Title: Amore bendato
Author: Salvatore Farina
Release date: October 2, 2006 [eBook #19437]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
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Via Larga, 19
1875
Prezzo Lire 2.
Dello stesso Autore:
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FANTE DI PICCHE.—Una Separazione di Letto e di Mensa.—Un uomo felice.—Un volume elegantissimo di pagine 160 » 1 50
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IL ROMANZO DI UN VEDOVO.—Tre volumi » 1 50
FIAMMA VAGABONDA.—Due volumi » 1 —
Dirigere le domande alla TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA
Via Larga, 19. Milano.
Via Larga, 19
1875
Proprietà letteraria
In cui la signora si confida col suo spirito famigliare.
…Infine ho la coscienza di non essere perversa, e se scendo in fondo al cuore, trovo che sarei capace di far la moglie come le più brave. Ma che colpa ne ho io se quest'uomo non mi sa prendere, se non se ne dà nemmeno pensiero, se non mi ama? Non mi ama, e non solo non mi ama, ma non mi ha amato mai! Quasi quasi me lo diceva in faccia, perchè è schietto ed abborre le simulazioni, il signor marito. Gli ho risposto, come andava fatto, che a me non ne importa un bel nulla e che alla fin dei conti siamo pari, perchè neppure io l'amo nè l'ho amato mai…
Ed ora finalmente tutto sta per finire fra di noi, il mondo è largo, e dei Leonardi e delle Erneste ce ne possono vivere molte paia senza che siano obbligati a guardarsi nel bianco dell'occhio a tavola, ad andare a braccetto per le vie. Sarò finalmente libera, mi tornerà il respiro.
Ah! che orrore i diritti ed i doveri dei coniugi per due che non si vogliono bene! E che odioso e fatuo libro il codice colla sua aria di volere, con quattro ciancie numerate, regolare in eterno un affetto che alle volte dura… Quanto ha durato il nostro? Apparentemente tre mesi, in realtà meno di tre quarti d'ora, perchè non ci è mai stato affetto vero tra Leonardo e me; non l'amo e non mi ama, oggi come ieri e come tre mesi or sono.
Tu sai come è andata la cosa; morì la mamma, rimasi sola nel mondo; lo zio Rinucci, la zia Rinucci e mia cugina Rinucci mi aprirono le braccia a modo loro, vale a dire mi accolsero in casa nei primi giorni che succedettero alla sciagura; poi lo zio fece l'inventario dell'eredità ed accettò in mio nome; la zia procurò di divagarmi affidandomi tutte le rimendature, mia cugina si fece regalare quattro o cinque anelli, un medaglione ed uno scialletto di seta azzurra, che, secondo lei, pareva fabbricato apposta per dar luce al biondo-stoppa dei suoi capelli.
Un giorno, dopo che ne erano passati molti e tutti monotoni ad un modo, la signora Virginia mia cugina, non so più in qual proposito, mi fece sapere che il mio naso non le piaceva, che era fatto non so come e che pareva non so che; non potendolo cambiare per andarle a genio, la consigliai di non porre il suo in ciò che non le spettava e di guardarsi nello specchio. D'allora in poi fu guerra. Me ne doleva proprio; nella mia afflizione per aver perduta la mamma, avrei avuto bisogno di carezze, ed invece mi toccava tener viva una guerricciola di dispettuzzi, perchè guai se mostravo di accasciarmi, subito la signora Virginia s'inanimiva e pigliava le arie di vincitrice. L'autorità tutelare dello zio Rinucci intervenne, ordinando che io andassi in collegio a compiere la mia educazione.
Avevo 19 anni suonati, ed entrare in collegio nell'età in cui le altre ne escono non mi garbava molto; pur vi andai felice di uscire dalla casa del tutore. I due anni passati al collegio furono relativamente lieti; una volta o due al mese ritornavo all'amplesso dei tre Rinucci, presso i quali trovavo sempre qualche rimendatura lasciata in disparte per me, e qualche amorevolezza delle solite da ricambiare colla cuginetta. Ci trovavo pure Leonardo.
Confesso che mi sembrò un bel giovinotto; non stetti a badare che era troppo lungo, troppo miope, troppo dinoccolato, troppo frivolo, e lo trovai elegante e disinvolto, un po' indolente, ma garbato. Porgevo orecchio alla sua conversazione briosa, da cui non usciva un'idea, e mi pareva che quel mulinello di parole mi parlasse di un mondo che io non aveva ancor visto da vicino, un mondo in cui le signore vestono di velluto e di seta, ed i signori portano l'occhialetto. Dico il vero, vivervi sempre in codesto mondo non mi sarebbe garbato punto, ma entrarvi al braccio d'un marito lungo, elegante, disinvolto e miope, attraversarlo tirandomi dietro lo strascico di velluto e cento occhiate curiose per poi uscirne e correre in una tranquilla casetta a ritrovare il micio, la gabbia dei canarini, la vesta da camera, il focolare ardente, le ciancie a quattr'occhi, l'ultimo romanzo pubblicato, la festa di ogni giorno—ah! questo sì mi seduceva.
Il signor Leonardo era molto gentile con tutti e specialmente meco; non me ne sarei accorta, se la mia cuginetta non avesse avuto l'ingenuità di mostrarmi aperto il suo dispetto; era un trofeo di vittoria e non me lo lasciai strappare di mano.
In appresso fui forse col signor Leonardo più civettuola del necessario, se è vero, come mio marito mi ha detto poc'anzi, che egli mi aveva creduta innamorata pazzamente di lui. Anch'io credeva lui pazzamente innamorato di me, e le collere della Virginia me ne facevano sempre più persuasa ed orgogliosa. Ebbi torto, non dovevo cedere a sentimenti così meschini, ma infine l'ho scontato caro il trionfo della mia vanità. Sono proprio pentita, mi pare che quando mia cugina verrà a vedermi per gustare la propria vendetta, me le getterò nelle braccia e bagnerò di lagrime la sua testina color di stoppa.
Venne il giorno sospirato e temuto; compii i ventun anno, e per primo atto della mia autorità di donna, dichiarai che non volevo rimanere un'ora di più nel collegio. Ne uscii. Tornai a far rimendature e dispettuzzi in casa Rinucci. Una settimana dopo, la vita mi pareva così insopportabile che trovai la forza di comperare il primo codice e dichiarare a mio zio che la non poteva durare e che io voleva andarmene a viver sola.
Il mio coraggio giungeva fino alla petulanza e lo fece ammutolire. Toccò alla zia a parlamentare per convincermi che la mia idea era assurda, che non può una giovinetta far casa da sè senza esporsi alle censure, ai sospetti del mondo maligno. Non era la via migliore per farmi disdire; sostenni che una giovinetta può benissimo, che se la legge le dà questo diritto deve averci le sue ragioni.
Incominciarono i commenti all'articolo 323. «Lo spirito della legge, entrò a dire mio zio, è, non è, insegna…;» io feci la sorda e mi attenni alla lettera.
Fu allora che il signor Leonardo trovò nel suo cervellino balzano la bella idea che ci ha condotti a questo punto.
—Signorina,—mi disse—se vi piacessi, come mi piacete, ci sarebbe modo di accomodar tutto senza scandali… Acconsentireste a darmi la vostra mano?—
Gliele diedi tutte e due ridendo, le pigliò ridendo, ci sposammo ridendo. Fu una vera fanciullaggine.
Per parte mia ero andata a nozze come si va in campagna, certa di annoiarmici un pochino, ma felice della libertà che mi aspettava, curiosa degli orizzonti nuovi che mi si promettevano, anticipando alla mia vanità di fanciulla tutte le dolcezze della domestica autorità di padrona di casa. Non pensavo allora che dalla campagna si ritorna e dal matrimonio no, e se pure ci pensavo qualche volta alla sfuggita, facevo dentro di me un ragionamento zoppo che andava a finire così: «tocca a Leonardo farmi felice, ci pensi lui!» Oh! sta a sentire come ci ha pensato.
Nei primi giorni, durante il viaggio, pareva proprio felice; andare di città in città, d'albergo in albergo, farsi trascinare in carrozza da un museo ad una pinacoteca, scendere da un monte per salire sopra un campanile, visitare i tesori dei santi, la corona di ferro, le mummie di non so chi—tutto ciò gli pareva delizioso; fu un'orgia pei suoi occhietti che non vedono più in là d'una spanna. Io lo osservava per le vie, quando camminava impettito, lungo lungo, colla testa alta, leggermente curvata indietro per impedire che l'occhialetto gli cadesse dal naso, e quando si fermava a pigliar le note nel taccuino per potersi ricordare di ogni cosa e parlarne poi al Circolo; vedevo un sorriso di cuor contento errargli sul labbro, e pensavo:—È innamorato, beato lui!…—
Allora mi davo la spinta coll'immaginazione e per un quarto d'ora m'innamoravo anch'io.
Non tardai ad accorgermi che in quella felicità apparente l'amore non entrava per nulla; la fatuità ne faceva tutte le spese. Leonardo era incantato di trovarsi in una condizione nuova, di sapersi spinto colla velocità dei convogli diretti attraverso paesi ignoti, di vedersi passare dinanzi tutta quella fantasmagoria di strade, di monumenti, di teatri e di musei; era insomma felice perchè non si annoiava e non aveva bisogno di pensarci. Al termine del viaggio l'uomo annoiato, frivolo, indolente, senza pensieri e senza sentimenti, ricomparve tal quale, anzi peggio della vigilia delle nozze. Allora fui impaurita. Scesi dentro di me e ci vidi un mondo sopito, frugai dentro di lui e non ci trovai nulla, fuorchè una perfetta soddisfazione di sè medesimo, una tranquilla coscienza del proprio valore. Allora mi domandai se era possibile passar la vita con un uomo che non comprendeva alcuno de' miei sentimenti, che non palpitava di nessuno de' miei affetti, non legato a me da memorie, da simpatie, da nulla, fuorchè dal codice—e mettendoci della buona volontà, risposi di sì, a patto di formare l'abitudine, di sostituire la condiscendenza all'amore, di far germogliare in lui qualche sentimento e qualche pensiero embrionale. Divenni… noiosa!
Lo riconosco. Per guarire la sua spensieratezza gli proponevo mille quesiti domestici da risolvere; per farlo uscire dalla sua fatuità gli facevo sfilare dinanzi una processione di fantasmi dell'avvenire. Non riuscii a nulla, nemmeno a seccarlo. Egli continuava a passare press'a poco il giorno al Caffè, la notte al Circolo.
Una carezza fredda, un bacio di gelo, una sfuriata di ciancie sul cavallo balzano del contino, sul calesse nuovo del banchiere, sul prossimo duello, sull'ultimo spettacolo alla Scala, sulla prima ballerina, sui polsini del marchese X, che erano, diceva lui, meglio stirati de' suoi…. e quando aveva finito si addormentava col sorriso del giusto sulle labbra…. Ho resistito un pezzo; mi parve prima scipito, poi ridicolo e finalmente odioso.
L'altro ieri mi trovò in lagrime; bisognava sentirlo: «è una vittima, ha il cuore sensibile, e non può soffrire le lagrime; a me non manca nulla, io sono un'ingrata, il poveretto non domanda che la sua pace e le sue care abitudini, io sono padrona di fare quel che mi piace, ho una casa ora ed egli me l'ha data perchè io vi sia libera, ma lasci lui libero.»
—Non sono un egoista—disse egli.
—Non sei un egoista—diss'io—sei uno stolido.
Leonardo è uomo flemmatico, girò sui tacchi e via… al Caffè od al Circolo.
E poc'anzi, quando l'ho preso di fronte e gli ho domandato perchè mi avesse sposato, mi ha risposto ingenuamente che «allora gli piacevo e che credeva di fare un'opera buona.»
È anche un uomo schietto Leonardo!
—Senti, gli ho detto, questa vita non la posso e non la voglio più vivere, la legge ammette la separazione per incompatibilità d'umori, ed i nostri sono incompatibili.
E gli mostravo il mio secondo codice, comperato ieri l'altro.
Egli si è messo a ridere.
—Buon Dio! Lo dici tu che i nostri umori sono incompatibili; da parte mia sono disposto a compatire le tue idee romanzesche, spiritiche, filosofiche, sentimentali, compatisci tu le mie e vivremo come Filemone e Bauci.
E siccome io pigliava fuoco, egli ha sorriso dall'alto della sua persona sterminata, si è dondolato un paio di volte, ed ha finito con dire: «Farai quello che vorrai, sei contenta? Ma senza scandali, senza codice, senza tribunali; se non puoi viver meco, vivrai sola, pensaci stanotte…»
E via… al Caffè od al Circolo.
Tutto dunque sta per finire; domattina quando egli verrà stabiliremo le norme della nuova vita, andrò a stare altrove… lontano, in campagna… vivrò nella mia solitudine, nei miei affetti contemplativi, con te, mio buon amico….
Sul punto di prendere tale deliberazione, scendo ancora una volta dentro di me e m'interrogo:—Ho io fatto quanto stava nelle mie forze per non arrivare a questo?—Sì, tutto, tutto. Ho combattuto la ripugnanza che ora mi domina, quando appena tentava le vie del mio cuore; venti volte fissai i confini della mia sofferenza e venti volte li respinsi indietro. Sol che egli avesse fatto un passo verso di me, io ne avrei fatti dieci, e ci sarebbe stato forse possibile intenderci ancora. Ma non lo seppi smuovere dalla sua indolenza, non mi riuscì di farlo un istante venir fuori dal castello merlato della sua fatuità.
Passar la vita a far la parte di vittima d'uno scioccherello col pretesto specioso che questo scioccherello è mio marito, è cosa superiore alla mia virtù.
Mi piacciono le situazioni chiare e definite.
Sia pure l'abbandono, sia pure la solitudine, sia pure la noia, purchè mi si diano per quello che sono e per quello che valgono; non so che farmi d'una casa che è una prigione, d'una famiglia che è una parola, d'un trono domestico che è una metafora.
Tu non puoi darmi consigli, ma potessi anche, ed io non te ne chiederei ora, perchè sono irremovibile. Ho solo voluto narrarti la cosa pel bisogno di confidarmi ad un amico, e di persuaderti che, almeno nello sciogliermi, ho messo il senno, la maturità di consiglio, la ponderatezza, tutte quelle buone cose che doveva mettere all'atto di lasciarmi legare da un articolo del codice. Ma egli allora mi piaceva, ed io gli piacevo. Così almeno ha detto lui.
Vorrei un po' sapere perchè ora non gli piaccio più!
Perdona se ti ho trattenuto un pezzo colle mie chiacchiere; spero di non averti annoiato, perchè non mi hai interrotto; ma d'altra parte tu sei così buono che non ne sono sicura…. Buona notte, cioè buon giorno. È l'alba.
In cui il signore si confida col suo medico.
Era l'alba. Era quel breve momento del giorno, in cui il sonno e la vita, il silenzio ed il suono, la tenebra e la luce sembrano stare insieme, tollerandosi a vicenda, mutando l'antitesi in un'armonia sfumata e fuggevole.
Penetrava dal vano della finestra un filo di luce pallida, accompagnato dall'alito fresco del mattino; fendevano l'aria le prime note d'un grandioso concerto che fra breve doveva prorompere in tutta la sua sonorità sul vecchio ippocastano del giardino; qualche piccolo concertista impaziente provava a gola spiegata i gorgheggi più difficili. E non ostante quei voli, quello sbatter d'ali intorpidite, quei canti e quel sommesso bisbiglio delle frondi, persisteva nell'aria qualche cosa del silenzio notturno.
Ernesta si provò un istante ad accompagnare dalla finestra il suo buon amico (uno spirito famigliare molto docile e molto taciturno), ma per mancanza di direzione certa, abbandonò quasi subito le vie delle nuvole e tornò coll'occhio e col pensiero in terra, al giardinetto, all'ippocastano.
Quel giardino era tutto un mondo agli ocelli suoi, un mondo popolato di creature innocue ed allegre, su cui non posava mai ala di nibbio; l'ippocastano era un conservatorio che dava le più belle vocette ed i migliori cantori dell'universo; lo dirigeva un usignuolo; uno stornello faceva con molta buona volontà le veci del direttore.
Ernesta rimaneva immobile ad ascoltare una bella sinfonia descrittiva, dimentica per poco delle sue sciagure. Quel mattino di maggio aveva cento mani leggiere e fresche per accarezzarla sulla fronte, sulle guancie, sugli occhi stanchi dalla veglia; i passeri le davano il buon giorno in coro, e le rondini inquiete le passavano rasente fino quasi a toccarla colle ali, mandando un grido di saluto, in cui entrava un po' di paura. La giovine donna aveva quell'acutezza di senso delle nature fantastiche e nervose; a lei le conversazioni dei passeri parevano sempre piene di attrattiva, era persuasa che le rondini nel passare le dicessero addio, e rispondeva addio a fior di labbro per non far battere troppo forte quei cuoricini sbigottiti dalla propria audacia; poi spingeva il capo fuor del davanzale e volgeva gli occhi in alto, dove un'altra rondine si teneva appesa al nido sotto la gronda e la guardava curiosamente.
A poco a poco si unirono nuove voci al concerto, e la sinfonia giunse alla massima sonorità. Ernesta non sapeva staccarsi dal davanzale; la veglia protratta le aveva acuito i sensi più ancora; udiva, o le pareva d'udire, parole nuove, accenti ignorati, e quando lo stornello, appollaiato sull'ultimo ramo dell'ippocastano, incominciò un canto che si staccava su tutte le voci, le parve che a lei sola si rivolgesse e che avesse a dirle qualche cosa importante. Spinse un seggiolone nel vano della finestra e stette ad ascoltare un pezzo, ad occhi chiusi, facendo ad ogni tanto di sì col capo. Finalmente fece di sì un'ultima volta, curvò la testa sul petto e stette immobile….
Nel risvegliarsi, Ernesta fu molto stupita di vedersi quasi all'oscuro, sopra una poltroncina, nel vano della finestra, di cui erano state chiuse le imposte; balzò in piedi si stropicciò gli occhi, aprì le vetrate e ricevette sulle guancie il caldo bacio del sole di mezzodì.
Pensò: «Qualcuno è venuto, mentre io dormiva, chi mai? Leonardo; Olimpia non entra se non la chiamo.»
Stette un pezzo immobile a fantasticare su questo nonnulla.
—Egli è tornato a casa all'alba, secondo il solito, ha visto il lume acceso attraverso la toppa, ha avuto paura si appiccasse fuoco alle cortine del mio letto, ed è entrato pian piano per non svegliarmi, mi ha vista addormentata sul seggiolone, si è accostato, ha chiuso adagino la finestra già invasa dal sole, mi ha guardato per vedere se mi svegliassi e se ne è andato sulla punta dei piedi portando via il lume acceso….—
E nel dire a sè stessa queste cose, essa se lo vedeva innanzi il suo Leonardo, nè ora nè mai suo, e gli pareva curiosissimo in quegli atti, e pensava: —Qual gioia se fosse un altro, amante e riamato, per poter correre in camera di lui e svegliarlo con un bacio e dirgli: «Cattivo, è così che dovevi fare!»
Ma si corresse e disse che un altro, come lo voleva lei, non sarebbe tornato a casa a quell'ora. Ci pensò ancora, prima di conchiudere con un sospiro; poi si lasciò cadere sopra una poltroncina dinanzi allo specchio, e tirò languidamente il cordone del campanello per chiamare Olimpia.
Press'a poco a quell'ora, dalla stanza più remota, la voce di un altro campanello avvertiva il vecchio cameriere che il padrone si era svegliato. La testa canuta di Bortolo non entrò sola; la precedeva un testone crespo ed espressivo, solidamente piantato sopra un corpo alto e massiccio.
Bortolo era corso innanzi ad aprire le finestre, per lasciar entrare la luce; il visitatore si era fermato sul limitare, tenendo pronto un sorriso di saluto, e sul lettuccio in fondo alla camera un giovane pallido e bruno si era tirato mezzo il corpo fuor delle coltri, portando una mano agli occhi e facendo cenno coll'altra a Bortolo perchè non aprisse tanto le imposte. Bortolo misurò studiosamente un grado di luce che potesse venir tollerato dal suo padrone, e se n'andò in silenzio. Leonardo e l'incognito stettero faccia a faccia.
—A che ora sei venuto a letto?—domandò il visitatore con una voce dolce e carezzevole, pigliando il polso del giovane.
—Saranno state le sei, m'immagino.
—Si capisce; hai il polso agitato, incerto; segno che hai dormito poco e male e che hai passato la notte al solito.
Leonardo sembrava alla tortura, si contorse sul letto, guardò qua e là, e non rispose. L'altro gli toccò il mento coll'indice:
—La lingua.—
Leonardo mise fuori la lingua di mala grazia.
—Temevo peggio,—proseguì a dire il dottore col medesimo accento mellifluo,—hai un organismo che fa miracoli di resistenza, ma finirà col cedere; tu non puoi durarla un pezzo così. Ed ora vediamo gli occhi.—
E senza badare alle smorfie dell'ammalato, il dottore andò ad aprire la finestra e tornò a fare il suo esame:
—Nessun peggioramento,—disse,—ma d'altra parte nessun modo d'impedire lo sviluppo d'un malanno serio, se non muti vita… pensaci….
—Ci penso.
—Senti delle punture?…
—No….
—Hai degli abbagli?
—No….
—Vedi doppio qualche volta?
—No… cioè sì… qualche volta! Insomma mi secchi! Lasciami dunque in pace. Questa mattina sono d'una irritabilità nervosa….
—Comprendo, i soliti guai con tua moglie.
—Sì… cioè no… non i soliti, ma peggio dei soliti… anzi bisognerà che ci pensi sul serio, e ti assicuro che faccio una fatica, una fatica… sono malato, dovrebbe risparmiarmi… nossignore!
—Che dice tua moglie?
—Agenore mio, ha una testa bizzarra!… dice che non vuol più star meco; ha comperato un codice e voleva che lo studiassimo insieme per imparare come ha disposto la legge quando due non possono andare d'accordo! Ma io ci vado, ci sono sempre andato, ci andrò sempre d'accordo purchè mi lasci fare a modo mio….—
Il dottore Agenore abbozzò un sorriso malizioso.
—Sta zitto, proseguì Leonardo coll'accento d'un fanciullo viziato, so quello che vorresti dire, che tutti i cattivi mariti non parlano diversamente… ma ti pare che io sia un cattivo marito? Che cosa faccio a mia moglie? Nulla.—
L'amico dottore si rizzò sulla punta dei piedi, e si lasciò ricadere sui calcagni, ripetendo come un eco: —Nulla!—
Fatto un grandissimo sforzo sopra di sè per contenersi, Leonardo scivolò sotto le lenzuola, tirandosele fino sotto il naso. Quell'atto di supremo accasciamento fe' balenare un altro sorrisetto sulla faccia del dottore, il quale ripetè ancora una volta: «Nulla!»
—Nulla,—ripigliò Leonardo con una convinzione profonda,—assolutamente nulla; in questi giorni sono stato costretto a fare una specie di esame di coscienza; ebbene, ti giuro che sono un marito immacolato. Non ho intrighi, tu lo sai, non faccio la corte a nessuna donna; colle ballerine mi piace solo cenare, perchè in generale sono creature allegre e d'una ignoranza e d'un appetito che mettono di buon umore; non giuoco, non mi ubbriaco, non faccio debiti. Se mi guardo d'attorno, vedo il conte A… che mantiene una corista, il signor B… che si fa mantenere da un vecchio soprano di cartello, il barone C… che passa i giorni e le notti alla bisca e corre di galoppo verso la rovina, eccetera; tu li conosci, costoro ed altri, al par di me, e sai che hanno tutti moglie e figliuoli… eccoli i cattivi mariti! eccoli! ho anch'io il senso critico dell'uomo virtuoso.—
Leonardo tacque; e vedendo che il dottore Agenore faceva di sì col capo, tirò un lungo sospiro, si voltò sul fianco e proseguì con voce compassionevole:
—Sono proprio disgraziato, piglio moglie credendo di fare un'azione meritoria, di assicurarmi la mia porzione di paradiso, e invece mi tiro un inferno addosso. Tu sai come è andata. Ernesta mi piaceva ed io piaceva ad Ernesta; sola lei, solo io; essa non aveva una casa, ed io ne aveva una, in cui non stavo mai… Ci sposiamo? Sposiamoci. E fu fatto. «Mobiglierà la casa di suo genio, dicevo, perchè sarà lei che dovrà starci, io mi reputerò felice di vedermi venire incontro un visino ridente e mi sentirò meglio equilibrato nel mondo.» Sissignore che facevo i conti senza quella testolina bizzarra; figurati, vorrebbe che non mettessi il piede al Circolo, nè al Caffè, che non riconoscessi più i miei amici da scapolo, che avessi paura dei gonnellini delle ballerine, che andassi in teatro solo per accompagnarvi lei, che la conducessi a spasso e nelle buone famiglie e che stessimo a sbadigliare a quattrocchi tutto il giorno quanto è lungo… e tu sai quanto è lungo! Mi provai a persuaderla e sulle prime sperai di ricavarne qualche frutto…. «Disgraziata! non sai che è la tomba del nostro amore che tu vuoi scavare con queste male abitudini? Lasciami fare a modo mio, e non mi pentirò mai di aver preso moglie, e mi piacerai sempre, e ti amerò in eterno; hai una posizione, una famiglia; sei una donna collocata, come si dice, puoi ricevere, dar delle veglie; divertiti come io mi diverto, onestamente, fatti delle abitudini che non urtino le mie abitudini…, e lasciami in pace.» Tempo perduto, fiato sprecato; ho dovuto sempre finire a piantarla colle sue smanie ed andarmene al Circolo. Ha certi paroloni in bocca, si fa certe idee dei doveri coniugali da diventare insopportabile; peccato, perchè è bellina proprio e vi sono nella giornata alcune ore che avrei sempre passato volentieri con lei; ma a darle retta non sarei più un uomo, diventerei un fantoccio, e mi farebbe muovere a suo capriccio. Pazienza; per parte mia rinuncio ai vantaggi sperati da questo matrimonio; poichè non sa riconoscere la sua felicità, peggio per lei; vuole andarsene, si accomodi.—
E così dicendo la povera vittima girava orizzontalmente come sopra un perno e si voltava sull'altro fianco. Per un pezzo stette zitto, aspettando forse che l'amico dottore entrasse a dire qualche cosa, ma l'amico dottore non discuteva mai le opinioni degli altri senza un qualche gravissimo interesse, ed aveva in ciò le sue ragioni filosofiche; onde Leonardo, che aveva preso l'aire e non poteva fermarsi, dovette fare un'evoluzione contraria sul proprio perno e mettere un'altra volta la sua faccia di vittima di fronte alla faccia pensosa dell'Esculapio.
—Io la compatirei mia moglie, sì, se mi lasciasse in pace, sento che avrei la forza di compatirla; le sono idee bevute coll'educazione, idee da borghesucci, da gente di affari. Un impiegato che passa nove ore del giorno all'ufficio, un bottegaio, un negoziante, che so io, ecco i mariti modelli! Dio del cielo! La cosa difficile! Date otto giorni di vacanza all'impiegato, tre feste di seguito al bottegaio, un piccolo fallimento che costringa a quindici giorni di ozio un negoziante, e se costoro non fanno dare in ismanie le loro Penelopi, come io la mia senza colpa, mi si mozzi un dito, mi si mozzi! Mia moglie non comprende queste cose perchè è un po' fatua, un po' spensierata, un po' frivoluccia, un po' insomma tutto quello che ella dice che io sono, ma io… ma io….
La faccia da ridere del dottor Agenore imbrogliò la frase di Leonardo, il quale fu costretto a fermarsi ed a domandare:
—Dimmi tu se ho ragione.
—Non c'è che dire,—rispose il medico,—hai ragione; le tue facoltà sono equilibrate per modo che non vi può essere dubbio… hai ragione… è la natura genuina, è il tuo sangue, sono i tuoi nervi, non potrebbe essere altrimenti… insomma hai ragione.
—Manco male! interruppe l'altro,—manco male; io appartengo ad una classe che ha vacanza tutto l'anno, e che di necessità deve avere abitudini matrimoniali diverse… Bada un po' quanti avventori ammogliati con prole conta il Caffè Cova! ed il Circolo quanti! Domanda a costoro se, quando si sono coniugati, fu loro possibile da un giorno all'altro mutare le abitudini di una quindicina d'anni per cucirsi alle sottane della moglie! Non bisogna esagerare la virtù di quei quattro articoli del codice che vi legge il Sindaco o l'Assessore; sono quattro buoni articoli, ma non possono far miracoli; il giorno dopo che si è cessato di essere scapoli, in fondo si è rimasti quello che si era la vigilia. Molti credono il contrario e si illudono e fanno la propria e l'altrui infelicità; io non l'ho creduto un istante e sento che potrei far la vita di marito con molto garbo… se mia moglie mi lasciasse in pace. Il marchese Viani e l'ingegnere Stefani fanno così, ma essi hanno avuto la fortuna di trovare delle mogli che comprendono la situazione, ed a me ne è toccata una testereccia che vuol guastarmi il sangue colle sue idee balzane…. Pazienza! Ci separeremo. Accetto la mia parte di vittima.—
Dicendo queste ultime parole, il poveraccio protendeva tutte e due le mani fuori del letto come eccitando il dottor Agenore a consegnargli immediatamente quella parte disgraziata.
Pochi minuti dopo Leonardo, non sapendo più che dire e sicuro che avrebbe aspettato invano i consigli del suo amico medico, si determinò a levarsi da letto alla muta. Il dottore Agenore stava a guardarlo seduto sopra una poltroncina.
—Fammi il piacere, dimmi ancora che ho ragione—uscì a dire Leonardo arrestandosi di botto, mentre stava mettendosi i polsini.
Agenore rialzò il capo e disse senza scomporsi:
—Certo che sì; finchè parli tu, la ragione è dalla tua.
—Che intendi di dire?
—Tua moglie farà le sue argomentazioni, immagino?
—Pur troppo….
—E le fa in buona fede….
—Ma senza senso comune….
—Non importa, le fa col suo senso, co' suoi sensi, ha ragione anche lei; avete ragione tutti e due; sono i nervi, è il sangue, il fluido… la disgrazia, se ti piace meglio.
—Le conosco le tue teoriche, non le discuto….
—E fai bene, perchè sarebbe inutile… sono le mie; io non discuto le tue… perchè sono le tue; la discussione è un acrobatismo dell'ingegno, uno sforzo erculeo sul trapezio, sulla corda o sulla barra che non approda a nulla. Tu non sei padrone ora di pensare diversamente da quello che pensi; date le tue condizioni fisiche, dato l'equilibrio momentaneo delle tua facoltà, è fatale. Vuoi essere sicuro che questa tua idea d'ora è, non dirò la vera, ma quella che corrisponde esattamente al tuo temperamento?… Aspetta a domani, fra una settimana, fra un mese.
—E mi consigli?
—Di non risolvere nulla per ora.
—Impossibile… impossibile… impossibile. S'ha a finire; ieri dopo il desinare, bisticci, ieri l'altro idem; e indietro e indietro sempre bisticci e scene analoghe…. Le ho detto che oggi le avrei risposto ed oggi le risponderò.—
Leonardo aveva finito di vestirsi e si guardava intorno.
—Vacci subito,—disse Agenore,—spicciati, io ti aspetto qui….—
Leonardo non rispose, prese sbadatamente il cappello e lo tenne in mano facendolo girare.
—È una scena disgustosa,—disse alla fine lentamente,—non ci avevo pensato, mi sembrava facile ed è difficile; ci saranno lagrime, parole grosse… ho una natura così impressionabile; mi spiace veder piangere una donna…. Ernesta poi… a cui voglio bene…. Ah! mi viene un'idea; è la mattina delle idee… ma questa è eccellente…. Ecco, Agenore, ci vai tu da mia moglie, te le presenti, le sveli l'animo mio, la persuadi che io non ho alcun torto verso di lei, le spieghi bene le cose, la induci ad accettare la vita libera nel tetto coniugale…. ed in caso disperato….
—In caso disperato?
—Le dici che il suo codice non serve a nulla, che quando ella vorrà stare in città, io me ne andrò a viaggiare, e quando ella vorrà andare in campagna od ai bagni io starò in città…. così sarà liberata dalla mia odiosa presenza e non si faranno scandali. Ci vai?
—Ci vado.
—Ah tu sei il migliore degli uomini ed il migliore dei medici; mi hai tolto una montagna dallo stomaco; servigi come questo non si dimenticano…. conta sulla mia gratitudine… io corro perchè è la una e mezza; alle due mi aspettano al Cova. Fatti annunciare…. mia moglie non ti farà fare anticamera.—
E Leonardo, trasformato in volto dall'ottima idea che gli era venuta, uscì guardandosi intorno per paura di incontrarsi colla sposa; quando fu sul pianerottolo, si fregò le mani come uno scolaro e scese le scale a precipizio.
Missione diplomatica.
Il dottor Agenore aveva accettato il difficile incarico con un po' di leggierezza. Ci pensava ora e diceva a sè stesso che se la discussione è inutile, la persuasione è impossibile, salvo in certi casi di felice rilassamento delle fibre. Finì con dirsi che po' poi non doveva fare un predicozzo, nè un'orazione, ma un'ambasciata pura e semplice.
E si fece annunciare alla signora.
La signora lo ricevette nella sua camera da letto, in veste da mattina, sdraiata sopra un divano, dandosi l'imperio e la disinvoltura dell'indolenza.
—Buon giorno, dottore,—disse la prima,—come sta?
—Bene,—rispose Agenore senza scomporsi,—e quanto a lei, cara signora, invece di domandarglielo me ne accerterò io stesso.—
Così dicendo, le si sedeva accanto e le pigliava il polso tra l'indice ed il pollice.
—Un po' agitato, ma abbastanza regolare; ella è in grado di ascoltare pacatamente quello che le devo dire…. Suo marito….
—Mio marito!… è dunque mandato da mio marito?
E perchè non è venuto egli stesso?
—Era aspettato al Cova.
—Ah!
—Il mio amico Leonardo è dolente di non essere compreso, è sicuro di fare il suo dovere di buon marito, non sa darsi pace…—
Ernesta lo interruppe.
—E infine non sa che farsi di me….
—Non dice questo.
—Che cosa dice? Ha egli pensato, come ho pensato io, che questa vita è intollerabile? E che ha risoluto?—
Il dottor Agenore si vide così sbalzato dall'esordio alla perorazione, senza aver fatto un passo; prima di rispondere provò a puntellarsi.
—E ci ha ella proprio pensato? Ed è venuta per davvero alla conclusione che questa vita è intollerabile? Ed è certa di non aver avuto un po' di febbre, una momentanea irritazione nervosa? Perchè, cara signora, noi siamo povere creature avviluppate in una rete di nervi, mal difese da un'epidermide impressionabilissima, e anche quando i tessuti muscolare e connettivo sono sparsi coll'eguaglianza che fa le donne leggiadre come lei ed i temperamenti felici, non si sa mai quello che accade nei vasi; il sangue, la linfa, gli umori sono altrettanti nemici che noi alimentiamo, e quando ci pare di essere persuasi d'una cosa, siamo esposti a pentirci un'ora dopo.
—Nelle cose del raziocinio può essere, ma il cuore non si inganna mai.
—Il cuore! Ah! non mi parli del cuore, cara signora; bisogna averlo visto il cuore! È il più fallace di tutti gli organi. Quando io guardo un oggetto e lo trovo bello….—
Il dottore Agenore guardava l'epidermide vellutata della faccia di Ernesta.
—…. Allora sono press'a poco sicuro di non fare un giudizio falso; posso sbagliare, ma è difficile, è difficile…. così quando scevero una stonatura in un concerto, così quando mi fido al tatto—piccole imprudenze quasi sempre innocue—ma se entro a far funzionare il cervello od il cuore, non ne imbrocco una giusta, parola d'onore! Dieci anni sono io era spiritualista, credevo a tutte le verità che insegna la madre Chiesa, perchè le dovevo credere; le credevo senza intenderle, come consiglia la Dottrina, e ne ero persuaso; oggi che la scienza mi ha aperto gli occhi, non ho più la fede, e mi sono fatto un'opinione ferma che allora fossi un grande…. Devo dire la parola?
—Dica.
—Un grand'imbecille… Allora ed oggi io era persuaso, e pure allora od oggi, secondo le idee volgari, avevo torto; invece ho sempre avuto ragione, perchè la ragione od il torto sono parole. I fatti eccoli, e glieli garantisco: l'equilibrio delle facoltà, i moti delle fibre, la temperatura del sangue e degli umori.
—Diceva dunque che mio marito?….—interruppe
Ernesta abbandonandosi sul divano.
—Il mio amico Leonardo ama la sua libertà (è fatto così), ama pure sua moglie, ma più la libertà (non ci può nulla); vorrebbe accontentarle tutte e due…. potendo.
—E non potendo?
—Non potendo, egli viaggierà spesso e la signora passerà alcuni mesi in campagna; così sarà liberata dalla vista odiosa del marito…. (parole testuali) se però le accomoda.
—Mi accomoda,—disse Ernesta balzando in piedi e suonando il campanello.
—Che fa ora?—chiese il dottore rizzandosi,—non si ecciti così; ella tanto giovane, tanto bella, tanto spiritosa! Ah! È un peccataccio nero farla andare in collera! Il mio amico Leonardo non ha senso comune….
—Non m'importa di lui,—disse Ernesta, ed aggiunse volgendosi ad Olimpia accorsa alla chiamata:—Prepara subito le mie valigie, parto oggi stesso….—
La cameriera fece cenno di sì, guardò il dottore e se n'andò; Agenore, pigliando per mano la bella adirata, la trasse con lieve violenza sul divano e cominciò colla sua voce carezzevole:—Povera creatura! Povera creatura! Quante doti inapprezzate ed inapprezzabili, quanta bellezza, quanto sentimento, quanta bontà! Tutte le più felici emanazioni d'un organismo eletto! Il tanto da far beato un misantropo! E codesto Leonardo!….
—Che ne importa a me di Leonardo!—ripetè la bella con accento che invano voleva parer duro;—questo mondo è vasto, ci posso vivere anche senza Leonardo, ci vivrò, e sarò felice, perchè alla fine….
—Perchè alla fine,—proseguì il dottor Agenore accalorandosi, alla fine la vita è breve, e la gioventù fugge, e la bellezza svanisce, e i fluidi perdono la loro elasticità, e quella febbre simpatica che piglia in una volta due esseri….—
Il dottore non ebbe tempo di dare il suo nome volgare alla febbre simpatica che piglia in una volta due esseri, perchè Ernesta, obbedendo ad un impeto irresistibile, proruppe in lagrime e nascose la faccia fra le mani.
Non si era mai aperto un orizzonte così ampio agli occhi del medico materialista, il quale ebbe le vertigini, fece un sogno audace, ed approfittando della licenza che gli dava la sua veste dottorale, prodigò un mondo di carezze poco scientifiche alla bella donna. Forse per la prima volta in vita sua egli si accorgeva del fascino sintetico che emana da una creatura di genere femminino. E si trovava senza avvedersene a vagheggiare le forme leggiadre di quel corpo che aveva le seduzioni della bellezza, della grazia, dell'abbandono e del frutto proibito. Bisogna dire che i filosofi materialisti non siano corazzati meglio degli altri e che il conoscere gli elementi, di cui si compone una corbelleria, non renda molto più forti nel resistere alla tentazione di commetterla. I nervi del dottor Agenore ne stavano appunto commettendo una, e il cervello, coll'aria di volersene stare in disparte, se ne faceva l'istigatore ed il complice.
Si indovinano le fantasie di quell'uomo così poco fantastico; egli vedeva una bella donna sul punto di separarsi da un marito indegno, l'accompagnava nella solitudine, spiava gli occulti moti del suo cuore e ne scandagliava il vuoto…. si sentiva un desiderio cocente di colmare quel vuoto, di pigliare il posto dell'indegno, e trovava quel desiderio legittimo.
—Ah!—diceva egli perdendo assolutamente di vista la dottorale gravità,—ah! cara signora, non le mancherà, no, chi l'adori come ne è degna; quel povero Leonardo è malato, non capisce il bello, non sa amare robustamente, la linfa lo atrofizza, i cattivi umori gli inacidiscono l'umore…., a lei doveva toccare in sorte un uomo gagliardo, di temperamento sanguigno (il temperamento meglio fatto per l'amore), un uomo non viziato dall'abuso, non stanco dei piaceri, ma che dalle fatiche d'una vita studiosa sapesse volare….—
Il dottor Agenore disgraziatamente non sapeva volare sulle ali della rettorica meglio di così, ed anche così non poteva durare un pezzo. Si fermò per ripigliar fiato, ebbe un momento di rilassatezza delle fibre e temette di essere andato troppo oltre.
Ernesta, riasciugate le lagrime, teneva gli occhi immobilmente fissi sul pavimento; probabilmente non aveva inteso nulla.
Agenore si guardò alla sfuggita nello specchio, si rimproverò in cuore di non essersi fatto radere al mattino, fece uscire i polsini dalle maniche del farsetto coll'aria d'un guerriero che assicura l'asta in pugno, e ricominciò l'assalto.
Quando mezz'ora dopo il dottore usciva dalle camere di Ernesta, aveva quell'aria tra fatua e rimminchionita d'un uomo per lo più grave che è dovuto uscire dalla propria gravità e non sa bene se ne sia contento.
—Ci fai una grama figura, Agenore amico mio—diceva l'amico Agenore—una grama figura!… ma quella donna è tanto bella, e Leonardo così fatuo!…—
Leonardo aspettava al Cova con una certa ansietà:
—Dunque?
—Se ne va.
—Dove?
—In campagna, sul lago, oggi stesso, non vuol saperne di conciliazione.
—Ed io?
—E tu in luglio andrai ai bagni di Spa, te li ordino fin d'ora per gli occhi, ed allora la signora Ernesta tornerà in Milano se ne avrà voglia.—
Leonardo stette un po' sopra pensiero, poi, vergognoso di parere inquieto, strinse la mano all'amico dottore e disse ridendo:
—Grazie, grazie, grazie.—
Il dottore, che stava per cedere ad un nuovo rilassamento delle fibre, vinse lo scrupolo, respirò libero e sentenziò dentro di sè:
—Se facessi diversamente, sarei un imbecille.
In cui si fa una rivelazione e si mostra un disegno.
Il dottor Agenore deve aver dato di sè una idea più solenne del necessario; i modi, le sentenze, l'accento gli possono aver prestato sembianze di colosso; è tempo di ridarlo alle sue vere dimensioni; sappiate dunque che non era un cattivo soggetto.
Tutta la sua filosofia materialistica, appresa nell'anfiteatro anatomico dell'Università di Pavia, non aveva potuto indurirgli una fibra od intorpidirgli un nervo; medico-chirurgo-ostetrico, salvo qualche canone scientifico di più e molte ingenuità di meno, egli era rimasto organicamente come quando traduceva i Tristi d'Ovidio dalle panche del Liceo. È naturale, è logico, secondo la sua filosofia medesima.
E siccome il dottor Agenore aveva studiato medicina per amore della teorica, e si era limitato nella pratica alle costipazioni degli amici, non è temerario asserire che egli era una creatura press'a poco innocua.
Andava famoso al Caffè Cova per le sue avventure galanti, incominciate sempre con una lezione d'anatomia, allo scopo di ottenere la cura radicale delle opinioni e dei sentimenti delle belle. Si diceva di lui che una volta, dopo d'aver spinto l'innamorata fino alle ultime trincere e costrettala alla resa, aveva rinunciato ai frutti della vittoria, perchè il generale supremo dell'esercito nemico, vulgo il marito, era entrato in sospetto della cosa, se ne sarebbe accorto e ne avrebbe avuto dolore. La clientela del dottore rideva grassamente del gran rifiuto, come lo chiamava con frase dantesca; Agenore lasciava ridere e rispondeva invariabilmente:
—È questione di principî. L'adulterio è cosa semplicissima; la fisiologia non lo vieta, anzi lo consiglia; è il solo rimedio trovato dalla Natura a quella malattia sociale che è il matrimonio, a patto però che il marito non ne sappia nulla. Se egli lo sa (fragile ed imperfetto come è quasi sempre il nostro organismo), ne avrà dolore, dolore egoistico, se volete, ma sacrosanto; e chi sapendolo fa cosa che cagioni dolore ad un suo simile, costui, signori miei, commette una birbonata.
I clienti si guardavano in faccia e ripigliavano a ridere, dicendo dentro di sè che in fondo quel materialista implacabile valeva meglio di certi spiritualisti che fanno complice la rettorica delle loro imprese galanti.
Il dottor Agenore non era dunque un cattivo soggetto; tale non lo avevano voluto il sangue, la balia, la complessione, a dispetto dell'anfiteatro anatomico. Non se ne vantava, no, sapendo di non averci merito, come altri non ha colpa del contrario, ma in fine ne conveniva egli stesso con modesta compiacenza: non era un cattivo soggetto.
Quanto a ciò che egli meditava di fare era per filo e per segno suggerito dagli avvenimenti. Pensate: una moglie bella, giovane, sola, abbandonata alle noie della campagna; l'amico marito che non se ne dà pensiero e chiude gli occhi addirittura, certo che la virtuosa moglie si darà spasso onestamente, vale a dire senza scandali…. Ah! In fede mia ciò che il dottor Agenore meditava di fare era suggerito per filo e per segno dagli avvenimenti! Ed ecco ciò che meditava di fare:
Aspettare alcuni giorni, il tanto necessario a lasciare sbollire i primi entusiasmi campagnuoli di quella testolina bizzarra, partire, arrivare in un momento di noia, col pretesto di farle visita, di assicurarsi della sua salute, ed incominciare una cura radicale.
Aspettò, partì e giunse a Bellagio. Ed è inutile dire che la mattina della partenza non aveva dimenticato di farsi radere.
Il dottor Agenore intraprende una cura radicale.
La villetta, che pareva fatta apposta per esser nido d'un amore clandestino, era situata sopra Bellagio un bel tratto, ai due terzi del colle. Di lassù si vedevano i tre bracci del lago, ma più direttamente quello che si allunga verso Lecco. L'idea di nido nasceva spontanea vedendo biancheggiare la casa attraverso il boschetto che da quella parte copre la ripida balza del monticello.
Il dottore Agenore vi giunse verso il mezzodì, a piedi, sotto la sferza d'un sole di maggio che per l'occasione fausta si era fatto anticipare i raggi di luglio. Grondava di sudore il poveraccio, era impolverato ed ansante. Avrebbe potuto farsi tirar su in carrozza—e tale era stata la sua intenzione in principio—ma giunto alle falde del nido, ebbe un'ispirazione: far la strada a piedi, arrivare dinanzi alla bella, sbuffante e coperto di polvere… un tiro da maestro.
Quando fu ad un trar di sasso dalla porta d'ingresso, si fermò a guardare tutto intorno; le finestre della casicciola erano chiuse, non si vedeva anima viva; poi udì uno starnazzar d'ali affrettate; un paio di colombi gli passarono sul capo, seguì cogli occhi l'alata coppia, e vide sotto una pianta, nel fitto del vicino boschetto, una bianca veste di mussola ed una capigliatura nera, disciolta, cadente a ricci sopra un bel viso tondo più bianco della mussola… lei—lei stessa—Ernesta!
La cara donnina aveva intorno a sè uno stormo di colombi, cui dava da mangiare, costringendoli talvolta a venire a prendere le briciole sulla palma della mano. Come vide il dottore, non si rizzò, gli fece un saluto ed un cenno perchè aspettasse alquanto e non si movesse.
Il dottore s'impalò duro duro e non fiatò nemmeno.
Finalmente il pasto finì e la bella congedò i colombi che spiccarono il volo dirigendosi al basso. Anche Ernesta spiccò il volo ed in un istante fu presso ad Agenore con modi festosi.
—Il bravo dottore! Il bravo dottore! E la bella visita! Perdoni se non ho lasciato subito i colombi, ma se l'avrebbero avuto a male e sarebbe stato perdere otto giorni di pazienza… Li addomestico a venire a mangiare il miglio e le briciole sulla palma della mano… mi costa molta fatica, perchè non sono veramente eroi i miei piccoli allievi, ma tanto, sa? a quest'ora due sono educati… Bisogna vederli come mi guardano in faccia ad ogni boccone, tirando indietro il collo, per decidere se debbono fidarsi. E m'interrogano anche, mi dicono un po' spaventati: «ôh? ôh?» Fra una settimana mi verranno dietro come cagnolini… scusi, sa?… ma hanno da essere i compagni della mia solitudine.—
Il dottore Agenore strinse nelle sue grosse mani la manina che gli veniva presentata, scrollò la testa lanosa, levò al cielo la faccia lucente, fu lì lì per dichiarare col suo più bel falsetto che la sorte di quei colombi era invidiabile e che egli avrebbe voluto essere per lo meno un piccione. Ma disse a sè stesso che porre la mozione degli affetti prima ancora d'ogni esordio sarebbe stato invertire tutte le regole della rettorica e tradire il proprio sistema di seduzione.
Si trattenne in tempo. E non solo si trattenne, ma ebbe forza di darsi un'aria quasi indifferente e di assicurare la bella che egli veniva in qualità di medico e di amico di casa per vedere come… se mai… insomma per vedere. Ernesta ringraziò con un sorriso ingenuo, si attaccò al braccio del poderoso cavaliere e si diresse verso la palazzina, dicendo colla più gaia sonorità d'accento:
—Ella vuol sapere se sono felice; sissignore, sono felice. Quanto? molto, troppo, tanto che ho paura di qualche disgrazia. Ho ritrovato in campagna tutti i miei giorni d'infanzia, uno per uno… quello in cui stetti ad ascoltare il canto dell'usignuolo dal mio lettuccio; quello in cui assediai la galleria d'un grillo con una pagliuzza e ne feci venir fuori il castellano, quello in cui seguì le processioni delle formiche, quell'altro in cui fui colta da un acquazzone. Salvo che allora godevo spensieratamente, ed oggi invece penso ai miei godimenti, e, quando non me li centuplico, me li sciupo… Lei si fermerà qui tutt'oggi, spero? Desinerà meco! Non dica di no, altrimenti mi faccio venire lo spasimo e la costringo a rimanere per curare i miei nervi… è inteso; ella rimarrà qui fino a sera; desinerà meco. Se teme d'annoiarmi, s'inganna; io non trovo tempo d'annoiarmi, non ne troverà nemmeno lei; le farò vedere il giardino, l'orticello, la conigliera e anche la colombaia… già ne ha veduto i nuovi inquilini; preferiscono vagar pel bosco, ma di tanto in tanto ci vengono per beccare il miglio; finiranno ad amare la loro casa quando sapranno che è tutta per loro.—
Ernesta si interruppe di botto ed uscì in una risata; aveva parlato con tanta volubilità, che il dottore Agenore, pur volendo scusarsi e ringraziare, aveva invano aperto le labbra per cogliere un momento di intervallo da colmare con un ma.
—Ma,—prese a dire—non so se devo…
—Lo so io, e basta; la sequestro, la faccio prigioniero, ella è nel mio territorio.—
Il dottor Agenore anche questa volta fu ad un pelo di supplicare la bella, perchè mitigasse la pena di morte che gli infliggeva colla sua bellezza in prigionia perpetua; ma anche questa volta l'ardita metafora gli parve, come sarebbe stata, prematura.
Erano giunti alla casa, ed al loro arrivo uno stormo di uccelli si levò a volo dal tetto, oscurando il cielo come un nugolo nero. Ernesta battè le mani allegramente:
—Quanti! Quanti! e' sono stornelli, li riconosco al volo; veda, come si muovono in giro per l'aria! a momenti si poseranno ancora. A Milano ce n'era una colonia che abitava i tetti del mio vicinato, e faceva la guerra alle civette; verso il tramonto era una festa seguire i loro circoli, il cielo pareva un mosaico. Ecco, si sono posati, senta come ciarlano! sembrano dire: «Noi siamo le creature più felici della terra…»
—Ed i nostri viaggi circolari sono i più economici ed i più spediti.—
L'aggiunta scherzosa del dottore fece ridere la bella, la quale uscì a dire con un vezzo infantile:
—E perchè no? Sarebbe ella per caso uno di quei dottori che hanno fatto la scoperta che l'uomo parla per farsi intendere e gli uccelli gridano per assordarsi a vicenda? Scommetto di no.—
Il dottore protestò che ella aveva vinto la scommessa.
—Gli uomini e gli uccelli—aggiunse—sono scorie animate dalla stessa madre comune, e la Natura, anche quando pare matrigna, è madre imparziale; il polipo stesso che vive inchiodato allo scoglio deve avere grandi soddisfazioni tutte sue nella vita contemplativa; è una specie di filosofo pratico, il quale ha ridotto lo scibile a quest'unica formula: afferra quello che ti passa a tiro delle braccia e caccialo in bocca. Osservi la profondità della massima che in poche parole compendia lo scopo della vita ed i mezzi di ottenerlo. Il polipo ha le abitudini del filosofo sedentario, ma disgraziatamente il filosofo sedentario non ha tante braccia quante ne ha il polipo.—
Il paragone fece ridere Ernesta; ma il dottore era entrato in materia e non voleva uscirne, e proseguì atteggiandosi con una certa solennità, senza lasciare il braccio della bella:
—Comprendo; ella vuol dirmi che il confronto è strambo, irriverente, che l'uomo è il re della creazione… e che so io; ma è lui che lo dice, e alla Natura, cara signora, non importa nè punto nè poco del suo reame; per essa tutti gli esseri sono eguali, come eguale è l'opera principale che a tutti domanda. Filosofia, scienze, arti—ghiribizzi fosforescenti; non siamo qui per questo, cara signora.
—E perchè ci siamo?—domandò Ernesta, levando gli occhi con uno stupore scherzoso.
—Per un occulto motivo che ci sfugge, e per uno palese che è… che è… che è… l'amore.—
In un'altra occasione Agenore avrebbe detto «la riproduzione delle specie,» ma il suo sistema di seduzione si fermava, come tutti gli altri sistemi, all'amore… sostantivo comune di genere mascolino.
Ernesta levò i begli occhi sbigottiti sul dottore.
—E dice che l'arte, la scienza, il pensiero importano nulla?
—Alla Natura sì, lo dico e lo sostengo; se le importasse del pensiero mio, dovrebbe pure importarle del pensiero d'un altro assolutamente contrario al mio, il che è assurdo; la infinita varietà delle idee ci riporta al caos.
—Dica all'urto, da cui nasce l'ordine.
—Urto d'atomi, confusione con apparenza d'ordine; a guardarci bene addentro, ciò che pare ordinato non è che piccino e forma nell'infinito il caos. Creda a me, nulla delle cose nostre è necessario, fuorchè… fuorchè… l'amore.
—Virtù, affetti, sentimenti, pensieri, opere, tutto dunque è vano?—chiese Ernesta, crollando vezzosamente il capo ad ogni parola.
—La virtù è una convenzione; non esistono che gli affetti, e sono buoni o cattivi secondo le condizioni dei vasi, dei nervi, dei tessuti. I pensieri è provato che sono bagliori fosforici, le opere sono giocattoli con cui inganniamo noi stessi, rispettabili se servono a farci passar meglio la vita e dar modo di passarla meglio ai nostri figlioli; e quanto al bene in sè, è fatale come il male; vi è l'organismo dell'assassinio, come vi è l'organismo del sagrificio, varietà dell'infinita razza di egoisti puri e semplici.
—Ella che organismo ha?—domandò Ernesta ridendo.
—Un organismo che entra nella gran categoria… voglio essere sincero.
—Egoista puro e semplice.
—Egoista sì, la mia parte, puro e semplice forse no; ho le mie massime virtuose.
—E ci crede?
—Ci credo; sono fatto così; dall'immensa vanità di tutte le cose umane ho sceverato una sensazione, la sola vera, profonda, sacrosanta, dopo l'amore: il dolore. Tutta la mia moralità entra in questo dogma: «Godi senza dar dolore agli altri.»—
Ernesta non disse più nulla, spinse l'uscio socchiuso della casetta ed entrò in un salotto, salutata al solito dai canarini che svolazzavano per la gabbia a farle festa. Ma questa volta la bella non badò al cinguettìo carezzevole, e si lasciò cadere sopra un divano in atto di stanchezza. Agenore le sedette a fianco, stette un pezzo a guardarla in silenzio, poi le prese la mano, che non si ribellò.
Il sangue acceso del dottore gli mandò sul volto una vampata.
Erano soli; dalla porta rimasta socchiusa penetrava un raggio di sole, i canarini si erano acquetati nel vano della finestra, le cui cortine di garza azzurra lasciavano passare una fantastica luce.
Era venuta l'ora. Non l'esordio mancava oramai, ma l'occasione d'avventare una metafora. Agenore si guardò intorno, poi guardò ancora Ernesta;—era immobile e pensosa.
—Senta,—prese a dire, stringendo la mano che aveva tenuto nella sua,—senta…—
E invano volle andar oltre. Ernesta non sollevava il capo, pensava sempre.
—Senta…—disse Agenore per la terza volta rompendo l'impaccio con un impeto;—l'amore è l'unico bisogno della natura; solo nelle sue febbri amorose l'uomo trova il conforto della vanità delle altre febbri, si dimentica, si perde, rivive a modo suo… Affrettiamo l'amore!—
L'ultima frase, che era veramente un'invocazione filosofica a tutte le creature dell'universo, avrebbe potuto aver sembianze più pratiche e meglio determinate; ma Ernesta non l'udì. Non udì la frase, e non vide un colombo, uno probabilmente dei due audaci, che era venuto a posarsi sul limitare e cacciava la testina di mezzo al vano, guardando curiosamente prima con un occhio, poi coll'altro.
Il dottore lo vide.
—Ah!—sospirò egli melanconicamente parlando al colombo—come invidio la tua sorte!…—
Ma sentendosi rivolgere la parola in un falsetto che non gli era famigliare, il colombo tirò indietro il collo, guardò alquanto sbigottito l'incognito e la sua padrona, domandò un paio di volte: «ôh? ôh?» e non punto rassicurato, allargò le ali e spiccò il volo.
A quel rumore la bella si scosse, levò lentamente il capo, sprigionando insieme la mano dalla stretta del dottore, fe' prova di levarsi da sedere e ricadde dando in uno scoppio di pianto.
Invano volle reprimersi, le lagrime le sgorgavano abbondanti. Agenore si avvicinò colle fibre in tumulto; non sapeva che pensare, non sapeva che dire….
—Che è stato?—Che è stato?
Finalmente Ernesta riasciugò gli occhi, e rispose melanconicamente:
—È stato lei; sono state le sue massime, la sua scienza. Ah! se il mondo, se l'uomo, se la vita fossero ciò che ella dice, cento volte meglio la morte… Sono pazza, quasi quanto lei,—aggiunse provandosi a sorridere;—è nulla, un ingorgo delle glandule lacrimali; ora è passato; mi aspetti qui, vado a cancellarne ogni traccia coll'acqua fresca, poi le farò vedere il giardino, l'orticello, la colombaia….—
Il dottore accompagnò la bella cogli occhi, e quando fu scomparsa, si picchiò la fronte in aria d'uomo che ha trovato.
«Non è lui! Non è lui!»
Aveva trovato! I modi di Ernesta, tra il beffardo e il romantico, quello spasimo nervoso finito in un singhiozzo, la stessa studiata indifferenza con cui la bella l'aveva accolto, tutto concorreva nella gran rivelazione. Agenore non era un gaglioffo; anche cedendo alle lusinghe di questo fantasma, non attribuiva scioccamente la sua fortuna al merito della propria testa lanosa e del proprio naso affilato; conveniva anzi con rara modestia che la cosa era andata così perchè non poteva andare altrimenti, vale a dire perchè Ernesta era nell'età, in cui si ha bisogno di quell'inganno del pericardio che i profani chiamano amore, e doveva necessariamente trovare la sua testa lanosa la più bella testa dell'umanità mascolina, non vedendone altre da vicino. E non tralasciava di ringraziare il caso di averlo fatto venire nel momento buono, quando forse, attraverso le fantasticherie innocenti della natura campagnuola, incominciava a farsi strada nel sangue e nei nervi della bellissima creatura un po' di noia necessariamente condita dalle fantasticherie non innocenti della natura intima e fisiologica. Ricordava, e si stupiva di non avervi badato prima, che la leggiadra Ernesta era stata con lui in ogni occasione bizzarra e fantastica; rammentava una parola oscura che ora si accendeva come un razzo, una stretta di mano lunga, un'occhiata languida, carezzevoli sciarade che egli non aveva pensato ad indovinare. E si picchiava la fronte colla stess'aria di prima, ma tanto più forte, quanto più cresceva la maraviglia.
Finì col conchiudere che egli aveva posto inutilmente l'assedio ad una fortezza, smantellata, infliggendo senza necessità strategica le pene dell'aspettazione e del digiuno ad un esercito impaziente e ad una guarnigione disposta alla resa. E quando Ernesta riapparve, Agenore aveva con un lampo di genio deliberato di mutare il piano di battaglia.
La bella donna, non so per qual capriccio, aveva cambiato la veste assolutamente bianca in un'altra assolutamente nera, d'un tessuto trasparente che lasciava indovinare due spalle pienotte e due braccia fatte al torno. Delle lagrime versate non si vedeva traccia; gli occhi maliziosi sfolgoravano anzi una luce insolita, le labbra color di ciriegia scoccavano sorrisi che facevano fremere come baci. Il dottore, dotto com'era delle debolezze femminili, non si dissimulava che vi ha una civetteria innocente, la quale si propone di piacere, unicamente per piacere, non importa a chi, al medico, al fattore, allo specchio; ma quel passaggio dal bianco al nero, addirittura, gli dava a pensare non senza ragione. Di tutte le figure rettoriche, l'antitesi è la più astuta, la più formidabile: tu adoperi un'iperbole pel gusto di far rumore, una metafora a modo di scherzo; ma l'antitesi, che stordisce la vittima dandole due colpi in uno, la metti solo in campo nelle grandi occasioni. Agenore applicava queste idee ed altre sull'antitesi a quel brusco passaggio dal bianco al nero che non poteva credere privo di significato.
Da uomo sicuro del fatto suo, egli concedette un armistizio alla bella, e come le ebbe detto che era leggiadrissima così vestita, del che, anche volendo, non era possibile far di meno, si mostrò disinvolto ed indolente, solo curante di rinvigorire la potenza fascinatrice che emanava dal proprio fluido. Fu docile come un bambino, la lasciò dire, la lasciò fare, e dall'alto della sua persona colossale guardava quel corpicino tutto leggiadria, con una certa solennità che doveva mettere in croce una donnina un po' curiosa. Ma era poi curiosa Ernesta?
Essa fece gli onori di tutte le parti della villa, come aveva promesso; presentò al dottore le varie insalate, le ortensie, i garofani, i conigli, ed il dottore mostrò ad ogni volta, e scrupolosamente, la faccia di chi «è lieto di fare una conoscenza,» come si dice. Quando quest'ispezione fu terminata, era l'ora del desinare. Olimpia venne ad avvertire che la tavola era pronta.
A tavola, il dottor Agenore, accorgendosi di certe occhiate furtive che Ernesta gli lanciava ogni tanto, fu costretto a misurare i bocconi e pose questo sacrifizio a debito della bella donna, nel libro mastro dell'amore….
Non era più luogo ad incertezze: la signora lasciava leggere chiaro il proprio turbamento; era come un'inquietudine lieve, un bisogno di dire qualche cosa, per cui non trovava le parole, ed una conseguente mutezza. Costretto ad alimentare il discorso che cadeva un paio di volte ad ogni portata, Agenore parlava di tutto e di tutti, a bocca piena, disseppelliva argomenti vecchi, ne creava di nuovi. E fu così, nella foga d'una bella narrazione filata, che gli venne fuori, senz'avvedersene: Leon…. Era uno sproposito grossolano; quando se ne avvide, il nome era uscito più che mezzo e tanto valeva finirlo, come fece, a denti stretti…. Leonardo. La bella levò il capo e guardò il commensale in faccia con una cert'aria, di cui il dottore non comprese nulla.
—Che fa Leonardo?—domandò Ernesta mordendo una ciambella in modo da mettere in mostra i dentini.
—Quello che è solito fare,—rispose Agenore con accento commiserativo….—nulla…. passa la vita al Caffè ed al Circolo; si ammala, si finisce da sè, è cosa intesa e non ci si pensa nemmanco più.
—E che si fa al Caffè ed al Circolo?
—Si fuma, si chiacchiera, si gioca, s'invecchia prima dell'ora, come il mio amico Leonardo, si attutiscono i sensi nell'inerzia e nello sforzo: ella sa che suo marito è minacciato negli occhi, potrei citarle il conte S…. a cui una paralisi ha tolto il tatto; del gusto non ne parliamo; ve n'ha che non sanno più che cosa mangiare, e morrebbero di fame senza provar l'appetito; in generale sono gente che vive con un paio di sensi in tutto, ai meglio forniti ne rimangono tre…
—È dunque uno spedale il Circolo?
—Press'a poco; io, grazie ai cielo….—
E qui Agenore s'interruppe parendogli dimostrato che egli, grazie al cielo, era un uomo in perfetto ordine.
Dopo il desinare, e solo quando, finite le funzioni di chimificazione, si doveva credere la digestione avviata, il dottore reputò non contrario all'igiene il porre in atto il suo nuovo sistema.
Erano venuti fuori di casa e si avviarono passo passo lungo un viale. Agenore offrì il braccio alla signora, si guardò parecchie volte intorno e finalmente sprigionò un lungo sospiro.
—Da che deriva il sospirare dopo pranzo?—domandò Ernesta levando gli occhi a guardare in faccia il suo cavaliero.
—Ah!—rispose il dottore, con una vocina di flauto,—non mi mortifichi; creda che non so perdonarmi d'averle messo in capo certe idee….
—Non m'ha messo in capo nulla; le ho già dimenticate le sue idee….
—E fa bene…. e fa bene….
Pausa.
—….Io stesso quanto sarei più felice se potessi accettare le fantasie che stanno di casa in quella sua leggiadra testina! A volte….—
Il dottore con un'occhiata fuggitiva si accertò che la bella lo guardava in faccia colle labbra socchiuse in atto di stupore.
—… A volte sento come un bisogno indefinito, come una smania impotente…. allora le mie massime mi fanno paura, la mia scienza mi ripugna…. sogno anch'io ad occhi aperti, come fanno tanti, e dico dentro di me: «potessi credere alle loro stravaganze! perchè qual frutto dal mio senno anticipato? Tanto ci è la tomba che darà il senno a tutti…. Potessi credere che la nostra individualità è preziosa e non si perde, che l'io non si distrugge e rimane conscio del passato e dei misteri della vita, ad errare nello spazio, animella leggera, sopra e sotto nuvole…. e che quella che diciamo vita è una prova ed altrove è la vita vera, che ci aspetta un organismo più eletto, un mondo migliore!…»
—È proprio così, è proprio così!—esclamò Ernesta facendosi rossa in viso dal piacere.—Oh! perchè se queste cose le pensa non le crede?—
Agenore ripigliò il filo, parlò del perispirito, del presentimento, degli spiriti famigliari, della comunicazione del pensiero dei vivi coi morti, con un accento fra il desideroso e l'incredulo, e finalmente crollò il capo in atto di sfiducia.
Ernesta era una buona figliuola, e se la mettevate nel territorio spiritico ridiventava fanciulla. Invasa come da apostolico zelo, per convertire alla propria religione un incredulo, non sapeva nemmanco lei quel che avrebbe fatto; trasse il dottore sopra una panca, a' piedi d'una magnolia, gli ordinò scherzosamente di mettersi a sedere e di starla ad ascoltare ed incominciò a dire del perispirito, del presentimento, degli spiriti famigliari, della comunicazione del pensiero tra i vivi ed i morti.
Agenore fingeva di pigliar fuoco e di spegnersi, ed il suo apostolo si infervorava a tenerlo acceso, piantava gli occhioni in faccia al miscredente, gli stringeva le grosse mani, non gli lasciando una fibra senza un fremito, soffiandogli nelle vene un calore niente affatto spiritico.
Dirà chi legge: «lo sciagurato dottore non pensava alla bassezza che stava commettendo?» Sissignore, ci pensava, e rispondeva a sè stesso press'a poco così:—Il volgo profano direbbe che io sto commettendo una bassezza; ma di grazia a chi, tranne a Dio misericordioso, può recar dolore questa bassezza che a me deve dare la mia porzione di paradiso?—
Prima di scendere dietro i monti, il sole, mostrandosi tra nugolo e nugolo, spinse un ultimo raggio attraverso il fogliame lucente della magnolia per salutare la coppia ciarliera—e la trovò mutola. Agenore stringeva fra le sue una mano della bella, e la bella lasciava fare: pareva distratta, passava ogni tanto la mano libera sulla fronte come per allontanare un pensiero insistente—pensiero insistente non importuno, lo diceva la benigna languidezza dell'atto con cui veniva respinto.
Per la prima volta dopo le disillusioni matrimoniali, il quesito dell'avvenire si proponeva ad Ernesta in una forma nuova. Stretta dagli impacci del decoro all'uomo che l'aveva sciolta di buon grado dagli odiosi vincoli del codice, che cosa doveva essa a colui che era stato suo marito e di cui ancora portava il nome? Nulla, nulla. Una voce ferma, sicura, spontanea come un istinto, una voce che non poteva ingannarla, le ripeteva sdegnosamente:—Nulla, nulla.—Far d'una casa un nido, ecco la sostanza delle giuste nozze; il rimanente è finzione, è formula, è apparato per aggiungere solennità al vincolo. Volte le spalle al nido, lasciata solitaria e fredda la coltre che doveva essere scaldata dall'amore, più nulla vi dovete a vicenda—siete liberi; se Leonardo è come morto per te, dovrai tu ridurti ad una vita monastica, non palpitare più d'alcun affetto per non appannarne il decoro? E quale decoro? Quello d'un ricco vagabondo che ozia al Caffè od al Circolo, che sbadiglia o dorme, o cena colle ballerine?
Ah! giusto! La società sarà ferita nel cuore se tu osi profanare un nome così bello, una vita così preziosa!
Ernesta passava una mano sulla fronte; Agenore le sorrideva come un elemosinante che aspetta.
E un eco del mondo, rompendo le voci dispettose della coscienza, giungeva fino a lei così:
«Ah! Non a Leonardo tu vai debitrice, ma a te medesima!»
Taceva l'eco.
«Certo, ripigliava a dire una voce beffarda, in nome della virtù tu sei debitrice a te stessa d'un supplizio lento; domarti, vincerti, stringere il cuore come in una morsa, reciderti i nervi, soffiare il gelo nel tuo sangue, dimenticare che hai vent'anni, e che a vent'anni si ama e che la bellezza è un dono per farsi amare—questo tu devi a te stessa. Dovrai esercitare il lampo dello sguardo e del sorriso a velarsi, a nascondersi, oppure ad accendere fuocherelli che ardano solitari e si spengano per mancanza di alimento; se il tempo è pigro, ti parrà forse men pigro occupandolo nelle finte battaglie dell'amore, nella scherma della civetteria. Sei giovine, bella, ardente, fantastica. Sappi comporre la tua gioventù ad una senilità precoce, fa della bellezza una mostra, un trastullo della tua vanità, dà al fuoco le apparenze del ghiaccio e fantastica di là dal mondo una vita che non assomigli a questa. Così sarai riverita, onorata, stimata, e gli uomini e le donne che banchettano ripeteranno il nome tuo come quello d'una digiunatrice da proporre a modello…. agli altri.»
Ancora Ernesta passava una mano sulla fronte, ed ancora Agenore le sorrideva.
«Pazza, che ridi e soffri, che smanii quando ridi, e dubiti, e temi, mentre beffi i tuoi dubbi e le tue paure. No, nulla devi all'uomo che ti abbandona, nulla al mondo che ti tiranneggia indifferente; ed a te stessa, unicamente, la vita, l'amore, la giovinezza devi. Non sei nata per consumarti nella solitudine, per avvizzirti nell'aridità del cuore, per atrofizzare la fibra in una vacua contemplazione.
«Sei bella!… Guardati intorno, te lo dicono cento occhi desiderosi; cerca un cuore sano; dalla folla bambinesca, fatua, melensa, scevera un uomo, e gridalo al mondo senza arrossire:—È lui, è lui!»
Per la prima volta gli occhi di Ernesta s'incontrarono con una certa trepidanza negl'occhi del dottor Agenore, il quale continuava a sorriderle come un elemosinante che aspetta….
Ma una voce acuta, meglio un fischio che una voce, gridò ad un tratto dall'alto della magnolia, due volte, tre, con insistenza. E dove il dottor Agenore udì solo la nota ripetuta d'uno stornello, Ernesta intese distintamente:—Non è lui, non è lui, non è lui!»
Si levò in piedi trasfigurata in volto, in preda ad una commozione profonda, fe' cenno ad Agenore stesse zitto e ricercò coll'occhio in mezzo al verde fogliame l'alato consigliere…. finchè lo vide:
«Non è lui, non è lui, non è lui!—ripetè lo stornello e spiccò il volo a raggiungere la carovana de' suoi compagni che girava intorno intorno come una nuvola.
—È singolare!—disse Ernesta pensosa;—proprio come a Milano!
—Che ci è di singolare?—domandò Agenore con un po' di malumore per lo scioglimento frivoluccio della situazione.
Ernesta non rispose.
Un'ora dopo essa accommiatava con infinito garbo il suo dottore, raccomandandogli di affrettarsi per giungere a Bellagio prima di notte.
Voci della campagna.
Quando fu sola, si tenne un istante immobile, ad occhi chiusi, con una mano sul petto come per raccogliersi, poi andò a sedere sopra una panca di legno, in un padiglione che dominava la casa. Pensava… Non mai quell'idea erasele presentata con tanta evidenza come ora; soleva anzi sorriderne come d'una fantasia superstiziosa, accoglierla come un amico strambo che non si sappia indursi a respingere. Già aveva detto: «chi sa? può essere.» Ora le veniva sulle labbra: «È lei!» Lei, vale a dire sua madre, a cui era stato finalmente concesso di comunicare colla figlia per mezzo d'uno stornello! Era la rivelazione tante volte promessale dal suo spirito famigliare, era il vagheggiato dubbio fatto preziosa certezza… perchè l'aveva proprio sentita vibrare in fondo al petto la nota voce!
Le batteva il cuore frequente, si sentiva forte d'una baldanza insolita che si mesceva ad una insolita tenerezza, e guardava innanzi a sè fantasiando. Una sfinge, che si sollevava e si abbassava tenendosi sospesa sul calice dei fiori, le passava rasente e già era lontana, lieta del suo bottino; un frosone tardivo attraversava l'aria frettoloso, senza perdersi in ciancie; un'allodola piombava dall'alto come un corpo senza vita, a poche spanne da terra, allargava le ali ed andava a nascondersi fra i solchi; i pipistrelli uscivano dai fessi e si disegnavano come alati sgorbi nell'ombra. Dovunque Ernesta figgesse l'occhio, si accendeva una luce; ad una ad una si affacciavano le stelle, in ogni zolla balenava il segnale amoroso delle lucciole. I grilli venivano sul limitare delle loro gallerie a trillare a gara, i ranocchi terrestri dall'alto degli alberi facevano la parodia dei passeri, ed in lontananza il cuculo provava la sua terza minore.
E la sfinge e il frosone e le lucciole e i grilli e perfino le rane ed i pipistrelli erano i messi della Natura e recavano tutti la stessa ambasciata: «salute!» lo stesso consiglio: «rimani con noi;» lo stesso conforto: «qui è la pace infinita, qui s'abbreviano le vie che dalla terra conducono al cielo, qui si palpita dell'eterno amore, si contempla l'eterna bellezza, si ode l'eterna armonia.»
Gli stornelli, geometri alati, disegnavano ancora nell'azzurro cielo i loro circoli neri, componendosi a varie forme, ora triangoli, ora rettangoli, ora quadrati; ad ogni viaggio si posavano sul tetto della palazzina, si vedeva un brulichio d'ali, si udiva un ciaramellio confuso: «vieni qui» «no, là» «sotto quella tegola» «in quel vano» «te la fa.» E poi uno scoppio di risate, seguito da un nuovo volo della carovana decimata. Ad ogni volta i viaggi divenivano più brevi e le figure geometriche più piccine; finalmente gli uccelli si posarono un'ultima volta sul tetto e nissuno più ne partì. «Ci sei?» «Ci sono.» «Buona notte!»
E le ombre si addensavano, e le stelle ammiccavano più fulgide, e i grilli trillavano più forte, e il cuculo inanimito appaiava più di frequente le sue note.
E quando quelle voci tacevano un istante per ascoltare, la Natura ne sprigionava altre mille per mandare un messaggio ad Ernesta. «Salute,» le diceva il venticello blando baciandola sulle guancie e tentando di scioglierle i capelli. «Rimani qui» ripeteva una frasca sospinta sul viale; e la voce solenne che si levava dal lago e la solenne voce dei boschi che scendeva dalle montagne si accordavano a dire: «Qui si contempla l'eterna bellezza, qui si ode l'eterna armonia.»
Ernesta fantasticava sempre: oh! vivere sotto il tetto che era nido agli stornelli, nella solitudine che affina i sensi, farsi della sfinge l'amica del crepuscolo, dei grilli e delle rane gli amici della notte, dell'usignuolo l'amico di tutte l'ore; ascoltare i passeri biricchini, il cuculo armonista, ricevere la visita delle farfalle e dei mosconi e passare così la vita…!
«Fino ad oggi ho vegetato, finì col dire a sè stessa, sono stata cieca, sorda, muta; incomincierò da domani a vivere, non perderò una nota, non mi sfuggirà un colore, e griderò a tutte le creature che mi passeranno vicine: «Salute, io sono una donnina felice!»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Otto giorni dopo, colla data del 6 giugno, Ernesta scriveva al dottor Agenore:
«Caro Dottore—Mi annoio mortalmente: le è possibile anticipare l'ordinazione dei bagni al suo amico Leonardo e mandarlo a Spa, perchè io possa passare una quindicina di giorni a Milano?»
E colla data del 10 il dottor Agenore rispondeva:
«Carissima signora—Il mio amico Leonardo parte domattina, colla prima corsa.»
Voci della città.
Ernesta tornò in città, e con lei Olimpia, il cuoco ed i canarini.
Entrando nelle sue stanze, rivedendo i suoi mobili, aprendo i suoi cassetti, frugando nei ripostigli noti a lei sola, la bella si avvide con stupore di provare una gioia tutta cittadinesca pari press'a poco a quella tutta campagnuola che aveva provato rivedendo dopo tanto tempo le acque del lago di Lecco, i colombi e la pineta dall'alto del suo villino di Bellagio. Questa scoperta la indusse ad una breve considerazione filosofica che terminò in un sospiro, ma non le tolse di abbandonarsi intera alla festa di quel mutamento.
A calcoli fatti ella doveva rimanere in città venti brevissimi giorni, chè tanto doveva durare la cura idropatica dell'amico Leonardo; si proponeva dunque di stare allegra, di compensare coll'intensità la breve durata del diletto. Al programma della festa non aveva pensato, ma che dovesse riuscire una magnifica festa chi poteva dubitarne?
La prima persona che vide nel giorno successivo all'arrivo, fu lei, proprio lei, l'amabile cuginetta. Non dico che in un programma festoso non potesse entrare una visita della signorina Virginia, ma è certo che se Ernesta avesse avuto tempo di fare un programma, l'avrebbe messa da ultimo, od in un intermezzo da non saper proprio come occupare altrimenti.
L'amabile cuginetta venne sola, a piedi, accompagnata dal vecchio servitore, poco dopo il mezzodì, quando il sole batteva a piombo ed il lastrico delle vie pareva infuocato. La povera creatura s'era sagrificata così in nome del dovere, aveva esposto i suoi capelli di stoppa e le suola de' suoi stivaletti al pericolo di pigliar fuoco, per amore della virtù minacciata e del decoro offeso. In altri termini i Rinucci sapevano tutto; il grande affetto aveva loro svelato ogni cosa; pel vivo attaccamento eransi tenuti informati di quanto accadeva… ed ahi! (un gran sospiro) accadevano cose che essi erano ben lungi dal prevedere e che se avessero potuto prevedere….
Ernesta allo spettacolo di tanta solennità ebbe il crudele pensiero di stare ad ascoltare attentissima, anche quando la signora Virginia non sapeva più come andare innanzi. Un altro sospiro tappò alla meglio la frase. Dopo di che l'amabile cuginetta si contorse sulla sedia cercando di mantenersi nel proprio sussiego e ripigliò a dire:
«Perdona se sono schietta, non so essere altrimenti; e sai se ti voglio bene.»
Ernesta non potè far di meno di rispondere alla muta:
«Oh! questo sì poveretta!
—Ebbene, per l'amore che ti porto mi duole che si possa dire di te….
—Che si dice?
—Si dice che non ami Leonardo, che vi siete separati, che te ne andasti in campagna per non stare con lui.
—E chi lo dice?
—Il mondo.»
Ernesta fe' uno sforzo per sorridere.
«Il mondo è un chiaccherone maligno, ne dice tante!
—Non è vero dunque?—domandò Virginia con impeto di desiderio che pareva genuino.
—Leonardo non ama la campagna, a me piace molto… è naturale che io ci vada e lui rimanga.»
E vedendo che la cuginetta aveva pronta un'obiezione e lottava senza probabilità di resistere alla propria naturale schiettezza, la prevenne:
«Sono qui per pochi giorni, per dar sesto alla casa.»
Ciò detto strinse la mano della visitatrice, le domandò notizie della sua salute e di quella degli zii Rinucci, chiese informazioni del cappellino alla calabrese e dell'avvenire dello strascico….—Benissimo mamma e babbo Rinucci; gran voga il cappellino alla calabrese, minacciato un'altra volta lo strascico, probabilità di ritornare alle vesti corte ed agli stivaletti alla scudiera…—Queste notizie furono date con singolare parsimonia di parole e conchiuse con un terzo sospiro che era in verità un preamboletto; in fatti la cuginetta ripigliò ingenuamente:
—Ah! sono proprio contenta che non vi sia nulla di vero nelle dicerie che mi erano venute all'orecchio!—
Ernesta stette zitta.
—E che Leonardo e tu vi vogliate bene come nei primi giorni!—
Ernesta zitta.
—E dimmi un po' dove è andato tuo marito?
—A Spa per fare i bagni.
—È ammalato?
—Agli occhi.
—Gravemente?…
—Spero di no….—
Tutte queste domande imbarazzavano molto Ernesta; ancora un paio e la non avrebbe saputo che rispondere…. fortunatamente entrò in quella il dottor Agenore.
—Il dottor Agenore—la signorina Rinucci mia cugina.—
Dopo l'inchino di prammatica, la signorina Rinucci domandò al nuovo venuto con una esitazione ben simulata:
—Ella è forse il dottore?…—
E guardava la cugina per eccitarla ad aggiungere una nota esplicativa alla presentazione pura e semplice.
—Sicuro,—disse Ernesta,—è il dottore che ha ordinato i bagni di Spa a Leonardo.
—Ah! ed è dunque gravemente ammalato negli occhi quel povero signor Leonardo?—domandò Virginia rivolgendosi direttamente al dottore.
—Disgraziatamente sì,—rispose Agenore non comprendendo il significato dell'occhiata della padrona di casa—è minacciato da una cateratta.
La sensibilissima Virginia si lasciò sfuggire un piccolo grido di terrore.
—Cieco!… Cieco!… E tu non mi dicevi nulla,
Ernesta?—
Ernesta volle rispondere, ma il medico prese la parola:
—Quando parlo di cateratte, distinguo; ve n'ha di molte specie: cateratta semplice, complicata, centrale, posteriore, argentea, calcarea, capsulare, piramidale, linfatica, lattea, parziale o totale, unilaterale o bilaterale, eccetera; avere una cateratta non vuol già dire essere ciechi; anzi nei più dei casi si ha la cateratta e non si è perfettamente ciechi.
—E che cateratta è quella del signor Leonardo?
—Cara signora, non è propriamente una cateratta, è la minaccia d'una cateratta, vale a dire un intorbidamento catarattoso corticale…. mi spiego?… che qualche volta guarisce da sè….
—Qualche volta?…
—E per cui i più celebri autori consigliano le frizioni di joduro di potassio, l'uso dei mercuriali ed i bagni, specialmente quelli di Karlsbad, di Eger, di Spa….
—Ed ha ella fiducia nei bagni?
—Perchè no?… alla peggio, se non si riesce a scoprire i momenti patogenetici della formazione della cateratta, non resta altro al medico se non aspettare pazientemente che la cateratta sia matura per l'operazione….
—E non è riuscito a scoprire quei momenti?
—Nossignora, nè io nè altri—e perciò l'ho mandato ai bagni.
—A maturare!…—
E qui la tenera Virginia Rinucci si coprì gli occhi colla mano.
La mestizia di Ernesta, cui le parole del medico suonavano dure per la prima volta, faceva una meschina figura al confronto di quell'acuto dolore.
Si parlò ancora e sempre di cateratte; Virginia era curiosissima, ed il dottore Agenore, impastato egli pure di creta come tutti i dottori, sapeva di non trovar ogni giorno un'occasione di sfoggiare le sue reminiscenze scolastiche. Finalmente il supplizio finì; Virginia baciò in volto la cuginetta promettendole di tornar presto a consolarla; Ernesta mandò un bacio ai cari zii Rinucci….
Rimasti soli, Agenore che aveva parlato quasi sempre lui, dichiarò ad Ernesta che la signorina Virginia era una donnetta amabile, non bella veramente, ma amabile, soprattutto nel conversare.
—Sì—rispose Ernesta—è molto vivace.
—E piena di spirito.
—Senta, dottore—prese a dire Ernesta—bisogna che ci mettiamo in regola; nella mia qualità di moglie, io sono assai poco informata dei casi di mio marito; mi informi, mi dica lei; mia cugina ha promesso di venirmi a vedere presto, e siccome sa il piacere che mi procura, non è donna da mancare…. mi tempesterà di domande….
—Sono ai suoi ordini, disse il dottore.
—Perchè è andato a Spa mio marito?
—Per fare la cura idropatica.
—Questo lo so; ma perchè a Spa piuttosto che a Karlsbad o ad Eger? Ci sarà stata una ragione, immagino…. e la cuginetta vorrà saperla.
—Ecco: Spa è un piccolo paradiso in estate, ha colline boschive, dintorni leggendarii e deliziosi, paesaggi pittoreschi, casette eleganti, clima saluberrimo ed acque miracolose…. dicono.
—E ci è proprio andato per tutto questo il suo amico Leonardo?
—Per questo, ed anche per altro…. per esempio, perchè ci vanno i più danarosi; perchè vi è folla in questa stagione; ed è folla di principini, di duchini e di marchesini; qualche testa coronata e molte corone senza testa… perchè vi sono corse di cavalli, tiri ai colombi, esposizioni di quadri, partite di pesche negli stagni, perchè vi è teatro aperto, infine perchè… devo dirlo?
—Dica.—
Prima di obbedire, il medico si tirò più presso alla bella donna e le prese la mano confidenzialmente:
—Perchè ce l'ho mandato io, e ce l'ho mandato col cuore leggiero, senza badare molto alla scelta…. voleva divertirsi e si divertirà.
—È vero che il suo amico è minacciato da una cateratta?
—Sì, signora, da una cateratta, da una pleurisia, da una malattia di cuore,—rispose il dottore sospirando per l'interruzione.—È un organismo che si dissolve.
—E delle cateratte si guarisce coi bagni?
—Qualche volta; se poi non si guarisce, almeno non si peggiora, e si tira in lungo.
—Quanto tempo?
—Dieci anni, venti, fino alla tarda vecchiaia; la più parte delle cateratte, di cui si fa l'operazione, sono cataratte senili.—
Di nuovo il dottore cercò di volgere destramente il discorso, ma fu interrotto, e quando più tardi ritentò, ancora fu interrotto. Finì con andarsene senza aver avuto altro premio della sua docilità, fuor che un sorriso ed una stretta di mano, l'elemosina che ogni bella donna fa al primo venuto.
Ernesta trovò male spesa quella giornata, ed anche pensando alle venture per occuparle meglio, non potè sollevarsi interamente dall'oppressione del brutto esordio.
Al domani, avvezza a levarsi oramai all'alba, fu in piedi prestissimo; aveva un mondo di cose da fare—diceva—quando ebbe dato il miglio e l'acqua fresca ai canarini, e messo in ordine la guardaroba, si guardò intorno, non trovò più faccende. Prima del mezzodì fu costretta a spolverare vecchi fascicoli di musica ed a risvegliare gli echi sonnacchiosi del suo pianoforte rauco. Dopo il mezzodì, si buttò disperatamente sul divano e chiese un'altra porzione di sonno. L'ottenne, ma fece i sognacci, si risvegliò di malumore. Allora ricordò i suoi libri, frugò negli scaffali, squadernò alcuni vecchi romanzi, lesse alcune pagine cogli occhi, senza comprendere, e finì col farsi commentare da Olimpia il programma del desinare. Insomma fece tanto che mentre al mattino meditava il modo più naturale di risparmiarsi la seccaggine della inevitabile visita del dottore, dopo il desinare si sorprese più d'una volta a guardare l'orologio ed a trovare che il dottore tardava più dell'usato. E quando finalmente venne, gli mosse incontro giubilante.
Agenore avea momenti di furberia sopraffina; quel giorno comprese che la bella si annoiava, e credette di aver trovato la tattica vera per arrivare al capriccio di quella donna.
Ernesta, a parer suo, era una di quelle nature battagliere, che, combattute con qualunque arme, resistono, ma abbandonate a sè stesse, lasciate inoperose e passive, si arrendono. La nuova strategia del dottore si compendia in una parola: la noia.
Il terzo, il quarto, il quinto giorno Ernesta si annoiò, con minori spasimi e più metodo, ma non meno profondamente del primo e del secondo. Ed il dottore venne ad ora fissa a levare il suo sassolino che allargava quotidianamente la breccia.
Qualche volta la bella apriva le finestre che mettevano in giardino e passava un'ora in contemplazione, astrattamente, senza diletto, e se le avveniva di fermare l'occhio sull'ippocastano e sulle brevi aiuole e di averne coscienza, usciva invariabilmente in un confronto dispettoso tra il campione della natura riveduta e corretta dall'uomo e tutta la natura semplice e grandiosa, come le si mostrava a Bellagio. Invano le rondini la salutavano nel passare. Invano i passeri la chiamavano a nome dalle grondaie, invano l'usignuolo esauriva il suo repertorio d'ariette; le frondi, il venticello, gl'insetti le parlavano all'orecchio invano.
E passavano i giorni, tristamente monotoni, lunghi, pieni d'angoscia senza nome. Il dottore, a forza di staccar sassolini allargando la breccia, si era fatto un mucchio di rottami dinanzi: la diffidenza, la beffa leggiadra, lo spirito, potenti ostacoli prima, erano diventati nulli. Ernesta si lasciava indovinare la noia nel viso; si lasciava leggere negli occhi il piacere immenso che provava vedendo Agenore, l'unico amico suo. L'altro, lo spirito famigliare, l'aveva abbandonata; più volte essa aveva voluto interrogarlo, trattenersi con lui, ed era invece venuto a porla in croce, con risposte inaudite, lo spiritello buffone di un anonimo, a cui aveva ogni volta imposto in nome degli spiriti superiori d'andarsene pe' fatti suoi.
Un giorno, presa dalla disperazione, sentì la curiosità di penetrare nella camera di Leonardo.
Non v'era entrata quasi mai e ne serbava una memoria confusa; come vi fu, si tenne in mezzo della stanza, si guardò intorno curiosamente come un fanciullo e per poco non battè le mani per la piacevole commozione; era un'ora da occupare illegittimamente, lo diceva essa pure, ma in modo piacevole.
Si aspettava mille rivelazioni curiose, non ne trovò una; fruga e rifruga in cassettoni ed in cassettini, le sole reliquie che potè raccogliere, non prive d'un certo significato, furono il ritratto della B…. prima ballerina assoluta di rango francese, una donnetta come ce ne sono tante, ed un mazzolino di fiori dissecati. Il ritratto portava una dedica a' suoi ammiratori, non priva d'ingenuità o di spirito, priva però d'un'emme; il mazzolino poteva essere un furto ad una bella, se pure non era uscito dal paniere d'una fioraia.
Le avventure di Leonardo o non erano dunque degne di nota od erano di quelle che non lasciano traccia; rimaneva Leonardo. Eccolo, in piedi quanto è lungo, che minaccia d'uscire dai margini del ritratto di gabinetto. A vederlo così pare proprio un bell'uomo, un po' patito, ma con una faccia espressiva, e con due occhietti vispi e lucenti da non potersi credere destinati ad un intorbidamento caterattoso corticale.
Ernesta stette un pezzo con Leonardo fra le mani; pensava…. a che pensava?
Finalmente ripose il ritratto nell'albo, cacciò la prima ballerina di rango francese sotto il monte di libri, da cui l'avea disseppellita, chiuse le finestre come le aveva trovate, ed uscì sulla punta dei piedi.
La sera il dottor Agenore venne e staccò il suo sassolino.
Tornò il domani, e l'altro, e l'altro. Ernesta lasciava fare. Ma un giorno le fu annunciata la visita della cuginetta.
—Non sono in casa,—disse ad Olimpia.
—Ho già detto che ci è, non sapevo….
—Ebbene, di' che hai sbagliato e che non ci sono.—
Olimpia tornò poco dopo a dire che la signorina Virginia la pregava di aspettarla in casa il giorno successivo all'una dopo il mezzodì.
Ernesta non rispose; il giorno, la sera, la notte parve distratta al solito, e il domani all'alba fece fare le sue valigie. Alle dieci e 35, lieta, giubilante del tiro fatto alla cuginetta dalla testa di bambola, ripartiva per Bellagio—e con lei Olimpia, il cuoco ed i canarini.
In cui si leggono i caratteri dell'amabile cuginetta.
Passò un mese. «L'amico Leonardo non è tornato….» aveva detto il dottor Agenore quindici giorni prima; Ernesta si era accontentata di levare gli occhi e di lasciarsi uscire di bocca sbadatamente: «Ah!»—«L'amico Leonardo non è ancora tornato:» aveva ripetuto il dottore la settimana innanzi; Ernesta non aveva più risposto nulla. Questa volta il medico non fiatava in proposito e la bella non voleva interrogare. Il fatto è che, dopo un mese, ancora Leonardo non era tornato dai bagni.
In questo tempo la strategia del dottore aveva dato gran risultati; oramai la breccia, per cui egli doveva entrare da conquistatore, era molto più che una breccia; ancora un poco, e diveniva un arco di trionfo. La virtù di Ernesta pareva diventata una di quelle virtù in agonia, delle quali si dice: «sarà per domani.» Non era lontano il giorno, in cui doveva spirare fra le braccia del medico. Così almeno diceva a sè stesso il medico.
Questo trionfo gli era costato un tesoro di sapienza e di perseveranza; fortunatamente, per un filosofo materialista la parola apostasia non ha significato, perchè altrimenti Agenore non avrebbe saputo come legittimare la falsa credulità con cui aveva accolto certi fenomeni soprannaturali. Per esempio che gli stornelli possano o no recare le ambasciate degli spiriti superiori, sarà vero o non sarà vero—io non lo so—ma al dottore Agenore doveva parere incredibile. Invece no; ci metteva ancora qualche dubbio, perchè la bella missionaria mettesse più fervore e nel fervore dimenticasse la severità verso alcune arditezze dell'innamorato—ma concedeva questo fenomeno ed altri, ed altri; era disposto a concedere l'impossibile.
Naturalmente egli non sospettava che tiro gli giuocasse, all'alba ed al tramonto, quella birba di stornello incaricato dell'ambasceria; egli non l'udiva nei due crepuscoli ripetere con quanto fiato aveva in gola; «non è lui, non è lui!» parlando appunto di lui, altrimenti…. La bella, che lo stava ad ascoltare estatica delle ore intiere, vi attingeva non so qual forza virtuosa di tirare in lungo, di dire ad ogni volta: «non oggi, non oggi.» E il non oggi doveva essere scritto a grossi caratteri nel sorriso di Ernesta; le occhiate, i silenzi, le strette di mano, dovevano ripeterlo con un accento che gettava brividi di voluttà nelle vene del dottore, perchè costui non guastò mai la strategia con una mossa troppo arrischiata o con un assalto repentino. Era uomo metodico il dottore, se ne vantava; una volta venutagli l'idea dell'arco di trionfo, egli lo trovava non solo più comodo della breccia, ma più in carattere colle proprie dottrine. Aspettava rassegnato, paziente, assiduo. Quel giorno Ernesta fu la prima a chiedere di Leonardo.
—Non è arrivato,—rispose il dottore colla sua voce melliflua;—avrà trovato modo di darsi spasso, si darà spasso. Vorrà fermarsi a Spa tutta la bella stagione; quest'anno doveva esservi un'esposizione di rose, non avrà voluto perdere l'esposizione di rose; erano anche aspettate le dame Viennesi per dare concerti al Casino, non avrà voluto perdere le dame Viennesi; ve n'ha delle belline fra i violini…. Un caro matto il mio amico Leonardo, un caro matto!—
Quel giorno come gli altri, il dottore si credette giunto al possesso sospirato, ma quel giorno, come gli altri, lo stornello si pose di mezzo, e la bella dopo essere rimasta pensosa ad ascoltare la solita ambasciata, finì a dire con un sorriso, con una stretta di mano e con un'occhiata: «non oggi.»
Passarono così molti giorni, spesi nello stesso modo, quando nella bella monotonia di quel cielo senza nubi scoppiò la folgore all'improvviso—tornò Leonardo… cieco!
Il dottor Agenore ne diede la notizia ad Ernesta senza preamboli; secondo lui l'intorbidamento caterattoso corticale si era felicemente mutato, per effetto d'una granulazione, in cateratta bilaterale perfetta e vicinissima alla maturità….
La prima impressione prodotta nell'animo di Ernesta dall'inaspettato annuncio fu un perfetto sbigottimento, senza pensiero, senza dolore; le idee si sprigionarono poi in folla da quel vuoto, ma prive d'ordine, di legame, di consistenza, balenando un istante per sparire subito dopo e riapparire ancora; solo di mezzo a quel caos, insisteva, giganteggiava vie più, fino ad invadere tutto l'orizzonte del pensiero, un'inquietudine, una domanda: «che fare?»
La prima risposta fu pronta come la parola dell'istinto, determinata come il linguaggio della coscienza:—correre a Milano, allietare la notte dello sciagurato con un raggio di luce confortatrice, con una parola affettuosa, con una carezza.
Poi la voce generosa tacque; altre voci svegliarono gli echi del suo cuore:—vivere al fianco d'un cieco, condannarsi ad aver sempre dinanzi una faccia senza luce, ad udire una voce monotona e lamentevole, rinunciare per sempre alle gioie della vita, alle lusinghe mondane, spegnere la propria gioventù in una noia melanconica, far l'infermiera al capezzale d'un uomo che non ride, che cerca invano nel buio un'idea vestita di gai colori, sagrificarsi, distruggersi in un'intera dimenticanza di sè medesima…. E perchè? E per chi?…—
Così pensava Ernesta.
Leonardo era suo marito, ma di nome soltanto, non per affetti e per sentimenti comuni, per dolori patiti insieme, per gioie insieme gustate; e non ora solo la finzione della legge aveva ceduto alla beffa della realtà; già avevano scelto di separare l'indistruttibile.
Quali diritti vantava Leonardo sopra di lei? Nessuno: potendo serbarne, non aveva voluto. E in fondo chi era Leonardo? Uno, in compagnia del quale ella aveva fatto un breve sogno ed un lungo viaggio circolare; uno che aveva abitato nella stessa casa, che le dava del tu, e le consentiva il diritto di portare il suo nome—null'altro. Nè i bisogni li avevano stretti di più, nè gli affetti si erano sostituiti ai bisogni. Sentimenti, idee, abitudini, credenze, tutto era contrario fra di loro, o per lo meno diverso, o per lo meno ignoto. In fondo chi era Leonardo? Un estraneo.
Che dirà il mondo?… Il mondo! una grossa parola. In quanti sono a fare il mondo? E quali sono? Cinquanta avventori del Caffè, cinquanta del Circolo, una ventina di amiche e di conoscenze—ecco il mondo! Bisogna avergli riguardo, poveretto, perchè è molto maligno, molto ciarliero e molto annoiato. Bisogna recitare la commedia del sagrificio per questo scioperato che non crede alla virtù, che fa il cinico per mancanza di spirito, che fa lo scettico per nascondere la vacuità del pensiero.
Tolto l'amore che santifica, il sagrifizio si misura per quello che vale. E quanto potrebbe valere il suo? E sapeva ella se Leonardo stesso non preferisse le cure accorte d'una infermiera già pratica a quelle d'una infermiera novizia?
Quando Ernesta aveva risposto a tutte queste domande, ci pensava ancora; era come una lotta con un nemico invisibile e forte solo della sua inerzia.
Fu in una di queste tregue che venne recata una lettera col bollo di Milano. Era della cuginetta. Diceva in caratteri calligrafici alla cara Ernesta che «il cuore le consigliava di scriverle, e che scrivendo essa sapeva di compiere un dovere;» annunciava la cecità di Leonardo e notava con lirismo alquanto prolisso come il disgraziato non dovesse più vedere «le belle stelle, i bei fiori, il verde dei prati, l'azzurro del firmamento.» Scongiurava Ernesta tornasse nel tetto coniugale, avvertendo fra parentesi che ella sapeva tutto; finiva col dire in bel modo che ella sarebbe «orgogliosa e felice d'aver indotto la cugina a rientrare nella via del dovere….»
Oh! questa proprio ci voleva per non farla muovere da Bellagio! Il dispetto divampò un istante nei begli occhi lucenti, poi si spense.
E da capo Ernesta si rifece a pensare.
Mezz'ora dopo essa scriveva:
«Amabile Cuginetta,
«Il desiderio di concorrere a farmi rientrare nella via del dovere non ti ha fatto affrettare abbastanza. La tua lettera ha trovato le mie valigie pronte. Ti ringrazio infinitamente dell'intenzione, ma sarai lieta anche tu di sapere che la tua eloquenza tenera non entra per nulla nella determinazione che ho presa. In fretta.—Ernesta.»
Più tardi gli stornelli si staccarono come un nugolo dal tetto della casa e parvero accompagnare la padroncina che se ne andava.
Cieco!
Per via era stata sorretta dall'entusiasmo del sagrificio; ma come fu a Milano, Ernesta sentì venir meno il proposito preso, e solo per quella specie di forza d'inerzia che continua gli effetti della prima determinazione, giunse sino alla soglia di casa sua. Entrò…. le batteva il cuore forte.
Bortolo, vedendola, levò le braccia al cielo, e pianse in silenzio; Ernesta strinse fra le sue le mani del vecchio, snodò i nastri del cappellino e non se lo tolse dal capo, consegnò la valigetta al servitore e sedette sopra uno sgabello dell'anticamera. Stette alcuni istanti immobile in faccia al vecchio che la guardava crollando il capo canuto, poi si rizzò in piedi, ma non si mosse. Finalmente si avviò a passi lenti, attraversò le camere, si arrestò innanzi all'uscio socchiuso della stanza dell'infermo. Bortolo veniva dietro come trasognato, colla valigetta in mano.
Non si udiva alcun rumore. Ernesta spinse lentamente l'uscio e s'inoltrò in preda ad una commozione insolita. Da principio non vide nulla; gli occhi suoi, ancora impressionati dalla luce viva, non riuscivano ad afferrare un raggio nelle ombre fitte; quasi prima di vederlo, intese un passo, ed indovinò il dottore e sentì la larga mano posarsi sulle sue. Si fece ancora innanzi, e vide un'ombra nera nel mezzo, ed avvezzando l'occhio alla scarsa luce, riconobbe Leonardo seduto sopra un ampio seggiolone, colla testa appoggiata allo schienale e cogli occhi bendati…. Le si strinse il cuore, si sentì invadere da un'onda di pietà e non giunse in tempo a soffocare un singhiozzo.
Leonardo volse leggermente il capo dalla parte di Ernesta, e parve stare in ascolto; non udendo più nulla, ripigliò la positura di prima. Ernesta rialzò gli occhi ancora lagrimosi e circondò con uno sguardo di tenerezza il quadro melanconico! Quell'uomo già così irrequieto, così vivace, così ciarliero, così ridente, ora rimaneva immobile, muto; la faccia scialba si era composta ad una gravità insolita; il lungo corpo come inchiodato sopra un seggiolone aveva tutta la solennità della sventura.
Il dottore Agenore mandò via con un cenno Bortolo, e come fu solo con Ernesta, volle prenderle la mano, che la bella divincolò dolcemente; allora egli si fe' presso all'infermo, gli toccò il polso e lo chiamò sommessamente a nome:
—Leonardo!—
Ernesta si appoggiò allo schienale del seggiolone e si tirò indietro come per nascondersi.
—Leonardo!—ripetè Agenore,—ma non ebbe risposta.
Il dottore fece il giro badando a non inciampare nelle gambe allungate del cieco, e venne presso ad Ernesta.
—Dorme,—disse sottovoce,—sicuramente dorme; cara signora, ella fa un'azione generosa; riconosco la sua bell'anima.—
L'ultima parola torturò alquanto le labbra del dottore, il quale cercò di compensarle della fatica fatta con un bacio sulla manina bianca della bella donna. Ma Ernesta si sciolse da quella stretta con un movimento brusco, guardò il volto dell'infermo, poi disse senza collera, ma con dignità, accennando Leonardo:
—Egli non ci vede….
—Sicuramente no,—rispose Agenore,—appunto per questo…. se ci vedesse, non dico.—
Ernesta non si lasciò persuadere, si staccò lentamente dal dottore ed andò a sedere in un canto. Agenore le venne presso.
—È proprio cieco del tutto?—domandò poco stante la bella.
—Del tutto.
—Una cateratta?
—Sissignora; a Spa ebbe un febbrone, un'infiammazione della pleura, poi una granulazione che affrettò la cateratta, la quale ora è perfetta e quasi matura per l'operazione.
—È un'operazione facile?
—Facilissima.
—Dolorosa?
—Dolorosa.
—Molto?
—Molto.—
Ernesta tacque un istante; poi ripigliò:
—È almeno sicura quest'operazione?
—Sicurissima.
—E riesce sempre?
—Riesce sempre.
—E ridona perfettamente la vista?
—Qualche volta sì….
—Come?
—La riuscita d'un'operazione non dipende dal risultato finale; si dice che un'operazione è riuscita benissimo, quando tutte le regole dell'arte si sono potute mettere in atto senza contrasti fisiologici nè accidentali…. All'anfiteatro anatomico si fanno, per norma degli studiosi, centinaia e centinaia di operazioni che riescono quasi tutte bene, e pure si fanno sopra gente che non ci guadagna nulla, e che dopo l'operazione rimane morta nè più nè meno di prima.
—È almeno facile la guarigione?—domandò Ernesta.
—Facile no; molte volte, dopo un'operazione ben riuscita, la cateratta si riproduce; oppure….
Ernesta l'interruppe posandogli una mano sui braccio.
—Si muove….—
Il dottore andò presso l'infermo, gli toccò il polso e gli parlò con accento di tenerezza.
—Leonardo….
—Agenore…. rispose una voce dolente che fece palpitare il cuore della povera donna.
—Come ti senti?
—Bene.
—Ti bruciano gli occhi?
—No….
—L'infiammazione cessa; tanto meglio…. mi raccomando, bevi la tua pozione, mangia le minestrine, e non agitarti; procura di dormire…. io me ne vado, tornerò stanotte.
—Grazie—disse Leonardo—rimango solo?
Prima di rispondere, Agenore guardò Ernesta, la quale gli fe' cenno di non dir nulla.
—No…. qualcuno starà sempre in camera con te…. ed in ogni caso…. ecco il cordone del campanello….—
Agenore parlava al cieco coll'accento, con cui si parla ai fanciulli quando sono malati; in fondo egli voleva bene a Leonardo, il che non toglieva agli occhi suoi la legittimità dei propri diritti sopra Ernesta.
Questa volta comprese che bisognava rispettare le prime impressioni e se ne andò, accontentandosi di un saluto dei più semplici. Marito e moglie rimasero soli. Ernesta sentiva un impaccio singolare, una debolezza nuova; combattuta fra gl'impeti della pietà e le riluttanze della fierezza, tratteneva il respiro come paurosa di svelarsi.
Per alcuni istanti il silenzio fu profondo.
—Bortolo!—chiamò poco dopo l'infermo.
Ernesta sussultò leggermente e non rispose.
—Bortolo!—ripetè Leonardo colla stessa inflessione di voce—ho sete….
La povera donna si staccò con uno sforzo dalla seggiola, venne presso al cieco e gli porse il bicchiere contenente la pozione.
Il disgraziato cercò la mano e la lisciò leggermente, bevette un sorso e riconsegnò il bicchiere senza dir nulla.
Ernesta tremava da capo a' piedi; guardò il volto pallido del marito, ed alla povera luce che vi batteva sopra vide due lagrime uscire lentamente di sotto alla benda nera; allora sentì sciogliersi i nodi che la trattenevano, si fece innanzi, prese una mano dell'infermo e la strinse fra le sue. Non trovò parole. Leonardo si scosse…. sorrise.
—Ernesta! disse poco dopo.
Non disse altro.
Un singhiozzo gli rispose.
Crepuscolo e notte.
Che dissero quelle lagrime? Che disse quel singhiozzo?
Che disse il tremito delle mani congiunte?
E il palpito affrettato dei due cuori riavvicinati
dalla sciagura che disse?
Un pezzo stettero come ad ascoltare a vicenda, poi Leonardo ed Ernesta si composero ad una serena gravità, e finalmente essa si sollevò mostrando il volto bello d'una bellezza nuova.
Il povero cieco non fece atto di trattenerla, ma parve raccogliersi in sè stesso come per meglio udire il fruscio della veste ed il passo leggiero, e quando si avvide che quel fruscio e quel passo si dirigevano verso l'uscio, sospirò forte. Allora Ernesta si arrestò sulla soglia, stette un istante dubbiosa, e ritornò nel mezzo della stanza. Poco dopo affacciandosi alla portiera chiamò Olimpia, a cui diede sottovoce un ordine; la cameriera tornò quasi subito recando una veste da camera, la signora si spogliò silenziosamente degli abiti polverosi da viaggio e vestì gli altri.
Leonardo aveva seguito con attento orecchio tutti quei movimenti. Quando la moglie venne ancora ad assiderglisi presso, egli lottò dentro di sè e finalmente ruppe il silenzio ripetendo con voce affievolita:
—Ernesta!—
La povera donna die' un sussulto, come se avesse udito la voce d'un defunto, e facendosi forza e guardando il marito con espressione di profonda pietà, riuscì a balbettare:
—Che vuoi, Leonardo?
—Nulla,—rispose l'infermo, crollando il capo,—nulla.
Volevo sentire la tua voce, ora sono contento.—
E tacque.
Mal sapeva Ernesta vincere una certa riluttanza, pur vi si provava; guardando la faccia impallidita del cieco, la sua fronte per la prima volta corrugata dal pensiero, le sue labbra ora sorridenti senza fatuità, il suo lungo corpo già dinoccolato e dimesso, vera immagine dell'indolenza, composto ora ad una rigidezza insolita, comprese tutta la solennità della sventura, e disse a sè stessa che la sventura cancella ogni colpa.
Avendo scelto la parte di confortatrice, a lei spettava prima di tutto togliersi alla contemplazione del passato che era una barriera alla carità. Non trovava nulla; non le veniva sulle labbra una frase naturale che, senza averne l'aria, dicesse: «Leonardo, mettiamo l'amicizia dove non fu mai l'amore.»
—Ernesta! ripetè poco dopo il cieco.
—Sono qua…. vicina a te….
—Lo so, mi è parso anche di sentire i tuoi sguardi fissi sopra di me…. e anche ora li sento…. non è vero forse?
—È vero.
—T'annoierai, sono un melanconico compagno; e poi devo star molto male con questa bendaccia sugli occhi.—
Sorrideva.
—Perchè non mi parlavi?—domandò mutando tono di voce.
—Credevo che tu dormissi.
—Non dormivo, pensavo…. sai? non sono più lo spensierato d'una volta…. mi par di esser solo, in un mondo vuoto e nero, in un tempo immobile come l'eternità, e se voglio che il tempo cammini, e se ho da veder qualche cosa intorno a me, bisogna che pensi….—
A questo punto s'udì lo scattar della molla d'un orologio a pendolo; Leonardo ammutolì e stette in ascolto contando lo ore sottovoce.
—Sette!… Non è vero? Proprio sette!… Bisogna aprire la finestra, è l'ora…. il sole se ne è andato, non vi è pericolo che la luce troppo viva mi faccia male.—
E siccome Ernesta indugiava, non sapendo se dargli retta o no, il cieco soggiunse:
—Me l'ha concesso Agenore, che è pieno di scrupoli. È lui che ha voluto le finestre chiuse e la benda nera e fitta…. e tutto ciò per impedire ad un cieco di veder la luce….—
Ernesta si accostò silenziosamente alla finestra e ne aprì le imposte.
—Anche la vetrate….—disse Leonardo.
E quando sentì alitare sul viso la brezzolina della sera, fece atto di levarsi in piedi, ma Ernesta corse a lui e lo trattenne.
—Grazie,—disse il cieco melanconicamente,—anche tu sei paurosa come Agenore; ma sono forte, la finestra è là, e mi sento d'andarvi solo…. sta a vedere.—
Ernesta cercò di dissuaderlo, ma vedendo che non riusciva, prese il braccio destro del marito e se lo pose sull'omero, e reggendolo colla mano manca, lo trasse fino al davanzale non tralasciando di dire:—Bada, un momento solo!—
La finestra metteva come le altre in giardino. Leonardo stette alcuni istanti in silenzio, poi disse:—Sento la brezza, mi par di vederla…. ecco, rasenta il suolo, curva i fiori e gli alberelli a piedi del vecchio ippocastano che risponde a quegli inchini con cortese dignità. Non è così?…
—È proprio così—rispose Ernesta commossa.
—E l'usignuolo e le rondini che fanno?
—L'usignuolo—rispose Ernesta,—si dondola nel fitto d'un salice, le rondini interrompono i voli rapidi per posarsi sopra un ramo e pigliar parte alla generale altalena.
—E all'immenso susurrar delle frondi,—proseguì il cieco,—l'usignuolo e le rondini frammettono volate rotte a mezzo, gorgheggi sommessi e interiezioni di piacere.—
Colle mani appoggiate al davanzale continuò a stare immobile, intento, non perdendo una nota di quel concerto. Ernesta non lo aveva abbandonato interamente a sè, gli teneva ancora una mano appoggiata sul braccio e con lievissima violenza sembrava dirgli:—Basta, basta, ti farai del male!—Ma il cieco non comprendeva, non le badava neppure; tutto immerso in un'estasi melanconica veniva a poco a poco accendendosi, trasfigurandosi in volto. Poco dopo disse con voce sommessa e lenta non cessando d'ascoltare:
—Perchè non ho mai guardato attentamente il mio giardino? ora mi parrebbe di vederlo, lo vedrei ora! Ne ho solo una memoria confusa; veggo l'ippocastano nel mezzo, distinguo il susurro d'un salice qui sotto, e lo vedo…. il resto si smarrisce nel verde…. forse se mi levassi la benda….
—No,—disse Ernesta con voce di preghiera.
—E perchè no? non potrei riacquistare la vista, come l'ho perduta? A volte mi pare che, radunando tutte le mie facoltà in un unico atto visivo, dovrei rompere il velo che mi nasconde la luce….—
Leonardo pronunciò queste ultime parole con un accento strano—un misto di trepidanza e di energia—e non aveva finito di nominare la luce, che già sbarrava gli occhi spenti cercandola, e la benda gli ricadeva sul petto.
—Nulla, nulla, nulla!—ripetè crollando il capo; e senza opporre alcuna resistenza si lasciò guidare da Ernesta, che col cuore oppresso dall'affanno, lo trasse dolcemente a sedere sul seggiolone e gli rimise la nera benda sugli occhi.
Scese la notte. Finchè dalla finestra semiaperta penetrava, insieme colla blanda carezza del venticello, un raggio di luce pallida, Ernesta stette silenziosa, coll'occhio fisso sull'infermo, pieno il cuore di una dolcezza serena e melanconica; quando ogni luce si spense e nel nero vano della finestra scintillarono le stelle lontane, si scosse, fu in piedi d'un balzo e suonò leggermente il campanello. Leonardo, che pareva assopito, non si mosse, solo come Ernesta gli fu presso, egli domandò con voce dolente:
—È notte?
—È notte.
—E siamo all'oscuro?
—Ecco…. portano il lume.—
Il cieco intese i passi del servitore, il cigolìo della porta, il romore del lume posato sul marmo del caminetto…. e continuò ad ascoltare.
—Perchè è rimasto Bortolo?—domandò.
E siccome s'indugiava a rispondergli, soggiunse:
—È vero, sono stato su più del solito…. guai se lo sa Agenore…. Bortolo dammi mano…. senti, tira vento…. si spegnerà il lume…. non bisogna che si spenga.—
Bortolo venne presso al padrone e l'aiutò a rizzarsi, intanto Ernesta chiudeva la finestra, ed usciva sulla punta dei piedi.
Leonardo si lasciò condurre al suo letto e spogliare; quando fu sotto le lenzuola levò una mano ad accarezzare la testa tremante del vecchio servitore, e domandò sotto voce:—se n'è andata?
—Ritorna.
In fatti Ernesta tornava. Era andata a dare ordini ad Olimpia ed al cuoco, aveva ripreso le redini della casa.
—Bortolo,—disse ella,—tu dormirai stanotte, hai gli occhi gonfi dalla veglia, rimarrò io qui….
—Starà male….
—Sul divano starò benissimo, e poi non ho sonno, domani vedremo.—
Il vecchio chinò il capo ed uscì; di nuovo Ernesta e Leonardo rimasero soli.
—Come sei buona!—disse l'infermo.
—Taci,—rispose Ernesta pigliando un accento di graziosa autorità; è tardi, bisogna stare in silenzio, riposare il cervello, dormire.—
Leonardo sorrise e stette zitto. Un'ora dopo dormiva, e la giovane donna, stanca delle commozioni patite, si buttava sul divano e chiudeva gli occhi mormorando una preghiera.
Era ancora notte fitta quando si svegliò; nel sonno sua madre era venuta a vederla, l'aveva baciata in fronte con un bacio lieve lieve, le aveva parlato dell'avvenire con un linguaggio di musica, e finalmente, mostrandole dalla finestra una buia via sparsa di stelle, le aveva detto all'orecchio:—Addio Ernesta.—
La bella sognatrice udiva ancora l'eco del suo nome pronunciato con un filo di voce sottile come un soffio, ed alla debole luce della lampada ricercava tutt'intorno la cara visione.
—Ernesta!—ripetè un filo di voce sottile come un soffio.
—Leonardo!—
E d'un balzo fu al capezzale.
—Ti ho forse svegliata?—domandò il cieco,—ti chiamavo piano piano per non destarti.
—Ero desta; che vuoi?
—È l'alba?
—Non ancora.
—Non ancora!—ripetè Leonardo con un sospiro:—ho pure dormito molto ed è un gran pezzo che sono sveglio; come è lunga la notte!
—Bisogna dormire.
—È vero, bisogna dormire; nel sonno mi par di non essere più cieco; veggo buone faccie, ridenti, bianche più della neve, con occhi splendidi più di stelle, veggo campagne verdi come smeraldi, acque di zaffiro e un cielo che par d'oro lucente; e veggo il sole che mi saetta e mi avvolge co' suoi raggi e non mi abbaglia e non riesce a farmi battere le palpebre.
—Povero Leonardo! lo vedi, bisogna dormire.
—Povero Leonardo!—ripetè il cieco; e poco dopo soggiunse:—Manca molto all'alba?
—Tre ore.
—Bisogna dormire.—
Egli si abbandonò sul guanciale, essa tornò lentamente al divano.
Era il primo momento che Ernesta si sentiva padrona del suo pensiero; finora aveva operato come per obbedire ad un'ispirazione; una voce avevale detto: «Il tuo posto è al capezzale di Leonardo che soffre;» ed essa era corsa a Milano, si era fatta forte per ribellarsi alla tirannia delle amare ricordanze, aveva incominciato il pietoso ufficio. Poi all'austero sentimento del dovere, era succeduta una pietà infinita; aveva pianto, aveva tremato, aveva sentito alla forza della coscienza mescersi una debolezza invincibile. Ed ora, sola, nel profondo silenzio della notte, alla povera luce della lampada che minacciava di spegnersi, pensava, interrogava sè stessa.
Era contenta, quasi lieta; non ostante la malinconia del luogo e dell'ora, non ostante la solitudine in quella stanza buia, in faccia ad un uomo dormente, pallido, infelice… era contenta, quasi lieta. Le si accendevano nel pensiero baleni di luce, le correvano al cuore onde di tenerezza; non più il vuoto senza contorni, l'ansia senza fine, la vita senza legge; aveva ora uno scopo innanzi a sè, un ufficio santo, e, comunque apparisse avvolto di melanconia, un avvenire. L'idea di passare la vita al fianco di un cieco, di alleviargli gli spasimi della noia, d'essere per lui la luce, di essere per lui il mondo, di vivere per chiamargli ogni giorno sulle labbra un sorriso, più non le pareva superiore alle sue forze di donna; il sagrifizio s'inghirlandava, diveniva una festa. Dopo d'aver chiesto invano alla natura qualche cosa che le riempisse il cuore e la mente, sul punto di rivolgersi al mondo, agli uomini, alla colpa, ecco ritrovava in sè stessa il conforto cercato, udiva echeggiare nel cuore la parola a mille voci domandata invano. Era fiera, orgogliosa di sè stessa, d'una fierezza semplice, d'un orgoglio santo.
—Ernesta!—mormorò la voce del cieco.
—Leonardo.
—È l'alba?
—Non ancora.—
Un sospiro lungo, poi di nuovo il silenzio profondo, misurato dai battiti sommessi dell'orologio.
Ernesta chiudeva gli occhi, ma non per dormire; guardava dentro di sè, scandagliava il fondo del suo cuore; era contenta, quasi lieta.
E quando dopo una lunga contemplazione aprì gli occhi e li girò per la camera e non vide intorno a sè altro che tenebra, e giù in fondo, lontano, nel buio che non ha distanze, l'ultima luce azzurrognola del lumicino che si spegneva, fissò lo sguardo in quella povera aureola senza vederla, finchè, più che la mancanza di luce, un impercettibile cigolio annunziò che la fiamma era spenta. Allora il pensiero la riportò a Leonardo. S'immaginò cieca anch'essa, provò a sbarrare gli occhi, a fissarli nel buio, a tentar di raccogliere i contorni degli oggetti che ella conosceva, e invano, e provò a dirsi che quella camera nera era un mondo nero, e che, dannata a vagolare per le tenebre, non doveva più vedere un raggio di sole…. Ahi! povero Leonardo!
—Ernesta—mormorò la voce del cieco.
—Che vuoi?
—È l'alba?—
Prima di rispondere, la povera moglie attraversò tentoni la camera ed andò ad aprire le imposte della finestra.
—È l'alba!—rispose.
E un filo di luce pallida mostrò ad Ernesta il volto rasserenato del cieco, il letto, il divano, i fiorami della tappezzeria, tutte le note fisonomie di quella camera melanconica, che parevano animarsi per sorriderle, per dirle:—coraggio, non sei sola, noi siamo qui per applaudire alla tua anima generosa.—
Soliloquio.
Appunto in quel mattino il dottore fece un soliloquio.
—Agenore mio,—diss'egli,—un'occhiata alla situazione strategica; non hai da perdere tempo, se no Ernesta ti scappa. Ieri soltanto la facevi da vincitore che concede una tregua, oggi sei alla vigilia di levare l'assedio e di battere in ritirata. Bada un po' che ti capita: i Leonardi ciechi furono da tempo immemorabile l'ideale di tutte le Erneste ridotte a capitolare nelle braccia d'un dottore; e invece eccoti una moglie, che pareva disposta a fare la sua eroica scappatella fuor del territorio coniugale, rimanervi perchè il marito non ci vede! Ernesta ha una testolina bizzarra che pensa le cose al rovescio delle solite testoline bizzarre; ma tu non puoi già cambiarla, spianarne i bernoccoli, rimpastarle il fosforo; ti conviene pigliarla com'è, o lasciarla, ed ahi! è più difficile pigliarla che lasciarla! Ricapitola le idee, raduna le tue forze, decidi. La condizione è ancora buona, ma minaccia di farsi pessima; ciò che oggi è scrupolo, domani può diventare sentimento; lascia fare alla compassione, e la tua bella assediata ti casca nel tenerume; e se per poco stringe alleanza col marito, quello che hai avuto hai avuto…. E che cosa hai avuto? Fa bene i tuoi conti, totale: zero. Sei stato troppo generoso, dottor Agenore. Un uomo della tua fatta, grande, grosso, belloccio, con una testa espressiva!… Via, è una vergogna; lo specchio istesso ti canzona…. Al punto a cui sono giunte le cose la guerra d'astuzie non giova…. bada, il nodo della cravatta non è preciso, tiralo più a diritta… troppo, più a mancina, così va bene…. ma non hai a credere che basti; è vero, hai molto trascurato finora il nodo della cravatta, ma ad ogni modo non basta; fi sei fidato ai vezzi della tua zazzera tirata indietro, alla debolezza della fibra femminina, ed anche questo non basta: il più ed il meglio doveva farlo l'audacia…. Confessalo, sei stato timido come un seminarista…. Però non dimenticare di raderti; barba rasa di fresco è mezza bellezza. Due colpi di rasoio in fretta…. aggiusta ancora il nodo della cravatta che è andato di sghimbescio…. così…. indossa il farsetto da mattina, fa spuntare i polsini, nè troppo nè troppo poco, pianta il cappello a tubo perpendicolarmente sulla nuca, un'ultima guardatina allo specchio…. sei in arnese, non ti manca nulla…. tranne la bacchetta di giunco ed un programma: Ecco la bacchetta ed ecco il programma: arrivi in casa dell'amico Leonardo verso le dieci del mattino, e appena ti trovi innanzi ad Ernesta te la stringi al cuore senza fiatare. Il silenzio è necessario. Il resto verrà da sè. Tutto sta ad abbracciarla; se non l'abbracci, dottor Agenore, ti scappa.—
Il dottore, che si era fermato un istante sulla soglia di casa sua, a questo punto girò la maniglia dell'uscio e scese solennemente le scale.
In cui il dottor Agenore ne fa una grossa.
Alle nove venne annunciata la visita della pietosa Virginia Rinucci, la quale fece dignitosamente il suo ingresso nella camera della cugina. Ernesta le venne incontro e notò a bella prima che faceva il bocchino in un modo insolito, indizio infallibile di maggior solennità. In fatti ella recava cose fauste, nientemeno che l'annuncio ufficiale d'una visita di babbo e mamma Rinucci; la corporazione coniugale doveva venire al mezzodì in punto.
Ernesta riuscì a dissimulare la propria commozione per questo avvenimento e si accontentò di dire che gli zii Rinucci farebbero molto piacere a Leonardo.
Qui venne naturale che l'amabile cuginetta domandasse se Leonardo era visibile. Era visibile. All'atto di uscire dalla camera, Virginia fu impressionata dall'ordine, eccessivo in quell'ora, che vi regnava.—
«Ho dormito sopra un divano—disse Ernesta.
—In camera di Leonardo?
—Già.—
Virginia rispose al monosillabo con una stretta di mano silenziosa. Era impossibile con minor numero di parole e con maggiore sussiego dire alla cugina:
—Brava, sono contenta di te.—
La cugina non si mostrò eccessivamente lusingata di questa tacita approvazione, e levando lo sguardo al soffitto parve invocare mentalmente la misericordia del cielo su quella testina di stoppa.
Quando Virginia fu innanzi al cieco, la sua pietà divenne mutola; stette così un bel tratto, finchè Leonardo stesso domandò chi fosse nella camera; allora facendosi forza si nominò e ripetè il fausto annunzio della visita dei coniugi Rinucci; poi si guardò intorno cercando argomenti, e non trovandone tacque, rifece il bocchino, ripigliò il sussiego.
Poco stante Leonardo disse che voleva levarsi da letto; Ernesta chiamò Bortolo perchè aiutasse il suo padrone a vestirsi e fece atto di uscir dalla camera, preceduta dalla cugina; ma quando costei era già per metà fuori dell'uscio, essa tornò frettolosamente al capezzale del marito a dirgli con voce sommessa:
—Vuoi nulla da me?
—Nulla.
—Sono nel salotto; quando chiamerai, verrò.
—Grazie,—rispose Leonardo.
Nello stesso tempo s'intese un lieve grido dietro l'uscio che si riaprì; apparve il dottor Agenore. Aveva la faccia arrossata, non salutò nemmeno Ernesta ed entrò in funzione ex abrupto domandando all'ammalato il polso e la lingua.
Che cosa era avvenuto?
Ecco: il dottore Agenore entrava dall'anticamera piena di luce nel salotto, in cui si faceva di buon mattino la guerra al sole; era giunto tentoni fin presso all'uscio che metteva nella camera del cieco, quando l'uscio si aprì ed apparve una figura femminile.—Abbracciala, se no ti scappa.—Ed egli aveva schiuso le braccia per tirarsi sul petto la bella. Ma la bella, che veniva da una camera più oscura, vide l'atto, ne comprese l'intenzione, e diè indietro gridando al par d'una tortora spaurita. Il dottor Agenore riconosciuto l'errore stette un istante a braccia aperte come un crocifisso, e nella confusione finì alla meglio l'atto, stringendo con soverchia cordialità le due mani dell'amabile Virginia Rinucci.—Scusi…. buon giorno… come sta?—disse, balbettò, spinse l'uscio e si pose in salvo.
Ernesta guardò un istante il dottore con un impercettibile sorriso di malizia, poi andò a raggiungere la cuginetta.
Per tutto il tempo impiegato da Bortolo nell'aiutare a vestire il padrone, Agenore parve affaccendarsi singolarmente egli pure intorno all'amico Leonardo; in realtà non faceva nulla, pensava.
L'avea fatta grossa! La misurava coll'occhio da tutti i lati—l'avea fatta grossa!
Che cosa doveva argomentare la signorina Rinucci da quella ginnastica incominciata in un amplesso e finita in una stretta di mano bislacca? Una cosa sola evidentemente, il vero. Oltre che l'equivoco era evidente, egli aveva dovuto confessarlo chiedendone scusa. Dunque? Dunque Ernesta era compromessa, dunque la pace di lei era minacciata, minacciata la sicura oscurità del piccolo adulterio preparato con tante fatiche… Ah! non se ne sapeva dar pace.
Quando Leonardo fu accomodato nel seggiolone e le due donne rientrarono nella camera, il dottor Agenore avea il naso sopra una specie di taccuino. Per non leggere di peggio sulla faccia della signorina Virginia, leggeva il manuale medico. Finalmente si arrischiò a spingere pian pianino uno sguardo innanzi a sè, facendolo strisciare sui fogli, e vide… Quello che vide, se non gli ridonò la baldanza, almeno gli fe' rialzare il capo del tutto: vide Ernesta sorridente e l'amabile cuginetta che chinava gli occhi pudibondi a terra e si faceva rossa rossa—uno spettacolo da tentare un pittore d'idillii.
—Buone nuove,—disse allora facendo uno sforzo per rientrare nella sua gravità dottorale,—buone nuove; l'infiammazione del bulbo è quasi cessata, fra qualche giorno spero che più nulla s'opporrà all'operazione.—
Virginia Rinucci, facendosi di tutti i colori e guardando Agenore languidamente, si arrischiò a domandare se la cateratta era matura.
—È maturissima—rispose il dottore cercando invano d'ingrossar la voce,—e l'operazione è indicata, indicatissima, quanto allo stato caterattoso; però ci è l'infiammazione del bulbo, e l'infiammazione del bulbo è una contro indicazioni temporanea….. mi spiego?
—Perfettamente.
—Oh!… cessata l'infiammazione del bulbo, faremo l'operazione; parlerò al dottor Q… specialista celebre…
—Non sarà lei l'operatore?—domandò Ernesta.
La signorina Rinucci stava evidentemente per fare la stessa domanda, perchè aprì la bocca e la richiuse guardando prima Ernesta e poi il dottore.
—Signore no,—rispose Agenore modestamente;—non sono da tanto; le operazioni di questa fatta richiedono uno specialista; io sarò l'assistente.
—Grazie,—disse Leonardo;—e quando vedrai il dottor Q…?
—Domani.—
Stettero tutti in silenzio immaginando che Leonardo parlasse ancora; ma egli non disse più nulla. La conversazione cadde di peso. Poco dopo il dottore era tornato al suo primo pensiero e guardava ogni tanto alla sfuggita la signorina Rinucci, la quale ad ogni volta chinava gli occhi pudicissimamente. Solo Ernesta non sorrideva più; si era fatta seria in viso e contemplava la faccia melanconica del cieco.
—Ah!—esclamò il dottore ad un tratto.
—Che cos'ha?—chiese Ernesta.
—Ho… ho…
Aveva un'idea luminosa, il modo di rattoppare la sbadataggine. Tutto oramai si riduceva a questo: far sapere all'amabile cuginetta che l'amplesso rudimentale, di cui ella era stata vittima, portava un altro indirizzo, che apparteneva come provento d'ufficio alla cameriera, ad Olimpia, e che era un innocente amplesso reo di questa unica colpa, di essere stato dato in salotto e non in anticamera.
—Ho….—soggiunse Agenore,—che è quasi mezzogiorno… e che a quest'ora dovrei essere….
—Il babbo sarà qui a momenti,—osservò Virginia.
—Signorina,—le disse il dottore che le si era avvicinato approfittando dell'attonitaggine di Ernesta—signorina, poc'anzi io…. bisogna che le spieghi…
La pudica Virginia chinò gli occhi a terra.—Parli al babbo…—disse, rialzò il capo e ripetè più forte della prima volta:—il babbo sarà qui a momenti…—
Alle prime parole il dottor Agenore spenzolò le braccia lungo i fianchi e rimase senza fiato; alle ultime si scosse, strinse la mano dell'amico Leonardo, salutò le due signore e prese la fuga.
Primi bagliori nel buio.
Passarono i giorni, simili nel muto dolore ma non monotoni nè angosciosi, come Ernesta aveva immaginato.
Sotto l'infinita melanconia di quella casa abitata dalla sventura s'indovinava ora una inalterabile serenità, un'armonia sommessa, una specie di gioia nascosta e mille soavi sentimenti senza nome. I due cuori, aperti per lo innanzi alle iruzze terrene, si erano chiusi a tutto ciò che non venisse dall'alto. Nelle anime prima esacerbate dal puntiglio, dalle stizze, era entrata una forza nuova che comandava la pace; alle aspre guerricciuole combattute a punta di spillo succedeva il santo rito d'una pietosa, benedetto dalla gratitudine d'un infelice. Si sentiva nel silenzio, si respirava nell'aria l'armonia che corregge i guasti della sventura, la gran dolcezza che si mesce agli sconforti più amari, la solenne parola che pare scendere dal cielo, quando mute sono le voci terrene: «coraggio,» e l'altra che prorompe dal cuore e trova la via fra le lagrime, quando tutt'intorno è il silenzio disperato: «siamo infelici, amiamoci!»
Il dolore fa grandi, dà alle creature umane qualche cosa della divinità.
Ernesta era ingegnosa nel ritrovare mille modi per alleviare la buia solitudine del povero cieco.
—Passeggiamo—gli aveva detto un giorno,—ti appoggerai al mio braccio; ti farà bene un po' di moto.—
Leonardo avea accettato con riconoscenza, avea posto una mano sull'omero della dama gentile ed era andato in giro per le camere.
—Quando cammino,—diceva—se per poco mi distraggo sembrami ad ogni passo di attraversare una distanza enorme; a volte il fermarmi non vale a cancellare questa impressione, il mondo nero continua a passarmi dinanzi; è una specie di passeggiata nel caos.
—E ti spiace?
—No, perchè sono teco,—rispondeva sorridendo,—e tu mi dai coraggio, mi rassicuri che sotto i miei piedi non ci è l'abisso, e che se mi cacciassi a perdermi nel vuoto mi tratterresti.
No, non mi spiace, mi sembra di tornare bambino, quando chiudevo gli occhi sulle ginocchia di mia madre per vedere il vuoto che a poco a poco si popolava d'immagini giranti a turbine, finchè anch'io diventavo un atomo di quel caos e giravo anch'io a turbine.
—Facevo io pure così,—diceva Ernesta con un riso melanconico;—qualche volta lo tento ancora, ma non mi riesce; è un giuoco che va fatto fra le ginocchia della mamma.—
Queste brevi passeggiate chiamavano sempre il sorriso sulle labbra dei due poveretti: era raro che Leonardo non si fermasse d'un tratto per dire un'idea faceta o bambinesca che gli veniva allora.
—Facciamo un giuoco, disse una volta.
—Facciamolo—disse Ernesta.
—Tu mi condurrai per mano, mi farai girare per le stanze, qua, là, cercando di farmi perdere, poi ci fermeremo ed io dovrò indovinare.
—Ho capito, lo chiamavamo giuocare al labirinto; chi non indovinava faceva la penitenza.—
Leonardo indovinava sempre, e non solo sapeva dire in qual camera, ma anche in qual punto, vicino a qual mobile si trovasse: Ernesta raddoppiava gli artifizi, gli inganni, le giravolte e finiva sempre con dire:—bravo!—
Spesso a quei puerili trastulli succedeva uno sconforto più intenso, un pensiero più tetro, un'immagine più melanconica.
«È proprio vero che ci sono le stelle nel cielo azzurro ed i profili fantastici delle piante nella notte, e di giorno il verde immenso, le nuvole di porpora e d'oro, i riflessi del sole? È proprio vero? A volte penso che non io sia cieco, ma che tutto siasi cancellato per sempre dallo spazio, che i colori, i contorni, siano andati perduti nel buio senza fine…. Dimmi che tu vedi le nuvole d'oro e il verde della campagna… dimmelo, Ernesta.
«Lo vedo, lo vedrai tu pure,—balbettava la povera donna con accento carezzevole.
Nulla rispondeva Leonardo, lagrimava in silenzio, ed alla voce sommessa, piena di singhiozzi frenati, che lo scongiurava di acquetarsi, diceva finalmente con un nuovo impeto melanconico:
«Oh! lascia ch'io pianga; non mi rimangono occhi che per piangere!»
Poi si diradava il nugolo e ricompariva la sola luce di quell'esistenza, un pensiero gaio, la sola luce di quel pallido volto, il sorriso.
«Debbe essere curioso vedermi attraversare le camere vicino a te; che bizzarro contrasto! io lungo lungo, tu piccina al paragone, tu piena di vivacità, di grazia e di luce, io spento, impacciato, stecchito. Ci deve essere una folla de' tuoi spiritelli che si tira indietro e si nasconde nel vano delle finestre per lasciarmi passare. Come devono ridere di me!»
Ogni giorno, spesso più volte in uno stesso giorno, Ernesta faceva la lettura; era una festa pel cieco, il quale indicava i libri come sapeva meglio, generalmente per via di esclusione. Questo no, quello nemmeno—li aveva letti tutti; infine i soli volumi che non avesse letto erano i Saggi del Montaigne, le Confessioni di Sant'Agostino, le Prose del Leopardi ed i Caratteri del La Bruyere, capitati non si sa come fra il Visconte di Faublas, il Linguaggio dei Fiori ed i romanzi di Paul de Kock. Ernesta leggeva bene, senza solennità, ma punteggiando le frasi coll'accento e colle pause; aveva una vocina morbida, chiara, dolce, che ingentiliva il vecchio francese del Montaigne e dava un vezzo singolare alla prosa volgarizzata di Sant'Agostino.
A mezzo d'un periodo, ad un epiteto forte, ad un paragone strano, ad uno dei mille aneddoti, coi quali il semplice e profondo pensatore francese infiora le sue idee, Leonardo faceva cenno alla vaga leggitrice di star zitta, si arrestava un istante in meditazione, poi accennava di proseguire; dopo una mezz'ora di lettura al più:
«Basta,—diceva,—non voglio che ti stanchi… grazie.
—Non sono stanca….
—Grazie… devo ora pensare a quello che ho letto…
E pensava; lungo tratto d'ora stava così immobile, colla testa appoggiata alla spalliera del seggiolone; spesso Ernesta credendolo addormentato camminava sulla punta dei piedi per non destarlo, ed allora egli si scuoteva mostrando a fior di labbra un sorriso.
…. Passavano così i giorni, simili nel muto dolore, ma non monotoni nè angosciosi. S'indovinava un'inalterabile serenità, una specie di gioia nascosta; si sentiva nel silenzio, si respirava nell'aria l'armonia che corregge i guasti della sventura, la gran dolcezza che si mesce agli sconforti più amari.
Oh! sì, il dolore fa grandi, dà alle creature umane un riflesso della divinità!
Inventario di cose e d'uomini.
«Stamane sono di buon'umore—disse Leonardo alla sua compagna,—vieni meco, Ernesta, andiamo a spasso; ti voglio fare l'inventario di tutti i mobili della casa, incominciando dal salotto; vedrai come li ho in mente! Se ne ho dimenticato qualcuno, me lo ricorderai, ho bisogno di radunare le mie memorie—sono esse il mio mondo. Quanti luoghi ho attraversati frettoloso, sbadatamente, e che ora avrei caro di rivedere col pensiero!… Per esempio il caffè Cova ed il Circolo li ho scolpiti nel cervello…. è qualche cosa, ma ci era posto anche per altro, ti pare?»
Ernesta rispose con una stretta di mano, con una muta carezza, accusandosi in cuore di essere stata la prima a fare a Leonardo il rimprovero che ora egli faceva a sè medesimo.
«Sì,—disse poi con accento ilare per sviare il pensiero del cieco,—sì, andiamo a spasso, mi farai l'inventario dei mobili della casa.
—Incominciamo dal salotto,—soggiunse Leonardo, avviandosi al braccio della moglie.
—Senti questo ch'io tocco; che cosa è?
—Una tenda americana; vi è dipinta una pianta a larghi fogliami, sopra un fondo color di porpora che raffigura il cielo del tropico.
—Bravissimo, ora va innanzi.
—Nel vano della finestra vi è un tavolinetto dipinto, con dorature ed intarsii di madreperla; il dipinto rappresenta un paesaggio turco con un crocchio d'uomini che fumano la pipa….
—Bravissimo.
—Sul tavolino un albo di ritratti, un grosso albo con coperta di tartaruga e fermagli dorati.
—L'albo ci era, ma non ci è più; ha mutato posto…. ora è sul tavolino di mezzo…. innanzi.—
Il suono del campanello interruppe il curioso inventario; Ernesta volse gli occhi all'uscio d'ingresso e Leonardo si tenne immobile nel vano della finestra.
«È Agenore,—diss'egli appena udì il rumore dei passi nell'anticamera, e subito dopo aggiunse:—non è solo.»
Era in fatti Agenore accompagnato dal dottor Q… oculista celebre.
La festicciola scherzosa finì. Si cancellò dai volti melanconici quel pallido riflesso di gioia, e l'inquietudine tornò a battere al cuore di Ernesta più forte che mai, e la rigidità della sventura incatenò ancora le membra del cieco.
Stava per aprirsi uno spiraglio nell'avvenire.
Il dottor Q… entrò, fece un saluto cortese col capo, e senza perdersi in parole inutili, sciolse egli stesso la benda del cieco per esaminarne gli occhi alla luce della finestra.
Perfino il cuore di Agenore batteva affrettato. Ernesta collo sguardo intento spiava una buona novella, un incoraggiamento, una speranza sulla faccia del dottore, il quale rimase impassibile e sereno. Solo quando ebbe rimessa la benda all'infermo, l'oculista disse queste parole:—Fra una settimana.
Un atto di contentezza di Agenore commentò la frase monca così:
«Fra una settimana si potrà fare l'operazione.»
Ernesta avrebbe voluto che il celebre medico rispondesse a cento domande, che essa non osava fare. Si aveva certezza, o probabilità, od almeno speranza di guarigione? Quando il medico fu per andarsene, la povera donna si fece forte.
—Riescono bene queste operazioni? domandò con un filo di voce.
—Riescono quasi sempre bene, rispose il dottor
Q…. con accento benevolo;—si faccia coraggio.
Per spiegar meglio quel concetto, Agenore aggiunse sottovoce:
«Quanto a riescire, riescono…. ma!…»
E tenne dietro all'oculista promettendo di ritornare dopo il mezzodì.
Ancora Leonardo ed Ernesta rimasero soli.
«Innanzi,—disse la povera donna facendosi forza per nascondere il suo affanno,—innanzi; sei rimasto al tavolinetto nero con intarsiature di madreperla.
—Che uomo è il dottore?—domandò il cieco.
—Un uomo di aspetto comune, ma con una faccia buona.
—È vero, ha la voce affabile… è alto?
—No, mezzano.
—E come è? Voglio vederlo….
—Vedilo, disse Ernesta scherzosamente;—è un poco tarchiato, ha i capelli grigi, niente barba, mustacchi più neri che bianchi, fronte alta, naso medio, bocca grande… Lo vedi?
—No, rispose Leonardo…..
—Aspetta: fisionomia seria, occhi lucenti….
—È inutile; me ne farei un'immagine fantastica.—osservò il cieco; mi ricordo ora che prima di conoscerti, quando si parlava di te in casa Rinucci, mi fu descritto il colore de' tuoi capelli, dei tuoi occhi, la forma del tuo naso….
—Povero naso!—chi sa come lo calunniava la mia cuginetta!
—Ebbene,—proseguì il cieco sorridendo,—quando vidi te la prima volta, ti trovai tutta diversa da quello che t'immaginavo… Confrontando ora l'immagine che mi ero fatta, e la tua, trovo che, perchè mi avevano dipinta una bruna, io t'aveva immaginata nera, e perchè avevano parlato d'una donnetta piuttosto piccola di statura, io ti vedeva nana…. Il dottore Q….—soggiunse dopo breve silenzio con accento scherzoso che mal dissimulava l'inquietudine,—è celebre… e nel caso mio la fiducia ha da esser cieca… Proseguiamo l'inventario; eravamo rimasti all'albo…. ov'è l'albo?
—Sul tavolino di mezzo….
—Lasciamo stare l'inventario, guardiamo insieme l'albo.»
Ernesta obbedì senza dir parola, trasse il cieco a sedere sul divano, gli pose sulla ginocchia il grosso volume, l'aprì ed incominciò:
«Vittorio Emanuele II, il Principe ereditario, la principessa Margherita….
—Saltiamo i principi,—disse Leonardo, voltando alcuni fogli.
—Tuo padre e tua madre.»
Il cieco non disse nulla, stette un istante a capo basso, come cercando di veder meglio quelle amate sembianze, poi voltò la pagina lentamente.
«Un bel giovinetto, lungo lungo, con due baffetti neri ed un'aria di storditello….
—Io,—disse il cieco; e rise forte.
—Una giovinettina piccina, quasi nana, molto bruna, quasi nera, con un naso fatto così e così….
—Tu!—e rise più forte.
—Il baronetto William.
—Gli fui padrino in un duello…. un bel giovine alto, elegante… lo vedo.»
Ad Ernesta venne, non so per qual via, l'idea bislacca di ingannare la buona fede del cieco, collocando mentalmente, subito dopo il ritratto del baronetto William, un altro ritratto che ella sapeva sepolto sotto un monte di libri…. e disse colla massima indifferenza:
—La B…. prima ballerina assoluta di rango francese… stagione di carnevale e quaresima alla Scala.—
Il cieco sorrise.
—Come fa a trovarsi nell'albo quel ritratto?
—Ma!…—
Quando furono giunti all'ultima pagina, Leonardo stette immobile come per evocare nel buio le sembianze di tanta gente nota, finchè Olimpia venne a chiamare la signora per causa della minestrina del signore.
Bisogna sapere che le minestrine andavano soggette alla revisione di Ernesta, senza di che non potevano ristorare l'organismo del signore.
Rimasto solo, il povero cieco riaprì l'albo che ancora aveva fra le mani, fe' passare ad uno ad uno parecchi fogli contandoli; leggiero come una carezza, passò l'indice sopra una pagina; poi accostò insieme il volume e la bocca, e le labbra mormoranti una parola sommessa tenne a lungo fisse sopra le sembianze d'una giovinetta nè troppo piccina nè troppo bruna, ma con un naso fatto così e così….
Risultato ultimo d'una discussione filosofica.
Da molti giorni Ernesta non era uscita di casa.
—Ti ammalerai—aveva detto il cieco,—perderai il roseo delle guancie, ed io non potrò nemmeno accorgermene per dirti: «cattivella, vedi!»
Quel pomeriggio l'infermiera si arrese, accettò di scendere in giardino a fare una passeggiata, a patto che il dottor Agenore rimanesse a tener allegro l'ammalato.
Dalla finestra dischiusa si scorgeva la bella donna che passava nei viali, salutata dai passeri e preceduta di albero in albero dall'usignuolo, ed Ernesta anch'essa poteva vedere i volti ravvicinati del marito e del dottore.
Un pezzo i due amici stettero senza parlare; Leonardo pensava, e lo stesso Agenore, seguendo cogli occhi la bella, si distraeva imperdonabilmente, considerate le funzioni ciarliere che egli aveva accettate.
—Dove è ora Ernesta?—domandò il cieco.
—Fa il giro dell'ippocastano… si mette in un viale… si allontana…
—Le farà bene un po' di moto.
—Le farà bene…
—Tanto più se vi era avvezza, perchè doveva passeggiare molto in campagna… non è vero?
—Credo di sì…
—Non fosti mai a trovarla?
—Parecchie volte.—
Leonardo stette zitto aspettando che l'altro dicesse di più, e finalmente osservò:
—Doveva annoiarsi in campagna!—
Il dottore zitto.
—Dov'è ora Ernesta?
—Sotto il padiglione.—
Nuovo silenzio.
—Senti,—uscì a dire il cieco improvvisamente,—poichè abbiamo tempo, voglio parlarti d'una cosa. Ti ricordi quando, dopo avermi spiegato il tuo sistema filosofico… la materia cosmica eterna, le forze, la materia organica, i vasi, le fibre, i tessuti, che so io, mi domandavi se mi avevi convinto, ed io ti rispondeva che era inutile, tenessi tu le tue idee, terrei io le mie…
—Sì,—proseguì il dottore,—e le tue idee erano di non averne alcuna, di lasciar che le fibre e i vasi compissero le loro funzioni senza dartene pensiero.
—Te ne ricordi?… Ti dicevo: Se ci è qualcosa dopo di noi, lo vedremo, se non c'è nulla, buona notte; e quanto alla materia cosmica non sono io che le impedirò di godersi in pace la sua eternità. La vuoi eterna?… te la do eterna, a patto che lasci in pace la mia materia organica che non è eterna… Te ne ricordi?
—Altro!
—E dicevi, tirando mia moglie a far la trinità: «noi tre rappresentiamo le tre scuole filosofiche del secolo: il materialismo che combatte—io—lo spiritualismo che sogna—lei—l'indifferentismo che vegeta—tu.—»
—Testuale.
—Ebbene, allora non ci volevo pensare… da due mesi ci penso—e vuoi che ti dica la mia opinione sulle tue opinioni?
—Dilla.
—La tua materia cosmica eterna mi pare sorella del caos dei credenti; il tuo ignoto di genere femminino, che chiami forza, mi pare parente prossimo dell'ignoto, di genere mascolino, che mia moglie chiama Dio, Quanto ai nervi, alle fibre, ai vasi, ho paura che tu confonda la vita, gli affetti, i pensieri cogli stromenti dei pensieri, degli affetti, della vita.
—Sono le solite risposte degli spiritualisti; non hai trovato nulla di nuovo.
—Se le ho trovate alla prima, appena mi sono fermato a pensare, non hanno da essere rare nè curiose; ma l'averle trovate alla prima non significa forse che sono vere?
—No, significa solo che sono volgari.
—Senti, Agenore mio, tu non sai che cosa sia vivere due lunghi mesi nel buio, nel vuoto, tu non sai quanto si acuiscano i sensi, e che parole si odano nel silenzio, e che immagini si disegnino nel fondo nero. Non lo senti tu mai, nel mezzo della notte, quando tutto tace, quando nulla ti distrae nell'insonnia, un bisbiglio sommesso, un linguaggio che non è della vita e che pure tu comprendi? Non vedi fisonomie note e non prima vedute, manine che si allungano nel vuoto a carezzarti? Sei là, piccolo, debole, nell'immenso vuoto, nell'immenso buio, e non hai paura… qualche cosa di te si allontana nello spazio, non si perde, ritornerà per dove è partita, nel raggio d'una stella, come in un sentiero tracciato… Tutto questo, Agenore mio…
—Tutto questo, Leonardo mio, è buon indizio; prova la sensibilità della tua retina, la forza del tuo nervo ottico; tu continui a guardare ed a vedere senza servirti della pupilla oscurata; ecco il mistero.—
Il cieco sorrise.
—Dov'è ora Ernesta?—domandò poco dopo.
—Si è curvata a guardare una pianta… pare che non la conosca… perchè continua a guardarla.
—Che pianta è?
—Una ferraria… «Una ferraria!»—gridò poi affacciandosi alla finestra.
Si udì la voce argentina di Ernesta che rispose:
«Grazie;» poi tutto tornò nel silenzio.
—Non è mai venuta a Milano quando ero assente?
—Chi?
—Ernesta.
—Sì, una volta.—
Era inconcepibile per Leonardo come l'amico dottore stentava a mettere fuori le parole. Mutò discorso.
—Sai tu perchè il mondo è pieno di cattivi?
—Ma è proprio pieno di cattivi?—domandò il dottore;—io non me ne sono mai accorto.
—Tanto meglio per te… tu sei buono… ma io intendo cattivi tanto coloro che insidiano l'onore, le sostanze, gli affetti del prossimo, quanto quegli altri che non si fanno scrupolo d'offendere un amico, per la vanità di dire una scioccheria spiritosa; ebbene, sai tu perchè ci sono tanti cattivi al mondo?
—La frenologia ha provato…
—Perchè ci sono troppi spensierati; perchè le piazze, i caffè, i circoli, i palchetti dei teatri formicolano di gente che teme di servirsi del proprio cervello. Un uomo che pensa finisce con accorgersi della sua e dell'altrui miseria; dà l'importanza che meritano alle cose che lo circondano; scende i gradini di quella piramide che è l'egoismo e si mescola alla folla, non se ne sta immobile sul vertice a credere il mondo creato per sè solo; ai sofismi del proprio interesse, delle proprie passioni, sa contrapporre i sofismi degli interessi e delle passioni contrarie, e dal cozzo cava la scintilla del vero… Ah! il pensiero è una forza!
—Verissimo, il pensiero è una forza, e gli spensierati non hanno mai fatto male a nessuno, perchè sono inermi e deboli; Tizio obbedisce all'istinto, e, senza pensarci quasi, ti accompagna per servirsi della tua carrozza e del tuo palco; digli che pensi molto, ed il pensiero gli darà la corazza dello strozzino. Sempronio ha la vanità di sapersi fare il più bel nodo della cravatta del mondo incivilito; digli che pensi molto e vorrà i giavellotti di deputato o lo spadone a due tagli di Ministro di grazia e giustizia; gli Ercoli dell'egoismo e dell'ambizione sono gente che ha pensato molto. Credi a me: l'organismo oscilla, ma non si muta; chi ha la cattiveria nel sangue la conserva, finchè dura la circolazione; vuoi guarirlo, svenalo.
—Sì, l'organismo non si muta; nè gl'istinti si mutano; sono con te; ma io, irascibile, diventerò padrone di me stesso, imparando a conoscermi col pensiero, e le ire e le collere del mio istinto serberò contro gli uomini cattivi e le cose cattive. Ambizioso d'onori, diventerò ambizioso di bene; cattivo marito, apprenderò a rispettare il culto della famiglia, e vorrò esserne il sacerdote…—
Il sospiro di Leonardo, dopo queste parole, s'incontrò e si confuse con un sospiro del dottore. Dopo di aver sospirato all'unisono, entrambi stettero zitti, poi il cieco disse sorridendo:
—E se non il sacerdote… il predicatore; dillo pure, lo hai sulle labbra… ma già è così: sono molto mutato e non ne ho colpa o merito, come ti piace; la mia maestra è la sventura… Dimmi, si è fermata molto in Milano?
—Chi?
—Mia moglie.
—Un paio di settimane.
—E tu la vedevi spesso?
—No… cioè… così.
—Ci veniva altri a vederla?
—La cugina, gli zii…
—Nessun altro?
—Credo di no; ma perchè mi fai queste domande?
—Perchè vorrei sapere se Ernesta, nell'abbandono… È bella Ernesta…. avrà avuto intorno qualche vagheggino?—
Il dottore non fiatava; ed il cieco con voce sommessa e carezzevole:
—Agenore, non mettermi alla tortura; ho ancora delle debolezze, mi vergogno, ho paura di farti ridere… dovresti indovinare tu…—
L'amico sprigionò un sospiro lungo lungo, poi disse:
—Non ci vuol molto ad indovinare… sei innamorato di tua moglie…
—È vero,—disse Leonardo facendosi rosso in viso;—ma chi sa se ella potrà amarmi ancora….
—Io non lo so…
—Sapesse almeno che sono mutato, che cambierò vita!…—
Il sangue, i nervi, le fibre, i tessuti, gli umori di quell'organismo saldo che si chiama il dottor Agenore, entrarono a tumulto; un momento di lotta acre e rabbiosa, poi tornò l'equilibrio; il sagrifizio era consumato: Agenore rinunciava ad Ernesta.
Ridano gli sfaccendati del caffè e del circolo, io giuro a chi legge che in quel solenne momento il dottore Agenore era bello. E non si sono udite mai parole più generose di queste che egli pronunciò forte, stringendo vigorosamente la mano del cieco, per farsi cuore:
—Glielo dirò io!
—Oh! grazie… quando?
—Subito, se vuoi, corro in giardino, me le getto ai piedi come tuo rappresentante, e le faccio la mia, cioè la tua dichiarazione in regola.
—No, aspetta… che fa ora Ernesta?—
Agenore, non vedendo la bella dove l'aveva lasciata poc'anzi, si affacciò alla finestra per cercarla; in quel mentre si udì un passo leggiero ed un fruscio d'abiti.
—Eccola,—disse Leonardo, ed aggiunse con accento di preghiera: «non ora, non ora.»—
E il dottore, che già si era mosso per andare in salotto, si fermò dinanzi all'uscio.
Entrò Ernesta e sorrise; entrò la signora Virginia
Rinucci e chinò gli occhi a terra.
Agenore si credette in dovere di fare un saluto; ma la vergine arrossì. E per un quarticino d'ora, ad ogni volta che al dottore senza avvedersene accadeva di guardare la signorina o di rivolgerle la parola, la signorina arrossiva e chinava gli occhi a terra.
Agenore trovò quel quarticino d'ora eterno, sebbene lo spendesse a studiare coscienziosamente l'organismo del pudore, e finì ad andarsene dicendo che con un organismo simile era un peccato che la signorina Rinucci rimanesse zitella, e che il mondo le doveva un marito…
E in così dire rideva, il disgraziato!…
Un sogno ad occhi aperti.
Nel giorno successivo, quando il dottore venne a visitare il suo ammalato e gli ebbe toccato il polso, fu l'ammalato che toccò il polso al dottore e gli disse sottovoce, perchè Ernesta non intendesse:—oggi no, Agenore, oggi no.—
L'amico, che non aveva dimenticata la promessa ambasceria, e ruminava anzi in mente un discorsetto per parere un ambasciatore disinvolto, comprese subito e rispose: «va bene…» Ma Leonardo non parve rassicurato, ed appena ne ebbe agio, ripetè con accento di preghiera: «Non oggi, non oggi.»
Che diancine era dunque accaduto? Il dottore almanaccava invano, guardando in faccia ora l'uno ora l'altro dei due coniugi, e quando si trovò un istante solo col cieco, domandò senza preamboli:—Che è stato, che c'è di nuovo?
—Nulla,—rispose Leonardo,—nulla… ma ci ho pensato ancora…. non oso… che dirà di me? Dillo tu, che dirà di me?
—Io non lo so davvero: che vuoi che dica?
—Dirà che sono un egoista, che non occorre molta virtù per cambiar vita, ora che sono condannato alle tenebre, e che non vi è merito, ridotto nel mio stato, ad amare un'infermiera così attenta, così premurosa, così bella… questo dirà, non è vero?
—Non mi pare…—balbettò Agenore.
—Dirà—proseguì il cieco con accento melanconico,—che io doveva aprir gli occhi quando ci potevo vedere, ed accorgermi che avevo in casa un tesoro, quando passavo il mio tempo al circolo; dirà che allora dovevo darle o domandarle amore, quando essa domandava ed offriva amore ad uno scioperato… e che ora è tardi, dirà, e non sa che farsi dell'amore d'un cieco. Non è vero forse?—
Il dottor Agenore, il quale avea dato tante prove d'eroismo, non venne meno in questa difficile congiuntura ed accettò di buon animo, mettendo sulle labbra un sorriso lievemente melanconico, la parte di confortatore.
—Non mi pare; tua moglie è buona, ha un'indole affettuosa, ha bisogno d'amare qualcuno, e…
—E chi sa se questo qualcuno sono ancora io?
—E chi vuoi che sia? Non ti accorgi della premura, con cui ti sta intorno?
—Sì, mi accorgo di tutto, medito ogni sua parola, ogni sua intonazione di voce, il passo, i movimenti, ogni cosa. Ma non mi basta. Cerco la tenerezza che è figlia dell'amore, e trovo solo la tenerezza, che è figlia della compassione…
—Della compassione che è la nonna dell'amore, perchè sua figlia la tenerezza va a nozze col desiderio e genera l'amore, che poi rigenera quell'altra tenerezza. Sono casi di parentela molto complicati, vi è dell'incesto in mezzo, ma tanto è così…. Oh! manco male, ti ho fatto ridere!
—Di che si ride?—domandò Ernesta ritornando.
—Debbo dirlo?—chiese il dottore sottovoce all'infermo.
—Non oggi, non oggi.
—Si ride,—proseguì Agenore, accomodando la benda al cieco,—e si ride a torto, della teorica dell'amore di un filosofo tedesco, Arturo Shopenhauer, la teorica del completamento, secondo la quale gli organismi cercano istintivamente di completarsi coi loro contrarii, l'uomo sanguigno colla donna linfatica, l'uomo bruno colla donna bionda, il grosso….—
Stava per dire colla «sottile,» quando si rizzò quanto era grande e grosso, levò la testa bruna e si vide dinanzi la signorina Virginia Rinucci, più bionda e più sottile del solito, ma meno linfatica, a giudicarne dalle guancia imporporate dal rossore, la quale era entrata dietro ad Ernesta senza dir nulla.
Agenore salutò scusandosi di non averla veduta, senza altro risultato che di farla arrossire più forte.
—E viceversa,—aggiunse premurosamente per correggere l'effetto d'una involontaria dichiarazione,—i piccini coi donnoni, i biondi colle brune. L'ideale dei completamenti, il completamento tipico sarebbe quello d'un nano con una gigantessa, coniugi spaiati che si fanno vedere alle fiere.—
Ernesta rise, non so se dell'immagine o dell'intenzione del dottore.
Ma la pudica Virginia avea ricevuta una dichiarazione e se la teneva, e non ci era verso di fargliela restituire; e questa volta come le altre, Agenore dovette finire con lasciare il campo, infilando l'uscio.
Anche la cuginetta, le cui visite da qualche tempo coincidevano con quelle del dottore, non tardò ad andarsene.
Ernesta e Leonardo rimasero soli.
Era l'ora del mezzodì; dal cortile soggetto, attraverso le imposte chiuse in modo da lasciare passare insieme un filo d'aria e di luce, giungevano le vocette di alcuni fanciulli schiamazzanti.
—Ti disturbano?—chiese Ernesta,—vuoi che dica loro di star zitti? Sono buonini, mi obbediranno; o vuoi che chiuda la finestra del tutto?
—No,—disse Leonardo melanconicamente,—lasciali fare, mi par di essere tornato fanciullo, quando giocavo a mosca cieca coi miei compagni, ed uno alla volta ci mettevamo la benda sugli occhi… come io ora… lasciali fare, giuoco anch'io con essi.
—Povero Leonardo!—disse Ernesta.
—Povero Leonardo!—ripetè il cieco.
Non disse altro; pur comunque si adoperasse a nasconderlo, egli era inquieto, crollava ogni tanto il capo, come cercando nel buio, si muoveva, apriva la bocca per parlare, taceva.
—Conducimi a spasso—disse poco dopo.
Ernesta gli offrì l'omero perchè vi si appoggiasse e lo menò in giro per le camere, finchè egli disse:—Basta.
—Basta; ora sediamo, qui nel salotto, io nel seggiolone, tu al pianoforte… suonami qualche cosa.
—Un walzer di Strauss,—disse Ernesta aprendo il pianoforte dimenticato.
—No, una romanza mesta, un notturnino.
—O una marcia funebre,—aggiunse la bella ridendo.—Ecco il notturnino… incomincio, se sbaglio non ci badare, non lo faccio a posta.—
E incominciò.
Leonardo ascoltava estatico, e quando l'ultima nota si perdette, egli ancora ascoltava.
—Ti basta?—chiese la bella.
—Sì, non bisogna guastarmi la cara impressione; ogni pezzo di musica ha il suo linguaggio; bisogna ascoltarne attentamente uno e meditarvi su…—-
Ernesta chiuse il pianoforte e venne presso al marito.
—Siedi,—disse Leonardo provandosi a sorridere, obbedisci al tuo tiranno…
—Ecco fatto,—disse Ernesta.
—Ed ora dormiamo…
—E se non avessi sonno?
—Sarebbe un peccato… mi piacerebbe che tu dormissi così accanto a me… è un capriccio.—
Ernesta non rispose.
—Che fai?—chiese Leonardo dopo un breve silenzio.
—Dormo.
—Davvero?
—Mi provo.—
Succedette un silenzio più lungo, dopo il quale il cieco domandò con un filo di voce:
—Ernesta!
—Leonardo.
—Ah! lo vedi, non dormivi….—
Era incomprensibile per Ernesta il capriccio del cieco.
—Ora dormirò davvero,—disse, e chiuse coscienziosamente gli occhi, e si tenne immobile, abbandonata sulla spalliera del seggiolone, aspettando il sonno.
Un quarto d'ora dopo, quando parevale che oramai il marito dormisse, lo udì ripetere come prima:
—Ernesta!—
Non rispose, aprì gli occhi. Il cieco si curvava innanzi ad ascoltare, e ripetè sottovoce:
—Ernesta!—
Tacque un istante e di nuovo chiamò a fior di labbro:—Ernesta!—
Allora si rizzò in piedi lentamente, senza far rumore, come uno spettro, mosse un passo leggerissimo brancicando per cercare il seggiolone, e trovatolo, si trattenne ad ascoltare la respirazione di Ernesta, si curvò sopra di lei, e colle labbra tremanti le sfiorò le guancie. Si drizzò, stette in ascolto, come un ladro che ha carpito un tesoro, tornò senza far rumore al suo seggiolone e, quando si credette al sicuro, sorrise.
Ernesta, che lo guardava ad occhi aperti, lasciò scorrere una lagrima dove si era posato il primo bacio d'amore di suo marito.
Una rivelazione del dottor Agenore.
Nella sera di quel giorno medesimo, che era un giovedì, il celebre dottor Q… tornò a far visita al cieco, ed avvertì il suo collega che l'operazione si sarebbe potuta fare il sabato, se egli non avea nulla in contrario.
La clientela del dottor Agenore non avea fortunatamente nulla in contrario, dunque il dottore Agenore nemmeno.
Per altro il giorno successivo, levandosi da letto e dicendo: «domani!» non si sentiva ben rinfrancato. Siffatta era la solennità dell'avvenimento per lui, che nemmanco la laurea dottorale lo avea tanto commosso. Fu necessario un esame di coscienza.
«Agenore mio, disse egli, sta per entrare in ballo la tua riputazione di medico, la quale non è veramente gran cosa, ma ha il suo valore; l'estrazione d'una cateratta è delicatissimo negozio anche per l'assistente; bisogna che il dottore Q… abbia un aiuto e non un impaccio; a teoriche, se non sei un milionario, ne hai da spendere; ma in pratica corri rischio di sembrare un pitocco; se domani non riesci a tenere stirata abbastanza la rima palpebrale del paziente, o per allargarla troppo cagioni un arrovesciamento, e guasti il tuo decoro e l'amico Leonardo…. la fai così grossa, così grossa, che non avrai bisogno di farne altre in tutta la tua carriera di medico….. Tu non sei uomo da tentennare nei gran momenti, ma ti conosco, non sai fare l'eroe dinanzi ad uno che soffre…. basta…. basta…. Intanto oggi tocca a te preparare il paziente…. farlo stare in gran quiete stanotte, perchè domani all'alba…. To'!… e l'ambasciata di Leonardo? bisogna farla; egli dice di no, perchè tu faccia di sì, questo s'intende. Ah! (un sospirone)—ti toccano tutte, Agenore mio, metti per conto tuo l'assedio in regola ad una bella donna, nelle condizioni più felici per la conquista, ed eccoti a far le parti dell'ambasciatore, a trattar l'alleanza per conto d'un altro… Quando si dice!…. Ha da venir in mente a lui, proprio a lui, al marito cieco d'innamorarsi di sua moglie e di sceglierti per confidente ed…. ambasciatore!…. Ah!…. basta…. Hai rinunciato ad Ernesta…. hai promesso a Leonardo…. il poveraccio aspetta un conforto, e tu glielo devi oggi…. perchè domani….»
Pensando al domani, il dottore si grattava la nuca e si prometteva di vegliare una parte della notte per ripassare il suo manuale d'oculista, al quesito: cateratte, come già in Pavia alla vigilia degli esami.
Quel giorno Agenore anticipò la visita, parlò al suo ammalato con una vocina anche più carezzevole del solito, tanto da farsi rivolgere da Ernesta tenere occhiate riconoscenti, a cui due giorni prima non avrebbe forse saputo dare la giusta interpretazione.
Raccomandò questo, quello, quest'altro; non si stancò di raccomandare, e per quanto facesse il disinvolto, e ripetesse ad ogni tratto che il domani era un giorno come un altro e l'operazione una cosa da nulla, non pensava egli stesso che al domani ed all'operazione.
Prima d'andarsene raccomandò ad Ernesta, per carità facesse rispettare appuntino le ordinazioni del medico, ed accostandosi a Leonardo gli disse per l'ultima volta:
—Senti, oggi hai da stare tranquillissimo; faresti bene a prendere un purgante blando…. No? Lascia stare, non è assolutamente necessario, ma la tranquillità sì è necessaria, e la voglio. Il dottor Q…, non potendo venir oggi a vederti, ti ha affidato a me, e se domani non ti trova come devi essere, converrà differire ancora…. E ti garba l'aspettare?… scommetto di no.
—No, no,—disse il cieco,—starò tranquillo.
—Va bene, ed ora me ne vado proprio….
Ma Leonardo gli stringeva la mano e non lo lasciava.
—Vuoi qualche cosa?—domandò Agenore;—ah! ho capito!….
—No, non hai capito….—soggiunse il cieco come mormorando fra sè e sè, ma in modo da essere inteso dall'amico:—Non oggi, non oggi.
—Sta bene,—disse il dottore, ed uscì facendo un cenno ad Ernesta.
La bella lo seguì nel salotto; si faceva forza, ma tremava, aveva paura di qualche penosa rivelazione….
—Che vuol dirmi, dottore? Qualche brutta notizia?…
—No, anzi—rispose Agenore, cacciando le dita nei taschini del panciotto per darsi un contegno, tutt'altro…. ho un'ambasciata da farle….
—Un'ambasciata? A me?
—Cioè, ieri era un'ambasciata…. oggi muta carattere, diventa una rivelazione….
—Una rivelazione!—ripete la bella, fissando gli occhi a terra come per cercare d'indovinare.
—Già…. ecco…. siccome….—
Ad ogni parola Agenore levava le dita d'una mano da un taschino e ve le ricacciava, alternando; finalmente si fece forza e disse tutto d'un fiato:
—La cosa è tale e quale…. mi stia a sentire; ieri Leonardo mi aveva pregato di dirgliela ed io aveva promesso, poi Leonardo non volle più per certi suoi scrupoli, ma ora io voglio, sebbene Leonardo non voglia, e gliela dico: Leonardo è innamorato di sua moglie…. ora ci pensi lei.
E tacque aspettando l'effetto delle sue parole.
—Ci ho pensato,—rispose la bella sorridendo e impadronendosi della mano che fu prima ad uscire dal taschino—grazie; ella ha un cuor d'oro… ed io…. lo sapeva…..
—Sapeva che ho un cuor d'oro o che Leonardo?,..—
La bella non lo lasciò finire.
—L'una cosa e l'altra.—
Disse, scrollò la mano del medico stupefatto, rise forte e fece atto d'andarsene; ma Agenore la trattenne.
—Dunque sono un ambasciatore in ritardo?… Non ho maggior fortuna a trattare gl'interessi degli amici che i miei? dunque?…
—Ottimo amico!—disse Ernesta.—
Agenore sospirò.
—È qualche cosa…. ma non mi basta; la risposta…. voglio la risposta, l'ho da portar io a Leonardo…. ci tengo….
—Mi dia tempo a pensare,—rispose scherzando la bella.
—Ho capito,—concluse Agenore,—ho capito…. non una parola di più, ho capito; tornerò stasera.—
Ernesta lo seguì collo sguardo, finchè fu scomparso, poi andò rasserenata presso al marito.
—Che ti ha detto Agenore?—le domandò il cieco.
—Mi ha ripetuto quello che aveva detto…. di farti riposare; pare proprio che sia necessario…. tornerà stasera….
—Non altro?
—Non altro.
—Non sa egli se guarirò?
—Lo spera.—
Tutto quel mattino Ernesta parlò a monosillabi; era inquieta, andava e veniva, a volte si fermava d'un tratto nel mezzo della camera, e rimaneva così immobile, distratta, finchè la voce dell'infermo la toglieva all'attonitaggine.
Dopo il mezzodì, all'ora medesima della vigilia, vedendo che Leonardo non le diceva nulla, fu lei la prima a proporre.
—Dovresti fare un sonnellino; è l'ora più calda del giorno, fa molto caldo oggi…. ti farà bene riposare il capo, perchè cessi dal farneticare intorno al giorno di domani…. dormi, ho sonno anch'io, dormiremo entrambi.
—Sì! disse il cieco con impeto di desiderio;—sì….—
Ernesta spinse un seggiolone vicino a quello del marito, vi si adagiò, poi disse scherzosamente: «buona notte.»
Scherzoso era l'accento, ma le batteva il cuore forte.
Questa volta Leonardo non seppe aspettare un pezzo, nondimeno, quando con un filo di voce chiamò: Ernesta! la bella non rispose. Allora il poveretto si rizzò in piedi, si piegò sull'amata donna come alla vigilia e la baciò lieve lieve sulle guance…. poi volle allontanarsi, ma si sentì trattenuto da morbide braccia che gli si stringevano attorno al collo, ed udì una sommessa voce, carezzevole, trepida, ripetergli fra i baci:—Leonardo mio! Leonardo mio!—
Il poveretto non era più cieco, poichè vedeva un paradiso.
È lui, è lui!
La foga degli affetti inonda il cuore e lo sommerge, la folla delle idee, invece di illuminare la mente, la scombuia. Come le grandi gioie ed i gran dolori, così le tenerezze grandi sono mute.
Tacquero.
Per un pezzo, stretti in quel laccio amoroso, carezzati e carezzevoli, rimasero come estatici ad ascoltare l'affrettato martello dei loro cuori; e quando Leonardo ruppe il silenzio, mormorando coll'accento dell'adorazione il nome di Ernesta, parve quella l'estrema parola d'un poema che avevano letto insieme, l'ultima nota d'una bella musica intesa da essi soli.
E venne sulle loro labbra il linguaggio degli uomini, dopo di aver sì lungamente parlato il linguaggio degli angeli; la rivelazione era compiuta. Non rimaneva più nulla a dire che già non sapessero:—Mi ami proprio?—Sì, tanto.—Ripetilo.—Sì, tanto.—Anch'io, anch'io.—Il più bel vaniloquio della terra…. Poi di nuovo tacevano, e le mani si stringevano più forte, e le labbra tremanti scoccavano baci sommessi, ed i petti pieni di felicità rompevano in brevi singhiozzi.
—Siediti qui, sulle mie ginocchia; disse il cieco,—lascia ch'io ti veda bene—ed accarezzando colle mani la fronte, i capelli, le guance, gli occhi della leggiadra creatura, andava ripetendo con una specie d'entusiasmo melanconico:—come sei bella! Come sei bella!—
Poco dopo soggiunse:
—Ecco il visino tondo che mi piacque tanto la prima volta che lo vidi; ecco gli occhi dolci conditi di malizia…. ed ecco i labbruzzi di fuoco che sorridono, e le guance che paiono due rose.—
Ernesta rispondeva ai baci, alle parole no; pensava; un mondo di fantasie meste o gioconde le si schiudeva dinanzi; e se staccava l'occhio da quegli incerti fantasmi dell'avvenire, l'aspettavano altri fantasmi, già paurosi ora benigni, quelli del passato, quelli delle lunghe noie, dei profondi sconforti, delle aspirazioni interminate che mozzavano il respiro…. e allora, come se obbedisse ad un segnale, dall'ippocastano del giardino lo stornello mandava la sua nota stridula, penetrante, compendio di tutto un tempo che non era più che una memoria:—è lui! è lui!—
—Qui, in mezzo al mento, ci è una fossetta, proseguiva il cieco,—ed ora che ridi ce ne sono altre due sulle guance; quante volte le avrei colmate di baci se avessi avuto giudizio!
E le colmava ora.
Ma a quelle baldanze, a quegli impeti, a quei guizzi di felicità che gli mandava sul volto la nuova fiamma, succedeva presto il buio d'un pensiero melanconico e pauroso.
E allora ripeteva il ritornello assiduo dell'inno eterno:
—M'ami proprio?
—Sì, tanto.
—E perchè m'ami?—
Ernesta ci pensava senza trovar risposta.
—Dillo, perchè mi ami?
—Non lo so; e tu perchè mi ami?
—Perchè sei bella, perchè sei buona.
—E anch'io t'amo perchè sei buono, perchè sei bello….
Quale sorriso passò sulle labbra di Leonardo!
—Sono bello io?
—Sì, sei bello…. ma non per questo t'amo.
—E perchè dunque?
—Non lo so….
—Hai ragione,—disse poi,—eri bella, eri buona anche quando non ti volevo bene. Ci deve essere stato qualcuno a parlarmi di te, ad aprirmi gli occhi, a farmi vedere quale dovea essere la mia festa, quale dovea essere il mio tesoro. E temei d'averti perduta per sempre, e t'invocai compagna de' miei giorni mutati in notte senza fine, non osando sperare. E quando accorresti al fianco della mia sciagura, non al mio fianco, riconobbi il tuo passo, indovinai i tuoi movimenti, compresi che eri tu l'angelo del conforto; ma non osai sperare di più. Ed ora che tu stessa me lo dici, che ti stringo fra le mie braccia, anche ora temo di fare un sogno troppo bello e mi domando che ho fatto io per meritare l'amor tuo. Tu non sai perchè m'ami; nemmeno io lo so. Le cose dell'amore si sentono, non si sanno. L'amore ha la benda agli occhi…. come me.—
Un bacio lungo lungo cancellò dalle labbra del disgraziato ogni traccia d'un melanconico sorriso.
—Che ne dici, Ernesta, guarirò?
—Guarirai,—rispondeva la poveretta facendosi forte.
—Se fosse vero! Poterti vedere, poterti guardare a lungo, specchiarmi negli occhi tuoi! Se fosse vero! Perchè così si soffre troppo; ho sofferto troppo…. tu non lo sai che io sono geloso….
—Geloso?
—Sì, geloso; geloso di tutti quelli che ti guardano, di tutti quelli che ti vedono, di tutti gli indifferenti, ai quali tu sei costretta a dare lo spettacolo della tua leggiadria, mentre a me solo è negato, mentre io solo ti guardo e non ti vedo. Ho sofferto, non te ne ho detto nulla, perchè era la mia espiazione; la gelosia ha punito l'indifferenza, ora sei vendicata…. sei contenta ora?…
—Sì,—-rispose Ernesta,—sono contenta perchè m'ami, perchè t'amo.
—E perchè m'ami? Non lo sai; nemmeno io; ma so perchè hai finito ad amarmi….
—E perchè?
—Perchè sei buona, perchè hai cominciato dalla pietà, perchè ti ho fatto compassione…. non è vero?
Nessuna risposta. Era vero.
—Senti,—proseguiva il cieco animandosi,—guarirò, voglio guarire, è necessario ch'io guarisca…. e allora, senti…. non andrò più al caffè nè al Circolo.—
Ernesta rideva.
—No non ci andrò più, staremo sempre insieme, andremo in campagna; ho tante cose da dirti, non mi annoierò; una volta ero uno spensierato, ora invece penso; ti dirò cose che ti faranno ridere, perchè tu già le saprai, ma che mi sono care perchè non le ho lette nei libri, e le ho trovate io…. ah! non mi annoierò al tuo fianco!—
Poco dopo soggiunse mestamente:
—Agenore dice che l'operazione sarà dolorosa, non è vero?…
—No…. balbettò Ernesta.
—Si, sì…. lo ha detto; ebbene, non importa, io saprò soffrire;—ed aggiunse provando a scherzare:—Mi hai sempre creduto un fanciullo, ho bisogno che tu sappia che in questo lungo tempo sono cresciuto, mi sono fatto uomo. Guarderò in faccia il dolore che deve ridonarmi la tua bellezza…. Ti sei fatta mesta? Pensi al domani?… Non ci pensare, vedi me, io non ci penso…. sorridimi….
—Che idea!
—Sorridimi…. mi fa bene sapere che tu mi sorridi, io non ti vedo, ma la mia anima si illumina d'una gran luce…. sorridimi.
—Ecco….—disse Ernesta;—ma una pietà profonda, uno sgomento mal definito si ribellavano al sorriso.
—Così…. così, diceva Leonardo.
—Sai?—prese a dire dopo una muta contemplazione—ho pensato alla filosofia di Agenore ed alla tua fede…. ci ho pensato molto….
—Ebbene?
—La tua dev'essere più vicina al vero….
—Ah! sono contenta! Credi anche tu che gli spiriti sopravvivano e possano comunicare con noi?
—Può essere….—
Di nuovo lo stornello lanciò le sue note allegre attraverso il vano della finestra.
—Sta a sentire—disse Ernesta,—sai che cosa mi sono messa in capo?… Che quello stornello sia mandato da mia madre…. sarà una sciocchezza, ma mi fa bene….
—Non è una sciocchezza se ti fa bene,—sentenziò il cieco.
—E sai tu che cosa mi va dicendo ora?—chiese scherzosamente la bella.
—No,—rispose Leonardo ridendo—non ne capisco nulla.
—Perchè non ci hai pratica; mi ripete una cosa che so benissimo, ma lo fa a fine di bene, poveretto!—mi ripete:—è lui! è lui!—Lo senti?
—E significa?
—E significa che sei tu, che sei tu….
—Che cosa?—
La risposta scoccò pronta, ardente, lunga dalle labbra di Ernesta, e s'impresse sulle guance del cieco.
E intanto lo scrupoloso stornello continuava a gridare a gola spiegata.
—Sì—disse poco dopo Leonardo porgendo ascolto,—pare proprio che dica:—è lui!… Ma se pure fosse un inganno della fantasia, ecco un inganno santo! Credere che i nostri cari, anche quando pare ci abbiano lasciato, ci siano vicini, ci vedano, e giudichino le nostre azioni; e ad ogni atto che stiamo per compiere domandarci:—che ne dirà mia madre?—ecco il vero culto dei morti; tu educhi il semprevivo in cuore, mentre la volgare pietà lo educa nei cimiteri!
—Prendi anche questo—interruppe Ernesta—perchè tu parli come un angelo.—
Leonardo prese e restituì, e ancora si udì per l'aria la musica di due baci sonori…….
Verso il crepuscolo venne il dottor Agenore, e trovò i coniugi dinanzi alla finestra spalancata, muti, estatici, intenti ad ascoltare il canto dell'usignuolo, a cui i grilli facevano l'accompagnamento.
—Ah!—disse Ernesta voltandosi.
—Agenore!—aggiunse il cieco.
—Io proprio; avrei potuto star qui fino a domani, che non vi sareste accorti di me.
—Io me n'era accorto—disse Leonardo,—ma credevo che tu pure ascoltassi quello che dice l'usignuolo.
—Non ne ho l'abitudine, la piglierò quando avrò moglie….
—E prego Dio che sia presto!—disse Ernesta scherzando.
—Ed io prego il suo Dio di tapparsi le orecchie….—
—Vediamo, siamo stati savi?… Leonardo…. si sono fatte poche ciancie? Si sono evitate le commozioni troppo forti?…—
Ad ogni domanda. Leonardo ed Ernesta facevano di sì col capo come due scolari che vogliono farla al signor maestro.
—Sentiamo il polso…. abbastanza regolare.—
I complici, respirarono liberamente; il momento difficile era passato.
Nella faccia ilare, nell'accento scherzoso, nei modi composti ad un sussiego straordinario, il dottore dimostrava un'intenzione che sfuggiva alle occhiate scrutatoci d'Ernesta.
—Cara signora,—uscì egli a dire all'improvviso,—vorrebbe usarci la cortesia di lasciarci un momento soli? Scusi la ruvidezza…. è il vizio dei medici….
—Mi manda via….—rispose Ernesta ridendo,—me ne andrò!…
—Perchè la mandi via?—chiese Leonardo, e udendo il passo della moglie che si allontanava, stette in ascolto finchè fu uscita, poi disse sospirando:—Che cosa vuoi da me ora?
—La lingua—disse il medico.
Leonardo cavò la lingua.
—Come ti senti?
—Bene.
—Saprai resistere ad una commozione?
—Sì.
—Ebbene, allora sappi che io ti ho ingannato…, ho detto tutto a tua moglie.
—Ah!
—E tua moglie, indovina…. è innamorata di te.—
La rivelazione che Agenore aveva circondata di tanto mistero, non fece l'impressione temuta sull'animo del cieco; un dolce sorriso apparve sulle sue labbra, null'altro.
—Grazie,—disse Leonardo.
—Si figuri,—rispose Agenore, canzonandolo—niente, è una bazzecola!
—Grazie,—ripetè Leonardo—lo sapeva.—
Allora il dottore diè un balzo, spalancò l'uscio del salotto e chiamò Ernesta.
—Venga, venga, signora mia; sono io di troppo…. e me ne vado.—
Due risate squillanti lo accompagnarono un tratto. Poi il medico ritornò a raccomandare serio serio «non si commettessero imprudenze» e ad avvertire che sarebbe venuto il domani molto di buon'ora.
—A domani—disse Agenore.
—A domani—ripeterono melanconicamente Ernesta e Leonardo.
Di nuovo l'allegria si spense sulle faccie dei poveretti.
La luce?
Venne l'alba aspettata con desiderio e con trepidanza.
Agenore, come aveva promesso, anticipò di molto la sua visita.
—Sono contento di trovarti a letto—disse—bravissimo.
Ernesta notò che la sua voce aveva un lieve tremito, e che volendola assicurare riusciva solo ad ingrossarla. Anch'essa voleva parer serena, ma aveva l'ansia, ed Agenore se ne avvide; le venne presso, le strinse la mano. Tremavano leggermente tutti e due.
—Dovrò rimanere a letto?—chiese Leonardo.
—Sarebbe meglio; ma il dottor Q…. dice che, se preferisci alzarti, nel tuo stato non vi è pericolo.
—Lo preferisco—disse il cieco.
—Sentiamo il polso…. vediamo la lingua…. a meraviglia…. a meraviglia….
—E sarà proprio molto dolorosa l'operazione?
—Tutt'altro…. una bazzecola…. un paio di minuti per occhio, supponendo, come credo, che il dottor Q…. voglia operare i due occhi in una volta….
—Come?—balbettò Ernesta.
—Gli autori sono in contrasto,—disse il dottor Agenore con molta disinvoltura; si danno ragioni di peso da una parte e dall'altra; le probabilità di buona riuscita si equilibrano nei due sistemi; da quanto dicono i propugnatori di questo o di quello sembra potersi conchiudere così: quando l'operazione è dubbia, meglio tentare prima l'operazione sopra un occhio solo; quando invece è sicura, meglio le due operazioni in una volta.
—Ed a lei pare sicura?—domandò Ernesta.
—A me pare sicura…. sicurezza medica, s'intende, che non è sicurezza matematica.—
Per quanto Agenore ingrossasse la sua voce di falsetto, aveva l'ansia quasi al par di Ernesta.
Il più sereno dei tre era Leonardo, il quale in un attimo fu vestito ed accomodato sul seggiolone.
Venne il dottor Q…. tranquillo, determinato, schietto nei movimenti e nelle parole; si indovinava in lui l'uomo padrone di sè; vedendolo tornò subito un po' di coraggio ad Ernesta, e si rianimò la disinvoltura agonizzante d'Agenore.
Si parlò di narcotizzazione; Leonardo rifiutò.
—Bravo!—disse l'oculista—tanto meglio!
—Bravo!—ripetè Agenore con un po' di tremito nella voce—tanto meglio…. già è una bazzecola…. bisogna esser forti.—
Ernesta guardava sbigottita ora l'uno ora l'altro, mentre il vecchio Bortolo andava e veniva obbedendo agli ordini brevi e frequenti.
—Ernesta!—chiamò il cieco.
—Eccomi.—
Si fè presso al disgraziato e pose la mano nelle sue.
—Così—disse Leonardo—sarò più forte.—La povera donna non rispose; cogli occhi sbarrati dallo sgomento seguiva ogni movenza del dottore.
Vedeva preparare le fasciature di flanella bianca, le compresse, i filacci, levar da un piccolo astuccio certi ferretti lucenti, ed Agenore affaccendarsi per far poco più di nulla, senza potere star fermo, e l'altro solenne, pacato, silenzioso. E girando lo sguardo intorno intorno con un movimento automatico del capo, contemplava il letto, le seggiole, gli armadi, i quadri appesi alle pareti, non parendole vero che in un momento così solenne potessero ancora essere i quadri, le seggiole, il letto d'ogni giorno e serbare in tanto affanno essi soli l'aspetto più indifferente dell'usato.
E ancora girava il capo come un automa, e ancora fissava gli occhi sbarrati nel dottore…. Poco stante lo vide muovere verso l'infermo e tremò tutta.
—Ci siamo?—domandò il cieco.
Nessuno gli rispose.
Il dottor Q…. volse il seggiolone in modo che la luce non battesse sulla faccia del paziente, poi spalancò la finestra, e guardò verso Agenore. Costui era occupatissimo intorno alle compresse e se ne distaccò a malincuore.
—Bisogna star fermo,—disse l'operatore con voce amorevole.
—Starò fermo,—rispose Leonardo.
Inginocchiata innanzi al marito, le labbra ardenti impresse sulla mano che stringeva forte la sua, Ernesta intese ancora la voce sommessa dell'oculista che diceva: «Lei, dottore, tenga ben sollevate le palpebre, così… mi raccomando—» poi chiuse gli occhi.
Seguì un gran silenzio.
La povera donna radunava nel buio i fantasmi del suo passato, andava raccogliendo gli atomi in un caos vertiginoso per comporli a forme note—tutto ciò senza coscienza; rivedeva Leonardo come la prima volta gli era apparso, indifferente e cortese, poi galante, poi assiduo, poi fidanzato, sposo, marito—e di nuovo annoiato, freddo, indocile al giogo della famiglia, e finalmente cieco, pentito… e seguendo come trasognata i quadri di questa visione, parevale d'udire un martello assiduo; era il suo povero cuore in tumulto. Quanto tempo durò quella visione? Un baleno. All'improvviso sentì tremar forte il braccio di Leonardo e la mano di lui avvinghiarsi alla propria; strinse vie più gli occhi e le labbra, si sprofondò più addentro nel caos che le si apriva dinanzi…. ancora uno di quegli istanti che contano per anni nell'eternità, e finalmente un grido acuto, penetrante, accompagnato dal tremito convulso di tutto il corpo del paziente.
—Ecco, ecco, è fatto;—disse il dottor Q…
—È fatto,—balbettò Agenore.
Ernesta aprì gli occhi attonita.
Il dottore veniva assicurando una compressa sopra l'occhio destro, da cui colavano lagrime e sangue. Sul volto contratto dell'infermo ancora combattevano il dolore e l'energia della volontà.
Nessuno vide l'occhiata supplichevole della povera donna accasciata sul pavimento; Agenore toccava il polso dell'amico, ma aveva tutta l'aria di non saper quello che si facesse.
Il dottor Q… sembrava aspettare qualche cosa, e un momento dopo disse con voce carezzevole:
—L'operazione è riuscita benissimo da una parte; ora dall'altra.—
Ernesta diede un lieve grido e ancora s'accasciò e nascose la faccia fra le ginocchia di Leonardo, il quale tentò un sorriso ed accarezzò colla mano tremante la testa dell'amata donna.
Nuovo silenzio, nuovi terrori, nuove visioni, e finalmente un sospiro rumoroso di Agenore che ripigliava fiato, e un grido selvaggio di dolore e di gioia.
—Zitto!—ordinò il medico con bontà.
—La luce!—mormorò Leonardo abbassando docilmente la voce.
Ernesta fu in piedi d'un balzo; aveva nello sguardo il baleno d'una gran gioia….
Ma la fasciatura copriva già gli occhi del paziente—l'operazione era finita.
—La luce?…—-ripetè la povera donna interrogando trasognata.
Agenore le venne presso, le strinse la mano, volle dire qualche cosa e non potè dir nulla.
—Speriamo,—balbettò Ernesta come fuor di sè,—speriamo, bisogna farci coraggio….
—Giusto,—rispose Agenore,—è quello che volevo dir io…. speriamo, bisogna farsi coraggio….
La luce.
Il medico aveva ordinato il buio, l'immobilità, il silenzio.
Adagiato l'infermo nel letto, sopra un monte di cuscini, per sei giorni non doveva più moversi, nè per sei giorni parlare o cibarsi d'altro che di minestrine. Le imposte della finestra furono chiuse sì che a stento gli occhi avvezzi potevano vedere il nero profilo degli oggetti. Un'ombra, non una donna, vagolava assiduamente in quel buio—Ernesta, col cuore traboccante, col labbro muto.
Più volte in uno stesso giorno la porta di quella camera si apriva lentamente, un'altra ombra colossale chiudeva il vano, stava un istante immobile, poi si accostava al letto sulla punta dei piedi, un bisbiglio sommesso rompeva quell'aria muta; allora Leonardo sospirava dal suo letto per farsi intendere; non gli si rispondeva: l'ombra si muoveva poco dopo, la porta cigolava un'altra volta—Agenore se n'andava com'era venuto.
Silenzio.
A quando a quando l'infermo chiamava sottovoce:—Ernesta?…—
Accorreva essa e gli ordinava con un bacio:—silenzio!—
Quanti fantasmi luminosi in quel buio, quante parole confortatici mormorate da invisibili creature!
Le ore scorrevano lente, il cuore della povera donna le misurava con un battito tranquillo.
Sentiva una vigoria insolita, le pareva d'essere come una fortezza chiusa, in cui non potesse entrare alcun affanno; e se uno, insistente, se ne affacciava ogni tanto, ella vedeva accorrere mille giocondi pensieri a cacciarlo, ed assisteva come impassibile a quella breve lotta. Non sapeva altro che sperare, altro non faceva che sognare ad occhi aperti.
Il buio della camera era per lei come un velo nero, dietro cui si nascondesse la felicità.
Cessato lo spasimo della ferita, Leonardo chiamava ogni tanto la sua compagna—e la poveretta era, ratta a chiudergli le labbra colle labbra.
—Sai? Ho visto la luce! disse una volta l'infermo, ribellandosi al savio consiglio; mi è sembrato di vedere i colori; non sono più cieco!
—Zitto! Zitto!
—E vedrò te, mia bella!…
—Zitto….—
Tornava il silenzio.
Mille fantasmi ridenti accorrevano ad ingannare il tempo lungo.
Per ore intere al capezzale del marito, una mano di lui stretta nelle proprie, Ernesta rimaneva immobile nella contemplazione della tranquilla festa dell'avvenire. Si vedeva al braccio di Leonardo non più cieco, essa colla faccia rivolta in su, egli col capo piegato teneramente verso di lei, e vedeva due sorrisi d'amore scendere e salire per le fila tese da due sguardi d'amore.
Camminavano sopra sentieri appena tracciati sull'erba dei prati; le farfalle, gli uccelli, le piante, li guardavano attoniti, e quante creature avevano un movimento s'inchinavano a salutarli, e quante avevano una voce intonavano un inno. Un mondo ignorato si schiudeva ai loro cuori, comprendevano la gran festa della fiducia senza reticenze, dell'amore senza civetterie, del sentimento che non ha ridicole paure, della poesia che ripudia ogni inganno di metafora o di rima.
Guardavano in faccia agli spettri temuti, la noia, la sazietà—parole vuote dovunque non entra spasimo o febbre.
Così fantasticava Ernesta; e un sorriso dolcissimo, che s'indovinava sulle labbra dell'infermo, diceva che così pure fantasticava Leonardo.
Dal di fuori, attraverso le imposte serrate, giungeva talvolta affievolita la nota dello stornello, unica voce dell'immensa natura. Allora Ernesta si sentiva voglia di correre a spalancare le finestre, di lasciar entrare l'aria, la luce, i canti semplici, e di gridare alle innocenti creature la buona novella…
Silenzio!… Bisogna star paghi alle visioni della cameretta, al tranquillo tripudio del cuore. Un giorno ancora!… Silenzio.
Il suo posto favorito era al capezzale dell'infermo, dove poteva vedere il sorriso di Leonardo. Aveva un modo così dolce di sorridere Leonardo! Non mai per lo innanzi se n'era avveduta. Quel sorriso era un madrigale; e chi sa quante volte gliel'avea visto sulle labbra senza saperlo leggere!
Era bello Leonardo? Sì, era bello; dalla fasciatura usciva la sua fronte alta, serena, il naso affilato; le guancie aveva un po' smunte, ma non incavate, il mento tondo; bei capelli ricciuti, baffetti neri e belli… Era bello Leonardo!
E non poterglielo dire, non poterglisi buttar fra le braccia, coprire di baci la sua fronte, le sue guancie, dirgli cento volte:—sei bello, sei bello!—
Silenzio! È l'alba del sesto giorno, poche ore ancora!…
Silenzio.
Venne l'ora sospirata, venne il dottore, e dietro a lui, frettoloso per timore d'essere in ritardo, Agenore.
Fu data un po' di luce alla camera, poi il dottore fece a voce alta alcune interrogazioni all'infermo, gli toccò il polso. Tutto andava benissimo. Allora tornò alla finestra, temperò la luce studiandone la direzione e di nuovo venne al capezzale e tirò la coperta di colore fin sopra la rimboccatura, perchè la bianchezza del lenzuolo non ferisse troppo vivamente l'organo indebolito… Era venuto il momento. Ernesta tremò e dovette reggersi al braccio di Agenore.
La lunga lotta combattuta con apparenza di vittoria, quella lotta che aveva per premio la speranza, era stata un inganno; ecco, i baldi fantasmi fuggono dalla sua mente come un esercito di vigliacchi—e quell'unico nemico, che pareva sopraffatto e meschino, si rialza, ed è un gigante.
Se Leonardo non vedesse nulla!
Fu l'ansia d'un solo istante; cadde la benda, Leonardo aprì gli occhi, li girò intorno e fissandoli estatico sulla faccia paurosa di Ernesta, protese le braccia chiamandola col gesto.
—Ti vedo! ti vedo!—
Ma la voce si ruppe in un grido, e il grido in un singhiozzo.
Ernesta gli si gettò fra le braccia e mescolò alle sue le proprie lagrime di gioia; anche Agenore piangeva, ma voltava il capo dall'altra parte per non farsi scorgere.
Emicrania e mal di nervi.
La signora Virginia Rinucci venne troppo tardi, quando il medico aveva rimesso la benda a Leonardo e se n'era andato.
Non lo disse espressamente, ma lasciò capire che era una disgrazia.
—Peccato!—mormorò; e mormorò quel peccato! in guisa, che Ernesta dovette proporsi il quesito se il danno fosse di Leonardo, di Virginia Rinucci o di tutti quanti.
Ma l'amabile cuginetta non la lasciò lungamente in dubbio, e dopo aver diluviato domande su ciò che aveva detto e fatto il cieco rivedendo la luce, concluse candidamente: «peccato! se ci fossi stata, avrebbe visto anche me.»
—Sicuro,—disse il dottor Agenore,
—Sicuro,—ripetè Ernesta sorridendo.
Queste ciancie si facevano nel salotto, dovendosi, per ordine del dottore, lasciare in pace l'infermo.
—Tornerò domani,—disse Virginia;—e siccome non mi aspettereste, anticiperò.
—Brava!
—Brava!—
Alla prima approvazione scherzosa, che era di Ernesta, la cuginetta rizzò il capo ed appuntò le labbra pronta a combattere come un'eroina; alla seconda approvazione, ch'era del dottore, chinò gli occhi a terra al par d'una vergine imbelle.
—Non ha altr'arme che il pudore, ma evidentemente ne abusa—pensò Agenore—fa il mulinello continuo.—
Il giorno successivo Virginia anticipò, e giunse appena in tempo; il dottor Q… entrava appunto allora.
—Vedi un po' se avessi tardato qualche minuto!—disse ad Ernesta entrando, dietro al medico, nella stanza di Leonardo.
Ma ecco il dottor Agenore farsi presso alla signorina
Rinucci, e colla sua voce di falsetto dirle:
—Signorina, se Leonardo la vede corre rischio di restare abbagliato….—
E siccome la vergine incominciava più disperatamente che mai a fare il mulinello col suo pudore, egli si affrettò a soggiungere ingrossando la voce:
—Il bianco della sua veste può infiammargli la retina, è meglio la si tiri in disparte.—
Lo stesso consiglio fu dato con un cenno dal dottor Q…; e allora Agenore dimenticò la prudenza e trasse dolcemente la signorina dietro il seggiolone.
Leonardo ed Ernesta si abbracciarono stretti, senza parole, senza lagrime….
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tante commozioni e tanti contrasti furono funesti all'amabile cuginetta.
Due giorni dopo il dottor Agenore, recandosi a far visita a Leonardo, si vide venire incontro Ernesta con modi da indovinello, tra il serio ed il burlesco.
—Presto, presto, dottore, si ha bisogno di lei.
—Leonardo?
—Sta benissimo, non si tratta di lui, ma di mia cugina Rinucci….
—Oh!
—Sicuro, è stata colta da un'emicrania orribile, ha il suo mal di nervi, un mal di nervi tutto suo, come dice lei, nessuno ha mai provato l'uguale…. sono stati a cercarlo a casa e non l'hanno trovato, allora sono venuti qui.
—Sono venuti a cercar me?
—Già!…
—Proprio me?
—Proprio lei.—
—Agenore non sapeva uscire dallo stupore; sentiva un curioso imbarazzo in faccia ad Ernesta, e senza una ragione al mondo, invece di spicciare la sua visita medica, tirò in lungo.
—Cattivo!—gli disse Ernesta quando fu per andarsene.
E rise.
L'eco di quella risata, accompagnò lungamente il disgraziato dottore.
Nessuno seppe mai che cosa avvenisse in quel primo incontro del medico colla pudibonda ammalata, al cospetto solenne di babbo e mamma Rinucci.
Curiosa come donna e come cuginetta, Ernesta assediò di domande Agenore, il quale si tenne sulle sue un pezzo, finchè un bel giorno, in faccia ai due coniugi riuniti, uscì in questo aforisma balzano:
«Ogni donna è un'amazzone, o combatte colla civetteria o col pudore; la civetteria, che assalisce da lontano e tira a cimento i paladini, può fallire; il pudore no; è impossibile accostarsi ad una donna che faccia il mulinello con quello spadone a due tagli senza buscarsele.
—E significa?
—Significa…. significa…. non lo so nemmeno io che cosa significa.
—Ah!… ed è proprio guarita bene la mia Virginia?
—Proprio bene.—
L'ultimo tiro del dottor Agenore.
Leonardo entrò presto in convalescenza; mano mano gli fu concesso di star senza la benda nelle ore del crepuscolo, di andarsene in campagna, di far uso degli occhi con occhiali; e finalmente Agenore disse all'amico con una solennità insolita:—la cura è finita; tu ci vedi meglio di me, e solo che rinunzi alla vita di stravizzi, che non vegli di notte….—
Leonardo lo interruppe:
—Che non perda il mio tempo al caffè od al circolo, che non mi avveleni a stilla a stilla colla noia, che non intorpidisca le fibre coll'ozio, che non corra pazzamente dietro alla felicità colla felicità stretta nel pugno…. solo ch'io faccia tutto ciò, sono al sicuro da una ricaduta. È questo che vuoi dire?
—È questo.
E appena Agenore se ne andò a girare pei campi col fucile ad armacollo, il poveretto corse in una stanzetta piccina e gentile, si arrestò sull'uscio come sul limitare d'un tempio, finchè la sacerdotessa gli venne incontro ad introdurlo colla cerimonia d'un sorriso e d'un bacio. Ed allora essa sedette sopra una poltroncina, egli se le inginocchiò ai piedi e cercò il suo cielo in quegl'occhi neri lucenti; e fra il sorriso amoroso ed una stretta di mano tenace ed un amplesso misurato dal palpito robusto e sereno del cuore, sentì il bisogno di ripeterle per la centesima volta:
—Ti ricordi, quando vivevo al tuo fianco senza saperti leggere dentro, quando te bella, gentile, appassionata possedevo indifferente, ed i tuoi sentimenti ed i tuoi affetti non comprendevo o sdegnavo come un impaccio?
—Sta zitto—disse Ernesta,—sta zitto.
—No, non sto zitto; te ne ricordi? Ti ricordi il giorno che ti rimproverai l'amore innocente dei tuoi fiori, e beffai la canzone del tuo canarino, e risi del santo culto dei tuoi poveri morti? Te ne ricordi? Ebbene, allora, allora più che mai, allora solo ero cieco.
—Sta zitto.
—No, non sto zitto. Io che le ho provate entrambe, lo posso dire: più della cecità degli occhi, è paurosa e crudele la cecità dello spirito. E se la notte, quando sogno di essere ancora cieco o mi sveglio d'improvviso nel buio e mi coglie una terribile paura, se allora mi si proponesse di scegliere tra la luce che illumina la mia pupilla e quella che m'illumina il cuore….
—Sta zitto…. ascolta….—
E così dicendo, si levò in piedi, socchiuse un'imposta della finestra, e col braccio tenne lontano Leonardo, perchè il raggio che penetrò nella cameretta non gli battesse sul viso.
Era l'ora del mezzodì; sotto la sferza del sole nessun uccello si avventurava sugli alberelli vicini, nessun passero saltellava sulle sabbie ardenti dei viali, ma giù nel boschetto, che pareva tuffarsi nel lago, l'usignuolo levava ogni tanto la voce di mezzo al confuso chiacchierio di mille voci.
Un pezzo stettero silenziosi, colle mani strette; si guardavano ogni tanto e si sorridevano a vicenda. All'improvviso s'udì uno sbatter d'ali, e un corpo nero fendette l'aria. Ernesta, che l'aveva visto colla coda dell'occhio, ebbe appena tempo di voltarsi; in mezzo al verde chiaro d'una robinia essa riconobbe uno stornello. L'audace pennuto pareva proprio rivolgersi a lei, spiegando tutta la sonorità della propria voce di contralto, in un saluto.
—Stallo a sentire—disse Ernesta.
Ma in quella lo stornello spiccò il volo ed andò a posarsi in cima ad un noce altissimo, dove ripigliò il suo gorgheggio.
Ernesta mise il capo fuori della finestra per vedere chi l'avesse fatto fuggire, e vide…. orrore! il dottor Agenore che, col fucile spianato, toglieva la mira verso il noce. Un grido ed uno sparo…. tacque il gorgheggio…. un brevissimo istante di silenzio, e finalmente l'uccello si staccò dalla pianta volando in direzione del boschetto.
—Sbagliato!—gridò Ernesta battendo le mani;—bravissimo!
—Dica che sono un asino! venti metri di distanza al più, carica di pallini da lepre…. è la prima volta che sbaglio.—
In così dire Agenore entrava in casa. Ernesta e
Leonardo gli vennero incontro.
—Sono un asino, non me la perdonerò mai….
—Ma perchè pigliarsela con uno stornello?
—Perchè? Per non pigliarmela cogli usignuoli e coi fringuelli; questo vostro boschetto non ha mai visto la coda d'una lepre e non ne vedrà probabilmente fino al prossimo cataclisma.
—E allora lei non ci sarà.
—È vero; ma pare impossibile…. ho mirato giusto, dovevo colpire.—
Ernesta non rispose nulla, ma, seria seria in viso, faceva di no col capo.
Agenore guardò la bella, poi la faccia sorridente di Leonardo; depose lo schioppo in un canto e ripigliò a dire beffandosi:
—Sarà…. ogni anno ne passa uno, s'invecchia, si perde la fermezza del braccio, la sicurezza dell'occhio….
—E quando si ha perduto la fermezza del braccio e la sicurezza dell'occhio…. si piglia moglie.—
La bella donna rideva dicendo queste parole, Agenore anch'esso si provò a ridere, ma non gli riuscì.
—Ernesta ha ragione,—aggiunse Leonardo.
—Trovatemi voi altri la sposa….
—L'ho bell'e trovata…. mia cugina!
—Ah! perchè no? Lunga, asciuttina, coi capelli color di stoppa…. una connocchia vestita…. perchè no? io sono grassoccio, ho i capelli neri….
—Arturo Shopenhauer benedirà le nozze—entrò a dire Leonardo.
—Mia cugina non legge altro; ha sempre il suo Arturo al capezzale…. non è mica geloso, dottore?
—Procurerò di farmi forza….—
…. Alla sera, quando Agenore, col fucile ad armacollo, fu scomparso allo svolto del viale, Ernesta si rivolse sorridendo al marito e gli disse con un bizzarro accento quest'unica parola:
—Scommetti?—
Catastrofe.
È passato un anno. Virginia Rinucci è riconoscibile solo al colore dei capelli ed alla linea corretta del naso; nel rimanente è mutata; prima di tutto ingrassa, il che la fa parere meno lunga, e poi, invece del sussiego ad intermittenze d'una volta, ha una serena gravità di modi che non dispiace; e poi, e più, non s'impunta per il minimo contrasto, nè le corrono i rossori al viso per ogni nonnulla…. è una donnetta piuttosto amabile, e tra per merito proprio e della sarta, belloccia; in fine Virginia Rinucci non è più Rinucci, nè Virginia. È sposa e madre e non sa se più adori il suo piccolo od il suo grosso Agenore.
Il dottore si lascia adorare, si lascia dire che è bello, bello, bello, e quando si specchia negli occhietti sbigottiti della sua creatura, trova che sua moglie ha proprio ragione. Fa spesso visita a Leonardo in campagna, e piglia gusto a dar del tu alla cognatina; infine incomincia a credere che la grossa corbelleria non sia così grossa come gliela facevano vedere.
—La mia Virginia,—disse una volta ad Ernesta,—si è proposta di assomigliarti; tienilo per te, e bada che così hai doppia responsabilità, tu sei il suo modello.—
Ed un'altra volta disse:—la trasformazione di mia moglie non ha nulla che non sia nell'ordine fisiologico; le fanciulle che rimangono troppo lungamente zitelle sono come i cardini delle porte che si aprono di rado—s'irruginiscono e stridono; l'igiene è questa: olio ai cardini, marito alle fanciulle….
—Hai ragione,—diceva Leonardo.
—E tu, cognatina, non mi dai ragione?
—Te ne do cento…. e come sta il piccino?
—Ingrassa, ingrossa. Virginia dice che è tutto il mio ritratto, mentre invece è tutto il suo; è biondo…
—Tutti i bambini sono biondi….
—Ma il mio ha un biondo speciale che non sbaglia…. io dico che, mutato il sesso e l'età, è Virginia tale e quale….
—Ha dell'uno e dell'altro,—entrò a dire Leonardo,—e non può essere altrimenti colla teorica del completamento.
—Povero completamento!—disse Ernesta quando fu sola col marito.
—Perchè?
—Perchè quella creaturina non assomiglia nè a Virginia nè ad Agenore; la mamma ha gli occhi azzurri, il babbo neri, e il piccino non li ha di nessun colore…. in compenso ha il naso rivolto in su, mentre la mamma lo ha affilato ed il babbo aquilino…. ha…. Via, diciamolo, non ce n'ha colpa…. ma è bruttino….
—Il nostro sarà più bello,—disse Leonardo.
—Sicuro che sarà più bello—conchiuse Ernesta ridendo.
Uscendo di casa verso il crepuscolo per far la solita passeggiata nel viale, i colombi si affacciarono dalla piccionaia per vederli passare, e gli stornelli si staccarono in nugolo dal tetto per formare in alto, in alto, una corona sul capo della coppia felice.
Ma ahi! sciagura!—ieri l'altro ancora, al caffè Cova ed al Circolo si faceva un gran ridere alle spalle di Leonardo e del dottor Agenore.
Estratto dalla Nuova Antologia.
I.—In cui la signora si confida col suo spirito famigliare………………………………………… 5
II.—In cui il signore si confida col suo medico …….. 17
III.—Missione diplomatica…………………………. 33
IV.—In cui si fa una rivelazione e si mostra un disegno………………………………………….. 41
V.—Il dottor Agenore intraprende una cura radicale…… 45
VI.—«Non è lui! Non è lui!»……………………….. 57
VII.—Voci della campagna………………………….. 69
VIII.—Voci della città……………………………. 73
IX.—In cui si leggono i caratteri dell'amabile cuginetta ………………………………………………… 87
X.—Cieco!……………………………………….. 95
XI.—Crepuscolo e notte…………………………… 103
XII.—Soliloquio…………………………………. 115
XIII.—In cui il dottor Agenore ne fa una grossa…….. 119
XIV.—Primi bagliori nel buio……………………… 127
XV.—Inventario di cose e d'uomini…………………. 133
XVI.—Risultato ultimo d'una discussione filosofica….. 141
XVII.—Un sogno ad occhi aperti……………………. 151
XVIII.—Una rivelazione del dottor Agenore………….. 159
XIX.—È lui, è lui!………………………………. 167
XX.—La luce?……………………………………. 179
XXI.—La luce……………………………………. 185
XXII.—Emicrania e mal di nervi……………………. 191
XXIII.—L'ultimo tiro del dottor Agenore……………. 197
XXIV.—Catastrofe………………………………… 203
Milano—TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA—Milano
Auerbach——La Scalza—Traduzione di
E. DE BENEDETTI—Un volume in-16
di pagine 300……………………………… L. 2—
Bersezio V.—Cavalieri, Armi ed Amori
—Due volumi………………………………. » 5—
Cantù—Abisso e riscatto, scene domestiche per letture di famiglia—Un volume in-16 grande di pagine 200……………. » 1 50
De Amicis E.—Pagine sparse—Un volume in-16…………………………………….. » 1 50
Donati C.—Povera vita!—Un vol. in-16……….. » 3—
Farina S.—Il tesoro di Donnina—Un
volume di pagine 416……………………….. » 3—
—Fante di picche—Un eleg. vol. in-16……….. » 1 50
—Amore bendato—Un vol. in-16………………. » 2—
Lioy—Chi dura la vince…………………….. » 2 50
Ruffini—Un angolo tranquillo nel Giura,
—Un vol. in-16 grande di pag. 360…………… » 2 50
Dirigere commiss. e vaglia alla Tip. Editrice Lombarda, Milano.