Title: La vita operosa: Nuovi racconti d'avventure
Author: Massimo Bontempelli
Release date: February 17, 2017 [eBook #54178]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed
Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was
produced from images generously made available by The
Internet Archive)
MASSIMO BONTEMPELLI
La vita operosa
NUOVI RACCONTI D'AVVENTURE
VALLECCHI EDITORE FIRENZE
[Questi racconti furono pubblicati
nei numeri dal settembre al novembre
1920 della rivista I. I. I.].
Proprietà letteraria riservata.
Firenze, 1921 — Stabilimenti Grafici A. Vallecchi — Via Ricasoli, 8.
.... Mediolani mira omnia: copia rerum, innumerae cultaeque domus, facunda virorum ingenia....
AUSONIO.
[7]
[9]
Alla scuola degli allievi ufficiali io e i miei compagni studiavamo le molteplici bellicose materie su certi quaderni che si venivano trasmettendo dinasticamente di corso in corso.
Poichè i corsi duravano due mesi, il succedersi delle nostre generazioni era rapido. Passavano gli studenti; ma restava, inesausto come il sole e il pensiero, il Quaderno. Molti degli studenti li portò via la guerra; i quaderni li dovè distruggere la pace, perchè l'uomo è un animale improvvido, e probabilmente nessuno ha pensato a conservare, per qualche ventura guerra con corsi accelerati, quelle concentrazioni manoscritte delle discipline di Marte e di Bellona.
Ricordo che il quaderno di una delle materie meno omicide — la topografia — era fatto a domande e risposte, esattamente come i catechismi della dottrina cristiana e gli opuscoli di propaganda socialista: la quale triplice coincidenza potrebbe far fede che la umanità elementare è fondamentalmente dialogica.
[10]
Il capitolo intorno all'orientamento in aperta campagna finiva con queste battute:
— D. Come si fa a orientarsi in aperta campagna?
— R. Con una bussola, che è uno strumento ecc. ecc.
— D. E quando non si ha la bussola?
— R. Con un orologio che si espone orizzontalmente al sole avendo cura, ecc. ecc.
— D. E se è notte?
— R. Con le stelle, una delle quali chiamasi polare, e si trova tirando una linea immaginaria, ecc. ecc.
— D. E se è giorno e non si ha l'orologio?
— R. Col sole.
— D. E se il sole è coperto?
— R. Esaminando i tronchi degli alberi: la parte dove sono più verdi, poichè è quella dove non vengono battuti dal sole, è il nord: la parte opposta naturalmente è il sud.
A questo punto finiva il capitolo, e cominciava un altro argomento.
Ma a quel punto io sentivo un vuoto improvviso. Forse qualcuno dei lettori l'ha sentito con me. M'auguro che siano pochi: li avverto che è un fenomeno morboso, prodotto in noi da una malsana tendenza verso l'infinità.
Infatti, allora, ho potuto fare alcune osservazioni sul contegno che i miei compagni tenevano di fronte all'interruzione. La maggioranza non aveva nessuna impressione o curiosità particolare: studiava quelle nozioni senza desiderarne altre. Qualcuno, d'intelletto notevolmente preciso, ne dedusse che la guerra si fa sempre ed [11] esclusivamente in luoghi ove ci siano almeno degli alberi. Pochissimi si accorgevano che il trattato ereditario di topografia militare lasciava insoluto un grave problema: come si fa a orientarsi in aperta campagna quando si è perduta la bussola, si è rotto l'orologio, il sole è coperto di nuvole, e non ci sono alberi.
Quei pochissimi finivano per concludere che in quel caso ognuno fa quello che può: — che in effetto è il solo insegnamento sicuro e fondamentale per tutte le discipline pratiche della guerra e della pace.
Quando, due mesi dopo l'armistizio, rientrai — come dicevamo allora — in Italia, mi sono trovato nella città di Milano, aperta campagna per le maggiori battaglie della vita: mi sono ritrovato nell'aperta campagna di Milano, senza bussola, nè orologio, nè sole, nè stelle.
Ho girato dunque per la città respirando la vita e cercando affannosamente un albero per vedere da che parte sta il nord.
Quanto mi piacquero quel giorno i bar con le bottiglie di tanti colori! I colori dei bar, gli specchi dei caffè, i cristalli delle vetrine, e le donne che salgono in [12] una carrozza o anche in un tranvai, furono i beni terrestri di cui il soldato sentì maggiore nostalgia.
I liquori colorati, gli specchi, le vetrine e le donne, scossero ebriosamente la mia fantasia rinfanciullita nella lunga assenza dai piaceri del mondo.
E così agitando lo sguardo goloso dall'uno all'altro dei molti esemplari d'ognuna di quelle specie benefiche, a un certo punto mi avvenne di fermarlo in modo particolare sopra una donna, la quale non saliva in tranvai, ma camminava morbidamente verso non so qual suo sogno o realtà fascinosa, e presto mi scomparve e non ebbe mai nome per me; era bellissima e aveva corta e densa la pelliccia e lunghe e rade le calze, e due occhi di carbone e di luce.
Come si allontanava, mi sorpresi a mormorare una frase di estasi ammirativa, che fu la seguente:
— Perdio! qui bisogna trovar modo di far molti quattrini.
Poichè intanto la donna era vanita del tutto dal mio orizzonte, un mio vigile Genio o Dàimone personale, che è loico e ironico di natura, mi domandò:
— Quale rapporto così diretto e immediato supponi tu dunque che gli dèi abbian posto tra la visione della bellezza e il pensiero del danaro?
Ma, contro il Dàimone, ho insistito, d'istinto, nell'affermare quel rapporto come reale, e forse anzi fondamentale ed eterno. Forse quando nacque la divina Afrodite dal mare e si presentò sul lido terrestre vestita alla moderna di poca spuma, forse allora i Tritoni e i mortali si mormorarono l'un l'altro ammirandola:
[13]
— Per Zeus! qui bisogna trovare il modo di far molti talenti.
Il cielo era coperto, come si conviene a una città di vita operosa. L'aria avvolgeva un velo di grigio intorno alle cose, com'è opportuno in una aperta campagna delle battaglie della vita.
Il cielo era coperto e l'aria un velo grigio: ma di tratto in tratto le vie s'illuminavano di lunghi bagliori folgoranti, perchè rapide correnti d'oro invadevano il cielo, s'insinuavano tra le linee dei tetti, volavano sopra le strade della città con una voce d'aeroplano giovane. Le correnti dell'oro a ogni momento urtando negli spigoli dei tetti si frangevano e mandavan giù rutilanti cascate a zampillar sui marciapiedi sotto lo sguardo dei passanti.
Le donne non si chinavano a raccogliere quell'oro: lo raccoglievano gli uomini per esse.
Le correnti e gli zampilli s'allontanavano, si spegnevano, ricominciavano qua o là bizzarramente.
A un certo punto mi domandai perchè non mi ero chinato anch'io come gli altri. Era facile. Chiunque può chinarsi e raccogliere.
[14]
È facile chinarsi, ma non è facile pensarvi. Certi uomini, quando sarebbe il momento di chinarsi, continuano invece a contemplare la pelliccia corta che si allontana, e non fanno a tempo a raccogliere l'oro per lei. Questa è la differenza tra essi e gli altri.
Non me ne rimproverai troppo. Tutto era ancora nuovo per me, che mi trovavo senza bussola nè orologio nè sole nè stelle in mezzo all'aperta campagna della nuova vita. Bisogna prima orientarsi. E proseguii l'esplorazione per la città, alla ricerca di alberi che m'indicassero il settentrione e l'oriente. Era l'ora che Milano è più bella: quando l'aria si risolve a essere scura del tutto, e s'accendono i lumi delle strade e delle case.
Per intonarmi all'ora, sono andato al caffè.
Sono entrato in un caffè che ha fama di ritrovo elegante.
Ricordo che molti anni sono, quando ogni tanto venivo per qualche giorno a Milano da una città di provincia che dette i natali a Dante e a Machiavelli, solevo entrare in quel caffè con una specie di timorosa reverenza. Mi pareva che tutti i presenti si voltassero [15] a guardarmi con severità, mentre entravo e m'affrettavo a prendere un posto. Mi aspettavo, ogni volta, che il cameriere prima di servirmi mi domandasse:
— Il signore ha la tessera?
Il cameriere non me la chiese mai: ma certo tutti quei signori e quelle signore avevano una tessera d'intellettualità cittadina, che concedeva loro la qualità di assidui in quel luogo, pubblico ma eletto: e s'indovinava subito, a vederli conversare così da lontano, che discorrevano d'arte, specialmente di teatro, e che erano gli uomini e le donne più intelligenti della città.
Più tardi — ma sempre prima della guerra — ero venuto anch'io ad abitare a Milano, e anch'io un bel giorno, frugandomi per caso nella tasca del soprabito, ci avevo trovato la mia tessera d'intellettuale milanese. Però non ne abusai; non andai più che raramente nel luogo pubblico ma eletto, e sempre senza mostrare la tessera.
Ci sono dunque tornato quel giorno che mi aggiravo alla ricerca d'un albero orientatore.
C'erano molte persone, e un colore diverso da quello d'un tempo.
Ignoro se le persone che vi si trovavano rappresentassero ancora il fiore dell'intellettualità cittadina. Certo non tutti quei gruppi discorrevano d'arte, di teatro, e d'altre cose supreme.
Appena entrato, senza che subito mi rendessi conto della causa, mi sorprese un ricordo del fronte: rividi in un lampo stendersi Valdirose fra Tarnova e San Marco, dolce valle in un'aria d'autunno, recisa [16] duramente da un lungo reticolato che s'arrampicava per una china ripida.
Invece ero in un caffè, che ha nome di ritrovo elegante.
Guardando traverso il fumo e il suono dei violini, vidi in fondo alla piccola sala, attorno a un tavolino, un gruppo composto di quattro gentiluomini e due signore. Le due signore stavano a guardare i quattro gentiluomini, e i quattro gentiluomini giocavano: giocavano alla morra.
Allora mi spiegai il ricordo che m'era venuto incontro all'entrare. Un tempo, appunto all'osservatorio di Cuore in Valdirose, un sergente di fanteria aveva cominciato a insegnarmi il gioco della morra.
Era un piacevole iniziatore, e sotto la sua guida ero venuto in una grande ammirazione per l'italianissimo gioco, pieno di acute profondità. Il sergente, ottimo giocatore, aveva anche qualche attitudine alla trattazione scientificamente metodica. M'aveva dunque spiegato che all'eccellenza nella morra si giunge conquistando successivamente tre gradi:
il primo grado consiste nell'apprendere a variare di continuo il ritmo delle proprie gettate, in modo da renderle imprevedibili all'avversario;
il secondo grado insegna a scoprire qual'è il ritmo caratteristico delle variazioni dell'avversario stesso.
Può sembrare ai profani che la raggiunta unione di questi due gradi esaurisca compiutamente il campo dell'abilità di un perfetto giocatore. Non è così. Il giocatore — mi [17] spiegava il maestro — non può chiamarsi tale se non arriva al
terzo grado, — il quale non è più, come i due primi, esclusivamente cerebrale e intellettivo, ma importa anche abilità tecnica della mano e delle dita: consiste cioè nell'arrivare col proprio punto impercettibilmente più tardi dell'avversario, ma quell'infinitesimo ritardo dev'essere sufficiente per modificare, se occorre, la propria gettata a seconda di quella dell'altro.
Non so se i quattro gentiluomini fossero arrivati al terzo grado. Giocavano, a turni di due per volta, con serenità e senza alzar troppo le voci, come si conviene a gentiluomini in un ritrovo elegante. Le signore seguivano il gioco con un'aria di noia tranquilla, come si conviene a signore, e mangiavano a quattro palmenti pasticcini, marrons-glacés, tartine col prosciutto e altre cose delicate. Io mi sentivo più che mai senza tessera. Dopo un poco m'alzai, passai con qualche timidità davanti al tavolino della morra, andai nell'altra sala a veder ballare il fox-trott e altri balli nello stesso idioma. Le danzatrici erano tutte signorine della più ricca società; tutte giovanissime, dai quattordici ai diciotto anni: avevano gambe tornite, e spalle candide sotto i capelli che portavano sciolti come si conveniva alla loro età, e morbide braccia. Divina incoscienza della puerizia!
La sala brulicava di contorcimenti maliosi sotto le fruste delle luci.
Contemplai un poco, dallo stipite, la nuova società [18] nata dal lavoro moderno e dalla vittoria: poi involsi in mi ultimo sguardo quelle innocenze elette, e pensai una volta ancora il mio pensiero d'estasi contemplativa:
— Perdio! qui è necessario trovare il modo di far molti quattrini.
Perciò uscii in fretta per vedere se nelle strade fossero ricominciati gli zampilli e le cascate dell'oro: ero risoluto a raccoglierne a piene mani e riempirmene bene le tasche prima di tornare nei luoghi ove la Volontà e la Potenza di vivere mi s'eran presentate sotto una forma inattesa e straordinariamente imperativa.
Ma fuori, in quel frattempo, la Volontà di vivere aveva lanciato attorno manate di luce, che s'erano impiastrate contro gli sporti delle botteghe, s'erano appese ai cornicioni dei tetti; e di quella luce n'era sparsa in terra, sotto i piedi, nell'aria, dappertutto. La Volontà di vivere gridava dalle ruote delle carrozze e dalle campanelle dei tranvai. La commentavano gli strilloni dei giornali e i banditori davanti alle porte dei cinematografi. Uno di questi investiva così violentemente con le sue lusinghe i passanti, che gli girai lontano perchè non avrei avuto il coraggio di dirgli di no.
[19]
Ogni tanto mi fermavo estatico tra gli urli della folla e stentavo a frenare nel petto entusiasta il grido della mia ammirazione per l'uomo.
Da tutti i piccoli lumi tenaci di fede che la rassegnazione alla morte aveva accesi per quattro anni nelle trincee verminose, da quelli dunque era folgorata al sopravvissuto mondo tutta la luce che io calpestavo sui marciapiedi della città?
Poi il mio pensiero si fece più minuto e commosso.
— Tutti questi uomini — mi dissi — sono stati alla guerra; tutte queste donne durante la guerra hanno aspettato, presso un focolare scarso, un ritorno: ora gli uni e le altre celebrano volonterosamente i saturnali della vittoria.
Il mio genio, o Dàimone personale, mi tirò per la manica:
— Non precipitare — mi disse — le tue interpretazioni. Tu sei qui per orientarti, non per fare della storia o della filosofia. Il primo orientamento è quello là.
E mi additò i cartelloni che coprivano una vasta e caduca impalcatura d'assi, dietro la quale immaginai fervido il lavorìo della ricostruzione per il benessere della nuova società.
La prima parola di quasi tutti i cartelloni — la più grossa e visibile — era questa:
OGGI.
A poco a poco, continuando a ricircolare lo sguardo su quegli scritti, non riuscii a distinguere altra parola che quella:
OGGI.
[20]
Il rimanente si confondeva e si cancellava ai miei occhi.
Il Verbo è eterno, ma le sue incarnazioni sono caduche come gli assi delle impalcature, si succedono come le dinastie dei monarchi mortali. A Zeus succedette Prometeo e ad Adonai succedettero Cristo ed Allah. Ma a tutti gli dèi più resistenti, a Brahama ad Allah a Cristo stesso, succede ora, in tutte le latitudini, il nuovo Dio, che si chiama
OGGI.
OGGI è il nome della Volontà di vivere nata dalla rassegnazione a morire.
— Per questo, allora, la nota più costante e più acuta del mondo nuovo è la calza di seta e la scollatura cospicua delle fanciulle e delle donne, dai quattordici ai quarantacinque anni? È, dunque, la volontà ferma di rifare all'Italia i cinquecentomila ròsi dai vermi del Piave e del Carso?
Il Dàimone qui mi trattenne un'altra volta sulla china pericolosa delle interpretazioni storiche, e mi fermò presso due fanciulle che s'estasiavano davanti a una vetrina di gioielli. Erano strette come una coppia di amanti, e ogni tanto si guardavano negli occhi con un sorriso rauco. Fissai i fianchi delle due fanciulle, e non mi riuscì d'immaginarli sussultare se non di spasimi senza dolore.
— E allora? — domandai. — Questa volontà di vivere è forse lo sforzo del moribondo per non soffocare? È la improvvisa larghezza del giocatore agli estremi [21] che butta sul tappeto la somma più grossa di tutta la sua serata, ma quella somma è l'ultima, e dopo, se perde, non gli resterà che la fuga o la morte?
Il Dàimone mormorò:
— Quando non si ha bussola, nè orologio, nè sole, nè stelle, si esaminano i tronchi degli alberi.
— E se non ci sono alberi, — continuai io-ognuno fa quello che può.
— Precisamente.
Allora per una breve traversa egli mi condusse dal Corso nella piazzetta Belgioioso, dalla luce più violenta nell'ombra più raccolta; e dalle immagini d'un fermento pazzo mi spinse di fronte a un'ombra religiosa.
Davanti alla casa di Alessandro Manzoni mi trovai molto meno timido che al cospetto dei gentiluomini del Cova o del banditore di cinematografo sotto i Portici Settentrionali.
Sentii la presenza di lui, e lo interrogai con rispetto:
— Se Ella — domandai — se Ella, che fu un sacerdote dell'Equilibrio Profondo, se Ella vivesse oggi tra noi, e con Lei vivessero oggi tra noi Raffaello e San Francesco e Machiavelli e Giuseppe Verdi, mi dica, La prego, come inserirebbero nel quadro di questa vita la Trasfigurazione, e il Cantico delle Creature, e i Discorsi sulle Deche, e i Promessi Sposi, e il Trovatore o il Falstaff?
Con una ironica balbuzie, il sacerdote pronunziò:
— Capitolo ottavo: «Così va spesso il mondo.... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo».
[22]
— Ho capito — risposi —; Ella, al solito, non vuole compromettersi.
Io invece non ho mai evitato di compromettermi. Ho sempre ignorato la virtù della prudenza. Mio danno, e mia passione. M'allontanai, rimanendomi insoluto il problema su Raffaello e compagni. Una saracinesca, calando con gran rumore di ferro a chiudere un magazzino, mi gridò:
— Frègatene.
Anche nelle vie per le quali camminavo ora con una specie di rapida rabbia inconfessata — anche in quelle vie d'ombra e di silenzio ogni tanto giungeva l'eco degli omaggi popolari al dio Oggi. Giurai di portargli anche i miei. Giurai di chinarmi a ogni passaggio delle correnti auree sopra le vie della città operosa. Per chinarsi non occorrono nè bussola nè orologio nè sole nè stelle nè alberi. Nella cattedrale del dio Oggi non sono punti cardinali. Non è necessario orientarsi. Basta la conclusione dei più intelligenti tra i miei compagni della scuola di Artiglieria: — Ognuno farà quello che potrà. — La Trasfigurazione e i Discorsi sulle Deche pensino da sè ai casi propri. Ora trascinavo io furiosamente [23] il mio Dàimone. Lo riportai nella luce, lo condussi a pranzare in una trattoria splendida.
— Domani — gli dissi — cominciamo a far quattrini.
— Domani no — mi rispose —, perchè domani è venerdì. Cominceremo lunedì venturo.
[25]
[27]
Sono in piazza Cavour, disoccupato e perplesso.
La mia disoccupazione è figlia del sole, come Circe. Oggi c'è il sole. Da una giornata bigia egli è uscito d'un tratto, mentre m'accingevo a scrivere, per i posteri, non so quali miei pensieri o immaginazioni: quel lume improvviso mi ha mostrato la lunghezza della posterità, e conseguentemente la poca urgenza della mia opera.
Ma arrivato in piazza Cavour, alla disoccupazione si aggiunge la perplessità. Da una parte si sforzano di verdeggiare i Giardini, dall'altra, oltre i portoni massicci, scampanella via Alessandro Manzoni. A sinistra troverei un poco di alberi, dell'acqua, e certi uccelli come nei francobolli delle collezioni; oggi c'è il sole, e ci sarà movimento; ci saranno anche dei bambini con le loro balie.
— Balie, sì, e cameriere — dice il Dàimone — potrai studiare i progressi della smobilitazione.
[28]
Ma a destra la vita: le due vite: la Vita Intensa e la Vita Operosa. Il Dàimone riprende la parola:
— La Vita Intensa, di coloro che non fanno niente? e la Vita Operosa, di coloro che si danno l'aria d'aver molto da fare.
Mi ribello allo scetticismo del Dàimone. La guerra è finita, da due mesi, e c'è il sole, a Milano in gennaio! Bisogna afferrare queste eccellenti occasioni d'essere ottimisti.
— Mi ribello, caro Dàimone; fino a oggi t'ho dato troppo retta, e m'hai condotto per l'aja come fossi un cane (se posso servirmi d'una vetusta immagine di cui non ho mai capito l'origine); ma d'oggi innanzi la mia vita sarà una continua ribellione ai tuoi istinti sofistici e sterili. Andiamo verso le due, le mille vite; guarda: anche Camillo Benso, conte di Cavour, ci fa segno di andare da quella parte.
È impossibile immaginare con qualche probabilità come si sarebbe svolta la serie della nostra vita, se in un momento qualunque del passato avessimo compiuto un atto diverso da quello che abbiamo compiuto. Ogni volta che un uomo, anche nel più ozioso vagabondaggio, [29] prende a destra piuttosto che a sinistra, può produrre una incalcolabile mutazione nei propri destini, e ignorerà sempre, dolorosamente, la portata di questa mutazione. Da ciò deriva la scarsa efficacia delle favole morali. Si racconta ai ragazzi che Ercole figlio di Alcmena, avendo al noto bivio scelto la via faticosa e aspra, sia perciò, attraverso dodici e più fatiche, pervenuto alla eccellente condizione e sinecura di semidio. Ma non possiamo dire in coscienza a che cosa Ercole sarebbe pervenuto se avesse scelto la strada piacevole e facile. Forse sarebbe diventato semidio ugualmente, e senza le dodici fatiche; forse sarebbe arrivato anche più là, l'avrebbero fatto dio addirittura; e non soltanto in India e in Siria, dove dovette come dio cambiare nome e chiamarsi Rama e Baal, ma sarebbe successo apertamente a Zeus, invece di Cristo, in tutto il mondo occidentale: chi sa?
Tutte le favole, di tutte le epoche, sono altrettanto scarsamente probanti. Cappuccetto Rosso per aver preso la strada più lunga nel bosco finì divorata dal lupo. Verissimo. Ma se avesse preso la strada più corta, possiamo noi affermare che non le sarebbe accaduto anche di peggio? per esempio essere violata da un malandrino, e di lì finire nella vita disonesta, che, come ognuno sa, è peggiore della morte?
— Bisogna anche considerare che la storia degli uomini celebri per diventare esempio morale subisce spesso riadattamenti che ne modificano profondamente la portata. Così dovette avvenire appunto della vita di Ercole, ch'era l'uomo più celebre del suo tempo. [30] Il fatto del Bivio ci è raccontato per la prima volta da Prodico sofista, che visse nel quinto secolo avanti Cristo, cioè circa milleduecento anni dopo Ercole. Ma su quel fatto c'è in un testo poco noto una versione anteriore a quella di Prodico, versione che fu poi dimenticata, sommersa dalla nuova, forse perchè la prima parve un po' cinica. La leggenda poco nota è questa: Ercole fin da ragazzo aveva sentito dire molte volte da Alcmena che la virtù è bellissima e il vizio orribile. Trovatosi al Bivio, vedendo una strada brutta e fetida si cacciò subito in quella, convinto di entrare nella strada del vizio. Quando s'accorse dell'errore non era più a tempo a tornare indietro; ciò che del resto è avvenuto e avviene in ogni tempo anche a uomini comuni, i quali, avendo, per contingenze o per naturale timidità, cominciata la carriera di persone per bene, per quanto poi se ne pentano si trovano siffattamente intricati nella vita onesta che non possono più liberarsene, e si rassegnano alla virtù per il rimanente dei loro giorni. —
Non occorre ch'io avverta che quest'ultima divagazione l'ha fatta il Dàimone, col quale ormai ho stabilito di romperla su tutti i punti. Io mi sono accontentato di stare per un momento a contemplare i massicci portoni che debbo attraversare per avventurarmi verso il centro vivo della città. Chi sa mai chi avrei incontrato, e quale corso avrebbero seguìto i miei fati, se fossi andato ai Giardini. Inoltrandomi per via Alessandro Manzoni incontro un tenente dei mitraglieri.
[31]
L'ho conosciuto un anno fa, non so più dove, ma certo di là dal Brenta e di qua dal Piave. È ancora grigioverde, io no: tuttavia lui riconosce me e non io lui, sulle prime. Ma non me ne faccio accorgere e rispondo con entusiasmo al suo entusiastico abbraccio.
— Non sono ancora smobilitato — mi assicura — ma sono libero, e mi son messo a lavorare.
Intanto mi risovvengo, non del suo nome, ma di lui, e ne fo sfoggio.
— Se non ricordo male, eri ingegnere, appena laureato....
— Appunto.
— E avevi intenzione di entrare nelle Ferrovie.
— Hai buona memoria. Ma niente Ferrovie. Ti paion tempi questi? Faccio della pubblicità.
Da quando sono tornato ho già incontrato non meno di dieci persone, di classi studi e professioni diversissime, che mi hanno detto: — Faccio della pubblicità. — Non ho un'idea chiarissima di quello che fanno, e non mi sono mai permesso di chiedere spiegazioni precise.
— E tu — dice l'amico — che fai? Scrivi sempre?
[32]
— Io?... Non so ancora bene.... forse mi metterò anch'io a fare della pubblicità.
Questa risposta non sorprende lui: invece sorprende me, che non la aspettavo affatto. Il tenente — non m'è ancora venuto a galla il nome, aspetto qualche occasione per farglielo dire senza parere — il tenente approva:
— Bravo! perchè non provi a venire con noi?
— Dove?
— Alla B. A. I. A.!
Ci fu un tempo che frequentavo dei letterati. Qualche volta m'era avvenuto che taluno di essi nel corso della conversazione uscisse in frasi del seguente tenore:
— È qualche cosa, sai, come l'episodio di Aladina nella mia Suprema Salvezza.
Oppure:
— Non hai che pensare al mio finale del secondo atto di Libagioni.
Io frequentavo quei letterati, ma non avevo letto La suprema salvezza, non avevo sentito Libagioni. Senonchè gli autori li citavano con una così candida e [33] poderosa convinzione, che non osavo chiedere maggiori lumi in proposito.
Ciò avveniva prima della guerra. Il simile avvenne quando, dopo la guerra, in un giorno di gennaio del 1919, un tenente mitragliere mi nominò senz'altro la B. A. I. A., nome nuovo alla mia mente.
Perciò dissi soltanto: — Ah —, ed egli continuò soddisfatto:
— Forse non sapevi che la dirige mio fratello.
— Non ne ero certo.
— Sì, sì. Ci faremo dare un appuntamento. Del resto mio fratello lo conosci.
— Non mi pare.
— Come? Mi ha detto che vi siete conosciuti, non so bene, in una città dell'Italia Centrale.... molti anni fa....
— Può darsi.... Si chiama?
— Luigi.
— Voglio dire, il cognome.
— Come ha da chiamarsi? Come me, Gattoni.
— Naturalmente.... Sì! ora ricordo. L'avvocato Gattoni.
— È lui. Stai a sentire: aspettami là in Galleria. Io arrivo qui allo studio a informarmi quando può riceverti, e torno a dirtelo. Se potesse sùbito, tanto meglio.
Poichè era lunedì gridavano dappertutto La Gazzetta dello Sport, al quale richiamo la nuova gioventù correva in folla.
L'aspettazione in Galleria la occupai leggendo con cura i titoli dei libri nelle vetrine di Treves e di Baldini [34] e Castoldi (con la quale esplorazione mi misi in breve e compiutamente a giorno degli spiriti e delle forme della nostra letteratura contemporanea) e riandando col pensiero al tempo in cui, sei o sette anni prima, avevo conosciuto l'avvocato Luigi Gattoni, giudice di tribunale in una città di provincia. Lo ricordavo perfettamente come un uomo placido: duplice barba grigia alla Palmerston da cui emergeva raso il mento: appassionato giocatore di scopone: un giudice per bene: una persona qualunque: Gattoni. Non avevo ancora capito nulla dell'avventura improvvisa che ora legava quel giudice qualunque, dimenticato da tanti anni, con la mia persona, attraverso le premure d'un mitragliere conosciuto tra Piave e Brenta, sullo sfondo misterioso d'una B. A. I. A.
Queste quattro lettere m'apparvero poco di poi, sempre più misteriose, nere su un cartello bianco smaltato, sopra la porta d'un ammezzato oscuro in una via operosa e brulicante. Il mitragliere mi precedè in un'anticamera buia e mi disse:
— Aspetta qui.
Mentre aspettavo, il Dàimone mi ammonì:
— Stai attento a non comprometterti.
— Non seccarmi — gli risposi.
Dopo una mezz'ora il tenente ricomparve:
— Vieni.
Sorrideva con gli occhi e coi denti: il lume candido del suo sorriso dissipò le nubi dispettose che quella mezz'ora aveva accumulate nel mio spirito.
[35]
M'introdusse in uno studio ampio, illuminato a luce elettrica sebbene fossero le prime ore del pomeriggio.
Cercavo, con lo sguardo abbagliato, la barba alla Palmerston d'una persona qualunque; invece mi venne incontro un personaggio importante, adorno d'un'elegante e contenuta pinguedine, e tutto raso; una faccia quadrata, un mento quadrato; anche la testa era quadrata perchè la completa calvizie rivelava la forma appiattita del cranio.
— Sono io — mi disse con rotondità —: lei non mi avrebbe riconosciuto? Lei invece è rimasto tale e quale. Si accomodi. Mi permette?
Prima che intendessi che cosa avrei dovuto permettergli, aveva chiamato al telefono un mistico numero, aveva dato con brevi parole un misterioso appuntamento.
Intanto il Dàimone mi tirò per la manica e mi additò due cose interessanti. La prima di queste due cose era il contegno di compiaciuto e raggiante rispetto con cui il tenente mitragliere stava, in piedi addossato a una scaffalatura di noce, al cospetto di suo fratello. L'altra era un busto di marmo, su un alto piedistallo cilindrico che riempiva l'angolo estremo dello studio: busto severo e togato, di cui non riconobbi l'originale.
— Sa chi è quello là? — disse il personaggio — gliela dò in mille. È Bartolo, Bartolo da Sassoferrato, l'immortale giureconsulto, glossatore del Corpus juris. L'ho fatto fare, e mettere lì, per ricordarmi del mio passato. Io non mi vergogno di aver fatto il magistrato. [36] Lo sanno tutti, lo dico a tutti. Io sono un uomo semplice e sincero.
Per qualche minuto, dopo quelle parole esemplari, la sala fu piena di un rispettoso silenzio.
— Ma veniamo a lei. Lei che fa?
Mi sentii arrossire, rispondendogli:
— Scrivo....
Fu benigno; s'accontentò di abbassare di mezzo tono la voce, e dirmi:
— Ricordo, sì, che lei aveva delle velleità letterarie....
— Dirò meglio — ripresi io rinfrancato — scrivevo.
— Ecco, ecco: s'intende. Tempi nuovi. Ma anche lei, come me, come tutti gli onesti, non si vergogna del suo passato. E anche lei riuscirà. Lo sento. Glie lo assicuro. Ha dei progetti?.
Ricominciai a improvvisare:
— Stavo maturando delle invenzioni....
— Non è il momento — m'interruppe —. L'inventore va incontro a troppi pericoli: pericoli di attuazione, pericoli di incomprensione.... E pure nel migliore dei casi, l'invenzione è lenta. Oggi occorre rapidità. Oggi non è necessario inventare, è necessario: produrre. Anche dal punto di vista individuale, badi, è meglio produrre che inventare, meglio vendere che produrre, e meglio far vendere che vendere. Qui siamo nel cuore della B. A. I. A.: la B. A. I. A. è il cervello della pubblicità. Lei ha delle idee?
— Qualche volta....
— Le venda. Gliele faccio vendere. Ora le spiego. Il signor A., supponiamo, apre un commercio di specchietti [37] per farsi la barba, il signor B. inventa un aperitivo, il signor C. fonda un teatro di varietà, o crea una cravatta che si annoda in un modo nuovo, quello che crede. Vogliono farsi conoscere. Debbono andare da un cartellonista, dargli delle idee per le affiches; da un poeta, dargli uno spunto per una poesia da inserire nelle quarte pagine dei quotidiani, e via discorrendo. Ma ai signori A. B. C. eccetera, mancano le idee, gli spunti. Non sanno neppure trovare un bel titolo per la loro azienda. Si rivolgono a questo o a quello, a caso. Non solo: anche dopo trovato il tutto qua e là, s'accorgeranno di avere tra mano della pubblicità disorganica, disordinata, scombinata, che non risponde alla loro necessità; la quale, badi, è quella di far convergere tutta l'attenzione, direi tutti i sensi del passante, di tutti i passanti, verso la spasmodica persuasione che quello specchietto, quel liquore, quello spettacolo e quella cravatta gli sono indispensabili, a lui passante, come il pane quotidiano.
Rividi e risentii, in un attimo, la tregenda di luci e di rumori che m'aveano investito nella mia prima passeggiata per la nuova città; mentre il personaggio continuava:
— Il signor A. viene alla B. A. I. A., ed espone il suo caso. La B. A. I. A. gli dà il titolo, il motto, il marchio, le idee dei cartelloni, gli spunti per le poesie, tutte le più minute indicazioni per il lancio più efficace. Idee. Badi: qui non si disegna, qui non si scrive: idee: pure idee, per tutti. E ne vengono, sa? Ho citato i signori A., B., C., ma arrivi pure fino alla Zeta, e poi ricominci. [38] E i signori A., B., C., A¹, B¹ C¹, eccetera, pagano pagano pagano le idee, e se ne vanno. B. A. I. A. è la grande officina, negozio, emporio, bazar, caravanserraglio delle idee per tutto l'alfabeto degli uomini che inventano producono vendono, o credono di inventare produrre vendere: di tutti gli uomini che hanno capito la vita nuova, di tutti gli uomini che stanno creando il nostro grande domani, gli uomini, signore, della Italia di Vittorio Veneto.
M'avvidi che, così favellando, ei s'era ritto in piedi e teneva la destra poderosamente infilata nell'apertura del panciotto. Così stette un istante, fissandomi immobile come la statua di Bartolo che gli faceva da sfondo.
Nella minuscola stanzina che mi fu assegnata, ricevetti la visita di una vecchia e di una giovine.
Sedettero. La giovine sorrise: anzi, schiuse la bocca a un sorriso e poi si tenne quel sorriso fisso lì e immoto, durante tutto il tempo che la vecchia parlò. E le prime parole della vecchia furono le seguenti:
— Questa è mia figlia, e io sono sua madre. Suo padre, mio marito, non è più.
— Benissimo.
[39]
— Sì, ha ragione di dire benissimo. Perchè mio marito, suo padre, era un uomo di scarsi principii morali; quand'era vivo, me mi batteva tutti i giorni, e lei tentò alcune volte di violentarla, che era ancora minorenne.
— Perdio!
— Lasciamo andare che questa alla fine è stata una fortuna per me, perchè non ho più avuto da pensare alla sua educazione morale. Sicuro. Dopo quegli incidenti le è rimasta, anche diventata maggiorenne, una invincibile ripugnanza per gli uomini, dimodochè non ho avuto da fare nessuna fatica per mantenerla, lei mi intende, sulla retta via.
— Tutto ciò è molto semplice.
— Già: ma nello stesso tempo ciò produce che la ragazza, che ormai ha ventiquattro anni, deve lavorare per vivere. Allora ho domandato consiglio al signor Gianni: lei non lo conosce ma non importa. Il signor Gianni dice bene; dice: — Cosa vuole? Con quella particolarità della Lina — si chiama Lina — non è il caso di farle fare nè la cantante, nè l'attrice, o simili. — Senza contare, dico io, che per fare la cantante non ha voce, e per fare l'attrice ci ha fin da bambina quel difetto dell'esse e dell'erre. — Questo sarebbe il meno; risponde lui. — In conclusione, l'importante è che doveva scegliere una professione assolutamente, come a dire, immacolata.
— Giustissimo.
— Guardi cos'ha pensato il signor Gianni: dice: — dia retta a me, che ho vissuto tanto tempo a Parigi [40] a tenere il banco delle scommesse nelle corse dei cavalli, dia retta a me: in Italia, fino a oggi non si sa cosa sia la vita. Se fosse cinque o sei anni fa le direi: mi dia la Lina e me la porto a Parigi. Ma adesso Parigi è giù, molto giù. È il momento di far noi qualche cosa, in Italia. Infatti, si guardi attorno, vedrà che anche qui cominciano a vivere. Ma a casaccio, da provinciali. Veda, per dirne una, la cocaina: tutti ne parlano; c'è della gente che ci prova, delle cocottes, degli autori teatrali, delle sartine; ma così, senza un criterio: molti si disgustano subito, non c'è in Italia il vero genio per queste cose, non c'è organizzazione. E poi non conoscono tutto il resto: altro che cocaina! dunque; con pochissimo capitale, che si trova, la Lina può aprire una specie di bar, con un bel titolo che dica press'a poco «alle specialità del Vero Oriente», o qualche cosa di simile. Guardi, signore, che ripeto proprio come dice il signor Gianni, un uomo d'esperienza. Un piccolo bar, che non sia neanche tanto in vista: la prima stanza come i soliti bar, con le solite cose, e in più delle bibite e dei frutti e dei dolci orientali; e poi due o tre stanzine riservate per gli habitués sicuri, e là si danno le specialità più intime del vero oriente. La Lina, che è una bella figliola, vestita giusto mezzo all'orientale, un po' di qua un po' di là, a dirigere e tenere i conti. È semplicissimo.
— È geniale.
— Ecco, geniale, è come ha detto il signor Gianni. E mi ha anche detto: — ci vuole il lancio, la réclame; [41] una réclame diffusa ma discreta: chè le cose più importanti non bisogna dirle. Lei — dice — vada alla B. A. I. A., e si faccia dare delle idee per la réclame. Il resto verrà da sè. Guardi signore, qui ci ho la lista di qualche specialità del vero Oriente, che non riuscivo a ricordarmi i nomi. Lei già le conoscerà bene queste cose, per il suo mestiere.
Mi porse un foglietto, su cui lessi:
«Haschisch» — «dawamesk» — «oppio» — «etere» — «cocaina» — e altri nomi meno noti.
(— Non ci manca — disse il Dàimone — che un po' di coprofagia).
Io più seriamente risposi:
— Ho inteso, signora. Poichè la cosa è molto speciale, bisogna che lei mi lasci qualche giorno. Passi tra una settimana giusta, a quest'ora.
La salutai. La bella Lina fece un inchino di scuola, e finalmente disfece quel sorriso; parve come uno che si levi la dentiera e se la metta in tasca. Scomparvero.
Io mi misi d'impegno a studiare il piano per il lancio delle «Specialità del vero Oriente». Volli prima familiarizzarmi un poco con la materia, e studiai sui testi il modo di trarre dalla canape indiana l'haschisch, m'informai degli ingredienti che variano il verde haschisch nel più pallido dawamesk, non trascurai di consultare i riflessi classici e letterari di questa materia da Erodoto e Plinio a Baudelaire; feci una corsa, dietro la scorta dei viaggi di Marco Polo, nella leggenda del Vecchio della Montagna e dei suoi Haschischins [42] o Assassini, m'interessai delle tre grandi fasi dell'ebbrezza e delle loro possibili varietà. Altrettanto minutamente m'occupai dell'oppio, sia per l'aspetto poetico leggendomi la Confessioni del De Quincey, sia per quello scientifico ricercando in una farmacopea le differenze tra l'oppio giapponese più aromatico e l'europeo più potente, attraverso l'oppio indiano che si avvolge in stagnole sotto forma di piccoli semi di color perso. Credetti per un momento di avere intravisto il motivo della mia réclame nella fantasiosa notizia che i Giapponesi fanno la raccolta dell'oppio la seconda sera dopo il plenilunio di giugno, avendovi praticato ventiquattro ore innanzi l'incisione, al punto dell'imbrunire. Ma ricordai a tempo che il lancio doveva essere prudente e discreto. Allora risalii a Omero; pensai al nepente che Elena aveva avuto in dono da un'egiziana, e al loto che ai compagni d'Ulisse faceva dimenticare la patria e il ritorno. Anzi, il bar di Lina doveva chiamarsi omericamente «Lotòs». Ci voleva una pubblicità indiretta e suggestiva, che preparasse l'animo del pubblico a cercare il «Lotòs», senza ricorrere alla solita volgarità dei cartelloni o dei quotidiani, anzi senza nominarlo neppure. Mi fiorirono idee semplici ed efficaci. Così che la mattina del settimo giorno mi presentai nello studio grande al commendatore avvocato Gattoni, mio principale: gli esposi in succinto le parole della vecchia — ed egli mi accompagnava con uno strano brontolìo basso —, poi senz'altro gli porsi il foglio su cui avevo segnato i risultati delle mie trovate.
[43]
Il commendatore prese con qualche diffidenza quel documento, che era così concepito:
Progetto per il lancio (diffuso ma discreto) del bar «Lotòs»
1) Far tenere alla locale Università Popolare, da qualche dotto ellenista, una lettura e commento del libro IX dell'Odissea, dove si parla del loto.
2) Incaricare un commediografo alla romana di scrivere una commedia in cui il brillante sia un appassionato di haschisch.
3) Commettere a un prosatore alla milanese un romanzo in cui sia descritta la vita di un bar del tipo che vogliamo lanciare.
Nota. — Queste tre manifestazioni debbono essere tra loro contemporanee, e precedere di poco l'apertura del bar «Lotòs».
Il commendatore Gattoni lesse, con un mormorìo agitato, il mio progetto; poi lo gettò sul tavolino dicendomi:
— Lei è matto.
[44]
— Lei è matto — ripetè — e glie lo spiego. Prima di tutto quando viene gente di quel genere la si manda via.... o almeno.... almeno.... Insomma, bisogna saper bene se si ha a fare con persone serie, prima di compromettersi.
(— Te lo dico sempre io! — brontolò il Dàimone).
— In secondo luogo, a parte l'opportunità, questo suo piano è assurdo; mi fa vedere che lei non è entrato nello spirito della B. A. I. A., nello spirito dei tempi, nello spirito della rinata Italia. Oltre la irrealizzabilità, e il tempo che richiederebbe, non sente come tutto questo puzza di letteratura? Di scuola e di letteratura: professorume e scrivaneria. Non ci voleva che un ex-professore per andare a pensare a Omero, al Lotòs, e alla Università, sia pure popolare. Non ci voleva che uno scrittore per andare a pensare a commedie e romanzi. Niente niente. Quando tornerà quella signora lei la mandi a spasso con una scusa qualunque. E facciamo un altro tentativo. Guardi: c'è uno, una persona seria, badi, un ex-colonnello dell'esercito, che è stato silurato fin dalle nostre prime azioni dell'Isonzo, il quale ha inventato una tappezzeria luminosa da mettere negli appartamenti invece della solita carta da [45] parati. Questa tappezzeria, dice, è impregnata d'una sostanza chimica fosforescente, che di giorno non si vede; ma è composta in modo che verso sera, di mano in mano che la luce del giorno vien meno, si sprigiona gradatamente la luce dalla carta stessa. Così la stanza continua a essere illuminata, con eguale intensità. Abolizione d'ogni illuminazione. Sarà vero? non sarà vero? Questo non c'interessa. Lei trovi un'idea per rivelare al pubblico l'invenzione. Ma un'idea che si attui presto, semplice, rapida, penetrativa, e per carità, senza romanzi e senza università. Ha capito?
— Perfettamente.
Me n'andai nello studiolo piccolo, per pensare alla tappezzeria luminosa e aspettare l'arrivo della vecchia e della giovane. Ma trovai un biglietto della vecchia, che si scusava di non poter venire: «Per quanto disgraziati — scriveva — siamo gente beneducata, e avendo l'appuntamento bisogna che l'avverta che non posso venire causa forza maggiore, trovandomi ora improvvisamente in prigione, come pure il signor Gianni e la Lina, in seguito a un incidente. A rivederla». Non sapevo che diavolo avrei immaginato per le tappezzerie autofotogene dell'ex-colonnello. Il mio minuscolo tavolino era incastrato nel vano d'una finestra: di là dai vetri la strada distraeva ed eccitava insieme il mio cervello. Ora tra i carretti, che urlavano, dei merciai ambulanti sul crocicchio, scorsi a un tratto il cesto, pieno di garofani pallidi e di mimose, d'una venditrice di fiori; e da quei fiori saliva sino a me, traverso i vetri e la bruma, un'onda d'incomprensibile malinconia. [46] Ma la malinconia non entra nello spirito dei tempi nuovi. Negli ammezzati della casa di faccia vedevo le teste di due dattilografe chine verso le tastiere. Pensai a Lina, che era in prigione. Desiderai d'essere in prigione anch'io per non dover pensare alle tappezzerie luminose del colonnello silurato. In prigione con Lina: Lina, col suo sorriso smontabile e il difetto dell'esse e dell'erre fin da bambina e la repugnanza per gli uomini. Anch'io ho alcuni difetti fin dall'infanzia irrimediabili, e alcune invincibili repugnanze. Che diavolo inventare per l'invenzione del colonnello? Gli inebriati dell'oppio e del nepente del bar di Lina avrebbero viste luminose anche le prigioni più oscure, senza bisogno di pareti fosforee. Perchè diavolo il colonnello s'è messo a fare delle invenzioni? Se non lo siluravano, a quest'ora sarebbe morto, sarebbe generale, chi sa? Come Ercole se prendeva il cammino piacevole. Come me se quel giorno andavo ai Giardini.
— Sei ancora a tempo a provarci — disse il Dàimone.
— Tu sai che oggi è già tutt'altra cosa da allora, da ieri, da un'ora fa — gli obiettai.
— Ma nessuno t'impedisce di provare, anche subito.
— E il commendatore Gattoni, ex magistrato e mio principale?
— Tanto lui non sa che farsene di te, e sarebbe ben felice di perderti.
— Lo so. Ma come atto, è poco educato. Bisognerebbe almeno scrivergli un biglietto.
[47]
— Scrivi. Hai qui un modello eccellente. Con pochi ritocchi, va bene anche per te e per me: «Per quanto letterati, siamo gente beneducata, e avendo l'impegno bisogna che l'avverta che non posso continuare in questa professione, causa forza maggiore. A rivederla».
[49]
[51]
Nell'età delle palafitte, e più precisamente un anno avanti lo scoppio della guerra europea, avevo conosciuto a Firenze una fanciulla.
Era venuta di Valdarno a portarmi una traduzione da Rimbaud sulla quale voleva il mio giudizio. Credo che episodi simili non se ne producano più nell'èra presente. Aveva cominciato a leggere: In quella stagione la piscina delle cinque gallerie era un punto di noia. Pareva un sinistro lavatoio.... Mentre leggeva, io la guardavo. Quand'ebbe finito io non avevo capito ancora se la signorina fosse bella o brutta: propendevo a crederla bella. Neppure avevo capito se fosse brutta o bella la traduzione; propendevo a crederla brutta. Poi la fanciulla se n'andò lasciandomi il manoscritto.
Del manoscritto non s'incontra più traccia o memoria alcuna nelle storie e nelle leggende dei tempi che seguirono. La fanciulla l'ho ritrovata dopo sei anni a Milano.
[52]
Una sera m'ero calato in un certo sotterraneo fumoso e stavo là seduto tra file di gente similmente seduta che beveva, fumava e leggeva i giornali. A un lato del sotterraneo c'era anche un palcoscenico, e sul palcoscenico una compagnia di prosa stava tossendo e recitando una commedia novissima. Nella poltrona accanto alla mia c'era una fanciulla: quella fanciulla di Valdarno: la signorina Giovanna.
Tra lei e me il mio Dàimone, invisibile e silenzioso. Dall'altra parte di lei sedeva una sua compagna similmente silenziosa, e tanto insignificante da potersi anch'ella considerare come invisibile. In un punto imprecisato, ma definito entro la breve cerchia delle nostre quattro sostanze, n'era presente una quinta, cioè il Destino, che imprevedutamente aveva ravvicinato, per i suoi fini reconditi, quelle sparse entità.
La signorina Giovanna alla fine del primo atto mi riconobbe. E mentre la compagna leggeva con diligenza il programma dello spettacolo, e il Dàimone placidamente dormiva, il Destino tessè tra me e la traduttrice valdarnese un breve dialogo denso di avvenire. Io ebbi il pessimo gusto di ricordare a lei quella traduzione preistorica di Una stagione all'inferno. Ella ebbe il buon gusto di mettersi a ridere.
— Non traduco più — aggiunse rifacendosi seria — ora sono a Milano a studiare il canto.
So che quando una signora afferma «studio il canto», come quando un maschio dichiara «sono negli affari», non è opportuno domandare particolari più precisi, se il maschio o la signora non li offrono spontaneamente. [53] Perciò tacqui, e cominciò il secondo atto della commedia, e dopo un certo tempo fatalmente finì. Giovanna riprese il discorso al punto esatto ove l'avevamo interrotto, annullando in questo modo in un attimo tutta l'azione che s'era svolta laboriosamente sulla scena al nostro cospetto.
— Sapevo che eravate a Milano, abbiamo parlato di voi l'altro giorno.... oh non ricordo con chi: ma non importa.
Perchè mi dava del voi? C'è tutta una casta di donne — non casta professionale, casta mentale — che hanno abolito il lei, e con esso il primo dei gradi d'una possibile scala d'intimità. È un fenomeno di tendenza al veloce, come tanti altri del tempo nostro.
— E m'ha detto, mi pare, che vi siete messo negli affari.
— Io? Sì. È vero.
— Che affari?
— Mio dio! fino a pochi giorni sono ho fatto della pubblicità. Ora ho delle idee...
— Fate bene.
La sua approvazione mi fu di grande conforto. Ella era alquanto più elegante di quand'era venuta da Valdarno a Firenze. Così cominciò il terzo atto della commedia.
Quando stava per finire, ella mi fece un invito:
— Venite domani a prendere il tè in casa mia? Vi prometto che non canterò. Vi presenterò due buoni amici. Di Malco, e Valacarda; li conoscete?
— No.
[54]
— Possono esservi utili. Uno è professore di merceologia.
— Cos'è?
— Non so. Una cosa molto importante. È com'era una volta essere professore di filosofia. L'altro è un pescecane.
— Brava! Non ne ho ancora visto neppur uno.
— Venite dunque, e attaccatevi al pescecane.
Rincasando pensavo a quella prodigiosa Giovanna, che sei anni avanti traduceva Rimbaud in Valdarno e me lo portava a Firenze, e ora studiava il canto a Milano e mi offriva un pescecane col tè. Tutto ciò è modernissimo. Una donna così non la trovate nelle commedie di Goldoni. Nemmeno nel Satyricon di Petronio. E nemmeno più giù, nel Romanticismo o nel Secondo Impero. Sono posteriori a Carlo Marx e a Max Stirner.
Ma ancora non ero riuscito a capire se era piuttosto bella o piuttosto brutta. D'altra parte ciò non ebbe alcuna importanza nella mia vita, come non ne ha alcuna nel seguito di questo racconto.
[55]
Era seduta al pianoforte, ma appena entrai si voltò e abbandonò la tastiera esclamando:
— Bravo! avete mantenuto la vostra promessa, e io mantengo la mia.
Poi fece le presentazioni.
Illustrò il mio nome con le parole «un mio vecchio amico quasi compatriota», al che io nulla opposi. I nomi degli altri due non li commentò:
— Questo è di Malco. E questo è Valacarda.
— Piacere....
— .... piacere.
— Piacere....
— .... piacere.
— E badi che è vero — aggiunse subito quello che si chiamava Valacarda. — Ci sono dei puritani che dicono: «questa frase è un'ipocrisia». No. Si ha sempre piacere di conoscere una persona nuova. È una speranza che rinasce su un mucchio ognora crescente di ceneri. Ogni persona nuova che conosciamo, è una possibilità di più, che ci si presenta, di giustificare il credito illimitato che rinnoviamo continuamente alla simpatia dell'umanità.
[56]
— Valacarda — spiegò la signorina — è un incorreggibile ragionatore e divagatore, il che fa a pugni con la sua professione.
Infatti a me e al Dàimone Valacarda era già piaciuto. Di statura mite, baffi piccoli e neri, appariva uomo di spirito aperto e sottile. Lo sentimmo fraterno, là, dove avevamo il secreto tremore di trovarci tra estranei. L'altro no.
L'altro, di Malco, taceva. Riconobbi in lui a prima vista la formula estetica e morale del pescecane-tipo, quale è stata sorpresa e divulgata dai caricaturisti: alto e denso, con un volto raso e un po' grasso, vestito e atteggiato con severità pomposa: un forte anello al dito medio, le lenti legate in oro; e portava la testa alquanto rovesciata indietro sul collo, al duplice fine di reggere quelle lenti e di scrutare l'umanità traverso due feritoie di ciglia socchiuse.
Mentre lo guardavo come si guarda un quadro su di una parete, egli, quasi per completare ai miei occhi la figurazione popolare del pescecane classico, trasse un astuccio, poi dall'astuccio un sigaro panciuto: lo accese e cominciò a fumare con eloquenza.
Di Malco osservò ch'io lo contemplavo, e cercò di rendermisi gradito domandandomi:
— Ha visto l'ultima opera di Puccini?
— Io? — esclamai allibito — io non ho mai visto neanche la prima.
Appena mi fui sentita uscire questa risposta inopportuna, guardai la nostra ospite, la fanciulla volonterosa [57] che m'aveva raccomandato di attaccarmi al pescecane.
Ma l'ospite dal suo sgabello non badava a noi.
Le spalle volte al pianoforte, le braccia tese all'indietro e tenendosi appoggiata con le mani alle due estremità della tastiera, ella si bilanciava su due gambe dello sgabello, e fisso lo sguardo in una lontananza inafferrabile, corrugava la fronte con una vaga preoccupazione: tanto che Valacarda le domandò:
— A che cosa pensate?
— Pensavo — rispose velando la voce — che questo mese non ho ancora ricevuto il burro della tessera.
Un placido profumo di latteria svizzera, di cucina olandese e di biblico girarrosto si soffuse per il salottino semimondano a quella parola domestica. Respirammo tutti e quattro silenziosamente per alcuni secondi un tepore di sole sull'aia, di forno casereccio, di gatto sulla pietra del focolare. Sentimmo scampanare dietro la siepe una capretta mansueta. Poi una nuvola invase morbidamente quel mondo, e per l'etere soavemente ci riportò a un terzo piano in via Monte Napoleone, davanti a quattro tazze di tè. Il fumo del tè saliva a raggiungere il fumo dell'avana del pescecane. Io m'alzai per osservare un'acquaforte.
— Vi piace? — mi domandò Giovanna.
— Non so, non m'intendo di pittura.
— Non dica «non m'intendo di pittura» — mi redarguì Valacarda. — Si procuri cinque o sei frasi, e se ne intenderà. Comincerà con l'applicarle un po' a [58] caso: poi quelle cinque o sei ne germineranno spontaneamente altre nella sua abitudine, e lei si troverà un vocabolario. Quando avrà un vocabolario critico, necessariamente le verranno delle idee critiche.
— Una specie di pistica applicata alla critica? Ma intanto quell'acquaforte non mi suggerisce nulla.
— Quell'acquaforte è fatta di segni neri; allora è elegantissimo dire: «che senso del colore c'è qui dentro!».
— Che senso del colore c'è qui dentro, qui dentro, qui deeeeentro.... — gorgheggiò l'allieva di canto sopra una fioritura rossiniana.
Il pescecane si tolse l'avana di bocca, fissò un momento da lontano l'acquaforte, poi asserì:
— È un maiale con due maialini.
— Badi — continuò Valacarda — che ogni tanto bisogna rifornirsi di sostantivi e di aggettivi. Prima della guerra c'erano le parole «sensibilità», «dinamico», «musicale»; oggi invece le pietre basilari del vocabolario critico sono «costruito», «corposo», «architettura». Un vocabolario di questo genere può durare dai tre ai cinque anni. Anche per il contenuto è così. Fino a qualche anno fa serviva molto la «gioia di vivere». Oggi....
— Voi — interruppe la cantante — siete contento di vivere?
La guardammo tutti e tre per sapere a chi avesse rivolto la domanda. Ma ella non guardava nessuno di noi. Seguendo il suo sguardo vedemmo che andava a finire su una mensoletta di ottone fissa al muro, di quelle a parecchi intagli, che servono per tenerci appoggiate [59] e sospese le pipe. Pipe non ce n'erano. In ogni modo non pareva probabile che la fanciulla desse del voi a una mensoletta d'ottone, e le facesse una domanda di quel genere. Perciò nessuno di noi rispose subito. Il primo a spiegarsi fu il pescecane:
— Io sarei contento di vivere — pronunciò — ma ho la nevrastenia.
— Un dottore — disse la fanciulla — a un mio amico nevrastenico consigliò le divine emozioni dell'aeroplano.
Valacarda si oppose:
— L'aeroplano come divertimento è uno dei più insipidi che possa consigliare la retorica moderna. Io ci sono stato. Se uno non ha paura, la sensazione che dà è quella della perfetta idiozìa.
— E se ha paura?
— Se ha paura, non ci va.
Decisamente questo Valacarda è un sorprendente personaggio. Professore di merceologia! Che cosa è la merceologia? Tuttavia io cominciavo a domandarmi con qualche maraviglia perchè mai il Destino, già una volta sei anni prima mandandomi a Firenze la traduttrice, e poi la sera avanti deponendomi in un teatro a fianco alla medesima rinnovellata — perchè mai il Destino avesse lavorato tanto per produrre quell'incontro eterogeneo attorno a quattro tazze vuote con paesaggio di pianoforte.
— Non pensiamo a questo — mi ripresi internamente —: io sono qui per affari.
Anche quando, poco appresso, mi avvenne d'un [60] tratto di domandarmi curiosamente che legami ci fossero tra Giovanna e uno almeno dei due personaggi ch'ella mi aveva presentati, finii con l'ammonirmi una volta ancora:
— Che importa? Io non sono qui per fare della psicologia, e nemmeno per mondanità. Sono qui per ragioni serie. Bisogna attaccarsi al pescecane.
Ma mentre cercavo il modo di attuare questo maturo proposito, Giovanna d'un tratto balzò in piedi e annunziò:
— Vado a mettermi il cappello.
Andò, e tornò dopo brevissimo tempo, incappellata e impellicciata, prima che io avessi trovato una frase di avvicinamento, abbordo ed attacco verso il corposo di Malco.
Uscimmo.
— Passeggiamo? — propose lei quando si fu sul portone — chi ama camminare?
— Io no — risposi. — Nietzsche amava camminare, ed è finito matto.
— Andiamo al Savini a sentire un po' di musica — propose Valacarda.
[61]
— Io ho bisogno di camminare — dichiarò di Malco.
— Allora — concluse la donna — noi due andiamo a passeggio e voi due andate al caffè. Forse vi raggiungeremo là: e se non vi raggiungeremo ci ritroveremo qui a casa stasera. Libertà.
Così se n'andò, prima che avessimo annuito. Oh le donne! m'aveva raccomandato d'attaccarmi al pescecane, e ora se lo portava via e mi lasciava solo con l'altro. Per fortuna l'altro mi era simpatico. E forse io a lui.
La nostra simpatia si svolse nel silenzio fino che ebbimo raggiunto e imboccato il Corso.
Sul Corso ci fermiamo davanti a una grande e illustre vetrina di colore viennese. Valacarda mi addita una bambola con i capelli di seta, e osserva:
— Assomiglia alla nostra amica.
— È vero — risposi. E dopo una breve pausa, mentre riprendevamo l'andare, còlto da una frivola curiosità insinuai:
— La nostra amica si è portato via il pescecane....
Valacarda si fermò subito di nuovo, mi guardò, poi disse dolcemente:
— Lei s'è ingannato, signore: il pescecane sono io.
Io m'appoggiai alla cantonata per non cadere.
[62]
Lo stranimento per il mio granchio e per la conseguente gaffe mi tenne ancora per un poco, mentre a fianco camminavamo tra gli urti della folla vespertina, ed egli parlava.
Egli parlava, e io ripetevo entro me: — l'altro dunque, con pancia e avana, era il merceologo! E questo savio raffinato e sagace.... Non aprirò mai più un giornale umoristico.
Valacarda parlava, e io ero sperduto ancora, e così non so come ci trovammo seduti a un tavolinetto d'un minuscolo bar cristallino: io avevo ordinato due cocktails. Soltanto allora ricominciai a udire le parole del mio affascinante compagno, che ragionava con semplicità velata appena di malinconia.
— E il risultamento di tutto ciò? — continuava Valacarda.
Il risultamento di che? Lasciamolo parlare.
— Il risultamento di tutto ciò? Personalmente, una pregiudiziale di disprezzo pauroso che ci avvolge....
— Non è questo che importerebbe — lo ripresi io, fattomi animo ormai —: lei è un uomo fine, e m'intende. La diffidenza che ispira il cosidetto pescecane, [63] salvo i casi di semplice invidia, è per il pericolo che rappresenta l'opera sua di fronte alla vita sociale, nel momento stesso ch'essa anela a raggiungere quell'umano equilibrio, cui tende da secoli....
M'interruppi udendo un forte ridere vicino a me. Mi voltai. Ma non c'era nessuno che avesse l'aria di aver riso. Solo allora capii ch'era stato il Dàimone, di cui m'ero dimenticato. Intanto il pescecane filosofo già s'era avvolto in una sua complicata risposta:
— Quale pericolo? Vediamo oggi due grandi energie in lotta: c'è chi le chiama borghesia e proletariato, c'è chi le chiama energia rinnovatrice ed energia conservatrice. Questa lotta per lungo tempo è rimasta frantumata in guerriglie parziali e multiformi, ora s'è semplificata e ingrandita. È una vasta battaglia tra due eserciti, che insieme assommano all'intera società. A ogni fenomeno storico che si produca o si riproduca nel mondo, ciascuno dei due eserciti cerca di farsene uno strumento della lotta. Così è stato della guerra. Così è, ora, della pace. Il simile avverrà press'a poco delle nostre costruzioni. Noi pescicani, grossi e piccoli, tranquilli e arrabbiati, sa che cosa stiamo accumulando laboriosamente? Delle enormi riserve di forze — danaro, lavoro, organismi di uomini — forze, insomma: e un bel giorno, vicino o lontano non so, un bel giorno, o se ne impadroniranno le masse conservatrici per tentare l'ultimo colpo, o, se esse saranno state disfatte, le afferreranno gli altri, un minuto dopo la vittoria.
— Voi dunque non siete la espressione culminante della borghesia?
[64]
— No no no! Siamo (non noi in persona, s'intende, ma l'energia che accantoniamo) siamo come una riserva neutra. Può darsi che il destino del pescecanismo, com'è stato già di far durare la guerra fino alla vittoria, sia ora di salvare la borghesia, o almeno prolungarle la vita; e può altrettanto darsi che sia quello di farla morire d'aneurisma e d'ingorgo: non s'esce da questo dilemma. Ma nè il borghese nel primo caso, nè il nuovo vincitore nel secondo, erigeranno certo un monumento di gratitudine al pescecane, come le nazioni lo erigono al fante che le ha salvate. Non sappiamo chi si dividerà le nostre spoglie: ma il nostro destino inevitabile è di essere spoglie.
— Spoglie opime — feci io.
— Opime sì: per questo voi scrittori e i vostri aiutanti disegnatori hanno avuto una certa ragione di raffigurarsi il pescecane (o cosidetto pescecane, come dice lei per cortesia) in forma corpulenta e ingombra. Ma, come lei vede, è un'allegoria.
— E i suoi.... colleghi, la pensano tutti come lei?
— Nemmen per idea. Non ne trova uno su cinquanta che dica «noi pescicani»; e quello che lo dice, lo dice per simulazione di disinvoltura e per difesa personale. Il curioso è, che io stesso non ho capito se loro credono di essere immortali e costruire per l'eternità; o se lo sanno che van vivendo alla giornata più della rondine quando gira col becco aperto pei cieli all'ora del tramonto.
— Anche questo tramonto è un'allegoria?
— Forse. Del resto anche se qualcuno, come me, [65] si rende conto del fenomeno, che gli serve? Ognuno è trascinato dal suo proprio spirito, ha detto Lucrezio. Lucrezio dice voluptas. È la stessa cosa. Lei scrive, e scriverà sempre....
Io non rettificai.
— .... anche quando, come oggi, veda intorno a sè a quale turpitudine di mal gusto è trascinata la sua arte. Scriverà, anche persuaso che le cose sue che più le hanno costato di travaglio debbano rimanere in un cassetto.
— Ma scrivo per i posteri — dissi cercando di fargli credere che celiavo.
— Anche il pescecane lavora in effetto per un postero: non importa se la sua posterità invece che tra un secolo possa cominciare domani o stasera. Ma in realtà lei non lavora per i posteri ma per sè: e anche lui lavora per sè: per quella sua voluptas, che non sempre è spregevole. Naturalmente tutto ciò le appare strano. Lei dice che sono un uomo fine, perchè ho letto tre o quattro libri e perchè ragiono intorno alle cose invece di andarvi a cozzare contro a testa china con le corna di qualche pregiudiziale ostinata. E anche questo le appare strano. Perchè lei è uno scrittore, e agli scrittori per farsi leggere occorrono figurazioni precise: il demonio, l'angelo, il pescecane grasso e cùpido, il fante energico e macerato. Specialmente oggi, che si ha sempre fretta: fretta di capir subito senza sforzo con chi si ha a che fare. Loro scrittori debbono essere o dei sentimentali o dei cinici, se no il pubblico si disorienta. Come quando si fa della politica ai contadini: bisogna [66] parlare o da clericali o da rivoluzionari. Lei le cose che ho dette non le potrebbe scrivere. Uno come me, lei non lo presenterebbe: apparirei incomprensibile e mostruoso; molto più mostruoso che se il pescecane fosse stato il nostro buon amico di Malco, il quale a quest'ora, più e meno saggio di noi, sta pranzando con la nostra buona amica Giovanna in qualche trattoria spensierata. Se facessimo altrettanto?
— Volentieri.
Pagai i due cocktails, e il filosofo alzandosi mi promise:
— Le farò conoscere, o almeno vedere, qualche mio collega, se ci tiene.
Infatti alla trattoria incontrò, mi presentò, e invitò a sedersi alla nostra tavola, un uomo biondiccio e un po' sbilenco con due grossi baffi da foca e una penzolante giacca color tabacco. Rideva e parlava continuamente; cioè raccontava storielle oscene e poi ne rideva lui stesso con fragore, e accompagnava quello stridere con gran suoni di posate sui piatti. E questi era il socio di Valacarda. Come mai? Oh la voluptas.
[67]
Ora il nuovo compagno raccontava una sua avventura di viaggio con due cameriere d'albergo. Ma Valacarda, accorgendosi ch'io guardavo a un altro tavolino, mi domandò:
— Le piace quella bruna?
— Sì: ha un'aria aristocratica; bellezza imperatoria e fine nello stesso tempo, e un contegno da Olimpo. Oserei affermare che è una signora.
— Ha indovinato, è una signora, la signora di quello che c'è insieme. Prima lei faceva parte di una compagnia di equilibristi del Trianon, e manteneva lui. Ora lui s'è tirato su col filo spinato, e l'ha sposata. Al mondo c'è ancora della gratitudine e altre virtù.
Il commensale color tabacco si voltò a guardarli. Così vide entrare nella sala un giovinotto disinvolto e lo salutò ad alta voce da lontano. Poi si volse a me annunziandomi:
— Spolette da shrapnell.
— E questo alla mia destra? — domandai io accennando al più elegante di tutto il consesso. — Cos'è? Zàini? fulmicotone?
Guardarono e uscirono tutt'e e due a ridere con irriverenza.
— Questa volta ha sbagliato — disse Valacarda. — Quello lì è un pittore.
— Pittore!
— Sì: vive alle spalle di quello che gli è vicino: pezze da piedi e propaganda per i prestiti. S'è fatto fondare da lui una rivista illustrata. Sono i pidocchi del pescecane.
[68]
Rabbrividii.
Quel mondo luccicava tutto e parevami gorgogliare e spumare d'una superiore letizia. Sognai per un momento di assistere a una festa furinale, quali i Romani, spiriti larghi, celebravano in onore dei ladri.
Mi scossi, e tratto da una vecchia abitudine domandai:
— Come s'intitola la rivista illustrata?
— Non parliamo di porcherie — ammonì l'uomo color tabacco. — Guardi quella bionda così seria, laggiù. Una mattina, nell'anticamera del mio studio, l'ho....
Ma non sentii il seguito. Non sentivo più le loro parole. Il mio spirito era abbuiato.
Mi trovavo dunque nel centro di quella terza Babilonia su cui Valacarda aveva predetto prossimo non so che fuoco divino o sociale. Ma non pensavo più ai suoi vaticinî. Le immagini mi presero nel loro possesso. L'aria della sala intorno a noi si fece liquida e verde come in fondo a un oceano, oceano scivolato da grandi belve corsare che aprivano gole di Satana, arrotavano i denti alle rocce subacquee, e come d'intesa movevano tutte obliquamente, leviatani torvi, dall'abisso gelido in su, verso un'alta luce d'incendio lontano che le traeva: e il corteo non avea fine, sempre più enormi e nere, con la smorfia d'un ringhio di cui non si udiva la voce, battendo le code nel liquido muto, su, verso l'alto. Poi un cameriere traversò con grazia secura lo stormo, e si chinò davanti al nostro tavolino presentandoci il conto.
[69]
Valacarda trovò un errore nel conto e lo fece correggere. Poi fece la divisione per tre, ognuno di noi pagò la sua parte, e l'amico festevole ci lasciò. Noi ci avviammo a via Monte Napoleone, ma arrivati al portone di Giovanna, Valacarda si fermò:
— Non salgo: ho sonno, e domani mattina debbo partire presto: sì, starò fuori qualche tempo. Troverà di Malco, e forse altri; mi scusi con la signorina. Grazie.
Su, venne ad aprirmi la signorina in persona. Non c'era di Malco. Non c'era nessuno.
— Sono stata brava? — mi gridò subito. — V'ho lasciato col pescecane. Che n'avete fatto?
Mi guardai bene dal raccontarle il primitivo granchio. Risposi:
— l'ho lasciato ora, qui sotto; abbiamo pranzato insieme.
— E avete combinato qualche buon affare?
— Mio Dio, no.... Per il primo pescecane che incontro, era così raffinato, arguto.... e poi mi ha detto due o tre volte «lei che scrive, e continuerà a scrivere». Non potevo disingannarlo.
L'amica alzò gli occhi al cielo.
[70]
— Dio, che uomo d'azione siete! Pensare che glie lo avevo detto che volevate darvi agli affari, che vi aiutasse....
— Gli avete detto!?...
— Non sarete mai buono a nulla.
(— Non sarai mai buono a nulla — echeggiò il Dàimone, ma con minore scandalo).
— E come s'è liberato bene di voi!
Era veramente afflitta.
(— Stai zitto, non facciamoci scorgere troppo — sussurrai al Dàimone che non voleva chetarsi).
Giovanna seguiva il filo di non so quale pensiero. Poi scosse il capo e mi guardò. E concluse con voce consolatoria:
— Troverete di meglio, pazienza. Meno male che ci avete almeno guadagnato un invito a pranzo.
Non volli deluderla. Era una buona figliuola, come tutte le fanciulle che dopo aver tradotto Rimbaud in Valdarno vengono a Milano a studiare il canto. Ora taceva, e per un po' tutto tacque tra noi. Sospettai che la buona figliuola pensasse di dovermi qualche geniale risarcimento per lo scarso esito della mia giornata...
Ma qui si raccontano storie d'affari, cose serie; e non dobbiamo occuparci di frivolezze.
[71]
[73]
La piattaforma del tranvai è la glandola pineale della vita moderna. Trovandomi io un giorno sulla piattaforma d'un tranvai di Milano, un individuo con barba grigia e cappello verde alla calabrese mi stralunò in volto due occhi quasi bianchi spiritati, poi disse:
— Scusi, signore....
Non avrei mai immaginato che quegli occhi potessero pronunciare una frase tanto garbata. Mi rimisi dunque dalla prima impressione ch'era stata alquanto sgomenta.
— Scusi, signore: sa dirmi dov'è via Belloveso?
— Non so — risposi con la maggior grazia possibile. — Sa, — aggiunsi poi sentendo non so qual dovere di giustificarmi — io non sono di Milano.
— Ah.
Questo «ah» non fu un «ah» di quelli grassi, sdraiati, episcopali, che nei dialoghi della vita indicano soddisfatta conclusione e lasciano l'animo pacato: fu un «ah» [74] arido, giallo di sarcasmi. I romanzieri non hanno ancora trovato la maniera di distinguerli nella scrittura, e mettono «ah» senz'altro, in tutt'e due i detti casi e anche nei loro infiniti intermedi e collaterali: la quale è una lacuna non lieve dell'arte nostra.
Io n'ero rimasto oscuratamente scontento e guardingo, mentre il tranvai continuava la sua rotolante corsa per le rette e le curve della Città Operosa.
Infatti l'uomo imminendomi ribadì:
— E se fosse di Milano?
— Se fossi di Milano — risposi con pronta dialettica — sarebbe più probabile, non però certo, ch'io sapessi dov'è via Belloveso.
La soddisfazione di questa nitida risposta mi ristorò: e per un momento credetti d'essere libero dal sorprendente personaggio, perchè subito egli si rivolse al più vicino dei nostri compagni di andare, uomo comune con cappello duro e spilla nella cravatta. Con gli stessi occhi e con la stessa voce domandò a lui:
— Scusi, signore, è di Milano lei?
— Sì — rispose il signore volonteroso col cappello duro — sono proprio di Milano, del Verziere.
— E lei che è proprio di Milano, sa dirmi dov'è via Belloveso?
— No: non l'ho mai neanche sentita nominare.
— Ma se l'avesse sentita nominare — incalzò l'incontentabile, — saprebbe dirmi perchè si chiama via Belloveso?
L'uomo comune s'inalberò:
— Come sarebbe a dire?
[75]
— Sa lei, signore di Milano, sa lei chi era Belloveso?
L'altro lo guardò un momento, poi guardò me, poi tutti gli altri intorno, torse un'occhiata più lunga alla strada che fuggiva sotto i nostri occhi: e d'un tratto, poichè il tranvai rallentava, scese precipitosamente e senza voltarsi indietro si inabissò nella prima via trasversale.
Il tranvai finì di rallentare e fermò del tutto. L'energumeno gentile tornò a me:
— Lei, signore, che almeno non è di Milano, la prego: scenda con me.
Non so quale forza mi spinse ad acconsentirgli.
Sopra una cantonata una guardia di città sonnecchiava a capo chino. L'amico lo svegliò:
— Vigile, sa dirmi dov'è via Belloveso?
L'altro riscosso mormorò:
— Pellevese, Pellevese.... nun saccio.
— Potrebbe guardare nella guida.
L'esule partenopeo si cavò blandamente di seno un libretto e cominciò a sfogliarlo:
— Come avete detto? Pellurese?
— No: Bel-lo-ve-so: col bi.
Il pubblico funzionario compitò con scrupoloso travaglio parecchi nomi del suo indice alfabetico: — Bec-ca-ria — Bel-fio-re — Bel-gio-io-so.... quest'è, Belgioioso?
— No: Bel-lo-ve-so.
— Bel-lez-za — Bel-li-ni — Bel-lot-ti.,.. mo' ce stiamo 'n coppa — Be-na-co.... no: Bellevese nun ce sta, Eccellenza.
[76]
Lo piantammo, chè era esausto. Seguivo faticosamente e con grande interesse la mia agitata guida. Lo vidi precipitarsi contro una carrozza vuota che veniva traballando placidamente verso noi. La fermammo, le demmo la scalata, occupammo il sedile. Quando ci sentimmo saldi nella conquistata posizione, il mio compagno comandò con aria sciolta:
— Portaci in via Belloveso.
Allora, con mia suprema stupefazione, avvenne questo fatto mirabile: che il vetturino non disse nulla, e neppure si voltò a noi; ma dette una frustata all'aria, una voce al cavallo, e partì; e tutti partimmo con lui.
E la carrozza camminò rassegnata e fatidica per vie folte e piazze illustri e ardimentosi crocicchi, tra la folla sonora onde Milano trae l'incitamento perenne al lavoro e all'impeto, alla Vita Intensa e alla Vita Operosa. Il mio compagno s'era chiuso in un degno silenzio; china sulla fronte la tesa verde del cappello calabrese ora si contemplava misticamente le quadrate estremità delle scarpe. Io rispettai quel silenzio e quella contemplazione. M'interessavo alle vicende del nostro andare e al civile paesaggio che percorrevamo. [77] Ma già le piazze e le vie si facevano a mano a mano meno affollate e meno illustri. L'aspetto delle botteghe e delle case graduava rapidamente dalla metropoli al suburbio. Entrammo nell'ignoto. Raggiungemmo l'aborigeno. Ogni tanto la carrozza, mossa da non so quali occulte cagioni, invece di proseguire diritta svoltava in vie laterali, e quasi a ognuna di quelle mutazioni di rotta il colore delle muraglie e dei selciati si faceva più languido e afflitto. Le sfilate di muri grigi presentavano ormai rara l'interruzione di una donchisciottesca barbieria o d'una drogheria sudicia rinforzata dalla giunta d'un romantico bar.
Poi ai bar succedettero francamente le osterie, mentre la carrozza sobbalzava sempre più con singhiozzanti nostalgie dei lastricati lontani.
Essa proseguiva il suo cammino mortale, e a me l'anima si andava fasciando di lenta malinconia: ma ecco, dopo un incerto vagare tra larve di strade d'ambiguo colore e di spiriti crepuscolari, e dopo due o tre svolte più impensate, ecco di lì a poco m'accorsi che la luce si rifaceva nitida, ch'erano scomparse le cànove e riapparsi i romantici bar con le drogherie luridissime: risentii un saluto d'aure familiari, spuntarono al mobile orizzonte più frequenti botteghe, poi grandi vetrate. Riudivo qua e là sonorità umane: e a mano a mano ritrovando il sorriso di vie e piazze note recuperai gli spiriti, fino a che per pochi ultimi audaci quadrivi mi riconobbi tornato presso al cuore del gran corpo di cui avevo rapidamente poco innanzi raggiunto gli arti più lontani.
[78]
A questo punto, senza espresso superiore comando nè per altre cagioni apparenti, il cavallo a capo chino ristette, la carrozza sostò, e noi tutti con essa e dentro essa fummo fermi.
Appunto in quell'istante il mio compagno ebbe conchiusa la sua contemplazione, e dalle quadrate estremità delle scarpe levò gli occhi ai due bottoni argentei ond'era insignito il dorso dell'auriga. Tutti tacevamo. Poi l'auriga si voltò e inclinò alquanto verso noi, candidamente così favellando:
— Avevi minga capii ben: che via l'à dit?
— Via Belloveso.
— Adess o capii: la gh'è minga quela via lì a Milan.
Il mio prodigioso compagno si volse a me e disse:
— Lo sapevo, che non c'era.
— E allora, — arrischiai — perchè la cerca?
— Perchè non c'è!
Tutti, il cavallo, l'auriga, la carrozza, il personaggio e io, eravamo muti e fermi: solo si mosse e, credo, mandò una tenuissima voce col suo scatto il meccanismo prestigioso del tassametro. Io ne distolsi lo sguardo. Il personaggio domandò:
— Di dov'è lei, signore?
Io ho sempre pronte diverse città natali a seconda delle varie occorrenze della vita. Ebbi la eccellente ispirazione di rispondere:
— Sono di Roma.
— Sa lei, signore, chi furono Romolo e Remo?
Rividi in un attimo nella memoria la scuola della mia puerizia, e recitai:
[79]
— Romolo e Remo, signore, furono i fondatori di Roma, capitale d'Italia.
— E che direbbe ella, signore, di un romano il quale non sapesse rispondere chi furono Romolo e Remo?
— Direi, signore, che è sordomuto.
— Sordomuto: sia ella benedetta ora e sempre per questa parola. I milanesi — e indicò con la mano spiegata la schiena dell'auriga, la coda del cavallo, il lastrico, la casa di fronte, la folla dei passanti — i milanesi sono dei sordomuti. Non sanno chi fu Belloveso. Belloveso fu il Romolo e Remo di Milano. Il gallo Belloveso, signore, che era nipote di un re dei Biturigi, quasi seicent'anni avanti Cristo varcò le Alpi e qui accampandosi fondò Milano, capitale morale d'Italia. E a Milano nessuno, nessuno, nessuno lo sa. A Milano non c'è una via, una piazza, un corso, un viale, un bastione, un monumento, un vicolo, un portico, un caffè, una scuola, un postribolo, che sia dedicato al nome di Belloveso. Scendiamo, signore. La carrozza la pago io o la paga lei?
— La paghi lei — proposi.
— Sì.
Pagò, e discese, e io dietro lui: ma mentre m'accingevo a salutarlo egli era scomparso, magicamente scomparso davanti a me, o che il movimento della folla me l'abbia sùbito nascosto, o che, come sembrami più probabile, vaporando nell'etere ei sia stato assunto, definitivamente o provvisoriamente, nei cieli.
[80]
Egli era scomparso; ma io, raggiunta in pochi passi quella che avevo sempre veduta essere la piazza del Duomo, io trovai ora che non vi scorgevo più il Duomo, nè il frivolo calamaio di bronzo del monumento a Vittorio Emanuele, nè intorno a esso il girotondo dei tranvai con i trolleys rigidi a scarrucolare verso il cielo; e nemmeno si stendevano più, ai lati di quella, lo scenario dei portici settentrionali nè l'obliquo fondale di Palazzo Regio: ma tutto il luogo era occupato non da altro che da basse capanne, in mezzo a suono di ferrame, perchè tra le capanne s'aggiravano vasti guerrieri baffuti con risa oscene. E bisognò qualche tempo e qualche sforzo alla mia fantasia avanti che mi riuscisse di ritrasformare a' miei occhi il rude accampamento dei Galli di Belloveso nel cuore civile e facondo della capitale morale.
L'ossessione mi tenne più giorni. Sotto la larva d'ogni ragioniere milanese vedevo corruscare un Biturigio superbo, ogni dattilografa parevami una sacerdotessa accorrente ad aggiunger fiamme a un sacrificio umano: vidi appunto sull'angolo del Corso sorgere ed elevarsi d'un tratto immani fantocci di vimini, alti come torrioni, e gli eubagi riempirli d'uomini vivi e [81] appiccarvi il fuoco in onore di Hesus, dio sanguinolento armato di scure. Di là, all'aspro odore di quella fiamma, un druido spiegava ai milanesi la trasmigrazione delle anime d'una in altra forma mortale. Vidi anche sotto i miei sguardi la colonna di San Babila tumefarsi e coprirsi di corteccia rugosa e ramificando trasformarsi in quercia, e guerrieri braccati chiamavan quella quercia Teutates ardendovi attorno olocausti di cani.
Non mi riusciva sottrarmi alla suggestione morbosa. Riconoscendone esattamente l'origine, pensai che il passante grigio apparsomi un giorno sulla piattaforma del tranvai fosse stato una incarnazione dell'Antico Maligno, che s'era messo vaste scarpe quadrate per nascondere gli zoccoli. — O forse più semplicemente — mi dissi — quegli fu lo spirito stesso di Belloveso che nel mondo degli immortali non trova requie pensando all'immemore ingratitudine di venticinque secoli di posterità.
Occorreva, per liberarsi, placare lo spirito di Belloveso. In qual modo?
Forse un tempo, quand'ero immerso in classici studi, avrei pensato a scrivere su Belloveso una truculenta e compassata tragedia. Più tardi, poi che la vagante sorte m'ebbe sfiorato con le ibride penne del giornalismo — bizzarra chimera biforme tra l'arte e la vita pratica — avrei tentato di quetare lo spirito di Belloveso ed il mio con una serie di articoli agitanti la proposta di un monumento: tutti gli scultori e i procacciatori di Comitati sarebbero stati con me.
Ma erano i giorni in cui, colpito dall'aspetto del [82] tempo nuovo, avevo stabilito d'uniformarmi a esso e darmi agli affari. Ed ecco dalla mia ossessione germinò l'idea d'un affare vasto e mirifico.
A Belloveso non possiamo offrire un monumento o una caduca tragedia.
Belloveso, primevo animatore della Città Operosa, dev'essere rammemorato con imporre il suo nome a una via della città stessa. Egli in persona, in quel giorno e in quella carrozza fatali, me lo ha suggerito.
A qual via? Egli principiatore del rozzo antico nucleo, deve avere per sè la via più moderna e perfetta: la più lontana da quei rudimenti: una via definitiva.
Occorre costruirla apposta. E bisogna ch'essa sia di tanto più grande e nuova delle presenti, di quanto le presenti sono più grandi e stabili e solenni delle capanne dei Biturigi di duemilacinquecento anni fa. L'ultima parola della modernità. Il non visto ancora tra noi. Una via costruita tutta, sì, tutta di grattacieli, di grandi grattacieli, di grattacieli di cemento armato: via Belloveso.
All'opera, ideatore, animatore, organatore: questa è speculazione, nel senso più maturo e degno della parola. All'opera dunque, Speculatore.
[83]
Il programma da attuare era semplice: un progetto edilizio, un preventivo per la costituzione di un capitale, un piano per lanciare e popolarizzare l'impresa.
Il lanciamento sarebbe stato facilissimo: bastava fondare una rivista d'arte, dedicata specialmente al rinnovamento dell'architettura. Sulla rivista iniziare immediatamente una impetuosa campagna, di natura pratica, a favore del cemento armato, e una di natura estetica per le case a molti piani: le industrie cementizie e le fabbriche di ascensori faranno ampiamente le spese della rivista.
Iniziato il movimento generale, subito esporre sulla rivista stessa l'idea della via nuova: ma l'offerta votiva di questa alla memoria del duce gallo (effettivo movente intimo della mia ideazione) apparirà come l'ultimo pensiero, una culta eleganza sovrapposta all'idea originaria, quasi un fregio.
La fame di case, che già in quel tempo travagliava insopportabilmente la vita della città, avrebbe favorito in modo incredibile il mio còmpito.
Verrà, dunque, dopo il lancio, subito il resto: e disegni e preventivi saranno opera dei competenti.
Ma prima d'interrogare i competenti, e di esporre a chicchessia il mio pensiero, buttai giù un piano a grandissime linee, quanto occorreva a far intendere la mia idea, così facile, ai capitalisti che avrebbero dovuto costituirsi in società per attuarla. Quella gente vuol cifre. E cifre siano. Bastano approssimative, per ora, tanto per dimostrare l'affare. — Ogni palazzo, calcolai, avrà duecentoventi metri d'altezza e centocinquanta [84] di base: la via sarà di trentasei grattacieli, diciotto per parte, dacchè il numero 9 e i suoi multipli mi sono sempre stati propizi. Una via dunque — con i brevi intervalli tra un palazzo e l'altro — lunga circa tre chilometri: rettilinea. Trentasei case, ognuna di cinquanta piani.
Poniamo che ogni casa costi due o tre milioni: una spesa complessiva di circa cento milioni: quest'è il passivo.
E l'attivo: trentasei case, di cinquanta piani ciascuna, fanno in tutto mille e ottocento piani. Suppongo che ogni piano darà sei appartamenti: in tutto sono diecimila e ottocento appartamenti. Se ognuno di questi rende, per esempio, diecimila lire annue, fanno centootto milioni all'anno di attivo: e perchè in queste materie bisogna andar cauti, invece di centootto diciamo pure soltanto cento milioni annui di entrata. È quanto dire che il primo anno, il solo primo anno, dodici rapidi mesi di questa così fugace vita mortale, ripagheranno il capitale iniziale. E subito dopo la società, la mia società, ha un guadagno annuo di cento milioni.
Qualcuna di queste cifre sarà certo inesatta, forse qualche moltiplicazione sarà sbagliata, ma non importa: si correggeranno: si aumenterà, se occorre, il numero dei piani. Il freddo competente darà le cifre precise: io ero tutto invaso del calore della mia costruzione ideale; anche lo spirito di Belloveso parevami cominciasse, a queste semplici cifre, a placarsi.
Si noti che per fare cento milioni bastano dieci [85] persone che mettano dieci milioni l'una, oppure cinque persone che ne mettano venti: qui non c'è neppure il dubbio d'avere sbagliato l'operazione aritmetica. Ed ecco via Belloveso.
Stesi questo piano in un accurato memoriale. Non mancai di aggiungervi certa considerazione che nacque nella mia mente mentre già avevo cominciato a compilarlo. Era questa. Quando, venticinque secoli sono, in seguito all'invasione dei Kymri nell'Aquitania il re Biturigio Ambigate mandò oltr'Alpe Belloveso (e questi stabilì l'accampamento che sarebbe divenuto Milano) — nello stesso tempo il fratello di lui (ch'era addobbato similmente d'un audace nome, Sigoveso) passò il Reno e andò a stabilirsi nella regione Ercinia in Germania. Quali accampamenti fondasse non so: ma parevami probabile che da qualcuno di questi fosse nata, come Milano da quelli, la tedesca città di Baden, che i Romani conobbero. Si sarebbe potuto cercare negli storici la maggior esattezza di tale mia induzione, ma intanto era certo che in una regione germanica era sorta una città sorella, o almeno cugina, a Milano: che, dunque, un'impresa identica alla mia qui, poteva a un parto farsi nascere là, in onore di Sigoveso; che forse le due imprese potevano originarsi insieme dalla società e dal capitale medesimo: in ogni modo ciò poteva dare origine a un'audace e utile veduta politica, poteva additare un legame franco-italo-germanico più saldamente fondato di quello che intravide Caillaux, e pregno forse di più maturabili destini.
Stesi dunque il mio complesso memoriale artistico-storico-finanziario-politico; [86] lo portai a copiare in dodici esemplari a una dattilografa fidata: spesi in quella copia lire sessanta, che segnai sopra un candido quaderno come la prima spesa e insieme il primo atto effettivo della mia creazione.
Dopo avere riletto e corretto il memoriale, m'indugiai per poco in qualche pensiero domestico.
Stabilii di scegliere, nel centro della via, al numero 18, la mia casa. È giusto. Mi farò fare i biglietti di visita; i primi, credo, della mia vita, e con l'indirizzo: «18, via Belloveso, Milano». Abiterò al piano nobile, il cinquantesimo. Avrò un ascensore particolare che in trenta secondi, senza fermate ai piani intermedi, porterà su direttamente me, la mia famiglia, i miei amici. Perchè anche là gli amici verranno a trovarmi, come ora. Ma se verranno dopo le dieci di sera, non potranno più, come fanno ora, chiamarmi dalla strada per farsi gettare la chiave del portone. Faremo dunque nella nostra rivista una campagna perchè i portoni di Milano siano muniti di un campanello corrispondente a ogni appartamento, e di un congegno a pila elettrica per aprire il portone stesso dall'alto, come a Firenze, [87] che almeno in questo è assai più civile di Milano. Ogni portone avrà così trecento bottoni elettrici, centocinquanta per parte: se ne potranno trarre motivi decorativi ultramoderni. Ma quale cuccagna per i nottambuli, fedeli al gioco candido e giocondo di sonare i campanelli e poi darsi fanciullescamente alla fuga!
Già da tre giorni gli esemplari del mio sublime piano smaniavano d'essere avviati ai loro destini. Io ero meno impaziente. L'opera era troppo grande perch'io dovessi economizzare qualche giorno o qualche ora, e affrettarmi a compiere quell'atto facile — la costituzione della società: — anzi mi piaceva trattenere ancora un poco la mia impresa nel mondo puro delle cose pensate e non ancor attuate. S'aggiunga che per il momento non sapevo bene a chi avrei potuto portare o mandare quei piani. Ma questo è il meno: a Milano — tutti lo dicono — basta andar camminando per le strade per vedersi scaturire l'oro attorno. Altri dice: — basta battere il piede sul suolo. Pensate quanto oro per colui che andasse a camminare per le strade battendo forte il piede in terra a ogni passo. Ma non folleggiamo dietro l'allettamento delle immagini e delle immaginazioni, [88] com'era un tempo nostro deplorevole costume. Ora son tempi nuovi, anche per me. Così pensando arrivai al limite vago ove la città dalle tredici porte esita a dileguarsi nella campagna.
Andavo a caso. L'erba era polverosa e l'orizzonte era bigio, perchè Milano è un'austera città.
D'un tratto mi sorprese un fremito gradevole e inaspettato: sentii, al mio fianco, la presenza del mio Dàimone, e insieme mi resi conto che da parecchi giorni non l'avevo sentita più, che avevo operato fino a quel punto senza di lui.
— Dàimone — gli dissi — mi hai tu forse abbandonato? non sai dunque che sto maturando un'opera nuova, semplice e grande?
— Lo so.
— Senza l'aiuto tuo l'ho pensata, forse: ma non per questo devi disprezzarla: anzi d'ora in avanti la seguirai con affetto, come hai sempre seguìto tutte le cose della mia vita anche quando io facevo al contrario de' tuoi incitamenti.
— Fai pure — mormorò — se ciò ti diverte.
La sua freddezza m'indispettì. Non gli parlai più, ma lo sentivo a lato seguirmi e vigilarmi. Parevami sospettoso, e sospettoso mi feci io contro il suo sospetto, e contro lui stesso, contro il mio Dàimone, o Genio personale! Mi sforzavo di dimenticarlo, ma un disagio inesplicabile gemeva in fondo al mio spirito.
Sedetti sopra l'umile sponda d'un canale di poco lusinghevole aspetto ma di lunga e solida fama: quel Naviglio della Martesana, umanistica speculazione del [89] condottiero Francesco Sforza. Qua e là qualche piccola costruzioncina bislacca si dava importanza di villino: goffi pescecanili rutilanti di preziosità. La pianura si perdeva nel bigio infinito, tratteggiata da rigidi pali di ferro e da bassi alberi asciutti, potati d'ogni fronda e d'ogni ramo —. Qui — gridai nel mio pensiero — questo è il luogo!
E così forte e solenne fu il mio grido interiore, che le poche ville pretensiose, subito intimorite, si scostarono ognuna dal loro luogo, e portandosi via le torrette rosse e i cancelletti di ferro battuto, s'allontanarono e scomparvero; e insieme i pali di ferro e gli alberi di legno dileguarono; poi dalla terra bigia cominciarono a scaturire fasce di biancori gelidi che rapidamente al mio sguardo impietrivano allineandosi in una duplice fuga parallela, accennavano per un istante l'ondulamento d'un ritmo di danza; poi si arrestarono; elasticamente immobili e altissimi, guardando tutti a me con le pupille nere e rettangolari d'un numero infinito di finestre simmetriche: diciotto e diciotto eccelsi edifizi, in due file che andavano a incontrarsi e perdersi in direzione delle lontane e invisibili dolcezze delle regioni lacustri: diciotto e diciotto grattacieli di cemento armato; la mia creazione: via Belloveso. — Ecco-gridai generosamente al Dàimone — ecco l'opera nostra!
— Io non c'entro — rispose.
Mi voltai verso lui di scatto, dimenticando ch'egli è invisibile.
— Ma guarda! — incalzai. — Questa è la moderna bellezza. L'opera nostra: via Belloveso.
[90]
E mi rivolsi a ricontemplarla. Ora alle quarantamila finestre s'erano affacciate più di quarantamila teste vive d'ogni sesso e d'ogni età: non già i barbari Biturigi ch'io avevo salutati tra le capanne nel primo memorabile mattino, ma quaranta migliaia di modernissimi uomini, donne e fanciulli, che tutti insieme conclamavano verso l'avvenire del nuovo cuore operoso d'Italia.
Come fu finito il clamore, e le quarantamila teste s'erano ritirate, un grigio silenzio tornò a incombere su tutta la pianura, e di là mi premeva intorno e mi filtrava entro il cuore. La sudicia nebbia cominciò ad assediare e assaltare le belle case di cinquanta piani. Le vidi tutte barcollare davanti a' miei occhi inumiditi. Poi apparve un prodigio: chè ognuno dei piani di quelle parve sfaldarsi dal suo edificio, e, ogni piano, dico, per conto suo, per ogni parte si venne spostando qua e là orizzontalmente nell'aria e in aperte volute calarono a terra e si distesero a occupare tutto il suolo della pianura: ma ancora di là da essi nuova pianura dilagava, all'infinito, grigia e molle, tratteggiata innumerevolmente di pali di ferro e d'alberi di legno: poi il suolo riassorbì anche quella distesa di piani e rividi tornate le villette tronfie ridere con sofficienza dalle rosse torrette, in mezzo alla nebbia cinerea che cinge Milano, austera città.
Io mi alzai, infreddolito e aggranchito. Mi rimisi in sesto stirando le braccia e battendo i piedi in terra; ma in quel moto mi venne su dal profondo e scaturì per le fauci e squillò al cielo un ampio, sferico, fondamentale sbadiglio; uno sbadiglio quale non ricordo d'aver [91] messo insieme il simile mai nella mia vita: cui risposero vastamente tutti gli echi della pianura e della lontana invisibile regione lacustre fino ai primi gioghi dell'Alpe.
Ecco una voce allegra del Dàimone gridarmi:
— Così mi piace. Torniamo amici? Questo sbadiglio è il più bel pensiero che tu abbia fatto da parecchi giorni a questa parte.
— Così credi? — gli risposi. — Sta bene: facciamo la pace.
Mentre stavamo per raggiungere le prime vie della città, il Dàimone mi domandò ancora, con tono malizioso ma con bontà d'intenzione:
— E Belloveso?
— Stavo pensando — gli risposi — che sarebbe poco nazionale, e oggi anche poco politico, riferire troppo solennemente la nascita della Capitale morale d'Italia a un'origine gallica.
[93]
[95]
S'eleva al mio cospetto la forma di un audace altare, e scintilla di molti colori: più bassa gli gira attorno un'ara di marmo a venature violacee con un vasto orlo d'arabeschi dorati; in alto ai due lati dell'altare quattro marmoree candele hanno per fiamme lampadine elettriche dall'acuta punta. Anche, a tratti, questo altare suscita — a me che lo contemplo — la vaga memoria d'un organo, se non che le canne sono brevi, e variopinte come le piume degli uccelli dei tropici: lo sfolgorìo dei loro colori s'addoppia riflesso nella superficie di specchio che riveste tutto lo sfondo dell'altare.
Tra l'altare e l'ara, inter aras et altaria come dice Plinio il giovine, e davanti l'ara stessa — verso me che contemplo — officiano, bizzarramente passando e ripassando con offerte votive, rapidi sacerdoti vestiti di nero con sprazzi di biancori intorno al collo e sul petto.
Così contemplando l'altare, l'ara, l'organo e l'officio, tengo le spalle appoggiate a una parete di cristallo. Le [96] mie labbra suggono una bevanda neoromantica il cui sapore cupo non rivela il misterio della sua origine vegetale o animale.
È con me Graziano, e con Graziano un terzo di cui non ho capito il nome. Anche Graziano appoggia le spalle alla parete cristallina. Dietro noi, di là da quella, s'io mi volto vedo genti di cui m'appaiono i moti e gli atti senza sentirne le voci: genti occupate a passare, o a star immote, o, visibilmente, ad aspettare con irrequietudine altre genti.
Graziano non contempla l'altare. La tesa del cappello gli scende sugli occhi. Tutto il luogo è abituale per lui. Egli viene ogni giorno qua, dopo conclusi i suoi negozi più importanti, a riposare e disegnarne di nuovi. Questa prima sala del Caffè Campari in Milano, città di vita operosa, è luogo classico per incontri d'affari.
Infatti Graziano dice:
— Ci sarebbe un piccolo affare: ho a Caprino Bergamasco dei vagoni di legna tagliata. La do a undici al quintale.
— Me ne posso occupare — risposi —. Veramente la legna non è il mio genere.
— In affari — ammonisce — non ci sono generi.
— Come in letteratura?
Mi guarda ma non replica. Intanto il terzo domandò:
— Quanti vagoni?
Questo terzo me lo ha presentato poco fa Graziano. Ha una faccia incantata, due occhi rossicci, il cappotto spalancato, e la sottoveste abbottonata a contrattempo: cioè il primo bottone nel secondo occhiello e così di [97] seguito, in maniera che abbasso a destra avanza un tratto di sottoveste col bottone e in alto a sinistra avanza un tratto di sottoveste con l'occhiello.
— Sei vagoni — rispose Graziano. Al che seguirono poche indicazioni tecniche.
Durante queste fui distratto dall'entrare di due fanciulle emaciate e impennacchiate. Sedettero a un tavolino vicino al nostro, poi si misero a leggere insieme con grande interesse una lettera, ch'era listata a lutto.
Quel terzo annunziò:
— Vado a fare una telefonata. Ti ritrovo qui?
— Sì — rispose Graziano — fino alla mezza non mi muovo.
Il caffè s'andava affollando, e intorno all'ara cresceva il movimento dei sacerdoti in frack e sparato bianco, correndo in direzioni varie e gridando i comandi come centurioni in battaglia.
Graziano ha conosciuto la fama, se non la gloria. Dieci anni sono ha vinto un campionato ciclistico. Poi cominciava a ingrassare, onde la sua vita fu diretta verso altre mète. La vigilia della guerra lo trovò negoziante di accessorî per automobili. La guerra lo ebbe furiere in un ufficio d'aviazione militare a Roma e gl'insegnò di là le vie della ricchezza. L'armistizio lo ricondusse a Milano in un'automobile sua. Tuttavia s'è conservato modesto; non ha preso nè moglie ricca nè amanti costose, e neppure ha cambiato il sarto, nè si è messo a comperare romanzi con la copertina illustrata: le quali cose lo distinguono da altri arricchiti dell'ora presente.
[98]
Dalla partenza del terzo, ho visto in brevissimo tempo ben tre persone accostarsi successivamente a Graziano, scambiare con lui poche parole misteriose, andarsene. Dopo ognuno di quegli episodi egli mi ha sorriso con bontà. Ora pronuncia una sentenza degna dei Savi dell'Ellade:
— Non c'è che il lavoro che dia delle vere soddisfazioni.
Le due fanciulle hanno finito di leggere la lettera, il che non le ha rese più belle nè meno malinconiche. Ora discorrono modestamente col cameriere. Io, spronato forse dalla sentenza morale del mio compagno, m'alzo e gli dico:
— Penserò a quello che mi hai detto: sei vagoni. Ti ritrovo qui stasera?
— Sì; ogni sera dopo le nove e mezzo, fino alla chiusura.
— A rivederci.
Mentre m'avvio, sta rientrando il terzo con la sua sottoveste abbottonata a contrattempo; siede al mio posto dicendo a Graziano:
— Ecco qui....
[99]
— L'affare è il meccanismo più semplice del congegno sociale. Consiste essenzialmente in ciò: comperare a un prezzo, e rivendere subito tutto a un prezzo più elevato. È l'insegnamento supremo di Ermete Leisterio.
«L'Affare va poi distinto recisamente dal Lavoro. Il lavoro corrisponde a una possibilità limitata, l'affare è illimitato, come il Tempo e lo Spazio, categorie della mente universale. Se un lavoro richiede una determinabile somma di tempo e di energia, un lavoro doppio richiede doppio tempo e doppia energia. Invece lo stesso tempo e gli stessi atti che concludono un affare uguale a dieci, possono concluderne uno uguale a cento, mille: il campo di potenza d'un uomo d'affari è perciò illimitato.
«Ne deriva come primo effetto naturalissimo che l'uomo che fa degli affari arricchisca infinitamente più di qualunque semplice lavoratore del braccio o del pensiero; il che spesso dà scandalo a chi non sa andare al fondo delle cose. E ne deriva come secondo effetto che l'affare, cioè il comperare e rivendere all'infinito, è l'operazione umana che gode maggior credito: così diciamo, per esempio, che l'America è la più grande tra le [100] nazioni (sebbene abbia penuria di poeti, filosofi e altri uomini d'intelletto) perchè è la nazione che fa più e più grossi affari: e similmente si afferma che Milano è la capitale morale d'Italia, perchè è la città italiana in cui più rapidamente si compera e si rivende.
«E questa è la ragione per cui mi sono dato agli affari. —
Così venivo ripensando e in me bene riaffermando i principii generali che avevano determinato la mia situazione teorica e pratica: e in questa sboccai dalla Galleria verso piazza della Scala, ove una superstite simpatia mi soffermò un istante a contemplare le spalle ammantate di Leonardo, buono amatore d'ogni arte e d'ogni scienza. Poi, ripreso il cammino, venni più particolarmente a considerare l'affare che avevo tra mano.
La mia opera si delineava così:
1º — Crearmi rapidamente un minimo di competenza riguardo alla legna tagliata e ai suoi prezzi.
2º — Andare a Caprino Bergamasco a vedere e valutare i sei vagoni di Graziano.
3º — Trovare un compratore.
4º — Tornare a Caprino Bergamasco e di là spedire la legna al compratore.
5º — Ritirare il maggior prezzo da questo e sborsare il minor prezzo a Graziano.
In tal modo dividendomi in pensiero il còmpito nelle sue fasi progressive, mi trovai all'angolo del Cova, storico luogo di sosta di tutti gli uomini di pensiero e d'azione della Città operosa.
[101]
Ivi ristetti, incerto sulle prime del cammino da prendere: un poco in disparte tuttavia perchè m'era noto che in quell'ora la miglior porzione del marciapiede illustre tocca, per diritto consuetudinario, a un esiguo numero di mortali che di là sanno contemplare la vita fugace con occhio di semidei.
Mentre in tal modo me ne stavo, mi si fe' incontro uno, e m'appoggiò sulla spalla una mano benigna.
Quali fossero il nome, l'aspetto esteriore e le intime qualità di quest'uno, non importa al racconto. Disse:
— Beato te che puoi startene bellimbustando sull'angolo del Cova a insidiare le succinte passanti.
Così offeso, mi difesi:
— Tu t'inganni. Io sono qui da pochi secondi, e di passaggio, e operosi pensieri mi occupano. Forse la Fortuna ha mandato te incontro ai miei pensieri. Entriamo: io ti offrirò un americano col seltz, e tu mi darai in cambio un'informazione.
Poi che ebbimo libato un sorso della miscela pungente, io entrai subito nel vivo dell'argomento:
— Dimmi — gli domandai — tu che sei padre di famiglia: quanto la paghi la legna al quintale?
Egli impallidì, poi m'indagò con lo sguardo onde Beatrice guardò Dante Alighieri quando questi le domandava ragione della levità del proprio corpo appena assunto al primo dei cieli: cioè — per coloro che non avessero a fiore della memoria il Paradiso — mi guardò come si guarda un matto. E mi prese il polso.
— È regolare — disse tranquillato. — Ti sei dato, come Senofonte a Scillunte nel suo dopoguerra, alla [102] scienza dell'economia domestica? I tempi non sono propizi a studi di questo genere.
— Non divagare — lo interruppi — e rispondi alla mia domanda.
— Non so risponderti. Non compero legna. In casa mia c'è il termosifone. Da tre anni è spento, ma c'è: per questo non adopero legna.
Ebbi, certo, un aspetto di somma delusione, perchè subito l'amico cercò di aiutarmi:
— Aspetta — propose — domandiamo a Carletto.
Carletto era uno che passava, e che io non conoscevo. Il mio compagno lo fermò:
— Dimmi, Carletto, quanto la paghi la legna al quintale?
Carletto proiettò due occhi quali sogliono proiettarli, nei giorni di umore più malefico, i giovani basilischi. Questo basilisco bipede, che aveva aspetto d'uomo e si fermava al nome di Carletto, era avvolto in un botticelliano cappotto stretto alla vita con una cintura, e la cintura fermata sul davanti con un fibbione. Divincolandosi in quelle spire, sibilò:
— La legna! la legna! La pago quello che mi chiedono, la pago. Chi ne capisce più niente?
Intuii subito in Carletto il tipo classico dell'uomo inviperito contro il proprio tempo.
Il mio ospite si volse a me desolatamente:
— Vedi? — gemeva — al giorno d'oggi non c'è sugo.
Ma subito si distolse da me perchè in quella passava un cameriere, ed egli nel suo zelo lo arrestò a volo.
[103]
— Mi dica, Giovanni, come farebbe lei per sapere quanto costa oggi la legna al quintale?
Il cameriere Giovanni, ciò udendo, si eresse rigidamente sulla flessuosa persona: bilanciò un istante sopra la palma sinistra il vassoio, onusto di coppe sottocoppe e lampeggianti caraffe; strinse e scosse energicamente il tovagliolo che brandiva con la destra; scrutò fissamente dinanzi a sè l'infinito; indi:
— L'unica — pronunziò — sarebbe di andare a domandarne a un negozio di legna.
Scagliate queste parole, il cameriere Giovanni partì dirittamente dietro il proprio sguardo.
Il mio ospite si volse a me con umiltà:
— Mi dispiace — sospirava — io ci ho messo tutta la buona volontà. L'americano me lo paghi lo stesso?
Nel pomeriggio di quel giorno medesimo, dopo un'abbondante colazione e un degno riposo, che mi rifecero dei faticosi turbamenti della mattinata, uscii di casa e mi diressi risolutamente a una via ove sapevo esistere un negozio di legna.
Confesso che mi avvicinavo con tremore a quel luogo, per me affatto nuovo. È universale il tremore del [104] nuovo. Ognuno può riscontrarlo entrando in un caffè, in un salotto, in una biblioteca, in un bar automatico, in un tribunale civile o penale, in qualunque pubblico o privato luogo, per la prima volta in vita sua. Tale tremore è fatto soprattutto di pudore. Io credo che se mi portassero in prigione, il mio turbamento per questo fatto, che di regola è spiacevole a ognuno per la sua stessa essenza, si farebbe in me singolarmente insopportabile per il pensiero che la mia inesperienza del luogo si traduca in atti goffi che la dimostrino in modo ridicolo ai presenti. Così avvenne quel giorno, perchè, lo confesso, non ero mai stato in un negozio di legna. Perciò avvicinandomi rallentavo il passo.
Ma, giuntovi d'un tratto in vista, il luogo mi colpì subito gradevolmente. Non c'era vetrina nè sporti e nessuna porta lo chiudeva, così che dal marciapiede potevo scorgere magnificamente l'interno.
Era una stanza vasta: per tre lati le pareti fino al soffitto n'erano coperte di scaffalature, come una biblioteca, ma invece di dorsi di libri vi si scorgevano ampie distese di sezioni di tronchi di legna. Ognuna di quelle sezioni appariva figurata a cerchi concentrici in bei colori caldi, e così sovrapposte e distese in una moltitudine vasta facevano un bellissimo vedere: impressione di leggerezza e di asciutta solidità. Un soppalco basso dava ricetto a una bruna e nebulosa fantasmagoria di fascine. In un angolo in terra tumultuava un cumulo di ciocchi. Nella parte di fondo era ritagliato un usciolino, tutto ricinto e come oppresso dalle scaffalature [105] intorno, e di là da quello profondavasi una regione nerissima e opaca, con polverio di carbone.
Il luogo mi piacque. Fui lieto d'averlo visto. Ciò mi costituiva un principio di competenza: mi sovvenni del rimprovero che Antonio Furetière, uomo litigioso e abate di Chalivoy, mosse a Lafontaine accusandolo d'ignorare la differenza tra il legno cortecciato e il legno «marmanteau». Ma scossi subito il ricordo come intempestivo e inadatto.
Ho accennato, nella mia sommaria descrizione, a sole tre pareti. La quarta presentava un particolare sorprendente, cioè era costituita da un gran tramezzo di tavole in cui s'apriva uno sportello come nelle banche, o, chi non sia mai stato a una banca, come nei botteghini dei teatri e nelle biglietterie delle stazioni ferroviarie. Che cosa vi fosse di là dal finestrino dello sportello non so, chè davanti vi si pigiavano tre o quattro avventori, e vociferavano.
Io m'ero già coraggiosamente avanzato fin sul limite del luogo, quando uno dei vociferanti, ch'era un signore tozzo e con la cispa agli occhi, si staccò dal gruppo e si volse verso l'uscita. Così m'avvicinò, e vedendomi fermo e tranquillo mi giudicò, certamente, in ozio. Si diresse dunque a me con la facilità che muove gli uomini di semplice natura verso i loro simili, e mi rivolse una domanda; una domanda inattesa; una domanda paradossale: la quale per qualche minuto mi tenne come inchiodato davanti a lui per lo stupore.
[106]
La domanda che l'avventore cisposo e socievole rivolse a me innocente, fu questa:
— Scusi, signore, quanto la paga lei la legna al quintale?
Allo stupore succedette il terrore, perchè era necessario rispondere.
Ma l'uomo in istato di terrore rifugge dalle soluzioni più semplici del problema che lo assedia; e non l'uomo soltanto, chè vedemmo gli uccelletti dal ramo, sgomenti alla vista d'un cobra precipitarsi giù tra le sue fauci, invece di volar via come sarebbe loro assai facile. Non pensai di rispondergli che nulla ne sapevo. Sgomento, indugiai; e più avevo indugiato, e maggiore sentivo l'obbligo critico di dargli una precisa risposta. In quel punto la memoria offerse d'un tratto al mio sguardo come in uno specchio l'immagine di Graziano davanti all'altare dei beveraggi multicolori, fe' risonare a' miei orecchi come da un fonografo la sua voce quando aveva detto «la do a undici al quintale»: questo numero s'isolò in me e divenne imperioso e si fece motore della mia risoluzione e del mio atto sensibile; [107] il quale fu di pronunziare quella sola parola, che parve una risposta:
— Undici.
Il volto dell'Interlocutore si tese tutto e imporporò. Come l'eco molteplice di certe valli, la bocca smisurata di quel volto mi rimandò tre volte la mia parola:
— Undici! undici!! undici!!!
Ed erano queste voci — al contrario di quelle degli echi molteplici — in crescendo. All'ultima controrisposi io, ma su un tono più smorzato e quasi sommesso, rimormorando:
— Undici.
Egli implorò:
— La prego, signore: prendiamo una carrozza, a mie spese, e mi conduca dove ha comperata la legna a undici.
— Ah no! — gridai.
Questo grido m'era sgorgato dall'anima per il ricordo dell'increscioso sèguito ch'ebbe la mia scarrozzata con uno sconosciuto, come si narra nel capitolo intitolato «Per Belloveso».
L'altro s'inalberò:
— Perchè?
Non stimai opportuno esporgli la storia di Belloveso. Risposi:
— Ho fatto un voto.
— Un voto?
— Sì: alla Vergine: il voto di non andare più in alcuna carrozza, pubblica o privata, coperta o scoperta, a uno o a più cavalli, fino a che non riceva una certa grazia che ho domandata.
[108]
— Io rispetto il suo voto. Andiamo dunque in tranvai.
— In tranvai?... Non è possibile.
— Perchè?
— Veda: sono le sedici e quarantanove. Ho notizia sicura che alle diciassette scoppierà uno sciopero di tranvieri.
— Se andassimo a piedi?
— È troppo lontano, e io ho i piedi anchilosati da certi reumatismi che ho presi nelle paludi del Tanganika facendo le cacce al pellicano.
— Mio Dio, se mi desse l'indirizzo, ci vo io.
— È inutile: quel negoziante non ha più legna.
— Come lo sa?
— L'ho comperata tutta io la settimana scorsa.
— Era molta?
— Cento quintali.
— Oh, la prego: mi ceda un po' dei suoi quintali.
— Li ho consumati tutti.
— In una settimana?
— Sì. Faccio delle esperienze, come Bernardo di Palissy. E come lui in un giorno famoso di cui si narra la storia nelle letture anglicane, così è avvenuto a me l'altro ieri: ho finito di bruciare i cento quintali, nonchè la scrivania, le poltrone, l'impiantito, i battenti degli usci, i ritratti di famiglia, il cavallo a dondolo di mio figlio e il pianoforte a coda di mia moglie.
Allora l'Interlocutore mi domandò con aria ambiguamente satura di velenose intenzioni:
— Lei non è di Milano, signore?
[109]
— Mi aspettavo — lo rimproverai — un'altra domanda.
— Quale?
— Lei doveva domandarmi se, dopo tanto sacrificio di combustibili varii, la mia esperienza è riuscita, come a Palissy quando inventò lo smalto per le ceramiche.
— Le dicevo che non è di Milano, perchè altrimenti saprebbe, caro il mio signore, che con i Milanesi non si scherza: e sia contento che ne ha trovato uno di pasta buona.
Ciò detto, con una smorfia di disprezzo mi abbandonò. S'avviò a passi obliqui fino a raggiungere le rotaie del tranvai, guatandone uno che arrivava di corsa al fondo della via. Come il tranvai fu giunto a tiro, l'uomo si precipitò a testa bassa come un toro contro il suo fianco, agguantò energicamente la sbarra d'ottone, piantò un piede sul predellino, si tirò su descrivendo con tutto il corpo un mezzo giro spirale: e mentre il tranvai continuava fulmineo, di là ebbe ancora la forza di farmi un gesto sconcio con l'avambraccio, finchè la sua figura oscena si smarrì nelle lontananze vorticose e scomparve.
[110]
Mi sono quasi convinto che prima di addentrarmi nella questione dei prezzi è meglio che faccia la gita a Caprino Bergamasco.
Stasera da Graziano mi farò dare i particolari necessari. Per ora, in piedi davanti a un bancone dell'Agenzia di viaggi, mettendo insieme le varie informazioni avute or ora agli sportelli, e con l'aiuto di un orario delle ferrovie e di una carta della Lombardia, sono riuscito a stabilire che per andare a Caprino Bergamasco, rimanervi qualche ora, e tornare, mi occorrono tre giorni. Peccato che Graziano i suoi vagoni non li abbia a Napoli! Ci metterei lo stesso tempo e mi divertirei di più.
Ma intanto mi son quasi convinto che prima di fare la gita a Caprino è meglio esaurire la questione dei prezzi.
Ora è tardi. A domani. E stasera anderò a cercare Graziano per studiar bene il problema.
[111]
Nella luce elettrica l'altare s'è irrigidito. Ha assunto un aspetto ostile. I bei colori iridescenti del mattino si son fatti venefici.
Graziano mi guarda con aria stupita. Perchè io gli ho annunziato:
— Posso andarci domani a Caprino Bergamasco.
Il suo volto continua a mostrarsi immemore, ond'io credo opportuno ripetere:
— Ci vado domani, che è sabato, e lunedì sera sono di ritorno. Nota che per domenica avevo un invito a pranzo e domani c'è un concerto importante al Conservatorio e ci tenevo a sentirlo, ma gli affari innanzi tutto: ho scritto per disimpegnarmi dall'invito, e ho regalato il biglietto per il concerto, che avevo già comperato.
— E, scusa, cosa ci vai a fare a Caprino Bergamasco?
— Ma per il tuo affare: i sei vagoni di legna.
— Arrivi tardi: li ho già venduti.
— Ah!...
— Sai chi m'ha fatto l'affare? Il Cosi, quello di stamattina, ricordi?
— Quello con la sottoveste abbottonata a contrattempo?
[112]
— Sarà. Ti ricordi che è andato a telefonare? Era per quello. È tornato, l'hai visto, e l'affare era fatto. Ma questa è robetta, non ti ci confondere. Aspetta qualche cosa di più grosso.
— Hai ragione.
Aveva ragione. Nel silenzio che seguì, pensai ai vampiri: al Phillostoma spectrum dei naturalisti, e al suo fabuloso consanguineo delle leggende schiavone e moreane. Avevo letto in un giornale una violenta campagna contro i mediatori, il cui intervento nefasto è una delle principali cagioni del disagio postguerresco; ed eran paragonati ai vampiri. Il vampiro sorge notturnamente dai sepolcri e va sul mondo a succhiare il sangue degli addormentati. Con questa immagine in capo, come darmi a cosiffatti affari? No. No. Salvo, come consiglia Graziano, che siano grandi. Bisogna riuscire al grande, o nel bene o nel male. Comperare e rivendere, in un colpo, non sei vagoni di legna, ma, che so io? tutta la produzione d'un popolo, oppure tutto un esercito: appaltare una guerra, o una rivoluzione; comperare e rivendere un impero, una religione.... Oscurare così, con una impresa enorme, alla soglia dell'èra nuova, tutto questo minuto e caduco vampirismo da caffè. Essere il semidio del Vampirismo. Il Vampirismo si sarebbe fatto eroico, e poi sarebbe morto, con me.
Anche Apollo, racconta Heine, decapitato dai cristiani del terzo secolo trasformossi in vampiro.
Graziano è quasi addormentato. Ma le lampade della sala cominciano qua e là a spegnersi e riaccendersi, [113] ch'è il segnale postbellico della chiusura. Di là dai cristalli le saracinesche tempestano. Qualcuno degli avventori nicchia e imbroncia come i bambini all'ora d'andare a letto. Ma i camerieri devastano e denudano i tavolini, le luci ricominciano più nervosamente il loro giuoco, poi la sala rimane nella penombra: tutti questi segni riescono a farci sentire che là dentro non siamo più graditi; bisogna andarsene. Si esce, curvandoci sotto la saracinesca abbassata a mezzo.
Accompagno per un tratto Graziano. Traversata piazza del Duomo, c'introduciamo in certe vie oscure.
Ed ecco, in una di queste vie, entro il ritaglio d'un portone chiuso vediamo muovere alcune larve, e da quelle staccarsi una forma e far cenno di rivolgersi a noi, che subito ci fermiamo.
Erano una donna anziana e tre donne giovani. Quella che s'era mossa era l'anziana; e ora parlava, e disse:
— Li prego, signori, d'una carità. Noi stiamo a porta Romana, ma poco fa abbiamo fatto un brutto incontro e ora le mie ragazze hanno paura. Se loro vanno da quella parte, se volessero accompagnarci....
Noi non andavamo precisamente da quella parte, ma Graziano disse:
— Avanti pure!
Anzi si mise senz'altro familiarmente in mezzo a due delle giovani prendendole sotto il braccio una per parte, e così s'avviarono. Io non osai tanta familiarità con l'anziana e con la giovane superstite. Graziano dunque con le due angiole apriva la marcia, quasi in [114] linea con essi un poco in disparte andava la terza, e io e l'anziana chiudevamo il corteo.
Tanto per dir qualche cosa io domandai:
— Loro stanno a Porta Romana?
— No.... cioè sì.... da quella parte, insomma.
— E queste signorine sono le sue figlie?
— È come se lo fossero. Ma quando si nasce disgraziati, caro signore.... Pensi che fino a ieri stavamo tanto bene, eravamo in via Visconti, dove abbiamo sempre lavorato onestamente senza far male a nessuno: ma la disgrazia ci ha fatto conoscere un delegato della polizia, che dio lo stramaledica, che veniva una volta la settimana, il mercoledì, per la Flora; e un bel giorno avendo bisogno d'un alloggio, come succede, s'è messo a perseguitarci, e con la scusa che non avevamo la patente in regola (e io neppure lo sapevo, ma mi fidavo di lui) mi ha fatto sfrattare dal padrone di casa, da un giorno all'altro. Io le ho detto una piccola bugia, non è vero che stiamo a Porta Romana, stiamo sul lastrico, io e queste povere figlie: e per mettere in regola la patente, se no eran guai, ho dovuto far la dichiarazione che i mobili erano della casa, e non era vero. Ora siamo in perfetta regola, ma senza un buco da dormire e da ricevere, senza un lenzuolo, nè una catinella da lavarsi la faccia e il resto: e denari ce ne ho, alla banca, ma non s'è trovato una stanza girando tutto il giorno, tanto più volendo stare unite se no quelle figliole mi si perdono. Oh, signore, e pensare che io non sono mai stata d'accordo con quelli che [115] volevano la guerra, e non mi meritavo davvero di trovarmi in questi stati.
Ella piangeva e io non sapevo come consolarla. Le due angiole ai fianchi di Graziano ogni tanto uscivano in una risata scordata: la superstite camminava sonnambolicamente, giù dal marciapiede, mormorando una nenia in un idioma somigliante al francese. Lungo il nostro cammino s'alternavano luci e tenebre sregolatamente. Ogni tanto vedevo scivolare lungo i muri un pallido lèmure.
Ora la matrona, asciugata una lagrima fumante, riprese:
— Lei, forse, signore, potrebbe aiutarmi.
— Come?!
— Sì, loro che son uomini di mondo, e girano, gente che sa gli affari... se trovasse un posto adatto per collocarci tutte insieme al più presto possibile.... non avrebbe poi da trovarsene scontento. O magari collocarmi provvisoriamente in qualche buona casa le tre ragazze, intanto che io mi sistemo: lei mi capisce, piange il cuore a lasciare lì tutto quel capitale morto.... Ci pensi, signore: s'intende, col suo interesse.
Graziano aveva sentito, perchè si voltò, e tutto giocondo mi gridò:
— Pensaci: ecco un affare.
Eravamo arrivati alla sua casa. Egli svincolò le sue braccia da quelle delle ragazze, e introducendo la chiave nella toppa del portone annunziò:
— Intanto queste due qui per questa notte penso [116] io a dargli da dormire. Lei, madama, passi a prenderle domattina alle sette.
— Benissimo, e buona notte. E lei, signore, da che parte va?
Queste parole erano rivolte a me che tacevo. Io ebbi la prontezza di rispondere:
— Bisogna che la lasci, signora, perchè mi viene in mente che ho un appuntamento importante.
— E al mio affare, quello che lo ho detto, ci penserà?
— Non è il mio genere, signora. Io ho dovuto specializzarmi.
[117]
[119]
Andando io verso la Galleria, per uno de' miei appuntamenti operosi, l'ingresso n'era sbarrato da una fila di sorridenti soldati.
Di là da essa fila vedevo gente gesticolare, e gridavano moderatamente. Qualcuno, dopo aver gridato, usciva dalla Galleria e veniva a mescolarsi con la folla di piazza della Scala, ov'io ero.
Anche qui c'era gente che gridava, ma più forte; e molti, così vociferando, guardavano verso quel palazzo che nel maturo Rinascimento l'operoso genovese Tomaso Marino si fè costruire per propria dimora; ma nel tempo di cui parlo era, ed è oggi ancora, sede della municipalità di Milano.
V'erano anche taluni che invece di gridare e guardare le finestre del palazzo, tentavano d'entrare nella Galleria: se non che quei sorridenti soldati, i quali ne lasciavano uscire chiunque, non vi lasciavano per contro entrare persona. Era matematico che con un tale sistema [120] la Galleria, in un lasso imprecisato di tempo, avrebbe finito con l'essere sgombra.
Ma l'occupare o lo sgombrare Galleria Vittorio Emanuele non erano le tesi principali su cui stavan divisi gli animi in quel pomeriggio, che fu nel febbraio del primo anno del dopoguerra. Trattavasi d'una questione di bandiere.
C'era in quel tempo (e c'è oggi ancora; ma poichè un giorno, come ogni cosa mortale, non sarà più, mi piace lasciarne in queste storie il curioso ricordo) c'era dunque quella specie di parte politica, acceso avanzo dei recenti spiriti di guerra, denominata «fascismo», e trovavasi in reciso contrasto di atteggiamenti con il rivoluzionarismo comunista. Ora, appunto quel giorno era avvenuto che i fascisti avessero bruciato una bandiera rossa, e similmente i rivoluzionari avessero bruciato una bandiera tricolore. Tuttavia nè gli uni nè gli altri erano paghi dell'equilibrio così stabilito. Di qui il tumulto. Perchè in quell'epoca storica, e poi per qualche tempo ancora, tali gare pittoresche furono il segno più visibile del travaglio politico dell'epoca: il quale era in realtà, ed è, assai più profondo e fecondo, come il sèguito degli avvenimenti dimostrerà a quanti avranno la fortuna di sopravvivere per qualche anno.
I cittadini d'Italia — cioè coloro che non avevano una fede assoluta in alcuna delle tesi politiche in contrasto — erano mossi da un solo spassionato desiderio: il desiderio che una qualunque delle due bandiere — oppure una terza, o una quarta, o una ennesima — riuscisse a bruciare tutte le altre e imporsi amabilmente [121] sul paese, che appariva abbandonato a se stesso e alla malfida signoria del dio Caso. Ma nessuna bandiera osava assumersi un così onorevole còmpito.
Non ignoro che se queste pagine saranno lette da qualche curioso tra molti anni, forse egli trarrà da alcune delle mie parole ragioni d'incertezza e di dubbio. Ho nominato il tricolore fascista. Ma a quel tempo non c'era — si domanderà quel postero dubitoso — non c'era appunto un tricolore ufficiale, da cui moveva il reggimento della cosa pubblica? il «fascismo» era dunque al potere?
No. Nessuno dei lettori odierni può confondere il tricolore ufficiale con quello politico di cui ho parlato, e ch'era stato bruciato dai rossi; nè i rossi avevano compiuto un siffatto olocausto come manifestazione ostile al Governo. In quel tempo, del tricolore ufficiale governativo non sopravviveva che l'asta: e si badi bene di non intendere questa governante asta come simbolo di inflessibile rigidità.
Dalla parte di San Fedele — crescendo il vocìo e moltiplicandosi qua e là per la piazza episodi personali e violenti — cominciarono a scaturire gruppi di militi, [122] meno sorridenti di quelli che chiudevano il passo alla Galleria: e a ognuno di quegli arrivi nascevano d'improvviso sussultori impeti entro la folla, nei quali sussulti qualche fianco s'ammaccava e qualche gola tramutava il grido di parte in imprecazione di dolore. Allora alcune donne e giovinette, che qua e là s'erano spinte avanti, rinculavano verso il fondo della piazza strillando come ninfe sorprese dai satiri o galline investite da una bicicletta: poi, appena riagguagliatosi il movimento, tornavano a ficcarsi innanzi con pertinacia degna d'un sesso più costante e di moventi più efficaci. Ma d'un tratto con duro ansimar di motore sgorgò sulla piazza un'autopompa; un getto d'acqua salì altissimo a brillare al sole invernale e ricadde con fredda eleganza sui gruppi centrali della folla animosa.
C'è chi sostiene che nelle pubbliche dimostrazioni una pompa lanciatrice di pura acqua di fonte faccia più paura d'una mitragliatrice. Non so che cosa sarebbe avvenuto all'apparire d'una mitragliatrice: al primo lampeggiare dell'acqua fui travolto improvvisamente da una fuga ruinosa. Mi sentii come trainato e sommerso in una corrente, sbattuto contro un muro, sollevato a mezz'aria e alfine precipitato in un vano. Solo allora potei sciogliermi, sollevare il capo, guardarmi attorno. Eravamo, otto o dieci, nell'atrio d'una casa, e due de' miei accidentali compagni stavano precipitosamente serrando e sprangando il portone.
Come fummo separati dal rimanente universo, tendemmo l'orecchio.
Fuori il fragore dei marosi politici si andava qua e là [123] punteggiando di spari secchi; ogni tanto gli spari cessavano, poi riprendevano; ogni tanto dall'urlo scaturivano strilli.
Uno dei due che avevan chiuso, com'ebbe contemplato irosamente l'effetto della savia operazione ruggì:
— Mascalzoni!
Non appurai se l'apostrofe fosse diretta all'una, oppure all'altra, delle fazioni dimostranti, o ai pompieri, o a tutta insieme l'umanità tumultuante nelle piazze e nelle vie a preparare l'età nuova: non approfondii questo punto, perchè in quell'istante mi occupò un altro problema. Il mio primo movimento — appena il mio corpo si trovò sciolto dall'amalgama umano e rifatto individuo — il mio primo affettuoso movimento era stato di correr con le mani alla tasca a cercarvi il pacchetto delle sigarette.
Ma esso era tutto miserevolmente schiacciato.
Di sigarette non n'era rimasta intera e fruibile neppur una.
Esclamai:
— Questo sì mi dispiace.
Il duro sbarrator di portoni mi gettò un'occhiata sprezzante.
Ma un terzo, che doveva aver assistito con simpatia al mio dramma, si fece avanti con un sorriso e un portasigarette aperto e ricolmo, e mi porse l'uno e l'altro invitandomi:
— La prego, si serva.
Intanto il rumore delle strade pareva allontanarsi. Io m'ero seduto sul primo gradino d'una scala che [124] metteva in quell'atrio. Gli spari cessarono del tutto. Qualcuno dei più curiosi propose di aprire il portone, ma l'arrabbiato non volle. L'uomo tranquillo che mi aveva offerto una sigaretta, venne a sedere, anch'egli fumando, accanto a me sul gradino, e mi disse con grande serenità:
— Da otto giorni non piove, per questo fa tanto freddo.
Questa superiorità ci affratellò, improvvisamente ci distinse e separò dal gruppo dei curiosi e degli affannati. Assaporammo l'inattesa fratellanza fumando per un poco in silenzio.
Fu riaperto il portone. Uscimmo tutti. Il tumulto era finito. La piazza era un lago.
— Lei da che parte è diretto? — mi domandò il mio compagno.
— Avevo un appuntamento d'affari, ma ormai è tardi. Anderò a pranzo in qualche trattoria.
— Perchè non viene alla mia pensione?
— Dove?
— Si fidi di me: si troverà bene.
Un invincibile spirito di avventura ha sempre spinto la mia vita ad accogliere di buona voglia ogni invito dell'imprevisto. Accettai; e docilmente seguii colui che m'avea soccorso in un momento difficile della vita.
Camminando a fianco a fianco con lui, m'aspettavo ch'egli mi si presentasse; e perdurando il silenzio, mi domandavo che cosa lo tratteneva ancora dal compiere quel dovere elementare. Più in là mi risposi che forse [125] egli aspettava mi presentassi io. Poco profondo in tale materia, deplorai di non possedere qualche principio generale di cui poter compiere dialetticamente l'applicazione al caso presente.
Mentre in questi pensieri tacito combattevo entro me, eravamo giunti, ch'io non m'ero reso conto del cammino percorso, alla mèta a me ignota.
— Eccoci.
Salimmo una scala stretta e chiara quali usano nelle modernissime case delle città operose, cioè con le pareti a mattonelle bianche lisce e lucidissime, da parer perpetuamente bagnate, e danno tutte un'invincibile impressione di waterclosets ben tenuti. Al secondo piano entrammo in un lindo appartamento; nell'anticamera c'era una specie di palmizio. La mia guida s'affacciò a un uscio avvertendo: — C'è un signore che rimane a pranzo, è con me — poi mi scortò a un salottino con un piccolo divano messo d'angolo in un canto e dietro il divano un alto specchio molato sormontato da una minacciosa aquila di legno. Entrò una signora assai giovane, ma piuttosto grassa, e la mia guida proclamò:
— La signora Irene, la nostra padrona.
Stimai opportuno, inchinandomi, di mormorare approssimativamente il mio cognome.
— Lei è di Milano?
— Sono qui da un mese.
La signora Irene si volse all'introduttore:
— Questo signore rimarrà dei nostri?
[126]
— Lo spero — rispose l'altro, — mi pare che ci abbia una eccellente disposizione.
Io trasecolai.
Trasecolai, e credo che con la persona mi ritraessi in un improvviso moto di diffidenza: quasi temevo oscuramente d'essere giunto a chi sa quale turpe agguato. La mia guida disse:
— Con permesso.
E se n'andò verso le stanze interne di quella dimora misteriosa. Ciò aumentò il mio turbamento, anche perchè le donne grassocce non mi piacciono. Ma quasi subito dall'anticamera entrò un uomo grave, e la signora me lo presentò:
— Questo è Giulio, mio marito.
E subito aggiunse:
— Il mio secondo marito.
Dopo il consueto convenevole anche il nuovo venuto scomparve dalla parte ond'era uscito l'altro. Io e la vedova rimaritata rimanemmo soli. Mi risolsi a sedermi. E nell'anticamera sentii sorgere una voce bassa che canterellava un'aria della Nina di Paisiello, e si avvicinava: la quale cantilena s'interruppe nel momento [127] in cui balzò di lì nel salottino un nuovo personaggio, piccolo, panciuto, vivace, che quasi in ritmo di danza si chinò davanti alla signora, le baciò la mano, e le domandò:
— Come state, donna Irene?
Donna Irene me lo presentò:
— Il signor Pietro.
E subito aggiunse:
— Il mio primo marito.
Sentii il mio volto impallidire, i capelli drizzarmisi tragicamente sul capo. Un vento gelido mi soffiò sulla fronte.
Ma il signor Pietro non era uno spettro, perchè gli spettri, quando se ne vanno, scompaiono silenziosamente dalla vista dei mortali; invece il primo marito della vedova rimaritata chiese cerimoniosamente licenza d'andare a lavarsi le mani (cosa che gli spettri non fanno), mi salutò porgendomi la destra di quelle (ed era calda e carnosa) e uscendo riprese a mezza voce la canzoncina interrotta nell'anticamera.
Tutti questi sintomi di vita normale valsero a temperare alquanto il gelido terrore che mi aveva sconvolto. Ripresi un sufficiente dominio di me medesimo. Ma sentii che questa volta il silenzio tra me e donna Irene sarebbe stato insostenibile. Era necessario ch'io squarciassi i veli che si addensavano intorno a me. M'imposi di avviare una conversazione. E le domandai:
— Dov'è stata in campagna l'estate scorsa, signora?
[128]
Ella aggrottò un momento le ciglia come per ricordarsi, poi d'un tratto sospirò:
— Ah non mi parli dell'estate scorsa.
Mi sentii smontato. Ma con uno sforzo mi ripresi, e ritornai per un altro varco all'assalto.
— Dove andrà in campagna l'estate prossima, signora?
La interrogata questa volta sorrise; tuttavia mi raccomandò:
— Non mi parli della villeggiatura dell'estate prossima.
— Scusi — mi ribellai, — ma di che villeggiatura le debbo parlare?
— Dunque lei — replicò con grande ragionevolezza donna Irene — lei ha proprio la necessità di parlare di villeggiatura?
Questa osservazione mi colpì in pieno, mi rivelò che fino a quell'istante, senza ch'io me ne avvedessi, i miei spiriti erano rimasti in una condizione di turbamento profondo, e avevo parlato come ebro.
— Ha ragione, signora — gridai. — E io non vorrei ch'ella credesse ch'io ho l'idea fissa della villeggiatura. No. Non ne parlo mai. Non ci penso mai. Non ci vado neppure, per ragioni profonde che ho spiegate in un mio racconto intitolato «Florestano e le chiavi», che mi permetto di raccomandarle perchè non scrivo più e mi son dato agli affari. Così, com'ella vede, con un brevissimo intreccio di parole la ho messa al corrente di me, della mia indole, del mio passato e del mio presente. L'avvenire è sulle ginocchia di Zeus. [129] Le dirò una cosa ancora: la occupazione principale cui la sorte ha votato la mia vita, nelle ore d'ozio, è quella di ascoltare. Lei non può immaginare quanto io ascolti. Tutti, di giorno e di notte, d'estate e d'inverno, e anche nelle stagioni intermedie, mi narrano, e io ascolto. Mi narrano la loro vita le loro speranze i loro affanni le loro crisi le loro perversioni spirituali sessuali cerebrali, e io ascolto ascolto tutto, tutti, tutte: idioti e sapienti, infanti e decrepiti, uomini donne invertiti, cortigiane fanciulle semifanciulle, mogli, avole, vedove semplici, vedove rimaritate. Se lei, signora, appartiene a una di queste categorie, mi parli di sè, e io la ascolterò. Se appartiene a una categoria diversa, ch'io abbia dimenticata o mi sia ancora ignota, racconti racconti, e io avrò una sottospecie di più da aggiungere alle varietà delle persone che mi hanno raccontato i fatti loro. Intanto, se permette, fumo una sigaretta.
Così dicendo mi ricordai che n'ero sprovvisto. Prima però che rivelassi alla donna questa difficoltà all'attuazione del mio proposito, ella me ne aveva porta una scatola colma. Ma frattanto l'incidente, richiamando improvviso al mio pensiero la scena di mezz'ora prima, sotto il portone, dopo i tumulti politici di piazza della Scala, mi fece sentire d'un tratto ch'io non sapevo dove fossi, neppure in qual via o quartiere della città, nè per che scopo gli dèi mi avessero posto di fronte a donna Irene. Mi sentii fuori del tempo e del mondo.
La signora sorrise. Sorrise come sorridono tutte le donne piccole e grassocce, cioè non con gli occhi e la [130] bocca soli, ma con gli zigomi, con le guance e con tutto il seno. Poi disse:
— Fino a sei mesi fa ho vissuto in provincia, e non conta. Sei mesi fa sono venuta a stare a Milano con mio marito, il mio primo marito....
Questa parola produsse automaticamente sul mio volto un'aria contrita e commossa quale si usa quando una vedova parla del marito defunto. Ma subito ricordai che il marito defunto mi aveva stretto la mano pochi minuti prima e se n'era andato cantando la Nina di Paisiello. Allora m'affrettai a tornare sorridente e attento. Fu lo specchio, sotto l'artiglio dell'aquila scolpita, a rilevarmi queste successive espressioni del mio volto. La signora non s'era avvista della mia momentanea distrazione.
— Ci siamo portati, naturalmente, il nostro bambino che ha due anni. Ma a Milano a grande stento abbiamo trovato una camera, una sola, piccola e brutta, ci vivevamo in tre, stretti, malissimo, come può immaginare. E fu inutile ogni nostra più affannosa ricerca di un quartierino. Mio marito aveva un amico, Giulio, che era scapolo e solo e aveva un appartamento grande, questo qui. Allora, com'era giusto, ho divorziato da Pietro e ho sposato Giulio.
— Divorziato!
— Divorzio privato, si capisce: quando verrà il divorzio legale, se intanto la crisi degli alloggi non sarà risolta, faremo anche quello. E amichevole. Qui c'erano stanze in soprannumero: abbiamo aperto una [131] piccola pensione: uno dei primi pensionanti sa chi fu? Pietro.
— Il defunto?
— Come sarebbe a dire?
— Niente. Ciò che lei mi ha narrato, signora, è estremamente attuale e patetico.
— Tutto questo ci ha dato delle idee: una magnifica idea: è a quest'idea, suppongo, che debbo la sua presenza qui.
— La mia presenza?...
Ma mentre aspettavo l'agognata spiegazione, entrò la cameriera ad annunciare che il pranzo era servito. La signora s'avviò, la seguii; mentre giungevamo in sala da pranzo, da usci varî contemporaneamente vi sgorgavano tutti i commensali, cioè, oltre la mia guida e i due mariti di donna Irene, tre altre persone, tra le quali una donna.
C'era una tavola rettangolare attorno a cui sedemmo tutti, cioè: nel mezzo d'uno dei lati lunghi la signora Irene, con a destra un prete e a sinistra il signor Pietro, che continuava a canterellare nei brevi intervalli [132] tra un boccone e l'altro o tra una parola e l'altra. Io in faccia alla signora, alla mia destra una donna o fanciulla piuttosto piacevole, alla mia sinistra un signore importante con barba assira e redingote. Ai due lati più corti sedevano da una parte il presente marito di Irene, dall'altra il mio introduttore, che poco di poi sentii chiamarsi Gionata.
Da principio mangiammo in silenzio. Io cercavo di occuparmi della mia sorridente e serpeggiante vicina. Le prime parole che udii chiare tra quei croscìi di mascelle, uscirono dalla bocca del più silenzioso tra tutti, cioè Giulio, cioè l'attuale marito, persona grave; e fu una parola gastronomica, la quale ebbe per argomento il grado di cottura del pollo che stavamo mangiando. Fin qui nulla di strano: ma dopo quella osservazione culinaria io ne aspettavo un'altra, di natura economica. Tornato ormai da un mese dal fronte, non era passato giorno che a tavola, o fossi in casa mia o in casa d'altri o alla trattoria, a ogni cibo, animale o vegetale, semplice o complicato, crudo o cotto, io non avessi sentito parlare del rincaro del genere. E da quel giorno a oggi che scrivo son passati altri quindici mesi, che è a dire circa cinquecento giorni, cioè quasi mille pasti: il che importa che, dal mio ritorno, più di mille volte ho sentito discorrere del rincaro degli alimenti, e similmente, in tutte le altre contingenze quotidiane, del rincaro di tutte l'altre cose necessarie o superflue; e sono rassegnato ormai a sentirmi esporre per tutta la vita fino alla più tarda età (perchè tutti i chiromanti sono concordi a [133] concedermi una lunghissima esistenza) il confronto tra i prezzi nuovi e quelli anteriori al 1914.
In quel tempo, poichè il supplizio durava da soli trenta giorni, non mi ero ancora adattato: perciò con piacevole maraviglia udii le parole di Giulio, e le poche di alcuni commensali che gli risposero, contenersi nella cerchia gastronomica, cioè nella pura estetica. Maggiori maraviglie mi preparava quella conversazione conviviale. Un uscio, passandone la cameriera che ci serviva, cigolò. Il signor Pietro da uomo pratico osservò che occorreva unger d'olio l'arpione. La signora Irene da donna romantica, quali sono tutte le donne un po' grasse, disse morbidamente:
— Pare che si lamenti d'un abbandono.
Allora colui che m'aveva offerto una sigaretta all'uscire dal naufragio, colui che m'aveva introdotto in quel ritiro arcano, colui che si chiamava Gionata come l'inventore di Gulliver e il figlio di Saul, parlò, e disse:
— La sua osservazione, donna Irene, mi richiama a uno dei problemi che da qualche tempo più mi torturano. Ed è questo: se un uscio avesse senso e sentimento, e perciò fantasia e desiderio, preferirebbe esser chiuso o essere aperto?
Io lo guardai con estasi. Gli altri non parvero maravigliarsi del tormento spirituale di Gionata.
— Ho dato — continuò — una soluzione provvisoria al problema. È necessario stabilire se la natura, cioè il fine, dell'uscio, è di separare o di congiungere. Seguitemi. L'uscio in quanto è un vano lasciato in una parete, ha [134] lo scopo manifesto di far comunicare una stanza con l'altra. Ma l'uscio in quanto battente ha l'ufficio contrario, cioè quello di poter interrompere temporaneamente detta comunicazione ricostituendo l'interrotta unità della parete. Quando l'uscio è chiuso il vano è inutile: quando l'uscio è aperto il battente è inutile.
Assaporò un sorso di luminoso Chianti. Il signor Pietro canticchiava la cavatina del Don Pasquale, le cui note furono subito novamente dominate dalla parlante voce di Gionata:
— Ma l'uscio è una unità metafisicamente inscindibile di vano e battente: l'uscio dunque, immaginandolo sensibile, l'uscio nella sua totalità personale dovrebb'essere tormentato da un perpetuo e insuperabile dissidio interiore.
Seguì un silenzio, perchè nessuno ebbe parola da opporre alla dialettica di Gionata, che si dimostrava esperto nelle più fini e feconde pratiche del filosofare.
Dopo un istante di silenzio, e avendo ingoiato una sanguigna targa di barbabietola, egli ci offrì un corollario immaginoso:
— Quando cigola dolorosamente, che cosa cigola dell'uscio? L'arpione, o ganghero che dir si voglia. Cioè, precisamente il punto per cui le due nature si congegnano, per cui il battente si connette col vano.
La mia natura d'uomo pratico — non si dimentichi che in quel tempo io m'ero tutto dedito agli affari-mi fe' cercare un'applicazione politica alla loica disinteressata di Gionata. Esordii:
— La sua acuminosa osservazione, signor Gionata, [135] può trovare un riscontro curioso nel presente stato sociale.
A queste mie parole vidi dipingersi sul volto di tutti i commensali un'aspettazione vigile. Tutti s'interruppero nell'operazione che stavano compiendo: e in tal modo, chi col bicchiere in mano a mezz'aria, chi con la forchetta infilata in un boccone, chi col tovagliolo alla bocca, impietriti ciascuno nell'atto suo, mi guardarono. Sulle labbra d'Irene vagolò un sorriso materno.
— Poichè noi viviamo oggi in un'epoca di faticosa transizione....
A questo punto del mio secondo esordio, due o tre colpi di tosse, manifestamente artificiale, si fecero udire da punti diversi della tavola. Io incauto continuavo:
— .... e poichè il tenebroso travaglio in cui ci ha gettati la guerra, sia per la sua necessità, sia per gli errori di certe sue conclusioni....
Un urlo m'interruppe, ma urlo giocondo:
— Paghi!
E due altri lo echeggiarono:
— Paghi!! Deve pagare!!!
Io guardai intontito verso Irene. Ella abbozzò una languida difesa:
— Il signore, certo, non sa....
— L'ignoranza della legge non è ammessa — tonò Pietro.
— Forse — disse Gionata — la colpa è mia, che non la ho avvertita. Lei deve sapere che qui è proibito, sotto pena del pagamento di bottiglie due, di parlare, [136] in bene o in male, seriamente o facetamente, a lungo o con una sola allusione, delle condizioni della vita presente.
— Divinamente — gridai —: la legge mi piace a maraviglia, e mi permetto di non accettare la difesa di donna Irene, anzi la prego di disporre per la immediata esecuzione della pena.
Donna Irene fe' cenno alla cameriera e comparvero due vetuste bottiglie di vino rosato. L'assiro che sedeva alla mia sinistra osservò:
— Ciò non diminuisce la colpa di Gionata: secondo me, deve pagare anche lui.
I commensali acclamarono, e mentre già il vino roseo della mia multa circolava, la cameriera sollecita aveva messo in fresco due bottiglie di champagne per conto di Gionata.
— Non creda — disse questi a me — che la detta legge sia isolata e per sè stante. Non è se non la conseguenza d'una norma più ampia, che è la ragione stessa della nostra riunione. Qui — e si fece solenne — qui non può trovarsi e frequentare se non una sola categoria ristrettissima di persone: cioè, le rare persone che sono soddisfatte, per qualche ragione, dell'attuale stato di cose.
— Mi pare — obiettai — che non siano rare. I fornitori e arricchiti d'ogni genere, i mercanti di mode, i politicanti socialisti e popolari, i lavoratori del....
— No, no — m'interruppe Gionata —: non mi ha lasciato finire. Parlo dei soddisfatti, non degli oberati da materiali vantaggi. Soddisfatti: satis-factus: senso di [137] moderazione. Coloro che hanno ricevuto grossi vantaggi dai volgimenti storici odierni, sono necessariamente in una condizione di sovraccarico, e di precarietà, e di stupefazione, e di angoscia: è un successo affannoso: e, in più, perdura in loro un bisogno d'inquieta operosità, contraria quanto mai allo spirito di questo cenacolo, o isola di beati, od oasi di filosofi, o abbazia telemitica che ella voglia chiamarla. Il principio n'è un soddisfatto acconciamento per piccole cause, per aver còlto, dallo squilibrio universale, modesti e calmi motivi di equilibrio personale. L'esempio luminoso, eccolo: donna Irene. Altri da difficoltà simili alle sue fu abbattuto e sommerso: ella ne ha saputo genialmente ricavare una ragione serena di vita. E da questa è nato il pensiero del nostro cenobio. Onore a donna Irene, e al suo primo, e al suo secondo marito.
Tutti clamorosamente brindarono alla trifida coppia: e chi brindò col rosso e chi col biondo: i due colori scintillanti dominavano la mensa, e cominciarono a scintillare mescolandosi anche nei nostri pensieri e nelle nostre parole.
Dopo essermi coscienziosamente unito al brindisi, dissi:
— A rischio di cadere una seconda volta in contravvenzione, confesso che, poichè furono saggiamente esclusi i pescicani d'ogni sorta, non vedo tuttavia quali altri casi di soddisfazione potrebbero trovarsi, del genere moderato e quotidiano che il signor Gionata ha definito.
— Ho già detto che son rari, qualche volta sottili. Ecco il nostro reverendo amico — e accennava al [138] prete. — Egli ha sempre bevuto il caffè senza zucchero: un tempo questo fatto non aveva per lui una speciale portata, nè gli creava una situazione personale nella società. Ma da quando tutti i bevitori di caffè bestemmiano due o più volte al giorno contro la saccarina, egli gode del senso d'una particolare situazione di superiorità in cui la sua abitudine lo pone oggi, e però ne ricava un gaudio raffinato e continuamente rinnovato del trovarsi a vivere nel periodo storico della saccarina; il quale gaudio gli ha conferito il pieno diritto di aver parte a questa mensa.
Il prete stava appunto allora bevendo il caffè. Lo sorbiva nel piattino come dicono facesse Guglielmo ex-imperatore: ma forse è una delle calunnie antitedesche che la guerra rese necessarie. E così, col volto acceso chino a sorbire la bevanda, alzava gli occhi verso me, il naso leggermente arricciato, asserendomi mutamente la sua beatitudine che certo era complessa e superava il piacere puramente sensuale. Intanto erano stati serviti con abbondanza liquori di varia natura ed origine.
Allora il mio vicino di sinistra, asciugandosi col tovagliolo la barba assira, parlò:
— Di fronte all'esemplare candore della soddisfazione di questo reverendo io quasi mi domando se posso senza rimorso rimanere tra voi. La mia è così complessa, che io ho talvolta il dubbio di dover essere noverato tra uno dei grandi avvantaggiati, così giustamente esclusi da quest'oasi. Io sono uno storico, cioè un artista. E come tale io amo la materia del mio studio per se stessa. [139] Sono un medievalista. E adoro il Medio Evo. Per molti anni ho rimpianto di non essere nato ai tempi di Romolo Augustolo o di Abelardo, di non aver frequentato la reggia di Carlomagno, come Eginardo storico che innamorò di sè Emma, figlia dell'Imperatore. Odio il telefono, il motore a scoppio, i versi liberi, la Camera del Lavoro, il microscopio, il frack e il Parlamento. Ora, da qualche anno io mi sento lentamente ma sicuramente condurre, e oso dire sollevare, verso il medio evo de' miei studi e de' miei sogni. Anzitutto, per più di quattro anni, dal benedetto agosto del '14 al novembre del '18, già mi beavo sentendo il mondo pieno di fazioni guerresche, soverchiamenti di razze, invasioni. La mia anima ha esultato la prima notte che ho veduto la città immersa nell'ombra. Quando scioperano i tranvieri godo di andarmene per le vie a guardare le inutili rotaie, e spero che tutto il procedere del tempo nuovo le risommerga entro il suolo donde mai avrebbero dovuto scaturire alla luce. Amo sapere che ogni notte nelle vie della città si aggredisce a mano armata il passante e si devasta con sicurtà il magazzino come ai tempi di Eriberto d'Intimiano. E se penso che questi non sono che piccoli segni, quando prevedo che presto avremo lo spettacolo, prima di una dittatura industriale, poi di una rivoluzione, con alterne vicende e fasi, e così saremo (almeno per qualche tempo, certo per tutto il tempo della mia vita) ricondotti a un pieno medioevo da una alternativa di oligarchie diverse ma tutte avide ugualmente di lotta....
— Paga! Paghi!! Pagare!!!
[140]
Non ricordo di qual colore fosse il nuovo vino comparso a questa intimazione piacevole.
Voltomi alla ridente e profumata donna o fanciulla che sedeva al mio fianco, io le domandai:
— Lei, se non sono indiscreto, per quale titolo porta a questa riunione la fortuna della sua presenza?
La donna o fanciulla rise più giocondamente, e mi guardò di sotto in su con l'aria di un'oca cui agitino dionisiaci fantasmi, aria, come ognuno sa, estremamente turbativa, che subito mi fece dimenticare la mia stessa domanda. Ma già vi rispondeva, per la fanciulla, Gionata l'Imperterrito, così:
— In qualunque tempo viva una donna, quello è il tempo migliore per lei. La signorina è qui come rappresentante eletta di questa verità generale.
Non ricordo se il filosofo continuasse nella sua dissertazione, e forse neppure allora me ne avvidi, perchè, lo confesso, il mio cervello non si trovava in condizione di seguire un discorso diffuso o una serie di concetti.
Ricordo solo, assai lucidamente, che a un certo punto e quasi d'improvviso m'avvidi che l'abbondanza dell'elemento liquido che dall'esterno avevo introdotto nel mio interno, mi fe' sentire una imperiosa brama di ristabilire l'equilibrio tra me e il macrocosmo mediante un corrispondente espellimento di elemento liquido dal mio interno verso il mondo esteriore.
[141]
Ma una vergogna, che è altrettanto assurda quanto generale e pertinace negli uomini civili, e forse è appunto l'indice più esatto e il portato più certo della civiltà, — quella vergogna m'impediva di manifestare il mio desiderio a qualcuno de' miei ospiti. Ricordo quell'istante della mia vita come un turbine di fumi, profumi, luce, voci squillanti, e al centro di quel turbine il mio desiderio, che facevasi a ogni minuto più inquietante, pungiglioso e spasmodico.
Non ricordo come e a chi pagassi il doveroso contributo per la mia cena e per la contravvenzione, non ricordo se promettessi di tornare, e con quali parole mi accomiatassi, e chi m'abbia accompagnato all'uscita: questo so, che a un certo punto mi trovai uscito, mi trovai nella strada, ch'era solitaria e quasi buia, e corsa nel mezzo da un solido marciapiede di pietra; e su quel marciapiede, nella solitudine muta del mondo e sotto il gelido cielo, sostai, sostai lungamente, levando lo sguardo al firmamento. Orione splendeva sul mio capo in tutto il suo fulgore, mentre io sostavo fermo così nel mezzo della ospite via: e a mano a mano, mentre ne contavo le stelle, fluiva ogni irrequietudine fuori di [142] me e sentivo il mio spirito e i miei nervi rapidamente e lungamente placarsi.
Quando fui conscio d'aver raggiunto il desiderato equilibrio, mi parve anche d'esser più saldo sulle gambe e quasi snebbiato il cervello. Ritornai lo sguardo dalle sfere celesti al solido suolo. E tra la penombra distinsi con paterno orgoglio, in mezzo alla via, una specie di arcadico rio che spumeggiando la correva in giù e si perdeva lontano nell'ombra. Non potei frenare a quella vista un impeto d'irragionevole riso. E altrettanto irragionevolmente il giuoco della fantasia mi portò a seguire l'andar di quel rio, e così percorsi per un tratto la via senza che la mia direzione avesse altro movente più savio. A un certo punto ogni traccia della mia creazione recente svaniva e perdevasi nel suolo, ma l'inerzia mi portò avanti ancora. Cominciai, così camminando come alla ventura, a ripensare il curioso impiego della mia serata, dai tumulti pomeridiani di piazza della Scala fino a quell'ora. Ebbi qualche rimorso della giornata inoperosa, poi scusai me stesso pensando ch'era stato un legittimo riposo alla operosa vita dei giorni precedenti. D'uno in altro pensiero vagavo, senza afferrarne alcuno con chiarità; e credo che in quel procedere piegai ogni tanto d'una in altra strada. Ed ecco mi trovai in una piccola piazza, e fermato nel centro di quella, così guardandomi attorno, stavo per riconoscerla; quando a un tratto una voce, che parve uscire dal muro buio, mi gelò. Il muro avea detto:
— Signore!
[143]
Detti un passo indietro e ficcai gli occhi verso la plaga del muro in oscurità. Allora vidi un'ombra staccarsene, e con voce umile implorarmi:
— Signore, avrebbe un fiammifero?
Le parole erano alquanto rassicuranti; il mio spirito si calmò dunque, e osservai l'uomo. Vidi con gran maraviglia ch'egli era in frack e senza pastrano, e a capo nudo, onde sulle prime pensai ch'egli fosse un Ginnosofista piovuto ivi dall'India di Alessandro il Macedone.
Tuttavia non osai esporgli questa mia ipotesi. Me gli avvicinai e gli porsi il fiammifero; stavo per andarmene, quand'egli con una leggera esitazione aggiunse:
— Per caso, avrebbe anche la sigaretta?
Me n'avevano rifornito nell'isola beata retta dalla placida Irene. Gli porsi la sigaretta. Allora l'incognito, come dopo un intimo sforzo, con voce risoluta incalzò:
— E avrebbe anche cinque lire?
Io detti novamente un balzo indietro, perchè lì per lì mi balenò il sospetto che l'ignoto stesse per assalirmi. Egli capì il mio timore e sùbito cercò di tranquillarmi:
— No, no, non tema, signore; per chi m'ha preso?
[144]
Poi la sua voce si paludò d'una certa nobiltà, proclamando:
— Io sono un mendicante.
Seguì un breve silenzio. Cercavo una frase cortese per farmi perdonare il mio movimento ingiurioso. Volli mostrargli che m'interessavo alla sua sorte e alla confidenza che m'aveva fatto. Poichè in questa ricerca generosa indugiavo, l'ignoto ripetè:
— Faccio il mendicante.
Io, avendo finalmente trovato, gli domandai:
— Da quanto tempo?
— Da poche ore — rispose.
— Io l'avevo preso per un ginnosofista.
— Non conosco. Fino ad alcuni mesi sono io vivevo modestamente e tranquillamente del mio lavoro. La disgrazia mi raggiunse vestendo l'aspetto di fortuna. Abitavo un piccolo quartiere quasi centrale, e il mio guadagno mi bastava per la mia vita mediocre. Una ditta di lubrificanti mi offerse ventimila lire per cederle il mio quartiere. La somma mi parve enorme: accettai. Ma non trovai altra casa, non trovai una stanza modesta: soltanto una camera, salotto e bagno in un albergo di prim'ordine. Speravo fosse per pochi giorni, invece non trovai più altro, mai. Le mie ventimila lire sfumarono o per meglio dire passarono dalla parte dell'albergatore. Frattanto avevo consumato tutti i miei vestiti, senza potermene fare altri. Non mi è rimasto, come vede, che il frack. Non ho più potuto comperare un cappello, l'ultimo m'ha abbandonato ieri. Il frutto del mio lavoro, che bastava alla mia vita modesta quando [145] avevo un alloggio, ora basta soltanto a pagare la mia camera con salotto e bagno. Per mangiare non mi rimane che la mendicità. Ecco perchè ella, signore, mi trova in frack e a capo nudo a mendicare su questa piazza. Sia maledetto ora e sempre ogni lubrificante.
Gli detti silenziosamente le cinque lire. Egli mi ringraziò con effusione e disse ancora:
— Se al fiammifero, alla sigaretta e alle cinque lire, ella, signore, volesse aggiungere qualche indicazione o consiglio sul da farsi nella mia critica condizione!...
— Non saprei, signor ginnosofista. Ma l'uomo è fatto di anima e di corpo. Cerchi di porre il corpo sotto il dominio dell'anima: è il solo refugio e rimedio possibile in questi tempi assurdi e calamitosi.
— Non intendo bene.
— Neanch'io. Io sono un uomo dedito agli affari. Ma un filosofo potrebbe insegnarle il modo di convincersi che la sua situazione presente è la più fortunata. Provi a rivolgersi al signor Gionata, presso la signora Irene.
— Mi vuol dire l'indirizzo?
Colpito in pieno dalla domanda, m'accorsi d'un tratto che nè all'andare nè al ritorno, per ragioni diverse, avevo badato alla strada fatta. Volli tentare di ricostruirne il corso. Mi guardai attorno.
— Vediamo — gli dissi —: sa lei da qual parte io sia sboccato in questa piazza?
— No, signore. Io ero quasi assopito, e l'ho visto che lei era già fermo, in quel punto, guardandosi attorno proprio come fa ora.
[146]
Dopo un istante d'intenso e inutile raccoglimento:
— Ma allora — gridai esterrefatto — allora neppur io potrò tornare più all'isola dei beati, all'abbazia telemitica, al cenacolo platonico della placida Irene!
Il ginnosofista scosse il capo; poi cercò di consolarmi:
— Non ci pensi, signore. E se per caso ha un cappello che non porta più, me lo mandi, la prego. Eccole il mio nome.
Trasse un lapis e un pezzo di carta, e mi scrisse il suo nome, che qui non occorre ripetere, e il suo recapito, ch'era quello del più illustre e fastoso albergo della città.
— Buona notte.
[147]
[149]
Il giorno 9 febbraio del 1919, alle ore 10 e 45 del mattino, mi venne il mal di capo.
Postomi a ricercare le possibili cause di questo fatto straordinario, non tardai a persuadermi ch'esso era certamente da attribuirsi all'intenso lavoro compiuto nelle precedenti settimane, da un mese a quel punto. Precisamente un mese innanzi, il 9 di gennaio, io ero tornato dall'esercizio del corpo a quello dell'anima, dalla quadrupedante e arcadica vita militare al cerebroso turbine della metropoli.
Mi spaurii accorgendomi della brevità del tempo in cui tante e così intense esperienze avean potuto cumularsi. Un mese dunque, un solo mese innanzi, trentun giorni precisi, ero dato in secco nell'aperta campagna della Città Operosa, la avevo corsa come in una rapida ricognizione, mi s'eran rivelate le correnti e le cascate dell'oro sovrastarla e sommoverla, avevo intuito il nuovo costume e la nuova religione sorti d'un tratto [150] sul suolo intenso dall'influsso della guerra lontana. Un esatto mese innanzi, all'ordine imperioso delle nuove necessità, io, per molti anni dedicato allo studio e poi per breve parentesi alla milizia, m'ero d'improvviso riplasmato uomo d'affari. Nel nuovo esercizio i miei assaggi profondi s'erano successi e cumulati con rapidità maravigliosamente varia, com'è narrato nei sei capitoli che qui precedono. Chi li abbia letti, e pensi che tanta opera, e per me insolita e non prima prevista (se anche nei portati non fecondissima) si compiè nel rapido giro di trentun giorni solari — non dovrà maravigliarsi al sentire che il mattino del trentaduesimo io mi sentii d'un tratto affaticato ed esausto.
Se tuttavia il lettore del presente capitolo non ha letto i sei che precedono, non importa: per l'intelligenza di questo basta ch'egli sappia che la mattina del 9 di febbraio, alle ore 10 e 45, mi venne il mal di capo.
Stabilii di concedermi qualche giorno di riposo: e senz'altro indugio, la mattina appresso partii. Andai in campagna, cosa assai piacevole a farsi nelle stagioni in cui solitamente gli uomini se ne astengono. In poche [151] ore raggiunsi il paese che avevo scelto, sulla riva d'un lago lombardo.
Ma il caso m'impigliò quivi in una complicata e mirabile avventura la quale mise in serio pericolo il mio amore e la mia fede nella vita moderna, e con essi minacciò tutto il nuovo orientamento che la presenza del dopoguerra aveva offerto al mio spirito.
Nella piccola pensione in cui mi allogai erano due ospiti: un giovane e una giovane. Mi si presentarono come fratello e sorella. Il che appariva in ogni modo al primo sguardo per la loro singolare somiglianza, accresciuta dal fatto che il giovane, quasi un adolescente, era di lineamenti assai delicati. Il solo carattere chiaramente diverso tra i loro visi era nell'espressione dello sguardo. La sorella avea dolci gli occhi e velati di malinconia anche quando sorrideva, o, più raramente, rideva. Invece il giovane portava in fondo alle pupille perennemente accesa una mobile luce maniaca.
Quella prima mattina scambiammo pochi discorsi incolori. La sera all'ora del pranzo trovai sola la fanciulla alla tavola comune. Mi disse:
— Bruno è andato a Milano, e tornerà domattina.
Ella si chiamava Laura.
Quando un uomo e una donna si trovano in presenza, comincia la tortuosa lotta dei sessi.
Il nostro colloquio ritegnoso e coperto si prolungò qualche tempo dopo la fine del pranzo. Ella era garbata, e a gradi si fe' quasi lieta. Da ultimo avvenne a me di nominare suo fratello. La serenità di Laura rabbrividì d'un tratto come al calar d'una nube. Dopo [152] un breve silenzio, levandosi e porgendomi la mano, ella con profonda convinzione sospirò:
— Mio fratello è un uomo di genio.
Con scarso senso d'opportunità le risposi:
— Io sono un uomo d'affari.
M'accorsi subito d'aver detto ciò meccanicamente, come mi accadeva spesso in quel tempo, anche fuor di proposito. La stonatura m'irritò. Rimasto solo me n'andai a passeggiare con un senso di corruccio.
Il mattino appresso Bruno era tornato. La fiamma di mania gli luceva sempre in fondo agli occhi, ma come esagitata da una gioiosa inquietudine.
L'aria in quella stagione era gelida e arida, e il lago la notte gemeva come fa il mare.
Il quarto giorno della mia dimora nella campagna lacustre, alle prime ore del pomeriggio Bruno m'invitò quasi misteriosamente a uscire con lui, mi guidò a una casetta isolata e per una scala oscura mi fe' salire: m'introdusse in una stanza ov'erano due grandi tavole da lavoro coperte di carte disegnate e strumenti d'aspetto scientifico, che mi riuscirono al tutto nuovi e incomprensibili.
[153]
Bruno mi disse:
— Ho fiducia e confidenza in lei.
— Grazie — gli risposi —. Tutti gli uomini e le donne che ho conosciuto hanno avuto fiducia e confidenza in me. Forse per questo non sono ancora riuscito a nulla di solido nella guerreggiante conquista della vita.
Egli non mostrò di apprezzare la mia divagazione egoistica.
Aperse l'usciolo d'una specie di complicato e pesante stipo metallico ch'era in mezzo a una delle grandi tavole. Da un cavo dell'interno di quello trasse una specie di cuffia telefonica e me la porse. Dalla cuffia si partiva un filo che andava a collegarsi con le misteriose interiorità dello stipo.
— Se la metta — mi comandò. — E mi dica che cosa sente.
M'aiutò ad aggiustarmela col nastro d'acciaio adattato lungo la curva del cranio e i due dischi ricevitori strettamente applicati agli orecchi.
Da principio non sentii nulla. Poi m'accorsi che quel silenzio stesso era terribilmente singolare. Allora sentii ch'io sentivo uno spaventoso silenzio.
[154]
Tesi invano tutte le mie facoltà per cogliere in quel vuoto una qualche menoma vibrazione: ma il silenzio era totale, snaturato e mostruoso.
Avevo i miei occhi fissi in quelli di Bruno, che mi guardava e osava sorridere: ma quel sorriso, solo nel mondo enorme che attorno a me s'era avvelenato e congelato di silenzio, mi sconvolgeva vie più. Pure non osavo muovermi. Poi con grande stento mi risolsi a parlare: ma le poche parole che pronunciai non so quali furono, chè d'un più vasto terrore mi gelò accorgermi ch'io non sentivo il suono della mia voce, onde come ossesso m'interruppi. E sempre fissando io la faccia di Bruno, quella si mise a ridere, e la vedevo imbestiarsi nelle smorfie del riso le quali in quel moto senza suono mi apparivano sardonici contorcimenti. Ma così sussultando ei continuava a guardarmi. Allora con uno sforzo enorme della volontà m'alzai in piedi e mi strappai lo strumento dal capo.
Improvviso, cessando il contatto del metallo, sentii il riso di Bruno: tra le cento voci dell'aria rifluì nella stanza il senso tepido della vita.
— Ha sentito? — domandò.
Una calda felicità m'invase udendo le sue parole, sentendo che sentivo la mia voce rispondergli:
— Sì.
— Questo strumento è tirannico — spiegava Bruno — non permette che si senta altro suono se non quelli che lo interessano.
— Come sarebbe a dire?
— Ecco.
[155]
Svolse dal cavo del diabolico stipo un secondo filo, che anch'esso per un capo vi rimaneva infisso, e dall'altro terminava in una spina a due punte brevi e sottili acuminate come spilli. Così tenendo in mano la spina m'incorò:
— Si rimetta la cuffia.
Ecco fui ripiombato nell'ultramondano silenzio. Di là vidi Bruno scostarsi qualche passo guardandosi intorno; poi risolutamente andò verso lo stipite dell'uscio, ch'era di larice bianco, lo tentò un poco con una mano, infine vi conficcò e sforzò dentro le due punte della spina.
Quasi subito il silenzio sovraceleste che m'avvolgeva parve corrersi di fremiti leggieri che venissero da remotissime altitudini, pungenti brividi sonori, che d'ogni attorno si scivolavano incontro e così scontrandosi uno sull'altro s'intrecciavano: qua e là tratto tratto rompevansi in tenui scoppi; dappertutto s'avvolgevano di ronzii. A certi istanti quelle note acute e sommesse parevano arrotolarsi come in congegnamenti meccanici: poi novamente allentate abbandonandosi impallidivano, sfuggivano a esaurirsi vacillanti sugli orli di abissi lontani.
Assorto nella visione maravigliosa, teso nell'ansia che mi sfuggisse, i miei occhi non avevano più scorto l'uomo; d'un tratto lo vidi avvicinato chinarsi sopra me, e mi tolse delicatamente l'apparecchio di sul capo: poi andò a sconficcare la spina dal legno.
— Ha sentito?
— Sì.
[156]
— Che cosa?
Indugiai. Avrei voluto dirgli che avevo sentito preludiare le pitagoriche armonie d'un qualche sistema sidereo non ancora formato; o forse un pallido dialogo tra il piano astrale e il piano buddico dei teosofi. Ma mi feci pudore di esporre simili ipotesi ultrapoetiche. E risposi:
— Suppongo, il rumore di un tarlo nel legno?
Bruno ricominciò a ridere scotendosi come pazzo.
— Se in quel legno ci fosse un tarlo, con questo microfono lei udrebbe un fragore assordante come di macchinari o d'immense cascate. Anzi il suo errore mi fa pensare ora che una delle applicazioni pratiche dello strumento potrebbe essere appunto di far riconoscere la presenza dei tarli nei legni preziosi. Ma ciò non m'interessa: di simili sfruttamenti, se vorrà, se n'occuperà lei, che è uomo d'affari.
— Ma allora quei suoni?...
— Sono gli infinitesimi e inesauribili movimenti atomici della materia organica.
Lo guardai stupefatto.
— Lei può immaginare da questo la potenza del mio microfono moltiplicatore a isolatore acustico.
— È una sua invenzione?
— Dica che non è che la minima parte, che un particolare isolato, della mia invenzione. C'è assai più, e presto vedrà. Ma prima occorre che lei ne conosca un altro elemento, il più sorprendente: lo specchio allocatoptotrico.
[157]
Dopo un'attesa, accennò con una sorta di mistero verso una piccola porta a muro ch'era in fondo alla stanza.
In quella s'udì la voce di Laura dalla strada chiamare:
— Bruno!...
Senza rispondere alla chiamata, nè altro dirmi, Bruno ripose rapidamente ogni cosa e scendemmo. Laura col cappello e il bavero impellicciato che le saliva a mezzo il volto appariva più donna, avea acquistato un che di maturo e turbante. I suoi occhi erano più neri e più fondi.
— Bruno — disse — è l'ora della passeggiata. Venga anche lei.
Così dicendo mi guardò. Mi sentii impallidire. Quando i palpiti del mio cuore tornaron calmi, risposi:
— No.
— Allora, a più tardi.
Fino a sera pensai a Laura. Ma di tratto in tratto la sua figura e il suo volto scomparivano istantaneamente alla mia memoria: in quelle lacune sentivo in [158] me e intorno a me un flutto di vacuo e gelante silenzio: vi riconobbi l'immagine di quello che m'avea avvolto e quasi fatto demente durante la prima esperienza nel gabinetto del fratello di lei.
— Costoro mi farebbero impazzire — mi dissi alla fine. — Bei riposi ho trovato nella solitudine della campagna! Strana sorte la mia: io sono sempre stato, sono, e sempre sarò, irrimediabilmente savio; e insieme la sorte ha messo occultamente tra le mie mani non so che potentissima calamita di pazzi.
E quando, poche ore dopo, c'incontrammo alla tavola comune, subito annunziai recisamente:
— Tra due giorni torno a Milano. La mia vacanza finisce.
— Tra due giorni? — domandò Bruno — cioè?...
— Cioè sabato: dopodomani; con la corsa del mattino.
Egli echeggiò:
— Sabato, con la corsa del mattino.
E aggiunse:
— Benissimo.
Rinunciai a capire il suo pensiero. Dopo un poco soggiunse:
— Io invece parto domani mattina.
Ebbi la tentazione di rispondergli anch'io: «Benissimo», ma me ne trattenni. Fui per accennare alle cose mirifiche che m'aveva mostrate, a quelle più mirifiche che m'aveva promesse. Ma un oscuro istinto maligno m'impose silenzio anche su questo argomento. Mi pareva che un'aura d'odio aleggiasse fra le nostre [159] tre sostanze. Poi i silenzi obliqui che strisciavano tra noi cominciarono a travagliarmi. Cercai qualche argomento di discorso che ci portasse giù, in un'aria più respirabile e solita: avrei voluto poter pronunciare qualche volgarità. Dovetti fare uno sforzo per ricordarmi quali fossero i discorsi più consueti che si tengono nel mondo, il mondo degli uomini comuni, gli uomini sani. Finalmente dissi così:
— Speriamo che sabato non ci siano scioperi.
Bruno mi guardò come se avessi immaginato una inverosimile ipotesi di turbamenti cosmici.
— Vero è — continuavo imperterrito — che oggi è necessario imparare a vivere giorno per giorno, ma nello stesso tempo a contare sopra un domani imperturbato e sicuro. Dicono che siamo in un fiero momento di trapasso. Credo tuttavia che qualunque tempo, visto da vicino, dovè parere agli uomini pensosi un fiero momento di trapasso.
Poichè entrambi tacevano, continuai:
— Forse lei vuole ricordarmi il nostro anteguerra...
— Noi viviamo — m'interruppe Laura — come fuori del mondo, da molti anni. Come in un'isola ignota.
— L'isola di Irene! — esclamai, colpito improvvisamente dal singolare ricordo. Non avevo mai più pensato ad Irene.
— Dov'è — domandò Laura con gentilezza-l'isola di Irene?
— Lontano.
— C'è stato?
[160]
— Sì.
— Quando?
— In un tempo irricordabile. Mi lasci pensare. Ci fui.... mio Dio! pare fantastico, eppure è: c'ero sei giorni sono. È credibile?
Parlavo, così dicendo, più a me stesso che a quei due dissensati. Ma non eran persone da maravigliarsi per sì poco. Laura consentì:
— Non è incredibile. I luoghi più lontani sono quelli da cui si ritorna più rapidamente. Ma non si ritrovano mai più.
Così, brevissimamente, ella aveva risollevato il discorso nelle regioni della pura pazzìa. Non feci altri sforzi per riportarlo alla saggezza. Pensavo tra me se non avrei potuto precipitare ancor più la mia partenza. Laura mi appariva, ogni volta ch'io la riguardavo, più bella.
Alla fine del pranzo Bruno s'accomiatò:
— Debbo fare qualche ultimo preparativo. Arivederla dunque a Milano.
Non contradissi, e scomparve.
Laura s'era messa in una poltrona a un lato d'un vecchio camino acceso. Non ebbi la forza di andarmene. Sedetti nell'altra poltrona, all'altro lato del camino.
Laura sorrise e mi disse:
— Non è una buona ragione per essere tanto crucciato con noi.
— Signorina — la implorai — mi dica qualche cosa di lei, mi dica che è nata in un luogo, in un giorno, così, come nascono tutte le donne.
[161]
Sorrise ancora:
— Non abbia paura: sono nata in un luogo di questo mondo e in un giorno del calendario; e sono nata proprio come tutte le donne, e anche tutti gli uomini. Vuole di più? ho un po' freddo, sebbene siamo accanto al fuoco. Ho freddo, capisce? credo che questo possa rassicurarla completamente sul conto mio. E le propongo di fare ora la passeggiata che non ha voluto fare oggi.
Perciò poco dopo camminavo al suo fianco lungo la riva del lago al chiarore delle stelle. Ella teneva gli occhi a terra, chè la strada era irregolare e sassosa. Ogni tanto la sua pelliccia sfiorava il mio braccio. L'aria rigida, e qualcosa d'inumano che accompagnandosi a noi ci vigilava, impedì le parole. Poi ella si fermò e senza levare lo sguardo mi disse:
— Torniamo.
Ma, tornando, appoggiò la mano nel mio braccio, e così ve la tenne, fino che fummo giunti alla nostra dimora, ove mi salutò, quasi senza parole.
Il giorno dopo la cameriera mi portò i saluti della signorina, avvertendomi ch'ella era indisposta e non si sarebbe mossa di camera. Quella giornata fu la più vacua, stizzosa e lunga di tutta la mia vita.
[162]
La mattina seguente, pronto per andarmene, mandai la stessa cameriera a recarle i miei saluti. Mi riportò un biglietto di lei. V'era scritto:
A rivederci per una volta ancora.
Laura.
E partii.
Il viaggio mattutino — prima lungo la riva del lago che il freddo colorava d'acciaio, poi traverso brughiere e boscaglie di brina e di ghiaccioli — mi rischiarò. Quando scesi alla stazione di Milano mi sentivo assai lontano dal luogo, dalle persone e dai giorni trascorsi: li lasciavo dietro me quali un passato, che sentivo ben chiuso, consacrato come in una irritrovabile lontananza. Soltanto un senso di lassitudine, che parevami esserne rimasto in fondo a me, dominava oscuramente il mio spirito: ma me ne riscossi, e m'immersi con una specie di piacere fisico nella piccola folla che s'accalcava all'uscita. Fuori, mentre guardavo intorno cercando una carrozza, mi sentii chiamare da una voce che mi gelò di sorpresa e d'irragionevole spavento. Mi voltai.
— Lei è stato puntuale — gridò Bruno venendomi incontro festosamente. — Bravo. Venga con me.
Allora la forza ignota che domina spesso la mia vita e i miei atti — e solo dopo la morte, concludendo le somme, potrò risolvere se mi fu amorevole o maligna — mi spinse a non oppormi al suo desiderio. Bruno aveva un'automobile. Poich'era mattino avanzato, disse:
— Andiamo a far colazione.
[163]
Mi condusse in una trattoria assai nota, rumorosa. Non riconoscevo l'uomo. Era vivace e socievole. Spesso rideva. Io gli dissi:
— Rieccoci in piena vita moderna. Non pensavo che lei amasse tutte le cose che qui ora ci vediamo intorno.
— Non le amo — rispose — Mi servono. Io vivo, per mio conto, nel secolo ventesimo, come fossi un uomo di dieci secoli prima o di dieci secoli più tardi. Il mio spirito e la mia consuetudine sono perfettamente soli. Qualche volta penso che questi uomini e queste donne non mi vedano neppure, tanto mi sento fatto d'una diversa sostanza. Ma me ne valgo. Questa ansia verso la velocità — soppressione del tempo e della lontananza — che è il carattere primo dell'epoca, è il materiale bruto della mia creazione. Perciò costoro mi servono, e senza intenzione forse io creando li servo.
— Così! — esclamai. — Sento in queste sue parole uno spirito fraterno. Lei ha definito esattamente, mi perdoni se parlo un momento di me, quello ch'io vorrei essere, se fossi un'artista: sol che la mia creazione sarebbe fantastica, mentre la sua è pratica. Anch'io vorrei operare su questa materia, come se l'amassi, senza amarla, e creando giovarle senza intenzione ne' suoi piaceri o ne' suoi ozi: ma la mia sostanza sentirsene estranea e lontana, più là o più qua, sola.
— Perciò lei è degno d'essere il primo che sperimenterà la mia invenzione. Poco m'importerebbe che fosse anche l'ultimo.
[164]
— Dove andiamo?
— Non lontano.
Arrivammo a una via solitaria, in una piccola casa. E Bruno m'introdusse in una stanza quasi nuda, mi fe' sedere, e parlò in questo modo:
— Lei vede quella porta a muro. È simile a quella che lei ha visto in fondo al mio studio laggiù.
A questa parola «laggiù» sentii il mio cuore accelerare stranamente i suoi palpiti.
— È il gabinetto pantelestetico. Tutto l'ambiente ne è acusticamente isolato, senza che occorra la cuffia. Di lì senz'altro lei sentirà telefonicamente le parole del gabinetto lontano ch'è in comunicazione con questo. E fin qui non abbiamo che un perfezionamento della telefonia. Ma una delle pareti del gabinetto è uno specchio, uno specchio allocatoptotrico, in cui si vede, distintamente, il luogo e la persona con cui si parla: la si vede parlare e muoversi, vivere. Data l'audizione e la visione, perfettissime entrambe, ogni distanza tra gli uomini è con ciò pienamente abolita.
Una irrequietudine pungente sommergeva a tratti e intorbidava in me l'interesse per l'esperienza prodigiosa. Bruno mi disse ancora:
— L'avverto che sarà in comunicazione soltanto quando sarà seduto sulla poltrona.
Così dicendo eravamo presso la tragica porta. Bruno aperse, mi spinse dentro, e rapidamente, dietro le mie spalle, richiuse.
[165]
Piombato nel silenzio, volsi gli occhi attorno per la cabina, che senz'aperture nè lampade era chiara d'una luce diurna. Riabbassando lentamente lo sguardo dal soffitto alla parete in faccia a me, d'un tratto agghiacciai. Quella parete era quasi tutta di specchio, lucidissimo specchio, e in esso vedevo riprodursi esattamente le forme del luogo ov'io ero — tre brevi pareti e nel mezzo una piccola poltrona — ma nello specchio non c'era nessuno, non c'ero io.
Dalle radici alle cime mi squassò un brivido che parve squarciarmi; credo che detti un urlo e che mi rivoltai per fuggire, ma seppi dominarmi, e stringendomi con le mani le tempie chiusi gli occhi. Allora nella sùbita oscurità anche l'immane silenzio mi parve confortevole, o forse m'era di sicurezza sentire quelle stesse mie mani tenagliarmi duramente la fronte. Così mi placai, riebbi la conoscenza del luogo e delle cause. Tuttavia tenevo ancor serrati gli occhi: a tentoni girai intorno alla poltrona e mi vi posi.
Sùbito il silenzio si tacque, s'animò di lontani susurri diffusi, voce d'un'atmosfera che nuova m'avvolgeva. Così ebbi cuore di riaprire gli occhi. E vidi che lo specchio davanti a me s'era annebbiato come di veli grigi [166] che tutto lo fluttuavano, e già diradavan dai lati verso il centro; fin che il campo si sgomberò, e là in faccia a me era seduta una forma umana, era la forma di Laura. L'immagine di Laura moveva il capo con dolcezza, levava una mano verso me con un cenno. Anche le sue labbra vidi agitarsi, e udii la voce che diceva:
— Sono io, sì, sono Laura.
Io fissavo quell'immagine negli occhi, ma non mi riusciva d'incontrarne lo sguardo, che ancora vagava come disperso in un diverso etere. Allora anch'io parlai, e dissi all'immagine:
— Perchè non mi guarda?
La figura di Laura rispose:
— Ancora non mi riesce. Tenga fermo il suo sguardo, la prego.
Io mi tesi con uno sforzo d'immobilità di tutto il mio essere. Vedevo lo sguardo di lei in un contorcimento divincolarsi dalle lontananze che lo trattenevano, fin che d'un tratto scattò sulla linea del mio: e ci trovammo così, gli occhi fissi negli occhi, penetrandoci paurosamente fin nel profondo delle anime, perduti di passione.
— Parla — mi implorò.
E poichè sgomento io tacevo:
— Ti avevo avvertito — mi disse come in un soffio — che ci saremmo riveduti una volta ancora.
Il suo volto pallido s'invermigliò, ma gli occhi non si chinarono, neri e fondi come li avevo visti un vespero in riva al lago gemente.
[167]
— S'io ti vedessi di là da un fiume — le dissi — penserei di passarlo per venirti a parlare. Ma come posso parlarti così?
— Vedi come ti sono vicina.
Mi parve che alzasse una mano verso me.
— Laura — gridai, e irresistibilmente levatomi mi lanciai verso le sue braccia. Ma d'improvviso a quel moto il campo dello specchio come in un baleno si vuotò, e davanti a me non era più nulla: con le mani urtai contro il vetro solido.
Ansando mi precipitai novamente a sedere. Lo specchio si scombuiò tutto di nuvole, come poco innanzi; poi le nuvole vaporando vidi tornata la figura di Laura, e il suo sguardo era ancora diritto nel mio. Laura ora stava protesa verso me, e tremando pregava:
— Non mi abbandonare.
Muti allora, per un tempo che parve immenso, ci guardammo così dolorosamente, abisso contro abisso; poi mormoravamo parole senza forma; e le nostre forme e le nostre voci eran vicine, sì che a un punto le anime crederono toccarsi; ma poichè le mani non potevano raggiungersi e sentirsi stringere vive, d'un tratto anche le nostre sostanze s'intesero disperatamente lontane: sentii lei più infinitamente remota da me che se l'avessi pensata senza vederne gli atti nè udirne la voce; e come nello spasimo di quell'assurdo ella a un momento apparve tutta spingersi a me col volto pallido e la bocca implorante, m'invase un così disperato e rabbioso furore che quasi cieco e pazzo mi [168] levai, sradicata la poltrona dal suolo la scagliai contro il cristallo infernale che si sfranse col fragore di cento scoppi, mi sbattei ululando contro le pareti e l'uscio della cabina, ne fuggii non so come, distrussi non so che, precipitai invasato senza più pensiero o memoria non so dove: appena ricordo che per giorni e notti errai tremando le vie più paurose della città, come una bestia inseguita in caccia, sconquassato, pavido d'ogni ombra e d'ogni luce, scontroso a ogni forma apparente e mobile della vita; e solo dopo assai tempo riuscii per la stanchezza a sedermi placato, a ritrovare la mia casa e la consuetudine del mio pensiero e della mia vita: ma ivi chiuso per più giorni ancora me ne stetti senza voler vedere persona, macerato in un odio torvo contro ogni intelligenza dell'uomo, in un sincero spasimo di desiderio verso l'indifferente inerzia delle cose insensitive e dei bruti.
[169]
[171]
Ero appena disceso dal letto — s'era dunque, come è facile immaginare, di mattina — quando strilla il campanello del telefono. Reggendomi non so che con la sinistra, mi precipito di là e afferro con la destra il ricevitore. — Pronto! — Una voce qualunque (maschile) m'investe senz'altro, tutto d'un fiato, con le seguenti parole: — La prego, si trovi tra un'ora al Bar del Commercio, che devo farle una comunicazione importante. — Stavo per chiedere maggiori spiegazioni, ma un improvviso fragore d'olio friggente scaturì dalle profonde viscere dell'ordigno e per qualche minuto m'impedì di sentire o far sentire una sola parola. Poi d'improvviso le lontananze ignote trasmisero lungo il mistero dei fili sino al mio orecchio il più profondo glaciale universale silenzio. Provai a sonare chiamare urlare fischiare guaire, — ma ai miei sforzi più inumanamente rumorosi non rispondeva se non quel silenzio, così totale e impassibile che a un certo punto lo sentii [172] sacro, e preso d'improvviso da un reverenziale timore di profanarlo riappoggiai piano piano il ricevitore al suo posto, sostai un istante trattenendo il respiro, poi in punta di piedi me ne tornai nella mia camera. Finii di vestirmi, e uscii di casa.
Andandomene a piedi (non ricordo il perchè: forse v'era sciopero di tranvieri e altri trasportatori della persona umana) verso il bar del Commercio, che era, ed è tuttora, al lato meridionale di piazza del Duomo — andandomene dunque a piedi verso l'arcano dell'anonimo convegno, mi avvenne un fatto alquanto singolare, cioè, ch'io non mi sentivo abbastanza incuriosito di quell'arcano, nè della persona, non ancora identificata, che m'aspettava laggiù.
La causa di questa mia condizione non va cercata in un superiore disprezzo delle cose pratiche e mondane, ma in un fatto assolutamente morboso. Io m'ero svegliato quella mattina con una frase in capo, venutavi chi sa donde, ed era questa:
— La standardizzazione del ferro....
[173]
Certo i miei occhi dovevano aver letto quelle parole il giorno avanti scorrendo in distrazione la rubrica industriale di qualche giornale. Ma l'Antico Avversario s'era divertito a coglierle e metterle in serbo, per poi ficcarmele nel cervello durante la notte, quando le scolte dell'intelletto non vigilano alle porte.
— Che cosa, che cosa è mai la standardizzazione del ferro?
Così angosciosamente domandandomi camminavo. Non so se più m'irritava l'ignorare il senso di quella locuzione, o la sua forma fonica, fastidiosa d'imbarbarita civiltà. Invano cercavo una distrazione nelle cento immagini che le strade operose offrono ai più preoccupati passanti. A ogni insegna di ferro e a ogni rotaia di tranvai, mi avveniva di domandarmi:
— Chi sa, mio Dio, se quel ferro è standardizzato!
Passavano creature fascinose, ma non valeva la loro vista a consolarmi. E credo che se la più bella di esse m'avesse rapito e tratto a sè e offertami la bocca, io su quella avrei languidamente mormorato una sola parola:
— Standardizzarti....
E il mio stomaco era ancora digiuno.
In queste condizioni pietose giunsi alla mèta.
[174]
Uno scrupoloso esame mi convinse che in nessuna parte del bar si trovavano ancora persone di mia conoscenza. E nessuno, vedendomi passare e guardare, mi fe' cenno di riconoscermi nè mi abbordò con i caratteristici fonemi che si usano verso gli arrivanti a un convegno.
Sedetti dunque, e poichè quella mattina non v'era latte e i biscotti erano finiti, accettai con rassegnazione il consiglio, che un imperioso cameriere mi rivolgeva, di ordinare un ponce. Cominciai desolatamente a contemplare la macchina lucidissima che dall'alto del bancone di marmo continuava, con grandi fremiti e sbuffi, a esprimere robustamente dalle metalliche viscere negre spume di caffè, e ogni tanto, a un mezzo girar di manubrio, si convolveva di nuvole come Zeus pronto a discendere sul mondo.
Non c'era molta gente. M'incuriosirono, in piedi presso l'estremo del bancone, tre o quattro giovanotti fatti tutti alla stessa maniera come fossero stati colati in serie da uno stampo: cioè tutti erano alti e stretti; portavano il cappello duro e piccolo, spinto assai indietro sull'occipite: cappotti grigi a scacchi, aderentissimi [175] sotto la schiena con una larga martingala, abbasso assai corti e in alto compiuti da folti baveri di pelo nero. Anche quei giovanotti bevevano il ponce, e vidi che tutti avevano all'anulare destro un grosso anello.
Uno di quelli, volendo chiamare il cameriere, venne a battere sul piano del mio tavolino col duro castone di quell'anello: di sotto alla gemma osservai che sfuggivano due o tre setole nere. Il mio tavolino tremò alquanto e un poco del liquido si versò nel sottocoppa, ma nella sua semplicità e padronanza colui non vi fe' caso.
Quanto a me, proprio in quel momento m'avvidi che, distratto dalla contemplazione del luogo e de' suoi indigeni, non avevo più pensato alla standardizzazione del ferro.
Temei che, così avvedendomene ora, stesse per ricominciare l'ossessione. Ma d'un tratto mi sentii dare un'affettuosa manata sulle spalle.
Mi volto e scorgo un ilare viso di cui non ricordavo il nome.
— Era lei? — domandai.
— Che cosa? — rispose egli sedendo rumorosamente al mio fianco. E senza aspettare spiegazioni continuò: — Bravo! era un pezzo che non ti vedevo! Voglio pagarti un ponce.
Io ero mortificato d'aver dato del lei a uno che con tanta effusione mi dava del tu, e invocai tra me un'occasione di farmi perdonare e mostrargli il mio affetto. Perciò gli raccontai la mia avventura telefonica.
Egli pronunciò: — Certamente quel signore aveva chiamato un altro numero.
[176]
Guardai con ammirazione l'uomo prodigioso che a primo colpo aveva risolto un intricatissimo problema. Egli intanto parlava con abbondanza. Aveva cominciato col raccontarmi altri aneddoti telefonici d'ogni genere, s'era interrotto per apostrofare piacevolmente due donne che passavano, poi aveva ripreso a dissertare, non più di telefoni, ma della situazione politica; a un certo punto mi costrinse ad accettare un secondo ponce — e per me era il terzo —; mi domandò il prezzo del mio vestito e mi fece solennemente promettere di servirmi d'ora innanzi dal suo sarto; poi d'un tratto s'alzò come un vento, dicendo:
— Dieci minuti a mezzogiorno. Tu ora m'accompagni un momento alla Succursale.
Uscimmo; i tre ponci dal mio stomaco digiuno si scontrarono torbidamente col freddo intenso della strada, fumigarono con ira verso le estreme regioni inferiori e superiori del mio corpo. Arrivati a una delle vie interne del centro della città, il compagno, che aveva sempre parlato, si fermò a un portone basso. Cercai di salutarlo ma egli gridò:
— Sarebbe bella che tu mi piantassi qui a questo modo!
Salimmo a un secondo piano e accettammo l'invito d'un cartello bianco che da un uscio vetrato diceva: Avanti. Nè, parlando egli, ebbi mai agio di domandargli di che cosa fosse succursale il luogo che aveva così designato, nè l'aspetto dell'anticamera m'istruì al proposito.
Eravamo appena entrati e cercavamo qualcuno cui [177] rivolgerci, quando d'un tratto nella parete di fondo vedemmo sollevarsi una portiera di stoffa, e uscirne, sbattendo violentemente un uscio, una signora con un cappello e un petto poderosamente sviluppati in ampiezza, la quale traversò la stanza come un turbine gridando:
— .... e ricordatevi che in questo schifoso casino non ci metterò mai più i piedi.
Questa frase durò esattamente il tempo che occorse al ciclone per coprire la lunghezza della stanza dalla detta portiera all'uscio d'ingresso, dal quale ella uscì, similmente sbattendolo: onde il tragitto fulmineo e la pittoresca frase di quell'apparizione corpulenta rimasero come incorniciati e incastonati tra due tonfi.
Io m'ero ritratto istintivamente temendo forse d'essere assorbito dall'aria ch'ella aveva smossa. Come il mio timore fu quetato, cominciai a esaminare se dalla metafora ch'era uscita dalla sua bocca irosa potessi trarre qualche lume per riconoscere il luogo in cui mi trovavo.
Il mio compagno guardò, come un cane che annusi, dietro la traccia della donna, e pronunciò:
— Perdio che pezzo....
[178]
Poi, scosso il capo, s'avviò risolutamente verso quell'uscio di fondo che la fragorosa visione ci aveva rivelato.
Ma d'un tratto, da un angolo in ombra al lato sinistro di esso uscio, vedemmo levarsi una figura che parve essa pure fatta di ombra tanto era fluida e sottile.
— «Or vedete, che bel portinaio!» — mormorai io con le parole onde Bruno Nolano gratifica un prefazionatore di Copernico.
Infatti quell'apparizione avea funzioni d'usciere, perchè con voce tremula avanzando verso il mio compagno lo interrogò:
— Dove va, signore? Il cavaliere a quest'ora non riceve più.
Il mio compagno non era persona da arrestarsi per questo.
— M'aspetta — proclamò; e risolutamente sollevò la portiera che subito ricadde ondeggiando dietro le sue fuggevoli spalle.
L'usciere tremulo rimase un istante in sospeso, poi rassegnato si volse a me, che m'ero seduto sopra un divano di dubitoso colore tra l'aragosta non ancor finita di cuocere e il teocriteo amaranto.
— E lei chi cerca?
— Io sono con quel signore.
— E quest'altro è con lei?
Così domandando, additava alla mia sinistra: stupefatto mi voltai, ma al mio fianco, sul divano, dov'egli additava, non c'era nessuno.
Guardai quella tremante larva filamentosa, che sopra una fronte ossuta ergeva una chioma candidissima. Ma [179] essa parlava con la maggior serietà del mondo. Infatti ripetè:
— E questo signore?
Sebbene ogni giorno m'avvenga di dover trattare con dei matti, io stavo a disagio, chè i matti quotidiani sono di un'altra natura. Ma d'un tratto mi credei d'ammattire io, chè al mio fianco, al mio fianco sinistro, dal divano su cui stavo, dove avevo ben visto che non c'era nessuno, una voce mi parlò incorandomi:
— Diglielo dunque, chi sono.
Stetti per urlare dal terrore, ma intanto avevo riconosciuto la voce, e subito al terrore frammettendosi una tepida commozione, esclamai:
— Tu!...
— Sì, io — rispose il Dàimone: — da un pezzo t'eri dimenticato di me.
— Ma costui, costui? — gli domandai con angoscia: — io non ti ho mai visto; credevo che tu avessi voce, ma non forma visibile. Come avviene che questo simulacro d'uomo ti vede?
— Non so, è merito suo: non offenderlo.
L'usciere canuto non s'era offeso; ma con imperturbabilità, senza alzare d'un tono quella sua voce caprina, insistette:
— E questo signore?
— È il mio Dàimone.
— Dunque è con lei. E lei è con quello che è entrato dal cavaliere. Va bene. Dovevo saperlo, per regolarità.
E tranquillamente tornò a ritirarsi nel suo recesso ombroso, soddisfatto del dovere compiuto.
[180]
Io gridai al Dàimone:
— Voglio vederti anch'io, perdio!
— Questa tua violenza — mi ammonì — è puerile e puntigliosa: è dettata più dal dispetto di sentirti inferiore a un usciere, usciere di Succursale, che non a un desiderio nativo e profondo di conoscenza.
— E io voglio vederti — reiterai, testardo come un bambino; e non potrei giurare che così dicendo io non battessi i piedi forte per terra.
— Questa tua ostinazione non è degna d'un filosofo, ma tutt'al più d'un uomo d'azione.
— E io sono un uomo d'azione!
— Allora, se sei un uomo d'azione, siedi in quell'angolo e non ti muovere. Sì: sulla sedia che è a destra della porta con portiera, a riscontro con l'altra ove riposa e dorme quel degno usciere verso cui ti morde una ignobile invidia.
Com'io fui seduto simmetricamente alla larva canuta, che appunto s'era addormentata profondamente, la voce del mio Dàimone riprese:
— S'io mi rendo per un tratto di tempo visibile a te, per quel tratto medesimo avviene che tu diventi invisibile a tutti. E intanto tu non avrai forza di muoverti [181] nè di parlare, ma sarai come una porzione cosciente e inattiva del nulla.
— Ne avrò molto piacere.
— Io intanto agirò, come se fossi vivo e umano.
— Un momento, per carità: non hai mica una forma spaventosa?
— Vigliacco! No. Io non ho nessuna forma: dovrò prenderne una qualunque, la prima che mi venga in mente.
— Scegli bene! — lo implorai — sai che sono sensibile. — E tacqui.
Tacendo, mi sentii d'un tratto illanguidire come avviene per lunga inedia o per subita anemia, gli occhi mi si annebbiarono, per un istante parve che ogni appoggio mi mancasse intorno come al punto di precipitare nel vuoto.
Quando fui riavuto da quel vanimento di tutto l'essere, gli occhi mi si riapersero, e vidi per la stanza aggirarsi l'usciere canuto e sottile, ma ora sorrideva con giovinezza. Mentre mi domandavo che cosa avesse potuto restaurarlo così, mi venne fatto di guardare al luogo ov'egli si trovava poco innanzi a dormire, cioè sulla sedia a sinistra dell'uscio.
Sulla sedia a sinistra dell'uscio c'era l'usciere filamentoso e canuto, e continuava a dormire profondamente.
Il mio stupore durò solo un menomo istante, perchè capii subito che quegli che girava giovenilmente per la stanza era il mio Dàimone.
Pensai di dirgli: — Sei tu? — ma non potevo parlare. Mi resi conto che, com'egli m'aveva predetto, io [182] non possedevo più altro al mondo se non la coscienza di me medesimo, privata d'ogni forma d'azione.
Allora attesi serenamente gli avvenimenti.
Poi che il mio Dàimone ebbe dato ancora uno o due giri per la stanza, s'udì un busso discreto all'uscio d'entrata. Il Dàimone non rispose; e udimmo un altro busso. Finalmente l'uscio si schiuse timidamente, e s'affacciò una testa spaurita, dicendo:
— Si può entrare?
— Provi — rispose il mio Dàimone.
La testa spaurita provò, e infatti fu tutta dentro, e con lei la mediocre persona su cui quella testa era infissa. Il Dàimone gli domandò:
— Sa leggere?
— Sì — rispose alquanto interdetto il nuovo venuto; — lo credo: ho la licenza tecnica.
— E io credo di no — ribattè il mio Dàimone — perchè altrimenti avrebbe letto che sull'uscio sta scritto Avanti.
Mentre il perplesso arrossiva e si rigirava il cappello tra le mani cercando invano un'adeguata risposta, l'uscio medesimo si riaperse come per una ventata ed entrò un giovinetto sbadato: contro il quale il mio Dàimone mosse subito investendolo con queste parole:
— Perchè è entrato senza domandare permesso?
Il giovine sventato rispose prontissimo:
— Perchè c'è scritto Avanti.
— Qui la volevo — disse il Dàimone. — Avanti è una risposta: quando qualcuno dice Permesso, gli si risponde Avanti. Lì dunque, sull'uscio, c'è la risposta [183] preparata per uno che abbia domandato. Ma per chi, come lei, non ha domandato niente, il cartello, avendo natura di risposta, non vale, ed è come non esistesse.
Il giovinetto rispose con risolutezza:
— Lei è matto.
— È quello che pensavo anch'io — strillò il primo venuto, cui la presenza dell'altro dava un'improvvisa violenza di reazione.
— No — gli ribattè pronto il mio Dàimone — lei non ha diritto di pensarlo, perchè a lei avevo detto proprio il contrario di quello che ho detto ora a questo signore: dunque se sono matto verso lui, sono savissimo verso lei, o viceversa. Scelgano, signori.
— Scegliere?!
— Sicuro: scelgano per quale dei due sono matto e per quale sono savio. In mancanza di un criterio logico di scelta, possono giocarsela a scacchi, a primiera, a pari e caffo, a regola di baccarà, a cinque punti di morra, a testa e croce, a tre giri di briscola, alla paglia lunga e corta....
— Oh — interruppe il secondo venuto — io non ho tempo da perdere; io debbo parlare al cavaliere, per un impiego.
— Anch'io — echeggiò il primo venuto — ho bisogno di vedere il signor cavaliere, per una cambiale.
— Il signor cavaliere — disse il mio Dàimone con sussiego — a quest'ora non riceve.
Proprio in quel punto, quasi per smentirlo sul fatto, la portiera dell'uscio di fondo fluttuò; l'uscio si [184] aperse, e irruppe nella stanza il gioviale compagnone che m'aveva condotto in quel luogo.
— Vede se non riceve! — gridarono i due postulanti.
Ma il compagnone, senza badar loro, si rivolse impetuosamente al mio Dàimone.
— Usciere — gli disse — questi sono dieci franchi per voi. Ma dovete dirmi una cosa: chi era quella magnifica signora che è uscita di qui un quarto d'ora fa, quando sono entrato io?
— Che storie?! — — protestò lo sventato. — Badi a me, che ho fretta.
— E io — piagnucolò lo spaurito — sono venuto prima di lei, dunque ho più fretta.
Il mio compagno si sovrappose ad entrambi:
— Usciere, mi risponda: io le do dieci franchi, dunque ho più fretta di tutti.
Il mio Dàimone, alzando solennemente una mano, rispose:
— Ciò che ella chiede, signore, esorbita dalle mie funzioni, che sono esclusivamente spirituali.
Lo sventato lo sostenne:
— Questo galantuomo ha ragione.
— È un'immoralità — rincalzò il timido, a qualche distanza.
Il mio compagnone ruggì:
— Immorale a me! io!! io!!!
E fattosi sopra l'altro gli lasciò andare un esattissimo manrovescio.
Lo sventato allora, in difesa del suo recente alleato, saltò al collo dello schiaffeggiatore; e così lo scoteva e cercava [185] di strozzarlo, mentre il percosso strillava: — Bravo, gli dia, gli dia — e girando attorno ai due avvinghiati lanciava alla meglio qualche esile pedata nei garretti al mio compagno.
A questo punto il mio Dàimone credette opportuno d'intervenire, gettando sul gruppo immondo dei tre rissanti questo stratagemmatico grido:
— Il Cavaliere!
Come si scioglie improvvisamente una sciarada, appena viene nella mente nostra la parola del totale, — così a quella parola «Cavaliere!» si sciolse in un attimo e quasi d'incanto l'ignobile viluppo. Ognuno cercò di ricomporsi come poteva, e tutti e tre, improvvisamente affratellati nella paura, rimasero a bocca aperta e impietriti: solo movevansi le tre coppie di sguardi andando e tornando a più riprese dalla faccia del mio Dàimone all'uscio di fondo.
Allora il Dàimone pronunciò:
— Si vergognino!
— Mio Dio.... — implorò il timido, ch'era il più incolume dei tre.
[186]
— Taccia, ella non sa neppure di che cosa deve vergognarsi.
— Sì, capisco, di questa scena involontaria che....
— No! no! Non è per questa amena e umanissima rissa ch'io li invito a vergognarsi. Ma è per averla interrotta appena io ho pronunciato la parola «Cavaliere».
I tre riuscirono ad aprire e tenere aperte ancora più ampiamente le bocche. Ma ora non guardavano più l'immobile portiera, sibbene il mio Dàimone, che li dominava. Il quale continuò:
— Chi è il cavaliere? uno che qualche decennio fa batteva le anticamere, come loro, per ragioni vili, come le loro: anticamere di qualche cavaliere che ne aveva battute altre simili qualche decennio prima. Per paura di un simile essere loro rinunciano all'umano e candido piacere di picchiarsi.
Le tre bocche si richiusero. Uno solo, il mio compagno, cercò di servirsi della propria dicendo:
— Capirà....
Il mio Dàimone l'interruppe:
— Io capisco una cosa sola, cioè, che questo signore che cerca impiego, quest'altro che cerca danaro, e lei, il peggiore di tutti, che oltre il resto vorrebbe buttar via dieci lire per correr dietro alla bipede che è uscita di qua, — io capisco che loro ignorano completamente la vita dello spirito. Vivono come i bruti, correndo alla soddisfazione momentanea degli appetiti più bassi, senz'alcuna ansia di lasciare ai posteri qualche traccia del loro passaggio mortale nel mondo. Ma il bruto ha una scusa: egli ignora l'infinità. Invece [187] l'uomo, e non soltanto lei che ha la licenza tecnica, ma anche il meno istruito, sa almeno che il tempo e lo spazio sono infiniti.
— — Ma noi pensiamo al nostro avvenire, e le bestie no — obbiettò quello che aveva la licenza tecnica.
— Peggio — ribattè il Dàimone. — Pensare al proprio avvenire è essere più bestie delle bestie, perchè la bestia è bestia dietro un appetito del momento, mentre provvedere al proprio avvenire è essere premeditatamente bestie per una lunga serie di momenti, giorni e anni, cioè moltiplicare a ogni istante e proiettare in indefinito la propria bestialità. Elleno, o signori, sono un vivente insulto alla Natura e alla Storia.
Dopo un momento di raccolto silenzio, il mio gioviale compagnone, uomo conciliante, disse:
— Usciere, voi avete ragione, e m'avete persuaso. E queste sono non dieci, ma venti lire. E ora ditemi, per piacere, l'indirizzo di quella magnifica signora che è uscita di qui mezz'ora fa, quando sono entrato io.
— E poi ci annuncerà al cavaliere — fecero gli altri.
Così dicendo, i tre erano in mezzo alla stanza.
Il Dàimone si ritrasse di qualche passo. Essi lo guardarono, aspettando.
In quell'istante io sentii una specie di mobile tepore ricorrermi le vene.
Mentre i tre guardavano al Dàimone, questi alzò le braccia lunghissime, le tenne melodrammaticamente levate un istante, poi repentinamente sparì.
I tre dettero un urlo. Agitarono un momento le braccia come invasati, poi voltarono le spalle e si precipitarono [188] all'uscita. Due si dileguarono di là; il terzo, ch'era il mio compagno, inciampò sulla soglia, vi cadde bocconi, e vinto dalla paura non riusciva più ad alzarsi.
Corsi a lui.
Riconoscendomi, mormorò:
— Sei ancora qui? Hai visto? hai visto?
— Che cosa? — feci io candidamente.
Il gioviale compagnone arrossì.
— Nulla.... Mi sento un po' disturbato... Fammi il piacere di accompagnarmi a una carrozza.
Come l'ebbi messo dentro e salutato, e la carrozza fu partita, la voce del mio Dàimone mi domandò:
— Sei soddisfatto?
— No — gli risposi —. Non c'è stato molto gusto. Io vorrei vederti come sei.
— Ti ho già detto che non ho una forma materiale mia.
— Ma io vorrei sapere in quale forma, e soprattutto per quale ragione, quel vecchio usciere poteva vederti.
— Questo è il mistero. Che Dàimone sarei, se intorno a me non ci fosse per te nulla di misterioso?
[189]
[191]
Da un anno a questa parte — anzi da un anno e un terzo, perchè quella mattina era gelida mentre oggi che scrivo l'insubre cielo s'impiomba sotto i segni congiunti del Leone e della Vergine — da un anno e quattro mesi io sono còlto talvolta in mezzo all'oscillazione di due diversi pensieri.
L'uno è facile fino alla volgarità, ed è questo:
— Quale solenne, invidiato ed esemplare collocamento nel mondo sociale avrei io oggi, se quella mattina, un anno e un terzo fa, la mattina del 22 di febbraio del 1919, primo anno del Dopoguerra, se quella mattina io fossi andato da Sua Eccellenza!
L'altro, che gli si oppone, è più fino, e ha del metafisico:
— Ognuno fa ciò verso cui è nato, e niente altro. E questa non è già la sua predestinazione, ma la forma soggettiva della sua felicità.
Il che vale a dire: — Io non sono nato per collocarmi solennemente, invidiabilmente ed esemplarmente [192] nel mondo sociale. Perciò, se quella mattina fossi andato da Sua Eccellenza avrei perduto alcune ore di sonno, e oggi sarei esattissimamente dove e quale sono; quel mio sforzo, rimasto sterile, non si sarebbe inserito in alcun modo nella serie della mia biografia, così appunto come non parteciparono alla biografia del mondo gli atti delle nazioni e dei popoli inessenziali, secondo insegnò Giorgio Hegel.
E s'io ricordo qui — nelle pagine estreme e conclusive del libro della mia vita d'azione — quella vicenda mattutina, si è per placare in una nota di calma l'appassionato turbinio in cui ho dovuto trascinare il lettore traverso l'incalzare di troppo operose avventure.
Forse, così narrando l'ultima di esse, le sopprimerò tutte interamente dal mio ricordo, e dalla loro stessa esistenza. Allora non mi avverrà più di sentirmi oscillare tra i due pensieri che ho esposti, e si concluderà in me ogni dissidio tra l'uomo comune e l'uomo filosofo. Placato in tal modo ogni superstite interessamento verso gli aspetti episodici della vita, potrò intraprendere, come da tempo è mio desiderio, la descrizione di avvenimenti di ben più durevole e vasta portata e fecondità.
[193]
La sera avanti quella mattina, cioè la sera del 21 di febbraio, che è a dire del giorno in cui il mio Dàimone s'era degnato di mostrarmisi in forma umana — quella sera io ed egli ci mettemmo (l'idea fu sua) a sfogliare un taccuino dov'io ero venuto segnando gli appunti de' miei affari e avvenimenti più importanti.
Il Dàimone con rapida sintesi mi disse:
— Eccoti sbarcato nella Città Operosa, e per aver visto passare un paio di sgualdrine ti fai prendere dalla febbre del danaro! Avanti dunque. Bei principii, nel covo di pubblicità di quell'equivoco magistrato! E con che diritta decisione navighi nell'oceano dei pescicani! Di tutta la fantasia che hai poi buttato al vento quando hai voluto donar Milano di una foresta di grattacieli, credo più generoso non ti parlare. Ed ecco, 5 di febbraio, ecco qui i tuoi vani sforzi per crearti diplomatico mediatore di compere e vendite all'ingrosso. Perfino quando ti trovi, poco dopo, a fronte alla più stupefacente tra le invenzioni moderne, non sai trarne motivo che a un'insipida larva di amore. Molti, in questa facile èra, sono riusciti ad afferrare la ricchezza e il potere incontrando molto minori e più semplici occasioni di [194] quelle che si sono presentate a te. Tu vi hai fatto una passeggiata.
«Or vediamo: sai almeno dirmi perchè non hai potuto attuare da tutto ciò nulla di pratico? —
Pensai un momento, poi con umile franchezza gli risposi:
— Perchè la prima volta per non cominciare di venerdì ho rimandato al lunedì; e a farlo apposta, il lunedì era il giorno 13 del mese: guarda il calendario.
— Bravo! — esclamò il Dàimone. — Un imbecille di primo grado m'avrebbe risposto: «perchè le occasioni non erano buone». Un imbecille di secondo grado avrebbe detto: «perchè non sono stato abbastanza abile nel coglierle». Tu m'hai dato la sola ragione che potesse piacermi: vedo che posso ancora sperar bene di te.
In quel punto bussarono, e mi fu recapitato un biglietto.
Lo portava, e me lo consegnò, un adolescente fattorino d'albergo.
Era un biglietto di Giacomino.
È perfettamente inutile spiegar qui in particolare chi era, e credo sia tuttora, Giacomino. Basti dire che [195] è uno degli innumerevoli amici avvalangatimi dalle multiformi vicende della mia vita.
Inoltre, Giacomino era, e credo sia tuttora, segretario particolare e influentissimo d'una persona che fu più volte ministro.
Essa persona in quel tempo era appunto ministro, cioè Eccellenza.
Il biglietto di Giacomino diceva:
«Caro amico,
«Sua Eccellenza è a Milano. Abbiamo parlato lungamente di te; ti ho ottenuto un colloquio con lui per domani mattina alle 7, al «Continental». Si tratta di una cosa interessante e importante, per cui occorrono il tuo ingegno e la tua attività. Sarà la tua rapida fortuna!.... Ci sarò anch'io, a introdurti. A domattina, dunque; saluti».
L'adolescente fattorino aspettava una risposta.
Scrissi la risposta: la quale non fu che una meccanica eco delle ultime parole della proposta: «A domattina, dunque: saluti».
Appena fu richiuso l'uscio dietro le tenui spalle del fattorino, sentii una specie di freddo. Ma la stufa era accesa. Il freddo era interiore.
Capii ch'esso mi veniva dalla parte del mio Dàimone. Poich'egli taceva, ebbi l'umile bisogno di scusarmi:
— È una cosa speciale — gli spiegai —: non potevo dire di no.
— Io vado a dormire — rispose.
Quella sera dovevo essere singolarmente disposto all'imitazione. Come avevo echeggiato l'ultima riga del [196] biglietto di Giacomino, così copiai l'ultimo atto del Dàimone e me n'andai a letto.
Ma prima presi le mie precauzioni. Calcolai che la mattina appresso mi sarebbe occorsa mezz'ora per vestirmi e un quarto d'ora per recarmi fino al «Continental». Arrotondando, un'ora. Bisognava dunque che mi svegliassi alle 6. Caricai lo svegliarino e per colmo di previdenza lo misi un po' prima delle sei, perchè è manifesto che con una Eccellenza bisogna essere esageratamente puntuali.
Prima di addormentarmi, cercai di prevedere in che cosa avrei potuto essere utile a Sua Eccellenza.
Senza concludere nulla in proposito, fantasticai vagamente di me stesso arrivante uomo nuovo per rapide e lucide strade al potere.
Neppure in tale fantasticare sostai, nè seppi dedurne chiare immagini. Perchè più imperiosa e curiosa mi si presentò un'altra domanda: — che aspetto avrà Sua Eccellenza?
Titubai alquanto tra il tipo anglo-americano raso e rapido, e il tipo classicheggiante, barbuto e pomposo. [197] D'un tratto m'agitai, accorgendomi che non sapevo di quale specialità Sua Eccellenza fosse ministro.
Intanto cominciavo ad addormentarmi.
Ma non mi riuscì di ritrovare subito il solido sonno delle mie notti d'innocenza. L'inquieta larva dell'ambizione venne a poggiarsi sul mio guanciale, nel punto che stavo assopendomi, e di lì cominciò a torturarmi con insidie vili e sottili. Intravidi un lunghissimo porticato marmoreo, sotto cui svolgevasi come una maestosa e sterminata panatenaica, e io da un trono sfavillante la contemplavo passare sotto i miei piedi e perdersi nel lontano verso un cielo marino. Ma già i marmi s'erano disciolti e alla luce solare era successa l'ombra funerea d'un non so qual salotto o gabinetto arcigno, e io stavo ingarbugliando sconnessi discorsi a un uomo sdegnoso, che un po' apparivami raso come un quacquero e un po' barbuto come un merovingio; e avvedendomi del mio divagante parlare incespicavo, e non osavo dirgli che la causa n'era quella sua forma mutevole. D'un tratto, chinando gli occhi, m'accorsi che non avevo la cravatta, e che il merovingio anglosassonizzato guardava duramente allo sparato ignudo della mia camicia: il quale contrattempo completamente mi paralizzò.
A questo punto m'addormentai meglio, ma il mio sogno mi riferì a preoccupazioni più pratiche e reali. Cioè, sognai di svegliarmi in ritardo, e di buttarmi angosciato giù dal letto, e ivi infilare una scarpa, poi l'altra, poi accorgermi di non avere più la prima. E indi precipitarmi giù dalle scale, ch'erano infinite: e d'una si passava per vasti androni in un'altra, e talvolta mi [198] sorprendevo a salire anzichè scendere: anzi ero sempre salito, e allora tornavo indietro, indietro: e a tratti m'accorgevo di sognare e perciò mi sforzavo di mandar fuori un gemito, un urlo, una voce qualunque che mi destasse. Invece mi addormentai del tutto. Ma ecco, irruento come un'orda, atroce, uno squillo improvviso mi sveglia.
Quando m'accorsi ch'era lo svegliarino, cacciai la testa sotto le coperte per lasciarlo finire. Di là lo sentivo, fioco, infinitamente lontano. Passò un'eternità. Socchiusi le coperte, e il suono ridiventava uno scroscio stridulo bestiale. Mi ricacciavo sotto. Finalmente cessò.
Ero sveglio e ricordavo ogni cosa. Erano le sei. Giacomino m'aveva scritto. Sua Eccellenza m'aspettava alle sette. Erano le sei. Bisognava levarsi, vestirsi con cura, e correre al «Continental», all'appuntamento concesso da Sua Eccellenza. Erano le sei. Ma che magra luce e livida, a quell'ora, intorno alle cose!
— Cinque minuti per rimettermi.
In quei cinque minuti dolcissimi mi si ricominciavano ad annebbiare le idee. Me ne spaventai a tempo.
— No no: mi riaddormento!
[199]
Allora mi levai a sedere sul letto. M'investì un freddo tremendo.
— Come si fa a ricevere alle sette? Anche Gladstone era mattiniero. Dev'essere una particolarità degli uomini di Stato. Bel gusto.
Cercavo, così stando seduto, di tirare in su le coperte fino al mento. Ma in quei moti grandi ventate gelide entravano sotto.
— Che ci vado a fare, in fin dei conti? Che cosa debbo dirgli?
Era troppo freddo a rimanere a quel modo. Mi rispinsi sotto per ritrovare un po' di calore prima di scendere dal letto. E ripresi a disputare:
— Bell'avvenire mi aspetta! Quella gente là s'alzano tutti a quest'ora? Lavorano come ciuchi. Per gli altri. E io debbo diventare di quella gente?
Ma poco di poi una domanda, una proposta, si presentò, non so donde, già formulata, non so da chi, nel mio cervello:
— Se non ci andassi?
Aspettavo da me stesso un'obiezione. Invece arrivò un rincalzo:
— Se mi fossi ammalato questa notte?... Ci andrei un'altra volta.
Diventai sottile, quasi arguto:
— Vediamo. Il colloquio di stamattina non può avere nessun carattere di indispensabile e di definitivo. Ieri a desinare non lo sospettavo neppure. Sua Eccellenza non è, suppongo, venuto a Milano per questo. Può, da un fatto così poco determinato e privo d'ogni [200] carattere di coscienza e di necessità, può nascere una cosa importante qual'è l'avvenire d'un uomo? Evidentemente no.
Mi sporsi a guardare lo svegliarino. Taceva, ma guardava egli me con una specie di ghigno bianco schernevole. Segnava le sei e venti.
— Bisognerebbe risolvere.
Mi strinsi più forte tra le coperte, come nell'abbraccio d'un abbandono. Ora un tepore paradisiaco m'avea avvolto il corpo e lo spirito. Quel tepore mi spinse verso le morbide rotondità della retorica:
— Oh quanto sarebbe più nobile accontentarsi del piccolo bene presente: qualche ora di buon sonno! E, cosa indispensabile alla tranquilla coscienza, senza il danno di nessuno: Sua Eccellenza non può avere una così urgente necessità di farmi una posizione.
In quella si riaffacciò alla mia mente il dubbio sulla più probabile condizione dei peli facciali di Sua Eccellenza; e non potei trattenermi dal ridere. Da quell'immagine, per non so che sotterranei canali, mi ritrovai improvvisamente di fronte a un'altra figura, cioè alla donna che avevo vista passare impellicciata e profumata per le vie di Milano, la prima sera del mio ritorno alla città. Mi convolgevo così tra vaporati fantasmi di riso e di dolcezza. Ero quasi beato, con una punta di tremore. Quella mia annuvolata beatitudine fu lunga, vanì in un avvolgimento tepido di oblio attorno a tutta la mia sostanza. Fu lunga.
A un tratto m'accorsi sussultando ch'essa da incalcolabili [201] momenti mi stava risospingendo subdolamente verso il sonno. Balzai, tesi il collo a guardar l'ora.
— Perdio! Le sei e cinquantacinque! Ho forse dormito?
Feci un calcolo rapido: venti minuti vestirmi, quindici di strada trovando subito una carrozza: e la barba? Anche a fare miracoli non era possibile esser da Sua Eccellenza prima delle sette e quaranta.
Il che sarebbe stato assai peggio che non andarci affatto. Non vedendomi, poteva immaginarmi morto: ma nulla avrebbe potuto giustificare un ritardo di quaranta minuti.
Mi rificcai sotto.
Risvegliandomi, tre ore più tardi, che la stanza era invasa di luce, riconobbi che quest'ultimo, sì, era stato il sonno pieno e soddisfatto dell'uomo giusto.
Pure, c'era un'ombra ancora in fondo al mio cuore. Qualcosa in me aveva bisogno di un conforto.
Per confortarmi, pensai:
— Sarà contento il mio Dàimone.
[202]
Infatti la sua voce risonò subito sul mio capo, ilare e definitiva come non l'avevo più sentita da un pezzo:
— Sì — disse — solo ora sono veramente contento, anzi orgoglioso di te. E da questo momento innanzi, lo sento, non sarò più quasi un altro essere al tuo fianco, ma sarò te stesso, e tu me, fusi in una sostanza unica indissolubilmente.
Fine.
[205]
Capitolo I. Aperta campagna | Pag. 7 |
1. Il catechismo. | |
2. Estasi. | |
3. Facilità. | |
4. Le aristocrazie. | |
5. Nuova incarnazione del Verbo. | |
6. La saracinesca. | |
Capitolo II. La statua di Bartolo | 25 |
1. Un consiglio di Cavour. | |
2. Ercole e il Cappuccetto Rosso. | |
3. Improvvisazione. | |
4. Dal signor A. al signor Z. | |
5. Lina e il «Lotòs». | |
6. Forze maggiori. | |
Capitolo III. Pescecanea | 49 |
1. Cinque spettatori in tre poltrone. | |
2. Una visita d'affari. | |
3. Il fulmine. | |
4. Zoologia. | |
5. Apocalissi. | |
6. Compensazioni. | |
[206] | |
Capitolo IV. Per Belloveso | 71 |
1. Preludio mirabile. | |
2. Fatale andare. | |
3. Via Belloveso. | |
4. A grandissime linee. | |
5. La mia dimora. | |
6. Crepuscolo. | |
Capitolo V. L'ultimo Vampiro | 93 |
1. L'altare. | |
2. Uno, il basilisco, e il cameriere Giovanni. | |
3. Imprevedibile. | |
4. Colloquio. | |
5. Convinzioni. | |
6. Il Vampirismo. | |
Capitolo VI. L'isola di Irene | 117 |
1. Chiarimento storico. | |
2. Spirito d'avventura. | |
3. Il primo e il secondo. | |
4. Cenacolo platonico. | |
5. Le liquide vie. | |
6. Un ginnosofista. | |
Capitolo VII. Pantelestesi | 147 |
1. Diagnosi. | |
2. Appressamento d'un mistero. | |
3. Silenzi e musiche. | |
4. Laura. | |
5. La soglia. | |
6. Convegno. | |
Capitolo VIII. Il Dàimone nell'anticamera | 169 |
1. Telefonico. | |
2. Patologico. | |
[207] | |
3. Divagativo. | |
4. Diabolico. | |
5. Metafisico. | |
6. Ethico. | |
Capitolo IX. Consolazione della Filosofia | 189 |
1. Principio della fine. | |
2. Le cause prime. | |
3. Un intervento. | |
4. Il sonno dell'ingiusto. | |
5. La necessità. | |
6. Idillio. |
DELLO STESSO AUTORE:
(ed. Vallecchi)
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.