeva vieppiù credibili tutti i racconti quanto più erano truci e stravaganti.

Dappoichè adunque il timore che gettasi prontamente ad ogni stolta credenza ebbe persuaso avere le frodi e le malvagità degli uomini, compagni all’opera i demonj, ed esistere in Milano un’officina per ispargere il contagio, nacque quella noncuranza che suole venir compagna della disperazione. I primarj cittadini, incapaci di trovar rimedj e purgare la città, vedute le tante stragi della peste, andavano tra loro commentando con sottigliezze le dicerie del volgo ignorante, e indagavano da qual principe o re straniero avesse potuto chiamare l’inferno in ajuto, e far ministri i demonj della sua malevolenza contro noi. Codesta era la insana investigazione, nè ritengo che mai riuscissero a scoprire l’autore del misfatto, stantechè non ne esisteva per avventura alcuno. Mentre la tabe, i cadaveri a mucchj e i moribondi qua e là giacenti facevano inorridire, ed i morti commisti ai vivi tramutavano questa città in un solo sepolcro ed in un rogo, la pubblica calamità diveniva vieppiù orrenda per gli odj intestini, l’esacerbazione degli animi e il mostruoso sospetto che taluni, corrotti e compri dai demonj, a prezzo d’oro attendessero a disseminare la pestilenza. I congiunti medesimi e gli amici si schivavano; nè paventavasi solo il vicino e l’ospite come pericoloso, ma i genitori, il figlio, il fratello, il marito e la moglie, cui ne uniscono i vincoli dell’affetto. Orribile e vergognoso a dirsi! la mensa, il talamo geniale, e checchè altro v’ha di santo per diritto di natura e delle genti, incuteva terrore, come se ivi appunto s’appiattasse e si effondesse il morbo. Trepidanti e con piè [67] sospeso giravano i cittadini le strade, sopraffatti dalla tema de’ pestiferi unguenti[73].

III. Del Piazza, del Mora, del Baruello, e d’altri Untori.

Io non credo cadere nell’assurdo introducendo in questo tragico racconto anche i rei degli unguenti e dei maleficj, affinchè, siccome tra i ferri innanzi ai giudici o tra i tormenti offrirono uno spettacolo tetro e in un curioso, così sieno in oggi spettacolo ai leggitori, ed essi, e le risposte loro, e ciò che fecero, o vennero convinti d’aver eseguito[74]. Un certo Piazza[75], capo di tutti gli untori, fu [68] messo in carcere: alcune donne, chiamate ad esame, dissero averlo veduto dalle loro finestre imbrattare con unguenti [69] i muri. E sì bene concordarono nelle risposte, descrivendo la fisonomia e gli abiti del Piazza, che, riconosciuto dai magistrati, fu tradotto in carcere. Era egli [70] uno degli ufficiali incaricati di girare giornalmente per le case, e notare in un elenco i nomi dei malati: gli era stato destinato il quartiere della città detto di Porta Ticinese. Arguivasi che incominciando dallo sbocco della Vedra de’ Cittadini avesse unto tutte le vicine case, gli angoli, i vicoli, le contrade, le chiese ed i palazzi dei nobili[76]. Il capitano di Giustizia, per ordine del Senato, lo fece tradurre in carcere il sabato 22 giugno. Era il Piazza un furfantaccio d’alta statura, scarmo, di barba rossigna, capelli castagni, portava calzoni e stivaletti stracciati, ed un corpetto di panno nero; un cappello a falde cascanti gli copriva la testa e la faccia.

Interrogato, dopo i consueti preliminari solenni del foro, se avesse udito dire che si erano trovate in Porta Ticinese molte pareti stropicciate d’unguento, negò, dichiarando essere al tutto inscio di ciò. Si misero i giudici a redarguirlo ed a convincerlo, giacchè, sendo ormai la cosa nota e divulgata in tutta la città, non era verosimile che egli, incaricato di visitare le case in Porta Ticinese, nulla ne sapesse, e fosse l’unico che ignorava una faccenda sì conosciuta e sì pericolosa per tutti.

Le interrogazioni e le risposte si smarrirono in ambiguità, perocchè il malizioso co’ suoi sutterfugi lottava per sottrarsi al sapere ed alla prudenza de’ giudici.

[71]

Posto sull’eculeo, e sospeso alla corda, fu tormentato più del consueto con tutte le carneficine della tortura per le sue contraddizioni, dalle quali emerse il delitto, che egli persisteva a negare. Pure, anche in mezzo ai tormenti, negava con risposte sempre intralciate, le quali davano campo a maggiori sospetti, laonde fu più volte sottoposto alla prova.

Il quarto giorno, insistendo egli pur sempre sulla negativa, i giudici, dopo avergli indarno fatte squassare le membra, lo fecero per stanchezza, anzichè per clemenza, calare. Allentate le corde che gli annodavano le braccia, stava per essere sciolto, e, senza rimettere a luogo le ossa slogate[77], ricondotto nella sua prigione, allorquando, contro l’aspettativa d’ognuno: — Un barbiere, gridò, mi diede gli unguenti![78]

[72]

I giudici, raccolta avidamente questa spontanea confessione, che sembrava palesare l’origine del delitto e della pubblica salvezza ad un tempo, cominciarono ad esaminarlo con gran diligenza sui particolari. Nè finirono prima d’aver indagato chi fosse il barbiere, in qual giorno e luogo, ed a che patti avesse il medesimo somministrato l’unguento. Diceva il Piazza avergli il barbiere insieme coll’unguento dato un ampollino con certa acqua, la quale, bevendola, [73] possedeva la virtù d’impedire, per occulta forza, che uno confessasse. E gridava non poter egli in conseguenza palesare cosa alcuna finchè i giudici lo tenevano sospeso alla corda: e quando veniva calato a basso, e rientrava in sè, ricuperando il senno, offuscato da quel beveraggio, non solo abborriva di confessare il delitto, ma gli usciva anche di memoria chi fosse il reo.

Ciò detto, spiegava il modo tenuto per ungere, quanto denaro gli esibì il barbiere se avesse lavorato con zelo e fedeltà; però fino allora era rimasto colla speranza, non avendo ancora toccato denaro. Il barbiere, accusato dal Piazza come autore e complice degli unti, aveva nome Giacomo Mora[79], abitava alla Vedra dei Cittadini, ed aveva casa e bottega, laddove oggidì sulle ruine di essa casa sorge la Colonna Infame, monumento del commesso delitto, siccome si legge nell’appostavi iscrizione.

Il giudice, udito che ebbe quanto il Piazza affermava con giuramento, recossi colla sua squadriglia all’officina del delitto, credendo cogliere sul fatto il nemico della pubblica salute. Entrati, trovarono il Mora occupato ad un fornello con ampolle: anche il cammino ardeva, perch’egli distillava acque in diverse maniere; piena la casa d’utensili per accendere il fuoco e di caldaje. Gli scrivani, i birri, lo [74] stesso giudice, susurrando tra loro, profferirono che quella era l’officina degli unguenti.

Il barbiere, a tutta prima imperterrito, disse che quelle acque erano medicinali e spiegò per qual uso le componesse o le mescolasse. Indicava specialmente un rimedio contro i contagi, chiedendo scusa d’averlo composto senza licenza della pubblica autorità, mosso dal desiderio di salvare dal generale flagello almeno i congiunti e gli amici, ai quali era sua intenzione dare esso medicamento[80]. Le sue parole furono udite in mezzo al fremito eccitato dai sospetti e dall’ira.

Gli uffiziali si misero a perscrutare la casa, e postala in un momento tutta sossopra, ricominciarono più adagio a frugare, finchè ordinatamente ebbero presa nota dei vasi, degli orciuoli, barattoli, trepiedi, caldaje, e di quant’altri utensili, atti a nuocere, rinvenivano in quell’infelice abitazione. Più d’ogni altro irritò gli animi una cosa forse per sè innocua, e scoperta a caso, comechè sudicia, e che dava maggior adito a sospettare di quello che cercavasi.

Trovarono due caldaje di rame piene di liscio marcio e vecchio, aventi sul fondo un sedimento sporco, tenace come vischio, color di cenere, e che puzzava come gli umani [75] escrementi. Ispezionato e analizzato codesto sedimento dai medici, i quali per abitudine non hanno a schifo siffatte immondezze, non rimase dubbio che tale materia servisse a preparare veleni[81]. Furono trascinati in prigione il barbiere, la moglie, i figli, i parenti di lui, i garzoni di bottega, e coloro che venivano ad impararvi il mestiere. L’infelice ed imprudente padre, accusato di sì infame delitto, persisteva, in mezzo ai tormenti, a negare, giusta la usanza dei malfattori. Allorchè il tormento vinceva, egli implorava alcun sollievo, dando lusinga che scoprirebbe il vero, e alcuna cosa andava dicendo che aveva del verosimile; ma tosto si ritrattava, accusando la violenza degli spasimi che suo malgrado gli avevano strappata la parola dal labbro. Ritormentavasi più aspramente, ed egli di nuovo, per aver tregua, rispondeva a beneplacito de’ giudici, poi subito si contraddiva.

Si fece venire il Piazza, accusatore e complice suo; messi al confronto, altercarono fra loro i due rei, ma con notabile differenza. Il Piazza volgevasi con parole familiari ed amare al Mora; e questi negava d’averlo mai conosciuto neppure: s’ingiuriavano l’un l’altro. Il Piazza rimproverava [76] al barbiere l’infame delitto, le stolte sue speranze, e il fine cui si trovavano ridotti; l’altro gridava, invocando la vendetta di Dio contro la calunnia e le insidie che qualunque malevolo può tendere ad un innocente. Sottoposto di nuovo alla tortura, il Mora continuò nell’alterno confessare e ricredersi, fintantochè, smarrito d’animo, quasi gloriandosi del misfatto, palesò fedelmente l’origine delle unzioni, l’arte adoperata, il progetto di distruggere la città, quanto aveva apparecchiato nei singoli barattoli, e quai luoghi fossero di già contaminati ed unti.

Mentre ferveva il processo del Mora, e facevansi indagini, si scoprirono altri indizj e novelli untori, gente da bettola e da lupanare, e tutti usciti da quell’officina, nomi degni di forca e di rogo: un Migliavacca, un Baruello, un Bertone[82]. Mandata per essi la sbirraglia, furono tradotti dinanzi ai giudici, e con poca fatica confessarono il delitto, come s’erano trovati e che avessero operato in quella iniqua congrega. Sorse una voce che fece abbrividire i giudici stessi d’orrore, senza che osassero parlare, come accade lorquando gli uomini neppur ardiscono palesare i proprj mali. L’untore Baruello, fra le sue deposizioni, disse che eravi un gran capo all’ombra, e sotto il patrocinio del quale ascondevansi tutti gli untori, senza temere danno o pericolo di sorte.

[77]

Questa confessione fu tenuta per indizio di un male maggiore, ed insistendo i giudici per conoscere chi fosse codesto gran capo sì potente, riuscirono a fargli dichiarare essere Giovanni Gaetano Padilla[83], colui che aveva somministrato il denaro, promettendo un politico cambiamento, quindi onori e titoli, qualora rovesciato il vigente Governo di Milano e dello Stato, egli ne diventasse il supremo signore. Riferirono senz’indugio i magistrati tutto ciò al governatore prima di continuare le investigazioni: frattanto occultavasi la cosa sotto rigoroso silenzio. Per ordine del governatore venne replicato l’esame, ed i furfanti, ora interrogati con dolcezza, ora sottoposti a tormenti d’ogni sorte, esponevano, incominciando dall’origine, quanto segue. Avere avuto frequenti colloquj col Padilla; molte cose aver discusse e pattuite insieme, e essere corsi avanti indietro messaggi tra loro, finchè da ultimo si trovarono di notte oscura sulla piazza del castello, ed ivi, nella spianata dove fa i suoi esercizj la cavalleria, scelto un luogo per eseguire l’incantesimo, e confermare con riti infernali i patti dianzi fra loro convenuti, asserivano aver evocati i demonj a prendere parte nei veneficj, giurando ai medesimi con empie cerimonie di ungere. In quell’incantesimo apparì un Pantalone, con indosso una toga, colle brache, ed in testa una perrucchetta; il Padilla che si copriva la faccia con un tabarruccio, ed un prete, il quale, tenendo in mano una bacchetta, descriveva linee e circoli[84]. Queste ed altre cose [78] che soggiunsero, cadono nell’assurdo e nel ridicolo. Il Padilla, incarcerato, confutò gli accusatori suoi, i luoghi, [79] l’epoca, provando all’evidenza essere egli a que’ giorni assente da Milano, e non avere conosciuti nè mai veduti costoro. Gli untori furono nonostante puniti con sì acerbi supplizj, che la città ne avrebbe inorridito, ove la gravezza del misfatto non avesse fatta parer lieve qualsiasi pena[85].

[80]

IV. D’altri che a torto furono creduti untori, o per tali imprigionati.

Molti innocenti, che la fisonomia, l’abito sdruscito, o il soffermarsi qua e là rendeva sospetti, furono accerchiati dal popolo con grida e con tale tempesta di sassi e di [81] colpi, che anelavano d’arrivare al carcere, come in porto di salvamento. I campagnuoli e gli agricoltori, gente nelle calamità [82] crudelissima, irritati dai proprj mali e dalla scarsezza delle biade, se scorgevano alcun viandante camminare [83] a rilento lungo le strade maestre, o lasso riposarsi sul terreno, unendosi a frotte, lo circuivano, e, ben legato, lo traducevano a Milano. Ogni giorno capitavano turbe di contadini con siffatti prigionieri in catene[86].

[84]

Io stesso fui testimonio della disgrazia toccata ad un vecchio, che oltrepassava gli ottant’anni, e che all’aspetto ed al vestire appariva di agiata condizione. Entrò il medesimo nella chiesa di Sant’Antonio, dei Padri Teatini, i quali sono modello a Milano di sapere e di virtù, seguendo le orme dell’Abate istitutore del loro Ordine. Recitate che ebbe in ginocchio le sue preci, sentendosi stanco, e volendo riposare alquanto, spazzò col mantello la polvere da una panca per sedervisi. Alcune donne, lì vicine, al vedere un tal atto, gridarono che il vecchio ungeva le panche, e quanti erano in chiesa vociferando, fecero coro.

Correva in quel giorno, non mi ricordo che festa, ed il concorso del popolo era numeroso quanto permetteva il tristo tempo del contagio e lo squallore della città. Udite appena le grida essere un untore, tutti gli astanti si precipitarono addosso a lui. I più vicini, afferrato l’infelice vecchio, gli strappano i capegli, lo pestano a pugni ed a calci, e lo trascinano, già semivivo, per le gambe. Un solo pensiero trattenne que’ furibondi dal ferirlo di coltello nella testa o nel ventre; volevano tradurlo in prigione per serbarlo alla tortura dinanzi i giudici.

Io lo vidi trascinare, nè seppi altro che ne avvenisse, ma ritengo sia morto in breve, tanto era malconcio. Coloro che, sdegnati per quell’atroce caso, indagarono chi fosse il vecchio, raccontarono che era persona rispettabile ed onesta.

Il dì seguente fui spettatore d’un caso consimile, ma meno luttuoso, perchè la stolta plebe non inferocì contro un concittadino, ma contro Francesi. Certi giovani di quella nazione eransi associati per visitare l’Italia, e investigarne gli antichi monumenti. Seppesi dappoi essere i medesimi istrutti nelle arti che valgono a guadagnarsi il vitto lontano da casa, quale letterato, quale pittore e meccanico, [85] in guisa che potevano essere utili a Milano se vi fossero capitati in tempi diversi.

Essi destarono sospetti nel popolo, perchè contemplando i bassirilievi della facciata del Duomo, non paghi di saziare la vista, gli andavano con diletto toccando colle mani. Un passaggero si fermò a guardarli, poscia un secondo; s’aggiunsero altri, e in un momento si fe’ calca, e tutti a bocca aperta e con occhi spalancati affissavano i pretesi malfattori. A poco a poco la folla circondò gl’incauti stranieri, e li vide tasteggiare quanto a loro sguardi sembrava pregevole in que’ marmi.

Questo bastò per giudicarli colpevoli; il popolo non seppe più a lungo frenarsi, e tanto più inferocì contr’essi, che dal vestire, dalle zazzere, dal fardello che portavano in spalla, e dalle grida con cui cercavano sottrarsi alle busse, furono riconosciuti per francesi. La prigione li salvò dal furor popolare; interrogati da’ magistrati, e conosciuti innocenti, vennero posti in libertà.

Ho narrati questi due casi per mostrare la leggerezza e la crudeltà della sospettosa plebe in quei giorni. E li scelsi a preferenza, non già come i più atroci tra quanti accadevano giornalmente, ma perchè d’entrambi fui spettatore io stesso: piansi il destino di quegli innocenti, e più ancora la follia cui abbandonavasi la nostra plebe durante il contagio.

Oltre codesti casi lagrimevoli, per tutti coloro che hanno senso d’umanità, altri pure ne accaddero faceti e quasi ridicoli a segno, che in mezzo a tanto pubblico lutto costrinsero a involontario riso chi ne fu spettatore o li udì raccontare. Ed ora, cessata la calamità, giovi il ricordarli a sollievo de’ leggitori, servendo, per così dire, di piacevoli fermate nel mesto campo che percorriamo.

Infuriando, come dissi, la pestilenza e gli atroci sospetti [86] delle unzioni in Milano, il nostro Cardinale Arcivescovo volle sottrarre al pericolo due chierici suoi famigliari, de’ quali molto servivasi, e sì fedeli e industri, che difficilmente avrebbe potuto supplire se il contagio glieli rapiva. Mandolli perciò a Senago, villa discosta sette miglia da Milano, dove poco prima aveva comperata la rocca e gli orti ameni che la circondano. L’umano e dotto Arcivescovo, mentre viveva parcamente e fra gli stenti col restante della famiglia in mezzo alle morti quotidiane e le afflizioni di quei giorni, ordinò che venissero cautamente trattati i due chierici che dovevano in essa villa occuparsi d’alcuni lavori letterarj.

La peste non era fin allora penetrata in Senago, che anche in seguito rimase illeso[87], quindi i terrazzani lo custodivano vigilantissimi, e per la propria salvezza ed anche per l’ambizione di preservare fino all’ultimo sè stessi incolumi nel generale incendio; ricinto di cancelli il villaggio, non vi lasciavano penetrare alcuno.

Sorge la casa del Borromeo sopra una collinetta che domina Senago; i chierici nel dì stabilito, girando intorno al paese, giunsero in cima, senza che i guardiani li vedessero, seppure non dissimularono d’averli scorti. Il giorno seguente non uscirono, aggirandosi per le vuote e silenziose sale, pieni ancora l’animo dello sbalordimento [87] e del terrore recato seco da Milano. Trascorso però alcun tempo, s’inanimarono a metter piede nell’atrio, poi nell’orto: contemplavano i fiori, gli alberi, il frutteto, e allettati dall’amenità del luogo, valicarono la siepe, e salirono il colle vicino. Ivi sedettero al rezzo degli alberi, ed avendo seco loro il breviario, per non isprecare il tempo nell’ozio, si misero a salmeggiare alternativamente l’ufficio divino di quel giorno.

Il luogo ameno e solitario andava loro a genio, per cui recitato che ebbero alacremente l’uffizio, tratte di tasca le loro lezioni, si diedero a ripassarle, lieti d’adempire in quel giorno, senza noja, i doveri ecclesiastici e i letterarj. E tanto più volentieri s’ajutavano a vicenda negli studj, che non eravi maestro cui ricorrere durante il pericolo del contagio.

Quattro fanciulli che trovavansi sopra la collina a custodia del gregge, si divertivano a giuocare alle palle: uno di essi, scorgendo sdrajati all’ombra i due giovani in negre vesti, i quali parlavano ad alta voce e gesticolavano con in mano scartafacci, li additò ai compagni, e tutti estatici, affissarono que’ sconosciuti. D’improvviso decisero essere due di coloro che dalla casa del demonio in Milano (già erasi sparsa nel contado la favola) mandavansi nelle campagne a spargere gli unti. Non si avvilirono per questo i contadinelli, due corsero ad avvisare i terrazzani di Senago, affinchè accorressero armati, e due restarono a guardia per vedere se quei malefici fantasmi si dileguavano nell’aria. Intanto i due supposti untori a tutt’altro pensando che all’imminente pericolo, discorrevano tranquilli di poesia al rezzo degli alberi, alloraquando, alzati gli occhi a caso, videro il vicino bosco pieno di contadini armati di archibugi e di ronche. Era corsa l’intera popolazione di Senago, e molti giungevano altresì dai circostanti villaggi, cui erasi [88] dato l’avviso per affrontare i ministri dei demonj, schiamazzando essere venuto il momento di vendicarsi di quei mostri infernali. Già avevano circondati i due chierici, ed i più lontani altro non aspettavano per scaricare gli archibugi che un cenno di coloro, i quali, essendosi di più avvicinati, volevano guardare in faccia que’ neri uomini, e interrogarli d’onde venissero, e con quali intenzioni. I chierici, alzatisi senza profferir parola, meravigliavano di quella turba d’armati; per loro ventura sopraggiunse un contadino di Senago al servizio del Cardinale come custode della casa, il quale, essendo stato esonerato d’ogni altra incumbenza per servire i due giovani, appena avuto sentore del tumulto, corse anelante con uno spiede da caccia, e visto di che trattavasi, arse di rabbia e di vergogna, e insieme ridendo dell’equivoco, disse loro di seguitarlo.

Per tal modo sfuggirono ad una morte sicura gli innocenti giovani, che non già di veleni e di unzioni, ma dei proprj doveri e di letteratura si occupavano.

V. D’un grande e insigne personaggio sul quale cadde il medesimo assurdo sospetto.

Ricorderò un altro fatto che nel tragico e lugubre aspetto di Milano pur mosse al riso. E fu caso tanto più ridicolo, in quanto non trattavasi di chierici oscuri, ma d’uomo conosciutissimo e stimato. Il rispetto dovuto al medesimo e la dignità storica esigono ch’io ne taccia il nome; però egli era tale che riuniva quanti pregi danno diritto all’altrui [89] stima ed alla gloria: uno di quegli uomini che nel corso dei secoli di rado fioriscono nelle città.

Dotto nelle lettere sacre e profane, filosofo, teologo, oratore, poeta, commoveva e calmava a voglia sua gli animi quando parlava al popolo; e, dote rara in un sacro oratore, era sì esperto nel maneggio degli affari, che pochi politici l’avrebbero superato. Conosceva i segreti e le intenzioni dei principi, e quanto ciascuno di essi poteva meditare ed eseguire; famigliare e ministro d’un potentato, che gli ignoranti dell’età nostra tennero per astutissimo, corse gravi pericoli alla corte del medesimo, ma da ultimo ne uscì salvo. Di nobile schiatta, d’aspetto dignitoso, riuniva la pietà e la religione a modi affabili e lepidi, doti che ben di rado trovansi congiunte. Tenevasi come un oracolo in Milano, ed ogni giorno molti andavano da lui per consigli. Poco prima che scoppiasse il contagio, volle peregrinare a Roma per la brama, dicevasi, di rivedere quella metropoli e baciare devoto le glebe innaffiate dal sangue dei Martiri, ed i luoghi nobilitati dalle vestigia de’ Santi. Siccome però alla pietà egli univa, come dicemmo, le cure civili, taluni affermavano avere intrapreso il viaggio per qualche affare.

I curiosi sfaccendati, sempre proclivi al misterioso, susurravano essersi recato a Roma per trattare di una guerra importante che andavasi macchinando in segreto, per far conquista di regni e provincie. Altri interpretavano più semplicemente la cosa, affermando che il Papa, mosso dalla celebrità ovunque divulgata dell’ingegno ed erudizione di lui, avevalo, per conferire seco, chiamato a Roma. Ivi giunto dalla Toscana, venne ricevuto con grandi onori nella Corte pontificia, e tutti gli altri uffiziali, giusta il consueto delle corti, lo festeggiarono, vedendolo così accetto al Pontefice.

La nostra patria, quantunque di certo non bisognosa delle lodi d’estranei, pure rallegravasi che un suo cittadino [90] venisse in tal guisa onorato. E noi udivamo con piacere narrare che il Papa gli aveva fatti alcuni regalucci, e l’invitava a pranzo in Vaticano, o a villeggiare con lui sugli ameni colli cari alle muse; che uno ed anche più cardinali erano stati lo stesso giorno a fargli visita per salutarlo e parlar seco. Cotanto in Roma, ammiratrice solamente delle cose proprie, era piaciuto quest’uomo per l’ingegno, i modi e que’ pregi che rendono benevisi gli inferiori ai personaggi oppressi dalla loro medesima grandezza. Divulgavansi per Milano notizie anche più liete, non essere improbabile ch’egli divenisse cardinale in quella città dove gli uomini ponno repentinamente salire in alto. E vieppiù ci rallegravamo in udire che il nostro concittadino con elevatezza di sentimenti aveva sprezzato d’usare le solite arti con cui ivi spianasi la via agli eminenti gradi.

Così un solo uomo peregrinante lontano dava argomento a discorsi in mezzo a tante miserie e tante stragi, per cui l’afflitta Milano paventava l’estrema ruina. I nostri, quantunque afflitti, pure si divertivano con quelle dicerie, e non essendo proibita ancora la venuta a’ forastieri, questi vi recavano notizie d’esteri paesi, e in pari tempo diffondevano in altre contrade i discorsi giornalieri e le favole credute nella città nostra.

Quand’ecco all’improvviso spargersi una stolida e atroce diceria infamante quest’uomo: da sicuri indizj risultare che egli era il capo degli untori. Trovossi il nome d’un nuovo delitto, ma che in quel tempo ammettevasi come le altre colpe comuni, e per tale veniva punito. Scorsi sette od otto giorni, si sparse nuovamente nel pubblico la voce, che egli, rinchiuso in profondo carcere, veniva custodito dai soldati: che il Papa aveva ordinato si recassero a lui ogni sera le chiavi della prigione, di nessuno fidandosi, ch’eransi suggellate le porte, cambiati e raddoppiati i guardiani. Aggiungevasi [91] come si sperasse ottenere dal reo indizj di cose portentose, e tutte codeste notizie si affermavano con tale uniformità, che gli stessi congiunti ed amici più autorevoli dell’assente non ardivano aprir bocca e rispondere agli accusatori.

Attivissimi a spargere siffatta calunnia erano i nobili e le persone addette alle più cospicue famiglie. Arrossivano d’essere lontani parenti di lui, negando aver avuti comuni gli antenati, e ricusavano, spergiurando, quei legami di cui per l’addietro andavan superbi, falsando perfino le genealogie, tanto premeva loro di vantare una benchè lontanissima parentela con uomo sì pieno di meriti e sì rinomato. Nè tralasciarono nei discorsi e nei crocchi di spargere calunnie, come s’usa a danno degli infelici colpiti da qualche sventura o da un disonore di famiglia. Vennero a duello, e fu detto che taluni sostennero fino cogli schiaffi la verità dei loro racconti.

Infrattanto acquistava più fede la notizia che il reo, in catene e con una scorta di cavalleria, per togliere ogni adito di fuga, veniva tradotto, dietro un ordine del Papa, a Milano, non già per sottoporlo ad una procedura, essendo manifesto il delitto; ma perchè salisse al patibolo, ove le straziate sue membra servirebbono di spettacolo alla città, ch’egli voleva coi veneficj distruggere. Sparse la plebe simili dicerie, e le credettero anche i nobili minori[88], e con tale convincimento, che s’indicavano le fermate del viaggio, ed il giorno dell’arrivo. Si precisava l’ora della notte in cui il prigioniero, levato dal carcere e messo in carrozza, era uscito da Roma; quando per la via Emilia valicò i gioghi dell’Appennino, giunse a Bologna, sostò a [92] Modena, fu aspettato a Parma; ed altre particolarità del viaggio, come se venisse tradotto fra l’armi quel re dei Vandali che poco prima aveva tumultuato[89]. Fissavano il giorno in cui giungerebbe a Milano, e il genere di supplizio cui era dannato, spacciando il tutto con tale asseveranza, che se fosse stato vero, non avrebbe ottenuta più ferma credenza.

Allora i parenti di lui non si lasciarono più vedere in pubblico, ed i suoi nemici, che poc’anzi imbaldanzivano per l’accadutagli disgrazia, compiangevano con finta pietà il caso d’un sì onorando cittadino, rattristandosi, come se fosse loro propria, dell’onta che i delitti ed il supplizio d’un solo uomo recherebbero alla patria e ad una stimabilissima famiglia. Ma non esisteva ombra di colpa o di vergogna, perocchè mentre quel cittadino assente era fatto ludibrio tra noi, godeva il favore del Papa e di tutta la romana Corte, che sel teneva carissimo. Reduce in seguito a Milano, vi fu più stimato e ben voluto di prima, per avere, come dicevasi, ricusati tutti gli onori e le ricchezze offerte. Tali ridicole scene accadevano quasi ogni giorno in mezzo alla strage, all’incendio, e, per dir giusto, alle esequie di Milano. Ed io credetti farne cenno come nelle tragedie, fra le lagrime introduconsi talvolta cori e danze.

Ora mi si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se oltre questi innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di male, e corsero nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri untori, mostri di natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune, [93] siccome con troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento arduo perchè dubbioso in sè stesso; ma altresì perchè non mi è conceduta la libertà sì necessaria allo storico di emettere e sviluppare la propria opinione sopra ciascun fatto. Ov’io volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle arti degli uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti gastighi, molti griderebbero tosto empia la mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi.

L’opposta opinione è ora invalsa negli animi: la plebe credula, com’è suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore, come se avessero a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il combattere siffatta credenza, laonde esporrò soltanto le altrui opinioni e i detti senza affermare o negare, e senza propendere nè per gli oppugnatori, nè pei sostenitori delle unzioni[90].

[94]

VI. Si espongono le opinioni di filosofi e medici chiarissimi circa gli unguenti pestiferi; e vari casi.

Esposi nel precedente libro qual fosse il carattere ed il sapere di Lodovico Settala, e di che fama godesse, narrando il pericolo da lui corso con stolidi plebei, i quali per nulla volendo credere alla peste, schiamazzavano essere egli medesimo che ne spargeva il nome tra il volgo. Alessandro Tadino, alunno ed amicissimo di codesto filosofo, cui era eguale, o almeno somigliante per indole, cuore, nobiltà di stirpe, studj, in una parola, per tutto, l’età eccettuata, ebbe anch’egli a soffrire le ingiurie della plebe, e trovò scampo ricoverandosi in una casa; il corso pericolo accrebbe la riputazione d’entrambi.

Il Tadino, nel fiore della virilità, quasi di già principe de’ medici egli stesso, compagno assiduo negli studj ed emulatore del venerando ed illustre Settala, cui stava di continuo a fianco, lo pareggiò, per così dire, dappoichè fu morto[91]. Entrambi, per quanto concedevano gli affari e [95] la vita operosa, specialmente in quel tempo di peste, molto filosofavano insieme circa l’origine del morbo e l’avvelenamento di cui i Milanesi credevano essere vittima.

Morto il Settala, il superstite Tadino continuò ad esaminare tali fatti, giovandosi e delle proprie osservazioni e dei colloqui già tenuti coll’amico; ed espose la sua opinione diffusamente e con sottigliezza. Avendo io avuto sott’occhio alcuno de’ suoi scritti, ed udendo egli che già stava per uscire in luce questo mio libro, mi comunicò gentilmente le proprie opinioni e dispute, prestandomi i suoi commentarj[92]. Dai medesimi riferirò fedelmente le principali sentenze di codesto medico e filosofo chiarissimo circa la peste manufatta, e codesta diabolica fattura degli unti. Ma non pertanto rimarrà ancora per noi indecisa la cosa; in quantochè le unzioni, siccome d’origine diabolica e tenebrosa, ingeneravano mille dubbiezze negli animi.

Il Tadino, giusta lo stile dei filosofi, incominciava la sua disputa con argomenti cavati dagli astri, essendo egli non meno abile nello studiare le regioni celesti, di quel che [96] fosse nella medicina, che vien detta una delle tre scienze nate, e in uno adulte. Scriveva egli avere preceduto agli unguenti una cometa, apparizione che si ritenne sempre presagio di grandi novità e sciagure. Tale cometa, d’aspetto più spaventevole ancora dell’usato, comparve nel cielo il mese di giugno, tempo in cui è opinione aver maggiormente lavorato l’officina degli unguenti[93]. Brillava a settentrione, e molti la videro; ed uomini esperti e presaghi delle future cose, dietro giornaliere osservazioni del cielo, vaticinarono da essa cometa quanto avvenne dappoi. Un’altra cometa apparì nel 1628 nel cardine destro per la congiunzione di Saturno, portento che fra tutti i celesti è ritenuto il più minaccioso e sanguinario.

Queste ed altre conseguenze deduce Tadino per mezzo di quella scienza sublime che ascende tra le celesti sfere, vi soggiorna, ne scruta gli arcani, e ardisce perfino trarre gli astri sempiterni, a partecipar colla vita e i casi dei mortali, ed imparenta il firmamento col genere umano. E forse egli ne è capace[94]; ma io, privo di siffatto coraggio [97] o potenza, e chino a terra, sto pago di narrare alcune cose comuni e terrestri al par di me, citate anche dallo stesso a proposito degli unguenti. A confermare la credenza nei quali, furono non tanto un argomento quanto una specie d’oracolo le lettere che il re nostro scrisse al governatore Spinola del seguente tenore.

Eransi scoperte in Madrid quattro persone[95], le quali avevano recato seco unguenti per spargere la peste nella reggia. Fuggirono, ma ignorandosi per dove fossero rivolte, avvertiva il governatore stesse sull’avviso affinchè Milano e il ducato, cui egli presiedeva, non rimanessero vittime di quella scelleraggine.

Queste lettere, essendo firmate di propria mano del re, furono di gran peso sugli animi de’ cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando delitto. Spedite dal governatore al Tribunale di Sanità, comunicate ai grandi, divulgate per Milano, suscitarono in tutti sì fieri sdegni, indignazione, sospetti, che ormai fu creduto lecito il dubitare di chicchessia.

Codesto avviso del monarca si tenne dunque per prova certissima degli unti ben più della cometa, cui attribuiva tanta influenza il citato filosofo. Subito dopo ricevute le lettere regie, occorse il caso d’un forastiere, che sulle prime accrebbe la fede del temuto e misterioso delitto delle unzioni, spargendo nuovi terrori; ma dappoi ridotto a nulla, come parecchi altri fatti, mescolò vieppiù, per una specie [98] di fatalità, il vero coll’ambiguo in codesta faccenda, aggiungendo tenebre a tenebre, perocchè succedettero altre cose, le quali confermarono quant’era dubbioso.

Nell’albergo dei Tre Re, in cui sono usi prendere alloggio i forestieri oltremarini e oltremontani, e stanziano per solito i viaggiatori francesi e tedeschi, capitò un giorno un Girolamo Bonincontro, giovane sui ventiquattro anni, di bell’aspetto, e che dall’abito elegante, dalla bionda e lunga capigliatura e dalla florida carnagione appariva francese. L’albergatore notificò il suo arrivo al magistrato, descrivendo il bagaglio, e riferì i discorsi tenuti dal giovane a mensa, ed ogni sua parola che i servi dell’albergo avevangli riferito a puntino.

Spacciavasi egli, fra le altre cose, esperto in medicina, portatore di farmachi ignoti, ed in ispecie di certe cassettine con entro un balsamo mirabile contro la peste, tutti i quali rimedj era disposto a far conoscere al Tribunale di Sanità, qualora lo mandassero a curare gli appestati nel Lazzaretto. Si vantava che la città di Palermo, desolata, nell’anno 1624, dalla pestilenza, erasi salvata dall’estremo eccidio soltanto pe’ suoi rimedj; e in prova esibiva diplomi e privilegi, dal vicerè di Sicilia a lui dati in premio del segnalato servigio, e conchiudeva, instando, di presentarsi alla Sanità perchè gli schiudesse il Lazzaretto[96].

[99]

Il presidente Arconato, ciò saputo, memore delle lettere reali, e riflettendo essere costui un francese, e parlar di medicamenti cotanto a que’ giorni sospetti e invisi, tanto più che cercava entrar nel Lazzaretto, come luogo opportuno a’ maleficj delle unzioni, ordinò che il forastiere venisse imprigionato, sequestrando i vasi, i fardelli e quanto seco aveva.

Fattone l’esame, si rinvennero oggetti che sembravano proprj di un famigerato untore, molte ampolle e barattoli ripieni di polveri, di liquori, d’unguenti, ciascuno col suo cartellino, chiusi e suggellati con molta diligenza. Egli affermava che erano tutti specifici innocui preparati per varie malattie.

Il medesimo Tadino, intervenuto per sicurezza come conservatore della Sanità, all’apertura della valigia ed all’esame che fu fatto nel Lazzaretto, li giudicò per tali. Il forastiero, esaminato, rispondeva in modo soddisfacente ai giudici; se non che confessò d’essere apostata d’un ordine religioso e che aveva abbandonata Ginevra, lupanare d’eresia, desideroso di viaggiare alquanto e recarsi a piedi in Roma ad implorare dal Papa perdono de’ suoi traviamenti. Il giovane venne rilasciato[97], ed apparve sì chiara l’innocenza [100] di lui, che cessarono i sospetti anche sugli altri forastieri.

Però i vaghi sospetti e la credenza delle unzioni crebbero nel pubblico per questo caso e per altri molti che il Tadino, chiamato a darne giudizio, non solo per la sua esperienza medica, ma per l’esimia prudenza, registrò siccome argomenti irrefragabili, e nei quali non poteva alcuno muover dubbio. Constava che alcuni rei del misfatto, sottoposti alla tortura, furono strozzati dal demonio, che le medesime case, untate una notte, lo furono in seguito ripetutamente, ed il nuovo unto sovrimposto alle prime macchie in guisa che apparivano segni d’arte diabolica.

Dodici vagabondi, arrestati e posti in ferri, confessarono e sostennero, anche fra i tormenti, esservi un tale che ogni giorno li menava all’osteria, e dopo che avevano ben mangiato e bevuto, li spediva ciascuno alla sua volta, ovvero in cerca della materia per fabbricare gli unguenti, rospi, scorpioni ed altri schifosi animali, e marcia di bubboni[98].

[101]

E perchè non si dubitasse di simili iniquità, di cui era capo il demonio, gli Inquisitori del Sant’Uffizio, nel lutto e nella disperazione della città, notificarono al presidente Arconato qualmente fosse stabilito al demonio un termine, oltre il quale l’inferno non avrebbe più alcun potere sulla vita del popolo milanese. Le quali parole dell’Inquisitor generale può dirsi aver troncata la questione degli unguenti coll’autorità apostolica che non può ingannarsi, nè venire ingannata.

Queste prove intorno le unzioni adduce il Tadino, medico, filosofo, conservatore della Sanità, ed altre più efficaci a conferma. Non è cosa nuova, e accaduta soltanto nella città nostra, il creare, per arte umana, la peste, che altre volte ritenevasi morbo naturale, prodotto dalla corruzione dell’aria o da interno guasto dei corpi, diffuso e contratto [102] per mezzo dell’alito e del contatto. Anche a Palermo, in Sicilia, quattr’anni circa prima della nostra peste, apparve il furore dei demonj frammisto alla stoltezza e frode de’ mortali; certi scellerati cospirarono in orribile accordo coll’eterno e implacabile nemico del genere umano, per avvelenare i precordi degli altri uomini, e toglier loro il bene dell’alito e della luce, per la quale noi, per favore divino, respiriamo e viviamo.

In quell’antica, nobile ed opulenta metropoli perirono, nello spazio di sei mesi, cento trentacinque mila persone, vittime della furibonda scelleraggine d’uomini iniqui al pari dei demonj. E vi furono Monatti che, salariati allo scoppiare di quel contagio con sei zecchini il giorno[99], temendo, allorquando la furia del male andò scemando, di perdere il vistoso guadagno, si rivolsero per ajuto agli spiriti infernali, forse col mezzo delle streghe, e ottenuto che l’ebbero, manipolarono, con infame miscuglio, veleni, ne’ quali racchiudevasi una forza per sè mortifera e insieme il nodo del veneficio.

Anche fra noi accaddero eguali e non ambigui portenti nell’antecedente peste, che afflisse Milano nel 1576; maggiore d’ogni altra ove quest’ultima non ne avesse scemata la fama. Uno degli untori, scoperto e convinto del delitto, mentre veniva appeso alle forche, confessò, palesando altresì [103] l’antidoto del venefico unguento; il qual antidoto, sperimentata che se ne ebbe l’efficacia, divenne celebre sotto il nome d’Unguento dell’Impiccato[100]. A questi esempj conosciuti e recenti, s’aggiunse l’autorità d’antiche memorie; che più volte furono punite donne venefiche per manufatta peste. E trovasi ricordo di untori, i quali, per mezzo di sapone, d’aghi e d’altri oggetti d’uso giornaliero, sparsero il contagio in grandi città, sulle flotte, in intere provincie e regni; nè le pene cui vennero condannati valsero ad impedire in altri malvagi lo stesso delitto.

Finchè uomini esisteranno sulla terra, accaderà mai sempre [104] di scoprire di tempo in tempo nuovi delitti e punirli; ma dopo la pena riproduconsi, e compressi risorgono nuovamente, tale essendo il giro delle colpe come d’ogni altra umana vicenda. Da ciò si arguisce che se in altri tempi e luoghi, ed anche in Milano, audaci mortali provocarono la natura e l’inferno colle arti loro, formando, per così dire, una terza potenza distruggitrice, altrettanto poteva accadere a’ giorni nostri.

Tali cose discute con lungo esame il Tadino, notando persone, luoghi, epoche, testimonj. Afferma aver veduto co’ proprj occhi nella contrada di San Raffaele un furfante a cavallo, che di soppiatto e destramente, allungando la mano, gettava una polvere venefica addosso ai passaggeri[101]. Essendosi messo a gridare per avvertire gli astanti, colui, dato di sprone al cavallo, fuggì.

Ho conosciuta, egli prosegue, un’onesta famiglia, ch’io frequentava come medico ed amico, la quale perì tutta quanta per la polvere venefica e contagiosa. Due giovani nubili[102], recatesi alla chiesa de’ Padri Serviti, attinsero col dito l’acqua benedetta nella pila, e si toccarono la fronte, il petto, le spalle, facendosi il segno di croce. Esse videro [105] dei pulviscoli ed un sedimento sabbioso, che rimase loro attaccato sulle dita e sulle vesti. Tosto s’annebbiarono gli occhi, e furono prese da vertigini e dolore acuto di testa: portate a casa, dopo quarant’ore morirono fra gli spasimi, senz’indizio veruno di peste. La madre e tutti i servi morirono anch’essi di quel male inesplicabile.

Il senatore Caccia divenne rinomato in Milano non tanto pel suo grado, ma per l’ultimo suo caso, il quale per la novità del delitto rese a tutti notissimo il nome di lui. Un certo Ferletta[103], suo servo, ovvero uno di que’ clienti che frequentano le case de’ senatori ed ambiscono accompagnarli allorchè escono di casa, si presentò una mattina tutto ossequioso e sorridente, e porse al Caccia un fiore, lodandone per avventura la specie o la fragranza. Il buon Senatore per gentilezza l’appressò alle nari, e tocco all’istante nelle parti vitali, morì in brev’ora[104].

A Volpedo, nel Tortonese, si scoprirono sette malfattori: confessarono d’aver fabbricati gli unti, e mentre subivano il supplizio della ruota, si vide, sopra la macina d’un mulino vicino, una macchia di quel pestifero veleno[105]. Se ne fece l’esperimento, stropicciando quell’unto con mollica di pane, che fu data in briciole ad alcune galline; in una mezz’ora caddero morte, e sparate, si trovarono [106] le interiora nerissime. Un moscone, che forse erasi posato sopra quella macchia, volò sull’orecchio d’un cocchiere, il quale in quattro giorni morì senza dolore o sintomi d’altro male, accusando soltanto ch’era stato morsicato da quell’insetto. I riferiti casi di persone e animali sono indizj che la peste non era solo naturale, ma vi concorreva altresì l’arte degli uomini, i quali manipolavano le più velenose sostanze della natura, fatali alla vita. Se non che le unzioni erano fattura più diabolica che umana, come apparisce dal fatto che racconterò[106].

Antonio Croce e Giovan Battista Saracco, abitanti in Porta Ticinese, nella contrada di Cittadella, si presentarono al Tribunale di Sanità, e deposero con giuramento quanto segue:

«Che ivi loro vicino si ritrovava un legnamaro infermo suo amico, al quale di notte v’andorno alcune persone in camera senza sentire aprire l’uscio; e li fu commandato dovesse di subito levare e andare al bastione, che colà avrebbe ritrovato una persona di molta autorità, la quale gli avrebbe dato da ungere le case in quel suo contorno, e dipoi gli promettesse andar seco che lo avrebbero risanato. Fratanto pigliasse a buon conto 25 scudi, li quali per quello fu rifferito, furno riposti sopra una tavola, e benchè l’infermo ricusasse più volte il fare questa funzione, prima perchè non poteva per la sua infermità, e non voleva pericolare la sua vita; e poi perchè non vedeva persona alcuna, se non sentirse movere il letto e levarli la coperta e li lenzuoli; [107] il meschino, non sapendo più che dire, atterrito di tanto accidente, si risolse dimandare che persone erano, e da chi mandate. Uno di loro rispose nominarse Ottavio Sasso, il quale mai s’è ritrovato, per certo essere stato il demonio. Finalmente non volendo promettere di fare questa loro volontà, ritornarono pregare con lasciarli altri denari, sentendo l’infermo il moto sopra la tavola. E dopo molto contrasto gli fu detto, che si vestisse: sarebbero poco dopo tornati per andar seco, e dopo partiti, si ritrovò una voce di uno lupo che mugghiava sotto la lettiera, e tre gattoni sopra il letto, che sino al far del giorno vi dimorarono. Dopo tutti sparvero, restando il meschino mezzo morto, e riavuto alquanto domandò ajuto, e v’andarono i sopra menzionati suoi amici vicini, a’ quali raccontò subito tutto il successo seguito quella notte; il quale fu riferito subito al Presidente allora della Sanità».

Per questo fatto e per altri, il Tribunale di Sanità ed il Tadino, conservatore di essa, avevano piena fede nelle unzioni.

VII. Repentino e pestifero tumulto.

Ormai il sospetto e il terrore de’ mortiferi unguenti, se non era dileguato dall’animo in tutti i cittadini, in molti almeno andava di giorno in giorno scemando; quand’ecco il 25 luglio repentinamente e contro la comune aspettazione, correre il popolo d’ogni parte all’arme, innondare le [108] strade e scoppiare incendj in diversi luoghi. Dubitarono i magnati, ed il volgo tenne per sicuro, che il subbuglio fosse suscitato per spargere dappertutto gli unti. Verso l’ora undecima di quel giorno[107], pochi Decurioni trovavansi in Palazzo, consultando intorno i provvedimenti, che ogni dì diventavano più necessarj. Giunse fino al loro orecchio il romore, per cui, balzando in piedi costernati, s’affacciarono ai balconi: alcuni più animosi scesero le scale. Non udivasi che un solo grido: «All’armi! i nemici sono in città!» I pianti delle donne ed un confuso schiamazzío rintronava l’udito, mettendo in agitazione gli animi, perchè nessuno ne conosceva la causa. Alfine serpeggiò, fra la tumultuante moltitudine, la voce che i Francesi si trovavano presso le mura, e quivi appiattati, avevano introdotti emissarj per dar fuoco a Milano.

Alcune persone mandate dal Palazzo a scoprire che fosse, riferirono aver viste le fiamme. Bruciavano infatti alcune beccherie a Porta Tosa: al Carrobbio ed al Cordusio ardevano cataste di legna, ammucchiate da taluni della plebe, i quali suscitarono il tumulto per aver occasione di rubare e depredare. Ivi accorreva d’ogni parte la folla, non già per ispegnere il fuoco e portar soccorso con acqua ai vicini, come s’usa, ma per godere lo spettacolo, spinta dalla solita curiosità. In un momento tutti i cittadini rimasti fino a quel giorno illesi dal contagio, si stivarono intorno ai roghi, e quasi ne avessero l’ordine, con impeto accorrevano, non per agire, ma per essere spettatori di que’ straordinarj incendj.

[109]

I magnati, ignari ancora del vero, e ritenendo i fuochi accesi dai Francesi già penetrati in Milano, diedero armi a quanti avevano d’intorno, e, armatisi essi pure, corsero alle porte, mettendosi ivi a difesa colle caterve di popolo che li aveva seguiti. Colà rimasero non solo quella notte, ma i dì e le notti seguenti, come se i nemici potessero entrare a porte chiuse, o già dentro le mura dovessero sbuccare all’improvviso fuori dalla terra. Il tumulto però non era che una congiura di pochi ladri.

Del resto, il popolo, correndo qua e là, raccogliendosi a gruppi, ora cianciando, ora rimanendo estatico a guardare, diede nuovo fomite al contagio. Il quale, siccome trasse a morte parecchj senza che i consueti segnali di peste apparissero, fu creduto per sicuro che i Francesi e i loro partigiani avessero unto in quel trambusto. Opinione anche questa che in seguito si riconobbe insussistente[108].

La peste, rinnovata in esso tumulto repentino, dopo ch’ebbe per qualche tempo fatta strage del popolo, s’attaccò agli animali: i buoi e l’altro bestiame che serve ai bisogni dell’agricoltura, stramazzavano di colpo durante il lavoro, ovvero nelle stalle e ne’ pecorili morivano come colpiti da un dardo. Tre anni durò la mortalità nelle campagne[109], ed al danno presente univasi il timore per [110] l’avvenire, che non avesse termine l’ira divina ora contro la vita degli uomini, ora contro gli animali e le messi che servono agli alimenti.

Fu riferito in que’ giorni al Tribunale da certi Padri religiosi gravissimi, i quali non avevano motivo di mentire e non v’erano usi, qualmente nei loro campi e nelle ville, dove si ritiravano per ricrear gli animi stanchi degli studj, si fossero trovate palle e gomitoli, tutti ravvolti, agglomerati, intrecciati di filo unto e sgocciolante veleno. I contadini e alcuni religiosi malcauti, che li raccolsero e maneggiarono, caddero estinti al momento. Così pure morirono repentinamente altri, che raccogliendo le spiche ne’ corbelli, s’imbrattarono le dita dell’unto, di cui erano contaminate.

VIII. Varj casi di peste nel Lazzaretto. — Il padre Felice presidente del medesimo.

Mentre questi casi ed altri, sì tragici che burleschi, accadevano ogni giorno in città e nelle campagne, la peste infuriava ostinata e senza tregua nel Lazzaretto. Regolatore ed arbitro d’ogni cosa in esso recinto, fu tal uomo degno d’essere ricordato negli annali milanesi, anche se io narrassi non già il contagio e le stragi, ma i fasti e le glorie della patria nostra.

[111]

Il padre Felice Casati di Milano, del sacro Ordine dei Cappuccini, attissimo a quell’ufficio, parve fosse stato disposto dalla Provvidenza celeste per soccorrere la patria in quell’estrema ruina. Di corpo indomito alle fatiche, nel fiore della virilità, d’animo grande, placido, mansueto, all’opportunità rigoroso; sprezzatore della vita e delle terrestri cose, cui aveva rinunziato fin da quando, abbandonate le delizie del secolo, vestì l’abito de’ cappuccini ed entrò in quell’austera religione.

Era perito negli studj che sollevano al cielo l’umana mente e del pari nelle scienze indagatrici dei segreti della natura. V’univa l’eloquenza, sublime dote che a nulla giovava tra le miserie e le morti, ma utilissima in quanto, lasciata in disparte la vanità e la pompa oratoria, rimaneva quel solido e grave ragionare con cui l’oratore cristiano eccita gli animi ai proprj doveri, e li sa all’uopo raffrenare.

I Decurioni, chiamato il padre Felice, lo pregarono che per la santità sua e dell’ordine, assumesse l’arduo governo del Lazzaretto. Ei, parlato che ebbe modestamente di sè e con ornate parole dell’importanza e gravezza di tale ufficio, prese tempo a deliberare, risoluto ad aprirsi col cardinale arcivescovo. Ove il sommo e religioso Federico annuisse, egli, interpretandone il cenno come volere di Dio, entrerebbe tosto nel Lazzaretto; in caso diverso il padre Felice non si credeva destinato a quell’incarico dal cielo. Ma accadde un non so che di faceto e di elegante[110] in quel lutto generale, nella visita che il cappuccino fece all’arcivescovo.

Questi, udito il padre Felice, rimase alquanto sospeso, [112] e disse alcune cose che parevano esprimere la titubanza dell’animo suo, per cui il cappuccino, piegato il ginocchio a terra, già già si accommiatava. Quand’ecco Federico, con ilare volto «È dunque vero, disse, o padre, che senza difficoltà entrerete tosto nel Lazzaretto!» e gettando le braccia al collo al padre Felice, lo baciò e ribaciò[111], dimostrando, colla familiarità e tenerezza sua, quanto fosse lieto d’aver trovato un uomo che, spregiando ambizione e vita ad un tempo, era pronto a lasciare la sua carica di guardiano, e gire incontro a tremendi pericoli. Ripieno d’ammirazione per tanto sacrificio, nulla ommise per accrescergli poteri ed onori, e confermando il pubblico decreto coll’autorità propria, lo elesse capo supremo del Lazzaretto.

Ricevuto il mandato, entrò fra gli appestati in quel recinto il padre Felice, quale vittima volontaria del contagio, di cui morir non doveva[112]. E ciò accrebbe la venerazione [113] per esso, imperocchè l’uomo che salvò a tante migliaja d’infelici la vita, ebbe egli pure bisogno de’ soccorsi che prestava altrui; e dopo averne seppelliti mille e mille, bramando invano la morte, quasi periva per lo strazio che fece del proprio corpo siccome narrarono. Era spettacolo bello, e in uno miserando, che mostrava la miseria e le angustie di que’ giorni, vedere il padre, esercitare il comando nel Lazzaretto, con indosso il cilicio, quasi paludamento di guerra. Vigilantissimo, quasi sempre digiuno, mal reggendosi per istanchezza, spargendo lagrime e sudori, egli s’aggirava pei portici, le capanne, le vie del Lazzaretto, di giorno imponendo coll’autorità del nome e del cappuccio, la notte armato di una lunga asta. Qua raffrenava in segreto misfatti, là distribuiva pubblicamente premj e gastighi, dove recava vesti e farmachi, dove porgendo orecchio alle confessioni dei moribondi gli confortava a lasciare il mondo colle speranze d’una vita migliore. Erano queste le giornaliere fatiche del padre, senza riposo mai; sovente cure ed affanni più gravi lo angosciavano.

Aveva egli sotto di sè ne’ portici e le capanne cinquantamila appestati all’incirca, cui la città forniva gli alimenti, [114] ma soverchiando la moltitudine de’ malati, non bastarono le cure, i denari o l’ordine stabilito per la distribuzione, talchè molti pativano fame e sete in mezzo all’abbondanza di cibi e di vino.

Laonde più volte fu grande l’angustia, non sapendosi in qual modo rimediare, finchè si riconobbe per esperienza che Iddio vi provvedeva. Ed i regolatori del Lazzaretto vi si avvezzarono, in guisa che mancando gli alimenti necessarj a tante migliaja di persone, nell’ultime strettezze aspettavano fiduciosi i soccorsi della provvidenza.

Narrava il padre Felice, e narra anche oggidì, che più volte, quando mancato del tutto il denaro ed esaurite le provviste di pane e vino, temevasi nel Lazzaretto la fame, estremo de’ mali, sopraggiungevano all’improvviso i viveri in abbondanza, senza che si conoscessero i nomi dei benefattori. E venne largito oro ed argento in tal copia, che il detto Padre ebbe stupito ad ammirare i sacchi ammucchiati a sè dinanzi. Le persone ricche ed i più opulenti cittadini, o per divina ispirazione, o perchè, deposto ormai ogni pensiero delle terresti cose, nè stimando più utile il denaro a qualsiasi uso, s’infervoravano a placare lo sdegno di Dio, mandavano il vile metallo affinchè si recitassero preghiere. Ma non era ancora giunto il termine della calamità, imperocchè, non appena provveduto ad un bisogno, un altro ne sopravveniva più grave ed istantaneo, cui era impossibile riparare. Casi luttuosissimi e repentini, mentre distribuivansi le vivande a sollievo degli infermi, turbarono l’alacrità del donare e distolsero gli animi dei caritatevoli da future elargizioni. I deliquj e le morti di coloro cui sporgevasi il cibo, la spuma grondante di bocca, i veleni rinvenuti nelle cinture, le confessioni fatte nella stessa morte, ed altri manifesti indizj, appalesarono come quei miserabili fossero untori essi pure, ed insieme rimanessero unti.

[115]

Un subitaneo portento celeste e fatale, se mirabilmente non vi si rimediava, allagò di nottetempo, con ruina impreveduta, le capanne innalzate nel recinto del Lazzaretto.

La notte del 23 luglio cadde un acquazzone così dirotto, che i vecchi non si ricordavano averne veduto uno simile, talchè uomini e donne credettero precipitasse il cielo medesimo. Smosse e rovesciate le capanne e le tettoje, sotto le quali giaceva la turba infelice, travi, paglia, letti nuotavano travolti dall’acqua in mezzo al prato.

Padri e madri, ansiosi non della propria, ma della salvezza dei figli, ne corrono in traccia, e con difficoltà li rinvengono fra le tenebre in mezzo agli urli, ai vagiti, al generale schiamazzo. I gridi di disperazione, di dolore, i clamori non rompevano il silenzio di quell’orrida notte, chè il fracasso del cielo romoreggiante non lasciava udire verun altro suono. E se fin dal principio non apparissero in questa storia congiunti i prodigi celesti colle stragi de’ mortali, chiunque terrebbe per incredibile come un solo uomo abbia potuto tener fronte a simile violenza; e in quel tremendo diluviare notturno salvare da morte i naufraganti bambini, e loro restituire la quasi spenta vitalità.

Al primo scoppiare della procella, il padre Felice, prevedendo che l’acqua irromperebbe dovunque, che gli infermi correvano grandissimo pericolo, e che i soccorsi riuscirebbero inutili ove non fossero istantanei, accorse, seco traendo un drappello d’uomini, ne’ quali ripor soleva maggior fiducia nelle più difficili circostanze. Sprezzando l’acqua, e più rapido di essa, si precipitò colla sua scorta tra gli appestati, che s’annegavano, e i crollanti tugurj[113]. A guisa [116] che il pescatore trae dalla rete i pesciolini, porgendoli ai compagni, che tosto li chiudono nel corbello, così il padre Felice districava i bambini e li trasmetteva ai satelliti, che a tutto potere lo ajutavano a salvarli, recandoli di mano in mano dal prato nel portico, e da questo nelle stanze. La procella s’acquetò finalmente dopo alcuni giorni, in cui piovve sì a rovescio, che fu detto non essere mai caduto simile acquazzone[114].

[117]

Tra il diluviare, che non cessava giorno nè notte, e l’impeto del turbinoso vento, rovesciante ogni riparo nel [118] Lazzaretto, gli agonizzanti appestati, quasi infraciditi dall’acqua, esalavano l’anima. Io non ardirò discutere se la mancanza di soccorsi fosse imputabile all’incuria dei magistrati municipali, ovvero effetto dell’imprevista intemperie; perocchè se da un lato l’esempio di quanto fecero i nostri maggiori nell’antecedente contagio suggeriva d’innalzare tugurj, tavolati e ripari in più gran numero, dall’altro fu sì grande lo spavento e la violenza dei morbo, che, stupefacendo gli animi, impedì le necessarie previdenze.

[119]

Perirono in quel trambusto fatale anche coloro che il morbo non aveva colpiti, perchè i servi ed i becchini in mezzo al disordine gettarono a fascio malati e sani. Per verità i nostri magistrati presero cura di far allestire altri locali e lazzaretti sussidiarj; ma ciò eseguivasi lentamente, talchè sembrava esservi un’occulta forza impediente que’ soccorsi. Frattanto gl’infermi, ammucchiati ne’ tugurj del Lazzaretto grande, morivano, attaccandosi il contagio ai sani pel contatto e pel fetore dei cadaveri, ovvero trasportati ne’ lazzaretti incompiuti, malgrado i soccorsi perivano.

IX. Come incominciò a rallentare la pestilenza, e come ebbe termine.

Il morbo, contumace a tutti gli umani rimedj, e mandato dal cielo a punizione delle umane scelleraggini, non poteva infrenarsi e spegnere fuorchè dalla misericordia divina, la quale non mancò all’infelice Milano, ormai in tanta desolazione ridotta all’ultimo eccidio.

Fra i tempii che l’avita pietà de’ cittadini e l’età più recente, imitatrice de’ costumi e degli esempj paterni, sacrò a Maria, celebratissimo è quello cui diede nobile nome il favore della Vergine per la città nostra, e che chiamasi delle Grazie, per le molte grazie dalla Madre Santissima a’ Milanesi impartite. Lo adornarono i nostri duchi con munificenza regale, allorchè governavano questo [120] paese; e i Padri di S. Domenico, colonne della fede, stanno a custodia del tempio, e hanno stanza nell’attiguo monastero, dove risiede il Sant’Uffizio ed il tribunale supremo dell’Inquisizione[115].

Là il 23 settembre, nel queto silenzio della notte, mentre alcuni de’ Padri riposavano o attendevano agli studj nel ritiro delle singole celle, ed altri a ciò destinati vegliavano in orazione negli oscuri angoli del tempio aspettando l’ora della mattutina salmodìa, d’improvviso le campane suonarono da sè. Coloro che sonnecchiavano si riscuotono, i desti meravigliano di cosa tanto insolita, e tremanti s’aggirano pel monastero; ma in un subito conobbero agitarsi le campane per forza miracolosa, chè niuno le aveva tocche. Meraviglia e terrore invasero gli animi de’ Religiosi, che, riunitisi, discutevano su quel portento; allorquando, narrasi, fra i suoni de’ sacri bronzi fu udita una voce più sonora che se fosse umana, prorompere in questi detti:

AVRÒ PIETÀ DEL MIO POPOLO, O MADRE,

e tosto s’interpretò che cessar doveva in breve la peste; averlo implorato la Vergine dal divin Figlio, che esaudì le sue preghiere.

[121]

Ho riferito questo portento, perchè era giusto ed equo l’annoverarlo tra i fatti autentici, dietro la testimonianza dei Padri Dominicani, la credenza generale della città, e l’esito che lo confermò. Anche la desta turba de’ prigionieri che per delitti contro la religione, o per sospetti trovavansi nelle carceri del Sant’Uffizio in una remota parte del monastero, udirono il rimbombo delle campane. Interrogati, risposero essere loro venuti all’orecchio in quella notte suoni e voci inusitate, e per togliere qualunque dubbio, che la pubblica salvezza sia venuta da Maria patrona del tempio delle Grazie, aggiungerò come l’olio della pendente lumiera che arde avanti l’effigie della Vergine Sacratissima fu salutare antidoto anche in seguito contro la peste.

Quell’olio cercavano a gara ne’ giorni seguenti i grandi e gli infimi del popolo come mirabile rimedio, e i Padri lo distribuivano a stille quasi dono celeste[116]. Allorchè poi il [122] scemare giornaliero dell’intensità del morbo e delle stragi, la fede nel miracolo ed il numero dei morti che di continuo sminuiva[117] attestarono placato Iddio; i magnati si animarono a togliere di mezzo ogni negligenza, che assai di rado è meritevole dei divini favori. Intimarono una quarantena[118], nuova ed ultima speranza della città ed [123] alla intera popolazione, che per tale spazio di tempo rimaner doveva chiusa e nascosta nelle case. Vietarono comunicare coi limitrofi, uscire in istrada, e quant’altro poteva attaccare e far ripullulare il contagio, con minaccia di pene capitali che, disprezzate per l’addietro, ormai la vezzeggiata speranza di salute e gli allettamenti del vivere inducevano ad iscansare e temere. In sul finire di quell’anno era quasi scomparsa la peste, ma non rediva agli animi la sicurezza, e Milano, trepidante, afflitto, quasi annientato, pareva risorgesse da morte. I superstiti, con faccie pallide e smunte, macilenti, stravolti gli occhi e lo stupore in viso, sbucavano, per le vie come se uscissero dal sepolcro: appena osavano tremebondi appressarsi e far colloquj, sfuggendosi l’un l’altro: non stringevansi le destre, temevano l’alito reciproco, e con tronco saluto s’allontanavano, non prestando per anche fede alla ripristinata salute [124] ed alla patria salva. A costoro sì guardinghi venivano incontro altri, i quali nell’incuria domestica, noncuranti delle pubbliche sciagure, e divenuti pingui pel lungo ozio, ridevansi dell’altrui prudenza e del terrore intempestivo, perciò solo che essi ignari di tema, e senz’usar cautele, erano nondimeno usciti illesi dalla pestilenza.

Gli uomini semplici, caparbj, che, restii a qualsiasi persuasione, non volevano credere ascondersi ne’ panni, e in molti altri oggetti un principio mortifero a chi lo toccava; ed altri, i quali superando ogni timore per cupidigia di rapinare e per la dolcezza del lucro, afferravano quanto loro capitava alle mani, e poscia avidissimamente il custodivano, porsero di nuovo alimento alla peste. Il Tribunale di Sanità fu in grande travaglio per questi miserabili e per le robe ch’essi tenevano nascoste o sotterrate.

Gli punivano i giudici, ed ogni giorno emanavansi sentenze con multe e pene; ma nè i gastighi, nè il timore del contagio valevano a impedir loro di comperare, rubare e nascondere cose sospette o venderle altrui. Nessun vantaggio ritraevano da quel mercimonio perchè, o venivano côlti e puniti dai satelliti[119] di sanità, o, se pure riusciva ad essi di deluderne la vigilanza, incorrevano in peggior danno per le robe comperate o vendute. Parecchi morirono per gli abiti, o i lenzuoli trafugati, e vi furono taluni che per un meschino guadagno, non solo la propria famiglia, ma villaggi, borghi, interi municipj, ormai liberi dalla peste, in nuovi guai e in nuove stragi precipitarono.

[125]

APPENDICI DEL TRADUTTORE AL LIBRO SECONDO

[127]

I. DIFESA DI GIOVANNI DE PADILLA

[129]

Il Padilla, incarcerato, confutò gli accusatori suoi, i luoghi, l’epoca, provando all’evidenza essere egli a que’ giorni assente da Milano, e non avere conosciuti nè mai veduti costoro.

Ripam., Lib. II, pag. 78.

Il Processo degli Untori, come dissi (pag. 67), non era conosciuto che per metà, vale a dire, la sola Pars offensiva. L’altra, cioè la Difesa del Padilla, e che include altresì le giustificazioni de’ principali accusati, sapevasi esistere, ma a pochi, o forse a nessuno, era riuscito trovarla. Sia che durante il Processo ne fosse stampato un solo esemplare per senatore, come taluni pretenderebbero, sia piuttosto che si perdesse coll’andar del tempo un libro di cui nessuno occupavasi, fatto sta che divenne rarissimo. Verri di certo non lo conobbe, perchè se ne sarebbe moltissimo giovato nelle sue Osservazioni, e d’altronde il Processo manoscritto, postillato di sua mano, esistente tra le carte di lui, contiene la sola prima parte. Tutti gli altri che scrissero dappoi su gli Untori notarono che il Padilla venne assolto, e nulla più.

[130]

Ora, essendomi riuscito di avere in mano un esemplare dell’intero Processo, trovai che la Difesa racchiude fatti di somma importanza, e schiarisce molti dubbj, in guisa da spargere viva luce su questo compassionevole e misterioso dramma. Risolsi quindi di aggiungere al Ripamonti codesto nuovo Documento istorico, pubblicandolo non già per intero, perchè altrettanto voluminoso e prolisso come la Parte offensiva, ma bensì offrirne un sunto. Non era però sì agevole il compilarlo, stante che i costituti dal 24 luglio 1631 al 12 agosto 1632, altro non sono che un ammasso di testimonianze in favore del Padilla senz’alcun ordine. A misura che egli e i suoi difensori trovavano prove o testimonj contro alcuno de’ capi d’accusa, li presentavano al Senato, cosichè tutte le giustificazioni trovansi sparpagliate dal principio al fine del Processo.

Io tenterò darvene un saggio, o lettori, con una succinta ed ordinata esposizione, nella quale, a maggior schiarimento, inserii in corsivo varj brani del Processo medesimo, che ha per titolo:

Defensiones D. Joannis Gaytani de Padilla
Equitis Sancti Jacobi a Spata
Ducis Equitis pro S. M.
In Dominio Mediolani.

D. Francesco de Padilla, governatore del castello di Milano nel 1630, era un vecchio, religioso, altiero, esatto ne’ proprj doveri fino alla pedanteria; un vero tipo dei cavalieri spagnuoli, inimicissimo di Francesi, Veneziani e di gente forastiera come il diavolo con la croce. Appartenente ad una delle nobilissime famiglie di Spagna, non gli mancavano al certo protettori, dacchè i Padilla coprivano le più cospicue cariche: troviamo un Sancio Padilla, governatore del castello di Milano, il quale resse lo Stato provvisoriamente dal 1580 al 1583, dalla morte cioè del marchese d’Ayamonte alla venuta del duca di Terranova; e un Martino, che era Adelantado Mayor di Castiglia.

Entrato da giovine nella carriera militare, fu nominato cavaliere di San Jago nel 1583 da Filippo II, que està en el Cielo! Nel 1590 venne eletto capitano nel presidio del nostro castello. Sul principio del secolo passò a guerreggiare in Francia, e ne buscò onori e pensioni non poche. Nel 1609 fu eletto membro del Consiglio Segreto a Milano e capitano generale dell’artiglieria dello Stato di Milano, e finalmente il re, con decreto dato dall’Escuriale il 29 agosto 1620, le hace merced del cargo de Castillano de Milan.

Durante l’assenza dello Spinola sotto Casale, era vice governatore dell’armi, [131] e grande fiducia avevasi in lui, dacchè appunto nel 1630 haueva sotto la sua custodia in castello circa doi miglioni de’ reali da otto, et di pasta d’argento tali quali vengono dalle Indie. Detto tesoro staua sotto tre chiavi una de’ quali l’hauesse a tenere il sig. Castellano, l’altra il Presidente del Magistrato e la terza il Tesoriere generale.

Scrupolosissimo de’ proprj doveri, scoppiata la peste, custodì il castello con tutta diligenza, chiudendo la porta verso la città, e mettendo guardie a quella del soccorso. Niuno entrava od usciva senza bolletta e saputa di lui, che assisteua in persona benchè piovesse et facesse qualsivoglia mal tempo: e così mentre lui visse non successero in castello doi casi dechiarati di peste. Ed era savio e necessario rigore: infatti la mattina o sera seguente alla sua morte, il signor Tenente fece aprire la porta che viene alla città, et serrar quella del soccorso, et allargò la mano nel lasciar uscire li soldati; sicchè fu portata la peste in castello, in modo che ne morsero più de’ quaranta, o quarantacinque persone.

D. Francesco aveva varj figli ed uno di nome Giovanni, che sfuggì all’obblio per essere stato accusato qual capo degli Untori.

D. Giovanni Padilla, soldato come il padre, fu nominato nel 1620 capitano d’infanteria, passò in seguito in cavalleria, avendogli il duca di Feria data a comandare una compagnia di lance, e si trovava coll’esercito sotto Casale all’epoca della peste. Bello della persona, esperto cavallerizzo e schermitore valoroso, il Padilla era bizzarro et peccava piutosto di troppa bravura che di poltroneria. Il giorno di S. Giovanni venne alle mani con alcuni francesi che erano sortiti di Casale, et andò a risigo di restar prigione perchè l’afferrorono in un braccio, ma se li ruppe la manica sicchè si liberò; avendo date molte coltellate all’inimici seguitandoli fino al castello.

Il nostro valoroso, che metteva a repentaglio così spensieratamente la vita, era ben lungi dall’immaginare che il Senato avesse emanato un ordine d’arresto contro di lui come capo degli Untori.

Il Processo frattanto andava per le spiccie, e uscì la fulminante sentenza del 27 luglio. A tale annunzio il castellano tremò per suo figlio. Hauendo inteso che per giustizia si doveva far morire un certo Barbiero et un certo commissario della Sanità e che la detentione del signor D. Giovanni suo figliuolo era causata perchè questi lo hauessero aggravato in cosa toccante la riputazione, ordinò al suo luogotenente, D. Francesco di Bargas che, insieme col segretario Diego Patigna, andasse dal presidente della Sanità, Monti, per pregarlo a far sospendere l’esecuzione della sentenza, finchè detti tali s’hauessero potuto confrontare con detto signor D. Giovanni per giustificare la causa; altrimenti per tutto quello [132] che poteva occorrere per alcun tempo a venire li protestava l’ingiustizia. Andarono i due il dopo pranzo del 31 luglio, e trovarono il Monti in casa sua in una sala abasso. Il quale subito si retirò in studio, et gli feci l’imbasciata. Rispose che non era lui il giudice della causa, ma che toccava al Senato, et però ne douessi parlare al signor Presidente.

Il quale, udita che ebbe l’inchiesta del castellano, diede per risposta che l’esecutione della sentenza non si poteva soprasedere, se non per ordine del patrone supremo o dal signor Governatore perchè il popolo reclamava[120]. Ma, soggiunse, che il detto de’ due vigliacchi non poteua macchiare la reputazione d’un cavagliere della qualità del signor D. Giovanni, et che però Sua Signoria Illustrissima non si douesse pigliar fastidio.

Però il vecchio e altiero spagnuolo, prevedendo le conseguenze del rifiuto, se ne pigliò invece grandissimo fastidio. Restò mortificato; la qual mortificazione fu tale che fra pochi giorni se ne morse.

Mentre ciò accadeva a Milano, un bel giorno arrivò al campo, col mandato d’arresto, l’auditore di Sanità Gaspare Alfieri, lo stesso che aveva esaminati il Mora ed il Piazza. Il marchese Manfrino Castiglioni, commissario generale, intimò al Padilla, per ordine di S. E., che si costituisse prigione nel castello di Pomate. Et esso sig. D. Giovanni con ogni prontezza se ne andò di longo al castello; ma prima senza che alcuno glielo dimandasse, si levò dalle calci una borsa senza quattrini, con dentro una reliquia et un’altra con dentro alcune lettere che erano d’amore e scritti alla francesa o fosse piemontesa, e le consegnò al Castiglioni, che gettolle al fuoco.

L’Alfieri fece una minuta perquisizione delle sue robe, ma senza trovare nulla di sospetto e nemmeno denari, giacchè il nostro D. Giovanni, quantunque facesse debiti allegramente, non haueua mai un soldo.

Dopo essere rimasto qualche tempo nel castello di Pomate, venne condotto in quello di Pizzighettone, dove era libero sulla data parola di girare nel recinto. Spensierato ma leale, non pensava nemmen per sogno violarla, e fermavasi sul limitare del castello ogni qualvolta accompagnava gli amici che lo visitavano. E tanta fiducia avevasi in lui che morto il comandante di Pizzighettone, egli ne fe’ le veci sino all’arrivo del successore.

Alfine, dopo parecchi mesi, giunse l’ordine del Senato di tradurlo a Milano. Il capitano D. Cristoforo Caviglia andò a pigliarlo da Codogno, e, cavalcando uniti da buoni amici, giunsero a Milano la sera del [133] 9 gennajo 1631. L’ordine portava di consegnare il Padilla al giudice della causa, ma il Caviglia, che da vero soldato nulla sapeva nè di giudici nè di uffizj, mandò uno de’ suoi uomini a prender lingua, e intanto coll’amico si mise a passeggiare su e giù nella chiesa di Sant’Antonio, non discosta dal Palazzo di Giustizia. Il messo tornò, dicendo aver trovate chiuse le porte, ed il Caviglia, stanco della lunga cavalcata, s’avviava per dormire all’albergo. Se non che D. Giovanni, colla puntigliosa esattezza d’un castigliano, rispose che voleua andare consegnarsi prigione.

E quasi non vi riuscì, perocchè il custode del Capitano di Giustizia, non avendo ordini, gli diede per grazia una camera. La mattina vegnente, messo in prigione in tutte le regole, fu interrogato, ma siccome, cessata omai la peste, e con essa lo spavento degli untori, le cose avevano ripresa l’ordinaria lentezza, soltanto il 9 maggio il Senato decretò che si procederebbe contro l’inquisito come reo d’aver fabbricati e sparsi gli unti in Milano.

Il 24 luglio cominciò il Padilla a produrre le sue giustificazioni per testimonj, e continuò più d’un anno, dovendo far esaminare parecchi soldati della sua compagnia, i quali si trovavano nelle Fiandre; stante le difficili e scarse comunicazioni a quei tempi, vi volevano mesi per avere le risposte.

Il Padilla provò con un gran numero di testimonj di non avere abbandonato il campo per recarsi a Milano che una sola volta nella quaresima, dando minuto conto delle poche ore che rimase con suo padre. Deposero in favor suo soldati, uffiziali d’ogni grado, e lo stesso governatore Spinola. Il commissario generale della cavalleria Montera disse: Se bisognasse entrare in un fuoco per mantenere questa verità, purchè li miei peccati non resistessero, io v’entrerei sicuro di riuscirne salvo. E il tenente Pojetta: Dio perdoni a chi ha fatto male a questo cavagliere, perche sibbene io ho ricevuto male da lui, perche m’ha levata la tenenza sua al torto, non posso di manco, che non dica la verità che questo cavagliere non è mai mancato in tutta la campagna fuorche questo mercordì santo ed il giorno di S. Pietro. Inoltre l’accusato provò come durante il mese di giugno, essendo straripate le acque del Tanaro, della Sesia e del Ticino, e chiusi tutti i passi a motivo della peste, egli era nell’impossibilità di venire inosservato dal suo campo, lontano novanta miglia, a Milano, come l’avevano accusato il Mora e gli altri.

Quanto all’accusa di essere capo degli untori, egli la ribattè vittoriosamente, confrontando ad una ad una le deposizioni del Mora e del Piazza ne fe’ risultare le incongruenze, le assurdità, le false date, e dimostrò [134] le loro confessioni non attendibili, poiche oltre all’essere tante volte spergiuri (il qual vizio non si può purgare colla tortura se non una volta sola) inverisimili, falsi, vili, et infami si scoprono, e nei particolari esami loro tanto varj che non si può far certo giudizio sopra quale delle loro deposizioni debbasi fondare il fisco. E per le quali contrarietà tanto manifeste che risultauano e risultano dal detto processo era pur necessario, essendo l’accusato in prigione far qualche confronto tra il sudetto, il Mora e gli altri perche di tanto delitto si potesse finalmente cauar la verità. Inoltre queste confessioni estorte a furia di tormenti non fanno prova contro li nominati, perche vedendosi questi scellerati persi et condannati, si movono a nominare persone grandi, sperando saluarsi mediante il studio o privilegio delli nominati, o almeno portar in longo l’esecutione della loro condanna.

E tolse ogni ombra di dubbio con una scrittura che troncava di netto la questione. I difensori del Padilla avevano introdotto fra i testimonj un capitano Gorini, il quale raccontò, che trovandosi in prigione, mentre il Piazza era in confortatorio, l’aveva udito altercare con doi padri capucini; Ed io mi leuai dal letto così in camisa, et andai all’uschio et dando orrecchio al detto contrasto quale durò circa mezzora sentei che detto Commissario strepitaua et diceva che moriua al torto per essere stato assassinato sotto promessa et che perciò si voleuano far perder l’anima. Insomma li padri capucini partirono senz’hauerlo potuto disporre a confessarsi nè a far atto di contrizione. In quanto a me m’accorgei che lui haueva speranza che si douesse retrattare la sua causa e agiutarlo. Partiti che furono i capucini io mi misi li calzoni et gippone et andai dal detto commissario, pensando far atto di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in grazia di Dio come in effetto posso dire che mi riuscii. Poiche li padri non toccarono il ponto che toccai io; qual fu che l’accertai di non hauer mai visto ne sentito dire che il Senato retrattasse cause simili dopo seguita la condanna. Anzi li dissi che se hauesse trouato altrimenti mi accontentauo di morir per lui.

Il Piazza, rassegnatosi, gli domandò come potesse sgravarsi la coscienza di aver indebitamente aggravati innocenti, ed il Gorini gli suggerì di rivolgersi per consiglio al cappuccino che l’assisteva. Avuti questi dati, riuscirono a trovare l’anzidetta scrittura che era nelle mani di un prete Francesco Gallarati Varese, coadjutore nel 1630 a San Vito in Pasquirolo, e conteneva le proteste del Mora e del Piazza, dettate al Padre Giacinto cappuccino loro confessore la notte prima di andare al supplizio.

[135]

«In nomine Jesu il 31 luglio 1630.

«Io Giacomo Mora, Barbiero, mi protesto, che essendo condannato a morte, e perchè io non voglio, et protesto di non partirmi da questo mondo con carico della mia coscienza, e perciò con la presente scrittura, e protesta, mi dechiaro, et dico sopra la mi coscienza che tutti quelli li quali sono stati nel processo incolpati da me per causa degl’onti pestilentiali, li ho incolpati al torto, et questo in quanto a me, et questo lo protesto avanti li Padri Capucini, et altri assistenti alla cura dell’anima mia».


Et a basso pur nell’istesso foglio si legge un’altra scrittura, cioè:

«In nomine Jesu il 1 agosto 1630.

«Io Guglielmo Piazza Commissario mi protesto, etc.» e ripete le parole medesime del Mora.


Rimaneva a sventarsi la deposizione del Baruello, il quale, per avere l’impunità e sfuggire ad una morte infame ha hauto tanto ardire da comporre il discorso tanto inverosimile et falso; e in sei ore divenne così letterato che seppe distinguere le voci hebraiche et latine se bene era persona lontana da tali scienze, e solo virtuoso nelle infamie. Inventando cerchi, proferendo nomi diabolici et adducendo concorsi del comune inimico, et il pantalone muto ma piacevole.

Gabriele Millione, curato di Sant’Eusebio, depose che essendo egli lontano parente del reo, aveva ufficiato per ottenere l’impunità quando fu condannato a morte. Raccomandatosi al fiscale Bottinoni, questi gli disse che il Senato aveva firmata la sentenza, ma però a sua persuasione egli s’accontentava di procurargli da S. E. l’impunità, et salvarlo dalla morte et da qualsivoglia altra pena da un esiglio perpetuo in poi dallo stato di Milano. Il fiscale fece avere il permesso di parlare col reo al curato Millione, che lo trovò nella camera della corda che diceva l’uffizio, ed al vederlo esclamò. Oh monsignore portate forsi cattiva nova? ed io li risposi pur troppo la porto, et così li dissi come il Senato l’haueva sentenziato a morte. Soggiunse però che gli otterrebbe una lettera d’impunità ove si risolvesse a dir il vero circa gli unti. E il Baruello: faranno poi di me come hanno fatto del commissario? alludendo al Piazza cui erasi lusingato coll’impunità. Nondimeno tanto è prepotente l’amore della vita! immaginò subito una filastrocca tale che ben sapeva andrebbe a genio al Senato, e disse che lo avevano un giorno condotto a casa del Mora il quale leuata una [136] tappezzeria l’introdusse in una gran sala (nella casipola del Barbiere!) dove vide dieci o dodici persone assentate sopra le cadreghe fra quali vi era il signor D. Giovanni Gaetano Padilla.

Il curato Millione per quanto gli fosse caro salvar il parente, non potè a meno di farli osservare che ciò era assurdo: allora il meschino rispose: tornate domani che fratanto vi penserò. Ma l’indomani disse ingenuamente che in verità non sapeua che dire.

Pure, risoluto ad afferrare ad ogni costo quell’unico mezzo di salvezza, immaginò la mattina seguente il suo romanzo. Se non che, caduto pochi giorni dopo il Baruello malato di peste (pag. 76), disse, per isgravio di coscienza, al carcerato Giacomo Palazzi, datogli per assisterlo: Fattemi piacere di dire al signor Podestà che tutti quelli che ho incolpati, li ho incolpati al torto, et non è vero ch’io abbia chiapato denari dal signor Castellano, perchè ne anche mai ho praticato con lui. Indi a due ore che fu sul far del giorno se ne morse.

Simili proteste fatte nelle ore estreme, quando lo spavento della morte vicina e inevitabile, forza anche l’uomo più scellerato a palesare intera la verità, provarono la piena innocenza dell’accusato.

Il Padilla partecipava all’erronea opinione dei tempi intorno ai patti conchiusi col demonio, quindi egli afferma che il Migliavacca ed il Baruello erano stregoni o dati al diavolo, e come tali essere verosimile che si siano mossi a far morire le persone con li onti maleficiati per sola et pura istigatione del diavolo, quale si sforza come ognuno sa a proccurare simili morti improvise alli uomini, perche non s’abbino tempo, ne commodità di confessarsi et ricevere li santissimi sacramenti, ma vadano dannati, et non già per istigatione o persuasione d’alcun uomo vivente. E per viemeglio provare che il Migliavacca era uno stregone, racconta che trovandosi egli in prigione immaginò insieme con altri di trouar forma di liberarsi dalle carceri. Et egli preparò un incanto per scrittura con cerchi, et caratteri diabolici scritto, e fatto a mano con la preda lapis; e poi con penna et inchiostro trascritto per fare che il Giudice delle loro cause, Notaro, Guardiani, et altri non trouassero mai reposso ne di berre, ne di dormire finche non hauessero liberato lui et altri dalle carceri, et che non liberandoli fossero morti fra poco tempo.

Chi dava fede a simili assurdità, era difficile non credesse agli unguenti pestiferi. E in vero risulta dal Processo che il Padilla opinava essere i medesimi adoperati in Milano. Nondimeno, benchè partecipasse a tale erronea ma comune credenza, addusse, per scolparsi, testimonianze che la dimostravano assurda. Voglio dire alcune deposizioni di medici che riferirò testualmente, perchè onorano il nostro paese, mostrando [137] che nel generale delirio v’erano uomini che non lasciavansi illudere. Che se tacquero finchè cessato il tremendo contagio si calmarono gli animi, fu perchè avrebbero esposta inutilmente la vita senza lusinga che si desse loro retta, chè il fanatismo non ascolta ragione.

Il medico Appiano fu uno de’ più distinti e benemeriti, come vedremo nel Libro IV.

Deposizione del medico G. B. Appiano della parrocchia di S. Stefano in Broglio.

«Non solamente io ho visto la peste, ma provatala dal primo principio et medicatola sino all’ultimo fine, sì nel Lazzaretto come per tutta la città et tuttavia io l’ho sempre vista uniforme sì nelli mali che apportaua come nella maniera che ammazzaua et nella prestezza del tempo. E questo per infiniti casi veduti in quei principj nel Lazzaretto dove tutti gli appestati o vivi o morti erano condotti, non essendovi in quei tempi pur sospetto alcuno non che parola d’onti, tuttavia con accidenti terribili, e repentinamente morivano molti delli appestati.... Che se forse ne’ mesi caldi di luglio e agosto morivano più persone più presto et con accidenti più terribili, cagione della quantità dei morti n’era l’essere disperso per il contagio o commercio il male per tutta la città. Delli accidenti o morti più terribili n’era cagione il caldo, il quale quanto è maggiore tanto più fa malignare gli umori... perciò non mi meraviglio de detti accidenti. E dopo ancora li detti mesi caldi, et passato il sospetto dell’onto sono morti molti con gl’istessi accidenti, con li quali morivano quando degli onti si parlava».

E conchiude: «Onde, siccome ho detto da principio, mi pare che sempre dal principiar di detto male sino al fine sii sempre stato et uniforme a sè stesso et conforme a quello che viene descritto da buoni autori; et che siano occorsi casi simili a quelli che erano riputati d’onti sì avanti il sospetto degli onti come doppo, io ne posso fare certa e vera testimonianza per aver prima et più d’ogni altro medicato detto male sì nel Lazzaretto come per tutta la città».

Deposizione del fisico collegiato Branda Borri di Santa Maria alla Porta.

«Io ho medicato quasi tutto il tempo della peste, visitando moltissimi ammalati et ho notato in tutto quel tempo li segni di quel male, [138] tanto in una persona quanto in un’altra, ch’io non seppi mai trovare, e accertare segni o accidenti o sintomi da noi detti, i quali mi potessero distintamente con le loro indicationi indurre a far conseguenza che più questo o quell’ammalato morisse di peste nata solamente da contagio, ovvero che procedesse dall’onto. E ciò l’ho potuto molto accuratamente notare et osservare, stando che essendo io già dalla peste infetto non visitauo altro che appestati ai quali io toccauo il polso, et vedeuo distintamente le urine, toccandoli ancora il male (bubboni) sì nelle persone ordinarie quanto ne’ grandi, et anche nelle clausure delle monache. In niuno de’ quali luoghi non ho mai potuto accertare et dire quest’è ammalato per esser onto, o per essergli in altra maniera il morbo contagioso comunicato... L’opinione del volgo ha sempre giudicato e tenuto piuttosto tutto il male procedere dall’onto, la qual opinione è sempre stata lontana dal mio sentimento. Poichè ancor ch’io non neghi che vi sii potuto essere stato l’onto col quale si potesse comunicare l’infettione, nulladimeno io tengo per fermo che moltissimi morissero di contagio ordinario, benchè da loro fosse stimato venir dall’onto.

Deposizione del chirurgo Antonio Gambaloita a San Paolo in Compito.

Appoggiandosi al fatto che a taluni veniva prima la febbre, poi «sopraggiungevano bubboni, antraci et carboni», ed in altri accadeva il contrario, affermava essere il primo caso sintomo salutare, funesto il secondo giusta Ippocrate. «Questa fu la causa, dice, che presso di me (cioè in cuor suo) non credeuo che gli onti (se pure ve n’erano) auessero fatti progressi alcuni... E concludo che doppo cessato il sospetto degli onti la peste faceua l’istesso effetto, ed haueua gli stessi accidenti come nel tempo che si parlaua degli onti».


E seguono altre testimonianze di medici affermanti essere morto egual numero di persone anche dopo che non si parlò d’unti.

E il Padilla? era impossibile con tanto cumulo di prove che non uscisse innocente, ed uscì, dopo due e più anni di prigionia. Ma che il Senato lo dichiarasse tale con sentenza, ovvero gli aprisse il carcere, mettendo, come dicevasi, in tacere le cose, è quanto ignorasi, perocchè l’esemplare dell’intero Processo da me veduto finisce tronco. Per ora non mi riesce di sciogliere questo dubbio, malgrado lunghe e ripetute ricerche.

[139]

II. CONSIDERAZIONI SUL PROCESSO DEGLI UNTORI

[141]

Nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in queste tenebre superstiziose.

Verri. Della Tortura, pag. 212.

Dunque codesta triste e dolorosa storia delle unzioni si risolve in una patente ingiustizia imputabile soltanto alla crudeltà ed ignoranza dei Senatori? Prima di venire a siffatta conclusione, che sparge di tanta infamia la memoria loro, permettete che aggiunga alcuni riflessi.

[142]

Che dall’aprile all’ottobre 1630 siansi trovate più volte unte le pareti in varj luoghi di Milano, sembra indubitato, giacchè lo affermano e tutti gli autori contemporanei testimonj oculari, e le gride con tale unanimità, che il negarlo sarebbe un andar contro al criterio storico. Ma d’onde e perchè queste unzioni? Ecco il mistero. Dissero taluni che fu una burla di chi voleva ridere a spese della pubblica credulità, e ciò potrebbe accordarsi ove si fosse unto una o due volte, ma considerando la generale credenza nei veneficj di simili unzioni, il furore popolare e la morte sicura per legge cui affrontavasi, non è credibile che vi fossero ripetutamente uomini tanto disennati da mettere a repentaglio la vita per cavarsi il capriccio d’una semplice burla. Dunque? Io non sarei alieno dal credere che alcuni del volgo, e specialmente monatti ed altri addetti al servizio sanitario, persuasi come lo erano tutti a quell’epoca che vi fosse la peste manufatta, cioè unguenti e veleni atti a spargerla, combinassero chi sa quale miscuglio di schifosi ingredienti, imbrattandone le muraglie. E ciò allo scopo di vieppiù propagare il contagio che offriva loro insoliti e spropositati guadagni, e intera libertà di darsi in preda a gozzoviglie e sfoghi brutali.

È storico che questa vile genìa di furfanti s’adoperava per spargere la peste; i seguenti passi del Tadino, per non eccedere in soverchie citazioni, lo provano senza contrasto.

Gli monatti ed apparitori vedendosi la grande libertà et vtile del guadagno per li furti che faceuano, a bella posta lasciauano la notte per malitia cascare dalli carra delle robbe infette, et per la ingordigia della robba, la meschina gente alla mattina gli portauano alle loro case per tempo; d’indi à puoco s’infettauano, per lo che cresceua l’vtile à questa canaglia de monatti et apparitori, atteso che da loro in poi nissuno ardiua entrare nelle case de gli infetti, sì che haueuano buona occasione di rubbare. (Pag. 102.)

Dependeua ancora in buona parte questo danno (dell’aria infettata) dalla malitia dei monatti, li quali mirando il suo fine dell’interesse, acciò durasse longo tempo la loro fiera del guadagno; essendo bene pagati, oltre li furti che di continuo faceuano, lasciando alla notte cascare dalli carri di questa sorte di robbe infette, per le contrate, per li cantoni, li quali non conducendosi al Lazaretto destinato a questo effetto, per l’ingordigia veneuano rubbate dalli passagieri, per causa delle quali restauano molte persone tocche della peste in breue spatio di tempo, oltre che molti strazzi, et simile sorte di robbe putrefatte restauano sopra il corso Marino, et iui conueniua abbruggiarli per la loro pigritia et malitia di non condurgli al luogo destinato, et causauano fetori et [143] pericoli grandissimi di nuouo contagio dell’aria. Fu ancora prouisto che sotto pena della forca, li monatti tenessero nette le contrate, ec. (Pag. 127.)

Se tanto interesse avevano costoro a diffondere il contagio, non si potrebbe inferirne che ricorressero altresì alle unzioni qual mezzo infallibile, secondo la credenza generale, a riuscire nel scellerato loro progetto? Del resto è una mera congettura storica che sottopongo al vostro giudizio, o lettori.

Molto fu scritto sul Processo del Mora, del Piazza e degli altri untori, e compiangendo questi infelici, periti fra i barbari supplizj, si gridò altamente contro l’ignoranza, la mala fede e la crudeltà dei giudici che li condannarono.

Io non voglio mettere in dubbio l’innocenza de’ primi, nè giustificare compiutamente l’operato de’ secondi, ma ritengo per intima persuasione, derivata da paziente e minuto esame di questo fatto storico, che, incolpando i senatori, non siasi fatto abbastanza ragione all’epoca in cui essi vivevano.

Pietro Verri, educato alle dottrine filosofiche, nemico de’ vecchi pregiudizj e abusi, che s’adoperò con zelo indefesso per isradicarli a vantaggio della sua Milano, tanto a lui cara, fu il primo a disseppellire l’obbliato Processo degli Untori. Che egli, amicissimo di Beccaria, lo coadjuvasse nel santo ufficio di far abolire la tortura che il secolo illuminato e i raddolciti costumi ormai tollerare non potevano, è naturale. Quindi nelle Osservazioni sulla Tortura, abbandonandosi agli impulsi del cuore, con quel suo stile vibrato e immaginoso, sviscerò, se permettete la frase, il Processo degli Untori, fulminandone i giudici, per dimostrare vittoriosamente l’assurdità e la scelleratezza della tortura, quale mezzo per iscoprire i delitti.

Ma noi, che nessuno scopo muove fuorchè la scoperta del vero, badiamo a non confondere la commiserazione col freddo ed imparziale esame voluto dalla critica storica.

La credenza negli untori era, come abbiamo veduto, generale dagli infimi del popolo, ai sommi magistrati, ai medici, al clero, data appena qualche rarissima eccezione. Di più tenevasi per certo che vi fosse un Gran Capo, il quale, con ogni sorta di mezzi, non escluso l’ajuto del demonio, dirigesse tutta la macchinazione a danno della pubblica salute. Gli animi erano trepidanti per quel misterioso pericolo, contro cui non sapevasi immaginare difesa; e accresceva tale febbrile inquietudine la esaltazione di mente che sempre domina nelle grandi calamità, mantenuta dal pensiero continuo della morte, che fa obbliare agli uomini le solite cure, e rallenta tutti i vincoli sociali. In questo stato [144] di cose vengono accusati il Piazza e Giacomo Mora, il quale impacciavasi anche di flebotomìa e un poco di medicina, come solevano i barbieri d’allora, e come fanno anche oggidì in molti paesi d’Europa. Nella visita fatta in casa sua si rinvengono impiastri, olj, unguenti in buon numero (Processo, pag. 50 e seg.) fra i quali alcuni preservativi contro la peste. Arrestate altre persone di dubbia fama, trovansi anche presso di loro unguenti che si prestavano a vicenda per guarire dalla lue venerea ond’erano sporchi. I giudici credono avere scoperto il filo della congiura, e li sottopongono alla prova della tortura, che a quei tempi nessuno per sogno credeva ingiusta e barbara. Gli infelici, senza badare alle terribili conseguenze delle loro confessioni, per sottrarsi allo strazio presente, come è istinto nell’uomo, dissero quanto loro suggeriva il dolore, inventando fatti, esagerando azioni per sè indifferenti; quindi confermarono sempre più la opinione preconcepita dai giudici. E siccome questi instavano perchè nominassero il capo, si denunziò il Padilla figlio del comandante del castello. Forse era desso l’unica persona d’importanza da loro conosciuta, e tale da rendere credibile l’accusa, fors’anche fu per vendetta di servigj mal ricompensati dallo spagnuolo. Il quale, affetto egli pure da lue venerea, come pare indichi il Processo (vedi specialmente pag. 329), aveva forse avuto relazione con alcuno degli accusati per rimedj, o peggio.

Allora i giudici credettero aver rinvenuto gli untori ed il loro capo, e con maggior fervore continuarono il processo, che a molti infelici sgraziatamente costò la vita. Ma chi erano questi giudici che li condannarono a morire tra le più orribili carnificine? Uomini distinti per nobiltà, per sapere, per impieghi, che, durante la carestia e la peste, si adoperarono con zelo non comune a vantaggio della patria, uomini, che, nel generale scompiglio, rimasero fermi ai loro posti, ingegnandosi con ogni mezzo di alleviare i danni del contagio, di cui parecchi, come il Monti, presidente della Sanità, morirono vittima.

Ora librate in eque lancie le circostanze tutte che ho esposte, la condanna degli untori è ella da rimproverarsi all’animo perverso ed alla ignoranza dei giudici, o sì veramente alla triste e quasi inevitabile conseguenza della superstizione de’ tempi? A voi, lettori, lo spassionato giudizio!

[145]

III. LA COLONNA INFAME

[147]

Romita una colonna sorge.
PARINI.

La casa del barbiere G. Giacomo Mora, come il Senato ordinava nella sentenza, venne distrutta sino dalle fondamenta, et per memoria delli futuri secoli piantata una colonna in mezzo con inscritione detta Colonna Infame ed a parte con epitaffio inserto nel muro del tenore seguente. (Tadino.)

[148]

QUI DOV’È QUESTA PIAZZA
SORGEVA UN TEMPO LA BARBIERIA
DI GIAN GIACOMO MORA
IL QUALE CONGIURATO CON GUGLIELMO PIAZZA
PUBBLICO COMMISSARIO DI SANITÀ E CON ALTRI
MENTRE LA PESTE INFIERIVA PIÙ ATROCE
SPARSI QUA E LÀ MORTIFERI UNGUENTI
MOLTI TRASSE A CRUDA MORTE
QUESTI DUE ADUNQUE GIUDICATI
NEMICI DELLA PATRIA
IL SENATO COMANDÒ
CHE SOVRA ALTO CARRO
MARTORIATI PRIMA CON ROVENTE TANAGLIA
E TRONCA LA MANO DESTRA
SI FRANGESSERO COLLA RUOTA
E ALLA RUOTA INTRECCIATI
DOPO SEI ORE SCANNATI
POSCIA ABBRUCIATI
E PERCHÈ NULLA RESTI D’UOMINI COSÌ SCELLERATI
CONFISCATI GLI AVERI
SI GETTASSERO LE CENERI NEL FIUME
A MEMORIA PERPETUA DI TALE REATO
QUESTA CASA OFFICINA DEL DELITTO
IL SENATO MEDESIMO ORDINÒ SPIANARE
E GIAMMAI RIALZARSI IN FUTURO
ED ERIGERE UNA COLONNA
CHE SI APPELLI INFAME
LUNGI ADUNQUE LUNGI DA QUI
BUONI CITTADINI
CHE VOI L’INFELICE INFAME SUOLO
NON CONTAMINI
IL PRIMO D’AGOSTO MDCXXX.

Marc’Antonio Monti, pubblico Presidente della Sanità.
G. Battista Trotto, Presidente dell’amplissimo Senato.
G. Battista Visconti, Capitano di Giustizia.

Questa Colonna, di granito con basamento di ceppo, ed una palla in cima, sorgeva sull’angolo sinistro della via detta la Vedra dei Cittadini entrando dal corso di San Lorenzo, precisamente rimpetto [149] all’attuale farmacia Poratti. Monumento sciagurato d’errori più dei tempi che degli avi nostri, la Colonna Infame durò in piedi 148 anni, e fu sempre guardata con ribrezzo ed esecrazione. Il canonico di San Nazzaro Carlo Torre, il quale nel 1676 stampò il suo Ritratto di Milano, che per stranezze di concetti, giuochi di parole ed ampollosità di stile è un vero tipo del pessimo gusto dei seicentisti, nella peregrinatione cui guida per Milano il suo lettore, arrivato alla Vedra de’ Cittadini, esclama:

«Venneui mai all’orrecchio più enorme sceleratezza? fu ragione cancellare dal libro dei viuenti chi desideraua estinti gli stessi viuenti: spiantare le mura dell’abitazione di colui che voleua dipopolata di cittadini la sua natiua città, e che con untioni rendeua più sdruccioloso il sentiere della morte. Credetemi che il nominato Mora hebbe coscienza da Moro, e se è nero chi è moro, egli fu un crudo moderno Nerone, che non con fuoco, ma con oglij haueua in pensiere d’apportare l’ultimo esterminio alla sua Patria, benchè gli oglij vengono adoprati per accrescere le mancanti forze negli indeboliti induidui». (Pag. 129.)

Il Lattuada, uno dei pochi scrittori tanto ragionevoli da mettere almeno in dubbio il fatto degli Untori, nella sua Descrizione di Milano, tomo III, pag. 330-338, 1736, si esprime nel modo seguente:

«Sopra la vasta strada che guida verso il centro della città si trova a mano manca una colonna piantata sopra piccola piazza che conduce entro un’altra contrada detta De’ Cittadini, perchè ivi abitava una nobile famiglia di questo nome, chiamasi Colonna Infame, ec.»

E narrato l’avvenimento colle parole del Tadino, conchiude: «Presso cui sia la fede, se tali unguenti fossero fatti per arte diabolica, et atti a dare la morte, non volendo noi farci mallevadori di tale asserzione».

Ma il giudizioso dubitare del buon Lattuada fu un’eccezione quasi senz’esempio, poichè ci è grave il dirlo, i più stimati ed eruditi uomini dello scorso secolo prestavano intera fede alle unzioni. Ed era sì profondamente radicata codesta credenza, che non solo il volgo, ma i primi magistrati e letterati chiarissimi l’avevano quasi per articolo di fede.

Nel 1713, vale a dire quasi un secolo dopo, essendovi sospetti di contagio dal lato del Piemonte, il presidente della Sanità di Milano scriveva al commissario d’un villaggio sul Lago Maggiore, raccomandando somma attività e vigilanza, perocchè era giunto a notizia del magistrato che girassero da quelle parti Untori per diffondere la peste. Ho veduto la lettera io stesso in una raccolta di documenti patrii.

Quell’Argellati, che i benemeriti cavalieri milanesi, fondatori della [150] Società Palatina, chiamarono da Bologna a Milano per dirigere la splendida edizione degli Scrittori delle Cose Italiane, immaginata dal Muratori, quell’Argellati che sì bene rimeritò l’ospitalità avuta tra noi, stampando nel 1745 la sua laboriosa e tanto utile Biblioteca degli Scrittori Milanesi, parlando in essa del Monti, presidente della Sanità durante la peste, chiama Onorevole Menzione che il suo nome figuri nell’iscrizione della Colonna Infame tra i giudici degli Untori. Il sapientissimo Muratori, che ad una sterminata erudizione univa pietà sincera e carattere mansueto, credeva egli pure al delitto degli Untori: «Ne esiste tuttavia, dice nel Governo della Peste, cap. 10, la funesta memoria nella Colonna Infame posta ove era la casa di quegli inumani carnefici».

E in epoca ancora più vicina, l’Orazio Lombardo, che con sì frizzante ironia e ingegno sì svegliato insorse a flagellare gli effeminati costumi del suo tempo, e tanti vecchi pregiudizi fulminò coll’ira del verso potente; egli, uomo di alti sensi e di libera mente, che dalla sua cattedra d’eloquenza educava la novella generazione alle idee del giusto e del bello, partecipò all’erronea credenza sulle unzioni.

Il traduttore in dialetto milanese della Gerusalemme del Tasso, Domenico Balestrieri, in una nota alla stanza 70 del canto VIII ci conservò un frammento d’un Sermone Chiabreresco e del più fino gusto, Orazione che l’abate Parini, degnissimo R. Professore d’Eloquenza, ha recitato in un’accademia pubblica. Si figura in esso d’incamminarsi al Tempio di San Lorenzo, vivamente esprimendosi in questa guisa.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Quando tra vili case in mezzo a poche

Rovine i’ vidi ignobil piazza aprirsi.

Quivi romita una colonna sorge

Infra l’erbe infeconde, e i sassi, e ’l lezzo,

Ov’uom mai non penètra, perocch’indi

Genio propizio all’Insubre Cittade

Ognun rimove, alto gridando: lungi,

O buoni cittadin’, lungi, che il suolo

Miserabile infame non v’infetti.

Al pie’ della colonna una sfacciata

Donna sedea, che della base al destro

Braccio facea puntello: e croci, e rote,

E remi, e fruste, e ceppi erano il seggio

Su cui posava il rilassato fianco.

Ignuda affatto, se non che dal collo

Pendeale un laccio, e scritti al petto aveva

Obbrobriosi, e in capo strane mitre,

Terribile ornamento. Ergeva in alto

La fronte petulante; e quivi sopra

Avea stampate con rovente ferro

Parole che dicean: Io son l’Infamia.

[151]

Io che, virtù seguendo, odio costei,

Anzi gloria immortal co’ versi cerco,

A tal vista fuggia; quando la Donna,

Amaramente sorridendo, disse:

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Cioè espone poeticamente quanto contiensi nella mentovata iscrizione, soggiungendo:

Così dicea la Donna... E il vil dispregio

E mille turpi Genj intorno a lei

La gian beffando intanto, ed inframezzo

Il pollice alle due vicine dita

Ad ambe mani le faceano scorno.

Ma ormai la Lombardia risorgeva dal letargo e dall’abbrutimento cui l’aveva ridotta il dominio spagnuolo, mercè il savio e umano regime di Maria Teresa; e alcuni cittadini, zelanti del patrio decoro, avvedutisi come quella ricordanza di atrocità e stoltezze dei tempi disonorasse Milano, idearono di fare in modo che la Colonna Infame venisse levata, perchè colla medesima cadesse in totale obblio quanto riferivasi agli untori. Pietro Verri ed i suoi amici del Caffè, i più chiari e attivi letterati dell’epoca, erano impegnatissimi in tale divisamento; ma la difficoltà stava nel trovar modo di eseguirlo.

Frattanto il Balestrieri aveva mandata una copia della sua Gerusalemme Liberata, tradotta in dialetto milanese, al barone di Sperges, ministro plenipotenziario per gli affari d’Italia in Vienna. E questi nella risposta si dolse col poeta che avesse citata nel suo libro la Colonna Infame, monumento di disonore pel Senato di Milano. Tale disapprovazione che si sparse fra gli eruditi della città nostra, fe’ risorgere più vivo il desiderio di annullare quella infausta memoria. Balestrieri, trovandosi a un pranzo del conte di Firmian, gli comunicò la lettera, e l’illuminato ministro, di concerto con S. A. l’arciduca Ferdinando, e gli altri membri componenti il governo della Lombardia, appigliossi al seguente partito per riuscire nell’intento colla minor pubblicità possibile.

Giusta un’antica legge, i monumenti d’infamia non si dovevano ristaurare qualora per vetustà minacciassero di cadere. Ora la Colonna Infame era, almeno in apparenza, minacciante ruina; il basamento, sia che non l’avessero sprofondato abbastanza quando fu costruito, sia pel naturale abbassarsi del terreno coll’andare del tempo, trovavasi quasi allo scoperto, ed il ceppo, corroso dall’umidità, sfracellavasi. La Colonna poi non era più ben ferma sul piedestallo, perchè, in occasione di concorso per feste od altro, i ragazzi, come sogliono, si arrampicavano tenendosi abbracciati al tronco di essa.

[152]

Traendo adunque partito da ciò, il Governo fece in modo che l’anziano della parrocchia facesse sottoscrivere dagli abitanti le case attigue una petizione, in cui imploravano l’atterramento della Colonna, stante il cattivo stato cui era ridotta. Il Governo mandò la petizione al Senato, il quale ricusò, e, se è vero quanto allora si diceva, per ben tre volte, di farvi ragione, non volendo disapprovare con un atto pubblico la sentenza che un secolo e mezzo prima aveva emanata l’antico Senato. Allora il Governo, fermo nel suo proposito, mise mano all’opera; nell’agosto 1778 gli abitanti della Vedra dei Cittadini sentirono più volte di notte tempo battere con forti colpi la base. La notte del 24 e 25 atterrossi la Colonna, che nel cadere si spezzò; la palla che la sormontava, staccatasi, rotolò giù pel vicolo dei Vetraschi. Finalmente l’ultima notte dell’agosto suddetto fu compiuta la demolizione, e perchè nessuno fosse testimonio, si lavorò sul far del giorno, ora di generale quiete, e per maggior precauzione furono poste guardie agli sbocchi delle vicine contrade, vietando l’avvicinarsi a chiunque a caso di là passasse.

Trovo accennato in una vecchia Guida di Milano, che il giorno vegnente, cioè il 1.º settembre 1778, fu fatta una visita giudiziaria sul luogo; ma di questa non mi riuscì rinvenire l’atto ufficiale.

Distrutta la Colonna Infame, i cui frammenti vennero gettati nella cantina dell’antica casuccia del Mora, rimaneva ancora la lapide coll’iscrizione, ma essendo divenuta quasi illeggibile per vetustà, non fu tolta. Il che, a dir vero, era un controsenso alquanto ridicolo, dacchè l’iscrizione ricordava, al pari della Colonna, il processo degli Untori che tanto bramavasi di far cadere in dimenticanza. Nel 1801 sparirono affatto le rimaste vestigia, avendo quel luogo mutato totalmente d’aspetto.

Un Franzino, mercante di vino, comperò l’utile dominio del piazzale appartenente per livello alla famiglia Loria, indi Manzi, e v’innalzò un fabbricato, aprendovi botteghe. L’anno medesimo fu atterrato l’arco, o loggia abitabile, che riuniva i due lati della contrada. La Vedra de’ Cittadini ed il luogo in tal guisa abbellito, non conservò più traccia dell’antica destinazione d’infamia. La lapide nel 1803 fu data all’avvocato Borghi, che pretendesi la collocasse nel proprio giardino.

Queste minute particolarità, non senza interesse per gli amatori delle cose patrie, raccolsi con lunghe indagini e da una cronichetta manoscritta del famoso chimico Porati, testimonio dell’atterramento, e da molte altre private Memorie.

FRANCESCO CUSANI.

FINE DEL LIBRO SECONDO.

[153]

LIBRO TERZO IL CARDINALE FEDERICO BORROMEO E IL CLERO DURANTE LA PESTE.

[155]

I

Bastantemente chiaro, io son d’avviso, appariscono nel libro che composi intorno la vita ed il pontificato del cardinale arcivescovo Federico, l’animo generoso e le virtù di lui in ogni circostanza gareggianti colle sublimi del santo suo cugino. Il quale volume[121] consegnai a Primicerio Visconti, nipote suo per parte di sorella, ed erede delle virtù avite, perchè, esaminata la mia narrazione di que’ singolari avvenimenti, la pubblichi, se il crede opportuno. Si ammirano in esso opere pastorali e virtù degne degli antichi vescovi ed imperatori: fatiche, sto per dire, militari nelle cose ecclesiastiche, animo cupido solo dell’onesto; modestia, sobrietà e quel misterioso [156] candor virginale[122] che mai viene facilmente creduto in alcuno, e che Federico, per opinione comune custodì intatto per tanti anni: vi si discorre altresì de’ suoi studj e delle opere che compose. Avessi io almeno esposte tutte queste cose colla dignità e l’eleganza, eminenti doti proprie di quell’esimio scrittore!

La virtù di cui egli più compiacevasi, e che recava a tutti meraviglia, fu la vigilanza assidua pe’ suoi soggetti, non già come suol essere in molti limitata a sole parole e consigli; ma generosa, pronta a qualsiasi dispendio a vantaggio della pubblica salute, e della vita degli individui.

II. Provvidenze e disposizioni del Cardinale ai primi rumori di peste.

Federico in quell’anno (1629) che si cominciò a susurrare della peste, udito che già serpeggiava all’estremità della milanese diocesi nelle vallate soggette ai Grigioni ed agli Svizzeri, si turbò a tale annunzio, come un padre di famiglia che sente colpiti all’improvviso i suoi figli da una grande sciagura. Prima inviò ordini ai parrochi ed ai vicarj su quanto dovevano tener d’occhio o fare, onde i rei di gravi colpe non morissero senza i soccorsi della Chiesa, ed anche perchè spinti dal bisogno e dalla fame [157] non s’abbandonassero alla disperazione il peggiore di tutti i peccati. Indi elesse un sacerdote di sperimentata prudenza, e di specchiati costumi, e fornitolo di denaro, lo spedì nelle valli affinchè dirigesse co’ suoi consigli que’ rozzi abitanti; siccome fece con molto senno.

Di ritorno da essa missione, venne largamente rimunerato dall’arcivescovo, il quale aveva presa cura di quei valligiani appena tra loro s’introdusse, per le facili comunicazioni colla Germania, la peste, di cui allora neppure eravi timore fra noi. Durante la carestia, che fu la prima ruina del nostro paese, non il solo Milano, ma le terre vicine e discoste, gli abitanti della pianura e dei monti sperimentarono del pari gli effetti della paterna sollecitudine di lui.

Come se fosse ei pure uno del pubblico Consiglio, emulatore della carità cittadina e promovitore in uno di essa, spediva e faceva distribuire pe’ villaggi sacelli d’orzo e frumento, perchè almeno patissero meno la fame se non gli era dato di nutrirli tutti. E allora che quella turba di contadini, abbandonati i campi, i monti e le valli rifuggiossi, come narrammo, in Milano, egli dischiuse agli infelici spontaneamente una casa dove ogni giorno venivano loro distribuiti alimenti: le schiere de’ poveri rifocillati il mattino con pane e minestra, avevano per quel giorno certa la vita, cui minacciava la fame[123].

E siccome i poveri, allettati da quella elemosina, accorrevano sempre più numerosi alla città, e molti, sfiniti per languore, giacevano moribondi per le strade, esalando l’ultimo fiato prima di poter ricevere alcun alimento, il [158] Cardinale con antiveggenza paterna faceva girare de’ sacerdoti[124], che a quei moribondi porgevano cibi e bevande confortanti, e li munivano ad un tempo de’ conforti religiosi; conducendoli poscia in attigue case, ove col necessario riposo e coi rimedj potessero riaversi. Cotesta caritatevole istituzione continuò fintanto che il pubblico Consiglio giudicò opportuno raccogliere tutti i poveri vaganti per la città e rinchiuderli nel Lazzaretto.

Non per questo desistè Federico di nutrire in egual modo e riconfortare i molti che, o nojati della disciplina del Lazzaretto e della chiusura ne uscivano, o giungevano nuovi in Milano, abbandonati i proprj abituri. Egli sostenne, insieme al Consiglio, il peso di quegli affamati fin dove concedevano le sue rendite: e in lui trovarono ancora sostegno i miserabili quando, usciti dal Lazzaretto, riempirono e contaminarono di nuovo la città. La carità del nostro Pastore è paragonabile alla carità e munificenza del municipio verso l’afflitta patria, e verso tanto popolo ridotto agli estremi[125]. Il qual paragone sarà valutato dagli imparziali, [159] poichè siccome Federico era anch’egli uno de’ cittadini, così la gloria comune di questo esempio vivrà duratura nei secoli.

III. Suoi fatti durante la peste.

Assecondando i magnati, che alle prime minaccie del contagio fecero quanto loro suggeriva il timore e l’esperienza, Federico si diede premura per salvare i corpi, e più assai le anime del proprio gregge. Nè credendosi atto a sostenere da solo sì grave incarico, raccoglieva ogni giorno a consiglio i più prudenti suoi sacerdoti, eccitandoli ansiosamente ad esporre le loro opinioni, ed agiva in conformità delle medesime e della propria saggezza.

Ottimo consigliere, sulla cui autorità riposava sicuro, era S. Carlo, che scrisse Commentarj ed il Memoriale intorno la pestilenza del suo tempo (1576). Traendo norma da tali Memorie, altre aggiungendone, Federico stabilì il metodo di tenersi in quelle calamitose circostanze, additando ai sacerdoti ed al popolo la via che guidava a salvamento. Indicò che cosa dovessero fare, che cosa evitare, per non contrar la peste coll’alito o col contatto, e per non inasprire vieppiù l’ira divina.

Tramise a’ sacerdoti tutte le facoltà ch’egli aveva dalla Santa Sede per assolvere i moribondi, e nuove impetronne dal Pontefice, estendendole a tutto quanto il clero della diocesi, affinchè non mancassero ai peccatori negli estremi [160] momenti i soccorsi della religione. Tali provvedimenti furono disposti dal Cardinale allorquando andavano crescendo i rumori di peste; ma non appena ella avvicinossi a Milano, crebbe in lui lo zelo; teneva continui colloquj coi decurioni, inanimava i parrochi, calmava lo spavento, ed offriva premj perchè si affrontassero con coraggio pericoli ormai inevitabili. Eccitò anche i superiori de’ monasteri ed i capi degli Ordini religiosi, i quali, mossi dalla celebrità dell’Arcivescovo, volonterosi accorsero, offerendo l’opera loro, pronti ad ubbidire ogni suo cenno. Ed egli gli encomiava, dando promessa, che oltre l’eterno premio che sperar potevano dal cielo, terrebbe conto della carità e dell’ossequio dei singoli, ricompensandoli in modo, che riuscisse a vantaggio de’ rispettivi loro Ordini.

Assicurava che non si muoverebbe dal suo posto finchè la peste durasse in Milano[126], non uscendo nè dalla città, nè dal palazzo se non chiamato dalla salute del popolo o da qualche pubblica necessità. E attenne la promessa fino al punto che da taluni si tacciò la sua costanza di pertinacia; imperocchè, morti quasi tutti i famigliari, Federico, desolato e mancante de’ necessarj sussidj, ricusò di partire, contro le preghiere degli amici, dei grandi, degli stessi medici, i quali lo persuadevano a ritirarsi per alcun tempo in una salubre villa[127].

[161]

Pregato, andava a visitare i Lazzaretti, e affacciavasi alle porte ed alle finestre dei poveri tenuti in sequestro per soccorrerli. Non vietava l’accesso a chiunque voleva parlargli, non tralasciava i sacri riti e le cerimonie e le omelie, e rimproverava con voce paterna ora dal pulpito, ora sui carrobbj chi fosse restio a riconoscere gli oracoli e gli avvisi del cielo. Fui presente anch’io allorquando predicò al fonte di San Barnaba[128], ove si recò processionalmente a ordinarvi preghiere affine d’impetrare soccorso dal cielo per mezzo dell’Apostolo, che le antiche memorie di Milano e la comune credenza acclamano fondatore e primo vescovo della Chiesa nostra.

Non erano ancora serrate tutte le case, come avvenne in appresso, non ancora i cittadini si evitavano l’un l’altro, non era la città ancor ridotta in solitudine, e il popolo, che in breve cader doveva vittima del contagio, tuttora in vita, seguiva alla rinfusa l’Arcivescovo supplicante, il [162] quale col ricordare, per la scarna e pallida faccia, S. Carlo, traeva le lagrime sugli occhi ed i sospiri dall’imo petto ai molti, che rammentavano averlo veduto girare orando per la città nell’antecedente peste.

Celebrato che fu al fonte di San Barnaba il divino sacrificio, Federico salì in pulpito, e con voce quando chiara e sonora, quando rauca e flebile, facendosi intendere in tutto il circostante campo, vaticinò, come i profeti, ciocchè avvenne.

«Milanesi! popolo infelice! moltitudine che stai per divenir preda della peste! Già già ti sovrastano le saette della giustizia divina: andrete cadaveri sotterra, e le anime vostre dovranno presentarsi al tribunale di Dio. Ma tu, o popolo, non mi vuoi credere finchè non avrai riempiti di morti le fosse, finchè le tue carni non saranno pasto ai vermi!» E continuò di questo tenore.

Allorchè poi si chiusero tutte le case della città, e fu pieno il Lazzaretto, l’Arcivescovo scelse i più cospicui del clero che attendessero ai singoli ufficj, invigilando ai loro soggetti. E non fidandosi alla cieca nè degli uni, nè degli altri, mandava in segreto alcuni suoi fidi, che ogni giorno lo informassero esattamente di tutto quanto accadeva. Voleva egli sapere prima il numero dei morti; indi i casi speciali, e se alcuno ve n’era nuovo atroce, miserando, o andava all’istante egli stesso[129], ovvero spediva altri, porgendo tutti i possibili soccorsi. Rimproverava e puniva, colla severità dello sguardo, i renitenti al loro dovere; ed era il [163] gastigo da lui adoperato quando aveva giusto motivo di malcontento. Un sacerdote che abbandonò il proprio gregge, fu da Federico costretto a tornare, sotto pena di sospensione: con tutti poi largheggiò di ricompense, estendendole anche ai loro parenti. I parrochi furono i più benemeriti, poichè fra le azioni mirabili ch’io narrai, primeggiò l’alacrità indicibile colla quale essi sprezzarono i pericoli ed affrontarono la morte, mentre servivano a Dio, alla patria, al Cardinale.

Vidersi a que’ giorni i sacerdoti accorrere in mezzo al popolo moribondo: spettacolo orrendo e in un pietoso, che forse più non rinnoverassi! A tutte le ore della notte andavano in giro per le case dov’eranvi malati o morti di peste per assisterli ed amministrar loro i sacramenti. Alcuni de’ medesimi contrassero la peste, e morirono insieme con tutta la famiglia; altri, superstiti ai loro cari, non vinti dall’angoscia, nè l’immagine della morte, continuarono imperterriti fino all’ultimo nell’adempimento de’ proprj doveri. I parrochi, i canonici, i semplici preti si meritarono lodi per sì esemplare condotta; e molti, cui sarebbe stato lecito l’allontanarsi, rimasero al posto, fungendo il ministero di parrochi. I Domenicani specialmente, i Teatini, i Frati Minori, distinti pel cappuccio, ed i zoccoli[130] presero [164] parte alle fatiche ed al martirio; e come martiri gli ammirava l’intera città. Accrebbero essi con tali meriti la nobiltà [165] de’ proprj Ordini, e i Milanesi gli tennero e li terranno sempre in luogo di padri. Bello vedere quei religiosi frammisti ai parrochi gareggiando nella gloriosa lotta contro i pericoli e la morte! bello e consolante in mezzo a tanto lutto vedere i parrochi raddoppiare gli sforzi per uscir vincitori, e se pure venivano da’ zelanti religiosi superati, andarne lieti come d’un loro trionfo.

Il Viatico portavasi intorno per le strade coll’apparato e coi lumi che permettevano le circostanze: ove incontravasi qualche moribondo giacente per terra, sostavano, ed uditane la confessione, gli porgevano il pane degli Angeli, il che era d’eccitamento agli altri a ricevere il santo Viatico, che loro schiudesse le porte del cielo. Frati e sacerdoti battevano alle porte, salivano con scale per le finestre, recando seco vivande e distribuendole con pronta e fervorosa carità. Traevano seco loro dal palazzo del Cardinale cestelli con entro frutti e ghiottornie che stuzzicassero il palato anche de’ moribondi.

Mentr’essi così provvedevano ai bisogni corporali, ed in uno delle anime, sopraggiungeva sovente il Cardinale medesimo, con gran gioja dei malati e de’ pietosi sacerdoti che gli assistevano. E se egli ne incontrava alcuno portante sotto il serico ombrello il Viatico in qualche casa d’appestati, il seguiva, e ritornava fino alla chiesa d’ond’era uscito. Accadde un giorno, cosa degna d’essere ricordata: una vecchia ed un uomo d’età matura s’inginocchiarono dinanzi un sacerdote che portava il Viatico, chiedendo di comunicarsi, sebbene non avessero lavata l’anima dalle peccata. Il cardinale presente li rimbrottò in tal tuono, che agli astanti sembrò udire un profetico vaticinio. «Perchè qui venite con falsa e intempestiva pietà? perchè non mondarvi col Sacramento della Penitenza innanzi d’accostarvi al tremendo mistero dell’Eucaristia?» I due se [166] ne andarono confusi, e palesarono, confessandosi, il tentato sacrilegio.

Adoperavasi il Cardinale che l’augustissimo Sacramento Eucaristico venisse amministrato con decoro in mezzo a tanta confusione d’uomini e di cose. E ciò fu di grande vantaggio spirituale.

IV. Lazzaretto ecclesiastico istituito da Federico.

Indegna e sconcia cosa era non solo il vedere, ma il pensare che i sacri ministri venivano ammonticchiati sui carri, insieme fin anche a’ nudi cadaveri di donne, e gettati alla rinfusa nelle fosse senza onor di sepolcro. Turpe spettacolo e turpe uso, conseguenza di quei giorni di miserie e calamità! L’edificio che dicesi la Canonica, apparteneva già agli Umiliati, i quali vi passavano i giorni nell’inerzia colle inutili loro ricchezze: incorsero le ecclesiastiche censure, e dopo l’inaudito misfatto, abolito l’Ordine[131], vi sottentrarono [167] i chierici che ivi hanno stanza, e vengono educati al sacerdozio. Federico destinò codesto edificio per [168] lazzaretto ecclesiastico, all’uopo di trasportarvi non già tutti i preti ed i chierici appestati, ma quelli soltanto che prendessero il contagio nell’esercizio del loro sacro ministerio.

Vi mise a direttore Girolamo Settala[132], fratello del [169] protofisico, e che da arciprete di Monza era venuto penitenziere maggiore in Milano; uomo di tal sapere e virtù, che pochi ne ebbe d’eguali la Chiesa nostra, e pochi forse ne vedranno in futuro le altre chiese e città. Lui morto, vi mandò Primicerio Visconti, nipote suo per parte di sorella, nominato dal principio di questo libro. I due accennati direttori del lazzaretto ecclesiastico scelsero parecchj tra i più idonei della veneranda Congregazione degli Oblati, i quali avessero cura che i sacerdoti infermi alla Canonica fossero ben trattati, e in uno non mancassero dei sussidj della religione a ben morire. Grandi provviste eransi fatte nel locale delle cose necessarie; e il Cardinale ordinò si mandasse ivi dal suo palazzo ciocchè abbisognava.

Eranvi medici, chirurghi, inservienti ed altri mercenarj per supplire alla meglio qualora alcuno di loro perisse. Morti i primi Oblati nel lazzaretto[133], altri di quella [170] Congregazione sottentrarono alacremente, desiderosi della palma e per far cosa grata al Cardinale, e perchè reputavano una gloria l’avventurare la vita in quell’ufficio di carità. Siccome però le ricchezze del Borromeo ed i denari del pubblico mal bastavano a tante spese, s’invitarono i parrochi, i canonici e gli altri ecclesiastici della città a voler dare quella somma che ciascuno poteva per sostenere quel lazzaretto, aperto a loro vantaggio, e del quale forse ciascuno avrebbe bisogno. Non pochi inviarono denaro per sentimento di carità, altri per rossore, altri perchè ricchi.

Molti danarosi, che trovavansi malati in quel lazzaretto, vedendo avvicinarsi la morte, testarono ai custodi le ricchezze che seco non potevano portare, e che ormai dispregiavano, rivolti i desiderj ai beni dell’altra vita. In tal modo s’accrebbero i fondi di quella caritatevole istituzione. Sussistè per quattro mesi il lazzaretto nel locale della [171] Canonica, con numero variabile di ammalati, però non minori giammai di sessanta. Ognuno di essi, guarendo, assisteva gli altri, ed in tal guisa mostravano la loro riconoscenza della ricuperata salute a Dio, al Cardinale ed alla nostra Chiesa.

V. Denaro portato al Cardinale da due contadini e dal Lomellini di Genova.

Il 22 giugno stava Federico nella sala del palazzo in cui si custodisce la croce arcivescovile. Erano due ore di giorno, ed egli, celebrata nella domestica cappella la messa, passeggiava su e giù a lenti passi immerso ne’ suoi pensieri, ovvero appoggiandosi al muro, dava udienza a chiunque bramasse parlargli, essendo a tutti libera l’entrata: così soleva impiegare il Cardinale quell’ora mattutina a sollievo dell’animo oppresso da tante cure. Io mi trovava a caso in un angolo di quella sala vicino alla porta, e vidi per la lunga fila di stanze inoltrarsi a pari passo due contadini d’età quasi eguale, d’onesta fisonomia, ma con vesti ancora più vili di quelle che indossano i bifolchi.

Entrati alla foggia contadinesca, s’inginocchiarono innanzi il Cardinale, e quegli che pareva il maggiore, disse:

«Signore, noi siamo due fratelli coltivatori d’un campicello, che nostro padre, contadino anch’esso, ci lasciò. Abbiamo nascosti in seno e cuciti negli abiti due mila [172] zecchini, denaro raccolto colle nostre fatiche e a forza d’economia, ed è nostra intenzione deporre quest’oro ai piedi di Vostra Eminenza, affinchè lo adoperi come crede meglio».

Una sì inaspettata offerta fece stupire l’Arcivescovo, il quale sospettando un equivoco, ovvero che i due contadini fossero pazzi, rispose badassero bene a quanto dicevano.

L’altro replicò essere sani di mente, e che parlavano da vero; allora l’Arcivescovo, chiamato uno de’ suoi famigli, ordinò li conducesse a parlare coll’arcidiacono. Scesi per le interne scale e introdotti alla sua presenza, dopo alcune parole sulla loro intenzione, levate le casacche, trassero fuori parecchi cartocci di zecchini, e avendoli numerati, chiesero che un pubblico notajo rogasse un atto, qualmente il denaro da loro portato rimanesse nelle mani dell’Arcivescovo da spendersi a suo beneplacito: firmata la quittanza, che l’arcidiacono rilasciò a nome di Federico, i due contadini la riposero e se ne andarono.

La narrata avventura, della quale fui testimonio, m’ispirò allora e sempre grande venerazione per l’animo sublime del Cardinale, che, sprezzando l’oro, non volle giammai contaminare le mani toccando l’altrui denaro. Anzi egli non soleva maneggiare neppure il proprio; e spinse la delicatezza fino a ricusare in que’ giorni somme ingentissime offerte da alcuni donatori.

Viveva in Milano un Lomellini, ricchissimo genovese, d’alta statura, di colorito bruno, e che girava per città con abiti da privato anzichè da gran signore. Egli, o per negozj, o perchè il soggiorno di Genova gli fosse venuto a noja, dimorava di quando in quando in Milano, ed era degno di esserne cittadino. Uomo pio e caritatevole, inviava segrete limosine a’ monasteri, quando sapeva esservi [173] alcun urgente bisogno, e dicevasi aver egli portati in più volte tre mila zecchini da distribuirsi, come avrebbe creduto opportuno il Cardinale, che molto encomiò la pietà e la splendidezza del forastiero. Ma ritornato questi con dieci mila zecchini e più, Federico, sorpreso per l’entità di tal somma, rimase titubante, e corrugò la fronte sul riflesso che non fosse decoroso per l’Arcivescovo il ricevere tanto denaro da un privato. Indi, rasserenandosi, rispose: «Date piuttosto quest’oro ad altri che ne abbiano maggior bisogno». Il Lomellini partì stupefatto, e come si seppe in seguito, distribuì parte del denaro a persone avvezze a non rifiutarlo mai, le quali, accettato ben volentieri sì magnifico dono, comperarono molti sacri vasi di gran costo, ed abbellirono la loro chiesa di colonne, statue, pitture e dorate soffitta[134]. Il residuo lo impiegò a sollievo de’ pubblici bisogni, che erano molti ed urgenti a quei giorni.

VI. Avvisi e consigli del Cardinale al suo clero.

Esiste una lunga nota di rimedj e di cautele pubblicate da Federico per uso del clero, ed io credo non inopportuno riferirne le principali, e per mostrare l’attiva vigilanza del nostro Pastore, e per utilità altrui se mai in alcun [174] luogo, che Iddio tolga, ne venisse il bisogno. Quanto al battesimo de’ bambini nati da donne appestate e in pericolo di vita, Federico ingiungeva:

«Ove occorra a te, parroco del luogo, o a te, sacerdote, che ne adempi le funzioni, di battezzare uno di codesti bambini, procura di avvicinare alla faccia il fuoco per dissipare l’aria pestilenziale d’intorno al volto del bambino, o almeno correggerla: adopera altresì absenzio o erbe aromatiche per preservativo.

«Quanto all’amministrare il sacramento della penitenza, la seconda porta di salvezza dopo il battesimo, ti regolerai nel modo seguente. Se l’ammalato trovasi in istato che si possa muovere, lo farai venire in luogo dove entrambi siate all’aria aperta; ed ivi ne udirai la confessione; che se non può muoversi, ti collocherai vicino alla finestra o sull’uscio in tale distanza però, che i segreti della confessione non corrano pericolo d’essere uditi al difuori. Ove poi necessitasse l’avvicinarsi di più, bada a non toccare colla tua veste gli abiti o le coperte del malato, ed abbi la massima cura di non aspirare l’alito suo[135], tenendo, per quanto è fattibile, la faccia rivolta dall’opposta parte della sua bocca.

«La camera in cui sarete dovrà purgarsi con qualche suffumigio per scacciarne la puzza e l’aria contagiosa. Ciò si ottiene con facilità, bruciando lauro, ginepro od altre simili bacche; e in caso estremo, che null’altro si trovi, anche paglia. Giova altresì umettare con aceto la fronte e le tempia, ed avvicinare al naso pallottoline d’avorio o d’osso con entro spugne odorifere, come si usò [175] anche nell’ultima peste. Voi, usando tali cautele e tenendovi riguardati, avrete ad ogni modo almeno il merito dell’ubbidienza».

Con eguale premura il Cardinale prescrisse a’ suoi sacerdoti quant’altro concerneva il loro ministero. Poter essi tralasciare del tutto il sacramento dell’estrema unzione, che prepara all’ultima lotta i moribondi; che se alcun sacerdote d’esimia pietà voleva pure amministrarlo, ungesse soltanto l’occhio, omettendo le unzioni meno necessarie alle reni ed alle gambe; ingiungesse poi al malato di giacere colla bocca chiusa e il corpo ricoperto, per evitare di contrar la peste dall’alito o dalle esalazioni di lui. Quanto ai matrimonj, diceva Federico, che non abbisognando contatto, il sacerdote poteva tenersi lontano dagli sposi mentre pronunziava le parole del sacro rito. Circa poi alla messa, mistero del quale è impossibile escludere il popolo, che si raccoglie promiscuamente nelle chiese, ordinava di collocare un altare portatile vicino alla porta del tempio, affinchè la gente potesse udire la messa in modo che nè il sacerdote contragga la peste dall’accalcata moltitudine, nè questa ritorni a casa con maggior numero di appestati che non aveva al suo venire[136]. Però badasse il celebrante di non adoperare paramenti usati da altro sacerdote morto di peste.

Morto appena un prete, tutti i sacri arredi, i camici, le tovaglie, i pannolini e le robe medesime del defunto, dovevansi [176] spurgare e porre in disparte. Soggiungeva che sarebbe anzi meglio avanti la sua morte, ai primi indizj di vicino pericolo, mettere in custodia gli oggetti preziosi della chiesa e quanto è difficile a spurgarsi, facendone un esatto elenco, affinchè, cessata la peste, si potessero scernere le cose integre dalle sospette. Anche le cerimonie e i riti funebri temperò a seconda del pericolo.

Tutte le quali cose, quantunque di minor conto, io le ho riferite per vieppiù chiaramente mostrare la vigilanza del nostro Pastore, che nulla trascurava, e perchè argomenti il lettore quali fossero le cure di lui nelle cose di rilievo, dacchè anche delle più lievi cotanto s’interessava.

Le pastorali diramate dall’Arcivescovo ai parrochi ed ai vicari della milanese diocesi, esprimono ancora più al vivo i sentimenti di lui per le anime del suo gregge. Le parole di Federico sembrano quelle dell’apostolo Paolo.

«Vestite viscere di carità: vedete il gregge, vedete ridotti all’estremo bisogno i figli, che la santa Madre Chiesa vi partorì e vi affidò. Siate pronti come noi siamo pronti a perdere questa vita mortale anzichè abbandonare la nostra famiglia, la casa, i figliuoli. Abbracciate la peste come vita e consolazione, purchè possiate guadagnare un’anima a Cristo. La modestia, la sobrietà e la pudicizia vostra e tutte le virtù risplendano come fiaccole. Ciò placherà l’ira celeste».

Altre ammonizioni quasi colle stesse parole ritrovai nelle lettere arcivescovili da lui dirette ai parrochi, cui inculcava ammonissero sovente il popolo di non dissimulare e tener occulta la peste, perocchè il farlo era gravissimo peccato.

[177]

VII. Premura del Cardinale pei monasteri delle Sacre Vergini.

Federico sovvenne, premuroso, con ogni sorta di soccorsi e conforti, le vergini consacrate a Dio ne’ monasteri, dove il debol sesso vive dal sociale consorzio segregato. Egli prescrisse quanto doveva farsi subito e per l’avvenire, affinchè quelle religiose e solitarie vergini conservassero integra la fama, tranquillo l’animo, nè mancassero loro i necessarj alimenti. Provvide che si comperassero di tempo in tempo i cibi duraturi per alcuni giorni, ordinando, fra le altre cose, di evitare in tali compere gli inutili discorsi coi venditori e l’intromettersi di molte persone ne’ monasteri, non esclusi i servi, perchè sempre sospetti.

Le cose poi che soglionsi introdurre pel torno fossero senza panni od involucro, ma poste in vasi di stagno, di rame, di vetro. I quali vasi e le cordicelle non si ricevessero entro il monastero, ma cavato fuori il contenuto nei medesimi, si restituissero subito, mandandoli al di fuori. Così pure non dovevasi per allora mandar fuori stoviglie, canestri, cesti, ovvero usciti una volta che fossero non più riprenderli e toccarli. Proibì altresì di ricevere scrigni, casse, e quant’altri oggetti i parenti, gli amici o i benefattori del monastero e dell’Ordine volessero dare in custodia alle sacre vergini.

[178]

Stabilì e circoscrisse il numero degli inservienti, e limitò pure i soliti cicalecci al parlatorio, le lettere femminili, i donativi di dolci ed altre futilità quasi illecite sempre, e in quel tempo pericolose e fatali, perchè non vietandole avrebbero introdotto il contagio ne’ monasteri.

VIII. Il Cardinale presagisce per ispirazione divina la prossima cessazione della pestilenza, e si accinge a riordinare gli studj ecclesiastici e le arti.

Il Cardinale, quando gli fu riferito essere morti sessanta parrochi urbani[137], lagrimò per sì gran strage. E i pochi ecclesiastici sopravvissuti che stavano al suo fianco nel solitario palazzo, narrarono come in quel momento di costernazione e di lutto lo videro rivolgersi all’effigie di Sant’Ambrogio con tal espressione di fisonomia e muovere di labbra, che udivansi lagni misti a preghiere all’antico pastore della città nostra, affinchè non lasciasse tutto perire il suo clero e la sua chiesa. E notarono altresì che dopo quel colloquio s’avvicinò a loro con fronte rasserenata come se avesse ricevuta la favorevole risposta, che cesserebbe la pestilenza, e che Iddio, placato, consentiva a salvare l’ambrosiana diocesi.

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Da quel giorno l’animo del Cardinale s’andò calmando; e insieme scemava gradatamente la peste, finchè all’incominciar del settembre, Federico, vieppiù rassicuratosi, celebrò con solenne pompa la Natività di Maria, e recitando, giusta il consueto, l’omelia non esitò a promettere al suo popolo giorni fausti e lieti, ed il termine del contagio; e così avvenne. Ricuperata che ebbe Milano la salute, e sgombro il nembo che aveva ogni cosa ottenebrata, rifulse di nuovo lo zelo di Federico per gli studj e le belle arti, da cui l’orribile calamità l’aveva a forza distolto.

Egli diede opera a riordinare i seminarj pei giovani, a proporre premj, cercar maestri e dotti, e tutti i mezzi opportuni ad educare gli ingegni. E siccome morti in tanta strage esimj pittori e scultori, le belle arti, delizia e decoro di Milano, erano abbandonate, il Borromeo attese con tutta la premura a far rifiorire in città le arti stesse, le lettere e le maggiori scienze. Riaprì a tal uopo nella Biblioteca e nel Collegio Ambrosiano scuole d’ambo i generi; e comperati a giusto prezzo i lavori d’illustri artisti che giacevano negletti nelle deserte case, li trasportò nel museo della Biblioteca medesima. Non ebbe il Cardinale cure più gradite di queste, com’io credo avere più diffusamente esposto nella vita che di lui scrissi.

IX. Opinioni e sentenze di Federico Borromeo circa la peste.

Narrati i precedenti fatti ch’io vidi, o udii, mi diedi ad indagare e raccogliere d’ogni parte altre notizie che viemeglio illustrino la memoria del Cardinale, e la tramandino [180] all’esempio dei posteri. In tali ricerche ho rinvenuto un breve manoscritto[138] in cui, secondo era uso, notava, anche fra tanta calamità della patria, le amene lucubrazioni della feconda sua mente, sempre intenta al filosofare. Ed io, non volendo defraudare lui di questa gloria, e gli uomini d’ingegno del frutto che trar ponno da’ suoi utili ed eleganti scritti, riporterò in codesta mia storia molti fatti belli e insieme tristissimi, che l’Arcivescovo, testimonio oculare della pestilenza, lasciò scritti, ovvero raccontò ne’ discorsi famigliari. In quel modo che antichi scrittori conservarono i detti memorabili di Socrate e l’altissima sapienza di lui, così noi conserveremo i commentarj e i detti di Federico intorno la peste.

Egli incomincia a paragonare la strage di Milano con quella di Gerusalemme al tempo de’ Maccabei, quando il re Antioco, ministro dell’ira divina, la desolò; e le attribuisce entrambe ai giusti e clementi giudizj d’Iddio; affermando che quei castighi furono prove della benignità e misericordia di lui, perchè il popolo Ebreo ed i Milanesi divenissero migliori. E soggiungeva, che mirando egli le buone opere e la pietà dei cittadini, sperava non si rinnovasse più sì tremendo esempio dell’ira celeste; quantunque non sia lecito all’uomo scrutare gli arcani della Provvidenza. La quale sentenza, da lui profferita, sarà sempre un conforto ed una grata testimonianza per la nostra metropoli.

Viene poscia a esporre la sua opinione circa l’origine della peste, col senno che in esso univasi ai talenti letterarj ed alle molteplici cognizioni, affermando che, sebbene scoppiata per divino volere, avevano contribuita a spargerla anche cause umane. Appoggiandosi all’autorità [181] di Omero, citato da gravissimi filosofi e dai Santi Padri, dimostra che non senza ragione il poeta introduce Apollo che vibra i dardi avvelenati sul campo de’ Greci, per indicare che la Divinità si serve anche di questo mezzo per castigare i mortali. E da ciò conferma che la nostra pestilenza fu divino castigo, notando a maggior prova che l’esercito alemanno, il quale recò a noi il contagio, ne andò quasi immune; e che le truppe spagnuole occupate all’assedio di Casale, ricevendo quasi giornalmente viveri dalla Lombardia, non contrassero il male per tale comunicazione, essendo manifestamente così piaciuto a Dio. Il quale volle certi luoghi ed uomini punire con tale morbo, ed altri risparmiare, serbandoli forse ad altre pene. Anche nel recinto del Lazzaretto, quella notte che poteva essere l’ultima ai rinchiusi per l’allagamento, furono salvi dalle acque coloro che poscia la peste tolse di vita. Laonde chiaro appariva essere destinato che tali uomini dovevano morire di contagio. Stabilita in tal guisa una causa soprannaturale, ragionava delle umane cose come segue, non diversamente da quanto noi abbiamo esposto.

«La fame, dice Federico, originò il contagio; e la fame venne dalla sterilità dei campi e più dai soprusi delle soldatesche e dalle violenze usate dagli stranieri a questo paese. È la lombarda gente forte e in uno delicata: la robustezza sua la rende indomita alla guerra ed alle fatiche come attestano le storie; ma d’altronde sprezza ed abborre, per superbia e mollezza, gli incomodi a’ quali aggiungasi anche l’avvilimento. Laonde essendo ne’ Lombardi più vivo il senso dei mali, la noja, la disperazione e l’impazienza loro li rese più proclivi a contrarre la peste».

Tale è l’opinione di Federico intorno la duplice origine del morbo; quanto a inganni ed artificj di principi e [182] re stranieri per diffonderlo, ed a congiure per devastare Milano, egli nega ve ne siano stati. Circa l’unto venefico per spargere la peste, le misture avvelenate, i veneficj, egli lascia in dubbio se realmente ve ne furono, ovvero se li abbia sognati la vanità ed il timore degli uomini. Pur nondimeno mostrasi proclive a dar fede a quanto fu detto e creduto, che alcuni facinorosi e insani immaginassero la scelleraggine degli unti nella speranza di rubare; e paragona la loro follia alla stoltezza di certe arti. Che mai non fantasticano gli astrologi e gli alchimisti? così del pari gli untori avevano forse vagheggiato un immenso bottino e cambiamento di fortuna qualora si estinguessero le famiglie e si distruggessero le case; ad ogni modo è cosa incerta ed ancora nascosta nel mistero, ciò solo è sicuro ed evidente, che la peste afflisse Milano per voler celeste, affinchè i cittadini si emendassero.

Dopo le stragi della pestilenza, apparvero in maggior numero che per l’innanzi delitti e libidini dei plebei e de’ nobili; della quale corruttela e perversità, molteplici furono per avventura le cause e principalissima la seguente. Gli uomini, cessata la peste, insuperbirono, abbandonandosi ad una gioja smodata e puerile come se avessero trionfato della morte, essendo favoriti dalla prospera loro sorte nell’universale calamità. Siccome quei che privi a lungo di cibo e di vino, non appena vien loro fatto d’averne se ne riempiono l’epa, così costoro, immergendosi in ogni genere di voluttà delle quali credevano essere rimasti defraudati, si gettarono più sfrenatamente ad ogni vizio, gozzovigliarono, lascivirono.

Le esposte cose rinvenni scritte nelle Memorie che il Cardinale compilava di mano in mano.

In esse con eguale diligenza e saggezza notò e raccolse quanto riferivasi alle arti di spargere il contagio ed all’origine [183] loro; ragionò de’ mostri, dell’orribile aspetto della peste, della penitenza dei cittadini e frequenza ai sacri misteri de’ sacerdoti: descrisse i vani specifici adoperati dal volgo per evitare il contagio; ed i rimedj salutari che potevano adoperarsi per ristorare, dopo sì gran strage, la città, e far rifiorire le arti. Tali ed altre cose desunte dalle sue Memorie, e qui ripetute, hanno tanta maggiore autorità, in quantochè lo Scrittore, per grado e per santità eminente, discuteva con somma prudenza ogni fatto riferito.

Nel capitolo Degli Unguenti pestiferi, Federico s’esprime in questa guisa: «Agevolmente e volentieri si mischia la verità colla menzogna, le cose veridiche colle false; quindi intorno la peste manufatta molto fu detto che può essere creduto, o confutato con pari facilità. E noi abbiamo ammesse alcune cose, mentre siam d’avviso che a certe altre si possa negare credenza. Non esitiamo di affermare per sicuro che furonvi molti i quali per iscusarsi della loro riprovevole negligenza, divulgavano che venne loro attaccata la peste cogli unguenti, mentre la contrassero coll’alito od il contatto.

«Circa le arti dell’ungere, raccontavansi le seguenti cose, se vere o false lo ignoro. Aggirarsi e vagarsi per Milano taluni con carte avvelenate che, sporte come suppliche agli incauti, contaminavano e davan morte a chi le pigliava. La terra, i grani e perfino le picciole monete distribuite in elemosina a’ poveri, essere asperse di quella materia venefica. Aggiungevano che si appiccicavano gli unti alle pareti col mezzo di pertiche e soffietti, e che la rabbia de’ congiurati untori giunse a tale, che uno dei loro emissarj cercò d’introdursi in un monastero, dove ammesso, recò, sotto velo di santimonia, il contagio, ungendo dal primo all’ultimo gl’infelici [184] monaci, i quali tutti perirono prima che venisse discoperta la frode.

«Questi ed altri racconti che giravano in bocca di molti, noi nè crediamo, dice il Cardinale, nè osiamo dire temerariamente divulgate».

Quanto poi al furore dell’ungere si esprime come segue.

«Nel Lazzaretto un untore confessò in pubblico d’aver fatto patto col demonio, e additò il luogo ove aveva nascosti i barattoli e i vasi dei veleni, ed appena ebbe finito di parlare, spirò. Momenti prima, stimolato da disperazione e rabbia, egli aveva cercato un pugnale per uccidersi; ma non riuscendogli ottenerlo, tentò segarsi la gola con una pietra tagliente. Una donna confessato il delitto, accusò la figlia sua partecipe e ministra: arrestata immediatamente, si rinvennero presso di lei i barattoli e gli altri stromenti delle unzioni. Un tale reo convinto dello stesso misfatto traducevasi al supplizio sopra un carro fra la moltitudine accorsa allo spettacolo, martoriato, a tenore della sentenza, per tutta la strada dal carnefice, il quale con tenaglie roventi gli stringeva le braccia e le nude membra. Il paziente, additando uno degli spettatori, disse ai satelliti d’arrestarlo, essendo reo d’aver sparsi in sua compagnia gli unti, facendo morire un gran numero di persone.

Questi ed altri casi furono raccolti e narrati dal Cardinale, ed io ne trascelsi alcuni pochi per offrire un saggio ed un esempio della stoltezza di quegli untori. Ma poichè, siccome accennai più sopra, gli animi ondeggiavano in molte dubbiezze circa la questione se vi furono realmente unti ed un’arte di spargerli, ovvero se fu uno di quei vani timori senza fondamento che spesso fan delirare gli [185] uomini caduti nell’estremo de’ mali[139]; io, per conchiudere sulle controverse opinioni, riferirò un passo del medesimo Federico, che pone ad esame le ragioni addotte da entrambe le parti.

«Consta, dic’egli, non essere stata questa la prima o l’unica pestilenza che si dice composta per frode e colpa dei mortali, poichè e in Italia e fuori ebbero luogo più d’una volta somiglianti sfrenatezze. Esiste un libro della peste manufatta, prova non dubbia che gli uomini inferocirono altre volte a danno della vita e della pubblica salute, imitando in certa guisa le divine saette, con scellerate invenzioni, per compiere il loro delitto. Nè questa è cosa di facile esecuzione, sibbene soggetta a molte e incredibili difficoltà, come si riferisce dell’arte degli alchimisti, i quali s’affannano a cuocere metalli e trasmutarli, ma ad onta degli indicibili loro sforzi, invecchiano senza riuscirvi. Gli untori però, trovato che abbiano i venefici unguenti, paghi d’aver in mano questo colpevole mezzo, con molta facilità e speditamente commettono il misfatto. Agli sfrenati appetiti degli uomini ed a’ molteplici veleni che offre la natura, s’aggiunse il potere dei demonj, nemici sempre del genere umano, eccitatori e maestri ai delitti con cui i mortali, nuocendosi tra loro, offrono all’eterno nemico graditissima preda di corpi e di anime.

«Tutto ciò conferma la divulgata opinione degli unguenti e dei veleni, ma alla stessa opponesi che tali misfatti erano ineseguibili con soli mezzi privati, e d’altronde [186] nessun re o principe ajutò gli untori coll’autorità sua o con sussidj. Di più non si rinvenne mai alcun capo od autore di codeste scellerate unzioni, a provare l’insussistenza delle quali non è lieve congettura, l’essere svanite da sè, mentre sarebbero, fuori di dubbio, continuate fino all’ultimo, ove fossero state sparse con metodo sicuro. La storia pende dubbiosa fra le due opposte sentenze. Soltanto sì Lombardi che stranieri, di carattere violenti, usi alle lascivie, annojati dello scarso stipendio de’ faticosi lavori e di soffrire la fame, conseguenze tutte della condizione infelice dei tempi, incominciarono a far tra di sè combriccole per rinvenire un termine ai proprj mali. Ajutati dal demonio, il quale vieppiù aizzava i loro animi accesi, immaginarono quest’arte di ungere, i cui elementi avevano per avventura imparati ne’ paesi, d’onde la peste fu recata in Lombardia.

«E non è cosa nuova che uomini scellerati, per sottrarsi a’ mali ed incomodi, ricorrano ai delitti. In ogni secolo esisterono uomini che i sentimenti e la fortuna eguale consociò, siccome attestano le storie romane, dei congiurati di Catilina. Che poi codesti untori fossero i più spregevoli e corrotti degli uomini, chiaro apparisce dal modo con cui incontrarono la morte. Parecchi di loro, sprezzando gli inviti all’eterna salute e i sacramenti, perseverarono torvi e impenitenti già col laccio alla gola, talchè, dopo varj tentativi ed esortazioni, si strangolavano come già dannati all’inferno.

«Uno tra essi, côlto sul fatto mentre ungeva, e tradotto senz’indugio alla forca, veduto un carro sul quale stavano i Monatti sovra cadaveri d’appestati, prese la corsa, e si slanciò in mezzo a quella pestifera turba, quasi in sicurissimo asilo, fra i bubboni e la marcia grondante, dove nessuno avria osato porre le mani su lui. Côlto da [187] un nembo di sassi e projettili, cadde ferito in più parti, e sul carro medesimo fu tradotto alla fossa[140]».

Fin qui il Cardinale con prudenti sentenze; e continua a discutere con maggiore sottigliezza, all’uso dei filosofi, sui veleni ed unguenti per comporre, alimentare e spargere la peste, affinchè gli untori avessero tutto l’agio di rapinare e far bottino in mezzo ai malati ed ai cadaveri.

Il Cardinale narra poscia i seguenti miserandi e abbominevoli casi.

Ad una nobile fanciulla erasi talmente enfiata la lingua chiudendo la chiostra dei denti, che per otto interi giorni non potè inghiottire cibo. Tagliata dappoi l’ulcera, ed introdotta in bocca una cannuccia, i genitori vi stillarono alcune goccie, che diedero all’inferma un momentaneo ristoro; ma rincalzando il male, poco stante spirò. Un monaco, per un eguale tumore, rimase dieci giorni senza potersi cibare, e colla lingua sporgente dalle fauci due dita di lunghezza, sicchè tra spasimi atroci, e presentando un ributtante spettacolo, morì. Una donna nel Lazzaretto continuò cinque giorni a correre su e giù, percorrendo sempre lo stesso tratto, nè fu possibile tenerla quieta, chè il morbo l’aveva resa furente: stracciava la veste, nudandosi il corpo, e spezzando i legami. Casi simili e la smania di andar nudi, riferisce Tucidide, che nobilitò colla sua storia la peste di Atene.

Fuvvi un altro nella turba del Lazzaretto che avendo a nausea il cibo, rimase per otto giorni quasi digiuno e senza parlare come fosse privo di lingua, talchè fu ritenuto per morto. Il nono dì, ito alla stalla dei Monatti, ed agguantato [188] la notte un indomito cavallaccio, lo inforcò, e cacciandolo a corsa fino all’alba senza respiro, l’affaticò in guisa, che il cavalcatore e la bestia, cadendo esanimi a terra, spirarono.

Uno rimase in vita, cadutegli ambidue le gambe incancrenite; un altro, scoppiatogli un bubbone sul petto, mostrava, in respirare, orrenda vista! i palpitanti precordj.

Un giovane monaco, smarrito il lume dell’intelletto e in delirio per violenza del morbo, fuggì dal chiostro, e vagava per la città, e dicendo esser egli il papa, sporgeva il piede al bacio. E siccome niuno appagava questa pazza fantasia, si astenne dal cibo, risoluto di morire. Il simulato ossequio fu rimedio all’infelice deliro, e venerato come pontefice da taluni, consentì a prendere gli offerti alimenti, e risanò dalla peste, e in uno della sua monomania.

Miseranda e ridicola fu l’insania d’un altro, il quale, immersosi in uno stagno coll’acqua fino alle fauci, durò per tre giorni senza pigliar cibo, canterellando d’aver trovato un asilo sicurissimo contro i satelliti, e che gli erano stati derubati dieci mila zecchini avuti in regalo dall’imperatore.

Un fenomeno quasi identico a quello della pestilenza d’Atene, secondo racconta Tucidide, fu rimarcato anche tra noi, cioè che i moribondi cercavano i pozzi e le acque in genere.

Orrendo spettacolo e ributtante a vedersi più d’ogni altro, fu che malati ed anche gli uomini sani e robusti, stillando marcia e sangue dalla bocca o dal naso, stramazzavano a terra, spirando al momento.

Il dolore di capo fece ad alcuni schizzar gli occhi ridendo, e vantandosi di non aver indosso la peste, esalavano l’anima; altri si precipitarono dalle finestre. Taluni vennero a rissa armati di bastoni: abbattuti dalle percosse, [189] e in uno dal morbo, giacquero estinti nel luogo stesso dove si batterono, spinti da pazzo furore.

Le donne incinte abortivano, e i bambini che nascevano vivi, davansi da allattare alle capre, le quali, addestrate a codesto pietoso ufficio, vagavano pei prati del Lazzaretto, porgendo le poppe con amorevolezza quasi materna. E si osservò che una di esse capre aveva preso tanto amore ad un suo lattante, che se le veniva tolto, ricusava dare le mamme a qualunque altro. Alcuni, per curiosità di far sperimento di questa strana affezione della capra, nascosero il bambino; e la bestiola, irrequieta, palesò il dolore belando e rifiutando il pascolo; e sembrava cercasse in modo intelligibile il suo alunno, il quale, riavuto che ebbe, saltellava con insolita vivacità, esternando la propria gioja.

Ultimi esempj codesti delle umane miserie; ma dono speciale della misericordia divina in tanta confusione di cose e tante sciagure, fu il seguente. Alcuni uomini scelleratissimi, i quali da venti anni non avevano mai confessato le loro colpe, e se per avventura lo fecero, astretti dalle leggi ecclesiastiche, con frode e sacrilego inganno contaminarono sè stessi ed il sacramento della penitenza, tocchi di repente nel Lazzaretto dalla grazia celeste, si pentirono, lasciando dopo morte tale opinione di loro come se fossero saliti direttamente in paradiso. A taluni fu sì benigno Iddio, che negli estremi momenti di vita concesse la beatifica visione dei Santi, e specialmente della Vergine Maria, che additarono ai circostanti, i quali resero testimonianza del prodigio. Ciò affermava il cardinale Federico.

Al medesimo non andava punto a genio la traslazione del corpo di San Carlo, proposta quando cominciava a infierire la peste. La credeva per varj motivi cosa assai pericolosa, e in cuor suo sospettava che certi stolidissimi [190] uomini e le semplici femminuccie specialmente, use ad apprezzare dalle apparenze anche le cose divine, immaginassero più grande ciocchè dovevano vedere, e che per nulla concerne i meriti e la beatitudine dei santi. Vale a dire che anche i cadaveri di coloro i quali furono dopo la morte annoverati fra i santi, vadano sempre esenti dalla dissoluzione, come è sorte di tutti i mortali al cessar della vita.

Ma più temeva e prevedeva ciocchè avvenne infatti, che se v’erano in Milano untori ed unguenti venefici, la processione darebbe loro opportunità al delitto, e potrebbero, nella inevitabile affluenza di popolo, ungere comodamente e nascondere le empie e impure mani. Se poi untori non esistevano, sarebbe del pari inevitabile ciocchè ogni giorno succedeva tra i singoli anche senza concorso di gente.

Il popolo affollato per le contrade, i cittadini stretti gli uni cogli altri, le vesti femminili, il contatto dei corpi e dell’alito sarebbero un male certo, prescindendo anche dagli unti.

Laonde il Cardinale negava l’assenso, e cercò dissuadere la traslazione del corpo di San Carlo, perchè i cittadini non solo, ma tutti gli abitanti dei vicini villaggi, non si raccogliessero in una sola caterva. E quando annuì alle ripetute istanze, aggiungendo agli ordini del Consiglio Pubblico ed alla magnificenza della città la pompa e lo splendore ecclesiastico, ebbe ogni cura perchè la processione riuscisse decorosa in modo, che se non pareggiava la santità del Borromeo, attestasse almeno la divozione del clero e dei Milanesi.

Egli prescrisse ed emanò ordini, che trovansi riuniti in un libriccino, circa le fermate, le preci e le flebili cantilene, onde impetrare il soccorso e la misericordia divina. E siccome il desiderio del popolo ed una certa esultanza pubblica fra le sciagure, esigevano che il corpo di San Carlo [191] non venisse rinchiuso subito dopo la processione, ma si lasciasse esposto perchè la folla dei divoti lo potesse contemplare e venerare, Federico accondiscese ai pii desiderj della città e di tutta la popolazione, siccome già dissi. Egli stabilì pure e pubblicò la norma disciplinare per la venerazione, affinchè tutti stessero innanzi al santissimo corpo con quella disposizione di animo, che avrebbe in essi voluto eccitare il santo Pastore alloraquando la celeste anima sua era unita al corpo.

FINE DEL LIBRO TERZO.

[193]

LIBRO QUARTO VENUTA E DIFFUSIONE DELLA PESTE IN LOMBARDIA. — ATTI DEL TRIBUNALE DI SANITÀ.

[195]

I

Narrai fin qui gli effetti tremendi dell’ira celeste e le cause che svilupparono la peste, più fatali ancora dello stesso morbo. Il respiro e l’alito reciproco, necessario alla vita, contaminati: la morte quasi generale de’ cittadini e il nome della popolosa Milano pressochè spento. Narrai altresì dei veleni, delle officine degli untori, e di coloro che, spinti dai demonj, li dispensavano, fosse veritiera codesta credenza, fosse un falso sospetto, perchè a tanti mali, quello pur s’aggiungesse d’un vago e misterioso terrore. In pari tempo enumerai i rimedj adoperati contro l’inevitabile morbo ed il celeste flagello, e i pii sforzi degli afflitti per implorare perdono e salute, sforzi che, lice credere, riuscirono accetti all’irato Iddio.

[196]

Rappresentai pur anche il meglio che ho potuto, anzi come comportava l’argomento, le cure e le azioni magnanime del gran cardinale arcivescovo Federico, e il coraggio de’ magistrati e de’ cittadini, che in tanta calamità gareggiarono colle opere e colle ricchezze del Pastore.

Tutte le quali cose io talvolta ho coordinate per ordine di tempo, tal’altra le esposi alla rinfusa pel trambusto di quell’epoca, per cui la mia narrazione riuscì quando seguitata, quando interrotta.

Ora mi torna più facile ripigliare più indietro il racconto, ed avendo innanzi la memoria i fatti accaduti raccoglierli quasi in un cumulo, narrando quale fu la procella di quel triennio, come per cause manifeste ed occulte s’andava formando la peste, e come cominciò a serpeggiare finchè irruppe furibonda menando stragi.

Dirò primamente ciocchè fece il Municipio, giusta quanto lasciò scritto ne’ suoi ricordi il Chiesa segretario del medesimo, uomo per integrità di vita e per ingegno stimabilissimo. Codeste effemeridi potranno giovare in avvenire additando i provvedimenti opportuni in caso di peste, giacchè vi si rinvengono decreti, lettere, consigli e risposte dei capi della città; leggesi le somme spese, il modo di trovare denaro in quelle angustie, i diversi ufficj che i Decurioni si assunsero, e molte altre cose importanti di quell’epoca luttuosa.

Il 4 ottobre del 1628 il Tribunale di Sanità scrisse a quello di Provvigione che la peste andava crescendo in Francia, nei Paesi Bassi ed in Germania, e già incominciava a serpeggiare a Berna ed a Lucerna, in Val Sesia e finanche a Poschiavo ed altri luoghi limitrofi alla Valtellina. Per conseguenza il presidente della Sanità, di concerto col Governatore, aveva deciso di non indugiare più oltre a chiudere con cancelli le porte della città ed a istituire i registri giusta le pratiche solite in caso di peste.

[197]

Ciò si fece il 18 ottobre, e la Sanità eccitò caldamente il Consiglio di Provvigione a dare tutti gli opportuni provvedimenti.

Fu risposto che le spese dovevano sostenersi dall’Erario Regio; ma che agitavasi tale questione tra il Governo ed il Municipio. Del resto, il Vicario ed i dodici della Provvigione si rivolsero al Consiglio dei LX Decurioni affinchè dessero, come avevano sempre fatto in addietro, le norme da seguirsi. Infatti decretarono che, senza detrimento dei pubblici diritti, o pregiudizio della già innoltrata supplica, fosse facoltativo al Vicario di spendere l’occorrente secondo le norme tenute nell’antecedente pestilenza.

Il 21 gennajo del 1629, a spese della città, i Decurioni fecero celebrare quattro mila messe in tutte le chiese per suffragio dei defunti, onde impetrare l’ajuto del cielo.

Il 5 di maggio il Vicario riferì in Consiglio, che d’ogni parte concorrevano in Milano gli affamati contadini diffondendovi la miseria e lo squallore; giacevano per le strade, e non pochi morivano ogni giorno sulle piazze. Poteva, diss’egli, scoppiare la peste da siffatto cumulo d’immondezze, quand’anche non venisse altrimenti recata, per cui suggeriva lo spediente degno della saggezza e carità dei Decurioni di purgar Milano di quella turba, assegnando qualche soccorso perchè non morisse di fame, tanto più che già traboccava il numero degli indigenti cittadini, senza che lo accrescessero i forensi.

I Decurioni, e per compassione di quegli infelici e pel pericolo, decretarono senza indugio che si levassero tre mila zecchini dall’erario per comperare alimenti ai poveri. Al tempo stesso, affinchè i contadini rimanessero nei loro campi, ingiunsero si distribuisse nei borghi e villaggi una data quantità di frumento dai pubblici granai, vendendolo al prezzo medesimo che la città l’aveva comperato.

[198]

Il 5 giugno s’aggiunsero alla predetta somma altri due mila zecchini per l’identico scopo, più un’altra somma, che fu raccolta nelle singole parrocchie di Milano con una colletta fatta di casa in casa.

Il 13 dicembre il Vicario riferì in Consiglio d’aver tenuto discorso con S. E. il Governatore sulla condizione attuale delle cose, e dopo lungo discutere conchiuse, che, atteso il timore di carestia e di peste, si dovesse raccogliere nei granaj segale, miglio, panico ed orzo, nella quantità che i prefetti all’annona rispondessero potersi comperare. Necessaria previdenza affinchè se le cose peggioravano non mancassero alimenti al popolo.

Il 12 dicembre, i prefetti, consultati sopra tale acquisto, risposero che si poteva comperare tre mila moggia di segale, mille ottocento di miglio, mille di orzo, e che il prezzo totale ascenderebbe dai quarantacinque ai cinquanta mila zecchini. Suggerirono poi d’aumentare il dazio sopra il miglio e la segale per raccogliere l’anzidetta somma: approvarono i Decurioni.

Il 15 dicembre il governatore ordinò si trovassero altri mezzi per far denaro, quindi fu proposto un nuovo accrescimento di dazio sul miglio e sull’olio, e si tenne discorso di stabilire un testatico ed un’imposta sulle porte.

Quel giorno medesimo furono lette in Consiglio nuove lettere del presidente di Sanità, e si trattò del modo di procacciare altro denaro per sovvenire alle pubbliche necessità, le quali moltiplicavansi simultaneamente. Innanzi tutto si risolse provvedere al Lazzaretto ed alla moltitudine dei poveri rinchiusi in quel recinto, e che senza ritardo si sborsasse quella parte di denaro, la quale, raccolta dai varj luoghi della provincia, dovevasi riunire in Milano, stantechè l’indugio altro non faceva che peggiorare lo stato delle cose. Si riferì poi come i due delegati, Tadino e G. Visconte, [199] spediti per invigilare sulla pubblica salute a Como ed a Lecco, perdessero ivi inutilmente il loro tempo, scrivendo i medesimi essere infruttuosa la loro legazione ove non si attivassero gli spurghi e le quarantene di osservazione, provvedimenti ineseguibili senza grave dispendio. Tali cose furono riferite dal presidente in Consiglio.

Il quale domandava a tutti i Decurioni, che, stante le molte e ingenti spese da farsi, venisse autorizzato il Tribunale di Provvisione ad eseguire gli ordini che la Sanità credesse opportuno di emanare per la salute pubblica. Si portò l’affare a’ Conservatori del patrimonio, perchè, attenendosi alla vecchia consuetudine ed ai diritti delle città, da loro benissimo conosciuti, e traendone norma, soddisfacessero all’impegno.

Il 18 dicembre il regio governatore annuì che si levasse un tributo per testatico. Dietro la quale concessione s’incaricarono i Conservatori di riferire al Consiglio, dopo aver tra loro consultato, il modo più spedito per la riscossione. Vennero interrogati altresì i prefetti annonarj circa la compera del grano per la statuita somma.

Il 22 dicembre li autorizzarono a fare per tale effetto un prestito di quindici mila zecchini.

Entrante il gennajo del 1630, si decretò spedire a Casalmaggiore, afflitto da peste, tanto orzo ed olio, quanto potevasi comperare con mille zecchini.

Il 26 marzo, instando di nuovo il presidente della Sanità per aver denaro, che asseriva necessario per tener lontano il contagio, trattandosi di non piccola somma, si riferì la domanda ai sessanta Decurioni. Essi, quantunque l’anno precedente avessero data facoltà ai Conservatori di supplire ad ogni emergenza, pure, attesa la gravezza del dispendio, fecero un nuovo decreto, col quale confermavano gli anteriori, usando però le solite proteste che i diritti [200] della città non avessero mai a soffrirne detrimento. Oltre codeste umane previdenze, si statuì d’implorare l’ajuto divino, decretando, come erasi fatto lo scorso anno, si celebrassero quattro mila messe in suffragio delle anime purganti. L’elemosina delle medesime fu di lire mille in totale; la metà venne mandata ai conventi più chiari per pietà religiosa, e in uno privi di sostanza.

Il 3 aprile, dietro istanza del presidente di Sanità, si erogarono quattrocento zecchini pei bisogni dei poveri. Aveva esposto il presidente come si vedessero per le strade e pei vicoli di Milano moribondi e cadaveri; infettarsi l’aria pel puzzo e per l’alito infetto; e l’animo de’ passaggeri allibir di spavento a tal vista. Il giorno stesso fu trattato di trasportare codesti infelici all’ospitale della Stella, ovvero altrove, e nutrirli: si risolse inoltre di fare uscir di città quanti di loro erano venuti a mendicare non dalle terre del milanese ducato, ma da altri Stati.

Il giorno 11 aprile il vicario riferì ai LX Decurioni che il gran cancelliere, anche a nome del governatore, avevagli significato la necessità di apprestare maggiori sussidj per distribuire legna ed elemosine vieppiù abbondanti. Perocchè i mercanti, usi a somministrare lavoro alla plebe che ne traeva denaro per vivere, ormai cominciavano a togliere quell’emolumento, e lo avrebbe sempre più ristretto a misura crescesse il timore della pestilenza. Laonde si correva pericolo che, cessando il mezzo di guadagnare, molti per ozio e miseria si abbandonassero ai delitti. Anche il presidente del Senato, a nome proprio e del corpo, ammoniva di riflettere a tale pericolo. Il vicario lesse da ultimo in Consiglio le lettere del presidente di Sanità, che si riferivano al medesimo argomento.

Gravissimo fu il dibattimento, perchè numerosa era la classe degli operaj, usa ai comodi ed anche alle delicatezze [201] del vivere, talchè sarebbe pericoloso e fatale allo Stato ridurre la robusta e lasciva plebe dalle delizie e dal lusso alla fame ed alla disperazione.

Tali cose scriveva al vicario il presidente, chiudendo la lettera colle seguenti parole: «Ci sovrasta una calamità e ruina inevitabile, nè ormai si può dubitare che la peste non sia tra noi e mortale. Già sono periti alcuni monatti; jeri morì il chirurgo; oggi il portinajo del Lazzaretto ed il medico Appiano caddero malati[141]; anche il [202] padre Felice sta male assai. E noi, in mezzo a tanti pericoli e minacce, ove non troviamo sussidj valevoli per [203] alimentare e guarantire in sì grande calamità i poveri affidati alle nostre cure, non potremo durare nell’assunto ufficio, e converrà gettare le armi».

I Decurioni, scossi da queste parole, decretarono venissero eletti sei di loro, i quali, unendosi coi Conservatori del patrimonio, avessero il regime d’ogni affare, adoperando come meglio stimavano il pubblico denaro; coll’eccezione però che, occorrendo somma più ingente, dovessero riferirlo in Consiglio.

Il governatore scrisse ai Decurioni che approntassero con energia i soccorsi voluti dalle circostanze, non lasciandosi sorprendere dalle estremità, giacchè poteva accadere che, rinchiusi e assediati, per così dire, entro Milano, non potessero più fornire alimenti alla popolazione di sì grande metropoli, e i cittadini perissero consunti dalla carestia e dalla peste.

Il Consiglio ed il Tribunale di Provvisione erano bastantemente affaccendati ed inquieti senza tali avvisi ed esortazioni, nè poterono far altro di più che riconfermare le già date facoltà.

Il 1.º giugno autorizzarono i delegati non solo a far prestiti, ma ad oppignorare ed alienare qualsiasi rendita spettante per diritto alla città. Così anche, dietro le preghiere del governatore, del Senato, del gran cancelliere, [204] annuirono di adoperare la parte del denaro toccato alla città e raccolto per fare gli spurghi in tutto il Ducato, nella compera di maggior copia di grano e d’olio qualora fosse duopo.

Infrattanto, venuto il giorno di dar principio allo spurgo di tutta quanta la città, d’impedire il mutuo contatto degli abitanti rinchiudendoli nelle rispettive case, bisognava istituire una prova di quaranta giorni per scevrare gli infetti dai sani. Per la qual cosa il presidente del Senato instava perchè si eleggessero due nobili per ogni quartiere, i quali, unitamente ai Senatori a ciò deputati, sorvegliassero a quanto occorreva. Di più doversi nominare nelle singole porte di Milano altri che regolassero, con ampj poteri, e i lazzaretti e le capanne degli appestati.

I Decurioni, non trascurando alcun sussidio umano, o divino, accrebbero il numero dei loro delegati, affinchè potessero più facilmente riunirsi per provvedere alle urgenze. Decretarono altresì che qualunque ordine emanato da quattro di loro, riuniti legalmente, si avesse come ratificato dall’intero corpo. Avevano inoltre deciso che si facessero i digiuni delle rogazioni giusta il rito romano; ma si tralasciò, non avendo i parrochi approvato come gli altri questo pio voto.

Oltre i registri ed i cancelli già attivati alle porte per sicurezza pubblica, i posti militari, e due nobili che invigilavano essi pure a ciascuna porta, si prese la seguente misura. Vennero mandati architetti a far il giro dei bastioni, esaminando se mai a caso le mura più basse o qualche rottura offrissero una salita clandestina a coloro che volevano penetrare in Milano di soppiatto deludendo la vigilanza delle guardie. Tutti i luoghi di facile adito, notati dagli architetti, furono ristaurati e senza indugio muniti.

Intanto il Tribunale di Sanità inviava di continuo lettere, [205] ora esponendo quanto aveva fatto il presidente di essa col collegio medico, ora invocando nuove provvidenze dal Tribunale di Provvisione. Quelle lettere riferivano, tra le altre cose, che la Sanità opinava più facili le custodie qualora si chiudessero le porte Nuova e Vigentina; ed averne dato l’ordine. Inoltre che, soggettando la disciplina del Lazzaretto a buone norme, le avevano raccolte in un volumetto, mandandolo ai due Conservatori del patrimonio Girolamo Legnano, e Antonio Roma, perchè invigilassero che l’amministrazione del Lazzaretto si eseguisse con tali norme. Conchiudevasi essere necessario per quiete e salvezza della città ora afflitta di peste, ma che risanerebbe, il fare l’anagrafi delle singole parrocchie.

I Decurioni si occuparono perchè si eseguisse tosto, e con esattezza, affidandone la cura ad alcuni di loro, e ad altre idonee persone scelte tra i nobili. Fu scritto ai medesimi del tenore seguente: che essendo i poveri sempre stati raccomandati da Cristo Salvatore, sarebbe a lui grata ogni fatica assunta a vantaggio dei medesimi. Laonde s’accingessero all’anagrafi, ciascuno dal canto suo, con ordine e diligenza, ma senz’indugio, affinchè la città, conosciuta la condizione ed i bisogni dei singoli, potesse provvedervi. Ingiungevasi ai delegati di riunirsi, e prendere tra loro gli opportuni concerti.

I delegati, insieme col parroco e coll’anziano, dovevano visitare ciascuna casa della rispettiva parrocchia, e chiamati a sè dinanzi gli inquilini, interrogarli con benignità, notando nel registro maschi e femmine. Dovevano assumere informazioni sull’età, la condizione, il genere di vita di ciascheduno, e quali mezzi avessero per vivere, quali mestieri esercitassero, e ogni altra notizia che credessero necessario d’indagare. Insorgendo poi difficoltà, o nascendo alcun che d’imprevisto, fu ingiunto ai delegati d’informarne [206] i nobili proposti alla loro porta, ai quali dovevano consegnare i registri tosto che li avessero compiuti.

Una copia di queste istruzioni venne distribuita a ciascuno dei delegati, che assunsero l’incarico ingiunto dal Consiglio Pubblico.

Eseguita che fu con tali norme l’anagrafi, si scrisse di nuovo ai delegati, pregandoli che ogni qual volta scoprissero tra i segregati nelle case, trovarsi alcun miserabile privo degli alimenti necessarj alla vita, esaminato prima il registro in cui erano iscritti i nomi e le sostanze d’ogni individuo, mandassero ai prestini fissati per avere, secondo il caso, il pane occorrente, il quale dovevasi poscia distribuire di porta in porta da uomini probi, scelti dai medesimi delegati. Le suppellettili domestiche: come tavole, mense, biancheria, coperte, lenzuoli e simili, sporche per contatto di appestati, od anche sospette, fu ordinato si abbruciassero, sborsandone la città il prezzo al proprietario secondo la stima[142] che ne farebbero persone di ciò incaricate. [207] Furono pure nominati altri per fare indagini sui pezzenti forestieri, perchè, riuniti in due diversi locali ed esaminati, venissero espulsi, com’era giusto, liberando la città dell’aggravio di quella moltitudine ad essa straniera. Il Tribunale di Sanità aveva destinato il borgo della Trinità per segregare in luogo appartato i molti cittadini che si trovavano malati o sospetti di peste. Ma ciò non piacendo al Consiglio, i Decurioni risposero al presidente della Sanità, che pareva sufficiente costruire capanne ne’ campi, e deporvi gli appestati, anzichè sporcare quel borgo ancora netto di peste. Intorno il qual provvedimento non solo discutevano i due Ufficj, ma gli stessi membri della Sanità, e i Decurioni tra loro ondeggiavano incerti qual fosse il miglior partito.

Gli opinanti pel borgo della Trinità, dicevano che ivi, e ne’ vicini sobborghi, eravi copia di acque limpide e salubri, opportunissime ai lavacri tanto necessarii in un Lazzaretto per lo spurgo, e lì più vicino una gran fossa dove furono sepolti i morti dell’antecedente contagio. I sostenitori dei tugurj invece adducevano essere il borgo della Trinità, come notai, immune tuttavia di peste, laonde si verrebbe a danneggiare in uno colle vicine strade, e quanti lo frequentavano qual luogo per buona ventura ancora sano. Di più aggiungevasi, che le case e gli orti in esso borgo numerosi, non che i prossimi ubertosi vigneti, renderebbero costosissimo il piantarvi un lazzaretto.

Quanto al costruire le capanne, titubavano pel nome e la fama della città nostra, che in tanta misera condizione ridotta, doveva pure alla meglio favorire il minuto traffico. Perocchè l’ammucchiare il popolo in tugurj era l’estrema prova di abbiezione e del contagio dominante. E si nutriva timore che le suddite città, e le finitime, prese da spavento per tale misura, perduta ogni riverenza alla [208] metropoli, proibissero il commerciare colla medesima. Noi allora, ridotti a forzato esiglio, soffriremmo danno gravissimo per l’incarimento dei commestibili.

Neppure eravi paglia bastante per innalzare il numero delle capanne necessario a tanta moltitudine, e quella che avevasi in pronto era sporca ed umida: aggiungasi che l’infocato sole riscalderebbe quei tugurj con gran tormento degli infelici malati, e pericolo di nuove epidemie. Che ove poi si volessero costruire di legno, saría lavoro troppo lungo, spesa di sovverchio gravosa, e indispensabile crescere il numero dei guardiani e degli inservienti.

Cresceva ogni giorno il numero degli appestati, ed il Lazzaretto di San Gregorio, per quanto ampio, più non poteva riceverne; quindi fu scelto il villaggio di Vigentino, e se ne formò un’isola. Persone a ciò delegate fecero gli opportuni accordi coi contadini perchè di là sgombrassero; altri ebbero l’incarico di comperare lenzuola, legna, sacconi e mille vestiti.

Mentre tali cose, e le enormi spese per alimentare il popolo agitavano gli animi dei Decurioni, e urgeva il bisogno di raccogliere denaro, i medesimi rinnovarono il già fatto tentativo di cercar soccorsi dal re, che stimavano non solo consentanei alla maestà d’un tanto monarca ed alla sua clemenza verso i fedeli sudditi, ma che loro altresì per diritto competeva.

Fu inviata una nuova ambasceria al governatore Spinola, che stava in quel tempo all’assedio di Casale, per chiedere soccorso a nome della città, esponendo le comuni miserie, e da ultimo i diritti di essa. I due legati furono Giovanni Battista Visconti, figlio di Coriolano, ed il cavaliere Carlo, coll’incarico del pubblico Consiglio d’esporre al governatore quanto segue.

Il contagio che aveva invaso Milano, non decrescere di [209] violenza, ma aumentare giornalmente, farsi più terribile, ed essere ormai giunto agli estremi. Non dubitare la città ch’egli non concorra al peso delle altre spese ed all’intollerabile distribuzione di denaro per dar viveri a quasi tutta la plebe, ove non voglia abbandonar preda alla fame ed alla peste tanti innocenti bambini e fanciulletti. Era persuasa d’altronde che tale dispendio spettava alla munificenza del re, per esservi esempj come gli antichi Duchi di Milano in tempo di peste sottostarono sempre a tali spese, alleviando in siffatta guisa la città, oppressa dal contagio; e l’imperatore Carlo V, con suo decreto, aver sancito doversi così fare.

Dovevano aggiungere i due legati che ciò era consentaneo all’autorità delle leggi, che sempre inclinarono a sollevare la città ed il popolo afflitto, addossando simili dispendj alla potenza e ricchezza dei principi. Nonpertanto i Decurioni eransi sforzati di far sopportare un tal carico a Milano per conservare il popolo fedele al suo re; ora però trovavansi ridotti agli estremi, ed era disperato consiglio il forzarli a sostenere più oltre il gravosissimo carico. Non solo si trovava vuoto l’erario civico, ma era oppignorato pel futuro in conseguenza dei prestiti. Il levare imposizioni per testa, o per famiglie sarebbe ormai cosa ineseguibile, perocchè coloro che avrebbero dovuto pagarle erano divenuti miserabili anch’essi. I nobili poi in specie, rese incolte e deserte le campagne per gli alloggi delle soldatesche, e quindi impoveriti, più non avevano denaro da porre in comune.

Laonde eransi decisi a supplicare il governatore, e, per suo mezzo, il monarca, affinchè trovasse qualche sussidio per la fedele Milano. Chiedevano poi nominativamente che venisse condonato ciò che doveva al regio fisco, finchè si riavesse alquanto dai sofferti mali. Il qual sollievo fu conceduto alla città anche l’anno 1576, quando nè la peste era sì fiera, nè le angustie sì grandi come al presente.

[210]

Il Marchese d’Ayamonte, in allora governatore, scrisse al re, esponendo la condizione di Milano, ed ottenne l’implorato condono. Il che ora impetravasi dal governatore nella speranza che con eguale benignità lo accorderebbe.

Lo Spinola accolse umanissimamente i legati, e diede loro per la città, ossia pei sessanta Decurioni, capi della medesima, una lettera del tenore seguente. Ch’egli era assaissimo afflitto per i mali e le stragi di Milano, narrategli da Giovanni Battista e Carlo Visconti, uomini pari di nobiltà e prudenza; accrescersi il suo rammarico, chè, impedito dalla guerra, non poteva pel momento accorrere per sollevare con ogni suo mezzo la benemerita Milano da tante sciagure, come avrebbe fatto se colà si fosse trovato. Nondimeno grandemente confidava, e teneva per certo che i nobilissimi Decurioni, posti in sì eminente carica, non mancherebbero all’ufficio loro, dando anche agli altri l’esempio di quella carità, che mostrare ed esercitare dovevasi a vantaggio della patria.

Questo, continuava lo Spinola, era il tempo di profondere a piene mani, e di buon animo, quanto in altre circostanze è giusto e ragionevole distribuire con misura. E quantunque sia difficile impiegare tutto il denaro e la cura in un solo oggetto, laddove altri bisogni esigono cure e spese, nondimeno considerassero i Decurioni come l’urgenza di alimentare i poveri e sostentare la plebe, debba andar innanzi ad ogni altra cosa, affinchè la miseria e la disperazione privata non produca la ruina generale. Dal canto suo non mancherebbe di fare tutto ciò che stimasse giovevole a rimovere un tal pericolo. Qualunque cosa il Tribunale di Provvisione o la Sanità giudicassero opportuna all’uopo, egli la sosterrebbe, perchè avessero prova non mancare in lui l’affetto e il buon volere per la metropoli. Circa quanto chiedevano i legati, rifletterebbe come si potesse eseguire.

[211]

Codesti erano soccorsi lenti e troppo lontani, e più ufficiosità di parole che altro. Infrattanto, siccome i provvedimenti non ammettevano indugio, vieppiù infervoratisi gli animi per la difficoltà d’operare, fu discusso in Consiglio con qual modo e con che somme provvedere alle pubbliche necessità, che per l’innanzi partitamente ed ora tutte in un colpo erano a dismisura cresciute in uno col crescere della peste. Il Tribunale di Sanità instava perchè gli si dessero quaranta mila zecchini, con la qual somma provvedere a quanto urgeva.

Si destinarono inoltre altri sei mila zecchini per indennizzare i proprietarj cui abbruciavansi le domestiche suppellettili[143], affinchè nulla rimanesse d’infetto e contaminato.

Il 16 aprile, adunatisi i Decurioni, diedero facoltà ad alcuni di loro che si rendessero mallevadori, stando garanti a nome della città con quelli che si erano profferti di dare a prestanza alla città medesima venticinque mila zecchini, somma che il presidente della Sanità aveva esposto occorrere per espurgare nell’intero il Ducato, i corpi, i luoghi, gli utensili, le case, dappertutto ove fossevi il menomo sospetto di peste.

Si trattò di spedire nuovi legati al governatore Spinola che in quei giorni assediava Casale, deplorando le miserie della città ed i suoi bisogni, e supplicando, come già sopra accennai, per essere esonerati dai tributi secondo che usavano condonarli altri governatori in circostanze simili. [212] Lasciossi la scelta dei legati a coloro cui era affidato l’arbitrio di maneggiare il pubblico denaro per le spese tutte della pestilenza.

Si trattò pure nella stessa seduta dei voti religiosi da farsi, perchè riuscito vano quanto l’umana previdenza suggeriva, s’invocasse dal cielo quell’efficacissimo ajuto che nell’antecedente secolo sotto S. Carlo erasi ottenuto, alloraquando ormai più non si sperava salute.

Trascelsero alcuni Decurioni che consultassero e riferissero quali voti e quali pratiche religiose conveniva fare. Dietro la loro risposta si emanò il decreto seguente.

Per tre anni consecutivi, il popolo milanese santificherebbe come festivo il giorno della Visitazione della Beata Vergine, per legge inviolabile, osservando la vigilia di esso giorno. Scorso il triennio, lasciavasi tale osservanza libera alla pietà di ciascuno, svincolando il popolo dal voto.

In tal giorno ciascun anno in perpetuo nel tempio della Madonna presso San Celso si porterebbero donativi dal Tribunale di Provvisione, precedendo gli artefici colle insegne della loro arte, giusta l’usanza. Vi si celebrerebbe una messa solenne a spese della Provvisione, assistendovi tutti. Il primo anno di questo voto, verrebbero invitati ad intervenirvi i Decurioni, portando ciascuno una torcia da sè comperata in offerta alla Vergine liberatrice.

Al fonte di San Barnaba, il Tribunale mandasse donativi del valore di mille zecchini, recandoli con pubblica processione, e facendone regolare consegna al prefetto della chiesa.

Si stabilì che i LX Decurioni supplicassero l’eminentissimo Borromeo arcivescovo di Milano, perchè annuisse ai trasporto con divota processione e con solenne impetrazione del corpo di S. Carlo per la città. Acconsentendo il Borromeo, dovevasi disporre le cose con magnifica [213] pompa adatta alle reliquie d’un sì gran santo. Memore la città dello zelo e della carità di esso pastore, allorquando, sotto il suo pontificato, Milano fu spopolato dal contagio, e sperando che ora le fosse intercessore in cielo appo Dio, fece voto che il giorno della sua morte sarebbe festivo in perpetuo pei cittadini milanesi, astenendosi i medesimi da ogni lavoro.

Questo voto fatto dai Decurioni infondeva negli animi tanta maggiore speranza e coraggio, quanto più le crescenti strettezze e i futuri pericoli, aggravando il male presente, rendevano restii coloro che avendo promesso di prestar denaro alla città, ora, mutati d’avviso, assolutamente vi si rifiutavano.

Intanto il Tribunale di Sanità chiedeva al Municipio ingenti somme pei due nuovi lazzaretti, resi indispensabili dal crescente morbo, di cui non prevedevasi il fine. Era d’uopo costruirli e fornire le necessarie suppellettili per raccogliere e mantenere migliaja di cittadini indigenti, côlti da peste o sospetti, oltre la turba che già ingombrava tutto il Lazzaretto massimo. A queste istanze della Sanità univansi domande e ammonizioni del gran cancelliere, e del governatore che, servendosi dell’autorità regia, instava perchè si facesse in tempo compera di olio, frumento, orzo, sale e medicine pei quaranta giorni, in cui la città doveva nutrire tante migliaja di persone rinchiuse nelle loro case.

Il 23 giugno si fecero varj decreti, che lungo sarebbe l’annoverare; e fra questi la compera di quattrocento letticciuoli almeno, e degli utensili pei due summentovati lazzaretti, de’ quali si affidò la cura ai decurioni Antonio Rainoldo e G. Pietro Negroli.

Il 2 luglio, crescendo in uno colla peste l’opinione invalsa negli animi degli unti, e scopertesi macchie e traccie [214] di venefici unguenti, il vicario propose in Consiglio di stabilire un premio per chi desse indizj del delitto. Si decretò che ai duecento zecchini e l’impunità di due banditi, da concedersi ad arbitrio del giudice, come già aveva promesso con una grida il governatore, s’aggiungessero a nome della città altri cinquecento zecchini.

Riferì inoltre il vicario avergli il presidente della Sanità significato che non si trovavano medici che volessero entrare nel Lazzaretto per visitare e curare gli appestati. Il collegio medico, invitato per lettere dal Tribunale di Sanità, perchè ne destinasse alcuni a tale ufficio, procrastinava, laonde aggiungeva essere urgente lo scrivere a nome della città al collegio suddetto, affinchè soccorresse la patria coll’arte sua, nè disonorasse col negare sussidj, la medicina, che già onorevole per sè, acquisterebbe in tal circostanza nuova gloria.

Scritte le lettere dai Decurioni con preghiere ed istanze, siccome comportava la gravità del caso, il collegio medico rispose: Darebbe due de’ suoi che stessero fuori del Lazzaretto vicino la fossa per medicare alla meglio gli appestati; ma che tutti ricusavano di entrare in quel recinto, esponendosi ad una morte quasi certa. Si decise che i due medici dimorassero a pubbliche spese in un luogo non lungi dal Lazzaretto, e che i guardiani li guidassero alle case, a’ tugurj ed ai letticciuoli dei malati. Fu cresciuto lo stipendio a chiunque spontaneo si assumesse il pericoloso incarico[144]. Nè il Municipio cercò medici soltanto in Milano, [215] ma indirizzandosi ai negozianti nostri, che trovavansi in Germania ed in Francia, procurò di far venire ed assoldare uomini distinti nell’arte salutare.

L’eminentissimo Borromeo, degno, per le sue esimie virtù, del titolo di cardinale, ed arcivescovo pieno di fervorosa carità pel suo gregge, aveva acconsentito alla traslazione del corpo di S. Carlo colla maggiore pompa possibile, mostrando in pubblico le reliquie di lui, che altrevolte avrebbe potuto colla sua presenza impetrare il termine di quel flagello, e che ora godeva tra i celesti il premio de’ suoi meriti e delle episcopali fatiche. Ottenuto il permesso dall’arcivescovo, i Decurioni si diedero ogni cura affinchè nulla mancasse alla solenne traslazione.

Prima elessero due dei loro, il marchese Giovanni Maria Visconti e Baldassare Barzi, che si combinassero con Alessandro Magenta, arciprete della metropolitana, circa gli ornamenti dell’arca ed il serico baldacchino, sotto il quale dovevasi trasportare il corpo per le strade e le piazze della città.

Il Borromeo ed i suoi ministri nulla omisero dal canto loro di ciò che serviva al decoro, e ad eccitare nel popolo la divozione. Le autorità ecclesiastiche, gareggiando colle civili, si apparecchiarono magnifici arredi per ornare le ossa del Pastore, che non ebbe mai l’eguale in codesta metropoli per fama. Eravi ancora qualcuno che lo aveva veduto vivente.

Federico inviò lettere pastorali, e le fece affiggere dappertutto, affinchè il popolo sapesse che si apriva il sepolcro di S. Carlo, traendone in luce le reliquie. V’aggiunse una esortazione gravissima a tutti, ed a ciascuno che, ricorrendosi quasi ad ultima speranza in tanta calamità della patria, e disperando omai di salvezza, alla traslazione del corpo di S. Carlo, che Milano venerava suo protettore in [216] cielo, si disponessero a tergere le proprie colpe coi digiuni e i santi Sacramenti; espiazione che sapevano essere stata sempre raccomandata dal santo Protettore.

Frattanto i bisogni e le pubbliche cure non davano tregua, nè i soccorsi umani o divini valevano ad infrenare la pestilenza ribelle a qualunque rimedio. Scrissero i Decurioni al Senato, implorando a nome della città sussidj dall’erario regio, e l’autorizzazione d’imporre le tasse che si credevano opportune. E cercavano prima di tutto che fosse salvo alla città il diritto di ripetere dal regio fisco il denaro speso. Rispose il Senato che la domanda era giusta.

Il 14 giugno la città presentò una supplica al cardinale arcivescovo sui voti pubblicamente fatti; esponevasi come per implorare il divino ajuto contro la peste, che già aveva menata sì gran strage in Milano, i LX Decurioni avessero determinato che il popolo milanese celebrasse come festivo il giorno della Visitazione di Maria e quello della morte di S. Carlo; il primo soltanto per un triennio, lasciando in seguito l’osservanza libera alla pietà di ciascuno, il secondo in perpetuo. Eransi intorno a questo voto consultato il popolo nelle varie regioni della città, e fu sanzionato con generale consenso. Chiedevano quindi i Decurioni al Borromeo che lo sancisse coll’autorità sua qual capo della Chiesa milanese, ingiungendo ai parrochi di promulgare solennemente il voto pubblico, siccome è d’uso.

Il governatore Spinola, dal campo sotto Casale, scrisse che aumentando ogni giorno, a cagione della peste, gli affari pei quali era duopo ricorrere a lui, assente ed occupato nella guerra, delegava il gran cancelliere Antonio Ferrer a far le proprie veci, dandogli tutti i suoi poteri, affinchè potesse con sollecitudine provvedere alle richieste dei Decurioni.

I quali, oltre i mezzi già tentati per raggranellare danaro, [217] urgendo nuovi bisogni, suggerirono al gran cancelliere ed al Senato anche i seguenti. Di eccitare i cittadini più agiati, e se non bastavano le esortazioni costringerli con decreto a dare quanto denaro, grano e vino potevano per ajutare il Municipio in tante angustie a mantenere i poveri. Verrebbe loro dato credito sui pubblici redditi delle somme prestate alla città.

Instavano i Decurioni perchè il governatore ed il Senato comandassero che ciascuno notificasse quanto denaro, vino, grano aveva in casa, per poter indi stabilire un’adequata imposta per ogni casa. Inoltre si convocasse il collegio medico, quello de’ causidici, i mercanti specialmente ed i banchieri, trattando con loro per aver in prestito denaro; onde concorrendo essi pure a mantenere i miserabili, avessero la loro parte in sì gloriosa e caritatevole opera.

Proposero altresì i Decurioni che si scrivesse a nome della città ai cardinali e ad altri ecclesiastici, i quali avevano tanti beneficj nella milanese provincia; pregando che, secondo l’opulenza loro, soccorressero i coltivatori di quei terreni donde avevano tratte le rendite, e che frutterebbero anche per l’avvenire se non li lasciavano inselvatichire, come accadrebbe per la morte dei contadini mancanti di pane. Eguali istanze doversi fare ai monasteri e luoghi pii, scrivendo che sarebbe usurpato un tal nome presso la posterità, qualora non largheggiassero in elemosine cogli indigenti.

Per ultimo si supplicasse l’eminentissimo Borromeo perchè alla sua carità e munificenza, superiore ad ogni encomio, aggiungesse un altro pietoso ufficio di esortare i suoi chierici, e molti dei quali erano ricchi, a distribuire in carità, tanta in città che fuori, le cose a loro superflue.

Il Senato decretò si mandassero ad effetto questi divisamenti dei Decurioni, e scrisse al Consiglio pubblico in [218] nome del re, giusta la consuetudine, approvando tali misure come prudenti, e dichiarandosi pronto a farle eseguire coll’autorità sua.

Intanto non aveva fine il carteggio intorno a ciò, ora del Consiglio pubblico e dei LX Decurioni col Senato, ora d’entrambe queste magistrature col governatore. Più volte spedironsi legati allo Spagnuolo nel campo; più volte egli inviò a Milano ordini e promesse circa i provvedimenti chiesti dai legati e circa i sussidj per le pubbliche calamità. Le stragi di codesta pestilenza eguagliarono quasi quelle d’una guerra, e grandi e molteplici furono le provvidenze e le difficoltà che insorsero. Se non che io tralascierò di qui riportare gli atti delle legazioni e le citazioni delle lettere, e per non dilungarmi di sovverchio, e perchè ho già esposta la sostanza di queste cose.

Del resto, mentre tutta la città in costernazione affliggevasi per lo spettacolo della propria ruina, e la ricerca dei rimedj opprimeva gli animi e il morbo i corpi, rifulse d’improvviso una speranza di salute. Sia che a domare il contagio avessero in qualche modo giovato le umane previdenze, sia che la divina misericordia, volendo soltanto ammonire non distruggere il popolo, avesse già abbastanza atterrita e purgata la città, la peste incominciò a scemare. Di giorno in giorno andava sempre più sminuendo, e le persone, incaricate di tener registro de’ morti, riferivano che giornalmente non arrivavano alla metà di prima.

Laonde molte provvidenze immaginate e decretate tornavano ormai superflue, a segno che il presidente della Sanità Arconati scrisse ai Decurioni, che uscendo egli di carica, lasciava la città libera dalla peste, al che avevano giovato le cure e la munificenza del Consiglio. Da ultimo, siccome a molti era dovuta una ricompensa pei fedeli e operosi loro servigj, l’Arconati cercò una somma per rimunerarli, giusta le promesse sue e del Consiglio.

[219]

Gli vennero consegnati subito mille zecchini, dando speranza di maggior somma, e lodandolo per avere con rettitudine e previdenza adempiuto al suo incarico durante il contagio.

Il Consiglio, volonteroso di mostrare la propria riconoscenza a Dio misericordioso per sì grande beneficio, discusse quali offerte sarebbero più accette al Signore, e che mai fosse più consentaneo alla divozione del popolo. Avevano di già i Decurioni proposto, fra le altre cose, d’incominciare un digiuno solenne di quaranta giorni, secondo il rito romano, offerendo in certo modo questa salutare espiazione invece di ricchi donativi. Ma al popolo non andò a genio la proposta, e raccolti i voti, furono unanimi che non si alterasse l’antica consuetudine della Chiesa ambrosiana, d’incominciare la quaresima la domenica dopo le ceneri. Laonde si decise di fare altri voti, i quali non urtassero le abitudini del popolo, nè variassero le vecchie istituzioni.

Decretarono una lampada d’argento, del peso di seicento once, da appendersi nella chiesa delle Grazie, colla manutenzione dell’olio in perpetuo[145]. Mandarono un paramento dell’eguale valore in dono al tempio della Madonna presso San Celso; e volendo altresì erogare la stessa somma pel tempio di Sant’Ambrogio, protettore di Milano, il Cardinale decise non potersi meglio impiegare che cingendo di cancelli l’altar maggiore di essa Basilica, il che fu eseguito. Destinossi pure una somma, ed altra in seguito, per finire ed adornare la chiesa di San Sebastiano. Seicento zecchini vennero distribuiti ai monasteri ed ai pii istituti, secondo i bisogni dei medesimi e la fama di santità che godevano.

[220]

Finalmente si diede incarico ai conservatori di esaminare che altro far convenisse con offerte e sacre cerimonie, per rendere grazie all’onnipotente dell’insigne beneficio di aver salvato Milano, ormai ridotta all’ultima ruina.

La malignità, il livore, l’invidia, che furono sempre e sono tuttora i più mortiferi veleni dei popoli e dei governi, non ristettero, anche nei luttuosi giorni del contagio, di denigrare i nostri magistrati come se non avessero fatte le cose con quella diligenza e splendidezza che conveniva. Io lascio indecisa tale quistione, limitandomi a notare la somma totale delle spese per la peste, come risulta dai registri pubblici. La quale ascese a 267,000 zecchini, calcolati questi a lire sei.

Chiunque poi conosce le cose fatte duranti gli anni della pestilenza, tanto più se rifletta al denaro che costarono, non potrà dubitare di frodi e ruberie circa l’ingente somma che fu spesa. Il Lazzaretto massimo, gli altri succursali, i campi che si dovettero occupare per stabilirvi capanne, sto per dire, innumerevoli, le suppellettili, le case prese a pigione nella città, medici, medicinali, cibi per gli appestati ed i poveri; tante migliaja di persone per dieci mesi, come se fossero riunite in una sola casa provvedute di ogni occorrente.

Aggiungerò, a maggior schiarimento, e perchè i cittadini milanesi conoscano nelle età venture i miserandi sepolcri degli avi loro, che il lazzaretto di San Barnaba, quasi eguale per forma e grandezza a quel di San Gregorio, venne stabilito a Porta Ticinese. Occupava il medesimo dieci jugeri[146] di terreno, ed aveva nel mezzo una chiesa innalzata in fretta. Eranvi quattro condotti che, derivando [221] l’acqua dalle fontane, formavano quattro lavacri per lo spurgo; eranvi tettoje per le guardie, affinchè impedissero a chiunque l’uscita, altre pei religiosi, proposti alla cura delle anime, altre infine segregate per coloro che, guariti, dovevano subire una quarantena prima d’uscire liberi. I suddetti luoghi fuori del recinto: nell’interno di esso poi si contavano 217 camere, e v’ebbero ricovero quattro mila appestati.

Un secondo lazzaretto, presso a poco egualmente ordinato, si stava apprestando in Porta Comasina, vicino alla chiesa della Trinità, ma non si riuscì ad ultimarlo in tempo da servirsene. Così pure alcuni altri lazzaretti, che si preparavano con grave dispendio, rimasero inservibili, per la violenza del morbo che irruppe repentino. Furono però di sussidio certi vicoli, i quali, fatti sgombrare sul momento gli abitanti, vennero isolati e muniti di guardie come altrettanti lazzaretti. Se ne contarono quattro; uno in Porta Orientale, rimpetto la Croce di San Rocco, in Porta Vigentina il secondo, in Porta Ticinese il terzo, l’ultimo in Porta Comasina. Racchiudevano i medesimi molte case, ed estendevansi fino alle mura della città.

Furono di grande uso ed opportunissimi per rinchiudervi quei fortunati, che schivata la morte ne’ primi quaranta giorni, rimanevano altri quaranta in essi vicoli per togliere ogni dubbio che s’ammalassero di peste, finchè bene spurgati e sani venivano rilasciati. Quanti uscirono vivi dai lazzaretti, rivestiti dei nuovi abiti per cura dei caritatevoli e pii magistrati, vennero in ordinata schiera condotti a questi più sicuri asili.

Una volta trovaronsi chiusi in quarantena fin sedici mila persone tra malati e guariti; la prima schiera che uscì dal lazzaretto di San Gregorio per entrare in quarantena, fu di quindici mila.

[222]

Dovere di storico mi vieta tacere delle capanne, dei sepolcri, de’ funerali e cadaveri: lugubre argomento! Le capanne degli appestati furono 645 a Porta Nuova, 715 la Porta Vercellina, non più di 300 a Porta Romana. Ognuna costò due zecchini oltre il compenso ai possessori dell’occupato terreno, ai quali si resero altresì pubbliche grazie per averli prestati al Municipio.

Le immani fosse pe’ cadaveri si scavarono in altri campi, e furono ventiquattro oltre le più piccole, che pel gran numero de’ morti si aprivano ogni giorno presso ciascuna porta della città.

Non si potè calcolare con esattezza il numero dei morti, perchè, durante il furore del contagio, perirono anche gli uffiziali di Sanità, incaricati di tenerne registro. Invano vennero sostituiti altri ed altri, chè tutti con violenza rapiva la peste, laonde, stringendo i bisogni e le cure, si abbandonò come men rilevante e quasi impossibile quella degli elenchi mortuari. Nondimeno, giusta la comune congettura, si calcolò morissero 140,000 persone. La qual cifra ritrovai ne’ pubblici atti, dai quali ho desunte tutte le narrate vicende. Però altre congetture e indizj dolorosi accrescono un tal numero, coll’aggiungere i morti che vennero dai congiunti stessi clandestinamente sepolti negli orti e nelle cantine[147].

La quale irriverenza pe’ corpi de’ defunti proveniva dal timore dei becchini, genía non meno formidabile dello stesso contagio, giacchè, appena posto il piede in una casa, la mandavano a soqquadro, rubando e dilapidando ogni cosa.

Che se ambigua è tale congettura, e incerto il numero dei morti di questo contagio, non avvi però dubbio alcuno [223] che se durava più a lungo il morbo, non avrebbero giovato le provvidenze del Consiglio e gli avanzi dell’antica ricchezza per salvare i pochi superstiti cittadini. Su tale misera condizione, i Decurioni, scrivendo allo Spinola, si espressero colle seguenti parole:

«Milano, città devota e fedelissima alla Maestà Cattolica, fra tutte che i confini del vasto suo impero racchiudono, era anche, prima della peste, esausta di denaro ed oppressa dai debiti per le angustie de’ tempi. Ora poi esaurì tutte le sostanze del banco di Sant’Ambrogio; tentò ogni sorta di prestiti e di mutui per servire a Dio, al re ed alla patria, alimentando come fece il popolo; e sostenne spese, che lo stesso invittissimo imperatore Carlo V dichiarò spettare al regio fisco».

Io temerei di recar noia ai lettori se venissi esponendo ad una ad una tutte le provvidenze dei magistrati per salvare dall’eccidio la patria; ma d’altronde ho per sacro dovere di nulla ommettere di quanto fecero que’ sapientissimi uomini in codesta luttuosa epoca. Imperocchè i decreti che promulgarono per le singole emergenze, andranno forse dispersi o consunti negli anni avvenire, come accader suole di fogli staccati e leggieri. E invece queste mie storiche carte, quand’anche non durassero eterne, avranno il vantaggio di poter essere nuovamente riprodotte.

Però non è mia intenzione citare testualmente i decreti, ma soltanto il sunto de’ medesimi, che furono i seguenti.

Ordinarono di fortificare e custodire i villaggi e i borghi tutti del contado milanese, affinchè gli abitanti non ne uscissero e fosse tolta ogni comunicazione fra loro. Ingiunsero poi specialmente di tener d’occhio le terre e i castelli soggetti ad estera giurisdizione, perchè i forastieri non s’introducessero in Milano.

Ordinarono che ogni giorno si notificasse al Tribunale [224] di Sanità l’elenco dei malati e le case contaminate di peste, ovvero sospette.

Ai medici, chirurgi, ed a quanto occorreva per gli appestati, si provvide col pubblico denaro.

Fu proibito tener bachi da seta a motivo del lezzo de’ loro escrementi[148]; tolto ogni traffico d’abiti e di cenci, per il pericolo quasi inevitabile di attaccare con essi il contagio. Anche i mercati si sospesero, meno quel di Lecco, che fu permesso con certe prescrizioni.

Richiamarono in città i capi di famiglia che a poco a poco erano quasi tutti emigrati nelle ville per timore del morbo.

Proibirono nuovi affitti di case, perchè gli inquilini, col trasportare le suppellettili già per avventura infette, non recassero il male nelle altrui abitazioni.

E siccome cresceva ogni dì la pertinacia e la leggerezza della plebe, che negava dar fede alla peste e perseguitava coloro che, affermando essere già penetrata fra noi, suggerivano gli opportuni rimedj, così i magistrati, di concerto col governatore, che allora trovavasi per la guerra a Carmagnola, cercarono tenerla in freno con minacce e gastighi.

Facendosi poi sempre più intollerabile l’aggravio di alimentare quella famelica e riottosa plebe, nè bastando i granai per distribuire ogni giorno pane di frumento, decretarono: Si adoperasse anche miglio e panico, ed i pani fossero di minor peso, giacchè la scarsezza di denaro rendeva necessaria ogni possibile economia.

Fu innoltrata una supplica al re che volesse condonare alla città le gabelle, i pesi e quant’altro spettava al fisco, [225] in vista dei pesi giornalieri e delle tante morti, a tenore di quanto erasi accordato nell’antecedente pestilenza.

Studiando tutti i modi possibili per raccogliere denaro e grano, fu decretato: Che chiunque introduceva frumento o prestava denaro alla città, avrebbe sulla somma un interesse del sette per cento. Venne anche lasciato in arbitrio del venditore di convertire il prezzo del frumento in una rendita annuale. Ai rivenditori al minuto, rigattieri, droghieri, salsamentari, mercanti di legna e carbone, i quali o non tenessero ben fornite le botteghe, ovvero accrescessero il prezzo dei generi, fu imposta una multa di cinquecento zecchini ed anche più, ad arbitrio dei Decurioni.

Si spedì ordine nei borghi e villaggi entro la periferia di dieci miglia da Milano, perchè i contadini serbassero diligentemente la paglia necessaria per le capanne, avendo cura nel mietere di tagliare le spiche lunghe abbastanza perchè fossero servibili a tal uso.

Alcuni nobili vennero incaricati d’una visita nelle singole case e famiglie di Milano, registrandone le sostanze, i traffici, il numero, l’età degli inquilini, e quanti ne fossero già morti di peste o trasportati nel Lazzaretto. E tutto ciò allo scopo di evitare frodi ed errori nella distribuzione dei pubblici soccorsi e delle elemosine[149].

Vennero ammoniti i poveri, che, incominciando a rallentare il contagio, ognuno pensasse a ripigliare l’arte sua, invece di poltrire nell’ozio, vivendo della carità pubblica a danno della città, la quale, ormai ridotta alle ultime angustie, si rovinava senza poter saziare la fame di tutti. Ciò fu pubblicato per incutere timore e introdurre qualche disciplina [226] in quella sfrenata moltitudine; del resto si provvide fino all’ultimo con elargizioni ogni qualvolta l’indigenza non proveniva da infingardaggine. Si stabilirono forti pene pei mendichi e vagabondi, intimando ai nostri che fra due giorni si raccogliessero all’ospitale di Sant’Ambrogio, ai forastieri, che, se entro quattro giorni non sgombravano dallo Stato, verrebbero frustati o condannati al remo, secondo l’età ed il sesso.

Si raffrenò più severamente la baldanza dei monatti e delle monatte, appiccando per la gola e lasciando appesi alle forche quelli tra loro che rubassero nelle case, occultassero, o nascondessero sotterra i furti, ovvero non li denunziassero ai magistrati.

A me pure diventa gravoso il riferire tali cose, e l’animo mio è oppresso dalla noja, contro la quale m’era a malincuore premunito, allorchè impresi di fare un sunto delle gride e dei decreti. Ormai il tedio rende languido lo stile e mi fa cadere di mano la penna, sicchè compendierò in brevissime parole quanto mi rimane a dire.

I pericoli, gl’infortunj, le umane frodi, i casi dubbiosi, i provvedimenti e i rimedj che vennero adoperati durante il contagio in tanti pubblici guai e necessità, si rinvengono nei registri della città, cioè nei decreti, avvisi, lettere, consulti, largizioni, provvidenze del Consiglio generale tanto per vincere con umani mezzi e col divino ajuto la peste, quanto per alimentare la plebe e infrenare la licenza ed i delitti de’ malvagi. Lo zelo dei nostri magistrati rifulse mentre inferociva il male, e divenne vieppiù attivo allorchè questo cominciò a cedere. Ne fanno prova gli editti posteriori all’agosto 1630, nei quali traspare la speranza di salvezza, congiunta alla premura di non mostrarsi ingrati coll’indolenza alla misericordia divina, che poneva fine al tremendo flagello.

[227]

I pubblici atti furono dati in luce dal segretario Chiesa, figlio del segretario Jacobo, che lasciò un giornale da lui compilato. Ora riferirò gli atti del Tribunale di Sanità, che rinvenni ne’ suoi archivj, e che si pubblicarono congiuntamente o in pari tempo de’ sopraccennati.

II. Atti del Tribunale di Sanità.

Ne’ primordj di queste luttuose vicende, allorquando indizio veruno o terrore di peste eravi in città, e i Milanesi, tranquilli e scevri di cure, attendevano alle loro occupazioni, godendo come è loro costume i piaceri e le gioje della vita, si sparse voce che l’esercito imperiale, movendo all’acquisto di Mantova, disseminava il contagio nei paesi che traversava. Al qual morbo, la gente alemanna, per consuetudine inveterata da secoli, non abbada più che alle comuni malattie. Già era venuto l’avviso che in Lindò dodici famiglie infette di peste trovavansi segregate giusta le prescrizioni sanitarie fra noi in vigore; per la qual cosa il presidente Arconati adoperossi a tutto potere perchè la Sanità dichiarasse Lindò infetto, e quindi interrotto ogni nostro commercio col medesimo. E tanto più che oltre all’avervi stanziato l’esercito alemanno, sporco di peste, essa città è sempre sospetta come emporio delle merci provenienti dalla Germania[150]; laonde l’Arconati [228] instava che per sicurezza di Milano si vietasse con pubblico decreto di ammettere nello Stato persone e mercanzie di là provenienti. Ma gli interessi privati, i quali, al dire d’un antico scrittore, sono mai sempre in collisione coi pubblici, tolsero che si attivasse questo sì provvido divieto. Alcuni nostri cittadini, potenti e ricchissimi negozianti o parenti di negozianti, i quali coprivano altresì eminenti cariche, vi si opposero coll’autorità loro e coi suggerimenti, non tralasciando anche di trarre al loro partito uomini di cui servivasi il Tribunale di Sanità.

Avevano i medici conservatori insistito che s’intercettasse la comunicazione con Lindò almeno durante l’estate, il calore del quale innasprisce sempre i contagi. E quando videro derisi i loro consigli e che i guadagni de’ potenti ostavano ai dettami della filosofia, cercarono che almeno si spedisse in quelle parti un uomo fidato, il quale, fatte diligenti indagini, scrivesse a Milano come progredisse la peste, come s’andasse sviluppando, e da che strade potevasi introdurre nelle nostre provincie.

La Sanità affidò tale missione a Giulio Vimercati, uomo fedele, ardimentoso e sprezzatore d’ogni pericolo, purchè ne riportasse lodi, elogi, certezza di pronto lucro e speranze future.

Il Vimercati perlustrò ogni angolo, esaminando tutto quanto concerneva la peste colla diligenza non solo d’un legato della salute pubblica, ma d’uno speculatore. Ma le sue lettere e le relazioni circostanziate tornarono vane, prevalendo, come dissi, i raggiri de’ negozianti, i quali, per la condizione dei tempi, maneggiavano a loro voglia le cose, ed insaziabili di guadagno, quantunque nobili e ricchi, facevano cadere a vuoto ogni provvedimento contrario al loro interesse. Coll’autorità e con segrete mene adunque riuscirono ad impedire che si vietasse il pericoloso commercio [229] colla Germania, come volevano i medici conservatori. Di più fecero sopprimere le bollette, utile e salutare cautela introdotta l’anno 1628 dal senatore Paolo Ro, presidente della Sanità[151]. E tale misura così improvvida adottossi quando l’esercito alemanno, infetto di peste, non si sapeva ancora per quale strada scenderebbe in Italia. Allorchè poi, muniti i castelli dei Grigioni, esso cominciò a scendere nella Valtellina, avvicinandosi sempre più a noi, il Tribunale di Sanità decretò che niuno comperasse abiti, utensili, vasi e qualsiasi cosa derubata dalle truppe nei villaggi che già si sapevano infetti di peste. Gravissimo era il pericolo, giacchè i soldati cercavano trar partito dei loro furti, offerendoli a’ compratori a basso prezzo; laonde il decreto della Sanità fu vilipeso, e molti, con quell’infame traffico per ingordigia di guadagno, contrassero il morbo, con ruina di molti e della patria.

Il Consiglio, la Sanità, il Senato ed i Questori ordinarj, instarono con raddoppiata energia, perchè, se evitar non potevasi assolutamente il passaggio delle truppe alemanne pel nostro territorio, almeno s’imbarcassero a Chiavenna sul Lario fino a Como. In tal modo scemava il rischio di spargere il contagio nelle terre, e lasciavasi minor adito di rapinare alle soldatesche, baldanzose e sfrenate come è proprio dei barbari. Ma i Comaschi, siccome corse voce, evitarono con un donativo il disturbo: i capi della loro città, mediante quattro mila zecchini, fecero in modo che i comandanti dell’esercito scegliessero la via di terra toccando appena qualche terra del lago. Se l’esercito veniva [230] traghettato con barche, come erasi stabilito, e per abbreviare il viaggio, e per minor danno del paese, il contagio avrebbe recato guasti di gran lunga minori, nè sarebbesi cotanto esteso; e le truppe alemanne non avrebbero desolate le popolazioni colle rapine e la militare licenza.

Dovevano, giusta il prescritto, uscendo dalla Valle Solda, imbarcarsi a Margozzo ed entrare nel Verbano; giù pel Ticino a Pavia, indi pel Po giungere ai luoghi ov’era diretto l’esercito. Si propose altresì una seconda strada, cioè da Belinzona a Magadino dove s’imbarcherebbero; la terza finalmente, che a forza d’oro venne chiusa, era che le truppe, uscendo dalla Valtellina, preso imbarco sul lago di Como, e fatto un tragitto di quattordici miglia, si portassero a Laveno in riva al Lago Maggiore; ovvero, traghettata l’Adda toccassero a Castelnuovo, ove questo fiume mette foce nel Po, e di là s’avviassero per dove li guiderebbero i loro comandanti.

I due Tribunali, il Senato ed i magistrati della città avevano così stabilito; ma quando l’esercito, sprezzando i loro decreti, e cangiata strada, devastò tutto il paese con latrocinj, incendj e crudeltà d’ogni genere, eccedendo perfino la consueta militare licenza; quando Colico fu data alle fiamme, la Valsassina posta a soqquadro, depredata la Brianza e tutta la Geradadda, anche più crudelmente tiranneggiata come se fosse invasa da orde barbariche, quando le truppe ebbero sparsa la peste, lasciandone traccia ovunque passavano, allora la Sanità emanò giornalmente nuovi ordini che furono di poco giovamento.

Il 23 ottobre 1629 il protofisico Settala denunziò alla Sanità che nel villaggio di Chiuso, ultimo del territorio di Lecco sul confine bergamasco, era indubitatamente scoppiato il male e che già dieci case trovavansi infette. Vennero eguali notizie da Colico e Bellano e da Lecco, avendo [231] scritto il medico Francesco Maruello ivi residente. In conseguenza di tali avvisi il Tribunale scelse a commissario un certo Cisero, perchè senz’indugio si recasse sui luoghi, coll’ordine di passare per Como, e prender seco un medico per meglio esaminare le cose attinenti alla salute pubblica. I medesimi scrissero non esservi in que’ dintorni peste, ingannati forse da un ignorante barbiere di Bellano, il quale gli assicurò che era bensì morto qualcuno d’improvviso, ma per le esalazioni delle paludi di Colico, ovvero per gli strapazzi sofferti durante il passaggio degli alemanni; e che molte malattie naturali somigliano alla peste. Ma pochi giorni dopo la Sanità, saputo che anche in altri villaggi prendevano forza i sospetti di contagio per morti improvvise, con spavento non solo degli abitanti che abbandonavano fuggendo il paese, ma anche dei lontani pel concepito allarme, ordinò preghiere a Dio perchè infrenasse il morbo che ormai serpeggiava.

Poscia elessero Alessandro Tadino, uomo che all’ingegno non comune, univa l’esperienza e l’attività necessaria in simile frangente, pregandolo che a’ suoi meriti verso la patria, quello pur aggiungesse di recarsi a perlustrare l’intero tratto di paese percorso dall’esercito alemanno, informando il Tribunale quali luoghi trovasse sani, quali sporchi[152]. Gli diedero compagno Giovanni Visconti, auditore della Sanità, provvedendoli d’ogni mezzo occorrente pel viaggio. Partiti da Milano il 29 novembre, visitarono colla possibile sollecitudine la sponda del Lario, la Valsassina, i colli della Brianza e la Geradadda.

[232]

Il quarto giorno scrissero al Tribunale le seguenti notizie. Ad Olginate, paese della Brianza in riva all’Adda, non che a Galbiate, avevano trovati i terrazzani agitatissimi per la peste scoppiata fra loro, e molti che si erano isolati per timore, ovvero fuggiti nei boschi e sui monti vicini[153]. Tutto ivi spirava miseria e squallore, a segno che i contadini, senza pronti soccorsi, si sarebbero ammalati di peste seppure già non l’avevano presa. Soggiungevano essere questi i primi luoghi dove eransi fermati, ma che giungevano loro eguali nuove dalle terre più lontane; il che verificherebbero in appresso. Urgeva il bisogno di medici, chirurgi, infermieri, perchè tali infausti principii non avessero più terribili conseguenze.

Il 10 novembre il Tribunale, dietro tale relazione, emanò ordini che le suddette terre venissero dichiarate infette di peste, nè si ammettesse alcuna provenienza dalle medesime. I registri ordinati sulle prime, poi trascurati, vennero rimessi in vigore con severo decreto, il quale fu osservato dai custodi per timore dei gravi castighi che minacciavansi a’ trasgressori.

I due commissarj continuarono il giro, trovando parecchi villaggi già invasi dal contagio o spaventatissimi pel suo avvicinarsi. Date le più urgenti disposizioni sanitarie, e provveduto col pubblico denaro ai bisogni istantanei, tornarono [233] a Milano, riferendo al Tribunale di Sanità, che ormai non era dubbio il contagio, e già serpeggiava ne’ dintorni della città. I medici collegiati, trepidanti a tale infausto annunzio, ingiunsero ai due commissarj di recarsi ad informarne il governatore. Il Tadino e il Visconte v’andarono, e tornati in seduta riferirono che Sua Eccellenza era dispiacentissimo e molto agitato per l’annunzio, ma che le cure più gravi della guerra, lo tenevano occupato[154].

Il Tribunale ordinò che le lettere dei medesimi, venissero registrate negli atti a perpetua memoria dell’origine e delle prime stragi della pestilenza. Il Tadino, non soltanto medico ma storico egregio, descrisse nella sua relazione lo stato delle terre che visitò, delineando le pianure, le valli, i seni, le paludi, i luoghi irrigati da acque, le squallide lande. Distinse le vigne, gli orti, le campagne, i monti sassosi, i palazzi, le case, i miserabili tugurj dei contadini; notò il numero delle famiglie di ciascun paese, e quali di questi fossero aperti e indifesi contro la peste, quali invece o per posizione, o perchè recinti di mura, avessero speranza di schivarla. A codesta che può dirsi geografia della pestilenza, aggiunse il Tadino le osservazioni sanitarie proprie dell’ufficio suo: descrisse la miseria de’ contadini, molti dei quali trovò giacenti sulla paglia fracida e sporca dal lezzo de’ soldati cui aveva servito; parlò dei rimedj da lui amministrati, de’ soccorsi distribuiti, e delle prescrizioni che aveva attivate, affinchè le terre ancora sane porgessero ajuto alle già infette, e ne ricevessero esse pure, se fatalmente le colpiva il morbo. Conchiuse dicendo aver’egli dati dovunque gli ordini, perchè i cadaveri degli appestati che, [234] frammisti ai viventi, facevano orrore coll’orrendo aspetto, e contaminavano l’aria, venissero posti sotterra[155].

[235]

Coteste notizie del morbo, che già erasi diffuso per le campagne, nelle valli, e fino entro i boschi, conturbarono tanto più i nostri magistrati, quanto non se lo aspettavano in quella stagione autunnale, essendo la pestilenza un mostro di cattivo augurio che d’ordinario compare in estate, ed all’appressarsi dal verno si nasconde negli antri, per rialzare nuovamente il capo col sole di primavera. Intanto cinque morti di peste accaddero entro le mura di Milano, le quali, confessate in segreto, minacciavano gravissimo pericolo pel venturo estate. Non fecero senno i magistrati di quei cinque casi, però vollero si registrasse negli atti il loro errore per istruzione dei posteri.

Quel Locato, di cui parlai al principio di questa storia, fu il primo ad introdurre il contagio in città; era un soldato di presidio a Lecco, che, voglioso di venire a Milano, vi s’introdusse con una bolletta falsa, e portò seco un fardello di robe, oltre i vestiti che aveva indosso, comperati dagli Alemanni, per venderli in Milano[156].

Morto il Locato nell’ospital maggiore, come narrai, ammalarono quanti gli erano stati vicino; alcuni morirono, altri, presi da febbri acute con gavoccioli, a stento risanarono. Questo è il primo caso di peste che trovo registrato negli atti del Tribunale di Sanità; morirono in seguito con segni di bubboni, e carbonchj certe donnicciuole della famiglia di un Colonna, abitante nella casa medesima dove alloggiò il soldato. La Sanità fece abbruciare le vesti e tutte le suppellettili [236] di esse donne, perchè avevano comperate alcune robe dal soldato. In seguito si scoprì che, trovandosi esse in pericolo di morte, avevano mandate al vicino oratorio di San Rocco alcune vesti perchè si appendessero come voti al santo protettore della peste; laonde il Tribunale diede ordine, che di là tolte, si abbruciassero, affinchè, per l’intempestiva divozione di quelle femminuccie, il male non si diffondesse dall’oratorio tra il popolo.

Il 2 novembre intervennero alla seduta il protofisico Settala, suo figlio Senatore, da lui educato perchè fosse erede della gloria paterna, ma che non gli sopravvisse a lungo, ed Alessandro Tadino, il quale, congiunto ad entrambi per amicizia, studj uniformi ed amore di patria, formava con essi quasi una sola scuola medica ed una famiglia. Turbati in volto, riferirono come in porta Vercellina, in una casipola di Bernardo Bellano venditore di cenci, era arrivato un Gerolamo Radaello, fuggito per qualche motivo dal borgo di Merate, dove aveva comperato dai soldati alemanni un colletto di bufalo. Preso da febbre pestilenziale era morto in due giorni, ed apparvero sulla schiena del cadavere negre pustole e bubboni; anche il Bellano, suo ospite, morì cogli stessi sintomi di peste; di più Vittoria Cattanea, la quale per compassione o per denaro aveva assistiti i due malati, erasi infermata. Il figlio del Bellano, lattante, e la vecchia Caterina Cattanea con sua figlia, inquilini di essa casa, morirono tutti di peste in conseguenza del contatto inevitabile negli abituri dei poveri.

Dietro questa relazione dei tre illustri medici, la Sanità ordinò che raddoppiassero le cautele preservative. Ma ormai era vicino il principio di quell’anno che doveva menar tante stragi in tutta la città.

Entrante il gennajo 1630, incominciò il contagio ad invadere [237] Milano da due opposte parti, cioè da Porta Orientale e da Porta Vercellina, e il Tribunale di Sanità fece disporre fuori del Lazzaretto le capanne destinate a ricoverare gli appestati. E siccome esistevano le norme disciplinari istituite dal duca Francesco Sforza, pregò il Tadino ed il giovane Settala, medici conservatori, perchè, esaminatele, aggiungessero o mutassero ciocchè esigevano i tempi e l’attuale condizione delle cose, raccomandando loro che traducessero ciascun capitolo in lingua volgare, con apposite e chiare spiegazioni, in guisa che il libro riuscisse utile a quanti dovevano usarne. I conservatori, senza perder tempo, spiegarono e ridussero in tabelle le discipline del vecchio Lazzaretto.

I medesimi riferivano giornalmente al Tribunale che mancava loro autorità per costringere all’osservanza delle leggi sanitarie, non solo i plebei, ma anche molti nobili, i quali andavano dicendo essere falso il pericolo del contagio, e nemici della patria i medici che la sostenevano. L’ottimo e venerando Settala ebbe a soffrire gravi insulti, e per poco non fu dal volgo lapidato: un barbiere ingiuriò il Tadino, e tentò suscitargli contro quelli che passavano per la strada. Altri medici di minor grido, stranieri, e quindi senz’amor di patria, ovvero nostrali, ma corrotti da malevolenza e da invidia contro il collegio perchè non voleva riceverli, schiamazzavano frementi, adoperandosi a tutto potere per mandar a vuoto i suggerimenti dei conservatori e i decreti della Sanità, schernendola, come se fosse magistratura inutile e di puro nome. Colleghi a costoro erano non solo spregevoli barbieri, che dal rasojo e dal pettine passavano a fare il medicastro, ma anche veri chirurgi, i quali avrebber dovuto sostenere la medicina, come quelli ch’esercitano un’arte alla medesima sorella.

Costoro, in ischiera serrata, si scagliarono contro i sostenitori [238] della peste additandoli ai nobili ed al volgo quai carnefici, se non de’ corpi certo degli animi, come quelli che spargevano la costernazione ed il terrore della morte e del pubblico eccidio. La Sanità, vedendo che tutti gli argomenti per comprovare l’esistenza del contagio fra noi erano derisi, decise tentare una prova efficacissima a far conoscere la verità ai prudenti e agli stolti, e ad infondere un ragionevole timore negli animi.

Era venuto il giorno in cui uomini, donne, molti nobili a cavallo o in cocchio, giusta l’uso, ed il popolo, libero dai lavori per essere dì festivo, accorrevano in folla al Foppone di San Gregorio da mattino a sera a pregare pei morti dell’antecedente peste, colà sepolti. Pietosa usanza conservatasi da mezzo secolo tra i milanesi, non senza che taluni, giova confessarlo, v’andassero per far pompa di sè, o per godere lo spettacolo dell’accorrente moltitudine.

I conservatori della Sanità scelsero quel giorno per vincere, con un lugubre spettacolo, l’incredulità al contagio, che in molti, quasi per celeste castigo, era invincibile. Posti sopra carri i cadaveri di non pochi appestati morti in quella giornata, comandarono si traducessero alle aperte sepolture nell’ora del maggior concorso di popolo, come se ciò accadesse per semplice caso.

All’apparire dell’orribile convoglio, scoppiarono pianti, gemiti e voci imploranti la divina misericordia. E fu avvisato il Tribunale che la vista di quei carri aveva fatta sì grande impressione, che anche i più increduli ormai s’erano persuasi dell’esistenza della peste.

Decretossi di chiudere le comunicazioni colla Savoja, affinchè altri barbari da Susa e Pinarolo non introducessero eglino pure in Lombardia il contagio, che già infieriva tra noi a segno, da poterlo trasmettere di nuovo ai medesimi. [239] Proibirono, sotto pena di morte e del bando, qualunque compera d’abiti o stracci, spaventati forse dalla morte di coloro che abitavano in casa del Bellano, venditore di cenci.

In mezzo alle cure che non davano tregua, e crescenti vieppiù di giorno in giorno, suscitava indegnazione e dolore la prepotenza degli individui posti alla sorveglianza delle poste e dei quartieri in Milano, e dei custodi che stavano a guardia al di fuori. Costoro, divenuti arbitri delle faccende e del traffico giornaliero, invece di esercitare un’equa magistratura, tiranneggiavano il popolo.

Erano dessi falliti, in bisogno di pubblico impiego per campare la vita, ovvero uomini danarosi che nelle calamità della patria agognavano d’accrescere le loro ricchezze, o infine gente prezzolata, avida di regali, speculante sulla miseria degli indigenti, e che spartiva i guadagni co’ suoi padroni.

Chi di essi fingeva zelo, quasi fosse uno dei padri della patria, chi vantavasi per ingegno e dovizie, atto a tener in freno gli uffiziali subalterni, altri erano adoperati nel far eseguire gli ordini: pessimi tutti, e fatali quanto il contagio, si tolleravano per la scarsità de’ buoni cittadini ch’eransi dati alla fuga.

Fuvvi uno, non so se fallito, o ricco prepotente, il quale ordinava gli si portassero dalle case rimaste vuote per la morte de’ proprietarj quanto vi si rinveniva di prezioso, ed anche le suppellettili domestiche. In tal modo avevano que’ furfanti raccolto anelli, gioje, vasi di rame e di stagno, biancherie e simili, fingendo tenerli presso di sè come in deposito da restituirsi; ma in realtà per farne bottino.

Il Tribunale, conosciute le rapine di codesti iniqui, non riuscì sulle prime a levarli dal loro posto, ma qualche [240] tempo dopo, côlta l’opportunità, li rimosse, oltrecchè la stessa peste molti ne tolse di mezzo senz’altra briga[157].

In seguito uscì un decreto che sminuiva il numero di costoro, la cui temporaria e illimitata autorità, era sì fatale al paese. Ridotti a minor numero, le cose camminarono un po’ meglio, e la Sanità ebbe meno reclami.

Morti parecchi medici e chirurgi, e trovandosi a stento persone che far ne potessero le veci, sia nell’ordinare rimedj, sia nel cacciar sangue ed altre operazioni di flebotomia, la Sanità invitò con premj quanti esercitavano la medicina e la chirurgia in Milano, ed offrì lauti stipendj a coloro che venissero dalle città e dai paesi vicini.

Il decreto di spurgare Milano colla quarantena fu di pochissimo giovamento, anzi fu causa di disordine, e diede nuovo fomite alla peste, imperocchè, sconsigliatamente, mettevansi insieme i sani, i convalescenti, e quelli che portavano nascosto nelle viscere il male. Tale quarantena, attivata non già nel Lazzaretto maggiore, ma ne’ succursali, stabiliti presso le singole porte della città, ammucchiava, come dissi, i guariti di fresco cogli appestati. Ivi, come se fossero in taverne, davansi in preda a gozzoviglie e giuochi, e con ogni genere di lascivie contaminarono sè e gli altri, morendo avanti il termine fisso all’uscita, per cui riuscì dannosissima quella disciplina sanitaria. Il Tribunale non trovò altro rimedio al disordine, fuorchè di aprire que’ recinti, e non far eseguire il decreto com’era accaduto di parecchi altri, lasciando impuniti i trasgressori, perocchè in quei luoghi riconoscevasi solo l’impero della morte.

Un caso impreveduto, o, per dir meglio, la vana speranza e la cieca smania di creder vero ciò che ardentemente [241] si desidera, trasse in errore il Tribunale. Una donnicciuola giunse a Milano da un villaggio del Lago Maggiore, e per materna tenerezza verso un suo figliuolo condannato alle galere, presentossi al Tribunale, assicurando di avere rimedj mirabili contro la peste, scoperti collo studio dei semplici per grazia celeste, ed anche con mezzi arcani che non le era lecito appalesare. Ella propose che ove le restituissero libero il figliuolo, o almeno glielo promettessero, entrerebbe immediatamente nel Lazzaretto, ove i fatti farebbero prova della verità di sue promesse.

La Sanità accettò, ed ammise tosto la vecchia medicastra nel Lazzaretto, ove amministrò certe erbe e polveri agli appestati, mormorando sovr’essi alcune misteriose parole con aria ispirata. Ma coloro che la tenevano d’occhio osservarono che pronunziava parole senza senso, e che le erbe e le polveri non avevano virtù efficace, anzi quando porse rimedj attivi ai malati, riuscirono fatali, essendone morti parecchi nelle sue mani. In tal guisa una donnicciuola ingannò il rispettabile Tribunale della Sanità[158].

Il suddetto rappresentò poscia al Senato che nelle carceri i rei di delitti capitali, e molti che vi si trovavano per debiti, cadevano ammalati per lo squallore ed il sucidume [242] delle prigioni, e molti erano già morti[159]. Laonde suggeriva essere prudente consiglio lasciare in libertà quanti si poteva senza rischio. Il Senato scelse alcuni de’ suoi membri per esaminare le controversie e le liti de’ singoli detenuti, non chè i loro delitti con piena facoltà di rilasciarli o di trattenerli in carcere: inoltre decretò che per tre mesi alcuno non s’imprigionasse per debiti[160].

In quest’ultima parte del mio racconto, inserii varj casi, non solo di lieve conto, ma abbietti a tale che appena la storia degnasi farne menzione. E li raccolsi dovunque, narrandoli a misura mi capitavano per le mani e mi venivano sulla penna, a ciò mosso dal desiderio di nulla ommettere di quanto fecero i nostri magistrati per zelo della pubblica salute.

Presero molta cura per le filande, e perchè non si ammucchiassero gli escrementi dei bachi di seta, dai quali estraesi quel filo emulatore dell’oro, e che, tessuto in splendide vesti, fa brillare e rende superbi i nobili. S’avvidero che, vietando pel lezzo il mettere bachi e le filature de’ medesimi, sarebbe un togliere al popolo il mezzo di vivere e in città e nelle campagne, giacchè quasi in tutti i paesi del nostro territorio si aspetta avidamente la stagione de’ bozzoli che dà lavoro a tante braccia. D’altra parte riflettevano che i contadini per amor di guadagno e per abitudine, non baderebbero al pericolo d’infettar l’aria col lezzo prodotto dalle diverse operazioni intorno i bachi da seta. Perciò, quantunque nell’editto generale avessero [243] ordinato che in quell’anno della peste non si mettesse semente, modificarono il divieto, concedendo di farlo sotto certe discipline e cautele. Fu conceduto tener bachi non entro i borghi e villaggi, ma soltanto nelle cascine e case isolate, qualora però queste non fossero già infette per casi di peste. Se alcuno cittadino o campagnuolo dava la semente a metà ai contadini, come si usa, doveva offrire sicurtà per l’osservanza dei prescritti regolamenti.

Il letto de’ bachi, e le immondizie rimaste dopo che si sono messi al lavoro dei cocconi, fu ordinato che si trasportassero ne’ campi all’aperto, lungi dall’abitato. Nelle stanze, dove eranvi i bachi, si prescrisse di accendere di tempo in tempo falò di lauro, ginepro, ed altre erbe odorifere, comuni nelle campagne, servendosi in mancanza di radici e tralci delle viti. In esse stanze poi niuno dormisse, anche per ventidue giorni dopo, badando che il fetore non producesse deliquj.

I politici volgari, che vivono alla giornata, sentenziarono codeste discipline minuziose e inconcludenti, ma ben altro giudizio ne daranno coloro i quali rammentino ciò che un greco sapiente lasciò scritto. Esservi, cioè, in una sola parola, in un movimento opportuno del corpo, un cenno, in un volger d’occhi, maggior forza per indicare il senno e la grandezza dell’animo, che non siavi in molte egregie azioni.

E siccome l’impero di Roma, giusta la sentenza d’un illustre storico latino, crebbe appunto per molte minime circostanze da esso narrate, così le minute prescrizioni immaginate e poste in opera dai nostri magistrati, furono causa, dopo la divina misericordia, che non perisse l’intera città pel contagio, e in tutte le terre dello Stato non si propagasse.

Molti errori si commisero, e principalmente nell’aver [244] trascurato con grave danno di sequestrare dal commercio giornaliero le due Porte Orientale e Ticinese. Il che ove si fosse fatto, ponendo guardiani a custodia delle medesime, infette di peste, era sperabile che, raffrenato il male, e respintolo come nemico, avrebbero salvata la città, impedendo che si allargasse nel cuore di essa. Ma questa misura era più facile suggerirla che mandarla ad effetto; però non v’ha dubbio che il Locato in Porta Orientale, ed il cenciajuolo in Porta Vercellina, furono i primi ad introdurre la peste in Milano.

Tutta la colpa di non aver avvertita simile cautela, o d’averla trascurata, diedesi ad un uomo, l’opinione del quale, nel Consiglio Pubblico, riuscì dannosa, e non solo in questo affare. Perocchè il medesimo, contrario ai lavacri, che situati presso le acque correnti del Lazzaretto, detergevano le immondizie, e via le trasportavano, godendo il vantaggio d’una scaturigine perenne[161], s’adoperò a tutto potere per far erigere altri lavacri in un padule, le cui acque stagnanti e putrefatte, già di per sè corrotte, e vieppiù da sì gran cumulo d’immondizie alimentavano ed esalavano la peste. Trovai ne’ registri che furono spesi quattro mila zecchini in quell’edifizio. Così un uomo impetuoso ed ignaro [245] della natura delle cose, fece sprecare al pubblico sì grossa somma senz’altro effetto che di porgere fomite al morbo ed accrescerlo[162].

Non già ch’io voglia farmi interprete dei divini giudizj, e chiamare temerariamente l’imperscrutabile provvidenza, ministra dell’ire nostre, e punitrice di chi, per leggerezza o per colpa, ne arrecò danno. Ma fu caso mirabile e degno di ricordanza che il nobile summentovato, il quale dirigeva le cose a suo capriccio, senza le necessarie cognizioni, e parecchi commissarj e ministri subalterni della [246] Sanità, colpevoli di trascuratezza nell’adempimento dei loro doveri, perirono tutti quanti. Il Primoldo, il Confalonieri, l’apparitore Pontino, il quale col comperare, indi vendere il lenzuolo d’un appestato, fu causa che perissero più di sette mila persone, ed altri furfanti di simil tempra, morirono colle loro famiglie lo stesso giorno, offrendo un esempio della giustizia divina.

È impossibile descrivere la violenza e l’atrocità di questo contagio. I tanti casi narrati, e la città, resa quasi deserta d’abitanti, basterebbero, ov’altro non fosse, a comprovarlo; pure mi turbano l’animo meraviglia e terrore al ricordare la morte repentina di tutti i religiosi d’un convento. E ciò non per contatto o per gli unguenti ed i veleni pestiferi, ma per una cosa vana e leggera qual è il fumo. Nella strada Marina, rinomata per amena posizione e per il vivace ingegno d’un nobile e ricco vecchio, che indicò ai magistrati quello spazio adjacente al pomerio della città[163], come opportuno al corso dei cocchi ed ai passeggeri. E, ottenutane licenza, lo spurgò, lo ridusse in linea retta, e l’abbellì, imponendo alla nuova strada il proprio nome che tuttora conserva.

Ivi, mentre di notte tempo, nella supposizione che tutti i vicini abitanti dormissero, abbruciavansi abiti, coltri, piumacci, cenci ed altre suppellettili, il puzzo penetrò nell’adiacente monastero, insinuandosi traverso le griglie delle finestre nelle stanze dei religiosi.

Il dì seguente morirono parecchi di loro, gli altri per due giorni lottarono col male, indi spirarono; quelli soltanto [247] che abitavano nell’interno in luoghi chiusi dove non penetrò il fumo ed il puzzo, sopravvissero.

Fra tutte le cose rimarchevoli di quest’anno, e la catastrofe del popolo milanese, nulla tanto mi commosse e commoverà, cred’io, gli animi dei lettori, quanto l’esimia pietà del medesimo, che propria di questa città, d’onde sembra siasi sparsa nelle altre regioni, s’infervorò vieppiù tra le miserie, restando illustre ed imitabile esempio a tutte le genti nei tempi futuri.

Oltre i digiuni pubblicamente intrapresi, i voti, e i sacri riti, e quant’altro può rendere propizio Iddio; oltre le elargizioni a’ Luoghi Pii, decretate dal Consiglio Generale, le limosine a’ poveri, in nome di Cristo Salvatore per placarlo; in breve, oltre quanto la religione e la natia munificenza della città suggerì, ciascuno gareggiava nel promovere gli atti di pietà e di beneficenza, e tutto ciò che reputavasi valevole a impietosire Dio, affinchè perdonasse colla bontà e misericordia sua le colpe dei mortali.

Andavano a visitare le chiese a piedi scalzi, coperti di sacco, battendosi il dorso col cilicio, finchè ne grondava in copia il sangue, e tingevano di porpora quella veste di dolore e di penitenza. Molti giravano di giorno coperti di sacco, assai più, durante la notte, andavano ignoti e soli; poi, riunendosi a schiere, insieme piangevano, oravano, flagellavansi, battendosi a gara gli uni gli altri nelle tenebre. Lo spesseggiare dei colpi, ed il crescente romore raddoppiava l’emulazione ne’ loro animi, siccome notarono certuni, cui prese vaghezza di tener dietro di notte a quelle schiere spiandone gli atti.

Anche le donne, le quali sempre nei disastri sono più pietose ed eccedono sì nelle cose oneste che nelle riprovevoli, intervenivano a tali processioni e si flagellavano, offrendo le penitenze come espiazione a Dio, alla Vergine, [248] ai Santi loro protettori in cielo. Queste pratiche facevansi in pubblico, altre moltissime tra le domestiche mura, e più efficaci, io son d’avviso[164], ad impetrar grazia del Cielo; ed erano le estreme prove degli animi compunti per ottenere la misericordia del Signore.

L’amor del denaro è l’ultima passione da cui staccasi l’uomo anche quando dispera di tutto, e a lui sovrasta la morte; nondimeno i Milanesi l’offerivano a Dio, non già come vile e sprezzato metallo, ma come prezioso e carissimo pegno. Non che credessero aver Dio bisogno di quell’oro, ma nella speranza che accetterebbe benigno il loro buon volere.

Donne avare, vecchi tenacissimi, crudi e sfacciati usuraj, che custodivano il proprio scrigno come il gran drago[165]; molti nobili, i quali, non per illeciti guadagni, ma per eredità d’antiche famiglie eransi arricchiti; ogni agiato mercante, ogni artefice, per poco denaroso, rivenditori, sensali, sacerdoti, ricchi per pingui prebende o per risparmj d’una lunga vita, tutti costoro, chi al primo scoppiar della peste, chi dopo morte, mostrarono che l’uomo, perduta ogni speranza e cura delle terrene cose, affida sè stesso e gli averi a Dio, o, per dir meglio, li restituisce a lui. Quelli de’ soprannomati che vedevano con ispavento avvicinarsi il termine de’ loro giorni; altri che pur speravano sopravvivere al contagio, altri finalmente, i quali anelavano emigrare in lontani paesi per fuggire il morbo, ed ivi trovare quieta [249] stanza, tutti, secondo la propria condizione, diedero denari per la comune salvezza.

Taluno li consegnò al confessore, altri all’amico, e fino al proprio nemico. Chi lasciò per testamento alla città, chi a’ monasteri, alle chiese, alle confraternite. Aprirono gli scrigni, legarono i crediti loro, e palesarono fino i tesori nascosti nelle caverne, o tra i ruderi delle case. Ve ne furono però di quelli che morirono senza testare a favore di alcuno il molto oro trovato in seguito a caso ne’ più schifosi nascondigli, rimanendo incerto chi mai ne fosse stato il proprietario.

Trovai ne’ pubblici atti orazioni contro la peste, composte da pie persone, ovvero per ordine de’ magistrati, quasi che in Milano, città fin dai più antichi tempi religiosissima, non si facessero bastanti preghiere, e divote pratiche!

«O S. Nicola, decoro e gloria di Tolentino, caro a Dio per amore della povertà, della virginità e dell’ubbidienza, i cui miracoli illustrano l’ordine degli Eremitani, e lo rendono venerato fra gli uomini, deh! tu co’ tuoi meriti ne intercedi il termine della pestilenza».

La qual divota antifona impararono cantare i nostri fanciulli e le donne, avendo udito che in altri paesi era riuscita efficace.

Parecchie simili orazioni stampate o scritte, giravano per le mani e pendevano affisse alle porte delle case. Una recitavasi con grandissima divozione a Maria Vergine, che aveva liberata, com’era fama, la città di Coimbra dalla peste, ed io qui la trascrivo colle proprie parole.

«La Stella del cielo che allattò il Nostro Signore, estirpò la morte di peste, che il primo padre degli uomini piantò. Essa Stella si degni ora frenare gli astri che avversi uccidono il popolo, piagandolo crudelmente a morte. O piissima Stella del mare, liberaci dalla pestilenza; porgi [250] orecchio, o Signora, alle nostre preci, chè il Figliuolo tuo ti onora, e nulla ricusa alle tue suppliche. Ne salva, o Gesù![166]»

Questa ed altre molte orazioni furono usate insieme co’ rimedj umani per allontanare il contagio; e il Signore, che per gl’imperscrutabili suoi decreti pareva da principio negare soccorso, si mostrò poscia clementissimo al supplicante popolo.

Io non sono di quelli, nè deggio esserlo, che vogliono scevri di qualsiasi colpa i magistrati e la patria, anzi temo che alcuno non trovi soverchj gli elogi da me compartiti in questo racconto. Ad ogni modo, ove mi sia conceduta la libertà propria d’una veridica storia, non esiterò a ripetere quanto già notai, e biasimai altrove. Questo contagio [251] non fu sulle prime conosciuto e creduto, e gli appestati non vennero tosto rinchiusi nel Lazzaretto per tener conto dei sintomi. Invece si rinserrarono, ammucchiati nelle case, ed ivi sulle scale, ne’ cortili, e perfino nelle soffitta, in numero di quaranta, e più ancora, coll’alito, il lezzo, ed il fetore continuo, s’infettavano a vicenda. Queste furono le cause per cui le stesse preghiere rimasero inefficaci coll’Onnipotente, da cui dipendeva il cessare del flagello.

È altresì opportuno che io impunemente deplori un’altra calamità, la quale non si potrà leggere o udire senza rammarico e senz’onta per Milano come d’ingiuria alla natura. Per alcuni mesi, durante il contagio, perì non solo la moltitudine già adulta, e che tosto o tardi pur deve morire, ma anche la futura generazione, speranza dello Stato, i bambini, che appena usciti in luce, morivano in uno colla madre di peste. Imperocchè le nutrici mercenarie, per timore, ricusavano dar le poppe, o prestandosi, comunicavano il male ai lattanti o da essi il contraevano.

In tal guisa, oltre tante migliaja di cittadini, perirono i neonati, che non avevano per anche il sentimento dell’esistenza. Più infelici, mille e mille altri, i quali trovarono tomba nell’utero materno! E sebbene i medesimi non sentissero la morte, ne patì il danno lo Stato, mancandogli i nascituri che supplir dovevano al vuoto lasciato dai periti pel contagio. I magistrati adducevano a scusa del non aver posto riparo a tale sciagura la violenza del morbo, le immense spese e la difficoltà di rinvenire in quei giorni, per qualsiasi mercede, puerpere, il cui latte non fosse viziato.

[252]

III. Nuove particolarità sulla carestia e la peste.

Torna a me pure in acconcio quello che afferma in un passo della sua opera il principe della Storia Romana, cioè che vediamo accrescere le pagine di un volume il quale sul principio credevamo dovesse riuscire di piccola mole; così, mettendo il piede nel mare, a misura che ci scostiamo dalla spiaggia, ci troviamo in acque più alte.

Nè mi sarebbe agevole venire al termine di questa storia, se volessi continuare a raccogliere da quel calamitoso triennio, qui riunendoli a fascio, tutti i terribili casi degli uomini, le sciagure tutte di Milano, le cure dei governanti, i nuovi editti ed i pubblici sforzi d’inesausta munificenza, i rimedj svariatissimi che vennero suggeriti o usati; i doni, le elargizioni, la divina potenza, dalle accecate menti non conosciuta, che preparava al popolo questo flagello, riserbandosi di farlo cessare a suo beneplacito. Tutte le quali cose allungherebbero fuor di modo il mio racconto, sicchè accennerò solo le circostanze che mi sembrano preferibili, perchè servano d’esempio ai posteri, ed anche per rallegrare alquanto l’animo attristato de’ leggitori.

Noterò prima di tutto, sul finire di questo doloroso racconto, un accidente che servir potrebbe come esordio di una nuova opera. Oltre i segni celesti e gli avvisi degli astri, non mai veduti fra noi, ma che ai conoscitori riescono sempre formidabili, e le due comete apparse nel 1628 [253] e nel 1630, orribili entrambe a vedersi, corsero fatidiche predizioni intorno la carestia e la peste. Nè mi vergognerò di citare quei versi, benchè storpiati, correndo per la bocca di tutti gli sciocchi, giacchè da ogni bocca udivasi ripetere:

Regneranno dovunque e fame e morte[167].

E l’altro:

Vedrem prodigi; letal morbo appresta[168].

Avverossi il vaticinio del poeta, chè ambidue i flagelli colpirono l’anno predestinato, se non che io ho di già fatta protesta, e la rinnovo, di non avere alcuna fede in somiglianti predizioni. Certissima invece, e verace pur troppo, fu un’altra predizione, esposta non in versi ma con cifre[169], ed origine delle nostre sciagure, previste avanti che accadessero. Della quale ragionerò perchè ne rimanga perpetua ricordanza.

Le schiere che sotto gli ordini de’ singoli comandanti discesero dall’Alemagna in Lombardia, portandovi la desolazione, la carestia e la peste, componevansi di 7456 cavalieri, e 28,000 fanti, in totale 35,456 uomini[170].

Lungo tutto lo stradale percorso da queste schiere, i [254] soldati avevano gli alloggi militari nelle campagne e nei paesi circonvicini. Se fossero stati Francesi in guerra con noi, non poteva essere più sfrenata la licenza, nè maggiore la fuga dei terrazzani. Quasi avessero l’incarico di depredare i luoghi donde passavano, incendiavano, rapinavano, rubando buoi, giumenti e quanto trovavano nascosto nelle case o sotterra. Laddove il loro furore non rinveniva su che sfogarsi, legati i capi di casa trascinavanli seco prigioni: le più scoscese cime dei monti non erano a’ fuggitivi sicuro asilo, perchè un contadino più ricco, o qualche invidioso li scopriva, e non di rado i soldati medesimi coll’astuzia loro propria. Il soldato, avido di bottino, teneva dietro al suo ospite e trovandolo entro i nascondigli lo tempestava di busse finchè, costretto a seguirlo, avesse scavato per lui quanto aveva seppellito.

I comandanti non provvedevano a simili nequizie, sia perchè partecipi del bottino, sia perchè alcuni di essi gran signori, malcontenti d’aver dovuto lasciare la patria, e occupati dei propri affari, chiudevano l’orecchio ai reclami, sprezzando rimediare a’ disordini, secondo loro, di nessuna entità.

Quando poi alle prime schiere che diedero siffatti esempj d’indisciplina, tennero dietro le susseguenti, crebbe la ruina, perocchè, furibonde le nuove soldatesche di non trovar più nulla che saziasse la miseria o la cupidigia loro, sfogavano sui miseri abitanti la rabbia della sfuggita preda. Intere famiglie restavano per giorni, finchè potevano resistere, in vetta ai monti o ne’ burroni delle valli, e quando, passato l’esercito oltre i loro confini, s’avventuravano di tornare alle proprie abitazioni, trovavano rubato quanto eravi di trasportabile, ogni altro oggetto a pezzi, sparpagliato, arso, distrutto. Codeste ingiurie tollerate in quel tempo a danno dei contadini, non solo snervarono a forza di patimenti i [255] corpi, ma indussero gli animi a disperazione. E quand’anche le tedesche coorti non avessero portata seco la peste, l’avrebbero fatta scoppiare.

Le quali cose mi fu necessario notare, affinchè i nostri reggitori conoscano di quante cautele sia d’uopo ogni qual volta muovono gli eserciti.

Nel Lazzaretto, alle leggi e discipline sopra descritte si aggiunse un savio regolamento, opportunissimo a scemare i tanti mali di esso luogo. Due nobili vennero scelti ad intervalli per visitare ivi le capanne ed ogni angolo del recinto, per invigilare sui bisogni dei poveri, sulla fedeltà e lo zelo dei singoli impiegati nell’adempimento dei proprj doveri, e provvedere ad ogni emergenza coll’autorità loro impartita, o renderne avvisato il Tribunale di Sanità ed i Decurioni.

I medici conservatori ebbero l’incarico di fare ogni giorno per turno la visita alle capanne degli appestati e tenere informato il Tribunale. Si trascelsero sacerdoti, mantenuti a spese pubbliche nel Lazzaretto, non solo per amministrare i sacramenti, attendendo alla cura delle anime, ma affinchè con esortazioni, e dolci e paterni discorsi, procurassero d’ispirare a ciascuno pazienza e coraggio.

Si stabilì che alcuni sovrintendenti salariati, si recassero giornalmente nel Lazzaretto, osservando i casi varj, le morti, e quant’altro trovavano cui bisognasse gastighi o rimedii, notandolo in apposito libro da presentarsi tosto alla Sanità.

I medesimi s’incaricarono di visitare e far spurgare le cloache, le fogne, gli abituri degli indigenti, fetide non meno di queste, affinchè il lezzo non desse fomite al morbo. Così pure di tutti i cadaveri trovati nel Lazzaretto o per la città, dovevano notare i nomi in un registro, farne abbruciare gli abiti e qualunque oggetto di cui erasi servito il morto. Dovevano altresì accendere il fuoco e bruciar [256] profumi nella stanza o capanna dov’era spirato; costringere a star disgiunti gli appestati, e gli altri più o meno sospetti, non permettendo veruna comunanza tra essi.

Eravi poi un custode cui incombeva la sorveglianza del Lazzaretto e delle private abitazioni, e che su tutto doveva invigilare a norma dei prescritti regolamenti.

Lungo sarebbe noverare la schiera degli uffiziali di Sanità, lungo svolgerne i singoli incarichi e le molte e varie discipline con cui governavasi la moltitudine dei malati raccolti nel Lazzaretto quasi in una sola famiglia. Due casuccie e due uomini dell’infimo volgo ruinarono Milano, spargendovi il contagio; del pari una lieve scintilla incendiò, e quasi distrusse Monza, Saronno ed altre primarie terre. Nè fia inutile ricordare due casi ad esempio, perchè si conosca, sto per dire, l’indole di questo morbo, il quale esce donde meno si crederebbe, e se assale un plebeo, acquistando terribile forza, a niuno perdona, nè umano potere il può domare prima che fra tutte le classi non abbia menato strage.

Una vecchia comperò da un soldato tedesco un sucido mantello foderato di pelliccia, che aveva servito per avventura a qualche vivandiera; pericoloso arnese anche senza sospetto di contagio. La vecchia, indossatolo, venne dal suo villaggio a Saronno pel mercato, ed ivi morì d’improvviso, e col suo contatto diffuse la peste in tutto quel nobile borgo.

A Cassano sopra l’Adda, paese ancora sano, un tale comperò da un soldato un sacchetto di polvere, e maneggiandolo, fu côlto da vertigini e da fortissima emicrania, e in brev’ora cessò di penare e di vivere[171]. Alcuni mesi dopo, [257] la peste scoppiò nei dintorni di Cassano, ma per allora quel caso singolare che spaventò i terrazzani, con grande loro meraviglia e gioja non ebbe conseguenze. Delle molte persone che avevano tocco il sacchetto di polvere e confabulato col venditore e più col compratore nell’osteria e sulle barche, neppur uno contrasse la peste che a ragione paventavano serpeggiasse loro nelle viscere.

Il contrario accadde in Monza, dove una donna ebbe in regalo da un uffiziale tedesco un astuccio con entro spille ed altri ferri per lavori femminili. Avendone cavato uno spillone per accomodarsi i capegli, cadde morta sull’istante. Due o tre sue parenti e vicine, e gli uomini della loro famiglia ne rimasero vittima; ma niun altro caso si verificò per allora in essa città, che in seguito fu desolata dalla pestilenza quasi al pari di Milano.

[259]

APPENDICE DEL TRADUTTORE AL LIBRO QUARTO

[261]

Intorno la mortalità della peste del 1630 e la popolazione di Milano a quell’epoca.

La città stremata dalle morti.

Ripam., Lib. I, pag. 4.

V’hanno nella presente storia molti fatti oscuri e controversi, ma nessuno di certo sul quale le opinioni siano tanto divergenti come sulla mortalità cagionata dalla peste. Volerne determinare la cifra con esattezza riesce impossibile, perchè i registri battesimali o mortuarj erano tenuti, a quell’epoca, con gran trascuranza. Inoltre si trovano in questi registri grandi lacune durante il contagio, conseguenza inevitabile delle morti di chi li teneva, [262] e del generale trambusto. Nel secolo XVII non s’aveva idea di quadri statistici, per cui lo storico, in questo argomento, non può fondare le sue opinioni che su congetture.

Mi proverò nondimeno a schiarire possibilmente la questione, e prima di tutto giovi qui riportare le cifre della mortalità, secondo varj autori contemporanei.

Ripamonti, che lavorava sui documenti autentici messi dal Consiglio a disposizione di lui qual storiografo di Milano, dice, giusta la comune congettura, si calcolò morissero 140,000 persone. (Pag. 222.)

Tadino, stabilendo la popolazione di Milano avanti la peste a 250,000, dice che morirono 185,558, esclusi i religiosi (pag. 136); altrove invece parla della grandissima mortalità seguita in numero eccedente di 165,000 persone (pag. 86).

Somaglia afferma che ne perirono 180,000 oltre i bambini.

L’iscrizione dei Frati della Pace da me riportata (pag. 164) dice 190,000.

Pio della Croce: Morirono entro il circuito della mura 150,000 di certissima scienza, non mancando chi lo accresce di altri 20,000.

Il Rivola nella vita di Federico, lib. V, cap. XIV, più moderatamente: Cessata per divina misericordia la ferocità del morbo, la quale, secondo il calcolo fattosi circa la metà di settembre (1630), trovate furono essere morte di peste 122,000 persone.

Al Rivola s’avvicina il canonico Torri, che, scrivendo quarant’anni dopo il Ritratto di Milano, diceva: Nel 1630, vivendo in que’ tempi anch’io benchè fanciullo, sovvi dire che vidi spettacoli da inorridire pietre non che cuori umani, morendo de’ cittadini più di dugento alla giornata ne’ principj del male, ed in meno di sei mesi nella stessa città più di cento mila. (Pag. 8.)

Siccome però questi ultimi due scrittori non parlano che della mortalità di sei mesi, così estendendola ai due anni e mezzo che durò il contagio (novembre 1629 — febbrajo 1632), si avrebbe una cifra poco minore della citata.

Ma sarà dunque vero che in Milano il contagio mietesse da 160,000 a 180,000 vittime? Su che fondasi questa spaventevole cifra? Sulle vaghe asserzioni del Tadino e del Ripamonti copiati dagli altri, i quali scrissero parecchi anni dopo.

La vera e positiva base su cui istituire i calcoli della mortalità fu, e sarà sempre, la popolazione. Vediamo quindi se indagando qual era la popolazione di Milano d’allora, ne riescisse di sciogliere in modo plausibile la questione.

Che la città nostra anticamente fosse numerosa d’abitanti, pare indubitato, [263] stante le manifatture d’armi, di lane e seterie che occupavano gran numero d’artefici e commercianti. Bonvicino fa ascendere nel 1288 a 200,000 gli abitanti. Il Morigia dice che nel 1590 erano 264,000.

Il Ripamonti: Contava un tempo trecento mila abitanti, duecento mila avanti la peste, ec. (Pag. 6.) Il Tadino va oltre: Trouandosi la città per l’addietro più di duecento cinquanta mila persone.

Ma nel 1630, quando già da un secolo la dominazione spagnuola aveva ruinate le manifatture e il commercio, è egli presumibile ragionevolmente che Milano fosse ancora sì popolato? Arrogi il gran numero di chiese e monasteri che ricettavano un piccolo numero di persone a confronto dell’area occupata.

Io feci lunghe indagini per rinvenire in qualcuno dei vecchi archivj pubblici l’anagrafi della popolazione, eseguita durante la carestia nelle singole parrocchie per ordine del Consiglio che voleva conoscere in modo positivo il numero dei poveri da alimentare. Ma questo documento, di cui parla a lungo il Ripamonti (pag. 225), senza però indicare la cifra, che appunto è ciò che importerebbe, andò fatalmente smarrito; almeno io non ne rinvenni traccia.

Esiste per buona fortuna nell’archivio di San Fedele un registro mortuario dal 1452 in avanti, anno per anno, anzi mese per mese[172] con poche lacune, con importanti annotazioni in margine sulle epidemie e contagi che accrebbero in diversi tempi il numero dei morti.

Questo registro è l’unico documento che offre una base non certa ma plausibile per determinare la popolazione di Milano in date epoche. La mortalità ordinaria si ritiene al sommo di quattro per cento all’anno: aggiungendo tutt’al più un due per cento pei morti negli ospitali e conventi che non venivano notificati, riusciremo in qualche modo a dedurre dai registri della Sanità quale fosse la popolazione.

Nei quattro anni prima della carestia abbiamo il seguente quadro:

Anno 1625 Morti Num. 4181
» 1626 » » 3482
» 1627 » » 3157
» 1628 » » 3513

[264]

Sommando i quali anni trovasi un adequato di 3600, trascurate le frazioni. Aggiungasi il 2 per cento per la mortalità degli ospitali, conventi, ec., e risulterà che la popolazione di Milano avanti la peste era di 140 a 150 mila anime.

Ora quanti è da supporsi ne morissero di peste o d’altre malattie dal novembre 1629 al febbrajo 1632, periodo in cui durò il contagio?

Il citato registro mi dà le seguenti cifre:

Anno 1629 Novembre Morti Num. 422
» » Dicembre » » 488
» 1630   » » 13,350
» 1631   » » 3,288
» 1632 Gennajo » » 181
      Totale 17.729

I morti nel Lazzaretto, ove, secondo Ripamonti e Somaglia, salirono fino a 1700-1800 per giorno nel maggior furore della pestilenza in luglio e agosto, si possono calcolare al più 60,000, ritenuto come dato abitrario il numero di 1700 morti per giorno, stante l’incremento ed il rallentamento proprio sempre dei contagi. Aggiungasi per ultimo i morti negli ospitali, nei conventi, per le strade e i non registrati, che non si potrebbero con ragionevolezza spingere più di 8000-9000, e si avrà:

Dai Registri Num. 17.729
Nel Lazzaretto » 60,000
Ospitali, ec. » 8,271
  Totale 86,000

La qual cifra ritengo sia la più vicina al vero. In prova di che torna in acconcio un passo del Tadino, il quale scrive che per le santissime feste del Natale (1631) era restato nella città per le diligenze fatte solamente il numero di 64,442 persone.

Dunque, supposti come sopra i morti 86,000
I sopravvissuti circa 64,000
Avremo un totale di 150,000

che sarebbe a un dipresso la popolazione di Milano avanti la peste.

Che poi gli abitanti fossero morti più della metà, riducendosi appunto a circa 60,000, lo comprova il più volte citato registro, dal quale risulta, che nel 1632 morirono soli 1795, e che per undici anni, cioè dal 1632 al 1643, la mortalità annua rimase fra i 1700 e 2000, che è appunto la metà di quella dei quattro anni precedenti il contagio.

[265]

Quanto alla mortalità del Ducato di Milano è impossibile determinarla per la mancanza di documenti; oltrechè le morti subirono variazioni innumerevoli secondo i paesi, i quali soffrirono più o meno, e alcuni perfino rimasero deserti, essendo periti tutti gli abitanti. Forse però non andrebbe molto lontano dal vero chi facesse ascendere a mezzo milione i periti di contagio nella Lombardia spagnuola.

Tanta perdita di gente recò gravissimo danno all’agricoltura, al commercio, alle arti, e lasciò nei superstiti alla catastrofe e nei loro discendenti un profondo sentimento di terrore. Di ciò fa prova il più volte citato registro, nel quale dal 1630 s’incominciò a porre le iniziali S. S. P., ovvero S. P. S., sine suspicione pestis — sine pestis suspicione, segnatura d’ordine, che trovasi continuata per un secolo e mezzo, cioè fino al 1780.

«Per tutto il passato secolo (dice Verri)[173] risentì questo infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono di agricoltori; le arti e i mestieri si annientarono; e fors’anche al giorno d’oggi abbiamo dei terreni incolti, che prima di quell’esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del popolo nella desolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche ricchezze, e non si citerà una casa fabbricata per cinquant’anni dopo la pestilenza, che non sia meschina. I nobili s’inselvatichirono; ciascuno, vivendo in una società molto angusta di parenti, si risguardò come isolato nella sua patria; e non si ripigliarono i costumi sociali, che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non appena al principio del secolo presente.

Francesco Cusani

FINE DEL LIBRO QUARTO.

[267]

LIBRO QUINTO CONFRONTO DELLA PESTE DEL 1630 CON ALTRE, E SPECIALMENTE CON QUELLA DEL 1576.

[269]

PROEMIO AL LIBRO QUINTO

Col Libro Quinto il Ripamonti dà termine alla Storia della Peste del 1630. Io cercai illustrarla per quanto mi concedeva l’ingegno e l’angustia del tempo; ed ora rendo pubbliche grazie a miei concittadini, che accolsero con vero favore quest’opera ai medesimi dedicata e in uno ai molti i quali mi furono cortesi di documenti e notizie.

Le ricerche negli archivj e biblioteche, sì pubbliche che private, le minuziose indagini per verificare fatti o [270] date controverse, l’esame dei monumenti, iscrizioni e di quant’altro ricorda fra noi la pestilenza del 1630, sono per sè tali che esigono fatica e perseveranza non poco. Se quindi, malgrado la scrupolosa diligenza usata, incorsi in ommissioni e inesattezze, mi verranno, spero, condonate da chi conosce le molte difficoltà, inseparabili in lavori storici di simil genere.

Siami però concesso, data l’opportunità, di scolparmi d’una inesattezza che a torto mi venne rimproverata. Il signor Alfonso Frisiani nell’Appendice della Gazzetta Privilegiata di Milano del 25 gennajo, parlando del mio lavoro sul Ripamonti in modo per me lusinghiero, soggiunge:

«Noteremo soltanto al Cusani che il Lazzaretto di Milano da lui attribuito, secondo la comune opinione, a Bramante da Urbino (vedi pag. 18, nota 2.ª) lo è invece di Lazzaro Palazzi, siccome abbiamo scoperto e pubblicato in questa Gazzetta al n.º 13».

Il signor Frisiani annunziò d’aver rinvenuto nell’archivio del nostro Ospitale Civico documenti comprovanti che l’autore del Lazzaretto fu un Lazzaro de’ Palazzi, ingegnere architetto, ed io, lungi dal negare questa scoperta, che rivendica al vero autore di quel grandioso edificio la gloria d’averlo innalzato, me ne rallegro con lui. Ma come era possibile, senz’esser indovino, ch’io me ne giovassi nella citata nota del Libro Primo, pubblicato nell’ottobre 1841, mentre il Frisiani annunziò la sua scoperta il 13 gennajo 1842? Di ciò non avrei fatta parola se parecchi amici miei, studiosi delle cose patrie, non m’avessero tenuto discorso di quella supposta inesattezza.

Il Libro Quinto del Ripamonti può chiamarsi un’aggiunta alla sua storia, altro non essendo che un confronto del contagio del 1630 con altri. Nei primi tre capitoli, sfoggiando erudizione, com’era usanza de’ secentisti, il nostro autore compendia e traduce nel suo maestoso latino Tucidide ed il Boccaccio, le cui descrizioni della peste di Atene e di Firenze rimangono modelli di storica eloquenza. Poscia, tacendo, per buona fortuna! delle moltissime pestilenze che [271] afflissero l’Italia e la Lombardia negli antecedenti secoli, viene a descrivere quella del 1576, detta comunemente di S. Carlo, e ne racconta i casi.

Ora intendendo io d’illustrare anche quest’ultimo Libro con note desunte specialmente dagli scrittori contemporanei, trovo necessario dire in breve dei più importanti tra questi, inserendo qui un altro brano del mio Ragionamento sui principali Storici e Cronisti milanesi.


Ascanio Centorio, Commendatore di San Giacomo di Compostella, raccolse e pubblicò in Venezia pel Giolito 1579 I cinque Libri degli Avvertimenti, Ordini, Gride, Editti, Fatti, osservati in Milano ne’ tempi sospettosi della peste negli anni 1576, 1577.

È un volume in 4.º di 450 pagine, dedicato a Gerolamo Monti Senatore e Presidente della Sanità, avo di quello che vedremo figurare nelle stesse magistrature durante la successiva peste del 1630. Il Monti accettò la dedica, lodando molto il Centorio, ed anche d’aver scritto in lingua volgare, perchè gli ordini possino essere meglio intesi da ognuno.

Questo è il libro più completo ed importante circa la peste del 1576, e per essere d’un contemporaneo che lo pubblicò subito dopo, e per la copia delle notizie, e giacchè contenendo gli editti, ordini, ec., risparmia la fatica, non di rado inutile, di andarle a pescare nei gridarj quasi tutti incompleti. L’esposizione e lo stile si risentono dei difetti del secolo; ma almeno trovasi l’ordine, chè il Centorio seguì passo passo l’andamento del contagio.

Il Padre Bugato, Dominicano a Sant’Eustorgio, diede in luce nel 1578 un libricciuolo di 60 pagine, intitolato: I fatti di Milano al contrasto della peste, over pestifero contagio dal 1 agosto 1576 all’ultimo dell’anno 1577. L’editore lo dedicò al cavaliere Gabrio Serbelloni, il quale, sendo luogotenente del governatore d’Ayamonte, adoperossi, benchè vecchio, con gran zelo in quella calamità a vantaggio della patria. Quest’operetta serve di raffronto, e nulla più, attesa la brevità sua.

[272]

Un Filippo Besta, procuratore milanese, raccolse e pubblicò la Vera Narrazione del successo della peste che afflisse l’inclita città di Milano l’anno 1576. Libretto di 140 pagine, dedicato a S. E. il Gran Cancelliere Ferrer. È di niun uso allo storico, perchè semplice compendio del Centorio, e perchè pubblicato mezzo secolo dopo l’epoca di cui tratta, cioè nel maggio 1630, quando, crescendo la pestilenza, si ristamparono molti opuscoli, ordini, discipline, ec., riguardanti il contagio del 1576, sia per ordine dell’autorità, sia per speculazioni private.

Molte rilevanti notizie si raccolgono dal Giussani, dal Bescapè, e dagli altri biografi di S. Carlo, il quale a tutti è noto con che zelo s’adoperò a mitigare pel suo gregge quel flagello. Nel 1579 egli diede in luce per Michele Zini, stampatore del Seminario, il Memoriale di Mons. Ill.mo et Rev.mo Cardinale di Santa Prassede, Arcivescovo, al suo diletto popolo della città et diocesi di Milano. Volumetto in 24º di pagine 500, preziosissimo per quanto risguarda il clero durante il contagio, e per l’unzione cristiana del santo arcivescovo che lo compose a vantaggio spirituale del suo popolo.

Il Memoriale di S. Carlo, unitamente alle pastorali regole, ec., da lui dirette al clero in occasione del contagio, si trovano raccolte negli Atti della Chiesa Milanese, Parte VII.

Potrei aggiungere molti altri Libri, ma essendo questi d’importanza secondaria, sarebbe un dilungarmi con superfluo e vanitoso sfoggio di bibliografica erudizione.


È mio intendimento di non apporre numerose note a questo Libro V, perchè il racconto del Ripamonti è per sè stesso di già abbastanza minuzioso, e perchè, a dirla francamente, la peste del 1576 fu in realtà assai meno terribile e disastrosa di quello che ne suoni la fama tra noi.

Ho già avvertito nella mia Introduzione che in Milano, per tradizione popolare, si conservò memoria unicamente della peste del 1576, facendone una sola con quella senza confronto più micidiale [273] che le succedette, soltanto per la memoria di S. Carlo. A vieppiù comprovarlo, ora soggiungo che venne dimenticata altresì la pestilenza del 1524, avvenuta 52 anni prima, come per bizzarra coincidenza, avvenne 52 anni dopo quella del 1629-30.

L’obblio in cui caddero queste due grandi calamità è invero strano qualora si rifletta alle stragi ed ai danni gravissimi che ne soffrì la nostra patria. Non sarà quindi inopportuno e discaro ai lettori di qui ricordare brevemente il contagio del 1524.

Fervente la guerra tra Carlo V e Francesco I, i quali disputavansi il ducato di Milano, vivo ancora l’infelice Francesco II, ultimo degli Sforza, l’ammiraglio francese Bonnivet, sceso dalle Alpi, strinse d’assedio Milano nel settembre 1523: ma dopo otto settimane, costretto dalla pioggia e dalla neve a levare il campo, si ricoverò a quartieri d’inverno in Rosate, ed Abbiategrasso.

La vicinanza di quel corpo nemico e la molestia che recava intercettando i trasporti di viveri e provvisioni, che dal naviglio passando per Abbiategrasso giungono alla capitale, indusse il Duca a sloggiarlo. Nell’aprile, messosi egli alla testa di una squadra scelta di Milanesi s’impadronì per assalto di quel borgo. Funesta vittoria! perocchè, avendo gli stenti e la miseria generata la peste tra i Francesi, i nostri, nel saccheggio, la contrassero e la portarono, tornando col ricco bottino.

Apichata, dice il cronista Grumello, fu la peste crudelissima in epsa città per le robe amorbate d’epso castello portate in dicta cittate: E un altro cronista, il pizzicagnolo Burigozzo, ingenuo raccontatore di quanto vedeva: El povero Milano infettato de pestilentia comenzò a far de mal in pezzo... al giugno tanta mortalità e piccoli, e grandi, che quaxi per Milano non era come nessuno, perche li sani fuggivano, et li amalati non se potevano movere... El qual mese di luglio (1524) fu tanto crudele che veramente non saria possibile poter narrare la crudelità, et la mortalità grande che fu, donde era più sicuro a star a casa che andar in volta: et non se vedeva se non gente con campanini in mane, se non carri de ammalati; non vi era officio, ne campana [274] che sonasse se non da corpo. In domo non li erano ordenarj, ne offizii al solito ma doy o tre preti li quali cantavano alla meglio che potevano. El mese de augusto sino al mezzo lavorò anche lui, donde el dir seria troppo, ma al veder delli cimiterj delle giexe era una paura.

Questo contagio, che secondo la energica frase del Senatore Monti, nella sua Lettera in risposta alla Dedica del Centorio, venne come una impetuosa onda, la quale, in poco spazio di tempo, inondò il paese e diede infinito guasto, durò tre mesi, dal giugno all’agosto 1524. Grande a que’ giorni fu la mortalità in Milano fiorente di popolo. Il Burigozzo: Non credo che mai fusse simile pestilentia et fu detto della morte di cento millia persone et così credo.

Il Grumello: Si existima morressero delle anime octanta millia et più presto de più che di mancho.

Lo spagnuolo Sepulveda, nella sua storia latina delle imprese di Carlo V: La peste invase con tal violenza Milano che tolse di vita in essa città più di cinquanta mille persone.

E finalmente il Bescapè, nella vita di S. Carlo: Perirono in città più di cinquantamila, oltre gli altri innumerevoli morti nelle ville.

Conchiudiamo col ripetere che la peste del 1576, di gran lunga minore e di questa e della successiva, deve la sua triste rinomanza, tramandata d’età in età fra il nostro popolo, e viva anche in oggi, a null’altro fuorchè alla gratitudine pel santo Arcivescovo, le cui esimie virtù rifulsero luminose in quel disastro.

Francesco Cusani.

[275]

I

Porrò fine alla mia triste e funebre istoria, col raffronto tra la descritta pestilenza ed altre che afflissero un tempo grandi città e la stessa Milano. Un simile paragone è convenevole tanto per provare ciocchè dissi sul principio essere stato questo contagio il più grave di tutti, e quello cui per intero s’addiceva il nome di sì orrendo morbo, quanto perchè nella diversità di essi mali si osservi una grande somiglianza ne’ particolari. Da ciò potrassi conoscere che la peste, quando scoppia, si appalesa sempre co’ medesimi sintomi, fa stragi in modo uniforme, e dovunque produce le medesime follie negli uomini. Inoltre è decoroso cogliere l’opportunità di ricordare le glorie di nobilissimi scrittori.

[276]

In tempi antichi la pestilenza s’introdusse nella città d’Atene, e vi menò tanta strage, che divenne famoso lo storico che la descrisse. Non verrà forse mai un narratore eloquente al pari di lui, che espulso da’ concittadini, fu da Roma inviato alla Grecia; e nessun altro de’ suoi scritti è sì elegante ed arguto come la descrizione della peste. I quai pregi derivano non tanto dall’ingegno dello scrittore, quanto dall’atroce spettacolo delle cose che turbano e in uno dilettano l’animo dei leggitori. Così un serpente sovra una tavola tanto più piace quanto più è ributtante a vedersi; e gli occhi, avidi sempre di nuovi spettacoli, s’affissano avidamente nel deforme rettile.

La pestilenza che menò sì gran strage in Atene, e lo storico della medesima, sono in oggi celebratissimi dopo tanti secoli ne’ licei e nelle scuole de’ filosofi. E il nome di essa città vive famoso, non meno per memoria di quel disastro, che per avervi fiorite le scienze e le arti.

A Tucidide sta presso per eleganza il padovano Livio, il quale descrisse Siracusa, stretta da due potenti eserciti battaglianti e ridotta all’estrema miseria da lento morbo. Anche i pochi versi con cui Omero nell’Iliade canta i dardi scoccati da Apollo sul campo dei Greci, i mucchi di cadaveri lasciati pasto agli augelli ed ai cani, anche que’ versi inspirano oggidì, in chi li legge, spavento, meraviglia e diletto.

Uno scrittore, per l’età in cui visse e per la lingua che usò, non paragonabile agli accennati, ma il quale trasse favole dal vero, ovvero insegnò a raccontare favole; maestro ed artefice del linguaggio volgare italiano, che da lui acquistò eleganza e leggiadria, narrò la peste della sua patria.

Egli, faceto e scherzoso favellatore, descrivendo, coll’arte imparata da sommi storici, l’eccidio di Firenze, desta meraviglia del suo ingegno e pietà di tanta strage.

[277]

I letterati rileggeranno mai sempre la peste del Boccaccio, e i critici più austeri essi pure non si sazieranno dall’ammirare quell’esempio delle umane vicissitudini.

Gli atroci, turpi e miserandi esempi che la pestilenza mostrò negli umani corpi nella mia patria, eguagliarono gli antichi o forse li superarono. E se non fossero esposti con minore ingegno, offrirebbero in queste carte spettacolo più imponente e più orrendo.

Ma ponendo fine ormai alle lagrime, alle miserie, ai flebili lamenti di Milano, io mi proverò a temperare il sin qui mesto e lugubre racconto con qualche vivezza, paragonando ciò che vide e sofferse l’età nostra coi fatti che i citati scrittori ordinarono con pompa, direi teatrale. Piacevole riuscirà un tale raffronto, ricreando l’animo e colla varietà dei casi, e col trascorrere dai tempi antichi agli odierni, dai nostri mali a quelli d’estranee genti.

E siccome la città nostra risorge quasi da stipite più florida dopo l’eccidio, e i cittadini riedono ai prischi sollazzi, deggio anch’io far sì che venga raddolcita l’amara ricordanza della strage col raffrontarla ad altre di straniere contrade.

II. Confronto della pestilenza di Milano coll’antichissima degli Ateniesi.

Se non fosse sconvenevole l’usare comici detti in argomenti tragici, non troverei più simile il latte al latte, l’uovo all’uovo, che il milanese contagio all’antichissima pestilenza d’Atene descritta da Tucidide. Il germogliare, i [278] primi passi e le cause d’entrambi i contagi si rassomigliarono: l’indole stessa del morbo, le traccie che lasciava procedendo, i terrori, le ruine, le stragi, i sospetti, i portenti, in breve il cumulo di tutte le calamità della peste di Milano, in nulla differirono dalla ateniese: sia che il caso abbia prodotto effetti identici, sia che esista per le umane cose una certa legge che riproduce ad intervalli di secoli le vicende medesime.

La peste che trasse quasi all’estrema ruina Atene, città famosa per tante varietà di vicende, la minacciò in prima da lungi; poi da Lenno ed altri luoghi più e più avvicinandosi s’introdusse fra le sue mura e tutta l’invase. Il pensiero d’essere rimasti indolenti, malgrado i fatti che avrebbero dovuto suggerir cautele contro il morbo, esacerbava i dolori de’ moribondi e dei superstiti. Così avvenne tra noi, e taluno direbbe che la peste cospirò con eguali mezzi all’eccidio di due illustri città in Grecia e in Italia.

Anche il nostro contagio incominciò a desolare lontane genti, poscia, avvicinandosi alle frontiere, invase lo Stato e da ultimo la capitale con siffatto impeto, che pareva dovessero sopravvivere soltanto gli edifizj e il nome di essa. Sì l’antica peste d’Atene che la recentissima di Milano, lasciarono vestigia simili nel loro passaggio e nelle altre circostanze.

Riferisce Tucidide che il popolo, vedendo il morbo uccidire quanti colpiva, disperando d’ogni umano soccorso, ricorse sulle prime agli Dei, poscia viste le preci inesaudite, e trovandosi in preda alla disperazione ed alla morte, non più curando rimedj o suppliche alle are dei numi, abbandonò sè e la repubblica senza schermo al flagello. Da tale scoraggiamento ne venne che gli stessi medici perirono tra i primi, rapiti dalla violenza del morbo, e le preghiere [279] e i voti cui ritornossi sovente, altro non fecero che rincrudirlo. Il citato storico, rappresentando ne’ primordj della pestilenza gli Ateniesi costernati per lo sterminio della loro patria, e privi di qualunque ajuto divino o umano, infonde nell’anima terrore e pietà per gli infelici che in siffatta guisa perivano.

Non altrimenti fra noi i medici perdettero la vita nei primi tentativi di cure, e la città per alcun tempo vide ad evidenza che l’ira di Dio per preci non mitigavasi.

E noterò un’altra somiglianza: le due popolazioni scorgendo il flagello non avere termine, e non potersi spiegare l’origine e le cause del morbo, l’attribuirono ad umana frode, supponendo la peste artificio umano, mentr’era castigo di Dio. Gli abitanti d’Atene credettero che i Peloponnesii, coi quali allora guerreggiavano, avessero avvelenati i pozzi per ruinare la loro città. Noi del pari, trovando vano ogni rimedio e provvidenza, credemmo vi fosse un gran capo il quale, col mezzo d’altri e con denari, componesse veleni e li facesse spargere: il qual sospetto fu pure una seconda calamità per Milano. Gli Ateniesi portarono intorno il falso simulacro d’Iside, come noi il corpo di S. Carlo. Parecchi di loro si gettarono nell’acqua e fecero molte cose incredibili, talchè si può conchiudere essere in tutto simile il contagio che desolò le due grandi e illustri metropoli.

[280]

III. Confronto della peste di Milano con quella di Firenze.

All’antica pestilenza d’Atene, succede la più recente di Firenze, della quale l’autore delle eleganti novelle lasciò una descrizione non favolosa ma vera, e che differisce dalla mia come una copia che ingegnoso artista trae da un dipinto originale per vendere. Nè soltanto il Boccaccio, principe elegantissimo de’ toscani scrittori, ma altri annalisti di quel paese, da me consultati, raccontano come segue l’andamento di essa pestilenza.

Scoppiata a Fiesole, Prato Volterra ed in altri luoghi di minor conto, minacciava Firenze, dove era aspettata e in uno sprezzata e derisa. Dopo aver vagato pei colli e le ridenti campagne ne’ dintorni, irruppe da ultimo nella capitale della Toscana e vi fissò il suo regno. Allora qua colla ferocia di mal sicuro tiranno, là a modo di severissimo censore, ogni cosa stravolse e insieme ordinò, riducendo entro giusti confini quel popolo riottoso e mercatore, nuotante negli agi e nel lusso smodato, e che, superbiendo pe’ doni del cielo e l’amenità del clima, vantavasi superiore agli altri.

Se ciò pure sia accaduto fra noi, o se invece i costumi, malgrado il gastigo, siano tornati qual prima, io lascerò che il decida la verità e la fama, giacchè le genti lontane ponno meglio e con più certezza giudicarne di quel che noi medesimi possiamo farlo.

[281]

Tutto il restante ha un colore sì uniforme, che la descrizione della nostra peste, sarebbe pur quella dell’altra, ove io volessi narrare ciocchè accadde in Firenze, allorquando i suoi cittadini erano afflitti dal passeggero morbo, che in tanto numero li rapì. Nessuna vigilanza de’ magistrati fiorentini contro il minaccioso morbo che sopraggiungeva, come se côlti da fatale sonnolenza; vennero bensì chiuse le porte della città e vietato l’entrarvi, ma con sì grande noncuranza, che tanto valeva il non custodirle, a segno che la peste inviata da Dio vi penetrò anche per colpa dell’indolenza degli uomini. Si tentarono ivi pure suppliche, voti, e quanto il timore e la divozione suggerisce per placare il cielo; ma riuscirono vane ad ottenere pietà fino al tempo in cui, giusta i suoi imperscrutabili arcani, la Provvidenza schiudere doveva i tesori di sua misericordia, e spargere una salutifera rugiada sull’infelice città.

Anche i sintomi e le macchie, segnali ed effetti della peste, furono eguali per l’andamento e le varietà in ambedue i contagi.

I furoncoli, i carbonchj, gli antraci, i buboni, tante volte nominati durante la nostra calamità, apparirono anche a Firenze, in alcuni malati grosse come una mela, in altri come un uovo, nell’anguinaja o sotto le ditelle. Dalle quali parti del corpo a poco a poco si estesero poscia per tutte le membra. Questi tumori, che i volgari nominavano gavoccioli, si permutarono in macchie nere o livide, le quali nelle braccia, e per le coscie ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade, ed a cui minute e spesse. Indizio certissimo di morte, perocchè quasi tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione dei sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano[174].

[282]

Narrano gli storici della peste di Firenze, che se alcuno toccava un appestato, era inevitabile la morte, e che molti per questo perirono. Ne accade soltanto che gli uomini contaminassero sè ed altri, contraendo il nascosto principio morbifero col tocco di oggetti inanimati, ma gli animali medesimi, le cui immondezze nulla hanno di comune coll’alito e la vita dell’uomo, in egual modo s’infettarono. Così i citati storici, che lo riferiscono come d’incredibile portento. A noi però non fa meraviglia alcuna, stantechè era cosa notoria che il contagio con somma facilità appiccicavasi alle vesti ed alle suppellettili. Vedemmo qua e là i corpi di cani, gatti e d’altri animali morti, senza dubbio, per avere toccato col muso, o trascinati intorno robe d’appestati gettate in istrada.

Framezzo a tante ruine, e nella deplorabile condizione cui trovasi ridotta l’umana vita, raccontasi che tre generi di persone furono notate in Firenze. Era il primo degli uomini sobrj, ilari, moderati, ai quali non avrebbesi potuto far rimprovero dai filosofi o dai più severi moralisti, anche quando la città era florida e tranquilla. Costoro, fuggendo ogni mordace cura ed ogni triste pensiero, ed evitando le voluttà disoneste, erano parchi, ma dilicati nell’uso dei cibi e delle bevande, e raccolti entro qualche albergo, ove non giungesse a turbarli nè lo strepito nè il racconto delle esequie, ivi oziavano tra suoni, canti ed amichevoli colloquj; credendo in siffatta guisa essi di ben premunirsi contro la peste.

Altri, al contrario, per rimedio davansi in braccio ad ogni genere di stravizj e lascivie; vagolavano come baccanti e [283] baldanzosi per le contrade, e introducendosi fin anche nelle altrui abitazioni, rimaste vuote per la morte de’ padroni, vi gozzovigliavano per breve tempo, come se fossero in casa propria. E trovando in loro balía i commestibili e le cose tutte che nelle famiglie soglionsi tener rinchiuse, se le godevano liberamente senza darsi alcuna briga che fossero avanzi dei morti. Quando erano sazj di godimenti in una casa, trasportando seco ciocchè ad essi dava più nel genio, e lasciandosi dietro i morti della loro caterva, sen givano a tripudiare in altre case colle abbandonate dovizie. Ivi, sprecando e gettando via anzichè consumare la roba, morivano sui letti, le arche, le botti, ovvero raccolto quanto eravi di prezioso, accumulavano tesori, ingrossandoli per via, in guisa che perdevano la vita sotto il peso, prima di giungere al luogo ove avevano fissato di seppellirli. A certuni riuscì trasportarli e nasconderli, e qualche famiglia fiorentina arricchì con tale spoglio nella calamità, mentre altri casati impoverirono o si spensero.

Però a questi uomini rapaci e disperati, ed agli altri sobrj, modesti e dilicati, s’aggiunse un terzo genere di persone, nè facinorose, nè timide, le quali con savia circospezione recavansi a passeggiare negli orti suburbani e pei campi, intorno le mura della città, alleviando l’animo oppresso colla vista della ridente natura, e insieme nutrendosi di laute e delicate vivande. Premunivansi contro l’alito pestifero, odorando fiori ed aromi d’ogni specie, nella speranza di evitare in tal guisa la sorte comune, o almeno di protrarre intanto giocondamente e tranquilla la vita in mezzo allo spavento, alla fuga, alle morti dei concittadini. Altri, d’egual tempra, scampando lungi da Firenze, si ritiravano nelle ville, quasi in asilo sicuro dalla pestilenza, che molti di loro nondimeno ivi pure raggiunse.

In siffatto modo gl’ingegnosi Fiorentini fuggirono, sprezzarono [284] e tentarono d’eludere il contagio, ma invano. Del pari in Milano si videro ladroni sfrenati e lascivi bottinare nelle vuote case; altri invece, modesti e cauti, solo curarsi della propria salvezza; e uomini gaudenti, ed esito eguale come accadde tra il popolo di Firenze.

IV. Confronto della pestilenza del 1630 con quella del 1576.

Ora, lasciati gli estranei, indagheremo il sempre uniforme andamento della peste tra noi, e fia non tanto paragone, quanto nuovo racconto delle vicende di Milano. Veramente all’età dei nostri padri non vi furono nè guerre, nè eserciti stranieri che col passaggio o la dimora angariassero il paese, disseminando per le terre il contagio, d’onde s’introdusse in città, siccome dimostrai essere avvenuto ai giorni nostri.

Imperocchè, debellato dall’imperatore Carlo V il re Francesco I, la Francia, per la prigionia di lui a Madrid, e l’esempio delle sofferte sciagure, prostrata ed avvilita, invano fremeva. Il figlio del vittorioso Carlo, bramoso di quiete, con ogni mezzo la procurava, essendo in lui trasfuso dal cielo lo spirito di sapienza e di pace più vivo che mai non fosse in alcun principe o mortale, a detta dei saggi. Perciò non solo tutta Italia era tranquillissima, ma anche i re stranieri tacevano, non osi di muoversi in armi. Allora non [285] precedette il contagio la fame[175], pessima delle tre furie, la quale a dì nostri spinse a tumultuare il popolo, rompendo al suo monarca quella fede ond’era sì superbo, che avrebbe impugnate le armi, se un altro popolo si fosse vantato averla più ossequiosa di lui.

I primordj del contagio nel 1576 vennero d’onde meno aspettavansi. L’origine del morbo fu diversa, e non pertanto simile per noi e per gli avi nostri.

Trento, Mantova, le città confinanti colla repubblica di Venezia e la stessa Venezia erano sporche di peste, e andavansi spopolando le terre lungo tutta la frontiera dello Stato. In quell’anno celebravasi in Milano il Giubileo secolare, impartito per favore del pontefice Gregorio XIII a codesta metropoli, colle stesse discipline con cui poc’anzi erasi celebrato in Roma, ove desideravasi la stabilita rinnovazione di quel grande e salutare mistero.

Mentre la gente accorreva in schiere a Milano per celebrare il Giubileo, che, offrendo il mezzo di tergere le colpe, riconciliava con Dio l’uman genere, non deve far meraviglia se alcuni delle terre infette portarono, venendo, la peste[176].

[286]

Paruzero, meschino villaggio sulle sponde del lago Maggiore, e Melegnano, popoloso borgo discosto dieci miglia dalla città, chiamare si ponno le porte per cui s’introdusse il contagio nel 1576, come furono nel 1630 Clusio, Bellano, Monza e Saronno, ed altre più o meno nobili terre. In que’ luoghi e in questi si svilupparono i germi del morbo, e dilatossi in ambedue le epoche verso la metropoli, cui recò non lieve danno la prima volta, gravissimo la seconda, lasciando di sè non peritura memoria presso i posteri e le estranee genti.

E siccome il Locato, il Bellano ed altre persone del volgo si resero famose presso le venture età, acquistando un’infame celebrità, essendo usciti dalle loro casipole i primi cadaveri con buboni ed altri sintomi di peste, così le cascine Comino, vicino al borgo degli Ortolani, e nel medesimo borgo, una vecchia ortolana sono per noi di triste ricordanza, poichè i loro nomi leggonsi primi tra quelli che infettarono Milano all’epoca dei nostri padri[177]. Riferiscono [287] gli annali di quel tempo, quali uomini introdussero e seminarono il morbo, come ho riferito. L’origine ed il progresso d’ambedue le pestilenze apparisce uniforme in quanto che vennero da straniere contrade, soltanto la prima in vece d’un soldato la recarono i pellegrini del Giubileo.

Differenza rimarchevole nel principio delle due pesti fu, che gli avi non si mostrarono increduli al morbo, la plebe stoltamente non ne rise, nè s’indugiò a por mano ai rimedj, mentre invece a’ dì nostri accadde il contrario con grave danno, siccome, scrivendo la presente storia, non ho potuto dissimulare. Nel 1576, all’irrompere del contagio, i governanti e coloro tutti che eseguire ne dovevano gli ordini, non lasciandosi vincere dal terrore, s’adoperarono per salvare il paese dall’imminente naufragio.

Non trovo che allora la plebe si scagliasse petulantemente contro i medici, inseguendoli a sassate, o che i nobili e gli impiegati li ingiuriassero a parole. Si comandò con [288] energia, e l’ubbidienza de’ cittadini fu modesta e intera; talchè se non riuscì ad essi con ciò di evitare il morbo, ne resero minore il danno. Invece a’ giorni nostri i loro figli ed eredi, non credendo e sprezzando la peste, ne sperimentarono più rapide e fatali le stragi. Pur nondimeno in questa fatale disparità di regime, di circostanze e opinioni, verificossi una coincidenza mirabile, e sto per dire divina; che tale potrebbero crederla fin quelli che interpretano molti degli umani eventi come effetto del caso. Ora dirò quale dessa fu.

Il Tribunale di Sanità, istituito dalla sapienza dei nostri antenati come una salvaguardia contro le stragi della morte, allorchè regnava tiranna la peste[178], ed al quale i trepidanti monarchi affidarono l’autorità loro durante il pericolo, il Tribunale della Sanità nel 1576 ebbe a presidente il senatore Gerolamo Monti, padre di Princivalle, ed avo di quel Marc’Antonio che fu presidente durante la nostra peste, e morì in carica, siccome raccontai.

Fu opinione non ambigua dell’intera città, che il generoso Monti, sprezzando i pericoli e non curante della vita, si sacrificasse per la patria, propostosi di seguire le vestigia dell’avo, e di lasciare in sè imitabile esempio ai posteri.

[289]

Essendo adunque Gerolamo Monti[179] presidente della Sanità l’anno 1576, ai primi romori di peste, d’animo nobilissimo com’era, s’infervorò di zelo e carità, eccitando i tribunali e gli altri magistrati, i quali però trovai che non abbisognarono d’eccitamento e di esortazioni.

I decreti e gli istituti ebbero un’impronta di grandezza e magnificenza pari a quelli fatti all’età nostra, meno che in allora non fuvvi incredulità, e quindi nessuna fatale tardanza. Vennero poste guardie ai ponti, ai traghetti dei fiumi; oltre la custodia delle porte in città, s’innalzarono le mura in que’ luoghi che bassi rendevano facile la scalata, e si ristaurarono dove ruinose, affine di chiudere ogni adito a’ quei di fuori.

Si scrissero soldati nelle singole regioni di Milano, ordinandoli in squadre, perchè a vicenda facessero la notte il giro delle mura. Furono scelti tra i nobili quelli che dovevano girare a cavallo per città, visitare le porte ed aver occhio a tutto; altri che procedessero ogni giorno fino tre e quattro miglia ed anche di più; altri che perlustrassero le campagne più lontane con una squadriglia di birri e soldati, come se andassero contro il nemico. Lo stesso Monti, benchè vecchio, e più forte d’animo che di corpo, si recava in persona ai villaggi sospetti con al fianco altri nobili, i quali lo seguivano per l’influenza che aveva su tutti gli animi e per la riputazione d’integrità e sapere di esso senatore.

Furono usate grandi cautele per le bollette e le osterie [290] nei villaggi e dovunque, affinchè non accadessero frodi, esibendo false bollette invece delle autentiche. Si proibì ricevere ne’ pubblici alberghi i pellegrini, come anche nelle terre i custodi dovevano, traverso i cancelli, gridar loro che si tenessero discosti, additando sentieri fuor di mano, seguendo i quali sarebbero pervenuti a taverne o casolari, dove loro accordavasi, secondo il diritto delle genti, ospitalità; ma segregati da qualunque comunicazione.

Fu interdetto di venire a Milano ai facchini e a tutti coloro che sogliono concorrervi dai monti e dalle vallate in cerca di lavoro, affinchè non eccedesse il numero stabilito de’ medesimi.

I fanciulli e le fanciulle derelitte dai parenti, e questuanti per le strade, non che i mendichi adulti, vennero presi e riuniti nell’antico edificio fuor delle mura, che dicesi la Vittoria, per ricordanza dei nemici ivi fugati ed uccisi, come lo comprovano le biancheggianti ossa che vedonsi anche oggidì nelle adjacenti campagne. Colà la squallida e sudicia caterva dei mendichi era alimentata a spese di S. Carlo[180], ed insieme istruita, non altrimenti di quel che [291] si fece a’ tempi nostri all’ospizio della Stella. Anche il Lazzaretto di San Gregorio e gli altri secondari si riempirono durante quella peste.

Giova il fare simili raffronti, perchè apparisca unica differenza fra i due contagi essere stata la maggiore o minore credenza sul principio, ed il numero più grande dei morti, appunto per l’incredulità loro. Nell’ultima pestilenza non si credette finchè non fur visti i cadaveri condotti alla sepoltura; invece i padri nostri tennero per certissimi i primi rumori di peste, e si premunirono con quanti rimedj è concesso d’usare a’ mortali.

Spinsero le cautele fino a proibire la vendita in città de’ funghi, dei frutti e delle uve immature. Ordinarono che i conciapelli cessassero dall’arte loro, e non si educassero bachi da seta, affine di evitare il puzzo: i loro figli e nipoti gli imitarono, adottando essi pure eguali provvedimenti. Le cloache, le fosse, che oggidì per mezzo delle acque sotterranee assorbono, e via trasportano tutte le [292] immondizie della città, ristaurarono se inservibili per vetustà, e ne aprirono di nuove laddove non esistevano.

Si lavorò, a quanto credo, assai più allora che durante la nostra peste, benchè si trovasse con istento il denaro occorrente. Esausto l’erario, il municipio trovavasi inoltre aggravato d’un debito per il regalo di duecento mila zecchini fatto al re, onde sostenesse la guerra contro i ribelli della Fiandra, nemici di lui e della cattolica religione.

Neppure s’incassavano le consuete imposte, con cui lo Stato sopporta i necessari pesi. Rimedio in tali strettezze fu un altro male, voglio dire i debiti, i pegni, ed il sussidio degli altrui denari, che produce sempre nuovi incomodi, perchè con simili ripieghi, non solo gli individui, ma popoli e Stati ricchissimi, credendo uscir d’imbarazzo, s’avviluppano miseramente, e con più danno, in lacci inestricabili. Soltanto che nello sbilancio de’ pubblici redditi ciascun uomo libero e indipendente lotta, dal canto suo, con energica costanza; e il male in tal guisa si va perpetuando insensibilmente, perchè le città non si ponno incarcerare per debiti.

I Decurioni in que’ giorni, giusta la consuetudine del Consiglio Generale, ogni qual volta dovettero a malincuore erogare alcuna somma per supplire alle gravosissime spese, ne resero pubblico conto, instando perchè l’erario ne sostenesse il carico. Dicevano ciò spettare al re per le antiche leggi; esservi l’esempio degli imperatori e degli Sforza; avere annuito Carlo V con decreto dell’anno 1529. A queste e simili rappresentanze fu risposto dai regi ministri, che lo stesso monarca era sopraccaricato di debiti[181], risposta spiacente e vergognosa per qualunque ministro, ma che non [293] fe’ arrossire quelli d’un monarca, padrone dei tesori del nuovo mondo, e sui dominii del quale non tramonta giammai il sole.

I reclami del Consiglio Generale, ed i rifiuti dei regi ministri circa le spese, furono identici in ambedue le pesti, come già ho riferito. In entrambe le epoche si trovarono uomini che diedero in prestito denaro alla città, ed ebbero la gloria di sostenere la patria, la quale però, dopo la calamità, trovossi impoverita pei guadagni de’ prestatori. Immaginarono gli avi, imitati anche in ciò dai nipoti, di stabilire un erario separato per alimentare il popolo, raccogliendo denaro dai Luoghi Pii, senza chiasso, senz’interesse, ed altresì senz’incontrare ostacoli, poichè quello era una specie di patrimonio del pubblico.

Non saprei decidere se i nostri vecchi furono di noi più zelanti e splendidi nelle preci e nei voti per rendere propizio Iddio e placarne lo sdegno, imperocchè quelli non potevano mostrarsi più religiosi, e i posteri, traendone esempio, gareggiarono con essi. Fecero voti, visitarono supplichevoli per molti giorni, senz’interruzione, le chiese; decretarono tempj da erigersi ai santi avvocati contro la peste; innalzarono oratorj, instituendo anche feste e digiuni. E memori che nel 1524, infuriando con più atroce violenza il contagio in Milano, eransi alzate colonne colla croce nei quadrivj, perchè, ricordando l’acerbissima morte di Cristo, consolassero ed ispirassero coraggio agli afflitti del morbo, e insieme rappresentassero loro il pegno e la speranza dell’eterna salute, ristaurarono que’ trofei cadenti per vetustà, eccitando il popolo a tener fissi sempre gli occhi a quel segno, vincitore della morte e del demonio.

Queste ed altre espiazioni adoperarono i maggiori nella loro pestilenza, e qual mezzo per sè efficacissimo a placare l’ira celeste, calarono dalla vôlta del Duomo il Chiodo, che, [294] infisso nel corpo del Redentore, fu anch’esso stromento della salvezza del genere umano; e trassero fuori quel ferro imbevuto del sangue divino, siccome reliquia, che avrebbe impetrata di certo la misericordia di Dio. Lo portò per le strade della città, seguìto dal popolo, il cardinale arcivescovo Carlo[182], che, per somma ventura di quell’età, fu tra non molti anni assunto fra i beati in cielo, dove la seguente generazione invocar lo doveva suo protettore. La qual peculiare circostanza avvalorò di molto le preci degli avi, e noi, ridotti all’estreme angustie, trasportammo il corpo del santo arcivescovo, mentre non era venuto ancora il giorno del perdono; indi non cessammo da religiose pratiche finchè Dio non accordò l’impetrata salute. Ma su tale argomento dicemmo ormai abbastanza.

Piuttosto sarà questo il luogo opportuno d’esporre ciocchè fecero, durante la loro peste, gli avi ed i padri dei nostri magistrati, ciocchè il Borromeo, santo patrono dei Milanesi, operò, non ultimo de’ grandi suoi meriti pei quali ora gode la beatitudine al cospetto di Dio, e qui in terra [295] cinto d’aureola il capo, ottenne l’onore della santificazione, il più esimio premio che ad uomo compartisca la divina misericordia.

Dopo la solenne processione, in cui Milano vide due mirabili cose, il preziosissimo ferro che traforò i nervi e le vene del Redentore, e il santo Pastore che lo portava colla destra lacera e sanguinosa, incominciò a farsi sentire più grave la fame, calamità quasi eguale alla pestilenza, o, per dir meglio, fomite della medesima. La carestia che precedette a dì nostri il morbo, sopraggiunse invece più tardi nel 1576, ma non riuscì meno funesta.

Il milanese territorio, che tanto si estende intorno la città, non forniva ormai più granaglia, privo d’agricoltori, i quali, morti, nascosti ne’ tugurj, ovvero rinchiusi nelle capanne degli appestati, sbalorditi dal terrore, attendevano con indolenza ai campestri lavori, o del tutto gli abbandonavano.

Il Consiglio Generale, annuente il governatore con regio placito, decise, per riparo, di comperare e far condurre a Milano buona copia di frumento dalle città di provincia, e segnatamente da Lodi, Alessandria, Novara e Pavia, come quelle che più abbondano di cereali. Non già che i loro abitanti negassero di vendere frumento; ma incrudelendo ed allargandosi ogni dì più la peste, aborrivano qualunque commercio colla metropoli, talchè riusciva difficile il commercio fra essa e le provincie.

I Pavesi in ispecie, con ardito rifiuto, s’erano resi odiosi, come accadde un tempo coi Romani, quando alcune colonie militari ricusarono di fornire soldati all’impero. Nondimeno si comperò frumento in copia, specialmente in Lumellina, e fissato lo stradale, venne riunito presso Abbiategrasso, in granaj ivi aperti lungo il naviglio, affinchè rinchiuso in altri sacchi e caricato su barche, si trasportasse in Milano [296] senza frode o senza pericolo d’infettare le terre donde veniva esso grano. E perchè l’operazione si eseguisse con ogni diligenza e cura, tanto il Consiglio Generale quanto i venditori, delegarono persone, le quali, recandosi sul luogo, invigilassero che il grano fosse scaricato e ricaricato colle debite cautele.

A costoro si diede ampia facoltà di costringere i fittabili e gli ammassatori di grani a vendere per equo prezzo al municipio quanto frumento, riso, orzo e segale avevano ne’ magazzini. E non solo a vendere, ma a trasportarlo ben condizionato a Milano ne’ pubblici granaj. Altre vettovaglie si raccoglievano a Binasco sul Pavese, e nel villaggio di Gallera[183] sul Lodigiano. Si stabilirono in quelle parti emporj, a’ quali ricorrevano dalla città i compratori, affine di non obbligare i venditori a venire ne’ paesi infetti di peste. Sul Pavese ebbero la sovrintendenza Guido e Giulio Scacabarozzi, sul Lodigiano Marco Fagnani, prefetto dell’annona.

Mentre, per alimentare i poveri adottavansi queste misure, senza cui sarebbero mancati i grani indispensabili alla vita; i magistrati ebbero cura anche dei salumi, olj, formaggi, majali, legna e carbone, oggetti che sussidiano quei di prima necessità. E furono inviati Ambrogio Archinto, Guido Cusani e Cesare Pietrasanta per farne acquisto sul Piacentino. Finalmente non si trascurò la più piccola cosa in mezzo a tante cure ed al trambusto. La quale previdenza, il più ammirabile degli scrittori latini, quasi colle medesime parole da me usate, narra aver avuta il Senato di Roma, allorquando la repubblica trovossi in pericolo.

Del resto, nel mentre queste minute cure ed altre ben più rilevanti, facendosi ad ogni ora più gravi, rendevano [297] ormai intollerabile il peso dell’amministrazione a’ nostri magistrati, non ristavano essi dal ripetere che le spese toccavano al regio Fisco. Ma veniva sempre data loro la solita risposta, il principe essere estraneo a quelle spese, vasto l’impero, nè bastare l’oro che ricavasi dalle miniere o dall’arena de’ fiumi, nè i tesori delle Indie e i tributi di tanti regni. Quando poi i regi furono stanchi dal continuo insistere, trovarono una sottigliezza per convalidare il rifiuto col diritto e l’interpretazione delle leggi. Venne fuori, sia dal governatore, sia dal Consiglio segreto, o forse d’ambidue, un rescritto del seguente tenore.

Gli egregi Decurioni instavano, sostenendo che toccava al re di pagare le somme impiegate per la peste, ma doversi fare una distinzione, separando cioè gli stipendi dei ministri dalle altre spese. I primi concedevasi di porli a carico dell’erario, ma non già il denaro consunto per alimentare il popolo, giacchè spetta alla città nutrire i suoi poveri, che dir si ponno membri del suo corpo. Appoggiavano la loro decisione col citare gli editti dei medesimi decurioni, allorchè sette anni prima nella carestia eransi addossato siffatto carico, spendendo settantamila zecchini per mantenere gl’indigenti.

I Decurioni, a nome della città, di nuovo replicarono non doversi apporre a pregiudizio quanto la città stessa, pietosa e splendida, in altri tempi elargì, nè tacciar di frodi i suoi meriti e l’ossequio verso il monarca. Perocchè la fedeltà al cattolico re, fu appunto quella che l’indusse a non lasciar perire di fame tante migliaja de’ suoi sudditi in Milano, che egli guardava con speciale indulgenza ed aveva sì cara. E siccome i Decurioni, volendo il giusto, non esigevano che tutto il peso gravitasse sul regio Fisco, si prese una strada di mezzo fra il bisogno e la munificenza.

Vennero assegnati quattro mila zecchini per anno alla [298] città da esigere sul dazio del sale, da aggiungersi ad altri quattro mila sulla misura del vino, non lieve sussidio nelle angustie del momento, ma non però quale esigevano le circostanze. Pel rimanente, il governatore diede speranza di poterlo impetrare dal re, qualora scemassero in avvenire le gravose e indispensabili spese che allora lo aggravavano. I magistrati ripreso coraggio, scelsero Brivio Sforza, idoneo, per avita nobiltà, per uso delle corti e pel favore di cui godeva presso il re, inviandolo a Madrid ad esporre le istanze del Consiglio Pubblico; gli diedero facoltà di legato, colle istruzioni relative all’affare, lasciando il resto in suo arbitrio, spiate che avesse la mente del re e le tendenze degli animi in corte.

Doveva lo Sforza, prima di tutto, far presente, che il decreto di Carlo V era chiaro, e senza veruna restrizione, per cui il figlio ed erede dell’impero e della gloria di lui, anche per riverenza del volere paterno, mosso a pietà, guardasse con clemenza e benignità l’infelice condizione dell’afflitta Milano. Qual esito abbia avuto codesta legazione, trovasi nei nostri annali relativi alle vicende di quell’epoca.

V[184]. Lazzaretti secondarj. — Capanne per gli appestati e per i poveri. — Medici. — Asilo pei bambini.

La peste frattanto non rallentava, a segno che le sue stragi sarebbero state più grandi d’ogni altra precedente, [299] ove non l’avesse di gran lunga oltrepassata quella dell’età nostra, nel descrivere la quale io forse seguii l’esempio di tutti i tempi e degli uomini, sempre proclivi ad esagerare i proprii mali a confronto degli altrui, talchè affermano le recenti sciagure di tutte le altre più atroci e terribili.

Anche allora pel contagio diffuso diventò angusto il Lazzaretto alla turba degli appestati, benchè sembri che un sì vasto edificio essere debba a tal uopo più che sufficiente per qualsiasi città. Nel 1576, come nel 1630, il popolo milanese, lagnandosi, come sempre, de’ beneficj e delle liberalità dei governanti, strepitava, tacciando d’avarizia e d’imprevidenza la saggezza de’ vecchi duca, perchè avessero troppa circoscritta l’area del Lazzaretto. A sentirlo avrebbero dovuto ingrandire quell’asilo della morte in guisa che abbracciasse tutta quanta l’ampia Milano sopravvenendo un contagio[185]!

In tale ristrettezza del Lazzaretto si supplì, come facemmo noi pure, alla turba, erigendo pei malati ed i moribondi, lazzaretti succursali fuori delle mure. Anzi ritengo in ciò aver noi seguito l’esempio lasciatoci dagli avi, i quali decretarono che da tutte le terre, entro il circuito di venti miglia, si trasportassero a Milano pali, assi e paglia, e venissero anche i contadini per innalzare le capanne. Furono queste duecento per ciascuna porta, e non fia inutile ricordarne la forma come trovasi descritta negli annali di quella pestilenza, affinchè non rimanga sepolta negli atti del municipio, ma si conosca eziandio dagli estranei, se mai questa mia storia fia letta un giorno in altri paesi.

Sceglievasi un luogo il più alto che si poteva e declive, [300] piantando per lungo le capanne in fila ed eguali, per quanto lo permetteva la natura del terreno.

Le strade intersecanti il lazzaretto aprivansi dieci braccia lontane l’una dall’altra, ed eravi uno spazio vuoto di sei braccia tra le singole capanne, le quali avevano tutte l’ingresso rivolto dalla medesima parte, con uno spiraglio sopra l’uscio, ed una imposta congegnata in guisa che ciascun malato, anche piovendo, potesse veder la luce, respirare l’aria libera, ed evitare in parte il tedio dell’angusto suo carcere.

Le capanne formavansi con travicelli, il pavimento di terra battuta ed alquanto alto perchè fosse meno umido, con vari buchi all’ingiro, pei quali l’acqua piovana colava entro rigagnoli. Una larga fossa[186] chiudeva intorno ciascun lazzaretto, per impedire che di giorno o fra le tenebre, alcuno vi penetrasse a maltrattare i rinchiusi, come anche perchè questi temerariamente non uscissero. In tale fossa colavano tutte le acque derivate, con canali, dalle vicine sorgenti pei vari usi dei lazzaretti. Fuori del recinto di ciascuno dei medesimi s’innalzavano tettoje pei soldati che facevano la guardia sul limitare: ivi pure sorgevano altri tugurj ad uso di cucina, taverne, farmacie, pei molteplici bisogni della numerosa famiglia là radunata. Una gran croce presentava la vista consolante del Redentore ai miseri appestati, chè la religione fu la prima d’ogni cura sì nel lazzaretto di San Gregorio[187] come ne’ secondarj. [301] Ogni mattina davasi il segnale perchè tutti, inginocchiandosi, volgessero gli occhi alla croce, meditando i tormenti sofferti da Cristo. Celebravasi giornalmente la messa in oratorj posti nel recinto, affinchè ciascun ammalato, dal limitare della propria capanna, potesse, se non ascoltare, vedere almeno il Santo Sacrificio.

Per impedire la fuga ai rinchiusi s’investirono di straordinari poteri alcuni gentiluomini, i quali avevano il titolo di capitano, e sotto di sè cento soldati per ciascheduno, con un pubblico scrivano ed altri uffiziali. La somma spesa in queste guardie fu di 46,000 lire, per fitto delle case vicine ai lazzaretti, legna, materassi ed altre suppellettili ad uso dei soldati e dei capi, non che per le cibarie.

Ad ogni porta di Milano si destinarono altri nobili, coll’incarico di comperare e spedire le vettovaglie ai lazzaretti. In questi però non ammettevansi con facilità e promiscuamente tutti i poveri; ma quando l’uffiziale, cui spettava tale cura, riferiva esservi alcun povero da trasportare fuori [302] di città, i nobili a ciò deputati nelle singole parrocchie, li visitavano. E trovate vere le esposte ragioni, lo ricevevano, pigliando nota in apposito registro del suo nome, cognome, condizione; se aveva moglie, e quanti figliuoli, sotto quale parrocchia, ed in quale casa abitasse, non che il giorno in cui venne ricevuto. Poscia, condotto o trasportato all’ingresso dei lazzaretto, spogliato degli abiti e lavato, si rivestiva d’una tunica nuova, era messo in una delle capanne insieme con un compagno, e talvolta con due, colla cautela di tenere sempre i sospetti e gli appestati in quartieri divisi[188].

[303]

Ogni quartiere aveva i propri ministri e inservienti, col divieto di qualunque menomo contatto fra loro, perchè i sani non contraessero il morbo.

Scarsi erano i medici, essendosi nascosti, o simulando di non essere tali, quei che anteponevano la dolcezza del vivere al lucro. Benchè si promettessero stipendii generosissimi, non si riuscì a cavar fuori dalle ville parecchi di loro, i quali vi si tenevano nascosti, abborrendo la mercede della morte. In codesta privazione d’un’arte, il cui nome soltanto è sollievo e farmaco agli infermi, nel mentre si cercavano [304] per ogni dove persone le quali, avendo almeno una tintura di medicina, acconsentissero ad entrare ne’ lazzaretti, capitarono vicino a Pavia alcuni Francesi che spacciavansi per medici, e tali si sarebbero creduti alla fisonomia ed all’abito. Mettevano fuori aforismi, e, condotti da un oste a visitare i malati in que’ dintorni, prescrissero medicine, bevute le quali, guarirono, probabilmente perchè non era giunta l’ora di morte per essi.

I Francesi dicevano d’esser avviati a Venezia per liberare dal contagio quella città. Un Lonato, spedito dalla Sanità a Pavia, assoldò e menò seco quattro o cinque dei sedicenti dottori, non più esperti della vecchia montanara che a’ giorni nostri s’intromise, come raccontai, nel Lazzaretto. Fu loro assegnato uno stipendio mensile, più largo che non avrebbero ardito pretendere i più riputati medici, cioè mille e seicento zecchini, la massima parte de’ quali venne loro sborsata all’istante.

Introdotti ne’ lazzaretti, si scoprì poco dopo, non so come, la lora sfrontatezza e ignoranza, per cui, messi in carcere, battuti con verghe e ritolto loro il denaro avuto, affinchè non fossero d’ulteriore aggravio, vennero scacciati. Due però di quei cerretani morirono di peste in prigione. Infine si ebbe ricorso al Collegio dei fisici che provvedesse in qualche modo all’urgenza, ed esso, coll’autorità sua, fe’ sì che uscirono fuori medici, i quali adempirono al proprio dovere. A ciascuno vennero assegnati dal pubblico zecchini cinquanta di salario per ogni mese: cento a Lanfranco Boniperti novarese, per la molta rinomanza di cui godeva nell’arte sua[189]. I medicinali, le pozioni e quant’altro si trovò [305] giovevole a curare e rifocillare i malati, somministrò Santa Corona, istituto che il fondatore, con regale munificenza, aperse a beneficio de’ poveri[190]. E quando non bastavano le rendite del medesimo, supplirono alla spesa i nobili ed il municipio.

Soccorso grandissimo in ogni bisogno prestava il cardinale arcivescovo Carlo, allora vivente qual santo tra gli uomini, ed io son d’avviso che quanto egli fece durante il contagio, valse più d’ogni altra azione dell’operosa sua vita a schiudergli le porte del cielo al termine di questa nostra calamitosa carriera, ed a procacciargli dappoi gli onori della canonizzazione. Egli assunse con gioja la cura degli appestati per amore del suo popolo, profuse ricchezze, vendè poderi, spogliò il palazzo per sovvenire a’ bisognosi, e assai più fece in tutto il tempo della pestilenza per la salute spirituale del suo gregge. Le quali cose non istarò ora a ripetere per averle già bastantemente spiegate nei libri che pubblicai sulla vita e il pontificato del Borromeo.

[306]

Il pane ed il vino si distribuivano nelle capanne come segue: venti oncie di pane di frumento per testa al giorno, ventotto oncie di vino non annacquato, un po’ di riso, o che altro più leggiero e gustoso secondo le prescrizioni del medico. Tali commestibili erano forniti dai dispensieri, e li recavano ai lazzaretti con tremende cautele a motivo del contagio. Quei di fuori provavano il terrore di chi si avvicina ad un covile di belve, poichè i rinchiusi, somigliavano a tante fiere ivi incatenate, nè uscivano a prendere le vettovaglie, finchè non eransi discostati i dispensieri dopo averle poste a terra lontano dal limitare.

Alcuno meraviglierà forse per tante sollecitudini e ripieghi usati par tenere in vita que’ plebei; ma rifletta che essi erano membri del corpo dello Stato, che importava sommamente di salvare la metropoli, e che le miserie e il sucidume del popolo mettevano a repentaglio anche la vita dei grandi. La città spese la somma di 105,000 lire per alimentare la caterva dei poveri chiusa ne’ tugurj dei lazzaretti, meglio e più salubremente che nelle loro case. Si raddoppiarono diligenze nella quarantena cui furono assoggettati per esplorare se la peste di nascosto non covasse tra loro.

Nelle file di capanne destinate ai quarantenanti, se alcuno moriva, quanti trovavansi nel medesimo recinto non potevano moversi di là o rientrare in città prima che trascorressero quaranta giorni da quella morte. Dopo il qual periodo di tempo, trasferivansi in altri recinti netti, che avevano due ingressi. Colui che doveva fare lo spurgo entrava da una porta, e spogliandosi, gettava fuori le vesti, poi lavatosi nel serbatojo ivi pronto, indossava un abito nuovo che gli veniva sporto dall’altra porta; allora soltanto gli era concesso l’uscire, ben inteso che non apparisse in lui il più lieve indizio di peste. Con tal [307] metodo si denudavano, lavavano ed esploravano gli uomini; quanto alle femmine, per non offendere il pudore, erano visitate dalle levatrici, che assistevano le partorienti nel lazzaretto.

Coloro che rientravano in città, subìta la quarantena, non potevano uscire dalle loro abitazioni e vagare liberamente, ma per venti giorni dovevano rimanervi chiusi ed isolati. Il denaro trovato nelle tasche dei morti nelle capanne o che essi palesavano celato in qualche nascondiglio, era restituito ai loro congiunti da uno dei Decurioni trascelto a questo ufficio. Qualora non vi fossero congiunti o parenti, ereditava il pubblico. Eguale buona fede ed esattezza usavano i nobili col denaro depositato da molti, credendo inevitabile la morte, poichè, guariti, lo riavevano senza la minima perdita. Il Senato, perchè non riuscissero vane le ultime volontà dei moribondi, decretò fosse lecito a qualunque ministro o custode de’ lazzaretti scrivere e firmare testamenti, i quali sarebbero validi come se dettati con tutte le solennità notarili, e col tabellionato inscritti nei loro atti autentici. E per evitare che l’ignoranza non desse luogo a frodi più dannose dei raggiri legali, s’aggiunse al decreto che simili testamenti sarebbero nulli senza l’approvazione del Senato.

I lattanti, i bambini di fresco spoppati, e tuttora deboli, rimasti privi di genitori; infelici non solo per l’imbecillità dell’infanzia, ma perchè privi d’ogni sussidio, morivano nei letticciuoli stessi ove erano ancora caldi i cadaveri dei genitori, o superstiti per maggiore sciagura, traendo a stento la vita, avvoltolavansi per terra, senza che alcuno li raccogliesse. I proprj mali e lo spavento dei maggiori pericoli sovrastanti faceva sì che niuno badasse a quel vergognoso disordine.

Finalmente il Municipio vi rimediò, destinando un ampio [308] edificio, nel quale i medesimi erano alimentati con materne cure, salvando questi sgraziati che parevano venuti in luce per tosto morire.

Balie, levatrici ed altre donne pietose e amorevoli, fungenti le veci di madre, che natura, madre comune, destina a fasciare e porre in culla il neonato che vagisce, quasi presago de’ mali dell’esistenza; tutte queste donne, madri ai figli dello Stato, furono a spese pubbliche e per cura dei nobili riunite in quell’ospizio, ove i derelitti bambini ebbero asilo. Il quale insieme colle nuove capanne che si dovettero innalzare pel numero degli appestati sempre crescente, mancando altresì paglia e legnami, costò cinquanta mila lire.

VI. Voto a S. Sebastiano. — Quarantena generale — Spurghi.

Il 23 ottobre i LX Decurioni, per la salute pubblica, fecero voto a S. Sebastiano martire, nostro concittadino, affinchè per le ferite aperte nel suo corpo dalle freccie, supplicasse Iddio a liberare Milano dal contagio. Il voto fu espresso colle seguenti parole:

«S. Sebastiano martire, nato in questa terra pel cielo, cittadino e alunno di Milano, che ne va glorioso, deh! pe’ meriti tuoi impetra grazia appo Dio onde abbia fine la pestilenza così fatale alla tua patria. Noi riedificheremo più grande e magnifica entro i quattro anni prossimi venturi la chiesa che i nostri avi dedicarono al [309] tuo nome. Il primo giorno anniversario che ricorrerà della tua festa offriremo a detta chiesa un vaso di cristallo per riporvi, col debito onore, le venerande reliquie del tuo corpo che ivi si conservano, portandolo noi Decurioni, col clero e col popolo, confessati in prima e comunicati, perchè il dono sia vieppiù aggradito».

I Decurioni, affinchè tutti conoscessero le promesse con cui obbligavansi al santo, e la città sancisse il voto, chiamarono persone dai borghi che rappresentassero le loro parrocchie, talchè il voto fosse solenne ed a nome del pubblico: i sindaci annuirono per lettere.

Circa la forma e il modo del ristauro della chiesa, vennero delegati a proporla ed a farla eseguire Alfonso Gallarato, Giovanni Arcimboldo e Battista Visconti. Erano gli animi infervorati e per divozione al martire concittadino e per la speranza d’impetrare salute per intercessione di lui. S’aggiunsero altri voti i quali ignoro se oggi sussistano ancora tutti, e vengano con fedeltà adempiuti, ovvero siano caduti in dissuetudine, come si fece e si farà sempre, perchè gli uomini sono fraudolenti perfino col cielo; ed all’antico peccato dell’uman genere s’aggiunge pur quello d’ingannare i santi.

I Decurioni, annuente e consigliante il governatore spagnuolo, promisero inoltre, a nome dei Milanesi, d’instituire una confraternita di S. Sebastiano. Primo a inscriversi fu il marchese d’Ayamonte, governatore, colla moglie e i figli, poi i Decurioni, il Senato, i magistrati ed i nobili secondo i loro gradi. Le discipline e gli obblighi di questa confraternita non furono assoggettati a verun regolamento; ma lasciati in arbitrio della volontà di ciascuno, che far poteva le opere pie che più gli andavano a genio. Distribuire ai poveri qualche limosina; i più ricchi impiegare grosse [310] somme in soccorso della pudicizia pericolante, massime se qualche nobile donzella trovavasi in simile rischio, seguire con torce la processione nella vigilia di S. Sebastiano, giorno in cui si trasportavano in Duomo le sue reliquie; lasciare dette torce ad usi pii, specialmente in raccogliere denaro per doti di fanciulle bisognose. Votarono altresì che il giorno dedicato al nome ed alla memoria del santo martire, sarebbe festivo in perpetuo pei Milanesi, esclusa ogni opera servile. In esso giorno si recherebbero coll’arcivescovo e il clero metropolitano alla chiesa di lui, portando i doni col rito e la pompa medesima, con cui la seconda festa di Pasqua si recano annualmente alla basilica di Sant’Ambrogio colle insegne di ciascun’arte, e lo stendardo dell’augustissimo pastore. Ultimo voto fu una messa quotidiana nella chiesa di San Sebastiano, da celebrarsi da un sacerdote eletto dalla città a nome di essa, e coll’onere di contribuire alla spesa della solenne funzione nell’anniversario del voto[191].

Si supplicò il cardinale arcivescovo che si facesse autore di questi voti, perocchè non sono validi senza l’autorità della Chiesa.

Frattanto il morbo, nè per umani rimedi, nè per divino soccorso rallentava, i redditi della città, le profuse elargizioni degli abitanti e fino le imposte forzose non bastavano alle spese giornaliere del contagio. Trovo scritto che a quell’epoca alcune persone diedero per uso pubblico, con ripetute largizioni, somme sì ingenti, che non lo crederei ove non facessero indubitata fede i registri. I più generosi in Milano furono Giacomo e Francesco d’Adda[192], i quali [311] le ricchezze tramandate dagli avi, o raccolte colla propria industria, nobilmente impiegarono nel sostenere in parte le pubbliche gravezze, largendo denaro alla città o prestandolo senz’interesse, mentre cert’altri usuraj ne fecero vile ed esecrabile traffico.

Questi sussidj però non bastavano, e si trattò di vendere alcuni redditi pubblici per incassare trentamila zecchini. Ma non presentavansi acquirenti, sicchè dovette il governatore costringere alcuni ricchi ad impiegare il loro denaro in siffatta compera.

Il Senato diede vacanze al foro, scarcerò i prigioni per debiti, i senatori, deposta la toga, come dimentichi del loro grado, camminavano per le strade in veste succinta[193]. Fu [312] poscia discusso tra il Senato ed i nobili del rimedio che nelle estreme angustie si ritenne sempre unico e più efficace, quantunque difficilissimo a mettere in pratica. Voglio dire, di tenere rinchiusa e segregata fino al quarantesimo giorno, che si crede il termine dell’esperimento contro i contagi, l’intera città come un individuo, e tante migliaja di persone quasi formassero un solo corpo.

La quarantena venne prorogata per l’enormità del dispendio e la scarsezza di quanto necessariamente bisognava somministrare alla moltitudine sequestrata. Temevasi inoltre che il popolo, stanco dello squallore e della solitudine domestica, senza pane e modo di vivere per mancanza di guadagno, cessati i lavori, sorgesse a tumultuare. Il disprezzo della morte che aveva di continuo sott’occhio, la vista dello stato in pericolo di ruinare per tanti mali, e la speranza dell’impunità potevano spingerlo ad ogni più disperato eccesso. Nondimeno si decisero ad intimare la quarantena generale: il 31 ottobre fu decretato che tutti si chiudessero nelle case, e proibito qualunque commercio e contatto e raccomunarsi pei bisogni giornalieri, se i cittadini volevano nuovamente godere la vita civile e la luce. Codesto rimedio contro la peste adottarono il governatore, il Consiglio Segreto, il Senato, il Tribunale di Sanità e di Provvisione, non che i LX Decurioni, i quali tutti, a nome del re e della patria, ne assunsero l’incarico a vantaggio della salute pubblica.

[313]

Sarebbe, aggiungevasi, una molestia di quaranta giorni, un isolamento necessario e salutare al tempo stesso. Niuno ardisse metter il piede fuori dal limitare della sua casa, e se trasgrediva il divieto, subirebbe gastighi, proscrizioni, multe, e quant’altro sogliono minacciare in tali casi i dominanti. A tutte le cose necessarie provvederebbe lo Stato.

Il decreto ebbe sollecita esecuzione; nel dì fissato ricchi e poveri rimasero in casa, e furono serrate tutte le botteghe, ad eccezione di quelle ove si vendevano commestibili. Ai poveri, le cui famiglie erano registrate in ogni quartiere, non mancarono i viveri e si conservano negli atti pubblici i nomi dei nobili che ebbero tale incarico nelle singole parti di Milano.

È la Misericordia una confraternita di nobili, che sotto un tal nome distribuiscono annualmente ventiquattro mila zecchini, se non che le morti e le calamità del tempo avevano sminuito d’assai tale patrimonio dei poveri.

Nell’oratorio della Misericordia riunivansi ogni giorno i delegati della confraternita a consulta per sciogliere i viluppi delle sempre nuove difficoltà che l’un l’altro esponeva. S’aggiunsero ai confratelli due nobili per ciascuna porta, e più ancora secondo che in questa o in quella parte di Milano maggiori erano le brighe. Quanto forniva il Municipio, recavasi dalle campagne, ovvero si comperava nelle botteghe, era deposto sul limitare d’ogni casa. Serrate tutte le porte della città, venivano ammessi coloro soltanto che recavano commestibili, e i quali, appena le avessero portate ne’ luoghi stabiliti, sia a privati sia a’ venditori, dovevano ripartire, esibendo le bollette. Nessuno di loro poteva pernottare entro le mura.

Formaronsi squadriglie d’uomini per andar in giro e comperare le cose necessarie: costoro avevano un permesso [314] rilasciato dai nobili, affinchè niuno, per girovagare, si unisse impunemente alle squadriglie. I bottegai e i rigattieri stavano allo sbocco ed all’ingresso delle contrade e in mezzo di tutti i corsi, affinchè ciascuno de’ vicini abitanti potesse comprare frutta, vino e commestibili d’ogni sorta. A venditori furono condonate le solite tasse, rinunziandone il municipio l’introito a vantaggio degli acquirenti.

Le taverne, le dispense e le primarie farmacie rimanevano aperte per la vendita soltanto da terza al tramonto, con cancelli dinanzi e vasi pieni d’aceto, ne’ quali si gettavano le monete perchè l’acrimonia di esso liquido purgasse i metalli. Altri nobili, due per parrocchia, ebbero lo speciale incarico d’indagare e riferire su quanto accadeva in ciascheduna casa, notare i sintomi favorevoli o sinistri, i morti repentinamente, coloro che già disperati risanavano. Questi nobili conoscevano casa per casa, padroni, inquilini e lo stato loro, altrettanto come la propria famiglia; gli tenevano scritti in appositi elenchi, e ne facevano tutti i giorni la ricognizione coi medici, continuando a tenerli rinchiusi, ovvero mandandoli alle capanne, secondo il giudizio dei medici stessi.

Erasi lasciata alla loro prudenza facoltà di concedere il permesso d’uscire, qualora trovavano giusti gli addotti motivi, con obbligo però d’informare i superiori. Altri nobili delle primarie famiglie sorvegliavano il loro operato, investiti d’ampi poteri, fino a punire di morte gli uffiziali subalterni ed i quarantenanti, perchè quelli non trascendessero, come è loro costume, a’ furti e rapine, e questi non uscissero dalle abitazioni, vagando con pericolo della salute pubblica. Altri nobili finalmente s’adoperavano coll’autorità ed i consigli perchè ciascuno adempisse il suo dovere.

Il cardinale arcivescovo assoggettò ad eguale disciplina il clero, ingiungendo che ogni ecclesiastico rimanesse in [315] casa, secondo le prescrizioni generali[194]. E colla santità e prudenza, virtù in lui esimie, stabilì che per evitare le funeste conseguenze dell’ozio nell’isolamento delle pareti domestiche, uomini e donne facessero orazione sette volte il giorno, al tocco delle campane[195]. Le quali preci, la messa quotidiana, giovarono a tener occupati gli animi in divoti pensieri e placare l’ira celeste.

Ai birri e custodi che già v’erano in Milano a cagione della pestilenza, s’aggiunse il banditore della città che ebbe speciale incombenza durante i quaranta giorni. Egli girava colla sua squadra, osservava le case, e se qualcuno usciva senza bolletta, con in mano una verga, minacciava istantaneo castigo ai delinquenti presi. Per le contrade eranvi forche alzate; il governatore offerse drappelli di soldati tedeschi a custodia delle singole porte; ma i Decurioni si scusarono dall’accettarli, perchè il Municipio, oppresso da tanti pesi insopportabili, non era in grado di supplire anche a siffatto dispendio.

[316]

Il marchese d’Ayamonte andò colla sua famiglia a Vigevano, conducendo seco alcuni dei primarj Decurioni del Consiglio segreto, i quali erano i suoi consiglieri intimi per gli affari. Investì d’ogni suo potere in Milano il presidente del Senato Rainoldo e Gabrio Serbelloni, distintissimi personaggi di quell’epoca, e superiori a tutti, il primo per sapere giuridico ed esperienza nell’applicazione delle leggi, l’altro per valor militare: entrambi per esemplarità di vita.

Gli annali dell’epoca tramandarono ai posteri il glorioso nome e l’inclite gesta del Serbelloni[196].

Colle esposte discipline si aprì la quarantena, che fu mantenuta sino al termine con maggior ordine e perseveranza che non a’ tempi nostri, giacchè, dopo incominciata, cadde poscia in disordine e venne abbandonata.

La intrapresero gli avi, ricorrendo ai santi, giusta l’antica consuetudine. Il senatore Castiglioni, cui nello scomparto della città era toccata la sorveglianza di Porta Vercellina, propose a’ colleghi di riunirsi nella chiesa di San Francesco, accostarsi alla mensa eucaristica e formare un comune peculio per soccorrere i poveri, facendo voto di [317] fare lo stesso ogni anno, ad imitazione del voto fatto nel 1524, quando la peste minacciava d’un totale sterminio Milano e la Lombardia.

In tal guisa, attivata e proseguita la quarantena, si tennero gli uomini rinchiusi come animali velenosi entro le tane, affinchè, coabitando, non ispargessero il principio contagioso. Quando nelle case, divenute altrettante carceri all’esigliato popolo, manifestavasi sintomo alcuno del morbo, si spurgava ogni suppellettile, e tutti gli oggetti di cui l’uomo fa uso, e finanche ciò che rimaner poteva infetto per la presenza o per l’alito. L’arte di fare gli spurghi ebbe origine a que’ giorni in Milano, infausta gloria della medesima! Ed io la descriverò in questa luttuosa mia storia, non perchè n’abbino invidia le altre città, ma perchè giovar se ne possano, ed averne gratitudine a Milano, quando mai ritornassero codesti tempi, in cui s’acqueta fra gli uomini ogni gara.

La casa infetta veniva tosto contrassegnata, affinchè si evitasse come lo stesso contagio. Il cadavere dell’appestato asportavasi dai Monatti[197], e gli infermi, se ve n’erano, si conducevano alle capanne fuori della mura; gli scrigni poi, le casse e tutte le loro masserizie venivano poste in istrada o nella corte. Non s’apriva però o movevasi cosa alcuna [318] se non in presenza di testimoni, e invitati coloro che vi avevano interesse. Il denaro trovato recavasi a Francesco Ornati, cassiere dell’erario pubblico, e rimaneva in deposito presso di lui, fino al tempo della restituzione. Abbruciavansi gli oggetti di poco o nessun valore, gli altri, previo elenco e marca, si consegnavano ai Monatti sporchi in separati fardelli, perchè li portassero ai lavacri, spurgandoli a tenore della loro qualità. Altri Monatti netti, entrando in casa, profumavano con storace, incenso e pece in gran copia l’inospitale dimora e le infette pareti; lavavano ogni parte con calce e ranno per staccarne e detergerne la peste. Mescolate due libbre d’incenso ed una di pece, gettavasi sul fuoco, e il salutifero vapore spargevasi per tutta la casa. Sulle robe che si portavano alle fonti per lo spurgo, era scritto sopra il nome del proprietario; gli stessi Monatti, poste sopra pali le schede dei nomi, le mostravano poscia ai padroni cui dovevano restituirsi le robe o qualsiasi altra merce.

Le case con tal metodo spurgate furono 8953; le famiglie 4066, la spesa del municipio negli spurghi e suffumigi, oltre quelli sostenute privatamente da coloro cui interessava di mantenere nette e le abitazioni e le suppellettili loro, salirono a 120,000 lire[198].

I cocconi che i bachi da seta, finchè sono entr’essi chiusi, tessono e spalmano colla loro saliva, turpe e fetida officina di vermi che dà in seguito sì gran lucro e splendore agli opificj della città, venivano collocati sopra bacini, e sottopostovi carboni ardenti con aggiunta una mistura, temperavasi col vapore e col fumo il nauseante puzzo dei medesimi onde non fosse nocivo.

[319]

Le stoffe poi e le vesti di seta gettavansi entro una caldaja in cui bollivano erbe medicinali; il luogo dell’operazione chiudevasi tutto all’ingiro, perchè quel fumo e calore dispendioso senz’alcun frutto non si dileguasse per l’aria. In egual modo spurgavansi i giojelli d’oro e d’argento, tutte le vesti di bambagia e di lana, qualora non fossero già inzuppate d’olio, immergevansi in quel bollente liquido, poi nell’acqua fredda ripetute volte, forzando così a staccarsi la sanie che avessero per l’addietro assorbita.

I manipoli di canape o lino infetto ponevansi nelle acque correnti e vi si lasciavano tre giorni. Tutte le stoffe si ritenne bastante profumarle con fumo odorifero; le pelliccie, se di poco conto, gettavansi al fuoco, se no venivano seppellite in botti con calce: quando poi esigevano, pel molto prezzo, maggior cura, messe in un ordigno movibile, si facevano girare sopra un recipiente di legno riscaldato con suffumigi, perchè non si guastasse la morbidezza e il lucido dei peli. Con queste cautele si conservavano le pelliccie, evitando il pericolo che in simili oggetti di mollezza e di lusso s’occultasse la peste. I codici, registri, le librerie, quante carte eranvi presso gli speziali, gli albergatori, i causidici e i medici, i cuoj, le piume, la borra, stramazzi e letti, quadri, metalli, e checchè altro serve alla vita, agli studi o ai piaceri degli uomini, veniva esposto prima all’aria salubre ed a cielo sereno, purgato e asterso più volte con liquidi e profumi. E si rinvenne l’arte di non guastare tali cose nello spurgo, giacchè provvedendo alla salute, si voleva conservare ciò che abbellisce l’esistenza.

Spese il municipio 24,000 lire nell’acquisto dell’area e luoghi circostanti per innalzare le lavanderie, e nella fabbrica di esse. Due genovesi, Spinola e Gianfoglieta, mostrarono una splendidezza d’animo pari a quella dell’ammirabile [320] loro concittadino il Lomellini, che a’ giorni nostri largì denaro con tanta profusione, da offendere la modestia dei beneficati, a segno che solo gli uomini senza pudore ricevevano soccorsi da lui[199]. Que’ due genovesi regalarono essi pure denaro al municipio, e comperate vettovaglie nel territorio lodigiano, le introdussero in Milano, vendendole ai poveri all’egual prezzo dell’acquisto, rinunziando in tal guisa ad una città, cui erano estranei, il guadagno proprio e degli avidi rivenditori. Le parrocchie urbane, emulando questa munificenza, e vergognando di lasciarsi superare in generosità da forastieri, invece di dar loro l’esempio, assunsero l’impegno di mantenere ciascuna i suoi poveri, addossandosi ripartitamente il peso che gravitava sul municipio.

Con queste largizioni de’ cittadini e degli estranei, proseguiva la quarantena; e non era ancora giunta a metà, che s’incominciò a provarne gli effetti salutari ed un sollievo crescente, che l’alternarsi del morbo rafforzava ogni dì le speranze. Notabile differenza tra i due contagi che la nostra peste non scemò fino all’ultimo, mancando le risorse dei magistrati, la pazienza e la sommessione del popolo.

Nè soltanto perseverarono i nostri avi nell’intrapresa quarantena, ma giunti quasi al suo termine, la ricominciarono per altri quaranta giorni, affine d’esplorare più intensamente l’insidioso morbo, sempre fallace, e che a guisa d’implacabile nemico sprezza le tregue e fino la pace conchiusa. Così ordinava lo stesso governatore, ritirato a quel tempo in Vigevano, e cui avevano scritto i Decurioni tornare salubre tutta la città e scomparire la peste.

[321]

VII. Donativi di Casalmaggiore.

Il municipio fece una nuova vendita per lire 300,000[200] delle sue gabelle, costringendo, come nella prima, i privati a farne acquisto, sotto condizione che sarebbe allo stesso facoltativo in perpetuo, restituendo il denaro, di ricuperare ciocchè le urgenze del momento l’avevano costretto ad alienare. Le città provinciali e villaggi vicini gareggiavano coi lontani in zelo e munificenza verso la metropoli, ad esempio delle antiche colonie che inviarono a Roma coppe d’oro per alleviare il meglio che potevano le ristrettezze dell’impero.

Casalmaggiore spedì mille botti di vino[201], con un delegato che lo offerse in dono al nostro Consiglio generale con ornate parole. «Sanno i Casalaschi, diss’egli, che Milano, loro capitale e dominante, scarseggia di viveri per [322] nutrire tante migliaja d’indigenti dalla peste, tenuti rinchiusi nelle case e privi d’ogni lavoro». Laonde mandavano quel vino raccolto nelle lor campagne come un tributo, ed altri ne spedirebbero raccolti o procurati altrove. Pregavano a ricevere con aggradimento il vino, non pel suo valore, ma apprezzando il buon animo di quelli che l’offerivano, secondo fece il senato e il popolo romano colle sue colonie, come attestano gli antichi monumenti.

I Decurioni, ricevuto il dono, lodarono la cortesia di quel nobile municipio e la sua fedeltà allo Stato, luminosa anche in altri tempi. In appresso fu onorifico pe’ Casalaschi un tal fatto, perocchè il collegio dei Giudici, che è, per così dire, il semenzajo de’ Senatori, racchiudendo in sè il fiore degli uomini nobili e assennati di Milano, antepose, nel conferire un impiego ambito da molti, uno di Casale soltanto perchè oriundo di quella città.

Poco dopo la stessa inviò un altro regalo di lieve entità, ma gradito dai grandi per dar forze a’ bisognosi languenti; mille polli, che, rinchiusi com’erano nelle gabbie, mandaronsi tosto alle capanne per distribuirli. Casale in tal modo sovvenne con munificenza e cortesia l’afflitta metropoli, e ne ottenne la gratitudine.

I Decurioni la sentivano più viva, chè al recente benefizio, aggiungevasi l’antico lustro di quella terra, nobile ed onorata fin dai tempi romani al pari delle più grandi città, avendo ivi piantati gli accampamenti l’esercito durante la guerra tra Ottone e Vitellio, d’onde trasse principio e nome[202]. Ne’ secoli posteriori fiorì sempre Casale nelle lettere, nelle armi e in tutte civili discipline, e da lei uscì l’inclito cittadino Giovanni Baldesio, che, simile ad uno dei [323] tre Orazj cui venne un giorno affidata la sorte di Roma, duellò in singolare tenzone con Enrico, figlio d’Enrico imperatore, che stringeva d’assedio Cremona. Baldesio, vincitore, trafisse a morte l’avversario, ponendo così fine alla guerra cui erano i Milanesi intervenuti per sostenere la libertà di Cremona, la quale cessò di pagar l’annuo tributo all’impero. Laonde que’ cittadini innalzarono una statua al loro liberatore, e ricopertala d’un manto purpureo, festeggiano l’anniversario di quel trionfo.

Oramai avvicinavasi il termine della peste, e gli avi, non meno divoti di noi, non cessavano dal ringraziar Dio per la ricevuta salute, aggiungendo pur anche i loro sforzi alla divina clemenza. Adempirono i voti, come femmo noi pure, e siccome la festa di S. Sebastiano coincideva quasi col termine della quarantena che, ricominciata una seconda volta, avvicinavasi con ottime speranze al desiato compimento, si decretò di recarsi la vigilia della festa con processione solenne all’altare del martire, e deporvi il vaso col sacro osso; che tale era il voto de’ Milanesi.

V’intervenne il governatore Ayamonte, per quest’unico motivo da Vigevano venuto a Milano, e dodici fra Senatori e Decurioni. Celebrò S. Carlo allo stesso altare, ed amministrò di sua mano l’Eucaristia a tutti gli astanti. Se non che allora evitarono e provvidero ciò che i magistrati dell’età nostra non scorsero, ovvero neglessero; voglio dire, proibirono al popolo d’affollarsi in chiesa; escire in molti dalle case e far crocchj per le strade; stabilendo agli individui giorni ed ore e tempi diversi, non solo per andare in chiesa, ma pel disimpegno delle proprie faccende, mentre noi al contrario, trascurando codesta prudentissima distribuzione, e lasciando che la moltitudine s’accalcasse promiscua nelle processioni ed altre divote pratiche, anche queste riuscirono di fomite al contagio. Proibirono altresì gli [324] avi il ritorno in città a quanti per timore erano fuggiti a nascondersi nelle ville o nei campi; e quanti, mitigata la peste, presentavansi giornalmente alle porte, erano respinti. Invece all’età nostra, i nobili fuggiaschi vennero non solo spontaneamente richiamati, ma si minacciarono con pene i contumaci. Nelle altre cure, sul finire della calamità, furono eguali e nel 1577 e nel 1631 la diligenza e gli sforzi cui avvalorava la crescente speranza, e la brama di non rendersi indegni colla trascuratezza della grazia da Dio ricevuta.

Giunta la nuova a Milano che Brescia era afflitta dallo stesso morbo, il Tribunale di Sanità proibì qualunque commercio co’ Bresciani ed il loro territorio, e si stabilirono le opportune guardie ai confini; altrettanto si fece poco dopo con Pavia per essersi ivi pure manifestato il contagio.

Il governatore spagnuolo stava in grandissima agitazione, per tema non ripullulasse in Milano, tanto più che al presidente Monti, uscito di carica spirato l’anno, sottentrò il senatore Brugora, nuovo nelle cose sanitarie. Un decreto regio vietò con severe pene, di ricevere chicchessia in città, anche muniti di regolare bolletta: il solo Gabrio Serbelloni ebbe la facoltà di ammettere chi voleva, e niuno entrava senza un permesso da lui sottoscritto[203]. Vennero pure fissate chiese vicine alle mura, ove si recassero per adempire i doveri di religione gli uomini e le donne separatamente. Così avevano ingiunto i medici di permettere alcun sollievo ai rinchiusi, perchè respirassero dal carcere diuturno, senza però lasciarli vagare alla rinfusa, o riunirsi ne’ luoghi medesimi.

[325]

I fanciulli e le donne in ispecie non si potevano frenare, impazienti come augelli usciti di gabbia, e per la petulanza del sesso e l’imprudenza fanciullesca, infrangenti le leggi sanitarie: fu quindi d’uopo rinchiuderli e porli di nuovo sotto custodia. I disordini continuarono nel lazzaretto di San Gregorio, vicino al quale eransi riuniti nei campi i miserabili degli altri lazzaretti e delle capanne, come altresì continuavano nell’ospitale pei convalescenti, aperto vicino a San Dionigi. I Monatti sporchi erano frammisti coi sani, e delitti e scelleraggini d’ogni genere pullulavano in quegli asili per la convivenza dei rinchiusi, a guisa che nei corpi umani afflitti da lunghi morbi si generano nuovi malanni. Per la qual cosa, mentre il contagio era sul finire, e consolidavasi la pubblica salute, que’ luoghi riuscivano pestilenziali a Milano; così vedemmo noi pure deturpati i lazzaretti per quante colpe e turpitudini sogliono commettere gli uomini.

Anche nel 1576 fu investito d’ampissimi poteri, come dittatore e giudice, un uomo che si trovò laddove nessuno l’avrebbe creduto, e dove nondimeno un altro ne rinvenne l’età nostra. Fra Paolo da Brescia cappuccino, simile in parte al padre Felice, era d’altronde più idoneo all’ufficio suo per severità, aspri modi, e certa feroce indole propria del suo paese. Egli venne messo alla direzione del Lazzaretto da S. Carlo[204], e anche oggidì vive in bocca degli [326] uomini la memoria de’ satelliti di fra Paolo, de’ carnefici, patiboli, cavalletti, e di lui medesimo, armato e sempre truce e minaccioso in viso sia che comandasse, che punisse. Oh! quale spettacolo vedere un frate col cappuccio travestito da magistrato; ma a ciò stringeva la sciagurata condizione di que’ tempi. Egli, censore severissimo[205], gastigò e represse i furti, le libidini e gli altri vizj, che senza tregua baldanzeggiavano in quegli antri della miseria e del bisogno.

Un altro non meno ammirabile spettacolo offrivano que’ luoghi; la riottosa lasciva e nuda turba ricevente vesti e coltri mandate dall’arcivescovado. S. Carlo, come narrai nella sua vita, vendette, per vestire i poveri, le tappezzerie, gli arazzi, i drappi, e quanto aveva presso di sè raccolto dai cortigiani durante il pontificato dello zio Pio IV, o li fece tagliare e distribuire ai medesimi perchè si coprissero. Avrebbe taluno meravigliato e riso, vedendo nel Lazzaretto i plebei abbigliati sfarzosamente di seta, di porpora e d’altre stoffe preziose, secondo che a ciascuno era toccato in sorte[206]. Cittadini e mercanti ricchissimi spedirono [327] in dono al Lazzaretto fino a mille coltri, ed il Municipio spese esso pure in vestire la nuda plebe lir. 8000, mosso a vergogna pel suo decoro e munificenza, benchè si trovasse ormai esausto di denaro. E ciò mentre la peste, nè rallentando nè crescendo, teneva gli animi incerti tra il timore e le speranze.

Sul finire del 1576 Milano si ritrovò libera dal contagio, e i suoi abitanti, sgombri i sospetti e rassicurati, ripresero le ordinarie occupazioni della vita. Si trattò di dichiarar sana la città, ad istanza del senatore Magenta, successo al Brugora come presidente della Sanità, e impegnatissimo che durante l’anno del suo regime si abbattessero tutte le capanne, non lasciando alcun vestigio di que’ funesti ricettacoli.

S’aspettò il giorno di S. Sebastiano, nel quale, con decreti e per mezzo dei banditori, fra il giulivo rimbombo delle campane e le salve d’artiglieria, con giubilo universale fu promulgato essere la città di Milano, per la divina clemenza, per favore della Beatissima Vergine, dei Santi, e massime del martire concittadino S. Sebastiano, libera di peste, e riaperto il commercio colle altre città. D’ora in poi era in facoltà di tutti l’uscire e l’entrare nelle case, godendo la pristina libertà, l’aere e la luce del cielo comuni [328] agli uomini. Quel giorno venne festeggiato dai Milanesi, che rinascevano alla vita civile; sopraggiunta la notte, l’intera città venne illuminata; splendevano i lumi sui balconi, le finestre, i comignoli dei tetti, sulle piazze e per le vie in grandissimo numero, talchè pareva risplendesse il sole in pien meriggio. Raccontarono i superstiti, a noi nipoti, che non videro mai giorno più clamoroso di quella notte di S. Sebastiano, perchè l’intera popolazione, sopravvissuta al contagio, girava per le vie, ringraziando con vociferazioni di gioja il santo protettore; squilli di trombe e musicali stromenti risuonavano in ogni parte.

Queste cose si fecero in Milano nel 1576, epoca memoranda, perchè reggeva la nostra Chiesa l’immortale San Carlo. Egli soccorse il popolo durante quella strage col fervore ispiratogli dal cielo, colle fatiche e la pietà del clero da lui istruito, degli Ordini religiosi, e specialmente col sussidio de’ Padri della Compagnia di Gesù, religione che sparse dappoi sì gran luce nella Chiesa, ed istruì nelle scienze, nelle lettere, ne’ buoni costumi tante lontane genti, e che allora ne’ suoi primordj si rese benemerita di S. Carlo e di Milano[207].

[329]

VIII. Nuove particolarità intorno i Presidenti della Sanità nel contagio del 1630. — Si accenna il gran numero degli altri Magistrati.

Esposi quanto riscontrasi fra le due pestilenze di simile, in guisa che si confonderebbero in una sola, e quanto v’ha di diverso e non paragonabile in alcun modo. Ora mi si presenta un fatto segnalatissimo, non attribuibile al mero caso, bensì alla non interrotta successione delle più cospicue famiglie di Milano, dalle quali, come da perenne sorgente, escono personaggi idonei alle più illustri magistrature. E fia giocondo, nel luttuoso racconto, contemplare, nella cessata peste, i figli ed i nipoti de’ nobili sostenere le cariche medesime che i loro padri ed avi sostennero nel precedente contagio, il che apparirebbe ov’io ne ricordassi i singoli nomi.

Il presidente della Sanità, nel più fiero imperversare del morbo, del quale rimase vittima, fu, come già dissi, Antonio [330] Monti, figlio e pronipote di senatori, e fratello del cardinale arcivescovo che in oggi, con tanta gloria, regge questa Chiesa[208]. Il re nominollo senatore appena toccò l’età prescritta, e pei meriti della famiglia e per le chiare sue virtù.

[331]

Bello e dignitoso della persona, d’ingegno elegante, egli morì sul fiore degli anni, e fu lagrimato non solo dal popolo, che lo amava, ma dagli stessi grandi. Spenta l’invidia, cresceva il dolore per non avere lasciato figli, ed accusavasi l’egregio giovane di ciò appunto che forma l’elogio e la sua gloria, voglio dire della generosità con cui si gettò fra i pericoli della peste, affrontando impavido la morte pel bene del suo paese.

Prima del Monti, fu presidente della Sanità, nei primi mesi del contagio, il senatore Arconati[209], maggiore d’età, non però ancor vecchio. Pieno anch’egli di compassione per le sciagure di Milano, vi provvide con zelo, non temendo una morte vicina, cui isfuggì per allora. L’Arconati riassunse il terribile ufficio, affrontandone intrepido tutti i rischi; imperocchè, morto il Monti, il Senato lo pregò e scongiurò ad accettare, benchè contro la regola, la presidenza del Tribunale di Sanità, non essendovi alcuno più idoneo di lui. Accettò, e fu vittima della peste, lasciando desiderio di sè ne’ concittadini, i quali, istupiditi dallo spavento e dal male, pur ne lamentarono la perdita. Ma più vivo si fece il dolore, allorquando, cessato il flagello, si fecero a noverare tutti i sofferti danni.

Nobile e rinomata famiglia è l’Arconati; ma quand’anche tale non fosse stata, ei solo l’avrebbe resa illustre, sì grande era la perizia di lui nelle leggi, l’affabilità dei modi e la beneficenza. Passato per tutti i gradi dei minori impieghi, era divenuto senatore e presidente: la furiosa peste mietè quest’altro fiore della patria nostra.

Gli altri che succedettero a capo del Tribunale di Sanità, zelavano d’emulare il nome e la gloria dei predecessori; [332] se non che mancò loro l’occasione di distinguersi. Imperocchè, venuti in carica in sul finire della pestilenza, ebbero a lottare colla scelleraggine dei Monatti e coll’avarizia e il sucidume de’ poveri, affinchè, nascondendo i cenci e sottraendo abiti, camisce, coltri, biancheria e quant’altro dovevasi abbruciare come infetto, non mantenessero vivo il principio contagioso. La spilorceria di quei miserabili diede in sulle prime molti fastidj al presidente Visconti, che rivolse ogni cura a punirli, e reprimere uno sfacciatissimo traffico di simili oggetti esercitato da molti occultamente ed anche in pubblico con insulto della divina clemenza, e nuovo danno dello Stato.

Discendeva questo senatore dagli antichi duchi di Milano, e diede splendida prova de’ suoi generosi sentimenti in questa vile trattativa, perocchè coll’autorità del nome ed il terrore de’ castighi, impedì che la peste ripullulasse pel contatto de’ cenci. Dottissimo in diritto civile, consideravasi, all’età nostra, qual emulo di Scevola, di Paolo e degli altri famosi giureconsulti, i quali, coi loro rescritti e responsi, compilarono le leggi nei bei tempi della latinità.

Egual fama tra i dotti godeva il presidente Bescapè, il quale, ripullulando il morbo sul lago di Como, allorchè tutti credevansi sicuri, l’estirpò dalle radici, impedendo ogni commercio agli abitanti. Uomo austero e rigoroso, di animo e di corpo indomito, non senza ragione i letterati lo paragonarono a colui che gli antichi con greca parola dissero avere viscere di ferro. Ammansò i Cremonesi, essendo loro pretore, ed accusato presso il censore regio, venne assolto dal re, non senza vergogna de’ suoi accusatori.

Religioso, prodigò denaro per innalzar tempi e istituire messe quotidiane, assegnando annui lasciti per la manutenzione. Egli spese alcune migliaja di zecchini per fabbricare [333] una chiesa nel villaggio di Bescapè, cognome della sua famiglia. La quale risale fino ai tempi degli apostoli, e fu così appellata perchè i maggiori concessero in Roma uno spazio di terreno a Papa Cajo per edificarvi la Basilica di San Pietro.

Tali egregi presidenti di Sanità ebbe Milano durante il triennio della peste.

Io compilerei un volume se volessi riferire i nomi e i titoli dei Decurioni e degli altri magistrati che li sussidiarono; e non riuscirei ancora a raccoglierli tutti. Immane lavoro! e d’altronde sorgente d’odio e di invidia per coloro che fossero obbliati.

Così il poeta Omero, sconfidando di enumerare le schiere e i duci venuti alla guerra di Troja, invocò nell’Iliade le muse perchè le noverassero. Avessi io ingegno e facondia maggiore! che ricorderei non solo i nomi di tutti i nostri magistrati, ma il coraggio, le opere esimie, la gara di carità tra loro, e le morti. Rimasero fermi in Milano, frammisti ai cadaveri; si recarono nei villaggi e nelle provincie appestate come se andassero alle proprie ville; presero cura de’ sepolcri; andarono legati nel campo; nè badarono a dispendio per sovvenire ai pubblici bisogni.

Lode e gloria agli altri cittadini, ai mercanti, ai ricchi popolani ed alla minore nobiltà, la quale meno chiara ma più ricca sovente delle primarie famiglie, la imita ne’ vizi e nelle virtù, e gareggiando con essa specialmente in questa città, diede egregie prove di sè durante la pestilenza. Se non che m’è forza tacerne i nomi, perchè troppo numerosi, come già disse un geografo parlando delle isole del mare Egeo; quantunque meritino d’essere ricordate. Furono gli accennati che assunsero il regime dei lazzaretti; nutrirono i rinchiusi, e mantennero l’ordine in que’ ricettacoli della morte con provvide discipline. Nell’eseguire i comandi [334] de’ sommi magistrati, giovarono assaissimo non solo colla prudenza e industria loro, ma altresì col denaro, che era in que’ giorni, fuori di dubbio, il perno d’ogni cosa.

IX. Il Senato e il Presidente del medesimo nel tempo del contagio.

In codesta gara di magistrati e cittadini zelanti di salvare la patria dall’eccidio, e nella gara pur anche de’ mercadanti di eseguire con zelo e fedelmente gli incarichi loro affidati in quel regno della peste e della morte, sovrastava a tutti per poteri e vigilanza il Senato, cui lo stesso monarca investì dell’autorità e grandezza del suo nome. E fu buon consiglio l’affidare il potere sovrano a quest’ordine, per tenere in freno le umane ambizioni e le altre magistrature, affinchè non ardissero venire con lui a contesa di supremazia. I membri del Consiglio Generale vigilarono quai scolte della salute pubblica, sovvenendo con inesauribili sussidj la popolazione affamata e moriente; i Senatori s’adoperarono contro gli Untori ed il terrore de’ veneficj. Nei giudizj e nelle pene inflitte usarono tanta moderazione e pietà, che, se esistè realmente in Milano questo delitto delle unzioni, non poteva il Senato agire con più clemenza di quel che fece, inviando a morte i rei, invece di farli sbranare dalle fiere e dai cani. Se poi non erano che sospetti e indizi di tale misfatto, grandissima fu la previdenza dei Senatori medesimi nel punire i principj delle [335] scelleratezze che simili mostruosi sospetti lasciavano travedere[210].

I Senatori Picenardo e Aria trattarono il processo delle unzioni. Fu il primo interprete di diritto in una cattedra dell’università Ticinense, e godeva anche presso le altre università gran fama per la sua dottrina; creato senatore, indi presidente del Magistrato Ordinario, e infine reggente del Consiglio Supremo per gli affari d’Italia a Madrid, il re, attesa la sua vecchiaja, gli accordò il riposo in patria. L’Aria, ancora in età giovanile, era paragonabile, per ingegno e per indole, al vecchio collega, e mi fu largo di notizie mentr’io scriveva le guerre di questa età, talchè, mercè di lui, potei nella mia storia estendermi sì nelle politiche deliberazioni, che nel racconto degli avvenimenti e nella spiegazione di molti fatti importanti.

Entrambi i lodati Senatori continuarono nel proprio ufficio, non atterriti dalle stragi e neppure dai casi dei loro famigliari, che vennero unti dai medesimi inquisiti.

Era presidente del Senato a que’ giorni Giovanni Battista Trotti, figlio del senatore Camillo e nipote di Luigi, il quale godeva l’intima confidenza di Francesco Sforza, in modo che lui solo adoperava per gli affari del ducato ed i pubblici consigli. Così leggesi di lui nella lapide che il presidente Giovanni Battista, per ricordo de’ suoi maggiori, fece collocare all’avo ed al padre quando ristaurò e ornò la cappella di sua famiglia nella chiesa di San Marco[211]. Uscito il Trotti da sì illustre stirpe, conscio di quanto doveva [336] al pubblico ed alla memoria avita e paterna, sosteneva con ansiosa sollecitudine il grave peso addossatogli dal re, non solo per salvar Milano, ma per conservare il lustro del Senato, conseguendone egli meritata lode. In mezzo a tanti pericoli, fra le continue stragi de’ cittadini, udendo ogni giorno la perdita di qualche magistrato, e scemando il numero dei Senatori per la morte d’alcuni tra essi, spenti quasi tutti i suoi servi, il Trotti non pose quasi mai piede fuori dalla città. E siccome egli si mantenne sempre fermo al suo posto, così esortava i Senatori senza tregua a non assentarsi. Diceva che il Senato non solo fungeva le veci del re, ma ne portava anche il nome; che da Milano dipendeva la sicurezza e la tutela delle altre città e provincie, che gli imperatori avevano sempre avuta cura di essa e per inviarvi gli opportuni sussidj, e per trarne altri non minori, onde valersene contro i nemici loro e della cattolica religione. Queste ed altre cose in Senato o ne’ giornalieri convegni che aveva in sua casa, perorava il Trotti, alto di statura, grave di fisonomia, e per raro dono di natura o di temperanza, conservante anche vecchio la floridezza del viso. Ho veduto lettere a lui scritte dal segretario Carnerio, nelle quali a nome del re lo pregava che scrivesse per intero la sua opinione circa l’origine del contagio e l’affare degli untori, poichè a Sua Maestà interessava conoscere checchè egli ne pensava[212].

[337]

X. Credenza che la peste cessasse per grazia di S. Carlo. — Arca donata dal re di Spagna per deporvi il suo corpo, e nuova processione per la città.

Fra tanti meriti de’ cittadini e magistrati verso l’afflitta metropoli, fra tante fatiche e rimedj divini ed umani adoperati contro la peste, e i voti e il supplicato favore celeste, unica speranza a’ Milanesi fu sempre S. Carlo, cittadino e padre, gloria e splendore perpetuo di questa patria. Gli abitanti superstiti, quasi risorgessero dal comune sepolcro, credettero che Milano sarebbe perita, ove il santo Arcivescovo non l’avesse salva, intercedendo appo Dio e la Vergine e i Santi la ricuperata salute. La fama di questa grazia si disparse tra le estere genti, accrescendo anche nelle loro contrade la divozione a S. Carlo. Gli stessi principi volsero l’animo a lui, dispensatore dei favori divini, e il Re di Spagna[213], divotissimo del Santo, ordinò che si ultimasse l’arca di cristallo per riporvi il corpo di lui. Erasi incominciata già da trent’anni, ma il lavoro procedeva lentissimo e con interruzioni.

Il sesto anno dopo cessata la pestilenza, l’arca fu compita, miracolo d’arte e di natura, immagine del sole, degna [338] di racchiudere quel luminare di santità, esposto all’ammirazione dell’accorrente popolo.

Ed io, mentre m’affanno a narrare guerre, casi funesti, sanguinosi dissidj di re, principi congiurati a danno dei cattolici; e lo Stato e la Chiesa nostra sconvolta di repente dall’insolenza dei Confederati. Mentre raccontava la funesta irruzione dell’inimico, la fuga dei Francesi, e la tomba che molti di loro qui trovarono[214]; mentre il mio lavoro storico[215] lentamente progrediva, mi sono assai ricreato nel vedere l’incredibile maraviglioso spettacolo dell’ultima solennità di S. Carlo, tale che l’età trascorsa non vide, nè la ventura ammirerà forse più mai. Contemplai in Duomo l’arca donata da S. M. Cattolica, e la quale non avrebbesi potuto con alcun principesco tesoro ridurre siffatta, se Iddio non faceva scoprire altre ricchezze di natura a ciò adatte.

Accorsero gli abitanti dei borghi e villaggi, e quel giorno in Milano convenne infinita gente dalle provincie e dalle città finitime.

Il governatore comandante gli eserciti accompagnò la processione in mezzo al clero, cessando pel momento dalle cure di guerra. Tante migliaja d’armati a lui sommessi sostarono, chè l’ispano Marte imponeva tregua all’istinto guerresco, che spinse gli altri popoli forsennati alle armi ed alle stragi. Vedemmo i demonj uscir frementi dall’inferno, e questi, rabbioso e disperato per il grandioso trionfo della Chiesa, riscuotersi in pubblico e tremare.

[339]

Il cardinale arcivescovo Cesare Monti, non solo terzo successore, ma quasi un nuovo Borromeo, ne celebrò dal pergamo con apostolico zelo l’elogio.

Le quali cose, parendo a me degnissime di venir ricordate in questo Libro, aggiungo il seguente:

FRAMMENTO DELLA MIA STORIA In cui è descritta l’arca di S. Carlo donata dal Re Cattolico, e la solenne Processione fatta in Milano il 4 novembre 1638.

Il governatore di Milano Diego Gusmano, speso che ebbe l’autunno in grandi apparecchi e in spedizioni militari di poca importanza, stabilì di ritornare in città, perchè essendo prosperamente avviati gli interessi del suo re, voleva, a nome del medesimo, onorare i Santi con solenne omaggio. Avvicinavasi il giorno nel quale la Chiesa milanese festeggia l’anniversario di S. Carlo con zelo de’ cittadini e tra il concorso de’ forensi, sino dal tempo in cui papa Paolo V, ad istanza specialmente del Re di Spagna, annoverò fra i Santi il Borromeo.

Quell’anno, 1638, accresceva la celebrità e la gioja della festa il donativo reale dell’arca, paragonabile ai monumenti degli antichi monarchi egiziani: depostevi le reliquie del santo Arcivescovo in mezzo all’oro, all’argento, a [340] lucentissimi cristalli, dovevasi trasportare con isplendida pompa per le contrade, mostrando agli abitanti il loro avvocato e consolatore.

L’aveva ordinata il cardinale arcivescovo Monti, fra le altre espiazioni, per placare l’ira celeste durante l’attuale guerra, aprendo l’animo a speranza che i meriti di S. Carlo e le preci del popolo mitigherebbero Iddio, affinchè ispirasse a’ belligeranti re pensieri di pace, ad ottenere la quale s’adoperano a tutto potere anche gli umani mezzi.

Il governatore doveva intervenire alla funzione, e per ordine espresso del sovrano, e perchè il pubblico ad una voce l’invocava. Incitavalo pure l’ingenita pietà, e il desiderio di far onore al donativo del suo re, cui egli aveva cooperato a far terminare.

L’idea dell’arca nacque sendo governatore il Velasco, che pel primo raccomandò al re le reliquie di S. Carlo, e tanto fece, che ottenne alcune migliaja di zecchini per darvi mano.

Ma i successivi governatori, benchè durasse la pace, lasciarono andare in obblio l’ordine reale, nè più si pensava all’arca. Il Gusmano alfine, in mezzo alle sue guerre e vittorie, ed all’incerta condizione dello Stato, invocando il patrocinio di S. Carlo, instò perchè si terminasse, collocandovi le reliquie di lui. E fu compiuta per l’autorità sua e del cardinale Monti, il quale, zelante della gloria dell’illustre antecessore, spronava i ministri regi ad eseguire, dopo sì lungo tempo, i sovrani comandi. Egli stesso istruì gli artefici intorno la forma, e gli ornamenti dell’arca, esperto come era nelle belle arti per ingegno, e per studi sull’antichità; laonde gli intelligenti opinano che sua mercè sia riuscita più vaga ed elegante.

Tale è infatti, nè sarebbe bastata qualunque somma, se Iddio, per onorare il suo Santo, e dar premio alla munificenza del regio donatore, non avesse infiammata la mente [341] degli artefici, i quali superarono in questo lavoro sè medesimi. L’arca risplendeva veramente come il sole: pezzi di cristallo d’inusitata grandezza e lucidità, furono rinvenuti per bontà divina, e narrerò un caso che somiglia a miracolo, non già come s’usa per accrescere pregio a portentosi lavori, ma sibbene per tramandarlo ne’ miei annali colle altre vicende dell’epoca.

Allorquando venne governatore in Milano il Velasco, due artefici, cui erasi allogata la costruzione dell’arca, fecero entrambi un sogno la stessa notte; che in certe caverne, framezzo le rupi, giacevano pezzi stragrandi di cristallo di monte opportunissimo per eseguire un lavoro che restasse splendido monumento fra i tesori del Duomo. Erano i suddetti artefici Francesco Cingardo e Angelo Benzoni, i quali, informato il governatore, recaronsi per suo ordine a Gliciga in Valsesia, i cui monti avevano visti nel sogno. Ivi, per gli indizi ottenuti da un mandriano che lì presso custodiva il gregge, rinvennero i massi di cristallo stragrandi e di tale lucentezza, che in nessuna officina eransi mai ammirati gli eguali. Questo s’aggiunge di portentoso, che nel segare que’ massi e pulirli, non vi si trovò macchia, mentre per solito ne’ cristalli destinati ad usi profani rinvengonsi sempre scabrosità, corpi opachi e altri difetti; come anche non di rado si scheggiano nell’ispianarli.

Descriverò l’arca giusta il disegno a matita degli autori; ma dirò in prima l’impressione che fece su me e su tutti, quando ancora vuota fu esposta al pubblico. Ammiravasi la materia preziosa e la bellezza del lavoro; ma dopo che fuvvi deposto il sacro corpo, visibile in essa, ispirò sensi divoti ed una specie di religioso terrore. Imperocchè, quasi da un globo ardente o da una fonte di luce, scaturiva dall’arca un sì sfolgorante luccicore che abbagliava, forzando a chiudere le palpebre quanti vi tenevano fissi gli occhi. [342] I cristalli, le lamine d’argento rappresentanti umane figure ed altri oggetti, formavano un bellissimo contrasto d’ombre e di luce; abbellendo l’unità del concetto con vaghi accessorii, che i soli artefici sanno ben distribuire; le quali cose piacevano all’occhio e deliziavano l’animo. Nè la meraviglia era scevra d’un certo terrore: la brama di scrutare ogni parte dell’arca veniva rattemperata dal rispetto, le quali diverse sensazioni erano soavi, e vieppiù eccitavano i desiderii. Tutti gli spettatori rimanevano estatici, e quando era forza scostarsi per dar luogo ad altri, la seguivano cogli occhi. Udivansi risonare ad una voce dai cittadini e dagli stranieri le lodi del re Filippo per sì ricco donativo, e augurj di lunga vita a lui, e di prosperità all’Impero, all’austriaca stirpe, al nome spagnuolo. Anche le donne gridavano evviva ai re stranieri ed ai nostri principi.

Il meraviglioso lavoro dell’arca avrebbe fatto accorrere e plaudire anche i gravi politici, e specialmente alcuni degli antichi romani, se dopo tanti secoli potessero rivivere. Perocchè essi erano usi ad ammirare soltanto le opere della natura e dell’arte, inscii della purissima gioja che a noi soltanto è dato gustare, volgendo i pensieri all’eterna gloria dei Santi.

Vedevansi d’ogni parte sull’arca angeli d’argento, effigiati coll’espressione che aver denno lassù nell’empiro, ove gli alati spiriti con forme infantili da secoli infiniti alzano inni di lode a Dio ed ai Santi, e fruiscono essi pure d’ineffabile beatitudine. L’angelica schiera, in volto umano, circondava giuliva le reliquie del Santo, rappresentando le glorie dell’anima sua sì al vivo, che l’umilissimo Arcivescovo avrebbe arrossito d’un simile trionfo raffigurato dall’ingegno e dalla mano degli uomini. Gli angioli, benchè di terrestre materia, avevano viso celestiale, e sembravano alienassero i pensieri dalle mondane cose, ispirando pei santi [343] più intensa venerazione che avere non sogliono i mortali.

Intorno all’arca gli angioli parevano, con amabile gara, prestare i loro uffici al santo Pastore, che dalla sua Chiesa trasvolò in cielo, deposto il frale, che giace entro l’arca, portante le impronte de’ sofferti travagli e delle volontarie mortificazioni.

Siedono alcuni angioli sul coperchio, e quasi intuonassero le lodi del Santo, imboccano con vezzo infantile le trombe chiamanti il genere umano a quel glorioso spettacolo; altri, di soave fisonomia, pare che cantino accompagnandosi colle cetre. Questi sta in atto di ammirazione, quegli d’esultanza, uno meditabondo, un altro orante, adora il Signore per sì gran prodigio. Molti altri tengono tra le mani le insegne pontificali e i sacri arredi, dei quali un giorno servivasi l’illustre Cardinale, della cui santità sembrano penetrati.

Componesi l’arca di due piani, e fu chiamata romboide, perchè ha questa figura geometrica. Il primo, ossia l’inferiore, dividesi in dodici scompartimenti angolari, più o meno grandi: quest’ordine è lungo quattro cubiti, e nei due lati più piccoli un cubito e mezzo.

Modiglioni, cornici e piccoli gradini formano l’altezza della base, sostenuta da dodici animali d’argento, come è tutta l’arca sì nell’interno che al di fuori. Ad ogni angolo v’ha una cariatide come gli antichi usavano sottoporre alle gronde per ornamento architettonico; le cariatidi sono dodici nel piano inferiore. Gli angioletti sopra descritti cogli arredi pontificali a guisa di trofei, sedono ai plinti.

Questi angoli, o ante, sostengono entrambe le cornici, quello che disotto corre, e l’altro che al disopra s’unisce col coperchio. Tutti portano statue d’argento rappresentanti le virtù, quali solevano effigiare gli antichi; e sono dodici virtù in tutto il circuito. Gli interstizj sono di cristallo, [344] ciascuno formato di tredici pezzi; uno dei quali, più grande, di forma ottangolare e lucentissimo, viene attorniato dai dodici cristalli minori. Per tal guisa, dodici gran pezzi costituiscono l’arca in questo primo ordine, insieme cogli accessori tutti d’argento. I pezzi però che stanno ai due capi dell’arca sono assai più piccoli. Le incassature d’argento de’ medesimi sono dorate, ed in totalità i pezzi di cristallo sono 156.

L’ordine superiore che rinchiude l’arca è simile al descritto, e per la disposizione delle cariatidi e per l’aspetto della cornice. Se non che varia pel rientrare dei lati, ossia curvatura, che termina in rombo, e per la dissomiglianza che nella parte ovale del pezzo avvi una finestretta. Gli angioletti, al basso, sono sedenti, invece nella parte superiore stanno ritti quei che portano i regi stemmi. Imperciocchè, per tributare il debito onore all’augusta Casa Austriaca, sostegno fermissimo della Chiesa, questa volle, per gratitudine, che si mettessero sul coperchio i suoi stemmi in oro, portati da angeli. Due di questi veggonsi ai fianchi in atto d’intuonare un inno, altri, nella parte inferiore, portano gli stemmi del marchese di Leganes, per ricordo ai posteri, che l’arca venne compiuta lui governatore di Milano.

Volevasi far altrettanto coll’eminentissimo Monti, per aver insistito col Leganes affinchè l’arca si compisse; ma egli non consentì, suggerendo che invece si incidesse in una lamina sotto quale arcivescovo ed in qual anno fu ultimata.

Anche nell’ordine superiore sonvi dodici cariatidi fra grandi e piccole, e tutti gli altri ornamenti eguali, eccetto che sono tutti di minor dimensione, vale a dire, le statuine e le cariatidi proporzionate a quest’ordine più basso. Fregiano la cornice quattro vasi d’argento a fogliami. I pezzi [345] di cristallo in quest’ordine sono 67, così trovo scritto nei registri.

L’arca costò 60,000 zecchini, siccome risulta dai codici reali. È dovere altresì tributare la meritata lode ad uno de’ più distinti fra i cittadini e gli ecclesiastici, il quale, sotto l’arcivescovo Monti ed il governatore Gusmano, amministrò il denaro, e s’adoperò perchè nel giorno fissato l’arca fosse compiuta senz’alcuna menda. Fu desso Primicerio Visconti, nipote per sorella di Federico, e venne trascelto dalla autorità ecclesiastica, dalla governativa e dal re, per la nobiltà del casato, i talenti ed il senno, e perchè appartenente alla famiglia Borromeo.

Gusmano per intervenire, come dissi più sopra, ed offerire e consegnare l’arca in nome del suo re all’arcivescovo metropolita, da Alessandria si recò a Pavia, indi a Milano, ove giunse il 2 novembre, antevigilia della festa di S. Carlo, disponendo le cose in modo, che dopo la solennità potesse restituirsi senza ritardo all’esercito. Venne modestamente in un cocchio tratto da sei mule nere, come esigeva lo scopo del viaggio; però dovunque passava, la plebe tripudiava, chiamando gli Spagnuoli liberatori dello Stato e terrore dei Francesi. S’udì qualche applauso, ma la gratitudine era più vivamente sentita nell’animo. Il governatore entrò in città verso le undici ore[216], sul far della sera; dopo un breve riposo in palazzo, sbrigò alcuni affari, diede, giusto l’uso, udienza, quindi recossi al Duomo per consegnare alle autorità ecclesiastiche l’arca di S. Carlo, già collocata dinanzi l’altar maggiore. Trovavansi presenti [346] il cardinale arcivescovo, e a lui d’intorno i monsignori colle loro insegne.

Appena si sparse la voce della cerimonia, si fece calca di popolo, e fu d’uopo vietare l’ingresso in Duomo, poichè la moltitudine, allegra e curiosa, accorreva fra le tenebre, come fosse di pien meriggio. Voleva ciascuno vedere l’arca, come pure l’arcivescovo, essendovi in tanto concorso di cittadini e forastieri, molti che nol conoscevano; ma pochi vennero ammessi alla cerimonia.

Riferirò le parole con cui il governatore, colla dignità ed eloquenza conveniente a principe, consegnò il regio donativo all’eminentissimo Monti.

«Sua Cattolica Maestà, il re nostro Filippo IV, fra i presidj suoi, questo grandemente apprezzò sempre, che S. Carlo Borromeo nacque nel suo impero. Con speciale culto S. M. venerò ognora il nome e la memoria del Santo, adoperando zelantemente che lo venerassero del pari i suoi sudditi, e ne fu rimunerato con grazie celesti, delle quali ei serba riconoscente, e perpetua memoria. Egli è persuaso che specialmente pel patrocinio di S. Carlo, e l’intercedere di lui appo Dio, sia incolume, e fiorisca il cattolico impero e l’austriaca Casa, fugati e domi i nemici in ogni parte, e rivolta a danni loro la guerra accesa contro l’Impero e la Casa medesima. Volendo il monarca, mio signore, non già rimunerare sì grandi beneficj, ma dar prova di sua gratitudine, ordinò si costruisse quest’arca per collocarvi il corpo del Santo Arcivescovo suo protettore, ed ingiunse a me, infimo e fedelissimo suo servo, che oggi compiuta la consegnassi in dono a questa metropolitana, siccome faccio di presente. Supplico l’Eminenza Vostra che, in nome di S. Carlo, voglia accettare di buon animo e serbare questo dono, tenue per sè, ma grande se riguardasi l’animo [347] e la divozione del donatore. Riceva quest’arca, nel cui splendore rifulgeranno le reliquie del gran Cardinale, come la purissima anima di lui lasciò risplendente questa patria e questa Chiesa per ottimi costumi ed egregie discipline. La riceva, dico, con pari benevolenza ed affetto, onde nelle preci e ne’ sacrifizj di questa cattedrale, rammenti di raccomandare a Dio O. M. la salute del re e l’incolumità dell’impero, che tributa onore ed ossequio al Santo.

«E degnisi, con eguale benevolenza, raccomandare me pure, ministro e pronto esecutore dei regi voleri, al patrocinio di S. Carlo, il quale, per favore singolare, già rese vittoriose le mie armi, che senza di lui non avrebbero potuto spingersi, dalla necessaria difesa dello Stato, fino sul territorio nemico. Del qual prospero esito, ci confessiamo debitori all’intercessione di lui appo Dio. Riceva finalmente l’Eminenza Vostra il donativo; un altro simile spera d’apparecchiare lo stesso re, colle ricchezze del suo impero, alle reliquie di Vostra Eminenza, allorquando, seguendo la vestigia di S. Carlo, giungerà al termine di questa mortale carriera[217]».

Tali furono i detti del Gusmano, pieni di riverenza per S. Carlo, e resi vieppiù efficaci dalla pietà e dal decoro dell’oratore. Più d’ogni altro ne fu commosso l’arcivescovo, non ammiratore soltanto, ma egregio imitatore delle virtù del Borromeo. Egli, edificato dalla divozione del re, e immaginando di trovarsi presente al Santo, così rispose:

[348]

«Fece la Maestà Cattolica quello ch’era conveniente e decoroso al re dei re, al potentissimo monarca del mondo cristiano, secondo l’insegnamento de’ genitori dell’avo, del proavo, e della lunga schiera de’ Cesari suoi antenati, di venerare i Santi come i più validi sostegni dell’Impero. Nè ciò mi giunge nuovo, avendolo a lungo osservato allorchè risiedeva come Nunzio apostolico alla Corte. S. Carlo, fra le altre sue virtù e le gesta immortali che gli meritarono la gloria celeste, procurò sempre, fino all’ultimo, di favoreggiare l’Impero e la Casa Reale, cui è affidata la tutela e la difesa della religione cattolica. Laonde meritamente venne mai sempre onorato, e lo è in oggi, dalla munificenza reale. L’arca, che sembra tenue donativo al possessore di tante ricchezze, da me e dal mio clero, è considerata preziosissima. Questo tesoro verrà da noi custodito, non solo pel suo valore, ma perchè collocato fra i monumenti della cattedrale, sia illustrato dai letterati, e rimanga modello ammirabile dovunque fia nota la splendidezza del donatore e il pregio dell’opera».

In tal modo favellarono il governatore e l’arcivescovo, presenti per trascriverne le parole e testificare quanto fecero i due illustri segretari Caimi e Platone, il primo eclesiastico, l’altro regio, i quali ne rogarono pubblico atto.

Così fu eseguita la consegna dell’arca; la notte stessa, l’arcivescovo, quasi colle proprie mani, vi depose il corpo di S. Carlo, colla mitra, la pianeta e gli arredi pontificali. Erasi dapprima ideato di coprirgli la faccia con una maschera d’oro, ma con più maturo riflesso si credè più semplice di lasciarlo scoperto il volto, nello stato cui l’avevano ridotto il tempo e la corruzione, che neppure risparmia le reliquie dei Santi. Una delle guancie trovossi guasta e corrosa, non tanto dall’età, quanto da uno stillicidio continuato [349] per vent’anni, e prodotto dall’umidore del sepolcro, il quale non era stato ancora aperto ed esaminato[218].

[350]

L’altra guancia aveva meno sofferto, benchè non fosse intatta: il mento e la bocca, come rimangono colla dentiera allorchè consumansi le carni, serbavano una tal quale impronta della fisonomia. I vecchi erano commossi, ricordando il volto paterno del Santo, e lo guardavano compunti; anche i ritratti di esso comprovavano la rassomiglianza.

Altri scrittori descrissero la pompa solenne con cui si espose al popolo milanese il venerabile corpo del Santo 54 anni dopo la sua morte. L’arca venne tratta dalla sacrestia, e diligentemente chiusa dopo avervi riposto il corpo e deposta sovra l’altar maggiore alla venerazione, con gioja non scevra di rammarico. Il Duomo era addobbato in modo da imitare, per quanto è concesso agli uomini, col decoro, la splendidezza e la festiva ilarità, le eterne sedi dei Beati lassù in cielo. L’augustissima nostra cattedrale, che forse più di qualunque altra si spinge in alto, testificava l’allegrezza pubblica come se un altro popolo ed un’altra celeste città esultassero alla vista del Santo Pastore. Quanti adornamenti di palchi, arazzi, quadri[219], luminarie, immaginarono [351] gli antichi e le moderne arti, quanti ne ideò con larghissimo dispendio lo splendido e intelligente nostro clero nelle pubbliche festività, tutti vennero in quel giorno adoperati. Splendeva corruscante il tesoro di S. Carlo collocato sul vecchio tumulo, gareggiando per ricchezza coi tesori dei re, i quali l’avevano arricchito di molti anelli e gemme votive al Santo, per gli sfuggiti pericoli, e pei trionfi ottenuti o impetrati da lui. Le statue e i simulacri argentei di alcuni tra essi ricordavano, a testimonianza delle ricevute grazie, i varj mali che affliggono l’umanità.

Il cardinale arcivescovo Monti celebrò il divino Sacrifizio e recitò il panegirico del Santo, come aveva fatto il cardinale Federico in un precedente anniversario. Gloria non comune di quell’età, che sommi arcivescovi fossero del pari sommi oratori! Graditissimo ai grandi ed alla moltitudine non solo per l’eloquenza, ma per l’elogio della generosità del re Filippo, riuscì il passo in cui il Monti, alzando gli occhi al cielo, apostrofò il Santo così:

«Celeste Carlo! decoro e corona de’ pontefici; un giorno nostro cittadino e pastore e padre di questa patria. Oggi ad onorare le tue reliquie e il nome tuo s’unisce il divino favore alla magnificenza del re di Spagna, il quale dona un’arca, che nessuna privata ricchezza avrebbe potuto offerire. Apparisce come costruita in cielo, che, per assecondare la divozione del re, fe’ scoprire meravigliosi cristalli, per formare un’arca degna del principe e in [352] uno della purità del sacro corpo, che vince il fulgore di que’ cristalli».

Dopo l’ufficiatura, incominciò la processione; quattro vescovi sostenevano in apparenza l’arca, che era portata da uomini nascosti sotto il drappo che la cingeva. L’arcivescovo, quantunque mal fermo per recente malattia, sostenevala egli pure. I senatori portarono il baldacchino per un tratto di strada, scambiati da altri a seconda del grado e dei privilegi delle varie magistrature: il governatore la seguitava al suo posto con una torcia accesa. Sarebbe superfluo descrivere i consueti apparati della città, le contrade coperte di tele, le muraglie adorne di arazzi, i quadri ed altri oggetti preziosi, tratti dalle case dei ricchi, giacchè simili pompe si ammirarono altre volte in Milano.

L’ornamento tutto speciale di quel giorno fu la moltitudine, la quale a stento capiva nella città, e lo strepito che vi faceva. Rimasero quasi deserti i villaggi e le città vicine; e se il nemico avveduto sapeva profittare dell’occasione, avrebbe potuto facilmente impadronirsene. Molti giunsero dalle terre Venete, dalla Marca d’Ancona, dal Genovesato, dalla Svizzera, dai Grigioni, avendo calcolato il tempo del viaggio per arrivare il giorno della festa. Nè solo individui, ma intere famiglie, le donne coi loro bambini, i figliuoli seguendo i genitori, ovvero venuti nascostamente dalle vicinanze a Milano. Molti vecchi altresì, nobili e plebej, ciechi, storpj e afflitti da malattie si trascinarono, sì grande era il desiderio d’assistere alla solenne traslazione del corpo di S. Carlo ed invocarne il patrocinio; nè vi mancò una turba di mendichi. Seppi che parecchi mariti, che lo stato conjugale rendeva infelici, e mogli angosciate per le libidini degli adulteri consorti, accorsero con fiduciosa semplicità di cuore, che il geniale talamo deterso e santificato per occulta virtù di S. Carlo, e reintegrato il buon nome, [353] la famiglia passerebbe dallo sprezzo e dalla disperazione ad un onesto e giocondo vivere; la quale fiducia o semplicità ebbero pure alcuni Milanesi.

Conosco certi tali che, afflitti per rovesci di fortuna o circondati da pericoli, sperando nell’ajuto del Santo, ottennero, o almeno affermarono d’aver ottenuto, grazie non meno evidenti di quelle che ricevettero i guariti da corporali malattie. E siccome di queste si narrano miracolose guarigioni, così viene assicurato che le più gravi dell’animo, ed i domestici infortunj, mitigò in quel triduo S. Carlo colla sua intercessione appo Dio, e molti videro prosperare i loro traffichi e rimarginarsi le ferite del cuore, secondochè avevano pregato e fatti voti.

Sessanta mila peregrini alloggiarono negli alberghi e nelle taverne; numero che venne notificato al pubblico. Aggiungasi altri moltissimi, i quali furono ospitati dai parenti ed amici, essendochè ogni casa, grande o piccola, era zeppa di ospiti, una parte de’ quali venne collocata negli abituri dei poveri, provvedendo al loro vitto, per non poter fare altrimenti attesa la ristrettezza in cui trovavasi ciascuna famiglia per tanta gente che aveva in casa.

I ricchi accaparrarono gli alloggi lungo tempo innanzi: perfino i collegi e i chiostri diedero a molti ricovero, e nondimeno fu ancora maggiore il numero di quelli che pernottarono a ciel sereno[220]. È facile l’immaginarsi lo strepito [354] ed il tumulto che tanta folla di gente fece per le vie e specialmente in Duomo; urli, risse, sassi, coltelli, alcuni rimasero feriti ed uccisi. Rimbombava la cattedrale di un continuo fragore, eguale al ruggito di torrente, che, ingrossato da notturna pioggia, travolve giù per le roccie dei monti immenso volume d’acque.

Pure superavano quel fragore le grida e lo schiamazzío degli ossessi, i quali, alla presenza di S. Carlo, erano in siffatta guisa tormentati, che molti in quel giorno cessarono dal ritenerli inganni femminili, convinti che veramente gli spiriti infernali s’impossessano degli umani corpi, nelle viscere dei quali soffrono i martirj cui sono dannati. Consta, con bastante certezza, che in quel giorno furono liberate alcune donne, avvinte, secondo le apparenze, con inestricabili nodi da Satano.

Nè tacerò come uomini e donne, invasi da furore divoto, fur visti avventarsi contro i bastoni e le picche. Imperocchè, custodendo le sbarre un drappello di soldati tedeschi con armi per tenere indietro, come s’usa, la folla, scuotevano di continuo all’ingiro le picche ed i bastoni per incutere terrore. Un drappello di sbirri, frammisti ai soldati, non solo brandiva le armi, ma con torvo viso e minaccie osava irrompere nella calca, battendo e ferendo [355] parecchi. Ne sorse una zuffa che durò tutto il tempo in cui l’arca rimase esposta. Molti ne uscirono colla faccia pesta e insanguinata; un birro fu battuto a morte da un giovane colla mazza istessa con cui gli aveva pestato un piede.

Non si potè conservare nella processione l’ordine secondo i gradi: e le due primarie magistrature della città altercarono, disputandosi il posto più vicino all’arca. Al governatore spiacque la contesa; ma si riappacificarono subito, e la gara fu piuttosto mossa da zelo che da umana ambizione. Credo che il Santo medesimo gioisse, contemplando dal cielo quel contendere intorno alle sue reliquie, e perfino i grandi inquieti in mezzo al popolare tumulto. Questa unica dimostranza mancava del cielo, partecipe al giubilo degli uomini, ovvero del nostro piccolo globo turbato per sì gran trionfo!

Compito il giro sull’imbrunire, l’arca fu riposta sopra l’altare maggiore. L’arcivescovo diede un pranzo frugale, e colle discipline usate da S. Carlo e Federico nei loro conviti dopo alcuna solennità, invitò quattro vescovi ed i fratelli Altemps, parenti di S. Carlo dal lato di madre. Anche il governatore in palazzo diede un pranzo militarmente frugale ai magnati ed a parecchi amici, che il dì vegnente ritornavano seco lui all’esercito. Egli prolungò la sua partenza d’un giorno: il sabbato 6 novembre da Milano avviossi per Pavia ad Alessandria.

FINE DEL LIBRO QUINTO ED ULTIMO.

[357]

Indice

Dedica del Traduttore a’ suoi concittadini Pag. V
Introduzione. — Da un Ragionamento inedito del Traduttore sui principali Storici e Cronisti milanesi VII
Dedica dell’Autore agli Illustrissimi Signori il Vicario ed i Sessanta Decurioni del Consiglio Generale della Città di Milano XXXI
 
LIBRO PRIMO
 
CONDIZIONE DI MILANO PRIMA DEL CONTAGIO. — LA CARESTIA. — LA PESTE.
 
I. Prologo 3
II. Posizione e stato della città avanti la peste 4
III. Come gli apparecchj di guerra, indi la fame, cominciassero ad affliggere Milano 7
IV. Dei governatori di Milano Fuentes, Velasco e Mendozza, e ancora dell’origine e delle cause di guerra 9
[358]
V. Toledo, Figueroa, Consalvo di Cordova governatori di Milano. — Origine della carestia 10
VI. Della fame che precedette la peste 12
VII. Del pubblico Consiglio, ossia dei LX Decurioni di Milano che provvidero alla miseria generale 17
VIII. Del Lazzaretto e della moltitudine de’ poveri in esso ricoverata 18
IX. Discipline stabilite al Lazzaretto e nell’ospitale della Stella 20
X. Il Lazzaretto è riprovato e si sgombra 23
XI. Tumulto popolare per la carestia 25
XII. La peste scoppia in Milano 37
XIII. Furore e stoltezza della plebe circa la credenza della peste 40
XIV. Pericolo corso dal protofisico Lodovico Settala all’incominciare della peste 41
XV. I Magistrati pensano a più efficaci rimedj 44
XVI. Il corpo di S. Carlo viene trasportato solennemente per Milano, onde impetrare che cessi la peste 47
XVII. Dopo la processione s’accresce la peste 51
XVIII. Aspetto ributtante di Milano pe’ mucchi de’ cadaveri e l’insolenza dei Monatti 53
[359]
 
LIBRO SECONDO
 
GLI UNTORI.
 
I. Prologo 59
II. D’un terribile e falso rumore divulgato in Milano ed all’estero 62
III. Del Piazza, del Mora, del Baruello, e d’altri Untori 67
IV. D’altri che a torto furono creduti untori, o per tali imprigionati 80
V. D’un grande e insigne personaggio sul quale cadde il medesimo assurdo sospetto 88
VI. Si espongono le opinioni di filosofi e medici chiarissimi circa gli unguenti pestiferi; e vari casi 94
VII. Repentino e pestifero tumulto 107
VIII. Varj casi di peste nel Lazzaretto. — Il padre Felice presidente del medesimo 110
IX. Come incominciò a rallentare la pestilenza, e come ebbe termine 119
 
APPENDICI DEL TRADUTTORE AL LIBRO SECONDO
 
I. Difesa di Giovanni De Padilla 127
II. Considerazioni sul Processo degli Untori 139
III. La Colonna Infame 145
[360]
 
LIBRO TERZO
 
IL CARDINALE FEDERICO BORROMEO E IL CLERO DURANTE LA PESTE.
 
I. Prologo 155
II. Provvidenze e disposizioni del Cardinale ai primi rumori di peste 156
III. Suoi fatti durante la peste 159
IV. Lazzaretto ecclesiastico istituito da Federico 166
V. Denaro portato al Cardinale da due contadini e dal Lomellini di Genova 171
VI. Avvisi e consigli del Cardinale al suo clero 173
VII. Premura del Cardinale pei Monasteri delle Sacre Vergini 177
VIII. Il Cardinale presagisce per ispirazione divina la prossima cessazione della pestilenza, e si accinge a riordinare gli studj ecclesiastici e le arti 178
IX. Opinioni e sentenze di Federico Borromeo circa la peste 179
[361]
 
LIBRO QUARTO
 
VENUTA E DIFFUSIONE DELLA PESTE IN LOMBARDIA. — ATTI DEL TRIBUNALE DI SANITÀ.
 
I. Prologo 195
II. Atti del Tribunale di Sanità 227
III. Nuove particolarità sulla carestia e la peste 252
 
APPENDICE DEL TRADUTTORE AL LIBRO QUARTO.
 
Intorno la mortalità della peste del 1630 e la popolazione di Milano a quell’epoca 261
 
LIBRO QUINTO
 
CONFRONTO DELLA PESTE DEL 1630 CON ALTRE, E SPECIALMENTE CON QUELLA DEL 1576.
 
Proemio del Traduttore al Libro Quinto sugli Storici della Peste del 1576 269
I. Prologo 275
II. Confronto della pestilenza di Milano coll’antichissima degli Ateniesi 277
III. Confronto della peste di Milano con quella di Firenze 280
IV. Confronto della pestilenza del 1630 con quella del 1576 284
[362]
V. Lazzaretti secondarj. — Capanne per gli appestati e per i poveri. — Medici. — Asilo pei bambini 298
VI. Voto a S. Sebastiano. — Quarantena generale. — Spurghi 308
VII. Donativi di Casalmaggiore 321
VIII. Nuove particolarità intorno i Presidenti della Sanità nel contagio del 1630. — Si accenna il gran numero degli altri Magistrati 329
IX. Il Senato e il Presidente del medesimo nel tempo del contagio 334
X. Credenza che la peste cessasse per grazia di S. Carlo. — Arca donata dal re di Spagna per deporvi il suo corpo, e nuova processione per la città 337
Frammento della Decade V.ª del Ripamonti, in cui è descritta l’arca di S. Carlo donata dal Re Cattolico, e la solenne processione fatta in Milano il 4 novembre 1638 339
 
FINE DELL’INDICE.

NOTE:

1.  Ciò feci per esteso nel principio di questo Ragionamento, esaminando le tradizioni popolari, per farmi strada a parlare dei nostri Storici e Cronisti. Io credo superfluo di qui riportare questo brano perchè si riferisce alla Storia generale di Milano, non alla Peste del 1630.

2.  La presente lacuna e le altre, che trovansi in questa introduzione, provengono dalla necessità di ommettere i passi del mio Ragionamento sugli Storici e Cronisti milanesi, che sono estranei a questo libro.

3.  Nel libro I Delle Ordinazioni, MS. pag. 29 e 74.

4.  L’attuale archivista sig. Civelli lo ordinò con sapere e diligenza lodevolissima.

5.  Fu battezzato a Nava il 18 agosto di quell’anno, come da’ registri parrocchiali. Vedi Cantù, tom. II, pag. 72.

6.  Oriundus fuit ex obscuro pago Briantaei collis aspero et confragoso, ipsum dein illustraturus. Così il Legnano nella vita citata.

7.  Piccolo paese non lontano da Tegnone.

8.  Ripamonti fu ordinato sacerdote nel 1606.

9.  Da uno dei costituti del Ripamonti. Processo MS.

10.  Costituto 7 agosto 1618 dell’abbate di San Pietro in Chiaravalle. Processo MS.

11.  Processo.

12.  L’abate di Chiaravalle nel costituto sopra citato.

13.  Processo.

14.  Intorno al Toledo vedasi il capitolo V, lib. I.

15.  Lo desumo da una delle lettere di Federico, che, scrivendo a monsignor Besozzo a Roma, perchè cercasse un altro vicario da sostituire all’Arcello, che si era licenziato, dice: In verità è poca perdita.

16.  Lettere autografe del cardinale Federigo, esistenti manoscritte nell’archivio Borromeo, parte unite al processo del Ripamonti, e parte in un voluminoso carteggio tra Federico e diversi.

17.  Negli atti del Processo.

18.  Processo.

19.  Vedasi Decade I della Storia Ecclesiastica del Ripamonti, pag. 515, e l’Epistola XXXIX, libro IV; e la IV del libro V di S. Gregorio Magno, pag. 720 e 730, ediz. Maurina, Parigi 1705.

20.  Processo.

21.  Libro delle Ordinazioni MS. nell’Ambrosiana, pag. 74.

22.  Non trovo in qual anno, ma certamente prima del 1625.

23.  In ejus aula cum ego viverem. Ripamonti, introduzione alla Decade III.

24.  Il Consiglio donò a ciascuno dei 60 Decurioni un esemplare di quest’opera. Io ne posseggo uno, sul frontispizio del quale è scritto: Petrus Paulus Confalonerius I. C. Colegiatus Vicarius Provisionis de anno 1646 librum hunc a civitate dono habuit.

25.  Cum publico Decreto medicorum peritissimi frustra adhibiti essent, etc. (Legnano, vita citata.)

26.  «A dì 14 agosto morse il M.to Ill. e Magn. Rever. Sig. Ripamonti, Canonico di Santa Maria della Scala in Milano, il quale essendo infermo d’infermità d’idropisia, fu consigliato a venirsene fuori per mutar aria. Al che fece elezione della mia habitazione: dove passò come sopra dalla presente all’altra vita, che nostro Signore abbi seco in Cielo, e fu sepolto in questa chiesa nella sepoltura de’ sacerdoti il giorno dell’Assunta di Nostra Signora».

Dai registri parrocchiali di Rovagnate. Vedi I. Cantù, Vicende della Brianza, 1837, Vol. II, pag. 83.

27.  Magno cum urbis atque litteratorum mœrore. Legnano, ivi.

28.  Ghilini Gerolamo. Teatro d’huomini illustri, p. 137. Venezia 1647.

29.  Non trovo l’anno della nascita, ma quando fu ammesso nel 1603 nel collegio medico doveva avere almeno vent’anni.

30.  G. M. Visconti fu eletto dei 60 Decurioni nel 1606; nel 1627 ebbe il titolo di marchese, e morì verso il 1638. Girolamo Legnano, entrato nei 60 Decurioni l’anno 1634, morì il 3 novembre 1650 a Madrid ove dimorava come oratore di Milano presso il re cattolico. (Cusani.)

31.  Il primo capo di ciascun libro non ha l’argomento, essendo una specie di prologo al libro medesimo. (Il Trad.)

32.  Il Ripamonti con queste gonfie e oscure frasi intende parlare di Enrico IV, il quale aveva in animo di ricuperare il ducato di Milano, quando venne ucciso dall’assassino Ravaillac. Il nostro buon Storico era o troppo affascinato o troppo cortigiano, per trattare sì male il grande Enrico.

33.  Il frumento salì fino a lire 100 il moggia; la segale 70, e 60 il miglio. (Tadino, pag. 9. — Somaglia, pag. 478.)

34.  Secondo la falsa opinione allora in voga intorno l’origine della Società.

35.  Pare un controsenso od un bisticcio, ma in fondo l’Autore dice il vero, perchè in simili calamità, l’uomo, spinto dalla fame, crede sempre di trovare altrove i soccorsi che gli mancano in paese. I contadini avevano, ed hanno ancora, idee esagerate dell’agiatezza cittadinesca; all’opposto, il popolo che vive nelle città, sentendo in confuso che le granaglie, il vino, le carni, gli oli, ec. vengono dalle campagne, crede inesauribile la loro abbondanza, nè sa persuadersi, in tempo di carestia, che si debba ivi morir di farne. Quindi lo spostamento di popolazione cui accenna l’Autore nel suo gonfio stile, è naturale.

36.  Sulle prime si distribuì una minestra di riso ai poveri, ad imitazione di quanto erasi fatto nella peste del 1576. Allora il governatore d’Hayamonte faceva recare ogni mattina una caldaja di riso ad ogni capo di strada per tutti i poveri del vicinato; ed alla porta del suo palazzo faceva distribuire un soldo per ciascun povero.

37.  Allude al padre di Francesco Sforza, villano di Cotignola in Romagna. Il Lazzaretto, disegno del celebre architetto Bramante d’Urbino, fu incominciato per ordine di Lodovico il Moro nel 1489; suo fratello il cardinale Ascanio concorse in gran parte alla spesa. Fu ridotto a termine soltanto nel 1507 sotto il re di Francia Luigi XII, allora padrone del Milanese.

38.  Questa è una contraddizione a quanto l’autore disse dell’aere salubre di Milano nel cap. II. Pur troppo v’erano, e vi sono intorno a Milano praterie, che rendono greve l’aria.

39.  Tadino dice 288, benchè nella distribuzione ne calcoli 213 solamente, soggiungendo, che a ponente erano inservibili perchè non finite.

40.  In città furono 3534, e tanti concorsi dal contado e dalle vicine città, che in breve arrivarono a 9715, pasciuti di pane con entro riso. Si scoprì che i fornaj lo adulteravano con materie nocive per guadagnare; l’acqua bevile corrotta, la paglia delle stanze fracida e non cambiata mai, ed il caldo eccessivo di quell’estate, 1629, in cui per tre mesi non piovve, svilupparono le febbri contagiose nel Lazzaretto. Era ivi sì insopportabile il puzzo, che il senatore Arconato, presidente della Sanità, cadde in deliquio quasi mortale, e si dovettero sospendere le visite.

Il Somaglia fa ascendere il numero dei poveri ricoverati nel Lazzaretto ed alla Stella a 14,000.

41.  La colpa era dei Decurioni, i quali non diedero retta ai conservatori della Sanità, Alessandro Tadino ed il Settala, i quali protestarono con atto pubblico contro quell’imprudente misura, predicendo che la gran moltitudine dei poveri quale causava un necessario reciproco commercio et alito fetente putrido fra loro principalmente atteso la mala dispositione dei corpi haverebbe acceso un contagioso morbo. Il numero dei morti dal 1.º gennajo a tutto settembre 1629 fu di 8570 nella sola Milano.

42.  Intorno a questo tumulto, oltre il Tadino, ec., ebbi sott’occhio un documento autentico: la relazione dell’accaduto in lingua spagnuola, spedita per ordine del Consiglio al governatore Gonzalvo, sotto Casale: Breve y sumaria relacion del subceso en Milan el savado fiesta de S. Martin, y el domingo a 11 y 12 de noviembre 1628. Concorda pienamente col racconto del Ripamonti e ne prova la verità. Mi fu gentilmente comunicata con altri MS. di molta importanza, di cui mi servirò nel corso di questo libro, a schiarimento, dall’archivista signor Civelli, il quale possiede una preziosa raccolta di atti pubblici e di manoscritti riguardanti le cose patrie.

43.  Il prestino delle Grucce, detto volgarmente di Scansc, posto anche in oggi sulla corsia che dal Duomo mette a porta Orientale, a mano sinistra sul principio della medesima.

44.  Io che sono stato presente non ho visto arme che eccedesse il sasso et qualche spada; per il più tutti (erano) battilana et simile scroccheria. Lettera 18 novembre di Agostino Foppa al conte Carlo Borromeo. (Tra i MS. Civelli).

45.  Alcuni per non aver sacchi persa ogni vergogna et molestia si ridussero a spogliarsi delli vestiti et questi riempire; et alcune donne ad alzare le vesti quantunque una sola ne havessero et in quella riporla. (Tadino, pag. 7.)

46.  Il Tadino, narrando questa sommossa, parla della resistenza del fornajo e de’ suoi garzoni, che vieppiù irritò il popolo. — Li Padroni et Ministri del quale vedendo non esservi a loro rimedio, ricorsero anch’essi alla violenza, et saliti nelli luoghi superiori col gettare anch’essi contra detta Plebe sassi, et pietre irritorno quella in tal maniera (principalmente per essere morti duoi figliuoli con le percosse de’ sassi et pietre) che fatta maggiore violenza, entrorno rompendo le porte, ec.

47.  Il vicario di provvisione di quest’anno 1628, del quale Ripamonti e Manzoni taciono il nome, era Lodovico Melzi, eletto dei LX Decurioni fino dal 1618, e che nel 1630 venne creato conte, forse per guiderdone del pericolo corso nella sommossa.

Gli succedette Alfonso Visconte, uomo integro e caritatevole. (Vedi il Somaglia.)

48.  La casa del povero Vicario è stata maltrattata, avendoli costoro non solo fracassato le invetriate sotto la porta et scrostata tutta la muraglia; ma mostrato risolutione di ammazzare e brucciare: E se un tantino tardava il soccorso del castello, era fatto il becco all’ocha. Lettera del Foppa, citata più sopra.

49.  Furono necessitati gli Spagnuoli con carri attraversare la strada, et con la moschetteria custodirla. (Tadino, pag. 7.)

50.  Fu necessario che il Primicerio, avvisato in Duomo, mentre si stava dicendo la lezione dopo i vesperi, facesse sospendere al lettore di proseguire la lettura, e che con parte dei chierici, e con due crocefissi molto grandi, e con la gente che colà si trovava, andassero in processione al prestino etc. Traduzione letterale della Relacion etc. in lingua Spagnuola sopra citata.

51.  Dalli Monsignori Mazenta, Settala et Bosso de’ principali di quel capitolo Metropolitano veniva assicurata la Plebe che avriano avuto il pane in grande abbondanza ed a buon mercato il che giouò assai essendo personaggi di gran credito et veneratione per le loro qualità presso la detta Plebe et tutta la città. (Tadino, pag. 8.)

52.  Codesta tariffa, secondo il Tadino, costò alla città più di 100,000 scudi di perdita.

53.  Il decurione Legnani.

54.  Degli autori della sommossa quattro ne furono appiccati la vigilia di Natale; due innanzi il prestino, e due a capo della strada ove abitava il vicario di provvisione.

55.  Il Tadino varia nella data e nel nome dell’individuo. Entrò nella città Pietro Antonio Lonato soldato alli 22 ottobre del sodetto anno 1629, habitante in borgo di Porta Orientale, parocchia di S. Babila nella casa detta dell’orefice... conducendo seco molti vestimenti comperati, ovvero rubbati alli soldati alemani, et subito gionto s’infermò, et fu condotto all’Hospitale, il quale essendo soprapreso da un tumore nel cubito del braccio sinistro con un bubone sotto l’ascella sinistra, morbo maligno et pestilente, accompagnato da febbre parimente pestilente, morse nel quarto giorno.... Tutte le sue robbe et letto insieme furno subbito abbruggiati, che fu causa, mediante l’aggiutto Divino di preseruarle per all’hora questo Hospitale Venerando; ma non durò longo tempo questo sospetto perchè manifestamente si palesò con l’infermità contagiosa, scoperta nella persona del Consegnero di detto Hospitale et Barbiero con il Rever. P. Terzago, per la longa esperienza del suddetto, il quale fece grandissima carità nella peste di Palermo dell’anno 1624, disse il Lonato essere morto di peste et loro medesimi essersi amalati del medemo male, se bene per gli preseruativi, et loro robustezza mediante l’aggiutto Divino si fossero mantenuti (guariti). (Tadino, pag. 51.)

56.  Carlo Colona Suonatore di Leuto poco prima anch’esso venuto da Monza, per vedere il passaggio de gli Alemani et forsi che haveva comprate alcune robbe da questa gente: alli 16 novembre infermò... morse nella quarta. (Tadino, pag. 51.)

57.  Ciò accadeva nella primavera del 1630, quando il male cominciava a serpeggiare nel borgo di Porta Orientale, e si sarebbe forse potuto circoscrivere con buone provvidenze.

58.  A questa incredulità s’accompagnavano altri fisici... li quali per degni rispetti non si nominano. Et in questo sinistro pensiero cascavano ancora li chirurgi della città Carcano, Monte, Calvo et il Chiodo, li quali non sapendosi governare mercè dell’ingordo guadagno, con la loro morte confessorno la verità, atteso che tutti morsero di peste, etc. (Tadino, pag. 73.)

59.  I Conservatori del Tribunale, et in particolare li Fisici come fu del Tadino, et Settala cominciarono ad essere odiati dalla Plebe ignorante, mediante la voce d’alcuni Medici puoco ben intenzionati alla salute publica, li quali per li carobij attestauano non essere contagio pestilente, ne loro conoscere altra peste che quella dell’aria; et che questa mortalità copiosa di persone dependeua dalla mala regola et penuria del viuere questi duoi anni prossimi passati.... Laonde la plebe insupata ed imbibita da questa illusione, cominciò a sparlare di questi fisici (che ritenevano vera la peste), li quali quando per sciagura transitavano i carobij gli trattavano con male, et disoneste parole; et a tale petulanza arrivò questa plebe, che non vi mancò con le pietre restassero percossi. (Tadino, pag. 83.)

60.  Lodovico Settala fu uno de’ più celebri medici dell’età sua, e benemerito della patria per lo zelo con cui esercitò la medicina, specialmente duranti le due pesti.

Nato nel 1552, ebbe per madre una Riva, figlia di Gian Francesco, giureconsulto riputatissimo all’università di Pavia. Ivi fece i primi studj, continuandoli a Torino ed a Milano nelle scuole Canobiane. Laureato che fu, entrò nel collegio medico nel 1573, e quasi subito venne nominato lettore all’Università di Pavia, ma scoppiata la peste nel 1576, lasciò la cattedra per servire più utilmente il suo paese. In quel tempo (scrive il Settala nel Trattato della peste) il Grande Arcivescovo, che confortava con divina carità i moribondi milanesi, destando ammirazione universale, mi volle, con indicibile benignità, compagno all’esimia opera.

Egli coadjuvò con tanto sapere e premura il Borromeo, che acquistò fama di dotto e caritatevole medico, non solo in patria, ma in tutta Italia e fuori. I principi facevano a gara per avere il Settala: nel 1608 il duca di Baviera gli fece offrire la cattedra primaria di filosofia nell’Università d’Ingolstadt. Il duca di Toscana lo voleva professore a Pisa. Il Senato di Bologna gli esibì 1200 zecchini di stipendio qualora si recasse a quella famosa Università. Il Senato di Venezia instava per fargli accettare una cattedra di medicina a Padova. Ma egli rifiutò costantemente tali lusinghiere profferte, non volendo abbandonare la sua Milano. E insistendo il Senato di Venezia perchè indicasse almeno un uomo degno della cattedra ricusata, egli suggeriva il dottissimo Santorio, il quale giustificò la sua scelta. Nel 1619 il re di Spagna nominollo protofisico di tutto lo Stato di Milano, ricompensa meritata colla sua dottrina e le sue virtù. Allorchè scoppiò la peste del 1630, il Settala, benchè toccasse ormai l’ottantesimo anno, si adoperò con gran zelo come capo del magistrato di Sanità per attivare le più energiche misure onde frenare il contagio. Ma ebbe il dolore di vedersi non creduto anzi insultato dal popolo, malgrado la venerazione procacciatagli dal sapere e dai beneficj resi a’ concittadini. Non s’avvilì perciò, e durante quel contagio, giovò colla sua sperienza, poichè la vecchiaja non gli consentiva di giovare coll’operosità. Uscito illeso, il Settala chiuse, il 12 settembre 1633, la sua lunga e onorata carriera, lasciando nome di valente medico e d’ottimo cittadino.

Scrisse molte opere, nelle quali traspare ingegno ed erudizione, ma viziate dagli errori in allora comuni nelle scienze mediche. Il progresso di queste, e un po’ il riprovevole dispregio di quanto è antico, le fece cadere oggidì in totale dimenticanza. Se ne può leggere il catalogo nell’Argelati. Bibliot. Script. Mediol.

Lodovico Settala riposa nel tumulo de’ suoi maggiori in San Nazzaro, dove, quarant’anni dopo la sua morte, i figli gli posero una lapide, la quale ora trovasi in sacristia, ivi con altre locata nell’anno 1830 quando ristaurossi quella basilica. Vi si legge una gonfia iscrizione, piena di bisticci, secondo il pessimo gusto del seicento, la quale, tradotta in italiano, suona così:

D. O. M.

A LODOVICO SETTALA
PER SPLENDORI DI NOBILTÀ E DOTTRINA CHIARISSIMO
ARCHIATRO DI FILIPPO RE DI SPAGNA
CITTADINO E SALVATORE DI MILANO
CHE VINSE LA MORTE QUANTE VOLTE VOLLE
E LA VINSE QUANTE VOLTE APPRESTO’ RIMEDJ
PUGNANTE COI MORBI E COLLA MORTE
COLLE SUE LUCUBRAZIONI
ANCHE DOPO LA DOMATA PESTE
PADRE AMANTISSIMO E DOTTISSIMO
I FIGLI CARLO VESCOVO DI CORTONA
E
ANTONIO INSIGNITO PIU’ VOLTE D’ONORI MUNICIPALI
OFFRONO TRIBUTO DI LAGRIME
MANFREDO POI CANONICO DI QUESTA BASILICA
NEL DOMICILIO DELLA SUA IMMORTALITÀ
UN MONUMENTO IMMORTALE
POSE
AI PRIMI IDI D’AGOSTO
L’ANNO INTERCALARE MDCLXXII

61.  Il primo nel 1629, il secondo nel 1630.

62.  Tadino espone minutamente le prescrizioni pei malati che rimanevano in casa. Il Commissario doveva suggellare tutte le porte, meno una, collocandovi guardie, profumare stanze e robe, visitare in persona le case in sequestro, almeno una volta il giorno, e farne esatta relazione alla Sanità. I provvedimenti erano buoni; ma tra per la cupidigia degli uffiziali subalterni, tra per l’infierire della peste, vennero mal eseguiti. (Vedi Tadino, pag. 76.)

63.  Fino dal febbrajo 1630 i Medici Conservatori avevano suggerito di preparare fopponi longhi profondi, e non troppo larghi, tanto che si puotesse stare quattro cadaveri per traverso. E questi fuori di ciascuna porta; ma tale prudente misura non venne adottata che nel maggio, quando crebbe il numero dei morti. Il Tribunale di Sanità, conoscendo l’importanza somma d’una pronta e diligente tumulazione, invigilava perchè fossero eseguiti i suoi ordini; pure, in onta alle pene severissime non riusciva a farli ubbidire. Il caso seguente, narrato dal Tadino, prova ad evidenza la verità dell’esposto. Morì nell’aprile un Brasca d’anni 15, figlio d’un macellajo in Porta Orientale, et fu sepolto sopra il Cimiterio di S. Babila et perchè s’era sparsa voce, che il caso fosse dubbioso, uno de’ sotterratori per interesse de’ vestiti dopo duoi giorni di sepoltura, hebbe ardire di leuare la cassa dalla fossa profonda, et aperta spogliarlo; et accortosi l’altro compagno, dicesi, che lo riprendesse dell’errore commesso contra gli ordini del Tribunale per le pene gravi intimate; ma non palesandolo anzi per quello s’intese escusandolo fu messo in prigione, et giustificata la verità del fatto, fu appicato d’ordine del Tribunale per mezzo al sudetto Cimiterio, ad esempio degl’altri, et bandito il principale. (Tadino, pag. 92).

64.  Il Vicario di Provisione nel 1630 era Francesco Landriani.

65.  Questa processione ebbe luogo l’undici giugno: durò dalle ore 7 alle 19 italiane. (Pio della Croce.)

66.  La vera ed evidente causa fu il contatto di tante migliaja di persone sempre fatale nei contagi, e specialmente colla caldura allora dominante; ma l’ignoranza dei tempi non l’ammetteva. Il Tribunale di Sanità comprese il pericolo; ma non aveva forza di opporsi al voto di tutta una popolazione. Adottò quindi, come accade in simili casi, un mezzo termine, cioè di escludere da Milano in quel giorno i sospetti; inutile misura dacchè la peste era già penetrata in città.

Il Tribunale di Sanità fece promulgare rigorose grida con pena della confisca de’ beni e della vita stessa che niuna persona delle terre infette o in cui fosse avvenuto qualche caso pestilente, ardisse, sotto qualsiasi pretesto, intervenire alla detta processione. Furono chiuse le porte della città e inchiodate le porte delle case infette; pure si sviluppò il contagio. Così il Somaglia, il quale lo attribuisce agli Untori.

67.  Esagerazione rettorica, poichè in detto giorno le case sequestrate erano già 500, ai primi di luglio crebbero a’ 2000. Prima della processione la mortalità giornaliera arrivò a’ 130, dopo caddero talmente li ammorbati, dice il Somaglia, che in brevissimo tempo si condussero più di dodici mille persone al Lazzaretto, sendosi tant’oltre con progressi così orrendi avanzata la peste, che obbligò quasi tutte le famiglie de’ ricchi, nobili, mercanti o chi poteva aver ricetto nelle ville, a colà fuggirsene. (Somaglia, pag. 484).

68.  Somaglia dice 1700 al giorno durante il luglio e l’agosto.

69.  Cioè da μονος solo, o da μονακὸς solitario. Il Bugato invece lo deriva dal latino monere, avvisare, perchè col tintinnio delle campanelle attaccate ai piedi avvisavano la gente di scostarsi. Ambedue le etimologie sono stiracchiate, ma non si saprebbe indicare donde venga precisamente questo vocabolo.

I Monatti erano distribuiti nelle seguenti stazioni:

Al Guasto in Porta Comasina.

All’osteria di Sant’Antonio in Porta Vercellina andando alle Grazie.

All’osteria del Pavoncino in Porta Romana.

In tutto il Borghetto di Porta Orientale vicino al Dazio.

Gli carri, che di continuo dallo spuntare al tramontare del sole s’adoperavano per la condotta dei morti o delle persone o robbe infette, erano circa cinquanta. (Somaglia, Alleggiamento.)

Ad ogni carro servivano due Monatti ed un cavallo. (Lampugnani, pag. 35.)

70.  Indegna cosa parimenti fu l’aversi alcuni mal consigliati giovani, poste le campanelle a piedi, per essere anch’essi creduti Monatti. Colla quale inventione usurpavansi licenza di andar tra sani per le case altrui, fingendo cercare se vi fussero infermi o morti. Dal che ne avenivano robbarie e scandali notabilissimi. (Somaglia, Alleggiamento, pag. 500.)

71.  Non meno viva è la pittura che il Della Croce fa della condizione di Milano. Spettacolo orribile a vedere era allora la già tanto gloriosa, ma in detti tempi misera città di Milano. Stavano desolate le case, le famiglie estinte, chiuse le botteghe, cessati i traffichi, serrati i tribunali, abbandonate le chiese, le contrade solitarie. Ed ormai più non si vedevano per le strade che quei ministri funebri, che dalle case ai lazzaretti conducevano gli infelici appestati. Stridevano mai sempre per le strade i carrettoni dei morti, tanto più orrendi alla vista quanto che i cadaveri confusamente caricativi sopra, davano di loro stessi vista più spaventosa. Uscivano dal Lazzaretto cantando li condottieri Monatti, già fatti duri in cuore in quell’orribile ufficio, con piumacci e galle su le berrette, e quasi che a parte fossero del trofeo di Morte, entravano audaci tanto nelle case infette, che più pareva volessero darle nemico sacco che amichevole ajuto.

Pigliavano que’ Monatti per il capo, per le gambe, come loro meglio comodo veniva, gli appestati caduti sul dorso, e dalle spalle gli venivano poi a scaricare sul carro come sacco di grano, nulla curandosi che indecentemente giù dai lati pendessero e gambe e braccia e teste. E malamente copertegli le nudità con uno straccio di tela, se ne andavano a scaricarli al foppone, celebrandogli intanto il funerale le flebili grida dei famigliari che si vedevano tanto malamente trattare gli amati cadaveri de’ suoi più cari e congiunti. Non udendosi altro suono di campane che il doloroso, che andavano facendo le campanelle che li stessi Monatti e cavalli de’ carrettoni portavano legate al collo ed alle gambe per avviso di quelli che loro venivano incontrati.

Non men doloroso era anche la vista dei poveri infetti, cui non era permesso spirar l’anima sotto il paterno tetto fra i lor cari. Altri venivano sopra carri e talvolta forzatamente legati, empiendo l’aria di lamentevoli strida, altri sopra sedie portati, altri a piedi a bastoncelli appoggiati, andavano gemendo ad incontrare, prima che medico e medicina, la morte e la fossa. (Pio della Croce, pag. 58 e seg.)

72.  La quale assurda opinione fu comune a tutti gli scrittori del tempo. Io sono di parere che li capi malfattori ed autori di tanta inumanità avessero anche patto col demonio, e che perciò, volendo eglino palesar il fatto, venissero da quello soffocati, perchè io ne ho visto alcuni, li quali imputati di tal scelleraggine, temendo il dovuto gastigo, arrabbiati se gli crepò il ventre in due parti. (Somaglia.)

Il Croce. Sino all’ultimo pertinacemente affermarono d’esser innocenti, sopportando del rimanente quella morte con assai buona disposizione, dal che si argomenta la diabolica fattura di questo fatto. (Pag. 49.) Ed altrove aggiunge: che la diabolica fattura era tale che chi preso ne veniva con darle il primo consenso, sentiva tal gusto e diletto nell’andar untando che umano piacere, sia qualsivoglia, non è possibile se gli agguagli. (Pag. 52.)

Il Tadino. In questo tempo non fu medico alcuno, ne persona inteligente che hauesse sentimento diverso di queste untioni pestilenti che non fossero con arte diabolica fabricate. (Pag. 117, e negli altri passi dove favella degli Untori.)

La quale credenza delle unzioni, diffusa, come è detto sopra, nell’aprile, andò crescendo ne’ mesi successivi. Si poneva in opera ogni mezzo per iscoprirne i supposti autori, e le gride succedevansi sempre più minaccevoli.

Cito i passi più importanti delle Gride medesime.

Avendo alcuni temerarj e scellerati avuto ardire di andare ungendo molte porte delle case, diversi catenacci di esse e gran parte dei muri di quasi tutte le case di questa città, con unzioni parte bianche e parte gialle, il che ha causato negli animi di questo popolo di Milano grandissimo terrore e spavento, dubitandosi che tali untuosità siano state fatte per aumentare la peste che va serpendo in tante parti di questo stato, dal che potendone seguire molti mali effetti ed inconvenienti pregiudiciali alla pubblica salute, ai quali dovendo gli signori Presidenti e Conservatori della sanità dello stato di Milano per debito del loro carico provedere, hanno risoluto per beneficio publico e per quiete e consolazione degli abitanti di questa città, oltre tante diligenze sin qui d’ordine loro usate per metter in chiaro i delinquenti, far pubblicare la presente grida.

Con la quale promettono a ciascuna persona di qualsivoglia grado, stato e condizione si sia, che nel termine di giorni 30 prossimi a venire dopo la pubblicazione della presente metterà in chiaro la persona o le persone che hanno commesso, favorito, ajutato o dato il mandato, o recettato, o avuto parte o scienza ancorchè minima in cotal delitto, scudi 200 de’ danari delle condanne di questo Tribunale: e se il notificante sarà uno de’ complici, purchè non sia il principale, se gli promette l’impunità, e parimente guadagnerà il suddetto premio.

Ed a questo effetto si deputano per giudici il signor Capitano di Giustizia, il signor Podestà di questa città ed il signor Auditore di questo tribunale a’ quali o ad uno di essi avranno da ricorrere i propalatori di tal delitto, quali volendo saranno anco tenuti segreti.

Dato in Milano li 19 Maggio 1630.

M. Antonio Monti, Presidente.

Giacomo Antonio Tagliabue, Cancelliere.


Essendo pervenuto alle orrecchie dell’Ill.mo ed Ecc.mo Marchese Spinola etc., il disordine et temerità seguita in questa città di Milano et in quella di Cremona et Lodi dove sono stati unti quasi tutti li muri delle case, molte porte, e cadenazzi di esse con untioni di colore parte bianco, e parte giallo et il travaglio d’animo e spavento che questa mala atione ha cagionato al popolo per il timore conseguito che sia stata fatta per aumentare la peste, conferma la grida di Sanità 19 maggio, e promette altri 200 scudi, e liberazione di due banditi per casi gravi a chi soministra indizj ed impunità anche al complice purchè non sia il principale.

(13 Giugno.)


In molte parti dello Stato et in particolare delle città di Milano, Pavia e Cremona, et altri molti luoghi hanno con unti velenosi untate le porte, etc. con animo diabolico di dilatare la peste.

Promette l’impunità dei complici del detto delitto mentre non siano dei principali.... et il premio di scudi mille et la liberazione di tre banditi.

(14 Luglio.)


La continuazione del velenoso male causato dalle untuosità pestilenziali che senza alcun timore delle minacciate pene si vanno tuttavia spargendo in questa città con tanta mortalità de’ cittadini, inducono S. E. a bandire nel termine di due giorni tutti i forastieri di qualsivoglia nazione, stato, grado, qualità, condizione, pena la vita et confiscazione dei beni. Mille scudi, e cinque anni di galera agli osti e tavernieri che non li denunziassero.

(30 Luglio.)

73.  La gente camminava con pistole in mano: i nobili senza mantello, e con sportule per provigioni. (Pio della Croce.)

74.  Il Processo degli Untori, di cui s’è tanto parlato in quest’ultimi anni, esiste per intero nell’Archivio Criminale, o, per dir meglio, esisteva, giacchè andò in gran parte smarrito anni sono in un riordinamento di vecchie carte. La parte di esso che riguarda il Mora e gli altri condannati, si stampò nel 1630, perchè servisse a continuare il Processo medesimo coll’accusato Padilla. Pietro Verri fu il primo a spargere luce su questa miseranda storia degli Untori, scrivendo nel 1777 le sue Osservazioni sulla tortura, e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione delle unzioni malefiche, alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l’anno 1630. Fino dal 1761, Verri aveva abbozzate alcune idee sulla tortura, e nel Mal di Milza, celebre almanacco che, unitamente al Zoroastro, pubblicò per filosofica celia in quell’anno, così esprimevasi, facendo, sotto forma d’indovinello, parlare la Tortura. «Io sono una regina, ed abito fra gli sgherri; purgo chi è macchiato, e macchio chi non è macchiato; son creduta necessaria per conoscere la verità, e non si crede a quello che si dice per opera mia. I robusti trovano in me salute, e i deboli trovano in me la rovina. Le nazioni colte non si sono servite di me, il mio imperio è nato nei tempi delle tenebre; il mio dominio non è fondato sulle leggi, ma sulle opinioni di alcuni privati». Undici anni dopo, cioè nel 1777, egli riassunse le proprie idee su quell’orribile abuso, e le ordinò nelle sue Osservazioni. Non vi sia discaro, o lettori, udire il giudizio che ne dà il benemerito Pietro Custodi nelle Notizie del Verri premesse al volume XV, Economisti Italiani, Parte moderna.

«Per rendere più efficace la forza dei ragionamenti, scelse un famoso esempio di un delitto impossibile confessato per l’eccesso de’ tormenti, cioè il fatto delle unzioni venefiche cui si attribuì la pestilenza che desolò Milano nel 1630. L’ordine, la chiarezza, la forza de’ raziocinj e l’insinuantesi fluidità del suo stile trovansi nelle Osservazioni sulla Tortura in grado eminente. Non temo d’incontrar taccia di esagerato, se dico che quest’Opera mostra più che ogni altra qual grand’uomo era il Verri. Egli ebbe il talento di rendere una lettura interessante dei pezzi di processo scritti col barbaro frasario de’ tribunali, ancor più barbaro a que’ tempi; d’insinuare l’austerità de’ ragionamenti per la via sempre facile e lusinghiera della sensibilità; e di trasfondere ne’ suoi lettori, colla commozione della sua anima, la sua stessa persuasione. Ma, per mala sorte, suo padre (il conte Gabriele), era presidente di quel collegio di supremi giudici, che centoquarantasette anni prima avea dato un sì atroce esempio d’ignoranza e di crudeltà nel legale assassinio di tanti innocenti. Si credette che l’estimazione del Senato potesse restar macchiata per la propalazione dell’antica infamia. Questo riflesso prevalse; Verri, per rispetto del padre, rinunciò all’idea di dare alle stampe le sue Osservazioni, così il pubblico rimase defraudato di un’opera che certamente su tutte le altre di eguale argomento avrebbe riportato la palma.

Queste Osservazioni, unitamente alle Memorie storiche sulla Economia pubblica dello Stato di Milano, scritte nel 1768, furono pubblicate dal Custodi l’anno 1804, e formano il volume XVII, Parte moderna degli Scrittori Classici Italiani di Economia politica. «Il manoscritto originale, dic’egli, di questa importantissima Opera, già disposto dall’autore per la stampa, mi venne cortesemente comunicato dalla stimabile di lui vedova. Io ho creduto di aggiungervi, quasi in forma di una lunga nota, le Osservazioni sulla Tortura, per soddisfare alla curiosità di molti che bramavano di vederle pubblicate, e perchè altronde l’esempio del fatto atroce che ne forma il principal soggetto, può servire di più ampia dimostrazione della barbarie dei tempi». (pag. 53, Volume XV, Parte moderna).

Cesare Cantù, ne’ suoi Ragionamenti intorno alla Storia Lombarda del secolo XVII, pubblicati in via di commento ai Promessi Sposi nei Volumi 11, 12 dell’Indicatore 1832, tolse dal Verri, e riprodusse tutto ciò che avvi di più importante nei due opuscoli citati, circa la condizione politico-economica di Milano a quell’epoca, e circa il Processo degli Untori.

Nel 1839 si sparse la voce in Milano che pubblicavasi un lavoro sulla Colonna Infame, e molte ciarle se ne fecero, nell’idea che fosse lo scritto tanto desiderato di Manzoni, o se d’altri lavoro originale. Ma al comparire del volume fu delusa l’aspettativa del pubblico, non essendo che una semplice ristampa della Parte Offensiva del Processo data in luce, come accennai più sopra, nel 1630, aggiuntovi, per informativa e per conclusione del fatto, due brani dei Ragionamenti di Cesare Cantù. Il libro non poteva gradire alla comune dei lettori, perchè nulla più nojoso d’un processo in istile barbaro e prolisso; quindi giace dimenticato: però è un documento storico non senza importanza pei Milanesi. Sceglierò alcune note ad illustrazione del Ripamonti, tanto dal Verri che dal Processo, citando di quest’ultimo l’edizione del 1839.

75.  Figlio di Domenico e di Paola, levatrice, habito in porta Ticinese nella Parochia di S. Pietro in Caminadella cioè al Torchio dell’Oglio: alli 26 di Maggio cominciai a far il Commissario sopra la Sanità per far sequestrare sù gli infetti, farli condur via, et anche far condur via li morti di peste con li carri, commandando alli monati, et questo ufficio lo faccio per porta Ticinese; ma prima di far il Commissario attendevo a scartezar filisello. (Processo, pag. 37.)

76.  Vedi nel Processo i lunghi costituti dei testimonj, i quali concordemente deposero che circa le due ore della mattina avevano veduto passare dalla Vedra dei Cittadini il Piazza, imbacuccato, tenendosi rasente i muri, e con in mano una carta fregare qua e là le pareti delle case e le porte, che si scoprirono imbrattate d’un certo onto che pareva grasso tirante al giallo... una cosa gialla che pareva che in duoi luoghi vi fosse stata buttata su con un deto. (Processo, pag. 30 e seg.)

77.  Di questa crudelissima esacerbazione non trovasi cenno nel Processo; forse è amplificazione rettorica del Ripamonti.

78.  L’infelice protestò nei primi esami la sua innocenza; ma lo spavento di venir sottoposto ogni giorno agli spasimi della tortura, e l’impunità promessa qualora palesasse il delitto ed i complici, lo spinsero, per amore della vita, alle più strane ed assurde confessioni.

«Il Piazza dunque chiese ed ebbe l’impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli comparve, e accusandosi senza veruna tortura o minaccia d’aver unto le muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire che l’unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull’angolo della Vedra; che questo unguento era giallo, e gliene diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia, rispose: è amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì. Quasi che le confidenze di un misfatto così enorme si facessero a persone appena conoscenti, amico di buon dì, buon anno. Come poi seguì così orribile concerto? Eccone le precise parole. Il barbiere di primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la bottega: vi ho poi da dare non so che; io gli dissi, che cosa era? ed egli rispose: è un non so che unto; ed io dissi: verrò poi a torlo; e così da lì a tre dì me lo diede poi. Questo è il principio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza, che allora che gli fece tal proposizione vi erano tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi fossero, però m’informerò da uno che era in mia compagnia, chiamato Matteo che fa il fruttaruolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò a dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto barbiere. Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattro testimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette: I. Che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano. II. Che si possano fabbricar veleni, che dopo essere stati all’aria aperta, al solo contatto diano la morte. III. Che se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli. IV. Che si possa nel cuore umano formare il desiderio di uccidere gli uomini così a caso. V. Che un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due giorni, e si lascerebbe far prigione. VI. Che il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sè le muraglie, cercasse superfluamente de’ complici. VII. Che per trascegliere un complice di tale abbominazione, gettasse l’occhio sopra un uomo appena conosciuto. VIII. Che questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj, e il Piazza ne assumesse l’incarico senza conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un povero barbiere! Tutte queste otto proposizioni si pongano da una parte della bilancia. Dall’altra parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de’ spasimi sofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più inverosimiglianza». (Verri, Osservazioni, pag. 215.)

79.  Gio. Giacomo Mora era huomo di statura mezzana, grosso, faccia più tosto tonda che altrimenti, con carne bianca e rossa, con poca barba castana chiara, et era di trent’otto anni in circa. (Processo, pag. 374.)

Aveva in moglie Chiara Brivio, un figlio di nome Paolo Gerolamo, arrestato con lui, e quattro figlie, Anna, di 14 anni; Clara Valeria, di 12; Teresa, di 7, ed un’altra Teresa, di 6, onde è verosimile che fosse morta la precedente. (Dai libri parrocchiali di S. Lorenzo, citati dal Verri.)

80.  Gli si trovò fra gli altri: Un vaso con Ellettuario, con boletino che dice contra pestem, fatto a 21 Giugno, et è circa quattro deta. — Se per sorte mi sono venuti in casa perchè io abbi fatto quest’Ellettuario, et che non s’abbi potuto fare, io non so che farli, l’ho fatto a fin di bene, et per salute de poveri, come si trovarà, perchè ne ho dato via per l’amor di Dio. (Processo, pag. 51.)

Questo unguento preservativo della peste era composto, secondo la deposizione del Mora, di olio d’ulivo, olio filosoforum, laurino e di sasso; di polvere di rosmarino, salvia e ginepro, e d’aceto forte. E con questo s’onge li polsi, sotto l’asselle, la sôla de’ piedi, il collo della mano, nelli genochij. (Ivi, pag. 75.)

81.  Il Tribunale chiamò Margarita Arpizarelli e Giacomina Andrioni, lavandaje, perchè esaminassero il liscio. Le loro risposte furono tanto stolide quanto potevasi aspettare da donne del volgo ignoranti e superstiziose.

Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle forfanterie, perchè il smoglio puro non hà tanto fondo, nè di questo colore, et non è tachente (viscido) come questo. — Sà V. S. che con il smoglio guasto si fanno delli più eccellenti veleni che si possono imaginare. E l’altra. Quanto più si ruga in detto smoglio, si vede che viene più negro, et più infame, et con il smoglio marzo cattivo si fanno grandi porcherie, et tossici. (Processo, pag. 59-60.)

Assurdità che non meritano la pena di una confutazione.

82.  Girolamo Migliavacca, arrotino, fu giustiziato il 7 settembre.

Pietro Girolamo Bertone, oste della Rosa, fu arrotato e scannato il 23 dicembre insieme con Gaspare figlio del Migliavacca ed altri.

Gio. Stefano Baruello, oste di San Paolo, e cognato del Bertone, si costituì volontario in prigione il 1.º luglio; l’undici ottobre gli venne intimata la sentenza di morte; promettendogli però l’impunità ove manifestasse gli untori e complici degli unti. Accettò, e in una deposizione, che è un assurdo romanzo, accusò come capo degli Untori il Padilla.

Baruello morì di peste in prigione il 18 settembre.

83.  Figlio del castellano di Milano. Dopo lunga procedura uscì innocente nel 1632.

84.  Il Baruello, nella sua pazza deposizione, eccitato a dire la verità, contorcendosi e battendo i denti, gridò: Ù ù ù, se non lo posso dire: — V. S. m’agiutti, ah Dio mio! ah Dio mio! — È là quel prete francese con la spada in mano, che mi minaccia, — vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra. I Giudici ritenendolo ossesso, fecero chiamare un sacerdote, il quale usò varj esorcismi, e benedì la finestra accennata dal Baruello, che intanto strillava, gridando scongiurate quello Gola Gibla. Alla fine eccitato più volte a parlare, egli proruppe in queste parole:

«Signore quel prete era un Francese, il quale mi prese per una mano, e levando una bachetina nera lunga circa un palmo, che teneva sotto la veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano ad uno libro largo in foglio, come di carta picciola da scrivere, ma era grosso trè deta, e l’aperse, et io viddi sopra li foglij delli circoli, e lettere à torno, à torno, e mi disse, che era la clavicola di Salomone, e disse, che dovessi dire, come dissi queste parole Gola Gibla, e poi disse altre parole hebraiche, aggiongendo, che non dovessi uscir fuori del chierchio, perche mi sarebbe succeduto male, et in quel ponto comparve nell’istesso circolo uno vestito di Pantalone, et all’hora il detto Prete tenendo il quadretto dell’onto nelle mani disse, Attaccatevi à me, ne habbiate paura, e poi voltatosi verso di me, disse, Riconoscete voi questo quà per vostro Signore, facendomi cenno, che dicesi de sì, et io all’hora risposi: Signor sì, che lo riconosco per mio Signore, e lui, cioè detto Prete andava dicendo, nec propter te, nec propter alios, mirando all’ampolino dell’onto, che haveva nelle mani, oltre molte altre parole de quali non mi raccordo, e mentre ero in detto circolo io non vedevo alcuno fuori, che il detto Prete, e detto Pantalone: partì poi detto Pantalone, sentito che hebbe ch’io lo riconoscevo per mio Signore, et uscito fuori del circolo, viddi..... il Signor Don Gioanni il quale mi disse avete visto colui? denari non ve ne lascerà mancare; et io dimandandoli chi era detto Sig. Don Gioanni, rispose che era il diavolo: all’hora detto Prete li restituì detto ampolino, et il Sig. Don Gioanni lo diede à me dicendo: Horsù vi hò conosciuto per galant’homo mi voglio affidar di voi, pigliate questo vaso, che è di quelli onti, che hoggi dì vanno per Milano, e perche non è perfetto, trovate ghezzi, e zatti, come hò già detto di sopra, poi mi soggionse: Non vi dubitate, che se la cosa va à luce, io sarò padrone di Milano, e voi vi voglio fare delli primi di Milano». (Processo, pag. 227.)

E seguitò la sua filastrocca, accusando molte persone, e particolarmente un Carlo Vedano maestro di scherma. Baruello era un furfante matricolato, che fingendosi invaso dal diavolo, sperava a forza d’invenzioni e bugie, scampare la vita, godendo l’impunità promessa; ma egli non fece che compromettere nuovi innocenti, e chi sa quante altre vittime avrebbe sagrificate se in pochi giorni non fosse morto, come notai, di peste.

85.  Il Mora e il Piazza subirono la morte il 2 agosto con tutte le barbare esacerbazioni portate dalla sentenza 27 luglio del seguente tenore.

«Riferito in Senato dal Magnifico Senatore Monti, presidente dell’Uffizio di Sanità, il processo istrutto contro G. Piazza e G. G. Mora, che con pestifero unguento unsero la Città, e udito esso magnifico presidente, e raccolti i voti di tutti i Senatori, venne nella determinazione che i predetti Mora e Piazza, intimata ad essi la morte, vengano tormentati colla corda ad arbitrio d’esso magnifico Presidente, intorno agli altri punti e ai complici; e che avuti per ripetuti e confrontati, sopra un carro sieno condotti al solito luogo del supplizio, e per via sieno morsi con tenaglie infocate nei luoghi dove peccarono; ad entrambi si tagli la destra davanti alla barbieria del Mora, e spezzate le ossa secondo il costume, e la ruota si levi in alto e si intreccino vivi in quella, e dopo 6 ore sieno strozzati, e subito i loro cadaveri sieno bruciati, e le ceneri gettate nel fiume, e la casa del Mora si distrugga, e al posto suo s’alzi una colonna che si chiami infame con un’iscrizione del fatto, e a nessun più in perpetuo sia concesso rifabbricarla. Ai creditori particolari si soddisfaccia coi beni dei condannati se ne avranno, se no del pubblico; i beni del Mora e del Piazza si confischino. Nel condurli al patibolo si tenga questa forma. Precedano due trombetti che annunzino al popolo la causa della condanna e del supplizio. Siavi bastante scorta, chè non avvenga tumulto nel popolo, e perciò si chiudano le case dei sospetti; e si proclami che ciascuno stia in casa, e si guardi. Il luogo dove avrassi a far la giustizia cingasi di steccati di legno, i quali affinchè non possan essere infetti con quell’unguento pestifero, custodiscansi da uomini a ciò; e a quel luogo facciasi un coperchio, acciocchè i frati possano con minor incomodo assistere ai condannati, e di tutto diasi avviso al vicario di Giustizia. Ottaviano Perlasca sottoscrisse e sigillò ecc.».


Chiuderò questo capitolo con un documento importantissimo, perchè prova ad evidenza l’intima persuasione, e in uno lo spavento che i magistrati avevano degli unti. Si noti che il fulminante decreto uscì cinque giorni dopo il supplizio del Mora.

Philippus IV Dei gratia Hispaniarum ecc. Rex, et Mediol. Dux ecc.

Havendo prodotto questo infelice secolo huomini per non dir mostri, usciti dalle più horride parti dell’Inferno, quali già divenuti così scelerati et crudeli, che con fini barbari ed infami eccedendo nella lor ferità tutti i termini dell’humana crudeltà, hanno havuto ardire di cospirare nella morte ed eccidio de’ Popoli e Città di questo stato, co ’l fabricare veneni pestiferi e dispergerli per le case, per le strade, per le piazze e sopra gli huomini stessi, uccidendo in questo modo infinito numero de’ cittadini e famiglie senza distintione di età, di sesso e di stato; nè contenti di questo sono arriuati a segno tale d’empietà verso Dio, che fatti sacrileghi, gli hanno ancora disseminati sopra persone sacre, ed introdotto ne’ Chiostri d’huomini Religiosi, e Vergini sacre ed innocenti, ed ancora nei Sacri Tempij, imbrattando con essi le Sante Immagini ed i Sacrosanti Altari, acciocchè niun luogo restasse in tutto della loro empietà sicuro a’ miseri, che per la salute propria e comune ai Santi intercessori ed allo stesso Dio ricorressero. E quello che più accresce l’horrore è, che molti di questi tali scellerati, mossi da una infame ed essecranda avaritia, diuenuti parricidi siano arriuati a stato tale d’empietà, di tradir per danari la propria Patria, e quei Cittadini, coi quali s’erano nodriti ed alleuati, col fabricare e disseminare in essa questi pestiferi veleni, rompendo con più non udita inhumanità quei legami sacrosanti d’amore, coi quali dalla natura, da Dio stesso, e dalla continua consuetudine i cuori humani si sogliono insieme stringere ed alligare. Per rimediare ad un delitto tanto grande, e sradicare dal mondo huomini tanto empj ed inhumani, oltre il premio proposto a chi metterà in chiaro il detto delitto dal Tribunale della Sanità di scudi 200 e l’impunità ad uno dei complici con grida del 19 maggio p. p., fù d’ordine di S. E. publicata altra grida sotto il 23 giugno susseguente, con premio di altri scuti 200 da pagarsi dalla R. Camera, e d’altri scuti 500 offerti dalla città di Milano, e della liberazione di due banditi di casi graui, con l’impunità ad uno dei complici, a chi mettesse in chiaro il detto delitto. E communicato poi il negotio col Senato, il quale stimò questo delitto in questa parte andar di paro con quello di Lesa Maestà, anzi esser con esso inseparabilmente congiunto, fu comminato con publico Editto del dì 11 Luglio a quelli che sapessero quali fussero i rei di un tanto delitto, e non lo rivelassero, la pena della vita, e confiscatione de’ beni che dalle leggi era prescritta a quelli che non scoprissero i rei di Lesa Maestà. Ed ultimamente con altra grida delli 13 luglio fatta co ’l parere del medesimo Senato: per dar maggior animo a quelli che havessero voluto metter in chiaro questo fatto, si propose nuovo premio dell’impunità a trè complici e di mille scuti, e la liberatione di trè banditi di casi riseruati, purchè hauessero le opportune remissioni. Ed il Senato, essendo venuto sotto il suo giudizio due di questi traditori della patria, con la sentenza del 27 luglio, hà posto mano a quella maggior severità delle leggi, che fosse conforme, non all’enormità del delitto, poichè a quella è impossibile arrivare, ma all’habilità della natura humana ed alla Christiana pietà.

Ma perchè non conuiene tralasciar alcun rimedio per sradicare dal mondo sceleratezza tanto empia, e fiere tanto crudeli, ha risoluto l’Ill. ed Ecc. signor Ambrosio Spinola ecc., co ’l parere anche del Senato, di far pubblicare la presente grida.

Con la quale inherendo alle sudette, le quali vuole che restino nel suo vigore e forza, ed a tutte le proibitioni e pene fatte ed imposte dalle sacrosante leggi, così comuni come particolari di questo stato, per la salute commune e beneficio publico, prohibisce a ciascuna persona di qualunque conditione e stato sia, senza eccettuarne alcuna, il fabbricarne o far fabbricare questi pestiferi veneni, o l’usarli sotto pena della vita, in modo che condotti al luogo del Patibolo, le siano dal Carnefice con una ruota ben ferrata spezzate ad uno ad uno tutte le ossa principali del corpo dal cranio della testa impoi, perchè possino i loro corpi esser intessuti vivi fra i raggi di detta ruota, e poichè in essa frà quelli acerbi cruciati in pena della sua sceleratezza ed ad esempio de’ simili mostri di crudeltà havranno vomitata quell’anima infelice, che informaua quel corpo scelerato, sia quell’infame cadavere come peste del mondo gettato nelle fiamme, e ridotto in minima polvere che sparsa nell’acqua d’un vicino fiume, si disperda, non convenendo che qualsiuoglia minima parte di lui habbia sepoltura in quella città ò luogo, che haurà così empiamente tradito.

E se questi tali saranno Cittadini ò Sudditi di questo Stato, commanda S. E. che le Case di tanto empj parricidi, come Nidi de’ traditori, siano rouinate e distrutte; e che i posteri loro, come quelli che haueranno hauuto la descendenza da’ traditori della patria, siano in perpetuo priui di tutti gl’honori, commodi, priuilegi, utilità proprie de’ Cittadini e Sudditi di questo Stato, e siano tenuti, trattati in tutto e per tutto come stranieri e d’altre nationi, e per la nota che porteranno sempre seco d’esser discesi da sangue d’empij parricidi contra la propria patria, sia abborito il Commercio loro, come se fossero nati frà que’ popoli che sono stimati più barbari e fieri, e sogliono seruir ad altri per esempio d’ogni inhumanità e crudeltà. Riseruando sempre al Senato l’arbitrio di aggiunger a queste pene quei maggiori cruciati che la giustizia, e la seuerità delle leggi, havuto risguardo all’attrocità del fatto, richiederà.

Commanda di più S. E. che tutti i complici di un così horrendo delitto siano sottoposti alle stesse pene, ed in oltre ordina che non sia alcuna persona che habbia ardire di tenere in Casa ò in altro qualsivoglia luogo conseruare sotto pena della vita, questo pestifero veneno, nè trattar di fabricarlo, ò usarlo, rimettendosi nel genere della morte all’arbitrio del Senato, havuto riguardo al fatto, ed alle persone, seruando però sempre la dovuta seuerità.

E perchè il distinguer da veleno a veleno potrebbe turbare l’essecutione della presente grida, dichiara S. E. che tutti li Veneni che non saranno nella sua semplice e natural forma, ma misti ò trasformati, siano giudicati per pestiferi, ad effetto d’essequire le sudette pene.

Et acciochè tale e così essecrando delitto non possa restar occulto, promette S. E. l’Impunità a quello de’ complici che preuenerà gli altri in darne parte alla giustizia; e si dichiara che a quelli che si lasceranno preuenire sarà da S. E. denegata ogni Gratia e misericordia, e lascierà che abbia contro di loro effetto la seuerità della giustizia.

Di più commanda S. E. che tutti quelli che sanno ò sapranno alcuni esser colpevoli di tutti ò alcuno de’ sodetti delitti, siano tenuti subito a venirli a denuntiare alla giustizia, sotto pena d’esser tenuti Complici, auuertendo bene a non lasciarsi prevenire da alcuno, perchè se si scoprirà che l’habbino saputo, e si siano lasciati preuenire da altri, non s’admetterà alcuna scusa, ma saranno con ogni pena più severa et essemplare castigati.

Dichiara inoltre S. E. che per la presente grida fatta in materia di questo pestifero Veneno, non si intende di derogare a qualsiuoglia altra Legge, che proibisca il fabricare, usare, portare ò ritenere veleni: anzi vuole che tutte le leggi intorno a ciò fatte siano inuiolabilmente osservate ed esseguite.

E commanda S. E. al Capitano di Giustizia, Podestà di Milano ed agli altri Podestà delle Città e Terre solite, a far pubblicare questa Grida acciò venga a notitia di tutti.

Data in Milano alli 7 di agosto 1630.

Ex ordine S. Ex. Antonius Ferrer.

Vidit Ferrer.
Proueria.

86.  Esaminando i processi degli Untori, che esistono in gran numero nei nostri archivj pubblici e privati, trovai molti inquisiti, arrestati appunto nelle campagne. Mi ricordo aver letto tra gli altri il processo d’un frate laico, che venne preso nelle vicinanze di Legnano, perchè alcuni ragazzi, i quali custodivano le vacche al pascolo, corsero in paese gridando ch’egli aveva unta una pianta, vicino la quale erasi soffermato per bisogni naturali.

87.  Anche il vicino Limbiate andò immune dalla peste, se vuolsi dar fede alla tradizione popolare conservata in paese fino ad oggi. Però in entrambi gli archivj parrocchiali non esiste ricordo alcuno intorno il contagio del 1630 a conferma d’una tanto fortunata eccezione nella generale catastrofe.

Devo questa notizia alla gentilezza del Rev. parroco di Limbiate Domenico Galli, che dietro mia inchiesta ebbe la compiacenza di esaminare i suddetti archivj.

88.  Plebeij quoque nobilium.

89.  Pare che alluda a Gustavo Adolfo re di Svezia, detto il Leone del Nord, che per sostenere la Riforma di Lutero guerreggiava in quel tempo contro l’imperatore Ferdinando ed i principi cattolici della Germania.

90.  Da queste franche parole appare che il nostro Storico non era persuaso delle unzioni. Infatti egli si limita a tradurre nel seguente capitolo il Tadino, uomo, e pe’ suoi talenti e per la carica di Conservatore della Sanità, molto stimato. L’urtare un’opinione generalmente creduta non solo dal popolo, ma dai nobili e magistrati, e cui inclinava a credere lo stesso Arcivescovo, era per sè pericolosissimo. Aggiungasi le traversie sofferte dal Ripamonti ed i molti suoi nemici, e si troverà che il lasciare, siccome fa, in dubbio se le unzioni fossero reali o immaginarie egli è quanto potevasi esigere da uno storico posto nelle sue circostanze.

91.  Atque post ejus mortem futurus alter quodammodo Septalius, dice il testo. La frase affixus lateri senis hærebat, indica con molta forza l’amicizia e famigliarità strettissima che univa questi due medici, così distinti per talenti e bontà di animo, e i quali, per eminenti servigj prestati alla patria durante una lunga carriera, e specialmente nel contagio, meritano che la loro memoria sopravviva benedetta tra i non ingrati posteri.

92.  Il Tadino somministrò importanti notizie al Ripamonti, senza le quali avrebbe difficilmente potuto rischiarare molti punti della storia del contagio. E perchè questo Istorico personalmente non si trovava presente alla crudeltà di questo pernitioso contagio (finora non mi fu dato scoprire dove si fosse ritirato il nostro Ripamonti), però ne anche poteva essere informato d’alcune certe speciali et esentiali particolarità che la città desidera; anzi la sua fatica si sarebbe resa molto imperfetta, quando che o sì per ubbidire a chi mi poteva commandare come che anche per essermi in persona à comune prò della mia Patria dal principio sino al fine di così grande flagello adoperato, non l’hauessi soccorso de’ molti avvisamenti et osservationi come ne’ suoi libri, con più et longhe memorie egli testifica. (Ragguaglio, ec., nella Dedica al vicario Orrigoni.)

93.  Apparve nel fine del mese di Giugno una Cometa molto grande verso settentrione et durò longo tempo, vista da più persone; come ancora si viddero alcuni Eclissi et in particolare del Sole et della Luna; inditio manifesto del futuro gastigo della peste che N. S. ci voleva mandare..... Di modo aponto spirata la Cometa, puoco doppo successero di nuovo le untioni nella città principalmente, et suo Ducato et doppo passarono per tutto lo Stato. (Tadino, pag. 110.)

94.  In questo pomposo elogio del Tadino, come astrologo, e nella protesta che fa il Ripamonti della propria ignoranza e timidezza nella medesima scienza, non ti sembra, o lettore, di travedere una pungentissima ironia? Era il nostro Storico, per acume d’ingegno e libertà d’opinioni, molto innanzi de’ contemporanei, e in tutte le opere di lui scorgesi come disprezzasse buona parte dei pregiudizi comuni a que’ giorni; ma la credenza delle unzioni era così generale, che il negarla sarebbe stato, lo ripeto, pericoloso. Nè Ripamonti, sfuggito una volta all’Inquisizione, era uomo da incapparvi la seconda, ciocchè non sarebbe stato difficile, stantechè l’Inquisitore generale, come vedremo avanti, le autenticò, per così dire, coll’autorità delle sue parole.

95.  Secondo il Tadino erano francesi. (Pag. 111.)

96.  Occorse che costui (il francese) trattò per accidente di tutte queste cose con un Battiloro detto il Borghino, il quale habitava vicino alla casa del Senator Arconato, presidente all’hora della Sanità di tutto lo Stato, et subito conferto dal Borghino questo negotio, con Gio. Battista Cogliate persona giuditiosa et prudente, et desideroso molto della salute publica, et domestica della casa del sodetto Presidente. Il quale essendo stato avvisato dal detto Cogliate et ricordandosi delle lettere reali... nel fare del giorno seguente dell’avviso, lo fece far prigione, ec. (Tadino, pag. 111.)

97.  Tutt’altro che rilasciato! Essendosi rinvenuta fra le sue robe una vestina dell’habito di S. Francesco di Paola con una cintura del detto ordine, dovè confessare ch’era frate. Arrivò questa nuova al Padre Inquisitore Generale, il quale per suo officio, come appostata et habitato in Geneura lo sequestrò con tutte le sue robbe, et puoco dopo lo fece condurre al Santo Officio, il quale esaminato sopra altri particolari, di più di quello haueua fatto il Tribunale della Sanità per interesse del suo officio, s’intese che confessò il pregione molte cose pregiudiciale alla salute dell’anima sua et scandalo universale; dove puoco doppo fu condotto a Roma d’ordine di quella Santa Congregatione. (Tadino, pag. 112.)

98.  Il Tadino dice che gli Untori servivansi di escrementi putrilaginosi delli buboni, carboni, et antraci pestilenti misti con altri ingredienti, li quali per hora non conviene riporgli in carta.... (Pag. 119.)

Sono incredibili le assurdità che si propalavano intorno la composizione di tali supposti unguenti. I poveri accusati, per sottrarsi agli atrocissimi spasimi della tortura, facevano sì pazze e strane confessioni, che sarebbe bastato un po’ di buon senso nei giudici per scorgere a colpo d’occhio la falsità; sgraziatamente la credenza generale nelle unzioni era sì forte, che soffocava non solo il buon senso, ma ogni principio di giustizia. Si pigliava di tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che esce dalla bocca dei morti, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, ne vi entrava altro ingrediente o bollitura. Così il Mora, in uno dei costituti; le quali aberrazioni da delirante, prodotte dal bisogno di sottrarsi al martirio, e dopo ritrattate, cadevano al solo riflesso che i due ultimi schifosi ingredienti nemmeno per sogno sono velenosi, e la bava degli appestati non era facile raccoglierla clandestinamente in gran quantità, e maneggiarla senza contrarre la peste.

Ed il Maganza, figlio di frate Rocco, altro implicato nel processo. Il cognato del Baruello mi disse: andiamo fuori di Porta Ticinese, li dietro alla Rosa d’oro, ad un giardino che ha fatto fare lui, a cercare delle biscie, dei ratti e dei ghezzi ed altri animali, quali li fanno poi mangiare una creatura morta, e come detti animali hanno mangiato quella creatura, hanno le olle sotto terra, e fanno gli unguenti, e li danno poi a quelli che ungono le porte: perchè quell’unguento tira più che non fa la calamita.

«Un pazzo legato non potrebbe fare un dialogo più privo di senso di questo, e allora seriamente veniva scritto. L’unto malefico, secondo il romanzo del Mora, era di bava, sterco e ranno; ora, secondo il figlio del frate Maganza, era di serpenti, rospi, ec. nodriti di carne umana, e non si sapeva allora che questi animali non mangiano carni! — A un sì strano e bestiale racconto conveniva di opporre alcune interrogazioni necessarie... Tutto si ommise. Il fanatismo voleva trovare il reo dopo di avere immaginato il delitto». (Verri, Osservazioni, pag. 232.)

99.  Dice il Tadino che i Decurioni di Palermo per liberarse da questo nemico così crudele si facevano tanto liberali con abbondanza de’ dinari che somministravano fin due dople al giorno di mercede alli Monatti oltre li straordinarj et furti che potevano fare.... E si ridussero (i Palermitani) a tal stato miserando, che se la peste s’appizzava in due case in una contrata, v’erano gli ordini tanto rigorosi, che subito attaccata s’abbruggiasse tutta, spettacolo invero horrendo! (Pag. 119.)

100.  Avete curiosità di sapere in che consistesse questo famoso Unguento? Ecco la ricetta che insieme con altre parecchie trovasi nel Trattato di varj Rimedj contro la peste nel libro del cavaliere Ascanio Centario intorno il contagio del 1576.

Unguento Pretioso et Mirabile

Contro la peste, che fu manifestato da uno che venne per infettar Milano, che fu poi per questo giustitiato.

Piglia Cera nuova oncie III
  Olio d’oliva oncie II
  Olio di Hellera ana ½ oncia.
  Olio di sasso ana ½ oncia.
  Foglie di aneto ana ½ oncia.
  Orbaghe di lauro peste ana ½ oncia.
  Saluia ana ½ oncia.
  Rosmarino ana ½ oncia.
  Un poco d’aceto ana ½ oncia.

Et tutte queste cose si fanno negli sopradetti oglij bollire tanto che ogni cosa sia bene incorporata insieme a’ modo d’unguento del quale poi si ungono le narici del naso, ovvero li polsi della testa, o delli bracci, et sotto la suola de’ piedi, usando prima il mangiare de agli, cipolle, e gustare dell’aceto.

101.  E come se gli unguenti non bastassero, si trovarono anche le polveri venefiche.

S’aggiunse di più, che oltre l’unguento pestilente et venefico fabricavano ancora una polvere della medema natura et qualità, la quale spargevano nelli vasi dell’acqua benedetta pigliata dal popolo nelle chiese et ancora nelli luoghi della povertà dove si trouauano camminare con li piedi ignudi, attaccandose alle mani et piedi haueva tanta forza che incontinente quelle misere creature s’infettavano et morivano in brevità di tempo. (Tadino, pag. 119.)

102.  Tadino dice che erano figliuole di un Antonio Vailini di Caravaggio. (Pag. 121.)

103.  Codesto G. B. Farletta, morto in prigione durante la procedura, venne abbruciato in effigie il 7 settembre mentre si giustiziavano il Maganza ed altri untori.

104.  Mentre odorava la superficie, nel manico ouero piede vi si trouava il veleno, et morse in brevità di tempo. (Tadino, pag. 121.)

105.  Che si trouaua di colore gialdetto oscùro. Questa pretesa unzione accadde nel settembre 1630, ed il Tadino s’appoggia alla relazione del dottore e avvocato Giuseppe Dondeo, delegato nel Tortonese. (Pag. 122.)

106.  Avendo il Ripamonti tradotto questo pazzo racconto dal Tadino, io cito l’originale perchè sarebbe inutile ed assurdo il ritradurre dal latino. (Tadino, pag. 123.)

107.  Alle ore 23, secondo il Tadino, meglio informato; perchè il Ripamonti non trovavasi a Milano.

108.  Ma il camminare con tanta gente fu causa, che di queste persone molte fossero unte, et morsero in breve tempo, et per dir il vero nel principio del mese di agosto et nel prossimo non vi era giorno che non si sentissero grande novità di queste maladette untioni per le contrade di questa città, il che tutto di notte succedeva, et pochi malfattori si ritrouauano. (Tadino, pag. 129.)

109.  Ma non dimorono quà le miserie nostre, che queste untioni passorno ancora fuori della città per le terre, et ville, et di più corse voce che sino li frutti fossero stati unti. — Oltre di questo comminciò entrare il contagio et mortalità nelle bestie bovine, et ancora nei caualli et durò longo tempo sino l’anno 1635. (Tadino, pag. 129.)

110.  Accidit vero facetum atque elegans quiddam.

111.  Hominem sine fine deosculabatur.

112.  Il Padre Casati uomo d’animo mite ed il compagno più severo entrarono nel Lazzaretto il 30 marzo: era un sabbato santo. (Croce.)

Era il Padre Felice Casati di età matura, e l’altro Padre Michele giovine d’anni, ma ambi duoi di molto senno, et di prudente giuditio cittadini milanesi; Padri invero tanto caritatevoli et infervorati nel servitio di Dio..., che se questi Padri iui non si ritrouauano, al sicuro tutta la città annichilata si trouaua.

Poco dopo il Padre Casati s’ammalò, in causa del manigoldo portinaro ed apparitore del Tribunale Paolo Antonio Gallarate, il quale per li furti che lui, figliuoli et figliuole lavandare faceuano, restorno per divino giuditio tocchi dalla peste: doue non palesandola al fisico Appiano, al quale detto Gallarate seruiua portandogli il libro sopra il quale scriueua le medicine per gli infermi, restò ancor esso contaminato.... et puoco doppo restorno offesi li due padri cappuccini con un bubbone all’inguine, atteso che li medemi padri spesse volte teneuano nelle mani il medemo libro, sì che il portinaro con li figliuoli presto morirono et li Padri con detto Fisico Iddio lodato si risanarono. (Tadino, pag. 94, 98.)

In maggio s’infettò anche il padre Michele Posbonello; ma sì mitamente che non fu quasi mai obbligato a letto. In principio di giugno il Padre Cristoforo di Cremona sacerdote molto avanti eletto a quel servitio tolto li ostacoli, che sin allora gliel’avevano impedito alfine entrò nel desiderato aringo.... Desiderio ch’ebbe poi felicissimo l’effetto corrispondente, a’ 10 di giugno, morendo di peste per il servitio di que’ poveri, nella persona de’ quali serviva il suo diletto Gesù. (Croce, pag. 12.)

113.  Per stragem illam hominum atque tuguriorum.

114.  L’esimia condotta del Padre Casati e del suo compagno Pozzobonello ottennero meritamente il più dolce compenso che uomo bramar possa in terra; la riconoscenza di tutta una popolazione. I Cappuccini desiderar non potevano un più lusinghiero attestato di quello che loro diede la sanità colla patente sottoposta. E sembra che per onore dell’Ordine ne diramassero copie in varj conventi. Lo desumo da quella che io ebbi sott’occhio, e che ha in calce quanto segue.

«Collazionata coll’originale da me Frate Ilario da Milano, sacerdote Cappuccino, e socio ordinario, per ingiunzione del Rev.º Padre Lorenzo da Novara, Provinciale e Ministro dei Frati Cappuccini della provincia di Milano. E siccome trovai concordare parola per parola, in fede sottoscrissi, apponendovi il suggello maggiore di essa provincia, per mandato del prefato Rev.º Padre Provinciale. Dato in Milano nel nostro convento della Concezione il XXI Ottobre 1646.

«Frate Ilario da Milano.

«Il Presidente et Conservatori della Sanità dello Stato di Milano».

«Poichè la memoria delli egregij fatti, si deve procurare di accrescere, e mantenere nelle menti degl’huomini, per accenderli a gloriose opere, et innanimarli a mostrare di sè quel valore, et virtu, che puonno farli in ogni secolo immortali, e renderli dopo morti vivi. Con questa ragione, debbiamo dunque essaltare l’opere insigne, et eroici fatti del Padre Felice Casato hora Guardiano del Monastero nuovo de’ Capuccini in Porta Orientale di questa Città, il quale con animo invitto, andò ad incontrare la morte, col sottoporsi a manifesto pericolo della vita, mentre pregato da’ Signori Carl’Antonio Roma, et Geronimo Legnano nobilissimi Cittadini, a nome di questo Tribunale, et de’ Signori di Provisione, a far opera con li superiori di quel Monastero, acciò mandassero qualche Padre della loro Religione ad assistere, et governare il Lazaretto di S. Gregorio fuori di P. O. di questa Città. Egli prontissimamente fece offerta di sè stesso, la quale fu accettata con molto giubilo da detti Signori. Ed ottenuta ch’ebbe detto Padre la dovuta licenza da’ suoi superiori: si rinchiuse col Padre Michele Posbonello suo Compagno (il quale dopo rihavuto dal male contagioso, e continovando nelle solite fatiche di molti mesi nell’istesso Lazaretto: caduto in grave infermità, e portato dal detto Lazaretto al suo Monastero; ivi fra pochi giorni, rese l’anima a Dio) nel Lazaretto sodetto alli 30 di Marzo l’anno 1630 con carico di Regente e Governatore di detto Lazaretto, con ampla autorità concessagli da questo Tribunale sotto il Presidentato del Signor Senatore Marc’Antonio Monte di gloriosissima memoria, di amministrar giustizia, di castigare i delinquenti, disobedienti, et inosservanti degl’ordini di questo Tribunale; di comandare, ordinare, prevedere, e fare tutto quello, che dalla singolare sua prudenza fosse stimato necessario al buon governo d’esso Lazaretto, et al servitio degl’infetti, et sospetti, che in quello si ritrovavano: e che nell’avvenire vi fossero entrati per dover essere curati, o per fare la quarantena. Ha atteso questo Padre al detto carico vintitrè mesi continovi con somma pendenza, vigilanza, e carità, con l’agiuto di dodici Padri della sua Religione, quali sono morti di peste nel medesimo Lazaretto per servitio di esso; havendo hauto sotto al suo governo, et commando, tal’hora più di sedici milla anime, e governato nel detto spatio di tempo da cento milla persone, e più alle quali ha fatto provedere, non solo li alimenti, e medicinali necessarij per il corpo, ma ancora somministrato li santissimi Sacramenti, et altri agiuti spirituali per l’anime loro, havendo quotidianamente celebrato il santo sacrificio della Messa, predicato, frequentemente esortando li poveri appestati alla patienza, penitenza, et rassegnatione di se medesimi nel voler di sua Divina Maestà. Ma non contento degli infiniti travagli, et dell’inesplicabili fatiche del Lazaretto, ha voluto adoperarsi anco in servitio della Città, e suoi contorni, col provedere de’ Monatti, e Carri per condurre alli fopponi i cadaveri, e per levare gli appestati vivi, col far interrare i morti del Lazaretto, e quelli che di giorno e di notte erano portati dalla Città in tanto numero; havendo anco fatto cavare diversi fopponi vicino al Lazaretto, e provisto agli altri sparsi in diverse parti fuori dalla Città, acciò da quelli non esalasse fetore, et accompagnato molte volte (portando la Croce) li medesimi appestati levati dal detto Lazaretto, a quello di S. Barnaba per dar luogo ad altri più pericolosi; havendo anco eletto tanti Ministri, quali appena assentati, si trovavano caduti nell’infettione, et morti. Et con la sua opera, et industria, in tempo tanto calamitoso, in gran parte ha provisto a tanti migliaja di persone il vitto necessario. E finalmente dopo d’aver patito infiniti disagi, sostenuto diverse infermità et esser stato due volte sì crudelmente dal male contagioso oppresso, che più tosto ad opera Divina, che ad agiuto humano si può attribuire la di lui ricuperata salute: se n’è uscito con buona licenza di questo Tribunale vittorioso dal detto Lazaretto nel quale ha dimorato dal principio del male sino al fine, sotto il comando delli Signori Presidente della Sanità, Monte, Arconati, Visconte; et ultimamente, sotto il Sig. Senatore Sfondrato hora Presidente. Et perche la grandezza dei meriti di detto Padre, et il voto di povertà della Religione, lo rendono incapace di premio terreno: l’habbiamo almeno voluto honorare colla presente nostra testificatione d’indubitata verità di tutte le predette cose, et anco maggiori, la quale servirà a perpetua memoria, et essaltatione sua, a gloria di Dio, et ad esempio de’ buoni Cittadini, et benemeriti della Patria loro.

«Dato in Milano li 20 Magio 1632.

«D. Giovanni Sfondrato, Presidente.

«Giacomo Antonio Tagliabue, Cancelliere

115.  La chiesa ed il convento delle Grazie furono edificati nel luogo ov’esistevano i quartieri delle soldatesche di Francesco I Sforza. Il conte Gaspare Vimercati, generale delle medesime, donò ai Domenicani il sito e pose nel 1464 la prima pietra del convento. Egli morì prima di aver finita la chiesa e la raccomandò a Lodovico il Moro, che la fece ultimare da periti architetti, gettando a terra la maggior cappella e l’antico coro: fu ultimata nel 1497 dopo la morte di sua moglie Beatrice d’Este. La stupenda cupola delle Grazie è opera del Bramante. Sarebbe superfluo ricordare che nel monastero esisteva il famoso cenacolo di Leonardo, di cui oggi non rimane, per ingiuria del tempo, quasi più traccia.

116.  Il Consiglio Generale dei 60 Decurioni, dopo avere con solennissima pompa visitata la cappella della Madonna del Rosario in questa chiesa, il 27 maggio 1631, decretò, in rendimento di grazie, una lampada d’argento del valore di 500 a 600 scudi con tanto reddito annuale che bastasse a comperare l’olio per tenerla continuamente accesa. Nel 1796 la lampada fu rubata mediante un foro praticato nel muro della cappella; nel 1816 la fabbriceria delle Grazie fece istanza alla città, e fu messa in corso l’antica prestazione di quattro zecchini all’anno per la spesa dell’olio.

Di ciò esiste memoria sopra l’ingresso, munito di cancelli di ferro, che mette all’antica cappella della Madonna. Trovasi nella mezzaluna un dipinto a fresco, del quale non indicano l’autore nè il Torri, nè Lattuada, nè lo stesso elenco delle pitture esistente in detta chiesa, ma che io crederei di scuola del Cerano. Rappresenta la Vergine che apparisce in mezzo a due angeli, uno dei quali sostiene la lampada dell’olio miracoloso entro cui un Domenicano intinge una penna per toccare gli appestati che in diversi gruppi sono disposti nel fondo. Sotto leggesi la seguente iscrizione, che traduco al solito dal latino:

A
D. O. M.
LA CITTÀ DI MILANO
INFURIANTE IN ESSA CRUDELMENTE LA PESTE
NEGLI ANNI MDCXXX E MDCXXXI
SPERIMENTATO L’OLIO SALUTIFERO
DELLA LAMPADA DI MARIA DELLE GRAZIE
ALLA MEDESIMA
CON LAMPADA ARGENTEA
PERCHÈ ARDA IN PERPETUO
DINANZI LA SACRA EFFIGIE SUA
IL VOTO DELLA RICONOSCENZA
ESULTANTE SCIOLSE
L’ANNO DI RICONCILIAZIONE
MDCXXXII.

117.  Dove morivano 1700 persone al giorno, cessò in modo la strage, che non rimanevano estinte che tre o quattro al giorno. (Somaglia.)

118.  La quarantena generale fu proposta nel luglio: ma non attivata dietro parere della Sanità, perchè, dice il Tadino, mai fu osservato in niuno tempo di peste nel maggior fervore dell’estate venire a quarantena.... molto più che le persone stesse sarebbero crepate nelle loro proprie stanze, nelle quali ogni giorno se ne trovavano morti e infetti.

Verso poi il fine di settembre et principio d’ottobre fu dato principio alla quarentena generale.... si cominciò a prohibire a tutti gli infetti et sospetti che non caminassero più per la città, sapere nome cognome de commissarj, apparitori, et Monatti, perchè molti non rolati andavano con grande temerità facendo l’offitio che più le gradiua, mentre potessero rubare.

In novembre s’incominciò veramente la quarantena di giorni 22, affidando la sovr’intendenza di ciascuna porta della città a gentiluomini con ampii poteri. Il municipio somministrava ogni mattina pane e riso ai poveri quarantenanti.

Nel dicembre la peste scoppiò nel castello, ma essendo luogo chiuso, spurgate le stanze, e mandati in campagna gli infetti, presto fu libero. In Milano però al tempo stesso Iddio lodato si vedeuano cessati li carriaggi del tutto, et si cominciava a rasserenarsi, et aprirse le botteghe dei mercanti.

L’anno 1631 si godè puoco meno che intera salute, seguitando le purghe particolari delle case sospette et infette le quali si trouauano chiuse; et sebbene occorrevano alcuni casi di peste benchè rari, con tutto ciò Iddio lodato non passauano più oltre. Si continuavano ancora le guardie alle porte della città, poichè vi restauano ancora molte terre del Ducato contaminate. Infine dopo molti ordini e provvedimenti sanitarj ai duoi di Febraro 1632, a suono di Trombe, fu fatta la liberatione della città et ducato di Milano. (Tadino, pag. 135 e seg.)

119.  Fu d’uopo dare esempj di rigore. Non restauano li furbi fare delle ladrarie et furti, dove fu preso un Monatto et convinto fu impiccato. Duoi infetti che non volevano ubbidire, andando per la città furono presi, et gli fu troncata la testa. (Tadino, pag. 136.)

120.  Ciò indurrebbe a credere che il Senato temeva una sollevazione, ove non avesse prontamente appagato il pubblico col supplizio dei supposti Untori.

121.  Forma, come dissi nella mia Introduzione, la Decade V della Storia di Milano del Ripamonti.

122.  Occultum virginale illud.

123.  Somaglia, lodando le elargizioni di Federico, riferisce che soltanto nella sua parrocchia di San Vittore Quaranta Martiri, faceva distribuire un quartaro di riso la settimana per ogni povero.

124.  Si provvide di sei sacerdoti d’approvata vita e forti della persona, i quali in tre parti ripartiti, avessero a due a due a scorrere ogni giorno la tripartita ampiezza della città, ec. (Rivola, Vita di Federico, pag. 564.)

125.  Le splendide elargizioni dell’Arcivescovo nostro trovansi per minuto notate dal Rivola, dal Somaglia e da altri contemporanei. È celebre un suo detto, che appalesa quale carità veramente cristiana lo infiammasse. Era intenzionato Federico di offerire alla Madonna dell’Albero in Duomo un pallio tutto d’oro massiccio, tempestato di gemme. Sopraggiunta la carestia e la peste, impiegò invece quel denaro a soccorrere i poverelli, e rallegrandosene: Lodata sia, esclamò, la Reina del cielo, che dandomi occasione di porger a’ poveri nelle loro estreme necessità soccorso ed ajuto, m’ha fatto fare il pallio a suo modo!

126.  Il 30 novembre, trovandosi nella chiesa di San Dalmazio per la rielezione degli uffiziali della dottrina cristiana, disse: Se ’l Signore Iddio per nostro gastigo hauesse determinato di mandar sopra di noi questo gran flagello, non dubitate, fate animo, che ne da me, ne da miei preti sarete giammai abbandonati. (Rivola, pag. 574.)

127.  Esiste una vaga e assurda tradizione che Federico, durante il contagio, si allontanasse da Milano, e che fu questo uno dei motivi che vennero addotti contro la sua canonizzazione. Siccome però in nessuna delle tante memorie dell’epoca trovasi indizio di ciò, io la ritengo falsa. Tutt’al più si potrebbe supporre alcuna momentanea gita fuori di città, che fu per avventura esagerata dai malevoli, tacciando di pusillanime e trascurato il zelantissimo Arcivescovo. (Vedasi il Rivola.)

128.  Nel luogo ove sbocca la via detta di Santa Croce, sulla piazza attuale di Sant’Eustorgio, esisteva da antichissimi tempi un fonte, traduco l’Alciati, ove si pretende che San Barnaba battezzasse primo i Milanesi, e celebrasse la messa, catechizzando il popolo. La tradizione aggiungeva che il santo Apostolo dimorò sette anni in quel solitario sito, che San Cajo, il terzo arcivescovo della nostra Chiesa, ivi battezzò gran numero di Gentili, fra i quali i più nobili cittadini. Grandissima era la venerazione dei Milanesi, che nelle infermità venivano a bere di quell’acqua, reputandola, per intercessione di San Barnaba, miracolosa. Non essendovi alcun vestigio di chiesa, Federico Borromeo pensò ad innalzarne una, ed il 28 ottobre 1623 pose la prima pietra coll’assistenza del Governatore, Tribunali e Città, con infinito popolo accorso a quella divota funzione. (Così il Lattuada.)

129.  «Non affrontava i pericoli temerariamente, come se disperazione o noja lo costringessero a morire, ovvero cercasse lode fra i precipizj, giusta quanto si narra facessero alcuni grandi uomini. Ma del pari non evitò mai alcun pericolo cui fosse giusto e legittimo l’avventurarsi». Così lo stesso Ripamonti nella Vita di Federico, pag. 389.

130.  Esisteva una tradizione fra i Padri Minori Osservanti che, scoppiata la peste in Milano, il Guardiano del convento della Pace dicesse in refettorio, che tutti coloro i quali erano disposti a prestarsi si alzassero in piedi; e che neppure uno rimase seduto. Questo fatto lo raccontava il vescovo Cerina, antico religioso dell’Ordine, e morto in Milano nel 1827.

Onorevole Documento di quanto fecero i Minori Osservanti in tempo del contagio è la seguente Iscrizione posta in una lapide nell’ortaglia dell’ex convento della Pace, e oggidì di proprietà della Raffineria di zuccaro dei signori Azzimonti e C. Tanto più volontieri io cito quest’iscrizione, traducendola, in quanto che, malgrado la sua importanza storica, non venne finora giammai pubblicata.

TRATTIENI IL PASSO VIATORE NON IL PIANTO
L’ANNO DELLA NATIVITÀ DI CRISTO MDCXXX
UN FUNESTO CONTAGIO
INVASE L’ITALIA DEVASTÒ LA LOMBARDIA
E LO STATO E LA CITTÀ DI MILANO QUASI ANNICHILÒ
SEICENTO MILA NEL PRIMO
CENTONOVANTA MILA NELLA SECONDA MORIRONO
QUESTA MILANESE PROVINCIA
DEI FRATI OSSERVANTI DI S. FRANCESCO
PIÙ CHE CENTO DEI SUOI FRATI RAPITI DAL MORBO
CON GIUSTO DOLORE LAGRIMÒ
ESSI COL PRESTARE AGLI APPESTATI UFFICI DI CARITÀ
PERDETTERO LA VITA ACQUISTANDO IN CIELO
IL PREMIO DEI CARITATEVOLI
NOVE DI LORO ESTINTI IN QUESTA DIOCESI
QUATTRO A S. STEFANO IN BROGLIO
DUE A S. BARTOLOMEO IN MILANO
DUE IN ABBIATEGRASSO UNO A S. PIETRO FUORI DI MONZA
TUMULATI RIPOSANO
UNDICI ALTRI SACERDOTI INSIGNI
PER DOTTRINA EVANGELICA PREDICAZIONE E PIETÀ
LA MEDESIMA PESTE VULNERÒ NON ESTINSE
COSÌ LA FURIBONDA MORTE E I CADAVERI SANGUINOLENTI
NON POTERONO SPEGNERE IL FUOCO DI CARITÀ
DEI FIGLI DI S. FRANCESCO
NÈ RAFFREDDARE LE SACRE CENERI DI ESSO FUOCO
QUESTO UFFICIO PIÙ DI OGNI ALTRO PIETOSISSIMO
LA MISERA PATRIA SPERIMENTÒ
DIVOTA RICONOBBE GRATA ENCOMIÒ
O TU CHE VAI OLTRE IMPARA
DA SÌ GRANDE CONTAGIO L’UMANA CALAMITÀ
DA TANTA ABNEGAZIONE LA PIETÀ RELIGIOSA
DA SÌ TREMENDO FLAGELLO
IL GASTIGO E INSIEME L’INDULGENZA DIVINA
I FRATI NOVIZJ DELLA CASA DELLA PACE
SUPPLICANTI LA PACE CELESTE
QUESTA LAPIDE
A SEMPITERNO MONUMENTO DEI DEFUNTI
E SALUTARE RICORDO DEI BEATI
POSERO
IL QUARTO GIORNO DI OTTOBRE ANNO MDCXXXXVI

131.  A schiarimento di questo passo, giovi richiamare l’attenzione dei lettori sull’Ordine degli Umiliati, il quale estinto da quasi tre secoli, cadde in dimenticanza, benchè abbia sostenuto una parte importante nella storia. Sull’incominciare del secolo XI (1014), e regnando l’imperatore Enrico I, alcuni nobili milanesi furono tradotti prigionieri in Germania, e là fra le angustie dell’esiglio fecero voto che se un giorno riveder potevano la patria, condurrebbero una vita santa, rinunziando agli agi ed alle pompe mondane. Tornati in patria, attennero il voto, e riuniti gli ingenti loro patrimonj, si raccolsero in un cenobio sotto la regola di San Benedetto, assumendo il nome di Umiliati per ricordo della umìle vita cui erano stati ridotti dall’inopia durante la cattività. L’Ordine crebbe rapidamente, e in meno d’un secolo Milano contava sessanta ospizj, trenta per gli uomini, e trenta per le donne. Gli Umiliati si resero benemeriti al paese, dissodando in molte parti terreni, istituendo setificj, e specialmente lanificj, ramo d’industria che fecero prosperare in Lombardia, attivandone un esteso commercio. Le ricchezze loro crebbero a dismisura, e, come accade, pervertiti i costumi, traviò l’Ordine dall’originaria regola. All’epoca di S. Carlo contavansi in tutta l’Italia non più di cento Umiliati, compresi i novizj, i quali avevano nullameno che un reddito annuo di sessanta mila zecchini imperiali, sommanti più d’un milione delle nostre lire. S. Carlo, fin da quando trovavasi in sua gioventù a Roma, s’informò degli Umiliati, e conosciutane la decadenza, stabilì richiamarli all’osservanza. Infatti nel 1567 intimò un capitolo generale, privò i Proposti (così chiamavasi i superiori delle diverse case degli Umiliati, e da ultimo vivevano alla principesca, con autorità quasi dispotica) delle entrate, e nominò un Generale dell’Ordine di sua scelta. Fu allora che diversi Proposti congiurarono per togliere di mezzo l’Arcivescovo, scegliendo un frate Donati, milanese, detto il Farina, perchè l’uccidesse. L’attentato andò in lungo, tra per mancanza di denaro, tra per l’irresolutezza del Farina, in cuore del quale il rimorso lottava colla sete dell’oro. Un bel giorno, rubate le argenterie della sua chiesa in Cremona, egli fuggì a Mantova, e di là a Venezia ed a Corfù, sciupando in bagordi il ricavo della rapina. Tornato in patria, recossi in Isvizzera, sempre indeciso a farsi mandatario de’ suoi superiori. Finalmente le costoro suggestioni vinsero la titubanza del Farina; la sera del 2 ottobre 1569, mentre S. Carlo, in una cappella posticcia di legno, perchè stavasi riattando l’ordinaria nel palazzo arcivescovile, assisteva co’ famigliari ad alcune orazioni cantate dai musici, l’empio frate presa la mira dall’apertura dell’uscio, sparò contro il Borromeo uno schioppo carico a palla e migliaroli grossi (pernigoni); ma nol ferì, perdendosi il piombo entro le pieghe del rocchetto, con lieve scalfittura soltanto.

Fuggito in Savoja, dove s’arruolò nelle truppe, il Farina venne più tardi scoperto, consegnato, e insieme co’ Proposti suoi complici salì il patibolo nel 2 agosto 1570. L’anno medesimo l’Ordine degli Umiliati fu abolito con breve di papa Pio V, con lieve rammarico del pubblico, irritato dal recente delitto. S. Carlo, oltre i locali di San Calimero e di San Giovanni in Porta Orientale, già avuti sei anni prima (1564), e dati il primo ai Padri Teatini, il secondo trasmutato nel Seminario Maggiore, ottenne dal Papa la chiesa e cenobio di Brera (vi mise i Gesuiti); — Santo Spirito (ne fece il Collegio Elvetico); — la Canonica in Porta Nuova (altro seminario), — e finalmente Santa Sofia lungo il naviglio in Porta Romana. Delle rendite degli Umiliati vennero messi a disposizione di lui 25,000 zecchini imperiali all’anno.

132.  Intraprese la carriera ecclesiastica, e studiò indefessamente diritto civile e canonico. Appena ordinato sacerdote, il Bescapè, vescovo di Novara, nominollo vicario generale di quella diocesi, ove si distinse col sapere e lo zelo. Di là passò arciprete a Monza, ove nel 1602 fece costruire i due armadj che stanno ai lati dell’altar maggiore in San Giovanni per riporvi le reliquie ed il famoso papiro che contiene il catalogo delle medesime spedito da S. Gregorio papa alla regina Teodolinda. In tale circostanza andò smarrito il papiro, e, se stiamo alla tradizione, esso fu sottratto dallo stesso arciprete Settala. E invero i dottissimi monaci Maurini, Germain e Mabillon, viaggiando in Italia, lo scopersero nel 1638 nel museo della famiglia Settala. Passato molti anni dopo in proprietà del conte di Firmian, il successore di lui, ministro plenipotenziario in Lombardia conte Wilzeck, generosamente lo restituì il 7 settembre 1777 alla Basilica monzese, nel cui tesoro si custodisce. Un’apposita iscrizione, indicando il fatto, dice che fu rinvenuto a caso nel museo Settala; Frisi nelle sue Memorie accenna la perdita del papiro; ma sembra che per riguardi alla famiglia abbia taciuto il nome dell’imputato. Io l’accenno per amore della verità storica. Nel 1618 il Settala passò canonico della cattedrale di Milano e penitenziere maggiore; Federico lo aveva carissimo, e molto se ne servì per comporre le vertenze tra il foro ecclesiastico ed i regj ministri. Agitavasi in quei giorni a Roma la causa della canonizzazione di S. Carlo, ed il Settala fu scelto a pieni voti per recarsi colà quale procuratore arcivescovile. Esiste nel carteggio di Federico buon numero di lettere scritte al Settala durante il soggiorno in Roma, e provano la stima e l’affetto che nutriva per lui. Tornato in patria, fu dal Cardinale, durante la peste, messo alla direzione del lazzaretto ecclesiastico, in cui morì nel 1630. Lasciò da cinquanta manoscritti concernenti casi di morale, di diritto, ec. Se ne può vedere il catalogo nell’Argelati, Biblioteca degli Scrittori Milanesi.

133.  L’oblato Carlo Rasino fu scelto per direttore spirituale, e vi morì di peste: gli succedette Francesco Volpi, sacerdote esemplare ed uno dei guariti. Nel Lazzaretto, rimasto aperto dai primi di luglio sino alla fine di settembre, ebbero ricovero sessanta appestati, dei quali risanarono soli quattordici. (Rivola, pag. 591.)

Stando ad alcune Memorie manoscritte la Congregazione degli Oblati perdette 27 de’ suoi membri.

Varie importanti notizie, su quanto fecero gli Oblati anche nella Diocesi in questo contagio, rinvenni in uno di quei libri dimenticati nelle biblioteche, ma che riescono molto utili agli studiosi delle cose patrie. Ha per titolo: De origine et progressu Congregationis Oblatorum ab anno congregationis conditæ 1678 ad 1737. M.º 1739. L’autore è un Bartolomeo Rossi, oblato e dottore dall’Ambrosiana, poscia preposto a Cantù, e infine missionario nella Casa di Ro, dove morì circa il 1750. In questo libro, scritto in buon latino, leggesi il fatto seguente:

«Nè fu minore la pietà degli Oblati al di fuori di Milano. Adamo Molteni e G. Battista Bassi, il primo, parroco a Monza, l’altro a Biasca, morirono di peste. Dureranno fatica i posteri a credere ciocchè è confermato da gravissimi documenti, esservi stato alcuno che incontrò con tale rassegnazione la morte, da celebrare a sè medesimo le esequie e scendere vivo ancora nel tumulo. Codesta fermezza d’animo, sto per dire miracolosa, mostrò G. Battista Ro, proposto di Leggiuno, il quale, nel confessare e portare il Viatico ai moribondi, contratta per l’alito la peste, mentre sentiva venirsi meno la vita, discese entro la fossa che aveva fatta scavare per sè. Ivi, dette alcune brevi parole sulla miseria dei beni di questo mondo a’ suoi parrocchiani che in folla lo circondavano tratti dal nuovo spettacolo, adagiando decentemente le sue membra e incrociate le mani sul petto, dolcemente spirò».

134.  Ripamonti, misterioso sempre, non dice quale fosse codesta chiesa, nè a me fu dato per indagini scoprirla.

135.  Halitusq: tuos cum ipsius anima et spiritu quam minime consociabis.

136.  Questa savia disposizione prova sempre più quanto Federico cercasse di ovviare il contatto, sì fatale nelle pestilenze; che se annuì prima alla traslazione del corpo di S. Carlo, bisogna dire vi fosse indotto dal desiderio dei magistrati e di tutta la popolazione, giacchè non è supponibile che ignorasse il pericolo inevitabile di vieppiù spargere il contagio con quell’imprudente funzione.

137.  Morirono in città 62 curati e 33 coadjutori: nella diocesi infiniti. (Pio della Croce, pag. 62.)

Secondo il Rivola, 64 curati e quasi altrettanti coadjutori.

138.  La Storia MS. della Peste, vedi l’Introduzione, pag. XXXI.

139.  Anche questo passo, secondo Verri, fa prova che il Ripamonti, per timidità piuttosto che per persuasione, sostenne l’opinione degli unti malefici.

140.  Da qui trasse Manzoni l’episodio di Renzo che si pone in salvo sul carro dei monatti.

141.  Questo Appiani fu uno dei medici che si prestarono con maggior zelo durante il contagio. Uomo di buon senso non credeva alle unzioni (Vedi Appendice I al Libro II). Infermò di peste nel Lazzaretto, ove l’aveva destinato il collegio medico, et rihautosi, si risolse per servire alla sua patria, seguitare l’impresa sino al fine, non ostante che di già il Tribunale gli hauesse assegnato cento scudi al mese. Et non stimando l’interesse ma sibbene il servitio publico, et desideroso di gloria, volse seguitare a servire con la conditione che dopo medicate codeste creature con la debita cautione potesse ancor servire per la città.... ma il capriccio di un Fisico intorbidò ogni cosa, esigendo che habitasse di continuo nel Lazzaretto, cosa che continuando sarebbe in breve stata la sua morte. Laonde si ritirò, ed il Lazzaretto rimase privo de’ medici (Tadino, pag. 103).

La seguente lettera, che il Tadino suo collega ci ha conservata, è importante, perchè espone gli effetti fisici e morali della peste; e tanto più che sono descritti da un medico. La tradussi dal latino, lottando con le anfibologie e le gonfiezze che la rendono qua e là difficilissima.

«Illustrissimo Presidente di Sanità e Collegio, Senatori amplissimi».

«Eccomi uomo nuovo e redivivo, ma sempre vostro servo. Perduta io stesso ogni speranza, pianto dai miei famigliari nella città, e fino ne’ lontani villaggi come morto; tre soli amici con un filo di speme non m’avevano per anco cancellato dal numero dei viventi. Ora vivo e non per me, ma per voi, Illustriss. e Colendiss. Sigg., Congiunti amatissimi, cui sono debitore più assai che dell’esistenza. Ma quanto non ho sofferto! non il solo male, ma le stesse pietose mani dei medici furono crudeli: aperte le vene, mi trassero sangue due volte, m’applicarono quattro vescicanti, i quali coll’acre calore fecero sollevar vesciche dall’intorpidita cute. Ahi strazio! quai fetide e putrefatte ulceri! quale orribile puzzo! Si minacciò perfino il fuoco, e fu adoperato. Questi non pertanto sono lievi dolori, anzi giovevoli; ma oh come atroce ed orrendo fu il male che non si potrebbe meglio qualificare che col proprio nome di peste! Nessun altro più turpe del medesimo che offende il cerebro sede dell’intelletto, tutte le funzioni del quale sono turpemente viziate, illanguidite, travolte. Qual mormorio agli orecchi che rintronavano d’inconditi suoni! gli occhi erano abbagliati da mentiti colori e da vani fulgori: mal fermi paventavano crollassero i vacillanti tetti, e vedevano le pareti tentennare con moto incostante e vertiginoso. Ma più amaro era il sapore che tormentava le fauci con ingrata sensazione. Aggiungevasi per ultima angoscia la sete; e siccome il bere aggravava il male, così erami forza in certo modo sopportarla per non peggiorare. Qual lotta sostenessi contro il grave sopore che opprimeva tutti i sensi, quali sforzi per non addormentarmi e per tener lontano il sonno e l’infame sua sorella la morte, io non ho parole ad esprimerlo adeguatamente. Il cuore, fonte della vita e talamo dell’anima, era da codesto malore intorpidito. Ben egli sforzavasi con tremuli battiti di respingere il mortifero veleno; ma come sottrarvisi se d’ogni parte gli aliti avvelenati concorrevano alla sua ruina? Laonde il cuore, oppresso da tanto peso, vinto da sì nemica forza, illanguidiva, non battendo come avrebbe dovuto pel fuoco febbrile. Il bubone poi quanto più era salutare, tanto riusciva più molesto, e se dava alcuna speranza di guarigione, questa era bilanciata dal dolore presente. Aggiungevasi una penosa spossatezza di tutte le membra e l’impotenza di aver requie che nol concedevano le gambe esulcerate e lo spasimo all’inguine. E qual sollievo io aveva in tanti mali? nessuno. Sì, nessuno, Illustris. Signori, poichè i famigli e gli amici aborrivano il malato e lo fuggivano; laonde nè blandi colloqui, nè veruno di quei conforti che possono ridonare la vita. La speranza, sollievo dolcissimo in tutti i guai che può inspirare anche fallaci gioje, e colle ridenti immagini che ne rappresenta alla fantasia, tempera i mali e appena lascia sentire il dolore, per maggiore mia infelicità, fuggiva lungi da me per rendermi vieppiù misero, stantechè io era intimamente convinto la peste essere mortale. Aveva vedute tante esequie! e tanti spirare sotto la medicatura od anche mentre pigliavano cibo! Le orrende immagini di quei moribondi che mi si paravano innanzi allo sguardo empievano di spavento l’animo mio. Ma basti, che non voglio più a lungo tediarvi con sì molesti discorsi. State sani, e con voi la città tutta».

«Devotiss. Dottor Fisico
G. Battista Appiani».

142.  I mercanti, a ciò eletti alla presenza dei Commissarj di Sanità, faranno all’interessata ad alla leggittima persona che per esso comparirà pagare le giusta metà del valore in contanti o per quelli che non haueranno chi leggittimamente comparisca si deporanno al Banco di Sant’Ambrogio.

Et questo benefizio del pagar la metà s’intenda solamente per le persone povere non intendendosi compresi i gentiluomini Mercanti ed altre persone comode le quali da tal abbruggiamento non possono ricevere notabile detrimento.

Detti mobili saranno condotti nel Foppone di S. Gregorio, dove fatta la massa s’incammineranno al luogo per tale obbjeto destinato nel Foppone di Porta Comasina.

Niuno per temeraria curiosità ne per malitia osi accostarsi ai carri, ne al luogo dove si fa la stima sotto pena di tre tratti di corda; ne con voci o fatti violare tale attione ne inquietarla sotto pena di cinque anni di galera, nel che si obbligano per li figliuoli li Padri et Madri sotto pena pecuniaria, et corporale ad arbitrio del Tribunale, et si crederà ad un testimonio degno di fede. (Grida 7 Giugno 1630.)

143.  Il fumo delle robbe infette, come letti, piume, lane, strazzi, portate di notte sopra il stradone di S. Dionigi vicino S. Primo per abbruggiarle fu tanto pestilente et fetido, che entrando nelle finestre delle camere dei Padri Cappucini mentre riposavano, gli contaminò talmente gli spiriti che in puoco spatio di tempo ne morsero cinque. (Tadino, pag. 101-126.)

144.  Il collegio offrì inoltre molti onori e privilegi a quei medici di campagna che venissero a pericoloso incarico in Milano. Accettò un Romanò; ma il meschino entrato nel Lazzaretto in 15 giorni restò tocco, et finì la sua vita in sette. Per questo esempio non si trovò persona che volesse assistere in detto Lazzaretto. (Tadino, pag. 108).

145.  Vedi la nota pag. 121.

146.  Probabilmente l’Autore intese dieci delle nostre pertiche comuni.

147.  Intorno la mortalità e la popolazione di Milano a quest’epoca, vedi l’Appendice in fine del libro.

148.  Il Tribunale di Sanità però, avuto riguardo alla miseria dello Stato a motivo del passaggio delle truppe, rilasciò alquanto il suo rigore permettendo si potessero tenere i bigatti con le debite istruzioni. (Vedi Tadino, pag. 97).

149.  Per quante ricerche abbia fatte nei pubblici archivj di questa anagrafi, tanto importante per determinare almeno in modo approssimativo la popolazione di Milano, non ne rinvenni traccia.

150.  Lindò è un mercato generale, cioè un luogo ove si riducono tutte le merci, che in Italia vengono da tutta l’Alemagna doue per il più dell’anno sono molte città et luoghi infetti di questo morbo contagioso. (Tadino, pag. 13.)

151.  Ad instanza della città ne fu procurata la sospensione sotto il dì 17 luglio 1629 fino all’autunno, non ostante che molte città dell’Alemagna nostre vicine fossero infette di peste. (Tadino, pag. 14.)

152.  Il quale provvedesse con ogni autorità et vigore di giustizia alli bisogni.... Col carico di compire a visitare tutte le terre ville castelli et porti di tutto il lago di Como di tutta la Valsassina monte di Brianza et Gera d’Adda. (Tadino Pag. 24).

153.  Nel ritorno ritrouassimo colà (ad Olginate) molto numero de’ huomini et donne li quali giorno et notte dissero habitare alla campagna per il timore del contagio hauendo abbandonate le proprie case, et le loro comodità, et ci pareuano tante creature seluatiche portando in mano chi l’erba menta chi la ruta chi il rosmarino, chi un’ampolla d’aceto; che per dir vero ci faceuano piangere et furno da noi consolati et fattogli di subito prouedere alli loro bisogni, atteso che gli mancava sale, pane, aceto ed oglio. (Tadino Pag. 26).

154.  Sed belli graviores esse curas.

155.  Il Tadino racconta distesamente quanto osservò nel tratto di paese da lui percorso; trascelgo alcuni fatti più importanti e caratteristici.

Da Galbiate passarono a Chiuso, indi a Malgrate. L’istesso giorno del nostro arrivo ritrouassimo una giovane morta in 4 giorni; comandassimo fosse cauata dalla sepoltura, il corpo della quale si trouaua con segni pestilentiali come liuori nelli Hippocondrij, flagellationi, petecchie negre, pauonazze, et tutto il dorso verso l’osso sacro moreleggiante. Interrogata la sotteratrice che tiene cura di lauare li cadaueri nominata la Tredesa donna vecchia ma robusta, se haueva osservato altri segni nelli altri corpi simili a questi, rispose non se ne ricordaua; ma si scorgeva che questa vecchia Gabrina s’andaua scusando et coprendo la peste, la quale poco doppo pagò il douuto gastigo della sua bugia perchè fra tre giorni morse. Trovarono a Malgrate 29 malati, che, al loro ritorno, sette giorni dopo erano morti. Lecco si conservava sano tuttavia, non però Olate, Balabio e la Valsassina.

Nel discendere verso Bellano dalla sommità del monte sentessimo fetori insoportabili, et descendendo al basso per la terra non ritrouassimo persona alcuna come luogo silvestre, et disabitato che ci arrecò non puoco horrore. Finalmente arriuando alla piazza vedessimo un prete ad una finestra con faccia quasi cadauerosa, il quale per le preghiere che li facessimo che da noi douesse uenire fu molto difficile non ostante hauessimo con noi una persona del paese. Et interogato della salute di quella infelice terra... rispose il male hauer avuto principio circa li 6 dì ottobre et a quell’hora erano morti circa 64 persone... et ciò che era notabile la sera si trouauano le persone sane, la mattina morte.

Da Bellano i Commissarj passarono a Varenna dove ritrouassimo una donna morta in tre giorni con un carbone pestilente sopra una mamella, presso di lei il marito, et figliolo parimenti con buboni..... Bellaggio lo trovò sano, non così Dorio e Colico, chiamato dal Tadino, non so perchè, delitia del lago di Como. Et questa terra è stata la più destrutta et sualigiata di quante haueuamo visitate, perchè fu la prima nell’ingresso delli Alemani.

Anche sull’opposta sponda del lago dalla Cadenabbia a Domaso, trovarono serpeggiare il contagio. Venuti a Como, e date le opportune disposizioni, tornarono a Bellaggio, indi per Lecco e Valmadrera incominciarono la visita della Brianza, costeggiando l’Adda. Per Treviglio, Caravaggio, Cassano, Cambiago, ecc., paesi della Geradadda ne’ quali incominciava a scoppiare qualche caso di peste, i due commissari si restituirono a Milano il 15 novembre. Per le minute particolarità di questo viaggio, rimando i lettori al Tadino. (Pag. 25-50.)

156.  Et ferebat id vorato jam quæstu mercimonium in Urbem.

157.  Et ipsa pestilentia submoverat punieratque commode aliquem.

158.  Il Tadino, riferendo questo aneddoto, dice: Siccome N. S. haueva levato l’inteletto al suo popolo d’Israel, così al presente molto più haueva acciecato la città di Milano, la quale si lasciò persuadere da una donna, ecc. Sebbene della promessa fattagli della liberatione del figliuolo gli portaua consolatione grande, niente di meno sapendo non hauer rimedj atti per questo male, non durò lungo tempo la sua bugia, la quale fu puoi causa della sua morte. Et benchè dicesse hauer ancora preseruativi, con tutto ciò s’appestò malamente, et hebbe il condegno gastigo della morte pestilente, come nel fine de’ suoi giorni, riconosciuta del suo errore, disse alli padri Capuccini, che ciò haueua fatto per agiuttare il figliuolo per l’amore sviscerato che gli portaua. (Pag. 110.)

159.  Atteso che di già se n’erano ritrouati morti in molto numero di loro senza confessione nè aggiuti come tante bestie. (Tadino, pag. 125.)

160.  Vedi nel Tadino i due decreti originali del Senato in data del 6 luglio. (Pag. 125.)

161.  Questa lavanderia, piantata pel contagio, constaua de’ 24 banche in acqua corrente chiara et copiosa, separati però li banchi delle lauandare monatte brutte et nette.... In oltre si trouauano disposte molte camere dalla parte di detta lauanderia, parte per gouernare le robbe infette et parte per le purgate.... Veramente l’architettura col parere di Carlo Butio architetto in ogni materia nella sua professione singolare, et l’artificio si trouaua molto bene disposto. Sebbene poco dopo detta lauanderia non fu mentenuta in grave danno del publico benefitio, con tutto ciò volendo il tribunale restasse sempre memoria di attione così honorata et segnalata per gli futuri secoli, fu dato ordine alli detti fisici Tadino et Settala, di far mettere sotto il portico delle camere laterali, all’opposto di detta lauanderia in luoco eminente uno Elogio, come da loro fu eseguito di questo tenore. (Tadino, pag. 69.)

SOVRASTANTE IL PERICOLO
DELLA PESTE IMPORTATA
QUESTO LAVACRO
ORDINATO DA G. BATTISTA ARCONATI
SENATORE E PRESIDENTE DEL MAGISTRATO DI SANITA’
COMPIUTO SOTTO IL SUO SUCCESSORE
MARCO ANTONIO MONTI PRESIDENTE
I MEDICI CONSERVATORI
ALESSANDRO TADINO E SENATORE SETTALA
A SPESE PUBBLICHE INNALZARONO
L’ANNO MDCXXIX

162.  Questi fu il delegato di Sanità, Marc’Antonio Arese, il quale, reduce a Milano da una visita nella riviera di Lecco e Valassina, biasimò la lauanderia particolare del Lazzaretto con tanto artificio fatta fabbricare. Perciò degno di scusa per non essere sua professione, volendo fra gli altri errori, che l’acqua corrente si dimorasse mentre si gettaua dentro le robbe infette doppo riceputo il bollo, cosa lontana dalla ragione e dall’esperienza...... mentre che non può mai nettarse et espurgarse le robbe infette, mentre resti l’acqua torbida e sporca..... Il Delegato (Arese) propose alla città di fare una nuoua lauanderia generale all’incontro del Lazzaretto, che fu di spesa alla città di 4000 scudi senza frutto alcuno. (Tadino, pag. 98-99.)

163.  I Romani davano questo nome ad un tratto di terreno lungo le mura al di fuori o al di dentro di esse, consacrato dalla religione, e sul quale era vietato fabbricare o coltivare.

164.  Ecco un’altra prova che il Ripamonti era superiore a’ suoi tempi, distinguendo la soda pietà dalle pratiche esagerate e ignoranti.

165.  Allusione al dragone della favola, custode del vello d’oro, o piuttosto alla superstizione popolare, che il diavolo, in forma di Drago, custodisca i tesori sepolti.

166.  Ecco l’originale in versi latini, rimati secondo il cattivo gusto dell’epoca:

Stella cœli extirpauit

Quæ lactavit Christum Dominum

Mortem pestis quam plantauit

Primus Parens hominum.

Ipsa Stella nunc dignetur

Sydera compescere,

Quorum bella plebem cædunt

Diræ mortis ulcere.

O piissima Stella maris

A peste succurre nobis;

Audi nos, Domina,

Nam Filius tuus, nihil negans,

Te honorat.

Salva nos, Jesus,

Pro quibus Mater orat.

Altre orazioni trovansi nel Tadino. (Pag. 108.)

167.  Mors et Fames vigebit ubique.

168.  Mortales parat morbos: miranda videntur.

169.  Numeris modisque diversis includitur. E fa col pessimo gusto d’allora un giuochetto di parole sul numeris che si può intendere per versi e per cifre.

170.  Tadino nomina venti reggimenti, e li fa ascendere complessivamente a 36256, cioè 800 soldati di più. Il passaggio durò dai 20 settembre al 3 ottobre 1629.

171.  Cassano fu una delle prime tocche di peste nel Ducato, e fu assai tribolata dalla fame, dall’alloggio dei soldati e dalla peste. Ma quando pensaua di rendere gratie a S. Divina Maestà della misericordia usatagli per averla liberata dal morbo, ecco che nel voler festeggiare uno giorno, et far allegrezza per la gratia hauuta, Giouanni Pelegato, fattore del marchese d’Adda, il quale sino nel transito delli Alemani haueua comperato un sacchetto di polvere, volendola adoprare per tale effetto, si sentì assalire di dolore di testa tanto insoportabile, che cascò in terra, et raccolto nel letto con febre pestilente, et con un bubone nell’inguine sinistro morse nel quarto giorno; cosa invero miracolosa che non passasse più oltre. (Tadino, pag. 71.)

172.  Liber in quo descripta sunt nomina defunctorum civitatis et corpora S.tor M.li per me Tragllum Zumalum locotenentem Not. D. Christophori Zumali Canzel. Sanitatis Medl. Coram Ill. R. D. Senat. D. D. Simone Bossio Præside Offitij Sanitatis.

173.  Della Tortura, § VII.

174.  Ripamonti tradusse questo passo dalla famosa descrizione del Boccaccio. Io l’ho ritradotto, adoperando le stesse parole del Certaldese, cui rimando i lettori anche pel seguito del presente capitolo.

175.  S. Carlo chiama Milano città numerosa di popolo, ristretta di case, piena di povertà, frequente di commerci e di traffichi. (S. Carlo, Memoriale, pag. I, cap. I.)

176.  S. Carlo ottenne dal Papa questo Giubileo dell’anno santo anche per Milano, ove fu pubblicato solennemente al principio della quaresima. Alla devotione del quale, per conseguire i celesti thesori delle sue indulgenze, concorse tanta moltitudine di gente sì della città e dello Stato, come di fuori di lui, che era uno stupore. Venendo le terre e ville con diuote processioni alle quattro chiese sante Il Domo, S. Lorenzo, S. Ambrogio, S. Simpliciano, in numero di cinquecento, di settecento, e fino di mille anime per volta. E tra le altre, la terra di Monza con bellissimo ordine, con due stendardi et un S. Giovanni in mezo loro, innanzi in numero di ottomila persone vi comparse, facendosi a tutti elemosina del mangiare e bere in alcuni luoghi deputati. Lasso di dire quel che di giorno si faceano di tutte le Parocchie con tanta divotione, che era gran meraviglia, chi in habito de Peregrini, e chi con sacchi, e chi in altri humilissimi vestiti. Per la frequenza grande, temendo i signori conservatori della Sanità, che tra le genti che veniuano a questa divotione, non si mescolasse alcuno delle terre infette o luoghi sospetti, ordinarono che si moderassero queste processioni e si riducessero al numero di dieci o dodici per luogo. (Centorio, pag. 21.)

177.  Accennerò in breve l’origine e l’andamento di questo contagio. Nel 1575 manifestossi in Svizzera, a Trento, indi a Venezia, Genova e nel Piemonte, in guisa che, circondando d’ogni parte la Lombardia, riusciva quasi impossibile chiudergli il passo. Infatti il 19 marzo 1576, scoppiò a Paruzero, villaggio di 600 anime, lontano due miglia da Arona. Nel luglio la peste manifestossi a Melegnano, poi a Monza causata da una donna che da Mantoa vi haueua portato certi coralli et robbe. Il borgo di San Biagio fu tutto contaminato, e in tre settimane morirono a Monza centocinquanta persone.

Il 3 agosto morirono due di peste nelle cascine di Comino, discoste tre sole miglia dalla città. Il giorno 11 agosto, da queste cassine poscia si diffuse il male nel borgo degli Ortolani, fuori di porta Comasca, separato dalla città, et in numero di sei mila persone, da cui usciuano ogni giorno molte persone d’essercitare diverse arti di Milano, oltre i giardini d’erbaggi, che per publica comodità et uso vi si faceuano, oue ogni dì ne moriuano alcuni che erano giudicati sospetti di peste..... Continuando questo male, saltò fin dentro la città di Milano, et prima nel borgo di S. Sempliciano, come a lui più vicino per la pratica degli ortolani con quei di dentro.... Dilatandosi il male verso S. Marco e fino al Cordusio, e da questa parte nel borgo di Porta Romana, et al Laghetto, luogo ove fa capo la maggior parte delle barche che dal Ticino a Milano portano vini, legne, carboni et altre robbe, et vettovaglie necessarie per il sostentamento della città. Et in Milano proprio si distese a Porta Vercellina e tutte le altre. (Centorio, pag. 7.)

178.  Il Tribunale di Sanità, del quale si è tanto parlato in questa storia, venne eretto dal Duca Francesco II Sforza l’anno 1534. I disordini avvenuti in Milano nel contagio del 1524, per mancanza di provvedimenti sanitarj, suggerirono l’erezione di questa provvida magistratura. Innanzi Natale, il Duca, e poscia il Senato, eleggevano i membri d’esso Tribunale: Due medici collegiati col titolo di Conservatori, — il presidente, che era sempre un senatore, — tre commissari, — uno scrittore, — un chirurgo, — due uffiziali di Sanità, o apparitori, — un portiere, — un registratore dei morti, — custodi dei lazzaretti di spurgo. — In tempo di peste il Tribunale di Sanità aveva estesissimi poteri.

179.  Al quale la città di Milano deve alzare una statua di marmo, e ponerla ad eterna memoria nella piazza pubblica, in segno della gran sollecitudine, prudenza e cura ch’egli ebbe della sua patria e della integrità che in lui sempre si vide, per la quale eternamente egli vivrà immortale. (Centorio, pag. 336.)

180.  L’isolamento in cui ciascuno procurava di vivere per non contrarre la peste, e l’aver i nobili, i manifattori ed i bottegaj, per economia, licenziato un gran numero di servi e di operaj, i quali vivevano del guadagno giornaliero, accrebbe a dismisura la mendicità. Onde in poco spazio di tempo si ritrovò in Milano un numero grandissimo di persone dell’uno e dell’altro sesso ridotte ad estremo bisogno; conciossiachè non trovavano i meschini nella città ricetto alcuno, e fuori uscire non potevano per essere Milano bandito e guardato intorno da ogni parte dalle vicine terre, acciocchè nessuno n’uscisse. Non sapendo i poverelli che partito prendere, ispirati da Dio, si congregarono insieme, e unitamente andarono dal Cardinale come a padre comune, acciò egli prendesse la loro cura...... Restò tutto commosso il pio Pastore a vedersi innanzi tanta moltitudine di poveri, e come che fossero stati suoi cari figliuoli, li accolse, promettendo che sariano certamente soccorsi e provvisti.... Ne applicò alcuni per soldati a far le guardie, altri al servizio degli appestati, altri a purgar panni sospetti di peste. Il resto, che giudicò inabili a simili uffizi, in numero di tre a quattrocento, dopo averli trattenuti sotto i portici della chiesa di S. Stefano in Broglio alcuni giorni, li mandò fuori di Milano circa otto miglia, a un luogo detto la Vittoria, nella strada di Melegnano, ov’è un gran casamento in forma di palazzo, che fu fabbricato da Francesco re di Francia, in memoria della vittoria ch’egli riportò in quel luogo istesso dell’esercito de’ Svizzeri, ritenendo per questa causa il detto luogo il nome di Vittoria. Li ridusse adunque tutti in quest’albergo, provvedendo loro delle cose bisognevoli e per il vivere e per il buon governo spirituale.... Li visitava egli stesso qualche volta, e n’aveva quella maggior cura che poteva. (Giussani, Vita di S. Carlo, Libro IV, cap. IIII.)

181.  Majestatem quoque regis ære alieno pene esse demersam.

182.  I magistrati non volevano permettere le processioni per timore che, atteso il concorso, si dilatasse la peste. Ma S. Carlo, spinto da zelo eccessivo forse, ma condonabile per la rettitudine dell’intenzione, insistè e ne fece tre solenni nei giorni 3, 5 e 6 ottobre, andando a visitare le chiese di Sant’Ambrogio, San Lorenzo e San Celso; nelle prime due portò un crocifisso, nell’ultima il Santo Chiodo. La seguente settimana, l’infaticabile Pastore diede principio ad un’altra processione più lunga e faticosa assai delle prime, con la quale circondò tutta la città, portando egli in mano il Santissimo Chiodo entro quella gran croce ch’aveva fatto fare a posta, camminando a piedi scalzi, con l’abito e funi al collo, accompagnato da tutto il clero e popolo. Fece in quel giorno una fatica incredibile, camminando digiuno quasi fino a notte.

Per le minute particolarità, rimando il lettore al citato Giussani. (Lib. IV, cap. IIII.)

183.  Presso Casalpusterlengo.

184.  Essendo il precedente capitolo lungo fuor di misura, lo suddivisi in tre, giovando alla chiarezza ed al riposo de’ leggitori le divisioni inerenti alla stessa narrazione.

185.  Spatiumque capere illud, unde pars nulla versa tantæ civitatis in mortem tabemve et pericula mortis excluderetur.

186.  Il Giussani dice che le fosse erano alte quasi come bastioni.

187.  S. Carlo racconta il caso seguente ivi accaduto:

«Era uno appestato riputato morto, e per tale portato con gli altri morti alla porta di dietro di S. Gregorio, per doversi poi portare a seppellire in quel cimiterio.... Stava dunque questo poverello fra un mucchio di 50 o 100 corpi d’uomini morti nella notte precedente, per dover essere anch’esso, come morto, sepolto fra poco con loro, ed era ancora vivo, o in mezzo tra la morte e la vita. Quando la mattina per tempo, il sacerdote ch’aveva cura degli appestati di S. Gregorio, portando, secondo il solito, il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia a’ suoi malati, passò davanti a quella porta, ch’era allora aperta, ed ecco in un subito quest’uomo, rizzatosi inginocchione framezzo a questi morti, e, tutto pieno d’ardente desiderio di non restar privo di quel santissimo viatico nel suo transito già vicino, rivoltosi al sacerdote, con voce piena d’affetto, degna d’ogni compassione, gli disse: Ah padre, per amor di Dio, a me ancora il Santo Sacramento. Poco più potè parlare, ma questo bastò per significare il suo desiderio, e il bisogno alla carità di quel sacerdote, che subito andò a consolarlo, ministrandogli il Santissimo Sacramento. Ed egli, ricevutolo con grandissimo affetto e riverenza, tornò subito a collocarsi nell’istesso luogo, e passò di questa vita prima che vi fosse quasi tempo di ridurlo al luogo dei vivi». (Memoriale, pag. 11, cap. III.)

188.  S. Carlo, paragonando Milano all’albero descritto dal profeta Daniele, e che simboleggiava il castigo ed il perdono di Nabucco, descrive altresì l’aspetto della città durante la peste.

«O città di Milano, la tua grandezza s’alzava sino ai cieli, le ricchezze tue si stendevano sino ai confini dell’universo mondo; gli uomini, gli animali, gli uccelli vivevano e si nutrivano della tua abbondanza! Concorrevano qui da ogni parte persone basse a sostentarsi nei sudori suoi sotto l’ombra tua; convenivano nobili ed illustri ad abitare nelle tue case, a goder delle tue comodità, e a far nido e stanza ne’ tuoi siti. Ecco che in un tratto dal cielo viene la pestilenza, ch’è la mano di Dio, ed in un tratto fu abbassata a tuo dispetto la tua superbia. Sei fatta in un subito dispregio agli occhi del mondo, sei ristretta dentro de’ tuoi muri: son rinchiuse nei tuoi confini le tue mercanzie, le tue abbondanze, i tuoi traffichi. Non era più chi venisse ad abitar teco, a nutrirsi de’ tuoi frutti, a provvedersi nei bisogni delle tue mercanzie, a vestirsi de’ tuoi panni, a riposar nei tuoi letti, a godere delle tue comodità, nemmeno a ornarsi delle tue invenzioni di nuove foggie, nè a pigliar da te il modo di nuove pompe.

«Fuggivano i grandi, fuggivano i bassi, ti abbandonarono allora tanti nobili e plebei.

«Chi non fuggiva, spesse volte era dal male o dai sospetti del male ridotto nelle angustie del Lazzaretto, o fuori delle mura della città, ad abitare in quelle piccole capanne con riputarsi gran ventura di avere pur paglia che lo coprisse, ed altrettanta che gli facesse il letto, che già era consumata tutta per molte miglia attorno di paese. E però bene spesso gli faceva letto la terra dura, e talvolta l’acqua o il ghiaccio. Così era la tua abitazione, in buona parte ridotta al sereno, esposta alla rugiada del cielo, posta in mezzo alle campagne, nei campi, nei luoghi ove si pascono gli animali e le fiere della terra; ed ivi eri custodita dalle guardie ed arme de’ soldati, perchè non uscissi di quei confini; che più? (è cosa da dire e da ricordarsi perpetuamente per tener memoria sempre della grazia ricevuta) restarono solitarie le contrade, le case, le piazze, le chiese, chiuse le botteghe affatto.

«Tu Milano, affamato, angustiato e bisognoso di esser continuamente soccorso per vivere dalle città, dai castelli e dalle povere ville d’ogni intorno, restasti come fuor di te stupido, incantato; così in quei principj specialmente abbassò l’ira divina in un tratto tutte le tue grandezze».

«O figliuoli, quando andavamo per quei campi, per le capanne, pei lazzaretti, per le case e contrade infette, e vedevamo in ogni parte corpi morti, uomini e donne che stavano morendo, altri così gravemente infermi, ch’erano poco dissimili di faccia e di forze dai morti, chi dava grido pei dolori che lo affliggevano, chi si lamentava per la fame, chi dimandava i medici o barbieri, chi era spaventato dalla morte vicina, chi desiderava la sepoltura dei figliuoli. Pareva che ogni cosa fosse piena di desolazione e di disperazione, e che fossimo abbandonati da Dio, e che sebbene era grande quella calamità, fossero nondimeno molto maggiori anco le afflizioni e ruine che fossero per venirci appresso». (Memoriale, cap. I.)

189.  Oltre al Boniperti si distinse Cesare Rincio. Chi amasse sapere i nomi dei medici deputati nelle varie porte, li troverà nel Centorio, p. 322. Erano 33, fra i quali il giovane Lodovico Settala, salito dappoi a tanta celebrità.

190.  Nel secolo XVI Giovan Francesco Rabbia, nobile milanese, fondò l’istituto di Santa Corona per far curare i poveri malati nelle loro abitazioni e distribuire le medicine. Destinò per la farmacia ed altri ufficj la sua casa vicina a San Sepolcro; aveva sull’ingresso una lapide colla seguente iscrizione in latino.

A CRISTO REDENTORE
LA SOCIETÀ DEDICATA CON SACRO NOME
ALLA SANTA CORONA DI LUI
QUI
AI POVERI E SPECIALMENTE AI MALATI
GLI OPPORTUNI SOCCORSI
LIBERALMENTE LARGISCE.

Questo Istituto, insieme con altri, venne, nel secolo passato, riunito all’Ospital Maggiore, e sussiste anche in oggi, come è noto.

191.  Il 15 ottobre 1576.

192.  Fra questi ricchi elemosinarj furono principali li due fratelli Cusani, Pomponio ed Agostino, essendo poi quest’ultimo, dopo la morte di S. Carlo, stato promosso al cardinalato da Sisto V. (Giussani, Lib. IV, cap. V.)

E S. Carlo nel Memoriale: Hanno i Milanesi soccorso e sostenuto in vita alcuna volta vicino a sessanta o settanta mila poveri, abbandonati da ogni altro ajuto. Quante volte dettero e ferno venire alle mani nostre le collane, gli anelli, le tazze d’argento per soccorso de’ poveri, senza pur sapere nè anco noi stessi tal volta da che mano venisse quella carità. (Pag. I, cap. II.)

193.  I magistrati che vestivano a quell’epoca ciascuno le insegne della loro carica, vi erano affezionatissimi ed i Senatori avrebbero creduto avvilirsi uscendo in abito comune, se non era il grave pericolo di contrarre la peste colle ampie e svolazzanti toghe. Laonde questa circostanza, avvertita dal Ripamonti, dipinge la costernazione dei grandi più che a tutta prima non sembri.

Anche il Besta ricorda questo fatto: Un nuovo modo di vestire fu ritrovato, perchè li togati e Senato istesso vestivano di curta veste ed altri abiti succinti e meno atti a prendere il contagio. Più non si vedeva diversità di vestito pomposo e ornato, del quale già prima lascivamente andava altiera la città, e non altro d’ognintorno si sentiva che voci meste, lagrimevoli, nè altro si vedeva che Monatti con li carri, alcuni d’infermi infetti carichi, altri di corpi morti: e le povere donne in abito meschino seguendoli, far le spietate, dolorose e affannate esequie, chi al marito, chi al padre, chi al fratello e con i loro figliuoletti a mano o nelle braccia e letticciuolo alle spalle, essere condotte poscia alle capanne. (Pag. 58.)

194.  Mille furono i poveri sacerdoti mantenuti a spese pubbliche durante la quarantena, e dopo per 123 giorni: vi s’impiegarono Lir. 15493. (Centorio, pag. 306.)

195.  S. Carlo fece erigere molti altari ne’ crocicchi e luoghi cospicui della città per dar comodità a tutti di sentir la messa, stando in casa propria, e vi provvide di sacerdoti che vi celebravano ogni giorno. Così fece di confessori, li quali andavano di porta in porta confessando tutto il popolo; la domenica poi si comunicavano nel medesimo luogo.... Ordinò che ciascuna vicinanza facesse orazione sette volte tra il giorno e la notte a due cori.... cantavano salmi litanie ed altre orazioni accomodati ai bisogni di quel tempo. L’ore erano distribuite ordinatamente, dandosi il segno di ciascuna di esse col suono della campana più grossa del Duomo, ed allora tutte le famiglie andavano alle finestre, e un sacerdote o altra persona deputata, dava principio all’orazione, e tutti gli altri genuflessi rispondevano. (Giussani, lib. IV, c. 7.)

196.  L’assenza del governatore malcontentò a ragione i Milanesi; del Serbelloni si lodavano, non senza però qualche taccia di parzialità.

Non mi basta che abbiate qui lasciato il mio Gabrio Serbelloni cavagliere onoratissimo e degno dei maggiori favori e onori, il quale fa quanto può per mio servizio, e mi giova assai. Non però può far quel che farete voi per essere egli cittadino, ed alle volte non può ne deve negar piaceri agli amici, parenti e creati.... E tu Gabrio Serbelloni lasciato con autorità dal mio governatore.... sia parco in conceder licenze d’andar fuori e venir dentro le persone; usa gran diligenza.... Hai fatto piantare alquante forche e vanno per le strade soldati e birri giorno e notte.... Provedi, castiga, ed usa la tua autorità che il tempo lo richiede, e farai benefizio al pubblico etc. (Pianto di Milano per la Pestilenza, di Olivero Panizzone Sacco, cittadino alessandrino. — Alessandria, 1578.)

197.  Pare che i Monatti fossero attivati nel 1576. Una grida del 12 settembre dell’anno suddetto proibisce, sotto pena di tre squassi di corda, specialmente alle donne e fanciulli, quando incontrano e veggano Monatti sì in carretta che altrimenti, di accostarsi a loro. Et altri insolenti gli tirano ancora dei sassi.... Un’altra grida del 12 febbrajo 1577 ordina che non ardisca alcun Monatto, e da verun’ora, ne per veruna causa andare in alcuna parte di questa città e suoi borghi, ne fuori dove sono le case, senza una assai lunga bacchetta in mano, ed uno assai gagliardo campanino, che possa essere ben sentito per ciascuno di essi, e sempre in compagnia del loro commissario. (Centorio, pag. 89-257.)

198.  Trovasi un minuto rendiconto di tutte le spese di questa peste nel Centorio, pag. 305.

199.  Intende qui velatamente giustificare Federico pel rifiuto dei dieci mila zecchini offerti dal Lomellini. (Vedi pag. 173.)

200.  Fa d’uopo avvertire che il Ripamonti parla sempre di lire imperiali, moneta nominale, e il cui valore subì grandi alterazioni dal 1200 fino a Maria Teresa, che introdusse la nuova monetazione. Nel 1576 la lira suddetta equivaleva a lire due milanesi, ossia franchi 1,44. Nel 1630 era decaduta in ragione di milanesi lir. 1.15.6. ossia franchi 1,36. Riuscirà facile con questi dati fare il ragguaglio di tutte le somme citate dal Ripamonti. Il zecchino d’oro nel 1630 valeva circa lire 11 milanesi, cioè franchi 8,47.

201.  Che erano circa 800 brente, condotte a sue spese fino ai confini, il 23 novembre 1576. (Centorio, pag. 191.)

202.  Da Castra Majora, secondo alcuni antiquarj.

203.  Grida 5 gennajo 1577, con altra del 28 gli fu levata questa facoltà, perchè forse ne abusò. Vedi la nota precedente, pag. 316.

204.  Trovando che quel sacerdote ch’egli pose fin da principio alla cura del Lazzaretto, era passato a miglior vita per non aver stimato il pericolo d’infettarsi, conciossiacosachè fin la prima notte si mise a dormire pazzamente nel letto d’un appestato, ne fece immantinente venire un altro dai paesi istessi de’ Svizzeri; avendo anche messo per governo nel medesimo lazzaretto un padre cappuccino, zelantissimo, e uomo di molto valore, chiamato fra Paolo Belintano da Salò nel lago di Garda, per ovviare ai disordini che vi potessero nascere, con podestà di far dare la corda ed altri castighi a chi li meritava. Il qual padre vi fece opere stupende, e tenne in gran timore tutta quella moltitudine di gente, astringendo ognuno a soddisfare interamente al proprio carico così quelli che curavano il luogo, come chi serviva agli infermi. (Giussani, lib. IV, cap. 6.)

205.  Fra Paolo faceva frustare uomini e donne, alle volte dar della corda, non che prometterla, e dava loro delle altre penitenze destramente e piacevolmente. (Bugato, pag. 51.)

206.  Venendo poi il verno, non trovandosi provvisione alcuna per vestirli e difenderli dal freddo, non patendo il pietoso padre di vederli patire, ne sapendo che in modo provvedere di vestimenti a tanta moltitudine, gli venne in mente un buon partito, che fu di pigliare tutti i panni di sua casa, e tagliarli in tanti vestiti.... Fece dunque spogliare la guardaroba e tutte le stanze del suo palazzo di quanti drappi v’erano.... e convertire in vestimenti de’ poveri: li fece fare di diverse forme col cappuccio attaccato, acciò servissero a tutti eziandio per cappello. Nella qual occasione furono misurati ottocento braccia di panno rosso, e settecento di pavonazzo, oltre i drappi verdi e d’altri colori.... Et era cosa molto graziosa a vedere tanta moltitudine di poveri, vestiti variamente parte di rosso, parte di pavonazzo, parte di verde, e altri d’altri colori, come se fossero stati un esercito di soldati di diverse livree e insegne. (Giussani, Vita di S. Carlo, Libro IV, cap. IIII.)

207.  Alla narrazione della Peste del 1576, aggiungerò, che a quei giorni si credette agli Untori. In una grida del 12 settembre 1576 trovasi: Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone con poco zelo di carità e per mettere terrore e spavento al popolo, ed agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche tumulto, vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le porte e i catenacci delle case e le cantonate delle contrade di detta città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste al privato ed al pubblico, dal che risultano molti inconvenienti, e non poca alterazione tra le genti, maggiormente a quei che facilmente si persuadono a credere tali cose.... Fa intendere a ciascuno che nel termine di quaranta giorni metterà in chiaro la persona o persone che hanno dato il mandato ajutato, o saputo di tale INSOLENZA, se gli daranno cinquecento scudi, e possa liberare due Banditi.

La parola insolenza addita che gli unti ritenevansi piuttosto una braveria che un delitto meditato. Per fortuna in breve non vi si pensò più. Dopo la grida, dice il Centorio, più non si sentì tal cosa, mentre invece, nel 1630, la stessa credenza riprodottasi con maggior forza e in circostanze diverse, produsse tanto danno.

208.  Il Monti venne eletto arcivescovo di Milano il 28 novembre 1632, da Urbano VIII. Giovinetto andò a Roma, ove, entrato in prelatura, fu nominato protonotario apostolico da Paolo V, che sorpassò l’età pel distinto suo ingegno. Gregorio XII l’aveva carissimo: Urbano VIII lo mandò suo Nunzio a Napoli, poi a Madrid, dove trovavasi all’epoca della sua elezione. Reduce da Roma, ebbe il cappello cardinalizio col titolo di Santa Maria in Transtevere. Soltanto nel maggio 1635 potè venire a Milano, ove fu accolto con grande esultanza dai concittadini. Seguendo le vestigia dei Borromei, visitò la Diocesi, e attese a continuare la riforma del clero, celebrando nel 1636 il trentesimo secondo Sinodo Diocesano, e due altri nel 1640. Fondò a Concesa un convento di Carmelitani Scalzi. Fece ultimare il cortile del Seminario di Milano, e trasferì a Monza nel 1644, entro il locale in cui trovasi oggidì l’ospitale, il Seminario che S. Carlo aveva fondato sotto la direzione degli Oblati a Santa Maria alla Noce. L’edificio era meschino, e venne in gran parte rifabbricato l’anno 1687; nel 1755 si innalzò un altro lato, spendendovi 115,000 lire. Nel 1768 soppressi, per ordine sovrano, i Seminarj vescovili e concentrati nel Seminario generale a Pavia, quello di Monza subì la medesima sorte, e fu convertito in ospitale. Riaperti i Seminarj nel 1791, quello di Monza si traslocò nell’ex convento dei Cappuccini sulla piazza del Mercato, ove trovasi anche oggidì. Soltanto nel 1822 riedificossi la facciata, con disegno dell’architetto Gilardoni, e furono spese lir. 100,000; infine nel 1832 si diede mano al magnifico cortile, opera del valente architetto Giacomo Moraglia, e fu di già spesa la ingente somma di lire 544,000. Si spera di vedere tra non molti anni ridotto a termine questo Seminario, che attesterà ai nipoti i talenti architettonici del Moraglia, e la splendidezza di chi ne intraprese la ricostruzione.

Ma per tornare all’arcivescovo Monti, egli ampliò ed abbellì il palazzo arcivescovile, e legò in testamento la sua preziosa raccolta di quadri, in perpetuo, agli arcivescovi di Milano. Benemerito, morì il 16 agosto 1650, di soli 57 anni, e sta sepolto in Duomo innanzi la cappella della Madonna che si chiama dell’Albero.

209.  Vedi pag. 45.

210.  Questo passo convalida l’opinione che esternai sul Processo degli Untori. Vedi l’Appendice II al Libro Secondo.

211.  A destra dell’altar maggiore vi si leggono, oltre la citata, parecchie altre iscrizioni. È inutile di qui riportarle perchè estranee all’argomento di questa storia.

212.  Chi riuscisse a dissotterrare la risposta del senatore Trotti negli archivj di Madrid, ove giacciono sepolti i documenti più rilevanti della storia nostra durante il periodo spagnuolo, rinverrebbe probabilmente nuovi e importantissimi schiarimenti intorno il Processo degli Untori.

213.  Ac rex ipse regum; così il nostro Storico, copiando per adulazione il noto epiteto che dà Omero all’Atride.

214.  Allude alla scorreria fatta dal principe di Rohan; il quale nel 1635 si spinse dalla Valtellina fino a Lecco, dove gli chiusero il passo i Brianzuoli raccolti in armi.

215.  Ripamonti stava scrivendo la Decade V della Storia Patria, che venne pubblicata dopo la sua morte.

216.  Hora erat diei fere undecima tenebræque jam appetebant. Non capisco in qual modo ciò si combini, sia coll’orologio italiano, sia col francese. Ritengo che, per errore di stampa, siavi undecima in luogo di vigesima.

217.  La chiusa di questa gonfia allocuzione è più che strana: Promettere al Cardinale Monti un’urna per quando morrebbe! Credo che ad onta del sussiego spagnuolo non pochi de’ circostanti si commovessero a sdegno o a riso.

218.  Precisamente ventun anno e quattro mesi, cioè dal 7 novembre in cui S. Carlo, morto il 3 di quel mese, fu seppellito rinchiuso in una cassa di piombo, coperta d’un’altra cassa di grosse tavole (Giussani, Vita), fino al 6 marzo 1606, nel qual giorno si eseguì la visita del cadavere di S. Carlo, ultimo atto che mancava per chiudere il processo della sua canonizzazione. Federico Borromeo, coi vescovi delegati, un medico, un chirurgo discesero nel sotterraneo. Entrati nella tomba, che per lo spazio di ventidue anni aveva tenuto in sè rinchiuso quel prezioso tesoro, videro l’arca molto maltrattata per la mala disposizione del sito, quantunque elevata fosse da terra sopra due stanghe di ferro, e massimamente per una goccia che dalle fredde vene della marmorea sepolcral pietra, stillando, era continuamente sopra quella caduta, e fatto le aveva nel coperchio un gran foro.... Sospesa la ricognizione, per l’umidità del sotterraneo, si decise trasportare l’arca in sacrestia, ove, dopo aver lasciato il corpo per sette giorni esposto all’aria perchè si asciugasse, fu dai vescovi, lasciando scoperta la faccia, le mani, i piedi, di purpurea talare veste rivestito: sopra di quella aggiunsero un camice di sottilissimo lino, le pontificie dalmatiche, ed il pallio arcivescovile, mettendogli per ultimo in capo una preziosa mitra di preziose gemme ornata. Dopo la qual cerimonia fu da Federico in detta arca riposto.

Perchè poi il collocar di nuovo quel sacro pegno nel medesimo sito stimavasi da Federico cosa disdicevole molto, diedesi ad investigare in qual altro più convenevole luogo del metropolitano tempio riporre si potesse. Dopo molte discussioni, per non contrariare la mente d’esso Beato, che aveva eletto in morte al suo corpo quel sito per perpetuo suo riposo, si risolse di non mutar sito, ma di cangiar solo la forma di sepolcro, in forma di vago e divoto oratorio. Questo, volgarmente detto Scurolo, benchè non grande, per l’escavazione del terreno e l’intonacatura delle pareti a lamine d’argento, venne finito soltanto nel seguente marzo 1607. Allora Federico, col vescovo Archinti, delegato apostolico, aperta la sacristia ch’erasi murata, entrarono amendue, e ritrovato nell’arca il corpo nel medesimo stato nel quale ultimamente dai delegati vescovi era stato riconosciuto, sei primarj cavalieri della città con quella più decente maniera che fosse possibile, sopra gli omeri se la recarono, e sopra l’altare dell’oratorio, presenti quanti furono a quest’azione chiamati, la collocarono. (Rivola, Vita di Federico, lib. III, cap. XXV.)

219.  Ricorderemo i 28 quadri di straordinaria dimensione, che vengono esposti negli intercolunnj durante l’ottavario della festa di S. Carlo, ed altri 28 più piccoli, appesi sotto i suddetti. Rappresentano i fatti principali della sua vita, e sono di famosi artisti lombardi del secolo XVII. Crespi, Cerano, Morazzone, Procaccino, Lanzani, Parravicino, Gianoli, Duchino; alcuni d’ignoto pennello.

Ma chi immaginò questo grandioso progetto? chi supplì alla spesa? Consultate il Rivola nella Vita di Federico, il Torri, il Lattuada, e tutte le Guide di Milano vecchie e nuove, l’opera del Franchetti sul Duomo, l’altra con eleganti incisioni, pubblicata dall’Artaria, ec., e troverete.... un bel nulla!

Unicamente sappiamo, per tradizione, che quando fu canonizzato S. Carlo nel 1610, Federico, uomo di grandi concepimenti, come fa prova la Biblioteca Ambrosiana, per tacer il resto, pensò di perpetuare la memoria del Santo nel modo che parla più vivamente agli occhi di tutti. Si conosce altresì che varii dei quadri suddetti furono dono degli Oblati, di religiosi, e divoti privati. Avrei caro che qualcuno riuscisse a schiarire questo fatto importante, massime per la storia pittorica della Scuola Lombarda.

220.  Benchè il nostro Storico lo esageri coll’usata ampollosità, il concorso fu straordinario per la divozione a S. Carlo vivissima e generale, e incominciata subito dopo la sua morte. Questa divozione fu continua e ordinaria fino all’anno 1601, nel qual tempo, correndo a volo per ogni parte del mondo la fama dei molti miracoli che nuovamente faceva S. Carlo, si eccitò una tal commozione e fervore in tutti i popoli della Lombardia e d’altri paesi più lontani, che si vedeva come un gran profluvio di gente, d’ogni stato e condizione, che venivano a venerare il sacro corpo suo.... Ed oltre il popolo innumerabile che da tutte le ore del giorno ed anche per due o tre ore di notte vi si vedeva promiscuo, vi venivano ancora numerose compagnie d’uomini e di donne forastiere, processionalmente accompagnate di musica e da compagnie di trombe.... alcune di sacco per segno di penitenza, anzi si vedevano comparire sovente le terre intere col clero e tutto il popolo che passavano molte miglia di persone. I pellegrini erano frequentissimi d’ogni paese, e molti oltramontani. (Giussani, Vita, Lib. VII, cap. 8. cap. XVIII.)

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.