Title: La guerra europea
studi e discorsi
Author: Guglielmo Ferrero
Release date: May 28, 2024 [eBook #73717]
Language: Italian
Original publication: Milano: Ravà
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net
GUGLIELMO FERRERO
LA GUERRA
EUROPEA
STUDI E DISCORSI
«Esto ergo bellando pacificus, ut eos, quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas».
S. Agostino.
MILANO
RAVÀ & C. — Editori
1915
Proprietà riservata
Copyright by Guglielmo Ferrero — 1915
Milano, 1915. Cooperativa Tipografia degli Operai, via Spartaco, 6
[v]
PREFAZIONE | pag. VII | |
I. | — GLI ULTIMI GIORNI DELLA PACE | 5 |
II. | — LE CAUSE PROFONDE DELLA GUERRA | 49 |
III. | — LA LOTTA PER L’EQUILIBRIO | 109 |
IV. | — L’ITALIA E LA GUERRA EUROPEA | 163 |
V. | — LA CONTRADIZIONE SUPREMA | 251 |
[vii]
Mal vezzo della letteratura presente parve sempre all’autore la facilità e la compiacenza con cui gli scrittori de! tempo nostro raccolgono in volume le loro pagine sparse. La letteratura delle gazzette e delle riviste — moltitudine di efimeri che ciascun giorno vede nascere e morire a migliaia — ha la sua ragione e la sua dignità: ma perde l’una e l’altra, se pretende di vivere oltre la breve ora assegnatale dalla sua stessa natura. Perchè dunque anche l’autore — e per la prima volta in vita sua — si è lasciato persuadere dai solerti editori di questo libro a secondare il corrotto costume del tempo?
Egli spera che l’argomento di questi studi e di questi discorsi gli varrà di scusa presso i più; e che presso alcuni gli servirà di giustificazione il fine per cui furono raccolti e pubblicati. Quale che ne sia il pregio, questi discorsi e questi studi non furono composti per servire con argomenti di occasione le passioni e gli interessi dominanti dell’ora; ma per continuare a svolgere, applicandole ai grandi avvenimenti presenti, alcune idee sulla civiltà moderna e sui nascosti pericoli da cui è minacciata, che l’autore aveva meditate ed esposte alcuni anni prima che la guerra europea scoppiasse. Curioso è spesso il destino [viii] degli uomini e delle idee. Casi ed accidenti che sarebbe inutile perditempo qui ricordare, condussero un giorno l’autore di questi saggi a chiedersi come avevano potuto, nella storia delta civiltà nostra, seguirsi due mondi, di cui l’uno era proprio il rovescio dell’altro, e quale dei due fosse il vero: un mondo — quello in cui noi viviamo — smanioso di oltrepassare sempre la meta raggiunta, animoso a procedere senza appoggi nell’ignoto, insaziabile di novità e dì libertà, tormentato da una inquieta aspirazione al meglio ed al più: e un mondo — quello in cui avevano vissuto i nostri padri — che, come il bambino il quale impara a camminare, temeva di lasciare un appoggio o di fare un passo se non vedesse vicino il nuovo appoggio a cui tender le mani, compunto di profonda venerazione verso le cose antiche, sottomesso all’autorità, tutto intento a rintuzzare con dottrine di rassegnazione e di austerità gli orgogli, le ambizioni e le cupidigie insorgenti. E paragonando questi due mondi, facilmente si accorse che il mondo moderno, se aveva compiute mille opere portentose di ogni natura, aveva però anche osato ribellarsi a quella legge dello spirito umano, per cui la certezza non può essere che effetto di una limitazione, nessuno potendo sicuramente distinguere il bello e il brutto, il bene e il male, il vero e il falso se non creda in una definizione iniziale, e il definire non essendo altro che un limitare. Ma il limitarsi era proprio l’atto che più ripugnava a questo secolo, smanioso di sempre oltrepassare la meta raggiunta: onde il secolo riprecipitava nel caos quell’ordine spirituale, che ai nostri padri era apparso come una vitale necessità della mente.
Senonchè queste considerazioni furono accolte piuttosto male: del che l’autore, se non si compiacque, neppure si meravigliò. Un secolo che ha perduta l’abitudine di paragonarsi dal basso a un qualunque modello di perfezione perchè è sicuro di essere esso il modello insuperabile, non ama sentirsi dire che qualche volta delira: e a chi glielo [ix] dice, volentieri rinfaccia di non capire il divino trasporto bacchico di un’epoca prodigiosa.... Fatto più singolare: perfino dei cattolici si unirono a quel coro! E per dire il vero anche il vituperato autore era d’opinione che questa spensierata indifferenza dei tempi potesse esser trattata con indulgenza, poichè per lungo tempo ancora, forse per parecchie generazioni, non genererebbe che delle filosofie insensate, delle arti futuristiche e dei costumi assurdi o ridicoli: tutte cose di cui nessuna è mortale. Aveva, sì, Emilio Rosetti detto, sulle soglie del Mediterraneo, che l’America, la Rivoluzione, la macchina «hanno generato un secolo senza limiti e perciò senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante che vacilla a ogni passo....». Ma chi poteva credere che in uno di questi vacillamenti il gigante sarebbe caduto, sotto i nostri occhi?
Così volle invece il destino. Ammonimento terribile all’America, l’Europa ha inciampato; è caduta sul ginocchio; si è malamente ferita; geme ora pietosamente e non riesce a rialzarsi.... E allora l’autore, che pure aveva sempre sperato di non vedere tanto orrore, ma che non si è punto meravigliato di doverci assistere, ha creduto fosse dovere ripigliar il discorso, interrotto da tante vociferazioni ed ingiurie, per dimostrare che quel caos, dopo tante filosofie insensate, tante arti futuristiche e tanti costumi assurdi o ridicoli, ha concepita nel suo grembo tenebroso e generata anche la guerra europea. E non per la vanità di raccattare in mezzo a tante rovine una prova, ahimè troppo insanguinata, di una tesi storica e filosofica; ma per aiutare ad orientarsi quanti — e sono i più — soprafatti da questa catastrofe, si chiedono oggi sbigottiti se le leggi che reggevano le cose umane fino ad ora sono state tutte capovolte o se qualche demonio, incomprensibile dalla nostra mente, è entrato nel mondo per devastarlo. Chè la mente non può capire un così smisurato fenomeno e quindi ne è soprafatta, se non guarda che quello; e se non trova il filo [x] per risalire e comprendere la lunga preparazione storica che l’ha maturato.
Ma come chiaro apparisce invece, a chi ha trovato questo filo, il grandioso fenomeno! No: questa guerra non è una guerra come tante altre ce ne sono state, nel mondo; ma, come la Rivoluzione francese, è la crisi di una civiltà da cui nessuna cosa si salva e che per ora prende forma e aspetto di guerra. È vano illudersi. L’Europa nella quale siamo nati, non è più che un vetusto edificio in rovina. Un terremoto l’ha messa a soqquadro, da capo a fondo. Di fuori, sulla facciata, si è sfaldato l’intonaco di menzogne convenzionali, di pregiudizi e di opinioni interessate, che ne copriva le screpolature e le macchie putride: i pezzi che ancora reggono per miracolo, cadranno fragorosamente da un minuto all’altro. Dentro sono state spezzate tutte le impalcature che lo reggevano: le alleanze e i trattati di commercio, il diritto pubblico e il diritto privato, gli interessi e le simpatie. Sulla terra sconvolta, le correnti del traffico, oggi sbarrate, deviate, risospinte alla sorgente, dovranno aprirsi nuovi letti. Occorrerà domani sottomettere ad una revisione accurata le opinioni, le idee e i principî in cui avevamo creduto sino ad oggi. Nè le Dinastie, nè i Parlamenti, nè i Governi, nè i Partiti, nè alcuna istituzione sarà alla fine della guerra quale era al principio; ma in tutte sarà un impaccio, un disagio, un’incertezza, nascente dal non sentirsi più le medesime e dal sentire intorno il mondo mutato. Occorrerà rifare su nuovi modelli la Finanza e gli Eserciti di tutti gli Stati, e rifatti su nuovi modelli questi due istituti, a quanti ritocchi e riforme occorrerà sottoporre tutti gli altri!
Occorrerà infine sciogliere il gran problema della limitazione degli armamenti, dal quale ormai il nostro destino dipende. Questo secolo, che si era gloriato di rovesciar tutti i limiti, si trova ora alle prese, quasi si direbbe per castigo, con una difficilissima questione di limiti. L’illimitata [xi] gara degli armamenti — puntiglio mortale di un’epoca che non riconobbe altro freno del volere che il potere — ha generata questa guerra, che a sua volta sembra non avere limiti, nè nel tempo, nè nello spazio, nè nel modo. E finita la guerra, l’Europa o riescirà a limitare gli armamenti secondo qualche principio che possa essere lealmente applicato da tutti i governi; o precipiterà verso uno stato che, secondo le idee e i principi oggi professati da noi, dovrà essere giudicato di barbarie.
L’Europa ormai dovrà essere rifatta. Ma un’epoca non può rifare un ordine sociale, che è un mondo vivente, composto di parti diverse, se non compie un potente sforzo sintetico con il pensiero; se non scopre i nessi vitali di tutti i problemi che tra loro si intrecciano indissolubili. Perciò questi saggi — troppo piccolo contributo a un’opera gigantesca — furono raccolti in volume; non facendosi quasi nessun ritocco per riempire il distacco che separa scritti e discorsi composti a parte; curando anzi che ognuno di questi studi e di questi discorsi stia di per sè nel libro, come stette di per sè nel giornale e nella rivista che l’accolse, o nell’occasione in cui fu pronunciato. Il lettore dovrà dunque sopportare con pazienza qualche ripetizione. Ma l’autore si lusinga che non manchi al libro, ciò non ostante, una certa unità ideale, unico essendo il pensiero animatore di tutti questi saggi, in apparenza disparati e diversi: che «l’America, la Rivoluzione, la macchina hanno generato un secolo senza limiti e perciò senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante, che vacilla a ogni passo...».
Torino, il primo di giugno del 1915.
[3]
[6]
Questo studio fu pubblicato nella Revue des deux mondes il 15 dicembre 1914, sotto il titolo: «Le conflit européen, d’après les documents diplomatiques»; e ripubblicato, in una traduzione letterale, fatta per cura degli Editori, nella collezione dei Problemi Italiani con titolo nuovo: «Le origini della guerra presente». La traduzione che ora si dà alle stampe è stata curata dall’autore stesso ed è forse anche qualche cosa di più che una nuova traduzione, tanti sono i punti in cui il testo francese è stato rimaneggiato o ritoccato. Nel rimaneggiarlo e ritoccarlo l’autore ha tenuto conto del Libro Rosso Austro-Ungarico, che, quando lo studio comparve nella Revue des deux mondes, non era ancora pubblicato. Cosicchè in questo scritto si raccontano gli avvenimenti diplomatici seguiti in Europa dal 23 luglio al 1º agosto del 1914 e che misero capo alla guerra europea, quali risultano da tutte le raccolte di documenti diplomatici messe sinora a disposizione del pubblico, e cioè:
del Libro Bianco (citato L. Bianco) pubblicato dal Governo tedesco;
dei tre Libri Bianchi pubblicati dal Governo inglese — il Miscellaneous No. 6 (1914) [Cd. 7467], il Miscellaneous No. 8 (1914) [Cd. 7445], il Miscellaneous No. 10 (1914) [Cd. 7596] — che il Governo stesso ha raccolti in un volumetto: Great Britain and the European Crisis (citato con la sigla G. B.);
del Libro Arancio (citato L. Arancio) pubblicato dal Governo russo;
del Libro Giallo (citato L. Giallo) pubblicato dal Governo francese;
del Libro Rosso (citato L. Rosso) pubblicato dal Governo austro-ungarico. Di questo è stata adoperata e citata la traduzione italiana, fatta a cura dello stesso Governo.
[9]
Il 23 luglio del 1914 la Monarchia degli Absburgo, per mezzo di una «nota» diplomatica, chiedeva al Governo di Serbia la riparazione del sangue per la strage dell’Arciduca a Serajevo. Chi non ricorda lo sgomento che assalì l’Europa a leggere quella «nota» famosa? Ma la paura delle Cancellerie nel riceverne copia non fu minore. Non sfuggì loro che l’Austria aveva studiata la più sanguinosa provocazione alla Russia con arte fredda e sottile, poichè, dopo avere per due settimane rassicurate le Potenze della Triplice Intesa che presenterebbe alla Serbia richieste moderate, di sorpresa invece, quando nessuno se l’aspettava, e già i Governi dell’Europa erano tutti sul punto di andare in campagna, chiedeva al piccolo Stato di suicidarsi sulla tomba dell’Arciduca, concedendogli due giorni soli per il sacrificio. Che cosa sarebbe avvenuto, se la Russia non avesse voluto o potuto abbandonare la Serbia al suo destino?
Il 24 luglio l’ambasciatore d’Austria e d’Ungheria a Londra si recava da Sir Edward Grey a portargli la «nota». Nel prenderla dalle mani dell’ambasciatore, [10] Sir Edward Grey non gli fece mistero delle inquietudini che in quel momento pungevano l’animo suo. Gli disse che nessuno contestava alla Duplice Monarchia il diritto di voler vendicata la morte dell’Arciduca; ma aggiunse che non aveva ancor visto uno Stato rivolgere ad altro Stato libero e indipendente un documento così «minaccioso»: dichiarò che l’Inghilterra si sarebbe tenuta in disparte sinchè solo Austria e Serbia fossero state alle prese, ma se la Russia fosse entrata di mezzo, no; perchè allora avrebbe cercato di intendersi con le altre Potenze per veder quel che si potesse fare (G. B., 5). In quello stesso giorno il Grey si abboccò con l’ambasciatore di Francia e con l’ambasciatore di Germania. Al primo disse che se la Russia fosse intervenuta a fare schermo di sè alla Serbia, egli intendeva proporre alla Francia, alla Germania e all’Italia di unirsi all’Inghilterra, per interporsi tutte insieme come paciere tra Vienna e Pietroburgo (la capitale russa si chiamava ancora così). Il Cambon giudicò savio il proposito; ma osservò pure che queste Potenze non potevano far nessun passo prima che il Governo russo avesse in qualche modo dichiarate le sue intenzioni: ora l’Austria aveva concesso così poco tempo alla Serbia per rispondere, che il termine ne scadrebbe di sicuro prima che si potesse neppur incominciare ad agire: necessitava dunque innanzi tutto indurre l’Austria a prolungare il termine concesso alla Serbia. Ma chi poteva persuadere l’Austria, se non la Germania? Il Grey annuì; e il giorno stesso, dopo avere esposto all’ambasciatore di Germania quando e in che modo, a suo parere, [11] le quattro Potenze dovevano intervenire, lo pregò di sollecitare il suo Governo a chiedere al Governo austro-ungarico di non procedere ad atti irreparabili, dopochè il termine fosse scaduto (G. B., 10; L. Giallo, 32-33).
L’Inghilterra, già sin dal giorno 24, dichiara aperto e preciso quale è il suo modo di vedere: se la Russia crede di poter lasciare l’Austria e la Serbia sole alle prese, tenersi in disparte con le braccia conserte; se la Russia interviene, invitare le Potenze a interporre insieme i buoni uffici tra i due grandi Imperi. Che dicevano e facevano in quello stesso giorno la Germania, l’Austria-Ungheria e la Russia?
La Germania definisce pure in quel giorno il suo punto, ma altrimenti: affermando che nessuna Potenza, per nessuna ragione, ha da entrar di mezzo tra l’Austria e la Serbia. Il Governo tedesco ha detto e ridetto ormai cento volte di non aver avuto, neppur esso, prima del 23, alcun sentore della mossa che l’Impero alleato preparava contro la Serbia; e sarà vero, se non verisimile, poichè un documento o una prova decisiva che lo smentisca non c’è. Tuttavia, se proprio era al buio di ogni cosa, è pur singolare che il Governo tedesco, il giorno stesso in cui la «nota» austriaca era consegnata alla Serbia, il 23 luglio, potesse spedire la lunga «nota», che il giorno seguente, il 24, era consegnata al Governo francese, al Governo inglese e al Governo russo. Questa «nota» dopo aver difesa calorosamente l’Austria-Ungheria, conchiudeva con queste parole poco rassicuranti, ma punto ambigue:
«Il Governo imperiale desidera affermare, con quanta maggior forza può, che il presente conflitto non concerne [12] altri che l’Austria-Ungheria e la Serbia e che le grandi Potenze devono perciò cercare di restringere a queste due sole il conflitto. Il Governo imperiale desidera che il conflitto non si allarghi; perchè l’intervento di una terza Potenza potrebbe, per via delle alleanze, generare effetti incalcolabili» (G. B., 9; L. Bianco, 1; L. Giallo, 28).
A che mirasse la Germania con questa prima mossa non può essere dubbio. Mentre essa terrebbe a bada, minacciando effetti «incalcolabili», il colosso moscovita, l’Austria squarterebbe, alle sue spalle, sicura, la piccola Serbia. Ma mentre la Germania borbottava tra i denti sorde minaccie, la vecchia Monarchia degli Absburgo studiava innanzi allo specchio il più amabile dei suoi sorrisi; e tutta miele e tutta dolcezza, con il cuore in mano, si sforzava di rassicurare l’Europa angosciata. Il Governo russo non stesse in pensiero — diceva il 24 il conte Berchtold all’ambasciatore di Russia, parlando come un vecchio amico, la mano sul cuore: la Monarchia austro-ungarica non covava nessun pravo disegno, non adocchiava nessuna porzione del territorio serbo, non si proponeva di alterare l’equilibrio dei Balcani: voleva solo correggere la Serbia di quel brutto vizio di ammazzare sovrani ed eredi di corone; e voleva correggerla non tanto per il proprio interesse quanto per l’interesse comune di tutte le dinastie (L. Bianco, 2; L. Rosso, 18).
Al Grey, anzi, il buon conte pensava di fare, ma in un orecchio, sotto voce, una confidenza anche più rassicurante: incaricava l’ambasciatore di dirgli al momento opportuno — ricopio alla lettera dalla traduzione ufficiale italiana del Libro Rosso — «che [13] la «nota» presentata ieri a Belgrado non si deve considerare come un formale «ultimato», bensì che si tratta di una «nota» con termine fisso per la risposta, la quale, come V. E. vorrà confidare a Sir E. Grey in tutta segretezza — spirando il termine infruttuosamente — per ora non sarà seguita che dalla rottura delle relazioni diplomatiche e dall’inizio di necessari preparativi militari» (L. Rosso, 17).
A Pietroburgo invece gli animi erano alterati assai. In piazza e a Palazzo avevano presa la cosa in mala parte. La mattina del 24, il ministro degli Esteri, il Sazonoff, ascoltò tra impaziente e sardonico la lettura della «nota» alla Serbia che l’ambasciatore d’Austria gli veniva facendo, interrompendolo ad ogni istante e dichiarando infine che l’Austria aveva fatto un passo grave. Nel pomeriggio il Consiglio dei Ministri si radunò e sedè cinque lunghe ore. Quel che deliberò noi non sappiamo; sappiamo invece che, sciolto il Consiglio, il Sazonoff dichiarò, senza reticenze e sottintesi, all’ambasciatore tedesco, che la vertenza tra l’Austria e la Serbia interessando l’Europa tutta, a nessun patto la Russia non avrebbe lasciate la Serbia e l’Austria definirla da sole; e chiese esplicitamente all’Austria di prolungare il termine concesso alla Serbia (L. Bianco, 4; L. Rosso, 16). Il modo di vedere della Russia era dunque opposto al modo di vedere della Germania.
[14]
Così nel giorno 24 luglio ciascuna delle grandi Potenze aveva preso, come si suol dire, posizione. Sola la Francia aveva dichiarato di non poter esprimere un’opinione definitiva, aspettando che la Russia chiarisse meglio il suo pensiero.
La notte porta consiglio — dice il proverbio. Conviene supporre che nella notte tra il 24 e il 25 Pallade Atena comparisse all’insonne capezzale degli uomini che governavano la Germania, come nella Iliade. Il 25, infatti, il Governo tedesco muta metro e stile. Non ammonisce più le Potenze europee, con quel fare metà consiglio e metà minaccia, a non mettere il dito tra Austria e Serbia. Ma si chiude in un ottimismo indolente e procrastinatore, come se le faccende di questo basso mondo, e tra quelle il litigio tra Serbia e Austria, non l’interessino più. Il von Jagow, ministro degli esteri per il regno di Prussia, dichiarò prima all’ambasciatore inglese e poi all’incaricato di affari russo che il Governo imperiale acconsentiva a trasmettere al Governo austriaco la domanda del Governo russo perchè l’Austria allungasse alla Serbia il termine concesso per suicidarsi, pur dubitando di arrivare a tempo. Soggiunse esser sicuro che l’opinione russa si rassicurerebbe quando conoscesse le vere intenzioni dell’Austria, quali il Berchtold le aveva esposte. Negò che ci fosse pericolo di guerra generale: tutt’al più poteva scoppiare guerra tra Austria e Serbia! [15] Dichiarò infine che la Germania voleva la pace e che era pronta a interporsi quando davvero la pace europea pericolasse. Quel giorno stesso a Parigi, a mezzogiorno preciso, l’ambasciatore di Germania si recò al Quai d’Orsay per dire al Governo quanto gli spiacesse che una gazzetta, l’Echo de Paris, avesse potuto qualificare di «minaccia teutonica» quella tal «nota» tedesca del giorno precedente sugli «effetti incalcolabili». Ma che minaccia! Il Governo tedesco aveva inteso di dire soltanto che desiderava il conflitto non avesse troppo ad allargarsi — desiderio onesto e lecito se altro mai. Aggiunse infine il barone Schoen che tra Austria e Germania non c’era nessun accordo (G. B., 13; L. Giallo, 41-43).
A paragone insomma della «nota» del dì precedente, i discorsi del 25 erano assennati e concilianti. Per quale ragione la Germania aveva addolcite le troppo chiare note del 24? Tiri a indovinarlo chi vuole: per chi scrive, questo è un primo mistero. Pur troppo però in questo stesso giorno l’Austria, che il giorno prima aveva cercato di rassicurare Russia e Inghilterra, a parole, non vuol compiere il solo atto che, meglio di mille discorsi, avrebbe potuto tranquillare gli animi a Pietroburgo. Il 25 il signor Koudachew, l’incaricato d’affari russo, andò invano in traccia del conte Berchtold, per chiedergli, a nome del suo Governo, di prolungare alla Serbia il tempo. Il conte aveva pensato di andare ad Ischl. Il Koudachew dovette presentargli la domanda per telegrafo; e il Berchtold, a volta di telegrafo, gli rispose di no (L. Arancio, 11-12; L. Giallo, 43).
[16]
La Germania parlava saviamente, ma l’Austria agiva da nemica. Sir Grey, quando seppe che l’Austria aveva ricusato di prolungare il termine, subito la vide brutta. Invano l’ambasciatore d’Austria tentò di rassicurarlo, confidandogli quel tal segreto pensiero del conte Berchtold: che se la Serbia non facesse risposta soddisfacente, il Governo austriaco avrebbe, sì, richiamato il ministro da Belgrado, ma non avrebbe compiuto veri e propri atti di guerra. Altro che sottigliezze diplomatiche e distinzioni giuridiche di questa specie! Il Grey temeva che la Serbia non potesse dar soddisfazione all’Austria; che il grande impero austro-ungarico e il piccolo regno serbo avrebbero rotto tra poche ore, Austria e Russia mobilizzato tra un giorno o due; non c’era dunque neppure un minuto da perdere, se si voleva salvare la pace. Invece di dar retta alle singolari confidenze dell’ambasciatore austriaco, il Grey mandò a chiamare l’ambasciatore di Germania; gli disse che le quattro grandi Potenze dovevano impegnarsi a non mobilizzare e, tutte d’accordo, chiedere all’Austria e alla Russia di non procedere a nessun atto di guerra, finchè esse cercherebbero un accordo; aggiunse le più vive istanze perchè la Germania assentisse e partecipasse, poichè dal concorso della Germania gli pareva discendere l’esito della mossa. Solo se la Germania partecipasse, il passo riescirebbe fruttuoso. Il Lichnowski parve tôcco dalla parola del ministro. Assentì che l’Austria poteva accettare che quattro grandi Potenze si interponessero mediatrici non tra essa e la Serbia, ma tra essa e la Russia (G. B., 26; L. Arancio, 22).
Ma Sir Grey aveva ragione di essere inquieto e di [17] non voler perdere tempo. Quel medesimo giorno il ministro di Austria e di Ungheria a Belgrado chiedeva i passaporti e partiva. Seguendo i consigli della Russia, della Francia e dell’Inghilterra, la Serbia si era dichiarata pronta a sgozzarsi al cenno dell’Austria con tanta buona volontà, che non si può a meno di pensare essa sapesse già che l’Austria non si accontenterebbe neppure di quell’offerta. L’Austria infatti dichiarò che la Serbia faceva le viste di volersi suicidare con un finto coltello; e sebbene il piccolo regno slavo avesse accettati quasi tutti i capi della «nota», dichiarò che l’aveva respinta (L. Rosso, 30). Gli imparziali conchiusero che l’Austria non voleva vendicare la strage di Serajevo, ma accattare un pretesto di guerra (G. B., 41). Il momento di fare il passo decisivo per tentare un accordo era dunque giunto.
Il 26 infatti Sir E. Grey diede corso alla proposta ventilata il giorno prima con l’ambasciatore tedesco, e propose in forma ufficiale ai Gabinetti di Roma, di Parigi e di Berlino che gli ambasciatori d’Italia, di Francia e di Germania si unissero con lui a conferenza, per cercar di mettere d’accordo Austria e Russia, chiedendo intanto a Serbi, Russi ed Austriaci di astenersi dalle armi finchè la conferenza sedesse (G. B., 36). Lo stesso giorno il Sazonoff tentava di venir di nuovo a trattato con il conte Berchtold; e [18] telegrafava all’ambasciatore dello Czar a Vienna (L. Arancio, 25):
«Ho avuto oggi un lungo e amichevole colloquio con l’ambasciatore d’Austria-Ungheria. Dopo avere esaminate con lui le dieci richieste fatte alla Serbia, gli ho dimostrato che parecchie sono addirittura impossibili, anche se il Governo serbo dichiarasse di accettarle. Così, per esempio, le richieste 1 e 2 non potrebbero essere soddisfatte se le leggi serbe sulla stampa e sulle associazioni non fossero rimaneggiate: il che non sarà facile ottenere dalla Scupcina. Quanto alle richieste 4 e 5, potrebbero avere conseguenze pericolosissime e perfino dar luogo ad atti di terrorismo contro i membri della Real Casa e contro Pasich, ciò che non è certo nell’intenzione dell’Austria. Per quel che riguarda gli altri punti, mi sembra che con qualche mutamento non sarebbe difficile trovare un terreno d’intesa, se le accuse si dimostrassero confermate da prove sufficienti.
«Nell’interesse della pace, che, a detta di Szapary, sta a cuore all’Austria non meno che a tutte le Potenze, sarebbe necessario metter fine il più presto possibile alla lotta odierna. A questo scopo mi sembrerebbe molto utile che l’ambasciatore d’Austria-Ungheria fosse autorizzato a trattar con me privatamente per rimaneggiare insieme alcuni articoli della «nota» austriaca del 10 (23) luglio. Ci riuscirà forse a questo modo di trovare una formula che la Serbia potrebbe accettare, pur dando soddisfazione all’Austria quanto alla sostanza delle sue richieste. Pregovi avere una spiegazione prudente e amichevole col ministro degli affari esteri».
(Comunicato agli ambasciatori in Germania, in Francia, in Inghilterra e in Italia).
Inghilterra e Russia si adoperavano dunque per la pace. Disgraziatamente il Grey non si era ingannato [19] prevedendo che la rottura diplomatica tra Serbia e Austria sarebbe seguita da rapidi apparecchi militari nell’impero austriaco e nell’impero russo. Il 26 l’Austria-Ungheria incomincia a chiamare sotto le bandiere una parte delle sue riserve (L. Arancio, 24); e la Russia prende le prime disposizioni per essere pronta a mobilizzare sui confini austriaci (L. Bianco, 23). Che fa intanto la Germania? Si affretta ad approvare le proposte del Governo inglese, come il Grey aveva chiesto con così viva istanza, e come in quello stesso giorno fece l’Italia? (G. B., 35). No. Essa continua tutto il giorno 26 a ripetere che vuol la pace e che il suo amore della pace non è offuscato neppure dalle prime vaghe notizie intorno alla mobilitazione russa, che durante la giornata giungono a Berlino (L. Bianco, 6, 7, 8): lavora anche a pro della pace ma per una via molto diversa da quella che l’Inghilterra aveva consigliata, sforzandosi di convincere il Governo francese, il Governo inglese e il Governo russo che, avendo l’Austria dichiarato di non adocchiare territori serbi, la Russia non ha più ragione di intervenire. «Sazonoff ha dichiarato che la Russia non può permettere che la Serbia sia mutilata; ma l’Austria non ci pensa neppure; dunque...» ragiona e conchiude il 26 lo Zimmermann, sottosegretario al Ministero degli esteri, parlando con l’incaricato di affari inglese a Berlino (G. B., 33). E il Cancelliere dell’impero incaricava in quel medesimo giorno gli ambasciatori a Parigi e a Londra di tenere lo stesso discorso al Governo francese e all’inglese (L. Bianco, 10; L. Giallo, 56).
[20]
«Oggi l’ambasciatore di Germania — telegrafa il 26 da Parigi l’incaricato d’affari russo — ha fatto al reggente il Ministero degli affari esteri le seguenti dichiarazioni:
«L’Austria ha dichiarato alla Russia ch’essa non aspira a territori e che non minaccia l’integrità della Serbia. Essa vuol solo assicurare la propria tranquillità. Quindi la pace e la guerra sono nelle mani della Russia. La Germania come la Francia vuole mantenere la pace e spera fermamente che la Francia si varrà della propria influenza a Pietroburgo per dare consigli di moderazione.
«Il ministro rispose che la Germania avrebbe potuto dal canto suo fare qualche passo analogo a Vienna, sopratutto considerando che la Serbia ha dato prova di molto spirito di conciliazione. L’ambasciatore rispose che la Germania non poteva far questo passo, avendo deliberato di non intromettersi nel conflitto austro-serbo. Allora il ministro chiese se le quattro Potenze — Inghilterra, Germania, Italia, Francia — non avrebbero potuto tentar qualche passo a Pietroburgo e a Vienna.... L’ambasciatore allegò di non avere istruzioni. Alla fine il ministro rifiutò di aderire alla proposta tedesca».
La Germania, insomma, voleva che la Francia si incaricasse di spiegare e di raccomandare alla Russia questo suo modo di vedere. Nel tempo stesso essa faceva fare dal suo ambasciatore un passo a Pietroburgo: un passo, di cui ci dà chiara notizia non il Libro Bianco, ma il Libro Rosso nel dispaccio 28, spedito dall’ambasciatore d’Austria in Russia al conte Berchtold, il quale incomincia così — trascrivo la traduzione italiana ufficiale, per quanto non molto buona:
«Pietroburgo, 26 luglio 1914.
«Correndo voce che la Russia prepari la mobilitazione, il conte Pourtalès ha reso avvertito il ministro russo nel [21] modo più esplicito, che il servirsi di preparativi militari come di mezzi di pressione diplomatica è oggigiorno pericolosissimo, giacchè in tal caso viene a prevalere il punto di vista puramente militare degli stati maggiori e se in Germania si tocca una volta il tasto, la cosa non si lascia più arrestare...».
È chiaro, dunque: la Germania amava così svisceratamente la pace del mondo, che era pronta a farne pagare anche questa volta tutte le spese dalla Russia. Che cosa chiedeva essa infatti con tanta bonarietà il 26, a Londra, a Parigi e a Pietroburgo, se non la capitolazione totale della Russia, come nel 1909? Il Grey pensava a ragione che il principale, anzi il tutto, per conservare la pace, era che la Germania si intromettesse imparziale tra l’Austria e la Russia, invece di porsi a fianco dell’alleata per sostenerne a ogni costo tutte le ragioni buone o cattive; perchè solo a questo modo i Governi di Francia e d’Inghilterra potrebbero a lor volta adoperarsi a Pietroburgo come amici più della pace che della Russia. Ma era chiaro pur troppo che l’atteggiarsi imparziale era cosa difficile alla Germania, quali ne fossero le ragioni. Già il 24 essa aveva fatto balenare contro la Russia e a pro dell’Austria la minaccia degli «effetti incalcolabili»; il 25 aveva sembrato distaccarsi un po’ dal fianco dell’alleata; ma il 26 ritornava a mettersele accanto, per aiutarla a vincere il punto suo, sia pur cercando di avvolger l’aiuto nei veli — ahimè, troppo trasparenti! — di un disinteressato amore della pace. La mossa tedesca fallì. Londra e Parigi rimandarono la Germania a dar consigli di saggezza a Vienna (G. B., 46; L. Arancio, 28; L. Giallo, 56). Il Governo [22] russo dichiarò chiaro ed esplicito all’ambasciatore tedesco che la Russia non aveva ancora chiamato sotto le armi neppure un uomo della riserva; che non avrebbe mai mobilizzato sulle frontiere della Germania; ma che se l’Austria avesse dichiarata la guerra alla Serbia, avrebbe indetta la mobilitazione nei distretti di Kiew, di Odessa, di Mosca e di Kazan (L. Rosso, 28; L. Bianco, 11). Ma intanto la proposta inglese, e cioè la sola speranza di accordo, pendeva sospesa, mancando l’adesione della Germania; e, quel che è peggio, i propositi mostrati nella giornata non lasciavano grandi speranze che la Germania fosse disposta ad aderire. La giornata del 26 si chiuse tra l’incertezza e l’ansietà.
Ma la notte parve un’altra volta portar consiglio. Alla mattina del 27 la Germania sembrava disposta ad accettare la proposta inglese, cioè ad interporsi imparzialmente tra la sua alleata e l’alleata della Francia, nell’interesse supremo della pace. «Ho detto al Signor Jagow — telegrafa il giorno 27 l’ambasciatore di Francia a Berlino — che la proposta Grey era un mezzo per salvare la pace. Il signor Jagow mi ha detto che egli era disposto a mettersi per quella via; ma ha aggiunto che se la Russia chiamava a raccolta il suo esercito, la Germania non poteva star ferma a guardarla. Gli ho chiesto se la Germania credeva di dover essa pure mobilizzare, qualora la Russia [23] mobilizzasse solo ai confini austriaci. Mi ha risposto di no; e mi ha autorizzato a riferirvelo» (L. Giallo, 67). Lo stesso giorno Sir E. Grey telegrafava all’ambasciatore inglese a Berlino: «L’ambasciatore di Germania mi ha informato che il Governo tedesco accetta in massima la mediazione delle quattro Potenze tra l’Austria e la Russia...» (G. B., 46).
Nella giornata la Francia a sua volta aderì alla proposta inglese; e il Governo russo dichiarò che, se non potesse intendersi direttamente con il Governo austro-ungarico, «accoglierebbe la proposta inglese o qualunque altra proposta atta a comporre il dissidio». Ci fu dunque un momento, nella giornata del 27, in cui si potè sperare che prima del tramonto l’accordo tra le quattro grandi Potenze paciere sarebbe stretto e che il dì seguente, l’Europa, da tre giorni in trepidazione, potrebbe trarre un gran respiro di sollievo.... Non mancava più che l’adesione formale della Germania! Invece, quando Sir E. Goschen, ambasciatore d’Inghilterra a Berlino, si recò, nel pomeriggio del 27, al Ministero degli Esteri per ricevere la risposta ufficiale del Governo tedesco alla proposta inglese, oh meraviglia! si sentì risponder chiaro e tondo di no. Il signor Jagow aveva mutato parere, in poche ore. Dichiarò infatti all’ambasciatore inglese che convocando quella tal conferenza si istituirebbe sotto altro nome una vera Corte arbitrale; non potersi dunque citare Austria e Russia innanzi a una Corte arbitrale, se ambedue non ne sollecitavano il giudizio. L’ambasciatore si sforzò di dimostrare, con ogni sorta di argomenti, che la conferenza proposta dall’Inghilterra era tutt’altra cosa che una Corte [24] arbitrale: ma il ministro stette fermo; concesse solo che, poichè Austria e Russia volevano trattare tra di loro la questione, si poteva aspettare che queste trattative fossero terminate, prima di avvisare ad altri espedienti o tentar nuovi passi. In apparenza, insomma, il Governo tedesco si rinchiude di nuovo, come la tartaruga nel guscio, in quel suo ottimismo dilatorio: il pericolo non è urgente, si può dunque aspettare e vedere.... In effetto, invece, la Germania, dopo avere o esitato davvero o fatto mostra di esitare, manda a vuoto la proposta inglese, per aiutar l’Austria a ottenere il suo intento. L’Austria aveva già dimenticate le confidenze fatte il 25 al Governo inglese. L’Austria voleva a tutti i costi fare la guerra alla Serbia, e quello stesso giorno aveva dichiarato alle Potenze di apprestarsi, poichè la Serbia non aveva data risposta soddisfacente, a usare «mezzi energici». L’Austria, quindi, non voleva che la conferenza si interponesse a intralciarne le mosse: ma non voleva neppure rifiutar essa apertamente i buoni uffici dei pacieri. A ringraziar questi, prima ancora che entrassero in ufficio, pensò la Germania.
Il bel castelletto di carte che Sir E. Grey aveva eretto con tanto studio in due giorni era in terra. All’ultimo momento, la Germania ci aveva soffiato su. Tutto di nuovo pendeva incerto; e — quel che era peggio — prendeva forza, nelle Cancellerie della Triplice Intesa, il sospetto che la Germania e l’Austria ponessero ad effetto un piano abilmente concertato, la Germania tenendo a bada senza parere le Potenze dell’Intesa, mentre l’Austria agiva. Difatti, si incominciò a parlar chiaro. Il Grey mandò a chiamare [25] l’ambasciatore d’Austria e gli chiese se il suo Governo si rendeva conto che così, senza parere, bel bello, esso andava preparando nè più nè meno che la guerra universale (G. B., 48). L’ambasciatore di Russia a Vienna fece visita al barone Macchio, in quel tempo sotto-segretario di Stato per gli affari esteri: gli disse senza reticenze che se l’Austria dichiarasse la guerra alla Serbia, la Russia interverrebbe e l’Europa andrebbe in fiamme; gli chiese che l’ambasciatore austriaco a Pietroburgo fosse incaricato di trattare con il Sazonoff, il quale a sua volta si studierebbe di persuader la Serbia a concedere all’Austria quanto era giusto (G. B., 56; L. Arancio, 41). L’ambasciatore di Francia a Berlino propose al signor Jagow che le quattro Potenze facessero insieme almeno un passo a Vienna, pregando il Governo austriaco «di astenersi da qualsiasi atto che potesse aggravar la situazione presente» (L. Arancio, 39). Anche l’incaricato d’affari russo fece visita al Jagow e lo pregò di consigliare «con forza» il Governo austriaco ad accettare la proposta dell’ambasciatore russo a Vienna (L. Arancio, 38).
L’Austria e la Germania ricevettero dunque nella giornata del 27 avvisi salutari e proposte concilianti in quantità. La Russia non parlò quel giorno ambiguamente o per enigmi: disse e ripetè che voleva la pace, ma aggiunse pure che se l’Austria dichiarasse guerra alla Serbia, essa avrebbe chiamato a raccolta il suo esercito e sarebbe intervenuta. Disgraziatamente le proposte non furono accolte e gli avvisi non furono intesi. Il signor Jagow rispose di no all’ambasciatore francese e di no all’attaché militare [26] russo, protestando di non poter consigliare all’Austria di cedere (L. Arancio, 38-39). L’ambasciatore di Germania a Parigi dichiarò al direttore degli affari politici che la Germania non voleva sentir parlare nè di conferenze nè di mediazioni (L. Arancio, 34). L’atteggiamento della Germania fu tale che perfino il Governo russo, così deferente fino a quel momento verso il grande impero vicino, perdè la pazienza. «I miei colloqui con l’ambasciatore di Germania — scrive il signor Sazonoff in un dispaccio spedito il 28 all’ambasciatore di Russia a Londra — mi confermano che la Germania approva l’intransigenza dell’Austria. Il Gabinetto di Berlino, che avrebbe potuto impedir dal principio tutti questi guai, non fa nulla. L’ambasciatore trova perfino insufficiente la risposta della Serbia. Questo atteggiamento della Germania è particolarmente inquietante. Mi sembra che, più di qualsiasi altra Potenza, l’Inghilterra sarebbe in grado di tentar di indurre il Governo tedesco a far quel occorre. A Berlino è la chiave della situazione» (L. Arancio, 43). Non solo purtroppo Berlino respingeva tutte le proposte concilianti fatte dalla Russia e dalla Francia: ma l’Austria, sorda a tutti i consigli e a tutti gli avvisi, provocava il destino; e il 28 luglio dichiarava la guerra alla Serbia.
Le cose, da cinque giorni in bilico, erano dunque precipitate. L’Austria non aveva voluto sentir ragione! Il mondo volse gli occhi verso la Russia. [27] Che cosa farebbe l’immenso impero, il quale aveva dichiarato a più riprese che non abbandonerebbe mai nelle mani dell’Austria il piccolo regno slavo?
Il 28 luglio, il giorno stesso in cui l’Austria dichiarava guerra alla Serbia, i ministri si riunivano a consiglio in Pietroburgo; e deliberavano di iniziare il giorno seguente la mobilitazione nelle circoscrizioni militari di Odessa, di Kiew, di Mosca e di Kazan; di avvisare per via ufficiale il Gabinetto di Berlino, e di ripetergli che la Russia non intendeva fare alcuna minaccia alla Germania (G. B., 70; L. Giallo, 95, 96). Questa deliberazione non poteva del resto sorprendere nessuno, poichè fino dal principio la Russia aveva dichiarato che, se la Serbia fosse stata assalita, essa avrebbe chiamato a raccolta le sue riserve sui confini dell’Austria. Nè il furore popolare, concitato dalla provocazione dell’Austria, avrebbe tollerato che il Governo esitasse. Ma la deliberazione del Governo russo fu il solo evento di rilievo, che il giorno 28 dovesse registrare prima di sera. Per alcune ore, dopo la dichiarazione di guerra, tutte le Potenze aspettarono in silenzio e guardinghe, quale sarebbe l’effetto di quell’atto audace. Prima a rompere la perplessità ed il silenzio fu la Germania. Tutto ad un tratto, la sera del 28, il Cancelliere dell’impero tedesco prega l’ambasciatore inglese di recarsi da lui e gli tiene il più savio e il più cordiale discorso che si potesse imaginare: non aver potuto accettare la proposta inglese, non parendogli che fosse effettuabile; la Germania però esser pronta a fare quanto potesse per impedire la guerra: Vienna e Pietroburgo avviassero senza intermezzatori la discussione, e si [28] intenderebbero: egli non avrebbe risparmiata fatica purchè il discorso tra le due grandi Potenze si impegnasse. Aggiunse di nutrir qualche timore per la mobilitazione russa, non gli accrescesse la difficoltà «di predicar la moderazione a Vienna», ma concluse affermando che «una guerra fra le grandi Potenze doveva essere evitata» (G. B., 71). Alcune ore dopo, alle 10,45 di sera, l’imperatore di Germania, che nella giornata era tornato a Berlino dal Mare del Nord, spediva allo Czar un dispaccio, amichevole e fiducioso, che terminava così: «Mi rendo conto delle difficoltà in cui il movimento della pubblica opinione ha posto Te e il Tuo Governo. Per la cordiale amicizia che da tanto tempo ci unisce, farò quanto posso per indurre l’Austria a intendersi lealmente e a conchiudere un accordo soddisfacente con la Russia. Spero che Tu mi aiuterai» (L. Bianco, 20). Nella notte, infine, dovettero partir da Berlino istruzioni conformi a questi discorsi e a questi propositi, se la mattina del 29 l’ambasciatore di Germania a Parigi confidava al Governo francese, in via officiosa, che il Governo tedesco non dismetteva il proposito di «indurre il Governo austriaco a iniziare una discussione amichevole» (L. Giallo, 24); e se alla stessa ora a Pietroburgo il signor Sazonoff e l’ambasciatore di Germania si scambiavano le più cordiali assicurazioni sui propositi dei propri Governi. Ecco il tenore della conversazione, secondo il dispaccio del signor Sazonoff stesso, che la riassume:
«L’ambasciatore di Germania mi informa a nome del Cancelliere che la Germania non ha mancato di esercitare a Vienna un’influenza moderatrice e che non desisterà per [29] la dichiarazione di guerra. Fino a stamane non si ha notizia che le truppe austriache abbiano varcata la frontiera serba. Ho pregato l’ambasciatore di trasmettere al Cancelliere i miei ringraziamenti per il tenore amichevole di questa comunicazione. Lo ho informato dei provvedimenti militari presi dalla Russia, nessuno dei quali, gli ho detto, è diretto contro la Germania; ho aggiunto che non significavano nemmeno intenzioni aggressive contro l’Austria-Ungheria, ma si spiegavano con la mobilitazione della maggior parte dell’esercito austro-ungarico. Poichè l’ambasciatore si dichiarava favorevole a spiegazioni dirette fra il Gabinetto di Vienna e noi, gli risposi che ero a ciò dispostissimo, purchè i consigli del Gabinetto di Berlino dei quali egli parlava trovassero un’eco a Vienna.
«Al tempo stesso accennai che noi eravamo anche pronti ad accettare una conferenza delle quattro Potenze, che alla Germania non pareva piacere troppo.
«Dissi che, a mio parere, il miglior modo per impedire la guerra generale erano le trattative per una conferenza a quattro (Germania, Francia, Inghilterra, Italia) e un contatto diretto fra l’Austria-Ungheria e la Russia, al modo stesso circa che era stato fatto nei momenti più critici della crisi dell’anno scorso.
«Dissi all’ambasciatore che dopo le concessioni fatte dalla Serbia non sarebbe stato difficile trovare un compromesso, purchè ci fosse un po’ di buona volontà da parte dell’Austria, e purchè tutte le Potenze si adoperassero per la conciliazione».
(Comunicato agli ambasciatori in Inghilterra, in Francia, in Russia, in Austria e in Italia).
Finalmente dunque la Germania faceva quel che l’Europa tutta le chiedeva da cinque giorni: metteva la sua autorità a servizio della pace e non dell’Austria. Come si spiega questo mutamento improvviso? [30] Anche questo è un mistero. Andando per congetture, non pare improbabile che il Governo tedesco e il Governo austriaco abbiano cominciato a capire, il giorno 28, che il Governo russo faceva questa volta sul serio. Di ciò troveremmo conferma nel Libro Rosso austriaco, dove si legge un dispaccio spedito il 28 luglio dal conte Berchtold all’ambasciatore austriaco in Berlino e di cui ricopio il testo dalla versione ufficiale italiana:
«Prego V. E. di recarsi immediatamente dal Cancelliere dell’Impero o dal segretario di Stato e di partecipargli, a mio nome, quanto segue:
«Secondo notizie analoghe, pervenuteci da Pietroburgo, Kiew, Varsavia, Mosca e Odessa, la Russia fa ampi preparativi militari. Il signor Sazonoff ha dato veramente, come il ministro della guerra russo, la sua parola d’onore, che finora non fu ordinata alcuna mobilitazione: quest’ultimo però comunicò all’addetto militare tedesco, che le circoscrizioni militari vicine all’Austria-Ungheria, cioè Kiew, Odessa, Mosca e Kazan verrebbero mobilizzate, ove le nostre truppe varcassero il confine serbo.
«Date tali circostanze, vorrei pregare istantemente il Gabinetto di Berlino, che esaminasse l’eventuale opportunità di prevenire amichevolmente la Russia, che la mobilitazione di quei distretti militari significherebbe una minaccia all’Austria-Ungheria e che perciò, se venisse realmente effettuata, tanto la Monarchia quanto l’alleata Germania dovrebbero prendere da parte loro le più vaste contromisure militari.
«Per facilitare alla Russia una eventuale resipiscenza, ci sembrerebbe indicato che un tale passo venisse fatto dapprima dalla sola Germania: pure noi saremmo naturalmente pronti ad associarvici.
[31]
«L’essere espliciti mi parrebbe in questo momento il mezzo più efficace per far intendere alla Russia l’intero significato di un contegno minaccioso» (L. Rosso, 42).
Il Governo austriaco incomincia dunque già a inquietarsi per gli apparecchi militari della Russia durante il giorno 28, e perciò prega la Germania di ripeter la mossa riuscita così bene nel 1909. Chi ripugni dunque dal voler attribuirgli accorgimenti e piani troppo reconditi, può supporre che la sera del 28 il Governo tedesco si sia accorto, paragonando le notizie di Pietroburgo e quelle di Vienna, che le cose si mettevano al pericolo; e che, spaventato, abbia voluto cercare qualche riparo.
L’autorità della Germania nei consigli dell’Europa era ancora grandissima negli ultimi giorni di luglio. Tanto più singolare sembrerà dunque che l’Austria abbia tenuto in così poco conto il suo primo consiglio di pace, e proprio nel momento in cui domandava alla sua potente alleata di far cadere di mano alla Russia la spada con una parola minacciosa e un baleno dello sguardo corusco! Ma così fu. La mattina del 29 le Cancellerie d’Europa appresero che l’Austria rifiutava di intavolare una discussione con la Russia intorno alla risposta della Serbia (L. Rosso, 44). E la Germania allora.... Protesta forse? Recrimina? Ritorna all’assalto con l’alleata, che ha bisogno della [32] sua autorità? No: si rassegna. Del rifiuto dell’Austria si intrattennero a colloquio quel dì medesimo il Cancelliere dell’impero e l’ambasciatore inglese; e il Cancelliere dell’impero disse all’ambasciatore che rammaricava assai la risposta dell’Austria; aggiunse che l’Austria faceva la guerra solo per avere finalmente ragione della incorreggibile doppiezza della Serbia; onde egli aveva consigliato all’Austria di dichiarar le sue intenzioni in modo, che non ci potessero esser più malintesi (G. B., 75). Null’altro! Tuttavia l’Europa non sapeva, la mattina del 29, che già la sera prima l’Austria aveva chiesto alla Germania di ripetere la mossa del 1909: l’Europa non aveva dunque motivo di dubitare della sincerità del Cancelliere.... «La chiave della situazione è a Berlino», aveva detto, il giorno prima, il Sazonoff: e con ragione, perchè, nonostante il rifiuto dell’Austria, le speranze rinacquero nella giornata del 29. Se la Germania, la potente Germania, voleva la pace, pace sarebbe, ancora una volta! Il Viviani, presidente del Consiglio e ministro degli esteri di Francia, che frattanto era tornato a Parigi dalla Russia, telegrafò a Londra che «poichè Vienna e Pietroburgo avevano cessato di trattare, urgeva che il Gabinetto di Londra rinnovasse in qualche modo la sua antica proposta» (L. Arancio, 55). L’ambasciatore di Germania a Parigi si recò dal Viviani per ripetergli ancora una volta che il suo Governo voleva la pace; e avendogli il Viviani risposto che se la Germania desiderava la pace, doveva aderire alla proposta inglese, il barone von Schoen non rispose più, come il 27, rifiutando, ma si limitò a schermirsi [33] opponendo certe difficoltà di forma. Le parole «conferenza» o «arbitrato» — egli diceva — spaventavano l’Austria.
Infine Sir E. Grey rinnovò la sua proposta; e poichè la Germania aveva trovato a ridire più sulla forma che sulla sostanza della cosa, si dichiarò pronto a lasciare alla Germania il giudizio intorno a tutte le questioni di forma (G. B., 84; L. Giallo, 98). Come avrebbe potuto l’Austria resistere a tanti pacieri che l’assediavano da ogni parte? Si poteva di nuovo sperare....
Quando a un tratto, a mezzanotte, arrivò a Londra da Berlino un dispaccio che parve molto strano. L’ambasciatore inglese raccontava che il Cancelliere lo aveva fatto chiamare in serata. Il Cancelliere, tornava allora da Potsdam; e malgrado l’ora incomoda aveva disturbato Sua Eccellenza per domandargli se l’Inghilterra si impegnava a restare neutrale in una guerra europea, quando la Germania promettesse di rispettare l’Olanda e di togliere alla Francia solamente le sue colonie (G. B., 85). Imaginarsi lo stupore che provò il Foreign Office leggendo questo strano dispaccio! Sino ad allora non si era parlato che del conflitto austro-russo e del modo di comporlo senza guerra: ma ecco che a un tratto, la Germania, seduta stante, senza nemmeno attendere l’indomani mattina, vuol sapere quel che l’Inghilterra farà o non farà, se scoppia la guerra europea; e già ventila perfino le condizioni di pace da imporre alla Francia! Ma la Germania allora, invece di pensare a metter d’accordo Austria e Russia, macchinava di far guerra alla Francia? Era chiaro [34] infatti che il Cancelliere non sarebbe uscito in così strane domande, quella sera, dopo i discorsi del giorno prima, se nel Convegno di Potsdam, dal quale egli allora tornava, non fosse già stata virtualmente decisa la guerra. Onde un oscuro quesito: perchè tanto mutamento e così improvviso? Che cosa è successo nella giornata del 29 luglio? Per quale ragione il Cancelliere, che la sera del 28 dichiarava all’ambasciatore d’Inghilterra doversi impedire la guerra fra le grandi Potenze, la sera del 29 già negoziava la neutralità dell’Inghilterra nella guerra europea ormai deliberata?
Eccoci al maggior mistero di questa terribile storia. Cercherò chiarirlo, come posso, pochi mesi dopo gli eventi, in tanta scarsezza di documenti, per via di congetture: congetture che domani nuovi documenti forse spazzeranno via, come un soffio di vento spazza via dall’orizzonte in pochi minuti una nuvolaglia che ristagna pesante e immota nell’aria; ma che potranno almeno servire la verità, sollecitando la curiosità di quanti sono avidi di conoscere il vero.
Per provarci all’impresa non facile, incominciamo a osservare che il Governo russo ha ufficialmente avvertito il Governo tedesco di aver ordinata la mobilitazione sulla frontiera austriaca, il 29. Questo afferma il Libro Bianco tedesco; e questo conferma un dispaccio spedito da Berlino dall’ambasciatore [35] inglese (L. Bianco, 9; G. B., 76). Procediamo quindi a leggere alcuni documenti che giacciono lontani e quasi stranieri l’uno all’altro nei differenti Libri diplomatici sinora pubblicati, ma che invece si intrecciano a vicenda come altrettante maglie del gran tessuto degli eventi. Primo, il dispaccio spedito il 29 dal Sazonoff all’ambasciatore di Russia a Parigi (L. Arancio, 58).
«L’ambasciatore di Germania mi ha oggi comunicato che il suo Governo ha risoluto di mobilizzare se la Russia non interrompe i preparativi militari. Ora noi abbiamo incominciato questi in seguito alla mobilitazione cui già si era accinta l’Austria, e visto che l’Austria non desiderava di trovare una qualsiasi soluzione pacifica del suo conflitto con la Serbia.
«Poichè non possiamo accedere al desiderio della Germania, non ci resta che affrettare i nostri armamenti, e contare sulla inevitabilità della guerra. Vogliate avvertirne il Governo francese, esprimergli al tempo stesso la nostra sincera riconoscenza per la dichiarazione che l’ambasciatore di Francia m’ha fatto a suo nome, dicendomi che noi possiamo contare intieramente sull’appoggio della nostra alleata, la Francia. Nelle attuali circostanze questa dichiarazione ci è particolarmente preziosa».
(Comunicato agli ambasciatori in Inghilterra, Austria-Ungheria, Italia, Germania).
Spigoliamo quindi nel Libro Bianco tedesco e ritroveremo un dispaccio spedito dall’imperatore di Germania all’imperatore di Russia, nella notte dal 29 al 30, all’una del mattino, e scritto in tono ben diverso dal dispaccio del 28:
«Il mio ambasciatore è stato incaricato di richiamare l’attenzione del Tuo Governo sui pericoli della mobilitazione. [36] L’Austria-Ungheria ha solamente mobilitato una parte del suo esercito e contro la Serbia. Se la Russia, come pare sia intenzione Tua e del Tuo Governo, mobilita contro l’Austria-Ungheria, la parte di mediatore che Tu mi hai affidata con così viva istanza e che io ho accettata per farti piacere, diventa impossibile o quasi. Ormai tutto dipende da Te, come sopra di Te peserà la responsabilità della guerra e della pace» (L. Bianco, 23).
Leggiamo quindi un dispaccio spedito il 30 luglio dall’ambasciatore d’Inghilterra a Pietroburgo, per raccontare ciò che era avvenuto il 29:
«L’ambasciatore di Francia ed io abbiamo fatta visita al ministro degli affari esteri questa mattina (30 luglio). Sua Eccellenza ci ha raccontato che ieri nel pomeriggio l’ambasciatore di Germania gli ha detto che la Germania era pronta a garantire per conto dell’Austria-Ungheria la integrità della Serbia: il sig. Sazonoff ha risposto che ciononostante la Serbia potrebbe cadere sotto il vassallaggio dell’Austria come Bucara è caduta sotto il vassallaggio della Russia e che una rivoluzione scoppierebbe in Russia se il Governo tollerasse una cosa simile.
«Il sig. Sazonoff aggiunse che la Germania faceva preparativi militari contro la Russia, specialmente in direzione del golfo di Finlandia; il Governo ne aveva prove incontestabili.
«L’ambasciatore di Germania ebbe un secondo colloquio col sig. Sazonoff durante la notte, alle ore 2 antimeridiane. L’ambasciatore è scoppiato in pianto (completely broke down) quando capì che la guerra era inevitabile. Supplicò allora il sig. Sazonoff di suggerirgli qualche cosa da poter telegrafare al suo Governo, come ultima speranza. Per contentarlo il sig. Sazonoff scrisse in francese e gli consegnò la formola seguente: Se l’Austria, riconoscendo che la questione austro-serba ha assunto il carattere di una questione [37] europea, si dichiara pronta a eliminare dal suo ultimatum i punti che portano pregiudizio ai diritti sovrani della Serbia, la Russia si impegna a cessare dai preparativi militari.
«Se questa proposta sarà respinta dall’Austria, sarà decretata la mobilitazione generale. La guerra europea sarà allora inevitabile. Gli animi sono qui così eccitati, che se l’Austria non fa concessioni, la Russia non potrà più indietreggiare. La Russia, poichè sa che la Germania si prepara, non può indugiare molto a convertire la sua mobilitazione parziale in mobilitazione generale» (G. B., 97).
Nè meno importante è il dispaccio che il Paléologue, ambasciatore di Francia alla Corte russa, inviava da Pietroburgo il 30 (L. Giallo, 103):
«L’ambasciatore di Germania è venuto questa notte a insistere di nuovo, ma in termini meno categorici, presso il sig. Sazonoff perchè la Russia cessi dai suoi preparativi militari, affermando che l’Austria non avrebbe intaccato l’integrità territoriale della Serbia.
« — Non è soltanto l’integrità territoriale della Serbia che noi dobbiamo preservare — ha risposto il sig. Sazonoff — è anche la sua indipendenza e la sua sovranità. Noi non possiamo ammettere che la Serbia diventi vassalla dell’Austria.
«Il sig. Sazonoff ha soggiunto: — L’ora è troppo grave perchè io non vi dichiari intieramente il mio pensiero, intromettendosi a Pietroburgo mentre si rifiuta di intromettersi a Vienna, la Germania non cerca che di guadagnar tempo per permettere all’Austria di schiacciare il piccolo regno serbo prima che la Russia abbia potuto soccorrerlo. Ma l’imperatore Nicola ha tanto desiderio di scongiurare la guerra che io vi farò a nome suo una nuova proposta: Se l’Austria, riconoscendo, ecc. Il conte di Pourtalès ha promesso di appoggiare questa proposta presso il suo Governo».
[38]
Finalmente il 30 luglio il signor Sazonoff telegrafa all’ambasciatore di Russia a Berlino (L. Arancio, 60):
«L’ambasciatore di Germania, che mi ha lasciato adesso, mi ha domandato se non ci potevamo contentare della promessa che l’Austria non toccherebbe l’integrità del regno di Serbia, e mi ha chiesto a quali condizioni si potrebbe ancora acconsentire a sospendere i nostri armamenti. Io gli ho dettato, perchè sia trasmessa d’urgenza a Berlino, la dichiarazione seguente: Se l’Austria, riconoscendo, ecc.
«Vogliateci telegrafare d’urgenza quale sarà l’atteggiamento del Governo tedesco di fronte a questa nuova prova del nostro desiderio che la pace non sia turbata, giacchè noi non possiamo ammettere che tutte queste trattative non servano che a far guadagnar tempo alla Germania e all’Austria per i loro preparativi militari».
Studiamo ora e confrontiamo questi documenti. Dal dispaccio 58 del Libro Arancio noi apprendiamo che il 29 luglio il Sazonoff e l’ambasciatore di Germania ebbero un colloquio. Il dispaccio 97 della pubblicazione inglese Great Britain and the European Crisis, narra pure di una conversazione ch’ebbe luogo fra quei due personaggi nel pomeriggio del 29. I due dispacci alludono forse allo stesso colloquio? Sembra probabile. Allora è possibile, riscontrando i due dispacci, scoprire di che si trattò nel colloquio. L’ambasciatore di Germania disse al signor Sazonoff che l’Austria prometteva di rispettare l’integrità territoriale della Serbia, e che la Germania era pronta a garantire la promessa; ma lo avvisò che se la Russia avesse continuata la sua mobilitazione contro l’Austria la Germania avrebbe anch’essa mobilizzato. Il Governo tedesco, dunque, dopo aver mandato [39] alla mattina del 29 il suo ambasciatore a rassicurare il Governo russo e a consigliargli di trattare con il Governo austriaco, nel pomeriggio, dopochè il Governo austriaco aveva rifiutato di intavolare la discussione consigliata dall’alleata, invece di insistere nel suo consiglio, invece di tentar qualche passo per far ravvedere l’Austria, rimanda il suo ambasciatore a fare la mossa richiesta il giorno prima dal conte Berchtold: a esigere cioè, tra il dolce e il brusco, che la Russia riponga nell’armadio la spada. In altre parole il Governo tedesco, il quale alla mattina diceva ancora di voler interporsi come paciere tra l’Austria e la Russia, nel pomeriggio si presenta di nuovo alla Russia in veste di alleata dell’Austria e con la mano sull’elsa della spada.
Anche le ragioni di questo mutamento sono un mistero. Chi non voglia interpretare in sinistro tutte le azioni del Governo tedesco e supporre che il 28 luglio fingesse per addormentare gli avversari e meglio sorprenderli il dì seguente, può argomentare che a Berlino fossero due partiti: uno più debole e in vista che voleva trattenere l’Austria e conservare la pace; l’altro più potente ed occulto che voleva la guerra; e che questo secondo partito prevalse nei consigli del Governo la mattina del 29. Come e perchè — se questa congettura è vera — ce lo dirà forse un giorno la storia. Ad ogni modo se le ragioni del passo sono oscure, certo è invece che il passo fatto dall’ambasciatore tedesco a Pietroburgo nel pomeriggio del 29 fu l’atto decisivo e irreparabile che provocò la guerra europea. L’ambasciatore tedesco era appena uscito dal colloquio, che già il Sazonoff [40] telegrafava all’ambasciatore russo a Parigi la guerra essere ormai inevitabile, Francia e Russia dovere senza indugio approntare le armi. Nè è difficile intendere il perchè. Scottante era ancora in Russia il ricordo dell’umiliazione che la Germania aveva inflitto all’impero moscovita nel 1909; ben fermo il proposito di non passare una seconda volta, in cospetto del mondo, sotto quelle Forche Caudine. Quel passo invece diceva chiaro che la Germania voleva ripetere il gioco.... Come spiegare altrimenti che non l’Austria, alle cui frontiere la mobilitazione era stata ordinata, ma la Germania chiedesse alla Russia di non indossare le armi; e ciò chiedesse, quando la Russia aveva appena decretata, ma non ancora incominciata la mobilitazione; dopochè il von Jagow aveva dichiarato al Cambon che la Germania non avrebbe messo il suo esercito su piede di guerra, qualora la Russia avesse mobilizzato solo sulle frontiere dell’Austria? La Russia quindi era risoluta questa volta a sfidare la minaccia, il che forzerebbe la Germania a porla ad effetto: ma tutti sapevano, in tutta Europa, che se la Germania avesse un giorno chiamato il popolo alle armi, avrebbe dichiarata la guerra il dì seguente.
E difatti non a Pietroburgo solo ma anche a Berlino si pensò che la guerra era imminente, dopochè l’ambasciatore tedesco ebbe fallito, nel pomeriggio del 29, quel suo passo fatale. Noi possiamo infatti, a questo modo, spiegare gli strani discorsi tenuti la sera del 29 dal Cancelliere dell’impero all’ambasciatore inglese. Il Cancelliere dell’impero tornava, allora allora, come è stato detto, da Potsdam. Per qual ragione era egli andato a Potsdam? Ce lo dice il [41] signor Cambon: per prender parte «a un consiglio straordinario con le autorità militari, sotto la presidenza dell’imperatore» (L. Giallo, 105). Ma di che si trattò e intorno a quali materie si deliberò in questo grande consiglio, alla presenza dei capi dell’esercito? Delle cose di cui il Cancelliere, appena tornato a Berlino, tenne la sera stessa discorso con l’ambasciatore inglese; e di quelle di cui l’ambasciatore tedesco andò a ragionare con il Sazonoff, nella notte del 29 al 30 luglio, alle due del mattino. Riscontrando i fatti e le date è dunque possibile di ricostruire per sommi capi gli eventi di quella giornata. La risposta della Russia metteva il Governo tedesco nell’impegno di porre a effetto la minaccia: ma alla mobilitazione seguirebbe la guerra, la guerra europea. Era dunque necessario chiamare a consiglio i capi dell’esercito. Il consiglio di Potsdam fu convocato per discutere intorno alla risposta che la Russia aveva data, nel pomeriggio del 29, alla richiesta dell’ambasciatore tedesco; e dopo una lunga discussione deliberò di fare ancora un passo presso la Russia, ma subito, nella notte stessa, per chiederle di nuovo «in termini meno categorici» come dice il Paléologue, a quali condizioni avrebbe consentito a sospendere gli apparecchi di guerra: se la Russia rifiutasse ancora, di romper gli indugi e dichiarare la guerra, senza più perdere un minuto, assicurandosi il vantaggio dell’iniziativa e dell’attacco. Tanto è ciò vero che il Cancelliere dell’impero doveva assicurarsi immediatamente, appena tornato a Berlino, senza neppure aspettare il giorno seguente, la neutralità dell’Inghilterra. La guerra europea fu dunque decisa a Potsdam, la sera del 29 luglio 1914.
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Nessun documento sinora venuto in luce prova in modo sicuro che la Germania abbia cominciati subito i suoi ultimi preparativi di guerra; ma è difficile credere che il Governo tedesco sia stato inoperoso per quarant’otto ore, quando sapeva la guerra imminente e quando mostrava di avere tanta fretta per tutto il resto. Come che sia, non è dubbio che, la sera stessa, appena tornato a Berlino, il Cancelliere dell’impero presentò le sue strane domande all’ambasciatore d’Inghilterra; che l’imperatore spedì il suo dispaccio allo Czar al tocco di notte, per appoggiare il passo che il suo ambasciatore, il conte di Pourtalès, doveva fare alle due, ad un’ora che sola basta a dimostrare la gran fretta che aveva invaso il Governo tedesco, dopo il consiglio di Potsdam. È chiaro che questi tre fatti sono concatenati. Quel che disse il conte di Pourtalès al Sazonoff e quel che gli rispose il Sazonoff, si ricava dal dispaccio 60 del Libro Arancio e dal dispaccio 103 del Libro Giallo. L’ambasciatore di Germania insistette nel dimostrare al Sazonoff, come dice il dispaccio dell’imperatore di Germania, i gravi pericoli della mobilitazione; ma quando si accorse che la decisione del Governo russo era irrevocabile, non seppe nascondere la sua emozione. Fino a quel momento egli aveva sperato che il Governo russo cederebbe, come nel 1909; e certo non aveva fatto il suo passo del pomeriggio del 29, supponendo che egli era in quel momento il piccolo e inconsapevole strumento di cui si serviva il destino per scatenare sull’Europa il più terribile flagello che l’avesse sino ad allora percossa. Scoppiò in pianto — debolezza umana e di cui [43] nessuno gli farà rimprovero — quando se ne accorse; e furono forse le prime lagrime della guerra o le ultime della pace europea — troppo tardive, in ogni caso! L’irreparabile era già stato compiuto. Continuarono, sì, Russia ed Austria a trattare il 30 e 31; anzi, il 31, il Governo austriaco, assalito da dubbi e timori, consentì a discutere con le grandi Potenze di Europa il suo ultimatum (G. B., 131); a far quello che le Potenze le avevano chiesto fin dal principio. Per un istante a Londra e a Parigi rinacque la speranza: ma il passo tedesco del 29 a Pietroburgo aveva ormai fatto nascere fra Russia e Germania troppa sfiducia. Il 30 i due imperi affrettano gli apparecchi di guerra: la Russia, perchè aveva ormai troppe ragioni di dubitare della Germania; la Germania, perchè sapeva che, fallita la minaccia, era forza colpire. I preparativi militari della Germania decisero il Governo russo a ordinare, il 31, la mobilitazione generale; e questa a sua volta determinò il Governo tedesco all’ultimatum del 31 luglio che è stato l’inizio della guerra europea. Nel racconto storico che precede il Libro Bianco tedesco è detto che la mobilitazione generale dell’esercito russo fu deliberata a Pietroburgo nel pomeriggio del 31 luglio e il Libro Arancio racconta che l’ultimatum tedesco fu consegnato a Pietroburgo il 31 a mezzanotte (L. Bianco, 14; L. Arancio, 64). Poichè l’ora russa anticipa di sessant’un minuti sull’ora dell’Europa centrale, è chiaro che l’ultimatum tedesco fu spedito non appena giunse a Berlino la notizia della mobilitazione generale russa. Non vi furon dubbi o esitanze a Berlino: altra prova che, fino dalla sera del 29, la guerra era cosa deliberata, [44] se il secondo passo dell’ambasciatore tedesco a Pietroburgo fosse fallito come il primo. Non si cercava più che un pretesto per dichiarare la guerra: chè invero sarebbe stato strano far la guerra alla Russia, perchè la Russia mobilitava al confine austriaco, mentre l’Austria il 31 ancora dichiarava, sia pur senza pensarlo, di non considerare come atto ostile la mobilitazione russa (G. B., 118). Perfino gli illustri professori che firmarono il famoso manifesto dei 93 si sarebbero accorti allora che provocatrice era proprio la Germania. Sembra per altro che a Berlino sino all’ultimo minuto si sia sperato che la Russia cederebbe. Ma la Russia non cedè, questa volta; e il sabato, 1º agosto, alle cinque del pomeriggio, l’ambasciatore di Germania consegnava a Pietroburgo questa dichiarazione di guerra:
«Il Governo imperiale ha fatto il possibile, fino dal principio della crisi, per giungere a una soluzione pacifica. Conformandosi a un desiderio espressogli da S. M. l’Imperatore di Russia, S. M. l’Imperatore di Germania, d’accordo con l’Inghilterra, voleva farsi mediatore presso i Gabinetti di Vienna e di Pietroburgo, allorchè la Russia senza attendere i risultati procedette alla mobilitazione di tutte le sue forze di terra e di mare. In seguito a questa misura minacciosa che nessun preparativo militare della Germania ha motivato, l’Impero tedesco si è trovato di fronte a un pericolo grave e imminente. Se il Governo imperiale non avesse provveduto a questo pericolo, avrebbe compromessa la sicurezza e la stessa esistenza della Germania. Perciò il Governo tedesco si è visto obbligato a rivolgersi al Governo di S. M. l’Imperatore di tutte le Russie, insistendo per la cessazione dei sopradetti atti militari. Avendo la Russia rifiutato di riconoscere questa domanda e avendo [45] manifestato, con questo rifiuto, che la sua azione era diretta contro la Germania, ho l’onore di informare l’Eccellenza Vostra, per ordine del mio Governo, di quanto segue: S. M. l’Imperatore, mio Augusto Sovrano, in nome dell’Impero, raccogliendo la sfida, si considera in istato di guerra con la Russia».
La guerra europea era scoppiata. La corrente del tempo che, un po’ torbida e gonfia ma senza pericolo, aveva sino a quel giorno portati i nostri destini con un corso che ci pareva sicuro, si era inabissata ad un tratto in una voragine immensa; e nessuno sa quando e dove e per quali abissi uscirà a rivedere il bel sole, che aveva sorriso sulla nostra vita sino a quel fatale primo giorno di agosto dell’anno 1914.
Questa sommaria indagine dei documenti diplomatici sinora venuti in luce, ci consente di rettificare la dichiarazione di guerra della Germania. No, non la Russia e meno che mai l’Inghilterra, ma l’Austria e la Germania hanno acceso il grande incendio. I fatti e le date parlano chiaro. Nei primi giorni della settimana fatale che corse dal 24 luglio al 1º agosto, l’Austria provoca apertamente le Potenze della Triplice Intesa, minacciando la Serbia, dichiarandole guerra, respingendo tutti i pacieri che si offrono, non ascoltando gli avvisi della Russia, alla quale tutto si potrà apporre fuori che di non [46] aver parlato chiaro sin dal primissimo giorno.... Frattanto la Germania parla e agisce piuttosto ambiguamente, ma sempre cercando di favorire copertamente, senza troppo aprirsi, i piani e i maneggi dell’Austria. Negli ultimi giorni l’Austria sembra rinsavire alquanto, forse più a parole che a fatti, perchè mentre accenna a ritrarsi, incita di soppiatto la Germania a farsi innanzi e a minacciare in sua vece. Al che la Germania acconsente, sul principio con qualche circospezione: finchè alla prima resistenza un po’ seria della Russia prorompe; e mentre tutti intorno a lei esitano, aspettano, temono, si crucciano, trattengono il respiro, rompe in poche ore ogni indugio e la sera del 29 luglio, poche ore dopo aver rassicurata con parole di pace l’Europa, delibera la guerra universale.
Non sarà mai ripetuto abbastanza che proprio questo è il gran mistero della terribile storia: perchè il 29 luglio, ventiquattr’ore dopo che il Cancelliere aveva rassicurato con parole l’ambasciatore inglese, il Governo imperiale a un tratto intima alla Russia di cessare la mobilitazione contro l’Austria, mentre l’Austria non si considerava ancora minacciata dai preparativi russi e non ne muoveva lagnanza? Delle generazioni si tormenteranno forse per sciogliere questo tremendo quesito, a cui sinora i documenti non dànno che una sola risposta, laconica ma pregnante, per rubare agli antichi retori un loro aggettivo espressivo: che cioè «i capi dell’esercito insisterono» — come disse il 30 luglio lo Jagow al Cambon (L. Giallo, 109). Quante cose lascia intravedere questa frase! Ma se i capi dell’esercito [47] hanno voluta e imposta la guerra al Governo tedesco debole e incerto, la sera del 29 luglio, in quel Consiglio di Potsdam, un altro quesito si pone: come abbiano potuto i capi dell’esercito aver tanta autorità da trarre tutto il popolo alla favolosa avventura; come sia accaduto che quella sera, in quel Consiglio, o nessuno abbia pensato che si stava per dar fuoco all’Europa; o se alcuno ci ha pensato, gli altri non abbiano tremato innanzi alla terribile responsabilità che si assumevano. Negli studi seguenti si cercherà di sciogliere questo quesito. Provato che la Germania ha presa l’iniziativa della guerra universale, cercheremo di spiegare come una Nazione abbia potuto osare, innanzi al mondo e alla storia, nell’anno di grazia 1914, questa incredibile audacia.
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Questa seconda parte del volume comprende tre discorsi — dei quali i due primi sono inediti.
Il primo fu tenuto a Milano, per invito della Università Popolare, il 25 gennaio del 1914. Non tratta dunque della guerra, ma dell’America, dell’Europa e del progresso, riassumendo una delle tesi principali dell’ultimo libro dell’autore, che si intitola appunto Tra i due mondi. Il discorso potrebbe dunque sembrar estraneo all’argomento di questo volume: ma non è. Quanto sta scritto sulla guerra negli studi successivi raccolti in questo volume è l’applicazione di alcune idee esposte brevemente in questo discorso e più ampiamente svolte nel libro. È parso quindi opportuno all’autore far sì che il lettore, volendo, potesse, dopo aver conosciuto come la guerra europea è scoppiata, e prima di passare a vedere quali sono state le cause profonde della catastrofe, rendersi conto delle idee direttive che saranno guida e lume all’autore per intendere un così vasto fenomeno. L’autore spera così che gli studi seguenti riescano più chiari; e che il lettore possa giudicare se egli non si illuda, sul finir di questo primo discorso, mostrando di credere che «questo modo di considerare la storia del mondo aiuti a intendere il nostro tempo; e nelle loro congiunture vitali, le idee e le dottrine in cui crede, la politica che fa, le aspirazioni e i bisogni che lo travagliano, le crisi e i pericoli che lo minacciano». La guerra europea dovrebbe essere una eccellente [52] pietra di paragone per tutte le dottrine, che pretendono di illuminare gli uomini sulle inclinazioni, i meriti e i vizi della civiltà presente.
Il secondo discorso fu tenuto a Firenze, il 13 marzo del 1915, per invito di un Comitato riunitosi apposta e di cui era anima Giulio Caprin, nel salone dell’Università Popolare posta nella scuola Luigi Alamanni; e ripetuto il 16. Applica alla guerra europea alcune delle idee svolte nel discorso precedente.
Altre di queste idee sono infine applicate nel terzo discorso, che fu pronunciato il 12 febbraio del 1915, a Parigi, nel massimo Anfiteatro della Sorbona, nella grande riunione convocata dall’Union des groupements latins e presieduta da Paolo Deschanel, presidente della Camera dei deputati. Il testo francese fu pubblicato nel Temps e nel Journal des Débats del 13 e nella Revue Hebdomadaire del 20 febbraio: la traduzione italiana, curata dall’autore stesso, nel Secolo del 13 febbraio. Questa traduzione non concorda sul finire con il testo francese, che porta le tracce di un pentimento avvenuto all’ultimo momento: la si ristampa con qualche emenda e ritocco, facendola terminare nel modo stesso del testo francese.
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Signore e Signori,
L’europeo che viaggia l’America in ferrovia, può figurarsi che attraversa un deserto. Vede all’Argentina trascorrergli innanzi, lenta e monotona, una verde pianura, nella quale ogni tanto quattro o cinque casette rosse, allineate al di là di una stazione, appaiono, tutte eguali, a ricordare che degli uomini vivono pure in quella infinita solitudine. Vede nel Brasile, sin dove l’occhio giunge, montagne cupe nella luce sfolgorante del giorno; e in mezzo a quelle ogni tanto delle montagne più chiare, su cui la foresta primitiva fu incendiata per far posto ai filari del caffè: ma non vede case e villaggi, se non ogni tanto, nella solitudine, e dopo un lungo viaggiare. Vede nell’America del Nord un villaggio apparire ogni tanto qua e là in mezzo al deserto: poi a un tratto il treno irrompe, sbuffando e sibilando, tra case, camini, [54] edifici, casette che sembrano rincorrersi alla rinfusa; si intravedono strade, uomini, veicoli, che appena visti scompariscono. Entriamo in una grande città. Mezzo milione, un milione, due milioni di uomini si pigiano su quel piccolo territorio, sotto il nero padiglione di fumo che distendono sul loro capo i mille camini. Ma ripigliando dopo una breve sosta la corsa, il treno getta di nuovo, dopo pochi minuti, il suo stridulo fischio nella vasta solitudine.
Spettacolo di singolare novità per l’europeo, che viene da una delle terre più popolose del mondo, dove case e casette si arrampicano a branchi dalle rive del mare alle ultime vette abitabili delle Alpi! Ma in quelle pianure e in quelle montagne che paiono spopolate, come in quelle città che sembrano sorgere in mezzo al deserto, l’uomo ha trovata finalmente la Terra promessa, il Giardino delle Esperidi, l’Eldorado sognato per tanti secoli: ma da quelle pianure, da quelle montagne, da quelle città trabocca ogni anno sul mondo una piena di diverse ricchezze: di cereali, di cotone, di tabacco, di caffè, di lana, di carne, di oro, di argento, di rame, di carbone, di petrolio, di ferro e manufatti di ogni specie; ma in quelle pianure, in quelle montagne, in quelle città milioni di europei trovano ogni anno il pane, il tetto, il giaciglio, l’agiatezza; e la Fortuna sembra scapricciarsi a gettare alla cieca in mezzo agli uomini, a piene mani, i suoi doni più ricchi. Tante favole corrono oggi per l’Europa intorno agli orrori e alle meraviglie dell’America, che non si raccomanderà mai abbastanza agli uomini del vecchio mondo di non essere troppo creduli: ma non sono favole invece e [55] sono forse maggiori che l’Europa non creda, le sue ricchezze. Quelle ricchezze che risvegliano nell’anima della vecchia Europa tanta ammirazione, tanta invidia e tanta cupidigia; quelle ricchezze intorno alle quali in tutto il mondo tanto si scrive, si disputa e si farnetica.... Ed a ragione. Non che l’America si prepari con quella, come troppo spesso si dice, a comperare il vecchio mondo in bisogno; ma perchè l’America precipita con la forza di quelle ricchezze un rovesciamento di ideali e di misure, che già da un secolo venivano lentamente capovolgendosi.
Questa affermazione sembrerà oscura. Cercherò di chiarirla con questo discorso. Che cosa sono dunque queste tanto celebrate ricchezze dell’America? Molti scrollano le spalle, a sentir questa domanda, in Europa. Dei barbari che vogliono arricchire per arricchire, nelle cui mani l’oro diventa sterile: e gli Americani son giudicati. Ma non è necessario aver viaggiato a lungo, per esempio, negli Stati Uniti dell’America del Nord, per sapere quanto questa opinione si dilunghi dal vero. Cupido solo di ricchezza il paese ove i corpi pubblici e i ricchi privati fanno a gara per fondare biblioteche, musei, scuole d’ogni genere e specie? Dove gli studenti e i ricchi mecenati bastano a mantenere, senza sussidio alcuno dello Stato, immense Università — come Harward e Columbia? Dove Stati, Città, [56] Banche, Ferrovie, Società di assicurazioni e milionari profondono ogni anno tesori per abbellire di sontuosi edifici le città? Il popolo che spalanca le porte, da ogni epoca della storia e da ogni contrada della terra, a tutte le arti, a tutte le scienze, a tutte le dottrine e le credenze? Dove si creano ogni giorno delle religioni nuove? — No: l’Americano non è il barbaro carico d’oro, di cui favoleggiano certe leggende in Europa. Anche l’Americano sa che, se è necessario produrre ricchezza, il produrla non basta. «Ma — si dice — l’arte, la scienza, la religione sono cose a cui l’Americano attende a tempo perso: alla ricchezza, invece, no. Totus in hoc est». È vero: ma, di grazia, e l’Europa? Chi oserebbe affermare che oggi, al sommo dei pensieri del vecchio mondo stiano la morale, il diritto, le arti, le lettere o le scienze? Di che si parla anche tra noi tuttodì se non delle industrie, dei commerci, dell’agricoltura e del loro incremento? Non abbiamo noi forse udito sovrani regnanti per la grazia di Dio vantarsi di seguire con occhio vigile il commercio del proprio popolo su tutte le vie della terra? Se dunque l’America è barbara, anche l’Europa e il mondo rimbarbariscono. E a dire il vero non pochi fanno propria, almeno di tempo in tempo e quasi senza accorgersene, questa conclusione. Non ci lamentiamo forse tutti — dieci volte ogni dì — che gli operai, che gli impiegati, che i soldati, che gli studenti, che i professori, che i figli e i padri, che i mariti e le mogli, che i ministri dello Stato e i camerieri non valgono più quelli di una volta; che l’arte del ben cucinare si perde insieme con i prelibati vini di un tempo e con le maniere della [57] buona creanza, il senso del bello e i sentimenti generosi? Ma il tralignar di tutte queste cose non è forse un rimbarbarire? Dunque, il mondo rimbarbarisce.... E sia: ma donde è nato questo movimento che ad un tempo sospinge i popoli alla ricchezza e alla barbarie? Volgiamoci verso il passato: lo vedremo scaturire e discendere alla volta del nostro secolo dai tempi lontani, in cui un genovese oscuro e ostinato spiegò dalle coste della Spagna le sue vele e sparve a Ponente nell’Oceano intentato. Sì: sino ad allora l’Europa aveva creato arti, religioni, filosofie, morali, sistemi giuridici di incomparabile perfezione: ma era povera: lavorava poco e lenta: venerava le tradizioni e l’autorità: aveva costretta l’energia dell’uomo entro leggi, pregiudizi e precetti senza numero: si sforzava di inculcare nelle generazioni il tenebroso pensiero che l’uomo è un essere debole, corrotto e simile — come canta Virgilio — al barcaiolo che risale a forza di remi la corrente vorticosa di un fiume. Guai a lui, se per un istante egli cessa di far forza! La corrente lo travolgerà. Ma come ebbe scoperto in mezzo all’Oceano un continente nuovo, l’Europa a poco a poco si fece ardita: si accorse che Prometeo era stato un ladro maldestro, perchè del fuoco non aveva rubato che una piccola scintilla; scoprì il carbone e l’elettricità; fabbricò la macchina a vapore, e non si appagò più di sognare la Terra promessa ma la volle; distrusse le tradizioni, le leggi e le istituzioni che avevano incatenate tante generazioni; imparò a lavorar presto e assai; non desiderò più solo la ricchezza, ma anche la libertà; e gettò nel mondo, [58] come un rimprovero al passato e una sfida alla natura, la parola che domina il secolo: progresso!...
Poichè l’idea del progresso è nata proprio tra il crepuscolo del Seicento e l’alba del Settecento, dopo i primi trionfi delle scienze: e si è diffusa, ha vinta nel popolo come nei grandi la forza della tradizione, gli scrupoli della fede, le obiezioni dei filosofi e le paure del misoneismo, a mano a mano che l’uomo, armato di fuoco e di scienza, conquistava la terra e i suoi tesori. Ma allora, se noi viviamo nel secolo del progresso, come accade che ci lagniamo della decadenza di tutte le cose? Come può rimbarbarire il secolo del progresso? Affermando che l’America è barbara e che il mondo deteriora, bestemmiamo noi forse alla leggera il progresso? O altrimenti, che cosa è questo progresso che lascia il mondo sdrucciolare nel peggio e per il quale ogni giorno ci affatichiamo, soffriamo e talora gettiamo perfino la vita?
Così fu che, dopo aver errato assai nel nuovo mondo per monti, per valli ed entro il labirinto di questi dubbi e di queste contradizioni, mi trovai alla fine un giorno alle prese con questo problema: che cosa è il progresso? Era chiaro che solo dopo aver definito il progresso, si poteva giudicare l’America; ma che, definitolo, si potrebbe giudicare addirittura la civiltà moderna nei suoi fini e nei suoi mezzi, [59] Poichè se il progresso è incremento della ricchezza, l’America è il modello dei popoli e il mondo cammina sulla buona via. Se invece il progresso è alcunchè diverso dall’incremento dei beni, potrebbe anche esser vero che l’America e l’Europa vadano rimbarbarendo. Ma purtroppo il quesito era oscuro e difficile. Se domandassimo a mille persone che cosa è il progresso, quante saprebbero rispondere con sicurezza; e quante definizioni, tutte incerte e tutte diverse, non ci verrebbe fatto di raccogliere? Non ci volle molto tempo a scoprire che tutti pronunciamo cento volte al giorno questa gran parola, ma che nessuno di noi sa quel che propriamente significhi. Ricorsi ai libri dei dotti, per riceverne luce e consiglio: ma invano. Ogni savio definiva il progresso a modo suo e in modo arbitrario, poichè invano cercavo nell’uno e nell’altro un argomento decisivo che dimostrasse vera una definizione e false tutte le altre. Insomma, il secolo del progresso non sa che cosa il progresso sia e quindi non sa se l’America è da più o da meno dell’Europa, e se esso stesso progredisce davvero o no. Qualche volta dice di sì, qualche volta di no. Come si spiegano queste stranissime contradizioni e incertezze? Forse le spiegheremo, se ci volgeremo insieme, come io mi volsi allora, dal fondo dell’America verso le civiltà antiche, tra le rovine delle quali, prima di prender la mossa al viaggio del nuovo mondo, avevo vissuto tanti anni. Sì: le civiltà che furono prima della civiltà presente erano povere e limitavano da ogni parte lo spirito umano, incatenandone i desiderî, le ambizioni, l’ardimento; lavoravano poco e lente; e, pur soffrendo della penuria, [60] pensavano che l’accrescere i beni fosse, più che un merito e un vanto, una croce. Ma in compenso volevano una qualsiasi perfezione: o esigevano negli oggetti fabbricati dall’industria ben altra solidità, finitezza e bellezza; o avevano le arti decorative e i loro grandi maestri in quella stima in cui noi abbiamo oggi gli inventori fortunati e gli abili tecnici; o ingombravano la vita pubblica e la privata di cerimonie fastose ed eleganti; o davano gran peso alle questioni di morale personale e onoravano di pubblico culto certe virtù. Insomma, badavano alla qualità più che alla quantità; e perciò sapevano limitarsi con una pazienza che è cagione a noi di tanto stupore. Noi abbiamo capovolto quell’antico ordine di cose; ci siamo proposti come fine l’incremento della ricchezza; abbiamo rovesciati o cancellati tutti i limiti antichi conquistando la libertà: ma abbiamo dovuto subordinare in ogni cosa la qualità alla quantità, e relegare tra le anticaglie gli esempi di perfezione che i nostri antenati tenevano in mezzo alla casa al posto d’onore. La decadenza degli studi classici, per esempio. Molti non sanno darsi pace che i tempi non vogliano più saperne di Omero, di Virgilio e di Cicerone; e vorrebbero ripristinare gli antichi nell’antico onore. Ma come e in che modo? Gli antichi scrittori furono studiati con zelo indefesso sinchè furono il modello ammirato da tutti della perfezione letteraria, e sinchè questa perfezione, oltre che ornare la mente, fruttò la pubblica stima, la fama, qualche volta la gloria e cospicue dignità. Ma da un secolo una sordida polvere ha coperti anche quei modelli, un tempo così sfolgoranti: altre [61] letterature e diverse, più accese e più colorite, sono venute in fama: e poi che catena sarebbero tutte quelle antiche regole del bello scrivere, per un secolo che vuol scrivere e parlar tanto, e così a precipizio! Gli antichi non possono essere più i maestri del gusto, nel secolo della ferrovia e del telegrafo; e non potendo esser più i maestri del gusto, non sono, per il maggior numero, più nulla, neppure degli scrittori interessanti — perchè molti si dilettano maggiormente di libri più freschi. Tutte le arti, voi lo sapete, sono oggi travagliate da un misterioso malessere; ma non tutte allo stesso modo e nella stessa misura: perchè delle arti ce ne son due sorta, quelle che divertono gli uomini — la musica, il teatro, la letteratura; e quelle che abbelliscono il mondo — l’architettura, la scultura, la pittura e in genere le arti decorative. Orbene: le arti che abbelliscono il mondo sono oggi le più tribolate. Nessun secolo costruì mai tanti palazzi, tanti monumenti, tante nuove città; nessuno nutrì tanti architetti, pittori, scultori e decoratori di ogni genere. Noi abbiamo tutto quello che occorre, pare, per far bello il mondo: il denaro, gli artisti, il desiderio. Perchè non ci riesce? Che cosa ci manca? Una cosa sola: il Tempo. Lodavo un giorno certe architetture di New York ad un valentissimo architetto di quella città. «Sì, sì — mi rispose ironicamente. I miei concittadini spenderebbero volentieri cento milioni di dollari per costruire un nuovo San Marco o una seconda Nôtre Dame: ma a un patto... Che io la terminassi in diciotto mesi!». Ecco il punto. Come abbellire un mondo che non sta mai fermo, che sempre muta, che [62] ha tanta fretta e che vuol moltiplicare la quantità di tutte le cose? Che si voglian fabbricare dei bei palazzi, o dei bei mobili, o dei bei gingilli — quale si sia, grande o piccola, la perfezione ambita — ci vuol tempo, e non furia; ci vuol discrezione nella richiesta e gusti non troppo volubili. In diciotto mesi non si poteva edificare San Marco: nè la Francia avrebbe creati i famosi stili del settecento, se già allora gli uomini fossero stati morsi dalla tarantola del nuovo, e avessero desiderato rinnovar mobiglio e inventare uno stile novissimo ogni dieci anni.
Quanti altri esempi si potrebbero citare! Intorno a noi, da ogni parte, ferve la lotta della quantità e della qualità. Questa lotta è l’essenza stessa della civiltà moderna. Sì, due mondi vivono e combattono in seno ai nostri tempi; ma non sono l’Europa e l’America, sono la quantità e la qualità; e combattendo confondono a tal punto le idee degli uomini, che noi non siamo più capaci di definire il progresso. Perchè noi ci contradiciamo tutti i giorni, ora affermando che il mondo progredisce, ora che declina? Perchè i nostri tempi hanno accresciuta di molto la quantità di tutte le cose, ma quasi sempre a scapito della qualità; cosicchè paiono progredire o decadere secondo che li giudichiamo alla stregua della quantità o alla stregua della qualità. Noi non ci raccapezziamo più, [63] perchè confondiamo di continuo le due misure — la quantità e la qualità — adoperandole promiscuamente.
Supponete che un architetto e un impresario di cementi armati discutano dei tempi presenti: vi meravigliereste voi se il primo versasse lagrime amare sulla decadenza del mondo, che non è più capace di edificare, in mezzo alla congerie dozzinale delle città moderne, un nuovo Palazzo Vecchio o una nuova San Marco; e che il secondo celebrasse invece il magnifico progresso dei tempi, in cui le città pullulano e crescono in ogni parte come i funghi in una foresta dopo la pioggia? Hanno tutti e due ragione, ma ciascuno secondo il modo suo di vedere. Il primo giudica alla stregua della qualità e ha ragione di affermare che tutte le città dell’America non valgono San Marco o Palazzo Vecchio. L’altro giudica alla stregua della quantità; e naturalmente conchiude a rovescio. Tale è il mondo, in cui viviamo: misurato con il metro e la bilancia è un gigante. Gli uomini non possederono mai tanta terra, non dominarono mai le forze della natura con così potenti strumenti e non profusero mai al sole tante ricchezze. Ma se lo giudichiamo alla stregua della qualità, esso scomparisce a paragone di molte generazioni passate; di quelle che crearono la scultura greca, per esempio, o l’architettura italiana del medio evo, o i grandi stili decorativi francesi del settecento. Noi possiamo egualmente sostenere che i nostri tempi progrediscono e che declinano, adoperando ora l’una, ora l’altra misura: così come possiamo, scambiando le due misure, sostenere [64] a piacere la preminenza dell’America e quella dell’Europa. Non cercate in America nè le meraviglie nè gli orrori, di cui troppo vi tengon discorso; perchè non ci troverete altra cosa che il principio della quantità, cresciuto da un secolo in tanto potere, e i suoi più meravigliosi prodigi. Un popolo laborioso e volonteroso si è trovato padrone di un vastissimo continente ricco di terre fertili, di boschi e di miniere — proprio quando l’uomo inventava lo strumento atto a sfruttare rapidamente le immensità: la macchina a vapore. Armato di questo strumento, quel popolo ha moltiplicate in un secolo le ricchezze di cui l’uomo è più cupido, un infinito numero di volte; e abbozzata in fretta una società grandiosa, disordinata e potente, che agli ideali antichi ha anteposto un ideale nuovo: far molto e far presto.... L’America non ignora e non disprezza, come dicono i suoi nemici, le arti e le scienze: ma a queste attende con minor foga che allo sfruttamento del suo continente. Nè è più conforme al vero dir che l’Europa è maestra di civiltà al nuovo mondo ancora barbaro; o che a fianco dell’America giovane essa raffigura la decrepitezza impotente. Anche in Europa la moltitudine si avvezza al largo spendere; il lusso privato cresce con le pubbliche spese: occorre quindi affrettare la produzione della ricchezza. Ma il vecchio mondo è più popoloso e meno ricco del nuovo; è tutto frastagliato di frontiere; vive ancor troppo, almeno con la memoria, nei tempi in cui gli uomini si contentavano di fare e di possedere poche cose, ma belle e buone. Se l’Europa avanza l’America nella coltura, è più timida, più avara, più lenta nelle industrie e nei commerci. Chi assuma [65] dunque come misura la quantità, giudicherà che l’America è il modello; chi la qualità invece, conserverà all’Europa il suo antico primato.
Voi però mi direte a questo punto: «Ma — di grazia — la misura vera, qual’è? Quale dobbiamo adoperare sicuri di non errare? La quantità? La qualità? Possiamo noi vivere senza sapere se progrediamo o decliniamo — e quale dei due mondi possa ragionevolmente aspirare al primato? Camminare, ignorando dove la via ci mena?». E chi dicesse così, avrebbe ragione. Noi dovremmo poter definire quel progresso in cui crediamo quasi come i nostri nonni credevano in Dio. E invece... E invece continueremo per un pezzo a balbettarne delle definizioni confuse e incoerenti — come di parecchie altre parole, oggi non meno strapazzate di questa: della parola libertà, per esempio. E difatti: possiamo noi sperare che la qualità ritorni a governare gli uomini come in passato? Che la bellezza antica rientri in trionfo, come regina, nel mondo ampliato e sconciato dalla macchina? Occorrerebbe che gli uomini preferissero di nuovo l’eccellenza all’abbondanza. Ma possiamo noi credere possibile oggi un moto — o religioso o politico o intellettuale — che imponga a tutti gli ordini sociali una restrizione un po’ rigorosa dei bisogni, dei desideri, del lusso? E allora, sinchè il numero, come i bisogni e le aspirazioni degli uomini [66] cresceranno; sinchè i privati e gli Stati cederanno così facilmente alla voglia di far più spese, la quantità dilaterà il suo impero sulla terra, l’incremento delle ricchezze servirà come misura unica del progresso, e all’arte e alla morale non avanzerà nel mondo altro spazio che quel poco di cui gli uomini non avranno bisogno per sbracciarsi a fabbricare macchine più veloci, a coltivare più vaste distese di terre e a scavare miniere.... Queste cose son così vere, che molti pensano di sciogliere il quesito, pigliandolo bravamente dall’altro capo. «Volgiamoci allora alla quantità — dicono. Incoroniamola regina del mondo. Sia progresso l’incremento delle ricchezze. Anche il produrre ricchezza è opera grande e meritevole». Certamente. Ma chi riuscirebbe a imaginare un mondo che fosse quantità pura, privo di arte e di morale, spoglio di bellezza e di giustizia? Non facciamoci dunque illusioni: non c’è scienza, filosofia o religione — venga essa dalla Germania, dall’India o dal pianeta Marte — che possa effettuare questa quadratura del circolo, almeno sinchè noi non ci decideremo a volere o la vittoria definitiva della quantità sulla qualità o quella della qualità sulla quantità. Ma noi non possiamo — oggi almeno — volere nè l’una nè l’altra; dunque il mondo continuerà a vivere, malamente contento di una equivoca definizione del progresso e i tempi sembreranno per un pezzo ancora tralignare insieme ed ascendere. Volgeranno cioè propizi ai popoli ricchi di terre, di ferro e di carbone, pur non potendo largire a costoro che delle ricchezze imperfette e manchevoli; mentre i popoli cui toccarono in sorte le tradizioni di una antica e gloriosa cultura e un [67] territorio magro, malediranno in cuor loro quel fardello diventato inutile in tempi in cui bisogna alleggerirsi per correre alla conquista della terra; brameranno insoddisfatti, cercheranno, ammireranno l’opulenza ignorante. Il segreto della più recente storia d’Italia, delle sue fortune e delle sue sventure, è questo e non altro. L’Italia, che è un piccolo territorio naturalmente nè molto ricco nè molto povero — una cosa di mezzo — fu grande sinchè la qualità regnò sola nel mondo; sinchè una gente potè per forza d’ingegno e di lavoro imporsi ai popoli più ricchi; sinchè la grandezza delle nazioni dipese dalla cultura più che dalle risorse naturali del territorio. Ma la sua decadenza incominciò quando la quantità entrò nel novero delle forze storiche, e cioè nel secolo XVI; lenta da prima, come lenti furono da prima i progressi della quantità, e via via più rapida, finchè si giunse alla Rivoluzione francese. In mezzo al gran rivolgimento del settecento anche l’Italia aveva preso a sognare, sia pur nel vago, un qualche rinnovamento della antica grandezza; e con quel sogno, dopo la fragorosa rovina del ’15, aveva consolata insieme ed esacerbata la lunga attesa della generazione che visse tra la caduta di Napoleone e la Rivoluzione del ’48. Ma in quel trentennio, mentre l’Italia aspettava e sognava, la quantità si impossessava alla fine del mondo: si costruivano le prime ferrovie, la grande industria e l’America uscivano insieme di adolescenza. Cosicchè non appena, nel ’59, l’Italia entrò nel mondo, in veste di nazione unita e moderna, subito si accorse che il modesto patrimonio ereditato dagli avi non bastava più; occorrevano oro, ferro, carbone, [68] armi e tante altre dispendiose diavolerie ormai obbligatorie. E si mise all’opera con ardore: ma ahimè! il suo territorio era angusto; ed era ormai già quasi tutto spoglio di boschi; e aveva poche miniere, non carbone, scarso ferro sebbene eccellente: molte invece le bocche; anzi queste crescevano ogni anno, a vista d’occhio, da ogni parte, intorno alle mense non lautamente imbandite. Fu dunque forza lavorare, lavorare, lavorare per produrre la maggior somma di ricchezza possibile, a qualunque costo, sconvolgendo e rimescolando tutto il paese da un capo all’altro, le sue tradizioni, istituzioni e fortune; sopratutto immolando i sogni fatti negli anni dell’attesa e le alte ambizioni agli spiccioli bisogni del giorno, o per ripetere ancora una volta la formula di cui forse ho abusato: immolando la qualità alla quantità.
Da cinquanta anni la storia dell’Italia è quasi dominata da una legge di degradazione dei modelli o, se vi piace meglio, di volgarizzazione degli ideali: degradazione e volgarizzazione, che nella politica come nella cultura e nell’industria, hanno avvicinati e sostituiti i modelli o gli ideali lontani e difficili con altri più vicini e più facili. Abbiamo allargate le basi dello Stato fino al suffragio universale. Abbiamo accresciuta e assai — se si pon mente alla povertà iniziale del suolo — la ricchezza totale. Abbiamo diffusa l’istruzione nei ceti medi e popolari. Ma tutti i modelli di perfezione verso i quali si era sforzata l’Italia antica si son perduti o confusi — dall’umanesimo, le cui ultime faville furono barbaramente spente nelle Università, alle tradizioni delle nostre arti più [69] antiche e gloriose. Sotto nome di libertà prevalse una anarchia intellettuale, per la quale, caduti i modelli e indebolite, quando non rovesciate, tutte le autorità spirituali che li imponevano, la nazione ha perduta ogni chiara nozione dell’eccellenza in tutte le alte attività della mente; e ora seguendo troppo alla leggera mode caduche, ora ingannata dai ciarlatani venute in credito spacciando sofistiche filosofie distruttive d’oltr’alpe, ha perduto il coraggio e la lena delle vaste opere organiche; si è, nell’arte come nella scienza, nell’industria come nel diritto, troppo spesso accontentata della mediocrità dozzinale e del genere frammentario — lirica e novelle in letteratura, monografie nella scienza, espedienti nella politica — pur non appagandosene, pur aspirando in cuor suo all’eccelso, al grande, al nobile, ma non sapendo più precisamente a quale stregua riconoscerlo e con quale premio incoronarlo. Non per nulla anche nel secolo della quantità, noi siamo gli eredi di tanti secoli di civiltà qualitativa! Di qui la smania che non dà pace alle classi alte e colte, e che le spinge così spesso a lacerarsi le proprie carni; quella smania, di cui voi potete vedere l’insorgere improvviso nella nostra storia, confrontando i due scrittori maggiori della prima e della seconda metà del secolo XIX. Alessandro Manzoni ci apparisce nella prima come uomo pieno di dubbi, perplesso e quasi timido, schivo di giudicare gli altri o di imporre loro le proprie opinioni e il proprio sentire. Ma quanto ai principî suoi no, era fermo e sicuro: fermo e sicuro nei principî d’arte, che professò e seguì; sicuro e fermo nei principî religiosi, morali, politici, che fece [70] suoi dopo varie prove e vicende. C’è nella sua vita una conversione: ma è risoluta e definitiva, come il colpo di spada che tagliò il nodo gordiano. Visse insomma con la mente in un mondo circoscritto e limitato; ma in quello sapendo quel che voleva e di quel che voleva sapendo rendere ragione chiaramente: onde, pur non lavorando con alacrità grande che una parte sola della sua vita, potè lasciare parecchie opere, diverse tra loro ma tutte figlie di una intenzione precisa, e un capolavoro. Giosuè Carducci ci guarda invece, anche dai ritratti che adornano le sue edizioni, quasi con un atteggiamento di sfida: e difatti sembra dominare la generazione sua come un Dio che investe, giudica e fulmina. Ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze! Quelle collere e quelle violenze coprono in verità la perenne incertezza e la smania incessante di una mente che cerca dei criteri fermi e sicuri per giudicare il mondo, un appoggio cioè, e non lo trova; che ondeggia sempre tra il classicismo e il romanticismo, tra l’erudizione e la poesia, tra la ricerca e l’intuizione, tra l’inno a Satana e l’invocazione alla Vergine, tra la democrazia e il nazionalismo, tra la repubblica e la monarchia. Non c’è quasi grande questione d’arte e di politica, sulla quale Giosuè Carducci non abbia professate in buona fede e sinceramente le opinioni opposte; cosicchè le sue opere sono una miniera inesauribile di citazioni per tutti i partiti e per tutte le scuole. Ma se si è contradetto spesso, non si è convertito quasi mai, e anche quando si è convertito nel modo e per i motivi più degni di rispetto, non ha voluto riconoscerlo: anzi che furie, [71] se lo sentiva a dire! Quanto ha lavorato! Tutta la vita, infaticatamente: molto più che il Manzoni, e quanto pochi altri nostri scrittori del secolo scorso. Ma nei suoi numerosi volumi c’è tutto, c’è prosa e poesia, storia e critica, politica e filosofia, polemica ed estetica, e quanti meravigliosi frammenti possono bastare alla gloria di molti scrittori: non c’è però un’opera di lunga lena. Che cosa sta in mezzo a questi due grandi, che sono così vicini e così lontani? Una rivoluzione — e non soltanto politica: una rivoluzione che, togliendo di mezzo ogni regolatore della vita intellettuale, ha gettato le menti, al di là di tutti i limiti antichi, in un immenso vuoto vorticoso.
Voi mi direte che, prese le mosse dall’America, noi abbiamo fatto un lungo cammino, ritornando per un così tortuoso giro in Italia. È vero. Ma credo che, almeno per chi non ami nè quel particolar genere di filosofia che specula fuori dello spazio e del tempo, nè quell’altro genere ancor più particolare di scienza che per capirla tagliuzza la realtà in tanti pezzetti, un viaggio meditativo dalle civiltà antiche in America possa chiarire molti oscuri problemi intorno al passato e al presente. Chiarire almeno che quel che noi chiamiamo il progresso, non è in verità altra cosa che il capovolgimento dei principî a cui alludevo poco fa, e che, incominciato appunto [72] dopo la scoperta dell’America, precipita ora per la spinta che il torrente delle nuove ricchezze americane gli imprime. Tutti i secoli avevano detto all’uomo: ogni cosa nuova, solo perchè nuova, deve esser considerata peggiore delle antiche. Il secolo decimottavo e il decimonono rovesciarono questo principio, affermando che la novità, solo perchè nova, doveva presumersi migliore dell’antico. Tutti i secoli avevano detto all’uomo che egli si avvicinerebbe tanto più alla perfezione, quanto più fosse moderato nei suoi desiderî, semplice e parsimonioso nei suoi abiti, ossequente alle Autorità e alla tradizione. I tempi rovesciarono anche questi principî; affermarono che per salire la scala della perfezione, l’uomo deve accrescere desiderî, bisogni, aspirazioni, aguzzare la curiosità e il senso critico a domandar la ragione di tutte le cose. Tutti i secoli avevano ingiunto all’uomo di rispettar i limiti che trovava tracciati in ogni parte nascendo. E venne un secolo che gli disse invece di smuoverli, per verificar se erano solidamente piantati e nel luogo opportuno. Necessario effetto di quel gran moto di popoli, di classi, di idee, di ambizioni che dopo la scoperta dell’America ha spinto l’Europa prima, e poi l’Europa e l’America insieme alla conquista della terra, questo capovolgimento doveva generare un perturbamento universale nella vita del mondo, più grande assai di quello effettuato dal Cristianesimo che anch’esso tanti principî della società antica aveva rovesciati, sebbene con un procedimento diverso: quel perturbamento di cui noi siamo testimoni e autori, e nel quale la stessa crisi dell’Italia di cui vi ho [73] parlato si perde come una ondata in una tempesta. Mi ingannerò: ma pare a me che questo modo di considerare la storia del mondo aiuti a intendere il tempo nostro e nelle loro congiunture vitali le idee e le dottrine in cui crede, la politica che segue, le aspirazioni e i bisogni che lo travagliano, i pericoli e le crisi che lo minacciano. Perciò ritornando dall’America, sulle cui strade io l’ho trovato, ho creduto bene di esporlo, in un libro che a molti è sembrato oscuro: come penso non sarebbe stata sterile in un pubblico insegnamento, se la catastrofe a cui è soggiaciuta in Italia l’alta cultura, negli ultimi cinquant’anni, non avesse chiuse le pubbliche scuole ad ogni non sterile idea. Ma per quanto nemica voglia e debba essere a questo modo di considerare il passato e il presente un mandarinato di falsi savi, che intravede forse adombrata in quella la condanna della sua leggerezza e del suo vano orgoglio, non sarà male di insistere, non foss’altro che per inculcare nello spirito delle nuove generazioni — massime in quella parte che può sfuggire più facilmente alle influenze nocive di troppe sciagurate dottrine accolte e divulgate senza discernimento — che l’Italia può chiedere alla quantità il pane quotidiano per la moltitudine, non la grandezza, la gloria, il prestigio. Di quel che occorre affinchè un popolo grandeggi per la quantità, la natura non ci ha dato che un elemento che solo, senza territori, miniere, boschi, capitali, non basta: la fecondità. Noi non possiamo dunque sperar gloria e grandezza, come i nostri padri, che dalla qualità: il che vuol dire che ci è toccato nella vita un compito particolarmente difficile. [74] Se a un popolo che ha avuto dalla sorte un territorio ricco, l’ordine e la laboriosità bastano per sbalordire nello spazio di una generazione il mondo con le sue subite ricchezze, ad eccellere per qualità in ogni ramo dell’umano lavoro, non basta invece neppure saper raggiungere un modello difficile di perfezione: occorre oggi, come sempre, farlo riconoscere per tale, imporlo agli altri, nessun modello essendo necessario e assoluto. E per imporlo agli altri, occorre imporlo a se medesimi; e per imporlo a se medesimi, è necessaria disciplina, tradizione, abnegazione, un senso sicuro dei limiti; tutte qualità che si van perdendo nel formidabile vortice della civiltà moderna. Salvarle in mezzo a questo vortice, è dunque l’impresa più ardua a cui una nazione possa accingersi; ma la virtù degli uomini come dei popoli grandi si mostra nel saper fare non le cose facili, ma le cose difficili.
[75]
Signore e Signori,
La guerra europea — questo terremoto che ha già diroccato a metà il vecchio mondo; la guerra europea, di cui da tanti anni tutti parlavano ma i più senza credere che potesse scoppiare, come si parlava del giorno in cui il sole si spegnerà nel firmamento o la terra incontrerà nello spazio qualche errabonda cometa, la guerra europea è scoppiata in otto giorni. La sera del 24 luglio l’Europa si è addormentata, dal Baltico all’Ionio, dai Pirenei agli Urali, pensando che il giorno seguente sarebbe giunto tra gli uomini all’ora consueta, simile a quelli che lo avevano preceduto e a quelli che lo seguirebbero, per scaricare sul mondo il consueto fardello di beni e di mali, e dileguare poi inosservato nella vasta uniformità del tempo. L’imperatore di Germania faceva la solita crociera nei Mari del Nord; l’imperatore [76] d’Austria era alle acque d’Ischl; il presidente della Repubblica francese partiva dalla Russia, per far visita ai Sovrani scandinavi. Ma la mattina del 25 — era un sabato — l’Europa tutta lesse, sbigottendo, le torbide minaccie che il ministro austriaco a Belgrado intimava di sorpresa al Governo serbo; e il sabato dopo — il 1º agosto — il conte di Pourtalès, ambasciatore di Germania a Pietroburgo, consegnava al Governo russo la dichiarazione di guerra. Come è accaduto? Per colpa di chi? Per quali motivi? Anche oggi, dopo otto mesi, ci par di sognare, quando pensiamo a quei giorni fatali, alla rapidità con cui in una settimana la supposta cometa errabonda negli spazi è apparsa, è ingrandita, è piombata su di noi; allo stupore sbigottito ed inerte con cui l’abbiamo vista correre alla nostra volta, sfolgoreggiare sul firmamento, travolgerci in un torrente di fiamme.
La storia indagherà a suo tempo e racconterà agli uomini, giorno per giorno, ora per ora, quanto fu detto, sussurrato, pensato, voluto, operato, nelle Corti e nelle Cancellerie dell’Europa, in quella settimana fatale. Oggi ogni Governo si studia di non divulgare se non quanto serve a ributtare su gli altri Governi la responsabilità dell’immane catastrofe. Ciò non ostante un punto non può ormai più essere messo in dubbio da nessun osservatore imparziale e informato. La guerra europea è scoppiata, perchè la Germania — popolo e governo — l’hanno voluto. Quale sia stata la parte del governo e quale la parte del popolo, poco importa: quel che conta, è che nel momento decisivo popolo e governo sono stati d’accordo [77] nel fulmineo assalire a ponente e a levante due potenti vicini, che non avrebbero desiderato di meglio che di godersi la prospera pace di cui si allietavano. Onde il gran quesito: perchè un popolo che, essendo così industrioso e professando gli stessi principî morali e politici dei suoi vicini, avrebbe dovuto desiderare la pace alla pari degli altri popoli d’Europa, è stato ad un tratto invasato da tanta furia guerresca, senza aver ricevuto provocazione, a proposito di fatti che lo toccavano solo per via indiretta? È questo popolo, a dispetto delle apparenze, diverso dai suoi vicini e in verità straniero all’Europa, nel cui cuore vive e cresce di numero?
Per rispondere a questo quesito occorre innanzi tutto ricordare che questa guerra non è soltanto una guerra; ma è, come la caduta dell’impero d’Occidente, come l’avvento del Cristianesimo e la Rivoluzione francese, un cataclisma storico. Perciò, se gli accidenti che ne furono l’occasione sono nel presente, le cause profonde, cioè le vere, rimontano lontano: a quella immensa rivoluzione di cui la stessa Rivoluzione francese è un episodio, e che da due secoli va capovolgendo i principî su cui l’ordine sociale aveva posato sin dalle origini della storia. I secoli avevano detto all’uomo: ogni cosa nuova, solo perchè nuova, deve esser considerata peggiore delle antiche, e quindi ogni cosa antica deve essere sacra. E un secolo — il decimonono — osò rovesciare questo principio e affermare, in nome del progresso, che la novità, solo perchè nova, doveva esser migliore dell’antico; che ogni generazione aveva il dovere di rinnovare quante più cose potesse tra quelle che troverebbe. I secoli [78] avevano detto all’uomo che la moderazione dei desiderî, la semplicità del vivere, la parsimonia erano le virtù massime. E il secolo decimonono rovesciò anche queste opinioni; disse virtù il guadagnare e lo spendere largamente, l’accrescere i desiderî, i bisogni, le aspirazioni. Per secoli e secoli era stato detto che l’uomo nasceva per obbedire alle autorità umane e divine: e il secolo decimonono gli disse invece che egli nasceva per vivere libero e per esercitare nella libertà tutte le facoltà sue; che egli perciò doveva domandare la ragione di tutte le autorità a cui si vuol sottoporlo. Necessario effetto di quel gran moto di popoli, di classi, di idee, di ambizioni che dopo la scoperta dell’America ha spinto l’Europa prima, e poi l’Europa e l’America insieme alla conquista della terra, questo capovolgimento di principî, per cui quel che era male è diventato o sta diventando bene e quel che era bene è diventato o sta diventando male, doveva generare un perturbamento universale nella vita del mondo, più grande assai di quello effettuato dal Cristianesimo, che anch’esso tanti principî della società antica aveva capovolti, sebbene con un procedimento diverso; un perturbamento, le cui cagioni sfuggono ai più, ma che si fa sentire in ogni parte del mondo presente. O che non possa accadere mai che il principio nuovo della libertà e del progresso sradichi e tolga di mezzo per sempre e tutto intero il principio antico dell’autorità e della tradizione; o che per sradicarlo e annullarlo occorra più tempo di quello che sinora è corso, fatto sta che presso tutti i popoli d’Europa il principio nuovo non ha trionfato che in parte, mentre in parte l’antico si è conservato. Nasce da ciò, in tutte [79] le moderne nazioni d’Europa, una interna ineguaglianza, tormentosa e continua ma diversa dall’una all’altra; perchè la tradizione e l’autorità non hanno vinto e non hanno ceduto allo stesso modo in tutta Europa. Un popolo è conservatore e tradizionalista in cose in cui l’altro cerca smanioso il progresso, la novità, la libertà — e viceversa.
Se noi paragoneremo rapidamente tra loro i tre maggiori Stati dell’Europa considerandoli a questa stregua, noi spiegheremo forse per qual ragione la Francia e l’Inghilterra desideravano la pace, e la Germania abbia invece loro imposta, come l’ha imposta al mondo, la guerra. Nel grande rivolgimento di idee e di principî, onde è nata la civiltà moderna, la Francia ha fatta la parte sua — e che parte: la Rivoluzione! La Rivoluzione francese ha opposto, come tutti sanno, al principio dell’autorità che per tanti secoli aveva retti gli Stati, il principio della libertà. Perciò la Francia è certamente la nazione d’Europa in cui il principio nuovo della libertà ha maggiormente prevalso nella politica sull’antico: la sola nazione, forse, presso la quale lo Stato, distaccato dalla sua facciata tutto il mistico e magnifico apparato di un tempo, apparisce agli uomini quale è, nuda opera della ragione, inteso solo a servire gli uomini che gli sono sottoposti; e l’autorità, invece [80] di discender dall’alto, emana da coloro che devono obbedire. L’opinione quindi, abbandonata alle sue libere ispirazioni, governa senza limiti e freni la repubblica: una cosa che sarebbe sembrata, tre secoli fa, una empietà o una follia solo a parlarne. Ma dallo Stato e dalle dottrine politiche in fuori, non c’è forse altra nazione di Europa in cui lo spirito antico — il rispetto della tradizione, il senso della misura e dell’autorità — sia così forte come in Francia. La Francia è giudicata da molti un paese «arretrato», come oggi si dice, perchè, quando non si tratti di teorie politiche, l’antico vi resiste molto meglio che altrove al modernismo invadente. La gente vive ancora, non ostante la ricchezza, con modestia e semplicità, almeno a paragone dei larghi mezzi di cui dispone; pratica l’antiquata virtù del risparmio; è restia a mutare i modi usati del vivere quotidiano; ha forte il sentimento della famiglia. Le classi colte non sentono ancora così viva come in altri paesi la smania di rammodernare senza tregua filosofie, arti, scienze. Dopo la Rivoluzione, la Francia — e non è questo uno dei suoi meriti minori — non ha più dato alla luce molte filosofie nuove e non si è molto riscaldata per quelle che la Germania veniva partorendo con tanta fecondità. Oggi ancora la Francia, sola forse tra le nazioni, dubita che l’arte debba anch’essa fare ad ogni costo e sempre delle cose nuove; e non ripugna dal riconoscere l’autorità dei modelli.
Non è difficile dunque intendere come un popolo, il quale era ricco, potente, istruito, e aveva il senso della misura, e non si lasciava facilmente abbagliare da speciose dottrine a desiderare l’impossibile, e lasciava [81] l’opinione popolare governare lo Stato, desiderasse la pace. La Francia era paga della sua sorte e non desiderava cose impossibili: per quale ragione avrebbe attirato sulla sua terra felice il flagello della guerra? La moltitudine, quando può seguire la sua inclinazione naturale, vuol piuttosto pace che guerra. La Francia aveva desiderata la pace con tanto ardore, che più di un vicino — e forse anche il nemico — aveva conchiuso che fosse infrollita. Se passiamo a considerare l’Inghilterra noi troviamo una contradizione diversa. L’Inghilterra ha fatta anche essa la sua parte nel recente sconvolgimento del mondo. Opera più sua che d’altri è la rivoluzione industriale, senza la quale la rivoluzione politica avrebbe assai meno alterato l’antico ordine del mondo. Quando l’uomo non possedeva altri strumenti che quelli — i più di legno — che erano mossi dalla sua mano o dai muscoli di qualche animale addomesticato, egli poteva, sì, fabbricar delle meraviglie, ma in quantità scarsa; e perciò pure doveva considerare la parsimonia come una virtù, la prodigalità come un vizio. Ma quando gli uomini riuscirono a congegnare nuove macchine di ferro, a muoverle con la forza del vapore e a produrre beni in quantità, sia pur più scadenti, non cercarono più nelle cose la bellezza o la bontà, ma la varietà e l’abbondanza. Se no, a che scopo fabbricarne tanto numero? L’uomo sembrò allora farsi più perfetto, quanto più imparava a lavorar rapido e quanto più numerosi si facevano i suoi bisogni.
L’Inghilterra avendo iniziato la rivoluzione industriale, doveva — come ha fatto — cercare prima e [82] più di ogni altro popolo di screditare i costumi dei padri, le tradizioni casalinghe, la semplicità, la parsimonia. Tutti sanno che nella vita privata l’inglese è una specie di zingaro, che non può più affezionarsi seriamente a nessuna delle cose che lo circondano: nè alla famiglia, da cui si stacca facilmente e presto, nè alla casa che cambierà cento volte in sua vita, nè alle proprie abitudini, perchè la tirannica forza della moda, governata a sua volta dall’industria, lo costringerà ogni pochi anni a contrarne di nuove. Ma questa instabilità di gusti, di abiti, di costumi posa invece sopra un fondamento di tradizioni politiche ed intellettuali, poco meno che granitico. Non c’è popolo più restio dell’inglese a mutare opinioni, gusti, metodi, principî, convinzioni, nell’arte, nella scienza, nella religione, nella filosofia e sino ad un certo segno anche nella politica. Accusano oggi i tedeschi l’Inghilterra di aver voluta e fatta nascere la guerra: ma sono davvero ingrati con la nazione che aveva fatto quanto stava in lei perchè essi potessero impadronirsi di sorpresa dell’Europa. L’Inghilterra non solo non voleva la guerra europea, ma non ha mai neppure creduto, per quanto pochi veggenti l’avessero più volte messa sull’avviso, che potesse scoppiare; perchè nella storia non aveva mai visto un altro ciclone che somigliasse a questo e perchè la guerra l’avrebbe disturbata troppo nei suoi piaceri e nei suoi affari. Onde non aveva preparato nulla per la guerra — nè alleanze, nè esercito, nè tesoro; ha esitato fino all’ultimo istante, sinchè i soldati tedeschi non hanno varcata la frontiera belga; e per parecchi mesi ancora dopochè la conflagrazione [83] era scoppiata, non ha capita la grandezza del cimento a cui si era accinta. Buon per lei che la Francia è riuscita da sola a contenere l’invasione tedesca; se no, che cosa mai sarebbe stato di te, disgraziatissima Europa!
In Germania invece ritroveremo una contradizione, diversa così da quella della Francia come da quella dell’Inghilterra. Tutti sanno quanta forza il principio mistico dell’autorità abbia conservato, anche nel ventesimo secolo, in mezzo ai tedeschi. Dio governa ancora i tedeschi, i quali perciò credono di dover essere i suoi beniamini. Si ripete sovente in Europa che la Germania è un pezzo di medio evo: a torto, se si guarda alle forme dello Stato, che si sono abbastanza rammodernate; a ragione, se si guarda allo spirito. Dove se non in Germania possiamo noi ritrovare l’adorazione della potestà regia e di tutte le autorità che emanano dal Sovrano, trasportata dal secolo XVII al secolo XX ma più viva e sincera, perchè temperata con un certo spirito di libertà e di critica; ma più universale e più imperativa, perchè insegnata e inculcata da uno Stato organato mirabilmente, onnipotente, onnipresente? Le monarchie assolute che furono prima della Rivoluzione, erano venerate molto più che non fossero davvero obbedite. Come venerata più che obbedita è oggi ancora l’autorità dello Stato in Russia e in Turchia. In Germania l’autorità, applicando con forza e misura moderna gli antichi principî del governo monarchico, è riuscita a farsi rispettare e obbedire; cosicchè lo Stato tedesco era certo, allo scoppiar della guerra, il più forte d’Europa, quello che aveva a temere [84] meno così la contradizione, come la malavoglia e l’indifferenza dei sudditi.
Ma quale anarchia di costumi, di gusti, di aspirazioni, di criteri, di idee controbilancia, nella Germania moderna, questa forza dello Stato! Non c’è popolo presso il quale le antiche tradizioni di semplicità e di modestia siano state soprafatte da una smania più furente di ricchezza e di lusso: non c’è popolo che abbia santificato con maggior fervore per tutti gli uomini l’eroico dovere di guadagnare e di spendere, di lavorare e di godere finchè bastano le forze e il respiro: non c’è popolo che si sia più gloriato di scavalcare, pensando e operando, tutti i limiti che per tanti secoli l’uomo aveva rispettati: non solo quelli segnati dalle autorità antiche o dalla tradizione, ma anche quelli segnati dal buon senso, o dal senso morale o dalla verecondia. Tutti avete sentito anche troppo parlare, in questi mesi e prima della guerra, della cultura tedesca, di quella scienza e di quella filosofia che dalla Rivoluzione francese in poi hanno trovati tanti alunni tra i popoli troppo vecchi e i popoli troppo giovani, e di cui disgraziatamente le Università d’Italia sono oggi le ancelle più umili che ci siano in tutta Europa. Ma in che propriamente si distingue questa cultura dalle altre, che l’hanno preceduta o che le vivono accanto? In questo: che troppo spesso o per soverchio orgoglio o per scarsa esperienza o per qualche altro mancamento, non sa discernere il punto a cui il pensiero deve nella ricerca fermarsi, perchè se lo oltrepassa si capovolge e precipita roteando su se medesimo nel vuoto sofistico. C’è molta gente che da otto mesi, levando gli occhi e le mani al cielo, [85] esclama e sospira: «Chi l’avrebbe mai detto? La Germania.... La Germania.... Far tutto quello che ha fatto! Dar tanti cattivi esempi! Un paese con tanti scienziati e filosofi, così istruito e sapiente!». Ma credete voi davvero che la scienza e la sapienza siano, come dicono gli scienziati e i filosofi, beni immarcescibili e incorruttibili, l’essenza stessa del progresso, un raggio della luce divina che ovunque si posi, purifica, avviva, rallegra? No: anche la scienza e la sapienza, opere umane, sono soggette a tutte le perversioni e le corruzioni, in cui la natura umana può incorrere: errano anch’esse e traviano, sopratutto se presumono di oltrepassare nel conoscere una certa misura, che non è mai tracciata dalla scienza stessa, ma dalla modestia, dal senno, da un certo, quasi direi, «senso umano» che il sapiente deve avere di sè e delle cose. Ma è proprio questo «senso umano» che fa difetto alla cultura tedesca, insofferente di limiti. Spinto da un orgoglio frenetico a non voler prendere le mosse che da se medesimo, smanioso di creare ogni giorno morali, diritti, arti, religioni, filosofie tutte nuove e originali, lo spirito tedesco compie da un secolo un lavoro titanico, per riuscir troppo spesso a complicare le questioni semplici, a oscurare le chiare, a porre problemi insolubili, a confondere la coscienza morale, a intorbidare il gusto artistico del mondo!
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Quanti esempi si potrebbero citare! Basti uno, tratto da studi con cui ho maggiore domestichezza; e che forse apparirà memorando agli uomini, il giorno in cui saranno guariti da questa malattia: la questione omerica. L’Iliade e l’Odissea — tutti lo sanno — sono i due solenni monumenti di poesia che fiancheggiano le porte della nostra storia. Incomincia da quelli la letteratura dell’Europa. Non è dunque meraviglia che in tutti i secoli essi siano stati oggetto di molti e diligenti studi. Ma per quanto siano grandi le libertà che di solito i critici si arrogano nell’interpretare, commentare e ammirare i capolavori, i cui autori sono morti da un pezzo, i critici avevano per secoli rispettati almeno due limiti, nel trattare quei due venerandi decani della letteratura. Uno di questi limiti era la tradizione, la quale ci raccontava che nell’ottavo secolo a. C. era vissuto un poeta, chiamato Omero, il quale aveva composti i due poemi e di cui ci narrava alla meglio la vita. Sebbene la tradizione fosse manchevole, lacunosa e non in ogni parte concorde, gli uomini avevano creduto per secoli di rispettarla, pensando che in fin dei conti gli antichi erano in grado di saper da chi, quando e come erano state scritte l’Iliade e l’Odissea meglio di noi; e che se già gli antichi avevano dimenticato il vero [87] nome dell’autore, era poco probabile che potessimo ricordarcene noi. L’altro limite era ancora più umile, perchè era posto dal buon senso; il quale pretende che, come ogni figlio ha un padre, così ogni libro debba avere un autore; e che se tutti i libri che noi possediamo sono purtroppo stati scritti da uno sciagurato, che un bel giorno ha intinto la penna nel calamaio e ha incominciato a scrivere la prima parola, continuando sino all’ultima pagina, così dovrebbero essere state scritte anche l’Iliade e l’Odissea. Se dunque la tradizione e queste considerazioni del senso comune non soddisfacevano a pieno il nostro desiderio di sapere, almeno furono per secoli le colonne d’Ercole, oltre le quali la curiosità degli uomini non osò avventurarsi, sinchè non sopraggiunse la scienza tedesca. Questa, senza esitare, varcò anche quei limiti; e il castigo non mancò: invece di continuare a rinfrescar la mente in quella viva onda di poesia, gli uomini si scervellarono a voler risolvere l’insolubile problema di rifar la storia di un’opera, intorno a cui non ci sono più notizie; architettarono e discussero sul serio le ipotesi più insensate, studiarono e scrissero molto, ma non conchiusero nulla; finchè uno sciagurato portò le rozze manaccie sul capolavoro immortale, osò spezzarlo per ricostruire, egli, in Germania, l’Ur-Ilias, la vera Iliade.
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Altri esempi simiglianti potrebbe somministrarci la storia di Roma, nella quale la scienza tedesca ha condotta l’Italia sino agli incredibili delirî critici del Pais; e forse gli ordini di studi più diversi, se avessimo il tempo di inoltrarci nello studio della cultura tedesca, in tutti i campi. È questa insomma una cultura a cui fa difetto il senso del limite e quindi l’ordine e la disciplina; una cultura che non sa graduare i problemi, ma troppo spesso li confonde facilmente nel modo più bizzarro; che pecca nel tempo stesso per troppo orgoglio e per troppa ingenuità; e che perciò è stata cagione di un immenso disordine in tutti i paesi — e tra questi pur troppo occorre annoverare l’Italia — che non hanno saputo far in essa rigorosamente la cernita dei principî buoni e dei deleteri. Orbene: la vera causa della guerra europea deve cercarsi in questa ineguaglianza, per cui al centro dell’Europa si sono trovate accanto nello stesso popolo tanta indisciplina intellettuale e tanta disciplina politica. Da questo squilibrio tra la disciplina intellettuale e la disciplina politica della Germania è nato il ciclone, che sta devastando l’Europa. In qual modo e come, non è difficile intendere. Le idee non possono tenere un po’ a freno le [89] passioni, se non sono fortemente legate in un sistema e appoggiate sul sodo: o sopra una tradizione, o sopra un’autorità, o sopra principî riconosciuti, sentiti e venerati per veri da tutti. Se questi appoggi e sostegni mancano, se il pensiero vuol spiccare il salto dalla pedana di se medesimo, porre ogni mattina a capriccio i principî da cui prendere le mosse per rifare da capo a fondo l’universo, necessariamente la bellezza, la morale e la verità non saranno più che un immenso e volubile giuoco di sofismi, in cui ognuno, mutando arbitrariamente i principî, potrà dimostrare a piacere le tesi opposte; e nel quale, quali tesi trionferanno alla fine? Quelle che lusingheranno maggiormente le passioni dominanti. Le idee opereranno non come freni, ma come stimoli delle passioni più forti. Questo han fatto la letteratura e la filosofia in tutti i tempi di anarchia intellettuale, e questo hanno fatto in Germania, negli ultimi quarant’anni, la storia, la filosofia, la letteratura, quelle che si chiamano le scienze politiche, a mano a mano che l’orgoglio delle vittorie e della potenza era rinfocolato dall’incremento della popolazione, dalle nuove ricchezze, estratte così facilmente da un suolo tanto ricco di ferro e di carbone. Debole perchè libera; non regolata nè da principî, nè da tradizioni, nè da autorità di nessun genere e perciò impotente a sua volta a regolare le menti, la cultura tedesca, la sua scienza, la sua filosofia, la sua letteratura si sono messe al servizio di quelle passioni che non potevano infrenare o correggere, delle buone e delle cattive, esaltandole tutte: il patriotismo, lo spirito di disciplina e di unione, la reverenza per il Sovrano e lo Stato, la [90] fretta dei subiti guadagni, l’orgoglio e la petulanza nazionali, quel che si suol chiamare con barbara parola l’arrivismo. Hanno dunque secondate e infervorate tutte le inclinazioni dello spirito pubblico, senza poter distinguerle in buone e cattive, in benefiche e pericolose; e tra queste il vezzo di scambiare per grande quel che è colossale soltanto, di assumere la quantità a misura della qualità, e di credere che il popolo tedesco fosse il sale della terra e il modello del mondo; hanno infiammato l’orgoglio della moltitudine ed inasprito quel delirio di persecuzione che segue sempre, compagno inseparabile e castigo immediato, tutti gli orgogli eccessivi. Onde a poco a poco noi abbiamo veduto — fenomeno grandioso e terribile — ripetersi nel centro dell’Europa la biblica tragedia di Ninive e di Babilonia: non più un re, ma tutto un popolo crescer di potenza, di ricchezza, di prestigio così da aver intorno tutta l’Europa e l’America tra ammirate e intimorite: ma farsi nel tempo stesso sempre più inquieto, malcontento, sospettoso; lagnarsi che a lui non si tributava il giusto rispetto, che la sua potenza non era temuta a dovere, che i suoi meriti erano misconosciuti e i suoi beni insidiati da ogni parte dall’invidia di nemici sleali. Sinchè un giorno, al sommo della potenza e della ricchezza, in una Europa che tremava al pensiero di veder risfolgorare al sole la spada del ’70, quando solo in Europa avrebbe potuto godersi sicuramente la pace, perchè era temuto e non temeva, questo strano popolo, in una settimana, a proposito di una questione che non lo toccava, ha mandato un cartello di sfida, si può dire, al mondo; ha provocati cinque Stati, tra cui nientemeno che i [91] tre più vasti e potenti imperi del mondo, a un duello mortale; e lanciata la folle sfida, è mosso alla battaglia e alla morte in file serrate, tutto unito e concorde, al comando dell’imperatore, docile alle spinte di uno Stato, per disgrazia del mondo troppo autorevole in mezzo ai suoi. La guerra europea non sarebbe scoppiata se il popolo tedesco fosse stato più savio, o se il Governo fosse stato più debole: la disciplina politica e il disordine intellettuale hanno generata la catastrofe. Così un Governo forte, bene amato, ben temprato contro i colpi della fortuna, servito da uomini intelligenti, provvisto di denaro e di mezzi, è diventato lo strumento della più sregolata imaginazione e ambizione, in una impresa nella quale al popolo tedesco non par che resti altra speranza se non quella di render memorabile per secoli la sua caduta, trascinando il mondo intero nella propria rovina; di seppellire la sua potenza immolata in un’ora di follia sotto le macerie di una civiltà, sino ad un anno fa floridissima e che nessuno può dire in che stato sarà tra un anno o due.
Non si vede, infatti, altra fine a questa tragedia. Siamo intesi: l’avvenire siede sulle ginocchia di Giove; nessuno può pretendere oggi di predire come questa guerra finirà. Tuttavia ad un popolo che per secoli [92] e secoli ha governato il mondo, ora temporalmente ora spiritualmente; e che deve aver conservato un po’ il senso della storia, non può ormai non apparire chiaro che i tedeschi, almeno in questo quarto d’ora della loro storia, non sono nella disposizione d’animo più acconcia a fondare i grandi e durevoli imperi. A fondare imperi che durino non basta il valore, l’unione, l’amor patrio ardente o addirittura fanatico: occorre anche il senno, il senso della misura, l’intuizione chiara del possibile, proprio ciò che ai tedeschi oggi più difetta. Onde, almeno se non interviene un miracolo imprevedibile, l’esito di questa guerra non può essere dubbio. La ostinazione essendo eguale dalle due parti, vincerà la parte che dispone di mezzi maggiori e che saprà farne un uso più giudizioso: la coalizione dunque, che può con il tempo armare un numero d’uomini maggiore, i cui scrigni sono meglio fomiti, che ha il dominio del mare, e nella quale due popoli almeno, la Francia e l’Inghilterra, posseggono quel senno politico, quel senso della misura che vale da solo, in una lotta come questa, molti corpi di esercito. Questo ragionamento sembrerà forse un po’ troppo semplice. Ed è infatti: ma temo assai che nel momento presente, dopo quasi otto mesi che i popoli più potenti di Europa guerreggiano con tanto accanimento, ci sia una bilancia più delicata e precisa, su cui pesare le probabilità della guerra. Non vedo come si possa speculare il futuro, se non argomentando che alla Germania è fallito il disegno di coglier alla sprovvista, assalendoli con fulminea energia, i suoi avversari e vincerli separatamente: la guerra sarà dunque [93] decisa dal Tempo e dalla pazienza dei belligeranti: quindi, se qualche evento imprevedibile non viene ad alterare l’ordine e il gioco delle forze in conflitto, l’alterna vicenda di sconfitte e vittorie in cui la guerra oggi sta come sospesa, dovrebbe a un certo momento — quando e in che misura nessuno potrebbe dire — piegare definitivamente a favore della Francia, dell’Inghilterra e della Russia. Nè si ripeta, come troppi fanno, che intanto i tedeschi combattono in casa altrui. Napoleone diceva che in guerra non è fatto nulla sinchè non è fatto tutto; e lo sperimentò a sue spese nel 1812. Non a Lodz o sul Narew era giunto Napoleone, ma addirittura a Mosca, nel 1812....
Del resto, anche se la situazione militare fosse più incerta che non è, noi avremmo bisogno di credere che la guerra terminerà a questo modo. Si potrebbe dire che è necessario che così termini, se si vuole che l’Europa possa godere di una pace lunga, feconda, non agitata ogni giorno da improvvisi spaventi, non insidiata di continuo da oscure ambizioni. Di questa pace — non giova illudersi su questo punto — l’Europa non godrà per parecchie generazioni, se lo spirito tedesco potrà continuare, anzi con più forza, perchè esaltato da una strepitosa vittoria, a compiere quello che da un secolo sembra esser stato il [94] suo speciale ufficio nel mondo. Noi non neghiamo punto che il popolo tedesco sia dotato di grandi qualità: ma ci par purtroppo anche vero che di queste qualità ha fatto sovente un uso pericoloso per i suoi vicini, prendendo agli altri popoli certi principî di civiltà da quelli creati ed esagerandoli sino a convertirli in tormenti e pericoli. La milizia, per esempio. Che il servizio militare sia un dovere di ogni cittadino è principio classico e antico, che la Rivoluzione francese aveva rinnovato applicandolo con discrezione. Ma i tedeschi, riducendo la ferma e accrescendo il numero dei soldati quanto più era possibile, hanno con quel principio creato e imposto all’Europa l’esercito moderno che è tutto il popolo in armi: l’esercito immenso, dispendiosissimo, lento, che ha fatto della guerra una calamità, a paragone della quale tutti i flagelli che sinora hanno afflitto l’umanità erano piccoli inconvenienti! L’industria moderna — noi l’abbiamo veduto — si sforza di accrescere la quantità a scapito della qualità. Tuttavia la Francia e l’Inghilterra avevano applicato questo principio con una certa misura e non oltrepassando certi limiti. Sopraggiunge la Germania e che fa? Che cosa è la pacotille tedesca, di cui tanto si è parlato? L’esagerazione di quel principio. La Germania ha applicato quel principio sino a empire il mondo di ogni sorta di falsificazioni. Non c’è ordinamento sociale, che possa sussistere senza adoperare in una certa misura la forza. Anche la forza è dunque, in una certa misura, un fattore di bene e un elemento di progresso. Tutti i tempi e tutti i popoli hanno riconosciuto [95] e praticato questo principio, che solo pochi mistici negano. Ma da questa verità elementare, semplice, vitale i tedeschi hanno ricavate le teorie del Clausevitz, del Nietzsche e del Bernardi; le pose prepotenti di Bismarck, che è da quarant’anni il cattivo esempio di tutti gli uomini di Stato dell’Europa; e infine la guerra europea, con le stragi, gli incendi, le devastazioni, il deliberato proposito di non riconoscere nella guerra nessuna legge o regola o norma.
È troppo. L’Europa ha bisogno di ritornare sotto la guida e la autorità di popoli più vecchi, più maturi, più ponderati. Non pochi sono coloro i quali credono che la guerra durerà ancora qualche mese; poi si terrà un Congresso della Pace e si firmerà un gran trattato; in seguito al quale ripiglieremo la vita al punto ove la lasciammo quella fatale mattina del 25 luglio, in cui leggemmo le torbide minaccie dell’Austria alla Serbia. Ma è purtroppo una illusione. Quando, ristabilita la pace, noi tenteremo di ripigliar la vita che avevamo condotta sino al 25 luglio, noi ci accorgeremo che la corrente della storia si è a quel punto inabissata in una voragine, per riapparire più lontano con aspetto e direzione mutata. Non c’è più modo di risalirla. Troppe cose saranno irrevocabilmente mutate e troppe dovranno esser rifatte sopra un piano nuovo, se non si vuole che tanto sangue sia stato versato invano e che questa catastrofe sia il principio non di un ordine nuovo e migliore, ma di una rovina più terribile ancora di quella a cui assistiamo. E tutte queste cose non potranno esser rifatte e questa rovina risparmiata all’Europa, se l’Europa non ritroverà nel pensiero e nell’azione [96] quella misura che aveva negli ultimi cinquanta anni perduta. A questa prova la storia aspetta la nostra generazione; e in questa prova si vedrà quel che noi veramente siamo capaci di fare, per il vero progresso del mondo.
[97]
Signore e Signori,
Tra le infinite calamità del presente, quando la violenza dei tempi travolge, come vento le foglie, gli animi tutti e li tiene trepidanti e sospesi sul tetro abisso dell’avvenire, non potevo non accogliere con riconoscenza il cortese invito di parlare in questa radunanza, convocata a Parigi per celebrare la fratellanza intellettuale dei popoli latini. Nessun tempo si ebbe mai più opportuno, per ricordare quella nobiltà storica di tutti noi, i cui primi titoli risalgono alla gloriosa civiltà che, nata in Grecia, trapassò prima a latinizzarsi in Italia; poi si fe’ cristiana; indi sotto veste latina e impugnando la croce fece sua per sempre tanta parte d’Europa: per ricordare di quanta gloria questa civiltà due volte millenare va fiera: per ricordar sopratutto, se dal passato vogliamo attingere forza al presente, che questa civiltà ha saputo prima tra tutte essere grande.
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Sostiamo a piè di una smisurata colonna in un tempio egiziano: o aggiriamoci tra le rovine di uno di quegli immensi edifici persiani, assiri o babilonesi, che gli archeologi cercano con tanto zelo. Che cosa sono, se non piccole moli, al paragone, il Partenone, il Tempio così detto della Concordia a Girgenti e tante altre meraviglie dell’architettura greca? L’Iliade e l’Odissea non sono forse due brevi volumi, accanto ai poemi interminabili dell’Oriente; al Ramayama o al libro dei Re? Ogni Vangelo è una raccolta dei discorsi di Gesù; paragonate uno dei Vangeli ad una raccolta dei discorsi di Budda e vedrete quanto conciso e taciturno è Gesù nelle pagine dei suoi discepoli ellenizzati a confronto del riformatore indiano, che parla per migliaia di pagine, resistendo imperterrito — egli, ma non lo sventurato lettore — alla fatica ed al sonno. La massa, il peso, la ripetizione, la prolissità, questo troviamo in Oriente. In Grecia, invece, la proporzione, l’armonia, la leggerezza, la chiarezza, la concisione. L’Oriente ambì di essere un colosso, la Grecia volle essere grande.
Il colossale ed il grande differiscono infatti per una ragione nel tempo stesso intellettuale e morale. Grande è lo sforzo compiuto dall’uomo per raggiungere un modello ideale di perfezione, creato dalla sua mente; l’ambizione di superare una difficoltà di ordine spirituale, la cui legge è interna. Colossale invece è lo sforzo di vincere la materia e di sottoporla al nostro volere e al nostro capriccio, l’ambizione di rovesciare un ostacolo esterno. Chi volesse servirsi di un gergo un po’ astratto, direbbe che il grande è qualità pura, il colossale è una miscela [99] impura di qualità e di quantità. Non solo per fare, ma per capire le cose grandi, in ogni campo del pensiero e dell’azione, occorre disciplina e modestia; poichè è necessario accettare come legge un modello di perfezione. Il colossale invece soddisfa l’orgoglio; e abbaglia, stordisce, soggioga anche le menti rozze, ineducate e sregolate. Non è dunque meraviglia che anche la Grecia e Roma, dopo aver fatte cose grandi davvero nei secoli più felici, siano ricascate nel colossale. Andate a Girgenti: poco lungi dal cosidetto Tempio della Concordia, così piccolo e così grande, la cui bellezza ben si potrebbe definire qualità pura, giacciono alla rinfusa gli avanzi di un tempio gigantesco e in mezzo a quelli certi rottami di colossali colonne che strappano anche oggi grida di stupore ai barbari dei due mondi. Passate in Roma; paragonate gli avanzi del Mausoleo di Augusto e Castel S. Angelo che fu il Mausoleo di Adriano, il Panteon di Agrippa e le Terme di Caracalla, le Terme di Caracalla e le Terme di Diocleziano: voi vedete i secoli giganteggiare uno sopra l’altro, a mano a mano che si allontanano dalle origini. Una volta ancora gli edifici narrano, in caratteri di marmo e di pietra, la storia delle generazioni. Per secoli Roma era stata modesta, povera, prudentissima nel secondare le circostanze che la spingevano a ingrandire l’impero. Roma voleva fondare un grande impero, non un impero colossale, come gli imperi dell’Oriente. E in quei secoli Roma, governata da una aristocrazia, tanto autorevole da reggere lo Stato non solo, ma da dirigere pure il pubblico gusto, seppe capire e imitare le cose grandi. [100] non le colossali, che la Grecia aveva fatte. Ma la ricchezza, la potenza, la sicurezza alterarono anche Roma. Quella aristocrazia parte perì, parte fu esautorata; le moltitudini, abbandonate a loro stesse, asiatizzarono; i tempi si gonfiarono di un orgoglio frenetico, smaniarono di una insaziabile sete di piaceri e di eccitamenti, e quindi furono presi dal delirio del colossale.
Di quanti esempi simili a questi è ricca la storia di tutti i popoli latini: della Spagna, dell’Italia, della Francia! Dopo la Grecia, la storia è stata una lotta incessante tra questi due principî, il colossale ed il grande: una lotta che, se nella architettura si vede con gli occhi e si misura con il metro, si ritrova, visibile alla mente, dappertutto; nella letteratura, nello Stato, nella guerra. In ogni tempo ed in ogni luogo, ove la Grecia sia stata anche per poco maestra, ci furono e ci saranno uomini e popoli che vollero e vorranno far grandi cose; uomini e popoli che vollero e vorranno far cose colossali. Non è questo forse il senso profondo anche della crisi in mezzo a cui noi viviamo sbigottiti da sei mesi? Quando noi e i nostri figli non saremo più; quando le passioni che infocano i nostri tempi saranno spente; quando gli storici leggeranno, con animo tranquillo, i morti documenti delle nostre presenti sciagure, come i geologi, dopo una eruzione, salgono armati di picozza sulle lave raffreddate, questa guerra sembrerà forse agli uomini una immane follia. Diranno allora gli storici: «Viveva nel cuore dell’Europa un popolo numeroso, potente, ammirato, invidiato, temuto. Pullulava ormai, tanto era fecondo; possedeva l’esercito [101] che era giudicato il più forte di tutti; in pochi anni aveva varata la seconda armata del mondo; si arricchiva con l’industria ed il commercio così presto e in tal misura, da destar la gelosia anche dei popoli sino allora considerati più ricchi; era venuto in tanta reputazione di sapienza che in mezza Europa ed America le Università non erano ormai più che immense gabbie di ridicoli pappagalli, buoni solo a fare malamente il verso ai maestri di quella nazione. Anche gli anziani tra i popoli dell’Europa, un po’ scoraggiti e stanchi, quasi già si acconciavano a riconoscere in quel nuovo rivale uno dei modelli del mondo. Nessun altro popolo in Europa poteva godersi più sicuro la pace. E invece no: più cresceva per numero, forza e ricchezza; più era ammirato e temuto, e più quel popolo smaniava, mormorava, si adombrava di ogni cosa: qui di nemici che gli tendevano insidia; là di offese inflitte al suo onore; altrove di torti e di ingiustizie che avrebbe subìte dall’invidia altrui. Sinchè un giorno, alla fine, quando stava per metter il piede sul vertice della prosperità, della gloria e della potenza, essendo nata una questione che toccava altri più che lui e che ad ogni modo poteva, pur essendo grave, esser composta con le ragioni, questo popolo incomprensibile ha in una settimana mandato cartello di sfida, si può dire, al mondo intero, poichè ha provocato a guerra — e che guerra! — i tre più vasti imperi del mondo, e insieme con quelli due piccole ma valorose nazioni!».
Così forse gli uomini giudicheranno un giorno. Ma a noi, figli della Grecia e di Roma, l’enigma non pare tanto oscuro. Quel popolo era invasato [102] dal furore del colossale, che è uno dei tanti delirî dell’orgoglio umano. Poichè la causa ultima di tanta catastrofe è stato proprio l’orgoglio di un popolo; e questo orgoglio è proprio un frutto del secolo in cui viviamo. In questa città dove una numerosa schiera di spiriti pensosi vigila e scruta gli eventi del mondo, alcuni savi, atterriti dagli orrori inaspettati di questa terribile guerra, si sono chiesti se per caso arricchendo, istruendosi e accrescendo la sua potenza l’uomo non si corrompa e non peggiori. Come negare tuttavia che i nostri tempi abbiano gittati con larga mano i semi del bene, nelle anime, sopratutto nella moltitudine, tanto trascurata dai secoli precedenti? Impegnatisi in una grande lotta con la natura per strapparle i tesori nascosti e soggiogarne le forze erranti per il creato, i nostri tempi hanno sradicati dal mondo tutti i vizi che avrebbero nuociuto in quella lotta, e massime la pigrizia; hanno seminate e coltivate con cura assidua le virtù che potevano servire: la precisione, la puntualità, lo zelo, la solidarietà. La tenace concordia con cui tanti popoli — fenomeno non ancora visto nella storia del mondo — combattono da sei mesi, prova quanto i legami della solidarietà nazionale sono forti anche nella moltitudine. Come e perchè, allora, i tempi sono stati presi ad un tratto da questa follia di distruzione e di morte? Perchè troppo intenti a convertir tutti gli uomini in artigiani laboriosi e disciplinati, hanno trascurate altre passioni, che possono traviare ed inferocire gli animi: l’orgoglio, per esempio, di cui la passione del colossale è una delle forme più pericolose. In principio, alle sue prime scaramuccie [103] e battaglie con la natura, la civiltà nostra aveva fatte modestamente delle grandi cose. Ma poi, dopo le prime vittorie, quando la ricchezza, la potenza, i mezzi sono cresciuti a dismisura, i tempi saliti in orgoglio non furono più contenti di far delle grandi cose, vollero fare cose colossali — e potevano, di tanti mezzi disponevano ormai! Che cosa sono le città, le officine, le armate, gli eserciti, gli imperi del mondo antico, a petto dei moderni? Il commercio e l’industria di una volta, a paragone del commercio e dell’industria di oggi? Tutti i popoli dell’Europa furono, prima o poi, tôcchi dal delirio; ma uno, più di tutti gli altri, perchè meglio predisposto dalla natura e dalla storia. La natura sembra avergli largita una violenta energia, che lo spinge facilmente ad eccedere in ogni cosa. Non ha mai sentito l’influsso profondo della cultura greca e latina, sebbene — o fosse perchè — nell’ultimo secolo abbia generato filologi ed archeologi in quantità. Più che dalla precisa delimitazione del pensiero classico è stato in ogni tempo attirato da quel mistico indefinito che le teste deboli scambiano così facilmente per l’infinito. Aveva vinte due grandi guerre, e possedeva un suolo ricco di ferro e di carbone: gran cosa in un’epoca, in cui il fuoco non è più il modesto servo dell’uomo ma il signore del mondo. E perciò alla fine ha ambito di giganteggiare sul mondo impicciolito ai suoi piedi; si è creduto grande, tentando opere e imprese di mole non ancora vista.
Invece era soltanto un colosso: incontentabile, inquieto, sospettoso, come tutti i colossi. I popoli e i tempi che vogliono far delle cose grandi, possono [104] ancora esser felici, quanto si può essere felici in questo mondo; perchè si propongono di raggiungere un ideale di perfezione, che per quanto lontano è un segno e limite fisso, al quale è possibile di avvicinarsi godendo. I popoli e i tempi che vogliono far delle cose colossali camminano invece nell’illimitato e senza meta, volendo sempre oltrepassare l’ultima linea raggiunta; e quindi non possono esser contenti mai. Perciò gli imperi e le civiltà che hanno nutrite ambizioni colossali, dopo essere stati per qualche tempo il tormento proprio ed altrui, sono precipitati in catastrofi subitanee e incomprensibili; perciò noi possiamo domandarci se il Destino non vuole che noi assistiamo, ancora una volta, a una di queste catastrofi.
E se tali sono veramente, in questo momento, gli oscuri disegni della storia, come grande e nobile apparisce il nuovo sacrificio di sangue che il Destino, dopo tanti altri, ha chiesto ancora alla Francia; quello che il Destino potrebbe chiedere domani agli altri popoli della famiglia latina! Non dimentichiamolo: solo con le prove, che ne testimoniano la forza vitale, i popoli tengono vivi i principi morali, intellettuali ed estetici da essi creati o professati. I nostri padri avevano costruito il Partenone, il Panteon, Venezia e Versailles; avevano creato l’Impero, la Chiesa, il diritto, la filosofia e l’arte decorativa del XVIII secolo; avevano fatta la Rivoluzione.... Ma che ci giovava, da cinquant’anni a questa parte? Il sentimento greco e latino della grandezza si spegneva, oppresso dalla smania asiatica del colossale. Dappertutto la quantità trionfava sulla qualità; e il progresso, cioè [105] il merito dei popoli, si misurava dalle statistiche del commercio. Per aver voluto opporsi quanto ancora poteva a questo capovolgimento del mondo, la Francia passava ormai agli occhi di tutti o di quasi tutti per una nazione decaduta e invecchiata. Perchè la sua popolazione e il suo commercio crescevano meno che la popolazione e il commercio della Germania, essa aveva finito il suo còmpito; era un inutile ingombro in Europa ed in Africa! Chi crede che la penna o la parola avrebbero potuto sviare la torbida fiumana di sofismi e di interessi, che travolgeva ormai tutti i popoli verso le orrende enormità di una civiltà puramente quantitativa? Un grande avvenimento, occorreva: uno di quegli avvenimenti, che soli hanno la forza di persuadere e di convertire la moltitudine; una di quelle prove decisive, in cui si vede quel che possono davvero i principî che reggono le diverse nazioni. La prova è, questa volta, così terribile, che nessun oserebbe dire che essa doveva aver luogo. Ma poichè il Destino l’ha voluta.... Innalziamo dunque le menti, al disopra delle tristezze e delle angoscie dell’ora che volge, nel sublime pensiero del grande avvenimento che si compie intorno a noi, in noi, e per mezzo di noi. Nelle prime settimane della guerra un brivido di angoscia ha agghiacciati tutti i figli di Roma. Molti cuori tremarono, in quel terribile agosto, in cui nessuna forza umana sembrò potesse fermare il furente colosso che, coperto di ferro e rovesciando ogni ostacolo, invadeva questa terra, dove una civiltà troppo antica e delicata pareva agonizzare. E tutti volgevano gli sguardi impazienti verso il settentrione lontano, sperando veder spuntar di lassù l’atteso [106] soccorso! Quando, tutto a un tratto, allorchè già i più incominciavano a disperare, il colosso urta e vacilla contro una specie di invisibile ostacolo, sorto come per miracolo; si ferma, indietreggia.... Noi abbiamo forse in quei giorni vissuto uno dei grandi momenti della storia; poichè fu quello il momento in cui la nostra generazione, stupefatta, si chiese per la prima volta se proprio la massa ed il numero fossero il tutto, nel mondo! E da quel momento, qualche cosa succede nelle menti degli uomini, per ogni terra del mondo. Che cosa? È troppo presto presumere di indovinarlo. La prova, pur troppo, non è ancora finita. Ma poichè è cosa sicura che noi termineremo il corso della vita in un mondo diverso da quello in cui siamo nati e cresciuti, noi possiamo almeno sperare che la Francia abbia ancora una volta, con il suo coraggio indomito, spezzata una fatalità storica che pareva soverchiante. È necessario che tanto e così prezioso sangue — quel sangue la cui effusione empie da sei mesi di una angoscia incessante le nostre anime — non sia versato invano per l’umanità tutta quanta. È necessario che questa guerra fiacchi e rovesci il folle orgoglio che aveva indurite e acciecate le menti. È necessario che insegni di nuovo agli uomini ad ammirare le cose che sono grandi davvero, per la perfezione raggiunta, nella piccolezza delle proporzioni e nella modestia; che prepari nuove generazioni capaci di far grandi cose con semplicità e senza orgoglio; che aiuti i tempi a ritrovare l’equilibrio morale nel sentimento della vera grandezza. Temerità sarebbe affermare che questa sarà l’ultima guerra del mondo. Ma se ci [107] saranno ancora delle grandi guerre, è necessario, per l’onore e per la felicità del genere umano, che non ci sia più un’altra guerra colossale, come questa che oggi inzuppa di sangue la terra. Onde noi tutti, figli della Grecia e di Roma, legati alla Francia dal vincolo sacro della lingua e della cultura, dobbiamo ripiegarci su noi medesimi, interrogare la nostra coscienza; e rispondere ad un quesito terribile e decisivo.... Noi non abbiamo visti mai senza dolore ed orrore i chiassosi trionfi del colossale nel mondo. Gli interessi o i trasporti passaggeri dei tempi frivoli non hanno mai spento in noi l’istinto, che ci sforza a cercar la grandezza nell’armonia e nella perfezione. Chiaro è infine che questa terribile guerra richiederà ancora inenarrabili sacrifici di sangue e una lunga tenacia. Noi dobbiamo dunque chiedere a noi medesimi: possiamo noi lasciar la Francia sola, sino alla fine, nel cimento terribile, che deve ringiovanire il genio della nostra razza?
[109]
[111]
Questi cinque saggi furono, sotto altro titolo e nello stesso ordine, pubblicati il 28 febbraio, il 7, il 14, il 21, il 28 marzo 1915 nell’edizione domenicale del New York American, e di parecchi altri giornali dell’America del Nord. Il testo italiano fu pubblicato nei giorni medesimi dal Progresso italo-americano, che è il maggiore giornale italiano di Nuova York.
[113]
L’invasione del Belgio ha offeso il mondo, come una prepotenza e una perfidia che capovolgeva dalle fondamenta l’ordine morale dei tempi nostri. Ma poichè il popolo tedesco grida e il Governo lascia intendere di voler conservare per sempre con la forza quel che ha conquistato con la perfidia, è opportuno considerare quali effetti politici ed economici genererebbe in Europa la incorporazione del Belgio alla Germania. Non solo la Fede e l’Onore andrebbero in esilio per secoli dal vecchio mondo; ma l’equilibrio delle forze sarebbe talmente alterato, che la Germania diverrebbe arbitra oggi dell’Europa e forse domani del mondo. Il Belgio è in questo momento la chiave del mondo: onde si spiega come la Germania, nel primo tumulto che seguì lo scoppio della guerra europea, se ne sia prontamente impadronita, gridando che necessità non ha legge e che i trattati son pezzi di carta.
Sembrerà a molti singolare che una così piccola conquista possa aver tanto effetto. Il Belgio è uno [114] staterello, che si estende sopra una superficie alquanto minore di 30.000 chilometri quadrati; e i dipartimenti della Francia invasi sono anche meno estesi del Belgio. Come mai tanta poca terra, aggiunta al vasto Impero germanico, basterebbe ad alterare così profondamente l’equilibrio delle forze in Europa? Ma gli uomini di Stato non possono misurare i paesi come i geografi, a braccia. Occorre in primo luogo considerare che il Belgio è il paese più popoloso dell’Europa. Il censimento contò, nel 1911, in cifre tonde, sette milioni e mezzo di abitanti, circa 250 per ogni chilometro quadrato. Chiudendo questi sette milioni e mezzo di uomini, e quelli che abitano i dipartimenti invasi della Francia nella nuova cerchia delle sue frontiere ampliate, l’Impero germanico potrebbe presto contare 80 milioni di abitanti: sarebbe dunque una nazione, doppia per numero della Francia e dell’Inghilterra, minore in Europa solo della Russia e di poco minore degli Stati Uniti d’America. Ma non basta. Il Belgio è così popoloso, perchè è ricco; ed è ricco, perchè è industrioso; ed è industrioso, perchè possiede molte miniere di carbone. Nel 1912 furono scavati dalle miniere del Belgio quasi 23 milioni di tonnellate di carbone.
Se si pensa che nella Lorena francese, e precisamente nel territorio di Briey, oggi occupato dai tedeschi, è posto il più vasto e ricco giacimento di ferro di tutta l’Europa; che il Lussemburgo pure è ricchissimo di ferro; che nei territori francesi contigui al Belgio e anch’essi occupati, la Francia possiede le sue più ricche miniere di carbone, alcune delle quali sono tra le più ricche del mondo, il conchiudere [115] è facile. La Germania è oggi il paese dell’Europa continentale più ricco di carbon fossile, grazie agli immensi bacini carboniferi della Lorena e della Vestfalia. La Germania ha ricche miniere di ferro, sebbene non tante che bastino ad alimentare i suoi alti forni. Se dunque la Germania riuscisse ad impadronirsi del Belgio e del Lussemburgo, e ad arrotondare un poco i suoi confini a danno della Francia, si impadronirebbe di quasi tutte le miniere di carbon fossile e di ferro dell’Europa, eccezione fatta della Russia; e relegherebbe anche Vulcano, dopo aver tentato di catturare Minerva, nell’Olimpo germanico, in compagnia di Odino e degli altri Dei che guidarono i Cimbri e i Teutoni nelle loro invasioni. La siderurgia non sarebbe più in Europa che un’industria tedesca. Ma noi viviamo — chi non lo sa, sebbene quanti lo ricordano? — nel secolo del ferro e del fuoco. Il ferro è ormai, nell’affaccendato disordine di questo secolo che vuole ma non sa definire il progresso, il metallo principe della pace e della guerra; e l’arte del fabbro è il tirocinio di tutte le vaste ambizioni d’impero; perchè di ferro sono fatte quasi tutte le macchine, in cui e per le quali la nostra potenza si esercita e si allarga sul mondo. Quel piccolo territorio varrebbe dunque, per la Germania, se riuscisse a impadronirsene, quanto e più di un vasto impero in Africa e in Asia.
I tedeschi del resto l’avevano capito da un pezzo. Negli ultimi quaranta anni, tra gli spensierati ammiratori della Germania, delle sue vittorie, della sua scienza, della sua musica e della sua filosofia, che pullularono in Italia, pochi si sono accorti che [116] quel popolo, devoto un tempo alle Muse, si era messo in capo di diventare il primo fabbro d’Europa, aspettando di essere il primo del mondo; e tra i pochi che se ne accorsero nessuno, forse, si è mai chiesto per qual ragione questo impero di Marte e di Apollo si fosse consacrato con tanto fervore a Vulcano e ambisse di primeggiare nel ferro. Ambizione che poteva essere giudicata ridicola cinquanta anni fa, quando si pensi che nel 1860 l’ordine delle nazioni, nell’industria del ferro, era il seguente:
Gran Bretagna | 3.500.000 | tonnellate |
Francia | 1.000.000 | » |
Stati Uniti d’America | 800.000 | » |
Germania | 700.000 | » |
Belgio | 300.000 | » |
Austria-Ungheria | 250.000 | » |
Russia | 200.000 | » |
Senonchè nel 1870 l’ordine è già un po’ alterato. La Germania ha fatto un piccolo passo avanti e ha sorpassata la Francia, sebbene la metallurgia inglese sia ancora quattro volte più potente della tedesca.
Gran Bretagna | 6.050.000 | tonnellate |
Stati Uniti d’America | 1.700.000 | » |
Germania | 1.400.000 | » |
Francia | 1.200.000 | » |
Belgio | 630.000 | » |
Austria-Ungheria | 350.000 | » |
Russia | 300.000 | » |
Dieci anni dopo, nel 1880, l’ordine non è mutato. La Germania è ancora al terzo posto, l’Inghilterra al primo, gli Stati Uniti al secondo. Ma la Germania ha [117] raddoppiato il passo, mentre l’Inghilterra non l’ha allungato che di un terzo.
Gran Bretagna | 7.800.000 | tonnellate |
Stati Uniti | 4.000.000 | » |
Germania | 2.800.000 | » |
Francia | 1.700.000 | » |
Belgio | 700.000 | » |
Austria-Ungheria | 470.000 | » |
Russia | 450.000 | » |
Tuttavia la distanza è ancora assai grande. Ma la Germania non si scoraggia. Nel 1890 gli Stati Uniti hanno conquistato il primato, fucinando più di 9 milioni di tonnellate di ferro; la Gran Bretagna si mantiene sugli 8 milioni; la Germania sale a 4 milioni e mezzo; la Francia a 2 milioni; il Belgio a 800.000. La Germania accelera il passo, e l’Inghilterra lo rallenta. Dieci anni dopo, nel 1900, al chiudersi del gran secolo che aveva visto il trionfo di Vulcano sugli antichi Dei dell’Olimpo, gli Stati Uniti fucinarono nientemeno che 14.000.000 di tonnellate; e la Germania 8.500.000. La Germania ha dunque quasi raggiunta la Gran Bretagna, che in quell’anno fabbricò 9.000.000 di tonnellate di ferro. Nell’anno stesso la Russia può vantare che 3 milioni di tonnellate sono uscite dai suoi forni; 300.000 più che dai forni della Francia, la quale ha un po’ sonnecchiato in quel decennio. Il Belgio infine ha fabbricato un milione di tonnellate.
Ma il primo decennio del secolo ventesimo vede finalmente l’ambizione della Germania appagata. Nel 1910 la Germania ha sorpassata l’Inghilterra; è [118] la seconda potenza siderurgica del mondo, la prima d’Europa.
Stati Uniti | 27.700.000 | tonnellate |
Germania | 14.800.000 | » |
Gran Bretagna | 10.200.000 | » |
Francia | 4.000.000 | » |
Russia | 3.000.000 | » |
Austria-Ungheria | 2.100.000 | » |
Belgio | 1.800.000 | » |
Nè dopo questo immane sforzo, Vulcano ha cessato di stancare la terra tedesca con i colpi del suo martello. La Germania ha fucinato nel 1913 quasi 17 milioni di tonnellate di ferro; il Belgio 2.760.000; e la Francia, che da qualche anno cerca di ricuperare il tempo perduto, più di 5 milioni. Ma se si pensa che le miniere di carbone e di ferro più ricche e le ferriere più vaste della Francia sono poste in quelle regioni che ora gli eserciti germanici occupano, è facile capire che, incorporata alla siderurgia tedesca la siderurgia belga e la parte più potente della siderurgia francese, resterebbero nel mondo tre popoli fabbricatori di ferro: gli americani di là dell’Atlantico; i tedeschi nel cuore d’Europa continentale; gli inglesi nella piccola isola che un breve braccio di mare separa dalla costa europea. L’industria americana primeggerebbe ancora; ma la tedesca la seguirebbe alle calcagna; e in mezzo a queste industrie così potenti la metallurgia inglese apparirebbe come una piccola casa serrata e quasi schiacciata tra due giganteschi edifici.
Le conseguenze, chi non le vede già fin d’ora? Chi non vede che la potenza tedesca traboccherebbe [119] irrefrenata sull’Europa e sul mondo? Questo impero consacrato a Marte e a Vulcano, popolato da ottanta milioni di uomini, e posto nel cuore dell’Europa, dominerebbe il vecchio mondo con l’oro e con il ferro. Dipenderebbero da quello in tutta l’Europa continentale tutte le industrie che adoperano il ferro come materia greggia precipua: e cioè tutte le industrie meccaniche, dalle quali dipendono più o meno tutte le altre industrie, fuorchè certe industrie chimiche. La marina mercantile francese e l’italiana scomparirebbero quasi dai mari, e giganteggerebbe in loro vece, di fronte all’inglese, sola la marina tedesca. Sola tra le nazioni dell’Europa continentale la Germania potrebbe ancora costruire ferrovie nei paesi nuovi. Infine l’Impero tedesco minaccerebbe, dal mezzo, come un gran campo trincerato, l’Europa tutta, presente e pronto all’offesa verso ogni angolo dell’orizzonte. Accresciuta di uomini e di ricchezza, signora delle più ricche miniere di carbone e di ferro, arbitra della siderurgia e delle industrie meccaniche nel continente, quanti corpi d’esercito potrebbe armare la Germania? E non avrebbe allora tutti i mezzi — gli uomini, i denari, i porti — per apparecchiarsi a strappare all’Inghilterra il tridente dei mari? L’Inghilterra sarà ricca e forte, quanto si vuole: ma conta poco più di 40 milioni di abitanti, e dovrebbe affrontare un Impero di 80 milioni!
Al punto a cui siamo giunti della storia, in questo secolo del ferro e del fuoco, il Belgio è oggi la chiave dell’Europa e quindi anche del mondo. Se il Belgio cadesse in potere della Germania, la Germania sarebbe domani arbitra dell’Europa e dopodomani, [120] forse, del mondo. Non poteva quindi esser dubbio che l’invasione del Belgio sarebbe il principio della più terribile guerra che il mondo avesse vista; perchè in quella guerra o la Francia e l’Inghilterra insieme o la Germania dovranno procombere in una immane rovina. La Germania non potrà tenere il Belgio, che se giungerà con le sue armi non a Parigi ma addirittura a Lione, e a Londra: la Francia e l’Inghilterra non potranno per il Belgio venire a patti o a trattati e dovranno scacciare la Germania dal piccolo Regno conquistato a tradimento, a qualunque costo, anche se fiumi di sangue dovessero scorrere. La battaglia decisiva della guerra europea si combatterà nel Belgio ed in Francia; anzi già si combatte, e fin dai primi giorni di settembre; poichè gli innumerevoli combattimenti parziali presso le trincee che hanno seguìto la grande battaglia campale della Marna non sono che una sola battaglia, la più lunga, la più ostinata, la più micidiale che la storia ricordi; la nuova Waterloo, che dopo un secolo si ritorna a combattere, negli stessi luoghi, ma sopra un campo di battaglia più vasto, e che deve decidere se nel cuore dell’Europa si formerà o no un immenso Impero germanico, soverchiante tutti gli altri Stati del continente e così forte ormai da poter ambire una specie di egemonia mondiale.
Sembra dunque che non senza ragione anche quelle nazioni, le quali sino allo scoppiar della guerra europea erano state amiche della Germania e inclini ad ammirarla, come l’Italia, si siano poi a poco a poco discostate da lei. Ma la annessione del piccolo Belgio soltanto e l’arrotondamento della frontiera tedesca [121] a spese della Francia non sarebbero i soli effetti di una vittoria tedesca. Se la Germania, alleata dell’Austria e della Turchia, vincesse a segno da poter imporre agli avversari la volontà sua, non sarebbe paga del Belgio e di qualche brano di territorio francese; vorrebbe allargarsi anche a spese della Russia; e con essa si allargherebbe anche l’Austria, a danno sia della Russia sia della Serbia. Ma un così grande trionfo accrescerebbe l’autorità della Germania nel mondo. La Germania sarebbe ammirata come il modello in ogni cosa, anche più che non fosse prima della guerra europea. Chi oserebbe ancora pensare che tutto non sia perfetto, in una nazione che, sia pure alleata con l’Austria e la Turchia, avesse vinta la Francia, l’Inghilterra, la Russia, il Belgio, la Serbia e il Giappone? Vedremo perciò nel saggio seguente quali altri effetti sarebbero da aspettarsi da una vittoria della Germania.
[122]
Il rapporto segreto dello Stato Maggiore all’Imperatore di Germania, del 19 marzo 1913, che il Governo francese potè procurarsi e di cui ha pubblicato la traduzione nel Libro Giallo, finisce con queste parole:
«Tels sont les devoirs qui incombent à notre armée, et qui exigent un effectif élevé. Si l’ennemi nous attaque, ou si nous voulons le dompter, nous ferons comme nos frères d’il y a cents ans; l’aigle provoquée prendra son vol, saisira l’ennemi dans ses serres acérées, et le rendra inoffensif. Nous nous souviendrons alors que les provinces de l’ancien Empire allemand: Comté de Bourgogne et une belle part de la Lorraine sont encore aux mains des Francs; que des milliers de frères allemands des provinces baltiques gémissent sous le joug slave. C’est une question nationale de rendre à l’Allemagne ce qu’elle a autrefois possédé».
Se dunque la Germania vincesse la Russia, annetterebbe all’Impero germanico le provincie baltiche [123] che oggi appartengono all’Impero moscovita. Ma se la Germania vincesse, vincerebbe anche l’Austria-Ungheria, che farebbe sua certamente la Serbia. E chi potrebbe poi dubitare che l’Austria-Ungheria e la Germania serrerebbero ancor più, dopo la vittoria, i nodi della alleanza, per godersi in pace le sanguinose conquiste? Ma chi guardi una carta geografica, scorge alla prima occhiata che l’Europa sarebbe allora come tagliata per mezzo da due immensi imperi germanici, i quali, contigui e alleati, farebbero come un gran ponte tedesco dal Baltico all’Adriatico, aspettando di prolungarsi fino all’Egeo. Posti nel cuore dell’Europa e quindi in una posizione centrale, contigui, popolati, tutti e due insieme, forse da 140 milioni di uomini, accresciuti di prestigio, formidabili per armi sulla terra e sul mare, padroni del carbone e del ferro, dominanti le vie del nord e del sud, di oriente e di ponente, i due Imperi alleati potrebbero non solo imporsi agli slavi e ai latini, che popolano il resto del vecchio mondo, ma anche alzare il capo e parlare minacciosi agli altri continenti.
Posti nel cuore dell’Europa, in sito centrale e contigui: ho detto. Giova considerare questo fatto con particolare attenzione, poichè è fatto di grande rilievo. Due Stati alleati e contigui che sono assaliti a cerchio, come avviene in questa guerra, si trovano in una posizione o buonissima o pessima. Buonissima, se sono più forti, perchè da quella posizione centrale possono sconfiggere ad uno ad uno i nemici e sfruttare a fondo la vittoria sugli avversari distaccati. Pessima, se sono più deboli, perchè possono al momento decisivo essere assaliti ad un tempo da più parti, così da [124] non poter parare a destra e a sinistra, sul capo e a tergo, i colpi che fioccano. Perciò se gli Imperi germanici vincono, devono per ragione geografica stravincere.
Quali effetti morali, politici, intellettuali ne nascerebbero? Molti, e tutti gravi. Già la guerra del 1870 bastò a ridar voga al principio autoritario e monarchico che dalla Rivoluzione francese in poi declinava. Pochi sono gli uomini di Stato in Europa che dopo il 1870 non abbiano sognato, nel segreto pensiero, di copiare Bismarck. Quante caricature del primo cancelliere tedesco hanno afflitto l’Europa, in quarant’anni! Il supporre che i popoli d’Europa potessero, se non amarsi, rispettarsi e vivere in pace, fu considerata semplicità indegna di un grave uomo di Stato. Credere la guerra eterna e fatale in Europa fu il primo dovere di ogni uomo che ambisse di governare i suoi simili. L’Europa dovette indossare tante armi, da non poter quasi più reggere al peso; e non ci fu modo, per quanto tutti lo desiderassero, di assicurare al vecchio mondo una pace meno dispendiosa e meno precaria. Ma non è possibile dubitare che il male, già insopportabile, peggiorerebbe ancora, se la Germania rivincesse. Guglielmo II diventerebbe il modello dei sovrani; e la conquista del Belgio passerebbe per una prodezza. Sarebbe forza o rassegnarsi a vivere tutti in una immensa caserma; o prepararsi a nuove e sanguinosissime guerre; o sperare la salvezza da una rivoluzione. A mali estremi, estremi rimedi — dice il proverbio.
Ma ci sarebbe forse da temere anche un pericolo maggiore. Dopo una nuova vittoria, la Germania e [125] tutte le cose tedesche godrebbero di maggior prestigio nel mondo; e cioè di un prestigio troppo grande. I tedeschi sono certamente dotati di diverse virtù; hanno fatto molte cose degne di ammirazione; e possono rivendicare un posto cospicuo nella gerarchia delle nazioni. Ma neppur essi sono perfetti, e perciò sono un cattivo modello, se gli uomini se ne innamorano troppo e se vogliono troppo e troppo servilmente imitarlo. Il che, del resto, non accade solo dei tedeschi; ma dei tedeschi forse più presto e in misura maggiore che degli altri popoli, perchè essi peccano precipuamente di esagerazione. Erasmo di Rotterdam chiamava Lutero «il dottore iperbolico». Noi potremmo chiamare la Germania «la nazione iperbolica». Trascinata da una specie di sregolato vigore, troppo spesso essa eccede al di là di quella che agli altri popoli pare la giusta misura; scambia quel che è colossale e gigantesco per grande; tenta impossibili imprese; si diletta di andar contro la modesta e consueta ragione delle cose; e massime da un secolo a questa parte si vanta di esagerare tutti i principî di civiltà che i nostri tempi vanno via via creando, anche a rischio di mutarli, come più di una volta è successo, in tormenti e in pericoli.
Quanti esempi si potrebbero citare! Quale è, per esempio, il principio che muove l’industria moderna; quella nuova industria che alle mani dell’uomo, abilissime ma lente, ha sostituite le macchine, mosse dal vapore e dall’elettricità, rapidissime ma rozze? Accrescere la quantità delle cose fabbricate, a scapito della qualità. I nostri tempi non sanno più fabbricare [126] nè le meravigliose stoffe, nè i magnifici e solidissimi mobili, nè i ninnoli e i gingilli incantevoli del secolo XVII e XVIII; ma viceversa di tutte le cose fabbricano quantità ben maggiori in tempo più breve, empiendo tutte le case. Senonchè l’Inghilterra e la Francia avevano applicato questo principio con una certa moderazione e misura; deteriorata, sì, la qualità delle cose, per accrescerne la quantità e rinvilirne il prezzo, ma non oltre un certo limite.... I tedeschi invece hanno oltrepassato senza riguardi questo limite; iniziando nell’industria moderna l’êra di quella che i francesi chiamano la camelote; spacciando in ogni parte del mondo imitazioni frettolose e scadenti ma di poco prezzo; cercando di vincere i rivali con l’apparenza e il buon mercato; sacrificando cioè la qualità alla quantità, molto più che i francesi e gli inglesi non avessero osato. Del che francesi e inglesi hanno mosso ai tedeschi vivo rimprovero: in parte a torto, in parte a ragione. A torto, perchè i tedeschi hanno fatto alle industrie inglesi e francesi quel che gli inglesi e i francesi, a loro volta avevano fatto alle antiche industrie a mano: hanno volgarizzati ancora di più, deteriorandoli maggiormente, quegli oggetti che gli inglesi e i francesi avevano incominciato a deteriorare, per accrescerne l’uso. A ragione, perchè nella smania di arricchire in fretta, i tedeschi sembrano non scorgere più il limite, oltre il quale continuando ad accrescere la quantità a detrimento della qualità, la vita deve perdere colore e sapore: poichè la qualità — la bellezza o la bontà delle cose — è il sale e il condimento della vita, ciò che screzia l’aspetto dell’universo, risveglia ed [127] appaga sempre nuovi desiderî, fuga dal vivere il tedio e la sazietà. Che cosa è la civiltà, se non un miglioramento del mondo? Potremmo noi definire un’abbondanza crescente di cose ogni dì più scadenti, altrimenti che una barbarie grassa e ricca?
Gli ordini militari oggi vigenti in Europa sono un altro esempio luminoso della esagerazione germanica. Nel secolo XVIII gli eserciti di Europa erano composti per la maggior parte di soldati di mestiere. Le armi erano allora una professione. Fu la Rivoluzione francese che rinnovò dall’antichità il principio, oggi riconosciuto e accolto da tutta l’Europa fuorchè dall’Inghilterra: che la milizia sia un dovere civico di tutti i cittadini. Di qui la coscrizione. Ma tutte le altre nazioni di Europa — la Francia prima di tutte — non hanno, sino al 1870, applicato questo principio che con molta moderazione, restringendosi a raccogliere degli eserciti non troppo numerosi, imponendo l’obbligo del servizio solo ad una parte della popolazione, e tenendo questa sotto le armi un tempo abbastanza lungo. La Germania invece si studiò, sino dai tempi delle guerre napoleoniche, di applicare il principio opposto: di ridurre il tempo del servizio, chiamando sotto le armi il maggior numero di cittadini che potesse. Nel 1870 già i soldati tedeschi servivano tre anni, e cinque i francesi. Ma la Germania potè mettere in campo circa un milione di uomini, nel tempo in cui la Francia ne chiamava alla guerra circa 750.000; e avendo vinto, sembrò agli occhi del mondo avere avuto ragione; cosicchè da allora in poi, grazie all’autorità conferita a lei dalla vittoria, ha potuto [128] applicare sino alle ultime conseguenze quel principio non suo ed obbligare le altre nazioni — la Francia compresa — a seguirla. Ha ridotto il servizio militare a due anni; ha accresciuto senza tregua l’esercito di prima linea; ha addestrate e inquadrate le riserve dalle più giovani alle più vecchie; ha armata davvero la nazione in modo da poter condurre alla guerra non la parte più giovane del popolo, come nel 1870, ma tutti gli uomini già validi e ancora validi, dai giovinetti di 17 anni agli uomini di 48.
E così, dando i tedeschi l’esempio e gli altri popoli imitandolo, gli eserciti sono cresciuti negli ultimi trent’anni siffattamente di numero e di mole, che quasi non si possono più muovere: e facendo della propria grandezza ingombro a se medesimi, combattono nel secolo del vapore e della elettricità con una lentezza di mosse che ricorda le guerre di posizioni dei secoli passati. Questi eserciti non possono muoversi rapidi e finir presto la guerra, perchè sono dei colossi. Esagerati oltre una certa misura, anche i principî militari della Rivoluzione francese si steriliscono; anzi si ritorcono in danno dei tempi, i quali facendo in ogni altra cosa gran tesoro del tempo, avrebbero bisogno d’eserciti capaci sopra tutto di condurre la guerra rapidamente a termine. Solo a questa condizione le immense somme di denaro spese negli armamenti sarebbero state bene spese. Ordini militari che, sia pure per risolvere le più gravi tra le questioni della politica mondiale, obblighino l’Europa a rimanere in armi per un anno, e forse per due o tre, facendo un tal soqquadro di tutte le cose, vanno a ritroso e fanno violenza alle necessità più vitali dei tempi.
[129]
Ho citato questi due soli esempi per non dilungarmi troppo. Ma questi due soli bastano forse ad avvalorare una conclusione. Lo spirito tedesco è stato nell’ultimo secolo molto attivo, invadente, ambizioso: è riuscito ad acquistare, con sforzi perseveranti, molta autorità in ogni parte della terra; e come è accaduto a tutti i popoli nel tempo della loro potenza maggiore, ha fatto di questa autorità un uso, parte buono e parte cattivo; ma siamo ora giunti a un punto in cui sembra essere interesse di tutti — e della stessa Germania — che quell’autorità non cresca più, almeno per qualche tempo. Importa assai a tutti i popoli dell’Europa e dell’America, che la Germania, esaltata da nuove vittorie, non rinfocoli ancora nel mondo la smania delle cose colossali, l’ammirazione della forza, la frenesia della quantità, l’orgoglio della ricchezza, la vertigine della velocità, la superstizione del nuovo. Il mondo moderno ha bisogno non soltanto di ricchezze, di godimenti, di ferro, di macchine, di potenza, di scienza; ma anche di equilibrio, di misura, di un senso più profondo, più sicuro e più lucido del bene e del male. Chè il bene e il male da un pezzo vanno stranamente confondendosi nella mente degli uomini. Noi credevamo di esser tutti cristiani e civili; e in pochi mesi di guerra abbiamo visto non soltanto orrori, che credevamo cancellati per sempre dalla storia dell’Europa, ma ne abbiamo intese tali strane giustificazioni che ci è forza chiederci spaventati se gli uomini sieno oggi più feroci o incoscienti. Come si spiegherebbe questa sorpresa se, troppo intento ad accrescere le ricchezze e ad allargare il suo dominio sulla [130] natura, l’uomo non avesse trascurato se medesimo e cessato di vigilare su quegli istinti feroci e perversi che, insiti nella natura umana, si addormentano talora, ma non si spengono mai?
Sopratutto è necessario decada e si obliteri nelle menti quel culto della forza, cui la Germania aveva data, con la guerra del 1870, tanta voga; poichè gli sfrenati armamenti dell’ultimo quarantennio e la conflagrazione europea non sono stati che due riti di questo culto sanguinario. Se dopo questa guerra i popoli d’Europa non torneranno ad innalzare di nuovo gli altari della Pace e della Giustizia, intorno ai quali si era per qualche tempo raccolta, seria e grave, condotta dai suoi poeti e dai suoi migliori statisti, la generazione del 1848; se non riconosceranno tutti — anche i più forti — che gli altri — anche i più deboli — hanno diritto di vivere e di progredire indipendenti, secondo le tradizioni e il genio della loro razza, l’Europa non potrà mai godere di una pace lunga e sicura, e quindi rimbarbarirà. Non si può assicurare la pace al mondo solamente con un equilibrio di forze avverse; perchè l’equilibrio delle forze è una ipotesi che ogni tanto occorre verificare con la guerra, come ora si sta facendo: si deve assicurarla riconoscendo lealmente, sotto certe condizioni precise, il diritto dei popoli — grandi e piccoli — alla indipendenza e alla libertà. Ma come potrebbe la religione della forza che nega questo diritto decadere in Europa, se la Germania fosse di nuovo vittoriosa — e di mezza Europa — questa volta?
Ho detto essere necessario che l’autorità della Germania [131] non cresca ancora nel mondo, anche nell’interesse della stessa Germania. L’affermazione non è paradossale e strana che in apparenza. Quale infatti è stato il difetto che negli ultimi quarant’anni ha guastato il carattere tedesco, che pure è ricco di molte virtù? Il difetto che ha spinta la Germania a scatenare sull’Europa, desiderosa di pace, questa guerra terribile; e che ancora le impedisce di capire la gravità del soqquadro, in cui ha travolto il mondo? L’orgoglio. Le vittorie del 1866 e del 1870, il rapido incremento della popolazione e della ricchezza, lo sviluppo prodigioso davvero di alcune industrie, e massime della metallurgia, l’ammirazione che tutti gli altri popoli professavano per la sua scienza, per i suoi ordini sociali, per le sue industrie, per il suo esercito e per la sua marina, hanno messa a dura prova la sua saggezza. A tante fortune non ha resistito. Ha creduto di essere il maestro di tutti i popoli d’Europa; il più colto, il più morale, il più attivo, il più valoroso, il più laborioso e il più forte; e persuasosi di essere il primo, ha veduto in ogni parte persecutori e nemici. Gli altri popoli non gli rendevano la dovuta giustizia per invidia, per ignoranza, per gelosia; doveva dunque vigilare da ogni parte, difendere il proprio primato, che popoli da meno di lui insidiavano. E un giorno ha dichiarata guerra all’Europa.
La Germania ha dunque anch’essa bisogno di raccogliersi e di convincersi che nel mondo ci sono popoli che, meno valenti di lei in certe cose, le vanno invece innanzi in altre; e popoli che, pur essendo da meno di lei in tutto o in quasi tutto, hanno anche [132] essi diritto di vivere, di lavorare, di farsi migliori. Che cosa succederebbe invece, se questo orgoglio, già troppo grande, fosse esaltato da nuove vittorie? No: i tempi e la civiltà in cui viviamo sono tali, che non potrebbero tollerare un grande Impero universale, soverchiante tutti gli altri Stati di un continente. I tempi antichi poterono obbedire, ammirare e venerare l’Impero universale di Roma, perchè l’orgoglio, l’ambizione, la cupidigia e tutte le passioni umane che più facilmente si esaltano, erano allora limitate dalle tradizioni, dalla religione, dalla cultura artistica e filosofica, dalla stessa povertà e ignoranza in cui gli uomini vivevano. Un imperatore romano era una creatura modesta, a paragone del più umile di noi, perchè da ogni parte le cose e gli uomini lo ammonivano senza tregua a non presumere troppo di sè, del proprio ingegno, della propria fortuna, della propria potenza.
Oggi non più. Oggi il mondo è ricco, sapiente e potente. Osa criticare le tradizioni, fare e disfare gli Stati, chiedere conto a Dio dei suoi comandi, alla Natura delle sue leggi. La letteratura, la filosofia e il costume, quel che si chiama lo spirito dei tempi, esaltano, invece di limitare, l’audacia, l’orgoglio, l’ambizione, la cupidigia degli uomini. Perciò è necessario che sussista nel mondo una specie di equilibrio morale; che ogni popolo senta la sua potenza limitata dalla potenza di altri popoli egualmente forti, intelligenti e sapienti. Se un popolo diventasse così potente da soverchiare tutti gli altri, l’equilibrio morale del mondo sarebbe rotto per sempre; e quel popolo, in tempi già così proclivi in ogni cosa [133] all’eccesso, diventerebbe il Nabuccodonosor delle nazioni.
La nostra generazione, pur non essendoci ancora tra noi il Nabuccodonosor dei popoli, ha già fatta la guerra universale. Parrebbe che basti.
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Disparatissime voci corrono intorno alla pace che l’Inghilterra, la Francia e la Russia, vincendo, imporrebbero alla Germania. Che la Francia reclamerà la Alsazia e la Lorena, è sicuro; poichè il Governo francese l’ha già dichiarato ripetute volte. Molti dubitano invece che la Russia manterrà la promessa di scoperchiare il sepolcro, in cui la Polonia giace sepolta e viva da più di un secolo. Ma dell’Inghilterra non si sa nulla di preciso; e perciò più si discorre, si discute, si farnetica. Chi dice che intenda costituire un regno di Ungheria e un regno di Boemia indipendenti; chi pretende che voglia unire in un solo Stato, separandole dall’Impero, le provincie tedesche dell’Austria e gli Stati meridionali della Confederazione germanica; chi afferma che non toccherà l’Impero tedesco, ma imporrà invece una specie di disarmo e certi patti — trattati di commercio e di navigazione, convenzioni sui brevetti e via dicendo — che impedirebbero alla Germania di produrre e vendere troppo, come fa da trent’anni, esagerando [135] a quel modo il principio moderno di accrescere la quantità a scapito della qualità.
Che vale discutere queste dicerie, che non hanno alcun solido fondamento? La pace è purtroppo ancora molto lontana; e non fu mai cosa savia vendere la pelle prima di aver ammazzato l’orso. D’altra parte ci sono più qualità di vittorie; poichè si può vincere in molti modi: pienamente, a mezzo, appena appena. Io penso che la Francia, la Russia e l’Inghilterra saranno alla fine vittoriose; ma nessuno, credo, potrebbe predire con sicurezza in quale misura saranno vittoriose e perciò quali condizioni saranno in grado di imporre. Sarebbe quindi proprio un vanissimo perditempo ragionare intorno alla pace futura e ai suoi effetti. Meglio sarà cercar di argomentare, in modo più generale, quali effetti seguiranno una vittoria della coalizione, astrazione fatta dalla sua grandezza e importanza: gli effetti che si può presumere debbano in ogni caso seguire la vittoria, sia questa grandissima o grande o modesta....
Il primo effetto e il più sicuro sarà un profondo rivolgimento psicologico, politico e morale della Germania. Soltanto una sconfitta potrà persuadere il popolo tedesco che neppure la sua spada è incantata, invulnerabile e invincibile. Non ci fu mai — tutti lo sanno — e non ci sarà mai, un popolo invincibile; la guerra fu e sarà sempre un’alterna e misteriosa vicenda di sorti. Ma dopo le guerre del 1866 e del 1870 i tedeschi erano invece venuti nell’opinione che la Germania fosse invincibile; e in questa opinione erano tutti d’accordo. Socialisti e conservatori, operai e generali, professori e banchieri, prussiani e bavaresi ripetevano, sicuri [136] come enunciassero una verità matematica, che non c’era esercito al mondo il quale potesse misurarsi con l’esercito tedesco. Quale argomento o ragionamento avrebbe potuto vincere questa illusione, questo orgoglio, questa beata sicurezza di sè, in milioni e milioni di menti, rozze e istruite, ma tutte egualmente accese ed illuse? Una guerra ci voleva, che argomentasse, non con i sillogismi, ma con i disastri e le sciagure: sola logica che la moltitudine intende.
Ma il giorno in cui il popolo tedesco si ricrederà sulla virtù della sua spada, una immensa rivoluzione avverrà in Germania; perchè l’opinione che l’esercito tedesco fosse invincibile era una delle colonne su cui posava tutta la macchinosa struttura del nuovo Impero germanico. Intanto il prestigio di cui godono la dinastia degli Hohenzollern, le minori dinastie tedesche e l’aristocrazia prussiana declinerà rapidamente. Si suole ripetere spesso che in Germania vige un governo feudale, adoperando una parola che ha un senso troppo limitato e preciso, perchè non generi confusione. Meglio sarebbe dire che in Germania l’ancien régime — l’ordine di cose anteriore alla Rivoluzione francese — è stato meno alterato dagli eventi del XIX secolo, che in Inghilterra e che in Francia. L’Impero tedesco è posto sotto l’egemonia della Prussia, la quale a sua volta è governata da una aristocrazia che, per forza di tradizioni e di privilegi riconosciuti dalla legge, prevale ancora ed ha il passo su tutti gli altri ordini sociali nel Parlamento, nell’amministrazione civile, nell’esercito, alla Corte, vantandosi di essere in ogni parte della società il sostegno del trono. La borghesia [137] colta che in Francia e in Inghilterra si è fatta largo nello Stato e predomina — gli avvocati, i banchieri, i professori, i medici, i giornalisti, i commercianti, gli industriali — è in Germania molto meno influente e molto più umile. Ma il prestigio di questa nobiltà di funzionari e di guerrieri resisterebbe ad una sciagura, di cui essa fosse responsabile assai più che gli altri ordini sociali?
È lecito dubitarne. Si ripete spesso e volentieri che i tedeschi sono un popolo sottomesso, obbediente, docile all’autorità per natura. Sarà: ma non al punto da dover essere, per forza innata e sempre, i devotissimi e fedelissimi servitori di una aristocrazia semidivina. Anche in Germania le idee e le ambizioni democratiche fermentano; anche in Germania piacerebbe alle classi medie e alle classi colte di potere aspirare alle grandi cariche dello Stato e comandare, come in Francia. Tanto è vero che da un pezzo la Prussia vuole che sia riformato il sistema elettorale, il quale è ordinato in modo da fare della maggioranza un privilegio eterno e intangibile della nobiltà. Ma sinora domandò invano la riforma; perchè l’aristocrazia prussiana, appoggiata dalla monarchia, è riuscita a frustrare tutti i conati e le agitazioni del partito socialista e dei partiti borghesi. Ma se la Germania sarà vinta, la monarchia si affretterà a concedere al popolo, a compenso della sconfitta, la tanto contrastata riforma; e una parte almeno della nobiltà, sentendosi meno appoggiata dalla monarchia e indebolita dalla guerra, si rassegnerà al destino. Come l’Austria, vinta nel 1866, abolì l’assolutismo e introdusse le istituzioni parlamentari; [138] come la Francia, vinta nel 1870, fondò la repubblica e concesse il suffragio universale; come la Russia, vinta dal Giappone nel 1905, convocò la Duma, così la Prussia, se la Germania sarà vinta nella grande guerra europea, sarà forzata a riformare la costituzione prussiana. E allora che rivolgimento, nella Prussia prima e nella Germania poi! Nel Parlamento prussiano compariranno socialisti e partiti di sinistra, tutti animosi, pugnaci, risoluti — perchè sentiranno di aver a fronte un Governo e un regime indeboliti dalla sconfitta, esitanti e discordi. Anche in Prussia il regime parlamentare prenderà il posto del regime costituzionale; sull’albero del diritto divino molti poteri della Corona seccheranno, come rami morti; le Camere impareranno a fare e a rovesciare i Ministeri; liberali e socialisti diventeranno ministri. E dalla Prussia il movimento dilagherà nell’Impero e nel Governo imperiale; nel quale i poteri del Reichstag cresceranno a scapito dei poteri imperiali.
Una sconfitta infine offuscherà il prestigio degli Hohenzollern. Molti chiedono oggi se la Germania, sconfitta, non farà una rivoluzione, rovesciando la dinastia prussiana, come la Francia rovesciò dopo Sédan i Napoleonidi. Di questa paura non sono esenti neppure alti funzionari tedeschi. So di un gran personaggio tedesco che, quando seppe che l’Inghilterra aveva dichiarata la guerra alla Germania, esclamò ad uno straniero con cui parlava in francese: «Les Hohenzollern sont par terre!». Ma può anche argomentarsi che i tempi non siano maturi per tanta rovina. Gli Hohenzollern sono oggi [139] molto più tenacemente radicati in Prussia, che i Napoleonidi non fossero radicati nel 1870 in Francia. Nè la Germania è terra così vulcanica come la Francia. Tuttavia, se pare prematuro predire, tra gli effetti della sconfitta, la caduta degli Hohenzollern, sarebbe errore il pensare che la sconfitta non li toccherà. La guerra europea potrebbe essere per la Casa degli Hohenzollern quel che per la monarchia francese fu la guerra dei sette anni: il principio della irrevocabile decadenza. Guglielmo II potrà ancora regnare dopo una sconfitta, e trasmettere al figlio la corona: ma la sua corona non sarà più venerata dopo, come prima della guerra; non rifulgerà più agli occhi del popolo per il sacro prestigio delle grandi vittorie e dell’Impero ricostituito. Crescerà invece il numero dei tedeschi, i quali chiederanno per qual ragione una famiglia debba possedere per diritto ereditario il potere supremo; e se non sarebbe meglio affidar questo potere ad una persona liberamente scelta, che sembri possedere le qualità necessarie, come si fa nelle Repubbliche.
Tale è il rivolgimento di idee e di sentimenti, che par si possa aspettare in Germania da una sconfitta. Ma avrebbe questo mutamento della Germania a sua volta effetto sull’Europa e sul mondo? Immenso effetto — si può presumere. Solo se la Germania muterà a questo modo, la coalizione vittoriosa potrà assicurare all’Europa quel gran bene da tutti sospirato: la pace lunga, sicura, definitiva.
Molti credono — massime in America — che l’Europa non possa vivere in pace, perchè non ha ancora sradicato dal suo suolo un certo numero di [140] vecchie idee e di vecchi pregiudizi. Ma anche gli Europei, i più istruiti come i più ignoranti, si sono da un pezzo convinti che le dolcezze della pace valgono meglio che gli orrori della guerra: tanto è vero che la Francia e l’Inghilterra avevano mostrato dal 1900 in poi un così vivo desiderio di pace, da indurre molti ad accusarle un po’ alla leggera di ignavia. La Francia aveva tacitamente rinunciato all’Alsazia e alla Lorena, chiedendo solo che la Germania non le maltrattasse come ostaggi nemici. La Francia e l’Inghilterra avevano acconsentito a far largo alla Germania e alle sue ambizioni coloniali in Africa; e la Francia aveva persino ceduto un pezzo del Congo, che era terra sua, in cambio della rinuncia della Germania a diritti, molto vaghi e ipotetici, sopra un impero quale il Marocco, che non apparteneva a nessuno, e al quale — come i fatti hanno provato — non era facile imporre la propria protezione. La Francia aveva nel decennio dal 1900 al 1910 a più riprese lasciata la Germania sorpassarla negli armamenti, mentre fino al 1900 aveva voluto che la rivale non la precedesse neppur di un passo; e aveva favorito tutti i tentativi fatti dal pacifismo per limitare gli armamenti e impedire le guerre. E l’Inghilterra aveva più volte cercato di intendersi con la Germania, per porre un freno alla reciproca gara degli armamenti.
Ora la Francia e l’Inghilterra sono, con la Germania, le due Potenze maggiori dell’Europa. È manifesto che il giorno in cui Francia, Inghilterra e Germania fossero veramente d’accordo, potrebbe regnare in Europa una pace se non inerme, neppur [141] sovracarica d’armi, armata secondo ragione e con misura. Anche la Russia sarebbe impotente contro la concorde volontà di questi tre Stati. Ma per qual ragione l’Inghilterra e la Francia hanno potuto così facilmente intendersi fra di loro, e invece non son riuscite mai a mettersi d’accordo con la Germania? Non perchè la Francia volesse riconquistare l’Alsazia e la Lorena; non perchè l’Inghilterra fosse invidiosa della Germania; non perchè i tedeschi siano una razza che ha bisogno di combattere una grande guerra ogni mezzo secolo; ma perchè tra la Francia e l’Inghilterra da una parte, e la Germania dall’altra, c’era, per dir così, uno squilibrio politico. Le forze e lo spirito che governano l’Inghilterra e la Francia sono diversi dalle forze e dallo spirito che governano la Germania. Mentre la Francia e l’Inghilterra sono governate da borghesie pacifiche per lunga esperienza, per inclinazione professionale, per interesse, in Germania un popolo che si credeva invincibile era fino a pochi mesi fa retto da una aristocrazia di guerrieri, nemica della pace per dovere di casta.
Molti si meravigliano che lo spirito di pace non sia mai entrato in Germania, nemmeno tra i socialisti, i quali sono pacifisti dappertutto; cosicchè nemmeno i socialisti si sono sentiti commuovere dallo strazio fatto del Belgio. Ma potrà un popolo che si crede invincibile essere mai pacifista; prendere sul serio i principî del diritto internazionale, la Corte dell’Aja, le generose fondazioni del Carnegie, i Congressi della pace? Nè è umano aspettare che una aristocrazia e parecchie dinastie investite di preziosi [142] privilegi perchè vittoriose, vorranno adoperarsi per dare al mondo quella sicurezza della pace che renderebbe inutili quelle loro virtù — vere o supposte — per le quali il popolo le venera ed obbedisce ai loro comandi.
La guerra europea è quindi, almeno in parte, nata da un disquilibrio politico. La Francia e l’Inghilterra non potevano nè persuadere con le ragioni, nè costringere con la forza la Germania a disarmare; onde un giorno alla fine la Germania ha adoperate le armi che non voleva deporre, contro i vicini che reputava più deboli perchè più pacifici. Se la guerra europea spianerà queste differenze, se rallenterà il moto democratico in Francia ed in Inghilterra e lo inciterà in Germania, sarà più facile ai tre maggiori Stati europei di intendersi. E allora l’Europa potrà sperare di aver pace.
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Ma un dubbio potrebbe nascere a questo punto: se non sia piuttosto da temere che la sconfitta esasperi la Germania e quindi lasci infiniti semi di nuove guerre; o che la vittoria rinfocoli in Francia, in Inghilterra, in Russia lo spirito bellicoso e le ambizioni d’impero, cosicchè l’Europa guadagnerebbe per un verso quel che perderebbe per un altro. Molti temono che, per schivare il pericolo tedesco, l’Europa non incorra nel pericolo russo.
Una guerra disgraziata lascerà certamente un lungo strascico di rancori e di rammarici in Germania. Un popolo che per mezzo secolo si è illuso di essere invincibile, non apre volentieri gli occhi alla verità; non si rassegna allegramente a riconoscere di essere soggetto in guerra alla legge comune, che Napoleone enunciò così bene sul campo di battaglia di Marengo: battu battant, c’est le sort des batailles. Tuttavia, almeno se la pace toglierà alla Germania soltanto quel che essa tolse agli altri con la forza e [144] tenne con ingiustizia, lasciandole quel che è suo per diritto storico e nazionale, queste collere dovrebbero placarsi a poco a poco. Intanto per molti anni la Germania, come le altre nazioni, dovrà attendere a curare le sue ferite. Chi potrebbe pensare che una tal guerra possa essere ricominciata di qui a qualche anno? E col tempo il naturale risentimento della delusione dovrebbe cedere, nei vecchi e nei giovani, se non alla ragione almeno alla necessità, che nella vita è poi sempre il supremo argomento. La pace non è una aspirazione di filantropi e di idealisti, ma un bisogno vitale dei nostri tempi: anche i tedeschi dovranno pure accorgersene un giorno, come se ne sono accorti a un certo punto della loro storia i francesi. Quale popolo ha combattuto negli ultimi due secoli tante e così grandi guerre quante i francesi? Non sono essi stati maestri dell’arte della guerra a tutta Europa ed anche ai tedeschi, i quali in fatto d’armi hanno imparato dai loro odierni nemici molto più di quanto non sembrano aver loro insegnato? Anche dei francesi l’Europa non aveva per lungo tempo temuto che quel demonio della guerra da cui parevano invasi, non potesse calmarsi; che la Francia e il suo spirito guerresco non avrebbero lasciato mai riposare l’Europa? Invece anche la Francia, dopo aver tanto combattuto, aveva ringuainato la spada; e non l’ha tratta nell’agosto del 1914, se non perchè fu costretta dall’altrui aggressione.
Perchè lo stesso mutamento non dovrebbe avvenir nei tedeschi, in condizioni e sotto l’azione di circostanze analoghe? La guerra e la pace non dipendono [145] oggi in Europa dal temperamento dei popoli, ma dalle situazioni storiche e politiche. La Francia fu, dopo la Rivoluzione, bellicosa, finchè i Governi per reggersi furono costretti a esaltare e perciò ogni tanto a soddisfare la passione popolare della gloria militare, generata dalle grandi guerre del secolo XVII, del secolo XVIII, della Rivoluzione e dell’Impero. La Germania ha minacciata per tanti anni e infine ha intimata la guerra a mezza l’Europa, perchè l’aristocrazia e le dinastie non potevano governarla a loro modo, se non inebriandola con i ricordi delle vittorie passate e con le promesse di una straordinaria grandezza futura. La Francia ha imparato ad amare la pace, quando fu retta da un Governo — la Repubblica — cui non fu più necessario minacciare i vicini e inquietare l’Europa, per durare. È legittimo dunque supporre che anche la Germania perturberà meno facilmente la pace del mondo, quando sarà governata da classi e partiti, che non avendo più tanti privilegi da difendere, avranno minor bisogno di prestigio militare.
E con ragioni di questo stesso ordine noi possiamo rispondere alla seconda questione e rassicurarci che la Francia e l’Inghilterra non muteranno con la vittoria l’umore pacifico in aggressivo. Queste due nazioni volevano pace: non pensavano di aggredire nessuno Stato nè di far conquiste in Europa, già prima di questa guerra, perchè i loro Governi non avevano bisogno, per reggersi, di fare sfoggio ad ogni momento della propria forza. Si rafforzerebbero, dopo una vittoria, come sempre avviene, di nuovo prestigio dentro e fuori dei confini; e se già prima della [146] guerra non avevano bisogno per reggersi di inquietare e molestare il mondo, lo lasceranno più sicuramente tranquillo, quando la vittoria li avrà fatti anche più autorevoli. Le popolazioni, se amavano la pace prima, più l’ameranno dopo, quando potranno godere più sicuramente, senza le ansietà che la hanno avvelenata negli ultimi anni.
Non bisogna inoltre dimenticare che la Francia e l’Inghilterra sono nazioni di spirito più misurato che la Germania; ambedue esenti da quella esagerazione tumultuosa e da quell’orgoglio, che così spesso trascina i tedeschi, per la smania di far sempre cose più grandi, a tentar l’impossibile. Vogliono rafforzarsi e durare nell’alta situazione storica, a cui sono giunte con secoli di lavoro e di lotta, e che è tale da accontentarsene, almeno per due popoli saggi. Perciò non vinceranno solo per sè, ma anche per gli altri e per tutti i popoli.
Non ripeteremo insomma mai quanto basti — perchè è punto di sommo rilievo — che la pace e la guerra dipendono oggi in Europa dalle istituzioni politiche. La Germania ha dichiarata la guerra all’Europa, perchè è governata da una aristocrazia e da una monarchia militare. La Francia invece, governata dalle classi a cui la guerra è più funesta, sarebbe contenta della sua condizione presente, il giorno in cui avesse recuperata l’Alsazia e la Lorena; e perciò il giorno dopo la vittoria non desidererà che di dichiarare la pace all’Europa, come aveva previsto Michelet. Chi suppone che essa ricomincerà ad ambire conquiste in Europa, si inganna come si ingannavano quanti pensavano che avrebbe buttate [147] le armi, all’avvicinarsi dei tedeschi. In Inghilterra l’aristocrazia e l’alta borghesia possono assai più nello Stato che in Francia, e il popolo invece può meno: ma in compenso il popolo è più pacifico che in Francia. Da secoli il popolo inglese, si può dire, non combatte, poichè adopera per le sue guerre eserciti di mercenari: non può quindi avere la tradizione, l’esperienza e neppure la passione della guerra, come il popolo francese che ha versato il suo sangue, in cento guerre.
Senonchè proprio per questa ragione, perchè la guerra e la pace dipendono dalla natura e dallo spirito dei regimi politici, molti sono inquieti per la Russia. E dicono: sta bene, la Francia è, e l’Inghilterra è quasi, una democrazia; perciò si può confidare che, anche fatte più grandi e potenti, non molesteranno l’Europa; ma e la Russia? Non è la Russia un impero militare, come la Germania, e per giunta poco meno che autocratico ed assoluto? Non è da credere che in questa autocrazia guerresca, mal controllata da un Parlamento fanciullo, inesperto, timido, senza autorità, la vittoria risvegli quell’orgoglio, quell’audacia, quello spirito aggressivo che ora minaccia l’Europa dalla Germania? E se il pericolo passasse da Berlino a Pietroburgo?
I giornali austriaci e tedeschi, i partiti e i giornali fautori della causa tedesca nei paesi neutri non si stancano infatti, dal principio della guerra, di annunciare all’Europa l’imminente pericolo slavo. Sul principio anzi lo stesso Governo di Berlino aveva annunciato al popolo che la guerra sarebbe proprio una guerra nazionale di difesa contro la «barbarie [148] russa»; e i socialisti di Germania e d’Austria hanno creduto di difendere il loro atteggiamento bellicoso, protestando che non potevano aprire le porte della Germania e dell’Austria ai Cosacchi. La futura potenza e prepotenza della Russia è uno degli argomenti preferiti in Italia dai superstiti fautori della Triplice alleanza; i quali ogni mattina vedono già la Russia arbitra dell’Europa continentale, Santa Sofia riconsacrata dallo Czar al culto cristiano, le navi da guerra russe scorrazzanti per il Mediterraneo e i Cosacchi in via per l’Adriatico....
L’avvenire siede sulle ginocchia di Giove, dicevano gli antichi. Sta nelle mani di Dio, dicono ora i Cristiani. Io non mi sento il coraggio di profetare l’avvenire dell’Impero moscovita. Ma se ci contentiamo di argomentare quel che può accadere di qui a poco da quel che ora succede, sembra lecito affermare che la egemonia russa in Europa è un vano fantasma, e per parecchie ragioni. Prima, una ragione di ordine geografico. A dominare con le armi e il prestigio un vasto continente, è necessario che un popolo tenga una posizione centrale, così da poter minacciare e al caso colpire su punti diversi, a nord, a sud, ad est, ad ovest. Per questa ragione l’Italia antica potè, per secoli, dominare in tutto il bacino mediterraneo dalla Gallia e dalla Spagna all’Egitto e alla Siria, dall’Africa del Nord alla Penisola balcanica. Per questa ragione la Francia e la Germania hanno potuto ambire, a più riprese, l’egemonia dell’Europa; ma non hanno potuto mai ambirla nè l’Inghilterra nè l’Italia, collocate sul fianco o all’estremità del continente. [149] E per questa stessa ragione non potrà neppure ambirla la Russia.
La stessa presente guerra, del resto, lo prova. La Russia è un colosso. Ha il più numeroso esercito del mondo; e soldati che non la cedono ai soldati di nessun altro paese di Europa per valore. Eppure chi non vede che, sola, non potrebbe vincere l’Austria e la Germania, le quali pure anche unite hanno popolazione ed eserciti minori? E per quale ragione? Perchè essa deve oggi combattere ad un capo del suo vastissimo Impero, verso l’Europa, come dieci anni fa dovè combattere all’altro capo, contro il Giappone. La grandezza sua le è d’impaccio a guerreggiare. Potenze più piccole ma più agili; e perciò dovrebbe essere ragione non di inquietudine ma di tranquillità a quanti temono l’egemonia della Russia vittoriosa. L’autorità di una Potenza in pace si misura all’ingrosso dalla forza che essa eserciterebbe — o si presume potrebbe esercitare — in tempo di guerra.
Nè basta. La Russia è un immenso impero, metà europeo, metà asiatico; che confina con la Svezia, con la Germania, con l’Austria, con la Rumenia, con la Turchia, con la Persia, con la China, con il Giappone. Ciascuna di queste frontiere l’impegna in una politica particolare, che deve curare certi interessi, proporsi certi fini e adoperare certi mezzi. Il Governo russo, se deve tener d’occhio le faccende europee, non può trascurare le cose balcaniche, le cose turche, gli affari dell’Estremo Oriente. Ma appunto perchè ha tante frontiere, tanti interessi e tanti impegni diversi a cui badare, la Russia non potrà [150] mai puntare con tutte le forze nella sola politica europea. Gli altri interessi suoi la distrarranno ogni tanto dalle faccende europee, come è successo tante volte in passato.
Non aveva la Russia, dopo il 1895, trascurati gli affari balcanici, che sono uno dei suoi maggiori impegni ed interessi in Europa, perchè era stata troppo attirata dall’Estremo Oriente? I Serbi, i Montenegrini, i Bulgari se ne lagnavano assai vivamente; e non a torto, perchè mentre la Russia, già così vasta, si allargava anche di più in Asia, gli Slavi dei Balcani restavano in balìa dell’Austria e quindi della Germania, alleata dell’Austria. A sua volta la Germania ha cercato sempre di spingere la Russia verso l’Estremo Oriente, per allontanarla dall’Europa, adoperando a questo scopo perfino l’amicizia intima che fino allo scoppio della guerra intercedeva tra l’imperatore di Germania e l’imperatore di Russia, e l’ascendente che Guglielmo II, uomo ardito, invadente, un po’ fantastico, aveva acquistato sullo spirito più timido e chiuso di Nicola II. Io so, perchè me l’ha detto uno dei funzionari della Corte di Pietroburgo che stanno più vicino allo Czar, che l’imperatore di Germania non tralasciava mai, quando si trovava con l’imperatore di Russia, di incoraggiarlo ad ampliare il suo Impero asiatico. L’imperatore di Germania spronava Nicola II ad impegnarsi in vaste conquiste in Cina e contro il Giappone, sapendo che non c’era per la Germania mezzo più efficace e sicuro di indebolire l’alleanza della Francia e della Russia in Europa.
Si potrebbe, anzi, dire addirittura che la politica [151] russa sia una specie di pendolo, oscillante tra l’Asia e l’Europa. Tra il 1895 e il 1905 la Russia fu, per dir così, presente in Asia e assente dall’Europa. Disinteressandosi quanto poteva dagli affari d’Europa, si tenne facilmente in buoni rapporti con l’Austria e con la Germania. Ma la guerra contro il Giappone risospinge di nuovo la Russia verso l’Europa. Dopo il 1905 la Russia ripiglia in mano, amplia, rinforza l’alleanza con la Francia; conchiude l’entente con l’Inghilterra; riprende a vigilare le faccende balcaniche e i piccoli popoli slavi, tanto trascurati nel decennio precedente; conchiude una intesa anche con il Giappone, acconsentendo a mantenere in Estremo Oriente le cose nel loro stato presente. Ma ben presto si guasta con l’Austria e con la Germania, dopochè i Giovani Turchi fanno la rivoluzione in Turchia. L’Austria annette la Bosnia-Erzegovina; la Russia è obbligata a cedere alla minaccia tedesca; si inasprisce tra Russia e Germania la discussione intorno al trattato di commercio, che la Germania vuol rinnovato tale quale e la Russia invece vuol ritoccare in ogni parte; si esaspera a Costantinopoli la rivalità tra la Russia e la Germania; scoppia la guerra Balcanica, e infine la guerra tra l’Austria e la Serbia, principio della guerra europea.
La guerra europea è la crisi decisiva della nuova politica europea, incominciata dalla Russia dopo il 1905. Terminata la guerra europea il pendolo dovrebbe dunque discendere di nuovo verso l’opposta parte; e la Russia per un certo tempo dileguare di nuovo dall’Europa, sprofondandosi nella sacra immensità dell’Asia. Appunto perchè la Russia non è nè [152] Potenza tutta europea nè Potenza tutta asiatica, non potrà mai dominare nè l’Europa nè l’Asia; ma incomberà invece sui due continenti, come una forza immane e lenta, più regolatrice che egemone.
C’è infine un’ultima ragione per la quale non si deve temere che una vittoria della coalizione anglo-franco-russa alteri l’equilibrio politico dell’Europa, come l’altererebbe certamente la vittoria dell’alleanza austro-germanica. Abbiamo già veduto che questa alleanza è così possente, perchè l’Impero tedesco e l’Impero austriaco sono contigui. Si aggiunga che hanno la medesima lingua ufficiale e istituzioni politiche affini. Nella coalizione franco-anglo-russa invece, se la Francia e l’Inghilterra si possono considerare contigue, non ostante gli impedimenti non piccoli, che un braccio di mare, anche corto, interpone, tra la Russia, invece e i suoi alleati di Occidente sta la mole dei due Imperi nemici. Inoltre la lingua e le istituzioni politiche di queste tre Potenze sono molto diverse. Ne segue che la vittoria potrebbe fare dell’alleanza austro-germanica, ma non della coalizione anglo-franco-russa, un tutto unico. La posizione geografica, la diversità delle lingue delle istituzioni e degli ordini sociali, la molteplicità degli interessi, terranno sempre tutte e tre le Potenze alleate ad una certa distanza e come in un certo isolamento. Lo dimostra la debolezza di cui per molti anni la Triplice Intesa ha fatto prova; e la parziale impreparazione in cui fu sorpresa dall’attacco germanico.
Per tutte queste ragioni la vittoria della Triplice Intesa sembra legittimare maggiori e migliori speranze per il mondo, il quale a giusta ragione vuole [153] che a questa guerra possa tener dietro una lunga e sicura pace. La moltitudine l’ha intuito in tutti i paesi; e perciò apertamente parteggia per la Francia, per l’Inghilterra e la Russia. Nelle classi alte, nel mondo intellettuale, tra gli uomini politici ci sono dei dispareri; nelle masse no. Anzi, le masse in Europa sperano addirittura che con questa guerra, se la coalizione anglo-franco-russa trionferà, tutte le guerre finiranno, il militarismo cadrà per sempre e incomincerà la pace universale ed eterna. Gli uomini l’hanno sempre sognata, questa pace inalterabile del mondo e dei secoli; tutti gli imperi e tutte le religioni l’hanno annunciata, sfidando l’ostinata esperienza di tante generazioni: non è dunque meraviglia se tale speranza rinasce, come un conforto, in mezzo agli orrori della più terribile delle guerre. Potrebbe il mondo sostenere oggi la prova, se non sperasse che le stragi e le rovine presenti serviranno almeno a risparmiare ai nostri figli e ai nostri nipoti una simigliante sciagura?
Senonchè la speranza spiana sovente troppo facilmente le difficoltà. Che la vittoria della Francia, della Russia e dell’Inghilterra, possa assicurare all’Europa la pace per qualche tempo, sembra cosa certa. Incerto è invece che possa, non dirò toglier di mezzo il militarismo, ma moderare quel mostruoso accrescimento degli eserciti che negli ultimi trent’anni ha così profondamente perturbata l’Europa, e alla fine generato il gran soqquadro di questi tempi. La vittoria dei tre Imperi alleati potrebbe generare anche questo effetto: ma solo se fosse seguita da un profondo rivolgimento dello spirito pubblico, che [154] sarebbe poco meno che un nuovo indirizzo della civiltà.
Quale è questo rivolgimento dello spirito pubblico? Questo nuovo indirizzo della civiltà? Lo vedremo conchiudendo questi studî.
[155]
Pace vera e disarmo, sono una cosa. L’Europa è oggi in guerra, perchè ha creduto di poter mantenere la pace equilibrando gli armamenti, e cioè accrescendoli egualmente da tutte le parti. Come ogni organo vuol compiere il suo ufficio; come il polmone vuol respirare, il braccio muoversi e lo stomaco digerire, così gli eserciti vogliono combattere. La guerra europea è scoppiata, perchè i tedeschi non volevano aver speso tanto denaro per acquistare armi, senza almeno poter vantarsi che la potenza tedesca era rispettata e temuta in tutto il mondo. Ma a loro volta in Francia, in Russia, in Inghilterra i popoli che spendevano somme così ingenti per armare l’esercito e la flotta, volevano poter con quelli resistere alle esigenze eccessive della politica tedesca. E naturalmente quel che al Governo tedesco pareva richiesta giustissima sembrava sempre alla Francia, alla Russia, all’Inghilterra esigenza quanto mai indiscreta e insopportabile: perciò quelle Potenze hanno per anni ed anni litigato, finchè alla [156] fine, ogni popolo volendo che le armi acquistate a così caro prezzo non fossero acquistate invano, i Governi si sono tutti impuntati in una questione; e la guerra dei popoli è incominciata.
E così avverrà sinchè ogni popolo di Europa ambisca di avere il più forte esercito e la più forte armata che può. Ma potrà l’Europa disarmare dopo la guerra? Non è dubbio che nei primi anni della pace gli Stati non potranno accrescere e forse dovranno tutti diminuire gli armamenti. La guerra distrugge ricchezze e impedisce di produrne: anche se cessasse domani — e potrebbe invece durare ancora mesi, forse anni — già tutti gli Stati belligeranti si troverebbero nell’alternativa o di fallire o di ridurre le spese militari a proporzioni più ragionevoli. Ma il fallire aggraverebbe il male, perchè fatta la pace gli Stati saranno in grandissimo bisogno di denaro; e nessuno vorrà prestarne loro, se mancheranno agli impegni più antichi. Non resterà dunque che l’altro scampo.
Ma questo disarmo, imposto dalla necessità, quanto tempo durerà? Ecco il gran punto. La presente guerra, certo, distrugge infinite ricchezze; ma dieci anni d’intenso lavoro possono riparare molte rovine. E l’uomo dimentica così presto! Se dopo un decennio o due di raccoglimento o di saggezza, le idee e i sentimenti che hanno dominate le menti negli ultimi anni ripigliassero voga nelle generazioni di coloro che non furono nè testimoni nè parte della guerra europea, l’Europa ricomincerà ad armare; e dopo aver fucinate le armi, vorrà di nuovo un giorno o l’altro provarle. Cosicchè noi dobbiamo chiederci che cosa occorra, affinchè il disarmo parziale a cui [157] possibilmente le Potenze ricorreranno dopo la fine della guerra, non sia uno spediente transitorio, ma il primo passo risoluto sulla via della pace definitiva.
Occorre che il frenetico orgoglio dei popoli moderni si umilii un poco. Questa guerra è una delle tante tragedie dell’orgoglio umano. Le rivalità politiche ed economiche non avrebbero, sole, avuta la forza di generare un tal soqquadro, perchè le rivalità politiche toccano soltanto piccoli gruppi, e gli interessi economici sono troppo numerosi e diversi. Sono i popoli interi, che oggi combattono sui campi di battaglia e si affrontano con le armi alla mano; nè le plebi non si sarebbero lasciate così facilmente condurre a versare il loro sangue per l’onore di una corona, per i programmi politici di un partito o per gli interessi di qualche industria o di qualche commercio. Ma le rivalità politiche e gli interessi economici hanno invece potuto trascinare i popoli a questo cimento, eccitandone l’orgoglio. Ogni popolo d’Europa vuole essere primo o almeno pari agli altri in ogni cosa; vuole possedere un esercito, un’armata, delle navi mercantili, delle industrie, dei commerci, una letteratura, un’arte, una scienza, una finanza, una politica coloniale che non sfigurino a petto delle altrui. Nazioni che si sono appena dirozzate da una barbarie secolare vogliono essere stimate colte come popoli che scrivono, scolpiscono, dipingono, indagano il vero e filosofeggiano da secoli; e perciò inventano ogni giorno dei genii, se non riescono a generarli. Popoli che cercano a prestito capitali, ne prestano a lor volta ad altri popoli per credersi anch’essi una potenza finanziaria [158] del mondo. Nazioni che non hanno carbone o che non hanno ferro, vogliono a tutti i costi fondere il ferro e l’acciaio. Popoli scarsi di capitali o ancora poco numerosi conquistano immense colonie. Di qui una lotta incessante, accanita, talora puerile, che a poco a poco ha inferociti gli animi da frontiera a frontiera. Per somma sventura, viveva nel cuore dell’Europa un popolo che, a torto o a ragione, si era persuaso di esser più grande, più sapiente, più virtuoso, più coraggioso, più forte dei suoi vicini; che voleva perciò esser considerato e trattato come un popolo eletto. Ma i suoi vicini, pur riconoscendogli molte qualità, non volevano considerarsi da meno di lui e umiliarsi in sua presenza. Da dieci anni tutti questi popoli lottavano tra di loro con la penna, con la parola, con il denaro, con il commercio, con gli intrighi diplomatici, ciascuno cercando di dimostrare la sua eccellenza in confronto degli altri. E alla fine, siccome le discussioni non giungevano ad alcuna conclusione, si è venuto al giudizio di Dio!
Guardiamo nella nostra coscienza e siamo una volta almeno sinceri con noi medesimi.... Quell’ardente patriottismo che sostiene oggi i popoli d’Europa nell’immane contesa, che fa loro sopportare stoicamente tanti lutti, tante rovine e tante privazioni, è un tragico puntiglio di amor proprio. I tedeschi vogliono mostrare all’Europa di che cosa sono capaci, anche contro tanti nemici; e si ostinano, e muoiono, e impegnano le loro sostanze, e si rassegnano alla carestia, e si stanno rovinando, dopo aver raggiunta, lavorando trent’anni senza riposo, una bella [159] agiatezza. Gli altri popoli d’Europa vogliono mostrare ai tedeschi che nè il loro numero nè la loro audacia, nè la loro preparazione, nè la loro ostinazione non li spaventano; e a loro volta sacrificano senza risparmio vite e tesori. L’orgoglio e la ostinazione delle due parti si esasperano a vicenda; e la lotta si inferocisce. Cosicchè terribili guerre devasteranno l’Europa sinchè i popoli saranno ebbri di tanto orgoglio; sinchè vorranno tutti primeggiare in tutte le cose; sinchè ognuno facilmente verrà nella persuasione di essere da più degli altri e di aver diritto ad esser trattato come un popolo eletto: sinchè l’Ungherese e il Serbo, il Francese e il Tedesco, l’Inglese e l’Irlandese, il Russo e il Polacco non saranno capaci di sedere alla stessa mensa, sia pur senza amore, ma senza odio e dispetto, sentendo di essere tutti eguali, riconoscendo che le opere civili sono numerosissime e diverse, onde ogni popolo può compierne con onore alcune, lasciando senza vergogna altri eccellere in altre.
Ardua impresa, dunque, pacificare la vecchia Europa; perchè l’orgoglio è da un secolo lo stimolo più forte dell’attività di tutti i popoli. La civiltà moderna ha procurati all’uomo molti vantaggi: infinita comodità di rapide comunicazioni; una abbondanza di tutte le cose necessarie e superflue, quale il mondo non aveva mai neppure sognata; valida difesa contro molti flagelli che avevano tormentate tante generazioni, come le malattie, la pestilenza, le carestie; una libertà di pensare, di dire e di fare, di cui i secoli passati avrebbero avuto sgomento. Ma in compenso i tempi moderni impongono agli uomini parecchi obblighi che i tempi antichi non conobbero: [160] il servizio militare, balzelli da pagare in quantità e tutti gravissimi, una attività incessante, assidua, mai libera, sempre preoccupata della propria responsabilità, e perciò sempre grave e accigliata. Gli uomini vivevano più semplicemente due secoli fa; ma lavoravano anche meno, più pacatamente e più allegri. Cosicchè tutti i vantaggi che questa civiltà offre a compenso di tanti obblighi e del più grave e più serio lavoro, non basterebbero a vincere in molti l’innata pigrizia e a scuotere quell’egoismo del maggior numero, che vuol piuttosto il poco tranquillo che il molto agitato, se non si aggiungesse quest’altro stimolo dell’orgoglio. Tutti i popoli lavorano più di quanto sarebbe necessario a soddisfare i loro bisogni, perchè sono animati dalla emulazione di far più e di far meglio che gli altri popoli.
Perciò l’orgoglio è oggi, per tutti gli Stati dell’Europa, uno strumento necessario di governo. Sferzando l’orgoglio nazionale e lo spirito di emulazione dei popoli, che non vogliono esser da meno gli uni degli altri, i Governi ottengono che i Parlamenti accrescano le pubbliche spese per costruire nuove scuole e nuove caserme, nuove strade e nuove ferrovie; che i popoli ansanti si curvino volentieri a ricevere sulle spalle i crescenti carichi militari e i gravami del protezionismo; che tollerino rassegnati gli sperperi delle pubbliche amministrazioni, dappertutto ormai incurabili; che resistano al turbamento di cui è dappertutto cagione, sul principio, la grande industria; che facciano volentieri le spese e gli sforzi di quella politica coloniale, che nell’ultimo mezzo secolo ha aperta l’Africa all’Europa.
[161]
Nè meno dei Governi si son prevalsi e si prevalgono dell’orgoglio dei popoli e del loro amor proprio gli interessi privati: le industrie, il commercio, la scienza, le arti, e persino i divertimenti e le religioni. Industrie e commerci che vogliono accreditare nuovi oggetti o nuove abitudini; scienze in cerca di protettori ed arti a caccia di clienti; patroni di nuovi sollazzi, propagatori di nuove idee politiche o di nuove sètte morali e religiose, tutti si valgono sempre di questo argomento: che un popolo deve misurarsi con tutti gli altri in tutte le cose.... Onde è facile argomentare il perturbamento che arrecherebbe nella vita dell’Europa l’umiliazione di questi orgogli frenetici; e quanto l’asse del mondo moderno sarebbe spostato, se i popoli consentissero finalmente a spartirsi il lavoro considerando che la civiltà è una officina troppo vasta, perchè anche le più grandi tra le nazioni possano presumere di riuscire le prime in tutto: nella guerra, nell’industria, nell’arte, nella scienza, nella finanza; se ogni popolo si sforzasse di eccellere in alcuni rami dell’umano lavoro, lasciando gli altri popoli eccellere in altri, riconoscendo senza invidia la loro superiorità senza nè minacciarla apertamente, nè insidiarla di soppiatto.
Insomma, l’orgoglio occupa una parte troppo grande tra i sentimenti che muovono così gli uomini come i popoli moderni. Questa è la debolezza dei nostri tempi; una ragione di tante catastrofi e di questa terribile guerra. E il male è compenetrato così addentro nella carne e nelle ossa del mondo moderno, che l’estirparlo è impresa ardua tra tutte.
Ma il mondo va sempre cercando, da un eccesso [162] all’altro, un equilibrio che mai non trova. Una catastrofe tanto immane non può mancar di muovere profondamente le anime, in tutti gli ordini sociali, perchè tutte ci rimettono uomini e beni. Nei palazzi come nelle capanne oggi si piangono quelli che sono partiti e che non torneranno più; si pensa con ansia al futuro. Chi teme che tra poco gli manchi addirittura il pane; chi trema che precipiti quella che era per lui la ragione stessa del vivere: il potere e il prestigio della propria famiglia, della propria classe, del proprio partito, della propria patria. Perciò quanti si illudono che, conchiusa la pace, noi ripiglieremo la vita che conducemmo sino al primo giorno di agosto del 1914, si accorgeranno che la vita della nostra generazione è stata troncata da questo cataclisma; e che ormai a tutti sarà necessario rifarsi da capo. Nè il corusco orgoglio di cui oggi sfolgora la civiltà moderna è una forza necessaria della grandezza civile: poichè altre civiltà che pur fecero grandi cose, come le civiltà antiche, non lo conobbero; furono prudenti e modeste. Non c’è dunque ragione di pensare che la storia non possa muoversi più, se non per la spinta di questa forza satanica. Il mondo vive trasfigurandosi di continuo; le epoche si succedono, spesso contrapponendosi. Al secolo dell’orgoglio, della guerra e del ferro, potrebbe forse succedere un secolo di più operosa modestia, di più raccolta serietà, di pace più sicura e sincera.
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Nel primo di questi tre studi sono ristampati quattro scritti pubblicati nel Secolo, il 23 e il 26 aprile, il 1º maggio e il 17 giugno 1914, i quali trattano dei fatti e degli avvenimenti di maggior rilievo, avvenuti negli anni precedenti la guerra. Sebbene le difficoltà di cui l’autore mostrava allora inquietarsi come s’inquietava il Paese, non appariscano ormai più ai nostri occhi che come dolci collinette a pie’ dell’Imalaia che ci sta innanzi e che ci è forza varcare, quegli studi sono stati ristampati tali e quali, perchè è sembrato all’autore possano servire come documenti storici e quindi aiutare così a capire i gravi avvenimenti degli ultimi tempi come ad orientarsi in mezzo alle difficoltà presenti.
Il secondo studio, «L’Italia esitante», è uno scritto, composto nel mese di gennaio del 1915 e stampato nel fascicolo dell’Atlantic Monthly Review per il mese di aprile. L’Atlantic è la più autorevole delle riviste non illustrate d’America; e si pubblica a Boston. Queste pagine furono scritte per spiegare le perplessità dell’Italia agli Americani — e non erano pochi — che un po’ per affetto all’Italia, un po’ per avversione agli Imperi germanici, si meravigliavano che essa tardasse tanto a prendere le armi. Espongono lo stato delle cose quale era al principio del 1915.
Il terzo studio, «La crisi di Maggio e la guerra», è inedito. Il titolo ne dichiara l’argomento e lo scopo, senza che occorrano dilucidazioni.
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L’erario, le industrie, i commerci in tormentose strettezze; disorientate le menti e inaspriti gli animi in ogni parte; i socialisti di nuovo in armi come nel 1900; mal sicure e piene di sospetti le relazioni coi vicini, in Europa ed in Africa; debole e incerto il Governo; la moltitudine un mare che si arriccia minacciando tempesta.... Lunga è la lista dei mali presenti. Quel certo assestamento a cui il Paese era giunto faticosamente nel primo decennio del secolo, è sconvolto di nuovo; ma nessuno potrebbe dire in quanto tempo ed a spese di chi le cose torneranno a bilanciarsi.
Ci rifaremo, per capire come venimmo a questi guai, da quel giorno della primavera del 1911, in cui Leonida Bissolati arrivò a piedi, in giacchetta e cappello moscio, alle porte della reggia; e salì bel bello le scale del Quirinale per ragionare con il Sovrano [168] intorno alla situazione parlamentare. Nessuno ha dimenticato il susurro di quei giorni, e il gran malcontento che agitò il partito conservatore o costituzionale che dir si voglia, quando si ebbe notizia che il Bissolati era nelle viste del nuovo Governo come ministro. A stento e brontolando la maggioranza aveva tollerato che due ministri radicali sedessero nel Gabinetto Luzzatti; ed ora l’uomo in cui il partito o i partiti costituzionali riponevano piena fiducia, che tutti avevano evocato dal suo ritiro a Roma a impugnare con mano più ferma il timone, voleva chiamare al Governo i socialisti addirittura? Ma i malcontenti si rabbonirono, quando il Bissolati ebbe fatto il gran rifiuto; perchè a paragone del peggio che avevano temuto — dei socialisti — i ministri radicali parvero un male tollerabile. L’on. Giolitti era in quei dieci anni venuto in tanta fama di abilità, che non parve alla parte conservatrice lecito disperare egli volesse e sapesse servirla anche con quel Ministero screziato di rosso. Onde la Camera gli manifestò unanime fiducia, quando egli espose il suo programma, annunciando due grandi riforme: il monopolio delle assicurazioni sulla vita e il suffragio universale.
Fu dopo quel voto, e nei mesi di aprile e di maggio del 1911, che la fortuna dell’on. Giolitti toccò l’apogeo. «Siamo giunti al perfetto equilibrio — mi diceva verso la metà di maggio un deputato tra i più colti e intelligenti. I partiti si bilanciano ormai, egualmente contenti». E così poteva sembrare davvero, in quelle settimane. Delle tre sorelle dell’Estrema, l’Estrema radicale si godeva la luna di miele [169] del potere; l’Estrema socialista non stava in sè per la gioia di sapersi ormai ufficialmente fidanzata con il Governo, si chiedeva ogni giorno se sognava o era desta, e affrettava con il desiderio le auspicate nozze; la Estrema repubblicana non poteva esser nè maritata nè fidanzata, avendo fatto voto di castità, ma non osava turbare la gioia delle due sorelle più fortunate, che del resto nell’egoismo della loro felicità non la guardavano più neanche in faccia. L’Estrema socialista anzi non si riconosceva più; e come succede spesso alle fidanzate, si sentiva presa di subito affetto e ammirazione per tutto quello che circondava o avvicinava lo sposo; anche per il suocero, che nel caso era l’on. Giolitti.
Ma la prosperità è caduca — diceva la saggezza antica. Questa gioia e questa ammirazione di tutti i partiti durarono fino al giorno in cui fu scoperto in Roma il gran monumento di Re Vittorio. La sera prima, a tarda ora, la «Stefani» aveva divulgato il disegno di legge proposto dal Governo per monopolizzare le assicurazioni sulla vita. Caddero quella mattina le tele che avvolgevano la statua del Re; e tutto il giorno, fino a notte inoltrata, Roma tripudiò, esaltandosi nelle memorie del passato. Ma che sorpresa, i giorni seguenti, quando, quetate le fanfare e tolte vie le bandiere della festa, le gente rilesse a mente fredda e con ponderazione il testo della legge! Io non voglio qui discutere le ragioni di alto interesse pubblico, con cui si cercò giustificare una tanto grave perturbazione dell’ordine giuridico garantito dalle leggi a tutte le industrie e a tutti i commerci: se cioè fosse quello il miglior modo o almeno un modo sicuro [170] di far lo Stato meno ligio ai grandi potentati della finanza. Anche se l’avvenire dovesse comprovare definitivamente questo argomento, lo storico non può non osservare che, nel momento in cui la legge fu proposta, questo interesse di Stato appariva remoto, mentre la perturbazione era profonda e imminente. Con un tratto di penna quella legge pretendeva distruggere una industria fiorita liberamente per forza propria e all’ombra del diritto comune, rifiutando qualsiasi risarcimento a coloro che ne vivevano, per i capitali e il lavoro spesi a farla prosperare; gettava nell’ansietà un infinito numero di persone poco facoltose, riducendole a temere — a torto o a ragione — che rovinassero le Compagnie di assicurazione a cui avevano affidati i sudati risparmi, unico schermo contro certi colpi molto temuti della Fortuna; screditava l’Italia presso l’alta finanza dell’Europa, largamente interessata in molte Compagnie operanti nella penisola, e che non potevano rassegnarsi, senza almeno protestare, ad una così improvvisa confisca.
Io non so davvero spiegare come la consumata esperienza di uomo, invecchiato nel Governo degli uomini, abbia potuto così lungamente illudersi che una legge di quel tenore potesse essere facilmente approvata, in un Paese in cui — e chi poteva saperlo meglio di lui? — il Governo è così debole di fronte a tutti gli interessi particolari; ed è costretto a rispettare come sacri tanti diritti acquisiti molto meno legittimi e meno difesi di questi, di cui si proponeva di far scempio nel volger di un giorno. O piuttosto me lo spiego, ripensando che agli uomini i quali hanno governato a lungo succede [171] spesso che alla fine presumono troppo della propria potenza. Questo caso così frequente si ripetè forse una volta ancora, nella primavera del 1911, in Italia. In pochi giorni, infatti, il Governo che poche settimane prima pareva idolatrato da tutta l’Italia, fu assalito da ogni parte da critiche, recriminazioni, invettive e rampogne furenti. L’Orlando Furioso dell’opposizione, il martello dei ministri novelli, il Giornale d’Italia, diè in un’altra di quelle sue matte furie e incominciò a tirar colpi all’impazzata; gli interessati — assicurati e assicuratori — si intesero e cercarono di far valere le proprie ragioni come sapevano e potevano; i sonnecchianti rancori dei gruppi e dei partiti si risvegliarono. Per opprimere i ricchi con leggi di quella natura l’Estrema Sinistra voleva scalare il potere e l’on. Giolitti si curvava a farle spalla!
Gli stessi socialisti avevano da principio ricevuto con una certa indifferenza questo regalo del Governo. Avrebbero forse preferito un altro presente di nozze. Non si riscaldarono un po’ che quando videro la maggioranza parlamentare e i giornali conservatori andar sulle furie: ma allora uscirono in un elogio della legge che dovette far venire la pelle d’oca al Governo. Dissero che la legge a loro piaceva solo perchè era il primo saggio di «espropriazione senza risarcimento!». Anche gli altri difensori meno accesi della legge usarono, forse anche abusarono, di argomenti presi a prestito alla demagogia: denunciarono all’invidia delle masse i grassi guadagni e le pingui sinecure degli assicuratori; malmenarono alla cieca l’alta banca; e scagliarono qualche saetta intrisa di tossico nazionalista contro la finanza [172] che non conosce frontiere. Ma tutti questi argomenti esasperavano addirittura la maggioranza del Parlamento contro il detestato monopolio; cosicchè nelle settimane in cui il testo della legge giacque sul tavolo della Commissione parlamentare incaricata di scrutarne le viscere, la corrente delle opposizioni e delle critiche ingrossò rapidamente, rumoreggiando sempre più fragorosa, come una piena, nei giornali, negli anditi della Camera, nei crocchi politici e perfino in qualche pubblico comizio....
La critica del resto facilmente trionfava delle timide difese, perchè la legge, preparata con incredibile fretta e leggerezza da un ministro incompetente e incapace, era zeppa di errori, di lacune e di contradizioni. Ma quando la discussione incominciò nella Camera dei Deputati.... Oh meraviglia! Quella piena di critiche e di rampogne parve ad un tratto sparire sotto terra, in qualche misteriosa voragine. Per molti giorni la legge, che in piazza era stata impugnata con tanta veemenza, fu timidamente criticata e superficialmente difesa da oratori quasi tutti oscuri, silenti od assenti gli uomini più autorevoli, davanti ad una assemblea enigmatica, che applaudiva ugualmente amici e nemici, e nella quale si vedevano i socialisti volteggiare intorno al Governo come una torma di beduini, lanciando per difenderlo invettive e interruzioni ai conservatori, che infuriati raccattavano e ritorcevano contro di essi i dardi da cui tante volte erano stati feriti, chiamandoli ascari, mazzieri e servitori del Giolitti. Il mondo alla rovescia, insomma! Chi avesse seguito da una tribuna, come l’ho seguita io, questa discussione, ma senza conoscere uomini [173] ed interessi, avrebbe potuto pensar di leggere un rebus vivente che sfidava l’intelletto più sottile. Come era chiaro e piano invece quel rebus, a chi ne possedeva la chiave! La Camera non voleva approvare la legge, ma non osava neppure rovesciare il Ministero, ognuno temendo lo scioglimento della Camera. Applaudiva quindi i deputati favorevoli per dimostrare ossequio al Governo; applaudiva gli oppositori per fare manifesto il proprio animo avverso alla legge; e intanto aspettava con pazienza, come una moglie sottomessa aspetta che il marito ritorni a lei da un passaggero capriccio, che il Governo si ravvedesse, capisse il tormento che la struggeva, e correggesse almeno la legge. Tante altre volte il capo del Governo aveva saputo cedere a tempo!
Ma il capo del Governo si ostinò questa volta. Non si lasciò smuovere nè dai giornali, nè dagli interessi, nè dai savî, nè dal numero delle opposizioni, nè dagli incerti umori della maggioranza. Fu necessario il discorso dell’on. Salandra e i segni manifesti di una imminente rivolta della maggioranza, perchè acconsentisse finalmente a tentare accordi e accomodamenti tra la legge e i diritti acquisiti: ma era troppo tardi!
Il momento in cui il Ministero avrebbe potuto riparare l’errore iniziale senza scapitare nel prestigio e nella forza era passato da un pezzo. La Camera si aggiornò dopo aver approvato il principio generico della legge e rimandata a novembre la discussione degli articoli. Ma ormai il destino era irrevocabile. Pochi mesi ancora, e il Governo democratico, con tutti i propositi che maturava, con tutte le speranze [174] che aveva risvegliate, andrebbe ad arenarsi per sempre nelle Sirti. Poichè proprio la grave crisi interna e parlamentare, generata dall’accordo dell’on. Giolitti con l’Estrema Sinistra, dal monopolio e dalla legge del suffragio universale, ha spinto il Governo alla guerra di Libia.
Per quale ragione l’Italia mosse, tre anni sono, così all’improvviso, tanta mole di armi alla conquista della Libia? Perchè l’ora del destino era suonata sul quadrante della storia? Perchè l’equilibrio del Mediterraneo sarebbe, se no, stato alterato ai nostri danni? Perchè i giornali avevano scaldata la testa al pubblico ignaro o perchè faceva comodo al Banco di Roma? Ognuno scioglie il quesito a modo suo; tutti credono di avere — e in parte hanno — ragione. Il popolo non si muove mai ad una impresa di guerra, se molti non sono a spingerlo. Tuttavia tra i fattori dell’impresa due furono certo di grande rilievo: il movimento della opinione pubblica, che tra l’agosto e il settembre del 1911 venne per la Tripolitania in quella furia di conquista che tutti ricordano; e la debolezza del Governo, che non potè opporsi alla pubblica esaltazione.
Nei mesi di giugno e di luglio del 1911, mentre la legge del monopolio era discussa nella Camera dei [175] deputati, la situazione politica si alterò più profondamente che non paresse agli osservatori superficiali. Quella legge, la leggerezza e l’incapacità che l’avevano preparata, la sopraffazione statale che essa minacciava con ogni parola, gli argomenti demagogici che l’avevano difesa, la baldanza dei socialisti e la impazienza manifesta con cui affrettavano le desiate nozze con il potere, risvegliarono nei conservatori o costituzionali che dir si vogliano — nella maggioranza — il sopito malumore e la sonnecchiante diffidenza per l’avvento dell’Estrema Sinistra al potere. Con che diritto una minoranza usurpava tanta parte del potere? Spetta o non spetta il potere, nel regime parlamentare, alla maggioranza? E poi: era proprio matura una riforma, che inscriveva nella lista degli elettori milioni di analfabeti? Il suffragio universale, pure spiacendo, non aveva troppo inquietata da principio la maggioranza, sinchè questa aveva pensato di poter fidarsi a occhi chiusi del capo del Governo. Ma ormai molti non riconoscevano più nel capo del Governo l’uomo che per tanti anni aveva loro permesso di dormire sonni tranquilli. Dove volgeva? Quale uso intendeva fare dell’autorità acquistata governando per un decennio l’Italia? Voleva forse conciliare la Monarchia e i Rossi a spese dei vecchi partiti e delle classi ricche?
Chi sfogliasse i giornali di quei tempi li troverebbe pieni di queste ansie e di questi timori. Nel tempo stesso il Governo, dopo aver sognata per qualche mese l’onnipotenza sicura, apriva gli occhi; si avvedeva che così il mantenersi al potere come il far approvare il monopolio e il suffragio universale [176] sarebbero imprese più ardue del previsto. E come sempre è accaduto e accadrà, dalle difficoltà interne cercò aiuto e riparo fuori di casa.
Tutti ricordano che tra il luglio e l’agosto del 1911 il Governo italiano attaccò briga con l’Argentina, a proposito di certi regolamenti sanitari; e da un giorno all’altro vietò l’emigrazione per il Plata. Questa mossa energica non poteva non piacere all’opinione pubblica, ancora calda delle feste cinquantenarie; e quindi rafforzava il Ministero. Ma intanto erano incominciate le trattative tra la Francia e la Germania per il Marocco; e ben presto fu chiaro che il decrepito impero stava per cadere, implorando protezione, ai piedi della Francia. Incominciò allora, nell’opinione pubblica, una inquietudine che, fomentata da molti giornali — e massime da quelli che più fortemente avevano avversato il Ministero e il monopolio — divampò presto in agitazione. Si rinfrescarono nella memoria del pubblico le delusioni dell’Egitto e di Tunisi; si ripetè che tutti pigliavan qualche cosa e noi sempre a mani vuote; si gridò che quella era la suprema occasione; sinchè commosso e agitato come un gran pericolo ci pendesse sul capo imminente, il pubblico chiese a gran voce la Tripolitania a compenso del Marocco preso dalla Francia. Quale sarebbe stato il dovere di un Governo forte in quel frangente difficile?
Resistere. Il pubblico non sapeva che, chiedendo la Tripolitania, chiedeva nientemeno che l’aggressione in piena pace di una grande Potenza europea; e dimenticava, mettendo in un fascio la Tripolitania, la Tunisia ed il Marocco, che la Tripolitania era una [177] provincia dell’Impero turco, e l’Impero turco una grande Potenza europea, come la Francia, l’Austria-Ungheria o la Germania, rappresentata nelle capitali del mondo da ambasciatori; che tra Potenze europee non si fanno guerre e conquiste se non c’è almeno un serio pretesto, in mancanza di una ragione. La fatalità storica, il diritto della civiltà superiore, la necessità di compensi per gli altrui ingrandimenti non sono ammessi ancora in Europa tra i motivi o i pretesti di guerra. Se l’Austria, delusa nelle sue ambizioni orientali dalla guerra balcanica, avesse gridato a un tratto di sentirsi spinta dalla fatalità storica a impadronirsi del Veneto e ci avesse dichiarata la guerra, affermando che essa non voleva essere soffocata nell’Adriatico, che cosa avremmo detto noi e che cosa avrebbe detto il mondo? Ma il pubblico incitava il Governo italiano ad agire con la Turchia proprio a questo modo.
È vero che i letterati italiani, dal Machiavelli in poi, hanno sovente e volentieri considerato il diritto e la morale come veli bugiardi gettati sul mondo per nascondere la lotta brutale degli interessi, dai quali un uomo di Stato abile e destro non si lascia impacciar troppo. Ma è da sperare, per l’avvenire e per la salute del nostro Paese, che il Governo non dimenticherà sempre così facilmente che anche i principî di diritto internazionale, pur essendo limitati, parziali e convenzionali, sono una delle impalcature che reggono alla meglio nel mondo quell’ordine a cui si suol dare nome di civiltà. Nè credo possa dubitarsi che, se il Governo fosse stato più forte, non si sarebbe così facilmente indotto a dichiarare la guerra [178] in quel modo che parve troppo spicciativo in tutta Europa, a quanti pensano che il diritto delle genti non debba essere solo un elegante passatempo di professori o un pretesto per concorrere al premio Nobel.
Ma il Governo non poteva fare più assegnamento nella Camera sopra una sicura maggioranza. Ma aveva proposto il monopolio e il suffragio universale che la Camera non voleva approvare. Ma aveva urtati, indispettiti, anche un po’ spaventati i partiti più potenti e i ceti più ricchi. Se avesse cercato anche di resistere a quella esaltata opinione popolare, avrebbe corso pericolo di essere rovesciato. Tutti i nemici del monopolio e del suffragio universale non l’avrebbero assalito, rimproverandogli di non aver difesi gli interessi dell’Italia nel Mediterraneo? Con l’aiuto della collera pubblica, anche una opposizione imbelle come quella che guatava nell’ombra il Governo, poteva buttare nel Mediterraneo il Ministero e quelle leggi detestate, senza più temere lo scioglimento della Camera. Non parrà cosa probabile, a chi ricordi quale era lo spirito pubblico nell’autunno del 1911, che un Governo, rovesciato per non aver agito in Africa, avrebbe osato appellarsi al Paese; e tanto peggio per lui, se avesse osato!
Non è da meravigliarsi dunque che il Ministero Giolitti abbia in settembre gettati i dadi. La situazione politica interna non gli lasciava scampo: o conquistava la Tripolitania o era spacciato. E quella situazione non diè tregua al Governo nei primi mesi della guerra, sinchè le due leggi, da cui tutto questo scompiglio è nato — il monopolio ed il suffragio — non furono approvate.
[179]
Nell’ultima discussione parlamentare l’on. Giolitti, rispondendo agli oratori che avevano biasimate le lentezze della guerra, disse che il Governo aveva voluto piuttosto spendere denaro che versare sangue. Decisione che a me pare molto savia, anche se sarà giudicata un’eresia dai generali educati alla scuola di Napoleone. Ma la guerra è un’arte viva e parte della politica: bisogna dunque adattarne i metodi ai tempi e agli uomini. Chi pensa che le masse avrebbero allegramente consentito a prodigare il proprio sangue per conquistare la Tripolitania e la Cirenaica, vada a governare la repubblica di Platone. Ai tempi che corrono, guai al Governo il quale, in una guerra coloniale, dimenticasse che il sangue è un liquido più prezioso dell’inchiostro; e che non si può prodigare il sangue a far delle grandi battaglie, come i giornali prodigano l’inchiostro a reclamarle e a descriverle!
Senonchè qualche deputato socialista avrebbe, a quel punto del suo savio discorso, dovuto interrompere il capo del Governo, dicendogli: «Sta bene, ma allora non dovevate decretare l’annessione!». Qui sta il punto. Il decreto di annessione richiedeva una guerra rapida, energica, aggressiva: non la cauta guerra di posizioni, che abbiamo rinnovata in Africa dalle campagne militari del settecento. Tutti i guai della guerra di cui ci lagniamo sono nati da questa contradizione tra lo scopo che si voleva conseguire — l’annessione, ossia la resa incondizionata dell’avversario — e il modo di guerreggiare che abbiamo scelto e che — lo ripeto — era il solo che potesse essere voluto da un Governo non impazzito. Da [180] questa contradizione, procedè infatti la interminabile lunghezza della guerra e la sua spesa immoderata; da questa contradizione, quello snervante gioco di minaccie eternamente sospese, di bombardamenti a fior di pelle, di operazioni mai decisive; da questa contradizione, quella guerra platonica, che alla fine aveva esasperato noi, i nostri nemici e l’Europa tutta; da questa contradizione, la fine della guerra, che sarebbe difficile dire se fu una gran fortuna o una catastrofe. La pace di Losanna fu sottoscritta dai Turchi, perchè ormai incalzava la guerra balcanica: la guerra balcanica, dunque, fu lì per lì una provvidenza, perchè ci permise di uscire alla meglio da quella contradizione impossibile in cui ci eravamo cacciati, volendo uccidere il nemico senza colpirlo a morte. Ma è lecito chiederci se non minacci di diventare nell’avvenire una catastrofe, tante difficoltà nuove sono nate da quella.
Orbene: perchè nei primi giorni di novembre, quando appena avevamo messo il piede nel paese, all’improvviso, il Governo usci fuori con quel decreto? Nella risposta sta la ragione di molte tra le maggiori difficoltà in cui siamo impigliati. Nè pretendo di darla io, questa risposta. Non occorre però esser molto addentro nei segreti della nostra politica, per affermare che il motivo primo di quell’atto gravissimo, il motivo senza il quale gli altri, che possono avervi contribuito, sarebbero stati senza effetto, deve cercarsi anche quello nella situazione interna. Una pace che avesse assegnato a noi i territori turchi dell’Africa salvando il prestigio del Sultano di fronte ai Mussulmani, poteva, pur essendo seme di difficoltà future, [181] risparmiarci molte delle difficoltà presenti. Ma tale pace, finchè durava la furia nazionalista dell’opinione pubblica, e finchè le due famose leggi non erano approvate, poteva mettere in gran pericolo il Governo. Che rumore avrebbero levato in ogni parte i nemici del Ministero, i nemici del monopolio, i nemici del suffragio universale, che erano tanti, denunciandola all’opinione pubblica come una sciagura!
Non ci sarebbe da meravigliarsi se un giorno si venisse a sapere che il Governo, inquieto per lo zelo con cui qualche Potenza europea cercava di persuaderci ad una ragionevole transazione con la Turchia, abbia fatto il famoso decreto per poter meglio resistere a consigli ed esortazioni, che gli avrebbero create gravi difficoltà interne. Quel famoso Ministero insomma, per le persone che lo componevano e le leggi che proponeva, non ha potuto reggersi in una Camera di diversa opinione e di altro sentire; non ha potuto far approvare il monopolio e il suffragio universale, che capitolando innanzi alla corrente nazionalista, scatenata dalla guerra. La guerra alla Turchia e il decreto di annessione furono il prezzo posto dal partito conservatore all’approvazione del monopolio e del suffragio. Il Paese sborsò volonteroso il prezzo; e quindi il Governo potè forzare la situazione parlamentare e far approvare, da una maggioranza ostile, una legge attenuata di monopolio, e il suffragio universale, tal quale l’aveva proposto. Ma il prezzo era più gravoso assai che il Paese non credesse da principio; onde è nato il penoso stato presente. Il quale richiede ancora una breve disamina; e sarà poi possibile tirare la conclusione di questa rapida storia.
[182]
Mi è capitato spesso, in questi ultimi tempi, di udire deputati di parte ministeriale esclamare sospirando: «Pare impossibile, ma dal 1911 in poi Giolitti non ha commesso che errori! Dove se ne è andata quella sua antica e famosa abilità?». In verità l’on. Giolitti non ha commesso che un errore, dal quale tutti gli altri hanno poi proceduto, per quel ferreo destino che lega l’una all’altra le azioni umane.
Dico errore, perchè questo è forse uno dei pochi casi della storia politica in cui la parola «errore» può essere adoperata non impropriamente, ma per quel che davvero significa: atto cioè che ebbe conseguenze non liete e che poteva schivarsi. Troppo spesso infatti noi imputiamo le pubbliche sciagure all’errore di un uomo di Stato, il quale fu invece costretto ad agire a quel modo, pur scorgendo dell’agire il pericolo, perchè altrimenti incorreva in un male maggiore. A pochi uomini di Stato invece capitò la rara fortuna e il tremendo cimento, che toccò al Giolitti in quella primavera dell’11, in cui la sua potenza toccò l’apogeo. Egli era allora veramente arbitro della situazione: poteva cercare i suoi ministri a destra come a sinistra, perchè ogni parte della Camera era pronta all’ossequio e alla chiamata; poteva scegliere nella farragginosa eredità del Gabinetto antecedente a piacere; fare un passo indietro o fare [183] un passo innanzi sulla via della riforma elettorale, in cui il suo predecessore aveva messo il piede troppo alla leggera.
Per qual ragione egli cercò i suoi collaboratori tra i radicali e i socialisti, e propose il monopolio e il suffragio universale? Lo mosse certamente la speranza di gettare un altro ponte tra le istituzioni e la moltitudine, anche a rischio di dover affrontare aspre lotte con i partiti conservatori. Proposito nobile, senza dubbio: ma alla nobiltà del proposito corrispondevano le forze? Se è vero quel che si dice, egli avrebbe pensato che la sua potenza personale, tanto cresciuta nell’ultimo decennio, potesse bastare, se appoggiata risolutamente dagli uomini di parte Estrema, a sforzare le resistenze dei partiti conservatori. Senonchè questo pensiero fu il vero e proprio errore suo, dal quale tutti gli altri mali hanno proceduto. I fatti hanno data ragione ai pochi che sin dal principio giudicarono artificioso e temerario quel piano. Offrendo parte del potere ai radicali e ai socialisti, il Giolitti si indebolì invece di rafforzarsi ad un Governo di riforme: perchè la maggioranza, composta ancora di conservatori, avversò le sue riforme per una doppia ragione e con una forza doppia: per essere quelle ancora acerbe al loro gusto e per esser proposte da un Ministero che scivolava troppo a sinistra. Cosicchè per conservare il potere e per poter vincere l’opposizione nascosta o palese alle due leggi capitali da lui proposte, dovè fare la guerra e farla secondando la corrente imperialista.
A questo errore del capo del Governo corrispose un errore della parte Estrema. Troppo facilmente [184] questa parte si illuse, tre anni fa, di potere, facendo leva della potenza personale dell’on. Giolitti, smuovere il principio della maggioranza su cui posa il regime parlamentare e impadronirsi, almeno parzialmente, del Governo prima del tempo, pur essendo ancora piccola minoranza. Il sogno era bello, ma era un sogno: e quanto meglio avrebbero fatto quei partiti a dar retta al Fradeletto, che parve allora ai più un sognatore, mentre era il solo che vegliasse e vedesse, ad occhi aperti, il mondo e le cose quali erano! Forse il Paese non si troverebbe oggi in tanti guai.
Ma più grave è la responsabilità dei partiti e dei gruppi che disponevano della maggioranza nel Parlamento. Questi gruppi e questi partiti avevano il diritto di governare e la forza per far valere questo diritto, che nei regimi parlamentari è appunto la maggioranza. Questi gruppi e questi partiti non volevano nè un Governo per metà radicale, nè il monopolio, nè il suffragio universale: perchè dunque non si sono serviti della forza di cui pure disponevano per rovesciare il Ministero sin dal principio? Perchè hanno invece giuocato di astuzia prima e tentato poi, quando l’esaltazione popolare parve offrirne l’occasione, di affogare nel Mediterraneo quel detestato Governo con le sue leggi, mentre avevano pronta e alla mano l’arma infallibile per recidere il sottile stame a cui per tanti mesi fu appesa la sua vita? Perchè delirando alla fine anche essi insieme con le masse, e nella folle speranza di sterminare i socialisti, hanno forzato il Governo non soltanto a impadronirsi nel modo più spiccio e più [185] semplice della Tripolitania, ma a fare di proposito e per un puntiglio d’amor proprio una guerra lunga e dispendiosa, che ha così sordamente irritate le plebi?
La qual cosa apparirà un immane errore, sopratutto a chi la consideri alla stregua dei ragionevoli interessi dei partiti conservatori. Questi avranno negli anni venturi fin troppo frequenti occasioni di borbottar fra i denti, come Strepsiade nelle Nuvole di Aristofane: «Maledetta guerra! Non posso più nemmeno castigare i miei servi». La lunghezza della guerra — ci accadrà pur troppo di dover toccare spesso questo tasto — ha indebolito ancor più lo Stato così di fronte alle masse, come a petto delle potenti consorterie finanziarie e burocratiche che da un pezzo minacciano sopraffarlo: ed è questo, tra gli effetti della guerra, certamente il più funesto, quello che forse annulla da solo tutti gli altri vantaggi che la guerra ha potuto procurarci, e quello che peserà maggiormente sulle classi alte.
Non ho ricapitolata la storia di questi tre anni per incoraggiare il pubblico alle sterili recriminazioni o per giudicare uomini e cose con il facile senno di poi: l’ho ricapitolata affinchè riesca più agevole ai più intendere la luminosa lezione che essa ci porge. Per quale ragione siamo noi cascati nelle presenti difficoltà, che se non sono invincibili, sono certo gravi e numerose? Perchè tutti i partiti hanno voluto esser troppo abili e furbi; e hanno creduto di poter giocare impunemente di scaltrezza con il principio stesso su cui riposa il regime parlamentare: il principio di maggioranza.
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Questo principio, come tutti i principî su cui posa di secolo in secolo, nelle sue mutazioni incessanti, l’ordine sociale, è convenzionale, limitato, rovesciabile, non necessario. È una finzione, che un ingegno sottile e baldanzoso può facilmente, solo che voglia, sbugiardare, provando che non nelle maggioranze ma nelle minoranze si ritrova più spesso il senno e la ragione. Ma gli italiani furon sempre gente di ingegno sottile e baldanzoso: da quando poi hanno perduto il santo timor di Dio frequentando le scuole filosofiche aperte da due secoli nei diversi Paesi di Europa, e specialmente in Germania, sono diventati dei terribili sofisti, che giuocano con i principî politici, morali, giuridici, estetici di cui il mondo ha vissuto e in cui il mondo ha creduto per tanti secoli, come il prestigiatore giuoca con i fazzoletti, i coltelli, le palle od i piatti.
Non è quindi da meravigliare se un uomo, fattosi in dieci anni potentissimo nel Parlamento e nello Stato, abbia pensato alla fine di poter sforzare questa finzione convenzionale sino a farne lo strumento per porre ad effetto, a dispetto della maggioranza, un suo vasto disegno politico; se delle minoranze abbiano creduto di potere, con un po’ di scaltrezza, eluderla a proprio vantaggio e del Paese, scalzando la maggioranza; se la maggioranza, minacciata da queste scaltrissime abilità, si sia a sua volta illusa di poter difendersi con una scaltrezza ancor più sottile: mantenendo intatti i suoi diritti senza compier nessuno sforzo per farli valere!
Poche volte si videro tante abilità giostrare tra di loro in più elegante torneo, intorno ad una formula, [187] che essendo finzione, e cioè apparenza, sembrava innocua ed inerte. Ma ahimè! Le finzioni che reggono il mondo si vendicano a volte in maniere impensate e terribili degli uomini che tentano far loro violenza o frodarle. Così fu che per voler vincersi l’un l’altro in abilità ed in scaltrezza, uomini e partiti accumularono negli ultimi tre anni tanta mole di errori, di imprudenze e di impegni, che il Governo non meno che il Paese se ne risentiranno per un pezzo.
È dunque venuto il tempo di ricordare che, se i principî su cui posa l’ordine sociale sono in una certa misura convenzionali, limitati, arbitrari, non necessari, non è possibile nè Stato, nè politica, nè ordine morale, nè ragionevole concordia di intenti e di opere, se gli uomini non frenano le passioni e la smania di ragionare in modo da agire come se quei principî, sinchè vigono, fossero assoluti ed eterni; se non li rispettano lealmente, invece di cercare di eluderli o violentarli. Il che tradotto in linguaggio meno filosofico e più chiaro vuol dire che la politica italiana ha bisogno di sincerità, di lealtà e di verità. Noi non ci trarremo dalle difficoltà in cui ci ha spinta una abilità troppo innamorata di combinazioni artificiose, se i partiti, se i gruppi, se gli uomini non ritorneranno ad una più aperta schiettezza e semplicità di intenzioni e di atti; se tra il dire e il fare continuerà a interporsi un oceano di reticenze, di sottintesi, di scaltre menzogne, di segrete mire, di interessate e consapevoli imposture; se le minoranze non avranno pazienza di aspettare il potere finchè non saranno maggioranza; se la maggioranza non avrà il coraggio e l’energia di far valere il proprio diritto, ma crederà [188] che ad assicurarlo bastino i testi e le dottrine che i professori commentano nelle Università innanzi a qualche dozzina di studenti sonnecchianti e svogliati; se gli uomini cui tocca di governare il Paese, a furia di volere esser abili, saranno così ingenui da illudersi che all’abilità dei partiti politici sia rimasto quel potere di far miracoli, che gli uomini negano ormai perfino a Domeneddio.
Abbiamo noi veduti in questi giorni, per le piazze e per le vie delle cento città, proprio quei guizzi e quei lampi, che precorrono nella storia tutte le guerre civili? Non saprei. Certo è però che i casi di Ancona furono più che altro l’occasione a manifestare una avversione generale contro lo Stato e l’ordine costituito, che, sebbene sorda e confusa, apparisce — il negarlo sarebbe cecità — largamente diffusa.
Si potrebbe discutere assai e molto si discuterà intorno alle cause di questa crescente avversione. Io ne vorrei oggi studiare una sola, che non è tra le minori: l’indebolimento dello Stato. I popoli sentono i governi, come il cavallo sente il cavaliere: se è fermo in sella o se si può sbalzarlo di groppa. Lo spirito rivoluzionario e la forza dello Stato son come i due piatti della bilancia: uno scende, quando l’altro sale. Le masse italiane prendono coraggio a [189] manifestare con atti rivoluzionari la loro avversione allo Stato, perchè lo sentono indebolito. Indebolito dalla guerra e dalla Libia. Indebolito dalle strettezze di denaro e dalle ultime elezioni. Indebolito dalla rivolta della burocrazia, dal disordine intellettuale delle classi governanti, dagli odî e dalle discordie che le dividono. Indebolito infine dall’estenuamento in cui il Parlamento è caduto.
Chi voglia capire in che strette ci ritroviamo, volga lo sguardo dal Paese a Montecitorio. Mentre si incendiano stazioni e chiese; mentre in tutta la penisola folle infuriate assaltano lo Stato con i sassi e lo Stato risponde a fucilate; mentre si preparano in ogni parte repressioni e rappresaglie, oscure notizie arrivano dall’Abissinia. A chi le sa leggere dicon chiaro che potrebbe presto scoppiare un’altra guerra tra il regno d’Italia e l’impero di Etiopia. Abbiamo ancora sulle braccia la Libia conquistata solo a metà. Abbiamo sulle braccia l’Albania. Siamo ricascati di nuovo in quella contradizione tra la nostra politica coloniale e la nostra politica continentale, che fu una delle cause di Adua. Dobbiamo versare nell’erario, ogni anno, parecchie centinaia di milioni di più. E pronto per affrontare tutti questi pericoli, per vincere tutte queste difficoltà, sta un Ministero che, sebbene conti parecchi ministri di ingegno egregio, non ha e non avrà mai maggioranza sicura; che vive alla giornata, non sapendo ogni mattina se il tramonto lo saluterà ancora al potere.... Ma la Camera non si risolve a rovesciarlo, perchè sa che il Ministero che gli succederebbe non sarebbe nè più stabile nè più forte di questo; perchè sa che il solo uomo il quale [190] sarebbe sostenuto da una maggioranza sicura, ha bisogno di riposo. Cosicchè i più sono ridotti ad augurarsi che il solito «interregno», che si apre al principio di ogni legislatura, duri poco.
Se la situazione fosse quale la vedon costoro, sarebbe già grave. In un momento difficile la fortuna dell’Italia potrebbe pender dunque da un filo così sottile e così fragile come è la energia, la forza, la salute di un uomo solo? Ma più grave apparirà se si consideri che anche le speranze riposte segretamente o palesemente da molti nell’uomo possono a ragione giudicarsi chimeriche. Altro che interregno! È una vera crisi dello Stato, questa: la crisi del Governo che ha retta l’Italia negli ultimi quattordici anni; di quel curioso, artificioso e in parte misterioso Governo non compreso dai più, che fu una mescolanza — o contaminazione, se vogliamo adoperare la parola antica — di potere personale e di governo di parte.
Questo fenomeno è di così vitale importanza, che giova soffermarsi alquanto a studiarlo. Ci sono nel Parlamento, come si agitano nel Paese, dei partiti veramente politici, bene o male organizzati, e che rappresentano, alla meglio o alla peggio, le aspirazioni e i bisogni di questa o di quella parte della Nazione. Tali il partito socialista, il partito repubblicano, il partito radicale, il partito clericale; tale anche quel partito, meno ben definito, più ondeggiante e svaporato, ma di tutti il più potente, che chiamandosi qui costituzionale, là liberale, altrove monarchico o moderato, dappertutto sbandierando il tricolore e intonando la marcia reale, è il braccio e [191] la voce di quella parte delle classi alte che, per sentimento o per interesse, è più ligia all’ordine di cose stabilito nel 1860. Ma questi partiti non contendono tra di loro con varia fortuna che per una parte dei 508 collegi. Gli altri collegi sono rappresentati in Parlamento o da milionari che li hanno comperati a peso d’oro; o da faccendieri, che li hanno mendicati con i favori spiccioli; o da campioni di potenti consorterie locali, che se ne sono impadroniti con le buone o con le cattive maniere; o da beniamini del Governo, che li hanno scroccati con l’aiuto di questo.
Di questa disparità di condizioni politiche un uomo si è abilmente prevalso, nel primo decennio del secolo, per primeggiare, come nessun altro prima di lui, nello Stato. Forte del prestigio acquistato debellando ed ammansando i socialisti, favorito dalla prosperità economica e da altre circostanze, che sarebbe troppo lungo esporre, l’on. Giolitti riuscì, tra il 1900 e il 1906, a raccogliere, nei collegi dove i partiti politici erano meno forti, una clientela di deputati ligi a lui personalmente, numerosa e fedele. Ci riuscì qui imponendo con la forza del Governo degli amici provati; là puntellando la fortuna pericolante di un partito o di un uomo; dovunque discernendo con occhio sicuro quello tra gli uomini e i partiti rivali che già da solo era più forte e facendo piegare definitivamente a suo vantaggio le sorti della contesa.
Ma il rapido e il rigoglioso crescere in Parlamento d’una forte clientela ligia ad un uomo soltanto, e quindi di un potere personale, in mezzo ai partiti che già del Parlamento occupavano tanta parte, non [192] poteva non generare un perturbamento profondo. Il Governo parlamentare è un sistema di convenzioni, che non può reggere alla critica del buon senso, se non ci sono dei partiti un po’ distinti e disposti a lottare tra di loro con una certa lealtà. Questi tolti di mezzo o indeboliti oltre misura, quel Governo non è più che una commedia senza senso. Si spiega dunque come tra il 1900 e il 1906 tutti i partiti — quelli di destra e quelli di sinistra — si siano sentiti ogni tanto spinti ad assaltare, per distruggerlo, quel potere personale che si andava rafforzando in mezzo a loro. Ma tutti gli assalti — movessero da destra o da sinistra — furono brevi, fiacchi, slegati. Ogni partito, solo, era troppo debole; e nessuno aveva tal repugnanza al potere personale, da non acconciarvisi facilmente, se il potere personale servisse le sue ambizioni e i suoi interessi. D’altra parte lo stringere alleanze era cosa difficile. Ci si provò il Sonnino nel 1906. Parve strano a molti che egli comparisse al banco dei ministri tra il Sacchi e il Pantano da una parte, il Boselli e il Rubini dall’altra! Ma strano non era. Il Sonnino aveva cercato con quel Ministero di unire tutti i partiti più propriamente politici, rappresentati alla Camera, contro la preponderanza di una clientela personale.
Il tentativo non riuscì, per molte ragioni; tra le altre, perchè poco prima della battaglia decisiva, i socialisti, l’ala sinistra della coalizione, si sbandarono. Ma se, a capo di quella clientela, l’on. Giolitti era il più forte tra tutti i parlamentari, non avrebbe neppur egli potuto governare a dispetto di tutti i partiti. Quindi lo studio indefesso per procurarsi, a destra e [193] a sinistra, l’appoggio sottinteso e indiretto almeno, quando non poteva averlo dichiarato e manifesto, dei partiti politici. Ma egli non fu veramente l’arbitro della situazione che dopo il 1906, allorchè, fallito il tentativo del Sonnino, tutti i partiti rinunciarono, apertamente o tacitamente, a combattere la sua preminenza nello Stato. In ciascun partito gli inconciliabili che non vollero deporre le armi, il Ferri e il Ciccotti sulla montagna, il Sonnino e il Salandra a destra, furono lasciati in disparte a continuare una stanca guerriglia di sparuti manipoli. E gli altri cercarono d’intendersi con quel potere personale che ormai teneva saldo l’acropoli dello Stato.
Così nacque e crebbe, nel primo lustro del secolo, quel potere tra costituzionale e personale, tra consortesco e politico, che ha governata l’Italia senza contrasto, tra il 1906 e il 1911, facendo del bene e del male. Narcotizzò, se non spense, molti odî, molti rancori, molte collere e molte impazienze; infrenò in Parlamento le furibonde gare dei capi, che ci avevano condotti ad Adua; seppe e potè — sino al 1911 — non chiedere al Parlamento e alla Nazione nè sangue, nè sacrifici straordinari, nè più denaro di quel che già il popolo era avvezzo a pagare: sopratutto — e fu sino al 1911 il suo merito maggiore — non die’ in nessuna di quelle tragiche follie, non commise nessuno di quegli errori irreparabili, in cui pare destino che noi dobbiamo ogni tanto ricascare. Ma ha nel tempo stesso indebolito lo Stato ad un punto, che anche i ciechi incominciano adesso a vedere il pericolo, cercando di accontentare i partiti, le classi e gli interessi opposti, [194] il più spesso a danno degli interessi generali e della giustizia.
Negli ultimi dieci anni io ho potuto vedere e parlare, in molti Stati d’Europa e delle due Americhe, con capi di Stato, con ministri, ambasciatori, membri di famiglie regnanti o di Parlamenti. Figurarsi se non ne ho sentite di tutti i colori intorno all’arte di governare gli uomini! Ma in nessuna città di Europa e d’America provai mai tal sorpresa, come una sera in Roma, in casa di un amico, alla cui mensa pranzavo con un uomo di Stato molto autorevole anche oggi e che ha occupati parecchi ministeri nei diversi Governi dell’ultimo quindicennio, tra gli altri quello che è forse il più spinoso tra i ministeri non politici. Il discorso era caduto sui terribili guai che avevano tribolato parecchi dei suoi predecessori in quel ministero: quand’ecco quel potente ci dice che egli aveva trovato il mezzo di superare tutte le difficoltà in cui gli altri avevano così malamente incappato. Gli fu chiesto quale; e quello sorridendo:
— Ho esautorato il Ministero!
Non potei trattenere un gesto così espressivo di stupore, che il ministro, volgendosi con un cortese sorriso verso di me:
— Sì — continuò scandendo le sillabe — ho e-sa-u-to-ra-to il Ministero.... — E mi spiegò, lieto e orgoglioso, che aveva pensato non ci fosse miglior mezzo di evitar guai, che deferire quanto più gli riusciva i poteri del Ministero alle Commissioni, ai Consigli superiori, ai Corpi amministrativi, ai Sindacati del personale — non lasciando al ministro altro compito che quello di attaccare i francobolli [195] sulle lettere. Orbene: questa frase alquanto ingenua definisce meravigliosamente il Governo che ha retta negli ultimi quindici anni l’Italia. Per non assumere responsabilità troppo grandi, per semplificare il suo compito, per non cedere alla tentazione di mal fare, per disarmare opposizioni talvolta giuste e tal’altra faziose, per procurarsi una facile popolarità, lo Stato ha lasciato fare, ha chiuso un occhio, ha ceduto poteri, ha rinunciato a diritti, ha veduti abusi in quantità convertirsi in diritti acquisiti; cosicchè oggi si è ridotto a non aver quasi più alcuna autorità per difendere l’interesse generale e per imporre la giustizia.
Avevamo bevuto il vino senz’alcool, e fumati i sigari senza nicotina: il secolo felice vuol che obbediamo anche allo Stato senza autorità! Ma è facile capire che un Governo esautorato può governare in tempi prosperi e facili, non in tempi agitati e difficili. Perciò vorremmo che il Parlamento non si facesse soverchie illusioni sulla miracolosa potenza di nessun uomo, e neppure dell’uomo che dal 1901 governa l’Italia. Egli potrebbe, forse, comporre un Ministero forte e sicuro nelle votazioni e nei tornei oratorî di Montecitorio; ma non so se potrebbe comporre un Ministero non solo più stabile, ma anche più fattivo di quello che ora governa. Ha dato le dimissioni nel mese di marzo perchè, nonostante la maggioranza che aveva numerosa e sicura, non aveva forza ad affrontare la difficilissima situazione creata dalla guerra di Tripoli e dal suffragio universale; e non si vede in quale combinazione, a destra o a sinistra, potrebbe ringagliardirsi al nuovo còmpito fattosi tanto più arduo. La maggioranza — non dimentichiamolo, [196] per carità, in questo grave momento — è nei regimi parlamentari la finzione — o se volete adoperare una parola più elegante — il principio convenzionale che legittima il potere. Non è per se stessa fonte nè di energia, nè di intelligenza. Quanti Governi si son visti, sostenuti da strabocchevoli maggioranze, eppure impotenti e paralitici!
E allora? La conclusione è chiara. Ci troviamo in pericoli molto maggiori che i più non pensino. Se il Parlamento e il Paese non fanno a tempo uno sforzo vigoroso, noi potremmo anche incorrere in qualche catastrofe. E ancora e sempre occorrerebbe ricordarci di Adua!
[197]
Nel 1866, quando si stava trattando la pace tra l’Italia, l’Austria e la Prussia, e già era trapelato che l’Italia riceverebbe il Veneto, ma non il Trentino nè l’Istria, Giuseppe Mazzini pubblicò nell’Unità Italiana del 25 agosto uno scritto per chiarire al popolo i danni e i pericoli di siffatta pace. In quello scritto le rivendicazioni nazionali dell’Italia sono enumerate e illustrate con tanta abbondanza di argomenti, con tanta chiarezza e dottrina, con tanto colore e calore di eloquenza, che io non so resistere alla tentazione di citarne il brano capitale.
«Le Alpi Giulie son nostre come le Carniche delle quali sono appendice. Il litorale Istriano è la parte orientale, il compimento del litorale Veneto. Nostro è l’Alto Friuli. Per condizioni etnografiche, politiche, commerciali, nostra è l’Istria; necessaria all’Italia come sono necessari i porti della Dalmazia agli Slavi meridionali. Nostra è Trieste, nostra è la Postoina o [198] Carsia, ora sottoposta amministrativamente a Lubiana. Da Cluverio a Napoleone, dall’Utraeque (Venezia e Istria) «pro una provincia habentur» di Paolo Diacono al «due gran montagne dividono l’Italia dai barbari; l’una addimandata Monte Calvera, l’altra Monte Maggiore nominata» di Leandro Alberti, geografi, storici, uomini politici e militari assegnarono all’Italia i confini accennati dall’Alighieri e confermati dalle tradizioni e dalla favella. Ma, s’anche diritti e doveri fossero or poca cosa per gli Italiani, perchè dimenticherebbero l’utile e la difesa? Dai paesi dell’Alto Friuli scesero nel 1848 le forze che ci sconfissero in Lombardia e isolarono Venezia. E l’Istria è la chiave della nostra frontiera orientale, la porta d’Italia dal lato dell’Adriatico, il ponte che è fra noi, gli Ungaresi e gli Slavi. Abbandonandola, quei popoli rimangono nemici nostri: avendola, sono sottratti all’esercito nemico e alleati del nostro.
«Nostro — se mai terra italiana fu nostra — è il Trentino: nostro fino al di là di Brunopoli, alla cinta delle Alpi Retiche. Là sono le Alpi interne o Prealpi: e nostre sono le acque che ne discendono a versarsi, da un lato, nell’Adige, dall’altro, nell’Adda, nell’Oglio, nel Chiese, e tutte poi nel Po e nel Golfo Veneto. E la natura, gli ulivi, gli agrumi, le frutta meridionali, la temperatura, a contrasto colla valle dell’Inn, parlano a noi e al viaggiatore straniero d’Italia: ricordano la X Regione italica della geografia romana d’Augusto. E italiane vi sono le tradizioni, le civili abitudini: italiane le relazioni economiche: italiane le linee naturali del sistema di comunicazioni: e italiana è la lingua: su 500.000 abitanti, soli 100.000 [199] sono di stirpe teutonica, non compatti e facili a italianizzarsi.
«Ma, s’anche foste, o Italiani, incapaci di sentire il vincolo nazionale d’amore che annoda le vostre terre con quelle 246 miglia quadrate giacenti al di qua delle Alpi — s’anche poteste esser immemori dei Trentini che morirono per la causa d’Italia e combattevano ieri per essa nelle vostre file — s’anche il cannone che serbate in Alessandria col nome Trento, tra i cento che anni sono il patriottismo del Paese vi dava non dovesse essere rimorso a voi, ironia pei Trentini — non dimenticate almeno che il Trentino è l’altra porta d’Italia; non dimenticate che monti, fiumi, valli di quelle Prealpi, sino al lago di Garda formano un vasto campo trincerato dalla natura, chiave del bacino del Po — che l’Alto Adige taglia tutte le comunicazioni tra il nemico e noi; e ad essere sicuri bisogna averlo; che là si concentrano tutte le vie militari conducenti per la valle del Noce e il Tonale a Bergamo e Milano, pel Sarca e pel Chiese a Rocca d’Anfo, per la riva sinistra dell’Adige a Verona, per le sorgenti del Brenta a Bassano: — che il Trentino è un cuneo cacciato fra la Lombardia e la Venezia, non concedente che una zona ristretta alle comunicazioni militari dirette fra quelle due ali dell’esercito nazionale: — che mentre il nemico, giovandosi dell’Istria e dei passi dell’Alto Friuli da voi concessi, opererebbe a oriente sul Veneto, gli rimarrebbe aperta l’invasione a occidente pel passo di Colfredo, per la valle d’Ampezzo e per quella di Agordo; che tutte le grandi autorità militari, fino a Napoleone, statuirono unica valida frontiera all’Italia [200] essere quella segnata dalla natura sui vertici che separano le acque del Mar Nero e quelle del seno Adriatico.
«Accettando voi dunque, o Italiani, la pace che v’è minacciata, non solamente porreste un suggello di vergogna sulla fronte della Nazione — non solamente tradireste vilmente i vostri fratelli dell’Istria, del Friuli e del Trentino — non solamente tronchereste per lunghi anni ogni degno futuro all’Italia condannandovi ad essere potenza di terzo rango in Europa; non solamente perdereste ogni fiducia di popoli, ogni influenza iniziatrice con essi; ma sospendereste voi stessi sulla vostra testa la spada di Damocle dell’invasione straniera. E questa spada di Damocle significa per voi impossibilità di sciogliere o di scemare l’esercito: importa impossibilità di economie, incertezza d’ogni cosa, assenza d’ogni fiducia per parte dei capitalisti e d’ogni pacifico sicuro sviluppo di vita industriale, diminuzione progressiva di credito, accrescimento progressivo di disavanzo, impossibilità di rimedi, rovina economica e fallimento: importa — dacchè non tutti fra voi si rassegneranno — agitazione crescente, perenne: discordia più che mai accanita di parti; guerra civile in un tempo più o meno remoto, ma inevitabile»[1].
[201]
Non una frase sola di queste pagine è invecchiata, dopo quasi mezzo secolo. Nessuno potrebbe, neppure oggi, esporre più lucidamente le ragioni per le quali l’Italia dovrebbe sforzarsi di compiere la sua unità nazionale e di farla finita con il pericolo austriaco che dal 1859 in poi non ha cessato un istante di minacciarci. Ma se oggi ancora valgono tutte le ragioni, enumerate nel 1866 dal Mazzini per dimostrare che il Regno d’Italia non sarà sicuro del presente e dell’avvenire sinchè non avrà conquistate le provincie italiane oggi ancor soggette all’impero degli Absburgo, a quelle enumerate dal Mazzini se ne possono ora aggiungere altre due, che allora non esistevano ancora. La prima è una ragione di ordine militare. Tutti sanno che nell’Adriatico la sponda orientale è frastagliata, piena di golfi e di seni, ricca quindi di eccellenti porti naturali; la sponda occidentale invece — l’italiana — è liscia, senza golfi e seni profondi, e quindi senza porti. Noi non possiamo opporre nessun porto ai meravigliosi porti naturali di Pola e di Cattaro. Ma dal 1866 in poi le armate navali si sono fatte giganti; e quindi cercano case proporzionate alla loro mole crescente; hanno bisogno di porti immensi e di arsenali giganteschi. Onde l’Italia si trova e si troverà sempre quasi disarmata nell’Adriatico, di fronte alla potenza che tenga l’Istria, Pola e la Dalmazia.
[202]
L’altra è ragione nazionale e linguistica. In Istria ed in Dalmazia le città sono italiane, mentre le campagne sono popolate da slavi. Ma sino a trenta anni fa, gli slavi delle campagne non pensavano di essere una razza ed un popolo diverso dagli italiani delle città: imparavano l’italiano; frequentavano le scuole italiane; ambivano di ascendere con lo studio e il lavoro in quella borghesia italiana che nelle città commerciava, esercitava le professioni liberali, studiava, scriveva e coltivava le arti; consideravano la loro lingua nazionale come un dialetto, che serviva per la famiglia e la casa. Molte famiglie italiane viventi nelle città discendono da slavi italianizzati e che furono ai loro tempi fieri di diventare italiani. Uno dei più illustri scrittori italiani del secolo XIX, e uno dei più insigni maestri della filologia, Niccolò Tommaseo, era uno slavo di Zara, che la scuola e la cultura avevano, come tanti altri, italianizzato. Senonchè questo stato di cose s’è, negli ultimi trent’anni, profondamente alterato. Per indebolire l’elemento italiano delle città, il Governo austriaco si è studiato di accendere in Istria e in Dalmazia una fiera discordia tra slavi e italiani, risvegliando nelle campagne slave il sentimento nazionale; dicendo agli slavi che essi erano un popolo e una razza differente dagli italiani, e che la loro lingua non doveva rimpiattarsi nelle case, come un rozzo dialetto, ma essere ammessa nei tribunali, nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle banche, a pari della lingua italiana, con gli stessi onori. È apparsa infatti e cresce da qualche decennio, nelle città e nelle cittadine che specchiano nelle acque dell’Adria la bella faccia ancor veneziana, [203] una borghesia slava di professionisti, di mercanti, di banchieri, di professori, di giornalisti, che si atteggia a rivale e nemica dell’italiana. Siccome gli slavi son più numerosi e prolifici degli italiani, non solo la costa Dalmata, ma l’Istria stessa, e in questa Trieste, difficilmente potranno scampare al pericolo di slavizzarsi se l’Austria aiuterà ancora per mezzo secolo gli slavi con la forza di uno Stato potente. Solo conquistando l’Istria, noi potremo impedire che a Trieste non si parli e non si scriva più tra cinquant’anni italiano; e che ogni memoria dell’Italia sia perduta in quelle terre che dai tempi di Augusto in poi furono sempre latine. Il che sarebbe come una disfatta storica dell’Italia. Per ragioni che sarebbe troppo lungo enumerare, è cosa oggi assai difficile di conquistare alla lingua italiana nuovi territori. Tanto maggiore è dunque il nostro dovere di impedire che nessuno dei territori in cui oggi si parla italiano lo dimentichi.
Non sono dunque nè poche nè di poco momento le ragioni che spingerebbero oggi l’Italia a unire le proprie armi a quelle che già fanno guerra agli Imperi germanici. Sono ragioni così vitali che, se l’Italia resterà con le braccia incrociate, è facile prevedere possa riceverne un colpo mortale. Si dovrebbe quindi credere che in Italia popolo e Governo siano uniti e concordi nel deliberato proposito di [204] rompere gli indugi e di affrettare il destino. Molti stranieri infatti sono di questo pensiero; e di giorno in giorno aspettano che l’Italia si muova. Ma passano le settimane e i mesi, senza che il gran gesto si compia: onde ogni tanto molti voltano la testa sorpresi verso il Mediterraneo e la penisola che in quella è chiusa, come chiedendo: «Ma che cosa dunque aspetta l’Italia?». Quante lettere mi giungono ogni settimana, da ogni parte, che mi pongono tutte la grande questione: «Ma l’Italia cosa fa? Quando suonerà l’ora del destino?».
Eppure è così. Gli stranieri si ingannano. Quella volontà concorde, risoluta ed unanime di tutti, che molti stranieri suppongono, non esiste ancora. L’Italia è perplessa e divisa. C’è ancora chi pensa che l’Italia avrebbe dovuto scendere in campo con l’Austria e la Germania contro la Francia, la Russia e l’Inghilterra. C’è chi vuole che l’Italia conservi la neutralità sino alla fine della guerra; e chi vuole infine, che essa intervenga a fianco della Francia, dell’Inghilterra e della Russia contro l’Austria. Di queste tre opinioni, la prima ormai non è professata apertamente che dai pochi fedeli della Triplice ancora superstiti; tra la seconda e la terza è diviso quasi tutto il Paese; ma sebbene non sia cosa facile fare il conto di quelli che professano l’una e di quelli che professano l’altra opinione, non è dubbio che la maggioranza parteggia per la neutralità. Se guardiamo al mondo politico, noi troviamo infatti apertamente favorevoli alla neutralità il partito socialista e il partito clericale; apertamente favorevoli all’intervento il partito repubblicano, il partito riformista, che [205] raccoglie la parte più moderata del partito socialista, e il partito radicale; incerto e perplesso il partito liberale, che è nel Parlamento il più numeroso. Ma il partito socialista e il partito clericale hanno un seguito ben più numeroso che non il partito radicale, il partito repubblicano e il partito riformista.
Se dai partiti politici si passa al Paese si può affermare che il popolo — i contadini e gli operai — sono quasi tutti avversi ad ogni guerra, anche alla guerra contro l’Austria. I ceti industriali, commerciali e finanziari sono più favorevoli alla pace che alla guerra; ma la maggiore istruzione facendo chiaro a molti che in questo mondo non basta voler la pace per averla, questi ceti si rassegnano alla guerra, se questa sarà necessaria, come a una disgrazia che non c’è mezzo di schivare. Bellicose — con maggiore o minor fervore — sono invece le classi istruite: la burocrazia, i giornalisti, gli insegnanti delle scuole, molti professionisti. Quasi tutti i giornali largamente diffusi predicano la guerra all’Austria.
Anche più difficile è il distinguere tra regione e regione. Differenze da città a città non mancano mai, in Italia; ma questa volta sono più incerte e confuse che di solito. Pare che il Veneto, il quale confina con l’Austria, sia favorevole alla guerra. Il Piemonte invece l’avversa risolutamente, mentre la Lombardia e la Liguria sono divise. Nell’Italia centrale ci sono regioni, come la Romagna, dove lo spirito bellicoso, forse per opera del partito repubblicano, è entrato nella moltitudine; ma anche nell’Italia centrale il partito favorevole alla neutralità è forte. Si [206] dice invece che il desiderio della guerra prevalga nell’Italia meridionale e in Sicilia. Molte persone che conoscono a fondo quei paesi me l’hanno ripetuto.
L’Italia, dunque, esita; e pur parteggiando per la coalizione, pur desiderando che l’Inghilterra, la Francia e la Russia siano vittoriose, inclina ancora più alla neutralità ed alla pace che all’intervento e alla guerra. Ma per capire quel che è successo e quel che potrà succedere in Italia non basta sapere quale è lo stato presente dell’opinione pubblica; occorre conoscerne le ragioni. Come è accaduto che l’Italia nel 1915 sia così lenta a intendere quella necessità nazionale, che Giuseppe Mazzini spiegava già sin dal 1866 con così luminosa chiarezza? Perchè è disorientato là dove anche gli stranieri vedono chiaro? E per sciogliere questo quesito, occorre rammentare che nel 1882 l’Italia contraeva con l’Austria e la Germania un’alleanza la quale, rinnovata parecchie volte, è ancora valida, almeno in teoria, poichè non è stata denunciata neppure quando scoppiò la guerra Europea; ricordare quali obblighi impose all’Italia questa alleanza. L’Italia era, tra le tre Potenze alleate, la più debole, perchè aveva un territorio più angusto, popolazione meno numerosa, l’esercito più piccolo, mediocre ricchezza e prestigio militare; onde dovè nei patti subire la volontà dei due troppo potenti alleati. D’altra parte è chiaro che l’Austria non avrebbe [207] stretta alleanza con l’Italia, se il Governo italiano non avesse cancellate le terre italiane dell’impero dal novero delle sue rivendicazioni ufficiali. Così fu che, dopo aver stretta alleanza con l’Austria, il Governo italiano dovè con le scuole, i giornali e i partiti che a lui erano ligi, con tutti i mezzi insomma di cui dispone in Europa un Governo — e son più numerosi e potenti che in America — combattere e proscrivere «l’irredentismo», come lo chiamiamo noi; fare quanto poteva affinchè la nazione dimenticasse che degli italiani vivevano ancora sotto lo scettro degli Absburgo, che il confine orientale era aperto all’invasione nemica, che nell’Adriatico Italia e Austria erano nemiche non per malvolere di uomini, ma per ragioni geografiche. Ci furono anni in cui, di Trento e di Trieste, degli Italiani sudditi dell’Austria e delle cose loro, era prudenza parlare in Italia a voce bassa, chi non volesse aver delle noie; e sempre fu più prudente il non parlare affatto, massime per gli uomini di Stato che non volevano cadere in disgrazia.... Restò famoso, verso il 1890, il caso del ministro Seismit-Doda. Faceva costui parte di un Ministero presieduto dal Crispi; ed ebbe un giorno la disgrazia di essere invitato ad un pranzo pubblico, non ricordo più per quale cerimonia, in una città posta poco lungi dal confine austriaco. A questo banchetto assisteva un giovane deputato, che al levar delle mense fece un discorso, ed alluse al vicino confine di cui l’Italia non poteva dichiararsi contenta. Il ministro ascoltò senza battere ciglia e senza dare a divedere alcun sentimento: e che altro avrebbe potuto o dovuto fare? Ma per non aver protestato, fu in ventiquattro ore destituito.
[208]
Ho ricordato questo fatterello perchè chiarisce meglio di lunghi ragionamenti a che prezzo l’Italia potè stringere alleanza con l’Austria. Ogni tanto qualche nuova persecuzione degli Italiani sudditi dell’Austria, che non si poteva nascondere; qualche episodio della lotta incessante tra slavi e italiani di cui era necessario informare il pubblico, ricordavano all’Italia che il problema adriatico poteva essere dimenticato, non sepolto. Ma il Governo, stretto dal suo patto, lasciava sbollire il primo dolore; poi con i suoi giornali, con i suoi partiti, con tutti i mezzi di cui disponeva, cercava di affrettare l’opera del tempo che tutto oblia.
Per lunghi anni, dunque, alle provincie irredente non restarono altri protettori in Italia che il partito radicale e il partito repubblicano — i quali però avevano poca autorità; e qualche poeta che ogni tanto, tra una lirica di amore e una baruffa letteraria, saettava una manciata di giambi contro l’Austria e gli Absburgo. Certamente il Governo italiano faceva le viste di aver dimenticati gli Italiani soggetti all’Austria, più che non li avesse dimenticati. La diplomazia sa l’arte di eludere un trattato, mentre sembra osservarlo. Un giorno, in cui tanti segreti saranno svelati, si saprà forse anche come dei Ministeri, i quali perseguitavano in Italia le agitazioni irredentiste, copertamente aiutavano con denaro gli Italiani dell’Istria e della Dalmazia contro gli slavi e il Governo austriaco. Nè la tradizione irredentista si perdeva tra [209] le classi intellettuali. Giosuè Carducci, lo scrittore che l’Italia ha canonizzato come il maggiore della seconda metà del secolo XIX, a cui il Governo ha tributato nell’ultima parte della sua vita i più grandi onori ufficiali, e al quale sta erigendo un monumento in Bologna, fu un nemico implacabile dell’Austria. Insomma, il Governo italiano avrebbe potuto far suo, per Trento e per Trieste, il consiglio che Gambetta diede ai Francesi per l’Alsazia e la Lorena: pensarci sempre e non parlarne mai. Credeva forse di provvedere così nel tempo stesso agli interessi presenti dell’Italia e di riserbare l’avvenire.
Ma le classi governanti non si accorgevano che, mentre esse pensavano in silenzio a Trento e Trieste, anche in Italia, come in tutta l’Europa, l’intera fabbrica dello Stato crescendo di mole e di altezza, era necessità rinforzarne e ingrandirne le fondamenta, che posano sulla plebe. A poco a poco il servizio militare e per conseguenza anche il diritto di voto si allargavano. Era forza quindi istruire la plebe: ma questa istruendosi non poteva non smettere una parte dell’antica docilità; si raccoglieva in associazioni, parteggiava, voleva leggere i suoi giornali, e far sentire la sua voce al Governo. Oggi, in Italia, come in ogni altra nazione d’Europa, nessun Governo potrebbe obbligare con la forza il popolo a fare una guerra, senza avergliene spiegata in qualche modo la ragione. Ma per persuadere la plebe poco colta, che l’Italia dovesse, presentandosi l’occasione, sforzarsi di compiere anche con le armi l’unità nazionale, e per averla pronta in quel giorno al cimento, non bastava pensare in silenzio ai fratelli ancor soggetti all’Austria: [210] occorreva parlarne al popolo e di continuo; spiegargli che cosa fosse e che cosa minacciasse il pericolo austriaco, come la Francia non ha smesso un istante di spiegare al popolo, dopo il 1870, il pericolo tedesco; toccare il sentimento, alimentare una fiamma di passione popolare con le formole diplomatiche e militari della questione adriatica. Non si prepara la moltitudine alla guerra con i ragionamenti, che possono convenire alle dotte discussioni di una Accademia di scienze politiche o di un Consiglio superiore di guerra. Chi ha parlato invece al popolo di Trento e di Trieste, negli ultimi trent’anni? Nessuno. La letteratura, che ha conservata nelle classi colte la tradizione irredentista, non è letta dalla plebe. La scuola, che è un’istituzione ufficiale, non ha potuto diventare un organo di propaganda avversa all’Austria. Dei partiti politici, il partito conservatore e il liberale, ligi al Governo, si sono chiusi nel silenzio. Il partito radicale e il partito repubblicano, che invece non vollero mai tacere, non hanno mai avuto largo seguito, fuori che in certe regioni. Grande ascendente ha acquistato invece sulla plebe, in tutta Italia, il partito socialista: ma anche questo ha parlato al popolo di cose ben diverse che non fossero le provincie irredente dell’Austria. In conclusione, quando la guerra europea è scoppiata, il popolo non aveva che un vago sentore di quel che l’Italia potesse o dovesse fare nell’Adriatico.
[211]
È facile dunque capire in quali strette terribili si è trovato ad un tratto il Governo italiano, allo scoppio della conflagrazione europea. Pochi episodi della storia possono dimostrare più luminosamente non esserci nè forza nè accorgimento di Governo che possa sostenere alla lunga una politica troppo artificiosa. Sino al 24 luglio l’opinione pubblica italiana era più incline a Germania che a Francia. Da due anni c’era molto malumore tra i due popoli latini, per le diverse questioni nate in Oriente ed in Africa dalla nostra guerra di Tripolitania: e i giornali come i partiti ligi al Governo si sforzavano, quanto potevano, di irritare ancora più quell’acredine ormai invelenita. Ma otto giorni bastarono a capovolgere il sentimento della nazione. Nessuno di noi dimenticherà finchè viva il procelloso tumulto di affetti che si levò in Italia, in quella ultima settimana del luglio fatale e nelle prime settimane dell’agosto del 1914; prima l’irritazione per le prepotenti minaccie dell’Austria alla Serbia; poi l’irritazione per le tortuose mosse delle due diplomazie tedesche nei giorni successivi, e per le oblique intenzioni di cui erano indizio; indi lo stupore e il terrore, allorchè la Germania sfoderò improvvisamente la spada dichiarando guerra alla Russia e alla Francia: infine lo sdegno e il furore, quando gli eserciti tedeschi si precipitarono per il Belgio neutrale sulla Francia....
[212]
L’Italia voleva la pace; si era acconciata a sopportare molti danni procedenti dalla Triplice alleanza, perchè l’avevano assicurata che, sinchè fosse alleata dei due Imperi germanici, la guerra non avrebbe sconvolta l’Europa: essa non potè perdonare, in quel momento supremo, ai due Imperi alleati di aver tradita la sua suprema speranza. Senonchè questa giusta collera pubblica buttava a terra in un giorno, come un terremoto, tutto l’edificio che il Governo italiano aveva pazientemente architettato in trent’anni. Il Governo italiano ebbe ragione di negare il casus foederis; ma anche ci fosse stato il casus foederis, come avrebbe potuto costringere la nazione a versare il suo sangue per difendere la causa dei due Imperi aggressori? L’Italia si dichiarò neutrale perchè la nazione, inorridita, non volle prestare man forte all’aggressione premeditata dai due Imperi centrali. Passò così l’agosto, e quelle settimane in cui ci toccò di ascoltare le prime urla frenetiche di vittoria degli aggressori e dovemmo chiederci se davvero la Giustizia era passata in qualche altro pianeta, per punire gli uomini di averne tanto negletti gli altari. Per fortuna nella prima quindicina di settembre i russi vincevano la battaglia di Lemberg, i francesi la battaglia della Marna: e sbollito un poco lo sdegno dei primi giorni d’agosto, calmatasi l’ansia del cominciar di settembre, l’Italia prese a riflettere più ponderatamente sui terribili eventi di cui l’Europa era teatro. Al Governo, a quanti avevano esperienza di cose politiche e giudicavano senza passione, apparve allora chiaro che se restasse neutrale, l’Italia potrebbe trovarsi dopo la guerra in grande pericolo, qualunque fosse la parte vittoriosa. [213] Vincessero, ad esempio, i due Imperi germanici: l’Austria conquisterebbe la Serbia, si amplierebbe, si rafforzerebbe di nuovo prestigio, e che altro scampo sarebbe rimasto all’Italia, che già ora è più piccola, più debole e meno popolosa dell’Austria, se non di rassegnarsi a figurar nel codazzo degli Stati suoi clienti, insieme con la Rumenia e con la Bulgaria? Avremmo noi potuto sperare aiuto od appoggio dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Russia, vinte e indebolite? Se invece i due Imperi germanici fossero vinti e l’Austria mutilata, senza che all’Italia toccasse il brandello che è suo, le classi intellettuali non perdonerebbero più, questa volta, nè alla Dinastia nè al Governo; e dimenticando di aver approvata e favorita per trent’anni tutta l’opera del Governo, gli rinfaccerebbero spietate tutti quegli atti che a suo tempo approvarono come saggissimi. Ma a schivar Scilla senza incappare in Cariddi, era forza muovere guerra all’Austria. Ora non è facile, come ognuno intende, improvvisare in pochi mesi la guerra contro un Impero, dopo esserne stati per trentatrè anni alleati.
Le maggiori difficoltà con cui il Governo si trova alle prese sono due: la avversione, non aperta ma tenace di una parte assai potente delle classi governanti, che non vuole la guerra contro l’Austria, perchè è amica della Germania e vuol sostenere in Europa il germanesimo; e l’avversione aperta della plebe [214] che, pur essendo avversa ai tedeschi, non vuol fare la guerra se l’Italia non è assalita, perchè preferisce la pace. Le classi governanti dell’Italia sono state troppo germanizzate negli ultimi trent’anni, nelle Scuole e nelle Università, dalla scienza, dalla filosofia, dalla letteratura, dai giornali, perchè potessero davvero e sul serio inorridire di questa sanguinosa avventura, che è, come la Riforma, come la filosofia di Hegel, come la Monarchia prussiana, un’opera genuina dello spirito germanico. Dopo il 1870 hanno di continuo tentennato tra le ideologie umanitarie e democratiche venute di Francia, che ci erano state di così grande aiuto a rifarci nazione; e le dottrine autoritarie, gli antichi e recenti evangeli della forza a cui le vittorie della Germania avevano conferita nuova autorità: hanno sempre spregiate nell’intima coscienza le ideologie umanitarie e democratiche, come tante altre cose venute di Francia, e si sono sentite attratte piuttosto dalla forza tedesca; ma si erano troppo servite, in passato, di quelle ideologie, se ne servono troppo nel presente, da osare apertamente negarle! Onde le infinite contradizioni in cui si sono smarrite negli ultimi trent’anni, e quando la guerra europea scoppiò. Universale fu da prima, anche nelle classi governanti d’Italia, lo sdegno per l’aggressione germanica e la gioia per la vittoria delle armi francesi sulla Marna: ma poi, a poco a poco, dileguata la prima impressione, mentre una parte veniva meditando su quel che succederebbe all’Italia se essa uscisse dalla crisi a mani vuote, un’altra parte si chiedeva quel che succederebbe se il germanesimo fosse troppo indebolito in Europa [215] In quale misura sarebbe perturbato l’equilibrio politico, religioso, intellettuale, economico dell’Europa? E quanti di questi perturbamenti nuocerebbero al prestigio, alla potenza, alla ricchezza di questo o di quel partito, di questa o di quella consorteria, di questo o di quel gruppo? E rotta per sempre la Triplice Alleanza, non incomincerebbe per l’Italia un nuovo periodo storico, diverso dal precedente, in cui bisognerebbe mutar troppe delle antiche cose? Gli uomini e i gruppi politici che per trent’anni avevano insegnato all’Italia che la Germania era invincibile, che l’Austria e la Germania erano lo scudo delle nostre fortune, che cosa potrebbero dire e fare il giorno in cui l’Italia movesse in armi contro i suoi antichi alleati? Alcuni anche sentono degli scrupoli sinceri di lealtà.
A questa parte delle classi governanti si oppone l’altra, che si sforza con grande ardore di riguadagnare il tempo perduto; e cerca di convincere il popolo esser necessario muovere guerra all’Austria, per rivendicare nell’Adriatico l’eredità della Serenissima e liberare i fratelli ancora irredenti. Ma la plebe sinora è rimasta piuttosto fredda, perchè a suscitar nella moltitudine numerosa, torpida e lenta, una grande passione incitatrice, occorrono le lunghe preparazioni. È facile dunque capire che, sinchè queste due opposizioni, o almeno una delle due non venga meno, l’intervento dell’Italia nel conflitto europeo non sarà un’impresa così semplice e facile come molti stranieri pensano. Tuttavia io credo che, nonostante queste difficoltà che sono grandissime, l’Italia prenderà parte alla guerra europea contro [216] l’Austria, accanto alla Francia, all’Inghilterra, alla Russia. Se tra un mese o due o tre, se quando le nevi si scioglieranno sulle Alpi o prima, io non lo so, e forse lo ignora ancora lo stesso Governo. Gli eventi indicheranno il momento; ma il momento dovrebbe scoccare....
E per questa ragione, precipuamente: che sebbene le difficoltà e i pericoli del muovere guerra siano grandi, verrà il giorno in cui, massime se la fortuna delle armi continuerà ad essere avversa all’Austria, il pericolo del non agire apparirà anche maggiore. E apparirà maggiore del primo perchè se l’Austria fosse vinta e mutilata, senza che l’Italia riscattasse in libertà le provincie italiane, tutta Italia, anche quella parte che ora più ardentemente chiede di restare neutrale, capirebbe alla fine quel che da un pezzo pochi spiriti più illuminati avevano inutilmente veduto: che se si può discutere intorno alla Triplice Alleanza, quale fu stipulata nel 1882, se cioè fu allora errore o no lo stipularla, fu certo errore grave averla rinnovata così a lungo, dopochè la Triplice Intesa si era stretta, ed errore gravissimo non essersi accorti che dal 1905 in poi l’Alleanza aveva mutato scopo e indirizzo. Pur quanti pensano che l’Italia avrebbe fatto meglio a non legarsi nè nel 1882 nè mai con i due Imperi germanici, riconoscono però che dal 1882 al 1900 la Triplice Alleanza ebbe il merito di volere la pace. In Germania governava la generazione che aveva combattute le guerre del 1866 e del 1870; e che chiedeva soltanto di conservare gli acquisti fatti con tanta fortuna. Ma dal 1900 in poi, a poco a poco, lo spirito pubblico muta in Germania; [217] cresce una nuova generazione, che, piena di orgoglio e ignara di guerra, sogna le glorie e i lucri di una egemonia mondiale; mentre l’Austria, che non è riuscita a trovar ristoro all’interno travaglio nella pace, ricomincia a pensar di salvarsi con la guerra. L’alleanza, dal 1905, dopo la questione del Marocco, diventa aggressiva: ma il Governo italiano, che pure, come il popolo, voleva ancora e solamente la pace, non se ne accorge; vede sempre con gli occhi antichi nella Germania il custode armato e vigile della pace europea[2]; non fa nulla nè per impedire la catastrofe nè per preparare l’Italia ad affrontarla; rinnova ad ogni scadenza il patto; lascia gli antichi rapporti con l’Inghilterra raffreddarsi e rallentarsi; aizza ogni tanto l’opinione pubblica contro la Francia; e lascia la guerra europea sopraggiungere l’Italia alleata di due Potenze con cui non voleva combattere; inclinata alle Potenze di cui avrebbe dovuto esser nemica; e poco preparata ad intendere che la neutralità sarebbe una specie di suicidio nazionale.
Che cosa potrebbe accadere se, terminata la guerra europea, quando l’Italia dovrà penare con gli altri [218] popoli d’Europa nella lunga miseria che allora accomunerà belligeranti e neutrali, vinti e vincitori, dovesse per di più sentirsi delusa per l’occasione mancata, odiata dagli uni come traditrice, spregiata dagli altri come inetta e pavida; e se il partito repubblicano, il partito socialista, i malcontenti, gli ambiziosi, i mestatori approfittassero dello stato d’animo popolare, per indagare come e per colpa di chi questi errori sono stati commessi? Questa paura spingerà al momento decisivo il Governo ad agire; ossia — per esprimere la stessa idea con altre parole — il Governo sarà un giorno obbligato a far la guerra all’Austria perchè troppo lungamente, fedelmente e quasi devotamente ne fu alleato. Questo basti, per dire quanto la situazione sia oscura e difficile. Ma è un destino a cui non si può sfuggire. La fortuna, che ci ha assistito altra volta, non vorrà abbandonarci oggi. Ma che i numerosi amici dell’Italia sparsi nel nuovo mondo, non si facciano illusioni e non si meraviglino se l’Italia tarda tanto a muoversi. Il cimento a cui essa si avvia, sarà il più aspro e pericoloso a cui si è accinta dal 1859. Quanti amano il proprio Paese e non prendono le cose troppo alla leggera, non dormono oggi sonni tranquilli. Come vorrei che questo terribile anno passasse presto; e che potessi domani svegliarmi nel 1916, fuori di tutti gli orrori e di tutti i pericoli di cui sentiamo incombere la nuvolosa minaccia sul nostro capo!
[219]
Che l’on. Giolitti si proponesse, se non di accettare definitivamente, di discutere le ultime concessioni dell’Austria e di tenere l’Italia almeno per qualche tempo ancora in disparte dal grande conflitto, è cosa ormai manifesta e che del resto non meraviglia. La guerra tra l’Italia e l’Austria è stata l’opera dei «pennaroli» — come li chiamava quel Borbone, che li spregiava e temeva; dell’«intelligenza» come oggi si dice qualche volta non senza pretensione e seguendo un vezzo tedesco; della gente di cappa e di penna insomma, o, per parlar più alla buona, delle classi colte: giornalisti e poeti, professori e avvocati, studenti ed artisti. Ma tra queste classi e l’on. Giolitti non c’è mai stato buon sangue. L’uomo che per tanti anni ha governata l’Italia è un fonditore che maneggia la fiamma, non una falena che ci si butta dentro; un uomo di Stato, simile a tanti altri che l’Italia ha generati in tutti i secoli, freddi e cauti [220] nel fuoco delle passioni che attizzano per governare. Poteva l’«intelligenza» del Paese mandar la Poesia e la Storia, la Geografia e la Filologia, la Retorica e la Strategica, tutte le Muse per i trivii e le piazze a bandire la guerra: sinchè il popolo tirava via sbadato, lasciando queste nobili signore predicare a un piccolo cerchio di già convertiti; sinchè il suffragio universale non avesse dato il suo consenso alla guerra, l’uomo di Stato, che il suffragio universale aveva imposto all’Italia riluttante, avrebbe considerato savio consiglio cercare sino all’ultimo di conciliare le aspirazioni degli uni e le riluttanze degli altri tentando una via di mezzo. Chè null’altro se non una via di mezzo tra l’intervento e la piena neutralità erano i compensi da ottener per trattato.
Così pensando, il princeps del Parlamento teneva fede al suo modo proprio di vedere e di governare, anche se, come altre volte, si dimostrava un po’ troppo sollecito soltanto delle difficoltà immediate e dei primi effetti. Quando l’8 maggio egli partì da Torino alla volta di Roma, la situazione era ancora quale l’avevo descritta sul finire di gennaio nelle pagine mandate all’Atlantic Monthly e ristampate in questo volume. In alto il partito germanofilo che, piccolo e schivo di apparire, ma attivo e potentissimo, non tralasciava sforzi, pur dissimulandoli, per impedire la guerra: in basso le plebi o apatiche o avverse; tra quello e queste, a mezza costa, le classi medie, incerte e desiderose se si potesse, di schivare la prova; i due partiti di maggior seguito — il clericale e il socialista — per la prima volta concordi nel chiedere che l’Italia non prendesse le armi; il [221] Parlamento in maggioranza avverso all’intervento, la Camera, perchè paurosa del suffragio universale, il Senato, perchè cariato di germanesimo sino alle ossa. Insomma, il Paese più incline a pace che a guerra; ma tutto cosparso di piccoli e focosi stormi di partigiani della guerra, accorsi dalle biblioteche, dalle scuole, dagli uffici dei giornali, dai partiti di poco seguito, come il riformista e il repubblicano; e rinforzati da non pochi dispersi e fuorusciti di tutti gli altri partiti. Dimodochè chi guardava al Paese solo e considerava lo stato degli animi, poteva conchiudere, che il capo della maggioranza avesse il diritto e il dovere di andare a Roma a rovesciare il Ministero, che preparava in segreto la guerra; e non poteva dubitare che riuscirebbe. Autorevolissimo a Palazzo, così potente nel Parlamento da averlo forzato ad approvar perfino la legge del suffragio universale, egli poteva fare assegnamento per quella sua mossa lungamente studiata sulla piazza, sulla maggioranza del Parlamento che questa volta era d’accordo con lui, sul partito socialista, sul partito clericale, e sul consenso, sia pure generico, del maggior numero che, senza troppo stillarsi il cervello a pensare il pro e il contro, chiedeva la pace perchè temeva la guerra. Gli stava invece a fronte un Ministero, il quale aveva vissuto sino allora delle sue elemosine di fiducia; alcuni giornali diffusi; alcuni partiti che avevano più ardore che seguito; e quegli stormi di propagandisti focosi: poca gente, a contarla, per quanto facesse un rumore indiavolato.
L’autore di queste pagine aveva sul finire di gennaio scritto all’Atlantic Monthly e aveva ripetuto in [222] diverse occasioni, a gazzettieri dei due mondi venuti a chieder la sua, del resto punto autorevole, opinione, che a suo giudizio l’Italia sarebbe stata presto o tardi costretta alle armi. Ma egli pure, ogni tanto, si chiedeva per che canale questa necessità e fatalità storica irromperebbe nei fatti, rovesciando le opposte volontà degli uomini e dei corpi legali; e non riusciva, per quanto aguzzasse il pensiero, a imaginarlo. Ben pochi furono i partigiani dell’intervento, i quali, la mattina dell’11 maggio, quando videro delinearsi chiaramente nei giornali consapevoli e partecipi la mossa del potentissimo parlamentare, non ebbero per spacciata la loro causa. Soltanto un colpo di Stato poteva ormai salvarla: ma chi poteva supporre che il Ministero avesse muscoli per un colpo di Stato? Quando ad un tratto, qua e là, qualche esasperato partigiano della guerra grida al vento, tanto per sfogare la rabbia, pur sapendo che il vento la disperderà, una parola vaga e terribile: tradimento! Ed ecco — oh sorpresa! — quel grido non si perde; altre voci più numerose e più lontane rispondono da varie parti «tradimento, tradimento!»: i primi, incoraggiati, urlano più forte; gli altri rispondono più numerosi; e in poche ore il grido ripetuto, ripreso, scritto a carbone sui muri, impresso a stampa su cartelli, ingrandito dai megafoni dei giornali, vola di quartiere in quartiere, di villaggio in villaggio, di città in città, da un mare all’altro. Tutti i partigiani della guerra — repubblicani, riformisti, radicali, moderati — stringono una fulminea alleanza; le dimostrazioni si ripetono in tutte le città, ingrossano, infuriano; i giornali dànno assalti furibondi; in tutta Italia si leva [223] un immenso clamore, un turbine di invettive, un ciclone di collera che investe l’uomo più potente d’Italia, i suoi amici, il suo partito, il principe di Bülow, gli Imperi centrali, e a cui nessuna forma morale — libera od organizzata — ha saputo resistere. Intimiditi e stupefatti i socialisti non si sono mossi; la piazza, su cui il partito della pace faceva tanto assegnamento, si è vuotata come per miracolo; i clericali si sono appartati, come il pubblico sorpreso e disorientato, quella parte almeno che non ha fatto coro, vinta dall’esempio, con i fischianti e gli urlanti; amicizie, convinzioni, interessi, speranze, tutti i nodi che legavano al suo capo quella potente clientela, di cui abbiamo nelle pagine antecedenti studiata l’origine e la struttura, si sono sciolti: l’uomo che sino al giorno prima era l’arbitro della pubblica cosa, è stato isolato nella sua casa: e nel grande vuoto fattosi intorno a lui la folla insorta è passata correndo, e non trovando inciampo o barriera, è giunta trafelata alle porte di Montecitorio; ci ha fatto irruzione; e gridando, rompendo vetri, fracassando mobili, malmenando i malcapitati amici dell’antico ministro ha imposto il Ministero e la guerra.
Chi non ha sentito, in quei giorni, prorompere da ogni parte quelle forze ignote e latenti, che sono il fenomeno più terribile e grandioso della storia? [224] Senonchè giova soffermarsi un istante ad analizzare quanto è possibile queste forze ignote e latenti che hanno dichiarata, per conto del Governo ma per propria iniziativa, la guerra all’Austria, se si vuole intendere quel che è successo e quel che oggi importa di fare.
Quando, la mattina dell’11 maggio, il pubblico intravide che il capo della maggioranza si apprestava a terminare, secondo il modo usato, l’interregno durato più di un anno, e, ripreso il potere, a ripigliare i negoziati con l’Austria-Ungheria, un pensiero balenò subito a molti, che pur conoscevano ancora imperfettamente il vero stato delle trattative. «L’Italia farà come la Grecia!». E pur non sapendo precisamente che cosa l’Italia dovesse e potesse fare, si sentirono umiliati ed offesi, prevedendo che l’Europa non perdonerebbe all’Italia quel che aveva potuto perdonare alla Grecia. Altri furono offesi da quel consiglio troppo aperto di mercanteggiare freddamente sino all’ultimo il sangue e la pelle della Serbia, come da un egoismo che ledeva l’onore. Altri si sentirono stringere il cuore, pensando al nuovo schianto delle rinate speranze degli italiani soggetti all’Austria. Altri smaniò per l’occasione che l’Italia stava per perdere; o si infuriò per le sospettate e sussurrate ingerenze del principe di Bülow nelle faccende interne del Regno; o si dolse del vantaggio che deriverebbe agli Imperi germanici da questo trionfo diplomatico. Ci fu chi temè il risentimento delle Potenze della Triplice Intesa e il giudizio del mondo aspettante; e chi avendo tollerato a stento già due interregni e luogotenenze, perdè la pazienza appena vide che si [225] voleva ricominciare il gioco, e in cospetto dell’Europa in armi, questa volta! Molti si sdegnarono per la strapotenza di quell’uomo che anche nella vita privata comandava a tutti e occupava un posto intermedio tra il Presidente del Consiglio e il Sovrano. Altri che dalla consorteria da lunghi anni dominante erano stati o esclusi o offesi o maltrattati o solo anche non favoriti, e che pure erano stati sino al giorno prima tepidi fautori dell’intervento, vollero la guerra appena si accorsero che la guerra poteva diroccare la consorteria dominante. Quanti odî inveterati, che si nascondevano perchè ormai disperavano della vendetta, sono ricomparsi tutti allegri nella via, gridando e strepitando, non appena sentirono che il giorno della vendetta era finalmente spuntato! È sorte comune di tutti i Governi invecchiati aver pochi nemici palesi e molti nemici occulti, i quali sbucano da tutte le parti a viso scoperto, appena quelli vacillano.
Ma su questi sentimenti così diversi grandeggiò in tutti uno spavento comune: che della pace e della guerra dovesse decidere il Parlamento. Il Parlamento non è stato pur troppo mai, in Italia, una istituzione di molto vigore. Ma è maggiormente scaduto da dieci anni in qua, a mano a mano che quel potere tra costituzionale e personale di cui abbiamo già tenuto discorso negli studi precedenti, ha vuotato l’Istituto parlamentare del suo midollo vitale — i partiti, la discussione, il principio di maggioranza — non lasciandone in piedi, come certi alberi stravecchi, che la morta corteccia, una apparenza e una finzione, per governare facilmente e senza contrasto. Si fecero rari nel Parlamento gli uomini, i gruppi e i [226] partiti che avessero autorità; non rimasero che uomini, gruppi e partiti i quali avevano del potere; e il Paese sospirava e ogni tanto si doleva a parole di questo decadimento, ma non cercava o tentava nessun rimedio; anzi approfittava del male senza scrupolo, allorchè se ne porgeva il destro. Ma quando parve che il Parlamento dovesse decidere la pace o la guerra, molti sbigottirono. Arbitro delle sorti comuni il Parlamento, e cioè quella Camera e quel Senato? Il Parlamento che aveva lasciato crescere entro sè quel potere personale da cui tanti si sentivano offesi in quel momento, pur non sapendo precisamente il perchè? Il Parlamento che aveva approvato il monopolio delle assicurazioni, pur pensando che la legge era funesta, e il suffragio universale, pur temendo che la riforma fosse immatura? Il Parlamento che era stato inerte testimone della guerra di Tripolitania, e che aveva lasciata rinnovare innanzi tempo la Triplice Alleanza senza nemmeno chiedere una spiegazione al Governo? Il Parlamento che, fidando ciecamente nella saggezza di un uomo, aveva lasciato obliterare a poco a poco i suoi diritti e poteri?
Da queste collere, da questi sdegni, da queste apprensioni, da queste angoscie, levatesi incontratesi accozzatesi insieme, nacque negli uffici dei giornali, in mezzo alle studentesche, nelle biblioteche, nelle scuole, e tra la gente che sa di lettere, come dicevano i nostri vecchi, il moto di opinione, che ha deliberata la guerra, esautorando il Parlamento. Come nella primavera del 1912 un capo potente tra tutti aveva obbligato il Parlamento nolente ad approvare il suffragio universale, che fu un fiero colpo all’influenza politica [227] delle classi colte, nella primavera del 1915, a loro volta, le classi colte hanno obbligato il Parlamento, con una violenta agitazione di piazza e di stampa, a rinnegare quel capo e a fare la guerra.
Sarebbe vano il tentar di negare che l’atto sia stato grave. Conviene dunque che ci chiediamo se la collera pubblica, che ha compiuto quell’atto rivoluzionario, era giustificata; e quali doveri l’atto imponga oggi a tutti.
Per giudicare se la collera pubblica era giustificata, occorre conoscere quale fosse, verso il 10 maggio, la situazione diplomatica dell’Italia. Studiamo dunque il Libro Verde. Nel trattato della Triplice Alleanza era stato inserito un articolo, il settimo, la cui lettera non è ancora nota a noi semplici mortali, ma il cui tenore si arguisce dalle discussioni che intorno a quello sono fatte nel Libro Verde. Con quel patto l’Austria-Ungheria e l’Italia si impegnavano ad intendersi prima e a concedersi a vicenda dei compensi, per ogni azione dell’una e dell’altra Potenza, che alterasse l’equilibrio dei Balcani. Richiamandosi appunto a questo patto, il 9 dicembre del 1914 l’onorevole Sonnino chiede all’Austria, che tentava in quei giorni di invadere la Serbia, di intavolare la discussione intorno ai compensi che all’Italia spettavano per ciò che l’Impero vicino aveva fatto, faceva e potrebbe [228] fare in Serbia e contro la Serbia. Da questa prima domanda prende le mosse una discussione, che ha durato sino alla fine di aprile: una discussione, nella quale pur troppo l’Italia ha dovuto far figura di mercanteggiare per cinque lunghi mesi, freddamente, brano a brano, la pelle della Serbia; ma che l’Italia, per quanto il discutere potesse ripugnarle non poteva schivare. Nessun Governo avrebbe potuto lasciar cadere in prescrizione i diritti contenuti in quel fatale articolo settimo, senza incorrere in una terribile responsabilità il giorno in cui il testo del trattato fosse stato conosciuto. «Che avete fatto dei diritti dell’Italia?» — avrebbe gridato quel giorno al Governo il Paese. Era dunque necessità chiedere i compensi, e, chiestili, discuterli. Non starò a seguir passo passo la lunga discussione, chè sarebbe una inutile fatica: dirò solo che entro gli angusti limiti delle convenzioni e dei principî che regolano l’azione diplomatica, l’on. Sonnino ha discusso con pazienza, con dignità e con abilità, in modo da poter rompere con l’Austria plausibilmente, in base al trattato medesimo. Ma sia, come è probabile, che l’articolo settimo fosse vago e impreciso, e fosse stato scritto in vista di eventi ben diversi da quelli a cui era forza applicarlo; sia che l’Austria fosse restìa per ragioni che non è difficile imaginare, certo è che molti passi e molte parole ci vollero, per persuadere l’Austria a interpretare il famoso e misterioso articolo su per giù allo stesso modo dell’Italia. Superato con l’aiuto e per intromissione della Germania questo punto, non ci volle minor tempo e fatica per persuadere l’Austria a dire quali compensi essa fosse disposta [229] a dare all’Italia. Finalmente il 27 marzo il barone Burian partecipa al duca di Avarna (Libro Verde, doc. 56) che «l’Austria-Ungheria sarebbe pronta ad una cessione di territorî nel Tirolo meridionale, compresa la città di Trento. La delimitazione particolareggiata sarebbe fissata in modo da tener conto delle esigenze strategiche che creerebbe per la Monarchia una nuova frontiera, e dei bisogni economici delle popolazioni». Il Governo italiano (Libro Verde, doc. 58) risponde il 31 marzo che l’offerta è vaga e insufficente; e il 2 aprile (Libro Verde, doc. 60) il Governo austriaco precisa: «I territori che l’Austria-Ungheria sarebbe disposta a cedere all’Italia alle condizioni indicate comprenderebbero i distretti (Politische Bezirke) di Trento, Rovereto, Riva, Tione (ad eccezione di Madonna di Campiglio e dei suoi dintorni), nonchè il distretto di Borgo. Nella Vallata dell’Adige il confine rimonterebbe fino a Lavis, località che resterebbe all’Italia». L’8 aprile (Libro Verde, doc. 64) l’on. Sonnino dichiara che quel che l’Austria-Ungheria offre non basta; e presenta le richieste sue: chiede cioè che l’Austria dia tutto il Trentino coi confini, che ebbe il Regno Italico nel 1811 e il gruppo delle Isole Curzolari; che corregga a favore dell’Italia il confine orientale, restando comprese nel territorio ceduto le città di Gradisca e di Gorizia; che acconsenta a costituire Trieste e il suo territorio in uno Stato autonomo; che riconosca la sovranità dell’Italia su Vallona e si disinteressi dell’Albania, acconsentendo infine a dar subito esecuzione al trattato. Ma l’Austria respinge tutte queste richieste, acconsentendo solo a ingrandire alquanto la sua offerta [230] del Tirolo: intorno a queste proposte e risposte si discute tutto il mese di aprile senza venire a conclusione, finchè il 3 maggio (Libro Verde, doc. 76) il Governo italiano denuncia l’alleanza con l’Austria «C’est pourquoi l’Italie — così termina la denuncia — confiante dans son bon droit, affirme et proclame qu’elle reprend dès ce moment son entière liberté d’action, et déclare annullé et deshomais sans effets son traité d’alliance avec l’Autriche-Hongrie».
Tale è, per sommi capi, il negoziato diplomatico che ha messo capo alla guerra: monumento della mala fede italica, diranno gli Austriaci; prova lampante della perfidia austriaca, risponderanno gli Italiani; rovina inevitabile di una politica troppo artificiosa, conchiuderà chi abbia forza di abbracciar nelle loro congiunture vitali gli eventi. La guerra tra l’Austria e l’Italia era stata scritta molti anni prima nello stesso trattato di alleanza da diplomatici che pur troppo non sapevano leggere l’avvenire negli astri; dalla mano ignara che, credendo di provvedere alla pace, aveva compilato quel fatale articolo settimo. Già l’abbiamo veduto: l’Italia era obbligata a chiedere i compensi, anche a rischio di sforzare la lettera dell’articolo: ma che cosa poteva offrir l’Austria se non qualche ritaglio di territorio o qualche vantaggio d’ordine o economico o coloniale? Si è mai veduta una grande Potenza comperare da un’altra il diritto di fare una guerra a prezzo di un brano della sua carne viva? E allora poteva l’Italia, sotto gli occhi del mondo, mentre i grandi popoli di Europa sono tutti una piaga e tutti rossi di sangue, vendere per trenta denari la Serbia ed il Belgio, che, pur senza [231] che alcuno nemmeno accennasse nelle trattative al piccolo regno sbranato dalla Germania, avrebbe per la forza della situazione fatto parte dello stesso mercato? Che altro scampo ci restava, se non chiedere compensi che il Governo austriaco non potesse concedere, e il cui rifiuto era forza provocasse la guerra?
Le richieste poste innanzi dal Governo italiano potevano essere subite da uno Stato vinto e rivinto, non essere accettate dall’Austria, nelle circostanze presenti. Ma se questo punto non è dubbio, è pur evidente che il Governo italiano doveva porre all’Austria, per permetterle di sgozzare liberamente la Serbia, delle condizioni inaccettabili: perchè le concessioni che l’Austria avrebbe potuto fare, esso non poteva accettarle; e non le poteva accettare, perchè il sangue della Serbia e del Belgio non potevano essere oggetto di un mercato e materia di compensi. Nessuno, il quale conosca l’Europa, abbia sentore dei fremiti che ne percorrono le viscere, intraveda i nuovi orientamenti dello spirito pubblico, può dubitare che noi, facendo mercato del sangue dei Serbi e dei Belgi, ci saremmo disonorati di fronte alle Potenze della Triplice Intesa, nel tempo stesso in cui, approfittando senza misericordia delle difficoltà che angustiano gli Imperi germanici, ce li saremmo inimicati. E tanto meno poi dubiterà che da questa infamia e da questa inimicizia potevano nascere per l’Italia, nel presente perturbatissimo stato dell’Europa, i maggiori pericoli. Certamente chi imaginò e scrisse quel settimo articolo del trattato non prevedeva che un giorno, da un incidente di politica balcanica, sarebbe scoppiata la guerra europea; non [232] prevedeva che quel nostro piccolo interesse balcanico, a cui credeva aver provveduto con accortezza, sarebbe stato un giorno legato da terribili eventi al destino del Belgio, della Francia, dell’Inghilterra, della Russia, dell’Europa intera; credeva in buona fede di avere messo tra le due diffidenti Potenze un serio pegno di pace, e aveva invece — ironici scherzi che la storia fa spesso alla saggezza umana — gettato tra l’Italia e l’Austria il pomo della discordia, che genererebbe la guerra.
Insomma, sotto un certo aspetto questa guerra non è che la fine predestinata della Triplice Alleanza. Come tante altre opere del Bismarck, la Triplice Alleanza fu artificiosa, sforzata, quasi impossibile; perchè volle unire non interessi concordanti, ma molte, troppe rivalità passate, presenti e future, sperando di annullarle reciprocamente. L’autorità che conferì al Bismarck il successo e l’altrui pochezza, la debolezza del Governo austriaco e del Governo italiano, l’hanno protratta per trentatrè anni, non ostante mille inciampi; ma la guerra europea l’ha sfasciata nel volgere di nove mesi. E come tutte le alleanze rotte prima del tempo, si è rotta con la guerra.
Senonchè tutte queste considerazioni potrebbero sembrare della filosofia, all’uomo di Stato che di proposito suole circoscrivere i problemi politici nel cerchio angusto dell’ora presente. Chiudiamoci dunque anche noi — chè questa volta lo possiamo — in questo angusto cerchio. L’on. Giolitti è arrivato a Roma il 9 maggio; è stato ricevuto dal Re e si è abboccato con il Presidente del Consiglio il 10: sette giorni dopo che il trattato con l’Austria era stato [233] denunciato. Come ha egli potuto pensare che, dopo aver denunciato, e a quel modo, il trattato, l’Italia potesse ancora ritornare sui suoi passi, ricominciare a discutere dei compensi in base al trattato, disdirsi cioè e ritirare la denuncia? Come mai non si è accorto che, savia o improvvida che la denuncia fosse, ormai era stata fatta; che l’atto irrevocabile era compiuto; e che la guerra era già stata virtualmente dichiarata il 3 maggio? Ha dunque potuto sfuggirgli che l’Italia si sarebbe screditata alla pari di uno Stato mussulmano in decomposizione, se fosse sospettata di aver denunciato un trattato di alleanza, che per trentatrè anni era stato uno dei fondamenti della pace del mondo, così, per una finta, a scopo di lucro, come un’astuzia di sensale che mercanteggi? Non ha temuto che tra la Triplice Intesa ingannata e la Triplice Alleanza ricattata, l’Italia potesse domani sprofondarsi nel vuoto? E non l’ha trattenuto neppure il pensiero di turbare con nuovi dubbi e rinate incertezze la nazione, che a poco a poco si faceva animo alla guerra, persuadendosi che era — come difatti era — imposta dalla necessità?
Io non riesco a imaginare come un uomo invecchiato governando abbia potuto non vedere tutte queste cose; come non saprei spiegare perchè il Ministero abbia fatto un tal mistero della avvenuta denunzia. Se già il 10 maggio fosse stato di pubblica ragione che l’alleanza con l’Austria era rotta, forse la mossa dell’on. Giolitti non avrebbe trovato seguito e i partiti avrebbero fatta grazia al Paese delle turbolenze che la seguirono. Tra i deputati che fra il 10 e il 15 maggio hanno ondeggiato come i campi di [234] grano quando soffia il vento, molti erano sinceri; e quasi tutti potrebbero allegare la scusa che il 10, l’11 e il 12 maggio non conoscevano il vero stato delle cose. Nè può non sembrare singolare che, deliberata la guerra dal Consiglio dei Ministri e dalla piazza, non siano state concesse al Parlamento che poche ore per leggere il Libro Verde, meditarlo, risolversi ed approvare, a sua volta ed ultimo, la guerra. Questa fretta non è forse anch’essa una specie di atto ufficiale di esautoramento? Ad ogni modo tale fu il destino di questa guerra; e così fu che tra un uomo diventato inabile per eccesso di abilità, un Parlamento incerto, perplesso, ligio ad un uomo, mal informato, screditato, e un Ministero silenzioso, il Paese è entrato di mezzo, o meglio una parte del Paese, spinta da una passione e da una specie di istinto chiaroveggente, che tenne luogo in quei giorni di esperienza e di senno, e lo fece avvertito che in alto si stava per compiere alla leggera un passo pericolosissimo, più pericoloso della guerra più lunga e terribile. E allora in pochi giorni precipitò quella catastrofe, che l’autore di queste pagine già presentiva — si direbbe — scrivendo nel mese di giugno del 1914 intorno alla settimana rossa; e il solito interregno di ogni nuova legislatura apparve questa volta quale era: una crisi gravissima dello Stato tutto quanto, esautorato di proposito e quasi con metodo da quindici anni. Allo Stato esautorato è mancata autorità per resistere alle grida, alle imprecazioni, alle processioni, alle concioni, alle gazzette infuriate; il Parlamento ha capitolato, stordito da questo clamore; quel potere personale, da [235] dieci anni saldo in vetta allo Stato come un’Acropoli, si è abbiosciato — dirà il tempo se per sempre o per qualche mese — in quarantotto ore, sotto quel gridar furioso e insensato di mille voci al «tradimento». Espiazione ben nota a chi conosce la storia del mondo: chè sempre i Governi i quali hanno indebolito lo Stato per non essere travagliati da opposizioni troppo forti, non hanno poi trovata negli organi debilitati dello Stato alcuna difesa, il giorno in cui sono stati fatti segno ad un attacco risoluto. Quella fina, troppo fina arte di governo, che da quindici anni reggeva l’Italia con tanta maestria di combinazioni contradittorie, non ha voluto riconoscere che già, componendo il fatale Ministero del 1911, essa aveva di gran lungo ecceduta la misura della prudenza nel governare a ritroso della ragione naturale, schietta e semplice delle cose. Chè anzi, quasi innamorata della propria abilità e affascinata dall’impossibile, ha voluto addirittura far passare l’Italia attraverso le fiamme della guerra europea senza scottarsi; una impresa a cui non c’era abilità di consumato parlamentare che potesse riuscire; e questa volta è stata presa nella rete sottile dei propri accorgimenti.
Senonchè proprio per questa ragione la crisi di maggio fu cosa tragica e grave; e per questa ragione una responsabilità grande e grandi doveri pesano oggi su tutti noi: massimo tra i quali impedire che [236] questa guerra sia principio e cagione quasi di un’altra guerra civile tra le classi colte e le plebi, tra l’«intelligenza» e il suffragio universale.
L’Italia ha nell’ultimo secolo spesse volte sacrificata la qualità alla quantità, là dove avrebbe ancora potuto — e forse dovuto — sostenere i diritti storici della qualità. Non si lasci oggi illudere che la qualità possa più che la quantità nella guerra europea; e che un’elite riesca ad imporre alla moltitudine una guerra lunga e difficile, senza averla persuasa che essa combatte per una causa giusta, la quale non poteva essere difesa che con le armi. Oggi le masse sono ancora turbate da una incertezza che, all’opposto di quanto era ragionevole prevedere, è andata crescendo man mano che la guerra europea si svolgeva. Nessuno di noi — già l’ho detto ma giova ripeterlo — dimenticherà finchè vive il procelloso tumulto di affetti che si levò in Italia nell’ultima settimana di luglio e nelle prime settimane di agosto del 1914: prima, l’irritazione per le prepotenti minaccie dell’Austria alla Serbia; poi l’inquietudine per le tortuose mosse delle due diplomazie tedesche e per le oblique intenzioni di cui erano chiarissimo indizio; indi lo stupore e il terrore, allorchè la Germania sfoderò la spada, dichiarando all’improvviso guerra alla Russia ed alla Francia; infine lo sdegno e il furore, quando gli eserciti tedeschi corsero, attraversando il Belgio, all’assalto della Francia. In quei giorni l’Italia tutta, quella parte che scrive e quella che non legge, quella parte che crede in Dio e quella che crede nel socialismo, intuì che un popolo troppo orgoglioso stava per commettere nel cuore dell’Europa, sotto gli occhi [237] del mondo atterrito, una tal violenza, che l’ordine morale dei nostri tempi sarebbe capovolto dalle fondamenta, se la violenza riuscisse felicemente; e spaventata invocò la Giustizia che frenasse non solo gli uomini, ma anche i popoli prepotenti; e sapesse respinger dalle frontiere violate a torto gli eserciti più formidabili. Furono i giorni in cui si udirono uomini, che per trent’anni avevano creduto di opporre la Triplice Alleanza allo spirito inquieto dei tempi come baluardo delle istituzioni, esclamare scuotendo il capo e alludendo alla monarchia prussiana «che in repubblica certe cose non potevano succedere». Furono i giorni in cui molti fra coloro che per anni avevano vilipesa la Francia, come una nazione corrotta e sfinita, tremarono in cuor loro di non essere stati calunniatori. Furono i giorni in cui tutta l’Italia imprecò alla Germania e al suo Sovrano, che avevano rotta la pace; intese che per molti secoli l’Europa avrebbe appena osato balbettare di libertà, di diritto, di pace, di fratellanza, se i tedeschi, calpestando il cadavere del Belgio, fossero giunti di nuovo vittoriosi a Parigi; e invocò un’idea, un esercito, un genio di guerra, qualunque forza e qualunque miracolo che potesse salvare l’Europa da quella crudele ambizione.
Rileggete i giornali del tempo; ricordate i discorsi che ognuno di noi faceva ed udiva in quei giorni.... Tutti abbiamo allora svolto — ognuno come sapeva e il cuore colmo di angoscia — questo unico tema. L’Italia in quei giorni si confuse e si fuse davvero, in un gran fremito di orrore e in un grande slancio di speranza, con tutta l’Europa minacciata dai Germani [238] di nuovo in armi. Vennero poi le ultime settimane di agosto, quelle settimane in cui parve proprio che la Giustizia fosse sorda alle imprecazioni e alle supplicazioni di tanti suoi improvvisati devoti. Chi non ricorda le speranze chimeriche con cui cercammo di confortarci in quei giorni di passione? Ma gli aggressori avevano gridato vittoria troppo presto. Nella prima quindicina di settembre i russi vincevano la battaglia di Lemberg, i francesi la battaglia della Marna. Il mondo respirò; respirammo pure noi. Ma sbollito un po’ lo sdegno dei primi e calmatasi alquanto l’ansia degli ultimi giorni di agosto, prendemmo a riflettere più ponderatamente sui terribili eventi di cui l’Europa era teatro. A poco a poco allora, senza quasi ce ne accorgessimo, un mutamento si operò nello spirito pubblico. Quello che si potrebbe chiamare il senso mondiale del conflitto, che era stato così vivo nelle prime settimane di agosto, si annebbiò nella nazione. L’Italia parve non sentire più in se medesima per simpatia i colpi inferti a tanti popoli dall’aggressione germanica; si staccò dall’Europa; si raccolse in sè e si isolò con il pensiero in quelli che potevano essere, nel conflitto europeo, gli interessi suoi.
Come è avvenuto un mutamento così profondo e di tanto rilievo? La spinta decisiva al rivolgimento fu data dal Presidente del Consiglio, con le parole che pronunciò il 19 ottobre, prendendo possesso del Ministero degli Esteri che egli tenne interinalmente per qualche tempo, dopo la morte del marchese Di San Giuliano. «Le direttive supreme della nostra politica internazionale — disse quel giorno il Presidente [239] del Consiglio — saranno domani quelle che erano ieri. A proseguire in esse occorre incrollabile fermezza di animo, serena visione dei reali interessi del Paese, maturità di riflessione che non esclude al bisogno prontezza di azione; occorre ardimento, non di parole ma di opere; occorre animo scevro da ogni preconcetto, da ogni pregiudizio, da ogni sentimento, che non sia quello della esclusiva ed illimitata devozione alla patria nostra, del «sacro egoismo» per l’Italia». Ma che cosa poteva consigliare il «sacro egoismo» all’Italia se non di sciogliere senza indugio quei vincoli di solidarietà con gli Stati aggrediti dagli Imperi tedeschi, che il sentimento veniva intrecciando; di non parteggiare nè per gli aggressori nè per le vittime; di non inquietarsi se l’equilibrio dell’Europa fosse alterato per un verso o per il verso opposto, pur di essere essa stessa ingrandita? E la divisa parve così felice che fu subito inalberata da quasi tutti i partiti, i gruppi e gli uomini che governano l’Italia: da quelli che miravano alla guerra, come da quelli che volevano la pace, sebbene ormai, più di un mese dopo la battaglia di Lemberg e della Marna, apparisse chiaro che l’Austria e la Germania non riuscirebbero più a debellare in poche settimane gli avversari; e che perciò l’Italia potrebbe essere costretta, prima o poi, a scendere in campo contro i suoi antichi alleati. Perchè dunque allora, proprio allora, quando sarebbe stato necessario preparare gli animi alla alleanza con le Potenze della Triplice Intesa, si cercava di spezzare bruscamente tutti i legami di simpatia popolare, già annodatisi spontaneamente tra noi e i nostri futuri alleati?
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Che il Governo agisse soltanto entro i limiti precisi del «sacro egoismo» — si intende. L’Italia non poteva intavolare con l’Austria una discussione filosofica intorno al diritto delle genti o ai principî di giustizia che potrebbero e dovrebbero regolare i rapporti dei popoli. Non poteva che squadernare innanzi all’alleata il trattato della Triplice e chiederle conto del modo con cui essa lo interpretava e applicava. Ma perchè dirlo e ripeterlo ad alta voce tante volte? Farlo gridare dai propri organi ai quattro venti? Se è cosa umana, per i singoli uomini come per le nazioni, badare soltanto al proprio interesse, non è prudenza dir troppo chiaramente agli uomini che noi penseremo soltanto a noi stessi e che del loro destino non ci importa nulla. Senonchè il Governo fu di certo mosso ad ostentare la divisa del «sacro egoismo» da una ragione politica. In quel sentimento di sdegno e di orrore che aveva sul principio commosso così vivamente la moltitudine, pigliavano forza e coscienza le grandi ideologie umanitarie, che nacquero e crebbero in Francia tra il 1750 e il 1850; e che la Germania ha senza tregua combattute nel pensiero e nell’azione, con i libri e con le armi, dalle Cattedre e nei Parlamenti. Ma le classi alte e le classi colte dell’Italia sono state troppo germanizzate negli ultimi trent’anni, nelle Università, dalla scienza, dalla filosofia, dalla letteratura, perchè non avessero anch’esse in orrore quelle ideologie che pure ci erano state di tanto aiuto a rifarci nazione.... Basti dire che — vergogna quasi incredibile — noi abbiamo assistito in Italia, al principio del ventesimo secolo, per opera di Benedetto Croce, a una specie di rinascita della più [241] sciagurata tra tutte le sofistiche che la Germania abbia create per confondere i criteri del bene e del male a servizio di tutti i potenti e per giustificare in ogni caso il successo; che per qualche anno molti giovani hanno vegliato sui morti libri dell’Hegel per imparare che tutte le cose si contradicono in se medesime, perchè l’opposizione è l’anima stessa del mondo; che il bene dunque non è tale se non perchè si contrappone al male e quindi non sarebbe, se il male non fosse; che Dio e il Diavolo sono l’eterna e indissolubile ragione sociale della grande Ditta del mondo; che la tirannide è santa come la libertà, perchè senza tirannide l’uomo non saprebbe neppur che cosa libertà sia; che noi dobbiamo — ed è proprio il Croce che ci ha ammonito di farlo sul finir di dicembre — piegare reverenti le ginocchia innanzi ai mortai fusi dal Krupp, adorare l’insidioso siluro che ha affondato il Lusitania, e baciare la spada della Germania intrisa di sangue belga[3], [242] perchè se non fosse la prepotenza non sarebbe nemmeno il diritto che la rintuzza, e perchè le bombe sono il seme da cui cresce sulla terra il santo albero della Giustizia.
Si aggiungano a questa disposizione degli animi, inculcata nelle classi governanti da una lunga educazione privata e pubblica, gli interessi, le rivalità e i puntigli che dividono i partiti e i gruppi politici, e in alcuni anche scrupoli sinceri di fede e di lealtà. Con la rottura tra l’Italia e gli Imperi centrali si chiude un’êra della nostra storia e ne comincia una nuova — se più felice dell’antica lo dirà il tempo — certo diversa. Tante altre cose dovranno mutare con la politica estera! Non è dunque meraviglia, se da quando fu chiaro che l’Italia potrebbe un giorno essere costretta a scendere in campo contro gli antichi alleati, il Governo abbia precipuamente temuto — e con esso i suoi amici e i giornali che ne esprimevano [243] il pensiero — di esser sospettato di voler fare la guerra all’Austria e alla Germania per salvare l’Europa dall’egemonia germanica, per rivendicare la santità dei trattati, per difendere i diritti delle Nazioni deboli, e — peggio che mai — per aiutare la Francia. Ma questo atteggiamento del Governo e dei gruppi politici più influenti ha disorientate le masse, poichè alle masse nessuno da tanti anni in qua, dopochè la Triplice era stata conchiusa, aveva detto e ridetto e ripetuto ancora, quanto è necessario perchè le masse l’intendano, che l’Italia fosse un’opera lasciata a mezzo e che un giorno o l’altro sarebbe dovere finirla. Di questa difficoltà capitale abbiamo del resto già tenuto, e lungamente, discorso nello scritto precedente. Che i tedeschi invece volessero soggiogare i popoli più deboli contro ogni ragione di diritto e di giustizia; che la loro vittoria avrebbe sovrapposta a tutta l’Europa una smisurata ambizione di impero; che fosse necessario umiliare la potenza di quella dinastia e di quella aristocrazia, che avevano scatenata la guerra e dare al mondo con questa umiliazione pace sicura: questo, sì, lo sentivano e lo capivano. Ma neppur di queste cose nessuno ha più ragionato alla moltitudine negli ultimi mesi: neppure i socialisti. I socialisti italiani, quando la guerra scoppiò, andarono anch’essi sulle furie, accusando i compagni teutonici di fellonia; e quando l’ambasciatore rosso di Guglielmo II, il Sudeküm, osò pregare i socialisti italiani di intercedere presso i socialisti francesi e chieder loro di tradire, per i begli occhi dell’Internazionale, la Russia, l’Inghilterra e la Francia stessa, accettando una pace separata, seppero [244] rispondergli come meritava. Ma poi, man mano che la guerra parve avvicinarsi, man mano che il Governo, i giornali e i partiti che lo rappresentano si chiusero, per preparare la guerra, nel bozzolo del «sacro egoismo», i socialisti videro al di là della guerra il nemico implacabile, il nazionalismo, che già aveva tentato di torcere ai loro danni la guerra di Tripoli; e allora il veleno hegeliano, contenuto nel marxismo, riprese ad agire. A poco a poco si atteggiarono a quell’apparente imparzialità che metteva capo per un’altra via là dove sbocca pure il più acceso nazionalismo: a considerare la guerra europea come un conflitto di particolari interessi dei diversi Stati belligeranti: interessi sacri — dicono i nazionalisti; interessi loschi — dicono i socialisti.
Così a poco a poco la moltitudine, mentre il Governo approntava armi e maggio avvicinava, si disinteressava dal conflitto europeo. Essa è stata quasi sorpresa dalla dichiarazione di guerra. Alla sorpresa succederà senza dubbio la coscienza del dovere e la risolutezza di compierlo: ma l’elite che ha voluta e imposta la guerra deve a sua volta assecondare con tutti i mezzi il buon volere della massa che in questa guerra — forse aspra e lunga — dovrà versare il suo sangue. E lo asseconderà efficacemente curando che il popolo soffra quanto meno è possibile; provvedendo [245] alle famiglie dei combattenti generosamente; persuadendo i ricchi ad assumere quanta maggior parte possono dei sacrifici e dei carichi; e infine persuadendo le masse che l’Italia non combatte solo per allargare i suoi territori e accrescere la sua potenza, ma per dare all’Europa la pace. Il popolo forse non ha torto, pur nella sua ignoranza, di voler essere assicurato su questi punti: perchè veramente, e l’Alsazia, e la Lorena, e Trento, e Trieste, e la Dalmazia, e la Bosnia, e l’Erzegovina, tutte insomma le rivendicazioni nazionali, per quanto in sè nobili e grandi, rimpiccioliscono ormai a piè di quel còmpito gigantesco che ci sovrasta come una rupe scoscesa da ascendere: come ricomporre in Europa un ordine di cose, sotto il quale si possa di nuovo vivere e progredire.
Non ripeteremo perciò mai quanto basti al popolo che questa guerra non è una guerra come tante altre ce ne sono state nella storia, e come affermano nazionalisti e socialisti; è l’immensa crisi di una civiltà che per ora ha preso forma di guerra. Nessun’epoca forse fu sopraggiunta mai all’improvviso e a mezzo di una corsa più sfrenata e più ansante, da una difficoltà così formidabile. Noi credevamo di essere l’apogeo della storia. Noi guardavamo il passato come l’alpinista giunto sulla vetta guarda ai suoi piedi i burroni per cui si è inerpicato. Tra i secoli che precedettero il decimonono e noi, la storia pareva aver fatto tale sbalzo, che ci domandavamo ogni tanto se non fossimo una umanità nuova. Noi credevamo di possedere tutti i beni, che gli uomini avevano invano desiderati per [246] tanti secoli: la ricchezza, la scienza, la potenza, la sicurezza, la libertà, tutta la terra, e, con la mente almeno, l’universo. Ed ecco, ad un tratto, in otto giorni, quasi tutti i popoli dell’Europa, lasciate le case, le spose ed i figli, si avvinghiano furibondi in una mischia immane, feroce, interminabile; dànno principio ad una carneficina, a un vandalismo, a un furor di violenze, a una crudeltà di insidie, a un soqquadro della terra e dei mari, che il mondo non ne aveva visto l’eguale mai! Sì, gli uomini una volta erano meno potenti, ricchi e sapienti di noi; non avevano nè ali per volare nè pinne per nuotare sotto l’acqua; morivano ogni tanto a torme di peste e fame. Ma tutto il medio evo non ha assassinate tante persone, quante ciascuna delle molte settimane che già sono passate dal primo agosto del 1914.
Le nostre più liete speranze e i nostri più nobili orgogli si rivoltano ora contro di noi e ci minacciano la distruzione e la morte, come degli schiavi ribelli. La scienza ha inventate e fabbricate queste armi. L’istruzione e il suffragio universale hanno preparate queste schiere infinite di cui la terra oggi nereggia, convertendo in soldati milioni di uomini i quali nei secoli passati vivevano sulla montagna, nei campi, nelle botteghe, ignorati, passivi, docili, imbelli. Il progresso dello spirito democratico, ha legati insieme, anche negli Imperi tedeschi, popoli e governi, grandi e plebei, intrecciando in ogni nazione gli interessi e le volontà in un fascio che non si può spezzare. La ricchezza infine ha esaltato l’orgoglio e la cupidigia. Chi di noi supponeva che mentre ci credevamo così sicuri, eravamo invece circondati [247] da tanti nemici invisibili, ognuno dei quali ci aveva mostrato per tanti anni il volto dell’amico più sincero e devoto? Avevamo posto in cima a tutti i nostri pensieri l’incremento della ricchezza, e stiamo facendo un gran rogo dei nostri tesori. Avevamo abolito la tortura, il duello, gli spettacoli crudeli; non osavamo più infliggere la pena di morte se non a pochi criminali efferatissimi e di nascosto; ci facevamo scrupolo persino di trattenere il braccio del carrettiere avvinazzato in collera con la sua bestia: e di che carneficina siamo ormai già colpevoli e responsabili innanzi all’eternità! Ci vantavamo di essere liberi; e oggi obbediamo tutti a governi anonimi, senza mormorare, senza chiedere ragione di nessuna cosa, come nessun popolo d’Asia obbedì mai alle Divinità, parlanti per bocca del sovrano.
Potrebbe l’Italia precipitarsi in questa voragine ardente, proponendosi solo di compiere l’opera di Mazzini, di Cavour, di Vittorio Emanuele e di Garibaldi? Noi non siamo più nel 1859. Il mondo è cresciuto da allora; ha contratti nuovi impegni e nuovi doveri. Non dobbiamo pensare solo al passato, ma anche all’avvenire. Gli inglesi e i francesi l’hanno sentito: dobbiamo sentirlo anche noi; unirci a loro per tracciare in Europa non solo delle nuove frontiere meno inique, ma dei limiti che si elevino inviolati tra i grandi Imperi e i piccoli Stati; per assicurare ai nostri figli una pace più sicura e serena. Non solo un’Italia più grande dobbiamo noi desiderare, ma un’Italia più grande in un’Europa migliore; in una Europa in cui si facciano carne e sangue, sentimento e azione quelle grandi ideologie [248] umanitarie a cui tanta guerra fu fatta negli ultimi cinquanta anni, con la penna e con la spada.
L’impresa è ardua, senza dubbio. Il nemico è risoluto e potente. Ma ci sarebbe da disperare di noi stessi e dell’avvenire se tanto sangue, se tanti pensieri, se tanta concordia, tanta risolutezza, tanti popoli non bastassero a ben’avviarla. Bisognerebbe conchiudere che noi e i nostri figli siamo ormai destinati a esser sepolti sotto le rovine di un grande secolo. L’uomo può fare il sacrificio totale di sè in una contingenza suprema, ma ama la pace, vuol godere i frutti del suo lavoro, è attaccato a questa breve esistenza terrena. Le masse prenderebbero in orrore una civiltà che, in cambio di un po’ più di pane, di luce, di ferro, di oro e di velocità, imponesse ad ogni generazione un sacrificio come il presente; che negli intervalli largisse una pace incerta, torbida di odî, grave di oneri militari insopportabili; o che promettesse pace meno precaria e meno pesante, a prezzo dell’egemonia di una stirpe cupida e prepotente. Potrebbero gli uomini venerare ancora la scienza, aver fiducia nella democrazia, amare il proprio lavoro, credere nel progresso?
Ma no: nè noi nè i nostri figli non assisteremo a questa catastrofe. Sono pronti e alla mano gli elementi necessari per restaurare nell’Europa devastata da questa terribile guerra un ordine nuovo, più sincero, più giusto e più stabile. Già sono abbozzate, se non sono ancora elaborate in ogni loro parte, le dottrine che giustificano e pronta è la forza che può imporre i principî cardinali di questo ordine nuovo. L’Inghilterra, la Francia, la Russia, l’Italia, aiutate [249] da alcune Potenze minori, sorrette dalle simpatie del mondo, devono poter compiere insieme quest’opera. I sacrifici saranno grandi; ma la messe sarà splendida, quando sarà matura. Necessità vuole dunque che l’Italia sia e si senta in questa prova parte dell’Europa che si sforza di superare una delle vette più scoscese incontrate sulla sua via dalle origini della sua storia; che intenda di dover dare l’opera sua per sciogliere anche un problema universale, che tocca tutti, gli Italiani come i Russi, i Tedeschi come i Francesi, gli Americani come i Belgi; che voglia lottare nel tempo stesso per sè e per gli altri. Non ci fu nella storia forse mai altra congiuntura, in cui l’interesse nazionale si integrasse nell’interesse universale: non guastiamo questo accordo meraviglioso; illustriamolo a noi stessi e sforziamoci di chiarirlo alle masse, perchè nessun mezzo sarà più efficace per sostenerne il coraggio alla prova, che potrebbe essere lunga e difficile. L’universale commozione, di cui fummo testimoni nei primi giorni d’agosto, prova che, se solo pochi spiriti più profondi possono penetrare sin nelle viscere di questa crisi storica, le masse hanno confusamente sentito, sdegnandosi come allora si sdegnarono, che in mezzo a questo immane soqquadro i popoli non cercano solo delle nuove frontiere politiche ma dei nuovi limiti ideali; che lottano per alcuni di quei principî morali che l’uomo sente anche senza preparazione di studî e senza raffinato lavoro di pensiero. Una parte dell’Europa è oggi in armi, e versa il suo sangue, per assicurare al travagliato continente il più prezioso e desiderato dei beni, la pace: ripetiamolo [250] senza stancarci alle masse, per rinfocolarne l’ardore a questa opera, che sarà benedetta dalle generazioni future. Queste ne godranno più di noi: ma a noi rimarrà il merito e la gloria.
E ricordiamoci infine che la crisi di Maggio ha distrutto, forse per sempre, quel curioso, artificioso e in parte ignorato governo che reggeva l’Italia da quasi quindici anni e che era una mescolanza — o contaminazione, se vogliamo usare la parola antica — di potere personale e di governo di parte. Ricordiamoci che, quali e quanti fossero i difetti di quel governo, esso ha retto l’Italia per quasi quindici anni, e che la sua caduta farà come un gran vuoto nello Stato; ricordiamoci che noi siamo in guerra; e che perciò è necessario, questa volta, riempire quel vuoto al più presto, e non di egoismi, di rivalità, di odî, di espedienti, di abilità, di piccoli interessi e discordie, di macerie e rottami: ma di capacità, di coraggio, di fede, di concordia, di idee, di alte ambizioni, di coerenza e di patriottismo sentito, con le materie solide insomma di cui si fanno le grandi costruzioni della storia. Ricordiamoci infine che la guerra del 1859 creò in Italia un governo, il quale per quindici anni ebbe autorità da poter fare, tra molti errori, anche cose degne di lode; e auguriamoci questa nuova guerra possa darci un nuovo governo che, poco importa con qual nome e con quali forme, sia almeno una forza; forza circoscritta e limitata fin che si vuole, ma vera forza; non simulacro, non apparenza, non finzione e impostura, sollecita solo di nascondere al popolo la sua vanità.
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In questa parte ultima sono stati raccolti e fusi in uno parecchi scritti pubblicati in diversi giornali e riviste, di Europa e di America. Sono stati raccolti e fusi in un solo, per schivare troppe ripetizioni e perchè viviamo in tempi in cui la concisione non è solo un pregio letterario, ma anche un dovere civico.
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E si ricasca sempre lì, pensando e ripensando ai casi presenti dell’Europa, in quella domanda che, a guisa di mendicante ostinato a strappare insistendo l’elemosina, si ripresenta sempre, perchè non ottiene mai risposta adeguata: come, come ha potuto un’epoca, la quale aveva posto in cima a tutti i suoi pensieri l’incremento della ricchezza, la sicurezza della vita, e l’impero universale della ragione, come ha potuto preparare, volere, combattere questa terribile guerra? E a questa angosciosa domanda, che tante volte si è affacciata nelle pagine di questo libro, torneremo anche noi qui sulla fine, per tentare un ultimo sforzo e rispondere, se ci riesce.
Non tutto il male viene per nuocere — dice il proverbio. Le infinite calamità presenti possono essere — e sono già state per non pochi scrittori, tra i quali alcuno di molto insigne — motivo di qualche compiacimento. Era opinione comune che, se la guerra europea scoppiasse, sarebbe intervenuto a intimare [256] di deporre le armi, se non la Ragione o la Pietà, almeno l’Egoismo. Si diceva che in alto e in basso gli uomini si erano ormai troppo avvezzati alla vita comoda, larga, sicura, e che non tollererebbero a lungo le privazioni e le rovine di una guerra generale. Si prediceva la rivoluzione, se la guerra durasse tre mesi. Si faceva credito al nostro secolo di abnegazione e di spirito di sacrificio per poche settimane e non più. Anche gli Stati Maggiori riconoscevano nell’Egoismo il sovrano dei tempi, e protestavano che non farebbero mai la guerra, se non pigliando gli ordini di Sua Maestà. Quando la storia della guerra europea sarà nota in ogni sua parte, si saprà pure che quasi tutti gli errori e quasi tutte le crudeltà del principio furono suggerite dalla fretta. I capi che avevano voluto tentare la grande avventura, erano partiti per il campo con l’idea fissa che bisognava far presto, perchè i popoli non resisterebbero a una prova troppo lunga.
Ma noi ci calunniavamo. Nessuna di queste previsioni si è avverata. Nel mese di luglio del 1914 le vecchie discordie dell’Europa rifermentavano più acri che mai. In Inghilterra, protestanti e cattolici minacciavano di pigliare le armi. In Francia, le due parti che da più di un secolo si avventano l’una contro l’altra ogni volta e dovunque si incontrano, si erano di nuovo avvinghiate e si mordevano accanitamente, nella chiusa arena di un tribunale. L’Italia aveva fatta poco prima una specie di prova generale della rivoluzione. In Russia milioni di operai scioperavano e tumultuavano. In Austria le razze e le lingue si rinfacciavano con rinnovato furore il sangue [257] dell’Arciduca ucciso a Serajevo. Ma tra il 30 di luglio e il 1º di agosto, in quarantotto ore, tutte queste turbolenze sono cessate, non appena la guerra è apparsa inevitabile. Perfino la Francia, il punto dell’Europa dove, per ragione storica e geografica, tutti i venti di discordia si incontrano e fanno vortice; la nazione nel cui seno hanno lottato e lottano il germanesimo e il latinismo, il protestantesimo e il cattolicismo, l’autorità e la libertà, il principio di qualità e il principio di quantità — per la prima volta forse nella sua storia, dai tempi di Giulio Cesare — la Francia è stata un cuore e un’anima sola.
Insieme con le discordie religiose e politiche, sono cessati quei dispetti e quegli sgarbi che la Ricchezza e la Povertà usavano da un pezzo scambiarsi, tanto per ingannare il tempo. Il socialismo è andato in caserma e ha indossate le armi, docile e pronto come un giovane coscritto arrivato allora allora dal villaggio. E neppure oggi, dopo dieci mesi di guerra, uccisi e feriti milioni di uomini, distrutte infinite ricchezze, capovolto interamente l’ordine di cose in cui eravamo vissuti tanti anni, nessun popolo belligerante grida ancora misericordia o mercè. La storia non aveva ancora sottoposta una così grande moltitudine di uomini a tal prova; e la prova è stata così bene superata che molti si sono messi a gridare al miracolo. Ma ogni cosidetto miracolo della storia è sempre una di quelle opere lente, che il tempo compie di nascosto e rivela poi a un tratto agli uomini, quando l’ha terminata. Anche di questo miracolo noi troveremo la ragione in quell’immenso rivolgimento che è incominciato in Europa dopo la scoperta dell’America [258] e al quale così spesso abbiamo dovuto risalire, per spiegare i calamitosi tempi presenti: in quel rivolgimento che, mutando scopo alla vita, a poco a poco ha fatto il mondo — altro dei tanti effetti di quella immensa rivoluzione, da cui tutto il nostro vivere presente dipende — più uniforme e perciò meno discorde. Che la civiltà moderna sia più uniforme di quelle che la precedettero, è cosa notissima: chi paragoni l’America all’Europa, le parti dell’Europa più nuove alle più antiche, subito se ne rende ragione, per dir così, alla prima occhiata. Meno chiaro è invece ai più, come questa differenza proceda anch’essa dal trapasso dell’antica civiltà qualitativa nella nuova civiltà quantitativa. L’uomo non può sforzarsi ad una perfezione se non limitandosi, scegliendo una sola tra le innumeri perfezioni che può proporsi, appuntando verso quella tutte le forze dell’animo e della mente, ignorando od odiando le altre; perchè non c’è mezzo più sicuro di riuscir mediocre in ogni cosa, che l’innamorarsi e l’aspirare nel tempo stesso a troppe perfezioni diverse. La varietà, l’isolamento, la discordia sono perciò altrettante ragioni vitali di ogni civiltà qualitativa, che si proponga come fine una o più perfezioni: onde le infinite lotte religiose, artistiche, letterarie, morali, politiche che hanno turbato il mondo prima dell’epoca nostra. Oggi invece soltanto le lotte di razza e di lingua sono ancora vive e violente, là dove una razza è governata da un’altra che vuole farle mutare a forza patria e favella: ma le altre lotte — religiose, artistiche, letterarie, morali, politiche — si affievoliscono da mezzo secolo, così in Europa come in America — e [259] perchè? Perchè a mano a mano che la quantità domina il mondo e gli uomini antepongono la conquista della terra alla bellezza, alla gloria, all’eroismo, all’onore, alla santità, come scopo, pregio e ragione della vita, le antiche differenze tra gli uomini, che in passato erano state cagione in Europa di tanti odî e di tante guerre, si scoloriscono e diluiscono. Sono, sì, anche nei nostri tempi in Europa, come un secolo fa, cattolici e protestanti, laici e preti, popolani e borghesi, borghesi e nobili, dotti e ignoranti, romantici e classici, conservatori e liberali, monarchici e repubblicani. Ma di tutte queste differenze gli uomini del nostro tempo appena si accorgono, quando si trovano insieme per conquistare i tesori della terra. In questa impresa una differenza sola importa e conta: l’abilità, lo zelo, l’attività. Protestante o cattolico, un artigiano, un impiegato, un ingegnere, un funzionario contano oggi nel mondo assai più per quel che sanno fare, che per le dottrine religiose che professano. Se i nobili conoscono ancora i bei modi e la buona creanza, la borghesia è ricca di energie che il mondo oggi cerca, perchè ne abbisogna, più che le principesche eleganze. Il popolo è certamente ancora rozzo e ignorante: ma dovrebbero perciò i grandi spregiarlo? Se la moltitudine non lavorasse infaticatamente o non spendesse facilmente il proprio salario, se stesse paga, come nel buon tempo antico, di guadagnar poco e di vivere poveramente, pur di non lavorare a lungo, le classi ricche non impoverirebbero forse anch’esse? Non è cosa difficile ai ricchi sentirsi tôcchi da simpatia umana per la plebe, in tempi in cui nella plebe essi [260] possono amare se medesimi. La letteratura non è più la laboriosa gara di una perfezione ambita e ammirata; è un passatempo — o un’arma per le ultime lotte politiche e sociali, che ancora fervono nel mondo: purchè diverta o sia arma efficace, tutti i generi e tutte le scuole sono oggi buone, per un pubblico eclettico e volubile, il quale ha perduta perfino la nozione di quegli esempi di perfezione, a cui la letteratura aspirava in altri tempi. Monarchia e repubblica sono forme di governo che riposano su principî differenti: ma chi ha voglia ancora e tempo di lottare per uno di questi principî contro l’altro, in un secolo che vuol sopratutto accrescere la ricchezza del mondo? Le Repubbliche, i Regni e gli Imperi gareggiano oggi per far quattrini: la saggezza dunque consiglia agli uomini di badare ai propri affari e di accettare le istituzioni vigenti. Gli ultimi repubblicani superstiti si rassegnano nelle monarchie; e gli ultimi monarchici fedeli, nelle repubbliche.
Perciò da un secolo in qua, a mano a mano che l’uomo si è infervorato nella conquista della terra, trascurando per quella ogni altra impresa e ambizione, le nazioni di Europa e di America sono andate fondendosi in grandi masse abbastanza omogenee, nelle quali l’opposizione dei principî religiosi morali estetici propria delle civiltà precedenti, e le stesse differenze di regione, di classe e di razza, si sono sbiadite; e si è nel tempo stesso indebolito lo spirito di isolamento e di discordia. Per questa ragione molti accusano oggi i nostri tempi di ingrassare beatamente nel brago del greve materialismo in cui [261] sono affondati, e di non pensare ad altro. Ma a torto: perchè due idee mistiche si sono diffuse nelle masse omogenee delle nazioni moderne e le legano insieme: patria e progresso. Sono idee molto semplici o che per lo meno possono essere semplificate in modo da avere facile adito anche nelle menti rozze ed incolte; sono idee piuttosto vaghe, tali cioè che non possono punto frenare, ma possono invece esaltare le passioni dominanti del tempo, e massime tra queste quell’orgoglio che abbiamo visto essere il più potente stimolo a fare che il secolo senta: l’idea del progresso anzi è, come vedemmo, addirittura contradittoria e incoerente: sono infine idee mistiche e trascendenti, perchè obbligano gli uomini a sacrificare il loro egoismo — oggi il piacere, domani la libertà, le opinioni predilette, i beni, talora persino la vita — a qualche cosa che li sovrasta, invisibile o adombrata nei veli di un sacro mistero. Se fino al primo giorno di agosto dell’anno 1914 tutti gli uomini si affaticavano dalla mattina alla sera per accrescere la ricchezza del mondo, godevano essi forse — i disgraziati — le ricchezze che creavano? Per quale ragione sosteniamo noi tanti carichi — e il lavoro incessante, accigliato, affannato, e il servizio militare obbligatorio per parecchi anni, e il pericolo continuo della guerra, e le innumerevoli e gravissime imposte, e i molti doveri civici — se non per promuovere questo mal definito progresso del mondo, che noi non sappiamo neppure che cosa sia precisamente; se non per creare delle ricchezze che il più spesso sono un peso e un tormento a ciascuno di noi? Questa epoca che ha [262] fama di tanto pratica è mistica invece, mistica rozzamente e violentemente; e il popolo che sembra più pratico di tutti, l’Americano, è il più mistico, perchè più di tutti gli altri si affatica per creare ricchezze di cui meno gode.
Non calunniamo dunque i nostri tempi, se vogliamo capire la guerra europea e spiegarci le sue sorprese. L’improvvisa concordia in cui tutte le nazioni d’Europa si stringono, lo spirito di sacrificio di cui fanno prova, non sono un miracolo inesplicabile dalla ragione. L’Europa voleva la pace. Ma quando ha vista la Germania minacciarla, tutta in armi, unita e concorde, ha potuto opporre alla concordia tedesca la propria concordia e mettere in pochi giorni da banda le discordie religiose e politiche, perchè queste si affievolivano da un pezzo, venendone meno la ragione vitale; e perchè nella massa più omogenea delle nazioni si è diffuso il sentimento patriottico. A tutti i Governi fu facile, tanto più che la Germania ne aveva dato l’esempio, di ottenere nelle prime settimane della guerra il consenso unanime del popolo intero a tutti i sacrifici e a tutte le dedizioni; e di impadronirsi, con i potenti mezzi di cui lo stato moderno dispone, del corpo e dell’anima della propria Nazione così pienamente, che i pentimenti, che potessero sopravvenire in seguito, fossero inutili e vani. Ed ora tanti popoli sopportano con pazienza gli ineffabili sacrifici della guerra, sia perchè in tutti, specialmente in quelli che sono di una sola razza e che parlano una sola lingua, il sentimento patriottico è penetrato profondo nelle classi più numerose e meno colte; sia perchè si sono oramai [263] legati gli uni con gli altri a combattere sino all’ultimo, in modo che nessuno si può sciogliere: gli aggressori per il puntiglio e la paura delle meritate rappresaglie, gli aggrediti per la necessità di difendersi, e la sete di vendicarsi.
Cosicchè la più felice delle conclusioni sembra balzare fuori da questo lungo discorso. Noi siamo nati davvero nel secolo d’oro annunciato da tante leggende e da tanti poeti! La dottrina del progresso non mente, anche se noi non la sappiamo ridurre in una definizione precisa! Il mondo progredisce davvero, poichè noi possediamo tutti i beni della terra: la ricchezza, la potenza, il sapere, la concordia, lo spirito di sacrificio; perchè noi sappiamo vivere in pace e sappiamo fare la guerra....
Conclusione troppo felice e troppo pronta. La dottrina del progresso, a cui noi abbiamo sinora creduto, se non bugiarda, era ambigua; e con le sue ambiguità ci ha tratti in una difficoltà disperata. Allorchè viaggiavo l’America e la paragonavo al mondo antico nel quale avevo vissuto in ispirito tanti anni; quando scrivevo Tra i due mondi e preparavo quel discorso che tenni a Milano nel gennaio del 1914 e che è stampato in questo volume; allorchè affondavo e rivoltavo il coltello dell’analisi nelle innumerevoli contradizioni latenti entro l’idea di progresso quale noi la professiamo, e dalle vette di un’alta [264] meditazione contemplavo ai miei piedi, con una specie di voluttuosa tristezza, il mondo immenso, tutto in moto e in affanno e in furore per cercar sempre qualche cosa di nuovo e di meglio, senza saper chiaramente quel che volesse; non supponevo che di lì a qualche anno o a qualche mese, una tal catastrofe doveva procedere da una di quelle contradizioni. Poichè chi voglia risalire la catena delle cause sino alle più remote, dopo essersi soffermato agli intrighi delle diplomazie, agli occulti disegni degli Stati Maggiori, alle ambizioni dei Governi, alle gelosie dei popoli, alle sobillazioni dei giornali, ai vaneggiamenti delle filosofie salariate, alle rivalità delle industrie e dei commerci, alle irrequietezze degli imperi cadenti, alle sofferenze delle nazioni oppresse, all’orgoglio, alle ambizioni, ai sogni della gente tedesca e a quella sua smania di oltrepassare sempre la meta raggiunta anche a rischio di smarrirsi nell’illimitato, dovrà giungere passo passo ad una delle tante contradizioni, in cui noi vivevamo da un secolo; alla contradizione suprema, che non abbiamo mai saputa sciogliere: a quella furia di accrescere la potenza dell’uomo, senza distinguere tra la potenza che crea e la potenza che distrugge. Quando la scienza scopriva qualche nuova diavoleria; quando l’industria costruiva una macchina più veloce e potente; quando contavamo le nostre ricchezze e scoprivamo che erano cresciute, noi gridavamo che il mondo progrediva. Non si era il secolo nostro proposto di conquistare la terra con il fuoco e con la scienza? Ogni passo che ci avvicinava a questa meta lontana non doveva considerarsi — e la stessa [265] ragione filologica non ce ne faceva avvertiti — come progresso? L’Europa e l’America avevano dunque progredito lasciando le antiche diligenze per salire nei treni, le navi a vela per salire nei piroscafi; avevano progredito inventando il telefono, il telegrafo, l’automobile, l’aeroplano e il dirigibile; accumulando cognizioni e mezzi quanti bastavano a debellare l’istmo di Panama, che aveva vinto trent’anni fa il Lesseps: avevano progredito, fabbricando le macchine che falciano, vagliano e misurano il grano, che arano e seminano, che cuciono le scarpe e battono i chiodi e fanno, rapide come il lampo, tante altre operazioni, per tanti secoli lasciate alla piccola e tarda mano dell’uomo.
Nè basta. Conseguente a se stesso e al suo modo di intendere il progresso, il nostro tempo celebrò come le virtù più nobili la laboriosità, la disciplina, l’obbedienza, il coraggio, l’energia, lo spirito di iniziativa e di novità, l’ambizione e la sicurezza di sè; come eroi i self-made-men, gli inventori fortunati e sfortunati, i pionieri di tutte le aspirazioni, gli iniziatori di rivoluzioni nell’arte, nell’industria, nella religione, nella banca, nella moda e nella politica. Ma i tempi non hanno fabbricate solo delle ferrovie, delle navi, degli aratri, delle trebbiatrici, dei vagli velocissimi, preparato dei farmaci meravigliosi, accese delle luci sfolgoranti, trovata la via di parlare e di scrivere attraverso lo spazio. Hanno anche fabbricati fucili, cannoni, corazzate, polveri cento volte più potenti e micidiali che quelle di cui si servivano i nostri nonni e bisnonni. Hanno ingrandite e abbellite le scuole, gli ospedali, le biblioteche; ma di quali [266] atroci ordigni non hanno anche armati i più grandi eserciti che la storia abbia visti! Dovevamo andar noi fieri anche di questi progressi come di quelli? Domanda spinosa tra tutte! Rispondere di sì, voleva dire venerare, alla foggia hegeliana, la distruzione come la creazione; adorare sullo stesso altare Dio e il Diavolo. Ripugnava ad un’epoca che ha creduto nella bontà della natura umana, che si è tanto affaticata per accrescere la ricchezza del mondo. Ma a rispondere di no, occorreva sciogliere gli eserciti, sopprimere le monarchie che ne stanno a capo, rifar la carta dell’Europa, mutare profondamente lo spirito dello stato moderno. L’Europa non se ne sentiva la forza; e quindi ha prescelto non rispondere nè si nè no; contentarsi di una definizione del progresso vaga quanto bastava perchè potesse abbracciare la pace e la guerra, la violenza e il diritto, la vita e la morte, gli aratri a vapore e i mortai a motore, il siero antirabbico e la melinite; non ha osato decidere se l’audacia, lo spirito d’iniziativa e di sacrificio, il coraggio e la perseveranza fossero egualmente da ammirare, sia che l’uomo li adoperasse nelle lotte contro la natura o per conquistare terre ed imperi, in guerre di aggressione e in guerre di difesa. Sempre ha tentennato tra il sì e il no; gli uni dicendo di sì, gli altri di no.... Il secolo voleva la pace; ma quando si è accinto a predicarla, subito si è scoraggito a vedere su tante faccie di soldati, di filosofi e di politici tanti ironici sorrisi; e pieno di vergogna non ha osato neppure — esso il secolo che tutto aveva osato, anche rivoltarsi a Dio e rivedere le bozze della creazione — ripetere quello che San Tommaso aveva [267] asserito a fronte alta e senza esitanza in mezzo alle barbarie del medio evo: che la guerra è lecita solo se è fatta per una causa giusta e senza prava intenzione.
E così venne il giorno in cui la Germania ha appiccato il fuoco ai quattro canti dell’Europa. Essa ha avuto questo coraggio incredibile, perchè tra tutte le nazioni di Europa ha più intrepidamente confusa nel progresso la distruzione e la creazione e affermato che una nazione deve sforzarsi di essere grande in pace e in guerra, che l’imporre con la forza e con il terrore agli altri uomini la propria volontà non è minor merito e gloria che il debellare la natura e sforzarne i segreti tesori. Le vittorie del 1866 e del 1870, il rapido sviluppo delle industrie, il grande incremento della popolazione e della ricchezza, quel difetto di «senso umano» e di misura che è proprio del pensiero tedesco, la febbre d’orgoglio, di ambizione, di cupidigia che l’assalse negli ultimi anni, spiegano come la Germania abbia potuto violentar due principî così opposti entro una definizione ibrida e contradittoria, e creare alla rinfusa strumenti di vita e strumenti di morte; moltiplicare officine e caserme, navi mercantili e da guerra; voler essere una immensa officina e un immenso accampamento, servendo una mostruosa e doppia divinità del Progresso che incitava gli uomini a diventar più ricchi e più temuti, più sapienti e più minacciosi, più laboriosi e più violenti. Finchè un giorno, essendo giunta al sommo della prosperità e della potenza, si è creduta anche al sommo della forza, e allora ha sfidato ad un duello mortale tre dei più grandi imperi di Europa. E la terribile carneficina è incominciata; nè si può prevedere [268] quando avrà fine, la guerra europea sembrando differire da quante la precedettero precipuamente perchè non ha limiti: nè nello spazio, nè nel tempo, nè nel modo.
Nelle guerre precedenti, anche nella guerra del 1870, solo una parte della nazione aveva combattuto: la parte giovane, valida e già istruita alle armi. In questa guerra già parecchie tra le maggiori nazioni belligeranti non badano più, per far numero, nè alla età, nè alla debolezza, nè alla impreparazione, nè alle condizioni di famiglia: ogni uomo capace di imparare in poche settimane a maneggiare un fucile è preso e mandato alla guerra: anzi si può dire che perfino i vecchi e le donne siano stati mobilizzati, perchè quelli che non combattono negli eserciti, sostituiscono nelle opere civili i combattenti, curano i feriti, aiutano le famiglie orbate del capo. È il caso di chiedersi se la guerra europea non sarà terminata da giovinetti imberbi e da vecchi canuti. Era sembrata cosa unica e immensa che nella guerra della Rivoluzione e dell’Impero tutta l’Europa avesse prese le armi: questa volta combattono l’Europa, l’Asia, l’Africa, l’Australia; e chi si meraviglierebbe, se dopo la Turchia e l’Italia anche gli Stati balcanici prendessero le armi; e se un giorno fossero, se non dichiarate le ostilità, rotti i rapporti diplomatici tra la Germania e gli Stati Uniti? Quando la guerra scoppiò, [269] tutti pensammo che più di tre mesi non poteva durare: dieci mesi sono passati, chi osa più sperare che non debba durare un pezzo ancora, almeno se non interviene un miracolo? Già tutti gli Stati preparano la seconda campagna invernale. Pur essendo certo che anche la guerra europea, come ogni altra cosa al mondo, avrà quando che sia una fine; pur apparendo probabile che debba terminare con uno scioglimento subitaneo e inaspettato, nessuno, per quanto aguzzi gli occhi, riesce a scorgere innanzi a lui quel limite insuperabile verso il quale pure cammina e al quale avrà fine anche questa nuova pazzia delle genti umane. Nè si vede quale sia il limite a cui voglia finalmente dar di freno al furore una delle parti belligeranti, quella che sembra essersi proposto di combattere senza riconoscere nè leggi, nè convenzioni, nè regole, nè principî o di pietà o di umanità o di qualsivoglia altra natura....
Neppure la leggenda aveva mai sognato quello che oggi i nostri occhi vedono: nè tante miriadi di combattenti, nè tante e così lunghe battaglie, nè tanta mole di strumenti mortiferi, nè tanta distruzione di vite e di averi, nè tanto accanimento e furore di animi. Viviamo in un secolo che è il più potente tra quanti sono apparsi sulla terra; ma che non vuole nè freni nè limiti e quindi non ha discernimento: crea e distrugge, fa il bene e fa il male, secondo l’interesse o le circostanze o il mutabile umore lo spingono e sempre a modo suo, cioè in grande. Per tre generazioni aveva atteso a colonizzare nuove terre, ad aprire nuove vie, ad accrescere la ricchezza, gli strumenti e il sapere, a istruire e a disciplinare [270] la moltitudine; e aveva fatti prodigi di bene. Ma quando, preso da subita follia, ha volte le sue forze alla distruzione, ha compiuto tale uno sterminio, un flagello, un orrore che per secoli gli uomini allibiranno al ricordo. Le stesse virtù di cui l’Europa ha saputo far mirabile prova — la concordia, il patriotismo, lo spirito di sacrificio — non sono proprio le ragioni per cui la guerra dura così ostinata e terribile? Tedeschi, francesi, belgi, serbi, russi, austriaci da dieci mesi combattono: ora vincono gli uni ora gli altri; milioni di uomini sono caduti; eppure la guerra continua: perchè? Perchè non eserciti e Stati guerreggiano oggi, ma popoli tutti egualmente risoluti a vincere, a qualunque prezzo, perchè tutti esaltati da quella mistica idea della patria, che negli uni infiamma l’orgoglio ed esalta la prepotenza, negli altri esaspera il risentimento dell’aggressione e quindi l’ardore della vendetta. Perciò le sconfitte e le vittorie non sono mai decisive; ed è forza sempre ricominciare. Le battaglie che non riescono — e quelle che ci riescono sono poche — ad annichilare le forze di uno degli avversari, non operano se non per l’impressione che fanno sulle menti: un popolo può dunque essere sconfitto non una ma dieci volte, senza essere vinto, sinchè non disperi della vittoria. I Romani antichi l’hanno provato in cento guerre. Non c’è forse popolo che abbia subite più disfatte e vinte più guerre.
Ci eravamo dunque troppo illusi gloriandoci che la nostra civiltà fosse la più perfetta tra tutte quelle che l’avevano preceduta? Parrebbe. A tutto c’è compenso nella vita. Certo gli uomini del medio evo [271] erano molto più poveri, più rozzi, più ignoranti di noi; non potevano viaggiare in ferrovia nè volare, nè navigare sotto l’acqua; ma non imaginavano neppure gli orrori a cui oggi l’Europa assiste queta queta, quasi indifferente: città incendiate, milioni di uomini trucidati, fatti a pezzi, bruciati vivi, polverizzati da esplosivi infernali, navi che in pochi minuti sprofondano con gli uomini, bare immani di vivi. Onde l’Europa era nel 1315 un paradiso, a paragone dell’Europa quale è nel 1915: meraviglioso effetto di sei secoli di progresso, del quale hanno oggi ragione di sorridere ironicamente i cinesi, gli indiani, i musulmani e tutti i popoli che così leggermente avevamo maltrattato di barbari; e del quale del resto anche molti europei oggi dubitano amaramente. Quanti si chiedono ogni giorno, scuotendo il capo, se questo, proprio questo è il celebrato progresso del secolo! Tirar via e oltrepassare la domanda in silenzio come tutti avevamo fatto sinora, slanciandoci nel folto dell’azione e quasi pretendendo rispondere, non con parole ma con le opere, non si può più, se volendo progredire senza perdere tempo a chiederci che cosa è il progresso e scambiando per progresso vero tutto quel che lì per lì giovava e piaceva, ci è capitato di dover fare in pochi mesi un gran rogo dei tesori accumulati in molti anni, noi che ci gloriavamo tanto di accrescere la ricchezza del mondo; e di dover assistere freddi alla strage di milioni di giovani, noi che ci eravamo sentite viscere fraterne perfino per i muli, i cavalli ed i cani! Le moltitudini hanno diritto di chiedere alle classi che in nome del progresso le hanno condotte a questa prova, se esse sono state ingannate; [272] i cinesi, gli indiani e i musulmani hanno ragione di chiedere se anche la guerra europea è prova di quel meraviglioso progresso, nel quale noi crediamo con tanta fede e che vogliamo imporre con la forza anche alla loro rassegnazione. E quanti sono oggi sicuri, proprio sicuri, che i tempi, impauriti e inorriditi, non risponderanno rinnegando come una menzogna il progresso di cui l’Europa si vantava?
Eppure no. Il progresso, in cui abbiamo creduto un po’ troppo ciecamente, non è una menzogna. La sua dottrina è stata ambigua per colpa nostra, ma non mente. E la guerra europea, che sembra averla sbugiardata, potrà essere principio e fattore di vero progresso.
Nessuno può predire l’avvenire. Ma non è temerario supporre che la guerra europea sarà considerata nella storia come la crisi di una civiltà, la quale si era vantata di sciogliere l’energia umana dai ceppi, dai freni e dai lacci che nelle civiltà precedenti la limitavano; e che, dopo averla liberata, non ha più saputo frenarla il giorno in cui si è infuriata a distruggere: la crisi di una civiltà che, dopo aver per un secolo spossate tre generazioni, affinchè non restassero un solo momento dal creare, ora distrugge la quarta con tutte le cose sue, senza misericordia e per la stessa ragione, perchè è senza misura nel bene [273] e nel male. La prima e grande crisi di quella che i socialisti usano chiamare la «società capitalista» — dell’ordine di cose che l’ultimo secolo ha stabilito in Europa e in America — è proprio questa, è la guerra europea: ma quanto è diversa dalla crisi che i socialisti avevano annunciata! Così come è diversa dalla grande crisi storica, che l’ha preceduta: la Rivoluzione francese. Allora un’epoca che aspirava alla libertà, alla ricchezza, alla potenza, al sapere, si levò e rovesciò tutti quei limiti antichi, che parevano interporsi tra l’uomo e il suo desiderio: oggi invece vacilla e stramazza, ferendosi, un secolo che dopo aver conquistata la libertà, la potenza, la scienza, i tesori della terra, è stato preso dalla vertigine di distruggere se stesso e l’opera sua.
Onde si possono supporre due cose. O che, dopo essere caduto così malamente, il secolo si rialzi e, curate le ferite, ripigli, appena si risenta in forze, la sua folle corsa verso l’antica meta, che più si allontana quanto più l’uomo cammina verso di lei.... La guerra europea non sarà allora che una parentesi nella storia del secolo decimonono e del ventesimo; un accidente terribile ma passaggero, come un terremoto o una inondazione; o, se si vuole, un avvertimento agli uomini inutile e la prima prova di una catastrofe ancora più colossale, di qui a cinquanta o a cento anni. Oppure la dura percossa farà riavere il mondo da quella vertigine, in cui si era smarrito; lo indurrà a ripiegarsi su se medesimo e a chiedersi quale uso abbia fatto e quale uso debba fare della sua potenza a dismisura cresciuta; e da quel momento il mondo incomincierà a progredire davvero. [274] Io non vedo infatti come si possa uscire dalle inestricabili difficoltà in cui il pensiero e l’azione si impigliano, quando il primo vuol definire e la seconda vuol creare il progresso, se non ammettendo che ogni epoca compie una parte sola dell’opera incessante e molteplice, che è il compito del genere umano tutto quanto. Alcune civiltà hanno create arti e filosofie; altre ordini politici nuovi; altre leggi e diritti; altre riti, sacerdozi e religioni; altre nuove forme di industria e di commercio; altre armi e procedimenti di guerra, e via dicendo.... Ma tutte queste opere parziali di tante generazioni che si seguono, se almeno in parte se ne conservi il ricordo, si aggiungono le une alle altre; e in questo lento ma continuo crescere del numero loro consiste il vero progresso e il solo modo con cui si possa alla meglio saldare nella definizione del progresso la qualità sulla quantità, con un attacco vitale e perciò indissolubile. Infatti le generazioni che seguono possiedono una quantità maggiore di principi qualitativi; o, per dir la stessa cosa più semplicemente, conoscono un numero maggiore di principî estetici, politici, religiosi e morali, cosicchè ne possono ricavare combinazioni più svariate e più ricche, e vivere di una vita più piena e più originale.
Un esempio chiarirà meglio questo pensiero. Se noi ci paragoniamo ai Greci o ai Latini o ai Medievali, possiamo facilmente scoprire che in certe cose noi li superiamo, in altre siamo invece vinti da loro. I Greci erano da più di noi nell’arte e nella letteratura; i Latini nel diritto; gli uomini del Medio Evo in certe arti, come l’architettura. Ma noi siamo [275] molto più ricchi e sapienti e potenti dei Greci, dei Latini e dei Medievali. Come decidere dunque, paragonando queste differenze, se dai Greci a noi il mondo ha progredito o no? Bisognerebbe decidere se è meglio esser dotti o essere artisti, costruire delle macchine a vapore o edificare delle belle cattedrali, esplorar l’Africa o comporre l’Antigone. Ma è chiaro che ogni uomo e ogni epoca vantano come più utile e più nobile l’attività propria; e che non c’è modo di provare che la ricchezza vale più o meno della bellezza, la bellezza più o meno della sapienza. Tutti i ragionamenti con cui si è creduto di provare uno di questi punti sono facilmente rovesciabili; o presuppongono una definizione del progresso in cui è già ammessa la tesi che si vuol discutere: sono quindi dei sofismi che solo l’interesse e la passione possono, perchè son ciechi, scambiare per dimostrazioni. Ma invece noi possiamo dire che il mondo ha progredito, quando paragoniamo tutta l’epoca nostra alla Grecia: perchè noi gustiamo l’arte e la letteratura greca, ne conosciamo la filosofia, abbiamo derivati da lei alcuni sentimenti e principî politici; ma conosciamo anche altre arti ai greci ignote — l’architettura medievale, la scultura giapponese, per esempio; conosciamo altre filosofie; pratichiamo le virtù insegnate dal cristianesimo, come l’amore del prossimo, la carità, la purezza; a queste aggiungiamo i principî politici creati dalla Rivoluzione francese; possediamo infine conoscenze geografiche e scientifiche molto più vaste; viaggiamo in ferrovia, parliamo attraverso lo spazio, e voliamo.
Così inteso il progresso, parecchi dei problemi [276] morali posti dalla guerra europea si chiariscono alquanto. L’incremento della ricchezza, del sapere e del potere non è progresso, che se noi impariamo a far di questa ricchezza, di questo sapere e di questo potere un uso che sia più bello e più nobile o più savio o nel tempo stesso più bello, più nobile e savio. Ma noi non impareremo a far un uso più bello, più nobile e savio della nostra ricchezza, del nostro sapere e della nostra potenza, da noi soli e come dal nulla, se non cercheremo di imitare e di superare le generazioni passate, combinando le idee, i sentimenti e i principî che esse ci hanno tramandato con le idee, i sentimenti, i principî che noi abbiamo creati. Le civiltà antiche eccellevano nel frenare l’uomo così da impedirgli di commettere troppo grandi e pericolose follie; ma nel tempo stesso ne limitavano la forza anche nel fare le grandi cose. La civiltà moderna ha esaltata, liberandola da tutti i freni, l’energia dell’uomo e l’ha fatta capace di prodigi; ma essa ha tolti anche i freni che la trattenevano dalle supreme follie. La civiltà nostra toccherà la vetta della gloria e della perfezione il giorno in cui riuscirà, contaminando la nuova potenza, che essa ha creata, con la saggezza antica, che ha obliata, a sottoporre la disordinata energia dell’uomo al freno di regole e di principî estetici, morali, religiosi, filosofici, che ne siano i limiti — ampi quanto si vuole, ma saldi. Onde gli storici e i filosofi farebbero opera assai più utile se, invece di vagellare intorno all’esistenza di Romolo o di baloccarsi con i giocattoli gnoseologici del diciottesimo secolo, preparassero le menti a questa salutare e sublime fusione di due [277] civiltà, da cui potrebbe nascerne una terza, veramente più grande dell’una e dell’altra.
Poichè insomma quando l’Europa avrà finito di combattere questa terribile guerra, ed esangue, spossata, si chiederà quel che debba e possa fare per provvedere all’avvenire, a che si troverà, se non innanzi all’eterna questione in cui l’uomo si imbatte a capo di tutte le vie che imbocca per cercare la felicità: ad una questione di limiti? Se dopo la guerra europea gli Stati ricominceranno ad armare illimitatamente per non esser l’uno da meno dell’altro, come hanno fatto dal 1870 al 1914, saremo presto o tardi da capo. La pace non potrà rinsanguare l’Europa svenata se le Potenze belligeranti non riusciranno alla fine della guerra a intendersi seriamente, a limitare gli armamenti, e a statizzare le fabbriche d’armi. Una cosa che a dirsi è semplice e facile, ma che pur troppo sarà molto più difficile a porre ad effetto: perchè non c’è atto che più ripugni al mondo moderno che il limitarsi, per qualunque motivo e in qualunque modo. Ho già detto che San Tommaso afferma e dimostra come la guerra sia in sè un peccato, e cioè male; ma divenga lecita sotto tre condizioni: quando è fatta dall’autorità legittima, per una giusta causa e senza prava intenzione. Il sottil dottore medievale aveva già sin da quei tempi previste guerre fatte per causa giusta, ma con prava intenzione! Orbene: chi non vede che questo modo di considerare la guerra è quello che meglio soddisfa la ragione e il sentimento di tutte le persone che non siano o interessate a voler che la guerra duri eterna in Europa, o prive di quel «senso umano» delle cose, che è una forma [278] della saggezza e che la filosofia tedesca ha fatto perdere in così larga misura anche a noi? Chi non vede che basterebbe portare ad effetto questa dottrina sul serio e lealmente; e l’Europa potrebbe godere di una pace più lunga e sicura? Eppure troverete in tutto il secolo decimonono ben pochi pensatori, i quali abbiano osato sostenere una dottrina simile a questa apertamente, a fronte alta, senza vergognarsene come di una dottrina ridicola per vecchie zitelle; perchè molte tra le filosofie del secolo — e massime quelle che si vantano idealistiche — non hanno voluto mai pigliare le mosse che da se medesime e non riconoscere alla loro indagine nessuno dei limiti che le filosofie antiche, per amore o per forza, avevano rispettato, neppure i limiti del buon senso e di quel «senso umano» a cui ripugnano tutte le dottrine e i principî che vanno a ritroso della natura dell’uomo, delle sue più comuni e manifeste e ragionevoli esigenze. Queste filosofie hanno avuto in gran dispregio, come era naturale, il buon senso di San Tommaso e delle vecchie zitelle; ma rovesciandosi a vicenda i propri argomenti le une hanno dimostrato che la guerra è divina, le altre che è diabolica; quelle hanno affermato che la vittoria in guerra è il segno più manifesto della perfezione, le altre che il guerreggiare è un’operazione bestiale e che un popolo virtuoso non adopera le armi neppure per respingere un’aggressione! Se fu cosa tanto difficile far accettare a questo secolo delle opinioni ragionevoli intorno alla guerra e ai suoi limiti, imaginarsi se sarà facile indurlo a compiere degli atti savî! Ma chi può, dopo questa prova, dubitare che la civiltà moderna si distruggerà [279] un giorno o l’altro, con le sue proprie mani, se non riescirà ad adoperare la forza tremenda di cui dispone con maggiore discernimento? Questo nostro secolo apparirà forse ai posteri come un fanciullo che ha giocato a lungo con le mitragliatrici, i cannoni a tiro rapido, gli obici esplodenti e i milioni di soldati, senza imaginare come sarebbero tremendi alla prova quei giocatoli: è necessario che il secolo si faccia adulto e impari a maneggiare quegli ordigni con prudenza adeguata al pericolo!
Noi dovremo quindi invocare le ombre dei padri, perchè assistano l’Europa con la loro obliata saggezza a scampare dal passo mortale in cui si è avventurata per orgoglio e temerità. Noi dovremo invocare sopratutto le ombre di quei grandi che nel secolo decimottavo e decimonono insegnarono agli uomini a sentire che ci possa e ci debba essere una giustizia anche tra i popoli. Anche questo, tra i nuovi sentimenti che sono la dignità dei nostri tempi, è nato nel secolo decimottavo ed in Francia. Riaccantucciatosi nei cuori e nei libri, potè scampare al diluvio di fuoco che cadde sull’Europa, tra la fine del secolo decimottavo e il principio del secolo decimonono. Poi a poco a poco, nella lunga veglia di rimpianti e di speranze che corse tra la caduta dell’impero napoleonico e la rivoluzione del 1848, uscì dai suoi ripostigli; e travestito da sogno, percorse di soppiatto l’Europa, sotto gli occhi sospettosi delle polizie, guadagnando a migliaia le menti ed i cuori. Quando, ad un tratto, nel 1848, gettato il suo travestimento in mezzo a quel grande commovimento di popoli, il sogno perseguitato e proscritto parve in poche settimane [280] conquistare da sovrano l’Europa e diventare l’ordinatore di un mondo nuovo e più felice....
Invece la delusione fu pronta. Quanto lontani erano ancora i tempi del suo trionfo! Sopraggiunsero i rivolgimenti politici ed economici della seconda metà del secolo XIX, la êra del ferro e del fuoco, il chiassoso trionfo della quantità, la contaminazione delle classi e degli interessi, l’avvento della borghesia faccendiera. L’Europa confuse nella stessa definizione del progresso la vita e la morte, la distruzione e la creazione; e pur desiderando la pace lasciò i governi preparare e i filosofi predicare la guerra. Quel gran sentimento non fu più perseguitato dalla polizia, ma deriso e vilipeso. Si cercò di isolarlo, chiudendogli tutte le porte, la porta della scuola come la porta del parlamento. In ogni paese si tentò con diversa fortuna di innalzare, in mezzo al popolo, un monumento di ammirazione a Bismarck, non per altro scopo se non perchè con il suo ceffo di mastino agghiacciasse le anime che si lasciavano toccare dal nuovo sentimento. Agli sforzi che faceva per guadagnar le menti, i governi e i partiti rispondevano ironicamente fabbricando nuove armi e in quantità quasi infinita, e salariando, nelle Università e nei giornali, filosofi e filosofastri, che rispolverassero le vecchie teorie buone a far da contraveleno, tra le quali l’hegelianismo. Gli si rimproverò di esser mezzo cattolico e mezzo protestante; cattolico perchè aspirava ad essere trascendente ed eterno, protestante, in quanto pretendeva essere figlio della ragione: come se un sentimento, per esser in grado di dar ragione di se medesimo e di giustificare i suoi comandi, perdesse [281] perciò il diritto di dirigere le menti al bene o si tramutasse in una impostura. Ma a dispetto di tutte queste critiche o miopi o maligne o interessate, il sentimento non è morto, appunto perchè era un sentimento vero, profondo, sgorgante dalle profondità dell’anima umana; e potrà salvar l’Europa dalla rovina perchè è capace di tracciare dei limiti all’orgoglio, all’ambizione e alla prepotenza dei popoli. Perciò noi dobbiamo ravvivare questo sentimento negli animi, precisarne le imposizioni con la ragione; far che imperi nella Europa nuova sulle masse sbigottite dalla catastrofe; su quelle masse che il secolo della quantità ha fatte arbitre di quasi ogni cosa: anche della guerra e della pace.
Nessuno potrebbe anticipare la sentenza del tempo, dalla quale dipende l’avvenire dell’Europa: tuttavia noi possiamo, prima di chiuder queste pagine, soffermarci un istante sopra un segno che già i tempi hanno manifestato. Il segno è forse piccolo in sè, ma può incoraggiare a sperare maturi davvero nella coscienza dell’Europa un progresso — un progresso non equivoco e incerto come tanti altri, di cui ci affrettammo troppo a compiacerci in passato; un progresso vero e sicuro, nel risorgere di antichi principî in mezzo al possente ma mostruoso disordine del mondo moderno.
Gli antichi avevano annoverato il vino tra gli [282] Dei, perchè giudicavano divina una bevanda che, bevuta con moderazione, ha la virtù di assopire i crucci, di infondere l’allegrezza, di stimolare l’imaginazione, di rasserenare e di esaltare la mente. Ma l’antico Dio, apparendo sulla terra in forme sempre più numerose e diverse, da un secolo in qua s’è convertito in un torbido e tetro demonio: non genera più la gaiezza e la gioia, ma la pazzia, il delitto, la sterilità, la discordia, la miseria, la morte. Tutti sanno di quante sciagure quella malattia, a cui i medici hanno dato nome di alcoolismo, è cagione in tutta l’Europa, e come due nazioni fossero più gravemente minacciate da due di queste fatali bevande: la Russia dalla vodka e la Francia dall’absinthe.
Non è quindi da meravigliare se nei due paesi si cercassero farmaci al male. E quanti erano i medici! Uomini di Stato e di scienza, filantropi, preti, moralisti, capi di industria, maestri di scuola, gentili signore. Le Commissioni e le Società di propaganda create negli ultimi venticinque anni, e le leggi promulgate per ricondurre gli uomini della ebrietà alla sobrietà, non si contano; e neppure gli scritti pubblicati sulle cause e sulla cura del male. Tuttavia a dispetto di tanti medici, il male si aggravava in ogni paese, e massime in Francia ed in Russia. Il farmaco cercato dappertutto non si trovava in nessuna parte. La Scuola e la Chiesa erano egualmente impotenti. L’operaio ascoltava i buoni consigli e poi tornava alla bettola a berne un altro bicchiere. Scoraggiati, non pochi tra i medici conchiudevano che l’uomo è un essere naturalmente vizioso e che è inutile volerlo trattenere dal perdersi cercando il piacere. Qualcuno raccattava [283] persino delle scuse al vizio. Era poi proprio così funesto, come si diceva? E quale altro conforto alleggerisce all’operaio la sua pesante catena negli ergastoli dell’industrialismo moderno? Ogni uomo cerca di evadere con l’imaginazione, come può, ogni tanto, dal carcere angusto del mondo ove è prigioniero, per i liberi campi dell’infinito. Il bicchiere di vino o il bicchierino di liquore possono essere, per l’operaio che non ne conosce altra, la piccola finestra aperta sull’infinito.
Così l’Europa si inebriava liberamente, sebbene a molti, che questo ottimismo non illudeva, stringesse il cuore di veder così nobili razze imbestiarsi a quel modo. Ma non c’era rimedio! Quand’ecco scoppia la guerra europea.... Ed allora, considerando che se in tempi ordinari l’ubriachezza è un vizio pericoloso, pericolosissimo è in tempo di guerra, quando così quelli che prendono le armi come quelli che restano a casa devono far uso, per la salvezza comune, di quanto giudizio la natura fu loro larga, si è pensato — rimedio a cui nessuno fino ad allora aveva posto mente — di proibire che si fabbricassero e si spacciassero le bevande inebrianti più nocive. Non era l’ovo di Colombo? Il giorno in cui l’operaio e il contadino non troveranno più alla bettola la bibita perniciosa, non si ubriacheranno più o almeno si ubriacheranno meno. Detto, fatto: in tempo di guerra si va per le spiccie. Il giorno dopo che lo stato d’assedio era stato proclamato, l’autorità militare proibiva in tutta la Francia la vendita dell’absinthe; e appena il Parlamento francese fu riconvocato, subito approvò una legge che interdiceva per [284] sempre di fabbricare, vendere e importare absinthe in Francia. Poche settimane dopo che la guerra europea era scoppiata, lo Czar chiudeva tutte le fabbriche e tutti gli spacci di vodka che in Russia appartenevano, per diritto di monopolio, allo Stato. E da dieci mesi in Russia e in Francia, se non si può dir che non si beva più nè vodka nè absinthe — frodi e abusi non mancheranno mai nel mondo, finchè esisteranno uomini — la sobrietà è cresciuta e sono scemati gli effetti funesti dell’ubriachezza. Il rimedio, semplice ed efficace, è stato trovato.
Senonchè per quale ragione occorse tanto tempo — e nientemeno che un terremoto come la guerra europea — per trovare questo rimedio?
Infatti questo di cui parliamo non solo è un modo efficace per frenare nel popolo l’intemperanza, ma è il solo efficace. Due o tre secoli fa gli uomini, se erano per molti rispetti peggiori di noi, erano invece certamente più sobrî; ed erano più sobrî perchè non distillavano ogni anno tanti liquori e non pigiavano nei tini tanta uva; cosicchè ogni persona non ne poteva bevere che una parca misura. Qualche raro beone opulento poteva fare scempio della sua salute; la moltitudine povera e di modesta condizione, no. Perchè invece gli uomini si sono dati sfrenatamente al bere da un secolo; e proprio dopochè incominciò nel mondo l’êra della quantità? Perchè il secolo decimonono ha piantata la vigna in milioni di ettari incolti, perfino sulle terre strappate all’Islam, e al di là dell’Oceano; perchè ha ingrandite di mole e cresciute di numero a dismisura le fabbriche di birra; perchè ha inventati mille modi nuovi e ingegnosi di [285] distillare da infinite sostanze l’alcool, e ha fabbricati, in gigantesche officine e per il mondo, dei liquori di cui una volta si fabbricavano ogni anno poche bottiglie in famiglia, seguendo una ricetta tradizionale. Ma dopo aver distillate tante bevande inebrianti, l’industria moderna doveva ben trovare il modo di farle ingoiare dal mondo. Non si dica infatti che oggi si fabbricano tante bevande inebrianti perchè il mondo è assetato; che il vizio è la causa e non l’effetto di questo grandissimo incremento del commercio del vino, della birra e dei liquori. No: qui come altrove e dappertutto, l’industria ha fatta l’abbondanza; e fatta l’abbondanza ha persuaso ogni uomo a largheggiare con sè e con gli altri, anche a rischio di sperperare.
È dunque chiaro che, sinchè l’industria potrà liberamente distillare bevande inebrianti quante vuole, come liberamente fila e tesse quante braccia di tela e di panno crede, l’intemperanza crescerà irrefrenata. L’industria sarà spinta a fabbricar misure sempre maggiori di bevande inebrianti; e il mondo dovrà ingoiare i fiumi di birra, di vino e di alcool di cui essa irrigherà il mondo ogni anno. La birreria e la bettola persuaderanno gli uomini a molto bevere il mattino e la sera, i giorni di festa e i giorni di lavoro; perchè l’uomo è naturalmente inclinato ad abusare di tutti i piaceri; e se gli date la libertà del vizio, ne abuserà certamente.... Insomma il nostro tempo aveva concessa la libertà di disordinare bevendo e poi si doleva che gli uomini ne abusassero; proprio come, dopo aver creato i più smisurati eserciti e averli armati delle armi più micidiali, non sa [286] darsi pace che sia nata in Europa la guerra più vasta e lunga e sanguinosa della storia. Le due contradizioni sono simili, perchè sono figlie gemelle della stessa madre. Il secolo ha armati i più grandi eserciti, non perchè volesse suicidarsi in una guerra mondiale, ma perchè impegnatisi i popoli in una gara di orgoglio e di potenza, è mancata in Europa una forza, così interiore come esterna, che imponesse un limite agli armamenti. E ha concesso la libertà del vizio, non perchè fosse corrotto e perverso, ma perchè sollecito di far progredire l’industria e il commercio, non ha voluto riconoscere alcun limite — neppur le esigenze della salute, della morale e della bellezza — che rallentasse l’incremento della ricchezza: perciò ha spinto nel tempo stesso le industrie a produrre e gli uomini a consumare quante più cose potessero; a mangiare, a bere, a fumare, a divertirsi, a logorare e rinnovare vestiti, a viaggiare, a desiderar comodi nella misura maggiore. E perciò ha dovuto confondere i criterî che nelle società passate servivano a distinguere il consumo dallo spreco e il vizio dal bisogno; perchè, questi criterî, se fossero oggi chiari e precisi nella mente degli uomini, come due secoli fa, sarebbero limiti a quella libertà di crescere indefinitamente di cui tutte le industrie moderne sono così gelose; così come non ha saputo distinguere tra i servizi che la scienza e l’industria rendevano alla pace e quelli che rendevano alla guerra.
La guerra europea ha sciolta in un attimo questa contradizione, per quel che concerne il vizio del bere. Ha già ricondotti alcuni popoli dell’Europa ai principî che due o tre secoli fa regolavano il mondo. [287] Imminente il pericolo, tutti hanno inteso che lo Stato ha il diritto e il dovere di impedire al popolo di suicidarsi lentamente inebriandosi; che la salute della razza e gli interessi della morale pubblica possono e debbono essere dei limiti a quella piena e intera libertà di abusare mortalmente dei piaceri, che i singoli si erano arrogati da un secolo in qua. Intenderà l’Europa con la stessa fatalità e rapidità che la guerra non deve essere — come è oggi in Europa — la selvaggia esplosione di tutte le energie di distruzione e di sacrificio, di odio e di amore, di bene e di male, che l’anima umana può accumulare nello spazio di una generazione sino all’estremo esaurimento di tutte le forze fisiche e morali di un popolo; alcunchè di simile a una forza della natura senza regola e legge? Che deve essere invece una istituzione umana, come la giustizia; un segno e un simbolo della forza di un popolo quanto più fedele si può e adeguato alla cosa significata, ma circoscritto entro limiti precisi, per i quali non possa essere più un flagello di Dio e uno sterminio di vincitori, di vinti e di neutri, ma uno strumento umano mosso dalla ragione e che la serva?
L’avvenire lo dirà. La volontà oscura e potente delle masse, che oggi combattono questa guerra ciclopica, deciderà. Quel che occorre è oggi un atto di volontà, un grande atto di volontà delle masse. Nei due ultimi secoli gli uomini hanno capovolto l’ordine di cose, in cui i loro padri avevano vissuto tanti secoli; hanno incominciata quella nuova e meravigliosa storia del mondo, di cui noi vediamo oggi la prima crisi veramente profonda, il vero segno [288] grave di un disordine interno che può minacciare la morte, perchè hanno voluta la libertà, la ricchezza, la potenza, il sapere. I nostri figli e i nostri nipoti godranno la pace sicura e sincera, se gli uomini la vorranno sul serio, volendo anche tutto ciò che di una pace sicura e sincera è condizione necessaria. Onde in questo momento in cui tanti uomini sono in armi, e si spiano con il fucile spianato dalle feritoie delle trincee, e si cercano sui mari e sulle terre con i cannocchiali e con i cannoni, è proprio il caso di ripetere ai soldati della nuova e questa volta per davvero santa alleanza, ai soldati delle Potenze che dovettero subire questa guerra, perchè i due Imperi germanici la imposero a loro, la grande parola di Sant’Agostino: quella parola che dovrebbe essere la divisa della nuova Europa, sperata da quante menti si chiedono oggi angustiate se la più grande epoca della storia non stia per crollare sotto il peso dei suoi trionfi, desiderata confusamente dalle moltitudini umili e ignoranti che versano oscuramente su tanti campi di battaglia il loro sangue, anche da quelle che combattono nelle file degli eserciti assalitori: esto ergo bellando pacificas, ut eos, quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas.
Fine.
1. Scritti editi e inediti di G. Mazzini, Vol. XIV, pag. 215-218.
2. Chi voglia conoscere quanto questa illusione sia stata tenace in quello che si suol chiamare il «mondo ufficiale», legga lo scritto pubblicato nel Corriere della Sera, il 29 luglio 1914, da uno statista che, per le cariche occupate, era in grado di conoscere meglio di tutti uomini e cose: Luigi Luzzatti. In quello scritto il Luzzatti confortava il pubblico a sperare che la pace non sarebbe turbata, perchè sulla pace del mondo vegliava, più ferma che mai, la Germania! Poche ore dopo che il giornale era pubblicato, il conte di Pourtalès faceva a Pietroburgo il passo fatale che ha provocata la guerra; e la sera di quel giorno stesso, mentre migliaia di fedeli lettori si rassicuravano meditando dopo cena la prosa del ministro, alla luce della lampada familiare, il gran Consiglio dei capi dell’esercito deliberava a Potsdam la guerra europea!
3. «Certamente, tu colpiresti assai più giusto, se parlassi, quanto alla Germania odierna, della mia profonda ammirazione per la sua virtù politica ed etica. Ma non perciò mi coglieresti in fallo; perchè, chi non ammira questa Germania? L’ammirano persino coloro che l’aborrono o dicono di aborrirla; perchè in quell’aborrimento c’è invidia, gelosia, soggezione, e insomma rispetto e ammirazione; in quell’antipatia c’è il tentativo di reagire violentemente contro una spontanea simpatia, che sarebbe troppo piena di rimproveri per noi. Vedi: io ho palpitato un tempo pel socialismo parlamentare alla Marx, e poi pel socialismo sindacalistico alla Sorel: ho sperato dall’uno e dall’altro una rigenerazione della presente vita sociale. E tutte le due volte ho visto corrompersi e dileguare il mio ideale di lavoro e di giustizia. Ma ora mi si è accesa la speranza di un movimento proletario inquadrato e risoluto nella tradizione storica, di un socialismo di Stato e nazione; e penso che ciò che non faranno, o faranno assai male e con finale insuccesso, i demagoghi di Francia, d’Inghilterra e d’Italia (che aprono la via non al proletariato e ai lavoratori, ma, come dice il mio venerato amico Sorel, ai noceurs), lo farà forse la Germania, dandone l’esempio e il modello agli altri popoli. Perciò giudico assai diversamente dai socialisti italiani l’atto compiuto da quelli dì Germania; e credo che quei socialisti tedeschi, che si sono sentiti tutt’uno con lo Stato germanico e con la sua ferrea disciplina, saranno i veri promotori dell’avvenire della loro classe.
«Eppure, neanche questo mio giudizio sulla Germania odierna è il motivo che determina il mio presente atteggiamento politico e la mia adesione al gruppo Pro Italia nostra. Perchè, per alta, per sublime che sia la virtù della Germania, l’intreccio degli avvenimenti, come ci ha indotti dapprima alla neutralità, potrebbe, per gl’interessi italiani, costringerci a schierarci contro la Germania....»
(Da una lettera ad un amico, scritta da Benedetto Croce il 22 dicembre 1914, cinque mesi dopo l’inizio della guerra europea, e pubblicata come articolo nell’Italia nostra del 27 dicembre 1914, sotto il titolo: «Cultura tedesca e Politica italiana»).
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.