The Project Gutenberg eBook of Lucifero

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Title: Lucifero

Author: Mario Rapisardi

Release date: September 16, 2007 [eBook #22641]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at DP-Europe, http://dp.rastko.net. (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LUCIFERO ***

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LUCIFERO

POEMA
DI
MARIO RAPISARDI.

MILANO,

  LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA.
  Corso Vittorio Emanuele, 26.

1877.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

Coi tipi di G. Bernardoni.

I

ARGOMENTO.

Silenzio di Dio.—I suoi ministri imprecano.—Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.—Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.—Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.—S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa, ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.—L'Eroe si dispone al racconto.

    Dio tacea da gran tempo. Ai consueti
    Balli moveano in ciel gli astri, e con dura
    Infallibile norma albe ed occasi
    Il monotono Sol dava a la terra.
    Reddían le nevi a biancheggiar le spalle
    Del tremante dicembre; april venia
    Col suo manto di fiori; arida e stanca
    Movea la bionda està giù da' falciati
    Campi a cercar le vive onde marine;
    E, coronato il crin d'edra e di poma,
    Scendea l'autunno a ruzzar vispo e snello
    Fra l'accolte alpigiane, e pigiar l'uve
    Nei colmi fianchi dei capaci tini.
    Tutto seguía così l'alte, immutate
    Leggi de la Natura, e nullo in terra
    Creato obietto, o in ciel, l'arduo sentiva
    Strano silenzio del mai visto Iddio.
      Abbandonati e solitarî intanto
    Giacean per le infrequenti aule divine
    I marmorei Celesti; e per le fredde
    Vòlte il sacerdotal canto e la prece
    Qual vano si perdea grido, che inalza
    Da la rupe solinga il cacciatore,
    Se mira dileguar giù ne la valle
    Tra 'l sonante canneto il salvo augello.
    Da fiero gel, da sacro orror comprese
    Fur l'alme vostre allor, pallidi e negri
    Zelatori de l'are; e quando ai vani
    Scrigni balzar vedeste arido e magro
    L'obolo di san Pietro, e oziose e tristi
    Tornar dal mondo, qual gregge digiuno,
    Le scornate Indulgenze, orridamente
    Su le madide tempie alto rizzârsi,
    Come ad istrice, i crini, ed agitato
    Tre volte e quattro tentennò il tricorno
    Su la sacra tonsura. Un grido, un urlo
    Cupo s'alzò dai congiurati petti:
    —La fede muore! O Dio, fulmina e sperdi
    Gl'increduli mortali!—
                            Alcun non arse
    A la prece crudel fulmine in terra;
    E i mortali rideano.
                        Udì quel riso
    Lucifero, e balzò. Sedeangli intorno
    Il silenzio e la morte; oscure e fredde
    Strisciavan su la sua fronte immortale
    Strane larve di sfingi e di chimere,
    Ed ei, solo com'era, in mezzo a tanta
    Morte la luce e l'armonia sentiva.
    —Qui in eterno starò? Favola indegna
    Senz'opra e senz'amore, io, che del cielo
    Per istinto d'amor spregiai la vita?
    No, si torni a la terra! Un nuovo io sento
    Spirto d'amor, che mi discorre il petto:
    Santo auspicio è l'amor. L'ultima prova
    Tentiam; l'ora è propizia: assai già sono
    Su la terra i miei fidi; uom fatto anch'io
    Amerò, soffrirò; correrò il breve
    Travaglioso cammin d'un uom mortale,
    E, redento da l'opre e da l'amore,
    Recherò a l'uom salute e morte a Dio.—
      Così l'Eroe parlava, e i circostanti
    Baratri tenebrosi si agitavano,
    Come per improvviso urto di vento
    Il sen cupo del mar. L'ali di gufo,
    Il piè forcuto e la bovina fronte
    Mutò d'un tratto il favoloso iddio;
    E dai lombi gagliardi e da le spalle
    Le fuliggini tèrse e la stillante
    Cispa dagli occhi affumigati ed orbi,
    Tutt'uomo apparve, e radïò dal volto
    La superba beltà d'un dio mortale.
    Tramutato così, dal piceo trono
    Balzò d'un tratto; il guardo mosse in giro.
    Ed esclamò:—L'infernal regno è sciolto;
    Il mio regno è la terra!—
                               Ecco il subietto
    Del canto mio. Classico o no, ne affido
    L'occulto senso a voi, vergin consesso
    D'oculati Aristarchi. A voi diè Giove
    La diva Arte in governo e i mal concessi
    Talami de le Muse; e se agl'incerti
    Occhi vostri si niega il delicato
    De le Grazie sorriso e la suave
    De le sacre fanciulle ispiratrici
    Candida voluttà, dolce vi sia
    Star su la soglia a noverar gli ardenti
    Amplessi e i baci insazïati, ond'hanno
    Suon di celesti melodie le chiuse.
    Odorate cortine, ed immortale
    Vita in terra gli eletti: in simil guisa
    Sta su la porta dei gelosi arèmi
    La fida turba dei scemati servi,
    Mentre il figlio d'Osmàn deliba il fiore
    De le belle Circasse. Alto e solenne
    Officio è il vostro, e non indarno io chiamo
    Il vostro nume auspice a me: voi soli
    Le riposte misure e voi sapete
    Le leggi e il rito, onde s'ottien l'impero
    De l'occulte bellezze, e qual più giova
    Tener modo e governo in sul tentato
    Mare de l'Arte, e quando ed in qual guisa
    Toccar si dee la tuba o la chitarra,
    E metter l'ali al dorso e dar di sproni
    Al Pegaso spumante, o nel tenace
    Fren moderarne a tempo i perigliosi
    Impeti giovanili, ed a che segno
    E con che industria è depredar concesso
    Del Meonio le carte, o del Tebano.
    Pèra colui, che al necessario giogo
    Prova sottrar la temeraria nuca,
    E va a ruzzar licenzïoso, come
    Selvatico puledro, per li campi
    De la sfrenata fantasia! L'immensa
    Ira vostra ei subisca, e tutto a un punto
    Perda il pazzo sudor, per cui tenea
    Seder primo in Parnasso. Armati ed irti
    D'alfabetiche cifre, unitamente
    Sorgete, e contro a lui, contro a lui solo
    Tutti dal sapïente arco scoccate
    I rettorici strali; onde il meschino,
    Travagliato da l'onta e dal rimorso,
    Egro ed insano a riparar s'affretti
    Fra le mura d'un chiostro. O, se più degno
    Sia di spregio che d'ira, alta, pesante
    Sul suo capo ostinato onda si aggrevi
    Di silenzio e d'oblio. Gelide e mute
    Gli sfileran dinanzi ad una ad una
    Le sdegnose gazzette; indifferenti
    Si chiuderan su la sua faccia smorta
    D'Acadèmo le sale; e allor che, stanco
    D'urlar strambotti contro al secol ladro,
    Povero e solo abbraccerà la morte,
    Non fia che le supreme ore gli allegri
    L'aureo rabesco d'un qual sia diploma.
    Saldo così su cardini d'acciaro
    Il tron vostro si gira, e vita e nome
    Dal cieco umano folleggiar traete.
    Tal ne l'algide stalle, in fra le zampe
    D'ardimentoso corridor, ritrova
    Cibo e sollazzo il piceo scarabèo;
    E, quando fra le storte ànche ghermisce
    Il picciol globo del dorato fimo,
    L'ali spiega da terra, e s'alza a sghembo
    A emular de l'audace aquila il volo.
      S'incarnò adunque il mio Demonio. In terra
    Sorrideva l'aprile; entro al suo petto
    Sorrideva l'amor. Sopra la cima
    Del Caucaso famoso, onde s'appella
    La giapetica stirpe, egli fu visto
    Venir come in un sogno, e star d'incontro
    A l'aurora nascente. Un invisibile
    Spirto, qual di canora aura, fremea
    Per le fibre del mondo, e più lucenti
    Dava al ciel gli astri ed a la terra i fiori:
    Gli dan nome d'amor l'anime accese
    Dei parlanti mortali; ed ei su tutte
    Anime impera, e solo e senza legge
    Il mar penetra e i monti e la selvaggia
    Cute degli olmi e il petto aspro del tigre,
    Chè spirto è desso, e qual raggio di sole
    Splende e s'agita in tutto, e l'alme e il tutto
    Con secreta armonia mesce e ritempra.
    Era per l'aria un fluttüar d'ardenti
    Atomi mobilissimi di luce,
    Una confusa, fluvïal fragranza
    Di sconosciuti balsami, e suave
    Musica di parole e di concenti
    Misterïosi. Un'irrequieta e nuova
    Delizïosa voluttà di sensi
    Vaganti per immenso ètera, come
    Rondini in cerca di lontani lidi,
    Una dolcezza non provata mai
    Di lagrime e di sogni, al primo arrivo,
    Sentì l'Eroe nel petto; e lo stupito.
    Sguardo volgendo per la vasta luce,
    Muto restò, di giovinetto a modo,
    Che raggiante di vita alfin ritrova
    La sognata beltà dei suoi vent'anni.
    Ma, poi che in lui l'alto stupor primiero
    Al fier proposto e a la ragion diè loco,
    L'incredul'occhio ai firmamenti spinse,
    —E, dove sei, sclamò, tu che presumi
    Regnar l'anime eterno? Alzati, e pugna!
    L'uman genio ti sfidai—
                            Il pugno strinse
    Superbamente, eresse il fronte, e stette
    Il fulmine aspettando, o la risposta.
    Tacito intanto dal soggetto mare
    S'apre l'indifferente occhio del sole
    Su le cose create, e si ridesta
    Giù per le valli intorno e la pianura
    Il lieto suon de le fatiche umane.
    —Sorgi, la terra è tua, proruppe allora
    L'inclito Pellegrin, sorgi, o gagliarda
    Possa de l'uomo! Assai d'ombre e di sogni
    Preda al mondo tu fosti; e dal terreno
    Pugno di fango, onde t'han detto uscito,
    Non ti redense ancor la tua cotanta
    Vita de l'alma audace e la sventura
    Tua perpetua compagna. E che ti valse
    Al par di te, trar da la creta i Numi,
    Se al cospetto dei freddi simulacri
    Dechinasti il ginocchio, e la superba
    Libertà del pensier serva fu fatta
    Di codarde paure? Or sorgi ed osa:
    Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi
    Son fuor de la Natura, e non ha vita
    Tutto che il vol de la ragion trascende.
    A che tra larve ìnesorate e vane
    Cercare un che t'aggioghi e ti spauri,
    Se muta al cenno tuo trema e si prostra
    La possente Natura? Ama e combatti!
    L'opra de l'uomo è amor, vita è la guerra,
    Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei!—
      Tacque, e a l'ardito favellar commosse
    Tremâr l'aure d'intorno, e agitò i fianchi
    La titanica rupe. Era nel monte
    Negra, profonda, solitaria, intatta
    Da umane orme e dagli astri una spelonca
    Di bronchi irta e di sassi. Orrido intorno
    Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi
    Fianchi, qual di commosse ali e di strida,
    Cupamente rintrona. Irati al verno
    Vi piomban da l'opposta erta i torrenti
    Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti
    Mugulando spumeggiano; ma quando

    Giungono al vallo de l'orrenda uscita,
    Perde l'onda il nativo impeto, e pigra,
    Torba, pollente s'impaluda, e manda
    Pestiferi mïasmi a chi la spira.
    Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi
    L'umanato Demonio, e con feroce
    Piglio di scherno a contemplar si stava
    L'orrido sito e il ciel. Da le profonde
    Viscere allor del cieco antro una voce
    Querula, lunga, dolorosa emerse
    Come suon di sospir. Porse l'orecchio,
    E s'appressò l'Eroe, quanto il permise
    L'angusto varco e la stagnante gora,
    Ed ascoltò:
               —Di che perigli in cerca,
    Misero! vai? Che stolta opra e che vano
    Talento è il tuo di proseguir l'impresa,
    Ch'io già per tempo incominciai, spregiando
    La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi
    Son fatto accorto, e di Prometeo il nome
    Mal mi dieron le genti! E che non feci,
    Che non diss'io per questa al pianto nata
    Cara stirpe de l'uom? Cieca ed ignuda
    Giacea nel lezzo de l'error, sì come
    Belva cibando la caonia ghianda,
    E altra legge nel mondo, altro governo
    Non sapea che l'istinto: ad altri ignota
    E a sè stessa giacea, scherno e vergogna
    De le cose create, e le create
    Cose, ignara di tutto, iva mescendo
    Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi
    Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo
    Io sol più che a me stesso? E non cotanto
    Mi punse il cor la fulminata fronte
    Dei fratelli Titani, e non di sdegno
    Arsi così per l'usurpate sedi
    Del fuggiasco Saturno e pe' negletti
    Consigli miei, quanto d'affetto e d'ira
    Destommi in cor la tribolata sorte
    Degli umani infelici. Ardito e solo
    Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce
    Contr'esso Giove, allor che ad uno ad uno
    Sprecava i doni al vegetale e al bruto,
    E a l'uom, misero tanto, altro conforto
    Non largía che il morir. Tutto ebbe allora
    L'uomo infelice il mio favor: sol io
    Gli svegliai l'intelletto; io di sapienti
    Arti e d'opre gentili e di gagliardi
    Ardimenti lo instrussi; io sotto al trono
    Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi
    Non minor d'alcun altro. Ahi! qual mi venne
    Premio da ciò? Non che n'aver mercede,
    L'invida rabbia arsi di Giove, e degno
    Tenuto fui d'ogni più cruda ammenda
    Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi,
    Come vedi, io mi fiacco, e a le voraci
    Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno
    E favola del mondo. E nè querela
    Movo di ciò; chè il querelar non giova
    A chi esente è di morte; e inesorata
    L'ira è dei Numi, e inesorato al pari
    L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto
    Colser giammai di mie fatiche tante,
    Del mio tanto soffrir le sconsolate
    Proli del mondo? Ahimè, che sórte appena
    Da la tenebra antica, a l'infinita
    Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco
    Poco a lor parve ogni più grande acquisto;
    Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda
    Diedersi tutte, e del saver la sete
    Arse in loro così l'alma e la vita,
    Che a precoce vecchiezza e ad immatura
    Morte fûr sacre e a maledir condutte
    L'alto mio dono e il sagrificio mio!—
    —Figlio di Temi, a lui rispose irato
    L'inclito Pellegrino, e che perigli
    Fantasticando vai? Nè vil fanciullo,
    Credi, io mi son, che si rivolta in fuga
    A la prima minaccia, o nauta imbelle,
    Che trema al più leggier spirto di vento,
    E si chiude nel porto. In questa eterna
    Rupe confitto, in verità, tu ignori
    Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei
    Carco di mal, di falsi mali agli altri
    Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia
    Questi vani compianti, e oltre misura
    Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno
    Tolto il senno davver le tue sciagure.
    Però sappi, e t'acqueta: opra gagliarda
    Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno,
    La compirò. Non già il saver, t'accerta,
    Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto,
    Ma la nemica a ogni saver, la cieca
    Credulità. Di false ombre e d'inganni
    Essa vive nel mondo, e si fa gioco
    De l'umana ragion; ma quest'azzurro
    Cielo e quest'aure e questi monti io giuro,
    Ch'ella è presso a morire, e arbitra in terra
    La ragion sederà; largo e securo
    Spiegherà il vol su' mal temuti errori
    Il redento intelletto; e allor che tutto
    Ciò che vuol, ciò che può senta e conosca,
    Questo ignaro di sè dio de la terra
    Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero
    A cercar non andrà larve e paure!—
      Disse, e partía; ma lo rattenne un detto
    Del pazïente Prometèo:
                          —S'hai grande
    E pari, ei disse, agli alti accenti il core,
    Deh! non partir così, quando m'hai dèsto
    Tale un desío, che a lo sperar somiglia.
    Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore
    Del mio soffrir fu la speranza, il tempo,
    Che co' fulmini suoi Giove sedea
    Sovra il trono d'Olimpo, e sul mio capo
    Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni
    E col disprezzo mio la sua paura
    E la sua crudeltà, però che immite
    Più chi regna divien quanto più trema,
    E dei fiacchi è virtù l'esser crudele.
    Solo di tutti io l'avvenir vedea
    Securamente, e de la sua caduta
    Presapeva il destin. Godi dei tuoi
    Vani, äerei rimbombi, io gli dicea,
    O spensierato usurpator del cielo;
    Tal da l'Inachia stirpe uno stupendo
    Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro
    Come fil non ritorto, e me da questi
    Ceppi redimerà; nè ti varranno,
    Credi, i fulmini allor, chè assai più salda
    Sarà del fulmin tuo la sua possanza.
    Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo
    Dei vaticinii miei sperdeano i venti!
    Qui fra' ceppi io rimasi: ad un tiranno
    Tiranno altro successe, e meco avvinto
    Restò in preda agli affanni ogni uom mortale.
    Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto
    E dopo assai di mali esperimento
    L'alta speranza mia; nè agevol cosa
    È il ridestarla, ed utile per certo
    Non mi saría, quando più tetro e fiero
    Sembra il dolor cui la speranza illuse.
    Pur, se grave non t'è l'esser pietoso
    A chi tanto per l'uom male sostenne,
    Al mio partito interrogar rispondi:
    Uom mortale sei tu? Qual t'assecura
    O responso, o destino, onde presumi
    Condurre a fin tant'onorata impresa?
    Non t'illude il voler, che dei più saggi
    Tal tiranno si fa, che par destino?
    Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi,
    Tal possa hai tu, che al grande ardir s'adegue?
    E se fondi in altrui le tue speranze,
    Tanta han virtude ed armonia le genti,
    Che, fatto un brando sol d'un sol consiglio,
    Al trïonfo del ver movan secure?
    Qual che tu sii, svelati a me: qui sconto
    L'immortal vita inutilmente, e assai
    Tempo a soffrire e ad ascoltar m'avanza.—
    —Ben m'è lieve appagar, l'Eroe rispose,
    La discreta domanda. Uom saggio, in vero,
    Io non terrò chi lusingato e spinto
    Da una rosea speranza ad ardua impresa,
    Pria non libra sè stesso, e con sottile,
    Freddo giudicio non prevede, e scerne
    I possibili eventi; anzi dà mano
    Subita a l'opra, e ciecamente ai casi
    Gitta sè stesso e de l'impresa il fine.
    Or, perchè a tal tu non mi assembri, io tutte
    Ti dirò le mie cose e l'esser mio,
    Quando a colui che tanti uomini e tempi
    Vide, e al fato durò con alma invitta,
    Grato è ridir ciò che di gloria è degno.—
      Disse, e in cima a la rupe erma e selvaggia
    Pensieroso si assise. Alto a l'intorno
    Spazïava il silenzio, e in larghi giri
    Un'aquila le azzurre aure fendea.

CANTO SECONDO.

ARGOMENTO.

Incomincia la narrazione.—La Natura e il Pensiero.—Stato primitivo degli uomini; primi e difficili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.—La gran Lite.—La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.—Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.—Un istinto di amore lo chiama sulla terra.—L'albero della scienza.—La tentazione.—Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.—Non mai contento de l'esser suo ritorna sulla terra.—Cristo predica l'amore.—Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.—Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.

    Non da l'Inachia stirpe, o d'alcun mai
    Ceppo mortal, così l'Eroe riprese,
    Ma da natura, immortal germe, io nacqui
    Una a le cose, e da la luce ho il nome.
    Dir giusti sensi, o tacer dee chi dritto
    Co'l pensier mira; e, chiaramente espresso,
    Torna più grato, e pregio doppio ha il vero.
    Però di studïose ombre e d'enimmi
    Non cingerò il mio dir, chè nè maestro
    Di misteri son io, nè a disdegnosa
    Anima, che a sdegnosa alma favelli,
    Dubbio o coverto il ragionar si addice.
    Nuovi non già, ma da la turba illusa
    Negletti veri io parlerò. Due sono
    Le virtù, che le cose hanno in governo:
    La Natura e il Pensier; l'una, ch'eterna
    Genitrice visibile è di tutto,
    La pesante materia ordina e muta
    Per suo proprio valor; l'altro la informa
    Di spirital possanza, e la solleva
    Ad ardui voli e a magisteri egregi.
    Ferrea, immota in sue leggi, una procede
    Lenta così, che par che giaccia: inalza
    Su le rovine, onde si allieta, il trono,
    E da l'arida morte una perenne
    Fonte di vita e di beltà deriva;
    Ma l'occulto Pensier, ch'agita e accende
    Tutte cose universe, in varia guisa,
    Con poter vario e con legge diversa
    Ogni via tenta, ogni regione esplora
    Mobilissimo sempre, e tutto aborre
    De la tarda materia il peso e il freno;
    E quando avvien, che di misteri e d'ombre
    L'altra s'avvolge, e, per geloso istinto,
    La ragion de le cose occulta e serba,
    Ei libero discorre, e si ribella
    Ad imposte paure; apre e dischiava
    Terre, cieli ed abissi; argini atterra,
    Crea, muta, strugge, e a le domate forme
    Nuovi dà impulsi, e nuove leggi imprime.
    Tal, benchè l'un viva ne l'altra, e vita
    Abbian comune e necessaria, avversi
    Son per intimo ingegno; onde tu vedi,
    Che or l'un l'altra soverchia, or questo a quella
    Soccomber mostra; eppur son ambo invitti,
    Sono eterni ambidue, però che morte
    Da tal guerra non sgorga, anzi han le cose
    Da cotanto agitare ordine e vita.
      Sparsi per gli antri, e fieramente soli
    Vivean gli uomini primi, e nulla amica
    Possa lor sorridea, tranne il Pensiero.
    Ispide pelli eran lor vesti, e rudi
    Selci lor armi e sol conquisto il foco.
    Da l'alte culle del fecondo Irano,
    Procedendo, spandeansi a mala pena
    Sui giapetici piani, e gl'inclementi
    Ghiacci vincendo, che inghiottían le belve,
    A nuove lotte s'accingean. Muggía
    Dai britannici fiumi alto l'immane
    Caval de l'acque, a cui, pari a vorago,
    S'apre orrenda la bocca, e al cui sospiro
    L'onda gorgoglia e al ciel salta in ruscelli;
    Devastando correan l'irte spelèe,
    D'umane carni esploratrici, e fuori
    Dai frondosi dirupi a l'onde in riva
    Calavasi il deforme orso e il velloso
    Primigenio mammuto: oscura e pigra
    Mole di membra, a cui nemico è il sole;
    E tu, sovrano troglodita, astretto
    Dal fecondo bisogno, a miglior prova
    Sempre volgendo il multiforme ingegno,
    Armi e industrie trovasti; onde più lieve
    Ti fu il domar co'l lavorato renne
    Le nemiche falangi. Apron le nubi
    L'inesauste sorgenti, e senza freno
    Fiumi ed oceani giù dal ciel dirompono;
    Entro al diluvïal baratro immenso
    Spariscono le specie, in quel che, armato
    Di novella virtù, l'uom passa i mari
    Su la prima piròga, e, di recisi
    Boschi infrangendo il pian glauco dei laghi,
    Fermo vi elegge e men selvaggio asilo.
    Ivi, fanciulla ancor, l'Arte s'assise
    Pargoleggiando; e, a far men lungo il giorno
    D'un che l'alma struggea dentro a l'amore,
    Tal gli spirò nel cor dolce un sorriso,
    Ch'ei fatto a un punto più gentil, leggiadre
    Forme e il pensier nel duro selce espresse.
    Però, quand'ei con lungo studio al rito
    Del caro amor la sua fanciulla indusse,
    Docil vide obbedire ai suoi talenti
    Il tenace basalto; a l'agil fianco
    Brunite armi precinse, e il flessüoso
    Collo di lei, che gli gemea su'l petto,
    Incoronò d'inteste ambre e di baci.
      Or deggio dir, che, di regnar mal paga
    Sovra i campi natii, la curïosa
    Mente de l'uom s'insinüò nei cupi
    Visceri de la terra, e ai fiammeggianti
    Gnomi, che custodían l'ampie miniere,
    Rapì il bronzo, indi il ferro, a cui funeste
    Armi non sol, ma civiltà l'uom debbe?
    Io benedico a voi, fiumi e torrenti,
    Che giù dai fianchi dei materni Uràli
    L'auree sabbie lucenti al pian recaste;
    Ma più a la paziente opra, che il lieve
    Stagno confuse e il risonante rame,
    Non che a l'assiduo ardir, per cui, dal duro
    Abbracciamento mineral divelti,
    S'arresero i metalli a l'uom tenace.
    O pensiero immortal de l'uom che muore,
    Te da prima io conobbi, e quinci unito
    S'intrecciò a' fati umani il mio destino.
    Bruco, che il corpo infermo, a mala pena,
    Per intima virtù svolge dal primo
    Involucro, e, a la dolce aere credendo,
    Crisalide novella, il picciol volo,
    Co' fior de' campi il suo color confonde,
    Tal de l'uomo è il pensier: s'apre a fatica
    Fra tutti ingombri e lunghi affanni il varco,
    E cammina, cammina, e a nullo iddio
    Dee la vita, il principio, il mezzo e il fine.
    Ultimo forse e più perfetto anello
    De la catena universale, ei tutto
    Chiude in sè stesso il suo destin, chè umana
    Mutabil cosa e de la terra è il vero.
    Ahi! che un morbo fatal l'alma gl'invase
    Fin da' giorni suoi primi, ed ombre e morte
    Gli gittò sovra il capo, in cor, d'intorno!
    Tremò a l'aspetto de l'eterno, immenso,
    Fluttuar de' creati esseri il mesto
    Figlio de l'uom, che riprodotta e viva
    Non pur vedea nei circostanti oggetti
    Tanta lite incompresa e tanto affanno,
    Ma dentro al cor, dentro a le vene, in tutta
    L'esistenza sua poca iva ammirando
    Un perpetuo agitar d'odio e d'amore.
    Di fantastici mostri e di chimere
    Popolò quinci il mar, l'aria, la terra,
    Ogni spazio, ogni vuoto; e dove un'ombra
    Vide e un mistero, o una maggior possanza,
    Là piegò la cervice e pose un Dio.
    Dio nacque allor, Dio, creatura a un tempo
    E tiranno de l'uom, da cui soltanto
    Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari.
    Chè or sopra ai soverchianti astri ei fu visto
    Spazïar l'insegnato etere, or chiuso
    Tra' fulmini precipitar su l'ale
    Dei rotanti uragani, or sovra al dorso
    Dei cavalli del mar correre i flutti
    E sfrenar l'onde a battagliar coi venti;
    O ver come immortal fremito immenso
    Penetrar l'aria, serpeggiar nel grembo
    Degli avari terreni, e al vigilato
    Solco apparir fra le compiute ariste.
    Però quel che Dio fu, quale ancor vive,
    E quanto ebbe e mantiene a l'uom soltanto
    Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino,
    O prospero, o maligno, arbitro è solo.
      Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero
    Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse
    E le cose universe, il fronte oppose
    Con indomito orgoglio, e una selvaggia
    Voce di libertà gittògli incontro,
    Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta
    Prepossanza di Dio tenne equilibre
    Con perenne agitar? Fu la feconda
    Lite, che il mar de l'essere commove
    Con assiduo flagello, e dai cozzanti
    Corpi la luce e l'armonia deriva.
    Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto
    Padre di servitù, per fiero istinto,
    Rubellossi da prima; essa al feroce
    Andropòfago Iddio scosse la reggia
    Vigilata dai fulmini; e dal fiero
    Cozzo con lui tanta favilla emerse,
    Che, mutata dagli anni in fiamma viva,
    Tutto divorerà dei numi il regno.
    O d'ogni libertà fonte primeva,
    Madre d'inclite pugne, io ti saluto!
    Tu co'l moto la vita, e co'l solenne
    Fra le cose de l'alma egregio attrito
    Luce dèsti e saper negli intelletti
    E co'l saper la libertà, sublime
    Pianta, che sol dov'è coltura alligna.
    Te da la terra solitaria i saggi
    Primamente avvisâr; te, spiratrice
    Di terrigeni mostri a Dio rubelli,
    Raffiguraro e coltivâr le genti,
    E or fosti Isi nomata, or Bahavàni,
    Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco,
    Or discordia infinita, e, se paura
    Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli,
    O fur da sacerdoti empî travolte,
    Nome avesti d'errore e di menzogna
    Tu, che ad onor del vero e de la luce
    I misteri del cielo agiti e sperdi.
    Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali
    Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi.
    Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli
    Troni d'Olimpo, il nèttare libando
    D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna,
    Fra le dapi fumanti e le vezzose
    Fanciulle che tesseangli inni e carole,
    Cura de l'uom gli penetrava il petto.
    Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti
    Dal comando di lei, che Lite ha nome,
    Quanti mai da la terra erano usciti
    Terribili Titani, a cui la forza
    Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire;
    E avventando ciascun li suoi cinquanta
    Capi feroci e le altrettante braccia
    Contro ai regni di Giove, orribilmente
    Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo.
    Arse d'ira il tiranno, e forza a forza
    Oppose, e vinse. Da le attinte altezze
    Precipitâr gl'intrepidi gagliardi
    Un dopo l'altro fulminati, e monti
    Ed isole parean, che in un selvaggio
    Moto la terra, o il mar vorace inghiotte.
    Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo
    Di cotanta caduta, o sopra a tutti
    Sventurato Titano? Eran pur folli
    D'Ùrano i figli, ove tenean, che segga
    Maggior virtù, dove più grande e saldo
    Torreggi il corpo, e il vigor cieco e bruto
    A pugnar contro a tutti e a vincer basti.
    Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza
    Di giganti trïonfa, o adamantina
    Spada conquide, e solo a la modesta
    Continua punta del pensier soggiace.
    Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse
    Furor d'atre procelle, a poco a poco,
    Morsa dal flutto che le geme intorno,
    Scemar vedi e crollar: son rupe i Numi,
    E il flutto assiduo del pensier li rode.
    Così Giove fu vinto, e in simil guisa
    Vinto sarà chi gli successe. Or odi
    Quel ch'io feci e farò. Da una malnata
    Bordaglia rea, che da natura in dono
    Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede,
    Ièova ne venne, un implacato iddio,
    A cui fulmine è il guardo e tuon la voce.
    Solitario e funesto egli incombea
    Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto
    Dei tremanti mortali, e gran sepolcro
    Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo,
    Pria de l'ora, il fatal sasso si aggrevi.
    Io nel cielo era ancor, bello di tutti
    Radïamenti. Era sorriso e luce,
    Fragranze ed armonie del ciel la vita,
    E, cullati in un mar d'ozii e di fiori,
    Si tenean tutti e si dicean beati.
    Sol'io, spirito inquieto, indifferente
    A quell'aprile, a quel banchetto eterno,
    Sentía dentro a l'altera anima un vôto
    Misterïoso, un mar senza confine,
    Come una solitudine infinita
    D'intorno a me, dentro di me: se avessi
    Conosciuto l'amor, forse in cor mio
    Ravvisato l'avrei sin da quel giorno.
    Poco mi parve il ciel, misera vita
    L'eternità. Di strane opre, di voli,
    Di turbini, d'ebbrezze, di battaglie
    Tal m'invase un desío, che sfere ed astri
    Corsi, cercai, sempre irrequieto, in traccia
    D'un fantasma incompreso, o fosse un'ombra
    Del mio stesso pensiere, o una diversa
    Immagine con me nata, e divisa
    Fatalmente da me. Dove mai, dove,
    Sospiroso io dicea, trovar ti posso,
    O disïata e necessaria parte
    De l'esser mio? Per entro a l'immortale
    Anima mia tutto il mortal sentiva.
    Infelice mi tenni. A Dio nel fronte
    Gli occhi un dì fissi, e interrogarlo osai:
    Chi m'ha fatto così? D'ira e di lampi
    Ei fiammeggiò, nè mi rispose. Il vero,
    Io replicai, l'eterno vero; io voglio
    Tutto saper; se il Ver tu sei, ti svela!
    Ei fulminò; tremâr gli angioli; io caddi,
    Nè pugnai già: sentía ch'era più grande
    De lo sdegno di Dio la mia caduta.
    Quale allor degli antichi astri mi accolse?
    Nessun fuor che la terra, e de la terra
    Gli oscuri antri più cupi: ivi prescritta
    Fu la mia reggia a un tempo e il carcer mio.
    Bollía sotto ai miei passi un fragoroso
    Mar di liquide fiamme; in gran tenzone
    Mugghiando si rompeano onde contr'onde;
    Ma più cocenti assai dentro al mio petto
    Combattendo bollían dubbî e speranze;
    Salde e ferree correan sovra il mio capo
    Di granito le vòlte, e assai più saldo
    Era il cor mio: sempre a me innanzi, ovunque,
    Un fantasma d'amor, sempre in cor mio
    Una voce incompresa: ama e cammina!
    Ruppi il carcere mio; l'aria, la luce
    De la terra cercai; chi avria potuto
    Porre un freno al mio spirto? Ièova m'avea
    Fulminato, non vinto. È là, un occulto
    Pensier diceami, è là sovra la terra
    Il tuo destin, là di tue prove il campo,
    Là fra tanto agitar d'odî è l'amore,
    Là fra tanto morir la vita alberga!
    Mi trasformai la prima volta: ignoto
    Corsi la terra, e al caro sole in vista
    L'uom, la natura e l'esser mio compresi.
    L'uom compresi, e l'amai. Ma allor che prono
    A piè dei suoi creati idoli il vidi
    Vaneggiar paventoso, e legar tutta
    L'anima ardita a un inconcusso altare
    M'arse il cor d'ira e di pietà. Sembiante
    A vasta e fruttüosa arbore, in mezzo
    De la terra sorgea l'egregia pianta
    D'ogni umana Scïenza; e Dio, nemico
    Del veggente saper, che i tenebrosi
    Spirti rischiara, le ruggía d'intorno
    Con feroce divieto; onde alcun mai
    Coglier non osi ed assaggiarne il frutto.
    Fu allor che con sottile arte la mente
    Degli uomini tentai: simile a Dio
    Sarà, dicea, chi ciberà quel frutto;
    E quel frutto fu colto. Un'orgogliosa
    Brama, un'ardente, inestinguibil sete
    Di saver, d'indagar l'ombre, che folte
    Gli addensava d'intorno il Dio nemico,
    Morse gli uomini tutti; e qual più viva
    Sentì in cor la mia voce e il poter mio,
    E per vie non segnate oltre si spinse
    Al confin de la pavida ignoranza,
    E interrogò con l'intelletto audace
    Le piante e gli animai, la terra e gli astri,
    Quei di mago ebbe nome e di ribelle.
    Piombò quinci su'l capo ai maledetti
    Figli di Cam la collera di Dio,
    E assai d'essi perîr, non la pugnace
    Virtù, che a l'uom pria la Natura infuse,
    Ed io, sin da quel dì, sveglio e raccendo.
    D'orgogliose speranze io mi pascea
    Secretamente, ed oltre un mar d'affanni
    Prevedea su la terra il mio trïonfo;
    Ma fulminato dal geloso Iddio
    Nuovamente io piombai nei tenebrosi
    Baratri de la terra, ove il superbo
    Sdegno del petto e il mio dolor nascosi.
    Ivi scendea talor qualche gagliardo
    Intelletto di sofo o di poeta,
    A cui fu colpa il propagar le nuove
    Apocalissi del pensier mortale.
    Rïardea la speranza entro al mio petto
    Co'l suo venir, però che per ciascuna
    Stella, che al fronte di Sofia s'accende,
    De la Fede su'l crin spegnesi un sole.
      Così durai gran tempo, e non già pago
    De l'esser mio: sempre a me innanzi, ovunque
    Un fantasma d'amor, sempre in cor mio
    Una voce incompresa: ama e cammina!
    Ritornai su la terra. Un mansüeto,
    Che de l'iroso Iddio credeasi il figlio,
    Predicava l'amor. Debole e solo
    Egli parea, ma tutta era con esso
    L'umanità. Stetti pensoso e muto
    Ad ascoltarlo, e mi obliai. Senz'armi
    Egli pugnò; vinse morendo: cadde
    Giove dal ciel, Roma dal mondo, e il mondo
    E il ciel fu suo. Sperai, dubbiai; ma il giorno
    Che tutte dopo a lui volgersi al cielo,
    Per cercarlo, vid'io l'anime umane,
    E su la terra derelitta e mesta,
    Come in carcere vil, gemer la vita;
    No, vittoria non è, gridai da l'imo
    Petto, e furente mi scagliai per quanta
    Terra il ciel vede, e il mar sonante abbraccia;
    No, vittoria non è questa, che il tempo,
    L'opra, il pensier, l'uomo e la vita uccide;
    Amor questo non è, ch'entro a una fatua
    Luce di ciel nuota ozïando, e il tergo
    Cheto soppone a qual che sia flagello!
    Braccio e pensier, moto e conflitto è amore;
    Campo d'opre comuni e di travagli,
    Non èremo la terra; uom, che nel pianto
    Vive, e da Dio gioie o tormenti aspetta,
    Schiavo non pur, ma inutil cosa il chiamo!
    Tremâr le infeminite anime al grido
    Del mio potere; e Dio, fatto più forte
    De l'umano terror, me per la mano
    Del suo fido Michel di ceppi avvinse,
    E percosso e ferito indi nei cupi
    Baratri m'inchiodò; stolto! e si tenne
    Securamente vincitor. Dai ceppi,
    Dagli abissi io balzai, giovine eterno,
    E mutando me stesso in mille guise
    Ebbi regno nel mondo. Una venale
    Turba di sacerdoti a cui nel nome
    Abusato del Cristo, agevol cosa
    Era il far degli altari empio mercato,
    Me d'ogni colpa allor, me d'ogni affanno
    Degli uomini imputò; strani sembianti
    Mi foggiâr le nemiche anime, e avverso
    D'ogni umana salute e d'ogni amore
    Il mio nome suonò; ma in faccia a questo
    Dolor tuo sacro e in faccia al mondo io giuro:
    Mi fu iniqua la fama! Orrido, immoto
    Su l'umane coscienze s'assidea
    L'infallibile Domma: un paventoso
    Mostro senz'occhi e tutto plumbeo il corpo,
    Che il mortale Pensier di ferri avvinto
    Squarcia con le feroci unghie, e sen ciba.
    Suo regno è l'ombra, sua virtù gl'inganni;
    L'ignoranza dei popoli il suo scudo,
    Ed armi sue l'anátema e la scure.
    Contro ad esso io pugnai: sinistra e maga
    Cosa per lui la sitibonda brama
    D'ogni saper; frutto vietato il vero,
    Colpa il voler, la libertà delitto,
    E allora, oh! allor, superbamente il dico,
    Menzogna, error, colpa e delitto io fui!—

CANTO TERZO.

ARGOMENTO.

Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.—La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.—Leone X e Lutero.—Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.—Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.—Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.—Il canto della guigliottina.—Fecondità delle rovine.—Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.—Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta.

    Sopra la terra imperversava intanto
    Un uragan di popoli. Sul vecchio
    Tronco latin spirò l'aura del norte,
    E il rinverdì; fra le disfatte genti
    S'insinuò un gagliardo alito, un fremito
    Di selvatica possa. A quella forma
    Che al ritorno d'april, sotto al fecondo
    Bacio del Sol, freme la terra, e il cieco
    Germe, che in grembo custodì dal fiero
    Morso de' ghiacci, a l'aurea luce esprime;
    Tal serpea de l'uman genere in petto
    Una nuova virtù, che a la secreta
    Aura del mio pensiere apríasi il varco.
    Ed Ario sorse, e tutte avea d'intorno
    Le germaniche stirpi.—Oh! splenda un lume
    Di verità su queste genti; un riso
    Di libertà su le coscenze umane;
    Sia concesso il pensier!—Questo ai pastori
    Del buon Cristo ei chiedea, là, su la soglia
    Del Niceno consesso, ove a congiura
    Tratti il cenno li avea d'un parricida.
    Siccome folla di mendici, a cui
    Cadan rotte le vesti e manchi il pane,
    Tali sul freddo limitar premeansi
    Mute, ansïose del giudizio, ai fianchi
    D'Ario le genti. Alzâr le braccia i sacri
    Del Cristo alunni, e su la fronte ardita
    Del Cirenèo fulminâr tutta a un'ora
    L'umanità. Sfida fu questa, a cui
    Ostinata e mortal guerra successe.
    Quinci la Fede della plebe: un'orba
    Maga, che l'ignoranti anime impera,
    E d'error vive ed a le stragi istíga;
    Quindi colei, che luminosa incede
    Fra tutti affanni, e di Scïenza ha nome:
    Di severi intelletti arbitra e diva,
    Sperimentando, essa li guida in loco
    Dove scevro di nubi il Ver fiammeggia;
    Gli eterni de le cose atomi indaga,
    L'essenze esplora, e a la cagion lontana
    La varia prole degli effetti annoda.
    Chi potría tutti annoverar di questa
    Universa battaglia i campi e l'armi,
    Gli eroi, gli studî, i vincitori, i vinti?
    Sol taluno dirò. Di precursori
    Italia è madre, e tre corone ha in fronte:
    Regnò co'l brando e con le leggi in pria;
    Poi, vinta i polsi e strazïata il petto,
    Co'l pensiero regnò. Gemean le menti
    Sotto al flagel d'una loquace, astuta
    Sfinge bifronte, che, di Cristo a un tempo
    E d'un Saggio, che patria ebbe Stagira,
    Usurpando il poter doppio e gli aspetti,
    Mutava con sottile arte in oscura
    Fede il saper, la cattedra in altare.
    Povera fra le genti iva e digiuna
    D'ogni culto Sofía, nè pria fu lieta
    Di fermo ospizio e d'onorate offerte,
    Che s'avvenne in Telesio. Il venerando
    Vecchio sedea pensosamente a l'ombra
    De le selve native; e, pari al raggio
    Novo del Sol, che tra le fronde e i rami
    Scendea sereno a ricercargli il fronte,
    Un arduo gli splendea dentro al pensiero
    Giovanissimo spirto. A l'aura, al guardo
    Riconobbe la santa esule, e incontro,
    Sorridendo e tremando e con aperte
    Braccia le córse. Una parola ardita
    Quinci udiron le serve itale menti;
    Impallidì l'orrida Sfinge; il duro
    Giogo fu scosso; e da quell'aureo giorno
    La casetta del sofo ara divenne.
      Qual da le dilicate ántere aperte
    Manda l'amante fiore al fior lontano
    Il pòlline fecondo, e messaggero
    Del casto bacio è il zeffiro d'aprile:
    Tale il novo pensier, creduto a un novo
    Magistero di cifre, inclite imprese
    Maturò fra le ardenti anime; e il vanto
    Fu tuo per vero, o egregia arte, per cui
    Da metallici tipi impresso, e in mille
    Guise prodotto, agil discorre e vola
    Il mortale pensier, visibil fatto.
    Possa tu sei, che ogni confine, opposto
    Fra gente e gente, indomita conquidi;
    Fulmine sei, che la funesta e scura
    Tirannia de l'error sfolgori e sperdi;
    Luce sei tu, per che dovunque e in tutte
    L'alme il sorriso d'ogni ver si svela,
    Tu, nel commercio de l'idee, le sparse
    Genti accomuni; in facile amistanza
    Leghi i vivi agli estinti, e in guisa annodi
    L'uno a l'altro pensier, l'ieri al domani,
    Che la specie de l'uom, devota a morte,
    Un sol gigante ed immortal diviene.
      Ma qual de l'onda avvien, che d'uno in altro
    Vase versata, altra figura assume,
    Così, da la contesa alpe ad estranei
    Climi varcando il pensier novo, in nova
    Forma e in campo diverso e con altr'armi
    Contro a un cieco poter sorse, e proruppe.
      Trafficata, qual vil merce, passava
    Da un giogo a l'altro la saturnia terra;
    E i suoi figli rideano. Un rubicondo
    Pastore e re, che di Leone il nome,
    Ma l'alma avea d'un animal di Circe,
    Banchettava su l'are, e il ciel vendea.
    Venne un giorno d'oltralpe un battagliero
    Frate sul Tebro. Gli bollía nel petto
    Il sassonico sangue, e calda al pari
    Del suo sangue la fede.—Oh! ch'io nel vivo
    Fonte, dicea, de l'evangel di Cristo
    Quest'anima disseti!—Io, ch'era presso,
    Per man lo presi, e lo condussi in loco
    Ove il sir de l'umane alme gioíva
    Fra una ciurma di servi, a cui sul crine
    Sedea per celia un ramoscel d'alloro,
    Una burla su'l labbro, e sol ne l'epa
    La libertà. Del buon Leone intorno
    Tripudïando oscenamente ignude
    Ivan muse e madonne; ed ei, nuotante
    Come in un mar di placida quïete,
    Sonnecchiava e ridea, mentre, seduta
    Sui suoi ginocchi, con la man lasciva
    Stazzonando il venía lubricamente
    Del Bibbiena una putta, ed esso il Cristo,
    In abito or di scalco, or di poeta,
    Compartía, strambottando in buon latino,
    Cibi a le pance e a l'anime indulgenze.
    Su la spalla battei de lo stupíto
    Solitario, e gli dissi: Ecco il vangelo!
    Arse in cor d'ira e di vergogna in volto
    Il generoso, e a le natíe contrade
    Disdegnando volò. Folti a' suo' fianchi
    Si stringeano i fedeli al suo ritorno,
    Dimandando di lui, che il ciel dispensa;
    Ed ei tuonò:—Colui, che il ciel dispensa,
    L'are insozza, il ciel vende, e Dio svergogna!—
    Disse, e dal petto fremebondo il sacro
    Abito svelse, e si lanciò nel mondo
    Come guerrier contro a nemico armato.
      Ululâr contro a lui, contro al pensiero,
    Contro a la vita, contro al ciel, gl'ingordi
    Lupi di Trento; sibilâr gli obliqui
    Rettili del Loiola, e dentro ai petti
    S'insinüando, avvinghiâr l'alme; un freddo
    Lento velen vi sparsero, sperando
    Che sepolta nel sonno, o nel terrore,
    L'umana volontà tutta si spenga.
    Fu un sepolcro la terra. Un'ara e un trono
    Soli sovr'esso; e tutto occhi e sospetti
    Sovra entrambi il Loiola: Iddio discese
    Umilmente dal cielo; e, perchè alcuna
    De le pecore sue non si smarrisse,
    Al comando di lui prese il coltello,
    E con celestïal garbo l'immerse
    Ne la gola di mille. Un mar di sangue
    Coprì la terra; il divo manigoldo
    Tornò al ciel, carezzò l'insanguinata
    Barba, e pago dal suo trono sorrise
    Come al settimo giorno. Io nel fumante
    Sangue mi astersi, e fulminai la voce.
    Pugnâr vivi ed estinti, e nuova intorno
    Pullulò da la strage onda di vita.
      Gemina possa, è libertà: risveglia
    Le menti in pria, poi discatena i polsi.
    Uom, che servo ha il pensier, la destra ha inerme;
    Spada non ha chi i suoi diritti ignora.
    Ricca d'affanni e d'ogni mal contesta
    Egli è certo la vita; e pur qual turpe
    Cosa è nel mondo, che al servir s'agguagli?
    E qual di tutte è servitù più infesta
    Che servir, non volente, al ferreo cenno
    D'assoluto signor? Popol che geme
    Fra' ceppi, e sente del suo mal vergogna,
    Per metà è schiavo, e qual gode e s'oblía
    Schiavo è due volte, e d'ogni ingiuria è degno.
    Dinanzi a re, che il suo piacer fa legge,
    E a nessun mai de l'opre sue risponde,
    Leggi non son, nè cittadini: ai sommi
    Gradi i pessimi esalta; il buon deprime;
    L'altrui sostanze impunemente invade;
    Grandi e piccoli offende; il sangue sparge;
    L'onor calpesta: è tutto insomma ei solo.
    Nè giustizia miglior, nè più felice
    Stato è, per me, dove la plebe impera.
    Idra ingorda è la plebe, e per ciascuna
    Testa ha due bocche: a divorar la prima,
    A morder l'altra e a maledir dischiusa.
    Vile in servire, in comandar superba,
    Cieca in ambo gli stati, iniqua sempre.
    Miglior però d'ogni governo io tengo
    Quel che al centro risiede, e da ogni estremo
    Con eguale poter si tien diviso.
    Quinci l'empia Licenza, a cui gradito
    Cibo è la strage cittadina, e quindi
    La Tirannide astuta; ed esso in mezzo
    Sta, come ròcca, e per vegliante cura
    Campa a un'ora dal male e al ben provvede.
    Da l'estrano temuto, e riverito
    Al par da' suoi, de la sua gente i dritti
    Custodisce e difende, e, pur lasciando
    A l'oprare d'ognun libero il campo,
    Argine solo il dritto altrui gli oppone.
    Così liberi tutti e tutti a un tempo
    Servi sono a la Legge; e per diversa
    Via, con varia fortuna e vario ingegno
    Egual fine ha ciascuno: il ben di tutti.
    Questo però, qual ch'abbia forma e nome,
    Libero stato io sovra gli altri estimo.
      Nè pensar già che il buon desío m'accechi,
    Se dir m'udrai, che a tanto inclito obietto
    Ogni gente del mondo ormai si appressi.
    Al novo grido del pensier ribelle
    Tremâr con l'are i troni, e giù dai troni
    Precipitâr scettri purpurei e teste
    Coronate di re. Surse su'l nudo
    Scoglio Albïone, e su'l riverso giogo,
    Il suo tiranno a giudicar, piantosse.
    E giudicò. Splendea nitida e bella,
    Qual s'addice ad un re, sovra il tuo collo,
    O Stüardo, la scure; e fredda, muta
    Come il pensìer del rigido Cronvello,
    Cadde, e libò con voluttà plebea
    Il regio sangue di tue regie vene.
    Rotolò ne la polve il tuo parlante
    Capo, e le voci balbettate a pena
    Da le labbra morenti entrâr nel petto
    D'ogni re de la terra, a cui mutato
    Sembrò il regno in abisso, in palco il trono.
      Surse anch'ella e ruggì d'oltre l'Atlante
    L'americana Libertà, che troppo
    Sentì al collo pesar l'anglico giogo;
    E tu primo ne udisti il grido orrendo,
    Redentor Vasintóno, a cui la spada
    Sfolgoratrice d'assoluti imperi
    Essa prima affidò. Scornata e vinta
    L'altera Anglia soggiacque; e non le valse
    Fulminar Franchi orgogli e antenne Ibere,
    Nè gli oceani domar, nè invitta e ferma
    Durar su la contesa arce di Calpe,
    Quando te non domò, te di nemici
    Vincitore non pur, ma di te stesso.
    Libertà allor sul grande istmo si assise
    Vittorïosa, e ne le immense braccia
    Ad un patto d'amor le genti accolse.
    Sedea fra tanto una cortese e imbelle
    Sovra il trono di Francia ombra di re.
    Quinci un cortèo di pallide e lascive
    Fantasme, e inciprïate ombre e superbi
    Scheletri incappellati e rugginose
    Armi vuote, che si tenean diritte,
    Come fosser guerrieri; e quindi un vasto
    Tumultüoso brulicar di vivi.
    Il Re dicea: Stiam fermi, io son lo Stato!
    Ed il popolo: Avanti, eguali tutti!
    Diceva il Re: Pieghiam la fronte a Cristo;
    E la plebe: Nè re, nè dio vogliamo:
    Cristo è il passato, e l'avvenir siam noi!
    E il magnifico Re, non per paura,
    Ma perchè ardea d'amor pe' suoi soggetti,
    Titubò, tentennò, si rassettò
    Co'l mignolo sottil certi indiscreti
    Ricci, che gli sfuggían da la parrucca,
    E gridando: sto fermo, un gradin scese.
    Fe' un sogghigno la plebe, e disse: È poco.
    Ed il Re scese ancora. Ancor non basta!
    Gridò la plebe; e il Re: M'abbasso troppo;
    Allor pari sarem!—Meglio per tutti;
    Se non ami con noi viver nel fango
    Un palco t'alzerem d'oro e di gemme;
    Vieni, scendi e vedrai!—Scese; e la plebe
    Urlò un plauso di gioia, e, sì com'era
    Nana, minuta, sbrindellata e scarna,
    Diessi a ballonzolar bizzarramente
    Tutta in giro al buon re.
                             —Balliam, balliamo:

      La nostra gioia, il viver nostro è un'ora:
    L'uccel venne a la rete, il pesce a l'amo.
    Da l'una a l'altr'aurora,
    Balliam, balliam, balliamo.

      Balla con noi, buon re: noi non siam prenci,
    Non vestiamo, gli è ver, porpora ed ostro,
    Ma fatto è il manto tuo coi nostri cenci,
    E tinto te l'abbiam co'l sangue nostro.

      Balla con noi, buon re: vigile ognora
    Tu pensavi al tuo popolo diletto:
    E il popol tuo vegliava e veglia ancora
    Per comporti a sue spese un cataletto.

      Balla con noi, buon re; balliam, balliamo;
    Facciam cambio di doni, oggi ch'è festa:
    Noi la vita e l'onor dato t'abbiamo,
    E tu, buono qual sei, dànne la testa!—

      Era questo il baccar di quel tremendo
    Popolo di pigmei. L'un l'altro, a un segno,
    S'aggruppâro, si unîr, si fuser tutti
    Come liquido bronzo, e una trifronte
    Furia formâr così gagliarda e fiera,
    Che immoto stette a contemplarla il mondo.
    Ella si scosse, e dietro a lei sparirono
    I secoli; diè un grido, e tremâr quanti
    Popoli e re. Tutto sia nuovo, disse,
    E fulminò: tempi, memorie, cose,
    Troni ed altari, uomini e dii. La terra
    Corse in tre passi; e a le rovine in cima,
    Fra un oceano di sangue eretto un trono,
    Lieta, guardando a l'avvenir, si assise.
    Come allor, che dai campi aridi e brulli
    Piomba co'l verno una tempesta, orrendo
    Romba il tuon, fischia il vento, a larghe falde
    Piove olimpo; i torrenti alzansi in fiumi,
    I fiumi in mar; crollan capanne e case,
    E ti par tutto, ove che il guardo giri,
    Un sepolcro di torbe acque la terra;
    Tal passò quell'Erìne; e, a quella forma
    Che, a le fiamme del Sol, bevendo i campi
    L'abbondevole umor, pullula intorno
    Fuor del morbido limo ogni diversa
    Vegetal vita, e variopinto e bello
    D'erbe intesto e di fior spiega il suo manto;
    Così da le rovine alte e dal sangue
    Germinâr cose e idee, ch'arbori or fatte,
    Dan riparo a le genti e frutti al mondo.
      Questi, ch'io noto con parlar fugace,
    Inclito Prometèo, son, tra' maggiori
    Fatti, per cui l'uman genere avanza,
    I maggiori e più illustri; e d'essi al raggio
    La speme del mio cor s'accende e cresce.
    Me più volte cacciò nei tenebrosi
    Baratri il Dio, che al suo fatale è presso,
    Ma invitto sempre ad altre prove io sorsi,
    E a l'estrema mi accingo, or che cotanto
    Spazia nel Ver de l'uman genio il volo.
    Però ti piaccia udir, come appuntando
    L'uomo industre e tenace il vario ingegno
    Or d'Iside nel grembo, or di sè stesso,
    Utili veri a la sua vita invenne.
    Qual dirò prima o poi? Correa su' ciechi
    Flutti il nocchiero, e nulla al dubbio corso
    Guida costante gli reggea la prora,
    Fuor che l'Orsa malfida e il vario sole.
    Mal securo ei fuggía gli alti, e la riva
    Con vigile tenendo occhio, il nemico
    Nembo tremava, che rapìagli il cielo.
    Ma poi che la virtù primo conobbe
    Del commisto magnete, il qual, sospinto
    Da un istinto d'amor, volgesi al polo,
    Un sottil, ben temprato ago ne trasse;
    Mobilmente il librò sovra a un diritto
    Fil d'intrepido ottone; entro una cava
    Ciotola il custodì tutta di puro
    Rame, e, co'l guardo al ben costrutto ordigno,
    Diede a l'agile prua certo il governo.
    Così per mari inesplorati, in traccia
    D'un pensier, che parea sogno e deliro,
    T'affidavi, o Colombo; e intenta e certa,
    Più de la punta del sottil congegno,
    Ch'oltre ai nembi scorgea l'artiche nevi,
    Lungi, lungi, oltre ai mari, oltre al confine,
    Dove il cielo si univa al mar crudele,
    Tutto un mondo vedea la tua pupilla.
      Esplorata così questa rotante
    Sfera, che intorno al Sol l'anno misura
    Più vasto al genio umano aere s'apría.
    Crescean genti e città; crescean con elle,
    Madri d'opere eccelse e d'aurea prole,
    Le varie stirpi de' bisogni industri,
    E d'un vol più veloce e più securo
    Ogni gente, ogni cor l'uopo sentiva.
      Qual parría del vapor più debil cosa?
    Atro figlio de l'acqua e del selvaggio
    Foco, di tutto genitor, si leva
    Turbinando per l'aria, e l'aria offende
    Di fosco, umido vel, sin che del tutto
    Si discioglie e si sperde. Eppur, se in cupo
    Spazio tu ardisci imprigionarlo, e al cielo,
    Ch'ei desía, non gli assenti adito alcuno,
    Cozzar tosto l'udrai contro ai pareti
    In terribile guisa, e sì con fiero
    Talento e con tal vivo urto li assale,
    Che, fosse anche d'acciar la sua prigione,
    Indomito la spezza; i perigliosi
    Frantumi in alto, in cento versi avventa,
    E con tuono improvviso all'aria esplode.
    Di tal fiero poter con mente audace
    L'uman genio si valse; accortamente
    Il compose, il costrinse in ben attati
    Cilindri, che dischiuso abbiano un varco;
    Diè modo e verso al repentino istinto,
    Che a dilatarsi e cercar l'aria il porta,
    E di guisa il domò, che or dentro a immoti
    Dedaleï congegni urge, ed immani
    Suste ad un cenno e ferrei magli elèva,
    Ruote stridule aggira, e, a tutto intorno
    Propagando con vario ordine il moto,
    Porge all'uom mille braccia, a l'arti il volo;
    Or, d'un agile pino occulto in grembo,
    Via lo spinge su' flutti, al nembo, a' venti,
    Senza remi, nè vela; ond'esso, in forma
    D'agile carro, sui voraci abissi
    Rapidissimo scorre, e lidi e genti
    In utili amistanze obliga e aduna.
    Nè il mar vince soltanto; anche la terra
    Con nuovo magistero a lui soggiace.
    Varcar vedi per lui, quanto è distesa
    Da l'igneo Sâra al gelido Trïone,
    Tal fulmineo congegno, che animato
    Mostro il diresti: un ferreo ed infernale
    Pègaso dai fiammanti occhi, che orrendo
    Fuma, fischia, ansa, sbuffa, alita, e crassi
    Fiati or da l'alto or giù dal ventre avventa;
    Ed ecco, or per campagne umili e valli
    Correr mugghiante e serpeggiar lo miri,
    O lungo i fianchi d'un aëreo monte
    Divincolando trascinar l'immane
    Corpo; or sui fiumi sorvolar, traendo
    Fuor dai pensili ponti alto fragore;
    O la riva del mar tremulo al giorno
    Radere, o dentro a tetri anditi a un tratto
    Cacciarsi, e poi, lontan che il vedi appena,
    Sbucar, lieto fischiando, a l'aure amiche.
      Di tante meraviglie a l'uom stromento
    È il domato vapore. Or quelle ascolta,
    Ch'opra il vigor del fulminante elettro.
    O che chiuso ei si assieda, o che trascorra,
    Tutto egli abita e muove: il ciel sublime
    Turba e schiara a sua posta, or con sovrana
    Possa adunando, or dispergendo i nembi;
    La terra investe, agita i petti, e i germi
    Scalda e svolge ne l'una, e dentro agli altri
    L'estro del ricco immaginar produce.
    Le piante, gli animai, l'ambre, i cristalli,
    L'irto pel, l'aurea seta, il fil sottile,
    Tutto, qual serpeggiante anima, invade,
    Per ogni cosa si conduce, e, come
    Odio avesse ed amor, le simiglianti
    Cose respinge, e le diverse attira;
    Altre muta, altre scambia, altre dissolve.
    Di questa forza onnipossente, occulta
    Entro al sen de le cose e di sè stesso,
    L'uom si avvisò meravigliando; e poi
    Che al vulgare stupor, che inerte ammira,
    L'acuto esame operator successe,
    L'ignea virtù, la doppia indole, i fatti
    Ne investigò, ne misurò; gli azzurri
    Dardi, per via di ben composti ingegni,
    Costringendo, ne accrebbe, e di tal guisa
    Al suo nume obbligò l'etereo foco,
    Che il fulmine del ciel, già paventosa
    Arma di Dio, terror de l'uomo e morte,
    De l'umano pensier schiavo s'è fatto.
    Affascinato da la tenue punta
    D'un magnetico stil, che su dai colmi
    Aërei tetti a vertice s'inalza,
    Giù da le nubi rovinar tu il mira
    Con fragore innocente, e sotto al cenno
    Del tranquillo mortal cercar gli abissi.
    Qui di doppio metal sorger tu vedi
    Piccioletta colonna, a cui di pila
    Dà nome il mondo. Di frequenti, alterne
    Piastrelle, altre d'argento, altre di zinco,
    Fra cui, molle di salsa onda, si spiega
    L'indocile a l'elettro olida lana,
    Con modesto artificio essa è costrutta.
    Dentro ai vari elementi, in questa forma
    Sovrapposti e congiunti, in un momento
    Per innata virtù svolgesi e guizza
    L'elettrica corrente; ai poli avversi
    S'urta inqueta, s'aduna, e quindi e quinci
    Svanirebbe per l'aria inutilmente,
    Se ai due lati non fosse un magistero
    Di metallici stami, in cui bentosto
    La fulgurea scintilla entra, e propagasi
    Precipite, e, fidata al tenue filo
    Che ronzante a l'immenso aere si stende,
    E i lidi estremi ed ogni gente unisce,
    Fende il ciel, passa i campi, il mar penètra
    Qual dèmone; e non pur segni e parole,
    Fidi messaggi del pensier, produce,
    Ma, stupendo a veder, le desïate
    Di chi lungi è da noi care sembianze
    Fedelmente ritratte a noi presenta.
      Ma a che produrre il favellar? Che detto
    Sarà che il vol de l'uman genio adegue?
    Dirò, com'ei, con piccioletto ordigno
    Le alate ore del dì segna e divide?
    E l'elastica e grave aria, che preme
    Su le suddite cose, e il caldo e il gielo
    Con ingegno sottil pesi e misuri?
    O come, armato la pupilla inferma
    Di veggenti cristalli, al ciel li appunta
    Con alto ardir, gli astri gelosi esplora,
    E, penetrando un oceán di fiamme,
    Strappa ai templi del Sol gli ardui misteri?
    La terra, il mar, l'aria sonante, il cielo,
    Tutto ha l'orma di lui, tutto gli cede
    Riverente il governo. Un sol, sol uno
    Maligno error nei regni suoi si ostina,
    E quell'uno cadrà. Più forte io sento
    Favellarmi l'amor; già di mortali
    Forme il fantasma del cor mio si veste;
    Ecco, il sento; ecco, il vedo. Oh! se a cotanto
    Volo, per tanta via, per tanti affanni
    L'uomo mortal contro a l'error si eresse,
    Credi, non pur possibile e secura,
    Ma vicina, imminente, agevol cosa
    È la morte del Nume e il mio trïonfo!—
    Disse, e giù per la china aspra e romita
    Concitato avvïossi. Alto un saluto
    Suonò l'antro profondo, e a lui d'intorno
    Strana e gagliarda un'armonia si desta:
      Ei viene, egli s'avanza;
    Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;
    Non firmamenti, o báratri,
    Ma le tende de l'uom son la sua stanza.
      Sorgete a lui d'intorno,
    O sepolti ne l'ira; e voi, che fate
    Traffico di terreni odî, dal vostro
    Usurpato soggiorno
    Levatevi! Tremate
    Da la cortina dei venduti altari,
    Voi, che potenti di menzogne, il foco
    Del dissidio apprendete; e al reo costume
    De le plebi insensate
    Esca porgete, ed affilate acciari.
    Raggio non ha di lume
    La mente vostra, e non ha tetto o loco
    Per voi la terra, abbenchè vasta. O fieri
    Mastri d'insidie, o neri
    Viventi covi di serpenti, o mostri
    D'error pasciuti e d'uman sangue ingordi,
    Ministri d'ira, apostoli d'errore,
    A terra alfin; costui che viene è Amore!
      Ei viene, egli s'avanza;
    Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;
    Non firmamenti, o báratri,
    Ma le tende de l'uom son la sua stanza!
      O derelitti e miseri
    Figli devoti a povertà, reietti
    Da splendidi banchetti,
    Servi cenciosi a la spezzata gleba,
    Che fertile e ridente,
    Il molle ozio nutrìca
    Di fastosa Ignoranza;
    A voi dura e nemica
    Madrigna, invidiosa
    Pur d'un vil tozzo bruno
    Che pugna duramente
    Con l'affilato dente
    Pria che sfami il plebeo fianco digiuno;
    Schiavi, in piè, tutti in piè; quanti pur siete
    Da le arene di Libia a la restía
    Cuba, asilo di schiavi, e qual pur sia
    Sotto al flagello de l'assiduo sole,
    Crudo signore anch'esso,
    Il color vostro e il crin. Schiavi, in piè tutti!
    Parla cotal parola
    Costui che vien, per cui,
    De l'opre e degli affanni
    Santificati a la feconda scola,
    L'alma e la destra amica
    Di provvida fatica,
    Porger potranno tutti
    De la finor vietata arbore ai frutti!

      Ei viene, egli si avanza;
    Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi!
    Non firmamenti, o báratri
    Ma le tende de l'uom son la sua stanza.
      Voi, che in abietto e vile
    Ozio distesi, il turpe viver molle
    Annoverate dal fuggir de l'ore,
    Schiavi imbelli del core
    Vostro e d'altrui, larve patrizie, all'opra!
    Tal giudice v'è sopra,
    Che a nulla mai quanto a l'oprar perdona.
    Nè del ceruleo sangue
    Vi gioverà l'inclita stilla, o il caro
    Peso di scrigno avaro,
    Solo a capricci di lussuria aperto;
    Nè, meno ignobil merto,
    Le illustri opre dei padri: egro ed imbelle
    Nipote da gagliardi avi discende,
    Qual da la salma d'un illustre antico
    Discende il vil lombrìco.
    Industre ed ingegnosa
    Gente, ai travagli del pensiero avvezza
    Come ad opra di man, combatte ed osa
    Assidua ed animosa,
    Ed a mezzo il cammin mai non assonna.
    Da le vulgari ed ime
    Sedi s'inalza a mal contesa altezza,
    E, rampogna sublime
    Cui l'ozio ingombra e l'ignoranza opprime,
    Sa ciò che vale, e di sè stessa è donna!
      Tal suonava d'intorno al Pellegrino
    Meravigliosa un'armonia, fra tanto
    Che, incoronato di superba luce,
    Sul superbo suo capo il Sol splendea.

CANTO QUARTO.

ARGOMENTO.

Lasciato il Caucaso, l'Eroe si dirige verso la Grecia; trascura molti luoghi favolosi, ma ricordasi di Ero, ed apostrofa all'amore e alla morte.—Descrizione di Tempe.—Le bagnanti sorprese.—Il palazzo incantato e la fanciulla misteriosa.—Lucifero arriva; ascolta il canto di Ebe, e le domanda ospitalità.—Accenna in brevi tratti all'esser suo e a quello di Dio, e la commuove di paura e di affetto.

    Concitato così le spalle tòrse
    A la scitica rupe, e dentro al petto,
    Siccome vena di sboccanti lave,
    Giovane e forte gli bollía la vita.
    Solo e pensoso ei va, come solinga
    Per gli spazî del ciel tacita nube,
    Nè gli cal se la bianca alba gli rida,
    Nè se il Sol lo saetti, o lo ravvolga
    L'ombra notturna, o lo flagelli il nembo;
    Perocchè diva è la sua tempra, e nulla
    Di mortale ei non ha fuor che l'aspetto.
    Solo e pensoso ei va: monti e dirupi
    E foreste e deserti indifferente
    Lasciasi a tergo, e par nave, che muta
    Solchi le tenebrose onde sospinta
    Da prosperi aquiloni. Il flutto varca
    De lo spumante, ingiurïoso Arasse;
    Il suol trascorre, ov'ebber regno e fama
    Le Amazzoni omicide; le spelonche
    Orride mira e le ferrate valli
    Dei Cálibi feroci; e dei cotanti
    Popolati di fiabe incliti lochi
    O si scorda, o non cura, o ver sorride.
    Ma di te si sovvenne, in su la sponda
    Del propontide stretto, Ero infelice;
    E il mar querulo ancor di tanto lutto
    Ricercando con gli occhi e le nascenti
    Per l'azzurro del ciel candide stelle:
    —Ecco il talamo vostro, ecco le faci
    Del vostro imene, o giovanetti, ei disse:
    Ecco l'amore, ecco la morte! Eterno
    Mormora, o mar, l'inno di nozze; eterno
    Mormora, o mar, l'inno di morte! Il mondo
    Due tesori ha nel sen, l'alma ha due voli,
    Due fior la vita, ed ogni cor due stelle!
    Mormora eterno, o mar, l'inno di nozze;
    Mormora, o mar, l'inno di morte! Un bacio
    Ed un sospiro; un talamo e una fossa;
    Un sogno e un sonno; un inno ed un addio!
    Oh! l'amore, oh! la morte!—
                                In tali avvolto
    Meste e leggiadre fantasie d'amore
    Giunt'era al lido; e i ricercati, ardenti
    Per tanto flutto verginali amplessi
    E la pronuba face e il fato estremo
    Invidïando al garzoncel d'Abido,
    Sentì quasi pietà d'esser sì solo.
      Mentre ei vaga così di terra in terra,
    E amor solo il comanda, ad altre piagge
    Volano i canti miei: su le ridenti
    Piagge di Tempe, asil di giovanette,
    Ninfe, amanti di rose e di garzoni.
      Come canestro di ben culti fiori,
    Nel tessalo giardin Tempe verdeggia,
    Tempe, amena contrada, a cui diêr grido,
    Quando Grecia fioría, Numi e poeti.
    Coronata di selva, entro ad opaca
    Valle per ben chiomati olmi canori
    E per canto d'augelli e suon di rivi,
    Tra Larissa e l'Egèo molle dechina,
    E, quai Titani, a lei stanno d'intorno
    Ossa, Pelia ed Olimpo: immani e illustri
    Gioghi di monti, da le cui pendici,
    Qual vïolento iddio, sgorga e prorompe
    Fragoroso il Penèo. Fama è, che quivi,
    Quando più torve lo mordean l'Erinni,
    Pervenne Èrcole un giorno. Opposte e chiuse
    S'addossavano ancor rocce su rocce
    Senza varco di uscita; e brulla e mesta
    Era la terra. Arse di rabbia il fero
    Nume a tal vista, e giù co'l capo e il petto
    Fe' cozzo ai monti. Traballâr divelti
    Gl'iperborei macigni; inorriditi
    Si arretrâr, si fermâro, e il passo aprîro
    Al furente Almeníde. Amena e bella
    Sorrise indi la valle, e sgorgò il fiume
    In memoria del dio. Fra sempre verdi
    Gramigne e giunchi flessuösi e fiori
    Esso ha il lubrico letto, ed or si volve
    Querulo come rivo, or mugolante
    Dirocciasi da l'alto, or queto e bruno
    Tra foltissimi vepri al Sol s'invola,
    Or limpido e sonante al ciel risplende
    Come lama d'argento, ed ai lavacri
    Il polveroso mandrïan conforta.
    Pingue così di spume e di tributi
    Scende superbo a fecondar la valle,
    E al Cuärio, al Pomíso, a l'Apidáno
    E a l'Orcon si accompagna, Orcon, che scarsa,
    Ma nitida su tutti e dolce ha l'onda
    E sdegnosa altresì; però che un tratto
    Su l'ampio dorso del Penèo galleggia
    Lieve e cheto com'olio, indi si parte
    Solissimo fra' giunchi, e vien per via
    Mordendo argini e siepi ed involando
    Iridati lapilli e tenui fiori,
    Finchè a l'amplesso de l'Egèo deduce
    Con allegro susurro il giovin flutto.
    Cercan la sua romita onda al merigge
    Sitibonde le capre, e tarde e stanche
    Giù da l'erta si calano le vacche
    Al tinnío de le pensili campane,
    Mentre a l'ombra d'un pioppo o d'un cipresso
    Il rubesto caprar zufola al vento.
      Venían furtive un dì sopra la riva
    Le danzanti fanciulle, e avean di ninfe
    Le ritonde sembianze, e su l'eburnee
    Spalle le chiome. Ardean sotto la ferza
    Degli estivi solstizî, e mezzo ignude
    Entravano nel flutto, e Amor, fors'egli,
    Più che il Sol, le cocea. Trepidi e muti
    Palpitavan, celati entro ai cespugli,
    L'insidïosi giovanetti, e nulla
    Prendean cura di greggi, o di ritorno,
    O di cacce, o di cibo; e s'un più ardito
    Fuor mai si spinse, e disïoso e folle
    Corse a la riva, e giù balzò ne l'onda,
    Clamorose echeggiar sentivi intorno
    Femminee strida, ed agitate e rotte
    Suonar l'acque. Qua e là, scevre di velo,
    Fuggon le donzellette, e vesti e pepli
    Scambian confuse, e tremanti avviluppansi
    Ne le riverse tuniche, e pe'l lido
    Corron, s'urtan, s'addossan, si disperdono
    Pei fiorenti sentieri; e qual minaccia,
    Qual si attrista, qual ride; e nastri e veli
    Volan per l'aria; al Sol splendono e involansi
    Rosee forme fuggenti, e scappan dardi
    Di voluttà. Riedon delusi intanto
    I giovincelli, e s'affollan sul piano
    Clamorosi, anelanti, ed un si loda
    Del proprio ardire, e ride e si fa gioco
    Del ritroso compagno; un leva a cielo
    La beltà de l'amica; altri fa mostra
    D'un fior carpito, altri d'un velo; un vanta
    Sorrisi e baci e occulte intelligenze
    Di vicini ritrovi; e va del caso
    Superbo ognun qual d'un primier trïonfo.
      Così a le danze ed ai trastulli amica
    Tempe fioriva un dì, quando nei bruni
    Letti del mar dormía cieco ed ignoto
    Il fiero astro d'Osmàn. Muta e deserta
    Come vedova or siede; e s'anco aprile
    Va per uso a recar le sue ghirlande
    Su quell'orbe contrade, e van le stelle
    A specchiar l'auree fronti entro a quel fiume,
    Ben puoi dire, che senso han tutte cose
    Di ricordi gentili, e son fedeli,
    Più che gloria ed amor, le stelle e i fiori.
    Sparsa pe' monti in giro, in fra le chiuse
    Ispide macchie al croceo Sol biancheggia
    Qualche muta capanna, ove, costretto
    Di scarse lane il macerato fianco,
    Numera i penitenti anni nel duolo
    Il romito calòcero, che nulla
    Ha delizia del mondo, e, quel che al mondo
    Forse dar più non puote, offre al Signore.
      Sola, fra questi incolti èremi, in vetta
    D'un'aërea collina, a cui sorride
    Primo dagli orti il giovinetto sole,
    Una strana magion sorger tu miri
    Tutta cinta di bosco. Ampia e lucente
    Fuor d'un mare di fronde alzasi, ed ora
    Qual purpureo piròpo al ciel fiammeggia,
    Or circonfusa d'un'argentea luce
    A dolce meditar l'anime invita.
    Danza d'intorno a lei con grazïoso
    Florivolo tripudio il fresco Aprile,
    Che le penne del dorso e il facil volo
    Ivi gran tratto e volentieri oblía,
    Fin che non giunga a discacciarlo il verno.
    Sentono il suo fecondo alito i fiori,
    E su su da le intatte erbe, che tremolano
    Riscintillanti al candido mattino,
    Schiudon l'auree corolle, innamorate
    D'agili silfi; ed ei, per la diffusa
    Luce che lo circonda e le volanti
    Fragranze, ebbro d'amor, le danze intreccia,
    E le farfalle, i fior, gli augelli, i rivi,
    L'aure, la luce, il ciel, tutto ch'è in giro,
    A un concento d'amor tempra e concorda.
    Mira a la lunge il credulo romito,
    Come spera di Sol, fulger l'ostello,
    E suonar l'aure insolite armonie
    Stupefatto ode, ed incantevol mostro
    Di spiriti lo crede, asil di fate
    Suäditrici di lascivi amplessi.
    Pende un tratto con doppio animo, e quando
    Nel travolto pensier dèmoni e ninfe
    Ruzzar vede su l'erbe, o tutti ignudi
    Saltar nei fonti ed intrecciar gli amori,
    Trepidante di là togliesi, e il foco
    Del vorace desio, che il cor gli afferra,
    Nel pensiero di Dio spegner presume.
    —Piombi il foco del ciel su l'empie mura,
    Quinci a notte passando, esclama il vecchio
    Merciaiolo di Sira; al maledetto
    Spirito che vi ha stanza aprasi il nero
    Regno di Belzebù!—Sporge le braccia
    Imprecando in tal guisa; e, borbottando
    Per l'erma notte altre più ree parole,
    Riattizza la pipa: in fosche e spesse
    Nugole fuor da le sonanti labbra
    Sbuca il putido fumo, e con sinistro
    Gorgoglío geme la tartarea canna.
    Ma di lui men feroce, in su la china
    De le valli fiorite, allor che intera
    Guarda l'estiva luna entro lo specchio
    De le chete fontane, e a le tranquille
    Brezze dei monti flettono la cima
    L'arsicce mèssi e i moribondi fiori,
    Men feroce di lui fermasi e guata
    Il giovinetto pastorel, che vide
    Un dì ne la pensosa ora dei vespri
    Vaga passar di sotto ai pergolati
    De l'aërea magione una bellissima
    Immagin di fanciulla, e non sa forse
    Il semplicetto mandrïan, se cosa
    Fosse di sogno, o di mortal figura
    Non fallace apparenza. Entro al pensiero
    Quella leggiadra visïon tuttora
    Vagolando gli nuota, a quella forma
    Che vediam ne la verde onda d'un lago
    D'un astro ignoto tremolar l'aspetto,
    E ne par forse innamorato e mesto
    Spirto, dannato ad abitar quell'acque.
    Sui disfatti scaglioni il giovinetto
    Appo il fonte si asside, e la stanchezza
    Dei lunghi giorni e la stagion cocente
    Trova scusa a l'indugio. Aura, che spiri
    Fra le vergini rose e le modeste
    Edere de le siepi, or tu gli reca
    Le suavi armonie, ch'usa in quest'ora
    Derivar da la dolce arpa l'ignota
    Di quell'aureo palagio abitatrice,
    Ebe, il misterïoso astro di Tempe,
    Ebe, l'arcana visïon d'amore.
      Ella è colà: nei taciti giardini
    Pari a le stelle uscì; candida e sola,
    Qual sonnambula cosa, ecco, s'aggira
    Pei fioriti vïali, ecco, domanda
    Non sa qual fiore al suol, qual astro al cielo,
    Qual ricordo al suo cor. Sotto al gran mirto
    Ne la pensile rete ella distende
    Le bianchissime forme, e a l'aura, a l'aura
    Abbandonatamente a l'aura ondeggia.
    Spinge tra fronda e fronda il curïoso
    Raggio la luna, ed al tremar dei rami
    Pispigliano gli augelli entro ai lor nidi.
    Bacia quel fronte, o luna; e voi ghirlanda
    Fate di danze, innamorati augelli:
    Bacio d'amor su quella fronte intatta
    Finor non si posò; pronube danze
    Ella non vide ancora; e a l'aura, a l'aura,
    Abbandonatamente a l'aura ondeggia.
    Che sogna ella in quest'ora? Al Sol si gira
    L'elitropio da l'ombra; erba, che chiusa
    Resti dai ghiacci, il ghiaccio sforza, e un varco
    S'apre a fatica a la materna luce;
    Onda, che parta il marinar co'l remo,
    Mormorando s'aduna, e corre al lido;
    Forse a questo ella sogna; e a l'aura, a l'aura
    Abbandonatamente a l'aura ondeggia.
    Or vedete, ella sorge; a la vocale
    Arpa dà piglio; sul foglioso, oscuro
    Sedil, tessuto di costanti bossi,
    Mollemente si adagia, e al fuggitivo
    Tremulo raggio de l'occidue stelle
    La mesta del suo cor voce confida:

            —Date a la terra i fiori,
          Date i coralli al mar;
          Ad ogni cor gli amori,
          Ad ogni dio l'altar.
          Abbia ogni nembo un'ìride,
          Ogni astro i suoi splendori;
          Date a la terra i fiori,
          Date i coralli al mar.

            Ma, rieda il verno o il maggio,
          Mesta e soletta io son;
          Muto è del cielo il raggio,
          Triste è de l'arpa il suon;
          Qual vana ala di zeffiro
          Passo nel mio vïaggio,
          E, rieda il verno o il maggio,
          Mesta e soletta io son.

            O immagini lucenti
          Di più felici dì,
          Sogni de l'arte ardenti,
          Il vostro april sfiorì;
          Invan chiedo le olimpiche
          Forme a le nuove genti,
          O immagini lucenti
          Di più felici dì.

            La giovinezza, il riso,
          Le grazie ed il piacer
          Fuggon tremanti al viso
          De l'inamabil Ver;
          Fuggon su l'ali rosee
          Del vago error conquiso
          La giovinezza, il riso,
          Le grazie ed il piacer.—

    Ella così cantò. Sul limitare
    Appresentossi un pellegrin. Dai muti
    Sottoposti sentieri, a stilla a stilla
    Bevuta avea la voluttà secreta
    Di quel suon, di quel canto, a par di fiore,
    Che le brine del cielo avido beve
    Ne le tiepide sere; e a forza tratto
    Ivi venía, per quel secreto istinto
    Che l'altera rivolge aquila al sole.
    —La Ragion sia con voi, grave e solenne
    Esclamò su la soglia; un pellegrino
    Chiede ospitalità.—
                        Lo sguardo eresse
    A lo strano saluto Ebe, e tremante,
    Attonita mirò quella bizzarra
    Sembianza d'uomo. Ambe sul petto ha chiuse
    Le braccia, al ciel volta la fronte; e fiero
    Gioco gli fan così su la persona
    Le acute ombre notturne e l'auree faci,
    Ch'uom no'l diresti già, ma fuggitiva
    Apparenza di spirto, ivi per voce
    D'incantesimi tratto.
                         —O pellegrino,
    Così a dir prese con trepida voce
    L'inclita giovinetta; ove di cibo
    Mestieri abbi e di tetto, invero, a ingrata
    Gente ed a case inospitali e dure
    Tu non volgesti il piè: nunzii del cielo
    Gli ospiti sono, ed esso Iddio sovente
    Viene in tal guisa a visitar la terra.
    Però siedi e t'allegra; e mentre intorno
    Movan le ancelle ad imbandir le cene,
    E a sprimacciare e ricovrir di schiette
    Coltri le piume al tuo riposo amiche,
    Dir ti piaccia il tuo nome e le native
    Piagge ed i casi tuoi, però che al volto,
    A le fogge straniere e al portamento
    Uom venturoso e non vulgar ti estimo.—
    Egli sorrise e s'adagiò. Siccome
    Tenera foglia al susurrar del vento
    Trema tutta in su'l ramo, e par che a l'aura
    Goda cullarsi e presentir l'onore
    Dei colmi bocci e del nettareo frutto,
    O che, del nembo aütunnal presaga,
    L'ora estrema paventi, Ebe in tal guisa
    Trepidava ne l'alma al novo aspetto
    De l'orgoglioso Pellegrino, e muta
    Pendea da lui, qual candido corimbo
    Che dal solingo muricciòl de l'orto,
    Quando zeffiro tace, immobil pende.
    Di ciò s'accorse, e in cor gioì l'altero
    Ospite, e come può, cerca con gli occhi
    Disïosi tradir tutta in un punto
    La dolcezza improvvisa, onde si strugge
    Fatalmente ne l'alma; e intento, assòrto
    Nei grandi occhi di lei, con lenta voce
    Diè principio al suo dire:
                             —Ospite, ov'io
    Dar potessi la fede ai tanti miti,
    Di che memore è il loco, io di mortali
    Questo l'asil non crederei, ma antica
    Stanza di numi; ma nel cielo i numi
    Si dormono la grossa, e l'uomo è il solo
    Regnator de la terra; ond'io con esso
    Primamente mi allegro, e son superbo
    D'esser con te. Pur molte fiate e molte
    Tornería l'alba, ov'io tutta dovessi
    Raccontar la mia storia, e tu non senza
    Terror l'udresti, perocchè diverso
    Molto son io di quel che sembro, e fama
    E possanza ed impero ho anch'io nel mondo
    Non minor d'alcun dio. Ma se ti piace
    Saper tanto di me, che altera cosa
    Il silenzio non sembri e folle il vanto,
    Brevemente dirò. Su l'immortale
    Cardine del Pensiero, inclito padre
    Di stupendi artificî, erto il mio trono
    S'alza come alpe, e nulla a me di fronte
    Nel creato universo altra si estolle
    Nemica forza emulatrice, tranne
    La gran larva di Dio. Fiero e superbo
    Starmi incontro ei si attenta; e non pur l'alta
    Region dei cieli e la miglior presume
    Frenar sotto il suo scettro, e il radïante
    Popol degli astri e il dolce aere e la luce
    Al mio regno involar, ma questa bruna
    Picciola sfera, ove si affanna e preme
    Tanta stirpe di mesti, e le gagliarde
    Alme al Vero devote e al culto mio
    Lungamente impugnommi, a me, ch'eterno
    Vivo, ed a lui, che dal terrore è nato,
    Darò, nè guari, e di mia man la morte!—
    —Tu bestemmî, stranier! raccapricciando
    Ebe esclamò; tremar mi fai!—
                                 Su'l labbro
    Pose ei l'indice in croce, e altero in atto
    Silenzio indisse, e proseguì:
                                 —Pugnammo
    Con diverse armi sempre, e spirò incerta
    L'aura de la vittoria. Entro al più chiuso
    Firmamento del ciel, rigido, immoto
    L'emulo Dio s'asconde; e, quasi ei poco
    Fosse a la colpa del mestier divino,
    Sotto triplice larva il ciel governa.
    Ma qual governo io dico mai? Pe'l vuoto
    Fan la ridda i pianeti, ed ei nè un solo
    Arrestarne potría; come insanita
    Tiade balza la terra a l'aër cieco,
    E l'etere si spande, e il mare ondeggia,
    E la fiamma al ciel tende, ed esso intanto
    Lo spensierato iddio pasce le nari
    Del bruciaticcio di venali incensi,
    E a soffiar vuote bolle di sapone,
    Che a la luce del Sol gli sembran stelle,
    Sciupa l'eternità. Ferrei governi
    E immote norme ed assoluti imperi
    A l'incontro io dispregio, e avverso al fato
    E a la Natura sto; m'agito e vivo
    Fra le cose create, e son de l'alma
    La libertà. Stupido e fiero ei regna
    Immobilmente, ed or di püerili
    Giochi si piace, or d'uman sangue; io vivo
    Solo del Ver. Di sacerdoti iniqui
    E d'anfibî ministri e d'evirate
    Menti ei si cinge, ed ha vita e possanza
    Di misteri e d'enigmi; io, se mai regno
    Ebbi nel mondo, ed uno anco men resta,
    Di libere e gagliarde alme il difendo
    Liberamente. O amore, o affanno, o colpa
    Di scïenza e di luce, o istinto e vita
    Di verità, di libertà, se merto
    Altro non hai che la tortura e il rogo,
    Se altro nome non hai fuor che delitto,
    Ecco, a la terra io fermamente il grido:
    Altare è il rogo, ed il delitto è dio!—
      Tacque, e d'orgoglio radïante, i magni
    Omeri scosse, e sollevò la faccia
    Con fantastico ardir. Pavida, incerta
    Con gli occhi Ebe il seguía, mentre un'ignota
    Purpurea fiamma le scendea nel petto
    Agitandole il cor. Sorse a la fine
    Tacita; con gentile atto la destra
    Cortesemente al forestier profferse,
    E al cheto asil dei suoi verginei sogni
    Conturbata si volse. Ei con l'acceso
    Sguardo la cinse; com'etereo foco
    Lambíala intorno co'l pensiero, e, tutto
    D'eterno amor le fibre intime ardente,
    Gridò in cor suo: L'ora è venuta; è dessa!

CANTO QUINTO.

ARGOMENTO.

Il fantasma di amore, che ha eternamente agitato l'Eroe, veste forme sensibili.—Ebe e Lucifero si amano: l'amore accerta l'Eroe del trionfo.—Si allontanano da Tempe, e giungono nell'Attica.—L'Acropoli di Atene.—Voluttà d'amore fra le rovine.—L'Ombre di Socrate, di Focione, di Codro.—Un bruttissimo e strano mostro appare in sogno all'Eroe, e lo beffeggia.—Onde questi, abbandonando la fanciulla nel sonno, si caccia impaziente ove il destino lo chiama.

    Ma qual riposo mai, qual mai quïete
    Quinci innanzi, o infelice Ebe, a te resta,
    Se Amor, che ai passi tuoi tende la rete,
    Sì fiero caso a la tua vita appresta?
    Come fil di corallo entro a le chete
    Onde germoglia Amor ne l'alma mesta;
    Amor sen vien furtivo e taciturno,
    Sen viene al cor qual ladroncel notturno.

      Su le deserte, angoscïose piume
    Ella inquieta si volge, ella sospira;
    E, qual lieve farfalla intorno al lume,
    Amor non visto intorno a lei si aggira;
    Gira per l'aria, e com'è suo costume,
    Nel foco, ch'ei destò, ventila e spira;
    E de lo strano Eroe le reca innante
    Le fogge, il riguardar, gli atti, il sembiante.

      Ella il vede, ella il sente: ad una ad una
    Fan le audaci parole a lei ritorno,
    Qual nel tiepido ottobre a l'ora bruna
    Tornan le pecchie argute al lor soggiorno;
    Ed or le parla de la sua fortuna,
    Muto or la guarda, or le si asside intorno;
    Ed ella, a par di bianca aërea face,
    Trema a quei detti, e d'ascoltar le piace.

      Sorse alfine; e de l'ombre impazïente
    Gli opposti vetri a le fresche aure aperse.
    Taceva anco la notte, e rade e lente
    Fuggían contro al mattin le stelle avverse;
    Un zeffiro gentil da l'orïente
    Le vaghe ali movea di brine asperse,
    E ad ogni fior de le ben culte aiuole
    Dolci olezzi traea, dolci parole.

      Diceva a l'aura il fiore:—Aura pietosa,
    Che mi porti le brine alme e vivaci,
    Deh! per poco su me l'ali riposa
    L'ali dolci così, così fugaci;
    Tu in sen mi svegli ogni virtù nascosa;
    Son mia vita ed amor solo i tuoi baci;
    Deh! se posar non puoi rompi il mio stelo;
    Che teco io venga a spazïar pe'l cielo!—

      —Sorgi, dicea con lamentevol grido
    Presso a la rosa il tenero usignolo;
    Quanto bella sei tu, tanto io son fido,
    Quanto lieta sei tu, tanto io son solo.
    Già il candido mattin sorge dal lido,
    E tu sorgi così dal tuo bocciòlo;
    Tu il vago olezzo, il vago inno io t'invio;
    Tu sei l'amore, e l'armonia son io.—

      Questo udía pe'l giardin la vereconda
    Ebe, e un mar l'avvolgea d'ombre e di larve,
    Quando un fruscío sentì tra fronda e fronda,
    E un'Ombra vide, o di veder le parve;
    Stette, il respir contenne, e a la gioconda
    Luce de l'alba il Pellegrin le apparve;
    Mise ella un grido, e pallida divenne;
    Se non fuggì, fu Amor che la rattenne.

      —Ferma, sclamò l'Eroe con mesto accento,
    M'odi, pietà del mio destin ti tocchi:
    Io, che ai Numi recai guerra e spavento,
    Ecco, supplice io cado ai tuoi ginocchi!
    Ogni raggio d'onor fia per me spento,
    Se non mi danno un raggio i tuoi begli occhi:
    In quel raggio d'amor, poi ch'io l'ho visto,
    La vita, il trono, la vittoria acquisto.

      Ti sognai, ti cercai: ne l'infinita
    Luce del ciel, nei cupi abissi orrendi
    Sempre in traccia di te corsa ho la vita,
    O eterna Idea, che umana forma or prendi;
    Vista t'ho innanzi a me, t'ho in cor sentita,
    Sempre acceso m'hai tu come or m'accendi;
    Or che t'aggiungo, e intero alfin son io,
    Son colmi i fati, ed il trionfo è mio.

      Sì, vincerò. L'amor, ch'io sento e chiamo,
    Sprona l'alme ad imprese inclite e chiare:
    T'amai nel sogno, entro la vita or t'amo,
    E immenso è l'amor mio siccome il mare:
    Ei dà a la foglia il fior, la foglia al ramo,
    La beltà agli occhi, a la beltà un altare,
    Sola virtù di questa fragil salma,
    Luce de la pupilla, aria de l'alma!—

      Così dicendo, a l'odorato lembo
    De le vesti di lei dolce si appiglia;
    Ella pavida in atto, al vergin grembo
    Restringe i veli, e al suol figge le ciglia;
    E qual fussia gentil, che dopo il nembo
    Scote la pioggia, e al Sol più s'invermiglia,
    Stillante di pudor la faccia bella,
    Senza il fronte levar, così favella:

      —Stranier, qual che tu sii, dolce e cortese,
    Benchè nuovo ed ardito, èmmi il tuo detto;
    Deh! chi mai la possente arte ti apprese
    Del suäve parlar, ch'apre ogni petto?
    Ben questi alberi muti e le scoscese
    Rupi verrían commossi a tanto affetto,
    E amor risponderían, d'amore istrutti,
    Le dure querce e gl'infecondi flutti.

      Ma qual amor vuoi tu, ch'apra e rallegri
    Il fior di questa mia povera vita,
    Se le gioie del mondo e i giorni allegri
    Par ch'abbian del mio cor la via smarrita?
    Qui passan gli anni miei romiti e negri,
    E m'è la speme del morir gradita;
    Chè sol di là di quest'oscuro esiglio
    Vede l'anima un pòrto e un astro il ciglio.—

      Tal parla, e in verginale atto la faccia
    Volge, e il respinge, e move gli occhi in giro,
    E minacciar vorría, ma la minaccia
    Le muore su le labbra in un sospiro.
    Ebbro, anelante, con aperte braccia,
    —Ah! no, risponde il Pellegrin delíro,
    Tu, che sì bella e sì pietosa sei,
    Senza luce d'amor viver non dèi.

      No, non fia ver, che senz'amore al mondo
    Volga tua vita abbandonata e sola,
    Qual pèrsa gemma ai neri flutti in fondo,
    Qual bianco giglio in solitaria aiuola:
    Quant'alto è il cielo, e quanto il mar profondo,
    La forte ala d'amor penetra e vola,
    Nè tu vorrai, leggiadra e debil tanto,
    Chiuderle il petto, e dar la vita al pianto.

      Mira intorno, o fanciulla: ombra ed albore,
    Raggio di sole e manto irto di neve,
    Vol di farfalla e profumo di fiore,
    Tutto passa così rapido e lieve;
    Tutto è breve quaggiù, fuor che il dolore,
    E l'istante d'amor forse è il più breve;
    Oh! la vita e l'amor, cara fanciulla,
    Il tutto è un'ora, oltre quell'ora è nulla.

      Amiam, fanciulla, amiam; sia piano o monte,
    Sia valle o mar, vivrem l'un l'altro appresso;
    Non v'è serto miglior d'un bacio in fronte,
    Non v'è laccio miglior d'un primo amplesso;
    Ci specchierem dentro a la stessa fonte,
    Sognar potrem sovra il guanciale istesso;
    Come ad olmo consorte edera o vite
    L'alme unirem sovra a le bocche unite!—

      Disse, e acceso negli occhi e in atto strano
    Chiuse le aperte braccia, e i labbri pòrse;
    E un'armonia suonò per l'aër vano,
    Ch'armonia parve, e baci erano forse.
    Sorto era il sole intanto, e dal sovrano
    Balzo a schiarar quelle due fronti accórse;
    E negli occhi de l'un, qual fior nel lago,
    Specchiar l'altra mirò la propria immago.

      V'è una pianta gentil, ch'alma e giuliva
    Di bei fiori non è, non è di foglie,
    Ma al tocco sol, come se fosse viva,
    Tutta in sè si restringe, e si raccoglie;
    Nome il volgo le dà di sensitiva,
    E senso di pudor certo essa accoglie,
    Chè tutto, che del Sol si scalda al raggio,
    Ha virtude d'amor, senso e linguaggio.

      Tal divien la fanciulla; e il ciel sereno
    Erra co'l guardo, e incerta pende, e geme;
    Ed agli urti del cor le ondeggia il seno,
    E il cor le fugge a la risposta insieme:
    —Stranier, caro stranier, per questa almeno
    Secreta ambascia, che m'affanna e preme,
    Deh! per questa ti prego alma soletta,
    L'onore, il pianto, i sogni miei rispetta.

      Deh! se fido è il tuo dir, se l'alma è fida,
    Se a l'audace voler tua possa è uguale,
    Fa' che scorra da' regni aurei de l'Ida,
    Nuova di giovinezza onda immortale;
    Fa' che amico a le Muse il Ver sorrida;
    Che men funesto a noi vibri il suo strale;
    Che a questa vecchia gente infastidita
    Riedan le Grazie a rifiorir la vita!

      E se tanto non puoi, dammi che a questa
    Terra, che non m'intende, alfin m'invole;
    Ch'io mi scevri da tanta orda molesta,
    Che sepolta nel ver l'anima vuole.
    Oh! ch'io torni dei miei sogni a la festa,
    Ch'io mi confonda in un raggio di sole,
    Ch'io naufraghi coi miei poveri numi
    In un mare di luce e di profumi!—

      —Oh! no, vieni, amor mio, vieni, ei rispose,
    Co'l Sol nascente e i rugiadosi fiori,
    E alle fole, che il mito aureo compose,
    I nostri involïam superbi cori:
    Il trono de l'amor son queste rose;
    Tutti son ne la vita i suoi splendori;
    È qui sovra la terra il ciel che agogni,
    Qui ne le braccia mie tutti i tuoi sogni!

      Vivi a la terra e a me: vivi al governo
    Di questo amor, che fiamma è del pensiero,
    Di questo universal giovane eterno,
    Ch'è lume sol fra l'intelletto e il vero;
    Egli ombra e luce, ei paradiso e inferno,
    Tempo ed eternità, verbo e mistero,
    Principio e fine del mortal cammino,
    Fede, legge, virtù, vita, destino.

      Vieni con me; per l'infinita via
    L'Ozio non poltre, e non sbadiglia Imene;
    L'opra e l'amor son la ricchezza mia,
    Mio cibo il ver, la libertà il mio bene:
    Aquila altera per l'aria natía
    Al Sol va incontro, e schiva è di catene;
    I nembi sfida, i turbini sovrasta,
    Libera muor; la libertà le basta.

      Noi liberi così, per vario corso,
    Correrem, cimbe audaci, il mar crudele,
    E il dio, che non indarno ha l'ali al dorso,
    De l'ali sue ne rifarà le vele.
    A lui, che sdegna, e sia pur d'oro il mòrso,
    Piega, o dolce fanciulla, il cor fedele;
    Chè, finchè l'occhio ha un guardo e l'alma un riso,
    Ei solo è il Dio, la terra è il paradiso!—

      Favellando così, giuso a la valle
    Avean, senza saper, già vòlti i passi,
    E incerti si seguían, qual due farfalle,
    Ch'erran lente sui fior, su l'erbe e i sassi;
    Ma quando s'avvisâr del vario calle
    De l'assòrta fanciulla i guardi lassi,
    Tremò, gelò, rieder volea, ma vinta
    Da l'angoscia al suol cadde, e parve estinta.

      Cadd'ella sì, ma non di fiori e d'erbe
    Guancial trovò sul molle suol proteso,
    Nè le miti verbene e le superbe
    Rose andâr liete del vergineo peso:
    Ben ei l'amante Pellegrin le acerbe
    Forme accoglie su'l petto ansio ed acceso,
    E gli spiriti erranti in su le chete
    Labbra le avviva, e geme, e le ripete:

      —Amiam, fanciulla, amiam: sia piano o monte,
    Sia valle o mar, vivrem l'un l'altro appresso;
    Non v'è serto miglior d'un bacio in fronte,
    Non v'è laccio miglior d'un primo amplesso;
    Ci specchierem dentro a la stessa fonte,
    Sognar potrem sovra il guanciale istesso;
    Come ad olmo consorte edera o vite
    L'alme unirem sovra a le bocche unite.—

      Ed Ebe amò. Fatto più forte e puro
    Gioì l'Eroe, che ben conobbe il segno;
    Lampeggiò tutto al suo sguardo il futuro;
    Splender mirò de la Ragione il regno;
    Vacillò de l'Error l'idolo impuro;
    Svelto il Nume dal sonno arse di sdegno,
    E, vôlto il ciglio a quella parte e a questa,
    Empio ognun trova, e a fulminar si appresta.

      Sconosciuta fra tanto a la ventura
    L'innamorata coppia oltre cammina,
    E or d'un côlto villaggio entran le mura,
    Or cercano la valle, or la collina;
    Posan or su la sponda, or ne l'oscura
    Selva, e pronubi han gli astri e il ciel cortina:
    La vita, il mondo, il ciel tutto è un accento
    Per essi: amor; l'eternità un momento.

      Ma poi che sovra a lor dieci albe e sei
    Le nitide versâr perle dal crine,
    Fra il Saronico golfo e i flutti Egei
    Il sacro Attico suol videro alfine;
    E, i Bëozii varcati e i monti Onéi,
    Le Cecropie toccâr mura divine,
    Che avean, benchè or le copra oblio profondo,
    Sfidato il cielo ed abbracciato il mondo.

      Siede Atene nel mezzo, e a lei nel grembo
    L'urne riversa il vigile Cefiso,
    Ove, caro a le Dee, su 'l doppio lembo
    Crescea corone un dì l'aureo narciso.
    Qui al Sol torreggia acuta, e sfida il nembo
    La pelasgica rupe appo l'Illiso,
    Or rupe incolta, ma d'illustre prove
    Già campo a la fatal figlia di Giove.

      Di pentelici marmi, in su la cima,
    L'inconcusso delúbro alto sorgea,
    E d'opre egregie e sagrificî opima
    Ivi ebbe l'ara la terribil dea:
    Fra l'argive falangi inclita e prima
    Sovente essa l'invitta asta scotea;
    E al lampo sol del venerando aspetto
    Venía prode ogni vil, rupe ogni petto.

      Ma, se scevra de l'armi, ond'era onusta,
    Temprate in Lemno a le celesti incudi,
    E libera de l'irto elmo l'augusta
    Fronte splendea fuor dei funesti ludi,
    Ne l'alta d'Erettèo sede vetusta
    Spirava il riso di men ferrei studi;
    E a l'ombra del vocal delfico alloro
    Venían le Muse, e s'assidea fra loro.

      Tra i ruderi famosi e le dirute
    Moli anch'ei venne un giorno il mio Titano;
    Pensieroso guardò l'are cadute
    E i fòri e del deserto ágora il piano
    E il monte del tremato Are e le mute
    Stoe d'Academo e l'Erettèo sovrano;
    E d'un dio su la testa infranta e nera
    Umor versò, che nettare non era.

      Sorge la notte; ei là, presso al Pecile,
    S'asside; Ebe è con lui. Sparuta e scema
    Pende la luna, e sovra a la gentile
    Bionda testa di lei sorride e trema.
    Pensoso egli è più de l'usato stile;
    È in lei mestizia, oltre ogni dir, suprema;
    E nuotando le vanno incerte e scure
    Cento memorie in cor, cento paure.

      Sovra i ginocchi ei se l'asside, e cuna
    Del sen le fa con le protese braccia;
    E ad ogni aura ei la bacia, e per ognuna
    De le stelle del cielo essa l'abbraccia.
    Velò la fronte ipocrita la luna,
    Chè tanta voluttà par che le spiaccia,
    Come vecchia pinzochera far suole
    Al caro suon di lubriche parole.

      Disse alfin la fanciulla:—Oh! se sapessi
    Che paure ho nel core! Ai giorni miei
    Ricchezza altra io non ho che i nostri amplessi,
    E amore e vita ed avvenir mi sei.
    Se un giorno abbandonar tu mi dovessi,
    Come rondin deserta io mi morrei,
    Io mi morrei così!—Tacque, e gli avvolse
    Le braccia al collo, e il freno al pianto sciolse.

      Poi riprendea piangendo:—Era fatale
    Quest'amor, più di te, più di me forte;
    Pria mi ridiede e poi mi bruciò l'ale,
    E infranse e ribadì le mie ritorte.
    Sento che tu non sei cosa mortale,
    Ma ne le braccia tue sento la morte;
    Nel foco dei tuoi baci il cor si strugge,
    L'alma s'eterna, e il viver mio sen fugge.—

      Non risponde colui: torbido, immoto
    Per le tenebre lunghe il guardo intende;
    Chè un agitar di strane Ombre e un ignoto
    Di larve brulicar l'aria comprende:
    Rizzansi i sassi, i marmi, e van pe 'l vuoto,
    E incerta su di lor la luna splende;
    E a lui d'intorno in apparenze strane
    Prendon fogge e sembianze e voci umane.

      Parla un'Ombra così:—Socrate fui,
    E tra' mortali un'altra volta io vegno,
    Chè contro a questi nebulosi e bui,
    Che mal di saggi han nome, arde il mio sdegno.
    Solo del vero io parlerò, di lui,
    Ch'unico iddio su la natura ha regno;
    E, perchè al fronte suo l'ombra sia tolta,
    Beverò la cicuta un'altra volta!—

      Sorge un'altr'Ombra, e dice:—Al vulgo iniquo,
    Che tanto omai del suo poter presume,
    Tal esempio darò, che da l'obliquo
    Calle il ritragga d'ogni rio costume;
    Chè ove manca a virtù l'ossequio antiquo,
    Splender non può di Libertade il lume;
    E ognun, che insorga al patrio onor rubello,
    Sappia ch'io vivo, e Focïon m'appello.—

      Sparve, e un'altra a dir prese:—O voi ch'eletti
    Foste in terra a portar le regie some,
    Al patrio ben primi volgete i petti,
    E le stranie falangi allor fien dóme.
    Codro son io; dei popoli soggetti
    Fui padre, e l'aureo serto ebbi a le chiome;
    Ma a salvar Grecia, inesorato e forte,
    Gittai quel serto, ed abbracciai la morte.—

      S'avanzarono altr'Ombre. A la fanciulla
    Su le stanche pupille il sonno scese,
    E sovr'esso a la terra arida e brulla
    Le strenue membra il Pellegrin distese.
    Gli aleggiò intorno un sopor dolce, e nulla
    Per lo pian solitario o vide o intese;
    Ma al dileguar de le notturne larve
    Novo prodigio in su 'l mattin gli apparve.

      Mostro ei mirò, che lungo e macilento
    Viengli incontro per tòrto aspro sentiere:
    Come punta di falce adunco ha il mento,
    D'asin le orecchie e il naso ha di sparviere;
    Tien l'ali a tergo, e le svolazza al vento,
    Intrecciate di scope ispide e nere;
    Gambe ha di ragno e membra irsute e viete,
    E su la testa un gran cappel da prete.

      Qual trampolier, che da la ripa a un tratto
    Dentro al placido rio salta e gavazza,
    Così intorno al dormente agile in atto
    Balla quel mostro, e per l'aria svolazza;
    Gracchia qual corvo, miagola qual gatto,
    Sbuffa, ride, saltella urla, schiamazza;
    Or tentenna, or sgambetta, or gira e aleggia,
    E così lo deride e lo sbeffeggia:

      —Questo dunque è l'ardir, questa la possa,
    Di cui tremar dovean l'alme e le stelle?
    Così la fede dei mortali hai scossa?
    Così fatta hai la terra al ciel rubelle?
    Oh! lotte, oh! pugne, onde ogni zolla è rossa!
    Oh! il gran trofeo d'una fanciulla imbelle!
    O eroe de la Ragione, o Re dei forti,
    Torna meglio a regnar fra l'ombre e i morti!—

      Si destò, balzò in piedi, al dir beffardo,
    Lucifero, arse d'ira, i pugni strinse,
    Minaccioso rotò d'intorno il guardo,
    Vide Ebe, e di pallor muto si tinse.
    Poi chinò il mento al petto, e mesto e tardo
    Mosse, e il destin più che il suo cor lo spinse,
    Mentre avvolta nei suoi sogni fallaci
    Nuovi amplessi ella sogna e nuovi baci.

CANTO SESTO.

ARGOMENTO.

L'Eroe s'imbarca per la Francia.—Rivolge superbe parole alla Natura.—Aurora boreale.—Sermone di frate Iginaldo.—Tempesta e naufragio.—Isolina si raccomanda all'Eroe, che cerca invano salvarla.—Morte di frate Iginaldo.—Lucifero co'l cadavere della fanciulla si avvicina a forza di nuoto alla riva.—Iddio, che vuoi perderlo ad ogni costo, inveisce contro gli oziosi abitatori del cielo; armasi in fretta, ed è sul punto di scendere in terra per combattere il nemico, quando l'arcangelo Michele lo calma, e scende in sua vece alla pugna.—Sdegnose parole di Lucifero al nemico, la cui spada non riesce a ferirlo.—L'eroe afferra finalmente la riva, e dà sepolcro alla giovinetta.

      Fra le chete e fiorenti isole o ninfe,
    Cui bacia il flutto de l'icario mare,
    Passa il Genio de l'uom sovra gli abissi
    Tenebrosi de l'acque. Erto su l'ardua
    Prora egli sta: spazia fra l'onde e il cielo
    L'ala del suo pensiero; e per le ardenti
    Regïoni dei suoi sogni, vestita
    Di crescenti speranze e di fulgori
    Non toccati giammai, vede una sponda,
    Che, libera e temuta in fra le genti,
    L'ampia de la Ragione arbore edùca.
    Gallia ebbe nome un dì; Francia l'appella
    L'abietta lingua popolar, ma schiva
    Com'è d'umili cose, ella a buon dritto
    Titol di capo assume e di cervello.
    Ivi la tenda ei pianterà: superba
    Patria di sogni ella a sè chiama e attira,
    Qual per forza d'istinto, il venturoso
    Arcangelo umanato, a cui nel petto
    Con eterno bollor balzano i sogni.
    Sotto al suo piè monotona fra tanto
    Brontola la rotante èlica; fischiano
    Gli euri a l'antenne; mormoran confuse
    Voci di meraviglia e di vendetta
    Le solcate, saltanti acque; al governo
    Veglia il nocchier silenzioso, e avvolta
    Nel suo madido manto alzasi al cielo
    Coronata di muti astri la notte.
    Mira il Dèmone il ciel vasto e le vaste
    Onde, su cui passa leggera e certa
    Con le fiamme nel sen quella nuotante
    Fra tanta immensità piccola prora,
    E ai solenni ardimenti inorgoglito
    Dei suoi cari mortali, osa con questa
    Baldanzosa jattanza alzar la voce:

      —Piega al cenno de l'uom, piega la testa,
    O superba di nomi Iside antica,
    E leggi e ceppi a sopportar t'appresta!

      V'è tale abitator su questa aprica,
    Ultima sfera, che al tuo passo intorno
    Volge ignorata, e tu scemi a fatica,

      V'è tal, che dal raggiante aureo soggiorno,
    Ove chiusa nei tuoi pepli ti assidi,
    Ti scaccerà, sì come ancella, un giorno.

      L'idra orrenda del male erra quei lidi,
    Siede immoto l'affanno, e ferrea incombe
    Prematura e fatal morte a quei nidi;

      Ma dal sen degli affanni e de le tombe
    Giovin sorge il Pensiero, e s'alza tanto
    Quanto più giù la vil creta procombe;

      E l'uom col serto del martirio e il santo
    Peso del suo dolor, nauta immortale,
    L'onde si accinge a navigar del pianto;

      E, rompendo co'l petto il mar fatale,
    Pur morendo, procede, e su l'impure
    Salme a nuovi ardimenti agita l'ale.

      E tu invan, fiera Dea, tu invan d'oscure
    Sfingi hai custodia intorno; invan di tuono
    Armi il tuo grido, e veste hai di paure.
      Questo verme immortale ebbe tal dono,
    Per cui scrolla are, ombre dirada, e altero
    Su le rovine tue piánta il suo trono.

      Tu di fulmini t'armi, e in tuo mistero
    Minacciosa sorridi; egli al tuo sguardo
    Il fulmin strappa, ed arma il suo pensiero.

      Tu di flutti e d'abissi il tuo codardo
    Regno precidi, o ver di lidi avari
    Inciampo opponi periglioso e tardo;

      Ed ei co 'l foco dei tuoi falsi altari,
    Con l'onda tua nei suoi congegni occulta,
    Fa mari i monti, e fa montagne i mari.

      Che stai? Schiava a le tue leggi, sepulta
    Ne l'ira tua tu cadi; al tuo governo
    Egli si asside, e ai tuoi disdegni insulta
      Libero, invitto, onnipossente, eterno!—

      Udì il vanto oltraggioso e la superba
    Sfida la Dea, che tutte cose impera,
    E da le sedi adamantine, eccelse,
    Ove, occulta al creato, erge il suo trono,
    Chinò lo sguardo, e il rilevò, siccome
    Commiserando a questa ultima sfera,
    Bruna ed ultima tanto e tanto audace.
    Prendea l'aure in quel punto ad ampie vele
    L'ignifera carena, e fra' tranquilli
    Miraggi de le fate argenteo il dorso
    Scopríano a la notturna aere i delfini,
    Pazzamente esultando; e già non lungi
    Nereggiava agl'incerti occhi la sponda,
    Che udì del tapinello Aci il lamento,
    Quando il fiero Ciclope eragli sopra
    Con geloso consiglio; e già tra' cupi
    Firmamenti d'azzurro, erti ed immani
    Spiccava agli astri, qual fumante altare,
    Gli affocati cratèri Etna superbo,
    Quando, gli alti corrucci e il lampeggiante
    Sguardo sentendo de la Dea sdegnosa,
    Di sulfureo vapor l'aria si tinse,
    Mugghiò il mar dagli abissi intimi, e tutti
    Scoppiâro a un tempo e con tutt'ira i venti.
    Balzò dagli antri de la terra un vasto
    Sanguinoso fantasma; in tortuöse
    Rapide spire si elevò, diffuse
    Per li nordici campi orrido il crine,
    Sparse il cielo di sangue, e in fiammeggianti
    Cerchi gl'impaüriti astri costrinse.
    Guardò l'Eroe senza sgomento al petto
    La boreäl meteora, e a le stupìte
    Genti, che su la tolda erano accórse
    A mirar tanto caso, e di paura
    Avean gelido il core e verde il viso,
    Insegnò, come seppe, in dir cortese
    Il magnetico evento; allor che sorto
    Da le funi riposte, ove grand'ora
    Scialbo e sparuto era rimasto assiso
    Certo frate Iginaldo, in modo strano
    Trampolando sui piè, sciolse la lingua
    Ai soliti sermoni. Era costui
    Un fil d'omo, sottil, magro, ricurvo,
    Pallido come cece, istrice al fronte,
    Falco a lo sguardo: un subbio benedetto,
    A cui tutta ravvolta era la trama,
    Che ordita avea con fine arte il Loiola.
    Corsa gran parte avea d'Asia; pescato
    Con la rete di Pietro alme e moneta
    Per la sposa di Cristo, e al Franco lido
    Quinci movea per sovvenir le afflitte
    Dai novelli cimenti anime pie.
    Di Lucifero il detto e il paventoso
    Mormorar de la ciurma, a quella strana
    Apparenza di cielo, ei tosto accolse
    Ne le vigili orecchie, e, tolto il destro
    Di fulminar con la parola audace
    L'alme corrotte e l'empietà dei tempi,
    Gittossi a' piedi il brevïario, strinse
    Ne la tremula destra il crocifisso,
    Che tenea, qual pugnale, a la cintura,
    E in questa guisa a favellar proruppe:
    —Prostratevi, tremate; ululi e pianti
    Alzate, o genti de la terra; il crine
    Di polvere spargete! Ecco, si appressa
    L'ora del gran giudizio; ecco, il Signore
    Sbuca fuor da le sue stanze, e discende
    Come nembo d'autunno. Ardono i cieli
    A l'irata presenza, e piovon fiamme
    Su le terre di Sòdoma; qual cera
    Squaglian monti e palagi; orridi e neri
    Bollon com'olio i flutti; apron le gole
    I mille abissi de la terra, e inghiottono
    Le falangi del tristo. Empî! di falsi
    Idoli e di scïenze occulte e maghe
    Mal vi fate voi schermo! Avete il tempio
    Profanato del Cristo; il santo avete
    Patrimonio di Pier fra voi diviso;
    Gozzovigliato fra le stragi; aperto
    Con mille punte di tortura il grembo
    De la madre di tutti; i figli spinti
    Contro al sen de la madre; e il latte e il sangue,
    Con vile e frodolente arte spremuto,
    Tracannando qual vino, ebbri e feroci,
    Incoronati d'empietà, vi siete
    Sopra l'ossa dei santi eretto il trono!
    Ma tra' fulmini avvolto ecco, passeggia
    Il Signor degli eserciti, e l'immondo
    Trono di Belzebù, come vil coccio
    Infrangerà! Questo che in ciel vedete
    È il giudizio di Dio!—
                            —Questo è il rossore
    Di Dio, che sul tuo labbro ode il suo nome!—Una
    voce gridò.
              —Questo è l'inferno,
    Riprese il frate, che divora e strugge
    Le falangi degli empî!—
                             —O forse il sangue,
    Che han versato ogni tempo i manigoldi
    Di Vaticano!—
                  —Odo fra noi la voce
    De l'eresía; Satana è qui; perduti
    Tutti siam noi: ci sarà tomba il mare!—
      Dicea, quando dal mar torbido e negro
    Mugulando una sconcia onda levosse,
    Contro al legno proruppe, e lieve in guisa
    L'alzò, che spinta noi vediam dal turbo
    Una povera foglia. Orridamente
    Cigolaron le antenne; urlâr concordi
    I venti e i passaggier, le ciurme e il mare,
    E, dal fiero sospinto urto improvviso,
    Balenò, traballò, rovescion cadde
    Il loquace profeta, e destò il riso
    Ai mal fermi su' piè trepidi astanti,
    Qual da la ferrea gabbia, ove a diporto
    Con muta gravità saltando aggirasi
    La rugosa bertuccia, o ver, seduta
    Ad un raggio di Sol, prova l'aguzzo
    Dente a spellar secco virgulto, e il guardo
    Volge furtivo ai curïosi intorno,
    Se avvien ch'altri l'aìzzi, essa d'un salto
    Balza a l'opposto lato, i bianchi denti
    Digrigna, batte le palpebre, e torna
    Con guardinga incuranza al giro usato;
    Così in piè balzò il frate, il sospettoso
    Occhio intorno girò, forbì le sozze
    Palme, scosse la tunica, e, l'adunca
    Faccia a la tenebrosa aria levando,
    Umile e grave accovacciossi; aprì
    L'unto breviario, e mormorò latine
    Forse bestemmie, che parean preghiere.
      Giù dagli astri in quel punto, a par di scura
    Aquila, che a l'ovil piombi improvviso,
    Precipitava una procella, e il core
    Discioglieva ai più fermi. Orride e gravi
    Come monti di piombo, ingombran tutta
    Del ciel la faccia le sulfuree nubi;
    Mugghian lividi i flutti, e d'ogni banda
    Saltan sul mare ad azzuffarsi i venti.
    Quinci aquilon prorompe, e quindi irato
    Si scatena il ponente, e in un sol groppo
    Pugnan, come Titani: un le pesanti
    Nuvole afferra, e contro al mar le scaglia
    Con immenso fragor; l'altro dai fondi
    Gorghi del mar l'onde travolve, e al cielo
    Furibondo le avventa, e sfida Iddio.
    Qual da robusto giocator, compulso
    Dal dentato bracciale, a l'altro avverso
    Il ben gonfio pallon balza e resulta,
    Tal de l'onde in balía, dei venti in preda,
    Di qua spinto e di là, s'agita e batte
    Il rotante naviglio; ed or su 'l dorso
    Del fiotto immane al ciel levasi, or piomba
    Ruïnoso tra' flutti, e s'inabissa
    Come cosa perduta. A l'aër nero
    Fra lo schianto dei tuoni odi un confuso
    Suon di strida e di preci, un disperato
    Urtar d'opre e di cose, un fiero, orrendo
    Battagliar con la morte, e inconsüeta
    Fratellanza di pianti e di paure.
    Tu sol, fra tanto perdimento, il petto
    Non apristi a la tema, inclito amico
    Degli arditi mortali; e l'alma e il braccio
    Adoprando al governo, e da ogni parte
    Con diva ressa esercitando il grido
    Su le pavide ciurme, il cigolante
    Pino a le voratrici acque contendi.
    E là, dove nel mar libico schiude
    La selvaggia di Sardo isola il seno,
    Ben ridotto l'avresti, ove già fermo
    Di tutti la madrigna Isi in quel giorno
    Non avesse nel cor l'esizio estremo.
    Suscitò co 'l suo fiato un vorticoso
    Turbine, spalancò l'onde, in un mucchio
    Avviluppò fiaccate arbori e sarte,
    E fin dentro ai secreti antri, ove occulto
    L'impellente vapor mugola e ferve,
    Vïolento introdusse il flutto avverso.
    Scoppian, travolti nei dedalei fianchi,
    Gl'ingegnosi lebèti; in duo partito
    Salta al cielo ad un punto, e s'inabissa
    Il perduto naviglio; e orrenda, immensa
    Fra le rovine e il mare urla la Morte.
      Era fra tanti derelitti, a cui
    Piomba certo su 'l capo il danno estremo,
    La leggiadra Isolina; a le ginocchia
    Del nostro Eroe si attenne, e fredda, bianca,
    Scompigliata negli atti e negli accenti
    Fra' singhiozzi pregò:—Deh! mi salvate,
    Deh! salvatemi voi! Ch'io lo riveda,
    Ch'io muoia almen fra le sue braccia!—Un'onda
    In questo dir si sollevò; travolse
    La giovinetta, e de l'Eroe lontano,
    Come fiore divelto, in mar la spinse.
    Diè Lucifero un grido, e d'Ebe a un'ora
    Si risovvenne: aprì le braccia, e fermo
    Di rapir la gentil preda a la morte,
    Qual tempestoso augello, in mar lanciosse.
    Trabalzati dal turbo erran gl'infranti
    Pini su' flutti, e con sinistri e neri
    Serpeggiamenti ingombrano gli abissi
    Tenebrosi del mar: sembran natanti
    Dèmoni, che al ghignar cupo de l'onde
    Ballin pazza una ridda a far più triste
    De' disperati naufraghi la morte.
    Rompe i flutti Lucifero, e fra tanta
    Desolata pietà sol di lei cerca,
    Sol si affanna per lei, che tutte in core
    Le sopite d'amor fiamme gli avviva.
    Biancheggiar vede alfin come un'incerta
    Forma, cullata abbandonatamente
    Da men torbidi flutti, e sembra cosa
    Di visïon, che tremoli a lo sguardo
    D'oblique stelle, e tu non sai, se chiusa
    Entro a un vel di canore acque e di spume,
    Sia l'amor che tu sogni, o ver la morte.
    Stranamente l'Eroe spinse la voce,
    Pari ad artigliatrice aquila, quando
    Disertar vede il nido, e da le nubi
    Piomba, e co 'l grido il cacciator sgomenta;
    E a quella volta ambo le braccia e il petto
    Affaticò. La cara supplicante
    Ben riconobbe, e in cor gioì: di peso
    L'alza, l'impone al grande òmero, e forte
    Serrandola co 'l braccio a mezza vita,
    Con ambo i piè squarcia di forza il flutto.
    Ella respira ancor; la fuggitiva
    Pupilla per le vaste ombre dilata,
    E un caro astro ricerca, il derelitto
    Astro de l'amor suo.—Cessate, o venti,
    T'accheta, o mar; risplendi, o Sol; venite,
    Lontane terre, al cenno mio; ch'io possa
    Serbar quest'infelice alma a l'amore!—
    Girò in tal dir lo sguardo, e a lui da presso
    Con le braccia convulse a una raminga
    Botte aggrappato disperatamente
    Scòrse il misero frate: un moribondo
    Topo ei parea, che, a la grommata riva
    D'un impuro padùle a ber venuto,
    Vi trabocchi per caso: il miserello
    Stride pietosamente, i neri e furbi
    Occhi spalanca; or d'uno or d'altro verso
    Si travaglia d'intorno a un galleggiante
    Sughero, che da' piè sempre gli sfugge,
    E, invan le gambe picciolette a un tempo
    Dimenando e la coda, alza a fior d'onda
    Tenero il muso, i grigi orecchi appunta,
    Finchè, domato da la sorte acerba,
    Riman su l'acqua tumido e supino.
    L'Eroe lo vide, e contro a lui di punta
    Si disserrò, qual su l'ingorda sula
    Piomba il labbo animoso: a la codarda
    Voratrice la vasta ala non giova;
    Gracchia a l'aure fuggendo, e il mal digesto
    Cibo a l'audace assalitor concede.
    Tal sul frate l'Eroe piombò, nel punto,
    Che a cavalcion su le cerchiate doghe
    Con gran pena ei salía: per la pelata
    Nuca agguantollo; al soverchiante flutto
    L'abbandonò; su la girevol cimba
    Pontò forte la destra, e su d'un salto
    Vi si assise, e gridò:—Frate, il tuo regno
    De la terra non è, non è del mare:
    Io t'insegno il vangel!—Guaiva il frate,
    Tapinandosi indarno, e rotte e fioche
    Voci mettea:—Non vo' morir, non devo
    Così presto morir! Come San Pietro
    Tu solchi il mar; salvami tu!—
                                   —Profeta
    Non son, nè figlio di profeta, eppure
    Veggio che in gran peccato esser tu devi:
    Troppo temi il morir!—
                           —Sono in peccato,
    Hai detto il vero, in gran peccato io sono:
    Vo' confessarmi a te!—
                           —Volgiti ai santi;
    Il demonio son io.—
                        —Sàtana, o Cristo,
    T'adorerò, pur che mi salvi!—
                                  —Assai
    Facile è in ver la fede tua: rinneghi
    Dunque la legge cui finor servisti?—
    —Pur che sia salvo, io la rinnego!—
                                         —In molle
    Rèstati adunque, e non aver paura
    De le fiamme d'inferno!—
                             Il moribondo
    Sparì tra' flutti; al cor l'altro costrinse
    La giovinetta; su la fredda e bianca
    Fronte baciolla; le spirò su' labbri
    Una dolce parola: ella era muta
    Come la morte. Egli proruppe:—È bello,
    Bello, o frate, è il morir: vedi? su questa
    Bocca è la morte, ed io la bacio e l'amo!—
      Era già piano il mar, taciti i venti,
    Terso di nubi il ciel; roridi e bianchi
    Tremolavan per l'aere i fuggitivi
    Astri, e a specchiar la fronte aurea nei flutti
    Con le perle su 'l crin venía l'aurora.
    Correa spinta dall'aure a fior di spume
    La cimba portentosa, e verso ai cari
    Lidi movea; quando al tenace amplesso
    D'un terribile sogno Iddio si tolse
    Scapigliato ed ansante:
                           —Ove, ove siete,
    Miei campioni, gridò? Qui a me d'intorno
    Gli arcangeli non veggo e il formidato
    Fulmin de l'ira mia! Tacciono i cieli
    L'inno de la mia gloria; alzano il riso
    Gl'increduli mortali, e l'inconcusso
    Trono de la mia luce, ecco, diventa
    Tenebroso sepolcro ai passi miei.
    Rompete il laccio dei melliflui sonni,
    Troppo ingenui Celesti! Orrido io sento
    Sibilar per le vive aure lo strido
    De l'umano Pensier; sorge di nuovo
    Lucifero da l'ombre, e sotto ai chiari
    Sguardi del cielo, in faccia al Sol, vestito
    D'umane carni e d'ardimenti invitti,
    Contro al nostro poter pugna co 'l riso.
    Dormite pur, beate alme, sognate
    L'albe eterne dei cieli e la ghirlanda
    Mai consunta degli astri e le piovute
    Manne del paradiso; e tu, dai regni
    Contrastati del mondo, oltre il confine
    De la fallibil creta alza l'imbelle
    Tuo desiderio, e bamboleggia e trema,
    Reo vegliardo di Roma! Io, benchè agli occhi
    Nereggiar miri un crudo fato, e senta
    Mormorar fra' consorti astri una voce
    Di superba minaccia, io quel nemico
    Spirto di libertà, ch'agita i petti,
    Soffocherò!—
                 Disse, e l'usbergo usato,
    Che tutto era di nebbie e di paure,
    Stupenda opra, vestì; l'orrida assunse
    Ègida, che le avverse anime impietra;
    Strinse nel pugno la fulminea spada,
    E d'immenso clamore il ciel confuse.
    Balzâr dal sonno esterrefatti i Troni,
    Gli Arcangeli balzar, tutte fûr deste
    Le falangi de' cieli, e a frotte, a stormi
    Alïando venían, simili a incerti
    Pigolanti piccioni, ove tra' sonni
    Del temuto falcon sentan lo strido.
    Videli appena il Dio, che da le soglie
    Polverose de' cieli il dubitante
    Per lunghi ozî ed età passo togliea,
    Con fier cipiglio borbottando; e, in petto
    Mal frenando la gialla ira, tre volte
    Rotò sovra la testa il brando ignudo,
    —E, via di qua, sclamò, via dal mio sguardo,
    Plebe del cielo infeminita! Ai molli
    Suoni de l'infingarde arpe voi date
    L'anima tutta, e le divine essenze
    Seppellite nel sonno. Onta a voi tutti!
    Mentre l'uomo laggiù s'agita, e invade
    Ogni cosa crëata, e dio diventa,
    Voi, d'ogni cosa e di voi stessi ignari,
    Con pacifico studio divorate
    I banchetti celesti, e con le belle
    Figlie de l'uom gli ozii spartite e il letto!—
    Girò, in tal dire, anco una volta il brando,
    E partito saría, se da la folta
    Dei trepidanti arcangeli non fosse
    Sorto innanzi Michel, l'adamantina
    Spada del cielo. A le incostanti aduso
    Bizze del Padre, ei gli si pianta innanzi
    Con ischietto sorriso, e,—Qual talento,
    Gli dice, è il vostro di pugnar? S'addice
    La pugna a voi? Lucifero ha vestite
    Spoglie umane, ed a noi l'alme ribella;
    Ma rotto è forse il brando mio? Su lui
    Disagevole è tanto il mio trïonfo?
    Ben altre volte io gliel provai. Smettete
    L'armi dunque e lo sdegno; io, s'ancor sono
    Il guerrier vostro, io pugnar deggio: a voi
    Il comandar, a me il servir si aspetta.—
    Così parlava, ed il canuto mento
    Gli careggiava, e il rabbonía. Di forza
    Volea prima da lui svolgersi il nume,
    Poi fiero in vista e mal frenando un riso,
    Ritrasse il piè dal limitar: le indotte
    Armi svestì; senza mirarlo in fronte
    Al diletto campion la pugna indisse,
    E, calcando ai superbi astri la faccia,
    Su l'aureo trono in maestà si assise.
      Gemea l'Eroe fra tanto, e su la bocca
    De la bella sua morta iva mescendo
    Dal profondo del cor lagrime e baci.
    Mestamente fendea l'onde, e nel raggio
    Dei purpurei crepuscoli diffuso
    Vagolava il suo spirto oltre la vita.
    Saltò da l'etra in quell'istante il forte
    Messaggero di Dio, tutto ne l'armi
    Coruscanti precluso, e parea stella
    Portatrice di stragi. A sommo il flutto
    Contro al gagliardo nuotator piantosse,
    Precidendogli il lido, e con superbe
    Voci il tentò:
                  —Riedi, insensato, ai neri
    Baratri tuoi; quest'aure e questa luce
    Non son per te. Del tuo Signor dispregi
    Il divieto così? Ben del suo sdegno
    T'è noto il peso e del mio brando. Lascia
    Quest'aure adunque, se non vuoi di nuovo
    Provar l'ira del Padre e il braccio mio!—
    Guardollo in fronte, e con sorriso amaro
    Gli rispose l'Eroe:
                       —Superbo e vôto
    È il tuo parlar, qual si conviene a servo
    D'assoluto signor. Gonfio de l'aura
    D'un fatuo nume, opre millanti e cose,
    Che son, più che vittorie, onte e dispregi.
    Ma inver semplici or siete, ove co 'l suono
    D'una futil minaccia il pensier mio
    Svïar provate da l'ardita impresa,
    Per cui tutta cadrà da' vostri petti
    La superba jattanza. Ebbri del fumo
    Dei vaporati sagrificî, il guardo
    Voi non drizzate oltre l'istante, e lunghi
    Anni di gloria e non caduco impero
    V'impromettete. Al par di voi, securo
    Si tenea ne le ròcche ardue d'Olimpo
    Il fatal Saturnìde; e pure ei cadde,
    E favola e ludibrio oggi è il suo nome
    Ai più vili del mondo. E voi, voi pure,
    E non guari, cadrete; e su le vostre
    Fiere cervici striderà la punta
    Dei sarcasmi plebei. Stolti! che al volo
    De l'umana ragion, che tutto arriva,
    Presumeste por ceppi, e chiuder l'alma
    Dentro al sepolcro degl'imposti errori;
    Ma trono eretto su l'error non dura;
    Al tuo cieco signor la terra il grida!—
    Strinse al petto, in tal dir, la giovinetta,
    E verso al lido si spingea. Tremendo
    Fulminò l'aïzzato angelo il grido,
    Raggiò d'ira e di lampi, e la funesta
    Spada calò. Su la sua cara estinta
    Piegò il nemico il petto, e nulla oppose
    A la spada fatal destrezza o scudo.
    Balena il mar sinistramente; a l'aure
    Fischia l'acciar, ma, come ghiaccio in fiamma,
    Tocco appena l'Eroe, sciogliesi e strugge.
    Vide il portento, e scompigliossi in core
    Il guerriero di Dio; nè però a mezzo
    Lascia la pugna: smisurate, immense
    Spiega l'ali gagliarde, e si disserra
    Contro al ribelle nuotator. Qual suole
    Orgoglioso tacchino, ove al guardato
    Beccatoio appressar veda un digiuno
    Ramingante mastin, smetter l'usata
    Ruota d'un tratto, scolorir l'eretta
    Caruncula, e assalir tremendo in vista
    Il mal sofferto esplorator; s'aggira
    Questo, e no 'l bada; e mentre quei su' fianchi
    L'ale gli sbatte, e sbuffa, e stronfia, e grida,
    E il bèzzica a la coda e lo flagella,
    Tacito e imperturbato ei mette il muso
    Ne l'accolto becchime, e fiuta e passa;
    Tale il divo campion con le robuste
    Penne il superbo Pellegrin combatte
    Rotëandogli intorno.
                        Ai cari lidi
    Questi si affretta, e con parole acerbe
    Lo stanco assalitor punge e motteggia:
    —Torna ai cieli, o fanciullo; e le lucenti
    Soglie giammai de la magion paterna
    Non lasciar quind'innanzi. È dura impresa,
    Credi, il fermar sopra le vie del fato
    Il pensiero de l'uom: pari a torrente
    Ch'argini rompe, alberi svelle, ei corre
    Per sentiero infinito, e, non che un solo,
    Mille Dii non potrían romperne il corso!—
      In così dir, prese la riva; irato
    L'Angiol guardollo, e dileguossi al vento,
    Come vapor di nebbia vespertina,
    Che s'innalzi dal mar: vela un istante
    I purpurei del Sol placidi occasi,
    Poi si scioglie a la brezza.
                                Il Pellegrino
    Diede un forte sospir; la cara estinta
    Su l'arena depose; e poi che l'ebbe
    Tersa, come potea, del flutto amaro,
    La guardò lungamente; una leggera
    Zolla le impose, e muto e senza pianto,
    Pari a fantasma, in riva al mar si assise.

CANTO SETTIMO.

ARGOMENTO.

Storia d'Isolina.—Amore.—Sogno di felicità.—La lettera della madre.—Ultimo commiato.—Lontananza.—La giovinetta abbandona la famiglia e la patria; muove in traccia dell'amor suo, e perisce miseramente tra' flutti.—Sorge dal sepolcro, ed apparisce a Lucifero; il quale, non potendo ridarle la vita, languisce nell'oblío di sè stesso.—Una voce interiore lo richiama all'attività, e lo avverte della gran lotta preparata fra la Prussia e la Francia.—Egli ascende sulle Ardenne, e mira i formidabili eserciti che si avanzano.—Alla vista delle aquile imperiali alza inutilmente la voce contro l'ingiustizia di quella guerra.

    Nè tu, dolce amor mio, saprai gli affanni
    De la bella Isolina? Io, quando i cari
    Giorni ripenso, che l'amor ne diede
    Tutti sparsi di luce, e la promessa,
    Che a l'incerto avvenir m'obbliga il petto;
    E il ciel rigido miro, e con le cento
    Ali del mio desir navigo il mare,
    Calar veggio dal ciel, sorger dai flutti
    Tanti negri fantasmi; un'infinita
    Pena, un'angoscia indefinita e nova
    S'apre ne l'ondeggiante anima, e a' mesti
    Casi pensando de la pia fanciulla,
    Tremo nel cor, chiamo il tuo nome, e piango.
    Giovinetta infelice! Un cheto e lieve
    Raggio di fuggitivo astro parea
    Nei passi suoi; fior di dolcezza ell'era
    Negli sguardi e nell'alma; ala odorata
    Di vespertino venticello estivo
    Somigliavan sue voci, e chiaro e santo
    Era l'amor, che le accendea la vita.
    Un giovinetto da la lunga chioma,
    Esile e mesto e tutto alma negli occhi,
    Era il dolce amor suo: povero ed egro
    Vaneggiator, che le natíe contrade
    E la terra dei suoi padri e le sante
    Braccia materne abbandonava; e il nero
    Vuoto d'amor, che gli s'apría nel petto,
    Empía d'inclite forme illuminate
    Da la fiamma de l'Arte. Un giorno, ei vide
    La beltà d'Isolina. Era straniera
    Agli occhi suoi quella beltà; straniera
    Quella terra a' suoi passi; a ogni vivente
    Cosa straniero il suo pensier; ma in core
    Da gran tempo sedeagli, ospite ignota,
    Quella forma leggiadra; e sentì allora,
    Ch'ivi, da canto a lei, sotto quel caro
    Sguardo di ciel, che le vivea negli occhi,
    Era la patria sua, l'aurea contrada
    Dei sogni suoi; non là, dove la morte
    Sedea su le dilette ossa paterne,
    Non là, dove, nei suoi lutti racchiusa,
    Piangea la madre sua vedova e stanca.
    Da quel giorno si amâr. Livide e torte
    Lingueggiâr fra le care alme le sozze
    Ironie de la plebe; ai giovanili
    Passi, intèsta di fior, tese la rete
    L'insidïosa ipocrisia; ma grande
    Crebbe amor dai perigli, e fûr più saldi
    Battezzati nel pianto i primi amplessi.
      Scorrazzavano un dì, come fanciulli,
    Per le aiuole fiorite. Entro a un sereno
    Mar di tiepidi raggi e di fragranze
    Nuotavano le cose, e tutto fiori
    Salìa sui monti il giovinetto aprile.
    Dolcemente anelando ella si assise
    Sotto il bruno laureto; e lieta in core
    Di tanto Sol, di tanti fior, di tanta
    Giovinezza d'amor, con puerile
    Malizïoso rampognar severo
    Provocava l'amico.—A nulla buono,
    Dicea, sei tu; girato ho in un istante
    Tutto quanto il viale, e tutti ho colti
    I suoi fiori più bei: guarda;—e su l'erbe
    Sciorinava il suo bianco grembiuletto
    Tutto colmo di fiori. Egli porgea,
    Sorridendo, la bocca, e, a nulla buono,
    Dicea, son io fuor che a rubarti i baci.
    Furtivamente fra le foglie e i rami
    S'insinua il sole, e di minute e lievi
    Agitate da l'aure ombre ricama
    Quelle giovani fronti e le diffuse
    Vesti di lei, che in mezzo ai fior si asside.
      —Quanto io devo a l'amore, egli diceva,
    Quanto a la tua pietosa anima io deggio,
    O mia buona Isolina! Agli occhi miei
    Cangiato è il mondo; di mai visti fiori
    Mi sorride la terra; una lucente
    Indefinita regïon di sogni
    Mi si schiude ne l'alma, e la più bella
    De le speranze mie m'albeggia in core.
    Altr'uom son fatto. Ombre funeste e gravi
    Tedî, e incessante fluttuär d'ignoti
    Dubbi e fallace illusïon di sensi
    Mi sembrava la vita: inutil gioco
    Di crudeli potenze, agli occhi occulte,
    Ma paventate qual visibil cosa
    Da la paura onniveggente. In mano
    D'un fiero iddio balzar vidi la terra
    Come inutil crepunda; ai sanguinosi
    Ludi, a le prede con ferin costume
    Correr le schiatte dei mortali; eterno
    Gravar su le ribelli anime il piede
    La matrigna Natura; e tra le spire
    Di velenosi abbracciamenti, oppressa
    Da ignoti e strazianti incubi, indarno
    Tender la moribonda Arte a le stelle.
    Rider dovea, ma forse piansi. Al bieco
    Occhio de l'uomo m'involai; coi morti
    Vissi, e vaghezza d'ogni morta cosa
    Ebbi così, che i miei giorni infelici
    Sol ne la speme de la morte amai.
    Qual or mi sia, nè il so; stupito io guardo
    D'intorno a me, dentro al mio cor, nè trovo
    Me stesso in me: caro portento è questo
    Ch'io sol devo a l'amor!—
                              Ne le tremanti
    Mani, in tal dir, chiudea quella leggiadra
    Picciola testa d'angeletta, e lunghe
    Lunghe carezze le facea coi baci.
    Dei còlti fiori ella scegliea fra tanto
    I più freschi, e i più belli; e mormorando
    Un'allegra canzon de le sue valli,
    Li girava in ghirlanda, e col securo
    Volo de la ridente anima il giorno
    De le sue nozze precorrea.
                              —Di freschi
    Fiori odorosi, io vo' la mia corona
    In quel giorno beato: a par di questa
    Tesserla io vo' di zàgare fragranti,
    Che a me son tanto care, e simbol sono
    Del nostro amor: te ne rammenti? il primo
    Foglio che mi scrivesti un conteneva
    Di quei teneri fiorì. Oh! come allora
    Sarem felici! Andran confusi e tristi
    I cattivi del mondo, e i nostri amplessi
    Saran da Dio santificati. È amara
    Cosa, me 'l credi, il mormorar del mondo
    Fra due cori che s'amano: somiglia
    Sibilo di serpente in mezzo al canto
    Melodïoso di felici augelli;
    Grido somiglia di sinistro augello,
    Che rompa a sera l'armonia d'un primo
    Giuramento d'amor. No, no; non voglio,
    Che bieca, oscura intorno a noi si aggiri
    La maledica turba, e ne sia d'uopo
    Velar di mal sofferte ombre il sorriso
    De l'amor nostro immensurato: io voglio,
    Che testimòni a la letizia nostra
    Sieno gli uomini e Dio; ch'arda di amore
    Tutto il creato insieme a noi. Deh! affretta,
    Giorgio, affretta quel dì! Non mi rincresce
    Lasciar per te queste mie valli; il caro
    Mio letticciòl, dove ho sognato e pianto
    Tante volte fanciulla; i gelsomini,
    Ch'ombran la mia finestra, e la gaggía,
    Sai? la gaggía de l'orticel materno,
    Ch'or principia a fiorir; non mi dà pena,
    Che dir? non penso pur, che lasciar deggio
    La mia povera mamma: io son cattiva,
    Non è ver? ma per te!—
                           Gonfî di pianto
    Gli occhi altrove volgea; sfogliava i fiori
    Con inqueta mestizia, e riprendea
    Poi con tremula voce:
                         —Io, sai? non voglio
    Viver lontan da la tua mamma: un solo
    Tetto ne accoglierà; seder mi è caro
    A la mensa dei tuoi; guardar le stelle
    Da le finestre de la tua stanzetta;
    L'aure spirar che tu spirasti; assisa
    Presso l'immagin del tuo caro estinto
    Di te parlar con la tua mamma; seco
    Portar la croce, e consolar d'alcuna
    Speme di gioia il suo lungo dolore.
    Questo è il mio sogno, questo sol; m'illude
    Forse l'amor? Tanto sperar mi è dato?—
      Giunse un foglio in quel punto:
                                     —Unico mio,
    Dal mio letto di spine, ov'egra e stanca
    Di più lungo soffrir trascino i giorni
    De la mia vedovanza, io ti sospiro,
    Io ti cerco dovunque, e le deserte
    Braccia protendo, e non ti trovo, e piango.
    Dove sei, dove sei, che più non torni
    A questo petto abbandonato, a queste
    Case del padre tuo, che, di te prive,
    Orbe son d'ogni luce, e fredde e mute
    Sembran solo aspettar la morte mia?
    Dove sei, figlio mio, che più non odo
    La voce tua; che più non torni a sera
    A sedermi da canto, a dirmi i cari
    Sogni del tuo pensiero e i tenebrosi
    Dubbi e l'ambasce d'un sorgente affetto?
    Tutto, figlio, così, tutto oblïasti
    L'affetto mio? Del genitor non serbi
    Memoria alcuna? Ah! così poca e breve
    Ala di tempo, e così nova terra
    Covre quei suoi diletti occhi, che calde
    Son le ceneri ancora, e, se tu il chiami,
    Risponderà. Deh! così mesta e sola
    Soffrir puoi tu, che da te lungi io cada?
    Così dunque morire, anzi ch'io muoia,
    Deve la mia speranza ultima, e al piede
    Mirar deggio spezzato in un sol punto
    L'estremo idolo mio? Già non fûr queste
    Le tue promesse; e non cotal conforto
    Da tanto amor m'impromettea! Lontano
    Dai piangenti occhi miei, fatto straniero
    Al materno cordoglio, il fior tu libi
    De le gioie del mondo; io bacio i cari
    Abiti tuoi; sfoglio i tuoi libri; il tuo
    Letto, come solea, sprimaccio a sera
    Con materno costume; al picciol desco
    La tua seggiola appongo; al consueto
    Uscio origliando, a tarda ora, il tuo passo
    Scricchiar da lungi inutilmente aspetto;
    E forse allor che tu beato in braccio
    Dei tuoi rosei fantasmi erri i sognati
    Campi de l'Arte, ed a l'amor sorridi
    D'ogni umano conforto abbandonata
    La madre tua ti benedice, e muore!—
      Pallide e mute si guardâr negli occhi
    Quelle due fulminate anime. Ei sorse
    Freddo, anelante, scompigliato; al petto
    Strinse l'amica: la baciò su 'l fronte
    Mal frenando i singhiozzi, e una parola
    Mormorò fra le labbra; ella il comprese;
    E, gittandogli al collo ambe le braccia,
    In lagrime proruppe, e cor non ebbe
    Di contendere il figlio a una morente.
      Ei partì con la notte. A la finestra
    Ella balzò; tenne il respir; fra l'ombre
    Perdersi udì i suoi passi; a l'aure tese
    L'anima tutta; aspettò ancor; le parve,
    Che pentito ei tornasse; a una lontana
    Voce tremò, chiamollo a nome; e quando
    Stendersi agli occhi suoi squallido e freddo
    Vide il bianco viale, a la notturna
    Brezza ondeggiar con murmure indistinto
    Le due file d'acacie, e a la sinistra
    Luna uggiolar sentì a la lunga i cani,
    Sul freddo letticciòl, come perduta
    Cosa, piombò; ne le deserte coltri
    Si serrò paürosa, e pianse e pianse.
      Toccò Giorgio il natío lido; anelando
    Le vie percorse; a le paterne case
    Volò; ma fredda era la soglia; al vento
    Sbattean le imposte abbandonate, e nera
    Regina per li vuoti anditi, avvolta
    Ne le vesti materne, iva la Morte.
    Ei l'abbracciò; dei cari abiti ignude
    Mostrò le scricchiolanti ossa del petto
    Quella fatal. Dov'è mia madre? ei disse,
    Balzando indietro inorridito. Immota
    Ella il mirò; da le profonde occhiaie
    Balenò un fatuo lume; armò le vôte
    Mandibole d'un fiero urlo, e rispose:
    —La madre tua, tu l'uccidesti! Assisa
    Ne la bianca sua fossa ella ti aspetta!—
    Grido non diè, non diè gemito o pianto
    Lo sventurato, e ne le grandi e fredde
    Braccia gittossi di colei, che sola
    Di sue vedove case avea l'impero.
      Gravi fra tanto, angoscïosi, eterni
    D'Isolina sul cor passano i giorni;
    Passan sovra al suo cor gl'inganni alati
    Del suo tempo felice, e più s'infosca
    Co'l cader d'ogni dì la sua speranza.
    Dov'ei n'andò? Perchè non torna ai dolci
    Nidi de l'amor suo? Ne le materne
    Braccia obliò le sue promesse? In preda
    D'improvviso dolor s'agita, o il freddo
    Calcolo sul gentile animo scende,
    E a men umile preda il cor gli adesca?
    Ella dubbia così: facil maestra
    La lontananza è di sospetti, e fabro
    Di torture il silenzio. Ai consüeti
    Lochi si adduce; il solito viale
    Percorre; ne la memore stanzetta,
    Presso il camin, di fronte al caro specchio
    Spïator di lor baci, a l'ora usata,
    Tutti i giorni si asside; e poi che inganna
    Lungamente così l'ore infelici,
    E tutta sola, abbandonata, incerta
    Ne l'oscuro avvenir l'anima affisa,
    Co'l cor serrato indi si toglie, e al primo
    Detto, che a consolarla alcun le porga,
    Rompe in lagrime amare, e altrui s'invola.
      Sinistramente al suo pallido volto
    Irridevan le amiche; e la ben mesta
    Anima cruccïando ivan co'l vezzo
    Di maligni sussurri.
                        —Un venturiero
    Era al certo colui!—
                         —Povera stolta!
    Già toccar le parea gli astri co'l dito!—
    —Altro! Prostrate e pallide al suo piede
    Bice e Laura vedea!—
                         —Cinta d'alloro,
    Come le anguille, in groppa al suo poeta
    Credea varcar l'eternità!—
                               —Ma il remo
    Dice a l'onda che passa: io ti saluto!
    E l'ape dice al fior: verrò tra poco!—
    —E l'ingenua sposina aspetta ancora
    L'asin che voli, e l'amor suo che torni!—
      Tanto dolor la povera Isolina
    Onta cotal più non sostenne: ai cari
    Tetti involossi; abbandonò nel pianto
    La materna dolcezza; e, le notturne
    Ombre spregiando e le natíe paure,
    La dolente sua vita al mar commise.
    O il mar pietoso, il crudo mar! Dei suoi
    Freddi baci l'avvinse; addormentolla
    Nei letti suoi, pria che donarla al novo
    Ferreo dolor, che l'attendea sul lido.
      Su la fossa di lei, presso a la sponda
    Or Lucifero siede. Alta d'intorno
    Spazia la notte; silenziosa e poca
    Tremula su le grigie acque la luna;
    Ei grandeggia fra l'ombre; occulte voci
    Mormora il labbro suo: rupe il diresti,
    Che, di fosco chiaror lambita ai fianchi,
    Spinga ai venti la cresta, e di confuso
    Scroscio risuoni al dirocciar d'un rio.
    Scuro e immoto così pende l'Eroe
    Su la zolla pietosa. Amor, che preda
    Fa di giovani vite, e ne la cara
    Lucida vita de le cose alberga,
    D'ansie superbe e di grandi ale instrutto,
    Dominar l'ombre ama talor; vïaggia
    Oltre la vita; e, di regnar mal pago
    Quanto al raggio del Sol vegeta o pensa,
    Scende ne l'urne a interrogar la morte.
    Tremò allor su le care ossa la luce
    D'un'azzurra fiammella: incerta e lieve
    Lambisce il suol, palpita a l'aura, ondeggia,
    Color muta e sembianza, e ambisce al cielo.
    Come al sole d'april, da le materne
    Lucide foglie in vago giro inteste,
    La candida magnolia alza il bocciòlo,
    Così dal grembo de la fatua luce
    Una bianca si svolge aërea forma,
    A cui brune e diffuse erran le chiome,
    E diffusi per l'aure i rosei veli
    Dïafani a la luce. Il Pellegrino
    Ravvisò la sua morta.
                         —Oh! così lievi
    Son dunque i sonni tuoi, bella Isolina,
    Docil così, buona così è la morte,
    Ch'anco una volta agli occhi miei ti assente?
    Bianco e freddo amor mio, parla: ti muove
    La prece mia? pietà ti tragge a questa,
    Che lasciasti anzi tempo, aere vitale?—
    Tremava ella, e tacea; languide intorno
    Volgea le luci pe'l deserto lido,
    Come chi chieda ai circostanti oggetti
    Una persona lungamente attesa,
    E tutta in quel disío l'anima intenda.
    —Oh! che chiedi a le mute ombre, che chiedi
    Ai sordi astri, o fanciulla? Aprica e morta
    È questa piaggia, e non ha fronda o fiore;
    Crudo e vorace è il mar: vecchio omicida
    Ei s'accovaccia ne la calma; infiora
    D'albe spume gli abissi; ignudi e belli
    Manda intorno a danzar silfi e sirene,
    Che funesta han la voce; alita un cheto
    Sopor sovra le sue vittime; e quando
    Più sicure esse van sognando il lido,
    Sbuca fuor dagli agguati orrido, e caccia
    Su le rotte acque a gavazzar la morte.
    Oh! che chiedi a la terra, al mar che chiedi,
    Sconsolata fanciulla? Ha stelle e fiori,
    Stelle e fiori ha il cor mio! Se amor tu chiedi,
    Vieni, il cor mio ti dò; vieni, e saranno
    Pe'l tuo morbido crin tutti i miei fiori,
    Pe'l tuo picciolo cor tutte le stelle!—
    Tremava ella, e tacea. Pallida e mesta
    Cadea la luna; impallidía la bella
    Sospirosa al partir; tendea le braccia
    Egli, e gemea:
                  —Deh! non fuggir, t'arresta!
    Son de l'amor, son tue l'albe dei cieli;
    Tue son le perle del mattin; tue sono
    L'armonie di quest'aure; è tua la vita!
    Vieni, vieni con me, vivi, e trïonfa
    Dentro un raggio di Sol, dentro i diffusi
    Regni del mio pensier! Da le voraci
    Onde non io le tue candide membra,
    Non io la tua beltà tolsi agli abissi,
    Perchè deserta, in peregrina stanza,
    Ospite de le fredde ombre ti aggiri;
    Nè alfin la morte al voto mio t'arrese,
    Perchè al tornar de la dïurna luce
    La negra terra ad abitar tu scenda.
    No, non fuggir! Nè il suol, nè il mar, nè il cielo,
    Nè la morte ti avrà: l'amor ti spira
    Vita più bella, ed a l'amor vivrai!—
    Dicea, come piangesse, e facea forza
    Di caldi amplessi e di sospiri al fato.
    S'alza fra tanto il sole; ed ei su'l petto
    L'aure fugaci e il suo dolore abbraccia.
      —Sorgi dal tuo dolor; cingi la veste
    Degli ardimenti tuoi; di cose e d'opre
    Non di futili sogni amor si pasce.
    Opra incessante è Amor: vita a l'inerte
    Polve non spira ei già, ma su l'inerte
    Polve l'onor d'illustri fatti accende.
    Non vedi tu qual turbine di guerra
    Del provocato Reno agita i lidi,
    E, al suon de le fatali armi di Brenno,
    Tutte d'Europa impallidir le genti?
    Mai viste imprese il Sol vedrà. Dai campi
    Fulminati di Mario, ombre feroci,
    Sorgon Teutoni e Cimbri, e infiamman l'ire
    Dei nepoti d'Arminio. A gran tenzone
    Due glorïosi popoli prorompono
    Come oceàni. Mugola dai fondi
    Tenebrosi la Senna; e da l'inulto
    Elba i carri fulminei a le vegliate
    Mura di Faramondo Arminio avventa.
    Sorgi; uom folle è colui che l'alma e il braccio
    Spreca in vôta fatica: a lui sembianti
    Fûr di Dànao le figlie; uom saggio e forte
    L'opra non gitta ad impossibil cosa!—
      Sentì la voce del suo spirto, e il core
    De l'Eroe fiammeggiò come un'ardente
    Voluttà di battaglie. Il sommo attinse
    De l'ondìsone Ardenne, e quinci e quindi
    Le due genti mirò.
                     Pari a procella,
    Che su'l mar piombi, le Borussie querce
    Lascian le congiurate aquile al cenno
    Del germanico Giove: immenso, orrendo
    Mandan lo strido al ciel; scoton gli allori
    Trïonfati in Sadòva; e un'omicida
    Smania di pugne in tutti i cor si desta.
    Quanti dal borëale urto sospinti
    Sovra il campo del mar rotano i flutti,
    Tanti e alteri così levansi i figli
    De la rigida Odèra; e quei vi sono,
    Che fermezza di membra e d'alma han pari
    A l'Ercinia materna alpe, e l'audace
    Sassone, che nel freddo Albi s'infianca,
    E il fedele ai suoi re Bavaro, onore
    Dei Vindelici piani; e quanta forza
    Di strenua gioventù fra la superba
    Vistola e il serpeggiante Emo si accampa.
    Da l'onor di sì forte oste precinta,
    Splendida come Sol, move la possa
    Di Brandeburgo. Rigida e severa
    L'augusta diva del pensier vien seco:
    Prestantissima dea, che da le fredde
    Mute vigilie, onde le cose indaga,
    Vien de l'opre al fragor, però che vano
    Senza l'opre è il pensiero; i radïosi
    Regni abbandona e il puro ètere, dove
    Son l'ignude sostanze, e a le nebbiose
    Noriche selve, ov'ha più fidi altari,
    Accorre, auspice dea; popoli e prenci
    Duci ispira e guerrieri; inconsuëte
    Armi rivela, ordigni nuovi appresta,
    Terre esplora e nemici, e grande e prima
    Sfida la morte, e del trïonfo è certa.
      Udì il suon di tant'armi, e tremò in core
    L'avoltoio d'Asburgo: il sanguinoso
    Occhio, ove l'onta ardea di due sconfitte,
    Rotò; scosse le cionche ali; ma rotto
    Mirando al piè l'antico scettro e il brando,
    A satollar l'ira e la fame, il rostro
    Nel cor de l'adescato Ungaro infisse.
      L'udì la borëal Dania, feconda
    Genitrice di popoli, e ne l'armi
    Tutta si strinse, e balenò. Nel fermo
    Petto una tempestosa ira le rugge
    Contro al superbo assalitor di genti,
    Che, di numero prode e di cor vile,
    La sconfisse nel sangue; i palpitanti
    Visceri le cercò; chiamò la belva
    Dormitante su l'Istro; e su le offese
    Sedi di Sondemburgo, orridi in vista,
    Piombare entrambi, e s'imbandîr la dape.
      Ma nel cor non tremò, non trasse il brando
    A far più salda la ragion dei forti,
    La glorïosa Itala donna. Assisa
    Su la sponda regal d'Arno, secura
    Ne la fortezza sua, le genti e l'opre
    E la fugace ora propizia e il fato
    Sagacemente interroga; compone
    Le impronte ire dei figli; obliga al giogo
    Del suo voler le avverse anime; affrena
    L'empia licenza popolar; flagella
    L'ambigua turba, che nel dubbio annida;
    Spregia il frollo garrir dei suoi tribuni,
    Cui legge è l'ira e sola patria il ventre;
    E, men d'acciar che di giustizia armata,
    Sul petto al vil Giudeo pianta il suo trono.
      Dentro la cerchia de le mura antiche
    Non si contenne il valor Franco. Al grido
    Del vandalico orgoglio, ai provocati
    Campi volò, primo volò, nè volle
    Misurar l'armi e interrogar la sorte.
    Aquila, che dal curvo etere mira
    Disertar su la negra alpe i suoi nidi,
    Gli accorti agguati e le fulminee canne
    Del cacciator non sa: piomba da l'alto
    Con terribile strido, e pugna, e muore.
      —Dove corri, o fatale aquila, al lampo
    Del glorïoso tricolor vessillo
    Lucifero gridò; figli de l'armi,
    Dove correte voi? Grido di oppressi
    Non vi chiamò, non amor patrio accese
    Tanto vampo di guerra: inclita e grande
    Sovra il trono del mondo alto si asside
    La patria vostra, e sol co'l nome impera.
    Chi snudò prima il brando? Il fier consiglio
    Da che labbro partì? Chi le secure
    Aure turbò di tanta pace, e immerse
    In un mar di perigli il luminoso
    Trono di Lui, ch'à di saggezza il vanto?
    Fu la malnata Idra del vulgo, il destro
    Livor dei vili. Abito assunse e volto
    Di libertà; con tumida parola
    Provocò le dormenti ire; commosse
    Con sonante lusinga il cor dei forti;
    Piaggiò con prostituta arte l'oscena
    Turba armata di lingua e di cor nuda;
    Ma dentro a la bugiarda alma un'obliqua
    Ambizïon fea nido, e sotto al manto
    Involava a mortal guardo il venduto
    Stilo di Ravagliacco e il cor di Giuda.
    Così strisciando tortuösamente
    A l'aureo cocchio arrampicossi, dove
    Sedea, temuto Automedonte, il senno
    Del fatal Bonaparte. Ei nei dorati
    Mòrsi reggea l'intempestiva foga
    Dei volanti cavalli, e parea Febo
    Portatore del giorno. A lui, da canto
    Quella furia si assise; un sopor lieve
    Gli suäse ne l'alma; oscurò il lume
    Dei veggenti consigli; ond'ei le forti
    Redini rallentò su le spumanti
    Briglie dei corridori. Un urlo mise
    L'empia gorgòne; in piè balzò; disperse
    Co'l freddo soffio le veglianti cure,
    Che custodían con cento occhi al governo,
    E da l'altezza dei lucenti alberghi
    Per la lubrica china i fieri alipedi
    Abbandonò. T'arresta, empia e mentita
    Furia! E tu, se alcun raggio anco ti avanza
    De l'antica virtù, se t'arde ancora
    L'onor di Francia e la tua gloria i polsi,
    Sorgi, e tuona il tuo nume, o sir dei pronti
    Accorgimenti e de le pronte spade!
    Sorgi; a la furibonda idra le cento
    Creste conculca; e a quella rea, che il freno
    Con falsi nomi a l'oprar tuo contende,
    La man caccia su'l volto, e la sbugiarda!
    Ahi! che al vento io favello! Armi, armi, grida
    Dal mar britanno a la regal Pirene
    Ogni gente, ogni petto; orrido io sento
    Il fragor de la pugna; e quando a mille
    Divora i prodi la fulminea morte
    Su le ripe contese, una linguarda
    Turba su le fraterne ossa s'impanca,
    E al vinto insulta, e al vincitor si arrende!—

CANTO OTTAVO.

ARGOMENTO.

La catastrofe di Sédan.—L'ombra di Turenna e la resa.—Lucifero entra in Parigi.—La babilonia delle gazzette.—L'assedio.—Gloria ed obbrobrio a chi spetta.—Un generale francese, trasformato in asino, è condotto al macello.—I Prussiani entrano nella città.—L'allocuzione del proletario.—La colonna Vendôme.—L'ombra di Federigo.—La petroliera.—Allo spettacolo di tanti eccidî Lucifero si parte, non senza dubitare un istante del suo trionfo.

    Io l'ho visto cader, morir l'ho visto
    L'aquila dei trïonfi, il fior dei forti;
    Tutto sbucar di Teuta il popol misto
    Da l'empie selve e dominar le sorti;
    Correr, non pago, oltre il fatal conquisto,
    Straziar le genti e gavazzar sui morti;
    Piegar la fronte a l'ultime sconfitte
    L'inclito Sir de le falangi invitte!

      O sventura, e fia ver? Caduto in fondo
    Di rea fortuna, che non tien mai fede,
    Il gran popol vedrem, che, a niun secondo,
    Di Quirino parea l'unico erede?
    Colui vedrem, che impallidir fe' il mondo,
    L'armi chinar d'un vincitore al piede?
    Al piè d'un vincitor, deposte in guerra,
    L'armi, che già dettâr leggi a la terra?

      Ahi! così non solean rieder dal campo
    Sotto duce miglior di Francia i figli!
    L'afro Leon lo sa, cui nullo scampo
    Fûr l'arse arene, e poca arma li artigli;
    L'Istro lo sa, che, di lor pugne al vampo,
    Abbondò al mare i flutti suoi vermigli;
    Lo san le valicate alpi, lo sanno
    L'ispido Scita e il mercator Britanno;

      E il sai tu pur, che là su' fumiganti
    Campi di Iena fulminato e fiâcco
    L'orgoglio tuo vedesti, e lordi e infranti
    Di Torgravia gli allori e di Rosbacco.
    Ov'è, Francia, quel brando? Ove quei tanti
    Prodi? È fatto ogni cor molle e vigliacco?
    Sol di lingua son prodi i figli tuoi?
    Vincer non san, morir non san gli eroi?

      Morir volean, tutti morir! Dai colli
    Cari a la Mosa, ove Turenna nacque,
    Ruïnavano a morte, e facean molli
    Di strage i campi, e rosse e gonfie l'acque.
    Pallido, in suo dolor chiuso, mirolli
    Il Sir de l'armi, ed aspettando tacque;
    Vide la morte, e con terribil gioia
    Spronò il destriero, ed esclamò: Si muoia!

      E s'avventò. Da le sonanti Ardenne
    Lucifero lo vide. Allora a un punto
    Di Turenna balzò l'Ombra, e il rattenne,
    Gridando: Il dì fatal non è ancor giunto!
    Si volse il duce, il fier caval contenne,
    D'ira non men che di stupor compunto,
    —E, tu chi sei? sclamò: sotto ai miei sguardi
    Cadono i prodi, e non vuo' giunger tardi.

      Lasciami, sgombra: a la battaglia il loco,
    La speme al petto, al dir l'ora già manca;
    Mi assegna il fato un breve istante, e poco
    Forse è a morir, ch'anco la morte è stanca.
    Mira; in un cerchio di strage e di foco
    Ne serra il vincitor da destra a manca;
    Pria che cedere a lui questa mia spada,
    Lascia ch'io pugni, ed imperando io cada!—

      —Non è ancor tempo di morir, riprese
    L'Ombra, e negli occhi balenò; gagliarda
    Alma non ha chi de l'avverse imprese
    Non sostien l'ira, e ad avvenir non guarda.
    Uom, che a ferma virtù tutt'opre intese,
    Spregia il fulgor d'una virtù bugiarda;
    Cede, non fugge; e innanzi ad empia sorte
    Viltà è la fuga, ed è fuga la morte.

      Non io, che la superba alma fiaccai
    Ne le mobili Dune al fermo Ibero,
    Non io, quel dì che il mio destin mirai
    Di Marindàl sui piani avverso e nero,
    Piansi perduto il mio nome, o spronai
    Negli abissi di morte il mio destriero;
    Ma tenni fronte al fato reo; mi accinsi
    Ad imprese più belle, e venni e vinsi.

      Cedi così. Nè libero, nè solo,
    Come al comando, oggi al morir tu sei:
    Di generosi petti inclito stuolo
    Pugna ai tuoi fianchi, e tu salvar lo dèi.
    Freme la patria tua, che mira al suolo
    I figli suoi; questi almen serba a lei;
    S'ella ha piagato il cor, la fronte ha rossa,
    Abbia almen chi per lei combatter possa!

      Tu piega e va: la via del trono è chiusa;
    Sorge ne l'ira il popol tuo rubello;
    Gente vedrai, che lo tuo scettro accusa,
    Far tue vendette con l'oprar suo fello:
    Gente, che, al regno e a servitù mal usa,
    Predica in piazza, e traffica in bordello;
    Sovrani, che saran servi al più destro,
    Frolli eroi da polenta, o da capestro!—

      Disse, e ridendo un cotal riso altero,
    Sporse le labbra, e ottenebrossi in volto,
    E ratto s'involò come il pensiero
    Dove il nembo di morte era più folto.
    Stette il Duce, ondeggiò, tacito e fiero
    Girò lo sguardo, in mar di dubbî avvolto,
    Quando tra l'armi e il fumo e i morti e l'ira
    Nuova vision, nuovo portento ei mira.

      Cheta pe'l mar d'Atlante irto di scogli
    L'isola illustre al suo sguardo apparío,
    Splendida del fulgor di mille sogli,
    Riverita sì come ara d'un dio:
    Ivi, fiaccati a' Re l'ire e gli orgogli,
    La fortuna posò del suo gran Zio,
    Simile al Sol, che da l'eteree tende
    In grembo a l'oceàn placido scende.

      —Salve, allora esclamò l'alma dubbiosa,
    E consolata al ciel la fronte eresse;
    Han pur luce i tramonti, e glorïosa
    Voce di fama han le catene istesse!—
    Tal disse, e a la guaína disdegnosa
    Il fiero acciar con man lenta concesse.
    Un'orribile voce allor fu udita:
    Reso è l'Imperator, Francia è tradita!

      —Chi di resa parlò? L'empia parola
    Chi proferì? Parola infame è questa!
    Finchè una spada è in pugno, un grido in gola,
    E guarda una pupilla, e un'alma è desta,
    Finchè un palpito al cor, finchè una sola
    Stilla di sangue ed un respir ne resta,
    Vil, chi deporre il brando ai prodi indìce,
    Traditor chi il suäde, empio chi il dice!—

      Così fremeano i prodi. Immenso, orrendo
    Ne la vittoria sua Teuta procede,
    E i vinti eroi, che maledían morendo,
    Strazia co'l ferro, e calpesta co'l piede.
    Piega intanto il vessil franco, e tremendo
    Piega, e fiammeggia, e n'ha stupor chi il vede;
    Piega, si avvolge, al suol lento declina
    Qual cometa, che volga a la marina.

      Al fero, indegno, inusitato aspetto
    Urlano i vinti; e qual leva le braccia,
    Qual rompe il brando, e dal ferito petto
    Strappa le bende, e fra' morti si caccia;
    Chi tra gli estinti, su' gomiti eretto,
    Leva in fiero e sdegnoso atto la faccia;
    Chi schernisce al suo duce, e con amara
    Voce gli grida: A morir, vile, impara!

      Mandò allor la francese aquila un grido
    Alto così che ne rimbomba il cielo;
    L'ale staccò da lo stendardo infido,
    Le scosse a l'aria, e ne fe' agli occhi un velo.
    L'udì il Borusso, e il trïonfato lido
    Guardò geloso, e sentì al petto un gelo;
    Da l'ardua rupe, ove sdegnoso stassi,
    Lucifero discende, e volge i passi

      Pensieroso colà, dove l'irata
    Aquila artigliatrice il vol protende;
    Ov'ebbra di vendette e di peccata
    La fortuna di Francia alza le tende.
    Mille de la fatal Senna a l'entrata
    Trova l'Eroe strane chimere orrende,
    Sfingi fallaci e sozze furie immani,
    Mostri di cento bocche e cento mani.

      Vede la Ciarla in pria, gonfia e linguarda
    Furia fra quante mai vivono al sole,
    Che l'Assurdo brïaco e la bugiarda
    Fola al mondo lanciâr, turgida prole.
    Molta a lei diè l'Error stirpe bastarda
    D'anfibî mostri e tumide figliuole,
    Che, nutrite di fango e di vendette,
    Nome portan di gazze e di gazzette.

      Ruzzan torbide intorno, e son cotante,
    Sì varie son di fogge e di favelle,
    Di color, di costume e di sembiante,
    Che tante voci non udì Babelle:
    Quante locuste ebbe l'Egitto, o quante
    Zanzare ha il luglio assai son men di quelle;
    E ciascuna di lor tanto un dì gracchia,
    Quanto un anno non fa corvo o cornacchia.

      Gracchiano tutto dì folte, importune,
    Voci e aspetti mutando e usanze e vie,
    E al latrar de le vaste epe digiune
    Aguzzan gli estri, e ruttan profezie:
    Apostoli da piazze e da tribune,
    Ch'àn di coniglio il cor, l'unghie d'arpie;
    Bolle, che, di livor gonfie e di ciance,
    Pensan coi labbri, e senton con le pance.

      Or lisce e chete, or bieche, ispide, incolte
    Non pur turban le vie, ma i sensi e i cori:
    Inquiete, ansanti, curïose, folte
    Corron, s'urtan le turbe a' lor clamori.
    Sorgono a mille intorno a lor le stolte
    Menzogne alate e i pallidi Timori
    E il cieco Ardir, che ne l'error gavazza,
    E il Dubbio inerte, e la Discordia pazza.

      Libertà v'è; su l'abborrita reggia
    Alza il suo trono, ed al caduto impreca:
    Trono di nubi, in cui siede e galleggia,
    E in tumide promesse il tempo spreca;
    Nebbiosa Dea, che, non che senta o veggia,
    Sorda alla legge, ed ai perigli è cieca;
    Tremenda Dea, che a l'armi a lei funeste
    Scudo oppone di frasi e di proteste.

      Turba sta intorno a lei, che in lei si sfoga,
    E d'idropiche ciarle impregna i venti,
    E onor, giustizia e fin sè stessa affoga
    In un mar d'aforismi e d'argomenti:
    Aërostati eroi, rabule in toga,
    Frontespizî di libri e cavadenti,
    Tutti saltati a l'imperar supremo
    Qual dal fòro mendace e qual dal remo.

      Vince intanto il nemico; e l'armi e l'arte
    Usa egualmente, e desta ire e litigi;
    Fra' trïonfi procede, e d'ogni parte
    Versasi, e irrompe a circondar Parigi.
    Pugnano ancor, benchè deluse e sparte,
    Le franche genti, e son tanti i prodigi,
    Che dir non puoi, se sia de' due maggiore,
    Chi pugna e vince, o chi pugnando muore.

      Ahi! miracoli vani! E che mai giova
    Disperato valor, cui manchi il forte
    Senno, che le falangi ordina, e a prova
    Le guida e regge a dominar la sorte?
    Già il vincitor superbo di Sadòva
    De la reggia di Francia urge a le porte,
    E l'accerchia, e la serra, e con orrenda
    Fame di strage intorno a lei si attenda.

      Etna così, quando dai fianchi immensi
    L'infocata trabocca onda vorace,
    E di sabbie infiammate e zolfi accensi
    I campi opprime, e l'aria accende e inface,
    Al povero pastore, in men che il pensi,
    Cinge di fiamme il campicel ferace,
    E, fatta isola intorno a lui che fugge,
    Lento e crudel tutto divora e strugge.

    Muta e sdegnosa a quell'ardir nefando
    Stette Europa e guatò; stetter gl'infidi
    Regi, e nullo è di lor che snudi il brando,
    E pace imponga, e il dritto invochi, o gridi.
    Nè però il cor perdono i Franchi; e quando
    Men lungi è il male, ognun par che più fidi:
    Generosa fidanza, eroico inganno,
    Che l'alme abbaglia, e fa più grave il danno.

    Ferve il popol ne l'opre, e mai non resta
    Per mutar d'ore o per mancar di giorno,
    Ed armi e ordegni e vettovaglie appresta,
    E boschi incide, e spiana campi intorno;
    Di su, di giù, da quella parte a questa,
    Gente industre che va, che fa ritorno,
    E s'ingegna, e s'adopra a far sicuri
    Le contrade, le vie, le case, i muri.

    Fra cotanto agitar d'opre e di cose,
    Cui segue il canto e mai non giunge al vero,
    Ad accender vieppiù l'alme vogliose
    Il popolar rimbomba inno guerriero:
    Vecchi, infermi, fanciulli e madri e spose,
    Forti ne l'ira, ardenti in un pensiero,
    Mescon l'opre e l'ardir, l'anime e i carmi,
    E incuorano alla pugna, e veston l'armi.

    E rompendo talor, pari a torrenti,
    Fuor da le mura, a tanto ardor già strette,
    Gittansi in mezzo a l'avversarie genti,
    E scompiglian lor piani e lor vendette.
    Ben dei mille che uscîr non tornan venti,
    E rimangon le madri orbe e solette:
    Paghi son tutti, ove la patria possa
    Un riparo innalzar di scheltri e d'ossa.

    Quinci fulmina l'oste, e impiaga e uccide,
    E fiamme ai tempî, a le magioni avventa;
    Quindi fra le macerie alto si asside
    L'orrida Fame, e gli ancor vivi addenta;
    Quel che l'uno non può, l'altra conquide;
    L'un vince i corpi, e l'altra i cor sgomenta;
    Vola intorno la Morte, e in doppia guerra
    Le mura oppugna, e i difensori atterra.

    Pur, tra' morti e le fiamme, e dagli amati
    Ruderi, e dai men noti ermi recessi,
    Balzan novelli eroi, pugnan coi fati,
    E sembran dal valore i fati oppressi:
    O che pulluli il suolo armi ed armati,
    O fecondin la vita i morti istessi;
    O a difender la patria, integri e forti,
    Per miracol d'amor, tornino i morti.

    —Salve, o popol di prodi! A sorger primi,
    Primi a pugnar, soli a morir voi siete;
    Se fia che lo straniero oggi vi adimi,
    Egli avrà l'onta, e voi la palma avrete;
    Vestiti di valor, di gloria opimi
    A le più tarde età splendidi andrete,
    Sprone ed esempio ai generosi petti,
    Rampogna ai vili, obbrobrio ai duci inetti.

    Obbrobrio a voi, che con vostr'arte obliqua
    L'ire svegliaste del natal paese,
    E d'armi impari, in vana guerra iniqua,
    Lo abbandonaste a le nemiche offese;
    Obbrobrio a voi, che la temuta, antiqua
    Gloria offuscaste de l'onor francese,
    Pur che rotta la spada, e infranto e nero
    Giaccia il vessil de l'abborrito impero!

    Matricidi! A la patria, ai figli suoi,
    Qual frutto mai de le vostr'opre avanza?
    Duci, guerrier, francesi, uomini voi?
    Voi del suolo natio gloria e speranza?
    Capi senza cervel, scimmie d'eroi,
    Spugne gravi d'invidia e d'arroganza,
    Vernici di valor gonfie di vento,
    Molluschi in campo e tigri in parlamento!

      Oh! viva il nome tuo, viva il gagliardo
    Tuo braccio e l'alma a tutte prove invitta,
    Primo, solo, raggiante astro Nizzardo
    Fra tant'ombre d'obbrobrio e di sconfitta!
    Dove che fra le genti io giri il guardo,
    Ne la lor libertà tua gloria è scritta,
    Gloria miglior del buon sangue latino,
    Cui sollevo il pensiero e il fronte inchino!

      Oh! viva, unico eroe! Di': quest'altera,
    Cui voti il braccio e il vasto animo e i figli,
    Colei non è, che a la sorgente e fiera
    Lupa de la Tarpèa ruppe li artigli?
    Colei che fulminò la tua bandiera,
    E fe' i campi del tuo sangue vermigli?
    Colei non è, che la tua patria inulta
    Co'l piè calpesta, e a la tua spada insulta?

      No'l chiede ei già: d'un gran popolo oppresso
    Balenan l'armi e il grido al ciel rimbomba;
    E dal guardato suo scoglio inaccesso
    Tremendo irrompe, e il brando snuda, e piomba;
    E, vincendo del par gli altri e sè stesso,
    Al superbo oppressor schiude la tomba;
    Dal trono de l'error balza i potenti;
    Dà spada al dritto e libertà a le genti!—

      Così dicea l'Eroe, quando una strana
    Vista mirò. Tratto al macel venía
    Uno zoppo asinel, che in voce umana
    Tapinavasi invan lungo la via.
    Folta era intorno a lui la disumana
    Turba, che il morso del digiun sentía;
    E qual dicea ch'alto miracol fosse,
    Chi d'insulti il pungea, chi di percosse.

      Sordo da tanto urlar, da' picchi infranto,
    E più dal senso del supplizio atroce,
    Il poverel movea simile a un santo,
    Che tra fieri Giudei porti la croce.
    Con l'orecchie dimesse, in suon di pianto
    A intenerir la turba alza la voce,
    E ragli emette ora profondi or fini,
    Ch'àn l'armonia dei versi alessandrini.

      L'Eroe gli si fe' presso, e de la doppia
    Sua bizzarra natura interrogollo;
    Quei leva il muso, allunga gli occhi, addoppia
    I sospiri, e fa il greppo, e scote il collo;
    E poi che ragli e pianti e voci accoppia,
    E di tanto preludio ha il cor satollo,
    Digrigna i denti al ciel, gli occhi al ciel fisa,
    Batte la coda, e parla in questa guisa:

      —Uomo già fui, nè de la plebe: amici
    Pria m'ebbi i fati; ai marziali ardori
    Fei campo il petto, ed ai ben posti uffici
    Non fûr tardo compenso i dolci allori.
    Francia è la patria mia; contro ai nemici
    Guidai gli altri e me stesso ai primi onori,
    Fino a quel dì che prigionier si rese
    Nei campi di Sedàn l'Augel francese.

      Mi resi anch'io; ma con arguto ingegno
    Ruppi la fede, e il Prusso irto delusi:
    Fuggo, i campi divoro, e qui ne vegno
    Per la patria a pugnar; chi vuol mi accusi.
    Già s'appressa il nemico, e d'aspro, indegno
    Feroce assedio i nostri muri ha chiusi;
    Io vittoria prometto, e, oh! poco accorto,
    Ritornar giuro o vincitore o morto.

      Fuor proruppi, e pugnai; ma, com'è vero
    Ch'asino or sono, io fui sconfitto e vinto;
    Morir tosto pensai, ma in tal pensiero
    Tremai, gelai, fui per cadere estinto;
    Quando rinvenni dal terror primiero,
    Qui mi trovai d'una vil turba cinto,
    Che gridava, insultando al mio dolore:
    Ritornar giuro o morto o vincitore!

      Allor, gelo in pensarlo, io non so come,
    Tutte raccapricciar le membra sento;
    S'alzan lunghe l'orecchie in su le chiome,
    E allungasi la testa, e cresce il mento;
    Stendesi su pe'l dorso e per l'addome,
    Questo cuoio abborrito in un momento;
    Pendono a terra ambo le mani, e ognuna
    In un zoccolo vil si chiude e aduna.

      Credo sognar, cerco fuggir, me stesso
    Fuggir che ognun, segno d'obbrobrio, addita;
    Ma batter sento in suon quadruplo e spesso
    Sul percorso terren l'ugna abborrita.
    Sorge il sole, e dinanzi, a fianco, appresso,
    L'ombra fatal veggio al mio corpo unita;
    Rizzar mi vo', ma star dritto non vaglio;
    Vo' domandar soccorso, e metto un raglio.—

      Tacque, e poi che più fiera al fiero caso
    L'affamata canaglia urla e s'avventa,
    Da superbo furor l'animo invaso:
    —Vil turba, esclama, or le mie carni addenta!—
    Nè briciolo di lui saría rimaso,
    Se l'opra del Demonio era più lenta;
    Ei la turba contiene, e la captiva
    Bestia discioglie, e vuol che soffra e viva.

      —Viva, egli dice; e dal suo tristo esempio
    Quindi a far senno ogni francese impari;
    Oh! se ognun dei suoi duci, o inetto od empio,
    Forma assumer dovesse a costui pari,
    De la patria non più traffico e scempio
    Farían, come finor, volpi e somari;
    Che tosto ognun conoscería le vecchie
    Golpi a la coda e gli asini a l'orecchie.—

      Sorse un grido in quel punto. Il popol forte,
    Da l'armi oppresso e da la fame infranto,
    Schiude al superbo vincitor le porte,
    Che a quest'orrido aspira ultimo vanto.
    Egli entra, ei passa: è suo trofeo la morte,
    Suo cibo il sangue, sua letizia il pianto;
    Piega il ginocchio, e, crudelmente pio,
    Chiama a le stragi sue complice Iddio.

      Fan monti i morti; a rivi, a fiumi ondeggia
    Per le rigide vie torbido il sangue;
    Qui crolla un tempio, una magion fiammeggia,
    Là un incendio che sorge, uno che langue;
    Là un ebbro vil, che a lo straniero inneggia,
    Qui un eroe che ancor pugna, e cade esangue;
    Ed armi infrante e sparse membra ed adri
    Globi di fumo ed ulular di madri.

      Ahi sventura, ahi dolor! Stupido e folle
    La polve degli eroi Teuta calpesta:
    E sul terreno ancor fumante e molle
    La fiera Idra plebea scote la testa;
    Drizzasi e fischia, e le non mai satolle
    Fauci spalanca, e l'aria intorno infesta;
    E su la fossa dei fratelli inulta
    La civile Discordia orrida esulta.

      Sorge il vil proletario, e l'empia ed adra
    Ambizïon la tôrta alma gli addenta;
    Libertà invoca, e la man ferrea e ladra
    Ne le sostanze altrui superbo avventa.
    Fa tribune le piazze, ed orna e squadra
    Fiere dottrine, e novo dritto inventa;
    E scapigliato, in truce atto di sfida,
    Snuda il pugnal, chiama le plebi, e grida:

      —Lasciate le servili opre; le glebe
    Abbandonate; il profetato giorno
    Giunto è per noi, che come abiette zebe
    Digiuni erriamo a le ricchezze intorno!
    Vendette abbia e trïonfi anche la plebe,
    Nè di sua servitù vada altri adorno;
    Non più sparga sudor, sangue ed affanni
    A crescer l'onta e ad educar tiranni!

      No, non sparga, per dio! L'antiche some
    Gittiamo alfin, leviamo al cielo il volto!
    Le terre, il tetto, il pan, l'onore, il nome,
    Tutto i vili patrizi hanno a noi tolto!
    Ci hanno emunte le vene; infrante e dome
    Le virtù, stôrto il senno, il cor sepolto,
    Fatto de le nostre ossa argine e scudo
    Al petto vil d'ogni giustizia ignudo!

      Ov'è la patria nostra? I nostri figli
    Ove son mai? Ce l'han tutti rapiti;
    L'han trascinati fra' nemici artigli,
    Carchi l'han di vergogna, e l'han traditi!
    Geme un popol fra' ceppi e fra' perigli;
    Essi spandon sui morti onte e conviti;
    E le nostre deserte, orbe contrade
    L'orgoglioso stranier devasta e invade!

      Oh! sia fine a l'obbrobrio! Alta vendetta,
    Anzi onor di giustizia il tempo chiede;
    Tale un'opra da noi la patria aspetta,
    Che le dia ferma in avvenir la sede.
    Cada il patrizio altèr; cada interdetta
    L'aurea fortuna, ond'ei si tien l'erede;
    E, partiti ugualmente i censi avari,
    Con noi soffra o s'allieti, e a noi sia pari!

      —Pari sian tutti a noi! Con legge uguale
    Il benefico Sol dispensa a tutti
    Il vivifico suo raggio, ed uguale
    Splende, sì come il Sol, l'anima in tutti.
    Tal sia la legge e la giustizia! Uguale
    A tutti ognuno, e uguale a ognun sian tutti;
    Tutti un nome, un pensier, tutti un'insegna:
    Il popol Dio, che a Dio somiglia, e regna!—

      Tal parla; e come al boreäl flagello
    Mugghian negre le nubi, e il mar si sfrena,
    A l'audaci promesse, al parlar fello
    Freme la turba, ed urla, e si scatena;
    Dà piglio a l'armi; al vero, al giusto, al bello
    Guerra incomincia inesorata e piena:
    Quel che a l'ira fuggì de l'armi infeste,
    Cieca nel suo furor, travolge e investe.

      Com'è colui, che, d'improvviso ossesso
    Da bieca furia de la mente insana,
    La man, vana in altrui, volge in sè stesso,
    E le proprie sue carni adugna e sbrana;
    Il superbo così popolo oppresso,
    Poi che su l'oppressor l'ira fu vana,
    Ebbro d'odio feroce e di dispetto,
    L'armi ritorce de la patria al petto;

      E così ne la strage infuria, e immerge
    Nel delitto così l'anima prava,
    Che le macchie del sangue il sangue asterge,
    E l'uno error l'altro disperde e lava:
    Tutto vorría quanto risplende e s'erge
    Spegnere ed adeguar la turba ignava;.
    E d'ogni mal, d'ogni miseria in fondo
    La patria seppellir, la Francia, il mondo.

      O dal tempo e da l'armi invïolate
    Moli, d'invidie oggetto e di stupori,
    Ove accolser le industri Arti onorate
    Tante illustri memorie e tanti allori,
    O tempî de l'uman genio, crollate,
    Date campo di stragi ai vincitori;
    Già su voi la fraterna ira si sferra:
    Titani, eroi, numi de l'arte, a terra,

      A terra tutti! A la possente e nova
    Aura di libertà, che altera incede,
    Tremi dal trono suo Fidia e Canova,
    E s'umilî del gran popolo al piede!
    Al gran popol la molle arte non giova;
    All'oro, al sangue, e non all'arte ei crede;
    Degna luce per lui, ch'ai numi è pari,
    Gl'incendî son, son le rovine altari!

      Tu, colonna fatal, ch'ergi l'altera
    Testa agli astri e co'l piè Francia calpesti,
    E di rampogna tacita e severa
    Le loquaci dei vivi alme funesti,
    Crolla tu pur, bronzea colonna, e fiera
    Su le rovine tue Francia si desti,
    Si desti alfin; scoperchi i freddi avelli,
    Schiaffeggi i padri, e il nome lor cancelli!

      Ecco gli eroi. D'intorno a quel gigante
    Trofeo di gloria, per lo piano immenso,
    Vario di cor, di lingua e di sembiante,
    Corre, brulica, ondeggia il popol denso.
    Già s'alza a l'aura il vessil trïonfante
    Tinto nel sangue e negl'incendî accenso;
    E a tal segno di strage e di vendetta
    S'allieta il volgo, e il fatal crollo aspetta.

      Sta superba frattanto e indifferente
    La colonna regal, pur come suole,
    E del purpureo suo raggio occidente
    Tranquillamente la saluta il sole.
    Tranquillo a par sorge il Guerrier possente,
    Che l'altera sovrasta inclita mole;
    E di ghirlande glorïose onuste
    Spandon l'ale tuttor l'aquile auguste.

      S'ode un bisbiglio; al fiero assalto muovono
    Gli ardui congegni; al ciel stridono; imbianca
    Ogni volto; tentenna in su l'aërea
    Reggia il Guerrier, piega da destra a manca;
    Piega, balena; con fragor terribile,
    Che il cielo assorda, ed ogni cor disfranca,
    Cade, non già, ma su la rea canaglia,
    Stanco di più soffrir, scende e si scaglia.

      Trema la turba, e come avesse al dorso
    De l'incalzante eroe l'ira e la spada,
    Urla fuggendo, e l'ali impenna al corso,
    E l'uno, avvien, che a l'altro inciampi e cada.
    Frenate, o prodi, a la paura il mòrso;
    Volgi la faccia, o terribil masnada;
    O Erostrati, o tribuni, o genti indôme,
    Non è un uom, che v'insegue, è solo un nome!

      L'uom dei fati è colà: disteso, avvolto
    Di negra polve, nel deserto piano
    Poco ingombra di terra, e gli occhi e il volto
    Vinti ha nel bronzo, e inerte è la sua mano.
    T'accosta a lui; vittorïoso e folto
    Corri a l'insulto, o gran popol sovrano;
    E dir possa ciascun, se tanto egli osi:
    Su'l fronte a Bonaparte il piede io posi!

      Soli a l'oltraggio non sarete! Esulta
    Dai vigilati balüardi il fiero
    Nemico, e applaude a l'opra vostra, e insulta
    A la caduta del fatal Guerriero.
    Da la polve di Iena, or non più inulta,
    Balza un popol di scheltri orrido e nero;
    E su l'immago de l'eroe nemico
    Poggia l'Ombra regal di Federico.

      Sorge orgogliosa, e il ciel torbida e grande
    Prende co'l capo, e al negro aere torreggia,
    E le rotte al suo piè bronzee ghirlande
    Conculca, e dai profondi occhi fiammeggia.
    —Ch'io vi cancelli, esclama, orme esecrande
    De la vergogna mia; ch'io più non veggia
    Vôlti in trofei, cangiati in monumenti
    Questi bronzi rapiti a le mie genti!—

      Dicea, quando pe'l ciel rigido e scuro
    Un sinistro baglior sorge e risplende,
    E un piceo fumo, un odor crasso e impuro
    Gli occhi travaglia, ed il respiro offende.
    Ahi! qual cagion, qual destino empio e duro
    Di nuova rabbia i franchi petti accende?
    Tra le fiamme sepolta e la rovina
    De la Senna cadrà l'alma regina?

      Torna il dì. Sola sola, incerta, oscura,
    D'un rosso nastro il crin sozzo costretto,
    Le vie trascorre una strana figura,
    Guardinga agli atti, agli sguardi, a l'aspetto;
    Muta, veloce rasenta le mura;
    La destra invola furtiva nel petto;
    Sogghigna, ammicca la strada romita,
    Fermasi, brontola, fugge, è sparita.

      Ma dietro ai suoi passi, trascorsa appena,
    Un suono scoppia di grida e di pianto;
    Fra dense nubi l'incendio balena,
    Stride, si spande da questo a quel canto;
    Essa a la danza gli stinchi dimena,
    Cionca co'l lurido suo drudo intanto,
    Con pazzo volto, con gioia feroce,
    Salta, e lingueggia con stridula voce.

      Vide le fiamme e l'ultimo periglio
    Lucifero e l'orrende ire e il gran lutto,
    E, lo sdegno nel petto e il pianto al ciglio,
    Fuor dei lidi infelici erasi addutto.
    Qual uom che muova a volontario esiglio
    Di fieri casi e di giust'ira istrutto,
    Tal ei si parte, e la diletta e grama
    Terra saluta, e dolorando esclama:

      —Dove ti cercherò, se qui non sei,
    O intemerata e splendida
    Reggia dei sogni miei?
    Luminosa Ragion ch'ardi e ravvivi
    Ogni terrena cosa,
    Se qui non regni, in qual region tu vivi?
    Pur io da l'abborrite ombre ho veduta
    La maestà dei tuoi passi e la luce,
    Che dai vigili, acuti occhi tu spandi
    Sovra il mar dei destini; io l'amorosa
    Voce ascoltai, che l'anime riduce
    Agli amplessi del Vero, io la solenne
    Voce di libertà, che a voli arditi
    Del pensiero de l'uom sferra le penne.

      Di tenebrosi troni e di ferrati
    Gioghi e di fronti umilïate e vili
    Lieta non vai, bella non vai di fiori,
    Che di pallidi servi il pianto edùca;
    Nè tuo serto è il terrore. Inclita e ferma
    Tu ne l'alme ti assidi, e l'alme e i fati
    Previdente governi. Ardon nei tuoi
    Limpidissimi sguardi
    Quante spemi ha il futuro, e quanti ha raggi
    L'onnipossente libertà, ch'è dono
    Tuo primo e non caduca
    Gloria di umani e tua miglior parola.

    Tu di sensi gagliardi
    Le umane alme alimenti,
    E sè stesse a sè stesse insegni e sveli,
    Perchè libere alfin corran le genti
    A la vittoria di più fidi cieli.

      È sogno il mio? M'illude,
    Vôto fantasma, il desiderio, e fingo
    Larve di spirto ignude?
    Dai ciechi abissi invano
    A combatter con Dio l'ultima pugna
    Sorse il mio spirto? Ombra incompresa, ignota
    Correrò questi lidi, infin ch'io piombi,
    Fulminato Titano,
    A divorar ne l'ombre il mio dolore?
    Ne l'ombre io tornerò? Quest'infinita
    Luce, che il mio pensier valica e pasce,
    Questo perpetuo fluttuär di cose,
    Quest' impeto di vita
    Non son mio regno e vita mia? Non sono
    Consorti mie le mobili
    Genti, cui la vital morte rinnova,
    Come opportuna piova,
    Ch'apre la terra, e svolge
    La ritrosa virtù del germe inerte?
    E tu, tu che le incerte
    Nubi diradi, ed ogni ben mi sveli,
    Santa Ragion, tu indarno
    Entro al petto de l'uom levi il tuo trono?
    O forse ai regni tuoi,
    Diva maggior, presiede
    La tiranna Natura,
    O, sconsigliato e inutile
    Poter, che ne le ignare anime hai sede,
    Fuor che altere lusinghe, altro non puoi?

      Che dissi? Il dubbio indegno
    Sperdano i venti, e il mar vorace inghiotta!
    Qui sei, qui regni: io sento,
    Unica dea, la tua presenza in questa
    Splendida reggia degli umani affanni.
    La terra è tua; su' simulacri infranti
    Di sbugiardati iddii sorge la possa
    Dei regni tuoi: da fiere alme son còlte
    Le tue leggi inconcusse, e fermi e santi
    Di perenni olocausti ardon gli altari,
    Che cementan co'l sangue i figli tuoi!
    O generosi, o cari
    Apostoli, o gagliarde ostie ed eroi,
    Voi non cadeste indarno! Ecco, su queste
    Ingombrate di stragi inclite rive
    La nova alba diffondesi
    D'una sorgente età; spiran le meste
    Genti educate dal dolor le vive

    Aure di libertà; vigili e pronte,
    Di fieri casi esperte,
    Al sorriso del Vero ergon la fronte;
    E dal sangue fraterno, onde coverte
    Son queste piagge illustri,
    Coronata di lauri e di baleni
    Tu balzi, o dea; chiami la Pace, e vieni!—

CANTO NONO.

ARGOMENTO.

Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell'incendio di Parigi.—Pettegolezzi divini.—Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; che perde improvvisamente la ragione.—-Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l'America.—Apostrofa alla Spagna.—Arriva nel nuovo mondo.—Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni.—S'interna in una foresta, di cui si fa la descrizione, e conversa con una scimmia, che pretende esser sorella del genere umano.

      Con quest'alte speranze e queste cure
    Si partiva l'Eroe, mentre più vasto
    Per la rigida notte infurïava,
    Turbinando, l'incendio. Arder parea
    La terra intorno, e correr sangue i fiumi,
    E, ad ingoiar tant'ira e tanti affanni,
    Come abisso di morte, aprirsi il cielo.
      Sentîr le fiamme inaspettate e il lezzo
    Dei feroci olocausti, e balzâr tutti
    Fuor del sonno i Celesti, a quella guisa
    Che sbucan da le pingui arnie ronzando
    Le pecchie industri, allor che il dispettoso
    Villan, che con obliquo animo guarda
    Al prospero vicin, l'aride ammucchia
    Secce del campo, e presso agli alveari
    Gitta la fiamma e, pago il cor, s'invola.
    Sorser così l'alme beate, e primo
    Al veroni del ciel, trepido, ansante
    Di recidiva voluttà, la via
    S'aprì quel di Gusmano, un tra' più forti
    Zelatori del Cristo, e:—Li han bruciati,
    Li han bruciati? dicea; son tutti rei,
    Tutti eretici son; di roghi ha d'uopo,
    Sol di roghi la terra!—
                            —Ah! ch'io li veggia,
    Gridava dietro a lui, feroce in vista
    Il terror di Toledo; e con aperte
    Nari spirava quella crassa, impura
    Mefite, che a le fiamme orride mista
    Gli astri avvolve di fumo e ammorba il cielo;
    Ch'io li veggia morir; ch'io l'odor beva
    De le ree carni abbrustolate, ascolti
    Il rantolo supremo, e sperda a' venti
    Con questa man la polvere esecrata!—
    Sporge in tal dir la gialla testa, in cui
    Pochi, duri quai chiodi alzansi i crini;
    Schizza sangue dai tondi occhi; le adunche
    Scarne man vibra come artigli, e, tutto
    Tremito i polsi, la sanguinea bocca,
    D'un lungo, giallo e mobil dente armata,
    Fra la bava spalanca, e rauchi e fieri
    Urli interrotti da le fauci avventa.
    A l'aspetto feroce inorriditi
    Portan gl'innocui serafini al volto
    Le miti ali e le palme; e solo allora
    Che sentîro il clamor de le sorgenti
    Dive, si diêro a sogguardar furtivi
    Fra le dita e le penne. In simiglianza
    Di pingui anatre, allor che da l'erbosa
    Riva, ov'ebber più tempo ombre e pastura,
    Al subito apparir d'un orgoglioso
    Cigno, di laghi imperator, si danno
    Clamorose a fuggir; sbatton le brevi
    Ali pe'l lido, e tra le canne e i giunchi
    Del padule vicin tuffansi in frotta;
    Folte così, così confuse e punte
    D'improvviso timor sorser le dive
    Da le tiepide piume; e, tutta a un'ora
    La rigida modestia e il curïoso
    Sguardo dei circostanti angeli e il loco
    Dimenticando, fuor dai nivei pepli
    Libere consentían le rosee forme,
    Che, fresche, acerbe e roride sì come
    Pesche soavi che l'aurora imperla,
    Inducean le celesti anime a un senso
    D'indefinita voluttà. Le vide
    Da l'antico suo seggio il profetante
    Re di Sïonne, e abbandonata al piede
    Caddegli la vocale arpa; nel petto
    Fiammeggiò tutto; e già fuor dagli avari
    Occhi e fuor da le labbra avide il senno
    Senz'altro gli fuggía, se non che a tempo
    Sopravvenne il divin Padre, e d'un cenno
    Le impronte ansie ammorzò. Pensoso e stanco,
    Di sotto il braccio egli venía soffolto
    Da la diva Teresa: una vegliarda
    D'Àvila, ossessa da Gesù, che al vano
    Piacer, che le vulgari anime adesca,
    L'involò tempestivo; ond'ella, esperta
    Del futil gioco de la rea fortuna,
    Al suo divo amator l'alma concesse.
    Or fra gli astri ha dimora, e sacro in terra
    È il nome suo. Ringiovanita e bella,
    In pregio de le sacre estasi, al Nume
    Dilettissima vive, e a lui sorregge,
    Antigone pietosa, il passo infermo.
      A l'appressar del Dio, taciti arretransi
    I minori Celesti, e in duo partita
    S'apre la folla riverente. Un aureo,
    Morbido seggio ivi s'ergea: stupenda
    Opera di ricamo, in cui la diva
    Lucia, maestra d'ingegnosi uncini,
    Esercitata avea tutta ad un tempo
    L'ammirabil perizia. A lei ministre
    Furon le vigilanti ore, e compagna
    La rigida pazienza; e non di perle,
    O di rari smeraldi e di rubini
    La cara opra abbellì, ma, tutti presi
    I riposti, ozïosi astri dal fondo
    Dei forzieri di Dio, gl'infilzò a un refe
    Adamantino, e al divin seggio intorno
    Con sottile d'acciaro ago l'infisse.
    Ivi il Nume si asside; il formidabile
    Sopracciglio fatal tre volte inchina,
    Scote tre volte l'ambrosia canizie,
    Serra il valido pugno; e al cenno usato
    Svegliasi da le sante arpe il concento
    Dei melodici salmi. Apresi il varco
    Tra' folti angeli allor la previdente
    Brigida, e tutta rigorosa, in vista
    Di profetessa, al vecchio Iddio d'innanzi
    Piantasi; e il fren già già scioglie al facondo
    Favellar, che Gesù destale in core,
    Quando il buon Dio con subita rampogna;
    —Brigida, figlia mia, le dice, smetti
    Per carità l'antifona noiosa:
    La san perfino i paperi: i soldati,
    Che legaron Gesù, fûr centocinque;
    Gli sputi, ch'ebbe su la santa faccia,
    Novantadue; le prezïose stille
    Del sangue, che sul Golgota egli sparse.
    Due milïoni; centomila gocce
    Di sudor; cinque piaghe, oltre la sesta
    Rivelata al dottor di Chiaravalle…
    Ma, per pietà, finiscila una volta
    Quest'insulsa scilòma!—
                            Indispettissi
    A tal parlar la vergine Maria,
    E con umile sguardo e cor severo:
    —Padre, figlio, esclamò, suocero, sposo,
    In verità questo parlar non parmi
    Degno di voi! Che! non vi par ben fatto,
    Che si onori mio figlio?
                            —E figlio nostro!
    Battendo l'ali e pipilando, aggiunse
    Il Colombo divin; Brigida a dritto
    Lo ricorda ai beati!—
                          —Aüf! rispose,
    Sorgendo a un tratto il bilïoso Iddio;
    Io non ne posso più di questo eterno
    Bisticciar fra di noi! Non son padrone
    D'aprir la bocca e darle fiato! Questa
    Divinità, che non è tre nè uno,
    Mi comincia a dar noia: un giorno o l'altro
    Me ne sbarazzo! I dii stan bene in caffo,
    E tre son troppi!—
                       Ammutoliron tutti
    A l'acerba parola. Allor lo sguardo
    Gittò il Dio su la terra; e poi che, a schermo
    Del raggio dei vicini astri, la mano
    Tremula pose tra la fronte e il ciglio,
    E affisò lungamente, un sospir trasse
    Dal cor profondo, e, in tuon grave e solenne:
    —Quello, disse, è un incendio!—
                                     Al suon temuto
    De la voce di Dio restâro immoti
    Gl'immoti astri, ondeggiâr l'aure ondeggianti,
    E, pago il cor del rivelato enimma,
    Tornò ciascuno a le celesti alcove.
    Non però torna il re dei Numi, o al sonno
    Crede le membra, abbenchè lasse: in parte
    La più remota ei si ritragge, e seco
    Vien la scorta sua fida. In sui ginocchi
    Questa gli s'adagiò; tutto gli prese
    Fra le morbide mani il capo augusto,
    E il baciucchiò teneramente. Assòrto
    In un triste pensier nulla ei sentía
    La dolcezza dei baci; ond'ella in fronte
    Li astuti gli figgendo occhi d'amore:
      —Caro babbo, dicea, s'è ver ch'io leggo
    Nel tuo pensier, mesto sei tu. Pensoso
    E tacito così, mai non mi fosti
    Da parecchia stagion. Ti vien vaghezza
    Di sparger di novelli astri la faccia
    Dei firmamenti? Ebben, parla: al tuo detto
    Sorgeran soli e mondi. Arde i tuoi sdegni
    La superbia de l'uom? Fulmina: è tua
    L'eternità!—
                 Sorrise amaramente,
    Scrollando il capo, il divin Padre, e,—Acerbi
    Fatti, rispose, al mio pensier tu chiami,
    E quasi punta di crudel sarcasmo
    Tu ferisci il mio cor. Di sogni in sogni,
    Credula come sei, porta la fede
    La semplicetta anima tua; veleggi
    I cari regni de l'amor, nè sai
    Quanto abisso di morte e di dolore
    Sotto a questi vegghianti astri si celi!—
    Punse tal favellar l'orgogliosetta
    Alma di lei, che tutti aperti e chiari
    I misteri del ciel correr presume,
    E, di vivo rossor la guancia accesa:
      —E che dunque, esclamò, questa mi vale
    Presenza tua, se al guardo mio si asconde
    Parte alcuna del ver? Veggente e diva
    Sol di nome son io, quando sostieni,
    Che, di tenace error l'anima avvinta,
    Qui in ciel, quasi mortal femmina, io viva!—
    E a lei con dolce, carezzevol piglio,
    Palpando il collo flessuöso e il crine
    Rispondeva il buon Dio:—Già da gran tempo
    Io'l so, ch'ésca tu sei! Docile e buona
    Finchè si va a' tuoi versi, e ti si corre
    Dietro senza neppur farti uno zitto;
    S'apre bocca? si fiata? Ecco, senz'altro
    Tu mi prendi una bizza! Ah! ma la colpa
    È tutta mia! T'ho ridonato il riso
    Di giovinezza; il cor t'ho schiuso a' facili
    Vaneggiamenti d'un celeste affetto,
    Tutti inutili doni! Altro or tu chiedi
    Del mio paterno amor non dubbio segno?
    Legger vuoi nel destino? Ebben, mi ascolta!—
      Smesse il labbrino, e radïò d'un riso
    La bellissima santa, e, poste al seno
    Con garbo puëril le braccia in croce,
    Si guardò, s'assettò, scosse la bruna
    Testa, a svïar dal fronte piccioletto
    La crespa ed odorata onda del crine,
    E tutta ne l'udir l'anima accolse.
    —Non sorrider così, cominciò il Nume
    Con sospirosa voce; occulta, orrenda
    Cosa io dirò, tal che nessun finora
    Ascoltò dei Celesti. Ah! s'altri fosse
    Di tal secreto e dei miei casi a parte,
    Rubellarsi vedresti al regno mio
    Le angeliche sostanze, e qual notturno
    Spirto d'inutil sogno irne in dileguo
    La mia superba autorità. Se dunque
    Di tanta confidenza oggi t'eleggo
    Secretaria e custode, e tu ten mostra
    Degna co'l seppellirla entro al tuo petto.—
    Co'l tenue capo d'assentir fe' cenno
    La santa giovinetta, e portò al core
    La man picciola e bianca. Il guardo in giro
    Mosse il canuto Iddio; piegò la bocca
    Su l'orecchio di lei; la man distesa
    Fra la bocca e l'infida aria interpose,
    E mormorò:—Nulla son io, non sono
    Che un forte e secolare incubo, imposto
    Da la paura al sonnecchioso Adamo!
    Guai se si sveglia, guai!—
                               Balzò a tal detto,
    Come da subitano estro compunta,
    La dea, che bruno e inanellato ha il crine,
    E pallida, stupita, senza voce,
    Senza moto restò, tal che scolpita
    Immagine parea. Sciolse ad un tratto
    Al pianto insieme e a la parola il freno,
    E, battendosi il petto:—Ah! disse, è vero,
    Che Dio mi parla? E non è sogno il mio?
    Iddio tu sei? Desta e in me stessa io sono?
    O tremenda parola, ahi! s'è pur vero,
    Che udita io t'ho, che nel mio cor t'accolgo,
    Tosto in fiamma ti cangia, e questa mia
    Vuota sostanza incenerisci e annienta!—
    Poi riprendea:—Tu non sei Dio? Non sono
    Opera di tua man questi diffusi
    Mari di luce e questo ciel?—
                                 Tal suona
    La fama, è ver; ma in verità, te'l dico:
    Assai prima ch'io fossi erano i cieli.—
    —Ma la terra, ma l'uom?—
                              —Tu accenni al loco
    Del nascer mio: l'uom, già mio servo, è fatto
    Di Lucifero alunno!—
                         —E a che dormenti
    Lasci i fulmini tuoi? Già nel terrore
    Terra e cielo avvolgeano.—
                               —Ha tal d'acciaro
    Il pensiero de l'uom scudo ed usbergo,
    Che le saette mie sfida e dispregia!
    Ahimè! vicino ai regni miei già miro
    Torbidi sovrastar gli ultimi soli!
    Già tapina esular di terra in terra
    Veggio tra le fugate ombre la Fede;
    Con flagello di foco insta, ed incalza
    Lucifero; lo scherno odo e il sogghigno
    De l'incredule genti; e s'io qui resto
    D'ozî vulgari e di silenzio avvolto,
    Qui tra poco vedrem superbo e forte
    Sorger sovra il mio trono il mio rivale!

      Tal parla Iddio, mentre a la pia fanciulla,
    Fra il disinganno incerta e la paura
    L'anima balza, e si scompiglia il senno.
    Tutta a un punto scomposta il volto e 'l crine
    Rompe in subite risa; il lembo estremo
    De le candide vesti in su la bella
    Testa rivolge, e così a mezzo ignuda,
    Una strana canzon canterellando,
    Per la reggia del ciel sgambetta, e ride.
      Molte fiate tornò limpido e lieto
    Su la terra il mattin; molti su' fiori
    Versò brine dal grembo e rai dal crine
    La bellissima Aurora; e chiuso intanto
    Entro al mondo de' suoi splendidi sogni
    L'alto oceán Lucifero trapassa.
    Poi ch'a la rea città volse le spalle,
    Non d'Albïon la tetra aere, o le cupe
    Arti cercò, per cui rigida e avvinta
    Nei suoi ferrei statuti il mar governa;
    Ma a voi, genti d'Iberia, a voi, gagliarde
    Stirpi, a l'onor di libertà ridéste,
    Dal magnanimo cor volse un saluto.
    —Voi felici, esclamò, quando su'l dorso
    D'un ignifero pin credeasi ai flutti,
    Voi più volte felici, ove, le impronte
    Ire dimesse e le civili erinni,
    Tutte verrete a far corona e scudo
    Al sabaudo monarca! Ai suoi governi
    Arti oblique e malfide armi, riparo
    Di trepidi tiranni e d'alme imbelli,
    Ei non invoca, anzi dispregia. Illustre
    Germe di prodi, e prode anch'ei, la spada
    Sovra il capo degli empî alza, e al consiglio
    Di sola Libertà l'anima assente;
    E, in bionda età senno canuto, alteri
    Ai sovrani del mondo esempi insegna.
    Oh! a lui, prodi, accorrete! A lui, se tanto
    Dagl'iberici petti anco si cura
    Libertà con giustizia, a lui d'intorno
    Serratevi, e del cor, più che del braccio,
    Custodite il suo trono! Ira di avverse
    Parti, d'invidia alimentate e d'oro,
    Romperà allor contro al suo piè, qual foga
    Di torbidi torrenti ad ardua rupe;
    Da le rive del Tebro, auspice amica,
    Sorriderà l'itala donna al raggio
    Del fraterno vessillo; e su la sponda
    De l'orgoglioso Manzanàr la diva
    Libertà, le robuste ali raccolte,
    Gioirà l'ombra dei sabaudi allori!—

    Così mescendo vaticinî e voti,
    Varca i mari d'Atlante, ospiti al gregge
    Degli ondivaghi mostri e a l'improvviso
    Da l'uom domato imperversar dei nembi;
    E tu, assiso a la prora, in simiglianza
    Di grandissima fiamma eri, o Colombo.
    Fuggon sconfitte al tuo cenno le ruote
    Dei fiammanti uragani; urlano al vento
    I segati cicloni, e nei profondi
    Baratri incatenate, a l'uom che passa
    Le procelle del mar piegano il dorso.
      Salvete, inclite rive; e tu, gagliarda
    Libertà, salve! O sia, che de l'aeree
    Ande selvose ami la vetta, asilo
    Del superbo condoro; o che ti piaccia
    Spazïar le insegnate acque, o fra l'ombre
    Di vergini foreste errar su'l dorso
    Del corrente giaguaro, il cui ruggito
    Quando sorge o tramonta, il Sol saluta;
    Grande ognor, se dal doppio istmo le schive
    Genti nei socïali ordini aduni;
    Grande, se per deserti orridi il grido
    Al perpetuo ulular mesci dei venti,
    O più t'aggrada perigliarti al balzo
    Di sonanti cascate, e dar concento
    Di selvagge parole ai boschi e al cielo.
    Tu nei golfi insüeti il pino ibero
    Primamente accoglievi, e le ritrose
    Stirpi, di vesti e d'ogni culto ignude,
    Con lungo studio riducevi al rito
    De' giapetici imperi. Onde fu visto
    Spezzar lo strale e abbandonar le selve
    Il fierissimo Pampa; e giù dai monti
    De l'indomo Uraguai scender l'imberbe
    Nomade che il color d'ambra ha nel volto;
    E, al corpulento Patagòn commisto,
    Dal profondo Orenòco erger l'ignude
    Membra pasciute di schifose argille
    Lo stupido Ottomàco, e sentir l'uopo,
    Tua mercè sola, del civil convegno.
      Per le vaste città, fra' popolosi
    Commerci, a respirar l'aure vitali
    Di quei giovani climi, al mondo ignoto,
    Lucifero s'avvolse, ed aureo raggio
    D'alte speranze e virtù nuova attinse.
      Un dì per le sonore ombre movea
    D'un'intatta foresta. Invïolate
    Da umana scure, indocili al veggente
    Raggio del Sol, gelosamente intesti
    Tendon le secolari arbori i rami,
    Ove di tutte sue virtù ad un tempo
    Le sconosciute pompe Iside spiega.
    Come in tempio infinito, ivi si aggira
    La divina matrigna, e tutta appella
    Sotto agli sguardi suoi dai varî climi
    La numerosa vegetal famiglia,
    La qual, superba de la dea presente,
    Rigogliosa e gigante occupa il cielo.
    Giovinetta immortal, sotto a' suoi passi
    Balza la bella Primavera, e, stretta
    Con insolito amplesso al fresco Autunno,
    Tempra l'aure vitali; e quando i rami
    Di mai veduti fior l'una inghirlanda,
    L'altro, furtivo sorridendo ai fiori,
    Con selvatica man gli arbori impoma.
    Con temperie diversa al loco istesso
    L'arborea felce ivi tu ammiri accanto
    Al rigido lichene; a' molli orezzi
    Dei vitali palmîzi, a l'odorate
    Del profetico cedro ombre ospitali
    Svolgon le foglie flessuöse e snelle
    Le giganti gramigne, e sempre verdi
    Spiega l'artico musco i suoi tappeti.
    Qui l'indico banano apre le braccia
    Provvide indarno di nettaree frutta;
    Qui, impervio ancora al trafficante avaro
    D'ingrati climi e da ogni ferro intatto,
    Serba il purpureo sandalo odorato
    Le rosee tinte e la gentil fragranza;
    Qui, stupendo a saper, quella s'innalza
    Pianta ingrata e vulgar, se tu la miri
    Da le rocce infeconde erger la scarsa
    Chioma e scovrir le povere radici
    Fuor del sasso natío, mentre co' rami
    D'ogni ombra avari si trastulla il vento;
    Ma egregia pianta e prezïosa, allora
    Che al nascente mattin, fuor dagli aperti
    Libri deriva, e versa intorno un'onda
    Di balsamico latte. A lei, se tanto
    Gli è propizio il suo dio, ch'indi la scopra,
    Corre il nomade adusto, e leva un grido
    D'insolita letizia; trafelanti
    I figliuoletti accorrono, e, d'attorno
    Tripudïando al caro arbore, il labbro
    Danno al buon cibo, e a tutta gioia il core.
    E ove te lascio, o provvido e pietoso
    Abitator di torride contrade
    Stupendo arbor del cocco? Al ciel tu sorgi
    Dirittamente come palma, e vinci
    Pur la palma in virtù, ben che a lei pari
    Sovra l'ispido tronco, a mo' di piume
    D'orgoglioso pavon, spieghi le foglie.
    Tu al dipinto Indïan, che nulla ha cura
    Di curvi aratri e di lanosi armenti,
    Non pure offri spontaneo asilo e cibo,
    Ma, docil fatto ad ogni suo bisogno,
    Di schietta acqua e di pan candido e dolce
    E di liquido latte e di vin puro
    E di vesti e di case e d'ogni adatto
    Utensile il provvedi; ond'ei, null'altro
    Studio avendo e ricchezza, a l'ombra amena
    Dei rami tuoi beato i dì produce.

      Ma chi tutta diría la pompa e i mostri
    Di quei vergini climi? Ivi l'irsuto
    Cacto grandeggia, come cereo immane;
    Ivi a quella di Pesto emula ignota
    L'odorato e gentil calice innostra
    Di Belvèria la rosa; ivi quanti hanno
    Onoranza e virtù di prezïosi
    Medici succhi, o nominanza orrenda
    Di fulminei veleni, indifferente,
    O sien radici o fiori, Iside spiega.
      Passa l'Eroe solo e pensoso. Ingombri
    D'intrecciate vainiglie e di lïane
    Lunghissime a le chete aure pendenti
    Sovr'esso al capo suo chiudonsi i rami,
    E or di cupole in guisa, or di cortine,
    Or di fioriti padiglioni e d'archi,
    Lussureggian di aspetti e di colori
    Al queto occhio di lui. Di strane voci
    E di strilli e di fischi e di pispigli
    Suonan l'aure d'intorno; odi a la lunga
    Romoreggiar di vaste acque, e tra' rami
    Frusciar d'ale infinito; e, a far più viva
    Quella solenne immensità, vaganti
    Stormi, non sai se d'animate gemme,
    O di fiori volanti, o ver di augelli,
    Tra le foglie s'inseguono, o procaci
    S'arrampican sui tronchi, e rauco e chioccio
    Stupidamente al ciel mandano il grido.

      Sente il superbo Vïator quell'ampia
    Solitudin di cose; e al tanto aspetto
    De l'eterna rival l'animo esalta,
    Come rubusto ed animoso atleta,
    Che pronto e fiero in sul diviso aringo
    L'avversario mirando a lui di fronte
    Qual fondato edificio alzar le membra
    Valide e salde e provocar l'assalto,
    Ne l'impavido cor crescer più sente
    L'anima avvezza; agli allenati fianchi
    Batte le palme; le nodose braccia
    Brandisce, e, ardente di slanciarsi il primo,
    Vibra a l'aure sonanti il pugno e il grido.
    Precorreva l'Eroe gli anni; ed al volo
    Di splendide speranze il cor donando
    Nuovi trïonfi del Pensier vedea
    Su l'immensa natura; e:—Verrà giorno,
    Madre altera, dicea, che queste occulte
    Tue sedi, onde ti piaci, e la selvaggia
    Verginità di questi boschi al rito
    Dei nostri aratri ubbidiran. Da queste
    Sconosciute vallèe, mutati in lievi
    A lo spiro dei venti ampii navili,
    Quest'ardui tronchi correran su' flutti;
    E rigogliose e riverite, assai
    Più di queste a te sacre are romite,
    Genti e città qui fioriranno al raggio
    Di benefiche leggi. Altero e cinto
    Di tutto ardir qui nel tuo grembo, aperto
    Da l'industre fatiche, e monti e abissi
    Sorvolerà l'uman genio; e tu, rasa
    Di ciechi orgogli, ov'or superba e ignota
    Spieghi ne l'ombre il tuo possente impero,
    Sotto auspicio miglior sorger vedrai
    L'opre e i commerci de l'Arìane genti.—
      Così dicea, gli anni veggendo, allora
    Che tra' folti cespugli, in capo al verde
    Tortuöso sentiero un gli si offerse
    Pensieroso pitèco. A un'indïana
    Canna appoggiato, a lenti passi e gravi
    Egli si avanza, a guisa d'uom che al peso
    D'un ingrato pensier l'animo inchina.
    Al rigido cipiglio, a la rugosa
    Faccia, ov'ispida e grigia al muso intorno
    Fa due siepi la barba, un lo diresti
    Anacoreta pio: tal forse apparve
    Il santo onor de l'arenosa Coma,
    Quando, schivo del mondo, a' più deserti
    Lochi a far guerra co'l dimòn si addusse,
      Visto appena l'Eroe, forte uno strillo
    Mise, e incontro balzògli, a quella forma
    Che al petto del fratel corre il fratello,
    Poi ch'oltre i monti e i mari errò lunghi anni
    Fuor del tetto paterno. Si ritrasse
    Lucifero, e al bizzarro ospite a mezzo
    Con la riversa man lo slancio ardito
    Troncò. Di subita ira egli s'accese,
    La lunga coda saettò, battè
    Rapidamente le palpebre bianche
    E i labbri sottilissimi, e in acute
    Voci proruppe:
                  —O to', non siam fratelli?
    Non siam da un padre sol tutti discesi?
    O che crede davver, che sia piovuto
    Dal paradiso, e che il signore iddio,
    Tolto il mestiere di burattinaio,
    Sia sceso in terra a prendersi la bega
    Di plasmarlo a su' immago? Ih! levi l'unto!
    Le manca proprio il sale! E che cipiglio!
    Che fumi! Si diría ch'ha il sole in tasca.
    Guardi un poco il su' cranio e questo mio,
    E poi mi sappia dir!—
                          —Molto sapiente
    E molto ameno in ver tu sei, rispose
    Lucifero, e fior fior del labbro arguto
    Un sottil sorridea riso tagliente;
    Or sì che possiam dir, che in ogni dove
    Penetra il raggio di Sofia! Ma nulla
    Meraviglia ho di ciò: molti a te pari
    Han dottrina fra noi!—
                           —Nè meraviglia
    Certo esser dee. Che! Forse a voi soltanto
    È concesso il sapere? Oh! guarda un poco,
    Che la madre natura abbia a lor soli,
    In grazia de la lor vertebra ritta,
    Nascosto fra la zazzera e gli orecchi
    D'ogni cosa il bernoccolo! Ma smetta;
    Le son borie, non più. Qui fra quest'ampie
    Solitudini nostre anche sorride
    De la Scïenza avvivatrice il raggio;
    E fratelli siam noi! Da la materna
    Asia, ad ambe le specie inclita culla,
    Venne a catechizzar le nostre genti
    Un vecchio, dotto e reverendo urango,
    Dal cui labbro eloquente a noi fu tutto,
    Dopo lunga ignoranza, il ver palese.
    Bocca d'oro ei fu detto e adamantino
    Senno. Ma poi che ad esplorar qui venne
    Non so qual'orda di dottor tedeschi,
    L'abbindolaron sì, ch'ei svelò tutta
    E distillò nei lor cervelli adusti
    La peregrina sua scïenza; ond'essi,
    Gazze vestite de le penne altrui,
    Or di tanto saper fan mostra al mondo.
    Sì; fratelli noi siamo! Ei ce l'ha detto
    Le mille volte, ed io te lo ricanto
    Per tuo dispetto su la faccia: O figlio
    Di scimmia, addio!—
                        —Per un par tuo, ragioni
    A meraviglia. Una catena immensa
    Iside ha in mano, e non avvien che mai
    Nel crear s'interrompa: ogni vivente
    Specie è un anello, ed un anel noi siamo
    De l'immensa catena, il più perfetto
    Finor, l'ultimo no. Ciò non vuol dire,
    Con buona pace del dottor gorilla,
    Che l'uom da voi discende, o ver ch'entrambi
    Han comuni le doti e il nascimento.—
    —Sissignor, vuol dir questo, appunto questo;
    La non m'esca dal rotto de la cuffia:
    Noi siam fratelli, siamo uguali, e uguali
    Dritti abbiam su la terra. O sta' a vedere,
    Che l'universo sia creato apposta
    Per far comodo a loro! Un giorno o l'altro
    Lei vedrà, mio signor gonfio di vento,
    Se noi libere scimmie incivilite
    Verrem fra loro a reclamar tal dritto!—
    —Provatevi! Ci son gabbie e catene,
    Fra cui strette per ben, sarete esposte
    A dar di voi spettacolo ai fanciulli!—
    —Lei non sa che si dica! Io le perdono,
    Perchè sono evangelico! O che crede,
    Che noi libere scimmie incivilite
    Non siam buone a far nulla? Che mi ciancia!
    Noi siam da più di loro! E le par poco
    Saltar pei rami, saccheggiar foreste,
    Gioir la voluttà per fin da soli
    Senz'aiuto d'amica? Oh! s'è pur vero
    Che il ver somiglia a l'olio e viene a galla,
    Nostro sarà il trïonfo. Io pure, io stesso
    Predicherò l'origine comune,
    L'eguaglianza dei dritti in fra le specie
    E la comune libertà! Dovessi
    Suggellar co'l mio sangue il parlar mio,
    Vuo' diventare apostolo; e, infilati
    Giubba e guanti ancor io, salir su l'alta
    Cattedra di Darvino a dar responsi!—

CANTO DECIMO.

ARGOMENTO.

Sorge la notte, e l'Eroe resta smarrito nella foresta, dove prova le sofferenze dell'umana natura.—Lotta con un giaguaro, di cui rimasto vincitore, abbandonasi al sonno.—Rivede Ebe nei sogni, e torna per poco ai dolci vaneggiamenti d'amore.—La giovinetta silenziosa si tramuta a un tratto in un orribile fantasma.—Iddio, vedendo così travagliato il suo avversario, crede agevole impresa il domarlo.—Lascia il letto, cavalca l'asino di Betlem, e scende in terra.—Trova Lucifero, e cerca da prima con superbe parole, poi con astute promesse venire a patti; ma questi tien fermo, e lo caccia da sè acerbamente.—Liberatosi indi a poco dalla foresta è ospitato dalla povera Sara.—La schiava nera e lo schiavo bianco.

    Sorge fra tanto oltre ai terreni alberghi
    Co' crepuscoli al piè la notte amica;
    E di mille colori ornati e cinti
    Le si sveglian sul capo astri e pianeti.
    Malinconica e muta ella riguarda
    Ai rei travagli de la terra, e spira
    Le brezze ai fiori, ed ai mortali il sonno.
    Salve, o splendida notte, inclita madre
    Di dolcissima quiete, o che ti piaccia
    Covrir d'ombre pietose amor furtivo,
    O svelar tutta a uman guardo l'audace
    Visïone degli astri e l'universa
    Armonia, che ne fura invido il sole.
    Da le cupe foreste, ove si aggira
    Il signor de' miei canti, io chiamo indarno
    La bellezza dei tuoi Soli e le gemme
    Dei tuo' cento diademi: a Lui non uno
    Splende dei raggi tuoi; sol dentro al petto
    Gli arde la luce de le sue speranze.
      In compagnia de' suoi fantasmi, a pena
    Ei de l'ombre s'accorse; e, vòlto il passo
    Fuor del dritto sentiero, a una deserta
    Arida balza d'ogni vita priva
    Era intanto venuto. Irte d'intorno,
    Come a guardia del loco orrido e scuro,
    Rupi e monti s'ergean squallidi a guisa
    Di biancicanti scheletri; fuggía
    L'ingrato aspetto e s'ascondea la luna
    Fra le nubi correnti, e imprigionato,
    Come chiuso leon che tenti un varco,
    Tra l'aspre rocce ruggía rauco il vento.
    Ivi l'Eroe si assise. Un'insüeta
    Punta di fame gli mordea le parche
    Viscere, e dentro al seno arido e stanco
    Una brama di vive acque e d'aperto
    Aere e di luce gli serpea. Sgomento
    Non però n'ebbe al cor; ma con superbo
    Animo accolse la terribil prova,
    Poichè gli è grato comportar travagli
    Pari a ogni altro vivente, a cui l'amica
    Forza del pane il mortal corpo allena.
    Vago di nuovi casi, occhio ei non piega
    Ad alïar di lusinghevol sonno
    Da la tacita e grave aere cadente;
    Ma nel caro pensier volge le prove
    Dei suoi buoni mortali, e traforate
    Alpi vagheggia e aperti istmi e volgenti
    Per lo seno del mar parlanti elettri.
    Su per l'aride rocce ode in quel punto
    Come un confuso affaccendarsi e rotto
    Fruscío di penne e sibilar, che agguaglia
    Suon che mandi uman labbro e noto segno
    Di cacciator, quando tra' folti grani,
    Di cui mareggia interminato il campo,
    Modula il fischio a ravvïar l'amico.
    Ma voci eran d'augelli, a cui concessa
    È una strana virtù: fischiano al vento
    Siccome uomini veri, e illudon l'alma
    Di qualche afflitto pellegrin, che, pèrso
    Ogni spirto di lena e abbandonato
    D'ogni raggio di speme e di salute,
    Su l'inospite landa il corpo gitta.
    Ben al grido fallace a mala pena
    Sul digiun ventre ei talor sorge; a l'aura
    Tutta la fuggitiva anima intende,
    E forse in quel momento al cor gli torna
    Il dolce aere natío, l'abbandonata
    Casa paterna e de la madre il pianto.
    Sorge, aspetta, ricade, si strascina
    Delirando fra' sassi; a un grido estremo
    Schiude l'aride labbra, un rauco suono
    Gli geme entro la gola; adugna e morde
    L'avara terra; e il ciel rigido intanto
    Sovra il capo di lui splende e sorride.
    Così a le disperate anime insulta
    La beffarda natura!
                        Al suon fallace
    Sorse l'Eroe, nè stette in forse.—Or tutto
    Convien, diss'ei, che il mio vigor s'adopri;
    Arida e morta è questa valle, e segno
    Di salute non ha; vadasi.—E preso
    L'aspro sentier, non pria l'orme contenne,
    Che un ampio fiume e la foresta attinse.
      Chiare e sonanti dirompeano l'acque
    Fra due tra loro opposti e coronati
    Di negra selva smisurati monti,
    Al cui piè si stendea facile e molle
    D'erbe infinite ed odorose il piano.
    Piomba il fiume da l'alto, e se tu il miri
    Biancheggiar da la lunge al cheto sguardo
    Dei radïanti plenilunî, un'ampia
    Vela il dirai, che il marinar su' negri
    Aprici scogli a rasciugar distese;
    Ma se più ti fai presso, un fragor cupo
    D'immense acque tu senti; al ciel, conversa
    In polve minutissima, tu vedi
    Balzar la ripercossa onda, e in un velo
    Confonder gli astri ed annebbiar la valle.
    Quivi l'Eroe non si appressò; ma in parte,
    Ove men cupe si schiudean le sponde,
    E avean meno di bosco ombre e paure,
    La fresca linfa disïando, scese
    Per la lubrica china; insinuössi
    Fra' canniferi greti, e ne le cave
    Palme attingendo i prezïosi umori
    Ricrëò l'arso petto; ambe ne l'onda
    Con giocondo piacer le braccia infuse,
    E battendo le pure acque, più volte
    Ne spruzzò, ristorando, il volto e il crine.
      Ma non pria lasciò l'onda, e si rïebbe
    Del cammin tanto e de l'ingrata arsura,
    Che un vicino il percosse ululo e un lungo
    Scoppio di strida e di commosse voci
    Varie, acute, incessanti. Ad improvvisi
    Urti crollavan bruscamente i rami
    De la selva vicina, e quindi e quinci
    Confusamente saltavan strillando
    Le aggredite bertucce. Il piè ritrasse
    Dal margo sdrucciolevole, e a la sponda
    Lucifero balzò; lo sguardo in giro
    Mosse esplorando: tenebroso intorno
    L'aere gemea, mentre due roggi, acuti
    Punti fendean, come infocati dardi,
    Sinistramente de la notte il seno.
    Muti muti pe'l negro aere procedono
    Or cheti e lenti, or saltellanti e rapidi;
    Or tra cespugli del sentier s'involano,
    Or più vicini e più funesti appaiono.
    Sta Lucifero intento; e, certo omai
    Che insidiosamente a lui si appressa
    Il terribil giaguaro (un'omicida
    Belva, che, a par del tigre agile e grande,
    Salta agli alberi in cima e a l'onde in seno,
    E boschi e fiumi d'ogni strage infesta)
    Tenea l'anima accorta in due sospesa:
    O che indietro si tragga e si nasconda
    Nel contiguo canneto; o su l'aperto
    Sentier l'orrida belva aspetti al passo.
    Senno miglior questo gli parve; e, tutta
    Con alato pensier l'alma percorsa
    E con subito sguardo il loco intorno,
    A la lotta si accinse. Era in quel punto
    Tra' fitti rami penetrato un fioco
    Raggio di luna. Un aspro, arduo macigno,
    Ivi a caso giacea: dai circostanti
    Gioghi a valle caduto, una regale
    Possa parea, cui da' superbi troni
    Una vendetta popolar sconfisse.
    A lui corse l'Eroe; con ambe mani
    L'afferrò, lo levò: le ferree braccia
    Sovra il capo distese; un dietro a l'altro
    Pontò i validi piedi, e tal si tenne
    L'irto mostro aspettando. Orrido un grido
    Manda la belva, e caccia fuor dagli occhi
    Sanguinosi baleni: a terra il bianco
    Ventre ingordo distende; i fulvi arruffa
    Peli del dorso, e di serpente a guisa
    Strisciando si divincola. Qual suole
    Paziente pescador, che, intento a l'amo,
    Entro a le trasparenti acque del lago
    Vede a un tratto guizzar cefalo o trota,
    Quanto più può su' nereggianti sassi
    Fermo, senza respir tiensi; l'avvezza
    Destra, che regge la pieghevol canna,
    Serra validamente, e, vista appena
    Pullular l'onda e tendersi la lenza,
    Fuor, con subita stratta, a l'aere avversa
    Trae, guizzante ne l'amo, argenteo il pesce;
    Così tutt'occhi e senza voce o moto
    L'astuto Eroe l'orrenda belva aspetta,
    Che con feroce voluttade allungasi
    Su l'erboso sentier, vibra l'accorto
    Sguardo, e sbuffa così che par che rida.
    Ma quand'ei stanco d'aspettar l'assalto
    Tentò un passo impaziente, e scagliar finse
    L'elevato macigno, urlò, ritrassesi,
    Il corpo agglomerò, sul ventre osceno
    Strisciò a ritroso il mostro irto, e qual dardo
    Si vibrò. Mugulare odi a l'intorno
    La valle ampia e tremare arbori e rupi,
    Non però il petto de l'Eroe: di tutto
    Polso ei sostien l'ampio macigno; al fiero
    Assalitor fermo l'oppone, e al petto
    Gliel dà così che lo travolge, A terra
    Piomba la belva, e non sì tosto il suolo
    Sfiora co'l dorso, che di pria più fiera
    Salta, e si avventa a più mortale assalto.
    Sangue ha negli occhi, e sanguinosa bava
    Vomita e sbuffa, e rugghia, e d'ogni verso
    Pazzamente si vibra, e senza posa
    L'Eroe tempesta, e gitta a l'aria i morsi.
    Scaglia alfin questi il sasso, e tanta è l'ira
    Smisurata del cor, che giù d'un crollo
    Rovina anch'ei su la percossa belva.
    Or più fiera è la lotta: in un sol groppo,
    Corpo a corpo avvinghiati e braccia e branche,
    Si avviluppan fra l'ombre; echeggia il cielo
    Di rauche voci e di ruggiti; a rivi
    Sgorga il sangue su l'erbe; ed essi avvinti
    Ferocemente in amplesso di morte
    Balzan, piomban, s'avvoltan, si precipitano
    Fra le spine, fra' sassi e le nemiche
    Tenebre. A l'orlo d'un burron vicino
    Vengon così. Pende sul negro abisso
    Una fitta boscaglia, a cui la foga
    Dei sonori torrenti ignude lassa
    Le nodose radici. Ivi, protette
    Dai folti rami, e dal burron difese,
    Godean sede tranquilla e secol d'oro
    Una tribù d'amene scimmie. Il fiero
    Caso le tolse agevolmente ai sonni,
    E la lotta avvisando, a salti, a strilli
    Facean pazza baldoria; e, qual con mano
    Qual con la coda attorcigliata a un ramo,
    Quale a un piè, quale ai fianchi a la vicina,
    L'une a l'altre atteneansi, e fean pendente
    Catena sui pugnanti ospiti, a cui
    Or tiravan sul capo una selvaggia
    Noce, e svelte fuggíano, or fin sul dorso
    Di lor scendeano a provocar le due
    Alme feroci a morsi, a sgraffi, a strilli.
    Non però si ristanno, o svolgon l'ira
    Color che in fiero abbracciamento avvinghiansi
    Presso al burron. Preme l'Eroe co'l dorso
    Il ciglion de la balza; a lui su'l petto
    Insta la belva: con la bronzea destra
    Ei l'abbranca a la gola; al perigliante
    Corpo con l'altra fa puntello, e attiensi
    A le dense radici. E già su'l volto
    Qual d'aperta fornace il vampo ei sente
    De le putide fauci; a caldi sprazzi
    Piovegli sui schizzanti occhi e l'acceca
    Una bava sanguigna; un rugghiar cupo
    L'assorda; e già de l'arrotate zanne
    Contro a le tempie sue crocchian le punte,
    Quando tutta con fiero urlo chiamando
    La rabbia al cor, la forza ai polsi, un lancio
    Dà su'l dorso così, che sorge a un punto
    Libero in piè, mentre da lui travolta
    Precipita la belva, e giù nel fondo
    Burron piomba rugghiando, e l'aere introna.

    Lacero e stanco il vincitor si asside
    Su le fresche erbe, appo la sponda. A rivi
    Giù per lo collo gli discorre ai fianchi
    Misto al sangue il sudor; corto e sonante
    Dal suo petto affannoso esce il respiro;
    Un cozzar di confuse opre e di cose
    Gli turbina sugli occhi e il cor gl'ingombra;
    Finchè a balzi, a sussulti, e tutto cinto
    Di bizzarre faville e ceffi strani
    Sopra gli piomba, e al suol l'avvince il sonno.
    Come nei procellosi artici mari,
    Quando aquilon più li flagella, a stormo
    L'irte dïomedèe saltan su' flutti;
    Gavazzano fra' nembi, e al mugghio orrendo
    Del travolto oceàn mescono il grido:
    Vede il nocchier fra le stridenti antenne
    Svolazzar le sinistre ali, e maligni
    Spirti le crede, e si raggriccia e agghiada;
    In simil guisa de l'Eroe dormente,
    Nel turbato pensiero orride e scure
    Venían fantasme, e gli scoteano i sonni.
    Ma come avvien ne l'incostante ottobre,
    Mentre un subito nembo apresi e versa
    Sopra a l'umile vigna acqua e gragnuola,
    Fuor da le plaghe occidental si desta
    Una provvida brezza; un chiaro e bello
    Occhio d'azzurro si dischiude in cima
    De la bruna montagna; a par di dardo
    Da l'arruffate nubi esce un diritto
    Raggio di Sol, che i sommi arbori indora;
    Brillan le foglie susurrando, e tutti
    Odoran timo e nepitella i campi;
    Tal fra' torbidi sogni una tranquilla
    Visïone d'amor tacitamente
    Sorgea ne la commossa anima, e al cheto
    Ventilar de le penne vi spandea
    Il mesto raggio d'una rosea calma.
    Come talor nei lucidi cristalli,
    Che ne stanno di contro, una diletta
    Forma veggendo, a lei con l'alma in festa
    Drittamente corriam, nulla avvisando
    La virtù del riflesso; in simil guisa
    Entro a un candido sogno avvolta e viva
    Nel pensier del dormente Ebe splendea.
    Balzagli il core a tanta vista, e aperte
    Le braccia:—Oh! vieni, le dicea, deh! vieni
    Su'l petto mio, dolce alimento e pace
    Dei travagliosi giorni miei! Sorride,
    Sol ch'io ti guardi, nel mio cor la vita
    D'ogni speranza mia; splendon più vivi
    Gli ardimenti de l'alma, e più vicino
    Nel mio baldo pensier veggio il trïonfo!—
    Co'l perdono negli occhi ella assentía
    Di sedergli d'accanto. Ei torna ai sogni
    Del primo amor.
                   —Da pochi giorni il sole
    Sul mio capo splendea: festa di fiori
    Era tutta la terra; e tu, regina
    D'ogni candor, mi sorridesti come
    Sorridon l'alme, allor che un'amorosa
    Forza le chiama ad apparir negli occhi.
    Oh! che giorni d'ebbrezza!—
                                Ella a quei detti
    Pensosa e scura divenía.
                            —Ricordi,
    Ei riprendea con sospirosa voce,
    Oh! ricordi quei dì? Facil conquista
    Mi parve il ciel, poi che t'amai. Mi svelsi
    Crudelmente da te; deserta e chiusa
    Nei dïafani sonni ti lasciai,
    Ma un trono eressi a l'amor tuo, che in petto
    Portar vogl'io fin che no'l ponga in cielo!—
    Ella piangea. Qual trepida fiammella,
    Che s'assottigli a l'apparir del giorno,
    Tal poco a poco si facea più bianca
    La pietosa fanciulla, e a poco a poco
    Il dolce aspetto e i rosei pepli e gli atti
    Trasfigurando, un'orrida assumea
    Mostruösa sembianza: ispide e negre
    Di sozza barba ambe le gote; attorti
    Di tizzi ardenti e di serpenti i crini,
    E fra' serpenti, in mezzo al fronte, un vasto
    Occhio, senza palpèbre immoto e tutto
    Fiammeggiante a l'intorno. A questa guisa
    Sorgea dal suol nera, diritta, immensa,
    E un gemer lungo al sorger suo si udía
    E scricchiar d'ossa e maledir. Non ode
    L'irto fantasma, e ognor sorge e si spande,
    E l'aria ingombra e il cielo ultimo attinge.
    Tocca il cielo co'l capo, e con la negra
    Pelosa man, che immensa apresi, afferra
    L'etereo sole, e lo palleggia. Un denso
    Nembo di notte si rovescia allora
    Su la terra infelice; ingordi e vasti
    Mille sepolcri si spalancan; passa
    Sibilando la Morte; e s'ode un fiero
    Gracchiar di corvi e sghignazzar di Numi.

    Così il lungo digiuno e la fatica
    D'una ad un'altra visïon trabalza
    Il pensier de l'Eroe, quando, in lui fiso,
    Il Signor dei celesti:—Ora è stagione,
    Disse in cor suo, che il mio rival conquida!—
    Gli aurei letti lasciò, senz'altro aiuto
    Che il veloce desio; s'avvolse un manto
    Ampio, turchino come ciel d'autunno;
    A la fredda canizie un vasto impose
    Tricuspide lucente, e, sotto al braccio
    Un aureo accomodando orbe stellato,
    Simbol de l'universo, al più vicino
    Dei presèpi del ciel cheto avvïossi.
    Ivi, poichè di Giosuè la verga
    Del sole il cocchio a mezzo il ciel sostenne,
    E impietriti restâr di sotto al giogo
    I fulminei cavalli, una falange
    D'umili sì ma intelligenti onàgri
    Pasce in greppie d'argento orzi ed avene
    Di tal virtù, che nel lor sangue infonde
    Gaio tripudio e giovinezza eterna.
    Non appena sentîr sovra la soglia
    La presenza del Dio, tutti in un punto
    Drizzâro i colli ed affilâr le orecchie
    Lievemente anelando; e, a lui rivolti
    Con dolci e riverenti occhi, la voce
    Del comando attendean. Videli il Nume
    Lucidi e belli, e ne gioì; ma il cenno,
    Che tutto può, volse a te solo, o illustre
    Asin di Betelèmme, a cui su'l dorso
    (Premio dell'opra, onde immortal tu vivi)
    Crescon due luminose ali, per cui,
    Pregio da tutti invidïato, e solo
    Da Dio concesso a le beate essenze,
    Varchi il cielo senz'orme e l'aer fendi.
    Tu presentisti il divin cenno, ed ambe
    Le ginocchia piegando appo a la ferma
    Con chiovi adamantini aurea predella,
    Offeristi umilmente il dorso alato.
    Fe' forza il Nume, e vi montò; si attenne
    Con ambe mani a le pietose orecchie
    Del diletto onigrífo; ai ben pasciuti
    Fianchi gli strinse le ginocchia inferme,
    Gli occhi serrò, diede la voce, e via
    Lascia il ciel, passa l'aere, e giunge in terra.
    L'Eroe trovò, che scosso il sonno, e, fermo
    Più nel pensier che ne le membra affrante,
    Ritentava il cammin. Presso a un cespuglio
    Lasciò il volante corridor; si eresse,
    Quanto potè, su'l curvo dorso; un grave
    Cipiglio assunse, e a misurati passi
    Movendogli d'incontro, in tuon solenne:
    —Lucifero, gli dice, ov'io con l'ira
    Dar fin volessi a l'ira tua, me stesso,
    Che Dio di tutto e re del ciel pur sono,
    Qui non vedresti al tuo cospetto: avvinto
    Dal cenno mio sotto al mio piè, potría
    Scatenarsi al mio cenno il saettante
    Fulmin, che a par d'ogni superba altezza,
    Le sdegnose e proterve anime adima.
    Ma l'ira mia tu la conosci; or sappi
    La mia pietà. Stanco non già, ma schivo
    Di pugne io son: di nostre pugne assai
    Travaglio ebbe la terra; assai di umane
    Vite olocausto ebbe il mio sdegno. Io miro
    Con paterno dolor quest'infelice
    Schiatta de l'uom, che, lusingata e vinta
    Dai tuoi falsi giudicî, erra perduta
    Fuor de la via d'ogni salvezza, e il frutto
    Di tue promesse e la vittoria aspetta.
    Ma, stolta! indarno aspetterà! Smarrito
    Fra queste ombre tu stesso, ecco ti aggiri
    Tu, che da le fallaci ombre presumi
    Redimer l'alme dei mortali, a cui,
    Ira e invidia non già, ma provvidente
    Consiglio mio gli ultimi veri asconde.
    Sgombra adunque la terra; abbian riposo
    Le genti alfin; torna ai tuoi regni, e intero
    Scenderà su'l tuo capo il mio perdono.—
    —Di perdon parli e di pietà, proruppe
    Disdegnoso l'Eroe, tu che di tutte
    Le sciagure de l'uom colpevol vivi?
    Ma stolta è l'ira: ombra tu sei di nume,
    Sol vivente in parole; ond'è, che irato
    Non ti temo, e pietoso io ti dispregio.
    Lasciami adunque a le mie cure: avranno
    Pace le genti, e non da te; nè pace
    Neghittosa e servil; di guerra stanco
    L'uom non sarà pria di saper che vuota
    Larva sei tu senza subbietto, e quale
    Or t'addimostri al guardo mio. Potessi
    Questi sordi, confitti arbori intorno
    In uomini cangiar! Vedrían qual vana
    Risibil cosa e imbelle ombra tu sei!—
    Tacque, e torse le spalle. Un vampo d'ira
    Salì al volto del Nume; e la bollente
    Rabbia del cor tutta in un punto avría
    Fuor versata nei detti, ove non fosse
    Sopravvenuta al suo pensier la luce
    D'un prudente consiglio. A mala pena
    Ei si contenne, e gl'iracondi sguardi
    Figgendo al suol, morse le labbra, e disse:
    —Sei forte, il so; ma de la tua fortezza
    La superbia è maggior, minore il senno.
    Odimi; sai, che da nemico petto
    Sorge talora util consiglio, e saggio
    Io non dirò chi lo rifiuta. Ha un segno
    Anche l'ira dei forti, e chi si ostina
    A produrla oltre inutilmente, indegne
    Sciagure ad altri, e a sè perigli ordisce.
    Or credi a me: son paventose e fiacche
    L'anime umane, e han di servir mestieri.
    Ad uom cresciuto in servitù mal giova
    Spirar liberi sensi: a sua rovina
    Va tosto incontro; perocchè di tutti
    Malnato istinto è il dominar; nè vale
    Esser libero d'altri, ove ad un tempo
    Di sè stesso è ciascun servo e tiranno.
    Però, se il ben cerchi de l'uom, nè stolta
    Ambizïon move i tuoi sensi, al mio
    Giogo abbandona i servi miei: la forza,
    Qual ch'ella sia, legge è del mondo; il resto
    Altro non è che nome vuoto e nulla!—
    Sorrideva Lucifero, e un sol detto
    Non gli fuggía. Con subito consiglio
    Pone allora il buon Dio l'aureo emisfero,
    Dal manto ampio si svolge, e, simulando
    Fra labbro e labbro un giovïal sorriso,
    Per man prende il nemico, obliquo il guarda
    Con gioconda malizia, e:—Inver, gli dice,
    Vecchia golpe tu sei! Che tu mi cianci
    Con codesti tuoi fumi? A par di me
    Tu gli uomini conosci, e di sonanti
    Nomi li gonfî, sol che a Dio ribelli
    Spingan la fronte, e tu su lor ti assida!
    Giù dal volto la larva! Hai di me al pari
    Desio di regno; e, di regnar mal pago
    Sovra il trono de l'ombre, una più bella
    Sede nel mondo e maggior gloria ambisci.
    Or ben: regnar vuoi su la terra? Affido
    La terra a te. Vuoi che tremanti e prone
    Pendan le genti dal tuo labbro? il fronte
    Pieghin popoli e re sopra la polve
    Del tuo santo calzàre? Abiti e modi
    Cangia. V'è tal sovra la terra, a cui
    Nullo agguaglia in poter: brando che uccide
    È la parola sua, fulmine il guardo;
    A lui d'umani sagrificî intorno
    Vaporano gli altari; incatenato
    Ai carri suoi geme il Pensier. L'aspetto
    Di lui tu prendi, e nome e gloria e regno
    Di pontefice avrai!—
                         Commiserando
    Scotea l'Eroe la testa, e in cotal guisa
    Con voci amare rispondea:
                             —Nemico
    Che scenda a patti è mezzo vinto; e a patti
    Non sol tu scendi, e vinto sei, ma involto
    In una cieca illusïon mi desti
    Ira insieme e pietà. Quella gagliarda
    Possa d'uom, che tu vanti, io già la vidi
    Regnar nel mondo: le facean sgabello
    Le cervici dei re, luce la fiamma
    D'umane ostie brucianti; or su la terra
    La cerco invan. So che una turpe e vôta
    Larva, inutile ingombro, occupa i templi
    Di Vatican: stupida larva, il cui
    Frollo capo cadente invan protegge
    Co'l sozzo manto il precettor Loiola;
    Ma in lei, me'l credi, è da gran tempo estinto
    Il pontefice e il re!—

                           —V'è tal, che avviva
    Anche la morte, Iddio gridò: tu puoi
    Resuscitarlo. Torneranno i tempi
    Di Gregorio e di Sisto!—

                             —Ai tuoi soggetti,
    Se alcun pur n'hai, serba tal gloria: io sono
    La libertà. Se udir non vuoi la voce
    Del mio dispregio, a me parla siccome
    Si conviene ad un Dio: fulmina!—

                                     Un grido
    Mise il Nume a tal dir; ne l'ampio manto
    Fremebondo si chiuse, e, le beate
    Groppe al divino corridor premendo,
    Per li campi de l'aria alzossi e sparve.

    Torna intanto il mattino, e un'aurea luce
    Con lo sparir del Dio penetra in mezzo
    A la densa foresta. Il luminoso
    Auspicio accolse e giubilonne in core
    Lucifero; tra' folti alberi un varco
    Esplorò disïando, e il passo stanco
    A un villaggio contenne: un mucchio informe
    Di povere capanne, una su l'altra
    Addossate su'l fianco a una montagna,
    Che di bosco e di nubi il capo ombreggia,
    E giù giù fino al mar scende e digrada.
    L'abita e còle una diversa gente,
    Varia d'usi e di lingua, a cui, nel nome
    De la croce di Cristo, una pietosa
    Missïone d'apostoli e di santi
    Giogo impone di ferro e il pan contende.
    Di doppia mèsse a lor biondeggia intorno
    L'usurpata campagna; s'inghirlanda
    Di gemina vendemmia il poggio e il clivo
    Lussureggiante, e terre e mandre a gara
    Recan primizie a le lor mense. Al solco
    Durissimo fra tanto, a l'aere impura
    Suda il magro colòno; e, se la verga
    Del discreto signor non gli distende
    Le bronzee terga e lo flagella a morte,
    Ben felice esser dee, che possa un giorno,
    Dai travagli consunto e dal digiuno,
    Cader sovra l'aratro, e con le ignude
    Ossa impinguar del pio padron la gleba.

    Stanza ospitale il vïator non chiese
    A signor ben pasciuto, e non sofferse
    D'aver mensa comune ad orgoglioso
    Trafficator. Fra poveri pastori
    Breve asilo ei cercò; si assise al desco
    De la miseria; e a te, povera Sara,
    Assentì l'alto aspetto e la sdegnosa
    Anima e il dir che umani petti infiamma.
    Schiava infelice! Era remota e angusta
    Presso al torbido rio la sua capanna;
    Era nero il suo volto e nero il crine,
    Ma aperto e grande era il suo core, e tersa
    Come raggio di Sol l'anima avea.
    Fra le miserie di sua vita un giorno
    Le sorrise l'amor. Furon men leste
    L'opere di sua mano; impazïente,
    Immemore divenne; e, sì com'era
    Schiava due volte, osò levar la fronte
    E agli augelli invidiar libero il volo!
    Fischiò sopra a le sue carni la sferza
    De l'acerbo signor; percosso e vinto
    Dal feroce digiuno a lei da lato,
    Sotto agli occhi di lei, vittima cadde
    Il giovinetto del suo cor. Qual belva
    Ella ruggì; morse ruggendo i ceppi;
    Avventossi d'intorno; e allor che in mesta
    Calma si assise, e volse il guardo in giro,
    S'avvide ognun, che a quella derelitta
    Era insieme a l'amor mancato il senno.
    Le consentîr la libertà: più tempo
    Errò, libera pazza; un dì si accorse,
    Che scevra era di giogo; e se di nuovo
    Co'l pianger lungo a lei fece ritorno,
    Qual fido augello, la ragion smarrita,
    Tosto sentì che nel suo cor deserto
    Vigile e santa una memoria ardea.
    Visse d'allor limosinando, e, aperta
    Agl'infelici più di lei, sorrise
    Come pòrto d'amor la sua capanna.
    Quando giunse Lucifero, sedea
    Sovra un poco di strame, appo la sponda
    D'un povero lettuccio. Un fanciulletto
    Pallido, emunto e con la morte in core,
    Disteso, ansante ivi giacea. Poggiata
    A la scura parete eravi un'arpa
    Lurida tutta e con più corde infrante;
    A piè del letto un lacero fardello,
    Un nero tozzo, e rovesciata a terra
    Una piccola brocca. Il moribondo
    Mosse il languido e dolce occhio d'intorno,
    E, qual chi una pietosa alma indovina,
    Affisò lo stranier tacito, e il biondo
    Capo crollando, le sparute e bianche
    Mani al petto portò; baciò più volte
    Un abitin che gli pendea dal collo,
    E:—Vedete, signor, disse, vedete
    Com'han ridotto un misero fanciullo!—
    E a mala pena sollevando un lembo
    De la grezza camicia, insanguinato
    Da recente flagel mostrava il petto,
    E singhiozzando ripetea: vedete!
    Mandò un grido l'Eroe; ferocemente
    Rotò il guardo la schiava: il poverino
    Mormorava piangendo:
                        —Eran pur belli
    I monti e il cielo de la mia Cosenza!
    Ero tanto bambin, povero tanto,
    E mi parea d'esser felice! Un giorno
    Mi diedero quell'arpa: io canticchiava
    Con gli augelli del ciel. Quando lasciai
    Il mio tugurio, luccicar su'l desco
    Vidi alquante monete: era sì allegra
    La mamma mia, ch'io le nascosi il pianto,
    Nè le volsi un saluto. Uno straniero,
    Ch'altri fanciulli al suo comando avea,
    Con sè mi prese: eravam tanti! In giro
    Strimpellando le nostre arpe si andava
    Per le città, scalzi, soletti, stanchi,
    Senza letto, nè pane, al sole, al vento
    Alle piogge, alle nevi ed alla sferza
    Del rio padron, cui parea scarso il frutto
    Di quel nostro accattar cotidïano.
    L'altrier, consunto dal continuo stento,
    Un fanciullo moriva: e tanti e tanti
    N'eran morti così! Ci amavam come
    Due fratelli infelici: eravam sempre
    L'uno accanto de l'altro. Un dì un allegro
    Ritornello io cantava; ei con le scarne
    Dita seguía su l'arpa a gran fatica
    La mia pazza canzon. Tacquero a un tratto
    Le monotone corde: il poverino
    Cadde, nè più si rïalzò. Non ebbi
    Più memoria di me: fuggii la vista
    De l'odiato signor. Mi trovò il crudo
    Presso al cantuccio d'una via romita,
    Che l'amico piangea; mi picchiò tanto,
    Che mi parve morir. Questa pietosa
    Da la via mi raccolse.—
                            Ed additando
    Quell'infelice, che gli stava a lato,
    Fra' singhiozzi tacea. Tacea pur essa
    La sventurata, e si stringea sul petto
    L'affannato fanciullo.
                          In su la soglia
    Splende un raggio di Sol; saltella e canta
    Un'amorosa cingallegra. Al seno
    Le tenui braccia il fanciullin compone,
    Guarda in alto, e sorride.
                              —Oh! non lasciarmi,
    Così fra' baci gli dicea la schiava,
    Non partire sì presto! Abbandonata,
    Vedi? son io; son poveretta e mesta;
    Io t'amerò come una madre!—
                                Un balzo
    Diè a tal nome il fanciullo; il moribondo
    Sguardo avvivò d'un ultimo baleno,
    E fieramente mormorò;—Mia madre?
    M'ha venduto mia madre!—
                             A questa voce
    Fuggì il vispo augellino, e a l'aere immenso
    De l'oppresso bambin l'alma il seguía.

    Tacita, con selvaggio atto, a la sponda
    Del letticciòl si accovacciò la schiava;
    E tutto ira e pietà fuori a l'aperto
    Precipitossi il Pellegrin. Gli ferve
    Sotto ai passi la terra; al mar si affida
    Subitamente, e ne l'acceso petto
    Le remote sospira itale sponde.

CANTO UNDECIMO.

ARGOMENTO.

Canto all'Italia: le tre civiltà; l'Alighieri; l'ultima guerra d'indipendenza; l'ossario di Solferino; il traforo del Cenisio.—Lucifero arriva; apostrofa al Po; scende in Toscana; è ricevuto nella casa d'Egeria, dove si adunano i più famosi genî dell'Arte moderna.—Le donne emancipate; il filologo Macrino; un poeta demagogo; un commentatore di Dante; Delio, gazzettiere; un camaleonte onniscibile.—Il poeta Olimpio e la sua dama.—Lucifero, creduto spiritista, finge evocar l'ombra del divino Poeta; il quale fulmina sdegnosamente poeti svenevoli e atrabilari, drammaturghi da scuola e da piazza, musici intronatori ed istrioni bastardi.—Olimpio, che si offende, sfida l'Eroe a un duello; ma questi si rifiuta con parole di superbo disprezzo.

    Da le nevate cime
    Di quest'alpe famosa io ti saluto,
    Di gloria e di dolor magion sublime!
    Ti veggio alfin! Qual suole
    Nocchier che lungamente erra perduto
    Per l'irata del mare onda funesta,
    Se da lontan vede la terra e il sole,
    Crede a speranza il petto,
    Tale al tuo primo aspetto
    Dice il mio cor: la nostra patria è questa!

    Non io, perchè più terso
    S'apra il ciel su' tuoi campi e il Sol sorrida,
    D'egregie lodi accenderò il mio verso.
    Fra gl'iperborei geli
    Avvien talor che rigorosa e fida
    Splenda virtù, quando per liete rive,
    Ch'àn fragranza di piante e amor di cieli,
    Superbe e infeminite
    Volgon le umane vite
    D'ogni ardito operar pavide e schive.

    Chiede animosi petti
    L'Eroe ch'io canto ed operosi ingegni,
    A cui pari in virtù fervan gli affetti.
    E tu che il doppio mare,
    Coronata sovrana, inclita regni,
    E fra il riso de l'arte e i fior t'assidi,
    L'opre gentili e le gagliarde hai care
    Così, che altera e grande
    Per quadruple ghirlande,
    Sorgi su le rovine, e il tempo sfidi.

    Te di sottili e forti
    Studi educâr gli Etruschi padri, il cui
    Pronto ingegno temprâr gli Egizii accorti.
    Splendea fra le temute
    Armi e gli altari minacciosi e bui
    L'aureo foco di Vesta, e fean leggiadre
    L'ardue cure del ciel le Muse argute;
    Fin che del Tebro al lito
    Un fiero ululo udito,
    Volâro in grembo a la Cecròpea madre.

    Calò dal cielo estremo
    L'augel fulvo di Giove, e le saette
    A l'audace apprestò lupa di Remo.
    Sorge Quirino; al lampo
    Del suo brando forier d'aspre vendette
    Crollano i troni; da la terra a l'etra
    A le vittorie sue piccolo è il campo;
    Mentre fra'l suon de l'armi
    Echeggian d'Ennio i carmi,
    Di Plauto il riso e di Maron la cetra.

    Chi siete voi, che a guisa
    Di affamati leoni or prorompete
    Da le nordiche selve, e, a la conquisa
    Madre squarciando il petto,
    Sì fier costume d'ogni strage avete?
    Ma qual non apre ad avvenir lo sguardo,
    E de l'istante ha sol tema o diletto,
    Impallidisca e gridi
    Al suon dei matricidi
    Brandi, e vesta di lutto il cor codardo.

    Cantor, che a la palestra
    De la vita allenò l'alma e l'ingegno,
    I casi ad indagar la mente ha destra;
    Spregia il parer fallace,
    Che fa pago ed esalta il vulgo indegno;
    Sol nume ha il Vero; ombre non teme; sfida
    Del presente favor l'aura fugace,
    E, profeta a le genti
    Di ragionati eventi,
    Guarda il passato e a l'avvenir le guida.

    Ecco, fuggir dal truce
    Cozzo vegg'io dei sanguinosi acciari
    Faville che da poi diêr fiamma e luce:
    Arde una forte e nova
    Anima i petti; a non segnati mari
    Gonfia immenso un desio le vele industri;
    Fervon le menti e le fatiche a prova;
    A chetar l'ire orrende
    La libertà discende
    D'armi gagliarda e di commerci illustri.

    Sorge a la Diva accanto
    Disdegnoso uno Spirto, a cui nell'ira
    Divien foco il pensier, fulmine il canto.
    Superba aquila al nembo
    Fida il volo, e combatte; e allor che mira
    L'etereo Sol, che d'amoroso dardo
    Punge e ravviva al vasto essere il grembo,
    Per l'aere ardente e pura
    Spaziar gode secura,
    E nel fuoco del cielo appunta il guardo.

    Egli così le inferne
    Sfere lasciando e le pugnaci erini,
    Che mortali accendean l'ire fraterne,
    E d'ombre orride e d'ossa
    Tarda e incerta facean l'orma ai destini,
    Errò, divo mendico; al ciel co' carmi
    Surse, e attinta del Ver l'aura e la possa,
    A inaspettati eventi
    Chiamò l'itale genti,
    Lor diè vita e parola e patria ed armi.

    Dai maledetti avelli
    Balzan gli eroi; splendono al Sol gli acciari;
    Quei che avversi morîr, sorgon fratelli:
    Arde la pugna; stride
    L'Arpía de l'Istro; dai venali altari
    L'irto Levita invan s'adopra e freme…
    Viva il Sabaudo allòr; vivan le fide
    Schiere dei nostri eroi,
    Viva tu pur, che a noi
    Desti i tuoi prodi, e a noi vincesti insieme!

    Dove sei tu? Non odi
    L'aura del generoso inno, che, schivo
    Di tanti ingrati, osa innalzar tue lodi?
    Leva dal tuo recente
    Sepolcro il capo, e guarda ove ancor vivo.
    Più del ricordo, è dei tuoi prodi il sangue.
    Qui pugnâr, qui morîr, qui di fulgente
    Serto ornò Italia il crine,
    Qui le genti latine
    Si unîr d'un patto in su'l nemico esangue.

    Mira! Un sol tempio accoglie
    L'ossa delle due genti, e a lor confuse
    Del domato stranier dormon le spoglie.
    Dormite! Una parola
    Fremono i vostri sonni; e da le chiuse
    Ombre di morte una gran luce emerge:
    Vivono al raggio d'una fiamma sola
    Le umane anime; ed una
    Morte le gente aduna,
    E ne l'onda del Ver tutte le terge.

    Dormite! Al santo amplesso,
    Che in una morte e in un amor vi serra,
    Tragge Italia gli auspicî. Il brando ha cesso
    A la guaína, e cinta
    Sol di virtù suoi baluardi atterra.
    Regna Amor l'alme, Amor varca gli abissi,
    Penetra il mar: cade al suo soffio estinta
    L'ira dai petti; e, al pari
    Che nei confusi mari
    Vedi gl'istmi cader squarciati e scissi,

    Cedono al nume il passo
    Le domate montagne; a lui da lato
    Scende l'italo genio. Odo il fracasso
    De le divelte rupi;
    Rugghia per li rotti antri il vento irato;
    Al martellar degl'inventati ordigni
    Tuonan l'opre pe' negri anditi cupi:
    Ecco, ne l'ardua gola
    Fischia il vapor che vola;
    Echeggian gli antri; gli ultimi macigni

    Crollan; concordi e pronte
    Gridan le ciurme; il Sol s'affaccia, e cinge
    Due raggi a un tempo a due Gagliardi in fronte.
    Oh! viva! In armi avvolto
    Altri pugni e trïonfi: Amor costringe
    In gara industre il genio italo e'l franco!
    Ma qual fragor d'orridi bronzi ascolto?
    Ne la sanguinea gora
    Brenno gavazza ancora?
    Di stragi ancor non è satollo o stanco?

    Cessa! Di fatuo nome
    Tal che ti aggira a l'oprar suo fa scudo,
    Pur che la man ti cacci entro le chiome,
    E al giogo ti strascini
    D'onor, di libertà, di posse ignudo.
    Speglio Italia ti sia, che la severa
    Alma composta a' liberi destini,
    Già spada, or cuore e mente
    De la latina gente,
    L'alpe dischiude, e ne la pace impera!

    Mentre io canto così, fuor dal recente
    Varco de l'Alpi glorïando passa
    L'alto Amico de l'uomo, a cui ridonda
    Di lampeggianti entusïasmi il petto.
    Al meriggiar de le populee rive,
    Da secreta virtù vinto, si asside
    Là dove con selvaggio impeto corrono
    Gli eridànei cavalli, e sveglian tanta
    Pei settemplici campi eco di guerra.
    Passan su le solenni onde, equitanti
    Guerriere ombre di re; svolgesi al cielo
    L'allobrogo vessillo, e, tutte chiuse
    Ne l'acciar de l'altera indole invitta,
    Brillan di pugna le sabaude schiere.
    —Volgi, o padre Eridàn, volgi i tuoi flutti!
    A piè de la famosa alpe, che pàrte
    Le due genti latine, argentea e pura
    La tua gemina fonte al Sol risplende,
    E di origin comune e d'amistanze
    Ne fa sacra la terra. Ivi il fuggiasco
    Tra il fraterno furor Genio latino
    Auspicando si addusse, e custodía
    Bella e secura una speranza in core.
    L'ombre cercò, di cheto obblio si avvolse,
    Ma non così che al balenar del guardo
    No'l ravvisasse una gagliarda e fida
    Prole di Berengario, a cui fu grato
    Di saggio culto e di pietose offerte
    L'alma allegrar de l'esule divino.
    Santo allor fu il suo scettro; ara divenne
    L'alpe ospitale, e sovra il picciol trono
    D'Ausonia il core e l'avvenir si assise.
    Volgi, o padre Eridàn, volgi i tuoi flutti!
    Ben che d'eccelsa e non ignobil fonte
    A te accorrono i fiumi; a te dan vasto
    Tributo di sonanti acque; a te, padre
    Di feconde pianure, ove nei cheti
    Argini la natía possa governi;
    Padre d'alte rovine, allor che in ira
    Terribilmente imperversando abbondi
    Fuor degli ardui ripari, e fosco, immenso
    Possiedi i campi, e sugli abissi imperi.
    Pari a te da la doppia alpe ne venne
    Di Libertà l'almo sorriso: al grido,
    Che le pedemontane aure percosse,
    Tutti echeggiâr gl'itali petti, e ad una
    Sorsero a sgominar le schiere ostili.
    Pari ai tuoi flutti è Libertà: feconda
    D'anime educatrice, ove al governo
    Sieda la Legge, e ne rattempri il corso;
    Torbida madre di rovine, quando
    Oltre ai segni prorompe, e gl'inconcussi
    Campi del Dritto pazzamente invade.—

    Così dicendo il Pellegrin, la terra
    Bellicosa lasciava; e, la commossa
    Alma schiudendo a la serena luce,
    Che da l'italo ciel l'Arte diffonde,
    S'avvïava colà dove tra' fiori
    Gareggian di beltà le Grazie etrusche.

    Ben avverso alle Grazie e al Bello in ira
    Vive, Italia, colui che, su l'ingorde
    Arche seduto, in tuon lugubre intuona
    L'epicedio de l'Arte! Ignaro, al certo,
    Fra la plebe ei si aggira, e mai non pose
    L'orma su queste etrusche inclite rive,
    Dove tanto su l'Arno arde e sfavilla
    Glorïoso splendor, qual mai non ebbe
    Ne le trascorse età. Quante su l'orlo
    D'un angusto, ritondo orcio, che abbonda
    Al sol d'agosto il liquefatto miele,
    Con smemorato ardir giran le mosche;
    E altre ronzan d'intorno impazïenti
    Del ghiotto cibo, altre sparute e gravi
    Strascinan le inveschiate ali pe'l vase;
    Tanti, e con simil ressa, a l'Arno in giro
    Stanno gl'itali genî; e qual più vivo
    Del toscano Ippocrene il fonte attinge,
    Quel sentirà qual siero entro ogni vena
    Scorrere il sangue, e tramutata in latte
    Dolce fluïr del fegato la bile.
    O arëopago de la patria, o illustri
    Apostoli de l'Arte, io vi saluto;
    E tu accogli il mio culto e il canto mio,
    Città sacra del fior! Chè se ancor vive
    Entro a l'itale carte un qualche suono
    De la celeste melodia, che corre
    Spontanea al labbro de le tue fanciulle;
    E s'han grido finor le vereconde
    Muse d'Italia, a te dobbiamo il vanto,
    A te il pregio, a te il nome. Aspre e robuste
    Proli, de l'opre e de le pugne avvezze,
    S'abbian Adige e Po; s'abbiano industri
    Colòni e pingui campi ed auree mèssi
    Le contumaci al culto arduo del bello
    Sicule piagge, ed a l'ignobil remo
    Sudi il Ligure audace: a voi, d'Etruria
    Morbidissimi figli, unico vanto
    Sia la storia dei padri, e pregio intatto
    La lingua! A noi diseredati ed orbi,
    A cui nascendo non ombrò le fasce
    La gran torre di Giotto, a noi, se prude
    Alcun genio villano entro al cervello,
    Altra via non rimane, altra salute,
    Che mendicar dietro al vostr'uscio il tozzo
    De le vostre merende e qualche cencio
    De la vostra di frange auree guernita
    Ducal librèa. Qual poverame abietto,
    Che per entro a l'altrui vigna, tremante
    Dopo il ricolto a raspollar sen viene,
    Noi veniamo tra voi, nudi e digiuni,
    Cui l'avara fortuna ibrida e grezza
    Assentì a mala pena la parola,
    Duro e barbaro gergo, atto a fatica
    A dir del male ed a non esser muti.

    Ma qual prima dirò, qual dirò poi
    Dei luminari, ond'ha corona e luce
    Il sacro italo ciel? Seduti in giro
    Nel tempio accolti d'una Grazia etrusca,
    Come in magico specchio, ecco, me l'offre
    La mia povera Musa, a cui vien dato
    Varcar la soglia del gentil recinto.
    E qual solerte domator, che spieghi
    De le belve guardate entro a' serragli
    La specie varia e 'l soggiogato istinto
    E i costumi e le patrie: a bocca aperta
    Stan gli attoniti astanti; in simil guisa
    Dirò dei genî, ivi in gran folla accolti,
    Le fogge, il favellar, gli atti, la fama.

    Splende fra le notturne ombre l'augusta
    Magion sacra a le muse; e avviluppata
    Negli ampî giri de le sue pellicce
    Siede l'inclita Egeria, ella, a cui dànno
    Equivoca canizie e senno arguto
    Le gazzette e la cipria. Ebbe un dì care
    Le colombe di Pafo, e la furtiva
    Ombra dei mirti e il sacro Erice tenne,
    Finchè piacque a Dïona; or de le austere
    Opre di Palla si compiace, e amica
    Spira gli auspicî ai non vulgari ingegni.
    Tien cospicuo al suo fianco il loco primo
    L'Eroe ch'io canto. A mortal petto ignoti
    Erano i casi suoi; bizzarre e strane
    Favole il rivestían: dicean, che avesse
    Con sotterranei spirti intelligenza,
    E che al suon de la sua voce non fosse
    Ombra antica di sofo o di poeta,
    Che dal ciel non escisse o dagli elisi
    A picchiar le vocali assi e l'arcane
    Magiche tavolette, e dar responsi
    Chiari e veraci agli ammirati astanti.
    Pavide e curïose a lui d'intorno
    S'affollano le dame; e tu superba
    De l'altera parola anche ne andasti,
    Pallida Elëonora, a cui non uno
    Dei gelosi misteri Iside asconde;
    E voi pur del gentil sesso custodi,
    Antigone e Sofia, che, a le tiranne
    Velleità d'un ispido marito
    Rubellando la fronte, al dispregiato
    Talamo nuzïal non inchinaste
    L'altero grembo al solo Ver dischiuso.
    —E che? l'ultima grida; a noi sul volto
    Si chiuderanno ancor l'aule di Temi?
    Sul nostro crin splender non dee giammai
    L'inclita bacca dottoral? Giù alfine,
    Giù alfin la benda obbrobrïosa e nera,
    Cui di pudor mal diede pregio e nome
    L'astuta crudeltà del sesso ostile.
    Nostra è l'età, nostra la terra, è nostro
    L'avvenire dei fati! Al cesto, al corso,
    A la lotta alleniam le membra ignude:
    Solo è libero il forte. Altra il sen porga
    A l'esoso lattante, e il tergo inchini
    Al feroce baston del suo tiranno:
    Madre sarà di servi. A noi, del mondo
    Parte migliore, opra miglior si addice:
    Femmina è la virtù, femmine sono
    A par de la beltà l'arti e le muse!—
    Tacque, e fêr plauso ai generosi accenti
    Le dame tutte e i cavalier. Tu solo,
    Pensieroso Macrin, dal cor profondo
    Un sospiro traesti, e, la sparuta
    Faccia e i mïopi volgendo occhi, guerniti
    Di doppie lènti, a la soffitta avversa
    Il ciel cercasti, e ti piombò su'l petto
    Tutta la gran pietà d'esser marito.
    Degli aurei modi del toscan sermone
    Gran maestro è Macrin: spruzzato il fronte
    De le linfe de l'Arno in San Giovanni,
    Tutti ei conserva ne la ferrea mente
    Gl'invidiati lepori, e non soltanto
    L'arguto frizzo e la condita burla,
    Che scoppietta su'l labbro a la rubesta
    Ciana camaldolese e l'aureo favo,
    Che amor porge furtivo a l'improvviso
    Stornellar degli amanti; anche le viete
    Venustà di Cavalca e di Guittone
    Con lungo studio egli pilucca e serba.
    Tal l'industre formica al sole estivo,
    Tratti per lungo tramite, ripone
    Nel ben cavato asil bricioli e miche
    Con previdente ingegno, paürosa
    De l'inope vecchiezza; o tal nei sordi
    Scrigni rammassa il trepidante avaro
    Non pure ampio tesor d'oro e di gemme,
    Ma di rotti serrami irrugginiti
    E di chiovi e di cenci e di ciabatte
    Nel cupo cassetton gran copia asconde.
    Di simile ricchezza adorno e pago
    Va per le vie Macrin, lungo, diritto
    Qual sciorinata al sole entro la madia
    Ben tagliata lasagna; ed ai trofei,
    Che a lui su'l crin l'astuta moglie appende,
    La gloria aggiunge d'emendati testi,
    Di compilate moli e di comenti:
    Filologico mostro, al qual s'inchina
    Non sol l'ingenuo scolaretto, a cui
    Imprime nel seder tropi e figure
    Con la sferza eloquente il pedagogo,
    Ma quanti son da Susa a Lilibeo
    De l'italo sermon cultori e amici.

    Ma chi è colui che truculento e instabile
    Or da l'un fianco ed or da l'altro volgesi,
    E scuote il capo ed agita la zazzera,
    E in cambio di parlar gestisce ed ulula?
    Demagogo e poeta ei tempra il filo
    De la republicana ira a la cote
    De l'appetito, e il giambo archilochèo
    Spilla al vinifluo doglio, unico olimpo,
    Da cui la sua spennata aquila avventa
    I fulmini de l'estro. A lui da lato
    Nel seggiolon che di sè stesso inzeppa
    Posa Moron: rubizza e pettoruta
    Mole, a cui da l'aprico orbe del viso
    Raggia il fulgor di un cartellon francese.
    Al picciol fronte, ai cheti atti, al sereno
    Riso, al voluttuoso occhio natante
    Tra il vino e il sonno, tra il demonio e Dio,
    Frate il diresti, e forse il fu. Qual suole
    Al tronco d'un'altera arbore, o ai fianchi
    D'un illustre castello arrampicarsi
    Co' torti rami la paffuta zucca;
    Fatta superba de l'aggiunta altezza
    Gl'indiscreti rigogli intorno spande,
    E, guardando le magre erbe da l'alto,
    Scorda l'umil radice e al Sol rosseggia;
    Tal di Dante a la vasta ombra seduto
    Sua fama impingua il chiosator Morene,
    E la frase imbroccando e il verbo e il nome
    Del poema divin, lancia d'intorno
    Tal furia di cementi e di saliva,
    Che scrocca il plauso al sonnecchioso astante.

    Nè te lascia la Musa, o multiforme
    Delio, a cui da le labbra, ampia e diversa
    Copia di celie e di saver discorre.
    Vedilo: come a l'agitar del vaglio
    Va saltando qua e là l'arido cece,
    Così da la balzana indole spinto
    Tra la folla ei s'aggira, e quindi e quinci
    Motti e sogghigni ed aforismi avventa.
    Smettete, o voi che sovra illustri carte
    Vi state a logorar l'ingegno e il tempo,
    Perchè a l'arte natía decoro alcuno
    E al viver vostro un qualche onor mai vegna:
    Così agli astri non vassi! A voi maestro,
    A voi speglio costui, che la mordace
    Alma e il saper ne le gazzette attinto
    Rivende a le gazzette un tanto il braccio.
    Inchinatevi a lui! Non che a sè stesso,
    Gloria perenne a chi gli par procaccia:
    Oracolo solenne, al cui responso
    La dotta greggia de le vie s'inchina;
    Ampia ruota che gira, e stride, e schiaccia
    Le perle a terra, e lancia a l'aria il fango.
    Ungete, ingegni sconsigliati, ungete
    Le carrucole a lui: propizio nume
    Ei sorride a chi l'unge. Opra è da stolti
    Venir seco a tenzon; più stolta impresa
    Ai dardi di costui non dar più ascolto,
    Che dar si soglia a le zanzare estive:
    Son mortali i suoi dardi! E tu il sapesti,
    Tu, più ch'altri, il sapesti, o amato capo
    Di Dall'Ongaro mio! Nè ti fu scusa
    L'anima intemerata e il pronto ingegno,
    A cui tutte arridean le grazie amiche,
    Nè la virtù di peregrini affanni
    Saldamente sofferti e la tranquilla
    Custoditrice d'onorati petti
    Candida poverezza e il crin canuto!
    Ben di fallace illusïon maestra
    Ti fu la sconsigliata Arte, se ardía
    Nei lunghi giorni de l'oscuro esiglio
    Persüaderti una speranza, e al foco
    Degl'itali trïonfi accender tanta
    Giovinezza di carmi entro al tuo petto;
    Nè ti dicea, che di venali incensi,
    Non d'ingenue virtù, non d'animosi
    Spregi usar dee chi vuol propizio il mondo!
    Però a l'assiduo flagellar di amari
    Scherni cadevi; e se a l'ingegno invitto
    L'attico riso concedean le Muse
    Fino a l'ultimo istante, ingorde arpíe
    Ir vedesti e redir sul tuo morente
    Capo, e la gloria insidïarti e il pane
    Dei cari orfani tuoi! Su la tua fossa
    La derelitta famigliòla or piange
    Miseramente, nè le vien conforto
    Dal tardo onor che al nome tuo si rende.

    Or tu da quel romito angolo oscuro,
    Gangetico Assalonne, esci, e la tua
    Patetica parola ai salutari
    Sbadigli i labbri e gli occhi al sonno inviti.
    Dal curïoso sguardo dei profani
    Un umile pudor forse t'esclude?
    Virtù di debolette alme è il pudore,
    E non solito a te. Nè, se arruffata
    Su le groppe rachitiche ti ondeggia
    La popolosa zazzera, nemica
    Di baveri non unti e di severi
    Pettini; o a mala pena entro al rapato
    Abito puëril movesi il petto
    Stento e gli attratti gomiti, indulgente
    Men ti sarà chi l'alte doti apprezza
    E de l'oppio e di te. Proprio da sciocchi
    È il dar fede al parer: tal, che a l'aspetto
    Sembra leone, asino è all'opre, e tanti,
    Che l'improvvido volgo aquile estima,
    Son, se provano il vol, men che tacchini.
    Qui non regna la plebe; e qual tu sei,
    Quel che vali e che puoi san tutti a prova.
    Quanti mai sparge rami a l'aria immensa
    De l'umano saper l'arbore augusta
    Tutti hai tu ne la mente: arca infinita,
    In cui, ridotta in pillole e in pasticche,
    La densa folla de l'idee si pigia.
    Terra e gente non è specie o favella,
    Che arcani abbia per te, cosmopolita
    Camaleönte, che, di tutti a un tempo
    Ritenendo, esser puoi tutti e nessuno.
    Ed ecco, or con meschina ala ti aggiri
    Carezzevole intorno, or con obliquo
    Serpeggiamento insinüar ti piaci
    Entro a' facili cori il tuo veleno;
    Or con voce melliflua a le tue reti,
    Erudita civetta, i merli attiri,
    Or, mutato ad un punto in cinguettiera
    Gazza, i nomi più vili a l'aura canti.
    Tu, Catone d'un dì, spregiar sai l'oro
    Con tragico cipiglio, e tu con furba
    Docilità di vertebra e d'ingegno
    L'altrui scale affatichi e l'altrui tasche;
    Oggi con infantil garbo a l'orecchio
    D'un'aërea beltà beli il sonetto
    Sentimental, doman, fatto più saggio,
    Entro uno scrigno d'òr fabbrichi il nido.
    Ma chi tutte può dir le peregrine
    Doti, per cui, Proteo novel, tu cangi
    Co'l mutar d'ogni dì forme e colori?
    Chi l'operosa, infaticabil fonte,
    Per cui, senza invocar madre Lucina,
    Puërpera ogni dì s'alza la tua
    Dïabetica Musa? Alcun per fermo
    Dir non saprà, ben che sia noto a tutti.
    Sorgi adunque, e t'appressa; e s'alcun mai,
    Dal serpeggiante tuo venire illuso,
    Oserà alzar, per calpestarti, il piede,
    Lascial, dirò volgendo il guardo altrove,
    Benchè sia serpe al cor, donnola è al dente.

    Ma son costor le stelle tutte e i Soli,
    Che ad onor de lo strano Ospite accolse
    Dentro al suo tempio la gentil Carìte?
    Così non piaccia al dio, che l'arte e il nome
    D'Ausonia ha in cura! Fra cotanta luce
    Non splende Olimpio ancor, colui non splende,
    Che, la fiera spregiando arte dei padri
    Che tutta chiusa nel vergineo peplo
    Rigida custodía l'are di Vesta,
    Una discinta Maddalena adduce
    A susurrar detti svogliati e strani
    Per le tiepide alcove, o a tesser balli
    Vertiginosi fra le nubi, e un'onda
    Versar quinci di nenie e di sbadigli
    Sopra a le folleggianti anime umane.
    Ecco, ei viene, ei risplende. Altero e bello
    Ne la modestia sua con misurato
    Passo s'inoltra; e, benchè svelto e lieve
    Scivoli sovra i piè, pur non sostenne
    L'arguto calzolar, ch'ei non proceda
    Senza un qualche rumor; però ch'ei volle
    Sotto al tornito stivaletto, a cui
    Ròdope stessa invidierebbe, un nido
    Porre di crepitanti e scricchiolanti
    Genî, che possan dire anco ai lontani:
    Ecco il nume, adorate! In simil guisa
    Da l'Olimpo al boscoso Ida venía
    Il saturnio signor, quando a l'incontro
    Dolce ridente gli schiudea le braccia
    La placata consorte, e sotto al passo
    Gli stridean le selvagge aquile e il fascio
    Dei serpeggianti folgori. A la soglia
    Fermasi un tratto; la sottil mazzetta
    Palleggia, ed il sereno occhio d'intorno
    Muove in cerca di lei, vergine o sposa,
    Donna o dea, ch'ai suoi lauri un qualche intrecci
    Gentil fior di pensiero, e stilli unguenti
    Sopra le nevi del ben culto crine.
    Bice è là, che l'attende: ecco, si spicca
    Dal picciol crocchio de le sue compagne,
    E gli muove d'incontro e gli confida
    Nel morbido candor del niveo guanto
    La voluttà d'una manina ignuda.
    O felice costei tre volte e quattro,
    Che con l'aëreo balenar d'un casto
    Languidissimo sguardo, o co'l profumo
    D'un sospir ventilato in su la cima
    Del piumato ventaglio apresi il varco,
    Non agevole invero, ai luminosi
    Estri di tanto vate! Oh! lei felice
    E invidiata a buon dritto! Inutil pompa
    D'ottuse forme e di bustin ricolmo
    Ella, è ver, non ostenta: ignobil dote
    Di vulgare beltà sien le ritonde
    Polpe e l'adipe osceno, irriguo ai salsi
    Sudori, e immane, o Dio, carcer de l'alma.
    Ricchezza unica a lei sia la divina
    Trasparenza del corpo e i delicati
    Qual fil di gelsomino arti e il languente
    Collo e le braccia cascanti. Qual face
    Chiusa dentro a dïafani alabastri,
    L'alma in lei splende; e simile a canora
    Che si pasce di brine aurea cicada,
    Le vaporose fantasie deliba,
    Che dal plettro gemmato ad ora ad ora
    Mollemente deriva il suo poeta,
    Poeta a un tempo e cavalier. Sui molli
    Tappeti, ai piedi de la sua regina,
    Spesso ei numera in pianto i suoi pietosi
    Nunzî di poesia primi vagiti
    E i suoi gesti e i suoi cenni, unica scola
    Ai protervi nepoti. Ella, commossa
    Da l'ardor dei civili estri, i socchiusi
    Occhi gli volge; e se ne le divine
    Estasi le sottili in su la fronte
    Labbra gli posa, e di cinabro tinto
    Cader si lascia un indelebil bacio,
    Dilungate di là, Momi impudenti
    Dai mordaci sarcasmi, e non osate
    Dar condito di burle al vulgo iniquo
    Il mister di quei petti: a completarsi
    Tendon l'alme per fato; e chi no'l crede
    Ne dimandi a Platon!
                         Ma oscuro e muto
    Sui soffici divani a poltrir forse
    Venne il divo cantor? Tolgalo il casto
    Senno di lei, che è sol suo studio e vanto!
    Ai secreti colloquî, ai vaporosi
    Veleggiamenti dei verginei ingegni
    Serban le Grazie altr'ore: aman gli opachi
    Vetri le Grazie e le socchiuse imposte,
    Da cui, non dispregiato ospite, il solo
    Profumo entri dei fiori, e a cui dan velo
    Con fantastici giri i rampicanti
    Convolvoli azzurrini e l'ampie tende
    Non indocili a l'aure. Ora è codesta
    Di saëttar co' glorïosi raggi
    Gli sparsi in quella sala astri minori;
    Ora è d'aprir con l'armonia dei versi
    La rigid'alma del più rio marito.
      Come soglion d'intorno a un'iridata
    Bolla, che con sottil fiato da l'alto
    Del suo balcone il fanciullino espresse,
    Correre ed affollarsi e spiccar salti
    Gl'irrequieti monelli; e mentre incerta
    Pende quella su l'aëre, e al Sol si pinge
    Di tremuli colori, impazïenti
    Lanciano i berrettini, e fanno a gara
    A chi primo l'aggiunga; in simil guisa
    Corsero tutte, e s'attruppâr d'intorno
    Al tonante cantor damine e spose.
    Ecco, egli accenna, ei legge; attenti, udite:
    —Egli ed ella eran due! Qual fulminato
    Arcangelo superbo, orribilmente
    Mugghiava per la torva aere sanguigna
    Un moribondo temporal. Dai mesti
    Pertugi de la terra ad uno ad uno,
    Siccome frati ch'escon salmeggiando
    Da le pallide celle, uscíano i funghi
    Annusando l'autunno; e, co'l volubile
    Mappamondo a le spalle, in simiglianza
    Di pellegrini piccioletti Atlanti,
    Le bavose lumache ardían mostrarsi
    Saettando la corna. Essi eran soli!
    Eran soli a mirar le rubiconde
    Agonie d'un tramonto. A passi lenti,
    Per la morte del Sol vestita a bruno
    La sonnambula Notte discendea
    Pe' gradini de l'etra, e mille e mille
    Angeletti lumaj davan la luce
    Ai fanali del ciel. Sotto i giganti
    Rami d'un eucalipto, immenso figlio
    De l'australiche selve, in su le barbe
    Dei vellutati muschi e dei licheni
    La giovinetta si assidea, struggendo
    Le delicate fibre e gli otricelli
    Del monocotilèdone embrïone
    D'una dïoica pandanèa. Le braccia
    Distese Arrigo, sospirò, fu sua!
    O poverella ardita, o mendicante
    Regina, o musa mia, sorgi dai tuoi
    Papaverici sonni, e dimmi quanta
    Febbre di voluttà bruciava i petti
    Di quei lieti accoppiati, e i lampi e i tuoni
    Dei sorrisi e dei baci e la battaglia
    Degli eccitati muscoli!—
                             Un solenne
    Scoppio di plausi e di femminee voci
    L'aurea sala echeggiò; dal sonno scosso
    Moron sorge, ed applaude; altri in disparte
    Con la bile sul labbro e il guardo a sghembo
    Dà il galoppo a l'invidia; il naso arriccia,
    E fa il greppo Macrin; pago e beato
    L'apollineo sudor terge, e carezza
    Gli attorti baffi il morbido poeta;
    E, sprofondato ne la sua poltrona,
    Scrollando il capo il Pellegrin sorride.
    Mosso poi da un mordace estro di sdegno,
    In piè levossi, ed esclamò:—La voce
    Degli spiriti or s'oda; a me gli usati
    Alfabetici segni e le canore
    Assi da cui, se tanto pur siam degni,
    Del gran padre Alighier gli accenti udremo.—
    Disse, e al cenno d'Egeria una ritonda
    Tavola fu recata, a cui dei quattro
    Ben atti piedi, che le fan sostegno,
    Uno ha tanta virtù, che al flusso occulto
    Dei magnetici spirti agile e destro,
    Più del pensier degli ammirati astanti,
    Scerne le note, ed il responso appresta.
    La mirò, la tastò con le gagliarde
    Nocche l'Eroe da tutte parti, e quando
    L'ebbe assettata su le cifre, entrambe
    Vi sovrappose con mirabil rito
    Le aperte palme, e simulando un senso
    Di riverenza e di paura in volto,
    Vi fisse il guardo, ed invocò. Già scricchiola
    Il fatidico legno; un dopo a l'altro
    S'odon tre picchi; come Tiade invasa
    Da la furia del nume, or quinci or quindi
    Il sonnambulo piè lanciasi in volta,
    Nota i segni soggetti, e sbalza e sguiscia
    Ratto così, ch'occhio o pensier no'l segue.
    Tace alfine, e s'arresta; attenti, immoti
    Pendon tutti d'intorno; ecco il responso:
      —Chi da le sfere luminose, ov'io
    Libero spirto in grembo al Ver mi eterno,
    Mi richiama al fatal lido natío?
      Ben giunse a me nel mio loco superno
    D'Ausonia il grido e il rimbombar de l'armi,
    Per cui perfetto il pensier mio discerno.
      Levai sdegnoso dai funerei marmi
    L'onorato mio capo, e a le pugnanti
    Schiere in mezzo piombai co'l brando e i carmi.
      Oltre l'alpi esulâr monche e tremanti
    Le teutoniche belve, e il profetato
    Veltro regnò su' ceppi e i troni infranti.
      Entro a l'are venali imprigionato
    Urla fra tanto il traditor Giudeo,
    Che a' danni nostri ed a l'insidie è nato;
      Ma a l'onte occulte e al macchinar suo reo
    Splender più bello e star più saldo io miro
    Solo un vessil da Susa a Lilibeo.
      Pur, se a l'itale muse il guardo io giro,
    Tanta di lor m'assale ira e vergogna,
    Che in volto avvampo, e dentro al cor sospiro.
      Qual mendica erra; qual vaneggia e sogna;
    E qual de l'Istro o de la Senna impura
    L'onda attinge, e le sue membra svergogna;
      E mentre una s'insozza e si snatura,
    L'altra oziando sbadiglia; onde ai lor danni
    Stride lo scherno, e il freddo oblio congiura.
      Or leva, o genio mio, leva i tuoi vanni,
    E tal su'l capo lor fulmina un telo,
    Che la memoria sua viva negli anni.
      Mostro vien fuor da l'iperboreo gelo,
    Che la diva stuprando Arte dei suoni
    D'orrido strepitío streper fa il cielo;
      E strepitando in strepitosi tuoni
    Strepita sì, che a nostre orecchie offese
    Sembran dolci armonie bombe e cannoni.
      Già si affaccia, già invade il bel paese:
    Fuggon le Grazie; e n'han dal ciel spavento
    L'angelo di Catania e il Pesarese;
      Ma chi il senso de l'Arte in petto ha spento
    E ferrea l'alma e assai più ferrei orecchi
    Catechizza le turbe al gran portento.
      O tu, se il genio tuo mai non invecchi,
    Vivo onor di Busseto, a l'empie grida
    Piegherai l'alma, e fia che in lui ti specchi?
      Sorgi; a l'antica melodia confida
    Gli estri, ond'uomini e tempi animi e crèi,
    E lascia i dotti ragli al nuovo Mida!
      Nè fia che in voi non vibri i dardi miei,
    O de l'onnipossente Arte dei carmi
    Sacerdoti non già, ma Farisei.
      Sento tra una venal turba chiamarmi
    Chi d'alma vuoto e d'onestà digiuno
    Libertà grida, e il vulgo aízza all'armi;
      E chi in aspetto di plebeo tribuno
    Giambi saetta avvelenati e cupi,
    E fuor di sè non trova onesto alcuno:
      Idrofobo cantor, vate da lupi,
    Che di fiele brïaco e di lièo,
    Tien che al mio lato il miglior posto occùpi,
      E veggio lo svenevol cicisbèo,
    Che, d'ingegno ventoso e di cor frollo,
    Gratta la cetra in suon di piagnistèo;
      E, incipriato le chiome e torto il collo,
    Co'l ciglio imbambolato e il guardo losco,
    Va a confettar gli stronzoli d'Apollo.
      E tu chi sei, che chiudi il viso fosco
    Ne la larva di Plauto, e stenti e sudi
    A condir vuote ciance in sermon tosco?
      Ben altri stenti omai, ben altri studi
    Chiede Talía, che infarcir motti e scede
    Scevri di senso e di pudore ignudi.
      Più d'una gazza razzola al tuo piede,
    E manda il nome tuo da Battro a Tule,
    Te proclamando di Goldon l'erede:
      Gracchiano al vento come immonde sule,
    Che di grida scomposte il ciel fan sordo,
    Se han pinzo il ventre e molle il gorgozzule;
      E tu di lauri e di nastrini ingordo,
    Qual verme che si pasce in suo pattume,
    Tanto sei fatto omai cieco e balordo,
      Che ancor bianca la voce e il mento implume,
    Piantando il pedagogo a mezza via,
    T'alzi a maestro di civil costume.
      Torna, o stolto fanciullo, al quare e al quia,
    E, se granel di sale anco ti resta,
    Pulisci il socco, e rendilo a Talía.
      V'è chi avendo di liti un guazzo in testa,
    E faría meglio a strombazzar pe' trivi,
    Calza il coturno, e le ribalte infesta.
      Strillan le maghe; corre il sangue a rivi;
    Surgon spettri e vampiri; urlano i morti;
    Vivi i fantasmi son, fantasmi i vivi.
      Pugne, stragi, rapine, incendî, aborti,
    Suon di catene, parricidî, incesti,
    Orgie d'alme e di carni e fusi torti,
      I reconditi intingoli son questi,
    Per cui Melpomenèa briaca e pazza
    Fa che gli spettator rimangan desti.
      O di zebe e di buoi stupida razza,
    Se pur fra tante teste avvi un cervello,
    Quel beccaio urlator cacciate in piazza!
      Chè s'ei dona al suo genio altro rovello,
    Per far la scena a voi stessi più viva,
    Al collo vostro appunterà il coltello!
      E tu d'irti istrïoni orda cattiva,
    Che vendi e insozzi il sofoclèo coturno,
    E vai d'oro superba e d'onor priva,
      Smetti il traffico vil, per cui l'eburno
    Trono de l'Arte e i sacrosanti altari
    Covo son fatti a fornicar dïurno.
      Varcan per opra tua montagne e mari
    Le più turpi di Gallia ibride Muse,
    Che lor facil beltà dan per danari;
      E involgendo la colpa in auree scuse,
    Coronando di fior chimere e mostri,
    Scroccan l'applauso de le turbe illuse.
      Stolte! nè san, che da quei sozzi inchiostri
    Spandesi intòrno sì mortal mefíte,
    Ch'alma e braccio prostrando ai figli nostri,
      Li farà indegni de le glorie avite!—

      Tal suonava il responso. Impallidîro
    Donne e poeti, e si guardar negli occhi
    Irrequieti, silenti. Arse di sdegno
    L'altera alma d'Egeria; arse pur ella
    La florivola Bice, a cui la punta
    De la mal tollerata ira risveglia
    Le isteriche trambasce e invola i sensi;
    Arser su tutte inviperite e fiere
    Antigone e Sofia, coppia gemella
    D'emancipate amazzoni. Ribolle
    Ne le lor vene il maschio sangue; in fronte
    De l'audace Stranier figgon gli sguardi
    Sinistramente; e certo avrían quel giorno
    D'un gran fatto illustrato il nome oscuro,
    Ove Olimpio non era: ei le contenne
    Subitamente, e con gentile e ardito
    Piglio di paladino: A me si addice
    La vendetta, esclamò. Volse lo sguardo,
    Così dicendo al Pellegrin, che muto
    Fra cotanto armeggiar d'ire e di accenti
    Del suo fiero sermon godeasi il frutto.
    Poi replicò:—Lo spirto e la parola
    De l'Alighier qui non si udì: mentite
    Voci dal labbro di costui dettava
    La rea calunnia ed il livor codardo!—
      Balzò a quel dir l'Eroe. Pari a ringhioso
    Stuol di mastini, che, a un rumor lontano
    Desti tutti in un punto a la tard'ora,
    Uggiolando prorompono a la siepe
    Del custodito pecoril: l'un l'altro
    S'aízzano co'l grido, e, a lo sbarrato
    Limitare avventandosi co' morsi,
    Raspano il suol rabbiosamente; allora
    Ch'odono del pastor la voce e il passo
    Si ramansano a un tratto; penzoloni
    Gittan la coda, spianano le orecchie,
    E muti, muti acquattansi; in tal guisa
    Al sorger de l'Eroe tacque l'impronto
    Bisbigliar degli astanti; e con furtivo
    Pavido sguardo e con moto conforme
    I suoi sguardi, i suoi moti ognun seguía.
    Ei favellò:
               —Qual che tu sii, nè al certo
    D'infamia o loda il nome tuo fia degno,
    Stolte parole or proferisti. Hai vôta
    Alma e cervel gonfio di fiabe, ed altro
    Che inutil fiato il labbro tuo non mette.
    Di mutue lodi, e di vulgari incensi
    Pago tu vivi, e teco il gregge: ingrato
    Però il vero a te suona, a te che l'arte
    E la natura e te stesso mentisci!—
    Non si contenne a tal parlar superbo
    L'offesa alma d'Olimpio, e:—Il nome mio,
    Gridò, il saprai, ma con la spada in pugno,
    S'hai fermo il core, e cavalier tu sei!—
    Disse, e come a la cheta ora del vespro,
    Se a' bruni aranci del giardin, da cui
    Pendon purpurei ed odorati i pomi,
    Cantarellando una canzon t'appressi,
    Odi tosto un frusciar d'ali e un pispiglio
    Di furbi passerelli a fuggir lesti;
    Così d'Olimpio al favellar si sveglia
    Sordo intorno un susurro: e chi gli audaci
    Sensi condanna; chi l'ardir ne loda;
    Chi la gagliarda valentía n'esalta;
    E ognun gode in cor suo, che il novo evento
    Nova materia a favellar gli appresti.
    Tu sola dal profondo animo gemi,
    O dïafana Bice, e a lui d'intorno
    Trepidante ti serri, e invan ti adopri
    Dal destinato petto a svolger l'ira.
    In sua tranquilla maestà spartana
    Ei si parte da te, ma non sì lesto
    Da non udir queste parole acerbe
    Che gli gitta l'Eroe:
                         —Gonfia a tua posta
    Di sonanti minacce il dir tuo folle,
    O menestrello paladin: non uno,
    Ch'abbia intera la mente e sano il core,
    Dirà men vero il mio parlar; t'indossa,
    Se pur lo vuoi, maglia e lorica, e al filo
    D'un sordo acciar la tua ragion commetti,
    Ragion degna di ferro; io, finchè splenda
    Agli occhi il Sole e a questa mente il Vero,
    Ragiono e vinco, e i pari tuoi disprezzo!—

CANTO DUODECIMO.

ARGOMENTO.

Lucifero giunge in Roma.—La breccia di Porta Pia.—La festa del Colossèo; durante la quale ascolta l'Eroe alcune voci misteriose.—Voce di Ebrei.—Voce di Numi.—Voce di Sacerdoti.—Voce di Santi.—Voce di Diavoli.—Voce del Tevere.—Voce della Savoia.—Voce della Corsica.—Voce dell'Istria.—Voce di popoli slavi.—Voce della Germania.—Spavento dei beati alla nuova che Lucifero è in Roma.—Santa Caterina da Siena, rimproverandoli acerbamente, si offre di scendere in terra e di piegare con la sua eloquenza il nemico.—Iddio, benchè dubbioso del buon successo, glielo accorda; e, mentre ella si dispone a partire, Santa Teresa dà scandaloso spettacolo della sua pazzia.

    Poichè avvolse così d'alti dispregi
    Le parole d'Olimpio e il reo costume,
    Che risibil comporta il secol nostro,
    L'auree sale d'Egeria e le tranquille
    Sedi d'Etruria abbandonò l'Eroe;
    E a te si volse, o del suo cor supremo
    Desiro e dei suoi passi ultimo segno,
    Tiberina città, che tutta chiudi
    Del popolo latin l'anima e 'l fato.

    Date querce ed allori a le recenti
    Brecce di Porta Pia, date corone
    Al Sabaudo Monarca, itale genti;
    E custode di lor l'inno risuone,
    Che diêr braccia e pensieri
    E la vita al grand'uopo! Are son fatti
    Li trafficati e neri
    Templi dei dieci colli,
    Cui geme al piè, d'onta e di rabbia tinto,
    Chi al ciel serva la terra, e a la codarda
    Fede contenne il Pensier divo avvinto.

      Saldo negli anni, occulto
    Ne l'ombra e tutto cinto
    D'armi e d'insidie, il piè dentro al profondo
    Petto d'Adamo, il capo agli astri, il grido
    Ai poli, eterno si tenea l'infido
    Pescator Galilèo reggere il mondo.
    Ma come avvien, che, rósa
    Dai secoli e dal mare, entro il mar crolla
    A nuovo urto di turbo ispida rupe,
    Che negra e minacciosa,
    Riprodotta da l'onda, al navigante
    Pendea su'l capo, e gli oscurava il core;
    Tal, pugnato dagli anni e più da questo
    Eterno flutto del Pensier, che invade
    Ogni creata cosa,
    Trema, balena e cade
    Il doppio soglio a Libertà funesto.

      Dei primi onori il vanto
    Miete al certo colui, che primo accoglie
    Arduo pensier ne l'alma, e chi l'ignudo
    Pensier ne la feconda opra traduce.
    Dai domestici affetti e da le braccia
    D'ogni più cara illusïon si scioglie;
    E oltre ad uso mortal guardando in faccia
    Ad inaccessi Veri,
    Sordo dei figli e de la sposa al pianto,
    Là sè stesso periglia ove più crudo
    Ferve il conflitto; e a recar vita e luce
    Corre colà, colà vince e procombe,
    Dove più ferrei e neri
    Pugnan fantasmi, e più la notte incombe.

      Però, sola e più degna
    Eternità che al gener nostro assente
    La fatale Natura, a noi nel petto
    Vivrete eternamente,
    Quantunque siete, o eroi
    De l'umano pensier; sia che mutando
    La molle cetra in brando,
    O in viva fiamma di Sofia l'acume,
    O in fulmine la voce,
    Nel più chiuso del cor portaste oltraggio
    A questa vaticana Idra feroce,
    Cui non giovò dar vostre carni a morte,
    Quando la fiamma inesorata e il ferro,
    Che brevemente il corpo vostro offese,
    Ruppe il suo petto, e le sue membra incese.

      Ma non senza gran laude a le venture
    Genti andrà il nome e il grido
    Di chi l'ultimo crollo a la superba
    Mole impavido impresse, onde stupite
    Mirâr le più gagliarde anime, e intorno
    Tremar parve la terra. O benedetti
    Voi, che la vita acerba
    Fidaste, o giovinetti,
    A l'onor del gran fatto, e benedetta
    La destinata mente
    Di Lui, che, custodita entro ai gelosi
    Carceri Adrïanèi la vita inferma,
    Inesorabilmente
    Fulminò a morte indegna
    L'italico vessillo e i vostri petti!

      Veglian su l'infrequente
    Uscio le madri abbandonate, o, accolte
    L'anima tutta nel pensier di voi,
    Lascian piangenti a mercenarie mani
    Le vigilate masserizie, e vanno
    Dove a lenir l'affanno
    Una voce di ciel par che le chiami.
    Ardono i ceri; un'onda
    D'incensi e timïami
    Vaporan l'are; una pietosa, incerta
    Melodia le devote anime inonda;
    E, dentro a un nimbo avvolto
    Di profumi, di suoni e di splendori,
    La sacra ostia consacra, e preci ignote
    Mormora il sacerdote.

      Qual improvviso e fiero
    Tuono per li diffusi archi rimbomba?
    Come dischiusa tomba
    Putre e nereggia il sacro tempio; stride
    Il percosso saltèro;
    Illividito e nero
    Guizzi sanguigni avventa
    Ogni lume, ogni cero;
    Rosseggia l'elevata ostia, ed infetta
    D'orrida tabe, al volto
    De le pie turbe e al cor dardi saëtta
    Di sdegno e di vendetta;
    Urla sui tormentati organi eretta
    La cieca Morte, e invita
    A fiera tresca il pallido Levita.
    Ecco, spumeggia di sangue recente
    Il benedetto calice; volteggia
    Da feroce disio fatto più lieve
    L'inebbrïato Prete…
    Madri, madri, fuggite: il sangue è quello
    Dei figli vostri; il santo vecchio ha sete;
    Madri fuggite: il sangue
    Dei vostri figli ei beve!

      Ma di sangue che parlo? Ecco, fiammeggia
    Sui debellati altari
    Il vessillo d'Italia! Oh! salve, oh! viva
    Nel tuo triplice raggio, iride santa
    Di libertà! Da la percossa riva
    De la tumida Senna ululi avventi
    La piagata nel cor druda di Brenno,
    Cui la vittoria altrui par sua sconfitta:
    Fuor d'ogni modo e senno,
    Ebbra d'invidia, esulti
    Prostituta liberta, e d'impudenti
    Minaccie a te, sacro vessillo, insulti,
    E al nostro Eroe! Giorno verrà, nè incerti
    O lontani presagi al carme io fido,
    Che, ravveduta o stanca
    Dal sozzo amplesso di plebei Caini,
    Te chiamerà, come chi piange. Al grido
    Risonerà l'irta Pirene; e quale
    Iena sorpresa a l'avvenir del giorno,
    L'iberico soggiorno e il reo pugnale
    Lascerà urlando il bieco
    Masnadier di Castiglia. Allor saprai,
    Putta de l'Ebro infurïata, a quanta
    Luce di libertà volgesti il tergo
    Quel dì, che ai tuoi rissosi
    Schiavi t'abbandonò l'italo Alunno,
    E da le regie chiome
    Strappò sdegnoso il serto,
    Pur che la fronte altera
    Erger potesse intemerata al sole,
    E, monda del tuo sangue, al patrio albergo
    Recar la spada ed onorato il nome.

      Venga, oh! tosto, quel dì! Cessi il furente
    Baccar di questa erine
    Licenziosa, a cui
    Vanto di Libertà danno i suoi drudi,
    E quanti han voglia ardente
    Del reo suo grembo e dei suoi fianchi ignudi!
    Ecco, a piccola pugna un'immortale
    Gloria succede: col pensier trïonfa
    Roma, e regina del pensier si asside
    Fra' redenti latini! In alto il guardo,
    Popoli tutti: il Campidoglio è questo!
    Roma è Ragione e Libertà; novella
    Èra incominciai Sugli altari infranti,
    Da un solo amor costrette,
    Gridiam, genti latine: Avanti, avanti!

      Così a l'entrar ne la Città famosa
    Fremeano i sensi de l'Eroe. Solenne
    Era quel dì: rinascea Roma. Ornati
    Di ghirlande d'allori e d'orifiamme
    Splendean ponti, obelischi, archi e teatri;
    E dietro a le giganti Ombre dei morti
    Ivano al Colossèo festosi i vivi.
    Iva anch'esso l'Eroe. Su le rovine
    Titaniche di Roma un fiammeggiante
    Sguardo mandava alto a l'occaso il sole:
    Un incendio parea, da lo cui grembo
    Si liberasse una feroce e bella
    Vergine che diceva: Io son la grande
    Libertà dei Latini!
                        Immenso e solo
    Sovra ai neroniani orti grandeggia
    Il vastissimo Circo, a cui da strani
    Colori e bizzarre ombre un magistero
    Di bengalici fochi; ondeggia il folto
    Popolo, e a' plausi armonizzate e agl'inni
    Le gagliarde fanfare empiono il cielo.
    Non udiva l'Eroe; ben altre voci
    Gli suonavan ne l'alma: echi lontani
    De le passate età, vaghe armonie
    De l'avvenir, preci e bestemmie escluse
    Ad orecchio mortal, ghigni e sorrisi
    D'idoli nani e d'uomini giganti.

VOCE D'EBREI.

      Dai traffici fecondi,
    Unico asilo al pertinace ingegno,
    Da le folte città, dai fremebondi
    Flutti di gonfî mari,
    Sempre io sospiro a voi, sempre a voi guardo
    Con la speranza mia, rive dilette
    Del Giordano natío, raggianti altari
    Dei padri miei, terre da Dio promesse.
    Come al Libano eterno, a cui ghirlanda
    Sono i cari al Signor cedri vocali,
    Drizza il fulmineo vol, come a sua meta,
    L'aquila pellegrina,
    Tal del disio su l'ali
    A voi corre il mio core, e in voi s'acqueta.

      Voi sul monte di Dio spargete al vento,
    Cedri vocali, i rami annosi, e fermi
    Sfidate i nembi e i secoli, mentr'io
    Per terre e per età, ramingo eterno,
    Il suol dei miei nemici
    Bagno del mio sudor, del sangue mio;
    E al flagel de le avverse ire, a lo scherno,
    Che sibila su me freddo e funesto,
    Piego le spalle inermi,
    Spero, e pugno sperando, e mai mi arresto.

      O cedri incliti, invano,
    V'intendo, invan voi non mettete eterne
    Entro al monte di Dio l'alte radici;
    Però ch'eterna, a par di voi, si asside
    La speme del trïonfo entro al mio petto.
    Voi rivedrò! Da queste infauste arene,
    Che del mio sangue tinse
    Tito, delizia de l'umane genti,
    Da ove sorge la notte e il giorno viene,
    Da tutti e quattro i venti,
    Quel divino voler, ch'indi mi spinse,
    Richiamerà, nè fia lontano il giorno,
    Il vincente Isdraello al suo soggiorno!

VOCE DI NUMI.

    Esuli affaticati,
    Senza speme di vita e senza regno,
    Fuggiam, cadiam sotto al flagel dei fati,
    Del pensiero de l'uom ludibrio indegno.

      Il serto luminoso
    Del poter nostro ov'è? Dove il raggiante
    Trono del sole e i sempre verdi alberghi
    De l'Ida? Ove il temuto
    Folgore e le sedotte
    Figlie de l'uom? Tutto d'intorno è muto
    A noi; squarciasi il velo,
    Da l'inganno tessuto,
    Che lieve sosteneaci a mezzo il cielo;
    Manca il cielo a nostr'orme: i fior, la luce,
    L'amor, la giovinezza, il paradiso,
    Tutto a un punto dissolvesi
    Al fiero lampo de l'uman sorriso.

      Esuli affaticati,
    Senza speme di vita e senza regno,
    Fuggiam, cadiam, sotto al flagel dei fati,
    Del pensiero de l'uom ludibrio indegno.

      O miserando e gramo
    L'esser nostro di Numi, ove al talento
    Di mortal plebe abietta,
    Qual nebbia vana ad agitar di vento,
    Sorgere a caso e dileguar dobbiamo!
    Ove andrem noi? Di amici astri deserto
    È il ciel; d'altari è brulla
    La terra; inesorabile si avanza
    La Verità; l'Oblio ne inghiotte e il nulla…
    Oh! fosse dato almeno
    A noi mutar sembianza,
    Gioir l'aere terreno,
    Scendere in terra e aver con l'uom possanza

VOCE DI SACERDOTI.

      Tramonti pur, tramonti,
    O fuggevole Iddio, la tua possanza;
    Noi terrem contro al fato erte le fronti.

      D'imbelli anime è stanza
    La terra; e noi teniam su l'alme il piede:
    A te il ciel manca; a noi la terra avanza.

      Più che astuti noi siam, cieco è chi crede;
    Cada Saturno, o Gèova,
    Mai non cadrà dal petto uman la fede!

VOCE DI SANTI.

        O misera e fugace
      Vita de l'uom, che speri?
      Non ha trïonfo e pace
      Questo agitato vortice
      Di affanni e di piaceri.

        Come in silice abietta
      Prigioniera scintilla,
      Così l'anima, eletta
      A miglior sorte, ascondesi
      Ne la mortale argilla.

        Dio ve la chiuse; al solo
      Cenno del suo pensiero
      Ella discioglie il volo,
      Mesce il suo raggio a l'iride
      Del sempiterno Vero.

        Soffriam: de la romita
      Alma, che piange e crede,
      Cibo, lavacro e vita
      Son la Speranza eterea,
      La Carità e la Fede.

VOCE DI DIAVOLI.

      Che val pascer di vuote
    Fuggitive speranze il cor digiuno?
    Navigar co'l desio regioni ignote
    Derelitti nocchieri a l'aër bruno?

      A noi prescrisse un segno
    La diversa Natura, e mal n'è dato
    Spinger oltre il poter l'audace ingegno,
    Cercar ne l'ombre e battagliar co'l fato.

      Han pur queste fugaci
    Ore terrene alcun sorriso e fiore,
    Ha battaglie il pensier, le labbra han baci,
    Vita la terra, e inferno e ciel l'amore!

VOCE DEL TEVERE.

      Molte sul dorso antico
    Storie nefaste io porto,
    Molte nei gorghi miei storie nascondo;
    Ma, poi che per età son fatto accorto,
    Freno il flutto iracondo,
    E al mar mio grande amico
    Al vecchio mar le vecchie storie dico.

      Dal mobile soggiorno
    De l'onde cristalline,
    Coronate di perle e di coralli
    Corrono a me le azzurre Ocëanine;
    E melodia di balli,
    Per quanto è roseo il giorno,
    Voluttuöse a me tessono intorno.

      Ond'io, fatto loquace
    Da la vista amorosa,
    Assiso in mezzo a lor canto le strane
    Vicende de la mia storia famosa;
    Mentre su l'onde piane
    Con la sua mesta pace
    Siede la stanca luna, e l'aura tace.

      Tutta allor torna viva
    Nel mio canto fatale
    De le vetuste età l'aurea leggenda:
    Quando la Fede a la Giustizia uguale,
    E deïtà tremenda
    Era la Legge, e diva
    Cosa la Patria e chi per lei moriva.

      Taccio però l'offesa,
    Che a l'aquile di Giove
    Recò una turba di feroci imbelli;
    Taccio il baglior di queste genti nuove;
    Però che sui ribelli
    Flutti lasciata illesa
    La croce di Gesù troppo mi pesa.

      Ma un dì, se l'onte atroci
    Non moveranno alcuno
    Che in me l'affoghi e d'ogni onor la privi,
    Io parlerò: sentirà allor ciascuno
    Di questi rei malvivi
    Tuonar con ferree voci
    L'eloquenza dei miei flutti feroci.

      Fuor dai percossi fini
    Proromperò, indomato
    Dèmone; stenderò l'onda funesta
    Sui colli; segnerò l'ultimo fato
    All'ara, al trono, a questa
    Degna dei suoi destini
    Plebea ciurma di Borgia e di Tarquini!

VOCE DELLA SAVOIA.

      Dal trono de la gloria ove tu sei
    Ricca d'armi, di mente e di fortuna,
    Madre Italia, ricorda i figli miei,
    Ora che amor tutti i tuoi figli aduna.
    Pensa che nel dolor giace colei,
    Ch'a' guerrieri tuoi re diede la cuna,
    Da te divisa e serva a lo straniero
    Lei che fu patria al redentor Guerriero!

      Ben prudente consiglio esser potea
    Gittar mie carni al fero augel francese,
    Quand'anco incerto il tuo destin pendea,
    E tronche a mezzo eran le patrie imprese.
    Ei che il sangue per te versato avea,
    Tarpò il tuo volo, e il sangue mio richiese;
    Io, ch'ebbi il tuo più che il mio ben diletto,
    Tacqui, ed offersi al sagrificio il petto.

      Ma or che forte e secura e di te stessa
    Donna, per propria via, splendida incedi,
    Tanta virtù non m'è dal ciel concessa,
    Ch'io taccia ancor de lo straniero a' piedi;
    Di lui, che, d'ogni error l'anima ossessa,
    Contro il suo petto infurïar tu vedi,
    E dal reo brago, ove ognor più s'ingora,
    Giudicar osa e minacciar tuttora!

VOCE DELLA CORSICA.

      Già non dirò, che prima
    Fra l'isole tirrene
    D'ogni bellezza opima
    Sono albergo di ninfe e di sirene:
    Ad altri il debil vanto
    Di molli aure e di fiori
    Ed il femmineo canto
    E i florívoli amori.

      Cirno son io: de l'onda
    Che mi flagella i liti,
    Qual d'armonia gioconda,
    Serbo nel seno i liberi ruggiti;
    D'odio, d'amor, di sdegno
    Facil s'accende il petto;
    Pronto il braccio e l'ingegno
    Al par del mio moschetto!

      O madre Italia, e vuoi
    Che da te svelta io giaccia?
    Ch' io non aduni ai tuoi
    I miei sensi, i miei fati e le mie braccia?
    Chiedi gemme e tesori?
    Gemme e tesori ho anch'io:
    Gemme? I miei patrî allori;
    Tesori? Il popol mio!

VOCE DELL'ISTRIA.

      O tu, Sir del vetusto
    Trono d'Asburgo, invano
    Offri al Sabaudo augusto
    Pegno d'alta amistà l'ambigua mano.
    Credi, levar l'artiglio
    Dal fianco mio, dov'hai la piaga aperta,
    Saría miglior consiglio
    E più regale offerta.

      Tra noi di pace è questo
    Unico patto e degno;
    Chè il simular molesto
    D'astuzia rea, non di fortezza è segno.
    Placate allor, lo spero,
    Sorrideranno al tuo regale albergo
    Le nostre Ombre dal nero
    Ciglion de lo Spilbergo.

VOCE DI POPOLI SLAVI.

      Qual grido funesto risuona sul monte?
    Qual gemito cupo si leva d'intorno?
    È forse la Vila dal lucido fronte,
    Che cinta di nembi si slancia nel ciel?
      In cima a la rupe, nel niveo soggiorna
    Riposa la diva le membra sue snelle;
    Le danzano in giro le rosee donzelle,
    La cullano i canti d'un astro fedel.

      Fra l'ombre solenni, fra l'irte boscaglie
    Forse urlan le belve pugnanti a la preda?
    O, attorte agli abeti le rabide scaglie,
    Di Bàlkan le serpi lingueggiano al Sol?
      O figli di Serbia, se il cielo vi veda,
    Balzate dai sonni, lasciate le selve:
    Più fieri serpenti, più rabide belve
    A l'aquila nostra tarparono il vol.

      Ferita a Cossòvo dal turpe Islamita,
    Perduto il remeggio de' giovani vanni,
    Dai campi raggianti di gloria e di vita
    Ne l'ombre di morte, stridendo, piombò.
      Sbucâro i ladroni giurati ai suoi danni
    Dai scitici ghiacci, da l'Istro interdetto;
    La fissero in croce, sbranaronle il petto;
    Chi men le diè strazio men prode sembrò.

      Ah! dove in quel giorno, dov'era il tuo brando,
    O Marco, o di Serbia speranza immortale?
    Conosci e sostieni lo strazio nefando?
    O il sonno e la morte ti avvinser così
      Che nulla più curi? La morte? Il fatale
    Momento di morte per lui non arriva:
    Mutate la nenia ne l'oda festiva;
    Ei dorme, si scuote, risvegliasi al dì!

      Ei sorge, si appressa: de l'antro fatato
    Risuona ai suoi passi la volta profonda;
    Il negro cavallo gli scalpita allato;
    Gli mette baleni lo sguardo e l'acciar.

      Già monta in arcioni; la turba il circonda;
    Il corpo squarciato si unisce e cammina;
    La schiava spregiata si leva a regina;
    La tomba dei prodi diventa un altar!

VOCE DELLA GERMANIA.

      O prima reggia del Pensiero, augusta
    D'idee madre e di genti,
    Patria del gener nostro Asia vetusta,

      A te col grido dei perfetti eventi,
    Vetusta Asia, il saluto
    La libera Germania alza su' venti.

      Odi: stridono ancor su'l combattuto
    Reno i miei plaustri; echeggia
    Il mio vittorïoso inno temuto;

      E con securo il vol come in sua reggia
    Quant'è di cielo intorno
    Di Brandeburgo l'aquila passeggia.

      Sorgete, o voi dal feüdal soggiorno,
    Tremende Ombre, sorgete,
    Fiere stirpi d'Arminio, al novo giorno;

      E voi che sul divin Tebro scorrete,
    Secure Ombre, e la nova
    Stirpe latina a magne opre accendete,

      Venite: a la funesta ira non giova
    Dar l'alma, or ch'ogni gente
    Guida un solo pensiero a varia prova.

      Voi condurrò nel mio volo possente
    Dove com'aureo sole
    Poggia di Brama la magion lucente;

      Dov'erge l'Imalai l'intatta mole,
    Ed a la Ganga in giro
    Del loto degli Dei splendon le aiuòle.

      Come giorno che irradia il vasto empiro,
    Tal da le rive bionde
    Sorger tranquilla una gran luce io miro;

      E a la gran luce un'armonia risponde,
    Da cui senso e pensiero
    Prendon l'aure, le stelle, i fior, le sponde:

      —Smetti, o figlio del Lazio, il vanto altero,
    E tu, d'Arminio figlio,
    Riponi il brando insanguinato e fiero!

      Se l'un ne l'altro insanguinò l'artiglio,
    Roma lo sa; lo sanno
    De l'Elba i flutti e il Reno ancor vermiglio.

      Troppo fra voi di servo e di tiranno
    Voce sonò: gli avelli
    Son anco aperti, ed ancor vivo è il danno.

      Ma se i miei sensi al ver non son ribelli,
    Io qui da questa sponda
    Secura griderò: Siete fratelli!

      Là sul vasto altipian radice e fronda
    Pose l'Arìana antica
    Pianta, che fu di molto fior feconda;

      E se il turbo la svelse, e la nemica
    Sorte ne infranse i molti
    Rami, i germi educò la terra amica;

      Onde sott'altro ciel giovani e folti
    Sorser mutati, e fûro
    Da inconscia man moltiplicati e còlti.

      O gente cieca, a cui pur l'oggi è oscuro
    Voi de l'Arìana pianta
    Siete due rami, in faccia al Ver lo giuro.

      L'un s'infrondò su'l Campidoglio, e tanta
    Arbore al ciel spiegossi,
    Che cadde alfin dal proprio peso affranta.

      Tal su l'altro di nembi ira sfrenossi,
    Che le pigre ombre e 'l gelo
    Fuggendo e da pugnace indole mossi

      I suoi fieri cultor sott'altro cielo
    Ruppero, e fûro al corso
    Tigri, e demòni al fulminar del telo.

      Serrate, o stolti, a l'ire orrende il morso;
    E più dei truci acciari
    Abbia su'l vostro cor punta il rimorso!

      Entro al fin dei suoi monti e dei suoi mari
    Vigili ognuno, e il volo
    Sfreni al pensier, che fa temuti e chiari.

      Vedrete allor da l'uno a l'altro polo
    Sorger le genti, e avranno
    Per sentiero diverso un pensier solo;

      E, spento prima ogni desío tiranno
    Ed ogni error conquiso,
    Fide a Giustizia e a Libertà staranno!—

      Salve, o diva Scïenza; al detto, al viso
    Che sopra ogni altro estimo,
    Ai voli rutilanti io ti ravviso!

      Per te del mio pensier l'ali sublimo;
    Per te nei sanguinosi
    Studî de l'armi il popol mio va primo.

      Tu che, amica de l'opre, i neghittosi
    Ozî diradi, e vivi
    Vigil sempre ed eterna e mai non posi,

      Tu che redimi a libertà i captivi,
    I restii sproni, e godi
    Sovra l'ombre versar la luce a rivi,

      Tu, assidua e paziente il tempo rodi;
    Tu i diradati stami
    Dei popoli dispersi ordisci e annodi.

      Da l'abisso dei morti anni richiami
    L'ossa eloquenti: ritte
    Composte in scheltri in sugli altari infami,

      Gridan così, che a mezzo il cor trafitte
    Da la parlante luce
    Precipitan le sacre Ombre sconfitte.

      Salve, o diva Scïenza; auspicio e duce
    D'ogni grand'opra; ai santi
    Regni del Vero e a Libertà ne adduce
      La voce tua, che grida sempre: Avanti!

      Poi che al veggente immaginar l'altero
    Ribellator degli uomini si tolse,
    E mirò intorno il vasto Circo, un alto
    Silenzio s'assidea sui tenebrosi
    Menïali titanici, e fra' rotti
    Pilastri ed i corintî archi passavano
    Lunghe file di mute Ombre e la luna,
    Ei mirava e tacea. Ma tu nei santi
    Penetrali del ciel già non tacevi,
    Gran signor dei beati: acre e vorace
    Ti rodea l'alma una gran cura; e come,
    Se fra poche pareti arda un occulto
    Foco, di quante masserizie ha intorno
    In pria fa preda e cheto si alimenta,
    Finchè di sua virtù gonfio e superbo
    Tutto divora il chiuso aere, dirompe
    L'avverso tetto, e al ciel, mugghiando, esplode;
    Così del padre dei Celesti a un punto
    Proruppe la repressa ira, nudrita
    D'antiche onte e di cure; a mezzo i morbidi
    Guanciali alti si eresse, e si folcendo
    Del tentennante cubito, in tal guisa
    Parlò ai beati ivi a consiglio accolti:
      —O beati, se pur lecito è ancora
    Con tal nome chiamarvi, or che le pingui
    Mense e i tiepidi letti, unica gioia
    Di voi sereni abitator del cielo,
    Sparecchiar ne minaccia un rio destino,
    Beati, a voi di gran stupore obietto,
    E il vi leggo su'l fronte, è ch'io vi aduni
    A insoliti consigli, io che finora
    D'ogni assoluto mio voler fei legge
    A le vostre cervici, a cui fu somma
    Virtù il tacere e l'ubbidir. Se or muto
    Al gagliardo agitar di venti avversi
    I propositi miei, già non direte,
    Che sopraffatto o paventoso io pieghi:
    Fermo son io, siccome il sole; e questa
    Picciola libertà, ch'oggi vi assento,
    Vuo' che qual liberal dono s'accolga.
    Di che perigli il regno mio sia cinto
    È noto a voi, che spennacchiato e stracco
    Redir vedeste un giorno ai nostri alberghi
    L'Arcangelo Michel, lui, già tremendo
    Fulmin di guerra e condottiero invitto
    De le nostre legioni. A lizza estrema
    Col superbo Lucifero si spinse
    Ardimentoso, e gli ridea negli occhi
    La securanza del trïonfo: inerme,
    Rotto dal lungo battagliar co' flutti
    Gli si opponeva il gran Ribelle, e un ghigno
    Solo, un sol ghigno a debellar gli valse
    L'adamantina ira celeste. Io taccio
    L'altre sconfitte, e la più grande e indegna
    Per avventura e più recente: io stesso,
    Io l'eterno Signore, io… ma gagliardo,
    Onnipossente ed infallibil sono
    Siccome un dì! Solo provar voll'io…
    Fu soltanto una prova; e alcun non osi
    Ricercar con profano occhio gli abissi
    Del mio pensier! Questo saper vi giovi,
    Che il mio nemico, il gran ribelle è in Roma!—

      Disse, e un sospir traendo, giù di peso
    S'abbandonò su le soffici piume,
    A cui di sotto scricchiolar compresse
    L'agili spire dei cedenti ordigni,
    Che di acciaro eran tutti, A quella guisa
    Che fra un popolo avvien, che, scosso un ferreo
    Giogo di servitù, sfrenasi ai novi
    Deliramenti e a l'oblïosa ebbrezza
    De l'acquistata libertà: risuona
    D'inni ogni via; tuonan le piazze al grido
    Dei Catoni d'un giorno; ardon le notti
    D'assidui fochi, a cui tripudia in giro
    Clamorosa la plebe; ove fra tanto
    Spensierato tumulto odasi il cupo
    Reböar del cannone, un improvviso
    Pallor si sparge in tutti i volti; tacciono
    Gl'inni, spengonsi i fuochi, in varia fuga
    Mugghia qual mar l'immensa folla, sperdesi
    Per le vie, per le piazze; odi a l'intorno
    Un chiamar sospettoso; un concitato
    Serrar d'usci, e suonar per la deserta
    Via dei pochi animosi il passo e il grido;
    In simil guisa al favellar del Nume
    D'improvviso terror si ricoperse
    L'anima e il volto dei Celesti, a cui
    Solo è dolce allegrar gli ozî immortali
    Di concenti, di danze e di conviti.
    Si sgomentâro a la terribil nuova
    Anco i pochi gagliardi; ed altri in volta
    Diêrsi precipitosi, altri in querele,
    Altri in preci. Piangean le vereconde
    Dive, e al petto ed al crin faceano offesa;
    Battean le picciolette ali indorate
    I paffutelli Cherubini, e indarno
    I bellicosi Arcangeli in piè ritti
    Fan sdegnosa rampogna ai fuggitivi.
    Scrollava il capo il divin Padre, e:—Imbelli,
    Gridava, imbelli; ecco, qual pregio io traggo
    Da l'aver per sì lunghi anni impinguati
    I non mai sazî fianchi vostri! Avessi
    Nudrito oche! Potrei nei delicati
    Èpati almen delizïare il dente!—

    Si chetarono alquanto, e vergognosi
    Stettero. Allor dal radïoso scanno
    Rizzossi in piè la diva Cate, illustre
    Italo germe, e dei tuoi monti onore,
    O belligera Siena, a cui più volte
    Diè femmineo valor soccorso e grido.
    Girò il guardo a l'intorno, e, nel capace
    Petto premendo una gagliarda impresa:
    —Arrossite, sclamò, voi non già eterni
    Spiriti, non pur uomini nè donne,
    Ma ventri e piedi senza sesso! Oh! foste
    Tutti esclusi dal ciel! Ma già di voi
    Cura io non ho: d'incliti spirti ancora
    Forte presidio ha il paradiso, e quando
    Fosse infranta ogni spada, infranta al certo
    Non saría la mia lingua! Or tu mi ascolta,
    Eterno Padre, e voi mi udite, alteri
    Spiriti: in terra io scenderò soletta,
    Inerme, come il dì, che a pace astrinsi
    Di Pier le chiavi e di Fiorenza il giglio;
    O come allor che a l'interdetta chioma
    Di Clemente strappai l'aureo triregno,
    E a schiacciar la fischiante Idra sospinsi
    Sul carro de la Fede il saggio Urbano.
    In Roma andrò; starò di fronte al fiero
    Lucifero; e se ancor serba qualcuna
    Di sue virtù questo mio labbro, ho fede,
    O d'indurlo a tornar nel derelitto
    Regno de l'ombre, o persüaso e vinto
    Rendergli l'ali e ricondurlo in cielo.—

    Tacque; e del suo parlar paga si assise
    In sua beltà. Fremean d'assenso intorno
    L'auree sedi del ciel; quando con voce
    Di tutta tenerezza, e la mirando
    Con dolcissimo sguardo:—Oh! che tu speri,
    Che tenti mai? l'esperto Iddio rispose;
    Lucifero domar? lui che de l'ira
    Di tutto il cielo e di me pur si ride?
    Tutta non fosse congiurata ai nostri
    Danni la terra, agevol cosa invero
    Il domarlo saría; ma come rupi
    Stanno le fronti dei mortali erette
    Contro ai fulmini miei; sfrenato e baldo,
    Qual cavallo che irrompe a la battaglia,
    Corre il Pensier, che, divorato il breve
    Tramite de la terra, al ciel si lancia.
    Annientarlo io potrei, ma me'l divieta
    Un'occulta prudenza! Oh! sì ti fosse
    Dato il frenarlo e ricacciarlo ai neri
    Báratri, là dove il mio sdegno un tempo
    Fitto l'avea con ferrei chiodi! Il cielo
    Non avría stella mai che fosse degna
    D'incoronarti! Ma timor mi accora,
    Ch'opra vana tu tenti, e de l'ardito
    Generoso tuo cor vittima resti!—
    —E vittima sia pur, balzando disse
    La divina Sanese: un dì potevi
    Ricondurre vincente al patrio albergo
    Una mortale di Betulia; io diva
    Imploro a te pari soccorso, e parto!—
    —Ma egli è un vecchio barbogio, egli è un fantoccio!—
    Gridò in quel punto una stridula voce,
    Bizzarramente modulando il verso.
    Si conversero tutti a l'empio grido
    Inorriditi, e ignuda in su la soglia
    Videro sghignazzar ballonzolando
    L'insanita Teresa. Era già il fiore
    Del paradiso; ora istecchita e nera,
    Rapata il crin, gli occhi sbarrati e pazzi,
    Salti facea sugli spolpati stinchi,
    Come scimmia strillando. Avvinto a un refe,
    Che a' vizzi fianchi le facea cintura,
    Giù pendevale un foglio, o fosse un brano
    Del vangelo di Marco, o un'ispirata
    Lettera, ch'ella avea nei suoi bei giorni
    Fra l'isteriche ambasce a Dio già scritta.
    Tremâr di sdegno a tanto osceno aspetto
    Gli angioli santi, e gracidâr commosse
    Le stagionate vergini, che assise
    Qua e là pe' remoti angoli, a Dio
    Biasciano tutto dì salmi e preghiere.
    Drizzâro a stento l'aggobbite schiene,
    E, sguardando di sopra a' tentennanti
    Su la punta del naso argentei occhiali,
    L'infelice avvisâr; brandîr con fiero
    Piglio i lunghi rosarii e i crocifissi,
    E già già si avventavano; ma stesa
    Il buon Dio con pacato atto la destra:
    —Perdonatele, disse, e a la sua cella
    Dolcemente traetela. Infelice!
    Troppo osò co'l pensier farsi vicina
    A la fiamma del Vero, e in questa guisa
    Del suo folle ardimento or paga il fio.—
    Così dicendo, con paterno affetto
    Schiuse le braccia, strinse al cor la bionda
    Testa di Cate, e le concesse in fronte
    Il caro bacio del commiato. Altera
    Di cotanto favore ella si avvìa
    Fra' plaudenti Celesti; inni e saluti
    Le mandan l'arpe. Ai suoi custodi intanto
    Sguizza di man la santa pazzarella,
    E, sovra il naso il pollice appuntando,
    Ghigna, sgambetta, e saltellando involasi.

CANTO TREDICESIMO.

ARGOMENTO.

Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde d'animo, e, invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all'amore, e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti dell'Eroe.—Alcuni Angeli, sedotti dall'esempio, disertano il cielo, e cantano il desiderio della terrena voluttà.—Ultime ore di Pio IX; a cui apparisce l'Ombra di un solitario, che, non valendo a persuaderlo di rinunziare al dominio temporale della terra, lo lascia in preda a spaventose visioni.—Una vittima delle stragi di Perugia.—Due decapitati.—Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono.

    Vestitevi di rose, aride arene
    Del Colossèo! Se a fecondarvi, indarno
    Scorse a fiumi su voi degli ostinati
    Martiri primi e de le belve il sangue,
    Valga a farvi fiorir la dïuturna
    Prece di Pio: l'augusto veglio è padre
    D'ogni portento, e tutto può. L'han chiuso,
    Qual recidivo malfattor, nei templi
    Transteverini; e, com'è ver, che al cenno
    Del suo divo pensier struggesi in pianto
    La sacra effigie di Maria, dai ceppi
    Egli uscirà vittorïoso e forte,
    E di vergini gigli incoronato
    Ascenderà securamente al cielo.
    Or, mentre aspetta il sacro giorno, e inqueti
    Giacciongli al piè l'anàtema e la scure,
    Volga ad altr'opre il non fallibil petto
    Egli che, fabro di verginee madri,
    I dolci nati de le madri uccide
    Con serafico istinto. Un improvviso
    April fiorisca il Colossèo; discende
    A battagliar Lucifero l'altera
    Amazzone di Siena, a cui più spade
    Volse il facile eloquio e la virile
    Beltà, che doma ogni poter. Chi vide
    Entro al sereno immaginar del mito
    Lieve il piè, cinta il vel, rosea le forme
    Volger la fuggitiva Ebe fra' Numi,
    Quei dirà qual fioría grazia e splendore
    Di giovinezza e di salute in volto
    De l'ardita Senese, allor che al guardo
    De l'orgoglioso Apostolo ad un punto
    Si appalesò. Muto ei sedeva in cima
    A un dirùto pilastro, e la raggiante
    Misterïosa immensità del cielo
    Gli pendeva su'l capo: eran più vaste
    Più chiare assai le sue speranze, e acuto
    Più del guardo del Sole oltre a le cupe
    Reggie d'azzurro il suo pensier vedea.
    Meditava così: Dentro a l'audace
    Spirto de l'uom fervida alfin si stampa
    L'immagin mia; vantino uranghi e numi
    A lui simile aspetto: il suo pensiero
    A me rassembra, e il suo destino è il mio.
    Libero già d'alte paure, scevro
    D'ogni fallace illusïon di senso
    Vuole, conosce e può; spezza il segnato
    Limite del mistero, e dove è luce
    Ivi il suo campo e il regno suo prescrive.
      Così parlava dentro al cor; ma in quella
    Che l'armato pensiero apríasi il varco
    Ad alate parole, eccogli incontro
    Sorger la Dea, che de l'eloquio ha il vanto.
    Stupì l'Eroe di tanta vista, e, tutto
    Ne la diva fanciulla il viso assorto,
    L'ardimentosa giovinezza e gli atti
    Securamente mansuëti e il lume
    Di sì maschia bellezza iva ammirando
    Silenzïoso. Anch'essa Dea non senza
    Stupor mirava il gran Ribelle, e come
    Una mesta pietà prendeale il core
    Secretamente. Alfine in questa forma
    Prese a parlar:
                   —Superbo e sventurato
    Angiolo, nè so dir se in te più sia
    La superbia tenace o la sventura,
    E come puoi di tanto umile stato
    L'aspetto solo comportar, tu primo,
    Già primo, or fatto di pietade obietto,
    Fra le schiere del ciel? Misero! e dove
    Son l'ali tue? Dove la schietta luce
    Del tuo fronte immortal? Scemo di tutte
    Doti del cielo, a un passeggero e reo
    Figlio d'Adamo io ben ti assembro, e nulla
    D'eterno hai più, fuor che la tua sventura!—
    —E la sventura è la ricchezza mia,
    Bella figlia del ciel, così a dir prese
    L'onor di Lui che da la luce ha nome;
    Tesoro è il pianto, a cui null'altro agguaglia
    Ne la terra e nel mar. Povero e gramo
    Cultor l'arido solco apre a fatica,
    Ed una al seme ed al sudor gli dona
    Le speranze sue belle. Ispido e bianco
    Sibila tra l'ignude arbori il verno,
    Croscian piogge e gragnuole, e giù ridondano
    In tumulto i torrenti: il poverello
    Guarda tremando i duri prati, e al magro
    Desco seduto a la sua donna a lato
    Pur dolorando il bel tempo predice,
    Finchè tutt'oro il crine e in man la falce
    Esce il fervido giugno, i mareggianti
    Campi sorvola, e generoso adempie
    Di bionda mèsse i rustici abituri.
    Così egregia mercede a l'uom prepara
    L'esperimento del dolor. Dai solchi
    Seminati d'umane ossa fuor balza,
    Santa prole de l'opra e de l'affanno,
    La Libertà, premio ai costanti: umana
    Diva, ignota ai Celesti, ella inghirlanda
    Dei raggi suoi l'ardue fatiche, e serba
    Ad ogni affanno una vittoria. E quale
    Dono è quaggiù, che non da lei derivi?
    Per essa han luce ed armonia le genti
    E veritade ed uguaglianza e vita,
    Poi che vita non ha, nè veramente
    Uomo è chi giace in servitù, ma ignaro
    Bruto, ch'à in sorte il brago e la catena.
    Vivon sol d'essa i generosi, ed io
    Son la sua voce, e gli ozïati scanni
    Del ciel per essa e volentier sdegnai.
    O solenni cadute, o glorïose
    Sconfitte, a cui libera vita io deggio,
    Ricordando, mi esalto! E dovea forse
    Crogiolarmi fra' sogni aurei del cielo
    Eternamente, io re degl'irrequeti
    Spiriti? Assiso ai tiepidi banchetti
    In silenzio vorar le dispensate
    Manne, io figlio de l'opra? Erger le palme
    Supine a Lui, che, del suo nulla esperto,
    Pur ne l'impero de l'error si ostina?
    La terra elessi, ed ei cadrà! De l'ali,
    Ch'ebbi inutili al dorso, armai la mente;
    De la luce del fronte il petto istrussi;
    Con l'uom piansi ed amai: scrissi co'l sangue
    Le sue vittorie; e già n'è presso il giorno,
    Che Dio dal regno e da la vita escluda!—

    Rabbrividía come per febbre al fiero
    Parlar la diva, e da' superbi accenti
    Con la candida man schermía l'orecchie
    Inorridita; nè risposta alcuna
    Formar può, nè fuggire osa. Ben gli alti
    Gesti de la sua vita e il dir facondo
    E l'audace promessa a Dio giurata
    Vergognando rimembra, e non sa quale
    Fascino occulto or l'incateni innanzi
    A l'avversario suo feroce e bello.
    Dicea fra sè: Molti in virtù prestanti,
    Molti in bellezza e in favellar maestri
    Conobbi al mondo animi egregi; ha il cielo
    Angeli molti, a le cui rosee membra
    Vestimento è la luce e amplesso eterno
    La giovinezza; or qual virtù ha costui,
    Che sì mi svolge ed incatena il senno?
    Così pensando, a l'anima dubbiosa
    Fa forza; di rigore arma l'aspetto,
    Cerca austere parole, e questi invece
    Le vengono dal core umili accenti:
    —Angelo, oh! soffri ch'io t'appelli ancora
    Co'l tuo nome perduto; e che ti giova
    Per questa ultima sfera ir pellegrino
    Qui dove segue a la fatica il pianto
    E ad entrambi la morte? Assai feroci
    Detti hai parlato or or; ma una parola
    Melodïosa, o che mi falli il senso,
    Una dolce parola anche dicesti,
    Che a perdonarti ogni fallir m'induce:
    Pianto ed amato hai tu? Radice ha in terra
    Ne l'empia terra anche ha radice amore?
    Oh! come il viver coi mortali il senno
    Pur dei forti travolge! Il paradiso
    Oblïato hai così? Non sai che vita
    E stanza e reggia ha solo in ciel l'amore?
    Vieni, oh! vieni con me! Là, nel tranquillo
    Regno degli astri al buon Iddio da presso
    Vivrem vita serena; e in quella pace
    Troverai la tua patria e l'amor mio!—
      Tacque tremando, ed arrossía. Fu lieto
    Di quei detti l'Eroe, però che vide
    Su cotanta beltà certo il trïonfo,
    E l'incalzò con queste voci:
                                —O chiara
    Sopra a tutte le dive e la più bella
    D'ogni terrena creätura, eguale
    Solo a colei ch'è del mio cor regina,
    E che parli d'amor tu che nel cielo
    Al banchetto degli angeli ti assidi,
    Ove straniero e dispregiato è amore?
    Ben di tutta pietà degna t'estimo,
    Se amore altro non sai, che la fallace
    Larva impotente, che il gran nome usurpa,
    E i parvi e non interi angeli illude!
    Tutta ossessa di Dio, fiera dei molti
    Trïonfamenti de la tua parola,
    Da la terra passasti, e ti fu oscura
    La vittoria miglior che donna ambisca,
    La dolce voluttà de l'esser vinta.
    Oh! cedi a me, cedi e trïonfa! Amore,
    Terreno iddio, che fa pensier la creta,
    Ti apprenderà come si vince: ei solo
    Mi süase a pugnar contro a le cieche
    Menti del cielo; ei qui mi addusse; ei muta
    Ogni lagrima in fiore, e a le dubbiose
    Anime ignare il vero Èden insegna!—
      Parla, ed a lei che muta trema, e intorno
    Päurosa si volge, apre le braccia
    Supplicando con gli occhi, e in un amplesso
    D'avidi baci l'anima le serra.
      Cadea fra tanto il Sol; cheto e deserto
    Era il loco; salían come invocate
    Rapide al ciel le grandi ombre notturne,
    E Amor lesto venía. Cedea la bella
    Diva; e quando con man trepida e tutto
    Fiamme e palpiti il cor, la virginale
    Zona ei le tenta, ed ambi ansano, ignoti
    Mondi ella vede: arde d'immenso aprile
    La terra; giù dal ciel scendono in folla
    Cento e cento lucenti angeli, e, fatta
    Di sè fra terra e cielo ampia corona,
    Sciolgono l'arpe al suon, le voci al canto:
      —Stanchi di tesser danze
    Di cento arpe al ronzío
    Ne le lucenti stanze
    De la magion di Dio,
    Scender soleano un giorno
    Gli angeletti scapati
    Là nel mortal soggiorno
    De le figlie de l'uomo innamorati.
      Nei freschi antri, su' fiori
    Tremolanti a la brina
    Ponean l'ali e gli albori
    De la fronte divina;
    E, colto il bacio primo
    Sovra le bocche ardenti,
    Schernían gli astri, e da l'imo
    Radïavan più belli e più possenti.
      Lascia or l'eterea sede
    L'inclito onor di Siena:
    D'intemerata fede
    L'alma loquace ha piena;
    Al gran Ribelle incontro
    Tumida sorge; e quando
    Spera, che al primo scontro
    Vinto egli fugga in volontario bando,

      Ecco, dal labbro il detto,
    Come spuntato strale,
    Cadele; al dolce aspetto
    Del gran Fattor del male
    Pallida trema; al laccio
    D'Amor l'anima assente,
    Scorda sè stessa, e in braccio
    Del rivale di Dio bello e possente,

      Immemore del cielo,
    Donasi, Oh! vaga, oh! bella!
    Già del vergineo velo
    Scevra, com'aurea stella,
    Splende; da l'ansio viso,
    Da le membra sincere,
    Ignoto al paradiso
    Spira in mille piacer solo un piacere!
      O amore, amor! Sì forte
    È il tuo terreno impero?
    Sfida per te la morte
    Del fango il figlio altero;
    E, mentre a la tua rete
    La voce tua ne incalza,
    Ei l'ale irrequïete
    Svolge dal fango, e contro al ciel s'innalza!

      Scendiam, proviamo! A tutti
    Zimbello è il Padre eterno,
    E saggi e farabutti
    Si ridon de l'inferno.
    Scendiam, facciam baldoria
    Tra' fiori e le donzelle;
    Abbia l'Amor vittoria:
    Vale un'ora d'amor tutte le stelle!—

      Mentre i furbi angeletti in queste voci
    Disertavano il cielo, e l'umanata
    Senese, avvinta dal più dolce amplesso,
    Primamente sentía la vita intera,
    Su l'antica di Pio ferrea cervice,
    Come sinistro augel, striscia la Morte.
    Abbandonato su'l gelido letto
    Luccicante di frange e di cortine,
    Rabbiosamente egli vaneggia:
                                —Urlate,
    Accorrete, soccorso! Il ciel, la terra,
    L'inferno tutto ai cenni miei! Demòni,
    Angeli, a voi: la forte anima mia
    Per un anno di vita! I miei nemici,
    Gli usurpatori impenitenti al mio
    Piede un istante, e poi morir!—
                                    Comparve
    Pallido, immoto, macilente un Frate
    Sovra la soglia:
                    —A questa Croce atterra
    L'orgogliosa tua fronte!—
                              —Chi sei tu?
    Che vuoi? Chi innanzi mi ti tragge? A l'ira
    Non mi sforzare!—
                      —A la pietà ti sforzo,
    A la pietà, se Dio, per maggior pena,
    Non ti chiude la via d'esser pietoso.—
    —Ma tu chi sei? Di vane ombre io non temo:
    Son forte ancora!—
                       —Ombra, demonio, o Dio,
    Quel che tu temi io sono. Ecco si appressa
    L'ora; è scoccata: a le tue ferree porte
    Batte il giudizio del Signor!—
                                   —Che intendi?
    Che oseresti tu mai?—
                          —Sgombra dal petto
    La fallace paura: Iddio corregge
    Pria di punire; e suo ministro io vengo,
    Io, che di Dio non già, ma sol dovrei
    Venir ministro de la mia vendetta!
    E ancor forte ti vanti? A brani io veggio
    L'inconsutile veste; ai fuggitivi
    Tuoi passi il trono, il suol vacilla; e al cielo
    Non ti rivolgi?—
                     —Al cielo, al ciel! Tu parli
    L'eretica parola! Il ciel lo lascio
    Ai miei nemici; a me la terra!—
                                    —E quale?
    Schiavo tu sei d'altri e di te! Mal tieni
    Di Bonifazio e d'Ildebrando: hai l'ira
    De l'un, de l'altro la superbia: il senno
    D'ambi ti manca e i tempi. Il destin solo
    Pari ad entrambi e in uno avrai: l'eterna
    Città di Pier per te mutasi a un tempo
    In Salerno ed Anagni: esule vivi,
    Benchè in Roma; e a la tua guancia canuta
    Stampano i Re più durature offese
    Del ferrato manipolo di Sciarra.
    Deh! rivolgiti al ciel!—
                             —Frate, pon fine
    Al tuo sermone, e sgombra. Il cielo è patria
    Dei deboli; la terra è mia! Già in armi
    Sorgon Francia ed Iberia: il ceppo illustre
    Dei Borboni immortali a l'aura nova
    Mette nove radici, e fronde e rami
    E fiori e frutta porterà: saranno
    Frutti i trofei tolti ai nemici e il capo
    Di quel Sabaudo avventurier tiranno,
    Che, pur che copra le sue membra oscene,
    Ruba a Cesare il serto e il manto a Cristo.—
      —Vana speme è la tua! Dio, che a la terra
    Dopo il gel manda i fiori, a l'uom consiglia,
    Dopo lungo servir, la sacrosanta
    Libertà del pensiero. E chi potrebbe
    Co' suoi delitti attraversare il corso
    De le leggi di Dio? Con l'empia destra
    Ottenebrar l'indefinita luce,
    Che da l'insetto a l'uomo equo dispensa
    Di tutte cose animatore il Sole?
    Credi tu, che ammucchiando ossa sovr'ossa
    Tal diga innalzerai, che su la china
    Si soffermi il torrente, a cui dan forza
    I destini del mondo? Ah! il credi: amore,
    Fede non si raccoglie ove non altro
    Ch'odio e terror si seminò! Non sono,
    Non sono, e Dio che tutto sa ne attesto,
    Distruttor de la fede i rubellati
    Spirti e l'ereticanti alme! Voi primi,
    Voi soli, occulta d'ogni mal radice,
    Voi co'l sangue versato alimentaste
    L'idra de l'Eresia; questo malnato
    Poter, che cinge Iddio d'ire e di sangue,
    Ai quattro venti de la terra il grido,
    Fu la prima eresia!—
                         —Frate! s'hai caro
    Il viver tuo, non funestar l'estreme
    Ore del poter mio. Smetti l'altero
    Tuo cipiglio d'apostolo: la fame
    Rende spesso profeti; avrai se 'l brami
    Copia di tutto; or lasciami.—
                                  —La mia
    Vita è cosa del ciel; se dono alcuno
    Vuoi che da te, vecchio feroce, accolga,
    Dammi il rogo, o la scure. Odi l'estrema
    Voce di Dio: rassegnati e perdona;
    Già perdonando incominciasti.—
                                   —Ardisci
    Rammemorar la mia viltà? la fonte
    D'ogni sciagura mia? Male incomincia
    Perdonando chi regna! Al generoso
    Uopo s'applaude in pria; povero e scarso
    Indi appare ogni don, però che ingordo
    È il cor di lui che a nullo bene è avvezzo:
    Debito par la carità; diritto
    La pretesa più stolta. Egual si tiene
    A lascivo signor che la careggi
    Meretrice proterva, e a lei somiglia
    L'avida plebe: oggi le dài l'anello,
    Doman ti chiederà manto e corona;
    Alza dal fango la servil cervice,
    Spezza il fren, rompe il cheto ordine, invade
    L'altrui poter, dritti e doveri ingombra,
    Tal che, sconvolto il socïal congegno,
    Divien chi serve re, servo chi regna.
    No, no: perde chi cede. Uom che securo
    Tien l'alta riva, io non dirò che il senno
    Abbia intero, se al torbido torrente
    Perigliando abbandonasi. Tal fui
    Un solo istante, e n'ho rabbia e rimorso:
    Nel reo vulgo ebbi fede; osai l'esempio
    D'Alessandro imitar!—
                          —Del pari infido,
    Ma più debole fosti!—
                          —E qual mercede
    N'ebbi dal mondo? Risvegliai l'orrenda
    Idra dormente al mio piede; potea
    Schiacciarla, e la svegliai. Stolto! i suoi primi
    Sibili e i morsi avvelenati io primo
    Sperimentai: mira qual sono!—
                                  —Accusa
    L'alma tua poca e infida. Esser potevi,
    Rege non più (fra le vergogne e il sangue
    Già da gran tempo era sepolto il trono
    Su le vergogne e su le colpe eretto),
    Ben regnar da l'intatte are potevi
    Pontefice, e lo puoi! —

                           —Se crolla il trono,
    Caggia anche l'ara: o tutto, o nulla! —

                                           —E il dito
    Di Dio non temi? —

                      —Il Dio che adoro è fatto
    Ad immagine mia!

                    —Ben veggio: è indarno
    Ogni mio favellar. Ma se in te morto
    È il pontefice e il re, l'uomo ancor vive;
    Odimi dunque, o sciagurato, e trema.
    L'ara di Dio non crollerà: cadranno
    Gli astri del ciel, la fede no. La terra
    Stanca è d'ire e di stragi, e pace e amore
    Cerca, e l'avrà. Dio tornerà su queste
    Sedi, da cui tu lo cacciasti in bando;
    Tornerà Pietro a regnar l'alme: assiso
    Umilemente a Cesare da lato,
    Avrà di lui non men possente impero
    E più vasto d'assai. Tu muori intanto,
    Implacabile vecchio; impreca, e muori
    Impenitente; al tuo letto custodi
    La tua memoria e la Coscienza io lascio! —

    Disse, e disparve. Il bieco occhio e la voce
    Mosse il fiero morente, e una tremenda
    Vista mirò. Più sol non era: accanto,
    A piè del letto, al capezzal, d'intorno
    Un popolo sorgea di brulicanti
    Scheletri: avean ne le profonde occhiaie
    Come due fiamme che parean pupille,
    E un tal verso facean con le dentate
    Mascelle, che parea voce e sogghigno.
    Trema, boccheggia il vecchio irto; l'infermo
    Corpo giù giù tra le diffuse coltri,
    Scivolando, rannicchia; e freddo, cheto,
    Senza respir, con muto occhio furtivo
    Segue dei suoi tremendi ospiti i moti.
    Uno spettro parlò:

                      —Possa la voce,
    Che un'altra volta acquisto,
    Strazïarti così, vecchio feroce,
    Trafficator del Cristo,

    Che, incenerito il reo manto e la stola,
    Di cui nascondi invan l'anima fella,
    De le vive tue carni ogni parola
    Un bran vivo divella!

    D'ossa e di polpe ignuda
    La negra anima tua sensibil resti;
    Ch'io l'afferri, e nei miei pugni la chiuda,
    E co 'l piè la calpesti!

    Forse canuto a par di te non era
    Vecchio cadente anch'io?
    Non era tua quell'itala bandiera,
    A cui tutto fu sacro il viver mio?

    Ma tu, Giuda due volte, il bacio vile
    A Cristo e al popol dato,
    Tolto di sotto al manto il doppio stile,
    Li trafiggesti entrambi al manco lato.

    Sbucaron da li Elvezî antri le ladre
    Turbe, che a libertà mal dànno il petto,
    Se, liberate da la man d'un Padre,
    A prezzo maledetto

    Concedon l'alme, e li venali artigli
    Affondano nei fianchi
    De l'abusate vergini, ed i figli
    Sotto agli occhi dei padri infermi e bianchi

    Svenano. O voi, più dei miei pover'occhi
    Cari lattanti e nuore giovinette,
    Voi sedevate attorno ai miei ginocchi,
    Come innocue agnellette,

    Quel dì, che scatenate
    Dal cenno di costui che il ciel promette,
    Per le vie di Perugia insanguinate
    Correan le sue vendette.

    Cinti di ferro, e d'oro e sangue ingordi
    Rupper ne le mie case in un momento
    Gli sgherri di costui feroci e sordi
    Come tigri in armento.

    E i miei due figli, i miei leoni intanto
    Non erano con noi!
    Pugnando a l'ombra del vessillo santo,
    Caduti eran da eroi!

    Nè mi fu dato, oimè, baciar le care
    Teste morenti e udir le voci estreme,
    Comporre i corpi vostri entro le bare,
    A voi morire insieme!

    Ben dei pargoli vostri e de le amate
    Spose lo strazio vidi
    E il vitupero!… Oh! in me, in me sol vibrate,
    Empî, i ferri omicidi!

    Ultimo caddi. Or paradiso, o inferno,
    Vedi? o vecchio feroce, io non aspetto:
    Dio qui mi manda; e qui starommi, eterno
    Fantasma, al tuo cospetto!—

    Tacque, e due sovra gli altri orridi in vista
    Fuor de la calca si avanzaron: muti,
    Rigidi, ritti ritti, lenti lenti
    A le due sponde del funereo letto
    Stettero; e, del lenzuol freddo scoprendo
    A viva forza del morente il capo,
    Tentennâro i crocchianti omeri. Come
    Da l'ultimo edificio, allor che trema
    Sussultando la terra, e bianchi in viso
    Fuggono i passegger, cade un divelto
    Sasso, e paura ai fuggitivi accresce;
    Così a quel poco tentennar divisi
    Lor cascano li teschî rilucenti,
    Che balzando e mettendo orrido un suono
    Ruzzolan sul marmoreo pavimento,
    Come vediam dietro ad arancia o mela,
    Che per trastullo il genitor gli lancia,
    Correre il fanciullin con passo incerto;
    Quando più crede che le sia da presso
    E già già la raggiunga, ad afferrarla
    Gittasi, e quella, che ad avverso oggetto
    Battuta è intanto, retrocede o volge
    Per via diversa, e il seguitor delude,
    Che il piccioletto cor gonfio di bizza
    Carpon, carpon la insegue, e non si cheta
    Pria che in pugno la stringa e la riporti
    Al genitor, che sorridente incontro
    Gli apre le braccia, e sopra al sen lo accoglie;
    Tal dopo ai proprî teschî si lanciarono
    I mutilati scheletri; da terra
    Li raccattâr; fra' cricchiolanti carpi
    Li strinsero, e con fiero atto al morente
    Li avvicinâr, mostrandoli. Fremea
    La turba, come avvien, quando improvviso
    Sguiscia aquilon su l'arido scopeto
    De la foresta; ma parola o voce,
    O moto alcuno non mettea l'oppressa
    Anima del morente: il dubitoso
    Spirito avea tutto negli occhi; un cupo
    Rantolo gli stridea per entro ai duri
    Visceri, perocchè, simile a un ferreo
    Non unto filo di dentata sega,
    L'ultime fibre gli rodea la Morte.
    S'avvivarono a un tratto i mozzi capi,
    E battendo le labbra e le palpèbre
    In terribile forma, e sangue e detti
    Fuori gemean de la divisa strozza.
    S'appressarono allor quanti d'intorno
    Eran spettri e fantasmi, ed in quel sangue
    Tutti tingendo fieramente il dito
    Segnarono sul fronte il morituro,
    E gridarono insiem: Sii maledetto!

    A quel tocco, a quel grido, immantinente
    Si scosse, si agitò, tutto si storse
    L'irto veglio, qual suol malaugurosa
    Nottola da le unghiate ali, qualora
    Dispietato monel con improvvisa
    Canna l'abbatte, ed al nemico lume
    L'appressa sì, ch'ella bestemmî e strida.
    Ma qual putida ràzza, che, di mano
    Sguizzando al pescatore, agita al suolo
    Le acute pinne e la scabrosa coda,
    Finch'egli irato la riprende, e sbatte
    Contro un sasso, e l'acqueta ne la morte;
    Così fuor dal lenzuol frigido a terra,
    Dibattendo le flosce membra, piomba
    Il tormentato agonizzante; i gialli
    Occhi stravolge, e mugola: Perdono!

    Sparîr gli spettri; su la fredda soglia
    Lucifero comparve, e disse: È tardi!

CANTO QUATTORDICESIMO.

ARGOMENTO.

Saluto di Lucifero al Sole; tra' raggi del quale rivede l'immagine di Ebe.—Attirato da mirabile fascino d'amore l'Eroe si solleva per l'aria; traversa gli spazî, giunge in Venere, si confonde con l'amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell'ultimo giudizio.—I morti d'ogni età e di ogni loco risorgono, e s'innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio.—Rassegna di filosofi; d'istitutori di popoli; di riformatori.—Le vittime domandano vendetta.

    Così moría l'alma implacata. Al Sole,
    Che al meriggio splendea limpido e caldo,
    Lucifero parlò:

                   —Re de la luce,
    Odimi. O sia che il bruno orbe tu chiuda
    Entro a un mare di fiamme, onde le negre
    Cime dei monti tuoi sorgono, e dànno
    Ombre indistinte al tuo nitido aspetto,
    O sia che un vel d'opache nubi, amico
    Di fulgidi riflessi, e una diffusa
    Sfera di luce e di calor ti avvolga,
    Te genitor d'ogni terrena vita
    Io chiamerò, quando da te deriva,
    O che vegeti immota, o inconscïente
    Movasi, o pensi ogni creata forza.
    A te le numerate ore d'intorno
    Danzano; a te, padre di climi, il fronte
    Volge amante di luce ogni pianeta;
    E tu, di vita liberal, dispensi
    Raggi e sorrisi a qual ti porga il volto,
    E i più miti a la terra. Umile in vista
    E ritrosa al tuo sguardo offre ella il grembo
    Palpitante a la lunge, e non si attenta,
    A par del fuggitivo Èrmete, appresso
    Fartisi tanto, che mortal saetta
    L'amoroso tuo raggio a lei diventi.
    Tu per propria virtù dal mare insonne
    Traggi i vapori, e in nubi atre li addensi,
    Che indi, in pioggia disciolte, al vigilato
    Solco dan biade e pomi al bosco e nuova
    Freschezza a la vitale aere, da cui
    Vigor nuovo di membra a l'uom deriva.
    Nè i sensibili corpi orni soltanto
    In visibile guisa, e ti compiaci
    D'apparente beltà, però che in seno
    Scendi a tutti i mortali, e, a quella forma
    Che scaldi e svolgi il fecondato seme,
    E del tuo sguardo il puro etere allumi,
    Desti così ne l'ordinata mole
    De le membra il pensier, ch'è de l'eterna
    Ben disposta materia agile alunno.
    Qual da le scarse gelosie d'un chiostro
    Libera il guardo al ciel la verginella
    Disïosa d'amor, tal da l'oscura
    Compagine mortal di nervi e d'ossa
    Si sprigiona l'amante animo, e, tutto
    Di te, sovrano genitor, sentendo
    L'occulto foco e la natía virtude,
    Per li campi del vasto essere, in cerca
    D'ignote sfere e di negati oggetti,
    Lanciasi, e tanto si dilunga e sorge,
    Che par sostanza spirital, che possa
    Dagl'involucri suoi viver divisa.
    Ma chi dirà, che viver possa il modo
    Senza l'obietto, o ver da lui distinto?
    Che fuor de la gagliarda arbore viva
    L'occulta forza vegetal? Si schiude
    Per valor de la terra il seppellito
    Seme, germoglia, si divide e s'alza
    In foglie, in rami; con robusti nodi
    Stringe ed avvinghia la materna zolla,
    Respira, ama, s'infiora, infin che un diro
    Turbo lo schianti, o avversa scure il tocchi.
    Forse quella virtù, che gli diè vita,
    Morto lui, fugge altrove, e per sè vive?
    Suon di melodïosa arpa, che il petto
    D'indefinita voluttà comprende,
    Quando i candidi rai piove la luna
    Su le mute campagne, e i sonnolenti
    Fiori deliba la fugace orezza,
    Io già non penserò, che per sè solo
    Le sonore de l'aria onde commova:
    Frangi le corde del gentil strumento,
    Tosto il suon cesserà. Simile in questo
    È l'uman corpo a l'arpa: Amor risveglia,
    Divo maestro d'armonie, le nostre
    Facoltà, che nel cor siedon sopite;
    E quanto in noi più gentilezza è posta,
    Maggiore e più gentil n'esce un accordo
    D'affetti e di pensier, d'opre e di accenti.
    O Amor, sole de l'alma, ove io ripensi
    Di che alata virtù doni il pensiere,
    Scarso e povero assai sembrami il lume,
    Che avviva ed orna ogni creato oggetto!
    A te, come a la mite alba la schiera
    Dei canori volanti, al nuovo aprile
    La famiglia dei fiori, al Sol che torna
    Tutte cose universe, alzasi in festa
    L'umana vita, e al magistero intende
    D'ogni nobile ufficio. Immota e cieca
    Mole sarían le nostre membra, e inerte
    Cosa il pensier senza di te: sembiante
    A tardo bue, che il travaglioso ordigno
    Del volubile bindolo raggira
    Tutto il dì, senza posa, e non sa quanto
    Sgorghi tesoro da la sua fatica.
    Ma tu, di libertà padre, fai lieve
    Ogni gravezza, ogni umiltà sublimi,
    Ogn'inerzia dilegui, e di noi stessi
    Conoscenza ne dài piena e sicura.
    Tu de l'etereo Sol, da cui proviene
    Quanto è d'uopo a la vita, il più fecondo
    Raggio in noi custodisci, ed una al chiaro
    Conoscimento, che da lui si nacque,
    Un ribelle ne infondi altero istinto,
    Per cui, divino matricida, a fronte
    D'essa Natura l'uman genio irrompe
    Con fiera sfida, e la tenzona a morte.
    O solenni ardimenti, o generose
    Pugne e vittorie senza fine, a cui
    Deve l'uomo mortal meno infelice
    Vita nel mondo, e sol per cui si eterna!
    Sovra la fossa, ov'ei tutto discende,
    La memoria di lui sorge, e qual face
    Da mille spere riprodotta in giro,
    Entro ai petti degli uomini risplende
    Centuplicata, e si perpetua, e in guisa
    Vive con noi, che, per superbo inganno,
    Vita verace il ricordar si tiene
    Ed anima immortal, ch'abiti altrove,
    La memoria che d'altri in noi risiede.
    Ma del credulo gregge e dei fallaci
    Ciurmadori de l'Arte e di Sofia
    Scevre serbate voi le nuove genti,
    O Sol, re de la vita, o Amor, sovrano
    Del pensiero mortal; voi de la vostra
    Pura luce vital fate lavacro
    Agli egri petti, e date ala ed acume
    A qual dentro a l'error cieco si ostina
    Siccome talpa sotterranea: ei senta
    Stupefatto ad un'ora il vostro lume,
    Mentr'io, già presso al mio trïonfo, a voi
    Tendo le palme, e voi propizî invoco!—

    Tal parlava implorando, e il guardo acuto
    Più che punta di stral figgea nel volto
    Radïoso del Sol, quando a un sol punto,
    O che vero ei mirasse, o che a l'ardente
    Spirto facesse illusione il senso,
    Visto gli venne un portentoso aspetto,
    Onde il cor gli balzò. Come ne l'ora
    D'un purpureo tramonto, ove più ferve
    A piè de la Scillèa balza il vorace
    Turbo estuöso del latrante mare,
    Sorger vede il nocchier vigile un roseo
    Fantasima di donna, a cui ghirlanda
    Sono i raggi di cento iridi, e molle
    Guanciale il fior de le fioccanti spume;
    L'affisa egli ammirando, e, se in quel tempo
    Gli sorride ne l'alma un dolce amore,
    L'oggetto dei suoi voti in lei ravvisa;
    Così a fior del fiammante orbe del sole
    Nuotar vede l'Eroe trepido un'ombra,
    Incerta ombra da pria, che umana forma
    Man mano assume e leggiadria cotanta,
    Che la viva in suo core Ebe gli sembra.
    Esultò giubilando, e in queste alate
    Voci si effuse:

                   —Oh! ben t'è stanza il sole,
    Ben t'è regno la luce, aurea bellezza,
    Che il petto mio, vago di luce, imperi!
    L'amor mio non sei tu? L'idolo amato
    D'ogni speranza mia? L'ala e la possa
    Del mio pensier? Deh! come fausto io deggio
    Stimar l'auspicio, che da te mi viene
    In quest'ora solenne! Ecco, già sento
    Crescer lena al mio spirto; odo la voce
    De la terra e dei secoli, che chiama
    Al gran giudizio Iddio! Non altrimenti
    Che fosco immaginar d'egro intelletto
    De la rosea salute al giovanile
    Soffio si sperde, io sperderò le larve,
    Che ne usurpan dei chiari astri la sede:
    Tutti i Numi cadranno; al ciel, da cui
    Una fiera e tenace ira mi escluse,
    Or mi solleva, e trïonfante, Amore!—
      Ciò detto appena, un tal fascino il prese,
    Che per lo spazio il sollevò: non punto
    Dissimigliante a fuscellin, che avversa
    Forza di calamita attira e regge;
    Se non che, quanto più di contro al sole
    Lucifero salía, tanto fra' biondi
    Raggi del ben veggente astro la bella
    Crëatura d'amor veníagli appresso.
    L'un lasciavasi a tergo il montuöso
    Arido aspetto de la varia luna;
    L'altra il denso Cillenio; e già a la vista
    Ridea d'entrambi l'acidalia stella,
    Cara sempre ad Amor, sia che tra' fiori
    Del candido mattin splenda, e le piaccia
    Di Lucifero il nome, o che tra' rosei
    Vespertini crepuscoli biancheggi
    Dagli amanti invocata, e più le giovi
    Che il penoso mortale Espro l'appelli.
    Qui s'incontrâr l'alme felici, e un'onda
    Di purissima luce e di colori
    Si diffuse d'intorno, e parte n'ebbe
    Ciascun pianeta e non minor la terra.
    Tal, se indagine umana al ver s'adegua,
    Versa tesor di colorati raggi
    Sovra i cultori suoi Perseo superbo,
    Perseo, che a l'alba Galassèa nel grembo,
    Qual trïonfante eroe, splendido incede,
    E trono e serto ha di due Soli: un, tutto
    Fiammeggiante di porpora, vermigli
    Dardi per l'aria, a par di Sirio, avventa;
    L'altro in un vel di cupo indaco avvolto
    Mestissimo risplende, e d'ambi al raggio
    In cento iri d'amor l'aria si frange.
      A l'aspetto di lei, luce costante
    Del suo pensier, verbo non ebbe o voce
    O sospiro l'Eroe; sol di quantunque
    Forza d'amplessi a le sue braccia, e al ciglio
    Splendor di sguardo a lui mai diede Amore,
    L'abbracciò tutta quanta, e la comprese.
    Ella parlò:
               —Me non la luce, o il cielo,
    Ma la terra natía covre e trasforma
    Con benigna virtù: polvere io sono,
    E su le membra, che l'Amor fioría,
    Or l'argentea rugiada educa fiori,
    Tra cui l'armonïosa aura susurra.
    Però non ammirar, se agli occhi tuoi,
    Siccome un dì, pur tuttavia risplendo
    Dentro a la luce dei miei giovani anni:
    Miracolo è d'Amor; palpito e vivo
    Immortal vita nel tuo petto, e queste
    Forme fiorite, che l'Amor mi dona,
    Altro non sono che veder, per cui
    L'anima tua pietosamente illude.—
      Con questi detti eran venuti a l'auree
    Case del Sol, che tutto vede. Agli occhi
    De lo stupito Eroe di luce nuova
    Balenò la fanciulla, e tanta prese
    Parte di lui, che dentro a lui disparve.
    Dritto sul fiammeggiante astro egli stette
    Con eccelso pensier: fra quel deserto
    Vastissimo di luce, immensurata
    Granitica parea mole, che sfidi
    La procella dei sordi anni e del cielo.
    Dove figge lo sguardo? Al globo estremo,
    Che i pensanti mortali alberga e nutre,
    Veglian perpetue le sue cure. Orrende
    Cose egli vede in quell'istante: oscure
    Carceri e ferri cigolanti e ruote
    Stridule sopra a vive ossa e cadenti
    Sovra al collo de l'uom nitide scuri
    E torbe fiamme crepitanti ingorde
    D'umane carni e gorgoglianti abissi,
    Da cui, fra un vasto popolo di morti,
    Pochi, indomiti capi alzansi a guisa
    D'incrollabili rupi e di Titani;
    E, sopra tutto, galleggiante un'ara
    Lucida ai roghi, e in cima ad essa un muto
    Fantasima, che or dorme ed or sorride
    Villanamente. Fiammeggiò negli occhi
    Terribile l'uman Dèmone, e, tutto
    Dal profondo del cor svegliando il grido,
    Queste fiere avventò voci supreme:

            —O voi, che ne la fossa
            Da tanti anni dormite,
            Vestite i nervi e l'ossa,
            Fuor de la morte uscite;
            Da l'una a l'altra riva,
            O Morti, in piè levatevi:
            Il gran giudizio arriva!

              Su la temuta scranna,
            Giudice inesorato,
            Non siederà tra' fulmini
            Siva feroce, o il nato
            Da vergin grembo: in questo
            Novo giudizio mio,
            Morti, voi siete i giudici,
            Il delinquente è Dio!

              Porgi al vietato sorso,
            Tàntalo, il labbro; scuoti,
            O Encèlado, dal dorso
            Il cupo Etna; dal fondo
            Dei fiammeggianti inferni,
            Tiféo, balza, e t'allegra:
            L'adamantina Morte
            Spezza del ciel le porte,
            E, spazïando libera
            Pe' vani antri superni,
            Fischia, e s'apprende a l'egra
            Canizie degli Eterni.

              Novello Brïarèo,
            Bronte novello al grido,
            La voce alza e la faccia
            Il Pensier numicido;
            E, con più fauste prove
            Che sul campo Flegrèo,
            Strozza il mutato Giove
            Con le sue cento braccia.—

      Disse, e balzâr su dagli avelli i morti
    D'ogni età, d'ogni loco. A quella forma
    Che noi vediam, quando più ferve agosto,
    Sorgere al ciel degli orizzonti in giro
    Sparsi mucchi di nubi, a cui dà il vento
    Strani aspetti di mostri e di giganti,
    Che arruffando più e più le bianche creste
    Sfidan mugghiando il sole: impaurito
    Il parco agricoltor guardali, e trema
    Non saettin dal grembo in su' compiuti
    Grappoli il nembo d'una ria gragnuola;
    Similmente s'ergean su da l'immensa
    Folta alcune preclare Ombre, per cui
    Prendea 'l cor dei Celesti alto sgomento.
      Or tu, qual che tu sii, dèmone amico,
    Ch'entro al cervello mio semini i forti
    Carmi, a cui sol, più che ricchezza o nome,
    Fieri conforti a la mia vita io chieggio,
    Tu, poi che tanto il ricordar ne giova,
    Le più illustri rammenta, onde non sia,
    Chi, nel dì sacro a la ragion del Vero,
    Degli eroi del Pensier non sappia i nomi.
      Primi a tutti sorgean quanti fra un cieco
    Gregge di paventose anime e l'ombra
    D'insofferenti età la fronte audace
    Spinser, chiamando a mortal guerra Iddio:
    Sdegnose alme ribelli, a cui stiêr contro
    La terra e il ciel, gli uomini e i Numi, e nulla
    Fede giovò, nè culto altro che il Vero.
    Duce e signor di questa schiera eletta
    Empedocle insorgea, nome e decoro
    De l'antica Agraganto; e a lui d'intorno,
    Come ad avvalorar la sfida antica,
    Tu fiammavi tuonando, Etna superbo.
    Salute al foco genitor, salute,
    Vecchio vulcano, a te! Fiammeggia e tuona,
    Come in quest'ora ch'io ti guardo e canto,
    O sepolcro di sofi e di titani;
    Tuona, fiammeggia; ed a le sfatte genti,
    Ch'invide o ignare a noi drizzano il dardo
    Del meschino epigramma, e ne dàn nome
    Di selvatiche proli, una favilla
    Gitta, in pietà, de l'incorrotte fiamme,
    Che bollon ne le tue viscere, e a noi,
    Di lingua no, ma d'alma e di man prodi,
    Superbamente ardono il petto: avranno
    Forse vergogna di sè stesse allora
    Che sentiran dentro a le fiacche vene
    Scorrer men pigro e men putrido il sangue!
      Secondo al Saggio agrigentin venía
    L'amabil sofo di Gargetto, a cui
    Fu scola e Dio la voluttà del bene;
    E tu gli eri da canto, inclito vate
    De la Natura, a la cui dotta voce
    Scese del Tebro bellicoso in riva
    Venere santa, e una divina infuse
    Nel tuo petto gagliardo aura di canti.
    Seppe allora di Marte il fiero alunno
    De le cose il principio, il mezzo e il fine,
    E maledisse a la feroce e stolta
    Religïon, che d'ogni mal feconda,
    Potea nel sen de la verginea prole
    Spingere un padre a insanguinar la mano.
      E già dietro a tal duci impazïente
    Balza da terra, e contro al ciel si lancia
    L'audace di Vanini ombra sdegnosa:
    Scuro e bieco ei s'inalza, e nugol sembra
    Nunziator di procella. Orridi in vista
    Gli s'ergean sotto i passi il palco e il rogo,
    Ed egli co' fiammanti occhi tremende
    Cose dicea, ma fieramente muto
    Era il suo labbro: ahi! la faconda lingua,
    A cui diede Sofia nuovi argomenti,
    Mozza gli avea chi dai venali altari
    La luce e il detto di Sofia paventa.
    Vien seco il Mantovan, che da l'augusto
    De l'umana Ragion tempio immortale
    L'anima e Dio securamente escluse;
    E chi pria rubellando il dotto ingegno
    A l'idolo inconcusso di Stagira,
    Più vasto al pensier nuovo aere dischiuse,
    Cui ratto con gagliarda ala discorse
    Liberamente il prigionier di Stilo.
    O voi del Crati fragoroso opache
    Selve, così vi serbi intatte il nembo,
    Proteggete almen voi d'ombre cortesi
    Le sacre, inonorate ossa del vostro
    Vecchio Telesio! Accanto a lui, che tutto
    Splendido in suo candor cheto s'inalza,
    Freme e lampeggia il precursor di Nola,
    Dal cui fiero intelletto e dal cui rogo
    Tanta infamia ebbe Roma e luce il mondo.
    Ma forse il genio mio scorda il tuo nome,
    Di Malmèsburi onor? La tua bizzarra
    Fronte, entro a cui d'Albion tutta s'accolse
    La superba ed acuta indole strana,
    Certo non io fulminerò, se assisa
    Sovra il collo ai mortali in ferreo trono
    Vedesti, autrice universal, la Forza.
    Forse il Dritto e il Sapere, adamantino
    Brando e scudo, di cui s'arma e difende
    Per natura chi umano ebbe il sembiante,
    Forza eterna non è? Ben essa al volo
    T'armò in tal guisa il prepossente ingegno,
    Che, oltre a l'etra sorgendo, al vulgo illuso
    Quinci gridasti: Un vuoto nome è Iddio!
    Tal da l'Ande selvose al ciel sublime
    Lancia la poderosa ala il condòro,
    E le nubi calpesta, ed orgoglioso
    Dei voli suoi sfida stridendo i nembi.
      Ecco, appresso a costoro a cui d'intorno
    Fa ressa e ondeggia una men chiara folta,
    Rompe un fiero drappello, a cui son duci
    Diderotto ed Holbacco, incliti entrambi
    Risvegliator di popoli; vien terzo
    Elvezio, e quarto Volney. Qual suole
    A l'improvviso infurïar d'un nembo
    Fendersi ai lampi il ciel, tremar la terra,
    Crollare alberi e tetti, e scatenarsi
    Dalle ripe con fiero èmpito i fiumi;
    Così d'intorno a la tremenda schiera
    Un fremito, un fragore, una ruïna
    Terribile s'udía, mentre il solingo
    Ginevrin, precedendo, iva due faci
    Sanguinose agitando, e come strale
    Il riso di Voltèro il ciel fendea.
      Da l'altra parte, in cupa nebbia assorti,
    Vengon color, che il falso al ver mescendo
    Con sagace pensier, norme e governi
    Persuäsero ai popoli, ritrosi
    Ad ogni culto di civil commercio.
    Da l'aurifero Gange, in simiglianza
    Di marmorea colonna, ergeasi al cielo
    L'antichissimo Brama; ed eran seco,
    Co'l ben veggente istitutor dei Parsi,
    Trismegisto e Confucio, e quei che miti
    Dettò leggi ai Fenicî, inclita gente
    Domatrice del mar; non che il divino
    Germe di Clio, trïonfator di traci
    Belve e de l'Orco, non di voi, gelose
    Donne de l'Ebro, al cui baccar fu il biondo
    Mozzo capo concesso e l'aurea cetra
    Favellatrice di gentili affetti,
    Non vivo il core a un solo amor devoto.
    V'era inoltre Pompilio, anima ricca
    Di scaltriti consigli, e finalmente,
    Simile in tutto a l'Arabo Misèmi,
    Il campato da l'acque astuto Ebreo.
      Videli appena da l'opposta parte
    Di Malmèsburi il Saggio, e li squadrando
    Con traverso cipiglio:
                          —O voi di Numi
    Fabbricatori e mercatanti, disse,
    Qual maligno talento a noi vi mena
    In quest'ora di gloria e di vendetta?
    Stolti! che al sommo socïal potere
    Sovrapponeste un fiero idolo, al cui
    Temuto auspicio smisurate e salde
    Sparse l'Error l'empie radici in terra.
    Ma stagione or mutò: gli egri intelletti
    Dal morbo rio, che li torceva al cielo,
    La Ragione guarì: solo e severo
    Nume e legge la Forza; e qual volesse
    Novelli Iddii favoleggiar, d'infame
    Morte morrà. Mal vi destate adunque
    Di Lucifero al grido; al vostro Nume,
    Gloria non già, morte e vergogna ei reca!—
    — Inclito senno d'Albïon, rispose
    Tosto l'Eroe, che pur nel nome ha luce,
    Quale acerba rampogna or t'è fuggita
    Da la rigida bocca? Impazïente
    Del trïonfo de l'uom, ch'è mio trïonfo,
    E sdegnoso di tutti idoli a dritto
    Epperò degno mio campion tu sei;
    Ma trasvolar quanta ragion mai possa
    Proteggere costor d'un'aurea scusa,
    Lodevol cosa io non dirò, nè giusta.
    Allor che inconscî d'ogni ver, fra bieche
    Fraterne ire e sospetti, una brutale
    Vivean vita gli umani, e la Paura,
    Despota d'ignoranti anime, orrende
    Cose spirando, il ciel, la terra, i flutti
    Popolava di Numi e di Chimere,
    Chi avría, senza periglio e senza tema
    Di gittar l'opra inutilmente, esposto
    Scevro di veli ad uman guardo il Vero?
    Il Vero è Sol, che i grami occhi abbarbaglia
    Di chi vive ne l'ombre. Or chi di biasmo
    Farà segno costor, se al radïante
    Volto del Ver, perchè men dèsse offesa,
    Posero un'ombra, a cui diêr nome Iddio?
    Come in aprica e ben disposta aiuola,
    Ove il buon giardinier, tutte a lei vòlte
    Le rigid'opre de la ria stagione,
    Depose i germi prezïosi, i solchi
    Serpeggianti vi aprì, per cui non manchi,
    Quando più punge il Sol l'arida terra,
    La fresca linfa ch'ogni fior ricrei,
    Al richiamo d'april vestesi a festa
    Ogni pianta, ogni stelo, e tutto in giro
    Ride il suol di colori e di fragranze;
    Così a la voce di costor, che fûro
    Primi maestri di civil costume,
    Fiorîr genti e città, su cui da l'ara,
    Perch'uopo avean di fede i rozzi ingegni,
    Stendea la Legge il moderato impero.
    Se non che, sòrta quella ria masnada,
    Che, l'umana pietà mercanteggiando,
    Usurpò i templi de la terra, e il cielo
    Con chiave d'oro al fornicar dischiuse,
    Non più di civiltà mezzi e stromenti
    Ma tiranni de l'uom fûr fatti i Numi.
    Nacque allor ne le oppresse anime, a cui
    A tempo il Ver fatto avea chiaro il senno,
    Fiero un disio di rubellarsi al plumbeo
    Giogo del ciel; suonò per l'aria il grido
    De la riscossa, e si pugnò. Non vinse
    Per certo Iddio; vide fumar d'umano
    Sangue innocente i mercenarî altari;
    Ma le vittime han vinto. A poco, a poco
    Scemò, come al mensil corso la luna,
    La possanza del Dio, ben che di ferro
    Tempra vantasse ed immortal. S'ostina
    Pur tuttavia, quantunque imbelle, e inciampo
    Ultimo ei resta al trïonfar del Vero.
    Or, perchè l'uomo in sul fulmineo carro
    Di Civiltà varchi ogni meta e segno,
    Sovra il corpo di Dio convien che passi!
      —Seguían queste parole; ed ecco incontro
    A l'aureo Sol levarsi altra falange
    Di pure e maestose Ombre, che a duci
    Budda e Socrate avean. Per l'opalino
    Etra sorgeano, e più ch'uomini e forme
    Parean candidi rai d'alba nascente,
    O visibili idee: tanto di luce
    Avean d'intorno e tal purezza in viso.
    Sorge anch'ei dietro a lor, ma bieco e solo,
    Sopra cavallo indomito l'ossesso
    Battaglier de la Mecca, a cui nel pugno
    Nudo lampeggia e sanguinoso il brando:
    Nembo ei par di tempesta, in quel ch'a' buffi
    D'euro si squarcia, e tortuöse e rogge
    Solfuree fiamme in su la terra avventa.
      Ma già un nuovo drappel chiama la voce
    Del canto mio. Come vorace fiamma,
    Poi che tutte afferrò l'aride secce
    Del vasto campo, il vicin bosco invade;
    Terribilmente crepitando esulta
    Con cento lingue sanguinose a l'etra;
    Così questi venían dopo a un vessillo
    Fluttüante a l'avverse aure, su cui
    Con vivo sangue uman scritto è: Riforma.
    Qual da l'Eolio mar, quando più cupa
    Dorme sotto ai veglianti astri la notte,
    Fra dodici fantasmi ispidi o scogli,
    Cui morde la rabbiosa onda d'intorno,
    Sorger tu vedi e lampeggiar, perenne
    Ara di foco, la Vulcania ròcca;
    Tal sorgea lampeggiante, in mezzo ai mille
    Che premeansi a' suoi lati, il procelloso
    Protestator di Vittemberga. Appresso
    Muovongli il cheto confessor d'Asburgo
    E il rigoroso Ginevrin, cui tardo
    Par l'altrui passo e andar vorrebbe il primo;
    Non che il prode di mano e d'intelletto
    Novator di Zurigo, e i due di Praga,
    Ch'ebber pari il supplizio e l'ardimento,
    E duce entrambi e ispirator Vicleffo
    Eversore di dogmi; e quanti osâro
    A le voraci arpíe di Vaticano
    Spennacchiar l'ale e rintuzzar li artigli.
    Destossi anch'ei sul torbido Tamigi
    Il lascivo Tudorre, e già già mezzo
    Sorgea da l'acque, e s'apprestava al volo,
    Quando piombâr su la sua testa, a guisa
    Di rapaci avvoltoi, le trucidate
    Sue concubine, e il regal manto e il petto
    Gli addentaron, sbranandolo. Stridea
    L'obliqua alma del Re, mentre, ravvolta
    Nel casto vel, sdegnosamente il tergo
    Gli volgea l'infeconda Aragonese
    Commiserando; e tu da la lontana
    L'incatenavi co'l tranquillo sguardo,
    O grave ed incorrotta Ombra del Moro.
      Eran queste le schiere e questi i duci,
    Ch'oltre al Sole movean, mentre a lor pari
    Dai quattro venti de la terra un grido
    Terribile s'ergea, qual se sconvolti
    Da una pazza procella a un punto solo
    Mugolassero i mari, o scatenati
    D'avversi poli s'azzuffasser tutti
    Con forze uguali ed ugual rabbia i venti.
    Tuonavan da le selve ime e dagli antri,
    Già sacri al vorator d'uomini Odino,
    Quant'ostie mai su'l suo tremendo altare
    Caddero; urlavan fieramente anch'esse
    Le vittime di Teuta, a cui, più care
    Di rugiadosi vischî e di verbene,
    Bionde teste mietea pei boschi opachì
    La druïdica falce; un gemer lungo
    Di greche madri in sugli oblati infanti
    Prorompea da l'Idee valli, superbe
    Del vagito di Giove; alto dal Tebro
    Fremean l'espïatrici ostie ferite
    A l'ingordo Saturno; e una selvaggia
    Querela uscía dai seppelliti avanzi
    De le Puniche ròcche, in quel che in armi
    Sorgea sdegnoso il redentor d'Imera.
      Ma chi tutte può dir le voci e i gemiti,
    Che al ciel salíano a dimandar vendetta
    Dopo secoli tanti? Opra più lieve
    Faría colui ch'enumerar volesse
    Del ciel le stelle e de l'oceano i flutti.
    Dal braminico aurato Indo, dagli orti
    Rosiferi d'Irano a le feconde
    Trinacrie rive del geloso Egitto,
    Da le terre promesse a una masnada
    Di lebbrosi omicidi; dal sepolcro
    Sanguinoso del Cristo a le funeste
    Valli d'Alby; dai trïonfati fiumi
    De l'industre Batavia, a cui sul petto
    Gavazza ancor del fiero Alba il fantasma;
    Da le Calabre valli a le solinghe
    Nevi di Valtellina ergeasi un grido
    Formidabil, concorde, a cui fean eco
    Da la Senna e da l'Ebro urla più fiere.
      Udía da l'alto il Nazzareno, e, il biondo
    Capo scrollando amaramente:—O amore,
    Dicea, per cui l'innocua vita io diedi,
    Qual mar di sangue a la mia Croce intorno!—

CANTO QUINDICESIMO.

ARGOMENTO.

La voce di Lucifero spaventa i beati, che si danno scompostamente alla fuga.—San Luigi Gonzaga si sviene fra le braccia di Santa Teresa.—Gabriele, non potendo persuadere l'Arcangelo Michele alla pugna, ordinate alla meglio alcune schiere, disponesi alla battaglia.—Santa Cecilia ne lo dissuade; ond'egli, lasciato il fiero proposito, s'abbandona voluttuosamente nelle braccia di lei.—Loiola, Domenico di Guzman, Torquemada, Pietro d'Arbues, Sisto e Pio V ordiscono una frode a Lucifero.—San Pietro abbandona le porte del paradiso.—L'Eroe sventa la congiura, e prorompe luminosamente nel cielo.—I congiurati santi tentano la fuga, e periscono miseramente.—Lucifero arriva alla presenza di Dio, cui trova, già fuori di sè, abbandonato da tutti, fuorchè da alcune bestie fedeli.—Tornata vana ogni loro difesa, tramutatosi indarno in diversi aspetti, Iddio muore, mentre l'Eroe ridiscende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa.

    Appena il grido de l'Eroe percosse
    Con sinistro rimbombo il ciel vicino,
    E le prossime schiere e la funesta
    Voce avvisâr dei minacciosi estinti,
    Tremâr tutti i Celesti, e verdi il volto
    Da la paura, si guardâr negli occhi
    Silenzïosi. Avvertì anch'esso Iddio
    L'imminente periglio, e sì com'era
    Sfidato e triste e non del fato ignaro,
    Sul primo che gli occorse eburneo seggio
    S'abbandonò. Stupidamente in giro
    Movea gl'inebetiti occhi, e non tosto
    Pipilargli a l'orecchio udì il divino
    Colombo, e sospirar, qual su la Croce,
    L'incarnato suo figlio, in un dirotto
    Pianto scoppiò, tutti adempiendo insieme
    Di stupore i Beati e di sgomento.
    Qual se dal fondo d'uno stagno, impuro
    Suscitator di sitibonde febbri,
    Leva un rospo un loquace inno alla luna,
    Tutte svegliansi a un tratto, e gli fan coro
    Le profetiche rane, onde a l'intorno
    Di chioccio chiacchierio suonano i campi;
    Tale, al pianger del Dio, per l'azzurrine
    Vòlte del vacillante Eden destossi
    Un suon di disperate urla e di pianti.
    Piangean le poverette alme digiune
    D'ogni gioia di nozze e d'ogni amore,
    E tu primo fra loro, o immacolato
    Fior dei Gonzaga. A un altarino innanzi
    Tutto adorno di ceri e di ghirlande
    Ei traducea l'eterne ore in ginocchio
    Mormorando preghiere a un Crocifisso
    D'indico dente elefantino. Il novo
    Gemito udito, in piè balzò, le ceree
    Mani protese, e, l'argentina voce
    Spaventato cacciando, a correr diessi
    Per li stellati corridoi del cielo.
    Accoccolata a un angolo romito
    La povera Teresa ivi giacea
    Stranamente ghignando. In lei si avvenne
    Il fuggitivo, e, qual fagian, che senta
    Dietro di sè del cacciator la pésta,
    Fra l'ovvie macchie il capo aureo nasconde,
    Tutto ai colpi lasciando il corpo esposto,
    Tal fra le gonne sbrindellate e conce
    De la squallida pazza il mal completo
    Garzon cacciò la paürosa testa,
    Nè badò per la prima al sesso avverso.
    N'ebbe gioia la diva, e a quella guisa
    Che una grave bertuccia a' rai del sole,
    Tolto fra braccia un piccioletto amico,
    Tutta a forbirlo e a coccolarlo intende,
    Così, strillando allegramente, al vizzo
    Petto ella strinse il trepido fanciullo,
    E tante gli tessè d'intorno al corpo
    Con la lubrica man giochi e carezze,
    Che a la fine ei sentì corrergli il sangue
    Tale un'ignota voluttà, che a un punto
    Sussultando fra' brividi si svenne.

    Sveníansi ancor, ma per cagion diversa,
    Molte vergini suore, a cui l'intatta
    Orsola impera. Altre scorrono urlando
    La reggia; altre stracciandosi le chiome
    E battendosi il petto van d'intorno
    Perdutamente; qual con vitreo sguardo
    Siede come fantasma, e qual, deforme
    Per isterici spasmi e di spumanti
    Bave immonda la bocca, a simiglianza
    Si contorce di frigido ramarro,
    Cui, smessa a un tratto la pesante zappa,
    Fiede il villan con infallibil sasso.

    Fra il gridare, il fuggir, le preci, il pianto
    Sorse l'invitto Gabrïel ne l'ira,
    E, volato a Michel, che vergognoso
    De l'ultime sconfitte i men frequenti
    Lochi chiedea:—Qual mai desidia è questa
    Che t'invade, esclamò? Muti ed inerti
    Aspetterem l'esizio ultimo e il crollo
    Di questo regno luminoso? È forse
    Speme alcuna d'impero e di salute,
    Che nell'armi non sia? Nel contumace
    Ozio che il cor già impavido ti prostra,
    Rea viltà, danno certo e infamia io veggio!—
    —Di viltà non parlar, con disdegnosa
    Voce proruppe il pro' guerrier di Dio,
    Non parlar di viltà, se vuoi che amari
    Non saëttin dal mio labbro gli accenti.
    Vil non fui mai: fra le celesti schiere
    Trono o arcangel non è, ch'ebbe mai vanto
    Di vedermi ai perigli andar men lesto
    Di te, che forza del Signor ti appelli.
    Ma or che giova il valor? L'armi e la pugna
    Chi incerto ha il fato ed ha speranze elegga:
    A noi chiaro è il destino. Ombra di Nume
    S'è fatto Iddio; l'uom tutto vince. Un tempo
    Aquila io fui, che per l'eteree strade
    Artigliai le saette; or, che ne falla
    Con la fede de l'uom del ciel l'impero,
    Notturna upupa io son, cui non già il sole,
    Ma il silenzio e la fredda ombra sol giova.—
    —Quanto mutato sei! quanto mutati
    Tutti d'intorno a me qui nel felice
    Regno de le beate anime, aggiunse
    Fra disdegno e pietà l'angel superbo;
    Questo è davvero il ciel? Qui regna Iddio?
    Tutti d'umani scoramenti invasi
    Trovo i petti immortali! Oh! non sì tosto
    Io piegherò: spiri seconda o avversa
    A la battaglia mia l'aura del fato,
    Forza a forza opporrò; nè cadrò pria
    Che l'avversario mio provi il mio brando!—
      Spiegò in tal dir le penne, e, la fulminea
    Spada traendo, alzò de l'armi il segno.
    Come, uscendo a l'aperta aia dal nido,
    La mal pennuta chioccia alza la voce:
    Odono il noto crocidar materno
    I pelati pulcini, e pipilando
    Corronle intorno, e per l'accolto strame
    Con piè inesperto a razzolar si dànno;
    Così del bellicoso angelo al grido
    Corsero i pochi, a cui mal noto ancora
    Del conflitto de l'armi era il periglio.
    Si sdegnò assai de la non folta schiera
    L'animoso campion, pur, come seppe
    La ordinò, l'attelò, la messe in punto;
    E già, già si movean, pari a loquace
    Frotta di gru, che la tempesta incalza,
    Quando l'amor di Gabrïel, la bella
    Cecilia, udito il suon de l'armi e il grido
    Del guerriero diletto, a lui sen corse
    Spaventata, anelante, e:—Dove irrompi,
    Forsennato, gridò: qual cieco inganno
    T'ombra il divo intelletto? Ah! non già un uomo,
    Non un popolo sol, non tutta quanta
    La terra hai contro e i rubellanti abissi,
    Ma con seco i destini. È troppo orrenda
    Cosa la pugna, e quando è vana, è stolta.
    Cedi al destin; cedi a l'amor; non giova
    Produrre a prezzo di perigli il regno;
    Se tempo è di cader, cadasi: io teco
    Stretta morrò, non già con l'armi in pugno,
    Ma ne l'amplesso de l'amor sopita.—
    Disse, e caddegli a' piè. Fra due sospeso
    Dubitava il gagliardo Angelo, quando
    Dal sen colmo di lei, fosse arte o caso,
    Lieve lieve si scinse il roseo velo;
    Ed ella in vista lagrimosa e tutta
    D'amoroso pudor rorida, ai dolci
    Studî d'amòr gli seducea la mente.
    Strale fu questo, che andò dritto al core
    Del divino guerrier: gli sfuggì il brando
    Da la trepida destra; il vergognoso
    Sguardo girò confusamente intorno,
    E, balbettando futili parole,
    Per man prese la dea, ne le lucenti
    Stanze sacre ad amor trassela, e lei
    Mal ripugnante degli ambrosei veli
    Con mano carezzevole discinta,
    Al talamo invitò, dove, il gagliardo
    Proposito e il vicin fato e sè stessi
    Dimenticando, a delibar si diêro
    Del giardino d'amor l'ultime rose.
      Come a l'odor di ramerino o timo,
    Onor vago dei campi e amor de l'api,
    Ruzzan gli agili gatti, e senton forse
    Come un acuto stimolo, che il sangue
    Fieramente gli assilla, onde su l'erba
    Stropicciando il supin dorso flessibile
    Con dolce miagolìo chiaman l'amica;
    Così, ad esempio del lor duce e al viso
    De la santa pulzella, arsero i petti
    Dei celesti guerrieri, e, nulla ancora
    De l'instante rovina conoscendo,
    Si sparpagliâr, smesser celate e usberghi,
    E quinci e quindi a saltar diérsi in traccia
    D'auree fanciulle e morbidi angeletti.
      Mentre così, del lor destino ignari,
    Dansi questi bel tempo, entro a la cupa
    Anima del Loiola un serpeggiante
    Pensier guizzò. La macera persona
    Raddrizzò a un tratto, e con volpina voce
    Chiamò quanti nel cielo erano in pregio
    Di sagace accortezza, e a lui ben atti
    Parvero a l'uopo: il Montaltese, obliquo
    Mastro di frodolente opere; il santo
    Conversor di Gusman, la cui parola
    Scrisse co'l sangue il masnadier Monforte;
    Non che il fier Torquemada, anima acuta
    Qual furtivo pugnal, che negli umani
    Petti s'infisse ad indagar la fede;
    Il ferino inventor d'ogni tormento
    Manigoldo Arbuense; il pio Ghislieri
    Tessitore di stragi, ed altri, a cui
    Negò voce la fama. Eran costoro,
    Poichè del fato avverso eransi accorti,
    Tutti intesi a raccòr per le fulgenti
    Aule del ciel quanto potean di ricche
    Gemme e pregiate masserizie; e, fatto
    Uno sconcio fardello, a quella forma
    Che travagliansi attorno ad un osceno
    Non ancor morto scarabèo le inopi
    Formichette ingegnose, ad esso in giro,
    Con le mani e co' piè forte spingando,
    Trafelanti anelavano; e già già
    S'involavan dal ciel, stolti! che fuori
    Di quel regno di larve avean pensiero
    Produrre oltre la vita; e negro intanto
    Li batteva a le spalle il giorno estremo.
    Li sorprese in quest'opra il conosciuto
    Grido e l'aspetto del sagace amico,
    Ed ascoso il furtivo ònere, a modo
    D'astute gazze, e fatto al loco intorno
    Di sè stessi gelosa ombra e tutela,
    Aspettâr la proposta.
                         —Accorti e saggi
    Siete inver più di me, disse il Loiola,
    Se al bisogno del furto e de la fuga
    Già date il tempestivo animo! Al certo
    Periglioso è l'istante, e di tenaci
    Nebbie ravvolto l'avvenir. Del Dio,
    Che propugnammo, ogni splendor tramonta:
    Immortale ei non era; e noi già primi
    Lo sapevam, noi che sol Nume in terra
    L'utile nostro e il nostro regno avemmo.
    Scarsa è la schiera e del mio nome indegna
    Che mi resta laggiù; qui non è alcuno,
    Che a pugnar pensi, poi chè ottuse e vane
    Le nostre armi son fatte; arbitro sorge
    Il mortale Pensier, che in aurei nodi
    Non a caso io distrinsi; ogni virile
    Nerbo gli tolsi a poco a poco, e ucciso
    L'avrei del tutto, ove più fine ingegno
    Dato avesser le sorti ai miei fedeli.
    Cederem noi per questo? A l'uom, già vile
    Schiavo e strumento d'ogni mio disegno,
    Noi, vili or fatti, piegherem la nostra
    Già ferrata cervice? Oh! alcun non sia
    Che in cospetto me'l dica! Uom, che a la prima
    Faccia del mal muto s'accascia e trema,
    Pusilla anima è detta; a noi, che tanta
    Fama abbiam di sagaci, e siam beati,
    Qual degno nome si addiría? Son troppe
    Le dolcezze del ciel perchè a la prima
    Si conceda al nemico! Abbiam rispetto
    Prima a noi, poscia a Dio, da la cui larva
    Già difesi imperammo. Inutil sono
    Le braccia e l'armi? E che però? Ne avanza,
    Possente arma, l'ingegno. È disperata
    Cosa la pugna? Usiam l'arte e la frode:
    Mal, che torni a vantaggio, al ben somiglia.—
      Tacque, e le man si stropicciò.
                                     —Son d'oro
    Le tue parole, a lui rispose il senno
    Del Pastor di Montalto, e assai per fermo
    Io ne lodo il valor; ma la patente
    Sconfitta che vicina e certa io sento,
    E meco ognun, tu non dirai che sia
    Sorte miglior d'una latente fuga,
    Pria la vita, indi il regno. Io, sin che filo
    Di memoria e di spirto il cor mi regga,
    Non dispero acquistar quanto or si perde;
    Campar dunque fa d'uopo.—
                              —Altra io non veggio
    Via di salute, il pio Ghislieri aggiunse,
    Che la via del fuggir!—
                            —Così ne fosse,
    Gridò allor con schizzanti occhi il grifagno
    Consiglier di Filippo, oh! sì ne fosse
    Tosto dato in balía quest'incarnato
    Sovvertitor di sacrosanti altari!
    Tal rete intorno gli ordirei, che vano
    Al districarsi torneríagli il tutto
    Suo senno astuto e l'infernal possanza!—
    —E chi sa?, ravvivando il serpentino
    Occhio, soggiunse il Biscagliese obliquo,
    Chi sa, che in nostra man da ver non caggia
    Quest'audace Lucifero? Fin quando
    Spirto alcuno d'ingegno oprar n'è dato,
    Chiuder non dèssi a la speranza il core.
    Ragno astuto, che vede in un sol punto
    Disfatto il fine e pazïente ordito,
    Torna a l'opra ben tosto, e in più sicuro
    Loco, e con più sottile arte ed ingegno
    Più certe insidie ai suoi nemici intesse.
    Spero io così trar ne la rete il nostro
    Burbanzoso avversario. Ardito e forte
    Per certo egli è; ma un punto io gli conosco,
    A cui se drizzi insidïoso un dardo,
    Larga e secura gli aprirai la piaga.
    Benchè spirito invitto e del pensiero
    Apostolo sublime egli si vanti,
    A la turpe materia il più profano
    Culto ei professa; ed io più volte il vidi
    Prostrato al piè d'una beltà terrena
    Svestir l'orgoglio e gingillar la vita.
    Udite or dunque un mio proposto. Appena
    Ei si farà su'l limitar del cielo,
    Niun lo scontri con l'armi: esperimento
    Vano saría; vadagli incontro invece
    Una, di quante sono ornate e belle,
    Leggiadrissima santa (ed io fra tutte
    Do la palma in quest'uopo a la divina
    Prostituta di Màgdalo); gli abbracci
    Supplicante i ginocchi, e sì lo svolga
    Per qualche istante da ogni fier concetto,
    Che a l'amplesso fallace ei si abbandoni
    In una molle voluttà. Noi, quanti
    Qui siamo ancor d'armi o d'ingegno instrutti,
    A lui d'intorno in vigilanti agguati
    Tutti pronti staremci; e quando il fiero
    Debellator di Dio da l'iterate
    Pugne d'amor giacerà stanco e assôrto
    Nel più codardo e immemore abbandono,
    Noi piomberemgli in un baleno addosso
    Come stuol d'avvoltoi; di ferrei nodi
    L'avvinceremo; e poi che osceno e carco
    Sarà tutto di ceppi e di ferite,
    Tal gli darem di tutto polso un crollo,
    Che i neri abissi e il regno suo riveda!—
    Piacque a tutti il consiglio, e alàcri e pronti
    Diêrsi a l'opera intorno, in simiglianza
    D'immondo strupo di codarde jene,
    Che, fatte ardite dal favor de l'ombre,
    Mute s'affrettan pe'l deserto campo
    Dietro al sentore di lontan carcame.

    Contro a le sedi dei Celesti intanto
    Lucifero irrompea. De l'abusate
    Porte del ciel stava a custodia il divo
    Pietro di Galilea, l'inclito alunno
    Del Nazzaren, pastor d'anime e chiave
    Del paradiso. Udita avea la voce
    Del nemico imminente, e, ben che molto
    Fosse d'uomini esperto e di fortune,
    Pur sentì scioglier le ginocchia, e a guisa
    Di fragil canna, che tentenni al vento,
    Ondeggiava diviso in due consigli:
    O sguainar l'arrugginita spada,
    Che pendeagli dal fianco, e alla difesa
    Rimaner, benchè solo; o, abbandonata
    La difficil custodia ad altri o al caso,
    Svignarsela di furto.
                         —Audace impresa,
    Dicea tra sè, nè a le mie forze uguale,
    Tener fronte da solo a un tal nemico:
    Certo ei val più di Malco. E poi, degg'io
    Perigliarmi per tutti? Alcun non osa
    Impugnar l'armi, ed io restar qui devo?
    No, no; vadasi, e tosto: al proprio scampo
    Volga ognuno il pensier. Se Dio non vale
    A difender sè stesso, io lo rinnego,
    In fede mia, canti o non canti il gallo!—
      Così pensando, si sottrasse. Come
    Al furïar di subito uragano
    Cade svelta dai cardini la porta
    D'un povero abituro: urla dal fondo
    La famigliòla spaventata, in quella
    Che ogni serbata masserizia in giro
    Sparge, ammucchia, avviluppa il turbo avverso;
    Spalancossi in tal guisa al primo tocco
    Di chi porta la luce il vecchio albergo
    Del paradiso, ovvio lasciando e vasto
    Al guardo e al passo del Ribelle il varco.
    Grande e securo e tutto lampi il volto
    Su la soglia Ei piantossi, e parea sole
    Di cotanto splendor, che incerte faci
    Ben dir potevi a petto a lui le stelle.
    Siccome spada folgorante, in pugno
    Un raggio acuto gli splendea; tremenda
    Arma, che squarcia il sen de l'ombre, e quanti
    Ferrei fantasmi e fiere larve han vita
    Con sovrana virtù spezza e dilegua.
    Così l'Eroe proruppe; impazïenti
    Del solenne giudizio a lui da presso
    Si versano le schiere, e tutte in giro
    Prendon l'aurea magione, a simiglianza
    Di sonanti fiumane, a cui più freno
    Non dànno argini e dighe, e l'una e l'altra
    S'accavallando, fragorose e torbide
    Divorano la valle e i campi affogano.
      Come allor, che dai cupi antri improvviso
    Il vecchio Mongibel mugghia e si scuote,
    Trema intorno la valle; impäuriti
    Fuggon greggi e pastori, a cui di sotto
    Balzan globi di fumo atro, e sul capo
    Piove di ardente e negra sabbia un nembo;
    Così a la vista de l'Eroe si scosse
    La gran reggia dei cieli, e quinci e quindi
    Fuggîr senza consiglio i sacri armenti
    Vociferando, e qual siede, o s'arresta,
    Non già vanto ha d'ardire o di piè fermo,
    Ma invalidi i ginocchi e l'alma infranta.
    Questo fu il punto, che, disciolta i crini
    Biondissimi e con piè trepido, in vista
    Di verginella, al gran Ribelle incontro
    Mosse la bella Maddalena. Il colmo
    Petto le ondeggia sovra il cor, sicuro
    D'un superbo trïonfo; entro ai non folti
    Docili veli le tondeggian tutte
    Le rosee membra riluttanti: un nimbo
    Di reconditi incensi errale intorno
    A la vaga persona, e di pungenti
    Stimoli avvampa ai men lascivi il sangue.
    Tal s'avviene a l'Eroe, mentre raccolti
    Nei lor taciti agguati ansan parecchi,
    Qual fidato a l'astuzia e quale al braccio,
    Congiurati al Loiola. Intento e assôrto
    Nel suo pensier quei trascorrea, nè punto
    Abbadava costei, che del sedurre
    Tutti ben sa gli accorgimenti e l'arte.
    Ond'ella il passo gli precise, e:—O santo
    Arcangelo, esclamò, ben si conviene
    A la luce del tuo sguardo immortale
    Questo splendido regno! E chi dir puote
    Che nemico tu sei? che una superba
    Smania di regno ti conduce al cielo
    A sovvertir l'adamantina sede,
    Di Dio? No, che per certo iniqua e indegna
    Ti precorre la fama, e mal diritto
    Veggion queste beate anime, a cui
    Tanto incute il tuo nome alto spavento.
    Luce ed amor sei tu: simile a novo
    Raggio d'innamorato astro sorride
    La tua fronte serena, e a dolci affetti,
    Pari al mio Nazzaren, l'anime inviti.
    Oh! ben torni fra noi; qui non mortali
    Semina rose amor, qui sempre viva
    Fonte di voluttà schiude il mio seno!—
      Udì l'Eroe la subdola proposta,
    E amaramente le gittò sul volto
    Queste parole:
                  —O penitente eterna,
    Nè pentita giammai, qual ti germoglia
    Ne l'instabile cor postuma brama
    Di novelle avventure? Un mi son'io,
    Che al lascivo ozïare, a cui mi tenti,
    L'aspre battaglie del pensier prepongo!—
    Disse, e sdegnando procedea, già sciolto
    Da l'inciampo di lei; quand'essa, a un punto
    Tramutando tenor d'arti e d'accenti,
    Ruppe in alto cachinno:—E ci voleva
    Proprio questa, esclamò; state a vedere,
    Ch'oggi che in terra dàn la caccia ai frati,
    A questa vecchia golpe senza coda
    Vien pizzicor di farsi anacoreta!
    Ma fa' il piacer, Lucifero! Son donna,
    Son figlia d'Eva, e non son senza macchia
    Come la madre di Gesù: codesta
    Mascheraccia d'apostolo su'l muso
    Non ti sta, credi a me: cangiati in serpe
    Piuttosto; ed io farò, come Dio vuole,
    Il sagrificio di mangiare il pomo!—
      Così dicea, ma seminate al vento
    Si disperdean le lubriche parole.
      Visto il colpo fallir, nè di salute
    Più sperando altra via, fuori ad un tratto
    Dagli agguati sbucò la tortuösa
    Anima del Loiola, e si gittando
    Di traverso a l'Eroe:—Salvami, grida,
    O glorïoso Arcangelo! Per te,
    Non già per Dio, sovra la terra io tesi
    La rete mia!—Volea più dir, ma come
    Non crudel passeggero, a cui di sotto
    Venga un turpe scorpion, che velenosi
    Lascia i morsi ove tocchi, immantinente
    Alza il piede e lo schiaccia; in simil guisa,
    Sporgendo il labbro, e torto altrove il viso,
    Piantò il piede l'Eroe sovr'esso al tergo
    Del supplice maligno, il qual diè un forte
    Tonfo, e scoppiò, tutto ammorbando intorno
    Di putida mefite il ciel sereno.
      Questo fu il segno de la strage. Appena
    Del suo duce la fin videro i Santi,
    Tutti uscîr dagli agguati a la rinfusa,
    Tal che frotta parean di saltellanti
    Locuste ingorde, cui la fiamma incalza
    Più vorace di lor. Più volte indarno
    Una mano d'audaci angeli e santi
    Far impeto tentâr contro a le schiere
    Del luminoso Eroe; ma qual fremente
    Cavallon che si franga a la ronchiosa
    Rupe, spezzate contro a lor cadeano
    L'avverse armi e l'ardire. E come avviene
    Nel nebbioso novembre, allor che in dense
    Falde piovon dal ciel l'umide brume,
    E nereggian le vie, quasi colpite
    D'occulta lue cadon le mosche esose,
    Ch'or ti ronzan morenti in su la faccia,
    Or sui fumidi cibi, onde a l'intorno
    Sparse e brutte ne van le mense e i letti;
    Così, al proceder de l'Eroe, da l'alto
    Fioccan morti i Beati, e tu soltanto
    Li ferivi co'l tuo sguardo immortale,
    O trïonfante Verità. Fra tanto,
    Con ogni forza ed ogni astuzia in salvo
    Ricondursi volean Sisto e Ghislieri,
    Torquemada e Gusman. Li precedea,
    Stranamente strillando e mulinando
    Sovr'esso il capo la ghierata gruccia,
    Il feroce Arbuënse, e una mal viva
    Folta di Santi lor tenea bordone.
    Li riconobber da l'opposta parte
    Co'l profondo veggente occhio i campioni
    Del libero Pensiero, e un minaccioso
    Mormorio si levò, come di vento
    Precursor di procella. Ardean di cupo
    Sdegno le generose anime, in quella
    Che con flagel di sanguinosi motti
    Mordea Voltèro ai fuggitivi il dorso.
    Non però immoti ne le lor falangi
    Stetter Bruno e Vanini; anzi a quel modo
    Che una coppia di fulve aquile, altere
    Dominatrici di profonde altezze,
    Con pari volo e con funesto strido
    Piomban sovra a la preda, essi al feroce
    Fuggitivo drappel di tutta punta
    S'avventarono incontro, e:—O manigoldi
    De l'umano pensier, gridò con fiera
    Voce l'ardito precursor di Nola,
    Or sì che il fin di vostre colpe è giunto!—
    Disse, e ghermendo con la ferrea destra
    Torquemada a la strozza, in turbinoso
    Modo il rotò, che spatola parea
    In man d'esperto battitor. Lanciollo
    Poi qual sasso di fionda; e non sì tosto
    Da l'alto ei ripiombò, che in mostrüosa
    Foggia si franse e si divise, a modo
    Di crinato utensil d'impura argilla
    Lanciato a l'aria da fanciul bramoso
    D'udirne il tonfo e di contarne i cocci.
    Cadde, e si franse ei sì, ma in braccio a morte
    Non s'acquetò; chè in quante parti e brani
    S'eran divise le sue membra, in tanti
    Si spezzò la sua vita, onde ciascuno,
    Che guizzando e serpendo invan tendea
    A congiungersi a l'altro, era dannato
    A soffrir sempre, e a non morir giammai.
      Fra mani allora al pensator d'Otranto
    Fieramente stridean Sisto e Ghislieri.
    Ambi agguantati egli li avea, qual suole
    Assiduo scardatore, il qual prendendo
    Due manciate di canape, fra loro
    Pria le sbatte più volte, indi le affida
    Al nemico di lische ispido cardo.
    Si mordevan per rabbia i duo percossi,
    E sgraffiavan rignando, e parean due
    Gatti rivali, a cui bollir fa il sangue
    Nel rigido gennaio un caldo amore:
    Sul colmo dei muschiosi embrici, in traccia
    De l'amica ritrosa, a notte piena
    Scontransi, e i peli rabbuffando a un tratto,
    Soffian, sbatton la coda, alzano in arco
    L'ispido dorso, e duri, intirizziti
    Muovonsi con guardingo atto d'intorno,
    L'arida lingua saettando: a bada
    Si tengono così, fin che il più lesto
    La granfia avventa e vibrasi a l'assalto.
    Odi allora echeggiar di strilli acuti
    La sacra notte, rotolar sul tetto
    Smosse tegole e sassi, e chi del dolce
    Sonno si svolge in quell'istante, umani
    Gemiti e grida ascoltar crede al vento.
    Così le due sinistre anime, a un punto
    Fatte da l'ira e dal dolor nemiche,
    Si sbranavan fra loro, insin che stanco
    Di quel fiero piacer l'eroe nemico
    Le scagliò da sè lungi. Urlâro i tristi
    Da l'alto ciel precipitando, e ancora
    Precipitan pe'l chiaro aere: li aspetta
    Fremebonda la terra, ove un'eterna
    Vita servile e in gran terror vivranno.
      Scórsi muti e di furto eran fra tanto
    L'Arbuënse e il Gusmano; e si tenendo
    Fuor d'ogni attesa e d'ogni sguardo ostile,
    Speculavan la fuga, o un nuovo inganno.
    Si sferrò allor da la sua schiera il forte
    Riformator di Vittemberga, in guisa
    Di mortifero strale, e una tremenda
    Voce vibrò. Stetter tremanti e bianchi
    I fuggitivi, e balenâr perplessi
    Fra la lotta e la fuga, in simiglianza
    D'inseguito assassin, che fischiar senta
    Presso a l'orecchio il mortal piombo. Vinse
    Il primiero consiglio, e, vòlto il fronte
    Subitamente, s'avventâro ai fianchi
    De l'iracondo novator. Qual pura
    Fiamma tendente al Sole e del Sol figlia,
    Se a la putida pece arda vicina,
    A lei tosto s'apprende: a poco a poco
    Struggesi questa; in negre bolle impure
    Gorgoglia, e più e più spandesi, fra tanto
    Che giallo e crasso infesta l'aria il fumo;
    Tal divenne Lutero, allor che intorno
    Gli s'avvinghiâro ai poderosi fianchi
    I due rabidi santi, a cui bentosto
    Crepitando ei s'appiglia. Un fiero strido
    Mandan gli audaci, e di balzar fan prova,
    E staccarsi, e fuggir; ma appiccicati
    Restano a lui così, che in foggia strana
    Fan di tre forme un mostrüoso aspetto.
    Corre pe'l ciel l'inesorabil fiamma,
    Che li attacca, e li fonde, e meraviglia
    N'han tutti intorno; ed ora i cornei crini
    Gli avvampa, or gli erra su le picee terga
    Con feroce pigrizia, or dentro ai vivi
    Occhi gli siede, e nei precordii scende,
    E i visceri gli mangia, e l'ossa ignude
    Con lenta voluttà rode e consuma.
      Seguían queste giustizie; ed ecco a fronte
    De l'egro Nume il gran Ribelle arriva.
    Solo il trovò nel più recesso loco
    Del paradiso; e nullo era, di quanti
    A le mense di lui s'eran nutriti,
    Che a la difesa or vigilasse: ognuno
    Che innanzi al passo de l'Eroe non era,
    Futile inciampo, ancor fugato o vinto,
    O il vol dava a la fuga, o in un furtivo
    Ripostiglio del ciel, pallido, ansante
    Scongiurava il destin. Voi soli in questo
    Stremissim'uopo non lasciaste il trino
    Padre deserto, o sovra ogni pietosa
    Fida essenza del ciel pietosi e fidi
    Quadrupedanti: a voi, se grazia alcuna
    Merta ancora la fede, un chiaro grido
    Non fallirà presso i venturi, a cui
    L'alto cor vostro e i vostri nomi io canto.
    V'era di Balaàm l'asino e quello
    Che riscaldò di Betelèm la greppia
    Col mirifico fiato; eravi anch'esso
    L'accorto bue, che, abbandonato il duro
    Solco e l'aratro, ad adorar sen corse
    Il già nato Messia: meraviglioso
    Di fede esempio, onde nei cieli assunto
    Fu per nume di Dio, che la falcata
    Fronte gli ornò di due vividi raggi,
    Come un tempo a Mosè; v'eran del divo
    Rocco i fidi mastini impazïenti
    D'avventarsi a l'Eroe; v'era il modesto
    D'Antonio alunno, che il signor perduto
    Fra' grugniti piangea: sul nero grifo
    Gli discorrean le lagrime cocenti,
    Ed ei, la Dio mercè, fatto maestro
    D'oprar le zampe come fosser mani,
    Se le tergea con un candido velo,
    Di ricami stupendo, opera e dono
    De la diva Lucia. Ma visto appena
    L'avverso Eroe, che procedea sembiante
    A novo Sol, di subito disdegno
    Arse, fe' biechi i picciolettì e tondi
    Occhi verdastri, aggrinzò il grugno, a spira
    Ravvolse ed agitò la scarsa coda,
    Ed arrotando le spumose zanne
    Con irto il dorso e con pendule orecchie
    S'avventò, che parea critico arguto,
    Che carico di norme e di sofismi
    Al tallon d'un poeta avventi il morso.
    Non fûr tardi a seguir l'eroico esemplo
    L'altre bestie devote; anzi ad un punto
    Per ogni verso si scagliaron tutte,
    E, stupendo a ridir! correano a morte
    Come a danza, o convito. Alti lamenti
    Mettea dal petto il Nume; e a lui d'intorno
    Per la reggia del cielo era un tedesco
    Strano accordo di ragli e di grugniti.
    Tentennava l'Eroe, commiserando,
    La testa, e con un rigido sorriso:
      —Ecco, o Eterno, dicea, qual poco armento
    Di cotanti fedeli oggi ti resta!—
    Toccò in tal dir co'l penetrante raggio,
    Che nel pugno tenea, la nebbia densa
    In cui tutto era chiuso il Dio morente,
    E l'aprì tosto, e dissipolla in guisa
    Che il ciel limpido apparve e la sparuta
    Faccia del Nume agonizzante. Ai piedi
    Morto giaceagli il divo augel, che il grembo
    Visitò de l'Ebrea Vergine; e, sciolto
    Dal trino amplesso, a cui lo strinse il mito,
    Stette innanzi a l'Eroe tranquillamente
    Gesù. Splendea nel mansuëto aspetto
    Tutta umana bellezza, e una fragrante
    Lucid'aura di pace e di dolore
    Gli alïava d'intorno a la persona
    Candidissima. Il vide, e il riconobbe
    Lucifero, e parlò:
                      —Ben la catena
    Di tua divinità spezzi in quest'ora,
    Santo eroe de l'amore e del perdono;
    Ben ritorni qual fosti al luminoso
    Raggio del Ver, le cui vendette io segno!
    Vedi le schiere mie? Là, fra quei pochi
    Spirti di saggi, a cui Socrate è duce,
    Loco a te caro, a niun secondo, io serbo!—
    Disse, e insegnava con la destra. Innanzi
    Fecesi, a questo dir, l'intemerata
    Luce d'Atene, e fra le venerande
    Braccia il pietoso Nazzareno accolse.
      Or l'estrema ora tua dirà il superbo
    Genio che m'arde, o mal temuto Iddio.
    Quando l'Eroe ruppe la nebbia, involto
    Di nero oblio, fuor d'ogni senso e moto
    Tu giacevi; ma allor che con lo sguardo
    Ti penetrò, ratto balzasti, a guisa
    Di già morto batràce, a cui dà strani
    Moti il valor del ricorrente elettro.
    E, come già solea nel greco mito
    Le sembianze mutar Proteo marino,
    Quando immerso nel sonno, in mezzo al gregge
    De le putide foche il sorprendea
    Con ferree braccia alcun mortale o nume,
    Tal sotto al ciglio de l'Eroe nemico
    Cento apparenze e simulacri e larve
    L'egro tuo corpo in ratta vece assunse.
    E or di Brama, o di Teuta, or di Saturno
    Usurpava gli aspetti; or Cristo, or Giove,
    Ora Osiri appariva ed ora Anubi;
    Or terribile e scuro e tutto cinto
    Di tempeste e di morte, or fiammeggiante
    Sole parea che l'universo avvivi;
    Or fantasima inerte, or procelloso
    Eversor di pianeti; e ferrea e cieca
    Legge d'affanno, ed inesausta fonte
    Di bontà, di clemenza e di perdono.
    Fremean per lo profondo etra le schiere
    Luminose dei Saggi; da l'opaca
    Terra sorgean, che parean fiamme vive,
    Le vittime dei Numi, e tutti a un grido
    La giustizia chiedean. Pende dal labbro
    Di Lucifero il Fato; a lui dintorno
    Stanno i secoli. Al Dio, che si trasforma
    Tranquillamente egli favella:
                                 —È antica
    L'arte, per cui forme tu cangi e nomi:
    Rinnovarla or non giova! Assai sembianze
    Sostenemmo di Numi, a cui la cieca
    Fede de l'uom diè lunga vita e impero.
    A l'un error l'altro successe; a un vôto
    Fantasma altro fantasma; or tocca il fine
    Questa vicenda rea: l'ultimo Iddio
    Tu sei; con te, non pur la forma e il nome,
    Ma il pensiero di Dio ne l'uom s'estingue!—
      Così dicendo (ed additava il sole,
    Che sotto ai passi gli sorgea), toccollo
    De l'acuto suo raggio, e parte a parte
    Lo trapassò. Stridea, come rovente
    Ferro immerso ne l'onda, il simulacro
    Fuggitivo del Nume; e, a quella forma
    Che crepitando si scompone e scioglie
    Fumigante la calce a l'improvviso
    Tasto de l'acqua o del mordente aceto,
    Tale al raggio del Ver struggeasi il vano
    Fantasima; e in vapore indi converso,
    Tremolando si sciolse, e all'aria sparve.
      Così moría l'Eterno. Ai consuëti
    Balli movean gli antichi astri; dal cielo
    Luminose partían come in trionfo
    Le Magne Ombre dei Sofi, e a tutti innanzi
    Lucifero. Arrivò co'l Sol novello
    Sul Caucaso nevato, ove al soffrente
    D'adamantino cor figlio di Temi:
    —Lèvati, disse, il gran tiranno è spento!—

FINE.

INDICE.

CANTO PRIMO Pag. 3

Silenzio di Dio.—I suoi ministri imprecano.—Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.—Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.—Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.—S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.—L'Eroe si dispone al racconto.

CANTO SECONDO Pag. 21

Incomincia la narrazione.—La Natura e il Pensiero.—Stato primitivo degli uomini; primi e diffIcili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.—La gran Lite.—La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.—Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.—Un istinto di amore lo chiama sulla terra.—L'albero della scienza.—La tentazione.—Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.—Non mai contento dell'esser suo ritorna sulla terra.—Cristo predica l'amore.—Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.—Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.

CANTO TERZO Pag. 41

Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.—La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.—Leone X e Lutero.—Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.—Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.—Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.—Il canto della guigliottina.—Fecondità delle rovine.—Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.—Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta.

CANTO QUARTO Pag. 67

Lasciato il Caucaso, l'Eroe si dirige verso la Grecia; trascura molti luoghi favolosi, ma ricordasi di Ero, ed apostrofa all'amore e alla morte.—Descrizione di Tempe.—Le bagnanti sorprese.—Il palazzo incantato e la fanciulla misteriosa.—Lucifero arriva; ascolta il canto di Ebe, e le domanda ospitalità.—Accenna in brevi tratti all'esser suo e a quello di Dio, e la commuove di paura e di affetto.

CANTO QUINTO Pag. 87

Il fantasma di amore, che ha eternamente agitato l'Eroe, veste forme sensibili.—Ebe e Lucifero si amano: l'amore accerta l'Eroe del trionfo.—Si allontanano da Tempe, e giungono nell'Attica.—L'Acropoli di Atene.—Voluttà d'amore fra le rovine.—L'Ombre di Socrate, di Focione, di Codro.—Un bruttissimo e strano mostro appare in sogno all'Eroe, e lo beffeggia.—Onde questi, abbandonando la fanciulla nel sonno, si caccia impaziente ove il destino lo chiama.

CANTO SESTO Pag. 107

L'Eroe s'imbarca per la Francia.—Rivolge superbe parole alla Natura.—Aurora boreale.—Sermone di frate Iginaldo.—Tempesta e naufragio.—Isolina si raccomanda all'Eroe, che cerca invano salvarla.—Morte di frate Iginaldo.—Lucifero co'l cadavere della fanciulla si avvicina a forza di nuoto alla riva.—Iddio, che vuol perderlo ad ogni costo, inveisce contro gli oziosi abitatori del cielo; armasi in fretta, ed è sul punto di scendere in terra per combattere il nemico, quando l'arcangelo Michele lo calma, e scende in sua vece alla pugna.—Sdegnose parole di Lucifero al nemico, la cui spada non riesce a ferirlo.—L'eroe afferra finalmente la riva, e dà sepolcro alla giovinetta.

CANTO SETTIMO Pag. 131

Storia d'Isolina.—Amore.—Sogno di felicità.—La lettera della madre.—Ultimo commiato.—Lontananza.—La giovinetta abbandona la famiglia e la patria; muove in traccia dell'amor suo, e perisce miseramente tra' flutti.—Sorge dal sepolcro, ed apparisce a Lucifero; il quale, non potendo ridarle la vita, languisce nell'oblìo di sè stesso.—Una voce interiore lo richiama all'attività, e lo avverte della gran lotta preparata fra la Prussia e la Francia.—Egli ascende sulle Ardenne, e mira i formidabili eserciti che si avanzano.—Alla vista delle aquile imperiali alza inutilmente la voce contro l'ingiustizia di quella guerra.

CANTO OTTAVO Pag. 155

La catastrofe di Sédan.—L'ombra di Turenna e la resa.—Lucifero entra in Parigi.—La babilonia delle gazzette.—L'assedio.—Gloria ed obbrobrio a chi spetta.—Un generale francese, trasformato in asino, è condotto al macello.—I Prussiani entrano nella città.—L'allocuzione del proletario.—La colonna Vendôme.—L'ombra di Federigo.—La petroliera.—Allo spettacolo di tanti eccidî Lucifero si parte, non senza dubitare un istante del suo trionfo.

CANTO NONO Pag. 187

Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell'incendio di Parigi.—Pettegolezzi divini.—Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; che perde improvvisamente la ragione.—Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l'America.—Apostrofa alla Spagna.—Arriva nel nuovo mondo.—Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni.—S'interna in una foresta, di cui si fa la descrizione, e conversa con una scimmia, che pretende esser sorella del genere umano.

CANTO DECIMO Pag. 213

Sorge la notte, e l'Eroe resta smarrito nella foresta, dove prova le sofferenze dell'umana natura.—Lotta con un giaguaro, di cui rimasto vincitore, abbandonasi al sonno.—Rivede Ebe nei sogni, e torna per poco ai dolci vaneggiamenti d'amore.—La giovinetta silenziosa si tramuta a un tratto in un orribile fantasma.—Iddio, vedendo così travagliato il suo avversario, crede agevole impresa il domarlo.—Lascia il letto, cavalca l'asino di Betlem, e scende in terra.—Trova Lucifero, e cerca da prima con superbe parole, poi con astute promesse venire a patti; ma questi tien fermo, e lo caccia da sè acerbamente.—Liberatosi indi a poco dalla foresta è ospitato dalla povera Sara.—La schiava nera e lo schiavo bianco.

CANTO UNDECIMO Pag. 241

Canto all'Italia; le tre civiltà; l'Alighieri; l'ultima guerra d'indipendenza; l'ossario di Solferino; il traforo del Cenisio.—Lucifero arriva; apostrofa al Po; scende in Toscana; è ricevuto nella casa d'Egeria, dove si adunano i più famosi geni dell'Arte moderna.—Le donne emancipate; il filologo Macrino; un poeta demagogo; un commentatore di Dante; Delio gazzettiere; un camaleonte onniscibile.—Il poeta Olimpio e la sua dama.—Lucifero, creduto spiritista, finge evocar l'ombra del divino poeta; il quale fulmina sdegnosamente poeti svenevoli e atrabilari, drammaturghi da scuola e da piazza, musici intronatori ed istrioni bastardi.—Olimpio, che si offende, sfida l'Eroe a un duello; ma questi si rifiuta con parole di superbo disprezzo.

CANTO DUODECIMO Pag. 281

Lucifero giunge in Roma.—La breccia di Porta Pia.—La festa del Colossèo; durante la quale ascolta l'Eroe alcune voci misteriose.—Voce di Ebrei.—Voce di Numi.—Voce di Sacerdoti.—Voce di Santi.—Voce di Diavoli.—Voce del Tevere.—Voce della Savoia.—Voce della Corsica.—Voce dell'Istria.—Voce di popoli slavi.—Voce della Germania.—Spavento dei beati alla nuova che Lucifero è in Roma.—Santa Caterina da Siena, rimproverandoli acerbamente, si offre di scendere in terra e di piegare con la sua eloquenza il nemico.—Iddio, benchè dubbioso del buon successo, glielo accorda; e, mentre ella si dispone a partire, Santa Teresa dà scandaloso spettacolo della sua pazzia.

CANTO TREDICESIMO Pag. 315

Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde di animo, e, invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all'amore, e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti dell'Eroe.—Alcuni Angeli, sedotti dall'esempio, disertano il cielo, e cantano il desiderio della terrena voluttà.—Ultime ore di Pio IX; a cui apparisce l'Ombra di un solitario, che, non valendo a persuaderlo di rinunziare al dominio temporale della terra, lo lascia in preda a spaventose visioni.—Una vittima delle stragi di Perugia.—Due decapitati.—Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono.

CANTO QUATTORDICESIMO Pag. 341

Saluto di Lucifero al Sole; tra' raggi del quale rivede l'immagine di Ebe.—Attirato da mirabile fascino d'amore l'Eroe si solleva per l'aria; traversa gli spazi; giunge in Venere; si confonde con l'amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell'ultimo giudizio.—I morti di ogni età e di ogni loco risorgono, e s'innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio.—Rassegna di filosofi; d'istitutori di popoli; di riformatori.—Le vittime domandano vendetta.

CANTO QUINDICESIMO Pag. 367

La voce di Lucifero spaventa i beati, che si danno scompostamente alla fuga.—San Luigi Gonzaga si sviene fra le braccia di Santa Teresa.—Gabriele, non potendo persuadere l'Arcangelo Michele alla pugna, ordinate alla meglio alcune schiere, disponesi alla battaglia.—Santa Cecilia ne lo dissuade; ond'egli, lasciato il fiero proposito, s'abbandona voluttuosamente nelle braccia di lei.—Loiola, Domenico di Guzman, Torquemada, Pietro d'Arbues, Sisto e Pio V, ordiscono una frode a Lucifero.—San Pietro abbandona le porte del paradiso.—L'Eroe sventa la congiura, e prorompe luminosamente nel cielo.—I congiurati santi tentano la fuga, e periscono miseramente.—Lucifero arriva alla presenza di Dio, cui trova, già fuori di sè, abbandonato da tutti, fuorchè da alcune bestie fedeli.—Tornata vana ogni loro difesa, tramutatosi indarno in diversi aspetti, Iddio muore, mentre l'Eroe ridiscende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa.