Title: Dal primo piano alla soffitta
Author: Enrico Castelnuovo
Release date: December 13, 2009 [eBook #30663]
Language: Italian
Credits: Produced by Emanuela Piasentini and the Online Distributed
Proofreading Team at http://www.pgdp.net
Capitolo I. | Capitolo II. |
Capitolo III. | Capitolo IV. |
Capitolo V. | Capitolo VI. | Capitolo VII. | Capitolo VIII. |
Capitolo IX. | Capitolo X. | Capitolo XI. | Capitolo XII. |
Capitolo XIII. | Capitolo XIV. | Capitolo XV. | Capitolo XVI. |
Capitolo XVII. | Capitolo XVIII. | Capitolo XIX. | Capitolo XX. |
Capitolo XXI. | Capitolo XXII. | Capitolo XXIII. | Capitolo XXIV. |
Capitolo XXV. | Capitolo XXVI. |
DEL MEDESIMO AUTORE:
Alla finestra | L. 3 — |
Nella lotta | L. 3 — |
La Contessina | L. 3 — |
Sorrisi e lagrime | L. 3 50 |
ROMANZO
DI
ENRICO CASTELNUOVO
Seconda Edizione.
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Tip. Fratelli Treves.
Qualunque spettacolo ci fosse sul Canal Grande, s’era sicuri di veder folla in palazzo Bollati. Figuriamoci poi quanta gente s’aspettasse quella domenica 7 ottobre 1838 in cui ci doveva essere la regata in onore di S. M. Ferdinando I, venuto insieme con l’augusta consorte a beatificare di sua presenza la fedele città di Venezia.
Già fin dalla mattina si vedeva una gran confusione, una grand’affaccendarsi dei servi a lavare i pavimenti, a spolverare i mobili, a fregar le maniglie degli usci, a mettere i damaschi fuori delle finestre. Il contino Leonardo, ragazzo di circa quindici anni, era giù alla riva in mezzo ai tappezzieri che stavano compiendo l’addobbo della bissona l’Uscocca, allestita per cura e a spese della famiglia Bollati, e nella [2]quale egli stesso, il contino, sarebbe entrato più tardi. E alla riva c’era anche Tita, uno dei barcaiuoli di casa, col suo gondolino, che doveva prender parte alla gara e che portava il numero 6. Naturalmente, Tita aveva la testa piena del grande avvenimento e discuteva col padroncino circa al merito dei varii competitori ch’erano su per giù quelli dell’ultima regata. C’era però questa volta un giovine muranese, un tal Nane Sandretti detto Bisatto, di cui nessuno aveva sentito parlare fino a poche settimane addietro e del quale si pronosticavano miracoli. Sarà benissimo.... Forza ne aveva sicuramente, ma la forza non basta. Tita voleva mostrarsi imparziale; nondimeno egli doveva dire la sua opinione, ed era questa: che i Muranesi avessero a stare a Murano e a farsi le loro regate per sè. In quanto a lui, il Bisatto non gli faceva paura e con l’aiuto della Madonna sperava di guadagnarsi anche quest’anno la sua brava bandiera rossa. Non si lagnava del compagno che gli avevano dato, uno fra i pochi Castelani che sapessero tenere il remo[1]. Tita aggiungeva poi alcune savie considerazioni sul tempo che non era perfettamente sereno, ma che, secondo lui, si sarebbe mantenuto abbastanza buono fino a notte, sul riflusso[3] che sarebbe cominciato fra le cinque e le cinque e mezzo, e su altri argomenti di non minore importanza. Anche il conte Zaccaria, padre di Leonardo, s’era alzato di buon mattino e girava su e giù per le stanze in compagnia dell’agente generale, sior Bortolo, descrivendogli l’accoglienze ricevute il dì prima da Sua Maestà, la quale s’era mostrata informatissima della grandezza dei Bollati e gli aveva detto subito!—Ah, Bollati.... nome storico.... conosco.—E il conte Zaccaria osservava che, quando si ha un nome storico, si ha l’obbligo di curarne lo splendore senza badar troppo al dispendio, e che già ci son certe spese le quali possono considerarsi più ch’altro una buona investita di capitali, e ch’egli non era pentito sicuramente d’aver fatto ristaurare il palazzo e addobbare l’Uscocca, perch’eran tutte cose le quali tornavano a lustro della famiglia. Parole d’oro a cui sior Bortolo, uomo furbo e discreto, si guardava bene dal contraddire.
Se il conte Zaccaria era disposto quella mattina a veder tutto color rosa, la nobildonna Chiaretta, sua illustre consorte, pessimista per indole, s’era svegliata d’umor più nero del consueto. Essa diceva chiaro alla cameriera che non vedeva l’ora che questa baldoria finisse, e ch’era una vita da cani, e che, se durava ancora un mese così, ci avrebbe rimesso la pelle. Meno male se l’amor proprio fosse stato soddisfatto. Ma ci voleva quel grullo di suo marito per contentarsene. Ormai tutti potevano[4] avvicinare i Sovrani, tutti potevano andare a Corte, ed ella aveva avuto l’umiliazione di trovarvi certe donnette che non avrebbe ricevuto in casa sua, certe contesse di princisbecco che non si sapeva di dove venissero. Al gran ballo poi sarebbe stato uno scandalo addirittura. Eran stati messi in giro duemila inviti e s’era dovuto discendere fino ai nobili dell’Ordine dei segretarii, fino ai cavalieri della Corona di ferro di terza classe, fino ai mercanti arricchiti e alle loro femmine. Che più? Si diceva, ma questo la contessa Chiaretta non voleva crederlo, che ci sarebbe stata anche la moglie d’un banchiere ebreo. In verità, eran cose che a pensarci facevano salire i rossori al viso, e quando Sua Eccellenza Chiaretta ci pensava, le veniva quasi quasi la voglia di affigliarsi alla setta della Giovine Italia. Intanto oggi c’era la seccatura di vedersi il palazzo pieno di gente, forestieri in gran parte, per merito soprattutto del suo signor genero e della sua signora figliuola, che quand’erano a Venezia le intedescavano la casa.
La contessina Maddalena Bollati, figlia primogenita delle loro Eccellenze Zaccaria e Chiaretta, s’era sposata due anni addietro, uscita appena dalle Salesiane, col signor marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen ufficiale degli ussari, possessore di molte terre e castella in Moravia. Matrimonio levato a cielo dagli uni, aspramente censurato dagli altri, tanta è la varietà degli umani giudizii. Per noi[5] due cose sole son certe: primo, che il nome del marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen figurava nell’almanacco di Gotha, e, via, ci pare che bisogni discorrer con qualche riguardo d’una persona ch’è registrata nell’almanacco di Gotha; secondo, che il detto signor marchese possedeva quella prosopopea che si conviene ai grandi personaggi. La boria dei Bollati non era nemmeno paragonabile a quella del loro signor genero. L’aristocrazia veneziana si sa, visse sempre in dimestichezza col popolo e il suo orgoglio di casta prese tutt’al più la forma d’una famigliarità impertinente. Ma l’aristocrazia tedesca non ammette scherzi e vuol far capire ai semplici mortali ch’è già una sua gran degnazione s’ella permette agli altri di tirare il fiato alla sua presenza. Siccome poi il marchese Ernesto aveva appiccicato le sue belle qualità alla consorte, così la vicinanza della nobilissima coppia faceva l’effetto d’una pietra da mulino sullo stomaco.
I coniugi Geisenburg-Rudingen von Rudingen, venuti a Venezia apposta per ossequiare le LL. MM, erano ospiti in casa Bollati da due settimane, e proprio nel momento in cui la contessa Chiaretta si sfogava in querimonie con la cameriera, la marchesa Maddalena strapazzava in tedesco la sua Zimmermädchen, e il marchese Ernesto con l’aiuto d’un servo si metteva il busto e si stringeva la vita. Bisogna notare che il marchese, afflitto da obesità prematura, doveva far sforzi erculei per dissimulare la sua[6] imperfezione e per esser contenuto nella sua succinta divisa di capitano di cavalleria. E quando tra lui e il servo avevano sudato due buone ore, il signor marchese acquistava l’apparenza di un 8 pietrificato. Si capisce come queste condizioni fisiche non gli permettessero di restar nell’esercito, ed egli infatti aveva chiesto e ottenuto la sua licenza, conservando però il diritto di vestir l’uniforme.
Non sarà inopportuno per ultimo di dare una capatina in una stanza del secondo piano dove si trova inchiodato da due anni per una paralisi alle gambe il padrone vecchio, l’ottuagenario conte Leonardo, comandante di galera ai tempi della Serenissima. Lungo, stecchito, grinzoso, il conte Leonardo era sdraiato sur una poltrona presso una finestra che guarda il Canalazzo, mentre dietro di lui un barbiere antidiluviano gli pettinava il parrucchino e gli ravviava i quattro peli tinti delle basette. Il conte Leonardo, che aveva ancora sciolta la lingua e pronta la memoria, stava passando in rassegna le innumerevoli regate a cui aveva assistito nella sua vita. Gl’importava molto di veder quella d’oggi, egli che aveva visto quelle per l’Imperatore Giuseppe II, per i duchi del Nord, per il conte di Haga, per Napoleone e pel principe Eugenio!
E il barbiere, rincarando la dose, soggiungeva:—Chi ha visto ciò che si faceva sotto San Marco non ha più nulla da vedere. Eh, lustrissimo, a pensare che se invece di quel[7] minchione del Condulmer ci fosse stato lei a capo della flotta, avremmo ancora la nostra Repubblica!...
—Via, via—rispondeva modestamente Sua Eccellenza—la cosa non era tanto facile.... Quei maledetti Francesi erano un osso duro da rodere.
Ma il barbiere non si dava per vinto.
—Ci son mancati gli uomini, ecco il male. Il cavalier Emo era morto, e il solo che potesse supplirlo era tenuto in un posto subalterno. Così ci son capitate addosso tutte le disgrazie. Prima quei matti del Governo democratico, poi i patatuchi, poi i Francesi, poi i patatuchi da capo, che il diavolo se li porti....
Il conte Leonardo gli diede sulla voce:
—Non vi fate sentire dal marito di mia nipote.
L’altro si strinse nelle spalle.—Io non sono che un miserabile insetto, ma Vostra Eccellenza sa che quel matrimonio....
—Non l’avete mai potuto digerire.
—A me non toccherebbe parlare, ma santo Iddio, c’era proprio bisogno che una damigella Bollati andasse a cercarsi lo sposo laggiù?
—Cosa volete? Si sono innamorati del nome.
—Un nome che riempie la bocca.... Bel gusto.
—Un gusto come un altro... Per me tanto li ho lasciati fare, che non ho mai voluto perdere il mio tempo a raddrizzar le gambe ai cani.... E.... che novità ci sono in paese?
—Ma! Tutte queste feste....
—Ne ho intronata la testa da mio figlio e da mia nuora.... Novità d’altro genere?...[8]
—Non saprei.... Pare che il Patriarca si sia intromesso perchè il nobil’uomo Zulian riprenda in casa la moglie.
—La riprenderà, la riprenderà.... Anche suo padre ha fatto lo stesso.
Gli occhi del vecchio luccicarono.
—Vostra Eccellenza ne sa qualche cosa—soggiunse maliziosamente il barbiere.
—In temporibus illis.... E poi?
—Dicono che la signora Giuliana Polo non voglia più fra i piedi Sua Eccellenza Barbarigo...
—Scene di gelosia a settant’anni?
—Pare che la signora Giuliana abbia colto l’amico in flagranti.
—Eh?—esclamò il conte Leonardo sbarrando gli occhi.—In flagranti? Con chi?
—Non saranno state che carezze innocenti..... con la cameriera.
—Briccone d’un Barbarigo!... Avanti.
—Hanno messo il sequestro sui beni dei Napodano.
—Era da aspettarselo.... È finito?
—È morto il ragazzo Partecipazio.
Il nobil’uomo Leonardo tentennò il capo.—Ecco un’altra grande famiglia che s’estingue. Povero Libro d’oro!
—Speriamo che i Bollati durino ancora per secoli—disse il barbiere.—In sæcula sæculorum.
—Uhm!—borbottò tristamente il vecchio patrizio. E troncò il colloquio.[9]
[1] È noto che i popolani di Venezia si distinguevano in Castelani e Nicoloti, secondo ch’erano nati e battezzati nell’una o nell’altra parte della città. Per antica consuetudine, nella regata si mette in ciascun gondolino un Castelano e un Nicoloto, assicurando così un uguale successo alle due frazioni.
La regata doveva cominciare alle cinque pomeridiane, ma fin dalle quattro il piano nobile del palazzo formicolava di dame e di cavalieri, e il conte Zaccaria col pomposo genero a fianco conduceva in giro per l’appartamento tre o quattro austriaci d’alto affare, duri, impettiti, coperti di decorazioni. Era un bel palazzo davvero quello ch’egli mostrava a’ suoi ospiti, uno di quegli edifizi maestosi e leggiadri ad un tempo di cui gli architetti moderni hanno perduto il segreto. Stile del classicismo avviato alla decadenza, lo dicono le Guide, e ne attribuiscono la costruzione al Sansovino o a uno dei suoi discepoli. Cinquant’anni fa, esso era anche uno dei pochi palazzi veneziani che nell’interno serbassero il carattere primitivo. Dalle travi dello spazioso androne pendevano due grandi fanali che avevano già appartenuto a due galere della Repubblica; il soffitto della lunga sala era adorno di elegantissimi stucchi che incorniciavano degli affreschi non privi di merito;[10] sopra gli usci che nella sala stessa s’aprivano a destra e a sinistra c’erano dei ritratti di famiglia, quali col corno ducale in testa, quali in armatura, quali con la zimarra senatoriale, quali col vestito paonazzo a larghe maniche dei procuratori di San Marco. Altri quadri coprivano le pareti, e fra i molti ce n’erano alcuni realmente pregevoli, un Tintoretto, un Palma giovane, un Paris Bordone. Il salotto di ricevimento, i cui muri erano coperti d’arazzi di Francia, aveva un caminetto di marmo scolpito dal Vittoria, un’antica lumiera di Murano e due bei candelabri di bronzo, che riproducevano in assai minori proporzioni i due famosi della Cappella del Rosario a’ SS. Giovanni e Paolo. Pesanti cortine di damasco rosso, un po’ sfilacciate e sgualcite, moderavano la luce ch’entrava dall’ampie finestre, e la medesima stoffa rivestiva i seggioloni dagli alti schienali intagliati ch’erano disposti in giro simmetricamente e davano alla stanza un aspetto grave e solenne, come se dovesse a ogni momento adunarvisi il Consiglio dei Dieci. Nel salottino attiguo si ammiravano alcuni quadretti del Canaletto e del Longhi e due pastelli di Rosalba Carriera. E qua e là, nell’altre parti del palazzo, erano pure oggetti artistici di pregio, senza contare le argenterie, le maioliche, le porcellane. Si diceva, per esempio, che la collezione di vecchio Sassonia ch’era stata acquistata dal nobil’uomo Cristoforo Bollati durante la sua ambasciata a Vienna fosse la più bella che c’era in Venezia.[11]
Mentre che il conte Zaccaria faceva da cicerone agl’illustri forestieri e il marchese genero gli serviva da interprete, gli altri invitati si pigiavano nel salotto degli arazzi intorno alla languida contessa Chiaretta, o, prudentemente, prendevano il loro posto sul poggiuolo o davanti a qualche finestra per goder meglio dello spettacolo.
Chi ha un po’ l’abitudine della società sa benissimo che in ogni ricevimento, in ogni festa c’è un manipolo di persone alle quali nessuno bada e che i servi stessi dimenticano volontieri nell’andar in giro coi rinfreschi. Sono i parenti poveri, i vecchi conoscenti di famiglia, i maestri dei bimbi, tutta gente a cui s’è detto a bocca stretta:—Se venite ci farete un piacere—lasciando sottintendere un’altra frase—Se non venite, ce ne farete due.
In questa condizione umiliante si trovavano quel giorno il conte Luca e la contessa Zanze Rialdi, cugini dei padroni, relegati insieme con la loro figliuola Fortunata a una finestra di fianco che dava sul rio e dalla quale il Canal Grande si vedeva solo in iscorcio. Nè la finestra era esclusivamente per i Rialdi, chè anzi essi dovevano dividerla con Don Luigi, precettore del contino Leonardo, e con un’altra signora soprannominata la contessa Ficcanaso per la rara abilità con cui essa riusciva a insinuarsi dappertutto e a saper tutti i pettegolezzi della città.
La contessa Zanze e la contessa Ficcanaso si[12] facevano mille moine, ma in fondo non si potevano soffrire. E quel giorno poi a trovarsi appaiato nella stessa mortificazione provavano una stizza grandissima.—Che vogliano levarsi dai piedi la Ficcanaso—pensava la contessa Zanze—questo si capisce, ma un trattamento simile a me, che sono della famiglia!—E l’altra diceva in cuor suo:—Facciano quante asinerie vogliono a una parente povera; chè già quella è una vera mignatta, ma usino i dovuti riguardi a una persona del mio grado.
Malgrado del disprezzo reciproco, è probabile però che le due contesse si sarebbero sfogate a sparlar dei padroni di casa se la presenza di don Luigi non le avesse tenute in riga. E sì che don Luigi della roba sullo stomaco ne aveva anche lui, e aveva una voglia di dirne quattro! Per San Filippo Neri! Un sacerdote par suo, un letterato, il precettore del padroncino, il cappellano della famiglia, cacciarlo in un angolo come se fosse una spazzatura, come se si vergognassero di lui! E si vantavano d’esser gente devota alla Chiesa! Queste cose don Luigi le aveva sulla punta della lingua, ma non le diceva per paura degli altri, e specialmente di quelle femmine chiacchierone. Così, per darsela ad intendere a vicenda, il prete e le due signore andavano a gara nel levare a cielo la bellezza degli addobbi, il buon gusto dei ristauri e lo sfarzo con cui si faceva tutto in casa Bollati, e solo di tratto in tratto si permettevano qualche osservazione a carico dell’una o dell’altra[13] fra le dame raccolte nel geniale ritrovo. Erano allusioni velate, erano suggestioni piene di carità evangelica, erano timidi dubbi seguìti dall’onesta frase: Non bisogna credere alle cattiverie del mondo;—erano lamentazioni generiche sul pervertimento dei costumi e sulle gravi conseguenze della vanità.
Nè il conte Luca, nè Fortunata prendevano parte a siffatte mormorazioni. Il conte Luca non aveva fiele, e per lui, a metterlo in disparte, gli facevano un piacere fiorito, chè alla società egli non si era mai potuto avvezzare, e della Regata non gliene importava un’acca, e sarebbe rimasto ben volentieri a casa sua, davanti alla scacchiera, l’unica passione della sua vita, a studiarvi un problema intorno al quale ammattivano da più giorni gli avventori del caffè alla Vittoria. In quanto a Fortunata, ch’era una ragazzina timida e sbiadita di dodici anni e mezzo, non le veniva neppure in capo di lagnarsi del posto che le avevano assegnato. Di dove era, allungando un po’ il collo, ella vedeva benissimo il Canal Grande, vedeva perfino le signore che si facevano fresco sul poggiuolo d’un palazzo prospettante il palazzo Bollati.
Sotto la sua finestra poi, all’imboccatura del rio, c’era un grosso battello che serviva a sbarrare il passaggio (come s’usa nei giorni di regata), ed era pieno di gente allegra, uomini, donne, fanciulli che ingannavano il tempo mangiando semi di popone e disputando romorosamente intorno all’esito probabile della gara.[14] C’erano due partiti. Gli uni tenevano per Tita Oliva, gli altri, meno numerosi, per quel Nane Sandretti detto Bisatto ch’entrava in regata per la prima volta. Tita, come sappiamo, era il gondoliere di casa Bollati, e quando lo si nominava, tutti gli occhi si alzavano verso la finestra a cui era affacciata la ragazza Rialdi.
Il cuore di Fortunata batteva anch’esso per Tita, ch’era sempre gentile con lei e che la chiamava padroncina. Nel venir a palazzo essa lo aveva incontrato per istrada già vestito da regatante, con la sua fascia rossa intorno alla vita, l’aveva incontrato insieme con tre o quattro altri compari, ed egli aveva salutato rispettosamente lei, il conte Luca e la contessa Chiaretta, e aveva detto:—Adesso si va col gondolino ai Giardini, e speriamo bene.
Come la Fortunata gli augurava il trionfo! Come si sentiva inclinata verso quelli che parteggiavano per lui, come l’indispettivano i fautori di quel Nane Bisatto che aveva la petulanza di venir a lottare coi provetti!
Un fremito di voci umane, un rumore crescente di applausi annunziò l’avvicinarsi delle gondole di Corte, le quali, precedute e seguìte dalle bissone, facevano il giro del Canal Grande prima che i gondolini della regata si mettessero in moto. Il corteggio passò e ripassò come un lampo davanti al palazzo Bollati, dove le signore sventolavano i fazzoletti e gli uomini gridavano con quanto fiato avevano in corpo: Viva l’Imperatore, viva l’Imperatrice! È utile rammentare[15] a questo proposito che, quantunque anche in quel tempo vi fossero in Venezia uomini gagliardi e generosi pronti a versare il loro sangue per l’indipendenza della patria, e non mancassero gli affigliati alla Giovine Italia, la grande maggioranza della popolazione accettava rassegnata il dominio austriaco e applaudiva i Sovrani col solito entusiasmo della folla per tutto ciò che brilla ed abbaglia.
—Viva, viva!—strillava Fortunata con la sua vocina. E continuava, rossa dall’emozione:—Ah, ecco l’Uscocca, ecco l’Uscocca.... Mamma, babbo, presto, guardate Leonardo.... Come sta bene!
In ginocchio sulla prora della sua svelta ed elegante bissona, sotto un baldacchino tutto veli e frangie inargentate, il contino Bollati animava i rematori col gesto e con la voce, e pareva un antenato di sè medesimo alla battaglia di Lepanto.
—Ah!—seguitava la fanciulla in preda a un nuovo parossismo d’ammirazione.—E quella è la lancia del collegio di marina... ci dev’esser Gasparo lì dentro... sì, sì... eccolo là.... Babbo, mamma... non lo vedete?... È lui che governa il timone....
—Sì, sì, cara—rispondevano i genitori—non spingerti tanto fuori dal davanzale.
Gasparo era il fratello maggiore di Fortunata, allievo dell’Accademia di marina, e prossimo a uscirne cadetto.
La fulgida visione disparve, e di lì a poco[16] s’intese il cannone che annunziava la partenza dei regatanti dalla punta dei Giardini pubblici. Un lungo mormorio corse attraverso la folla accalcata sulle due rive del Canalazzo; poi si fece uno di quei silenzi solenni in cui si sente palpitare il cuore d’un popolo. Oggi scaduta dalla sua importanza, la regata era fino a trent’anni fa lo spettacolo favorito dei Veneziani. A ogni modo, essa era ed è sempre lo spettacolo popolare per eccellenza. La lotta dei gladiatori in Roma antica, la corsa dei tori in Ispagna trovano forse una maggior partecipazione in tutte le classi sociali, ma nessuna festa scuote più vivamente le fibre della moltitudine. Quanto tempo prima se ne discorre nei traghetti, per le osterie, nelle case, nei trivii, quanto tempo dopo si continua a parlarne! E il giorno della prova, mezza Venezia si spopola per riversarsi sull’altra metà. La gente s’insacca nelle barche, nelle peate, nei battelli d’ogni forma e misura, fa ressa sulle fondamenta, paga volentieri qualche soldo per assicurarsi una seggiola o un posto sopra qualche panca, o s’arrampica sugli sporti delle fabbriche, sull’inferriate delle case, sui piedestalli dei candelabri, o s’addensa dietro le spallette del ponte di Rialto, la cui mole maestosa e severa sembra acquistare il moto e la vita a quell’ondeggiamento di teste. E in quel giorno più che mai il popolo è superbo della sua Venezia, e s’inebbria in quel tripudio di colori e di luce onde ogni cosa s’anima e si trasfigura, dal freddo marmo dei palazzi gotici,[17] arabi, lombardeschi, barocchi, alle carni pastose e alle fulve o brune chiome delle donne e delle fanciulle.
Ma ecco nuovamente venir di lontano un rumore che somiglia al muggito del mare, ecco una viva ansietà dipingersi nei volti, ecco tutti gli sguardi tendere a un punto.
—Son vicini...
—Son qui...
—Chi è il primo?
—Non si capisce.... C’è il sole che confonde la vista.
Il conte Zaccaria, gonfio e pettoruto pel bel successo della sua Uscocca, aveva annunziato come cosa sicura a’ suoi ospiti che il primo sarebbe stato il gondolino rosso N. 6 a poppa del quale vogava il suo Tita Oliva. Ma, ohimè, il gondolino N. 6 non era che il secondo, e anche questo secondo posto gli era fieramente contrastato dal gondolino viola N. 4; l’uno e l’altro poi erano preceduti d’un buon tratto dal gondolino celeste N. 8, su cui si trovava il formidabile Nane Bisatto. I gondolini 5 e 7 si disputavano il quarto premio, gli altri, ormai disperati di riuscire, venivano dietro lentamente a grande distanza.
—Non è deciso nulla—disse il conte Zaccaria facendo di tutto per nascondere il proprio dispetto.—Riderà bene chi riderà ultimo.
Infatti i gondolini dovevano ancora giungere al punto estremo del Canal Grande, a Santa Chiara, poi girare intorno a un palo che qui[18] chiamano il paletto, e rifare una gran parte del cammino fin presso l’imboccatura del rio Foscari, ove sorge la cosidetta Macchina, ch’è una elegante baracca di legno improvvisata sull’acqua e segna la meta ultima della corsa. In tal maniera, da tutti i palazzi che stanno tra il rio Foscari e Santa Chiara, i regatanti si vedono due volte, cioè all’andata e al ritorno. E realmente il ritorno può serbare non piccole sorprese, e tale che chi era primo diventa secondo, e tal altro che pareva ormai fuori d’ogni speranza accenna a conquistarsi valorosamente la sua bandiera. Ma questa volta gl’intenditori dicevano chiaro e tondo che a Nane Bisatto il primo premio non lo portava via neppure il Padre Eterno, giacchè c’era troppa distanza tra lui e il gondolino di Tita Oliva, ed era già molto se quest’ultimo poteva mantenersi il secondo e non esser sorpassato dal gondolino N. 4, quello dove c’era Menico Fichetti da Pellestrina, un giovine piccolo e sottile, ma che aveva nervi d’acciaio.
Questi discorsi si tenevano anche nel barcone ch’era fermo all’imboccatura del rio sotto il palazzo, e Fortunata che aveva preso tanto a cuore la causa di Tita, si metteva nei panni di lui e aveva una gran voglia di piangere.
La contessa Zanze, la contessa Ficcanaso e don Luigi erano in disposizione d’animo affatto diverse, e, poichè il fiasco del barcajolo veniva a ricader sui padroni, ne provavano una segreta esultanza, che non esprimevano apertamente,[19] ma che lasciavano trapelare. Don Luigi faceva delle riflessioni filosofiche sulla caducità delle cose umane, sullo sperpero del danaro pubblico e privato in feste e in bagordi e sul poco giudizio che c’era a distrarre i ragazzi dagli studi per farli andare sulle bissone.... Con quella voglia che avevano di studiare! Le due contesse assentivano appieno alle savie parole del sacerdote, tanto più che il servo aveva presentato loro il vassoio dei dolci quando tutti s’erano già preso il buono e il meglio, e ciò le aveva esacerbate fuor di misura.
Ma il dialogo fu troncato dal riapparire dei regatanti. Ora, la finestra sul rio guardava precisamente verso la parte dalla quale i gondolini tornavano, e Fortunata vide ben presto che il viola continuava ad essere il primo e aveva aumentato anzichè diminuito l’intervallo che lo separava dagli altri. Il valore di Nane Bisatto aveva finito ormai col trascinare i più restii, e, con una volubilità che afflisse e irritò Fortunata, parecchi tra i fautori del suo protetto si unirono anch’essi a quelli che applaudivano l’eroe della giornata. Ma quel che è peggio, il gondolino rosso non era più nemmeno il secondo, non era nemmeno il terzo; era il quarto, quello a cui era destinato l’ultimo, premio, la bandiera gialla e il relativo porcellino, quasi un’onta per Tita, avvezzo ai primi trionfi. Povero Tita! Egli non osava alzar la testa, vogava per l’onor delle armi, ma avrebbe preferito esser sott’acqua lui e il suo gondolino,[20] piuttosto che sentire tutti quegli sguardi fissi sopra di sè, piuttosto che passar davanti al palazzo dove c’erano i padroni e tanti ospiti d’alto affare. Tita non si ricordava in quel momento di Fortunata, oppure ell’era la sola che, pensando alla sua umiliazione, aveva gli occhi pieni di lagrime. I padroni invece erano irritatissimi, dicevano che Tita non era più buono a nulla, e che aveva compromesso il decoro della casa, e che meritava d’essere strapazzato senza misericordia.
Questo incidente fece sì che in palazzo Bollati si gustasse meno l’ultima parte, pur così bella, dello spettacolo, quando cioè tutte le barche prima raccolte, ristrette ai due lati del Canal grande, pigliano il largo e formano un suolo galleggiante che copre e nasconde la superficie dell’acqua. È per solito l’ora del tramonto, e gli ultimi raggi del sole scintillano sui ferri bruniti delle gondole, sfolgorano con bagliori d’incendio sui vetri delle finestre, danno risalto alle dorature e alle stoffe colorate delle bissone, alle livree dei gondolieri, agli abbigliamenti delle signore, alle vesti chiassose delle popolane. Ed è un suono di musiche allegre, un vociare confuso, uno strepito di remi che si urtano, di ferri che cozzano, di carene che scricchiolano. Indi cala lento lento il crepuscolo, la folla si disperde, il rumore a poco a poco svanisce, e il Canalazzo ritorna nell’usato silenzio.
Frattanto, giù nell’entratura di Cà Bollati,[21] Tita sedeva accasciato sopra una panca, e non sapeva risolversi a salir dalle loro Eccellenze dopo lo smacco subìto. Parecchi amici e compari gli facevano corona e si sforzavano di calmar la sua agitazione e di persuaderlo a presentarsi ai padroni con la faccia franca, chè già non l’avrebbero mica mangiato vivo seppure una volta la fortuna gli era stata contraria. In quel gruppo di confortatori c’erano anche alcune donnette, una sua sorella tra l’altre, bel tipo di veneziana da Cannareggio, con certi occhi neri e lucenti come due carboni e con una parlantina inesauribile.
—Oh, corpo de diana—ella diceva al fratello—vorrei anche vedere che ti trattassero con mala grazia. Io risponderei: Lustrissimi, credono che a vogare in regata sia lo stesso che a starsene lunghi distesi con la pancia in giù sui cuscini d’una bissona?... Eh, non ho peli sulla lingua io....
Tita s’impazientiva.—I rimproveri dei padroni sono il meno... È l’amor proprio.
—To’, non la può mica andar sempre bene... Una volta corre il cane e l’altra il lepre... È stato così dacchè mondo è mondo.
—Siora Cate ha ragione—soggiungeva un vecchio gastaldo d’un traghetto vicino, persona assai autorevole—non c’è ragione di tribolarsi... E lascialo dire a chi se ne intende... Bisatto non è degno d’allacciarti le scarpe... E se ha vinto oggi, a rivederci domani.
—È stato quel colpo di vento alla Punta[22] della Salute—ripigliò un altro.—C’ero io, c’ero. Bisatto l’ha sentito meno perchè il suo gondolino si trovava più a destra.
Ma Tita non voleva esser consolato e andava in escandescenze, soprattutto quando la sua umiliazione gli era rammentata dai guaiti del porcellino che giaceva in un angolo, più morto che vivo.
—Povera bestia!—esclamò la Cate, chinandosi sull’infelice animale in atteggiamento di suora di carità.—Come se ne avesse colpa!... È tutto ammaccato... Che ragione c’era di pigliarlo a calci? Che se poi crepa di bile, non è più buono da mangiare.
—È vero—notò gravemente un nuovo personaggio comparso in quel punto. Era il signor Oreste, il cuoco, in abito da signore, col metternicche in testa, una collana d’oro al collo e uno spillone di diamanti sulla camicia.—È vero—egli riprese dopo una pausa. E inventandosi apposta un proverbio per l’occasione continuò:—Bestia ben trattata buona in pignatta.... E questa qui non ha bisogno d’altre disgrazie.... Conviene ingrassarla per una settimana, e poi si potrà farne uno stufatino con la salsa piccante....
—Ma che stufatino!... Ma che salsa piccante!—interruppe la Cate.—Meglio arrosto.
—Scusi, siora Cate, è troppo piccolo.
—Alla malora il porco e i suoi protettori—urlò Tita in una recrudescenza di furore.—Ch’io[23] possa morire d’un accidente se di quel porco lì ne assaggio un boccone.... L’avevo detto al mio compagno che se lo tenesse tutto per lui.
Ma la sorella, ch’era una giovane savia e positiva, protestò contro quest’idea bislacca.—Neanche per sogno.... Quello ch’è giustizia.... Ciascuno la sua parte.
—Belle parti che si faranno—disse il signor Oreste con piglio sprezzante, accennando alla piccolezza dell’animale.
—O che non potrebbe attendere alle sue casseruole, sior piavolo?—rimbeccò la Cate, che non poteva soffrire il cuoco, il quale un giorno aveva voluto mettere a troppo caro prezzo un piatto di polpette ch’egli le aveva regalate.
—Ehi, ehi, la mia tosa, che fumi vi montano alla testa?
—Zitto—sussurrò qualcheduno—che c’è sior Bortolo.
Infatti, l’agente generale discendeva dalla scaletta del mezzà in compagnia d’un signore dai baffi grigi che faceva il sensale di mutui e godeva di una mediocre riputazione.
—Siamo intesi, caro Bellani... Combinando l’affare l’un per cento a me....
In quel punto la porta della scala di servizio si aprì con violenza, e un cameriere in livrea gridò tutto trafelato.—Che qualcheduno vada subito in farmacia a cercare un medico.... Dal dottor Zuliari andrò io... È venuto un deliquio a Sua Eccellenza Leonardo.[24]
Il deliquio del vecchio conte non durò che pochi minuti, ma i medici, considerando l’età avanzata e il fisico indebolito di Sua Eccellenza, lo giudicarono un sintomo gravissimo e non tacquero le loro inquietudini alla famiglia. Nè s’apponevano a torto; chè di lì a qualche giorno apparve evidente che il nobil’uomo Leonardo Bollati, patrizio veneto e comandante di galera sotto la Serenissima, si spegneva a oncia a oncia, come lampada a cui manchi l’olio. Egli conservò per altro sino all’ultimo la lucidezza della mente, e quando s’accorse d’essere ormai bell’e spacciato, chiamò al suo letto il figliuolo e gli tenne all’incirca questo discorso:
—Lasciamo i preamboli, perchè non ho tempo da perdere. Presto sarete voi il capo della famiglia di nome e di fatto. È dunque bene che sappiate, se non ve ne foste ancora accorto, che, da un secolo a questa parte, c’è in casa nostra tutta la disposizione ad andare in malora.[25] La mia colpa ce l’avrò anch’io, ma si è cominciato molto prima di me a spendere più di quello che si poteva. Se cercherete su nell’archivio le lettere del vostro prozio Almorò, ambasciatore a Parigi, vedrete ch’egli domandava 120 mila franchi all’anno per lui solo e l’agente aveva un bel da fare a trovarglieli. E vedrete anche la polizza delle spese occorse per le feste date in occasione della nomina a Procuratore di San Marco di vostro nonno e mio padre Zaccaria. Oh bazzecole! venti mila ducati! Notate che in quei tempi c’era ogni tanto la sua brava eredità che capitava in buon punto a colmare i vuoti. Ma adesso i pochi parenti che ci restano son tutti spiantati, e non so quali eredità si possono sperare.... Se non fosse da parte dei Rialti....
Questa supposizione parve sì comica al conte Leonardo ch’egli si mise a ridere, e, poichè il riso gli fece venire la tosse, dovette interrompere la sua arringa.
—Sì, sì—egli riprese di lì a un paio di minuti—tutti ebbero le mani bucate nella nostra famiglia. Non è da eccettuarsi che una bisavola, la quale aveva invece la manìa dell’avarizia, e, fra l’altre cose, lasciò alla sua morte una cinquantina di pacchi di curadenti con scrittovi sopra: usati, ma servibili. Insomma quello che volevo dirvi si è ch’è necessario metter giudizio; se no vi assicuro io che, nonostante i due dogi, i tre procuratori e gli altri illustrissimi personaggi che vantiamo per antenati,[26] di tutte le nostre ricchezze non ci resterà fra poco il becco d’un quattrino. E queste cose ditele alla mia degnissima nuora, che non si sa proprio come spenda il danaro, perchè le nostre vecchie si divertivano, e quella lì consuma una sostanza in caffè, cioccolata, baicoli e paste sfogliate. Badate poi al vostro figliuolo Leonardo, che giurerei destinato a restare un somaro e a diventare un cattivo soggetto. Finalmente credo utile avvertirvi che tutti i nostri dipendenti ci succhiano il sangue come tanti vampiri, cominciando dall’agente generale sior Bortolo e terminando coll’ultimo fattore di campagna. Già saprete il proverbio: Fame fator un ano, e se moro de fame xe mio dano. Non vi suggerisco di cambiarli, perchè ne prendereste di quelli che vi ruberebbero ancora di più; solamente tenete gli occhi aperti e procurate di far meglio di quello che ho fatto io. Io me ne lavo le mani. È il meno che si possa fare quando si va all’altro mondo.
In complesso il sermone del conte Leonardo era pieno d’idee giudiziose, ciò che prova come tutti gli uomini in punto di morte abbiano l’attitudine a dar buoni consigli, perchè sanno di non doverli più avvalorar con l’esempio, e perchè non temono più le conseguenze dei sacrifizi che suggeriscono agli altri.
E invero quando, dopo pochi giorni, Sua Eccellenza morì con tutti i conforti della religione, il suo testamento parve fatto apposta per ismentire le savie massime ch’egli aveva predicato,[27] tanti e di tante specie erano i legati che imponeva all’erede. Ce n’era sotto forma di elargizioni a opere pie, di somme da pagarsi in una sol volta a parenti ed a amici, di elemosine ai poveri, di pensione alla servitù, ecc., ecc. Nè mancavano istruzioni precise, minute, circa ai funerali che dovevano essere tra i più splendidi che si fossero visti.
Questi funerali i vecchi parrocchiani se li ricordano ancora. Essi si ricordano perfettamente quanti minuti impiegasse il corteo per giungere dal palazzo alla chiesa, quanti preti, quante confraternite, quante rappresentanze civili e militari, quanti servi di casa, quanti gondolieri di famiglie patrizie vi prendessero parte, e che folla di curiosi venisse in coda, donne, ragazzi, pezzenti d’ogni età e d’ogni sesso, che, trattenuti a fatica dai fanti del Municipio, si accalcavano gli uni sugli altri, mormorando per non aver potuto avere il torcetto. In chiesa poi era uno spettacolo imponente. Le pareti e i pilastri erano rivestiti di drappo nero con galloni d’argento, un gran catafalco con iscrizioni ai quattro lati s’ergeva nel mezzo, le fiamme oscillanti dei ceri abbarbagliavano gli occhi e gettavano in faccia dei buffi d’aria infocata. Dopo che il feretro fu issato sul catafalco, intorno al quale stavano ritti ed immobili quattro pompieri con le spade nude e quattro servitori con le torce accese, principiò la cerimonia religiosa, una cerimonia che non voleva finir mai. Le onde sonore che partivano dalla cantoria accrescevano,[28] s’era possibile, il caldo affannoso, la gente, stipata come le sardelle in barile, si rasciugava i sudori con la manica del vestito (seppur le riusciva di alzare il braccio), e di tratto in tratto, non potendone proprio più, metteva dei muggiti simili a quelli del mare in burrasca. Insomma, quando piacque a Dio, il parroco pronunziò l’assoluzione e il funerale si mosse. Ci fu di nuovo un serra serra, qualche bimbo rischiò di restar schiacciato, qualche donna cadde in deliquio, ma non s’ebbero a deplorare disgrazie maggiori. Nel campo davanti alla chiesa un picchetto di soldati di marina rese alla bara gli onori militari; poi, non usandosi in quei tempi i discorsi, la bara fu accompagnata sino al canale, e venne deposta in una peota riccamente addobbata, nella quale salirono i famigli del defunto, alcuni pompieri e fanti del Municipio. La peota preceduta da una barca con la musica e seguita da uno stuolo di gondole si diresse verso il cimitero di San Michele di Murano.
La folla si disperse da varie parti. Solo un centinaio di poveri (donne in gran parte) s’avviarono al palazzo per buscarsi qualche soldo d’elemosina.
Sior Bortolo, il quale, soffrendo un po’ d’asma non era andato in chiesa, ebbe un bel da fare a liberarsi da quest’arpie ch’eran riuscite a penetrar nel mezzà e lo assordavano delle loro querimonie.
—A mio marito non hanno dato nemmeno una candela.[29]
—Ho quattro creature, io....
—Son due giorni che non si accende fuoco in casa....
—Sono un povero vecchio impotente....
—Ho il figliuolo coscritto.
—Andate in pace—diceva sior Bortolo—chè già nel testamento di S. E. Leonardo c’è un legato pei poveri della parrocchia.
—Oh paron benedeto!—stillavano alcune di quelle megere—di quei soldi lì noi altri non ne vediamo.... Se li mangia il pievano.
—Eh, vergogna. Che discorsi!
—Pur troppo, sior Bortolo.... Pur troppo la è sempre così.
—Se anche non li mangia tutti—soggiungeva una femmina d’opinioni moderate—li distribuisce a suo modo, a chi non li merita, a chi non ha bisogno.... Sia buono, sior Bortolo, ci dia qualche cosa.
Sior Bortolo si lasciava commuovere e cacciava le mani dentro un cassetto.—Uno alla volta.... Marco.
Marco era un fattorino addetto all’agenzia.
Sior Bortolo gli diede una manata di soldi con l’incarico di licenziare tutta quella gente, e Marco ricorrendo a sior Bortolo ogni volta che la provvista era esaurita, persuase i postulanti ad andarsene. In questa delicata operazione egli seppe far in modo che qualche mezza svanzica si smarrisse nelle tasche della sua giacchetta. Sior Bortolo, dal canto suo, nel registrare la sera tutte le spese innumerevoli della[30] giornata, stimò opportuno di arrotondare la cifra, sembrandogli forse che il decoro della nobile famiglia Bollati esigesse di far comparire nei libri una somma maggiore del vero.
Sua Eccellenza il conte Leonardo Bollati, che scendeva sotterra in quel giorno d’ottobre 1838, non era un grand’uomo, come volevano far credere i suoi panegiristi. Egli aveva avuto la fortuna di conquistare in gioventù una certa riputazione di valore combattendo sotto gli ordini dell’ammiraglio Emo nell’impresa di Tunisi, e aveva avuto l’abilità di conservar quella riputazione, non mettendola mai alla prova. Così più d’uno aveva creduto (e abbiamo visto che tale era anche l’opinione del vecchio barbiere) che se, nel 1797, egli fosse stato alla testa della flotta, le cose sarebbero andate diversamente.
Caduta la Repubblica, Sua Eccellenza non volle più servire nè sotto il Governo democratico che le succedette per pochi mesi, nè sotto alcuno dei Governi che si avvicendarono poi, e quest’atto, che forse in lui era da attribuirsi a sola pigrizia, fu interpretato quale una protesta dignitosa contro i nuovi ordinamenti politici della patria. È vero che questo suo nobile disdegno non gl’impedì d’essere tra i patrizi veneziani i quali sollecitarono dall’Austria la corona di conte.
Se Sua Eccellenza Leonardo Bollati abbandonò dopo il 1797 i pubblici uffici, non si può dire ch’egli si consacrasse con molto zelo alle sue faccende private, chè anzi, mortagli la moglie[31] in età ancora fresca, egli non si diede alcun pensiero dell’unico figliuolo rimastogli, e continuò invece, fin che la salute glielo permise, a menar vita dissipata e galante. A ogni modo, sia pel fascino esercitato dal suo nome storico, sia pei ricordi che gettavano una luce favorevole sulla sua gioventù, sia per una certa prontezza e festività di spirito, sia per le maniere affabili sotto le quali egli dissimulava l’alterigia e l’egoismo nativo, sia pel largo patrimonio ch’è mezzo sicuro di coltivar le aderenze, il conte Bollati era un uomo assai popolare e molti riverivano in lui uno degli ultimi rappresentanti di quell’aristocrazia veneziana che diede così splendidi esempi di senno civile. E quantunque da alcuni anni egli non si facesse veder quasi da nessuno e lasciasse far tutto al figliuolo, la sua morte recò una scossa notevole al credito della famiglia, cosa di cui l’agente generale fu il primo ad accorgersi nel combinare l’operazione finanziaria indispensabile pel pagamento dei numerosi legati.
Sior Bortolo era una perla d’agente, che non seccava mai i padroni coi molesti predicozzi dei commessi troppo scrupolosi, che non lesinava mai il danaro, nè sollevava dubbi e difficoltà. A ogni straordinaria richiesta di fondi, egli atteggiava le labbra a un sorrisetto serafico e rispondeva:—Sarà fatto.—E non c’era pericolo ch’egli non mantenesse la sua parola. Ohibò! Si era sicuri di vederlo comparire il domani più sorridente ancora del consueto con[32] la somma precisa di cui si aveva bisogno. E la soddisfazione che sior Bortolo provava nel compiacere la nobile famiglia era tale ch’egli diventava ogni giorno più lucido e grasso, tanto lucido da parer spalmato di lardo, tanto grasso da raggiunger quasi la forma sferica.
Sappiamo già che il conte Leonardo era intimamente persuaso che l’ottimo sior Bortolo rubasse a man salva. Ma egli diceva:—Non posso mica attender io stesso ai miei affari. E a qualunque altro li affidassi, sarebbe peggio.—Il conte Zaccaria poi non faceva neanche questo ragionamento; egli lasciava correre senza badare più in là.
Adesso però, sotto l’impressione delle profezie e delle ammonizioni paterne, egli stimò necessario di veder coi suoi occhi come stavano le cose, e ordinò a sior Bortolo di preparargli un prospettino da cui apparisse chiaro lo stato del patrimonio. E sior Bortolo con mirabile sollecitudine allestì un lavoro degno della sua perizia di contabile e di calligrafo. Frutto di queste lucubrazioni furono due nitidi specchi a doppia colonna, l’una per il dare, l’altra per l’avere. Nel primo figuravano a destra le somme a cui erano stimati i beni della famiglia, possidenze in città e in campagna, oggetti d’arte e oggetti preziosi, ecc. ecc.; a sinistra si leggevano i nomi dei varii creditori insieme con le cifre dei loro crediti. Qui c’era una bella differenza in più nell’avere. Nel secondo specchio erano disposte nello stesso ordine l’entrata e l’uscita:[33] spese domestiche presunte, livelli, tasse, interessi dei mutui. E c’era una bella differenza anche qui, ma in senso contrario; il dare superava l’avere di parecchie migliaia di lire.
—Capisco, capisco—disse il conte Zaccaria dopo aver esaminato per mezz’ora i due prospetti in lungo e in largo—noi avanziamo ogni anno dai quattro ai cinquemila ducati.
—Scusi, Eccellenza—interpose l’agente—è proprio il rovescio. Si spendono quattro o cinquemila ducati in più.
Il conte Zaccaria si grattò la nuca.
—E come va questa faccenda?
—Ma!—rispose sior Bortolo, sprofondando la testa fra le spalle.—Mi pareva che S. E. Leonardo (pace all’anima sua) l’avesse avvertita....
—Sì, sì, mi disse qualche cosa.... senza parlare di cifre....
—Del resto—ripigliò l’agente per dorar la pillola—del resto, se ci fossero due buoni raccolti di seguito, un aumento nelle entrate lo si dovrebbe vedere. Poi c’è qualche livello che sta per cessare.... In ogni modo, non lo dissimulo, un po’ d’economia sarebbe assai utile. Dal canto mio, per quanto riguarda l’agenzia, procurerò sicuramente.... ma bisognerebbe che anche in famiglia.... perdoni, Eccellenza, se mi prendo questa libertà.... ma è la mia devozione per la casa Bollati.
—Bene, bene.... vedremo.... Capisco....
—Di qui ad alcuni anni poi—soggiunse[34] sior Bortolo—il contino Leonardo, col suo nome e con le sue belle qualità, che il Signore Iddio gli conservi, potrà trovar la dote che vuole....
—Affari lontani, caro amico, affari lontani....
—Lontani, ma sicuri.
A questo punto sior Bortolo mostrò al principale un polizzino supplementare con la nota delle tasse e dei legati che conveniva pagar subito, e disse in qual modo, salvo sempre l’approvazione di S. E., egli aveva creduto di provveder la somma occorrente. E S. E., che rispondeva sempre capisco e non capiva mai nulla, si spicciò con due parole:
—Fate voi.... Purchè non si tratti di vendere.... Vendere significa diminuire il patrimonio, e io voglio tramandarlo intatto a mio figlio.
Esposta questa savia massima amministrativa, il conte Zaccaria prese la eroica risoluzione di raccomandare alla sua illustrissima consorte una maggiore economia nelle spese di casa, e citò a sostegno della sua tesi gli avvertimenti del defunto genitore e quelli dell’agente generale.
La signora Chiaretta, donna ordinariamente molto fredda ed apatica, fu punta sul vivo dalle considerazioni del marito, e gli rispose per le rime. Ella disse prima di tutto che si maravigliava molto che si venissero a raccontare a lei queste storie; che se da più secoli gli uomini della famiglia non avevano avuto giudizio, ella non sapeva che farci, e se Sua Eccellenza Almorò,[35] quand’era ambasciatore a Parigi, spendeva 120 mila franchi all’anno, e Sua Eccellenza Zaccaria per festeggiare la sua nomina a Procuratore aveva gettato 20 mila ducati bisognava prendersela con Sua Eccellenza Almorò e con Sua Eccellenza Zaccaria, e non con lei. Del resto, quand’ella, l’ultima degli Orseolo, era entrata in casa Bollati aveva creduto di entrare in una casa di gran signori, e non era disposta affatto a vivere di pane e di noci. A ogni modo ella sarebbe stata curiosa di sapere quali risparmi si potevano fare.—Perchè—ella continuava rispondendo da sè alla propria domanda—non pretenderete mica che si stia senza gondola.
—Sfido io.... Nemmen per sogno.
—O che si licenzi il cuoco?
—Ma chi dice questo?
—O che io mandi a spasso la cameriera?
—Ma no, ma no.
—O che rinunzi al palco alla Fenice?
—Nemmen per idea.
—O che mi vesta come una serva?
—Via, Chiaretta, nessuno pretende una roba simile.
—Che cosa si pretende adunque? Che si dia il benservito al precettore di Leonardo, e che si mandi il ragazzo alla scuola pubblica?
—Ci mancherebbe altro! Un Bollati alla scuola pubblica?... In mezzo alla marmaglia?
—Lo vedete voi stesso, è chiaro come la luce del sole che meno di quel che si spende[36] non si può spendere.... almeno per parte mia. Se voi sprecate il danaro senza discernimento....
—Io!—interruppe scandalizzato il conte Leonardo. E allora toccò a lui di provare come due e due fan quattro che sulle sue spese particolari non c’era da risecare un centesimo, mentre non si poteva certo pretendere che un Bollati non appartenesse al Casino dei nobili, e non avesse un posto nel palcone di società in tutti i teatri, e non frequentasse il caffè, e si tirasse indietro dal giuocare una partita a tre sette per paura di perdere qualche zecchino.
La contessa Chiaretta avrebbe voluto dire che tutte le spese del marito non finivano lì, ma tacque per ispirito di conciliazione.
Dopo questo colloquio pareva che le cose dovessero restar al punto in cui erano prima; nondimeno i due coniugi, ritornando sull’argomento, ebbero uno slancio sublime, e mostrarono di quanta abnegazione fosse capace l’animo loro. Sua Eccellenza Chiaretta, che prendeva sei tazze di cioccolata al giorno, deliberò di sacrificarne una, e il conte Zaccaria, sempre fermo nell’idea di lasciare intatto il patrimonio al figliuolo, immolò sull’altare della famiglia un bicchierino di curaçao, ch’egli soleva centellare dopo colazione.[37]
Chi, nei giorni immediatamente successivi alla morte del N. H. Leonardo, fosse penetrato in qualche caffè di Venezia avrebbe sentito un dialogo simile a questo:
—Dunque si sa precisamente quel che abbia lasciato Bollati?
—Ma no, nulla di preciso... L’azienda diretta da quel famosissimo sior Bortolo è in una confusione da non credersi.
—Oh c’è da scommettere che anche quelli lì finiscono coll’andare in rovina....
—Via, prima della rovina ci vorrà qualche annetto.
—Non tanto, non tanto; quando si comincia, si va giù a precipizio.
—Che pessimisti! Il vecchio conte, se badiamo alle sue disposizioni testamentarie, non aveva di queste paure.
—Oh se le aveva!... Le disposizioni testamentarie non significano nulla.... È positivo che[38] prima di morire egli fece una predica al figliuolo e gli pronosticò una catastrofe se non restringeva le spese.
—Bellissima! E poi lasciò tutti quei legati?
—Boria postuma.
—Contraddizioni umane.
—È vero—chiedeva qualcheduno—che i Geisenburg sono partiti su tutte le furie il giorno dopo i funerali?
—Verissimo. È innegabile che il conte Leonardo li trattò un po’ male. Non nominò nemmeno nel suo testamento il marchese Ernesto, e alla nipote lasciò un anello di nessun valore.
—Il conte Leonardo aveva sempre veduto di mal occhio questo matrimonio.
—E aveva ragione. O che non c’erano meglio partiti a Venezia?
—Quel marchese con la sua prosopopea è insoffribile.
—È poi così ricco come si vanta di essere?
—Nemmen per sogno.... Molto fumo e poco arrosto. Già quando c’è il vizio del gioco non c’è fortuna che basti.
—Il gioco, il vino e i cavalli—soggiungeva un altro.—Tre cose che costano un occhio.
—E lei, la marchesa, sciupa una moneta in toilettes.
—Sì, con quel frutto.... Pare la bambola di Francia.
E si seguitava di questo tuono, tagliando i panni addosso al marchese Ernesto e alla marchesa Maddalena, che, per vero dire, erano antipatici[39] a tutti. Noi, che non dobbiamo occuparci dei fatti loro, li lasceremo in balìa dei loro detrattori e vedremo che cosa pensino del testamento del conte Leonardo quei parenti dei Bollati, a cui già accennammo più volte, i Rialdi.
Anche i Rialdi erano stati delusi nella loro aspettazione. Si ripromettevano una bella sommetta e avevano avuto invece un legatino piccolo piccolo. Il conte Luca soffiava in silenzio (era il suo modo d’esprimere il malcontento), ma la contessa Zanze, quando non c’era presente la figliuola, non resisteva alla tentazione di darsi uno sfogo.
—Avete visto?—ella diceva al pacifico marito.—Valeva la pena di aver fatto la vita che s’è fatta in questi ultimi giorni, valeva la pena ch’io aiutassi il flebotomo a metter, con riverenza parlando, le sanguisughe a quell’empiastro del conte Leonardo, per esser poi trattati come parenti lontani che vanno a palazzo a ogni morte di papa o come estranei che non hanno altro merito che quello di recitar quattro versi nelle feste di famiglia?... Quattromila lire venete una volta tanto.... Una miseria!... E invece le migliaia di ducati all’Ospitale, alla Casa di Ricovero, agli Orfanotrofi, agli Asili d’infanzia, ai Catecumeni, o che so io... tutto per aver gli articoli della Gazzetta e le lapidi nei vari istituti.... Come se il morto leggesse quegli articoli e le iscrizioni di quelle lapidi!... Ma il dispetto maggiore me lo fanno quelle[40] pensioni ad agenti e a servitori... dopo che il conte Leonardo ha detto lui stesso che tutti rubano in casa sua.... Se rubano!... Quel sior Bortolo peggio degli altri.... Sempre così mellifluo, sempre così cerimonioso... lustrissimo, lustrissima, e inchini, e baciamano, e proteste di devozione, e intanto s’empie le tasche di ben di Dio.... E i fattori di campagna?... Che cere da Patriarchi!... Bianchi e rossi da fare allegria.... Rendono i conti a loro modo, si servono dei cavalli di lusso, dotano le figliuole, allargano i loro poderi... insomma un carnovale.... Ma perfino il cuoco ha tutta l’aria d’un gran signore, e a vederlo la domenica quando conduce a spasso la moglie lo si direbbe un milord.... Gli è che oltre alla sua paga ha gli incerti e accetta ordinazioni di pranzi da questi e da quelli, e tutto vien fuori dalla cucina Bollati.... Camerieri e guatteri, non c’è bisogno di dirlo, cacciano le mani anche loro nelle casseruole e non ce n’è uno che non porti a casa il suo fagotto di roba... le donne fanno il resto e vorrei aver io tutti i capi di biancheria e di vestiario che quella stolida della Chiaretta si lascia portar via sotto agli occhi.... È inutile che facciate quelle smorfie... queste son verità sacrosante, e siete voi solo a ignorarle.... E vi dico che se foste stato un uomo di spirito, invece di perdere le giornate in quel vostro ufficio che non vi dà nemmeno da campare la vita, e di sciupar le sere al caffè alla Vittoria coi vostri eterni scacchi, avreste dovuto ottenere[41] un posto nell’amministrazione Bollati e ingegnarvi.
—Oh, oh—interruppe il conte Luca—vorreste dire che avrei dovuto rubare come gli altri... mi spiego?
—Mi spiego, mi spiego?... Vi spiegate malissimo.... Io non ho detto rubare; avreste fatto del bene alla vostra famiglia e anche ai vostri parenti Bollati, che era meglio cascassero in mano d’un cugino che di gente mercenaria.... E oggi stesso, vedete, s’io fossi nei vostri panni, andrei difilato da Zaccaria e gli direi: Volete una persona di cuore alla testa dell’agenzia? Son qua io.
—Siete matta? In questi impicci mi mettereste? Vi paion proposte da fare?
—Oh lo so che voi non siete uomo capace di uscir dal vostro guscio.... E guai alla famiglia se non ci fossi io.... Che anche quel poco che ci rende la parentela dei Bollati lo dovete a me.
—Io non nego le vostre belle qualità;... però... sì... voglio dire... se siamo parenti dei Bollati, il merito non è mica vostro... mi spiego?
Il conte Luca non aspettò la risposta e sguizzò dalla stanza, come faceva sempre quando gli pareva di non aver mostrata sufficiente sommissione alla moglie.
Era una brava donnetta, una donnetta attiva e procacciante la contessa Zanze, ed era riuscita, poverissima, a farsi sposar dal conte Luca Rialdi, poco meno spiantato di lei, ma cugino[42] degli illustri e ricchissimi Bollati, e in buoni termini con loro. Alla contessa Zanze però era occorsa molt’arte a vincer la diffidenza dei parenti di suo marito, i quali le rimproveravano, fra l’altre cose, la dubbia nobiltà dei natali e il modo subdolo con cui aveva tirato nella rete quel povero conte Luca. Comunque sia, ormai ella spigolava abbastanza largamente nel campo dei Bollati; vestiti smessi pei figliuoli, per sè e anche pel consorte, qualche regaluccio a tempo e luogo, e qualche prestito di danaro che non si restituiva e che l’aiutava a spingere innanzi la barca pericolante. Aggiungasi al resto un paio di mesi di villeggiatura, e un paio di pranzi alla settimana, ch’erano una vera provvidenza per la famiglia. Naturalmente di fronte a questi vantaggi la contessa Zanze doveva inghiottire molti bocconi amari. Le toccava prestarsi ad uffici umili, quasi di cameriera, le toccava ogni momento sentirsi ricordar la distanza che correva tra lei e i Bollati, e far la disinvolta mentre si andava a gara per mettere in burletta le sue acconciature, il suo abbigliamento e perfino, sacrilegio orribile! i suoi martedì. Giacchè bisogna notare che la contessa Zanze aveva anch’essa il suo giorno di ricevimento nel quale ella noleggiava un servitore a spasso, gli faceva indossare una livrea gelosamente conservata in casa, e lo piantava nell’andito ad aspettarvi le visite. Capitavano dame e pedine, ma per lei erano sempre contesse, o marchese, o lustrissime; fra lei e il suo[43] cameriere improvvisato nobilitavano tutti. La moglie del dottor X.... non mancava mai ai martedì della Rialdi, tanto le piaceva il sentirsi dar della contessa una volta per settimana.
Il martedì si desinava in casa Bollati, e guai se non fosse stato così, perchè quel giorno non si accendeva il fuoco in cucina per non aver l’odor di bruciaticcio nel salotto attiguo, e anche perchè la padrona di casa non aveva agio da attendere alle faccende domestiche. Di tratto in tratto accadeva però che i Bollati avessero appunto il martedì qualche commensale di riguardo e allora essi mandavano a dire ai cugini: Venite domani. In questi casi, il conte Luca doveva limitarsi a mangiar pane e salame, e i bimbi sfamati alla meglio si mettevano a letto più presto del solito in ossequio al proverbio: Qui dort dîne. In quanto alla contessa Zanze, ella non prendeva che una limonata senza zucchero, tant’era la bile che le suscitava il procedere de’ suoi boriosi parenti, i quali mostravano di tener in così poco conto lei e suo marito. Ah se non ci fossero stati di mezzo i figliuoli! Ma i figliuoli c’erano e non conveniva sacrificarli a un malinteso amor proprio. Perciò la contessa Zanze reprimeva presto i suoi moti di collera e procurava d’inculcare a Gasparo e a Fortunata la maggior riverenza verso i Bollati. Senonchè, l’indole de’ suoi ragazzi era così dissimile che i germi gettati nel cuore dell’uno e dell’altra non potevano dare ugual frutto.[44] Fratello e sorella avevano comune un gran fondo di rettitudine, ma nella sorella questa rettitudine s’univa a un’indole docile e mansueta; nel fratello invece essa si accompagnava a uno spirito altero, insofferente di freno. A ogni suggerimento, a ogni ordine, il primo impulso di Gasparo era quello di ribellarsi, il primo impulso di Fortunata era quello di ubbidire, cosicchè un psicologo chiamato a far pronostici sui due piccoli Rialdi avrebbe detto che Gasparo era un ragazzo indisciplinato e molesto, il quale sarebbe divenuto un uomo efficacemente e operosamente buono; Fortunata era una bimba angelica, serbata probabilmente a esser vittima d’ogni prepotenza e d’ogni ingiustizia, e la cui bontà passiva avrebbe finito piuttosto col nuocere a lei che col giovare agli altri.
Premesso ciò, sarà facile intendere come non ci fosse voluto molto a imprimer nell’animo di Fortunata l’idea della grandezza dei Bollati e a persuaderla della necessità di mostrar loro ogni deferenza, e come d’altro canto la fierezza naturale di Gasparo gli avesse impedito d’acconciarsi a questa subordinazione. Non c’era mai stato caso di persuaderlo a baciar senza tante smorfie la mano del vecchio conte Leonardo, nè quella del conte Zaccaria o della contessa Chiaretta; non era stato possibile di far sì ch’egli giocasse col contino senz’attaccar lite. Anzi un giorno, punto da non so quali parole, egli picchiò di santa ragione il cuginetto, cosa che indusse la contessa Chiaretta[45] a far terribili vaticini sulla sorte dell’umanità, giacchè, quando i parenti spiantati picchiano i parenti ricchi, dev’esser vicina la fine del mondo.
Forse questo fatto memorabile ebbe una certa influenza nella risoluzione dei Rialdi di mettere il figliuolo nel collegio di marina a Sant’Anna di Castello.
Così la contessa Zanze poteva catechizzar Fortunata senza contraddizione.—Sii rispettosa, servizievole coi parenti Bollati, e procura di farti voler bene dal cugino Leonardo.
La bimba, ufficiosa per sua natura e facilissima ad affezionarsi, non durava fatica a secondare i desiderii materni, ed era lietissima se poteva rendersi utile in qualche maniera alla zia Chiaretta, com’ella chiamava la illustrissima contessa. E costei, ch’era un tipo perfetto d’egoista, vedeva di buon occhio questa fanciullina punto chiassona, punto romorosa, dispostissima a far le parti d’una piccola cameriera. Lo stesso conte Zaccaria si degnava talvolta di occuparsi di lei, e allorchè voleva darle un segno della sua speciale benevolenza, se la prendeva sulle ginocchia, le ordinava di chiuder gli occhi e le cacciava su pel naso un pizzico di tabacco, scherzo fino e saporito che l’illustre gentiluomo riteneva il non plus ultra dello spirito. Fortunata starnutiva replicatamente, ma non si lagnava mai; anzi, quand’aveva finito di starnutare, sorrideva di quel suo sorriso carezzevole ch’era la sua maggiore attrattiva fisica.[46]
E il contino Leonardo preferiva Fortunata a tutti gli altri compagni di gioco, forse perchè Fortunata sopportava con più longanimità i suoi capricci. Sprezzante per indole, egli era piuttosto cortese con lei, e le serbava delle chicche, o le regalava dei trastulli rotti: cavalli a cui s’era spezzata una gamba, bambocci che avevano perduto la testa, trombette che avevano dimesso l’abitudine di suonare. Fortunata andava in estasi. Ci voleva così poco a riempirle l’animo di gratitudine!
La contessa Zanze provava un grande compiacimento a veder la buona intelligenza tra i due cugini, e si cullava in una speranza ambiziosa balenatale alla mente, si può dire, fin dalla nascita della figliuola. Ah se Leonardo s’innamorasse di Fortunata!
Il marito, più positivo, si stringeva nelle spalle borbottando:—Castelli in aria, castelli in aria.
Ma la consorte gli imponeva silenzio con una ragione perentoria:—Siete un gran babbeo.
Quest’era innegabile. Ma Gasparo Rialdi, che non era un babbeo e che, se non fosse stata la disciplina, avrebbe avuto il primissimo posto nella sua classe, Gasparo, nelle poche feste ch’egli passava in famiglia, diceva che sua sorella aveva un gran torto di perder il suo tempo a giocare con quello stupido prepotente di Leonardo Bollati, e che in quanto a lui era ben lieto di non aver quasi mai occasione di mettere il piede nel palazzo di quei somari. Parole che[47] facevano andar fuori della grazia di Dio la contessa Zanze e mettevano la febbre addosso al conte Luca, altrettanto meravigliato di aver un figliuolo di quello stampo quanto sarebbe maravigliata la chioccia che s’accorgesse d’aver covato un aquilotto.
Nè Gasparo aveva almeno la prudenza di aspettare a fare i suoi sfoghi che non ci fosse presente la sorella. Anzi un giorno egli disse a lei stessa:—Tu hai i gusti di Sant’Antonio.... Anch’egli prediligeva un certo animale.
Fortunata non capì nulla, ma si mise a piangere senza sapere il perchè, e corse dalla mamma chiedendole in mezzo ai singhiozzi:—Mamma, mamma, che gusti aveva Sant’Antonio? Che animale era quello ch’egli prediligeva?
Guai se Gasparo non fosse rientrato presto in collegio. Egli era proprio insopportabile, e la zia Chiaretta aveva ragione a definirlo con una parola che per lei esprimeva la quintessenza d’ogni nequizia: È un carbonaro.[48]
Vediamo ora di far più stretta conoscenza col contino Leonardo Bollati, unico rampollo maschio della famiglia, unico erede d’un nome illustre negli annali della Serenissima.
Per cominciare ab ovo diremo che il contino Leonardo nacque nel 1823, come può verificarsi, oltre che dai registri parrocchiali, anche da un volumetto di poesie stampato in quel tempo, col titolo: Versi di vari autori in occasione del battesimo di S. E. il conte Leonardo Bollati P. V. (leggi Patrizio veneto).
C’è fra gli altri componimenti un sonetto che principia così:
E ci pare che basti.
Nonostante le feste con cui egli fu accolto al suo nascere, il contino Leonardo non fu guastato con troppi baci e troppe carezze. Il conte Zaccaria, libertino incorreggibile, s’occupava più delle crestaie e delle ballerine che de’ suoi figliuoli, e la contessa Chiaretta, tra le pratiche di devozione e il teatro, il fare e il ricever visite, il curare i suoi mali veri e l’almanaccar dietro ai suoi mali immaginari, il bever tazze di cioccolata e il mangiar pasticcini, esauriva tutte le forze del corpo e dello spirito, nè le restava più tempo o voglia di dedicarsi alle cure materne. Dimodochè S. E. Leonardo Bollati, progenie di dogi, passò dalle braccia della balia e delle bambinaie a quelle dell’altre persone di servizio, e ne’ primi anni della sua gloriosa esistenza non era ammesso al cospetto de’ genitori che la mattina appena alzato e la sera avanti di coricarsi. In questi momenti solenni egli baciava la mano al nonno, al signor padre e alla signora madre, e dava loro il buon giorno e la buona notte. Nelle grandi occasioni (a Pasqua, a Natale, al Capo d’anno, ecc.) lo si faceva portare a tavola alle frutta. Allora il contino dava prova di ottimo appetito e di rara precocità nel dir parole indecenti, ch’egli apprendeva in cucina e che esilaravano il conte padre ed erano accolte con un sorriso benevolo anche dai commensali, soprattutto dai Rialdi, parenti poveri, mentre la contessa Chiaretta si limitava ad esclamare:—Maria Vergine santissima! Che discorsi![50]
Ma il contino Leonardo non imparava in cucina soltanto le schiette grazie del linguaggio popolare.
Un barcaiuolo pensionato della famiglia, morto nonagenario un anno prima del padrone vecchio, lo aveva erudito in certe cronache domestiche assai edificanti. Nicola (il barcaiuolo si chiamava così) era nato in casa e avea pei Bollati una devozione a tutta prova. Per isfortuna egli non era cresciuto nei tempi in cui i Bollati maschi si coprivano di gloria, ma in quelli in cui le Bollati femmine facevano d’ogni erba un fascio. E raccontava le gesta di queste civette con la identica compiacenza con la quale due secoli innanzi avrebbe raccontato quelle del nobiluomo Almorò che aveva preso una bandiera ai Turchi, e del nobiluomo Biagio che a venticinque anni aveva sbalordito il Maggior Consiglio con la sua eloquenza. La madre del conte Zaccaria non aveva avuto tempo di far discorrer di sè perch’era morta da parto dopo un anno di matrimonio, ma Sua Eccellenza Adriana e Sua Eccellenza Marina, mogli di due fratelli del N. H. Leonardo ne avevano fatte di grosse. Belle, piene di spirito e di salute, avevano goduto la vita, loro due, non come Sua Eccellenza Chiaretta, una buona donna, ma via, un po’ troppo monachella, troppo dinoccolata, troppo paurosa della sua salute. Perchè in fin dei conti, diceva il vecchio Nicola, che cosa fanno a questo mondo le donne se non fanno il chiasso e l’amore?
—Eh—continuava il barcaiuolo epicureo—ai[51] tempi delle lustrissime Adriana e Marina ci si divertiva in Palazzo. Altro che adesso! Non s’eran mai viste due cognate che se la intendessero meglio di quelle. Mai una gelosia, mai la cattiva azione di portarsi via i morosi, ma invece un aiutarsi, un difendersi ch’era un piacere a sentirle. Io ero il confidente di tutt’e due, e quando l’una o l’altra diceva di voler la gondola a un remo solo e che quel remo dovevo esser io, sapevo benissimo di che si trattava. Qualche volta i due mariti e i due rispettivi cavalieri serventi volevano tirarmi in lingua. Mi ricordo che un giorno il nobiluomo Barbo, che serviva la lustrissima Adriana, mi disse:—«Tu tieni il sacco a quella fraschetta.»—«Nobiluomo—io risposi—la parli con rispetto della padrona.» Sicuro; perchè io non ammettevo scherzi su questo proposito.... Ma quando potevo, coi debiti riguardi, dare un buon consiglio alle lustrissime, mi facevo coraggio. E raccomandavo loro di usar prudenza e di salvare le apparenze, che son quelle a cui il mondo bada di più. Così facevo il mio dovere, e le padrone, che non avevano ombra di sussiego, me ne ringraziavano. Erano due angeli, quelle donne, e non è mica a credere che fossero cattive mogli. Bisognava vederla Sua Eccellenza Adriana durante la lunga malattia del marito. Pareva una suora di carità. E quando S. E. Alvise morì, che macchina di monumento ella gli fece innalzare in chiesa dei Gesuiti! E quante messe all’anno faceva dire in suffragio del povero[52] defunto! Se quell’anima lì non ha scontato presto il suo purgatorio, non deve certo prendersela colla moglie. E S. E. Marina? L’ho accompagnata io stesso due anni di fila ad Abano con S. E. Vittore che andava a curarvi la sua sciatica. Che pazienza da santa quella donna! Perchè S. E. Vittore (che Dio l’abbia in gloria!) era una pasta di zucchero finchè stava bene, ma se aveva un dolor di capo, usciva dai gangheri addirittura. Non c’eravamo che la padrona ed io che potessimo sopportarlo.—«Eh, Nicola,»—la mi diceva scherzando—«non si va mica in gondola adesso. »—«Ma, lustrissima; torneranno quei tempi.»—E lei, con una scrollatina di testa:—«Intanto s’invecchia, caro Nicola.»—Benedetta quella vecchia!—io avrei voluto soggiungere, ma non ero che un povero gondoliere e non dovevo prendermi certe libertà.... So ch’era da mangiarla S. E. Marina quando parlava così. A quarant’anni ell’era ancora un boccone prelibato. Una vitina, un busto, un giro di spalle, dei capelli neri come la pece, due occhi da svegliare i morti.... E una manina bianca, grassottella, che aveva tutti i sapori.... Posso dire di avergliela baciata quella mano.... Ma! Le due lustrissime son morte tutt’e due in fresca età e di donne come quelle s’è persa la stampa....
Questi e altri discorsi consimili il vecchio Nicola li teneva soprattutto nelle sere d’inverno, durante la siesta, quando seduto sul focolare sopra un seggiolone impagliato egli protendeva[53] le gambe stecchite sulle ceneri calde, e fumava la sua pipa di gesso o centellava un bicchiere di vino generoso. Il resto della servitù stava ad ascoltarlo ad orecchie tese, e le cameriere, ghiotte di pettegolezzi scandalosi, lo tempestavano di domande. Ed egli, sempre vantandosi d’esser stato un modello di discrezione in gioventù, spifferava una quantità di aneddoti circa alle scappate delle padrone, e al brio delle loro conversazioni nel casino ch’esse tenevano in comune a San Giuliano, e ai loro travestimenti in carnevale, al Ridotto, e ai loro trionfi alla venuta dei conti del Nord e del Re di Svezia. Intanto il contino Leonardo, ora sulle ginocchia d’una fantesca, ora sotto la tavola in compagnia del gatto, sbadigliava aspettando che lo mettessero a letto. E, se vogliamo esser giusti, egli si curava pochissimo di queste glorie casalinghe, e preferiva il racconto dei fatti memorabili del brigante Mastrilli, che il signor Oreste, il cuoco, sapeva a memoria, e di cui mostrava al padroncino le illustrazioni a colori sopra una ventola di cartone.
Altra occupazione gradita pel nostro contino, sin dalla più tenera infanzia, era stata quella di dar la caccia ai granchi che salivano su per la riva del Palazzo. A questo nobile esercizio egli dedicava un paio d’ore al giorno sotto la vigilanza dell’uno o dell’altro dei gondolieri di casa, e, quando aveva preso una di quelle innocue bestiuole, egli trovava un gusto infinito a legarla con uno spago per una delle branchie e a tirarla su e giù per l’androne.[54]
Però i gondolieri non insegnavano al contino Leonardo solamente a pigliare i granchi; essi lo addestravano eziandio nell’arte del remo, l’unica ginnastica a cui si dedicassero in quel tempo i nobili veneti. A quattr’anni egli aveva già un remino microscopico che appena sfiorava l’acqua; poi di mano in mano che il ragazzo cresceva gli si faceva fare un remo più grande e il remo smesso si conservava come trofeo di famiglia. Quando il contino Leonardo non possedeva ancora le lettere dell’alfabeto, egli era ormai in grado di vogare a poppa e di diriger bene o male la gondola nel Canalazzo e pei meandri dei rii. I barcaiuoli dei traghetti lo conoscevano tutti, e se qualcheduno vedendolo passare gridava poco rispettosamente:—Occhio ai granchi, Eccellenza—i più rendevano giustizia alle sue felici disposizioni e gli pronosticavano uno splendido avvenire.
Con la sorella, alquanto maggiore d’età, Leonardo non aveva mai avuto buon sangue; del resto si può dire ch’egli l’avesse anche conosciuta poco, perch’ella entrò ben presto alle Salesiane e vi stette fino al momento del matrimonio. La piccola Rialdi, che aveva quattr’anni meno di lui, era stata sempre, come sappiamo, la sua compagna favorita di giuoco. E quand’egli non era in cucina con le serve, o in gondola, o presso alla riva coi barcaiuoli, era con Fortunata in uno stanzone del secondo piano detto lo stanzone degli armadi, ove i bimbi potevano fare il chiasso senza disturbare la lustrissima[55] Chiaretta che pativa di emicrania e di sfinimenti.
Così trascorse l’infanzia del contino Leonardo Bollati. Alla fine il suo signor padre si decise a dargli un precettore, e la scelta cadde sopra un sacerdote di nome don Luigi, al quale il conte Zaccaria, nell’affidargli l’educazione del giovinetto, tenne questo notevole ragionamento:
—Grazie al cielo, Leonardo non ha bisogno di guadagnarsi da vivere, non deve far l’avvocato, nè il medico, nè l’ingegnere, nè, Dio guardi, il professore. Sotto la Serenissima era un altro paio di maniche. Il ragazzo avrebbe dovuto entrare prima nel Maggior Consiglio e più tardi forse nei Pregadi, e non ci sarebbe stata nessuna carica, per quanto alta, a cui egli non avesse potuto aspirare. Adesso il più che possa toccargli è di diventare assessore municipale, o amministratore dei Luoghi Pii, o presidente della Fenice, come me, e per questa roba non occorre troppa dottrina. Dunque, don Luigi, siamo intesi. Un poco di religione, di storia sacra e di storia veneta, le quattro operazioni dell’aritmetica, una tintura di latino, e quel tanto d’italiano che basta a scriver discretamente una lettera, e, se occorre, un sonetto per nozze o per monaca. Insomma non sopraccarichiamo il ragazzo di scienza.
Don Luigi s’inchinò in segno d’assenso, e promise al conte Zaccaria di uniformarsi interamente a’ suoi desiderii.
Proprio un asino don Luigi non era; aveva[56] un certo bagaglio di cultura classica e aveva scritto in gioventù un panegirico di San Luigi Gonzaga, lodato dal Padre Cesari. Ma era una mente gretta, piccina, di quelle che non possono spargere intorno a sè altro che la loro piccineria e la loro grettezza. In fatto di letteratura, il suo più forte convincimento era questo: doversi combattere ad oltranza il Manzoni. Per don Luigi, innamorato degli avvegnachè e dei conciossiachè, il Manzoni era un barbaro, e non c’era scribacchino d’istanze ch’egli non preferisse all’autore dei Promessi Sposi. Onde sopra una sola cosa egli domandò al conte Zaccaria che gli fosse lasciata mano libera:—Bisogna ch’ella mi permetta—egli disse—di formare a mio modo lo stile del mio allievo. Sarei veramente umiliato s’egli dovesse scrivere come il signor Manzoni, quel corruttore della lingua italiana.
—Oh in quanto a questo—rispose il conte Zaccaria—faccia come le pare.
Le inquietudini di don Luigi non durarono un pezzo. Non solo il contino Leonardo non accennava a voler scrivere un giorno come il signor Manzoni, ma dopo cinque anni d’insegnamento era ancora dubbio s’egli sarebbe mai riuscito a scrivere in nessuna maniera. Il pronostico fatto dal nonno poco prima di morire pareva aver molta probabilità di avverarsi. L’ultimo rampollo dei Bollati aveva tutta la disposizione di restare un somaro. Invece, dal lato fisico, egli era cresciuto meglio che la gracile infanzia non promettesse, era abbastanza alto per la sua età,[57] snello e ben proporzionato della persona. Fatta eccezione dal naso un po’ grande, i suoi lineamenti erano regolari, e, non guardando pel sottile all’espressione della fisonomia insignificante e sbiadita, lo si poteva anche dire un bel ragazzo.[58]
I Bollati avevano poderi in più parti del Veneto, ma la loro villa signorile era posta sulla Brenta, ed essi andavano a passarvi alcune settimane della primavera e dell’autunno. Vi andavano per tradizione, per non rimanere a Venezia quando non c’era nessuno, ma quel soggiorno campestre non aveva per loro la minima attrattiva, come non può averne per quelli che portano in campagna i gusti e le abitudini della città. Già per la contessa Chiaretta era un affar di stato il solo tragitto da Venezia a Fusina, e prima di avventurarvisi ella consultava una dozzina di volte l’aspetto del cielo e il parere dei gondolieri esperti nelle cose meteorologiche. Quando non c’era neanche una nuvola, quando non spirava un fiato di vento, quando i barcaiuoli erano d’accordo nel pronosticar la durata del bel tempo, quando a Sua Eccellenza non doleva un callo (ciò ch’era per lei un sintomo infallibile di cambiamenti atmosferici), quando[59] non era nè martedì, nè venerdì, allora s’intraprendeva finalmente il gran viaggio. Partiva prima la gente di servizio coi bagagli (parevano le salmerie d’un esercito), poi venivano i padroni in due gondole, portandosi, fra l’altre cose, un gatto favorito dentro un paniere. A Fusina si trovavano le carrozze pronte e la comitiva si avviava verso la Mira. E anche qui S. E. Chiaretta era in preda a notevoli trepidazioni.—Le bestie son bestie—ella diceva saviamente,—ed è sempre un miracolo quando non ne fanno di grosse.—Cosicchè ella sottoponeva il cocchiere a un interrogatorio in piena regola.—Era proprio sicuro dei cavalli? Non aveva mica dato loro troppa biada? E le ruote della carrozza le aveva esaminate bene? Non si sa mai; si senton tante disgrazie.... Adagio.... Era inutile di correre in quella maniera.
Basta; presto o tardi s’arrivava, e il fattore, il giardiniere e il gastaldo venivano a baciar la mano ai padroni. La contessa Chiaretta, tutta intontita dal viaggio, si ritirava prestissimo nel suo appartamento, e per quel giorno non discendeva nemmeno a desinare, ma si faceva servire un brodo in camera da letto. Nè è a credere che nei giorni successivi ella uscisse frequentemente in giardino o facesse delle gite nelle vicinanze; tutt’altro; gran parte della giornata ella la passava in un gabinetto con le imposte accostate per non lasciar entrare il sole, coi vetri chiusi per non lasciar entrare le mosche e la polvere; e soltanto a ora di colazione[60] e di pranzo si trascinava a gran fatica fino in tinello, dicendo che non aveva fame e che non capiva come ci fosse della gente che poteva trovarsi bene fuori di città. La sera però, quand’erano accesi i lumi, quando capitavano l’arciprete, il cappellano, il medico condotto e qualche villeggiante per il tresette, la fronte di S. E. si spianava un poco, ed ella si abbandonava un poco alla dolce illusione d’essere nel salottino del suo palazzo di Venezia. E poichè le seccava di andare a letto presto, essa costringeva quei poveri diavoli a farle compagnia fino a mezzanotte, e li teneva svegliati a forza di tazze di caffè.
Il conte Zaccaria, in fondo, aveva per la campagna la stessa passione di sua moglie, ma non voleva dirlo, e si dava l’aria d’intendersene di agricoltura, e ne sballava di grosse col fattore e col gastaldo, i quali, pur mostrando di ascoltarlo con deferenza, si prendevano gioco di lui. Il peggio si era che di tratto in tratto egli non si contentava delle chiacchiere accademiche, ma s’impuntava a ordinar sui suoi fondi dell’esperienze in corpore vili e sciupava il tempo e i quattrini.
In quanto al contino Leonardo, egli avrebbe assai volentieri fatto senza della villeggiatura. Egli trovava che i ranocchi, le cicale, le lucertole valevan meno dei granchi e che la carrozza valeva meno della gondola. A far lunghe passeggiate non ci aveva gusto; l’imparar a guidar delle bestie gli pareva ignobile, e l’equitazione[61] gli era venuta in uggia dopo che un cavallo lo aveva gettato a gambe levate sopra un mucchio di ghiaia. Sicchè, tutto sommato, s’annoiava mortalmente; tanto più che, cosa abbastanza singolare, in campagna aveva meno libertà di quella che avesse in Venezia. A Venezia andava in gondola anche solo affatto, e quand’egli riusciva a scender nell’entratura e recarsi presso alla riva, era sicuro di non esser molestato più.—Sarà con qualcheduno dei barcaiuoli,—dicevano in famiglia, e nessuno aveva altro da soggiungere, e don Luigi era esonerato dall’obbligo d’invigilare sul suo pupillo. In campagna invece don Luigi doveva seguire il contino dappertutto, e badare ch’egli non andasse sotto una carrozza, o non fosse morsicato dai cani idrofobi, o non isdrucciolasse giù nella Brenta.—Con l’acqua dolce non si scherza—sentenziava S. E. Zaccaria.
Don Luigi, a tener dietro a S. E. Leonardo, non ne poteva più, e alla fine della giornata aveva l’aria d’uno di quei cani che per ore e ore inseguono la selvaggina, e alla sera si accovacciano sul vestibolo ansanti e con la lingua penzoloni. Onde, se gli riusciva di sgattaiolar via con la scusa di qualche indisposizione appena faceva notte, correva a rifugiarsi nella sua camera, e si cacciava sotto le coperte, maledicendo al destino che costringeva lui, un uomo di tanto merito, a sciupar la sua vita con un ragazzo balordo e maleducato. Ma ordinariamente non gli era concessa neppur questa consolazione,[62] perchè S. E. Chiaretta, che aveva sempre bisogno di seccar qualcheduno e trovava assai comodo di seccare di preferenza il prete di casa, lo sforzava spesso a rimanere alzato per fare il quarto a tresette in un tavolino o per leggerle la Gazzetta fino a che le venisse sonno. Già ell’aveva dichiarato che alle sue indisposizioni non credeva punto, e che a ogni modo non poteva permettere ai suoi dipendenti di darsi il lusso dell’emicrania e del mal di nervi.
Per don Luigi era meglio che ci fossero ospiti in quantità. E infatti ne capitavano ogni autunno, ed erano, qual più qual meno, tipi di parassiti spiantati e famelici.
Uno degli assidui era il nobiluomo Pietro Canziani, dell’ordine dei segretari, poeta sprositato, autore di madrigali galanti in lode della contessa Chiaretta, la quale si ostinava a chiamar sonetti tutti i componimenti di vario metro che il suo devoto e maturo adoratore le dedicava. Il signor Barnaba Sughillo, impiegato di contabilità, nel fare il suo giro per le varie villeggiature sulla Brenta, non dimenticava i Bollati, e intratteneva anche loro co’ suoi giuochi di prestigio e con la sua prodigiosa abilità nell’imitare il canto degli uccelli, meriti che gli avevano procurato il benigno compatimento delle famiglie patrizie. Nè mancava, sebbene non invitata, la contessa Ficcanaso, la quale, dichiarando di non poter stare a lungo senza vedere i suoi dilettissimi amici, veniva a stabilirsi in casa loro per un paio di settimane almeno. Ella[63] veniva con uno scarso bagaglio di biancheria, ma con una ricca collezione di pettegolezzi, che le facevano perdonar dai padroni l’uggia della sua visita. Nascite, morti, matrimoni, scandali aristocratici e borghesi, arrivi e partenze di forestieri, promozioni e traslochi d’impiegati, tutto aveva un posto nella cronaca della contessa Ficcanaso, e Sua Eccellenza Chiaretta, tra uno sbadiglio e l’altro, pendeva dalla sua inesauribile parlantina. Gli scandali l’attraevano in ispecial modo, come accade a molte donne oneste, che sono piene di curiosità patologiche. E di S. E. Chiaretta, fosse virtù vera, o freddezza, o salute cagionevole, o mancanza di occasioni, non si poteva davvero dir nulla.
I Rialdi poi, l’ho già detto, facevano in villa Bollati la permanenza più lunga possibile. Certo che talvolta, pur di rimanere, dovevano ceder la loro stanza e contentarsi dei peggiori bugigattoli della casa. Ma se ne contentavano perchè la contessa Zanze voleva far economia, il conte Luca aveva bisogno d’una boccata d’aria libera dopo le fatiche dell’impiego, e Fortunata non riprendeva un po’ di colore che quand’era in campagna. Il solo Gasparo preferiva di passare in collegio anche le vacanze.
Gli ospiti di minor riguardo erano vittime del lugubre buon umore di S. E. il conte Zaccaria. Così il nobile Canziani, il signor Sughillo, la contessa Ficcanaso, i Rialdi avevano di tratto in tratto la compiacenza d’esser svegliati prima di giorno da un gallo nascosto in un canterale,[64] o di trovar sparsa l’assafetida sulle lenzuola, o di sentirsi nel cuor della notte strappar via le coperte che erano state insidiosamente legate a una cordicella di cui uno dei capi era fuori della stanza. Quando la burla passava la misura—Ah,—borbottava la contessa Zanze al marito,—se foste almeno nell’amministrazione!
Il conte Luca si stringeva nelle spalle. Gli scherzi del cugino Zaccaria non gli turbavano la digestione, a lui non pareva vero di poter mangiar bene tutti i sette giorni della settimana e di dare qualche capatina furtiva in cucina per assaporare prima del tempo i ghiotti manicaretti apprestati dal signor Oreste. Inoltre, poichè non de solo pane vivit homo, il nostro conte Luca aveva, in quel periodo della villeggiatura, delle insigni soddisfazioni d’amor proprio. Al caffè della Mira non c’era nessuno che gli tenesse testa agli scacchi. Perciò, sia ch’egli giocasse, sia ch’egli assistesse alle partite d’altri giocatori, egli trovava, al cospetto della scacchiera, un brio e una loquacità inesauribile, ed esilarava la compagnia con certi sali attici d’ottimo gusto, come: Fiat lux, faccia lui.—Veda lei che ha quegli occhi così bei.—Tacete su quegli olmi, o passeri inquieti.—Pur che il reo non si salvi i giusto POMI (garbatissima variante al verso del Tasso).—Tu taci Solimano e a nulla pensi.—Fermi là e nessun si muova—e altre spiritosaggini simili.
Di Fortunata non si discorre neanche. Ella si lasciava cucinare in tutte le salse, e i capricci dei[65] cugino erano altrettante leggi per lei. Leonardo, il quale non voleva intorno a sè che persone sommesse, stava appunto con Fortunata, con la Rosa nipote del gastaldo, chiamata per vezzeggiativo Rosetta, e con tre o quattro ragazzi di contadini, ch’egli pigliava a scappellotti se si mostravano recalcitranti ai suoi ordini. Ma già la Fortunata e la Rosetta erano le sue favorite. Con loro deludeva spesso la vigilanza del precettore, e s’inzaccherava nei fossi, o si ravvoltolava sui mucchi di fieno, o andava a zonzo pei campi sgranellando i grappoli d’uva lungo le viti. Ora, per un gran tempo, la Fortunata e la Rosetta, ch’erano quasi coetanee, procedettero d’amore e d’accordo, senza ombra di gelosia, chè la Rosetta riconosceva la sua inferiorità di fronte all’altra, la quale, per quanto spiantata, era sempre una damina. Ma in quell’autunno 1838 il contino Leonardo, che sentiva ormai le prime inquietudini dell’adolescenza, si divertì a prendere verso le due ragazze un atteggiamento di sultano fra le odalische, e accordando ora una preferenza a questa, ora a quella, fece sorger tra loro una specie di rivalità. Sicchè esse finirono col non potersi soffrire, e Fortunata, che pur adorava la campagna, vide con piacere la villeggiatura giungere al suo termine. A Venezia, ella pensava, le cose torneranno come erano prima, e quella pettegola della Rosetta non farà più le sue smorfie.
Quest’era vero, ma Fortunata errava grandemente nel credere che, levata di mezzo, almeno[66] per qualche tempo, la Rosetta, il cugino Leonardo non avrebbe avuto altri grilli pel capo. Invece, giunto in città, Leonardo mostrò di aver progredito in pochi mesi in malizia più di quello che in molti anni non avesse progredito nell’ortografia, e Fortunata non gli pareva che una bimba insipida con la quale non c’era sugo a perdere il tempo.
Le tribolazioni di don Luigi in questa fase critica del suo allievo non si possono descrivere. Quand’egli usciva a passeggio col contino, costui guardava le donne in una maniera così sguaiata, così provocante, si lasciava sfuggir di bocca delle esclamazioni così ardite che il povero sacerdote avrebbe desiderato d’esser mille miglia sotterra, tanto se ne vergognava. E borbottava fra i denti:—Anime sante del Purgatorio! Che cosa mi tocca!
Finalmente don Luigi dichiarò che proprio egli non si sentiva in grado d’andar più fuori di casa solo col contino, perchè, lasciando stare il resto, egli non poteva nè tenerlo per le falde del vestito, nè corrergli dietro quando il ragazzo s’impuntava a seguir le serve, o le crestaine, o.... c’intendiamo.... chè già un paio di volte i monelli gli avevan dato la baja, a lui sacerdote per bene, e avevan fatto sul suo conto chi sa che razza di supposizioni offensive.
Il conte Zaccaria accolse con filosofica serenità questi avvertimenti, e disse che riconosceva in suo figlio il sangue dei Bollati. I Bollati erano stati sempre così, e poco più d’un secolo addietro[67] il nobiluomo Giuseppe Antonio era fuggito a quattordici anni con una cameriera. Effetti del sangue.
Nondimeno per vigilar meglio sul suo chiaro rampollo, il conte Zaccaria deliberò di affidarlo meno alle cure del precettore e di condurlo più spesso con sè, al caffè Suttil di giorno, al teatro la Fenice la sera, quando c’era spettacolo o c’erano prove. Poichè il conte Zaccaria ch’era uno dei presidenti, aveva libero accesso anche al palcoscenico. In quel recinto sacro alle Muse il contino Leonardo trovò subito oneste e liete accoglienze, soprattutto dal corpo di ballo. Infatti le pudiche allieve di Tersicore avevano troppa stima del conte Zaccaria da non far buon viso al suo nobile erede, il quale mostrava le migliori disposizioni a seguir gli esempi paterni. Il contino Leonardo, dal canto suo, si pavoneggiava molto di queste sue nuove conoscenze, e quand’era in palco con sua madre nominava a una a una le vaghe giovinette di rango francese o italiano che volteggiavano sulla scena in vestito succinto.
E se la contessa Chiaretta si sgomentava delle inclinazioni libertine del figliuolo e manifestava dei timori al marito, questi tirava in campo la solita scusa del sangue caldo dei Bollati, e soggiungeva:—Ci vogliono le valvole di sicurezza, ci vogliono. Se no la macchina scoppia.[68]
La savia massima paterna non rimase infeconda, e a sedici anni appena il contino Leonardo cominciò ad applicar largamente il sistema delle valvole di sicurezza. La prima di queste valvole si chiamava Candida, e occupava un posto onorifico tra le Greche del ballo spettacoloso, La caduta di Missolungi. Senonchè, finita la stagione della Fenice, la Candida prese il volo per altri lidi e le successe una Olimpia ascritta tra le Scozzesi di una Lucia di Lammermoor che si rappresentava al teatro S. Benedetto. L’Olimpia non durò un pezzo neppur lei, e le tenne dietro una Serafina, virtuosa di canto, che, insieme con molte altre cose, aveva perduto la voce. Nè con la Serafina, è inutile il dirlo, si chiuse il ciclo romantico del nostro giovinetto. Giova bensì notare come queste frequenti conquiste asciugassero le tasche del contino Leonardo, il quale non riceveva dal signor padre che un modesto peculio mensile. In questa[69] critica condizione di cose il nostro Leonardo trovò un’assistenza impreveduta nell’ottimo signor Oreste, il cuoco, uomo danaroso e liberalissimo, sovventore magnanimo di piccoli bottegai e merciaiuoli ambulanti con cui egli teneva conto corrente al mite saggio dell’un per cento alla settimana. Trattandosi ora di levar d’impiccio il padroncino, era naturale ch’egli fosse pronto a dare, nonchè i quattrini, anche il sangue. Onde, in quel modo delicato che rende più preziose le offerte, il signor Oreste mise la sua cassa a disposizione del contino Leonardo, ritirandone di volta in volta delle cambialette rinnovabili ogni anno fino al momento in cui il giovane divenisse maggiore. S. E. Zaccaria, che ignorava ogni cosa, potè intanto cullarsi nella dolce illusione che il figliuolo sapesse far baldoria e spenderne pochini, ciò che non sapevano altri giovani del patriziato.
Il sagace lettore non troverà punto strano che il contino Leonardo, entrato ormai in dimestichezza con le Candide, le Olimpie e le Serafine, guardasse con un sorriso di compassione tutte le femmine le quali non appartenevano a quella casta rispettabile. Fortunata divorava in silenzio il suo dolore pel mutato atteggiamento del cugino verso di lei, ma la contessa Zanze non sapeva dominar la sua stizza, e le accadeva sovente di tirar giù a campane doppie contro i Bollati, ch’erano stupidi, ignoranti, vanitosi, villani, egoisti, e lasciavano crescere[70] come l’erba matta il solo maschio che avessero.—Già—ella diceva—per poco che quello sbarazzino continui la vita che fa, egli crepa sicuramente.... E sarà quello che si merita—ella soggiungeva urlando come un’ossessa e dimenticandosi per un momento l’idea da lei vagheggiata di avere il contino Leonardo per genero.
Gasparo Rialdi trionfava, vedendo di non esser più il solo della famiglia ad avere in uggia il giovane Bollati. E quando gli toccò d’imbarcarsi, perch’egli era ormai cadetto di marina e doveva andar con la squadra in Levante, egli prese da parte la sorella e le disse con maggior dolcezza dell’ordinario:—Credilo, sorelluccia mia, io me ne vado più contento sapendo che tu bazzichi meno con Leonardo.... Quell’intimità non m’era piaciuta mai, e sarai persuasa che non avevo torto. Leonardo è stato da piccolo in su un monellaccio e nient’altro, e adesso che da un anno in qua fa a modo suo, è uno dei più scapestrati che vi siano in paese. Tu non sei una bimba, hai quasi quindici anni, e a quindici anni una giovinetta deve guardar bene a chi accorda la sua confidenza e le sue preferenze.... Capisco che noi non possiamo troncar le nostre relazioni coi Bollati; il babbo e la mamma non lo vorrebbero, e forse avranno ragione, forse è vero che ci conviene usar dei riguardi a quei nostri parenti.... abbiamo, pur troppo, delle obbligazioni con loro.... Ma un giorno, se la fortuna m’aiuta!... Intanto sta in[71] guardia, e soprattutto non curarti di Leonardo... Son meglio i suoi disprezzi che le sue carezze.—Le parole di Gasparo erano per Fortunata tante punture di spillo. Ella non osava contraddirlo, si sentiva piccina piccina di fronte a lui; ma egli era troppo impetuoso, troppo violento, troppo assoluto da potersele insinuare nell’animo, da poter sradicarne le simpatie segrete coltivate con lungo amore. Poichè non è mica vero sempre che i forti trascinino i deboli; la bufera che abbatte la quercia passa talvolta sul gracile stelo senza far altro che piegarne la cima. A veder suo fratello così accanito contro Leonardo, ella, pur riconoscendo i torti di costui, aveva come la coscienza d’un’ingiustizia, di una persecuzione della quale ell’era muta e impassibile testimonio. Le pareva che sarebbe convenuto tener modi diversi, usar la dolcezza, cercar con le ammonizioni e i consigli di ricondurre il traviato sul retto sentiero, e avrebbe dato dieci anni della sua vita per saper far lei quello che non sapevano o non volevano fare gli altri. Così Gasparo, con tutta la sua perspicacia, s’era affrettato troppo a rallegrarsi della scemata intrinsichezza di sua sorella con Leonardo Bollati. Sicuro, le apparenze gli davano ragione, e Fortunata si trovava di rado a quattr’occhi col cugino, ma chi le fosse disceso in fondo al cuore avrebbe visto che i nodi che la stringevano a lui, anzichè rallentarsi, accennavano a diventare più saldi e indissolubili.—Non sei una bimba—le aveva detto Gasparo,[72] ed era vero. E appunto per questo riusciva meno facile a lei stessa di raccapezzarsi in quel tumulto di sentimenti nuovi e di nuovi pensieri che l’agitavano. Ciò ch’ella provava per Leonardo Bollati non era l’affetto uguale, ingenuo e devoto dei primi anni; era a volte un’attrattiva invincibile, a volte una strana ripulsione; ond’ella ora lo cercava ed ora lo sfuggiva, ma sia che lo cercasse o lo sfuggisse, non sapeva staccare il pensiero da lui.
Dei genitori vigili, intelligenti, avrebbero avvertito il pericolo e cercato di ripararvi in tempo, ma il conte Luca era un uomo nullo che aveva abdicato in favore della moglie, e la contessa Zanze, sebbene non fosse una sciocca, non era nata per capir certe cose, e aveva poi uno spirito singolarmente sconclusionato. Dimodochè, dopo aver dipinto Leonardo con le tinte più fosche, dopo avergli pronosticato ogni specie di malanni, ella mutava a un tratto registro e tornava a far castelli in aria e ad almanaccare sulla possibilità che sua figlia entrasse in casa Bollati e ch’ella, Zanze Rialdi, divenisse un giorno la suocera dell’erede di un gran nome e di un gran patrimonio. Inoltre, anche nei momenti in cui ell’era meno disposta alle illusioni, ell’avrebbe riso in faccia a chi fosse venuto a dirle che il solo mezzo efficace di salvar Fortunata dalle amarezze e dai disinganni era quello di non frequentar troppo i Bollati, di non mantener con essi che le relazioni strettamente necessarie. Colmarli di contumelie quand’essi[73] non potevano sentirla, era, per la contessa Zanze, la cosa più naturale del mondo, ma perdere i vantaggi d’una parentela simile le sarebbe parso un delitto verso sè stessa e verso la propria famiglia. Ah, in verità non c’era che lei che avesse un po’ di sale in zucca! Suo marito era un bamboccio, Gasparo, con tutto il suo ingegno, non sapeva il viver del mondo, e Fortunata era una buona diavola, ma prendeva di tratto in tratto certi atteggiamenti di vittima ch’erano molto noiosi. Adesso ell’aveva l’aria di fare una grazia ad andar l’autunno in campagna, come se si potesse rinunziare a un sistema che, senza contare il benefizio fisico, permetteva di chiuder la casa e di raggranellar quattro soldi per l’inverno.
La ragione, per la quale Fortunata andava mal volentieri in villa Bollati, non è difficile a immaginarsi. Il contino Leonardo, si curava poco di lei e si curava troppo della nipote del gastaldo, la Rosetta, che in brevissimo tempo s’era fatta una bella ragazza. Vispa, civettuola, la Rosetta sapeva di piacere e si divertiva a lasciarsi corteggiare, per rider dei gonzi, diceva lei, giacchè non era così grulla da innamorarsi a spese della salute e del buon umore, e in quanto al prender marito non c’era furia, chè un marito è un tiranno e nient’altro. A ogni modo, di mariti c’era abbondanza; bastava volere. Per ora preferiva spassarsela, e d’autunno quando i padroni erano in villa accettava di buon animo gli omaggi del conte Leonardo,[74] certa di far arrabbiare le sue carissime amiche e di suscitar la gelosia dei bellimbusti del paese. Perciò ella non aveva nessun riguardo a lasciarsi vedere con Leonardo per le strade maestre e a scambiar la domenica in chiesa occhiate e sorrisi con lui. Che se anche le amiche e i galanti si vendicavano col tener sul suo conto ogni specie di discorsi e coll’esagerare l’importanza della tresca, ella si stringeva nelle spalle, tant’era sicura che al finir dell’autunno i galanti sarebbero tornati ai suoi piedi, docili come cagnolini. Delle amiche poi non si dava pensiero; chiuder loro la bocca era impresa impossibile.
La Rosetta, come si vede, sfidava la cosidetta opinione pubblica per vanità, poichè questa sua vanità non sarebbe stata soddisfatta se la gente non avesse saputo che il contino Bollati spasimava per lei. Ma dove la vanità non era in giuoco ell’era invece prudentissima, e Leonardo non riusciva a indurla nè a passeggiate in luoghi solitari, nè a furtivi colloqui di sera. Anzi quand’egli era troppo insistente, la ragazza fingeva di corrucciarsi e lo sfuggiva per più giorni di seguito. Già i pretesti non le mancavano; o doveva attendere alla cascina, o aveva da lavorar di cucito per lo zio e i cuginetti. Allora Leonardo si sfogava con Fortunata e diceva che la Rosetta era la più civetta di tutte le tose ch’egli aveva conosciuto, e ch’ella s’ingannava a partito se credeva di far colpo sopra di lui con quelle sue bizze da principessa. C’era proprio pericolo ch’egli la prendesse sul serio![75] Ma queste confidenze non davano un gran conforto a Fortunata, che, di lì a qualche giorno, vedeva Leonardo più sommesso di prima alla capricciosa contadinotta.
Era impossibile che in casa non s’accorgessero di questa tresca, e seppur non se ne fossero accorti, la contessa Zanze si sarebbe assunta la briga di spargerne la notizia. Ella n’era scandalizzatissima, e non risparmiava fatiche per risvegliare il senso morale del conte Zaccaria e della contessa Chiaretta e per indurli a far valere la loro autorità prima che accadesse una catastrofe. Ma quelli non se ne davano per intesi. O che toccava a loro di vigilare sul prezioso onore d’una villana?
E se dobbiamo esser sinceri, quegli a cui spettava anzitutto quest’ufficio delicato era il gastaldo, zio della Rosetta, volpe vecchia, il quale lasciava correre, sia che si fidasse della furberia della nipote, sia che non volesse disgustare il giovane conte, e in ogni evento, sperasse di tirar l’acqua al suo molino.
L’ultimo rifugio della contessa Zanze era don Luigi. O che aveva gli occhi foderati di prosciutto? O che non sentiva il debito sacrosanto di alzar la voce, e di sottrarre alla perdizione il suo allievo?
Povero don Luigi! Che ci poteva lui? Non la capivano ancora ch’egli non era più il precettore? Era il cappellano della famiglia, era una specie di mastro di casa; ma il precettore no. E su certi argomenti non aveva diritto di[76] entrare... fuori che nella confessione.... Allora le sue ragioni sapeva dirle e non aveva bisogno delle lezioni di nessuno, come non intendeva render conti a nessuno.... E poi perchè venivano a discorrergli di tresche scandalose?... Credevano che un sacerdote non avesse da far di meglio che spiare i passi di due monelli senza giudizio?
—Bei ministri di Dio!—borbottava la contessa Zanze riferendo al marito questi colloqui.—Bei ministri del Vangelo! Si lavano le mani come Ponzio Pilato.
—E perchè non ve le lavate anche voi le mani?—rimbeccava il conte Luca.—Siete un ministro di Dio, voi! Andate proprio a cercarli col lumicino i fastidi? Che può importarvi di ciò che passa tra Leonardo e la Rosetta? Per la Vergine santissima, lasciate che si sbrighino loro e non ve ne impicciate. Tanto, a voi non ne va e non ne viene. Mi spiego?
E il pacifico uomo tornava al caffè a giuocare ai suoi scacchi.[77]
Forse il conte Luca aveva ragione a voler mantenere una politica di assoluta neutralità, ma, d’altra parte, la contessa Zanze non aveva torto nel presagire che quest’intrigo del contino Leonardo e della Rosetta sarebbe andato a finir male. Era una cosa troppo lunga, e, come dice il proverbio, le cose lunghe diventan serpi. In città, Leonardo aveva mille distrazioni che gl’impedivano di pensare alla nipote del gastaldo, ma quand’era in campagna gli occhi bellissimi e il sorriso affascinante della Rosetta esercitavano sopra di lui il solito impero. Inoltre c’era ormai di mezzo anche un po’ di puntiglio. Egli giurava e spergiurava a sè medesimo di venirne a capo, di non voler essere raggirato più a lungo da una contadina, di non voler più contentarsi d’una carezza e d’un bacio a ogni morte di papa. Per la Madonna! Egli non aveva mai avuto queste abitudini, e le Candide, le Olimpie e le Serafine non lo avevano mai fatto[78] sospirar tanto. Però questi propositi risoluti del contino Leonardo si spuntavano contro le arti sopraffine della ragazza, la quale pareva aver imparato la civetteria in una capitale. Ella accettava i regalucci del suo spasimante, gli diceva di volergli bene, accordava quello che non era possibile di negargli, ma in quanto al resto, nemmen per sogno. Comunque sia, questa tattica era piena di pericoli, ed era evidente che non poteva durare a lungo, soprattutto, se, in mezzo ai tanti farfalloni che svolazzavano intorno alla Rosa, fosse spuntato un pretendente serio. In verità il pretendente serio tardò abbastanza a venire, e le buone amiche della Rosa si tenevano sicure ch’esso non sarebbe venuto più, perchè, siamo giusti, chi doveva sposare quella sguajata? C’era bensì un tal Menico, garzone di caffè, povero di quattrini e di spirito, il quale dichiarava di languir d’amore per lei e d’esser pronto a darle il suo nome, ma a nessuno passava pel capo che la Rosetta si adattasse a sposar quello zotico di cui ella era la prima a burlarsi, quantunque Menico fosse sotto la protezione del gastaldo, ch’era suo santolo.
Per altro, allorchè Beppe Gualdi, il figlio dell’oste, finita la ferma militare, tornò in paese e s’attaccò subito ai panni della ragazza, si cominciò a susurrare nei crocchi che, se la Rosetta aveva giudizio, lo sposo era bell’e accalappiato, perchè Beppe non era uomo da perdersi in galanterie senza costrutto e aveva già detto di voler prendere moglie. Naturalmente uno sciame[79] di persone officiose, per la maggior parte madri che avevano figliuole da marito e zitelle che cercavano un collocamento, si diedero premura di metter sull’avviso il giovinotto, informandolo di tutte le chiacchiere che correvano sul conto della Rosetta. Era proprio peccato che un galantuomo cascasse in così cattive mani. Ma Beppe troncò presto i discorsi, rispondendo che aveva ormai il dente del giudizio e ch’era in grado di regolarsi da sè. Ai suoi intimi poi diceva che le chiacchiere dei maligni non gli facevano nè caldo, nè freddo, e che non si stupiva punto se la Rosetta aveva tante nemiche, perch’era più bella e più vivace delle altre. Del resto egli era disposto ad ammettere che le fosse piaciuto di farsi corteggiare anche dal contino Leonardo, ma al suo posto tutte avrebbero fatto lo stesso. A lui bastava che queste galanterie non avessero seguito, ed egli non avrebbe certo domandato formalmente la mano della Rosetta finchè non si fosse assicurato da sè che tra lei e il contino era troncata ogni relazione.
La Rosetta non provava nessun entusiasmo per Beppe Gualdi, che aveva una diecina d’anni più di lei, ma non voleva disgustarlo, nè darla vinta alle sue rivali che gli tendevano le loro reti; inoltre, per aliena ch’ella fosse dal matrimonio, non era poi così grulla da rinunziar troppo leggermente a un buon partito. Onde si mostrava piena di deferenza pel suo nuovo adoratore e rideva e scherzava con esso intorno al contino Bollati, i cui stupidi omaggi, ella diceva,[80] non avevano servito che a tenerla di buon umore.
Il figlio dell’oste era ripatriato alla fine dell’inverno, mentre i Bollati non erano in villa, ciò che sulle prime diede buon gioco alla nostra civettuola. Le difficoltà vere dovevano affacciarsi più tardi, nell’autunno, quando la Rosetta sarebbe stata messa al punto o di decidersi per uno dei suoi due innamorati o di sfoggiare un’arte maggiore del solito per corbellarli entrambi. Era anche fuor di dubbio che allora tutti quelli che le volevano male sarebbero stati con tanto d’occhi aperti per coglierla in fallo.
Ne venne di natural conseguenza che il contino Leonardo Bollati, quell’anno, trovò la Rosetta notevolmente mutata, cosa che non poteva accadergli in peggior momento, giacchè egli s’era impegnato con certi suoi compagni di libertinaggio a non tornare a Venezia senz’aver vinto l’ultime resistenze della capricciosa fanciulla. E a raggiungere meglio il suo fine, egli s’era munito d’un anellino di brillanti il cui splendore, a parer suo, era atto a trionfare di ben altre virtù femminili che di quella della nipote del suo gastaldo.
Dinanzi agli ostacoli impreveduti che intralciavano la sua via, il contino Leonardo, quantunque fosse un balordo, si condusse, per una volta tanto, da uomo di spirito. Non andò in escandescenze, non perdette il suo sangue freddo, ma non depose le armi e fidò nella fragilità femminile.[81]
C’era un’altra bellezza campagnuola che pretendeva contrastar la palma alla Rosetta, e ch’era stata tra le più implacabili nel giudicarla. Il giovine conte, che non s’era occupato mai di costei, cambiò tattica a un tratto, le si avvicinò ripetutamente, le disse di quelle paroline che suonano così dolci alle donne, solleticò insomma in tutti i modi la sua vanità. Queste galanterie non rimasero segrete, chè la prima a non voler che rimanessero tali era la persona alla quale esse erano fatte. Figuriamoci s’ella poteva resistere al gusto di umiliare la Rosetta che l’aveva per tanto tempo guardata d’alto in basso! E la Rosetta n’ebbe una rabbia da non dirsi. Che Leonardo, disgustato dal suo eccessivo riserbo, si curasse appena di lei, pazienza; ma ch’egli corteggiasse la Filomena (era il nome della rivale) questo passava davvero ogni misura. Solo a pensarci le veniva da piangere. E se la prendeva un po’ con tutti. Con la Filomena, s’intende; con Leonardo, ch’era volubile e di pessimo gusto, con quel noiosissimo Beppe Gualdi che faceva il geloso, con lei stessa che gli dava retta. Ah, se un giorno essa diventava sua moglie, come gliel’avrebbe fatta pagare!
Intanto, una mattina, mentre il contino Leonardo tornava alla villa per una scorciatoia, egli vide la Rosetta che pareva occupata a coglier margherite sul ciglio del sentiero. Avrebbe voluto far lo spavaldo e passare avanti, ma ell’era troppo bella, troppo procace in quell’atteggiamento,[82] col seno che quasi le traboccava dalla bustina, ed egli sentì una ondata di sangue caldo salirsi alla testa.
—Buon giorno, Rosetta—egli disse fermandosi sui due piedi.
Ella finse una grande sorpresa, arrossì e lasciò cadere i fiorellini che teneva in mano.
—Ti faccio paura?—ripigliò il giovane. E soggiunse più basso:—Come sei bella stamattina! Meriti proprio il tuo nome; sei un bocciuolo di rosa.
—Oh—ella rispose—la Filomena è molto più bella di me.
Il contino Leonardo si strinse nelle spalle.
—La Filomena non è degna neanche di baciar la terra su cui tu cammini.
La fisonomia della Rosetta s’illuminò dal piacere; nondimeno ella si tenne in un certo riserbo:—A me dice così, a lei invece....
—O che credi sul serio ch’io sia invaghito della Filomena?
—To!!... Come se non lo credessero tutti quanti?...
—Tutti quanti credono male, quest’è la verità.... A ogni modo, che te ne importa se hai la testa piena del tuo Beppe Gualdi?
La ragazza fece un gesto d’impazienza.
—Un brav’uomo—seguitò Leonardo—un po’ maturo per te... ma dal momento che gli vuoi bene....
—Che ne sa lei se gli voglio bene, o no?
—Oh bella! risponderò anch’io: tutti lo dicono.[83]
—La gente chiacchiera per aprir la bocca.
—E allora perchè sei stata così cattiva con me quest’autunno?—incalzò il contino passandole un braccio attraverso la vita.
Essa resisteva.—No, no, mi lasci.... Se qualcuno ci vede.
—Non c’è anima viva—replicò Leonardo. E, pronto ormai ad ogni più ardita impresa, le stampò un bacione sul collo, mentre cercava di spingerla fuori del sentiero, in un campo di grano turco, le cui canne alte e fitte potevano essere un eccellente riparo contro gli sguardi indiscreti.
Quantunque alla giovane ripugnasse l’idea di questa capitolazione vergognosa, non si sa quel che sarebbe accaduto, se proprio fra le canne del grano, a poca distanza dal luogo ove si trovavano i due giovani, non si fosse inteso un improvviso fruscìo, come di persona che si aprisse bruscamente il passaggio, forse per entrare, forse per uscire dal campo. Pur non si vide nessuno e poteva esser benissimo un’illusione dei sensi. Ma il momento buono era passato, e il timore d’essere scoperta ridonò alla Rosetta il suo sangue freddo. Anche Leonardo divenne subito più circospetto. Egli non aveva un’anima di leone, e non avrebbe voluto tirarsi addosso la collera di Beppe Gualdi, ch’era uomo capace di non guardare in faccia nemmeno a un’Eccellenza. Ottener la vittoria senz’affrontare il pericolo, ecco il magnanimo ideale del nostro valoroso contino.[84]
Così Leonardo e la Rosetta si separarono di lì a poco non senza promettersi che si sarebbero riveduti.
E si rividero in fatti più volte, ma sempre con infinite cautele e sempre per brevissimi istanti. Però questa intimità avrebbe dato i suoi frutti alla prima occasione propizia. Del resto, Beppe Gualdi non si lasciò scappar con la Rosetta una parola che accennasse a qualche suo sospetto, nè la Filomena fece a Leonardo alcuna scena di gelosia. Ne venne una sicurezza fallace che doveva portar tristi effetti. Perchè i due giovani che credevano aver delusa la vigilanza altrui erano invece spiati a ogni passo. Il loro incontro presso al campo di frumentone aveva avuto per testimonio un monello di dodic’anni, fratello della Filomena, il quale raccoglieva alcune pannocchie cadute, e dileguandosi non visto era corso subito ad avvertir sua sorella che la Rosetta s’era lasciata dare un bacio dal signorino. La Filomena scattò come una molla, e voleva fare uno scandalo, ma, riflettendoci meglio, pensò di consultarsi con Beppe Gualdi, il quale non era uomo da sopportare in pace una canzonatura di questa specie. Sulle prime Beppe fece alla Filomena l’accoglienza che gl’innamorati fanno sempre a chi accusa dinanzi a loro la persona a cui vogliono bene; poi, calmatosi alquanto, le ordinò severamente di tacere e di lasciare a lui la briga di chiarir quest’imbroglio. Guai a lei se si tradiva col contino Leonardo, guai. In tal modo[85] ella dissimulò per paura, egli dissimulò per calcolo e provvide in maniera da esser informato per filo e per segno di tutto ciò che Leonardo e la Rosetta facevano e architettavano. Egli godeva d’un certo credito fra i terrazzani, era largo nello spendere, e gli era facile trovar gente disposta a rendergli servizio. E poi, pare impossibile, i servizi che la gente rende più volentieri son quelli coi quali, giovando a qualcheduno, si può nuocere a qualchedun altro. Insomma Beppe non tardò ad acquistare la certezza che la ragazza lo ingannava, e vi fu anche chi gli riferì queste precise parole dette dalla Rosa al contino per schermirsi da un abboccamento più intimo del solito ch’egli le chiedeva con insistenza:—«Come devo fare se ho sempre quel seccatore fra i piedi?»—Il seccatore era lui, Beppe Gualdi. Ah! bisognava finirla e costringer quei due sfacciati a levarsi la maschera; bisognava sorprenderli insieme in un luogo, in un’ora che non desse loro mezzo di scampo. Perciò Beppe finse di dover andare a Padova per un affare di suo padre, e disse alla Rosetta che sarebbe tornato soltanto di lì a tre o quattro giorni. E s’assentò realmente, ma invece di andare a Padova, si ridusse nella campagna d’un suo compare, poche miglia distante, ad aspettarvi le notizie che gli sarebbero state date dagli amici zelanti. Quelle notizie non si fecero attendere un pezzo. La sera del giorno seguente a quello in cui Beppe era partito, Leonardo e la Rosetta dovevano trovarsi[86] nel chiosco chinese della villa Bollati, un chiosco che non s’apriva mai e del quale il contino si era fatto dar la chiave dal giardiniere. Secondo tutti gl’indizi, la Rosetta s’era lasciata tentare dalla speranza d’un bel regalo. Ell’aveva avuto l’imprudenza di dire alla figlia del maniscalco che le mostrava un anellino di smalto regalatole dal fidanzato:—Oh lo smalto ci vuol poco ad averlo.... Ma son poche quelle che possono avere i brillanti.—Sta a vedere che tu ne hai—rimbeccò l’altra ironicamente. La Rosetta non rispose, ma guardò la sua amica con una tale aria di commiserazione da far intendere che l’averne dipendeva da lei.
Gli amici diedero a Beppe tutti questi particolari con maligna compiacenza, ma quand’egli, il cui amore s’era convertito in odio, li invitò ad aiutarlo per somministrare una buona lezione a quel libertino del conte Leonardo, sorsero mille scrupoli e mille dubbi. Non c’era ragione di mettersi in lotta coi Bollati; i signori, si sa, hanno per loro la polizia, e gli stracci vanno sempre all’aria. Che Beppe piantasse la Rosetta era troppo giusto, ma in quanto al contino era meglio non occuparsene.
Però questi consigli non ebbero presa sull’animo risoluto del giovane. E poichè nessuno volle venire con lui, egli solo, poco prima dell’ora fissata pel ritrovo dei due amanti, s’introdusse per una siepe nella villa Bollati, e si appiattò in una macchia di lauri a pochi passi dal chiosco. Il contino Leonardo non istette[87] molto a comparire, aperse con la chiave la porticina del chiosco, accese un lanternino che spargeva intorno una luce fioca, e poi si fermò sulla soglia ad aspettare. Di lì a dieci minuti s’intese un suono di passi affrettati e leggeri, una voce sommessa (la voce di Leonardo) disse:—Avanti;—una figura di donna avviluppata in uno scialle rasentò la macchia di lauri ove Beppe s’era appiattato, ed entrò rapidamente nel chiosco. Egli la lasciò entrare, resistendo alla tentazione di gettarsele addosso e di stritolarla, ma, quando la porticina fu chiusa, egli, vi si precipitò contro con impeto, ne scompaginò con un colpo vigoroso il debole assito e piombò come un fulmine fra la Rosetta e il suo damo. Non aveva seco armi di nessuna specie e nemmeno un bastone; ma con pugni e calci bene assestati mandò il contino a ruzzolar nell’erba, mentre teneva stretta pei polsi la Rosetta e la colmava d’ogni sorta di vituperi. Le grida acutissime di S. E. Leonardo misero a soqquadro la villa. I servi uscirono coi lumi, i cani da guardia latrarono a piena gola scuotendo furiosamente la catena, la contessa Chiaretta che giocava a tresette dimenticò di accusare la napoletana di spade, S. E. Zaccaria si fermò nel bel mezzo d’una spropositata dissertazione agricola col fattore, gli ospiti tramortirono, e Fortunata, pallidissima, si trascinò fino alla portiera a vetri che dava sul giardino; poi, mancandole le gambe, dovette appoggiarsi a uno degli stipiti per non cadere.[88]
Intanto Beppe Gualdi, pago di aver conciato il rivale pel dì delle feste, era riuscito a ripassare la siepe prima che i suoi inseguitori lo raggiungessero, mentre che il contino Leonardo, raccolto dai servi tutto pesto e sanguinolento, era trasportato a casa e deposto sopra un canapè. Per fortuna c’era lì presente il dottore, il quale dichiarò che non c’erano lesioni pericolose e fece le prime medicature. Anche la Rosetta, pazza di terrore, era stata ricoverata in cucina dalla servitù.
Leonardo, ch’era un vigliacco, piangeva e urlava come un bambino. Solo di tratto in tratto egli interrompeva le sue lamentazioni per gridare:—Bisogna denunziarlo alla Polizia quel cane, bisogna farlo condannare a morte.—E nel dir così digrignava i denti e agitava le braccia con piglio minaccioso.[89]
Il contino Leonardo risanò presto e Beppe Gualdi non ebbe a soffrire che pochi giorni di carcere per soprusi e violenze, condanna che scandalizzò molto, per la sua mitezza, la signora Chiaretta.—Ecco a che punto siamo ridotti,—ella sospirava con don Luigi.—Un bifolco può metter le mani addosso a un patrizio veneto senz’andar incontro a nulla di peggio che a una settimana di prigione. Ormai, credetelo pure, anche i Governi sono d’accordo coi carbonari.
Il sacerdote tentennava la testa.—Pur troppo, Eccellenza, tutto va male, tutto è corrotto nei tempi moderni, il cuore, il cervello ed il gusto.... specialmente da noi. In un paese dove un Manzoni può passare per un grande scrittore non bisogna meravigliarsi di nulla.
Stabilita così la responsabilità indiretta di Alessandro Manzoni nelle busse toccate dal contino Leonardo Bollati, don Luigi seguitava a[90] deplorare le infinite cause del, pervertimento degli animi, la mancanza di religione, l’abbandono delle pratiche del culto, l’uso invalso in tante famiglie di mangiare di grasso il venerdì e il sabato, ecc., ecc.
—E poi—soggiungeva la contessa—volete che non abbiano una cattiva influenza quelle invenzioni del demonio che si succedono da pochi anni?... Vapori di acqua e di terra, illuminazioni a gas e altre porcherie simili.... Non hanno già cominciato a gettare un gran ponte sulla laguna per unire Venezia alla terraferma?
Mentre che la contessa Chiaretta e il cappellano si querelavano in tal maniera delle tristi condizioni dell’umanità, il conte Zaccaria era occupato a negoziare un decoroso componimento.
Lo scandalo avvenuto nel chiosco chinese non avea soltanto fatto tramontare ogni possibilità di matrimonio tra la Rosa e il nipote dell’oste, ma aveva anche recato un colpo gravissimo alla riputazione della ragazza.
Il gastaldo aveva sentito risvegliarsi a un tratto le sue viscere di zio, e strappandosi i capelli per la disperazione era corso da S. E. il conte Zaccaria a dirgli ch’egli era un uomo rovinato, che non avrebbe potuto sopravvivere al disonore della famiglia, nè reggere al pensiero che un colpo simile gli venisse da un nobil uomo Bollati. A chi la mariterebbe adesso la sua nipote? Come risponderebbe ai fratelli della ragazza, giovani impetuosi e maneschi, che lavoravano in Ungheria, ma che sarebbero certo[91] tornati in patria appena fosse giunta loro la notizia dell’accaduto?
S. E. aveva molto ragionevolmente fatto notare al suo interlocutore ch’egli aveva avuto torto di non accorgersi di quello di cui s’accorgevano tutti, vale a dire che la Rosetta era un po’ civettuola e che egli doveva custodirla meglio di quel che non avesse fatto.
Ma il volpone non s’era dato per vinto. Sicuro, egli era stato una bestia, sicuro, la Rosa era una fraschetta, ma egli aveva avuto sempre tanta fiducia ne’ suoi padroni! Quel contino Leonardo egli l’aveva sempre considerato, salvo la debita riverenza, quale un figliuolo. Di tutti avrebbe dubitato ma non di lui. E adesso, se quei ragazzi tornavano a vedersi, come impedire che si riavvicinassero, come impedire che la tresca ricominciasse?... Ah s’egli avesse potuto spedir la Rosetta all’altro capo del mondo?... Se avesse potuto sposarla fuori di paese?... Ma prima dello scandalo non c’era che da scegliere fra dieci a dodici partiti oltre a Beppe Gualdi: invece dopo quella sera fatale nessuno voleva più saperne.... Uno solo, forse, non aveva mutato idea, Menico il caffettiere.... Quel monello lì era innamorato cotto della Rosa e pareva sempre disposto a prendersela.... Ma come si fa? La Rosa non aveva un soldo di dote, Menico non aveva neanche la camicia.... Si doveva lasciarli morir di fame? In quanto a lui, il gastaldo, si sarebbe levato il pane di bocca per dare quattro soldi alla nipote che gli era[92] stata raccomandata dal fratello al letto di morte, ma, quant’è vero Iddio, era al verde, assolutamente al verde.... Anni cattivi, anni cattivi, e S. E. lo sapeva meglio degli altri.
In ogni circostanza critica il conte Zaccaria ricorreva al consiglio ed all’opera del suo agente generale. Quell’impagabile sior Bortolo col suo umore uguale, calmo, sereno, era l’uomo fatto apposta per appianare i dissidi. Non che escludesse a priori le liti. Quando la dignità dell’illustre famiglia Bollati lo esigeva, egli sapeva tirarle in lungo anche più della guerra di Troia, ma negli altri casi egli preferiva gli accordi amichevoli. Ora, egli aveva un modo tutto suo d’intendere questa dignità del casato. Se le liti potevano fruttare dei quattrini a lui, egli diceva che bisognava litigare; se non potevano fruttargli nulla e aveva invece da sperar qualche cosa dagli accordi, egli sosteneva con altrettanta energia che bisognava venire a patti.
Fedele a questo sistema, egli suggerì a S. E. Zaccaria di far ponti d’oro al matrimonio della Rosetta con Menico. La dignità del nome Bollati imponeva di riparare alle conseguenze della leggerezza del contino Leonardo, e poichè se ne offriva la propizia occasione era debito sacrosanto di non lasciarselo sfuggire. Si desse una piccola sommetta a Menico per aprire, come egli desiderava, un caffè nel vicino paesetto di Oriago, e ch’egli si sposasse in santa pace la Rosa. E sior Bortolo tanto disse e tanto fece che il conte Zaccaria si persuase al sacrifizio[93] pecuniario che gli era richiesto. Già a trovar il danaro ci pensava l’agente.
La ragazza, rendiamole giustizia, si mostrava molto restìa ad accettare una simile soluzione, ma il gastaldo, questa volta, fece da zio e da tutore sul serio, e dichiarò che s’ella non accondiscendeva al matrimonio, egli l’avrebbe cacciata di casa. Non voleva, no, aver altri fastidi per cagion sua.
Ond’ella dovette piegare il capo e rassegnarsi a queste nozze ridicole. È inutile ripetere i commenti che se ne facevano sul luogo e la sorte che si pronosticava a quel grullo di Menico. Costui però non se ne dava per inteso, e tutto tronfio per la bellissima fidanzata, lasciava cantar le cicale, mentre coi capitali di S. E. Zaccaria e sotto il patrocinio di suo santolo e di sior Bortolo si disponeva ad aprire nel villaggio di Oriago la nuova bottega di caffè e liquori col titolo pomposo: All’Imperatore d’Austria.
Dopo la sua ingloriosa avventura campestre, il contino Leonardo scivolò ancora più basso sul lubrico pendìo del libertinaggio. Egli non aveva ormai altra cura che questa e aveva abbandonato anche l’esercizio del remo, ch’era stato la passione della sua infanzia. S’era poi emancipato da ogni tutela e non andava nemmeno col suo signor padre al caffè Suttil, trovando abbastanza noioso di sentir raccontare dai vetusti avventori di quel caffè le galanterie di trenta o quarant’anni addietro. Passava invece la sera e buona parte della giornata con altri giovanotti della[94] sua età e de’ suoi gusti, amanti del bigliardo, del vino e delle femmine. Quantunque avesse ogni tanto delle vampate di boria patrizia, non era troppo rigido nella scelta dei compagni; fra questi suoi amici ce n’erano di nobili, di quelli che, come lui, trascinavano nel fango un nome storico, ma ce n’erano anche della media e della piccola borghesia; ce n’erano infine di usciti dai bassi fondi della società, gente rotta a ogni vizio e priva d’ogni pudore. Costoro vivevano alle spalle dei camerati facendosi perdonare la viltà del parassitismo con viltà ancora più grandi.
Al nostro Leonardo erano insufficienti adesso, nonchè i pochi quattrini datigli dal padre al primo del mese, anche le generose sovvenzioni del signor Oreste, ed egli doveva ricorrere ai peggiori strozzini della città per aver danari a babbo morto. Si può immaginarsi a che condizioni li aveva. Il signor Oreste, che, nella sua qualità di creditore, teneva d’occhio il padroncino ed era sempre informato dei fatti suoi, brontolava a vederlo caricarsi di debiti verso altre persone e minacciava di parlare, tantochè, per tenerlo quieto, conveniva pagargli di tratto in tratto degli acconti che falcidiavano le somme ricevute a prestito, e per conseguenza rendevano necessarii de’ prestiti nuovi.
È ben raro che simili cose restino segrete, e il conte Zaccaria fu avvertito che circolavano delle cambiali con la firma di suo figlio. Vissuto sino allora nella dolce illusione che il contino[95] Leonardo avesse l’arte di divertirsi a buon mercato, Sua Eccellenza rimase di stucco all’inatteso annunzio, e dovette mettersi a letto per un travaso di bile. La particolarità delle cambiali era quella che l’offendeva di più; debiti ne aveva fatti anche lui in giovinezza, e pur troppo ne faceva ancora sotto forma di mutui, ma le cambiali le lasciava ai mercanti. O che il nome di un Bollati doveva figurare a fianco di quello d’un salumaio?
Il N. H. Zaccaria chiamò a consulto sior Bortolo e l’avvocato di casa, chiamò ad audiendum verbum il suo nobile rampollo e con uno slancio d’insolita energia gl’intimò di dargli la nota precisa dei suoi creditori e della somma che doveva a ciascuno. Ma il contino Leonardo non era in grado di fornirgli quest’utile informazione; chè non s’era mai curato di tenere un registro. Aveva sottoscritto le cambiali; che importava il resto?
A questo proposito l’agente generale e l’avvocato osservarono concordemente che le obbligazioni assunte dal contino Leonardo, ancor minorenne, non avevano effetto legale e potevano quindi non riconoscersi; però il conte Zaccaria, frivolo, dissoluto, improvvido com’era, conservava qualche buona qualità e ci teneva, a suo modo, all’onor del casato, nè volle saperne della scappatoia che gli era offerta. In conseguenza di ciò, tutti quelli che avevano delle ragioni da far valere verso S. E. il signor contino Leonardo Bollati P. V. furono invitati a[96] recarsi entro un dato termine nei mezzanini del palazzo e a presentare i loro titoli al signor Bortolo Segugi, agente generale della nobile famiglia. Trascorso infruttuosamente il termine stabilito si approfitterebbe dei diritti concessi dalla legge relativamente ai debiti dei minori e non si accoglierebbe nessuna domanda, come si dichiarava fin d’ora di respingere in avvenire qualunque pretesa relativa a fatti posteriori alla data di quell’avviso.
L’intimazione sortì in parte soltanto il suo effetto; i creditori più timidi risposero all’appello, e preferendo il certo all’incerto, scesero volentieri agli accordi; gli altri invece, più avidi di guadagno, più fiduciosi nella fortuna dei Bollati, stimarono meglio di correre il rischio e di continuar anzi a sovvenire il giovane Leonardo per rimborsarsi poi del capitale e degli interessi quand’egli fosse venuto in possesso del patrimonio. Il conte Zaccaria era già innanzi negli anni e non era un colosso; non sarebbe mica vissuto eterno. Anche il cuoco, il signor Oreste, dopo molte esitazioni finì coll’appigliarsi a questo partito. A voler figurare tra i creditori del padroncino egli metteva a repentaglio il suo posto, e quel posto era troppo lucroso da giocarlo sopra una carta.
Durante queste peripezie dei loro nobili congiunti, i Rialdi stavano sempre nell’ombra. Nessuno si curava di loro, nessuno chiedeva il loro parere; tutt’al più la querula contessa Chiaretta ripeteva alla cugina Zanze e alla Fortunata gli[97] sproloqui ch’essa soleva fare due volte al giorno con don Luigi. Erano variazioni su un unico motivo. Il mondo andava a rotoli per l’audacia dei carbonari e per la debolezza dei Governi. Quest’era la ragione per la quale il contino era stato picchiato dal figlio dell’oste, quest’era la ragione per cui egli era caduto in mano degli usurai. Non c’era che dire, i suoi difetti egli li aveva pur troppo, e la contessa Chiaretta, altrettanto energica nel linguaggio quanto fiacca e nulla nell’azione, ammetteva lei per la prima che Leonardo era uno scioperato, un vizioso, un uomo ch’ella non si stupirebbe di veder finire sul patibolo, ma, alla stretta dei conti, di chi era la colpa? Dei carbonari, dei frammassoni e dei loro acoliti. Senza di questa brutta genìa, la vecchia Repubblica sarebbe ancora in piedi, e Leonardo farebbe quello che facevano i suoi nonni, e anche lui, dopo morto, lo metterebbero in cornice come una brava persona.
—Povero Leonardo!—pensava Fortunata.—Se gli avessero voluto bene, sarebbe cresciuto diversamente. Altro che i carbonari!... Io però gliene avrei voluto tanto di bene, gliene voglio anzi come una sorella, come.... più che come una sorella.... Ma è una fatalità... Egli non mi dà retta e corre invece dietro a certe femmine.... È vero che quelle son bellissime... dicono... e io invece... oh perchè, perchè non son bella anch’io?
E quest’idea di non esser bella, di non piacere a Leonardo, di non poter salvarlo dalla[98] rovina del corpo e dell’anima l’accorava fuor di misura e le impediva di gustare quel po’ di bene che c’era in famiglia. Perchè in casa Rialdi pareva essersi aperto uno spiraglio alla fortuna. Dopo dieci anni di aspettativa, il conte Luca aveva finalmente ottenuto una promozione che aveva il duplice vantaggio di farlo guadagnare di più e lavorare di meno, giacchè è noto che nei pubblici impieghi ognuno lavora in ragione inversa della paga che ha. Però questo era il meno. Le maggiori speranze dei Rialdi erano oramai concentrate in Gasparo, a cui sembrava riservato davvero uno splendido avvenire. L’anno stesso del suo imbarco, vale a dire il 1840, egli aveva la buona ventura di prender parte alla fazione di San Giovanni d’Acri e di coprirvisi di gloria, tanto da esser citato con lode speciale nell’ordine del giorno del comandante, e di passar alfiere di vascello, primo tra i giovani usciti con lui dall’Accademia di Sant’Anna. Più tardi la sua intrepidezza in una burrasca, l’audacia e il sangue freddo con cui egli aveva diretto un’imbarcazione alla riscossa di alcuni naufraghi, avevano confermato la sua fama di marinaio valoroso ed intelligente, e gli avevano procurate nuove dimostrazioni di stima da’ suoi superiori.
La contessa Zanze, che nella sua fervida fantasia lo vedeva già ammiraglio, gli perdonava ormai il suo carattere impetuoso e la sua avversione ai parenti Bollati, e nelle rare e brevi gite ch’egli faceva a Venezia lo costringeva a[99] passeggiar con lei una o due ore al giorno per la piazza S. Marco con la sua bella uniforme in dosso e con la sua spada al fianco. Visite egli non voleva farne a nessun patto; bisognava dunque ch’ella trovasse un altro mezzo perchè le sue conoscenti lo ammirassero e nello stesso tempo ammirassero lei ch’era sua madre.
Anche Fortunata era orgogliosa di suo fratello, ma quanto più egli cresceva in riputazione tanto più ella si sentiva intimidita e quasi sgomenta al suo cospetto. Egli, vedendola sempre malinconica, faceva di tutto per darle confidenza e per indurla ad aprirsi con lui, ma non c’era caso, le parole le morivano sul labbro. Già nel fondo del suo cuore, la giovinetta maturava un pensiero che non osava rivelare a nessuno, il pensiero di entrare un dì o l’altro in un chiostro. Colà almeno ell’avrebbe pregato giorno e notte per Leonardo.[100]
Si sa quel che dura l’energia degli uomini deboli. È uno scatto e nulla più. Stupiti essi medesimi del loro insolito vigore, ripiombano tosto nell’irresolutezza e nell’indolenza di prima. Così avvenne al conte Zaccaria. La tarda severità mostrata verso il figliuolo poteva ancora dar qualche frutto, ma per ottener ciò bisognava che essa non rimanesse un fatto isolato, che iniziasse un nuovo sistema di relazioni domestiche, un nuovo periodo di vigilanza operosa. Invece il N. H. Zaccaria lasciò che le cose camminassero coi loro piedi, e le cose tornarono a camminare pel sentiero sdrucciolevole su cui egli era riuscito a fermarle appena un momento. Il contino Leonardo, alienato ancor maggiormente dalla famiglia in seguito al chiasso poco onorevole che s’era levato intorno al suo nome, ripigliò le sue abitudini dissolute, s’invescò peggio che mai nella cattiva compagnia e perdette ogni verecondia. L’illustre casato, il largo censo (almeno[101] creduto tale), l’aspetto piacente gli avrebbero spalancate tutte le porte, e la cosidetta buona società, tanto benevola pel vizio elegante, avrebbe perdonato volentieri a’ suoi rotti costumi, sol ch’egli avesse saputo rispettar le apparenze. Ma a lui era intollerabile qualunque freno ed egli non s’acconciava a nessun ritrovo ove convenisse moderare il suo linguaggio da trivio. In tal modo il contino Leonardo Bollati, sul quale, da fanciullo, molte mamme avevano fabbricati i loro castelli in aria, diventava a poco a poco un partito impossibile, e sior Bortolo, l’agente generale, vedeva allontanarsi la probabilità di ristorare con una bella dote le pericolanti fortune della famiglia. Tutt’al più, si sarebbe forse potuto sperare di trovar un dì o l’altro qualche pizzicagnolo arricchito che per nobilitar la figliuola non badasse al resto; ma figuriamoci se il lustrissimo Zaccaria e la lustrissima Chiaretta, con la loro boria, avrebbero acconsentito a un matrimonio simile. Ora, per fare a meno del loro consenso, era necessario aspettare che il contino Leonardo fosse uscito di minorità, ossia, come prescriveva il Codice austriaco, ch’egli avesse compiuto i ventiquattr’anni, e l’ottimo sior Bortolo, che vedeva la proprietà stabile dei Bollati coprirsi rapidamente d’ipoteche dubitava molto di poter tirare innanzi a forza di palliativi sino a quel tempo. Comunque sia, il coscienzioso agente non ommetteva di far di tratto in tratto l’inventario delle ragazze milionarie, anche se gobbe, sbilenche o avariate nella[102] riputazione, che potevano in caso disperato offrirsi come ancora di salvezza al padroncino, quando un avvenimento imprevisto sconcertò tutti i suoi disegni.
Una sera il contino Leonardo si mise a letto con la febbre e in breve la malattia prese un tale carattere di gravità da incuter seri timori. Da un pezzo il giovine non ispirava personalmente la minima simpatia, ma l’idea che con lui sarebbe perito l’unico rampollo maschio di una grande famiglia e che il palazzo Bollati e gli oggetti di valore che vi si trovavano sarebbero andati a finire, alla morte del conte Zaccaria, in mano di gente straniera, destò una certa commozione in paese e fece seguire con viva sollecitudine le varie alternative del male.
Ma questo a noi preme poco o punto. Quello che ci gioverà di sapere si è che l’infermità del contino Leonardo fece riacquistare alla contessa Zanze Rialdi una parte dell’influenza che da qualche anno ella andava a grado a grado perdendo in casa Bollati. Era costume inveterato della contessa Zanze, quando c’era qualche malato grave tra i suoi conoscenti, di recarsi in persona presso la famiglia, e lì, senza tante cerimonie, profferire i propri servigi, l’opera sua, i lumi della propria esperienza. Era madre di famiglia, aveva fatto pratica co’ suoi figliuoli, i quali, pur troppo, avevano avuto il morbillo, la rosolia, la tosse canina e tutte le piaghe d’Egitto, e nondimeno eran sani e salvi più per virtù delle sue cure che per virtù del medico.[103]
Se poi il suo zelo derivasse da bontà d’animo, da spirito inframmettente o dalla speranza di guadagnarsi qualche bel regalo, questo è quello che non si potrà mai sapere con precisione; forse esso derivava da tutte queste cose unite insieme. O forse si nasce infermieri e flebotomi come si nasce poeti. Certo si è che la contessa Zanze non aveva chi la pareggiasse nel mescere un farmaco, nel fasciare un salasso, nell’accomodare i guanciali sotto il capo di un giacente, e, sia detto coi debiti riguardi, nell’applicar cataplasmi d’ogni maniera.
Era naturale che con queste singolari attitudini ella si mettesse subito a disposizione dei suoi cari parenti, dicendo che ella aveva visto nascer Leonardo e lo considerava come un’altra sua creatura, e poteva benissimo far presso di lui le veci della madre, la quale, cagionevole di salute e nervosa all’estremo, non era assolutamente in condizione da assistere inalati.
La contessa Zanze Rialdi piantò quindi le sue tende in palazzo Bollati tirandosi dietro anche il marito e la figliuola, a cui nessuno preparava più da colazione e da pranzo, giacchè la rispettiva moglie e genitrice non si fidava della donna di servizio, e da buona massaia stimava opportuno di non far nemmeno accendere il fuoco in cucina. Però il conte Luca e Fortunata andavano ogni sera a casa a dormire.
Invece la contessa Zanze stava dì e notte al letto di Leonardo che le si era affezionato con quel trasporto col quale gli egoisti sogliono affezionarsi[104] a coloro di cui hanno bisogno e pel momento in cui ne hanno bisogno. Egli non prendeva le medicine da altri che da lei, non ubbidiva che alla sua voce, non voleva lasciarla mai uscire di camera, e, nel suo immenso terrore della morte, aspettava da lei sola la sua salute.
Per più settimane il nostro giovinotto fu in gran burrasca, e in tutto questo tempo don Luigi dovette consacrarsi interamente alla lustrissima Chiaretta e assisterla nelle sue pratiche religiose o apparecchiarla con esempi della Sacra Scrittura a sopportar con animo forte la prova che pareva esserle serbata dal Signore. In complesso la torpida contessa Zanze aveva l’aria di voler rassegnarsi presto, e S. E. Zaccaria era in molto maggiori angustie di lei. Nessuno però soffriva quanto Fortunata, che passava le notti senza chiuder occhio, piangendo a calde lagrime e pregando i Santi e la Madonna per la salvezza di suo cugino. Se almeno le avessero permesso di rendersi utile, se le avessero permesso di aiutar sua madre nei suoi uffici d’infermiera! Ma non c’era caso; non la lasciavano nemmeno entrare in camera; le dicevano ch’ella non avrebbe fatto che confusione. Solo qualche volta, mentre aprivano l’uscio adagio adagio, ella, che era venuta in punta di piedi nell’andito, s’affacciava allo spiraglio, e nella penombra della stanza, in fondo all’alcova, vedeva un viso affilato, due occhi smorti, due mani lunghe e scarne che giacevano immobili[105] sulla coperta del letto. Povero Leonardo! Com’era ridotto! Non lo si riconosceva quasi più.
Alla fine i medici dichiararono che l’ammalato era fuori di pericolo, ma che la convalescenza sarebbe stata assai lunga, perchè ogni strapazzo avrebbe potuto produrre una ricaduta fatale. Essi soggiunsero altresì che se il contino ci teneva a campar molti anni, egli doveva menar una vita più regolata. Ed egli che aveva avuto quel po’ di battisoffia che sappiamo, promise tutto ciò che gli si domandava.
Appena Leonardo fu in istato di veder qualcheduno, Fortunata impetrò la grazia di dargli un saluto; poi le visite di lei divennero più lunghe e più frequenti, e allorchè egli principiò ad alzarsi, ella fu ammessa a tenergli compagnia per un paio d’ore al giorno.
Quasi tutti quelli che escono da una grande malattia si sentono come attratti verso il loro passato, verso le persone, verso gli affetti della prima giovinezza. Così l’albero investito dal turbine sente le sue radici. Il contino Leonardo, nel riaffacciarsi ora alla vita, rivedeva con maggior simpatia dell’usato la compagna de’ suoi giochi infantili, e l’accoglieva con una espansione a cui ella non era più avvezza e che le empiva l’anima di giubilo. Ella diceva a sè stessa ch’ella aveva avuto ben ragione a difenderlo, poveretto! quando gli altri lo accusavano. Covava il suo male, ecco la ragione de’ suoi modi aspri, de’ suoi stravizzi, di tutto. E poi c’eran stati i falsi amici che lo avevano traviato,[106] que’ falsi amici ai quali il portone del palazzo Bollati era ormai chiuso per sempre, e che Leonardo aveva giurato di non guardare più in faccia. Adesso che stava bene, adesso che nessuno gli dava cattivi consigli, egli era un altr’uomo. Ah! che trionfo sarebbe stato per Fortunata il poter dire a suo fratello Gasparo:—Vedi chi di noi due s’ingannava!—Perchè quel suo fratello era così ostinato! Le poche volte ch’egli le scriveva una riga trovava sempre la maniera di far qualche allusione spiacevole al cugino Bollati. Non s’era commosso neppure alla notizia della malattia. «Desidero che Leonardo guarisca—egli aveva scritto sdegnosamente ai suoi genitori—perchè non si deve augurar male a nessuno, ma in fin dei conti la sua morte non sarebbe una disgrazia nè per la famiglia, nè per Venezia, nè per l’Italia.»
—L’Italia! Che cosa c’entra l’Italia?—brontolava il conte Luca.
Se c’entrasse l’Italia è assai dubbio, ma secondo la rispettabile opinione del nobile Piero Canziani, c’entrava nientemeno che l’umanità. Infatti la guarigione del contino Leonardo ispirò la Musa dell’insigne poeta, e gli dettò un lunghissimo ditirambo, che S. E. Chiaretta, avvertita che non era un sonetto, chiamò un verso. Ora il componimento del nobile vate esordiva così:
Concetto peregrino che don Luigi però trovava preferibile al manzoniano
—Non c’è giovane di negozio—osservava don Luigi con aria di sprezzo—che non sappia dire una roba simile.
Anch’egli, l’ex precettore del contino Leonardo, si credette in dovere di pubblicare qualche cosa per la ricuperata salute del suo allievo e stampò con una prefazioncella di circostanza una sua memoria letta all’Ateneo col titolo: Alcuni pensieri sul migliore uso della congiunzione separativa O. Non era che il frammento d’un’opera linguistica di gran mole alla quale don Luigi attendeva da un pezzo in silenzio, e che, quando fosse venuta alla luce, avrebbe polverizzato certe riputazioni!...
Del resto, in questa fausta occasione, la casa Bollati riebbe per un momento tutto l’antico splendore, e il giorno in cui Leonardo sentì la messa nella cappellina domestica il signor Oreste, aiutato da tre sottocuochi, dovette allestire un pranzo per cinquanta persone. E tale fu l’abbondanza dei cibi e dei vini che i rilievi della mensa bastarono non solo a riempire l’epa dei servi e delle famiglie dei servi, ma consentirono anche al signor Oreste di stipulare alcuni contratti vantaggiosi con tre o quattro restaurants di second’ordine.
Inoltre, sempre per festeggiare il lietissimo[108] avvenimento, il conte Zaccaria elargì somme cospicue ai poveri della parrocchia, alla Commissione di pubblica beneficenza, agli Asili d’infanzia, alla Casa degli esposti e ad altri istituti pii. E per più giorni la Gazzetta privilegiata di Venezia ebbe da registrare con parole di sentito encomio gli atti munifici di S. E. il conte Zaccaria Bollati, degno erede di un nome illustre. Il conte Zaccaria si fregava le mani sentenziando:—I Bollati sono sempre i Bollati.—Alla quale affermazione sior Bortolo sorrideva, ma meno seraficamente di una volta.
Quando il contino Leonardo cominciò ad uscir di camera era circa la metà di aprile; i medici però gli prescrissero di rimanere in casa ancora un mesetto; a primavera avanzata sarebbe andato a ritemprarsi in campagna, ove non c’era più da temere della Rosa, maritata e fuori di paese. Forse tali disposizioni non erano tutte suggerite da motivi igienici; forse differendo a rendergli la libertà si sperava distoglierlo affatto delle vecchie abitudini e dalle vecchie conoscenze. E invero sotto l’impressione di sgomento lasciatagli dalla sua malattia, egli non mostrava alcun desiderio di rivedere i suoi compagni di libertinaggio. Questi dal canto loro non gli avevan dato prove di sviscerato affetto. Appena due o tre eran comparsi a grandi intervalli al portone del palazzo a domandar sue notizie; poi non s’eran più fatti vivi. E siccome d’altra parte egli non aveva stretto amicizia con nessun giovane per[109] bene e nessuno quindi veniva a fargli visita, la sua lunga convalescenza gli sarebbe stata noiosissima se Fortunata non fosse rimasta quasi sempre con lui, pronta ad ogni suo cenno, docile, amorosa come negli anni dell’infanzia. Povera Fortunata! Ella si sentiva tanto felice nel poter essere qualche cosa per Leonardo, nel poter scemargli l’uggia di quell’eterne giornate. Si sentiva tanto felice che avrebbe voluto che la vita le corresse sempre a quel modo, e poichè lo sperarlo era follia, invocava dal cielo il favore supremo d’addormentarsi in quel sogno e di non riaprire gli occhi mai più.
Intanto Leonardo, sia che notasse davvero nella cugina qualche pregio fisico non avvertito per l’addietro, sia che il non trovarsi in mezzo alle crestaie e alle ballerine, oggetto ordinario dei suoi pensieri, lo rendesse di men difficile contentatura, sia infine che col tornar della salute e delle forze si risvegliassero in lui i bollori del sangue, considerava con più attenzione e sotto un aspetto diverso dal solito questa giovinetta dal viso slavato e dal corpicino esile, la quale sino allora, diciamolo schietto, non gli era neanche parsa una donna. Di che natura poi fosse il nuovo sentimento sorto nell’animo suo ci vuol poco a immaginarselo. Incapace di affetti gentili e profondi, non frenato da scrupoli, insofferente d’altre catene che di quelle che s’annodano e sciolgono in un giorno, egli intendeva l’amore in un’unica maniera... la maniera del resto in cui la intendono i dissoluti di[110] professione. L’idea che Fortunata era una ragazza onesta non lo tratteneva, era anzi uno stimolo di più, che gli pareva legittima curiosità il verificar co’ suoi occhi che differenza ci fosse tra una ragazza onesta e quelle che non erano tali. Nè lo trattenevano i vincoli di parentela che lo stringevano a lei, nè l’affezione sommessa ch’ella gli mostrava, nè la gratitudine che, pur confusamente, egli riconosceva di doverle per essere stata la sola a difenderlo quando tutti gli gridavano la croce addosso. Bensì da queste varie ragioni sommate insieme gli veniva un certo imbarazzo nel contegno, un certo fare da collegiale che, a sua insaputa, gli giovava invece di nuocergli. Perchè s’egli fosse stato sguaiato, brutale, ella avrebbe sentito svegliarsi in tempo la piena coscienza del pericolo, avrebbe forse saputo difendersi. Ma egli era così cauto, così riguardoso; il turbamento ch’ella provava vicino a lui era misto di tanta dolcezza! Non che talvolta non l’assalisse una vana inquietudine. Se Leonardo la guardava fisso, se la mano di lei toccava la sua, se i loro gomiti, se le loro ginocchia s’urtavano, ell’arrossiva fino alla punta dei capelli e con un rapido movimento volgeva altrove la faccia o ritraeva la persona tutta tremante. Però non era salda abbastanza ne’ suoi propositi, e sembrava ricercar di lì a poco le sensazioni ch’ella aveva prime sfuggite. Nessuno la proteggeva, nessuno la consigliava. Sua madre era fuori di sè dalla gioia nel veder che[111] quei due ragazzi se la intendevano, e tornando sempre con la mente al sogno dorato del matrimonio, non si curava troppo dei rischi che Fortunata correva. Ne aveva corsi anche lei dei rischi per diventar contessa Rialdi, chè già, se le fanciulle senza dote non s’ingegnano, guai. E se il conte Luca s’avventurava a dire:—Bisognerebbe badare di più a Fortunata, mi spiego?—essa lo faceva tacere con un brusco:—State zitto voi, e pensate al vostro ufficio e ai vostri scacchi.
In quanto al N. H. Zaccaria e alla sua illustrissima consorte, essi non eran gente da scomodarsi per sì piccola cagione, e anzi la contessa Chiaretta aveva detto a Leonardo e a Fortunata:—Ohe tosi, io non istò mica a farvi la guardia; mettete pure a soqquadro la casa; a me basta che non mi facciate il chiasso vicino.
I tosi avevano ormai l’uno vent’anni passati, l’altra quasi diciotto, e non era probabile che essi facessero un baccano così indiavolato. Ma ci voleva tanto poco a eccitar i nervi della N. D. Chiaretta; e poi ell’aveva tante gravi occupazioni. Aveva da apparecchiare la zuppa di latte pel suo gatto Romeo, da prendere il caffè e i baicoli col nobile Canziani, da ascoltare i pettegolezzi della contessa Ficcanaso e delle altre dame che venivano a visitarla, da giocare a consina con don Luigi, e da pisolare nella poltrona mentre lo stesso don Luigi le recitava il breviario o le teneva ragionamenti spirituali.[112] Tutto ciò senza contar le visite che anche a lei toccava di fare. Come poteva dunque restarle il tempo di custodir Leonardo o Fortunata?
Con quest’assoluta libertà lasciata a’ due cugini, accadde quello ch’era da prevedersi. Vi fu un giorno in cui Leonardo fu più audace e Fortunata più debole.....[113]
Come fosse andata la cosa, Fortunata stessa non sapeva dirlo. Leonardo le aveva affascinato i sensi, paralizzato la volontà. E dopo la caduta, oppressa dalla coscienza della sua vergogna, dilaniata dagli scrupoli e dai rimorsi, ella si sentiva più inetta che mai a scuotere il giogo, a sottrarsi all’abbiezione in cui era piombata. Che le valeva, ogni sera, sola nella sua cameretta, piangere, pregare, scongiurare tutti i santi del Paradiso che la soccorressero; i santi del Paradiso non avevano orecchi per lei; e invece le immagini voluttuose venivano ben presto a sconvolgerle la fantasia, veniva il ricordo di quei baci di fuoco, di quelle parole ardenti, ed ella si voltava e rivoltava nel letto senza trovar pace, e mordeva rabbiosamente le lenzuola e i guanciali invocando e temendo a vicenda il sorger del sole. Chi sa che sorprese le apparecchiava il nuovo giorno? Se la tresca si scoprisse, se la sua onta diventasse pubblica, se[114] ne giungesse la notizia fino a Gasparo? Come affronterebbe ella lo sdegno del fratello, come difenderebbe dalla collera di lui il suo amante? Eppure, per quanto spaventoso fosse questo pensiero, ce n’era un altro che l’atterriva ancora di più. Era il pensiero che Leonardo, nonostante i suoi giuramenti, non avesse per lei che un passeggero capriccio e dovesse fra poco gettarla in un canto come si fa d’un abito frusto. Dio, Dio, che sarebbe di lei allora? Dove andrebbe a nascondersi? L’idea del chiostro, accarezzata in passato, tornava a balenarle alla mente, e per brevi istanti l’animo inquieto vi si riposava come in un porto sicuro dalle tempeste. Ma il cuore non tardava a dirle che anche questa era un’illusione, e che non c’è porto ove ripararsi dalle tempeste che ruggono dentro di noi. E come potrebbe ella alzar gli sguardi al cielo finchè un amore profano la teneva incatenata alla terra? E quell’amore come sperar di sradicarlo s’esso era parte dell’esser suo, s’ella gli aveva sacrificato ogni cosa più cara? Oh quanto bene ella voleva a Leonardo, quanto gliene aveva sempre voluto!... C’era della gente che sparlava di lui, che lo accusava di mille vizi, che fingeva di disprezzarlo;... ella lo trovava bello, lo trovava buono, ella si sforzava di attribuirgli tutti i pregi possibili. Divenir sua moglie sarebbe stato per essa il colmo della felicità. Ma la fortuna non l’aveva guastata con troppi favori, ed ella non osava cullarsi in questa dolce speranza. Egli, che poteva aspirare[115] ad una principessa, avrebbe sposato lei!... Le bastava morire prima ch’egli sposasse un’altra, prima ch’egli amasse un’altra....
Così, senz’accorgersene, ell’accettava il suo disonore, accettava tutto piuttosto che l’abbandono. E quando s’alzava dal letto dopo una notte insonne e angosciosa, ella contava l’ore e i minuti che la dividevano dal momento in cui il gondoliere di Ca’ Bollati sarebbe venuto a prenderla per ordine della lustrissima e l’avrebbe accompagnata a palazzo. E come le batteva il cuore, allorchè, nel far lo scalone, sentiva i passi di Leonardo che, aspettandola, misurava in lungo e in largo la sala!
—Sia ringraziato il cielo—diceva la contessa Chiaretta.—Se Leonardo non ha compagnia non istà mai tranquillo.... Andate a giocare a dominò, ragazzi.... O fate pure quel che volete, purchè io non senta rumore.
Da figliuolo ubbidiente, Leonardo si tirava dietro Fortunata in un altro angolo della casa, in quello stanzone degli armadi ove i due cugini s’erano da bimbi trastullati insieme e da cui si poteva, volendo, salire in un’ampia terrazza. Non mancavano buoni pretesti per andar colà. Prima di tutto il luogo era opportunissimo per isgranchir le gambe e per prendere una boccata d’aria libera; poi ci si trovavano parecchi vasi e cassette di fiori pei quali Leonardo s’era acceso d’una subitanea passione e ch’egli rimondava con gran cura dell’erbaccie, e inaffiava ogni giorno.[116]
I desiderii della contessa madre erano esauditi appieno. Checchè avvenisse lassù, ella non sentiva romore.
Ma la baffuta siora Placida, la cameriera anziana, che teneva le chiavi della biancheria e considerava lo stanzone come suo speciale dominio, durava fatica a persuadersi che il padroncino e Fortunata impiegassero tanto tempo nella fioricultura, e aveva tentato più d’una volta di scoprire quali fossero le loro occupazioni. A dir vero, a malgrado del suo diligente spionaggio, essa non aveva scoperto nulla di positivo perchè lo stanzone era chiuso da un uscio assai grosso e pesante di cui non si sarebbe potuto spingere uno dei battenti senza un molesto cigolìo che avrebbe tradito l’esploratore indiscreto. Pure, dei pochi indizi ch’essa aveva raccolto, la onoranda matrona aveva data la partecipazione confidenziale al cameriere Stefano, suo favorito. Stefano aveva ripetuto la notizia alla lavapiatti, una massiccia montanara del Bellunese, con la quale, di nascosto della siora Placida, egli era in ottimi termini, e colei ne aveva parlato in segreto a uno dei barcaiuoli che godeva di qualche sua preferenza furtiva. In breve la cosa passò per tutte le bocche, e in cucina si discusse gravemente se si doveva o no metter sull’avviso Sua Eccellenza Zaccaria e Sua Eccellenza Chiaretta. Il signor Oreste, il cuoco, stava pel sì, e sosteneva che la era tutta una cabala ordita dalla contessa Zanze Rialdi, la quale voleva[117] costringere il lustrissimo Leonardo a sposare la sua figliuola, e intanto gliela gettava in braccio per metterlo fra l’uscio e il muro. Ora pareva a lui che fosse necessario di sventar la trama, perchè, sebbene non ci fosse nulla da dire contro la ragazza, quello non era un partito adattato pel padroncino, e da sì misere nozze la servitù non poteva sperare nè mancie, nè regali convenienti. E poi non c’era una ragione al mondo di favorir gl’intrighi della contessa Zanze, che al capo d’anno non dava un centesimo a nessuno.
Argomenti di gran peso che rendevano testimonianza della sagacità del signor Oreste e che avrebbero dovuto trionfare, ma il cuoco aveva la disgrazia d’essere antipatico a’ suoi compagni, e accadeva assai di rado che i suoi consigli fossero accolti.
Prevalse dunque l’opinione contraria, difesa con molto vigore dal cameriere Stefano, il quale diceva che i pericoli del matrimonio non c’erano se non che nella fantasia del signor Oreste, e che in quanto al rimanente a questo mondo bisogna vivere e lasciar vivere, nè occorre scandalizzarsi di accidenti che nascono dappertutto. La siora Placida poteva certificare se quelli eran fatti nuovi in casa Bollati.
E la cameriera, quantunque le seccasse esser chiamata a testimonio di cose passate, era costretta nella sua lealtà a riconoscere che, per quel che dicevano i vecchi, nella nobile famiglia uomini e donne eran sempre stati di manica larga e non c’era che la lustrissima Chiaretta la quale,[118] avendo acqua nelle vene invece che sangue, non desse a discorrer di sè.... Beninteso ch’ella, la siora Placida, non avrebbe messo le mani nel fuoco nemmeno per la padrona, e non avrebbe voluto giurare che fra Sua Eccellenza e il nobile Piero Canziani, per esempio, non avessero mai fatto altro che sorseggiare il caffè e sgretolare i baicoli.
Comunque sia, il primo risultato di queste chiacchiere si fu che, quando Leonardo e Fortunata scendevano dallo stanzone degli armadi, eran sicuri di trovarsi fra i piedi qualcheduno della servitù che con curiosità mal dissimulata li squadrava dalla testa alle piante per far poi in cucina quelle chiose che si possono immaginare.
Leonardo, il quale in certe faccende aveva buon naso, indovinò che c’erano in aria dei sospetti, e colse il pretesto per troncare gli abboccamenti segreti nello stanzone, tanto più che ormai si era levato il capriccio e Fortunata cominciava a venirgli a noia. Inoltre s’avvicinava il momento in cui egli sarebbe uscito di casa, e allora avrebbe avuto ben altro pel capo che la cugina. Meglio dunque allentare il nodo a poco a poco.
La povera ragazza, dopo aver con sì calde lagrime chiesto al Signore di allontanarla dal peccato, adesso che il peccato s’allontanava da lei ebbe un risveglio tremendo. Ella capì che stava per succedere il peggio, capì che Leonardo l’abbandonava. E resa ardita dalla disperazione,[119] volle a ogni costo ch’egli le accordasse un colloquio da solo a sola, e nel suo amore e nel suo dolore trovò accenti così caldi ed appassionati, quali non si sarebbero attesi dal suo labbro ordinariamente timido e peritoso. Egli, più infastidito che commosso, cercò in principio di calmarla con buone parole; poi, com’ella non se ne mostrava paga, perdette la pazienza, e si lasciò andare al suo linguaggio cinico e sboccato. In fin dei conti, che pretendeva ella da lui? Che la sposasse? Ma già egli non si sognava nemmeno di prender moglie. O credeva forse che la loro relazione potesse durare eterna? Non doveva anzi essergli grata della prudenza con cui egli s’era condotto? Se la cosa tirava in lungo altri due o tre giorni, c’era da scommettere che sarebbe nato uno scandalo; invece, per merito suo, nessuno direbbe nulla, perchè nessuno sapeva nulla di positivo, ed ella non iscapiterebbe affatto nella riputazione. E ancora si lagnava?
Ella rimase fulminata. Era dunque finito tutto? Noi lo sappiamo, il presentimento che tutto potesse finire in questo modo le aveva già angustiato lo spirito, ma non era mai riuscito ad annidarvisi per un pezzo; chè ogni lieve segno d’affetto da parte di Leonardo era bastato a rianimare le sue illusioni. Adesso però, dopo le parole dure, recise, sprezzanti che le echeggiavano sinistramente all’orecchio, non c’era più illusione possibile, non c’era più spiraglio di luce che rompesse le tenebre ond’ella era cinta. E si[120] sentiva sola, derelitta nel mondo. I suoi genitori? Ma suo padre pur troppo era un fantoccio, e sua madre perchè non l’aveva vigilata, perchè non l’aveva avvertita? Un lampo tremendo le attraversò la mente. Se sua madre, che fin dall’infanzia le aveva inculcato la riverenza ai parenti Bollati, la devozione al cugino, se sua madre avesse voluto lei stessa apparecchiar la catastrofe nella speranza di forzare Leonardo al matrimonio? Ed ella si sarebbe fatta complice di questa ignominia? Che orrore, che orrore! Ah! Gasparo era stato buon profeta! Un momento le venne il pensiero di scrivergli. Ma che cosa gli avrebbe scritto? Ch’ella s’era prostituita, ch’ella s’era disonorata? E che cosa gli avrebbe chiesto? Di vendicarla? No, no, mille volte no, ella non voleva che si torcesse un capello a Leonardo. Forse egli era meno colpevole di quel che essa credeva, forse con le donne (povere donne!) si fa sempre così; tocca a loro a difendersi. Ah senza dubbio la vera colpevole era lei che s’era lasciata acciecare, inebbriare dalla febbre dei sensi, che aveva dimenticato la sua fede. Come le rimordeva la sua coscienza di cattolica! Con che paura superstiziosa pensava ai suoi doveri religiosi trascurati, alle sue distrazioni in chiesa, ai desiderii immodesti, alle immagini profane che avevano turbato il suo raccoglimento e le sue preghiere! Ella si domandava tremante se ci sarebbe stata penitenza adeguata al suo fallo. E di nuovo una voce intima le additava come suprema[121] áncora di salvezza il convento, seppur c’era un convento che volesse accoglierla.
Sotto l’impero di questa idea, il giorno stesso del fatale colloquio, ella corse in traccia d’un sacerdote suo conoscente, e inginocchiata nel confessionale gli rivelò la sua passione infelice e il fermo proposito di espiare i suoi errori con una vita d’orazioni, d’astinenze, di sacrifici. Che le dicesse il prete noi non sappiamo; certo si è ch’ella uscì dal tempio più invasata che mai dall’ascetismo e più che mai decisa a prendere il velo. La contessa Zanze, che aveva già notato quella mattina il pallore e l’abbattimento di Fortunata, notò ora lo stato d’esaltazione in cui ella si trovava e l’assoggettò a un interrogatorio in piena regola. La ragazza avrebbe voluto ritardare questa nuova confessione, ma non potè schermirsi dall’insistenza materna. Stremata di forze, ella fu côlta da un pianto isterico, irrefrenabile, e in mezzo ai singhiozzi ripetè ancora una volta la dolente istoria del suo amore e della sua vergogna. Quella storia sorgeva accusatrice terribile contro la madre, e la contessa Zanze, quantunque certe cose le capisse poco, non si sentiva la coscienza affatto tranquilla. Nondimeno, perchè ell’era seguace della dottrina che il fine giustifica i mezzi, se la caduta di Fortunata doveva darle un’arma per venire a capo de’ suoi disegni, ell’era prontissima ad assolversi d’ogni colpa. Sì, sì, ella non aveva difficoltà a riconoscerlo, la faccenda poteva esser condotta[122] meglio e sopratutto sarebbe stato necessario di badare che Fortunata conservasse il suo sangue freddo e che la bussola la perdesse Leonardo. Invece era successo precisamente l’opposto. Fatalità! A tale proposito la signora Zanze ricordava con segreto orgoglio l’arte finissima da lei adoperata a’ suoi tempi col conte Luca Rialdi in condizioni analoghe a quelle della figliuola. Prima aveva invischiato ben bene il merlo; poi non aveva avuto più tanti scrupoli, chè già non è un delitto il mangiar il proprio grano in erba. Del resto, ora l’essenziale era di non smarrirsi d’animo e guai se Fortunata abbandonava la partita. Perciò, quando la ragazza tirò in campo l’argomento del chiostro, la contessa, che fino a quel punto l’aveva ascoltata con simpatia fingendo di non accorgersi dei rimproveri indiretti che c’erano nelle parole di lei, mutò tenore ad un tratto, e non frenandosi più dichiarò che questi eran discorsi da bambina e che il chiostro non accomodava nulla, e che una sola cosa poteva salvar l’onore della famiglia, il matrimonio. Ma Fortunata, la timida Fortunata, insistette dicendo che già il matrimonio era impossibile, e che a ogni modo ell’era ormai risoluta a fuggire dal mondo e a non consacrarsi ad altri che a Dio.... Era risoluta, avevano capito? La lasciassero stare, se non desideravano la sua morte.
Ne seguì una scena violenta, nel mezzo della quale la giovane cadde in deliquio.
Assistita subito dalla madre, ella non istette[123] molto a rinvenire; ma si lagnava d’una grande spossatezza, d’un malessere generale ch’ella non sapeva spiegarsi.
Un dubbio improvviso sorse nell’animo della contessa Zanze; tuttavia ella tenne per sè le sue impressioni, e ripigliando verso la figliuola un tuono affettuoso e sollecito, raccomandò a Fortunata di esser calma, di non pensare a malinconie, di persuadersi che nessuno in famiglia voleva tiranneggiarla.
Rinfrancata alquanto da queste parole, la ragazza baciò e ribaciò la genitrice, e chiestole perdono del suo linguaggio eccessivo di poco fa, consentì a mettersi a letto.
Il conte Luca, tornando quel giorno dall’ufficio con la testa piena d’un finale di scacchi ch’egli aveva studiato sulla carta, trovò la moglie in cima alla scala e fu condotto da lei con gran mistero in un salottino appartato.
—Che cosa c’è? Che cos’è successo?—chiese il pover’uomo che non capiva.
—Zitto!—disse la contessa.—Non facciamoci sentire dalla gente di servizio.
La gente di servizio, fra parentesi, si riduceva a una fantesca un po’ sorda. Ma la contessa Zanze amava le amplificazioni.
—Insomma?—ripigliò il conte abbassando la voce.
E allora la consorte gli spifferò tutto quello che ella sapeva e tutto quello che l’indisposizione di Fortunata le faceva supporre.
Il nobile Rialdi era d’indole mansueta, ma[124] in certi casi non c’è mansuetudine che tenga; bisogna parlare o scoppiare.
—Questa tegola mi casca sul capo!—esclamò il conte Luca, girando come un forsennato su e giù per la stanza.—Mi spiego?... Non l’avevo detto io che l’andava a finir male?... Ma volete sempre fare a vostro modo, voi....
—Eh non mi seccate—interruppe la contessa Zanze.—Piuttosto andate a chiamare il medico, giacchè mi occorre saper precisamente in che acque si navighi.
Il conte Luca ubbidì, e il dottore, interrogata con molta discrezione la ragazza, uscì dalla camera coi genitori e disse loro che le supposizioni della signora contessa avevano proprio côlto nel segno.
—Povero me, povero me!—gemette il conte Luca, cacciandosi le mani nei pochi capelli che gli rimanevano.—Poteva toccarmi di peggio?
La contessa moglie gli diede sulla voce.—Ci vuol altro che queste smorfie! Adesso si vedrà se siete un uomo o un pampano.
La qual cosa si doveva vedere, ma non si vide, perchè la contessa Zanze, secondo il suo solito, prese la direzione della faccenda e al marito lasciò l’ufficio, meno arduo e delicato, di tener compagnia alla figliuola.[125]
L’annunzio del grave avvenimento fu come lo scoppio d’una bomba in casa Bollati. Di così grosse Leonardo non ne aveva fatte mai, nè aveva mai recato un impiccio simile alla famiglia, neppure quella volta dello scandalo in giardino. Come immaginarsi che quel ragazzo si incapricciasse della Fortunata, una giovinetta senza forme e senza colore, che aveva diciott’anni e ne mostrava sedici, e con la quale egli aveva giocato alla bambola? E per peggio, il diavolo ci doveva metter la coda; anche un bimbo in prospettiva ci doveva essere!—Già—notava in cuor suo il lustrissimo Zaccaria—un gran sangue quello dei Bollati.
Sicuro, un gran sangue. Ma intanto (poichè non s’era nemmeno potuto effettuare l’andata in campagna a cagione di un’epidemia di tifo che infestava in quei mesi i pressi della villa) non c’era modo di levarsi d’attorno la contessa Zanze, la quale voleva che si rendesse l’onore[126] alla sua creatura, e s’era ostinata a non veder altro risarcimento possibile che il matrimonio. E non si lasciava mica scoraggiare dalle ripulse, ma tornava alla carica col lustrissimo Zaccaria, o con la lustrissima Chiaretta, o con Leonardo, o con don Luigi, che nella sua qualità di ecclesiastico avrebbe pur dovuto capire quale fosse l’obbligo sacrosanto dei suoi padroni.
Don Luigi, uomo alieno dai fastidi, aveva in principio adottato la tattica di non credere all’importanza della cosa.
—Esagerazioni, esagerazioni—egli diceva.—Le ragazze senza esperienza prendono spesso lucciole per lanterne.
La contessa Zanze si sentiva il prurito di graffiargli gli occhi.—Ma che lucciole, ma che lanterne? Metterebbe forse in dubbio quello che Leonardo confessa?
—I giovinotti, si sa, hanno l’abitudine di vantarsi.
—Auff! Ma se il medico ha dichiarato che mia figlia... via, non lo sa quello che ha dichiarato il medico?
—Bisogna star a vedere, bisogna aspettare... I medici, cara contessa, pigliano tanti granchi a secco.
Finalmente don Luigi si arrese all’evidenza. Gli dispiaceva, proprio da galantuomo gli dispiaceva assai. Ma che poteva farci? Le Loro Eccellenze non ricorrevano a lui per consiglio... eh, pur troppo, i preti non eran più tenuti nel conto d’una volta.... E poi era un affare difficilissimo;...[127] tutte le soluzioni avevano i loro inconvenienti... senza dubbio il matrimonio riparava al mal fatto... ma c’erano le sue obbiezioni, oh se c’erano....
La contessa Rialdi non voleva ammettere che ce ne fossero affatto, si riscaldava, usciva dai gangheri, e pretendeva tener responsabile il sacerdote della cattiva condotta del suo allievo. Allora anche a don Luigi saltava la mosca al naso, e, accendendosi in viso, egli dichiarava che aveva instillato al contino principii di moralità e di religione, e che non era colpa sua se l’altro non aveva saputo trarne profitto. Insomma perchè lo tiravano in ballo lui? Perchè non lo lasciavano attendere in pace a’ suoi studi?
Coi cugini Bollati la contessa Zanze era a vicenda umile e petulante, supplichevole e minacciosa. Vantava i servigi da lei resi a Leonardo durante la sua malattia e così indegnamente ricambiati, dipingeva coi più tetri colori lo stato della propria famiglia dopo la catastrofe; Fortunata che si stemperava in lagrime; il conte Luca che ci rimetteva la pelle dall’avvilimento; oh se ce la rimetteva; lei ch’era invecchiata di più anni in pochi giorni e ch’era sostenuta soltanto dall’idea di giovare agli altri;... senza contare poi Gasparo che navigava nelle acque del Levante e che ancora non sapeva nulla, ma che quando avesse saputo.... Misericordia! Era meglio non pensarci neanche.
Quest’era il nembo lontano che ruggiva nei[128] discorsi della contessa, ma di lì a poco tornava il sereno, tornava l’idillio pastorale. Che moglie più amorosa di Fortunata poteva mai trovare Leonardo; che nuora più devota, più ubbidiente potevano trovare il conte Zaccaria e la contessa Chiaretta? Non era una Venere, ma non era nemmen brutta e spiacente, e poi aveva tutto le qualità morali che è lecito desiderare in una ragazza... buona, docile, pia.... Era povera sì, pur troppo, non aveva dote; ma che bisogno avevano di dote i Bollati?... Che cos’è il danaro? Che cos’è la ricchezza?... In quanto alla nobiltà dei Rialdi, nessuno pretendeva che essa fosse paragonabile a quella dei Bollati, ma era sempre una nobiltà genuina, co’ suoi documenti in regola, non una delle tante che circolano per la piazza.
Ma la parte più commovente delle arringhe della contessa Zanze era quella che si riferiva al nascituro. Ella s’inteneriva al solo pensarci. Lo amava già con tutta l’anima quel suo nipotino. Ed era anche nipotino loro, dei Bollati; era, voglia o non voglia, un Bollati... Possibile che si rifiutassero di riconoscerlo?... Bisognava altresì considerare che vantaggio inestimabile sarebbe stato per Leonardo il prender moglie.... Era forse l’unico modo di sottrarlo davvero alle tentazioni, alle cattive amicizie e ai cattivi esempi.
Insomma la loquace femmina tratteggiava ai Bollati un quadro compiuto di felicità domestica. Che se le riusciva di abbrancar Leonardo[129] (e non era cosa facile) rincarava la dose. Aveva a un passo il Paradiso ed esitava ad entrarci, quel disutilaccio.
Malgrado della sua furberia, la contessa Zanze non s’appigliava al mezzo migliore per far entrare in grazia il matrimonio a Leonardo. La prospettiva delle gioie casalinghe non lo seduceva punto, e chi avesse voluto persuaderlo a sposarsi avrebbe agito più saviamente dicendogli che il matrimonio era una semplice formalità, e che dopo le nozze egli avrebbe potuto menar la solita vita, senza paura che la moglie lo tormentasse con tenerezze o con gelosie, o che i figliuoli gli ruzzolassero fra le gambe o lo assordassero coi loro strilli.
Tutto considerato, i maggiori ostacoli all’adempimento del gran disegno della contessa Zanze non venivano nè dal lustrissimo Zaccaria, nè dalla lustrissima Chiaretta. Certo ch’essi non favorivano l’unione da lei vagheggiata, certo che avrebbero voluto anzi impedirla, ma non avevano per essa una di quelle ripugnanze invincibili che fanno cascar le braccia e troncano le parole in bocca a chi difende una causa.
Il conte un fondo di gentiluomo l’aveva; egli capiva che il danno recato da suo figlio ai Rialdi non è di quelli che si risarciscano con l’oro, e che non era una bella cosa pei Bollati il restar con quella macchia sul loro nome, e che la contessa Zanze non aveva torto a veder una sola riparazione possibile....; quantunque fosse lecito[130] sospettare ch’ella avesse una gran parte di colpa in ciò che era accaduto.
La lustrissima non era mossa dalle ragioni di suo marito. Ella non poteva soffrire quella inframmettente e pettegola cugina Rialdi e non avrebbe voluto fargliela spuntare a nessun prezzo; giacchè per lei non c’era dubbio ch’era tutto un intrigo ordito dalla Zanze, la quale adesso spargeva lagrime di coccodrillo; ma d’altro lato ella s’era tanto avvezza ad aver intorno a sè Fortunata, a farsene servire come da una cameriera o da una dama di compagnia, che non sapeva rassegnarsi all’idea di dover perderla. E allora era costretta ad ammettere che, realmente, come diceva la contessa Zanze, una nuora simile essa non l’avrebbe trovata mai, e che una gran signora avrebbe portato chi sa che fumi in casa.
L’avversario più accanito, più formidabile dell’unione fra Leonardo e Fortunata era l’agente generale, sior Bortolo, il quale, tanto per procurarsi nuovo danaro quanto per tener a bada i vecchi creditori, aveva necessità assoluta di ripetere su tutti i tuoni che presto o tardi gli affari della nobile famiglia s’accomoderebbero con un cospicuo matrimonio del signor contino. Al principale poi fra questi creditori, certo signor Vinati, usuraio desideroso di nobilitarsi, sior Bortolo non voleva togliere ogni speranza di vedere un giorno contessa la sua unica figliuola che stava per uscir di collegio e aveva gli occhi scerpellini, i denti guasti e cinquecento[131] mila lire austriache di dote, astrazion fatta da ciò che le spettava alla morte del padre.
Cosicchè, sempre col debito rispetto alle Loro Eccellenze, il brav’uomo disse aperto l’animo suo. Non conveniva esagerare in nulla, nemmeno negli scrupoli. Un ragazzo di vent’anni che seduce una ragazza di diciotto non è più responsabile di lei che s’è lasciata sedurre.... ammesso anche che le parti non siano state invertite e che la ragazza, ubbidiente ai consigli di una madre artificiosa, non sia stata lei la vera seduttrice. A ogni modo, ci vorrebbe altro che in tutti i casi di questo genere si finisse col matrimonio! L’esservi un bimbo per istrada era senza dubbio un impiccio di più, era una disgrazia, ma si poteva vedere, studiare una soluzione decorosa, soddisfacente.... Il matrimonio egli, in coscienza, per la sua gran devozione ai padroni, doveva sconsigliarlo con tutte le sue forze. Quando si ha nome Bollati, si hanno degli obblighi verso il paese, verso la società, ed era evidente che queste nozze non corrispondenti alla grandezza del casato nè sotto l’aspetto morale nè sotto l’aspetto economico avrebbero prodotto una pessima impressione. E poi, era inutile dissimularlo, gli anni continuavano a esser cattivi, c’eran sempre batoste nuove, pur troppo, alcune innovazioni agricole introdotte dal signor conte, sebbene eccellenti in sè, non eran riuscite, le tasse crescevano, crescevano gli interessi dei mutui;[132] alle corte, se il contino Leonardo si risolveva ad ammogliarsi era indispensabile ch’egli facesse entrar di molti quattrini in famiglia. E sior Bortolo concludeva, come per tastare il terreno:—Insomma, sul blasone si può transigere; perchè quello dei Bollati basta per tutti, ma non si può transigere sui danari.
Alleati di sior Bortolo, se non molto efficaci certo molto romorosi, erano i Geisenburg-Rudingen von Rudingen, i quali erano venuti a saper la cosa e tempestavano i genitori e suoceri di lettere scritte in lingua austro-italica. Per carità non si lasciassero tirar nelle reti dalla Zanze Rialdi. Non dessero alla scappatella giovanile di Leonardo più peso di quello ch’essa meritava. Il matrimonio dell’ultimo rampollo maschio dei Bollati con una ragazza nè bella, nè ricca, nè sufficientemente nobile avrebbe alienato i parenti e gli amici. Se Leonardo doveva ammogliarsi, si cercasse un partito degno di lui. Anzi, a questo proposito, si riserbavano di discorrerne personalmente in Venezia, dove non eran più tornati dopo il 1838 e dove si disponevano a venir prestissimo per abbracciare il conte Zaccaria, la contessa Chiaretta e il caro Leonardo, fattosi ormai un bel giovinotto.
Non c’è bisogno di soggiungere che in queste difficili contingenze anche gli amici di casa volevano dir la loro opinione. E naturalmente non andavano d’accordo. La contessa Ficcanaso, per esempio, era furibonda alla sola idea che i[133] Rialdi potessero vincere il loro punto, e urlava che sarebbe un pessimo esempio, e che tutte le ragazze sarebbero incoraggiate a far le civette e peggio, e che nessuna madre di famiglia avrebbe voluto più condur le figliuole in palazzo Bollati se fosse successo quello scandaloso matrimonio. Certo, s’ella fosse stata madre di famiglia, non ci avrebbe più posto il piede. Invece il nobil’uomo Canziani sosteneva, secondo le sue deboli forze, la causa di Fortunata, e un buon canonico di San Marco, monsignor Evaristo Lipari, commensale dei Bollati nelle grandi occasioni, aveva assicurato la contessa Zanze che farebbe il possibile per ottenere la benevola interposizione di S. E. il Patriarca.
Nondimeno la contessa Zanze, vedendo che passavano i giorni senza frutto, ricorse ad un alleato più energico e scrisse a Gasparo informandolo dell’ultime vicende domestiche, e sollecitandolo a procurarsi una licenza di alcune settimane e ad accorrere in aiuto di sua sorella.[134]
E Fortunata?
Che trasformazione succedesse in lei allorchè il vero le fu interamente palese, ce lo dirà una sua lettera, ch’ella, di nascosto dei suoi genitori, fece pervenire in quei giorni al cugino.
«Caro Leonardo,
«Le conseguenze del nostro fallo non saranno più un segreto nemmeno per te. Dapprima, te lo giuro, credetti di morirne per la vergogna. Ma a poco a poco s’impadronì di me un nuovo sentimento, che dev’essere assai forte in noi donne se riesce a soverchiare tutti gli altri, il sentimento della maternità. Più disonorata che mai al cospetto del mondo, mi pare d’esser meno infelice. Quando tu mi dichiarasti che bisognava troncare le nostre relazioni, io ero fermamente decisa a seppellirmi in un chiostro, e son sicura che nulla avrebbe potuto rimuovermi dal mio proposito. Tu non mi amavi;[135] che mi rimaneva da fare? Ma oggi ho mutato idea. Certo non potrei entrare adesso in convento; e come vi entrerei più tardi quando avrò qualcheduno da difendere, da proteggere? E poi, perchè negarlo? Io penso che questa creaturina che mi palpita in seno è un vincolo sacro fra noi due, un vincolo che tu puoi sprezzare, ma non puoi distruggere. E malgrado delle tue parole crudeli, io son sempre tua, Leonardo, ed è un conforto per me che qualche cosa del nostro amore sopravviva. Chi sa, un giorno forse, se non della madre, tu potrai rammentarti del figlio.
«E ancora questo voglio dirti. Se mi abbandonai fra le tue braccia non fu per un calcolo vile. Checchè ti susurrino nell’orecchio, non credermi capace di tanta bassezza. Te lo giuro in nome della mia, in nome della nostra creatura, io ti amai come s’ama a diciott’anni, senza guardare più in là, senza pensare che tu sei ricco e io son povera.
«Addio, Leonardo, nessuno ti vorrà bene quanto te ne volle, e, pur troppo, te ne vuole ancora
«la tua Fortunata.»
Questa lettera non ebbe risposta; già, fra le altre ragioni per non rispondere, Leonardo ne aveva una di eccellente; egli sarebbe stato molto impicciato a metter quattro righe in carta. Come si vede, le lezioni di don Luigi avevano dato ottimi frutti.[136]
Tuttavia Fortunata sperava. Ella sperava nel ravvedimento spontaneo di Leonardo, indipendentemente dal grande anfanare della contessa Zanze, la quale non istava mai cheta, andava, veniva, prorompeva in brevi esclamazioni, sempre ravvolgendo però in un profondo mistero le sue mosse strategiche.
Chi teneva molte ore di compagnia alla figliuola era il conte Luca, al quale l’occasione di mostrare, secondo il detto memorabile della contessa Zanze, s’egli fosse un uomo o un pampano era mancata assolutamente per colpa della moglie medesima che l’aveva lasciato in disparte. Nondimeno Fortunata gli era gratissima dell’averle sacrificato la sua partita a scacchi al caffè della Vittoria, e per ricompensamelo faceva le viste di gustar molto i suoi pettegolezzi d’ufficio e consentiva a studiare sotto di lui il nobile giuoco, inestimabile conforto, diceva il conte, in tutte le tribolazioni della vita.
Senonchè, in mezzo a tante cure che l’angustiavano, Fortunata andava soggetta a frequenti distrazioni. Talora, mentre il padre s’affannava a spiegarle un gambitto di re o di regina, ella con gli occhi fissi verso l’uscio guardava se per avventura comparisse Leonardo, ovvero, raccolta in sè stessa, seguiva altre fantasie.—Sarà un maschio? Sarà una femmina? A chi somiglierà?
Vagando in questi pensieri, ella ebbe un giorno un gran rimescolamento del sangue, ebbe un[137] impeto di tenerezza che la fece sciogliere in lagrime.
—Misericordia! Che altri malanni ci sono?—esclamò il conte Luca, il quale non osava attribuire questa subitanea commozione al racconto di alcune facezie burocratiche con cui egli la intratteneva.
Ella gli gettò le braccia al collo: e seguitava singhiozzando:—Povero piccino! povero piccino!
Il conte Luca non osava fiatare, e diceva tutt’al più:—No, Fortunata, no, non conviene agitarsi. Il medico te l’ha proibito. Mi spiego?
Ma Fortunata non gli dava retta e si lasciava portar via dai suoi pensieri.
—Gli vorrà bene, babbo?.... Chi sa quanto bisogno avrà che gli vogliano bene!
—Sicuro che gliene vorrò.... che domanda!.... Non è mio nipote?—E il conte soggiungeva aspirando una grossa presa di tabacco e rasciugandosi una lagrimetta col dorso della mano:—Ma! Speriamo che tutto finisca secondo giustizia, mi spiego?
Un po’ per le piccole sofferenze inerenti alla sua condizione, un po’ per lo stato del suo animo, Fortunata non sapeva risolversi a uscire e non vedeva nessuno fuori che il canonico, il quale, buona pasta d’uomo, veniva ogni tanto a far l’ufficio di confortatore e a dire che non aveva ancora potuto indurre Sua Eminenza Reverendissima a parlare al conte Zaccaria, ma che non dubitava punto di indurvelo quanto[138] prima. E una parola di S. E. sarebbe bastata senz’altro, perchè i Bollati eran gente religiosa, e lo stesso Leonardo, così scappato e vanesio, adempiva sempre alle pratiche del culto.
—E quando c’è la religione,—concludeva monsignore,—c’è l’essenziale.
Però la contessa Zanze non era soddisfatta. Sior Bortolo era duro come un macigno, e adesso erano venuti giù dalla Moravia anche i Geisenburg e s’erano accampati nel palazzo riempiendolo di boria e di fumo. Vederlo quel marchese Ernesto! Un po’ meno pingue, ma più pettoruto di quello che fosse sei anni addietro, trasudava la superbia da tutti i pori. Ella invece, la marchesa, era diventata magra come una sardella, ma in quanto a superbia non aveva nulla da invidiare a suo marito. S’era appena degnata di salutare la contessa Zanze (che pur se l’era tenuta sulle ginocchia) e poi aveva detto (questo lo riferivano le persone di servizio) che non capiva come i suoi genitori ricevessero ancora certa gente.
Di Fortunata i Geisenburg sparlavano senza misura. E ridevano fra di loro della sua pretensione stravagante di farsi sposare perchè Leonardo s’era levato un capriccio con lei. Faccenda da accomodarsi con qualche centinaio di zecchini, fissando poi una piccola pensione pel bimbo se si volevano spinger gli scrupoli all’estremo. Di spose convenienti per Leonardo ne avevano loro, i Geisenburg, da proporne una[139] mezza dozzina, tutte ricche, tutte della prima nobiltà austriaca, tutte registrate nell’almanacco di Gotha. E anzi un cameriera di casa Bollati, che aveva il vizio di stare in ascolto dietro gli usci e che pretendeva di capire il tedesco, assicurava che tra marito e moglie avevano già fissato la ragazza da preferirsi.
Probabilmente non c’era in tutto ciò nulla di serio, tanto più che per la scelta della sposa, se una sposa ci doveva esser davvero, sior Bortolo avrebbe voluto indubbiamente aver voce in capitolo. A ogni modo, mentre le cose stavano in questi termini arrivò a Venezia Gasparo Rialdi.
L’appello materno gli era pervenuto in un momento critico della sua vita. Già da qualche mese tre ufficiali della marina austriaca, amicissimi suoi, Attilio ed Emilio Bandiera e Domenico Moro, nomi che l’eroismo e la sventura resero sacri, erano fuggiti a Corfù col proposito di gettarsi sul primo lembo di terra italiana ove fosse possibile di alzare il grido della riscossa contro i tiranni stranieri e domestici. Partecipe dei loro disegni e non meno deliberato a dar per la patria il suo braccio e il suo sangue, Gasparo Rialdi però non aveva creduto l’ora propizia pel magnanimo tentativo e aveva scongiurato quei valorosi a serbarsi per tempi migliori. E forse essi avrebbero accolto il suo consiglio, se il timore di esser già spiati dalla polizia imperiale non li avesse indotti a precipitare la diserzione. Con che cuore Gasparo[140] li avesse visti partire è facile immaginarlo. Ed è facile immaginare con che ansietà egli avesse seguito le loro vicende. L’incrollabile fermezza di Emilio di fronte alle preghiere e alle lacrime della misera madre volata a Corfù nella primavera di quell’anno 1844 per iscongiurare l’imminente sciagura, la fiera dichiarazione pubblicata dai due fratelli in un giornale di Malta in risposta a un editto dell’Ammiragliato austriaco, la lettera scritta da Domenico Moro al comandante della sua nave per ispiegargli la propria condotta, commossero in quei tempi, prima ancora della tragedia di Cosenza, quanti erano spiriti gentili nella penisola. E Gasparo, ch’era stato il confidente di quei giovani audaci e che, pronosticando col lucido ingegno l’inanità dell’impresa s’era invano sforzato di trattenerli, aveva poi sentito un acre rammarico a non esser con loro, ad aver piuttosto ubbidito alla voce della ragione che agl’impeti dell’entusiasmo. La notizia sparsasi nella seconda metà di giugno che i Bandiera coi loro seguaci fossero sbarcati in Calabria diede nuova esca al fuoco, e il nostro giovane ufficiale al quale pareva di meritarsi la taccia di codardo, studiava già i modi di raggiungere gli amici, quando la lettera di sua madre gli additò un dovere sacro, preciso, immediato a cui non gli era lecito di sottrarsi.
Livido di sdegno e di rabbia, Gasparo Rialdi, appena ricevuto quel foglio, si presentò al suo comandante pregandolo d’accordargli un congedo[141] d’un mese per motivi gravissimi di famiglia.
Il comandante, austriaco fino al midollo dell’ossa, ma buono di cuore e amoroso dei suoi dipendenti, fu fieramente turbato da quella richiesta, e cercando di leggere nella fisonomia stravolta dell’ufficiale:
—Che avete, Rialdi?—gli disse.—Non vi si riconosce più.
L’altro si schermì dal rispondere e insistette sulla necessità che aveva di partir subito per Venezia.
—Mi date proprio la vostra parola d’onore che partite per Venezia? Solamente per Venezia?
Gasparo Rialdi comprese il significato della domanda e proseguì con voce ferma:—Sì, le do la mia parola d’onore.
—Ebbene, ebbene,—brontolò il comandante ordinando allo scrivano di redigere il permesso. E proseguì a voce più bassa:—Vedete, Rialdi, sono momenti difficili. Quei disgraziati giovani hanno fatto del male a tutti.
Gasparo sentì salirsi una fiamma al viso, ma non disse nulla.
—Del male a tutti,—ripetè il suo interlocutore.—Si vive in un’atmosfera di sospetti.... Sfido io.... Dopo un fatto simile.... Tre giovani che avevano uno splendido avvenire davanti a sè.... I Bandiera specialmente.... figli d’un contrammiraglio.... Non par vero.... E che cosa credono di fare? Di vincer delle battaglie contro[142] le truppe di S. M. Borbonica?.... Di conquistare il Lombardo-Veneto?.... Ci rimetteranno la testa.... pazzi, pazzi da legare.... Date qui.
Quest’ultime parole erano rivolte allo scrivano che aveva finito il suo lavoro.
—Ecco il permesso firmato, Rialdi.... In fede mia, a un altro avrei risposto di no.... Dunque siamo intesi.... A Venezia direttamente.... Venezia per la via di Trieste.... La vostra parola d’onore.
—Gliel’ho data,—tornò a dire Gasparo ringraziando e inchinandosi.
E quella notte medesima egli viaggiava col vapore del Lloyd per Trieste. C’era a bordo una quarantina di passeggieri, quasi tutti sopra coperta, tanto il tempo era bello e il mare tranquillo. Si ciarlava, si giocava, si faceva all’amore. Tre o quattro suonatori ambulanti, imbarcatisi a Smirne in terza classe, strimpellavano delle polke e dei valzer, e chi ne aveva voglia ballava al chiaro di luna, mentre i delfini saltellavano sulle acque fosforescenti.
Gasparo Rialdi pensava ai suoi amici inseguiti, a sua sorella vituperata. Egli era solo, taciturno, chiuso in sè stesso. Nè le sue angoscie patriottiche, nè i suoi dolori domestici erano di quelli che possono cercare un sollievo nelle simpatie altrui.[143]
Pallida, confusa, tremante, con le gote molli di lagrime, Fortunata osava appena alzare gli occhi verso il fratello. La confessione del suo fallo non l’era mai stata così grave. Non dinanzi al sacerdote, avvezzo a quetar gli scrupoli della sua coscienza, non dinanzi alla madre, la cui leggerezza colpevole aveva avuto tanta parte nella sua caduta. Ma Gasparo, del quale ella ricordava le previsioni, gli ammonimenti, i consigli, ahimè non seguiti, Gasparo poteva rinfacciarle la sua vergogna cercata, voluta, poteva chiederle conto dell’onore della famiglia da lei macchiato per sempre. Ella ne aveva avuto sin da bambina una gran soggezione; figuriamoci adesso ch’egli era un giovinotto alto, severo, abbronzito dal sole, con uno sguardo acuto, penetrante, che ricercava l’intime latebre dell’anima.
Eppure, di mano in mano ch’ella parlava le rigide fattezze dell’ufficiale s’atteggiavano a[144] un’espressione più dolce; pareva che il giudice si fosse impietosito del reo. E invero un gran peso gli si era tolto di dosso. Il linguaggio schietto, ingenuo di Fortunata lo aveva reso sicuro che, quale pur fosse stata la condotta di sua madre, sua sorella era una vittima e non era una complice.
Quand’ella si tacque, egli stette un momento in silenzio col viso nascosto tra le palme; poi disse queste sole parole:—E lo ami sempre?
—Sempre—ella rispose chinando la fronte, ma con voce ferma.
—Sì, capisco—ripigliò Gasparo—l’amarlo fu la tua unica colpa e fu anche la tua unica scusa.... Ma adesso.... dopo il suo vile abbandono, dopo il suo turpe oblio d’ogni dovere più sacro.... Ah se tu non lo amassi più!...
Fortunata lo guardò atterrita.—Lo amo! Lo amo! In nome del cielo, che faresti se non lo amassi più?
Gli occhi del giovane sfolgorarono.—Quel che farei?... Gli farei pagare a caro prezzo l’oltraggio, e poi direi a te: Dimentica perfino il suo nome: dimentica ch’egli ti ha reso madre... l’essere che darai alla luce non ha nulla da guadagnarci a conoscerlo.... ci penseremo noi, noi soli.... se sarà un maschio, avrò cura io della sua educazione, ne farò un uomo, un cittadino.
—Grazie, Gasparo, grazie—esclamò Fortunata.—Oh tu sei buono e io non perdonerò mai a me stessa di non averti ubbidito; ma se[145] mi vuoi bene, se hai misericordia di me non devi far del male a lui.... a Leonardo.... non devi togliermi la speranza ch’egli mi ridoni un giorno il suo affetto, che, disingannato, stanco dei baci delle altre donne, egli torni da quella il cui cuore non muta... dalla madre della sua creatura....
—Ma non sai dunque—interruppe il fratello—che faranno di tutto per indurlo a prender moglie... una moglie che porti il suo bel gruzzolo di zecchini.... poichè si va buccinando che i nostri illustri parenti siano dissestati e che occorra una grossa dote per tappare i buchi?
—No—disse la ragazza sforzandosi di persuader sè medesima che i dubbi di Gasparo erano infondati.—No, non vi riusciranno.... Quello che Leonardo vuole è la sua libertà.... È la risposta ch’egli diede a mia madre, a Monsignore... Se si risolvesse a sposarsi....
—Credi che sposerebbe te?
—Lo credo.
—Senti—disse Gasparo dopo una pausa—vedrò gli zii Bollati, vedrò Leonardo... oh non temere, so esser calmo, so reprimere le mie antipatie.... e quello che potrò fare pel tuo bene te lo giuro, sorella mia, lo farò.
Quantunque a malincuore, la contessa Zanze s’era rassegnata ad abbandonar nelle mani di suo figlio il grave affare domestico, pel quale da un paio di mesi ella metteva in combustione il mondo. Quel benedetto Gasparo aveva un[146] certo carattere, certe idee tutte sue.... Insomma ella lo aveva chiamato e non poteva disgustarlo. Ma il conte Luca brontolava:—Fanno come s’io non esistessi.... Vanno, vengono senza degnarsi d’avvisarmi.... Quest’è bella.... Sono o non sono il marito di mia moglie e il padre dei miei figli?... Mi spiego?... Non era naturale che conducessi io la faccenda?... Ma, nossignori... Prima madama ha voluto far da sè.... E adesso tocca a Gasparo, che con quel suo temperamento sulfureo finirà di rovinarci.... Cose che andrebbero trattate con calma, con prudenza, con spirito conciliativo.... E intanto chi soffre di più siamo noi due, Fortunata e io.... io che non ho un momento di bene....
Il conte Luca non osava dirlo, ma pensava alla sua scacchiera.
In famiglia Bollati l’arrivo di Gasparo Rialdi a Venezia recò una molestia infinita. Gasparo non era più un ragazzo da prendersi a scappellotti; era un uomo, era un ufficiale tenuto in gran conto dai suoi superiori, e non si poteva sbrigarsene con delle ciancie vuote. Sua Eccellenza Zaccaria se n’era persuaso subito dopo un primo colloquio, in cui, ricevuta l’imbeccata da sior Bortolo e dai Geisenburg, egli aveva tentato di menare il can per l’aia. Bisognava vedere, bisognava studiare (proprio le parole precise di sior Bortolo), bisognava cercare con tranquillità una soluzione conveniente. Al bambino si sarebbe provveduto....
—Conte Zaccaria—aveva detto l’ufficiale[147] in tuono reciso—o il bambino entra in palazzo Bollati in compagnia di sua madre, o nessuno ha il diritto d’ingerirsene.... La soluzione a cui ella accenna sarebbe un secondo insulto per mia sorella... E io non sono disposto a passar sopra nemmeno al primo.... Ci rifletta meglio, conte, ascolti i suggerimenti del suo cuore e del suo onore.
Già; quest’era esprimersi chiaro. L’antifona della contessa Zanze. Non c’è altra riparazione che il matrimonio. Senonchè Gasparo non affogava il suo concetto in un mare di chiacchiere. Andava per le spiccie, aveva un piglio soldatesco che produceva un certo effetto.
Il marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen, secondato dalla consorte, urlava che la tracotanza di quell’ufficialetto di marina era intollerabile, e che bisognava dargli una buona lezione, e che gliel’avrebbe data lui stesso se non avesse temuto d’insudiciarsi le mani.
In quanto al contino Leonardo, è vano il dissimularlo, egli aveva paura, e se da un paio di generazioni i Bollati non fossero stati avvezzi a rimanersene attaccati come ostriche agli scogli della laguna, c’è da scommettere ch’egli avrebbe colto quell’occasione per intraprendere un viaggietto all’estero, tanto gli pesava il trovarsi faccia a faccia col fratello di Fortunata, del quale egli conosceva per esperienza l’indole focosa ed altera.
La paura è un difetto, ma anche i difetti possono servire a qualche cosa. Nel caso presente[148] essa serviva a far capire a Leonardo il brutto impiccio in cui egli s’era messo e a predisporlo alla moderazione e all’umiltà nel suo inevitabile abboccamento con Gasparo.
Gasparo dal canto suo s’era impegnato con la sorella e con sè medesimo a frenar gl’impeti del suo carattere, cosicchè i due giovani, nell’incontrarsi, seppero nascondere il mal animo reciproco. Anzi, sulle prime, Gasparo fu lì lì per dubitare di essere stato ingiusto in passato negando al cugino ogni qualità di cuore e di intelletto. Ma, ohimè, il dubbio non tardò a dissiparsi, e Gasparo s’accorse ben presto che nel fare appello ai sentimenti generosi che scuotono le fibre degli altri uomini egli usava un linguaggio non inteso o inteso a rovescio dal contino Bollati.
Quelle parole che destano la coscienza sopita, che fanno salire al viso i rossori della vergogna, che fanno spuntare sul ciglio le lagrime del pentimento, erano pel giovane patrizio un vano frastuono, e invece di persuaderlo al bene rinfocolavano in lui gl’istinti bassi e perversi. Preparato ai motti pungenti, alle intimazioni recise del fiero Rialdi, l’eloquenza appassionata, commossa, affettuosa di lui gli sembrava un sintomo di debolezza.
—Quand’è così—pensava il vigliacco—ho torto io a farmi coniglio.—E si imbaldanziva a poco a poco, e dal labbro che un momento prima stillava latte e miele, gli uscivano allusioni maligne e velenose. Gasparo pazientò alquanto,[149] ma colta a volo una frase che pareva accusarlo di fini subdoli e venali; egli afferrò pel braccio Leonardo, e fulminandolo con lo sguardo:—Bada—gli gridò con un ruggito—bada a quello che dici, o guai a te.
E mentre l’altro, allibito, biascicava delle scuse, egli proseguì:—Bada di non confondere la calma di chi è sicuro del proprio diritto con la pusillaminità de’ tuoi pari.... Perchè t’ho parlato come a un fratello, tu hai creduto ch’io fossi qui a mendicar le tue grazie.... Povero scemo! Io non so se potrò costringerti a fare il tuo dovere; per me....—e Gasparo voleva dire: per me ci rinunzierei ad averti per cognato; ma si trattenne e soggiunse invece:—Però una cosa è sicura; me vivo, mia sorella non sarà impunemente disonorata, nè il nome della mia famiglia impunemente trascinato nel fango.
Misericordia! Sta a vedere che Rialdi si sognava di provocare un duello? Era matto? Eh Leonardo Bollati non si batteva! S’eran battuti abbastanza i suoi vecchi! La spada egli sapeva appena come s’impugnasse, e infatti non si ricordava d’aver mai toccata quella del nonno, comandante di galera, che il conte Zaccaria aveva regalato al Museo Correr insieme con altre anticaglie.
Questa certezza che, nella peggiore ipotesi, nessuno sarebbe riuscito a condurlo sul terreno, rimetteva un po’ di fiato in corpo al nostro contino, ma non più di quello che era necessario per permettergli di manifestare con parole sconnesse[150] la propria codardia. Il cugino era troppo focoso, lo aveva frainteso... Egli non aveva mai avuto l’idea di offenderlo... Ne aveva anzi una grandissima stima... ben meritata... come per tutta la famiglia Rialdi... Del resto, riconosceva i suoi torti... Avrebbe voluto morire piuttosto che nuocere a Fortunata... Ma adesso che poteva fare?... Già non poteva mica disporre di sè... Era minorenne, dipendeva da’ suoi genitori... Se si persuadevano loro....
Gasparo lo interruppe con un gesto d’impazienza:—Quando facciamo sparger delle lagrime per i nostri piaceri, abbiamo perduto il diritto di addurre a scusa la nostra età giovanile e di ripararci all’ombra degli altri... Siamo abbastanza uomini da dover risponder noi soli delle nostre azioni.
Parole altrettanto savie quanto inutili. Il contino Bollati non si dominava con gli argomenti, ma con la paura; lo si teneva in pugno perch’era un vile.
E questa fu l’impressione che anche Gasparo ritrasse dal suo colloquio con Leonardo. Si sarebbe vinto, ma la prospettiva d’una tale vittoria umiliava il nostro ufficiale assai più d’una sconfitta. E non volle o non seppe tacerlo a sua sorella allorchè ella gli corse incontro trepida, ansiosa, e vedendolo con la cera stravolta balbettò sbigottita:—Dio mio, tu m’annunzi qualche disgrazia.
—Non quella che temi—egli rispose con un sorriso pieno d’amarezza.[151]
—Che cosa dunque?
—Ascoltami, Fortunata, ascoltami fin che c’è tempo. Se il consenso di Leonardo fosse una disgrazia peggiore del suo rifiuto?
—Egli acconsente? Leonardo acconsente a farmi sua moglie?—gridò Fortunata pazza di gioia. E i suoi occhi s’illuminarono come se le brillasse dinanzi una visione celeste. Ma poi scorgendo la meraviglia, il disgusto dipinti sulla fisonomia di suo fratello, chinò la fronte e arrossì.
—Non lo ha detto ancora—rispose Gasparo.—Ma io credo ch’egli acconsentirà a tutto quel che si vuole... sai perchè? Perchè lo spaventa l’idea ch’io possa fargli pagar caro il male che ti ha fatto, perch’egli trema per sè, perchè egli non ha nemmeno il coraggio d’essere un tristo... E da un tal uomo tu speri la felicità?... Ah se io fossi in te, piuttosto di aver costui per marito, accetterei anche il disonore.
—Per me forse—esclamò Fortunata—ma non per lui, non per mio figlio... Io non voglio che mio figlio sia chiamato con un nome ingiurioso.
Ma a questo grido di madre non tardò a tener dietro un grido d’amante.
—Vedi, Gasparo, tu non puoi capire... malgrado del tuo ingegno, e ne hai tanto, non puoi capire quello che si passa in cuore di donna... Tu mi domandi s’io spero da Leonardo la felicità... Ma la felicità, per noi, consiste nell’appartenere all’uomo che amiamo, nel viver con lui, per lui... anche s’egli non è degno del nostro amore... anche se ricambia con gli oltraggi e[152] gli scherni le nostre carezze... Non corrugar la fronte, Gasparo, non esser troppo severo con me... sono una povera femmina, io... Non ragiono, sento... In quell’amore che mi ha fatta colpevole, in quell’amore che mi fa madre è chiuso il mio piccolo mondo... Non ho altro, non avrò altro mai... Il Signore non ha voluto ch’io espiassi il peccato con le preghiere, con le penitenze, coi digiuni... ha ribadito lui stesso le catene che mi tengono attaccata alla terra... No, no, te lo ripeto—ella continuava infiammandosi sempre più—tu non puoi capire... Bisognerebbe esser davvero al mio posto... Io non ho nè la bellezza, nè la grazia, nè lo spirito, ed egli mi ha amata, sia pure per una settimana, sia pure per un giorno... è quanto basta perchè io l’ami per tutta la vita.
Gasparo era ammutolito. Che rispondere alle manifestazioni esaltate d’una passione che non tentava nemmeno giustificarsi, ma si affermava come un fatto inesorabile, voluto dal destino? Ed egli, il forte e prode uomo, si domandava tristamente come un libertino volgare, senza ingegno, nè dignità, nè coscienza, potesse esercitare un tal fascino sopra una fanciulla buona e gentile. Di quanto fango è dunque composta quella cosa divina che si chiama l’amore?
Checchè ne sia di ciò, l’abboccamento di Leonardo Bollati e di Gasparo Rialdi aveva avuto per effetto di lasciar uno dei due interlocutori sbigottito, l’altro nauseato. Ma se lo sbigottimento rendeva Leonardo più malleabile,[153] la nausea rendeva Gasparo meno acconcio che mai al suo ufficio di negoziatore. Egli si trovava, del resto, in una singolare condizione di spirito. Egli capiva che, in certi casi, dal matrimonio in fuori, non c’è riparazione che valga, ma, d’altra parte, sentiva crescere la sua ripugnanza ad adoperarsi per combinare un matrimonio che avrebbe unito Fortunata con un uomo tanto spregevole. Era scontento della sua famiglia, scontento di sè. Lo irritava la nullaggine del suo babbo, l’indole poco scrupolosa di sua madre, l’accecamento di sua sorella; si sentiva umiliato di queste misere lotte in un tempo nel quale i suoi amici scontavano col loro sangue un’eroica follìa.[154]
Poichè in Calabria era avvenuto quello che tutti prevedevano.
Sopraffatti dalle forze borboniche presso San Giovanni in Fiore il 19 giugno di quell’anno 1844, tratti a Cosenza dinanzi a una Corte marziale, Attilio ed Emilio Bandiera, Domenico Moro e i principali fra i loro seguaci, venivano condannati a morte il 24 di luglio e fucilati il dì appresso. La Gazzetta privilegiata di Venezia di martedì 6 agosto riproduceva dal Giornale di Napoli l’estratto della sentenza pronunciata ed eseguita. Non una riga di commento, non una parola di compianto pei tre veneziani che pur lasciavano qui tanta eredità di memorie e d’affetti. Era già molto se l’insulto villano non li accompagnava nella tomba. Ma nel segreto delle pareti domestiche, nell’intimità dei crocchi giovanili, i nomi dei tre martiri erano susurrati con affettuosa riverenza, e il sacrifizio magnanimo richiamava a più alti pensieri i popoli della Penisola immersi in frivole cure.[155]
Ciò che Gasparo Rialdi provasse alla notizia della strage di Cosenza, è inutile il dirlo. Egli giurò allora, e mantenne il giuramento, di consacrare la sua vita all’idea per la quale i suoi compagni d’armi erano caduti. Certo non era piccolo sforzo per lui il far violenza alla sua natura schietta e leale, il continuar a indossare una divisa abborrita, a servire sotto una bandiera ch’egli tradiva; però i tempi tristissimi non lasciavano libertà di scelta ai generosi che i voleri delle famiglie o la dura necessità costringevano a militare sotto lo straniero; o venir meno agli obblighi di cittadini, o venir meno agli obblighi di soldati.
Comunque sia, sotto la prima impressione della tragedia di Calabria, il nostro ufficiale non seppe padroneggiarsi appieno, e il luogo e il modo in cui egli uscì dal suo riserbo diedero origine a un fatto che poteva avere per lui conseguenze gravissime.
Egli aveva pregato un suo conoscente d’introdurlo una sera nel Casino dei nobili affine di leggervi nei fogli napoletani i particolari del processo contro i Bandiera e i loro complici.
Ora nel momento in cui Gasparo entrò con l’amico, quei fogli erano tutti accaparrati da un gruppo di persone, tra cui primeggiava il marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen, quello stesso che avrebbe voluto dare una buona lezione al Rialdi se non fosse stata la paura d’insudiciarsi le mani. Il signor marchese leggeva ad alta voce con la sua pronunzia[156] ostrogota, fermandosi a ogni due parole per pigliar fiato e per interpolare qualche sua riflessione in italiano o in tedesco, un articolo del Giornale di Napoli, contenente un giudizio sommario sull’impresa di Calabria. Impresa incredibile al racconto, di superlativa stoltezza, di crassa ignoranza, la chiamava il dotto articolista, e l’illustre signor marchese stava appunto deliziandosi in queste frasi concise, vibrate, degne di Tacito. Egli vide con la coda dell’occhio Gasparo Rialdi, ma finse di non accorgersene e tirò innanzi nelle sue osservazioni, mettendoci forse una maggiore acrimonia. Anch’egli opinava, come la suocera, che Gasparo fosse un po’ carbonaro, e non gli dispiaceva di slanciargli indirettamente qualche frecciata, tanto più che l’ufficialetto gli era antipatico per cento altre ragioni. La condotta del signor marchese non era punto generosa, giacchè egli doveva sapere che nel campo politico il Rialdi non aveva libertà di parola. Noi non abbiamo però detto mai che il marchese fosse un uomo generoso. Anzi egli non era punto tale, sebbene non fosse certo un vigliacco come il cognato Leonardo.
—Penissimo—esclamò il marchese Ernesto, sempre col giornale in mano—Superlativa stoltezza... crassa ignoranza. So ist es... Così è.
L’uditorio approvava. Era proprio da matti furiosi il pensarsi una cosa simile... In trenta o quaranta voler abbattere un regno... E poi, se fossero padroni loro?
—Gott bewahre! Dio guardi! meglio la fine[157] del mondo... Sarebbe come Rifoluzione francese... Ladrerie, stragi, sacrilegi.
—Quel Mazzini!—disse un signore grave e maturo tentennando la testa.
—Sicuro—assentì il marchese.—Quel Mazzini, gran canaglia... Se si prende, non fucilarlo... troppo onore... Erhängen muss man ihn... come si dice in italiano? ah sì... impiccare, impiccare...
—Quello non si piglia—osservò un altro—e intanto dei poveri giovani vanno a farsi ammazzare per lui.
—Che poferi giovani? che poferi giovani?—esclamò infastidito il nobile moravo.—Esempi ci vogliono, e queste condanne faranno puonissimo effetto... Che poferi giovani?.... Tanto peggio per loro... Non poferi, impecilli forse... ma impecillità non scusa.
Gasparo s’era frenato fino allora. Seduto dinanzi a un tavolino all’angolo opposto della stanza, egli avea fatto il possibile per non sentire, per immergersi nella lettura di uno stupido giornale di Mode e Varietà. Ma il sangue gli saliva alla testa; e all’ultime parole del marchese egli non ne potè più, e senza ben sapere quel che volesse fare o dire, si alzò di scatto dalla seggiola, e respingendo l’amico che s’era provato a trattenerlo, si diresse verso il crocchio ove l’altro dottoreggiava. Era infiammato in viso, i suoi occhi lampeggiavano.
Quei patrizi rimminchioniti non eran leoni e subodorando una scena si tirarono in disparte.[158] Il marchese Ernesto però, antico capitano degli usseri, non poteva battere in ritirata, e levatosi da sedere quanto più presto glielo permise la sua corpulenza, s’appoggiò coi pugni alla tavola, e disse:—Was wünscht der Herr Offizier? Ja... Che desidera?
—Io?... nulla—rispose Gasparo sforzandosi d’esser calmo.—Anzi mi dispiace di aver disturbato la bella conversazione.... Volevo dire solamente....
—Ah, foleva dire qualcosa? Bitte... Prego... Parli....
—Volevo dire che bisogna mancar d’ogni gentilezza d’animo per scagliarsi contro della gente che può esser stata illusa, che può aver sbagliato, ma che in ogni modo sacrificò la vita per un’idea....
—Bitte... Prego... Der Herr... Il signore difende i Pandiera?... Ach sehr gut... Penissimo.... Un imperiale e reale ufficiale....
—Io non entro nella questione, io non giudico il tentativo dei fratelli Bandiera e dei loro seguaci, ma ripeto, e l’esser ufficiale della marina austriaca non me ne toglie il diritto, che l’insultare alle tombe è viltà.
Il marchese era divenuto anche lui rosso come una ciliegia, e ansava più del solito.
—Viltà?... Ach ja, Feigheit.... Und mir sagen Sie das?... Dice a me questo?
—A lei, a lei.... O a chi dunque?
—Ah capisco.... Il signore vuole... come si dice?... mich herausfordern... ach ja... provocare...[159] provocar me, marchese Geisenburg-Rudingen von Rudingen? Capisco assai pene.... I Pandiera sono un pretesto. Il signore vuol provocare perchè sono contrario a speculazioni matrimoniali di sua famiglia....
—Lei mente, lei è un codardo—urlò Gasparo Rialdi fattosi livido all’atroce ingiuria.
E la sua mano alzatasi con piglio minaccioso sarebbe certo caduta sulla nobile guancia del marchese Ernesto di Geisenburg-Rudingen von Rudingen se i presenti non si fossero interposti a tempo.
Però quello scandalo pubblico tra due militari non poteva finire così, e il giorno appresso il marchese Geisenburg-Rudingen von Rudingen e il conte Gasparo Rialdi si trovarono l’uno di fronte all’altro su una striscia di terra non coltivata a poca distanza da Fusina. Il marchese era stato in gioventù uno spadaccino di prima forza, e conosceva ancora alla perfezione le finezze dell’arte, ma il Rialdi era più svelto, più risoluto, più audace e con un colpo bene assestato ferì l’avversario alla spalla destra e gli fece cader l’arma di mano.
Il curioso si è che questo duello, il quale ragionevolmente avrebbe dovuto spazzar via l’ultime speranze di Fortunata, produsse un effetto tutto contrario alle previsioni.
E in primo luogo diciamo che la disgrazia del marchese non afflisse nessuno in famiglia Bollati. La prosopopea di quel feudatario era stata sempre intollerabile, ma adesso era più[160] uggiosa che mai, dacchè s’era scoperto che, dietro a tanto fumo c’era pochissimo arrosto, e che i famosi castelli moravi erano stati ipotecati per pagare i debiti di giuoco del signor marchese, il quale poi gli altri debiti non li pagava affatto. Siccome però i creditori non avevano l’opinione del signor marchese che un gentiluomo non dovesse curarsi che degl’impegni contratti dinanzi a un tavolino di roulette o di faraone, così le citazioni fioccavano, e raggiungevano l’illustre viaggiatore anche di qua dalle Alpi. I suoi due camerieri, quando avevano ben mangiato e bevuto in cucina, deponevano per poco l’usata albagìa, e ne raccontavano di belline. Essi medesimi, a sentirli, non ricevevano il salario da più mesi, e si adattavano a restare ancora per qualche tempo presso le loro Eccellenze unicamente nella speranza che il conte Zaccaria venisse in aiuto del genero e della figliuola. Già, essi soggiungevano mezzo in tedesco e mezzo in italiano, il vero scopo della gita in Italia della nobile Herrschaft era stato quello di procurarsi danaro. La servitù dei Bollati, che cominciava ad accorgersi degli impicci finanziari della famiglia, non rispondeva nulla, ma dubitava grandemente che la nobile Herrschaft fosse costretta a tornarsene indietro con le mani vuote, nel qual caso addio mancie! Infatti il lustrissimo Zaccaria, per levarsi la seccatura, mandò il marchese dall’agente generale, sior Bortolo, e questi protestò di non poter dare un centesimo. Ormai l’ingegnoso amministratore[161] era a corto d’espedienti, e non ci teneva punto a ingraziarsi i Geisenburg, che, invece di secondarlo, avevano attraversato alcuni suoi disegni. Il marchese Ernesto e la marchesa Maddalena intronarono allora di querimonie gli orecchi dei congiunti dicendo ch’era una vergogna il lasciarsi dettar la legge da un bifolco, e che quel sior Bortolo era un ladro, e ch’era tempo di vederci chiaro, e altre cose simili, tutte fatte apposta per seccare i Bollati, i quali a vederci chiaro non ci pensavano nemmeno e parevano disposti ad andar placidamente in rovina piuttosto che aver sopraccapi. Onde la contessa Chiaretta, discorrendo de’ suoi parenti, ebbe a confessare che preferiva mille volte la Fortunata Rialdi alla marchesa figlia, e che perfino Gasparo, quantunque carbonaro, le era meno uggioso del proprio genero. Il lustrissimo Zaccaria aveva su per giù la medesima opinione, e quando vennero a dirgli che il marchese era stato ferito—Auff—borbottò fra i denti—se la ferita lo guarisse dalla petulanza!
E neppure il contino Leonardo avrebbe creduto opportuno, in massima, d’intenerirsi pel cognato; chè anzi quel manichino impastato di arroganza gli era insoffribile, ed egli non sapeva perdonargli l’etichetta fastidiosa che la presenza di lui introduceva in palazzo, onde conveniva mutar vestito a ora di pranzo, e star composti a tavola, e non dir parolaccie. Se la stoccata fosse venuta al marchese da un’altra parte qualsiasi, il nostro giovinotto sarebbe[162] stato capacissimo di mettere un gran respiro di soddisfazione. Ma il duello del Geisenburg col Rialdi lo turbò tutto per ragioni sue personali. Senza dubbio quel terribile Gasparo meditava un grande eccidio, e dopo aver provato la punta della sua spada sulla pelle del marchese Ernesto, si disponeva a cacciarla a mezza lama nella pancia di qualchedun altro. Anime sante del Purgatorio! come diceva don Luigi.
Al contino veniva la pelle d’oca al pensarci, e la notte successiva al duello fu per lui una notte d’inferno. Si voltava e rivoltava fra le lenzuola ansando, smaniando, balzando a sedere a ogni più lieve romore. Peggio poi se pigliava sonno un momento. L’assalivano subito tetre visioni, gli pareva d’essere infilzato come un capo di selvaggina, e si svegliava in sussulto sbarrando gli occhi e palpandosi di qua e di là per esser ben sicuro che il ferro traditore non gli fosse penetrato nelle viscere. Allora, un po’ più calmo, cercava di persuadersi che Gasparo Rialdi non l’avrebbe mica aggredito per la strada come un volgare assassino, e che in quanto al battersi bisognava essere in due per volerlo, ed egli, Leonardo Bollati, non sarebbe stato mai uno di quei due. Egregiamente; ma queste ottime ragioni non avevano efficacia durevole. Alle corte, il bravo giovinotto prese una risoluzione eroica e la comunicò ai genitori.
—Ci ho pensato su, e mi son convinto che non posso far di meno di sposar Fortunata. Ho degli obblighi.[163]
Il lustrissimo Zaccaria e la lustrissima Chiaretta rimasero di sasso, perchè fino allora il contino non s’era mostrato così soggetto agli scrupoli.
—Ta, ta, ta, ta—disse Sua Eccellenza il conte Zaccaria—meno furia, ci siamo anche noi.... E com’è che fino a pochi giorni fa il signorino protestava di non volersi ammogliare nè adesso, nè mai, nè con la cugina, nè con la figlia dell’imperatore del Mogol, se, puta caso, ella fosse venuta da queste parti?
—Io volevo liberarmi dalle seccature di sior Bortolo che s’impuntava a darmi la sua Vinati.
—Di quella non si parla—interruppe la contessa Chiaretta—non è neanche nobile.
Il conte sospirò pensando che la Vinati avrebbe portato in casa cinquecentomila lire sonanti. Pazienza. C’era di mezzo il decoro della famiglia, e conveniva rinunziarci.
—Ma io non voglio saperne nemmeno delle tedesche di mio cognato—seguitò Leonardo.
—Oh quelle lì—disse il conte—sono in mente Dei. Il marchese mio genero non fa che citarle a memoria dall’almanacco di Gotha.... Del resto—soggiunse il nobiluomo con maggiore solennità—è fuor di dubbio che l’unico rampollo maschio d’una famiglia come la nostra deve pigliar moglie per assicurare la discendenza.
—Ebbene, io sposo mia cugina, e la discendenza è già assicurata.
—Adagio, Biagio—ripigliò il conte Zaccaria.—Il[164] matrimonio d’un Bollati non è faccenda da risolversi su due piedi, e cinquant’anni addietro avrebbe voluto entrarci il Serenissimo....
—E le prime famiglie del patriziato sarebbero venute a offrirci le figliuole—esclamò la signora Chiaretta.
—Sfido io.... Con tanti dogi e procuratori e ammiragli che abbiamo fra i nostri vecchi... le prime famiglie e le più ricche...—soggiunse il conte moderando un poco l’intonazione pomposa del discorso.
—Sarebbero venute anche adesso—disse la moglie—senza questi scandali, senza questa condotta indecente.—Indi rivolgendosi a Leonardo—Vergogna! Sei la rovina dei Bollati.
Naturalmente da questo colloquio non si concluse nulla. Sior Bortolo, chiamato di nuovo a consulto dai nobili padroni, tenne un linguaggio insolito. Egli non voleva più impicciarsene, perchè s’era accorto che le sue intenzioni erano fraintese e il suo zelo mal ricompensato. A proporre, giorni addietro, un partito di cinquecentomila lire pel contino Leonardo, s’era tirato addosso una tempesta, e il marchese e la marchesa Geisenburg gli avevan dette di quelle ingiurie che feriscono al vivo un galantuomo. Facessero dunque il piacer loro. Già, esclusa la Vinati, egli non vedeva nessun altro buon matrimonio possibile. Egli se ne lavava le mani.... Ricordava soltanto alle Loro Eccellenze che il signor Vinati era deciso a non rinnovare il mutuo.[165]
—Mi pare,—disse il conte Zaccaria, quando l’agente generale s’accommiatò,—mi pare che sior Bortolo alzi la cresta.
—Pare anche a me,—rispose la contessa Chiaretta.
Il fatto si è che sior Bortolo aveva ormai messo da parte un bel gruzzolo di quattrini e si curava assai meno del favore delle Loro Eccellenze.
Ammutolitosi l’agente, screditati i Geisenburg per la loro tracotanza e i loro dissesti ormai palesi a mezzo mondo, il conte e la contessa Bollati rimanevano esposti agli assalti della cugina Zanze, del nobiluomo Canziani, di monsignor Lipari e di tutti i favoreggiatori dell’unione di Leonardo e di Fortunata. Dal canto suo Leonardo, ogni volta che vedeva da lontano Gasparo Rialdi con la sua aria marziale e la sua spada al fianco, sentiva la tremarella alle gambe, e tornava a palazzo strepitando che bisognava riparare ai proprii torti senza perder altro tempo. Batti oggi e batti domani, le ultime resistenze del conte e della contessa furono vinte, e con immenso sdegno dei Geisenburg-Rudingen von Rudingen, i quali partirono da Venezia lasciandovi un lungo strascico di debiti e dichiarando di non volervi più rimetter piede, le prossime nozze del contino Leonardo Bollati P. V. con la contessina Fortunata Rialdi furono annunziate ai parenti e agli amici.
Però il matrimonio si celebrò quasi clandestinamente, tra gli epigrammi dei maligni e le[166] mormorazioni di quelli che erano avvezzi alle pompe di casa Bollati. Nè regali, nè fiori, nè componimenti in verso o in prosa. Il nobile Canziani dovette ringhiottire un epitalamio, e don Luigi fu costretto a rinunziare alla stampa d’un altro capitolo della sua opera colossale destinata a polverizzare la gloria di Alessandro Manzoni.
L’unica persona a cui nel giorno solenne brillasse in viso una schietta felicità era Fortunata. Il voto del suo cuore era pago, il suo onore era salvo, la creaturina che stava per nascere da lei non sarebbe entrata nella vita senza padre e senza nome; che poteva ella desiderare di più? Contro le nuove prove che l’aspettavano le pareva di esser forte abbastanza, forte di rassegnazione, di tenerezza, di fede in Dio, in quel Dio ch’ella oggi ringraziava dal fondo dell’anima pel bene che le aveva concesso.
Fatto si è che tutti gli altri, qual più, qual meno, avevano la faccia scura.
Leonardo, quantunque deciso a continuar la vita da scapolo anche dopo ammogliato, s’arrabbiava già con se medesimo d’aver così docilmente piegato il collo al giogo coniugale; il conte Zaccaria e la contessa Chiaretta vedevano in quel matrimonio un sintomo dell’umiliazione del loro casato, e la contessa Zanze Rialdi aveva amareggiata la gioia del trionfo dalla meschinità della festa e più ancora dai molti indizi della decadenza economica dei Bollati. Aver aspirato con tanto ardore a far entrare la figliuola in quell’illustre[167] famiglia e riuscirvi solamente quando l’illustre famiglia minacciava d’andar in rovina, era proprio un’ironia della sorte! La contessa Zanze si sfogava col marito e gli diceva all’orecchio durante la cerimonia:—Se foste un altro uomo, non avreste permesso che la cosa si facesse in questa maniera.... Pare che ci facciano una grazia.... E poi Dio voglia che non siamo alla vigilia del patatrac.... Se almeno foste nell’amministrazione!—Tacete,—rimbeccava il consorte.—Voi parlereste anche sott’acqua. Non siete mai contenta, voi.
Gasparo Rialdi non assisteva a quelle nozze ch’egli, sebben riluttante, poteva dire d’aver imposto con la punta della sua spada. Sventata, mercè la benevola interposizione di qualche ufficiale superiore suo amico, la tempesta che si addensava sul suo capo dopo la scena nel Casino e il duello col Geisenburg, egli era partito da più giorni per la nuova destinazione di Pola, datagli dal Comando della marina. In apparenza lo si mandava a dirigere alcuni lavori a quell’arsenale, in fatto si voleva tenerlo lontano dalla squadra del Levante ove serpeggiavano umori rivoluzionari.[168]
Come sior Bortolo aveva predetto, il matrimonio del contino Leonardo rese intrattabile il signor Vinati, il quale vedeva frustrate le sue speranze di dare un titolo alla figliuola. La moglie di lui, che aveva tutte le bizze e tutti i rancori d’una femminetta arricchita, soffiava nel fuoco e minacciava il marito della sua collera s’egli non esigeva da quelle Zelenze (e qui la signora Vinati aggiungeva un epiteto energico) il puntuale rimborso del mutuo che scadeva appunto alla fine dell’anno.—Non un giorno, non un’ora, non un minuto—strillava la megera, implacabile come il destino. E anche altri creditori che fino allora non avevano badato a qualche ritardo nel pagamento degl’interessi, e non avevano mai detto di no alle domande di rinnovazione, si facevano meticolosi ad un tratto e dichiaravano senza cerimonie di non voler servire più da zimbello a nessuno. Sior Bortolo non sapeva a che santi votarsi. Invero, egli[169] s’era già preparato la sua brava ritirata; aveva un bel poderetto in Friuli e una casa piena di grazia di Dio in Venezia, ma finchè c’era qualche osso da rosicchiare nell’azienda, non gli bastava l’animo di abbandonare le Loro Eccellenze. Povera gente! Sarebbero stati impicciati come pulcini nella stoppa.
Ormai la fama con le sue cento bocche spargeva dappertutto la notizia della prossima rovina dei Bollati, e sul palazzo pesava la tristezza che pesa sulle cose decrepite. Come suole accadere, i cosidetti amici di famiglia s’erano dispersi; non c’era ragione, dicevano, di andar a disturbar della gente che aveva tanti sopraccapi. Tutt’al più veniva ogni giovedì e ogni sabato il nobile Canziani, visitatore poco desiderabile, sia perchè pativa frequenti accessi di tosse, sia perchè i suoi reumatismi gli rendevano difficile di mettersi a sedere quand’era in piedi e di alzarsi quand’era seduto. I Rialdi, nella loro qualità di genitori della sposa, bazzicavano in casa ancora più spesso del solito, e pranzavano alla tavola dei parenti tre volte per settimana, ma stavan sempre con tanto di muso, non potendo perdonare ai Bollati i loro dissesti economici. Ed era di umor tetro anche don Luigi, il quale si vedeva mancar lo stipendio da parecchi mesi, e presentiva di dover presto abbandonare la sua sinecura, senza che gli fosse riuscito almeno di stampare il libro da cui egli si riprometteva l’immortalità.
Ah come sarebbero rimaste male le lustrissime[170] Adriana e Marina, padrone e protettrici del defunto Nicola se, uscendo dal sepolcro per un momento, fossero penetrate nel salottino ch’esse avevano empito del loro sorriso, del loro cinguettìo festevole, della loro grazia elegante! Come avrebbero stentato a credere che fossero due Bollati quelle due donne dalla faccia scialba e dall’aria abbattuta che sedevano una di fronte all’altra davanti a un tavolino rischiarato da una lucerna a olio di cui un cappello verde raccoglieva entro un breve cerchio i tremuli raggi, mentre il resto della stanza era immerso nelle tenebre e la vecchia lumiera di Murano, riscintillante un tempo per cinquanta fiammelle, pendeva dal soffitto polverosa e dimenticata! Suocera e nuora talvolta giocavano a conzina, talvolta stavano a guardarsi senz’aprir bocca. Un’ombra scura si moveva nel fondo; era don Luigi che, sprofondato in una poltrona, ora stirava le braccia, ora accavallava le gambe; poco più in là Romeo, il soriano amatissimo dalla contessa, sonnecchiava e faceva le fusa, rivolto a spira sopra uno sgabello imbottito. Ogni tanto S. E. Chiaretta tralasciava a mezzo la partita o rompeva il silenzio per infilar le sue solite querimonie, fedele al suo antico sistema di presagire i maggiori guai senza esser capace di muovere un dito per istornarli da sè. Don Luigi rincarava la dose delle lamentazioni, Fortunata ascoltava pazientemente e taceva. Di tratto in tratto ella guardava verso l’uscio come chi attende qualcuno. Ma la persona da[171] lei attesa non capitava. Capitava invece, prima di recarsi al Casino dei nobili, o al teatro, o al caffè Suttil, il lustrissimo Zaccaria, il quale, dacchè le sue faccende volgevano alla peggio, era diventato più loquace che mai, e discorreva de’ suoi colossali progetti agricoli, delle sue sognate rivendicazioni di feudi, d’una miniera aurifera ch’egli credeva d’aver scoperto in uno dei suoi poderi del Friuli e d’altre signorie fantastiche e cervellotiche.
Era forse in vista di queste ricchezze future che il conte Zaccaria, nonostante i suoi rigidi principii sull’integrità del patrimonio, aveva permesso che si cominciassero a vendere stabili e campagne. Rimedio che veniva troppo tardi per acconciare le cose. I prodotti dei fondi andavano nelle fauci dei creditori ipotecari, e quando si voleva procurarsi quattrini per disporne a proprio talento era necessario ricorrere allo spaccio furtivo (furtivo così per dire) di qualche oggetto d’arte o d’antichità; oggi un quadro, domani una statuina di bronzo, o un cammeo, o una collezione di porcellane, o un fornimento di pizzi. La servitù, che stentava a riscuotere il salario, approfittava della confusione e sottraeva ingegnosamente qualche coserella anche lei. Già le loro Eccellenze, sollecite del proprio decoro, non avevano stimato opportuno di licenziare i gondolieri, nè le cameriere, nè il cuoco, e queste ottime persone avevano dichiarato di restarsene al loro posto per solo amor dei padroni, aspettando tempi[172] migliori. Anzi il cuoco spingeva l’abnegazione fino a prestar l’opera sua al contino Leonardo per agevolargli le sue particolari combinazioni finanziarie. Non gli dava più danaro direttamente, ma lo aiutava a trovarne ingarbugliando degli usurai acciecati dall’avidità del guadagno. Conchiuso l’affare, il signor Oreste si prelevava la sua provvigione a fronte, diceva lui, degl’interessi che gli spettavano per le sue sovvenzioni passate. Altro che interessi! Se si fosse fatto il conto, si sarebbe visto che il signor Oreste s’era da un pezzo rimborsato anche del capitale, ma in famiglia Bollati non si facevano conti.
Subito dopo il matrimonio, il nostro contino aveva ripreso la sua vita d’un tempo, e della moglie non si curava neppure. Che s’ella si permetteva qualche timida rimostranza, egli prorompeva in bestemmie e in contumelie e urlava che non lo seccassero, per Dio! Egli s’era sposato per compassione, per misericordia, ma non intendeva di essersi messo un laccio al collo, o voleva divertirsi, e star con gli amici e spassarsela con femmine belle ed allegre; che già di lei, di Fortunata cioè, se ne persuadesse pure, egli era stucco e ristucco.
Che pena devess’essere per Fortunata il subire un trattamento simile, s’intende facilmente. Buon per lei che s’ella non aveva nessuna delle qualità vigorose che servono a domare le avversità, possedeva però tutte le virtù passive che aiutano a tollerarle. Alla brutalità del marito, all’alterigia[173] dei suoceri, i quali, pur non vedendola di mal occhio, la consideravano poco più d’una cameriera, ella contrapponeva una calma, una mansuetudine infinita. Le acerbe parole, gli sfregi celati o palesi non potevano scancellare dal suo cuore la riconoscenza per Leonardo che l’aveva sposata, per il conte Zaccaria e la contessa Chiaretta che l’avevano accolta nella loro casa. Ed ella sperava di conquistarsi meglio il suo posto quando le fosse nato il suo bambino, quel bambino nel cui pensiero ella riposava la mente nell’ore più sconfortate e più tristi. In quanto alla catastrofe finanziaria verso la quale si correva a passo accelerato, ella non se ne angustiava troppo. Cresciuta nella persuasione dell’immensa ricchezza dei Bollati, ella non concepiva neanche la possibilità ch’essi avessero a cadere in miseria; sarebbero diventati meno ricchi; la gran disgrazia davvero! Che bisogno aveva ella di vestiti sfoggiati, di teatri, di gondole, di cavalli, di cocchi? D’un po’ d’amore ella aveva bisogno, ecco tutto, e quest’amore la sua creatura almeno non glielo avrebbe negato.
Nei vecchi tempi, la nascita d’un erede in famiglia Bollati era un fatto di grande importanza. I primi ostetrici della dominante prestavano le loro cure alla puerpera, e i parenti e gli amici accorrevano in palazzo ad attendere con trepida ansietà lo scioglimento favorevole della crisi. Ma la povera Fortunata non ebbe il piacere di mettere in iscompiglio la cittadinanza. La notte in cui ella fu colta dalle doglie[174] il conte Leonardo gozzovigliava in un’osteria con altri scapestrati suoi pari. Avvertito delle condizioni in cui si trovava la contessa moglie—Io non posso far nulla—egli disse giudiziosamente.—Bisogna chiamare la levatrice.
E poichè lo assicurarono che quest’utile provvedimento era già stato preso, egli soggiunse:—Quand’è così, lasciatemi in pace.
E seguitò a mangiare e a bevere fino alla mattina. Allora, tornando a casa mezzo brillo, egli ricevette la lieta notizia che sua moglie, dopo sofferenze non lunghe ma acute, aveva dato alla luce una bimba.
—Neanche buona di darmi un maschio—egli brontolò con mala grazia.
Alla piccina furono imposti i nomi di Chiaretta, Luigia, Adriana, Teresa, Veronica, Margherita. Questo lusso di nomi era tradizionale nelle femmine di casa Bollati, e non si volle che in ciò la nuova contessina fosse da meno delle sue antenate. Delicato riguardo del quale non sembra però che la neonata fosse molto riconoscente, perchè subito dopo il battesimo ella principiò a strillare come un’ossessa e strillò per tre giorni e tre notti consecutive. Trascorso questo termine, ella perdette la voce e il fiato e si credette che sarebbe morta prestissimo. Ma la madre con le sue carezze, co’ suoi baci, con le dolci parole susurratele nell’orecchio la persuase a vivere. Povere mamme egoiste! Vi par proprio che la vita si apra così bella ai vostri figliuoli?[175]
La piccola Margherita (era questo tra i sei nomi della fanciulla quello con cui la si chiamava) prese un po’ di carne e di colore appena fu condotta in campagna. E Fortunata si sentiva così felice, così felice! Quand’ella poteva star vicino alla bimba e chinarsi sulla sua cuna, e covarla cogli occhi, e mirarne i moti inconscienti, e interpretarne il linguaggio, ella non aveva tempo d’accorgersi di quant’altro succedeva intorno a lei. Tutt’al più, qualche volta, le spuntava una lagrima sul ciglio al pensar che Leonardo non si curava di quest’angioletta e non le aveva dato ancora neppure un bacio. Del resto, il brontolio della suocera, le visite frequenti di sior Bortolo che lasciava sempre dietro di sè uno strascico di nuvoloni, la turbavano mediocremente. Certo la villeggiatura non era più quella d’un tempo; non c’erano banchetti, non c’erano ospiti, ma che ne importava a lei che aveva la sua Margherita?
Sua madre, la contessa Zanze, non riuscì a svegliarla che a mezzo dal suo beato sopore. La contessa Zanze, com’era suo dovere, venne a far visita ai parenti, e, quando fu sola con Fortunata, le riferì tutte le chiacchiere della piazza sul conto dei Bollati, e le disse che s’era giunti al punto di dover affittare il piano nobile del palazzo a un lord inglese. Non avevan detto nulla a lei?.... No? Ah quest’era il conto in cui si teneva la sua figliuola? Oh se si sarebbe fatta sentire! Ma intanto si ricordassero tutti, anche Fortunata, che i nodi venivano al[176] pettine, e che per scampare dalla miseria bisognava almeno mettere in salvo qualche cosa, prima che i creditori se ne impadronissero.... perle, diamanti, trine, oggetti insomma di poco volume e di molto pregio. Aveva capito? Sì o no? Gran fatalità la sua di aver sempre da fare con gente di poco cervello!
Fortunata non potè a meno di ripetere a suo marito i discorsi che le aveva fatti sua madre, di chiedergli se ci fosse nulla di vero in tutto ciò.
—Che ne so io?—egli rispose stringendosi nelle spalle.—Fanno, disfanno, comprano, vendono, senza chiedere il mio parere.... Tutti imbroglioni, tutti furfanti.... I nostri nonni, che Iddio li abbia in gloria, hanno cominciato loro a sciupare il patrimonio e noi facciamo il resto.... Io non voglio fastidi.... Finchè ce n’è, pretendo d’aver la mia parte; quando non ce ne sarà più....
—Oh, Leonardo,—proruppe Fortunata,—non puoi parlare così.... Non sei solo adesso.... Ci siamo.... c’è questa creaturina qui.... Per me, vedi, mi rassegnerei a dormir sulla paglia, a viver di pane e acqua.... ti giuro anzi che accetterei il sacrifizio con entusiasmo.... perchè nessuno direbbe allora che t’ho amato per speculazione.... ma, lei, la nostra Margherita, non ha da esser nata per patire.... non è vero, Leonardo, che non lo permetterai?.... Guardala com’è bella, com’è bianca e rosea.... Via, Leonardo—ella soggiunse, e i singhiozzi le[177] rompevano la voce—se anche ti son diventata incresciosa io.... se non puoi proprio amarmi più, un po’ di bene lo devi volere alla tua figliuola.
E così dicendo cercava di tirarlo vicino alla cuna. Ma egli, stizzito, protestò che non poteva soffrire nè le donne che piagnucolano, nè i bambini che allattano, e infilò l’uscio della stanza. Allora Fortunata si gettò con la faccia in giù sui guanciali del letto e diede libero corso alle sue lagrime.
Il vagito della bimba la scosse. Ella si rasciugò gli occhi e ricomponendo il viso a un’espressione serena prese in collo la piccola tiranna che urlava furiosamente. Accarezzata dallo sguardo e dalla voce materna, Margherita si chetò a poco a poco e abbozzò il suo primo sorriso.
—Oh, tesoro mio, anima mia!—esclamò Fortunata in estasi, e la sua faccia s’illuminò tutta.—Come ride già! S’egli fosse qui adesso! S’egli la vedesse!
E inebbriata da quel sorriso, dal primo sorriso della sua bimba, la povera donna dimenticò i suoi dolori.[178]
Le notizie della contessa Zanze non tardarono ad aver piena conferma, e l’affare del palazzo, già bene avviato quand’ella ne discorse alla figliuola, fu concluso poco dopo. L’appartamento nobile, ammobigliato come stava, era preso per due anni da un baronetto inglese ricchissimo, il quale, pur di spuntarla, aveva dichiarato d’esser pronto a pagare anticipatamente l’intera pigione in tante belle ghinee. Anzi può dirsi che questa magnanima offerta aveva dato il tracollo alla bilancia e vinte le obbiezioni del conte Zaccaria. Lo scrigno era vuoto, i bisogni stringevano, e le ghinee del signore inglese capitavano molto a proposito.
La famiglia Bollati decise di rimanere in campagna finchè fosse allestito alla meglio il secondo piano del palazzo. Con altre parole, si rinunziava a tornare a Venezia prima del San Martino di quell’anno 1845. Quei sette mesi di villeggiatura forzata invecchiarono la contessa[179] Chiaretta di sette anni. Sempre chiusa fra quattro muri, sempre al buio, ella non faceva che lamentarsi da mattina a sera. Rimpiangeva il suo salottino di città che era caduto in mano di stranieri (luterani per giunta), rimpiangeva il suo poggiuolo sul Canal Grande, rimpiangeva le visite, il teatro, la gondola e tant’altre cose di cui ella a Venezia godeva pochissimo ma che adesso le sembravano indispensabili perchè non poteva averle.
Il resto della famiglia se la passava discretamente. Il conte Zaccaria viveva nel suo mondo fantastico, e nel pensiero dei milioni che dovevano venirgli, non si sa da che parte, si consolava dei milioni che gli erano sfumati in mano. Di tratto in tratto egli faceva attaccare i cavalli e con due giorni di viaggio andava nella sua tenuta del Friuli, tenuta ch’era anch’essa, non occorre dirlo, sopraccarica d’ipoteche. Ivi giunto, con molta gravità esaminava i terreni, e raccoglieva vari pezzi di roccia, che poi spediva a qualche geologo di Venezia o d’altri paesi con l’incarico di farne l’analisi. Oppure, chiudendosi in camera, egli scartabellava alcuni documenti polverosi che aveva portato con sè in campagna, e prendeva delle note circa a un credito di duemila zecchini che nel 1685 i Bollati professavano contro un nobil uomo Steno. Quei duemila zecchini con gl’interessi dal 1685 in poi che bella sommetta avrebbero formato!
Quando il conte Zaccaria si era ben pasciuto delle sue illusioni, egli era buono e degnevole[180] anche con Fortunata. Le prometteva di farle fare uno smaniglio col primo oro estratto dalla sua miniera, e di assegnare una dote alla piccola Margherita prelevandola dalla prima rata del credito che avrebbe incassato dagli eredi Steno. Fortunata non badava alle promesse, ma i modi affabili del suocero le recavano un gran conforto; sentiva d’esser riconosciuta, non più tollerata soltanto, nella famiglia, quando egli le parlava così. Talvolta egli usciva con lei in giardino e, appoggiato al suo braccio, percorreva i sentieri su cui cresceva l’erba, i viali ove i rami degli alberi non rimondati da mano esperta s’intrecciavano disordinatamente fra loro, e diceva che nella villa c’erano infiniti bisogni, e ch’egli ci avrebbe pensato appena avesse avuto quattrini. Voleva scrivere a suo genero, che di queste faccende se ne intendeva, perchè gli mandasse un giardiniere tedesco, voleva ricostruire di pianta alcune case coloniche e migliorare le stalle e rinnovar le stufe dei fiori, e a tante altre belle cose voleva provvedere a tempo e luogo. Discorsi da far pietà a chi sapeva le condizioni vere del patrimonio. Fortunata, poverina, non si raccapezzava. Ora temeva che il conte Zaccaria non avesse più il cervello a posto, ora invece sperava che il diavolo non fosse così brutto come lo si dipingeva, e che ci dovesse esser pure una via d’uscita dagl’impicci presenti. Quantunque i segni dello sfacelo fossero anche troppo visibili, Fortunata si trovava tuttora in mezzo ad agi ch’ella non[181] aveva mai goduti in sua casa. Una grande fortuna somiglia un poco al sole d’estate che lascia dietro di sè un lungo crepuscolo; il passivo, come dicono gli uomini d’affari, può superar di molto l’attivo, e nondimeno le apparenze della ricchezza continuano per un pezzo ad abbagliare gli estranei, a illuder quelli medesimi che sono immersi nei debiti fino alla gola. Sicuro; il palazzo di campagna dei Bollati era in condizioni deplorevoli, ma era sempre uno tra’ più bei palazzi che fossero sulla Brenta; il giardino era negletto, ma era sempre un giardino ampio e signorile, e il podere contava più campi che non ne contassero sommati insieme gli altri dei possidenti vicini. Per miglia e miglia i contadini riconoscevano per padroni le loro Eccellenze Bollati, e Fortunata riceveva anch’essa inchini e scappellate a profusione e il titolo di lustrissima a ogni momento. Che più? La stessa Margherita era considerata una principessina, e allorchè tirata dalla bambinaia nel suo paniere a ruote ella si recava a visitar la famiglia del bovaro, i bimbi le facevano una festa da non dirsi e mettevano tutto l’impegno per farla sorridere. In principio riuscivano spesso all’effetto opposto, specialmente quando se ne immischiava Leone, il grosso cagnaccio nero dal pelo irto e dalla voce di basso profondo. Ma alla lunga Margherita s’era avvezzata al chiasso dei fanciulli e alle dimostrazioni romorose del cane, e dalla sua cuna orlata di trine pareva prender parte a quell’allegria,[182] e agitava le sue manine color di rosa, e girava intorno gli occhietti azzurri, e metteva certi piccoli strilli che volevano esprimere l’eccesso della gioia. Povera Margherita! Che ne capiva lei del temporale che rumoreggiava sempre più minaccioso?
Adesso però ci conviene appagare una legittima curiosità del lettore. Come si adattava a quella vita campestre il contino Leonardo, uso in Venezia a far di notte giorno nelle osterie e nei bordelli? Certo doveva esservi una ragione perchè egli, incapace di far nulla pegli altri, s’acconciasse a sacrificare ciò a cui teneva di più, vale a dire le sue abitudini viziose.
La ragione era questa. Leonardo aveva riappiccato con molto maggior fortuna di un tempo le sue relazioni con la Rosetta, quella Rosetta nipote del gastaldo ch’era andata sposa a Menico caffettiere. Ell’era maritata ormai da più anni, durante i quali il conte Leonardo non l’aveva vista, si può dire, che alla sfuggita, giacchè serbava ancora memoria delle busse avute per causa di lei e non voleva rischiar di pigliarne dell’altre. Ma quel soggiorno forzato di parecchi mesi in campagna gli aveva messo addosso di nuovo il solletico, ed egli aveva spinto ripetutamente le sue peregrinazioni fino ad Oriago a prendervi un bicchierino di rosolio dalla bella caffettiera. Infatti Rosetta era più bella che mai, d’una bellezza sensuale, lasciva, con un paio d’occhioni neri che mandavano fiamme e certe rotondità baldanzose innanzi alle quali gli eleganti[183] d’Orlago esaurivano l’intero dizionario dei vocaboli ammirativi. Di riputazione la Rosetta stava maluccio e l’accusavano d’aver tresche con questo e con quello; ella poteva rispondere a ogni modo che viveva in ottimo accordo con suo marito, e contento lui, nessuno aveva diritto d’impicciarsene.—Non voglio gelosie, non voglio scene—eran state le sue prime parole dopo le nozze, e il buon Menico le aveva giurato di non darle noia, nè con scene, nè con gelosie. Lo stesso spirito di tolleranza ella imponeva agli amanti che le male lingue le attribuivano; s’ella usava dei favori a qualcheduno, non intendeva per questo di lasciarsi mettere i piedi sul collo da chicchessia. I violenti, gli appassionati non avevano fortuna con lei; la sua benevolenza era riserbata ai mansueti ch’ell’era sicura di menar per il naso, o agli scapati di umore gioviale che nemmeno sapevano dove stesse di casa la fedeltà.
Rosetta capì subito che il conte Leonardo al primo rivederla aveva pigliato fuoco come una volta, e le parve che quello fosse un uomo da farne ciò che si voleva. Inoltre, rovinato o no, egli aveva sempre un gran nome e aveva ancora qualche zecchino in tasca, onde Menico il caffettiere fu pronto a riconoscere che bisognava trattar con tutti i riguardi un avventore il quale non poteva che dar credito alla bottega.
A poco a poco il contino Bollati spesseggiò le sue gite a Oriago sino a venirci ogni giorno; ci veniva solo nella più modesta carrettina della[184] rimessa, tirata dai più modesto cavallo della scuderia, un cavallo che sarebbe andato da sè e che lo stesso Leonardo si fidava di guidare. La vispa Rosetta, appena il suo nobile avventore entrava nel caffè, gli moveva incontro ufficiosa, gli dava del lustrissimo, dell’Eccellenza, gli domandava notizie della sua preziosa salute e gli portava con le sue mani il solito bicchierino. Allora, se non c’era nessuno, egli se la faceva sedere accanto e mesceva il rosolio anche a lei e la supplicava di non farlo sospirar altro, chè aveva già sospirato abbastanza. Ella, disposta a cedere, voleva però mettere a prezzo le sue compiacenze, voleva che questo babbeo le servisse a qualcosa. In tal guisa, quando finalmente gli capitò la ricompensa meritata, egli aveva speso un bel gruzzolo di denari ch’erano stati impiegati in parte a ristaurar la bottega. Figuriamoci gli epigrammi che si fecero in quell’occasione! I muri, quantunque meno eloquenti di quello che non siano al nostro tempo, furono coperti di scritte ove al nome del caffettiere e a quello della moglie s’aggiungevano degli epiteti tolti al regno animale. Nè il cospicuo lignaggio fu sufficiente difesa al conte Leonardo. Anch’egli lesse il suo nome, l’illustre nome dei Bollati, seguito da un appellativo ingiurioso, e pensò che sua madre aveva ragione di dire che la petulanza dei carbonari non aveva più limite. Infatti bisognava esser carbonari per mancar di rispetto in quella maniera a un nobile veneto. Comunque sia, l’esempio di Menico[185] e della Rosetta, i quali pigliavano la cosa con la massima indifferenza, persuase il conte Leonardo a calmarsi.
Forse Menico e la Rosetta non avevano torto. Quelle iscrizioni concise ed espressive restarono per un pezzo a far bella mostra di sè sulle muraglie, ma la filosofia di coloro che v’eran presi di mira spuntò gli strali della satira, e gli abitanti del villaggio, ch’eran gente di buona pasta, non istettero molto ad amnistiare le relazioni amichevoli della Rosetta e del conte Leonardo Bollati. Anzi il conte finì coll’esser considerato un personaggio attinente alla bottega, una specie di patrono, di capitalista a cui gli avventori facevano giunger rispettosamente la manifestazione dei loro desideri e delle loro lagnanze. Se lo zucchero non era abbastanza dolce, se il caffè sapeva di paglia, se le carte da giuoco eran troppo unte, si diceva una parolina al signor conte ed egli provvedeva a far cambiare lo zucchero, il caffè e le carte da gioco; se un vetro era rotto, si diceva al signor conte ch’era una bruttura il turare il buco con un foglio di carta oliata, ed egli mandava subito pel finestraio. Con questo savio sistema Sua Eccellenza Leonardo si conciliava le grazie della Rosetta, la tolleranza di Menico e la benevolenza universale. Però c’era una difficoltà. Bisognava aver sempre la borsa fornita, e la borsa del contino Bollati si smungeva rapidamente. Finchè egli aveva avuto anelli, spille o altra roba di valore, il servizievole[186] signor Oreste lo aveva aiutato con grandissimo zelo. Il valentuomo, che una volta alla settimana si recava a Padova pei doveri d’ufficio, sia che impegnasse o vendesse davvero gli oggetti affidatigli, sia che fingesse d’impegnarli o di venderli e li tenesse invece per sè, tornava sempre con un po’ di danaro. Ma quando non ci fu più nulla, il signor Oreste mutò contegno e linguaggio, e disse che non solo egli non voleva più favorire i vizi di Sua Eccellenza, ma era deciso a pensare ai casi propri e a far qualche passo per mettere al sicuro il suo vecchio credito. Allora il nostro giovinotto cominciò a presentarsi alla Rosetta con le mani vuote, e trovò accoglienze assai diverse da quelle d’un tempo. La furba caffettiera gli teneva il broncio; Menico, forse catechizzato dalla moglie, lo guardava con piglio sospettoso, come se fosse stato colto da un tardo accesso di gelosia; gli avventori della bottega avevano l’aria di canzonarlo, e prima che fosse terminata la villeggiatura il povero contino Leonardo fu pulitamente messo alla porta dalla sua bella.
In quel torno di tempo accadde un fatto d’incontestabile gravità. Il signor Oreste non aveva voluto che le sue minaccie rimanessero prive d’effetto, ed era ricorso a un legale per vedere in qual modo egli potesse far valere le sue ragioni contro il contino Leonardo. Noi sappiamo che il contino Leonardo gli aveva sottoscritto parecchie cambialette, le quali erano sempre nelle mani del sovventore e figuravano[187] come non pagate. Il legale, pur dicendo ch’era un affar serio perchè si trattava di prestiti a un minorenne, promise di tentar qualche cosa, e tentò realmente un accomodamento amichevole con sior Bortolo, l’agente generale. Ma, in primo luogo, non c’eran quattrini nè pochi nè molti, e poi sior Bortolo montò su tutte le furie sentendo che il cuoco gli faceva la concorrenza nell’imbrogliare i padroni, e scrisse di buon inchiostro alle Loro Eccellenze. Il conte Zaccaria e la contessa Chiaretta questa volta pigliarono fuoco anche loro, e la contessa soprattutto fece al signor Oreste una scena non più vista, nè udita. Era tanto e così strano il furore della gentildonna che don Luigi uscendo sbigottito dalla sua camera fu in dubbio se dovesse esorcizzarla.
La conclusione si fu che il signor Oreste ebbe quarantott’ore per far fagotto. Ed egli partì infatti, ma, partendo, commise un delitto sì atroce che il labbro rifugge dal raccontarlo. Come s’egli volesse lasciar buona memoria di sè, nel giorno precedente a quello in cui egli doveva andarsene, egli allestì un pranzo squisito, degno di qualunque celebrità culinaria. C’era specialmente un manicaretto di lepre che la lustrissima Chiaretta dichiarò la miglior cosa ch’ella avesse mangiata in sua vita, e che le fece dimenticare per qualche minuto una cura fierissima che la turbava. Il gatto Romeo, il bel soriano che la contessa portava seco in villeggiatura, era sparito fin dalla sera innanzi, e[188] nessuno ne sapeva nuova. Si sperava che egli fosse in giro per fini galanti e tornasse la mattina dopo, ch’era quella appunto in cui il signor Oreste doveva lasciar la villa. Quella mattina, invece a ora di colazione e quando il cuoco era già lontano, capitò un biglietto misterioso indirizzato:
A la lustrissima D. N.
Contessa Chiareta Bolatti
in
Sue Grassiose Mani.
Non c’erano che poche righe:
Lustrisima sigora Contessa.
Mi preggio avisarlla che il ragù di lepre da Ella mangato geri era il gato Romeo. Ciò per sua cuiette. Le baco le mani e sonno il suo cuocho per servilla
Oreste Meolo.
La contessa Chiaretta ebbe un assalto di convulsioni e cadde nelle braccia della nuora.[189]
La salute non mai vigorosa di Sua Eccellenza Chiaretta ricevette una scossa gravissima da questo tragico avvenimento. Solo il piacere della vendetta, che dicono essere il piacere degli Dei, avrebbe potuto far nascere in lei una benefica reazione, ma il vile uccisore di Romeo era fuggito e le imperfette leggi della società moderna non tengono conto del gatticidio. Onde alla lustrissima Bollati non restò altro conforto che quello di querelarsi e d’imputare al carbonarismo questa nuova nefandità. Nè, ritornata di lì a poco a Venezia, e ridotta a vivere nel secondo piano del suo palazzo, ella vi si trovò in tali condizioni da poter rinfrancarsi di corpo e di spirito.
Adesso sì i Bollati cominciavano ad avvertir davvero i segni precursori della miseria. Quegli stanzoni del secondo piano, non più abitati, non più aperti quasi, dopo la morte del vecchio conte Leonardo, avrebbero voluto lusso di addobbi[190] a rivestirne le larghe pareti, e allegria di fuochi crepitanti nel caminetto a mitigar il rigore delle lunghe sere invernali. Invece la mobilia povera e scarsa mal nascondeva i guasti dei muri screpolati e ammuffiti, e dall’ampie bocche dei caminetti senza bragie e senza legna, anzichè il calore e la luce, veniva a buffate l’aria umida e fredda. La sala che, simile a quella del primo appartamento, divideva longitudinalmente il quartiere in due parti uguali, era priva di tende e d’ogni specie di suppellettili e metteva i brividi al solo affacciarvisi, nè la si poteva attraversare che impellicciati e a capo coperto, provocando una fuga generale dei topi che non avevano l’abitudine di esser disturbati nelle loro scorrerie. C’era però una stanza ove i topi non si rintanavano, non fuggivano, ma guardavano petulantemente l’uomo come un intruso, ed era la cosidetta biblioteca o piuttosto archivio di famiglia, chè in fatto di libri non ce n’eran stati troppi in palazzo neppure ai tempi della Serenissima, e i Bollati, uomini d’azione più che di studio, avevano sempre avuto una scarsa passione per la lettura. Ma quegli scaffali erano stati pieni di filze, di buste, di pergamene, di registri che rendevano conto di tutte le mutazioni avvenute nel patrimonio dallo scorcio del secolo decimosesto fino alla caduta della Repubblica e ch’erano stati spesso consultati dagli antichi e coscienziosi amministratori. Subentrato poi il disordine col predecessore di sior Bortolo e inaugurato da sior Bortolo stesso il regime[191] dell’anarchia, l’archivio cadde in assoluta dimenticanza o per meglio dire fu visitato soltanto da qualche servo infedele che trafugava filze e registri per venderle ai pizzicagnoli. Ora i rosicchianti compivano l’opera. Moltiplicatisi prodigiosamente per virtù della vita comoda e delle facili nozze, essi digerivano con la medesima disinvoltura la carta e il cartone, lo spago e la pergamena, le prime note e i libri mastri, le lettere dei gastaldi e quelle delle Eccellenze, i contratti e le mariegole, le commissioni degli ambasciatori e le promissioni ducali. Per distruggerli ci sarebbe voluta una legione di gatti, ma si preferiva di lasciarli in pace sperando che così rinuncierebbero ad invadere il resto dell’appartamento. Solite e vane speranze dei deboli nella moderazione dei forti.
La tristezza dei luoghi era accresciuta dalla solitudine e dal silenzio che vi regnavano. Non c’era stato neanche bisogno di ridurre il numero dei servitori; a eccezione di due rimasti o per fedeltà, o per abitudine, o per la speranza di razzolare ancora qualche cosa, gli altri, visto che il bottino era fatto, s’eran licenziati da sè. E anche don Luigi aveva privato la famiglia delle sue prestazioni domestiche e de’ suoi conforti spirituali. Pover’uomo! Non aveva poi tutti i torti. Sul resto poteva transigere, ma aveva almeno il diritto di mangiar bene, e dopo la partenza del cuoco non c’era più caso di veder portare in tavola un piatto decente. Il dotto istitutore del conte Leonardo se ne andò[192] carico di tutti i suoi manoscritti inediti, imprecando alla sorte che lo aveva fatto nascere un secolo troppo tardi. Cent’anni prima egli sarebbe invecchiato pacificamente presso i suoi Mecenati a’ quali avrebbe potuto dedicar le sue opere stampate a loro spese in edizione di lusso.
In quanto agli antichi conoscenti alcuni non si facevano più vivi, altri venivano per curiosare; primissima fra questi la contessa Ficcanaso a cui non pareva vero di andar in giro per la città esclamando con aria contrita:—Madonna Santa! Quei Bollati a che punto sono ridotti! È una cosa che stringe il cuore.... Una famiglia come quella!... Io vado a salutarli per amicizia, perchè non si vedano abbandonati da tutti, ma ci patisco, in fede mia ci patisco.... Ma! Che lezione pei Rialdi i quali han messo sossopra cielo e terra per accalappiare il conte Leonardo! Eh! Se non fosse che per quella pettegola della contessa Zanze si dovrebbe dire che c’è una giustizia a questo mondo.
Così a poco a poco la loquace femmina lasciava trasparire l’intima soddisfazione recatale dalle disgrazie de’ suoi amici.
E ormai cadevano come foglie secche le ultime illusioni di Fortunata. La campagna aveva esercitato un’azione pacificatrice sul suo spirito, aveva avuto la virtù di attutire in lei le impressioni spiacevoli, di render più intense le impressioni gioconde. E poi la piccola Margherita era tanto sorridente, pareva tanto felice di[193] trovarsi all’aria aperta, in mezzo all’erba, agli alberi, ai fiori, che la tenera madre non aveva tempo da pensare ad altro, nemmeno all’abbandono del marito, nemmeno alla povertà minacciosa. Oggi la scena era cambiata. La bimba non sorrideva più, e perdeva il suo bel colore di rosa, e piagnucolava pei geloni, e mostrava di non comprendere, senza poterlo dire ancora, perchè l’avessero condotta in quelle stanze fredde e melanconiche invece di lasciarla dov’era. La bimba non sorrideva più, e Fortunata, priva di quel sorriso attraverso il quale le cose le erano apparse tinte d’una luce gaia, si trovava a faccia a faccia con la nuda realtà, e guardava paurosamente all’avvenire. Che sarebbe di lei, che sarebbe della sua creatura?
Tentar di scuoter Leonardo, richiamarlo alla coscienza dei suoi doveri, era impresa disperata. Testimonio, consapevole o no, d’una rovina che del resto nessuna forza umana poteva evitare, il giovane conte Bollati s’abbrutiva ogni giorno peggio nei vizii, e per resistere alle preghiere e ai buoni consigli trovava un’energia che non aveva mai trovato per fare il bene. Guai se sua moglie gli rivolgeva un’esortazione, un rimprovero, guai s’ella rimaneva alzata ad aspettarlo quand’egli tornava a casa nel cuor della notte! Egli la colmava di improperi e si scagliava contro quelle santocchie che con le loro finzioni di tenerezza e i sospiri e gli sdilinquimenti e le arie da vittime cercano di dettar la legge agli uomini e di condurseli dietro come[194] cagnolini. Non l’avevano ancora capita ch’egli voleva esser libero? Non avevano capito che s’era tenuto una stanza separata da quella di sua moglie e della bambina appunto perchè intendeva andare e venire quando e come gli piacesse senza render conti a nessuno?
Dopo un paio di queste scene, Fortunata non osava più farsi vedere, ma d’altra parte ella non poteva pigliar sonno finchè non fosse sicura che suo marito era in casa. E le accadeva sovente, dopo spento il lume, di mettersi a sedere sul letto, col busto avviluppato in uno sciallo, con le orecchie tese, con gli occhi fissi nel buio. Nei silenzi notturni le giungeva distinto dal campanile della parrocchia il suono delle ore, le due, le tre, le quattro talvolta; finalmente ella sentiva aprir la porta dello scalone e Leonardo col suo passo strascicato attraversar la sala ed entrar nella sua camera di cui richiudeva rumorosamente l’uscio dietro di sè. Non c’era dubbio pur troppo ch’egli venisse a fare un’improvvisata alla sua sposa, a dare un bacio alla sua figliuola. Fortunata, singhiozzando, cacciava la testa sotto le coperte.
Intanto, come se le disgrazie fossero poche, la contessa Chiaretta deperiva a vista d’occhio, e quella primavera bisognò per cagion sua rinunziare alla campagna. Ella non aveva una malattia ben determinata; aveva degli accessi di estrema debolezza da cui si rimetteva temporaneamente per ricader poi nella prostrazione di prima. Il medico di famiglia che la curava[195] per amicizia tentennava il capo dicendo:—Non ci vedo chiaro. Tanto può durare degli anni, tanto può morire da un momento all’altro. Non lasciatela mai sola.
Sua Eccellenza, assistita a vicenda dalla nuora, dalla contessa Zanze e da una vecchia fantesca, tirò innanzi sin verso la fine dell’estate continuando ad attribuire ai carbonari tutti i guai pubblici e privati, e lagnandosi col suo padre spirituale monsignor Lipari (il buon canonico di San Marco che aveva favorito il matrimonio di Fortunata e Leonardo) della eccessiva tolleranza dei Governi verso i nemici del trono e dell’altare. Ma quando nel giugno 1846 Pio Nono salì al Pontificato e un mese dopo la sua elezione promulgò l’amnistia pei delitti politici, la contessa Chiaretta non potè resistere a questo nuovo colpo, e prese commiato da un mondo ove l’ordine naturale delle cose era sconvolto e i patrizi veneti andavano in rovina e i Papi facevano all’amore coi rivoluzionari.
Lo scarso numero di gondole che seguirono al cimitero il feretro della defunta dimostrò a luce di meriggio quanto in basso fossero caduti i Bollati. E pensare che ott’anni prima mezza Venezia era accorsa ai funerali del conte Leonardo!
—Buffoni!—brontolava Sua Eccellenza Zaccaria prendendo nota dei pochi ch’eran venuti e dei molti ch’eran mancati.—Credono che non siamo più quelli d’una volta. Come resteranno intontiti quando principierò a mettere in circolazione l’oro della mia miniera![196]
Con questa fissazione in testa, il conte Zaccaria non ebbe campo di sentir troppo profondamente la perdita ch’egli aveva fatta. Solo esternava il rammarico che sua moglie non fosse vissuta abbastanza da veder rifiorire le condizioni economiche della famiglia. Invece Leonardo, che si rideva della miniera paterna, provò lo sbigottimento che i pusillanimi provano sempre allo spettacolo della morte. Dalla finestra egli accompagnò con lo sguardo il funebre corteggio che usciva dal portone del palazzo per avviarsi alla chiesa; poi si rannicchiò pallido e smarrito presso la moglie che, interpretando quell’atto come un segno di resipiscenza e rasciugandosi le lagrime che le sgorgavano sincere e abbondanti dal ciglio,—Oh Leonardo—gli disse—per la memoria della tua povera mamma che adesso è lassù a pregare per noi, per amor di questa bambina innocente che è pur figlia tua, fa senno, Leonardo. Se è proprio destinato che la miseria debba picchiare alla nostra porta, pazienza.... Vogliamoci bene almeno noi che siamo rimasti al mondo, viviamo l’uno per l’altro, e tutte le privazioni ci parranno lievi.... Credilo pure, la vita che fai non può darti alcuno soddisfazione, non può che rovinare la tua salute.
Quest’era l’argomento che poteva colpire di più un uomo come Leonardo. E infatti per alcuni giorni, fosse effetto delle parole di Fortunata, fosse l’impressione del lutto recente, egli sfuggì i soliti amici e passò la maggior[197] parte della giornata in casa, contentandosi, miracolo davvero nuovo per lui, di uscir tre sere di seguito in compagnia della moglie. Senonchè le abitudini dissolute hanno fra gli altri guai anche questo, che chi vuol levarsele d’addosso deve non solo combattere le sue inclinazioni, ma deve pur rassegnarsi a soffrire per qualche tempo cento piccoli acciacchi sinchè il corpo si avvezzi al cambiamento di stato. Leonardo, uso a cercare un vigore fittizio nelle bibite spiritose, uso a respirar l’aria viziata ma calda delle osterie e delle alcove, provava un malessere indefinibile, un senso di spossatezza, di freddo, di cui non riusciva a liberarsi. Se si guardava nello specchio, si sgomentava della sua tinta terrea, dei suoi occhi infossati, delle sue guancie cascanti; gli pareva di sentirsi vecchio e attribuiva alla breve astinenza quello ch’era effetto del lungo libertinaggio.
Uno de’ suoi compagni di stravizzi, vistolo una mattina per la strada, gli corse dietro, e battendogli sulla spalla—ehi Bollati—gli disse—come va?... Hai fatto divorzio dal mondo... Capisco... la perdita della madre... È una gran disgrazia... ma che farci? siamo tutti mortali, e i vecchi bisogna che se ne vadano prima dei giovani.... Tu però... non ci avevo badato... hai l’aria molto patita, sai?...
—Ti pare?—balbettò Leonardo sbigottito di sentir dal labbro di un’altra persona la conferma di ciò che s’era detto lui stesso.[198]
—Sì, parola d’onore.... Del resto, se stai bene....
—Oh sì, sto bene... sono un po’ fiacco....
—Si vede.... Andiamo a prendere un bicchierino di cognac?
—No, no....
—Andiamo; pago io.... Voglio procurarmi il piacere di servir Sua Eccellenza il nobiluomo Leonardo Bollati.... Sua Eccellenza non si degna?
Leonardo cedette, e dopo bevuto quel bicchierino ripetè l’ordinazione, e questa volta pagò lui, per sè e per l’amico. Il magico liquore entrava nel suo stomaco come un padrone che rientra in casa dopo qualche tempo d’assenza; casa e padrone si riconoscono e sono contenti di ritrovarsi.
—Auff!—esclamò il Bollati tirando un gran respiro.—Adesso sono un altro uomo.
—Lo credo io—soggiunse il compagno.—Hai subito rifatto una cera da cristiano.
—Davvero?
—Sicuramente.... Non c’è nulla che ristori come un sorso di cognac.... Si prende un terzo bicchierino?
—Un terzo poi... è troppo.
—Ma che ubbie.... Questo lo giocheremo a pari e dispari.
Così fu fatto e Leonardo perdette.
—A dar retta alle donne si dovrebbe adottare il regime dell’acqua e latte—egli disse leccandosi le labbra.[199]
—Non tutte le donne però—rimbeccò l’altro.—Ti rammenti della Mariannina?
—Quale? La figurante della Fenice?—domandò il conte Leonardo con gli occhietti lustri.
—Quella appunto.... Che bevitrice!... È a Venezia di nuovo....
—Diavolo! Da quando?
—Da poco.... Stasera è a cena con noi altri al Cappello.... Dovresti venire anche tu....
—Io?... No.... Sono in lutto....
—Capisco.... Se si trattasse d’una gran cena, se ci dovesse essere molta gente.... Ma è una cenetta senza pretesa.... non siamo che in cinque, io, per non dimenticarmi, Arduzzi, Caldieri, Dal Maido e la Mariannina.... Vieni, vieni....
—No... oltre al lutto... se tu sapessi... ho tanti fastidi....
—Ragione di più per distrarsi.
—Quel maledetto sior Bortolo mi lesina il centesimo....
—Eh... non siamo in floribus nessuno. Appunto per questo s’è limitata la spesa... Quattro svanziche a testa compreso il vino.... Poi si pagherà una bottiglia alla Mariannina, tanto per vederla un po’ brilla.... Sai che originale è quando ha bevuto più del bisogno.... Tre anni fa, al Ridotto, non ti ricordi?
Leonardo si mise a ridere. Se si ricordava! Una notte allegra come quella non l’aveva passata mai.[200]
L’idea di veder la Mariannina un po’ brilla esercitava un fascino singolare sull’animo del giovane conte. E dopo altri tentennamenti, egli si risolse ad andare al ritrovo.
E vi andò infatti, ed ebbe il piacere di veder la Mariannina un po’ brilla, ma sembra che non uscisse neppur lui dalla cena in condizioni normali, se gli amici stimarono opportuno di accompagnarlo a casa e di aiutarlo a metter la chiave nel buco della serratura.
Spuntava il giorno e Fortunata non aveva ancora chiuso occhio. Le sue speranze di ricondurre il marito sulla retta via erano durate una settimana.[201]
A grado a grado, da quella facilità di illudersi che possono avere anche i savi, il conte Zaccaria era arrivato a quell’allucinazione permanente che non hanno se non i pazzi. La sua era una pazzia ilare, innocua, tranquilla, ma era pur sempre una pazzia, e quand’egli discorreva in tuono di profonda convinzione dell’immense ricchezze che dovevano venirgli da cento parti, era impossibile prendere abbaglio sul vero stato del suo cervello. Tuttavia, in complesso, egli era più da invidiare che da compiangere. In mezzo al crollo della sua fortuna, egli stava sereno ed impavido come l’uomo giusto d’Orazio. Non si poteva andar più a villeggiar sulla Brenta perchè la tenuta era stata mandata all’asta dai creditori? Egli si stringeva nelle spalle, e diceva che non gliene importava nulla perchè la Brenta gli era venuta in uggia e voleva fra poco comperarsi una villa di suo gusto, in collina. Gli stessi creditori, insaziabili[202] arpie, s’impadronivano del podere situato in Friuli, proprio quello in cui avrebbe dovuto esserci la famosa miniera? Il nostro gentiluomo sorrideva con aria di superiorità:—Bah! Il podere se lo piglino pure.... Quattro campi sterili.... Ma il diritto sulla miniera l’ho sempre io.... Carta canta.—E tirava fuori una carta, ove coloro che avevano fatto il sequestro dichiaravano realmente di rinunziare ai prodotti della eventuale miniera aurifera che si trovasse sul fondo. Questa dichiarazione da burla s’era ottenuta senza fatica, giacchè, dal conte Zaccaria in fuori, non c’era nessuno che prendesse sul serio l’esistenza della miniera.
A metter di buon umore Sua Eccellenza Bollati contribuiva altresì il fermento politico che andava propagandosi per l’Italia. Dopo la morte della contessa Chiaretta, ch’era una reazionaria di tre cotte, il conte Zaccaria aveva spiegato una certa propensione alle idee liberali. Diceva ch’era tempo di finirla, che i popoli erano stanchi d’esser trattati come pecore, e che il Governo austriaco non meritava più la fiducia dei Veneziani. Chi sa? Forse egli non era alieno dal credere alla risurrezione della Serenissima, nel qual caso, se non facevano doge lui, chi dovevano fare? Ma sopratutto era entusiasta di Pio IX, vero italiano, vero capo della Chiesa, vero padre dei fedeli. Quello era un uomo che doveva stabilir il regno della giustizia nel mondo, e per cominciar bene il lustrissimo Zaccaria sperava che Sua Santità avrebbe fatto[203] giustizia a lui nella rivendicazione dagli eredi Steno. Poichè la sostanza Steno era andata a finire da un pezzo nelle mani della Pia fondazione dei Catecumeni, fondazione, come ognun vede, d’indole religiosa, e quindi tale da permettere al Papa di guardarci dentro e di farle restituire il male acquistato. I legali avevano un bel dire che, quand’anche il credito dei Bollati verso gli Steno fosse stato sacrosanto, esso era ormai caduto in prescrizione da più d’un secolo; il conte Zaccaria li lasciava discorrere e sorrideva sotto i baffi. Se il Papa prendeva le sue parti, importava molto la prescrizione! E a Sua Santità egli aveva spedito un memorandum di venti pagine tutte scritte di suo pugno, e non dubitava nemmeno di riceverne presto o tardi una risposta favorevole. Certo che non bisognava aver fretta; il Sommo Pontefice era tanto occupato!
Una sola cosa turbava l’ottimismo di Sua Eccellenza Bollati, ed era l’impossibilità di ottenere l’aiuto del figlio nell’esecuzione dei suoi disegni. Quel Leonardo era sempre un ragazzaccio, e il conte Zaccaria non lo nominava senza una certa inflessione di voce e una certa scrollatina del capo più eloquenti d’ogni parola.—Quel Leonardo—egli diceva nei momenti di maggiore espansione—non è cresciuto come speravo. E sì che non si è risparmiato nulla per la sua educazione, e non gli son mancati i buoni consigli.... Ma! Fatalità!... Capisco; le donne, il giuoco, il vino sono una gran tentazione[204] per un giovinotto dell’aristocrazia che non può vivere come un anacoreta, specialmente quando gli corre nelle vene il sangue dei Bollati;... ma, santo Iddio, c’è modo e modo... est modus in rebus.... Io, per esempio... sì... mi sono divertito... sempre nei limiti però... sempre tenendo alto il decoro della famiglia... sempre trovando il tempo d’occuparmi degli affari, quantunque la gente non lo credesse.... Adesso mi renderanno giustizia.... Eh, se non ci fossi stato io che scovavo fuori quei due filoni della miniera e dell’affare Steno, l’aveva da esser bella con questi anni di cattivi raccolti, con questa petulanza di creditori che fanno atti, sequestri e ogni specie di porcherie senza un riguardo al mondo, e come s’io fossi un bifolco simile a loro.... Del resto io me ne rido... so che a loro marcio dispetto lascierò ai miei eredi il patrimonio quadruplicato. In fede mia, Leonardo non lo meriterebbe, no davvero, non lo meriterebbe.
Quanto più il conte Zaccaria si persuadeva dei demeriti del figliuolo, tanto più egli si mostrava gentile con la nuora. Lodava la sua pazienza col marito, la sua bontà con la piccina, la sua attitudine a capir le cose (poveretta! ella ascoltava a bocca aperta i suoi spropositi senza osare di contraddirgli) e largheggiava sempre maggiormente nelle promesse. Basta; se ne sarebbe accorta un giorno, dopo la sua morte.
In mezzo a queste volate d’una fantasia inferma[205] c’era però un sentimento vero. Il conte Zaccaria aveva preso sul serio a voler bene a Fortunata. Era una di quelle tenerezze della vecchiaia che somigliano tanto alle tenerezze dell’infanzia, una di quelle tenerezze alimentate piuttosto dai sacrifizii che esigono che da quelli che fanno. Nondimeno Fortunata se ne contentava, e nel suo cruccio di vedersi mancar l’amore del marito, le dimostrazioni affettuose del suocero erano di gran conforto per essa. Tanto più che la benevolenza del conte si estendeva alla nipotina, alla quale egli mostrava una tenerezza che non aveva mai mostrato ai suoi due figliuoli. La bimba, dal canto suo, aveva pel nonno una simpatia appena agguagliata dalla ripugnanza invincibile ch’ella provava pel babbo. Già il babbo non le aveva mai fatto una carezza; era sempre cupo, stralunato, negletto nel vestire, con la barba ispida e i capelli arruffati; il nonno invece la pigliava volentieri in collo, le regalava delle chicche e l’affidava col suo viso ordinariamente sereno, con la persona linda e pulita, con l’intonazione amichevole dei lunghi discorsi ch’egli teneva alla mamma, passeggiando su e giù per la stanza, gestendo anche con vivacità, ma senza perdere una tal quale compostezza di gentiluomo.
Suocero e nuora uscivano sovente a braccetto, e andavano ora a fare una giratina sulla Riva degli Schiavoni, ora a prendere il caffè da Suttil in piazza San Marco, ove qualcuno dei conoscenti si accostava al loro tavolino per barattar[206] quattro chiacchiere. Gli altri avventori si guardavano strizzando l’occhio e tentennando la testa; poi, quando i Bollati non c’erano più in bottega, principiavano i commenti.
—È matto....
—Un matto allegro.... Non parla che delle sue ricchezze....
—Invece siamo agli sgoccioli, non è vero?
—Altro che agli sgoccioli!... Tutte le campagne all’asta... citazioni, oppignorazioni da tutte le parti....
—Uno di questi giorni andrà all’incanto anche il palazzo.
—Lo comprerà il Milord.
—Probabile.
—C’è sempre quella gioia del sior Bortolo?
—Sì, c’è ancora... finchè può raspare.
—È stato la rovina della famiglia.
—Ci ha cooperato sicuro.... Ma se avessero avuto un po’ di cervello i padroni....
—E il figliuolo? Vi par poco?
—Non discorriamone neanche.... Quello ha tutti i vizi.... Ed è crivellato di debiti per suo conto particolare.
—Sì, come se non bastassero quelli della casa.
—Non si capisce nemmeno come tirino innanzi.
—Ma! Vendendo o impegnando il poco che resta.... Le fortune colossali lascian sempre qualche piccolo avanzo....
—Pensare che si trattava di milioni![207]
—E il genero e la figlia dove sono?
—In Boemia, in Moravia, che so io?... Indebitati fino agli occhi anche loro....
—Che patatrac!
—La bella speculazione che ha fatto la ragazza Rialdi sposando Leonardo Bollati!
—Bella tanto! È stata la madre.... Lei, poveretta, s’era innamorata proprio del cugino....
—E gliene aveva date le prove....
—Casi che nascono!
—Del resto, sarà una buona diavola, ma fisicamente non vai nulla....
—Nulla affatto.... Mostra dieci anni di più di quelli che ha. Dev’essere giovanissima.
—Oh sì.... Ventuno, ventidue anni al massimo....
—Ebbene se gliene darebbero trenta....
—Il curioso si è che oggi i Rialdi sono in migliori condizioni dei Bollati.
—Non c’è dubbio.... Tanto più se, come dicono, il conte Luca sta per diventar consigliere d’appello.
—Consigliere d’appello! Con quei meriti! Non ha fatto mai altro che giocare agli scacchi.
—Eh, è un posto che gli viene per anzianità.
—Il figlio, ch’è in marina, si farà strada....
—L’ufficiale? Sì, è un giovane d’ingegno, ma una testa calda, una testa calda.... Uhm!... Vi ricordate la faccenda del duello? E la scena al Casino?
—Quella volta se non c’era qualche santo[208] che lo proteggeva l’andava a finir male per lui. Prender la difesa dei Bandiera? Nella sua posizione?
Mentre si tenevano tali discorsi sul conto dei Bollati e dei Rialdi, il nobiluomo Zaccaria, tornando a casa con la nuora, giudicava severamente le cariatidi del Caffè Suttil.
—Quella è gente buona da mettere in museo—egli diceva—gente che non capisce i tempi, come la povera Chiaretta.... E poi tutti rovinati, sai, tutti, senza eccezione....
I tempi che il conte Zaccaria credeva di capire si facevano sempre più grossi, e dall’Alpi al Mar Jonio era un fremito di vita nuova che si manifestava negli scritti, nelle adunanze, nelle dimostrazioni di piazza. Il nome d’Italia, lasciato un giorno ai poeti ed ai rétori, era oggi sulle labbra del popolo e non significava più una memoria, ma una speranza, ma un affetto sentito e gagliardo, preparatore d’opere virili. E l’amore di patria portava seco come natural conseguenza l’odio contro il dominio straniero. Palesemente ove non c’eran gli Austriaci, velatamente nelle terre lombardo venete, si parlava d’una prossima alzata di scudi; con quali armi non si sapeva ancora, ma gl’Italiani si contavano, e già pareva loro d’esser tutti soldati per la guerra santa. I muri si coprivano d’iscrizioni di Morte ai Tedeschi.—W. l’Italia—W. Pio Nono; strana eppur quasi universale illusione che associava l’idea del riscatto al nome d’un Papa. E anche[209] Venezia, accusata fino a quei giorni di spiriti fiacchi, usciva dal lungo torpore. Il sonnolento Ateneo non isdegnava di entrar esso pure nella corrente rivoluzionaria e iniziava la discussione d’argomenti sociali ed economici; le onoranze a Riccardo Cobden nel luglio 1847 furono un pretesto per inneggiare alla libertà, e il Congresso dei dotti raccoltosi nel settembre in Palazzo ducale servì a stringer saldi legami di pensiero e d’affetto tra i migliori uomini della Penisola.
Questa sinfonia allegra del dramma sanguinoso che doveva rappresentarsi nel 1848 era fatta apposta per isconvolgere interamente la testa debole del conte Zaccaria. Egli confondeva le faccende pubbliche con le sue faccende private, vedeva un’intima relazione tra le riforme politiche, la riscossione dei suoi crediti immaginari, e l’esercizio della non meno immaginaria miniera; ma quest’era ancora il meno peggio perchè gl’impediva di accasciarsi sotto il peso delle sue sventure reali. Il guaio serio era l’inquietudine che gli si era cacciata addosso e che gli cresceva ogni giorno; gli sembrava, chiamandosi Bollati, di non poter rimanere estraneo agli avvenimenti, avrebbe voluto discorrere, scrivere, stampare anche lui qualche cosa (avrebbe stentato a dir che cosa) e s’irritava delle difficoltà che gli attraversavano la via, del modo sprezzante con cui certa gente da nulla accoglieva le sue parole. Sotto l’impressione di queste ripulse egli s’esaltava fuor[210] di misura, e Fortunata, che sola riusciva a calmarlo, cominciava a temere che la pazzia innocente del suocero potesse presto o tardi convertirsi in una pazzia pericolosa. Di qui uno spasimo nuovo per lei, che tremava per la sua Margherita, eppur non sapeva come impedire al conte Zaccaria di vederla.
Però queste sue paure non dovevano durare a lungo. Era una giornataccia di novembre umida e fredda e il conte Zaccaria aveva rinunziato a uscir di casa. Per tutta la mattina egli non aveva fatto altro che discorrere strampalatamente, ma tranquillamente, con Fortunata de’ due affari che gli stavan più a cuore, la miniera e la causa di rivendicazione, dicendo, a proposito di quest’ultima, che voleva sollecitare il Papa a rispondergli. E invero dall’agosto 1840 al novembre 1847 c’era stato tempo d’avanzo a maturar la risposta.
Dopo colazione il conte si sdraiò sur una poltrona in fondo del salotto, mentre Margherita, ch’era oramai una trottolina di due anni e mezzo, gli s’arrampicava sulle ginocchia e gli chiedeva due cose, un confetto e una storia. Fortunata, seduta accanto alla finestra, rammendava della biancheria; Leonardo, al solito, era fuori.
Il vecchio gentiluomo diede alla nipote uno zuccherino; poi, impasticciando insieme le reminiscenze delle fiabe udite dalla balia con le fantasie del suo cervello malato, raccontò d’un re e d’una regina che avevano una bimba bella[211] come il sole, e d’un mago che aveva trovato dei filoni d’oro e con quell’oro aveva fabbricato una casa per mettervi dentro la bimba, e la casa era grande, grande, grande....
—Grande così—disse la bimba allargando il più possibile le sue piccole braccia.
—Grande così—ripetè il conte chinando la testa in segno d’assenso.
E non soggiunse altro.
—Nonno dorme—bisbigliò Margherita dopo una breve pausa.
Fortunata si scosse.
—Se dorme, lascialo stare. Vieni qui. Ma la fanciulla non si moveva.
—Nonno dorme—ella tornò a dire.
E intrecciava le sue dita rosee nei capelli bianchi del conte Zaccaria e chiamava:
—Nonno; nonno!
—Bimba disubbidiente!—esclamò la madre alzandosi infastidita.—Lascialo quieto il nonno.
Oh il nonno era tanto tanto quieto. Egli non sentì nè l’appello della nipote, nè il grido della nuora, nè l’irrompere tumultuoso della gente accorsa in aiuto, nè le preghiere del sacerdote venuto a rendergli gli ultimi uffici. Il nonno era morto, morto meglio di quel che non fosse vissuto, morto al suono d’una voce carezzevole che gli blandiva l’orecchio, morto col sorriso sul labbro, sognando le ricchezze, la fortuna, gli onori.
Il testamento trovato in un cassetto della[212] scrivania provò le felici disposizioni d’animo del defunto. Egli legava somme considerevoli a un’infinità d’Istituti di beneficenza, e nuove Opere pie voleva fossero fondate col suo nome. Ma largheggiava specialmente in favore di Fortunata e di Margherita. Alla prima egli assegnava ottomila zecchini da prelevarsi sul prodotto della miniera aurifera del Friuli; alla seconda destinava duecentomila lire venete sul credito Steno; a tutt’e due poi distribuiva perle, diamanti e altri oggetti preziosi che non esistevano più. Alla figlia maritata Geisenburg lasciava il compimento della legittima e un fornimento di pizzi venduti da due anni; del conte Leonardo diceva che la sua condotta dissipata avrebbe autorizzato il padre a diseredarlo; nondimeno, nella speranza ch’egli si ravvedesse, lo nominava erede universale, con l’ordine espresso di spingere alacremente i lavori della miniera e gli atti della causa. Dopo parecchi legati di minor conto, c’erano istruzioni precise sui funerali che dovevano essere splendidissimi, e sui due monumenti che Sua Eccellenza Zaccaria voleva eretti a sè e alla N. D. Chiaretta sua moglie.[213]
Un cambiamento notevole era successo nella situazione rispettiva dei coniugi Rialdi: la moglie non era più così autoritaria, il marito non era più così docile come una volta. Col suo arrabattarsi continuo, co’ suoi intrighi orditi di lunga mano, con la sua pretensione di ristorar le fortune della famiglia, la contessa Zanze non era riuscita che al colossale sproposito di maritar la figliuola a un uomo vizioso e rovinato; senza impicciarsi in nulla, senza far altro che passar quattr’ore al giorno all’Uffizio e il resto della giornata a giocare a scacchi al Caffè della Vittoria, il conte Luca, gradino per gradino, era giunto a ottenere il posto di consigliere di appello, ch’è quanto dire a essere una persona d’importanza, che nelle feste solenni indossava la sua brava uniforme, s’allacciava a fianco uno spadino incapace di far male a nessuno, si metteva in testa un cappello a due punte, e percorrendo le strade pedibus calcantibus[214] attirava sul suo passaggio le esclamazioni ammirative dei monelli. Aggiungansi a queste compiacenze morali quella d’avere uno stipendio che, in quei tempi di prezzi bassi, permetteva di mantenersi assai decorosamente. Onde non c’era più bisogno di pranzar fuori di casa due volte alla settimana, e s’era potuto sostituire con un servo effettivo e reale il cameriere che la contessa Zanze soleva prendere a nolo pe’ suoi martedì. A fronte di questi benefizi il conte Luca pretendeva dalla consorte un rispetto maggiore e aveva anzi dichiarato in modo assoluto di non voler più lasciarsi chiamare coi titoli di pampano, babbeo e altri simili. La consorte ubbidiva fremendo. A lei pareva d’aver attività, energia, intelligenza da vendere al conte marito, ma l’era forza riconoscere che la sorte non l’era stata propizia e aveva invece favorito lui, quell’imbecille, che non s’era neanche mosso per meritarsene i favori. Delle giustificazioni a sè stessa ella ne trovava in quantità; è naturale, se ne trovano sempre. Ella diceva che quel precipizio dei Bollati era giunto inaspettato a tutti, e che non si poteva prevedere che Leonardo non avesse nè un briciolo di cervello, nè un briciolo di cuore. Del resto, almeno per la parte economica, se l’avessero aiutata, le cose sarebbero andate diversamente. E di tanto in tanto, nell’intimità coniugale, la contessa Zanze si lasciava scappar la vecchia frase:—Se foste entrato nell’amministrazione! Quel sior Bortolo nuota nell’abbondanza.[215]
Il conte Luca montava su tutte le furie e non aveva torto.—Cosa mi venite a parlare di sior Bortolo? Volevate ch’io facessi la parte di quel furfante?
Ma la contessa protestava contro questo modo d’interpretar le sue parole e ripeteva quello che aveva già detto centinaia di volte negli anni passati.—Se foste entrato nell’amministrazione sareste diventato un signore voi e avreste salvato dalla rovina i vostri parenti.
—Corpo di bacco! E vi par nulla che io sia invece consigliere d’appello?
Comunque sia, questi erano discorsi inutili, e c’era ben altro da fare che andar ruminando il passato. Ormai appariva chiaro come la luce del sole che fra poco i Bollati sarebbero rimasti in camicia e che Fortunata sarebbe tornata a carico dei genitori o del fratello.
Che se c’era ancora qualche illusione possibile finchè viveva il conte Zaccaria, alla morte repentina di lui anche questa illusione doveva dissiparsi. Il conte Zaccaria non era popolare com’era stato ai suoi tempi il vecchio conte Leonardo; ma non era neppure un uomo mal veduto in paese, aveva forme cortesi, alla buona, e le ingenue allucinazioni a cui egli era in preda negli ultimi anni avevano piuttosto cresciuto che scemato le simpatie intorno a lui.
Ora gli strozzini non hanno l’animo troppo aperto alla simpatia, ma se possono far di meno d’inasprir l’opinione pubblica lo fanno, e non isdegnano di usar qualche temperamento[216] verso i debitori più forniti di aderenze e di relazioni. Mettere sulla strada un patrizio di quell’età, con quel nome! Era da far gridar mezza Venezia. Col figliuolo era un altro par di maniche. Prima di tutto si trattava d’un giovane; e poi quello lì aveva l’opinione pubblica contro di sè. Anzi può dirsi che l’accanimento con cui l’attaccavano era persino eccessivo; pareva che non ci fossero altri farabutti al mondo. Come talora, per quel bisogno che ha la gente di crearsi dei simboli, un uomo diventa la personificazione d’ogni virtù, così un altro diventa la personificazione d’ogni vizio. Il senso morale, che va soggetto a tante distrazioni, si sveglia a un tratto per protestare contro questo mostro di turpitudine; gli onesti e gli ipocriti si scagliano addosso a lui;... ciò che permette loro di esser più indulgenti con quelli che gli somigliano e anche con sè stessi.
Avete visto mai, verso la chiusa d’un ballo o d’una pantomima spettacolosa, la reggia del tiranno, il castello dell’oppressore, la prigione della vittima cader giù a pezzi, finchè, a un dato segnale, succede l’ultimo scroscio e la luce elettrica accesa in buon punto scende dall’alto a rischiarar le rovine? Questo è quello che accadde, lasciando stare la luce elettrica, del maestoso edifizio Bollati. Il segno dello scroscio finale fu dato dalla morte del conte Zaccaria. Allora non ci furono più riguardi, e gli avvocati ricevettero dai loro clienti l’ordine di proceder[217] negli atti a passo di carica senza lasciarsi smuovere da sollecitazioni o da preghiere di nessuna specie. Terribile fra tutti i creditori era il marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen piombato dalla Moravia a far valere le ragioni della consorte, che per la malferma salute non aveva potuto accingersi al viaggio. Il marchese Ernesto, al quale una cura dietetica aveva fatto perdere alquanto della sua corpulenza, s’era risolto a riprendere il servizio militare e veniva di guarnigione in Venezia per invigilar coi propri occhi la liquidazione dell’eredità del suocero. Nè voleva sentir a dire che l’eredità era bell’e liquidata non essendovi un centesimo per nessuno; egli protestava pestando la sciabola che a lui Potz tausend! non la davano ad intendere, e che avrebbe saputo, occorrendo, tagliare il naso al cognato, a Herr Bortolo e a tutti gli Italiani, verfluchte Italiener! E al cognato e a Herr Bortolo non risparmiava gli improperi e le minaccie dirette, tantochè l’uno e l’altro mettevano il loro studio a non farsi mai trovare in casa e più di una volta era toccato a Fortunata l’onore di ricevere le sue visite amabili.
In queste difficili contingenze l’ottimo sior Bortolo pensò ch’era venuto il momento di levarsi d’impiccio. E perchè la sua ritirata non somigliasse a una fuga, egli ricorse al comodo espediente di cader malato. L’asma di cui egli soffriva da parecchi anni si aggravò d’improvviso, un medico premuroso dichiarò che gli era[218] indispensabile un soggiorno di alcuni mesi in campagna, e il signor Bortolo Segugi, col cuore straziato, dovette prendere congedo dai suoi nobili padroni. Nell’epistola, modello di stile affettuoso e patetico, da lui diretta in quest’occasione al conte Leonardo, egli si permetteva anche di dar quei consigli che gli erano inspirati dalla molta esperienza e dal grande amore per la illustre famiglia. Condurre una vita regolata, ridur le spese ai minimi termini, vendere quello che era ancora vendibile, eccetera, eccetera. Se il Signore Iddio voleva ch’egli, sior Bortolo, si ristabilisse in salute, e se non gli veniva meno la fiducia dell’illustrissimo conte Leonardo, sperava di ripigliare ancora in mano le redini dell’amministrazione; se poi doveva soccombere, egli si sarebbe presentato al suo Giudice con la coscienza netta e col convincimento di aver sempre servito fedelmente i suoi benefattori. In un poscritto alla bellissima lettera sior Bortolo suggeriva di valersi dell’opera dell’avvocato Timoteo Sgriccioli, a cui egli aveva chiesto da ultimo qualche consulto legale e ch’era l’uomo fatto apposta per trovare il bandolo di una matassa arruffata.
—Buffone! Ladro! Brigante! Gesuita!—urlò il conte Leonardo quand’ebbe letta e decifrata la lettera.—S’è ingrassato col nostro sangue e adesso va a far la digestione in campagna.... Andasse almeno alla malora quel brutto figuro asmatico.... Se mi torna tra i piedi sta fresco.... Non son chi sono se non lo piglio a calci[219] nel sedere.... E anche dei consigli mi dà quel furfante ch’è stato la prima causa di tutti i nostri guai.... Dei consigli, lui, al conte Leonardo Bollati!
Nonostante questa filippica, prima che passassero ventiquattr’ore, il conte Leonardo aveva già adottato uno dei suggerimenti del suo degnissimo agente e si era messo nelle mani dell’avvocato Sgriccioli, patrocinatore ordinario dei debitori morosi o falliti, a benefizio dei quali egli aveva anche conformato il suo studio pieno di bugigattoli, di nascondigli e di usci segreti. L’avvocato Sgriccioli mostrò di prender molto a cuore la faccenda, ma non potè tacere che s’era indugiato troppo a ricorrere a lui e che la condizione delle cose era grave, assai grave, gravissima. Infatti i suoi sforzi non valsero a ritardar la catastrofe; il tribunale (ed era ancora il meno peggio che potesse succedere) aprì il concorso sui beni mobili ed immobili del signor conte Leonardo Bollati P. V., e sino a liquidazione giudiziale finita assegnò all’ultimo rampollo di tanti uomini illustri poche lire al giorno pel suo mantenimento. Il palazzo, mandato all’asta per conto della massa creditrice, fu aggiudicato al maggior offerente, lord Herbert Seaweed, che era l’inquilino del primo piano. E il nobile lord concedette ai Bollati quindici giorni per lo sgombero dell’appartamento da essi occupato, lasciando però generosamente a loro disposizione tre camere a tetto,[220] che se non eran proprio soffitte, di poco ne differivano.
La vanità del baronetto era lusingata dall’idea di dar ricovero a un patrizio che aveva avuto due dogi fra i suoi antenati. Leonardo dal canto suo accettò con lieto animo l’offerta, e perchè gli ripugnava di andar in cerca di un altro alloggio, e fors’anche perchè seguitando ad abitare nel suo palazzo, gli pareva d’esserne sempre lui il padrone. Aggiungasi che in tal maniera egli sperava di sbarazzarsi della moglie e della figliuola. Possibile che Fortunata non si risolvesse a tornare in famiglia e a portarsi seco quell’impiccio della bimba! Già il conte Luca e la contessa Zanze avevano dichiarato di esser pronti a ricever lei e la nipote.
Messa alle strette, Fortunata, cui non bastava l’animo di veder patire la sua piccina, mandò Margherita dai nonni (andando poi a mangiarsela di baci due o tre volte al giorno), e in quanto a sè, dichiarò che non voleva dividersi da suo marito e che avrebbe affrontato volentieri il freddo e la fame piuttosto che abbandonarlo alle prese con la miseria. Ma se c’era uomo inetto a capir questi sentimenti era Leonardo Bollati, il quale non vide in tutto ciò che uno sciocco puntiglio e pensò di far pagar cara alla moglie la matta ostinazione di stargli appiccicata ai fianchi. E se prima rimaneva fuori di casa mezza giornata, adesso ci rimaneva la giornata intiera, e faceva tutti i suoi pasti all’osteria, non rientrando che nel cuor[221] della notte con gli occhi lustri, con la lingua grossa e con le gambe barcollanti. Allora si cacciava in letto e dormiva fino al tocco per ripigliar poi la solita vita. A Fortunata non dava un centesimo; quello che gli passava il tribunale non era neppur sufficiente per lui; andasse da suo padre, il consigliere d’appello, che s’era abbastanza riempiuto l’epa alla tavola dei parenti quand’eran ricchi da poter oggi restituire un desinare a una Bollati, che, per giunta, era sua figlia. Che s’ella non voleva andarci, s’ingegnasse come poteva.
Fortunata s’ingegnava vendendo o impegnando qualcheduno degli oggetti ch’erano avanzati dal gran naufragio e ch’erano stati buttati alla rinfusa in una delle tre stanze lasciate per carità dai nuovi agli antichi padroni. Del resto, per lo più, desinava effettivamente presso i genitori.
Ormai tutti le ripetevano che, poichè Leonardo non aveva cuore nè per lei, nè per la bambina, e ricevendo, checchè ne dicesse, un sussidio bastante per far vivere la famiglia, non voleva pensar che a’ suoi vizi, ella poteva piantarlo senza rimorsi.
Ella però era irremovibile. Pur troppo con la sua presenza ella non impediva nulla, non riusciva a fargli lasciar nè un cattivo amico, nè una cattiva abitudine; ma chissà? mancando lei, sarebbe stato ancora peggio. Egli non avrebbe passato in casa nemmeno le poche ore che ci passava; non avrebbe preso, prima d’uscire,[222] nemmeno una tazza di caffè. E chi avrebbe vigilato perchè la sua camera fosse in ordine, perchè i suoi vestiti fossero spolverati, e chi l’avrebbe assistito se una notte non si sentiva bene!
Inoltre, Fortunata sperava in un miracolo, sperava in un ritorno d’affetto conquistato a forza d’umiltà, di pazienza e di devozione. Perchè, pare impossibile, ell’amava sempre Leonardo. Qualche volta, verso l’alba, mentr’egli dormiva della grossa, ell’entrava pian pianino nella stanza di suo marito, e si accostava al letto e si chinava a deporre un bacio su quella fronte non solcata mai da un pensiero generoso, su quelle labbra umide e sozze da turpi contatti. Una mattina quel tiepido soffio lo scosse a mezzo; abbastanza desto da sentir che una donna gli era vicino, non abbastanza da distinguer qual fosse, egli la tirò a sè, le gettò le braccia al collo. Poi spalancando gli occhi, vide la moglie, palpitante, svergognata come un’adultera côlta in fallo.
—Tu!—egli disse con un’inflessione di voce ch’esprimeva lo stupore e il disgusto.—Io credevo.... Peccato!... Va via.
—Oh Leonardo!—ella cominciò supplichevole e con le lagrime che le gocciolavano giù per le gote.
Ma un resto di dignità le tolse di proseguire. Divenne scarlatta, e coprendosi il viso con le mani fuggì dalla stanza. Indi, abbigliatasi in furia e fatto uno fardello di alcuni oggetti che[223] più le premevano, scese a precipizio la scala e volò a casa sua.
—Oh!—esclamò la contessa Zanze—Cosa c’è di nuovo? Cosa t’ha fatto quel brigante?
—Capisco che avevate ragione.... Se mi volete, vengo a star con voi... per ora almeno...
—Sicuro che ti vogliamo.... Sei la nostra creatura.... Ma si può sapere?...
—Non c’è nulla... nulla.... E Margherita? E il babbo?
—Stanno benissimo.... Dormono ancora.... Però vorrei sapere....
—Oh è inutile, mamma....
S’intese la voce della bimba che chiamava:—Nonna, nonna!
—Ecco, s’è svegliata—disse la contessa Zanze. E rivolgendosi alla figliuola le chiese: Vuoi andarci tu?
—Sì—rispose Fortunata. Ma pentitasi subito soggiunse:—È meglio che prima tu l’avverta che ci sono.... Andrò di qui a un momento.
Si fece portare una catinella d’acqua e vi immerse la faccia tre o quattro volte. Poi entrò nella camera di Margherita.
—Oh mamma, mamma—gridò la piccina battendo le mani.
—Tesoretto mio!—proruppe Fortunata piegandosi sopra di lei.—Starò sempre sempre con te.[224]
Margherita le cinse il collo con le sue braccia nude e la coperse di baci che non volevano più finire.
—Ancora, ancora!—diceva la povera donna. Le pareva che quei baci scancellassero l’onta degli altri che, poco prima, ell’aveva ricevuti... per isbaglio.[225]
Il 1847 s’era chiuso come una splendida notte di luglio, in cui il cielo ancora sereno è solcato da spessissimi lampi; il 1848 s’apriva come una giornata nella quale i rossori inauspicati dell’alba fanno prevedere il temporale vicino. Le città italiane conservavano il loro aspetto festante, le popolazioni empivano le strade, i teatri, le chiese (chè il Papa liberale aveva messo di moda la religione) ed era dappertutto uno sfoggio di colori vivaci, di abbigliamenti bizzarri, un echeggiar di canzoni, una loquacità espansiva come di gente a cui prema rifarsi del lungo silenzio e richiamar insieme le memorie del passato e divisar l’avvenire. Ma sotto quella gaiezza tumultuosa covavano i fieri propositi, ma in quei colori, in quei vestiti, in quei canti, in quel fraternizzar delle classi era una sfida gettata in viso a un nemico comune. E il nemico comune, vissuto a lungo in una sicurtà[226] sprezzante, pareva domandare a sè stesso se fosse possibile che i conigli si fossero mutati in leoni, e intanto affilava le armi e si preparava alla lotta. Già i moti fortunati di Palermo e di Napoli e le riforme civili di Roma imbaldanzivano gli animi e rafforzavano la speranza della guerra nazionale contro l’oppressore tedesco; già nelle terre lombardo-venete erano cominciate le prime avvisaglie, già il sangue era corso per le vie di Milano. Dalla laguna al Ticino un potere occulto che attingeva la sua autorità dal consentimento dei più, deludeva i cent’occhi della Polizia austriaca, e, senza codici e senza soldati, con una parola d’ordine gettata nella folla, con un foglietto misterioso fatto pervenire a domicilio, regolava le mosse dei cittadini. Quelli che non ubbidivano per entusiasmo patriottico ubbidivano per ispirito d’imitazione, per vaghezza di novità, per tema di essere mostrati a dito, per la curiosità di vedere come andasse a finire una condizione di cose sì strana ed insolita. Pochi osavano protestare ad alta voce; in maggior numero eran coloro che, divisi tra due paure, la paura del Governo legittimo e quella del Governo clandestino, procuravano di uscir di rado, di parlar poco, di trovarsi con meno gente che fosse possibile. A questo regime s’era condannato da sè il conte Luca Rialdi, suddito fedelissimo di S. M. Ferdinando I, ma innanzi tutto uomo sollecito della propria pelle. In ufficio era riuscito a schermirsi da ogni processo che avesse attinenza con la[227] politica; al Caffè della Vittoria non si faceva più vedere; figuriamoci! tutti avevan sciolto lo scilinguagnolo, tutti volevan dire la loro opinione sugli affari del giorno, non c’era un cane che giuocasse a scacchi, e s’anche una partita si principiava era ben difficile tirare innanzi in mezzo a quel frastuono di voci; in piazza San Marco poi il conte Luca aveva giurato di non metter piede dopo un certo tiro del marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen.
Un giorno, che è che non è, mentre il nostro consigliere d’appello percorreva a passo spedito le Procuratie vecchie, il signor marchese, in piena tenuta di capitano degli ussari (che ci ha da fare un capitano di cavalleria a Venezia?) il signor marchese, insomma, staccandosi da un gruppo d’ufficiali, gli si avvicinò con la mano tesa e gli disse col suo italiano che s’imbarbariva sempre peggio:
—O signor conte, pen contento di vederla, o ja.... Ich gratulire mich, mi congratulo sua nomina a Regierungsrath?.... Geheimerath?.... ach nein.... Appellationsrath. Ja, ja, consigliere d’appello.
Quindi gli si mise a fianco e cominciò a discorrergli degli affari Bollati.... eine traurige Geschichte.... sì, una triste storia.... quel Leonardo meritar pastonate, prigione.... anche conte Zaccaria puon anima, consumare un patrimonio di quella sorte! Adesso I. R. Tripunale afer in mano la faccenda.... man wird sehen; ja.... si vedrà.... pur troppo, poco, anzi nichts, niente[228] da sperare.... Und wie gehet’s.... ja, come sta la contessa Zanze? E la contessa Fortunata?... Unglückliche junge Dame!... Ah prutto mondo!... Anche sua Frau, marchesa Maddalena, afer immensamente sofferto.... tante disgrazie di seguito!... Arme Frau!
Il conte Luca non sapeva in che mondo si fosse. Quel marchese così borioso, il quale, specialmente dopo il duello con Gasparo, l’aveva a morte coi Rialdi, quel marchese aveva adesso la bell’idea di girar con lui per la piazza San Marco, il ritrovo dei curiosi e dei fannulloni? E non si poteva mica piantarlo in asso da un momento all’altro!
Dagli argomenti privati l’ufficiale passò a parlare degli argomenti pubblici, di quella maledetta politica che si cacciava dappertutto. Gli Italiani erano matti, il Papa era ein Dummkopf, uno sciocco che agitava la miccia accesa vicino a una polveriera; quel grosser Kerl del Borbone aveva avuto torto di cedere alle grida di quattro fanatici, ma si poteva esser sicuri che alla prima opportunità egli avrebbe saputo accomodar le cose per benino; Carlo Alberto, quello lì era ein Schwärmer, un sognatore, un entusiasta, ora carbonaro, ora sanfedista.... non si sapeva mai. A ogni modo, Metternich aveva giudizio per tutti.... E in quanto ai facinorosi Lombardo-Veneti bisognava dar degli esempi, e si sarebbero dati; stesse tranquillo il signor conte che si sarebbero dati: già egli poteva dire con fondamento che il decreto per introdurre il giudizio[229] statario era sul punto di esser sottoposto alla firma di S. M. Allora, in una quindicina di giorni, tutto questo baccano sarebbe finito.... Ja, gnädiger Herr Graf, so ist es.... così è....
A questo punto il marchese offerse un sigaro al suo interlocutore. Bravo! Al povero conte Luca non mancava altro che di farsi vedere a fumare dopo la proibizione assoluta di quei signori del Governo clandestino! Per buona ventura il conte non fumava mai, ed ebbe un’ottima ragione per rifiutar l’offerta.
Il marchese sorrise.—Sie haben nie geraucht? mai fumato? Wirklich so?... Proprio?
—Proprio, proprio... mai fumato—rispose il conte Luca.
E parendogli di poter finalmente accommiatarsi senza increanza, disse al signor capitano ch’era atteso in un luogo e doveva lasciarlo.
—Auf Wiedersehen, Herr Graf... a rivederci... Meine Complimenten den gnädigen Frauen, bitte.... prego miei complimenti alle signore,—gridò l’espansivo marchese stringendo forte la mano del conte Luca.
E raggiunse il crocchio degli amici a cui raccontò ridendo che der Herr Appellationsrath, con quella pillola del giudizio statario in corpo, non doveva dormir certamente per tutta la notte. Del resto, egli aveva fermato il conte Rialdi all’unico scopo di recargli un po’ di molestia e di sforzarlo a passeggiar di pieno giorno in piazza San Marco con un K. K. Offizier. Che se Herr Graf doveva per questa ragione soffrir[230] qualche sfregio dagli italianissimi, egli ne avrebbe avuto molto piacere.
Il conte Rialdi uscì dalla piazza senza nemmeno alzar gli occhi. Non vedendo nessuno gli pareva che nessuno dovesse veder lui.
Invece prima di sera gli capitò a casa un bigliettino concepito a un dipresso in questi termini:
«Signor consigliere.—Se non foste padre di un eccellente patriotta, vi si darebbe oggi una buona lezione. Il Comitato si limita per questa volta a un amichevole avvertimento. Non è più lecito a un italiano di mostrarsi coi militari austriaci, fatta eccezione pegli ufficiali di marina che sono dei nostri. Austriaci e italiani non si devono ormai incontrare che sulle barricate o sul campo di battaglia. Abbiate dunque prudenza e moderate il vostro zelo di servitore fedelissimo di S. M.
«Il Comitato.»
Se il povero consigliere viveva sempre in angustie e aveva perduto il sonno e la fame non si poteva dargli poi tutti i torti. Compromesso coi liberali pe’ suoi sentimenti di fedeltà, compromesso col Governo per cagion del figlio che un dì o l’altro doveva passar un cattivo quarto d’ora, egli aveva per soprammercato da invigilar sulla pazzia della moglie alla quale era venuto il ticchio di far la patriotta ardente anche lei, e di trinciar di politica con le femminette che venivano a visitarla ne’ suoi martedì.[231]
—Donna senza giudizio!—le diceva il marito.—Non la volete finire? Non lo sapete che c’è qualche signora che non vien più da voi per non sentir certi discorsi?... E cosa son questi colori sul vestito?... Via subito quel nastro.
—Oh,—rispondeva la contessa Zanze.—Voi sareste capace di aver paura anche se vi portassero in tavola un piatto d’indivia mista col radicchio rosso!
—E voi non avete sale in zucca.... Vi pare che siano momenti da scherzare, questi? Ci tenete proprio ad andar in prigione per il bel gusto di dir tutto quello che vi passa per la testa e d’abbigliarvi come un arlecchino? Vergogna! Alla vostra età!
—Oh! L’età....
—Sì; e con l’allegrie che ci sono in casa.... Con la figlia e la nipote da mantenere!... Che se, Dio scampi e liberi, io perdessi l’impiego, sarebbero quei signori del Comitato che vi darebbero da pranzo! Pregate piuttosto a mani giunte il Signore che non ci faccia capitar qualche brutta notizia da Gasparo che sarà un brav’uomo, non dico, ma è un cervello esaltato.... e se riescono a coglierlo in fallo....
—Voi non sapete preveder che disgrazie.
—E voi avete una benda agli occhi.... Se il Comitato dice che mio figlio è un eccellente patriotta, è segno che ne hanno le prove. Mi spiego?
—Sicuro che le avranno. O che lo credete un austriacante del vostro stampo?[232]
—Zitto, disgraziata... Dovreste gridarlo dalla finestra queste cose! Non vi ricordate dei Bandiera?
—Altri tempi, altri tempi. Adesso quelli che sono al Governo si sentono mancar la terra sotto i piedi e devono far i conti col popolo.
—Ma che popolo? Vorrei vederli, alla prima cannonata, questi strilloni, questi ragazzacci che, in omaggio alla libertà, fischiano un galantuomo che si permetta d’aver un sigaro in bocca. Bella libertà! Non parlo per me che non fumo.... Ma io vi dico che mi par d’essere in un manicomio e che questo baccano va a finire in tragedia.... oh se va a finire!... Mi spiego?
E invero le Autorità, vinte le prime titubanze, accennavano a voler far sul serio anche a Venezia. Sin dal 18 gennaio la Polizia aveva tratti in arresto il Manin e il Tommaseo come quelli che capitanavano la cosidetta agitazione legale; il 22 febbraio fu promulgato il giudizio statario, del quale il marchese Geisenburg aveva dato al conte Rialdi l’annunzio alquanto precoce. Tuttavia gli animi non si quetavano e gli avvenimenti parevano fatti apposta per rincorare i timidi, per imbaldanzire gli audaci. La proclamazione della Repubblica in Francia, come tutto ciò che succede in quel paese singolare, aveva un immenso rimbombo in Europa; di lì a poco Carlo Alberto accordava lo Statuto promesso, e infine la notizia della rivoluzione di Vienna era l’ultima scintilla che faceva divampare l’incendio. Il 17 marzo i prigionieri[233] politici, liberati dal carcere, eran portati in trionfo sulle braccia del popolo, i colori nazionali apparivano agli occhielli degli abiti nella piccola ma provocante coccarda, una bandiera bianca, rossa e verde era issata sopra una delle antenne della piazza S. Marco. Nel 18, maggiore la folla, più insistenti le grida, più risoluti, più feroci gli animi. La truppa, accolta a fischi e a sassate, perde la pazienza e fa fuoco; ci sono morti e feriti; sembra imminente una lotta sanguinosa per le strade della città. Ma il governatore civile e il comandante la guarnigione eran timidi, fiacchi, benevoli forse a Venezia ove avevan lungamente vissuto; pieni di energia, d’entusiasmo, di fede erano invece gli uomini postisi in quei giorni memorabili a capo del popolo. Si chiede e si ottiene, col pretesto di mantenere la sicurezza pubblica, l’istituzione della guardia civica; dai fondaci dei rigattieri escono vecchie spade irrugginite, e fucili a pietra, e alabarde spuntate; escono dalle cucine i coltellacci e gli spiedi, e i nuovi militi bizzarramente vestiti e tutti con una sciarpa bianca a tracolla corrono come a festa le vie, e distribuiti in pattuglie fanno la notte il servizio di ronda. È il primo atto d’un’epopea? È l’ultima scena d’una farsa? Chi lo sa? Quali sono in quella folla gli eroi veri e quali gli eroi da teatro? Chi lo sa? Sono confusi insieme e non si potranno distinguere che al momento della prova.
Certo non si rischia molto assicurando fin[234] d’ora che non è un eroe un nostro vecchio conoscente, il signor Oreste, comandante di una di quelle strane pattuglie nella notte tra il 21 ed il 22 marzo. Il signor Oreste, ch’è padrone d’una delle principali osterie in Cannaregio e che ha la sua buona dose di vanità, non ha potuto esimersi dal prestar l’opera sua alla patria in momenti tanto solenni, ma egli vuol conciliare i doveri di cittadino coi dettami della prudenza, e guidando il suo manipolo di prodi attraverso il dedalo inestricabile delle callette veneziane, pone ogni studio nell’evitar cattivi incontri.
—Non si passa per i Gesuiti?—domanda un gregario, non so bene se coraggioso o malizioso.
—Ohibò—risponde il signor Oreste.—Perchè si dovrebbe passarci?
—Così, per veder quello che fanno quei patatuchi del reggimento Kinsky che son lì consegnati in caserma.
—Bel gusto.... Se venissero fuori?...
—Si spara il nostro colpo di fucile e si dà l’allarme.
—Provocazioni inutili.... Noi siamo in giro per la sicurezza della città e nient’altro....
—Uhm... Senza un po’ di sangue non la si finisce—ripigliò il milite battagliero.
—Insomma—grida il signor Oreste con piglio autoritario—qui il capo son io. Pei Gesuiti non ci si passa. Si va fino a S. Giovanni Grisostomo, poi si torna indietro e ci si ferma a bere un mezzo boccale da me.[235]
Questa proposta raccoglie tutti i suffragi, e la pattuglia riprende in silenzio le sue perlustrazioni.
—Là c’è una figura sospetta—esclama a un tratto il comandante segnando all’imboccatura d’una calle un individuo che veniva avanti con passo incerto.—Chi va là?
L’individuo borbotta qualche parola incomprensibile che sembra aver una parentela lontana con una bestemmia.
—Bisogna vedere—soggiunge il signor Oreste rivolgendosi ai militi.
E seguìto da loro s’avvicina al misterioso personaggio, nel quale, con sua grande maraviglia, riconosce nientemeno che il conte Leonardo Bollati.
—Oh! Eccellenza—balbetta l’ex cuoco con un resto d’ossequio.
—To’, to’—dice il conte strascicando le parole.—Siete voi... bel mobile?... Anche voi in ma...a...schera?... Mi gira la testa.... Già... già che siete qui... accompagnatemi fino al... palazzo.... È vi... vicino....
Il signor Oreste non può negare un sì piccolo servigio al suo antico padrone.
—Ce n’avete... fatte di grosse... voi...—continua Sua Eccellenza appoggiandosi al braccio di quel furfante arricchitosi a spese della sua famiglia.
Il signor Oreste avrebbe voluto dire che anch’egli era stato sacrificato non riscotendo un centesimo dei suoi crediti, ma s’era ormai giunti al portone del palazzo.[236]
—Lo sapete che... che il palazzo appartiene a...adesso a un Lo...ord inglese?
—Pur troppo, Eccellenza.... Ma!
—Nie...ente paura!... Ho tre camere... in... a...alto e... e m’han lasciato... a...anche la chia...a...ve.
Il signor Oreste aiutò il conte a introdurre questa famosa chiave nella toppa; poi disse:
—Lustrissimo, buona notte....
—Buo...o...na notte.... O che co...o...sa gridano?
Pel vicino Canalazzo passava una gondola e il barcaiuolo con voce sonora gridava:—Viva San Marco!
—Gridano:—Viva San Marco!
—Vi...va San Ma...a...rco?—ripetè a mezza voce Leonardo fermo sulla soglia.—To...o...rna la Serenissima?
—Chi può dir nulla?... Se ne vedono tante.... Buona notte, signor conte.
E la pattuglia si ritirò.
Noi non vorremmo affermare che quel grido di Viva San Marco non facesse nessun effetto a Leonardo Bollati, che nessuna fibra si scotesse in lui all’idea di veder risorger l’antica Repubblica, a pro della quale i suoi padri, per tante generazioni, avevano versato il sangue e speso l’ingegno. Ma l’impressione, come accade a chi s’è disavvezzato dal pensare e dal sentir fortemente, non fu che passeggera; egli aveva ben altro pel capo che la risurrezione della Repubblica; aveva bevuto troppo, era stanco,[237] aveva un sonno, un sonno! Si strascinò su dei suoi centoquindici scalini, chè non ce ne volevano meno per arrivare dov’egli abitava, e si mise a letto.
Il giorno dopo Leonardo non s’alzò che tardissimo. Affacciandosi a un finestrino che dava sul Canal grande vide un movimento, un’animazione maggior dell’usato, sentì più insistente il grido che l’aveva colpito la notte prima: Viva San Marco! E altri gridi insieme con questo: Viva Pio IX! Viva Manin! Viva la libertà! Inoltre dalle frasi scambiate tra la gente che curiosava sulle rive o ai traghetti capì che gravi fatti erano successi e fatti non meno gravi si preparavano.
—Gli arsenalotti gli hanno fatto la festa?
—Al colonnello Marinovich? Sicuro.... Gli sta bene a quel cane. Li trattava da bestie.
—E com’è andata?
—Ma! Chi la racconta in un modo e chi in un altro. La mia però è storia genuina perchè la so da mia cognata che è sorella di un arsenalotto. Fatto si è che appena Marinovich s’è presentato all’arsenale questa mattina, gli operai, che non se l’aspettavano dopo le minaccie di ieri, gli si strinsero attorno con urli, fischi, imprecazioni. Lui tira fuori la spada e si fa largo un momento.... Ma quelli s’inviperiscono di più e gli danno addosso di nuovo. Vista la male parata, il colonnello cerca di fuggire, trova aperta la porta di una delle torri vicine all’ingresso, sale per la scala, ma i suoi inseguitori[238] gli sono alle calcagna, un calafato gli pianta nella schiena la sua trivella, e felice notte.
Di lì a poco si sente un’altra gran novità.
—L’arsenale è nostro.
—Come? Come?
—Se n’è impadronito Manin.
—Senza combattimento?
—Avevan mandato un battaglione di fanteria marina per riprenderlo, ma le guardie civiche che c’eran dentro dissero: marameo!—Fuoco! ordina il comandante del battaglione, un tedesco. I soldati che son dei nostri, non gli badano neanche e un ufficiale, nostro veneto anche lui, esce dai ranghi e grida: Giù le armi. Il tedesco va in furia e si slancia sull’ufficiale....
—Oh diavolo.... E come va a finire?
—Si battono da disperati. Ma un sergente di marina la termina lui e getta a terra il tedesco.
—Morto?
—No, no; pare che l’abbian risparmiato.... Se lo ammazzavano era meglio.
—Perchè! Hanno ammazzato il Marinovich stamattina. Basta uno.
—Ce ne vuol altro che uno.... Insomma i soldati si confondono con le guardie civiche, si mettono la loro brava coccarda sul petto e gridan tutti insieme: Viva l’Italia!
—Viva la nostra marina!
E ormai le notizie si succedono con una rapidità straordinaria.[239]
—Anche i granatieri han fatto lega col popolo.
—I cannoni della Gran guardia che eran carichi a mitraglia sono in potere della guardia civica.
—Venti, trenta, quarantamila fucili son distribuiti fra i cittadini.
—Il palazzo del governo è nelle nostre mani.
—Il podestà Correr è andato da Palffy a intimargli la resa.
—Solo?
—No, con altri tre o quattro.
Passa un’ora, si sparge la voce che ci siano delle difficoltà, che il governatore non voglia cedere, che il comandante di piazza voglia far bombardare la città.
—Alle barricate—grida qualcheduno.
—Alle campane. Morte all’Austria!
Da qualche finestra si ritira la bandiera tricolore; sul tetto del palazzo Bollati viene issato per prudenza il vessillo britannico.
Ma prima di sera ogni dubbio era tolto; la capitolazione era firmata; era proclamata la Repubblica.
Ormai il tricolore sventolava da tutte le case; l’entusiasmo brillava su tutti i volti; da tutti i petti irrompevano le grida Viva San Marco! Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva Manin!
Leonardo Bollati era rimasto quasi sempre immobile alla finestra. Sporgendo la testa fuori[240] del davanzale, egli vedeva sotto di sè nel terrazzo del primo piano la famiglia del lord che, insieme con altri connazionali, godeva, come di uno spettacolo, di quella rivoluzione pacifica. E la famiglia del lord, di tratto in tratto, levava gli occhi e vedeva lui, the scion of the Doges, il discendente dei dogi, e lo mostrava agli ospiti, appollaiato lì in alto, sotto la grondaia, come una civetta. Quando le grida di Viva San Marco si fecero più romorose e più generali, gli Inglesi si misero a guardare in su con una curiosità più indiscreta. Pareva volessero indovinar i pensieri di lui, the scion of the Doges, in quel momento solenne. E se il popolo fosse venuto a prenderlo nella sua soffitta, e a ricondurlo nel primo appartamento, cacciandone gli estranei che l’occupavano? Una figliuola del lord, molto romantica, molto byroniana, diceva che sarebbe stata una scena drammaticissima e ch’ella si sarebbe stimata felice d’assistervi anche dovendo esserne la vittima. Ma l’austero genitore, il quale non voleva che si scherzasse sopra tali argomenti, le diede sulla voce:—Keep your tongue, you silly thing. Tacete, scioccherella. Ormai il palazzo è da considerarsi come parte del territorio of our most gracious Queen, della nostra graziosissima Regina, e guai a chi lo tocca.
Il nobile lord poteva mettere il suo cuore in pace. In quel giorno 22 marzo 1848 i Veneziani non si rammentavano nemmeno dell’esistenza del conte Leonardo Bollati. E se, per una combinazione[241] fortuita, l’uomo acclamato dal popolo portava il nome medesimo dell’ultimo Doge della Repubblica, non toccava ai nipoti degli antichi patrizii di regger le sorti di Venezia durante i diciasette mesi di lotta sfortunata, ma gloriosa, contro lo straniero.[242]
Di lì a tre o quattro giorni arrivava a Venezia Gasparo Rialdi. Arrivava da Pola insieme con qualche altro ufficiale di marina, sopra un piccolo legno, e dopo esser sfuggito non senza fatica agl’incrociatori austriaci. La gioia di trovar la patria libera, di poter combattere per una causa santa era amareggiata a quei generosi dal non esser riusciti a farsi seguire da tutta la flotta. Alle prime voci di rivoluzione, essi dicevano, s’era manifestato un vivo fermento negli equipaggi e in gran parte degli ufficiali ch’erano italiani di sangue e di pensieri. I più arditi, tra cui il Rialdi, sostenevano doversi salpar subito per Venezia, per partecipare alla lotta, se l’esito era ancora incerto, per recare al nuovo ordine di cose il sussidio d’una forza disciplinata, se la battaglia era vinta. Ma la maggioranza fu d’altro parere. Non bisognava precipitare, bisognava aver ragguagli più esatti;[243] forse erano rumori sparsi ad arte; era impossibile che i compagni i quali si trovavano a Venezia non mandassero qualche avviso, che un Governo nazionale il quale per avventura si fosse stabilito colà non desse notizia di sè. Il consiglio di chi voleva gl’indugi prevalse. E intanto a Venezia si commetteva un primo, fatalissimo errore. Le lettere di richiamo per la flotta erano affidate al capitano del vapore del Lloyd che riconduceva il governatore Palffy, e quel capitano, o spontaneo, o costretto, dirigendosi a Trieste anzichè a Pola, consegnava il dispaccio alle Autorità austriache, le quali furono in tempo di prender le disposizioni necessarie a scongiurare un avvenimento forse più grave per la monarchia che la perdita d’una provincia. Rimaneva un partito. Alzare audacemente il vessillo della rivolta, passar sotto i cannoni del porto, aprirsi a ogni costo il varco per Venezia. Questo avevano suggerito, a questo s’erano dichiarati pronti Gasparo Rialdi e pochi animosi suoi pari. Ma molti indietreggiarono all’idea dell’aperta ribellione; si sentivano legati dal giuramento, dall’onor militare; non osavano intraprendere, contro la volontà espressa dei capi, ciò che avrebbero osato quando i capi, colti dal panico, avevano smesso di comandare. A forza di titubanze si lasciò passare il momento propizio e parve follia il tentare quello che prima sarebbe stato agevole il compiere. Il Rialdi e quattro o cinque amici partirono soli; gli altri, fremendo, morsero il freno. Venezia[244] non ebbe nel 1848 una flotta, e chi può dire che il non averla avuta non abbia ritardato di dieci anni la redenzione d’Italia?
Comunque sia, quando il giovane ufficiale giunse in patria, ben pochi s’erano accorti di aver perduta, senza combattere, una prima battaglia. Il paese era nella luna di miele della libertà; i fatti interni e le notizie dal di fuori mantenevano gli animi in uno stato d’ebbrezza gioconda; le voci più strane, pur che conformi al desiderio, erano accolte come verità incontestabili. I Milanesi, vincitori nelle loro cinque eroiche giornate, avevano chiuso Radetzky in una gabbia di ferro; Carlo Alberto era già col suo esercito sotto Verona, ove si trattava della formalità della capitolazione; cinquantamila papalini, benedetti da Pio IX, avevano passato il Po; dietro a loro venivano cinquantamila napoletani, ch’eran soldati di quelli coi fiocchi, diceva la gente, come se li avesse visti alla prova. S’affermava inoltre che non c’erano più neanche due reggimenti austriaci in tutto il Lombardo-Veneto, locchè rendeva alquanto difficile di capire con chi se la sarebbero presa i formidabili eserciti che pullulavano da ogni parte, ma gli spacconi non si confondevano per così poco. Quando una nuova, data per certa la mattina, era smentita la sera—Bah!—si diceva stringendosi nelle spalle.—Quello che non è vero oggi, sarà vero domani.—Che se alcuno si permetteva esprimere un dubbio, gli si dava addosso come a uccello di malaugurio.[245]
Non che si trascurasse d’armarsi, che si esitasse a sottomettersi a qualunque sacrifizio, oh no. Anzi la contraddizione era questa, che si chiedevano e si accettavano lietamente i sacrifizi per una causa la quale, a sentir le chiacchiere della piazza, pareva non doverne aver più bisogno. Senonchè, alla gioia più legittima, agli entusiasmi più santi, all’abnegazione più pura nuoceva un non so che di sguaiato e melodrammatico nelle foggie, nel linguaggio, nelle consuetudini romorose della vita cittadina. Gran bandiere, gran musiche, gran sciupìo di versi, gran mostra di crociati che parevan coristi, di lions che manifestavano i loro sentimenti vestendosi da tenori, gran sfoggio di pennacchi nei cappelli, di colori sugli abiti.
A Gasparo Rialdi questo carnovale dispiacque; tuttavia egli tenne per sè le proprie impressioni e non pensò che a mettersi agli ordini del Governo. Offertogli di attendere all’armamento della flotta minuscola rimasta dentro l’Arsenale, egli accettò subito l’incarico, deliberato però ad arruolarsi più tardi nell’esercito di terra, se, com’egli temeva, non c’era da far nulla sul mare. Naturalmente, durante il suo soggiorno a Venezia, egli abitava presso la famiglia, da lui non più riveduta dopo il disgraziato matrimonio della sorella.
Il 22 marzo aveva mutato di nuovo le relazioni reciproche dei coniugi Rialdi che sembravano destinati a essere, l’uno verso l’altro, nella condizione di due che si trovano sull’altalena.[246]
Adesso la contessa Zanze era tornata in alto; il conte Luca era ricaduto al basso. Egli conservava il suo posto di consigliere d’appello, ma la moglie gli diceva sempre che se non lo avevano destituito era per un riguardo a lei e a Gasparo. E si rifaceva delle umiliazioni sofferte negli ultimi tempi:
—Non mi darete più della visionaria, spero? Chi aveva ragione di noi due, eh?... Dove sono i vostri tedeschi?... Quanto pagherei a sapere dove ha portato la sua pancia quel prepotente del Geisenburg! Ah se avesse fermato me invece che voi, quel giorno in piazza San Marco, avrebbe trovato pane per i suoi denti.... Ma voi, Dio ve lo perdoni, siete un coniglio....
Il conte Luca, che ormai viveva in uno stato d’orgasmo continuo, sbuffava ma non reagiva contro le tirate della moglie. Tutt’al più, in un tuono che voleva esser di comando ed era invece di preghiera, insisteva perchè tacesse:
—Che donna, santo Iddio! Non sapete star zitta un minuto. Se ne sono andati i Tedeschi? E voi lasciateli in pace.
Era difficile confessarlo, ma il conte Luca aveva paura dei vecchi padroni. I nuovi potevano fargli del male subito, i vecchi potevano fargliene più tardi.... se tornavano. E il conte Luca, senza dirlo a nessuno, senza dirlo ad alta voce nemmeno a sè stesso, non sapeva persuadersi che non dovessero tornare. Intanto s’acconciava all’inevitabile. Teneva anche lui la sua coccarda tricolore all’occhiello, faceva di gran[247] salamelecchi ai personaggi in carica, ed era pieno d’indulgenza pegli impiegati subalterni che non andavano all’ufficio con la scusa di dover montare la guardia.
Slanciata nella fiumana del patriottismo chiassoso, la contessa Zanze era sempre in faccende e lasciava la cura delle cose domestiche a Fortunata, la quale, poverina, non aspirava minimamente a mettersi in mostra. S’occupava della casa, della bimba, faceva una scappata quasi ogni giorno fino al palazzo Bollati per aver notizie di Leonardo, per vederlo se era possibile, e la sera preparava filaccia per i feriti.
Gasparo che, venendo a Venezia, sapeva già di trovarla in famiglia, non s’era presa l’ingenerosa soddisfazione di rammentarle le sue parole di quattr’anni addietro, ma abbracciatala con benevolenza, le aveva chiesto subito della piccina.
—Dorme.... vuoi vederla lo stesso?
—Perchè no?
Margherita riposava tranquillamente nella sua cuna, con uno dei suoi braccetti nudi piegato sotto la testa, con una puppattola al fianco.
—Quella puppattola è il suo grande amore,—disse sorridendo Fortunata;—la chiama Lilì e non se ne vuol staccar mai.
Margherita aveva allora tre anni ed era una bella bimba, quantunque fosse lecito dubitare se sarebbe stata anche una bella donna, tanto più che la contessa Zanze ripeteva sempre:—Fortunata era tal quale.[248]
Fatto si è che ell’era bianca e rosea, aveva lineamenti regolari, capelli biondi e finissimi, e nel viso un’espressione dolce, affettuosa che rammentava l’espressione materna. Era forse l’unica somiglianza che ci fosse tra madre e figliuola.
—È carina assai,—disse Gasparo.
—Non è vero?—soggiunse Fortunata tra orgogliosa e commossa.—È buona come un angelo, docile, intelligente....—Poi sospirò a voce bassa:—Povera creatura!
Gasparo, che non aveva staccato gli occhi dalla dormente, a quell’esclamazione della sorella:—Povera creatura!—sentì qualche cosa che rispondeva nel suo cuore. Povera creatura davvero! Con quel nome che anni addietro sarebbe stato una forza e oggi era una debolezza, quasi una colpa! Con quel padre di cui ella non avrebbe potuto ignorar sempre le turpitudini! Povera creatura! Chi sa che sorte l’era destinata? Chi avrebbe guidato i suoi passi sul sentiero della vita? Chi l’avrebbe protetta contro la miseria, contro le tentazioni? Certo la madre sarebbe stata pronta a darle il suo sangue, ma che valida difesa poteva esser la misera Fortunata ch’era inetta a difender sè stessa, che forse era ancora sotto il fascino dell’ignobile marito?
Di mano in mano che tali pensieri sorgevano nell’animo di Gasparo, egli sentiva anche nascere dentro di sè una tenerezza singolare per questa bambina, sentiva nascere un desiderio[249] intenso di vigilare su lei, di tutelarla contro l’insidie d’un mondo nel quale ella entrava sotto auspicî sì tristi. Pur non disse nulla, e rivolgendosi a Fortunata che piangeva in silenzio, si limitò a susurrarle:—Coraggio!
Il primo giorno Margherita stentò alquanto ad addomesticarsi con lo zio, ma il dì appresso Gasparo, tornando dall’arsenale, si presentò alla nipote con un involto misterioso sfidandola a indovinare ciò che vi fosse contenuto. Margherita si fece rossa rossa in viso e, naturalmente, non indovinò nulla.
Allora l’involto fu aperto e comparve una splendida bambola tutta nastri tricolori, la cui vista strappò alla fanciulla un grido d’ammirazione.
—Oh!—disse Fortunata—lo zio t’ha portato una nuova Lilì!
Il nome rimase e la bambola battezzata per la nuova Lilì strinse Margherita d’un nodo indissolubile allo zio Gasparo. Ogni volta ch’egli veniva a casa Margherita gli correva incontro festosa a mostrargli la nuova Lilì, il cui abbigliamento andava illeggiadrendosi e complicandosi sempre più per le ingegnose aggiunte che vi faceva Fortunata. Gasparo, prima ancora di spogliarsi della sua divisa e di depor la sua sciabola, prendeva in collo la nipote e la copriva di carezze e di baci, ma la nipote non era contenta s’egli non dava qualche bacio e qualche carezza anche alla bambola, sua indivisibile compagna. Intanto la vecchia Lilì, dimenticata[250] in un angolo, con la veste sdruscita, una gamba rotta, i fianchi squarciati e la stoppa che le usciva dalla pancia, esperimentava duramente l’ingratitudine umana.
Eran circa due settimane dacchè Gasparo si trovava a Venezia quando Fortunata si fece animo a iniziar con lui un discorso scabroso che le stava da un pezzo sulla punta della lingua e ch’ella non sapeva mai risolversi a cominciare.
—Gasparo—ella balbettò una sera dopo aver messo a letto la bimba—non t’ho ancora parlato di....
—Di che cosa?—interruppe il giovane aggrottando le ciglia.
—Non turbarti, non guardarmi in quel modo—esclamò Fortunata.—Mezz’ora fa eri così gaio, così sorridente con Margherita.... Io sentivo svanir la gran soggezione che ho di te....
—Soggezione! Soggezione!—brontolò Gasparo.—Perchè devi averne?
—Ho torto, lo so.... Sei tanto buono.... Fosti sempre tanto buono.... Ma che vuoi? Sono una femminetta senza spirito.... Basta un nulla a confondermi.
—Via—soggiunse Gasparo raddolcendo la voce.—Di che cosa vuoi parlarmi?
—Di... di Leonardo—disse Fortunata tutta tremante.
—Me l’aspettavo.... Ebbene?... Non hai dovuto riconoscer tu stessa che t’era impossibile viver con lui?.... E quand’egli ha stancato una pazienza come la tua!...[251]
—No, Gasparo... forse non ne ebbi abbastanza... o almeno... non ebbi tatto... non so far niente io... che disgrazia! che disgrazia!
—Povera vittima!—esclamò l’ufficiale un po’ irritato, un po’ commosso.—Dovresti anche prendertela con te stessa! Quel miserabile che t’ha sedotta non per amore, ma per capriccio, che t’ha sposata non sotto l’impulso del dovere, ma sotto quello della paura, quel miserabile che non ha cuore nè per sua moglie, nè per sua figlia, che s’è mangiato tutto il suo, che è precipitato ruzzoloni di vizio in vizio, d’ignominia in ignominia, quel miserabile merita proprio che tu t’accusi per lui!
—È vero... egli ha le sue colpe... ha molte colpe... non lo difendo, no... ma è anche molto da compiangere... e se io potessi....
—Sicuro, se tu potessi dargli dell’altro danaro da scialar come prima fra le ballerine e le femmine da partito, tu saresti contenta come una Pasqua?
—Gasparo, non è questo.... Io vorrei aiutarlo a togliersi da quell’ozio che è la sua rovina... vorrei aiutarlo a trovarsi una occupazione....
—Un’occupazione? Lui? Lo credi uomo da occuparsi d’altro che... di quello di cui s’è occupato finora?
—Forse sì.... Mi pare che ne senta anch’egli la necessità....
—Che ne sai tu?
—Lo vedo talvolta... oh, avrei forse dovuto piantarlo affatto, solo, infelice com’è?... Lo vedo,[252] l’ho visto ieri... era tranquillo, ragionevole.... «Che vuoi ch’io faccia?» mi disse. E soggiunse... ma non arrabbiarti... stammi a sentire con calma.
—Continua, in nome di Dio.... Son calmo, mi pare.
—Soggiunse: «Adesso c’è qui tuo fratello che ha un posto importante, che è pieno di aderenze....»
Gasparo non la lasciò finire.
—E avrei da servirmene per dare un impiego a lui, a lui che non è atto a far nulla, che non merita nulla?... Tronchiamo questo discorso.... O piuttosto—egli ripigliò—ma come non ci ha pensato lui subito?... piuttosto digli che c’è un modo per levarsi dall’abbiezione, un modo facile, sicuro, che può restituirgli la stima dei galantuomini....
—Quale? Quale?
—Tu pure me lo domandi?... Si ricordi dei suoi avi che affrontarono cento volte la morte per la patria; brandisca un fucile, vada, corra dove si combatte contro gli Austriaci;... un giorno solo, un’ora, un minuto di eroismo può sanar molte colpe.... Non rispondi?
—Andar soldato!—mormorava Fortunata, tenendo gli occhi bassi,—Ma egli non è robusto, non è avvezzo alle fatiche... e pur troppo in questi ultimi tempi....
—I vizi l’hanno indebolito di più.... Me lo immagino.... Non importa.... Ne son partiti degli altri, viziosi, scioperati al pari di lui; hanno[253] capito, hanno sentito che quest’era l’unica via di salute....
—Ma egli, ne son sicura, non resisterebbe alla prova.
—E se fosse?—proruppe Gasparo con impeto.—Non c’è dubbio; andando alla guerra egli può soccombere alle fatiche, può morire, beato lui! con una palla in fronte; ma qui, non muore a oncia a oncia? E tu preferiresti di vederlo finire sulle panche d’un’osteria, forse nel canto d’una strada?
—Gasparo, Gasparo, che pronostici fai!—esclamò Fortunata atterrita coprendosi il viso con le mani.
—Io non pronostico nulla d’inverosimile—egli le rispose. E vedendo che le sue parole l’avevano scossa se non persuasa, continuò:—Invece chi sa? Nei sani travagli del campo egli può trovare una vigorìa ignota, e sfuggendo ai pericoli può tornar rifatto di corpo e di spirito.... E allora, siane certa, egli benedirebbe chi gli avesse dato il consiglio di prender l’armi.
Che Gasparo credesse proprio al miracolo, questo non oseremmo affermarlo; tuttavia egli parlava con l’accento d’uomo convinto; e forse era convinto realmente che se v’era per Leonardo un mezzo di redenzione possibile, era quello da lui indicato.
Fortunata era in una strana perplessità. Col suo carattere timido, col suo sgomento della guerra, ella non sapeva neanche figurarsi di[254] dover dare lei stessa al marito un suggerimento di quella specie; anzi non sapeva figurarsi che quel suggerimento non le destasse addirittura una ripugnanza invincibile. Eppure una voce interna le ripeteva che Gasparo aveva ragione e la sua mente si fermava volentieri su quella frase: egli può tornar rifatto di corpo e di spirito.... Se fosse vero?
—Gasparo—ella cominciò peritosa—se gli parlassi tu?
—Io?... No... non voglio vederlo... adesso.... Quando si sarà deciso a compiere il suo dovere di cittadino, allora, allora soltanto venga da me.... Io l’accoglierò dimenticando il passato, io farò tutto quello che sarà in mio potere per ispianargli la via.... Ma eh’ egli non mi capiti dinanzi se non è ben risoluto.... Hai inteso?
Visto che suo fratello era irremovibile, Fortunata mise un sospiro e disse:
—Gli parlerò io, proverò.
E il colloquio fu terminato così.[255]
È un fatto che Leonardo Bollati, un giorno in cui egli era d’umor più trattabile, aveva detto alla moglie che, in fin dei conti, se gli offrissero un buon impiego, egli avrebbe forse la degnazione di accettarlo. Una simile idea può parere strana in un uomo di quella tempra e di quella vita, ma la si spiega benissimo ove si consideri che il 22 marzo aveva portato uno sconvolgimento profondo nelle abitudini dei Veneziani. In condizioni ordinarie non c’è popolazione più metodica di questa; la gente si reca ogni giorno alla stessa ora agli stessi ritrovi; alla distanza di dieci anni voi vedete dietro le vetriate dei soliti caffè i soliti visi con qualche ruga e qualche capello bianco di più; quelli che mancano, mettete il vostro cuore in pace, molto probabilmente son morti. Entrate, e sentirete, non dico gl’identici discorsi, ma l’identico modo di discorrere, di sparlare del prossimo,[256] di spropositar di politica, di gridar la croce addosso agli amministratori del Comune. Ciò che vale pei caffè, vale pei teatri, per le conversazioni, per le osterie, per le passeggiate: ciò che vale per un ceto di persone vale per tutti. Gli amici si vedono, si lasciano, si rivedono tre o quattro volte nel corso di ventiquattr’ore. Che amici! si dirà. Adagio un poco. Certo di amici veri ce ne sono anche qui, ma chi si lasciasse illudere dalle apparenze dell’intrinsichezza andrebbe incontro a terribili disinganni. L’amicizia, a Venezia, è più che altro una malattia cutanea; prende le forme d’un’eruzione di cordialità; i visceri ne sono illesi. Tizio, Caio, Marco, Sempronio passano insieme mezza giornata, supponiamo, al Florian, si danno del tu, scherzano insieme, fanno il tresette, sembrano quattro corpi e un’anima. Una mattina Sempronio non si lascia vedere. Tizio, Caio, Marco sono inquieti, ma si consolano dicendo:
—Verrà alle cinque.
Alle cinque Sempronio non compare.
—Oh bella!—esclamano gl’indivisibili.—Dove s’è cacciato oggi colui?
—Non importa. Stasera per la partita non manca sicuramente.
Viene la sera e di Sempronio nessuna nuova.
—Diavolo! Questa poi è grossa.... Bisogna dire che sia malato. Chi fa il quarto invece di lui?
Il quarto si trova facilmente, e si comincia a giocare.[257]
Sul più bello capita qualcheduno con aria contrita.
—Lo sapete? Sempronio è morto!
—Diavolo, diavolo!—dice Tizio.—Come mai? Se ieri era sano come un pesce?
—Ma! L’apoplessia lo ha colto questa mattina e alle tre era spirato.
—Corpo di bacco!... Mi dispiace assai,—soggiunge Caio.
Anche Marco manda un sospiro al perduto amico:
—Povero Sempronio! È proprio una disgrazia.... Accuso tre assi senza denari.... E dove stava di casa?
Ebbene, si capisce senza difficoltà come ogni fatto pubblico il quale alteri l’andamento normale della vita cittadina debba sciogliere queste relazioni così superficiali quantunque così espansive. Figuriamoci poi un fatto dell’importanza della rivoluzione del 1848. Chi fu sbalestrato di qua, chi di là: fu come se un cataclisma gettasse tutti gli astri fuori della loro orbita. Non c’è dubbio che dal nuovo caos uscirebbe una nuova armonia e i corpi celesti prenderebbero un altro cammino regolare; è probabile però che qualche astricino più tardo a disciplinarsi andrebbe alquanto vagando alla ventura per cascar poi a guisa di bolide Dio sa in che luogo. Nel 1848 gli uomini ch’entrarono nel movimento politico, che si posero sul serio al servizio del paese trovarono presto un nuovo equilibrio: quelli, che, senza curarsi dei[258] tempi mutati, vollero continuar le abitudini frivole di prima, si aggirarono come fantasimi smarriti in un mondo che non li intendeva e ch’essi non intendevano più.
Eccoci dunque, per una strada un poco lunga, tornati al nostro Leonardo. La sua compagnia di farabutti e viziosi s’era, dopo il 22 marzo, dispersa; alcuni, cosa strana a dirsi, erano partiti pel campo, altri s’erano rintanati brontolando. Nella bettola ov’egli consumava metà della notte e ove l’ostiere fino al 22 marzo serbava a lui e alla sua brigata una tavola a parte, ora gli toccava sedere in mezzo a sconosciuti che parlavano della guerra, di Manin, di Carlo Alberto, di Pio IX, urlando come ossessi e minacciando talvolta, nel calore della discussione, di rompersi i bicchieri in faccia. È vero che per lo più le dispute ci calmavano, le voci irose si raddolcivano e si fondevano in un inno patriottico. Ma Leonardo Bollati non ci si divertiva punto; lì solo, dimenticato in un angolo, egli non ci trovava più gusto nemmeno a ubbriacarsi. E anche le donne gli parevano cambiate, perfino quelle che, ordinariamente, non hanno opinioni e non si curano delle opinioni altrui. Nossignori, adesso anche loro avevano l’aria di guardarlo d’alto in basso, di rimproverargli la sua inerzia; lasciando stare poi le preferenze ch’esse accordavano ai militari, agli elmi, ai grandi mantelli bianchi, ai pennacchi e ai lustrini....
Sotto l’influenza di quest’uggia che gli si era[259] cacciata nell’ossa, Leonardo Bollati tenne alla moglie il discorso ch’ella aveva timidamente riferito al fratello. Leonardo vedeva della gentuccia salita ai primi onori; possibile che non ci avesse a essere un buon posto per lui che aveva un nome inscritto nel Libro d’oro della Repubblica di San Marco? Anche dei giovani patrizi, di nobiltà meno antica della sua, erano entrati negli uffici pubblici, dispensavano grazie e protezioni; ed egli riteneva d’aver il diritto d’esser messo al livello di costoro. In quanto al genere dell’impiego, Leonardo non aveva precisato nulla; gli bastava un impiego decoroso. E non aveva escluso a priori neppur gli impieghi militari; poichè egli non amava la guerra, ma ci avrebbe pensato su prima di rifiutare una carica di generale o di colonnello con residenza a Venezia.
Il lettore si sarà accorto che fra le idee di Sua Eccellenza Leonardo Bollati e quelle del cognato Gasparo Rialdi c’era un dissidio bastevole a mettere a repentaglio il buon successo delle negoziazioni aperte da Fortunata. E infatti quelle negoziazioni fallirono. La proposta di andar a rischiar la pelle come soldato semplice parve a Leonardo un’ingiuria atroce e si sfogò con la moglie a dir corna di Gasparo e di tutti i Rialdi, ch’eran vissuti di carità alla sua tavola e che adesso eran montati in superbia perchè avevano il vento in poppa. Sciocco lui a fidar sul loro aiuto; doveva pur ricordarsene che i Rialdi erano stati una delle piaghe[260] della sua famiglia! Non voleva veder più nessuno di quella brutta gente, neppur lei che già valeva quanto gli altri e non sapeva far di meglio che venirgli a piagnucolare davanti. Ell’aveva fatto benone a tornar presso i suoi genitori; ci stesse e non lo importunasse con le sue visite.
Leonardo non pensò più ad avere un impiego; bensì, riordinandosi allora la guardia civica, egli prese l’eroica risoluzione d’iscrivervisi, e, perchè il nome della sua casa non aveva ancora perduto ogni autorità nel circondario, riuscì a farsi elegger tenente della sua compagnia. Veramente egli aspirava al grado di capitano, ma questo fu conferito ad un pizzicagnolo ch’era stato militare sotto l’Austria. Per un altro uomo che fosse stato soltanto disoccupato ed inerte, quella nomina avrebbe potuto considerarsi una fortuna, chè, o poco o molto, c’era anche nella guardia civica qualche cosa da fare e qualche pericolo da correre. Per Leonardo Bollati fu una nuova disgrazia. Voleva svergognar i superiori, confonder gli uguali, accattivarsi l’animo dei militi, e per ottener quest’intento gli occorreva scialar da gran signore e pagar da bere alla compagnia, nè potendogli bastare all’uopo il suo magro assegno aggiungeva debiti a debiti. Come poi un oberato trovasse dei gonzi che gli prestavan danaro, quest’è uno dei tanti misteri dinanzi a cui gl’ingenui devono chinar la fronte in silenzio. Un povero galantuomo che una volta in vent’anni chieda al sarto un mese[261] di respiro per saldargli il conto, sentirà rispondersi con mali modi; un fallito che abbia mangiato un milione del proprio e due milioni di quello degli altri potrà ancora imbattersi in uno strozzino di buona volontà che gli dia qualche migliaio di lire.
Insomma Leonardo, alquanto rimpannucciato in quella sua divisa di tenente, tornò ad aver quattro soldi in tasca, ciò che gli permetteva, quand’era di servizio, di far portare in corpo di guardia dei boccali di vino e dei polli arrosto che rinfocolavano il patriottismo dei sott’ufficiali e dei gregari.
Di giorno il quartier generale del nostro tenente era l’osteria Alla Venezia risorta, condotta da Oreste Meolo, gran ritrovo dei politicanti di Cannaregio. Là si sapevano tutte le novità, si dibattevano tutte le opinioni, si giudicavano tutti gli uomini, e le dispute si facevano tanto più calde e romorose quanto più gli affari accennavano a intorbidarsi; nè ci voleva meno che la calma olimpica e l’imperturbabile ottimismo del signor Oreste per quetar gli spiriti degli avventori.
In mezzo alle loro grida, alle accuse di tradimento ch’essi scagliavano oggi al Papa, domani a Carlo Alberto, o al Borbone, o al Durando che non correva in aiuto dei volontari, il signor Oreste con la sua faccia serena, con la sua voce melliflua sorgeva a dire:
—Mi lasciano esporre il mio debole parere?
E il suo debole parere era questo. Le cose[262] non si dovevano guardar nei loro particolari, ma nell’insieme. E dall’insieme risultava chiaro come il sole che si camminava a gran passi verso una compiuta vittoria. Se lo lasciavano dire, ne darebbe la prova.
—Sì, sì,—interrompeva qualcheduno,—bel principio. Intanto gli Austriaci vengono avanti.
—Meglio,—diceva il signor Oreste,—così si piglieranno tutti in una volta.
—Uhm! E Durando che non si muove mai?
—E il Papa che volta casacca?
—E Carlo Alberto che sta a guardare i Tedeschi sul Mincio?
—E Ferdinando che richiama i suoi soldati?
—Fidarsi dei Re!... Tutti traditori, tutti bricconi.
—La ghigliottina ci vuole, ecco il rimedio.
—Sangue, sangue....
Pare impossibile la quantità di sangue che domandano agli altri quelli che non sono disposti a spargerne una goccia del proprio!
Il signor Oreste non aveva ancora potuto svolgere il suo concetto, ma, presto o tardi, trovava il modo di farsi sentire.
—M’ingannerò, ma per me queste ritirate, questi voltafaccia non sono che finte, tranelli per adescare il nemico. Perchè, signori, se l’Italia non dovesse pensare che a sè direi anch’io: S’è sbagliata strada. Bisognava gettarsi subito sui pochi Austriaci ch’erano rimasti nel Lombardo-Veneto e impedire che ne venissero giù dei[263] nuovi dall’Alpi e dall’Isonzo. Ma l’Italia, signori, ha degli obblighi, dei grandi obblighi. Si tratta di distruggere l’Austria, si tratta. Ora mettiamo che i Piemontesi, i Papalini, i Napoletani, fossero tutti marciati subito verso la frontiera, è evidente che quelli di Vienna non avrebbero avuto coraggio di spedir altre truppe in Italia. Noi avremmo fatto prigioniero Radetzky e i suoi reggimenti, ma il grosso dell’esercito sarebbe rimasto sano e salvo a casa propria. Invece, lasciando sguarniti i confini, vengono ad uno ad uno a cader nell’agguato, Nugent, Welden, d’Aspre e tanti nomacci simili che il diavolo se li porti. E un bel giorno, quando tutte le forze austriache si son calate quaggiù, i Piemontesi da una parte, i Romagnoli e i volontari dall’altra, te li prendono in mezzo e fanno una frittata. Non ce ne deve tornare di là dai monti uno solo. Questo è il mio debole parere. Che ne dice il nostro tenente?
Il nostro tenente, ch’era il N. H. Leonardo Bollati, arricciava il naso a sentirsi trattar con questa confidenza dal suo antico cuoco, ma eran tempi democratici e conveniva adattarvisi. Del resto il nostro tenente non aveva opinioni ben determinate circa all’andamento probabile della guerra, ed era disposto ad accettar le opinioni del signor Oreste.
Qualcheduno domanderà se la clientela della Venezia risorta fosse composta d’idioti o di sonnambuli a cui si potesse spacciar queste fanfaluche; il fatto si è che il debole parere del signor[264] Oreste era nel 1848 anche quello di persone intelligenti, le quali, nel loro santo entusiasmo per la causa dell’indipendenza, avevano finito collo smarrire ogni lume di critica. Ciò non vuol dire che tutti gli avventori s’acquetassero allo sentenze spropositate dell’oste, ma i più gli porgevano ascolto benevolo, ed egli, con la sua tattica, mostrava d’intuire due grandi verità: che gli uomini credono sempre volentieri a quello che desiderano, e che a conciliarsene l’animo non c’è mezzo più efficace che accarezzar le loro illusioni.
In quanto a lui, dell’indipendenza non gliene importava nè punto nè poco; solo vedeva con piacere per le vicende della guerra la guarnigione crescer ogni giorno, e molti dal di fuori rifugiarsi a Venezia. E per mettersi, come si dice, a livello delle circostanze, il signor Oreste ingrandiva la sua trattoria, si provvedeva di vini napoletani che richiamassero alla Venezia risorta i prodi seguaci di Guglielmo Pepe, migliorava il servizio, e dava impiego a due nostre vecchie conoscenze, esuli dalla provincia, la bella caffettiera d’Oriago e il relativo marito. Sì, la Rosetta e Menico, all’avvicinarsi degli Austriaci avevano stimato opportuno di chiudere il caffè e di fuggir gli invasori. Veramente Menico, sulle prime, non capiva perchè i Tedeschi, tornando, dovessero prendersela direttamente con lui; ma sua moglie, la quale correva dietro a un sott’ufficiale della legione romana, tanto disse e fece per provare al consorte[265] ch’egli s’era compromesso in un modo tale da rischiar la vita ove fosse rimasto, che egli finì col persuadersi di essere un gran patriotta minacciato del patibolo e accondiscese a emigrare, come facevano altri che, a sentir la Rosetta, erano assai meno compromessi di lui. Giunto fra le lagune con pochi quattrini, egli si sarebbe mangiati ben presto anche quelli aprendo un’osteria, se l’ottimo signor Oreste non ne lo avesse sconsigliato e non avesse offerto a lui e alla consorte un posto sicuro e onorevole presso la sua Venezia risorta. Dopo qualche titubanza i coniugi si acconciarono alla necessità, e le grazie della Rosetta contribuirono ad aumentar notevolmente la clientela del signor Oreste.
Il sott’ufficiale della legione romana trovava che gli ammiratori della vispa cantiniera eran troppi e non seppe tacergliene il suo rammarico. Essa però gli fece intender ragione, dicendogli che non voleva e non aveva mai voluto gelosie, che d’altra parte ell’era di carattere allegro e le piaceva far buona cera a tutti, tanto più che ciò le era imposto dai doveri della sua carica. Il sott’ufficiale si rassegnò a chiudere un occhio; Menico poi da un pezzo li aveva chiusi tutti e due.
La Rosetta non mancò di fare i suoi convenevoli a Sua Eccellenza il N. H. Leonardo Bollati; e Leonardo avrebbe voluto riappiccar con lei la vecchia amicizia. Ma il conte non aveva più nessuna attrattiva fisica, e, diciamo la brutta[266] parola, nessuna attrattiva economica. Da quando la Rosetta non lo vedeva, ed erano quasi tre anni, egli era scaduto immensamente d’aspetto e ci voleva poco ad accorgersi ch’egli stava malissimo di finanze. Infatti gli riusciva ogni giorno più difficile di scovar nuovi sovventori, e i vecchi insistevano per esser pagati e minacciavano di sequestrargli l’assegno accordatogli dal Tribunale. In questa condizione di cose, il meglio per lui era di mostrarsi meno che fosse possibile, tanto più che, indebitato com’era, non avrebbe potuto conservare a lungo il suo grado nella guardia civica. Con la scusa della salute egli diede le sue dimissioni e scomparve anche dalla Venezia risorta.[267]
Noi non facciamo la storia dell’assedio, e non siamo quindi tenuti a seguir passo a passo gli avvenimenti, nè a discorrer dei casi della guerra, nè della fusione col Piemonte votata nel luglio 1848 dall’Assemblea, nè del moto popolare succeduto l’11 agosto alla nuova dell’armistizio Salasco; diremo soltanto che coll’incalzar del pericolo crebbe l’animo e la saviezza dei Veneziani. Alla richiesta di maggiori sacrifizi rispose più spontanea l’abnegazione di tutti, alla necessità di prepararsi a resistere rispose un’energia maggiore nell’organizzar la difesa. Si provvide all’armamento dei forti, si mobilizzò una parte della guardia civica, si formarono nuove legioni di combattenti, quella tra l’altre che in omaggio ai martiri di Cosenza s’intitolò di Bandiera e Moro.
Fosse il fascino d’un nome che gli ricordava gli amici della sua prima giovinezza, fosse la[268] persuasione di non poter far nulla d’efficace nella marina, Gasparo Rialdi chiese ed ottenne di entrar col grado di capitano in questo corpo che raccoglieva il fiore della cittadinanza veneziana. Fu codesta un’amara delusione per la contessa Zanze, la quale s’era fitta in capo che suo figlio avesse a diventare ammiraglio e non sapeva rassegnarsi a vederlo senza il suo cappello a due punte e le sue belle spalline d’oro. Ai suoi occhi il cambiamento era poco meno di una degradazione, ed essa se la pigliava a vicenda col Governo che non aveva apprezzato abbastanza un ufficiale di quel merito, e con Gasparo stesso ch’era un grand’uomo, ma non sapeva farsi valere. Però queste cose ella non le poteva dire che nel segreto dell’amicizia, alla contessa Ficcanaso, per esempio, quella sua tenera amica che conosciamo, giacchè Gasparo aveva certe massime tutto sue, e guai s’egli avesse sentito che sua madre si lagnava del modo in cui egli era trattato.
In quanto a lui, non desiderava che di poter finalmente combattere, e l’ebbrezza delle prossime lotte lo rendeva dimentico d’ogni altra cosa, perfino del significato doloroso che aveva per la causa italiana quell’avvicinarsi degli Austriaci a Venezia. È vero pur troppo che anche l’eroismo, anche la voluttà del martirio rende talvolta egoisti.
Il lettore conosce abbastanza il carattere del conte Luca da poter credere senza fatica che egli s’apparecchiava agli avvenimenti con disposizioni[269] d’animo affatto opposte a quelle del figlio. Pover’uomo! Dalla metà d’aprile a tutto maggio s’era sforzato di persuadersi della fine del dominio austriaco in Italia, e aveva fatto (almeno così pareva a lui) delle dimostrazioni pubbliche atte a ingraziarlo coi liberali, ma dopo i disastri del luglio e dell’agosto la sua vecchia idea che i tedeschi sarebbero tornati aveva ripreso l’antico predominio e non gli lasciava pace. Il peggio si era che gli toccava divorar in silenzio le sue inquietudini. A lunghi intervalli, quando non ne poteva più e il soffiare gli era uno sfogo insufficiente, vuotava il sacco con Fortunata.
—Matti, matti, matti da legare!—egli diceva (però tanto piano che Fortunata doveva aguzzar l’orecchio per sentirlo).—A un bel punto ci hanno ridotti!... Ecco ciò che ha saputo fare il loro Carlo Alberto, ciò che han fatto i volontari, e i papalini, e i napoletani.... E adesso tutta la tempesta viene addosso a noi; stiamo freschi.... Mi ricordo del blocco del 1813, che delizia!... Questi furibondi che ci governano non se ne rammentano mica, son giovani, loro, se no, non farebbero tanto i gradassi.... Eh, perchè l’esperienza servisse a qualcosa, bisognerebbe che al mondo non ci fossero altro che i vecchi.... E il blocco di questa volta sarà anche più rigoroso, si può scommettere.... Avremo la carestia, la miseria, e chi sa che altri malanni.... Con che sugo poi?... Per calar le brache, con rispetto parlando, per istar peggio[270] di prima.... Figuriamoci quanti impiegati destituiti!... Si terrà conto delle apparenze, delle parentele.... so quel che mi dico. E voglia il cielo che i nostri padroni d’adesso, a forza di arroganza, non spingano i Tedeschi agli estremi... Che se c’è l’assalto, siam fritti. Tutti gli abitanti saranno passati a fil di spada e di Venezia non rimarrà pietra su pietra... Mi spiego?... Chi è?
Con questo grido angoscioso—chi è?—il conte Luca soleva troncare o interrompere le sue querimonie, chè bastava il sospetto della presenza di qualcheduno per suggellargli la bocca. E non solo non avrebbe parlato dinanzi a sua moglie che era una pettegola o a suo figlio con cui non aveva mai avuto confidenza, ma gli dava ombra perfino la piccola Margherita. I bambini, si sa, nella loro pericolosa innocenza, son capacissimi di riferir tutti i discorsi che sentono. E il conte Luca faceva giurare a Fortunata che non si sarebbe lasciata sfuggire con nessuno una parola di ciò ch’egli le diceva. Ella ubbidiva, e la sua mente inclinata a tristi pensieri prestava facil credenza alle terribili profezie paterne e già precorreva le stragi, gl’incendi, la rovina ultima di Venezia.
Intanto l’anno 1848 finiva, per la causa liberale, in Italia e fuori d’Italia, in modo ben diverso da quello in cui era cominciato. La discordia aveva pazzamente agitato la sua face nel campo di coloro che parevano scesi a combattere[271] sotto la stessa bandiera. Da una parte gl’indugi fatali, i tentennamenti colpevoli, le aperte fellonie; dall’altra gli eccessi del linguaggio e le violenze degli atti.
Nondimeno nei primi mesi del 1849 una lieta notizia riconfortò i patriotti della nostra penisola; il Piemonte riprendeva le armi. Ma la gioia durò poco, e la tragica giornata di Novara ripiombò l’Italia nel lutto. Gli Austriaci, sicuri alle spalle, potevano ormai converger le loro forze contro i ribelli. Il 26 marzo, tre giorni dopo la disfatta dell’esercito di Carlo Alberto, il feroce Haynau, nome esecrato dalle madri lombarde e magiare, dal suo quartier generale di Padova, intimava la resa a Venezia. E il 2 aprile, Venezia, col voto unanime dei suoi rappresentanti raccolti nello storico palazzo dei Dogi, decretava la resistenza a ogni costo. Santo e nobile voto che riscattava lunghi anni d’ignavia, ed evocava in quelle aule famose lo spirito della grande Repubblica.
Colpita al cuore dalla tremenda delusione ch’era successa a tanto rifiorir di speranze, la popolazione si riebbe all’annunzio del fiero decreto. Era un’ebbrezza simile a quella del marzo 1848, ma meno teatrale, ma più virile, più degna d’uomini preparati a morire. Simbolo della lotta ad oltranza, non emblema di funeste divisioni sociali, il nastro rosso comparve alla bottoniera degli abiti, la bandiera rossa sventolò sui tetti dei palazzi, sulle cupole delle chiese, sulle punte dei campanili.[272]
E il rimbombo del cannone, dal maggio in poi, divenne la musica pressocchè quotidiana dei Veneziani. Chi, in un giorno di battaglia, udì di lontano quel suono cupo e profondo sa che angoscia esso metta negli animi, che pallore sparga sui volti, e come sospenda, per così dire, in quella crudele trepidazione di tutti, il corso della vita ordinaria. Ma chi, per settimane, per mesi, l’udì da una città assediata sa pure che l’orecchio vi si abitua quasi come a un suono domestico, e che il primo sbigottimento si cambia a poco a poco in un’apatia rassegnata e persino in una spensieratezza gioviale.
Così a Venezia. Il cannone tuonava intorno a Malghera, e tuttavia il popolo conservava il suo umore gaio e il suo spirito caustico; si sarebbe detto talvolta che c’era nella città un’attrattiva di più; onde gli uni si recavano in brigatelle alla punta estrema di Cannaregio a veder i globi di fumo che s’alzavano dalle lunette dei forti, gli altri, dalle specule e dagli abbaini, spingevano col canocchiale lo sguardo fino alle batterie austriache di Campalto e di Mestre.
E quando Malghera, ridotta un mucchio di rovine, fu abbandonata in silenzio nella notte dal 26 al 27 maggio, e la eroica guarnigione, decimata ma non vinta, non doma, fatti saltar i primi archi del ponte, si trincierò fieramente sul piazzale opponendo al nemico una seconda linea di difesa non meno formidabile dell’altra, lo strepito più vicino dell’artiglieria, la coscienza[273] del crescente pericolo non valse ancora ad accasciar l’animo dei Veneziani.
Si sperava a dispetto di tutto: si sperava nella propria costanza, nei soccorsi del di fuori, negli aiuti del cielo; nessuno parlava, nessuno voleva sentir parlare d’arrendersi. Di tratto in tratto la gente s’accalcava in piazza domandando ad alte grida Manin. E Manin, dal balcone delle Procuratie, rivolgeva agli adunati brevi parole, non mendaci, non lusinghiere, ma ferme e virili quali i forti rivolgono ai forti. La folla si disperdeva applaudendo e più che mai risoluta a resistere.
Resistere fino all’ultima cartuccia e fino all’ultimo uomo, dicevano anch’essi i difensori del ponte, imperterriti sotto una pioggia di fuoco. Che importava morire? Quei prodi sentivano che sui pochi metri quadrati dell’angusto piazzale si gettava il seme del futuro. E quel seme era sangue, il più nobile sangue d’Italia confuso insieme in quattro zolle di terra. Con un grido sul labbro, con un affetto nel cuore eran venuti dalle sponde del Jonio e dalle falde dell’Alpi, dalle pianure lombarde e dai clivi toscani, dal golfo incantato di Napoli e dai feraci campi delle Puglie, dalla Romagna indomita e dalla Liguria operosa; eran venuti a dividere i travagli e la gloria dei figli delle lagune; ignoti fino a ieri gli uni agli altri, oggi più che fratelli. E cadevano come spighe mietute stringendosi in un ultimo amplesso, mormorando coi vari accenti d’una stessa favella[274] il dolce nome della patria comune. Onore a voi, valorosi, sia che vi ricordi la storia, sia che, martiri oscuri, vi copra l’oblio! E onore anche a voi, pochi ma eletti, svizzeri, slavi, magiari, che, non nati sotto il cielo d’Italia, pur ci veniste a morire, suggellando col sacrifizio delle vostre giovani vite l’alleanza fra quanti credono nella giustizia e nella libertà!
Ma non lasciamo sbizzarrir troppo la penna. Tra i più intrepidi combattenti di Malghera e del Ponte c’era Gasparo Rialdi. Primo al pericolo, ultimo a chiedere o ad accettare il riposo, a vicenda capitano e soldato, egli comandava ed eseguiva, ora intento a puntare i cannoni, ora a rinforzare i terrapieni, ora ad assistere i feriti. I suoi compagni d’armi lo dicevano invulnerabile. Infatti le palle gli grandinavano intorno senza toccarlo. Una volta un piccolo deposito di polvere scoppiò a pochi passi da lui con un orrendo fragore; dieci uomini stramazzarono al suolo per non più rialzarsi, altri due, rovesciati dall’urto, sorsero subito in piedi tra il fumo e la polvere, pesti, contusi, ma atti a riprendere il loro posto. Uno dei due era Gasparo.
Ogni settimana egli consacrava alla famiglia una mezza giornata o una notte, ed è facile immaginarsi con che lagrime egli fosse accolto dal conte Luca e dalla contessa Zanze. Chè se il conte era pusillanime come un coniglio e la contessa leggera come una farfalla, questo non voleva dire che non amassero il loro figliuolo.[275] Negli affetti veri, nei veri dolori tutti gli uomini si rassomigliano.
Fortunata, il cui spirito debole era stato soprappreso da un nuovo accesso di fervore religioso, vedeva nella salvezza del fratello un effetto delle sue preghiere alla Madonna, e glielo diceva, e lo scongiurava di non sorridere, di non provocar l’ira del cielo con la sua incredulità.
La sola Margherita, in un’età che non capisce i pericoli, riceveva lo zio Gasparo col sorriso ilare e confidente d’un tempo. Tanto più che egli non si presentava mai alla nipotina senza un regaluccio, ed era curioso vedere quell’uomo grande e grosso, un momento prima in mezzo alle granate e alle bombe, era curioso, dico, vederlo entrar in un negozio di balocchi a prendervi dei soldatini di piombo, o delle minuscole posate di stagno o altre bagatelle simili.
La bimba, quando lo sentiva venire, gli correva incontro con le braccia aperte chiamandolo a nome, ed egli la sollevava per di sotto le ascelle, su, su, fino ad avvicinar la faccia bianca di lei al suo viso abbronzito; poi se la metteva sulla spalla e la conduceva in giro per la stanza.
Dai forti il cannone tuonava e faceva tremar i vetri.
—Vergine santissima!—esclamavano Fortunata e la madre. Il conte Luca si turava gli orecchi con le dita; Gasparo corrugava la[276] fronte come se lo prendesse un rimorso di non esser sul luogo della pugna; Margherita imitava ridendo il suono delle cannonate: bum, bum. Poi si metteva a canticchiare una delle canzonette patriottiche di quei tempi:
Oppure
O quella scioccheria in dialetto
Di lì a poco però, sporgendo avanti la testa come chi da una finestra del secondo piano vuole attaccar conversazione con gl’inquilini del primo, ella arrischiava una domanda:
—Zio Gasparo, cosa m’hai portato?
—Niente—rispondeva serio serio l’ufficiale.
Ed ella, con un suo vezzo inimitabile:
—Sì che m’hai portato qualcosa.
Allora egli la faceva discendere dal punto elevato in cui l’aveva posta, si metteva a sedere con lei e le diceva:[277]
—Cerca.
Margherita cercava di qua, cercava di là e finiva col tirar fuori da una tasca della tunica o dei calzoni gli oggetti che lo zio le aveva destinati e che le strappavano un grido d’ammirazione.
—Guarda, mamma, guarda.... Oh bello, bello!
Fortunata ringraziava il fratello con gli occhi che le si velavano di lagrime. Ah se Leonardo avesse voluto alla sua figliuola la metà del bene che Gasparo voleva alla nipote!
In verità Gasparo Rialdi era meravigliato lui stesso della parte che questa bimba prendeva nei suoi pensieri. Severo, ruvido qualche volta, alieno sempre dalle soverchie espansioni, egli era pienamente convinto d’essere un orso, come gli aveva detto una donna gentile che non era riuscita ad ammansarlo. Ma ciò che non avevan potuto le donne lo poteva ora una fanciulletta di men che quattro anni; l’orso era ammansato.
Un giorno, verso la fine di luglio, quando le previsioni dell’avvenire eran più fosche che mai, e il nemico stringeva intorno alla città assediata il suo cerchio di ferro e di fuoco, e scarseggiavano i viveri, e il lugubre spettro del colèra appariva sull’orizzonte, Gasparo, venuto a casa per poche ore, fece alla sorella una inattesa proposta.
—Fortunata.—egli le disse, e il suo aspetto era più grave e la sua voce più commossa dell’usato—nessuno[278] osa confessarlo, ma tutti lo sentono. Venezia non potrà resistere a lungo.... Fra due mesi, fra un mese forse, ci mancheranno i soldati, le munizioni, il pane... bisognerà cedere come ha ceduto Roma.... Se in questo mese, se in questi due mesi la mia buona stella non mi manda una palla di cannone, e sa Iddio se la cerco....
—Oh Gasparo, Gasparo, che parole son queste?
—Beati quelli che son morti—egli riprese in tuono solenne;—beati quelli che morranno prima che il giallo e nero abborrito torni a sventolar sugli stendardi del nostro San Marco!... Ma io non sarò fra questi felici... pare un destino.... Ebbene, se io sopravvivo, credi tu che io possa rimaner qui? Io, antico ufficiale austriaco, io, disertore?
—No, no... è necessario che tu fugga... subito....
—Non oggi, o Fortunata, non prima che Venezia sia caduta.... Allora prenderò la via dell’esilio.
—Dove andrai?
—Non lo so;... forse a Londra, ove un signore che ho conosciuto a Smirne mi offre un impiego... a ogni modo, ho ventisette anni, ho una salute robusta, conosco le lingue, la matematica; potrò dar delle lezioni.
A questo punto egli afferrò tutt’e due le mani della sorella e guardandola fissa negli occhi, le disse:[279]
—Vuoi seguirmi, Fortunata... insieme con la tua Margherita, s’intende?
Fortunata impallidì.
—Partire?
—Sì, partire.... Ho qualche risparmio che basterà per il viaggio di tutti noi tre.... Poi lavorerò.... Sarete la mia famiglia.
Ma Fortunata, non rimessa ancora del suo smarrimento, ripeteva balbettando:
—Partire?.... Abbandonare....
—I nostri genitori?—interruppe bruscamente Gasparo compiendo a suo modo la frase.—Poveri vecchi! Lo so, restan soli, ma che puoi tu fare per loro?... Afflitta da tante sventure, nella casa già triste, tu non puoi portare che una tristezza di più.... Certo la mancanza dei figli è un gran dolore, ma nostro padre ha il suo impiego che probabilmente gli sarà conservato, la mamma è d’un carattere ottimista, vede molta gente;... insomma, finiranno col passarsela alla meno peggio, tanto più, se, non avendo da pensare che a sè, godranno d’una discreta agiatezza.... Credilo, Fortunata, ciò ch’io ti propongo non nuoce a nessuno e può giovare a molti:... a me, a Margherita, a te stessa, che qui sei troppo vicina alla prima cagione di tutti i tuoi mali.
Così Gasparo, per necessità di cose, arrivava al punto che avrebbe voluto schivare.
E Fortunata, che sino a quel momento era riuscita a padroneggiarsi, scoppiò in un pianto[280] dirotto o disse con voce soffocata dai singhiozzi:
—Sì, sì... è vero... la prima cagione dei miei mali è qui.... E te lo giuro... non lo vedo più da un pezzo... non lo vedrò finchè egli non abbia bisogno di me.... Ma se ne avesse, se desiderasse riavvicinarsi a sua moglie, alla sua bimba, e noi fossimo lontane... lontane?...
—Ancora infatuata di quei miserabile!...—esclamò Gasparo.—Apri una volta gli occhi, per Dio.... Che obblighi hai verso di lui?... Quell’uomo è di fango.... Egli aveva una via di salvezza, gliel’abbiamo offerta, non l’ha voluta.... Gli esseri più spregevoli hanno pur qualche cosa da contrapporre ai loro vizi, ai loro delitti....
—Oh delitti egli non ne ha commessi....
—Lo credi?... E sia pure.... Ci sono degli sciagurati a cui si perdonano i delitti in nome di un loro impeto di generosità, d’un loro atto di coraggio; quello che non si perdona è l’abbiezione continua, la vigliaccheria contenta di sè....
—Oh Gasparo.... Sono sua moglie....
—Ma sei anche madre.... E più che a un marito indegno, devi pensare a una figlia ingenua, innocente.... Che sarà di lei?... Chi si curerà della sua educazione?... Sei moglie, sei moglie!... Ebbene, se tanto ti preme quell’uomo, se per amor suo vuoi rimanere a Venezia, lasciami Margherita.....[281]
—Lasciarti Margherita?... Staccarmene forse per sempre?... No, no.... Gasparo, per carità, non me la rubare.
Quindi, alzando le palme al cielo in un parossismo di disperazione:—Vergine santa—esclamò la povera donna—intercedetemi la grazia di morire... Che ci faccio io a questo mondo? Sono un impiccio per me e per gli altri.... Vergine santa, ottenetemi questa grazia.... Ho patito tanto.... E nessuno ha bisogno di me.... Mia figlia starà molto meglio con mio fratello... Vergine santa, datemi retta, salvate lui e fatemi morire, fatemi morire.
Fortunata avrebbe impietosito i sassi. L’ufficiale chinandosi sopra di lei le diede un bacio in fronte e le disse:
—Calmati... una madre non è mai un impiccio per sua figlia.... Io non te la ruberò la tua Margherita... con che diritto potrei rubartela?... Se tu non vorrai separartene, se non vorrai venire con lei e con me... mi avrai dato un gran dolore, m’avrai privato di ciò che poteva rendermi meno amaro l’esilio, ma non importa, io non te la ruberò.... Per altro fino all’ultimo giorno, fino all’ultima ora conserverò la speranza di persuaderti.... Oggi non parliamone più, è tardi e debbo essere al mio posto prima di sera....
Il cannone tuonava. Gasparo sorrise.
—E noi facciamo i conti sull’avvenire—egli mormorò tristamente.[282]
Di lì a poco, abbracciati i genitori e la nipotina, egli s’avviava alla batteria.
Fortunata, corse a chiudersi nella sua camera e ponendosi in ginocchio davanti a un’immagine della Madonna rinnovò la preghiera di poco prima:—Vergine santa, salvate mio fratello e fatemi morire, fatemi morire![283]
Il palazzo Bollati era vuoto da più mesi. Ad onta del suo grande amore per Venezia, lord Herbert Seaweed era partito con la famiglia fin dall’estate 1848, e la figliuola romantica e byroniana s’era mostrata la più sollecita a fare i bauli. Ell’aveva però voluto portar seco una scheggia di marmo del caminetto del salotto; la città poteva saltar in aria tutta quanta ed era opportuno d’averne un ricordo. Nell’imbarcarsi sopra un vapore inglese, il nobile lord aveva sentenziato che le razze latine son destinate a servire in perpetuo e che soltanto la vecchia Inghilterra, old England, ha il diritto di godere della libertà.
Le chiavi degli appartamenti rimasero in mano del console di S. M. Britannica, e un custode il quale abitava nel pian terreno aveva ben poco da custodire. Nondimeno il signor Ambrogio (chè tale era il suo nome) si dava[284] una gran d’aria di importanza come se fosse lui stesso il rappresentante della Regina Vittoria. E reputandosi cittadino inglese, giudicava gli avvenimenti con la calma superiorità d’uno straniero, diceva che gl’Italiani, pur troppo, sono una piccola nazione priva d’ogni esperienza politica, e che avevano commesso e commettevano ogni giorno errori nuovi, i quali avrebbero condotto il paese a inevitabile rovina.
—Per noi però—egli conchiudeva rivolgendosi a sua moglie, a una figliastra e a due gatti che dividevano con lui l’onore di guardare il palazzo—per noi non ci sono pericoli. Al primo serra serra si inalbera sul tetto la bandiera di S. M. e vorrei vedere chi ardisse metter piede qua dentro.... Per gl’Inglesi è una cosa da nulla il mandare una fregata, e vi dico io che i loro cannoni fanno far giudizio a tutti i Governi provvisori e a tutte le Monarchie del mondo.
Il signor Ambrogio estendeva il suo patrocinio anche all’unico inquilino della casa, al conte Leonardo Bollati.
—Quello lì—egli diceva—in mezzo alle sue disgrazie può considerarsi un uomo fortunato. E non dovrebbe aver parole bastanti per ringraziar la munificenza del Milord, che lo ha lasciato stare in una botte di ferro... una botte di ferro.
—Pover’uomo!—esclamavano in coro la matrigna e la figliastra.—Pensare che una volta era lui il padrone![285]
—È la ruota della fortuna—ripigliava il grave signor Ambrogio.—Un tempo c’era l’aristocrazia veneziana, adesso c’è l’aristocrazia inglese.
E nel dir così si stropicciava le mani come se a quest’aristocrazia inglese appartenesse anche lui.
Il custode e la sua famiglia, ch’eran buona pasta di gente, usavano molti riguardi al conte Leonardo, e le donne gli tenevano pulite le camere senza curarsi di domandargli il compenso di poche lire al mese ch’egli aveva loro promesso e che non pagava mai. Per quello che si riferisce alle sue condizioni domestiche, alla sua separazione dalla moglie e dalla figliuola, non sapevano che giudizio fare. A sentirlo, poichè di tratto in tratto egli si fermava a chiacchierare col signor Ambrogio, tutti i torti eran della moglie e specialmente dei parenti della moglie, i quali gli avevano teso un tranello per costringerlo al matrimonio, quando i Bollati erano ancora tra i primi signori di Venezia. Poi, sopraggiunti i rovesci, quei birbanti s’eran dimenticati dei pranzi, delle cene, dei regali avuti, e non avevan voluto aiutarlo in nessuna maniera. Basta dire che il suo degnissimo signor cognato, ch’era adesso tra quelli che tenevano il mestolo, invece di procurargli un impiego onorifico, gli aveva suggerito di arruolarsi come soldato semplice! Soldato semplice, lui, un Bollati! Dopo che i suoi vecchi eran stati generali, ammiragli, dogi![286]
Il signor Ambrogio non pareva alieno dal credere alla perversità e all’ingratitudine dei Rialdi; ma le donne rimanevano perplesse. Nonostante la compassione che destava in loro questa Eccellenza così pitocca, esse non potevano dissimularsi che il conte Bollati era un vizioso, un buono a nulla, uno di quegli uomini che sembran fatti apposta per finir sulla paglia, e che hanno un gran torto di attribuire agli altri le proprie sventure. Inoltre era impossibile che la moglie del conte Leonardo fosse cattiva; bastava vederla per persuadersi del contrario. E al palazzo la si vedeva spessissimo. Ella veniva a chieder notizie di suo marito, a raccomandarlo, a lasciar qualche cosa per lui, un po’ di biancheria, una flanella, dei limoni, degli aranci, tanto più preziosi quanto più era difficile l’averne durante l’assedio. Se le dicevano ch’egli era in casa, ella guardava istintivamente verso la scala come se fosse tentata di salire; ma resisteva alla tentazione e calando il velo sugli occhi e rattenendo le lagrime si allontanava a passi rapidi. Dopo la scena violenta che egli le aveva fatta in occasione di quel famoso impiego chiesto e non ottenuto, ella non aveva più coraggio di presentarglisi dinanzi. Del resto, per lo più, nell’ore in cui Fortunata poteva recarsi al palazzo, Leonardo non c’era.
Le cose tirarono avanti in questo modo per mesi e mesi; solo quando Gasparo fece alla sorella la proposta che sappiamo, ella deliberò di avere un ultimo colloquio col marito; s’egli[287] trovava una parola d’affetto, se dava un segno di rammarico all’idea di separarsi per sempre dalla sua famiglia, no, no, checchè dicesse Gasparo, ella non sarebbe partita.
Ma le vicende dell’assedio impedirono il colloquio desiderato.
La sera di domenica 29 luglio le batterie austriache avevano sospeso il fuoco; gli artiglieri del Piazzale e di San Secondo, a cui non pareva vero di risparmiar le munizioni, ne avevano imitato l’esempio. A un tratto, poco prima di mezzanotte, spettacolo bello e terribile, il cielo è solcato da infinite striscie luminose, un fragore spaventoso risveglia la città addormentata. Che è, che non è? I projettili nemici che fino allora erano stati rivolti contro i forti o avevano colpito tutt’al più l’estremo lembo di Cannaregio, ora giungevano d’improvviso nel cuore di Venezia. Si sentiva il fischio delle bombe, lo strepito delle granate che scoppiavano, lo schianto dei fumaiuoli, delle cornici, dei tetti, che cadevano a pezzi. A poco a poco, dalle case rovinate o minaccianti rovina, uscivano intere famiglie, vecchi languenti, donne discinte, bambini aggrappati ai collo delle madri, uomini ancor vigorosi e pronti a combattere, ma smarriti al cospetto d’un pericolo che veniva a insidiarli persino nelle pareti domestiche. Uscivano portando seco le masserizie più necessarie, avviandosi ai quartieri più lontani dai bombardatori, a San Marco, a Castello. In breve la piazza fu gremita di gente. Chi stendendo[288] il materasso sul nudo terreno vi si adagiava coi suoi cari a dormire, chi sedeva muto sopra uno sporto di colonna della Basilica o su uno dei gradini delle Procuratie nuove, chi cercava asilo nei Caffè, chi girava inquieto su e giù in traccia di parenti e d’amici. Dalla folla saliva un mormorìo confuso di gemiti, di preghiere, d’imprecazioni; in alto, sopra le mille e mille teste, i colombi di San Marco, turbati nei loro riposi dall’insolito frastuono e cacciati fuori dai nidi da un folle spavento, volavano a stormi di qua, di là, senza mai chetarsi e sbattendo l’ali con un fragore sinistro.
Una calca poco minore c’era sul Molo, ove accorrevano anche i semplici curiosi per veder meglio la parabola delle bombe.
—I ne fa i foghi d’artifizio, sti fioi de cani—diceva un barcaiuolo apparecchiando tranquillamente la sua gondola e offrendosi di condur in laguna quelli che volessero goder più davvicino del meraviglioso spettacolo.
Un altro, a ogni colpo, mandava agli assediati un augurio breve ed espressivo: Andè in malora!
—Ve le faremo inghiotir tute le vostre bombe—esclamava un popolano stringendo i pugni in aria di sfida.
Nessuno apriva la bocca per parlare di capitolazione.
Il bombardamento continuò con pari vigore nel giorno dopo, ma intanto la carità pubblica e privata aveva provveduto all’alloggio di quelli[289] ch’eran rimasti senza tetto. Però, chi pensi che due terzi della città erano quasi inabitabili, si farà presto un’idea del modo in cui questi profughi infelici potevano essere accomodati nell’altro terzo. Le stanze non bastavano più; bisognava pigiar la gente nelle soffitte arse dal sole, nei pianterreni corrosi dalla salsedine, nei sottoscala infetti, nelle stive puzzolente dei barconi ancorati in laguna. Qual meraviglia se in mezzo a quella moltitudine ammucchiata in sì breve spazio, affranta già dagli stenti passati e ora sfinita più che mai dalla nutrizione insufficiente e mal sana, prima serpeggiava insidioso, poi scoppiava tremendo il colèra?
Il palazzo Bollati, e la casa Rialdi sorgevano in due punti abbastanza distanti fra loro: tuttavia erano entrambi in quella parte di Venezia ove arrivavano le bombe; Anzi, nel palazzo, un proiettile era caduto fin dalla mattina del 30, mezz’ora dopo che il signor Ambrogio aveva issato sul tetto il vessillo britannico dicendo solennemente alla moglie:
—Noi siamo in una botte di ferro... una botte di ferro. La bandiera devono vederla sicuro, e allora da questa parte non tirano più.... Vorrei poi sapere perchè quell’imbecille del conte Bollati non sia ancora tornato a casa.
Il conte Bollati non era tornato a casa e non aveva nessuna intenzione di ritornarci. Quando principiò il bombardamento egli era in una[290] bettola a pochi passi dalla quale scoppiò una granata. Uscitone in fretta, trovò la strada piena di gente che fuggiva dal sestiere di Cannaregio, quello appunto dov’era il palazzo già appartenente alla sua famiglia. Con l’esagerazione propria degli spaventati, quei fuggiaschi dicevano che a Cannaregio le bombe venivan giù come una gragnuola, che due persone eran morte, che la chiesa di S. Geremia era in fiamme, che una gondola era stata squarciata e sommersa. Leonardo non se lo fece ripetere due volte e prese la rincorsa fino a Castello, ove andò a rifugiarsi in una osteriaccia da lui frequentata in altri tempi.
Anche i Rialdi avevano dovuto lasciare la loro abitazione ed erano stati accolti presso un amico di Gasparo, in parrocchia di San Marco. Il primo pensiero di Fortunata, appena vide in salvo i suoi genitori e la sua Margherita (di sè non si curava affatto, la poverina), fu quello di Leonardo. Ma dove trovarlo? Come arrischiarsi ad andar fino al palazzo Bollati, ove forse, se c’erano ancora i custodi, se ne avrebbe saputo qualcosa? A badare alla gente quella era la parte della città più bersagliata; non ci mettevano piede che le pattuglie della guardia civica; i pochi abitanti rimasti stavano tappati nei magazzini ove si credevano più sicuri e da cui non uscivano che per le indispensabili provvigioni.
—Eh, viscere mie, c’è altro da fare che andar in cerca di tuo marito—borbottava la contessa[291] Zanze alla figliuola, la quale chiedeva a lei consiglio ed aiuto.—Per poco che la duri così, siamo tutti spacciati e non ci resta che da raccomandare l’anima al Signore.
La contessa Zanze non aveva torto. Le condizioni di Venezia s’aggravavano terribilmente ogni giorno. Non ostante gli sforzi eroici del nostro piccolo naviglio, la flotta austriaca era riuscita a impedir tutti gli accessi del porto; dal lato di terra, non c’è bisogno di dirlo, non poteva entrare nè un sacco di grano, nè un capo di bestiame. S’era ridotti a cibarsi di pan nero, di frutte e d’erbaggi forniti dalle nostre isole, del pesce che si pescava nei nostri canali e nella nostra laguna. Chi riusciva a imbandire un pezzo di carne d’un quadrupede purchessia, doveva ringraziare la Provvidenza come d’un segnalato favore. La fame, gli stenti, l’agglomeramento della popolazione preparavano una messe abbondante al colèra. E il colèra falciava le vittime a centinaia, senza distinzione di classe, di sesso, d’età; ricchi e poveri, giovani e vecchi, donne e bambini. Non bastavano al bisogno gli ospedali, benchè se ne aprissero sempre di nuovi, non bastavano i medici, benchè pieni d’abnegazione; mancava il ghiaccio, mancava il chinino pei malati, mancavano i preti pei moribondi, i seppellitori pei morti.
Eppure, in generale, le privazioni erano sopportate virilmente, e si trovava perfino il tempo di ridere e di scherzare. Nella famiglia ove[292] erano ospitati i Rialdi c’era una vecchia nonna piena d’energia che dava coraggio ai giovani e non voleva sentir piagnistei. Linda, pulita, con una cuffietta bianca da’ cui orli spuntavano due ciocche di capelli d’argento, asciutta dalla persona e non curva ancora dagli anni, con un par d’occhi scuri, vivi, lucenti, la signora Teresa era sempre circondata da uno stuolo di bimbi come una chioccia dai suoi pulcini. La chiamavano nonna tutti quanti, i suoi nipoti come gli estranei, ed ella raccontava loro tante belle storielle, insegnava loro tanti bei giuochi. Qualche volta una nube velava la sua fronte serena; allora, rivolgendosi ai maschi, ella diceva con voce sommessa:
—Quando sarete grandi toccherà a voi a prendere il fucile contro i Tedeschi.
—Sì, sì—gridavan quelli con entusiasmo.
—Lo farete il vostro dovere?
—Sì, sì, nonna.
—Bravi!—E la nonna soggiungeva con un filo d’ironia:—Fin che venga quel tempo torniamo a giocar a mosca cieca.
La signora Teresa aveva una gran simpatia per Gasparo Rialdi e per Margherita; per Fortunata provava una sincera commiserazione, ma non poteva intendersi nè con lei, nè col conte Luca o con la contessa Zanze; erano caratteri troppo dissimili dal suo. La impazientiva specialmente il conte Luca, il quale passava delle ore tenendosi una boccettina d’aceto e un pezzo di canfora al naso, e lamentandosi:[293]
—L’hanno voluta fare la rivoluzione! Ecco che cosa ci hanno guadagnato. L’avevo sempre previsto io.... Mettersi a cozzare con l’Austria!... era uno scacco matto sicuro.... Mi spiego?
—Eh, caro signore—rimbeccava la vecchierella—se tutti fossero come lei, il regno dei prepotenti durerebbe sino alla consumazione dei secoli.
Malgrado del suo spirito alquanto mordace, la signora Teresa esercitava una singolare attrazione non soltanto sui fanciulli, ma anche sugli adulti. E Fortunata si fece animo a confidarle, non le sue vicende coniugali, che già erano note, ma le sue angustie per la proposizione che l’era stata fatta dal fratello.—Dio mio, come devo regolarmi? Come devo regolarmi?—esclamava la povera giovine.
La signora Teresa non amava le persone le quali non sanno regolarsi da sè; tuttavia ella non potè schermirsi dal rispondere. E riconobbe che la cosa era grave; ma pesato il pro e il contro, disse:
—Per me, accetterei.
E ripetè gli argomenti addotti già da Gasparo. Rimanendo a Venezia Fortunata non poteva recar nessun giovamento ai suoi genitori, e in quanto al signor conte Bollati, egli, con la sua condotta aveva perduto il titolo di marito e di padre. Fortunata doveva pensare alla sua figliuola, e per la bimba sarebbe senza dubbio un gran bene lo star con lo zio.[294]
—Quello è un uomo—concludeva la signora Teresa—e in qualunque luogo si trovi, saprà farsi la sua strada e mantenere le sue promesse.
Fortunata si torceva le mani e gemeva:
—Dio, Dio!—E neanche vederlo? Neanche saper s’è vivo o morto?
—Qui ha ragione lei. Ma non c’è proprio caso d’averne notizie?
—Senta, signora Teresa, poichè è tanto buona, trovi un’anima pietosa che m’accompagni fino al palazzo Bollati. Dicono ch’è un vero rischio l’andar fin là, ma non importa....
—Crede che non si sia mosso di casa?
—Non lo so.... Probabilmente si sarà mosso come gli altri, ma possibile che non ci sia più nessuno a guardia del palazzo? E se c’è qualcheduno, possibile che non mi diano un’ informazione, una traccia?
—Insomma vorrebbe aver compagnia per questa sua gita?
—Sì... un servitore... un facchino a cui darei una mancia.
—Ma che servitore? Che mancia? Aspetti domattina e vengo io.
—Lei!... No... no, nemmen per idea....
—O che ha bisogno d’una pattuglia per esser sicura? O crede ch’io non mi regga sulle gambe?
—Ma no... non è questo.... Non voglio che si esponga a un rischio per causa mia.... In mezzo alle bombe....[295]
—Che paroloni! Dia retta a me, il rischio è molto minore di quello che si dice.... Se non ci fosse altro che il bombardamento, gli Austriaci avrebbero da sudare ancora per un pezzo.... In verità, quanti crede sian stati colpiti dalle bombe in tutta la città? Dieci o dodici forse.... Meno di quelli che il colèra porta via in una casa sola in poche ore.... Alle corte, se si decide, domattina alle nove, con la scusa di fare qualche spesa, si va insieme.... Andare e tornare è l’affare di un’ora.... Se poi non le accomoda, si spicci da sè, chè io non ho tempo da perdere.
Come avviene sempre a quelli che contrastano con chi abbia più energia di loro, Fortunata cedette. E la mattina seguente, alle nove precise, le due donne s’avviarono insieme a braccetto.
I quartieri bombardati avevano realmente un aspetto che stringeva il cuore. Le strade deserte, le botteghe chiuse, e chiuse pure, per la massima parte, le imposte delle case, soprattutto nei piani superiori. Qua e là, dietro alle inferriate di un magazzino, dietro ai battenti socchiusi d’una porta, spuntava una faccia livida, affilata, sparuta. Non mancavano segni più visibili del bombardamento; qualche mucchio di rovinacci, qualche pezzo di tegola e di grondaia, qualche muro diroccato o annerito da un principio d’incendio. Tuttavia il pericolo delle persone non era gran cosa. Nè i cannoni austriaci potevano tirar più di tanti colpi al[296] minuto, nè tutti i colpi arrivavano sino all’abitato. Di quelli che ci arrivavano, molti finivano nei canali interni; a ogni modo, ben di rado i proiettili avevano la forza di trapassar le impalcature di tutti i piani e di giungere ai luoghi terreni ove s’erano ridotte quelle famiglie che non avevan voluto lasciar le loro case. Per le strade poi era quasi impossibile d’esser colti alla sprovveduta; le bombe si sentivan venire e cento volte contro una c’era tempo di mettersi in salvo.
Checchè ne sia, Fortunata e la signora Teresa toccarono senza disgrazia la meta del loro pellegrinaggio. Il portone del palazzo era chiuso; il campanello risuonò cupamente nei cortile silenzioso.
Alla terza suonata si sentì qualcheduno a muoversi, e una voce femminile gridò dal di dentro:
—Chi è? Chi è?
Era la moglie del custode.
—Sono io, sono la contessa Bollati—rispose Fortunata,—apra un momento.
—Madonna santa!... Cosa viene a fare?—replicò la donna affacciandosi sulla soglia ma senza invitar le due visitatrici ad entrare.—Il signor conte non c’è mica.... Non è più venuto dopo il 29 del mese passato.... dopo il principio del bombardamento.
—Almeno mi faccia la carità di dirmi dove sia....
—Se lo sapessi....[297]
—Non lo sa? Non lo sa?... O poveretta me!... Non sa neanche s’è vivo?
—Per questo si cheti—rispose la custode con voce raddolcita.—È vivo....
—Ah sì.... N’è ben sicura?
—Ieri era vivo.... Mio marito l’ha visto in piazza.
—Ha parlato con lui? E dov’è suo marito?
—Ambrogio è dal console... per quella bomba ch’è venuta in palazzo. Ah Gesù mio!
Quest’esclamazione fu provocata dal romore d’un proiettile che doveva esser caduto poco lontano. Dopo aver ripreso fiato, la custode accennò a voler troncare il discorso.
—Vada, vada, signora, e che Iddio l’accompagni.... Non son luoghi da fermarcisi, questi....
—Un momento ancora, per carità.... Non mi ha detto se suo marito abbia parlato col conte Leonardo.
—Non gli ha parlato.... Si son scambiati un saluto di lontano e il signor conte ha gridato: «A rivederci dopo il bombardamento....» Sarà contenta adesso.... Vada via, vada via....
—Vado, sì... e grazie.... Ma se potesse saper qualche cosa di più....
—O Signore Iddio benedetto! Cosa vuol che si sappia in questi tempi?... Bisogna contentarsi di vivere.
E con queste parole la donna chiuse bruscamente il portone.
La signora Teresa, che aveva taciuto fino allora,[298] toccò leggermente la spalla della sua compagna.
—Andiamo... Quello che si poteva sapere lo ha saputo.
—Oh sì—disse Fortunata—e mi par d’esser sollevata d’un gran peso.... È vivo!... Ma dov’è? Dov’è?... È necessario ch’io lo veda.
—A questo si penserà poi.... Andiamo.
Lungo il cammino, Fortunata cercava ogni tanto la mano della signora Teresa e la stringeva con un moto convulso come a ringraziarla d’esser venuta con lei. Avrebbe voluto attaccar discorso, rimetter sul tappeto la gran questione della sua partenza con Gasparo, questione ch’era sempre insoluta nella sua mente, ma la signora Teresa pareva assorta in gravi pensieri.
Il cannone tuonava.
—Non finirà più!—mormorò a mezza voce Fortunata come parlando tra sè.
—Oh finirà... pur troppo che finirà—disse la signora Teresa tentennando tristamente il capo.
Giunsero in piazza San Marco. C’era una calca di gente; la guardia civica era schierata sotto il palazzo del Governo, e Daniele Manin, affacciato al poggiuolo, le indirizzava per l’ultima volta la parola.
La voce onesta e leale, che per diciassette mesi aveva mantenuto acceso nei Veneziani il sacro fuoco del patriottismo, che aveva guidato, frenato, corretto i mobili istinti del popolo,[299] ora scendeva commossa in una folla commossa; era un patetico addio, era un gagliardo eccitamento a sperare nell’avvenire, era un caloroso appello a quelle virtù con cui le nazioni riescono a domar la fortuna.
Dal punto della piazza ove si trovavano le due donne, non era possibile seguire il filo del discorso, ma se ne coglievano le frasi pronunciate con accento più vibrato.
«.... Un popolo che ha fatto e patito quanto ha fatto e patito e patisce il nostro popolo non può perire. Dee venir giorno in cui gli splendidi destini siano corrispondenti al merito vostro.... Quando verrà questo giorno?... Noi abbiamo seminato.... Sventure grandi sono forse imminenti.... È pur sempre in poter nostro mantenere intemerato l’onore di questa città.... Checchè avvenisse, dite: Quest’uomo s’è ingannato; ma non dite mai: Quest’uomo ci ha ingannati....»
—Mai, mai—gridavano i militi agitando i berretti sulle baionette.—Mai, mai—ripeteva il popolo unanime.
E tutti piangevano, tutti sentivano che l’ultima ora della libertà era vicina.
Daniele Manin pronunziò ancora qualche parola; poi, sorpreso da un malessere subitaneo, dovette ritirarsi. La folla si disperse.
La signora Teresa era rimasta immobile con gli occhi fissi al suolo; due grosse lagrime, le prime che Fortunata le vedesse spargere, le rigavano le gote. Alla fine si scosse, sospirò[300] due volte:—Povera Venezia! Povera Venezia!—disse alla sua compagna:—Spicciamoci, a casa ci aspetteranno;—e s’avviò.
Fortunata la seguì senza aprir bocca. Forse anche a lei parevano piccoli, dinanzi a questo gran dolore della patria, tutti i dolori privati.[301]
Questo grido pietoso d’un gentile poeta e soldato, che sul cader del 20 agosto 1849 contemplava mestamente da uno dei forti della laguna la città avvolta nei rosei vapori del tramonto, dipinge, meglio che non potrebbero le lunghe descrizioni, lo stato di Venezia in quei giorni. Il cannone non tuonava più, si negoziava la resa. E la resa fu sottoscritta il 22; il 27 doveva succeder l’occupazione austriaca.
Cessato il bombardamento, tutti quelli che il fuoco, la fame, il contagio avevano risparmiati,[302] s’affrettarono a tornare alle loro abitazioni, stupiti e forse non lieti di sopravvivere alla patria. Però, se la guerra era finita, se la carestia era scemata, c’era sempre tempo di morir di colèra, chè la malattia non accennava punto a diminuire d’intensità, e anzi il numero delle vittime fu, in quello scorcio d’agosto, maggiore che mai. L’accesa fantasia popolare parlava di migliaia di morti al giorno; non erano tanti, ma passavano i trecento, cifra enorme in una città di poco più che centomila anime.
Naturalmente anche i Rialdi furono tra quelli che rincasarono. Se la paura, come ritengono alcuni, dispone i corpi al contagio, il conte Luca avrebbe dovuto avere il colèra una ventina di volte; invece n’era rimasto illeso e attribuiva la sua salvezza alle infinite precauzioni di cui s’era circondato, e soprattutto a un grande odor di canfora che lo isolava in mezzo alla gente. È vero ch’egli non poteva ancor cantar vittoria. Aveva però ben altre angustie addosso oltre a quella del colèra. Che cosa farebbe di lui il Governo austriaco? Lo lascerebbe al suo posto, lo metterebbe in pensione, lo destituirebbe addirittura? Il Signore Iddio gli era testimonio ch’egli non aveva contribuito per nulla alla Rivoluzione, che non aveva appartenuto all’Assemblea, nè era sceso in piazza San Marco a gridar viva e morte; sicuro che s’era messo anche lui la coccarda tricolore all’occhiello, e s’era presentato al Manin coi suoi colleghi del Tribunale; sfido io; come si poteva esimersi? Ma[303] il grosso guaio era l’esser padre d’un ufficiale che aveva preso le armi contro il suo legittimo Sovrano e che doveva quindi emigrare, l’esser marito d’una donna senza giudizio, che s’era voluta cacciare in una dozzina di comitati, e per diciassette mesi non aveva fatto altro che salir le scale delle case per accattar firme a indirizzi e denari per collette, o bazzicar per le ambulanze a civettare coi feriti (alla sua età! vergogna!) o intervenire a cerimonie chiassose, tutta gale e pennacchi come un cavallo bardato. La contessa Zanze non poteva lodarsi del Governo provvisorio, il quale non aveva apprezzato sufficientemente il suo patriottismo, nè dato a Gasparo il comando di tutte le forze di terra e di mare; anzi ella diceva che un’altra volta si guarderebbe bene dal rifare i sacrifizi che aveva fatto; ma ella non era punto disposta a sopportare in pace i rimproveri di suo marito, e, stuzzicata da lui, rispondeva per le rime. Egli però non era in grado di sostenere una discussione, e alzando le mani al cielo esclamava:
—Per carità, non mi stordite con le vostre chiacchiere, non mi fate inquietare, che c’è ancora il colèra.
—Sì, sì,—rispondeva la moglie.—Se non avessi la spina dei figliuoli che sono in procinto di partire, non mi fareste mica tacer così presto.
Era deciso; Gasparo conduceva con sè la sorella e la nipotina. Fortunata, debole sempre,[304] aveva ceduto alle istanze reiterate di suo fratello; o forse non voleva star più a carico dei suoi genitori, i quali, nell’incertezze dell’avvenire, potevano essere impicciati a provvedere a sè medesimi. La piccina, dal canto suo, avrebbe preferito di rimaner eternamente nella casa ove c’era la nonna Teresa con tanti bimbi, e ove ella, a marcio dispetto del bombardamento e del colèra, aveva passato i giorni più allegri della sua vita. Ma dacchè s’era tornati nella casa vecchia, nella casa squallida e trista, ella ripeteva da mattina a sera che voleva andarsene con lo zio Gasparo, con la mamma e con la nuova Lilì. Notiamo fra parentesi che la nuova Lilì ispirava a Margherita un rispetto superstizioso. Infatti, mentre tutti i suoi giocattoli s’erano rotti, la nuova Lilì, di legno dalla testa alle piante, aveva resistito agli urti, alle percosse, ai cambiamenti di domicilio, aveva persino ruzzolato un giorno la scala senz’altra conseguenza che una lieve avaria nei capelli e nel vestito.
Nel piegarsi, dopo molte lagrime e molti contrasti, alle sollecitazioni di Gasparo, Fortunata aveva messo la condizione d’andar un’ultima volta in cerca di Leonardo che non era stato ancora possibile di rintracciare, e di condurgli Margherita, s’egli mostrava il desiderio di vederla.
—E se,—aveva soggiunto la povera Fortunata,—s’egli fosse diventato un altr’uomo, se avesse messo giudizio, se volesse esser davvero[305] un buon marito e un buon padre.... intendi bene che non potrei lasciarlo.
—Se uno solo de’ tuoi se si verificasse,—rispose Gasparo sapendo di rischiar poco,—sarei il primo a dirti: Rimani a Venezia.
La vigilia del giorno stabilito per la partenza, Fortunata s’avviò di buon mattino al palazzo Bollati. L’accompagnava una donna di servizio che sarebbe tornata a prender Margherita nel caso che il conte Leonardo fosse nelle sue stanze e volesse dar un bacio alla figliuola.
Una vecchia aperse il portone.
—Chi è? Che vuole?
—Non c’è il signor Ambrogio, il custode?
—Oh poveretto, sia pace all’anima sua, è morto già da due giorni.
—Morto?
—Sì, di colèra.... E adesso c’è la moglie in burrasca.... Vada via, signora, ch’è meglio.
—Padroncina, padroncina, andiamo,—disse la fantesca che a sentir nominare il colèra era diventata bianca come un cencio lavato.
—Un momento.... Buona donna, e del conte Bollati ne sapete nulla?—soggiunse Fortunata con voce tremante.
—Il conte Bollati? Chi è?
—Non lo conoscete? Quel signore alto, coi baffi biondi, che abita qui all’ultimo piano.
—Non lo conosco.... Ma badi.... ho sentito dire dal medico che anche su in alto c’è qualcheduno col colèra.[306]
—Vergine santa!—gridò la giovine mettendosi la mano al cuore.
—Padroncina, per amor di Dio, andiamo a casa,—ripetè angosciosamente la serva.
Ma Fortunata si svincolò a forza dalla paurosa compagna che la teneva per un lembo del vestito e le disse:
—Va a casa tu sola, va subito anzi.... io devo salire.
E senza soggiunger altro attraversò rapidamente il cortile e l’entratura, e infilò lo scalone.
Il conte Leonardo era tornato alla sua soffitta fin dal giorno innanzi, e i primi sintomi del morbo l’avevan colpito nel cuor della notte. Disceso giù nell’androne all’alba per chieder soccorso, aveva per caso trovato il dottore che veniva a curar la moglie del custode. E il dottore, dopo avergli inutilmente suggerito di farsi trasportar all’ospedale piuttosto di rimaner così solo nel suo covile, gli aveva consegnato una boccettina con una mistura di canfora e laudano da prendersi in più volte, promettendogli di tornar fra un’ora e di condur seco un infermiere. Trascinatosi di nuovo su de’ suoi cento e quindici scalini, il conte s’era coricato aspettando. Ma non s’eran più visti nè infermiere, nè medico. Chi poteva risponder di sè e degli altri in quei giorni? Intanto il male cresceva di violenza e il pover’uomo che aveva trangugiato in un colpo tutta la mistura e aveva bevuto una mezza bottiglia di rhum, si contorceva urlando sul letto. E lo lasciavano morir come un[307] cane! Pensò a Fortunata; s’era viva, se lo sapeva in quello stato, sarebbe venuta ad assisterlo.... Ma per mezzo di chi mandarla a cercare!... Egli non poteva più scendere, non si reggeva più sulle gambe. Era in queste smanie quando Fortunata entrò nella camera. La prima impressione di Leonardo fu un’impressione di spavento. Era proprio sua moglie in carne ed ossa, o era uno spettro? Egli non la vedeva da alcuni mesi e gli parve invecchiata di diec’anni, gracile e sottile come un giunco, bianca e diafana come l’alabastro. Alla fine si persuase ch’era lei e si calmò alquanto. Sì, aveva fatto bene a venire, ma adesso premeva avere il medico; corresse subito subito a chiamarne uno, e poi, subito subito, tornasse. E Fortunata rifece le scale e volò in due o tre farmacie lasciando dappertutto l’ordine di mandar in palazzo Bollati il primo medico che capitasse. Quand’ella tornò presso l’infermo, alcuni fenomeni della fatale malattia si erano alleviati; minori i granchi allo stomaco, minore il vomito; ma erano sopraggiunti altri sintomi gravissimi: la pelle sparsa d’un sudor freddo e viscido, la tinta terrea, gli occhi infossati nell’orbita, il respiro affannoso, la voce rauca e sepolcrale. Mentre il conte Leonardo si trovava in una specie di sopore letargico, Fortunata sentì un suono di passi nella stanza attigua, e credendo che fosse il medico uscì a incontrarlo.
Ma non era il medico, era Gasparo, il quale, saputo confusamente a casa sua che la sorella[308] era rimasta in palazzo Bollati, veniva in traccia di lei.
—Tu, Gasparo?
—Io, sì.... Ebbene?... Tuo marito?...
—È di là.... col colèra.... È tanto aggravato... E non si trova un medico... O Gasparo, fa un’opera di carità.... falla per me.... va tu a cercarlo il dottore.... Io non posso abbandonare Leonardo che muore.
Gasparo si lasciò scappare una frase crudele.
—Ne son morti tanti migliori di lui in questi diciassette mesi!
Ella gli mise una mano sulla bocca.
—Non parlare così.... Se Leonardo ha le sue colpe, vedi come le espia! vedi a che punto è ridotto!
Sunt lacrimae rerum. Gasparo girò gli occhi intorno, e nel mirar quella squallida soffitta, e nel richiamar alla mente il lusso, gli agi che avevan cinta l’infanzia di Leonardo Bollati provò uno stringimento di cuore. E disse alla sorella:
—Farò come desideri.... Andrò pel dottore.... Ma lo sai che domattina all’alba?...
—Taci, taci,—interruppe Fortunata.
E vedendolo turbarsi, soggiunse:
—Taci in questo momento.... Posson succedere tante cose prima di domattina!
Gasparo la guardò inquieto. C’era un’intonazione così triste nella sua voce, c’era una tale aria di stanchezza nella sua persona!
—Fortunata, cos’hai?
—Io?... Nulla.... Per amor del cielo non perder[309] tempo.... Va, va.... Oh smemorata ch’io sono, prima d’uscir dal palazzo, batti all’uscio dell’abitazione del custode, al pian terreno.... c’è un caso di colèra anche lì.... forse ci sarà un medico.... va, Gasparo....
Egli discese in fretta. Dal custode gli dissero con un gesto espressivo che il medico non aveva più ragione di venire. Invece, giunto in istrada, la sua buona stella gli mise subito tra i piedi un dottore di sua conoscenza; se ne impadronì (è il vocabolo giusto) e se lo tirò dietro in palazzo.
Leonardo peggiorava rapidamente; spenta la voce, impercettibili i polsi, esauste le forze; pur non aveva ancora perduto conoscenza, e vedendo insieme col medico entrare il cognato guardò Fortunata con un’espressione indefinibile di sgomento. Ella lo rassicurò con un’occhiata, e Gasparo, impietosito al miserando spettacolo, gli fece un saluto amichevole e gli rivolse le parole incoraggianti che sogliono rivolgersi ai malati.
Al dottore, ch’era un brav’uomo e aveva curato i colerosi a centinaia, non occorse più di un minuto per giudicare che Leonardo era bell’e spacciato; nondimeno volle provare i mezzi che gli suggeriva la sua esperienza. Visto che non ne cavava alcun frutto, chiamò da parte Gasparo e gli susurrò all’orecchio:
—Non c’è alcuna speranza.... Procuri di condur via sua sorella.... Mi par molto debole, e[310] il colèra si attacca facilmente, soprattutto alle persone deboli.
Ma Fortunata, come se avesse indovinato il pensiero del medico, fece un energico segno negativo col capo e passando un braccio sotto il collo del moribondo parve voler dire: «Non mi strapperete di qui che a forza.»
Gasparo le si avvicinò con dolcezza.
—Fortunata, per amore della tua Margherita....
—No, no... Margherita non ha bisogno di me.... Lui sì che ne ha bisogno.... Leonardo, Leonardo, non è vero che hai bisogno della tua Fortunata?... Oh meschina me, che ho potuto lasciarti per tanto tempo.... Perdonami, Leonardo mio.... Oh se tu m’avessi mandata a chiamare!... Perchè, non m’hai mandata a chiamare?... T’ho sempre voluto bene.... O Leonardo, se guarisci, starò sempre con te, te lo giuro.
E, trattenuta invano, si gettava bocconi sul letto e tentava scaldar con le sue carezze quel povero corpo assiderato.
A un certo momento il medico, che non aveva levato mai gli occhi dall’infermo, disse:
—Signora, si faccia una ragione.... Ormai... è inutile.
Ella alzò la testa, guardò il medico, guardò Gasparo, guardò Leonardo, comprese che tutto era finito e cadde ginocchioni, tendendo le palme al cielo e gridando:—Madre di Dio, abbiate misericordia![311]
Stette così qualche minuto singhiozzando, pregando, coprendo di baci la mano del morto che spenzolava dalla sponda del letto; poi, appoggiandosi a Gasparo, cercò di rizzarsi in piedi, ma le vennero meno le forze e s’abbandonò come una massa inerte tra le braccia del fratello.
Il dottore ch’era ancora nella stanza, accorse subito, e vedendo la faccia stravolta, gli occhi smarriti, il pallore cadaverico della giovane, capì subito di che cosa si trattava. Era di nuovo il colèra, un colèra de’ più gravi, di quelli che lasciano meno tempo alle difese. Il male che aveva testè ucciso il marito ora investiva con raddoppiata violenza la moglie.
—E poi negheranno il contagio!—disse tra sè il valentuomo, il quale, per far prevalere la teoria del contagio, aveva sostenuto fiere battaglie con alcuni colleghi. E non vorremmo giurare che l’idea di poter gettare in viso agli oppositori un nuovo esempio a sostegno della sua tesi, non gli desse qualche soddisfazione. Tanto più che il triste caso di Fortunata pareva dargli ragione su un altro punto. Questo aveva tutta l’aria di esser colèra fulminante, e anche il colèra fulminante negavano que’ caparbi, e pretendevano che in Europa non se ne fosse mai visto.
Si trasportò Fortunata nella camera vicina a quella dov’era morto Leonardo. S’era pensato sulle prime di trasportarla a casa, ma ella, pienamente in sè e pienamente consapevole del[312] suo stato, supplicò che la lasciassero morir lì. Non voleva comunicare a’ suoi genitori e a sua figlia il germe della malattia... o forse, giacchè il cielo le aveva accordato la grazia di ricongiungersi a suo marito, non voleva staccarsene più.
Forte in mezzo agli strazi, come non era stata mai nelle condizioni ordinarie della vita, ella scongiurava il medico di non tormentarla coi rimedi; già ella capiva ch’era suonata la sua ora e che Iddio la chiamava a sè.... avesse almeno potuto avere un prete!...
Gasparo si mosse per andare a cercarne uno, ma ella col po’ di voce che le rimaneva:
—Per carità non allontanarti—gli disse.
In pari tempo rivolse al medico uno sguardo supplichevole. Il buon dottore comprese il significato di quella muta preghiera, fece a Gasparo cenno di rimanere e s’avviò:
—In un quarto d’ora vado e torno.
—Gasparo—mormorò Fortunata, quando fu sola con suo fratello—il Signore sa quel che si fa.... Se fossi venuta teco a Londra ti sarei stata d’impaccio... sempre malinconica, sempre piagnucolosa.... Se invece all’ultimo momento mi fossi rifiutata di venire, tu non avresti voluto privarmi della mia bambina....
—No, Fortunata....
—E allora il tuo esilio sarebbe stato più tristo.... È meglio così.... Te la raccomando, la mia Margherita.... Parlale qualche volta di me.... E se le nomini suo padre, non insegnarle[313] a disprezzare la sua memoria.... Promettimi che compiacerai alla tua povera sorella.
—Te lo prometto, sì, te lo prometto con tutta l’anima.
—Grazie.... E il babbo e la mamma... poveri vecchi, che restan soli nel mondo... li vedrai, non è vero, prima di partire? Salutali, di’ loro che mi perdonino se non fui sempre una figliuola ubbidiente... e tu pure...
Uno spasimo acuto le troncò la frase, e la voce le si estinse in un gemito.
Quando tornò il dottore, e poco dopo di lui venne il prete ch’egli era andato a chiamare, gli occhi dell’ammalata nuotavano già nella morte. Ma ell’era sempre presente a sè stessa e potè accompagnare col movimento delle labbra le preghiere del sacerdote e volger di tanto in tanto lo sguardo all’uscio della camera vicina, come se intendesse che quelle preghiere dovessero valere anche pel disgraziato che non era più in caso di sentirle.
Era l’ora del tramonto; il sole prima di nascondersi dietro un palazzone che sorgeva dall’altra parte del canale mandò un fascio di raggi nella stanza e tinse d’una luce purpurea il letto improvvisato e la faccia livida della morente. Ella s’agitò in un’ultima convulsione, poi le sue membra s’irrigidirono per sempre.
Gasparo ebbe un ruggito da leone.—Morta, morta! Infelicissima sorella mia, che non hai fatto altro che patire!... Morta per cagione di quel miserabile! E non dovrò maledirlo?[314]
Ma quell’impeto durò poco. Il tempo stringeva e Gasparo aveva ancora un terribile ufficio da compiere: annunziare ai suoi genitori la nuova, inattesa sciagura che piombava loro sul capo.
Egli strappò un foglietto da un taccuino e scrisse col lapis poche righe a un amico sulla cui devozione poteva fare assegnamento. «Sai che devo partire domattina sotto pena di essere preso e fucilato dagli Austriaci. Mia sorella»—a questo punto egli ebbe un’esitazione, ma la vinse e proseguì:—«e mio cognato son morti or ora di colèra in due stanze a tetto del palazzo Bollati. Intenditi col dottore X... per la tumulazione. Fa quello che faresti se la sventura (che il cielo tenga sempre lontano da te) avesse battuto alla tua porta. In un momento come questo non posso dare un tale incarico a mio padre. Addio: quando mi sarò posato in qualche luogo (spero di fermarmi a Londra) ti riscriverò e ti indicherò il mio recapito. Addio, e grazie dal fondo del cuore. A rivederci in tempi migliori.»
Com’ebbe finito di scrivere, piegò il foglietto in due, vi fece l’indirizzo e lo consegnò al dottore.
—È stato tanto buono; m’usi un’ultima cortesia. Mandi questo biglietto al mio amico—e glielo nominò—che lei conosce benissimo e si metta d’accordo con lui per tutto quello che resta da fare.
Il medico chinò la testa in sogno d’assenso e[315] promise a Gasparo che avrebbe anche pensato a trovar chi vegliasse nella notte quei poveri morti.
—Non sono ricco, sto per prendere la via dell’esilio—disse Gasparo con voce commossa—non posso compensarla come vorrei, ma una memoria....
E si toglieva un anello dal dito, ma il dottore l’interruppe vivamente:
—No, Rialdi, io non accetto nulla... assolutamente nulla... Ogni più piccolo oggetto può esser necessario ad un esule....
—Ma...
—Non ne parliamo.... Mi dia piuttosto un bacio, e buon viaggio....
Gasparo abbracciò intenerito il dottore, sfiorò ancora una volta con le labbra la fronte gelida di Fortunata e corse a precipizio giù per le scale. Uscito dal palazzo, egli fece in un lampo la strada che lo divideva da casa sua.
Il conte Luca e la contessa Zanze lo aspettavano con ansietà.
—E Fortunata?—essi chiesero a una voce vedendolo arrivar solo.—Dov’è?... È rimasta lì?... Quando verrà?
—Fortunata...—principiò Gasparo. Ma invece di continuare, balbettò:—Coraggio, padre mio, coraggio, mamma... Armatevi di tutta la vostra forza, chè ne avete bisogno.
Quelle parole, quelle lagrime, che invano rattenute velavano due occhi non avvezzi a spargerne, lasciavano indovinare il peggio.[316]
—Gasparo—gridò la contessa—tu non diresti di più se tua sorella fosse morta!
Il giovino chinò la fronte in silenzio. Rinunziamo a descrivere la scena che ne seguì per non render ancora più triste questo capitolo già pieno di tante pubbliche e private tristezze, e perchè ci sembra che l’ora incalzi anche noi e ci costringa innanzi tutto a mettere in salvo il nostro ufficiale. Questa partenza inevitabile, imminente, era quella sera, in casa Rialdi, un dolore di più, e nello stesso tempo una distrazione al dolore. Non c’era caso, bisognava occuparsene, far gli ultimi preparativi, dar l’ultime disposizioni, e per conseguenza, di tratto in tratto, pensare ad altro, parlar d’altro che della tragica fine di Fortunata.
Intanto Margherita dormiva. Poichè ella doveva alzarsi per tempissimo, l’avevano messa a letto subito dopo desinare, poco prima che Gasparo giungesse, ed ella, appena posata la testa sul capezzale, aveva trovato il sonno dolce e profondo dell’infanzia.
Degli altri di casa, come si può ben credere, non chiuse occhio in quella notte nessuno. Ma, verso il mattino, Gasparo sforzò i suoi genitori a ritirarsi nella loro stanza per un paio d’ore; avrebbe vestito lui la bambina.
—Sei proprio irremovibile?—disse la contessa.—Vuoi portarcela via? Vedi come restiamo soli.
Oh Gasparo lo sapeva, e ne sentiva in cuore una profonda pietà. Ma anche egli era solo, e[317] da mesi e mesi il pensiero di condur seco questa fanciulla, di tenersela come propria figlia, era per la sua anima un raggio di luce che rischiarava le tenebre dell’avvenire. E poi, nonostante tutte le amarezze, tutte le incertezze dell’esilio, gli pareva di provveder meglio alla sorte di Margherita conducendola con sè che lasciandola presso i nonni.
—Sì, mamma—egli rispose con affetto.—Credi pure ch’è meglio così... Un giorno, se la fortuna m’arride, verrete voi altri a raggiungerci.
La contessa Zanze non insistette.
Alle quattro del mattino Gasparo entrò nella camera della nipote. Margherita dormiva tranquilla, con la sua puppattola al fianco, con un braccio nudo piegato sotto la testa, in una positura simile a quella in cui egli l’aveva vista la prima volta. Accanto alla cuna della bimba c’era il letto della sua povera mamma, intatto, con le lenzuola rimboccate.
—Margherita—chiamò Gaspare—o Margherita.
E la scosse dolcemente.
Ella si risentì, aperse gli occhi, si guardò intorno e disse:—La mamma... voglio la mamma.
—Sono io, Margherita, sono lo zio Gasparo.... Lo sai che si deve partire insieme.
—Ma anche la mamma...
—La mamma—egli soggiunse con pietosa bugia—è andata avanti... La troveremo... Su, su....
Margherita si lasciò persuadere, e, aiutata dallo zio e da una donna di servizio, fu pronta[318] in pochi minuti. Anche il suo piccolo bagaglio era pronto.
Ma convenne assolutamente prender seco un altro piccolo personaggio, un personaggio di legno, la nuova Lilì, da cui Margherita non voleva staccarsi a nessun patto.—Gliel’ho promesso—ella diceva con la maggior gravità—e anche la mamma glielo ha promesso.
Storditi sotto il cumulo di tanti dolori, il conte Luca e la contessa Zanze benedissero il figlio e la nipote quasi senza parole, quasi senza lagrime. Solo quando l’uscio si richiuse dietro i due profughi, si sentì dalla stanza uno scoppio rumoroso di pianto.
Gasparo e Margherita entrarono in una gondola. I canali interni della città erano ancora avvolti nell’ombra, ma, guardando in su, si vedevano i comignoli delle case illuminati dal sole. E appena la gondola sboccò in laguna, il Molo, la Riva degli Schiavoni, la Salute, i Giardini, San Giorgio apparvero nuotanti in un mare di luce. Gasparo mise la testa fuori del finestrino del felze, ma la ritirò bruscamente... Sul forte di San Giorgio sventolava la bandiera gialla e nera.
Il giovane ufficiale si coprì il viso con le mani e stette un pezzo immobile e taciturno.
—Ma dov’è la mamma?—ridomandò Margherita.
Gasparo si scosse, passò un braccio intorno al collo della piccina e ripetè:
—La mamma... è andata avanti.
Giunsero al Lido e s’imbarcarono sopra un[319] vapore ch’era pieno di gente. Non tutti emigranti però; alcuni erano venuti lì soltanto per accompagnarvi i congiunti e gli amici.
Margherita girò gli occhi inquieta e chiese di nuovo:—C’è qui la mamma?
—No, bimba mia, non è qui... è andata avanti.
La macchina diede tre fischi. Si scambiarono ancora una volta i baci, i saluti, gli auguri, le parole di conforto e di speranza; poi quelli che non dovevano partire discesero in fretta.
Il vapore si mosse. Raccolti sulla coperta, con lo sguardo fisso verso una parte, gli esuli mandarono un ultimo addio alla città che pareva fuggir dinanzi a loro. E chi singhiozzava, e chi piangeva in silenzio, e chi imprecava al destino e chi invocava il giorno della riscossa.
Margherita era seduta sulle ginocchia dello zio.
—Dove si va adesso?
—Adesso—egli rispose—andiamo intanto in un paese che si chiama Corfù.
—La troveremo lì, la mamma?
C’era un’ansietà così dolorosa nell’accento della fanciulla che Gasparo non ebbe il coraggio di dirle il vero e baciandola teneramente le susurrò con un filo di voce:
—Se la troveremo?... Chi sa?... Forse sì.
Margherita si calò giù pian pianino, prese la nuova Lilì che giaceva ai suoi piedi, le riannodò intorno alla vita un nastro bianco rosso e verde che s’era sciolto e si mise a canticchiare
Quel giorno stesso, nel pomeriggio, le truppe austriache, inghirlandate di mirto, entravano in Venezia come in una tomba, senza destare sul loro passaggio neppur uno di quei gridi che salutano i vincitori. Passando in gondola davanti al palazzo Bollati un maggiore spiegava all’ufficiale ch’era con lui come quel palazzo avesse appartenuto ai suoi suoceri e fosse poi andato all’asta e diventato proprietà d’un inglese. L’ultimo dei Bollati s’era ridotto a vivere in tre stanze a tetto. A questo punto eran decaduti molti nobili veneti! Il maggiore soggiungeva che come unico erede della marchesa sua moglie, morta alcuni mesi addietro in Moravia, egli aveva il diritto di veder davvicino come stessero le cose e che a un tale diritto non intendeva punto di rinunziare. Oh, S. E. il Governatore militare Gorzkowsky avrebbe fatto far giudizio ai Tribunali italiani.
Chi parlava così era il signor marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen, rimasto vedovo, e promosso da capitano a maggiore durante la guerra. E mentr’egli parlava, nella soffitta del palazzo Bollati, i becchini chiudevano nella cassa il conte Leonardo, ultimo rampollo d’una famiglia di dogi.
FINE.
MILANO.—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO.
L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA
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RICORDO-ALBUM
DELL’ESPOSIZIONE DI BELLE ARTI
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Questo elegantissimo volume in foglio, formato-Album, comprende ottanta tavole tirate a parte con gran cura, che riproducono i più lodati quadri e statue dell’Esposizione . . . . . . . Lire 12 —
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MILANO.—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO.
I TESORI D’ARTE DELL’ITALIA
di
CARLO DE LUTZOW
Opera splendidamente illustrata da 50 ACQUEFORTI
e da 250 incisioni in legno
Quest’opera di gran lusso esce contemporaneamente a Stuttgard, a Parigi e a Milano. L’autore è uno dei più illustri storici e critici d’arte, e gode una reputazione europea. Nella sua nuova opera, egli non segue l’andamento delle epoche storiche, ma si conforma alla geniale varietà dei viaggi artistici. Si va da Venezia a Treviso, a Padova, a Verona, a Milano, a Torino, si passa per l’Emilia a Bologna, a Ravenna. Si gira tutta la Toscana e tutta l’Umbria, si fa una lunga fermata a Roma, e percorso tutto il Napoletano, da Napoli per Trani e Bari si termina in Sicilia davanti all’antica Selinunte. Le illustrazioni sono di tre specie: le acqueforti,—belle, morbide, veramente artistiche,—saranno non meno di cinquanta;—le incisioni in legno, di quadri, statue e monumenti, oltre a duecento;—e gli ornamenti tipografici, che sono circa altre cinquanta incisioni di quadri, ornati, sculture, disegni, ecc. Pregio singolare di quest’opera artistica per eccellenza, è questo: che oltre alle riproduzioni dei più celebri capolavori, vi sono riprodotti moltissimi altri capolavori che finora non erano conosciuti dall’universale, ma restavano serbati all’ammirazione dei più intendenti dell’arte. Citiamo ad esempio, le ammirabili pitture di Tiziano nella scuola del Santo a Padova, la pala del Giorgione esistente in Castelfranco, i freschi di Onigo nel Trevigiano, l’incoronazione della Vergine del Romanino di Brescia, ecc. L’autore passando dalle capitali delle scuole italiane ai dintorni, visitando Castelfranco e Treviso, come Castiglione Olona e Pienza e Montepulciano e Monte Fiorentino, ha potuto arricchire la sua opera di tavole che invano si cercano nelle altre opere illustrative dell’arte italiana.
Quest’opera di un lusso eccezionale uscirà in 25 o 30 dispense. Ogni dispensa, oltre ai disegni nel testo, ha due incisioni all’acqua forte di eminenti artisti.
Lire TRE la dispensa.
ASSOCIAZIONE ALL’OPERA COMPLETA: L. 75.
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TORINO
E
L’ESPOSIZIONE NAZIONALE DEL 1884
Le case Fratelli Treves di Milano e Roux e Favale di Torino hanno ottenuto la concessione del giornale ufficiale illustrato dell’Esposizione. Esso uscirà col titolo sopradetto, ed avrà la collaborazione dei più celebri scrittori come De Amicis, Giacosa, Guerrini, Yorik, Lessona, ecc., e artisti della penisola, come Dalbono, Paolocci, Matania, Ximenes, ecc. I primi numeri usciranno fin dalla metà del 1883. Si ricevono associazioni a 40 numeri per Lire 10.
Richiamiamo l’attenzione degli industriali sull’importanza che avrà la pubblicità di questo giornale che sarà tirato a 25,000 esemplari nella galleria stessa dell’esposizione:
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