Title: Il tramonto della schiavitù nel mondo antico
Author: Ettore Ciccotti
Release date: July 15, 2023 [eBook #71198]
Language: Italian
Original publication: Italy: Bocca
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
IL
TRAMONTO DELLA SCHIAVITÙ
NEL
MONDO ANTICO
UN SAGGIO
DI
ETTORE CICCOTTI
TORINO
FRATELLI BOCCA EDITORI
LIBRAI DI S. M. IL RE D’ITALIA
SUCCURSALI
MILANO Corso Vittorio Em., 21.
ROMA Via del Corso, 216-217.
FIRENZE Via Cerretani, 8.
Depositi a PALERMO — MESSINA — CATANIA
1899.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Torino — Vincenzo Bona, Tip. di S. M. e dei RR. Principi.
[1]
IL TRAMONTO DELLA SCHIAVITÙ NEL MONDO ANTICO
Molti contrasti e molte differenze separano e distinguono il mondo antico dal mondo moderno, ma nessuna è così saliente come l’esistenza normale e generale di una classe di schiavi, che costituisce la base ed il sostrato della società antica, ne sostenta, direttamente od indirettamente, gli elementi liberi e diviene perciò la ragione e la condizione di tanti altri contrasti e di tante altre distinzioni.
Così, chiunque della ricerca assidua, oculata e minuziosa de’ dati della tradizione e delle reliquie del passato non faccia, come ora accade non di rado, una mera esercitazione di erudito, fine a se stessa, ma il presupposto necessario della conoscenza positiva del passato e di una ricostruzione nè fantastica, nè soggettiva della storia; chiunque, attraverso questa faticosa indagine de’ tempi andati, cerchi, con la nozione sicura ed organica di un mondo scomparso, le leggi della vita sociale e delle sue trasformazioni; chiunque si volga a’ tempi che furono, non già per ismarrire tra i morti le tracce della vita, ma per rievocarle tra di essi, sarà tratto con fascino sempre nuovo a considerare le condizioni in cui avvenne la grande metamorfosi della struttura economica della società, con tutte le sue cause e le sue conseguenze.
Nè lo distoglierà dal proposito il pensiero che già più volte un tal problema fu oggetto di studi speciali da parte d’ingegni [2] alacri e dotti, che l’abbondanza de’ dati raccolti ordinarono con illuminata pazienza e rischiararono con acume. Anche quando i dati dell’indagine non fossero più suscettibili d’accrescimento, vi sarebbe sempre modo di coordinarli diversamente, di determinarne meglio i mutui rapporti, di riferirli a cause più efficienti e più sicure, di guardarli infine da un punto di vista diverso e quale può venir suggerito da una nuova e diversa interpretazione della storia e dalle fondate induzioni di nuove leggi della vita sociale.
Che il tramonto della schiavitù nel mondo antico si dovesse al progresso e al trionfo del Cristianesimo, od alla filosofia stoica, in ispecie, e alla formazione di una più elevata coscienza etica, in genere, che ne avrebbe scalzato il fondamento morale, o ad un consapevole principio utilitario, o, finalmente, al sopravvenire delle invasioni barbariche; sono tutte spiegazioni, da cui forse si sentirà poco o niente appagato più d’uno che voglia guardare il problema a fondo e da’ vari suoi aspetti.
Che al propagarsi della mite e solenne voce messiaca, diffusa e ripercossa, come di eco in eco, per il mondo, i cuori degli uomini si sentissero conquisi, e i ceppi degli schiavi cadessero spezzati, e la servitù si andasse dileguando come l’incubo di un sogno pauroso; tutto ciò ha potuto bene esser creduto, e s’intende anzi che si credesse. Due grandi movimenti, che si sono svolti in un giro di tempo non diverso, facilmente son considerati come dipendenti l’uno dall’altro; ed una spiegazione come questa, insieme facile e pronta, è fatta per dar tregua all’inquietudine di chi non ne trova subito una più esauriente e per appagare chi non può e non sa cercare le ragioni intime di uno de’ fenomeni più complicati della storia. Per giunta l’anima aperta alla fede se ne compiace, e la tendenza a concepire la storia come una serie di rapidi ed impressionanti, straordinari e spettacolosi mutamenti di scena, s’accorda meglio col rapido dramma della parola redentrice che non col dramma meno facilmente percettibile delle rivoluzioni lentamente e inconsapevolmente preparate e svolte col concorso e l’antitesi degli uomini e delle cose, nel seno della vita, attraverso i secoli.
Pure, se appena si cominci a riflettere, un dubbio sorge e ne suscita altri; e tutti insieme incalzano e premono.
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Se il Cristianesimo è incompatibile con l’istituzione della schiavitù, tanto che ha avuto il potere di dissolverla e sradicarla dal mondo antico, come può mai spiegarsi che la schiavitù sia riescita a risorgere e svilupparsi nel seno stesso della civiltà cristiana, perdurando sino a ieri in paesi che più tenevano a chiamarsi cristiani, e all’ombra delle leggi cristiane, sotto l’egida e gli auspici di governi e sovrani, che si atteggiavano a depositari privilegiati e difensori della fede cristiana?
La tratta cessò nelle isole francesi appena nel 1830; nel Brasile venti anni dopo, nel 1850. Nelle isole olandesi la schiavitù non fu abolita definitivamente che nel 1854; a Puerto-Rico ebbe termine nel 1872, a Cuba nel 1880[1]. L’Inghilterra attese nientemeno sino al 1833 e al 1838 per non liberare che i suoi negri delle Antille[2]; la Francia rivoluzionaria aboliva la schiavitù per vederla subito reintegrata e raffermata dal Consolato, dall’Impero, dalla Restaurazione, e non riesciva alla liberazione definitiva che nel 1848[3]. E, dovunque la schiavitù corrispondeva a un diritto, a un interesse, o a un bisogno sia reale, sia creduto tale, nella maniera più accomodante finivano per coesistere con essa le professioni di fede, i sentimenti, le pratiche del culto cristiano. Il giornale ufficiale della Martinique potea pubblicare nel 22 giugno 1840 che sulla piazza del borgo dello Spirito Santo, subito dopo la messa, si sarebbe venduta all’asta, in seguito ad esecuzione forzata, la schiava negra Susanna con sei figli, di tredici, di undici, di otto, di sette, di sei e di tre anni![4]. Una relazione fatta al Consiglio della Martinica dichiarava atea la legge, che [4] mettesse in forse la schiavitù; e un presidente della Corte reale di Guadalupa trovava che il possesso dello schiavo era la più sacra delle proprietà[5].
Negli Stati Uniti di America la guerra di secessione avea come ultimo risultamento l’abolizione della schiavitù; ma questo fatto non poteva, in nessuna maniera, ripetere le sue origini nè prossime, nè remote da una causa di carattere religioso. Il movimento schiavista e l’abolizionista s’erano svolti, non già da un impulso religioso, ma dalle diverse condizioni della produzione, dalle diverse condizioni economiche degli Stati del Sud e di quelli del Nord. Gli Stati del Nord con la loro coltura di cereali e l’attività industriale crescente, con l’incremento continuo di capitali, la popolazione più densa, l’immigrazione sempre più notevole e un proletariato sempre più considerevole, con le terre il cui valore saliva continuamente, costituivano il contrapposto degli Stati del Sud poveri di popolazione, di capitali, di strade, forniti di un’industria rudimentale, con la ricchezza generale in decrescenza. Era questa antitesi che si rifletteva in tutta l’azione civile, politica ed economica degli uni e degli altri, nelle tendenze ad un diverso regime doganale come nelle diverse abitudini di vita, nelle diverse forme di lotta politica come ne’ diversi sentimenti morali, e conduceva naturalmente al dissidio, che vedea il pomo della discordia, il punto di applicazione delle forze contrarie nella schiavitù, siccome quella che costituiva il carattere precipuo, il principale istrumento ed il sostrato di ogni altro antagonismo[6]. E se, nell’ardore della lotta, non si mancò di ricorrere ad argomenti forniti dalla religione, ciò dipese dal dilagare del contrasto, che omai invadeva ogni campo ed assumeva tutte le forme, e non avrebbe potuto trascurare un mezzo di polemica così efficace e promettente, come quello che permetteva d’invocare l’autorità della tradizione religiosa. Ma quanto scarso valore potessero avere gli appelli alle dottrine religiose in una controversia, che dovea essere risoluta [5] in via immediata dalle armi e poi meglio dalle mutate condizioni della produzione, lo dimostrò la facilità, con cui, per una fanatica ed interessata ermeneutica, i testi sacri si faceano servire indifferentemente alla causa degli schiavisti e degli abolizionisti, e gli schiavisti ne’ loro pubblici discorsi invocavano Dio a testimone e fautore del loro proposito di mantenere la schiavitù[7]. Negli Stati del Sud spesseggiavano i pamphlets che si proponevano di mettere d’accordo la religione e la schiavitù, e un partito detto de’ mangiatori di fuoco si proponeva addirittura di difendere la schiavitù con l’autorità della Bibbia[8]; mentre non era raro vedere ministri del culto possedere schiavi con insolita durezza e scrivere e dire e insegnare che la schiavitù è sotto la sanzione di Dio, che è approvata dalla divina Provvidenza, e che il favore con cui è considerata dal Vecchio e dal Nuovo Testamento è il più irrefutabile documento ch’essa è voluta da Dio[9].
Come poco potessero le considerazioni teoriche di ordine religioso, quando nella coscienza si destava il dissidio tra la fede e il necessario adattamento all’ambiente economico, e come gli scrupoli della fede alla fine piegassero vinti; appare anche dalle vicende che accompagnarono l’introduzione, la diffusione e il definitivo assodarsi della schiavitù nel Nuovo Mondo. I divieti generici e teorici sono sempre ripetuti e sempre violati; gli scrupoli d’Isabella vanno a finire in una condanna alla schiavitù de’ ribelli alla conversione presi con le armi alla mano; Las Casas scongiura la schiavitù degl’indiani per sostituirla con quella de’ negri, incoraggiata e reclamata da’ padri hieronimiti; gli asientos alla importazione de’ negri cominciano come una eccezione e finiscono per essere una impresa regolare e periodica, a cui partecipano e di cui approfittano senza alcuna [6] puntura di cuore sovrani e credenti[10]. Non sono questi tanti elementi per indurre chiunque a meditare e rimeditare ancora le cause della diffusione della schiavitù e quelle della sua fine?
L’indagine sul tramonto della schiavitù e sull’azione che vi ha potuto spiegare il Cristianesimo, è stata sviata, ad un tempo, dall’interpretazione idealista od empirica della storia e dall’indirizzo tendenzioso e polemico, con cui veniva intrapresa la ricerca. Pareva che il cristianesimo potesse, a sua elezione, volere o non volere la fine della schiavitù, e, sopra tutto, che, volendo, potesse imporne la fine, sforzando o trasformando le leggi dell’ambiente economico, in cui cercava di vivere e svolgersi. E invece queste poteano e doveano mutarsi solo col trasformarsi delle condizioni di produzione, cioè con l’avvento di uno stato di cose tale, che, per se stesso, consentisse di sopperire a’ bisogni della vita senza il concorso di schiavi. Posta su questo falso terreno la questione, la sua risoluzione dovea convertirsi naturalmente in un atto di accusa o in una difesa del Cristianesimo, e il Cristianesimo doveva assolutamente avere il merito o il demerito di ciò che era avvenuto. Ora qui non si tratta punto di tributar lodi od impartire biasimo: si tratta soltanto di ricondurre gli effetti alle loro cause. In verità, anche nel semplice accertamento di un fatto, inconsapevolmente, per via impensata, s’insinua, come un elemento perturbatore, la preoccupazione delle conseguenze vere o supposte che quel fatto può avere sulla cerchia più immediata de’ nostri rapporti, de’ nostri sentimenti e de’ nostri interessi; e quindi l’esame di un argomento come questo forse non si libererà così facilmente da’ preconcetti che spesso l’hanno intralciato. Qui, in ogni modo, si cerca guardare la cosa da un punto di vista obbiettivo, che permetta meglio di vedere quali rapporti potè avere con la schiavitù il [7] Cristianesimo, e di vederli a larghi tratti, s’intende, ed in via di semplice proemio all’indagine delle vere cause cui può essere dovuta la fine della schiavitù.
Non è facile fissare il vero contenuto e la vera forma dell’iniziale movimento cristiano, ma chi, argomentando dal suo sviluppo successivo e risalendo attraverso l’inviluppo dogmatico incessantemente mutato e per necessità mutevole, voglia approssimativamente farsene un concetto, potrà fermarsi a quell’affinarsi del sentimento, a quell’elevazione del cuore, a quell’affermazione della signoria dello spirito sulla materia, che son rimasti la parte intima e più vitale del Cristianesimo[11]. Da un lato dunque troviamo questa larga parte fatta alla vita interiore, un modo eminentemente idealista di concepire la vita e l’anima chiamata ad emanciparsi e a trionfare de’ reali rapporti sociali; dall’altro l’aspettato avvento del regno di Dio, che agli interessi e agl’ideali terreni intende sovrapporre o sostituire la speranza di una vita futura, concezione essenzialmente oltremondana, sia che considerasse la vita umana spostata in un regno non terreno, sia che si ripromettesse sulla terra un ordine di vita proprio di un regno celeste. Ora l’una cosa e l’altra menavano a dare un’importanza sempre più scarsa alla diversità di condizioni e rapporti sociali e a trascurare quindi ogni azione politica, che si proponesse d’innovarli o di modificarli: eliminando così ogni resistenza ed ogni lotta, lasciavano immutato nel suo aspetto formale l’ordine delle instituzioni. I rapporti esterni in fondo, secondo quella dottrina, doveano mutare d’indole, col riflettersi, come in un mezzo diverso, nella coscienza, e il temperamento di ogni asprezza e l’impulso al beneficare doveano divenire per ognuno un obbligo verso se stesso, anzi che verso il beneficato. Il pungolo e la desiderata pace della propria coscienza e l’atteso giudizio divino avrebbero dovuto essere l’impulso e la sanzione, la pena ed il premio di ogni singolo atto e di tutta la condotta in generale, il rimedio sovrano di ogni male e lo spirito rinnovatore del mondo. Era un ideale morale [8] elevato veramente, se anche restava addietro alla morale stoica più disinteressata e più rigidamente schematica e perciò meno capace di propagarsi e meno efficiente, ma era viziato dall’errore fondamentale e insanabile di non concepire la moralità come qualche cosa che rampolla dal seno stesso de’ rapporti sociali e vive della loro vita; scindeva invece, spesso contrapponendoli, le norme dell’azione e l’ambiente, lo spirito e il corpo, l’ideale e la vita; sicchè assai spesso restava una regola astratta, smentita, delusa e invanita nella pratica, e i suoi seguaci finivano per appartarsi dal mondo, inerti cenobiti, o si esaurivano in uno sterile contrasto con la forza stessa delle cose, od erano riassorbiti dal vortice degli eventi e tratti con essi.
Inoltre la fede cristiana si schiudeva e si faceva via in una regione, in cui la schiavitù, se anche antica e diffusa, non avea avuto quello sviluppo, nè assunto, sopra tutto, quel carattere schiettamente mercantile, che ne aveano altrove tanto peggiorate le condizioni e fomentati gli orrori: anzi era rimasta ancora nel suo stadio patriarcale con tutti i lenimenti, i riguardi e i conforti, naturalmente assai relativi, di cui era suscettibile una vita semplice e familiare[12]. Se qualche cosa potea colpire que’ primi cristiani, era l’antitesi tra la semplicità della vita nazionale e lo sfoggio delle abitudini importate, il contrasto tra ricchi e poveri[13]; e non si mancò di notare tali antagonismi e di proiettarli con sorte invertita nell’atteso regno di Dio; ma l’antitesi di liberi e di schiavi non poteva essere facilmente rilevata, nè per deplorarla, in un paese in cui l’antitesi non era acuita, nè per risolverla dove il salariato mancava di tradizioni e di sviluppo[14]. Così può spiegarsi come nella tradizione evangelica, anche quale è giunta a noi, alterata e rimaneggiata, l’accenno alla servitù ricorre piuttosto raramente e, più che altro, in via di esemplificazione, sicchè l’ermeneutica de’ polemisti ha potuto a suo agio sbizzarrirsi per trovarvi argomenti pro e contro la [9] schiavitù. Ma, a misura che il movimento cristiano usciva dal ristretto paese, che n’era stato la culla, e veniva a contatto con la civiltà greco-romana, si trovava a dovere affrontare diversi contrasti, vincere diverse resistenze, superare altre diffidenze, adattarsi ad un altro ambiente. Ed una piaga viva e sanguinante di quella civiltà stava divenendo ogni giorno più la schiavitù, fonte di rivolte palesi e di intimo e permanente squilibrio e di cui non si sapeva e poteva presagire la fine o indicare il modo concreto di trasformazione; e tanto meno si sapeva e poteva provocare una risoluzione definitiva con un consapevole ed efficace indirizzo di politica economica. La netta separazione tra il regno di Cesare e quello di Dio che la tradizione evangelica mette in bocca a Gesù, oltre che un elemento integrante della fede, diveniva pe’ suoi seguaci, evangelizzanti attraverso il mondo greco-romano, un precetto di opportunità politica punto trascurabile. Il carattere intransigente ed esclusivo della loro fede, che non le permetteva di esistere accanto ad un’altra, ma le imponeva di soppiantare ogni altra, avea già per sè solo cominciato a provocare persecuzioni[15] da parte dello Stato romano, così tollerante verso le religioni ed i culti non dominati dallo spirito di proselitismo, eppure ora preoccupato degli sforzi tendenti a scalzare la religione pagana. Che cosa non sarebbe mai accaduto, quando alla propaganda religiosa se ne fosse fatta seguire un’altra che attaccasse a dirittura o minasse le instituzioni su cui poggiava l’ordine economico e politico della società e dello Stato?
Così, nelle lettere apostoliche e cattoliche e in quelle pervenute a noi sotto questo nome, il riconoscimento ampio dell’esistente ordine sociale e politico, l’ossequio all’autorità costituita, e con essi il rapporto di dipendenza degli schiavi da’ padroni, divengono sempre più chiari, distinti e perfino insistenti, a misura che si procede nel tempo.
Nella prima epistola a’ Corinzi, autentica dell’apostolo Paolo e quindi più antica, il rapporto e la definizione del servo e [10] del libero sono riguardati da un punto di vista puramente religioso, che ha come sostrato la devozione a Dio e la purificazione battesimale; e si allude, in una forma rapida ed ellittica, alla condizione sociale, come a qualche cosa di poco importante e di secondario rispetto allo stato spirituale creato dalla credenza religiosa. Viene messa innanzi la considerazione, così di frequente ripetuta poi negli scrittori cristiani, che il libero credente diviene servo di Cristo e il servo credente servo affrancato del Signore (VII, 22), e si ristabilisce così virtualmente la loro uguaglianza; si aggiunge indi, con due brevi paragrafi, che nella forma letterale possono sembrare oscuri e deficienti ma che sono chiariti dal complesso della lettera: “Foste comperati per prezzo: non diventate schiavi degli uomini. Ognuno, o fratelli, rimanga al cospetto di Dio [nella condizione] nella quale era, essendo chiamato [alla fede]„[16].
Queste espressioni trovano il loro complemento in un altro passo della stessa lettera (XII, 13), in cui è detto: “Giacchè noi tutti siamo stati battezzati in un solo spirito ed in uno stesso corpo, e Giudei e Greci, e servi e liberi, tutti ci siamo abbeverati in uno stesso spirito„; tratto che ricomparisce in forma presso che identica nella epistola a’ Galati (III, 27-29), la cui autenticità, pur revocata in dubbio, è prevalentemente ammessa[17].
Ma, qualcosa di più spiegato si trova, quando da queste lettere si passa ad altre la cui autenticità è fortemente messa in dubbio o a dirittura è asseverantemente negata e che hanno notevoli tracce di rimaneggiamenti posteriori, sì da dare argomento a ritenere che siano sorte tardi, fin sotto gli Antonini[18]. Allora, tra l’intrico sempre più rigoglioso delle sottigliezze teologiche, ove tendono a smarrirsi i bei sentimenti di fraternità universale e di larga carità umana, si fanno via, in forma assai più recisa [11] e categorica e dal punto di vista della vita pratica, esortazioni a’ servi perchè siano obbedienti, devoti, fedeli a’ propri padroni. “Servi — dice la lettera agli Efesi[19] che va sotto il nome di Paolo — ubbidite a’ vostri signori secondo la carne con timore e tremore, nella semplicità del cuor vostro, come a Cristo; non facendo le viste di servire, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, adempiendo con l’animo il volere di Dio, servendo con benevolenza come [se serviste] al Signore e non agli uomini; sapendo che ciascuno avrà dal Signore il contraccambio del bene che avrà fatto, sia egli servo o libero. — E voi, signori, fate altrettanto verso loro, smettendo le minacce, sapendo che il Signore vostro e loro è ne’ cieli e che presso di lui non v’è riguardo alla condizione delle persone„.
E lo stesso motivo torna ancora, di nuovo, più esplicito ed insistente, nella prima epistola a Timoteo e in quella a Tito attribuite all’apostolo Paolo, e nella prima epistola cattolica che va sotto il nome di Pietro apostolo[20]. Dice l’epistola a Tito[21]: “Che i servi sieno soggetti a’ propri signori, sieno compiacenti in ogni cosa e senza spirito di contraddizione, che non si sottraggano al servizio, ma mostrino ogni buona fede, così che in tutto onorino l’insegnamento di Dio, nostro salvatore„. E l’epistola a Timoteo (VI, 1-5): “Tutti i servi che sono sotto il giogo reputino i loro signori degni di ogni onore, perchè non sieno bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. E quelli che hanno signori fedeli non manchino a’ propri doveri verso di essi, perchè son fratelli; anzi molto più li servano, perchè son fedeli diletti e che partecipano del beneficio. Insegna queste cose ed inculcale. Se alcuno insegna diversa dottrina e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina ch’è seconda pietà, esso si gonfia senza saper nulla, vaneggiando tra dispute e logomachie, onde sorgono odi, contese, bestemmie, tristi sospetti, conflitti di uomini viziati di mente e alieni dal vero, che credono la pietà abbia ad essere un mezzo di guadagno„.
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E l’epistola cattolica di Pietro apostolo (II, 13): “Siate adunque sommessi ad ogni umana potestà per riguardo del Signore; e al re come a Sovrano.... (17-19): Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Iddio, rendete onore al re. Servi, siate con tutta reverenza sommessi a’ padroni, non solo a’ buoni e a’ moderati, ma a’ severi ancora. Perchè questa è cosa grata, se alcuno per la sua fede in Dio sopporta dolori, patendo ingiustamente„.
Le apologie cristiane, arme di combattimento e di difesa del periodo appunto in cui la chiesa si veniva organicamente formando e rafforzando, assumevano questo punto di vista come un motto d’ordine ne’ rapporti con la organizzazione politica romana, in mezzo a cui i Cristiani vivevano, e non facevano che svolgerlo e completarlo traendone tutte le conseguenze. Pare occorra ritenere che le persecuzioni contro i Cristiani non avessero il loro fondamento giuridico nelle leggi che punivano le offese allo Stato e all’imperatore: è chiaro nondimeno come dovea essere del massimo interesse per i Cristiani il poter mostrare che l’estendersi della loro religione non attentava, nè direttamente nè indirettamente, all’ordine sociale e politico esistente.
“Il re ordina — dice Taziano[22] — di pagare i tributi? Eccomi pronto ad offrirli. Il padrone di servire e prestare gli offici dovuti? Riconosco di essere schiavo„. E Giustino[23]: Da per tutto ci sforziamo di pagare prima di tutti gli altri i tributi e le tasse che ci vengono imposte da voi, com’egli stesso (Gesù) c’insegnò„.
Altrove Giustino stesso[24] tiene a mostrare la posizione de’ Cristiani che varcano la terra con gli occhi verso il cielo, posizione che non consente loro d’indugiarsi a voler cangiare le leggi, [13] nè a violarle: “Abitano le loro patrie, ma come ospiti; partecipano a tutto come cittadini e tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è patria per loro ed ogni patria è terra straniera.... S’indugiano in terra, ma hanno in cielo il loro Stato; obbediscono alle leggi stabilite, ma col loro tenore di vita vincono le leggi;.... son miseri e arricchiscono molti; di tutto son privi e tutto loro sovrabbonda (c. 6). Per dir tutto in breve, i cristiani sono nel mondo come l’anima è nel corpo„.
Tertulliano non si stanca di ripetere, citando anche il testo delle preghiere cristiane, come i cristiani impetrano agl’imperatori “vita lunga, sicurezza nell’imperio e nella casa, gli eserciti forti, il senato fedele, tutto il dominio quieto e quanto altro è ne’ loro voti„[25]; pregano “per i re e i principi e per tutti quanti esercitano poteri pubblici, acciò tutto proceda tranquillamente„[26] “perchè la condizione temporale presente sia conservata, le cose tutte restino quiete, la fine del mondo sia ritardata„[27]; e l’una cosa parea connessa all’altra, perchè il mondo dovea finire col finire dell’Impero[28]. Aggiunge anche l’apologèta un argomento destinato appresso ad avere uno sviluppo ed un’applicazione sempre maggiori[29]. “Noi crediamo di sentire negl’imperatori il giudizio di Dio, che li prepose a’ popoli: sappiamo che in loro è quel che Dio li volle, e vogliamo che sia in vigore quel che Dio volle, e abbiamo ciò per obbligo sacro„.
Vedendo questi Cristiani con l’occhio così rivolto verso il cielo, non estranei nella pratica, ma estranei nell’intenzione alla vita, con la tendenza e con la necessità anche sinceramente sentita di non convertire il movimento religioso in un movimento politico, come si potrebbe aspettare che il Cristianesimo progrediente si proponesse di scalzare il fondamento della schiavitù? Per ammettere soltanto che il movimento cristiano tendesse all’abolizione della schiavitù, occorrerebbe anche ritenere [14] che si accompagnasse ad esso una visione, se non chiara, almeno embrionale di una diversa forma di produzione, di una diversa maniera di sopperire a’ bisogni della vita ed uno sforzo per trasformare in quel senso l’ordinamento sociale. Ora il vero è che di ciò non si trova, nè si saprebbe trovar traccia. E, del resto, il servaggio e il salariato, anche quando avessero potuto essere, ciò che non è, previsti e concepiti in anticipazione, più o meno nettamente, sarebbero dovuti sembrare, essi stessi, poco conciliabili collo spirito cristiano, se guardati da un punto di vista puramente economico, e avrebbero dovuto apparire invece come un mutamento di poca o nessuna importanza, quando un vero senso di fratellanza e di carità sembrava da solo sufficiente a modificare i rapporti de’ padroni con gli schiavi. L’ideale di una società di poveri, contenti di poco e viventi del lavoro delle loro mani, avea potuto per un momento inspirare l’indirizzo di qualche setta o di qualche ristretta conventicola in Palestina, ma urtava ora e si dissolveva contro la vastità della società greco-romana e la forma complessa de’ suoi bisogni e della sua civiltà. Lo stato di povertà dovea cominciare ad entrare, come fu più perspicuo di poi, piuttosto tra i consilia che tra i praecepta evangelica; e, dove riesciva più a diffondersi e ad essere accettato, finiva col ribadire piuttosto che minare la schiavitù, impedendo o rallentando quell’accumulazione della ricchezza, che dovea condurre alla fine della schiavitù col mettere di fronte il capitale e il proletariato, facendone al tempo stesso due avversari e due cooperatori, e dando così vita al salariato e all’economia da esso caratterizzata.
Noi commettiamo pure un anacronismo riferendo ad altri tempi quell’orrore della schiavitù, che è sorto e si è sviluppato ne’ paesi di civiltà capitalistica dopo che la schiavitù è divenuta una forma economica oltrepassata. Chi vivea in paesi e in tempi, in cui la schiavitù costituiva ancora un istrumento generale ed indispensabile della produzione; costui, anche quando ne negava il fondamento naturale, ne ammetteva la [15] necessità economica e la base giuridica di diritto civile; e potea pure, come Seneca, consigliare verso i servi la maggiore umanità e carità, ma non diveniva perciò, come si direbbe con parola moderna, un abolizionista. Infatti la ripetizione costante ed obbligatoria di certi atti, la vista ripetuta ed ordinaria di certe condizioni di fatto suscita in noi analoghi stati d’animo e sentimenti correlativi, che perciò appunto possono considerarsi come un mediato e remoto effetto del modo di produzione della vita materiale. L’ambiente, in mezzo a cui si svolge la nostra vita, diviene così la condizione costante de’ nostri atti e delle nostre abitudini più frequenti e comuni, e mutano soltanto col modificarsi e col trasformarsi di quello.
Probabilmente nessuno troverà che, ricorrendo agli apologeti, si abbia a fare con persone di fede tepida o poco pura, con uomini vissuti in tempo in cui non fosse vivo il rigoglio della fede; eppure ecco qui vari apologeti che, all’occasione, enunciano come un fatto ordinario, senza dissimulare e senza nessuno sforzo di sincerità, anzi senza pure farvi attenzione, che essi stessi posseggono schiavi. “Anche noi abbiamo servi„ dice Atenagora[30]; e Giustino[31] parla de’ servi domestici (οἰκέτας) tratti a testimoniare su’ pretesi delitti de’ cristiani. Taziano anzi, eccitando a sopportare la schiavitù, ne trova l’origine e la giustificazione nel peccato originale[32]. Tertulliano parla più volte de’ domestici, e per farne un quadro poco favorevole, dipingendoli animati da sorda avversione verso i cristiani, pronti a calunniarli, disposti ad accusarli[33].
E la cosa non farà così grande meraviglia a chi si figuri questi cristiani, non come tipi astratti assolutamente straniati dal mondo, ma come persone costrette a rimanere in mezzo alla società, partecipandone alle vicende giornaliere e sentendo, nelle [16] idee e ne’ sentimenti modificati o smussati, il riflesso della vita di ogni giorno. Giustino[34] teneva a rilevare che “i cristiani non si distinguono nè per patria, nè per linguaggio, nè per costumanze dagli altri uomini, nè abitano particolari città, o si servono di uno speciale dialetto o menano una vita fuor dell’ordinario„. Con più forza ancora insisteva su questo concetto Tertulliano[35] respingendo l’accusa di quelli che li chiamavano “infructuosi„, e tenendo a disdire ogni simiglianza con i bramani, i gimnosofisti indiani e i sylvicolae e gli exules vitae. “Abitiamo qui con voi sulla terra — egli diceva — durante questa nostra vita e usiamo de’ tribunali, del macello, de’ bagni, delle botteghe, delle officine, delle dimore, de’ mercati vostri e di tutti gli altri commerci: navighiamo anche noi insieme a voi, e con voi militiamo e attendiamo all’agricoltura e facciamo gli scambi.......„ Atenagora, esaltando la longanimità e l’abnegazione de’ cristiani, giungeva a dire che “battuti non ripicchiavano, derubati non ricorrevano in giudizio, davano a chi chiedeva ed amavano il prossimo come se stessi„[36], ma non pensava punto a dire che facessero a meno di schiavi, anzi poco appresso affermava il contrario.
Ammessa e mantenuta l’istituzione, i consigli di pazienza e di benevolenza, dati rispettivamente a’ servi ed a’ padroni, non avrebbero dovuto fare che sorreggerla e perpetuarla, scongiurando quelle ribellioni, che, pur esse, col concorrere a renderla molesta, scalzavano la schiavitù; ma, nella pratica della vita, i reciproci rapporti erano regolati più dalla diversa natura de’ temperamenti e dalla forza delle cose che non da precetti astratti; e, per esempio, nell’episodio di Carpoforo e Callisto, padrone e schiavo, entrambi cristiani e forse de’ migliori, abbiamo un esempio di persecuzione lunga, ostinata, implacabile, sia pure comprensibile, del padrone contro lo schiavo[37].
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Nel largo e profondo movimento di elaborazione e diffusione del Cristianesimo, non mancavano, è vero, sette ed eresie tendenti a spingere sino alle più remote loro conseguenze alcuni principi della nuova religione. La vista di alcuni di questi pietisti, viventi di una vita inerte e segregata, avea suggerito l’epiteto d’infructuosi, contro cui si ribellava Tertulliano. L’eresia carpocraziana si affermava nettamente comunista. Epifane[38] definiva la giustizia di Dio un “comunismo egualitario (κοινωνίαν τινὰ εἶναι μετ’ ἰσότητος) giacchè Iddio nel compartire il massimo de’ beni, la luce, “non distingue il ricco ed il povero, il reggitore del popolo, il saggio, l’insipiente, le femmine, i maschi, i liberi, gli schiavi„. Le leggi particolari sciolsero il comunismo della legge divina, onde l’apostolo ebbe a dire: Per la legge conobbi il peccato. “Il mio e il tuo subentrarono con le leggi, così che non furono più comuni nè la terra, nè i beni, nè l’amore; e Iddio fece comuni le viti, che non ricusano il loro frutto nè al passero, nè al ladro, e il frumento e tutti gli altri prodotti. La distruzione del comunismo e dell’uguaglianza per opera delle leggi creò il ladro de’ frutti e delle greggi„.
Ma questo limitato movimento di eresie consequenziarie e pel loro tempo semplicemente utopistiche, lungi dal diffondersi e radicarsi in un ambiente non omogeneo, conduceva sempre più il movimento cristiano a costituirsi sotto forma di chiesa gerarchicamente ordinata e sempre più accentrata, respingendo, come felicemente dice il Renan[39], al tempo stesso, i raffinati del dogma e i raffinati della santità. “Gli eccessi di quelli che sognavano una Chiesa spirituale, una perfezione trascendente, venivano a rompersi contro il buon senso della Chiesa ufficiale. Le masse già considerevoli, che entravano nella Chiesa, ne costituivano la maggioranza e ne abbassavano la temperatura morale al livello del possibile„.
[18]
Così quella tendenza, che per bocca degli apologèti mirava a vincere la diffidenza degl’interessi materiali, dimostrando l’innocuità del nuovo movimento religioso e la sua compatibilità con la società greco-romana; che, maggiormente accentuata, faceva presentare da Melitone la nuova fede all’Imperatore come un’alleata[40]; menava sempre più a fare della Chiesa quello che sarebbe stata poi: uno Stato nello Stato, un potere tra gli altri poteri costituiti, che poggia sullo stesso sostrato economico e vive della stessa vita economica degli altri poteri, lottando con essi o contro di essi, ma sempre per l’egemonia, ora emulo e rivale, ora alleato.
Da questo punto, sotto la pressione continua della necessità d’adattamento all’ambiente economico-sociale, il primitivo profumo di schietta carità evangelica va sempre più svanendo, mentre la semplicità e la purezza della fede cristiana restano sempre più oppresse ed alterate per l’elaborazione teologica dottrinale e l’infiltrazione della liturgia, della superstizione e del mito pagano. Del pari, il sentimento di fratellanza cede sempre più il terreno di fronte all’esigenze della organizzazione economica e legale della società, accettata ed usufruita, e di cui anzi la gerarchia ecclesiastica tende a divenire sempre più una struttura parassitaria.
Formalmente depositaria e continuatrice della tradizione evangelica, in realtà, la Chiesa non è altro che l’istrumento di fusione del mondo greco-romano con la tradizione evangelica, che in quella combinazione si scolorisce e più spesso ancora si falsa o si disperde. Per la specificazione del lavoro e delle funzioni, l’esercizio del culto e il ministero della fede, sempre più complessi nelle forme e più irti di formule e di sottili disquisizioni teologiche, diventano una professione, che stacca e separa i ministri della religione da quegli strati più umili della società[41], dal cui seno si erano elevati e di cui facevano parte. La necessità di alimentare e sostenere la gerarchia, le esigenze della tutela e della guerra fanno della Chiesa e de’ suoi membri de’ [19] proprietari, de’ guerrieri, de’ principi, che vivono e governano e combattono come tutti gli altri principi, guerrieri e proprietari, con le norme e con i sentimenti generati e imposti dallo stadio economico, che la società attraversa, e dalla forma legale che in conseguenza di esso ha dovuto assumere.
Qual maraviglia allora, se, nell’ordine teorico e nel pratico, la Chiesa e l’ambiente cristiano sanzionano e perpetuano sia la schiavitù, sia l’altra forma, che si viene ad essa sostituendo in alcuni rami della produzione, il servaggio?
Quelli che, a scopo di polemica, hanno voluto mettere la mano nella storia civile ed ecclesiastica, particolarmente in quella de’ Concili, per rinfacciare il passato alla Chiesa, improvvidamente rivendicante il merito dell’abolizione della schiavitù, hanno avuto un compito ben facile, senz’altro imbarazzo che quello della scelta[42].
Tra i tanti, o citati, o che si possono citare, è notevole il Concilio di Gangra del 324, per uno de’ cui canoni “se qualcuno, sotto il pretesto di pietà religiosa, insegnava allo schiavo ad avere in non cale il padrone, o a sottrarsi al servizio e a non servire con benevola disposizione e con ogni amore, s’invocava l’anàtema su lui„[43].
La cosa più notevole, anzi, in questi canoni è l’inconscienza perfetta, con cui si tratta degli schiavi e de’ servi, come di esseri, il cui stato non abbia in sè nulla d’inumano e di anormale. Vescovi ed arcidiaconi sono chiamati a presenziare le vendite degli schiavi[44]. L’uccisione del servo si sconta con la [20] scomunica di due anni, o con la penitenza, che va da’ due a’ cinque e a’ sette anni, al più[45]. Altre volte un motivo religioso non fa che creare nuove cause di schiavitù e nuovi schiavi, sia che la schiavitù venga minacciata come pena agl’infedeli, sia che s’irroghi alle donne viventi in illecito connubio con gli ecclesiastici e, quel che è più, a’ figliuoli nati da tale unione[46].
Le incapacità de’ servi vengono sancite, o ribadite[47]. Le stesse restrizioni imposte al libero commercio degli schiavi, col solo scopo d’impedire la vendita de’ servi cristiani ad Ebrei ed a Pagani, non fanno che meglio ribadire e rifermare la legittimità del possesso di Cristiani da parte di Cristiani[48]. Il diritto di asilo delle chiese e de’ luoghi sacri viene a grado a grado limitato rapporto a’ servi, che vengono restituiti a’ padroni sotto promessa d’intera o parziale impunità, promessa del resto non di rado violata[49].
La Chiesa estendeva la sua azione, rendeva più salda la sua compagine, affermava meglio il suo potere tra il decadere di alcune potestà civili e il sorgere di altre, accrescendo nella stessa misura i suoi beni e con essi i suoi servi e i suoi schiavi, menzionati, ad ogni passo, nelle donazioni e ne’ lasciti fatti ad essa[50]; e, quanto più s’ingolfava e si cointeressava nella vita economica del suo tempo, s’immedesimava pure con le sue norme e i suoi criteri, dando ad essi il suggello della sua ricognizione canonica. Nelle epigrafi cristiane, così semplici e così scevre di allusioni alla vita temporale, accade pure qualche volta, ad epoca inoltrata, di trovarvi la traccia del possesso di schiavi, con un [21] accenno, a titolo di lode speciale, (tanto forse un siffatto merito era poco frequente) alla benignità mostrata verso di loro (famulisque benignus, mancipiis benigna, blandus servis)[51].
E, come ogni stato sociale dà luogo ad una teoria che lo spiega e lo giustifica, così il pensiero cristiano, ora ricongiungendosi più o meno consapevolmente, più o meno visibilmente, ad Aristotile, ora dominato dalla preoccupazione delle necessità, imposte dalla contemporanea vita sociale, e dalla preoccupazione di risolvere la contraddizione tra lo stato di fatto e l’idea della giustizia divina, legittima anch’esso la schiavitù, dandole una base razionale.
Agostino, come già innanzi Taziano, trova la remota causa della schiavitù nel peccato e, storicamente, vede in essa una conseguenza delle guerre. La sua teodicea poi, da un lato, e dall’altro la fusione del pensiero pagano e cristiano gli fanno vedere nell’obbedienza illimitata, quale è prescritta dalle lettere apostoliche, un modo di purgare il peccato, e gli fanno concepire la schiavitù come un instituto di protezione e di direzione, reminiscenza ed elaborazione della teoria aristotelica della schiavitù[52]. Questo eccitamento all’obbedienza, sentita e devota, è quindi una conseguenza diretta del suo modo di considerare la servitù; ed alla religione cristiana, pel modo onde permette di considerare la schiavitù e per averla così ribattezzata, debbono, secondo lui, essere grati schiavi e padroni; gli uni, perchè vi trovano un mezzo di elevazione spirituale, gli altri anche perchè essa induce così un principio di ordine nelle loro case e dissuade dalla rivolta[53].
In Tommaso d’Aquino la teoria aristotelica della schiavitù riceve una nuova affermazione e, attraverso una serie di distinzioni e di deduzioni, l’istituzione è ricondotta a un certo suo speciale fondamento di ragione.
De’ modi di modificare la legge naturale per addizione, che [22] non viola il diritto di natura, o per sottrazione, che conduce ad una conseguenza contraria, l’introduzione e il mantenimento della servitù rientrerebbero nella prima categoria “..... La distinzione de’ possessi e la servitù non sono state indotte dalla natura, ma dalla ragione umana per utilità della vita umana, e così anche in questo la legge di natura non è mutata che per addizione„[54].
Per più lunga via il Doctor Angelicus viene altrove alla stessa conclusione, guardando al diritto naturale, in quanto riflette i rapporti delle cose considerate in sè stesse, o nella loro reciproca convenienza. “In un primo modo [qualche cosa è messa in rapporto con un’altra] secondo la considerazione assoluta della cosa stessa: così il maschio per ragione sua propria è messo in rapporto con la femina, talchè generi da lei, e il padre con il figlio, così che l’alimenti; in un secondo modo, qualche cosa è naturalmente commisurata ad un’altra, non per ragione sua propria assoluta, ma secondo qualcosa che ne consegue: per esempio la proprietà de’ fondi. Se si considera un campo assolutamente, non vi è ragione per cui sia di quello piuttosto che di questo; ma, se si considera in rapporto all’opportunità della coltura ed al pacifico suo uso, ha una certa ragione di rapporto, perchè sia di uno piuttosto che di un altro, come è dimostrato dal filosofo nel libro secondo della Politica (cap. 3). L’apprensione assoluta di qualche cosa non solo conviene all’uomo, ma anche agli altri animali, e però il diritto, che si dice naturale, secondo la prima maniera, è comune a noi e agli altri animali. Ma dal diritto naturale si distingue il diritto delle genti, come dice il giureconsulto (lib. I, Dig., de just. et jure), perchè quello è comune a tutti gli animali, questo solo agli uomini ne’ comuni loro rapporti. Considerare ora qualche cosa, riferendola a ciò che ne consegue, è proprio della ragione, e per ciò stesso è, per l’uomo, naturale secondo la ragione naturale che la detta; onde dice il giureconsulto Gaio che la ragione naturale ha stabilito tra gli uomini quanto si conserva (lib. 9, ff. cod.) ugualmente da tutti e si chiama diritto [23] delle genti. Con ciò è chiarita la risposta alla prima questione. — Rispondendo alla seconda, giacchè, considerando in via assoluta, non v’è ragione naturale che costui sia servo piuttosto che un altro, ma solo secondo qualche utilità che ne deriva, in quanto è utile a costui l’essere retto da uno più sapiente di lui e all’altro di trarne vantaggio, come, si dice nel 1º lib. della Politica (cap. 6), ne viene che la servitù spettante al diritto delle genti è naturale nella seconda e non nella prima maniera„[55].
E questo riconoscimento e questa legittimazione della schiavitù si trasmettono tradizionalmente attraverso gli scrittori, specialmente cattolici, sino ne’ meno lontani trattati di teologia e ne’ catechismi, intesi a divulgare e rendere più popolare la dottrina[56]. E quanto più la schiavitù si limitava a razze inferiori e a popolazioni non cristiane, tanto più il concetto della sua legittimità ne avea aiuto, e cresceva per l’illusione di salvare delle anime, elevandole alla vera religione[57].
Si è detto, è vero, che il sentimento religioso cristiano avrebbe concorso all’abolizione della schiavitù anche con le numerose manumissioni, di cui direttamente e indirettamente sarebbe stato causa[58].
Ma anche qui giova intendersi. Seguendo la storia de’ concili e del diritto ecclesiastico, non si può non restare colpiti dagl’inciampi, dalle restrizioni e da’ divieti imposti e rinnovati alle manumissioni de’ servi di proprietà ecclesiastica. Per tacer d’altri[59], è noto il canone del Concilio di Epaôn[60] che vuole “non sia lecito all’abate manomettere gli schiavi donati a’ [24] monaci; giacchè troviamo ingiusto che, mentre i monaci debbono quotidianamente attendere al lavoro campestre, i loro servi se ne stiano in ozio„. Tutte le cautele ordinate allo scopo d’impedire le distrazioni e il baratto della proprietà ecclesiastica rendevano, per sè sole, più difficili e rare tali manumissioni; sicchè anche uno scrittore non sospetto, come il Muratori[61], ha potuto dire che “son rare le manumissioni fatte dalle chiese e da’ monasteri dell’uno e dell’altro sesso, non per altra causa, a quanto sembra, se non perchè la manumissione è una specie di alienazione, ed era interdetto di alienare i beni ecclesiastici, non solo da recenti ma anche da antichi decreti de’ Concili„.
Guardando in ogni modo a varie delle manumissioni, fatte anche da ecclesiastici, accade di vedere indicato come motivo della manumissione una ragione utilitaria chiaramente espressa dalle frasi “Nostra quoque plurimum interesse„ “attendentes multimoda commoditatum genera„ “attendentes utilitatem nostram„. “Le terre che ora sono deserte ed incolte — dice l’arcivescovo di Besançon — saranno, dopo le affrancazioni, messe a coltura, arricchite di piantagioni e di edifici, in guisa che anche le rendite de’ padroni dovranno moltiplicarsi ed aumentare„[62].
In altri casi, è vero ed è attestato da documenti, le manumissioni avvengono per motivo religioso, per la salute dell’anima; ma, per quante siano queste manumissioni, non saranno mai tante, quante ce ne provano e ce ne lasciano supporre le iscrizioni a noi pervenute del muro di Delfo[63] e la storia romana degli ultimi secoli e le relative restrizioni legislative; eppure non si sarà molto facilmente disposti a mettere anche il santuario [25] di Delfo tra i coefficienti dell’abolizione della schiavitù. Vedremo appresso che le manumissioni possono considerarsi piuttosto come un indizio ed un effetto, che non come una causa della decadenza dell’economia a schiavi; reagiscono su questa, solo in quanto concorrono a ingrossare quel proletariato, il cui sviluppo è condizione alla fine della schiavitù. Ma quando l’economia a schiavi non ha perduta ancora la sua ragion di essere, e non si sono prodotte ancora le condizioni dell’economia, che ad essa si sostituisce; le manumissioni non fanno che svecchiare e rinnovare la massa degli schiavi, senza intaccare la instituzione: son pari all’opera di chi sfronda e pota una pianta senza toccare le radici e neanche il tronco, che perciò metterà presto nuovi e più vigorosi germogli.
Intanto, è noto, come, agli occhi de’ più, le ideologie, lungi dall’essere, anch’esse, una conseguenza più o meno remota ed un prodotto più o meno mediato dell’ambiente artificiale economico, che gli uomini progressivamente son venuti formando e trasformando, sono invece la causa e la ragione, il principio dinamico, insomma, delle trasformazioni sociali. A quelli, che guardavano la storia anche da questo punto di vista, non potea sfuggire come, indipendentemente dal movimento cristiano, la natura umana era già stata riconosciuta e rivendicata nello schiavo, il fondamento naturale della servitù era stato già scosso e poi demolito. Poichè era sorta l’idea del cosmopolitismo e si era andato formando un più generale ed elevato concetto della consociazione umana e della persona umana, si era venuto ad inculcare, direttamente e indirettamente, non meno che nel Cristianesimo, un trattamento umano degli schiavi.
Già Euripide[64] avea detto che “in molti schiavi non vi è di brutto che il nome, mentre l’animo è più libero che non sia quello de’ non asserviti„, e Filemone[65] avea detto nella maniera [26] più esplicita che “se anche taluno è schiavo, è pur uomo non meno del suo padrone„. Lasciando stare Terenzio[66], da cui la generica qualità d’uomo era evocata pure in un verso, tratto poi ad assai più largo significato di quello ch’ebbe in realtà; non si può leggere, senza averne la più viva impressione, la lettera, con la quale Seneca[67], che riassumeva e sviluppava il pensiero stoico, esprime, anche più chiaramente che altrove, il suo concetto e il suo sentimento intorno agli schiavi: “Son servi; son bene uomini; son servi; anzi camerati; son servi, anzi umili amici; son servi, anzi consorti della nostra servitù, se vorrai solo considerare per un momento quale potere abbia la fortuna verso noi e verso loro. Perciò rido di costoro che hanno a vergogna lo stare a cena con i servi.....„. “Vuoi tu riflettere come questo, che tu chiami tuo servo, ha la medesima tua origine, sta sotto il medesimo cielo e respira, vive, muore come gli altri? Tanto tu puoi allora vederlo libero, come a lui è dato poterti vedere servo„..... “Questo è il riassunto de’ miei precetti. Vivi con l’inferiore come vorresti che un tuo superiore vivesse con te. Tutte le volte che potrai pensare a quello che ti è permesso verso il tuo schiavo, ti venga in mente che altrettanto dev’essere lecito al tuo padrone..... Vivi col servo con animo clemente, più ancora, amichevolmente, e conversa con lui e con lui consigliati e chiamalo alla tua mensa„.
È difficile concepire, tanto più se si guarda al tempo e all’ambiente in cui furono scritte, parole più elevate ed umane; e non era punto difficile che di esse e della tradizione filosofica, da cui emanavano, si vedesse un riflesso ed un effetto diretto nel punto di vista teorico, da cui omai i giureconsulti romani guardavano la schiavitù; che ad esse si rannodassero le disposizioni che mitigavano e disciplinavano la condizione de’ servi, [27] e che allo stesso impulso di pensiero si riportasse per una serie di gradi il lento sparire della schiavitù[68].
Pure, chi rifletta, comincerà a dubitare fortemente dell’efficacia delle parole di Seneca e degli stoici, quando veda, senza andar fuori della stessa lettera citata, come quelle parole si perdessero inascoltate, e consideri come quel movimento di pensiero non uscisse da una breve cerchia di persone e si andasse sempre più, da un lato, attenuando e, dall’altro, mostrando impotente contro il mondo che voleva modificare. Se ne persuaderà ancor meno, considerando da quali principi movesse la filosofia stoica ed a qual fine intendesse[69].
Socrate, di fronte all’impotenza delle scienze fisiche a risolvere i problemi della filosofia, ne avea cercato in sè stesso una più soddisfacente risposta, spostando l’oggetto dell’indagine dal mondo esterno nel mondo interiore. La filosofia platonica e l’aristotelica si erano mostrate impotenti a risolvere nel campo delle istituzioni politiche i problemi della vita pratica e a realizzare nell’ambito dello Stato il compimento del dovere e del benessere umano; mentre gli Stati, che aveano costituito il sostrato o il modello della speculazione platonica ed aristotelica, decadevano e ruinavano, esauriti, sotto l’incalzare degli avvenimenti e di esigenze più vaste. La filosofia stoica, con un proposito eminentemente pratico, sorgeva per risolvere, fuori e indipendentemente dalla politica, il problema morale, ponendo termine al dualismo e al contrasto platonico e aristotelico tra mondo interiore ed esterno, tra il pensiero e la realtà, col dare la prevalenza all’elemento razionale e col cercare nell’equilibrio dello spirito e nella conformità dell’azione individuale all’ordine razionale quel benessere e quella regola della vita, che inutilmente erano stati chiesti ed ora non si potevano neppur più chiedere ad uno o ad un altro ordinamento politico.
La base eminentemente subbiettiva della morale stoica e il [28] contrasto con la realtà della vita, che, disconosciuta, reagiva e rivendicava tutti i suoi diritti, hanno fatto sì che la filosofia stoica, secondo i diversi tempi e i diversi suoi seguaci, si presentasse talvolta sotto parvenze un po’ discrepanti; rasentando talora la dottrina e l’atteggiamento de’ cinici e tal’altra inclinando ad un mal dissimulato opportunismo; ora predicando l’astensione dalla vita politica, ora accettando di parteciparvi; ora guardando alla vita dall’alto, quasi con olimpico dispregio, or fecondando con un senso di benevolenza, che diveniva quasi pietà e filantropia, il suo cosmopolitismo teorico[70]. Ma, attraverso tutte queste varietà accidentali e queste attenuazioni, rimane sempre, come fondo della dottrina, che la sapienza e la felicità della vita consistono nell’emanciparsi, nella forma più assoluta, dal mondo esteriore e dagli affetti, intesi in maniera ora più larga ora più stretta, come quelli che attestano appunto l’azione del mondo esterno su noi. Riporre l’ideale della vita in ciò che dipende esclusivamente ed assolutamente da noi (τὰ ἐφ’ ἡμῖν); e, rispetto a ciò che è fuori di noi (τὰ οὐκ ἐφ’ ἡμῖν) che da noi non dipende, che che esso si sia[71] — ricchezza, salute, figliuoli, oppressione, lusinga — adottare il supremo rimedio della tolleranza e della rinunzia (ἀνέχου καὶ ἀπέχου), mantenendo ad ogni costo la serenità dell’animo (ἀπαθία)[72]: ecco i criteri fondamentali e le regole di condotta della scuola stoica[73].
Secondo la bella immagine di M. Aurelio[74], la vita dovea essere pari a “quella fonte limpida e dolce che, offesa a parole da chi le sta accanto, non cessa dal versare la sua acqua dolce: infangata ed insozzata, subito disperde ed elimina la bruttura e non ne resta punto maculata„.
Un’azione diretta quindi a modificare legalmente l’istituzione della schiavitù, o ad abolirla, è fuori dell’orizzonte della filosofia stoica; anzi implica una palese contraddizione alla sua dottrina, [29] perchè avrebbe fatto dipendere da un diverso rapporto esteriore degli uomini e delle cose, da qualche cosa di mutevole ed accidentale, quello che occorreva chiedere soltanto ad una disciplina tutta interiore della propria anima.
“Fa quel che la natura comanda — diceva M. Aurelio —; opera se ti sia dato, e non curarti se qualcuno lo saprà, nè sperare la repubblica di Platone„[75].
L’utopia politica era così eliminata e resa inutile dall’utopia morale.
E Seneca scrivea tutta una lettera[76] per contraddire chi diceva che i cultori della filosofia fossero orgogliosi e ricalcitranti e dispregiatori de’ magistrati e de’ re e di quelli da cui si amministrava lo Stato. “Quell’uomo puro e sincero — egli diceva — che si appartò dal foro, dalla curia e da ogni amministrazione dello Stato, per ritrarsi nella cura di cose maggiori, ama quelli per opera de’ quali gli è lecito di far ciò, e da solo attesta loro la sua gratitudine, e si professa obbligato ad essi che non lo sanno neppure„.
Di una emancipazione civile degli schiavi non si trova accenno negli stoici, al pari che negli altri loro contemporanei: era infatti fuori l’orizzonte economico e giuridico di tutti, e per gli stoici, si aggiunga, era fuori l’ambito della loro attività.
Seneca possiede servi, e quanti! Trova anzi ragione di ammirarsi e di compiacersi, quando un improvviso incidente di viaggio gli mostra che possono bastargliene anche meno[77]. Perfino Diogene il Cinico, la cui filosofia rappresenta come l’iperbole dello stoicismo, ne avea uno[78].
Schiavitù e libertà (δουλεία καὶ ἐλευθερία) hanno negli stoici un significato tutto diverso da quello che si usava attribuire a queste parole nell’uso generale e nel linguaggio tecnico giuridico.
La libertà, per gli stoici, consiste nel fatto che la volontà non è determinata dal mondo esteriore, ma, pur sotto l’azione degli agenti esterni, dalla sua propria natura[79].
[30]
“Libertà e schiavitù — dice Epitetto[80] — una è il nome della virtù e l’altra del vizio, entrambe creature delle volontà. Chi non partecipa di questa, non conosce nè l’una nè l’altra. L’anima è usa a comandare al corpo e a quelle cose che concernono il corpo e non partecipano dell’elemento razionale. Quindi nessuno è schiavo, se lo spirito rimane libero„.
E altrove: “La fortuna è una trista catena del corpo e il vizio è altrettale dell’anima. Chi ha il corpo libero e l’animo in ceppi, è schiavo; chi, invece, ha il corpo legato e l’animo sciolto, è libero„[81].
“Ciò che turba gli uomini — aggiungeva lo stesso Epitetto[82] — non sono le cose, ma il punto di vista da cui essi considerano le cose„. Coerentemente a questo principio, egli potea dire alla divinità, in cui s’immedesimavano la sua ragione e la ragione universale, con un linguaggio che richiama quello posteriore degli apologèti cristiani: “Menami dove vuoi; cingimi la veste che vuoi. Vuoi che io governi, che viva da privato, che resti, che fugga, che viva in povertà o nella ricchezza? Io di ognuna di queste cose ti loderò presso gli uomini: io mostrerò quale è la vera natura di ognuna di queste cose„[83].
La dissertazione sulla libertà[84] è tutta una minuta, insistente e, volta a volta, paradossale contraddizione del concetto comune e di quello civile della libertà, mostrando, in diverso ordine di rapporti, come usurpi il nome di libero il console e il patrizio, l’usurpi l’amante, e come invece libero sia chi, a qualunque stato appartenga, ha talmente disciplinato l’animo da saper tutto sopportare senza lasciarsi vincere dal dolore, e che può a tutto rinunziare senza lasciarsi trascinare dalla passione: tetragono a qualunque perdita, sia pur quella dell’integrità corporale e della salute, sia pur quella delle persone più care (Diss., 4, 1, 111 sgg).
M. Aurelio prende spesse volte in prestito le sue immagini [31] dal mondo inorganico[85] per proporle come modello allo stoico; e in verità lo stoicismo, per voler troppo sollevare lo spirito, finiva per concepirlo come qualche cosa d’inorganico.
Così questa filosofia stoica, che era sorta con un carattere pretensiosamente pratico, ora, per un’intima elaborazione, e di deduzione in deduzione, finiva in una astratta speculazione ed in una eccentricità sociale, contraddicendo e contraddetta alla sua volta dalla realtà, smentendo e facendosi smentire alla sua volta dalla società, in mezzo a cui era bandita.
Anche chi non creda alla tradizione più sfavorevole a Seneca[86] e non si lasci impressionare dall’ombra fosca ch’essa vorrebbe proiettare su lui, troverà un curioso ed interessante oggetto di studio, vedendo, nelle stesse opere di Seneca, la teoria smentita dalla pratica, le concessioni e le distinzioni insinuate nella stessa salda compagine de’ principî dalla necessità delle cose. Come dà a pensare il vedere questo sapiente, che predica il dispregio delle apparenze, vergognarsi della rustica vettura, che un accidente di viaggio lo costringe a prendere![87] Come si resta colpiti dal sentirgli dire che non bisogna perdere la calma dello spirito per nulla[88], e vederlo intanto a spargere querimonie sul suo esilio in Sardegna[89], lui che pure dirà altrove che ogni luogo è patria al sapiente[90]. E che effetto fa il sentirgli negare il diritto di commuoversi per qualsiasi male[91] e il sentirgli confessare di aver pianto[92] e il vederlo a ingrandire i piccoli pericoli[93], schivare le grandi difficoltà della vita, adulare![94].
[32]
Così la filosofia stoica, anch’essa, mostrava la sua impotenza a rinnovare le condizioni della vita con un mezzo ed in un campo esclusivamente spirituali.
Distinta dal Cristianesimo per varie e fondamentali discrepanze[95], avea nondimeno con esso molti punti di contatto. L’una e l’altro spostavano il centro di gravità della vita, l’una nella vita interiore dello spirito, l’altro in cielo. Entrambi rinunciavano alla lotta, talora appartandosi dal campo delle sofferenze umane, tal’altra portandovi — l’una meno e l’altro più — una voce consolatrice; e tutti, ignari del loro tempo e dell’avvenire, rinunziavano, in teoria, ad ogni efficace sforzo per mutare le condizioni della passeggiera vita presente e, in pratica, finivano col soggiacere alla tirannia del mondo esterno, alla forza degli eventi e alla necessità delle cose, malamente e imprudentemente rinnegate.
La setta filosofica, più rigida; più ragionatrice, più schematica, perdeva le ragioni della vita e s’isteriliva rimpetto alla setta religiosa, che, sviluppando tutto il suo contenuto fantastico e affettivo, si diffondeva seducendo le immaginazioni, e si consolidava ricorrendo a tutte le inconseguenze del sentimento e assimilandosi al tempo stesso l’ordine sociale esistente per farne il sostrato della sua gerarchia.
Intanto il mondo procedeva, e potea parere anche che gli rivelasse una nuova coscienza chi non facea che raccoglierne l’eco dispersa. Dire che la più elevata morale umana e il cosmopolitismo, che trovavano una espressione nella scuola stoica, avessero in questa la loro origine e per essa soltanto entrassero nel campo della civiltà; potrebbe fors’anche equivalere al dire che la terra si muove, perchè qualcuno ne ha dimostrato il moto, e non già che qualcuno ne ha dimostrato il moto, perchè essa si muove. In verità può forse essere più rispondente alla realtà il pensare che la nuova morale umana e il cosmopolitismo si svolgessero naturalmente da’ nuovi rapporti di vita creati dall’attività multiforme, feconda, diffusa dell’epoca ellenistica e [33] nell’ambito dello stato universale, in cui si veniva sempre più trasformando il dominio romano.
Il mondo procedeva e, senza che i contemporanei, strumenti essi stessi della rinnovazione, ne potessero apprezzare gli effetti meno prossimi, veniva creando le condizioni di una nuova forma di produzione, di una nuova organizzazione economica, che si surrogava alla precedente ed eliminava a grado a grado la schiavitù, rendendola non solo inutile, ma facendone un inceppo allo svolgimento economico e morale della società.
Ma, non occorre dimenticarlo, era questa trasformazione obbiettiva del modo di produzione e delle sue condizioni d’essere che eliminava gradualmente la schiavitù, non già l’opinione soggettiva della scarsa utilità sua; opinione, che, in quanto diveniva coscienza individuale o comune, era pur sempre una conseguenza di quel fatto.
Chi dice che la schiavitù venne meno, perchè gli uomini si accorsero di poterle sostituire più utilmente qualche altra cosa, crede di essere agli antipodi di chi attribuisce la fine della schiavitù al formarsi di un nuovo concetto morale della sua legittimità e de’ rapporti tra schiavi e padroni; eppure egli guarda la storia dallo stesso punto di vista. Infatti, non è un diverso rapporto delle nostre condizioni di vita, una metamorfosi dell’economia sociale, ciò che spiega, in ultima istanza, le nostre nuove ideologie, ma son queste invece che inducono la modificazione degli ordini economici e civili? Ebbene, allora i mutamenti sociali possono essere spiegati, tanto con l’azione di idee religiose e morali, quanto con quella di un ragionamento utilitario; e sarebbe un errore psicologico il sostenere che, sempre e in ogni cosa, l’azione è determinata da uno scopo di utilità immediata e materiale. Inoltre, col dire che la schiavitù sarebbe stata eliminata dalla sopravvenuta opinione della sua scarsa utilità, si sposta e si caccia un po’ indietro la questione piuttosto che non la si risolva, e si elude la spiegazione del fenomeno, mettendo innanzi una spiegazione che essa stessa ha bisogno di essere spiegata. Giacchè nessuno potrà fare a meno di chiedersi, perchè mai, e in virtù di qual fatto, sorgesse questo nuovo concetto della funzione della schiavitù, e perchè sorgesse in un periodo della storia piuttosto che in un altro.
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Dunque il sorgere del Cristianesimo e, in genere, le nuove correnti d’idee, la rinnovata coscienza morale e religiosa non valgono a spiegare il tramonto della schiavitù?
E allora dove ne cercheremo la causa?
“Occorre — dicevano Marx ed Engels in un piccolo memorabile scritto — “occorre tanto acume per comprendere che con le condizioni di vita degli uomini, con i loro rapporti sociali, con la base della loro società, mutano anche i loro modi di vedere, i loro concetti, le loro opinioni e, in una parola, anche la loro coscienza?
“Che altro mostra la storia delle idee, se non che la vita, la produzione morale si trasforma col trasformarsi della produzione materiale?
“Si parla d’idee che portano la rivoluzione in una intera società; ma con ciò si esprime solo il fatto che si sono formati gli elementi della nuova società nel seno dell’antica e che, col perire delle vecchie condizioni di vita, tramontano, di pari passo, le vecchie idee„.
L’uomo per provvedere gradatamente a’ suoi bisogni, sempre crescenti, trae profitto dalla natura in mezzo a cui vive; e, ciò facendo, la modifica necessariamente, con azione incessante e progressiva, formando nell’ambiente naturale un ambiente artificiale. Da questo comune sostrato, come da un terreno una flora, germogliano, in forma sempre più complessa, tutte le manifestazioni morali e giuridiche, le quali variano col variare delle condizioni materiali, che ne sono l’occasione e il presupposto. Le leggi, i costumi, le idee, le istituzioni, sono, al tempo stesso, derivazione più o meno remota e mezzo di conservazione della convivenza umana in ogni stadio del suo sviluppo.
L’ambiente artificiale, intanto, la struttura economica, fattura e fattore della società, si trasforma senza interruzione con lo svolgersi e il progredire delle cause stesse che l’hanno prodotto, cioè de’ modi sempre più perfetti e più intensi di usufruire l’ambiente [35] naturale; e così, automaticamente, nel seno stesso del vecchio si creano nuovi ambienti artificiali e nuove strutture economiche e, come conseguenza, nuove forme di vita giuridica e morale.
Le trasformazioni sociali sembrano l’opera consapevole e diretta degli uomini, è, in realtà, ne sono soltanto l’effetto mediato e in parte inconsapevole, perchè la loro origine e la loro causa, più o meno visibili, si debbono cercare nel vario grado raggiunto dagli uomini nell’appropriarsi e utilizzare i mezzi, con cui soddisfano alle loro più immediate esigenze. Nulla va perduto di quanto gli uomini compiono materialmente e moralmente, ma ogni sforzo individuale va a fondersi, come in una grande risultante, nella struttura economica formata nel corso delle generazioni, dalla quale prendono le mosse e sono determinate, in via diretta o indiretta, prossima o lontana, le rivoluzioni politiche e sociali ed anche quelle del pensiero e de’ sentimenti con tutte le conseguenti e varie manifestazioni.
Così tutto nella storia è soggetto, per necessità intrinseca, ad un perenne mutamento, ed ogni forma sociale sviluppa ed alimenta, essa stessa, con i germi di una forma diversa che ne prenderà il posto, il principio della sua dissoluzione.
In ciò consiste il processo dialettico della storia. Esso trova nello svolgimento delle forze produttive la sua ragione d’essere e la causa ultima a noi nota; ha nel grado di sviluppo del modo di produzione e nella forma di produzione il presupposto e la condizione del complesso de’ suoi fenomeni, e si svolge maestosamente attraverso i secoli con manifestazioni diverse di aspetti e di gradi, d’epoca in epoca.
È dunque nella stessa evoluzione economica dell’antichità, che si dovrà cercare la soluzione del problema storico che ci siamo proposto.
Questo saggio intenderebbe appunto a rintracciare storicamente le cause, che determinarono il tramonto della schiavitù nel mondo antico, e la loro genesi, con l’indirizzo che ho esposto e, insieme, con pieno ossequio allo stato obbiettivo de’ fatti.
L’economia antica, considerata nel suo insieme e specialmente nel suo periodo iniziale, ha come precipuo carattere questo: che i mezzi di produzione e la mano d’opera sono riuniti presso la [36] stessa persona, sia che la produzione avvenga individualmente, sia che avvenga per la cooperazione di schiavi; e inoltre il produttore, inizialmente almeno, produce per provvedere ad un suo privato o familiare bisogno e con lo scopo del consumo diretto.
L’economia moderna ci presenta, almeno nella sua forma più rilevante, dissociati i mezzi di produzione e la mano d’opera; e il prodotto ha essenzialmente carattere di merce, non è fatto cioè per provvedere al consumo diretto del produttore.
Lo svolgimento delle forze produttive che da una forma di economia ha sviluppata l’altra e ne spiega l’origine, ha pure eliminata la schiavitù, che, con un evidente e notevole processo dialettico, ha col suo stesso crescere e dilatarsi apparecchiata la sua fine.
La schiavitù, contenuta in limiti modesti ne’ tempi e presso i popoli meno economicamente progrediti, concorse all’iniziale accumulazione della ricchezza; e, per una reciproca azione, l’accumulazione e la schiavitù tendevano insieme a svilupparsi sino a raggiungere il più alto grado compatibile con le condizioni della civiltà antica.
Il capitale, sorto da prima come capitale commerciale[96], si andava in parte convertendo in capitale industriale, in parte, con la sua pressione, dava la spinta al sorgere de’ rudimenti del sistema capitalistico, cioè di un’economia in cui il prodotto non serve più all’uso personale ed immediato del produttore, ha bensì carattere di merce.
Ma, per dirlo con le parole del vecchio Seneca. “le ricchezze sorgono da molte povertà„; e quest’accumulazione primitiva, sopra tutto nel campo dell’economia agricola, avea per effetto diretto l’espropriazione delle masse, la creazione di quel numeroso proletariato, ch’è come la chiave di volta di tutta la storia antica, e i cui bisogni, il cui sostentamento e la cui attitudine ci dànno la spiegazione di tanti degli avvenimenti e del sorgere e del decadere delle istituzioni del mondo antico.
Dato il capitale ed il proletariato, questi due elementi della [37] produzione, questi due cooperatori ed avversari, questi due elementi chiamati a convivere e a contendere tra loro, la schiavitù perdeva la sua ragione d’essere ed era ormai destinata ad essere eliminata come superflua.
In pari tempo, il capitale, non commisurando più la produzione al bisogno ma al suo impiego, tendeva a moltiplicare la produzione, a specificarla e variarla, ad affinare e sviluppare la tecnica; e dovea quindi sentire sempre più l’insufficienza e la scarsa produttività del lavoro servile; che prima, o non era rilevata e sentita, o, sentita, rimaneva indifferente.
Perchè poi questo movimento che conduceva direttamente all’economia capitalistica e all’adozione generale del salariato, approdasse, indugiandovisi, ad una forma intermedia come il servaggio e l’artigianato, è anche cosa che trova la sua spiegazione nelle condizioni del capitale e della massa lavoratrice e nelle particolarità che accompagnarono la caduta dell’impero romano.
Come sarà meglio dimostrato appresso, il crollo dell’Impero e le invasioni barbariche, che ne furono la causa più prossima e più appariscente, esercitarono un’azione violenta e perturbatrice sull’iniziata evoluzione della forma di produzione, e favorirono, come effetto immediato, il regresso verso una forma economica più primitiva e rudimentale, verso il servaggio; ma a torto si considererebbero come le cause determinanti e della fine della schiavitù, che, rósa già da tempo alle radici, sopravvisse alla caduta dell’Impero[97], e della servitù della gleba, che, già prima di quegli eventi, era sorta e si veniva sviluppando sotto l’azione di cause più complesse e continue.
Non in tutti i popoli dell’antichità è possibile seguire il processo evolutivo di cui si è fatto cenno, sì perchè lo sviluppo economico di varî d’essi rimase a lungo rudimentale, e non presenta quindi dal nostro punto di vista interesse, sì perchè non di tutti, anzi di pochi, abbiamo notizie tali, che, pur nella loro incompiutezza, ci permettano di scorgere e d’indurre positivamente le [38] tracce della lotta tra uno ed un altro ordinamento economico. Ma la storia di Atene e la romana ci offrono un utile campo d’indagine e ci consentono di trovare un addentellato alla nostra struttura economica, di cui contengono in sè i germi e simulano anche qualche volta, in qualche punto, le forme.
Il crescere del numero degli schiavi e l’azione che a loro si può attribuire sulla vita economica, la formazione di un proletariato e la sua funzione economica e politica, lo sviluppo del capitale commerciale, la concorrenza del lavoro libero e del lavoro servile, i rudimenti del credito e d’imprese industriali; sono nella storia ateniese come tante pietre miliari del cammino verso una struttura economica diversa da quella fondata sulla schiavitù.
Senonchè, col rapido decadere della importanza politica di Atene, questi fenomeni si alterano, e noi perdiamo anche il modo di seguirli distintamente nelle loro successive vicende. Ma nella storia romana quei fenomeni e quel processo si ripetono in forma più intensa, su di una scala più vasta, con persistenza maggiore, in un assai più lungo giro di tempo; e in questo impero universale, che cerca di accomunare e fondere l’Oriente e l’Occidente e in cui tutto il lavorìo lento e larvato dell’epoca ellenistica porta i suoi frutti nel campo della vita pratica e in quello della vita morale, noi possiamo vedere a poco a poco dissolversi e indi ruinare la vecchia compagine politica, appunto con lo svilupparsi e il grandeggiare delle cause e degli elementi, onde sorgeranno la nuova economia e la nuova civiltà.
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Non è nella guerra, e nemmeno nella violenza in generale, che bisogna cercare l’origine e la causa della schiavitù. La guerra diventa un possente strumento di schiavitù, quando le condizioni sociali, che l’hanno fatta sorgere e progredire, sviluppandosi anch’esse, sviluppano alla loro volta l’istituzione della schiavitù e moltiplicano gli schiavi. Con l’adozione sempre più estesa e progressiva de’ metalli, col convertirsi dell’agricoltura di nomade in fissa, con l’incremento e lo specificarsi de’ mestieri, col sorgere del commercio; con le condizioni insomma, che preparano e apportano la proprietà privata della terra e l’accumulazione della ricchezza e una struttura sociale più varia e distinta da maggiori contrasti, sorge sistematicamente e comincia ad avere sempre maggiore incremento la schiavitù; essa stessa mezzo potente di maggiore accumulazione della ricchezza e di più distinti contrasti sociali[98]. Ed è notevole come, nella varietà delle etimologie, anche la scienza del linguaggio, senza partire da concetti o preconcetti d’ordine economico, ma seguendo l’applicazione puramente tecnica delle sue leggi; se tende, per opera di alcuni suoi cultori, a rifermare l’etimologie che implicano un fatto violento, tende, d’altra parte, per opera d’altri, a ricondurre la varia terminologia, con cui l’antichità indicava i suoi servi, ad un’origine, in cui non predomina [40] punto l’idea della violenza. L’origine di servus a servando, come l’intendevano i giureconsulti latini, non è cosa in cui ci possiamo appagar più, come vi si appagava Agostino d’Ippona[99]; non ci soddisfa più, e, dato il suo rapporto con servare, l’epiteto mette capo forse piuttosto ad una radice, che ha in sè il concetto di una funzione protettrice, o addirittura ad un’altra, che ha in sè il concetto dell’acquistare[100]. E degli altri epiteti comunemente usati per indicare lo schiavo, alcuni (οἰκεύς, οἰκέτης, famulus) indicano chiaramente un semplice rapporto di dipendenza e di appartenenza al gruppo famigliare e a tutto ciò che ne forma il sostrato economico; altri (δοῦλος, δμώς, ἀνδράποδον), contro all’interpretazione di quelli che nella loro etimologia cercavano la traccia di un’appropriazione e di una soggezione violenta, si vanno anche riannodando, mercè un processo dimostrativo più o meno completo, al concetto di casa e di famiglia e ad un semplice rapporto di dipendenza[101].
E questo intimo nesso dell’accumulazione della ricchezza, del modo di produzione e delle relative forme di vita con la schiavitù [41] vera e propria si può scorgere ancora abbastanza distintamente nella stessa incompleta e frammentaria tradizione ellenica. Ferecrate[102] potea rievocare il tempo “in cui nessuno avea schiavi, ma bisognava che esse (le donne) attendessero a tutte le cose della casa. Esse sull’alba macinavano il frumento, sì che il villaggio echeggiava dell’eco del loro lavoro„. Timeo di Tauromenio[103] dicea che “anticamente non era costume patrio degli Elleni di farsi servire da schiavi comperati per prezzo„. E Teopompo[104] attribuiva l’introduzione dell’uso di comperare gli schiavi a’ Chioti; a’ Chioti, a cui si connettevano e Glauco e la scoperta della saldatura del bronzo e le più antiche tradizioni della plastica greca, e lo sviluppo della ceramica, la cultura intensiva accompagnata da una notevole esportazione, e tutti insomma i dati di uno sviluppo commerciale, industriale ed agricolo, rilevante per l’antichità[105]. Il sentimento, magari inconsapevole, di questa stretta relazione tra lo stadio di sviluppo delle forze produttive e la schiavitù, compariva persino ne’ comici come Cratino, Grate e Telechide[106], quando, rievocando il favoleggiato regno di Crono, o rifoggiando utopisticamente la vita, essi eliminavano, al pari di Aristotile, lo schiavo da una società, in cui la produzione e la soddisfazione de’ bisogni si compivano automaticamente[107].
E questa tradizione e questo riflesso, comunque frammentario, del passato hanno valore per noi tanto maggiore, in quanto ne troviamo la conferma e la spiegazione, la riprova e il complemento in dati d’instituzioni e di fatti storici. La forma di soggezione [42] più antica, più importante e più estesa, che troviamo sul limitare della storia greca, non è la schiavitù, ma una specie di servaggio e direi anche di vassallaggio. E bene lo notava Teopompo[108]: “I Chioti primi fra tutti gli Elleni, dopo i Tessali e i Lacedemoni, usarono schiavi, ma non facendone acquisto alla maniera di questi. Si può vedere che i Lacedemoni e i Tessali hanno formata la loro classe servile con gli Elleni che abitavano prima il territorio ora da loro posseduto, asservendo quelli gli Achei, e i Tessali i Perrebi e Magneti, e chiamando gli asserviti, gli uni iloti e gli altri penesti. I Chioti invece acquistano servi barbari, comprandoli a prezzo„. E la ragione della differenza stava appunto nel diverso grado di sviluppo economico degli uni e degli altri, popoli mediterranei i primi, isolani i secondi. La mancanza assoluta, o la scarsezza almeno, di ricchezza accumulata, la inesistenza di un movimento commerciale escludevano in un luogo una produzione diretta e crescente de’ padroni ed un diretto impiego de’ servi, e conducevano invece alla forma più rudimentale del tributo e ad una specificazione del lavoro e ad una formazione di classi, che facea denominanti tutto un esercito in armi e de’ soggetti un ceto di agricoltori. Altrove, a Chio, il concorso di condizioni affatto opposte tendeva a dare alla società un tipo rudimentalmente industriale, e conduceva all’adozione, o, meglio, all’incremento della schiavitù vera e propria. E questo carattere diverso dell’economia de’ popoli mediterranei e di quelli messi sulle grandi vie commerciali dell’antichità permaneva presso a poco invariato col persistere delle condizioni fondamentali. A tempo assai avanzato, al cominciare della guerra del Peloponneso, Tucidide potea far definire da Pericle i Peloponnesiaci (e dovea riferirsi a’ mediterranei, più che a’ littoranei) con un vocabolo assai comprensivo (αὐτουργοί)[109], il quale, oltre alla conseguente [43] scarsezza di schiavi, riesce a denotare la loro economia rudimentale, la loro produzione, che si era fermata, o avea di poco superato lo stadio della produzione casalinga (Hausfleiss)[110]. Dovunque ricorrevano un analogo stadio delle condizioni di produzione e simili condizioni di vita, ricorreva la stessa mancanza di schiavi, e Timeo[111] potea descrivere come di data recente l’introduzione degli schiavi, acquistati a prezzo, tra i Locresi e i Focesi, dandoci anche notizia della resistenza opposta all’innovazione e delle temute sue conseguenze. E noi sappiamo che in Acarnania, in Etolia, nella Locride, nella Focide la vita era agricola e pastorale, e l’industria non vi avea avuto alcuno sviluppo[112].
Quanto a Creta, già sapevamo dalla tradizione di un doppio ordine di servi: uno costituito dall’antica popolazione indigena asservita e addetta alla gleba, ed un altro di schiavi acquistati a prezzo e introdotti, com’è da credere, posteriormente, con lo svolgersi della vita cittadina[113]. Ora le grandi scoperte epigrafiche recenti ci dànno modo d’intendere anche meglio questa bipartizione[114].
Che se guardiamo a tutto quel periodo più antico, la cui vita e le cui condizioni si rispecchiano ne’ poemi omerici ed esiodei, [44] anche là troviamo che la schiavitù ha una funzione affatto limitata ed accessoria, com’è da attendere in una società di struttura semplice quale l’omerica. Anche là abbiamo che alcuni de’ prodotti dell’industria, quelli di maggior pregio, sono importati, mentre sul suolo ellenico gli utensili agricoli e domestici e gli altri oggetti principali di uso sono lavorati in casa. Gli eroi omerici, al pari de’ loro dèi, cooperano a’ lavori più ordinari ed elementari della vita: Anchise, Enea, i figli di Priamo, i fratelli di Andromaca e tanti altri attendono all’agricoltura ed alla pastorizia; Ulisse può fabbricarsi egli stesso un letto e mostrarsi esperto nella costruzione di barche, di aratri e così via[115]. “Per il mestiere come tale occorreva che si allargasse l’ambito dello smercio col relativo svolgersi della navigazione, si agevolassero gli scambi col sussidio della moneta coniata, e così si apparecchiasse il passaggio ad una produzione più considerevole ed attiva„[116]. Intanto il mestiere veniva sorgendo e differenziandosi in quelle forme di lavoro, che sopperivano a’ bisogni più generali e comuni; e il nome all’artefice 10 dava appunto questa caratteristica del lavorare pel popolo (δημιουργός)[117], specialmente forse per quelli che non aveano i mezzi per sostituirlo col lavoro domestico, o in quelle specie di lavoro, che, esigendo particolare perizia od utensili non comuni, non potevano bene ed utilmente compiersi in casa. Al tempo stesso incontriamo con relativa frequenza menzionati l’impiego del lavoro libero, la locazione d’opera, con una retribuzione precipuamente alimentaria; e, come riflesso morale di un tale stato di cose, il lavoro gode di una considerazione[118], che perderà ben presto, quando la crescente ricchezza sociale, i più distinti contrasti, la divisione del lavoro, la differenziazione delle funzioni sociali e lo sviluppo della schiavitù avranno reso incompatibile, o quasi, l’esercizio del mestiere e quello de’ diritti politici, una maggiore [45] elevatezza di coltura, di abitudini e le esigenze di chi deve provvedere al proprio sostentamento.
Il secolo settimo e il sesto, e più specialmente il periodo che va dalla seconda metà del settimo secolo alla prima metà del sesto, con l’introduzione della moneta, la diffusione degli scambi, lo sviluppo de’ commerci segna una vera rivoluzione nella vita ellenica, una trasformazione capace di essere paragonata, sin dove il diverso tempo comporta, a quella indotta nella nostra vita da’ progressi della tecnica e dalla conseguente trasformazione del modo di produzione nell’ultimo secolo.
Con la formazione delle città, avvenuta in un periodo anteriore, e il loro successivo incremento, si erano creati nuovi bisogni, che suscitavano sempre nuovi mezzi, organi e strumenti atti a soddisfarli, e li cercavano e trovavano in una maggiore divisione del lavoro, in una specificazione crescente de’ mestieri ed in uno sviluppo della tecnica.
Contrasti della campagna e della città, di ricchi e di poveri, di nobili e di popolani erano la conseguenza diretta e inevitabile di questo stato di cose; e gli effetti, in forma sempre più distinta ed efficiente, si manifestavano nel campo della politica e della economia, della coltura e della morale. Un istrumento così efficace, duttile e potente, qual’era la moneta, divenne come una leva capace di moltiplicare gli sforzi e le energie, che trovava ovunque un punto di applicazione; sicchè i contrasti, le differenze, i mutamenti, gli squilibri crebbero straordinariamente di forza, di proporzione e di rapidità. L’eco di quella nuova vita, delle sue peripezie e delle sue delusioni risuona ancora in versi di una avvelenata acrimonia e di una solenne elevatezza morale[119], che anche oggi potrebbero, nella loro forma generica, riuscire espressione non inadeguata alle lotte de’ partiti e delle aspirazioni sociali.
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Si erano omai realizzate le condizioni per la creazione di una maggiore ricchezza, ma questo passaggio da una forma ad un’altra più elevata di economia non potea compiersi, come di consueto, senza che si compisse una rivoluzione nella società in cui si sviluppava, senza demolire e ruinare per riedificare. I metalli preziosi erano stati un rilevante mezzo di accumulazione della ricchezza: la moneta faceva questa accumulazione più facile, più fruttifera, rendendone più agevole la circolazione. Appena che si sia creato l’ambiente favorevole alla sua azione, questa ricchezza accumulata funzionerà come capitale commerciale, “il più antico capitale della forma di produzione capitalistica, storicamente la più antica, libera forma di esistenza del capitale, che concorrerà a creare la base dello sviluppo industriale„[120]. Ma, dove questo impiego commerciale non poteva ancora, o non poteva più compiersi, cercava e trovava nel campo più immediato della sua azione un impiego, ricorrente in tutti i paesi che attraversano questo stadio economico: si manifestava sotto forma di usura, risolvendosi in una espropriazione monopolizzatrice della terra, ancora principale strumento di produzione, e nell’asservimento del debitore come mezzo per far fruttificare la terra, o come valore da mettere in commercio.
Questo stadio dell’evoluzione economica, che vedremo riapparire a Roma, conservato dalla tradizione sotto forme eminentemente drammatiche, si manifesta nello sviluppo del latifondo, nel diritto di pegno sulla persona del debitore (δανείζειν ἐπὶ τοῖς σώμασι) e nella relativa addizione al creditore; e appare in forma più o meno completa ma assai diffusa: a Gortyna, sotto la più modesta parvenza di un pegno temporaneo[121]; a Megara, nelle varie vicende che accompagnano la crisi e la decadenza della sua espansione commerciale[122]; nell’Attica, come uno de’ fatti forieri della riforma solonica[123].
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Paese naturalmente poco fecondo, privo ancora di tutti quei coefficienti che ne faranno appresso un emporio e un centro dell’attività economica e della vita civile, tagliato fuori, per la soverchiante forza delle rivali economicamente più progredite, da’ commerci e dal libero uso del mare, sino all’acquisto di Salamina; l’Attica, quale ci è rappresentata specialmente nella Costituzione degli Ateniesi, ci appare come un paese di scarso sviluppo economico, in cui il sostrato dell’economia agricola è formato da una larga classe di tributari (πελάται καὶ ἑκτήμοροι), mentre la schiavitù vera e propria non riesce a trovar posto come un elemento di qualche importanza, e passa sotto silenzio nella stessa tradizione di questo periodo, quale ci è stata tramandata dall’inno a Demetra sino a Plutarco.
Lo sviluppo del credito è uno de’ fenomeni più notevoli nel successivo sviluppo della vita economica ateniese, e, benchè la ragione dell’interesse raggiunga anche una misura molto elevata[124], nondimeno, lungi dal deprimere e sterilire, diventa fattore di maggior progresso economico. Questa del mutuo è la forma compiuta e tradizionale sotto cui si presenta il capitale, e l’interesse appare come la forma, ad esso corrispondente, del plus-valore prodotto dal capitale, prima che sorgano la produzione capitalistica e i corrispondenti concetti di capitale e profitto; onde nel linguaggio comune il denaro, il capitale che produce interesse, è il capitale come tale, il capitale per eccellenza[125]. Ma il capitale che produce interesse è il capitale come proprietà rimpetto al capitale come funzione. Nella società capitalistica l’interesse non è che una parte del profitto attribuito a chi presta il capitale, o, in generale, al capitale anticipato: mutuante e mutuatario, capitalista e imprenditore non fanno che ripartirsi il prodotto del lavoro messo in movimento. L’interesse quindi, nella sua funzione normale, suppone l’impiego fruttifero [48] del capitale mutuato. Ora, nell’Attica non si erano ancora diffuse neppure le forme di cultura intensiva, sorte poi in correlazione all’aumento della ricchezza e all’incremento della vita cittadina[126]; quanto all’industria, sembra provato che la ceramica si fosse acclimatata nell’Attica, con tutti i caratteri e le promesse di un’industria indigena[127], ma il mercato, limitato all’Attica e forse alla Beozia, non le consentiva tutto lo sviluppo di cui era suscettibile; e, quanto alle altre industrie fiorite di poi, la tradizione ne attribuisce l’origine all’Attica[128], ma noi non abbiamo argomento per riconoscere, se non la loro esistenza, almeno un notevole loro sviluppo in questo periodo.
In tali condizioni il mutuo si presentava come un fatto rovinoso, quale ancora tanto tempo dopo appariva a Plutarco[129] e, anche di poi, a scrittori vissuti in tempi e in luoghi di limitato sviluppo economico, che non sapevano spiegare nè giustificare l’interesse. Non era insomma un fomite allo sviluppo della ricchezza; era invece una manifestazione di povertà, ed era un mezzo per i pochi ricchi di attrarre nell’orbita del loro patrimonio i debitori con la loro famiglia e il loro avere. “La terra era di pochi„ è l’espressione, che torna come un malinconico ritornello nella Costituzione degli Ateniesi, e ad essa risponde come un’eco questo progressivo impoverimento ed asservimento de’ debitori[130], in parte adoperati da’ nuovi padroni, in parte fuggiaschi o venduti fuori paese, dove era più facile il loro impiego. L’instabilità e i pericoli di questa condizione di cose provocarono la riforma solonica, ma, nell’opinione stessa del suo autore, questa avea un valore tutto relativo. Per quanto concerneva i debiti (σεισαχθεία), sia che li condonasse (Ἀθ. Πολ., c. 6), sia che li riducesse agevolandone il pagamento (Androz. presso Plut., Sol., 15), si appigliava a un mezzo empirico e toglieva via gli effetti del male [49] senza svellerlo dalle radici. La riforma monetaria poi, intesa, come pare, ad agevolare le relazioni d’Atene con i paesi, ov’era in uso il sistema euboico, e gli altri provvedimenti d’ordine politico e sociale, che a Solone vengono attribuiti, voleano essere come il lievito della prosperità e della potenza ateniese[131].
“Ma gli effetti di tali innovazioni erano a lunga scadenza; e, intanto, dal seno stesso de’ dissensi, che la riforma non avea eliminati e forse neppure placati, dall’antagonismo degl’interessi da essa urtati o solleticati, rinascevano le turbolenze per metter capo, con l’elevazione di Pisistrato, ad una forma di reggimento politico, principato a base popolare, ch’è come un cesarismo anticipato, ma che in Grecia, invece di essere l’epilogo, è il punto di partenza e il crogiuolo della futura democrazia. È un reggimento all’apice formalmente diverso dal solonico e in cui pure si maturano e fruttificano i germi di questo; e dura tale continuità organica col lungo periodo anteriore, che noi stentiamo a separare alcune delle stesse imprese di guerra compiute durante l’uno o l’altro periodo; tanto la tradizione, a cui la tirannide de’ pisistratidi inconsapevolmente appariva come l’epilogo di un secolo di rivoluzione e come l’incubazione dell’èra nuova, ha, duplicandoli o spostandoli, fusi e confusi insieme alcuni eventi[132].
Malgrado la sua vicenda di esigli e di contrastati ritorni, malgrado i suoi fasti di guerra, la tirannide pisistratide poteva, meglio del secondo impero francese, dire di essere la pace. Il suo trionfo interno avea messo un termine alla comune prepotenza e alla reciproca lotta de’ gruppi gentilizi, ancora non bene fusi nello Stato, del quale ognun d’essi volea impadronirsi, emulo e geloso degli altri; e le sue imprese di guerra aveano avuto il carattere di una difesa ed erano riescite a rompere il cerchio [50] di ferro, in cui l’Attica, regione povera, era stata finora stretta, condannata a vivere di sè stessa ed entro sè stessa, soffocando ogni iniziativa. E, al pari del secondo impero in Francia, anche la tirannide de’ Pisistratidi, se, per emergere, s’avvalse, come di strumento, dell’elemento mobile e dissestato della cittadinanza, fu poi, in quanto mirava a consolidare e ad allargare il ceto de’ piccoli proprietari, l’emanazione della piccola proprietà campagnuola.
Aristotile[133] avea già cercato in questo stato del popolo, sparso nella campagna e tutto inteso all’agricoltura, la ragione del passaggio dalla forma oligarchica alla tirannide. Carlo Marx[134] dovea spiegare luminosamente e diffusamente i rapporti del dispotismo cesareo con lo stato della proprietà fondiaria, all’atto stesso della formazione dell’impero napoleonico. “I campagnuoli formano una massa enorme, i cui membri vivono in una situazione simile, ma non entrano in rapporti gli uni con gli altri. Il loro modo di produzione gl’isola invece di tenerli in reciproche relazioni, e l’isolamento è favorito da’ cattivi mezzi di comunicazione e dalla loro povertà. Il loro campo di produzione, il boccone di terra non ammette nella sua cultura alcuna divisione di lavoro, alcuna applicazione della scienza, alcuna diversità di talenti, alcuna ricchezza di rapporti sociali. Ogni famiglia di agricoltori basta quasi a sè stessa, produce immediatamente essa stessa le cose necessarie al suo consumo e acquista così quanto è necessario all’esistenza, mercè lo scambio con la natura, più che mediante il commercio con la società. L’appezzamento di terra, il contadino e la sua famiglia; accanto un altro appezzamento, un altro contadino e un’altra famiglia: un ammasso di queste unità forma un villaggio e un ammasso di villaggi forma un dipartimento..... Essi sono dunque incapaci di far valere il loro interesse di classe in loro proprio nome, sia con un parlamento che con una convenzione. Essi non possono rappresentarsi: occorre che siano rappresentati. Il loro rappresentante deve apparire al di sopra di essi, al tempo stesso come [51] il loro padrone e come un’autorità, come una potenza governativa illimitata che li protegga contro le altre classi e mandi loro dall’alto la pioggia e il bel tempo. Così la società forma l’ultima espressione dell’influenza politica del ceto agricolo„.
Divenire il re degli agricoltori, rassodarne il ceto, migliorarne le condizioni, ampliarlo, favorendo, al modo stesso di un altro tiranno di Sicilia[135], l’esodo verso la campagna di quegli antichi possessori ruinati, di que’ dissestati, di quegli spostati affluiti nella città, che erano stati in mano sua un’arma di combattimento ed una scala al potere, ma che ne divenivano un pericolo, se rimanevano una massa instabile, irrequieta e scontenta: — ecco quale sembra sia stato il principale intento di Pisistrato e il più saliente carattere del suo dominio[136]. E questo suo proposito fu reso più agevole e di pratico effetto dalle confische, che non poterono mancare contro i suoi avversari più ricchi e più potenti, e si dovettero convertire in distribuzioni di terre[137]; mentre un’èra di pace interna e il mare dischiuso a’ commerci adducevano un incremento economico, per cui era permesso di dare una notevolissima spinta all’iniziata trasformazione delle culture, diffondendo l’olivo e la vite, bonificando, irrigando ed usando in forma sempre più razionale la terra. Ma, cooperando a questo incremento economico e a questo nuovo stato di cose, la tirannide apparecchiava necessariamente e inconsapevolmente, ad un tempo, la sua fine; e, dal seno stesso del crescente benessere, si schiudevano e maturavano i germi e le condizioni di una trasformazione politica e sociale. La storia di quel periodo, al pari e forse più che nella tradizione letteraria, si riflette nelle vicende della topografia di Atene e dell’Attica[138]. Quello sviluppo di tutte le attività economiche vivificava, come un lievito potente, la vita cittadina, obbligando il principe stesso a divenirne suscitatore ed istrumento. I bisogni estetici, che sorgono da uno stato di agiatezza e che s’innestano mirabilmente [52] su tutti gli altri bisogni della vita pubblica e privata, creando nuove esigenze all’esercizio delle funzioni politiche e religiose; l’opportunità, se non a dirittura la necessità di dare un utile impiego al lavoro; fomentavano, insieme a un rinnovamento edilizio, la costruzione di nuovi edifizi, specie a scopo pubblico e religioso; e la città, come un organismo fiorente che rompe la veste troppo stretta in cui è serrato, si spandeva specialmente nella direzione del Falero, il porto e l’emporio di Atene risorgente. Questo sviluppo edilizio, con un nuovo impulso alle cave de’ materiali da costruzione, dava un impulso ancora maggiore al lavoro, che forse già da questo tempo avea un suo sito speciale di offerta e di dimanda[139], ed a’ mestieri, alle arti, alle manifestazioni di un industria sorgente. Sostituendosi al Kudathenaion, il quartiere de’ nobili, il Kerameicos diveniva ora il cuore e il centro di Atene e dell’Attica, la sede dell’Agorà; il quartiere, a cui la più antica industria dell’Attica avea dato il nome e che accoglieva ora in sè i fattori e le fatture della nuova vita ateniese. Le vie, sopratutto sacre, che, movendo dal Keraimeicos, s’irradiavano per tutta la regione, agevolando le comunicazioni, fondevano in un sol tutto la campagna e la città, facendo rifluire i campagnuoli in città per prestare anch’essi, se anche interrottamente, la loro opera di giornalieri, in un periodo, in cui tutto lascia supporre uno scarso o mediocre sviluppo della schiavitù. E le festività periodicamente ricorrenti, che richiamavano in Atene non solo la popolazione dell’Attica ma anche quella insulare, concorrevano, anch’esse, a togliere gli agricoltori da quello stato d’isolamento e di massa incoerente, che li obbligava a trovare nel principe il loro punto di unione e il rappresentante de’ loro interessi[140].
In questo sesto secolo, che ormai volgeva al tramonto, Atene avea menato a buon punto il suo rinnovamento economico; avea [53] iniziata la sua espansione commerciale, spiegando, avida, le sue mire in direzione dell’Ellesponto[141], onde poi si dovea in tanta parte sopperire al suo sostentamento; avea maturati germi della stessa sua fioritura artistica[142]; e avea, come conseguenza di tutto ciò, preparato lo sviluppo della costituzione solonica e l’avvenire della democrazia, a cui Clistene, dirompendo politicamente le ultime trame de’ gruppi gentilizi, con l’ordinamento territoriale dava un infallibile strumento di preponderanza.
Le grandi guerre mediche erano ornai in vista; e ben poteva un giorno Isocrate[143] dire degli Ateniesi che combatterono nelle guerre persiane, con una amplificazione retorica, di cui pur non si sorride: “Credo che qualcuno degli Dei, ammirato della virtù loro, abbia dato causa a quella guerra, perchè, essendo di tale elevata natura, non rimanessero oscuri, nè terminassero la vita senza gloria, ma si potessero comparare a’ nati dagli Dei, chiamati semi-dei„.
La ruinosa fine delle spedizioni persiane, seguita dal contrattacco che fece del bacino orientale del Mediterraneo un mare ellenico, ha una culminante importanza per tutto il popolo greco, ma per Atene segnava l’ora della palingenesi. La città era stata messa a sacco e fuoco, e su’ colli sacri, dove era stata Atene, erano adesso de’ ruderi; pure Atene risorgeva, più bella e più gagliarda, come la Fenice dalle sue ceneri. Sotto la guida di uomini geniali, che la necessità avea suscitati e che negli eventi si erano temprati ed aveano trovata la rivelazione del loro valore e de’ destini del paese; Atene ora riprendeva, con più favore di mezzi e con lena migliore, quel cammino ascendente, per cui dopo Solone le era riuscito di mettersi e su cui avea proseguito senza interruzione. Con lo sviluppo della cultura intensiva e con l’uso de’ suoi materiali da costruzione, essa era venuto esprimendo dalla terra tutto quanto questa potesse dare; [54] e, tra i doni che la terra dell’Attica era capace di largire, vi erano anche le miniere argentifere del Laurio.
Che queste miniere fossero usufruite da tempo remoto, lo asserisce Senofonte[144], senza per altro poterne fissare l’epoca, anche approssimativamente. Le penose condizioni economiche del periodo solonico fanno credere che, a quel tempo, non ne fosse ancora tratto utile partito; ed è sotto Temistocle che se ne comincia a parlare, come di un vero cespite di ricchezza, capace di dare, per quanto se ne può indurre, trenta o quaranta talenti all’anno[145]. La scoperta, o l’uso più razionale e proficuo di queste miniere, costituisce in ogni modo per l’economia e l’avvenire di Atene un fatto, la cui importanza è rilevata e non a torto dagli antichi[146]. Ad esse Atene dovea, se non proprio l’origine, almeno la costituzione di una vera flotta; ad esse dovea il vantaggio di aver potuto coniare monete di lega migliore, che agevolavano i suoi scambi; ad esse dovea dunque i due più efficaci istrumenti della sua prosperità commerciale, della sua indipendenza politica e della sua successiva grandezza.
L’esito della guerra le avea assicurato non solo un annuo tributo, che da quattrocentosessanta talenti dovea elevarsi molto tempo di poi (425-4 a. C.) a novecento o mille[147], se non alla somma maggiore voluta dalla tradizione[148], ma, quel che è più, la suprema e indiscussa signorìa del mare; e la incontrastabile importanza di questo predominio poteva non essere bene intesa da un retore come Isocrate[149], stanco per giunta delle tante guerre e anelante alla pace, ma appariva bene ad un politico acuto, loico e flemmatico, come lo scrittore dello Stato degli Ateniesi pseudo-senofonteo, [55] il sostrato e l’anima della vita di Atene[150]. Atene era destinata omai, per l’azione reciproca della maggiore potenzialità economica e del conseguente sviluppo della cultura, ad essere il centro del mondo ellenico; e, come n’era stato lo schermo contro lo straniero, così ne diveniva innanzi al mondo la immagine più eletta e compiuta. La signorìa del mare, come minutamente è dimostrato in quella incomparabile anatomia dello Stato degli Ateniesi[151], era anche più che oggi non sia: era tutto; e, col realizzarsi di quella condizione, Atene acquistava la base per diventare un centro d’industria, quale era compatibile con l’antichità, un emporio di commerci, e, quel che ne era causa e conseguenza, una città popolosa. Il commercio del danaro, indice e base di ogni altro, che altra volta avea assunta la forma sterile e depauperatrice dell’usura, ora risorgeva in proporzioni incomparabilmente più vaste e con più feconda attività. Gli opulenti tesori de’ templi funzionavano come tante casse di prestanza, a cui attingevano le città ed i privati[152]. Già il tempio di Delfo avea avuto, il secolo innanzi, rapporti d’affari ed avea fatto prestiti agli Alcmeonidi[153]. I conti del tempio di Delo (377-4 a. C.) ci dànno, in tempo posteriore, l’esempio di un capitale di forse quaranta talenti, accreditato a città ed a privati, in parte ateniesi, per somme considerevoli: tali infatti appariscono dalle cifre d’interessi pagati, che, per i privati, giungono sino a novecento dramme e, per le città, ad un talento, e da quelle degl’interessi arretrati, che per le città riescono ad oltrepassare i quattro talenti[154]. E, accanto a’ templi, o dietro l’esempio loro, altri enti, come i demi[155], e i privati mettevano a frutto il danaro. Questo impiego del danaro, che, con [56] una frase caratteristica ancor oggi in uso, si diceva “far lavorare il danaro„[156], quasi che, ricevuto il primo impulso, il danaro seguitasse a correre automaticamente; questo giro del danaro diveniva ogni giorno più rapido, instancabile, e quasi affannoso, e si creava un organo speciale in tutto un ceto di banchieri, che, assorbendo e richiamando il danaro per mille vie, lo riversavano sul mercato, mettendolo a servigio della produzione, del commercio e anche dello scialacquo.
Quel rinnovamento edilizio, che suole corrispondere ad un periodo di espansione economica e che già sotto i Pisistratidi si era affacciato col cominciare di uno stato di benessere materiale, non potea questa volta mancare; e s’impose e fu grandioso, quanto non sembrava possibile immaginare. Tutto quanto potevano suggerire le esigenze della difesa, prima, e poi, a grado a grado, quelle del culto, della vita pubblica, della bellezza, fu compiuto con un senso d’arte e una prodiga magnificenza, di cui non si saprebbe trovare l’uguale. Il proposito, che qualcuno attribuisce a Temistocle di voler fare a dirittura del Pireo il centro della vita cittadina, e l’opposto proposito di Cimone, che non sapeva staccarsi dalle antiche sacre sedi, aveano finito col dar luogo ad una doppia città, la quale si sviluppava contemporaneamente in due ambienti diversi, tendenti a ricongiungersi. Mentre, da un lato, il Pireo si cingeva di mura e si ordinava a forma di città, dall’altro, l’Acropoli, fornita di mura di sostegno e spianata, invitava quasi alla costruzione de’ monumenti insigni eretti di poi; e il primo lungo muro congiungeva la città mediterranea e la marina; opere tutte grandiose, a cui, per ironia della sorte, avea contribuito il prezzo di riscatto de’ Persiani, venuti a soggiogare la Grecia e rimasti prigionieri[157]. Ma, per grandi che fossero queste opere, esse erano soltanto l’inizio di una somma ingente di lavori, ne’ quali si veniva realizzando il piano da Pericle concepito di fare di Atene, non solo una città inespugnabile, ma, col contributo stesso della Grecia, l’incarnazione [57] di tutto quanto la Grecia avesse di grande e di bello; non solo il baluardo, ma l’ornamento e l’orgoglio del mondo ellenico. Così, dal completamento delle lunghe mura a quello del Partenone, dalla costruzione dell’Odeion a quella de’ Propilei, fu una vera febbre edilizia, che assalse il paese, e si risolveva incessantemente in nuove opere, ora per agevolare le operazioni del commercio nel Pireo, ora per soddisfare un bisogno religioso, ora per appagare il crescente senso estetico, ora per il riordinamento stesso della città, sotto la guida de’ più geniali e perfetti artisti che sieno mai stati al mondo[158]. La spesa fu enorme: i soli Propilei costarono duemila e dodici talenti, spesi in soli cinque anni[159]. Il bilancio dello Stato ne fu gravato in guisa che, a quanto è stato calcolato, da’ quattrocento talenti annui di spese ordinarie, salì, specialmente poi col sopravvenire delle esigenze della guerra, a duemila quattrocentotrenta talenti annui (ol. 86,3-87,1) e a duemila ottocentosettanta talenti (ol. 87,2)[160].
Accanto al notevolissimo sviluppo economico, dovuto all’acquistato imperio del mare, a’ commerci più doviziosi e frequenti, al danaro abbondante, è facile immaginare quale azione dovesse avere sulla vita ateniese anche questa semplice erogazione dello Stato, considerata da sola. Opere costruite qualche volta con fretta precipitosa, come ne’ lavori di difesa, sempre con tutta speditezza, esigevano già, come primo ed immediato effetto, un gran numero di braccia, e mettevano a partito tutte le forze utili di lavoro del luogo, ed altre ne richiamavano di fuori. In linea secondaria e mediata, poi, ne seguiva, che Atene diveniva un centro di popolazione sempre più densa, e si rendeva più [58] celere il giro della moneta, dato uno stato di benessere come quello, in parte anche artificiale. Gli effetti si riverberavano quindi su tutte le manifestazioni economiche del paese, allargando, come avvenne, rispetto all’agricoltura, la zona della coltura intensiva[161], e, rispetto alla produzione industriale, portando quella maggiore divisione del lavoro e quella maggiore perfezione del prodotto che, come già notava in un tratto tante volte citato Senofonte[162], sogliono corrispondere appunto alla maggiore richiesta, determinata da una maggiore popolazione. In questo periodo dobbiamo fors’anche vedere il germe di quelle manifatture più o meno rudimentali, più o meno sviluppate, di cui abbiamo più sicuro documento al IV secolo, negli oratori, ma la cui esistenza è pure indirettamente[163], o direttamente[164] portata a nostra notizia per la fine del V secolo e il principio del IV.
È a questo periodo che dobbiamo attribuire uno sviluppo abbastanza notevole della schiavitù ad Atene. Benchè, tra i molteplici fini di quelle ingenti costruzioni, vi fosse quello di dar lavoro a’ cittadini[165], e per quanto potessero concorrere a prestare l’opera loro tanti di quei meteci, che anche appresso sopperivano a tanta parte delle esigenze del lavoro in Atene[166]; pure il numero degli schiavi si dovette venire notevolmente accrescendo. Come domestici, per il servizio stabile della casa, più che a preferenza, doveano essere adibiti, si può dire, esclusivamente gli schiavi. Il lusso era ben lontano dall’assumere in Atene le proporzioni che assunse nel periodo dell’impero romano, e il numero degli schiavi addetti al servizio domestico era contenuto in termini piuttosto modesti. I casi di schiavi assai numerosi addetti al semplice servizio domestico e a quelli di parata, si possono ritenere come rari ed eccezionali; mentre compaiono in proporzioni limitate nelle [59] commedie, e la scorta di persone ricche e amanti di un certo fasto è limitata a pochissimi schiavi[167]. Molta parte de’ servizi domestici dovea essere poi disimpegnata dalle donne nella casa[168]. Il crescere dell’agiatezza e de’ bisogni ampliava in ogni modo il numero degli schiavi. Ma, d’altra parte, molti bisogni, a cui prima si sopperiva in casa, cominciavano ad essere soddisfatti fuori. La vendita della farina[169], quella del pane[170], il sorgere di speciali centri produttori di oggetti di vestiario[171] importavano una diminuzione della gente di servizio domestica, addetta a quelle bisogne; o l’esempio di Pericle[172], che si provvedeva fuori di casa, a seconda del bisogno, di ciò che gli occorresse, dovea rappresentare tutt’altro che un caso isolato.
L’industria estrattiva, e non delle miniere d’argento soltanto, ma anche de’ materiali di costruzione[173], che veniva fatta in condizioni di non molta sicurezza e riesciva grave, insieme, di pericolo e di fatiche, era un retaggio degli schiavi. Le officine, le manifatture, gli spacci più o meno grandi, là dove si sostituivano alla produzione casalinga, adoperavano, almeno a preferenza, schiavi: ce lo fanno argomentare il numero rilevante di schiavi operai (χειροτέχναι), a cui accenna Tucidide, e le testimonianze esplicite, che troviamo del loro impiego, dall’esordire del IV secolo.
Del numero concreto di schiavi esistenti allora in Atene non abbiamo notizia; ma sappiamo in ogni modo che era inferiore a quello della Laconia, inferiore anche a quello degli schiavi di Chio, che avea una estensione inferiore a un terzo dell’Attica[174].
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Accanto al lavoro servile sussisteva e si svolgeva il lavoro libero[175].
Negli scritti specialmente de’ filosofi, più che il lavoro, i lavoratori non godono di molta considerazione[176]; e la cosa è naturale. Chi era in grado di vivere del lavoro altrui, avea modo di dedicarsi esclusivamente alla politica, alla cultura della mente, a quegli esercizi del corpo, che costituivano pe’ Greci un agone di emulazione e di gloria. La sua persona quindi era meglio sviluppata e più elegante, la sua mente si elevava, i suoi costumi, se non s’ingentilivano, si raffinavano; e, chi non riesciva ad avere un valore reale e diveniva soltanto un bellimbusto e un uomo alla moda, raccoglieva pur sempre l’effimero successo della folla, che si ferma volentieri a ciò che è bello esteriormente e che splende. Chi invece dovea campare col suo lavoro la vita, assorbito nella sua opera manuale, restava d’ordinario fisicamente e intellettualmente inferiore a quegli altri; e il mondo che paga, quando lo paga, chi gli è utile, e va dietro a chi lo diverte, non poteva che constatare la inferiorità loro e considerarli da questo punto di vista. Sotto questo rapporto, l’opinione degli antichi sul lavoro manuale non era che il riflesso di uno stato di fatto; e, se anche oggi lo si dissimula con maggiore ipocrisia, in fondo era lo stesso di quello che oggi impera anche presso di noi, specie dove le condizioni della classe lavoratrice sono più depresse e il loro sviluppo più basso. Ma anche allora, come ora, ciò che spingeva al lavoro manuale era il bisogno, e, per quanto forte potesse essere il pregiudizio contro di esso, il bisogno finiva per vincerla sul pregiudizio.
Il lungo periodo di strettezze e di depressione economica, [61] attraverso cui era passata Atene specialmente, avea dovuto dare un impulso ad ogni specie di lavoro utile; e la tradizione dell’incoraggiamento all’esercizio de’ mestieri, è, come tante altre, riportata specialmente a Solone[177]. Ma l’incremento de’ mestieri è tanto più antico: lo provano l’antichità dell’industria ceramica, l’inno ad Efesto, la tradizione che de’ lavoratori (ἐργάδεις) faceva nientemeno che una tribù[178], la menzione di Solone stesso in una delle sue elegie[179], i due posti d’arconte concessi a’ demiurghi dopo Damasia[180], le feste artigiane[181]. L’inoperosità di quelli specialmente, che non aveano come provvedere alla propria sussistenza, oltre all’esser corretta dal bisogno, dovea destare una legittima preoccupazione ne’ reggitori dello Stato, sino al punto di condurre a quell’accusa d’ozio (γραφὴ ἀργίας), che si è voluta riportare sino a Dracone[182]. L’incoraggiamento a’ mestieri e il proposito di trapiantare nell’Attica anche quelli sin’allora ignoti o non diffusi, richiamandovi i forestieri, è cosa che sta interamente nel carattere della legislazione e del tempo di Solone[183]. Frenare, se non a dirittura impedire la diffusione della schiavitù, è cosa conforme anche al periodo de’ tiranni: lo sappiamo espressamente per Periandro[184], ed abbiamo facoltà di ammettere altrettanto per Pisistrato. Benchè egli favorisse a preferenza il lavoro agricolo, pure il progresso economico e la crescente costruzione di opere pubbliche doveano, direttamente o indirettamente, condurre alla diffusione delle arti manuali, allo sviluppo di un ceto di artigiani.
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Alla fine del secolo quinto la classe di artigiani era già largamente diffusa: ne fa menzione Aristofane, ora in via di semplice accenno, ora con piglio burbero[185]. Ma Plutarco[186], sopratutto, raccogliendo poi la tradizione dell’età periclèa, ci mostra come l’operosità spiegata nelle pubbliche costruzioni sotto la egemonia di Pericle “con la varietà de’ bisogni, suscitasse tutte le arti e movesse tutte le mani, dando quasi a tutta la cittadinanza una mercede ed ornando così e alimentando al tempo stesso la città..... Giacchè vi erano legname, pietre, rame, avorio, oro, ebano, cipresso e vi erano le arti che lavoravano e adoperavano queste cose: falegnami, lavoratori in rame, formatori, scalpellini, tintori, lavoranti in oro ed avorio, ricamatori, fonditori, gente che attendeva a’ trasporti per mare, come commercianti, barcaiuoli, piloti, e, per terra, come costruttori di carri, vetturali, carrettieri, e poi funaiuoli, linaiuoli, calzolai, selciatori di strade, lavoranti in metallo. Ogni arte, come ogni generale ha il suo esercito, avea i suoi salariati ed i suoi aiutanti, fatti organo e strumento di quella categoria di servizi; sicchè, per così dire, tutti questi mestieri distribuivano e spargevano per ogni età e per ogni sesso il benessere„.
Nell’agricoltura il lavoro de’ liberi dovea poi avere una parte preponderante. Mentre la proprietà fondiaria era molto frazionata, alla cultura di questi piccoli lotti attendeva il proprietario stesso con la sua famiglia, che risiedevano, come sappiamo[187], sul posto, e doveano bastare specie a’ lavori ordinari. La cultura diretta delle terre, sì in Atene che negli altri paesi di Grecia, era molto diffusa[188], e, dove l’ampiezza de’ fondi esigeva un concorso di persone, gli schiavi vi erano certamente [63] adoperati, sia come lavoratori che come fattori di campagna od intendenti, ma alternativamente con operai liberi. Come appare anche da quelle delle commedie d’Aristofane, che hanno per teatro d’azione la vita rusticale, gli schiavi rustici doveano essere in numero limitato e proporzionato al lavoro continuo e durevole, mentre altri lavori, che richiedevano l’applicazione contemporanea di molti lavoratori, ma per breve durata, quali la vendemmia, la raccolta delle olive, la mietitura, erano più facilmente disimpegnati da mercenari, come ce ne fanno testimonianza dati in parte del quinto secolo, in parte del seguente[189]. La stessa attestazione dell’impiego di schiavi altrui, temporaneamente assoldati, fa argomentare il simile impiego di mercenari liberi. Il sistema delle affittanze, che si trova più sviluppato nel secolo IV[190], attesta l’impiego del capitale anche in imprese agricole; ma, ove le corrisponsioni erano tenui, bastava all’esecuzione de’ lavori il fittaiuolo, e, dove l’altezza dell’affitto dimostra che si trattava di fondi estesi, niente obbliga a ritenere che fossero coltivati con l’opera esclusiva o preponderante di schiavi e non con quella di mercenari; tanto più quando si consideri che la grande proprietà, o la grande cultura ha come termine correlativo l’aumento del proletariato agricolo e quindi di una larga categoria di lavoratori mercenari. Questo proletariato era anche naturalmente ingrossato dagli schiavi manomessi, già addetti all’agricoltura; e infatti epigrafi attiche della fine del IV secolo[191] ci conservano traccia di questi liberti agricoltori e vignaiuoli, che, per vivere, doveano locare l’opera loro. È stato pure osservato[192] come quegli antichi coltivatori, che troviamo sulla soglia della storia ateniese (πελάται, ἑκτήμοροι) e che erano qualche cosa di medio tra i mezzadri ed i coloni, scompariscono senza che gli autori antichi [64] assegnino le ragioni del cambiamento. Ora niente, se io non m’inganno, ci dà facoltà di ritenere in forma assoluta che la mezzadria fosse interamente scomparsa e che proprio non ne rimanesse traccia nell’Attica, anche sotto forma meno oppressiva; ma, d’altra parte, si ha tutta la ragione per credere, che quel tipo di cultura, sotto l’azione combinata della sviluppata cultura intensiva, della ricchezza crescente, del primo frazionamento della terra, dovea apparire una forma superata, e quegli antichi coloni, con varia vicenda, si tramutavano in piccoli proprietari, fittaiuoli, mercenari della campagna e, talora, della città.
La persistenza di una classe di lavoratori liberi, produttori di manufatti, era anche favorita da alcune condizioni, che la sostenevano contro la concorrenza servile e le davano incremento. La soddisfazione sempre più larga de’ bisogni, che avrebbe poi fatto luogo nel IV secolo a qualche cosa che era il lusso e lo rasentava, dava un lento eppur continuo impulso alla tecnica manufattrice, creando una divisione del lavoro sempre maggiore e affinando, migliorando, perfezionando i prodotti; talchè i manufatti domestici cedevano sempre più il campo a quelli compiuti con una tecnica più sviluppata e da speciali artefici, necessariamente più abili. Così, la tintura delle stoffe, di regola, non poteva essere fatta in casa, e ben presto si era convertita in un’arte speciale[193]. La stessa arte tessile, esercitata generalmente da tutte le donne nell’interno della casa, trasformava i suoi telai e migliorava i suoi procedimenti, fabbricando, accanto a’ tessuti usuali, altri più fini e di più complicata orditura[194]. L’arte del conciapelli e quella del lavoratore di cuoio, se ancora, talvolta, si trovavano riunite in una stessa persona, in generale tendevano a distinguersi come due mestieri distinti; e lo stesso lavoro del cuoio, che, già dall’epoca omerica, rappresentava [65] un mestiere speciale, a grado a grado, pur serbando un unico nome (σκυτότομος, σκυτεύς), avea una molteplice applicazione, che non potea essere tutta esercitata da un solo e medesimo artefice[195]. Tra gli stessi lavori d’intreccio, che pure continuavano nella generalità de’ casi ad essere eseguiti da persone non tecniche, la fabbricazione delle corde si costituiva come un mestiere speciale[196].
E questi esempi si potrebbero agevolmente moltiplicare con più visibile effetto, considerando lo sviluppo sempre maggiore della tecnica e la divisione del lavoro sempre crescente nella ceramica, nella lavorazione de’ metalli, nell’arte architettonica, nell’ornamentazione, senza dire delle arti figurative e delle loro svariate applicazioni.
Questo differenziarsi e specificarsi del lavoro manuale potè limitatamente conciliarsi col lavoro servile nella manifattura; ma, la manifattura, in Atene, per quanto se ne abbiano vari esempi, non dette l’impronta a tutta la produzione, rimase bensì circoscritta ad alcuni rami di essa; e, intanto che la manifattura sorgeva, si formava un ceto di artefici, che doveano sostenere la concorrenza della manifattura, fin che loro riusciva, e, vinti, doveano tendere a divenirne gli operai. Gli schiavi, forniti omai a’ vari mercati, in gran parte, dalla guerra e dalla pirateria, erano reclutati alla rinfusa, e difficilmente aveano l’attitudine e l’esperienza tecnica, che ne rendesse possibile, volta per volta, un utile impiego industriale, adatto al luogo, al tempo, alle condizioni particolari di chi l’acquistava.
E a tutte queste difficoltà se ne aggiungeva un’altra.
Le vendite di schiavi, fatte all’asta, a quanto pare nel 415, in seguito al processo degli Ermocopidi[197], ci mostrano che il [66] loro prezzo, sceso sino a settandue dramme nella vendita di un fanciullo cario, ascendeva a centoquindici e centosettanta dramme per un Trace, a centotrentacinque, centosessantacinque e dugentoventi dramme per una donna tracia, a centoquarantaquattro dramme per uno Scita, a centoventuno per un Illirio, a dugentoquaranta e trecentouno per un Siro. Queste vendite si facevano all’asta, è vero; ma l’asta avea luogo in uno de’ momenti relativamente più favorevoli della guerra del Peloponneso, quando con audaci speranze e confidente iniziativa si tentava l’impresa di Sicilia; e, per giunta, si trattava di schiavi, che non doveano essere de’ peggiori, appartenenti, com’erano, a case delle più benestanti ed anche delle più pretensiose. Si può dunque ritenere di non andare lontano dal vero, fissando per questo periodo a due mine, o ad un prezzo non molto inferiore, il valore venale di schiavi, che, come questi, a quanto si può argomentare dalle epigrafi, non aveano una speciale attitudine tecnica e doveano essere adibiti a servigi domestici. Ma in un giro prossimo di tempo Senofonte facea dire a Socrate: “Havvi un valore degli amici come degli schiavi. E degli schiavi uno vale due mine, un altro neppure la metà di una mina, un altro cinque e un altro dieci mine. Di Nicia figliuolo di Nicerato si dice che abbia comperato per un talento un sopraintendente alle miniere di argento„[198].
Il prezzo di un talento è, come si vede, l’eco di una voce indeterminata; e può semplicemente servire a farci vedere come il prezzo di uno schiavo potesse salire molto alto, specialmente trattandosi di un direttore dell’azienda, la cui importanza, anche nell’economia agricola, è rilevata con cura speciale dallo stesso Senofonte[199]. E probabilmente in quell’uffizio uno schiavo avea più pregio di un libero, perchè la sua condizione assicurava meglio la continuità del suo ufficio, ne faceva una diretta emanazione [67] del padrone e, relativamente, lo assicurava meglio contro il pericolo di sottrazioni e ruberie, non potendo lo schiavo possedere nulla di suo proprio e non avendo quindi un’azienda sua propria, sotto cui dissimulare, ed a cui profitto volgere gl’illeciti guadagni.
Se gli altri prezzi di cinque e di dieci mine e più oltre, invocati ad esempio, si riferivano a schiavi, che avessero particolari pregi o speciale attitudine ed educazione tecnica, il loro acquisto dovea sempre più riescire di dubbia utilità e dovea, sempre che fosse il caso di poter ricorrere al lavoro libero, indurre a surrogarlo al lavoro servile.
I conti de’ lavori dell’Eretteo[200], alla fine del V secolo (408 a. C.), ci mostrano che il lavoro qualificato tendeva già ad assumere preferibilmente la forma del cottimo, o del forfait, quasi di un appalto, ciò che attesta un maggiore sviluppo del lavoro ed anche una maggiore concorrenza. Ma, accanto al cottimo, ricorre pure la locazione d’opera a giornata per lavori, che, anche senza esigere un lungo tirocinio e singolari attitudini, costituivano nondimeno un lavoro qualificato, come quello del segatore, del falegname, ecc.; e la mercede giornaliera è di una dramma, o intorno ad una dramma. Ora, lavori di questo genere non avrebbero potuto essere compiuti per i singoli privati da propri schiavi non esercitati, senza perdita di tempo e il danno di una imperfetta esecuzione; e uno schiavo, particolarmente addetto a questi lavori, non avrebbe potuto essere impiegato per proprio uso dal padrone in tutto l’anno, nè a volerlo locare giorno per giorno ad altri, come pure talvolta accadeva, si sarebbe potuto esser sicuri di tenerlo sempre occupato. Così, per poco che il prezzo di uno schiavo, adatto a un lavoro qualificato, superasse il prezzo medio di tutti gli schiavi, l’interesse corrispondente al capitale anticipato e la maggiore rata di ammortamento [68] e la difficoltà di un utile impiego continuativo costituivano tanti motivi che ne sconsigliavano l’acquisto. Da ciò derivava, simultaneamente, come una doppia conseguenza: che, da un lato, mancava l’interesse di promuovere l’educazione tecnica degli schiavi, e, dall’altro, il lavoro qualificato tendeva sempre più a formare speciali mestieri coltivati da lavoratori liberi, che, esercitandoli spesso ereditariamente, si procacciavano una clientela adatta, e con l’aiuto di altre riprese, con la maggiore libertà di movimento, sotto la spinta più potente dell’interesse personale, poteano più facilmente vivere e trovare impiego.
Ma la guerra del Peloponneso, resa inevitabile dal desiderio sempre più intenso di espansione commerciale e dalla crescente egemonia di Atene, che si risolveva in aggravi sempre maggiori per gli alleati e soggetti ed in preoccupazioni sempre più vive per gli emuli ed avversari; imposta dalle condizioni stesse interne di Atene, dove la ricchezza mobiliare e il proletariato cercavano nuove sorgenti di sussistenza e di guadagni; la guerra del Peloponneso dovea, con le sue vicende e la sua fine disgraziata, acuendo gli stessi contrasti interni di Atene, creare una condizione di cose che, coattivamente, obbligava il lavoro libero a svolgersi e cercare un impiego.
Iniziata appena la guerra, l’esercito peloponnesiaco avea invaso il territorio dell’Attica; e l’invasione s’era poi ripetuta quattro altre volte, nel 430, nel 428, nel 427, nel 425, sino all’abile diversione che avea avuto per effetto l’episodio di Pilo[201]. Fin dal primo annunziarsi de’ nemici, gli abitanti della campagna erano stati, benchè assai a malincuore, costretti a ricoverarsi in città; e s’immagina facilmente quale effetto abbia potuto avere per l’agricoltura, e specialmente per le colture intensive, l’accamparsi e lo scorrazzare di un esercito nemico, per giunta non rintuzzato, che, al sicuro di ogni assalto, potè così una volta spingersi fino al Laurio. L’eco dell’irreparabile danno rimane ancora viva nelle commedie di Aristofane, specie nella Pace e negli Acarnesi, che son tutte un rimpianto de’ campi devastati e sopra tutto delle vigne distrutte.
[69]
La peste sopravvenuta nel secondo anno della guerra, pel suo noto carattere infettivo, se fece strage de’ liberi, dovette fare sterminio maggiore de’ servi, meno curati, peggio nutriti, più esposti; e la difficoltà sempre maggiore di approvvigionamento, le tristi vicende della fortuna pubblica e privata, la impossibilità di impiegare utilmente nella città i servi già addetti all’agricoltura ne dovettero ancor più, per vario modo, ridurre il numero. L’occupazione di Decelea, poi, fatta per consiglio di Alcibiade nel 413, proprio mentre l’impresa di Sicilia volgeva verso la sua tragica fine, fu come la spada di Damocle sospesa sopra Atene: fu la devastazione de’ campi organizzata in permanenza, un impedimento fisso ad ogni stabile ed efficace coltura, e, al tempo stesso, un richiamo di fuggitivi. Tucidide[202] ci dice che ben ventimila schiavi, da lui definiti come operai (τεχνίται), si sottrassero con la fuga; e, come ci è forse lecito argomentare da altri dati, doveano essere, per una parte notevole, schiavi addetti alle miniere[203]. In questo dato troviamo pure una riprova che i servi addetti all’agricoltura, compresi oppur no nell’epiteto tucididèo, erano già ridotti a’ minimi termini, se non a dirittura scomparsi, perchè, in caso contrario, essi, meno custoditi e più vicini a Decelea, avrebbero dovuto dare a’ fuggitivi un contingente maggiore degli schiavi cittadini e di quelli stessi del Laurio.
Intanto la notevolissima mortalità degli schiavi, le loro fughe, la difficoltà d’impiegarli stabilmente nell’agricoltura, l’imposta per quanto lieve[204] da pagare allo Stato per ognuno di loro; erano tanti fatti, che, presi insieme, doveano indurre ad eliminare, in quanto fosse possibile, il lavoro servile per surrogarlo col lavoro libero. E il lavoro libero, dal canto suo, tendeva a questo punto, sotto la pressione del bisogno e per necessità di cose, a prendere il posto del lavoro servile.
Ridotta, col disastro della sua agricoltura, a vivere quasi esclusivamente d’importazione, Atene avea dovuto volgere la sua attività, per quanto fosse possibile in istato di guerra, alla produzione [70] di manufatti; ma, quale che potesse essere la richiesta di questi, nelle condizioni del tempo, in cui, in gran parte, si provvedeva con la produzione familiare e locale al consumo locale e familiare, l’esportazione, in ogni modo, dovea riescire inceppata durante la guerra, che chiudeva tanti mercati e facea malsicuri i trasporti; peggio che inceppata dopo la guerra terminata con la rovina della potenza ateniese. Lo Stato poi s’era stremato sotto lo sforzo continuo ed immane di una guerra così lunga, dispendiosa e fortunosa, e le fortune private, mentre erano state minate e falcidiate dalla ruina dell’agricoltura, dal venir meno de’ redditi ordinari e dal languire de’ commerci, aveano per giunta dovuto sopportare per due volte, a non grande distanza di tempo, il peso della contribuzione diretta (εἰσφορά) prelevata nel 428 nella misura di dugento talenti[205] e nel 410 in una proporzione forse maggiore[206].
Ricorrere pel sostentamento proprio e della propria famiglia al lavoro manuale, era omai, per molti, una necessità imprescindibile. Già i conti dell’Eretteo ci mostrano come nel 408 a. C. Ateniesi, in numero proporzionalmente non indifferente, prestavano l’opera loro in concorrenza con i metèci. Ma un quadro vivo e parlante della condizione di cose, che si dovette verificare in Atene sul finire della guerra del Peloponneso e subito dopo di essa, ce lo dà Senofonte ne’ suoi Memorabili.
Niente forse è più adatto di quelle poche pagine a darci una idea compiuta delle condizioni di Atene in quei giorni[207].
Alle conseguenze della guerra esterna si sono aggiunti i mali della guerra civile, che provocano ancora l’intervento straniero. “La terra non rende nulla, giacchè gli avversari sovrastano ad essa: niente danno le case, giacchè gli abitanti si sono assottigliati. Nessuno compera e in nessun modo vi è da avere danaro in prestito„. Tornano i cleruchi, ma sono stati spogliati di quanto possedevano nelle cleruchie, e nell’Attica non hanno nulla, e non portano che l’offerta delle loro braccia e il bisogno di sostentarsi. [71] In questo stato di cose, s’imbatte in Socrate Aristarco, che ha omai quattordici persone in casa da mantenere, s’imbatte Eutiro, il cleruco rimpatriato; e da tutto il lento avvolgersi e svolgersi della fine dialettica socratica balza fuori, quasi da una necessità obbiettiva, come uno spontaneo ed inevitabile insegnamento, come unico e imprescindibile rimedio, il consiglio di ricorrere al lavoro più adatto, per elevarsi a quella condizione materiale, che pur mo’ rendeva, agli occhi di uno di essi, invidiati gli schiavi operai di Cyrebo, di Nausicyde, di Demea, di Menone.
Così il proletariato ateniese si dedicava sempre più al lavoro sotto l’impulso del bisogno, che la catastrofe immane della guerra avea potuto rendere più vivo, ma che non avea cessato mai d’essere sentito. E, per la imprescindibile dipendenza de’ concetti teorici da’ modi di vita, l’opinione della dignità del lavoro si veniva ancora rialzando, e trovava il suo riconoscimento nelle parole dell’uomo moralmente più elevato del tempo, di Socrate.
È stato spesso ripetuto, e si ripete ancora, che il soldo dato a’ cittadini nelle assemblee, ne’ collegi giudiziari, ne’ teatri, li distogliesse dal lavoro, fornendo loro il mezzo di una vita oziosa. E pure questa è un’opinione, che non regge ad un esame accurato.
Delle assemblee politiche si può ritenere che non ve ne fossero, normalmente, più di quaranta per anno[208], e l’indennità di presenza a’ cittadini fu di un obolo, di due, di tre forse per più lungo tempo: al tempo di Aristotile salì a nove oboli per l’assemblea principale e ad una dramma per le altre[209]; ma le cresciute esigenze della vita e il numero limitato delle [72] adunanze non poteano farne un mezzo per sostentare la vita. Più frequenti delle assemblee politiche erano le adunate de’ collegi giudiziari; ma l’indennità accordata a’ giudicanti non superò mai i tre oboli[210], e le convocazioni delle giudicature dovettero necessariamente scemare, quando Atene perdette il potere giurisdizionale sugli alleati. Inoltre erano legalmente giudici i cittadini, che aveano sorpassati i trent’anni, e realmente, per lo più, i vecchi che non aveano altra occupazione. Secondo la costituzione delle giudicature, poi, nelle cause meno importanti e però più frequenti, i giudici erano dugentouno, vi partecipava quindi limitatamente la cittadinanza[211]. L’indennità di assistenza agli spettacoli, che, probabilmente per un equivoco chiarito ora indirettamente dall’Ἀθηναίων Πολιτεία, Plutarco fece introdurre da Pericle, fu concessa in tempi posteriori; e, per quanto nel IV secolo assumesse importanza, se era versata, sotto una forma od un’altra, come diritto d’entrata al teatro, non potea rappresentare un mezzo di sussistenza. Ed anche chi, ammettendo conclusioni non in tutto accettabili, voglia ritenere nella misura più alta le indennità teatrali, ammettendo che lasciassero un margine di guadagno a’ cittadini e si estendessero da venticinque a trenta ricorrenze festive[212]; pure non riescirà a farne un contributo di qualche rilievo per la sussistenza del cittadino.
Così il soldo largito dallo Stato sotto queste varie forme, anche quando raggiunse la proporzione più alta, non potè mai rappresentare, nemmeno per quella parte de’ cittadini che ne poteva usufruire, un’entrata stabile e continua, che toccasse i tre oboli al giorno. E tre oboli al giorno, se si crede ad Aristofane, rappresentavano appena il guadagno giornaliero di una delle più basse categorie di lavoratori manuali, forse della più bassa (πηλόφοροι)[213]; equivalevano al prezzo minimo di un [73] sesto di medimno di frumento; e il frumento, che, anche oggi, è soggetto ad una continua oscillazione di prezzi, allora, specialmente in un paese vivente d’importazioni come l’Attica, era esposto a continui, rapidi e notevoli rincari.
Non si saprebbe dunque ammettere che, quand’anche il soldo, percepito sotto varie forme dallo Stato, avesse potuto sopperire al minimo della sussistenza, i cittadini rinunziassero a spiegare, lavorando, un’attività che migliorasse le loro condizioni, per fare una vita grama e penosa quale potea farla uno spazzaturaio. Ma in questo, come in altre cose, si è stati fuorviati sopra tutto dall’abitudine di attribuire a’ giudizi e alla satira di Aristofane un valore obbiettivo, che mal si concilia col suo carattere di comico e più di partigiano[214].
Il crescere graduale del soldo, lungi dal valere come un mezzo che distoglieva i lavoratori dal loro mestiere, prova invece come il lavoro professionale di molti rendesse necessario un indennizzo sempre crescente, che li compensasse del tempo sottratto al mestiere e l’inducesse a non disertare le pubbliche adunanze[215].
Del resto lo stesso Senofonte fa dire da Socrate[216] a Carmide come l’assemblea, in fondo, è composta da tintori, lavoranti di cuoio, falegnami, lavoranti in metalli, agricoltori, commercianti e rigattieri. Questo ceto di artigiani, che, come Socrate stesso osservava, costituiva il nucleo dell’assemblea, avea acquistata una vera importanza politica; e, dopo la morte di Pericle, dava esso dal suo stesso seno alla repubblica i suoi uomini di Stato e, d’accordo col ceto de’ commercianti, costituiva un partito opposto specialmente a’ proprietari fondiari, e imprimeva alla politica ateniese un indirizzo, tendente a dare [74] o a mantenere alla città il carattere e la posizione di sovrana del mare e centro economico e morale del mondo ellenico.
Pochi periodi sono atti a mostrare, al pari di questo, come la storia non è che una lotta di classi; tanto sulla fine del V secolo, in Atene, gl’interessi degli abbienti e de’ proletari, della proprietà fondiaria e della proprietà mobiliare divenivano sempre più opposti e cozzanti, e trovavano un’eco, una voce ed un’arma nella letteratura, nella filosofia, nel teatro. Specialmente la commedia assumeva una forma schiettamente politica; e, sotto i più arditi e più fantastici travestimenti, chiedendo fino agli uccelli, alle vespe, alle rane i nomi e le forme, invadendo le regioni dell’aria e le inferne, portava sulla scena gli uomini e le lotte contemporanee e, grazie alla veemenza della passione e alla facoltà di rispecchiare direttamente e sinceramente la vita popolare, smentiva l’aforisma che poema politico fosse anche necessariamente poema noioso.
Ben dice il Renan[217] che “il quadro della cultura umana creato dalla Grecia può essere indefinitamente allargato, ma è completo nelle sue parti. Il progresso consisterà eternamente a sviluppare ciò che la Grecia ha concepito, a riempire i profili che essa ha, se si può dir così, stupendamente abbozzati„.
Gli è che in Grecia, e specialmente in Atene, con l’accumulazione della ricchezza e la formazione di un proletariato di liberi, col crescere de’ bisogni e con l’industre e ingegnosa operosità nel cercare i mezzi tecnici di soddisfarli, si veniva formando un ambiente, che, nella sua struttura economica, superava spesso i confini dell’economia antica, per costituire come un’anticipazione del nostro ambiente economico; e da quel sostrato materiale di vita, quasi da un terreno lietamente fecondo, germogliavano i maggiori problemi della vita politica e intellettuale e la possibilità di un’elevata coltura e di una vita del pensiero, e instituzioni e concetti giuridici e sistemi di filosofia pratica e speculativa della più larga comprensione.
Quella lotta di classe contro classe che, alla sua volta, facea luogo, nello stesso campo chiuso della classe, ad una lotta più acre di uomo contro uomo, dovea richiamare naturalmente, con [75] la stessa sua persistenza e con la sua azione sempre più deleteria, l’attenzione de’ pensatori, tanto più, quanto, in quel fiorire di tante energie della vita, la loro aspirazione si elevava verso un’associazione politica euritmicamente equilibrata; e si dovea così essere tentati a ricercare le cause sempre più remote di quel dissesto, per poterle recidere nella loro radice.
Quel rigoglioso germogliare d’ideologie, di schemi, di utopie e di teorie, che scalza credenze e costumi tradizionali, che si propone di dare un nuovo fondamento teorico alla società e alla vita giuridica, e indaga le condizioni dello Stato migliore, foggiandone all’occorrenza il modello; ha le sue radici in uno stato di cose incerto, oscillante, non più adatto a’ bisogni presenti, ed è l’indice migliore di un sistema di vita, che sta per compiere il suo cielo, e di un altro che si annunzia in forma vaga ed incerta. L’ordine costituito cercava una giustificazione teorica e non la trovava che nella forza, nell’imposizione di una prepotenza, nella confusione del giusto con l’utile, non universale, ma personale; una giustificazione, che avea in sè gli elementi della sua negazione e, con intento e forma conservatori, riesciva ad uno scopo nettamente rivoluzionario, cancellando virtualmente la differenza tra il padrone e lo schiavo[218] e suscitando così una diuturna insurrezione e un permanente conflitto. Ma tutto ciò non era che la conseguenza logica di quelle condizioni materiali, che, in tutta la Grecia, ove più ove meno, aveano reso più acre e disperato l’urto degl’interessi cozzanti: e le lotte civili di Argo e Corcira, la guerra senza quartiere tra ricchi e poveri, la perversione morale, che accompagnava quello stato di guerra interna ed esterna, non sono spiegate, ma spiegano questa nuova evoluzione delle idee politiche e morali[219].
D’altro canto lo stesso stato di malessere e il senso di angustia materiale e morale, che emanava da siffatte condizioni di vita, dovea riflettersi nel pensiero come l’aspirazione a forme sociali e politiche coerenti in ogni loro parte e organiche nelle loro funzioni. L’unità rotta nella pratica si ricomponeva nella [76] concezione ideale e il dissidio della vita diveniva concordia nel pensiero. “Al punto di vista individualista-atomistico, che identificava senz’altro lo Stato con i suoi temporanei e personali elementi e lo risolveva in un complesso di unità meccaniche, si opponeva un altro punto di vista, il quale riconosceva un interesse sociale collettivo, che non si esauriva nella somma degl’interessi singoli e cercava di concepire lo Stato come un tutto coerente con un contenuto distinto da quello della somma delle sue parti„[220].
Così Socrate riesciva a vedere nello Stato il supremo organismo etico, nella politica lo scopo del benessere universale, nell’arte di governo il compendio di tutte le virtù; ma, appunto perchè della virtù è base il sapere, faceva della capacità la condizione di partecipare alla direzione dello Stato[221]; ed egli stesso, che avea teoricamente riabilitato il lavoro libero, nel campo politico veniva ad abbassarlo, riconoscendo in esso un impedimento a una compiuta educazione civile[222].
E la concezione socratica dello Stato domina tutta la successiva speculazione, che, pur nelle parti in cui se ne discosta, non è che un suo naturale sviluppo.
Nell’ideale concezione platonica lo Stato non è che la giustizia realizzata con una razionale distribuzione di funzioni, compiute da’ più adatti. Ma al grande idealista non avea potuto sfuggire la perturbazione, che alla vita di un tale organismo politico, ed anzi alla funzione di ogni arte[223], arreca il conflitto d’interessi, il contrasto della ricchezza e della povertà; e così Platone introduceva, quasi per necessità logica, quel comunismo, che egli limitava alla classe de’ custodi dello Stato, e che i preposteri o veri suoi satireggiatori[224] e i suoi [77] censori[225], più logici in questo di lui, assumevano in forma più generale.
Quest’ideale comunista, che, pur così circoscritto, appariva la prima volta, per una ironia della storia, nell’opera di uno scrittore aristocratico e di tendenze conservatrici, dedotto da un puro fondamento di ragione, sorgeva troppo tardi e troppo presto: troppo tardi, rispetto ad alcune più antiche e superate forme di utilizzazione sociale o gentilizia della terra; troppo presto, rispetto a quello svolgimento delle forze produttive, che dovea poi dare all’ideale comunista un sostrato scientifico e pratico al tempo stesso e accennare a farne non una categoria logica, ma una categoria storica; non una semplice forma ideale di miglior reggimento, ma una necessità economica presente ed obbiettiva. Il limitato svolgimento delle forze produttive, mantenendo la produzione nel suo periodo di piccola e diretta produzione, facea sentire a’ Greci antichi il bisogno dell’uguaglianza, cioè della proprietà privata estesa a tutti, non già del comunismo, la cui idea, se anche teoricamente trovasse qualche discepolo, rimaneva politicamente sterile. Così Aristotele poteva agevolmente combatterla mettendola in relazione alle condizioni economiche e a’ sentimenti del tempo; come, in base alla semplicità e alla natura inerte dello strumento tecnico, poteva decretare eterna la schiavitù, nè da Socrate, nè da Platone mai rinnegata e le cui catene venivano ora ribadite dal filosofo di Stagira con un sofisma, che non era se non un abile travestimento e un’ingegnosa fusione della teoria socratica, la quale dava il governo a’ più capaci, e della sofistica, che assoggettava i meno forti a’ più forti.
Ma, mentre queste teorie, figlie del loro tempo, presumevano chiudere la realtà nella cerchia delle personali previsioni o della dotta speculazione; per una evoluzione continua e persistente, di cui si percepivano alcuni fenomeni più salienti e si scorgevano i caratteri esteriori ma non si valutavano le conseguenze [78] non immediate, si preparavano, nell’accumulata ricchezza e nel crescente proletariato, gli elementi, che avrebbero poi eliminata la servitù col sostituirvi il salariato. E — val la pena di notarlo — il comico conservatore, che, forte sul terreno della realtà, derideva l’utopia, vedea, senza volerlo, più lontano degli altri, quando introduceva sulla scena la Povertà per additare in essa la causa delle cause di tutta la vita sociale, la ragione ultima del moto automatico di tutta la vita economica e delle sue molteplici attività[226]. La schiavitù stessa non era che uno de’ tanti suoi effetti[227]: rotta la catena, che avvinceva il servo al padrone, ne sarebbe rimasta ancora, come ripeteranno più tardi un retore[228] e un filosofo stoico[229], un’altra invisibile e perciò più forte e più difficile a spezzarsi, la fame, che in maniera difforme, eppure non sostanzialmente diversa, avrebbe riprodotta, sotto diverso aspetto, la soggezione di una parte del genere umano ad un’altra.
In realtà, in tutta la Grecia ed anche in Atene, benchè talvolta sotto forma più larvata, il quarto secolo segna un processo di acceleramento nella formazione di una forte massa proletaria e nella concentrazione della ricchezza.
Il crescere della popolazione e l’aumento del proletariato, anche per l’antichità, costituivano una fonte di legittima preoccupazione e un urgente problema politico e aveano trovato per molto tempo in Grecia il loro sfogo in quel vasto e ardito movimento colonizzatore, che avea per tanta parte contribuito alla grandezza economica e morale della civiltà ellenica. Ma l’espansione coloniale avea trovato anch’essa il suo limite, e, con lo svolgersi più rapido delle energie coloniali e la relativa tendenza [79] all’emancipazione economica e politica, veniva a scemare anche il beneficio indiretto arrecato dalle colonie alla metropoli dopo quello diretto della loro fondazione. Atene, che avea sviluppate le sue interne energie e la sua potenza marittima, quando già altri paesi più precoci l’aveano prevenuta nella espansione coloniale; come, nella rifoggiata tradizione, ne usurpava talvolta il merito, così, nella pratica, ne fu l’occupatrice. Il suo imperio marittimo ascendente è contrassegnato dal corrispondente invio di cleruchie, spedizioni di coloni, che servivano, al tempo stesso, a dare uno sbocco al proletariato ateniese, ad assicurare il dominio della madre patria e a punire alleati defezionati e sudditi ribelli, senza creare comunità autonome, che venissero un giorno in conflitto col paese d’origine, ma seguitassero invece a considerarsi come elementi staccati di questo[230]. La grande catastrofe, in cui avea trovato il suo epilogo la guerra del Peloponneso, avea coinvolto in una ruina gli sforzi del passato e le speranze dell’avvenire; e la difficoltà di collocare fuori patria il proletariato, divenuto più numeroso e più misero in seguito a tutta una serie di disastri, era aggravata dal ritorno de’ cleruchi scacciati. Veramente, dal punto di vista demografico, questi elementi venivano a rinsanguare la popolazione stremata dalla peste e dalla guerra, ma, dal punto di vista economico, le terre, già appartenenti a’ cittadini periti, si erano concentrate ne’ loro successori; e i reduci e i superstiti, che non aveano parte alla proprietà della terra, non poteano che impiegarsi come mercenari, sia ne’ lavori agricoli che in quelli industriali. La pertinacia con la quale Atene, a poca distanza di tempo dalla sua schiacciante sconfitta, tentava di ripristinare la sua fortuna politica e commerciale, e l’invio di cleruchie, che tien dietro ad ogni prospero evento di guerra; ci mostrano anche meglio, quanto urgente fosse il bisogno di trovare un utile impiego ad una parte della sua cittadinanza. Ma le nuove forze politiche entrate nel gioco della politica greca e il loro barcamenarsi per dividere ed imperare, rendevano anche più durevole lo stato di guerra e più malsicuro ogni acquisto; e il rovescio di un momento faceva [80] perdere il vantaggio di molti anni. Così la pace di Antalcida, che ratificava l’autonomia delle città greche, toglieva ad Atene il frutto delle conquiste recenti; e quando, dopo poco meno che un decennio, fu possibile gettare le basi di una nuova confederazione marittima, capace di ridare ad Atene una via di risorgere economicamente e politicamente dal suo abbattimento, in linea preliminare gli Ateniesi dovettero rinunziare “ad acquistare sia a titolo pubblico che a titolo privato case e terre ne’ paesi degli alleati, a comprare, a prendere in ipoteca, sotto pena di vedere confiscato il loro acquisto„[231]. Il campo della loro espansione restava così limitato a’ paesi non alleati, e gli Ateniesi ne profittarono, sempre che poterono, per sopperire a questo loro bisogno avido quanto urgente di terre; ma l’egemonia politica, così disputata e così mutevole in questo quarto secolo, le guerre frequenti e la loro varia fortuna, il sorgere e l’ingrandirsi della potenza macedonica limitavano, contrastavano, rendevano caduchi quegli acquisti[232], che, in ogni modo, non costituivano più, come a’ tempi migliori della potenza ateniese, un largo e sistematico mezzo di scaricare Atene di una parte del suo crescente proletariato. Anzi accadeva talvolta di vederlo improvvisamente ingrossato col ritorno di espulsi cleruchi.
Il quarto secolo segna, abbiamo detto, un passo notevole verso quella concentrazione della ricchezza, che va sempre crescendo nelle età posteriori[233]; e da essa rampollava anche quella nuova fioritura di oligarchie, nelle quali uno scrittore[234], non a torto, ha voluto scorgere la causa prevalente, a cui conviene ascrivere la guerra d’Atene con gli alleati e la dissoluzione della lega marittima.
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Una simile concentrazione della ricchezza, specie immobiliare, viene di solito negata, o, almeno, messa seriamente in dubbio per Atene[235]. Eppure, se in Atene il precedente frazionamento della proprietà immobiliare e, più che quello, la cultura in parte intensiva e la scarsa produttività del suolo offrivano qualche ostacolo alla concentrazione; d’altra parte, ivi stesso, come e più che altrove, operavano le cause efficienti della concentrazione della ricchezza. Più lenta, forse, e meno completa per ragione dello stesso ambiente fisico, essa è solo dissimulata agli occhi nostri, in parte, dalla mancanza di dati concreti e, in parte, dal carattere industriale dell’economia ateniese, la quale, offrendo un utile impiego di lavoro, rendeva meno sensibile e meno deleterio che altrove il crescere del proletariato.
Ma, per via indiretta, guardando agli stessi caratteri esteriori della vita di quel tempo e aggruppando dati di ordine diverso, si può forse riescire a vedere, anche in Atene, lo stesso fenomeno, o, almeno, una spiegata tendenza a realizzare, fin dove gli agenti di ordine opposto lo consentivano, lo stesso fenomeno.
Una notizia sullo stato della proprietà dopo la caduta de’ trenta ci dice che cinquemila cittadini[236], cioè un quarto almeno della cittadinanza, secondo il calcolo comune, e più di un quarto, se si calcola lo stato a cui la cittadinanza avea dovuto venire dopo la peste e la guerra, erano assolutamente privi di ogni possesso fondiario. Che poi anche nella restante parte della cittadinanza la proprietà fosse assai disugualmente divisa, lo dimostrano i tentativi oligarchici di quel torno di tempo, che, dopo essersi provati a limitare a cinquemila cittadini i diritti di cittadinanza attiva, riescivano, alla fine della guerra, ad una più chiusa e più prepotente oligarchia[237].
Inoltre la notizia, che ci avanza, di fortune familiari, esistenti dalla fine del quinto al declinare del quarto secolo[238], accanto alla menzione non infrequente di patrimoni di tre, quattro e cinque talenti, ci mostra fortune di trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, cento talenti. E sono tanto più frequenti ed importanti, [82] quanto più procediamo nel tempo, sino ad arrivare alla fortuna di Difilo[239], che, confiscata sotto Licurgo, avrebbe reso centosessanta talenti, e a quella di Epikrate, cui se ne attribuivano seicento[240]. È vero che in molti casi non sappiamo per quanta parte entrasse in questi patrimoni il possesso fondiario, e, per altri, sappiamo che rappresentavano in gran parte ricchezza mobiliare. Ma non si può fare a meno di osservare che uno de’ più frequenti investimenti della ricchezza mobiliare era il mutuo ipotecario e, in un’epoca di facili rovesci, causati, in mancanza di casi straordinari, dallo stesso più rapido giro degli affari, niente era più facile che il creditore si sostituisse al debitore espropriato, accentrando vari poderi. I discorsi degli oratori ci attestano questa frequenza di mutui ipotecari e ce ne danno un’idea adatta anche le stele ipotecarie superstiti[241], che — fatto molto notevole — cominciano appunto da questo quarto secolo. “Di tutte le stele ipotecarie — si è osservato[242] — neppur una risale alla guerra del Peloponneso. Il numero ne è troppo considerevole oggi, e non si può attribuir ciò al caso della scoverta; onde, senza pretendere che l’ipoteca non sia stata praticata che al quarto secolo, possiamo ammettere che le stele ipotecarie siano riapparse solo a quest’epoca, al momento stesso in cui il sistema delle ipoteche avea il suo completo sviluppo„. Si aggiunga pure che, per quanto, date le varie vicende ed anche le crescenti imposizioni del tempo, la proprietà mobiliare presentasse de’ vantaggi sull’immobiliare, pure il capitale mobiliare dovette essere tratto all’investimento in fondi, quando i cereali, come spesso accadde, crebbero di prezzo[243], e un tale impiego potè apparire proficuo. Il sistema degli affitti, non limitato esclusivamente a’ beni degli enti morali[244], ci attesta anch’esso, con la sostituzione della cultura avente carattere d’intrapresa alla cultura diretta, una nuova fase della proprietà immobiliare.
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Finalmente, non mancano nemmeno chiari accenni e dati concreti, che mostrino possedimenti di larga estensione e una concentrazione della proprietà fondiaria. Demostene vi accenna esplicitamente là dove dice che “parecchi possiedono più terra che non tutti voi che siete nel tribunale„[245]; asserzione ripetuta ed ampliata in un’altra orazione[246], di cui vien negata peraltro l’autenticità. Si è osservato[247], che i presenti nel tribunale poteano essere soltanto duecentoun cittadino, ma potevano essere anche assai di più; e, per il concetto approssimativo che possiamo formarci del numero de’ giudicanti ne’ vari casi[248] e per la natura della causa, è lecito ritenere che sieno stati, in quel caso, assai di più. In ogni modo la proporzione di uno a duecento, tanto più se ripetuta, non è fatta per escludere la concentrazione della proprietà.
Gl’inventari de’ fondi, desunti dagli oratori[249], con un valore indicato, che va da duemila dramme a due talenti e mezzo, non valgono nemmeno a fare indurre una grande distribuzione della proprietà fondiaria, quando si consideri che, data la scarsa produttività del suolo dell’Attica, quelle somme, per se stesse non tenui, poteano corrispondere a proprietà non piccole, tanto più, quanto erano più lontane da Atene. Le vendite di terre, per quel che ne sappiamo, ascendono talora a un prezzo alto di tremila e cinquanta dramme, di due talenti e mezzo; tal’altra hanno un prezzo assai tenue, che può valere come indice dell’assorbimento de’ piccoli appezzamenti[250]. La varietà de’ prezzi inoltre dovea dipendere anche dalla maggiore o minore lontananza dal centro; così che, quando, nelle epigrafi della tassa sulle vendite, troviamo venduti a prezzi non rilevanti terre in demi lontani, come quello di Anaflysto verso il capo Sunio e di Kydantide (alle falde del Pentelico?)[251], il basso [84] prezzo non depone, per sè solo e in via assoluta, contro l’estensione. È stato rilevato che “il tratto caratteristico di un paese di grande cultura è la tendenza che hanno i proprietari ad aggruppare i loro beni in uno stesso luogo, in modo da costituirne una sola coltivazione: la sorveglianza ne è più facile e le spese di mano d’opera diminuiscono. Per tutto, all’incontro, ove la proprietà è sparsa, si può affermare arditamente che il suolo è frazionatissimo„[252]. Ma, se io non m’inganno, qui si identificano a torto due cose, che hanno azione reciproca è vero, ma che non sempre si escludono: — la piccola cultura e la concentrazione della proprietà. La scarsa produttività del suolo dell’Attica avea resa necessaria, insieme ad alcune speciali forme di cultura intensiva, la piccola cultura. In paesi di maggiore fecondità e di cultura estensiva, anche senza uscire dalla Grecia, la concentrazione della proprietà avveniva più facilmente ed assumeva la forma del latifondo. A Sparta specialmente, dove ogni podere aveva la sua scorta viva, non di schiavi propriamente detti, ma di addetti alla gleba, d’iloti, era evitata anche la ben nota incompatibilità della coltura de’ cereali con la mano d’opera servile[253], e il latifondo quindi si costituiva facilmente e rapidamente, con una semplice aggregazione di parti: tutta la fatica consisteva nell’ereditare, o nell’anticipare il capitale d’acquisto. In Atene, invece, il frazionamento della proprietà, reso indispensabile dal metodo di cultura e favorito per un certo tempo da’ poteri dello Stato, opponeva un ostacolo gravissimo alla formazione del latifondo ed un ostacolo relativo alla concentrazione della proprietà, ma non un ostacolo insuperabile, specie rispetto alla concentrazione. Dove il terreno era adatto alla cultura di cereali, o boscoso, facilmente si costituiva il latifondo, e ce ne porge esempio il caso di Fenippo, il cui fondo, se ne valuti come si vuole l’estensione[254], dava un prodotto di mille medimni di grano, [85] ottocento metreti di vino e dodici dramme al giorno di legna[255]. Non abbiamo nessuna ragione di ritenere che questo fosse un caso isolato; ed anzi, dove concorrevano identità di condizioni, secondo ogni probabilità, dovea nascerne il medesimo effetto. Il rincaro stabile de’ cereali, spinto spesso durante il quarto secolo a prezzi di carestia, sino al punto da superare notevolmente il prezzo del vino, come appare dalla stessa orazione contro Fenippo[256], dovette sviluppare sino al suo estremo limite la cultura de’ cereali e con essa la possibilità di fondi più estesi. Nell’inventario de’ fondi menzionati dagli oratori attici, i poderi di due talenti[257] e due talenti e mezzo[258] sono ad Eleusi e a Thria, appunto nelle zone dell’Attica produttrici di cereali. Non manca nemmeno il classico desiderio di arrotondare il proprio fondo, la libido agri continuandi: Demostene nell’orazione contro Callicle ce ne dà un esempio[259].
Ma, indipendentemente dalla formazione del latifondo, che non potea costituire il tratto generale della proprietà nell’Attica, la concentrazione avveniva con la riunione di appezzamenti separati e distinti in mano di un solo. L’attestazione di casi simili ricorre specialmente negli oratori[260]: a questa stregua vanno fors’anche intesi i venti talenti di possessioni immobiliari del banchiere Pasione[261].
Un’altra anomalia, che rappresentava l’eccesso opposto della concentrazione, ma che produceva effetti sociali analoghi, avveniva nella proprietà immobiliare dell’Attica con quel frazionamento [86] crescente de’ piccoli lotti, a cui oggi si dà il nome di polverizzazione del suolo. Ce lo attesta, se non direttamente, almeno indirettamente, il censo del cadente secolo quarto; e del resto era conseguenza naturale di un sistema di successione, che, non riconoscendo il diritto di primogenitura[262], ad ogni passaggio di proprietà per causa di morte, spezzettava ancora il già piccolo appezzamento. La legge[263] poi, o, per chi non la ritenga tale, la consuetudine comune di assegnare in contanti la dote alle eredi, se evitava un maggiore smembramento della proprietà, d’altro lato la gravava di debiti, rendendone sempre più difficile la condizione e formandone un inceppo irrimediabile. La piccola proprietà quindi, pur sopravvivendo, era soggetta ad una crisi permanente. Gli stessi rincari, che secondo Demostene arricchivano gli agricoltori, giovavano in realtà a’ grandi proprietarî i quali avevano molti prodotti da vendere, anzi che a’ minuscoli, che, nelle cattive stagioni si caricavano di debiti, e, nelle buone stagioni, sotto il peso della concorrenza, non riescivano a pagarli con l’esiguo raccolto. La piccola proprietà si veniva a trovare così in una condizione somigliante a quella in cui si trova nel tempo nostro, e il cui malessere intimo fu così bene intuito e rilevato dal Marx, prima, e poi da altri, per la Francia del secondo Impero. In quel paese classico della piccola proprietà, secondo un calcolo fatto pel 1815[264], non meno di un milione centounmila quattrocento ventuno persone possedevano un mezzo ettaro di terra a testa. “Ma — diceva il Marx[265] —, nel corso del secolo decimonono l’usuraio delle città ha preso il posto dell’usuraio feudale, l’ipoteca ha sostituito il tributo feudale, il capitale borghese ha surrogata la proprietà fondiaria aristocratica. Il boccone di terra del contadino [87] non è che il pretesto che permette al capitalista di estrarre dalla coltivazione profitti, interesse e rendite: egli lascia al coltivatore la cura di tirarsi d’impaccio da sè per ritrovare il suo salario... La proprietà sminuzzata produce infine una soprapopolazione disoccupata, che non trova posto nè in campagna, nè in città e che, quindi, corre dietro agl’impieghi di Stato, come dietro a una specie di elemosina rispettabile...„.
I frammenti de’ conti della centesima prelevata sulle vendite[266], che partono appunto dalla seconda metà del secolo quarto, ci mostrano le varie vendite che, mentre nel complesso ascendevano ad oltre tredici talenti, a venti talenti e più, a quattro mila ottocento trentasette dramme, comprendevano il piccolo orto di dugento cinquanta dramme, gli appezzamenti di cento, di centosessantadue, di dugento cinquanta dramme; e in un caso — ciò che non è privo di valore per l’indotta concentrazione della proprietà — una stessa persona, Diofanto Sfettio, ci apparisce tre volte successive come acquirente, e in due altri, due altre persone, Mantiteo e Atarbo, acquistano ciascuno due lotti distinti[267].
Che se dalla concentrazione della proprietà fondiaria, inceppata o attenuata dalle condizioni speciali dell’Attica, si passa alla concentrazione della fortuna in generale, si trova che tanti dati concorrevano a favorirla.
Tra le altre cose, le imposizioni pubbliche.
Senza voler sostituire ad alcune ipotesi non provate altre più lambiccate ed anche meno giustificate, non si può a meno di riconoscere che il carattere progressivo dell’imposta, sia nella forma concepita dal Rodbertus[268], che in quella più accettata [88] del Böckh[269], poggia semplicemente sopra un’ipotesi. Ma, anche ritenendo nella sua integrità l’ipotesi del Böckh, basta dare un’occhiata al quadro dimostrativo da lui redatto[270], per accorgersi che pure quella progressione era tale da lasciare sempre un margine larghissimo ed una via di accumulazione crescente alle grosse fortune; e l’impedimento, così posto al crescere di queste, era inferiore al peso, che ne dovevano sentire le medie e piccole fortune. Ora, per quanto si sia discordi sulla proporzione dell’imposta, si sa nondimeno che fu prelevata dopo Nausinico con relativa frequenza[271]; e i dispendi ordinari e straordinarî, a cui Atene andò incontro e a cui con l’attenuarsi di ogni introito esterno, in dati momenti[272], dovè provvedere del suo, ce ne possono dare una idea conveniente. E non è arrischiato il credere che, anche quivi, accadesse quello che suol sempre accadere sotto un sistema gravoso d’imposte: che i primi a risentirsene e soccombere fossero appunto i meno ricchi, sia per effetto diretto che per ripercussione.
Che poi i più ricchi finissero per riversare su’ meno ricchi il peso della triarchia, lo dice espressamente Demostene[273]: aggiunge, è vero, che egli con la sua legge metteva riparo a ciò, ma resterebbe a saperne gli effetti pratici.
La locazione della triarchia, anch’essa, costituiva sempre un mezzo di profitto[274].
Perfino quello che nelle contribuzioni sembrava un aggravio fatto a’ più ricchi, l’obbligo di anticipare per poi rivalersi (προεισφορά), diveniva, in mano loro, un mezzo per rifarsi. Ed i rimedî escogitati, come quello radicale dello scambio delle fortune (ἀντίδοσις), approdavano a poco, se era così facilmente aperto l’adito a tutte le frodi, di cui abbiamo esempio[275].
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A tutto ciò si aggiungeva un continuo crescere de’ bisogni nella vita di ogni giorno, e abitudini di lusso, che rinnovavano le case[276], gli usi, le fogge, fomentavano la gara della magnificenza e dello sperpero, nella vita privata e nella pubblica, specialmente nelle dispendiose coregie[277], rendendo sempre più grandi e frequenti i debiti, instabili le fortune e continue le loro vicende, e sviluppando, come un termine correlativo, il desiderio del guadagno, il pregio della ricchezza e la brama e i mezzi di arricchire presto. Questi fenomeni, ora esplicitamente accennati negli oratori, ora rivelati da fenomeni che ne costituiscono i sintomi, hanno l’eco più piena nella nuova commedia del secolo quarto, in cui ricorre, ad ogni piè sospinto, magnificata o deplorata, questa oltrepotenza della ricchezza[278], che procaccia considerazione, amici, agi, adulazione e, nell’opinione e nella speranza di chi l’ha, “quasi l’immortalità„. E, di fronte a questa ricchezza che ogni giorno più diviene e si sente una forza, la povertà si presenta come qualche cosa che deprime e fa paura[279].
Gli effetti morali di questo stato materiale si riflettevano naturalmente su tutta la vita, ripercotendosi alla loro volta e generando un nuovo ordine di conseguenze economiche. Le donne, già diffamate, secondo Aristofane, da Euripide, che pure avea creata l’Alcesti, perdevano sempre più di considerazione, di tanto di quanto guadagnavano di prepotenza, di arroganza, di abitudini lussuose e dissipatrici; e il matrimonio diveniva sempre più una cosa temuta, odiata, spregiata. È vero che abbiamo a fare con frammenti di commedie, ma son frammenti della commedia [90] nuova, dove la vita è rispecchiata da un punto di vista affatto realista; e, in ogni modo, fanno senso la frequenza, con cui ritorna lo stesso motivo, e la qualità delle immagini evocate. Le belve feroci, l’infido mare, la tempesta divengono i soli termini di paragone creduti adatti a dare un concetto adeguato delle donne[280]. Alla catena corta e resistente, se non perpetua, del matrimonio si preferiva sempre più lo svago fuggevole della donna vampiro, quale Menandro la figurava nella sua Taide[281] “ardita e fiorente al tempo stesso, e insinuante di modi, che fa de’ torti, che lascia fuori la porta l’amante, che ha sempre qualche cosa da chiedere, che non ama nessuno e sempre finge di amare„; si preferiva perfino quella profanazione dell’amore, dalla quale Filemone[282] traeva occasione per tributare lodi a Solone, e forse non interamente per ironia, come qualcuno vorrebbe[283]. Se “la povertà è per sè stessa un malanno, quando vi si aggiunge l’amore, i malanni diventano due„[284]; il matrimonio si sfuggiva quindi per non rendere più difficile la propria condizione, e, come accade, anche più che non da’ più poveri, si evitava dalle persone di media condizione, che a gran fatica poteano riescire a mantenere il loro equilibrio e tenevano a non peggiorare il loro stato. Come conseguenza generale ne veniva che auspice, consigliera e regola de’ matrimoni era la dote[285]. Un marito che non andasse a caccia di doti era, anche allora, una cosa degna di essere notata[286]. Ahimè! non si comperavano più ingenuamente le donne per tante paia di buoi, come a’ tempi del buon vecchio Omero; ma si pescavano i mariti con l’esca di tante dramme, e non sempre sonanti e contanti. Lo sborso, o il conteggio, formavano il motivo e il sostrato del matrimonio[287], e finivano poi per rendere il marito soggetto alla [91] moglie[288]. E la frequenza e l’importanza delle doti ne’ matrimoni, a confermare questi detti generali de’ comici, ci vengono attestate dagli oratori e dalle epigrafi. Se una dote di dieci talenti costituiva un caso raro, e una dote di cinque non era frequente[289], non mancavano doti di rilievo: ad Atene le epigrafi[290] ce ne mostrano di un talento e di oltre un talento; perfino nella piccola Mykonos, durante l’epoca macedonica, ricorrono doti di diecimila e di quattordicimila dramme[291], senza parlare del corredo che non soleva essere di poco pregio[292].
Un siffatto carattere delle unioni matrimoniali, da un lato rendendo rare le unioni nella classe media e dall’altro favorendo le nozze de’ più ricchi tra loro, dovea riescire a stremare di numero la classe media, a favorire una continua concentrazione di fortune e a mettere di contro a un numero sempre più ristretto di ricchi un numero più grande di proletari; giacchè questi, per il loro stato stesso e per la possibilità d’impiegare in un lavoro retributivo tutti i membri della famiglia, relativamente non trovavano, anche in quel periodo economico, un inceppo così forte alla propagazione. Anche a Sparta l’abitudine diffusa delle doti e il loro incremento aveano create simili conseguenze.
“Se te ne stai inerte, pur essendo ricco, diverrai povero„, dice un frammento di Menandro[293]; e risponde a pieno alle condizioni de’ tempi, in cui l’incertezza degli eventi, la moltiplicità de’ bisogni, la circolazione della ricchezza sempre più vorticosa alimentavano la febbre delle speculazioni e fomentavano lo spirito d’iniziativa, incitando a’ commerci, alle intraprese. Si tentavano [92] nuovi rami d’industria, quanto più, diffondendosi l’industrie usuali, lo smercio de’ prodotti, ne’ mercati esterni, veniva limitato dalla concorrenza anche indigena. Si cercava di acclimatare in Atene, con la importazione delle materie prime, la lavorazione di quegli oggetti di lusso, che corrispondevano ogni giorno più ad un bisogno e che prima erano importati belli e compiuti[294].
Lo stesso svilupparsi dell’industria rendeva indispensabile in parecchi rami di essa un capitale iniziale (ἀφορμή), e, se non in tutte, in più di una il capitale più forte potea assicurarsi una prevalenza, e rendeva più, in proporzione del maggiore suo impiego. Non tutte le industrie e i mestieri comportavano un ampliamento verso la manifattura, ma, dove ciò era possibile, la manifattura sorgeva e si estendeva, abbracciando vari rami di produzione e impiegando sino a centoventi persone[295]. È stato rilevato che la manifattura non era in grado di poter fare una vittoriosa concorrenza agli artigiani isolati, perchè non poteva trarre partito dall’impiego meccanico delle forze naturali[296]. Certamente la manifattura non era l’opificio moderno, ma pure essa era, se non il solo organo, almeno quello più adatto alla produzione di manufatti, che esigessero il concorso di molte persone e un anticipo di capitale di qualche rilievo. In certi altri rami della produzione potea ottenere, con la divisione del lavoro e l’uso di strumenti più adatti, prodotti più perfezionati. “La manifattura — dice il Marx[297] — non potea abbracciare in tutta la sua estensione la produzione sociale, nè trasformarla radicalmente. Essa culminava come una economica opera d’arte sull’ampia base dell’artigianato cittadino e dell’industria casalinga rurale. È ad un più alto grado di sviluppo che la sua angusta base tecnica venne in contrasto con le stesse esigenze della produzione da essa generata„.
Il capitale, che cercava impiego, e la possibilità di raccogliere più facilmente mezzi e forze adatte, favorivano il sistema degli [93] appalti nella esecuzione delle grandi opere pubbliche, come la ricostruzione delle lunghe mura e la costruzione dell’arsenale (σκευοθήκη) ad Atene[298], o il prosciugamento di una palude a Eretria[299], ed altre opere pubbliche a Delo, Tegea, ecc.[300], di cui abbiamo ancora i prospetti di appalto. Tutti fatti e condizioni, che, dando agio di più guadagnare a chi più avea, specialmente in quanto mancavano d’ordinario le restrizioni imposte nell’epigrafe di Tegea[301], concorrevano anch’essi, naturalmente, ad accumulare la ricchezza in una cerchia relativamente ristretta e rendevano sempre più spiegata la disparità delle fortune.
Le intraprese e i commerci aveano, s’intende bene, i loro rischi, ma questi stessi, con le ruine che seminavano, compivano una selezione a rovescio, a danno de’ meno ricchi ed a favore de’ più ricchi.
L’immagine economica e demografica di Atene sul tramontare del secolo quarto ci è data, benchè in maniera non molto particolareggiata ma soltanto a grandi tratti, dalla riforma costituzionale avvenuta per opera di Antipatro nel 322, con la quale si rilevò che su ventunmila cittadini, ben dodicimila non raggiungevano una sostanza di duemila dramme[302]. Quanti di questi dodicimila fossero a dirittura proletari, non ci vien detto; ma, in ogni modo, si può ben ritenere che, anche quando tutta la sostanza non si compendiava nella sola casa di abitazione, occorreva loro ricorrere al lavoro per alimentare se stessi e la famiglia. Il piccolo campo spesso non avea che delusioni per il coltivatore: in Menandro l’agricoltore parla di questo suo campo che, con vero senso di giustizia, gli rende tanto orzo quanto ve ne ha messo[303]; in Filemone, anche peggio, pare che “il campo si [94] voglia vendicare di chi lo raschia e lo fende[304]: per venti medimmi di orzo, non ne riporta neppur tredici; è insomma un vero ladrone„[305]; e l’agricoltore “non vive che di speranza, giacche è sempre ricco, ma sempre per l’anno che verrà„[306].
Il numero de’ liturgi, limitato a milledugento con un possesso superiore a due talenti, e tutti gli altri dati innanzi considerati, che sembrano attestare una concentrazione sempre crescente della ricchezza, inducono a credere che, anche tra i novemila, non pochi toccassero, o superassero appena, una sostanza di duemila dramme, e anche questi erano quindi costretti a chiedere al lavoro la sussistenza. Ed è notevole vedere, in qualche frammento de’ comici, come si andasse facendo strada questo concetto della necessità di lavorare per vivere, che, naturalmente, contribuiva ad eliminare sempre più i pregiudizî sul lavoro manuale. “Cerca di trarre donde che sia la tua sussistenza, pur che non faccia cattive azioni — dice Menandro„[307]. “L’accidia — soggiungeva altrove egli stesso — non alimenta i poveri oziosi„[308]. E Filemone[309]: “O Cleone, smetti le ciarle: se tarderai ad imparare, senza avvedertene, avrai privato di un sostegno la tua vita. Un naufrago non si salverebbe, se, sospinto, non prendesse terra; nè un uomo, divenuto povero, potrebbe assicurarsi l’esistenza, quando non avesse imparata un’arte. — Ma io ho una sostanza. — È presto distrutta. — Fondi, case. — Non ignori le vicende della fortuna, che dall’oggi al domani fa del benestante un mendico. Se alcuno ormeggiò nel porto dell’arte, quegli gettò l’áncora, ponendosi al sicuro; chi non si è fatto esperto in qualche arte, e gli accade di essere travolto dal turbine, non ha modo nella vecchiezza di salvarsi dalla miseria. — Ma vi sono soci, amici, camerati, per Giove, che ti porteranno soccorso. — Prega di non avere a fare esperienza degli amici; se no, ti accorgerai di essere niente altro che un’ombra„.
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E occasione di lavoro non poteva mancare, sia per la ripresa della costruzione di opere pubbliche sotto Licurgo, sia per la moltiplicità de’ bisogni ordinari e di lusso sempre più sviluppati in Atene.
Ma in quali condizioni, intanto, si trovava il lavoro servile, e quale era la sua azione e la sua funzione rispetto al lavoro libero?
Un censo fatto, come vorrebbe un frammento di Ctesicle[310], da Demetrio il Falereo, in anno, che non si può con sicurezza determinare per la lacuna del testo ma che si tende a fissare nel 309[311], ci rivelerebbe l’esistenza nell’Attica di quattrocentomila schiavi; una cifra che si può dire enorme, solo che la si riferisca al numero de’ cittadini (21.000) ed a quello de’ metèci (10.000), od all’area dell’Attica e alla presente sua popolazione[312]. E, in verità, quel dato inspirò così poca confidenza, che, comunque abbia trovato nel Böckh[313] un difensore ed abbia ancor oggi chi gli presta fede[314], nondimeno, da David Hume in poi, è stato revocato in dubbio e scalzato continuamente; e non pare proprio più possibile ritenerlo, specialmente dopo la scoperta de’ conti del tributo ad Eleusi[315], che ha tolto il fondamento ad altri conti sulla produzione de’ cereali dell’Attica. Si è cercato allora di giungere per via indiretta, emendando testi e calcolando la produzione, l’importazione e il consumo de’ cereali, a determinare il vero numero degli schiavi alla fine del IV secolo; ma il fatto stesso che questo numero si è potuto fare ascendere a centoventimila[316], a centottantotto, [96] o dugentremila[317] e a centomila circa[318], mostra che, nell’affermare e ricostruire, si è ben lungi dall’aver raggiunto il risultamento ottenuto nel negare e demolire.
Io cerco dimostrare altrove[319] come questi dati, non solo mancano di ogni criterio di certezza, ma eziandio di una base positiva, e rientrano “in quella statistica congetturale, che, per dirlo con l’Engel, serve a sviare ed è peggiore della mancanza di statistica„[320].
Mi proverò qui piuttosto a vedere, se è mai possibile cogliere, ne’ fatti, nelle condizioni e ne’ sentimenti del tempo, qualche cosa che accenni, già durante il secolo quarto, ad un iniziale decadimento della schiavitù e al primo sorgere di quel germe, che poi, sviluppandosi sempre più, la doveva dissolvere ed eliminare.
Tra la fine del secolo quinto e il principio del quarto, tutta la massa di schiavi d’Atene si trovava stremata e quasi annichilita. Sarebbe occorso quindi ricostituirla, e non era impresa facile. L’economia a schiavi si cominciava a diffondere ora, per le moltiplicate esigenze della vita e la diversa distribuzione della ricchezza, su di una zona più larga, sia della Grecia che del bacino del Mediterraneo in genere, usciti dallo stadio economico più semplice e primitivo. Ciò, bilanciando l’azione di paesi, dove la schiavitù cominciava a essere sostituita dal salariato, teneva ancora talvolta al primo livello il prezzo degli schiavi, o, in virtù del minor potere d’acquisto della moneta, tal’altra lo rialzava.
Atene mostra di aver raggiunto nel quarto secolo un grado elevato di sviluppo economico, in quanto le riesce di riannodare le tradizioni del secolo precedente e rifare, in maniera meno urtante per l’ambiente in cui si svolgeva, il cammino già percorso e troncato violentemente, mettendo a profitto l’esperienza, i tentativi, i risultamenti, le attitudini acquistate nel tempo passato. Ma non si può dimenticare che la [97] contrastata egemonia e l’ambito primato di Sparta, il dissolversi della seconda lega marittima, l’ostinato defezionare dell’Eubea, la crescente potenza macedonica fanno del secolo quarto, per Atene specialmente, una serie persistente di guerre, interrotte da non lunghi periodi di pace come il periodo della prevalenza di Eubolo, e riparate in qualche modo da brevi periodi di amministrazione sapiente come quella di Licurgo. Più volte, e specialmente al finire della guerra con gli alleati[321], in mezzo a quella prosperità, spesso esagerata e larvata dalle belle parvenze ingannatrici di cui s’adornava, Atene s’era trovata a mal partito; e le sue energie interne, da cui omai traeva la sua forza, erano apparse stremate e isterilite sotto l’azione combinata di quelle cause nefaste, che ne impedivano tutta l’espansione e ne esaurivano le sorgenti.
Se Atene potè tener testa a tante influenze malefiche e raggiungere e mantenere un certo grado di prosperità, lo dovette a questo risvegliarsi di attività, che fece volgere i suoi cittadini con rinnovata lena al lavoro, alla produzione, a’ commerci sopra tutto, che erano allora la via migliore d’arricchirsi. La forma più elementare e rude di parassitismo, che consisteva, all’esterno, nello smungere tributi agli alleati e, all’interno, nel vivere oziosi alle spalle de’ servi, cominciava a cedere il posto ad altre forme di parassitismo più complesse e perciò stesso meglio larvate.
La proprietà fondiaria, laboriosamente, è vero, accennava a concentrarsi, ma pur si andava concentrando; e potrebbe sembrare che ciò costituisse un elemento favorevole all’incremento di schiavi agricoli. Pure, ad un effetto diverso conducevano la natura del suolo dell’Attica, poco produttivo, l’estendersi della coltura de’ cereali, il crescere del proletariato agricolo e di quel quasi-proletariato di minuscoli possidenti, che, non trovando sufficiente impiego nel loro boccone di terra, dovevano divenire, volta a volta, mercenari e fittuari. Come è stato già rilevato innanzi, la coltura de’ cereali dovea essere favorita dal crescente prezzo de’ cereali, dalla distruzione delle vigne avvenuta durante le incursioni dell’Attica (Lysia parla anche degli oliveti [98] abbattuti[322]), dalla concorrenza sempre maggiore de’ vini forestieri, che a poco a poco facevano sì che non si parlasse più de’ vini dell’Attica. È stato pure osservato[323] che, per l’indole sua, la coltura de’ cereali, non esigendo un’opera continua e ininterrotta, tende a limitare l’impiego degli schiavi per sostituirvi lavoratori presi a mercede secondo il bisogno, specialmente dove la terra non è così largamente remuneratrice da compensare lo sperpero nelle spese di produzione, nè così abbondante da permettere un continuo avvicendamento di area coltivabile. In qualche regione del mezzogiorno d’Italia, dove la cultura de’ cereali si fa senza sussidio di mezzi meccanici, e gli stessi animali sono adoperati soltanto per la trebbiatura, bastano da quaranta a quarantaquattro giornate di lavoro per eseguire tutto quanto occorre per un ettaro di terra, dalla preparazione alla raccolta. La contemporaneità poi de’ lavori nelle culture simili esclude l’impiego successivo dello stesso lavoratore.
La stessa coltura dell’olivo, più persistente nell’Attica di quella della vite, a quanto possiamo dedurre dalla menzione che si seguita a farne, non era tale da favorire l’impiego degli schiavi.
D’altra parte appartengono appunto al quarto secolo avanzato le menzioni di locazioni d’opera agricola; menzioni, che hanno il loro valore, anche nel caso che l’opera locata è quella di schiavi[324].
Appartengono pure in gran parte a questo periodo i documenti di affittanze[325], che prendon le mosse da cifre basse di dieci dramme e di cinquantaquattro dramme per l’Attica[326], di diciassette dramme per Delo[327]. Lysia[328] accenna, in breve spazio, più volte a queste piccole affittanze.
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Ciò per l’agricoltura.
Ma, v’era l’industria; e la notizia di schiavi, adibiti nelle fabbriche di Atene, ha facilmente menato ad esagerare il loro numero e ad indurre che tutta l’industria fosse nelle loro mani.
Ora, anzi tutto, non bisogna esagerare lo sviluppo dell’industria in tutta l’antichità, e in particolare in Atene. La grande importanza del capitale commerciale e la prevalenza di esso sul capitale industriale ci attestano appunto che l’industria si trovava ancora ad un livello inferiore. Il commercio, raccogliendo in grandi masse la produzione de’ singoli produttori e poi distribuendola, sopperiva appunto alla mancanza di grandi centri di produzione, e trovava in questo suo compito la ragione della prevalente sua importanza e la fonte degl’ingenti suoi guadagni. Costituiva il presupposto e il fomite della grande produzione; ma la sua prevalenza è in ragione inversa dello sviluppo di questa; e la egemonia del capitale commerciale nell’antichità è un sintomo del limitato sviluppo industriale[329].
“Negli stadî, che precedono la società capitalistica, il commercio domina l’industria; nella società moderna accade il contrario. Il commercio naturalmente reagirà più o meno sull’ambiente, in mezzo al quale esso viene esercitato; esso assoggetterà sempre più la produzione al valore di scambio, facendo dipendere i godimenti e la sussistenza dalla vendita, anzi che dall’uso immediato del prodotto. Così dissolve gli antichi rapporti; accresce la circolazione della moneta; non raccoglie [100] più soltanto l’esuberanza della produzione, ma prende nel suo ingranaggio, a poco a poco, anche questa, e mette sotto la sua dipendenza tutti i rami di produzione„[330].
Uno degli effetti di questo processo economico era il sorgere delle manifatture in Atene; ma, come si è visto, queste abbracciavano soltanto qualche branca della produzione. E l’impiego degli schiavi nelle manifatture trovava la sua ragione d’essere e la sua utilità nella divisione del lavoro, che là massimamente si potea realizzare.
“L’ignoranza — dice il Marx — è la madre dell’industria come della superstizione. Riflessione e facoltà immaginativa sono soggette all’errore; ma l’abitudine di muovere il piede, o la mano, non dipende dall’una cosa, nè dall’altra. Così potè dirsi, rispetto alle manifatture, che la loro perfezione consiste nel potersi privare dello spirito, in modo che il laboratorio può essere considerato come una macchina, di cui gli uomini sono le parti„[331].
La successiva divisione del lavoro, che risolveva e scomponeva in un lavoro semplice e tutto materiale la complicata elaborazione tecnica di un prodotto, non poteva trovar niente che meglio dello schiavo, di questo strumento animato, si adattasse come un utensile automatico, a compiere la sua opera monotona ed estenuante. La materialità del lavoro risoluto ne’ suoi più semplici elementi permetteva pure, secondo la diversa specie de’ prodotti, di adoperare schiavi non affatto esperti di un lavoro qualificato, o di educarli, in tempo relativamente breve, ad un certo lavoro meccanico, e quindi di averli più a buon mercato. Così, mentre gli schiavi di Demostene adoperati nella fabbrica d’armi, dove era richiesta maggiore abilità, valevano da cinque a sei mine l’uno[332], gli schiavi fabbricanti di mobili valevano di meno, forse quattro mine l’uno, forse due mine, se si ritiene che essi costituissero un pegno uguale al valore del credito. Inoltre per una manifattura, che rappresentava l’esercizio continuo e [101] ininterrotto di una industria, un personale fisso e invariabile costituiva un vantaggio non trascurabile. Ma noi ignoriamo se, come pur taluno suppone[333], accanto a questo personale fisso, non fosse adoperato, specialmente in vista del temporaneo crescere e contrarsi della produzione, anche un certo numero di lavoratori liberi.
In ogni modo accanto alla manifattura, o contro di essa, esisteva tutta un’altra specie di lavoro, che, per la maggiore esperienza tecnica, per la necessità di uno spostamento continuo, da luogo a luogo, di chi l’esercitava, e per altre consimili ragioni, sosteneva e sviluppava la classe de’ lavoratori liberi.
“Quantunque — soggiunge il Marx[334] — il frazionamento del lavoro tecnico abbassi il costo di produzione e con esso il valore de’ lavoratori, occorre sempre, per il più difficile lavoro di dettaglio, da parte dell’apprendista, un più lungo tempo di noviziato, che viene severamente fatto rispettare da’ lavoratori. Troviamo p. es. in Inghilterra le laws of apprenticeship in pieno vigore, col loro alunnato di sette anni, sino alla fine del periodo della manifattura, e le vediamo eliminate soltanto dalla grande industria„.
Un’altra condizione dell’impiego del lavoro servile è che lo si possa far compiere in poco spazio, così che la sorveglianza sia facile, poco costosa e tale da eccitare negli schiavi il timore, impulso per essi al lavoro, come sono per i liberi il bisogno e la speranza[335]. La manifattura e l’industria estrattiva realizzavano questa condizione; non così altri rami di operosità.
Segno ed effetto di un rivolgimento nelle condizioni della produzione, è anche il concetto, già in parte notato innanzi, della ricchezza e della povertà.
Il commercio ravvivato e divenuto il principale fattore della [102] ricchezza rendeva sempre più ordinario lo spettacolo di fortune rapidamente fatte e rapidamente sperperate, e induceva una graduale eliminazione di scrupoli morali. Ce ne fanno prova le simulazioni, le frodi, gli artifici, onde abbondano le arringhe degli oratori. Ne’ comici ricorre l’osservazione che “l’uomo giusto non diviene ricco„[336]; che “nessuno divenne mai ricco in breve ora, mantenendosi giusto„[337]; ma, del pari, come vero riflesso de’ tempi, torna con insistenza l’altro motivo della intollerabilità della miseria e della onnipotenza della ricchezza. “Fece molti infelici chi per primo trovò pel povero l’arte che lo tiene in vita; era più semplice che morisse chi non può vivere senza dolore„[338]; e, rimpetto a questo lamento sorge l’altro grido: “credi che questa vita è un mercato„; “il danaro rende schiavi i liberi„; “l’oro apre tutto, anche le porte dell’inferno„; “la povertà rende inonorato anche il bennato„[339]. Quella potenza impersonale e onnipresente del danaro, di cui Aristofane avea data già la più efficace e suggestiva rappresentazione, veniva ogni giorno crescendo e divenendo più palese, e sostituiva i rapporti più semplici e rudimentali d’immediata dipendenza, già concretati nella schiavitù. Come dovea più tardi osservare Ateneo[340], la schiavitù, e ciò si può dire specialmente d’Atene, cominciava a rappresentare semplicemente una delle tante forme d’impiego del capitale, e si andava sempre più restringendo a que’ casi, in cui poteva apparire come un impiego utile, assumendo, per giunta, forme molteplici ed ibride, che denotano, in maniera abbastanza perspicua, il degenerare dell’economia servile.
Schiavi dati in pegno[341], schiavi presi a mercede[342] s’incontrano [103] con una relativa frequenza. Ora, l’ho notato altra volta e v’insisto, per quanto si tratti di schiavi, ciò indica un successivo incremento della locazione d’opera, e indica, al tempo stesso, la fine di quella forma di produzione diretta, in cui materia prima, strumenti di produzione, lavoratori appartengono tutti al padrone. Con gli schiavi dati e presi a mercede accenna a finire la produzione fatta direttamente in vista del consumo; si annunzia la scissione del capitale e della mano d’opera, e il servo preso a salario preannunzia e fa supporre il libero salariato.
Appariscono pure i servi divenuti, dirò così, semplicemente tributari (χωρὶς οἰκοῦτες)[343], che non solo non sono più impiegati direttamente dal padrone, ma sono fuori della sua diretta dipendenza, fuori della sua vista, che abitano a parte e compendiano il loro rapporto col padrone nel pagamento di una parte de’ loro guadagni. Essi lavoravano, esercitavano il loro mestiere, commerciavano sopra tutto, spiegando tutta la loro attività e apparecchiandosi i mezzi per comprare dal padrone il loro affrancamento[344]. Il salariato veniva così ad essere il terreno comune, in cui si ritrovavano e si confondevano schiavi e proletari, e si veniva quindi rilevando il concetto dello schiavo. Già dal secolo quinto, del resto, con una punta di sottile ironia, l’autore dello Stato degli Ateniesi pseudo-senofonteo, notava che se una legge avesse permesso di battere lo schiavo, o il metèco, o il liberto, spesso sarebbe accaduto di battere un Ateniese, “giacchè il popolo non veste punto meglio degli schiavi e de’ metèci, nè, all’aspetto, è loro superiore„[345].
La potenza del denaro, che entrava come una irresistibile livellatrice, cancellando ogni altra distinzione, si ripercoteva anch’essa, sulla posizione e sulla considerazione degli schiavi.
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Riesciva loro non di rado di divenir ricchi, e “dove gli schiavi son ricchi — soggiungeva l’autore dello Stato degli Ateniesi[346] — non conviene che il mio schiavo ti tema„.
Uomini di fiducia de’ banchieri, coadiutori de’ maggiori commercianti, finivano talvolta per divenirne i soci, i successori, gli eredi, con lo sposarne, in seconde nozze, le mogli[347]. Anche, quando ciò non accadeva, godevano della potenza riflessa del loro padrone, temuti, adulati, corteggiati da tanti di que’ liberi, che, attraverso il cuore o il favore del servo, voleano giungere a quello del padrone.
Gli schiavi pubblici, godenti di maggiore libertà e di maggiori prerogative[348], chiamati spesso a mettere le mani sul cittadino libero, come esecutori della legge, rinnegavano ogni giorno, con l’atto pratico, l’abisso, che, teoricamente, dovea separare il libero dallo schiavo. Schiavi pubblici ateniesi, che sapevano di lettere, erano messi al fianco di cassieri e generali, per servire un giorno di controllo e di mezzo di accusa contro di loro[349]; e si può immaginare quale autorità e quale reale potere, a dispetto del loro stato inferiore, dovessero riescire ad acquistare.
Con queste nuove condizioni create a’ servi dalla forza stessa delle cose e dall’azione spesso inconsapevole degli uomini, che doveano cedere ad essa; non è a meravigliare, se si veniva modificando, a grado a grado, al tempo stesso, la loro posizione giuridica e morale.
L’Economico di Senofonte rileva già, da un punto di vista schiettamente utilitario, tutto l’interesse, che debbono avere i padroni a trattar bene i servi[350]. A ciò doveano incitare specialmente i casi non lontani della guerra di Decelea.
Che una vera rivolta di schiavi avesse avuto luogo al principio o alla fine del quinto secolo, non solo non è accertato, ma sembra si debba escludere almeno pel tempo più antico[351]. In [105] ogni modo, non potea mancare negli schiavi quell’attitudine passivamente ostile, di cui vi è l’eco in qualche autore, e che, in condizioni più adatte, a Chio, nel secolo seguente e, poi, nell’Attica stessa[352], per ripercussione di altri paesi, dovea prorompere in aperta ribellione. Questi sintomi non poteano fare a meno d’inspirare qualche preoccupazione.
La condizione degli schiavi si veniva dunque migliorando, e al loro miglioramento doveva contribuire non poco il restringersi del loro numero. Non a torto queste migliori condizioni degli schiavi sono state già da lungo tempo invocate come un argomento, se non come una prova, del numero limitato degli schiavi dell’Attica.
L’uccisione del servo e perfino il suo maltrattamento era soggetto a pena[353]; e questa tutela dello schiavo, che un secolo prima avea ricevuto un’interpretazione affatto pedestre, riflettendosi nella coscienza civile del quarto secolo, riappariva sotto la forma di un elevato sentimento etico, di un’alta ragione sociale. “Se rifletterete su ciò, o Ateniesi — diceva Eschine[354] — troverete che questa è una delle cose migliori; giacchè il legislatore non si dette pensiero degli schiavi; ma, volendo che vi avvezzaste ad astenervi dal fare ingiurie a’ liberi, v’impose di non recare ingiuria nemmeno a’ servi. Egli credette che, chi in una democrazia fa ingiuria a chi che sia, non è adatto a convivere politicamente con gli altri„. E l’orazione contro Midia[355] ripete presso a poco, con parole non dissimili, lo stesso concetto.
È vero che la mancanza di una personalità giuridica nello schiavo rendeva il più delle volte teorica, anzi che pratica, questa sua tutela, specialmente verso il padrone[356]; ma a qualche cosa, come un ritegno, pur potea servire. Più praticamente efficace [106] forse era l’espediente del rifugiarsi in luoghi sacri, specialmente nel tempio di Teseo. Fuori di Atene, ad Andania[357], per esempio, si era, appresso, attenuato questo, che per i padroni era un inconveniente, introducendo limitazioni forse maggiori e abilitando il sacerdote alla restituzione; ma in Atene lo schiavo acquistava il diritto, dopo constatati i maltrattamenti, a farsi rivendere ad altri, il che, in molti casi, era una via alla manomissione[358].
Il sostrato morale della schiavitù era già venuto meno. Quella vicenda continua di guerre che faceva, a vicenda, schiavi i liberi e liberi gli schiavi; l’introduzione ora legale[359], ora clandestina di schiavi manomessi tra i cittadini; quella alterna depressione ed elevazione di liberi e di schiavi sotto l’azione della ricchezza e della miseria; l’allargarsi degli orizzonti morali e intellettuali de’ Greci, che cominciava a renderli un po’ meno sprezzanti verso lo straniero[360]; le relazioni internazionali più frequenti, nell’intrecciarsi de’ rapporti politici e commerciali; erano tutte cose che preparavano a concepire l’uomo attraverso i mutevoli rapporti politici e sociali e, prima anche che a concepirlo, a sentirlo.
Ben potevano i filosofi, nell’intento di dare un fondamento etico e necessario all’esistente ordinamento economico o politico, giustificare, con un sottile sofisma, la schiavitù, o cercare di sorreggerla, escludendone gli uomini di stirpe ellenica. Pure non mancavano filosofi che negassero il fondamento naturale della schiavitù[361]; mentre, d’altra parte, qualche sofista, per la sua maniera di concepire il diritto naturale, arditamente vedeva nel rapporto de’ padroni e servi un puro stato di fatto, che la violenza avea creato e di cui un’altra violenza avrebbe potuto invertire le parti[362]. E nella vita di ogni giorno, perfino [107] negl’incanti[363], lo schiavo ricompariva col suo appellativo di uomo; e la commedia, facendosi specchio della vita popolare ed eco della sua coscienza, tale lo ribattezzava sulla scena. Che momento dovette esser quello, in cui sulla scena di Atene risonarono que’ noti versi di Filemone: “Se anche alcuno sia servo, non è, o padrone, meno uomo di quel che tu sia„[364]; e: “Se qualcuno è schiavo, è pur fatto della stessa carne; nessuno mai fu schiavo per natura; è la sorte che ne asservì il corpo„[365]. E nel teatro probabilmente v’erano degli schiavi!
Per un bisogno materiale, insieme, e morale si attenuavano certe asprezze della schiavitù, senza pur riuscire ad eliminarle; perchè la fustigazione[366], la tortura nelle inquisizioni giudiziali[367], rimanevano, ora e poi, una consuetudine ed una legge. Ma le mitigazioni non giovavano a sorreggere l’istituzione: cominciava ad accadere quello, che acutamente è stato detto di un periodo successivo della schiavitù e che può ripetersi di tutte le instituzioni, le quali vanno perdendo la loro ragione economica e sociale: “più si cercava di migliorarla e meno diveniva vitale„[368].
Col venir meno della facoltà di usare ed abusare, col restringersi del potere illimitato del padrone, veniva meno uno de’ motivi, che, data la scelta, potevano fare anteporre la schiavitù al salariato.
E, in realtà, il lavoro libero era destinato sempre più ad aver ragione del lavoro servile, per l’effetto continuo e più [108] di condizioni antecedenti e pel maturare di nuove condizioni.
La divisione del lavoro sociale, che avea addossato a’ servi il compito della produzione materiale per affidare a’ liberi quello della guerra, si era venuta via via adombrando e sfumando col restringersi dell’obbligo regolare della milizia alle classi possidenti, e poi con l’introduzione e lo sviluppo delle milizie mercenarie. Il proletario, chiamato in via straordinaria e in emergenze eccezionali ad una guerra sopratutto difensiva[369], potea attendere ad un lavoro continuo forse meglio degli schiavi, che, insieme a’ meteci, venivano sopperendo a’ bisogni della flotta[370]; e le milizie mercenarie scaricavano il proletariato della parte più instabile, più amante di avventure e meno adatta all’esercizio di un mestiere.
Al tempo stesso la schiavitù si veniva, ogni giorno più, rendendo e mostrando meno utile e, come su di un corpo esaurito fioriscono a gara i malanni, venivano germogliando dal suo stesso seno i caratteri esteriori e i sintomi allarmanti del dissesto interno che la travagliava.
La mancanza o l’incertezza, sia reale sia supposta, di dati incontrastabili sul prezzo reale degli schiavi, di cui conosciamo il rendimento giornaliero[371], non ci permette di fissare, con sicurezza di criteri, il tasso medio, o almeno massimo e minimo, del profitto dato dagli schiavi, che così viene calcolato da diversi autori diversamente[372]. Ove, mettendo da parte le interpretazioni e le considerazioni correttrici del Böckh[373], se ne adotti semplicemente il calcolo materiale, si trova come il profitto degli schiavi, che, al tempo della guerra del Peloponneso, era del 47 11⁄37 % sugli schiavi impiegati nelle miniere, era invece [109] del 15 15⁄19 e del 30%, al tempo di Demostene, su gli schiavi adibiti nella fabbrica di armi e in quella de’ mobili.
Considerando la cosa da un altro punto di vista, si ha che gli schiavi minatori di Nicia rendevano un obolo al giorno, e, almeno pel tempo della locazione, il padrone era garantito contro la loro mortalità e, in genere, contro la loro decrescenza[374]. Alla distanza di un secolo quasi, gli schiavi di Timarco, lavoratori di cuoio e perciò addetti ad un lavoro qualificato, rendevano due oboli al giorno, che, per lo scemato valore d’acquisto della moneta valevano meno, o al più altrettanto, dell’obolo del secolo precedente; e, per giunta, il rischio della loro perdita era continuo ed a carico del padrone.
Ancora: la tendenza ad un tasso unico del profitto avrebbe, in ultimo, fatto sì che il profitto dato dagli schiavi venisse a mettersi al livello de’ profitti dati da altri investimenti, col volgersi de’ capitali a quel ramo di speculazione. Ma, tenendoci anche, in forma assoluta, al tasso di profitto forse esagerato, che attestano i dati di Demostene, si ha che gli schiavi non davano un profitto superiore a quello di altre imprese commerciali, le quali apparentemente più rischiose, non presentavano, in fondo, maggior pericolo dell’investimento fatto in un capitale di schiavi. La mortalità degli schiavi, che, come ci mostrano i recenti esempi delle colonie, si è mantenuta sempre in proporzioni elevate, sino a raggiungere e sorpassare la proporzione del 5%, sino a ridurre la vita media dello schiavo a sedici anni e meno ancora; non ha potuto a meno di essere elevata anche nell’antichità; e il profitto elevato dello schiavo, anche nel migliore de’ casi, era assorbito o reso insufficiente dalla notevole rata di ammortamento.
La mortalità, del resto, non rappresentava che il rischio ordinario; ma, accanto a quello, ve n’erano tanti altri straordinari, che pareggiavano e superavano l’ordinario.
L’ambito ristretto degli Stati greci e le guerre frequenti con gli Stati più vicini esponevano ad una continua perdita degli schiavi, sia per le incursioni de’ nemici, che si ritiravano traendosi [110] dietro un bottino di liberi e di servi (ἀνδράποδα)[375], sia per le fughe agevoli de’ servi, attratti spesso da’ nemici con la lusinga e talvolta col dono della libertà. Queste fughe, che preoccupavano tanto, da costituire motivi di doglianza tra gli Stati e oggetto di speciali clausole ne’ trattati[376], inceppavano l’utile impiego degli schiavi ed aumentavano le spese, già notevoli, di vigilanza e custodia. Eppure, tutto ciò non bastava. La cosa era venuta a tale, che, nel periodo macedonico, potè sorgere una forma di contratto di assicurazione; ma ciò importava un’altra annua spesa di otto dramme[377].
Il complicarsi e l’intrecciarsi degl’interessi, che esigevano tutela, portavano un assetto giuridico sempre più distinto, sviluppavano la responsabilità de’ padroni per alcuni fatti de’ loro schiavi[378]; e, anche sotto questo rapporto, la cosa non era senza danno per i padroni. In tempo più avanzato, ma in paesi di rapporti economici meno sviluppati, lo schiavo, di solito, per le sue colpe è soggetto alla fustigazione; ma pel furto si aggiunge che debba pagare il doppio del valore rubato e una multa di venti dramme, con obbligo al padrone, sotto la propria responsabilità, di consegnare lo schiavo al danneggiato, in caso di mancato pagamento[379].
Un altro elemento sfavorevole alla schiavitù erano le condizioni del mercato de’ cereali. Si parla spesso di un prezzo medio de’ vari cereali nell’antichità.
Ora, innanzi tutto, noi non abbiamo una quantità tale di dati da poter stabilire un prezzo medio de’ cereali, quando fosse possibile [111] determinarne uno. Poi, se diamo appena uno sguardo a’ prezzi contemporanei de’ cereali, vediamo che, anche oggi, vi è una notevole e permanente oscillazione da mese a mese, da anno ad anno, da mercato a mercato[380]. Eppure lo straordinario progresso ne’ mezzi di trasporto, la possibilità di colture più regolari e meno perturbate da cause violente, la formazione del mercato mondiale son fatti per favorire una maggiore stabilità, una maggiore analogia di prezzi. La mancanza di tutte queste condizioni nel mondo antico faceva sì che in ogni paese, e specialmente in quelli che vivevano d’importazione, le oscillazioni costituissero la regola; e, da mese a mese, da anno ad anno[381], un’incursione di nemici, un cattivo ricolto, un’incetta, qualche naufragio, un approdo impedito erano tutte ragioni per provocare un aumento di prezzi; e, quanto parecchi di questi eventi sieno frequenti sempre ed erano frequenti nell’antichità, non occorre rilevare.
Così, i pochi dati che abbiamo, ci possono servire per determinare non i prezzi medî ed ordinarî, ma i prezzi minimi del periodo, a cui si riferiscono, quando pure, come accade, non si tratti di prezzi minimi artificialmente determinati con vendite fatte da privati e dallo Stato, a scopo di sollievo della popolazione.
Questi prezzi minimi della fine del secolo quarto ci dànno, in Atene, per l’orzo un prezzo di tre dramme al medimmo; per il frumento di cinque e sei dramme[382]; e a Delo, nel secolo successivo (282 a. C.) un prezzo pel frumento di quattro dramme e tre oboli[383].
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Tali prezzi rappresentano già un rincaro rispetto a’ prezzi minimi di periodi più antichi e dello stesso principio del quarto secolo[384]; e s’intende. I maggiori sbocchi trovati da’ paesi esportatori; forse la loro produzione, se non regolarmente decrescente per graduale esaurimento, almeno saltuariamente meno abbondante; finalmente la loro popolazione crescente, portavano, come conseguenza, un aumento di prezzo. Tutto ciò a prescindere dal diminuito potere di acquisto della moneta, delle cause accidentali e del fatto che Atene non potea più, come in altri periodi, assicurarsi la continuità e la prevalenza del rifornimento.
Ma le fonti stesse, che ci parlano di questi prezzi, ci dicono, o ci fanno intendere che erano prezzi di favore; e, inoltre, ci parlano, a poca distanza di tempo, di rincari notevoli, che a Delo aveano portato il medimmo di frumento sino a dieci dramme e in Atene il medimmo di frumento e di orzo sino a sedici e diciotto dramme[385]. E l’altezza de’ prezzi doveva essere una cosa quasi solita, se ci vien detto che i proprietari di terre faceano ottimi affari e divenivano ricchi[386].
Di tratto in tratto, documenti, che si estendono sino al secolo terzo, accennano a doni e ad importazioni di cereali[387] e ci fanno concepire, indirettamente, la penuria sentita in Atene. Una epigrafe della fine del terzo secolo[388] parla della campagna rimasta deserta ed inseminata per causa di guerra, e della beneficenza di Euriclide Cefisio, che ne avea resa possibile la seminagione.
Alle cagioni di ordine generale si aggiungevano anche gli inconvenienti delle incette. Anche assai prima che Cleomene[389] organizzasse le sue grandiose incette, quasi un tentativo di monopolizzare la vendita de’ cereali, non erano mancate incette di proporzioni minori e speculazioni sul prezzo de’ grani: vi accennano [113] varî autori[390], e ricorrono allusioni evidenti nelle orazioni di Demostene. Ma già Lisia, nella sua viva e serrata orazione contro i commercianti di grano, ci avea dato un concetto adeguato delle arti di questi monopolizzatori de’ cereali e della inanità delle disposizioni prese contro di loro. “Il loro vantaggio — diceva l’oratore — è il danno altrui. Allora guadagnano più, quando, essendo annunziata qualche disgrazia per la città, vendono cari i generi. Così vedono di buon animo le nostre disavventure, cercano di saperle prima degli altri, e vanno dicendo, o che le navi son perite nel Ponto, o che sono state prese, durante la rotta, da’ Lacedemoni, o che gli emporî son chiusi, o che i trattati stanno per rompersi; e vengono a tal punto, da insidiarci in quelle stesse congiunture in cui c’insidiano i nemici„.
Non occorre insistere molto per mostrare, come, in tale stato di cose, il sostentamento degli schiavi rappresentava una spesa reale sempre maggiore, ed era, di più, un argomento di continua preoccupazione, nell’incertezza de’ rincari, ricorrenti con maggiore intensità e maggior frequenza.
In questi periodi difficili, a favore de’ cittadini liberi interveniva l’aiuto dello Stato e de’ privati con largizioni, vendite a prezzi di favore[391], distribuzioni: non mancano nemmeno attestazioni documentate di carichi di frumento mandati in dono da sovrani e principi amici od alleati[392]. Si aiutavano pure i cittadini liberi con la ripresa, che potea fornire qualche loro boccone di terra, con la retribuzione assegnata alle pubbliche funzioni, che, insufficiente per provvedere al sostentamento di un individuo o di una famiglia, era tuttavia, specialmente in tempi straordinari, un aiuto pur che sia[393]. Sovveniva pure la beneficenza, il cui sentimento, ad argomentare anche da alcune manifestazioni teoriche, si andava sviluppando in questo periodo[394]; e quelli, che aveano qualche [114] difetto organico, erano, a dirittura, comunque in maniera insufficiente, sussidiati dallo Stato[395].
Sopra tutto, poi, sotto la spinta del bisogno, i liberi ricorrevano ad ogni espediente per campare la vita in patria, o fuori: si davano, o tornavano con più ardore al lavoro, producendo naturalmente, con la sovrabbondante offerta di braccia, un rinvilìo delle mercedi, che riesciva, in modo eminente, ad eliminare il lavoro servile.
Le distribuzioni, le vendite di cereali a prezzo ridotto aveano, s’intende bene, luogo a favore de’ liberi e non degli schiavi; e questi, durante i periodi di rincaro de’ generi alimentari, doveano rappresentare pe’ loro padroni una vera perdita, un danno emergente e un lucro cessante. Forse erano momenti come questi, che, già sin d’allora, prima ancora che alla dipendenza della schiavitù si sostituisse la schiavitù del salariato, facevano riconoscere l’illusione di una libertà nominale e facevan dire: “Quanto è meglio trovare un buon padrone, che vivere male e miseramente da libero!„[396].
In questi casi, a chi dovea essere sostentato potea sembrare vantaggiosa la condizione dello schiavo, ma al padrone, che lo dovea sostentare, la cosa dovea apparire da un punto di vista perfettamente opposto.
Quasi che tutto ciò non bastasse, la classe degli schiavi andava soggetta ad una continua e progressiva degenerazione. Con il venir meno di ogni sostrato morale della schiavitù e il suo ridursi a un puro stato di fatto, ad una prepotenza legale, quanto meno si faceva strada una speranza e un proposito di redenzione generale, esclusi o compressi dalla visione circoscritta alle forme del contemporaneo ambiente economico; tanto più covavano e fermentavano, ascosi e persistenti, l’invidia, il rancore, [115] il desiderio di opporre forza a forza e sostituire signoria a signoria, mutando la vicenda di servi e padroni.
Dove si trovavano accolte insieme grandi masse di schiavi, o di servi, e vi era il terreno favorevole alla cospirazione, il malcontento prorompeva in aperta rivolta, come in Laconia, come a Chio, nel terzo secolo, come, appresso, ne’ dominî romani. Dove la palese insurrezione era meno facile, o impossibile, come suole accadere, l’astuzia, l’inganno, la frode prendevano il posto della violenza, e si traducevano in una reazione sorda e continua, tanto più pericolosa e più invincibile quanto meno visibile e più incoercibile.
La servitù abbassa e corrompe; ma, per una ironia della vita, compie essa stessa inconsapevolmente la sua vendetta su’ dominatori parassiti; e, quanto più cade in basso, trova, come la miseria, come tutte le altre negazioni della solidarietà umana, nella sua stessa abbiezione un più sottile e più sicuro veleno, col quale attossica e trae in una stessa via di perdizione oppressi ed oppressori.
La commedia classica, che ne ha poi fatto un tipo convenzionale, s’impernia, in gran parte, su questo tipo di servo corruttore e corrotto, consorte ed infedele, pieno di espedienti e bugiardo, che fomenta i vizi del figlio di famiglia ed è l’inesauribile architetto di tutti i complicati intrighi, con i quali si mina la vita economica e morale della casa. La posterità romana e quella che all’antichità classica chiederà le forme atte ad esprimere rapporti analoghi di vita, riporteranno sulle scene questo tipo, nell’atto stesso in cui ne faranno esperienza nella vita; ma è la commedia greca, che prima l’ha scorto, l’ha saputo cogliere nel vertiginoso viluppo contemporaneo e l’ha tramandato a noi, animandolo del soffio non perituro dell’arte. “A che esser buono ed economo? — si trova in Menandro[397] — se il padrone dissipa tutto? Se tu non prendi nulla per te, ti sarai macerato, e non avrai giovato neppure a lui„. Un servo buono avea certamente ancora pregio: “Se accade di avere un servo affezionato, non c’è cosa più bella nella vita„[398]; ma [116] la stessa espressione iperbolica mostra, come omai questo dovesse essere un fatto non frequente. La cosa era così poco frequente che vi era chi avea, omai, in avversione non più i servi, ma il servo, negando l’utilità di tutta la categoria: “Niente vi è di peggio di uno schiavo, sia pure buono„[399]. La situazione diveniva tale che la vicenda quasi s’invertiva: “un solo è lo schiavo della casa, il padrone„[400].
Anche sotto un altro rapporto i servi divenivano un pericolo permanente ed un danno per i padroni.
La facoltà di assoggettarli alla tortura, per ottenerne una deposizione in giudizio, era usufruita, da avversario ad avversario, in misura piuttosto larga, e faceva dello schiavo un organo rivelatore di tutti i segreti e di tutte le magagne della casa; il che era tanto più grave di conseguenze, quanto più la debolezza o il malvolere dello schiavo poteano dare faccia di vero alla menzogna. E la deposizione ottenuta per mezzo della tortura, era anche quella che avea maggior credito[401].
Lo Stato stesso, mettendo talvolta a profitto, come i privati, questo naturale antagonismo, incoraggiava lo spionaggio de’ servi, promettendo il premio maggiore, quello che in tanti casi dovea essere più gradito, la libertà, allo schiavo che denunziasse qualche fatto d’interesse dello Stato[402].
V’era perfino chi avea degli schiavi per servirsene come di una banda di ladri, per poterli sguinzagliare qua e là e farne degli eterni sicofanti[403].
Come si vede, non si ha che l’imbarazzo della scelta, quando si vogliono mettere sott’occhio i tanti gravi inconvenienti di ordine morale e materiale, che recava seco lo stato di schiavitù. E si progrediva nel tempo, e più esso diveniva degradante con le condizioni più complesse della vita e quindi più irte di pericoli.
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Si poteano dare pure casi, in cui accadesse un delitto in casa, e allora, se non ne era conosciuto il vero autore, tutti gli schiavi erano messi a morte[404]; e, pur troppo non doveva essere cosa rarissima qualche meditato e occulto assassinio in case, in cui vi fossero schiavi.
L’azione continua e stringente di tutte queste cause, più o meno consapevolmente sentita, ma, in ogni modo, sempre obbiettivamente efficace, dovea tendere a limitare il numero degli schiavi e a restringerne l’impiego a quel genere di operosità, a cui il lavoro libero non potesse piegarsi, o per cui non fosse profittevole l’impiego del lavoro libero. Così gli schiavi si trovano in Atene più particolarmente impiegati nelle manifatture, ne’ lavori più faticosi attinenti alla marineria[405], e sopratutto nelle miniere. Tutto il progetto, così ben architettato da Senofonte[406], per ridare forza e sviluppo alle finanze ateniesi, non consisteva già, come un altro progetto di Falea di Calcedonia[407], nell’attribuire agli schiavi l’esercizio esclusivo di tutti i mestieri, bensì nell’esercizio pubblico delle miniere del Laurio, mediante l’acquisto di schiavi in numero crescente, proporzionalmente al profitto da essi stessi dato. Nondimeno il progetto di Senofonte non fu messo in atto, ed anzi le miniere, andando incontro a quell’esaurimento a cui Senofonte non credeva, finirono per dare impiego a un numero di schiavi sempre decrescente.
L’esercizio delle miniere era capace di dare, come ne avea già dati, lauti guadagni; ma lo stesso Senofonte, ci lascia intendere, fors’anche senza volerlo, come fosse pieno di alea, quando ci dice che occorrevano buoni capitali e che l’aprire un nuovo pozzo era una cosa economicamente assai rischiosa; e, se accadeva di [118] diventar ricco a chi trovava molto metallo, perdea tutta la sua spesa chi non ne trovava[408]. Il tipico accanimento, con cui si scavava al tempo di Demetrio Falereo, quasi che, come costui diceva, si volesse giungere sino al regno di Plutone[409], è forse un indizio del materiale che cominciava a divenire più scarso, e che, alla fine del secondo secolo, a quanto pare dal numero degli schiavi in rivolta, non dava lavoro a più di mille schiavi[410]. Certo è che quando Senofonte scriveva il suo trattato sulle finanze di Atene, nel 347/6, come qualcuno vorrebbe, o nel 357/6, come è più generalmente ammesso[411], il numero degli schiavi era inferiore a quello che era stato prima della guerra di Decelea[412]. E chi ritiene, secondo la dimostrazione data da qualcuno[413], che il desiderato di Senofonte sarebbe stato di avere tre schiavi per ognuno de’ ventimila cittadini, e non nelle miniere soltanto, ma in generale; ammette che in questo tempo l’Attica contava meno di sessantamila schiavi. Nè vi sono dati positivi per credere che questo numero crescesse, o crescesse di molto nel tempo che seguì.
È probabile pure che in questo periodo cominciassero ad avere maggiore sviluppo le manumissioni di schiavi, come un fenomeno corrispondente a questa utilità decrescente della schiavitù. In Atene le manumissioni non lasciarono traccia documentale, come accadde più tardi a Delfo, in Beozia e altrove; e non è possibile [119] quindi avere un’idea adeguata de’ limiti, in cui erano mantenute, o delle proporzioni, in cui si sviluppavano; ma un accenno, che troviamo, al divieto di manomettere i servi in teatro[414], può forse costituire un dato non trascurabile per metterci innanzi una consuetudine non infrequente di manumissioni, alimentata poi, come appresso a Roma, da un interesse materiale, che era fomentato, alla sua volta, da una ragione di vanità e ne prendeva le forme. E l’impulso così intenso che troviamo dato alle manumissioni in tutta la Grecia, nel secolo posteriore e nell’altro, è anch’esso un fatto tanto rilevante, che difficilmente possiamo acconciarci a credere avesse potuto sorgere e grandeggiare d’un tratto; e più probabile ci parrà invece il cercarne in questo quarto secolo il moto iniziale.
Lo scadimento del lavoro servile si può argomentare, altresì, da quel tanto che sappiamo de’ prezzi degli schiavi nel quarto secolo, e specialmente verso il suo periodo più avanzato.
Non senza acutezza è stato detto per Roma che il mercato degli schiavi era la “Borsa romana„[415]; e ciò potrebbe ripetersi, in proporzioni più ridotte, per le altre parti del mondo antico, dove la ricchezza fu più attiva e più sviluppata. Il prezzo degli schiavi era quindi anch’esso variabile; ma, specialmente in mancanza di avvenimenti straordinari, è meno difficile stabilirne un valore medio.
Ora il quarto secolo, segnando per tutta la Grecia un periodo di relativo sviluppo industriale, più o meno notevole, che si allarga, in maggiori o minori proporzioni, anche nelle zone sin qui contraddistinte dalla produzione casalinga, porta seco una diffusione della schiavitù; e infatti si ha la memoria della tardiva introduzione della schiavitù in paesi che, a grande [120] distanza di tempo, entrano in un periodo economico, in cui paesi più progrediti, come Atene, erano già entrati da un pezzo, e che stavano omai superando.
Questo diffondersi della schiavitù, pel contributo nuovo che recava alla domanda di schiavi, avrebbe dovuto farne salire notevolmente il prezzo, tanto più che veniva a coincidere con una minore potenza di acquisto della moneta, determinato dalla maggiore quantità di metalli preziosi e dal peso della dramma, che accennava qua e là a scemare di peso. Invece non credo si possa parlare di un vero rincaro. Gli schiavi, che hanno qualche perizia tecnica, anche quella più limitata che si esige per la funzione di una manifattura, hanno, come si è visto, un prezzo in qualche modo elevato, ma di cui non si può nemmeno dire che sia superiore a quelli del secolo precedente, in casi analoghi. Invece gli schiavi ordinari sono valutati ad un prezzo poco elevato. Gli schiavi, di cui Senofonte propone l’acquisto allo Stato per impiegarli nelle miniere, sono valutati a 153 Dr. 3,7 ob. ovvero a 183 Dr. 3,6 ob., secondo il diverso calcolo, di cui è suscettibile il tratto ove se ne parla[416]. Nell’orazione contro Nicostrato, due schiavi, di cui si dice appresso che erano impiegati ne’ diversi lavori di campagna, sono valutati complessivamente due mine e mezzo[417]: altrove[418] uno schiavo è valutato a centocinquanta dramme. Dunque il prezzo degli schiavi non solo non era formalmente mutato da quello attestato, il secolo innanzi, dalla vendita in danno degli Ermocopidi; ma, se si tien conto di tanti altri dati concorrenti, si può dire ch’era sminuito. Nè si può opportunamente invocare il riscatto degli schiavi di Rodi, stabilito a cinquecento dramme, nell’assedio posto da Demetrio. In quel caso particolare si trattava di schiavi associati alla difesa della città, cui era stata promessa la libertà e che costituivano un efficace strumento di resistenza contro l’assediante[419]. Occorreva per necessità mettere un prezzo superiore, non solo al medio, [121] ma agli alti prezzi degli schiavi, per togliere ogni allettativa a venderli altrove; e, se qualcosa sorprende, è che non sia stato fissato per essi, in tali condizioni, un prezzo di riscatto uguale a quello de’ liberi.
Questa vicenda del prezzo degli schiavi si spiega dunque soltanto con l’osservare che l’economia servile s’era diffusa più che non fosse cresciuta, aveva guadagnato di estensione assai più che d’intensità.
Del resto l’aneddoto dell’astuzia adoperata da Agesilao per mostrare, che solo gli Spartani, tra i Peloponnesi, attendevano esclusivamente al mestiere delle armi, ci mostra come si fosse esteso anche tra la cittadinanza libera de’ rimanenti popoli l’esercizio de’ mestieri[420].
Gli accenni a locazioni d’opera e a mercedi divengono, in Atene, sempre relativamente più frequenti: mercedi a’ lavoratori di campi, a’ maestri e ad ogni altra categoria di lavoratori[421]. Anche la medicina, che a Roma dovea per qualche tempo essere officio di servi, e poi di liberti e di liberi, è qui coltivata da liberi[422]. Il lavoro manuale presenta talvolta un così favorevole campo di azione, che, come dice Aristotile[423] “molti tra gli artigiani si arricchiscono„; e ciò che dà la sua fisonomia particolare al dominio di Demetrio Falereo, secondo un suo avversario, è l’ambiente favorevole all’artigiano[424].
Per conoscere bene le condizioni del lavoro in questo periodo, e lo stato de’ salari, meno oscillanti d’altre merci, ma pur soggetti a variazioni, occorrerebbero naturalmente dati assai più numerosi e particolari de’ pochi che abbiamo; ma, in mancanza [122] di meglio, anche i soli dati che abbiamo, e si riferiscono a costruzioni del 329/8 a. C. e del 317-307, possono, con le debite riserve, essere utilizzati. Lo sguardo che, attraverso questo spiraglio, ci vien fatto di dare sulle condizioni del lavoro in Atene, ci colpisce a primo aspetto per la divisione del lavoro che ci mostra, per la moltiplicità degli esercizi di vendite, sempre più sdoppiati e distinti, e finalmente per tutti i caratteri propri delle condizioni del lavoro, quando sono in continuo sviluppo ed incremento[425].
Il salario senza vitto sembra raggiungere, in un caso, nel 329/28 la proporzione di due dramme e tre oboli[426]; ma, se questo non è uno de’ parecchi errori di queste epigrafi, chiarito da un esempio successivo[427], costituisce, in ogni modo, un caso isolato, e si riferisce ad un lavoro, di cui non possiamo valutare la particolare difficoltà.
La mercede del giornaliero appare di una dramma e tre oboli nell’epigrafe del 329/8, e si può assumere come la mercede del lavoro a giornata, in quell’anno[428].
Ora, si è domandato: la retribuzione del lavoro era realmente cresciuta, rispetto al secolo precedente, almeno per quel tanto che ne sappiamo da’ conti dell’Eretteo?
In punto di fatto, il salario del giornaliero, che il 408 è di una dramma, diventa nel 329/8 di una dramma e mezza: lo stesso lavoro specifico della coppia di segatori, che ricorre nell’un tempo e nell’altro, ci mostra la stessa variazione[429].
Ma il salario di una dramma, nel 408, era accompagnato dal vitto all’operaio, oppur no? Ed era un salario ordinario, od un salario ribassato per condizioni eccezionali?
L’una cosa e l’altra sono state sostenute[430]; e, secondo tali opinioni, il prezzo del lavoro sarebbe andato soggetto ad un [123] rinvilìo notevolissimo. Questo asserito rinvilìo delle mercedi sarebbe un gravissimo argomento per la decadenza dell’economia a schiavi. Esso mostrerebbe a quali proporzioni dovea essere giunta la concorrenza, non solo tra liberi e schiavi, ma tra gli stessi lavoratori liberi, se il salario, malgrado il crescente aumento de’ prezzi e lo scemato potere d’acquisto della moneta, avea avuto un tale tracollo. Pure si può ritenere come dimostrato, in sèguito di una speciale indagine[431], che nel 408 i giornalieri non aveano, insieme al salario, anche il vitto; e il ritenere che il salario, pagato a’ lavoratori dell’Eretteo, fosse un salario basso per causa delle condizioni eccezionali di Atene in quel periodo, è una semplice ipotesi, che non potrebbe mai, in ogni caso, condurre ad asserire, come si è fatto, che il salario fosse al principio della guerra del Peloponneso perfino tre o quattro volte maggiore.
Ma, se non è lecito dedurre da questi dati non esatti, o non sicuri, la decadenza dell’economia a schiavi e il progresso del lavoro libero, si può ben dedurli da altri dati; e la conseguenza, fatte le debite proporzioni, non varia.
Valutando semplicemente a tre dramme il medimmo di frumento, al tempo di Socrate, e a cinque in quello di Demostene, è stato osservato che “il salario avrebbe dovuto salire da sei a dieci oboli, giacchè i prezzi salirono nella proporzione di tre a cinque. Le iscrizioni invece provano che le mercedi salirono da sei a nove oboli, per il lavoro semplice, e più alto per quello specificato„[432].
Accogliendo queste premesse, apparirebbe dunque un rinvilìo relativo delle mercedi, spiegabile, in via più semplice e diretta, con la cresciuta concorrenza. Ma, si è già accennato che il prezzo de’ cereali, continuamente oscillante, era andato soggetto [124] a forti rincari, che ne aveano elevato il prezzo, talvolta, assai oltre le cinque dramme. In quello stesso anno 329/8, l’orzo era stato venduto a tre dramme, ed anche a qualche cosa di più, e il frumento, di cui il popolo avea potuto fissare il prezzo, era stato venduto a sei dramme[433]. Ora, come è stato osservato, il prezzo della mano d’opera arriva sempre in ritardo a regolarsi su quello degli altri prodotti scambiati[434], e quindi questo aumento di mercede andrebbe probabilmente ragguagliato a’ rincari del periodo precedente, e apparirebbe perciò sempre più inadeguato e sproporzionato a’ cresciuti bisogni. Oltre di ciò va tenuto conto del peso un po’ calante della dramma e del notevole aumento di medio circolante, che, anche quando da sè solo non sia adatto a provocare un rialzo di prezzi, ottiene questo effetto, se coincide con una maggiore richiesta[435].
Ma una vera luce sullo sviluppo del lavoro ci è fornita da dati, che non ci danno notizia specifica di salari, e nondimeno ci permettono, appunto per il graduale scomparire de’ salari a giornata, di formarci un concetto generale ma non inesatto della condizione della mano d’opera in Atene: parlo del cottimo e del forfait[436].
Già, nelle stesse epigrafi de’ lavori dell’Eretteo, l’una e l’altra forma trovano il loro posto. In tutti i lavori che esigono una speciale attitudine artistica, in quelli in cui un lavoro poteva essere compito a parte e per cura di una sola persona, nella pittura ad encausto, nelle figure del zoforo, nelle formazioni di modelli, [125] negli accessori ornamentali, si trova il cottimo, o il prezzo unico[437]. E, a misura che procediamo nel tempo, il cottimo e il prezzo unico tendono sempre più a sostituirsi alla locazione d’opera a giornata, e abbracciano opere anche di lavoro più semplice e fornimenti di proporzioni maggiori.
Ora la maggiore frequenza del lavoro a cottimo, che ha per causa e per effetto una maggiore autonomia del lavorante, un lavoro più produttivo, una serie di rapporti più complicati, è già, esso solo, adatto a farci acquistare un concetto, per quanto generico, altrettanto profittevole ed esatto dello sviluppo del lavoro libero e delle sue condizioni.
“Il lavoro a cottimo — dice il Marx[438] — è soltanto una forma modificata del lavoro a giornata... La qualità del lavoro è qui controllata dall’opera stessa, che deve avere una bontà media, perchè il lavoro a cottimo sia ben pagato. Sotto questo aspetto il lavoro a cottimo diviene una migliore sorgente di lucro e di sfruttamento del lavoro da parte del capitalista. Esso offre al capitalista una misura affatto determinata per l’intensità del lavoro. Soltanto il tempo di lavoro, che s’incorpora in una quantità di merce, determinata in precedenza e stabilita mercè l’esperienza, vale come tempo di lavoro socialmente necessario, ed è pagato come tale... Il controllo della qualità e dell’intensità del lavoro, fatto mercè la stessa forma di retribuzione, rende in gran parte superflua la sorveglianza..... Il cottimo da un lato agevola l’intromissione di parassiti tra capitalisti e salariati, la sublocazione del lavoro (subletting of labour)...; d’altra parte permette al capitalista di fare con l’operaio assuntore un contratto a tanto il pezzo, ad un prezzo, per cui l’assuntore stesso si assume l’impiego e il pagamento de’ suoi aiutanti. Lo sfruttamento de’ lavoratori per mezzo del capitale si compie qui con lo sfruttamento del lavoratore per mezzo del lavoratore. Dato il cottimo, è naturale che il lavoratore abbia un interesse personale a sviluppare nella maniera più intensiva la sua forza di lavoro, ciò che agevola al [126] capitalista una elevazione del grado normale della intensità. È interesse personale dell’operaio allungare la giornata di lavoro, perchè con ciò sale il suo salario giornaliero o settimanale. Accade così la stessa reazione rilevata per il salario a giornata, senza considerare che il prolungamento della giornata di lavoro, anche quando il salario a cottimo rimane costante, include per sè stessa un rinvilìo del prezzo del lavoro... Ma la maggiore latitudine, che il cottimo offre all’individualità, tende a sviluppare, da un lato, il sentimento di libertà, d’indipendenza e di controllo autonomo, e dall’altro, una forma secondaria di concorrenza tra i lavoratori. Ha perciò una tendenza a sollevare al tempo stesso i salari individuali sulla media e ad abbassare questa stessa media„.
Questa minuziosa analisi dell’indole e degli effetti del cottimo, che riflette i fenomeni della nostra epoca capitalistica, va applicata con cautela all’antichità, tenendo conto che i fenomeni da essa considerati non hanno potuto ancora acquistare, nè per estensione, nè per intensità, la pienezza del loro sviluppo.
Ma questa indole del cottimo, la sua diffusione e le sue oscillazioni si presentano in maniera uniforme anche in tempi intermedi, di minore sviluppo.
“Il lavoro a cottimo — dice il Rogers[439], per l’Inghilterra del secolo XV e XVI — si generalizzò a poco a poco. Per esempio i segatori, prima pagati a giornata, furono pagati più tardi in ragione del centinaio (in realtà centoventi) di tavole rese, ch’erano il lavoro presuntivo di un paio di segatori. Prima lievemente inferiore al prezzo della giornata, il prezzo del lavoro a cottimo fu, a partire dal secolo decimoquinto, lievemente superiore, indice di una tendenza al rialzo. Nel periodo di reazione, che toccheremo più tardi, questa proporzione fu capovolta a danno del lavoro a cottimo„.
Il concetto che ci possiamo formare del cottimo da questi dati e da queste osservazioni, ci permette quindi di spiegar meglio alcune particolarità della storia del lavoro in Atene e di formarci [127] intorno alle sue condizioni un concetto più ampio ed organico di quello, che possa essere consentito dagli scarsi dati sul salario a giornata.
La retribuzione di novantatre dramme, data per una sola protoma ad un cottimante ne’ lavori dell’Eretteo[440], non può più, allora, tradursi semplicemente, come si è cercato fare[441], in un salario giornaliero di tanto superiore a quello noto per lo stesso periodo; ma piuttosto ci serve come dato di uno de’ più antichi stadi del cottimo e come un punto di partenza delle successive sue fasi.
Quale fosse la relazione precisa del cottimo al lavoro a giornata, nel 329/8 o 317-307, non credo si possa stabilire; e nemmeno si può stabilire la diversa retribuzione del cottimo, alla fine del quarto e quinto secolo. Ma, dall’importanza crescente e dall’estensione sempre maggiore, che ha il cottimo in quei due importanti documenti degli ultimi decenni del quarto secolo, si può ben dedurre che il lavoro libero avea assunta quella forma, la quale corrisponde a un periodo di maggiore sviluppo del lavoro e del ceto operaio, e che, se anche l’incremento del cottimo non avea già sviluppato una concorrenza maggiore tra i lavoratori, deprimendo così la media della loro retribuzione, si maturavano almeno le cause di siffatti fenomeni.
Si erano create insomma e si venivano sempre più svolgendo quelle condizioni, che rendevano più accessibile e più conveniente l’impiego del lavoro libero e concorrevano quindi ad eliminare gradualmente l’impiego del lavoro servile.
Infatti, la stessa epigrafe citata del 329/8[442] ci offre un impiego limitato di schiavi, in tutto diciassette schiavi pubblici, e ci dà modo di valutare approssimativamente l’indole e la convenienza del loro impiego, la loro utilità, il loro costo. La loro alimentazione giornaliera costa tre oboli, a cui debbono aggiungersi, pel sorvegliante, altri tre oboli di vitto e dieci dramme mensili di mercede[443]. Nel corso della seconda pritania si comprano [128] loro diciassette berretti del costo di quattro dramme, cinque oboli e tre quarti[444]; nella pritania sesta si rifanno loro i calzari spendendo quattro dramme per uno, e in tutto sessantotto dramme[445] e si spendono pure, per un sacrificio e cinque vasi di vino, altre trentanove dramme[446]; nella quarta pritania, per fornirli di mantelli si spendono altre diciotto dramme e tre oboli per ognuno, in tutto trecentoquattordici dramme e tre oboli, e poi ancora settantasei dramme e tre oboli per tuniche di pelle, a quattro dramme e tre oboli l’una, e centodue dramme per calzari, a sei dramme l’uno[447].
Durante il corso della quarta pritania, a quanto appare, venne a morire uno degli schiavi, e vi fu luogo ad altre spese per la cremazione del cadavere e per la purificazione[448]. Nella decima pritania, in cui gli schiavi son ridotti a sedici, la solatura a’ calzari importa un’altra spesa di quaranta dramme, e due altre dramme sono spese senza che si sappia il perchè[449]. Nell’epigrafe del 317-307 compare anche un’altra spesa, una mercede mensile di otto dramme e due oboli per la compera al mercato di quanto occorresse per gli schiavi[450]; e poi altre spese per iniziazioni e funzioni religiose riguardanti i misteri[451].
Inoltre, nella prima epigrafe, si vede che occorreva prendere in fitto ordigni ed utensili per fare eseguire i lavori[452].
Si è detto che, secondo la prima epigrafe, il costo giornaliero dello schiavo sarebbe stato di una dramma al giorno, circa[453]. Fare un conto preciso, è difficile, specie con la mancanza di altri dati; ma si può ben dire, con probabilità che, se non superava questa cifra, non vi rimaneva inferiore.
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Anche limitando ad una dramma il costo del mantenimento, il margine di tre oboli avrebbe dovuto compensare l’impiego del capitale, i rischi, le malattie, le giornate disoccupate. Questo calcolo poi terrebbe presente l’anno 329/8, in cui l’orzo fu venduto a tre dramme e il frumento a sei dramme[454]; mentre noi sappiamo che altre volte il costo dell’uno e dell’altro salì assai più alto. In questi casi, più che mai, lo svantaggio dell’impiego del lavoro servile dovea saltare agli occhi; e, come si è visto, le oscillazioni del prezzo de’ cereali erano forti e continue.
Pure, anche fuor de’ casi straordinarî, l’inferiorità e la poca convenienza del lavoro servile erano destinate ad apparire sempre più manifeste. Le spese di sorveglianza e di direzione, la minore produttività del lavoro servile, le attitudini d’ordinario affatto elementari degli schiavi, le spese di nolo degli utensili; queste ed altre cose costituivano tanti svantaggi, specialmente rispetto al cottimo. Se anche, ne’ casi di scarsa concorrenza, questo elevava per un momento la mercede del lavoro, la ribassava poi col suscitare la concorrenza, e, in ogni caso, rendeva più spedita e più facile l’esecuzione di qualsiasi opera, più sicuro il suo perfetto adempimento, più certo il suo conto, nè vincolava il tempo e la libertà del committente. A quali scarse proporzioni potesse scendere la mercede del lavoro con l’introduzione di questi prezzi unitari, ce lo mostra la retribuzione di una dramma e un obolo e mezzo al misuratore del frumento, per ogni centinaio di medimni, e di quattro oboli soli, per ogni centinaio, a’ caricatori[455]. Misurare e caricare cento medimni, se non importava una giornata di lavoro, vi restava inferiore di poco.
Le cause di dissoluzione dell’economia servile divenivano quindi, di continuo, più operose, e più manifesti ne apparivano gli effetti; e, tra le altre cose che c’inducono a toglier fede [130] all’esistenza di quattrocentomila schiavi, asserita da Ctesicle per l’Attica, deve esser posta, in prima linea, questa decadenza dell’antica struttura economica, a cui si conviene meglio il decrescere che non l’aumentare degli schiavi.
Con la fine del quarto secolo, intanto, vien meno anche la possibilità di seguire da vicino e con l’aiuto di notizie più specifiche e minute le ulteriori fasi dell’economia greca. Dobbiamo limitarci alla cognizione degli effetti più appariscenti, dell’aspetto generale, che il paese assunse, del suo declinare per la curva discendente della parabola, della concentrazione progrediente della ricchezza, del suo spopolamento; tutte cose che, al tempo stesso, sono documento della persistenza delle cause dissolventi fin qui indagate, e trovano la spiegazione e il commento in queste stesse cause e nella creazione di nuovi centri d’industria e di civiltà e nella perduta egemonia, che toglieva ad Atene specialmente di poter sorreggere con una forma di puro parassitismo la sua posizione già culminante.
Qua e là, nondimeno, documenti di non poca importanza dànno un punto di appoggio concreto per ricongiungere, con una linea ideale e continua, le conseguenze ultime, indistintamente riassunte nelle posteriori condizioni di vita, e lo stato anteriore, meglio noto nelle sue cause e ne’ suoi effetti.
I conti de’ templi di Delo ci mostrano come anche là, nel terzo secolo, si rendessero sempre più distinti nella funzione del lavoro quei fenomeni già notati in Atene: l’appalto, e, accanto al lavoro retribuito a giornata, il cottimo che acquista un posto sempre più considerevole[456]. L’uso di retribuire un singolo servizio, con riguardo alla sua importanza e alla sua durata, trova il suo riscontro nell’esiguità di alcuni compensi[457], e mostra anch’esso, come, via via, il movimento più rapido della vita economica, facesse sorgere la convenienza di sostituire a questo rapporto perpetuo e personale del padrone e dello schiavo un [131] rapporto meramente reale e temporaneo, consistente nello scambio di servigi e di valori. L’opera servile vi comparisce poi in forma affatto eccezionale; ed, anche là dove comparisce, vi appare con una fisonomia sua speciale, con un corrispettivo annuo determinato di alimenti e di vesti. Un simile contratto, che compensa col solo mantenimento i servigi prestati, ha luogo pure con persone, il cui stato si è voluto riguardare come servile, ma che non si può fuor d’ogni dubbio ritenere come tale[458].
Notevole del pari è la notizia degli schiavi del Laurio ridotti, nella seconda metà del secondo secolo, a mille[459].
Notevoli, ancor più, sono le numerosissime epigrafi di manumissioni della Grecia settentrionale negli ultimi due secoli: un fenomeno davvero degno di ogni attenzione.
Dal secondo secolo in poi, queste manumissioni, sotto forma, talvolta, di dedicazioni e, assai più spesso, di vendita alla divinità cominciano a spesseggiare nella Beozia[460], nella Locride[461], nella Focide[462]; e nelle iscrizioni delfiche, finalmente, raggiungono un numero davvero esorbitante[463].
Ora qui non si può trattare nè di un fatto accidentale, nè di una cosa trascurabile.
L’aumento delle manumissioni suol essere uno degl’indizi esteriori più visibili di una crisi della schiavitù; e a tale stregua vogliono essere considerate quelle manumissioni.
Se possono essere considerate come atti religiosi e spiegate con moventi analoghi altre epigrafi della Grecia settentrionale, che, nella loro forma primitiva e rudimentale, appariscono come [132] semplici dedicazioni, come offerte alla divinità[464]; ciò non è più possibile nelle iscrizioni di Delfo. In esse la divinità entra per una ragione d’ordine esclusivamente giuridico, cioè per compiere una vendita, che spogli il padrone dagli antichi suoi diritti senza investirne un’altra persona reale capace di esercitarli e disposta a farne uso, quando ne fosse investita.
Il motivo della manumissione è schiettamente e incontrastabilmente utilitario. La libertà assoluta è d’ordinario pagata a buon prezzo, ad un prezzo maggiore di quello che potesse allora avere uno schiavo. Ma, molte altre volte, il più delle volte, il manomesso si obbliga a rimanere ancora presso il padrone per tre, per cinque, per sei anni[465], ed anche fin che il padrone viva, prestando tutta l’opera sua[466]; si obbliga pure a farlo suo erede, nel caso che muoia senza prole, od anche incondizionatamente[467]; a fargli l’esequie e rendergli altri uffici funerarî[468], ad alimentarlo, a educargli i fanciulli[469], ad alimentare i suoi proprî genitori od altre persone, secondo l’interesse del manumittente[470], e così via ad un’altra serie di obblighi di vario genere; obblighi alla loro volta commutabili in denaro, talora per convenzione espressa, che include anche la probabilità di anticipare la libertà definitiva, mediante una sostituzione di persona.
Vi è in tutto questo la rivelazione sicura di uno stato di cose, che tendeva a surrogare la prestazione e poi la locazione di opere alla schiavitù; che dall’impiego diretto e rudimentale dello schiavo, stretto da un legame visibile al padrone e lavorante a tutto suo profitto e a tutto suo rischio, si sforzava di arrivare, anche senza piena consapevolezza d’intenti, all’impiego del proletario. Ciò importava sostituire prima al rapporto [133] di proprietà un rapporto obbligatorio personale e poi il definitivo avvento del nuovo ordine economico-giuridico, che emergeva ogni giorno più dalla crisi dell’economia servile. Il prezzo del riscatto, che rappresentava tutti i risparmî passati dello schiavo e impegnava spesso molto del suo lavoro avvenire, concorreva così, anch’esso, a costituire e mettere di fronte i due elementi della nuova economia, il capitale e il proletario; e, come suole avvenire, per una crudele ironia della storia (ben lo avrebbe veduto e detto da un altro punto di vista Epitetto[471]), gli schiavi nell’atto stesso, in cui credevano di spezzare la loro catena, si trovavano di averne formata una meno visibile, ma più stretta e più duratura.
Questo sviluppo così notevole di manumissioni è la conseguenza ultima e non molto remota della reazione del lavoro libero sul lavoro servile; e non è un caso che si presenti, sotto forma così perspicua, precisamente in quel tratto di paese, in cui la schiavitù, introdotta, secondo la tradizione, o almeno allargata, da Mnasone, nel IV secolo, vi avrebbe destato tante preoccupazioni e tanti malumori.
Queste manumissioni, poi, oltre al corrispondere ad una necessità economica, costituivano una vera speculazione per gli stessi padroni; e in ciò trovavano un altro e più vivo incoraggiamento. Organi di questa speculazione divenivano i templi e gli erani, che funzionavano come casse di risparmio e casse di anticipazioni per gli schiavi, ed eccitavano, così, e agevolavano sia l’accumulazione de’ riscatti che le liberazioni condizionali, con pagamenti successivi e rateali[472].
E a tutta questa condizione di cose si deve probabilmente se i prezzi di riscatto si aggirano sulla media delle tre mine e salgono talvolta assai più alto. Sarebbe un errore, se non mi sbaglio, voler desumere il valore venale e corrente degli schiavi da documenti come questi, che non rappresentano un semplice affare di parti liberamente contraenti, ma costituiscono una convenzione di genere speciale, compiuta sotto l’azione di determinate e molteplici [134] cause, come il desiderio di riacquistare la libertà, la speranza di accumulare col proprio lavoro il qualsiasi prezzo di riscatto, il pagamento rateale e così via. Senza di questo, per la stessa decadenza dell’economia servile, di cui questi documenti sono una prova, il prezzo avrebbe dovuto scendere assai in basso.
Pure, per quanto decadesse in Grecia l’economia a schiavi, la Grecia non costituiva nè uno Stato isolato, nè tutto il mondo antico.
La Grecia, non che realizzare, non avea neppur potuto tentare un dominio universale, in cui si unissero popoli diversi, e si formassero ne’ diversi paesi, per lunga elaborazione, condizioni analoghe di vita, onde poi germogliasse, uniformemente o quasi, un nuovo assetto sociale. Grande parte del mondo antico si trovava in condizioni affatto diverse da quelle della Grecia, sotto il rapporto dello sviluppo delle forze produttive, delle condizioni di produzione, della distribuzione della ricchezza, dell’assetto politico e delle relazioni internazionali.
La forma di produzione non si muta in maniera radicale esclusivamente da uno Stato, che non sia isolato: la s’impone o la si subisce, più che con la forza delle armi, con la persistenza degli effetti di ordine economico.
La Grecia non era stata, e tanto meno era al caso ora, di costituire un vasto dominio, di cui la vita economica si rifoggiasse sulla sua. Fu questa l’opera di Alessandro, ma ebbe per campo l’Oriente; così che poteva sempre risorgere e risorgeva in Occidente quel processo evolutivo, che in Grecia volgeva alla fine.
Fuori della Grecia dunque ci conviene cercare le ulteriori fasi della schiavitù; e, fuori della Grecia, in epoca più tarda e in campo più vasto, ci verrà fatto di vederne, almeno per quanto riguarda il mondo antico, il generale e definitivo tramonto.
Il mondo ellenico propriamente detto, e Atene più specialmente, ci dà come un’anticipazione, limitata nello spazio e nel tempo, e prematuramente troncata, del processo, per cui verrà a decadere e perire l’economia servile.
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Interrotto con la fine dell’egemonia e poi anche dell’autonomia greca, quel processo riprende, come può, il suo corso, nel mondo e nell’epoca ellenistica, ove la civiltà ha spostato il suo centro di gravità.
Il periodo ellenistico ha il carattere ed il nome da questo diffondersi della civiltà ellenica nelle regioni adiacenti al bacino del Mediterraneo e dal suo innestarsi sulle civiltà più antiche. E questa diffusione e questo innesto erano resi appunto possibili, anzi prodotti da uno sviluppo di condizioni della vita materiale, analoghe a quelle de’ più progrediti centri dell’Ellade.
Sotto l’azione di tali cause, come effetti di una sfera assai più allargata di commercî, di forze attive, di rapporti morali e materiali, sorgevano o crescevano, nell’Asia minore, nell’Egitto, nel bacino occidentale del Mediterraneo, centri cittadini più popolosi di quelli della Grecia propria, con una vita industriale più operosa e molteplice, con una potenzialità produttiva e una circolazione rapida e intensa, quale non era stato lecito vedere sino a questo punto, e quale si può solo supporre guardando agli straordinari e crescenti bisogni, che ogni giorno più chiedevano una più larga soddisfazione.
Per gli auspicî sotto cui era sorta, per la sua posizione privilegiata, per la facoltà di assimilarsi e fondere insieme le civiltà più varie e raccogliere gli elementi etnici più diversi e discordi; Alessandria, nuovo centro dell’Egitto, è come il fuoco di questa ellissi, ch’è il mondo ellenistico; ne è il riflesso, l’esempio, il tipo.
Se, com’è stato detto[473], “in questo tempo il genere umano tendeva a crearsi un nuovo modo di esistenza e, si potrebbe dire, un nuovo modo di aggruppamento molecolare; tendeva a dare a un temperamento nuovo un’espressione durevole, una forma sicura, ed a farla penetrare più addentro in tutti gli ambienti„; Alessandria era uno de’ crogiuoli più adatti e più maravigliosi di siffatta metamorfosi.
Città cronologicamente antica, e pure essenzialmente moderna di indole, di forme, di tendenze, non a torto è stata chiamata la [136] regina del lusso e della moda, la Parigi dell’antichità; ed era più e meno che una metropoli moderna, città internazionale, paradiso ed inferno di godimenti, di scialacqui, di tentazioni, e insieme laboratorio del mondo antico, suo arsenale, suo alimento.
Messa nel centro di un paese, dove era lecito produrre più che in qualsiasi altra regione e con minore fatica, diveniva naturalmente il centro favorito dell’industria. La produzione de’ manufatti più indispensabili e d’uso più immediato e di quelli di lusso, vi attecchiva del pari mettendovi radice; e si sviluppava nelle forme più ampie, consentite dalla richiesta e dall’ambiente. I filati, i tessuti di tutte le fogge e del gusto più bizzarro e raffinato; la lavorazione del legno d’ogni genere, da quello adoperato per le navi e per i carri a quello prezioso usato per i mobili e per i ninnoli; l’estrazione de’ metalli e la loro lavorazione più varia ed artificiosa, che li piegava a tutti gli usi della guerra e della pace, della vita domestica e del lusso; l’industria del vetro, del cuoio, della terracotta, della carta; tutte le industrie insomma e le arti, che nel passato erano lentamente emerse in centri separati, si trovavano qui raccolte e sviluppate[474]. Quelle che già vi aveano una lunga tradizione si erano raffermate e vi rifiorivano; le nuove vi erano state trapiantate e vi prosperavano.
Messa poi, com’era, a cavaliere delle principali vie commerciali, che i suoi sovrani tendevano sempre più a monopolizzare; fatta come per essere il punto d’incontro e il mercato più agevole delle tre parti del mondo antico; essa era l’esempio, il richiamo e lo strumento di tutti i commercî, che alimentavano, insieme, e suscitavano sempre più, con la loro continua pressione, le sue industrie. Dati questi elementi di fatto, non potevano a meno di prodursi, anche qui, quel contrasto, più o meno palese, del lavoro libero e del lavoro servile, e la graduale eliminazione di questo, e tutti quei fenomeni di un’economia più [137] progredita, in cui la schiavitù si viene spezzando come uno strumento poco adatto e impacciante; mentre cominciano, d’altra parte, a sbozzarsi e a germogliare i rudimenti dell’economia capitalistica.
Il numero degli schiavi di Alessandria, che da qualcuno si farebbe salire a dugentomila, è desunto da analogie e congetture, mancanti le une e le altre di una base sicura. In una città, che pareva realizzare un gran sogno di lusso e di piacere, dove la vita turbinava senza posa in una febbre di godimenti, certo non doveano far difetto gli schiavi, ministri di voluttà, addetti a tutti i servizi, che le abitudini sempre più raffinate esigevano e moltiplicavano ogni giorno; ed è sopratutto di questi schiavi che ricorre più facilmente la menzione. Non doveano neppure mancare schiavi in quelle fabbriche, in cui, come in Atene, la divisione e la semplificazione del lavoro potea consigliarne l’impiego.
Ma, più che di schiavi, troviamo menzione del lavoro libero e delle condizioni che lo fanno supporre.
Nell’agricoltura, le condizioni particolari dell’Egitto, per la possibilità di usufruire alcuni agenti naturali come l’inondazione del Nilo, rendevano i lavori della coltivazione brevi di durata e agevoli ad eseguirsi con uno scarso impiego di opera umana, e, in qualche caso, senza l’impiego di essa[475]. Dato un tale stato di cose, l’impiego fisso di schiavi addetti all’agricoltura, per quanto potesse costar poco il loro mantenimento, doveva andar soggetto ad una sicura eliminazione. Del resto, in forma più positiva, è noto come alla coltivazione delle terre reali si sopperisse con la corvée, con una requisizione temporanea di liberi, e come la cultura diretta, gli affitti, le locazioni d’opera vi avessero largo sviluppo[476]. Varrone attesta che l’Egitto, come l’Asia, si serviva per l’agricoltura sopratutto di liberi mercenari[477].
Nel campo industriale la crescente specificazione delle arti e [138] de’ mestieri, rappresentati in tutte le loro varietà e con la maggiore raffinatezza, esigevano, in vari casi, nonostante la divisione del lavoro, un’educazione tecnica speciale e alcune particolari attitudini, che non era facile trovare negli schiavi, almeno di primo acquisto. Le arti e i mestieri poi costituivano già dal passato, un patrimonio peculiare di alcune caste o classi della popolazione egiziana libera[478]. In Alessandria vi davano ancora un largo contributo i Giudei residenti in gran numero[479]. Finalmente, tutta quella massa avventizia, che traeva alla città dalla campagna, o vi conveniva da ogni altro punto, dovea chiedere al suo lavoro i mezzi di sussistenza; e tanto più era spinta a far ciò, quanto più le comodità della vita più abbondanti, le raffinatezze, rese più comuni, stimolavano meglio i suoi desiderî. Se possiamo applicare ad un tempo anteriore quello che dell’Alessandria de’ suoi tempi diceva Adriano, nessuno vivea ozioso, tutti erano occupati[480].
È poi in quest’epoca ellenistica, a Siracusa, ad Alessandria specialmente, che, per opera di Archimede, di Herone, di Ctesibio, la scienza, mentre segue il suo svolgimento teorico, tenta, d’altra parte, tante sue geniali applicazioni pratiche, e la meccanica, pura ed applicata, riceve impulso e sviluppo. La leva, l’impiego della forza motrice dell’acqua e perfino di quella del vapore; tutte cose destinate in tempo più o meno lontano a trovare applicazioni più o meno efficaci, più o meno estese, sono ritrovamenti e deduzioni di quest’epoca e delle verità in essa accertate. Questo magnifico sviluppo della tecnica costituiva l’elemento dinamico e il sostrato di tutta un’evoluzione del modo e poi della forma di produzione; evoluzione interrotta ancora e strozzata in un ambiente non maturo, ma che, pure a grande distanza di tempo, avrebbe ripigliato e proseguito il suo corso. Giova notare intanto che la tecnica trova l’impulso a nuovi progressi e a nuove applicazioni nel crescente valore [139] del lavoro e nella necessità di sopperire a una maggiore richiesta; onde, anche come indizio delle condizioni della produzione del mondo ellenistico e della nuova fase del lavoro, sono caratteristici e degni di considerazione questi progressi tecnici[481].
In queste città del periodo ellenistico si sente talvolta qualche cosa, che è come un’anticipazione fuggevole delle nostre città industriali, della nostra vita moderna. Quella massa popolare, specie alessandrina, inquieta, volubile, mobile, ha un carattere speciale, pur fra tutte le sedizioni delle città antiche; ha qualche cosa che richiama le convulsioni di Parigi.
L’elemento operaio, crescendo di numero e di forza, si veniva costituendo, come oggi par probabile, se non sicuro[482], in corporazioni, indipendenti di forma e di origine dalle corporazioni romane; e in quelle corporazioni stesse si atteggiava talora a partito[483]. Perfino gli scioperi e le coalizioni, queste armi tanto moderne e tanto caratteristiche della nostra èra industriale, facevano capolino, comunque in maniera attenuata e fuggevole, a Magnesia sul Meandro ed a Paros[484].
Ma, mentre l’Oriente ellenistico, proseguendo e ampliando l’opera della civiltà greca, minava, senza pur avvedersene, l’istituzione della schiavitù, era destinato, col tributo stesso de’ suoi figli, a sorreggerla e alimentarla in Occidente, dove condizioni diverse spingevano la schiavitù per la curva ascendente della parabola, portandola a un grado di sviluppo che, per forza intrinseca, dovea affrettarne la fine. Perchè intanto maturasse la fine, occorreva che l’Occidente conquistasse l’Oriente, e l’Oriente lo conquidesse alla sua volta, insinuando, attraverso tutto il dominio, il suo spirito vitale e i suoi veleni, i suoi modi di produzione e di vita, la sua cultura, le sue ricchezze accumulate, [140] le sue scoperte; che si compisse insomma tutta un’opera di fusione e di assimilazione.
L’Impero romano è il gigantesco organismo politico, entro cui si compie quest’opera di fusione e di assimilazione di tutte le civiltà del mondo antico.
In esso si maturano e si svolgono una nuova coscienza universale etica, giuridica e religiosa e una nuova forma di produzione, che ne costituisce l’antecedente e il sostrato; e in esso la schiavitù, rosa dalla base, più vasta ma omai unica, vacilla e vede segnati i suoi giorni.
Il resto del nostro lavoro consiste omai nel percorrere ancora, in un campo più vasto, la via che già abbiamo battuta, rintracciando in un altro ambiente e sotto aspetti diversi le stesse cause dissolventi della schiavitù, seguendo cioè nel mondo romano un processo economico analogo a quello sin qui osservato. Potremo così riannodare alle più antiche fasi della schiavitù in Occidente la sua fase finale, e seguire in una più larga sfera, fin dove sia possibile, attraverso gli spiragli, per cui è consentito guardare nell’intimo congegno della vita materiale e morale del tempo, il suo lento tramonto.
[141]
La vita romana più antica ci si presenta sotto un aspetto semplice e modesto: la ricchezza, i bisogni, le abitudini, tutto vi è limitato e quale può attendersi da una popolazione di costumi primitivi.
Roma, sorta come luogo di rifugio, è la sede di una popolazione che vive una vita pastorale ed agricola, gravitando sempre più verso l’agricoltura, quanto più la stabilità della sede, le commodità della cultura e le altre condizioni favorevoli lo consentono[485].
La schiavitù, che nell’antichità si può assumere come l’indice dello sviluppo della vita economica, è quindi, naturalmente, in questo più antico periodo assai ristretta[486]. Chi legge Dionigi d’Alicarnasso e vi trova una menzione relativamente frequente ed esagerata di schiavi[487], potrebbe forse essere tentato ad attribuire alla schiavitù, anche per questo periodo più antico, un’importanza maggiore della vera; ma non tarderà a scorgere [142] anche qui un riflesso della tendenza inconsapevolmente anacronistica di Dionigi, solo che guardi agli altri fonti della tradizione e, più ancora, a tutti gli altri dati della vita romana in quell’epoca.
Il territorio romano, sino alla fine dell’età regia e agl’inizi della repubblica, consisteva in una stretta zona sulla riva destra del Tevere, e sulla sinistra era limitato a breve distanza, nelle varie direzioni, da Fidenae, da Tusculum, da Tellenae e Laurentum[488]: consentiva quindi un’industria agricola ristretta anch’essa in brevi confini e tale da non richiedere, ordinariamente, l’impiego di schiavi o almeno di un numero notevole di essi. La cultura diretta era, insieme, un’esigenza, una consuetudine ed un vanto[489] anche per chi in quella società primitiva godeva di una posizione preeminente. La famiglia, più che mai unanime e stretta da un legame di solidarietà materiale e morale, impiegava tutte le sue forze nella cura del modesto patrimonio che le assicurava l’esistenza e lo sviluppo. S’aggiungeva ancora la clientela. Se anche non è ben provato che i clienti fossero tenuti a prestare, in una certa misura, l’opera loro a favore de’ patroni[490]; nondimeno può sempre ritenersi che, in maniera indiretta, coltivando terre concesse precariamente o temporaneamente sotto varie forme, avessero una funzione utile non trascurabile nell’economia domestica della casa patronale[491].
La semplicità rude di quella vita è anch’essa rimasta nella tradizione, che ce ne ha conservata l’immagine e la notizia.
L’ideale della casa che basta a se stessa e del fondo che sopperisce a tutti i bisogni della famiglia, riappare anche appresso come un consiglio ed una mèta: ora appariva come una necessità e, insieme, un’aspirazione facilmente realizzata, data la corrispondenza tra i pochi bisogni e la maniera di soddisfarli. Bisogni che, poi, più largamente intesi e in maniera diversa, [143] dettero luogo a un’attività sociale distinta, a mestieri speciali, — costituivano ora un ramo ordinario dell’operosità domestica disimpegnato dalle donne della famiglia, a cui nelle poche case più doviziose prestava assistenza qualche ancella. In casa si preparavano e provvedevano le vesti; in casa si preparava il pane[492]. E questo carattere dell’antica famiglia romana, che sopperisce da sè alle esigenze del proprio consumo, è rilevato da uno storico con lo stesso vocabolo già usato da Tucidide a proposito de’ Peloponnesiaci (αὐτουργοί)[493], che con la semplicità sua ci richiama nella maniera più evidente questo periodo di attività domestica, di economia familiare chiusa e di manufatti dovuti al lavoro delle proprie mani.
Ma, anche qui, manufatti, che richiedevano una particolare esperienza tecnica e speciali istrumenti, o corrispondevano a bisogni non continui della famiglia, facevano luogo, per la progrediente e vantaggiosa divisione del lavoro, ad arti e mestieri speciali, esercitati da distinte categorie di artefici come una distinta attività professionale. E la tradizione, quale che possa essere la sua esattezza cronologica nel riferirsi a un punto preciso del periodo leggendario, accenna all’antichità di questi artefici costituiti finanche in corporazioni[494]. Secondo questi dati della tradizione, non solo si sarebbe avuto ben presto un artigianato di vasai, industria delle più antiche e della quale scoperte non lontane hanno rintracciato in Roma i prodotti entro strati sempre più remoti e con forme sempre più rudimentali, accennanti alle suppellettili delle terremare[495], ma tante altre categorie di artefici intenti al lavoro del legno, del cuoio, della tintura de’ tessuti, del bronzo e perfino dell’oro. Lo stesso frequente stato di guerra, che spesso costringeva il piccolo stato [144] come in un cerchio di ferro, l’obbligava a sviluppare entro i propri confini la produzione di tutto il necessario, acclimatando e rendendo indigena anche quella prima importata o presa a prestito da popoli più progrediti[496].
Ora questi mestieri, quando, appresso, assunsero più larghe proporzioni sino a prendere l’aspetto di una manifattura o di un’industria, poterono giovarsi e si giovarono della cooperazione di schiavi; ma in questi tempi più antichi, in cui l’esercizio del mestiere era limitato ed individualmente disimpegnato, difficilmente potevano essere esercitati da schiavi, privi di ogni autonomia e che avrebbero solo potuto esercitarli sotto la direzione o, come cominciò ad avvenire più tardi, in rappresentanza del padrone. L’esercizio di codesti e degli altri mestieri, che venivano sempre più sorgendo col crescere de’ bisogni e con la corrispondente divisione del lavoro, dovea costituire, insieme, una prerogativa e un mezzo di vita degli stranieri che venivano a dimorare a Roma, della plebe urbana e, in genere, di tutti quelli che, per una via o per un’altra, direttamente o indirettamente, non partecipavano alla produzione agricola e al godimento della terra. I cognomi di alcune famiglie, che accennano evidentemente a utensili, ad arti e a mestieri, se possono avere avuta origine da un patronato verso corporazioni di artefici, possono fors’anche meglio derivarsi dalla tradizione di un diretto esercizio di arti manuali in famiglie libere, a grado a grado salite poi a condizione più elevata e a maggiore importanza sociale[497].
Il successivo ampliarsi della città e le grandi costruzioni — che, riferite dalla tradizione all’epoca regia[498], hanno tuttavia, almeno [145] in parte, carattere di remota antichità, come il tempio di Giove sul Campidoglio, la grande cloaca, le mura serviane — sono un indizio del continuo progresso economico e civile di Roma; e la ingente forza di lavoro, necessaria specialmente alle opere monumentali, lascia sospettare un impiego di servi e un incremento quindi della schiavitù. E, veramente, tra le prede, che si vuole facessero le spese di qualcuna di quelle opere[499], potettero o dovettero esser compresi degli schiavi. Ma l’espandersi della città fu lento e graduale, e fu più spesso la fusione di borgate e centri già innanzi abitati: le grandi opere pubbliche poi, se la tradizione non mente[500], furono elevate oltre che con l’opera mercenaria, col concorso forzato degli stessi cittadini, sotto forma di corvées, che riescirono di forte aggravio alla plebe e sarebbero state tra le cause precipue del suo sentimento ostile verso l’ultimo de’ re.
Nondimeno, in maniera lenta e insensibile ma costante, si venivano fecondando i germi che doveano portare a uno sviluppo della schiavitù.
In quella lotta impegnata con i vicini e di volta in volta allargata, lotta combattuta prima per l’esistenza e poi per una forma sempre più elevata di dominio; con la conquista di territori e l’appropriazione della altrui ricchezza mobiliare[501], si veniva inducendo nella società romana una serie di rapporti più complessi e come una stratificazione sempre più distinta de’ vari elementi della cittadinanza. Le spese e gli aggravî della guerra, riversati, come accade, da quelli che avevano il monopolio del potere su quelli che n’erano esclusi o poco meno che esclusi; i danni delle incursioni e delle rappresaglie, più sentite da chi meno possedeva e vi era più esposto; il monopolio dell’agro pubblico e la possibilità di impiegarvi, mettendolo a cultura o tenendovi greggi ed armenti, un capitale che vi trovava il suo frutto; l’accumulo reso più facile a chi più ha, e fatto sempre più possibile e più agevole dall’azione sempre più diffusa e [146] operosa della moneta, che investiva e trasformava i più antichi e semplici rapporti economici e le prime forme rudimentali di scambi; tutte queste cose insieme concorrevano a creare nuove condizioni di vita, foriere esse stesse di maggiori mutamenti, per i maggiori bisogni suscitati, per lo sforzo e il modo di appagarli.
Pure l’accumulazione della ricchezza e il progresso economico dovettero essere, per lungo tempo, lenti ed esigui.
Nella legislazione delle dodici tavole si riflette ancora l’angustia d’orizzonti della vita romana e lo stato rudimentale della sua economia[502].
È ancora un popolo che vive tutto d’agricoltura e per cui non è spuntato ancora il periodo dell’industria e del commercio. La ricchezza, il vantaggio, il danno, le forme di guadagno hanno tutti la loro espressione in parole relative alla pastorizia e all’agricoltura[503], e i delitti che la legge considera hanno del pari stretta relazione con l’una e con l’altra. La moneta coniata non è giunta ancora a divenire la comune misura degli scambi e della valutazione, che ancora, tradizionalmente, in alcune multe, si determina in quantità di animali[504]. Diecimila assi costituiscono ancora una ricchezza[505]; bassi sono i prezzi de’ prodotti dell’agricoltura e degli animali; le multe son tenute in confini limitati, e appena la massima multa raggiunge una cifra che, nella sua stessa misura relativamente elevata, ci dà un criterio della limitata economia del tempo, anche considerata nelle sue maggiori manifestazioni[506].
Del resto le forme di produzione, gli sfoghi alla varia attività umana, i mezzi di moltiplicare la ricchezza erano assai circoscritti. La terra anche ne’ ricolti migliori dava un prodotto [147] tenue, che, secondo qualche calcolo[507], al lordo, non raggiungeva il cinque per cento. La produzione familiare, in questo e per molto altro tempo ancora, non solo abbracciava i generi d’alimentazione, ma comprendeva ancora il vestimento, la lavorazione degl’istrumenti ed utensili di legno necessari all’agricoltura, quella delle corde e de’ lavori d’intreccio, di alcune più rozze stoviglie, delle suola[508]. Strumenti ed utensili, che si era obbligati a chiedere al lavoro tecnico più provetto dell’artigiano, si riunivano a larghi intervalli di tempo, e intanto si riparavano, si rimettevano all’ordine in casa.
Il commercio era limitato, com’era da attendersi da questa stessa limitata produzione, che non offriva larga materia di scambi[509]. I mercati più vicini, oltre il Tevere, servivano al traffico de’ prodotti di uso più immediato; e, attraverso di essi, forse, giungevano anche que’ pochi prodotti transmarini, che si erano introdotti o cominciavano ad introdursi negli usi de’ Romani[510].
I capitali perciò, limitati come potevano essere da queste condizioni di limitata accumulazione, si volgevano, come già altrove, in uno stato analogo di cose, se non esclusivamente, preferibilmente all’usura, che costituiva una vera piaga di questi tempi e le cui fasi occupano una parte notevole nella tradizione[511]. Finchè l’allargamento del dominio e l’appropriazione sistematicamente organizzata della ricchezza di tanti paesi soggetti non offrirono un appagamento a’ crescenti bisogni di una società sterile; si può dire che il popolo romano, nell’ámbito chiuso del piccolo stato, si volgea co’ denti in sè medesimo.
L’interesse, limitato dalla legge delle dodici tavole, non già, [148] secondo un’ipotesi inverosimile, al 100%[512], ma, secondo una più accettabile interpretazione, al 10% per un anno di dodici mesi e rispettivamente all’8 1⁄3 % per un anno di dieci mesi[513], ci fa vedere, in realtà, come i capitali esistenti fossero inadeguati alla richiesta, e quanto alto salisse d’ordinario l’interesse, se la legge l’avea stabilito in una misura pur di tanto superiore al reddito ordinario della terra.
Le vicende della pace e della guerra e quelle ancora più ordinarie delle stagioni sopra aziende agricole di limitata estensione e produzione facevano sì che la plebe, la classe ancora meno provveduta, rasentasse sempre l’abisso del debito, pronta a cadervi per non uscirne più mai. Avvenimenti poi come l’invasione e l’incendio gallico, dietro cui non rimanevano salve che la terra e la parte di scorta metallica sfuggita alle rapine e alle taglie, aveano reso più acuto il bisogno e più forte l’impero della moneta, più rara e più richiesta[514].
Questa manifestazione sociale-patologica dell’infierire dell’usura, propria di dati tempi, in paesi di economia poco progredita, costituiva per la società romana uno stato di equilibrio instabile, che dovea trovare la sua risoluzione e il suo rimedio in una estensione della schiavitù.
Se, come pare[515], ciò che dava a’ patrizi (sotto il qual nome del resto la tradizione volle fors’anche intendere i ricchi) l’egemonia economica e la possibilità di mutuare, era massimamente il possesso sempre crescente dell’ager publicus; in questo impiego usurario del danaro e nelle forme rigorose in cui si esplicava, si può vedere non solo una conseguenza dell’angustia economica che non consentiva altri modi d’impiego, ma un mezzo di appropriarsi il lavoro altrui, sia indirettamente sotto forma d’interesse, sia, più ancora, direttamente con l’addictio del debitore moroso, divenuto così a tempo o in perpetuo, il servo del creditore, che in un caso l’adoperava nelle sue coltivazioni e in un altro lo vendeva o permutava con uno schiavo straniero. La lex [149] Paetelia, è intesa da Livio[516] e da’ più come la liberatrice della plebe che faceva de’ beni e non del corpo del debitore la garentia del creditore. Ma, se proprio si potesse ritenere, come qualche interprete[517] vorrebbe, secondo un’ipotesi repugnante alla tradizione, che essa si limitasse soltanto a modificare le forme anzi che la sostanza del diritto del creditore, l’addictio dovette essere poi ristretta od eliminata, in fatto più che in diritto, dall’estensione della schiavitù, che rendeva non necessaria quella maniera d’acquisto d’incommodi servi, e da forme di procedure, che rendevano più agevole e possibile l’espropriazione del debitore.
Le dodici tavole, veramente, oltre a rivelare, in questa forma indiretta, il bisogno della schiavitù, crescente col progredire delle condizioni economiche, rivelano anche, in maniera più prossima, che questo bisogno cercava il suo soddisfacimento, e la schiavitù si andava sempre estendendo nella società romana.
Infatti nelle dodici tavole troviamo irrogata la pena di cencinquanta assi pel ferimento del servo[518], e d’altro lato la menzione della pena comminata al servo ladro[519]. Ricorrono anche disposizioni sullo statu liber[520], il servo manomesso sotto condizione, con un accenno, forse, a quel peculio[521], che, meglio sviluppato appresso, è destinato ad avere tanta importanza nelle condizioni e nelle sorti della schiavitù; vi si fissa la norma per la devoluzione al patrono dell’eredità del liberto morto senza testamento[522], e si sancisce finalmente la responsabilità civile del padrone per i fatti delittuosi e colposi del servo[523].
Tenuto conto dello spirito della legislazione decemvirale, che, in maniera rapida e comprensiva, fissa le sue norme, regolando [150] interessi pratici e concreti; si può dire che, se anche non molto diffusa, pure, relativamente alle condizioni economiche del tempo, la schiavitù cominciava ad essere un elemento integrante del patrimonio e della vita economica; e maggiore tendeva a divenire nell’ambiente sempre più largo che Roma si formava e nell’affluire alla città dominatrice di tante forze economiche, che le vittorie omai più numerose e feconde richiamavano con successione sempre più frequente e costante e che la illimitata libertà di testare sancita dalle dodici tavole[524], il giro più rapido della ricchezza e la vita economica sempre meno compressa e più complicata tendevano a raccogliere in poche mani.
Il popolo che doveva giungere a dare il suo nome al mondo antico e doveva dare a tante parti di esso l’impronta della sua fisonomia, compiva questa sua funzione nella storia con l’assimilarsi i caratteri e le attitudini de’ popoli, che assoggettava o con cui veniva in contatto, trovando così in una straordinaria potenza e varietà di adattamenti il segreto e la fortuna del suo dominio e il mezzo più potente della fusione di così diversi elementi in una grande organizzazione politica e civile. A misura che la sfera d’azione di Roma si estendeva e se ne ampliava il dominio, la vita romana si modificava sotto l’azione di tutte le correnti e di tutte le forze economiche e morali che vi s’insinuavano e, dominate, riescivano a dominarla; e quanto più vasto era l’ambito, su cui l’attività romana si esercitava, e più vari gli elementi, con i quali veniva in rapporto, tanto più profondi e complessi n’erano gli effetti.
Roma, uscita vittoriosa da quelle sue più antiche guerre, combattute sul suo stesso territorio o in quello adiacente, procedeva a guerre sempre più lontane e più gravi; e la storia tradizionale tiene a rilevare come, di volta in volta, ad ogni impresa fortunata si arricchisse di terre e di prede, onde i vinti erano come multati. L’assoggettamento della Sabina avea fatto gustare per la prima [151] volta la ricchezza a’ Romani. Ma, quando estesero il loro dominio all’Italia centrale e agli estremi lembi dell’Italia meridionale, oltre al vantaggio immediato delle prede e degli acquisti, si creò una condizione di cose, che dovea dare un diverso e non preveduto indirizzo alla loro politica ed alle loro forme di vita. Non solo era così data l’occasione ad entrare nella politica de’ grandi stati del Mediterraneo; non solo la civiltà più raffinata della Campania e delle colonie greche suscitava esigenze e rapporti, di cui poteva valere come indizio l’argento di recente adottato quale tipo monetario[525]; ma il nuovo e più grande dominio costituiva, nel suo insieme, per le sue stesse condizioni naturali, un ambiente in cui l’economia romana, il vecchio modo di produzione, la base stessa della vita romana ed italica si dovevano trasformare.
“Per l’agricoltura italica — dice il Nitzsch[526] — era della più alta importanza che i Romani, ora, mercè le colonie e l’ager publicus, fossero signori delle montagne e del piano. La schiacciante preponderanza della pastorizia, come si trova in Ispagna e in Italia a danno della coltura della terra e di una coltivazione intensiva, è solo possibile, dove si può evitare l’allevamento nelle stalle. La necessità di riparare, all’inverno, le greggi nelle stalle obbliga anche il più grande proprietario fondiario a limitare il suo bestiame, giacchè egli deve provvedere non solo al riparo e alla custodia, ma anche all’alimento invernale. Questa necessità non vi è più, dove le greggi, col principio d’inverno, possono trovare pastura in luogo dove il clima e il pascolo permette ad esse di trascorrere, senza inconvenienti, i mesi freddi a cielo aperto. A’ paesi settentrionali d’Europa mancano questi pascoli e mancano a’ montanari d’Italia, se le pianure delle marine non sono accessibili alle loro greggi. Così, se possiamo sostenere che il bestiame de’ Sanniti e de’ Lucani era limitato, quando le Puglie e le coste del Golfo di Taranto non erano loro soggette, o non potevano servire di pascolo; del pari non possiamo non rilevare che anche le greggi [152] delle pianure non potevano essere eccessive, finchè non erano loro dischiusi i pascoli montani per l’estate. L’aridità della campagna romana e delle Puglie, la malaria del Golfo di Taranto portano l’epidemia e la morte agli agricoltori e a’ pastori e specialmente al bestiame. Che questo stato malsano delle marine italiane sia cresciuto nel Medio Evo, ma che già vi era nell’antichità, è risaputo. Se anche i boschi dell’Appennino non erano così barbaramente devastati e le pianure delle coste non ancora così desolate ed appestate a cagione de’ latifondi; tuttavia l’afa di un’estate italiana, il freddo di un inverno di montagna erano insopportabili per le greggi e gli armenti dell’antica Italia come per gli odierni.
“È difficile dire se le guerre delle città della Magna Grecia con i barbari del paese montuoso adiacente portassero in qualche modo, da una parte e dall’altra, all’ampliamento de’ pascoli e dell’industria armentizia: notiamo soltanto che la produzione della lana sul Golfo di Taranto doveva essere ancora insignificante, se i Sibariti si provvedevano di oggetti di lana a Mileto (Timaei Fragm. ed Mueller, p. 286). Nè nel Lazio, nè in Etruria, nè sul rimanente littorale occidentale si vede, prima del dominio de’ Romani, lo sviluppo della pastorizia che appresso incontriamo. Ma quando i Romani alla fine della seconda e, meglio ancora, della terza guerra sannitica penetrarono con le loro colonie nella zona interna dell’Appennino e anche ivi ridussero ad ager publicus larghi tratti di territorio, fu loro ben possibile di aumentare il loro bestiame. Livio (X, 23 e 47) menziona già per la prima volta alla metà del quinto secolo condanne di pecuarii. Sembra inverosimile che la legge licinia abbia limitato col possesso della terra coltivabile anche il diritto di pascolo, perchè la pastorizia, come già si è mostrato innanzi, era limitata in que’ tempi dalle condizioni dell’ager publicus, dalla mancanza di grandi pascoli estivi in montagna. Non appena i Romani se ne ebbero procacciati mercè le loro conquiste nell’Appennino interno, allora, per la prima volta, sopravvenne il pericolo di una preponderanza della pastorizia. Al tempo stesso fu possibile a’ Romani di prendere parte diretta al commercio del Mediterraneo. Mancavano loro finora i grandi prodotti di una ricca regione interna, con cui Cartagine faceva il suo esteso traffico, e mancava anche [153] l’attività industriale delle città greche, lo smercio de’ cui prodotti avveniva specialmente per mezzo di Corinto. La grande maggioranza de’ proprietari terrieri romani poteva riserbare per mercanti stranieri solo piccola parte della loro produzione agricola, e, finchè vi fu questo felice limite del possesso fondiario, non vi era da pensare per Roma ad un proprio ceto commerciale e ad un naviglio mercantile„.
Ma questo così vasto demanio, se in parte rimase direttamente in potere dello Stato e in parte servì a fondare colonie e a farne assegnazioni a’ meno abbienti, per una parte assai maggiore andò a finire nelle mani della nobiltà, che, avendo già l’egemonia politica, la faceva valere e la rassodava, sorreggendo ed afforzando la sua posizione economica.
Del resto per molte ragioni, su alcune delle quali accadrà di fermarsi appresso, i meno abbienti avrebbero, sotto certi aspetti, poco potuto avvalersi di queste terre pubbliche.
Molte di esse erano forse più appropriate al pascolo che non alla coltura; molte altre erano in luoghi distanti da centri abitati, forse impervii, dove solo una completa azienda rustica poteva menare innanzi la coltura, non già un contadino isolato. Si trattava pure, per lo più, di terre incolte, che occorreva dissodare con impiego non indifferente di spese e di lavoro; mentre, d’altro canto, bisognava cominciare a pagare la decima allo Stato concedente.
Nella valle del Po e, in luoghi, dove abbondanza d’acqua, agevolezza di vita, esigenze militari, opportunità politica e l’opposizione non ancora ridesta e organizzata delle classi dominanti l’aveano voluto e permesso, s’erano fondate colonie o fatte assegnazioni; ma altrove era il possesso de’ ricchi che si stendeva sul demanio pubblico col progresso, se non così lento, certamente continuo e sicuro come quello dell’edera che si attortiglia alla pianta vigorosa per avvincerla tutta tra le sue spire.
Si occupava non solo la terra, che si poteva coltivare di presente, ma quella ancora che si aveva speranza di coltivare[527], [154] e si andava diritti alla formazione del latifondo e alle forme sotto le quali esso è messo a profitto.
Altro ancora si aggiunse a favorire e precipitare questa tendenza.
La guerra, malgrado il suo carattere talvolta necessario e la speranza spesso ingannatrice di attesi vantaggi immediati, era stata, come appare dalla tradizione raccolta da Livio, la preoccupazione e il tormento della classe agricola, del ceto di agricoltori obbligati a coltivare direttamente la terra e messi nella triste alternativa di vedere il proprio campo desolato da’ nemici o dall’abbandono, in cui lo lasciava il coltivatore guerreggiante in paese nemico.
Il soldo militare, introdotto dopo la presa di Veio[528], avea attenuata una delle gravezze, a cui il soldato andava incontro, e la guerra portata sempre più lontana da’ propri confini esimeva il campo dalla devastazione de’ nemici, ma non lo rendeva meno deserto con la più protratta lontananza del suo coltivatore.
La guerra annibalica, agitata in Italia, riprodusse, a un tempo, tutti questi mali: il tributo, la lunga milizia, il saccheggio; e, se tutti n’ebbero danno, più danneggiati furono i piccoli possidenti, che più facilmente andavano in ruina al menomo squilibrio, e che aveano le loro terre ne’ piani, teatro della guerra, mentre gli armenti si ritraevano su’ monti, protetti dalla prudenza, secondo qualcuno anche troppo calcolatrice di Fabio.
La concorrenza de’ cereali della Sicilia, dove l’agricoltura era rifiorita, risorgendo dalla distruttrice opera di Agatocle[529], e poi la concorrenza più vasta dell’Africa, resa sempre più possibile ed estesa dalle strade, che, più e più, si diramavano per l’Italia, solcandola, minavano con azione più lenta ma anche più sicura il piccolo proprietario e il fittaiuolo italico coltivatore di cereali.
L’egemonia continuamente progrediente di Roma faceva di Roma e delle sue classi dominanti come il vampiro del mondo, [155] la piovra di tutta l’attività produttrice del mondo soggiogato; e, sotto forma di preda, di tributi, di decime, di appalti, di ruberie e perfino di eredità, i tesori del vasto dominio si venivano accumulando nelle mani di una categoria sempre più ristretta di persone, occupate, per dirla con l’emistichio solonico[530], a spannare il pingue latte, di cui il fiore più veniva alla superficie, quanto più n’era continuo e turbinoso il rimescolio.
Questa gara sfrenata dell’opulenza, eccitata e resa necessaria dallo stesso crescere e concentrarsi della ricchezza, assorbiva la piccola proprietà, insidiandola col litigio cavilloso, occupandola con la violenza, tentandola con le lusinghe di una vita più molle, liberandola da ogni vincolo, che la potesse rendere più o meno inalienabile e creandole intorno quell’ambiente di leggi, di cui può valere come un sintomo eloquente la legge agraria del 643 a. u. c.; ciò sino al punto che potè sembrare tutta la ricchezza di Roma si accogliesse in non più che due mila persone[531].
Questo stato di cose — la proprietà fondiaria e la ricchezza mobile, riunite in una cerchia sempre più ristretta — voleva dire il monopolio del mezzo di produzione, la terra, e, data la facoltà sempre maggiore di acquistare schiavi, la possibilità di dare a quel mezzo di produzione un movimento quasi automatico.
Così sulle rovine del piccolo possesso e della piccola proprietà si elevava il latifondo, e al posto dell’agricoltore subentrava il pastore e al posto del libero lo schiavo.
L’Italia peninsulare ogni giorno più si sentiva spinta a rivolgersi ad altre nazioni per provvedere al suo bisogno di cereali[532]: successivamente e in varia misura, si volgeva alla Sardegna, [156] all’Africa, all’Egitto, alla Spagna, alla Gallia, alla Beozia, alla Cilicia, alla Siria, alla Brittannia perfino in tempi più avanzati[533]; ciò che era al tempo stesso un indizio e un fomite dell’abbandono graduale della coltura cereale, la quale ogni giorno più cedeva il posto a un impiego della terra più remunerativo.
Già Catone, nello scrivere il suo trattato sull’agricoltura, determinando l’utilità decrescente delle varie colture, metteva in primo luogo la vigna, poi l’orto irriguo, e successivamente il saliceto, l’oliveto, il prato, il campo frumentario, la selva cedua, l’arbusto, la selva ghiandifera[534].
E appresso, nel trattato di Varrone, un interlocutore, rilevando che non tutti s’accordavano nella classificazione di Catone, metteva in cima ad ogni coltura il prato[535], il che mostra che, da Catone a Varrone, col progresso del tempo, la pastorizia aveva sempre più acquistato il sopravvento sull’agricoltura.
Col divenire che Roma faceva un centro sempre più popoloso e importante, il territorio, su cui aveva un’azione più diretta, trasformava le sue colture, mercè una graduale selezione, per servire a’ bisogni ognora crescenti e più vari della popolazione cittadina.
Le terre meno lontane e più adatte s’avviavano a fornire fiori, frutta, legumi[536].
L’oliveto e la vigna, sotto l’impulso della crescente richiesta di olio e di vino, erano tratti ad estendersi. Vi era, è vero, chi riteneva che la vigna “divorasse il suo prodotto col suo [157] “stesso dispendio„[537]; ma non mancava chi soggiungeva che, specialmente quando si posseggono le cose inservienti alla cultura della vigna, questa non teme il dispendio[538]. E Columella, prendendo le mosse dal prodotto minimo di una vigna, mostrava che, mentre il capitale impiegato con l’interesse del 6% avrebbe reso millenovecentocinquanta sesterzi all’anno, la vigna, nella peggiore delle ipotesi e con un vignaiuolo costato ottomila sesterzi, ne rendeva duemilacento[539].
Vi erano pure allevamenti, che, iniziati forse per mero diletto e per il ristretto uso della casa e del podere, si allargarono, sopratutto in vista della città crescente, sino a divenire importanti riprese del podere o la sua produzione principale.
Oltre all’allevamento di animali da tiro e da soma, l’allevamento di volatili, di api, di animali selvatici e qualche volta anche le piscine erano capaci di dare guadagni non lievi[540].
Di queste ville, come si chiamavano le sedi di tali allevamenti, se ne citava qualcuna che rendeva cinquantamila sesterzi; in un’altra, nella Sabina, a poca distanza da Roma, la sola vendita de’ tordi avea reso sessantamila sesterzi, il doppio di quel che aveva reso l’intero fondo di Varrone, dell’estensione di duecento iugeri, su quel di Rieti[541].
I pavoni, in un caso citato da Varrone[542], rendevano 600.000 sesterzi. I colombi raggiungevano talvolta prezzi eccezionali[543]. In un piccolo fondo di un iugero, nell’agro falisco, l’allevamento delle api dava un reddito di diecimila sesterzi[544].
Così la cultura arborea da un lato, dall’altro gli allevamenti di tutte le forme restringevano la cultura de’ cereali, sviliti di [158] prezzo, importati da regioni straniere, e si manteneva ancora in Italia là dove, come nella valle del Po, vi era ancora una popolazione di coloni, o dove l’importazione era difficile, o il terreno dava molto prodotto come in Etruria, nell’agro di Sibari e in luoghi simili[545].
Intanto, la cultura arborea, dell’olivo specialmente, come la pastorizia esigevano un concorso di persone minore che non la cultura de’ cereali.
Per un oliveto di dugentoquaranta iugeri Catone calcola cinque operai, tre bifolchi, un asinaio, un pastore, un porcaio, in tutto tredici persone, di cui gli ultimi sette erano adoperati alla custodia e all’uso di tre paia di bovi, alcuni asini e cento pecore[546]. Per cento iugeri di vigna lo stesso Catone riteneva necessari sedici uomini, tra cui il vilicus e la vilica e quattro uomini addetti alla custodia e all’uso di due bovi e tre asini[547]; e per Saserna bastavano otto operai soltanto[548].
È vero che Varrone[549] dà un valore relativo a questi calcoli, ma, anche accettandoli con le debite riserve, resta sempre che il numero delle braccia si andava limitando, e tanto più forse, quanto la pastorizia più estesa forniva bovi da lavoro.
Quanto alle pecore era vario il numero de’ custodi. Varrone[550] suggeriva un pastore per ogni ottanta pecore, Attico per ogni centinaio; ma, quando sorpassavano il migliaio, lo stesso Varrone osservava che se ne poteva ben ridurre il numero.
Per una mandra di cinquanta cavalli Varrone[551] fissa due uomini. Un piccolo servo bastava poi alla cura degli asini[552]. E talora alla custodia delle greggi e degli armenti venivano appunto adoperati donne e fanciulli[553].
[159]
Durante questa metamorfosi dell’economia agricola e nel periodo che la precedette e la preparò, tutto favoriva l’impiego sempre più diffuso della schiavitù.
Il gravoso servizio militare, che distraeva i proprietari dalla cultura de’ fondi, li obbligava a surrogare l’opera loro con altra ugualmente stabile; e l’opera de’ servi doveva avere carattere di continuità più di quella del lavoratore mercenario, a prescindere dalla considerazione che, dal tempo di Polybio, già i minori abbienti stessi erano arrolati[554], e dopo Mario l’esercito si reclutava anche tra i proletari[555].
La stessa media e piccola proprietà dunque era spinta a far uso di schiavi.
Che se alcuni fondi erano siti in luoghi remoti e lontani da centri che potessero fornire l’opera mercenaria, l’impiego degli schiavi diveniva una inevitabile necessità. Come mostra l’aneddoto di Attilio Regolo, il mercenario, nell’assenza del padrone, facilmente abbandonava il fondo[556] e contro lui non vi era, quando v’era, che un’azione civile, mentre v’era ben altro modo di ricondurre al podere il servo fuggitivo.
I latifondi poi, che si andavano formando, per la loro destinazione a pascoli o per la loro situazione in luoghi di recente dissodati e per la loro stessa estensione, si trovavano assai spesso lontani da centri abitati ed esigevano, per tante ragioni, la presenza e l’assistenza continua di quell’instrumentum vocale, che, secondo l’espressione di Varrone[557], erano gli schiavi.
Tanti degl’inconvenienti dell’opera servile non potevano ancora essere sentiti e sensibili, in questo periodo, ne’ latifondi.
Si è già altrove rilevato, come l’opera degli schiavi è poco produttiva, e s’accorda male con la coltura de’ cereali, la quale esige un lavoro da un lato discontinuo, e, dall’altro, in date ricorrenze, contemporaneo di molti.
Quanto alla scarsa produttività, essa è risentita quanto più i [160] prodotti, invece che al consumo, sono destinati ad essere messi in circolazione sotto forma di merce; e inoltre la possibilità, esistente in questo periodo più remoto, di avvicendare la terra e mettere successivamente a coltura larghe estensioni di terre incolte, dissimulava, se non elideva, la scarsa produttività del lavoro servile. La varietà poi delle colture e dell’impiego del latifondo, ove s’introducevano anche forme più o meno rudimentali d’industria, dava agio di tenere variamente occupati nel corso de’ mesi gli schiavi, onde il fondo era dotato. Ove poi si consideri come la pastorizia dilagava continuamente, soverchiando ogni altra forma d’uso della terra, sarà facile rilevare che una funzione continua e quasi inerte, come quella de’ custodi del bestiame, poteva meglio essere disimpegnata da servi che non da liberi. Per giunta, in uno stadio molto rudimentale della pastorizia, si lasciava che tutto andasse innanzi e si svolgesse, si può dire, automaticamente; e questi custodi di greggi e di armenti, lasciati allo stato semi-selvaggio tra boschi e lande erbose, erano talora abbandonati a sè stessi[558], perché provvedessero, alla peggio, con ogni espediente e, all’occorrenza, anche con le rapine a’ bisogni dell’esistenza. Questo sistema, naturalmente, era possibile assai più con i servi che non con elementi liberi.
E a questa opportunità, per le condizioni del tempo sentita, di impiegare schiavi, corrispondeva anche la facilità di ottenerli.
Le guerre fortunate e le conquiste si risolvevano in una sorgente feconda di schiavi.
Lasciando stare i tempi più remoti, tra la sola fine del sesto e il principio del settimo secolo di Roma, stando alla tradizione liviana, erano stati ridotti in ischiavitù nel 544/210 dieci mila prigionieri di guerra, nel 546/208 quattromila, nel 552/202 milledugento, nel 554/200 trentacinquemila, nel 557/197 cinquemila, nel 564/190 millequattrocento, nel 587/167 centocinquantamila[559].
Il tempo successivo, che dischiuse a’ Romani le porte dell’Oriente [161] e vide le clamorose sconfitte d’incursioni barbariche e il consolidamento e l’ampliamento del dominio romano in ogni verso, rese più feconda la messe di schiavi[560].
Senza aspirare a determinare, con la precisione di cifre facilmente illusorie, la popolazione servile[561], si può avere una idea del suo sviluppo dal prodotto della tassa imposta alle manomissioni, la cui sola introduzione è un sintomo per sè notevole, e che nello spazio di centoquarantotto anni, dal 397/357 al 545/209, rese quattromila libbre pesanti d’oro[562]. Ed è dalla fine del sesto secolo che la schiavitù prende uno sviluppo anche maggiore.
Su’ prezzi medi di uno schiavo in questo periodo non è facile pronunziarsi[563]; ma dovettero essere assai oscillanti.
Se di Catone è riferito che non pagava mai uno schiavo oltre le millecinquecento dramme[564] e che, nella sua riforma del tributo, considerò come oggetto di lusso uno schiavo al disotto di venti anni del valore di diecimila sesterzi[565], il costo degli schiavi al suo tempo non doveva essere elevato; e delle oscillazioni a cui potè andare incontro e del livello a cui talvolta potè discendere, vale a darci un’idea, la notizia che, nel bottino fatto nel Ponto da Lucullo, gli schiavi si vendevano sino a quattro dramme[566].
Questa instabilità di prezzi, che, a lungo andare, avea anche i suoi inconvenienti, doveva, nondimeno, specie ne’ primi rinvilii eccitare tanto più il bisogno già sentito di schiavi.
[162]
Se la conquista dell’Italia aveva apportata una tale metamorfosi nell’industria agricola, anche maggiore fu la rivoluzione che nelle abitudini, ne’ sistemi di vita, nelle norme generali della condotta doveva introdursi per il contraccolpo di questa trasformazione e per il successivo estendersi del dominio fino a’ paesi di cultura greca e poi oltre il mare sino all’Oriente.
Tutte le raffinatezze del vivere, ignote o quasi a’ Romani, si offrivano loro con l’attrattiva, la seduzione di una cosa nuova, a cui era assai difficile il resistere; e tanto più difficile quanto più si presentavano insieme le tentazioni e i mezzi di appagarle. Se il trionfo di Papirio[567] avea recato a Roma gran copia di argento, i trionfi successivi, da quello di Flaminino a quello di Silla[568], riempirono d’oro l’Erario, e si stabilì un regolare riflusso di ricchezza, sotto tutte le forme, dal mondo romano alla sua capitale.
Il denaro, smunto alle provincie, cercava dovunque un impiego, negli appalti, nelle imprese commerciali, nell’esercizio dell’usura a danno degli stessi provinciali; ma il declinare della ragione dell’interesse[569] mostra che il capitale rimaneva ancora superiore alla possibilità dell’impiego; e, sia in quanto produceva ingenti lucri, sia in quanto rimaneva improduttivo, tendeva a disperdersi in spese improduttive, a soddisfare quella voga crescente del lusso, che diveniva sempre più un’abitudine e un bisogno.
La nuova e vecchia nobiltà, patrizia e plebea, di cui era stato già un vanto la residenza in campagna e la cura dell’agricoltura, distolta da’ campi anche per la nuova fase dell’economia agricola, cercava dimora stabile nella città; e, sotto l’impulso delle nuove forme di vita, le case si ampliavano e si ornavano e le esigenze crescevano con vicenda assidua e incalzante.
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Volgere la larga massa di numerario e la ricchezza accumulata ad una diretta produzione industriale, era cosa, oltre che prematura, difficile e lenta; più facile e spedito era dirigerla al commercio, che raccoglieva qua e là l’esuberanza della produzione più o meno progredita. Così, pur tendendo a trasformarsi, restava ancora base della produzione il lavoro casalingo. In queste condizioni il crescere delle esigenze della casa importava necessariamente un aumento del suo personale; e, quanto più, in quella vita sempre maggiormente mossa, gli aggregati gentilizî si scioglievano e si allentavano i gruppi familiari più numerosi e complessi, si doveva sentire il bisogno di supplire all’elemento familiare meno numeroso con l’opera di un elemento estraneo acquisito ch’era appunto la schiavitù[570].
Così, il bisogno dell’indispensabile come quello del superfluo, il più elevato tenore di vita e l’abitudine del fasto, tutto contribuiva a diffondere e moltiplicare anche nella vita cittadina quel numero preponderante di schiavi che si era insinuato nella vita rurale e ne formava omai la caratteristica.
A custodire l’entrata, ad annunziare, ad introdurre i visitatori, a regolare i ricevimenti era adoperato uno schiavo[571]. L’alimentazione, quanto più crescevano il lusso della tavola e lo sfoggio dell’etichetta, teneva occupata una vera coorte. A cominciare da’ più umili e più travagliati, che, faticosamente, con un metodo affatto primitivo, riducevano il frumento in farina, si andava sino al maggiordomo, attraverso tutta una serie di servi incaricati della cantina, della provvista del pane, della preparazione con tutta una gerarchia di cuochi, di sotto-cuochi, di guatteri, a cui facevano riscontro nella sala della mensa il direttore, quelli che preparavano la tavola, i letti, gli scalchi, i distributori, i pregustatori, i coppieri, i valletti posti a piedi de’ commensali e pronti ad ogni loro cenno. La stanza da letto, [164] il guardaroba, la toletta tenevano occupata altra gente di servizio. Le donne poi si circondavano di un vero stuolo, a cominciare dalle addette all’opere indispensabili, come la tessitura e il cucito, per arrivare a quelle occupate in tutti gli amminicoli che il gusto, la moda, la raffinatezza e spesso anche la depravazione sapevano suggerire. Se nasceva un bimbo in una casa magnatizia, non era appena nato che già era circondato di nutrici e di tutta una comitiva di persone che gli stessero attorno per curarlo, cullarlo, addormentarlo, mantenergli intorno il silenzio, mentre dormiva.
A tutti questi si aggiungevano gli altri servi, che attendevano a funzioni speciali necessarie a’ bisogni della casa e delle persone, come il fabbro di varie specie, il gualcheraio, il barbiere, e, secondo la grandezza e la magnificenza della casa, il giardiniere, il medico, il copista, il segretario, il cassiere, i suonatori, i cantanti, i bagnini.
Nè questa torma di servi si conteneva e finiva nella casa, ma seguitava anche fuori, o che occorresse rischiarare la via al padrone e a’ suoi visitatori di notte, o che occorresse condurlo in lettiga, o che bisognasse, specie in tempo di elezioni, rammentargli i nomi di quelli in cui s’imbatteva e cui era opportuno anticipare il saluto o ricambiarlo con la familiarità del conoscente.
Farsi precedere e seguire da una torma di servi era, a poco a poco, divenuto come un segno di distinzione, un modo di darsi maggiore importanza, e allora in quella gara di fasto e di vanità diveniva anche questa una ragione per moltiplicare i servi e spiegarli come un indice della propria opulenza[572].
L’elenco così minuzioso e differenziato delle varie categorie di servi è stato in buona parte condotto sulle tracce epigrafiche, che ci rimangono, dell’ordinamento della casa imperiale e sugli scrittori dell’epoca imperiale; ma in parte se ne trova riscontro anche negli scrittori dell’ultimo periodo dell’epoca repubblicana, [165] a cui la materia poteva dare occasione a farne cenno. Non di rado parecchie di quelle funzioni ed incombenze, che sono enunciate con nomi distinti, si trovavano raccolte in una stessa persona[573], tanto più quanto era meno considerevole la casa; ma, con le ingenti fortune che si erano venute cumulando negli ultimi tempi della repubblica, la tendenza a questa divisione di lavoro, e si potrebbe talora dire anche d’ozio, si faceva sempre più insistente. Cicerone[574] stesso trovava di cattivo gusto l’affidare a un solo schiavo funzioni disparate.
D’altra parte tutte quelle opere gigantescamente faticose, come le gettate in mare, l’artificioso mutamento dell’aspetto de’ luoghi e le opere di genere voluttuario, quali i giardini con i loro parchi, le loro piscine e tutte le bizzarrie e gli abbellimenti suggeriti dal capriccio, di luculliana memoria, lasciano concepire e travedere lunghe torme di schiavi messi per lunga durata, senza interruzione e senza tregua, a domare con la crudele ostinazione dell’uomo l’inerte e dura resistenza della materia bruta.
I giuochi del circo, poi, gli spettacoli gladiatorî, caratteristici della vita romana, che, a preferenza di ogni rappresentazione teatrale, divennero la vera festa nazionale romana[575], importavano un altro notevole aumento di schiavi, una requisizione permanente destinata a rinnovarsi continuamente.
I funerali, il conferimento di magistrature, la ricorrenza di solennità cittadine divenivano tutti occasione e fomite di questi tragici giuochi; e, a misura che il gusto stracco si sentiva stuzzicato da quell’aere sensazione del sangue versato per trastullo e l’uso si estendeva da’ più a’ meno ricchi, dalla capitale alle provincie, crescevano queste legioni di dilettanti della morte, di cui ben presto i padroni stessi avrebbero poi fatto una così amara esperienza.
La schiavitù, così, si diffondeva e sviluppava straordinariamente, alimentata dalle guerre e dalla pirateria, fecondata, in città e in campagna, da una nuova fase della vita economica, [166] adoperata, nella complicazione crescente de’ rapporti sociali, alla soddisfazione de’ moltiplicati bisogni, impiegata dallo Stato stesso nel vario estendersi delle sue funzioni, dalle società e da’ privati nella gestione delle loro industrie e de’ loro commerci, divenuta mezzo di produzione in mano di alcuni, strumento e fomite di raffinatezza in mano di altri e, in mano a molti altri, materia prima di speculazione, come oggetto d’incetta, mezzo di scambi, investimento e forma notevolissima di proprietà mobiliare e mezzo di far valere e mettere in movimento ogni altro genere di ricchezza.
Date le vicende e le condizioni dell’evoluzione economica nel mondo romano, l’impiego della schiavitù diveniva sempre più indispensabile, come inevitabile n’era stata la estensione. Ma oltre a questo suo carattere di necessità, la schiavitù era fatta per presentare, a primo aspetto almeno e alla superficie, le apparenze de’ maggiori vantaggi, anche là dove fosse stato possibile — ciò che in molti casi non era — avere libertà d’elezione tra lo schiavo e il lavoratore libero.
Possedere, oltre al mezzo di produzione, la forza che lo doveva mettere in movimento; avere in propria mano una forza di lavoro, che fosse come la continuazione e la moltiplicazione della propria energia, atta ad essere adoperata senza interruzione e padroneggiata a discrezione e diretta a proprio talento; doveva sembrare, a prima vista almeno, quanto di meglio si potesse desiderare. E l’agricoltura del tempo di Catone e di Varrone, che tendeva a limitare a’ casi puramente indispensabili l’impiego del lavoro libero[576], obbediva insieme allo stato di fatto di quel periodo e a quest’ordine di considerazioni.
Pure una più lunga e più approfondita esperienza doveva venire sviluppando e mettendo in luce, gradatamente, tutti gli inconvenienti e gli svantaggi della schiavitù.
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Quando Catone consigliava di acquistare il fondo rustico là dove fosse possibile, all’occorrenza, avere de’ mercenari[577], riconosceva con ciò, implicitamente, l’utilità, di una forza di lavoro impiegata e pagata soltanto pel periodo limitato di tempo, in cui adempisse una funzione utile.
Quando Varrone suggeriva di adoperare ne’ luoghi e ne’ lavori malsani lavoratori liberi piuttosto che servi[578], veniva a riconoscere tutti i danni e gli svantaggi della mortalità degli schiavi.
Quando lo stesso Catone consigliava di vendere lo schiavo divenuto vecchio ed inutile[579], segnalava, anche senza volerlo, gli svantaggi di uno strumento di lavoro che funzionava a pro’ del padrone, ma si esauriva anche a suo danno.
Possedere schiavi voleva dire avere impiegato nel loro acquisto un capitale, che altro ne esigeva per mantenersi, e correre quindi tutti i rischi della perdita, del rinvilio, dell’improduttività e dell’inerzia che, per tempo più o meno lungo, lo rendesse infruttifero.
Le condizioni sanitarie specialmente de’ grandi centri di popolazione nell’antichità erano peggiori che non ne’ tempi nostri[580]. La durata media della vita era, per quanto si può calcolare da dati di valore approssimativo, un po’ inferiore, anche per i liberi a quella de’ giorni nostri[581]. Oltre alle malattie ordinarie, derivanti da uno stato malsano, si succedevano a non lungo intervallo epidemie pestilenziali e contagiose, che facevano strage. Se ne trova menzione nella tradizione del tempo più antico[582], e, a misura che si procede più innanzi e le notizie [168] si fanno più distinte, si trova traccia di epidemie come quelle degli anni 23 e 22 a. C. che desolarono l’Italia, di quella dell’anno 65 d. C., in cui i libri della Dea Libitina registrarono trentamila morti soltanto de’ più agiati; e più gravi furono quella del 79 d. C., quando la mortalità giornaliera toccò la cifra di diecimila, e quella che, cominciata nel 162 a Babilonia, si propagò a tutto l’impero, durando sino al 180 e riproducendosi nel 187-9 sotto Commodo[583].
È facile immaginare come e in qual numero dovessero soccombere gli schiavi in queste epidemie, e come la loro mortalità, d’ordinario così notevole, dovesse essere grande, specialmente, per quelli importati dall’Oriente ed obbligati a vivere in condizioni di clima e spesso anche di stato sociale diverse da quelle cui prima erano avvezzi.
A ciò si aggiungevano le carestie, non infrequenti[584] date le difficoltà di comunicazioni e di approvvigionamento, a cui si cercò di riparare a Roma con un ordinamento sempre più largo dell’annona; ma i suoi benefici erano limitati a Roma e a’ cittadini, nè si estendevano a’ servi. La cosa aveva tale valore pratico che Cicerone, nel libro su’ doveri[585], si proponeva il quesito, se in caso di carestia potesse un uomo onesto trascurare di alimentare i suoi schiavi; e, benchè Cicerone risolvesse la questione da un punto di vista morale, non si può non tener conto di tutti gl’imbarazzi, che creava il possesso di servi nel caso di carestia, e che, alla men peggio, andavano a finire in una vendita di essi al ribasso o in una manumissione, o, in ogni caso, si risolvevano, come suole avvenire in tutte le carestie, in un deperimento lento de’ malnutriti e in una abbreviazione della loro esistenza.
I delitti degli schiavi, poi, che nella classe servile dovevano essere più frequenti per lo stesso loro stato di depressione e per la progressiva degenerazione indotta dalla loro condizione, esponevano il padrone, tenuto conto delle penalità più severe [169] comminate a’ servi e della responsabilità civile del padrone, alla perdita dello schiavo e a tutti i danni che importava la riparazione del fatto suo criminoso o colposo[586].
La norma introdotta di tenere responsabili tutti i servi di un delitto commesso nella casa e di cui non si rintracciasse il preciso autore, si doveva convertire in un vero disastro per il padrone[587].
La tortura, cui erano sottoposti gli schiavi chiamati a deporre in giudizio, le fughe non rare, nè sempre impedite, le mutilazioni e le debilitazioni, cui i servi andavano soggetti nell’esercizio del loro mestiere, e tanto forse più frequenti quanto più esorbitanti erano i lavori imposti e minori le cure e le precauzioni; tutte queste cose rappresentavano tanti altri danni e rischi per il padrone. Le misure dirette ad evitare alcuni di questi danni o a sminuirne il rischio, anche riuscendo, importavano sempre una maggiore spesa.
Oltre poi a tutti questi che potevano considerarsi come casi straordinari, o potevano essere cosa di più lontano e lento effetto, come la mortalità; molti altri inconvenienti sovvenivano, più vicini e continui.
Una delle maggiori preoccupazioni de’ padroni, che si riflette ripetutamente e con insistenza negli agronomi, era la cura di non tenere inoperosi questi schiavi, che rappresentavano al tempo stesso un capitale fisso e circolante, un impiego ed una spesa corrente. Ma, per quanto essi facessero, ciò non sempre poteva loro riescire completamente.
Dove le culture erano variate, era più facile adoperare successivamente gli schiavi in lavori d’ordine vario, adatti alle diverse stagioni, senza peraltro che si potesse mettere rimedio agli ozi forzati e talora assai lunghi voluti dalle vicende atmosferiche e dal corso della vegetazione. Ma, dove, come poteva [170] accadere ne’ fondi più limitati o in paesi di clima e di costituzione meno propizia, la coltura era uniforme; s’imponeva la scelta tra un personale insufficiente o esuberante, con tutti gl’inconvenienti dell’una cosa e dell’altra e la necessaria dipendenza dalla mano d’opera mercenaria. Sotto questo rapporto, al pari che da altri punti di vista come la minore produttività e il rapido sfruttamento della terra, la schiavitù, secondo è stato bene osservato[588], appare come il termine correlativo del latifondo, causa ed effetto di essa, ad un tempo.
A questi ozî forzati sembravano forse rimedio quelle intraprese sussidiarie di genere industriale, che, sotto le forme più modeste di industria casalinga o sotto quelle più sviluppate di fabbrica, andavano sorgendo nelle tenute di campagna, favorite anche dalla presenza della materia prima, dal minor costo de’ lavoratori. Ma quest’impiego alternato degli stessi servi in lavoro di carattere diverso precludeva tutti i vantaggi della divisione del lavoro, e si ripercoteva così sotto forma di altri inceppi e di altri inconvenienti sull’uso degli schiavi.
La continuità del lavoro, poi, anche quando non era elusa con tutti gli espedienti[589], e le trovate che la malavoglia, l’astuzia e altri sentimenti consimili potevano suggerire, non sopperiva alla qualità deficiente del lavoro, dovuto all’incuria, all’inesperienza, alla mancanza d’interesse.
Nell’esporre le forme sempre più differenziate e complesse, che l’agricoltura veniva assumendo, gli agronomi hanno, non di rado, occasione di notare come a certo genere di lavori, di colture e di allevamenti occorresse avvedimento, solerzia ed abilità non poca; tutte cose che spesso mancavano agli schiavi per la brutalità deprimente, in cui crescevano, e spesso anche erano trascurate, come un modo di reazione verso il padrone. In ogni caso la maggiore abilità rappresentava un valore ed un costo maggiore. Columella[590] nota bene come il buon vignaiuolo costava ottomila sesterzi, e tutti quelli che, per impotenza o per inesperienza, credevano di potergli sostituire uno schiavo d’accatto, [171] s’accorgevano alla raccolta quanto fosse errato il calcolo dell’avaro, o impotente il proprietario a corto di capitale. E il guadagno che Catone faceva, istruendo o facendo addestrare gli schiavi inesperti per poi rivenderli[591], mostra quale differenza vi dovesse essere tra il prezzo di alcuni e di altri.
In verità la lentezza de’ progressi dell’agricoltura nel mondo antico è in gran parte dovuta all’impiego degli schiavi.
Vi è chi calcola[592] che, indipendentemente da ogni moderno uso di macchine, l’agricoltura romana impiegava il quadruplo o il quintuplo de’ lavoratori che noi impieghiamo per ottenere lo stesso prodotto.
Il sistema della mietitura in Italia era peggio che rudimentale; e basti dire che si tagliavano, in due volte, prima le spighe e poi gli steli[593], ciò che, oltre a tutti gli altri inconvenienti, avea quello di raddoppiare il lavoro. Si conosceva anche talvolta il mezzo di accrescere il prodotto[594], ma non veniva usufruito. Mancava l’impulso, che, come con una pressione costante, spinge a produrre più e a più buon mercato; mancava l’iniziativa e l’interesse di chi è a diretto contatto con i campi, e, contendendo con gli altri produttori e con la natura stessa, cerca di accrescere la produzione della sua azienda. Il piccolo possidente, per la scarsezza de’ suoi mezzi, per la ristrettezza de’ suoi orizzonti, per la piccolezza del fondo che lo rendeva inadeguato agli esperimenti e a certi mezzi più costosi di produzione, come, sempre, era disadatto all’introduzione di metodi di cultura nuovi e più progrediti e rimaneva stretto a’ sistemi tradizionali, compensandone in qualche modo l’insufficienza con un lavoro più assiduo, più esercitato e sorretto dal diretto interesse.
Il latifondo italico si volgeva agli allevamenti e alla produzione [172] de’ generi di consumo richiesti da’ centri cittadini vicini e da Roma; e la produzione de’ cereali, divenuta molte volte sussidiaria[595], riesciva a mantenersi in una proporzione limitata per la possibilità di reintegrare la terra sfruttata col concime dato dagli abbondanti allevamenti, per l’abbondanza degli schiavi, per la sua lunga esenzione da’ pesi che gravavano le terre provinciali. Impiegare capitali nella terra, intensificarne la coltura, oltre che inutile, sembrava molte volte rischioso[596]. Così l’agricoltura italica procedeva stracca, quasi per virtù d’inerzia, con un automatismo, di cui la forza iniziale ogni giorno si veniva sperdendo.
E non è senza interesse il notare come la maggior parte de’ miglioramenti ne’ mezzi di produzione e specialmente negli strumenti rustici venisse dalle provincie, specialmente dalle Gallie.
Dall’Africa veniva un istrumento da trebbiare più progredito (tribula)[597], che si sostituiva al metodo affatto primitivo di trebbiare in uso in Italia.
Ma progressi anche maggiori vennero dalle Gallie.
Ivi un sistema più razionale d’innestare le viti[598]; ivi meno dispendiosa e più razionale la falciatura dell’erba.
Era dalle Gallie che veniva la nuova forma d’aratro a ruote, che, riversando le zolle e sommergendo l’erbacce, rappresentava un notevole progresso[599]. Nelle Gallie stesse, non solo la mietitura non esigeva un lavoro doppio come in Italia, ma si faceva con una specie di macchina, spinta da animali e guidata dall’uomo, [173] che importava un grande risparmio di tempo e di fatica[600].
E non si trattava di fatto casuale, nè di ragioni meramente accidentali.
L’introduzione dell’ultimo ingegnoso e complicato ordigno non era dovuto, come un antico voleva, alla necessità da parte de’ Galli di utilizzare la paglia: anche nell’agricoltura italica, come si rileva dal libro di Catone, la paglia era molto utilizzata, e più ancora se ne sentiva il bisogno appresso, a’ tempi di Palladio, col ridursi della coltura de’ cereali.
La ragione forse n’è ben più intima e complessa.
Da quel poco che ci dice Cesare della Gallia preromana[601], dalle sue notizie sullo sviluppo della clientela e l’esercizio dell’usura, che riproduceva uno stato sociale analogo a quello di Roma nel periodo di maggiore sviluppo del nexum, si può argomentare che la schiavitù non vi era sviluppata in maniera notevole. Ora la conquista romana, le strade, che mettevano sempre più in relazione le varie regioni della Gallia con la provincia narbonense e con un emporio commerciale come Marsiglia, fecero sì che, in periodo relativamente breve, la terra coltivata si dovette allargare a spese de’ boschi e delle paludi; e la relativa scarsezza di lavoratori e il costo della mano d’opera, come accade, costringeva a cercare loro un surrogato ne’ mezzi meccanici, conciliabili con lo stato de’ tempi e suscettibili di compiere il lavoro con risparmio di tempo e di opera umana. Per giunta il tributo, da cui per tanto tempo il suolo d’Italia andò esente e che gravava invece il suolo delle provincie, obbligava queste, se col suo eccesso non ne stremava la potenzialità economica, a cercare e praticare le forme e i metodi di cultura meno dispendiosi e più rimunerativi[602].
Ma, a misura che il terreno sfruttato diveniva più ingrato e la concorrenza si faceva più viva e la vita economica più complessa; a misura che le conseguenze stesse dell’economia servile, [174] accumulandosi, divenivano più sensibili; si faceva strada in maniera sempre più distinta e insistente la nozione della improduttività e degli svantaggi del lavoro servile. Si veniva maturando il tempo, in cui Plinio[603] avrebbe detto che la peggiore cosa era affidare la cultura de’ campi a’ servi degli ergastoli, il cui lavoro è poco produttivo come tutto ciò che si fa da disperati. È una specie di ravvedimento che si scorge già spesso in Columella, il quale, se anche non condanna in forma astratta ed assoluta il lavoro servile, lo viene a condannare in concreto per la maniera, come lo vedeva funzionare sotto i suoi occhi[604].
E la condanna del lavoro servile risultava anche implicitamente dalla condanna che sempre più colpiva il latifondo[605], termine correlativo della schiavitù e delle forme affini, ne’ tempi e ne’ luoghi di uno stato agricolo rudimentale.
Anche poi a chi non appariva la relazione stretta, che correva tra la schiavitù e questo stato di malessere dell’agricoltura, non potevano rimanere occulti, nè passare inosservati, tanti altri fatti, che per la ripetizione continua e la quotidiana esperienza di ognuno o per la loro stessa grandiosità si rendevano perspicui agli occhi di ognuno ed esercitavano automaticamente la loro azione, come impulso a cercare surrogati della schiavitù.
Già nella più antica tradizione appare come i servi fossero considerati quali un pericolo permanente, pronti a servire d’istrumento in mano agli ambiziosi e a’ ribelli, disposti a tendere [175] la mano a’ nemici in occasione di qualche assalto[606]. Ora, quanto più il loro numero si andava accrescendo e si trovavano insieme in grandi masse, lo spirito di rivolta ed il proposito di emancipazione ne aveano eccitamento ed aiuto.
Nel 335/419 si ha già l’esempio di una vera e propria cospirazione diretta a occupare il Campidoglio e mettere in fiamme la città[607]; e l’ardimento del proposito e la preoccupazione che destò, mostrano come si fosse sviluppata la schiavitù e quanto grande fosse il pericolo.
Col secolo sesto e coll’ampliarsi dell’economia servile, congiure e rivolte divengono sempre più gravi e pericolose, come quella di Apulia del 569/185, dell’Etruria del 558/196, del Lazio del 556/198, dove gli schiavi furono a un punto d’impadronirsi per sorpresa di Setia e Preneste[608].
Nel 621/133 centocinquanta schiavi venivano decapitati a Roma, quattrocentocinquanta a Minturnae, quattromila a Sinuessae; e contemporaneamente rivolte più vaste scoppiavano a Delo, nelle miniere dell’Attica, nel regno di Pergamo[609]. Più tardi altre ne accadevano a Nuceria, a Capua, nel Bruzio, e quel che dovea fare più sensazione era vedere alla testa degli schiavi Vezio, un cavaliere romano, contro cui bisognava che movesse un console con una legione[610].
Le congiure e le rivolte prendevano aspetto e proporzioni di guerre, come mostravano le guerre servili della Sicilia e quella de’ gladiatori in Italia.
[176]
In Sicilia l’economia servile avea avuto tutto il suo più completo sviluppo.
La dolcezza del clima e l’avvicendarsi de’ monti e de’ piani, de’ boschi e delle marine la rendeva adatta ad una pastorizia esercitata su larga misura, che infatti vi era fiorita con tanto rigoglio, riflessa perfino in una speciale forma letteraria.
La sua naturale fecondità, la sua relativa vicinanza a Roma, di cui vezzeggiativamente era detta un fondo suburbano e l’incetta di frumento che Roma preferibilmente vi faceva ad alimentare la sua plebe e a provvedere a’ bisogni della sua annona, portava, finchè le cause di decadenza non si vennero svolgendo, a dare un impulso sempre maggiore alla cultura del frumento.
L’economia agricola siciliana poi si presentava con alcuni suoi caratteri particolari.
I lunghi dissensi civili seguiti dalle lunghe guerre aveano operata una selezione accentratrice nella classe de’ proprietari, e il latifondo, favorito anche dalle condizioni topografiche e idrografiche della regione e rimasto poi sempre come il tipo dell’economia agricola dell’isola, si era venuto sempre più formando e allargando sotto l’azione delle devastazioni, delle confische, delle successioni avvenute in un periodo così lungo e così agitato, e del lusso, figlio di tutti i bisogni di un più elevato stadio di civiltà.
In un paese esportatore, come la Sicilia, facilmente l’agricoltura da un semplice mezzo di vita si converte in una industria; ma la conquista romana era fatta per imprimerle viepiù questo indirizzo. La tendenza alla speculazione, fomentata e promossa nella società romana dalla progrediente accumulazione di ricchezze, in nessun luogo poteva trovare uno sfogo più facile e impiego e più comodo come nella vicina Sicilia sotto forma di acquisti di terre, di appalti, di locazioni di fondi rustici. L’una intrapresa, come accade, ne richiamava un’altra e portava ad associarne una terza. Era anche quello il tempo in cui le guerre fortunate e la crescente estensione del dominio romano fornivano a dovizia gli schiavi; e la Sicilia, gettata come un ponte tra i punti più diversi del mondo soggiogato, in prossimità de’ più fiorenti mercati di schiavi, a contatto diretto con la pirateria, che ne forniva in abbondanza, era forse de’ paesi dove più facilmente [177] e a più buon mercato si potesse procacciarsi degli schiavi, completandone all’occorrenza, in certi lavori temporanei e sussidiari, l’opera col concorso di un proletariato miserabile[611].
Le aziende agricole vennero così in gran parte in mano di membri dell’ordine equestre romano e di altri speculatori: tutto l’agro leontino, il più ricco e il più fecondo, avea solo ottantaquattro fittavoli, il cui numero si andava sempre più restringendo[612]. Intanto il pagamento delle decime, l’incetta pubblica stabilita dalla legge Cassia Terentia a prezzi determinati dallo Stato, le vessazioni che non mancavano[613], congiunte al bisogno di assicurarsi un margine di lucro e all’avidità di ampliarlo, portavano a restringere quanto più fosse possibile le spese di produzione; e la maniera più facile e più comoda, specialmente per latifondisti lontani, era quella di ridurre, quanto più fosse possibile, il costo di manutenzione degli schiavi. Il paese meridionale, che comportava un meno elevato tenore di vita ed un’agevole soddisfazione di più immediati bisogni, favoriva anche meglio questa tendenza; ma, quando le cose si spinsero a tal punto che i padroni si credettero talvolta dispensati perfino di dare il minimo indispensabile a’ loro schiavi rustici e indicarono loro il brigantaggio e il ricatto come mezzo di sussistenza[614] le difficoltà della vita spinte all’estremo e l’esempio proposto si ritorsero contro gli stessi padroni e portarono a una vasta sollevazione.
La guerra, durata una prima volta tre anni (620-22/134-2) pose a dura prova i Romani[615] e la loro signoria sull’isola, e mostrò in quello strumento vocale, come lo chiamava Varrone, in quel gregge umano doti di valore, d’intelligenza e qualche volta anche di temperanza, atte ad essere per i loro padroni oggetto di molta meditazione.
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La sollevazione fu alla fine repressa, ma si potè dire domata più che vinta: risorse infatti, poco meno che un trentennio dopo (651/103)[616] con uguale ostinazione e con intento non diverso, e, domata anche questa volta a grande fatica, seguitò a serpeggiare sotto forme più occulte e attenuate, ma anche più persistenti[617].
Nè meno grave fu la guerra di Spartaco(681-2/73-2)[618], che potè mettere le turbe di animali da soma e da macello di fronte agli eserciti consolari e sconfiggerli, e rinnovò la guerra in Italia, quando pareva che ormai non vi dovesse più riapparire, riproducendo, sotto certi aspetti, le preoccupazioni e i terrori della guerra annibalica[619].
Erano queste le rivolte grandi ed aperte, gravi e pericolose, ma che pure si potevano combattere con le armi e stornare come un pericolo che non s’ignora. Senonchè, accanto ad esse e più ancora col loro sparire, v’era la reazione lenta, insidiosa, continua, fatta di resistenze passive, d’inerzie, d’inganni, che non si vinceva e non si domava, se non per farla rinascere sotto altre forme più accanita.
In tutta l’antica tradizione romana compare sempre lo schiavo, che denunzia una congiura, lo schiavo corrotto per tradire il padrone[620]. Era il nemico introdotto nella casa ed appostato nell’ombra, pronto sempre a prendere la rivincita dello stato di soggezione in cui era tenuto, dell’umiliazione in cui viveva, delle sofferenze che non gli potevano mancare. E nel lungo periodo delle guerre civili gli schiavi non mancarono di fare la loro parte[621]. Qualche scrupolo, ch’era come un inconsapevole senso di solidarietà della classe dominante, finiva per cedere all’interesse individuale e diretto del momento e, con un espediente [179] legale, si rompeva il rapporto esistente tra servo e padrone e si raccoglieva la denunzia[622].
Ma, fuori anche di questi casi straordinarî, non era senza le più gravi conseguenze l’infiltrarsi e l’allargarsi nella società romana di una categoria sempre più larga di esseri, considerati, per abitudine, a una stregua diversa da tutti gli altri uomini: non solo riguardati in modo diverso dalle leggi, ma tenuti e fatti estranei a un complesso almeno di sentimenti, di abitudini, di riguardi, che formavano la vita morale degli altri e ne regolavano, ne contenevano in certi determinati confini i rapporti.
Tutti i maggiori impulsi al ben fare, come il sentimento della gloria, quello dell’onore, che elevavano le regole della condotta e, rendendo la vita conforme a virtù, giungevano sino all’alta concezione del dovere, fine a sè stesso, tutte queste cose, per la sfera in cui esso viveva e per la sua mancanza di stato civile e politico, erano per lo schiavo lettera morta. Lo stesso senso di devozione, che talvolta nobilita ed eleva chi dedica tutto sè stesso ad un altro, e in un certo senso avrebbe potuto essere come una idealizzazione del rapporto di schiavitù, trovava spesso inciampo nelle durezze e ne’ contrasti della vita quotidiana; e, in ogni modo, perdeva d’importanza morale per il carattere non volontario ma coatto dello stato servile ed era capace di abbassare ancor più lo schiavo, facendone uno strumento cieco in mano di un padrone cattivo, capriccioso, dissipato.
Niente è più desiderabile che uno stato di vera uguaglianza civile, in cui il desiderio smodato e l’azione eccessiva di ciascuno trovano un limite permanente e un freno salutare nella legittima aspirazione ed azione di altri membri del corpo sociale, il quale così riesce una forma di coesistenza utile alla massa e agl’individui.
Niente invece è più deleterio di uno stato sociale, in cui una classe possa essere impunemente degradata e i diritti di molti negati o impunemente violati, così che alla coordinazione si sostituisca una subordinazione fraudolenta o violenta, e gli uomini, invece di esistenze autonome cospiranti reciprocamente al [180] proprio benessere, divengano strumenti in mano di altri uomini. Come ebbe a dire un cortigiano, ma non servo: “Non ci si appoggia se non su ciò che resiste„; e, dove la resistenza vien meno, viene a mancare ogni base sicura di moralità e di progresso. La facoltà dell’abuso ne diventa il fomite e il generatore immancabile; la intemperanza e la mancanza di freno producono la degradazione in alto, e l’oppressione e le conseguenze di ogni eccesso patito la producono in basso; e così la corruzione, per l’intima solidarietà del corpo sociale, dilaga per tutto, e la società si adagia in un parassitismo che la estenua e la dissolve.
Posti tra gli estremi della obbedienza cieca e della ribellione, gli schiavi piegavano, come verso una risultante, ad una via di mezzo, feconda di mezzi termini, di astuzie, di espedienti, qualche volta ricalcitrando, più spesso cedendo, opponendo la frode alla violenza e cercando quell’adattamento all’ambiente, che, di dedizione in dedizione, sogliono cercare i deboli, salvo a trovare, con la inconsapevole tenacia de’ deboli, tutta una serie di sostitutivi, che, se non ristabilisce in qualche modo l’equilibrio a favor loro, fa, inconsciamente, le vendette della loro disfatta.
Quello che fu detto della Grecia vinta, che, soggiogata, soggiogò Roma, potrebbe, sotto un certo aspetto, ripetersi di questi schiavi, che, arrivando a Roma da paesi di coltura greca, vi esercitavano tutta l’azione resa possibile da una superiorità intellettuale o dalle abitudini della vita vissuta in mezzo a società più raffinate.
Ministri e ministre di voluttà, avvincevano i nipoti di Romolo, che l’avevano incatenati, in una rete di fili sottili ma inestricabili, ove andavano a perdersi il loro vigore e le loro sostanze.
Pedagoghi, si assidevano nella casa; e, per quanto tenuti in una posizione inferiore e magari disprezzati, divenivano i formatori intellettuali dei loro padroni.
Lo stato di soggezione loro e di ogni altro servo e la forzata compiacenza li faceva istrumenti e complici di ogni intrigo de’ figli di famiglia.
Si vedeva il servo lesinata la razione od escluso da’ varî [181] diletti della vita? Ed egli, facendo onore al suo nome antico (fur)[623], se ne rifaceva rubando.
Non poteva liberamente informare alla sua volontà le sue azioni e sostenerne a fronte aperta la coerenza? Ed egli ricorreva alla menzogna, che in lui, così, non soltanto non veniva chiamata vizio, ma arte; non solo arte, ma virtù[624]. Infatti per la degenerazione dei sentimenti, che corrisponde alla degenerazione de’ rapporti sociali, virtù diventa, o ne usurpa il nome, in un determinato ambiente e per quello a cui è utile, tutto ciò che costituisce un impreteribile mezzo di difesa, un inevitabile espediente di vita. Il servo è ingannatore (fallax)[625] per antonomasia, e, all’occasione, è anche spergiuro.
E, quando di fronte alla verga il servo giunse a sorridere, e la dignità e la sensibilità d’uomo furono così bene cancellate in lui, che, col cinismo il quale non costa più nemmeno uno sforzo, celiò sulle lividure, onde era rigata la sua pelle[626]; il padrone si dovette sentire disperato ed impotente innanzi all’apatia di questo bruto, come Zeus di fronte alla divina, incoercibile coscienza di Prometeo.
Era l’eroismo capovolto: l’estrema degradazione che toccava l’estrema dignità; l’estrema servilità che rivendicava la libertà; l’ultimo abbassamento che fiaccava il dispotismo.
L’adattamento divergente, nel corso del tempo, ad Euno, ad Atenione, a Spartaco aveva sostituita quest’altra forma di ribelli, la cui azione era più lenta ma anche più sicura.
Così i tarli lavorano assidui, di notte e di giorno, in ogni punto della casa, intesi e non curati, pazienti, finchè la trave, che resisteva al colpo iroso e replicato della scure affilata, si spezza e il tetto rovina.
Nell’economia agricola, non meno che in città, per un altro verso diveniva deleteria l’azione de’ servi. Specialmente quando, come accadeva ne’ fondi lontani, non erano sotto l’immediata vigilanza del padrone, si davano alla rapina piuttosto che alla [182] cultura[627]: maltrattavano i bovi di lavoro, trascuravano il bestiame, non lavoravano la terra come si dovea, portavano come sparsa più semente di quella che fosse stata sparsa in realtà[628].
Un mezzo per lo schiavo di procurarsi l’ozio era quello di danneggiare gli strumenti agricoli, senza i quali era impossibile compiere il lavoro; onde gli agronomi si vedevano costretti a consigliare al proprietario del fondo di avere in doppio gli utensili necessarî[629], ovvero di avere un fabbro che li riparasse[630]. Nè sappiamo, se ed in quanto questo rimedio giovasse.
Le malattie vere e le finte, le disparizioni, l’impiego anche, pare, in opere pubbliche erano del pari tanti mezzi ed occasioni di perdite pel padrone[631].
Di fronte a tutti questi inconvenienti lo stesso prezzo tenue, a cui gli schiavi, in qualche periodo, avevano potuto essere comperati, poco giovava. Anzi, sotto un certo aspetto, l’oscillazione così forte, anzi gli sbalzi de’ prezzi degli schiavi, determinati da guerre fortunate, da larghe importazioni e da carestie, riescivano di danno per quelli, che aveano investito in servi una notevole parte della loro sostanza, e, costretti repentinamente a vendere, sentivano tutti i danni dell’improvviso ribasso. Ciò doveva senz’altro, come qualunque impiego poco stabile e sicuro, dissuadere dall’acquisto.
Si aggiungeva poi il caro crescente de’ viveri[632] in mezzo al decrescere de’ prezzi degli altri generi, e l’impossibilità di giovarsi per gli schiavi de’ provvedimenti dell’annona, specialmente delle distribuzioni gratuite di frumento.
[183]
Tutto questo complesso di fatti economici e di condizioni morali, che ne derivavano, di casi ordinari e straordinari della vita rendevano sempre più malagevoli i rapporti reciproci de’ padroni e degli schiavi, e anche quando non li rendevano più aspri, per lo meno li rendevano più incommodi. I padroni, pur senza potersene ancora completamente dispensare, trovavano molesto l’uso degli schiavi; e passava in proverbio il detto: “Tanti schiavi, tanti nemici„[633]; e si rendeva possibile, più tardi, il tipico epitaffio — il quale, magari non essendo vero, meriterebbe esser tale; tanto bene risponde alla realtà del tempo — di un padrone che faceva scrivere sulla sua tomba di avere accolta come una liberazione la morte per emanciparsi dalla servitù de’ suoi servi![634].
Oltre a tutti questi inconvenienti che, come un intimo male, venivano rodendo l’istituto della schiavitù, v’era tutto un disquilibrio sociale, che la schiavitù determinava quanto più si allargava, e che, provocando una inevitabile reazione, poteva soltanto trovare la sua risoluzione in una profonda trasformazione del modo di produzione.
Il latifondo e la progressiva concentrazione della ricchezza, resi possibili e favoriti dalle nuove condizioni, che all’economia agricola e al commercio avea creato la conquista dell’Italia, avevano trovato e trovavano un impulso ed un ambiente propizio in tutte le vicende della successiva storia di Roma. La schiavitù, il cui sviluppo avea avuto luogo simultaneamente, come termine correlativo di quella nuova fase della vita economica, divenuta omai il sostrato dell’economia del mondo romano, esercitava su di esso una pressione più o meno consapevolmente [184] avvertita ma continua, costringendolo a dirigere la sua attività politica e sociale con moto sempre più vivo, nel senso che era compatibile con quell’estensione del lavoro servile e consentaneo alle sue condizioni di esistenza.
La schiavitù, in generale, da un lato, per la scarsa produttività del lavoro servile, esige una vicenda di terre non usufruite e fa cercare nell’estensione dell’area e nel maggiore ampliamento dell’azienda un compenso alla limitata forza produttiva; dall’altro lato, esige ed assorbe molto capitale per l’acquisto e la reintegrazione degli schiavi. Sulla base dell’economia a schiavi si viene costituendo così un organismo sociale, che nella sua politica esterna è aggressivo e invadente e nella sua vita interiore presenta una distribuzione assai disuguale della ricchezza, e tende verso forme oligarchiche più o meno larvate per l’interesse, che il ceto ristretto de’ ricchi ha di monopolizzare il potere come mezzo di assicurare e sviluppare il proprio stato sociale, e per l’agevolezza, che l’opulenza dà di raggiungere meglio questo scopo[635].
Come in parte, qualche volta, si è innanzi accennato, era ciò appunto che avveniva; e, grazie al carattere particolare delle sue vicende, si manifestava con carattere di singolare rilievo nel seno dello stato romano.
Il ceto de’ piccoli e medi possidenti, destinato a sentire sempre più il malessere e gli effetti letali della concorrenza straniera, delle vicissitudini dell’agricoltura, dell’invadente latifondo vicino, del nuovo e più elevato tenore di vita, soggiacque anche più rapidamente alle devastazioni della guerra divampata in Italia e alle conseguenze delle guerre lunghe e lontane, che, non solo distraevano la sua opera dal campo, ma, fin oltre la metà del sesto secolo almeno (587/167), lo aggravavano, in misura sproporzionata, col pagamento del tributo, a cui i ricchi sottostavano in misura proporzionalmente minore. Infatti essi erano tassati soltanto in proporzione della loro proprietà privata, che costituiva la parte minore della loro sostanza rispetto alle terre pubbliche occupate, e, dopo Catone, per alcuni oggetti di lusso[636].
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Così delle rovine della piccola possidenza, dall’occupazione del demanio pubblico e più spesso anche dall’usurpazione dell’uno e dell’altro, si sviluppava la grande proprietà a cui talvolta faceva riscontro e sovente si accompagnava anche un’ingente fortuna mobiliare.
La concentrazione della proprietà immobiliare, rispecchiata anche, sotto l’Impero, nelle tavole di Veleia[637] e da Plinio deplorata per l’Italia non meno che per le provincie[638], era l’effetto di un lungo processo storico, che già era maturato sotto la Repubblica, portando gli amari suoi frutti.
Quella irrefrenata tendenza alla concentrazione della ricchezza, che, determinata da cause intrinseche e generali, aveva trovato un fomite e un aiuto nelle vicende di Roma, s’era pure venuta foggiando nel testamento romano[639] e nel rispetto per un certo tempo illimitato alla volontà del testatore un altro mezzo potente e continuo, operante anche nel giro della vita quotidiana.
Così la popolazione si veniva sempre più dividendo in due masse ognora più distinte e repugnanti di ricchi e di poveri, e si verificava quella legge per la quale “l’accumulazione della ricchezza ad un polo significa accumulazione di miseria, disoccupazione, schiavitù e degradazione morale al polo opposto„[640].
Già, all’esordire del settimo secolo, Tiberio Gracco, con parole che probabilmente son quelle stesse pronunziate da lui[641] e corrispondono in ogni modo all’occasione e allo stato delle cose, poteva descrivere in questi termini le condizioni della popolazione e della proprietà: Le fiere che sono per l’Italia hanno una caverna e ognuna di loro ha un ricetto e un giaciglio; [186] ma quelli che combattono e muoiono per l’Italia, di aria e di luce partecipano, non di altro, e randagi e privi di dimora vagano con i figli e le donne. I generali mentono quando incitano i soldati a difendere le are e le tombe da’ nemici, perchè nessuno di tali cittadini ha un’ara famigliare, non una tomba avita, ed essi combattono per l’altrui ricchezza e corruttela, dicendo di essere i signori del mondo e non avendo per sè una zolla di terra„[642].
Qualche tempo di poi Sallustio[643] poteva con maggiore brevità e con più sentita acrimonia far riassumere così quest’antitesi da Catilina: “Così ogni facoltà, il potere, l’onore, le ricchezze sono in mano di quelli o dove essi vogliono; a noi reietti lasciarono i pericoli, i processi, la miseria„.
E non si debbono vedere in queste parole semplicemente l’ira e l’esagerazione del ribelle, se un uomo d’ordine, come lo stesso avversario e accusatore di Catilina, poteva dire, ripetendo parole pronunziate nel 650/104 da Marcio Filippo, tribuno ma di sentimenti moderati, che in tutta Roma il numero de’ possidenti si poteva dire ridotto a duemila![644].
Infatti il territorio di Preneste, per esempio, al tempo di Cicerone era ridotto in mano di pochi latifondisti[645].
Anche per le terre demaniali, che erano date in affitto da’ censori, il grande affitto tendeva a sopraffare e surrogare il piccolo e insieme a prolungarsi, direi quasi a perpetuarsi[646].
Le grandi fortune del tempo sono anche indicate dalla grandiosità di edificî costruiti da privati per sè stessi o per farne dono allo Stato, dal lusso esuberante, dalle stesse cifre enormi de’ debiti soliti a contrarsi in questo periodo[647].
La fortuna di Crasso da trecento talenti saliva nel giro non lungo della sua vita a settemila e cento talenti, e il suo possessore soleva dire che può chiamarsi ricco solo chi è in grado [187] di alimentare un esercito[648]; ciò che prova come rapida fosse divenuta la circolazione della ricchezza, come più facile la sua accumulazione, quanto più elevato il tenore di vita e quanto maggiore l’impulso ad arricchire con lo sminuito potere d’acquisto del danaro e la cresciuta opinione della ricchezza.
Il profondo malessere sociale che derivava da questo stato di cose e specialmente la sua azione sulle condizioni del lavoro è riassunto con chiarezza ed acume da Appiano[649] così. “I ricchi, avendo occupata gran parte di questo agro pubblico indiviso, e, col tempo, confidando che nessuno loro la toglierebbe, incorporavano i piccoli appezzamenti de’ disagiati loro vicini, inducendo alcuni a venderli e da altri prendendoli con violenza, e così coltivavano vaste estensioni invece di limitati lotti, adoperando coltivatori e pastori schiavi per non sentire, a causa della milizia, la mancanza de’ lavoratori liberi e perchè l’acquisto degli schiavi dava loro molto guadagno mercè la prole, che si moltiplicava sicuramente, essendo essi sottratti a’ pericoli della guerra. Laonde i potenti arricchivano strabocchevolmente, e la schiavitù si dilatava per tutto il paese, mentre la popolazione italica, estenuata dalla povertà, da’ tributi e dalle guerre, si assottigliava. E se anche cessava dal patire di queste cose, languiva per l’inerzia, essendo la terra in mano de’ ricchi, e servendosi essi di schiavi invece che di lavoratori liberi.„
Una parte dunque della popolazione, messa nell’impossibilità d’impiegare direttamente il suo lavoro nella terra e di locarlo, d’altra parte, in servizio altrui, per lo stato di dissesto che sentiva e che da esso, di rimbalzo, si ripercuoteva nel resto del corpo sociale, dovea inevitabilmente provocare in questo un movimento e una trasformazione, che, per una via o per un’altra, eliminasse o attenuasse quello squilibrio così sentito e così grave.
Il filo conduttore e la chiave della storia di Roma repubblicana sta appunto in questa trasformazione del modo di produzione e della diversa distribuzione della ricchezza, che spiegano [188] e chiariscono, insieme alle sue guerre esterne, le sue lotte interne e danno una ragione della irrequietezza, da cui è invasa la repubblica specie ne’ tempi più avanzati e del suo precipitare verso il cesarismo.
L’assottigliarsi del ceto de’ piccoli proprietari e l’aumento del proletariato, tanto più forte quanto più la città ingrandita diveniva centro d’attrazione, e la campagna, che non ne avea più bisogno, ve li respingeva in massa; l’una e l’altra cosa non potevano fare a meno di destare la maggiore preoccupazione dell’uomo di stato.
Prima di tutto veniva a mancare la base all’esercito, che si reclutava ancora esclusivamente fra i censiti, e perdeva l’elemento stesso ond’era formato col cadere che facevano tra i proletari tanti proprietari.
E la popolazione libera si veniva infatti assottigliando.
I cittadini capaci di portare le armi da trecentoventottomila, quanti se ne calcolano pel 595/159, scendevano continuamente a trecentoventiquattromila nel 600/154, a trecentoventiduemila nel 607/147 e a trecentodiciannovernila nel 623/131[650].
La piccola proprietà e la piccola cultura, se importano una dissipazione di lavoro, hanno pure come termine corrispondente un aumento rapido e continuo della popolazione, il cui crescere sopperisce nuove forze di lavoro[651].
Col venir meno di questo stato di cose la popolazione si andava continuamente stremando, e infatti essa presenta una curva discendente sino al principio dell’Impero, in cui, per altra cagione, riprende un movimento ascendente[652].
Il tentativo di reintegrare e sostenere il ceto de’ piccoli e medi possidenti, fulcro dell’ordinamento repubblicano e dell’esercito, venne fatto e ripetuto, con intento ora più distintamente militare, ora prevalentemente civile, assumendo anche nelle vie [189] seguìte e nelle forme scelte una fisonomia diversa e incontrando pure dovunque difficoltà d’aspetto diverso[653].
Un modo di aprire uno sfogo al proletariato e rinsanguare il ceto de’ possidenti era, nell’antichità romana, la fondazione di colonie, che, suggerite da una necessità e da un proposito d’indole militare, riescivano anche ad uno scopo sociale e civile.
Ma le colonie e le assegnazioni in genere, se ricreavano artificialmente un ceto di proprietari, non lo sottraevano a quelle cause che rodevano e stremavano la piccola proprietà e specialmente agli effetti disastrosi del prolungato e lontano servizio militare. Ciò rese necessario un diverso ordinamento dell’esercito, e, con una legge che si vorrebbe attribuire al tribuno Terenzio Culleone e che era in vigore all’età di Polybio[654], il servizio militare venne esteso anche a’ censiti tra gli undicimila e i quattromila assi, mentre, aspettando che i proletari s’insinuassero, come poi avvenne, nell’esercito, intanto si reclutavano per la flotta[655].
Ma, se questo nuovo ordinamento dell’esercito, rendendo anche più incerta la condizione de’ più piccoli proprietari e de’ lavoratori mercenari, favorì lo sviluppo del lavoro servile, neppure giovò ad arrestare la decadenza della piccola proprietà. Nè giovarono la finanza severa di Catone e le sue imposizioni sugli oggetti di lusso e tutto quell’insieme di provvedimenti che, sotto forma di sistemi di amministrazione e di leggi suntuarie, voleva mettere un freno al tempo novello e comprimere quelli ch’erano gli effetti inevitabili di un’economia più progredita e di una ricchezza accumulata; mentre questa aveva bisogno di circolare per convertirsi in valori di uso e per moltiplicarsi, specie in quel decadere del potere d’acquisto della moneta e in quell’elevarsi del tenore generale di vita.
I nuovi e più vasti territorî conquistati oltre i termini d’Italia avrebbero potuto offrire uno sbocco sempre nuovo al proletariato, comunque crescente e rinnovato; ma a ciò si opponevano varie altre difficoltà.
[190]
Già l’assegnazione di terra in un paese non interamente pacificato, e dove il godimento non ne fosse pienamente sicuro e spensierato, riesciva così poco attraente che, come riferisce anche la tradizione[656], e come si deduce dal sistema di arruolamento de’ coloni, talvolta non si riesciva ad espletare le liste con quelli che si offrivano volontariamente e bisognava ricorrere a una specie di coscrizione[657]. La colonizzazione, poi, contenuta ne’ termini d’Italia non interrompeva assolutamente i rapporti con Roma, e anzi, quando la colonia non era molto lontana, v’era sempre modo di esercitare anche effettivamente, almeno nelle occasioni più importanti, i propri diritti di cittadini. Una colonizzazione fuori d’Italia, se non spezzava, rendeva almeno assai più difficili i rapporti con la madre patria, e, se lasciava di diritto immutata la qualità di cittadino nel colono, di fatto ne menomava l’azione effettiva.
Ma, più di tutto, un’assegnazione di terre in suolo provinciale, specialmente, se fatta su larga scala, urtava contro gl’interessi delle classi dirigenti romane[658] e specialmente dell’ordine equestre, che dell’ordinamento provinciale aveva fatto il sostrato della propria speculazione, sia mediante gli appalti delle varie riscossioni, sia mediante il credito esercitato a condizioni usurarie e fomentato e favorito dallo stesso stato di disagio, in cui, per opera delle gravose percezioni e delle indebite esazioni, cadevano i provinciali. Il reddito poi delle provincie era precisamente quello che alimentava l’Erario di Roma e costituiva, insieme alle rendite dell’agro pubblico non ancora alienato o distribuito, il mezzo per far fronte alle guerre e alle altre emergenze dello Stato dopo il disuso del tributo imposto già a’ cittadini.
Così, dopo le assegnazioni avvenute prima della seconda guerra punica per opera di Flaminio nella valle Padana[659] e le colonizzazioni avvenute dipoi massime per opera di Scipione, allo scopo di remunerare e compensare i veterani[660]; dopo che le [191] ultime colonie d’importanza militare furono spinte sino agli ultimi termini d’Italia[661]: la vera colonizzazione italica scompare per riapparire solo come un’appendice delle guerre civili, destinata ad essere un’arma di partito e un mezzo di afforzare poteri personali senza riescire veramente a creare un ceto di piccoli proprietarî e a mutare i soldati di mestiere in veri e buoni agricoltori.
Lo sfogo, che, per tante ragioni, il proletariato cittadino non aveva trovato fuori d’Italia, cercò di trovarlo in Italia; e, poichè il demanio pubblico era in grandissima parte occupato e usurpato da’ maggiori possidenti, non restava che rivendicarlo da costoro per farne la distribuzione.
Lasciando stare la rogazione di Sp. Cassio, così fortemente revocata in dubbio[662], e le altre leggi riferite dalle tradizioni e tendenti in ogni caso a ottenere alla plebe la partecipazione al possesso effettivo dell’agro pubblico[663]; quella che si è presa finora come punto di partenza e caposaldo del movimento a favore della piccola proprietà è la legge agraria licinia-sestia del 387 367.
Se questa legge, recentemente revocata in dubbio insieme ad altre dello stesso tempo e degli stessi autori[664], non è una foggiata anticipazione, una prolepsi di leggi posteriori; già dalla fine del quarto secolo la questione dell’esistenza di un largo proletariato cittadino si sarebbe imposta, e, quel che è notevole, non solo con l’evocazione di un provvedimento tendente ad allargare il ceto de’ possessori dell’agro pubblico e quindi de’ contadini autonomi e indipendenti, ma anche con una contemporanea misura tendente a restringere l’impiego della mano d’opera servile e a favorire quindi la diffusione del salariato[665].
[192]
È in ogni modo con i Gracchi, quando il proletariato era divenuto più numeroso, più accentrata la proprietà, più diffusa, invadente e minacciosa l’economia servile; è al tempo de’ Gracchi che il contrasto tra il lavoro libero e il servile, il proletariato e la classe detentrice della grande proprietà fondiaria appare, insieme, rilevante e distinto, sia pel suo carattere storico come per la sua importanza e per il deciso indirizzo di risolvere la grande questione con la rivendicazione del demanio italico malamente appropriato da’ suoi possessori.
La disposizione restrittiva del numero degli schiavi, attribuita dalla tradizione alla legge licinia-sestia, non riappare, per quanto almeno noi sappiamo, nelle leggi sempronie; e poteva bene non apparirvi, perchè l’effetto si sarebbe raggiunto indirettamente col frazionamento della proprietà e con l’incremento assicurato a tutto un ceto di lavoratori liberi.
Ma la reintegrazione e l’allargamento del ceto de’ piccoli proprietarî apparivano così insidiati dalla condizione de’ tempi e così precaria ne dovea sembrare la normale durata, che, ne’ suoi varî momenti, la riforma graccana da un lato credette indispensabile, con la proposta distribuzione dell’eredità di Attalo[666], di assicurare a’ nuovi proprietari con una scorta i mezzi di coltivare il proprio campo, e, dall’altro, di proteggerli contro l’assorbimento da parte della grande proprietà col renderne inalienabili i lotti.
L’interesse di usufruire a tutto loro profitto le provincie avea stretto insieme l’ordine equestre e il senatorio contro i meno abbienti; il nuovo indirizzo dato specialmente da Caio Gracco alla sua riforma e i vantaggi d’ordine vario da lui garantiti all’ordine equestre, valsero a scindere la coalizione della nobiltà senatoria e de’ cavalieri, facendo di questi gli alleati della plebe. Ma v’era più di una cosa che minava questa potente ed anormale coalizione, sperdendo l’augurio della vittoria. La fondazione della colonia oltremarina Giunonia, benchè passata nel complesso delle altre leggi, dovea non piacere a’ cavalieri, se poteva essere l’inizio di una colonizzazione oltremarina più vasta; i trambusti, attraverso i quali la riforma si veniva ponendo [193] in atto e gl’intralciati rapporti creati dall’espropriazione de’ grandi possessori non doveano molto piacere ad uomini d’affari e speculatori, la cui barca procede meglio nel mare calmo increspato da un vento fresco e regolare che non tra il contrasto di venti auspici della burrasca. La restaurazione della piccola proprietà era qualche cosa di così artificiale, in quelle condizioni di tempo e di luogo, tra quell’affluire in Italia delle ricchezze del mondo sotto tutte le forme e le esigenze della nuova vita, che gli interessati ora si lasciavano traviare da maggiori ed illusorie promesse, ora lasciavano intiepidire i loro entusiasmi per la riforma graccana. Quell’ampio ceto di piccoli possidenti, se poteva parere (e neppure era con lo Stato così allargato) la salvezza della forma repubblicana, rappresentava un ritorno all’accarezzata tradizionale età di Cincinnato e di Curio, e, sotto questo aspetto, era un sogno, come quello di Catone, di mettere la camicia di forza alla società, la quale, sotto l’azione della cresciuta ricchezza e de’ nuovi bisogni, pure pervertendosi, s’inciviliva e si faceva più raffinata. Quella sancita inalienabilità, se era una sterile difesa contro le forme di economia agricola più lusingatrici e contro la forza assorbente della ricchezza accumulata, finiva per non piacere a chi avea brama e speranza di acquistare e a chi desiderava il lotto per la speranza di rivenderlo, o si sentiva almeno a disagio con la sua commerciabilità limitata.
Se la plebe rustica, idolatra e assetata del boccone di terra, teneva a conservare e ad arrotondare i suoi poderetti, la plebe urbana, che esercitava nella vita pubblica un’azione più continua e più rumorosa, cominciava a preferire il frumento, che si raccoglie senza coltivarlo, alla sana ma monotona e faticosa vita de’ campi; e così veniva a mancare all’agitazione agraria quel sostegno presente ed audace, di cui aveano bisogno i suoi aùspici, anche per difendersi contro le violenze degli avversari.
Le leggi frumentarie avevano il sopravvento sulle agrarie, e il popolo le preferiva, o si rassegnava almeno a non avere la propria parca sua mensa, pur di raccogliere le miche del banchetto di Epulone.
Così la reazione, obbedendo talora a un proposito consapevole, talora cedendo al senso dell’opportunità, ora resistendo violenta, [194] ora simulando tendenze quasi demagogiche, mandava a vuoto il tentativo appena iniziato de’ Gracchi, la cui opera in pochi anni andava tutta distrutta.
Con la legge o le leggi di Livio Druso[667] si liberavano dalla imposta prestazione le terre assegnate e le si rendevano alienabili, ricacciandole così nella voragine sempre aperta del latifondo.
Pochi anni dipoi (535/219-536/218) una legge Thoria, con tutta probabilità, poneva termine alle assegnazioni, aboliva la magistratura costituita per porle in atto, confermava i possessori ne’ loro possessi, entro e fuori i limiti della legge Sempronia, e, per meglio far accettare tutte queste disposizioni, faceva della prestazione, nuovamente imposta o piuttosto gravitante sulle terre indebitamente possedute e non più soggette a ripartizione, un fondo da suddividersi tra la plebe[668].
Pochi anni dopo ancora, nel 643/111, una nuova legge[669], rifermando nello Stato la proprietà delle terre demaniali non ripartite e di quelle concedute con riserva del diritto di proprietà, riconosceva come di pieno ed assoluto diritto privato e quindi senz’altro alienabili le terre demaniali assegnate a’ cittadini mandati in una colonia romana[670], le terre demaniali [195] date a cittadini romani e a soci italici a titolo di semplice assegnazione viritaria[671], le terre possedute dagli antichi possessori prima della legge Sempronia e ne’ limiti loro consentiti, quelle date in cambio a’ vecchi possessori[672] e finalmente quelle che dopo la legge Sempronia erano state occupate in una misura non eccedente i trenta iugeri[673]. Emetteva disposizioni analoghe per la colonia fondata sul territorio di Cartagine e per il demanio africano[674]. Il pascolo sulle terre pubbliche era reso gratuito per un numero di dieci animali, oltre la prole nata nell’anno, e, per un numero maggiore di animali, non era più limitato, ma soggetto soltanto a pagamento[675].
Come si vede, con questa legge la riforma di Gracco era pienamente demolita, perchè, da un lato, si sospendeva la rivendicazione degl’illegittimi possessi, che restavano teoricamente come semplici possessi ma in linea di fatto rimanevano in .] [196] mano degli usurpatori; dall’altro canto i legittimi possessi e le assegnazioni erano convertiti in proprietà omai pienamente alienabili.
L’ager privatus, a Roma, era il prodotto di un esplicito indirizzo di politica agraria, che per vie studiatamente artificiali si proponeva di dare una incondizionata libertà alla disponibilità economica e giuridica della proprietà fondiaria e tendeva a mobilizzarla, come poi fece, non senza esercitare un’azione economicamente e socialmente deleteria. Questo indirizzo, che avea per molto tempo lottato contro le forme di proprietà comune, si era svolto in un lungo periodo di tempo ed era stato, prima di trionfare, l’oggetto di lunghe e accanite lotte di classi[676]. Esso si era affermato, in maniera recisa nelle leggi delle Dodici tavole, e questa legge agraria del 643/111 segnava come l’epilogo del lungo processo d’evoluzione, e, ponendo termine alla fase più importante e schietta delle rivendicazioni agrarie e de’ tentativi di restaurare il ceto de’ piccoli proprietari, sgombrava la via a una concentrazione sempre maggiore della ricchezza.
Dopo questa legge le antiche usurpazioni, i possessi illegittimi non erano più messi seriamente in pericolo, e non si hanno più che tentativi demagogici, non riesciti, di assegnazioni sul suolo provinciale, o ripartizioni proposte e in parte attuate del demanio ancora posseduto dallo Stato, o compre e confische dirette a rimunerare le milizie e a sorreggere, come si è accennato, poteri personali[677].
In tutti i casi l’inanità del tentativo, il campo limitato del provvedimento, il suo carattere di mero espediente e di episodio di un movimento politico, tolgono alla cosa le proporzioni e l’indole di una vera riforma sociale, e tanto meno riescono ad arrestare l’incremento del proletariato, per cui queste distribuzioni sono date ed accolte come tutti gli altri atti di temporanea e sterile beneficenza.
[197]
Questi atti di beneficenza, che sovente al posto di varî proprietari espropriati o confiscati mettevano un veterano, non risolvevano la questione del proletariato crescente, anche quando, come pure assai di frequente accadeva, il veterano fatto proprietario non ricadeva tra i proletarî, donde per poco era uscito.
Le distribuzioni frumentarie, poi, che, per quanto allargate, riguardavano un numero relativamente ristretto di persone[678], meno che mai potevano risolvere la questione del proletariato non cittadino.
Nell’ambito della famiglia si resisteva e si reagiva a questo incremento del proletariato con una limitazione nuovamente introdotta (querela inofficiosi testamenti)[679] della facoltà illimitata di testare, accumulando nelle mani di un solo figliuolo la proprietà familiare e diseredando gli altri.
Una parte del proletariato cercava e trovava uno sfogo nell’esercito, che oramai per opera di Mario si era aperto a’ proletari e che diveniva per essi, nell’estendersi del dominio romano e nella piega sempre più inquieta della politica interna della repubblica, una carriera, un’occasione di bottino, una via anche, come si è visto, ad uscire, per poco o per molto, non importa, dal proletariato.
Ma un’altra parte, per forza stessa delle cose, bisognava che cercasse nel lavoro delle sue mani i mezzi di sussistenza, e che con un’opera più o meno utile, produttiva o improduttiva, si facesse il suo posto nella vita.
La cura e l’interesse messi da C. Gracco nel promuovere la costruzione di vie, oltre allo scopo economico più generale e a preferenza di questo, come viene distintamente rilevato da’ narratori [198] della sua azione storica[680], avea lo scopo immediato e diretto d’ingraziarsi imprenditori ed operai.
Così, mentre la schiavitù per fatto suo proprio andava soggetta ad una crisi che la veniva minando, cominciava, in senso contrario all’azione esercitata dalla mano d’opera servile e della sua diffusione, una reazione della classe libera, concorrente ad allargare il salariato insieme agli stessi schiavi, di cui si andava trasformando in parte la funzione e l’impiego.
Il lavoro libero, come si è già prima accennato, aveva nel mondo romano una tradizione. Lo stesso Dionigi che lo diceva rilegato tra i servi e gli stranieri[681], segnala altre volte la presenza di artigiani anche nell’esercito romano[682]. E più volte ancora, in Livio specialmente[683], ricorre la menzione del lavoro libero. Le stesse secessioni della plebe, presentate dalla tradizione non come sedizioni violente ma come semplici scioperi, non avrebbero giustificato le preoccupazioni che inspiravano, se la partecipazione dell’elemento libero alla produzione non ne avesse fatto, anche da questo punto di vista, un elemento integrante dell’economia pubblica romana.
Nell’agricoltura poi la stessa straordinaria diffusione della schiavitù non era riescita a sopprimere del tutto il lavoro libero, che, compresso e ridotto, pur seguitava a sussistere sia sotto la forma d’impiego diretto nella piccola proprietà e ne’ piccoli affitti, sia sotto forma di lavoro mercenario[684].
La lontananza de’ fondi che impediva talvolta di potere esercitare sulla loro cultura una direzione oculata e una sorveglianza [199] continua[685], la mancanza di capitale per costituire gl’impianti e le scorte, il senso insomma della maggiore convenienza dello sfruttamento indiretto della terra consigliavano l’affitto, la colonia parziaria e le altre forme d’impiego di lavoro remunerato anche in natura e a base di partecipazione[686].
I lavori del ricolto[687], come quelli che esigevano la cooperazione simultanea ma temporanea di molti, facevano sì che l’economia agricola, nella coltura de’ cereali e in quella arborea, dovesse assolutamente contare sul lavoro mercenario, che in molti casi era prestato appunto da’ lavoratori liberi. Il lavoro mercenario infatti, se per il grande agricoltore costituiva un oggetto di richiesta necessario, per il piccolo proprietario e il piccolo affittaiuolo, oltre che pel proletariato agricolo, costituiva del pari un oggetto di offerta necessaria, in un caso come ripresa e come impiego sussidiario dell’opera propria e in un altro come mezzo di procurarsi la sussistenza[688].
Ne’ luoghi insalubri il lavoro mercenario si raccomandava anche come un mezzo di diminuire i rischi del padrone[689] con una crudezza, che può sembrare cinismo e ch’è la misura delle forme di coscienza determinate da alcuni rapporti economici.
L’utilità e l’efficacia di questa cooperazione del lavoro libero, [200] oltre che dalle varie menzioni del suo impiego sia sotto forma di locazione d’opera che sotto forma diversa[690], appare dal fatto, chiaramente rilevato da Catone e da Varrone che l’opportunità di procurarsi il lavoro mercenario faceva crescere il valore del fondo[691]. La possibilità di procurarsi medici, falegnami, fabbri, cardatori secondo il bisogno, più che un’utilità, per le aziende minori costituiva una necessità; giacchè, se i ricchi potevano averli del loro, i meno ricchi non potevano fare altrettanto, e la morte di un solo di questi artefici avrebbe assorbito il prodotto del fondo[692].
La possibilità del pari di avere a propria disposizione per gli stessi lavori agricoli la mano d’opera, quando e nella misura che occorresse, importava un minore investimento di capitale nell’instrumentum vocale, come si chiamava la dote di schiavi rustici dati al fondo e un risparmio anche di tutti i rischi e di tutte le perdite, cui era esposto un siffatto capitale soggetto a perire o, per lo meno, a rimanere infruttifero. La disponibilità quindi del lavoro necessario era considerato, anche nel tempo di Catone e di Varrone[693], tra i vantaggi inerenti ad un fondo insieme alla sua vicinanza a’ centri abitati ed a’ mercati, alla sua posizione sulle grandi vie di acqua e di terra, tra le prerogative [201] insomma che, rendendo meno dispendiosa la produzione o più facile lo spaccio, agevolavano e facevano prosperare l’economia agricola.
Come si vede, a misura che si formavano e crescevano i centri cittadini, i mestieri trovavano l’ambiente per meglio svilupparsi e assicurarsi quella clientela, che rendeva possibile l’artigianato.
Per quanto Roma dalla sua stessa posizione politica fosse spinta sempre più ad essere un centro di consumo piuttosto che di produzione, pure il crescere della sua popolazione e de’ suoi bisogni, l’utilità di avere sul posto alcuni prodotti e manufatti, che per lo stesso loro uso ordinario e pel tenue loro valore, mal sopportavano il dispendio di noli non di rado difficili, e, finalmente, la pressione stessa del bisogno sul proletariato crescente, doveano dare un impulso all’estendersi del lavoro manuale.
Perciò, a misura che venivano importati a Roma de’ manufatti, cominciava un lavoro d’imitazione e si accentuava una tendenza ad acclimatare alcuni rami di produzione[694], cosa che poteva riescire più agevole col convenire a Roma di gente di ogni paese, che vi portava, con i propri vizî, anche le proprie attitudini.
Di questa tendenza e del diffondersi in Roma delle arti manuali, noi troviamo le prove, in parte dirette, in parte indirette, talvolta ne’ manufatti stessi e tal’altra nell’importanza sempre maggiore che veniva acquistando ne’ vari aspetti della vita il ceto degli artigiani.
Quali progressi facesse anche a Roma e nel Lazio la toreutica, la varia lavorazione de’ metalli, l’architettura, il disegno, la fabbricazione de’ vari fittili ce lo dimostrano i resti monumentali, e lavori come quelli della fibula di Preneste e della cista Ficoroni e altri avanzi di minori manufatti, la cui tecnica, innestandosi su quella degli oggetti importati, la sviluppava superandola[695].
Nè meno notevole è il seguire come i lavoratori manuali divenissero un elemento sempre più notevole e più avvertito nella stessa vita pubblica.
[202]
Gli artigiani aveano una festa loro particolare e che da essi prendeva nome (artificum dies) nel giorno anniversario dell’inaugurazione del tempio di Minerva (Quinquatrus)[696]. Pitture murali di Pompei rappresentano processioni di esercenti speciali mestieri[697].
Verso il settimo secolo questi artigiani erano cresciuti a Roma e nelle stesse borgate e costituivano un elemento, il cui avvenire e le cui speranze stavano tutti nell’opera delle loro mani[698] e che perciò nella vita politica rappresentavano qualche cosa di continuamente mobile, facile ad essere attirata nelle sedizioni e nelle congiure e a cui perciò ne’ momenti più inquieti si rivolgeva l’occhio di chi voleva giovarsene e di chi credeva di doversene difendere.
Lo stesso fatto che si radunavano in associazioni e collegi ci fa arguire che il loro numero doveva essere alquanto diffuso. Epigrafi della fine della repubblica ci danno notizia di parecchi di questi collegi d’artigiani, così a Roma[699], come nel Lazio[700], e ce ne lasciano supporre naturalmente più altri, tanto più quando si consideri, che, se alcuni di questi collegi riflettono mestieri di larga applicazione, altri concernono mestieri assai speciali.
Nel periodo elettorale queste unioni di artigiani costituivano una vera forza, un elemento con cui bisognava far bene i conti[701].
Questa diffusione delle arti manuali ci è pure attestata dal nome, che prendono da quelli che l’esercitavano alcune delle stesse vie di Roma[702].
[203]
La produzione di alcuni manufatti avea in qualche luogo trovate condizioni così favorevoli e vi si era così bene acclimatata da acquistare per tradizione una nomèa, che ne raccomandava l’acquisto anche fuori della ristretta cerchia cittadina. Catone fa tutto un elenco de’ vari centri speciali di produzione di singoli istrumenti ed utensili agricoli. Secondo le indicazioni di Catone[703] Cales e Minturnae fornivano specialmente arnesi di ferro, la Lucania plaustri, Venafro tegole, Pompei trappeti, Capua canapi e vasi di bronzo, Roma stessa vesti, anfore, serrature, canestri e così via. Questo differenziarsi, sia pure rudimentale, della produzione, mentre era indizio di una maggiore diffusione e di un più lungo esercizio de’ mestieri, riceveva un nuovo impulso ed un continuo incremento dallo sviluppo della viabilità, che, rendendo possibili o più agevoli le comunicazioni, eccitava a estendere la produzione oltre i limiti del consumo locale, specialmente quando, come ne’ casi accennati da Catone e in altri, l’abbondanza della materia grezza, o una speciale tradizione ed educazione tecnica e il conseguente credito acquistato dalla merce ne favorivano lo spaccio.
Era questo l’effetto mediato della viabilità sviluppata; ma vi era anche un effetto immediato ed era il largo impiego di lavoro bisognevole e che in parte dovea essere prestato da liberi, come si è altra volta accennato. E si trattava di una rete stradale che assunse a grado a grado proporzioni gigantesche[704]. Già sotto la repubblica alla Via Appia aveano fatto seguito la Junia, la Valeria e poi l’Aurellia, la Flaminia, l’Aemilia, la Cassia ed [204] altre[705], che, oltre a’ lavori d’esecuzione, importavano periodici rifacimenti e continua manutenzione, a cui non sempre e in tutto erano chiamati a provvedere i possessori frontisti (viasii vicanei) per tacere dell’opera che questi stessi dovevano impiegare.
Le vie, poi, erano de’ rami più importanti di opere pubbliche, ma non il solo: la costruzione di edificî sempre più numerosi, destinati a scopi religiosi, civili ed edilizi e la loro continua manutenzione, gli acquedotti, gli espurghi e altre opere dettate da esigenze sanitarie[706] ci attestano ancora ne’ loro avanzi l’enorme quantità di lavoro per essi messo in movimento.
Non è possibile intanto dissimularsi i contrasti e le difficoltà, attraverso cui il lavoro libero doveva svilupparsi rimpetto al lavoro servile.
La scarsa produttività del lavoro servile dovea tardare ad essere sentita in una vita economica, come la romana, tanto artificiale e che viveva dello sfruttamento de’ soggetti e delle forme più o meno dissimulate della rapacità. L’effetto, che si risolveva in un esaurimento graduale delle sorgenti di ricchezza, era risentito, prima che da’ proprietari di schiavi, dagli altri, e solo con la sua azione lenta, continua e per molto tempo incompresa riusciva a ferire anche i più ricchi.
La schiavitù, per compensare la sua scarsa produttività e mantenersi, ha bisogno di terre sempre nuove e più feconde. Finchè questo bisogno potè essere facilmente appagato, la scarsa produttività del lavoro servile era facilmente dissimulato; e, anche quando questa possibilità fu meno agevole o fu esclusa, la reazione contro la concorrenza de’ cereali stranieri prese le forme di trasformazione di cultura e di un sopravvento della pastorizia sull’agricoltura.
Così la scarsa produttività del lavoro servile era ancora, se non evitata, larvata e girata.
Del resto la scarsa produttività del lavoro servile poteva essere risentita soltanto per effetto della concorrenza, e a ciò si opponevano varie difficoltà.
[209]
La concorrenza, in molti rami della produzione, tardava a sorgere perchè, per il prevalere della produzione casalinga, il prodotto non acquistava ancora generalmente il carattere di merce, e il commercio stesso, che, raccogliendo l’esuberanza de’ prodotti del lavoro casalingo, cercava di surrogare la grande produzione, si sviluppava gradualmente, e sempre ne’ limiti consentiti al mondo antico, con lo sviluppo graduale de’ mezzi di comunicazione. La minore produttività del lavoro è certamente meno avvertita da chi produce direttamente pel proprio consumo che non da chi produce per vendere a scopo di guadagno. Nel primo caso, anche avvertito, può non indurre subito, anzi tarda di solito ad indurre una trasformazione di metodo, sia per ragioni psicologiche, per senso d’inerzia, sia per ragioni d’ordine pratico, come la non chiara percezione del rimedio e l’impotenza di sostituire un metodo a un altro. Nel caso invece della produzione fatta per la vendita, vi sono la concorrenza e il mercato, che avvertono e obbligano a mutare metodi sotto pena della rovina.
Una delle conseguenze più prossime e visibili dell’economia a schiavi è l’abbandono delle terre meno feconde, che così rimangono incolte; ed era ciò appunto che cominciava ad accadere nel dominio romano[707]; ma non tutti riportavano il fatto alla sua vera causa, nè per molti grandi latifondisti, specialmente finchè il male non giunse al suo culmine, il danno dovè riescire molto grave e sentito.
In un certo senso, benchè in maniera non perfettamente consapevole, si può dire che Columella rilevasse ciò, ma come uno stato di fatto[708], e son queste le terre, che Columella voleva destinate a quella forma di lavoro libero, che era in questo caso l’affitto. Ma è ben chiaro, che, se questa era un’occasione [210] all’impiego del lavoro libero, era anche un’impresa poco conveniente e facilmente rovinosa, che poteva essere accettata o sussistere semplicemente in condizioni quali si verificarono poi nello stabilirsi del colonato.
Per altre vie anche il lavoro servile inceppava lo sviluppo del lavoro libero.
Il lavoro assorbente, che toglieva modo al lavoratore di potersi mantenere, sia nelle forme esteriori che nello sviluppo intellettuale, al livello della classe dominante, aveva depresso il lavoratore e, nel differenziarsi degli elementi della società, gli aveva creata una condizione non solo economicamente ma moralmente inferiore[709]. La condizione inferiore del lavoratore poi, alla sua volta, si rifletteva sul lavoro stesso e ne abbassava la considerazione nell’antichità. L’estensione presa dalla schiavitù e la parte preponderante, che avea nell’esercizio de’ lavori manuali, dovevano più che mai — come è accaduto anche in tempi recentissimi, in paesi di economia a schiavi[710] — dovevano anch’esse costituire un altro motivo di riluttanza verso generi di lavoro, che accomunavano i liberi con i servi, e li portavano a confondersi quasi con essi.
Si aggiunga che anche la concentrazione della fortuna e la ripartizione tanto inuguale della ricchezza non erano fatte per favorire lo sviluppo del lavoro libero. Le ricche case provvedevano con la numerosa servitù a’ bisogni domestici, rifornendosi fuori soltanto degli oggetti di lusso che non era possibile produrre in casa e trovando il compenso del maggiore impiego di lavoro e di spesa in quell’assoluta disponibilità delle proprie forze di lavoro dirette e usufruite a proprio talento. La massa de’ disagiati d’altra parte, che non era in grado di sopperire con la produzione casalinga a’ suoi bisogni e doveva ricorrere quindi all’artigiano, vedeva dall’insufficienza de’ suoi mezzi depresso il tenore di vita e compressi i suoi desideri.
Le distribuzioni gratuite di frumento, le largizioni e le liberalità pubbliche e private, che tendevano sempre più a divenire consuetudine e stabile istituzione non erano adatte a [211] mantenere per sè sole il proletariato, perchè non si estendevano a tutto il proletariato, nè a tutta la famiglia, ed erano anche insufficienti al conveniente mantenimento di un uomo solo[711]. Ma, indirettamente, esercitavano un’azione deprimente sul lavoro libero, giacchè permettevano a chi ne partecipava di locare l’opera propria per una mercede inferiore al minimo necessario e di abbassare così il tasso generale della mercede, che si regolava sull’offerta più vantaggiosa. Accadeva precisamente qui quanto si è osservato in linea più generale[712], che chi sostituisce con elemosina il 10 % del salario deficiente a centomila persone, fa ribassare per ciò stesso del 20 % il salario di un milione di lavoratori.
Sotto questo rapporto le distribuzioni pubbliche di Roma vanno considerate ad una stregua diversa da quella, a cui debbono giudicarsi le retribuzioni delle funzioni pubbliche nell’antica Atene. Il soldo dato a’ cittadini ateniesi per la partecipazione alle funzioni pubbliche era una indennità diretta a compensare anche in parte soltanto il cittadino del lucro cessante pel mancato impiego della propria attività; ma chi l’aveva, occupato ne’ tribunali e nelle assemblee, non poteva fare concorrenza agli altri lavoratori, e anzi il numero di questi, così più ristretto, doveva far elevare la misura della mercede. Invece a Roma le distribuzioni, fatte a mero titolo di largizione, con una tessera ch’era anche talvolta ceduta, esercitavano tutta l’azione che un sistema di carità pubblica può avere.
Una mancanza quasi assoluta di dati per l’epoca repubblicana non ci consente di conoscere in maniera determinata la proporzione delle mercedi. Cicerone, in una delle sue orazioni[713], valuta a dodici assi il guadagno giornaliero di un lavoratore, ma lo dice quasi per incidente; e questo semplice accenno, senza alcuna distinzione di tempo e di lavoro tecnico o semplice, non può nè appagarci, nè costituire la base di conclusioni rigorose. Nondimeno una cosa si può osservare, ed è che, col caro de’ [212] viveri e delle pigioni[714], segnalato per Roma ne’ tempi più vicini, quel salario era insufficiente a’ bisogni della vita, il cui tenore si era pure elevato e si veniva ancora elevando; era inferiore perfino alla sportula de’ clienti del tempo di Marziale e che pure pareva sì poca cosa[715]. Ma nella sua insufficienza mostra nondimeno l’avvenire del lavoro mercenario, perchè l’esiguità della mercede può valere come un indizio della concorrenza e quindi dell’incremento del lavoro salariato, e al tempo stesso fa indurre che la convenienza del lavoro salariato, il suo stesso buon mercato gli avrebbero dischiusa la via e avrebbero finito per assicurargli la prevalenza sul lavoro servile.
Intanto tutti questi ostacoli di carattere oggettivo e soggettivo, la difficoltà di trovar sempre lavoro, le attitudini non ancora bene sviluppate, il ritegno non ancora del tutto vinto di compiere opera da schiavi e di mescolarsi con essi davano luogo a un fenomeno anch’esso caratteristico dell’economia a schiavi[716], allo svilupparsi di una estesa classe di parassiti e al diffondersi del parassitismo sotto molteplici forme. Risorgeva la clientela[717], non fondata come l’antica su di un bisogno inevitabile di assistenza e di protezione, ma sulla cortigianeria, sull’indigenza accidiosa che aspira a vivere o deve vivere di carità con tutte le umiliazioni, le bassezze, le degenerazioni inerenti a un siffatto stato di cose e che per varî secoli sino a Luciano facevano le spese della satira, dell’invettiva, dell’ironia di poeti e scrittori[718].
Ma questa stessa larga categoria di parassiti, che con la sua inerzia e con la sua funzione sociale deleteria concorreva così efficacemente all’impoverimento della società romana, indirettamente anch’essa si può dire che cooperasse a rovinare l’antica [213] economia a schiavi: e spostata continuamente, in quel crollare frequente di fortune divorate dal lusso e dalla ignavia, incerta sempre del domani e spesso dell’oggi, doveva pur dare ne’ tempi più difficili e ne’ suoi momenti più scabrosi una mano al salariato, che vi reclutava i suoi elementi avventizî.
Così l’ultimo periodo della repubblica, che virtualmente conteneva in sè tutti i germi schiusi poi nel periodo imperiale, mostra in forma abbastanza perspicua questa crisi, che, ne’ suoi ultimi effetti, doveva portare alla fine della schiavitù.
E sono appunto fenomeni e indizî di questa crisi i fatti rilevati e che si andranno rilevando.
La lotta tra la forma economica che si andava decomponendo e l’altra che accennava a sorgere con i suoi rudimenti non si compiva senza che gli elementi in contrasto s’infliggessero reciprocamente perdite e danni.
A Roma, come in tutti i centri e le zone, dove la schiavitù era più sviluppata e accentrata, dove il parassitismo avea terreno più favorevole e sfogo maggiore, il lavoro libero, accanto a qualche condizione che ne favoriva lo sviluppo, ne avea pure altri molti che lo ritardavano.
Fuori di Roma, dove i lavoratori liberi non avevano da dibattersi tra le distrette del caro de’ viveri[719] e delle pigioni, fuori d’Italia, dove il peso de’ tributi e lo sfruttamento del popolo dominante dovevano far sentire di più la scarsa produttività del lavoro servile e i varî altri svantaggi della schiavitù, il lavoro libero e le forme ad esso corrispondenti dovevano trovare migliori elementi di vita.
In ogni modo, a Roma stessa come si è visto, il lavoro libero, tra tutte le sue difficoltà, sussisteva e avanzava.
La schiavitù, quale che fosse la sua resistenza, dovuta all’energia, allo spirito conservatore, a tutte le ragioni che mantengono in vita ancora un’istituzione nella sua lenta decadenza, poteva dirsi condannato; e lo dimostrava anche meglio la trasformazione che avveniva nel suo stesso seno, volgendola a forma diversa e traendo dalla sua stessa compagine nuovi elementi [214] pel lavoro libero o pel lavoro mercenario, che anticipava l’avvento e sostituiva la funzione del lavoro libero.
Il carattere predominante dell’economia più antica, come si è più volte accennato, consiste nella produzione fatta nella casa e in vista del consumo diretto. La schiavitù avea contribuito non solo a mantenere, ma anche a sviluppare questa produzione casalinga, sia prendendo il posto degli elementi familiari meno numerosi pel disgregarsi successivo de’ gruppi più complessi di parenti, sia come mezzo, nelle case più ricche, ad estendere l’attività della casa a un campo più esteso e più multiforme.
Intanto, col complicarsi de’ rapporti sociali e con l’avvento di uno stadio di economia più progredito ed elevato, la funzione degli schiavi sorpassava il ristretto ambito della cerchia domestica e si convertiva in qualche cosa di diverso e anche di opposto alla pura cooperazione della vita economica familiare.
Già la nuova fase dell’economia agricola, che al campo alimentatore della famiglia avea surrogato il latifondo con tutte le sue varie forme di produzione, variava, insieme alla primitiva posizione dello schiavo, il suo uso e il suo concetto più antico.
Ma ancora, con ciò, non è turbato quel carattere dell’economia antica che raccoglie nella stessa mano, come mezzi di produzione della medesima categoria il capitale e la mano d’opera. “Il lavoro sta così allo stesso grado della rendita fondiaria e lo schiavo al grado della terra, in modo che il lavoro come forza creatrice non ha rilievo in contrapposizione alla terra con cui esso crea. Quindi non si trova nell’economia romana la distinzione di capitale e lavoro, ma solo quella di sorta principale e frutto„[720].
Gli schiavi divenivano materia di speculazione. Erano comperati [215] per dirozzarli, istruirli e poi rivenderli, come si faceva in casa di Catone il vecchio[721], e, appresso, date certe condizioni, se ne procurava la moltiplicazione e l’allevamento con l’esclusivo e precipuo scopo della vendita.
Si locavano, funzionando come una vera e propria forza di lavoro separata e indipendente dal capitale in cui il loro lavoro veniva incorporato, costituendo così una vera forma di salariato con tutti i suoi rapporti. Questo impiego degli schiavi, che s’incontra poi nel Digesto come un fatto ordinario, appare già, sia sotto forma di commodato che di locazione di opera, in giureconsulti della repubblica[722]. Crasso nelle speculazioni edilizie, a cui attendeva con ardore e con pari fortuna, forniva insieme, nella ricostruzione delle case incendiate, le aree comprate al ribasso e l’opera de’ suoi molti schiavi costruttori[723].
Si venivano così creando, anche nel seno della schiavitù e col suo mezzo, quella separazione e quell’antitesi del capitale e del lavoro, che dovevano costituire il carattere peculiare della nuova economia in contrapposizione dell’antica. La nuova fase dell’economia, con la divisione progrediente del lavoro, con i maggiori progressi tecnici, col bisogno di una educazione tecnica professionale rompeva l’insufficiente e chiusa cerchia della produzione [216] casalinga e trovava nel salariato una forma più conveniente e più consentanea alla sua indole. Ma, per quella continuità che v’è tra il vecchio e il nuovo, per quella pressione lenta e assidua che infonde nelle vecchie instituzioni uno spirito nuovo e le adopera per nuovi bisogni, sformava il tipo genuino della schiavitù antica e le faceva assumere una forma ibrida, dandole l’impronta del salariato.
La schiavitù si sformava e si trasformava da tutti i lati.
Il peculium, sviluppandosi ed esercitando una funzione sempre più importante, non solo creava una nuova condizione morale allo schiavo, ma ne modificava radicalmente la posizione e la funzione economica e concorreva anch’esso a mutare il carattere dell’antica economia.
L’origine del peculium era veramente antica, tanto che si cerca trovarne la traccia nelle XII tavole; ma quello stato di cose più antico lascia indurre che si trattasse di cosa nè straordinariamente diffusa, nè che raggiungeva una rilevante entità. Appresso, con l’ampliarsi delle aziende agricole, col crescere dell’opulenza e delle liberalità, questo gruzzolo, consistente in danaro ed in ogni altra specie di valore, sia come frutto di risparmi che come premio e come partecipazione tollerata all’industria e all’azienda del padrone, doveva crescere di proporzioni e divenire più diffuso. Il peculio poi si raccomandava come una maniera di eccitare nello schiavo uno degli stimoli dell’operosità non facile a trovarsi in esso, l’interesse, ed avvezzarlo a quelle abitudini di economia e di solerzia, che avrebbero poi potuto riflettersi ne’ suoi rapporti verso il padrone; tanto che il possesso di un peculio era come una commendatizia e un indizio di lodevole operosità in uno schiavo. Rispetto al padrone, quantunque si dicesse che il peculio non dovea servire ad alimentare lo schiavo, quest’opinione doveva andar soggetta a molte riserve, specialmente ne’ casi di carestia e in quelli, in cui, come ci vien riferito degli schiavi siciliani, si trascurava il mantenimento de’ servi, abbandonandoli quasi a sè stessi per quanto concerneva il procacciarsi i mezzi di esistenza. Poteva in ogni modo il peculio valere come una riserva pel padrone, sia come un eventuale prezzo di riscatto, sia (giacchè il diritto di proprietà rimaneva sempre presso il padrone) come un premio quasi di [217] assicurazione pel caso di morte del servo o di fuga, già resa più difficile da un interesse che lo teneva legato alla casa del padrone.
L’estendersi poi degl’interessi e dell’attività della classe padronale a paesi lontani e a’ più disparati campi d’azione allentava o rompeva quel rapporto continuo e contiguo tra padroni e servi e faceva sì che costoro, pur essendo le braccia allungate del padrone, avessero bisogno di una maggiore libertà di movimento e quasi di una certa autonomia. La condizione, il sostrato e l’effetto, tutt’insieme, di questa nuova condizione di cose era appunto lo sviluppo del peculio, sia nel senso dell’estensione come in quello della sua importanza: ed è questa l’evoluzione del peculio, di cui la giurisprudenza attesta e riflette il punto di arrivo anche più che non il divenire, e che perciò viene a vicenda affermata e negata per determinati periodi, tanto accentuata n’è la linea generale e tanto impercettibili, nella loro continuità, ne sono i momenti[724].
Nel sesto secolo di Roma il peculio de’ servi ricorre, non solo nella giurisprudenza dell’epoca, ma nella commedia plautina, con tale frequenza che si può concepire quale importanza dovesse avere nella vita degli schiavi e nell’economia romana in generale[725].
Ora questo nucleo di ricchezza, virtualmente e legalmente di proprietà del padrone e realmente oggetto e base di una economia separata del servo, era appunto il germe sempre più fecondato di un nuovo rapporto tra schiavo e padrone, che poteva e doveva convertire la dipendenza personale assoluta in un rapporto prevalentemente economico.
Il crescente movimento commerciale cercava di rendere mobile ed attiva la ricchezza, e di questa tendenza sentiva naturalmente gli effetti il peculio, che tanto più poteva essere fonte di profitti, quanto più gli riesciva di guadagnare di libertà e di autonomia, riflettute l’una e l’altra sullo schiavo, che del peculio [218] era come l’appendice, ma che, attraverso il peculio, riusciva ad avere moralmente, se non giuridicamente, una personalità che gli mancava.
“Se il peculio non era di regola la base economica dell’esistenza autonoma della persona soggetta a potestà, c’è tuttavia sempre da pensare che nel caso della sua evoluzione avesse sempre più, gradualmente, assunto il carattere di un fondo adibito in un’azienda autonoma. Non vi è neppure da dubitare che il numero de’ peculii investiti in questa maniera e adoperati a questo scopo crescesse straordinariamente nel periodo in questione„[726].
Così tra la fine della Repubblica e il principio dell’Impero qualche giurecunsulto ci parla di servi ch’erano nel fondo come coloni[727] e di servi a cui il padrone loca il fondo e dà i bovi[728]. Come si vede, il servo cessa di essere uno strumento materiale nelle mani del padrone per assumere verso di lui, malgrado la deficiente sua personalità, l’aspetto almeno di un contraente. L’uno e l’altro accenno, in ogni modo, alludono chiaramente a un’economia non solo separata ma, si può dire, contrapposta a quella del padrone, la cui funzione veniva praticamente a concretarsi non più nell’impiego diretto dello schiavo, ma in un benefizio indiretto ottenuto con la costituzione di un improprio contratto di locazione.
“Tanto per questi coloni, come per gli schiavi adoprati sempre più come artigiani col principio dell’Impero, noi possiamo intendere così la loro condizione: che i coloni come affittaiuoli di appezzamenti pagavano un tributo annuo; gli operai di città erano provveduti di un’officina o dovevano pagare al padrone [219] una tangente (Tantième) del loro guadagno[729]. Così si creava tutto un complesso di esistenze, che il padrone non deve più sorvegliare e a cui non deve più provvedere„[730].
Dalla schiavitù stessa, così, per un’intima trasformazione sorgeva, in forma ibrida ma corrispondente a un’epoca di transizione, una categoria di artigiani e di salariati, che tenevano dell’antico e del nuovo, del lavoro libero e del lavoro servile, del primo de’ quali — staccati omai dalla stretta dipendenza personale — adempivano la funzione e del secondo risentivano l’origine e la condizione giuridica.
Era una trasformazione che esercitava la sua azione non solo sulla condizione de’ servi, ma anche sull’economia generale del tempo di cui era un portato e su cui reagiva.
“Nell’economia a schiavi — è stato osservato in uno studio su’ concetti economici fondamentali del Corpus iuris civilis[731] — nell’economia a schiavi scompare il concetto di capitale come quantità di ricchezza fecondata dal lavoro in opposizione al lavoro stesso, e l’economia ha a fare con aggregati di ricchezza, che non impropriamente sono stati designati col nome di sostanza domestica (Oikenvermögen). Ma, in realtà, naturalmente doveva accadere che da queste grandi masse se ne staccassero altre minori e dall’ambito dell’economia privata entrassero in quello dell’economia sociale; queste masse minori consistono in cose e costituiscono un peculium, ovvero sono rappresentate da danaro e costituiscono una sors.
“La prima esce dalla sostanza domestica solo esteriormente come patrimonio dello schiavo, non di fatto: l’altra assume una funzione autonoma come capitale mobile circolante.
“Il peculium era importante, politicamente come un passaggio dalla schiavitù al servaggio, economicamente come un mezzo di rendere produttivo e mobile il patrimonio domestico, scientificamente [220] in quanto con esso poteva realizzarsi una figura di capitale che si accosta molto al moderno.
Materia del peculium può essere tutto ciò che può formare parte del patrimonio domestico; esso sorge dall’accumulo di prodotti ed è destinato ad una ulteriore produzione.
“Lo scindersi di peculî dal patrimonio domestico e la loro produttività rendeva, in linea di fatto, l’immagine dell’economia romana simile alla moderna. L’industria domestica divenne una industria con capitali mobili; il lavoro divenne mobile e riuscì ad avere azione sulla formazione del capitale: il danaro divenne sempre più la base della circolazione e degli scambi compiuti prima direttamente per mezzo degli stessi prodotti[732].
“Così, mentre il peculio si atteggiava nella sua forma esteriore a capitale produttivo, eppure tornava sempre e ancora alla massa improduttiva del patrimonio domestico, spunta come autonomo il capitale mobile in forma di prestito (sors)„.
Un altro modo, per cui si facevano strada e si realizzavano la tendenza e il bisogno di sostituire l’impiego diretto degli schiavi con l’utilità indiretta, che si poteva trarre mediante una partecipazione a’ frutti della loro attività indipendente, erano le manumissioni rese sempre più frequenti e che hanno stretta relazione col peculio, sia in quanto questo si convertiva assai spesso in un prezzo di riscatto[733], sia in quanto, lasciato al liberto, seguitava ad esercitare assai meglio e più efficacemente la sua funzione economica, e metteva il liberto in grado di poter meglio esercitare il suo commercio, la sua industria e il suo mestiere con un capitale atto ad essere messo in circolazione od a fornire l’impianto.
Le manumissioni, che già dal 397 357 al 545 209, in soli centoquarantotto anni, erano state tanto numerose, come lascia supporre l’ingente somma ricavata dalla tassa su’ manomessi, erano venute così crescendo, specialmente negli ultimi tempi [221] della Repubblica, che n’erano divenuti insieme uno de’ caratteri salienti ed una preoccupazione.
I motivi di queste numerose manumissioni, più volte accennati, si possono ritrovare nel desiderio di crearsi delle clientele da far valere ne’ comizi e nelle varie vicende della vita politica, nella vanità che godeva della fama stessa delle manumissioni e de’ loro effetti, nel desiderio di sottrarre a’ creditori una parte del patrimonio così notevole ma così facile a distrarsi, e finalmente anche nella crescente abitudine delle liberalità e, qualche volta, in un senso di filantropia, che, anch’esso, dovea crescere col progredire della civiltà e con l’allargarsi de’ più angusti orizzonti romani.
Ma, sotto a questi motivi di carattere più immediato e più appariscenti, operava, più dissimulata o meno consapevole, ma più persistente ed efficace, la pressione continua delle nuove condizioni di vita, che, facendo sentire l’insufficienza de’ vecchi rapporti economici e rendendo più elastici, col senso di scontento che suscitavano, le vecchie e rigide forme e i rudimentali modi di produzione, scalzavano l’istituto della schiavitù innovandone la vecchia forma e trasformandola in ibride forme di soggezione e di salariato.
II cinico consiglio del vecchio Catone di disfarsi dello schiavo vecchio e malato[734], che tanto doveva spiacere alcuni secoli dopo a Plutarco[735], non sempre poteva risolversi nella vendita desiderata e andava a finire talvolta in un abbandono, come ce lo provano le disposizioni proibitive dell’imperatore Claudio[736], e, in ultima analisi, in una manumissione.
Ma, indipendentemente da questo caso, la manumissione si raccomandava spesso per molti rispetti, sì da costituire un’utilità comune del padrone e dello schiavo.
Ben di frequente l’emancipazioni non erano gratuite[737], e quindi il padrone cominciava dall’esigere una somma, che gli [222] permetteva, volendo, di rinnovare la sua servitù, sostituendo al servo più invecchiato e stanco uno nuovo. In ogni caso, fosse remunerativa oppur no la manumissione, nell’atto che si compiva non si poteva mai dire veramente gratuita, perchè non interrompeva i rapporti e il legame tra manomittente e manomesso, ed era concessa, tanto più quando era in apparenza gratuita, con l’obbligo di prestare tutta una serie di servigi e di lavori, che contrattualmente si potevano estendere anche a favore di altri che non fosse il patrono e si risolvevano in una vera partecipazione a’ proventi professionali e a’ lucri del liberto[738].
Già per sè stessa la condizione di manomesso includeva tutta una serie di doveri morali che importavano rispetto, devozione, aderenza al patrono, e si estendeva sino all’obbligo giuridicamente riconosciuto di fornire, in caso di bisogno, gli alimenti al patrono.
Includeva pure atti di liberalità, anche a ricorrenze fisse, durante la vita del liberto e un diritto più o meno limitato, secondo i casi ed i tempi, alla sua eredità[739]. Ma a questi doveri ed obblighi inerenti alla qualità di liberto, e però implicitamente od esplicitamente preveduti dalla legge, se ne potevano aggiungere e se ne aggiungevano contrattualmente tanti altri, che, costituendo la condizione della manumissione, avevano tutta l’elasticità di una privata convenzione[740]. In questa categoria rientravano l’obbligo di educare i figli del patrono, di pagare, a tempo determinato, delle somme e altre stipulazioni dello stesso genere. Il più comune e il più importante di questi [223] obblighi consisteva nell’impegno assunto d’impiegare il proprio lavoro, in termini definiti, a favore del patrono, di prestare a pro’ suo le operae, che si dividevano in officiales — se dirette a soddisfare bisogni e commodità personali del patrono e della sua famiglia senza scopo di speculazione[741] — e fabriles, se suscettibili d’essere impiegati dal patrono a favor proprio o di altri, anche e massimamente a scopo di speculazione[742].
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L’obbligo di prestare queste opere veniva costituito con una apposita stipulazione giurata dallo schiavo prima della manumissione, e, poichè lo schiavo non aveva personalità giuridica per obbligarsi rimpetto al padrone, la manumissione aveva efficacia a condizione che il liberto assumesse, sotto giuramento, quell’obbligazione.
La condizione impari del padrone e del servo, il desiderio in costui naturale di recuperare la libertà dovevano dare spesso alla convenzione un’indole leonina, e la manumissione rappresentava quindi pel padrone quello che si direbbe un ottimo affare. Il servo non gli costava più nulla e gli forniva un guadagno. D’altra parte lo stesso liberto, sorretto e aiutato dalla distribuzione pubblica a cui poteva come cittadino aver parte, agevolato da un capitale di scorta anche talvolta, rotto al lavoro ed edotto pure, in parecchi casi, di uno speciale mestiere, aveva un campo aperto alla sua attività in quella società, dove tanti elementi, per pregiudizi di classe e altri motivi, erano inoperosi.
Le norme di questi rapporti tra patroni e liberti, nella forma in cui noi le conosciamo, si vennero sviluppando e coordinando sotto l’Impero; ma, da quelle che è lecito riportare più sicuramente a tempi anteriori e dalla stessa disposizione con cui ripetutamente cercavano rimediare a deplorati inconvenienti, si scorge come i patroni cercassero di ritrarre tutto l’utile da questa condizione fatta a’ loro liberti.
Da un lato si cercò di assicurare il diritto de’ patroni all’eredità del liberto, eliminando, almeno per le eredità più considerevoli, la possibilità di eluderlo mediante testamento[743]; [225] dall’altro s’inclinava a estendere la prestazione delle operae, allargando il concetto e il modo di prestazione e d’impiego delle stesse operae officiales[744].
Il riflesso di questa tendenza de’ patroni a estendere i loro diritti, lo troviamo in parte nelle testimonianze appartenenti ad epoca posteriore, ma che ci mostrano come il loro scopo fu raggiunto, in parte, in disposizioni mitigatrici e limitatrici de’ loro diritti, magari di epoca tarda, ma che sono l’effetto di una reazione naturale contro l’esorbitanza de’ patroni.
Così le opere del liberto non si limitavano semplicemente al mestiere o al genere di lavoro da lui esercitato durante la schiavitù, ma anche a quello che apprendesse di poi[745]. Così ogni miglioramento e ogni vantaggio del liberto tornava anche a profitto del patrono. E, per converso, se anche egli smetteva di esercitare il suo mestiere, doveva nondimeno prestare sempre, quando occorrevano al patrono, altri uffici corrispondenti, in compenso[746].
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Limite e misura alla prestazione delle opere a favore del patrono erano il pericolo della vita e la turpitudine delle opere richieste[747]; ma questa stessa restrizione ci mostra che i patroni dovettero anche oltre quel termine spingere le loro pretese, se l’equità del giureconsulto dovette intervenire a contenerle.
Il giureconsulto Javoleno voleva, in linea generale, che il patrono alimentasse il liberto, mentre l’impiegava a vantaggio proprio[748]; ma il giureconsulto Sabino faceva di quest’obbligo del patrono una mera eccezione pel caso che il liberto non avesse di che alimentarsi; e del resto, in ogni altro caso, anche durante la prestazione delle opere dovute, doveva nutrirsi e vestirsi a sue spese[749].
Questa tendenza, di cui la legislazione e la giurisprudenza imperiale ci danno come una proiezione, ci è anche più direttamente attestata da quel che ci rimane della giureprudenza del periodo repubblicano più tardo.
Erano frequenti le liti, le controversie e le occasioni a trattare di questioni riflettenti schiavi e liberti, e questi formavano la clientela preferita di qualche giureconsulto[750]. Di P. Rutilio Rufo, giureconsulto e console nel 649/105, è ricordato espressamente che contenne e moderò le soverchierie di patroni verso i liberti[751].
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È facile allora scorgere quale impulso, indipendentemente dalle più prossime occasioni di ordine politico e personale, dovesse venire alle manumissioni da questa condizione di cose, che, sotto un certo aspetto, sembrava conservare gli eventuali vantaggi della schiavitù eliminandone i molti inconvenienti, scaricando il padrone del peso di alimentare il servo meno che, tutt’al più, nelle giornate di lavoro utile, cointeressando l’antico servo all’utilità del padrone e suscitando in esso quel pungolo del bisogno e dell’interesse, che ne doveva duplicare e fecondare l’attività.
Quindi — quanto più il lavoro servile si rivelava meno produttivo, il lavoro salariato più conveniente ed accessibile, la circolazione e la vicenda delle fortune più rapide — le manumissioni crebbero in maniera così straordinaria che lo Stato dovette emettere provvedimenti, intesi tuttavia, per chi ben guardi, più a regolarle che non realmente a limitarle.
Quello che preoccupava i poteri pubblici, tanto più quando si furono accentrati in una persona, non era già il fatto delle semplici manumissioni e del diverso rapporto economico che si costituiva tra l’antico schiavo e l’antico padrone. Le manumissioni erano oggetto di preoccupazione e di misure restrittive, in quanto, come atti inconsiderati ed ispirati a sentimento di vanità de’ minori e de’ testatori, contribuivano a quelle abitudini di dissipazione ed a quei crolli di fortune, contro cui reagiva la nuova politica imperiale, interessata a mantenere, come e fin dove fosse possibile, il dominio in uno stato di assetto, senza elementi dissestati e necessariamente irrequieti. Più ancora si era preoccupati di allontanare e limitare le conseguenze delle manumissioni sulla vita pubblica; si trattava d’impedire che tanti schiavi manomessi, divenendo cittadini di pieno diritto, concorressero a ricostituire o a rendere più salde e più potenti nella vita politica le clientele e le consorterie, che, in mano della nobiltà e della classe ricca non ancora purgate o disilluse delle loro ambizioni oligarchiche, dovevano presentare come una minaccia e una insidia al potere imperiale; si trattava d’impedire che concorressero ad accrescere le schiere degli aspiranti o de’ fruenti delle distribuzioni pubbliche, divenute sempre più un così grave carico dello Stato; si trattava insomma, per quell’antico [228] travestimento dell’interesse ch’era l’orgoglio romano e per gli stessi interessi pratici in cui tornava a risolversi l’orgoglio, d’impedire che fosse troppo inquinata da questi nuovi elementi la cittadinanza romana.
A queste ragioni erano inspirate e a questo scopo erano rivolte la legge Fufia Caninia, l’Aelia Sentia, la Junia Norbana, tutte venute in un giro relativamente breve di tempo. La prima si proponeva in via più immediata di moderare la smania di manomettere in chi, con un atto di ultima volontà, si spogliava di cose che non era più chiamato a godere[752]; l’altra sottoponeva al previo parere di un consiglio composto di dieci cavalieri e dieci senatori le manumissioni degli schiavi d’età inferiore a’ trent’anni e quelle volute per giusta causa da un minore di venti anni, e fatte con il rito della vindicta[753]; l’ultima, la Junia Norbana, dava a’ manomessi soltanto la latinità e non già il diritto di città[754].
Tutte e tre non costituivano un vero impedimento alle manumissioni.
Se le manumissioni fatte dal minore di venti anni erano nulle e inefficaci a dare la libertà, non pare sicuro che fosse altrettanto dell’affrancamento degli schiavi inferiori a’ trent’anni fatto da persone capaci senza l’intervento del Consiglio[755].
Questa procedura irregolare e incompleta avrebbe avuto, secondo qualche interprete, semplicemente l’effetto di non fare del liberto un cittadino romano, ma di lasciarlo nella classe meno favorita de’ Latini[756]. La legge Junia Norbana poi, apprendendosi come a un mezzo termine, nell’atto stesso che precludeva agli schiavi la via dell’acquisto de’ diritti di cittadinanza piena ed intera, apriva l’adito a un maggior numero di manomissioni, elevando a stato di diritto la manomissione compiuta [229] senza forme solenni inter amicos, la quale prima costituiva soltanto uno stato di fatto[757].
Quest’ultima legge quindi, lungi dal costituire un impedimento all’allentarsi e allo sciogliersi del vero rapporto servile, ne agevolava la trasformazione, al punto da essere considerata da qualcuno come il punto, da cui prende le mosse, la tendenza legislativa a favorire le manumissioni sempre più marcata sotto l’Impero.
D’altra parte la legge Fufia Caninia, limitata a’ soli atti di ultima volontà, dava luogo, come è noto, a tutta una serie di espedienti e di astuzie[758], che, se talvolta riescivano a eluderla, mostravano sempre come forte fosse l’impulso a liberare gli schiavi e come i freni fossero poco efficaci anche in un genere di manumissioni, come quelle testamentarie, a cui dava la spinta la vanità anche più che non l’interesse.
Le restrizioni della legge Aelia Sentia finalmente, che alla loro volta, all’occorrenza, cedevano il campo alle preoccupazioni di fare argine al decrescere della popolazione, se anche talvolta inceppavano il raggiungimento della libertà come condizione legale, non impedivano, nè potevano impedire — ciò che a noi più importa, dal nostro punto di vista — il raggiungimento di uno stato di fatto corrispondente a una condizione di libertà e sopratutto di attività autonoma.
Così da ogni parte l’artigianato e il salariato, compatibilmente alla condizione de’ luoghi e de’ tempi, ricevevano incremento; e, mentre la concentrazione della ricchezza, di cui la schiavitù era stata strumento, e l’impoverimento delle masse apparecchiavano nel numeroso proletariato il campo, dove la nuova forma di produzione doveva reclutare le sue forze di lavoro; la stessa schiavitù, trasformandosi e disfacendosi, faceva spesso de’ servi e massimamente de’ liberti altrettanti artigiani e salariati. È una trasformazione, la quale, nel periodo più antico, anche quando non trova sempre prove dirette, è accreditata da fatti concomitanti; e, a misura che si procede nel tempo e si rendono più frequenti i documenti epigrafici, l’esercizio delle arti, [230] de’ mestieri, del piccolo commercio, proseguito in maniera sempre più prevalente da liberti e dalla loro discendenza, si riflette sul tempo anteriore, e vi fa scorgere la naturale anticipazione e il precedente necessario di quello stato di cose.
Un’altra traccia indiretta ma eloquente di questa funzione più complessa e insieme più indipendente dalla schiavitù appare anche nello sviluppo che la giurisprudenza dà a istituti nuovi o appena accennati, che acquistano rilievo e forma sempre più organica, non già, come s’intende agevolmente, per un’elaborazione meramente teorica e per un processo deduttivo svolto da alcuni principi giuridici, ma per la necessità di corrispondere a un complesso di nuovi rapporti economici. Erano questi che si venivano sostituendo agli antichi e provocavano norme giuridiche ordinatrici, ottenute, per quel felice e pratico senso di orientamento ch’è proprio della giurisprudenza romana, con l’adattare, mediante uno sforzo di elasticità, il vecchio diritto alle nuove condizioni, che lo penetrano del loro spirito e lo rinnovano, lasciandolo in apparenza immutato e riuscendo in tal modo a contemperare e fondere la tradizione e il progresso.
Così nella giurisprudenza stessa del più avanzato periodo della Repubblica, il peculio, il lievito e l’indice della nuova azione della schiavitù, dà luogo a una larga ed importante elaborazione giuridica, che mira a disciplinarne la disponibilità per parte dello schiavo, la sua posizione rispetto al padrone e gli obblighi e i diritti che ne possono derivare a questo rispetto agli estranei, con cui lo schiavo entra in rapporti d’affari[759].
Divenivano sempre più complessa l’indole e sempre maggiori le proporzioni degl’investimenti, degli affari, degli scambi e, necessariamente, per l’impossibilità di una gestione sempre diretta e immediata, erano chiamati ad avervi una maggiore funzione gli schiavi, i liberti, gli uomini di fiducia del padrone e dello speculatore, le sue braccia allungate. Di ciò si scorge il riflesso [231] nelle norme sempre più sviluppate sulla responsabilità de’ padroni per gli atti di varia natura de’ loro servi e de’ loro preposti; lo si scorge nella forma sempre più dottrinale, coerente ed organica che vengono prendendo le regole disciplinatrici de’ rapporti creati dall’attività, di chi gerisce sotto varia forma e in diversa maniera gl’interessi altrui (actio institoria, exercitoria, gestio negotiorum).
Sopratutto poi l’impronta di lavoro salariato, che veniva assumendo per necessità di cose il lavoro libero e spesso anche il servile, si riflette nell’apparire che fanno gli istituti giuridici della locatio operarum e della locatio operis, più sviluppati e più trattati, quanto più il salariato si diffonde e diventa un elemento integrante della nuova economia.
È nel sesto secolo che troviamo formati e sviluppati i due istituti giuridici[760]. Ce ne forniscono numerosi esempi le commedie di Plauto[761]; ce ne fornisce il trattato di Catone sull’agricoltura[762].
La locatio operarum, che importa la prestazione della propria attività a vantaggio di altra persona ed a tempo, rappresenta la forma più antica e più rudimentale; ma, a misura che la società romana progredisce e i suoi rapporti diventano più complessi, fa sempre più luogo a una forma più sviluppata di locazione, alla locatio conductio operis.
“Che la locatio conductio operis sia più recente della locatio conductio operarum possiamo dedurlo — si è osservato[763] — specialmente da argomenti intrinseci. Tanto l’economia privata che la pubblica eccedono l’impiego di singole operae. Come il privato cercava e raggiungeva un risultato economico da ottenersi mediante il lavoro con l’opera de’ suoi figliuoli, schiavi, clienti, liberti e salariati, combinata e diretta da lui o da un suo rappresentante, così anche il re che, per esempio, rappresentava lo Stato, il funzionario che ne teneva il luogo e così [232] via doveano compiere delle costruzioni mediante i munera imposti a’ cittadini e l’opera di operai forestieri presi a mercede. Intanto, così per lo Stato come per i privati più ricchi, si rendono necessarie intraprese, a compiere le quali debbono essere messe in movimento tante e così varie operae e così speciali attitudini tecniche ed artistiche che diviene difficile o impossibile per il privato e il funzionario di combinare e dirigere da solo e senza intermediarî, in numero sufficiente, tutte queste forze di lavoro dotate di tali attitudini e di guidare la loro combinata e predisposta cooperazione al raggiungimento del fine predisposto. Da prima era lo Stato, a cui toccava di compiere opere delle più grandi proporzioni da eseguirsi mediante lavori della più varia natura e che, al tempo stesso, aveva a sua disposizione un insieme di funzionarî assai scarso e non tecnicamente istruito per tradurre in atto e dirigere le sue intraprese. Per esso, con la fondazione della Repubblica, sopravvenne anche un’altra ragione di abbandonare il sistema d’impiego di singoli lavoratori. I munera fin qui imposti a’ plebei per il compimento delle grandi opere intraprese da’ Tarquinii erano stati una delle principali ragioni di malcontento verso il potere monarchico specialmente dell’ultimo re. Sembra che già negl’inizi della Repubblica si cominciasse a decampare da questa normale imposizione di operae. Si formò il sistema degli ultrotributa; lo Stato si disimpegnava dalla diretta assunzione di costruzioni e di altre intraprese economiche, lasciandone l’esecuzione per una somma complessiva a privati od a società di privati. Non già la locatio conductio rerum e nemmeno quella operarum, bensì quella operis sembra essersi introdotta ne’ rapporti privati modellandosi sul sistema adottato dallo Stato ne’ suoi rapporti patrimoniali. Anche nella vita privata, poichè erano scomparsi i sistemi semplici e patriarcali, molte necessità d’ordine economico non potevano più essere soddisfatte in maniera immediata dal padre di famiglia, da’ suoi familiari e da’ lavoratori avventizi presi a mercede; anche qui si cercò di raggiungere questi risultamenti affidandone l’incarico a un imprenditore e corrisponendogli una somma determinata. Mentre ne’ rapporti patrimoniali dello Stato la locatio conductio operis ha quasi del tutto eliminata [233] l’esecuzione diretta de’ singoli lavori, ne’ rapporti privati prende il suo posto accanto alla locatio conductio operarum, ma tuttavia in modo da farla passare in secondo ordine. Secondo Catone, nell’azienda agricola troviamo adottata dagli stessi proprietarî la locatio conductio operis per i maggiori lavori agrari; così per le costruzioni, per l’oleam facere et legere, ecc. Il padrone poteva in tal modo, normalmente, raggiungere meglio e a condizioni migliori il suo scopo che non quando cercava di arrivarvi con l’immediato e diretto impiego de’ singoli lavoratori. In ogni caso poi il conductor operis per eseguire i lavori necessarî ricorre dal suo canto alla locatio conductio operarum, come dev’essere accaduto anche de’ redemptores delle opera publica, quantunque anche quest’imprenditori, come si vedrà, davano pure in subappalto l’esecuzione dell’opera assunta. Così la locatio conductio operarum passa, per quanto ancora duri, in seconda linea„.
È interessante poi vedere, come, attraverso le varie forme del suo impiego, il lavoro acquista una funzione prima più notevole, poi anche più distinta, poi anche preponderante, che mal si accorda con la schiavitù e specialmente con la sua più antica e rudimentale funzione domestica; e, per l’azione e reazione de’ fenomeni sociali, mentre ciò è indizio della decadenza del lavoro servile, ne diventa causa, alla sua volta, ne’ successivi momenti.
Si comincia da forme ibride, quali i diversi contratti secondo cui al lavoratore è assegnata un’aliquota, maggiore o minore, del prodotto del fondo[764]; una specie di contratto che sta come di mezzo tra la locatio rerum e la locatio operis, e tiene dell’una e dell’altra. Un altro termine di passaggio e un tratto d’unione tra queste forme d’impiego di lavoro e il lavoro più propriamente salariato, lo costituisce il compenso del lavoro in natura, di cui sono resto, insieme, e documento le accessiones, conservate ancora col prevalere della retribuzione in moneta. Ma col diffondersi e prevalere delle forme più progredite d’impiego di lavoro subentra regolarmente il salario in moneta e la locatio operis sotto la veste del cottimo e dell’appalto[765].
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Gli effetti che questa forma d’impiego ha nel rendere il lavoro più compiuto e più spedito e, al tempo stesso, nel determinare tra i lavoratori una concorrenza che, elevando il salario di qualcuno, ne abbassa il livello generale, sono stati già notati a proposito della funzione del cottimo nell’economia ateniese[766], e qui gioverà soltanto richiamare l’attenzione sulla ricorrenza di fenomeni e di effetti analoghi nell’economia romana. Il rinvilìo della mano d’opera, che ne conseguiva, determinava, non solo una convenienza sempre maggiore di sostituire al lavoro servile il lavoro salariato, ma dava la spinta anche a un differenziarsi continuo del lavoro, contribuendo così a creare una classe più larga di artigiani. La locatio operis poi che, nella sua forma più semplice e rudimentale, si limitava a stabilire un prezzo unitario del lavoro incorporato nella materia fornita dal committente[767], doveva spianare la via a un’altra forma più importante e doveva trasformarsi ancora in una maniera di produzione più progredita, in cui il conductor operis metteva di suo il materiale da lavorare, e quella merces, che prima indicava la retribuzione del lavoro e doveva poi dare origine al nome della materia stessa trasformata dal lavoro[768].
Non si può dire, è vero, che la locatio conductio operis si risolvesse sempre ed assolutamente in una locatio operarum e tanto meno che portasse sempre ed assolutamente all’impiego di lavoratori liberi.
In più casi erano adoperati a questo scopo anche schiavi; ma ne’ lavori minori l’opera poteva essere esaurita da un lavoratore libero col concorso anche di suoi familiari, chiamati tradizionalmente ad esercitare lo stesso mestiere; in altri casi [235] si è pensato[769] ad associazioni di lavoratori liberi, la cui esistenza o la cui possibilità, almeno, non può essere esclusa in forma assoluta, se anche il tratto che s’invoca a dimostrarne l’esistenza è tutt’altro che chiaro ed esplicito[770]. In ogni caso, poi, la proporzione sempre variabile delle forze di lavoro richieste in questi cottimi e appalti importava che, pur ricorrendosi al lavoro servile, si faceva uso assai spesso di schiavi locati, e si aveva quindi sempre, come nel caso di Crasso, un lavoro salariato, i cui soggetti variavano ma la cui natura era identica.
È notevole pure il vedere come si cercasse di rimediare agli inconvenienti, che questi sistemi, per quanto più progrediti, non potevano fare a meno di presentare.
Il vantaggio che il lavoro servile aveva sul lavoro mercenario consisteva sopratutto nella sua continuità, nella sua illimitata disponibilità, nella disciplina a cui lo si poteva assoggettare, nel fatto che il servo, essendo incapace di avere un diritto di proprietà, il padrone poteva meglio essere garantito verso di lui dal pericolo e dalle conseguenze di eventuali sottrazioni.
Ora si cercava di trasportare nell’impiego de’ mercenari questi stessi vantaggi, cercando così di conciliare il lato favorevole del lavoro servile con quello del lavoro mercenario.
Si cercava quindi di afforzare il rapporto di dipendenza del lavoratore mercenario con la coabitazione e con la concessione di un potere disciplinare[771].
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Si cercava di difendersi e premunirsi contro l’eventuali sottrazioni, obbligando gli operai a giurare di non aver nulla sottratto dal fondo, ove erano andati a prestare l’opera loro e pattuendo che nulla sarebbe dovuto a chi si rifiutava di prestare tale giuramento[772].
Ad ottenere il concorso de’ lavoratori in luoghi malsani si elevava la retribuzione[773].
Gl’istrumenti e gli utensili forniti dal padrone erano garentiti contro i possibili danni mediante un diritto da parte del locator di ritenere, deducendolo dal prezzo della locazione, l’equivalente del danno[774].
Era oggetto di molta cura e preoccupazione il premunirsi contro la temuta incertezza di avere a tempo e nella necessaria quantità il numero di lavoranti, incertezza che costituiva uno degli inconvenienti del lavoro salariato; e ciò formava oggetto di speciale convenzione[775]. A questo stesso scopo, ad assicurare cioè con opportune guarentigie il regolare concorso della [237] mano d’opera, dovevano mirare le clausole, che cercavano di salvaguardare ed assicurare il regolare pagamento de’ lavoratori, dando all’uopo al padrone il diritto di ritenere, a favor loro, quanto ad essi fosse dovuto dal redemptor e dal compratore, e garantendolo alla sua volta contro quest’ultimo con un diritto di pegno su quanto si trovasse per l’esecuzione del suo contratto di avere introdotto nel fondo[776].
L’attitudine e l’abilità degli operai, cosa che costituiva, per la facoltà di elezione, uno de’ vantaggi del lavoro salariato, era guarentita col diritto riservato al padrone del fondo e all’acquirente de’ frutti di accettare o respingere i lavoranti adoperati dal redemptor de’ lavori del ricolto[777].
La locatio operis, intanto, insieme a tutti i suoi vantaggi, presentava pure l’inconveniente delle coalizioni. Più persone che volevano assumere un’opera o un’intrapresa qualunque di lavori, piuttosto che farsi una reciproca concorrenza, la quale si risolveva in una diminuzione del prezzo di appalto e quindi in un vantaggio del locatore, si accordavano e, mediante reciproci accordi, fondendosi in una sola società, finivano per dettare la legge al locatore, elevando artificialmente il prezzo dell’appalto. Ora anche contro questo inconveniente si provvedeva, se a ciò, come sembra, si riferisce un passo, del resto controverso[778], con [238] l’imposizione di un giuramento, che tendeva a escludere l’esistenza di ogni precedente maliziosa intesa tra i soci[779].
In tal modo il lavoro mercenario, per opera di liberi e di schiavi, si faceva strada, sviluppandosi e diffondendosi, invadendo il campo chiuso delle più antiche forme di lavoro servile, cercando il riconoscimento in nuovi istituti giuridici o in vecchi istituti nuovamente atteggiati, evitando o eliminando gli ostacoli opposti alla sua funzione, trovando uno stimolo nelle nuove condizioni di vita, di cui alla sua volta diveniva un lievito, e progredendo sino al punto di subordinare a sè la materia della sua applicazione e farne un’appendice, come prima esso stesso vi era stato subordinato e n’era sembrato una semplice appendice.
Questo momento dell’evoluzione del lavoro mostra la sua azione e trova la sua espressione nella nota controversia intorno alla specificatio, cioè nella disputa se l’incorporazione del proprio lavoro nella materia di proprietà altrui lasciasse la proprietà dell’oggetto così trasformato al proprietario della materia adoperata, o la trasferisse chi l’aveva trasformata col suo lavoro.
Questa controversia, sorta, non come una mera disquisizione teorica, ma come il riflesso di un’antitesi di rapporti economici sempre crescente, prova praticamente il progresso della nuova fase economica, in cui materia e lavoro non si trovavano più sempre e necessariamente riuniti in una mano, ma tendevano a dissociarsi e si dissociavano per combinarsi di nuovo sotto altra forma. La controversia quindi mette di contro, sotto la veste di due diversi indirizzi giuridici, due contrari indirizzi economici, come espressione e riflesso di due epoche diverse, di due diversi sistemi di vita e di produzione: da un lato i Sabiniani, dall’altro i Proculeiani[780]; ma dietro Sabino è l’economia [239] del passato e l’antica funzione del lavoro; innanzi a’ Proculeiani la nuova economia e l’avvenire del lavoro; e tutta la controversia è un’espressione di quel termine di passaggio, di quella forma intermedia di produzione, in cui il lavoro, distinto dall’oggetto in cui era immedesimato, era locato al cliente solito a fornire egli la materia necessaria su cui il lavoro dovea essere esercitato[781].
Con quel senso pratico, che la distingue, e quell’eccletismo, che n’era in certo modo la conseguenza, la giureprudenza romana prese spesso una via di mezzo[782], risolvendo la questione a favore del proprietario della materia o di chi l’aveva trasformata, secondo criterî intuitivi di equità, che alla loro volta si risolvevano in un apprezzamento del valore della materia adoperata e del lavoro impiegato. Ma il fatto stesso che, se per poco il lavoro era di qualche entità[783], la questione era risoluta a favore del lavoro, è un indice della importanza e del valore che questo aveva acquistato e veniva sempre più acquistando.
In realtà il valore del lavoro, la sua equivalenza e la sua riducibilità in quella che nell’antichità era non solo la misura ma la forma per eccellenza del valore, nella moneta, trovava sempre più il suo legale riconoscimento[784], sino al punto che, sotto l’Impero, nel caso di menomata integrità corporale dell’uomo libero, di contro alla massima, che il corpo dell’uomo [240] libero non è soggetto a valutazione, si faceva strada un modo di vedere più concreto, che liquidava in contanti la inabilità temporanea o permanente in cui l’offeso era stato messo e le conseguenze del danno prodotto a lui ed alla sua famiglia[785] col metterlo nell’impossibilità d’impiegare, utilmente e con la prospettiva di una mercede, l’opera sua.
Come bene è stato notato[786], nella condizione giuridica dello schiavo vi era una latente, ma intima contraddizione, destinata a balzar fuori e ad apparire più stridente ad ogni occasione.
Lo schiavo era un uomo considerato e destinato a funzionare come una cosa.
In quanto gli era attribuito il commercium, lo si riconosceva come dotato di una capacità giuridica, ma, in quanto era privo di ogni diritto politico e privato, personale e patrimoniale, anche il suo commercium rimaneva privo di giuridico effetto per farne una persona, ed era non più che un istrumento e un mezzo d’acquisto in mano del suo padrone.
Era una cosa, ma faceva parte de’ familiares, ed era ammesso a prender parte a’ sacra familiaria.
Era un semplice instrumentum vocale, ma la manumissione poteva farne un cittadino, dotato di diritti politici che nella sua discendenza si venivano sempre più ampliando sino a cancellare il vizio d’origine.
Questo dissidio tra la legge che ne faceva una cosa e la natura che ne aveva fatto un uomo era destinato a venire sempre più [241] in luce col sopravvenire di tutte le condizioni e gli eventi, che davano rilievo e modo e necessità di esplicarsi alla persona umana dello schiavo, smentendo così e rendendo con la forza de’ fatti praticamente contraddittorie e insostenibili, nella vita e nella logge, le premesse giuridiche e le loro ben congegnate deduzioni logiche.
A misura che i primi angusti confini dello Stato romano si allargavano, i contatti e i rapporti con altri popoli e il variare delle condizioni di vita esigevano un terreno comune per le mutue relazioni e conducevano i Romani ad ampliare e innovare lentamente, ma continuamente, le forme, le modalità, i criteri informatori della loro coscienza giuridica e della espressione legislativa ch’era sorta sotto l’azione di ristretti bisogni e per sopperire alle necessità di uno sviluppo economico limitato e di una corrispondente vita civile.
Le analogie e le differenze con le norme regolatrici della vita giuridica di altri popoli erano fatte per modificare, dal punto di vista teorico, il concetto assoluto che i Romani avevano del loro diritto cittadino, del loro statuto personale, del loro ius civile insomma; e le norme, che erano talora costretti ad adottare come un termine medio tra i loro istituti giuridici e quelli stranieri, iniziavano e proseguivano un lento lavoro di reciproca assimilazione e di fusione, per cui il diritto particolare de’ Romani avrebbe preso posto sotto il ius gentium, come una categoria teoricamente subordinata; e l’uno e l’altro, per una elaborazione successiva, generalizzando ancora, avrebbero condotto al concetto del ius naturale.
Quell’angusto modo di vedere, figlio di anguste condizioni di vita, che concepiva il solo cittadino come subbietto di diritti e faceva della qualità di uomo e di cittadino un tutt’uno, non allargando la qualità di cittadino ad ogni uomo, ma contraendo la qualità di uomo in quella di cittadino; era destinato prima a modificarsi e poi a sparire sotto l’azione di successive e sempre nuove esperienze offerte da un più largo campo di esistenza e da nuove condizioni di vita.
A questo punto la natura umana dello schiavo doveva non solo riconoscersi, ma affermarsi esplicitamente. Era intanto questa un’affermazione destinata a reagire sulla condizione dello [242] schiavo e a servire come leva al miglioramento della sua condizione giuridica e punto di applicazione ed espressione teorica delle nuove esigenze sociali; ma non era che il riflesso e il contraccolpo di tanti fatti e avvenimenti della vita pratica, che aveano nella realtà elevata o modificata la condizione e la funzione degli schiavi, e, per un processo d’induzione promosso da lunghe, non interrotte esperienze, portavano, attraverso una serie di azioni e reazioni di carattere morale, a quel nuovo concetto della schiavitù.
Una delle particolarità notevoli della manumissione degli schiavi a Roma, anzi la più notevole era questa: che il manomesso non otteneva semplicemente, col suo affrancamento, di rompere l’immediato legame di dipendenza che l’univa al padrone, ma, con lo stato di libertà, acquistava il mezzo di farla valere, di esercitarne gli attributi mediante il diritto di cittadinanza che acquistava al tempo stesso pel fatto dell’affrancamento.
Questa misura, in cui, al suo tempo, Dionigi di Alicarnasso[787] scorgeva semplicemente un motivo di opportunità politica della classe patrizia e che giustificava con una ragione astratta di ordine teorico, doveva avere avuto cause più varie e complesse. Prevalenti tra queste erano forse stati il bisogno, a cui accenna anche l’antica tradizione sulla fondazione della città[788], di rinsanguare la popolazione spesso poi stremata da guerre continue e la necessità di offrire a’ liberti un modo di proteggere da sè stessi il proprio stato di libertà ed esercitare i propri diritti civili anche indipendentemente dall’antico padrone; il che, nel corso della discendenza, con l’affievolirsi e lo sciogliersi de’ rapporti di patronato, scalzava il fondamento e la ragione dell’antica clientela e finiva col fare de’ discendenti degli schiavi un elemento avverso alla nobiltà, se anche, come Dionigi vorrebbe, i padroni avevano cercato e trovato, immediatamente, un appoggio politico negli schiavi appena affrancati.
In ogni modo, senza volere qui ancora insistere sulle probabili [243] e varie ragioni del conferimento della cittadinanza agli schiavi manomessi e considerandone invece le conseguenze, è agevole scorgere e valutare tutto l’effetto morale del vedere il servo di ieri, divenuto oggi cittadino, prendere posto ne’ comizi insieme al suo vecchio padrone e concorrere con esso al governo de’ più alti interessi dello Stato.
È vero, era precluso a’ libertini l’adito alle alte magistrature; era chiuso il senato; si cercava di tenerli ricacciati in una tribù urbana per contenerne l’effettiva azione politica e scemarne l’importanza; ma a tutto ciò corrispondeva una tendenza ne’ libertini di guadagnare terreno, di farsi innanzi; e lo stesso provvedimento di ridurli in una tribù urbana era stata una misura di reazione contro la politica del censore Appio Claudio, che, avendo vanamente tentato di aprire loro la via del senato, li aveva intanto sparsi per le tribù rustiche[789]. Si faceva, è vero, all’occasione valere come una macchia la loro origine, ed erano fatti segno all’ostentato disprezzo delle classi più elevate[790]; ma intanto guadagnavano importanza e potere effettivo nella vita pratica, acquistavano credito e considerazione nelle classi medie della popolazione, esercitavano una funzione notevole nella flotta, ed erano alla vigilia di avere, con l’avvento dell’Impero, un largo posto nella gerarchia amministrativa.
Nelle congiure tramate e nell’infuriare de’ dissensi civili si faceva, poi, assegnamento sugli schiavi, si prometteva la libertà in premio della loro partecipazione[791], e così, a scopo partigiano sì, ma pur sempre si chiamavano i servi a dignità di cittadini o si mettevano contro cittadini[792]. Lo Stato stesso, durante le guerre puniche, era costretto dalla deficienza di combattenti [244] ad armare schiavi, che così si trovavano elevati a quella che pareva la più alta funzione del cittadino e il fondamento di ogni altra dignità, il servizio nelle legioni.
Oltre a questi casi straordinari, che per sè soli dovevano potenzialmente rilevare la condizione morale de’ servi, rivelando in essi praticamente l’identità umana, v’era l’aspetto, sotto cui si presentava la schiavitù nella sua nuova fase determinata dalle conquiste oltremarine.
Agli schiavi rozzi e incolti de’ tempi più antichi succedevano schiavi provenienti da paesi di cultura greca, appartenenti spesso alle più elevate classi della popolazione, che vincevano per coltura, per tratto, per forme i loro nuovi padroni, e li costringevano a meditare sulla vicenda delle sorti umane; tanto più quanto anche cittadini romani, fatti prigionieri in guerra e non riscattati, dovevano richiamare a’ loro congiunti e concittadini un simile stato di cose. Il jus postliminii introdotto negli istituti giuridici provava appunto che la schiavitù poteva essere un triste accidente ed una fase passeggera della vita, non già una distinzione naturale.
La diffusione del lavoro servile e la più larga importazione di schiavi aveva peggiorate le condizioni di costoro, dove erano incettati e adoperati in gran numero, lontano dagli occhi del padrone, per essere sfruttati sino all’estremo sotto la pressione della concorrenza e col fine unico della speculazione. Ma dove avevano seguitato a formar parte dalla casa in numero piuttosto ristretto, partecipando alla vita della famiglia, il livello intellettuale più alto del servo, la sua capacità ad adempire funzioni più importanti ed il riflesso morale della sua origine sulla presente sua condizione, erano tutte cose che ne dovevano migliorare il trattamento. Il loro ufficio di precettori, per quanto vi si potesse annettere poca importanza, li collocava in una posizione speciale verso i padroni giovanetti che avevano educati ed istruiti. Le delicate funzioni che esercitavano dirigendo aziende del padrone, maneggiandone il danaro, conducendo, vicino e lontano[793], speculazioni per suo conto, non possono [245] essere ricordate senza pensar a un sentimento reciproco di fiducia e di attaccamento e a una mitezza di trattamento[794].
“Contro il rigore del concetto giuridico della servitù — si è notato[795] — è rilevantissimo in Plauto il contrasto del fatto, e, ancor più, l’affermarsi man mano nel diritto della contraddizione insita nello stesso rapporto di servitù. Difatti lo schiavo è bene spesso negli ordinari rapporti della vita assunto dal padrone a consigliere ed amico: convive colla famiglia, e prende parte alle gioie e ai dolori di questa; è dato o compagno o custode ai figli del padrone, e in ogni caso il padrone conta su di lui come su di una forza tutta e assolutamente in suo favore. E l’intimità del servo col padrone arriva bene spesso a tal segno, che il servo pone nelle cose di questo lo stesso interessamento, e maggiore che in quelle che fan parte del suo peculio, come se egli pure vi avesse parte. Se il padrone è figlio di famiglia, allora la confidenza e l’intimità da questo accordata al servo arriva talvolta a strani eccessi, sicchè padroni e servi insieme, da pari a pari, o persino invertito il rapporto che li lega, si dànno a sollazzi e bagordi„.
La più elevata funzione e la maggiore importanza di mansioni a lui affidate, oltre all’elevare la sua posizione verso il padrone, innalzava il servo anche verso tutti gli altri negli ordinari rapporti della vita, e lo metteva talvolta al disopra de’ liberi. Le funzioni adempiute da’ servi pubblici come esecutori degli ordini de’ magistrati, cui erano addetti; la parte importante che i servi avevano nelle società de’ pubblicani[796] e il potere loro di premere, costringere, angariare, all’occorrenza, contribuenti e debitori, li doveva mettere tante volte in condizione di guardare i liberi dall’alto in basso e di affermare su loro una superiorità reale, che li vendicava dell’inferiore condizione giuridica con la realtà del fatto concreto. Con la più larga e più indefinita sfera d’azione, poi, che il più esteso dominio romano creava a’ magistrati, con l’affacciarsi prima incerto e poi sempre più ricorrente [246] e sicuro de’ poteri personali, si rendeva sempre più frequente il caso di schiavi, che, degnati di tutta la fiducia del padrone, divenuti le sue braccia allungate e, all’occorrenza, i suoi complici, potevano atteggiarsi ad autocrati e sogghignare come di una distinzione bizantina dello stato di servitù e di libertà.
La corte, più o meno numerosa, di Silla e di Verre ce ne porge l’esempio; e del resto i servi erano strumenti tanto più adatti de’ liberi a tutti gli scopi e a’ voleri dei poteri personali, che, col crescere di questi, cresce il loro impiego e la loro forza sino ad avere un massimo e regolare sviluppo con l’avvento dell’Impero.
La funzione trasforma e foggia l’organo a suo modo, e la diversa distribuzione delle funzioni sociali non poteva fare a meno di riflettersi sul modo di considerare comparativamente i servi ed i liberi.
La marcata distinzione sociale tra il libero che vive del lavoro altrui o lavora sul suo, signore nella sua casa e nel suo campo, indipendente da ogni potere estraneo nella vita privata, e lo schiavo considerato e adoperato come instrumentum vocale accanto alla bestia di lavoro, veniva ad attenuarsi e forse a sparire col crescere del proletariato e il diffondersi del lavoro salariato. Con la parte sempre più larga fatta al lavoro salariato, liberi e servi dovevano spesso trovarsi allo stesso livello, a compiere opere di uno stesso genere, in servizio d’altri, senza che nè le loro condizioni di vita, nè la loro posizione morale presentassero una differenza veramente notevole. In questo caso, se il consorzio de’ servi abbassava in qualche modo i lavoratori mercenarî, la comunione di vita e d’opera insieme con i liberi elevava un po’ i servi, e ne faceva in un certo senso tutta una classe. Così, se in Italia la possibilità del parassitismo privato e pubblico, l’esercizio più diffuso de’ diritti politici facevano meglio distinti e non di rado anche avversi il proletariato e la schiavitù, in provincia, come per es. in Sicilia, l’uno e l’altra avevano tali contatti e tale comunione di modi di vita che l’insurrezione ne faceva tutto un solo elemento ribelle[797].
[247]
Anche la condizione de’ liberti non poteva fare a meno di esercitare un’azione sul modo di considerare gli schiavi.
I liberti cominciavano a costituire, come avvenne poi — e ce lo attestano le epigrafi — in grado sempre più rilevante sotto l’Impero, l’elemento più attivo e industrioso della cittadinanza. La necessità della vita li obbligava ad esercitare i mestieri anticamente esercitati durante la schiavitù e a rendersi operosi per sopperire a’ proprî bisogni, per fare fronte alle gravezze imposte da’ patroni. La stessa condizione d’inferiorità morale dovuta alla loro origine li ricacciava con più forza nel mondo degli affari, come accade di tutti gli elementi colpiti d’incapacità politiche; e, poichè la legge Claudia interdiceva all’ordine senatorio il commercio, i liberti divenivano prestanomi e intermediarî di membri dell’ordine senatorio per esercitarlo. Con l’importanza poi sempre crescente della proprietà mobile, la considerazione e la potenza de’ liberti, che, per via diretta o indiretta, a nome proprio o d’altrui n’avevano quasi il monopolio, cresceva di quanto cresceva la potenza del danaro, di cui essi erano i più autentici rappresentanti.
Molti di questi liberti, come tutti i nuovi arrivati, cercavano, quando, fatta la fortuna, volevano circondarsi di prestigio morale, di far dimenticare la loro origine accentuando il loro distacco dagli schiavi, ostentando dispregio per loro, trattandoli male[798]. Ma, se ciò accadeva a’ liberti che salivano per fortuna e per posizione più in alto, gli altri, come lo mostrano le epigrafi dell’epoca imperiale, erano costretti ancora a serbare con gli schiavi gli antichi rapporti, a fare in certo modo vita comune con loro e ad elevarli quindi per riflesso.
Inoltre, indipendentemente dal contegno che i liberti potessero serbare verso gli schiavi, il semplice loro movimento continuamente ascendente, la vista di antichi schiavi liberati, innanzi alla cui porta facevano ressa persone del più elevato grado sociale per mendicare prestiti, come appresso, nell’epoca imperiale specialmente, vi andrebbero per mendicare favori, si doveva naturalmente riflettere sugli schiavi, di cui si poteva dire che avessero in potenza il potere che i liberti avevano in atto.
[248]
S’intende bene allora quale azione dovesse avere tutta questa serie di fatti nel formare una nuova coscienza, che non poteva tardare a sorgere, come riflesso necessario di una mutata condizione di cose.
E una delle prime e più compiute espressioni di questa nuova coscienza ce la dà un tratto veramente notevole di Dionigi d’Alicarnasso[799], tanto più notevole forse quanto più dimessa è l’indole dello scrittore.
Anacronistico anche questa volta, Dionigi mette in bocca nientemeno che a Servio Tullio parole, che sembrano un’anticipazione di quelle usate da Seneca verso gli schiavi e che suonano così: “Innanzi tutto disse di meravigliarsi di quelli che si sdegnano, se credono che i liberi si distinguono da’ servi per natura e non per vicenda di fortuna; e poi, non giudicano quanto sieno degni di onore gli uomini da’ costumi e dalle maniere, ma dalle prosperità, pur vedendo che cosa oscillante e instabile è la fortuna e che a niuno anche veramente felice è agevole il dire sino a quando essa durerà. Credeva che dovessero considerare quante città greche e straniere dalla servitù erano passate alla libertà e quante dalla libertà alla servitù....„.
Naturalmente a nessuno può mai venire in mente di attribuire valore storico a questo preteso discorso di Servio Tullio, ma esso può valere come un segno della coscienza dello scrittore e de’ suoi tempi; ed è tanto più notevole che Dionigi abbia potuto attribuire a Servio idee ed espressioni come queste.
Questa nuova coscienza, riflesso e conseguenza della nuova vita e delle nuove esperienze, era l’indice della rivoluzione morale generata dalla rivoluzione economica e che, quanto più si svolgeva, appariva come l’opera di un puro processo ideale, sorto in maniera indipendente e che seguitava ad esercitare la sua azione come tale.
Veramente questa trasformazione morale, di cui non sempre i posteri hanno saputo vedere l’origine indiretta e remota e di cui tanto meno potevano vederla i contemporanei, distinta quanto più ne era la radice, seguitava poi ad operare inconsapevolmente [249] e continuamente, anche come schietto movente morale, sotto forma di spontaneo impulso individuale e di sanzione dell’opinione pubblica. La rivolta del sentimento pubblico, avvenuta ne’ primi tempi dell’Impero, contro il decretato supplizio de’ molti schiavi ritenuti solidalmente responsabili dell’ignorato assassino del padrone e di cui Tacito[800] ci ha tramandata la memoria, può valerci d’esempio.
Lo stoicismo, processo ideale che, mediante e attraverso le cumulate esperienze della vita e della storia, attraverso le differenze accidentali e le analogie sostanziali de’ popoli assorgeva al concetto di uomo e di una vita morale superiore ed emancipata dagli ordini giuridici e politici e dalla stessa vita pratica; non faceva che tendere a divenire sempre più l’espressione rigida e schematica di questo stato di cose e di coscienza.
Intanto la stessa azione della nuova vita trasformata e sintetizzata nel sentimento di forma inconsapevole e spontanea, trovava fomite e concorso in moventi utilitarî, in costrizioni esterne, che talvolta si larvavano della tendenza morale disinteressata, tal’altra ingenuamente si mostravano per quello che erano.
Uno schiavo era poi, infine, una proprietà che, quanto si era meno opulenti e dissipatori, più voleva essere curata e tenuta da conto, non foss’altro che come il resto di quell’istrumentum vocale sotto cui Varrone comprendeva gli schiavi. E quando il prezzo degli schiavi saliva, o, per ragioni diverse, lo schiavo costava molto, la cura doveva raccomandarsi da sè. Il vignaiuolo, a cui Columella[801] assegnava un prezzo di ottomila sesterzi, non lo si poteva vedere, in qualunque maniera, andare a male senza rincrescimento.
Anche le rivolte servili, di cui l’eco si faceva lontana ma che pure durava, non v’erano state inutilmente, e qualche insegnamento ne veniva da esse e dalla reazione sorda o palese, lenta ma continua, che a quella era succeduta.
Catone, poi, nelle agevolezze concedute agli schiavi cercava [250] e confessava, senza peritanza, una ragione ed un fine di utilità[802].
Varrone[803] parlando de’ sorveglianti dice che “non bisogna conceder loro di condursi in modo da tenere in freno gli schiavi con la frusta piuttosto che con le parole se anche sia possibile riuscirvi in ugual modo. Nè si debbono tener molti schiavi della stessa nazione. Da ciò massimamente vengono de’ danni domestici. I preposti debbono essere resi più alacri con premi e si deve fare in modo che abbiano peculio e serve ad essi congiunte, da cui abbiano figli. Con ciò si rendono più stabili e più attaccati al fondo. È per questi rapporti famigliari che gli schiavi epiroti sono più raccomandati e più cari. Debbono essere anche allettati i preposti con l’usar loro qualche tratto d’onore, e, se vi sono operai migliori degli altri, bisogna discorrere con loro sul da fare, perchè, quando si fa ciò, son condotti meno a credere d’essere tenuti in dispregio dal padrone e pensano invece d’essere avuti in conto da lui. Si ottiene pure che mettano più impegno nel loro compito con l’essere più liberali verso di loro sia ne’ cibi che nelle vesti e condonando qualche lavoro e facendo loro qualche concessione, come lasciare che possano pascere nel fondo qualche animale proprio e simili altre cose, così che, se accada di comandar qualche cosa di più gravoso o di castigarli, ciò, consolandoli, ridesti in loro il buon volere e la benevolenza verso il padrone„.
E Columella non solo raccomanda di riparar bene i servi dal freddo, nell’interesse stesso del padrone, ma dà sul loro trattamento questi più generali suggerimenti.
“Quanto agli altri servi sono da seguire questi precetti, che io non mi pento mai di avere osservati, in modo che con gli schiavi di campagna, i quali non si conducevano male, io discorrevo più spesso che non con gli schiavi di città, e, vedendo che l’affabilità del padrone alleviava la loro perpetua fatica, celiavo talvolta con loro e più ancora permettevo che essi celiassero con me. Spesso faccio anche come se mi consigli [251] con alcuni di loro su’ nuovi lavori, quasi con persone più perite..... Allora vedo che anche si accingono più volentieri all’opera che credono deliberata insieme a loro e intrapresa secondo il loro avviso„[804].
Quanto peggiore anzi era la condizione degli schiavi, tanto più Columella suggeriva di evitare loro maggiori aggravi e alleviarne il disagio, in quanto fosse possibile. Così per gli schiavi incatenati diceva[805]: “Tanto più diligente deve essere la sorveglianza del padre di famiglia su questa categoria di servi, perchè non sieno maltrattati nelle vesti e nelle altre provvisioni, quanto più, soggetti come sono a maggior numero di persone quali i fattori, i capi d’arte, gli ergastolarî, sono più soggetti ad abusi e si rendono ancora più pericolosi se stizziti dalla crudeltà e dall’avarizia. Così il padrone diligente chieda tanto a loro come a’ servi non incatenati, cui si può aggiustare più fede, se ricevono tutto quanto egli ha loro assegnato. Assaggi egli stesso se son buoni il loro pane e la loro bevanda: veda le vesti, i manicotti, i calzari. Spesso dia loro modo di fare le loro doglianze su quelli che li aggravano con la crudeltà o con la frode. Anche noi talora rendiamo ragione a quelli che muovono giuste doglianze, allo stesso modo che castighiamo quanti provocano sedizioni nella servitù e calunniano i loro preposti: del pari premiamo gl’industriosi e i solerti. Alle donne più feconde, che occorre ricompensare quando hanno raggiunto un certo numero di figli, concediamo talvolta il riposo e anche la libertà dopo che ne hanno allevati parecchi. Giacchè a quelli che aveano tre figli toccava il riposo e a chi ne aveva più la libertà. Queste cose e la giustizia e la solerzia del padre di famiglia conferiscono assai ad accrescere il patrimonio„.
Notevole anche è quanto dice Columella, dove, trattando de’ compiti della moglie del fattore (vilicus), le suggerisce di visitare al mattino la fattoria per vedere se vi sono ammalati o finti ammalati. “E, se anche comprenderà che si tratta di una [252] finta malattia, conduca nondimeno il servo, senz’altro, all’infermeria; giacchè giova meglio che, stanco dal lavoro, se ne stia quieto e custodito uno o due giorni e non che, oppresso dalla soverchia fatica, finisca col recare qualche danno reale„[806].
Parrà forse difficile a spiegare come, mentre da un lato si veniva così rilevando il concetto dello schiavo e si vedeva la necessità di migliorarne il trattamento, mettendo anche all’occasione in pratica il precetto, d’altra parte, proprio in questo periodo, ci vengono segnalati casi di singolari maltrattamenti degli schiavi e atti di raffinata crudeltà.
Eppure le due cose sono meno inconciliabili di quel che sembri a prima vista.
La critica di una istituzione sorge all’apparire de’ giorni di malessere che ne iniziano la decomposizione, e come effetto di quell’intima dissoluzione che trova nella critica un aiuto e un mezzo atto ad accelerarne il cammino. Ma, per ciò stesso, la critica precorre la reale e completa fine dell’istituzione che mira a scalzare, e i nuovi indirizzi morali e le teorie, che costituiscono il lato positivo della critica, riflettono una realtà non ancora maturata ma che diviene. Al medesimo tempo i rimedî, che, nell’ambito degli stessi antichi orizzonti morali, si escogitano come mezzi termini tra il passato e l’avvenire, o come puntelli d’istituzioni crollanti, non sempre riescono ad avere una pratica applicazione, nè l’hanno contemporanea ed universale. Come in tutti i periodi di transizione, vi è, ad un tempo, conflitto e coesistenza di elementi diversi, anacronistici nella loro identità cronologica, congiunti nel tempo ma disgiunti e opposti nello spirito che gli anima; e lo stesso processo di dissoluzione, che avanza, moltiplica gli inconvenienti che fanno l’istituzione sacra alla morte, ne accentua le anomalie, ne rende più stridenti i contrasti, dando così a tali periodi storici quel particolare aspetto di confusione, in cui il misoneismo e l’angustia d’orizzonti fanno vedere a molti contemporanei come l’apocalittica fine di un mondo, col quale non finisce una delle forme della vita ma la vita stessa.
Se in alcuni casi, in determinate condizioni, molte cose consigliavano [253] e conducevano a trattar meglio gli schiavi, in certi altri il disagio economico crescente, la minore produttività del lavoro servile, la reciproca concorrenza col lavoro libero costringevano ad usufruire sino all’estremo e senza riguardi gli schiavi e, sopratutto, a ridurne il costo di mantenimento.
Altre volte il maltrattamento degli schiavi poteva essere effetto di varietà di temperamento ne’ padroni, le quali erano più forti, nella loro reazione, de’ nuovi influssi morali.
In altri casi se il valore degli schiavi era una ragione di cura maggiore per le modeste fortune, non poteva avere lo stesso effetto nelle enormi fortune, i cui proprietarî dissipavano, senza un pensiero al mondo, la forza e la vita de’ loro schiavi, così come dissipavano e profondevano le altre loro ricchezze.
Quella disparità crescente di fortune, che si risolveva in una degenerazione progressiva di ricchi e di poveri, e ch’era un lievito di vizî e di corruttele, impronta di un mondo destinato a sfasciarsi per risorgere trasformato, portava anche come conseguenza lo spettacolo di deformità morali invincibili, che, con la loro ombra, doveano meglio mettere in luce ed evocare gli ideali nuovi e l’opera di rinnovazione morale.
Lo stesso venir meno di quel fondamento della schiavitù, che, involuto nella tradizione, ne costituiva la legittimazione non solo giuridica ma anche economica e morale, doveva dar ansa alla reazione sorda e individuale, occulta e incoercibile, degli schiavi e fecondare contrasti che terminavano con atti di crudeltà.
Così tutto, il bene e il male, la sevizia e l’indulgenza, l’allentarsi del rapporto sotto un’azione morale e il suo incrudelirsi per effetto di una necessità presente, tutto concorreva a minare la schiavitù. Erano tanti germi di dissoluzione, che si apparecchiavano meglio a fruttificare sotto l’Impero, ambiente favorevole al loro svolgimento.
Suscitato e preparato dall’intimo antagonismo e da’ contrasti sempre crescenti e più aperti tra la metropoli e le provincie, la grande possidenza e la piccola, i benestanti e i proletarî, gli schiavi e i padroni, i dominatori e i dominati, l’Impero sorgeva [254] come una forma di governo meglio rispondente alle nuove proporzioni del dominio e alla modificata composizione del corpo sociale, come un organismo politico in cui le antitesi e i dissidî dell’èra repubblicana potevano e dovevano trovare, se non la loro risoluzione, almeno un qualche componimento, un relativo stato di equilibrio.
L’Impero trovava la sua ragion d’essere e il segreto della sua vita e del suo avvenire, se anche i suoi strumenti non ne avevano chiara e piena coscienza, in un compromesso, imposto dalla forza delle cose, promosso o bene accolto da varî elementi del dominio, accettato o tollerato, come una inevitabile necessità, da altri. Esso è stato bene considerato come una diarchia, ove il potere era diviso ed equilibrato tra il senato come rappresentante dell’aristocrazia romana e l’imperatore come rappresentante del popolo; ma il popolo andrebbe veramente inteso in senso assai largo, e si potrebbe vedere nell’imperatore il rappresentante, magari talvolta inconsapevole e implicito, di tutti i molteplici elementi, che, come i provinciali, gli stessi servi, i dominati in generale non avevano un modo diretto di determinare l’indirizzo politico dello Stato, di far sentire regolarmente e con utile effetto la propria voce, di resistere a quella ristretta classe di persone, che da Roma e dalla zona più vicina sfruttava ogni maniera di soggetti e monopolizzava il potere, facendo della legge e del governo l’espressione e lo strumento de’ suoi interessi. Nell’intuizione di queste molteplici solidarietà, in questo largo consenso d’interessi l’Impero aveva il suo sostegno, e, quanto più il senso della sua utilità si diffondeva in una più estesa cerchia di persone e l’utilità nell’esperienza si rendeva più evidente e più certa, più l’istituzione metteva radici e acquistava vigore.
Questo potere, prima di divenire, come poi fece, un’istituzione, aveva i caratteri e le forme di un’egemonia personale, e si affermava e operava per vie e con forme, che stavano di mezzo tra le private e le pubbliche, tendendo a dare apparenza di rapporti e funzioni private a certe funzioni e ingerenze di carattere pubblico ma inerenti alla persona del principe; mentre gli stessi rapporti e funzioni di carattere privato riescivano spesso, anche senza volerlo, ad assumere carattere pubblico.
[255]
Per realizzare le condizioni necessarie all’esercizio dell’egemonia personale, il principe aveva bisogno di una larga categoria di persone, che non vivessero di vita autonoma, ma fossero come la proiezione della sua persona e le sue braccia allungate e che, pur valendo all’occorrenza come funzionarî, rimanessero avvinti a lui da un legame di stretta dipendenza e da lui riconoscessero la propria posizione e la ragione della loro azione.
Niente meglio de’ liberti e degli schiavi, secondo i casi e la natura più o meno subordinata e rilevante delle funzioni, poteva sopperire a questo bisogno.
Essi costituivano anche un elemento affatto scevro di tradizioni non solo repubblicane ma politiche, e come tali avevano il vantaggio di essere migliori e più sicuri strumenti in mano del principe nella sua lotta, se anche non più aperta, pur sempre persistente, in forma coverta, con le classi dominanti che avevano perduto il monopolio del potere.
Ciò spiega anzi un’apparente contraddizione nel trattamento fatto a’ liberti sotto l’Impero, che, mentre già dalle origini fecondava e favoriva il potere effettivo de’ liberti, ne deprimeva la condizione politica, togliendo loro, come pare, il diritto di voto, escludendoli dalle legioni, esigendo per le stesse flotte, dopo che divennero un vero servizio militare, l’origine libera e precludendo loro l’adito alle magistrature e a’ sacerdozî[807].
La ragione di queste restrizioni stava appunto, a quanto sembra, nel proposito d’impedire che, mediante le numerose manumissioni, i privati si creassero delle clientele capaci di spiegare un’azione anche nel campo della politica e che i liberti, entrando nel pieno esercizio de’ diritti politici, si avvezzassero a vedere nel potere imperiale un antagonista anzi che un rappresentante e un protettore.
Al dubbio potere da conquistare nel campo della politica e dell’amministrazione cittadina, in un periodo in cui il principato mirava a farsi sempre più incombente e soverchiante, i liberti dovevano anteporre il largo posto ad essi fatto nella gerarchia della casa imperiale, nella gestione delle finanze, nell’amministrazione [256] e talvolta nel governo stesso delle provincie imperiali[808], che, compenetrandoli col potere imperiale, li veniva a rendere al tempo stesso strumenti e partecipi di esso.
Con la riforma compiuta da Adriano nel campo dell’amministrazione imperiale, è vero, i posti più perspicui toccano ormai all’ordine equestre, e i liberti passano in second’ordine[809], riservati a uffici subordinati. Ma, anzitutto, l’ordine equestre stesso non era assolutamente chiuso a’ manomessi, che avevano il modo di elevarsi ad esso gradualmente; e poi, se anche sfuggiva loro di mano il monopolio del potere formale concesso dalla gerarchia, erano ben lontani dal perdere quella potenza effettiva che nella società e più nella corte era loro assicurato dalla ricchezza, dalla versatilità e varietà di attitudini e da quella agilità di espedienti e di modi, da quel fare insinuante e spesso insidioso, a cui si erano bene addestrati negli anni di servitù e che ora portavano seco nella vita come un’arma, l’arma più maneggevole e adatta in un tempo e in una vita come quelli di Roma imperiale.
Essi traevano partito dal proprio ingegno, dalla giovinezza degl’imperatori, dalle loro debolezze, dalle rivalità, dalle ambizioni, dalla passione delle donne loro familiari per ordire tutta una trama d’intrighi, di cui le fila erano in mano loro e ch’essi così intrecciavano e svolgevano a loro talento.
“La massima parte de’ principi — poteva dire Plinio[810] a Traiano — mentre erano padroni de’ cittadini, erano servi de’ liberti: governavano secondo i loro suggerimenti, secondo i loro cenni; per mezzo loro sentivano, per loro mezzo parlavano; per mezzo loro si chiedevano le preture e i consolati, anzi si impetravano da loro„.
Infatti lo stesso regime sagace di Augusto e quello severo di Tiberio aveano dato l’esempio, il primo, delle rapacità di Licinio [257] e l’altro della potenza di Severo, di Thallo, di Nomio; ma l’invadenza, contenuta sotto questi primi principi, avea vinto ogni ritegno sotto Caligola, sotto Claudio specialmente e sotto Nerone; e, frenata talvolta da qualche imperatore più savio o più energico, era sempre pronta a eccedere di nuovo con imperatori del genere di Domiziano, di Commodo[811] e di Elagabalo[812]. Anche imperatori buoni, come M. Aurelio, non riuscirono a contenere ne’ giusti termini i liberti; e, in ogni caso, pur sapendo contenerli, li tenevano sempre in onore. Così Adriano[813], così Traiano, di cui Plinio[814] soggiungeva: “Tu rendi anche a’ tuoi liberti grandissimo onore, ma sempre come si conviene a liberti e credi che basti se abbian fama di gente proba ed economa„.
La condizione di fatto, che schiavi e liberti acquistavano e mantenevano nelle case de’ potenti e specialmente alla corte imperiale e nelle sue dipendenze, assicurava loro una prevalenza e un prestigio, che si sovrapponeva alla loro condizione legale e la faceva dimenticare.
Che importava che lo stato servile impedisse loro di partecipare all’esercizio di diritti politici resi sempre più nominali e illusorî, se potevano, con i vantaggi e con l’irresponsabilità di un governo indiretto, recarsi il potere effettivo nelle mani? Che importava se, ricordo di un tempo passato, la loro pelle serbava ancora le tracce della mano fustigatrice del padrone? Anche a questo sapeva portar rimedio l’arte della teletta, fatta dal tempo sempre più dotta di espedienti e ricca di cosmetici. E, intanto, senatori e magistrati e potenti facevano ressa alla porta o nell’anticamera del favorito[815], cercando che il loro ossequio non passasse inosservato, o sollecitando un’udienza, [258] ora, quasi per rappresaglia, concessa a fatica e con tutte le forme atte a far sentire la superiorità dell’ignobile figlio della fortuna, la quale, obbedendo al suo capriccio, l’aveva prima bistrattato, facendolo nascere in basso, e poi l’aveva col suo noncurante sorriso lanciato in alto per tenervelo su in bilico e precipitarlo ancora all’occorrenza, se il vento del successo o l’umore bizzarro del padrone turbava quel pericoloso e sapiente giuoco d’altalena e gli faceva perdere l’equilibrio.
I liberti intanto, e in dati casi anche gli schiavi, costretti dalla loro stessa inferiorità legale ad appagare per altre vie il loro desiderio di ascendere e migliorare il proprio stato, mettevano a profitto tutti i mezzi di far fortuna.
Della loro posizione alla corte e del favore imperiale si servivano per accumulare fortune talora enormi[816], fatte mediante ruberie o con la vendita della loro mediazione alla turba de’ postulanti.
Fuori anche del parassitismo, studiosamente coltivato e abilmente usufruito, essi rappresentavano l’elemento più industrioso e sapiente nell’arte di scovare le vie del guadagno e venirne a capo con la mercatura specialmente e poi con tutte le altre forme di operosità, in cui essi facevano talora da pionieri e tal’altra da emuli del lavoro libero.
Si vedevano così servi, che veramente si potevano dir tali solo di nome, fatti indipendenti, o quasi, da’ padroni, forti delle sostanze accumulate e che ampliavano sempre più l’uso de’ vicarii, sorti come uno de’ cespiti del peculio, come un mezzo di speculazione, e poi convertiti in surrogati de’ servi ed estesi sino al punto da dare al servo stesso una servitù talvolta anche numerosa[817].
I liberti poi tendevano a costituire essi stessi una classe media, in cui intanto s’insinuavano in ogni maniera, e che penetravano da tutti i lati, elevandosi sino ad essa, colmandone i vuoti crescenti, dominandola con la potenza del danaro.
[259]
L’augustalità, un’istituzione ibrida, le cui origini non si lasciano determinatamente seguire e che, senza avere scopi e funzioni religiose o civili nettamente definite, avea le apparenze delle une e delle altre, era una forma di organizzazione de’ liberti, fuori delle cariche municipali e di contro all’ordine investito dell’amministrazione ne’ municipî, su cui si vennero anche modellando e rifoggiando organizzazioni simili formate non più da liberti. Questa organizzazione non aveva una vera e reale sfera di azione nella vita giuridica ed amministrativa del paese, ma dava modo a’ liberti di costituire un ordine, che tra il decurionato e la plebe de’ municipî simulava la posizione tenuta a Roma dall’ordine equestre tra l’ordine senatorio e la plebe, e dava modo a’ liberti di sentirsi non più come elementi disgregati ed erranti nella compagine dell’Impero romano, ma come una classe solidale; li ricongiungeva all’autorità e alla persona dell’imperatore, da cui improntavano il nome quasi a suggello di protezione e di nobiltà; e li metteva in grado, mediante i donativi, le largizioni e gli spettacoli di accaparrarsi il favore della folla e crescere d’importanza, gareggiando vittoriosamente con gli altri cittadini in quella funzione di beneficenza decorativa, a cui pareva si andassero sempre più riducendo le funzioni e la ragione d’essere di molte cariche.
A prescindere dall’importanza e dalla potenza raggiunta dagli schiavi nello stesso stato di servitù e che costituiva un fatto sempre meno infrequente, anche nel campo della vita privata, col crescere delle fortune, cui essi erano preposti in qualità di actores, vilici, ecc.; lo stato sociale raggiunto da’ servi sotto forma di liberti non poteva fare a meno di riflettersi sulla generalità de’ servi per mutare sempre più il concetto teorico della schiavitù e degli schiavi.
Veramente, come già innanzi si è osservato, moltissime volte accadeva che il servo manomesso, o semplicemente innalzato su’ suoi compagni di servitù, a disdire e disconoscere la sua origine ignobile, non trovasse miglior modo che rinnegare ogni solidarietà con i suoi uguali di un tempo e affettasse e ostentasse verso di loro dispregi e, all’occorrenza, un contegno inumano. Ma ciò non toglieva che gli altri considerassero, moralmente, a una stregua schiavi e manomessi per confonderli in un solo [260] sentimento di sprezzo o per guardarli con un solo senso di timore, e, in altri casi, per vedere in essi una sola e medesima natura umana piegata dagli eventi a vari atteggiamenti e varie fortune.
Così, a misura che da’ bassifondi della società, dove i servi erano relegati, se ne staccavano più elementi per ascendere all’alto, si attenuava la rigidità di questa stratificazione e si costituiva, sempre più saldo e perspicuo, un legame di continuità.
La ostinata distinzione delle classi sociali e la loro ripugnanza a fondersi, in nessuna cosa forse più dura e meglio si mostra che ne’ matrimonî, dove l’ostacolo, che viene dalla disparità della condizione sociale, è mantenuta dal costume, anche quando vien meno la legge che la prescrive.
È tanto più notevole quindi l’imbattersi in matrimonî misti, non solo di schiavi e liberti, ma di persone di condizione rispettivamente libera e servile.
Non saprei dire se e in quanto, come si è accennato[818], questi matrimonî divenissero più frequenti nell’ambiente cristiano e per opera del nuovo movimento religioso, tanto più che ne mancano vere prove, e il sentimento religioso cristiano, quando era più fervido e sentito, tendeva a distogliere da ogni specie di rapporto sessuale.
Si può osservare invece, come queste unioni coniugali miste sorgevano e si rendevano relativamente frequenti prima e fuori dell’azione del movimento cristiano.
I servi pubblici, che dalla stessa natura de’ loro rapporti sono messi in una posizione di fatto più elevata rispetto a’ servi comuni, ci offrono già esempî di unioni con donne libere[819].
Il connubio poi tra ingenui e libertini ebbe il suo giuridico riconoscimento e la sua forza legale per opera di Augusto nel 736/18[820].
Che le unioni coniugali anche di servi privati con donne di condizione libera non dovessero essere rare sin da’ primi tempi [261] dell’Impero, ce lo lascia argomentare il senatoconsulto Claudiano, deliberato sotto Claudio nel 53 d. C.[821] e poi ripetutamente richiamato in vigore[822] con maggiore severità.
E del resto, a confermare questa ragionevolissima induzione, soccorrono le epigrafi, che ci dànno, con la prova, l’esempio di queste unioni tra liberi e servi[823], talvolta della casa imperiale[824], tra padrone e servi, specialmente schiave liberate e fatte spose[825].
Sono naturalmente semplici vestigi di tanti altri casi forse, di cui la memoria non venne fermata, od è andata perduta.
Intanto, il fatto che non solo questi rapporti si creavano, come la tradizione letteraria assevera, per rilassatezza di costumi, ma divenivano vere unioni stabili, il che è altra cosa; e non solo ciò avveniva, ma se ne prendeva atto pubblicamente nell’iscrizione sepolcrale e se ne formava come il documento; tutto questo attesta una corrente nuova d’idee, tutta una serie di pregiudizi vinti, un lungo cammino fatto per colmare la voragine già esistente tra liberi e schiavi.
Il vasto dominio romano, quale si era venuto costituendo negli ultimi secoli della repubblica e che si veniva rendendo [262] sempre più stabile ed ordinato con l’Impero, diveniva come il crogiuolo, in cui andavano a fondersi, fin dov’era possibile, gl’interessi, i costumi, le credenze, gl’istituti de’ suoi varî elementi.
L’immenso e meraviglioso sviluppo della rete stradale formava come il sostrato e la condizione materiale di un più agevole e più rapido sistema di scambi, e la pace, assicurata almeno nell’interno del dominio, era come l’auspicio e il lievito di quel lento ma continuo lavoro di fusione.
Eliminati, almeno nella forma rude ed immediata della guerra, i conflitti tra città e città, tra regione e regione, tra popolo e popolo, gli angoli si smussavano, le differenze si attenuavano, e tutte le energie, nella loro forma sia materiale che morale, convergevano a Roma, il centro omai del mondo incivilito, la città universale, donde ribattezzate, rese più organiche e dotate di maggiore forza d’impulso, trasformate in pensiero civile, in mezzo d’espressione universale, in opere d’arte, in leggi, si diffondevano pel mondo per mezzo de’ suoi coloni e de’ suoi mercanti, de’ suoi eserciti e degli agenti della sua amministrazione, della sua lingua e de’ suoi ordinamenti.
Era tutto un enorme movimento centripeto e centrifugo, una diastole e sistole enorme, mercè cui quel dominio si sforzava di diventare qualche cosa di coerente e di organico e trovava in Roma, cuore e cervello, la rivelazione di una vita, ch’essa alimentava del suo sangue e ch’era la sua, e che ogni parte, per intuito, sentiva come tale, pur non riescendo sempre a scorgere il mistero di quella concrescenza e di quella comunione spirituale.
Nell’ambito del dominio universale si veniva producendo come conseguenza necessaria, per una ragione naturale di equilibrio, una coscienza universale. L’incremento quantitativo dell’aggregato portava, come suole accadere, per una inevitabile reazione delle parti, ad una trasformazione qualitativa. Il particolarismo dell’antica vita romana si tendeva e si allargava sino a sfasciarsi e a scoppiare nel suo sforzo di abbracciare un campo tanto più ampio e di contenere lo spirito nuovo.
Di qui il germogliare di una nuova vita morale, che cercava la sua espressione e la sua leva in concezioni sistematiche come lo stoicismo, in correnti religiose come il Cristianesimo.
[263]
E questo processo che come coscienza morale rimaneva spesso vago ed oscillante, si manifestava, in maniera più concreta, come coscienza giuridica, esercitando una continua pressione sulle istituzioni e sulle norme legali, obbligandole a trasformarsi per obbedire a un impulso unico che si manifestava in doppio aspetto: come riflesso de’ rapporti reali nella coscienza e quindi quale bisogno morale, da una parte; d’altra parte come bisogno obbiettivo di assicurare la coesistenza d’interessi e rapporti sempre più complessi, impedendone il conflitto e agevolandone l’esplicamento e la reciproca azione.
Il diritto, che nelle manifestazioni sociali corrisponde a quello ch’è la vita nelle manifestazioni del mondo organico, è la proporzione che rende possibile la coesistenza de’ vari elementi, e muta quindi col mutare di tutti gli elementi dell’aggregato sociale, col loro vario aggrupparsi, col mutare di tutto ciò che ne modifica l’azione.
Il ius gentium era il risultato necessario di un inevitabile processo d’induzione, che, nello sforzo di trovare una norma e un terreno comune ad uomini de’ più diversi paesi e delle più varie abitudini, attraverso gli elementi più accidentali e mutevoli cercava e trovava il fondo comune e più stabile.
Il ius naturale era il portato di un processo d’induzione anche più spinto, che, generalizzando ancora le norme del ius gentium ed elevandole a legge necessaria ed assoluta, cercava di determinare le condizioni della convivenza umana nella forma ultima e più semplice, indipendentemente dalle forme speciali, che assumevano presso questo o quel popolo, e quindi ne fissava le norme come inerenti alla natura umana.
L’equità, che da prima, come un senso instintivo, come un bisogno di equilibrio, aveva cercato di adattare le antiche, rigide, anguste norme, sorte per bisogni limitati, a rapporti emergenti da bisogni più vasti e più complessi, si faceva sempre più cosciente; e, mentre aveva la sua elaborazione teorica fuori del campo legislativo e giurisdizionale, in questo stesso campo, non di rado anche deduttivamente, svolgeva sino alle ultime conseguenze compatibili alcuni principi indotti, più o meno direttamente, dalla moltiplicata esperienza, adattando alle nuove esigenze, senza brusca rottura della tradizione, istituzioni del [264] vecchio diritto civile e spiegando la sua azione anche in un ambito finora non tocco da questo[826].
L’Impero, che costituiva il periodo e l’ambiente di più progressivo e più notevole sviluppo di questa nuova coscienza giuridica e morale maturata ne’ tempi che prepararono l’Impero, aveva anche nella sua organizzazione lo strumento adatto per rendere più efficiente e tradurre in pratica quella metamorfosi morale.
Che la funzione legislativa de’ comizi cessasse più o meno rapidamente[827] col sorgere e l’affermarsi dell’Impero, resta pur sempre che il potere e la funzione legislativa si veniva sempre più concentrando nell’Imperatore, di cui, in maniera diretta o indiretta, la legislazione, la giurisprudenza, tutto infine il diritto positivo apparivano come un’emanazione sola sotto forma molteplice[828].
La nuova coscienza giuridica e morale, ch’era in continua formazione, sia sotto forma di pressione dell’opinione pubblica, sia sotto forma di opportunità politica e di esigenza del momento, riesciva, specie per quanto riguardava la classe servile, a trovare il suo interprete e il mezzo di tradursi in atto assai meglio in un potere unico come quello imperiale che non in un’aristocrazia governante o in una cittadinanza dominante, di numero relativamente ristretto rispetto a tutta la popolazione dell’Impero, di numero relativamente troppo largo per cedere alla suggestione di un momento o riconoscere e soddisfare un elevato bisogno morale estraneo e forse alieno, in apparenza almeno, alla cerchia de’ propri immediati interessi.
Anche se si tien conto della procedura esteriore e della tecnica della funzione legislativa, era tanto più lungo e difficile condurre in porto una legge destinata ad attraversare, come nel periodo repubblicano, le discussioni e le tempeste de’ comizi, che non un provvedimento adottato dal senato sopra iniziativa dell’Imperatore, o preso direttamente dallo stesso Imperatore sotto [265] tutte le forme, che poteva assumere in lui il potere di dar leggi, col ius edicendi e tutti gli altri poteri ed attribuzioni, che, anche sotto la parvenza più modesta di provvedimenti particolari, permettevano al sovrano di dare un determinato indirizzo ed una speciale espressione ad alcuni istituti.
La continuità e la stabilità poi assicurata all’editto pretorio, senza che venisse meno la facoltà di supplirlo e completarlo, avevano data forma sistematica ed organica a questo strumento vivo ed attivo dell’equità, permettendogli di meglio spingere i suoi criteri informatori sino a certe conseguenze e di colmare certe lacune.
In tal modo la nuova coscienza del fondamento, non naturale, ma politico della schiavitù, dopo aver trovato il suo riconoscimento negli scrittori[829], lo trovava nella stessa giurisprudenza, nella maniera più esplicita[830]. E l’espressione di questa nuova coscienza, nello stesso campo giuridico, si rivelava, oltre che con affermazioni generiche, con particolari provvedimenti, che avevano preceduto od accompagnavano quegli aforismi rivelatori delle nuove vedute.
La nuova forma di stato più vasta e più organica, succeduta a quella forma repubblicana che aveva conservato, per quanto svisato e trasformato, l’aspetto originario di aggregato di gruppi gentilizi; il nuovo potere politico, avocando a sè le varie funzioni di carattere pubblico, doveva realizzare sempre più il carattere e l’interesse prevalentemente pubblico del diritto di punire, scalzando gli ultimi resti di quella giurisdizione famigliare, che aveva ancora incondizionata applicazione verso lo schiavo.
[266]
Quindi, per un complesso di ragioni di morale progredita e di opportunità politica, quell’uccisione volontaria dello schiavo, che altra volta aveva potuto essere un diritto appena colpito da sanzione morale o censoria, diveniva ora, già da’ primordi dell’Impero, un delitto agguagliato all’uccisione del libero[831]. E il divieto di uccidere si estendeva poi al divieto di maltrattare il servo.
Il potere pubblico, cessando di ritenersi estraneo a’ rapporti tra servo e padrone, affermava la sua ingerenza, proteggendo il servo contro il padrone che l’affamava, o incrudeliva contro di lui, o lo impiegava in cose che ne mettevano in pericolo la vita o ne abbassavano la condizione morale[832]. In un caso di eccessivi maltrattamenti Adriano aveva condannato al bando una donna[833], e Antonino Pio, riconoscendo quasi un diritto d’asilo per gli schiavi presso le statue dell’Imperatore, introduceva il rimedio di obbligare alla vendita dello schiavo il padrone crudele[834]. Già, poi, dal 61 d. G. C. una lex Petronia, inaugurando una tradizione proseguita da successivi senatoconsulti, disponeva che lo schiavo non potesse essere addetto alla lotta con le fiere nel Circo se non per gravi mancamenti e per pronunziato di giudici[835]. L’evirazione dello schiavo, volente o nolente — già vietata da Domiziano, se il divieto di costui si estendeva a’ servi — veniva di nuovo proibita da Adriano[836], la cui legislazione protettrice degli schiavi[837] costituisce come il riepilogo de’ miglioramenti introdotti da’ suoi predecessori e il punto di partenza di altri notevoli progressi.
[267]
Così le schiave vennero difese contro il padrone che le prostituiva contro loro volontà[838].
La tortura, adoperata per raccogliere le deposizioni testimoniali de’ servi, venne limitata a’ casi che, secondo i criterî del tempo, parevano quasi indispensabili[839].
Il senso d’umanità, che progrediva in quel fondersi delle varie civiltà e pareva evocato talvolta, per reazione, dagli stessi atti di crudeltà di alcuni, si faceva strada nelle stesse voci ch’erano come l’ultima espressione del declinante mondo antico, in leggi che si compiacevano a riconoscere nello schiavo tutto quanto egli poteva avere d’umano e valesse ad elevarlo agli occhi di sè stesso e d’altrui.
Plutarco, l’apologèta della virtù eroica antica e del mondo pagano, inculcava il migliore trattamento degli schiavi; e il progresso compiuto entro i secoli nella maniera di considerare e trattare lo schiavo appare tutto nella censura che Plutarco, senza tener conto de’ tempi diversi, fa de’ criterî manifestati da Catone il maggiore a questo riguardo[840].
Il sepolcro, in cui riposavano le ossa travagliate dello schiavo, era sacro come quello del libero[841].
Veniva riconosciuto nello schiavo il diritto di amare, di avere una famiglia. Assai prima che venisse espressamente vietato di separare gli schiavi congiunti per sangue, forse già sotto Marco Aurelio, talvolta, pietatis intuitu, talvolta per un concorso di sentimenti umani ed utilitarî, la sottigliezza degl’interpreti nobilmente si adoperava ad impedire che una famiglia di schiavi venisse avulsa e sparpagliata[842]. Quei rapporti sessuali de’ servi, che, più o meno permessi, non avevano superato il grado di una pura manifestazione fisiologica, di un accoppiamento animale, ora, magari per un movente utilitario sperduto ed elevato in un sentimento [268] morale, divenivano un rapporto di famiglia. La definizione di coniuge, affacciata prima forse timidamente su qualche pietra sepolcrale, si ripeteva poi, diveniva più insistente e frequente, quasi un nome d’uso legittimo[843].
Il testamento, questa manifestazione che, dal punto di vista economico e giuridico, accentua così vivamente la persona e l’azione dell’individuo nell’incipiente economia capitalistica, cominciava ad entrare nelle consuetudini de’ servi publici, l’aristocrazia servile, e indi, eccezionalmente e con restrizioni, s’intende, si allargava anche, in alcuni casi, a’ servi privati[844].
E come lo svilimento del prezzo degli schiavi e il loro grande numero ne aveva determinato un trattamento peggiore, così il graduale esaurirsi delle fonti della schiavitù e l’aumento, relativo almeno, del valore degli schiavi faceva sì che fossero meglio trattati[845].
Sopra tutto poi la legislazione imperiale s’inspirava sempre più a quello che con espressione caratteristica si diceva favor libertatis[846]. Erano tante disposizioni intese ad agevolare la manumissione, sia facendo in modo che potessero accumulare il prezzo di riscatto ed usarlo a proprio vantaggio senza vederselo tolto e volto ad altro scopo[847], sia che si trattasse di assicurare alle disposizioni testamentarie concernenti manumissioni la loro esecuzione contro il malvolere e le astuzie degl’interessati ad eluderle e di dare a tali disposizioni un’interpretazione favorevole alla manumissione, anche ne’ casi di dubbio e di oscurità[848]. Prevaleva la massima che “quante volte era dubbia l’interpretazione [269] favorevole allo stato di libertà, doveva rispondersi in senso favorevole alla libertà„[849].
La legislazione e la giurisprudenza del periodo imperiale anche meno recente abbondano di tanti di questi casi giuridici, in cui, di deduzione in deduzione, si giunge, animati da questo spirito, a decidere per la libertà de’ manomessi.
Ne’ vari casi, in cui, come nelle istituzioni fidecommissarie o nelle vendite con patto di manumissione, l’esecuzione di questa era affidata ad un terzo, la legislazione e la giurisprudenza assicuravano agl’interessati i mezzi per tradurre in realtà la disposizione testamentaria o contrattuale, e giungevano perfino a dar facoltà ad un terzo estraneo di ottenerne legalmente l’esecuzione[850].
In altri casi la libertà, ottenuta anche in base ad un falso supposto, era irretrattabile e dava luogo soltanto a un debito civile equivalente al presunto valore dello schiavo[851]; mentre, d’altra parte, la libertà non si perdeva per prescrizione[852].
La libertà era pure promessa come compenso a benemerenze degli schiavi[853]. Si dava per rendere possibile la devoluzione di un’eredità, in mancanza di chi volesse adirla[854]. Altre volte era come la sanzione di norme dirette a guarentire la condizione e il buon trattamento degli schiavi.
Così, sin dal tempo di Claudio, l’abbandono dello schiavo infermo faceva luogo, di diritto, alla sua liberazione, anche quando guarisse[855]. La schiava arbitrariamente prostituita diveniva anch’essa libera[856].
[270]
Ora tutto questo complesso di disposizioni e di criterî d’interpretazione, che si riassumono nel favor libertatis, rivela per se stesso, senz’altro, l’esistenza nella società imperiale di condizioni, che rendevano necessarie od opportune le manumissioni e creavano e favorivano lo svolgimento di un indirizzo morale, che come pensiero teorico e come norma legislativa ne realizzava l’aspirazione e ne moltiplicava l’azione. Senza tali condizioni di fatto favorevoli alle manumissioni questo indirizzo non sarebbe sorto o si sarebbe vista preclusa la strada.
E, invero, le norme restrittive delle manumissioni avevano avuto qualche volta l’intento di tutelare l’interesse de’ creditori e di frenare la prodigalità inconsiderata di testatori noncuranti di ciò che eventualmente lasciavano dietro di sè; ma, sopratutto, avevano avuto uno scopo politico. La ragione politica, intanto, era stata soddisfatta con leggi ed istituzioni, che toglievano a’ manomessi una diretta e incondizionata partecipazione alla vita pubblica; e il consolidarsi del potere imperiale e il decadere delle istituzioni repubblicane, che importavano il governo diretto del popolo, eliminavano quelle preoccupazioni, le quali rendevano sospette e malviste, da un punto di vista politico, le troppo numerose manumissioni. Restavano invece le ragioni d’ordine economico, d’opportunità pratica, che favorivano le affrancazioni, e queste, ogni giorno più, in maniera più intensa, esercitavano la loro azione, fomentando con il sentimento della loro necessità e con l’abitudine stessa della loro frequenza i concetti morali e le norme giuridiche, che n’erano il riflesso teorico, la giustificazione e il mezzo d’azione più diffuso e più intenso.
Perciò quest’indirizzo si manifesta ben presto, nello stesso periodo più antico dell’Impero, ed è continuo e persistente.
Culmina, si può dire, con Adriano e i suoi più prossimi successori, sotto cui l’Impero meglio si consolida e assume la sua impronta universale; e tutte le cause e le forze, che durante due secoli circa avevano lentamente e occultamente operato, divengono più efficienti ed aperte in un’èra di sicurezza e di pace. Al tempo stesso l’indirizzo è omogeneo e continuo; e, per quanto la forma personale del potere imperiale desse un peso e un’azione non trascurabili all’impulso individuale del sovrano, persiste e si spiega con tutti quasi gl’imperatori, buoni e cattivi, [271] determinato com’è non da motivi accidentali, non da cagioni di carattere esteriore, non da correnti religiose non ancora capaci di esercitare una efficace pressione specialmente su’ poteri pubblici, ma da cause intime, da un processo intimo di fatti che si estrinsecano in idee, e d’idee, che, successivamente, come risultanti di tante forze disperse, con raccolta energia, si concretano in una consapevole azione sociale.
È appunto, quando Roma poteva dire di avere realizzato e reso stabile il suo dominio universale, e mentre una nuova coscienza morale e religiosa si veniva sempre più sviluppando in quell’organismo politico che abbracciava tutti i popoli con la tendenza a fonderli in uno; è appunto in quel tempo e in quell’Impero che sorse e cominciò a dilatarsi il Cristianesimo, avvalendosi dello stesso gigantesco sistema di comunicazioni e di scambi organizzato sotto gli auspici romani; assimilandosi le forme più elevate di vita intellettuale e morale a cui aveva approdato l’antichità attraverso la sua civiltà più volte millenaria; adoperando gli stessi strumenti di cultura, che l’antichità aveva elaborati e temprati.
Con un sentimento di tolleranza, ch’era al tempo stesso superstizione e strumento di regno, Roma aveva non solo rispettate, ma spesso anche accolte le divinità de’ vinti, implorandone il patrocinio e prendendole essa stessa sotto la sua protezione.
Questa tendenza ad accogliere tutte le religioni era, in gran parte, il prodotto dello stato rudimentale delle vedute cosmogoniche, che faceva identica, pur sotto aspetto diverso, la coscienza religiosa e fomentava e rendeva possibile l’ipotesi della coesistenza di culti differenti. Ma il fatto stesso dell’accogliere come in una vasta classificazione, una accanto all’altra, le diverse divinità, non poteva non avere una profonda azione sulle vicende della speculazione e delle credenze; e il concetto, più o meno accessibile e più o meno sviluppato, che una forza unica o un’unica divinità si riflettesse ne’ molteplici numi e che le [272] religioni emanassero da un comune bisogno, il quale si manifestava sotto parvenze diverse ne’ diversi popoli, doveva portare ad un processo di eliminazione ed unificazione, e il più frequente e più persistente commercio materiale e morale de’ popoli doveva spingere a soddisfare ed esternare in forma più omogenea il bisogno e il sentimento comune.
La società del più antico periodo imperiale riflette appunto uno stadio notevole di questo processo[857]. Mentre l’Olimpo ufficiale si arricchiva di nuove divinità, qua e là, tra i sapienti de’ centri più civili si affacciava il sorriso superiore dello scettico; tra gli elementi più superstiziosi della folla, ricca e povera, cittadina e campagnuola, si facevano strada, raccomandati da riti bizzarri, culti orientali; e, in anime più buone ed elevate, il processo di unificazione si compiva cercando di dare alla coscienza religiosa un contenuto e una base prevalentemente morale, sorretta da una concezione religiosa ora monoteista, ora panteista, più spesso dominata dallo sforzo di conciliare monoteismo e politeismo, conservando la varietà antropomorfica sotto forma di potenze demoniache[858], e, assai più appresso, di santi.
Il prevalere del Cristianesimo rappresenta il compimento di quest’opera di fusione e il trionfo del lungo lavoro di trasformazione nelle istituzioni religiose e nelle coscienze.
Come è stato ben detto in maniera molto sintetica, “occorreva la mediazione della religione monoteista ebraica per far rivestire al monoteismo erudito della filosofia volgare greca la forma sotto la quale soltanto poteva aver presa sulle masse. Una volta trovata questa mediazione, non poteva divenire religione universale che nel mondo greco-romano, continuando a svilupparsi, per fondersi finalmente, nel sistema d’idee a cui aveva approdato quel mondo„[859].
La nuova corrente religiosa, la quale aveva il segreto del suo [273] avvenire in un largo e inspirato senso umano, emancipato da riti e da formule, rifletteva, sotto forma di sentimento, l’elevazione morale, raggiunta dal mondo nelle manifestazioni più alte della vita e della speculazione e costituiva la forma, sotto la quale la nuova coscienza poteva e doveva concretarsi e divenire universale. La stessa ingenua semplicità, ch’essa portava nella concezione del mondo e dell’esistenza, ne faceva la forza; e la mirabile concordia del pensiero e della vita apparsa nel suo fondatore, la toglieva anche meglio dal novero delle pure astrazioni per darle i vantaggi e la potenza suggestiva di una manifestazione viva e personale, a cui il martirio, il miracolo e tutto un ciclo di soavi leggende davano la potenza fascinatrice atta a conquistare la fantasia e il cuore del popolo.
Che infatti la propaganda cristiana reclutasse i suoi seguaci tra gli elementi più bassi della popolazione, ci viene espressamente attestato[860]; uno de’ rimproveri, che le si faceva, era anzi appunto questo. Ma non bisogna credere che anche tra questi elementi e tra i servi si facesse sempre strada così facilmente e senza contrasto.
Il misoneismo caratteristico delle classi sociali più depresse e meno rese proclivi dalla cultura alla varietà d’adattamento creava un inciampo al diffondersi del Cristianesimo, tanto più quanto la credulità faceva prestare più facile orecchio alle stranezze, alle parvenze odiose, sotto cui lo presentava l’ira e la preoccupazione degli interessati e la stessa azione inconsapevolmente alteratrice della fama. La fatica che il Cristianesimo durò a penetrare nelle campagne trova appunto in questo la sua spiegazione.
Accadeva di questa corrente religiosa, quello che accade di altri grandi movimenti religiosi, politici e sociali e in cui riesce difficile spiegarsi alla bella prima la difficoltà, che trovano a propagarsi tra le masse idee e correnti favorevoli a’ loro interessi considerati sotto forma astratta e generale.
“Ecco un problema presso che insolubile per quelli che costruiscono la storia assumendone come elemento dinamico [274] alcune idee generali operanti sotto forma di astratte categorie sugli uomini concepiti come masse indistinte. Invece il problema trova agevole risposta per chi risolve quelle masse indistinte ne’ loro elementi discreti, in individui, che pensano, operano e si muovono nelle condizioni concrete di vita della quale vivono„[861].
A questa stregua si può più oculatamente considerare quale azione avesse la nuova corrente religiosa tra gli schiavi e sulla condizione loro.
Quell’inesausto fervore di fede, di cui ci parla la tradizione del movimento cristiano, e la suggestione ch’esso esercitava spingendo fino al martirio, doveva determinare volta a volta nelle conventicole cristiane un caldo ambiente morale, una corrente di fraternità; e sotto l’impulso dell’ascetismo trionfante, assorti nel pensiero dell’eternità, ond’era sopraffatta questa dimora passeggiera sulla terra, una corrente di sentita fratellanza si stabiliva tra i fedeli e cancellava, per un momento almeno, le differenze tra ricchi e poveri, nobili e plebei, servi e padroni.
Degli schiavi vi avevano anche la loro parte, e il martirio di qualcuno di loro, che ne rifletteva la pura luce sugli altri e faceva oggetto di venerazione la loro tomba, non era senza significato[862].
Ma questi erano i giorni aurei e brevi del Cristianesimo primitivo, povero ancora di seguaci e di beni, ricco di schietti entusiasmi.
Era il tempo de’ pochi eletti, le cui anime erano state prima tocche dalla voce divina, perchè erano fatte per accoglierla.
Quanto più il movimento si allargava, per le immistioni continue di elementi estranei, per le inevitabili concessioni al mondo esterno, più ne discendeva l’atmosfera morale.
Gl’interessi terreni, piccoli e grandi ma prepotenti e continui, deprimevano gli entusiasmi, ristabilivano di nuovo i rapporti un momento oscurati nella conventicola tra padroni e servi.
A misura poi che entravano gli elementi delle classi superiori, [275] rifoggiavano la corporazione cristiana nel senso de’ loro pregiudizi e de’ loro interessi, fondando una gerarchia del resto indispensabile alla funzione della congrega; e gli elementi inferiori, specie i servi, dovevano trovarsi a disagio.
Quegli stessi consigli di sommissione dovevano spesso riescire irritanti per i servi.
L’antagonismo inevitabile e persistente tra padroni e servi si spostava anche nel campo religioso; e, come i servi divenivano cristiani quando i padroni erano pagani, così talora restavano o ridivenivano pagani, quando i padroni si facevano cristiani.
L’ostilità de’ servi, a cui allude anche Tertulliano, attesta questo fatto e ne ha spiegazione.
Questa ostilità degli schiavi, sorretta da un attaccamento al Paganesimo, o presentata almeno sotto questa parvenza, apparve più volte sotto la forma più recisa ed aperta[863]. E il sospetto, mai bandito o sempre rinascente, delle denunzie servili, manteneva un abisso tra servi e padroni, e concorreva, insieme all’interesse e al pregiudizio di classe, a precludere o a rendere difficile a’ servi l’entrata nell’associazione cristiana.
Inoltre, se nell’opera assidua di fusione, il Cristianesimo, assimilandosi parte della mitologia e della liturgia pagana, v’insufflava uno spirito nuovo, tal’altra n’era sopraffatto e non restava che la faccia del vaso senza contenuto.
[276]
Finalmente, com’è stato osservato[864], l’azione della nuova coscienza che si era formata, anche quando operava nella forma di fede religiosa cristiana, operava interrottamente e sopratutto individualmente.
Quando andava per ridursi in un indirizzo stabile, per concretarsi in un’istituzione, in una regola fissa ed universale, gli interessi sociali presenti prendevano il sopravvento e l’azione della corrente religiosa, anzi che modificare, ne restava modificata.
Il Cristianesimo, nella sua forma più schietta, popolare e suggestiva, incarnava la coscienza universale, che si era formata nell’ambito dell’Impero e rispondeva alle nuove condizioni di questo, che veniva sempre più attenuando il suo carattere di dominio esclusivo romano per acquistare un’impronta tutta sua, consentanea alla fusione e alla risultante de’ suoi varî elementi.
In questa opposizione dell’uomo al cittadino, della vita individuale alla politica, della religione allo Stato, che si presentava come opposizione anche quando voleva sembrare od essere semplicemente distinzione, stava il germe del contrasto tra il movimento cristiano e l’Impero. La riluttanza al culto degl’imperatori ed altri fatti consimili n’erano piuttosto i fenomeni e gli incidenti. Roma, magari inconsapevolmente, combatteva nel Cristianesimo la forma e il riflesso di quella potenza trasformatrice e dissolvente, che sottraeva allo Stato il monopolio e il prestigio della religione, e, facendone base di un organismo crescente nell’organismo dello Stato e a detrimento di questo, dava al mondo romano, alla società universale dell’Impero un altro centro che non fosse il potere politico dell’Impero.
E la lotta fu dura ed acre, finchè la tradizione cittadina romana rimase viva e salda; ma, a misura che questa periva e scompariva assorbita nel vasto organismo dell’Impero, la nuova religione appariva come un principio unificatore, come il terreno comune de’ vari popoli dell’Impero, sempre più alieni da un’organizzazione [277] politica, che perdeva ogni giorno più la sua ragione d’essere e diveniva un’istituzione, sotto molti aspetti, parassitaria.
Fare allora del Cristianesimo la religione di Stato potè parere quasi come sposare a’ suoi destini quelli dell’Impero e dare a questo una nuova base, piegandolo, come sostegno e rappresentante della nuova coscienza del mondo imperiale concretata nella nuova religione, ad apparire di nuovo come la forma costituzionale organica del mondo antico.
Così l’Impero, nell’atto stesso che rinnegava la tradizione romana abbandonandone perfino la sede primitiva, si manteneva fedele a’ suoi metodi di adattamento e di rinnovazione e prolungava indefinitamente la sua esistenza.
Intanto, col suo legale riconoscimento e col suo avviamento graduale verso la forma di religione ufficiale, il Cristianesimo era tratto sempre più a costringersi e plasmarsi entro i termini de’ rapporti sociali contemporanei, accentuando quella contraddizione tra l’insegnamento teorico e la pratica della vita, che si riflette nel pullulare di alcune sètte, nelle recriminazioni de’ rigoristi, nel recalcitrare de’ Padri e dignitari della Chiesa in lotta con la potestà civile, nella degenerazione dagli stessi membri della Chiesa denunziata dalla gerarchia ecclesiastica.
Le condizioni de’ tempi e la insormontabile forza delle cose vincevano allora e sopraffacevano la teorica virtù de’ precetti, dando uno spettacolo, in cui doveva vedere tutto una parata d’ipocrisia chi non riesciva a vedervi il germe ineluttabile del contrasto.
Così il secolo quarto e i successivi, accanto alle forme più elevate di predicazione morale e ad individui che ne costituivano l’incarnazione e il vivo esempio, presentavano tutte le forme della corruzione e della decadenza[865].
[278]
Così accadeva che, sotto imperatori cristiani, la legislazione regolatrice della condizione de’ servi costituisse, talora, una sosta, talora anche un regresso rimpetto alla legislazione d’imperatori pagani[866].
E, infatti, è proprio sotto Costantino, cioè mentre la religione cristiana, trionfando delle persecuzioni e degli ostacoli, otteneva il suo riconoscimento ufficiale; è proprio allora che una nuova sorgente di schiavitù veniva sancita e si rincrudivano le disposizioni sulla schiavitù.
Aggravando le norme del S. C. Claudiano, attenuato da Alessandro Severo[867], Costantino comminò la morte alla libera che sposasse il proprio servo, riservando il rogo a costui[868].
A risolvere la controversia tra due litiganti sulla proprietà del servo fuggitivo, decretò che come mezzo d’indagine s’adoperasse la tortura dello stesso schiavo conteso[869].
Mentre la giurisprudenza classica avea conservato il carattere imprescrittibile della libertà, e dal dissoluto Caracalla, autore di norme felicemente contraddittorie a favore della libertà degli schiavi[870], sino al dispotico Diocleziano, si vietava la vendita del libero fatta da sè stesso[871] e specialmente quella de’ figli fatta dal padre[872]; sotto Costantino, con un passo reazionario, si veniva a sancire il diritto padronale di chi avesse raccolto un esposto[873].
Quest’ultima disposizione, che uno storico antico spiegava con lo stato di disagio dovuto in gran parte al peso crescente e soverchiante delle imposte[874], veramente s’era insinuata come [279] una misura inevitabile per ovviare a’ peggiori effetti delle esposizioni d’infanti, dopo che per altre vie si era cercato di sovvenire all’alimentazione della prole de’ poveri[875].
Ma si vede, intanto, anche da questo come le riforme fossero determinate da concrete condizioni sociali e come il Cristianesimo, accettato nella sua parte liturgica e formale sempre più prevalente, si spuntava nel tentativo di riformare la società sulla sua base morale; e, a misura che progrediva come associazione organizzata, come chiesa costituita, si compenetrava con l’ordinamento legale dell’ambiente circostante, oscurando la forza nativa de’ precetti astratti e cercando di attenuare, con restrizioni mentali, sottintesi e distinzioni scolastiche, il dualismo inconciliabile tra una coscienza morale ridotta in gran parte allo stato di pura teoria e un’azione pratica, che, se talvolta per impulso e favore di condizioni esterne ne realizzava qualche conseguenza, molte altre volte ne riusciva la negazione.
Si riusciva così ad una specie di compromessi, come quello tipico di Costantino, che vietava d’imprimere il marchio sul volto, “figurato ad immagine della bellezza celeste„, ma non rinunziava ad imprimerlo sulle mani e su’ polpacci![876].
Quindi per secoli ancora, nello stesso diffondersi del Cristianesimo e nel progresso del suo carattere ufficiale, continuavano la schiavitù con i suoi inevitabili malanni e gli spettacoli orrendi del circo[877], minati pur sempre dalle cause intime, già prima accennate e sempre persistenti e più attive, che cercavano un’espressione nella coscienza cristiana come altra volta l’aveano cercata nelle teorie filosofiche e si servivano, quando se ne offriva il modo, de’ nuovi istituti e de’ nuovi organi di pubblico potere e di vita sociale per tradursi in realtà.
In tal modo l’eliminazione della schiavitù, qualche volta inceppata, riprendeva per necessità di cose il suo corso. Le stesse necessità quotidiane di vita, inconsapevolmente, ne realizzavano le condizioni. Si faceva via mediante privilegi, concessioni, attenuazioni [280] e miglioramenti, che, nella mente di chi li consentiva, potevano muovere da un criterio d’opportunità o da un proposito di sorreggere una istituzione vacillante, ma riuscivano, nondimeno, a puntellare, fors’anche nell’oggi la schiavitù per isvolgere in essa un germe di disorganizzazione e di trasformazione.
I costosi giuochi del circo declinavano, condannati in forma più manifesta e consapevole dagl’interpreti di una più elevata coscienza morale, scalzati al tempo stesso, senza che altri forse se ne avvedesse, dal disagio crescente, dal venir meno delle magistrature, della gerarchia, dell’ordinamento politico, ch’erano stati ad essi occasione, condizione ed impulso.
La coscienza giuridica, sempre più svolta, cercava poi forme più coerenti ed organiche nell’opera di codificazione, e al lavorìo singolo, frazionario, inconsapevole, attraverso cui la giurisprudenza e la legislazione aveano lentamente ma continuamente fatto il loro cammino, faceva succedere l’opera consapevole di chi di quel lavorìo può abbracciare tutti i risultamenti; alla casistica sostituiva la regola, all’analisi la sintesi, alla induzione la deduzione.
Questa fase dell’evoluzione giuridica, che si compiva specialmente sotto Giustiniano ed è stata a questo rinfacciata come una colpa ed un errore[878], era la necessaria successione dello stadio riflesso a quello spontaneo. La funzione legislativa veniva, per questa via, talvolta a perdere del suo valore pratico e della sicurezza nelle applicazioni a’ casi singolari, ma, in cambio, si colmavano lacune, si generalizzavano casi specifici, si allargavano conseguenze di esperimenti, si svecchiavano forme e si eliminavano norme ed istituti, ch’erano omai semplici sopravvivenze.
Sotto Teodosio quindi, e assai più e specialmente sotto Giustiniano, quando era anche progredita di tanto la formazione degli elementi costitutivi della schiavitù, si vede riassunta, svolta, completata l’opera della giurisprudenza e della legislazione miglioratrice della condizione degli schiavi[879].
[281]
Si riproducono e si svolgono gli antichi postulati sull’indole tutta civile della schiavitù contraria al diritto naturale[880], si abolisce il S. C. Claudiano[881]; si abolisce la servitù della pena[882]; si ribadiscono e si allargano le cause di liberazione[883], e, inspirandosi sempre al favor libertatis, si eliminano inceppi alla manumissione[884], che non adempiono più una funzione utile, o distinzioni fatte per creare incapacità politiche e gradazioni nell’esercizio de’ diritti de’ cittadini, che non aveano più significato dopo l’allargamento del diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero, la mutata organizzazione de’ poteri pubblici e l’accentramento della vita politica nel palazzo imperiale.
Del pari col sostituirsi che la Chiesa faceva al foro, col divenire, ch’essa faceva, il massimo organo di relazione, il più continuo e più generale luogo di convegno, era naturale che divenisse più frequente e prevalente la forma di manumissione ecclesiastica, già sancita da Costantino[885] e preferita per il suo rito più semplice, per il prestigio che acquistava dall’ambiente mistico, ove si compiva, per la protezione divina, che, anche se non impetrata, sembrava esserle inerente, e aveva più valore quando più vacillavano le istituzioni civili.
Queste nuove correnti morali, queste nuove istituzioni e le nuove funzioni che schiavi e liberti compivano nella vita economica e civile indicavano, anche alla superficie, in forma più apparente la trasformazione che avveniva nell’ordinamento e nella funzione della schiavitù. Ma, già si è accennato, mentre ciò avveniva alla superficie, come effetto che riassumeva e conservava [282] le energie trasformatrici e reagiva alla sua volta su di esse, altre cause intime, lente ma continue, remote ma non interrotte, scalzavano l’istituto stesso dalle fondamenta.
Allargando successivamente le sue conquiste, Roma poteva dire d’avere abbracciato e compreso nel suo dominio tutto l’antico mondo civile; e quelle parti del più lontano Oriente, che potevano aspirare a questo titolo senza appartenere al suo dominio, erano, si può dire, fuori della sua sfera d’azione.
Gli schiavi di maggior pregio, quelli che più potevano servire a’ bisogni del lusso, all’esercizio delle arti e de’ mestieri, alle stesse pratiche più complicate dell’agricoltura e a tutte in genere le funzioni della vita civile, erano venuti appunto da questi paesi civili, forniti in numero prevalente dalle lunghe guerre.
Ma, col finire delle guerre e con l’assodarsi della conquista, questa sorgente era venuta a cessare almeno in maniera continua e regolare.
Le guerre a’ confini, oltre che più rare, erano fatte di solito con popolazioni barbariche o quasi. In tempi più tardi la migliore gioventù di questi stessi popoli veniva reclutata per l’esercito; ma, anche quando prima riesciva di trarne alimento per la schiavitù, il loro impiego, per le limitate loro attitudini, doveva essere ristretto alle occupazioni più semplici, che non richiedevano particolare abilità e lungo esercizio tecnico, bensì la semplice forza materiale.
Ora ciò veniva a coincidere proprio con un periodo, in cui la vita romana aveva maggiori esigenze di lusso e di raffinatezza e tutte le sue forme divenivano più elette e più complesse.
Le case perdevano sempre più l’antico aspetto rozzo e la prima semplicità per ornarsi di dipinti, di fregi, di sculture, crescendo di mole e di varietà architettonica. I mobili, gli utensili, le stoviglie, i tessuti, le vesti, i mille gingilli ed amminicoli, che servivano ad abbellire e fornire le case e ad ornare le persone, avevano sempre più l’impronta del buon gusto, o, almeno, del lusso[886].
[283]
Ora lavori di questo genere depongono di una tecnica assai progredita, anche messa a confronto di quella odierna[887].
La ceramica acquistava nell’epoca imperiale romana una diffusione sempre maggiore, in grazia del suo uso pratico, e un’ornamentazione sempre più complicata[888]. Se talvolta mancavano i dipinti, subentravano in cambio i fregi plastici, che attirano la nostra attenzione per la stessa loro difficoltà[889]. I lavori in bronzo, in argento, in legno, i gioielli, la lavorazione delle pietre preziose esigevano cura e perizia[890], tanto che alcuni di quei lavori possono essere talvolta definiti come miracoli di pazienza[891]. La pittura decorativa, sempre più diffusa, se anche poteva essere costretta nelle forme e nei procedimenti del mestiere, richiedeva esperienza; e il mosaico, se pure si riduceva a un procedimento di riproduzione meccanica, era tutt’altro che scevro di difficoltà[892].
È stato osservato, è vero, che lo stesso minuzioso lavoro di pazienza qualche volta fa supporre l’opera dello schiavo[893]; ma, anzitutto questa pazienza non era poi tanto comune in servi spesso animati da un sordo rancore che si sfogava nella stessa cattiva esecuzione del lavoro, e poi, in ogni modo, alla pazienza bisognava che si aggiungesse l’educazione tecnica, tanto maggiore quanto più si trattava, anche in oggetti di ceramica, di lavori fatti a mano[894]. Erano dunque più qualità, ciascuna non comune, che si dovevano combinare insieme; e non si potevano trovare nel servo maldestro e recalcitrante preso in campagne contro popoli barbarici.
Nella stessa agricoltura le relazioni più facili e frequenti da regione a regione portavano all’introduzione di nuovi strumenti agricoli[895], di nuove culture e di pratiche agricole più complicate. [284] La stessa redazione di scritti dove l’agricoltura veniva trattata da un punto di vista teorico accenna al bisogno ed allo sforzo di superare almeno il più rozzo e rudimentale empirismo. Ora alcuni lavori — e qualche scrittore lo nota[896] — esigevano cura, interesse, perizia; come nota del pari il malgoverno che gli schiavi facevano degli strumenti agricoli[897] sia per impulso di dispetto che per avere pretesto di riposo. Bisognava tra l’altro, per ciò, possedere in doppio gl’istrumenti agricoli.
La stessa rarità di queste attitudini e di queste qualità negli schiavi faceva poi che, anche quando accadesse di trovarle, il prezzo ne saliva molto alto.
Ciò spiega la varietà grande del prezzo degli schiavi, che — lasciando stare i prezzi d’affezione eccezionali ed elevatissimi[898] — differiva del doppio e anche di più secondo l’età, l’educazione, la professione, al punto da duplicare il valore dello stesso schiavo dopo avere sviluppato in lui certe attitudini[899].
Così Columella[900] dava pel suo tempo a un buon vignaiuolo il prezzo di ottomila sesterzi, notando che se ne potevano avere a minor ragione, ma la vigna poi ne sentiva i tristi effetti.
Al qual proposito si può notare come i prezzi, che ricorrono nel Digesto, toccano o superano questa cifra quando se ne parla in via di esemplificazione[901]; ma restano notevolmente inferiori, quando si accenna a casi concreti. Si aggirano allora intorno a’ dieci solidi per schiavi inferiori a’ dieci anni, a’ venti per quelli superiori, raggiungendo i trenta per quelli che avevano una professione e i cinquanta e i sessanta solidi, se questa professione era quella di notarius o di medico rispettivamente. Il prezzo degli stessi eunuchi è di trenta, di cinquanta, di settanta solidi secondo l’età e la capacità professionale[902].
[285]
Ora, anche senza volere di soverchio generalizzare questi dati, merita considerazione il fatto che, pur nel restringersi del numero degli schiavi, il loro prezzo non saliva molto alto; e deve poter valere come un indizio dell’uso sempre più scarso, del bisogno sempre meno avvertito degli schiavi, della concorrenza loro fatta dal lavoro libero, che si cercava disciplinare e, si direbbe meglio, reggimentare.
La diminuzione degli schiavi è dimostrata anche dalla menzione più frequente del plagiato e dell’allevamento.
Già Augusto avea dovuto far perquisire gli ergastula per rivendicare in libertà uomini liberi rapiti e ridotti in servitù[903]. La frequenza ed il rigore delle leggi contro il plagiato[904] durante il periodo imperiale mostra la persistenza del male e la insufficienza della minaccia, anche aggravata da pene severe.
L’allevamento degli schiavi poi, come mi è accaduto di avere altrove notato[905], non è utile e non si raccomanda, dove vi è una larga importazione di schiavi e sono aperti mercati che sopperiscono alla richiesta. Ne’ casi di vietata o limitata importazione, invece, l’allevamento diviene un’industria e viene a tenere in vita la schiavitù, là dove il graduale esaurimento del suolo e la scarsa produttività del lavoro servile l’eliminerebbe lentamente. In tali condizioni avviene come una divisione di lavoro nella stessa schiavitù: i paesi più esauriti o meno fecondi, che sogliono pure essere più sani de’ piani opulenti ma spesso avvelenati, alimentano schiavi per fornirli a paesi, dove l’allevamento trova un ostacolo nella maggiore mortalità o riesce inadeguato alla richiesta[906].
In Columella già l’allevamento degli schiavi è oggetto di suggerimenti insistenti[907], quali mancano negli scrittori anteriori [286] d’agricoltura e che trovano la loro spiegazione appunto nell’èra di pace inaugurata da Augusto. E il gran numero di epigrafi, che ci attestano delle unioni di schiavi, ci fanno vedere come il suggerimento s’imponesse anche per i tempi posteriori; tanto più che in paesi di coltura estensiva, dove la terra coltivabile o i pascoli superavano l’impiego, l’allevamento doveva presentare inconvenienti relativamente minori.
Con la decrescente importazione, l’allevamento era un mezzo inevitabile di reintegrare, anche ne’ limiti dello scemato bisogno, l’elemento servile, che, per giunta, aveva una quota di mortalità molto elevata, come è risaputo e facile ad arguirsi da esempi analoghi e come ci lasciano ragionevolmente indurre le stesse epigrafi funerarie dell’epoca imperiale romana, ove gli schiavi appariscono d’ordinario defunti in età non avanzata.
E questa mortalità, mentre direttamente stremava la schiavitù, aprendovi vuoti che l’allevamento non riusciva a colmare, accresceva l’alea del possesso degli schiavi e costituiva così uno de’ maggiori inconvenienti della schiavitù, che ne avea tanti, come si è visto, e a cui si aggiungeva sotto l’Impero la delazione, frenata e repressa, è vero, dalle leggi ne’ casi ordinari, ma solleticata e incoraggiata invece ne’ casi — e non eran pochi — in cui entrasse l’interesse del sovrano e dello Stato.
E mentre così la schiavitù, per fatto suo proprio e per i suoi rapporti all’ambiente, seguitava sempre più ad intristire, maturavano sempre più, d’altra parte, e spiegavano un’azione vieppiù grande e continua le cause, che dovevano generalizzare il lavoro libero, suscitato del resto e reso indispensabile per azione riflessa dallo stesso decadere della schiavitù, dal lavoro libero scalzata.
Nel mondo antico, come in quello moderno, la civiltà sorgeva e ascendeva a forme più alte ne’ paesi, dove si riesciva ad accumulare maggiore ricchezza e si costituivano così centri più o meno popolosi e classi più o meno larghe, che, emancipate dal bisogno di attendere a un lavoro materiale onde rimanesse [287] assorbita ogni loro attività, potevano elevare il loro tenore di vita e crearsi bisogni di carattere superiore, trovando modo di soddisfarli[908].
Dato lo scarso sviluppo delle forze produttive, che toglieva il modo di sopperire in maniera facile e soddisfacente a’ bisogni più immediati di tutti, un sistema sociale, ove ognuno fosse obbligato a provvedere da sè alla propria sussistenza, sarebbe stato un inceppo allo sviluppo di più alte forme di civiltà e avrebbe costituita la condizione di una permanente mediocrità.
Il parassitismo oggi, dato lo sviluppo delle forze produttive, capaci di sopperire a’ bisogni universali, non costituisce per noi una condizione relativa di civiltà; anzi è causa di una relativa sosta del progresso morale e intellettuale; ma nell’antichità si presentava come una condizione obbiettiva di progresso, che trovava la sua manifestazione e il suo strumento successivamente, con vicenda continua, in popoli diversi, a misura che un processo intimo di degenerazione, facendo luogo ad una sopraffazione esterna, dava all’un popolo sull’altro le condizioni della supremazia politica e della superiorità civile.
La guerra e l’arte di rendere più o meno stabili e fruttifere le sue conseguenze erano il mezzo per accentrare in un popolo la ricchezza di molti popoli, in una classe la ricchezza dello stesso popolo sovrano.
Su questa base si era sviluppata la civiltà ateniese; su questa base, in ambiente più vasto, con maggior forza assimilatrice e per più lunga durata si era sviluppata la civiltà romana, riassumendo e propagando tutte le civiltà precedenti.
Senonchè, questo parassitismo, per quanto glorioso e benemerito della civiltà, aveva in sè stesso i germi della sua distruzione; e, a lungo andare, per la sua persistenza, pel suo abuso e per il lavoro improduttivo necessario a sorreggerlo, si risolveva in una causa di enorme depauperamento, tanto più grande e sensibile quanto minore era la potenzialità produttiva del mondo antico.
[288]
L’Impero romano era una forma di organizzazione politico-sociale troppo costosa e dissipatrice di forza.
Nella forma più appariscente e diretta, i paesi dominati dovevano cominciare dall’alimentare buona parte della popolazione di Roma e poi anche di Costantinopoli, ciò che, già sin dalla fine della repubblica, importava una spesa, che, per quanto calcolata approssimativamente, si può considerare abbastanza notevole[909].
Ma tutto ciò si poteva dire ben poco in proporzione al resto.
A misura che il lusso, lo spreco e la corruzione crescevano, si turbava sempre più ogni possibile equilibrio tra la produzione e il consumo; e il lavoro improduttivo e le classi semplicemente consumatrici si sviluppavano in ragione inversa e a danno del lavoro produttivo. E il danno immediato e diretto scompariva quasi di fronte a quello mediato e indiretto, ma infinitamente maggiore. L’accumulo della ricchezza destinata allo sperpero non era cercato alla produzione, ma alla speculazione, sotto forma di commerci, di appalti e specialmente di usura, esercitata a larga base e con raffinata durezza sopra tutto verso i provinciali e fomentata e sorretta dalla prevalente posizione politica.
Cresceva, moltiplicandosi e diffondendosi fuor d’ogni misura, la categoria degl’intermediari di ogni risma, che se, talvolta, come commercianti, davano un qualche impulso alla produzione, assai più spesso come pubblicani, affittuari, usurai, inceppavano lo sviluppo naturale della ricchezza, e, per soverchia avidità, ne inaridivano le fonti al modo stesso del selvaggio che per cogliere più agevolmente i frutti abbatte l’albero dal tronco.
Nel periodo epico della conquista e in quello che lo seguì più da vicino fu come una gozzoviglia gigantesca, resa più dolce da una felice spensieratezza de’ vincitori, mentre nello strepito della grande orgia perivano soffocati o si perdevano inascoltati i lamenti degli oppressi e le preoccupazioni dell’avvenire.
[289]
Ma, come una Nemesi seguace, inesorabile, sorgente dalla forza stessa degli elementi e ad essi indissolubilmente congiunta, la carie procedeva lenta, implacabile, senz’arrestarsi mai, segnando i giorni omai contati di quell’organismo nell’aspetto sempre più fiorente e sempre più ròso di dentro.
L’Impero aveva cercato di apportare qualche rimedio alle rapine, alle ruberie, alle vessazioni delle provincie; ma, anche quando vi era riuscito, si poteva dire che avesse curato il male alla superficie.
Certamente esso non aveva potuto, nè poteva mutare radicalmente tutta quella viziosa organizzazione economico-sociale.
Se la piccola e la media proprietà, come del resto è naturale, non erano assolutamente, nè ovunque scomparse[910], i latifondi nondimeno perduravano e progredivano anche, specie nelle regioni più ubertose come l’Africa[911]. Così, molte volte, la piccola e la media proprietà, anche perdurando, erano sopraffatte dalla concorrenza soverchiante, dal peso delle imposte, da’ danni de’ tempi incerti per essi più sensibili, dal cancro del debito; e così della proprietà finivano per conservare l’apparenza più che non la sostanza, anche quando dal novero de’ proprietari non passavano in quello degli affittuari, rimanendo con questa mutata qualità sul loro antico podere.
L’Impero si era venuto e si veniva in tal modo a trovare faccia a faccia con un proletariato già numeroso e forse sempre crescente; ed esso stesso era stato obbligato a mantenere, a rendere stabili, ad accrescere e ad allargare quelle forme di assistenza[912], che assorbivano, per via diretta e indiretta, col loro effetto immediato e con la loro ripercussione, tanta parte delle risorse del dominio.
[290]
Una delle stesse maggiori benemerenze dell’Impero, il consolidamento e lo sviluppo di una regolare amministrazione, si era convertito in un’altra fonte di aggravi e di spese, e la gerarchia era divenuta sempre più numerosa e complicata sino a raggiungere forme e proporzioni straordinarie. Infatti, ne’ tempi più avanzati dell’Impero, lo Stato si sentiva spinto ad accrescere le sue funzioni ed estendere la sua azione, e si cercava d’altra parte nella gerarchia l’unità del dominio, che si sfaldava e si disgregava da tutte le parti premuto da forze esterne e dissolto dal formarsi che facevano più autonomi e più coerenti aggregati sulla base di rapporti etnici e di sviluppati centri e rapporti locali.
La forza armata di terra e di mare aveva dovuto poi ricevere uno sviluppo considerevolissimo per proteggere i vasti confini dell’Impero, assicurare la quiete interna e la regolare funzione di servizi pubblici inerenti alla soddisfazione de’ più elementari bisogni della popolazione e dello Stato.
L’esercito era divenuto stanziale, e le legioni da cinquanta ridotte a diciotto dopo Azio, indi avevano cominciato a risalire sino a raggiungere il numero di ventitre, di venticinque, di trenta, poi di trentatre tra Settimio Severo e Diocleziano, e dopo questo si erano accresciute sino ad arrivare a sessantacinque. E intorno alle legioni si aggruppavano e si diramavano le flotte, le truppe ausiliarie, le truppe accasermate in Roma, le milizie provinciali e municipali[913].
In quel progressivo disgregarsi del dominio l’esercito, come il maggiore e più diffuso corpo organizzato, diveniva il creatore e la base del potere politico. Chi legge il Codice teodosiano vede come l’esercito dava la sua impronta alla stessa amministrazione civile, e intorno ad esso si aggruppavano e si condensavano, come a centro, tutte le altre funzioni e attività dello Stato.
Un prospetto[914] tratto dalla Notitia dignitatum lascia vedere, [291] anche ammettendo che l’effettivo non rispondeva pienamente a’ quadri, come questa forza armata si stendeva per tutto l’Impero quale una vasta rete di ferro; e il suo costo — retribuiti com’erano i pretoriani a settecentoventi denari, le coorti urbane a trecentosessanta e i legionari a dugentoventicinque[915], oltre gli eventuali aumenti di paghe e i donativi — era tutt’altro che indifferente.
Le imposte escogitate a tenere insieme questa macchina immane dell’Impero con i suoi parassiti, i suoi sostegni, le sue dissipazioni dovevano per necessità crescere oltre misura; e più pesanti e più deleterie le rendevano i sistemi vessatori di esazioni, che, rilevati tante volte, hanno reso quasi un luogo comune questo argomento.
A misura che si procede verso il periodo più avanzato dell’Impero si ha il senso di tutto questo disagio, che lasciava la sua impronta su tutte le manifestazioni della vita, anche le più ingannevoli e simulatrici di un fasto apparente; e, per quanto se ne vogliano ritenere caricate le tinte, si ha l’impressione della povertà crescente di capitali, dello stremarsi delle energie produttive, dell’esaurimento della ricchezza.
L’Impero aveva per molto tempo instaurata la pace, ma, come l’uomo che sente nel momento di riposo tutta la stanchezza di uno sforzo eccessivo, in quello stesso periodo di pace le popolazioni dovevano cominciare a sentire gli effetti del malessere che covava segreto.
Le grandi razzie delle guerre fortunate e quelle de’ primi tempi del dominio avevano alimentato in maniera fittizia l’economia pubblica del popolo dominante e larvata così la realtà delle cose, ma la realtà delle cose, in quel riprendere che la vita faceva regolarmente il suo corso, aveva il sopravvento, e le riserve già esauste non davano altro alimento o lo davano appena.
D’altra parte, nell’ambito stesso dell’Impero e per effetto della nuova organizzazione, veniva sorgendo e si diffondeva un tenore di vita più alto. Il vasto sviluppo della rete stradale, i comuni [292] rapporti con Roma, centro e luogo di convegno universale, il commercio, l’esercito creavano correnti di scambio, dove più, dove meno forti, persistenti o intermittenti; e tutto ciò, con la conoscenza di nuovi usi e di nuovi prodotti, con l’allargarsi degli orizzonti e il progredire della vita civile creava nuovi bisogni, solleticava nuovi desideri e quindi suscitava nuove attività e nuovi rami di produzione. Per quanto lo sviluppo limitato dell’industria antica e il suo esercizio per opera di artigiani non fosse molto favorevole alla sua facile diffusione su zone più larghe e al suo rapido innesto in diversi paesi[916], in maniera sia pure lenta e in proporzioni sia pure modeste, almeno le arti e i mestieri rispondenti a’ nuovi più impellenti bisogni riescivano a trapiantarsi. Se ne’ paesi, ove la tradizione di certi rami di produzione mancava od era stenta, i Romani, direttamente almeno, non riescivano a suscitarli; dove l’industria era bene avviata esercitavano su di essa la loro azione con la crescente dimanda e la maggiore esportazione[917]. Il lusso delle corti e delle classi abbienti, la necessità di rifornire regolarmente la vasta gerarchia e gli eserciti disseminati pel territorio dell’Impero, spingevano, poichè non si poteva più provvedere in forma tumultuosa col diritto di guerra, ad assicurare cespiti continui di rifornimento, anche, all’occorrenza, sotto gli auspici e la direzione dello Stato.
Così l’esigenze di alcuni e il bisogno di altri, la ricchezza di questi e l’indigenza di quelli, la tradizione incoraggiata e fomentata e la facilità d’assimilazione, erano come tante forze cospiranti che suscitavano, per quanto certe condizioni sfavorevoli lo permettevano, la produzione e obbligavano a mettere in movimento il lavoro quelli che dell’opera altrui avevano d’uopo per sopperire a’ propri bisogni, ed erano costretti a ricorrere al lavoro libero, unico rifugio di chi, non riescendo a collocarsi tra gli abbienti o tra i loro parassiti, doveva al lavoro domandare i mezzi di sussistenza.
[293]
Uno sguardo infatti alle condizioni dell’Impero fa scorgere questo generale allargarsi di una operosità produttrice, che, se molte volte non aveva il rigoglio de’ paesi ricchi, rivelava nondimeno delle forze quasi dovunque messe in movimento, sia pure per soddisfare in forme rudimentali alle esigenze della vita sociale.
Le proporzioni e le forme precise di questa produzione non si lasciano rigorosamente stabilire e determinare[918]; e probabilmente incorre in un’esagerazione chi, quasi spostando nell’antichità, con criteri anacronistici, un’immagine magari assai attenuata dell’industria moderna, dà all’industria di questo periodo come impronta generale il tipo della fabbrica[919] e le concede uno sviluppo e una proporzione maggiore di quella che potè avere.
Le fabbriche non mancarono, e n’ebbero non poche anche lo Stato e la casa imperiale[920], senza tuttavia che la fabbrica — come del resto lo fa ammettere anche lo stremarsi de’ capitali e il decrescere della ricchezza — costituisse il tratto caratteristico della produzione del tempo.
E ciò s’accorda anche meglio con la diffusione sempre maggiore del lavoro libero, non inconciliabile con l’esistenza della fabbrica, ma pur meglio rispondente, per l’antichità, ad altre forme dell’attività produttrice de’ manufatti.
[294]
Nella stessa tradizione letteraria il lavoro libero si affaccia già non di rado.
Vespasiano si rifiutava di adottare il congegno suggerito da un meccanico a trasportar con poca spesa delle colonne in Campidoglio per non togliere una fonte di guadagno al popolino, che dunque lavorava per mercede[921].
Il padre dello stesso imperatore era un imprenditore di lavori agricoli[922]. Il padre di Massimo era un fabbro, o, secondo altri, un costruttore di veicoli[923]. Mario, uno de’ trenta tiranni, fu ucciso da un operaio, che aveva già lavorato nella sua officina[924]. Il padre di Pertinace era un negoziante di legname e aveva in Liguria un esercizio, che Pertinace, divenuto imperatore, seguitò a menare innanzi per mezzo de’ suoi servi[925].
L’Historia Augusta accenna, a più riprese, ad operai lavoranti per mercede[926].
Il diffondersi del lavoro manuale è pure mostrato dalle imposte che lo colpivano[927]. In Oriente i Romani l’avevano trovate e le avevano mantenute. Caligola tassava con misura generale i salari de’ facchini[928]. Alessandro Severo, nell’atto stesso che riordinava corporativamente arti e mestieri, imponeva sugli operai che l’esercitavano un’imposta di cui si serviva per costruire le terme[929]. Dello stesso imperatore è detto, come una particolarità, che adoperò de’ servi suoi come cuochi, panattieri, pescatori, gualcherai e bagnini[930]; il che lascia supporre che altri si fossero serviti e si servissero per quelle incombenze di mercenarî, servi o liberi, non importa.
[295]
Le corporazioni di mestieri che, perdendo il carattere indistinto e non bene definito dell’epoca repubblicana[931], venivano insieme sviluppandosi e acquistando uno schietto carattere corporativo e si avviavano a diventare una parte sempre più importante o integrale dell’ingranaggio dell’economia pubblica e dello Stato: le corporazioni di mestiere, con questa nuova fase della loro vita, mostrano, anch’esse, quale funzione prevalente esercitasse il lavoro mercenario e come surrogasse il lavoro servile.
Più volte, innanzi, si è rilevato come il vero elemento della trasformazione economica, che menava alla fine della schiavitù, stesse nel carattere mercenario, che progressivamente veniva assumendo il lavoro, e che lo stato libero o servile del mercenario costituiva un’accidentalità, mentre, in ogni caso, si venivano separando e contrapponendo la materia di lavoro e la mano d’opera prima appartenenti ad una sola persona, e si procedeva verso il salariato, dove e quando condizioni diverse, sotto la forma dell’artigianato e della produzione domestica, non riunivano di nuovo, ma in maniera diversa, materia di lavoro e mano d’opera.
Tuttavia la composizione delle corporazioni è tale che se ne rileva non solo il progresso del lavoro mercenario, ma il fatto ch’erano i liberi ad esercitarlo.
Liberi erano i componenti le corporazioni di barcaiuoli del Rodano e della Saona[932] e, in generale de’ navicularii incaricati de’ pubblici trasporti[933]; liberi i membri de’ collegi de’ pistores[934]; liberi gli operai delle fabbriche d’armi[935], delle zecche[936]; e “dovunque — crede poter soggiungere il Waltzing[937] — anche nelle manifatture e nelle cave, i lavoratori erano uomini liberi. Gli schiavi non sembra che facessero parte d’alcuna corporazione [di mestiere s’intende]; ove se ne trovano, bisogna ammettere che sono di proprietà del collegio o dello Stato. Tali [296] erano quelli che lavoravano incatenati ne’ panifici, nelle manifatture e nelle miniere. Occorre aggiungervi i condannati o servi della pena.
La moneta d’oro e d’argento e indi quella d’ogni specie, fabbricata da schiavi e liberti imperiali, prima sotto la direzione di liberti imperiali e poi di un procuratore della moneta, al quarto secolo è già fabbricata da liberi[938].
In più larga misura e in maniera più particolareggiata possiamo vedere nell’epigrafi il crescere e il diffondersi del lavoro libero, che, per opera d’ingenui e massimamente di liberti, sorge e si sviluppa dal lavoro servile o s’insinua e si sovrappone ad esso, assimilandoselo e disgregandolo per mutarne in ultimo la funzione e la fisonomia.
Se noi potessimo stabilire l’ordine cronologico di queste iscrizioni, vedremmo probabilmente, in maniera più distinta, come l’elemento libero e specialmente i liberti si sovrappongono gradualmente ma continuamente agli schiavi nell’esercizio de’ mestieri, ma d’ordinario non ci è possibile ricostruire quell’ordine cronologico. Tuttavia, anche senza di ciò, questa concorrenza dell’elemento libero e del servile si riflette sotto altra forma nelle epigrafi.
Gli uffici, che importano una dipendenza continua e assoluta, continuano ad essere coverti esclusivamente o quasi da’ servi: così l’ufficio di vilicus[939], di actor[940], di exactor[941] e tutti quegli [297] altri che si riferiscono specialmente a servigi domestici e ordinari, tali che esigono un’assoluta dipendenza[942].
In questi casi per la più stretta dipendenza, per la continuità del servizio, per la minore facilità di potere utilmente commettere sottrazioni a proprio vantaggio, il servo presentava de’ vantaggi che lo facevano preferire al libero. Si aggiunga che, riferendosi questi uffici alle case de’ ricchi, il possesso de’ servi era imposto anche da ragioni di fasto e di etichetta.
Quando invece si trattava di ufficî, che non importavano un legame di stretta dipendenza e un rapporto continuo, i servi cominciano a divenire meno frequenti e si alternano con i liberti e anche con gl’ingenui.
Ma anche qui sopraggiungono altre distinzioni.
L’elemento libero cerca naturalmente di occupare a preferenza le professioni e le arti meglio retribuite, meno faticose, più considerate. Così la medicina, prima retaggio quasi esclusivo de’ servi, viene esercitata in prevalenza da liberi[943].
[298]
In moltissimi casi poi ricorrono indistintamente gli uni e gli altri, servi e liberti, mostrando anche meglio la concorrenza dell’elemento libero, che cedeva al bisogno e alle difficoltà de’ tempi e scendeva sempre più a livello de’ servi per eliminarli surrogandoli[944].
[299]
I liberti sopra tutto compariscono con la maggiore frequenza esercitando tutti i mestieri. La mancanza dell’indicazione specifica di liberti e del nome del patrono desta molte volte il dubbio, se abbiamo proprio a fare con un manomesso; ma il nome ci dice che se, come di frequente può accadere, non si ha [300] a fare con un manomesso, si ha a fare con un suo discendente; il che ci mostra come tutto l’elemento servile che, per le manumissioni penetrava nella classe de’ liberi, seguitava l’esercizio del proprio lavoro manuale, reso quasi ereditario nelle loro famiglie. E così, anche per questa via, il lavoro libero riceveva sempre più diffusione ed incremento.
[301]
E bisogna notare pure come, sotto la pressione costante delle nuove abitudini e per i vantaggi che l’esercizio di un’arte poteva procacciare, il pregiudizio contro il lavoro manuale perdeva sempre più la sua forza.
I collegi, che già in Pompei[945] raccomandavano candidati, divengono molte volte una forza e hanno attestati di considerazione e di onore[946], ricevono lasciti.
L’esercizio de’ mestieri doveva sembrare omai a molti così poco atto a diminuire la loro considerazione personale e il loro prestigio morale, che in tante lapidi sepolcrali si aveva cura d’indicarlo con frasi talvolta amplificative. Molte altre volte questa indicazione era fatta in forma che meglio dava all’occhio con appositi anaglyfi rappresentanti i ferri del mestiere e gli strumenti professionali[947].
Ma l’importanza, la diffusione, e la frequenza del lavoro mercenario, prestato e retribuito in tutte le forme, ci son mostrati in tutta la loro estensione dall’Edictum de pretiis rerum venalium di Diocleziano[948], che ci mostra così, come in un quadro sinottico, la funzione sociale varia, attiva e molteplice del lavoro mercenario all’aprirsi del quarto secolo (301 d. C.), tempo della promulgazione. Mentre da un lato l’Editto prende a considerare e a regolare i prezzi de’ prodotti già belli e compiuti, dall’altro attende a regolare i prezzi della mano d’opera nelle varie sue [302] forme e vi porta la stessa cura minuziosa, la stessa diffusione analitica che aveva portata nell’elenco de’ generi di consumo e de’ manufatti. Il lavoro del contadino, del muratore, del falegname, quello del fornaciaio, del mosaicista, del pittore d’ornato e di figure, del costruttore di veicoli e di barche, del fabbro, del fornaio, del mattonaio, del mulattiere, dell’asinaio, del conduttore di camelli, del veterinario, del flebotomo, del barbiere, del tosatore di pecore, vi sono tutti destintamente considerati[949]. Segue poi l’elenco de’ lavori in metallo[950], a cui fanno seguito, alla loro volta, i lavori de’ formatori, de’ portatori d’acque, dell’espurgatore di cloache, dell’arrotino[951], e poi, in tutte le loro suddivisioni e distinzioni, il lavoro degli scritturali, quello de’ sarti, degl’insegnanti, degli avvocati[952], nella cui immediata vicinanza, senza criterio di ordine, si parla de’ bagnini[953]. E finalmente l’Editto, riprendendo, dopo essere passato a considerare altri manufatti, le mercedi del lavoro, si occupa de’ ricamatori, de’ tessitori di seta e di lana e de’ gualchierai[954].
Si è cercato, naturalmente, di mettere a profitto il tasso de’ salari stabilito dall’Editto per dedurre quale fosse la condizione delle mercedi a quel tempo; ma se ne sono tratte le più disparate conseguenze.
L’Editto fissa mercedi di proporzioni assai diverse per i diversi generi di lavoro; ma fanno difetto i termini di paragone, a cui riferirli per trarne analoghe conseguenze.
Il salario giornaliero dell’operaio di campagna, fissato nell’Editto a venticinque denari[955], cioè a cinquantaquattro press’a poco de’ nostri centesimi, è stato messo in relazione col salario giornaliero di un lavoratore comune, valutato da Cicerone[956] a dodici assi, uguali press’a poco a sessantadue e mezzo de’ nostri [303] centesimi. Ma si è fatto osservare[957] che questa costanza approssimativa del salario dopo tre secoli circa è soltanto apparente, quando si valuti in oro il valore del denaro posto a base della tariffa dioclezianea; giacchè, con questo calcolo, il salario giornaliero al tempo di Cicerone veniva a corrispondere a più di ottantuno centesimi, al tempo di Luciano a più di settantatre centesimi e al tempo di Diocleziano a soli cinquantadue centesimi. La condizione de’ lavoratori quindi sarebbe divenuta molto peggiore al tempo di Diocleziano, tanto più che era salito il prezzo del grano e quello del vino.
Una valutazione critica de’ prezzi dell’Editto di Diocleziano suggeriva ad un autore la conclusione che il salario in moneta del giornaliero ai tempi di Diocleziano è, rimpetto al minimo necessario per l’esistenza, di alcuni centesimi più elevato che non i corrispondenti recenti salari della Germania e dell’Italia[958].
Se non che non è sfuggito che nell’Editto di Diocleziano si tratta di misura massima del salario, ciò che impedisce di considerarlo come salario effettivo o di prenderlo come medio.
Inoltre, come si è accennato altra volta, il dato ciceroniano è così vago, e non si saprebbe da due dati isolati e disparati trarre conclusioni sode e positive sull’oscillazione de’ salari nelle due epoche lontane.
Un accenno di Plinio[959] rileva la facoltà di procurarsi la mano d’opera, pure a prezzo assai conveniente, ma l’accenno si riferisce alla sola Nicomedia, al tempo di Traiano, e non possiamo dire se e in quanto si riproducesse la stessa condizione di cose col variare de’ luoghi, de’ tempi, de’ rapporti di popolazione e della richiesta di braccia.
Intanto, se da questo lato l’Editto poco ci giova ad intendere [304] le condizioni del lavoro e de’ lavoratori del suo tempo, ci fornisce altri elementi per formarcene da un altro punto di vista un concetto.
La tariffa stabilisce da un lato i prezzi de’ prodotti già belli e compiuti e dall’altro quelli della mano d’opera ad essi relativa. Da un confronto degli uni con gli altri appare come solo in limitati campi di produzione si danno esclusivamente i prezzi de’ manufatti, senza dare parimenti quelli della mano d’opera adibita a confezionarli. Accade così per i lavori in cuoio, i prodotti di pelo di capra e di camello, i piccoli manufatti di legno e di osso come spole, pettini, aghi, stacci e finalmente il materiale da scrivere. Ogni altra cosa rientrava nell’ambito della materia grezza[960].
Ora, anche senza voler venire a conclusioni assolute sullo sviluppo dell’industria, ciò prova che, nell’economia del tempo, accanto alla vendita de’ manufatti compiuti, vigeva ancora diffusa e limitata la produzione casalinga (Hausfleiss) e quella forma che ne costituiva uno stadio appena superiore e consisteva nell’assoldare, sotto varie forme, un operaio per fargli trasformare la materia prima, fornita da chi la prendeva a salario (Lohnwerk). Questa locazione d’opera, atteggiata in varie forme, sia come lavoro a giornata che come lavoro a cottimo, era prestata, secondo i casi, nella residenza del committente e dell’operaio, ed era retribuita semplicemente in danaro, o in contanti e generi, o secondo l’opera prestata o con una combinazione di queste varie specie di retribuzione.
E tutte queste varietà di prestazioni d’opera e di retribuzioni ricorrono tutte nell’Editto di Diocleziano, anche e specialmente quella più antica e rudimentale del compenso in generi e contanti.
Se nell’epoca imperiale romana lo sviluppo della ricchezza fosse stato progressivo anzi che regressivo; se vi fosse stato un’accumulazione anzi che uno sperpero di capitali, vi sarebbe stato luogo sulle rovine dell’economia servile a un vero sviluppo d’industria capitalistica, di cui il tempo anteriore aveva dati gli accenni e creati i rudimenti.
[305]
L’economia a schiavi si dissolveva inesorabilmente; ma, se la ricchezza accentrata in un numero relativamente ristretto di persone e la contrapposizione di proprietari e proletari spingeva verso l’economia del salariato e ne abbozzava le linee; l’insufficienza de’ capitali disponibili spingeva verso una forma di economia più regressiva ancora dell’economia a schiavi, verso il servaggio e i fenomeni ad esso corrispondenti.
Se, come accadde per l’industria della macinazione, si fossero potute usufruire tecnicamente le forze naturali per sostituirle agli schiavi, vi sarebbe stata ancora una via di progresso; ma l’impiego delle forze naturali si limitava ad una delle più semplici e rudimentali, all’uso delle cadute d’acqua per i molini; e le fabbriche, invece di estendersi e dare la loro impronta all’industria, rimanevano come un accessorio dell’industria agricola, ne’ poderi, ove erano sorti specialmente sotto forme di fabbriche di laterizi, e seguivano l’agricoltura nel suo declinare.
Vi era così prima una sosta e poi un regresso, un processo d’involuzione economica, che, nell’agricoltura si traduceva nel servaggio, nell’industria si rivela con la persistenza e la prevalenza della produzione casalinga e di quelle forme di locazione d’opera che la completavano e l’integravano.
E tutta quella organizzazione pubblica della produzione che appare nelle fabbriche dello Stato e della casa imperiale; tutta quella disciplina rigorosa, ferrea, che tende a regolare e dominare, irrigidendole, le forze produttive e le funzioni sociali; son fatti che hanno la loro ragione d’essere e la loro spiegazione in quella crisi enorme della schiavitù che si dissolveva, mentre erano manchevoli e deficienti alcune delle condizioni necessarie allo sviluppo del salariato.
Il pagamento de’ tributi, ora richiesto e mantenuto in natura, ora permesso in contanti, è uno de’ sintomi di questa crisi economica, dove il vecchio e il nuovo sono in contrasto e predomina qualche cosa che non è nero ancora e il bianco muore.
Lo stesso Editto di Diocleziano, verosimilmente, come scopo immediato ebbe l’intento di “ristabilire con un provvedimento governativo il rapporto, secondo cui le merci dovevano essere scambiate con la moneta convenzionale svilita. Secondo ogni verosimiglianza si voleva rialzare artificiosamente la piccola [306] moneta che era ricaduta al suo reale valore dopo che aveva cessato di funzionare come moneta divisionale[961]„. Ma, in realtà, l’Editto è un sintomo anch’esso della più vasta crisi economica accennata e contro cui inutilmente si tentava reagire con quella costrizione diretta.
La nuova fase della corporazione, riconosciuta, disciplinata e resa organo ufficiale della vita economica dello Stato, che vi costringe come in una cerchia di ferro tutti i rami d’attività più indispensabili alla vita sociale, si spiega appunto con questa necessità obbiettiva di assicurare le condizioni d’esistenza sotto una organizzazione politica e giuridica, di cui veniva meno ogni giorno la base economica.
Quelle forme di coazione e d’intervento dello Stato, specialmente nella composizione e nella funzione delle corporazioni, ristabiliva, sotto altri aspetti, quella continuità di azione e quella dipendenza assoluta e diretta, che costituivano uno de’ pochi vantaggi della schiavitù.
Il moltiplicarsi delle attribuzioni dello Stato e la sua funzione assorbente si spiegano in questa, come in tutti gli altri casi simili, con una reazione dell’ordine politico sull’ordine economico e con la necessità che, nella trasformazione del modo di produzione, chiama lo Stato, l’unico potere costituito, a servire come di centro delle energie che sorgono, e di quelle che si disgregano e che hanno tutte, le une e le altre, bisogno di qualche cosa, che sia come un centro di attrazione e un punto di applicazione.
È facile vedere in quali rapporti stesse questa condizione di cose col colonato.
Questa istituzione è stata oggetto di tante indagini, che sarebbe inutile ripetere lo studio analitico fatto già tante volte [307] e da tanti[962]. Basterà quindi accennare al suo carattere generale e alla sua funzione sociale tanto più che questo lavoro non si [308] occupa di proposito del colonato, ed è il caso di accennare alla sua ragione determinante solo in quanto essa coincide con la causa dissolvente dell’economia a schiavi, ed elimina la schiavitù, almeno come istituzione più generale, mettendo il colonato al suo posto e facendo compire in buona parte dal colonato la funzione economica prima esercitata dalla schiavitù.
Come si vede dal riassunto delle spiegazioni date al sorgere del colonato, la ricerca è stata piuttosto di carattere storico-giuridico [309] che storico-economico, benchè, per forza delle cose, abbia dovuto a mano a mano acquistare questo carattere, che diventa sempre più notevole ne’ più recenti scrittori.
Come accade di tutte le trasformazioni, anche il colonato appare nella tradizione letteraria e ne’ monumenti legislativi quando è già bello e formato, e costituisce un rapporto sociale rilevante, che il potere pubblico vuole regolare, innovare e rendere stabile e capace di speciali conseguenze giuridiche.
Ciò posto, il proposito di accertare storicamente, in determinati luoghi e tempi, con dati positivi della tradizione letteraria e della legislazione, il diretto e consapevole sorgere del colonato portava a scambiare il modo di formazione con la causa del suo sorgere e le forme legali, che assunse, con lo stesso modo di formazione.
E, per questa via naturalmente si incorreva nel difetto della unilateralità, che talora veniva rimproverato a’ predecessori da chi veniva dopo di loro, eppure incorreva alla sua volta nello stesso difetto[963].
La causa delle cause del servaggio, che si sdoppia in tante altre cause secondarie e si rivela in tante manifestazioni particolari e locali è l’impoverimento del mondo romano, che si è innanzi rilevato.
“Un considerevole capitale — osserva un autore già altre volte citato[964] — è condizione indispensabile a menare innanzi le intraprese nelle regioni d’economia a schiavi. Un capitalista che impiega il lavoro libero ha bisogno per sopperire alle sue forze di lavoro di una somma sufficiente a covrire l’ammontare de’ loro valori durante l’intervallo che corre dal principio del loro lavoro sino alla vendita de’ prodotti che ne ricava. Ma il capitalista che impiega il lavoro degli schiavi non ha bisogno soltanto di questa somma, rappresentata in questo caso dal vitto, vestito e ricovero forniti agli schiavi durante il periodo corrispondente, ma, oltre a ciò, di una somma sufficiente [310] ad acquistare le stesse sue forze di lavoro. Per menare innanzi, quindi, una data intrapresa, è ovvio che chi impiega schiavi, avrà bisogno di un capitale maggiore di quello occorrente a chi impiega il lavoro libero„.
Così l’eliminazione della schiavitù, sia sotto forma di vendita degli schiavi, sia sotto forma di rinunzia a ricostituire la scorta degli schiavi, costituiva una maniera di liberare il proprio capitale per utilizzarlo altrimenti o di sopperire alla sua deficienza.
E il servaggio, a differenza del lavoro libero che richiede un capitale minore del lavoro schiavo ma pur ne richiede uno, non ne esigeva nessuno. Ciò che spiega maggiormente come e perchè il servaggio si costituisse prima e preferibilmente ne’ più estesi latifondi. Mentre l’imperatore o altri proprietari avevano — il primo per il suo potere politico e il secondo per il carattere quasi di circoscrizione amministrativa assunto dal fondo — l’autorità e il mezzo di ritenere il colono nel fondo, ne avevano anche maggiore necessità, perchè quanto più grande era il fondo, tanto maggiore doveva essere il capitale necessario a coltivarlo.
La coltivazione in grande, fatta direttamente da parte del proprietario o a mezzo di conductores, si esercitava su di una parte del fondo, sulla parte migliore, intorno alla villa; e i coloni, accasati talvolta sulle parti più lontane o più scadenti del latifondo, erano i subaffittuarî o gli elementi complementari della coltura del fondo[965]. E questi coloni, oltre all’utilizzare le terre meno feconde, sussidiavano con l’opera loro anche la coltivazione diretta, cosa la cui utilità veniva già molto tempo innanzi, rilevata da Columella.
Date le condizioni de’ tempi e delle cose, pel proletario, che non avrebbe facilmente trovato ad allogarsi, il colonato, nella forma non coattiva sotto cui sorgeva o si sviluppava, rappresentava forse la sola maniera possibile di assicurarsi l’impiego del proprio lavoro e la sussistenza. A misura che il disordine [311] e le vessazioni crescevano, poteva in dati casi risolversi in un rapporto di protezione[966]. In tanti casi, è vero, ciò voleva dire, aumentare gli organi delle prepotenze e moltiplicare le vessazioni; ma l’interesse stesso del padrone doveva talvolta valere al colono di schermo; e, anche quando ciò restava solo una speranza ingannatrice, i diversi organi di prepotenza finivano talvolta, come pure accade, per neutralizzarsi tra loro.
Il colonato quindi rappresentava, nella maggiore parte de’ casi, per i padroni la maniera più utile, se non la sola, di mettere a profitto i propri fondi e per i coltivatori forse la sola maniera di provvedere al proprio sostentamento.
Costituiva il punto di minima resistenza della vita economica del tempo, il centro di gravità della produzione, una necessità sociale; ed i rapporti economici si ricomponevano e si riadagiavano quindi, in maniera prevalente se non universale, su quella base. L’enfiteusi stessa, pur nella costruzione giuridica diversa, richiama il colonato, e mostra un altro aspetto di una stessa causa economica.
Gli schiavi fuggiaschi e quelli manomessi che non trovavano lavoro, i barbari accolti per necessità politica nel territorio dell’Impero e quelli attratti per coltivare le terre abbandonate: tutti, con diversi nomi, sotto diverse forme rientravano nella categoria generale del colonato.
Nel settentrione e nel mezzogiorno, in paesi di popolazione relativamente densa e relativamente rada, dovunque il capitale difettasse o fosse inadeguato alla coltura, sorgeva o risorgeva e si diffondeva il colonato.
E dico che risorgeva, riferendomi anche alle più antiche forme di servaggio, le quali sono state evocate a proposito del colonato, ma non già per evocarle, alla mia volta, come un modello che, artificialmente e consapevolmente imitato, avrebbe portato alla diffusione del colonato e del servaggio in cui esso si tradusse.
Sarebbe assai arduo il dire se ne’ paesi di arretrato sviluppo economico l’antico servaggio riuscì a persistere, più o meno [312] larvato. Il nuovo servaggio, in ogni modo, non sorgeva per forza di espansione di questi residui di un remoto passato; ma perchè, per un fenomeno di regresso economico, si riproduceva quella stessa deficienza di capitali, quello stesso scarso svolgimento delle forze produttive, che, come si è visto in principio di questo lavoro, faceva preludere all’evoluzione economica col servaggio e ve lo manteneva, dove un più maturo e più rapido sviluppo economico era impedito.
L’antico servaggio quindi non giova a chi vorrebbe servirsene per indurne la continuità storica col colonato e la sua diffusione, dirò così, epidemica; serve invece benissimo a mostrare come il verificarsi di una condizione economica analoga a quella che l’aveva prodotto nell’antichità, tornava a produrlo nello sfasciarsi del mondo antico, al sorgere dell’Evo medio.
E tante cause secondarie che, per via più o meno indiretta, si ricongiungevano alla causa accennata, contribuivano vie maggiormente a diffondere e ad acclimatare il servaggio.
In quello stato sociale malsicuro, con un’organizzazione politica oppressiva all’interno e fiacca all’esterno, che suscitava rapine, che lasciava l’adito aperto ad invasioni, come non dovea essere malsicuro il possesso di schiavi, pronti alla fuga, pronti all’insidia e alla rivolta?
Si diradava quindi questa specie d’instrumentum vocale insieme a quelle altre specie che costituivano la pastorizia e che avevano, a preferenza di ogni altra industria, bisogno di sicurezza per sussistere e progredire.
E, tra il declinare della pastorizia e le condizioni poco adatte all’ampliamento di colture intensive, tra le importazioni di frumento rese sempre più difficili, riprendeva piede, dove e come poteva, la coltura de’ cereali, a cui, come già Columella[967] aveva osservato alcuni secoli prima, era tanto adatta l’opera del colono quanto era disadatta quella dello schiavo; e tanto più disadatta, quanto più aveva a fare con un suolo esaurito.
Questi nuovi rapporti economici, sorti così per necessità obbiettiva nel processo della storia e resi obbligatori, prima ne’ [313] fondi imperiali per autorità di principe o prepotenza di ufficiali, e poi negli stessi latifondi per prepotenza di proprietarî, avevano la loro ultima sanzione per prepotenza di legge. Allora, a poco a poco, la prescrizione, la discendenza, tutto concorreva ad allargare il ceto de’ coloni, ridotto ad una classe chiusa se si trattava d’impedirne l’uscita, aperta se si trattava di ampliarla come che sia, sopra tutto con gli equivoci legali e gli atti di violenza che, dato il riconoscimento legale della categoria, servivano a procacciare servi, anche meglio che prima non avevano potuto servire a procacciare schiavi.
Tutte quelle ragioni, che avevano portato ad irrigidire in un congegno legale l’attività industriale, fomentate dallo stimolo di assicurare l’esazione de’ tributi, puntelli allo Stato tarlato e crollante, conducevano a rendere rigida e immutabile anche quella nuova formazione economica sociale che doveva dare a tutti alimento.
Il servaggio, qual’era omai il colonato, diveniva così, sempre più, non l’espressione di un’attività più feconda, suscitata da’ tributi o dal bisogno di una cultura intensiva; ma il fenomeno più perspicuo di un collasso sociale, di un estenuarsi graduale delle forze economiche. Quelle norme, che alle stesse classi dominanti erano o sarebbero sembrati vincoli in tempo e in luogo di grande sviluppo economico, erano ora una necessità economica, una forza, un mezzo di vita.
Dove forse il capitale era meno raro, od altre condizioni capaci di agevolare la cultura potevano dispensare dalla costituzione del servaggio, la stessa legge, nello stesso interesse delle classi dominanti, teneva il colonato ne’ termini di un’istituzione contrattuale[968]; ma quelle condizioni venivano meno, ed ecco che subentrava subito il servaggio[969], procedendo sempre, sempre allargandosi, ricacciando nell’ombra la schiavitù coll’abbassarne e menomarne la funzione.
[314]
La schiavitù non veniva abolita per legge, e anche in pratica seguitava a persistere ancora a lungo[970], ma come una sopravvivenza.
Ciò che costituiva il carattere distintivo della nuova epoca, la misura della sua potenzialità produttiva, la forma della sua economia erano il servaggio nell’àmbito dell’agricoltura, e nell’industria un modo di produzione oscillante tra la produzione casalinga e l’artigianato.
Sopra questo sostrato poggiava la nuova società e in esso avevano radice quelle varietà di manifestazioni sociali, che n’erano l’espressione morale, come quella struttura n’era l’espressione economica.
La schiavitù, quasi per virtù d’inerzia, stentava a sparire del tutto, ma, ricacciata nel puro uso domestico o divenuta un oggetto di lusso[971], raggiungeva anche talvolta una proporzione magari elevata[972], massime se era alimentata da guerre, cui davano l’impronta i contrasti di religione e di razza, e se rispondeva a qualche bisogno reale[973] od era fomentata dalla crescente ricchezza. Tuttavia, anche nel suo notevole numero, durava in realtà stenta, priva di una vera funzione sociale; finchè la scoperta del nuovo mondo e il vasto sviluppo coloniale, chiamandola di nuovo a fornire forze di lavoro, nella deficienza di un proletariato che potesse darle, tornava a darle uno sviluppo straordinario e rinnovava — in quanto il diverso ambiente fisico e i nuovi tempi consentivano — insieme agli orrori, l’immagine della schiavitù antica.
Ma la ricchezza accumulata ne’ secoli dal lavoro persistente di quei servi e di quegli schiavi, i progressi tecnici da quelle [315] stesse anguste condizioni della produzione suscitati e lentamente realizzati in quel faticoso risorgere dell’economia, e finalmente le forze naturali sempre più vittoriosamente soggiogate e meglio usate, erano tutte cose, onde sorgevano condizioni di vita sociale, a cui il servaggio e la schiavitù, già istrumenti, divenivano inceppi, e donde si sviluppavano nuove forme di coscienza morale, foriere di diverse istituzioni.
Schiavitù e servaggio, dati finalmente in olocausto a una nuova èra economica e civile, cedevano il campo al salariato, servitù dissimulata, strumento più elastico e duttile alla nuova, gigantesca e prepotente forza del capitale; destinato, nondimeno, anch’esso, il salariato, a dissolversi per un processo intimo, analogo al processo di dissoluzione della schiavitù e del servaggio e, come in quegli altri periodi, destinato ad aprire con la sua stessa decomposizione, una nuova èra, lunga aspirazione, feconda, laboriosa incubazione de’ secoli, di cui ora la storia par che attinga la soglia.
Ma questo è un altro capitolo, che essa stessa, la storia, va, ogni giorno, in ogni terra scrivendo dolorosamente sulla grande pagina del mondo, sullo spiegato volume del tempo; e chi vive nel presente e del presente, memore del passato, pensoso dell’avvenire, guarda, indaga, compara e forse intende nel presente il passato e nel passato l’avvenire.
Qui, per ora, il mio lavoro è finito.
[317]
Introduzione | pag. 1 | |
I. | Gli aspetti della questione | 1 |
II. | Cristianesimo e schiavitù nelle colonie | 3 |
III. | Il Cristianesimo primitivo e la schiavitù | 6 |
Le lettere apostoliche e la schiavitù | 9 | |
IV. | Le apologie cristiane e l’ordine sociale | 12 |
V. | Le apologie cristiane e la schiavitù | 14 |
VI. | L’eresie e le tendenze comuniste | 17 |
La formazione della Chiesa cristiana | 18 | |
VII. | La Chiesa e la schiavitù | 19 |
La filosofia cristiana e la schiavitù | 21 | |
La Chiesa e le manumissioni degli schiavi | 23 | |
VIII. | L’umanità degli schiavi secondo alcuni scrittori pagani | 25 |
La morale degli stoici | 26 | |
Lo stoicismo e la schiavitù | 28 | |
Schiavitù e libertà secondo gli stoici | 29 | |
Lo stoicismo e la realtà della vita | 31 | |
L’azione pratica della filosofia stoica. | 32 | |
La fine della schiavitù dal punto di vista utilitario | 33 | |
IX. | La fine della schiavitù e il materialismo storico | 34 |
Il disegno del lavoro | 36 | |
Parte Prima. — La civiltà ellenica e la schiavitù | 39 | |
I. | L’origine della schiavitù | 39 |
II. | L’esordio della schiavitù in Grecia | 40 |
III. | La schiavitù ne’ tempi omerici | 43 |
IV. | L’evoluzione economica del settimo e sesto secolo | 45 |
V. | Le antiche condizioni economiche dell’Attica | 47 |
VI. | Atene sotto i Pisistratidi | 49 |
VII. | L’evoluzione economica di Atene | 52 |
Le miniere del Laurio. I tributi | 54 | |
Il commercio di Atene | 55 | |
Il rinnovamento edilizio di Atene | 56 | |
VIII. | Le nuove condizioni del lavoro. Gli schiavi | 57 |
L’incremento della schiavitù nell’Attica | 59 | |
IX. | Il lavoro libero in Atene | 60 |
X. | Il lavoro libero nella città e nella campagna | 62 |
Il lavoro libero nell’agricoltura | 63 | |
XI. | I progressi della tecnica e lo sviluppo de’ mestieri | 64 |
XII. | Il prezzo degli schiavi alla fine del quinto secolo | 65 |
[318] | ||
XIII. | Lavoro libero e lavoro servile | 67 |
La guerra del Peloponneso e le sue conseguenze | 68 | |
La crisi economica e lo sviluppo del lavoro libero | 70 | |
XIV. | Le indennità pubbliche e il lavoro libero | 71 |
XV. | Politica ed economia | 73 |
Schiavitù e salariato | 77 | |
XVI. | La crisi politico-economica e l’aumento del proletariato | 78 |
XVII. | La concentrazione della proprietà immobiliare | 80 |
XVIII. | La polverizzazione del suolo | 85 |
Le condizioni della piccola proprietà | 86 | |
XIX. | La concentrazione della ricchezza | 87 |
Gli effetti del sistema tributario | 88 | |
XX. | Le condizioni economiche e la vita morale | 89 |
I matrimoni e la classe media | 90 | |
XXI. | Le condizioni economiche e la popolazione | 91 |
L’incremento dell’industria | 92 | |
Le condizioni della popolazione e il lavoro libero | 93 | |
XXII. | Il numero degli schiavi nell’Attica | 95 |
Le condizioni del lavoro agricolo nell’Attica del IV secolo | 97 | |
XXIII. | Le relazioni tra lo sviluppo del commercio e dell’industria | 99 |
Il lavoro nelle manifatture | 100 | |
XXIV. | La potenza del danaro e la schiavitù | 101 |
XXV. | La crescente importanza e la condizione degli schiavi | 103 |
La migliore condizione degli schiavi | 105 | |
Il fondamento della schiavitù | 106 | |
XXVI. | L’utilità decrescente della schiavitù | 107 |
XXVII. | Il costo de’ cereali e gli schiavi | 110 |
XXVIII. | La progressiva degenerazione degli schiavi | 114 |
XXIX. | Gli schiavi delle miniere | 117 |
XXX. | Gli schiavi delle miniere. Le manumissioni | 118 |
XXXI. | L’estensione dell’economia servile e il prezzo degli schiavi | 119 |
XXXII. | Le condizioni del lavoro manuale nel IV secolo | 121 |
XXXIII. | Il significato e gli effetti del cottimo | 123 |
XXXIV. | Il lavoro servile alla fine del IV secolo | 127 |
XXXV. | Lavoro libero e lavoro servile | 129 |
XXXVI. | Manumissioni di schiavi dopo il II secolo | 131 |
Il significato e gli effetti delle manumissioni | 132 | |
XXXVII. | Evoluzione economica del periodo ellenistico e la schiavitù | 134 |
Le condizioni del lavoro manuale in Alessandria | 136 | |
I progressi della tecnica | 138 | |
L’Oriente e l’Occidente | 139 | |
Parte Seconda. — I. L’economia romana primitiva e la schiavitù | 141 | |
II. | L’incremento della schiavitù | 144 |
L’economia romana al tempo delle dodici tavole | 146 | |
[319] | ||
Le dodici tavole e la schiavitù | 149 | |
III. | L’evoluzione dell’economia romana | 150 |
La concentrazione della ricchezza | 154 | |
La concentrazione della ricchezza e la schiavitù | 155 | |
IV. | La nuova fase dell’economia agricola | 155 |
L’economia agricola e la schiavitù | 159 | |
Le importazioni di schiavi | 161 | |
V. | La nuova vita romana | 162 |
La nuova vita romana e la schiavitù | 163 | |
VI. | L’incremento e l’impiego degli schiavi | 166 |
Gli svantaggi della schiavitù | 167 | |
Le condizioni dell’agricoltura e la schiavitù | 171 | |
La sicurezza pubblica e la schiavitù | 175 | |
Le guerre servili | 177 | |
La funzione morale dello schiavo nella società | 179 | |
Le reazioni servili | 181 | |
La politica romana e la schiavitù | 183 | |
VII. | Il medio ceto e la schiavitù | 183 |
La concentrazione della ricchezza | 186 | |
Proletariato e schiavitù | 187 | |
La decadenza della piccola proprietà | 189 | |
Le difficoltà della colonizzazione | 190 | |
Le leggi agrarie | 191 | |
Le leggi agrarie e il proletariato | 192 | |
Le leggi agrarie e la piccola proprietà | 193 | |
L’inanità delle leggi agrarie | 196 | |
Il proletariato e il lavoro | 197 | |
VIII. | L’incremento del lavoro libero | 198 |
Il lavoro libero nell’agricoltura | 199 | |
Il lavoro libero e i mestieri | 201 | |
La diffusione delle arti manuali | 202 | |
La diffusione del lavoro manuale | 203 | |
Lavoro libero e lavoro servile | 204 | |
La scarsa produttività del lavoro servile | 209 | |
Il lavoro libero e l’assistenza pubblica | 211 | |
Il parassitismo e il lavoro | 212 | |
L’avvenire del lavoro libero | 213 | |
IX. | La nuova funzione della schiavitù | 214 |
Il peculium e la sua funzione | 216 | |
Le manumissioni e i loro effetti | 221 | |
Le manumissioni e la schiavitù | 225 | |
La limitazione delle manumissioni | 227 | |
Le leggi sulle manumissioni | 228 | |
X. | Le leggi sul peculium e la rappresentanza | 230 |
Locatio operarum e locatio operis | 231 | |
La specificatio | 238 | |
[320] | ||
XI. | Le contraddizioni della schiavitù | 240 |
La nuova coscienza giuridica e la schiavitù | 241 | |
I diritti di cittadinanza e la manumissione | 242 | |
I manumessi e la vita pubblica | 243 | |
Il nuovo concetto dello schiavo | 244 | |
Il miglioramento della condizione servile e le sue cause | 249 | |
XII. | Le antinomie della condizione servile e le loro cause | 253 |
L’Impero e la schiavitù | 254 | |
Fusione di liberi e schiavi | 260 | |
XIII. | L’impero e le nuove correnti morali | 261 |
La nuova coscienza giuridica | 263 | |
L’Impero e la legislazione | 264 | |
L’Impero e la legislazione sugli schiavi | 266 | |
Il favor libertatis e le sue cause | 270 | |
XIV. | L’Impero e il Cristianesimo | 271 |
Le nuove forme della coscienza religiosa | 272 | |
I proseliti del Cristianesimo | 273 | |
Il Cristianesimo e gli schiavi | 274 | |
La lotta contro il Cristianesimo | 276 | |
Il Cristianesimo adottato dallo Stato | 277 | |
La legislazione sugli schiavi e gli imperatori cristiani | 278 | |
La legislazione sugli schiavi e il Cristianesimo | 279 | |
L’evoluzione della coscienza giuridica e la codificazione | 280 | |
La codificazione e la legislazione sugli schiavi | 281 | |
XV. | La fine delle conquiste e la schiavitù | 281 |
I progressi della tecnica e la schiavitù | 283 | |
I prezzi degli schiavi | 284 | |
Lo scemare della schiavitù | 285 | |
XVI. | La funzione del parassitismo | 286 |
Il parassitismo e l’Impero | 288 | |
Le condizioni sociali sotto l’Impero | 289 | |
Le forze dissolventi dell’Impero | 290 | |
L’impoverimento della società imperiale | 291 | |
La produzione industriale | 292 | |
La produzione industriale e il lavoro mercenario | 294 | |
Il lavoro mercenario | 296 | |
Lavoro libero e lavoro servile | 297 | |
Il lavoro libero | 301 | |
Il lavoro libero nell’editto di Diocleziano | 302 | |
Forme economiche regressive | 305 | |
XVII. | Il lavoro coatto. Il servaggio | 306 |
Il colonato | 307 | |
Il servaggio e la sua causa | 309 | |
XVIII. | Il tramonto della schiavitù e il salariato | 314 |
1. Leroy Beaulieu P., De la colonisation chez les peuples modernes, 4 éd., Paris, 1891, pp. 261, 263, 276.
2. Larroque P., De l’esclavage chez les nations chrétiennes. Paris, 1870, p. 147.
3. Leroy Beaulieu, op. cit., p. 218; Wallon, Hist. de l’esclavage dans l’antiquité. Paris, 1879, I2, p. CLXV sgg.; Larroque, op. cit., p. 133 sgg.
4. Wallon, op. cit., I2, p. XLIX; Larroque, op. cit., p. 141.
5. Wallon, op. cit., I2, LXXXV.
6. Horr E. O., Bundesstaat unti Bundeskrieg in N. Amerika. Berlin. 1886, pp. 617 sgg.
7. Hopp, op. cit., p. 605.
8. Noack Th., Der vierjährige Bürgerkrieg in Nordamerika. Braunschweig, 1889, pp. 5, 9, 11.
9. American Slavery as it is, etc., New York, 1839, p. 188; Freeman, The Bible against the slavery. New York, 1831, pp. 1-98, etc. presso Loria, Die Sclavenwirtschaft in modernen America nella Zeitschrift für Social und Wirthschaftsgesch. herausg., von Dr Bauer, IV, Bd. Hft., 1, 1895.
10. Haebler. Die Anfünge der Sclaverei in Amerika nella Zeitschrift f. Social und Wirthsrhaftsgeschichte, IV, 2, pp. 177-221.
11. Cfr. Zeller, Das Urchristenthum nelle Vorträge und Abhandlungen, Leipzig, 1875, I, pp. 291 sgg.
12. Nowack W., Lehrbuch d. Hebräische Archaeologie, Leipzig, 1894, I, pp. 173-80.
13. Holtzmann, Die Gütergemeinschaft d. Apostelgesch. nelle Strassbürger Abhandlungen zur Philosophie, Freiburg, 1884, pp. 40 sgg.
14. Nowack, op. cit., I, p. 180.
15. Hist. Zeitschr., 1890. Mommsen, Der Religionsfrevel nach römischen Recht, pp. 397 sgg.
16. Εἰς Κορινθίους A, VI, 23-4, ed. Tischendorf: τιμῆς ἠγοράσθητε . μὴ γἰνεσθε δοῦλοι ἀνθρώπων. — Ἕκαστος ἐν ᾧ ἐκλήθη, ἀδελφοί, ἐν τούτῳ μενέτω παρὰ θεᾦ.
17. Holtzmann H. J., Lehrb. d. hist.-krit. Einleifung in d. N. T. Freiburg, 1892, pp. 208, 257.
18. Holtzmann H. J., op. cit., 1892, pp. 206, 257 sgg., 272 sgg.
19. VI, 5-9, cfr. Holtzmann, op. cit., 257.
20. Holtzmann, op. cit., p. 272 sgg., p. 315 sgg.
21. II, 9-10 ed. Tischendorf.
22. Contra Gr., 4, D.
23. Apol., I. c. 17, A, B, cfr. Tertullian., Apol., 42.
24. Ad Diognetum epist., 5.
25. Apolog., c. 30.
26. Apol., c. 30, 31, 32, 39: Oramus etiam pro imperatoribus, pro ministris eorum ac potestatibus, pro statu saeculi, pro rerum quiete, pro mora finis.
27. Apolog., 32.
28. Apolog., 32.
29. L. c.
30. Legat, pro Christ., c. 35, A, καίτοι καὶ δοῦλοί εἰσιν ἡμῖν.
31. Apol., II, c. 12, E.
32. Contra Gr., c. 11, A, B.
33. Apolog., c. 7 — tot hostes eius [religionis] quot extranei, et quidem proprie ex aemulatione Judaei, ex concussione milites, ex natura ipsi etiam domestici nostri: c. 28 erumpunt adversus nos, in quorum potestate sunt, certi impares se esse et hoc magis perditi.
34. Ad Diognet. epist., c. 5, A.
35. Apolog., c. 42.
36. Leg. pro Christ., c. 11, D.
37. Hippolyt., Refut. omnium haeres., ed. Duncker-Schneidwein, p. 450. Lechler G. V., Sklaverei u. Christentum, II, Th. Leipzig, 1878, p. 12.
38. Clemente Alex., Stromat., III, 2, ed. Potter.
39. Marc-Aurèle, Paris, 1882, p. 239, cfr. anche Herzog J. J., Abriss d. Kirchengesch. Erlangen, 1890, I, p. 80.
40. Renan, op. cit., p. 283; Euseb., H. E., IV, 36.
41. Cfr. Hatch E., Die Gesellschaftverfassung d. christl. Kirchen. Uebersetz. von A. Harnack. Giessen, 1883, pp. 144 sgg.
42. Larroque P., De l’esclavage chez les nations chrétiennes. Paris, 1870.
43. Εἴ τις δοῦλον προφάσει θεοσεβείας διδάσκοι καταφρονεῖν δεσπότου, τε ὰναχωρεῖν τῆς ὑπηρεσίας καὶ μὴ μετ ’εὐνοίας καὶ πάσης τιμῆς τᾦ ἑαυτοῦ δεσπότου ἐξυπηρετεῖσθαι, ἀνάθεμα ἔστω. Labbe, Concil. Coll. Paris, 1644, II, p. 498 sgg.
44. Labbe, Concil. Coll., XVIII, 165: Dom. Bouquet, Recueil des hist. des Gaules. Paris, 1744, V, a. 779, art. 19.
45. Concil. Epaon., a. 517 in Condita aevi meroving., ed. Maassen, in M. Germ. Hist., I, p. 21; Labbe, Concil. Coll., XVII, p. 105, XXIII, p. 205.
46. Labbe, Concil. Coll., XIII, p. 120; XIV, p. 501, c. 43; XV, p. 390, c. 10, XXV, p. 564.
47. M. G. H., Concilia, I, p. 199, c. 17. Labbe, Concil. Coll., XXXVII, p. 158.
48. Labbe, Concil. Coll., XIII, p. 493; XIV, p. 468; XVII, pp. 318, 421; XV, p. 291; XVIII, p. 195. M. G. H., Conc., I, p. 199, c. 13.
49. Labbe, Concil. Coll., VII, p. 374; IX, p. 435; Gregor. Tur., Hist. eccl. Franc., V. 3; Greg. Magn., Epist., ed. Ewald-Hartmann, I, 39.
50. Larroque, op. cit., con i molti tratti di cronache e documenti ivi riportati. Cfr. pure Biot, Aboliz. della schiavitù in Occidente, trad. ital. Milano, 1841, pp. 172, 206, 250, 287, 312, 316, 343.
51. Le Blant, Inscriptions chrétiennes de la Gaule. Paris, 1856, I, pp. LXXXIX, 58, 60; II, p. 123.
52. De civit. Dei, XIX, 15.
53. Enarrat. in Psalm., CXXIV.
54. Lechler, op. cit., p. 23-4. — Summa theologica, I, 2, 94, 5, 3.
55. Summa theol., II, 2, Qu. 37, art. 3.
56. Larroque, op. cit., p. 28 sgg.; Joly, Le socialisme chrétien. Paris, 1892, pp. 76, 141.
57. Larroque, op. cit., p. 35 sgg.; Azurara, Chronica do descobrimento e conquista de Gumé. Paris, 1841, p. 228; Haebler, op. cit., p. 179 sgg.
58. Abignente, La schiavitù ne’ suoi rapporti con la chiesa e col laicato. Torino, 1890, p. 200 sgg.
59. Hefele, Conciliengeschichte. Freiburg i. B, 1873, II2, 658, 693, III2, 57, 76, 86, 628.
60. Mon. Germ. Hist. Concilia aevi merovingici, p. 21.
61. Antiq. ital. M. E. Diss., XV: Lechler, op. cit., II, p. 27.
62. Sugenheim, Gesch. d. Aufheb. d. Leibeigenschaft und Hörigkeit in Europa. St. Petersburg, 1861, pp. 113-9; Doniol, Hist. d. class. rurales en France. Paris, 1857, pp. 96-99; cfr. Ricca Salerno, La teoria del valore. Roma, (Lincei), 1894, p. 275 sgg.
63. Wescher et Foucart, Inscriptions rec. à Delphes. Paris, 1863, p. 339 sgg.; Die delphischen Inschriften bearb. von J. Baukack. Göttingen, 1892, p. 181 sgg.
64. Fragm. presso Stob. Floril., LXII, 39.
65. Stob., Floril., CXII, 28.
66. Heautontim., I, 1, 75-7:
Men. Chreme, tantumne ab re tua est otii tibi
Aliena ut cures ea quae nihil ad te adtinent?
Chr. Homo sum: humani nihil a me alienum puto.
67. Epistul. moral., V, 6 (47), cfr. Epp. 31, 44.
68. L. 4, § 1, de stat. hom., 1, 5; Ulpian., 1. 32, D. de r. j.; 1. 2, D. de natalib. rest., 40, 11; Iust. Inst., § 2, De jur. nat., 1, 2; Laferrière, Influence du stoïcisme sur le droit romain. Paris, 1860; Schneider A., Zur Gesch. d. Sclaverei im alten Rom. Zürich, 1892, pp. 40-1.
69. Zeller, Die Philosophie d. Griechen, III, 13, pp. 12, 13, 14, 16, 19.
70. Zeller, Philosoph. d. Griech., III, 13, pp. 284 sgg., 298 sgg., 725.
71. Epikt. Ench., c. 1.
72. Epikt. Dissert, ab. Arrian. dig. 4, 1, 76; 4, 1, 111, ed. Schenkl.
73. Zeller, Philosoph. d. Griech., III, 1, pp. 27 sgg., 698 sgg.; Ueberweg, Grundr. d. Gesch. d. Philosoph., I8, pp. 276 sgg., 299 sgg.
74. Comment., 8, 51.
75. Comment., 9, 29.
76. Epist. moral., 9, 2 (73).
77. Epist. moral., 13, 2 (87).
78. Sen., De tranquil. anim., 8, 7.
79. Zeller, Philos. d. Griech., III, I3, p. 201.
80. Stob., Florileg., 1, 155, Heuse.
81. Stob., Florileg., 1, 156.
82. Encheir., c. 5.
83. Dissertat., 2, 16, 42, ed. Schenkl.
84. 4, 1.
85. Comment., 4, 20; 8, 51.
86. Zeller, Die Philos. d. Griech., III, 13, p. 718, n. 2.
87. Epist. mor., 13, 2 (87).... Vehiculum in quo impositus sum, rusticum est.... Vix a me obtineo ut hoc vehiculum velim videri meum; durat adhuc perversa recti verecundia.
88. Ep. mor., 9, 3 (74).
89. Dial. XI, Ad Polyb. de consolat., 18, 9.
90. Dial. VII, 20, 5; IX, 4, 4; XII, 9, 7; Ep. 28, 4; 68, 2.
91. Epist., IX, 3 (74).
92. Dial., XI, 2, 1.
93. Epist., VI, 1 (53).
94. Dial., XI, Ad Polyb.
95. Talamo S., Le origini del Cristianesimo e il pensiero stoico negli Studi e documenti di storia e diritto, 1889-92.
96. Marx, Das Kapital. Hamburg, 1895, III, 1, p. 309 sgg.
97. Langer O., Sklaverei in Europa während d. letzten Jahrhunderte des Mittelalters. Bautzen, 1891, p. 3 sgg.
98. Morgan L., Die Urgesellschaft, Deutsch. Uebersetz. Stuttgart, 1891, pp. 289, 432, 464, 478; Engels Fr., Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft, Stuttgart, 1894, pp. 162 sgg., Gewaltstheorie.
99. De civit. Dei, XIX, 15: Origo autem vocabuli servorum in Latina lingua inde creditur ducta, quod hi, quod iure belli possent occidi, a victoribus cum servabantur, servi fiebant a servando appellati.
100. Vaniček A., Griech.-Latin. Etym. Wörterbuch, II, 1026-28.
101. Vaniček, op. cit., p. 983: (ἀνδ-οπα-δον, daraus durch Volketymologie) ἀνδράποδον (des freien Mannes Begleiter): p. 322, δοῦλος con le autorità ivi citate. — Johansson K. F., Indische Miszellen nelle Indogermanische Forschungen herausg. von Brugmann und Streitberg, III, p. 227 sgg., p. 229: “Im Griechischen begegnet nämlich ein δοῦλος, δῶλος = οἰκία bei Hesych., pp. 229-30. Ich gehe soweit, auch noch in δομεῖς eine Beziehung zu “Haus„ oder Wohnung zu sehen; pag. 231, Griech. δμώς, ἀδμενἰδες gehort zu δῶ, δῶμα, l. domus u. s. w. Am eingehendsten ist δοῦλος behandelt worden von Legerlotz, Etymologische Studien, Prog. (Festschr.) Salzwedel 1882, S. 1 ff., und dieser hat, wie mir scheint, die rich tige Beurtheilung von δοῦλος angebahnt namentlich bezüglich der Bedeutungsentwickelung. — Das vorige war niederschrieben, als mir das im Folgenden erwâhnie Programm von Legerlotz bekannt wurde.
102. Athen., VI, p. 263, b.
103. Athen., p. 264, c.
104. Athen., 265, b.
105. Blümner, 11, Die gewerbliche Thätigkeit der Völker d. klassisch. Alterthums. Leipzig, 1869, p. 45-6.
106. Crates presso Athen., VI, p. 267, e, f, 268, a, b, c.
107. Crates presso Athen., VI, p. 268:
«ἔπειτ ’ ἀλάβαστος εὐθέως ἥξει μύρου
αὐτόματος ὁ σπόγγος τε καὶ τὰ σάνδαλα»,
Βέλτιον δὲ τούτων Τηλεκλείδης Ἀμφικτύοσι ·
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ἡ γῆ δ’ ἔφερ ’ οὐ δέος οὐδὲ πόνους, ἀλλ’ αὐτόματ’ ἦν τὰ δέοντα.
108. Athen., VI, p. 265, b.
109. Thuc., I, 141. Il Beloch (Die Bevölkerung d. alten Welt. Leipzig, 1886, p. 424) ha un’apposita nota per indicarsi come lo scopritore di questo epiteto tucidideo. Il vero è che tanti anni prima di lui il Drumann (Arbeiter und Comunisten in Griechenland und Rom. Konigsberg, 1860, p. 36) ne avea rilevata l’importanza, dandone anche un’interpretazione più ampia; e il Blümner (Besitz und Erwerb, etc., p. 184) avea riportato lo schol. a Thuc., 1, 141, e il Marx (Das Kapital, I4, p. 369, n. 79) non avea mancato di trar profitto del passo tucididèo.
110. “Hausfleiss è la produzione tecnica fatta in casa, per la casa e con la materia prima di propria produzione„. Bücher K., Die gewerblichen Betriebsformen in ihrer hist. Entwickelung. Karlsruhe, 1892, p. 35.
111. Athen., VI, p. 264, c, d, παραπλησίως δὲ καὶ Μνάσωνα τόν τοῦ Ἀριστοτέλους ἑταῖρον χιλίους οἰκέτας κτησάμενον διαβληθῆναι παρὰ τοῖς Φωκεθσιν, ὡς τοσούτους τῶν πολιτῶν τὴν ἀναγκαίαν τροφὴν ἀφηρημένον.
112. Blümner H., Die gewerbliche Thätigkeit etc., pp. 58-90.
113. Athen., VI, p. 263, e, f: καλοῦσι δὲ οἱ Κρῆτες τοὺς μὲν κατὰ πόλιν οἰκέτας χρυσωνήτους, ἀφαμιώτας δὲ τοὺς κατ’ἀγρόν, ἐγκωρίους μὲν ὄντας, δουλωθέντας δὲ κατὰ πόλεμον.
114. Ciccotti E., Le instituzioni pubbliche cretesi. Roma, 1893, pp. 39 sgg.
115. Il., 5, 313; 6, 313; 7, 219 sgg.; 11, 106; 18, 556; 20, 188; 21, 37. Od., 5, 243; 7, 5; 8, 493; 11, 523; 14, 23; 15, 320; 18, 365; 23, 189.
116. Riedenhauer A., Handwerk und Handwerker in den homerischen Zeiten, Erlangen, 1873, p. 163.
117. Riedenhauer, op. cit., p. 10.
118. Hesiod, Ἔργα καὶ ἡμέραι vss. 294 sgg., 307 ed. Kirchhoff.
119. Poetae lyrici gr. rec. Bergk Th., II3, pp. 416 sgg., 482 sgg.
120. Marx, Das Kapital, III. 1, pp. 308, 314.
121. Monumenti antichi ed. dall’Accademia de’ Lincei, voi. III: Iscriz. di Gortyna ed. dal Comparetti, pp. 253, 278 sgg.
122. Cauer Fr., Parteien und Politiker in Megara und Athen, Stuttgart, 1890, pp. 12 sgg., 33 sgg.
123. Πολιτ. Ἀθην. 1-16, 11-2; Plut. Sol., 13, 15.
124. Böckh A., Staatshaltung d. Athener. Berlin, 1886, I3, pp. 156 sgg.
125. Marx, Das Kapital, III, 1, pp. 355, 361, 365.
126. Wiskemann H., Die antike Landswirtschaft und das von Thünensche Gesetz. Leipzig, 1859, p. 5 sgg.
127. Jahrbücher d. d. Arch. Inst., I (1886). Kroker, Die Dipylonvasen. pp. 113, 125; II (1887). Böhlau, Frühattische Vasen, pp. 33, 65.
128. Blümner, Die gewerbliche Thätigkeit etc., pp. 61 sgg.
129. De vit. aere alieno.
130. Ἁθην. Πολιτ., c. 2; 4; 12.
131. Plut., Sol., 20 sgg.; Wilamowitz, Aristotiles und Athen. Berlin, 1893, I, pp. 41 sgg.; Hermes, 1892; Lehmann C. F., Zur Ἀθηναίων Πολιτεία, p. 553.
132. Toepffer, Quaestiones pisistrateae, Dorpat, 1885, pp. 1 sgg., pp. 61 sgg.
133. Polit., p. 1035, a, 5 (8), 4, 5.
134. Le dix-huit Brumaire de Louis Bonaparte. Lille, p. 105.
135. Plutarch., Apophtegm. reg., p. 175 b; Büchsenschütz B., Besitz und Erwerb im griechischem Alterthume. Halle, 1869, p. 52.
136. Ἀθην. Πολ. 16.
137. Büchsenschütz, Besitz und Erwerb., pp. 51-2.
138. Curtius E., Die Stadtgeschichte von Athen. Berlin, 1891, pp. 67-97.
139. Harpok, s. v. Κολωνίτας; Hesych. s. v. Κολωνός . παροιμία · ὄψ ̓ἦλθες ἀλλὰ εἰς Κολωνὸν ἵεσο . ἐλέγετο δὲ ἐπὶ τῶν μισθαρνούντων.
140. Curtius E., Stadtgeschichte etc., p. 83 sgg.
141. Wilamowitz, Aus Kydaten, p. 16-17.
142. Jahrb. d. d. Arch. Inst., II (1887) Winter, Zur altattischen Kunst, p. 216 sgg.
143. Paneg. 84.
144. De vectigal, 4, 2.
145. Böckh A., Staatshaltung d. Athen., I3, p. 379; Kleine Schriften, V, p. 8 sgg.
146. Aeschyl., Pers. 238; Xenoph., De vectig., 1, 5; 4, 42; Böckh A., Kleine Schriften, V, p. 1 sgg.
147. Busolt, Der Phoros d. Athen. Bündner nel Philologus XLI, p. 717-8; Pedroli U., I tributi degli alleati d’Atene negli Studi di storia antica di G. Beloch, p. 204.
148. Andoc., de pace, 9; Plut., Arist. 24.
149. De pace.
150. c. 2 sg.
151. c. 2.
152. Büchsenschütz, Besitz und Erwerb., pp. 507 sgg.; Perrot, Le commerce de l’argent à Athènes (Mém. d’arch.). Paris, 1875, p. 372.
153. Isokr., Antid. 232; [Demosth.], c. Mid., p. 561, 144.
154. C. I. A., II, 814; Böckh, Staatshaltung d. Ath., II3, 68 sgg.; Hicks E. L., A manual of greek historical inscriptions. Oxford, 1882, pp. 142 sgg.
155. C. I. A., II, 570, vs. 18 sgg.: κατ’ἐν[ιαυτ]ὸν δανείζεται δανείζ[ον]τας ὅ[στι]ς ἄν πλεῖστον τόκον διδᾦ....; C. I. A., II, 578.
156. τὸ δάνειον ἐνερλὸν ποιεῖν [Demosth.] c. Dionysod, p. 1291, 29 cfr. Perrot, op. cit., p. 384.
157. Curtius E., Die Stadtgeschichte etc., pp. 98 sgg.
158. Curtius E., op. cit., pp. 138 sgg.
159. Harpokr. Προπύλαια ταῦτα; Curtius E., op. cit., LXXVII, 149; Dörpfeld nelle Mitth. d. d. arch. Inst., X, 28 sg., 131 segg.
160. Kirchhoff, Zur Gesch. d. Athen. Staatsschatz. nelle Abhandl. d. Akad. von Berlin, 1876, p. 58.
161. Wiskemann, op. cit., 5-8.
162. Cyrop., VIII, 2, 5.
163. Thucyd., VII, 27.
164. Xenoph., Memor., II, 7, 6.
165. Plut., Pericl., 12.
166. Clerc M., Les métèques athéniens. Paris, 1893, p. 387 sgg.
167. Becker-Göll, Charikles, III, p. 17 sgg., con i testi ivi citati.
168. Wallon, Hist. de l’escl., I3, p. 182-3.
169. Curtius, Stadtgeschichte etc., p. 173, XC.
170. Böckh, Staatshaltung d. Athen., I3, p. 121 sgg.
171. Büchsenschütz B., Die Hauptstätten d. Gewerbfleisse im Mass. Alterthume. Leipzig, 1869, pp. 58 sgg.
172. Plut., Pericl., 16.
173. Curtius E., Stadtgesch., p. 145.
174. Thuc., VIII, 40; Beloch J., Die Bevölkerung d. Griech.-Röm. Welt. Leipzig, 1886, p. 224; Wallon, op. cit. I, p. 232 sgg.
175. Mi duole che non mi sia riuscito avere, per usarne in questo mio lavoro, gli scritti del Frohberger sugli operai e sulle manifatture nell’antichità.
176. Meyer Ed., Die wirthschaftliche Entwickelung die Alterthums. Jena, 1895, pp. 35 sgg.
177. Plut., Sol. 22.
178. Plut., Sol. 23; Thes., 25.
179. Bergk Th., Poetae lyr. graec., II3, p. 425, vs. 50-1:
ἄλλος Ἀθηναίης τε καὶ Ἡφαίστου πολυτέχνεω
ἔργα δαεὶς χειροῖν ξυλλέγεω βίοτον.
180. Ἀθην. Πολ., c. 13.
181. Mommsen A., Heortologie. Leipzig, 1864, p. 313-4.
182. Meyer-Schömann, Der att. Process neu bearb. von J. Lipsius. Berlin, 1883-87, p. 364.
183. Plut., Sol. 22.
184. Herakl., Pont., Polit., 5; Nic., Damasc., fr. 59; Meyer, Gesch. d. Alt., II. 621.
185. Plut., vss. 160 sgg.
186. Pericl., c. 12.
187. Thuc., II, 14 sgg.
188. Guiraud P., La propriété foncière en Grèce jusqu’à la conquête romaine. Paris, 1893, pp. 450 sgg. con i testi ivi citati.
189. Aristoph., Vesp., 712; Demosth., c. Eubulid., 1313, 45 [Demosth.] c. Nicostr., 1253, 21.
190. C. I. A., II, 565, 1055-58; IV-II, 53ª; Recueil des inscript, jurid. grecques par R. Dareste, B. Haussoullier, Th. Reinach, II, pp. 235 sgg.
191. C. I. A., II, 768, 772, 773. Su questa epigrafe cfr. Clerc M., Les métèques athéniens. Paris, 1893, pp. 288 sgg. con la letteratura ivi riportata.
192. Guiraud, op. cit., pp. 422-3.
193. Blümner H., Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste. Leipzig 1875, I, p. 217.
194. Op. cit., I, p. 151 sgg.
195. Blümner H., Technologie und Terminologie etc., I, pp. 256, 268.
196. Blümner, op. cit., I, p. 288.
197. C. I. A., I, 275-7. L’epigrafe 274 secondo il Kirchhoff non appartiene all’Ol. 91, 2. Sul prezzo degli schiavi in Atene si possono riscontrare Büchsenschütz, Besitz und Erwerb, pp. 200 sgg; Böckh, Staatshaltung d. Ath., I3, p. 85 sgg.; Wallon, Hist. de l’escl., I2, pp. 198 sgg.; Gigli G., Delle mercedi nell’antica Grecia nelle Memorie dell’Accademia de’ Lincei pel 1896.
198. Memorab., II, 5, 2.
199. Oecon., c. 12, sgg.
200. C. I. A., I, 324. Cfr. anche 321, 325.
201. Thuc., II, 10-23; 47, 55-7; III. 1, 26; IV, 2, 6.
202. VII, 27.
203. Xenoph., De vectigal., 4, 25.
204. Böckh A., Staatshaltung, I3, p. 400 sgg.
205. Thuc., III, 19.
206. Lys., XXI, 1-3; Guiraud P., La propriété foncière etc., p. 532.
207. Memorab., II, 7-10.
208. Hermann-Thumser, Griech. Staatsalterthümer, I6, p. 504 sgg. con i testi e le autorità ivi citate.
209. Ἀθην. Πολ. 27, 41, 62.
210. L. c.
211. Fraenkel M., Die attischen Geschworenengerichte. Berlin, 1877, pp. 7, 9 sgg., 92 sgg.; Ἀθην. Πολ. 63. In Meier u. Schömann (D. Att. Proc. n. bearb. von J. H. Lipsius, I, p. 1861) si calcolano a soli cento giorni all’anno le udienze de’ tribunali dopo Euclide.
212. Böckh A., Staatshaltung d. Athener, I3, pp. 274 sgg.
213. Aristoph., Ecclesiaz., vs. 310.
214. Müller-Strübing H., Aristophanes u. seine Zeit. Leipzig, 1873, p. 48 sgg.
215. Ἀθ. Πολ. 41.
216. Memor., III
217. Hist. du peuple d’Israël. Paris, 1887, I, II.
218. Plat., Gorg., 484 a.
219. Thuc., III, 82 sgg.; Isokr., Philip., 20; Archidam., 28.
220. Pöhlmann R., Gesch. d. antik. Kommunismus und Sozialismus. München, 1893, I, p. 162.
221. Zeller E., Philosoph. d. Griechen, II, 14, p. 168 sgg.
222. Döring A., Die Lehre des Sokrates als sociales Reformystem. München, 1895, pp. 387 sgg.
223. Polit., 421-22.
224. Chiappelli A., Le Ecclesiazuse di Aristofane e la Repubblica di Platone nella Rivista di filologia e d’istruzione classica, XI (1883), pp. 161 sgg. e XV (1887) pp. 343 sgg.; Zeller E., Die Philosoph d. Griechen, II, 14, p. 551; cfr. anche Cognetti de Martiis S., Socialismo antico. Torino, 1889, pp. 508 sgg.
225. Chiappelli, op. cit., XV, p. 351.
226. Plut., vs. 510 sgg.
227. Plut., vs. 517 sgg.
228. Λιμοῦ δὲ φόβος ὁ ἡμέτερος δεσπότης. Liban., XXXI, S. serv., II, p. 652 a.
229. Epitect., Dissert., 4, 1, 34.
230. Böckh, Staatshaltung d. Athener, I3, p. 499 sgg.
231. C. I. A., II, 17, vs. 33 sgg.
232. Busolt G., Der zweite athenische Bund ne’ Jahrbüch. f. clas. Phil., VII, SB., 1874, p. 807 sgg., p. 853 sgg. e passim; Böckh, Staatshaltung, I3, p. 499 sgg.; Guiraud, op. cit., p. 616 sgg.
233. Guiraud, op. cit., p. 398 sgg.
234. Busolt, op. cit., pp. 852-3.
235. Guiraud, op. cit., p. 406.
236. Dion. Hal., Lys., c. 32.
237. Aristot., Ἀθηναίων Πολ., c. 29-38.
238. Böckh, Staatshaltung d. Athen., I3, p. 560 sgg.
239. Plut., Vita X orat. 7, 34.
240. Suid., s. v.
241. C. I. A., II, 1103 sgg.; Recueil des inscriptions jurid. grecques par R. Dareste, B. Haussoullier, Th. Reinach. Paris, 1891, I, p. 107 sgg.
242. Recueil des inscript. jurid., etc., I, p. 122.
243. [Demosth.], c. Phaenip., p. 1045, 20.
244. Recueil des inscrip. jurid., II, p. 254 sgg.
245. Contr. Aristokr., p. 689-208.
246. περὶ συντάξεως, 30.
247. Pöhlmann R.. Aus Alterthum und Gegenwart. München, 1895, p. 395.
248. Fraenkel, Die attischen Geschworenengerichte, p. 103.
249. Guiraud, La propriété foncière, etc., p. 393.
250. C. I. A., II, 784, 785, 788. Guiraud, op. cit., p. 392.
251. C. I. A., II, 784 B, 785; Loeper R., Die Trittyen und Demen Attikas (Mitth. d. d. arch. Inst. v. Athen., XVII, p. 431 e carta XII).
252. Guiraud, op. cit., p. 393.
253. Cairnes E. J., The slave power, its character, career and probable design. London, 1862, p. 51, con l’annessa citazione del Tocqueville.
254. Büchsenschütz, Besitz und Erwerb., p. 50-1.
255. [Demosth.], c. Phaenip., p. 1041, 5, 7; 1045, 20.
256. p. 1045, 20.
257. Isaei, De Hagn. her., 41.
258. Isaei, De Hagn. her., 42.
259. p. 1272, 1.
260. Guiraud, op. cit., 393, con le autorità ivi citate.
261. Demosth., pr. Phorm., p. 945, 5: ἡ μὲν ὰρ ἔγγειος ἦν οὐσία Πασίωνι μάλιστα ταλάντων εἶκοσιν.
262. Caillemer, Le droit de succession légitime à Athènes. Paris, 1879, p. 30.
263. Sull’espressione di Arist., Polit., p. 1265, b, II, 3, 6: νῦν μὲν γὰρ οὐὶδες πορε δι τ μερζεσθαι τς οσας ες ποσονον πλθος, che considera l’ipotesi astratta della successiva suddivisione de’ beni familiari, e sull’interpretazione datale dal Guiraud (op. cit., p. 397), cfr. Platon G., Le socialisme en Grèce nel Devenir social, 1895, p. 528.
264. Jahrbüch. f. Nationalökonomie v. B. Hildebrand, 1867, p. 494.
265. Le dix-huit Brumaire de Louis Bonaparte, p. 108.
266. C. I. A., II, 784 AB, 785.
267. C. I. A., II, 787.
268. Jahrbücher f. Nationalökonomie u. Statistik, VIII, p. 453 sgg.
269. Böckh, Staatshaltung d. Athener, I3, p. 578 sgg.. e II, p. 121; Thumser V., De civium Atheniensium muneribus, 1880, p. 28 sgg.
270. Böckh, Staatshaltung d. Athen., I3, p. 603.
271. Lipsius J., Die athenische steuerreform in jahr der Nausinikos ne’ N. Jahrb. f. clas. Phil., 1878, p. 288; Guiraud, op. cit., p. 522, 532.
272. Demosth., De cor., 292; Busolt G., Der zw. Athen. Bund, p. 860.
273. De coron., p. 261, 104; Hermann-Thumser, Staatsalterthümer, I6, p. 755.
274. [Demosth.], in Mid., p. 540, 80; Hermann-Thumser, Staatsalt., I6, p. 703.
275. [Demosth.], c. Phaenip., passim.
276. Demosth., c. Aristocr., p. 689, 206-208.
277. Thumser V., De civium atheniensium muneribus. Vindobonae, 1880, p. 83 sgg.
278. Menandr., Fragm., ed. Didot, pp. 3, 4, 22, 91, vs. 64, 93 vs. 165, etc. Meineke.
279. Menandr., Fragm., ed. Didot, p. 98, vs. 436, 450, 461; Philem., Fragm., ed. Didot, p. 121, XV.
280. Menandr., Fragm., ed. Didot, pp. 1, 3, 7, 32, 41, 53 I, 55 VI, 62 LIV, 66 CII, CIII, CIV, CV, etc.
281. Plut., Moral., p. 19; Men., Fragm., ed. Didot, p. 24, 1.
282. Athen., XIII, p. 569 D; Philem., Fragm., ed. Didot, p. 107.
283. Denis J., La comédie grecque. Paris, 1886, II, p. 435.
284. Philist., Gnom., ed. Didot, p. 106.
285. Menandr., Fragm., ed. Didot, pp. 11,41, 54 III, 62 LIU, LVII, 97 v. 371.
286. Menandr., Fragm., p. 11.
287. Menandr., Fragm., p. 54 III.
288. Menandr., Fragm., ed. Didot, pag. 32, Misog., I, 7.
289. Böckh A., Staatshaltung d. Athen., I3, p. 598.
290. Inscriptions jurid. grecques, II, p. 109 sgg., p. 119.
291. Inscriptions jurid. grecques, II, p. 49 sgg.; Dittenberger, Sylloge, n. 433.
292. Böckh, Staatshaltung d. Athen., II, Fraenkel, Anm., p. 29*.
293. Pag. 99 vs. 472, ed. Didot.
294. Hermann-Blümner, Privatalterthümer. Dr. Ausg., p. 437.
295. Böckh, Staatshaltung d. Athener, I3, pp. 49 sg., 57 sg., 73, 135, 625.
296. Brants V., De la condition du travailleur libre à Athènes, nella Rev. de l’enseign. publ. en Belg., 1883, pp. 106-7.
297. Das Kapital, I4, p. 564.
298. C. I. A., II, 167, 1054.
299. Recueil d’inscript. jurid. grecques, I, p. 143 sgg.
300. Bull. de corr. hell., XIV (1890), p. 462 sgg.; Hermann-Thalheim, Rechtsalterthümer, II, I4, p. 115-6; Hermes, XVII (1882), p. 4 sgg.; Cauer,2 Delectus, n. 457.
301. Cauer,2 Delectus inscr. gr., n. 457, vs. 25-6.
302. Diod., l. c., XVIII, 18; Plutarch., Phoc., 28.
303. Fragm., ed. Didot, p. 10, 4.
304. Fragm., ed. Didot, p. 118, IV.
305. p. 119, VI.
306. p. 117.
307. Fragm., ed. Didot, p. 91, vs. 63.
308. p. 99, vs. 460.
309. Fragm., ed. Didot, p. 117, I.
310. Athen., VI, p. 272, o. c.
311. Böckh A., Staatshaltung d. Athener, I3, p. 48, n. A.
312. Nel 1879 gli abitanti dell’Attica e della Beozia erano 185,000. Encyclop. Brit., XI, p. 85.
313. Staatshaltung d. Athen., I3, p. 42 sgg.
314. Curtius E., Stadtgeschichte von Athen, p. 230.
315. C. I. A., IV, 834b; Bull. de corr. hell., VIII (1884), p. 194 sgg.
316. Letronne, Mém. s. la popul. de l’Attique, nelle Mém. de l’Acad. des inscr., VI (1822), p. 220.
317. Wallon, Hist. de l’esclav., I2, p. 277.
318. Beloch J., Die Bevölkerung d. Griech-Rõm. Welt. Leipzig, 1886, p. 98.
319. Del numero degli schiavi nell’Attica ne’ Rendiconti dell’Istituto Lombardo, maggio 1897.
320. Pöhlmann R., Die Ueberbevölkerung d. antik. Grossstädte. Leipzig, 1884, p. 22.
321. Isocr., De pace; Schaefer A., Demosthenes u. s. Zeit, I2, p. 188 sgg.
322. Pro sacr. olea, 6, 7.
323. Cairnes J. E., The slave power, p. 51, 53 sgg.
324. Demosth., c. Eubul. 1313, 45; [Demosth.] c. Nicostrat. 1253, 21; Theophr., Charact. 4, 30.
325. Recueil des inscriptions jurid. grecques, II, p. 235 sgg.
326. C. I. A., II, 1059, vs. 4; 1058, vs. 12.
327. Bull. de corr. hell., 1890, p. 437.
328. Pro sacr. olea, 4, 9, 10.
329. Marx K., Das Kapital, III, 1, p. 310: Je unentwickelter die Production, um so mehr wird sich daner das Geldvermögen koncentriren in den Händen der Kaufleute, oder als specifische Form des Kaufmannsvermögens erscheinen. Innerhalb der Kapitalistischen Produktionsweise, d. h. sobalcl sich das Kapital der Produktion selbst bemachtigt und ihr eine ganz veränderte und specifische Form gegeben hat, erscheint das Kaufmannskapital nur als Kapital in einer besonderer Funktion. In allen früheren Produktionsweisen, und umsomehr jemehr die Produktion unmittelbar Produktion der Lebensmittel des Producenten ist, erscheint Kaufmannskapital zu sein, als die Funktion par excellence des Kapitals.
330. Marx K., Das Kapital, III, 1, p. 314 sgg.
331. Marx K., Das Kapital, I4, p. 365; Tuckett J. D., A history of the past and present state of the labouring population. London, 1846, I, p. 149.
332. Demosth., in Aphob. I, p. 816, 9; 820, 24.
333. Brandts V., La condition des travailleurs libres à Athènes, p. 110.
334. Das Kapital, I4, p. 371.
335. Cairnes, The slave power, pp. 44-5.
336. Menandr., Fragm., ed. Didot, p. 91, vs. 52.
337. p. 29, n. 4.
338. p. 3, n. 5.
339. Menandr., Fragm., ed. Didot, p. 98, vs. 464, p. 100, vs. 514, 538, p. 98, vs. 455.
340. VI, p. 272 e.
341. Demosth., in Aphob., I, p. 816, 9, c. Pantanet, p. 973, 25; C. I. A., II, 1104, 1122, 1123.
342. [Demosth.], c. Nicostr., p. 1253, 21; c. Aphob., I, pp. 819, 821, 25, 27; Πολ. τ. Ἀθην., 11, 17; Theophr., Char., 30; Andoc., De myst., I, 38.
343. Harpokr., s. v. toùç xwplç οἰκοῦντας, e più specialmente Bekker, Anecd., p. 316, 11.
344. Hermes, XXII: Wilamowitz, Demotika der attischen Metoeken, p. 119, n. 1; Clerc, op. cit., pp. 281, 283; Meier-Schömann, Der attische Process, p. 751.
345. 11.
346. 10.
347. Demosth., in Stephan., I, p. 1102, 3; pro Phorm., p. 946, 8.
348. Meier-Schömann, Att. Proc., 752, 664.
349. Schol. in Demosth., p. 544, Didot, 23, 19.
350. C. 12.
351. Wallon, Hist. de l’escl., Iª, p. 483-4.
352. Athen., VI, p. 272.
353. Antiph., de caed. Herod., 47, 48; Aesch., c. Timarch., 17. Cf. Meier-Schömann, Att. Proc., p. 396 sgg. con la letteratura ivi citata; Becker-Göll, Charikles, III, p. 29 sgg.
354. Aesch., c. Timarch., 17.
355. [Demosth.], c. Mid., pp. 529-30, 46, 47, 48.
356. Meier-Schömann, Att. Proc., p. 401.
357. Dittenberger, Sylloge, n. 338, vs. 81 sgg.
358. Meier-Schömann, Att. Proc., p. 625 sgg.
359. Arist., Ἀθηναιων Πολ., 40.
360. Meyer E., Die wirtschaftliche Entwickelung des Altertums. Jena, 1895, p. 41. Aum. 2.
361. Arist., Polit., I, p. 1233, b, 2 sgg.; Zeller, Phil. d. Griech., II, I4, p. 170.
362. Plat., Gorg., 484 a: ἐάν δέ γε, οῖμαι, φύσιν ἰκανὴν γένηται ἔχων ἀνὴρ, πάντα ταῦτα ἀποσεισάμενος καὶ διαρρήξας καί [διαφυγὼν], καταπατήσας τ ἡμετὲρα γράμματα καὶ μαγγανεύματα καί ἐπῳδὰς καί νόμους τοὺς παρὰ φύσιν ἅπαντας, ἐπαναστὰς ἀνεφάνη δεσπότης ἡμέτερος ὁ δοῦλος, ἐνταῦθα ἐξέλαμψεν τὸ τῆς φύσεως δίκαιον.
363. C. I. A., I, 274-6.
364. Philem., Fragm., ed. Didot, p. 109.
365. Fragm., p. 124, XXXIV, Didot.
366. C. I. A., II, 476, vs. 5; Dittenberger, Sylloge, n. 388, vs. 78 sgg.
367. Meier-Schömann, Att. Proc., p. 889 sgg.
368. Lange, Hist. du matérialisme, trad. franc. Paris, 1877, I, p. 154.
369. Schaefer A., Demosthenes u. seine Zeit. Leipzig, 1885, I2, pp. 5-6; Hermann-Droysen, Kriegsalterthümer. Freiburg i. B., 1888, p. 61.
370. Böckh, Staatshaltung d. Athener, I2, p. 90 sgg., II; Fränkel, Anm., p. 17*, 21*, 118, 122.
371. Mém. de l’Acad. d. I. B. L., VI (1822): Letronne, Mém. s. la popul. de l’Attique, p. 211 sgg.
372. Böckh, op. cit., p. 91-2.
373. Xenoph., De vect., 4, 25.
374. Aesch., c. Timarch., 97.
375. Thuc., I, 55, 62; Xenoph., Hell., I, 6, 15; III, 2, 2; IV, 5, 8.
376. Thuc., I, 139; IV, 118.
377. [Aristot.], Oekon., II, 2, 34; Böckh, Staatshaltung, I2, p. 91; cfr. anche C. I. A., II, 281.
378. Meier-Schömann, D. Att. Process., p. 766.
379. Dittenberger, Sylloge, n. 388, vs. 77 sgg.; C. I. A.,, II, 476, vss. 44-9.
380. Times (19 Jan. 1897). Average prices per imp. Qr. of wheat, barley and oats for the ten years 1887 to 1896. Wheat, 1890-96: 31, 11; 37, 0; 30, 3; 26, 4; 22, 10; 23, 1; 26, 1. — Barley: 28, 8; 28, 2; 26, 2; 25, 7; 24, 6; 21, 11; 22, 11; Rogers Th., Hist. d. travail et salaires en Angleterre. Paris, 1897, p. 376; Wiebe G., Zur Gesch. d. Preisrevolution des XVI und XVII Jahrhund. Leipzig, 1895, pp. 344, 346, 354, 363, 365-6; Pareto V., Cours d’économie politique. Lausanne, 1896, I, p. 272 sgg.
381. Bull. de corr. hell., XIV (1890), pp. 481-2.
382. Demosth., c. Phorm., p. 918, 38; C. I. A., IV, 834b, col. II, vs. 75; Corsetti R., Sul prezzo de’ grani nell’antichità classica negli Studî di storia antica di G. Beloch, II, p. 65 sgg.
383. Bull. de corr. hell., XIV (1890), p. 482; Hermes, VII, p. 3 sgg.
384. Guiraud, op. cit., p. 557 sgg.; Corsetti, op. cit., p. 67 sgg.
385. Bull. de corr. hell., XIV, p. 481-2; [Demosth.], c. Phaenipp., p. 1045, 20; c. Phorm., p. 918, 38.
386. [Demosth.], c. Phaenip., p. 1045, 2; 1048, 31.
387. C. I. A., II, 311, 312, 314, 809 (325/4, Ch.), 195.
388. C. I. A., II, 379.
389. [Aristot.], Oeconom., II, 33.
390. Böckh A., Staatshaltung d. Athen., I2, p. 106.
391. 13.
392. [Demosth.], c. Phorm., p. 918, 37, 38.
393. C. I. A., II, 195, 311, 312, 314; Bull. de corr. hell., VI (1882), p. 1 sgg., 102 sgg.
394. Menandr., Fragm., ed. Didot, p. 96, vs. 348; p. 97, vs. 389; Philemon., Fragm., ed. Didot, p. 127, LXXV; Theophr., Char., 23.
395. Lys., περὶ τοῦ ἀδυνατοῦ.
396. Philipp. p. Stob., Serm., LXII, 35.
397. Menandr., Fragm., ed. Didot, p. 62, LIII.
398. Menandr., Fragm., p. 66, XCVIII.
399. 92, vs. 134.
400. Menandr., Fragm., ed. Didot, p. 93, vs. 168.
401. Meier u. Schömann, Att. Proc., pp. 875 sgg., 889 sgg.
402. C. I. A., II, 546, vs. 29.
403. Hyperid., Fragm., 155, Sauppe:..... καὶ παρέχει ὥσπερ τοῖς λῃσταῖς ἐπισιτισμὸν καὶ δίδωσι τούτ ὑπὲρ ἑκάστου τοῦ ἀνδραπόδου ὀβολὸν τῆς ἡμέρας ὅπως ἄν ῇ ἀθάνατος συκοφάντης.
404. Antiphont., Super choreut., 4.
405. C. I. A., II, 807, c. 1-25; Böckh, Urkunden d. Seewesen. Berlin, 1840, p. 413.
406. De vectigal, 4.
407. Aristot., Pol., p. 1267 b. II, 4, 13.
408. De vectigal., 4, 28: τί δτα, φαίν ἄν τις, οὐ καὶ νῦν, ὤσπερ ἔμποσθεν, πολλο καινοτομοσιν: ὅτι πενέστεροι μέν εἰσιν οἱ περὶ τ μέταλλα’ νεωστὶ γὰρ πάλιν κατασκευάζονται κίνδυνος δὲ μέγας τῷ καινοτομοῦντι. ὁ μὲν γὰρ εὑρὼν ἀγαθὴν ἐγρασίαν πλούσιος γίγνεται’ ὁ δὲ μὴ εὑρὼν πάντα ἀπόλλυσιν ὅσα ἄν δαπανήση.
409. Strab., p. 147, III, 2, 9.
410. Diod. Sic., XXXIV, II, 18.
411. Bergk Th., Gr. Litteraturg. Berlin, 1887, IV, 312; Sittl, Gesch. d. Griech. Litt. München, 1884. II, 460; Beloch, Att. Pol., p. 175, Anm.
412. De vectigal., 4, 25.
413. Letronne, op. cit., p. 195.
414. Aeschin. in Ctesiph., 41, 44.
415. Jahrbüch f. Nationalökon. und Statistik, gegr. v. B. Hildebrand, VII, p. 154.
416. De vectigal., 4, 23; Böckh, Staatshalt. d. Athen., I3, p. 86. II; Fraenkel, Anmerk., 117.
417. p. 1246, 1.
418. Demosth., c. Pantanet., 967, 4; 972, 18 e Böckh, l. c.
419. Diod. Sic., XX, 84.
420. Plut., Agesil., 26.
421. Theophr., Char., 4; 23; 30.
422. C. I. A., II, 187, 83513, 83617, 1149, 2343.
423. Polyb., III (II), 3, (5), 4.
424. Polyb., XII, 13, 8 sgg.
425. C. I. A., II, 834b, 834c, IV, 834b.
426. C. I. A., II, 834b, Col. I, vss. 26 sgg.
427. C. I. A., II, 834b, Col. I, vss. 31 sgg.
428. C. I. A., II, 834b, Col. I, vs. 31 sgg., 42 sgg., 60 sgg.
429. C. I. A., II, 834b, Col. I, vs. 23 sgg.
430. Kirchkoff, Zur Gesch. d. Athen. Staatsschatz., p. 57 sgg.; Böckh, Staatshalt., II; Fraenkel, Anm., p.. 33*, n. 202.
431. Journal of Hellenic studies, XV (1895): Jevons F. B., Work and wages in Athen, p. 243 sgg.
432. Jevons, op. cit., p. 244.
433. C. I. A., IV, 834b, vs. 70 sgg., 74 sgg., 80 sgg.
434. Thorold Rogers J. E., Hist. du travail et des salaires en Angleterre depuis la fin du XIII siècle. Paris, 1897, p. 362; Tooke, Hist. of prices, II, p. 71.
435. Das Kapital, I4, p. 563 sgg.
436. Wiebe G., Geschichte der Preisrevolution des XVI und XVII Jahrhunderts. Leipzig, 1895, p. 319 sgg.; Schoenhof J., A history of money and prices. New-York, 1896, p. 112 sgg.
437. C. I. A., I, 321, 324.
438. Das Kapital, I4, p. 565 sgg.
439. Histoire du travail et des salaires en Angleterre depuis la fin du XIII siècle. Paris, 1897, p. 297 sgg.
440. C. I. A., I, 321, vs. 12 sgg.
441. Hermes, IV: Schöne, Baurechnungen des Erechteios, p. 43.
442. C. I. A., II, 834b; IV, 834b.
443. C. I. A., II, 834b, Col. I, vs. 42 sgg.; IV, 834b, Col. I, vs. 40 sgg.
444. C. I. A., II, 834b, Col. I, vs. 71.
445. C. I. A., II, 834b, Col. II, vs. 54 sgg.
446. C. I. A., II, 834b, Col. II, vs. 68 sgg.
447. C. I. A., IV, 834b, Col. I, vs. 26 sgg.
448. C. I. A., IV, 834b, vs. 40 sgg.
449. C. I. A., IV, 834b, Col. II, vs. 18, 22 sgg.
450. C. I. A., II, 834c, vs. 57 sgg.
451. C. I. A., II, 834c, vs. 24; C. I. A., II, 834b, Col. II, vs. 71.
452. C. I. A., II, 834b, Col. II, vs. 31; IV, 834b, Col. I, vs. 44.
453. Foucart, Note sur les comptes d’Eleusis (Bull, de corr. hellén., 1884), p. 214.
454. C. I. A., IV, 834b, vs. 70 sgg.
455. C. I. A., IV, 834b, vs. 79-81.
456. Bull. de corr. hell., XIV (1890); Homolle, Comptes et inventaires des temples déliens en l’année 279, p. 393, vs. 45 sgg.; p. 396, vs. 86 sgg.; p. 399, vs. 120; p. 483.
457. Bull. de corr. hell., XIV (1890): p. 395, vs. 70; p. 397, 483.
458. Bull. de corr. hell., XIV (1890), p. 396, vs. 82 sgg., p. 480 sgg.
459. Diod. Sic., XXXIV, II, 18.
460. Collitz H., Sammlung d. griech. Dialekt-Inschriften, n. 374 sgg.; I. G. S., 2315, 3309, 3317, 3346, 3349-50, 3358, etc.
461. Collitz, Sammlung, 1474 sgg.
462. Collitz, Sammlung, 1554 sgg.
463. Collitz, Sammlung: Baunack, Die delphische Inschriften, 1684 sgg.
464. Baunack J., Die delphischen Inschriften, 1689, 1694, 1696, 1702, 1714, 1716, 1717, 1731, 1742, etc.
465. Op. cit., 1684, 1696, etc.
466. Op. cit., 1689, 1723.
467. Op. cit., 1723.
468. Op. cit., 1719.
469. Op. cit., 1708.
470. Op. cit., 1717, 1718, 1749, 1754.
471. Dissert., IV, 1, 34 sgg.
472. Curtius E., Ueber die neu entdeckten Delphischen Inschriften nelle Nachrichten von d. K. Gesellsch. d. Wiss. Göttingen, 1865, p. 149 sgg.
473. Droysen G. J., Hist. de l’hellénisme, trad. franç. Paris, 1885, III, p. 606.
474. Lumbroso G., Recherches sur l’économie politique de l’Égypte sous les Lagides. Turin, 1870, p. 100 sgg.; Lumbroso G., L’Egitto dei Greci e dei Romani, 2ª ediz. Roma, 1895, passim; Blümner H., Die gew. Thätigkeit d. Völker d. klass. Alterthums. Leipzig, 1869, p. 6 sgg.
475. Lumbroso G., Recherches, etc., p. 100.
476. Op cit., p. 89 sgg.
477. R. R. I., 17.
478. Lumbroso G., Recherches, etc., p. 104 sgg.
479. Friedlaender L., Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, III6, p. 616.
480. Script. hist. Aug., Saturninus, c. 8; Pöhlmann R., Die Uebervölkerung d. ant. Grosstädte. Leipzig, 1884, p. 31 sgg.
481. Pregel Th., Die Technik im Alterthum, Chemnitz, 1896, pp. 22 sgg., 27 sgg., 33 sgg.; Bourdeau L., Les forces de l’industrie. Paris, 1884, pp. 118 sgg., 188 sgg.
482. Ziebarth E., Das griechische Vereinswesen. Leipzig, 1896, p. 107 sgg.
483. Op. cit., p. 109.
484. Bull. de corr. hell., VII (1883), p. 504, n. 10; C. I. G., 2374e; Waltzing J. P., Étude sur les corporations professionelles chez les Romains. Bruxelles, 1895, p. 191 sgg.
485. Büchsenschütz B., Bemerkungen über die römische Volkswirthschaft der Königzeit. Berlin, 1886, pp. 8 sgg.; Voigt M., Die römischen Privatalterthümer, zw. Aufl. München, 1893, p. 289 sgg.
486. Iuven., XIV, 168; Apul. de mag., 17; Marquardt J., La vie privée des romains, trad. franc. Paris, 1892, I, pp. 23 sgg., 160 sgg.; Wallon, op. cit., II2, p. 8; Mommsen, Röm. Gesch. I8, pp. 186, 188.
487. I, 76, ; III, 55, ; IV, 22 ; 23 57, ; V, 7 ; 22; , 26 ; 42 ; 51 ; 53, ; VI, 22 , etc.
488. Liv. I, 27, 3; 38; II, 13, 4; 19, 1; Dionys Hal. V, 61; Büchsenschütz B., Bemerkungen etc., p. 30.
489. Varr., R. R. II praef.
490. Karlowa O., Römische Rechtsgeschiechte. Leipzig, 1885, I, p. 38.
491. Büchsenschütz B., Bemerkungen, etc., pp. 13 sgg.; Voigt M., D. röm. Privatalterthüm., p. 311; Mommsen, Röm. Forsch. I, p. 366 sgg.
492. Drumann, Arbeiter u. Communisten, pp. 164 sgg., con le autorità ivi citate.
493. Dionys Hal., IX, 27, 3, cfr. II, 76; Voigt M., Die XII Tafeln, Leipzig, 1883, I, pp. 26 sgg., II, p. 247.
494. Plut. Num. 17; Waltzing J. P. Étude hist. sur les corporations profession. chez les Romains. Bruxelles, 1895, pp. 62 sgg.
495. Bull. dell’Ist. di corr. arch., 1875, p. 232; Pöhlmann R., Die Anfänge Roms. Erlangen, 1881, p. 7.
496. Gamurrini G. F., Dell’arte antichissima in Roma (Bull. dell’Ist. arch. germ. Sez. rom.), II (1887), p. 221 sgg.
497. Wezel E., De opificio opificibusque apud veteres Romanos. Berlin, 1881, P. I, pp. 12 sgg., 31 e passim; Voigt, Röm. Privatalt., pp. 302 sgg.
498. Richter O., Topographie von Rom (in Iw. Müller’s Handbuch d. klass. Alterthumwiss., III, 10, pp. 752, 756, 763, 815, 841).
499. Liv., I, 53; 55, 6.
500. Liv., I, 56, 1; 52, 9; Dionys, IV, 44; Cic. in Verr., V, 19, 44. Cfr. Büchsenschütz B., Bemerkungen, etc., p. 32.
501. Liv., I, 38, 1; II, 25, 6; 31, 4; III, 3, 9; IV, 36, 2; VI, 4, 2, etc.
502. Voigt M., Die XII Tafeln. Geschichte und allgemeine juristische Lehrbegriffe der XII Tafeln nebst deren Fragmenten. Leipzig, 1883, I, pp. 16 sgg. con i testi ivi citati.
503. Adsiduus, proletarius, detrimentum, emolumentum, pecunia, peculium, fenus. Cfr. Voigt, op. cit., I, pp. 18-9.
504. Voigt, op. cit., I, p. 196, n. 6, con i testi ivi citati.
505. Liv. IV, 45, 2: dena milia gravis aeris, quae tum divitiae habebantur.
506. Voigt, op. cit., I, pp. 21-3.
507. Voigt, op. cit., I, p. 22.
508. Virg. Georg., I, 261 sgg.; Cat. De agricultura, ed. Keil, 2, 3; 23, 1; 31, 1; 33, 5; 37, 5; 39, 1; 59; Varr. RR. I, 2, 22; 22, 1; 23, 5; Plin., H. N. XVIII, 26, 236; Cat. RR. XI, 2; Blümner, Technologie, I, 98 sgg.; Voigt, op. cit., I, pp. 26 sgg.
509. Büchsenschütz, Bemerkungen, etc., pp. 28 sgg.
510. Voigt, op. cit., I, pp. 30 sgg.
511. Liv., II, 23, 27, 29; VI, 14-5; 27; 31, 2; 34, 2, etc.; Dionys., IV, 9; V, 33, 63, 66; VI, 22, 26, etc.
512. Hartmann, Röm. Kalender, p. 29, n. 57. Voigt, op. cit., I, p. 723, VII, 17; II, pp. 581 sgg.
513. Hartmann, Röm. Kalender, p. 29, n. 57. Voigt, op. cit., I, p. 723, VII, 17; II, pp. 581 sgg.
514. Liv., V, 55.
515. Karlowa O., Röm. Rechtsgeschichte, I, p. 97.
516. Liv., VII, 28.
517. Savigny, Das altrömische Schuldrecht in Vermischte Schriften. Berlin, 1850, II, pp. 425 sgg.
518. Bruns6, Fontes iuris romani antiqui, Leg. XII, tabul. VIII, 2; Voigt, op. cit., I, p. 722, VII, 15 e II, p. 533 sgg.
519. Bruns6, VIII, 14; Voigt, VII, 2.
520. Bruns6, VII, 12; Voigt, IV, 13.
521. Voigt, op. cit., II, pp. 78 sgg.
522. Bruns6, II, 1.
523. Bruns6, XII, 2; Voigt, VII, 13; XII, 1.
524. Bruns6, V, 3; Voigt, IV, 1.
525. Plin., N. H. XXXIII, 13, 44; Liv. epit., 15; Mommsen, Hist. de la monnaie rom. I, p. 300.
526. Die Gracchen und ihre nächsten Vorgänger. Berlin, 1847, p. 15.
527. Gromatici veteres. Berolini, 1848, p. 115. Hyg. De conditionibus agrorum: “quia non solum tantum occupabat unusquisque, quantum colere praesenti tempori poterat, sed quantum in spem colendi habuerat, ambiebat„.
528. Liv. IV, 59, 11; V, 7, 12; Marquardt J. L’organisation militaire chez les Romains, trad. franç. Paris, 1891, p. 20.
529. Nitzsch, op. cit., pp. 37 sgg.
530. Ἀθην. πολ. c. 12.
531. Cic., De off. II, 21, 73.
532. Varron, R. R. II, Praef.:..... in qua terra culturam agri docuerunt pastores progeniem suam, qui condiderunt urbem, ibi contra progenies eorum propter avaritiam contra leges ex segetibus fecit prata.
Columella, R. R. I, Praef.:.. in hoc Latio et Saturnia terra, ubi dii cultus agrorum progeniem suam docuerunt, ibi nunc ad hastam locamus, ut nobis ex transmarinis provinciis advehatur frumentum, ne fame laboremus.
533. Wiskemann H. Die antike Landwirthschaft und das von Thünensche Gesetz. Leipzig, 1859, pp. 50 sgg.
534. Caton., de agr. cult., 1, 7, ed. Keil.
535. R. R. I, 7, 9.
536. Varron., R. R. I, 16, 3: itaque sub urbe colere hortos late expedit, sic violaria et rosaria, item multa quae urbs recipit, cum eadem in longinquis praediis, ubi non est quo deferri possit venale, non expediat colere. Wiskemann, op. cit., p. 40 sgg.
537. Varron., R. R. I, 7, 9.
538. Varron., R. R. I, 8, 2.
539. Columella, R. R. IV, 3.
540. Varron., R. R. II, Praef. 5: Ex ea enim quaque fructus tolli possunt non mediocres, ex ornithonibus ac leporariis et piscinis; III, 4, 2; 7, 1 sgg.; 10, 1; 12, 1; Colum. R. R. VIII, 1 sgg.; IX, Praef.
541. Varron., R. R. III, 2, 14-15.
542. R. R. III, 6, 1.
543. Colum., R. R. VIII, 8.
544. Varron., R. R. III, 16, 10.
545. Varron., R. R. I, 9, 3; 44, 1.
546. De agri cult., 10.
547. De agri cult., 11.
548. Varron., R. R. I, 18.
549. Varron., l. c.
550. Varron., R. R. II, 10, 10.
551. R. R. II, 10, 11.
552. Varron., R. R. III, 17, 6.
553. Varron., R. R. II, 10, 1.
554. Polyb., VI, 19, 2; Sall., Jugurt., 86, 2; Marquardt, Organisation militaire, p. 142.
555. Polyb., VI, 19, 2; Sall., Jugurt., 86, 2; Marquardt, Organisation militaire, p. 142.
556. Val., Max., III, 4, 7.
557. R. R. I, 17.
558. Diod. Sic., XXXIV, 2, 36, 38.
559. Boeger G., De mancipiorum commercio apud Romanos. Berol., 1841. p. 25.
560. Wallon, op. cit., II2, pp. 34 sgg.
561. Wallon, op. cit., II2, pp. 82 sgg.
562. Liv. XXVII, 10; Cagnat R., Étude historique sur les impôts indirects chez les Romains. Paris, 1882, p. 172.
563. Boeger, op. cit., p. 21; Wallon, op. cit., II2, p. 159 sgg.; Abignente, op. cit., p. 75; Dureau de la Malle, Économ. polit. des Romains, Paris, 1840, I, 147 sgg., 244.
564. Plut., Cat. maj, 4, 5.
565. Liv., XXXIX, 44.
566. Appian., De bell. Mithr., 78.
567. Liv., X, 46, 5.
568. Marquardt J., De l’organisation financière chez les Romains, trad. franç. Paris, 1888, p. 27.
569. Marquardt J., op. cit., p. 76.
570. Bücher K., Die Entstehung der Volkswirthschaft. Tübingen, 1893, p. 18.
571. Dal Popma (De operis servorum ap. Polen. suppl. a Graevius, vol. III), in poi, è stato molte volte fatto, sviluppato e completato l’elenco delle diverse funzioni esercitate da’ servi nella casa. Cfr. Wallon, op. cit., II2, pp. 104 sgg.; Voigt, Privatalt.2, p. 388 sgg.; Marquardt, La vie privée des Romains, trad. franç. Paris, 1892, I, pp. 160 sgg.
572. Boeger, op. cit., p. 4: Quot pascit servos? quaeritabat, primorum Caesarum temporibus, quisquis alicuius fortunas exploraturus erat, nec quisquam divitis nomine dignus habebatur, nisi centum vel ducentos aleret... Cfr. Senec., de tranqu. anim., 8; Ep. 17, 3-4; Athen., VI, p. 272.
573. Wallon, op. cit., II2, p. 141 sgg.
574. in Pis. 27, 67.
575. Wallon, op. cit., II2, pp. 121 sgg.
576. Caton., De agri cult., 4, 5; Varr., R. R., I, 17.
577. De agri cult., 1, 3.
578. R. R. I, 17.
579. Cat. de agri cult., 2, 7.
580. Pöhlmann R., Die Ueberbevölkerung, etc., pp. 114 sgg.; Friedlaender L., Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms in d. Zeit von August bis zum Ausgang der Antonine. Leipzig, 1888, Iº, p. 37.
581. Dig. XXXV, 2, 68. Euseb., H. E., VII, 21, 9; Pöhlmann, l. c.; Hildebrand, Bevölkerungsstatistik im alter Rom. (Jahr. f. N. O., VI, 91); Beloch J., Die Bevölkerung, etc., pp. 41 sgg.
582. Liv., IV, 30, 8: Volgatique contactu in homines morbi. Et prius in agrestes ingruerant servitiaque. VIII, 22, 7; IX, 28, 6; X, 31, 8; 47, 6.
583. Friedlaender, op. cit., I2, pp. 39 sgg., con i testi ivi citati.
584. Liv., II, 51-2; III, 31, 1; IV, 25, 4, etc.
585. De offic., III, 6 e 23.
586. Wallon, op. cit., II2, p. 187 sgg.; Karlowa, op. cit.
587. Dig. XXIX, 5 L. 1, De Senacons. Silaniano. Cum aliter nulla domus tuta esse possit, nisi periculo capitis sui custodiam dominis tam ab domesticis quam ab extraneis praestare servi cogantur, ideo senatus consulto introducti sunt de publica quaestione a familia necatorum habenda. Cfr. Tacit., Ann. XIII, 32; XIV, 42-44.
588. Cairnes J. E., The slave power, pp. 56 sgg.
589. Colum., R. R. XII, 3; Cat., De agri cult., 2, 2.
590. R. R. IV, 3.
591. Plut., Cat. maj., c. 21.
592. Bücher K., Die Aufstände der unfreien Arbeiter, Frankfurt a. M., 1874, p. 43. Cfr. Roscher, Grundlagen d. Nationaloekonomie, II, § 35.
593. Varron. R. R. I, 50; Dureau de la Malle, Mém. sur l’agricultore romaine depuis Caton le Censeur jusqu’à Columelle (Mém. de l’Inst., XIII (1828), p. 458, 59.)
594. Dureau de la Malle, op. cit., p. 439.
595. Weber M., Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht. Stuttgart, 1891, pp. 222 sgg.
596. Plin., H. N., XVIII, 7: ..... nihil minus expedire quam agrum optime colere..... Bene colere necessarium est: optime, dannosum, praeterquam subole, suo colono, aut pascendis.
597. Serv. ad Virg. Georg., I, 160: Tribula, genus vehiculi, omni parte dentatum, unde teruntur frumenta, quo maxime in Africa utuntur; Mongez, Mém. sur les instrumens d’agriculture employés par les anciens (Mém. de l’Inst., III, (1818), p. 42); Magerstedt F. A., Bilder aus dem römischen Landwirthschaft. Sonderhausen, 1861, V, p. 245.
598. Columel., De arborib., 8.
599. Mongez, op. cit., p. 56; Magerstedt, op. cit., V, p. 142 sgg.
600. Pallad., R. R. VII, 2; Mongez, op. cit., p. 39; Magerstedt, op. cit., V, p. 240 sgg. Cfr. anche p. 238.
601. Caes. de bell. gall., VI, 13.
602. Heisterbergk B., Die Entstehung des Colonats. Leipzig, 1876, pp. 73 sgg.
603. H. N., XVIII, 7, 36: ....... Coli rura ab ergastulis pessimum est et quidquid agitur a disperantibus.
604. R. R. I, Pr.: ..... rem rusticam pessimo cuique servorum, velut carnifici noxa dedimus.... Nunc et ipsi praedia nostra colere dedignamur, et nullius momenti ducimus peritissimum quemque villicum facere. Cfr. I, 1 e 7.
605. Colum., R. R. I, 3: Huc pertinet praeclara nostri poetae sententia:
Laudato ingentia rura. Exiguum colito.....
Tantum enim obtinendum est, quanto est opus: ut emisse videamur quo potiremur, non quo oneremur ipsi atque aliis fruendum eriperemus, more praepotentium qui possident fines gentium quos ne circumire quoque valent, sed proculcantibus pecudibus et vastandos feris derelinquunt aut occupatos nexu civium ergastulis tenent. Pallad., R. R. I, 6 e 7.
606. Liv., III, 15, 16.
607. Liv., IV, 45: Annus felicitate populi Romani periculo potius ingenti quam clade insignis. Servitia urbem ut incenderent distantibus locis coniurarunt, populoque ad opem passim ferendam tectis intento ut arcem Capitolium armati occuparent. Auertit nefanda consilia Juppiter...; Bücher, Aufstände, etc., p. 24; Mommsen, R. G., I8, p. 448.
608. Bücher, op. cit., pp. 29-9; Mommsen, R. G., I8, p. 859.
609. Mommsen, R. G. II8, p. 77. Il Bücher (op. cit., p. 123) ne contesta la data. Cfr. II, 69; Posid., fr. 15, presso Athen., XII, 542; Diod. Sic., XXXIV, XXXV, c. 2 sgg.; Liv. Epitom., 56, 58, 59; Bücher, Aufstände, etc., pp. 95, 105 sgg.
610. Diod. Sic., XXXVI, c. 2; Mommsen, R. G. II3, p. 132.
611. Diod. Sic., XXXIV, 2, 48.
612. Cic. in Verr., A. S. III, 51, 120.
613. Ciccotti E., Il processo di Verre. Milano, 1895.
614. Diod. Sic., XXXIV-V, 2, 3.
615. Diod. Sic., XXXIV-V; Oros. V, 5, 9; Val. Max., II, 7, 9; IX, 12, 1; Flor., II, 7, 7 (III, 19 ed. Halm.); Bücher, op. cit.; Siefert O., Die Sklavenkriege. Altona, 1860.
616. Diod. Sic., XXXVI e 3300: Dio Cass. 93, ed. Dindorf: Flor., II, 7, 7 (III, 19), ed. Halm. e le opere prima citate.
617. Ciccotti E., Il processo di Verre. Milano, 1895, p. 227.
618. Plut., Crass., 8-11; Appian., B. C. I, 116-120; Sall., fr., III, 67-81, Kr., Oros. V, 24.
619. Mommsen, R. G. III2, p. 84 sgg.
620. Liv., I, 51, 2; II, 4, 5; II, 5; III, 15, 5; IV, 45, 1, etc.
621. Appian., B. C., IV, 14.
622. Wallon, op. cit., II2, p. 186, con le autorità ivi citate.
623. Virg., Eclog. III, 16: Wallon, op. cit., II2, pp. 268-9.
624. Wallon, op. cit., II2, p. 259, con le citazioni ivi addotte.
625. Ovid., Amor, I, XV, 17.
626. Wallon, op. cit., II, p. 274.
627. Columel., R. R., I, 1: Nam qui longinqua ne dicam transmarina rura mercantur, velut haeredibus patrimoniosus, vel quid gravius est, vivi cedunt servis suis: quoniam quidem et illi tam longa dominorum distantia corrumpuntur et corrupti post flagitia quae commiserunt, sub expectatione successorum, rapinis magis quam culturis student.
628. Colum., R. R., I, 7: ... et maxime vexant servi qui boves elocant, eosdemque et cetera pecora male pascunt, nec industrie terram vertunt longeque plus imputant seminis iacti quam quod severint.
629. Varr., R. R., I, 16, 3; Colum., R. R., I, c. 8.
630. Pallad., R. R., I, 6, 2, ed. Schmitt.
631. Caton., De agri cult., 2, 2: servos non valuisse, tempestates malas fuisse, servos aufugisse, opus publicum effecisse...; Colum., R. R., XII, Praef.
632. Pöhlmann R., Die Ueberbevölkerung, p. 38.
633. Senec., Epist., 47, 3; Macrob., Sat., I, 11.
634. Fabretti, Inscript. ant., X, 238: C. Aelius Asprenas Commodi Caes. Negot. quo nemo mortem alacrius admisit quod a servorum suorum servitute tandem liber evaderet. Hoc autem testam(ento) cavit posteris inscribi. Bix(it). Ann. LVIII M. IX D. XI.
635. Cairnes, The slave power, p. 85.
636. Liv., XXXIX, 44; Plut., Cat. maj.; 18; Nitzsch, Die Gracchen, pp. 127, 142.
637. Hermes, XIX: Mommsen Th., Die italische Bodentheilung und die Alimentartafeln, pp. 401, 405.
638. H. N., XVIII, 35.
639. Grom. vet., I, p. 53: Frontin., de controv. agror.: Inter res publicas et privatos non facile tales in Italia controversiae moventur, sed frequenter in provinciis, praecipue in Africa, ubi saltus non minores habent privati quam res publicae territoria. Cfr. Hyg., de limitibus, p. 116.
640. Weber M., Römische Agrargeschichte, pp. 67-8.
641. Meyer E., Untersuchungen zur Geschichte der Gracchen. Halle a. S. 1894 (Sep. Abdr.), p. 15.
642. Plut., Ti. Gracch., c. 9.
643. Catil., 20.
644. Cic., de off., II, 21, 73.
645. Weber, Agrargeschichte, p. 112.
646. Weber, op. cit., p. 130 sgg.
647. Deloume A., Les manieurs d’argent à Rome. Paris, 1887, pp. 72 sgg.
648. Plut., Crass., 2.
649. B. C., I, 7.
650. Mommsen, R. G. II8, p. 81.
651. Dureau de la Malle, Mém. sur l’agriculture romaine depuis Caton le Censeur jusqu’à Columella (Mém. de l’Acad. des Inscript., XIII (1828), p. 416 sgg.).
652. Dureau de la Malle, Économie polit. des Romains, II, p. 245 sgg.; Beloch J., Die Bevölkerung, pp. 415, 501.
653. Nitzsch, Die Gracchen, p. 133.
654. VI, 19, 2.
655. Marquardt, Organisation militaire, p. 230.
656. Dionys., VII, 13; 27; IX, 59; Plut., Coriol., 13; Liv., XXXVII, 46, 10.
657. De Ruggiero E., Le colonie dei Romani. Spoleto, 1897, p. 62.
658. Nitzsch, Die Gracchen, op. cit., pp. 74, 76, 135, etc.
659. Nitzsch, op. cit., p. 60 sgg.
660. De Ruggiero, Le colonie, p. 38.
661. De Ruggiero, op. cit., pp. 128-9.
662. De Ruggiero E., Leges agrariae (in Enciclopedia giuridica italiana, Vol. I, P. 2ª. Milano, 1884, pp. 737 sgg.), dove la questione è largamente riassunta e discussa con la menzione de’ testi e delle autorità ivi citate.
663. De Ruggiero, op. cit., pp. 752 sgg.
664. Hermes XXIII (1888); B. Niese, Die sogenannte Licinisch-Sextische Ackergesetz, pp. 410 sgg., p. 423.
665. De Ruggiero, Leges agrariae, pp. 768 sgg., con le autorità ivi citate.
666. Plut., ib. Gr., 14.
667. De Ruggiero E., Leges agrariae, pp. 815, 817.
668. Appian., B. C., I, 27: Καὶ ἡ στάσις ἡ τοῦ δευτέρου Γράκχου ἐς τάδε ἔληγε νόμος τε οὐ πολὺ ὕστερον ἐκυρώθη, τὴν γῆν, ὑπὲρ ἧς διαφέροντο, ἐξεῖναι πιπράσκειν τοῖς ἒχουσιν ἀπείρητο γὰρ ἐκ Γράκχου το προτέρου καὶ τόδε. Καὶ εὐθὺς οἱ πλύοσιοι παρὰ τῶν πενήτων ἐωνοῦντο, ἤ ταῖσδε ταῖς προφάσειν ἐβιάζοντο, καὶ περιῆν ἐς χεῖρον ἔτι τοῖς πένησι, μέχρι Σπόριος Θόριος δημαρχῶν ἐσηγήσατο νόμον, τὴν μὲν γῆν μηκέτι διανέμειν, ἀλλ’ εἴναι τῶν ἐκόντων, καὶ φόρους ὑπὲρ αὐτῆς τῷ δήμῳ κατατίθεσθαι καὶ τὰδε τὰ χρὴματα χωρεῖν ἐς διανομάς. — De Ruggiero, Leges agrariae, pp. 820-21.
669. C. I. L., I, p. 175, n. 200; Bruns6, Fontes, pp. 74 sgg.; De Ruggiero, op. cit., p. 821 sgg., 880 sgg.
670. Bruns6, Fontes, p. 74, 3: [..... quem agrum locum] quoieique de eo agro loco ex lege plebeive sc(ito) III vir sortito ceivi Romano dedit adsignavit..... (Cfr. p. 76, 15). p. 75-7-8: ager locus aedificium omnis quei supra scriptu[s est..... (134)..... extra eum agrum locum de quo supra except]um cavitu[mve est, privatus esto... (66/102)... eiusque locei agri aedificii emptio venditi]o ita, utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto; emsorque queicomque erit fa[c]ito, utei is ager locus aedificium, quei e[x hace lege privatus factus est, ita, utei ceteri agri loca aedificio privati, in censum referatur.....].
671. Bruns6, Fontes, p. 75, 5: [..... quod eius quisq]ue agri locei publicei in terra Italia, quod eius extra urbem Romam est, quod eius in urbe oppido vico est, quod eius III vir dedit adsignavit, quod... (211/102)..... tum cum haec lex rogabitur habebit possidebit.....
672. Bruns6, Fontes, p. 74, 1-2: Quei ager poplicus populi Romanei in terram Italiam P. Mucio L. Calpur[nio cos. fuit, extra eum agrum, quei ager ex lege plebeive sc(ito), quod C. Sempronius Ti. f. tr(ibunus), pl(ebei) rogavit, exceptum cavitumve est nei divideretur.... (150/82).., quem quisque de eo agro loco ex lege plebeive scito vetus possessor sibei] agrum locum sumpsit reliquitve, quod non modus maior siet, quom quantum unum hominem ex lege plebeive sc(ito) sibei sumer[e relinquereve licuit...].
673. Bruns6, Fontes, p. 78, 21-23: [agrum lo]cum publicum populi Romanei de sua possessione vetus possessor prove vetere possessor[e...]
674. Bruns6, Fontes, p. 76, 13-4: Quei ager locus publicus populi Romanei in terra Italia P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit, extra eum agrum, quei ager ex lege plebive sc[ito quod C. Sempronius Ti. f. trib. pl. rogavit, exceptum cavitumve est nei divideretur... (110)... e]xtraque eum agrum, quem vetus possessor ex lege plebeive [scito sibei sumpsit reliquitve, quod non modus maior siet, quam quantum unum hominem sibei sumere relinquereve licuit, sei quis tum cum hae lex rogabitur (45/102) agri colendi cau]sa in eum agrum agri iugera non amplius XXX possidebit habebitve: [i]s ager privatus esto.
675. Bruns6, Fontes, p. 83, 53 sgg.
676. Bruns6, Fontes, p. 79, 24-6: [Agen locus quei sup]ra scriptus est, quod eius agri locei post[h.] l. rog. publicum populei Romanei erit, extra eum ag[rum locum, quei publico usui destinatus est vel publice locatus est, in eo agro queive.]..... etc.
677. Weber M., Römische Agrargeschichte, pp. 114 sgg. Cfr. pp. 97, 104, 105.
678. Hirschfeld O., Die Getreideverwaltung i. d. römischen Kaiserzeit (Sep.-Abdr. aus Philologus. Bd. XXIX, 111), pp. 2 sgg.; Marquardt, Organisation financière, pp. 144 gg.
679. Weber M., Röm. Agrargeschichte, p. 69. Anm. 38: Es ist im übrigen charakteristisch für das Bestehen des im Text behaupteten Zusammenhangs dass sobald mit Vollendung der Expansion des römischen Flurbezirkes und nachdem das zur Besiedelung bereitstehende Land im wesentlichen vergeben war, die Testierfreiheit durch die Praxis des Centumviralgerichtshofes vermittelst der Inofficiositätfiktion beseitigt wurde.
680. Plut., C. Gracch., c. 7; Appian., B. C., I, 23: Ὁ δὲ Γράκχος καὶ ὁδοὺς ἔτεμνεν ἀνὰ τὴν Ἰταλίαν μακράς, πλῆθος ἐργολὰβων καὶ χειροτεχνῶν ὑφ’ ἑαυτῶ ποιούμενος...
681. II, 28.
682. III, 68: IX, 12.
683. I, 56, 1; 59, 9; VI, 1, 6; 25; VIII, 19, 3.
684. Varr., R. R. I, 17, 1.
685. Colum., R. R. I, 3:... Propter quod operam dandam esse ut rusticos et eosdem adsiduos colonos retineamus cum aut nobismetipsis non licuerit aut per domesticos colere non expediverit quod tamen non evenit nisi in his regionibus quae gravitate coeli solique sterilitate vastantur. — 7:..... In longinquis tamen fundis in quos non est facilis excursus patrisfamilias, cum omne genus agri tollerabilius est sub liberis colonis quam sub vilicis servis habere tum praecipue frumentarium.
686. Cat., R. R. 136-7.
687. Varr., R. R. I, 17, 1: Omnes agri coluntur hominibus servis aut liberis aut utrisque, liberis aut cum ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie, aut mercenariis, cum conducticiis liberorum operis res maiores, ut vindemias ac foenisicia, administrant, iisque quos obaerarios nostri vocitarunt et etiam nunc sunt in Asia atque in Aegypto et in Illyrico complures.
688. Sallust., Cat., 37, 7:..... iuventus, quae in agris manuum mercede inopiam toleraverat. Nitzsch, Die Gracchen, pp. 184, 187 sgg.. 192, 194.
689. Varron, R. R. I, 17, 1: De quibus universis hoc dico, gravia loca utilius esse mercenariis colere quam servis. Cfr. Cat., R. R. 14, 5.
690. Caton., R. R. 136-7.
691. Cat., R. R. 1, 3; 4, 6; Varron, R. R. 16, 3.
692. Varron, R. R. I, 16, 3:..... item si ea oppida aut vici in vicinia aut etiam divitum copiosi agri ac villae, unde emere possis quae opus sunt in fundum, quibus quae supersunt venire possint, ut quibusdam pedamenta aut perticae aut harundo, fructuosior fit fundus, quam si longe sit imputanda, non numquam etiam, quam si colendo in tuo ea parere possis. Itaque in hoc genus coloni potius anniversarios habent vicinos quibus imperent medicos, fullones, fabros, quam in villa suos habeant, quorum non nunquam unius artificis mors tollit fundi fructum. Quam partem lati fundi divites domesticae copiae mandare solent. Si enim a fundo longius absunt oppida aut vici fabros parant, quos habeant in villa, sic ceteros necessarios artifices, ne de fundo familia ab opere discedat ac profestis diebus ambulet feriata potius, quam opere faciendo agrum fructuosiorem reddat.
693. Varron, R. R., l. c. — Cat., R. R. 1, 3:.. loco salubri, operariorum copia siet, bonumque aquarium oppidum validum prope siet aut mare aut amnis, qua naves ambulant aut via bona celebrisque.
694. Mommsen, R. G. I8, p. 196.
695. Gamurrini G. F., Dell’arte antichissima in Roma (Bull. dell’Istit. arch. germanico. Sez. Romana II (1887), pp. 221 sgg.).
696. Waltzing J. P., Étude hist. sur les corporations professionnelles chez les Romains. Bruxelles, 1895, I, p. 199.
697. Waltzing, op. cit., I, p. 239 con le autorità ivi citate.
698. Sallust., Bellum Jugurt., 73, 6:..... plebes sic accensa, uti opifices agrestesque omnes, quorum res fidesque in manibus sitae erant, relictis operibus frequentarent Marium et sua necessaria post illius honorem ducerent.
699. Waltzing, op. cit., I, p. 86.
700. Waltzing, op. cit., I, p. 88.
701. Cic., Pro dom., 33, 89; de pet. consul., 8, 30; Waltzing, op. cit., I, p. 86.
702. Marquardt, Vie privée des Romains, II, pp. 31-2.
703. R. R. 135: Romae tunicas, togas, saga, centones, sculponeas: Calibus et Minturnis cuculliones, ferramenta, falces, palas, ligones, secures, ornamenta, murices, catellas: Venafro palas. Suessae et in Lucania plostra, treblae albae: Romae dolia, labra: tegulae ex Venafro. Aratra in terram validam romanica bona erunt, in terram pullam campanica: iuga romanica optima erunt: vomeris indutilis optimus erit: trapeti Pompeis, Nolae ad Rufri maceriam: claves, clostra Romae: Romae, urnae oleariae, urcei aquarii, urnae vinariae, alia vasa ahenea Capuae, Nolae: fiscinae campanicae † eome utiles sunt. Funes subductarias, spartum omne Capuae: fiscinas romanicas Suessae, Casino † optimae erunt Romae.
704. Fredländer J., Darstellungen, II6, pp. 3 sgg.
705. Pauly, Real-Encycl. d. class. Alterthumw. VI, p. 2545.
706. Marquardt, Organisation financière, pp. 108 sgg.; Pöhlmann R., Die Ueberbevölkerung, etc., pp. 114 sgg.
707. Cairnes, The slave power, pp. 71, 74.
708. R. R. I, 3:..... qui possident fines gentium quos ne circumire quoque valent, sed proculcantibus pecudibus et vastandis feris derelinquunt; 7: operam dandam esse ut rusticos et eosdem assiduos colonos retineamus, cum aut nobismetipsis non licuerit aut per domesticos colere non expedierit, quod tamen non evenit nisi in his regionibus quae gravitate coeli solique sterilitate vastantur.
709. Vedi innanzi, pag. 60.
710. Cairnes, The slave power, p. 75.
711. Marquardt, Organisation financière, pp. 144 sgg.
712. Schaeffle, Das gesellschaftliche System d. menschlichen Wirthschaft (3 Aufl.), II, p. 485; Pöhlmann, Die Ueberbevölkerung, p. 51.
713. Pro Roscio Comoed., c. 10.
714. Pöhlmann, Die Ueberbevölkerung, pp. 38, 107, con le autorità ivi citate.
715. Friedlaender, Darstellungen, I9, p. 882: Der karge Tagelohn, der in Martials Zeit 6 1⁄4 Sesterzen zu betragen pflegte (eine Summe die man einem Sklaven als Trinkgeld gab), die aber nebst den übrigen Emolumenten für den Lebensunterhalt der Clienten nothdürftig hinreichte.....
716. Cairnes, The slave power, pp. 75 sgg.
717. Friedlaender, Darstellungen, I6, pp. 379 sgg.
718. Περι τῶν ἐπὶ μισθῶ συνόντων.
719. Pöhlmann, Die Ueberbevölkerung, pp. 38, 82 sgg.
720. Scheel v. H., Die wirthschaftlichen Grundbegriffe im Corpus juris civilis (ne’ Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik hrg. von Br. Hildebrand, IV (1866), p. 337).
721. Plut., Cat. maj, c. 21.
722. Jurisprudentiae antehadrianae quae supersunt ed. P. Bremer. Lipsiae, 1896, pp. 185, 208; D. 40, 7, 14; D. 13, 6, 5, 7.
723. Plut., Crass, 2; Pöhlmann, Die Uerberbevölkerung, p. 89: So kaufte Crassus allein ein halbes Tausend unfreier Bautechniker und Bauhandwerker auf um sie wieder an Bauunternehmen zu vermiethen, die sich durch derartegewiss nich vereinzelt dastehende Speculationen nicht selten genöthigt sehen mochten, neben Monopolpreise der Baustellen auch noch solche der Arbeitskrafte in den Kauf zu nehmen (Annuar, k. 3). Plutarch bemerkt ausdrücklich a. a. O.: τουσούτους δὲ κεκτηυένος τεχνίτας οὐδὲν ῷκοδόμνησεν αὐτὸς ἢ τὴν ἰδίαν οἰκίαν, ἀλλ’ἔλεγε τοὺς φιλοικοδόμους αὐτοὺς ὑφ’ ἑαυτῶv καταλύεσθαι χωρὶς ἀνταγωνιστῶν. Diese Worte haben Drumann (R. G. IV, 111), Rodbertus (Untersuchungen auf dem Gebiete der Nationalökonomie des class Alterthums, Jahrb. f. Nationalök. und Statist., 1865, S. 300), Marquardt (Privatleben, I, 159), übersehen und lassen daher Crassus selbst die abgebrannten und eingestürzten Häuser wiederaufbauen und vermiethen, so dass das so bedeutungsvoll Moment des Baustellenwuchers ganz verschwindet.
724. Karlowa, R. R. G. II, 1, pp. 111 sgg.; Jhering, Geist. d. r. R. II, 1, pp. 185 sgg.
725. Karlowa, op. cit., II, 1, p. 112.
726. Mandry G., Das gemeine Familiengüterrecht, Tübingen, 1876, II, p. 29; Pernice A., M. Antistius Labeo. Halle, 1873, I, 149.
727. Bremer, Jurisprudentia antehadriana, p. 170; D. 33, 7, 12, 3-6.
728. Bremer, op. cit., p. 201 (D. XV, 3 e 16). Alfenus libro secundo Digestorum. Quidam fundum colendum servo suo locavit et boves ei dederat. Cum hi boves non essent idonei, iusserat eos venire et his nummeis quoi recepti essent alios reparari. Servus boves vendiderat nummos venditori non solverat, postea conturbaverat. Qui boves vendiderat, nummos a domino petebat actione de peculio aut quod in rem domini versum esset etc.
729. Per gli schiavi ne darebbe una prova il fr. 14, pr. de statal. 40, 7; per i liberti lo attesta Dositeo, Hadr. sent. et ep., § 8, p. 9 Böcking.
730. Pernice, op. cit., p. 136.
731. Scheel v. H., Die wirthschaftliche Grundbegriffe im Corpus juris civilis (Jahrbücher f. Nationalökon. und Statistik herausg. von Br. Hildebrand IV, Jahrg. I, Bd. (1866), p. 337).
732. Die Naturalwirlhschaft wurde zur Geldwirtshchaft.
733. Costa E., Il diritto privato romano nelle comedie di Plauto. Torino 1890, p. 108 sgg., con tutti i testi ivi citati; Jhering R., Geist. d. römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwickelung, II, Th., I, Abth. Leipzig, 1854, p. 185.
734. De agri cult., 2, 7: ..... servum senem, servum morbosum et siquid aliut supersit vendat.
735. Cat. maj., 5, 2.
736. Suet., Div. Claud., c. 25.
737. Wallon, op. cit., II2, p. 397 sgg.
738. D. XXXVIII, 1, 9: Operae in rerum natura non sunt. Sed officiales quidem futurae nec cuiquam alio deberi possunt quam patrono, cum proprietas eorum et in edentis persona et in eius cui eduntur consistit: fabriles autem aliaeve eius generis sunt, ut a quacumque cuicumque solvi possint. Sane enim, si in artificio sunt, iubente patrono et aliis edi possunt; Lemonnier H., Etude historique sur la condition privée des affranchis aux trois premiers siècles de l’empire romain. Paris, 1887, p. 120 sgg., 144 sgg.; Karlowa, R. R. II, 1, pp. 145 sgg.
739. Karlowa, R. R. G. II, 1, pp. 142 sgg.; Lemonnier H., Étude historique sur la condition des affranchis aux trois premiers siècles de l’Empire romain. Paris, 1887, pp. 101 sgg., con le autorità da loro citate.
740. Lemonnier, op. cit., pp. 120 sgg.; Karlowa, II, 1, pp. 144-5.
741. D. XXXVIII, 1, De operis libertorum; Karlowa, R. R. G., II, 1, p. 145: Bei den Freigelassenen werden operae officiales und operae fabriles unterschieden. Die officiales erklären Burchardi für Ehrendienste, Danz für die der Person des Patrons zu leistenden Ehren und Liebesdienste, Keller für Aufwartung und Ehrendienste, mehr persönlichindividueller Natur, Zimmern und Mühlenbruch für häusliche Dienste, Rein für persönliche, die Person oder den Haushalt der Patronus betreffenden Dienste, Küntze für die Dienstleistungen, wie sie zum geselligen Luxus vornehmer Römergehörten. Dem gegenüber werden dann die fabriles als Handwerkmässige und künstlerische, kunstartige Verrichtungen charakterisiert. Nach Leist, welcher sich in seinem Werk über das romische Patronatsrecht am ausführlichsten über den Gegensatz auslässt, sind operae officiales solche Dienste, welche innerhalb der Grenzen und der Grundgedankens des officium sich halten, officium aber ist Handeln in Gemässheit eines der Person des andern (hier des Patrons) in jedem konkreten Fall zum Dienen sich sittlich Verbundenfühlens. Fabriles dagegen sind nach Leist die über das Gebiet des officium hinausliegenden Dienste, zu welchen die Freilasser in nicht zu billigender, egoistischer Weise die Freigelassenen anheischig machten, zu welchen nur Dienste gehörten, die die Erlernung eines gewissen Artificiums erfordeten. Dabei bleibt nur die Frage welche Dienste liegen denn innerhalb des officium, welche nicht, zumal da von Leist angenommen wird, dass auch artificiale Dienste sich innerhalb des officium halten und ganz im guten Geist des Patronatsrecht auferlegt werden konnten. Als zum officium des immer nach im weitern Sinne zur familia des Patrons gehörigen Freigelassenen sah man es an, auf die Person, die Familie, das Hauswesen, den Freundkreis des Patrons bezügliche Dienste zu leisten auch wenn solche Kunstfertigkeit voraussetzten. Dahin gehören also keineswege blos häusliche, d. h. im Innern des Hauses zu leistende Dienste, auch nicht bloss Ehrendienste oder gar bloss zum geselligen Luxus vornehmer Römer gehörende Dienste. Sie sind von unbestimmter Mannigfaltigkeit, nur müssen sie dem Patron seinen ganzen Verhältnissen nach (für seine Person, seine Familie, sein Hauswesen, seine Freunde) einen Nutzen gewähren; wie sie der libertus seiner Individualität und Ausbildung nach zu leisten vermag; die proprietas eorum, wie Ulpian, l. 9, § 1, D. de op. lib. 38, 1 treffend sagt, et in edentis persona et in eius cui eduntur consistit.
742. Karlowa, op. cit., p. 146: Die operae fabriles dagegen sind bestimmte Leistungen, zu deren Vornahme Ausbildung in dem betretfenden Kunst gehört, ganz ohne Rücksicht darauf ob dieselben gerade dem Patron seinen Verhältnissen nach dienlich sind oder nicht. Diese innere Verschiedenheit der operae officiales und fabriles prägte sich juristisch zunächst in der Art aus, wie sie zugesagt wurden.
743. Gaii, Inst. III, 39-42, ed. Huschke: Nunc de libertorum bonis videamus. Olim itaque licebat liberto patronum suum in testamento praeterire... Qua de causa postea praetoris edicto haec iuris iniquitas emendata est: sive enim faciat testamentum libertus, iubetur ita testari, ut patrono suo partem dimidiam bonorum suorum relinquat, et si aut nihil aut minus quam partem dimidiam reliquerit, datur patrono contra tabulas testamenti partis dimidiae bonorum possessio; si vero intestatus moriatur suo herede relicto adoptivo filio (vel) uxore, quae in manu ipsius esset, vel nuru, quae in manu filii eius fuerit, datur aeque patrono adversus hos suos heredes partis dimidiae bonorum possessio.... Postea lege Papia aucta sunt iura patronorum.......; Lemonnier, op. cit., pp. 116 sgg.; Karlowa, op. cit., l. c. Ciccotti E., Il processo di Verre. Milano, 1895, pp. 100 sgg.
744. D. XXXVIII, 1, 25: Patronus qui operas liberti sui locat, non statim intellegendus est mercedem ab eo capere: sed hoc ex genere operarum, ex persona patroni atque liberti colligi debet. Nam si quis pantomimum vel archimimum libertum habeat et eius mediocris patrimonii sit ut non aliter operis eius uti possit quam locaverit eas, exigere magis operas quam mercedem capere existimandus est. — D. XXXVIII, 1, 27: Si libertus artem pantomimi exerceat, verum est debere eum non solum ipsi patrono, sed etiam amicorum ludis gratuitam operam praebere: sicut eum quoque libertum, qui medicinam exercet, verum est voluntate patroni curaturum gratis amicos eius. Neque enim oportet patronum, ut operis liberti sui utatur, aut ludos semper facere aut aegrotare.
745. D. XXXVIII, 1, 16.
746. D. XXXVIII, 1, 38: Si tamen libertus artificium exerceat, eius quoque operas patrono praestare debebit, etsi post manumissionem id didicerit. Quod si artificium exercere desierit, tales operas edere debebit, quae non contra dignitatem eius fuerint, velut ut cum patrono moretur, peregre proficiscatur, negotium eius exerceat.
747. D. l. c.: Hae demum impositae operae intelliguntur, quae sine turpitudine praestari possunt et sine periculo vitae. Cfr. D. XXXVIII, 1, 16.
748. D. XXXVIII, 1, 33: Javolenus libro sexto ex Cassio. Imponi operae ita, ut ipse libertus se alat, non possunt.
749. D. XXXVIII, 1, 18-19: Suo victu vestituque operas praestare debere libertum Sabinus ad edictum praetoris urbani libro quinto scribit: quod si alere se non possit, praestanda ei a patrono alimenta (19 Gaius libro quarto decimo ad edictum provinciale) aut certe ita exigendae sunt ab eo operae, ut his quoque diebus, quibus operas edat, satis tempus ad quaestum faciendum, unde ali possit, habeat.
750. Bremer, Jurisprud. antehadrianae, pp. 60-61, 180, 282.
751. Bremer, op. cit., pp. 43, 235; D. XXXVIII, 2, 1... Namque, ut Servius scribit, antea soliti fuerunt a libertis durissimas res exigere, scilicet ad renunciandum tam grande beneficium, quod in libertos confertur, cum ex servitute ad civitatem Romanam perducuntur. Et quidem primus praetor Rutilius edixit se amplius non daturum patrono quam operarum et societatis actionem, videlicet si haec pepigisset, ut, nisi ei obsequium praestaret libertus, in societatem admitteretur patronus.
752. Lemonnier, op. cit., pp. 39 sgg., con le autorità ivi citate.
753. Gai, Inst., I, 42-4; Lemonnier, op. cit., pp. 53 sgg.
754. Dio. Cass., LV, 13; Gai, Inst., I, 16-8; Ulpian, Fragm., I, 12, ed. Huschke; Lemonnier, op. cit., pp. 48 sgg.
755. Gai, Inst., III, 56; Lemonnier, op. cit., pp. 59 sgg.
756. Lemonnier, op. cit., 51.
757. Lemonnier, op. cit., pp. 43, 61.
758. Gai, Inst., I, 46.
759. Bremer, Jurisprud. antehadr., pp. 171, 180, 234, 384, etc.
760. Voigt M., Röm. Rechtsgesch., pp. 641, 657.
761. Costa E., Il diritto romano nelle commedie di Plauto. Torino, 1890, pp. 378 sgg., con i testi ivi citati.
762. C. 5, 4; 144-46.
763. Karlowa, op. cit., II, 2, p. 644 sgg.
764. Caton., De agri cult., 136: Politionem quo pacto partiario dari oporteat; 136: Vineam curandam partiario....
765. Caton., De agri cult., 144-5; Beckker E. J., Ueber die leges locationis bei Cato de re rustica (in Zeitschrift für Rechtsgeschichte herausg. von Rudorff, Bruns, etc., III, 2, 3), p. 428.
766. Bekker, l. c.
767. Vedi sopra, pp. 124, sgg.
768. Caton., De agri cult., 14, 3: hae rei materiem et quae opus sunt dominus praebebit et ad opus dabit.... — 16: ... dominus lapidem, ligna ad fornacem, quod opus siet, praebet; Bücher K., Gewerbe (Handwörterbuch d. Staatswissenschaften herausg. von Conrad, Lexis, Elster und Loening. Jena, 1892, III Bd.), p. 931 sgg.
769. Bekker, op. cit., pp. 430-1.
770. Caton., De agri cult., 144, 4: nequis concedat, quo olea legunda et faciunda carius locetur, extra quam siquem socium in praesentiarum dixerit. Cfr. 144, 5; 145, 3; Bekker, op. cit., l. c.; Mommsen presso Bekker, p. 432; Karlowa, R. Rechtsgesch., II, 2, p. 650.
771. Karlowa, R. Rechtsgesch., II, 2, p. 644: Es wird zur Zeit jener häufiger vorgekommen sein, dass ein römischer Bürger, welcher keine genügende Anzahl von Sklaven hatte, arme Freie servorum loco in operis gegen eine merces hatte. Solche mercennarii, welche auch ihre operae wohl schlechthin, so dass dem conductor die Bestimmung der Art derselben zustand, zu vermieten pflegten, gehörten zur Hausgenossenschaft des conductor. Dieses hatte einmal eine grössere faktische Abhängigkeit des mercennarius zur Folge, es konnte aber auch rechtliche Folgen haben: Vorteile, an welchen die Hausgenossenschaft des Hausherrn teilnehmen darf, kommen auch solchen mercennarii zu gute [L. 4, pr. D. de usu et habit. 7, 8], nur von solchen gilt der Satz, dass aus einem von ihnen gegen den conductor verübten furtum die actio furti nicht entstehe [L. 90 (89) D. de furtis 47, 2. Vgl. auch l. 11, § 1, D. de poenis 48, 19], denn man schrieb wohl dem Hausherrn solchen, aber auch nur solchen, mercennarii gegenüber eine Disziplinarbefugniss, wie gegenüber Freigelassenen und Klienten, zu.
772. Caton., De agr. cult., 144, 2: Qui oleam legerint, omnes iuranto ad dominum aut ad custodem sese oleam non subripuisse neque quemquam suo dolo malo ea oletate ex fundo L. Manli. Qui eorum non ita iuraverit, quod is legerit omne, pro eo argentum nemo dabit, neque debebitor. Cfr. 145, 2.
773. Caton., De agr. cult., 14, 5.
774. Caton., De agri cult., 144, 2-3: Scalae ita ut datae erunt, ita reddito, nisi quae vetustate fractae erunt. Si non [erunt] reddet, aequom solvito, id viri boni arbitratu deducetur. Siquid redemptoris opera domino damni datum erat, resolvito: id viri boni arbitrato deducetor; 146, 3: Vasa, torcula, funes, scalas, trapetos, et siquid aliut datum erit, salvo recte reddito, nisi quae vetustate fracta erunt, si non reddit, aequom solvito.
775. Caton., De agri cult., 144, 3: Legulos, quot opus erunt, praebeto et strictores. Si non praebuerit, quanti conductum erit aut locatum erit, deducetur: tanto minus debebitur.
776. Caton., De agri cult., 145: Si operarii conducti erunt aut facienda locata erunt, pro eo resolvito aut deducetur. — 146, 3: Si emptor legulis et factoribus, qui illic opus fecerint, non solverit, cui dari oportebit, si dominus volet, solvat. Emptor domino debeto et id satis dato proque ea re ita ut s. s. e. ita pignori sunto.
777. Caton., De agri cult., 145. Homines eos dato, qui placebunt domino aut custodi aut quis eam oleam emerit. Cfr., in quanto può trovare applicazione, 145, 3: Socium nequem habeto, nisi quem dominus iusserit aut custos. Sul significato di homines cfr. Bekker, op. cit., p. 430. Per l’epoca imperiale cfr. C. I. L. X, 3948 vs. 5: suas operas sanas va[le]ntes. — IX 3948, XI 3949. — Bruns, Fontes8, p. 328.
778. Caton., De agri cult., 144, 4-5: Nequis concedat, quo olea legunda et faciunda carius locetur, extra quam siquem socium in praesentiarum dixerit. Siquis adversum ea fecerit, si dominus aut custos volent, iurent omnes socii. Si non ita iuraverint, pro ea olea legunda et faciunda nemo dabit neque debebitur ei qui non iuraverit.
779. Bekker, Ueber die leges locationis, etc., p. 431 sgg. — Mommsen, ivi, p. 432. — Karlowa, op. cit., II, 2, p. 650-1.
780. Gai, Instit., ed. Huschke, II, 79: Quidam materiam et substantiam spectandam esse putant, id est, ut cuius materia sit, illius et res, quae facta sit, videatur esse, idque maxime placuit Sabino et Cassio; alii vero eius rem esse putant, qui fecerit, idque maxime diversae scholae auctoribus visum est.....; Oertmann P., Die Volkswirthschaftslehre der Corpus juris civilis. Berlin, 1891, p. 135 sgg.
781. Bücher K., Gewerbe (Hdwb. d. Staatsw., Bd. III), p. 931: Auf die Haufigkeit des gewerblichen Lohnwerkes deutet endlich noch die berühmte Streitfrage der Juristenschulen über den Eigenthümer des Fabrikates bei der Stoffumwandlung (specificatio), wenn der Verarbeiter nicht zugleich Eigenthümer des Materiales war.....
782. Gai, Inst., II, 77 sgg.
783. Gai, Inst., II, 78-79.
784. Oertmann, op. cit., p. 123: Erst in späterer Zeit und im Gegensatz zu der altnationalen Rechtsbildung ist im römischen Recht eine Anerkennung der Bedeutung und der Ansprüche der redlichen Arbeit zur Durchbruch gelangt....... l. 52, § 2, 7; l. 80, D. XVII, 21, § 2, S. III, 25:..... quia saepe opera alicuius pro pecunia valet; l. 52, §2 cit.: pretium enim operae artis est velamentum. — Diese Citate in denen in ziemlich klaren Weise der Arbeit ein Wert (pretium) zugesprochen wird und für unseren Zweck von den erheblichsten Interesse, zumal sie uns zum Theil schon von den Ansichten republikanischen Junsten referieren.
785. Oertmann, op. cit., p. 125: Während ursprünglich eine Entschädigung wegen Verletzung freier Menschen nach dem Grundsatz “liberum corpus nullam recipit aestimationem„ unzulässig war, wurde in der Kaiserzeit — Dernburg, II, § 132, meint: etwa seit Hadrian — die actio legis Aquiliae analog auf diese Fälle ausgedehnt, so Ulpian in l. 7, pr. D., IX, 2 (quominus ex operis filii sit habiturus) und l. 13 pr. eodem; Gaius in l. 7, D. IX, 3 (mercedes operarum, quibus caruit) und l. 3, D. IX, 1.
786. Voigt M., Die XII Tafeln, II, p. 283 sgg.
787. IV, 23.
788. Liv., I, 8, 6:..... eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primun ad coeptam magnitudinem roboris fuit.
789. Liv. IX, 467; Nitzsch, Die Gracchen, pp. 70-71.
790. Horat., Sat., I, 6, vss. 45-6:
“Nunc ad me redes libertino patre natum
Quem rodunt omnes libertino patre natum.
Lemonnier, op. cit., pp. 254 sgg.
791. Val. Max., VIII, 6, 2; Plut., Syll., 9; Appian., B. C., I, 100; Sallust., Cat., 24; Wallon, op. cit., II, p. 318 sgg.
792. Liv., XXII, 57, 11. Cfr. XXVII, 38; XXVIII, 46; Wallon, op. cit., II. p. 483.
793. Marquardt, Vie privée des Romains, I, p. 190 sgg.
794. Jhering, Geist d. röm. Rechts, II Th., 1 Abth., p. 187.
795. Costa, Il diritto romano privato nelle commedie di Plauto. Torino, 1890, p. 94, con i testi ivi citati.
796. Kniep F., Societas publicanorum. Jena, 1896, p. 65 sgg.
797. Diod. Sic., XXXIV, 2, 48.
798. Tacit., Ann., XIII, 23; Wallon, op. cit., II2, p. 427.
799. IV, 23.
800. Ann., XIV, 42.
801. R. R., IV, 3.
802. Plut., Cat. maj., 21.
803. R. R., I. 17, 5.
804. R. R., I, 8.
805. R. R., I, 8.
806. R. R., XII, 3.
807. Mommsen, Droit public romain, trad. fr. VI, 2, pp. 36-40.
808. Hirschfeld O., Untersuchungen auf dem Gebiete der roemischen Verwaltungsgeschichte. Berlin, 1877, I, pp. 30-3, 242; Friedlaender, Darstellungen, I6, pp. 171 sgg., 192 sgg.
809. Hirschfeld, op. cit., pp. 248 sgg.; Friedlaender, op. cit., I6, pp. 82-3 sgg., 185 sgg.
810. Paneg., c. 88.
811. Friedlaender, Darstellungen, I6, p. 88 sgg., con i testi ivi citati.
812. Hist. Aug. Anton. Heliog., c. 11: Fecit libertos praesides, legatos, consules, duces, omnesque dignitates polluit ignobili late hominum perditorum; — c. 6: Vendidit et honores et dignitates et potestatem, tam per se quam per omnes servos et libidinis ministros.
813. Hist. Aug. Hadr., c. 9, 16.
814. Paneg., 88.
815. Friedlaender, Darstellungen, I6, p. 101.
816. Friedlaender, Darstellungen, I6, p. 96.
817. Friedlaender, Darstellungen, I6, pp. 126 sgg. — Erman H., Servus vicarius, l’esclave de l’esclave romain. Lausanne, 1896, pp. 391 sgg.; pp. 436 sgg. e passim.
818. Allard P., Les esclaves chrétiens. Paris, 1876, pp. 286 sgg.
819. Mommsen, Droit public romain, trad. franç., VI, 2, p. 13.
820. Dion. Cass., LIV, 16; LVI, 7; D. XXIII, 2, 23.
821. Tacit., Ann., XII, 53: Inter quae refert ad patres de poena feminarum, quae servis coniungerentur; statuiturque ut ignaro domino ad id prolapsae in servitute, cui consensisset pro libertis haberentur. — Suet. Vespas., c. 11: Libido atque luxuria coercente nullo invaluerat: auctor senatus fuit decernendi ut quae se alieno servo iunxisset, ancilla haberetur..... Cfr. Cod. Theod., IV, 11, 1; Cod. Just., VII, 24.
822. CIL. IX, 154, 507, 872, 989, 1853, 2507, 2728, 2877, 3057, 3680. Cfr. anche 910, 1267, 2687, 2724, 2760, 3763; XII, 724, 901, 2839, 3231, 3310 add., 3601, 3751, 4465, 4502, 4993.
823. CIL. IX, 888; XIV, 2832, 3920.
824. CIL. IX, 1884; X, 593; XII, 682a, 3446, 3782, 3801; XIV, 218, 357, 396, 564, 881, 1654, 2522.
825. Friedlaender, Darstellungen, II6, pp. 3 sgg., con le autorità ivi citate.
826. Cfr. Voigt M., Jus naturale aequum et bonum, IV, pp. 22 sgg.
827. Karlowa, R. R. G., I, pp. 616 sgg.
828. Karlowa, op. cit., I, pp. 646 sgg.; pp. 657 sgg.
829. Vedi sopra pp. 25 sgg.; Petron., Satyr., 71, 1: Amici et servi homines sunt, et aeque unum lactem biberunt etiamsi illos malus fatos (sic) oppresserit...
830. D. de stat. hom., I, 5, l. 4, § 1: Servitus est constitutio juris gentium qua quis domino alieno [contra naturam] subicitur. — D. L, 17, l. 32 Ulpian.: Quod attinet ad jus civile, servi pro nullis habentur: non tamen et jure naturali, quia, quod ad jus naturale attinet, omnes homines aequales sunt. Cfr. Schneider, Zur Gesch. der Sclaverei im alten Rom, pp. 41 sgg., p. 52.
831. Sueton., Claud., 25. — Gai, Inst. I, 52-3. — Schneider, op. cit., p. 22.
832. Wallon, op. cit. III3, pp. 56 sgg.; Schneider, op. cit., pp. 22 sgg; Abignente, op. cit., p. 101.
833. D., I, 6, 2: Divus etiam Hadrianus Umbriciam quandam matronam in quinquennium relegavit, quod ex levissimis caussis ancillas atrocissime tractasset.
834. D., l. c.
835. D., XLVIII, 8.
836. Suet., Domit., c. 7; Dig., XLVIII, 8, 4: Nemo enim liberum servumve invitum ementem castrare debet.
837. Hitzig H. F., Die Stellung Kaiser Hadrians in der römischen Rechtsgeschichte. Zürich, 1892, p. 6.
838. D., II, 4, 10, § 1; I, 12, 8, §§ 8-9.
839. D., XLVIII, 18, §§ 1-2.
840. Cat. maj., c. 5, 2.
841. D., XI, 7, 2 pr.: Locum in quo servus sepultus est religiosum esse Aristo ait.
842. D., XXIII, 3, 10, § 2; XXXIII, 7, 2, 5-7; XXI, 1, 35; XXXII, 41, 2; Erman, Servus vicarius, p. 444, n. 1.
843. Orelli, I. L., 2846: Ita contubernales honestiore coniugum nomine sexcenties utuntur in inscriptt. — Allard, op. cit., 271.
844. Plin., Epist., VIII, 16: ..... permitto servis quoque quasi testamenta facere eaque ut legitima custodio. Mandant rogantque quod visum; pares ut jussus. Dividunt, donant, relinquunt dumtaxat intra domum. — Schneider, op. cit., 28.
845. Gibbon E., The decline and fall of the Roman Empire. London, 1893, I, Chap. 11, p. 45. — Lange, Hist. du matérialisme, I, p. 465.
846. Schneider, op. cit., pp. 28 sgg. — Wallon, op. cit., III2, pp. 62 sgg.
847. Wallon, op. cit., III2, p. 62, 67 sgg., con i fonti giuridici ivi citati.
848. Wallon, op. cit., III2, pp. 71 sgg.
849. D. L. 17, 20: Pomponius libro septimo ad Sabinum. Quotiens dubia interpretatio libertatis est, secundum libertatem respondendum erit.
850. Iust., Inst., III, 11, 1.
851. Cod. iust., de fide com., lib. VII, 4, 1-2; Schneider, op. cit., pp. 35, 49, n. 44.
852. Cod. iust., VII, 22, 1-2.
853. Schneider, op. cit., pp. 34, 51, n. 62, con le autorità ivi citate.
854. Iust., Inst., III, 11, 1.
855. Suet., Claud., c. 25.
856. D., XXXVII, 14, 7: Divus Vespasianus decrevit, ut si qua hac lege venierit, ne prostitueretur et, si prostituta esset, ut esset libera, si postea ab emptore alii sine condicione veniet ex lege venditionis liberam esse et libertam prioris venditoris.
857. Friedlaender, Darstellungen, III6, pp. 509 sgg.; 661 sgg.
858. Friedlaender, op. cit., III6, p. 516, e Zeller, Philosoph. d. Griech. ivi citato.
859. Engels F., Contribution à l’histoire du Christianisme primitif (Le devenir social, I, 2), p. 147.
860. Origen., c. Cels., III, 50, 55. Cf. anche Pélagaud E., Un conservateur au second siècle. Paris, 1879, pp. 313 sgg.
861. Ciccotti E., Psicologia del movimento socialista (nel Pensiero italiano, vol. XXII), p. 265.
862. Allard P., Les esclaves chrétiens, pp. 245 sgg.
863. Allard, Les esclaves chrétiens, p. 250-1: Un des récits les plus anciens de l’époque des persécutions est la célèbre lettre sur les martyrs de 177 écrite par les Églises de Lyon et de Vienne à celles d’Asie et de Phrygie (Euseb., H. E., V, 1 sgg.)... On y voit des accusations terribles portées contre les chrétiens de Lyon par leurs esclaves païens.... (N. 1). Quelque temps après, S. Epipode et S. Alexandre furent encore, à Lyon, dénoncés par leurs esclaves. Passio SS. Epipodii et Alexandri, ap. Ruinart, Acta sincera, p. 63. — Autres exemples d’attachement des esclaves au paganisme: sous Commode, le sénateur chrétien Apollonius est dénoncé par un esclave: Eusèbe, H. E., V, 21; Saint Basile montre en Cappadoce, pendant la dernière persécution, “les esclaves insultant leurs maîtres chrétiens„: Éloge de S. Gordius; le concile d’Elvire, de la même époque, nous apprend que souvent les maîtres n’osaient pas renverser les idoles qui étaient dans leurs maisons, de peur d’irriter leurs esclaves (vim servorum metuunt): Concilium Eliberitanum, canon XLI, apud Hardouin, t. I, p. 254.
864. Lecky, Hist. of the european morals from Augustus to Charlemagne. London, 1892, II10, pp. 14, 147: Its moral action has always been much more powerful upon individuals than upon societies, and the spheres in which its superiority over other religions is most incontestable, are precisely those which history is least capable of realising.
865. Lecky, op. cit., p. 15: A boundless intolerance of all divergence of opinion was united with an equally boundless toleration of all falsehood and deliberate fraud that could favour received opinions. — p. 149: ..... The pictures of Roman societies by Ammianus Marcellinus, of the society of Marseilles by Salvian, of the society of Asia minor and of Constantinople by Chrysostom, as will as the whole tenor of the history, and innumerable incidental notices of the writers of the time exhibit a condition of depravity which has seldom been surpassed.
866. Wallon, op. cit., III2, pp. 389 sgg. — Abignente, op. cit., pp. 108, 113 sgg.
867. C. J., VII, 16, 3.
868. Cod. Theod., IX, 9, 1.
869. Cod. Iust., VI, 1, 6. Cfr. anche VI, 1, 3.
870. C. J., IX, 47, 4.
871. C. J., VII, 16, 24 e 36.
872. C. J., VII, 16, 1 (Imp. Antoninus A. Saturninae).
873. Cod. Theod., V, 7, 1; 8 l. n.
874. Zosim., II, 38.
875. Cod. Theod., XI, 27, 1.
876. Cod. Theod., IX, 40, 2.
877. Wallon, op. cit., III2, pp. 597 sgg. — Abignente, op. cit., pp. 115 sgg. con i testi ivi citati.
878. Jhering, Geist d. R. R., II Th., 2 Abth., p. 372. — Bury J. B., A history of the later Roman Empire from Arcadius to Irene. London, 1889, I, p. 371.
879. Wallon, op. cit., III2, pp. 416 agg. — Abignente, op. cit., p. 117 sgg.
880. D., I, 5, 4, § 1; L, 17, 32; XL, 11, 2; Inst., I, 2, § 2.
881. Novell., XXII, coll. IV, I, c. VIII.
882. l. c.
883. Novell., CXLII; C. J., I, 10; VII, 22; Dig., XLIX. 15, 19, § 5.
884. C. J., VII, 3; 6; 8; 15; Just., Inst., II, 20.
885. C. J., I, 13.
886. Cfr. Marquardt, Vie privée des Romains, passim; Friedlaender, Darstellungen, III6, p. 1-172, Der Luxus; pp. 173 sgg., Die Künste e passim; Blümner H., Das Kunstgewerbe im Altertum. Leipzig, 1885.
887. Blümner, Das Kunstgewerbe, I, p. 214 e passim.
888. Blümner, op. cit., I, pp. 70 sgg.
889. Blümner, op. cit., I, pp. 83 sgg.
890. Blümner, op. cit., I, pp. 118 sgg., 157 sgg., 182 sgg., 192, 194, 217.
891. Blümner, op. cit., I, p. 105.
892. Blümner, op. cit., 1, p. 232 sgg., 243 sgg., 249.
893. Blümner, op. cit., I, p. 105.
894. Blümner, op. cit., I, p. 57, 85.
895. Rodbertus, Zur Gesch. d. agrar. Entwickelung Roms unter den Kaisern (Jahrb. f. Nationalökonomie, II Bd., 1864), p. 210 sgg.
896. Colum., R. R., VI, 27. Cfr. VII, Praef.; VIII, 11; IX, 9.
897. Colum., R. R., I, c. 8.
898. Martial, III, 62 — Senec., Ep. 27 — Gell., XV, 29 — Cic. in Verr., A. S., 5, 7 — Wallon, op. cit., II2, pp. 164 sgg. — Boeger, op. cit., p. 22.
899. D., XVII, 1, 26, § 8.
900. R. R., IV, 3.
901. D., XVI, 2, 21; XXI, 1, 57 — Wallon, op. cit., II3, p. 169.
902. C. J., 6, 43, 3 — Wallon, op. cit., II2, pp. 172-4.
903. Svet., Aug., 32.
904. Mos. et. Rom. leg. coll., XIV, de plag. ed. Huschke — C. J., IX, 20, 7 e 15 — Wallon, op. cit., II2, pp. 50 sg.
905. Il numero degli schiavi nell’Attica (ne’ Rendiconti dell’Istituto lombardo, 1897).
906. Cairnes, The slave power, p. 114 sgg.
907. R. R., I, c. 8: Foeminis quoque foecundioribus, quarum in sobole certus numerus honorari debet, otium nonnunquam et libertatem dedimus, cum plures natos educassent. Nam cui tres erant filii vacatio, cui plures libertas quoque contingebat.
908. Ciccotti E., La retribuzione delle funzioni pubbliche civili e le sue conseguenze nell’antica Atene (ne’ Rendiconti dell’Istituto lombardo, 1897).
909. Marquardt, De l’organisation financière chez les Romains. Paris, 1888, pp. 147-8 — Hirschfeld O., Die Getreidererwaltung in der röm. Kaiserzeit, p. 68.
910. Mommsen Th., Die italische Bodenvertheilung und die Alimentartafeln (Hermes, XIX), p. 408. — Fustel de Coulanges, Le domaine rural chez les Romains (Rev. des deux mondes, 1886), p. 326. — Brugi B., Le dottrine giuridiche degli agrimensori romani. Verona, 1897, pp. 284 sgg.
911. Plin., N. H., XVIII, 7, 35:..... Sex domini semissem Africae possidebant, cum interfecit eos Nero princeps....... Frontin., De controv. agrar. (Gromatici veteres), p. 53.
912. Marquardt, De l’organisation financière, pp. 139-87 — Hirschfeld, Getreideverwaltung, pp. 3 sgg.
913. Marquardt J., De l’organisation militaire chez les Romains. Paris, 1891, pp. 166-71; 183 sgg.; 231 sgg. — Cagnat, Exercitus, in Daremberg et Saglio, Dictionn. des ant. grecques et rom., pp. 915 sgg.
914. Cagnat, l. c., p. 915.
915. Marquardt, Organisation militaire, p. 203, 282.
916. Büchsenschütz B., Die Hauptstätten des Gewerbfleisses in klassischem Alterthume. Leipzig, 1869, p. 4.
917. Blümnder H., Die gewerbliche Thätigkeit der Volker des klassischen Alterthums. Leipzig, 1869, p. 1.
918. Bücher K., Die Diokletianische Taxordnung vom Jàhre 301 (in Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft, herausg. von A. Schäffle), Bd. L (1894), p. 697: Sie [die Alterthumwissenschaft] hat mit modernen Vorstellungen gearbeitet und mit grossem Eifer die Stellen aufgesucht, wo die äussern Formen des antiken Lebens an moderne Erscheinungen erinnern, um an ihnen zu zeigen, wie herrlich weit es die Alten schon gebracht hatten. Ein solches Verfahren ist für die wissenschaftliche Erkenntnis nirgends so verderblich als auf wirthschaftlichen Gebiete. Die ökonomische Welt des Altertums will als Ganzes aus sich selbst begriffen sein, oder sie wird überhaupt nicht verstanden werden. Cfr. anche Bücher K., Die Entstehung der Volkswirthschaft. Tübingen, 1893.
919. Büchsenschütz B., Die Hauptstätten, etc., p. 4.
920. Notitia dignitatum oc. XI, 45-63, 74-7. — Cod. Theod., X, 20, 2-3, 6-9, 16; Or., 16-20, 26-27. — Bücher K., Die Diokletianische Taxordnung, pp. 209, 212 sgg. — Waltzing, op. cit., II, pp. 232 sgg. — Marquardt, La vie privée des Romains.
921. Suet., Vesp., c. 18:... Sineret se plebeculam pascere.
922. Suet., Vespas., c. 1.
923. Jul. Capitol., Maxim. et Balb., c. 5.
924. Trebell. Pollion., Trig. Tyr., c. 8.
925. Jul. Capitol., Pertinax Imp., c. 1 e 3.
926. Ael. Lampr., Alexand. Sev., c. 22, 24-5; Jul. Capitol., Anton. Pius, c. 10.
927. Marquardt, Organisation financière, pp. 216, 251-2, 295, 297, 298 con i testi ivi citati.
928. Suet., Calig., c. 40; Dio. Cass., LIX, 28.
929. Ael. Lamprid., Alex. Sev., c. 24 e 33.
930. Ael. Lampr., Alex. Sev., c. 22.
931. Waltzing, op. cit., II, pp. 3 sgg.
932. Waltzing, op. cit., II, 32 con le prove ivi citate.
933. Op. cit., II, p. 35.
934. Op. cit., II, p. 81.
935. Op. cit., II, pp. 239 sgg.
936. Op. cit., II, pp. 228 sgg.
937. Op. cit., II, pp. 359-60. Cfr. pag. 245.
938. Cod. Theod., X, 20, 1. — Waltzing, op. cit., II, pp. 228-9 con le autorità ivi citate.
939. C. I. L., II, 1552, 1742; III, 337, 2130, 5540, 5622; V, 878, 5500, 5558, 5668, 7449, 7339 add.; VI, 9984-91; VIII, 2232, 5268; IX, 163, 820. 1456, 2484, 2485, 2829, 3056, 3103, 3446, 3517, 3571, 3617, 3701, 3908, 4053, 4664, 4877, 5460; X, 25, 1561, 1746, 4917, 3967, 7041, 8217; XIV, 2751, 2726, vilicus supra hortos, VI, 9472.
940. III, 67, 1181, 1182, 1549, 1573a, 4445, 5616. 5622, *6010153-217, V, 90, 1035, 1049, 1939, *5048, 5318, 7473, 8111,39; VI, 9106 sgg.; VIII, 939, *1828, 2803, 8209, 8421, 8905, 10734, 10962; IX, 6083,111 X, 238, 284, 285, 419, 429, 421, 1909, 1910, 1911, 1912, 1913, 4600, 6592, 7228, 8045,12 80465, *8056154, 805929-135; XII, 2250, 5690111; XIV, 352b, 372, 469, 2251, 2301, 2509, 2792. In IX, 2123 ricorre eccezionalmente, come si vede, un actor liberto.
941. C. I. L., VI, 9383; VIII, 2228.
942. Ab ark. (a), C. I. L., IX, 1248; arkarius C. I. L., VI, 9146-8, 9150; IX, 697. *969, 2244, 2606, 3579, 3773, 3845, 4109, 4110, 4111, 4112, 608311, 46-51; X, p. 1160 e 1163; atriensis C. I. L., VI, 9192-9197; cellarius C. I. L., VI, 9243-53; IX, 2484, 3424; cursor, VI, 9317; cubicularii, VI, 9291-312; 9285-6; custos horrei, VI, 9469-70; dispensator C. I. L., II, 1198, 3525 7; III, 2935, 3038, 354, 563, 1085, 1301, 1839, 1955, 978, 333, 978; V, 1034, 2883, 6407, 7638, 5924; VI, 9319-72; IX, 3580, 608365; X, 237, 1732, 1917, 1920, 1921. 4594, 7893, 8059157, 172, 189; XII, 856, 5690108; XIV, 207, *1396, 1876, 2852, 3033, 3716; insularii, VI, 6215, 6217, 6296, 6297-9, 7291, 7407, 8855-6; ostiarii, VI, 9737-8. Nondimeno ricorre un cellarius libero, XIV, 472, un supra iumenta anche libero, VI, 9486, un ministrator, VI, 9645; qualche nomenclator (VI, 9687 sgg., 8930-36), qualche ornatrix (VI, 9726-36), qualche pedissequus libero (VI, 9767-83), X, 1942. Tra i coci poi, con la maggiore importanza che assumono in tempi di raffinatezza e con le maggiori occasioni che hanno di ottenere il favore del padrone e la libertà, ricorrono in più gran numero liberi e liberti: C. I. L., V, 2544; VI, 9263-70; IX, 3938; X, 5211; XII, 4468.
943. C. I. L., II, 21, 2348, 470, 2337, 3666, 1737, 5655; III, 559, 3583, 3834; V, 89, 562, 1909, 1910, 2181, 2396. 2530, 5277, 5317, 5920, 3156, 3940. 8320, 2183; VI, 9562-610; VII, p. 235; VIII, 2834, 8498; IX, 467, 470, 1714, 1715, 2369a, 2607, 2686, 3388, 4553, 5462; X, 2858, 3955, 3962, 4918, 6469. 6471, 6124, 388, 5719; XII, 725, 1622, 1804, 3341, 3342, 4485-9: XIV, 2652. 3030, 3710. Abbondano, naturalmente, quelli che il nome anche più chiaramente rivela come stirpe di liberti: in ogni modo sono persone che godono dello stato di libertà. È pure notevole il ricorrere non infrequente di donne, che esercitano la medicina: C. I. L., II, 497; VI, 9614-7; IX, 586; X, 3980; XII, 3343.
944. Aerarii, C. I. L., II, 2238; VI, 9134-38; X, 3988; XII, 3333, 4473; albarii, VI, 9139-40; aluminarii, VI, 9142; aurifices, V, 1982, 2308, 8834; VI, 9149, 9202-8; X, 3976, 3978; XII, 4391, 4464-5; architecti, V, 1886, 3464; VI, 9151-3; X, 841, 1443, 1446, 1614, 4587, 5371, 6126, 6339, 8093, 8146: argentarii, VI, 9155-85; IX, 236, 348, 3157, 4793; X, 1914, 1915, 3877; XII, 1597, 4457-60; argentarius coactor, XIV, 2886; armarii, XII, 4463; anularii, XII, 4456; axiarii, VI, 9215; bybliopolae, VI, 9218; caelatores, II, 2243; VI, 9221-2; caligarii, V, 1585, 6671; VI, 9225; X, 5456; candelabrarii, VI, 9227-28; capsarii, V, 3158; VI, 9232; capistrarius, XII, 4406; carpentarii, V, 5922; chartarii, VI, 9255-6; XII, 3284; clavarii, II, 5819; V, 702; XII, 4467; claviclarii, X, 7613; clostrarii, VI, 9260; copones, V, 5930; XII, 3345; coloratores, X, 5352; citharoedi, X, 6340; codicarii, II, 25, 260; coriarii, VI, 9279-80 (cfr. 1117-18, 1682), X, 1916; coronarii, VI, 9292-3 (cfr. 4414, 4415, 7009, 9227), X, 6125; crepidarii, VI, 9284; cultrarii, X, 3984-5; dissignatores, VI, 9373; dolabrarii, V, 908; eboriarii, VI, 9375; epippiarii, VI, 9376; fabarii, XII, 4472; fabri, III, 1652; V, 1030, 2328, 3316; VI, 9385-417; faber lignar. V, 4216; XII, 722; faber argent. XII, 4474; faber navalis, XII, 5811; faber pectenarius, V, 98; figuli, X, 424, 8043, 83, 8055, 51, 8036, 354; XII, 4478, 5686, 878, 5697, 6; flaturarii, VI, 9418-9; florentinarii, VI, 9421; fontani, XII, 3337; fullones, II, 5812; VI, 9429-30 (cfr. Waltzing, op. cit., I, 183 sgg.; II, 152 e 528): gaunacarii, VI, 9431; gemmarii, VI, 9433-7; gladiarii, VI, 9442; IX, 3962: X, 3986; glutonarii, VI, 9443; grammatici, II, 2236, 3872; X, 3911; XII, 1921; gustatores, XII, 1754; gypsiarii, IX, 5378; XII, 4479; harundinarii, VI, 9456; holitores, VI, 9457-9; horrearii, VI, 9460-68; lanarii, VI, 9490-4; XII, 4481 (cf. Waltzing, op. cit., II, 153 e 532); larii, V, 3307; VI, 9499; IX, 4227, 9332; X, 6493; XII, 4482; lapidarii, II, 2404, 2772; III, 1365, 1601, 1777; V, 3045; XII, 732; lanternarius, X, 3970; lecticarii, III, 1438; VI, 9504-14; librarii, V, 6801; VI, 9516-25; XII, 1592; limarii, XII, 4475, 5969; linarii, V, 5923; lintiarii, 9526; XII, 3340, 4484; lintiones, V, 1041, 3217; lorarii, VI, 9528; macellarii, VI, 9532; machinatores, VI, 9533; margaritarii, VI, 9543-7; X, 6492; XIV, 2655; marmorarii, II, 133, 1724; VI, 9550-7; X, 1648, 1873, 3985, 7039; XIV, 3560; materiarii, VI, 9561; X, 3965; mensores, III, 1220, 2124, 2129; V, 3155, 6786; VI, 9619-21; XII, 4490; mensores aedificiorum, VI, 9222-5; XIV, 23, 3032, 3713; mensores machinariorum, VI, 9626; mensularii, XII, 4491; mercatores, magnarii, negotiatores, III, 2086, 2125, 2131, 4250, 4251, 5816, 5830, 5833; V, 1040, 1982, 5145, 8939, 1047, 5911, 5929, 5932, 5925, 5928, 5982, 7377; VI, 9628-32, 9652-86; VIII, 7149; X, 487, 545, 1797, 1872, 1931, 3947, 5588, 6113, 6493, 7612, 7330; XII, 1896, 5973; XIV, 397, 2793, 4142; museiarius, VI, 9647; musicarii, II, 224; VI, 9648-51; XII, 3344; nauta, V, 94; navicularii, V, 1598, 1606; XII, 4493-5; 5972 (cfr. Waltzing, op. cit., II, 536); nummularii, II, 498; III, 1938; V, 93, 4099, 8318; VI, 9707 sgg.; IV, 1707; X, 3977, 6493, 6699; XII, 4497; olearii, II, 1481; VI, 9716-19; XII, 4497; obstetrices, VI, 9720-4; X, 1932, 3972; paedagogi, II, 1981; II, 2111; VI, 9739-64: VIII, 1506, 3322; X, 1943-4, 6562, 8129; pectenarii, II, 5812, 2538, 2543; V, 450; pelliones, XII, 4500; pictores, VI, 9786; X, 702, 1950; pilarii, XII, 4501; piscatores, VI, 9799-801; pistores, V, 1036, 1046; IX, 3190; X, 499, 5346, 5933-4, 6494; XII, 4503; XIV, 2212, 2302; pistor candidarius, 4502; plicatrix, XII, 4504; plumarii, VI, 9813-4; plumbarii, VI, 9815-8; plutiarii, VI, 9819; politores, VI, 9820; poenularius, X, 1945; pomarii, VI, 9821-3; X, 3956; popa, VI, 9824; praceptores, VI, 9827; praecones, IX, 4910; X, 5429-30, 6472, 8222; propola, XII, 4506; pugillariarius, VI, 9841; purpurarii, II, 2235; V, 1044; VI, 9844-8; IX, 5276; X, 540, 1952, 3973; XII, 4507-8; redemptores, VI, 9851; IX, 1549, 3707, 3821; resinaria, VI, 9855; rogatores, VI, 9859-63; sagarii, V, 5773, 5918, 5926, 6670; VI, 9864-72; IX, 2399, 5752, 8263; XII, 1898, 1928, 4509; salinatores, XII, 5360; sarcinatores, V, 2542, 2881, 7568; scabillari, IX, 3188; scribae, XIV, 3714; scriniarii, VI, 9885; segmentarii, VI, 9889; sericarii, VI, 9891-3; sigillarii, VI, 9894-5; signarii, VI, 9876; solatarii, VI, 9897; solearii, XII, 4510; spatarii, VI, 9898; structores, VI, 9908-10; XII, 4511; XIV, 288, 2656; supellectilarius, VI, 9914; X, 1960; sumptuarii, VI, 9912-3; sutores, II, 5934; V, 2728, 5812, 5919, 7265; IX, 3027; symphoniacus, XII, 3348; tabellarii, VI, 9916-8; X, 1027, 1870, 1961; XII, 4512; tabularii, VI, 9921 sgg.; IX, 5064; X, 7039, 5361, 7936; tectores, IX, 3192; X, 6593; tegularii, X, 3729; tesserarii, V, 4508, 7044; XII, 1385; thurarii, V, 2184; VI, 9928; X, 1962, 3966, 6802; XII, 4518; tibiarii, VI, 9935; tignuarii, IX, 5862; tonsores, V, 4101; VI, 9937-42; X, 1963-4; XII, 4514-6; tritor argentarius, VI, 9950; vascularii, VI, 9953-8; IX, 1720; X, 7611; XII, 4519; XIV, 2887; vestiarii, VI, 9961-78; VIII (vestiarius Aug.) 5234; IX, 1712; X, 3959, 3963, 5718; XII, 3202, 4520-1; XIV, 467; vestificus, VI, 9979; victumarius, 9982; viminarius, XII, 4522; unctores, 9997; unguentarii, VI, 9899-1000; IX, 471, 5905.
Questo elenco, insieme a qualche altro tentato in precedenza (Wallon, III2, pp. 494 sgg.), senza proprio pretendere ad essere completo, sopperisce allo scopo della dimostrazione come un altro, che, anche essendo assolutamente completo, avrebbe, al pari di questo, un valore dimostrativo notevolissimo ma non mai assoluto, dato il numero relativamente tenue delle epigrafi e la considerazione che l’epigrafi sepolcrali degli schiavi — tali son queste — dovevano essere, comparativamente, meno frequenti di quelle de’ liberi. Ciò per non esagerare eccessivamente questo genere di prova.
Del resto la diffusione e lo sviluppo del lavoro libero è dimostrato nel corso del lavoro per tante altre vie.
In ogni modo, anche da questo riepilogo epigrafico, qual’è e quale va inteso, si scorge come il lavoro libero si fosse allargato a quasi tutte le arti. Ciò era accaduto specie per mezzo de’ liberti, ma i mestieri erano poi moltissime volte rimasti tradizionalmente nella loro discendenza.
In parecchi de’ mestieri riportati nell’elenco l’elemento libero tien solo il campo; ricorrono invece liberi e servi tra gli aerarii, aquarii, aurifices, architecti, argentarii, capsarii, chartarii, clavarii, corarii, coronarii, fabri, grammatici, holitores, horrearii, lapidarii, lanii, librarii, lintiarii, marmorarii, mensores (non specificati), negotiatores, musicarii, navicularii, nummularii, olearii, obstetrices, paedagogi, pectenarii, pedissequi, pictores, plumarii, plantarii, purpurarii, sericarii, supellectilarii, sumptuarii, tabellarii, tabularii, thurarii, vestiarii.
Tuttavia, anche nella massima parte di questi, nella quasi totalità, la grande prevalenza è de’ liberi (liberti o ingenui che fossero), ed è notevole ad osservare come ordinariamente l’elemento servile è dato da Roma e dalla Spagna, cioè dal paese, in cui la ricchezza accentrata faceva persistere la produzione casalinga nella casa imperiale e nelle grandi case aristocratiche, e dal paese dell’estremo Occidente, in cui la produzione casalinga persisteva invece per il persistere di maniere di vita più rudimentali, ed erano meno sviluppate le manumissioni, meno i centri cittadini, meno il proletariato.
Secondo il mio spoglio epigrafico, poi, compaiono come servi esclusivamente questi: cabatores (C. I. L., VI, 9239); casarii (VI, 9238); circitores (VI, 9257); confectorarii (VI, 9278); dulciarii (VI, 9374); eunuchi (VI, 9378-80); fenarii (VI, 9417); geruli (VI, 9439-41); factor (VIII, 9432); iugarii (XII, 3102, 3338); inaurator (II, 6107); infector (II, 5519); lagunaria (VI, 9486); lanipendae (VI, 9496-7; IX, 3157, 4350); loricarii (II, 3359); muliones (VI, 9646); notarii (III, 1938; V, 93, 1586, 1601-4); pastillarii (VI, 9766); pecuarius, (IX, 5276); promo (VI, 9839); quasillaria (VI, 9849); refectores pectenarii (IX, 1711): saltuarii (VI, 9874; VIII, 5383, IX, 706); sarcinatrices (VI, 9875-84, meno una liberta); sector (VIII, 5267); scutarius (VI, 9886); speclarius (VI, 9899); topiarii (VI, 9943-9); vestiplica (V, 5316). Anche qui è difficile trarre induzioni troppo larghe da esempi isolati; ma, in ogni modo, si vede come il lavoro servile persiste preferibilmente in impieghi più faticosi, o più ignobili, o più continui e ordinarî, o di carattere sussidiario ad arti e funzioni di lavoro più specificato.
945. C. I. L., IV, 490, 710, 677, 336, 597, 826, 886, ecc.
946. Waltzing, op. cit., II, pp. 185 sgg., 429.
947. C. I. L., XII, 4523, 4515, 4517, 3335, XIV, 2656.
948. Der Maximaltarif des Diocletian herausgegeben von Th. Mommsen, erläutert von H. Blümner. Berlin, 1893 e C. I. L., III.
949. VII, 1-23. Cfr. pp. 104 sgg.
950. VII, 24-8.
951. VII, 29-37. Cfr. pp. 112.
952. VII, 38-74. Cfr. pp. 112 sgg.
953. VII, 75-6.
954. XX, 1-13; XXI, 1-6; XXII, 1-26. Cfr. pp. 156 sgg.
955. VII, 1ª.
956. Pro Roscio com., 10, 28. — Blümner, Maximaltarif, p. 105.
957. Seek O. nella Deutsche Literaturzeitung, 1894, p. 458.
958. Michaelis H., Kritische Würdigung der Preise des Edictum Diocletiani (Zeitschrift für die gesammte Staatswissensch. herausg. von A. Schaeffle. Bd. LIII — 1897), p. 49.
959. C. Plini Caecil. Secundi Epist. ad Traianum lmp., 41 (50), ed. Keil: ... Hoc opus multas manus poscit; at eae porro non desunt. Nam et in agris magna copia est hominum et maxima in civitate, certaque spes omnes libentissime adgressurae opus omnibus fructuosum.
960. Bücher K., Die Diokletianische Taxordnung, p. 692.
961. Bücher, Die Diockletianische Taxordnung, p. 194. — Michaelis, op. cit., p. 15 e Seek, l. c.
962. Credo utile riportare dal Segrè G., Studio sulla origine e sullo sviluppo storico del colonato romano (Archivio giuridico di F. Serafini, voll. 42, 43, 44, 46), il diligente elenco de’ testi, che hanno costituito gli elementi delle dispute sul colonato e il riepilogo de’ principali punti di vista da cui il colonato è stato considerato, rimandando per la bibliografia allo studio del Segrè, insieme al quale è opportuno riscontrare Schulten A., Colonus (nel Diz. epigr. di E. De Ruggiero, II, p. 457 e Hist. Zeitschr., LXXVIII, 1-17). — Segrè, op. cit., vol. 42, p. 468: Varro, RR., I, 17, 2; Caes., De bell. gall., VI, 13; De bell. civ., I, 34; Colum., RR., I, 7, 1 e 3; Plin., Epist., III, 19; Tacit., Germ., c. 25; Frontin., De controv. agror., p. 53. Lachm.; Jul. Capitol. M. Anton. Philos., 22; Trebell. Poll., Claudius, 9; Eumenes, Panegyr. Const. Caes. c. 8; Salv., De gubern. Dei, V, 8; Cod. Theod., V; 4, 3; D. XX, 1, 32; XXX, 1, 112; XXVII, 1, 1757; L, 15, 4 § 8; Paul, Rec. Sent., III, 6, 48; Cod. Just., IV, 65, 1, 11; VIII, 51, 1, 1; Hermes, XV, 385-411, 478-80 e Journal des Savants, 1880, pp. 686-90 pel decreto di Commodo su’ coloni del saltus Burunitanus.
Cfr. inoltre le fonti citate dallo Schulten, l. c.
Segrè, op. cit., vol. 43, pp. 150 sgg.: “Il numero e la varietà delle opinioni sull’origine e sullo sviluppo storico del colonato, di cui non esporremo che le principali, bastano a dimostrare quanto sia difficile tale ricerca. Per riescire più chiari, crediamo opportuno raccoglierle in gruppi secondo i loro punti di contatto e distinguerle secondo le loro differenze, senza la pretesa di fare qualche cosa d’esatto, ma coll’intenzione di tentare la classificazione meno grossolana che ci sembrava possibile.
“1º Alcune di queste teorie traggono l’elemento costitutivo del colonato dai soli servi (Puchta, Rodbertus), altre dai soli liberi, piccoli proprietarî, o fittabili, o lavoratori vaganti (Cuiacio, Heisterbergk, Mommsen, Karlowa, Revillout, Wallon, Esmein); altre da questi e da quelli insieme (Giraud, Savigny, Fustel de Coulanges, Dareste).
“2º Secondo alcuni l’istituto è originario d’Italia (Rodbertus); per altri è esclusivamente provinciale (Savigny, Heisterbergk, Schultz, Rudorff, Guizot); secondo altri, e sono i più, sorse a un tempo nell’Italia e nelle Provincie.
3º Quanto all’epoca della sua formazione, per alcuni è un istituto preromano delle Provincie (Rudorff, Heisterbergk, Schultz, Guizot); per altri del tempo repubblicano (Giraud, Laferrière); per i più è del tempo imperiale.
4º Alcuni trovano il fondamento del colonato in un ceppo indigeno libero o schiavo, italico o di altre parti dell’impero (Rodbertus, Rudorff, Schultz, Guizot, Laferrière, Heisterbergk, Fustel de Coulanges, Dareste); altri in un elemento straniero (Wenck, Zumpt, Savigny, Maynz, Vesme, Fossati, Mommsen) introdottosi nell’impero Romano. Una teoria ecclettica, che tien conto dell’uno e dell’altro elemento, è quella dell’Huschke.
5º Finalmente alcuni rannodano l’istituto a costumi italo-greci (Giraud), altri all’organizzazione dell’antica famiglia celtica (Guizot), altri ad istituzioni italico-gallesi (Laferrière); altri al servaggio germanico (Mommsen, Maynz)„.
Più particolarmente, secondo le varie opinioni che ora passeremo in rassegna, il fondamento di fatto e giuridico del colonato è diverso, vale a dire:
a) manumissione limitata, con fondamento legislativo (Puchta, Giraud), ad un patto naturale di fitto con servi (Rodbertus, Fustel de Coulanges per la servitù della gleba); seguito ed accompagnato dalla sottommissione dei piccoli proprietarii o dei fittabili immiseriti;
b) gli istituti agrarii nelle Provincie come substrato del colonato posteriore (Rudorff, Schultz, Guizot, Heisterbergk);
c) la violenza dei proprietari sanzionata poi dalle leggi (Wallon, Yanoski, Jung, Fustel de Coulanges pel colonato dei liberi); o l’opera dell’amministrazione romana, divenuta poi legge di questa e del costume (Revillout, Hegel, Kuhn, Esmein, Karlowa);
d) l’influenza diretta della legislazione sui liberi agricoltori (Huschke, Marquardt), per alcuno (Puchta) anche sugli schiavi;
e) i trapiantamenti barbarici, secondo alcuni quelli dei soli dediticii, secondo altri di questi e de’ Laeti e dei Gentiles (Gothofredo, Wenck, Vesme, Fossati, Zumpt, Savigny, Laboulaye, Marquardt); ad essi poi in certo senso è messo da alcuni in rapporto il colonato. Quanto alla derivazione germanica dell’istituto (Maynz, Mommsen), i più fanno rimontare questi trapiantameli all’imperatore Marco, altri ad Augusto (Huschke, Marquardt);
f) la clientela romana e gallese;
g) l’esercizio della piccola cultura sui latifondi in Italia (Rodbertus), nelle provincie frumentarie (Heisterbergk). Però queste due teorie, specialmente la seconda, si occupano più di rintracciare il materiale sociale che costituì il colonato, di quello che il suo fondamento giuridico;
h) Altri scrittori si limitano a designare gli stadii o momenti storici dell’istituto (Léotard, Lattes).
963. Jung J., Zur Würdigung der agrarischen Verhältnisse in der röm. Kaiserzeit (Hist. Zeitschrift, XLII (1879), p. 45 e 53).
964. Cairnes, The slave power, p. 67.
965. Schulten A., Die röm. Grundherrschaften (Zeitschr. für Social und Wirthschaftsgesch., III (1895), pp. 357, 362 sgg.) — Mommsen, Decret des Commodus, etc. (Hermes, XV), pp. 392 sgg. — Boissier G., L’Afrique Romaine. Paris, 1895, p. 165.
966. Jung J., op. cit., pp. 74 sgg. — Zachariae von Lingenthal K., Geschichte d. Griechisch-Römischen Rechts. Berlin, 1877, p. 227 con le autorità ivi citate.
967. R. R., I, 7.
968. Zachariae von Lingenthal, op. cit., p. 240 con le autorità ivi citate.
969. Op. cit., pp. 243 sgg.
970. Laenger O., Sklaverei in Europa während d. letzten Jahrhunderte des Mittelalters. Bautzen, 1891, pp. 5 sgg. con le opere e le autorità ivi citate.
971. Laenger, op. cit., p. 22.
972. Laenger, op. cit., p. 19, 25.
973. Laenger, op. cit., pp. 20, 26, 27 sg. 30.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione.
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