Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 07 (of 16)
Author: J.-C.-L. Simonde de Sismondi
Release date: October 1, 2013 [eBook #43860]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
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DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari,
dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO VII.
ITALIA
1818.
STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
Pontefici d'Avignone. Urbano V vuole ricondurre la santa sede in Roma. — Seconda spedizione di Carlo IV in Italia; è cagione in Pisa della ruina di Giovanni Agnello, ed in Siena di quella dei dodici. — Viene scacciato da quest'ultima città. — Rende la libertà a Lucca.
1365 = 1369.
Innocenzo IV era morto in Avignone il 12 settembre del 1362, ed il conclave gli aveva dato per successore Guglielmo Grimoardo, abate di san Vittore di Marsiglia, che non era cardinale. Questo papa, che prese il nome d'Urbano V, era di già il sesto tra quelli d'Avignone. [4] Clemente V, aveva il primo trasportata la santa sede in Francia l'anno 1305. Dopo di lui Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI, ed Innocenzo VI, avevano continuato a vivere come esiliati lontani dalla loro capitale e dalla loro greggia. Durante una residenza di sessant'anni, i pontefici e la loro corte si erano stabiliti in Avignone, come se mai non dovessero abbandonare questa città, e ne avevano acquistata la sovranità da Giovanna di Napoli, contessa di Provenza; vi avevano fabbricati magnifici palazzi, e si erano affezionati ad un soggiorno, ove niun desiderio di libertà tra il popolo, veruna inclinazione alla turbolenza tra i nobili, turbava la loro tranquillità, inquietava la loro mollezza. Omai il collegio de' cardinali più non era composto che di Francesi; Urbano V era della stessa nazione, ed aveva opinione di essere attaccato al suo paese natale, quanto poteva esserlo ogni altro suo compatriotto; il re di Francia vivamente desiderava di ritenere la corte pontificia ne' suoi stati, ond'era difficile il prevedere in qual modo potessero i papi ritornare giammai all'antica loro sede.
Per altro la dimora de' pontefici in Avignone aveva avuta la più perniciosa [5] influenza sui costumi della chiesa, sulla sua politica, sul suo riposo, sulla sua fede. La corruzione de' prelati, la scandalosa e disonesta vita de' giovani cardinali, innalzati alla porpora dal favore o dall'intrigo, erano talmente notorj, che Avignone più non era indicata con altro nome che con quello di Babilonia occidentale. Nè quest'epiteto trovasi soltanto nelle amare invettive del Petrarca, ma nelle lettere e nelle scritture degli uomini più moderati e più religiosi del 14.º secolo. Avignone conteneva la schiuma degl'Italiani e de' Francesi; colà venivano a cercare fortuna gl'intriganti d'ogni nazione, che avevano seco portati i più odiosi difetti de' loro compatriotti; e il popolo e la corte d'Avignone avevano convertito in costume ciò che dalle altre nazioni risguardavasi come vizio. Ne' precedenti secoli la corte di Roma era già stata riconvenuta di smisurata ambizione, di dissimulazione, di avarizia, d'ingratitudine; ma nel tempo che i papi soggiornarono in Francia, fu ancora venale e perfida nell'amministrazione dei popoli, servile nelle sue relazioni colla corte di Francia, licenziosa ed intemperante nella privata vita de' suoi prelati; e tra gli stessi papi, Clemente VI non [6] andò esente dal rimprovero di scostumatezza[1].
Gl'Italiani, che i proprj governi cercarono di rendere superstiziosi, sono meno degli altri popoli inclinati alla credulità. Il misticismo, siccome un'immaginazione piena d'idee malinconiche e terribili, appartiene ai climi ove l'uomo soffre sotto una temperatura o ardente o gelata. Ne' deserti della Tebaide, e sulle arene del Gange, o in riva al Baltico e tra le rupi della Scozia, si può tremare in faccia al principio malefico che mai non permette di scordare la sua potenza; possono offerirsi alla divinità dei dolori che sembrano indivisibili dall'umana specie; ma innanzi a che si tremerebbe in Italia, ove tutto sorride all'uomo? Come mai tutti i pensieri possono essere totalmente rivolti ad un'altra vita, quando così dolce è la presente[2]?
Nel 14.º secolo gl'Italiani aggiugnevano uno spirito d'osservazione esercitatissimo all'abitudine di comunicare coi popoli di diversa credenza. Il disprezzo che avevano concepito per la corte d'Avignone, aveva loro quasi assolutamente fatto scuotere il giogo della chiesa romana; mentre gli spiriti erano rimasti assai più sottomessi in Francia, ove il fanatismo persecutore ricompariva sovente con nuove forze. A Parigi, nel Delfinato, ed in altre province della Francia si bruciarono nel 1373 molti eretici. Le diverse loro sette, tutte egualmente punite con atroci supplicj, avevano i nomi di Turlupini, Beguini, Lollardi, Valdesi[3]. Ma in Italia, l'entusiasmo che faceva nascere le eresie, ed [8] il fanatismo che le puniva, erano ugualmente spenti, ed avevano dato luogo alla indifferenza.
I Visconti in tempo delle lunghe guerre che avevano sostenute contro la Chiesa, eransi vendicati delle censure dei papi sul clero de' loro stati: raddoppiavano le imposte straordinarie quand'erano percossi dalle scomuniche. Nè i tiranni della Romagna si erano più de' Visconti lasciati atterrire dai fulmini de' papi, o dalle crociate predicate contro di loro; l'innalzamento loro e la loro caduta erano effetto della lotta tra l'ambizione e la libertà, o dell'affezione, dell'odio, o della vendetta, che sembravano ereditarj in alcune famiglie, senza che la religione vi avesse parte. I Siciliani, dopo i famosi loro vesperi, più non furono in pace colla chiesa per lo spazio di ottant'anni. I loro principi della casa d'Arragona, non si mostrarono meno indifferenti dei loro popoli alle scomuniche dei papi. Dall'una all'altra estremità dell'Italia i popoli ed i governi più non temevano le censure ed i castighi ecclesiastici[4].
La filosofia d'Aristotele era stata universalmente adottata in tutte le scuole unitamente ai commentarj d'Averroe. Il greco filosofo, supponendo un'anima unica animatrice di tutti gli uomini, distrugge la provvidenza e la moralità delle azioni. Ma il glossatore arabo aveva ancora più direttamente attaccata la religione; egli aveva opposta la sua triste dottrina all'islamismo in cui era nato, al cristianesimo ed al giudaismo che aveva studiati; ed aveva diretti contro i cattolici i suoi sarcasmi ed i suoi ragionamenti. Il solo Petrarca era quello che cercava di resistere al torrente degl'increduli; ma la setta ch'egli combatteva nelle sue filosofiche scritture, e nelle sue lettere, godeva d'un'illimitata libertà, e mostravasi ogni giorno più ardita. Credevansi appena le antiche dottrine ancora buone per il popolo; e la religione, quasi incompatibile con tale filosofia, andava perdendo la sua influenza sulla condotta degli uomini[5].
Il Petrarca ci lasciò nelle sue lettere la più triste pittura dei depravati costumi de' prelati[6], i quali avevano perduto lo spirito di dominazione, siccome i popoli l'abitudine di essere loro subordinati. Servilmente sottomessi alla corte francese, nemmeno più si vergognavano della loro servitù. Più in loro non ravvisavasi quello spirito superiore al mondo, che mantiene la vera religione, e che, quando si trovasse ancora presso una falsa religione, la renderebbe pure rispettabile ed utile agli uomini. Invece di non considerare la terra che dal lato de' suoi rapporti con Dio, i preti più non pensavano a Dio, che in ragione dei loro interessi sulla terra. La religione era diventata un mezzo tutt'affatto umano di governo, uno strumento che i [11] despoti tenevano nelle loro mani per valersene contro i popoli[7].
Una religione corre sempre grandissimo rischio quando si dà un capo sulla terra; poichè facendo dipendere il rispetto che riclama, dall'eventualità e dalla virtù d'un solo uomo, la chiesa si rende risponsabile della condotta del pontefice che la rappresenta. Vero è che ne' tempi della persecuzione ella ha più ragioni di sperare che di temere dalla condotta del suo capo; imperciocchè egli s'investe in allora dello zelo medesimo della sua greggia, e non si trova elevato al di sopra degli altri che per dar loro un più luminoso esempio. I primi vescovi di Roma, se dobbiamo prestar fede alle loro leggende, furono quasi tutti santi e martiri; ma poichè la chiesa trionfò [12] dell'idolatria, la leggenda medesima più non attribuisce ai loro successori tanti onori e tante virtù. Il capo del clero, depositario del suo potere, non può evitare di essere strascinato dagl'interessi temporali della sua amministrazione, e di far servire la religione alla politica. È questo il maggiore abbassamento cui possa trovarsi esposta un'autorità divina. Il più nobile ed il più disinteressato sentimento del cuore umano, il sentimento dell'intero sagrificio di sè medesimo si cangia in cotal modo nel vile calcolo dell'egoismo e della frode[8].
Ad ogni modo, se una religione, diventata dominante, deve avere un capo; se deve affidare una quasi illimitata autorità sulle coscienze ad un solo uomo, conviene almeno che quest'uomo sia indipendente. È una specie d'indipendenza quella che l'entusiasmo inspira in mezzo alle persecuzioni; ed il martire è più indipendente dei re, poichè disprezza i loro ordini e non teme i loro [13] carnefici. Ma quando è cessato l'entusiasmo, il capo d'una religione altro non sarà che un suddito se non è sovrano. Vero è che l'amministrazione di uno stato mal si conviene ad un prete, poichè lo allontana dai pensieri che dovrebbero occuparlo, e forse dai costumi che dovrebbe avere; ma la servitù è ancora più sconveniente. Il sovrano pontefice, indipendente dai re, compenserà spesse volte, col suo coraggio nel biasimare la condotta loro, i torti della propria; reprimerà, come sempre fecero i papi, i pessimi costumi, il di cui esempio è tanto pernicioso, quando è dato da chi siede sul trono; citerà alcuna volta al tribunale di Dio un re come falsario, un principe perchè impudico o assassino. In mezzo alle loro ingiuste passioni, ai loro implacabili odj, gl'Innocenti e gli Alessandri quando diressero le armi della Chiesa contro i re di Francia, di Spagna, di Germania, d'Inghilterra, fecero se non altro sentire ai popoli che i sovrani, non meno de' sudditi, possono essere puniti pei loro delitti.
Quando la corte di Roma, trasportata oltremonti, si rese francese, cessò di esprimere in tale maniera il voto dei popoli o delle future generazioni. Ella coprì [14] co' suoi veli le scelleratezze di Filippo il Bello, e gli somministrò infami pretesti per la carnificina de' Templari. Fece co' suoi successori vergognosi mercati dei beni della chiesa, sotto pretesto d'una crociata, che mai non pensò di adunare. Tradì con fallaci speranze i Cristiani orientali, invitandoli a prendere le armi, poi lasciandoli senza soccorsi preda del ferro de' musulmani[9].
Clemente VI invece d'aprire a Filippo di Valois tutti i tesori della chiesa sotto pretesto d'una guerra sacra, cui egli non pensava di fare, avrebbe dovuto essere animato dal coraggio che manifestò in quest'occasione frate Andrea d'Antiochia, religioso italiano, che tornava in allora da Terra santa. Egli prese per la briglia e fermò il cavallo del re. «Sei tu, gli disse, quel Filippo di Francia che ha promesso a Dio ed alla santa Chiesa di marciare colle sue genti a liberare la terra in cui Cristo, nostro Salvatore, ha sparso il divino suo sangue per la nostra redenzione?» Filippo, colpito dalla imponente fisonomia del religioso, gli rispose che lo era. [15] «Se tu lo promettesti di buona fede e con pura intenzione, replicò frate Andrea, io prego questo benedetto Salvatore d'indirizzare i tuoi passi ad una compiuta vittoria, di rendere prosperi te e la tua armata, riservandoti la gloria di purgare quel venerabile luogo dalle abbominazioni degl'Infedeli. Ma se dopo avere pubblicata questa intrapresa, per la quale moltissimi Cristiani orientali hanno di già subita la morte in mezzo a terribili tormenti, tu non pensi di ridurla ad effetto; se tu hai ingannata la santa Chiesa di Dio, la divina collera scenda sopra di te, sulla tua casa, sulla tua posterità e sul tuo regno; il flagello della celeste giustizia s'aggravi sopra di te e sopra i tuoi successori, in faccia a tutti i Cristiani; ed il sangue di tanti innocenti, sparso in occasione delle voci che tu facesti falsamente divulgare, chiami vendetta a Dio contro di te[10]!»
Non è perciò a credersi che i papi francesi non chiamassero altresì innanzi al loro tribunale i principi con cui guerreggiavano. Si videro rimproverare ai [16] Visconti i loro delitti, non già col sublime linguaggio che si conviene al ministro di Dio sulla terra, ma con quello d'un accanito nemico. Urbano V in una bolla pubblicata contro di Barnabò lo chiama figlio di perdizione, animato da uno spirito diabolico[11]; indi passa a disvelare tutta la turpitudine di questo odioso tiranno. Ma non erano altrimenti i delitti, bensì le conquiste di Barnabò, che il papa voleva punire; perciò quando ebbe ottenuta la restituzione di alcune fortezze, che Barnabò possedeva nel Bolognese, gli rese il suo favore, assolvendolo da tutte le censure pronunciate contro di lui.
La dipendenza de' papi avignonesi verso la corte di Francia eccitava il malcontento in tutto il resto dell'Europa. Accusavansi i tribunali ecclesiastici di parzialità, di venalità i legali ed i governatori nominati dal papa. Tutti i vescovi erano tenuti di risedere presso la loro greggia, e quest'obbligazione veniva continuamente ricordata dagli uomini dabbene al primo vescovo, che avrebbe dovuto dare a tutti gli altri l'esempio [17] della disciplina, onde il biasimo di tutta la cristianità ricadeva sul di lei capo. Frattanto gli abusi coll'andare del tempo prendevano piede; e la corte pontificia non sarebbe mai stata ricondotta da Avignone a Roma, se la prima di queste città avesse continuato ad offrire ai papi un sicuro asilo inaccessibile alle armate ed alle rivoluzioni del rimanente dell'Europa. Ma i Valois, durante il disastroso loro regno, più non guarentirono alla corte pontificia quella pace, di cui avea goduto in Provenza in cambio della perduta libertà.
La guerra cogl'Inglesi desolava da lungo tempo il regno di Francia; ma le perfidie di Carlo il malvagio, re di Navarra, la Jaquerie ossia la ribellione de' contadini contro i nobili, e più di tutto le compagnie di ventura, avevano posto il colmo alla ruina di quelle province. Avignone era stato ad un tempo minacciato da tre di questi corpi, che altro scopo non avevano che l'assassinio. I borghesi della città ed i cortigiani del papa erano stati più d'una volta forzati, sotto il pontificato d'Innocenzo VI, a prendere le armi per difendere le mura; e più frequentemente ancora la corte aveva dovuto liberarsi [18] dal sacco con grosse contribuzioni. Tutta l'Europa, invece di compatire in simile circostanza i prelati, biasimava d'accordo il papa, perchè soggiornava in una terra d'esilio. Il Petrarca, il di cui solo nome valeva una potenza, approfittava di tutte le occasioni per richiamare il vescovo di Roma alla greggia particolarmente affidata alle sue cure, e le lettere, talvolta eloquenti e sempre ardite, che gl'indirizzava intorno a quest'argomento, circolavano per tutta l'Europa. Urbano V, mosso da così urgenti cagioni, dichiarò nell'istante della sua elezione ch'egli sarebbe contento di poter rimettere la santa sede in Roma, quand'anche dovesse morire il giorno dopo[12]; ed infatti non tardò a preparare l'esecuzione di questo progetto.
Nel 1365 Urbano concertò con Carlo IV il suo ritorno nella capitale del cristianesimo. Questo monarca andò in Avignone in maggio del 1365, sotto pretesto di concertare col papa i movimenti d'una nuova crociata. Gli avanzamenti de' Turchi in Europa cominciavano appunto allora a far desiderare la riunione [19] di tutti i principi cattolici per difendere la Grecia ed il Levante contro i nemici della fede. La politica non meno che la religione avrebbero approvata questa guerra sacra[13]; ma tutti gli sforzi de' sovrani e del clero, tutte le calde istanze di Pietro di Lusignano, re di Cipro, ch'era venuto a visitare le corti d'Occidente per ottenere alcuni soccorsi, non riuscirono a risvegliare un entusiasmo spento già da oltre un secolo. Il re di Cipro riprese la strada del Levante con un pugno di crociati, coi quali il 3 ottobre del 1365 sorprese Alessandria d'Egitto; ma non si trovò abbastanza forte per conservarla, e l'evacuò poco dopo[14].
Il papa desiderava assai più l'abbassamento de' suoi nemici in Italia che la disfatta degl'Infedeli; e l'imperatore coglieva con piacere l'opportunità di tornare in un paese, ove altre volte avea mietute ragguardevoli somme di denaro. L'uno e l'altro dava voce di voler cacciare d'Italia le bande degli assassini che la guastavano. La compagnia tedesca [20] d'Anichino Bongarten, e la compagnia inglese di Giovanni Acuto, ruinavano a vicenda la Toscana e lo stato della Chiesa. Gelosa l'una dell'altra non si erano rifiutate di servire sotto principi nemici; ma i popoli soffrivano non meno dalla compagnia alleata che dalla nemica[15]. La compagnia della Stella, che i Fiorentini avevano chiamata dalla Provenza per fare la guerra ai Pisani, e quella di san Giorgio, formata da Ambrogio, figliuolo naturale di Barnabò Visconti[16], entrarono una dopo l'altra nello stato di Siena ed in quello di Perugia per levarvi delle contribuzioni. Così aperto assassinio non poteva essere più lungamente tollerato, e l'Italia udì con piacere che il papa e l'imperatore avevano stabilito di mettervi termine.
Nel 1366 il cardinale Albornoz, d'ordine dì Urbano V, fece preparare un palazzo a Viterbo per abitazione del pontefice in tempo d'estate[17]. Fece inoltre riparare gli edificj di Roma che [21] cadevano in ruina, ed accettò le galere di Venezia, di Genova, di Pisa e della regina di Napoli, per ricondurre la corte pontificia dalle bocche del Rodano alle foci del Tevere.
I due capi della cristianità avevano convenuto di trovarsi in Italia nel mese di maggio del 1367; ma Carlo IV fu costretto dagli affari della Germania a protrarre un anno la sua venuta. Urbano V lasciò Avignone l'ultimo giorno d'aprile del 1367 con molti de' suoi cardinali, che sebbene di mal animo, avevano acconsentito di seguirlo; altri avevano presa la strada di Torino; e cinque ricusarono di abbandonare la Provenza[18].
Urbano sbarcò il 25 maggio a Genova, e le due fazioni che dividevano questa repubblica, si sforzavano di superarsi nel fargli onore[19]. Simone Boccanegra, il primo doge di Genova, era morto nel 1363, avvelenato, per quanto fu creduto, in un pranzo dato al re di Cipro. Mentre [22] questo magistrato lottava ancora tra la vita e la morte, il popolo aveva prese le armi, arrestati i parenti del Boccanegra, ed eletto doge Gabriele Adorno. Era questi un mercante, di famiglia plebea, ma ghibellina; e manifestò talenti ed un carattere, proprj ad assicurargli finchè sarebbe vissuto, la direzione del partito ghibellino[20].
L'opposta fazione de' Guelfi aveva per capo Lionardo di Montalto, che ancor esso aspirava al dogado. Nel 1365 era stato costretto ad uscire di città con i suoi aderenti, e faceva guerra alla sua patria[21], quando il passaggio del papa a Genova riconciliò per alcun tempo le due opposte parti.
Il cardinale Egidio Albornoz venne ad aspettare il papa sulla spiaggia di Corneto, ove questi sbarcò il 4 di giugno. V'erano pure i deputati del senato e del popolo romano, i quali offrirono al papa la signoria di Roma e le chiavi di castel sant'Angelo[22]. La gioja prodotta [23] dal ritorno del capo della religione in Italia, poteva sola ridurre i Romani a riconoscere un padrone. Quantunque avessero minore costanza, valore e virtù, che non gli abitanti delle città toscane, erano per altro agitati dalle medesime passioni. Il loro risentimento ora dirigevasi contro la nobiltà, ora contro l'arbitrario potere d'un solo. Nel 1362 avevano creato un nuovo tribuno, detto Lello Pocadotta, il quale era un uomo della feccia del popolo, un calzolajo, che aveva approfittato del suo efimero potere per cacciare di città tutti i nobili. Ma l'avvicinamento della compagnia del Capelletto aveva poco dopo spaventati i Romani; onde scacciarono dal Campidoglio il tribuno, e si diedero ad Innocenzo VI, a condizione che non darebbe nella città loro veruna autorità al cardinale Albornoz[23]. Sotto il regno di Urbano V, erano stati agitati da altre rivoluzioni ancora meno meritevoli d'essere conosciute.
Quegli in cui Urbano aveva maggiore fiducia per amministrare lo stato della chiesa era appunto l'Albornoz, che in una legazione di quattordici anni aveva riconquistata e sottomessa alla santa sede la totalità del dominio ecclesiastico. Albornoz al suo arrivo in Italia non aveva trovati fedeli al papa che i due castelli di Montefiascone e di Montefalco[24]; mentre all'arrivo d'Urbano tutte le città della Romagna, della Marca, dell'Umbria e del patrimonio, ubbidivano alla santa sede. Il papa, avendo domandato conto al cardinale del danaro speso nella sua lunga amministrazione, questi gli mandò per risposta un carro compiutamente carico delle sole chiavi delle città, che aveva ridotte in di lui potere[25]. Ma era di poco giunto Urbano in Italia quando Albornoz morì a Viterbo il 24 agosto del 1367, seco portando il dolore della corte di Roma e dei popoli, che avevano condonati a' suoi rari talenti la strana unione delle incumbenze di generale d'armata e di prelato[26].
Questo grande politico aveva, prima di morire, reso l'ultimo servigio al papa, conchiudendo in suo nome un'alleanza con tutti i nemici de' Visconti. La lega che fu segnata a Viterbo l'ultimo di luglio e pubblicata il 5 agosto, comprendeva l'imperatore, il papa, il re d'Ungheria, ed i signori di Padova, Ferrara e Mantova[27]. Vi prese parte ben tosto ancora la regina di Napoli, la quale, avendo perduto suo marito, Luigi di Taranto, il 26 maggio del 1362, si era lo stesso anno rimaritata in terze nozze col figliuolo del re di Majorica, Giacomo d'Arragona, cui per altro non aveva accordato il titolo di re!
I fratelli Visconti apparecchiavansi dal canto loro a combattere questa formidabile coalizione; e si erano segretamente alleati a tutte le compagnie di ventura che guastavano il paese. Il bastardo Visconti, figliuolo di Barnabò, che ne aveva egli medesimo formata una, adunò tutte le altre al suo soldo, e fece in tal modo [26] la più bell'armata, che si fosse ancora veduta in Italia[28]. Galeazzo, il secondo fratello Visconti, che da qualche tempo aveva stabilita la sua dimora in Pavia, preparavasi pure a modo suo a combattere i suoi nemici. Il fasto e le vanità occupavano tutti i suoi pensieri. Il Petrarca, che viveva nella di lui corte, faceva plauso alla di lui magnificenza ed alla protezione che accordava alle arti ed alle lettere; ma i suoi sudditi gemevano sotto il peso delle gabelle; lo detestavano i suoi ministri e soldati non pagati, e le città da lui dipendenti non erano tenute fedeli che dal terrore che ispiravano le sue crudeltà[29].
Galeazzo riponeva la sua vanità ne' parentadi coi più gran re del cristianesimo. Egli fece sposare in marzo sua figliuola Violante a Lionello, duca di Chiarenza, figliuolo del re d'Inghilterra; e per ridurre questo principe ad un tale matrimonio, gli aveva offerti, colla figlia, duecento mila fiorini di dote e la sovranità di cinque città del Piemonte[30]. [27] Pretendeva con ciò Galeazzo d'attaccare più saldamente ai proprj interessi la compagnia inglese: ed infatti Giovanni Acuto alla testa di questa truppa formidabile penetrò nel territorio di Mantova che pose a fuoco e a sangue. Ma ben tosto il nodo di quest'alleanza colle compagnie di ventura si ruppe per un inaspettato avvenimento: Lionello, duca di Chiarenza, morì dopo pochi mesi, vittima della sua intemperanza.
Intanto Carlo IV giunse il 5 di maggio a Conegliano con una ragguardevole armata, cui si unirono gli alleati d'Italia, onde si vide alla testa di forze superiori di molto a quelle de' Visconti[31]. Ma Acuto trattenne alcun tempo quest'armata nello stato di Mantova rompendo le dighe dell'Adige, che inondò il campo dell'imperatore[32]. D'altra parte [28] Barnabò, cui era nota l'avarizia di Carlo, approfittò di questo ritardo per fargli aggradire riguardevoli doni, persuadendolo con tale mezzo a trattare di pace, ed a licenziare la sua armata. In tre mesi che le truppe imperiali passarono in Italia non s'impadronirono del più debole castello de' Visconti, o di Cane signore della Scala loro alleato; avevano in cambio ruinati i signori di Mantova e di Ferrara, amici di Carlo IV, e furono vergognosamente congedate, sotto la sola condizione che i Visconti renderebbero ai Gonzaghi Borgoforte, che avevano loro tolto[33].
Estrema fu l'indignazione di tutta l'Italia quando fu noto così vergognoso trattato. Eransi adunati cinquanta mila uomini dalle estremità della Boemia a quelle del regno di Napoli, e dall'Ungheria alla Provenza, per liberare l'Italia dalla tirannide de' Visconti e dagli assassinj delle compagnie, e questa formidabile coalizione era stata disciolta dal suo capo, come se avesse ottenuto il suo scopo mercè la restituzione d'un miserabile [29] castello. Frattanto Carlo IV senza prendersi cura del biasimo universale, quando a tale prezzo poteva ammassare danaro, innoltravasi verso la Toscana coi deboli avanzi della sua armata.
Era l'imperatore chiamato in questa provincia dalle preghiere dei Lucchesi, che, oppressi dai Pisani da loro detestati, avevano a Carlo IV consacrato l'affetto ed il rispetto loro fino dal tempo in cui questo monarca, in allora principe di Boemia, governava Lucca a nome di suo padre il re Giovanni[34]. Molti Guelfi di questa città, forzati ad emigrare, avevano acquistate grandi ricchezze commerciando in Francia, ed offrivano all'imperatore di pagargli al più alto prezzo la libertà della loro patria.
Giovanni Agnello, signore di Pisa, trattava dal canto suo con Carlo IV, da cui desiderava la conferma dell'usurpato titolo di doge; ma lo vedeva con rincrescimento avvicinarsi alla testa di mille duecento corazzieri, e già s'accorgeva che la speranza di vicina rivoluzione rendeva arditi i malcontenti, e facevagli [30] trovare opposizione perfino nel proprio consiglio. Ottenne da Carlo la promessa di essere nominato vicario imperiale di Pisa, e di vedere raffermata in tal modo la sua autorità; a questo prezzo acconsentì di rinunciare alla più importante conquista che avesse mai fatta la repubblica di Pisa, e per difesa della quale le nemiche fazioni eransi più d'una volta riconciliate. Il 23 agosto del 1368 consegnò Lucca a Marcovaldo, vescovo d'Augusta, che ne prese possesso a nome dell'imperatore. Questa città era stata suddita dei Pisani fino dal 6 luglio 1342[35].
Carlo IV entrò in Lucca il 5 di settembre. A breve distanza da questa città aveva incontrato Giovanni Agnello, e l'aveva armato cavaliere; onore che il signore di Pisa rese subito a due suoi nipoti e ad altri suoi compatriotti. Il monarca, il doge ed i nuovi cavalieri, entrati in Lucca, salirono sopra palchi innalzati nella piazza di san Michele, ove Agnello doveva essere dichiarato vicario imperiale in presenza del popolo; ma tutto [31] ad un tratto il palco, su cui egli trovavasi, crollò sotto il peso di coloro che vi erano saliti; molti rimasero morti, ed Agnello si ruppe una coscia. Il tiranno obbligato a letto più non poteva farsi temere, onde gli amici della libertà presero tosto a Pisa le armi sotto la condotta di Pietro d'Albizzo di Vico, facendo eccheggiare tutte le strade delle grida di viva l'imperatore e morte al doge. All'istante forzarono la guardia ducale, saccheggiarono il palazzo del conservatore, ed elessero nuovi anziani per governare la repubblica secondo le antiche leggi. Alla notizia di questa rivoluzione tutti gli esiliati rientrarono in Pisa, tranne Pietro Gambacorti; mentre Agnello, ritenuto a letto in Lucca, risolse all'indomani di spogliarsi di tutti i diritti che poteva avere alla signoria, dopo averla conservata poco più di quattro anni[36].
Carlo IV non si affrettava punto di rendere a Lucca la libertà, risguardando questa città quale residenza sicura e comoda per tener vivi i suoi maneggi nelle repubbliche toscane, acquistarvi nuovi diritti, [32] e per lo meno scroccarne assai danaro: in breve una rivoluzione che il suo avvicinamento aveva fatta scoppiare in Siena, gli offrì l'occasione, che andava cercando, di vendere la sua protezione.
Quando l'imperatore, tredici anni prima, erasi recato a Siena, un movimento popolare da lui spalleggiato, aveva esclusa dal governo l'oligarchia dominante. Dopo tale epoca i ricchi mercanti, che formavano questa oligarchia, erano stati dichiarati, come la nobiltà, incapaci di aver parte al governo popolare. Di loro e delle loro famiglie erasi formato nello stato un ordine separato, che dicevasi il monte dei nove, a motivo della suprema magistratura che aveva occupato, e ch'era stata abolita nell'atto che ne era stato spogliato. Ma i borghesi di uno stato alquanto inferiore, che, dopo i nove, erano pervenuti alla nuova magistratura dei dodici, avevano camminato così esattamente dietro le orme de' loro predecessori, che si erano egualmente usurpata tutt'intera la suprema autorità; onde il monte dei dodici, da loro formato, non era meno odioso al popolo che quello dei nove.
[33] I dodici, temendo principalmente l'odio della nobiltà, cercarono di far rinascere le antiche sue contese per indebolirla. Le due illustri famiglie de' Tolomei e de' Salimbeni erano sempre state a Siena i capi delle parti guelfa e ghibellina. Finsero i dodici d'essere divisi nelle stesse fazioni, ed eccitarono le due famiglie a dar mano alle armi l'una contro l'altra, promettendo a ciascuna di favoreggiarla: ma i nobili, il di cui odio ereditario erasi quasi spento sotto le persecuzioni sostenute in comune, si manifestarono i mutui soccorsi loro promessi dai magistrati; onde vergognandosi d'avere sparso il proprio sangue per soddisfare alla segreta gelosia de' plebei, convennero di vendicarsene praticando i medesimi modi adoperati con loro. Finsero un accrescimento di odio gli uni contro degli altri, fecero venire dai proprj poderi i loro vassalli, ed adunarono soldati nelle loro case senza che i dodici si opponessero a questi apparecchi, che credevano destinati alla vicendevole distruzione dei nobili. Frattanto questi si erano guadagnati tutti i capi del monte dei nove e molti plebei malcontenti, ed avevano riuniti in città ottomila uomini sotto le insegne delle due armate guelfa [34] e ghibellina. Tutt'ad un tratto le due armate si unirono il 2 settembre del 1368, ed i loro capi chiesero alla signoria il possesso del palazzo e di tutti i luoghi forti. I dodici sorpresi da così subito avvenimento non ebbero pur tempo d'impugnare le armi per difendersi; onde ritiraronsi nelle loro case, e rinunciarono al governo che avevano tenuto tredici anni[37].
I nobili, padroni della repubblica, dichiararono di volere ristabilire a Siena il governo consolare, sotto il quale questa città aveva fiorito nel dodicesimo secolo. Nell'ordine dei nobili distinguevansi cinque famiglie d'una rimota antichità, i Tolomei, i Salimbeni, i Piccolomini, i Saracini, i Malavolti. Cinque consoli furono scelti in cinque illustri famiglie, altri cinque nel rimanente della nobiltà e tre nell'ordine dei nove, che furono di bel nuovo messi a parte del governo[38].
Ma il popolo, ch'era stato lungo tempo in possesso delle magistrature, non poteva pazientemente soffrire di esserne [35] escluso, e nell'agitamento d'una fresca rivoluzione, ogni parte ricorse all'imperatore e lo scelse arbitro. Carlo accettò con piacere le funzioni di mediatore, promise a tutti la sua protezione, ma si assicurò specialmente dei Salimbeni, di già disposti a separarsi dal loro ordine, e fece all'istante partire con ottocento cavalli Malatesta Ungaro, uno de' signori di Rimini, che nominò vicario imperiale a Siena.
I nobili non volevano aprire le porte a questa piccola armata prima di vedere sanzionati i loro diritti con un trattato, ma il monte dei dodici ed il popolo erano più desiderosi di affidarsi all'imperatore, perchè avevano meno da perdere. Niccola Salimbeni, uno de' consoli, tradì i suoi colleghi per unirsi al popolo, ed il 24 di settembre fece entrare Malatesta Ungaro per la porta che gli era stata affidata. La nobiltà, sebbene sorpresa, si difese nelle strade, e soltanto dopo essere stata superata in più di dieci zuffe sostenute di posto in posto, uscì finalmente di città e si ritirò ne' suoi castelli[39].
Il popolo vittorioso era chiamato a dare una nuova forma al governo, ed a regolare la distribuzione dei diritti politici tra i diversi ordini dello stato. Non credette di potere abolire il passato, non essendo possibile che i cittadini rinunciassero ad affezioni ed a passioni ereditate dai loro antenati, ed alle quali andavano debitori della loro forza e della loro importanza. Perciò i nuovi legislatori riconobbero l'esistenza dei due monti dei nove e dei dodici, ne formarono un terzo, nel quale raccolsero i cittadini stranieri alle due precedenti oligarchie, e questo nuovo ordine, più numeroso che gli altri due, ebbe dalla riforma, da cui era nato, il nome di monte dei riformatori. La signoria fu composta di dodici magistrati, tre de' quali presi dalla prima classe, quattro dalla seconda e cinque dalla terza. La stessa proporzione si osservò nella formazione dei due consiglj che dovevano assecondare la signoria, completando in unione alla medesima il governo[40].
L'imperatore, che tuttavia soggiornava in Lucca, vedeva con piacere le rivoluzioni di Pisa e di Siena indebolire le due repubbliche e prepararle a porsi sotto la sua dipendenza. Avrebbe ancor voluto eccitare qualche turbamento in Firenze, ond'essere poi chiamato a prendere qualche parte nel governo di quella ricca repubblica e cavarne danaro. Egli aveva fatti agli ambasciatori fiorentini amari rimproveri perchè la signoria avesse occupato Samminiato, Prato e Volterra, da lui riclamate come terre dell'impero, ed, appena giunto a Lucca, aveva spediti i suoi corazzieri ad occupare Samminiato ed a fare delle scorrerie nel territorio fiorentino. Ma tosto che la repubblica, determinata di difendere i proprj diritti colle armi, ebbe assoldata gente da guerra, Carlo si raddolcì[41]. Trovavasi allora in così pressante bisogno di danaro che aveva impegnata in Firenze medesima la sua corona per sedicimila fiorini, la quale non aveva potuto ricuperare che prendendo questa somma a prestito dai [38] Sienesi[42]. Abbandonò dunque le sue pretese e partì alla volta di Siena, ove si trattenne pochi giorni, passando di là a Roma.
Il papa non aveva motivo di essere soddisfatto della condotta tenuta dall'imperatore, che bruscamente abbandonando la guerra intrapresa contro i Visconti, aveva rovesciate tutte le speranze della Chiesa; ma Carlo si prese cura di riconciliarsi con Urbano colla più umile e rispettosa condotta; e mostrò di non avere altro scopo, rendendosi a Roma, che di abbassare la dignità imperiale innanzi a quella del pontefice. Si trattenne prima a Viterbo per visitarlo, poi essendo giunto a Roma prima di lui, tornò addietro per aspettarlo a porta Angelica, di dove s'incamminò a piedi avanti al papa, prendendo il suo cavallo per le briglie e guidandolo fino al palazzo del Vaticano. I Romani, lungi dall'insuperbirsi per gli atti di rispetto renduti al loro vescovo, concepirono un profondo disprezzo pel monarca, che tanto si umiliava a' suoi piedi. L'imperatore fece coronare dal papa la sua quarta [39] consorte, e dopo avere servito il pontefice alla messa come diacono col libro e col corporale, lasciò Roma e riprese la strada della Toscana[43].
Al suo ritorno a Siena, il 22 dicembre, vi trovò la discordia risvegliata dagli intrighi di Malatesta Ungaro, il vicario che vi aveva lasciato. Durante l'assenza dell'imperatore, i dodici avevano eccitata una nuova sedizione, sperando di ricuperare la loro antica autorità; ma il tumulto non altro aveva ottenuto che di procurare maggior potere al monte dei riformatori; eransi aggiunti tre nuovi membri alla signoria, e si erano presi in quest'ordine, il più povero degli altri ed il più numeroso. I dodici, delusi per la seconda volta dalle proprie loro pratiche, erano più che prima irritati contro il governo. Porsero dunque avidamente orecchio alle segrete proposizioni dell'imperatore, ch'erasi impegnato di vendere [40] al papa Siena ed altre città della Toscana, e aveva chiamato presso di sè il cardinale Gui di Monforte, legato di Bologna, con un grosso corpo di cavalleria, onde dare esecuzione al contratto[44].
Carlo IV, assicuratosi dei dodici e dei Salimbeni, domandò che la signoria mettesse in sua mano i cinque più importanti castelli del suo territorio[45], e che i gonfalonieri ed i soldati della milizia gli prestassero giuramento di fedeltà. Quest'inchiesta venne comunicata al consiglio generale che la rigettò con grandissima maggiorità di voti. Ricusò pure d'accrescere il potere de' dodici come l'imperatore desiderava[46]; il quale offeso da queste due negative, risolse di adoperare la forza. Dietro i di lui suggerimenti il 18 gennajo 1369 la fazione dei dodici diede mano alle armi, di concerto coi Salimbeni, per iscacciare di palazzo tre cittadini dell'ordine de' nove, che sedevano nella signoria. Nello stesso tempo Malatesta Unghero si portò sulla gran [41] piazza colla sua cavalleria, e l'imperatore, armato di tutto punto, si pose alla testa de' suoi corazzieri e di quelli della chiesa. Tre mila corazzieri trovavansi allora riuniti in Siena sotto gli ordini di un monarca straniero. I tre signori dei nove, ai quali era stato portato l'ordine di uscire di palazzo per parte di Malatesta Unghero, si erano effettivamente ritirati, malgrado le istanze dei loro colleghi. Ma questi, rimasti soli, non si smarrirono; fecero suonare la campana d'allarme, ed ordinarono al capitano del popolo, Matteino Menzano, d'attaccare l'imperatore colle compagnie della milizia.
Il pubblico palazzo trovavasi di già in parte occupato dai ribelli della fazione dei dodici e dei Salimbeni; ma essi ne furono cacciati dal popolo furibondo. Malatesta Unghero stava sulla piazza della Fontana con ottocento gendarmi, che furono respinti, uccisa la maggior parte de' cavalli, ed egli stesso costretto a fuggire verso il palazzo de' Malavolti, ove cercò di afforzarsi. L'imperatore, circondato dai principi tedeschi, dai suoi capitani e da tutto il rimanente della cavalleria, avanzavasi verso il palazzo, e di già era giunto fino alla croce del travaglio, quando venne impetuosamente attaccato dalle compagnie [42] del popolo. La sua truppa fu ben tosto disordinata, ucciso colui che portava lo stendardo imperiale, e Carlo obbligato a ripararsi verso la piazza de' Tolomei, ove si fortificò nei palazzi di questi gentiluomini emigrati. Per più di sette ore egli difese i suoi trinceramenti, ed in questa lunga pugna si perdette molta gente da ambe le parti. Più della metà de' soldati di Carlo erano feriti, e quattrocento de' più valorosi caduti morti ai suoi fianchi, i suoi corazzieri avevano perduti più di mille duecento cavalli, quando finalmente fu superata la barricata ch'egli difendeva, ed il monarca costretto a fuggire nelle case de' Salimbeni[47].
Mentre ancora durava la battaglia, la signoria aveva di già fatti richiamare i suoi tre colleghi dell'ordine dei nove, che la fazione dei dodici aveva cacciati di palazzo; furono ricondotti ai loro seggi a suono di trombette, coperti di ghirlande, e con un tralcio di ulivo in mano.
Il capitano del popolo non inseguì l'imperatore nelle case dei Salimbeni, sebbene gli fosse agevole il farlo prigioniere. [43] Credette di dovere moderatamente usare della vittoria verso il primo monarca della cristianità, e mostrargli tutti i riguardi nell'istante in cui più non poteva temerlo. Ma egli lo fece pregare per mezzo dei Salimbeni di uscire di città; e per rendere più efficace la sua preghiera, fece a suono di tromba bandire la proibizione di somministrare vittovaglie a lui o alla sua truppa.
«L'imperatore (dice uno storico sienese contemporaneo) era rimasto solo colla più grande paura che abbia giammai avuta verun miserabile. Gli occhi di tutto il popolo armato erano verso di lui rivolti; egli piangeva, si scusava, ed abbracciava coloro che lo avvicinavano; diceva d'essere stato tradito dal Malatesta, dal podestà, dai Salimbeni e dai dodici; e raccontava in qual modo e quali offerte erangli state fatte. Francesco Bastali, ch'egli indicava come colui che aveva avuta parte in questa negoziazione, venne arrestato e dato in mano del capitano del popolo; cercaronsi pure gli altri traditori. Frattanto l'imperatore trattava colla signoria e col popolo: dava alla prima il vicariato perpetuo dell'impero nella città e suo territorio, ed accordava al [44] popolo un'amnistia generale, e più grazie che non gli erano domandate. Così tremante qual era ed affamato, pareva che avesse del tutto perduta la ragione; voleva andarsene, poi vedeva di non poterlo, non avendo più nè cavalli, nè danaro, nè compagnia; e con molti stenti il capitano gli fece ricuperare parte di ciò che aveva perduto[48].» Quando Carlo ebbe finalmente ripreso un poco di coraggio, domandò che in ricompensa dell'affronto che gli era stato fatto, e delle grazie ch'egli aveva accordate alla signoria, la repubblica gli pagasse una pensione di venti mila fiorini in quattro rate. I Sienesi vi acconsentirono, e gli passarono la prima somma immediatamente, per porlo in istato di uscire dalla loro città.
I Sienesi avevano valorosamente combattuto per difesa della loro libertà, nell'istante in cui avevano conosciuto il tradimento dei loro ospiti; ma malgrado questa momentanea unione, le fazioni in [45] cui erano divisi non eransi riconciliate; ed appena l'imperatore fu partito, il 25 gennajo, che l'anarchia parve raddoppiarsi. I nobili esiliati facevano la guerra alla repubblica; i dodici ed i Salimbeni eransi resi esosi colla loro associazione ai nemici dello stato; i nove ed i riformatori sforzavansi invano di riconciliare le troppo accanite parti le une contro le altre. La guerra si prolungò parte della seguente state tra la città e le campagne, e non si terminò che il 30 giugno per l'intromissione dei Fiorentini, domandata dalle opposte parti. I nobili furono richiamati in città, rimessi ne' loro diritti, e dichiarati capaci di tutte le magistrature, tranne la signoria. Gli altri ordini continuarono a dividere gli ufficj superiori in una proporzione determinata dalle leggi[49].
L'imperatore, partendo da Siena, aveva da prima avuto intenzione di passare a Pisa; ma informato che questa città trovavasi sotto le armi, temette di trovarsi esposto ad una sedizione somigliante a quella da cui erasi appena sottratto, ed andò [46] direttamente a Lucca, tenendo la strada di Vico Pisano.
I Pisani, dopo avere rovesciato il governo d'Agnello, erano stati sbattuti alcun tempo da diverse fazioni, e l'anarchia gli avrebbe forse ricacciati ben tosto nella servitù, se i più virtuosi cittadini, d'accordo coi gentiluomini, non si fossero uniti per mantenere colle armi in mano la quiete e la libertà. Questa lega, che prese il nome di compagnia di san Michele, ben tosto si vide composta di quattro mila combattenti, e si assunse l'impegno di rimanersi neutrale tra i Bergolini ed i Raspanti. Tostocchè, in grazia del vigore dimostrato dalla compagnia di san Michele, l'ordine fu in Pisa ristabilito, si alzò contro i Raspanti un grido, che fino allora era stato compresso dal timore. La ruina del commercio, la guerra coi Fiorentini, l'accrescimento delle imposizioni, la tirannide di Giovanni Agnello, e la perdita di Lucca, erano state le fatali conseguenze della loro amministrazione. Se la repubblica loro perdonava tanti errori, quali erano dunque quelli che essa ostinavasi a voler punire in Pietro Gambacorta, i di cui parenti erano periti, tredici anni prima, vittime di un'ingiusta sentenza, e di cui lo [47] stesso imperatore aveva riconosciuta l'innocenza, poichè aveva di nuovo accordato il suo favore a quest'illustre esule. In fatti Carlo IV aveva promessa la sua protezione a Pietro, che aveva incontrato a Calcinaja, ed accettatone il dono di dieci mila fiorini[50].
Dietro le istanze dei due capi della compagnia di san Michele venne annullata la sentenza contro i Gambacorti, e Pietro fu richiamato co' suoi figliuoli in seno alla patria. Questi rientrarono il 24 febbrajo portando in mano rami d'ulivo, mentre i loro concittadini facevano eccheggiare le strade con grida di gioja, e le campane della città suonavano in rendimento di grazie. Pietro Gambacorti, giunto alla cattedrale, fece a nome di tutti gli emigrati la sua offerta ai piedi dell'altare maggiore. Giurò in appresso di mantenere lo stato popolare, di vivere da buon cittadino fra i suoi eguali, e di scordare e perdonare le antiche ingiurie[51].
Ma tutti i Bergolini non avevano per anco rinunciato al loro antico odio. Due giorni dopo Pasqua molti di loro presero le armi, ed attaccarono le case dei Raspanti, che volevano bruciare. Gran parte della città andava forse ad essere distrutta, se Pietro Gambacorti non veniva a difendere i suoi nemici, rispingendo gl'incendiarj. Io ho ben perdonato, loro diceva, io, i di cui congiunti perirono sul palco; con quale diritto ricuserete voi altri di perdonare? Gambacorti effettivamente fermò i combattenti, ma non impedì il cambiamento del governo. La parte de' Raspanti venne esclusa dall'amministrazione, tutte le cariche furono date ai Bergolini, e la compagnia di san Michele si sciolse di consentimento de' suoi capi[52].
Trovavasi per altro ancora in mano dei Raspanti una porta fortificata, quella ai Lioni, che i partigiani di Giovanni Agnello non avevano mai lasciata. Altri Raspanti eransi adunati a Lucca presso di Carlo IV, e cercavano di far sentire all'imperatore la facilità di occupare Pisa per mezzo di questa porta. Carlo, strascinato [49] dai loro consigli, fece imprigionare dodici ambasciatori che gli aveva spediti la repubblica, tra i quali contavansi i più distinti uomini dello stato, Pietro d'Albizzo di Vico, Gualandi di Castagneto, e Manfredo Buzzacherino dei Sismondi. L'imperatore, tenendoli come ostaggi, si applaudiva d'averli tolti ai consigli della repubblica. Nello stesso tempo fece avanzare il suo grande maniscalco con tutta la sua cavalleria verso Porta ai Lioni. Ma mentre i Tedeschi entrano in città, i Pisani, chiamati dalla campana d'allarme a difendere la patria, alzano palafitte in faccia alla porta occupata dai nemici. Tutte le panche della cattedrale, ch'era vicina, furono all'istante portate in istrada per formarne un nuovo riparo d'insolita forma, mentre gli arceri salivano sul battistero per combattere da quell'elevato luogo i nemici che occupavano la muraglia della porta. Un ingegnere pisano aveva tagliata astutamente la corda che doveva alzare il ponte levatojo della porta; onde i Tedeschi perdettero molto tempo prima di poter entrare in città, ed incominciare l'attacco[53]. Quando [50] ebbero vinto questo primo ostacolo, ne trovarono un altro maggiore nella ostinata resistenza de' Pisani. Le donne frammischiavansi ai combattenti per incoraggiarli, somministrando loro pietre e dardi. Dopo un'accanita zuffa i Tedeschi si ritirarono, ed il cancelliere dell'imperatore domandò di parlare segretamente cogli anziani. Si suppose che in questa conferenza avesse ricevuto un ragguardevole dono, poichè si osservò, che appena terminata, fece ritirare tutte le sue truppe. Quaranta fanti, che aveva lasciati per guardia alla porta ai Lioni, furono subito forzati ad arrendersi, e le opere interne che formavano di questa porta una specie di fortezza, furono dal popolo spianate[54].
L'imperatore, dopo le rotte avute a Siena ed a Pisa, più non pensava che ad estorcere danaro dalle città toscane, ed a partire alla volta della Boemia. Mandò la sua cavalleria a guastare il territorio de' Pisani, per ridurli così ad un trattato; e nello stesso tempo cercò pure d'inquietare i Fiorentini riclamando certi diritti dell'impero da [51] lungo tempo andati in desuetudine. Permise in oltre al patriarca d'Aquilea, suo fratello naturale, di partire da Lucca alla testa di un corpo di cavalleria, per guastare la Val d'Elsa ed il territorio fiorentino fino a Montespertoli[55]. La signoria impaziente di sbarazzarsi di un dannoso vicino, acconsentì di pagare a Carlo cinquanta mila fiorini, per farlo rinunciare ad ogni diritto sulle terre dell'impero ch'ella aveva riunite al suo territorio. Ella fece ancora per una eguale somma la pace dei Pisani; e Carlo IV a tale prezzo riconobbe la città di Pisa per fedele all'impero; la raffermò nel godimento della sua libertà, e dichiarò questo privilegio inalienabile, di modo che l'autorità d'un solo mai non potesse rimpiazzare quella degli anziani e del popolo[56].
I trattati che l'imperatore aveva intavolati a Lucca, erano a lui ben più vantaggiosi, e non pertanto egli otteneva dai [52] Lucchesi la più viva riconoscenza per grazie che loro vendeva a peso d'oro. Il 6 aprile in una solenne adunanza dei più potenti signori tedeschi ed italiani dichiarò la città di Lucca libera ed indipendente dai Pisani, e due giorni dopo ratificò tale dichiarazione con una carta, sotto la bolla d'oro, che consegnò ai dieci anziani[57]. Il popolo di Lucca accolse questo favore con trasporti di gioja, protestò eterna riconoscenza a Carlo IV, mentre l'avaro monarca gli chiedeva duecento mila fiorini pel riscatto della sua libertà. La città, ruinata da lunghe guerre e dall'oppressivo dominio di molti tiranni, non era in istato di sborsare immediatamente così enorme somma, onde Carlo IV, pendente il pagamento, consegnò in pegno la città di Lucca al cardinale Gui di Monforte, che a nome del papa aveva anticipati cinquanta mila fiorini all'imperatore[58]. Lucca, che altro ancora non aveva fatto che cambiare padrone, andava [53] a rischio d'essere venduta al papa, malgrado quella pergamena, che rendevale la libertà. Ma i Lucchesi mostravano tanta gioja, tanto amore e riconoscenza verso l'imperatore, che questi si compiacque di dare ancora maggiore solennità ai privilegi che accordava alla loro repubblica. Il 6 giugno fece adunare il popolo sulla piazza di san Michele, ed in un discorso pomposo confermò il dono fattogli della libertà[59]. Un mese dopo accordò una nuova bolla, con cui dichiarava, che tutta la Val di Nievole doveva rimanere in proprietà della repubblica di Lucca[60]. Frattanto questa provincia, di cui i Fiorentini avevano terminata la conquista nel 1338, era sempre rimasta sotto il loro dominio, nè mai più in appresso venne loro tolta. Carlo IV non pensò pure ad inimicarsi i Fiorentini per riconquistarla, ed i Lucchesi non cercarono mai di rivendicarne il possedimento.
Le nuove grazie di Carlo costavano ai Lucchesi nuovi regali, e gli obbligavano a dare nuove feste; onde l'acquisto [54] della loro libertà non fu compiuto che col prezzo di trecento mila fiorini[61]. Per quanti sforzi facessero i Lucchesi, non giunsero a pagare l'intera somma avanti la partenza dell'imperatore. Questi lasciò la città il 5 luglio e s'avviò per Pescia, Pistoja e Bologna alla volta della Germania. Egli si valse dei tesori acquistati con tanta vergogna per ornare Praga, sua capitale, di sontuosi edificj; ed il magnifico ponte da lui fabbricato sulla Moldava è un insigne monumento della dignità imperiale prostituita in Italia.
I Lucchesi rimasero ancora per lo spazio di un anno sotto l'autorità del cardinale di Monforte; poco mancò che non cadessero in potere di Barnabò Visconti, che cercava ora di sorprendere la città, ora di comperarla dal legato[62]. Finalmente riuscirono, col soccorso de' loro amici, a riunire il danaro necessario per liberarsi dal Monforte. I Fiorentini prestarono loro venticinque mila fiorini, Francesco di Carrara quindici mila, quindici mila il marchese d'Este, e cinquanta mila papa Urbano V[63]; [55] onde in aprile del 1370 il cardinale di Monforte, dopo avere ricevuto tutto quanto gli si doveva, partì da Lucca per tornare in Francia, restituendo agli abitanti le chiavi delle porte della città e della fortezza[64].
Per tal modo la repubblica di Lucca riebbe la sua libertà dopo esserne rimasta priva dal 14 giugno 1314, giorno in cui una dissensione nel partito guelfo aveva fatti trionfare i Ghibellini, ed aperta la città ad Uguccione della Fagiuola[65].
In cinquantasei anni di servitù sotto diversi padroni, ma tutti egualmente oppressivi, Lucca aveva perduta la sua popolazione, le sue ricchezze, le manifatture, il commercio, oltre un'importante provincia per così piccolo stato, la Val di Nievole. Ma i suoi cittadini, sottrattisi in piccolo numero al ferro de' nemici, esiliati e dispersi in lontani paesi, o incatenati nella stessa loro patria dalla povertà, non avevano perduto ciò che forma la vita delle nazioni, ciò che può dopo un lungo intervallo rinnovare la [56] loro esistenza, l'amore ardente della libertà. Essi non si avvezzarono giammai alla servitù, nè si risguardarono mai come diventati proprietà de' loro padroni; e sebbene nati in servitù, si sentirono degni della libertà perchè i loro antenati l'avevano posseduta. Essi non lasciaronsi avvilire dalle difficoltà, e ricorsero a vicenda, senza perdere il coraggio, alle armi ed ai trattati; associarono la sorte loro a quella d'un monarca, ch'essi sforzarono a meritarsi quella riconoscenza, che anticipatamente gli prodigavano; tante prove gli diedero d'affetto e di attaccamento, che terminarono col far credere al più avaro ed al più egoista di tutti gli uomini, ch'egli ancora gli amava; e nella miseria loro trovarono immensi tesori per acquistare da lui il più prezioso di tutti i beni.
Le antiche leggi di Lucca erano andate in dissuetudine; la repubblica ne adottò di nuove press'a poco simili a quelle di Fiorenza. La città, prima divisa in cinque porte o quartieri, venne allora distribuita in tre tribù, che presero il nome di san Paolino, san Salvatore e san Martino. La signoria fu composta d'un gonfaloniere e di dieci anziani, che rinnovavansi ogni due mesi. Come in Firenze, [57] si faceva l'elezione per ventiquattro o trenta signorie successive, e la sorte determinava in seguito ogni due mesi l'ingresso in carica dei nuovi magistrati. Un collegio di trentasei buoni uomini, che rimanevano sei mesi in carica, doveva formare il privato consiglio della signoria. Un consiglio generale di cento ottanta membri, eletti ogni anno il 15 di marzo, riuniva tutti gli altri poteri dello stato[66]. Finalmente i nobili rimanevano, come a Firenze, esclusi da tutti i principali impieghi[67].
La cittadella che Castruccio aveva fabbricata, ed intitolata Augusta, o Gosta, sembrava ai Lucchesi un monumento della passata loro servitù, ed un pericoloso strumento di tirannide per venturi ambiziosi, e la spianarono interamente[68]; e perchè l'antico palazzo della signoria, posto sulla piazza di san Michele, sembrava loro meschino per le speranze che riponevano nell'avvenire, fondarono sulle ruine della distrutta fortezza un nuovo [58] palazzo d'una imponente architettura, che fino ai giorni nostri è stato la residenza del governo[69].
Finalmente la signoria in memoria del beneficio dell'imperatore, istituì, pel riacquisto della libertà, una festa che fu celebrata finchè la repubblica ha esistito con una pompa degna di così grande avvenimento[70]; e volle che il fiorino d'oro, che sarebbe coniato nella sua zecca, portasse, finchè i Lucchesi si conserverebbero liberi, l'effigie di Carlo IV[71].
Intraprese di Barnabò sopra la Toscana. — Gregorio XI attacca i Visconti; tenta di sorprendere la repubblica di Firenze sua alleata; i Fiorentini dichiarano la guerra al papa, e fanno ribellare tutte le città dello stato ecclesiastico.
1369 = 1378.
Se papa Urbano V, riconducendo la corte pontificia a Roma, non cercò che la gloria della santa sede, dovette, non v'ha dubbio, chiamarsi contento della presa risoluzione. Veruno de' suoi predecessori ebbe un regno più brillante; niuno era stato accolto dai popoli con maggiori dimostrazioni d'affetto, nè aveva ridotti più grandi monarchi ad umiliarsi ai suoi piedi. Urbano V vide nello stesso anno gl'imperatori dell'Occidente e dell'Oriente, prostrati innanzi al trono di san Pietro, mostrare al rappresentante degli Apostoli un rispetto ed un'ubbidienza che i loro predecessori erano ben lontani dall'accordargli. Vero è che Carlo IV non aveva ereditato colla corona [60] dei due Federici la loro fierezza o il loro coraggio, e che Giovanni Paleologo, il successore di Teodosio o di Costantino, si vedeva privo di tutta la loro possanza.
Giovanni Paleologo, oppresso dalle armate di Amurat, aveva perduto Adrianopoli e la Romania, e, rinserrato nella sua capitale, temeva ogni giorno d'esserne scacciato, quando risolse di venire ad implorare contro i Turchi i soccorsi degli Occidentali. Abbjurò per la seconda volta lo scisma de' Greci[72]; fu ammesso a baciare i piedi al papa; condusse la di lui mula per la briglia come aveva fatto Carlo IV, e divise gli onori e le umiliazioni degl'imperatori d'Occidente. Ma niun altro frutto raccolse dal suo abbassamento, che inutili bolle e vane raccomandazioni[73]. Il re di Francia, sebbene eccitato in suo favore dal papa, non potè accordargli verun soccorso; e quando il Paleologo, senza danaro e senza soldati, partì alla volta de' suoi [61] stati venne per debiti imprigionato a Venezia. Andronico, il maggiore de' suoi figliuoli, ricusò d'impiegare una parte delle pubbliche entrate per liberarlo, ed il secondogenito, Emmanuele, non lo rese libero che costituendosi prigioniero in sua vece[74].
Urbano V aveva ottenuti più importanti vantaggi che non sono quelli d'abbassare i due imperatori ai suoi piedi. Durante la sua dimora di tre anni a Roma, a Viterbo, e a Montefiascone, ottenne, ciò che non osava sperare, di ridurre sotto il suo dominio tutto il patrimonio di san Pietro. La sola repubblica di Perugia erasi conservata indipendente in mezzo ai feudatarj della chiesa; Urbano risolse di forzarla a sottomettersi, e dopo una resistenza alquanto lunga, in ultimo i Perugini riconobbero la suprema signoria del papa, e chiesero per i loro priori il titolo di vicarj della santa sede[75].
L'incostanza di Carlo IV aveva mandato a male il progetto, formato da Albornoz, d'umiliare la casa Visconti, e di disperdere le grandi compagnie, che ella proteggeva; ma l'imperatore non ebbe appen abbandonata l'Italia, che i Visconti, resi più orgogliosi dalla sua ritirata, si provocarono nuovi nemici. Essi forzarono finalmente i Fiorentini a dichiararsi contro di loro; ed il 31 ottobre del 1369 venne conchiusa contro i signori di Milano una lega ben più formidabile di quella che si era disciolta nel precedente anno, avendo in questa presa parte il papa, i Fiorentini, il marchese d'Este, il signore di Padova, Feltrino Gonzaga di Reggio, e le repubbliche di Bologna, di Pisa e di Lucca[76].
Lo stesso Carlo IV aveva gittato i semi di questa nuova guerra. Quando giunse in Toscana aveva approfittato di una rivoluzione scoppiata a Samminiato contro i Fiorentini, per prendere questa piccola città sotto la sua protezione, facendola occupare dai suoi corazzieri. Allorchè abbandonò la Toscana, avendo chiamata presso di sè la guarnigione [63] che vi aveva posta, gli abitanti implorarono l'assistenza di Barnabò Visconti, il quale dichiarò subito che li proteggerebbe. Come vicario dell'impero intimò ai Fiorentini di lasciarli quieti, e fece avanzare Giovanni Acuto colla compagnia inglese in soccorso di Samminiato[77].
Era questa città assediata da Giovanni Malatacca, di Reggio di Calabria. Questo capitano de' Fiorentini sembrava in sul punto di ridurre Samminiato, quando la signoria, che desiderava di terminare prontamente la guerra, gli ordinò di dare battaglia all'Acuto, ch'erasi innoltrato fino a Cascina. Il generale fiorentino ubbidì di mal animo, e fu battuto e fatto prigioniero con molti de' suoi migliori ufficiali[78]. Fortunatamente aveva lasciato avanti a Samminiato Roberto, conte di Battifolle, con parte dell'armata. [64] Questi, durante l'assenza del suo generale, guadagnò col danaro uno degli assediati, la di cui casa era appoggiata alle mura, e di concerto con lui vi praticò una breccia, per la quale introdusse le truppe fiorentine il 3 gennajo del 1370[79].
Il papa si felicitava di vedere finalmente i Fiorentini impegnati con lui nella guerra contro il Visconti. Allorchè era stata conchiusa la nuova alleanza aveva spediti due legati a Barnabò per portargli una bolla di scomunica; era questa il segno delle ostilità che in breve ricominciavano. Barnabò udì con apparente calma il messaggio di cui erano incaricati il cardinale di Belforte e l'abate di Farfa; li condusse poi fino sul ponte del naviglio in mezzo di Milano: «Scegliete (disse loro tutt'ad un tratto) se prima di lasciarmi volete mangiare o bevere;» e perchè i legati sorpresi non rispondevano; «non credete già (soggiunse con terribili bestemmie) che noi siamo per separarci senza che voi abbiate mangiato [65] o bevuto, in modo che vi ricordiate poi sempre di me.» I legati guardarono all'intorno, e si videro circondati dalle guardie del tiranno e da un popolo nemico; osservarono il fiume sopra cui si trovavano, ed uno di loro rispose: «Io amo meglio mangiare che chiedere da bere ove trovasi tanta copia d'acqua.» «È bene, rispose Barnabò, ecco le bolle di scomunica che voi mi avete portate, voi non uscirete da questo ponte prima d'avere mangiata in mia presenza la pergamena su cui sono scritte, i suggelli di piombo che ne pendono, ed i legami di seta cui sono attaccati.» In vano i legati riclamarono contro la violazione del doppio loro carattere d'ambasciatori e di ecclesiastici, dovettero sottomettersi, ed eseguire l'ordine del tiranno sotto gli occhi delle sue guardie e di tutto il popolo[80].
Urbano V pensò meno a vendicarsi di tanta offesa che ad allontanarsi da un paese, ove trovavasi impegnato in una continua lotta. Egli regnava, gli è vero, in Italia, ma regnando sospirava il riposo [66] e la sicurezza d'Avignone. Tutta la sua corte lo andava continuamente sollecitando a tornare in Provenza; la sua stessa coscienza gliene faceva un dovere, perchè suppose di potere riconciliare i re di Francia e d'Inghilterra, tra i quali era ricominciata la guerra. Tornò dunque per mare in Avignone nel settembre del 1370[81]; ma vi era da poco giunto quando cadde gravemente infermo, ed il 19 dicembre dello stesso anno morì compianto da tutta la cristianità. Molti fedeli in lui vedevano non solo un virtuoso pontefice, ed un buon sovrano, ma ancora un santo, dotato del dono dei miracoli[82].
I Fiorentini avevano mandato Manno Donati, uno de' loro compatriotti, a Bologna, con ottocento cavalli, per attaccare i Visconti in Lombardia; in pari tempo avevano chiamato Ridolfo di Varano, [67] signore di Camerino, per comandare le truppe che opponevano in Toscana a Giovanni Acuto[83].
Questo generale di Barnabò, dopo avere fatto con infelice esito un tentativo sopra Lucca, erasi avvicinato a Pisa con Giovanni Agnello, il deposto doge, e coi Raspanti fuorusciti. Nella notte del 20 al 21 maggio ottanta de' suoi soldati, diedero la scalata alle mura, e sorpresero la prima guardia senza lasciarle tempo di dare l'allarme; ma un ufficiale dei Gambacorti scoprì gl'Inglesi, che salivano in silenzio sulle loro scale tinte di colore oscuro. Fece suonare campana a martello, ed i Pisani corsero alle armi con tanta celerità e coraggio, che rovesciarono nella fossa o fecero prigionieri i nemici, che di già occupavano la muraglia. Pietro Gambacorti, che si distinse in quest'occasione, fu da' suoi riconoscenti concittadini nominato capitano generale e difensore del comune, coll'autorità ch'ebbe altra volta il conte Fazio della Gherardesca. Dopo tale epoca il Gambacorti [68] fu il capo costituzionale della repubblica[84].
Acuto dopo ciò condusse la sua armata nelle Maremme. Saccheggiò il castello di Livorno, e guastò parte del territorio pisano. I Fiorentini fecero avanzare contro di lui l'armata della lega, che avevano richiamata in Toscana per opporla a questo generale, e gli mandarono il guanto della sfida; ma egli non giudicò a proposito di accettarlo. Si ritirò da prima nella valle del Serchio, nello stato lucchese, indi prese la strada della Lombardia, passando per Pietra Santa e per Sarzana[85].
Verso lo stesso tempo un'altra armata di Barnabò, che assediava Reggio, fu obbligata a ritirarsi[86]. I confederati in tali circostanze ricevettero la notizia della morte d'Urbano V, per lo che risolsero di non ispinger più oltre i loro vantaggi, ma di dare orecchio alle proposizioni d'accomodamento che loro facevano i Visconti; la pace fu ben tosto conchiusa, [69] e con questa venne mantenuto ognuno ne' possedimenti che aveva[87].
Questa breve guerra, non illustrata da veruna importante azione, ebbe non pertanto il vantaggio d'unire in una sola lega tre repubbliche lungo tempo rivali, Firenze, Pisa e Lucca. Il risultato della loro alleanza doveva essere quello di dare a Firenze la direzione di tutte le forze della Toscana; perciocchè questa città, superiore in potenza a tutte le altre, era in oltre la sola la di cui prosperità non fosse stata turbata negli ultimi anni; ella aveva date prove di saviezza e di energia; e le rivoluzioni de' vicini stati avevano fatto conoscere i talenti degli uomini che dirigevano i suoi consigli. Tra questi si distinguevano particolarmente Pietro degli Albizzi, Lapo da Castiglionchio e Carlo Strozzi. Tutti tre appartenevano alla fazione, che fino dal 1357 faceva servire l'autorità de' capitani del partito guelfo, e le procedure dell'ammonizione ad allontanare i loro avversarj dal governo. Uguccione dei Ricci, capo d'una famiglia gelosa degli Albizzi, e ben conosciuto [70] per Guelfo, era stato l'inventore di queste parziali leggi. Credevansi gli Albizzi usciti da' Ghibellini d'Arezzo, ed i Ricci avevano pensato che potrebbero venire esclusi dagl'impieghi a cagione della loro origine. Ma le leggi di cui Uguccione aveva voluto valersi contro i suoi rivali, furono rivolte a danno de' suoi partigiani. Gli Albizzi (1371) avevano contratta alleanza coi Bondelmonti e coi capi dell'antica nobiltà; erano essi potenti presso i capitani di parte guelfa, e sebbene non osassero attaccare i Ricci essi medesimi, avevano di già fatti ammonire, o escludere dalle magistrature più di duecento dei loro amici, e procedevano con estremo ardore nel far nascere nuove accuse di ghibellinismo[88].
I Ricci avevano da principio tentato di ristrignere l'autorità de' capitani di parte, ma mutarono pratica quando videro i Guelfi acquistare maggior credito colla lega conchiusa col papa: allora cercarono ancor essi di guadagnare il favore della Chiesa, ed ottennero coi maneggi qualche influenza sopra i capitani [71] di parte; allora si videro le procedure contro i Ghibellini, dirette a vicenda dagli Albizzi e dai Ricci, moltiplicarsi, e tenere tutta la repubblica inquieta ed agitata[89].
Durante tutto il 1371 la violenza delle due fazioni parve che andasse crescendo, e si poteva ragionevolmente temere che la contesa delle due famiglie facesse scoppiare una guerra civile. Ma vedendo il malcontento reso universale, la signoria vi rimediò. Permise ai cittadini che desideravano una riforma di adunarsi a san Pietro Scheraggio[90]. Dietro loro domanda convocò un consiglio di cinquecento richiesti per calmare l'agitazione della repubblica. In questo consiglio gli Albizzi ed i Ricci si accusarono a vicenda. Si rimproverò sopra tutto agli Albizzi d'essersi dato vanto, presso i signori di Ferrara e di Padova, della propria autorità sopra la loro patria, assicurando che non era minore [72] di quella di questi principi ne' loro stati[91]. Il popolo irritato incaricò una balìa di cinquantasei membri di difendere la libertà di Firenze contro queste due ambiziose famiglie; e Pietro dei Ricci ed Uguccione degli Albizzi, cadauno con due de' loro parenti, vennero esclusi per cinque anni da tutte le magistrature, tranne quelle di parte guelfa[92]. Subito dopo quest'esclusione fu estesa a tutti i membri delle due famiglie, e la violenza delle fazioni rimase per qualche tempo sospesa[93].
I cardinali, adunati in Avignone, avevano intanto dato un successore ad Urbano V nella persona di Pietro Rogero, conte di Belforte, cardinale diacono di santa Maria nuova, e nipote di Clemente VI. Fu eletto l'ultimo giorno del 1370, e prese il nome di Gregorio XI[94].
Il nuovo papa ebbe presto motivo di lagnarsi dei Visconti. Feltrino Gonzaga, [73] tiranno di Reggio, era uno degli alleati della Chiesa, come pure il marchese d'Este, signore di Modena e di Ferrara. Quest'ultimo non per tanto prese parte in una congiura tramata contro Feltrino, e fece avanzare verso Reggio una compagnia di mercenarj tedeschi, comandata da un fratello del conte Lando[95]. I nemici di Feltrino, d'accordo col marchese d'Este, aprirono Reggio ai Tedeschi, i quali, dopo avere saccheggiata la città coll'estrema barbarie, invece di consegnarla al marchese d'Este, la vendettero il 17 maggio 1371 a Barnabò Visconti per venticinque mila fiorini[96].
Barnabò, orgoglioso di tale acquisto, ricominciò la guerra contro gli alleati della Chiesa; assediò Bondeno nello stato di Ferrara, e minacciò Modena, mentre che suo fratello Galeazzo attaccava il marchese di Monferrato con uguale impeto e gli toglieva molte città. Gregorio XI rinnovò coi principi lombardi la lega, che il suo predecessore aveva formata [74] contro i signori di Milano; egli avrebbe voluto che vi prendessero parte anche le città toscane; ma gli Albizzi, i più zelanti partigiani della Chiesa in Firenze, non avevano più parte nell'amministrazione; le relazioni di questa famiglia coi legati di Bologna e di Perugia eransi rese sospette, e temevasi che il papa non fosse entrato nelle trame contro la libertà fiorentina[97]. Le prime azioni di Gregorio XI avevano fatta conoscere la sua ambizione, e resa dubbiosa la sua lealtà. Il cardinale di Burgos, suo legato a Perugia, aveva approfittato di una sedizione, manifestatasi in questa città, per far esiliare i Raspanti, i più zelanti partigiani della libertà. Aveva in appresso gittati i fondamenti di una fortezza per ridurre la città in servitù, ed il suo successore, l'abate di Montmayeur, approfittando del cattivo raccolto, e della carestia che affliggeva Perugia, l'aveva spogliata di tutti i suoi privilegj, e costrettala a riconoscere l'assoluto potere del papa[98]. Credevasi che somiglianti [75] progetti si fossero formati contro le repubbliche della Toscana; e Gregorio XI, che scriveva ai Sienesi per liberarsi da tale sospetto, non lo aveva punto dissipato[99].
Frattanto Gregorio XI aveva dichiarata la guerra ai Visconti in agosto del 1372. Aveva incaricato il conte Amedeo di Savoja di difendere il Monferrato, essendo morto il marchese Giovanni Paleologo in principio di quest'anno. Un'altra armata formavasi nel bolognese sotto gli ordini del marchese d'Este, alla quale i Fiorentini mandarono il contingente delle truppe, ch'eransi ne' precedenti trattati obbligati di somministrare al papa, poichè giusta il diritto pubblico di que' tempi, potevano farlo senza dichiarare la guerra ai signori di Milano. I Visconti ebbero l'imprudenza di licenziare in tali circostanze Giovanni Acuto, che trovavasi al loro soldo colla compagnia inglese. Questo capitano il più abile di quanti facevano in allora la guerra in Lombardia, passò al servigio del legato e de' confederati, e mutò la fortuna delle armi[100].
In principio del 1373, Barnabò spedì un corpo di tre mila cavalieri per guastare il territorio di Bologna. Quest'armata s'innoltrò fino a Cesena, ma nel suo ritorno venne sorpresa, mentre passava il Panaro, da Acuto, e rotta[101]. L'armata del papa penetrò subito dopo ne' territorj di Piacenza e di Pavia, ove tutti i Guelfi dei due stati aprirono i loro castelli a Pietro di Beziers, cardinale legato di Bologna. Questi s'avanzò in seguito fin presso Brescia, col conte di Savoja, sperando di approfittare delle intelligenze che aveva in questa città ed in Bergamo. Giovanni Galeazzo, per impedire che scoppiasse qualche congiura, si portò sul fiume Chiesa contro le truppe del papa; ma fu attaccato da Acuto l'otto maggio del 1373, e dopo un'ostinata battaglia rotto e fatti prigionieri quasi tutti i suoi capitani[102]. Dopo tale rotta i Guelfi degli stati de' Visconti si ribellarono da ogni banda. Barnabò incaricò suo figliuolo naturale Ambrogio di ridurre al dovere quelli delle Valli del [77] Bergamasco; ma i contadini della Val san Martino sorpresero Ambrogio il 17 agosto, lo uccisero, e dispersero la sua armata[103].
Nel susseguente anno gli affari dei Visconti non procedevano con migliore fortuna; la città di Vercelli cadde in mano de' confederati, e gli stati di Parma e di Piacenza furono guastati dal marchese d'Este. Per altro la guerra non facevasi vigorosamente, perchè le inondazioni, e dopo la peste la carestia travagliarono la Lombardia[104]. Per procurarsi un poco di riposo in mezzo a tante calamità, il papa ed i Visconti, egualmente spossati dagli sforzi che fatti avevano, conchiusero il 6 giugno del 1374 una tregua d'un anno, durante il quale speravano di mettere fine alle loro contese con una pace generale.
Ma Guglielmo di Noellet, cardinale di sant'Angelo e legato di Bologna, lusingavasi di approfittare di questa tregua per mandare ad effetto un'importante intrapresa. La Toscana, non meno che la Lombardia, [78] aveva avute le piogge e le inondazioni che avevano distrutte le sementi, di modo che il frumento scarseggiava ed era carissimo[105]. In Firenze si era manifestata la peste, e dal mese di marzo a quello di ottobre aveva portate al sepolcro sette mila persone. La gelosia eccitata tra gli Albizzi ed i Ricci, non era spenta, e la repubblica chiudeva ancora nel suo seno molti semi di discordia. I Fiorentini, trovandosi in pace con tutti i loro vicini, non avevano sotto le armi che poche truppe, come pure i Sienesi ed i Pisani. Il legato di Bologna, giudicò i Toscani, dice Poggio Bracciolini, a seconda della leggerezza francese; e pensò che s'egli rendeva la carestia più sensibile, il popolo, stretto dalla fame, prenderebbe le armi contro il suo governo, e che la città travagliata dalle sedizioni interne, quanto dalla guerra, si rifugierebbe sotto il suo potere[106].
«Dopo che la santa sede erasi trasportata al di là dei monti (dice Leonardo Aretino) i legati francesi governavano [79] tutti i paesi sottomessi alla Chiesa. L'altero loro modo di comandare riusciva quasi affatto insoffribile; essi sforzavansi di allargare l'autorità loro sopra le città libere, ed i loro ufficiali, i loro cortigiani non erano uomini di pace ma di guerra; essi riempivano l'Italia d'oltramontani; in tutte le città innalzavano fortezze con eccessiva spesa, e lasciavano con ciò travedere quanto la servitù dei popoli, cui essi avevano tolta la libertà, era miserabile e forzata; per tal modo rendevano giusti l'odio de' sudditi e la diffidenza de' vicini[107].»
I Fiorentini tiravano ogni anno una parte de' loro grani dalla Romagna e dal Bolognese; il legato per raddoppiare le difficoltà che provavano, ne vietò tutto ad un tratto l'esportazione. La signoria col sagrificio di sessanta mila fiorini acquistò il frumento in lontani paesi; passò l'inverno, e si vedeva vicino il nuovo raccolto che doveva riempire i vuoti granai. Il legato per privare i Fiorentini di tale speranza fece entrare in Toscana Giovanni Acuto il 24 giugno del 1375 con una numerosa armata, ordinandogli [80] di bruciare le case del territorio fiorentino[108]. Dall'altro canto Gerardo Dupuis, abate di Montmayeur, che comandava a Perugia, colse il pretesto d'una guerra tra i Sienesi ed i gentiluomini della casa Salimbeni, per far guastare il territorio di Siena dalle truppe della Chiesa[109].
Per salvare almeno le apparenze, il legato scrisse ai Fiorentini che Acuto aveva formata una compagnia d'avventurieri colle truppe che la Chiesa ed i Visconti avevano licenziate; ch'egli attaccava la Toscana senza l'assenso della Chiesa, ma che la signoria potrebbe forse farlo ritrocedere col sagrificio di cento, e fors'anco di soli sessanta mila fiorini[110]. In questo medesimo tempo, una congiura scopertasi a Prato, il di cui oggetto era quello di sottomettere questa città alla Chiesa, fece conoscere quale fede meritavano tali proteste[111].
La perfidia e l'ingratitudine del legato risvegliarono in Firenze la più alta indignazione. Verun altro stato in Europa erasi fino dalla sua origine mostrato con tanta costanza attaccato alla Chiesa, quanto la repubblica fiorentina. Sebbene avesse di già avuto motivo di lagnarsi del legato, gli aveva mandato per combattere i Visconti quanti soldati aveva, e questo perfido alleato coglieva l'istante in cui la repubblica era stata colpita dalla peste e dalla fame, per darla in balìa di rapaci soldati. I Fiorentini per fare una strepitosa vendetta di tanto tradimento, affidarono tutti i poteri dello stato ad otto magistrati, che chiamarono i signori della guerra[112].
Gli otto della guerra, che volevano prima di tutto salvare il raccolto, aprirono subito un trattato con Acuto, e spedirono in pari tempo ambasciatori al legato, [82] pregandolo di richiamare questo generale. Il legato rispose che Acuto più non trovavasi al suo soldo, e diede copia agli ambasciatori del congedo che diceva di avere dato a questo capitano. Nello stesso tempo diede al capitano segreto ordine di offrire ai Fiorentini di risparmiare il loro territorio contro il pagamento d'una taglia, ma di domandare una così enorme somma che facesse rompere il trattato. Acuto chiese cento trenta mila fiorini, che gli furono pagati senza difficoltà, avendone caricati più della metà sul clero fiorentino. Il legato si affrettò di scrivere al capitano inglese di rompere ogni mercato, ma questi, cui gli ambasciatori fiorentini avevano mostrata la copia del congedo, che avevano portato da Bologna, non volle perdere così ragguardevole somma, ed in oltre prendere sopra di se l'altrui mala fede[113]. Continuò dunque la sua strada a traverso la Toscana, tirando dai Sienesi trentacinque mila fiorini; indi si mise al soldo dell'abate di Montmayeur, legato di Perugia[114].
Non avendo questa spedizione ottenuto al suo scopo, Gregorio XI scrisse ai Fiorentini per giustificarla; diceva che Acuto non era da lui dipendente nelle poche settimane, che aveva passate in Toscana, sebbene avanti e dopo questa breve campagna fosse notoriamente al soldo de' suoi legati[115]. Ma d'altra parte raccontaronsi a Firenze ed in tutta l'Italia alcuni fatti dell'abate di Montmayeur, legato di Perugia, che resero sempre più odioso il governo degli ecclesiastici. Quest'abate, che fu in tale occasione creato cardinale, aveva seco condotto un suo nipote. Questi, innamoratosi della moglie d'un gentiluomo perugino, s'introdusse celatamente in sua casa, e la sorprese sola in camera. La donna spaventata volle sottrarsi alla brutalità del suo rapitore, e passare per una finestra in un'attigua casa; ma le sdrucciolò un piede, e cadendo nella strada rimase uccisa. Tutto il popolo, compassionando l'infelice, corse all'abate chiedendo giustizia contro suo nipote. «E che, rispos'egli, credevate voi dunque che i [84] Francesi fossero eunuchi!» e così rinviò gli accusatori. Pochi giorni dopo lo stesso nipote rapì la consorte d'un altro cittadino. Il marito avendola riclamata innanzi ai tribunali, il legato condannò suo nipote a perdere la testa se non rendeva la sposa a suo marito prima che passassero cinquanta giorni[116].
Siccome estrema era l'indignazione contro i ministri del papa, la signoria e gli otto della guerra fecero adunare a Firenze un numeroso consiglio di richiesti. Luigi Aldobrandi, gonfaloniere di giustizia, si fece a parlare eloquentemente contro le superstiziose paure, che potevano opporsi alla difesa della libertà. Dimostrò che le censure ecclesiastiche erano senza forza quando venivano pronunciate da uomini perfidi ed ambiziosi, che adoperavano la maschera della religione per servire all'ambizione ed avidità loro. Propose, quale intrapresa degna della generosità fiorentina, la liberazione di tutti i popoli che gemevano sotto il superbo e tirannico governo de' legati francesi del papa; e per ultimo confortò la signoria a cercare l'alleanza di Barnabò. [85] «Io lo so bene, diss'egli, che il tiranno milanese agirà sempre a seconda del suo personale interesse, e non guarderà giammai al nostro; ma è questi un caldo nemico dei preti e della potenza de' Francesi in Italia; un odio comune accomunerà i nostri interessi[117].»
Il discorso del gonfaloniere essendo stato applaudito, ed il consiglio avendo autorizzati gli otto della guerra a prendere contro la Chiesa le più energiche misure, questi cercarono di rendersi forti colle alleanze. Cominciarono adunque ad assicurarsi nel mese di luglio dell'appoggio di Barnabò Visconti[118]. Le repubbliche di Siena, di Lucca e d'Arezzo presero parte ben tosto alla lega[119], e quella di Pisa vi entrò l'ultima nel gennajo del 1376[120]. Gli otto della guerra avevano scelto per capitano un tedesco chiamato Corrado di Svevia: gli affidarono due stendardi quello del comune, ed un altro, sul quale era scritto a lettere d'oro Libertà. Dichiararono [86] in pari tempo ch'erano apparecchiati a soccorrere tutti i popoli, che desideravano di ricuperare la libertà e di scuotere il giogo de' cattivi pastori della chiesa[121]. Nè eglino avevano mal calcolato di trovare amici ed alleati tra i sudditi del papa; perciocchè non ebbero appena offerta la loro assistenza a coloro che volessero liberarsi da un'odiosa tirannide, che la ribellione si rese generale.
I primi a dichiararsi furono gli abitanti di Città di Castello, l'antico Tiferno. Essi attaccarono furibondi la guarnigione ecclesiastica, e la forzarono a ritirarsi nel castello. I Fiorentini mandarono subito soccorsi ai Tifernati, onde la guarnigione assediata non tardò ad arrendersi.
L'abate di Montmayeur aveva spedito Acuto con parte delle sue truppe per liberare gli assediati; ma tosto che i Perugini lo videro partito, presero ancor essi le armi, attaccarono le due fortezze che il legato aveva innalzate in città, le presero in pochi giorni, e le [87] spianarono[122]. Nello stesso tempo Giovanni di Vico, prefetto di Roma fece ribellare Viterbo, di cui era stato lungo tempo signore[123]. Si sollevò pure Montefiascone, e ben tosto con sorprendente rapidità la ribellione si dilatò in tutti gli stati della chiesa. Foligno, Spoleto, Todi, Ascoli, Orvieto, Toscanella, Orti, Narni, Camerino, Urbino, Radicofani, Sarteano[124], riacquistarono la libertà. Nello spazio di dieci giorni ottanta tra città e castelli scossero il giogo della chiesa[125]. Molti vollero darsi ai Fiorentini, ma questi loro mandavano per risposta lo stendardo della libertà, e gli invitavano a costituirsi in repubbliche indipendenti[126]. Frattanto altre città approfittarono del loro soccorso per rimettere i loro antichi signori. Forlì chiamò Sinibaldo degli Ordelaffi, figliuolo di Francesco e di Marzia, suoi eroici difensori, e gli restituì la signoria[127].
Di quanti signori dipendevano dall'abituale dominio della Chiesa, le si conservò fedele il solo Galeotto Malatesti, e mantenne ubbidienti al papa le città governate dalla sua casa. Galeotto era succeduto nel 1373 a suo fratello Pandolfo, e suo nipote Malatesta Unghero era morto nel precedente anno[128]. Nel cominciamento di questa guerra la Chiesa possedeva sessantaquattro città e mille cinquecento settanta sette castelli. Perdette nel corso di un anno tutti i suoi stati ad eccezione di Rimini e delle sue dipendenze[129].
Il papa, spaventato da così subita ruina, cercò di svolgere i Fiorentini dalle prese risoluzioni coll'intimidire le loro coscienze. Li citò il 3 di febbrajo del 1376 a comparire innanzi al sacro concistoro per giustificare la loro condotta. In fatti i [89] Fiorentini mandarono tre ambasciatori per trattare la loro causa in Avignone, cioè Domenico Barbadori, Alessandro dell'Antella e Domenico di Silvestro. Vennero introdotti l'ultimo giorno di marzo avanti ai cardinali ed al santo padre; ed in quest'assemblea Donato parlò col coraggio e colla forza di un uomo libero. Dichiarò che nulla avrebbe potuto muovere i Fiorentini a prendere le armi contro la Chiesa, fuorchè la difesa della loro libertà; «ma noi, egli disse, che abbiamo goduto di questa libertà da quasi quattro cent'anni, noi l'abbiamo in modo immedesimata alla nostra natura, e così cara si è renduta al nostro cuore, che non avvi veruno di noi, che per conservarla non sia al tutto disposto a sagrificare la propria vita[130].»
L'eloquente difesa di Barbadori cavò le lagrime ai cardinali italiani, ma non fece veruna impressione sui francesi, e quando fu terminata, Gregorio XI pronunciò contro la repubblica una sentenza di condanna. Dopo di avere riepilogate tutte le offese ch'egli aveva ricevute, [90] fulminò l'interdetto contro la città, e la scomunica contro i capi del governo. Ordinò nello stesso tempo a tutti i principi, amici della Chiesa, di confiscare a loro profitto tutti i beni de' Fiorentini che trafficavano ne' loro stati, di prendere le loro persone e venderli come schiavi[131]. Questa parte della pena inflitta a mercanti resi da lunga assenza stranieri alle deliberazioni della loro patria era di una rivoltante ingiustizia; pure, siccome offriva un allettamento alla cupidigia de' principi, venne eseguita in Francia ed in Inghilterra[132].
Quando Donato Barbadori udì la lettura di questa sentenza, rivoltosi ad un crocifisso, che stava in mezzo all'assemblea. «A te io mi appello, egli gridò, padre onnipossente del genere umano! Tu, che sei giusto giudice e non esposto ad essere ingannato, poichè i suffragi degli uomini ci condannano, io t'invoco testimonio dell'iniquità della loro decisione. Nel tuo ultimo giudizio, [91] tu darai una più giusta sentenza[133].»
Mentre il papa agitava in Avignone la sua lite coi Fiorentini secondo le forme giuridiche, cercava a Firenze di terminarla con un trattato, e vi aveva spediti ambasciatori; ma il trattato fu improvvisamente rotto dalla rivoluzione di Bologna. Gli otto della guerra, che il popolo, malgrado la scomunica del papa, chiamava comunemente gli otto santi, cercavano da lungo tempo di mettere in movimento la fazione dello scacchiere a Bologna; poichè sapeva che l'opposto partito dei Maltraversa godeva del favore del legato[134]. Ma il popolo pareva determinato a rimanere sotto l'ubbidienza della chiesa; quando il legato, che non sapeva in qual modo soddisfare Acuto ed i soldati, ai quali doveva molti soldi arretrati, risolse di cedere loro i due castelli di Castrocaro e di Bagnacavallo che dipendevano da' Bolognesi e dalla chiesa, e che furono dai soldati saccheggiati [92] con inaudita crudeltà[135]. Nello stesso tempo si vociferò che il legato trattava di vendere Bologna medesima al marchese d'Este; onde i Bolognesi più non frapposero dimore, e scossero un giogo, che ogni giorno rendevasi più pesante.
Il più ragguardevole uomo di Bologna era Taddeo degli Azzoguidi del partito dello scacchiere, ed in sua casa la notte del 19 al 20 marzo Roberto de' Salicetti adunò i capi delle due fazioni. Tutti i patriotti di Bologna giurarono nelle sue mani di deporre le antiche loro nimicizie, e di sacrificare, quando il bisogno lo richiedesse, i loro beni e le loro vite per ricuperare l'antica libertà della patria. Frattanto Ugolino di Panico, il conte Antonio Bruscolo, ed alcuni altri gentiluomini avevano adunata una truppa di montanari degli Appennini, che segretamente introdussero in città. I cittadini, dopo essere andati alle case loro a prendere le armi, eransi di nuovo raccolti in silenzio presso Taddeo degli Azzoguidi. Riunironsi le due truppe avanti la croce del mercato, ove ad una sola voce rinnovarono il giuramento [93] d'esporre i loro beni e le loro vite per ricuperare la libertà bolognese. Roberto Salicetti dispose senza rumore la sua truppa presso il castello, ed occupò tutti i capi strada della piazza, indi Taddeo fece chiedere al legato, che fin allora non erasi accorto di verun movimento, le chiavi della fortezza e delle porte della città, dichiarandogli che i Bolognesi d'ora innanzi intendevano di guardarsi da se medesimi. Il legato atterrito fece aprire il castello a Salicetti, ma perchè tardava a dare altresì le chiavi della fortezza, Taddeo si avanzò immediatamente per attaccarla. Tutte le uscite della piazza erano di già state occupate, onde la compagnia inglese non potè montare a cavallo per difendersi; la prima porta della fortezza fu atterrata, mentre da un'altra banda Antonio di Bruscolo occupava il palazzo alla testa de' contadini e lo abbandonava al saccheggio. E perchè si cominciava ad insultare il legato, Taddeo degli Azzoguidi accorse in suo ajuto, e, presolo sotto la sua protezione, lo fece passare nel convento di san Giacomo.
Quando si levò il sole alla mattina del giovedì 20 marzo la rivoluzione era di già compiuta; il gonfalone del popolo volteggiava [94] sulla gran piazza; le tribù e le compagnie delle arti erano adunate per nominare dodici anziani ed un gonfaloniere di giustizia; e subito dopo il consiglio generale pubblicò un'amnistia per tutti i fuorusciti[136].
Quando i Fiorentini ebbero avviso di questi avvenimenti, spedirono ai Bolognesi lo stendardo della libertà con due mila cavalli, cinquecento fanti, e grosse somme di danaro: le fortezze di Bologna vennero spianate, e la nuova repubblica prese parte nella lega formata contro la chiesa[137].
Acuto trovavasi a Granaruolo colla maggior parte della compagnia inglese quando intese la ribellione di Bologna. Sospettava che Faenza s'apparecchiasse a fare lo stesso, e per tale sospetto vi entrò tutt'ad un tratto il 29 di marzo per abbandonare i cittadini al ferro de' soldati: vennero uccise quattro mila persone; molti fuggirono ad Imola o a Forlì, ma le donne e le vergini medesime consacrate agli altari furono ritenute per essere [95] disonorate[138]. Dopo tale carneficina Acuto conchiuse una tregua di sedici mesi coi Bolognesi, per riavere a tale condizione i suoi due figliuoli, e molti suoi capitani, ch'erano stati sorpresi e fatti prigionieri a Bologna nell'istante della rivoluzione[139].
Due nuovi cardinali venivano dal papa spediti in Italia per difendere o ricuperare lo stato della chiesa; Francesco Tebaldeschi, cardinale di santa Sabina, fu incaricato della legazione di Roma, della Sabina, della Campania, della Maremma, del patrimonio e del ducato di Spoleti; e Roberto di Ginevra, che fu poi antipapa sotto il nome di Clemente VII, ebbe le legazioni della Romagna e della Marca d'Ancona[140]. Quest'ultimo aveva commissione di condurre con sè una nuova armata pontificia.
Restava ancora in Francia una sola di quelle bande di soldati inglesi e francesi, che si erano riuniti per rubare. Chiamavasi questa la compagnia de' Bretoni, [96] composta di sei mila cavalli e di quattro mila fanti, e si aveva opinione che superasse in ferocia tutte quelle che l'avevano preceduta. Il papa fece interpellare Giovanni di Malestroit che la comandava, se gli dava l'animo d'entrare in Firenze: se il sole vi entra, rispose costui, noi pure vi entreremo; soddisfatto di questa rodomontata il papa prese la compagnia al suo servigio, e la diede al cardinale di Ginevra, che la condusse in Italia[141]. L'avvicinamento di quest'armata parve ai ministri del papa un sicuro pegno della loro vittoria; non credendo essi che il coraggio che ispira l'amore della libertà potesse resistere al brutale valore de' loro nuovi soldati[142].
Roberto di Ginevra, attraversando il territorio di Galeazzo Visconti alla testa di questa formidabile armata, entrò con lui in trattato, e lo persuase a segnare una [97] pace particolare col papa; pace vergognosa per la Chiesa, perchè abbandonò senza guarenzia ai loro oppressori tutti i Guelfi, ch'ella aveva indotti a ribellarsi contro i Visconti[143].
Mentre Roberto di Ginevra, dopo essersi lasciate a dietro Alessandria e Tortona, si dirigeva per la strada di Piacenza sopra Ferrara, gli otto della guerra a Firenze avevano scelto per loro generale Rodolfo da Varano, signore di Camerino; l'avevano mandato a Bologna, e posto sotto i suoi ordini un'armata di due mila lance, e sei mila cavalli. Nel medesimo tempo avevano fortificati e muniti di truppe tutti i passaggi degli Appennini, ordinando ai contadini di riporre ne' castelli e luoghi forti i bestiami loro, ed i raccolti[144].
Barnabò Visconti aveva mandati all'armata della lega a Bologna cinquecento lance, sotto il comando del conte Lucio Lando, ma d'altra parte non aveva opposto verun ostacolo alla compagnia de' [98] Bretoni, quando attraversava i suoi stati; suo fratello aveva di già fatta la pace colla Chiesa, ed egli stesso offriva di acquistare dal papa la città di Vercelli per cento mila fiorini. Rodolfo di Camerino credette adunque di dover diffidare del conte Lando e dei soldati di Barnabò[145]. D'altra parte i Bolognesi temevano di qualche trama nella loro città: vedevano di mal occhio Taddeo degli Azzoguidi, il capo della fazione dello scacchiere, essere troppo premuroso pel richiamo de' Pepoli, antichi capi dello stesso partito; mentre che questa famiglia, doppiamente odiosa per avere usurpata la tirannide, e per avere in seguito venduta la città, era stata la sola eccepita dalla generale amnistia. Rodolfo di Camerino, per questo doppio sospetto, nè volle azzardare una battaglia contro i Bretoni quando giunsero nello stato di Bologna, nè aspettarli in aperta campagna. Roberto di Ginevra per provocarlo ad una battaglia, lo fece interpellare perchè si rimanesse ozioso e chiuso entro le mura d'una città. «Io non n'esco, rispose Rodolfo, perchè voi non c'entriate[146].»
Il legato cercò in seguito di staccare i Bolognesi dalla lega, promettendo loro il perdono del commesso errore, ed il mantenimento della libertà che avevano ricuperata, purchè riconoscessero la suprema sovranità della Chiesa e l'autorità dei ministri del papa. «Noi siamo apparecchiati a tutto soffrire (risposero i Bolognesi) piuttosto che sottometterci nuovamente a persone, del di cui fasto, insolenza ed avarizia abbiamo fatto così crudele esperimento.» — «Ed io (disse Roberto quando ricevette tale risposta) dite loro, che non mi allontanerò da Bologna finchè non mi sia lavati e mani e piedi nel sangue loro[147].» La condotta del cardinale era veramente degna di così feroce discorso; i suoi Bretoni presero successivamente i castelli di Crespelano, Oliveto e Monteveglio che si arresero loro sotto condizioni, che da essi poi non vennero osservate, perciocchè li bruciarono dopo avere saccheggiate tutte le proprietà degli abitanti[148]. Presero in seguito Pizzano, e passarono a fil di spada tutti coloro che vi trovarono, senza neppure [100] risparmiare i fanciulli da latte[149]. Finalmente chiesero i quartieri d'inverno, ed il legato obbligò Galeotto Malatesti ad aprir loro la città di Cesena, che questo signore aveva persuasa a non ribellarsi[150]. La murata, quel quartiere in cui Marzia degli Ordelaffi aveva alcuni anni prima fatta una così eroica difesa, fu assegnata per loro dimora ai Bretoni. Ma questi barbari soldati, incapaci di disciplina, trattavano una città amica, come se presa l'avessero d'assalto. Forzavano le case de' borghesi per rapir loro gli effetti, le mogli, le figlie; aggiugnevano l'insulto al danno, e finalmente stancarono la pazienza degli abitanti; questi attaccarono all'impensata i Bretoni il primo febbrajo del 1377, ne uccisero più di trecento, e costrinsero gli altri a chiudersi nella murata[151]. Il cardinale di Ginevra, che vi trovavasi ancor esso, mandò Galeazzo Malatesti a trattare coi borghesi per acquietarli, confessò che i suoi soldati avevano meritato quel castigo, ed accordò ai Cesenati un'assoluta amnistia, [101] a condizione che aprissero di nuovo le loro porte. Furono in fatti aperte, ed il cardinale con atroce perfidia abbandonò Cesena ad una universale carneficina[152]. Non contento di lasciare in città i suoi feroci Bretoni, chiamò ancora Acuto che trovavasi cogl'Inglesi a Faenza; e perchè questo capitano mal sapeva risolversi a prender parte a tanta iniquità, il cardinale gli disse: Io voglio sangue, sangue: e mentre durava la carneficina fu udito spesso gridare: uccideteli tutti[153]: e niuna persona fu risparmiata. I Bretoni prendevano pei piedi i fanciulli alla mammella, e loro schiacciavano il capo contro i muri. I preti, i religiosi, le vergini consacrate agli altari, tutto fu passato a fil di spada. Cinque mila persone perirono in quest'orribile carneficina; e tutta la popolazione di Cesena sarebbe stata distrutta, se alcuni abitanti con una pronta fuga non si fossero prima sottratti ai carnefici[154].
Quando la notizia del massacro di Cesena fu portato alle città della lega, vi cagionò più sdegno ancora che spavento. La signoria di Perugia fece celebrare l'ufficio de' morti in tutte le chiese, ordinò una pompa funebre per gl'innocenti uccisi dalle armi dei preti; e tutte le città in guerra colla Chiesa ne imitarono l'esempio[155].
I Fiorentini avevano mandato lo stendardo della libertà a Roma, siccome a tutte le altre città dello stato ecclesiastico. La repubblica romana era in allora governata da una signoria di tredici banderali dei tredici quartieri della città[156]. Ma i Romani, che ardentemente desideravano di persuadere il loro vescovo a tornare a Roma, erano meno degli altri popoli zelanti della libertà. Avuto avviso [103] che Gregorio XI pensava di restituirsi finalmente alla sua naturale sede, entrarono con lui in trattato, e gli promisero di rendergli la sovrana autorità sopra Roma, tostochè sarebbe giunto ad Ostia. Acconsentirono pure di sopprimere i loro banderali, e intanto il papa confermò altri magistrati, chiamati esecutori di giustizia, sotto condizione che cadauno di loro gli prestasse giuramento di fedeltà[157].
Gli otto della guerra di Firenze, informati di questo trattato, addirizzarono, il 26 dicembre 1376, la seguente lettera ai banderali per incoraggiarli a difendere la loro libertà.
«Agli illustri uomini, nostri onorati fratelli, i banderali della città di Roma.
«Sebbene noi abbiamo fino al presente alzata invano la nostra voce per esortarvi a difendere con irremovibile coraggio la vostra libertà e quella dell'Italia, e sebbene noi non abbiamo da voi ricevuto, per mercede di nostre esortazioni, che lettere elegantemente scritte, e vanamente ornate di belle [104] sentenze, pure oggi che vediamo imminente la ruina della vostra libertà, non temeremo di darvi ancora sinceri e salutari avvisi. Noi non possiamo dubitarne, o nostri cari fratelli! e se non siete determinati di accecarvi, voi pure dovete facilmente riconoscere, che il sovrano pontefice, che voi aspettate con sì amichevoli disposizioni, non sente verun affetto per la vostra città; non ne ama il soggiorno, e non viene a risedere nella sua propria sede per consolare il vostro devoto popolo, ma per cambiare la libertà vostra in servitù. Quando domanda l'abolizione delle vostre magistrature che altro desidera egli? che spera egli, se non di atterrare la colonna della romana libertà? Qual freno resterà agli audaci? quale rifugio ai deboli? se la sacra vostra società, da cui dipendono la pace, il coraggio e la tranquillità di Roma, è disciolta all'arrivo della corte? Quando il papa dovesse riporre la città nell'antico suo splendore ed in tutta la sua bellezza, quando sollevasse i Romani a tutta la maestà del loro antico impero, quando ricoprisse d'oro le vostre mura, se ciò deve farsi con pregiudizio della vostra libertà, il dover vostro vi ordina di [105] non accettarlo. Noi vi supplichiamo soltanto di comportarvi come si conviene ai figli de' Romani, presso i quali la libertà e la virtù sono ereditarie. Mentre ancora lo potete, mentre siete ancora in tempo, mentre l'oppressore della vostra domestica libertà non è per anco tra le vostre mura, provvedete, per Dio, alla vostra salute, provvedete a quella del popolo romano: quando voi lo vogliate, quando ne saremo avvisati da qualche segno, noi impiegheremo a favor vostro tutta la nostra potenza, come se si trattasse della nostra propria libertà, della nostra propria salute; imperciocchè noi punto non ignoriamo che quando il vostro popolo sarà caduto sotto il giogo, per leggiere che possa a bella prima sembrare, noi più non saremo abbastanza forti per liberarvi[158].»
In principio del seguente anno i Fiorentini scrissero di nuovo ai banderali [106] di Roma, loro offrendo tre mila lance per difesa della loro libertà[159]. Le generose loro esortazioni ed offerte non rimasero affatto prive d'effetto; per altro i Romani ricusarono di combattere, e non accettarono le truppe offerte dalla repubblica fiorentina: soltanto richiesero dal papa meno umilianti condizioni. Gregorio XI, assicurato d'essere ricevuto in Roma, e convinto che la sua sola presenza poteva calmare l'universale rivoluzione, era partito da Avignone il 13 settembre del 1376, ma non giunse a Corneto che in sul finire dell'anno, trattenuto e respinto costantemente dai venti contrarj per più di tre mesi[160]. Il 17 gennajo rimontò finalmente il Tevere, e sbarcò a san Paolo. I Romani lo accolsero con grida di gioja mentre attraversava la città a cavallo per recarsi al Vaticano. I banderali lo avevano aspettato a porta Capena, entrando egli nella quale, avevano deposte ai suoi piedi la bacchetta del comando; ma la ripresero all'indomani, [107] e continuarono ad amministrare la repubblica quali magistrati di uno stato sovrano, senza che il papa ardisse resistere alla loro volontà[161].
I Fiorentini, informati dell'arrivo di Gregorio XI, gli spedirono, per parte loro, ambasciatori a Roma, per chiedergli la pace a giuste condizioni[162]; ma perchè i loro trattati non ottennero il desiderato fine, ricominciò la guerra con vigore, e Bolsena si ribellò mentre il papa trovavasi nelle sue vicinanze. I Fiorentini confermarono per la seconda volta gli otto della guerra nel loro impiego. Questi magistrati non erano in origine stati creati che per un anno, ma avevano coronati i loro talenti con tanta prosperità che il popolo non poteva risolversi a dar loro dei successori. Gli otto persuasero Giovanni Acuto, che aveva terminato il tempo del suo servigio col papa, a passare al loro soldo colla compagnia inglese[163]. Ma d'altra parte Rodolfo da Camerino che fin allora era [108] stato generale dei Fiorentini, abbandonò il loro partito, malcontento che non gli si concedesse di conquistare la città di Fabbriano, ch'erasi dichiarata libera, e sulla quale vantava alcuni diritti[164]. Il papa accolse Rodolfo con singolari dimostrazioni d'onore, e gli affidò immediatamente il comando della compagnia dei Bretoni, colla quale il signore di Camerino tenne tribolati gli alleati de' Fiorentini nella Marca d'Ancona[165].
Il conte Lucio Lando di Svevia andò allora ad attaccare Rodolfo, con tre mila cavalli fiorentini, quasi alle porte di Camerino, sua capitale; gli uccise dugento soldati, gli prese lo stendardo con mille prigionieri, e lo sforzò a fuggire quasi solo a Tolentino[166]. In appresso i Fiorentini presero san Lupidio, santa Maria Serra, e più altre castella nella Marca d'Ancona[167].
Il papa desiderava la pace coi Fiorentini, ma voleva che la loro devozione la rendesse per lui più vantaggiosa. Mentre trovavasi ancora in Avignone, la signoria gli aveva spedita santa Catarina da Siena per cercare d'addolcirlo. Il papa rimandò la santa a Firenze, assicurandola che avrebbe poste in sua mano le condizioni della pace. Ma sebbene le virtù e la conosciuta santità di Catarina ispirassero la più alta venerazione ai capi della repubblica, essi non credettero di dover consultare intorno agl'interessi della loro patria gli scrupoli d'una donna entusiasta[168]. Gregorio mandò dal canto suo ambasciatori a Firenze; e questi, che speravano di fare maggiore impressione sul popolo che sul governo, non vollero esporre la loro missione che in presenza d'un parlamento adunato. In questo recitarono un artificioso discorso: il pontefice, essi dissero, ben sapeva che il popolo non voleva la guerra; la quale era l'opera di alcuni capi ambiziosi che si arricchivano nella pubblica miseria, [110] che di già avevano conservato il loro impiego oltre il tempo fissato da tutte le leggi, e si lusingavano di ridurre ben tosto in servitù quel popolo, che traviavano in nome della libertà. Gregorio chiedeva soltanto che i Fiorentini deponessero i loro perfidi magistrati, ed in appresso era disposto ad accordar loro la pace a quelle condizioni ch'essi medesimi avrebbero desiderato. Il gonfaloniere rispose agli ambasciatori a nome del popolo. Che lunghe ingiurie abbisognarono, e le prove della più sfrenata ambizione degli ecclesiastici per istaccare i Fiorentini dal partito della Chiesa, cui si mostrarono tanto tempo fedeli: che tante offese avevano finalmente stancata la loro sofferenza, ond'erano unanimi nella presa opposizione: che non pertanto desideravano sempre i Fiorentini la pace, ma che dovevasi ben credere che le condizioni della pace dovessero essere svantaggiose a coloro che avevano imprudentemente provocata la guerra[169].
Il pontefice, irritato da questa risposta, raddoppiò le pene ecclesiastiche pronunciate [111] contro i Fiorentini, e scrisse di nuovo, non più a tutti i sovrani, ma a tutte le città, per persuaderle a confiscare le proprietà de' suoi nemici. Dall'altro canto i Fiorentini, che fino a tale epoca avevano osservato gl'interdetti pronunciati dal pontefice, risolsero di non rimanere soggetti ad un'ingiusta sentenza. Fecero aprire tutte le chiese, e costrinsero i preti a celebrare l'ufficio divino colla stessa solennità, come se l'interdetto non fosse stato pronunciato[170].
Un nipote del papa aveva tentato, alla testa de' Bretoni, di entrare nella Maremma di Siena, e fu forzato di dare a dietro in faccia ad Acuto. Ma più che le armi tornarono utili gl'intrighi alla corte pontificia. Erasi scoperta in Bologna una congiura in favore dei Pepoli, in sul finire del precedente anno, e Taddeo degli Azzoguidi era stato esiliato da questa città con una parte della fazione dello scacchiere[171]. Il restante di questa fazione, fedele alla libertà ed agl'interessi [112] de' Fiorentini, mutò nome in quest'occasione, e si chiamò Raspanti. Le famiglie de' Bentivogli, Salicetti, Azzoguidi, Bianchi e Gozzadini entrarono nella nuova fazione de' Raspanti, e sotto questo nome governarono la repubblica.
Ma in marzo del 1377 la sorte diede ai Bolognesi un gonfaloniere ed otto anziani dell'opposta fazione, o de' Maltraversi. Questi, dopo avere guadagnato destramente il favore del popolo, ed assicurata la loro autorità, fecero arrestare in un solo giorno tutti i capi dei Raspanti, e spedirono al legato del papa, che allora trovavasi a Ferrara, per domandargli una tregua, onde trattare con lui una pace separata. Gregorio XI accolse avidamente quest'offerta, e non si mostrò difficile nelle condizioni. Domandò soltanto che fosse ricevuto in Bologna un vicario pontificio, non per comandare in effetto, ma per averne soltanto l'apparenza: e perchè non si concepisse veruna diffidenza, nominò per tale incumbenza uno degli ambasciatori della repubblica, che era dottore di legge[172]. Acconsentì espressamente che [113] Bologna continuasse a governarsi liberamente ed in comune[173]; ed a tali condizioni essendo stata il 21 agosto segnata la pace in Anagni, si pubblicò a Bologna in principio di settembre[174].
Circa lo stesso tempo il prefetto di Vico fece pure una separata pace colla Chiesa[175]; onde i Fiorentini, vedendosi abbandonati dai due più potenti alleati, pensarono seriamente a mettere fine alla guerra. Il vescovo d'Urbino, ambasciatore del papa, propose loro di prendere per arbitro un loro alleato, Barnabò Visconti, ed infatti i Fiorentini acconsentirono di aprire, sotto la sua mediazione, un congresso a Sarzana. Barnabò recossi il primo in questa città in principio del 1378. Vi giunsero poco dopo il cardinale d'Amiens e l'arcivescovo di Narbona legati del papa. Il conte di Brienne e l'arcivescovo di Laon arrivarono in appresso come ambasciatori del re di Francia; ed in breve vi si adunarono i deputati fiorentini e quelli delle città alleate.
Le conferenze cominciarono il 12 di marzo, e si potè allora travedere dietro quali segrete intelligenze aveva il papa scelto arbitro il suo più antico nemico, e l'alleato de' Fiorentini. Barnabò Visconti aveva convenuto col papa di dividere con lui il danaro che farebbe pagare alla repubblica. Propose nella sua qualità di arbitro, che i confederati dessero al papa l'enorme somma di ottocento mila fiorini per le spese della guerra. Le decisioni degli arbitri venivano risguardate come inappellabili; tutti gli alleati de' Fiorentini più omai non li secondavano che assai mollemente, e gli ambasciatori delle repubbliche si videro forzati d'aprire la negoziazione su questa base; e forse la pace sarebbesi conchiusa a condizioni svantaggiosissime per gli alleati, se la notizia della malattia del papa, attaccato dalla pietra, e poco dopo quella della sua morte, accaduta in Roma il 27 marzo del 1378, non avesse sciolto il congresso di Sarzana[176]. Tutti gli ambasciatori tornarono a casa loro senza nulla avere conchiuso, ed il gran [115] scisma d'Occidente, che tenne dietro alla morte di Gregorio XI, permise ben tosto ai Fiorentini di trattare colla Chiesa sotto più favorevoli auspicj[177].
Gran scisma d'Occidente. — Congiura de' Ciompi a Firenze. — La regina Giovanna spogliata del regno da Carlo di Durazzo.
1378 = 1381.
L'accanita guerra nella quale le repubbliche italiane avevano preso parte contro la corte di Roma, fu tutt'ad un tratto sospesa dalla morte di Gregorio XI, la quale mutava i rapporti delle potenze e de' popoli d'Italia. L'odio contro i Francesi, che avevano usurpate tutte le dignità e tutti i poteri della Chiesa, aveva strascinati gl'Italiani a muovere guerra alla chiesa medesima; e dopo la morte di Gregorio XI, lo stesso odio attaccò gl'Italiani alla difesa del suo successore. I pontefici ed i prelati d'Avignone avevano congiurato contro la libertà italiana; perfida ed ambiziosa era la loro politica, formidabile la loro potenza. Avevano essi introdotta in Italia la feroce banda de' Bretoni; facevano servire ai loro progetti la versatilità e la perfidia de' tiranni lombardi; erano sicuri [117] dell'ubbidienza della regina Giovanna di Napoli, della protezione e degli ajuti del re di Francia; e per ultimo la superstizione, sebbene molte volte conculcata, rilevavasi e tornava opportuna in loro soccorso, tostocchè i loro avversari provavano qualche sinistro. Tutta questa potenza venne distrutta dal gran scisma d'occidente; la corte di Roma venne privata dell'appoggio degli oltramontani, e le sue ricchezze divise tra due competitori e dissipate in una guerra civile, più non bastarono ad assoldare armate, ed a corrompere traditori; onde il pontefice italiano si trovò in balìa di quelle repubbliche, che il suo predecessore voleva distruggere. Fortunatamente l'odio di queste erasi spento col pericolo che avevano corso.
Gregorio XI era morto a Roma nella notte del 27 marzo del 1378; e le esequie e le novene celebrate pel riposo dell'anima sua durarono fino al 7 d'aprile. In tal giorno i cardinali entrarono in conclave, dopo avere nominato per invigilare alla loro sicurezza, otto ufficiali, cioè due vescovi, tre laici romani e tre francesi[178].
La chiesa romana aveva allora ventitre cardinali, sei de' quali erano rimasti in Avignone, ed un altro trovavasi legato in Toscana. Soli sedici entrarono dunque in conclave nel palazzo del Vaticano[179], de' quali undici erano francesi, uno spagnuolo, e quattro italiani[180].
Durante il tempo consacrato in apparenza alle esequie del precedente papa, i cardinali chiamati ad eleggere il successore [120] avevano di già cominciati gli intrighi preparatorj a così importante nomina. I Francesi, che di lunga mano [121] formavano il maggior numero, erano divisi in due fazioni. I Limosini sollevati alla romana porpora da Gregorio XI da Clemente VI eccitavano la gelosia di tutti gli altri. Non volevasi permettere che la santa sede continuasse ad essere una proprietà d'una sola provincia, e quasi d'una sola famiglia. Altronde, i Limosini, che formavano un partito regolare e numeroso, lusingavansi di dirigere l'elezione a modo loro. In mezzo a tali contese, che non erano chiuse nel [122] sacro collegio, ma di già rendevansi pubbliche, vedevasi l'un partito e l'altro egualmente determinato a non eleggere un italiano. L'avversione de' cardinali francesi pel soggiorno di Roma era abbastanza conosciuto, e si prevedeva che il nuovo pontefice sarebbesi affrettato di ricondurre la corte in Avignone. Questo timore eccitò in Roma il più vivo fermento: il popolo s'attruppò intorno al palazzo del Vaticano il giorno medesimo in cui i cardinali si chiusero in conclave, per vedere se colle sue grida potesse avere qualche influenza nella scelta. Romano lo volemo lo papa, gridavano, romano lo volemo, o almanco italiano[181]. Nel momento in cui i cardinali erano entrati in conclave, la folla si era con loro precipitata in palazzo, e questi maledetti romani, dice il biografo di Gregorio XI, erano armati, e ricusavano d'uscire. Per altro dopo un'ora di tumulto, il vescovo di Marsiglia li persuase tutti a ritirarsi, ad eccezione di una quarantina, i quali visitavano tutti gli angoli dell'appartamento sotto colore d'assicurarsi [123] che non vi fossero corazzieri nascosti nel palazzo, e che non vi fosse qualche segreta uscita, o qualche mezzo di comunicazione col di fuori[182]. Mentre praticavano queste indagini, che accrescevano l'inquietudine de' cardinali, il rimanente del popolo, adunato innanzi alle porte, non cessava di gridare, romano lo volemo, romano.
Prima che la plebaglia si fosse ritirata, due de' banderali di Roma vennero in deputazione per parte di questa magistratura, e chiesero udienza ai cardinali, che li ricevettero nella piccola cappella del Vaticano. I banderali rappresentarono al sacro collegio quanto l'intera cristianità aveva sofferto per avere i papi stabilita la loro residenza fuori d'Italia. A Roma i templi ed i sacri edificj ruinavano; alcuni cardinali non avevano pure visitate, in tutto il tempo della loro vita, le chiese di cui portavano il titolo; essi le lasciavano derelitte, sebbene loro ne incumbesse il mantenimento. Lo stato ecclesiastico era stato invaso, dopo partiti i papi, dai tiranni che se lo erano diviso, e non erasi riacquistato dal cardinale Albornoz che [124] dopo un'accanita guerra con grave dispendio del sangue dei popoli, e dei tesori della cristianità. Era poi stato abbandonato a ministri venali, insolenti ed arbitrari, i quali avevano fatta scoppiare una generale rebellione, governando in un modo così diverso dal paterno modo della antica Chiesa. Una guerra generale erasi accesa in Italia, ed il restante del mondo cristiano si era esaurito per volere riacquistare province ch'erano state forzate a ribellarsi. Fu per una veramente particolare disposizione della Provvidenza, aggiugnevano, che il buon papa Gregorio è venuto a morire in Roma, affinchè il senato della Chiesa, dovendosi di nuovo adunare nella di lei capitale, fosse più a portata di conoscere i sentimenti della greggia cui deve dare un pastore, e che i cardinali, organi de' Romani, che in altri tempi sceglievano il proprio vescovo coi loro suffragi, si uniformassero fedelmente alle intenzioni di coloro, che sono incaricati già da alcun tempo di rappresentare[183].
I banderali ritiraronsi per lasciar deliberare i cardinali; poi furono nuovamente introdotti, e Pietro Corsino, cardinale di Firenze, loro rispose a nome del sacro collegio: che maravigliavasi della loro pretesa d'influire sopra un'elezione, alla quale, nè il rispetto, nè il timore, nè il favore, nè le grida del popolo dovevano aver parte; che i cardinali andavano ad udire la messa dello Spirito Santo, e che lo Spirito Santo determinerebbe solo colla sua ispirazione la scelta che farebbero[184]. I banderali si ritirarono poco soddisfatti di questa risposta, ed il popolo rinnovò le grida, un romano volemo, un romano.
Malgrado la fermezza con cui il cardinale vescovo di Firenze aveva risposto, i clamori del popolo non lasciavano d'influire sul sacro collegio. I cardinali esponevansi senza dubbio ad un grandissimo pericolo, se totalmente disprezzavano la volontà di un popolo, pel quale la scelta del suo pastore era della più alta importanza. I Romani non avevano dimenticato, che il diritto di eleggere il papa loro spettava tre soli secoli avanti; e più tardi ancora Luigi di Baviera e Cola da Rienzo avevano [126] rinfrescata la memoria di quest'importante privilegio. Il partito degl'Italiani acquistò in conclave maggiore influenza, e la sua alleanza venne a gara ricercata dalle due opposte fazioni dei Limosini e del cardinale di Ginevra[185]. La sola loro adesione poteva decidere la pluralità dei due terzi dei suffragi necessarj per eleggere un papa[186].
I Limosini, veduta l'impossibilità di fare che l'elezione cadesse sopra uno di loro, scelsero una delle loro creature, che loro sembrava affatto proprio a conciliare tutti i suffragi; era questi Bartolomeo Prignani, arcivescovo di Bari, nato nel regno di Napoli. Costui era stato chiamato in Avignone dal cardinale di Pamplona, limosino, cancelliere della Chiesa, il quale lo aveva lungo tempo occupato nelle cose della cancelleria. L'arcivescovo di Bari aveva vissuto tanti anni in Francia, che quasi ritenevasi per francese; era suddito della regina di Napoli, protettrice del partito opposto ai Limosini; come italiano [127] doveva piacere ai cardinali di questa nazione; e finalmente l'arcivescovo di Bari, allora in età di circa sessant'anni, godeva opinione d'essere uomo dotto e religioso assai.
Poichè i cardinali d'Aigrefeuille e di Poitiers, capi del partito limosino, ebbero presentite le disposizioni dei loro colleghi, il primo, all'indomani del loro congresso in conclave, chiese, immediatamente dopo la messa dello Spirito Santo, che si raccogliessero i suffragi, sembrandogli che il sacro collegio fosse bastantemente d'accordo[187].
Essendosi tutti posti a sedere, tenendo l'ordine dell'anzianità, il cardinale di Firenze ch'era il primo dei vescovi, nominò ad alta voce per papa il cardinale di san Pietro. Il cardinale di Limoges, ch'era il secondo tra i vescovi, levossi e disse: «Il signor cardinale di san Pietro non ci conviene per papa, perchè è romano; parrebbe, eleggendolo, che noi avessimo ceduto alla violenza, ed ai clamori del popolo; inoltre egli è vecchio ed infermo. Nè il cardinale di Firenze ci conviene [128] meglio perchè appartiene ad una città attualmente in guerra colla Chiesa. Rifiutò egualmente il cardinale di Milano, suddito di un tiranno, e del più acerrimo nemico della religione. Per ultimo il cardinale Giacomo Orsini è romano, ed è troppo giovane. Perciò adunque io eleggo e scelgo per papa il signor Bartolomeo arcivescovo di Bari[188].»
I Cardinali di Glandeve, d'Aigrefeuille, di Ginevra, di Milano, tutti finalmente diedero il loro suffragio all'arcivescovo di Bari, ad eccezione del cardinale di Firenze, che aveva di già emesso il suo, e del cardinale Orsini, che dichiarò di non volere in quel giorno eleggere il papa. Essendosi i cardinali ritirati nelle loro celle per dire le loro ore, si riunirono poco dopo nella cappella e fecero un secondo giro di suffragi. Il cardinale di Firenze si unì alla maggiorità, e diede la sua voce cogli altri all'arcivescovo di Bari, che fu canonicamente [129] eletto. Il solo Orsini si mantenne nella sua opposizione. Aveva aspirato egli stesso al pontificato, ed erasi lusingato di ottenerlo, coll'ajuto delle grida del popolo, che andava sulla piazza ripetendo, romano lo volemo[189]!
Frattanto i cardinali temevano d'annunciare al popolo che l'eletto papa non era romano, tanto più che per antica consuetudine era permessa una grande licenza nel momento dell'elezione, e che il popolo s'arrogava il diritto di saccheggiare il palazzo del nuovo pontefice. Siccome le grida raddoppiavano innanzi al Vaticano, il cardinale Orsini s'affacciò ad una finestra, e fece fare silenzio, dicendo al popolo che il papa era nominato. Quando gliene fu chiesto il nome, rispose: andate a san Pietro, e lo saprete. Il vocabolo di san Pietro, ripetuto nella folla, fece credere che fosse stato eletto il cardinale di san Pietro: tutta la città tripudiò e la casa del Tebaldeschi, cardinale di san Pietro, fu saccheggiata da cima in fondo. Mentre il popolo vi accorreva, i cardinali avevano fatto entrare in Vaticano l'arcivescovo di Bari [130] con molti altri prelati. Il popolaccio di ritorno dal saccheggio, vedendo che non aprivasi il palazzo, ne atterrò le porte per rendere omaggio al cardinale di san Pietro; e l'inquietudine de' cardinali raddoppiò, quando videro che il popolo credeva di avere ottenuto quanto desiderava, e che conveniva disingannarlo. Cercarono perciò di salvarsi colla fuga gli uni per la gran porta che il popolo aveva atterrata, altri per le camere dei cappellani, e quando nel fuggire si scontravano nella folla, la confermavano nel suo errore. I Romani si precipitavano nella piccola cappella ov'era rimasto il cardinale di san Pietro, l'adoravano e gli chiedevano la benedizione. Il vecchio Tebaldeschi poteva gridare a posta sua: «non sono io l'eletto, io non sono papa; nè voglio esserlo.» La debole sua voce non era udita in tanto tumulto, e que' medesimi che potevano udirlo, credevano che dicesse così per modestia[190]. Più l'errore andava accreditandosi e più i cardinali temevano l'istante in cui il popolo verrebbe [131] tolto d'inganno; perciò la maggior parte di loro uscì di città dopo aver detto ai loro amici che il vero papa era l'arcivescovo di Bari. I cardinali Orsini e sant'Eustachio si rinchiusero a Vicovaro, Roberto di Ginevra a Zagarolo, quelli di Limoges, d'Aigrefeuille, di Poitou, di Viviers, di Bretagna e di Marmoutiers ritiraronsi in castel sant'Angelo, il cardinale di sant'Angelo si riparò a Guardia, e gli altri di Firenze, di Milano, di Montmayeur, di Glandeve e di Luna, rimasero soli nelle proprie case.
Frattanto l'arcivescovo di Bari era in Vaticano, e non meno atterrito degli altri, stava nascosto in una segreta camera, mentre il popolo saccheggiava tutte le provvigioni fatte per il conclave. La susseguente mattina, il 9 aprile, quest'arcivescovo mandò Tommaso d'Acerno, vescovo di Lucera, dal quale abbiamo presa la maggior parte di queste particolarità, ad intendere dai cardinali cosa foss'egli, e cosa dovesse fare. Il cardinale di Fiorenza rispose che l'arcivescovo di Bari era il vero e legittimo papa; mandò ad informare dell'accaduto i banderali, che stavano adunati in Campidoglio, e siccome il popolo erasi calmato, i banderali promisero che il nuovo pontefice [132] sarebbe accetto al popolo, e riconosciuto, sebbene non romano. Frattanto i cinque cardinali rimasti in Roma recaronsi in Vaticano presso l'arcivescovo di Bari, che per anco non aveva accettata la sua elezione. Fu d'uopo spedir varj messi ai cardinali chiusi in sant'Angelo, prima che si potesse persuaderli ad uscire[191]. Vennero finalmente ad unirsi agli altri; ed allora il cardinale di Firenze, come decano, presentò l'arcivescovo di Bari al sacro collegio con un sermone su questo testo; Talis debebat esse, ut esset nobis pontifex impollutus: l'eletto prese per testo della sua risposta: timor et tremor venerunt super me, et contexerunt me tenebrae. Per uniformarsi al suo testo non parlò che dello spavento che gli cagionava così alta dignità, e della sua incapacità di occupare degnamente il pontificato. Il cardinale di Firenze interruppe questo discorso, pregandolo di lasciare per allora da un canto la spiegazione e la parafrasi del suo testo; poichè non costumavasi di fare in quell'istante un discorso formale; e lo strinse a dire positivamente se accettava [133] l'elezione che di lui era stata fatta in nome del Signore. L'arcivescovo di Bari rispose che l'accettava, prese il nome d'Urbano VI, ed i cardinali, avendo intuonato il Te Deum, l'innalzarono sul trono[192].
Nei successivi giorni i cardinali d'Aigrefeuille, di Limoge e di Poitou, che avevano avuta la principale parte nell'elezione d'Urbano VI, chiesero e da lui ottennero alcune grazie. Durante la settimana santa i cardinali, ch'eransi allontanati, tornarono a Roma, e tutti assistettero alla coronazione il giorno di Pasqua, e l'accompagnarono in pompa alla basilica di san Giovanni di Laterano[193].
Per tal modo l'elezione del capo della Chiesa era compiuta: il tumulto del popolo che l'aveva accompagnata non aveva altrimenti determinata la scelta de' cardinali, [134] che per lo contrario temevano d'avere con questa medesima scelta provocato lo sdegno del popolo. Altronde essi avevano riconosciuta e confermata nella calma un'elezione ch'era stata accompagnata da alcune burrascose circostanze. Ma comunque regolare fosse quest'elezione, era essenzialmente cattiva, perciocchè la scelta dei cardinali difficilmente avrebbe potuto cadere sopra un uomo più imprudente, più collerico, più vano, e più proprio a farsi odiare. A questi difetti soltanto conviene attribuire l'abbandono in cui si trovò ben tosto, quando l'intero collegio de' cardinali, che l'aveva creato e riconosciuto, dichiarossi contro di lui.
Urbano cominciò ad alienare i prelati della sua corte con i suoi sforzi per la riforma della Chiesa. Petrarca aveva spesse volte rimproverato agli ecclesiastici francesi la loro ghiottonerìa; Urbano volle ridurli a non avere che un solo piatto sulla mensa, ed egli medesimo ne dava l'esempio. Volle altresì frenare la simonia, e minacciò di scomunicare i cardinali che accettassero doni. Queste lodevoli riforme non erano nè annunciate, nè eseguite colla debita moderazione e prudenza. In altre occasioni il pontefice [135] si fece ancora conoscere mancante di queste virtù. Egli annunciò la sua ferma disposizione di non lasciar più Roma, ed ordinò ai cardinali di prepararsi a passarvi gl'inverni. I banderali di Roma avendolo pregato di fare una nuova promozione, secondo la costumanza degli altri pontefici, egli rispose in presenza de' cardinali oltramontani, che non solo aveva determinato di fare una promozione, ma che la farebbe così numerosa, che d'ora innanzi i cardinali romani ed italiani sarebbero nel sacro collegio più potenti che gli stranieri. Il cardinale di Ginevra, che trovavasi presente a questa risposta impallidì per la collera, ed uscì all'istante. Ne' concistori segreti Urbano VI usava ancora minore ritenutezza; interrompeva i cardinali coi più offensivi discorsi; hai parlato abbastanza, diceva ad uno; taci, che non sai quello che tu ti dica, diceva ad un altro. Ed una volta giunse perfino all'eccesso di chiamare sciocco il cardinale Orsini[194], e di dire al cardinale di san Marcello, quando questi tornò dalla sua legazione di Toscana, che aveva [136] rubato il danaro della Chiesa: tu ne menti come un Calabrese, rispose lo sdegnato prelato, che sentiva come gentiluomo francese l'ingiuria che gli si faceva[195].
I cardinali, cui la rozzezza del papa riusciva insopportabile[196], ottennero gli uni dopo gli altri la licenza di ritirarsi ad Anagni, ove, in conformità degli ordini dati da Gregorio, avevano fatti degli apparecchi per passarvi l'estate. Urbano VI, che dopo la loro partenza era rimasto in Roma, invece di seguirli, come n'aveva avuto prima intenzione, andò a stabilirsi a Tivoli, e loro ordinò di raggiugnerlo. I cardinali, che avevano fatte ragguardevoli spese, e che si trovavano senza danaro, non volevano abbandonare tutti gli apparecchi che avevano fatti ad Anagni, ed esporsi a maggiori spese a Tivoli, ove non eranvi case in istato di riceverli. Mentre disputavano intorno a quest'ordine, riscaldando l'odio loro contro Urbano VI col ricordare le ingiurie da lui [137] ricevute, Onorato Caietano, conte di Fondi, venne a ritrovarli ed aggiunse la sua collera all'odio loro. Egli aveva prestati mille fiorini a Gregorio XI, ed Urbano ricusava di restituire questa somma, e perfino di riconoscere il debito, pretendendo che il suo predecessore avesse erogata tale somma in suo privato uso e non a vantaggio della Chiesa. Aveva fatto di più; inasprito da questa contesa, aveva dichiarato il conte di Fondi decaduto dalla contea di Campania, e gli aveva sostituito il suo personale nemico, Tommaso di S. Severino. Il conte di Fondi aveva di già cercato di farsi giustizia colle armi, e si era colla forza reso padrone di alcuni castelli della Campania[197].
Era la fine di giugno quando i cardinali si erano ritirati ad Anagni; l'arcivescovo d'Arles cameriere del defunto papa Gregorio XI, andò a raggiugnerli, portando loro la tiara ed i giojelli della corona. Il comandante di castel sant'Angelo, creatura del cardinale di Montmayeur, ricusò di più oltre ricevere gli ordini d'Urbano VI; il cardinale d'Amiens procurò l'alleanza di Francesco di Vico, [138] signore di Viterbo, prefetto di Roma e ribellatosi contro la Chiesa[198]. Finalmente il cardinale di Ginevra, che aveva avute colla compagnia de' Bretoni troppo strette relazioni pel suo onore, trattò con questa compagnia per farla passare in Anagni al servizio de' cardinali. I Romani vollero fermarlo al passaggio del ponte Salario, ma vi furono rotti colla perdita di più di cinque cento uomini. I cardinali, resi orgogliosi da questa vittoria e dal sentimento delle loro forze, dichiararono al papa che più non ritornerebbero presso di lui, nè a Tivoli, nè a Roma; consultarono seriamente se dovevano dargli un coadjutore per amministrare la Chiesa, e dopo qualche incertezza, deliberarono di annullare piuttosto la sua elezione sotto pretesto che non era stata libera.
Ma non si ridussero subito a quest'estremo, perchè i cardinali italiani, non meno scontenti del papa di quel che lo fossero i francesi, temevano non pertanto di entrare in disamine, e di far passi, che potessero richiamare la santa sede al di là dai monti. Cercavano adunque [139] di farsi mediatori tra i due partiti. Tutti e quattro assistettero a diversi concistori tenuti da Urbano VI a Tivoli; quelli di Firenze, di Milano, e l'Orsini stabilirono la loro dimora a Subiaco presso Anagni, e quando i cardinali francesi abbandonarono in agosto Anagni per recarsi a Fondi, colà invitati dal conte di quella città, i tre italiani li seguirono fino a Suessa. Il quarto, Tebaldeschi, cardinale di san Pietro, tornò a Roma col papa, e colà morì, dichiarando quando stava per spirare, ch'egli teneva Urbano VI per legittimo pastore della Chiesa[199].
La morte del Tebaldeschi privò Urbano VI del solo cardinale che gli fosse rimasto veramente fedele; i tre italiani senza rifiutarlo, e senza volere compiutamente associarsi agli oltramontani, avevano cessato di ubbidirgli; ed i francesi, poichè furono sicuri dell'appoggio del re di Francia e della regina Giovanna, pronunciarono di comune consentimento, il 9 agosto 1378, che la santa sede era vacante. Dichiararono che Bartolomeo Prignani, [140] che facevasi chiamare Urbano VI, era stato illegalmente eletto in mezzo ad un popolo ammutinato; e perchè essi formavano più de' due terzi del sacro collegio, protestarono solennemente contro un'elezione, che dichiaravano nulla, poichè l'avevano fatta contro la loro volontà.
Urbano VI, ch'era rimasto solo a Roma, ove non aveva potuto richiamare nè pure i cardinali italiani, fece nella festa dei quattro tempi di settembre una promozione di ventinove nuovi cardinali. I cardinali anziani inaspriti da tale notizia, tennero il 20 settembre un concistoro a Fondi nel quale determinarono di chiudersi in conclave per procedere all'elezione di un nuovo papa. La scelta cadde ben tosto sopra Roberto di Ginevra; i suoi talenti ed il suo carattere fecero loro dimenticare la carnificina di Cesena, e lo scandalo della guerra di Romagna. Roberto prese il nome di Clemente VII; i cardinali italiani non vollero dargli le loro voci, ma nemmeno tornarono a Roma. Essi ritiraronsi in diverse ville della Campania, o ne' castelli degli Orsini, senza prendere apertamente parte nello scisma, che incominciò a [141] quest'epoca a dividere il cristianesimo[200]. La Spagna e la Francia seguirono colla regina di Napoli le parti di Clemente VII; l'Italia, la Germania, l'Inghilterra, l'Ungheria ed il Portogallo s'attaccarono ad Urbano VI. Intanto l'autorità pontificia fu quasi distrutta dalla divisione della Chiesa fra due uomini, niuno de' quali poteva conciliarsi il rispetto del mondo cristiano.
In uno de' concistori da Urbano VI preseduti a Tivoli coll'assistenza de' quattro cardinali italiani, egli aveva sottoscritta la pace colla repubblica fiorentina a condizioni affatto diverse da quelle che aveva domandato Gregorio XI nel congresso di Sarzana. Le ostilità non eransi rinnovate dopo lo scioglimento di questo congresso, non avendo la repubblica voluto esasperare il nuovo pontefice; ed aveva cercato di buon ora di approfittare delle difficoltà in cui trovavasi ravvolto, per riprendere il trattato. Ella acconsentì di pagargli per i danni della guerra settanta mila fiorini entro un anno, e cento ottanta mila nello spazio di quattro anni; [142] ed in cambio la repubblica venne assolta con tutti i suoi alleati dalle censure ecclesiastiche nelle quali era incorsa[201].
Potrebbe taluno maravigliarsi come, dopo tante vittorie ottenute in una giusta guerra, la repubblica acconsentisse ancora a pagare indennizzazioni ad un nemico ch'ella non poteva più temere; ma tutte le guerre delle altre potenze colla Chiesa eransi terminate nello stesso modo, ed i popoli si credevano obbligati di cancellare con un clamoroso soddisfacimento lo scandalo dato alla cristianità, combattendo il comune pastore. Altronde Firenze non era omai più in istato di proseguire le sue vittorie, come non lo era il papa di vendicarsi. L'una e l'altra potenza erano nello stesso tempo indebolite da un'interna discordia, che loro non permetteva di pensare agli affari esterni. L'anno 1378 non fu meno funesto alla pace di Firenze, che a quella della Chiesa: essa fu l'epoca della più violenta rivoluzione della repubblica, e del gran scisma della Chiesa.
[143] Le due fazioni che dovevano scuotere lo stato, avevano annunziata la loro esistenza durante la guerra colla Chiesa; erano esse nate dalla divisione tra gli Albizzi ed i Ricci, di cui abbiamo altrove parlato. I primi, alleati colle più antiche famiglie guelfe, che cominciavasi allora ad indicare col nome di nobiltà popolare, erano secondati dalla magistratura di parte guelfa. Pietro degli Albizzi, Lapo di Castiglionchio e Carlo Strozzi erano capi di questa fazione. Il capo dell'opposta parte, Uguccione dei Ricci, era morto, dopo avere in parte perduta la sua popolarità; ma Giorgio Scala e Tommaso Strozzi l'avevano rimpiazzato. La fazione loro era la democratica; pure vi si trovavano altresì i Ricci, gli Alberti ed i Medici, che, come i loro avversarj, facevano parte della nobiltà popolare. Le loro famiglie di origine egualmente plebea, eransi da lungo tempo, per mezzo del commercio, innalzate ad una grande ricchezza e ad un grandissimo credito.
La fazione dei Ricci era stata gagliardamente abbassata nel 1372, quando un gran numero de' suoi membri vennero esclusi dal governo o ammoniti come Ghibellini; ma ella si era rialzata in tempo della guerra colla Chiesa. L'intera [144] repubblica pareva che avesse adottati i principj dei Ghibellini; e gli otto della guerra, che avevano procurato alle armi di Firenze così grandi successi, e che erano stati così gloriosamente riconfermati d'anno in anno, appartenevano tutti al partito dei Ricci o dei Ghibellini[202].
Due magistrature di parte esistevano dunque nella repubblica in opposizione l'una coll'altra; e si videro con maraviglia, verso il fine della guerra colla Chiesa, i capitani di parte guelfa, resi arditi dalla gelosia che gli otto della guerra avevano in fine eccitata, attaccarsi ai loro clienti, talvolta a loro medesimi per ammonirli come Ghibellini. Furono veduti fare un irremissibile delitto ai figliuoli dell'avere i loro antenati fatta guerra alla Chiesa uno o due secoli prima; mentre essi, mentre la repubblica, trovavansi in guerra colla Chiesa; mentre questa spigneva i suoi attacchi con un vigore che gli antichi Ghibellini non avevano conosciuto[203].
La parte guelfa, resa forte dall'unione di tutti coloro ch'erano gelosi degli otto della guerra e dall'antica nobiltà, pensò di potere approfittare alla morte di Gregorio XI dei trattati di pace colla Chiesa per ricuperare un assoluto impero sopra la repubblica. Avevano essi troppo inasprita l'opposta fazione, perchè fosse ancora possibile un riconciliamento; perciò erano essi determinati di cacciare fuori di città i loro avversarj, dietro l'esempio degli antichi guelfi, e d'impadronirsi a viva forza del palazzo dei priori[204]. Era in aprile del 1378, quando i tre capi di parte deliberarono intorno a questo progetto. Lapo di Castiglionchio ne voleva affrettare l'esecuzione, tanto più che le borse donde si tiravano a sorte i priori, essendo quasi vuote, sapevasi che vi restava ancora una signoria affatto ghibellina, di cui Salvestro de' Medici, uomo intraprendente, ed uno de' più pericolosi avversarj dei Ricci, sarebbe gonfaloniere. Quando questi magistrati sarebbero in seggio, si poteva temere che essi medesimi non cominciassero l'attacco. Pietro degli Albizzi per lo contrario [146] voleva differire fino alla prossima festa di san Giovanni, per approfittare dell'affluenza dei contadini, che in tal giorno accorrevano da ogni banda alla città, confondendo tra questi gli uomini di cui volevano servirsi. Lapo acconsentì di mal animo a questo ritardo; furono prese delle misure insufficienti per impedire che Salvestro de' Medici occupasse la carica di gonfaloniere, e si aspettò in riposo la prossima estrazione[205].
Questa diede la signoria dei mesi di maggio e di giugno, alla testa della quale si trovò Salvestro de' Medici come gonfaloniere[206]. Il Medici d'accordo con Benedetto Alberti, Tommaso Strozzi e Giorgio Scali, erano risoluti di opporsi alle usurpazioni segrete dei grandi. Volevano impedire ai capitani di parte guelfa di cambiare la costituzione in oligarchia coll'ajuto delle vane accuse di ghibellinismo. La sorte aveva designato Salvestro de' Medici il 18 giugno per essere prevosto; dignità che gli dava il diritto di proporre ai consigli nuove leggi e [147] riforme[207]. Egli ne approfittò per far adunare il consiglio del popolo, mentre in un'altra sala del pubblico palazzo egli presiedeva al collegio delle compagnie. Propose a quest'ultima assemblea una legge, che rinnovava l'ordinanza di giustizia contro i grandi, che minorava l'autorità dei capitani di parte, e che apriva agli ammoniti una strada per ricuperare gli onori dello stato. Questa legge incontrò una gagliarda opposizione nel collegio. Allora Salvestro, abbandonando il suo luogo senz'essere osservato, passò nella sala ove stava adunato il consiglio del popolo. «Io aveva creduto, diss'egli, che il mio dovere di gonfaloniere mi obbligasse a reprimere l'insolenza de' grandi, ed a correggere leggi, il di cui abuso forma l'infelicità della repubblica; ma ho trovato tra i nemici del popolo una così gagliarda opposizione, che lungi dal poter apportare rimedio al male, non mi è pure permesso di far conoscere ai miei concittadini i regolamenti che aveva proposti. Poichè trovomi nell'impossibilità di fare il [148] bene, non voglio più lungo tempo occupare una carica, di cui la pubblica diffidenza mi toglie d'esercitarne la più augusta funzione. Io rinuncio al gonfalone, e torno a casa mia per vivere da privato[208].» Nel pronunciare queste parole Salvestro scese dalla tribuna. Ma il suo discorso aveva eccitato in consiglio il più vivo fermento. Entraronvi i priori ed il collegio per calmare il tumulto, e ritennero Salvestro de' Medici, che partiva, o fingeva di partire. Frattanto tutto il partito degli Albizzi era dai plebei minacciato; Carlo Strozzi venne preso al collare da un plebeo, che gli disse essere giunto il termine della potenza de' grandi[209]. E perchè le parti si riscaldavano, Benedetto degli Alberti s'avvicinò alla finestra, e chiamò i cittadini alle armi, gridando viva il popolo! All'istante si chiusero le botteghe, la piazza si empì di persone armate, che colle loro acclamazioni diedero subito a conoscere, ch'erano del partito degli otto della guerra e de' plebei. Dall'altro [149] canto i gentiluomini e gli amici degli Albizzi eransi adunati nel palazzo della parte guelfa, ma non trovandovisi che in numero di circa trecento, si separarono volontariamente. Il collegio intanto s'accorse d'essere il più debole, onde approvò la legge proposta da Salvestro de' Medici, che prima aveva rifiutata. Questa legge venne immediatamente portata al consiglio del popolo, che la sanzionò[210].
Il movimento popolare pareva calmato, i cittadini ed i consiglieri del popolo si ritiravano in pace alle case loro; ma ognuno era d'opinione che la contesa non fosse finita; che i vinti non soggiacerebbero alla disfatta, e che i vincitori non sarebbero contenti della loro vittoria. Di già i più timidi si premunivano contro le rivoluzioni credute inevitabili. Gli uni afforzavano le case loro, altri trasportavano nelle chiese o ne' monasteri i loro più preziosi effetti, onde porli in sicuro; le botteghe non si aprivano, e l'aspetto della città annunziava la diffidenza o la guerra.
Il domani l'altro era giorno di domenica; ed i corpi delle arti e mestieri [150] approfittarono di questo dì di riposo per adunarsi tutti separatamente; nominarono commissarj per conferire coi priori intorno allo stato della repubblica; e le loro deliberazioni accrebbero il fermento. Invece di ristrignersi a confermare l'ultima pacificazione si andò ansiosamente cercando tutto ciò di cui il popolo potev'essere mal soddisfatto; si trovarono dei giusti motivi del suo malcontento, perchè se ne trovano sempre; e mentre si voleva arrecarvi rimedio, si faceva alla moltitudine conoscere che aveva ragione di lagnarsi e di volersi vendicare.
Il popolo di Firenze era diviso in varie corporazioni politiche, i quartieri, le compagnie delle milizie, e le arti. Ognuna di tali divisioni aveva certi diritti e certa parte alla sovranità; ognuna era rappresentata nel governo della repubblica; ma la più importante di queste classificazioni era quella delle arti e de' mestieri; perchè in uno stato mercantile, era la più intimamente legata al lavoro che dava di che vivere ad ogni cittadino. Eravi un rapporto assai più immediato tra tutti gl'interessi, tutta l'esistenza de' mercanti o degli artigiani d'uno stesso mestiere, che non fra i vicini d'uno stesso quartiere, o tra i fratelli d'armi della medesima [151] compagnia. I mestieri che a Firenze avevano un'esistenza politica erano ventuno, de' quali i sette più ricchi ed onorati chiamavansi arti maggiori. Questi, ne' quali trovavansi interessati i più ricchi negozianti della repubblica, favorivano la nobiltà popolare, la magistratura dei Guelfi e la parte degli Albizzi. Le arti minori provavano una viva gelosia contro quest'aristocrazia. Eravi in oltre una numerosa classe di artigiani, che non avevano un'esistenza politica, ma che, lavorando per conto d'altri, venivano risguardati come loro dipendenti. L'arte o manifattura della lana, che aveva acquistata in Firenze la più alta importanza, e che teneva il primo rango tra le arti maggiori, aveva sotto la sua dipendenza i cardatori delle lane, i tintori, i tessitori, tutti gli operaj infine che venivano adoperati dai fabbricatori di stoffe. Lagnavansi questi operaj, e forse talvolta a ragione, di non poter ottenere giustizia contro i loro padroni, quando ricorrevano al tribunale civile, che l'arte della lana aveva stabilito per decidere le differenze che nascevano tra i membri[211]. Le fazioni aristocratica e [152] democratica trovavansi dunque di nuovo in contrasto; ma, dopo l'abbassamento dell'antica nobiltà, si era veduto sorgere tra i mestieri l'antico loro spirito, che si manifestava per l'opposizione tra le arti maggiori e minori, e per la gelosia che le arti subalterne nudrivano contro i mestieri da cui esse dipendevano.
In questa congiuntura si vide, non senza inquietudine, il martedì 22 giugno, ognuna delle arti spiegare il suo stendardo innanzi alla sua borsa o luogo d'adunanza. I priori, per prevenire la burrasca ond'erano minacciati, adunarono il consiglio del popolo, il quale a loro persuasione nominò una balìa, cui accordò un'autorità dittatoriale per la riforma della repubblica. La signoria, il collegio, gli otto della guerra, i capitani di parte ed i sindaci delle arti, furono tutti ammessi in questa balìa; ma mentre stava deliberando, i corpi de' mestieri eransi di già mossi e recati in sulla piazza coi loro stendardi e le loro armi[212].
Questa truppa di gente armata non rimase lungamente in riposo; molti erano [153] inaspriti da lunghe ingiurie, altri animati dall'ambizione, o avidi di saccheggio. Mentre le arti maggiori tenevansi ferme in piazza, le minori ed il basso popolo si mossero per attaccare la casa di Lapo da Castiglionchio[213], il quale travestito da monaco si ritirò nel Casentino, deplorando l'ostinazione di Pietro degli Albizzi, che non aveva voluto prevenire i suoi nemici, attaccandoli il primo, ed accusando la propria debolezza per avere ceduto all'ostinata opinione dell'amico. La casa di Lapo fu saccheggiata e bruciata, come pure quella dei Bondelmonti, ed i palazzi di Carlo Strozzi, dei Pazzi, di Migliore Guadagni, degli Albizzi, e di molti altri capi dei partito guelfo[214].
Uno de' priori, Pietro da Fronte, seguiva a cavallo gl'insorgenti con alcuni arcieri del palazzo, ed ottenne finalmente colle sue esortazioni, colle minacce, e col supplicio di alcuni, di calmare il furore degli altri. La notte fu tranquilla, [154] ma la balìa, spaventata da questo tumulto, risolse all'indomani d'appagare il popolo con nuove concessioni. Preparò una legge in forza della quale gli ammoniti dovevano essere rimessi in possesso dei diritti di cittadinanza, a condizione per altro che per tre anni non eserciterebbero le magistrature; abolì le leggi che davano ai capitani di parte una così formidabile autorità, e dichiarò ribelli Lapo da Castiglionchio, ed alcuni suoi partigiani[215].
Si estrassero quindi a sorte i nuovi priori, e la carica di gonfaloniere di giustizia toccò a Luigi Guicciardini. La nuova signoria venne installata il primo luglio, senza cerimonie, nel pubblico palazzo, temendosi che la pompa, che d'ordinario accompagnava tale atto, non eccitasse qualche popolare movimento. I priori, che avevano opinione d'essere uomini pacifici ed imparziali[216], ordinarono a tutti i cittadini di deporre le armi, ed a tutti i contadini d'uscire di [155] città sotto pena capitale. Fecero levare le barricate poste in molti quartieri, e per dieci giorni parve che Firenze avesse ricuperata l'antica tranquillità. Ma tutt'ad un tratto le arti adunaronsi di nuovo gli 11 di luglio, dietro inchiesta degli ammoniti, che trovavano troppo dura cosa l'aspettare tre anni per rientrare in possesso degli onori dello stato. I sindaci delle arti, riuniti alla camera de' sei di commercio, presentarono una petizione alla signoria per ottenere, che tutti coloro che dopo il 1320 avevano esercitato alcuno de' principali impieghi della repubblica, non potessero essere ammoniti come Ghibellini; che se di già ammoniti, rientrassero in tutti i loro diritti; e per ultimo che la magistratura di parte guelfa fosse tolta alla fazione che se l'era appropriata esclusivamente, e che si riempissero di nuovi nomi le borse, dalle quali si estraevano a sorte i capitani di parte. Oneste domande erano abbastanza eque, onde furono immediatamente ammesse dai collegi, dal consiglio del popolo, e dal consiglio comune; perchè il timore che ispiravano i corpi de' mestieri, che sapevansi armati, non permetteva lunghe deliberazioni[217].
I cittadini precedentemente ammoniti come Ghibellini non erano ancora soddisfatti, volendo esercitare vendette contro coloro che lungo tempo gli avevano oppressi; ma si vergognavano di chiedere direttamente proscrizioni, ed avrebbero voluto che la proposizione venisse spontaneamente dalla magistratura. La signoria adunò i sindaci delle arti ed i loro consiglieri, ed il gonfaloniere Luigi Guicciardini rappresentò loro a quali pericoli esponevano la repubblica con queste nuove incessanti domande. «Quanto più noi vi accordiamo, disse loro, più s'accresce il vostro orgoglio, e sempre formate più ingiuriose domande. Voi avete voluto togliere ai capitani di parte la loro autorità, e venne loro tolta; chiedeste che si bruciassero le borse del loro ufficio e si facessero nuove riforme, e vi abbiamo acconsentito; avete domandato che gli ammoniti rientrassero al possesso degli onori dello stato, e l'abbiamo concesso. Per le vostre preghiere abbiamo perdonato a coloro che svaligiarono le case e spogliarono le chiese; per soddisfarvi abbiamo esiliati molti potenti cittadini coperti di gloria; e per favorirvi abbiamo posto freno al potere de' grandi con nuove [157] ordinanze. Qual fine avranno adunque le vostre domande? quanto tempo abuserete ancora della nostra liberalità? Non v'accorgete che ci riesce meno insopportabile una disfatta, che voi la vittoria?... Volete voi dunque colle vostre discordie rendere in tempo di pace schiava questa città, che tanti potenti nemici non soggiogarono colla guerra? Imperciocchè, sappiatelo, che le vostre vittorie sui vostri concittadini non vi apporteranno che servitù; quei beni, che voi avete rapiti o che voi rapirete, non faranno che rendervi più poveri.... Onde noi vi ordiniamo, e se l'onore della repubblica ci permette quest'avvilimento, vi preghiamo, di acquietarvi, accontentandovi di quanto abbiamo fatto per voi, o se ancora dobbiamo accordarvi qualche altra cosa, di chiederla almeno come si conviene a cittadini, e non col tumulto e colle armi[218].»
I sindaci delle arti, commossi da questo discorso, ringraziarono il gonfaloniere, e gli promisero di occuparsi d'ora innanzi del ristabilimento della pace in città. D'altra parte la signoria nominò una commissione per lavorare con loro intorno alle riforme, che si trovasse ancora conveniente di fare[219].
Ma le precedenti sedizioni avevano procurati altri nemici alla repubblica; le più basse classi della società erano state poste in movimento da Salvestro de' Medici e da altri demagoghi. Trovavansi allora in Firenze certe persone, che un lavoro meccanico, che la miseria e la privata dipendenza, rendevano incapaci di liberali sentimenti, che non potevano deliberare senza essere quasi ubbriache, nè agire in corpo senza furore; che sotto il nome di libertà non avevano cercato nell'esercizio, di un potere pel quale non erano fatte, che l'occasione d'arricchirsi col saccheggio e colle rapine. Venivano queste indicate col nome di Ciompi, vocabolo francese sfigurato[220], [159] che loro era rimasto fino dai tempi della tirannide del duca di Atene. Appartenevano quasi tutte ai mestieri che non avevano esistenza politica, ed erano sotto la dipendenza dell'arte della lana.
Quando i Ciompi videro che le turbolenze stavano per aver fine, ed ebbero di più avviso che la signoria faceva venire un nuovo bargello da città di Castello, temettero che si pensasse a punire i delitti che avevano commessi in tempo della sedizione, e che coloro che gli avevano segretamente eccitati, vergognandosi di così colpevole alleanza, non gli abbandonassero in seguito pubblicamente. Adunaronsi adunque in un luogo detto il Ronco fuori di porta romana[221]. Colà il più ardito di loro si fece così a parlare. «I governi, disse costui, mai non puniscono che i piccoli falli, mentre i grandi colpevoli sono quasi sempre ricompensati. Quando molti soffrono, poche persone pensano a vendicarsi, perchè si soffrono con maggiore pazienza le ingiurie universali, che non le particolari[222]. Cerchiamo adunque col saccheggio [160] e con nuovi attentati di acquistare perdono. Nella presente nostra situazione la prudenza medesima ci ordina di essere audaci, poichè non si esce mai di pericolo che per una pericolosa strada.»
Un Simoncino Buggigatti, un Pagolo della Bodda, un Lorenzo Riccomanni persuasero tutti i Ciompi colle loro esortazioni a giurare d'ajutarsi vicendevolmente e di difendersi. Tutti promisero di prendere le armi tostocchè sapessero che si volesse castigare un solo di loro a cagione de' passati tumulti[223]. Tutti si obbligarono in appresso a cominciare essi medesimi l'attacco per rendersi padroni dello stato. Dopo molte segrete adunanze, risolsero di armarsi la mattina del 21 di luglio, e di riunirsi in quattro piazze d'armi, in separati quartieri[224].
La vigilia del giorno destinato all'esecuzione di questa trama, la signoria ebbe avviso de' movimenti che si dava Simoncino [161] Buggigatti e lo fece sostenere. Seppe dalla sua volontaria confessione press'a poco tutto quanto gli premeva di sapere, e sarebbe stata in tempo di prendere le convenienti misure per difendersi; ma perchè aveva adunati i sindaci delle arti, il collegio e gli otto della guerra, alcuno propose di porre alla tortura Simoncino, onde ottenere, se possibile fosse, più estese particolarità. L'uso della tortura era stato adottato da tutti i tribunali italiani col rimanente della giurisprudenza romana[225]; ma non mai forse quest'assurda ed atroce pratica era stata più perniciosa a veruno stato quanto lo fu in allora ai Fiorentini. Dietro la deposizione del Buggigatti eransi di già arrestati due de' suoi complici, quando gli fu dato il tratto nella corte del palazzo del capitano del popolo. La notte era inoltrata, pure un oriuolajo stava ancora lavorando intorno all'orologio della torre del palazzo. Di là vedeva distintamente la corte del capitano illuminata dalle [162] fiaccole de' carnefici. Quest'operajo conobbe Simoncino alla tortura, ed avvisando che la trama, cui aveva parte ancora egli, sarebbe svelata, si affrettò di portarsi a casa sua e chiamò alle armi i suoi vicini del quartiere di san Friano. «Armatevi, sgraziati, disse loro, la signoria fa giustizia, e voi tutti sarete uccisi se non vi difendete[226].»
Allo spuntare del giorno il 21 luglio tutta la città trovavasi armata ed i priori non avevano sotto i loro ordini che ottanta cavalli; avevano bensì ordinato ai gonfalonieri di portarsi sulla pubblica piazza colle loro compagnie di milizie, ma ognuna di queste compagnie aveva voluto custodire il proprio quartiere onde salvarlo dall'incendio e dal saccheggio, di modo che di sedici gonfalonieri, due soli si presentarono avanti al palazzo; e questi ancora si ritirarono subito, quando si videro abbandonati dai loro colleghi[227].
Mentre questi uscivano dalla piazza gl'insorgenti, che si erano adunati a san Piero Maggiore, vi entrarono e chiesero i loro prigionieri. Quando videro che si tardava a renderli, bruciarono la casa del gonfaloniere, Luigi Guicciardini. I priori diedero allora la libertà ai tre uomini che avevano fatto sostenere, e perchè gl'insorgenti non si separavano, mandarono tre deputati per trattare con loro[228]. Quando questi deputati scesero nella piazza, gli arcieri del palazzo cessarono di tirare per non ferirli, e questo istante di sospensione permise agl'insorgenti d'impadronirsi del gonfalone di giustizia, che stava sospeso alle finestre dell'esecutore. Questo venerato stendardo venne dai faziosi portato in tutti i luoghi in cui esercitarono i loro furori. Essi passavano di casa in casa per darle al sacco ed al fuoco, spesse volte indotti a ruinare una famiglia dietro l'accusa d'un solo privato nemico. Tutto il giorno si passò in tal maniera; ben tosto i faziosi vollero mostrare un disinteresse, [164] che pareva incompatibile con questo spaventevole disordine. Ordinarono che tutti gli effetti preziosi, di coloro ch'essi dichiaravano sospetti, fossero bruciati colle case che li contenevano, e punirono come colpevoli di furto coloro che tentavano di sottrarre alcuna cosa all'incendio[229].
In sull'ora dei vesperi, s'avvisò il popolaccio d'armare cavaliere Salvestro de' Medici, e dopo di lui Tommaso Strozzi e Benedetto Alberti. Ben tosto altri e poi altri ancora vennero rivestiti della medesima dignità, ed in quella sola notte il popolo ne armò sessantaquattro. I principali cittadini ricevevano tremando quest'onore; se lo avessero ricusato, arrischiavano d'essere uccisi all'istante[230]. Si videro allora alcuni uomini, tra i quali Luigi Guicciardini, cui era stata bruciata la casa quella mattina, essere armati cavalieri la sera dallo stesso popolaccio[231].
All'indomani, 22 luglio, gl'insorgenti attaccarono e presero a viva forza il palazzo del podestà. Fecero in appresso giugnere alla signoria, che si era afforzata nel palazzo pubblico, le condizioni, che volevano da lei ottenere. Chiedevano tra le altre cose che l'arte della lana non nominasse più un giudice straniero; che venissero create tre nuove corporazioni pei mestieri, che più non volevano essere subordinati alle antiche arti; che in avvenire due dei priori si tirassero sempre dalle arti nuove, tre dalle quattordici minori, e tre dalle maggiori; per ultimo che venissero accordate grazie pecuniarie a coloro che il popolo aveva creati cavalieri, per formare un'entrata conveniente al nuovo loro stato. Volevano ancora che si cancellassero i nomi dei loro amici dalle liste degli ammoniti; che si confinassero i loro nemici, o che venissero posti nel numero de' magnati; che fosse sospesa per due anni la procedura di ogni debito minore di cinquanta ducati; che si escludessero per dieci anni dal governo tutti coloro le di cui case erano state bruciate; ed andavano continuamente facendo nuove inchieste, egualmente sovversive dell'ordine e della costituzione[232]. [166] Ma quando il popolo minuto comincia a dettare le sue volontà, non avvi più forza nella nazione che vaglia a resistere. Tra i cittadini interessati nel mantenimento dell'ordine, gli uni cercavano a difendersi nelle proprie case, altri seguivano il popolaccio, cercando di moderarne il furore. In verun luogo una forza nazionale opponevasi alla forza, che distruggeva la nazione. I priori, assediati in palazzo, vedendo che niuno veniva in loro ajuto, si fecero a deliberare intorno alle domande de' Ciompi; le approvarono, e fecero poi suonare le campane per adunare il consiglio del popolo. I consiglieri riunironsi in palazzo, e le proposizioni dei Ciompi furono ammesse senza contraddizione.
Il consiglio del comune, che doveva dare forza di leggi a queste deliberazioni, non potev'essere adunato lo stesso giorno che quello del popolo. Intanto la plebaglia pareva che s'andasse calmando, e faceva sperare che deporrebbe le armi, purchè la signoria rinviasse i soldati che aveva chiamati in suo soccorso, e che si erano avanzati fino a Poggio a Cajano, e purchè le chiavi delle porte si consegnassero ai sindaci delle arti[233].
Ma all'indomani, quando il consiglio del comune era di già adunato, il popolo occupò la piazza, facendola risuonare colle sue grida per ispaventare in tal modo i consiglieri, e persuaderli a fare sollecitamente quanto chiedevano i Ciompi. Queste minacce non erano punto necessarie, perchè i consiglieri erano in modo atterriti che non avrebbero frapposto un solo istante. Non pertanto Guerriante Marignolli, uno de' priori, scese, sotto colore di assicurarsi che la porta fosse ben chiusa, e fuggì vilmente per sottrarsi ai pericoli, cui erano esposti i suoi colleghi. Mentre egli cercava modo di ridursi a casa, fu dal popolo riconosciuto, il quale prese a dire schiamazzando, che tutti i priori dovevano imitarlo, discendere nella piazza ed abdicare il governo. Ben tosto Tommaso Strozzi venne introdotto in palazzo, onde partecipare, per parte del popolo e delle arti, lo stesso ordine alla signoria[234]. Invano i priori cercarono di trattare col mezzo di Tommaso Strozzi e di Benedetto Alberti, che pareva avessero [168] ambidue grandissima influenza sul popolo. Venne loro risposto, che se i priori non si ritiravano, sarebbe posto il fuoco alla città ed ai loro palazzi, ed uccise le loro spose e i figli. Gli otto della guerra, i collegi, i consiglieri del comune gli esortavano tutti a partire per salvare la città dal maggiore infortunio. Due de' priori Alamanno Acciajuoli e Niccolò del Nero dichiararono, che quando ancora non potessero ritenere i loro colleghi, essi non deporrebbero l'autorità, che la patria loro aveva confidata, prima che spirasse la carica loro; ma il gonfaloniere più timido, cui di già era stata bruciata la casa, e che credeva di vedere ben tosto i suoi figliuoli uccisi, raccomandossi a Tommaso Strozzi che lo fece uscire, e dietro lui, uno appresso l'altro, fuggirono pure i priori, onde, trovandosi soli, Acciajuoli e del Nero si scoraggiarono, e consegnarono le chiavi del palazzo al prevosto delle arti, che le ricevette a nome del popolo[235].
Vennero allora aperte le porte del palazzo, ed il popolaccio vi entrò. In questo [169] momento un cardatore di lane, chiamato Michele di Lando, teneva il gonfalone della giustizia, di cui il popolo si era impadronito due giorni prima. Quest'uomo, che aveva vesti stracciate e camminava a piedi nudi, salendo alla testa del popolo la grande scala della signoria, quando giunse nella sala d'udienza de' priori, si volse al popolo affollato, e gli disse: «questo palazzo v'appartiene, questa città è nelle vostre mani; qual è al presente la vostra sovrana volontà?» Il popolo rispose ad una voce, ch'esso doveva essere il gonfaloniere di giustizia, e riformare la signoria. Michele di Lando in quell'istante avrebbe potuto farsi tiranno, e regnare sopra Firenze con l'appoggio del minuto popolo; egli avrebbe avuto un impero più assoluto che non fu quello del duca d'Atene, ma fortunatamente per la repubblica Michele amava sinceramente la sua patria e la libertà, e malgrado la parte che aveva presa alla sovversione dello stato, di già pensava ai mezzi di rimettere l'ordine[236].
Gli otto della guerra erano i soli di tutta l'antica magistratura, che fossero rimasti in palazzo; e siccome era il loro partito che aveva cominciata la rivoluzione, siccome essi medesimi vi avevano avuta parte, credevano di raccogliere i frutti della vittoria, ed avevano di già nominata una nuova signoria, alla testa della quale volevano mettere Giorgio Scali[237]. Ma Michele di Lando, avvertito del loro divisamento, fece loro sapere che il popolo aveva riconquistato per sè medesimo il diritto di governarsi, che saprebbe dirigersi senza i loro consigli, onde ordinava loro d'uscire all'istante dal palazzo[238]. Per tal modo coloro che avevano osato scatenare il popolo, sperando di farlo agire per sè medesimi, e di frenarlo a voglia loro, furono i primi a trovarsi delusi dalla loro fallace politica.
Avendo Michele rimossi tutti i magistrati stabiliti, e bruciate le borse onde dovevano cavarsi i nuovi, riunì i sindaci delle arti, e quelli del basso popolo per passare a nuove elezioni. Dispose da [171] prima che tre membri della signoria, compreso il gonfaloniere, sarebbero presi in ogni classe, cioè: le arti maggiori, le minori ed il popolo minuto[239]. Questa nuova signoria venne subito installata, e si occupò immediatamente di far cessare il disordine, minacciando la pena di morte a chiunque renderebbesi colpevole di saccheggio o d'incendio.
Il popolo, maravigliato di non raccogliere ulteriori frutti della sua vittoria, ripigliò ben tosto le armi e venne in piazza; chiese che i nuovi priori scendessero di palazzo per conoscere la volontà del popolo ed uniformarvisi. Michele di Lando rispose ai sediziosi, che senza sapere ancora ciò ch'essi domandavano, sapeva almeno che il loro modo di domandarlo era contrario alle leggi, e loro ordinava di deporre le armi, imperciocchè la dignità della signoria non permettevagli d'accordare nulla alla forza[240].
Il popolo ammutinato, vedendo la fermezza del gonfaloniere, ritirossi a santa Maria Novella per meglio organizzarsi. Colà [172] nominò otto commissarj, che incaricò delle cose del governo; prese molte risoluzioni contrarie a quelle della nuova signoria, ed all'indomani, 31 agosto, mandò deputati al palazzo per partecipare ai priori le prese disposizioni. Questi deputati esposero audacemente le loro commissioni; rinfacciarono a Michele di Lando la sua ingratitudine e la sua disubbidienza alla volontà del popolo, che lo aveva innalzato; gli dichiararono che lo stesso popolo lo spogliava al presente di quegli onori di cui abusava, e lo minacciarono di più severo castigo in caso di disubbidienza. Michele non potè soffrire più a lungo; sguainò la spada, ed avventandosi contro di loro, li ferì gravemente, poi li fece caricare di catene, ed imprigionare[241].
Michele di Lando prevedeva le conseguenze di quest'atto di collera; ma nei due giorni che i commissarj di santa Maria Novella ed il popolo ammutinato consumarono nel fare progetti di governo, il gonfaloniere si era occupato intorno ai mezzi di salvare lo stato. Aveva chiamati [173] presso di sè tutti i proprietarj, tutti coloro cui stava più a cuore il mantenimento dell'ordine. Aveva incaricato Benedetto Alberti di richiamare coloro che erano fuggiti in campagna, facendoli rientrare segretamente in città insieme ai più fidati contadini[242]. Avendo così ragunata una considerabile truppa, montò a cavallo per andare a sorprendere e disperdere gli insorgenti di santa Maria Novella. Nello stesso tempo questi, udito avendo il modo con cui erano stati trattati i loro deputati, eransi mossi per vendicarli. E volle l'accidente che mentre Michele di Lando andava verso santa Maria Novella, i Ciompi andassero verso il palazzo per diversa strada, di modo che non si scontrarono. Ma Michele tornò subito verso la piazza, che trovò ingombrata dai Ciompi di già occupati nell'assedio del palazzo. Gli attaccò vigorosamente, ed approfittando della circostanza che trovavansi in mezzo ai nemici, gli sgominò compiutamente; molti furono uccisi, molti altri fuggirono fuori di città, o si nascosero dopo avere deposte le armi[243].
Avendo in tal modo colla sua virtù e col suo coraggio gloriosamente soddisfatto ai doveri del suo ufficio, Michele di Lando uscì di carica il 1.º di settembre. Alla nuova estrazione, quando le compagnie delle arti, che si trovavano adunate in sulla piazza, videro uscire i tre priori ch'erano stati presi nel popolaccio, gli accompagnarono colle fischiate. Il partito dei Ciompi era vinto, più di mille cardatori di lana erano in fuga, e le compagnie dichiararono ch'esse non volevano nella signoria persone di così bassa condizione. La costituzione fu nuovamente cambiata, la nuova corporazione, stabilita per i Ciompi, abolita, e gli onori della repubblica divisi tra le arti maggiori e minori, in maniera che le prime somministrassero quattro priori alla signoria, e le altre cinque[244].
La disfatta de' Ciompi ridusse la repubblica sotto il potere di coloro che [175] avevano cominciata la rivoluzione; il quale partito diretto da Giorgio Scali, da Salvestro de' Medici e da Benedetto Alberti, contava i principali suoi partigiani nelle arti minori, ed aveva per avversarj i due partiti estremi. I Ghibellini, o, a dir meglio, coloro ch'erano accusati di esserlo, tornarono in favore; i Guelfi zelanti ed i capi dell'aristocrazia erano esiliati come i Ciompi, e la nobiltà ed il popolo malcontenti: non pertanto l'anno terminò senza nuova rivoluzione, sebbene i governanti fossero agitati da continui sospetti.
I pericoli del partito dominante venivano renduti più gravi dalle turbolenze del rimanente dell'Italia, come vedremo nel seguente capitolo. Quest'anno la guerra era scoppiata tra Venezia e Genova, e queste repubbliche corsero pericolo di distruggersi vicendevolmente a Chiozza. Era morto in quest'anno in Pavia, il 4 di agosto, Galeazzo Visconti, e lasciava erede della sua parte della sovranità di Milano, e della metà della Lombardia suo figlio, Giovani Galeazzo, conte di Virtù, la di cui ambizione e simulato carattere prepararono ben tosto nuove guerre[245]. [176] Finalmente il 29 novembre di questo medesimo anno l'imperatore Carlo IV morì a Praga dopo di avere dilatati da ogni banda i confini de' suoi stati ereditarj, mentre in pari tempo avea resa spregevole l'autorità imperiale. Portò seco, morendo, l'ammirazione entusiasta de' Boemi, mentre tutta la Germania malediva la sua debolezza e pusillanimità. Aveva ottenuto, prima di morire, di far innalzare suo figliuolo Wencislao alla dignità di re de' Romani[246].
Ma l'anno seguente 1379 vide il principio di una rivoluzione, che più da vicino interessava la repubblica fiorentina. Urbano VI aveva trovato in Giovanna di Napoli la sua più pericolosa nemica: aveva questa regina permesso che si elegesse ne' suoi stati l'antipapa Clemente VII, cui aveva promessi soccorsi ed accordato asilo, prima in Napoli, poscia a Gaeta; onde la guerra si era manifestata ai confini del regno tra i cristiani attaccati ai due rivali pontefici. Urbano VI, ch'era Napolitano, aveva molti partigiani tra quel popolo, sebbene fosse nemico [177] della corte. Una sommossa in Napoli atterrì la regina, ed obbligò Clemente VII a lasciare l'Italia per salvarsi co' suoi cardinali in Avignone. Nel tempo medesimo la compagnia de' Bretoni, che trovavasi al soldo della regina e di Clemente, fu disfatta a Marino da Alberico, conte di Barbiano. Questo gentiluomo romagnuolo aveva formato, sotto il titolo di san Giorgio, una compagnia d'Italiani, colla quale aveva preso servigio sotto Urbano VI. La compagnia di san Giorgio doveva ben tosto servire d'esemplare a tutti gl'Italiani che abbracciavano la professione delle armi, formare i grandi generali del susseguente secolo, e rialzare l'onore della milizia italiana. I suoi primi successi resero audace Urbano VI, cui serviva, onde egli si lusingò di spingere più in là le sue vendette, e di precipitare dal trono la stessa regina.
Giovanna di Napoli non aveva figliuoli, ed il marito che aveva sposato in quarte nozze non portava pure il titolo di re. L'infante d'Arragona, suo terzo marito, non aveva pure avuto questo titolo, ed ella aveva dato per successore a questi, il 25 marzo del 1376, Ottone, duca di Brunswick, che da molto tempo [178] soggiornava in Italia[247], ov'era tutore dei figliuoli del marchese di Monferrato. Il diritto di successione al regno di Napoli apparteneva a Carlo di Durazzo, figlio di quel Luigi che il re d'Ungheria aveva fatto morire nel 1348. Questo giovane duca era l'ultimo dei principi del sangue; imperciocchè tutta la posterità, altrevolte così numerosa, di Carlo d'Angiò, erasi spenta. Carlo di Durazzo era in oltre l'unico erede di Luigi re d'Ungheria, e questo vecchio monarca aveva presso di sè chiamato il suo successore per ammaestrarlo nell'arte della guerra[248]. In questa corte guerriera, ed in mezzo ad una nazione cavalleresca, erasi Carlo avvezzato a sprezzare il lusso e la mollezza di Napoli. Aveva in oltre adottato l'odio degli Ungari contro Giovanna, che loro sembrava lorda del sangue di Andrea suo primo consorte. Luigi d'Ungheria aveva perdonata la morte di suo fratello, ma non aveva dimenticato il delitto della regina; aveva abbracciato il partito d'Urbano, e risguardava quale [179] nuovo delitto l'appoggio che Giovanna dava a Clemente, ed i suoi sforzi per dilatare lo scisma. Perciò Urbano VI cercava dì persuadere il re d'Ungheria e Carlo di Durazzo ad attaccare la regina, a spogliarla del trono, ed a prendere possesso d'un'eredità, cui questi principi avevano diritto. Questo negoziato fu continuato con attività mentre Carlo di Durazzo trovavasi nella Marca Trivigiana, ove comandava le truppe che il re d'Ungheria aveva mandato contro Venezia in tempo della guerra di Chiozza.
Non solo la repubblica fiorentina ebbe sentore di queste negoziazioni, ma seppe in oltre che molti emigrati fiorentini si andavano adunando presso Carlo di Durazzo, invitandolo ad attraversare la Toscana per passare nel regno. Lo assicuravano che il suo avvicinamento basterebbe per rivoluzionare la loro patria, e gli promettevano di ajutarlo potentemente, tostochè avessero ricuperata l'antica loro influenza. Altri emigrati si adunavano a Bologna presso Giannuzzo da Salerno, uno de' capitani di Carlo di Durazzo, e questi ultimi cagionavano maggiore inquietudine ai Fiorentini. La signoria spedì due ambasciatori al principe per affezionarselo, o per lo meno [180] per ispiare gl'intrighi ne' quali cercavasi di ridurlo; ma questi ambasciatori, Tommaso Strozzi e Donato Barbadori, essendo di diverso partito, accrebbero colla contraddizione de' loro rapporti, quando furono di ritorno, l'inquietudine e diffidenza[249].
In novembre per altro fu scoperta una congiura formata dai Ciompi per occupare Figline ed altri castelli del territorio fiorentino. Molti uomini della minuta plebe furono in tale occasione puniti; ma gli artigiani domandavano caldamente che i giudici condannassero altresì gli aristocratici spossessati, i ricchi mercanti, dei quali era notissimo il malcontento, e che supponevansi avviluppati nelle svelate congiure[250].
Il 10 dicembre la signoria ebbe avviso che esisteva una nuova cospirazione, e Giovanni Acuto, sebbene non fosse allora al soldo della repubblica, promise di svelarne il segreto, contro una ricompensa di venti mila fiorini. Ma prima che si fosse conchiuso questo mercato, un conte Antonio Alberti svelò la medesima cospirazione per poche centinaja di scudi[251]. Dietro la sua deposizione vennero arrestati Pietro Albizzi, Filippo Strozzi, Giacomo Sacchetti, Donato Barbadori, Cipriano Mangioni, Giovanni Anselmi ed alcuni altri. Carlo Strozzi si salvò colla fuga dagli arcieri; Pietro Albizzi avrebbe potuto difendersi, se avesse accettate le offerte de' suoi amici adunati intorno a lui[252].
I prigionieri vennero tradotti innanzi ai rettori[253], che dopo averli esaminati, dichiararono, ciascheduno dal canto suo, di non trovare ragione per condannarli al supplicio. Non pertanto i consoli delle arti ed il popolo chiedevano ad alta voce [182] giustizia. «Questa volta, dicevan essi, non acconsentiremo che si facciano morire de' poveri, e persone senza stato; i soli grandi ed i ricchi devono perire.» Benedetto Alberti dichiarò, che se prima di mezzogiorno i rettori non facevano giustizia, la farebbe il popolo direttamente[254]. Queste parole riscaldarono di più il popolaccio, che nominò quattro cittadini per assistere i rettori e forzarli a fare giustizia. Nello stesso tempo venne posta una guardia innanzi al loro palazzo ed avanti alle prigioni per impedire che i prigionieri fuggissero, o si facessero smarrire. Durante la notte i giudici proseguirono l'interrogatorio de' prevenuti, alcuni de' quali si compromisero assai essi medesimi colle loro risposte per dar luogo ad una motivata condanna.
La mattina il podestà fece giustiziare due degli accusati, ed il capitano di giustizia condannò egualmente Filippo Strozzi e Giovanni Anselmi. Ma quando si stava per tagliar loro il capo, le spaventevoli grida d'una donna riempirono gli assistenti di terrore. Gli spettatori, le guardie, gli arcieri stessi fuggirono, non dubitando [183] che le truppe di Carlo di Durazzo non fossero entrate in città per liberare i prigionieri. Questi, rimasti soli nella piazza destinata alle esecuzioni, avrebbero potuto egualmente fuggire, tenendo dietro alla folla. Ma lo Strozzi risalendo con fierezza la scala del palazzo di giustizia ripetè due volte al suo giudice: «Dio voglia, capitano, che oggi tu abbia fatto il tuo dovere!» Frattanto il pubblico terrore fu ben tosto dissipato, ed i prigionieri, ricondotti sulla piazza, perdettero la testa[255].
Nell'istante del supplicio il popolo furibondo gridò gli altri, gli altri. Il capitano, Cante de' Gabrielli d'Agobbio, che non aveva trovato nel loro interrogatorio motivo di supplicio, si volse verso gli assessori datigli dal popolo: «Andate, disse loro, voi altri, fateli morire; per me, che li reputo innocenti, non ordinerò io mai il loro supplicio.» Il popolo, ch'era armato, rispose con furibonde grida: «se non li fa morire noi taglieremo a pezzi e lui e loro, ed i loro parenti, uomini, donne, fanciulli, e brucieremo le loro case[256].»
Mentre durava ancora il fermento, Pietro degli Albizzi fece sentire ai suoi compagni d'infortunio che il furore del popolo, e l'abitudine che presa aveva ne' due ultimi anni di far spargere il sangue loro, non lasciavano veruna speranza di salute; che se si sottraevano ad una sentenza giudiziaria, verrebbero immancabilmente con tutti i loro parenti sbranati dal popolo[257]. Perciò i prigionieri fecero dire al capitano d'indicare egli medesimo ciò che dovevano rispondere per essere condannati, dichiarando di essere apparecchiati a confessare tutto quanto si volesse. Il capitano rispose con fermezza, ch'egli non volea già far loro confessare delitti che non avevano commessi; ch'egli per conto suo non aveva verun timore, e ch'essi pure non dovevano averne; ma che parlassero a seconda della loro coscienza, poichè il nuovo interrogatorio cui dovevano soggiacere, deciderebbe della loro vita o della loro morte. I prevenuti si accusarono allora d'avere avute corrispondenze coi nemici dello stato, e somministrarono al giudice sufficienti motivi di condanna.
Non pertanto il capitano comunicò ogni cosa ai priori prima di far eseguire la sentenza, chiedendo il loro parere; ma questi risposero di essere stranieri all'amministrazione della giustizia, e che non volevano prendervi parte. Gli assessori del capitano, approfittando contro di lui della confessione de' prigionieri e del vile abbandono della signoria, lo posero in istato di non potere rispondere ai clamori del popolaccio, ed il venerdì mattina, colla coscienza lacerata dal dolore e dal rimorso, mandò i prevenuti al supplicio. Tutti avanti da morire protestarono di essere innocenti. Donati Barbadori, colui che tanto coraggiosamente aveva sostenuti gl'interessi della sua patria nel concistoro di Gregorio XI, non trovavasi nelle prigioni del capitano del popolo, ma in quelle dell'esecutore. Fu condannato dopo gli altri, e morì nella stessa maniera[258].
Altri meno illustri accusati furono in appresso condotti al patibolo. Costoro, che probabilmente erano i soli cospiratori, lungi dal negare la loro trama, felicitavansi, morendo, che il loro supplicio non impedirebbe [186] l'esecuzione de' loro progetti. Dichiararono di morire contenti per l'antico partito guelfo, e disposti a fare di nuovo ciò ch'erano accusati d'aver fatto[259].
Mentre il governo delle arti minori, per l'odio che portava ai nobili, agli antichi cittadini di parte guelfa, ed al minuto popolo, ricorreva per sostenersi a tali odiosi mezzi, e si macchiava del più puro sangue della nazione, gli esterni pericoli per lui crescevano a dismisura. Carlo di Durazzo, che aveva raccolti gli emigrati fiorentini nel suo campo, erasi finalmente determinato a fare l'impresa del regno di Napoli. Urbano VI pronunciò in principio del 1380 una sentenza di deposizione contro la regina Giovanna, sciolse i di lei sudditi dal giuramento di fedeltà, e fece contro di lei predicare la crociata[260]. Dal canto suo Carlo di Durazzo ebbe impulsi ancora più pressanti che non erano l'esortazioni del papa per risolversi alla guerra. La regina Giovanna meditava di escluderlo dalla di lei [187] successione; per riuscire nel quale divisamento trovò utile di adottare come suo figliuolo, invece di quello che gli aveva negato la natura, un principe guerriero. Scelse adunque il conte d'Angiò, fratello di Carlo V, re di Francia, e tutore di suo figlio Carlo VI. Sperava la regina che questo principe, della seconda razza dei re Angioini di Napoli, le assicurerebbe la potente protezione della Francia, e lo presentò a' suoi sudditi, con sue lettere patenti del 29 giugno 1380, come suo figliuolo e suo successore[261].
Dall'altra parte Giannuzzo di Salerno, che Carlo di Durazzo aveva mandato a Bologna con tre cento lance e tre cento Ungari, assoldò la compagnia di san Giorgio o degl'Italiani, che aveva da prima servito la Chiesa[262]. Con questa armata passò in Toscana, ragunando sotto le sue insegne tutti gli emigrati di questa provincia. Lusingavasi Giannuzzo d'operare col mezzo loro in Firenze ed in altre città rivoluzioni, che tornerebbero in autorità i suoi amici, e che gli aprirebbero i tesori delle repubbliche[263]. [188] I Fiorentini, per difendersi, presero al loro soldo Giovanni Acuto, ed adunarono sotto i di lui ordini un'armata di mille cinquecento lance[264].
Giannuzzo di Salerno corse gli stati di Siena, Perugia, Lucca e Pisa, e sforzò queste repubbliche a salvarsi colle contribuzioni dal saccheggio delle sue truppe. Attraversò altresì in varie parti il territorio fiorentino, ma Acuto lo seguì sempre assai da vicino, ed impedì ai suoi soldati di allontanarsi per rubacchiare.
Nello stesso tempo Carlo di Durazzo aveva attraversata la Venezia alla testa di cinque mila Ungari, ed era giunto a Rimini[265]. Fece domandare alla repubblica fiorentina del danaro per far l'impresa di Napoli, e la signoria gli rispose che per trattati e per antica amicizia era attaccata alla regnante casa di Napoli; che vedeva con dolore questa casa apparecchiata a dividersi ed a battersi; ch'ella non voleva farsi giudice tra parti e principi, cui era egualmente affezionata; e perciò pregava Carlo a ricevere un dono di quindici mila fiorini, non come [189] un sussidio contro Giovanna, ma come un imparziale attestato del suo affetto[266]. Carlo di Durazzo rifiutò il dono e rimandò corucciato gli ambasciatori. Il 14 settembre fu da' suoi partigiani introdotto in Arezzo, e permise agli emigrati che lo seguivano, di uccidere un deputato fiorentino, che trovavasi in questa città[267]. Dopo qualche atto ostile Carlo offrì egli medesimo di riconciliarsi coi Fiorentini. La repubblica aveva perduto l'antico suo vigore e la sua fermezza nella rivoluzione che aveva scacciata l'aristocrazia. Elia acconsentì il 7 ottobre di pagare a Carlo di Durazzo quaranta mila fiorini, che vennero diffalcati dalla somma che doveva pagare alla Chiesa[268].
Carlo di Durazzo, detto ancora Carlo della pace, passò dopo a Roma, per concertare col papa l'impresa del regno. Urbano VI gli accordò l'investitura del regno di Napoli sotto le stesse condizioni [190] e riserve che Clemente IV aveva imposte a Carlo I[269]. Chiese solamente per Francesco Prignano, suo nipote, che aveva nominato principe di Capoa, alcuni assai ragguardevoli feudi, che il candidato al trono accordò senza difficoltà[270]. Dopo queste convenzioni accettate da ambe le parti, Carlo di Durazzo fu a Roma coronato dal papa sotto il nome di Carlo III[271].
Erano omai due anni che il pretendente al trono di Napoli annunciava il suo progetto d'invasione, e conduceva le sue truppe qua e là per l'Italia. Con una ben più rapida marcia e con più ragguardevoli forze l'antico Carlo d'Angiò aveva, nel 1266, conquistato il regno, di cui la di lui pronipote doveva in breve essere spogliata; ma d'altra parte Giovanna non aveva nè i talenti, nè il coraggio di Manfredi. La leggerezza del popolo napolitano, il suo odio contro il principe francese, che la regina aveva adottato, e la preferenza da tutti gl'Italiani accordata ad Urbano VI, avevano alienati da Giovanna i baroni ed i popoli. In oltre [191] ogni spirito militare era affatto spento in quel regno, ed il disordine delle finanze non permetteva di supplire con truppe mercenarie al difetto delle nazionali. Perciò Ottone di Brunswick, il quarto marito della regina, non potè ragunare che un pugno di soldati, che appostò sulla strada di san Germano per impedire al nemico d'avvicinarsi a Napoli; ma quando, il 18 giugno, Carlo gli presentò la battaglia, fu costretto di piegare sopra Cancello e Maddaloni, posizione che la superiorità del nemico obbligollo ad abbandonare pochi giorni dopo. Venne allora ad accamparsi sotto Napoli, fuori di porta Capuana, mentre Carlo giugneva per diversa strada al ponte della Maddalena tra il Vesuvio e la città[272].
I Napolitani mandarono rinfreschi al nuovo re, e l'invitarono ad entrare nella capitale. Ottone vedeva ad ogni istante diminuirsi la sua armata, ed era ridotto a tale di non poter battersi col conquistatore, e di non poter difendere contro di lui una città disposta ad aprirgli le porte. Dopo avere esercitata qualche vendetta contro il popolaccio di Napoli, prese la [192] strada d'Aversa, mentre Carlo III entrava in Napoli il 16 luglio del 1381 verso sera, senza aver data una sola battaglia per l'acquisto del regno[273].
La regina Giovanna erasi chiusa in Castel nuovo, ossia del palazzo, ma non aveva avuta la precauzione di vittovagliarlo. Carlo lo assediò, ed il 20 agosto la regina dovette capitolare. Promise di consegnare entro quattro giorni tutte le sue fortezze, e la medesima sua persona in mano a Carlo di Durazzo, se entro tale termine non riceveva soccorso. Il duca Ottone, suo marito, che fino allora aveva risparmiati i pochi suoi fedeli compagni per valersene in più felici circostanze, quand'ebbe avviso della capitolazione, risolse di combattere, sebbene fuori di speranza di vincere. Il quarto giorno venne ad attaccare Carlo di Durazzo, ma fu dalla sua armata abbandonato ai nemici nel principio della battaglia: il marchese di Monferrato, suo pupillo, fu ucciso combattendo ai suoi fianchi, ed egli fatto prigioniere. La regina Giovanna, perduta l'ultima sua speranza, si diede lo stesso giorno in mano [193] al suo cugino il principe di Durazzo. Malgrado i legami della parentela, malgrado il rispetto che potevano ispirare il suo rango e la sua età, venne dal vincitore duramente trattata. Dopo trentaquattro anni di regno, subì la pena del delitto commesso in gioventù. Si dice che il 12 maggio del 1382 fu soffocata sotto un letto di piume nel castello di Muro, nella basilicata, ov'era stata rinchiusa. E si soggiunge che il vecchio re d'Ungheria consigliasse egli medesimo questo supplicio per avere una tarda vendetta della morte di suo fratello Andrea[274].
La catastrofe della regina Giovanna cagionò a Firenze un profondo dolore. I cittadini di questa repubblica erano stati sempre devoti della casa d'Angiò dopo il suo stabilimento nel regno di Napoli: amavano la regina Giovanna come nipote del re Roberto, e come ultimo rampollo della sua famiglia; e l'amavano a cagione del bene che le avevano [194] fatto, piuttosto che per quello che potevano da lei sperare. Essi temevano l'uso che un principe più destro e più intraprendente potrebbe fare delle forze della più bella parte dell'Italia. Vero è che il nuovo sovrano non cercò d'impadronirsi delle contee di Forcalquier e di Provenza, le quali passarono al figlio adottivo di Giovanna: ma Carlo III era l'erede riconosciuto di Luigi d'Ungheria. Prima delle conquiste de' Turchi l'Adriatico apriva tra questi due regni una pronta e facile comunicazione; e chi avesse potuto disporre del valore ungaro e della ricchezza di Napoli, poteva rovesciare a posta sua l'equilibrio d'Italia. Coloro che a quest'epoca governavano Firenze sapevano che Carlo di Durazzo era circondato da emigrati fiorentini, e ch'egli aveva più volte preso parte alle cospirazioni dei nemici della repubblica. Ciò nondimeno gli spedirono una solenne ambasciata per conciliarsi il suo favore; e perchè in allora Carlo non pensava che a stabilirsi nella sua nuova conquista, si mostrò disposto ad allearsi colla repubblica. Le arti minori, che governavano Firenze, non avrebbero veduto il loro potere rovesciato da uno straniero monarca, se non si fossero esse medesime [195] apparecchiata la propria caduta con un vizio della loro amministrazione.
Due cittadini d'antica e potente famiglia avevano avuto gran parte nella rivoluzione, che aveva posta la repubblica sotto la dipendenza del basso popolo; erano questi Giorgio Scali e Tommaso Strozzi. Personali motivi di odio o di vendetta gli avevano tratti in questo partito, ed altri personali motivi d'ambizione e di cupidigia continuavano a dirigere la loro condotta. Agivano essi come se diventati fossero i padroni della repubblica, e le vessazioni, che andavano esercitando contro i loro nemici, ben si confacevano all'arroganza de' loro discorsi ne' consigli, ed all'insolente loro condotta[275].
Benedetto Alberti, che non meno di loro aveva contribuito alla rivoluzione, e la di cui condotta in diverse circostanze era stata riprovevole, non aveva per altro cercato di acquistare colle immense sue ricchezze una maggiore influenza nel governo del suo paese. Appassionato per la libertà e per la democrazia, [196] le aveva stabilite con riprovevoli mezzi, e le aveva mantenute con peggiori modi, coi supplicj. Per altro nel cuor suo erasi conservato fedele ai principj d'umanità e di giustizia, e come è costume delle anime generose, non si vedeva mutar partito, che per passare dal più forte al più debole; e quando i suoi amici furono vittoriosi, non dissimulò quanto gli riuscissero spiacevoli la loro ingiustizia ed il loro orgoglio[276].
Un'ultima violenza di Giorgio Scali obbligò Benedetto Alberti a dichiararsi scopertamente contro di lui; e perchè questa offendeva egualmente i tribunali ed il popolo, fu cagione della ruina dello Scali e del suo partito. Tra le creature dello Scali e dello Strozzi eranvi alcune persone, che facevano il mestiere di delatore, i quali, palesando sempre nuove congiure, accrescevano il terrore del popolo ed il credito de' suoi capi. Uno di costoro, avendo accusato Giovanni Cambi, ragguardevole cittadino, fu riconvenuto di calunnia con evidenti prove, onde il capitano del popolo fece imprigionare il delatore, e volle assoggettarlo alla pena [197] che aveva cercato di far cadere sopra l'innocente. Giorgio Scali impiegò tutto il credito che aveva per salvare la sua creatura, e perchè le sue preghiere non avevano effetto, di concerto con Tommaso Strozzi, invase il palazzo del capitano del popolo con un branco di gente armata, e fattosene padrone il 13 gennajo del 1382 lo abbandonò al saccheggio, e liberò il suo prigioniere[277].
Una così impudente violazione delle leggi risvegliò l'universale indignazione, ed il popolo si staccò affatto dalla causa dei due demagoghi, cui fino a tal epoca erasi consacrato. Il capitano recossi a restituire ai priori la bacchetta del comando, dicendo che l'onor suo non permettevagli d'amministrare più oltre la giustizia in una città ove così colpevoli violenze ne turbavano il corso; ed i priori, che sospiravano essi medesimi l'istante di ritirare il governo dalle mani del popolaccio, giudicarono questa occasione favorevole per tentarlo. Risposero al capitano del [198] popolo, che doveva riprendere l'autorità che voleva deporre, ed adoperarla nel vendicare l'affronto che aveva ricevuto. Benedetto Alberti concorse colla signoria all'abbassamento dei capi audaci, che oltraggiavano la libertà. Tommaso Strozzi, prevenuto a tempo del pericolo che gli sovrastava, ebbe tempo di fuggire, ma Giorgio Scali fu arrestato in propria casa, e venti ore dopo perdette il capo sul patibolo in mezzo alla folla, che applaudiva al suo supplicio.
Giorgio Scali si lagnò avanti di morire, perchè la sua malvagia fortuna e l'odio di taluno de' suoi concittadini l'avessero persuaso ad accarezzare un popolo, che non aveva nè fede nè riconoscenza. Avendo in appresso veduto tra i cittadini armati Benedetto Alberti, gridò; «E tu, Benedetto, tu consenti adunque che io provi ciò che non avrei io mai permesso che tu provassi, se io fossi ove tu sei? Ma io ti annunzio che questo il quale è l'estremo giorno delle mie infelicità, sarà il primo delle tue.» Così morì in mezzo ai suoi nemici armati, che si rallegravano della sua morte[278].
La predizione dello Scali si avverò; le antiche famiglie risguardarono la di lui morte come il segno d'una nuova guerra civile; la città risuonò del grido viva la parte guelfa, e questo nome, che non era attaccato a verun principio politico, ma soltanto ad affezioni ereditarie indicava allora gli aristocratici. Effettivamente il 21 gennajo, i nobili, i ricchi mercanti, e l'intero partito degli Albizzi occuparono la pubblica piazza, e crearono una balìa di cento cittadini per riformare lo stato[279].
Tutte le leggi rivoluzionarie emanate ne' tre precedenti anni vennero annullate da questa balìa, tutti coloro che il 18 gennajo 1378 erano stati esiliati o dichiarati ribelli furono ristabiliti ne' loro antichi diritti. Si abolirono le sentenze d'ammonizione, si rilasciarono i prigionieri di stato, e le due corporazioni, ch'erano state create per le arti inferiori, furono disciolte[280]. L'antica fazione guelfa venne ristabilita in tutte le sue preeminenze, e portate le sue bandiere per [200] tutta la città[281]. Le arti minori vennero escluse dal gonfalone di giustizia, e dopo molte risse, che si andarono rinnovando in tutto il corso dell'anno tra i grandi, le arti ed il popolo, la parte delle arti minori fa infine ridotta al terzo degli onori pubblici[282].
Ma il nuovo governo non fu ne' suoi cominciamenti meno rigoroso di quello che lo era stato il precedente de' plebei. Esiliò i capi di molte illustri famiglie, che avevano spalleggiato il minuto popolo, ed esiliò pure molti popolani[283]; confinò a Chiozza Michele di Lando, cui la patria doveva mostrarsi più riconoscente, avendola egli salvata dal furore dei Ciompi[284]; per ultimo perseguitò Benedetto Alberti, che più fedele a' suoi principj che al suo partito, s'accostava sempre a quello dell'opposizione contro tutte le tirannidi. In molte circostanze il governo manifestò la diffendenza o l'odio [201] che gli portava. Ma non fu che nel 1387 che una nuova balìa, incaricata di riformare lo stato e di ristringere l'aristocrazia osò all'ultimo d'esiliarlo[285]. Benedetto Alberti prima di partire chiamò presso di sè tutti i suoi parenti, e vedendo che piangevano, disse loro: «Voi vedete, miei amici, come la fortuna me colpisce e voi minaccia; io non ne sono per altro sorpreso, e voi pure non dovete esserlo, imperciocchè tale fu sempre la sorte di coloro che in mezzo a molti malvagi, vollero conservarsi giusti, e che si sforzarono di sostenere ciò, che i più cercavano di rovesciare. L'amore della mia patria mi avvicinò a Salvestro de' Medici, lo stesso amore mi allontanò da Giorgio Scali, come lo stesso sentimento eccitò il mio odio contro coloro che hanno presentemente il governo in mano. Non avendo questi persona che li punisca, non vogliono pur soffrire chi ardisce biasimarli. Io acconsento a liberarli col mio esilio dal timore che hanno di me, e di tutti coloro che detestano la loro [202] tirannide, e la loro scelleratezza; percuotendo me per altro hanno minacciati tutti gli altri.
«Io non ho compassione di me medesimo, perchè la patria serva non può rapirmi gli onori della patria ancora libera; e la memoria della passata mia vita mi sarà più cagione di godimento, di quel che possa recarmi dispiaceri l'esilio che io m'apparecchio a subire. Mi crucia soltanto la sorte della mia patria, caduta sotto il giogo dell'aristocrazia, e sottoposta al suo orgoglio ed alla sua avarizia. Mi affligge ancora la sorte vostra; imperciocchè i mali, che oggi finiscono per me, cominciano per voi, e forse vi opprimeranno assai più, che me non hanno oppresso. Io vi esorto frattanto a preparare le anime vostre a sostenere virtuosamente tutti gl'infortunj, e poichè siete minacciati da molte sventure, vi ammonisco a diportarvi in maniera, che quando sarete colpiti, sappia ognuno, che non siete infelici per colpa vostra, e che soffrite come si conviene a uomini virtuosi[286].» Benedetto Alberti partì in [203] appresso per terra santa, visitò in abito di pellegrino il sepolcro del Salvatore, e quando stava per tornare in Europa fu sorpreso da grave infermità, e morì a Rodi[287]. Le sue ossa, trasportate a Firenze, ebbero onorata sepoltura.
E per tal modo nel giro di tre anni il furore delle fazioni aveva privata Firenze de' suoi più illustri uomini di stato. Il corso della natura le aveva di già tolti prima alcuni de' suoi cittadini, che coll'alta loro riputazione letteraria non avevano forse meno contribuito alla sua gloria. Petrarca era morto d'apoplesìa il 18 luglio del 1374 in Arquà, presso Padova, alle falde dei monti Euganei. Era questa una casa solitaria accordatagli da Francesco di Carrara in allora signore di Padova[288]. Il Boccaccio morì poco dopo il 21 dicembre del 1375, e tutta la società de' letterati con cui Petrarca aveva vissuto, quella società che l'abate di Sade ha fatta conoscere nelle sue voluminose memorie, era pressochè tutta distrutta. Ma la repubblica fiorentina [204] in mezzo alle sue rivoluzioni non aveva perduto il germe che fa nascere e moltiplica i grandi uomini. Malgrado il supplicio de' cittadini, che avevano amministrata la repubblica con tanta gloria dal 1360 al 1378, nuovi uomini di stato si presentarono sulla scena per mostrare nel susseguente periodo nè minori talenti nè minori virtù. A Petrarca ed ai suoi amici erano succeduti nuovi letterati. Coluccio Salutati di Stignano era stato nominato cancelliere della comunità il 25 aprile del 1375, ed esercitò trent'anni questa carica con molta eloquenza e molto ingegno. Era solito dire il Visconti, che più temeva l'effetto d'una lettera di Coluccio, che non le armi di mille cavalieri fiorentini[289]. Leonardo Bruno, detto l'Aretino, era nato nel 1369, ed era destinato ad essere uno de' più eloquenti e più giudiziosi storici, che abbia prodotti l'Italia. La generazione che entrava sulla scena del mondo quando l'altra si ritirava, doveva succedergli nella gloria delle lettere, delle arti e delle virtù politiche.
Affari dell'Oriente. — Guerra dei Genovesi in Cipro. — Quarta guerra di Venezia e di Genova; presa e ripresa di Chiozza. Pace di Torino.
1372 = 1381.
Lo stesso anno, reso celebre dal principio del gran scisma di occidente e dalla sanguinosa rivoluzione dei Ciompi a Firenze, vide altresì scoppiare la sanguinosa guerra di Chiozza, la quarta delle guerre marittime tra Venezia e Genova, e quella che espose queste due potenti repubbliche agli estremi pericoli. Fuori d'Italia e lontano dagli avvenimenti trattati ne' decorsi capitoli dobbiamo cercare la cagione di questa accanita guerra.
Tutta l'esistenza delle repubbliche marittime è poco legata alla storia del rimanente dell'Italia. Le signorie di Venezia e di Genova sembravano d'ordinario straniere alle rivoluzioni delle province limitrofe, mentre tutte le loro cure erano volte alle regioni del Levante. Il loro commercio e le loro colonie nella [206] Turchia ed in Grecia erano la principale sorgente delle ricchezze del popolo e della potenza dello stato; e le passioni pubbliche e private non sembravano eccitate che dagl'interessi e dalle rivoluzioni di queste lontane contrade.
La situazione delle repubbliche marittime le isolava, per così dire, e loro permetteva di risguardarsi come assolutamente staccate dal continente italiano. Le montagne che circondano la Liguria, separavano questa provincia dalla Lombardia, siccome le lagune ne separavano Venezia. In un tempo in cui la cavalleria pesante formava il nervo delle armate, riusciva presso che impossibile la conquista d'un paese in cui i cavalli non potevano agire. Le cure adunque che le due repubbliche si prendevano delle cose del Levante non venivano in verun modo interrotte da quelle della loro sicurezza. La regione, da cui ritraevano le ricchezze e la sussistenza loro, era sempre l'emporio del commercio del mondo. La barbarie dei Turchi non aveva avuto sopra le province del loro dominio una influenza tanto funesta, quanto l'ebbe nelle susseguenti età la loro non curanza. I loro stati venivano ancora arricchiti da alcune manifatture [207] e dal commercio delle Indie; gli Arabi ed i Greci, che loro erano soggetti, non avevano ancora rinunciato al lusso che ha bisogno di commercio, nè all'industria che lo alimenta.
I Turchi erano oramai i veri signori dell'Oriente, e di già chiamavansi mari di Turchia le acque dette per lo innanzi mari della Grecia. Il decadimento dell'impero d'Oriente era stato rapidissimo. Ne' primi anni del XIV secolo il vecchio Andronico aveva perduta tutta l'Asia minore, e tutti i possedimenti de' Greci al di là del Bosforo e dell'Ellesponto. Circa il 1350 Cantacuzèno introdusse i Turchi in Europa per impiegarli come ausiliari nelle guerre civili, ed il suo successore Paleologo, ch'era stato suo pupillo e suo rivale, perdette nel suo regno dal 1355 al 1391 tutte le province d'Europa, che tutte vennero in potere di Amurat I. «Chiudi le porte della tua città per regnare entro il circondario delle tue mura», faceva dire il successore d'Amurat al figliuolo di Giovanni Paleologo, «poichè tutto quanto trovasi al di fuori appartiene a me[290].»
La stessa Costantinopoli non era quasi meno dipendente dai Turchi di quello che lo fossero le campagne da questi occupate. Giovanni Paleologo, perduto nel libertinaggio, cercava con vili piaceri di allontanare il pensiero della ruina del suo impero[291]. Tributario e vassallo del Sultano, erasi obbligato a servire sotto i di lui ordini, o farsi rappresentare nel campo de' Turchi da uno de' suoi figliuoli. Mentre che d'accordo con Amurat combatteva contro gli Ungari, Andronico, suo primogenito, prese parte ad una congiura con uno de' figli d'Amurat. Il progetto di questi ambiziosi giovani pare che fosse quello di balzare dal trono nel tempo medesimo il sultano e l'imperatore; ma le loro trame vennero scoperte da Amurat, il quale condannò alla morte suo figlio, ed ordinò al monarca greco di punire il proprio. Giovanni Paleologo non era convinto del delitto del principe, ma la viltà sua gli fece far quello che la collera, o la sete del sangue non gli suggerivano di fare; fece abbacinare suo figliuolo, e suo nipote, ancora fanciullo: [209] e destinò suo successore Manuele, il secondo de' suoi figli[292].
Mentre l'impero greco abbracciava ancora molte migliaja di leghe quadrate, ci dovette sorprendere l'audacia e la potenza della colonia genovese di Galata; ma nella presente epoca in cui trovavasi ridotto quasi ad una sola città, e che il suo capo non si ricusava di soggiacere a qualunque avvilimento, quando l'ordinava il sultano, più non dobbiamo maravigliarci vedendo i Genovesi di Galata tenere in bilico tutte le forze dell'imperatore, e l'affetto loro essere cagione in Costantinopoli di frequenti rivoluzioni: la parte ch'essi presero negli intrighi della corte greca fu la causa principale della guerra di Chiozza.
Il Paleologo aveva chiusi suo figlio e suo nipote nella torre di Anema, vicina a Galata. I Genovesi, mossi a pietà di questi due infelici principi, li fecero fuggire dopo due anni di prigionia. Il supplicio non era stato eseguito che a metà, ed i medici italiani [210] riuscirono a far ricuperare uno degli occhi ad Andronico, ed a rendere a suo figliuolo Giovanni una losca e debole vista[293]. Quando questi due principi più non si trovarono nell'assoluta dipendenza cui erano obbligati dalla cecità, i Genovesi li dichiararono capaci di regnare e loro offrirono di riporli in trono, purchè Andronico loro cedesse in ricompensa l'isola di Tenedo, la quale, posta essendo all'imboccatura dell'Ellesponto, signoreggia quest'importante passaggio, ed apre o chiude l'ingresso della Propontide e del mar Nero. Il trattato fu segnato in agosto del 1376. I Genovesi attaccarono in allora Costantinopoli e furono ajutati dai nemici del regnante imperatore, onde posero sul trono il cieco Andronico, mentre che Giovanni ed i suoi due figli vennero chiusi nella stessa prigione da cui era stato levato Andronico[294].
Dopo questa rivoluzione i Genovesi spedirono due galere per prendere possesso di Tenedo, al quale oggetto erano [211] muniti degli ordini che Andronico dirigeva al governatore dell'isola. Ma questi essendo, come pure gli abitanti, affezionato al deposto imperatore, ricusò di riconoscere i due ciechi monarchi, chiuse il suo porto ai Genovesi, e vedendo che colle sole sue forze non potrebbe a lungo difendersi contro di loro, chiese soccorso a Donato Tron, ammiraglio della flotta veneziana, che ritornava dal mar Nero, e gli consegnò Tenedo colle sue fortezze. Il senato di Venezia che tutta conosceva l'importanza di quest'isola, vi mandò all'istante due provveditori con forte guarnigione, e le somme occorrenti per mettere i castelli in buono stato di difesa. I Genovesi irritati persuasero Andronico a far imprigionare il balio con tutti i Veneziani stabiliti a Costantinopoli, e somministrarono all'imperatore dodici galere per intraprendere l'assedio di Tenedo. Per altro eglino non dichiararono la guerra ai Veneziani, e non presero parte all'attacco che in qualità d'ausiliarj de' Greci[295].
In un altro regno del Levante i Genovesi sostenevano una guerra, alla quale dovevano a vicenda prendere parte anche i Veneziani. Pietro di Lusignano, re di Cipro, era stato ucciso nel 1372 dai suoi fratelli a Nicosia, sua capitale; suo figliuolo ancora fanciullo, chiamato Pietro, come il padre, era stato disegnato per succedergli. I Veneziani ed i Genovesi, che avevano in quell'isola potenti stabilimenti, pretendevano gli uni e gli altri di occupare il posto d'onore nella cerimonia della coronazione. Gli zii del giovanetto re decisero la disputa in favore de' Veneziani[296]; ma i Genovesi ricusarono di stare al loro giudizio, e recaronsi al palazzo colle armi sotto il loro mantello, per occupare a forza il posto cui credevano d'avere diritto. Gli zii del re, avuto avviso del loro divisamento, li fecero arrestare; si ritennero come prove del fatto le armi che portavano nascoste, e senza formarne regolare procedura vennero precipitati dalla sommità di una torre. I furibondi Ciprioti non si limitarono a far morire i Genovesi [213] ch'eransi recati al palazzo, ma infierirono contro tutti i loro compatriotti sparsi nell'isola; tutti furono uccisi e saccheggiate le loro case. Ad un solo Genovese gravemente ferito in fronte, e creduto morto, riuscì di fuggire onde portare la notizia dell'accaduto alla sua patria[297].
I Genovesi impazienti di vendicare tanto oltraggio, mentre armavano una formidabile flotta, spedirono immediatamente Damiano Catani ne' mari di Cipro con sette galere, per far sentire ai Ciprioti i primi effetti della loro collera. Il Catani ottenne vantaggi assai maggiori di quelli che potevansi sperare da così debole squadra. Con subiti ed impreveduti attacchi egli occupò Nicosia il 16 giugno del 1373, e Pafo il 23 dello stesso mese[298]. Settanta giovani donne di quest'isola, altre volte consacrate a Venere, caddero in suo potere in un'imboscata, ma malgrado il malcontento de' suoi marinaj rimandò queste greche bellezze ai loro padri o mariti, senza permettere [214] che fosse fatto loro il menomo oltraggio. «Non è già per far prigionieri di questa sorta che la nostra patria ne ha qui spediti,» rispose a coloro che lo rimproveravano di non saper usare della vittoria.
Mentre Damiano Catani con tale condotta ispirava ai Ciprioti la più alta idea della sua moderazione e della sua virtù, eccitava colle sue vittorie e colle sue negoziazioni una reciproca diffidenza tra i membri del consiglio di reggenza. Sospettavasi che avesse qualche intelligenza coi grandi, e non si osava prendere contro di lui veruna vigorosa misura. Intanto Pietro di Campo Fregoso, fratello del doge di Genova, giunse avanti a Famagosta il 3 ottobre del 1373 con trentasei galere e quattordici mila uomini da sbarco. Il giorno 10 dello stesso mese Famagosta fu presa, ed il giovane re co' suoi zii ed il suo consiglio caddero in potere de' vincitori, e l'isola intiera fu soggiogata. Per altro i Genovesi castigarono con moderazione l'offesa che loro aveva poste le armi in mano, non avendo condannati a pena capitale che tre dei gentiluomini che avevano diretta la carnificina de' loro compatriotti: mandarono a Genova uno degli zii del re, ed i [215] figli dell'altro, che avevano il titolo di principi d'Antiochia, con sessanta ostaggi della principale nobiltà; lasciarono una guarnigione a Famagosta per tenere in suggezione tutta l'isola; ma vendettero il suo regno a Pietro di Lusignano, con obbligo di pagare un annuo tributo alla repubblica di quaranta mila fiorini[299].
Il re di Cipro ed il suo popolo venuti in potere del conquistatore, ben dovevano aspettarsi, dopo così grave offesa, un più rigoroso trattamento. Ma Pietro di Lusignano non poteva perdonare ai Genovesi nè il corso pericolo, nè la dipendenza in cui si rimaneva. Tosto ch'egli seppe che la contesa pel possesso di Tenedo poteva accendere la guerra tra i Veneziani ed i Genovesi, cercò l'alleanza de' primi, e concertò con loro i mezzi di scacciare le truppe straniere che occupavano Famagosta[300].
Nello stesso tempo il re di Cipro sposava Violanta, figlia di Barnabò Visconti, [216] signore di Milano, ed approfittava di tale parentado per procurare nuovi nemici ai Genovesi. Chiese che i cento mila fiorini, che Barnabò Visconti dava in dote a sua figlia, fossero da questo signore impiegati nella guerra della Liguria[301]; ed in fatti, ad istigazione del Visconti, i marchesi del Carreto si ribellarono, e tolsero alla repubblica Castelfranco, Noli ed Albenga[302].
I Genovesi attribuivano all'odio ed alla gelosia de' Veneziani tutte le guerre che avevano in Grecia, in Cipro e nelle montagne della Liguria; e dal canto loro cercavano di risvegliare il coraggio, o di aguzzare l'odio de' nemici di Venezia, onde opporre alla lega formata contro di loro un'altra lega d'eguali forze.
S'addirizzarono perciò da prima a Francesco da Carrara, signore di Padova, la di cui inimicizia contro i Veneziani aveva cominciato nel 1356 colla guerra degli Ungari. Questo principe aveva somministrate vittovaglie al re Luigi, quando attaccò la repubblica, la quale non avea [217] mai più perdonato al Carrara questo cattivo ufficio. Il signore di Padova, sempre esposto ai risentimenti della repubblica, cercò d'acquistare, con un ardito attentato, un'influenza ne' consiglj della repubblica che moderasse l'odio loro. I suoi confidenti lo avvisavano ogni mattina di ciò che si era fatto in senato nel precedente giorno; e ciò si poteva ben fare, trovandosi Padova a sole venti miglia da Venezia, e il territorio padovano confinante colla laguna. Una notte questo signore fece rapire dai suoi gondolieri nelle proprie case tutti i senatori veneziani che avevano contro di lui perorato con maggiore veemenza; li fece condurre a Padova nel suo palazzo, e loro ricordando gli offensivi discorsi contro di lui tenuti, li minacciò di farli morire. Per altro in appresso si addolcì, loro accordando la vita e la libertà, a condizione che giurassero di seppellire quest'avvenimento in un profondo silenzio, e di essergli più favorevoli nelle loro deliberazioni. Il Carrara gli avvisò congedandoli, che gli sarebbe più agevole il farli punire d'uno spergiuro con un colpo di pugnale di quello che gli fosse stato il rapirli dalle loro case e dalla loro patria. Li fece in appresso [218] trasportare di notte sulla spiaggia di Venezia.
La religione del giuramento o il timore persuasero i senatori veneziani a mantenere la promessa; e non fu che dopo molti anni che quest'attentato venne rivelato dai banditi medesimi ch'erano stati impiegati dal signore di Padova. I Veneziani provvidero con maggiore vigilanza alla sicurezza della loro città, e determinarono di vendicarsi del terrore che Francesco da Carrara aveva inspirato a molti di loro[303].
Essi attaccarono lo stato di Padova in ottobre del 1372. Il re d'Ungheria, che non aveva scordati i buoni ufficj di Francesco di Carrara, spedì Stefano Laczk vayvoda di Transilvania in soccorso di questo signore. Ma il vayvoda fu fatto prigioniero in una battaglia che egli diede ai Veneziani il primo luglio del 1373, ed i suoi soldati ricusarono di combattere finchè non fosse redento il loro generale. Francesco da Carrara trovossi perciò sforzato dai suoi alleati medesimi a firmare il 23 di settembre una pace umiliante. Suo figlio venne a [219] Venezia a chiedere in ginocchioni perdono al doge di averlo ingiustamente attaccato, e promise di pagare in dieci anni trecento cinquanta mila fiorini per le spese della guerra[304].
Quest'ultima umiliazione aveva raddoppiato l'odio del signore da Carrara, onde l'alleanza offertagli dai Genovesi parvegli un'opportuna occasione di vendetta, e l'accolse avidamente. Prima di manifestare le sue intenzioni, fece in Venezia medesima immensi approvvigionamenti di sali e di droghe, onde i suoi sudditi non avessero bisogno per cinque anni di commercio marittimo. In pari tempo entrò in trattati con tutti i principi gelosi delle ricchezze di Venezia, oppure offesi dal di lei orgoglio. Questo popolo, egli loro diceva, unisce ad una illuminata ed uniforme politica tanto coraggio e tante ricchezze, che s'egli acquista una volta qualche stabilimento in terra ferma, non tarderà a signoreggiare l'Italia collo stesso orgoglio con cui domina di già sui mari. Il re d'Ungheria, il patriarca d'Aquilea, signore del Friuli, i fratelli della Scala, signori di Verona, [220] il comune d'Ancona, il duca d'Austria e la regina di Napoli, mossi dalle persuasioni di Francesco da Carrara, accettarono l'alleanza dei Genovesi, e si disposero ad entrare in guerra contro i Veneziani[305].
La guerra preparata da tutte queste negoziazioni scoppiò in fatti nel 1378 dall'una all'altra estremità della Lombardia. Barnabò Visconti, che teneva al suo soldo i principali capitani avventurieri, mandò la compagnia francese della Stella nella Liguria. Quest'armata attraversò la Riviera di Ponente, guastò la Polsevera e s'avanzò fino a san Pier da Arena. Ritirossi in seguito mediante una grossa somma di danaro che il doge di Genova mandò a' suoi capi[306]. Giovanni Acuto ed il conte Lucio Lando avevano contemporaneamente condotta un'altra armata di Barnabò nello stato di Verona[307]. Intanto Giovanni Obizzi, generale di Francesco da Carrara, faceva delle [221] scorrerie nello stato veneziano, ed il vayvoda di Transilvania guastava il territorio trivigiano[308]. In ogni luogo si combatteva, in ogni luogo le campagne erano abbandonate al sacco, ed intanto non accadeva sul continente verun fatto decisivo.
Le armate di terra non erano composte che di mercenarj indifferenti alla causa che sostenevano; ma sopra le flotte delle due repubbliche combattevano personalmente i cittadini di Genova e di Venezia, e l'odio inveterato raddoppiava il loro accanimento. È noto che nella prima campagna i marinaj dispersi dal commercio su tutti i mari non avevano potuto essere richiamati in servigio della loro patria; erano armate poche galere, ed anche queste trovavansi sparse in più lontane parti. Aaron Stroppa comandava dieci vascelli genovesi ne' mari di Costantinopoli; egli attaccò Lenno, ossia Stalymene, che apparteneva ai Veneziani, e l'occupò; assediò ancora Tenedo, ma la guarnigione veneziana rese vani tutti i suoi tentativi[309].
Un'altra flotta di dieci galere doveva, sotto il comando di Luigi del Fiesco, proteggere la navigazione dei Genovesi nel mare di Toscana. I Veneziani mandarono nello stesso mare Vittore Pisani, il più illustre ed il più riputato de' loro ammiragli, con quattordici galere. Le due squadre si scontrarono in luglio presso la riva d'Anzio. Una burrasca sollevava gigantesche onde, che andavano a spezzarsi contro il promontorio di Nettuno. Le galere, costrette ad orzare e sempre in pericolo di rompere sulla costa, cessavano di manovrare per combattere con accanimento, ed il furore degli uomini superava quello degli elementi; ma i Genovesi meno numerosi furono alla fine perdenti; una delle loro galere naufragò sulla costa; cinque furono prese da Pisani, e quattro si salvarono colla fuga[310].
La giovane sposa del re di Cipro, figlia di Barnabò Visconti, fu condotta nella sua isola da sei galere veneziane, le quali, colà giunte, si associarono a cinque [223] galere catalane che Pietro di Lusignano aveva prese al suo soldo, e strinsero insieme d'assedio Famagosta, mentre il re di Cipro le secondava con una armata di dieci mila uomini. Dopo una accanita zuffa i Veneziani penetrarono nel porto, e vi bruciarono alcuni vascelli genovesi; ma quando vollero in seguito dare l'assalto alle mura della città, vennero respinti con tanta perdita, che abbandonarono il porto di cui si erano impadroniti ed ancora il mare di Cipro[311].
I due popoli si offendevano ancora più gravemente nel golfo di Venezia. Luciano Doria, grande ammiraglio de' Genovesi, vi aveva condotte ventidue galere; ed inoltre aveva trovati a Zara sussidj d'ogni genere, che il re d'Ungheria aveva fatti apparecchiare pei suoi alleati. D'altra parte Vittore Pisani, richiamato dal senato veneziano aveva ricondotta nel golfo una flotta di venticinque galere per proteggere il commercio della sua patria, ed i convogli di vittovaglie ch'ella tirava dalla Puglia. Il Pisani ritolse al re [224] d'Ungheria le città di Cattaro, di Sebenico, e di Arbo, che gli erano state cedute in fine della precedente guerra[312]. Nello stesso tempo Luciano Doria occupava Rovigno nell'Istria, saccheggiava e bruciava Grado e Caorle, e spargeva il terrore fino nel porto di Venezia[313].
Vittore Pisano che già da lungo tempo teneva il mare, in gennajo del 1379 fece chiedere alla signoria la licenza di ricondurre la sua flotta a Venezia per lasciar riposare la ciurma. Il senato ebbe timore che Doria, rimasto in qualche modo padrone del golfo, bloccasse nel porto la flotta veneziana, onde ricusò di ricevere il suo ammiraglio, e Pisani fu forzato di passare l'inverno battendo le coste dell'Istria. La malattia si manifestò ne' suoi equipaggi, ed alcune migliaja di marinaj, che sempre in faccia a Pola sospiravano di prendere riposo su quella riva ospitale, morirono nelle loro galleggianti prigioni, e trovarono sepoltura sotto le onde[314]. Il Pisani era finalmente [225] entrato nel porto di questa città dopo avere fatto un nuovo viaggio nella Puglia, quando Luciano Doria comparve il 29 maggio del 1379 colla sua flotta di ventidue galere in distanza di tre miglia. I marinaj veneziani, impazienti di terminare la loro lunga cattività, obbligarono il loro ammiraglio ad uscire dal porto colle sue ventiquattro galere per venire a battaglia[315]. Si rimpiazzarono alla meglio i marinaj rapiti dalla malattia facendo montare sulla flotta molti abitanti di Pola con alcune truppe da sbarco[316]. Il Pisani tentò invano di supplire col suo valore alla debolezza degli equipaggi. Attaccò con furore i Genovesi, e l'ammiraglio Doria fu ucciso in principio della battaglia; ma Ambrogio Doria, suo fratello, prese subito il comando della flotta. I Genovesi animati dal desiderio di vendicare il loro ammiraglio raddoppiarono i loro sforzi, ed in un'ora e mezza fu decisa la battaglia: quindici galere veneziane caddero in mano dei nemici con mille novecento prigionieri, tra i quali [226] contavansi ventiquattro membri del maggiore consiglio; e Vittore Pisani, che si era rifugiato a Venezia con soli sette vascelli, fu posto subito in prigione, quasi fosse colpevole della sua cattiva fortuna[317].
La vittoriosa flotta dei Genovesi venne bentosto portata al numero di quarantasette galere da Pietro Doria, che la signoria mandò nel golfo per succedere a Luciano. Il nuovo ammiraglio si avanzò fino a san Nicolò di Lido, una delle aperture della laguna, per concertare le sue misure col signore di Padova; dopo comparve il 6 agosto innanzi alla porta di Chiozza colla flotta da lui comandata[318].
La laguna che separa Venezia dal continente, e che alla caduta dell'impero romano salvò le isole ch'ella racchiude dall'invasione de' Barbari, è altresì provveduta dalla banda del mare d'una naturale fortificazione. Una linea d'isole lunghe e strette formano un bastione contro la furia del mare. In verun luogo [227] ha più di mille passi di larghezza, mentre la sua lunghezza è di trentacinque miglia. Viene chiamata arzere, argine, e su quest'argine sono costrutte le famose muraglie detti i muracci. Sei aperture, che dall'alto mare comunicano alla laguna, hanno tagliato l'argine in tante isole prolungate, ognuna delle quali aperture tiene luogo di porto[319]. Alcuni più stretti canali tagliano altresì le grandi isole; e più a mezzogiorno le aperture di Brondolo e del Fossone, che servono di foce alla Brenta ed all'Adige, comunicano pure colla laguna.
Il senato di Venezia, dopo la disfatta di Pola, erasi affrettato di chiudere tutte le aperture della laguna. Venne tesa una triplice catena a traverso ad ogni porto, che di tratto in tratto era difesa da sandoni, grandi vascelli immobili carichi di macchine da guerra e di soldati. In alcuni luoghi i Veneziani aggiunsero a queste catene una specie di fortificazione galleggiante composta di grandi travi artificiosamente legate assieme, le quali sembravano rendere ogni avvicinamento impossibile[320].
Pietro Doria dopo avere corsa tutta la lunghezza dell'argine risolse d'attaccare di preferenza l'apertura di Chiozza lontana venticinque miglia da Venezia. Francesco da Carrara, informato del divisamento dell'ammiraglio genovese, aveva preparate a Padova cento barche armate, che fece scendere verso Chiozza per i canali della Brenta, e questa flottiglia attaccò per di dietro la catena che chiudeva il porto e le fortificazioni galleggianti, mentre il Doria l'attaccava di fronte. Il sandone o vascello immobile, ch'era posto tra i due nemici, non potè fare lunga resistenza, ed i soldati, che lo difendevano, fuggirono il 12 agosto del 1379 dopo avervi appiccato il fuoco[321].
Essendosi in tal modo resi padroni dell'ingresso della laguna, i Genovesi assediarono Chiozza per assicurarsi del possedimento del suo porto. Francesco da Carrara mandò metà della sua armata nell'isola di Brondolo, sul di cui lato interno è posta Chiozza: i Genovesi sbarcarono parte delle loro truppe per assecondarlo, e l'armata degli assedianti, [229] contando le forze di terra e di mare, ammontava a ventiquattro mila uomini. I Veneziani avevano introdotti tre mila uomini in Chiozza, i di cui abitanti facevano pure il servigio militare. Un sobborgo, detto Chiozza piccola, fu ben tosto preso dagli assedianti. Questo sobborgo comunicava colla città per mezzo d'un ponte lungo un quarto di miglio, che attraversava bassi fondi e lagune. I Veneziani occupavano ancora questo ponte il 16 agosto, quando un marinajo genovese riuscì a condurvi di sotto un battello incendiario. Le fiamme ed il fumo, che si videro improvvisamente sollevarsi, fecero credere ai Veneziani che il ponte, su cui trovavansi, avesse preso fuoco, onde fuggirono, sorpresi da panico timore, e furono inseguiti così da vicino che non ebbero tempo di alzare dietro loro il ponte levatojo. I Genovesi ed i Padovani entrarono con loro in Chiozza, e se ne resero padroni; ottocento sessanta Veneziani erano morti combattendo; tre mila ottocento furono fatti prigionieri[322].
I Genovesi presero possesso di Chiozza a nome di Francesco di Carrara, e la dichiararono a lui soggetta. Era questa [230] una delle condizioni del trattato fatto con lui. Quest'acquisto assicurava oramai ai Genovesi una comunicazione co' nemici de' Veneziani sul continente, e loro apriva colla laguna la stessa città di Venezia[323], di cui Chiozza era come un bastione avanzato. Fu perciò estrema la costernazione de' Veneziani, ed il popolo affollavasi intorno al palazzo di san Marco, e piangendo supplicava la signoria di domandare la pace ad ogni costo, e di salvare in tal modo la repubblica dalla sua estrema ruina[324]. Le virtù repubblicane e la costanza ne' pericoli, sembravano appartenere in Venezia esclusivamente alla nobiltà, che sola governava lo stato. Il doge Andrea Contarini oppose il suo coraggio e la sua fermezza all'abbattimento del popolo desolato; ma egli stesso conosceva tutto il pericolo che soprastava alla sua patria, e spedì tre ambasciatori a Chiozza a domandare la pace ai Genovesi.
Il consiglio di guerra, in cui questi deputati furono introdotti, era preseduto da Pietro Doria e da Francesco da Carrara. [231] I Veneziani confessarono la propria disfatta, ed invitarono i loro rivali a non abusare della vittoria. «Il doge ne ha dato questo foglio bianco (dissero essi presentando una carta a Francesco da Carrara) affinchè vi facciate scrivere voi medesimi le condizioni che vi piacerà dettare; egli tutte le accetta preventivamente, e non si riserva che una sola cosa, che la libertà veneziana rimanga intatta.» Il signore di Padova parve premuroso di conchiudere una pace di cui dovevano essere così vantaggiose le condizioni; ma Pietro Doria, che voleva affatto distrutta la rivale della sua patria, persuase i suoi alleati a ricusar di trattare, incaricandosi egli di rispondere agli ambasciatori, e loro disse: «Vi giuro per Dio, signori Veneziani, che voi non avrete mai pace col signore di Padova o colla nostra repubblica, se prima non abbiamo noi medesimi messa una briglia ai cavalli di bronzo che sono sulla vostra piazza di san Marco. Quando gli avremo imbrigliati colle nostre mani, noi ben sapremo renderli quieti[325].»
Quando fu riferita a Venezia questa risposta insultante tutto il popolo ad altro [232] più non pensò che a difendersi contro nemici che non lasciavano nulla sperare. Frattanto avevasi successivamente notizia che Terra nuova, Cavarzere e Mont'Albano, fortezze poste alla foce dell'Adige o ai confini del padovano, eransi arrese senza combattere, atterrite dalla rotta di Chiozza; che Loredo e Torre delle Bebe erano state prese pochi giorni dopo; e finalmente che il forte delle Saline era bloccato; questo per altro coraggiosamente si difese fino alla fine della guerra[326].
Il 24 agosto furono viste avanzarsi ventiquattro galere genovesi e quaranta barche armate dalla banda del Lido; la stessa città di Venezia era minacciata di uno sbarco; ma nell'istante in cui i Genovesi vollero prender terra furono respinti con un vigore inaspettato, e dopo la loro ritirata i Veneziani pensarono a fortificare i canali pei quali i loro nemici erano giunti in vista della capitale[327].
Un solo uomo aveva l'intera confidenza de' marinaj e del popolo di Venezia. Uscito da una famiglia nella quale i [233] trofei marittimi sembravano ereditarj, Vittore Pisani veniva riputato il degno successore di Niccolò Pisani, che nella precedente guerra avea combattuto coi Genovesi al Bosforo, e gli aveva rotti in Sardegna. Ma quest'ammiraglio, reso dal senato responsabile dell'insubordinazione de' suoi equipaggi, e dei capricci della sorte, era stato gettato in prigione dopo la disfatta di Pola. Stava egli chiuso sotto le volte che sostengono il palazzo di san Marco dalla banda del porto. Ode all'improvviso il popolo ammutinato invocare la signoria e circondare il palazzo, gridando: «Se volete che noi combattiamo, rendeteci Vittore Pisani, nostro ammiraglio; viva Vittore Pisani!» egli allora carico di catene, si strascina verso una delle finestre della sua prigione: «fermatevi, grida egli, Veneziani, voi non dovete mai gridare che viva san Marco[328]!» Frattanto la signoria fece uscire Pisani di prigione e lo nominò capitano del mare. Molti cittadini si offrirono all'istante di armare galere a loro spese per servire sotto di lui, e tutto il popolo si affrettò [234] di equipaggiare una nuova flotta. Mentre si stava allestendo, il Pisani fece fortificare tutti i canali che conducono a Venezia, come pure l'argine di Malamocco; fece chiudere con paloni ed antenne galleggianti il canal grande e quello della Giudecca; stabilì barche di guardia tutt'all'intorno di Venezia, e pose di stazione agli sbocchi de' primarj canali, cocche, o grandi vascelli rotondi, carichi d'artiglierie. Le armi a fuoco erano finalmente diventate di uso comune, e per la prima volta nelle guerre d'Italia si videro adoperate in tutte le battaglie[329].
Il re d'Ungheria, informato de' prosperi avvenimenti de' suoi alleati, aveva mandato Carlo di Durazzo con dieci mila uomini ad attaccare il territorio di Treviso; ma Durazzo, invitato da Urbano VI a conquistare il regno di Napoli, desiderava di terminare la guerra di Venezia. Entrò dunque in trattato col doge, e gli permise d'approvvigionare Treviso, di modo che per tutto quest'anno i Veneziani non ebbero sul continente perdite importanti[330].
In mezzo ai loro disastri i Veneziani ricevettero qualche conforto dal Levante. In sul finire del precedente anno avevano mandato in Corso Carlo Zeno, uno de' loro più esperti ufficiali, che per lo innanzi aveva comandato con gloria le truppe di terra nel distretto di Treviso. Zeno uscì di Venezia con otto galere[331] e passò in mezzo alla flotta genovese senza esserne impedito. Egli aveva tolti ai Genovesi molte navi mercantili nei mari di Sicilia, e negoziato con prospero successo presso Giovanna di Napoli, per renderla alleata della sua patria. Erasi in appresso diretto verso la Liguria, affinchè i Genovesi tremassero per sè medesimi nello stesso momento in cui la vittoria di Pola loro ispirava maggiore arroganza; diede la caccia ad alcune galere nemiche nel golfo della Spezia, e bruciò o abbandonò al sacco Porto Venere, Panigaglia e molti altri ricchi villaggi situati lungo la riviera del Levante[332]. Dopo avere incusso un profondo terrore a tutti gli abitanti di quelle coste, Zeno aveva [236] fatto vela verso la Grecia. La repubblica gli aveva mandata una galera, che lo raggiunse a Livorno; altre sei ne trovò egli a Modone, che avevano ajutato Giovanni Paleologo a risalire sul trono imperiale. Esse avevano scacciati da Costantinopoli suo figlio e suo nipote; e questi due principi ciechi regnavano presentemente a Selymbria[333]. Finalmente quattro altre galere veneziane erano stazionate a Tenedo, le quali si posero altresì sotto gli ordini di Carlo Zeno. Quest'ammiraglio con una flotta, diventata formidabile, andò a cercare a Beryta le merci che i Veneziani avevano accumulate in questo porto della Siria pel valore di cinquecento mila fiorini, e che essi non ardivano di far venire in Europa. Giunto ne' mari di Cipro ebbe la notizia della presa di Chiozza, e l'ordine di ricondurre la flotta nel golfo per difendere la sua patria[334].
I Veneziani riponevano ogni loro speranza nella flotta che Zeno aveva adunata. [237] Di già cominciavano a mancare di vittovaglie; i Genovesi chiudevano la via del mare, e Francesco Carrara quella di terra, e non introducevansi dal Trivigiano approvvigionamenti in Venezia che a traverso di mille pericoli[335]. Il popolo disperato domandava di essere condotto alla battaglia, piuttosto che esposto a morire di fame. Alcune galere disarmate trovavansi ancora nel porto dell'arsenale, altre in costruzione sui cantieri erano quasi terminate, ma il tesoro era esausto, e per armare una nuova flotta bisognava ricorrere al patriottismo del popolo. La signoria promise d'inscrivere nel ruolo della nobiltà i trenta plebei che avrebbero mostrato maggiore zelo, e di accordare a coloro che verrebbero in seguito esenzioni e privilegi, trasmissibili ai loro discendenti. Il doge Andrea Contarini, che aveva settantadue anni, scese sulla piazza di san Marco, portando tra le sue mani il gonfalone ducale, e dichiarando che monterebbe egli medesimo sulle galere che faceva armare. Invitò poscia il popolo a difendere con lui la giusta causa della patria e della pubblica [238] libertà[336]; e malgrado la ruina del commercio, e l'universale povertà, si videro giugnere in folla al palazzo facchini carichi di danaro, ch'essi deposero ai piedi della signoria; e coll'ajuto di queste spontanee contribuzioni, prima della fine d'ottobre, venne compiutamente armata una flotta di trentaquattro galere[337].
Ma Vittore Pisani non si affrettava di condurre contro i Genovesi i vascelli che si erano posti in mare. La loro ciurma era composta d'artigiani, che sebbene nati in mezzo alle acque, appena conoscevano la navigazione. L'ammiraglio adunque gli esercitò ne' canali della Giudecca e di san Niccolò di Lido, aspettando che giugnesse Carlo Zeno, sul quale pareva che si fondasse tutta la fortuna dello stato[338].
I Genovesi concepirono qualche inquietudine quando videro esercitarsi una [239] nuova flotta nelle lagune. Concentrarono le loro forze per non essere sorpresi o divisi, ritirarono da Malamocco e da Poveglia le truppe che vi avevano poste, diminuirono il raggio di Chiozza, di cui accrebbero le fortificazioni; e per ultimo disarmarono venti galere per dare, durante l'inverno, qualche riposo agli equipaggi. Appostarono in seguito tre vascelli per guardare il porto, e ne spedirono ventiquattro nel Friuli, a cercare vittovaglie; perchè a Chiozza mancava il frumento come a Venezia; e queste due città, collocate in mezzo alle lagune, si affamavano a vicenda, e loro giugnevano i convogli con eguale difficoltà.
Il doge Contarini, dopo due mesi di ammaestramento, credette di poter condurre i suoi marinaj alla pugna, e nella notte del 23 dicembre 1379 s'avanzò verso Chiozza con trentaquattro galere, due grandi Cocche, sessanta barche armate e più di quattrocento battelli[339]. La flotta genovese mandata sulle coste del Friuli per cercare vittovaglie era di già rientrata nel porto di Chiozza, e si andavano scaricando le munizioni [240] che aveva portate; le quarantasette galere comandate dal Doria erano tutte chiuse nello stesso seno, ed i Genovesi senza verun sospetto non pensavano che que' nemici, cui avevano negata una vergognosa pace, pensassero ad attaccarli[340].
Il doge aveva sbarcati ottocento soldati stranieri, e quattro mila Veneziani innanzi a Chiozza piccola; ma queste truppe vennero respinte con perdita. Nello stesso tempo aveva spinta una delle sue cocche nel canale che dall'alto mare comunica colla laguna, e che vien detto il porto di Chiozza, con intendimento di fermarla sul luogo e di fortificarla per chiudere l'ingresso del porto. Questa cocca fu vigorosamente attaccata dai Genovesi e presa, dopo un'ostinata resistenza, da sette galere che l'avevano circondata. Ma i Genovesi nel caldo della zuffa ebbero l'imprudenza d'appiccarvi il fuoco: la cocca bruciò fino a fior d'acqua, e colò in seguito a fondo all'ingresso del canale. I Veneziani fecero giugnere in sul momento alcuni battelli carichi di pietre, che colarono [241] a fondo nello stesso luogo, ed approfittando d'un accidente che loro era meglio riuscito che i proprj divisamenti, terminarono in poche ore di chiudere il canale o porto di Chiozza, naturale uscita della flotta de' loro nemici. Scesero dopo ciò sulla punta di terra detta la Lova, cui i Genovesi non potevano più abordare, e v'innalzarono un ridotto per difendere i lavori che avevano fatto alla bocca del porto[341].
La città di Chiozza, fabbricata come Venezia in mezzo alle acque, viene separata dall'alto mare dall'isola lunga o Arzere di Brondolo. Il canale che circoscrive quest'isola al nord, è quello che dicesi porto di Chiozza; un altro canale termina la stessa isola a mezzodì, e si chiama porto di Brondolo. La laguna, meno larga presso di Chiozza che presso Venezia, trovasi tagliata da minore quantità di canali. I Genovesi, seguendo il canale di Lombardia, potevano presentarsi avanti Venezia, o uscire per qualcuna delle aperture settentrionali della laguna; [242] potevano inoltre uscire a mezzogiorno per il porto di Brondolo, e riguadagnare l'alto mare: ogn'altra uscita era loro chiusa. Vittore Pisani, che si era avanzato egli medesimo per il canale di Lombardia, e che l'occupava colla sua flotta, colò a fondo molte barche per chiuderlo ai nemici. Uscì dopo ciò dalla laguna e venne ad appostarsi all'ingresso del canale di Brondolo per togliere ai Genovesi quest'ultima uscita.
La sorte della guerra era attaccata all'intrapresa di Vittore Pisani: con marinai senza sperienza e scoraggiati dai rovesci de' loro compatriotti aveva intrapreso a bloccare una flotta vittoriosa e superiore di numero. Vero è ch'egli approfittava della circostanza che i Genovesi non potevano manovrare nel canale o presentarsi in linea di battaglia; ma d'altra parte egli era costretto di tenersi all'imboccatura del porto sotto il fuoco dell'artiglieria, che i Genovesi avevano posta nel convento di Brondolo. Se un colpo di vento, una burrasca, o il fuoco nemico lo allontanavano alcune ore da questa stazione, la flotta genovese usciva in alto mare, e la sua decisa superiorità le assicurava la più compiuta vittoria. Il doge Andrea Contarini per ispirare [243] il suo coraggio al soldati giurò in loro presenza di non tornare a Venezia prima d'aver presa Chiozza, ed il Pisani appostò due delle sue galere nello stesso canale di Brondolo; nel tempo stesso cercò di sorprendere un ridotto situata sull'altra riva del canale, sulla punta del Fossone, in faccia al convento che occupavano i Genovesi; ma i suoi lavoratori a Fossone erano a mezza portata delle bombarde di Brondolo, e perdevano molta gente; mancavano i viveri all'armata, i suoi soldati dovevano sempre essere sotto le armi; le due galere che avvicendavano per custodire l'ingresso del canale trovavansi ogni momento esposte a colare a fondo sotto il fuoco de' nemici, e le altre, che manovravano a non molta distanza dalla riva, correvano rischio di rompere sulla medesima ad ogni colpo di vento. I soldati ed i marinaj ugualmente scoraggiati domandavano caldamente di essere ricondotti a Venezia; erano stati lungo tempo lusingati colla speranza dell'imminente arrivo di Carlo Zeno, e della flotta che ottenuti aveva tanti vantaggi in Levante; ma nè volevano, nè potevano più aspettarla in così pericolosa situazione, onde il doge fu costretto di promettere che se il 1.º di gennajo [244] 1380 non giugneva il desiderato soccorso, leverebbe l'assedio di Chiozza. In tal caso Venezia sarebbe stata a vicenda assediata dai Genovesi, e di già si stava consultando, se convenisse abbandonare la capitale e trasportare in Creta la sede della repubblica[342].
Lo stesso giorno indicato per prendere questa funesta determinazione fu quello che apportò la salute alla repubblica. La mattina del 1.º gennajo 1380 si vide comparire innanzi al porto di Venezia Carlo Zeno con quattordici galere cariche di approvvigionamenti da guerra e da bocca e con ricchezze d'ogni maniera[343]. Ne' susseguenti giorni quattro galere d'Arbo e di Candia vennero ad unirsi alla flotta veneziana, portandola, con quella del Pisani, al numero di 52 vele.
In un solo giorno fu rimessa l'abbondanza sui mercati di Venezia, riempiuto il tesoro dello stato, rincorati i soldati ed i marinaj, ed assicurata ai Veneziani la superiorità delle forze marittime, di [245] modo che se i Genovesi avessero potuto uscire di Chiozza, invece di trionfare facilmente de' loro nemici, non sarebbersi probabilmente sottratti ad una disfatta. Frattanto Vittor Pisani riprendeva con ardore il progetto di chiudere i Genovesi in Chiozza; egli li battè in terra il 6 gennajo alla punta della Lova[344]; e pochi giorni dopo terminò il ridotto che stava innalzando all'estremità del Fossone. Colà pose due grosse artiglierie, una delle quali lanciava pietre del peso di cento novantacinque libbre e l'altra di cento quaranta. Caricavansi in tempo di notte questi micidiali stromenti, che di que' tempi chiamavansi bombarde, e si scaricavano la mattina. Sembra che non si facesse più d'una scarica in ventiquattr'ore, e le pietre probabilmente lanciate verso il cielo, come fanno le nostre bombe, descrivevano una parabola; perciò spessissimo non toccavano il luogo determinato, ma quando coglievano nel segno cagionavano una prodigiosa ruina. Le fortezze non avevano nè bastioni, nè terrapieni che potessero sostenerne i colpi, perciocchè, fino a tale epoca, muraglie di conventi o di chiese, torri e campanili, [246] avevano sostenuti lunghi assedj; ma tutt'ad un tratto si videro interi pezzi di muraglie rovesciati da un solo colpo di bombarda, e schiacciati i difensori sotto le loro ruine. Pietro Doria, l'ammiraglio genovese, era venuto a Brondolo per assicurare la difesa di così importante posto. Il 22 gennajo un colpo di bombarda rovesciò sopra di lui un pezzo di muraglia del convento, e l'uccise con suo nipote; all'indomani un altro pezzo della muraglia dello stesso convento schiacciò ventidue soldati[345]. Napoleone Grimaldi successe al Doria nel comando de' Genovesi chiusi in Chiozza. I Veneziani, protetti dall'artiglieria del Fossone, avevano colate a fondo due galere nel canale di Brondolo, e avendole unite assieme con grosse catene avevano interamente chiusa quest'uscita agli assediati. Il Grimaldi tentò d'aprirsi una nuova comunicazione coll'alto mare, scavando dietro il convento di Brondolo un canale che doveva tagliare l'argine, e supplire ai due porti che avevano chiusi i Veneziani.
Il doge per impedire questo lavoro risolse di tentare una discesa nell'isola di Brondolo. Egli aveva prese al suo soldo due compagnie di mercenarj, in tutto di cinque mila uomini, e pensava di affidarne il comando a Giovanni Acuto, ch'era stato chiamato a servire la repubblica. Ma non arrivando così famoso avventuriere, fu posto alla testa delle truppe di terra Carlo Zeno, mentre Vittore Pisani s'incaricò d'attaccare con trentasei galere il convento di Brondolo.
Zeno il 19 febbrajo sbarcò sei mila uomini a Chiozza Piccola, e subito attaccò la testa del ponte che unisce questa sobborgo alla città. Otto mila Genovesi all'incirca si avanzarono su questo ponte per difendere il loro ridotto, mentre avevano fatti uscire mille cinquecento uomini della guarnigione di Brondolo per prendere i Veneziani alle spalle. Zeno gettossi con tanta rapidità su quest'ultimo corpo, che non solo lo ruppe, ma gli tagliò la ritirata sopra Brondolo. I fuggitivi precipitaronsi allora sul ponte di Chiozza, dove scontraronsi nella colonna genovese che marciava avanti, e le comunicarono il loro spavento. La testa rinculava mentre le ultime file avanzavano [248] ancora, e questi due opposti movimenti accumularono talmente la folla in mezzo al ponte, che non potè sostenerne il peso e si ruppe. Molti Genovesi si annegarono nel canale, altri molti, rimasti sulla parte del ponte separato dalla città, furono uccisi o fatti prigionieri. A questa perdita tenne dietro ben tosto quella del convento di Brondolo rimasto quasi privo di difensori, poi quella di dieci galere che Pisani tolse ai Genovesi avanti ai mulini di Chiozza[346].
Dopo ciò i Genovesi trovandosi assediati non più nell'isola di Brondolo ma nella medesima città di Chiozza, cominciarono a sentire la mancanza di vittovaglie; e dovettero il giorno dopo distribuire le razioni con maggiore economia: fecero allora uscire di Chiozza le donne ed i fanciulli, che vennero umanamente accolti dai Veneziani.
La signoria di Genova, informata del pericolo in cui trovavasi a Chiozza la [249] sua flotta e l'armata, mandò per terra Gaspare Spinola, onde prendere il comando della città[347], mentre che Matteo Maruffo partiva il 18 gennajo con 13 galere per il golfo Adriatico[348]. Maruffo prese cammin facendo sette galere veneziane, che trovò cariche di viveri a Manfredonia. In pari tempo Francesco Carrara fece entrare in Chiozza quaranta barche cariche di vittovaglie, avendogli un'escrescenza d'acqua aperti de' passaggi, che fin allora erano stati chiusi[349]. Combattevasi continuamente intorno a Chiozza, ed il valore de' Genovesi punto non si smentiva ne' rovesci; ma le comunicazioni rendevansi ogni giorno più difficili, i viveri si andavano consumando, ed i Veneziani, tenendosi sicuri della vittoria, ricusavano la resa di Chiozza a prezzo della quale lo Spinola voleva salvare la sua flotta[350].
Come i Veneziani avevano con impazienza aspettato cinque mesi prima la flotta di Carlo Zeno, così i Genovesi, [250] assediati a Chiozza, sospiravano l'arrivo di Matteo Maruffo. Questi aveva chiamati sotto la sua insegna i vascelli genovesi sparsi nel Mediterraneo, e dopo essersi rinfrescato a Zara, comparve il 6 di luglio avanti al porto di Chiozza. Ma i Veneziani avevano determinato di non esporre all'incertezza d'una battaglia un vantaggio omai sicuro. Essi non conservarono che venticinque galere armate, e le ritennero entro le lagune di cui avevano fortificate tutte le aperture: il rimanente de' loro marinaj e soldati di marina vennero distribuiti sopra varie barche ai confini dello stato di Padova. In tal modo veniva tolta ogni comunicazione ai Genovesi di Chiozza tanto per terra che per mare, e mentre Maruffo cercava con insulti d'ogni genere di risvegliare il risentimento de' Veneziani per determinarli ad una battaglia, questi non gli opponevano che il silenzio ed il riposo[351].
Matteo Maruffo condusse allora la sua flotta a Fossone, ed occupò il passaggio [251] pel quale i Veneziani tiravano da Ferrara i loro convogli di vittovaglie. Vittore Pisani uscì subito dal porto di Venezia per riavere quest'importante comunicazione, offrì ancor egli la volta sua la battaglia a Maruffo e lo trasse in alto mare. Ma quando, allontanandolo da Fossone, ebbe dato tempo di entrare nella laguna ad un convoglio di barche che aspettava da Ferrara, manovrò con tanta accortezza, che riguadagnò la laguna, senza che il nemico potesse raggiugnerlo[352].
Ne' sei mesi che aveva durato l'assedio, i Genovesi avevano successivamente perdute tutte le loro barche; ma questi industriosi marinaj ne fabbricarono altre colle tavole e con varj mobili trovati in città. Il 15 di giugno fecero forza di superare la palafitta de' Veneziani per riavere i vascelli de' loro compatriotti, ai quali avevano ordinato di recarsi a poca distanza dall'Arzere. Ma venivano essi sopravvegliati dagli assedianti, e furono attaccati nel più difficile momento, mentre attraversavano il Fossone; e malgrado [252] la loro resistenza, i battelli che avevano fatti con un'industria straordinaria, e ne' quali era riposta tutta la loro speranza, vennero bruciati mentre uscivano dal porto[353].
Dopo questo sgraziato esperimento, gli assediati, pressati dalla fame, chiesero nuovamente di capitolare: essendo state rifiutate tutte le loro proposizioni, il 21 giugno si videro forzati d'arrendersi a discrezione. Di quarant'otto galere, che si erano chiuse in Chiozza, non ne rimanevano più di diecinove in buono stato; la guarnigione, che montava al di là di quattordici mila uomini, era ancor essa diminuita assai, e perchè i Veneziani licenziarono senza taglia i soldati avventurieri ch'erano al soldo de' Genovesi, non condussero a Venezia più di quattro mila prigionieri, abbandonando ai soldati vincitori tutto il bottino che trovarono nella città[354].
La sommissione di Chiozza salvava l'esistenza della repubblica, ma non terminava la guerra: Maruffo aveva ricevuto rinforzi da ogni banda, e comandava nell'Adriatico una flotta genovese di trentanove galere, colla quale minacciava tutte le città marittime de' Veneziani. Era esaurito il tesoro di san Marco, le sue rendite quasi tutte prese dai nemici, i particolari avevano per difesa della patria fatti prodigiosi sforzi, che non potevano più lungamente sostenere; si erano sguarnite tutte le città suddite per fortificare la capitale; e Francesco di Carrara ne aveva approfittato per istrignere cogli Ungari l'assedio di Treviso, riducendo questa città a grandi estremità. Matteo Maruffo conquistò successivamente Trieste il 26 giugno, Capo d'Istria il 1.º luglio ed Arbo l'8 agosto. Finalmente i Veneziani perdettero nello stesso tempo un uomo, che apprezzavano assai più che le migliori città, l'ammiraglio Vittore Pisani, morto a Manfredonia, ov'erasi recato a cercare vittovaglie. L'idolo de' marinaj e l'eroe del popolo mai non erasi mostrato più grande che nella sventura, nè più modesto ed umano che dopo la vittoria. La morte d'un solo uomo non aveva mai cagionato in Venezia il [254] più profondo dolore, sebbene la repubblica conservasse ancora un altro sostegno, un grand'uomo non meno caro al popolo, Carlo Zeno, che fu nominato successore del Pisani[355].
Durante l'inverno gli alleati contro di Venezia ascoltarono proposizioni di pace e si aprì un congresso a Cittadella. Il re d'Ungheria, i Genovesi, Francesco di Carrara ed il patriarca d'Aquilea esposero le loro domande: la repubblica di Venezia sembrava apparecchiata ai più grandi sacrificj, onde accettò quasi tutte le proposizioni de' suoi nemici; ma invece d'inspirar loro colla sua moderazione più pacifiche disposizioni, non tardò ad avvedersi, che ogni concessione faceva nascere una nuova domanda; onde il 20 aprile del 1381 ordinò ai suoi ambasciatori di ritirarsi, e ricominciarono le ostilità[356].
Disperando i Veneziani di salvare Treviso, che fino dal cominciamento della guerra trovavasi assediata da Francesco [255] da Carrara e dagli Ungari, la cedettero gratuitamente il 2 maggio a Leopoldo duca d'Austria, che fin allora aveva mostrato di fare causa comune coi loro nemici, ma che in tale occasione si disgustò col Carrarese, cui toglieva una conquista che questi da tanto tempo così avidamente desiderava[357]. I Veneziani, abbandonando in tal modo l'ultimo possedimento che avevano in terra ferma, si liberavano da ogni inquietudine per gli affari del continente, onde dirigere tutte le forze loro verso la guerra marittima. Carlo Zeno era uscito dalle lagune con tredici galere, e sedici altre ne aveva trovate nei mari della Grecia, che si posero sotto le sue insegne. D'altra parte Gaspare Spinola comandava una flotta di trentuna galere genovesi. Ma i due ammiragli, dividendo e riunendo di nuovo le loro forze, s'andavano inseguendo alternativamente senza mai raggiugnersi; il genovese minacciò le coste dell'Adriatico, il veneto quelle della Liguria; e la maggior parte dell'estate si passò senza verun fatto d'importanza[358].
E per tal modo la guerra trovavasi quasi ridotta a spedizioni di corsari, ed a danneggiare ogni giorno i vascelli mercantili. L'ardente odio che aveva messi l'un contro l'altro i due popoli maritimi, pareva ormai esausto; ognuno sospirava la pace; ed il conte Amedeo di Savoja, essendosi offerto mediatore, trovò tutte le potenze belligeranti ugualmente disposte a negoziare. Spedirono i loro ambasciatori a Torino, ed il trattato di pace venne sottoscritto l'8 agosto del 1381[359]. I Veneziani evacuarono Tenedo e ne spianarono le fortificazioni; Francesco di Carrara fu dichiarato sciolto da tutti gli obblighi che aveva in forza del trattato del 1372, e ristabilito negli antichi suoi confini; il re d'Ungheria restò possessore di tutta la Dalmazia e soltanto s'impegnò a non dar pratica ai corsari; per ultimo vennero reciprocamente rilasciati senza taglia i prigionieri. Così finì questa accanita guerra, dopo avere tolti ai Veneziani tutti i possedimenti continentali ed una ragguardevolissima parte delle [257] loro ricchezze, e dopo di avere fatta perdere ai Genovesi la più bella flotta ed il fiore de' marinaj[360].
Rivoluzioni di Genova, di Napoli, del regno d'Ungheria. — Conquiste dei Veneziani in Oriente. — Potenza di Giovanni Galeazzo Visconti. — Ruina delle case della Scala e di Carrara.
1382 = 1388.
I Genovesi mai non avevano spiegata tutta la loro potenza e tutti i mezzi della loro repubblica come nella guerra di Chiozza. Avevano essi sparso il terrore delle loro armi nell'impero greco e nel regno di Cipro, avevano diretti i consigli del re d'Ungheria, del patriarca di Aquilea e del signore di Padova, facendo in modo che tutte le operazioni degli alleati mirassero costantemente al comun bene della lega. Avevano fatta tremare per la sua esistenza medesima la repubblica di Venezia, loro rivale, avevano superati i ripari datile dalla natura e con lei diviso il dominio delle lagune; e quando per soverchia temerità ebbero perduta la più bella flotta e la più bell'armata, che mai avessero spedite contro ai loro nemici, eransi ancora trovati [259] in istato di farsi temere dai Veneziani nel golfo medesimo che da questi prende il nome, e di dettar loro le condizioni di una pace gloriosa per Genova, e vantaggiosa a tutti i suoi alleati. Dopo tanti gloriosi avvenimenti, dovevasi credere che questa repubblica acquisterebbe sull'intera Italia un'influenza cui non aveva per lo innanzi aspirato, e si assicurerebbe in pace quella preminenza sopra la sua rivale, che gli avevano ottenuta in guerra le sue armi. Questi pronostici non si avverarono altrimenti. Venezia ricuperò in pochi anni colla sua prudenza, col suo coraggio, colla sua attività, tutte le province che aveva perdute, ed un'opinione ancora più grande della sua potenza; le sue disfatte a Chiozza parvero essere state il segnale d'una nuova carriera di prosperi avvenimenti; Genova per lo contrario più non si rialzò dalle perdite che le stesse sue vittorie avevano cagionato alle finanze ed alla popolazione. Un periodo di disastri e di ruine comincia per i Genovesi alla guerra di Chiozza, e non termina che dopo molti anni di servitù sotto stranieri padroni. È tanto vero che importa meno ad un popolo il vincere che il non abusare delle sue forze; e che si può camminare [260] verso la ruina e la schiavitù per una strada coperta d'archi trionfali.
Le guerre civili terminarono di esaurire un popolo che di già languiva oppresso da' suoi proprj sforzi. Ad ogni modo è cosa naturale, che uomini, i di cui talenti tutti e tutta l'energia ebbero uno sviluppamento ne' campi o sui vascelli d'una repubblica, non sappiano poi rientrare in riposo e nella nullità, nè piegarsi sotto l'ubbidienza civile, dopo avere comandato essi medesimi. Si può frequentemente presagire ad un popolo, che sparse lo spavento presso tutti i suoi vicini, che i suoi generali medesimi lo faranno un giorno tremare, e lo puniranno delle sue vittorie.
Circa la metà del secolo, Simone Boccanegra il primo doge di Genova, avea allontanate dal governo le antiche famiglie nobili; e d'allora in poi i cittadini che facevansi chiamare uomini del popolo erano succeduti ai gentiluomini non solo negli impieghi, ma ancora nella pubblica opinione. Rari talenti, grandi ricchezze, o molto coraggio, ne avevano illustrati alcuni; e la moltitudine ubbidiva con confidenza ad una nuova aristocrazia che di già s'innalzava sulle ruine dell'antica.
[261] Distinguevasi tra gl'idoli del popolo Lionardo di Montalto, giureconsulto ed amico di Simone Boccanegra. Quando nel 1363 morì questo doge, Lionardo di Montalto ereditò l'influenza che il Boccanegra aveva esercitata, e rimase capo de' Ghibellini[361]. A molta moderazione aggiungeva grandissimo coraggio, e sebbene alla testa d'una fazione, altro scopo non si proponeva che il mantenimento dell'ordine e della libertà. Ma nella lotta contro meno scrupolosi avversarj dovette ben tosto rimanere perdente. Gabriele Adorno, ricco mercante, di una famiglia affatto nuova, era stato nominato doge nel 1363 dal favore del partito guelfo, e due anni dopo Montalto era stato forzato a ripararsi a Pisa coi principali Ghibellini[362].
Domenico di Campo Fregoso, altro mercante di parte ghibellina, adunò presso di sè gli sparsi avanzi di questa fazione. Così cominciò la rivalità degli Adorni e de' Fregosi, famiglie per l'addietro ugualmente sconosciute, e che dovevano illustrarsi col vicendevole loro odio e col [262] sangue che farebbero versare alle loro fazioni. Gabriele Adorno fu doge dal 1363 al 1370, e Domenico di Campo Fregoso occupò la stessa carica dal 1370 al 1378[363]. L'uno e l'altro governarono lo stato con talenti e con una fermezza proporzionati alla loro ambizione: sì l'uno che l'altro furono precipitati dal trono ducale da una sedizione popolare.
Niccola di Guarco successe nel 1378 al Fregoso; e Niccola fu quello che tanto gloriosamente sostenne la guerra di Chiozza contro i Veneziani[364]. Per accrescere le forze della sua patria richiamò alle cariche di confidenza que' nobili, che nelle precedenti amministrazioni erano stati allontanati dal governo. I Doria, gli Spinola, i Fieschi, i Grimaldi comandarono le armate e le flotte della repubblica, e giustificarono con prosperi successi la scelta del doge e la confidenza del popolo.
Quando la pace fu stabilita al di fuori, e che la demolizione del forte di Tenedo calmò le incertezze che si avevano intorno [263] alla fedele esecuzione del trattato di Torino, si risvegliò la gelosia de' plebei contro i nobili, ed il 19 marzo 1383 i macellaj eccitarono in Genova una sedizione. Sebbene fosse uno di que' giorni della settimana santa, ne' quali la chiesa non permette l'uso delle campane, gli ammutinati suonarono campana martello per chiamare in Genova gli abitanti della Polsevera e di Voltaggio[365]. Il popolo, irritato per l'accrescimento delle imposte, reso necessario dall'ultima guerra, si adunò maledicendo le gabelle, e minacciando il governo, che veniva accusato di averle inventate.
Leonardo di Montalto, che in quell'istante tornava a Genova, ed Antoniotto Adorno, che nella fazione guelfa era succeduto al credito di Gabriele suo padre, non ignoravano che le lagnanze del popolaccio intorno alle imposte erano poco fondate, ma essi speravano di approfittare del loro malcontento per ristringere l'autorità del doge, per allontanare i nobili dall'amministrazione, e forse per salire essi medesimi alle principali cariche. Si presentarono [264] adunque in qualità di mediatori tra il popolo ed il governo, ed ottennero dal doge una legge, che escludeva tutti i gentiluomini dai consiglj della repubblica, che licenziava una guardia stabilita al palazzo ducale, che aboliva alcune nuove gabelle, che sopprimeva un tribunale accusato di essere arbitrario, e che richiamava gli esiliati[366].
Le concessioni di Niccola di Guarco calmarono per poco tempo il furore del minuto popolo; ma il ritorno di Antoniotto Adorno e di Pietro di Campo Fregoso, ch'erano esiliati, opponeva al doge nemici più ardenti che quelli che aveva di già combattuti. Questi due capi di parte, dimenticando le antiche loro divisioni, si riunirono a Montalto per attaccare il doge nel suo palazzo. S'accorsero tutti tre che Niccola di Guarco si circondava di gente armata e meditava di ricuperare con aperta forza l'autorità che la violenza gli rapiva. I soldati adunati nel palazzo pubblico risvegliarono la collera del popolo, senz'essere abbastanza forti per disprezzarla. Il 5 aprile vennero attaccati [265] da tutte le parti, ed il giorno 6 Niccola di Guarco, perdendo la speranza di potere più lungamente resistere, fuggì sotto mentite vesti colla sua famiglia[367].
Il popolaccio voleva portare l'Adorno sul trono ducale, i buoni cittadini preferivano Montalto, e poco mancò che la contesa tra i due alleati, tornati rivali, non si decidesse colle armi. Finalmente la vinse Montalto; ma perchè dopo un anno morì di malattia, Antoniotto Adorno gli fu sostituito dai suffragi unanimi de' suol concittadini[368].
Le repubbliche non erano sole agitate da intestine dissensioni e da guerre civili; la stessa epoca non riuscì meno funesta al riposo delle monarchie; perciocchè si videro nel mezzodì dell'Italia i popoli combattere per la scelta de' loro padroni, come più al nord combattevano per dilatare i loro diritti ed i loro privilegi. Ma Genova, Venezia e Firenze si esaurivano coll'abuso delle loro forze; per lo contrario il regno di Napoli perdeva oscuramente le sue risorse nella mollezza e [266] nel vizio, senza che comprendere si potesse l'impiego ch'egli faceva delle sue ricchezze e della sua popolazione. Carlo III aveva conquistato questo regno sopra Giovanna di Napoli senza dare battaglia, e di già vacillava sopra un trono sempre più facile ad essere occupato, che difeso. Colle sue lettere patenti del 29 giugno 1380[369] Giovanna aveva adottato Luigi, duca d'Angiò, figlio di Giovanni re di Francia, fratello di Carlo V che morì questo stesso anno, e reggente della Francia in principio del regno di Carlo VI. Luigi d'Angiò, che non aveva potuto salvare Giovanna, apparecchiavasi a vendicarla, o piuttosto a conquistare il suo regno ed a raccorne l'eredità. Egli scese in Italia nel 1383 con un esercito, che i più moderati calcoli portano a quindici mila cavalli[370]. Lo accompagnavano il conte di Ginevra, fratello di papa Clemente, il conte di Savoja e molti dei principali signori francesi; e quando il 17 luglio del 1382 entrò negli Abruzzi, ingrossarono la sua armata moltissimi [267] signori napolitani, che desideravano vendicare la morte di Giovanna e scuotere il giogo di Carlo III. I contadi di Provenza e di Forcalquier avevano di già riconosciuto Luigi quale legittimo successore della regina, ed una flotta provenzale giunse sulle coste di Napoli per offrire soccorsi a coloro che si darebbero al partito d'Angiò. La nobiltà, che sola nel regno veniva consultata dal monarca, non era soddisfatta delle sue liberalità, e qualche gelosia di famiglia, qualche feudo tolto o accordato ingiustamente, inasprivano l'animo di questi orgogliosi baroni. I San-Severini, i conti di Tricarico, di Matera, di Conversano e di Caserta, con molti altri, spiegarono lo stendardo di Luigi[371]. Così cominciò la fazione degli Angioini, che doveva colla sua rivalità colla fazione di Durazzo costare tanto sangue al regno di Napoli.
La guerra per altro non si aprì con istrepitosi fatti; Carlo III, vedendosi abbandonato da' suoi baroni, non s'arrischiò di tenere la campagna; chiuse le [268] sue truppe nelle piazze forti, ed aspettò che i Francesi, consumati da mancanza di vittovaglie, dal calore del clima, dalle malattie, avessero perduto il loro vigore. Mentre egli andava temporeggiando, gli Angioini occuparono quasi tutte le province poste lungo il mare Adriatico, ma le loro forze si esaurivano in una lunga serie di piccole zuffe e di assedj. Intanto il 10 ottobre 1384 il duca d'Angiò morì a Biseglio, nella terra di Bari, di naturale infermità, onde la sua armata si dissipò da sè medesima[372].
Pure la morte di Luigi non rendeva la tranquillità al regno, o la pace a Carlo di Durazzo. I baroni malcontenti, e tutto il partito angioino si ostinavano nella loro disposizione alla ribellione, ed Urbano VI, che aveva data la corona a Carlo, lo andava sempre minacciando di ritorgliela. Quest'orgoglioso pontefice aveva abbandonata Roma per venire a Napoli a governare il regno ed il re. Chiedeva per suo nipote Butillo l'investitura dei principati e dei feudi di Capoa, d'Amalfi, di Nocera e di [269] Scafa[373], ed autorizzava la più scandalosa condotta di questo suo nipote[374]. Finchè visse Luigi, Carlo mostrò verso Urbano i più dilicati riguardi; però gli diede una guardia d'onore, che lo sopravvegliava ne' castelli d'Aversa o di Napoli. Ma quando il re condusse il suo esercito nella Puglia contro il suo emulo, Urbano approfittò della sua lontananza per istabilirsi co' suoi cardinali e tutta la sua corte nel castello di Nocera, ch'era stato ceduto a suo nipote. Allora si arrogò un'autorità superiore a quella del monarca; sindicò tutti gli atti della sua amministrazione, manifestando in faccia a lui quello stesso violento carattere, impetuoso ed inconseguente, che gli aveva alienati i cardinali, ed era stato la prima cagione dello scisma.
Carlo, liberato dalla molestia che gli dava Luigi, tornò a Napoli il 10 novembre, ed invitò il pontefice a recarsi presso di lui. «Non è questa la costumanza dei papi, rispose Urbano, di frequentare le corti dei re, ma sì bene quella dei re di porsi in ginocchio ai piedi de' papi. Che Carlo abolisca tutte le nuove gabelle che ha stabilite, ed allora io potrò di nuovo riceverlo presso di me con bontà.» Il monarca irritato, giurò che governerebbe secondo il suo beneplacito un regno che aveva conquistato soltanto colla sua spada[375], e subito ordinò al grande contestabile di assediare Nocera. Tre macchine per lanciar pietre vennero collocate ai tre angoli del castello, e l'attacco si cominciò sotto gli ordini d'Alberico di Barbiano, valoroso capitano d'avventurieri, che Carlo aveva nominato grande contestabile del regno. Dal canto suo il papa affacciavasi tre o quattro volte al giorno alle finestre del castello di Nocera con una candela ed un campanello in [271] mano per maledire e scomunicare l'armata del re[376].
Nel regno di Napoli non adoperavasi ancora l'artiglieria, ed il castello di Nocera non poteva prendersi coi mezzi consueti. Negli otto mesi che durò l'assedio, Urbano cercò esteri alleati che venissero a liberarlo. Da un canto, Antoniotto Adorno, doge di Genova, colse avidamente quest'occasione di far sentire i benefici effetti della sua protezione al capo della Cristianità. La cavalleresca generosità del suo carattere veniva in tale circostanza secondata dal suo orgoglio. Armò dieci galere sotto gli ordini di Clemente Fazio che mandò sulle coste di Napoli per ricevere il pontefice nel momento in cui gli riuscirebbe di fuggire[377]. D'altra parte Ramondello Orsini e Tommaso di San-Severino, due baroni di parte angioina, che avevano adottata nello scisma la causa di Clemente VII, offrirono il loro ajuto ad Urbano, il quale non isdegnò di essere salvato dagli scismatici. Questi, con tre mila cavalli, fecero levare l'assedio di Nocera con un improvviso attacco, e condussero [272] il papa alla foce del Sele al sud-est di Salerno, ove stava aspettandolo la flotta genovese[378].
Urbano V portava seco sulle galere di Genova que' medesimi cardinali che egli aveva decorati della porpora romana, dopo che lo aveva abbandonato tutto il sacro collegio per nominare un antipapa. Ma questi prelati non sapevano meglio de' loro predecessori accomodarsi alle stravaganze del pontefice. Erano con lui passati di castello in castello, ed implicati in guerra senza soggetto, si erano trovati esposti a tutti i pericoli d'un assedio. Mentre stavano chiusi in Nocera eransi tra di loro consigliati intorno ai mezzi di contenere un capo della Chiesa che disonorava la cristianità, e che dopo essere di già stato cagione di uno scisma, pareva che andasse preparandone un altro tra coloro che gli erano rimasti fedeli. La scrittura d'un giurista di Piacenza, che proponeva di dare un curatore al papa, faceva sopra di loro grandissima impressione[379]. Ma Urbano prevenne [273] la loro risoluzione, facendo arrestare il 12 gennajo 1385, mentre trovavasi a Nocera, sei cardinali, che accusò d'averlo voluto assassinare; li fece porre alla tortura, e strappò la confessione di questo delitto a taluno di loro con terribili tormenti, ai quali assisteva egli medesimo, recitando il suo breviario[380]. In appresso li fece custodire in una cisterna, e giunto a Genova con questi sciagurati, ne fece strozzare alcuni in prigione, altri gettare in mare legati entro un sacco. Rimaneva vivo il sesto, il cardinale d'Inghilterra, il quale ottenne per grazia la vita, per l'intromissione del suo sovrano il re Riccardo II. Due altri cardinali, atterriti da tante crudeltà, abbandonarono la corte d'Urbano per rifugiarsi in quella d'Avignone, abbracciando il partito dell'antipapa. Clemente VII li accolse con piacere e li raffermò nell'esercizio delle dignità che ricevute avevano dal suo rivale[381].
La morte di Luigi d'Angiò e la fuga d'Urbano avevano liberato Carlo di Durazzo dai suoi più pericolosi avversarj; ma quando cominciava appena ad assicurarsi sul trono, un nuovo oggetto d'ambizione l'avvolse in nuovi pericoli, e riaccese la guerra civile nel mezzogiorno d'Italia. Il re Luigi d'Ungheria, il protettore ed il padre adottivo di Carlo di Durazzo, era morto l'11 settembre del 1382 dopo un regno glorioso d'oltre quarant'anni[382]. Malgrado i costumi dell'Ungheria, che escludono le donne dalla successione al trono, la nobiltà aveva acconsentito che Maria, figlia maggiore di Luigi, portasse la corona a Sigismondo, marchese di Brandeburgo, secondo figlio dell'imperatore Carlo IV, cui ella era stata accordata sposa in tenera età. La gloria e le virtù di Luigi, che moriva senza prole mascolina, avevano meritato che si accordasse questo favore alla figliuola; Maria venne coronata col titolo di Re[383]; e fino all'intero [275] compimento del suo matrimonio, sua madre Elisabetta assunse il governo del regno, che poi divise con Niccola Gava, palatino d'Ungheria, suo favorito, che Luigi aveva colmato di ricchezze e di onori[384]. Ma il governo delle due donne e quello del loro favorito diventarono in breve egualmente odiosi alla nazione. I nobili malcontenti risolsero di chiamare alla corona Carlo di Durazzo, l'ultimo erede maschio del re d'Ungheria, di sangue francese. Carlo era stato allevato nella corte di Luigi, aveva adottate le costumanze del popolo guerriero cui doveva la propria grandezza; aveva comandate le armate ungare in molte occasioni, ed in particolare all'assedio di Treviso; egli finalmente pareva più degno d'una femmina di governare de' cavalieri. Paolo, vescovo di Sagabria, il suo più zelante partigiano, fu mandato a Napoli alla di lui corte per offrirgli la corona, e Carlo malgrado le rimostranze di Margarita sua moglie, che lasciò reggente del regno di Napoli, s'imbarcò [276] il 4 settembre del 1385 alla volta di Signa in Schiavonia, di dove passò a Sagabria[385].
Carlo non s'annunciò alle due regine siccome uno che venisse a contrastar loro la corona colle armi alla mano; dichiarò anzi che veniva come un pacificatore del regno, lasciando il pensiero alla nobiltà di chiedere per lui la dignità reale. Le due regine, dopo averlo volontariamente ammesso a Buda, furono in fatti forzate ad offrirgli la loro abdicazione[386]; ed in una dieta tenutasi ad Alba Reale, Carlo venne con unanimi suffragi della nobiltà nominato re[387]. Ma le due regine avevano opposta alla dissimulazione di Carlo un'arte eguale; Niccola Gava adunava a loro favore i suoi satelliti sotto colore di celebrare le nozze d'una sua figlia, ed un giorno di solenne festa, in febbrajo del 1386, le regine fecero invitare il re nel loro appartamento, ove trovavasi ancora il palatino [277] che diede agli appostati assassini, quando fu tempo, il convenuto segno. Carlo fu atterrato con un colpo di sciabola sul capo, e tutti i suoi partigiani furono uccisi. Il re per altro non morì in conseguenza delle sue ferite, ma rinchiuso a Visgrado, il 3 giugno del 1386, vi perì di veleno[388].
L'assassinio di Carlo diede in preda alla più ruinosa anarchia i due regni di Napoli e d'Ungheria. Margarita, sua consorte, rimase reggente del primo durante la minorità di Ladislao suo figlio, allora in età di soli dieci anni. Ma la nobiltà di Napoli aveva creata una magistratura indipendente, che tra poco venne in concorrenza d'autorità colla regina. La fazione d'Angiò, di cui si fecero capi Tommaso di San-Severino ed Ottone di Brunswick, ultimo marito di Giovanna, aveva proclamato re Luigi II d'Angiò sotto la tutela di sua madre Maria. Il San-Severino, che assumeva il titolo di vicerè, obbligò Margarita ed il partito di Durazzo, ad uscire di Napoli per chiudersi in Gaeta: ma l'ingratitudine de' provenzali fece [278] loro perdere il frutto della vittoria; disgustarono il San-Severino ed il duca di Brunswik, e forzarono l'ultimo ad abbandonare la loro causa per darsi al partito di Durazzo[389]. Intanto universale era la confusione; due re ancora fanciulli, sotto la tutela di due donne più intriganti che avvedute, lottavano l'uno contro l'altro, ed insieme contro i loro sudditi. Due papi, che si scomunicavano a vicenda, cercavano di opprimere il principe loro avversario, e di spogliare il re loro pupillo della sua legittima autorità per sostituirvi quella della santa sede. Tutti i baroni erano armati, e sotto pretesto della guerra civile taglieggiavano i borghesi ed i contadini del loro partito, saccheggiando ed incendiando le proprietà dei loro nemici. In mezzo a così spaventosi disordini non sorgeva verun uomo di così singolari talenti da chiamare a sè gli sguardi della nazione, onde far nascere la speranza di più felice avvenire.
Nel regno d'Ungheria la sorte delle due regine eccitò da prima la pietà, quando [279] vennero spogliate dei loro diritti; ma tenne dietro a questo sentimento l'universale indignazione, quando ricuperarono la reale dignità con un'atroce perfidia. Giovanni d'Horwath, banno di Croazia, avendole sorprese, ed uccise le loro guardie, fece tagliare la testa in presenza loro a Niccola Gava, e gettar nel fiume la regina madre Elisabetta. Le damigelle della giovane regina Maria erano intanto abbandonate alla brutale libidine de' Croati, e la principessa, che, dicesi, fu la sola non violata, venne rinchiusa nel castello di Crupa[390].
Sigismondo, marchese di Brandeburgo, giugneva di questi tempi in Ungheria per celebrare le nozze colla giovane sposa. Parte della nobiltà ungara si attaccò a lui, ma la fazione che aveva chiamato, ed in appresso vendicato Carlo III, apparecchiavasi alla difesa. Giovanni d'Horwath fece trasportare la regina Maria, sua prigioniera, nel castello di Novigrado con intenzione di spedirla nel regno di Napoli alla vedova di Carlo III, ma vi si opposero i Veneziani. Preferendo il presente [280] loro vantaggio al risentimento delle passate ingiurie ricevute dal re Luigi, si allearono con Sigismondo e con Maria; spedirono al primo consumatissimi negoziatori per ripristinare la pace in Ungheria, e farvi riconoscere il nuovo re; incaricarono Giovanni Barbadigo, uno de' loro ammiragli, di tener d'occhio le coste della Croazia perchè la regina Maria non venisse suo malgrado trasportata a Napoli, e costrinsero infine colle loro armi Giovanni d'Horwath ed il priore d'Aurania, suo fratello, a rendere a Maria la libertà. Venne questa principessa rilasciata il 4 giugno 1387, ed un mese dopo fu maritata a Sigismondo[391].
Per tal modo la repubblica di Venezia, tanto travagliata dalla potenza e dall'ambizione del re d'Ungheria, vide un alleato ch'essa aveva colmato di benefici succedere all'antico suo rivale. Quand'anche Sigismondo avesse potuto scordare la riconoscenza dovuta ai Veneziani, [281] egli non poteva più disporre delle forze comandate da Luigi; perciocchè l'implacabile sua vendetta nel perseguitare i nemici di Maria eccitava ne' suoi stati sempre rinascenti ribellioni, e quasi tutti i vecchi consiglieri ed i generali di Luigi furono assassinati, o perirono sul patibolo[392]. Alcune province già dipendenti dalla corona d'Ungheria si staccarono, e Sigismondo fu costretto a riconoscere, nel 1387, tra i suoi sudditi, un nuovo re di Rascia e di Bosnia, il quale stendeva la sua giurisdizione sopra Zara, Traù, Sebenico, Spalatro ed altre città tolte ai Veneziani sulle coste della Dalmazia[393]. Perciò la repubblica più non ebbe a temere che una marina formata sotto la protezione del re d'Ungheria potesse un giorno dividere con lei l'impero dell'Adriatico.
Passarono altri vent'anni avanti che i Veneziani tentassero di ricuperare i possedimenti perduti sulle coste della Schiavonia: ma le rivoluzioni di Napoli e di Ungheria offrirono loro l'opportunità di fare un importantissimo acquisto all'ingresso del golfo Adriatico. L'isola di Corfù o Corcira, si diede volontaria ai Veneziani. Quest'isola rimasta agl'imperatori latini di Costantinopoli, dopo ch'ebbero perduta la loro capitale, era stata riunita alla corona di Napoli. In tempo delle guerre civili della Puglia i Corfioti scossero il giogo de' Napolitani; e dopo essersi alcun tempo governati a comune, implorarono la protezione de' Veneziani, sottomettendosi a loro il 9 giugno del 1386, a condizione che fossero conservati tutti i loro privilegi[394]. Durazzo, importantissima città sulle coste dell'Albania, che il vecchio Carlo d'Angiò aveva tolta ai Greci, e che col titolo di ducato era passata in un ramo della sua famiglia [283] fino a Carlo III re di Napoli e d'Ungheria, fu circa lo stesso tempo conquistata dai Veneziani; e due anni dopo vennero aggiunte ai dominj della repubblica, in forza delle cessioni dei feudatarj che le governavano, le due città d'Argo e di Napoli di Romania[395]: e se i Veneziani non ispinsero più in là le loro conquiste in Ungheria, in Grecia e nel regno di Napoli in tempi in cui veruna di questi popoli era in istato di opporre loro resistenza, ciò deve attribuirsi al desiderio che avevano ardentissimo di vendicarsi di Francesco da Carrara, onde ne' tempi medesimi tutte le loro forze e tutta la loro ambizione erano volte al continente di Lombardia.
Francesco da Carrara, signore di Padova, aveva acquistato dall'arciduca Leopoldo d'Austria la città ed il territorio di Treviso[396], che i Veneziani avevano ceduti all'arciduca. Gli stati del Carrara venivano per questo nuovo acquisto a fronteggiare la laguna in tutta la sua estensione e toglievano ai Veneziani ogni comunicazione [284] col continente. Un vicino qual era il Carrara, in ogni tempo alleato di tutti i nemici della repubblica, e che al desiderio di nuocere univa abilità e potenza, inspirava al senato un'estrema diffidenza. I Veneziani, che ancora non eransi riavuti dei danni dell'ultima guerra, cercavano di eccitare nemici contro il Carrara piuttosto che attaccarlo essi medesimi. Riaccesero segretamente l'odio d'Antonio della Scala, signore di Verona, e lo persuasero ad assumersi colle proprie le altrui vendette, attaccando il loro nemico.
Antonio della Scala era figlio naturale di Cane signore della Scala, cui era succeduto nel 1374 unitamente a suo fratello Bartolomeo[397]. Per regnar solo aveva fatto assassinare nel 1381 il fratello, e morire la sua amica con tutta la sua famiglia in mezzo a terribili tormenti, siccome colpevoli del delitto ch'egli medesimo aveva commesso. Francesco da Carrara aveva pubblicamente manifestato l'orrore inspiratogli da tanta perfidia e crudeltà[398]; ed il bastardo della Scala credette, dichiarando la guerra al signore [285] di Padova, di smentire un'accusa di cui si vergognava, e di cancellare le tracce del suo delitto. Nel 1385 conchiuse un trattato di sussidj coi Veneziani, e si obbligò per venticinque mila ducati, che dovevano essergli pagati ogni mese, finchè durasse la guerra, a spogliare la casa di Carrara di tutti i suoi stati, cedendo però Treviso ed il suo territorio alla repubblica[399].
Invano Francesco da Carrara cercò di far sentire al suo irritato vicino, che i loro stati non avevano fin allora con altro mezzo conservata la loro indipendenza che coll'antica alleanza delle due famiglie, e che colui che ajuterebbe a spogliare l'altro, sarebbe anch'esso bentosto spogliato da que' medesimi che avrebbero combattuto con lui. Antonio della Scala, sordo a questi avvisi, adunò soldati, ed il 5 aprile 1386 li mandò nel territorio di Padova sotto il comando di Cortesia di Sarego. I due signori tenevansi egualmente lontani dai pericoli della guerra; e Carrara prese al suo soldo Giovanni d'Azzo degli Ubaldini, che incaricò di respingere il nemico. Il 25 giugno 1386 ebbe luogo una battaglia alle Brentelle, nella [286] quale fu fatto prigioniere il Sarego con otto mila tra soldati e milizie veronesi, oltre ottocento uomini rimasti sul campo di battaglia[400].
Ma si era introdotta la costumanza di rilasciare i prigionieri senza taglia dopo avergli spogliati de' loro cavalli e delle armi, di modo che la perdita di una battaglia, altro non era che una perdita di danaro. La signoria di Venezia regalò sessanta mila fiorini ad Antonio della Scala per indennizzarlo della disfatta avuta, ed un astrologo gli promise che sarebbe in breve signore di Padova, onde ricusò tutte le offerte di conciliazione che il Carrara non aveva mancato di fargli[401].
Nel principio della seguente campagna (1387) l'una parte e l'altra aveva portate le proprie forze fino a sei in otto mila uomini di cavalleria e ad undici mila pedoni. Francesco Novello di Carrara, figlio del signore di Padova, combatteva nell'armata di suo padre sotto gli ordini di Giovanni d'Azzo e di [287] Giovanni Acuto. Dopo avere guastato il territorio di Verona, l'armata padovana dovette ritirarsi, avendo in testa forze assai superiori, comandate dai due generali di Antonio della Scala, Giovanni degli Ordelaffi ed Ostasio da Polenta signore di Ravenna. Ma giunta a Castagnaro presso di Castelbaldo, ella si fortificò dietro un canale e aspettò di essere attaccata dai nemici. Si diede una grande battaglia l'undici marzo del 1387, e l'armata veronese fu nuovamente rotta, i suoi due generali furono fatti prigionieri con quattro mila seicento venti corazzieri, ed Acuto potè portare la desolazione fino sulle porte di Verona e di Vicenza[402].
Non pertanto Francesco Carrara scrisse un'altra volta al signore della Scala per domandare la pace; ma nello stesso tempo la signoria di Venezia gli spediva centomila fiorini per levare una terza armata; e Giovanni Galeazzo Visconti, signore di Milano, vicino ancora più pericoloso dei Veneziani, vedeva con piacere l'indebolimento dei due signori della [288] Marca Trivigiana per tirarne vantaggio: offrì soccorsi all'uno ed all'altro, aspettando il favorevole istante per ispogliarli ambidue de' loro stati. Antonio della Scala, porgendo orecchio alle sue perfide suggestioni, rimandò senza risposta la lettera del Carrara[403].
Giovanni Galeazzo, che assumeva il titolo di conte di Virtù, era succeduto nel 1378 a suo padre Galeazzo[404] nel governo della metà della Lombardia. Egli risedeva a Pavia, mentre suo zio Barnabò soggiornava in Milano. Avea questi divise tra i numerosi suoi figliuoli le città del suo dominio[405], e perchè desiderava di accrescere il loro patrimonio coll'eredità di suo nipote, aveva tenuto mano a diverse congiure contro la persona o le province di Giovanni Galeazzo. Il conte di Virtù erasi sottratto ai macchinamenti dello zio, senza dare [289] indizio d'averli scoperti. Improvvisamente mostrossi divoto, facendosi spesso vedere con un rosario in mano a visitare le chiese e trattenervisi lungamente in preghiere. Barnabò ascriveva a pusillanimità il cambiamento del nipote, e lo confermavano in questo giudizio le precauzioni che vedevalo prendere per sua sicurezza; perciocchè questo principe aveva raddoppiate le sue guardie, che mai non l'abbandonavano, e mostrava per le più piccole cose un subito terrore. Finalmente ne' primi giorni di maggio del 1385, il conte di Virtù fece sapere di voler andare in pellegrinaggio al tempio di M. V. sopra Varese, non molto discosto dal lago maggiore, e si pose in viaggio con una numerosa guardia, che sempre stavagli ai fianchi. Avvicinandosi a Milano la mattina del 16 maggio, Barnabò gli andò incontro coi due suoi figli maggiori. Giovanni Galeazzo, dopo avere teneramente abbracciato lo zio, si volse ai due suoi capitani, che poi acquistarono tanto nome militando per lui, Giacomo del Verme ed Antonio Porro, e loro diede in lingua tedesca, che di que' tempi era la lingua militare di tutta l'Europa, l'ordine di arrestare Barnabò. All'istante i soldati tolsero di mano a questo principe la briglia [290] del cavallo, tagliarono il cinturone della sua spada, e lo strascinarono lontano dalla sua gente, mentre egli chiamava invano suo nipote, supplicandolo a non essere traditore del proprio sangue. Milano aprì subito le porte a Giovan Galeazzo, mentre in uno de' suoi forti vennero chiusi Barnabò ed i figliuoli. Tre volte fu il primo avvelenato ne' sette mesi della sua prigionia, e morì finalmente il 18 dicembre del 1385[406]. Le sue crudeltà e le enormi gabelle l'avevano reso tanto odioso al popolo, che veruno de' suoi sudditi cercò di difenderlo. Colla medesima indifferenza venne abbandonato dai suoi alleati; e Giovan Galeazzo, rimasto solo padrone della Lombardia, depose la maschera religiosa che aveva portata tanto tempo, e rivolse contro i suoi vicini le forze che aveva rapite allo zio.
Giovanni Galeazzo aveva più volte offerta la sua alleanza tanto allo Scala che [291] al Carrara, ma avevano l'uno e l'altro ricusato di associarsi ad un principe di cui era nota la mala fede. Pure Antonio della Scala, dopo la rotta di Castagnaro, diede orecchio alle proposizioni di Giovan Galeazzo, e già stava, coll'intromissione de' Veneziani, per conchiudere con lui un trattato, quando Francesco da Carrara risolse di prevenirlo, ed accettò l'alleanza fin allora costantemente ricusata[407]. In questo trattato, firmato il 19 aprile 1387, Verona veniva ceduta a Giovan Galeazzo, Vicenza a Francesco; e questi cedeva al Visconti due de' migliori suoi capitani, Giovanni d'Azzo ed Ugolotto Biancardo, che l'esaurimento delle sue finanze più non gli consentiva di tenere al suo soldo[408].
Infatti i principi alleati occuparono uno il territorio di Verona, l'altro quello di Vicenza. I cittadini di quest'ultima città fecero sentire al Carrara che non doveva ruinare un paese, sul quale voleva regnare; che Vicenza, sebbene fedele alla casa della Scala, era [292] non pertanto disposta a far dipendere la sua sorte da quella di Verona, e ch'essi gli aprirebbero le porte tosto che saprebbero averle Verona aperte al Visconti. In pari tempo gli abitanti di Udine, a suggestione de' Veneziani, attaccarono il Carrara dalla banda di Treviso, e lo costrinsero ad accettare la proposizione de' Vicentini[409].
Questa diversione non bastò a salvare lo Scala, la di cui capitale veniva gagliardamente stretta d'assedio dall'armata del Visconti. I Veneziani gli avevano somministrati sussidj di danaro e non soldati, e l'imperatore Wenceslao, cui aveva chiesto ajuto, gli avea spedito un ambasciatore piuttosto per ostentazione della sua autorità in Italia, che per assisterlo validamente. Ugolotto Biancardo, che avea il comando dell'armata milanese, aggiunse la seduzione alla forza; alcuni traditori gli aprirono la porta di san Massimo nella notte del 18 ottobre, ed Antonio della Scala, dopo avere consegnate la sua fortezza all'ambasciatore imperiale, fuggì co' suoi tesori per l'Adige a Venezia[410].
L'ambasciatore di Wenceslao, rimasto padrone della fortezza di Verona, e dei segni del comando convenuto tra i governatori di Vicenza e de' castelli[411], li vendette al miglior prezzo possibile a Giovanni Galeazzo e si ritirò in Boemia col danaro ammassato con così disonesti modi. Tutte le fortezze vennero allora aperte a Giovanni d'Azzo e ad Ugolotto Biancardo; e questi occupò ancora Vicenza a nome del conte di Virtù; e la casa della Scala, che aveva regnato cento vent'otto anni in Verona, e che due volte aveva aspirato alla corona d'Italia, fu spogliata di tutti i suoi possedimenti.
Dietro il trattato convenuto tra il Carrara e Giovan Galeazzo, Vicenza avrebbe dovuto essergli immediatamente consegnata, ma il signore di Padova conosceva il suo alleato, e non contava sulla di lui buona fede. Si tacque, quando seppe che Giovan Galeazzo moveva pretensioni sopra Vicenza, come fosse una [294] eredità di sua moglie[412]; e pensò soltanto a difendersi contro gli abitanti di Udine, cui i Veneziani davano scopertamente soccorso. Udine, capitale del patriarcato d'Aquilea, non aveva voluto riconoscere Filippo d'Alençon, patriarca consacrato da Urbano VI, mentre il Carrara proteggeva questo prelato[413]. Ma quando il signore di Padova vide il turbine mosso contro di lui dalla repubblica di Venezia, fece a questa vivissime istanze di accordargli la pace, e chiese la mediazione del marchese d'Este, che venne rifiutata[414]. Nella stessa epoca Giovanni Galeazzo mandava a Venezia due ambasciatori per trattare colla repubblica un'alleanza contro il Carrara; il quale, avuto di ciò sentore, più non potè contenere il suo sdegno, e scrisse all'imperatore, al papa ed a tutti i sovrani d'Europa lettere circolari per denunciar loro la perfidia del conte di Virtù, [295] e chiedere giustizia de' suoi tradimenti. S'addirizzò ai medesimi Veneziani, sperando che la loro consueta prudenza vincerebbe la loro animosità: il tradimento, di cui vedevasi vittima, poteva servire di esempio al senato veneto; perciocchè se la conquista di Verona aveva aperta a Galeazzo la strada di Padova, la conquista di Padova poteva altresì agevolargli quella di Venezia. Ma il senato, non ascoltando che l'implacabile suo odio e la sua ambizione, segnò, il 29 marzo 1388, un trattato di divisione con Giovanni Galeazzo, in forza del quale Treviso, Ceneda e le fortezze di Coran e di sant'Eletto apparterrebbero alla repubblica, e Padova col suo territorio al signore di Milano[415]. Dietro domanda dei Veneziani Alberto, marchese d'Este, Francesco di Gonzaga, signore di Mantova, e la comunità di Udine furono messe a parte di questa alleanza[416].
Francesco da Carrara solo, e senz'alleati; circondato da nemici, il minore de' quali, preso separatamente, lo uguagliava [296] di forze; sapeva inoltre di dovere guardarsi dal suo popolo non meno che da' suoi vicini. Da oltre ventiquattro anni il principato di Padova era avvolto in continue guerre, e l'esaurimento delle finanze aveva costretto Francesco ad accrescere ogni anno le imposte. Le piazze pubbliche eccheggiavano sempre di grida minacciose, e lo scoraggiamento e l'impazienza palesavansi apertamente ne' consigli. Tutti coloro che il Carrara chiamava a parte delle sue deliberazioni erano suoi segreti nemici[417]; gli uni venduti a Giovanni Galeazzo, gli altri alla repubblica di Venezia, ed altri ancora, senza avere un determinato scopo, desideravano soltanto una rivoluzione.
Il signore di Padova invocò l'assistenza del duca di Baviera, col quale era congiunto di parentado, e del duca d'Austria, la di cui amicizia appoggiavasi ad antichi trattati; e l'uno e l'altro risposero che verrebbero a soccorrerlo quando loro sovvenisse il danaro necessario alle spese dell'armamento; ma nello stato d'esaurimento in cui trovavasi il Carrara, concedergli i chiesti sussidj a cotali condizioni, era un volerglieli negare.
[297] Alcuni suoi consiglieri gli proposero di abdicare la signoria in favore di suo figliuolo; dicendogli che Venezia facevagli la guerra per un odio personale che non giugneva fino al figliuolo, il quale essendosi guadagnato l'affetto del popolo, troverebbe agevolmente nel di lui attaccamento inaspettati sussidj: ma quando si accorsero di non lo poter indurre all'esecuzione de' loro consiglj, cercarono di persuadere il giovane principe a sorprendere il padre ed a porlo in prigione, indi a trattare coi suoi nemici. Tali erano i depravati costumi dei tiranni d'Italia[418], che Francesco parve meritare grandissime lodi per avere rigettate così perfide insinuazioni[419].
Dopo lunghe deliberazioni, che raddoppiavano ogni giorno le inquietudini de' signori Carraresi, facendo loro più vivamente sentire l'impossibilità di difendersi, in ultimo il padre risolse di seguire il consiglio che aveva prima rifiutato, cedendo la signoria di Padova al figliuolo e ritirandosi egli a Treviso. [298] Adunò nel pubblico palazzo il consiglio del popolo come praticavasi ne' tempi della repubblica padovana; fece che si nominassero quattro anziani, un gonfaloniere ed un sindaco della comunità, e rinunciò senza condizione nelle loro mani la signoria ereditata dai suoi maggiori. Ma il popolo di Padova, avvilito da settant'anni di servitù, più non conservava alcun generoso sentimento; e sentendosi incapace di vivere libero, non ebbe nè il coraggio, nè il desiderio di ritenersi il potere che gli si rendeva. Assistette all'abdicazione del vecchio Francesco da Carrara come ad una vana cerimonia; un dottore di legge, sindaco della comunità, rispose con un'ampollosa diceria alla lettura fatta dal procuratore del Carrara dell'atto di rinuncia; ed il gonfaloniere e gli anziani senza disamina e senza condizioni investirono all'istante Francesco Novello da Carrara della signoria abdicata dal padre. Così Padova mutò padrone il 29 giugno del 1388, ed all'indomani il vecchio Carrara partì alla volta di Treviso, di cui erasi riservata la sovranità[420].
Questo stesso giorno Giovan Galeazzo Visconti fece portare a Francesco Novello una sfida ed una dichiarazione di guerra; e non si vergognò in questo manifesto di appoggiarsi alla giustizia della sua causa ed alla protezione del cielo, accusando il suo avversario d'essere stato l'aggressore, e di averlo provocato coi tradimenti[421]. Giovanni Galeazzo pubblicava con ostentazione documenti ufficiali, e pare essersi lusingato di palliare agli occhi della posterità le sue scelleraggini col linguaggio della virtù; mentre per lo contrario l'opposizione tra i suoi discorsi e la sua condotta non servì che a disvelare tutta la sua doppiezza. Frattanto le truppe ch'egli aveva adunate a Verona ed a Vicenza entrarono nello stato di Padova, mentre vi penetravano pure per la Brenta e per l'Adige i Veneziani; e perchè tanto gli uni che gli altri si astenevano dal guastare le campagne, persuasero i contadini a dichiararsi contro [300] il Carrara ed a darsi al loro partito[422].
Un fratello naturale del signore di Padova, il conte di Carrara, comandava le sue truppe, ed approfittando accortamente dei canali che tagliano la Marca Trivigiana, impediva al conte del Verme, generale del Visconti, di avanzare. Ma lo scoraggiamento ed i tradimenti erano comuni alla città, alle campagne ed alle fortezze del signore di Padova; i soldati erano frequentemente presi da panico timore; i comandanti spesso abbandonavano i posti e le fortezze loro affidate senza combattere, ed il popolo minacciava d'aprire le porte di Padova, se non gli si dava la pace[423]. I consiglieri chiamati da Francesco Novello gli dichiaravano, ch'essi non volevano vedere i loro poderi guastati più a lungo da contese che non li risguardavano; che non volevano esporre più oltre la città ad essere presa e trattata coll'estremo rigore da una sfrenata soldatesca; e nello stesso tempo facendogli sentire ciò che doveva temere per sè medesimo dalla vendetta dei Veneziani, [301] lo consigliavano a vincere la generosità di Giovanni Galeazzo sottomettendosi a lui[424].
Francesco Novello, privo di mezzi di difesa, e non trovando tra i suoi parenti ed amici persona cui potersi interamente fidare, accondiscese finalmente alle istanze di tutto il suo popolo, consigliandosi colla necessità. Fece chiedere un salva condotto a Giacomo del Verme, per recarsi a Pavia presso al conte di Virtù, ed il 23 novembre del 1388 aprì a questo generale la capitale e tutte le fortezze. Preventivamente aveva caricati sopra varie barche i suoi più preziosi effetti e mandatili a Ferrara colla moglie e coi figli; egli prese la strada di Verona, e nell'atto di abbandonare la città, ove i suoi antenati avevano dominato settant'anni, e mentre attraversava il suo territorio, ebbe il dolore di essere testimonio delle feste e dell'allegrezze con cui i suoi sudditi celebravano l'inaugurazione del nuovo sovrano[425].
Alcuni negoziatori, spacciandosi mandati da Francesco Novello, recaronsi subito presso suo padre a Treviso, per invitarlo a confidarsi alla generosità di Giovanni Galeazzo. Gli offrirono un salvacondotto di Giacomo del Verme per andare a Pavia, persuadendolo ad aprire questa piazza al suo generale. Il vecchio Carrara trovavasi in più difficile situazione di suo figliuolo. Era stretto ad un tempo dalle armi de' Veneziani, dei Visconti e de' Trevisani ribellatisi contro di lui. Egli si era ritirato nella fortezza, sicura di una morte crudele se veniva in potere de' suoi nemici. Chiamò dunque Giacomo del Verme, introdusse i di lui soldati nella cittadella di Treviso, e s'incamminò alla volta di Pavia per implorare la generosità del vincitore.
Ma i salvacondotti accordati ai signori di Carrara non furono mantenuti. Giovanni Galeazzo temeva di vederli e di dir loro che non intendeva di mantenere le sue promesse. Fece dunque fermare il figlio a Milano ed il padre a Verona, senza loro permettere di proseguire il viaggio. Frattanto la biscia de' Visconti fu inalberata sulla riva dell'Adriatico, e gli stendardi di così temuto principe volteggiavano in faccia ai campanili di Venezia. [303] Di già Giovanni Galeazzo meditava di far sentire la sua potenza a questa superba repubblica, e quando i deputati di Padova vennero ammessi alla sua presenza per rendergli omaggio, disse loro, elle se Dio gli accordava solamente cinque anni di vita renderebbe i Veneziani loro eguali, e porrebbe fine alla gelosia che una città mezzo sommersa cagionava da tanto tempo a Padova[426].
Rivoluzioni nelle repubbliche toscane; intrighi di Giovanni Galeazzo. — Francesco da Carrara, suo prigioniero, fugge, e si ripara a Firenze; persuade questa repubblica a fare la guerra al Visconti. Conduce in Italia un'armata tedesca, e ricupera la signoria di Padova.
1388 = 1390.
La condotta di Venezia nel favorire le conquiste di Giovanni Galeazzo Visconti non aveva corrisposto all'alta prudenza che tanto onorava i consigli di questa repubblica. Le due case degli Scala e dei Carrara, abbastanza forti per difendersi, ma non tali da inspirar timore, potevano servire ai Veneziani di antimurale contro le intraprese dei Visconti. La repubblica, superiore di forze e di ricchezze, aveva mille mezzi per tenere in una specie di schiavitù i signori di Verona e di Padova. I Veneziani mancarono all'ordinaria loro prudenza eccitando lo Scala alla guerra, poi lasciandolo perire per non avergli somministrati sufficienti [305] soccorsi; ma un più grande errore fu quello di sagrificare il Carrara al loro risentimento, acconsentendo che si arricchisse colle sue spoglie il più potente, il più ambizioso, il più perfido tiranno d'Italia. La vista degli stendardi milanesi, che volteggiavano in riva all'Adriatico, richiamò il senato veneto a dolorose considerazioni sulla propria condotta; e bentosto i minacciosi discorsi di Giovanni Galeazzo, di cui gli fu dato avviso, accrebbero le sue inquitudini.
Veruna potenza in Italia pareva abbastanza forte per misurarsi col signore di Milano e per limitarne le conquiste. La Chiesa aveva lungo tempo guerreggiato contro suo padre e suo zio; ma le sue forze erano snervate dallo scisma, e più ancora dall'imprudente condotta d'Urbano VI. Questo pontefice, che andava debitore della sua libertà e forse della vita al doge Antoniotto Adorno, si disgustò col suo liberatore e partì precipitosamente da Genova il 16 dicembre del 1386 per passare a Lucca[427]. In questa [306] città egli predicò la crociata contro il regno di Napoli ch'egli voleva conquistare. Ma nè le sue esortazioni, nè le sue bolle acquistarono alla sua causa un solo soldato[428]. In appresso dichiarò complessivamente la guerra ai Turchi ed ai Greci, guerra poco sanguinosa, di cui ne affidò la cura all'arcivescovo di Patrasso[429]. In appresso, recandosi a Perugia, vi fece leva di soldati mercenari, coi quali pensava di fare personalmente l'impresa del regno, quando una sedizione scoppiata nelle sue truppe, lo fece fuggire atterrito a Roma[430]. Colà mori il 13 ottobre del 1389 dopo avere coll'impetuoso suo carattere, colla sua imprudenza, colla sua crudeltà, scandalizzata la Cristianità forse più che non fecero gli scostumati pontefici del decimo secolo. Pietro Tommacelli, cardinale di Napoli, che prese il nome di Bonifacio IX, venne innalzato sulla cattedra di san Pietro il 9 novembre 1389 dai cardinali dell'ubbidienza d'Urbano VI[431].
Di tutte le case sovrane che avevano esistito tra le Alpi e gli Appennini dopo la caduta delle repubbliche, più non eranvene che quattro le quali non fossero state spogliate de' loro stati dai Visconti; queste erano le case di Savoja, di Monferrato, dei Gonzaghi e d'Este. Amedeo VII, detto il Rosso, conte di Savoja, unicamente occupato degli intrighi e delle guerre della Francia, evitò ogni cagione di rottura col conte di Virtù[432]. Teodoro II, marchese di Monferrato, cui Giovan Galeazzo aveva tolto Asti ed altre importante piazze, fu egli medesimo in certo qual modo fatto prigioniere nella corte del signore di Milano dalla sua più tenera infanzia fino al 1400[433]. Francesco di Gonzaga governava Mantova dopo il 1382; ma non si conservava in questo principato che mercè la più ossequiosa deferenza a tutte le volontà di Giovanni Galeazzo. Aveva preso parte a tutte le sue alleanze, ed a tutte le sue guerre, senza sperarne altro vantaggio che quello di protrarre più in là l'epoca in cui sarebbe [308] ancor esso spogliato de' suoi dominj[434]. Nella famiglia d'Este il marchese Alberto era succeduto, il 26 marzo 1388, a suo fratello Niccolò in pregiudizio d'Obizzo, figlio d'un suo fratello maggiore che gli era premorto[435]. Alberto, dietro le suggestioni di Giovan Galeazzo, presso di cui erasi recato a Milano, fece tagliare la testa ad Obizzo ed a sua madre accusati d'avere contro di lui tramata una congiura; fece bruciare la sposa di questo sventurato, appiccare uno de' suoi zii, tenagliare e porre alla tortura molti de' loro confidenti[436]. Dopo tali atrocità il marchese di Ferrara, resosi esoso ai popoli ed ai principi, non poteva ad altri fidarsi che a Giovan Galeazzo, che gliele aveva fatte commettere, e non agiva che a seconda de' suoi consiglj o de' suoi ordini.
Le altre famiglie, un tempo sovrane, erano tutte state spogliate de' loro stati dai Visconti: i Coreggio, i Rossi, gli Scotti, [309] i Pelavicini, i Ponzoni, i Cavalcabò, i Benzeni, i Beccaria, i Languschi, i Rusca, i Brusati, o più non esistevano, o non avevano autorità negli stati altra volta sottomessi ai loro antenati. La casa Visconti era succeduta sola a tutta la loro potenza, come a quella degli Scala e dei Carrara.
Se i comuni di Toscana fossero stati uniti dalla considerazione de' loro pericoli, avrebbero potuto sostenere con pari forze la lotta col conte di Virtù; ma la sola Firenze sapeva calcolare nelle sue viste la politica dell'Italia e dell'Europa intera. Le altre città, invece di stare in guardia contro il nemico d'ogni libertà, erano gelose della sola Firenze, e le imprudenti loro passioni favoreggiavano i progetti del tiranno che voleva ridurle in servitù.
Gli stati d'Italia, esposti alle invasioni di Galeazzo, non potevano sperare soccorso dal rimanente dell'Europa. L'impero era venuto in mano del più debole, del più spregevole de' principi, Wenceslao, indegno figlio di Carlo IV, il quale pure aveva anche tanto degenerato dai suoi gloriosi antenati. La Francia, durante la minorità e la pazzia di Carlo VI, trovavasi in preda ad un'anarchia, nella quale si videro ben presto nascere le [310] funeste fazioni dei duchi di Borgogna e d'Orleans. L'Inghilterra era governata dal debole Riccardo II, sotto il di cui regno nacquero le fazioni delle due rose. Per le sue guerre civili l'Ungheria perdeva tutta l'influenza che aveva acquistata sull'Italia e sul rimanente dell'Europa sotto il gran re Luigi. L'Arragona in tempo della lunga amministrazione di Pietro IV, detto il ceremonioso, aveva tenuto un distinto rango tra le potenze marittime; ma questo re era morto il 4 gennajo del 1387[437], ed il debole Giovanni, che gli succedeva, riposava in un ozio vile, abbandonando alla consorte tutte le cure de' pubblici affari[438]. Così dall'una all'altra estremità dell'Europa tutti i regni erano affetti da un vizio interno, tutti i regni sembravano nello stesso tempo colpiti d'accecamento, da viltà, o da demenza, mentre il signore della Lombardia manteneva costantemente al suo soldo maggiore numero di truppe che verun altro monarca d'Europa, disponeva d'un'immensa entrata, governava i suoi [311] stati dispoticamente, e formava progetti di conquista ancora più grandi della sua potenza. Giovanni Galeazzo aveva un coraggio intraprendente, che stranamente contrastava colla sua viltà personale. Quell'uomo medesimo, che mai non mostrossi alla testa dell'esercito, che nel palazzo fortificato di Pavia non lasciavasi vedere da chicchefosse, che circondavasi di triplici guardie, e che nel suo appartamento stava sempre apparecchiato a difendersi contro di queste, come se fosse sicuro d'essere tradito; quest'uomo non esitava un solo istante nelle sue risoluzioni, non lasciavasi smuovere dal pericolo, nè scoraggiare dal cattivo esito. Superiore a tutti nella profondità della sua politica, incapace di rimorsi per il delitto, o di vergogna per la mala fede, mirava coi vasti suoi mezzi a sottomettere tutta l'Italia; e se ne avesse terminata la conquista, pochi ostacoli avrebbe più incontrati a dilatare il suo dominio sulle vicine contrade. Ma la libertà italiana fu per alcun tempo salvata ancora, perchè nella carriera della sua ambizione Giovan Galeazzo si trovò a fronte la virtù, il coraggio, la magnanimità della repubblica fiorentina, e l'odio implacabile di Francesco da Carrara che aveva di già spogliato.
Molte cagioni avevano contribuito ad eccitare l'animosità di diversi comuni liberi della Toscana contro Firenze, di modo che, malgrado l'alleanza che le univa, noi vedremo successivamente Pisa, Siena, Lucca, Perugia e Bologna associarsi al nemico de' Fiorentini e della libertà.
Molte compagnie di ventura erano successivamente entrate in Toscana per vivere rubando; tutte avevano estorte contribuzioni dalle più deboli città, mentre la potenza de' Fiorentini le teneva ad una rispettosa distanza. I popoli oppressi, invece d'accusare se medesimi della propria debolezza, sospettavano che i Fiorentini fossero segretamente d'accordo con queste bande d'assassini[439]. I Tarlati della famiglia di Pietro Saccone, signore di Pietra Mala, si erano nel 1384 dati o raccomandati alla repubblica di Siena con sessantanove castelli, ed un gran numero di villaggi[440]. In ogni tempo eransi conservati nemici de' Fiorentini, ed avevano associati i Sienesi alla loro animosità. Lo stesso anno Engerrando [313] di Coucy aveva condotta in Italia un'armata francese di oltre dodici mila cavalli, che guidava nel regno di Napoli in soccorso di Luigi duca d'Angiò[441]. Un luogotenente di Carlo III occupava in allora Arezzo, mentre una folla d'emigrati aretini si erano uniti ai Tarlati.
Questi offrirono ad Engerrando di Coucy d'introdurlo in Arezzo col mezzo delle intelligenze che vi avevano conservate, ed infatti essi gli aprirono le porte di questa città la notte del 29 settembre 1384. Ma la morte del duca d'Angiò, di cui nella notte medesima si ebbe avviso a Firenze[442], determinò Engerrando a rinunciare alla sua spedizione. Egli cercò prima di occupare il castello d'Arezzo, ov'erasi ritirato il luogotenente di Carlo III coi Guelfi; ma vedendo che dopo cinquanta giorni d'assedio non aveva nulla avanzato, e che gli assediati avevano venduta la loro fortezza ai Fiorentini, trattò ancor esso con questa repubblica, ed avendo ricevuta una somma di [314] danaro, il 17 novembre 1384 aprì le porte d'Arezzo ai commissarj di Firenze[443]. Nello stesso tempo i Sienesi stavano con lui contrattando, e lo avevano soccorso, onde concepirono un estremo dispetto, vedendosi dai loro rivali tolto un acquisto ch'essi speravano di fare[444].
Frattanto la repubblica di Siena veniva travagliata da rivoluzioni, che sempreppiù la rendevano debole; ella era governata da artigiani della più bassa lega, che avevano assunto il nome di riformatori. I nobili trovavansi con costoro in aperta guerra, e tutto il rimanente della nazione gemeva oppressa. Ma il 24 marzo 1385 gli ordini dei nove e dei dodici, che tenevano tra i borghesi un rango superiore, unironsi ai nobili per attaccare l'oligarchia artigiana de' riformatori. Dopo un'accanita zuffa cacciarono questi artigiani fuori di palazzo, poi fuori della città. Quattro mila di costoro fuggirono o furono mandati in esilio[445]; [315] e nell'ultima classe della nazione si creò un nuovo ordine sotto il nome di monte del popolo, per separarlo affatto dai riformatori che si volevano proscrivere. Il governo venne diviso tra i nove, i dodici ed il popolo; la nobiltà rimase esclusa dagl'impieghi[446].
Questa rivoluzione riconciliò per breve tempo i Sienesi coi Fiorentini, perchè gli ultimi avevano soccorsi i borghesi di Siena. Essi accomunavano ai riformatori il risentimento che i loro Ciompi avevano loro inspirato, ed appena usciti essi medesimi dal giogo del popolaccio, volevano pur rompere quello de' loro vicini. Ma bentosto una contesa di giurisdizione ravvivò tra le repubbliche una mal assopita animosità.
La comunità di Montepulciano trovavasi da lungo tempo sotto la protezione di Siena con certe condizioni e riserve che i Sienesi avevano mal osservate[447]. [316] Ma questa borgata, che più anticamente era stata sotto la protezione de' Fiorentini, li chiamò come garanti de' suoi privilegi. La famiglia dei Pecora governava in allora Montepulciano con una quasi assoluta autorità. Questi piccoli signori erano divisi, Giovanni di Pecora aveva scacciato suo cugino Gherardo, e questi con un piccolo numero d'aderenti era rimasto attaccato ai Sienesi, ma il popolo ed il capo erano spontaneamente ricorsi ai Fiorentini[448].
Questi ultimi, ai quali Giovanni di Pecora offriva la sovranità di Montepulciano, non vollero accettarla; invece cercarono di riconciliare questo signore coi Sienesi. Perciò incaricarono il loro ambasciatore di rinnovare per cinquant'anni il trattato esistente tra i due popoli; ma nello stesso tempo mandarono alcune compagnie di soldati a Montepulciano, affinchè questo comune non venisse attaccato finchè durava la negoziazione[449].
I Sienesi, che avevano nome di essere i più vendicativi popoli della Toscana, irritati perchè i fiorentini avessero presa parte alla contesa loro coi proprj sudditi, si resero schiavi essi medesimi per trarvi anche i loro rivali. Mandarono segretamente ambasciatori al conte di Virtù, offrendogli di darsi a lui. Ma in tale epoca Giovanni Galeazzo, trovandosi tutt'inteso alla sua guerra con Francesco da Carrara, ebbe timore di dare motivo alla repubblica fiorentina di soccorrere questo principe, e spedì immediatamente deputati alla signoria per protestare, che lungi dal volere turbare la pace della Toscana, aveva rifiutate le offerte dei Sienesi; e che quando questo popolo stesso a lui si volesse dare liberamente e senza riserve, egli ancora non lo vorrebbe accettare[450].
Per altro Giovanni Galeazzo non aveva fatto, come diceva, così aperto rifiuto dell'offerta de' Sienesi, perciocchè maravigliosamente si accordava co' suoi progetti di conquista in Toscana e colle più care sue speranze. Persuase solamente questa repubblica a negoziare coi Fiorentini, finchè gli fosse riuscito di soggiogare Francesco da Carrara, ed allora fece bruscamente rompere le conferenze, mentre i suoi ambasciatori protestavano a Firenze che il loro signore non desiderava che la pace[451].
Nello stesso anno Giovanni Galeazzo tentò d'occupare Pisa. Pietro Gambacorti, alleato dei Fiorentini, governava questa repubblica. Tutt'ad un tratto fu attaccato da una compagnia di ventura, ed avanti che avesse potuto domandare soccorso ai suoi alleati, vide giugnere da Sarzana quattro mila cavalli che il Visconti, secondo egli diceva, mandava in suo soccorso. Questi inaspettati ausiliari chiedevano instantemente di essere ricevuti in città; ma Pietro Gambacorti, che più temeva tali difensori che i nemici, fece loro chiudere le porte di Pisa, mentre che [319] accolse in città senza verun sospetto i rinforzi mandatigli dai Fiorentini[452].
Passò ancora tutto il 1388 senza che scoppiasse la guerra; ma ogni giorno vedevansi nascere nuove difficoltà, che davano motivo a nuove negoziazioni per calmare il risentimento che eccitavano. Il conte di Virtù aveva alternativamente diretti i suoi progetti su tutte le città della lega guelfa; ma Bologna trovavasi più d'ogni altra esposta alle sue pratiche, perchè i Visconti, che n'erano stati in addietro padroni, vi conservavano alcuni partigiani. La peste e la somma carezza delle vittovaglie travagliavano nello stesso tempo questa città, onde un segreto malcontento, eccitato dalle creature di Giovanni Galeazzo che trassero molti Bolognesi in una congiura contro la libertà, si andava diffondendo tra i suoi abitanti. Un fortunato accidente fece scoprire questa trama, ed i capi perdettero la testa sul patibolo[453]. Da prima parve che il conte di Virtù pensasse a vendicarli, ed ordinò ai Fiorentini ed ai Bolognesi dimoranti ne' suoi [320] stati di partire entro otto giorni[454]; fece passare duecento lance a Siena, e la guerra parve inevitabile. Frattanto Pietro Gambacorti, che temeva d'esservi strascinato suo malgrado, si adoperò in modo, che ottenne di rinnovare le negoziazioni. I Fiorentini avevano omai terminati i loro apparecchi, ed eransi procurati alleati in Germania, quando il Gambacorti li persuase in ottobre del 1389 a segnare un trattato di pace e di alleanza col conte di Virtù, col quale si obbligavano reciprocamente, i Fiorentini a non immischiarsi negli affari di Lombardia, il conte a non prendere veruna parte in quelli della Toscana[455].
Ma Giovanni Galeazzo non si faceva riguardo di segnare qualunque trattato, poichè disposto era a non osservarne alcuno. Spedì a Siena quello de' suoi generali che più odiava i Fiorentini, Giovanni d'Azzo degli Ubaldini, l'erede di una delle grandi famiglie ghibelline degli Appennini; e coll'opera sua Giovanni [321] Galeazzo sedusse alcuni cittadini di Samminiato che vivevano in istretta domestichezza col governatore di questo importante castello. I congiurati promisero di uccidere il governatore e di aprire Samminiato alle truppe del Visconti, che per tal modo avrebbe potuto chiudere ai Fiorentini la navigazione dell'Arno: ma i cospiratori, cercando complici, si rivolsero ad alcune persone che manifestarono la trama[456].
Giovanni d'Azzo non si lasciò sgomentare dalla mala riuscita di Samminiato, e tenne dietro ad altre pratiche. Era costui parente d'un signore cortonese che inutilmente cercò di guadagnare al partito del Visconti. Tentò pure di sedurre i Perugini, ma questi, agitati da una rivoluzione, vollero conservare la neutralità. In settembre di quest'anno i nobili si erano uniti al basso popolo, ed avevano ottenuta sui borghesi una compiuta vittoria, escludendoli affatto dal governo. Erano fuggiti più di cinquecento cittadini; la città era stata in parte saccheggiata, e Pandolfo Baglioni, capo della nobiltà, aveva con questa rivoluzione [322] fatto il primo passo verso il supremo potere della sua patria cui celatamente aspirava[457].
Le pratiche di Giovanni d'Azzo furono più fortunate a Pisa; non già che ottenesse di staccare dai Fiorentini Pietro Gambacorti, il fedele amico della repubblica; ma questo virtuoso cittadino, che aveva così lungo tempo governato la sua patria senza offenderne la libertà e senza mai abusar del potere che riconosceva dalla confidenza de' suoi compatriotti, cominciava a perdere il suo credito. Di già i suoi nipoti, figliuoli di Gherardo suo fratello, avevano l'arrogante procedere de' nuovi signori; uno di loro era stato nominato arcivescovo di Pisa, un altro cavaliere del santo Sepolcro, ed un terzo canonico; costoro si scordavano, che i cittadini di Pisa erano loro eguali, e si permettevano talvolta certi atti violenti, di cui i tribunali non ardivano punirli[458]. Un agente di Giovanni Galeazzo inasprì il malcontento del popolo, e sedusse coll'oro [323] Giacomo Appiano, cancelliere del comune, reso potente dallo stesso Gambacorti, che in lui ciecamente fidava.
Nello stesso tempo i Fiorentini avevano cercato di afforzarsi colle alleanze; ma il solo amico di cui facessero maggior capitale era un uomo che senza truppe e senza stati era venuto a rifugiarsi in Firenze. Invece di fortezze e di soldati offrì alla repubblica i suoi talenti, il suo coraggio, l'energia del suo carattere, e soprattutto l'irreconciliabile suo odio verso il Visconti. Questi era Francesco Novello di Carrara, poc'anzi signore di Padova.
Giovanni Galeazzo dopo averlo tenuto lungo tempo a Milano, volle almeno apparentemente eseguire la convenzione, dietro la quale eragli stata ceduta Padova. Aveva prima fatto sapere a Francesco, che gli accorderebbe in ricompensa di Padova la signoria di Lodi; ma non gli aveva mai acconsentito di venire a Pavia, ed i suoi agenti andavano ogni giorno diminuendo le loro offerte, e facevano nascere ad ogni istante nuove difficoltà. Finalmente gli accordarono a nome del conte di Virtù la signoria di Cortazzone, presso Asti. Era Cortazzone un vecchio castello mezzo ruinato, con alcuni vassalli, per la maggior parte assassini [324] di strada, ma Ghibellini appassionati e pieni di prevenzione e di odio contro la casa guelfa di Carrara[459].
Francesco da Carrara condusse sua moglie, Taddea d'Este e tutta la sua famiglia, prima ad Asti, poi a Cortazzone. Colà si occupò come un semplice gentiluomo a far rifabbricare il suo castello[460]. La città di Asti era in allora posseduta dal duca d'Orleans, cui Giovanni Galeazzo V aveva data per dote di sua figliuola Valentina[461]. Il luogotenente del duca si affezionò a Francesco da Carrara, ed un giorno lo prevenne che Giovanni Galeazzo aveva appostati degli uomini per farlo uccidere mentre passerebbe da Cortazzone ad Asti. Lo consigliò pertanto a porsi in sicuro con una pronta fuga[462].
Il Carrara in marzo del 1389 partì repentinamente da Asti con sua moglie, ed alcuni servitori, dando voce di voler fare un pellegrinaggio a sant'Antonio di Vienna, nel Delfinato. Il governatore di Asti gli diede guardia fino ai confini del Monferrato, e s'incaricò egli medesimo di far giugnere a Firenze i figliuoli del Carrara, i suoi fratelli naturali e gli effetti preziosi che aveva seco portati da Padova[463].
Francesco soddisfece in fatti al suo pellegrinaggio, dopo il quale recossi in Avignone per chiedere consiglj e soccorsi al papa francese. Imbarcossi poi a Marsiglia colla moglie, intenzionato di costeggiare colla sua felucca le due riviere della Liguria, e di sbarcare a Pisa; ma cammin facendo fu sorpreso dalle burrasche dell'equinozio; e perchè Taddea, gravida da più mesi, soffriva crudelmente i disagi del mare agitato, pregò lo sposo di risparmiarle il tormento della navigazione, preferendo, diss'ella, di fare tutta la strada a piedi piuttosto che soffrire così aspro martirio. Carrara non ignorava che i dolori del mare erano [326] senza pericolo, mentre la strada di terra presentava infiniti ostacoli; si arrese non pertanto ai desiderj della sposa, e si fece sbarcare sulla costa, ordinando per altro ai suoi marinai di tener sempre la felucca a portata di valersene quando volesse.
Alcuni castelli della riviera di Ponente appartenevano ai Ghibellini, ereditarj nemici della famiglia del Carrara; altri erano posseduti da creature del conte di Virtù; ne' deserti e tra gli scogli stavano in vedetta alcuni emissarj di questo signore per sorprendere i viaggiatori; ovunque erano circondati da' pericoli; e Francesco, dopo avere camminato tutto il giorno per aspri e tortuosi sentieri che s'aggirano sul pendìo di scoscese montagne, sostenendo sull'orlo dei precipizi colle sue braccia la sposa, non ardiva poi la sera di entrare in qualche casa per riposarsi. Presso a Monaco passarono la notte in una chiesa mezza ruinata; a Ventimiglia il podestà fece tener loro dietro i suoi arcieri, contro i quali sostennero una zuffa prima di essere riconosciuti. Ivi s'imbarcarono di nuovo; ma la tempesta ed i patimenti di Taddea li costrinsero bentosto ad approdare in mezzo ai feudi dei marchesi del Carreto, [327] Ghibellini affezionati al conte di Virtù, Attraversarono parte del paese a piedi in una continua diffidenza; ed essendosi all'ultimo adagiati sotto alcuni alberi per mangiare un capretto, che avevano comperato da un pastore, una metà della compagnia faceva la guardia, mentre l'altra metà mangiava[464].
Inaspettatamente furono raggiunti in questo stesso luogo da un messo di Pacino Donati, agente fiorentino del Carrara e di Antonio Adorno doge di Genova: l'ultimo prometteva la sua protezione al fuggitivo signore di Padova e gli spediva un brigantino per condurlo a Genova sotto finto nome, dandogli una salvaguardia per attraversare gli stati della repubblica. Carrara andò con tutta la sua famiglia a bordo del brigantino genovese, ma la burrasca, che non cessava di perseguitarlo, lo costrinse bentosto a sbarcare in Savona. Era colà aspettato da Pacino Donati e da altri amici; la mensa era imbandita, e già si disponevano a mangiare, quando un secondo messo del doge entrò precipitosamente nella camera, e loro ordinò di rimbarcarsi all'istante. [328] Giovanni Galeazzo aveva intimato alla repubblica di Genova di arrestarli ovunque si trovassero, dichiarando di farle sentire gli effetti del suo sdegno, se loro dava asilo, ed Adorno non ardiva di esporsi per cagione loro alla collera di così potente signore. I Carrara ripartirono senza avere mangiato; navigarono tutta la notte, e la susseguente mattina il bisogno di cibarsi li forzò a dar fondo nel porto di Genova. Erano vestiti da eremiti tedeschi, ed entrarono così sconosciuti in un albergo[465].
Dopo poche ore di riposo si rimbarcarono, e scorrendo la riviera di Levante press'a poco con altrettanta difficoltà, sbarcarono finalmente a Motrone, piccolo porto del territorio di Pisa, ove speravano di trovare finalmente sicurezza e riposo. Dopo avere congedati i marinaj si avviarono subito a piedi alla volta di Pisa, facendosi precedere da un messo per avvisare Gambacorti del loro arrivo.
Francesco da Carrara sostenendo la consorte che più non reggeva alla fatica, cercava di ridonarle speranza e coraggio. «A Pisa, le diceva egli, ristoreremo [329] bentosto le nostre membra affaticate; sono sicuro di essere ben accolto da Pietro Gambacorti, il quale, cacciato ancor esso come me dalla sua patria, vagò di terra in terra chiedendo soccorso. In allora mio padre lo accolse nella sua corte colla moglie e i figli, lo colmò di onori, e maritò una sua figliuola al marchese Spineda, dandogli poi danaro e soldati per ristabilirsi in Pisa; e se il Gambacorti trovasi al presente felice e tranquillo, non si scorderà che lo deve alla nostra famiglia.» Mentre andavano con queste memorie riconfortandosi, il messo tornò a dir loro, che Pietro Gambacorti non osava riceverli in patria, perchè Galeazzo Porro, uno de' generali di Giovanni Galeazzo, era giunto con un corpo di cavalleria, ed aveva domandato alla signoria di farli arrestare[466].
Quando Taddea udì questo annunzio cadde svenuta; lo sposo dopo averle richiamati gli smarriti spiriti, entrò travestito in Pisa, si procurò un cavallo per la moglie e cibi di cui tutti abbisognavano. Raggiunse di nuovo la sua [330] piccola truppa, e tenendo una strada appartata la condusse a Cascina posta sulla strada di Firenze, e colà si alloggiarono in così misero albergo, che dovettero tutti passare la notte nella stalla. Eransi appena coricati sopra la paglia che un messo di Gambacorti li risvegliò; questi mandava loro in dono dieci cavalli, confetti e torchi, ordinava a tutti i castellani dello stato di Pisa di trattare il meglio che potevano questi illustri ospiti. L'albergatore cedette allora il proprio letto a Francesco da Carrara ed alla sua sposa; e questa fu la prima notte, da che erano partiti da Asti, che non si coricavano sulla nuda terra, o sopra la paglia[467].
I fuggitivi principi non trovarono pure in Firenze quell'accoglimento che speravano di ricevervi; perciocchè era il tempo in cui Giovanni Galeazzo dava alla repubblica le più lusinghiere speranze di mantenere la pace, ed in cui la repubblica, soffrendo per l'estrema carezza delle vittovaglie, cercava dal canto suo di non risvegliare la collera del potente signore di Lombardia. Perciò i magistrati si astennero alcun tempo da ogni ministeriale [331] relazione col Carrara e non lo risguardarono che come un particolare che voleva approfittare della protezione che le loro leggi accordavano a tutti gli sventurati. Frattanto erano pure giunti in Firenze i figliuoli del Carrara e gli equipaggi che il governatore di Asti erasi incaricato di spedire. Ed allora il fuoruscito signore di Padova trovavasi padrone di ottanta mila fiorini in danaro, e di sessanta mila in gioielli e gemme[468]. Per dare uno stato indipendente a suo fratello naturale, il conte di Carrara, lo fece ricevere comandante di cento lance nella compagnia di Giovanni Acuto, indi, lasciati la moglie ed i figliuoli a Firenze, si rimise solo in viaggio per procurare nemici a Galeazzo.
Passò prima a Bologna, e trovò la signoria di questa città ben disposta a suo favore; ma prima di risolvere ella desiderava di vedere quale partito prenderebbe a suo riguardo la repubblica di Firenze. Imbarcossi poi in Ancona, intenzionato di attraversare il golfo e passare in Croazia presso al conte di Segna che aveva sposata sua sorella; ma una [332] burrasca lo spinse verso le lagune, ove fu riconosciuto, contro ogni sua aspettazione non preso dai Veneziani[469].
Sbarcato a Ravenna, Francesco da Carrara, più non poteva avventurarsi ad attraversare un mare dominato dai Veneziani, e sparso di navi che cercavano di raggiugnerlo. Tornò dunque a Firenze e vi fu assai meglio accolto che la prima volta, perchè recenti ingiurie di Giovan Galeazzo avevano meglio svelate le sue ostili intenzioni; onde la signoria propose al Carrara di recarsi in Germania, di offrire sussidj al duca di Baviera, e di persuaderlo ad attaccare il Visconti nel Friuli. Verso lo stesso tempo il Carrara aveva ricevuto un ultimo messo da suo padre che trovavasi strettamente guardato nel castello di san Colombano. Questo vecchio signore ordinava a suo figliuolo di pensare piuttosto a vendicarlo, che a calmare il suo nemico con vili compiacenze. «Ormai, gli diceva, io conosco Giovan Galeazzo: nè l'onore, nè la compassione, nè la giurata fede mai non lo determinarono ad una generosa azione; s'egli fa [333] qualche bene non vi è spinto che dal proprio interesse, essendogli sconosciuto ogni altro sentimento; e la virtù siccome l'odio e la collera vengono da lui assoggettate al calcolo.»
Francesco da Carrara, sicuro dell'approvazione di suo padre, accettò la commissione della repubblica fiorentina, e partì alla volta della Germania. Non potendo passare per gli stati del Visconti o de' Veneziani prese una lunga ma sicura via. Attraversò il golfo di Genova, la Provenza, il Delfinato e la Savoja[470]. Da Ginevra s'incamminò per la Svizzera, e giunse a Monaco presso il duca Stefano di Baviera. Era questi genero di Barnabò Visconti, che Giovanni Galeazzo aveva fatto morire in prigione. Il Carrara tutto soffiò nel cuore del Bavaro l'odio che lo infiammava egli stesso, facendogli sentire ciò che doveva all'ombra sdegnata del suocero, ed ai fratelli della consorte, cui il conte di Virtù aveva rapita l'eredità, e che non lasciava di perseguitare nel loro esilio col ferro e col veleno. Gli offrì ottanta mila fiorini per cominciare il suo armamento, obbligandosi [334] a far sì che Bologna e Firenze pagassero in appresso le spese della sua armata; ed ottenne la promessa che nell'entrante primavera scenderebbe in Italia con dodici mila cavalli[471].
Lasciando la Baviera Francesco di Carrara prese la strada della Dalmazia. Una sorella da lui sommamente amata era maritata al conte di Segna e di Modro, potente signore della Croazia, i di cui feudi si stendevano lungo il canale dei Morlacchi. Carrara si trattenne alcun tempo col cognato e colla sorella, che gli diedero i più affettuosi contrassegni dell'amor loro, e promesse di larghi soccorsi; e colà stava egli aspettando una risposta dai Fiorentini intorno ai trattati fatti col Bavaro. Finalmente giunse il suo messo, recandogli i ringraziamenti della signoria per quanto aveva operato, facendogli però sapere che il suo trattato non avrebbe effetto, perchè, dopo la sua partenza, Firenze, e i comuni toscani avevano conchiuso, colla mediazione del Gambacorti, in ottobre del 1389, una lega offensiva e difensiva con Giovanni Galeazzo Visconti[472].
Francesco da Carrara vedendo tutt'ad un tratto svanite le sue più care speranze, poco mancò che non morisse di dolore, e non vi voleva meno di tutta la tenerezza della sorella e del cognato, per toglierlo all'estremo suo avvilimento. Il cognato gli promise d'impiegare tutte le sue forze per fargli ricuperare la perduta sovranità, assicurandolo che, mercè le sue alleanze con diversi signori ungari, potrebbe disporre di tre mila cavalli e mantenerli tutto un anno al suo servigio: ma lo confortava di andare a chiedere soccorsi al capo di Bosnia che assumeva il titolo di re di Rascia, il quale nella guerra ch'egli faceva ai Turchi aveva sperimentata la perfidia di Giovanni Galeazzo[473].
Mentre Francesco di Carrara stava per porsi in viaggio alla volta di questo paese mezzo barbaro, fu raggiunto da Pietro Guazzalotti, ambasciatore dei Fiorentini, che veniva a chiedergli di rinnovare le sue pratiche col duca di Baviera. L'attentato di Giovan Galeazzo sopra Samminiato, ed i suoi intrighi a Perugia ed a Pisa, avevano persuasa la repubblica alla [336] guerra. Il Carrara condusse l'ambasciatore fiorentino presso il duca di Baviera, e passò in appresso nella Carinzia a domandare consigli e soccorsi al conte d'Ottemburgo che aveva sposata una sua zia[474]. Intavolò poi qualche trattato con alcuni signori del Friuli, che gli promisero il passaggio per i loro feudi, e degli ajuti nella sua marcia.
L'inverno erasi consumato in questi trattati, ed all'apertura della primavera del 1390 il Carrara seppe finalmente che la guerra era stata dichiarata. I Malatesti ed i signori d'Urbino, alleati di Giovanni Galeazzo, avevano attaccata e disfatta una truppa al soldo de' Bolognesi; dopo di che il conte di Virtù, il marchese d'Este ed il signore di Mantova mandarono i loro araldi d'armi a portare per parte loro una sfida alle repubbliche di Firenze e di Bologna[475]. Ma nello stesso tempo seppe Francesco da Carrara che suo fratello naturale, il conte di Carrara, era stato fatto prigioniere da Carlo Malatesti di Rimini, alleato del conte di [337] Virtù, e che suo cognato Stefano, conte di Segna, era morto, lasciando la sua vedova assediata nel castello di Modro[476]. Carrara sarebbe rimasto vittima del dolore senza i soccorsi datigli dal conte d'Ottemburgo. Non tardò per altro a riprendere coraggio, e ritornò in Baviera per affrettare gli apparecchi di quel duca.
I Fiorentini avevano dal canto loro invocata la protezione di Carlo VI, re di Francia, ed ebbero la risposta nell'istante in cui scoppiò la guerra. Quel re loro offriva potenti soccorsi, ma sotto due condizioni; la prima, che la repubblica riconoscesse per legittimo papa Clemente VII, che sedeva in Avignone, e la seconda, che in segno di riconoscenza la repubblica pagasse al re un annuo, sebbene piccolo tributo, in segno di ubbidienza. Tali condizioni vennero altamente rifiutate, la prima come contraria alla coscienza, l'altra alla libertà; e la repubblica piuttosto che comperare alleati a tale prezzo, amò meglio di vedersi ridotta alle proprie forze per combattere il suo potente nemico[477].
I dieci della guerra adunarono il così detto consiglio de' richiesti, ossia un'assemblea de' più riputati cittadini; loro esposero lo stato degli affari, e chiesero che facessero conoscere loro la volontà del popolo. Lo zelo di tutti i Fiorentini per la difesa della libertà e per l'onore della patria si appalesò altamente in questo consiglio. Le borse de' privati furono aperte al governo[478], ed i decemviri trovandosi a portata di spingere vivamente la guerra, diedero il comando delle loro truppe a Giovanni Acuto, che in allora trovavasi ai servigi della regina Margarita di Durazzo, e che nudriva un personale odio contro il duca di Virtù. Acuto venne posto alla testa di due mila lance, o sei mila uomini di cavalleria, ed i Bolognesi dal canto loro diedero mille lance al conte Giovanni di Barbiano[479].
Giovanni Galeazzo aveva condotti al suo servigio i più abili generali di quel tempo, e nulla aveva risparmiato per assicurare alle sue armate la superiorità [339] del numero sopra quelle de' Fiorentini. Nel medesimo tempo aveva estese le sue alleanze tutt'all'intorno della Toscana. Siena e Perugia avevano abbracciato il suo partito, mentre gli emigrati di quest'ultima città ricevevano soccorso dai Fiorentini[480]. Antonio di Montefeltro, signore d'Urbino, Astorre Manfredi, signore di Faenza, i Malatesti, signori di Rimini, ed i signori d'Imola e di Forlì, erano tutti guadagnati dal conte di Virtù. Questi invece di riunire il suo esercito in un solo corpo, lo distribuì nel territorio de' molti suoi alleati; mentre Giacomo del Verme si avanzava dalla parte di Modena verso Bologna, con mille duecento lance e cinque mila pedoni[481]. Giovanni d'Azzo degli Ubaldini comandava mille lance a Siena[482], Paolo Savelli trovavasi a Perugia alla testa di un altro corpo di truppe, ed Ugolotto Biancardo, Galeazzo Porro e Facino Cane eransi riuniti in Romagna ai soldati dei signori di questa provincia. In tutto Giovan [340] Galeazzo aveva mandato contro Firenze e Bologna quindici mila cavalli e sei mila fanti[483].
Ma qualunque si fosse la superiorità delle forze di Giovanni Galeazzo, le sue truppe, disperse sopra una troppo estesa linea, non diedero veruna grande battaglia, e la guerra si riduceva a sorprese di castelli, a scorrerie di cavalleggeri, e a piccole zuffe; quando tutt'ad un tratto la somma della guerra si ridusse nella Marca Trivigiana per l'invasione di questa provincia operata da Francesco da Carrara.
I Veneziani, che cominciavano ad adombrarsi della crescente grandezza di Giovan Galeazzo, avevano promesso alle repubbliche di Firenze e di Bologna che manterrebbero un'esatta neutralità, e darebbero libero passaggio alle armate delle due parti pel territorio trivigiano[484]. Francesco da Carrara aveva approfittato di questa concessione per mettersi in marcia, senza aspettare il duca di Baviera, i di cui apparecchi non erano per anco terminati. Aveva trovato a Cividale del [341] Friuli circa trecento lance che Michele di Rabatta, suo strettissimo amico ed altri gentiluomini di questa provincia avevano ragunate al suo soldo; ed egli si era avanzato fino ai confini degli stati de' suoi antenati, facendosi portare avanti tre stendardi, quello del comune di Padova, gli stemmi di sua famiglia, e di quella della Scala. I Fiorentini lo avevano impegnato a prendere sotto la sua protezione Can Francesco della Scala, figlio d'Antonio, cui aveva egli medesimo fatta la guerra, ma che Giovanni Galeazzo aveva fatto avvelenare, dopo averlo spogliato de' suoi stati.
Alla vista degli stendardi di Carrara tutti gli abitanti del territorio di Padova presero le armi, perciocchè sotto il governo de' Visconti trovavansi più aggravati di gabelle di quel che lo fossero sotto gli antichi loro principi; mentre verun sentimento d'affetto per questa novella razza, veruna abitudine del passato, veruna speranza dell'avvenire gli ajutava a sopportare il peso ond'erano oppressi. La capitale trovavasi ridotta al rango di provincia, ed era spento affatto l'orgoglio nazionale. In ogni villaggio ove presentavasi, Francesco trovava gli abitanti armati, che lo accoglievano con grida di gioja, [342] e la sua armata andava ingrossando ogni ora. Il 18 giugno mandò a sfidare coloro che avevano il comando di Padova a nome del conte di Virtù; questi incaricarono il suo trombetta di dirgli, che ben folle era colui, il quale, dopo essere uscito per la porta, sperava di poter rientrare superando le mura[485].
Ma Francesco da Carrara sapeva di già per dove entrerebbe nella sua capitale; sapeva che al di sotto del ponte della Brenta non trovavasi acqua nel fiume che fino al ginocchio, e che in questo luogo l'ingresso della città era chiuso da una semplice palafitta di legno. In su la mezza notte del seguente giorno scese avanti nel letto della Brenta con dodici uomini, tutti armati di scuri, e quaranta lanceri. Cominciò subito ad atterrare la palafitta, e quando il fracasso ch'egli si faceva cominciò a richiamare sul luogo la guardia, fece che in ogni lato i contadini uniti alla sua armata mettessero altissime grida, onde distrarre l'attenzione della guarnigione. Erasi questa divisa per custodire tutto il giro delle mura, onde non gli furono opposti che circa [343] cinquant'uomini, a traverso ai quali non tardò ad aprirsi un passaggio, giugnendo fino al cimitero di san Giacomo, ove fu raggiunto da due cento de' suoi soldati[486]. Allora il grido di carro! carro! (che era lo stemma di sua famiglia), ripetuto ad alta voce dal popolo, lo stendardo carrarese dispiegato nelle contrade, ed il suono delle trombe che udivasi in diversi lati, riempirono di terrore la guarnigione milanese, e mossero i Padovani a dichiararsi pel loro antico signore. In breve tempo egli fu padrone di tutte le porte, ed i soldati di Giovan Galeazzo sì ritirarono nelle due fortezze con alcuni cittadini che si erano dati a conoscere nemici della casa di Carrara[487].
Nella vegnente notte una delle fortezze fu data in mano a Francesco da alcuni Padovani che avevano le loro case nel suo ricinto[488]. Le uscite dell'altra vennero chiuse in maniera che i soldati che l'occupavano più non potessero entrare in città, e la mattina fu data notizia al Carrara, che Castelbaldo, Montagnana, [344] Este e Monselice eransi dichiarate a suo favore, e che subito dopo Pieve di Sacco, Bovolenta, Castel Carro, san Martino, Cittadella, Limena e Campo san Piero avevano inalberate le sue bandiere. Nel ricevere queste felici notizie sulla piazza di Padova Francesco da Carrara s'inginocchiò in mezzo al suo popolo, e ringraziò Dio ad alta voce di tanti favori, di cui riconoscevasi indegno[489].
I Veronesi informati della rivoluzione di Padova, e dell'arrivo a Venezia di Can Francesco della Scala, fanciullo di sei anni, figliuolo del loro ultimo signore, presero le armi il 25 giugno, proclamando il nome della Scala, ed occuparono le mura e le porte della loro città; ma non riuscirono ad impadronirsi del castello, nè ebbero l'antiveggenza di troncare ogni comunicazione tra la città ed il castello. Frattanto si manifestò tra i cittadini qualche disparere; i borghesi desideravano di approfittare di questa rivoluzione per ristabilire la repubblica; e per lo contrario il basso popolo voleva darsi senza condizioni al fanciullo, erede della casa della Scala[490]. Mentre disputavano, Ugolotto [345] Biancardo, che Giovanni Galeazzo mandava con ogni diligenza con cinquecento lance per difendere Padova, entrò nel castello di Verona, di dove piombò all'improvviso sulla città, abbandonandola al saccheggio, dopo aver fatta un'orribile uccisione de' suoi abitanti[491]. Prese in seguito la strada di Padova sperando di avervi un eguale successo; ma Francesco da Carrara non si lasciò sorprendere, ed il generale milanese si chiuse nel castello che non aveva più comunicazione colla città.
Il 27 giugno giunsero a Padova sei cento cavalli del duca di Baviera, ed il primo luglio furono raggiunti dal duca Stefano che conduceva soltanto sei mila cavalli invece dei dodici mila che si era obbligato di dare[492]. Il 5 agosto due mila corazzieri mandati dai Fiorentini entrarono pure in Padova: la città ch'era stata sorpresa con un pugno di gente si trovò in allora difesa da una numerosa armata; onde il castello assediato da tante forze riunite s'arrese finalmente il 27 agosto, e Francesco da Carrara si [346] trovò nuovamente ristabilito sul trono de' suoi padri, cui la sua attività, la sua perseveranza, il suo coraggio gli avevano appianata la strada[493].
Disfatta del conte d'Armagnacco alleato dei Fiorentini. — Bella ritirata di Giovanni Acuto; pace di Genova. — Uccisione dei Gambacorti in Pisa. — Protezione accordata dai Fiorentini a Francesco di Gonzaga, ed a Niccolò III d'Este. L'imperatore Wenceslao accorda a Giovan Galeazzo il titolo di duca di Milano.
1390 = 1395.
La lotta dei Fiorentini con Giovanni Galeazzo Visconti aveva cominciato con uno strepitoso avvenimento. Il fuoruscito cui avevano dato asilo nella loro città veniva di nuovo riconosciuto capo di un popolo fedele; erano tolti al nemico i tributi di una ricca provincia, ricuperati i castelli d'una importante frontiera, ed aperta la comunicazione colla Germania e con Venezia. I Veneziani avevano celatamente somministrate armi e danaro al Carrara, ed il timore di Giovanni Galeazzo li persuadeva a favorire il figlio di un uomo che avevano perseguitato con tanto accanimento. Tutti questi [348] vantaggi eransi conseguiti prima che giugnesse il duca Stefano di Baviera in Italia; e doveva credersi che un'armata potente e valorosa, doviziosamente provveduta di danaro e di vittovaglie, e condotta da un principe animato da personale risentimento avrebbe approfittato con calore degli ottenuti vantaggi. Ma in breve si potè osservare quanto la forza del carattere, più assai che la potenza ed il valore ed i talenti, contribuisca al felice esito delle intraprese. Tra gli alleati di Francesco da Carrara niuno erasi posto in campagna con minori mezzi di lui, eppure egli solo superò di lunga mano tutti gli altri, perchè portava nelle sue intraprese una ferma risoluzione di vincere, un coraggio ed una perseveranza maggiori d'ogni ostacolo.
Il duca Stefano di Baviera aveva di già mancato ai suoi obblighi verso le repubbliche di Firenze e di Bologna, seco non conducendo che sei mila uomini, invece di dodici mila. Non pertanto la sua armata era tuttavia formidabile, e veniva consigliato caldamente ad entrare nel territorio milanese, per battere alla spicciolata i generali di Giovanni Galeazzo, prima che tutti fossero tornati dai confini [349] della Toscana, e per incoraggiare alla ribellione i suoi segreti nemici. Ma il Visconti aveva saputo agghiacciare l'attività del bavaro con ricchi doni. Il duca si era accampato dietro al canale delle Brentelle, e ricusava di avanzarsi al di là di queste naturali fortificazioni, offrendosi in pari tempo mediatore tra gli alleati e suo cugino il signore di Milano, che più non risguardava come l'uccisore di Barnabò suo suocero; chiedeva nuovi sussidj e ritardava tutte le operazioni militari[494]. Il suo raffreddamento risvegliò finalmente tanti sospetti, che i medesimi alleati gli permisero di ritirarsi in Germania; egli partì, seco portando molto danaro guadagnato con dispendio della sua gloria[495].
La diversione della Marca Trivigiana aveva intanto liberati i Fiorentini di una [350] parte delle truppe spedite contro di loro. Giovanni Galeazzo aveva richiamati i suoi corazzieri di Siena[496], ove Giovanni d'Azzo degli Ubaldini, loro capitano, era morto il 24 di giugno[497]. Giacomo del Verme erasi ritirato dal Bolognese, dove aveva prima condotta un'altra armata; e Giovanni Acuto, generale dei Fiorentini, aveva approfittato del loro allontanamento, per avanzarsi fino a Parma con mille ottocento lance[498]. Dal canto suo Francesco da Carrara guastò il Polesine di Rovigo ed obbligò in tal modo il marchese d'Este a rinunciare all'alleanza di Giovan Galeazzo. Il trattato di pace di questo signore cogli alleati venne segnato il 30 ottobre: prometteva il marchese di accordare libero passaggio alle loro truppe a traverso a' suoi stati per attaccare il conte di Virtù, ed a tale condizione riebbe tutto quanto gli aveva tolto il Carrara[499].
Press'a poco nel medesimo tempo in cui il conte di Virtù richiamava le sue truppe da Siena, la peste erasi manifestata in questa città, e vi faceva grandissima strage. Gli antichi capi del partito guelfo, i Tolomei ed i Malavolli, vedevano con dolore, che la patria loro, oppressa da questo flagello, prendesse parte ad una guerra, nella quale stavano per lei tutti i pericoli della perdita e perfino la vittoria poteva essere funesta. I Fiorentini, colla mediazione di questi gentiluomini, facevano vantaggiose proposizioni di pace, ma l'alleanza del conte di Virtù aveva dato in quella repubblica una grandissima influenza al partito ghibellino ed a' suoi capi, i Salimbeni; e questi erano così fattamente acciecati dall'odio che portavano ai Guelfi, che per nuocere loro erano perfino apparecchiati a sagrificare la libertà e l'indipendenza della patria[500].
In sul declinare dell'anno Andrea Cavalcabò, intimo consigliere di Giovanni Galeazzo, fu chiamato a Siena in qualità di senatore[501]. Questo nuovo magistrato [352] domandò alla signoria, a nome del conte di Virtù, che Siena lo riconoscesse suo sovrano pel comune vantaggio della fazione ghibellina, ed affinchè Giovanni Galeazzo, capo della medesima, potesse dirigere i suoi attacchi contro i comuni nemici, con maggiore attività ed unione. I Salimbeni presentarono in allora al consiglio generale un progetto di decreto portante che il popolo di Siena supplicava Giovanni Galeazzo ad accettare la città ed il suo territorio per governarlo a suo beneplacito, e con un potere non meno assoluto di quello che aveva sopra Milano, Pavia e qualunque altra delle città sottomesse al suo dominio. La lettura di questa vergognosa proposizione eccitò le più vive opposizioni per parte di tutti gli amici della libertà; ma i Ghibellini erano sostenuti dalle truppe che Giovanni Galeazzo aveva lasciate in Siena sotto il comando di Giovanni Tedesco dei Tarlati. Essi attaccarono i Malavolti e gli amici della libertà; ne uccisero venti prima che avessero potuto porsi in sulle difese; ne fecero molti altri prigionieri, tra i quali Niccolò Malavolti, al quale tagliarono il capo insieme a non pochi, che si erano a lui uniti[502]. Posero il [353] fuoco alle case di molti repubblicani che perirono tra le fiamme[503]; disarmarono tutti i cittadini e fecero una nota dei quattrocento più riputati, cui ordinarono di uscire di città, avanti che la campana cessasse di suonare. Questi cittadini, inseguiti dai loro nemici e dalle truppe mercenarie di Francesco Tarlati, uscirono dalla città piangendo, seguiti dalle loro spose e figli che ferivano il cielo colle loro grida: ma lungi che i loro oppressori si muovessero a compassione, fecero dietro di loro chiudere le porte, e li condannarono a perpetuo esilio[504].
Ma quando i Salimbeni ebbero ottenuta questa vittoria sui loro rivali, e che per soggiogare Siena l'ebbero spogliata de' più riputati cittadini, un avanzo di vergogna o di tardo rimorso li fermò, avanti che dessero compimento ai loro criminosi progetti. Il decreto per assoggettare Siena a Giovanni Galeazzo passò bensì nel consiglio generale il 15 marzo 1391; ma seppero far nascere ostacoli per ritardarne l'esecuzione, moltiplicandoli accortamente fino alla conclusione [354] della pace; e non fu che nella susseguente guerra, otto anni dopo, che finalmente Siena fu data in piena sovranità a Giovanni Galeazzo[505]. Da lungo tempo egli era padrone delle fortezze del territorio, teneva truppe in città, disponeva de' soldati e delle entrate dello stato; onde gli emigrati guelfi di Siena più non riconoscendo la loro patria caduta in servitù, cercarono un rifugio in Firenze, ed aprirono ai Fiorentini i castelli di cui erano tuttavia padroni[506].
I due terzi delle spese della guerra contro Giovanni Galeazzo dovevano essere a carico dei Fiorentini, ed un terzo soltanto a carico dei Bolognesi; pure gli ultimi meno ricchi e meno perseveranti erano di già scoraggiati dall'enormità delle spese che avevano fitte nella prima campagna[507], e la signoria di Firenze dovette fare molte rimostranze per ridurli a raddoppiare i loro sforzi onde ottenere una onorevole pace. Firenze aveva fatti i più grandi apparecchi, e senza lasciarsi scoraggiare [355] dal poco successo della spedizione del duca di Baviera, determinò di far attaccare il Visconti ne' confini più lontani della Toscana.
Il conte Giovanni III d'Armagnacco godeva allora in Francia grandissima riputazione: sua sorella Beatrice aveva sposato Carlo Visconti figlio di Barnabò, e quest'ultimo, che cercava ogni mezzo di vendicare la morte del padre e di ricuperarne l'eredità, aveva persuaso Armagnacco a levare un'armata per attaccare Giovanni Galeazzo. Due ambasciatori fiorentini, Rinaldo Gianfigliazzi e Giovanni de' Ricci, portarono in dono cinquanta mila fiorini al conte Giovanni, promettendo inoltre di pagare il soldo di un esercito di quindici mila cavalli, ch'egli prometteva di condurre in Lombardia. Invano Giovanni Galeazzo per allontanare questo turbine mandò ragguardevoli doni al conte d'Armagnacco, che tutti vennero ricusati; e questo signore proseguì gli apparecchi del suo armamento, che furono terminati soltanto nel mese di luglio[508].
Giovanni Acuto aveva intanto attraverso al territorio ferrarese condotta l'armata [356] fiorentina a Padova, ove a mille quattrocento lance ch'egli comandava, ne aveva aggiunte seicento di Bologna e duecento di Padova, in tutto sei mila seicento corazzieri, con mille duecento arcieri ed un grosso corpo di fanteria; e con questo esercito marciò il 15 maggio alla volta di Milano[509]; ed attraversando il territorio di Vicenza e di Verona, entrò in quello di Brescia. Aveva dietro di sè lasciati il Mincio e l'Oglio, e la sola Adda lo separava da Milano, da cui non era lontano più di quindici miglia. Tre ambasciatori fiorentini che seguivano l'armata fecero il 24 giugno celebrare in riva all'Adda ed in presenza de' nemici giuochi e corse per la festa di san Giovanni decollato protettore di Firenze[510].
Mentre ciò accadeva, da un altro lato il conte d'Armagnacco scese in Lombardia ne' primi giorni di luglio, dopo aver chiuse le orecchie alle istanze dei duchi di Berry, di Borgogna e di Clemente VII, che favorivano Giovan Galeazzo. Gli ambasciatori fiorentini, che seguivano Armagnacco, [357] avevano ordine di condurlo sulla destra del Po fino sotto a Pavia, di fargli attraversare il fiume solamente dopo il confluente del Ticino, e di raggiugnere così, evitando ogni battaglia, l'armata d'Acuto che lo stava aspettando nel territorio di Brescia.
Giovanni Galeazzo aveva opposto al conte d'Armagnacco Giacomo del Verme con due mila lance, e quattro mila pedoni. Questa truppa per altro tenevasi chiusa in Alessandria e senza la presunzione del conte d'Armagnacco il piano della campagna fatto dai dieci della guerra di Firenze avrebbe probabilmente avuto buon fine[511]. Ma questo signore che nell'età di ventott'anni aveva di già conseguite grandi vittorie, sprezzava sovranamente le truppe italiane, che gli erano opposte. Quando vide che Giacomo del Verme chiudevasi in Alessandria, invitò alcuni de' suoi a venire con lui a rompere le loro lance contro le porte di questa città, e perchè il loro numero non iscusasse la villa delle truppe del Visconti, non prese seco che il fiore de' suoi cavalli, e si avanzò il 25 luglio fino ai piedi delle mura. Cammin facendo ributtò due corpi di cavalleria, [358] che vennero ad attaccarlo l'un dopo l'altro; ma quando il del Verme ebbe sicura notizia che dietro la truppa che vedeva non eranvi altri corpi nascosti, e che il grosso dell'armata trovavasi più di quattro miglia lontano, fece per un'altra porta sortire trecento lance, cui ordinò di circondare il nemico, prendendolo alle spalle, mentre con tutto il rimanente della sua cavalleria veniva egli ad attaccarlo di fronte.
Era quasi mezzo giorno, e perchè il caldo era grandissimo, i Francesi, che avevano di già sostenute due scaramuccie trovavansi affaticati, ed i loro cavalli più abbattuti de' cavalieri. Il conte d'Armagnacco quando vide uscire di città Giacomo del Verme fece metter piede a terra ai suoi cavalieri, formandone una falange serrata, che fece avanzare colle lance basse contro la cavalleria italiana. Del Verme evitò il primo urto e volteggiando intorno alla medesima se la trasse dietro, allontanandola dal luogo in cui i Francesi avevano lasciati i loro cavalli. Il peso di un'armatura che non era fatta per combattere a piedi, l'ardore del sole, la polvere oppressero i cavalieri d'Armagnacco, che inseguivano il loro nemico senza poterlo raggiugnere nè combatterlo. Tutt'ad un tratto [359] si videro circondati dalle trecento lance ch'erano uscite d'Alessandria per un'altra porta, e tolti tutti i loro cavalli da cui si erano incautamente allontanati. La cavalleria li caricò poi alle spalle mentre Giacomo del Verme gli attaccava di fronte. Questi cavalieri francesi di sperimentato valore sostennero due ore un'ostinata pugna contro nemici che li circondavano da ogni lato: ma la maggior parte de' guerrieri omai vinti dalla propria imprudenza, dalla sete, dalla fatica e dall'ardore del sole, furono parte tagliati a pezzi, parte fatti prigionieri. Il conte d'Armagnacco fu condotto ferito in Alessandria, ove morì poco dopo, non senza sospetto di veleno fattogli dare da Giovan Galeazzo.
Il campo francese ch'era rimasto a qualche distanza, venne immediatamente attaccato da Giacomo del Verme. I soldati privi del loro generale e de' migliori ufficiali si abbandonarono ad un panico terrore; i contadini eransi tutti armati contro di loro, e, postisi in guardia delle strade, uccidevano senza pietà i fuggitivi che si abbattevano in loro. Tutto il resto dell'armata abbassò le armi. I soldati spogliati di armi, di cavallo e di quanto avevano, vennero rilasciati, e ritornarono in [360] Francia elemosinando; gli ufficiali furono tenuti prigionieri, come pure i due ambasciatori fiorentini, i quali non furono da Giovanni Galeazzo rilasciati che molto tempo dopo contro grossa taglia[512].
Giovanni Acuto, ch'erasi avanzato fino nella Ghiara d'Adda, trovavasi dopo la rotta d'Armagnacco in grandissimo pericolo: due grandi fiumi dietro di lui tagliavangli la ritirata, e Giacomo del Verme avanzavasi per attaccarlo colle sue truppe vittoriose. Acuto, appena avuto avviso della disfatta de' Francesi, portò il suo campo alquanto a dietro fino al borgo di Paterno nel Cremonese, ma colà venne raggiunto dai nemici, che stabilirono il loro quartiere generale soltanto un miglio e mezzo lontano dal suo, sull'opposta riva d'un piccolo fiume.
L'armata fiorentina doveva nella sua ritirata attraversare varj grandi fiumi in [361] presenza del nemico, ed Acuto conobbe che non potrebbe effettuarne con sicurezza il passaggio senza aver prima ottenuta qualche vittoria sull'armata che lo inseguiva. Si chiuse nel suo campo con tutte le apparenze del timore, e lasciò avvicinare ai suoi trinceramenti i corazzieri di Giacomo del Verme che venivano ad insultarlo; quattro giorni si tenne così chiuso, ed accrebbe l'audacia de' nemici. Il quinto, mentre le truppe del Visconti si erano avanzate in maggior numero, mostrandosi disposte a voler sforzare le linee, piombò subitamente sopra di loro con tanto impeto, che presto le sgominò, e prese loro più di mille duecento cavalli[513].
Quando Acuto ebbe ottenuto questo vantaggio si rimise in marcia e passò l'Oglio senza impedimento, non osando i suoi nemici, che più cautamente lo seguivano, attaccare le sue ordinanze. Guadagnò pure sopra di loro una marcia, e passò ancora il Mincio senza che un solo soldato di Giovan Galeazzo si [362] mostrasse su quelle sponde. Ma doveva passare l'Adige, e la difficoltà era maggiore, sia a cagione della rapidità di questo fiume, sia perchè i nemici eransi di già appostati lungo le dighe che lo contengono. I piani della Lombardia sono quasi tutti inferiori al livello de' fiumi che gli attraversano, e le acque sono tenute nel loro letto artificiale da dighe che le sostengono alte abbastanza perchè possano versarsi nel mare. Ma quando queste dighe sono rotte, i fiumi inondano la campagna e vi formano laghi e paludi che non possono asciugarsi che con lungo lavoro. Il piano in cui erasi posto Acuto tra il Po a mezzogiorno, l'Adige a settentrione ed il Polesine di Rovigo a levante, venne tutt'ad un tratto inondato da Giacomo del Verme che aveva fatte rompere le dighe dell'Adige. Questo fiume, abbandonato il suo letto, precipitavasi nella valle veronese (così chiamansi i bassi piani cui circondano le più elevate dighe de' fiumi), ed andava formando intorno al campo fiorentino un lago, che sempre più alzavasi, e più omai non vedevansi che acque a perdita di vista, che minacciavano di coprire lo stesso terreno occupato dall'armata. Si cominciava ad avere mancanza di vittovaglie, e Giacomo [363] del Verme, avendo finalmente riunite tutte le sue truppe, chiudeva la sola uscita che sembrava rimanere ai Fiorentini. Era così persuaso che Acuto non aveva altra speranza di salute che quella di deporre le armi, che fece interpellare Giovanni Galeazzo, in qual modo voleva che gli fossero dati i nemici[514]. Per mezzo d'un trombetta mandò ad Acuto una volpe in una gabbia. L'Inglese ricevendo questo simbolico regalo incaricò il messo di dire al generale milanese, che la sua volpe non pareva melanconica, senza dubbio perchè sapeva per quale porta uscire dalla sua gabbia[515].
Verun altro generale che Acuto conosciuto non avrebbe, nè osato tentare quest'uscita; ma il vecchio soldato che univa somma prudenza a grande coraggio, aveva inspirata tanta confidenza alle sue truppe, che queste mai non bilanciavano a seguirlo, qualunque fosse il cammino pel quale le conduceva. Acuto lasciò le tende alzate e piantati gli stendardi nel luogo elevato in cui aveva tracciato il suo campo [364] e prima che spuntasse il giorno entrò arditamente nella campagna inondata, avanzandosi alla testa della sua armata dalla banda delle dighe dell'Adige, sette in otto miglia al di sotto di Legnago. Camminò così tutto il giorno e parte della seguente notte avendo l'acqua fino al ginocchio de' cavalli. Veniva alquanto ritardata la marcia dalla melma entro la quale spesso affondavano i soldati, e dai canali, di cui per le sovrapposte acque più non distinguevansi le rive. Attraversò in tal modo tutta la valle veronese e giunse in faccia a Castel Baldo sulla riva dell'Adige, il di cui letto non aveva più acqua. In questo castello che apparteneva al signore di Padova ristorò le truppe dai sostenuti disagi. I più deboli cavalli erano periti in così difficile e pericolosa marcia; ma l'armata della lega era salvata, e Giacomo del Verme non s'arrischiò di attraversare le acque per inseguirla[516].
I Fiorentini non avevano osato sperare che il loro generale uscirebbe dal laccio cui erasi lasciato prendere, e credevano [365] di aver perdute una dopo l'altra le più belle armate che la repubblica avesse mai allestite. Non perciò si scoraggiarono; richiamarono una terza armata, che sotto gli ordini di Luigi di Capoa, figliuolo del conte d'Altavilla, guastava allora il territorio di Siena, e che quasi tutti aveva distrutti i raccolti di questa provincia. Luigi di Capoa tornò a Firenze con quattro mila cavalli[517], e ben tosto dopo vi giunse lo stesso Acuto, dopo avere lasciati a Padova mille duecento cavalli per proteggere Francesco da Carrara.
Giacomo del Verme vedendo che l'Acuto gli era fuggito di mano cercò almeno di giugnere in Toscana prima di lui. Attraversò il Po ed il territorio di Piacenza, valicò gli Appennini, scese nella val di Magra ed entrò per Sarzana nello stato fiorentino. Scorse il Lucchese, il Pisano, il Volterrano e s'avanzò fino a Siena; ma l'Acuto, cui Giovanni di Barbiano, generale dei Bolognesi, erasi unito, tenne dietro strettamente al del Verme, per impedire che guastasse le [366] campagne. Ne' mesi di settembre e di ottobre le due armate si osservarono e si minacciarono senza però venire mai ad una battaglia. Giacomo del Verme, dando a dietro, attraversò la val d'Elsa, passò l'Arno, e scorse parte del Pistojese; ma l'Acuto lo seguiva da vicino, onde i di lui soldati non potevano disperdersi per ruinare il paese. Il generale milanese, giunto a Montecarlo nella Val di Nievole, ebbe ancor esso paura d'essere circondato dalle superiori forze de' Toscani; abbandonò a mezza notte il campo, e fuggì a traverso gli Appennini dopo avere perduta parte dell'infanteria[518].
Le potenze belligeranti cominciarono a sentire il peso della guerra, senza che l'una o l'altra avesse conseguiti gli sperati vantaggi; diverse potenze amiche eransi offerte mediatrici, ed Antoniotto Adorno, che questo stesso anno aveva ricuperato colle armi il trono ducale, persuase il signore di Milano ed i Fiorentini a mandare a Genova i loro ambasciatori. Vi giunsero pure con ampie [367] facoltà quelli di Bologna e di Francesco da Carrara; e Riccardo Caraccioli, gran maestro di Rodi, fu incaricato dal papa di presedere al loro congresso.
Gli ambasciatori avevano convenuto intorno alle basi del trattato di pace: ma poi scelsero arbitri il doge di Genova ed il gran maestro di Rodi, perchè decidessero intorno ai particolari non ancora decisi. Adorno era Ghibellino e perciò parziale pel Visconti, ma il popolo di Genova favoriva i Fiorentini[519]. Gli arbitri, dopo lunghe disamine, dettarono finalmente le condizioni della pace il 28 gennajo 1392 sotto le forme d'una sentenza arbitramentale. A Francesco Novello di Carrara conservarono Padova ed il suo territorio, tranne Bassano e due altri castelli; ma gl'imposero un tributo di mille fiorini, ch'egli ed i suoi successori pagherebbero per cinquant'anni al signore di Milano. I Bolognesi ed il marchese d'Este vennero compresi nella pace del signore di Padova quale alleati de' Fiorentini; il signore di Mantova, i Sienesi ed i Perugini come alleati di Giovan Galeazzo. Finalmente gli arbitri proibirono [368] ai Fiorentini d'immischiarsi negli affari di Lombardia, ed a Giovan Galeazzo di prendere parte in quelli di Toscana, tranne la vicendevole protezione degli alleati loro, riconosciuti dalle due parti[520].
Ma perchè Antoniotto Adorno, uno degli arbitri, aveva in più maniere data a conoscere la sua parzialità, la signoria di Firenze, prima che si pronunciasse la sentenza, determinò di non accettarla. A tale notizia molti ambasciatori si ritirarono dal congresso, e gli arbitri non pronunciarono intorno ad alcuni articoli ancora in disputa, fra i quali la liberazione del vecchio Francesco da Carrara che Giovanni Galeazzo teneva sempre in prigione, il possesso del castello di Lucignano, ed altri meno importanti oggetti. Non pertanto quando la sentenza degli arbitri fu nota a Firenze, la signoria l'accettò qual era per mettere fine alle calamità della guerra, e la fece pubblicare il 18 febbrajo del 1392. Nel congresso di Genova uno degli arbitri aveva [369] domandato che le parti guarentissero l'osservanza della pace; cui Guido Neri, uno degli ambasciatori fiorentini, rispose: «la nostra guarenzia sarà la spada, poichè Giovanni Galeazzo ha sperimentato le nostre forze, e noi abbiamo provate le sue[521].»
Ma la guarenzia che i repubblicani fiorentini trovavano nel loro coraggio non poteva bastare a Francesco da Carrara. Questo principe, lontano da' suoi alleati e troppo debole per difendersi solo, aveva più a temere di Giovan Galeazzo in pace che in guerra. La sola amicizia dei Veneziani poteva essere la sua salvaguardia, onde tutto adoperò per conciliarsela. Dopo varie pratiche andò in ultimo egli stesso a Venezia il 5 marzo 1393, ed ottenuta dal doge Antonio Venieri pubblica udienza, domandò che la repubblica scordasse i torti di suo padre; promise d'ora in poi di essere verso la signoria come un figliuolo ubbidiente e rispettoso, e chiese per sè e per tutta la sua famiglia la protezione della repubblica. Dopo questa solenne riconciliazione, [370] colmato di onori dai Veneziani, tornò nella sua capitale[522], ansioso di condurre a fine la liberazione di suo padre per la quale offriva una grossa taglia. Ma prima che fosse accettata, il vecchio Carrara morì in prigione il 6 ottobre del 1393. Il conte di Virtù mandò il corpo di questo sventurato principe a Padova, ov'ebbe dal figliuolo magnifici funerali[523].
Il trattato di Genova, rendendo la pace alla repubblica fiorentina ed alla Toscana, non assicurava per altro la loro tranquillità. Giovanni Galeazzo cercava colle sue pratiche di ridurre a compimento una conquista che non aveva potuto fare a forz'aperta. Egli aveva, siccome ancora i Fiorentini, licenziata la maggior parte delle truppe; ma i soldati congedati dalle due potenze unironsi in compagnie di ventura, sulle quali il Visconti non lasciava di conservare una segreta influenza. Egli le spinse a più riprese in Toscana, ma i Fiorentini col loro fermo contegno le allontanarono ogni volta dai proprj confini[524].
Verso lo stesso tempo Francesco di Gonzaga, signore di Mantova, passò per Bologna e Firenze, rendendosi a Roma sotto pretesto d'un pellegrinaggio; ma infatti per formare una potente lega che si opponesse agli ambiziosi progetti d'ingrandimento di Giovanni Galeazzo. Fino a tale epoca aveva avute con questo principe strettissime relazioni d'amicizia; ma un odio implacabile, un ardente desiderio di vendetta prese il luogo dell'antica amicizia. Il Gonzaga aveva avuta per moglie una figlia di Barnabò Visconti, cugina ad un tempo e cognata di Giovanni Galeazzo. Ma quest'ultimo temeva che in cambio di rispettare questo doppio legame, ella non pensasse che a vendicare suo padre Barnabò, ch'egli avea fatto morire di veleno, e suo fratello Carlo Visconti da lui spogliato della paterna eredità. Risolse adunque di rapirle l'affetto del marito, credendo per tal via di meglio assicurarsi l'attaccamento del Gonzaga. L'ambasciatore del Visconti avvisò il signore di Mantova, che sua moglie lo tradiva, ed assicurò questo principe che potrebbe averne le prove in una criminosa corrispondenza ch'era in sua mano il sorprendere nel di lei appartamento. Egli stesso aveva effettivamente [372] nascoste nel luogo che gl'indicava le supposte lettere: queste si trovarono, ed il segretario della principessa, posto alla tortura, confessò tutto quanto si voleva, onde il Gonzaga in un eccesso di furore fece tagliare la testa alla moglie, dalla quale aveva già avuti quattro figli, ed appiccare il segretario[525]. Ma questo infernale intrigo venne finalmente scoperto, ed il Gonzaga, tormentato dai rimorsi, più non respirò che vendetta contro colui che aveva spinta sua moglie sul patibolo. Giovanni Galeazzo, più non potendolo avere tra i suoi alleati, si affrettò di essere il primo ad accusarlo; e si dolse con tutte le corti del supplicio della principessa di Mantova sua cugina e cognata[526].
Intanto il Gonzaga, di ritorno da Roma, adunò a Mantova un congresso per formare un'unione tra i Guelfi, e l'otto di settembre del 1392 venne sottoscritto un trattato di alleanza tra le repubbliche di Firenze e di Bologna, ed i signori di [373] Padova, Ferrara, Mantova, Ravenna, Faenza ed Imola. Si obbligavano i confederati a concorrere con tutte le loro forze al mantenimento dell'equilibrio e della pace d'Italia, ed a difendersi vicendevolmente quando alcuno di loro venisse attaccato[527].
Ma nello stesso tempo Giovan Galeazzo strascinava nel suo partito la repubblica di Pisa, alleanza quanto per lui vantaggiosa altrettanto nociva ai Fiorentini. Questa repubblica dopo il 1366, in cui Pietro Gambacorti col soccorso de' Fiorentini era tornato in patria, era stata sempre da lui governata. Ogni anno egli era stato confermato nella carica di capitano generale, e, sebbene si foss'egli condotto con molta moderazione e modestia, tutte le più importanti magistrature erano state accordate alla di lui famiglia; ed i suoi nipoti facevano spesso sentire al popolo col loro fasto e colla loro insolenza, ch'egli era vicino a perdere la libertà. Il disinteressamento di Pietro Gambacorti, la sua affabilità ed i suoi costumi repubblicani [374] ritardavano ancora i progressi del malcontento. Era egli affezionato ai Fiorentini per riconoscenza e per inclinazione ereditaria; era inoltre alleato di Giovanni Galeazzo, e mentre aveva cercato d'essere il mediatore tra le due potenze, aveva conservata alla sua patria una costante pace. I Pisani, malgrado l'antico loro odio verso i Fiorentini, sentivano il prezzo della presente prosperità, e Pietro avrebbe indubitatamente conservata fino alla morte la sua autorità sui proprj concittadini, se non avesse avuto la sventura d'accordare la sua confidenza ad un traditore.
Il Gambacorti aveva nominato cancelliere perpetuo della repubblica Jacopo d'Appiano, ch'era inoltre diventato il suo più intimo consigliere. Il padre dell'Appiano era nato di poveri parenti nel territorio fiorentino; si era attaccato ai Gambacorti, e quando Carlo IV aveva incrudelito così barbaramente contro questa famiglia, aveva perduta ancor'esso la testa sul patibolo coi suoi protettori. Pietro Gambacorti aveva per riconoscenza chiamato presso di sè Jacopo d'Appiano che era press'a poco della sua età, e nel quale unicamente fidava[528].
Appiano, uomo di grande ingegno e di somma accortezza, aveva a sè richiamati i principali affari, si era formate molte creature, ed un'opinione oramai indipendente da quella del suo protettore[529]. Erasi dichiarato zelante partigiano di Giovanni Galeazzo, aveva mandato suo figlio al servigio del signore di Milano; e questi essendo stato fatto prigioniere dai Fiorentini quando Giacomo del Verme fuggì da Montecarlo, il Visconti, per ottenere la sua libertà, l'aveva cambiato con un ambasciatore fiorentino preso col conte d'Armagnacco. Questo singolare favore di Giovanni Galeazzo aveva fatto sospettare che l'attaccamento dell'Appiano aveva per base un piano più esteso. I Fiorentini che vedevano quest'uomo adunare satelliti, ed approfittare dell'odio de' Pisani contro Firenze per fortificare il suo partito, prevennero più volte il Gambacorti di tenere gli occhi aperti sopra di lui[530]. Ma Pietro, incapace di un tradimento egli medesimo, non poteva sospettare reo un altro, e soprattutto non poteva credere [376] che un vecchio di settant'anni, allevato in casa sua fino dalla prima fanciullezza, che gli andava debitore di tutta la sua grandezza, che aveva tenuto uno de' suoi figli al sacro fonte[531], volesse in sul finire della vita tradire il suo vecchio benefattore.
Jacopo d'Appiano era aperto nemico di Giovanni de' Lanfranchi, ed assicurava di avere adunati alcuni soldati soltanto per difendersi contro questo gentiluomo[532]. Pietro Gambacorti volle riconciliare questi due cittadini; chiamò a sè il Lanfranchi, e mentre questi usciva dalla di lui casa il 21 ottobre fu attaccato dai satelliti di Jacopo d'Appiano, ed ucciso nella strada con suo figlio che aveva voluto difenderlo[533]. Gli assassini si rifugiarono in casa dell'Appiano; Pietro li fece domandare, ed Appiano li ricusò. Frattanto la città era in tumulto, i cittadini prendevano le armi, ed i Bergolini, antichi partigiani dei Gambacorti, accorrevano ad offrire il loro ajuto a Pietro. Rispose questi che l'affare [377] doveva terminarsi colle vie ordinarie della giustizia, senza cagionare movimenti in città, e si limitò a far armare la guardia, di cui ne mandò parte ad occupare il ponte vecchio sotto il comando di suo figliuolo. Jacopo d'Appiano non aveva la stessa moderazione; aveva chiamati da Lucca de' fantaccini o masnadieri, ed inoltre riuniva intorno a sè tutti i più caldi Raspanti e Ghibellini. Quando si trovò abbastanza forte mandò suo figlio ad attaccare ponte vecchio. Lorenzo, ferito nel difenderlo, si ritirò allora colla sua truppa avanti alla casa de' Gambacorti. Jacopo d'Appiano giunse bentosto sulla stessa piazza per attaccarlo, e la zuffa sarebbe stata assai lunga e dubbioso l'esito, se Pietro, vedendo dalla finestra il suo vecchio amico che s'avanzava, non avesse vietato di tirare contro di lui. Richiestovi da Jacopo egli discese per trattare, ed acconsentì ad allontanarsi dalla calca solo con lui. Appiano, chiamandolo suo compare gli stese la mano: era questo il segno convenuto cogli assassini, che subito lo circondarono, e l'uccisero mentre stava per montare a cavallo. I suoi amici si dispersero in sul momento, la sua casa fu saccheggiata, e Jacopo d'Appiano s'avviò verso la piazza degli anziani, [378] ov'era rimasto un altro figlio del Gambacorti alla testa del rimanente della guardia: dopo breve resistenza pose in fuga quei soldati, e fece il figlio dell'estinto amico prigioniere; i figliuoli di Pietro, tutti e due feriti, perirono avvelenati in prigione avanti il settimo giorno[534].
Intanto andavano giugnendo in città moltissimi fanti assoldati da Jacopo di Appiano, come pure contadini e banditi, ai quali si abbandonarono le case de' principali Bergolini e de' più ricchi mercanti fiorentini. Appiano, approfittando del terrore che ispirava così al popolo, si fece nominare capitano e difensore di Pisa il 25 ottobre. Due giorni dopo si fece armare cavaliere, ed allora cominciò a governare la sua patria non più come principale cittadino, ma come padrone. Giovanni Galeazzo che colle istigazioni e promesse era stato il primo autore della trama di Jacopo d'Appiano, ne raccolse pure i principali frutti. Egli si affrettò di spedire truppe a Pisa sotto colore di soccorrere una sua creatura, [379] ed il nuovo tiranno più non ardì di operare che a seconda delle volontà del signore di Milano[535].
In sul cominciare del seguente anno i Fiorentini cercarono di calmare altre non meno pericolose rivoluzioni scoppiate a Perugia. In questa repubblica, che andava debitrice di tutta la sua grandezza alla fazione guelfa, la guerra fatta contro il papa nel 1377 aveva tornato in qualche favore i Ghibellini e l'antica nobiltà. La famiglia Baglioni, la più illustre di questo partito, ne aveva approfittato per impadronirsi del governo. Gli antichi Guelfi dopo varj tentativi per ricuperare la perduta influenza erano stati esiliati. Pandolfo Baglioni erasi nel 1390 posta colla città di Perugia sotto la protezione di Giovanni Galeazzo; e gli emigrati di questa città si erano attaccati ai Fiorentini. Le due fazioni avevano continuato a battersi anche dopo la pace di Genova, ed il territorio di Perugia era guasto dalla guerra civile. I Fiorentini, che temevano di vedere riaccendersi in quella provincia un nuovo incendio, persuasero i Perugini a sottomettersi all'autorità del papa, e determinarono [380] Bonifacio IX a stabilire la sua residenza in Perugia; colla di lui mediazione venne firmato tra le due fazioni un trattato di pace il 7 maggio del 1393[536]. Ma accaniti nemici, che credevansi obbligati a vendicare le proprie offese e quelle che avevano ricevute i loro antenati, non potevano vivere lungamente in pace entro le stesse mura. Nel mese di luglio uno degli emigrati rientrato in patria fu assassinato nelle strade, e Pandolfo Baglioni, il capo della nobiltà, prese a difendere gli assassini contro al podestà che voleva punirli. Allora gli altri emigrati si accordarono a vendicarlo. Il 30 luglio assalirono Pandolfo, mentre tornava dal palazzo di giustizia con circa venti compagni, lo uccisero con quasi tutti i suoi, e perseguitando poi tutti quelli della stessa famiglia e della stessa fazione, uccisero altri cinque Baglioni, più di ottanta gentiluomini, o cittadini ghibellini, e più di cento plebei, che sotto il nome di Beccarini si erano addetti [381] alla nobiltà. Dopo questa carnificina furono esiliati più di trecento Ghibellini. Il papa, testimonio di questi orrori che non poteva impedire, fuggì la stessa notte in Assisi[537]. In tal modo Perugia tornò al partito guelfo ed all'alleanza de' Fiorentini, ma esausta affatto, minacciata da nuove congiure, ed incapace di dare soccorso ai suoi alleati.
Firenze medesima non andò esente da interne sedizioni. In sul cominciare di ottobre venne denunciata ai priori una congiura popolare contro la regnante aristocrazia. I plebei, vedendo che si voleva incrudelire contro di loro, recaronsi in folla avanti alla casa di Vieri e di Michele dei Medici, capo di questa famiglia dopo la morte di Salvestro, pregandoli a prendere il gonfalone del popolo ed a proteggerli contro i loro oppressori. I Medici fecero al contrario uso di tutto il loro credito per calmare il basso popolo, e gli Albizzi, allora dominanti, si valsero di questo movimento per escludere dal governo tutte le famiglie [382] degli Alberti ch'essi odiavano, e per esiliar i due principali loro capi[538]. E per tal modo l'aristocrazia degli Albizzi si rassodò viemeglio, ma è pur d'uopo confessare che verun'altra fazione non aveva mai dato prove di più vasti talenti, nè di un più grande carattere. Nè alla repubblica, in mezzo ai pericoli cui l'esponeva l'ambizione di Giovanni Galeazzo, abbisognavano meno esperti capi.
Il Visconti non attaccava ancora i Fiorentini, ma non lasciava fuggire occasione alcuna di nuocer loro, ed in particolare cercava di opprimere il nuovo loro alleato, il signore di Mantova. Egli intraprese, svolgendo dal suo naturale alveo il Mincio, di distruggere la capitale del Gonzaga, senza violare apertamente la pace, e senza dare alle repubbliche alleate occasione di dichiararsi contro di lui.
Il Mincio, sortendo dal lago di Garda, attraversa una parte del Veronese che in allora apparteneva a Giovanni Galeazzo, in appresso entra nel piano, riempie due bacini chiamati laghi, superiore ed inferiore, [383] e tra questi è posta la città di Mantova. Questi laghi, ognuno de' quali ha circa un miglio di larghezza, tengono luogo delle fosse delle ordinarie fortificazioni; essi sono troppo profondi per essere attraversati a guazzo, e le loro rive sono troppo fangose e troppo ingombre di canne perchè le barche possano liberamente avanzarsi. Un ingegnere aveva proposto a Giovanni Galeazzo di sviare il corso del Mincio, e di condurlo nelle pianure di Verona, privando in tal guisa Mantova di tutti i suoi vantaggi, e delle fortificazioni datele dalla natura. Giovanni Galeazzo fece lavorare sci mesi al di sopra di Valleso per innalzare una diga di straordinaria solidità onde tagliare il corso del fiume, e nello stesso tempo fece aprire una montagna a mano manca per aprirgli uno sfogo nel Veronese. A Francesco di Gonzaga sembrava di già vedere i due laghi di Mantova cambiati in pantani pestilenziali, e le fortificazioni della sua capitale distrutte colla salubrità dell'aria e colla speranza della popolazione. Ne fece lagnanza ai Bolognesi ed ai Fiorentini, e li supplicò di volerlo ajutare[539].
Queste due repubbliche non volevano abbandonare il loro alleato, ma d'altra parte non credevano di avere sufficiente motivo per rinnovare la guerra; perciocchè ogni parte contraente erasi riservata, pel trattato di Genova, il diritto di fare nel suo territorio le opere e le fortificazioni che credesse convenienti. Non pertanto i Fiorentini mandarono commissarj a Mantova per riconoscere la natura dei luoghi; quando furono tornati, i priori fecero chiamare gli ambasciatori del Gonzaga, e loro dissero: «Fate sapere al vostro padrone, che senza l'ajuto de' suoi alleati, e senza sguainare la spada, egli sarà liberato dalla calamità che crede sovrastargli; un despota che vede gli uomini piegare a tutte le sue volontà, s'immagina frequentemente di potere altresì comandare alla natura; ma questa si ride de' vani suoi sforzi, e mostra bentosto la sua indipendenza.» Gli ambasciatori mantovani tornavano malcontenti alla loro patria con così vaghi conforti; ma intesero, strada facendo, che il Mincio, ingrossato dalle piogge, aveva rotte le dighe di Giovanni Galeazzo, e distrutto in una notte l'opera fatta in più mesi da alcune migliaja d'operai[540].
Altre cagioni di guerra sì andavano nello stesso tempo apparecchiando nello stato di Ferrara. Il 31 luglio del 1393 era morto il marchese Alberto d'Este, dopo avere dichiarato suo successore suo figliuolo naturale Nicolò III in età di soli dieci anni. Egli lo aveva legittimato sposando sua madre in punto di morte[541]; ma il più vicino parente d'Alberto, Azzo d'Este, non ammetteva i diritti di un figliuolo d'un'amante, e riclamava a suo favore un'eredità, che suo cugino non aveva pensato di rapirgli se non nell'istante, in cui la vicina morte aveva indebolito il vigore della sua mente[542]. Per altro il popolo di Ferrara riconobbe Nicolò III, non essendo in Italia cosa straordinaria il vedere i figliuoli naturali succedere ai loro padri[543]. Azzo implorò [386] in allora l'assistenza di Giovanni Galeazzo; si unì strettamente con Giovanni di Barbiano, capitano romagnuolo che aveva acquistata grandissima riputazione militare, e col di lui ajuto attaccò lo stato di Ferrara. I Fiorentini dal canto loro si dichiararono per Nicolò, e gli mandarono trecento lance; per tal modo le truppe di Milano ricominciarono a combattere contro le truppe di Firenze senza che la guerra fosse dichiarata fra i due stati[544].
In quest'epoca, in cui il cominciamento delle ostilità poteva rendere alla repubblica fiorentina più prezioso un gran capitano, ella perdette quello, cui doveva, i vantaggi ottenuti nella precedente guerra. Giovanni Acuto mori di malattia il 16 marzo del 1394 in una campagna ch'egli aveva comperata presso Firenze. La signoria gli diede onoratissima sepoltura nella cattedrale, ed il suo sepolcro vi si vede ancora con al di sopra una statua equestre[545].
Mentre la guerra di Ferrara trattavasi assai lentamente, i signori di questa città diedero all'Italia uno spettacolo atroce ad un tempo e ridicolo. I consiglieri di Nicolò III avevano risoluto di liberarsi con un assassinio d'Azzo d'Este suo rivale. Proposero questo attentato al suo amico, e principale appoggio, il conte Giovanni di Barbiano, offrendogli in ricompensa i castelli di Lugo e di Conselice, posti in Romagna presso a quello di Barbiano. Il conte accettò le fattegli offerte, ma in pari tempo ne diede avviso all'amico Azzo. Fecero scelta, d'accordo fra di loro, di un servitore che rassomigliava ad Azzo e lo fecero trattenere in una sala rimota. L'ambasciatore di Nicolò III fu introdotto ad una conferenza con Azzo e col conte nel castello di Barbiano, imperciocchè egli aveva nascosta la sua perfida missione sotto il velo di un trattato con ambidue. Uscirono in appresso e passarono nella camera ove il loro servo gli stava aspettando. Azzo cambiò vesti con lui, e si ritirò, e subito dopo Giovanni di Barbiano fece uccidere lo sventurato servo, che ignorava la ragione del suo travestimento, e si ebbe l'accortezza di sfigurargli il volto con molte pugnalate. Ciò [388] fatto il Barbiano chiamò l'ambasciatore del marchese d'Este, e gli mostrò il cadavere ancora palpitante. «Ecco, gli disse, l'amico che si era di me fidato, e che per servire il vostro padrone, io ho acconsentito di far perire. La vostra corte pensi a soddisfare agli obblighi suoi, avendo io fatto quanto doveva.» In fatti l'ambasciatore scrisse a Ferrara d'aver veduto co' suoi occhi l'ucciso signore, ed i castelli promessi all'uccisore furono immediatamente consegnati al conte di Barbiano. Ma tostocchè gli ebbe in suo potere fece ricomparire Azzo d'Este e ricominciò le ostilità contro Ferrara[546].
Mentre ciò accadeva, Vencislao mandò ambasciatori in Italia per cavarne danaro, come praticato aveva Carlo IV suo padre, con vane promesse di protezione. Vencislao portava in allora i titoli d'imperatore eletto e di re dei Romani; ma perduto nella dissolutezza, appena governava, e con mano mal sicura il suo regno di Boemia, mentre la Germania ritornava di nuovo ad un'assoluta indipendenza. [389] I signori di Padova e di Mantova diedero retta alle proposizioni del suoi ambasciatori, e di già progettavano di chiamarlo in Lombardia per farlo combattere contro il Visconti; ma i Fiorentini, assai meglio informati del carattere di Vencislao, e riandando la condotta di suo padre in Toscana, rigettarono tutte le proposizioni, rispondendo ch'essi erano in pace col signore di Milano, e che speravano che questa pace non verrebbe turbata dalle insignificanti contese dei signori di Ferrara[547].
Vedendo Vencislao che niuno pensava a pagarlo per annientare la potenza di Giovanni Galeazzo, egli entrò nel susseguente anno in trattato con lui medesimo, per sollevarlo a nuove dignità; e gli vendette per cento mila fiorini il titolo di duca di Milano, ed il giorno primo di maggio del 1395 eresse in ducato ed in feudo imperiale la città di Milano colla sua diocesi[548]. Giovanni Galeazzo celebrò con isplendide feste l'acquisto della nuova dignità, ed invitò gli ambasciatori di tutti gli stati d'Italia ad essere testimonj dell'investitura [390] che ricevette il 5 di settembre. I Fiorentini e tutti i popoli della loro lega vi mandarono deputati[549]. I due figli della casa di Carrara, Francesco terzo e Giacomo, vi assistettero personalmente; ed il nuovo duca, volendo mostrarsi riconoscente, liberò il signore di Padova dal tributo cui andava soggetto in forza del trattato di Genova[550].
Vencislao con un secondo diploma riunì l'anno susseguente, sotto il titolo di ducato di Milano, tutti gli stati posseduti da Giovanni Galeazzo, tranne Pavia ed il suo territorio, che dichiarò contado. Le città accordate in feudo dall'imperatore alla casa Visconti, erano press'appoco le medesime[551] che avevano formata la lega lombarda, il di cui valore ed intraprese ebbero onorato luogo [391] in principio di questa storia. Da circa cento trent'anni tutte queste città avevano perduta la loro libertà; ma l'autorità del loro signore non era perciò ancora riguardata come legittima, e perchè niuna concessione dell'impero aveva ancora sanzionate le loro usurpazioni, i popoli venivano sempre mantenuti nel diritto di annullarla.
I Visconti ricevettero una nuova esistenza dal diploma di Vencislao; in forza di questo vennero risguardati come signori naturali, siccome diceva il diploma, e non più quali tiranni della Lombardia. Così pure l'eredità venne regolata fra di loro in un modo stabile dietro il sistema feudale.
Ma l'investitura, accordata a Giovanni Galeazzo, doveva riuscire tanto funesta ai suoi successori ed al suo paese, quanto sembrava vantaggiosa a lui medesimo. Fu questa cagione, quando si spense la sua linea maschile, delle rivali pretensioni dei duchi d'Orleans, in appresso re di Francia, quali eredi di una figlia di Giovanni Galeazzo, e di quelle dell'imperatore come alto signore di un feudo ricaduto all'impero; mentre gli altri rami della casa Visconti furono esclusi dall'eredità, e che la Lombardia fu guastata [392] da sovrani stranieri che volevano avervi regno. Avanti la fine del XIV secolo non eravi nelle famiglie de' principi verun altro diritto ereditario che la forza sanzionata da un'apparente approvazione del popolo, e se la Lombardia non fosse stata eretta in ducato, nè la casa d'Orleans, ne l'impero avrebbero vantati diritti sopra la medesima. Tale fu il cambiamento che operò in un paese cui non prendeva veruno interessamento, e dove non aveva alcuna autorità, un imperatore, che i borghesi della sua capitale tennero lungo tempo prigioniero, e che all'ultimo fu deposto dai principi del suo impero.
Nota. Uno storico sienese, contemporaneo, riferisce all'anno 1395 un aneddoto che crediamo utile ad illustrare la storia de' costumi di questo secolo. La dignità della storia può bene scendere qualche volta al racconto de' casi dei privati cittadini, quando giovano ad istruire.
L'antica famiglia de' Montanini era stata in guerra con quella de' Salimbeni pel corso di molte generazioni. L'inimicizia di queste due famiglie aveva cominciato in occasione di una caccia del cinghiale, nella quale era stato ucciso un Salimbeni. La famiglia de' Montanini era stata quasi affatto distrutta nell'accanita guerra [393] sostenuta contra i Salimbeni; i suoi poderi erano stati quasi tutti invasi o confiscati, e più non rimaneva di così illustre famiglia che un fratello ed una sorella. Carlo ed Angelica erano figliuoli di Tommaso Montanini, soggiornavano nella Val di Strove in un piccolo podere il di cui valore appena ammontava a mille fiorini, ed avevano ristrette le loro spese alle entrale di così piccola parte del vasto patrimonio de' loro animati. Un loro vicino desiderava questo piccolo podere per incorporarlo a' suoi possedimenti. Era un plebeo assai potente nel governo di Siena, e faceva parte di quella oligarchia artigiana, sospettosa e gelosa, che sotto la direzione dei Salimbeni erasi resa padrona del governo l'anno 1390, e cui non si poteva offendere senza il più grave pericolo. Carlo Montanini ricusò più volte di vendere le sue terre al vicino che voleva comperarle, determinato di conservarle a sua sorella Angelica, onde potere aggiungere alla sua freschissima età di quindici anni ed alla rara sua bellezza una conveniente dote.
Il vicino per vendicarsi del rifiuto di Carlo, e porlo nella impossibilità di conservare il suo patrimonio, l'accusò al governo di essere entrato in una cospirazione coi Guelfi e coi nobili contro i Salimbeni ed il governo popolare. L'odio ereditario delle due case rendeva probabile l'accusa, rinforzata dall'autorità dell'accusatore. Carlo Montanini non fu condannato a pena capitale, ma fu invece assoggettato ad un'ammenda di mille fiorini da pagarsi, sotto pena di morte, entro quindici giorni. Ma l'avidità del delatore fa delusa, perciocchè il Montanini per non ridurre la sorella [394] in estrema miseria preferì di morire in prigione, piuttosto che uscirne mediante la perdita dell'eredità paterna. Aveva alcuni parenti materni, che però non osarono di soccorrerlo per non rendersi sospetti al governo e tirarsi addosso la medesima disgrazia; le donne soltanto recavansi ogni giorno a consolare Angelica ed a piangere insieme.
La mattina del quindicesimo giorno Anselmo Salimbeni passando a cavallo innanzi alla casa di Montanini, osservò queste donne piagnenti, ed udì da loro la sorte che sovrastava all'ultimo crede di una famiglia rivale della sua. Aveva di già adocchiata la rara bellezza di Angelica, ma non aveva giammai parlato nè a lei, nè al fratello, opponendovisi la memoria di tanto sangue versato nelle contese della sua famiglia con quella dei Montanini. Per altro Anselmo, vinto da compassione all'aspetto di tanta sventura, si recò all'istante presso il tesoriere del comune, e pagati i mille fiorini dell'ammenda, ordinò al carceriere di porre in libertà Carlo Montanini. Questi sorpreso di vedersi rilasciato nel momento medesimo, in cui aspettava la morte, volò presso la sorella, che stava immersa nelle più crudeli angosce. Nè Angelica, nè le sue amiche sapevano spiegare o comprendere per quali mezzi fosse stata renduta a Carlo la libertà. In breve la casa di Montanini si riempì di parenti e di vicini che venivano a felicitarli. Carlo, che credeva di trovare tra di loro il suo liberatore, gli andava ringraziando l'uno dopo l'altro, ma tutti se ne scusavano vergognandosi, ed allegando i motivi o i pretesti che loro avevano impedito di soccorrerlo. All'indomani andò a chiederne [395] contezza al tesoriere del comune, e da lui seppe che andava debitore della vita al figlio de' suoi nemici.
Carlo Montanini, colpito da tanta generosità, volle superare in magnanimità il Salimbeni. Non bastando le preghiere, dovette far uso della sua autorità per ridurre Angelica ad eseguire i suoi voleri; e quando questa ebbe promesso di dare in riconoscenza al benefattore di suo fratello quanto aveva di più caro al mondo, lo prevenne altresì ch'ella penserebbe pure alla propria gloria, e che non vivrebbe nel vizio e nel disonore.
Due ore dopo il tramontare del sole il fratello e la sorella recaronsi alla casa d'Anselmo Salimbeni: Carlo domandò di parlare senza testimonj a questo cavaliere, ed essendo stato introdotto presso di lui colla sorella, gli disse: «A voi, o signore, io devo la sgraziata vita che mi resta; a voi mia sorella deve suo fratello e l'onor suo. Se la fortuna non avesse con tanto accanimento perseguitata la mia famiglia non ci sarebbero mancati modi di manifestarvi almeno in parte la nostra riconoscenza. Ma omai più non ci rimangono che i nostri corpi e le nostre anime; voi le avete salvate; a voi dunque appartengono; noi le affidiamo alla vostra generosità, alla vostra pietà, affinchè ne usiate come di cose vostre.»
Dopo avere così parlato, uscì bruscamente, e lasciò la sorella sola col Salimbeni. Questi si disponeva a parlarle, ma colpito dal suo mortale pallore e dalla disperazione che le scorgeva sul volto, uscì egli medesimo all'istante, fece chiamare le signore del vicinato, e le pregò di [396] tenere compagnia alla nobile damigella che troverebbero in casa sua. Estrema fu la loro sorpresa vedendo Angelica nell'appartamento del Salimbeni; il modesto contegno della giovinetta smentiva ogni ingiurioso sospetto, ma l'aperta nimicizia delle due famiglie non permetteva loro d'indovinare i motivi della sua venuta. Tutte stavano in silenzio e si perdevano dietro vane congetture. Intanto Anselmo aveva fatto adunare i suoi parenti in casa sua, e chiamò con loro Angelica e le signore che le tenevano compagnia. Allora pregò colle lagrime agli occhi tutti i suoi amici a volerlo accompagnare, e senz'altro dire recossi alla casa di Montanini con tutto il corteggio preceduto da molte fiaccole.
«Voi avete voluto parlarmi senza testimonj, disse a Carlo, io invece vi chiedo di udire la mia risposta in presenza di quest'onorata compagnia. È omai lungo tempo ch'io fui colpito dalla bellezza, dalla modestia, da tutte le virtù di vostra sorella Angelica; io aveva sentito che niun'altra donzella meritava più di lei di essere nobilmente amata. Io avevo per altro tenuto sempre celata questa mia inclinazione, e veruno non la seppe prima di voi. La disgrazia che vi colpì, ed il servigio ch'io vi resi, vi diedero motivo di leggere nel mio cuore. Non sapendo voi sopportare una cortesia senza ricompensa, vi siete dato con vostra sorella nelle mie mani, ponendo in mio arbitrio la vostra vita, il vostro onore, la vostra esistenza. Io accetto questo prezioso dono; ma sarebbe di me cosa indegna il possederlo con un titolo illegittimo. Se voi dunque vi acconsentite, io prendo alla presenza di questa [397] onorata assemblea Angelica Montanini per mia cara sposa; accetto suo fratello Carlo per mio cognato, ed intendo che d'ora innanzi tutti i miei beni sieno tra di noi comuni.» Le nozze si celebrarono immediatamente e con gran pompa. La riconciliazione dei Montanini coi Salimbeni richiamò l'attenzione del governo; furono riveduti i processi di Carlo, e riconosciutasi l'ingiustizia di cui poco mancò che non fosse vittima, gli venne resa la pagata ammenda, e fu riammesso a tutti i diritti della cittadinanza. — Annali Sanesi di un anonimo vivente dal 1385 al 1422, t. XIX. Rer. Ital., p. 397-411.
I Genovesi si danno al re di Francia. — Tentativo di Giovanni Galeazzo sopra Samminiato; ricomincia la guerra. — Disfatta dei Milanesi a Governolo; tregua. — Gherardo di Appiano vende Pisa a Giovanni Galeazzo. Gli si danno ancora Siena e Perugia.
1396 = 1399.
Le perdite cagionate dalla guerra di Chiozza avevano privati i Genovesi di ogni influenza sul rimanente dell'Italia; onde nello spazio di quattordici anni non avemmo che due volte occasione di parlare di loro, quando liberarono Urbano VI assediato in Nocera, e quando colla loro mediazione ristabilirono la pace fra Giovanni Galeazzo e la repubblica fiorentina. Non pertanto questi quattordici anni erano stati un periodo di continue agitazioni e burrasche. Le fazioni erano diventate più violente, e le guerre civili da loro occasionate privavano i Genovesi di ogni influenza sui loro vicini. Per ultimo le rivoluzioni si resero così frequenti, che i cittadini, più non trovando garanzia nelle leggi da loro [399] pubblicate, o protezione ne' magistrati, ch'essi medesimi avevano nominati, si assoggettarono volontariamente ad un monarca straniero, affinchè il suo giogo s'aggravasse egualmente sugli oppressori e sugli oppressi.
In verun'altra repubblica non eransi mai contate nello stesso tempo tante fazioni come in Genova. Perciò tra tutti i popoli d'Italia, i Genovesi passavano per i più volubili ed impazienti. Le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini non erano per anco spente, sebbene da lungo tempo non esistesse più l'oggetto per cui s'erano formate. Antichi odj dividevano ancora le famiglie che si erano altre volte battute, e tali odj passavano di padre in figlio come parte dell'avito retaggio. Di quando in quando queste nimicizie scoppiavano di nuovo, ed ogni zuffa era quasi sempre foriera di rivoluzione nello stato. Un'altra rivalità segregava i nobili dai cittadini. I primi erano esclusi dall'amministrazione: le quattro più potenti famiglie dei Doria, degli Spinola, dei Grimaldi e dei Fieschi eransi rifugiate ne' loro feudi, e facevano la guerra alla repubblica senza essere in pace fra di loro. Invano venivano esclusi da ogni partecipazione al governo, i proprj vassalli, le proprie [400] fortezze loro assicuravano sempre un distinto rango nello stato; l'asprezza delle montagne, le naturali fortificazioni delle valli loro agevolavano la difesa dei proprj feudi: i nobili non temevano nei proprj castelli l'odio del popolo e la vendetta degl'irritati loro concittadini; ed a dispetto delle leggi trasmettevano di secolo in secolo ai loro discendenti i loro odj e le loro forze.
Tra le famiglie de' cittadini, loro succedute nell'amministrazione dello stato, eranvene quattro che s'innalzavano al di sopra de' borghesi, come le quattro famiglie nobili s'erano innalzate sopra la nobiltà; ed ognuna aveva un partito nel popolo cui aveva dato il proprio nome. I capi di queste quattro famiglie erano Antoniotto Adorno, Pietro Fregoso, Antonio di Montalto e Lodovico Guarco, ognuno de' quali aspirava alla dignità di doge della repubblica, ed ognuno ottenne la volta sua quest'onore da' suoi partigiani. Dall'anno 1390 al 1394, dieci rivoluzioni mutarono in Genova dieci volte il primo magistrato della repubblica, e si vide il trono ducale a vicenda occupato dai capi di nuove famiglie o da cittadini che appartenevano ad un altro partito de' borghesi, chiamato lo stato di mezzo. [401] In questi stessi anni scoppiarono altre turbolenze, perciocchè i partiti vinti fecero molti inutili tentativi per riprendere la superiorità[552].
Come nelle guerre civili del precedente secolo le famiglie nobili avevano avuto de' vassalli che loro erano affezionatissimi, così le famiglie borghesi avevano clienti sempre apparecchiati a versare il loro sangue, e ad esporre i loro beni per il personale trionfo del capo della loro fazione. Lo scopo di tutte queste guerre civili pareva limitato ad innalzare sul trono ducale l'idolo dell'uno o dell'altro partito. Ma il potere de' nobili e quello de' grandi cittadini aveva un altro fondamento: i primi comandavano a contadini nati ne' loro feudi, e che vivevano sui loro poderi, i secondi comandavano [402] a marinaj e ad artigiani che facevano lavorare. I Genovesi esercitavano il commercio marittimo coll'attività di un popolo libero; i mercanti non aspettavano, stando ne' loro fondachi, i risultamenti delle loro speculazioni, scorrevano i mari sopra navi destinate ugualmente alla guerra ed al commercio; vivevano sempre insieme ai marinaj che tenevano al loro soldo, che avvezzavano all'ubbidienza ed al rispetto, e che si affezionavano coi beneficj. Spesso ogni figlio d'una casa numerosa comandava un vascello, ed alcune migliaja d'uomini venivano perciò assoldati da una sola famiglia, cui l'abitudine, la riconoscenza e l'amore assicuravano la loro ubbidienza.
Inoltre i capi dei varj partili erano uomini eminentemente distinti. Antonio di Montalto, ch'era assai giovane, aggiugneva a straordinario valore rara moderazione e clemenza. Antoniotto Adorno, cui un'insaziabile ambizione non lasciava un istante di riposo, era dotato di un vasto e raro ingegno, aveva grandi e nobili maniere, cuore generoso, nome rispettato da tutti i principi d'Europa, e la sua gloria aveva acquistato grandissimo lustro nella spedizione fatta [403] sulle coste di Barbaria l'anno 1388 per reprimere le piraterie dei Mori. Aveva assediato nella sua capitale il re di Tunisi, e costrettolo a dare la libertà a tutti gli schiavi cristiani, a pagare una somma di danaro per le spese della guerra, e promettere che in avvenire i suoi sudditi non eserciterebbero la pirateria[553]. Quattro volle Antoniotto Adorno aveva ottenuto di sedere sul trono ducale, ed avrebbe meritato un distinto rango tra i grandi uomini, se una smisurata ambizione non gli avesse fatto in più circostanze adoperare i suoi talenti a danno della patria.
La famiglia degli Adorni era attaccata alla fazione ghibellina, ed Antoniotto aveva coltivata l'amicizia di Giovanni Galeazzo Visconti, e lo aveva favorito nel trattato di pace, di cui era stato mediatore, tra questo principe e la repubblica fiorentina. Aveva invece ottenuto in tempo del suo esilio l'assistenza del Visconti, allorchè aveva tentato di riavere colle armi la dignità ducale. Ma i soccorsi di Giovanni Galeazzo erano sempre [404] interessati; egli prendeva parte nelle turbolenze di Genova, sperando di ricuperare sopra questa città l'autorità di cui aveva goduto l'arcivescovo di Milano suo pro-zio; e le moltiplicate rivoluzioni del 1393 e 1394 gli davano speranza di giugnere a questo scopo. In questi due anni diede potenti soccorsi ad Antoniotto Adorno in allora esiliato; ma quando lo vide ristabilito sul trono ducale col favore della rivoluzione del 3 settembre 1394, cercò di rovesciarlo, e si affezionò il partito di Montalto e di Guarco per fargli guerra.
Questa mala fede, che nulla aveva provocato, apri finalmente gli occhi ad Antoniotto Adorno, il quale vide che un segreto nemico avvelenava tutte le fazioni della sua patria, e s'avanzava verso il compimento de' suoi odiosi progetti col rapido indebolimento della repubblica; vide che l'autorità di verun doge non potrebbe consolidarsi finchè Giovanni Galeazzo sarebbe sempre apparecchia o a soccorrere tutti i ribelli e tutti i nemici dell'ordine; vide finalmente che Genova non era abbastanza forte per resistere sola ad un così ambizioso vicino.
[405] Nel 1396 Carlo VI era re di Francia; e di già questo monarca era stato preso da quegli accessi di follìa, che spesso rendevanlo incapace di governare, e che lasciarono il regno in balìa delle rivali fazioni di Borgogna e d'Orleans. Una nazione che avrebbe voluto compiutamente sottoporsi all'autorità monarchica, non sarebbesi lasciata tentare di darsi un sovrano, che ne poteva farsi ubbidire dai suoi sudditi, nè preservarli dalle guerre civili e straniere. Ma se i Genovesi si determinavano di riconoscere un re, non volevano in pari tempo che fosse abbastanza destro ed ambizioso per usurpare tutti i poteri dello stato, ed assicurarsi per sempre la di lei sudditanza. La vera debolezza e l'apparente forza di Carlo VI erano forse ciò che loro meglio conveniva. Il suo solo nome poteva difenderli contro le aggressioni di Giovanni Galeazzo, ed intimidire le rivali fazioni; ma egli doveva coll'amore non col timore governare un paese lontano e separato da' suoi stati da alte montagne. Antoniotto Adorno per dare la pace alla sua patria, e più ancora per isventare i progetti di Giovan Galeazzo, trattò coi ministri di Carlo VI, sotto la di cui protezione offrì di porre la repubblica di Genova.
[406] Il trattato venne finalmente sottoscritto il 25 ottobre del 1396 dopo lunghe dispute sia coi ministri regj sia colle diverse fazioni genovesi. Prometteva il re di mandare un vicario francese per governar Genova coll'autorità esercitata dal doge, e sotto le stesse leggi. Il consiglio della repubblica doveva avere lo stesso numero di Guelfi e di Ghibellini, di cittadini e di nobili; ma il presidente doveva sempre essere Ghibellino. Il vicario del re doveva avere due voci in consiglio, ove tutto si sarebbe deciso a pluralità di suffragi. Carlo non poteva nè stabilire nuove imposte, ne immischiarsi in verun modo nelle finanze della repubblica. Non aveva pure in sua mano le fortezze dello stato, tranne dieci castelli datigli per sua sicurezza. Per ultimo i Genovesi si riservarono la particolare loro alleanza coll'imperatore de' Greci e col re di Cipro, la scelta tra i partiti che dividevano, in tempo dello scisma, la Chiesa, e l'integrità del loro territorio; prometteva il re di Francia di non trasmettere ad altri sovrani una sovranità unicamente accordata alla sua persona[554].
Sotto tali condizioni, quando fossero state osservate, la repubblica di Genova veniva a conservare la sua libertà tutta intera, acquistando per la protezione del re di Francia maggiore sicurezza senza detrimento della sua gloria. Ma il popolo era troppo riscaldato dalle passioni, per rimanere subordinato a così temperata autorità; ed i vicarj reali erano troppo stranieri ad una libera costituzione per rimanere entro i limiti della medesima. Antoniotto Adorno morì nella peste del 1397 in privata condizione, nella quale era volontariamente entrato, prima che le passioni del popolo, calmate da questo trattato, scoppiassero di nuovo. Ma nel 1398 la guerra civile, riaccesa dai partiti di Montalto e di Guarco, e continuata poi dai Ghibellini contro i Guelfi, si manifestò con tanto furore, che il vicario reale fuggì a Savona, e cinque grandi battaglie si diedero nell'interno della città dal 12 agosto al primo di settembre. Trenta de' più magnifici palazzi furono bruciati, e spianati moltissimi pubblici e privati, edificj di modo che i danni della repubblica ammontarono a più d'un milione di fiorini. Lo spossamento universale costrinse all'ultimo le due fazioni a fare la pace, e Colardo [408] di Calleville, vicario reale nominato da Carlo VI, tornò in Genova per governare la repubblica con più estesi poteri che prima non aveva[555].
Il duca di Milano aveva presa parte il quest'ultima guerra civile, siccome aveva fatto nelle precedenti; sovvenne di truppe e di Danaro Antonio di Guarco ed Antonio di Montalto, ma l'aveva fatto assai celatamente, per non provocare la collera della Francia; onde per tema di compromettersi non aveva raccolto alcun frutto delle sue pratiche. Giovanni Galeazzo ad una smisurata ambizione aggiugneva una grandissima timidità. Sebbene fosse sempre in guerra, non vedeva mai le sue armate, chiudevasi nel suo castello di Pavia di dove usciva poche volte e sempre circondato da numerosa guardia. Tra i suoi generali aveva uomini riputatissimi per talenti e per valore, ma non pertanto la guerra trattata per mezzo loro aveva sempre un carattere di timidità. Non permetteva mai d'attaccare se non sapeva di avere una marcata superiorità di forze, e quando [409] aveva a fronte un'armata di uguali forze ordinava di non avventurare alcuna battaglia generale; faceva chiudere le sue truppe nella città, abbandonando le campagne alla licenza militare, ed aspettando che il tempo o le sue pratiche avessero indeboliti i nemici. Con tanta pusillanimità perdette vantaggi quasi sicuri, e non ottenne giammai dalla sua situazione o dalle sue forze tutto quanto poteva sperarne.
Ma più che nelle armi otteneva vantaggio dalle sue negoziazioni, perciocchè aveva l'arte di dividere e di sciogliere le leghe che si andavano formando contro di lui, addormentando con false promesse e con vane lusinghe d'amicizia coloro che voleva attaccare. Poco suscettibile di collera o di risentimento, non entrava mai in guerra per vendicarsi: ma nè l'amicizia, nè la memoria di passati servigi lo trattenevano quando aveva risolto di nuocere. Non arrossiva di apparire perfido e bugiardo, e non aveva altro consigliere che la propria ambizione modificata dalla timidità. Pare che le sue parole non avrebbero dovuto ispirare veruna confidenza, e che a forza di mentire avrebbe dovuto ridursi in situazione di non poter più ingannare: [410] ma gli uomini, principalmente quando sono deboli, non si disabusano giammai interamente dell'illusione della parola. Rendesi necessario troppo coraggio per cercare un'increscevole verità, che un potente nemico tenta di nasconderci; troppa risolutezza vuolsi a considerare sempre di fronte un imminente pericolo, dal quale si può allontanare lo sguardo; finalmente l'esclusione d'ogni verità nelle relazioni socievoli cagiona una così desolante confusione, che non può sopportarsi. Un impostore non è mai tanto screditato perchè la sua parola non possa più ingannare.
I Fiorentini ebbero soli in Italia il coraggio di giudicare Giovanni Galeazzo; e malgrado le sue carezze ed i giuramenti lo tennero sempre d'occhio come un nemico apparecchiato a piombare sopra di loro; invece i piccoli principi e i deboli popoli, erano tutti l'uno dopo l'altro vittime de' suoi artificj. Bonifacio IX e la repubblica di Venezia partecipavano di questo acciecamento; essi non ardivano rivocare in dubbio la fedeltà del duca di Milano, o sospettare soltanto che non avesse a mantenere i trattati che lo legavano; quindi non prendevano le necessarie misure per difendere, il primo lo stato della Chiesa, l'altro il dominio [411] di san Marco, qualunque volta Giovanni Galeazzo avesse determinato di attaccarli.
Alla testa del governo fiorentino trovavasi sempre la fazione degli Albizzi, che aveva ripigliata l'amministrazione degli affari l'anno 1381, dopo l'espulsione de' Ciompi. Questa fazione, composta d'antichi Guelfi e di cittadini per ricchezze e per natali prossimi alla nobiltà, aveva sempre avuti per capi i migliori politici dell'Italia; uomini che abbracciavano a colpo d'occhio il presente e l'avvenire, e gl'interessi tutti de' principi d'Europa; uomini che avevano saputo chiamare dalle estremità della Francia e della Germania alleati alla repubblica fiorentina; uomini finalmente che non perdevano il coraggio nelle calamità, che per variare delle circostanze non rinunciavano alla data fede, ed alla protezione della libertà d'Italia, che riguardavano come proprio debito. Maso degli Albizzi, capo di questa fazione, eccitava, a dir vero, la gelosia de' suoi concittadini; e gli Alberti ed i Medici facevano di quando in quando alcuni sforzi per rialzarsi. Donato Acciajuoli, che dopo l'Albizzi era il maggior cittadino di Firenze, e che fin allora era stato con lui d'accordo, [412] tentò egli medesimo nel gennajo del 1396 di far richiamare gli esiliati e di ristabilire qualche eguaglianza tra i due partiti; ma fu prevenuto e confinato a Barletta, insieme a molti altri che avevano preso parte nella sua congiura[556]: onde Maso degli Albizzi meglio assicurato nell'interno col bando dell'Acciajuoli, fu in libertà di volgere tutta l'attenzione ai maneggi del duca di Milano.
Giovanni Galeazzo aveva trattato con quasi tutti i capitani delle compagnie di ventura. Egli loro assicurava una mezza paga costante, mercè la quale questi avventurieri si obbligavano a tornare al suo servizio colla loro piccola armata, quando il duca ne aveva bisogno. Mentre stavano a mezza paga guerreggiavano per conto loro, e vivevano col saccheggio in mezzo a' paesi che il duca non proteggeva contro di loro. In tal modo Giovanni Galeazzo indeboliva in tempo di pace coloro che voleva poi attaccare; quando si riconciliavano con [413] lui, non perciò erano liberati da queste armate, le quali continuavano le ostilità in proprio nome. Quando il Visconti voleva in piena pace sorprendere qualche piazza, cassava una delle compagnie al suo soldo, dandole ostensibile congedo, ed incaricandola segretamente dell'esecuzione del suo progetto. Se andava a male, dichiarava di non essere risponsabile della sua condotta; ma se l'intrapresa riusciva, egli ne raccoglieva solo tutto il frutto. I Fiorentini, sempre vigilanti, non permisero quasi mai a queste compagnie d'invadere il loro territorio, ma non seppero impedire che non guastassero spesso quello de' loro alleati. Dopo inutili lagnanze determinarono di adottare lo stesso diritto delle genti, usando rappresaglie sopra gli alleati del duca di Milano, e facendo loro sentire in seno alla pace le vessazioni de' soldati, delle quali eransi essi lagnati lungo tempo. Assoldarono adunque Bartolomeo Boccanera di Prato con una compagnia di due mila cavalli e di mille pedoni; non molto dopo lo congedarono, ordinandogli celatamente di entrare nello stato di Pisa.
Bartolomeo prese la strada di questa città in giugno del 1396 con i Gambacorti ed il conte Niccola di Montescudajo; [414] ma essi si avanzarono fin presso alle mura senza che, come lo avevano sperato, si facesse internamente alcun movimento[557]. Giovanni Galeazzo mandò sei mila cavalli in Toscana per difendere la signoria di Pisa, ed i Fiorentini non raccolsero che pentimento e vergogna dall'intrapresa loro, come sempre accade alle persone dabbene, quando vogliono adoperare le armi de' malvagi. Presero per altro nuove truppe al loro soldo sotto gli ordini di un gentiluomo di Guascogna detto Bernardo di Serres[558]; intavolarono nello stesso tempo negoziazioni per riconciliare la signoria di Pisa e la repubblica di Lucca, tra le quali eranvi state alcune ostilità.
Maso degli Albizzi dall'altro canto era passato in Francia, come ambasciatore dei Fiorentini, per assicurare alla repubblica i soccorsi di questa potenza, in caso che di nuovo scoppiasse la guerra con Giovanni Galeazzo. La casa di Francia aveva oramai coll'Italia interessi più immediati, dopo che la signoria di Genova [415] erasi data al re, e dopo che la città di Asti era venuta in mano del duca d'Orleans come dote di Valentina Visconti. Carlo VI acconsentì dunque il 29 settembre 1396 a firmare un'alleanza difensiva, in forza della quale il re e la repubblica si guarentivano vicendevolmente l'integrità de' loro stati. I Fiorentini promettevano al re, quando fosse attaccato in Italia, un'armata ausiliaria di tre mila cavalli; in cambio il re prometteva di spedire in loro ajuto, nel caso di bisogno, un'armata degna di portare le sue insegne e di essere capitanata da un principe del sangue. Se gli alleati erano attaccati, e se difendendosi facevano conquiste, quelle di Lombardia dovevano appartenere alla Francia, e quelle di Toscana alla repubblica[559].
Quest'alleanza rialzò il coraggio dei Fiorentini e de' loro confederati d'Italia, che vennero ammessi a prendervi parte. Per altro non procurò loro verun reale vantaggio. Un avvenimento, accaduto circa lo stesso tempo all'altra estremità [416] dell'Europa, privò tutt'ad un tratto i Francesi di uomini e di danaro, e gli alienò per alcun tempo da lontane intraprese. Un migliajo di cavalieri francesi, il fiore della nobiltà del regno, erano passati in Ungheria sotto la condotta di Giovanni conte di Nevers, figliuolo del duca di Borgogna, per difendere Sigismondo contro il formidabile Bajazette Ilderim, che pareva disposto a tentare la conquista di tutta la Cristianità. La loro presunzione fu cagione della disfatta del re d'Ungheria, accaduta a Nicopoli il 28 settembre; ma il loro valore rese lungo tempo incerta una battaglia nella quale perirono cento mila uomini. Tutti i cavalieri francesi morirono combattendo, o furono uccisi dopo la vittoria, tranne ventiquattro signori, che col conte di Nevers furono ammessi a riscattarsi; fu portata la taglia del solo duca di Nevers a dugento mila fiorini, e quella degli altri cavalieri, tra i quali distinguevansi Enguerrando di Coucy, il maresciallo Boucicault, ed il conte d'Eu, esaurì di danaro la Francia[560].
Ma la repubblica fiorentina non si era appoggiata alla sola alleanza del re di Francia. I dieci della guerra si erano data cura d'accrescere le milizie dello stato, ed avevano spedito Bernardone con tutte le loro truppe a Pescia in principio del 1397, per impedire l'invasione del loro territorio. Dal canto suo Alberico da Barbiano aveva condotti sei mila cavalieri nello stato di Lucca; e questo generale avventuriere aveva seco i più valorosi capitani d'Italia. La compagnia di san Giorgio, da lui formata vent'anni prima aveva loro servito di scuola; Pagolo Orsini e Pagolo Savelli di Roma, Ottobon Terzo di Parma, Ceccolino de' Michelotti di Perugia, Broglio di Chieri in Piemonte, e Luca di Canale[561] erano i suoi principali luogotenenti; questi rialzavano l'onore della milizia italiana e ravvivavano lo spirito guerriero di questa nazione. Il conte Alberico di Barbiano riceveva un soldo da Giovanni Galeazzo, ed era venuto a Lucca per suo ordine; ma non pertanto egli pretendeva di essere entrato in Toscana come condottiere, non come generale del [418] duca di Milano. Barbiano vide con piacere l'armata fiorentina stabilirsi a Pescia perchè egli non aveva intenzione d'attaccare la Val di Nievole, ma di aspettare l'effetto di una congiura tramata a Samminiato.
Samminiato, posto a metà strada tra Firenze e Pisa, è un forte castello fabbricato sulla sommità d'un colle, di dove scuopresi una vasta estensione di pianure. L'Arno gli scorre alle falde, ed i due fiumi l'Elsa e l'Era vi mettono foce uno a destra e l'altro a sinistra di Samminiato. Questa terra, oggi dichiarata città, conteneva circa sei mila abitanti, i quali eransi molto tempo conservati liberi, ma erano in appresso caduti sotto il dominio de' Fiorentini per colpa delle divisioni nate tra le famiglie de' Mangiadori e de' Ciccioni[562].
Benedetto Mangiadori aveva ricorso a Giovanni Galeazzo per iscuotere col di lui ajuto questo giogo straniero. Erasi egli stabilito in Pisa; ma il 17 marzo si presentò avanti a Samminiato, un'ora prima di mezza notte, con diecisette compagni d'armi. Pretendeva di aver cose [419] importanti da comunicare ad Antonio Davanzati, vicario fiorentino, ed entrò immediatamente col suo seguito nella corte del pubblico palazzo, ove fu ricevuto senza diffidenza. In tutte le città i palazzi del governatore erano fortificati; quello di Samminiato appoggiavasi alle mura ed aveva due uscite, una nell'interno della piazza, l'altra nella campagna. Il Mangiadori, ammesso all'udienza del vicario, sguainò la spada, slanciossi sopra di lui e l'uccise: il corpo del governatore coperto di ventotto ferite, e quello d'uno de' suoi ufficiali, vennero gittati in sulla piazza dai congiurati, che si trovarono in tal modo padroni del palazzo; essi poi liberarono tutti i prigionieri, chiamarono a riprendere le armi per ricuperare la libertà gli abitanti di Samminiato; ed accesero fuochi per dare il convenuto segno a Pisa, ond'essere soccorsi[563].
In fatti gli abitanti di Samminiato presero le armi, e rimasero alcun tempo indecisi intorno a ciò che loro convenisse [420] di fare; ma in ultimo ascoltarono l'affetto loro pei Fiorentini, attaccarono con molto coraggio il palazzo difeso da Mangiadori e dai suoi compagni prima che loro giugnessero i soccorsi di Pisa. Volle l'accidente che il capitano di Giovanni Galeazzo, che s'avanzava per sostenere Mangiadori, si scontrasse in un corpo di Fiorentini che inseguivano alcuni banditi. Egli tenne sicuro, vedendoli, che l'intrapresa di Samminiato fosse mal riuscita, e si ritirò. Mangiadori, dopo avere resistito lungo tempo, fuggì a traverso ai precipizj, sui quali s'innalzano le mura della città, seguito dai pochi suoi compagni che non erano stati uccisi, o fatti prigionieri[564].
Era stata annunciata a Firenze la morte del vicario di Samminiato, e la perdita di questa fortezza; tale notizia aveva sparsa nel popolo la più alta costernazione. Se Giovan Galeazzo restava padrone di così forte piazza, nel centro della Toscana, gli sarebbe stato agevole lo spingere ogni giorno le sue scorrerie fin sotto alle mura di Firenze, e di ruinare [421] la repubblica con una lenta guerra senza timore di essere ridotto ad una battaglia, o forzarlo a dare addietro. Ma quando seppesi in appresso, che la città era salvata, e che il palazzo del vicario era stato ripreso dai cittadini, la trepidazione fece luogo al desiderio della vendetta. I priori adunarono immediatamente un consiglio di seicento richiesti, loro fecero il quadro degl'intrighi del duca di Milano e delle innumerevoli infrazioni de' trattati di pace, e chiesero se non tornava meglio di esporsi ad un'aperta guerra, piuttosto che riposare ancora sui giuramenti di un uomo perfido, che non rispettava le più sacre promesse. Di comune assenso i cittadini domandarono la guerra, e sollecitarono la signoria a spingerla vigorosamente[565].
Il conte Alberico di Barbiano, vedendo sventata la sua intrapresa di Samminiato, attraversò il territorio di Pisa e venne ad unirsi presso Siena ad altre truppe di Giovanni Galeazzo. Portò in tal modo la sua armata a dieci mila cavalli, con un ragguardevole corpo d'infanteria[566]. [422] Mentre girava al di fuori intorno ai confini della repubblica fiorentina, Bernardone coll'armata della repubblica seguiva al di dentro la linea degli stessi confini per chiuderne l'ingresso. Ma in ultimo questo generale si lasciò sorprendere da un'astuzia del nemico, che minacciava lo stato d'Arezzo. Bernardo sforzavasi di chiudergli questa provincia, quando Barbiano penetrò per Chianti in Val di Greve, s'innoltrò fino alle porte di Firenze, guastò la Val d'Arno inferiore, e fece in tutte le campagne un'immensa preda, perchè non essendo dichiarata la guerra, i contadini non avevano pensato a riporre nelle terre murate i loro bestiami e gli altri effetti[567].
Frattanto dopo dieci giorni di saccheggio l'armata milanese tornò nello stato di Siena, ed i Fiorentini trovarono in breve la maniera d'indebolirla, prendendo al loro soldo Pagolo Orsino, Biordo de' Michelotti e Cecchino suo fratello, che seco conducevano parte della cavalleria del duca. Giovanni di Barbiano, [423] fratello d'Alberico, lo abbandonò ancora esso per andare in Romagna in servigio de' Bolognesi; ed i Fiorentini, invece di temere per sè medesimi, si videro bentosto a portata di mandare considerabili soccorsi a Francesco di Gonzaga, nello stesso tempo attaccato dal Visconti[568].
Senza dichiarazione di guerra Giovanni Galeazzo aveva fatti entrare il 31 marzo nel territorio mantovano due armate. Ugolotto Biancardo, governatore di Verona, conduceva la prima, ad aveva fatti condurre in coda diversi battelli, onde attraversare o il lago, o il Mincio a Guarolda[569]. Giacomo del Verme con un'altra armata avanzavasi al mezzogiorno del Po con intenzione di passarlo a Borgoforte. L'uno e l'altro volevano penetrare in quella parte del territorio di Mantova che trovasi tra il lago, il Po, il Mincio e l'Oglio. Questa piccola provincia, chiamata il Serraglio, era la più ricca d'ogni altra; perchè nelle precedenti guerre non era mai stata esposta ai guasti de' nemici; ma per lo spazio di tre [424] mesi e mezzo i generali milanesi tentarono invano di gittare un ponte sul Po o sul Mincio, ed in così lungo spazio di tempo la guerra si ristrinse ad alcune rapide incursioni, ed a pochi assedj di castelli. I Mantovani tenevano a Borgoforte un ponte sul Po, la di cui testa era fortificata, e con ciò impedivano ai loro nemici di navigare sul fiume. Giacomo del Verme aveva adunata una flotta di grandi battelli nella parte superiore del Po, ma, fermato al ponte di Borgoforte, non poteva giugnere fino al Serraglio. Quando il 14 luglio un impetuoso vento secondando la corrente delle acque, egli lanciò alcuni vascelli incendiarj contro il ponte che chiudeva il passaggio, e lo bruciò malgrado la coraggiosa resistenza di Francesco da Gonzaga. Le campagne lungo tempo rispettate del Serraglio vennero allora abbandonate ai guasti de' soldati[570].
Quando i Fiorentini ebbero notizia di quest'infausto avvenimento, staccarono dalla loro armata Carlo Malatesta, Pagolo Orsini e Filippo di Pisa, con tre mila [425] cavalli per soccorrere il Gonzaga. Soccorrendo l'alleato, calmavano pure nel loro campo una sedizione che stava per iscoppiare. Il loro generale Bernardone, sotto pretesto di ristabilire la disciplina, aveva fatto tagliare la testa, trasportato dalla collera e dalla gelosia, a Bartolomeo Boccanera di Prato, uno de' capitani che servivano sotto di lui. Ma i condottieri erano troppo lontani dal conoscere quella cieca ubbidienza che si esige a' nostri giorni dalle truppe: non credevano essi, che il generale avesse diritto d'ordinare il loro supplicio, e domandavano ad alta voce vendetta contro Bernardone per aver fatto perire uno de' loro compagni d'armi[571].
Mentre che l'armata ausiliaria de' Fiorentini avanzavasi per Ferrara sopra Mantova lungo la destra del Po, rimontava questo fiume una flotta formata dal signore di Padova. Era composta di sette galere veneziane che Francesco da Carrara aveva noleggiate. La repubblica di Venezia, senza voler dichiarare la guerra a Giovanni Galeazzo, secondava nascostamente [426] gli sforzi de' suoi nemici per resistergli; aveva agevolato l'armamento del signore di Padova, e permesso a Francesco Bembo, nobile veneziano, di assumerne il comando. Trecento barche o battelli, somministrati dal Carrara e dal marchese d'Este, accompagnavano le sette galere. Delle due armate milanesi quella di Ugolotto Biancardo era nel Serraglio, ed assediava il castello di Governolo al confluente del Po e del Mincio, e quella di Giacomo del Verme trovavasi accampata in faccia allo stesso castello sull'altra riva del Po verso mezzodì. Un ponte di battelli innanzi a Governolo assicurava la loro comunicazione[572]. Tutte queste posizioni vennero attaccate contemporaneamente il 28 agosto 1397. Il ponte di battelli fu rotto e bruciato dal Bembo, e cento settanta barche milanesi, che stavano ancorate al disopra del ponte, caddero in potere del vincitore. Il Malatesta coi Fiorentini e loro alleati attaccò Giacomo del Verme. Francesco di Gonzaga, secondato da una sortita [427] della guarnigione di Governolo piombò sopra Ugolotto Biancardo, ed i Milanesi vennero rotti su tutti i punti. Sei mila uomini e due mila cavalli furono uccisi o presi, e le molte ricchezze trovate ne' due accampamenti vennero abbandonate al saccheggio[573].
Dopo questa segnalata vittoria la guerra si andò rallentando finchè si venne a stabilire una tregua. I Veneziani che si erano compromessi con Giovanni Galeazzo, senza che volessero apertamente dichiararsi contro di lui, cercarono di ristabilire la pace in Lombardia: essi temevano di venire alla risoluzione che dovevano prendere in breve, e non pensavano che a guadagnar tempo. Offrirono la loro mediazione alle potenze belligeranti e fu accettata. Dopo otto mesi di negoziati sentirono all'ultimo la difficoltà di conciliare interessi lesi da una lunga serie di [428] perfidie. Si può fondare un trattato sopra la forza e sopra il diritto di conquista; ma è più difficile il negoziare sopra basi stabilite dalla frode e dalla mala fede. Lo spergiuro, più che l'oltraggio o la crudeltà, rende impossibile la pace. Finalmente i Veneziani proposero di mantenere ognuno de' contraenti nello stato in cui si trovava, e senza nulla decidere intorno al diritto, di conchiudere soltanto una tregua di dieci anni, la quale venne infatti soscritta l'11 maggio del 1398, sotto la guarenzia della repubblica di Venezia[574].
Prima che la vittoria ottenuta a Governolo avesse calmata l'inquietudine de' Fiorentini, una sedizione fu in sul punto di rovesciare quel governo che formava la forza e la sicurezza della repubblica. Il 4 agosto otto giovani delle illustri famiglie dei Medici, dei Ricci, degli Spini e de' Cavicciuoli, comparvero armati nelle strade, chiamando il popolo a rovesciare ciò ch'essi chiamavano la tirannia degli Albizzi. Attraversarono Firenze [429] circondati da una folla di gente che gli andava considerando con sorpresa, e li seguiva senza corrispondere alle loro grida. Le spie loro avevano rivelato che troverebbero Maso degli Albizzi sulla piazza di san Pietro maggiore; ma tardarono pochi minuti, ed invece uccisero due suoi clienti, sperando di commuovere il popolo colla vista dello sparso sangue. Si fermarono finalmente nel portico della cattedrale, ove ricominciarono ad invitare i cittadini alle armi ed alla libertà; ma nella folla che li circondava mantenevasi un cupo silenzio. Gli arcieri s'innoltravano per arrestarli, onde, presi da spavento, si rifugiarono in chiesa, ove furono inseguiti ed incatenati. Confessarono innanzi al podestà ed al capitano del popolo che avevano avuto intenzione d'uccidere Maso degli Albizzi, e di rovesciare il governo; onde furono condannati a perdere la testa sulla piazza del palazzo[575].
Mentre continuavansi in Venezia le negoziazioni di pace, Giovanni Galeazzo ne manteneva altre più segrete in ogni città per accrescere il suo potere. La prima delle trame da lui formate scoppiò in Pisa. Jacopo d'Appiano, che aveva usurpata la tirannide in questa città, contava in allora settantacinque anni[576]. Vanni, il maggiore de' suoi figliuoli, che le sue relazioni col duca di Milano, e la sua contesa coi Lanfranchi, avevano armato contro Gambacorta, era morto nel mese di ottobre, ed i suoi fratelli non mostravano nè talenti, nè energia. Il signore di Pisa, inquieto intorno alla sorte di sua famiglia, mandò a chiedere soccorso a Giovanni Galeazzo per mantenere la sua autorità. Infatti il duca fece passare a Pisa Pagolo Savelli con trecento lance, ed incaricò tre ambasciatori d'assicurare l'Appiano della sua protezione e del suo affetto. Ma il 2 gennajo del 1398 questi ambasciatori si fecero aprire a mezza notte la casa del vecchio signore di Pisa, e gli chiesero a nome del loro padrone le chiavi delle cittadelle di Pisa, di Livorno, di Piombino e di Cascina. [431] Jacopo loro rispose che la sua persona ed ogni suo avere appartenevano al duca di Milano, ma che non poteva dargli le fortezze dello stato senza il consentimento degli anziani della repubblica. Promise di adunarli all'indomani mattina, e con questa promessa persuase, non senza difficoltà, gli ambasciatori del duca a ritirarsi. Ma non erano appena usciti dalla sua casa, che si apparecchiò a difendere la signoria che gli si voleva togliere. Adunò i suoi soldati, fece armare il popolo, di già irritato contro il duca per le vessazioni de' suoi soldati, ed allo spuntare del giorno fece attaccare nella sua casa Pagolo Savelli. Questo capitano fu fatto prigioniero unitamente agli ambasciatori, ed i suoi soldati di cavalleria furono parte uccisi, e parte spogliati delle armi e scacciati di città. Un segretario del Savelli palesò innanzi ai tribunali tutta la trama del suo padrone, ed i Pisani, che avevano contro di lui cospirato, furono severamente puniti[577].
I Fiorentini spedirono immediatamente a Pisa a felicitare la signoria ed il popolo d'essersi sottratti al laccio loro teso dal duca di Milano, protestandosi apparecchiati a difenderli qualora Giovanni Galeazzo facesse contro di loro uso della forza. Gli ambasciatori de' Fiorentini vennero accolti con viva gioja dai Pisani, e pareva che dovesse conchiudersi tra i due popoli una nuova pace; ma Giovanni Galeazzo, sempre padrone di contenere le sue passioni, sapeva simulare la calma quando si credeva che dovesse manifestare la collera. Approvò altamente la condotta de' Pisani, dichiarò che qualunque volta i suoi commissarj abusavano delle loro facoltà, o i suoi soldati delle loro armi, per vessare i principi o i popoli, li vedeva con piacere puniti. Abbandonò i prigionieri al risentimento del signore di Pisa, ed ottenne di farlo dubitare ch'egli avesse avuto parte nella trama[578]. Jacopo [433] d'Appiano fece allora sorgere nuove difficoltà per ritardare il trattato coi Fiorentini, ricusò in appresso di conchiudere una pace separata, e chiese soltanto di essere compreso nella tregua generale, che in questo medesimo tempo trattavasi a Venezia, e che fu pubblicato per dieci anni in tutte le città il 29 maggio del 1398.
Pochi mesi dopo la pubblicazione di questa tregua, Jacopo d'Appiano morì il 5 settembre del 1398. Aveva avuto cura di far riconoscere suo figliuolo Gherardo per capitano del popolo, e di fargli prestare giuramento dalle milizie[579], onde la morte di Jacopo non fu cagione di rivoluzioni. Ma suo figlio, occupando dopo di lui la signoria, si sentiva mal sicuro, onde cercò appoggi all'estero, e fu detto che offrisse ai Fiorentini di entrare nella loro alleanza, se questi volevano mantenere in Pisa a loro spese seicento cavalli e duecento fanti per difenderlo contro gli ammutinamenti de' suoi sudditi. I Fiorentini ricusarono di farsi garanti d'una [434] tirannide[580], desiderando piuttosto di vedere i Pisani rimessi al godimento della libertà, ed i Gambacorti ristabiliti nella loro patria. Giovanni Galeazzo, meno scrupoloso, offrì a Gherardo d'Appiano di comperare la sovranità di Pisa ad altissimo prezzo, promettendogli duecento mila fiorini colla signoria dell'isola d'Elba e di Piombino. Gherardo rimandò gli ambasciatori fiorentini troppo pericolosi indagatori delle sue azioni; fece entrare in città quattro mila uomini delle truppe milanesi; diede loro in mano tutte le fortezze ed in appresso pubblicò il trattato conchiuso col duca di Milano[581].
I Pisani più non erano in tempo di prendere le armi quando seppero di essere stati indegnamente venduti ad un padrone straniero. Tentarono almeno di smuovere l'Appiano colle loro preghiere; «Poichè volete, gli dissero, rinunciare alla signoria, rendete alla vostra patria [435] l'antica sua libertà. Noi siamo disposti a ricuperarla questa libertà pel prezzo che vi fu offerto dal duca di Milano, ed anche a maggior prezzo se volete. Non caricatevi dell'obbrobrio di vendere come schiavi i vostri concittadini, di vendere uomini la di cui libertà risale a più rimota età che non quella di verun altro popolo toscano. Potremmo noi forse, noi Pisani, piegarci alla volontà d'un principe? Potremo noi soffrire che la passione vinca la ragione, e la forza la giustizia? Vero è che noi abbiamo volontariamente affidata a vostro padre un'autorità sovrana, e siamo apparecchiati a riconoscere questa medesima autorità in voi, suo figliuolo; ma noi vi abbiamo risguardato sempre come nostro concittadino piuttosto che come nostro padrone, e se voi non volete assoggettarvi alla fatica del governo, la vostra patria vi ridomanda quella libertà e quei diritti che aveva soltanto alienati per soverchia confidenza in voi. Colla libertà ella riavrà l'antico splendore, ma sotto il potere d'uno straniero la vedremo in breve perdere la numerosa sua popolazione, [436] il suo splendore, le sue ricchezze[582].»
Gherardo d'Appiano non si lasciò smuovere dalle preghiere de' suoi concittadini; aveva data la sua parola, e forse più non era in suo potere il rivocarla. In febbrajo del 1399 abbandonò la città e le fortezze di Pisa al commissario del duca di Milano, incaricato di prenderne il possesso, e ritirossi nel castello di Piombino. La signoria che si era riservata abbracciava l'isola d'Elba, ed i Castelli di Populonia, di Suvereto e di Scarlino. Così cominciò il principato di Piombino, che conservossi due secoli nella casa d'Appiano, e che in appresso venne poi riunito alla corona di Napoli[583].
Il duca di Milano mandò a Pisa un governatore, che affrettossi di dichiarare ai Fiorentini essere mente del suo padrone d'osservare scrupolosamente la tregua [437] convenuta a Venezia, e di comportarsi da buon vicino[584]. Ma nel medesimo tempo gli emissarj di Giovan Galeazzo avevano persuasi il conte di Poppi, feudo del Casentino, e tutti gli Ubertini a darsi al duca. Questi gentiluomini montanari, rompendo i loro trattati colla repubblica, sforzavansi di provocare una nuova guerra coi loro assassinj[585]. Altri agenti del duca si adoperavano in Perugia per ridurre questa repubblica a proclamarlo suo signore.
Poichè nel 1393 i plebei ed i Guelfi, rientrati in Perugia avevano occupata la suprema autorità, ucciso Pandolfo Baglioni, e costretti i lori nemici a salvarsi colla fuga, questa repubblica, a vicenda travagliata da guerre civili o straniere, non aveva goduto un solo istante di riposo. Molti gentiluomini della Marca d'Ancona, del ducato di Spoleti e del patrimonio di san Pietro, facevano il mestiere di condottieri; possedevano in queste province fortezze, ove si ritiravano quando non erano impegnati nel servigio d'alcuno, ed [438] in questi intervalli di riposo saccheggiavano i loro vicini, per tenere esercitati i loro soldati, spingendo talvolta le loro scorrerie fin presso alle porte di Perugia[586]. Tra i nobili ed i cittadini di questa repubblica alcuni pure esercitavano la stessa professione, ed allora prendevano una parte più attiva nelle turbolenze della loro patria: la compagnia di ventura che formavano per servire a qualche principe straniero, era in appresso impiegata talvolta a cagionare rivoluzioni nella repubblica, o a farle la guerra. Braccio da Montone, uno de' più celebri generali italiani del quindicesimo secolo, era signore del castello di Montone, vicino a Perugia. Attaccato alla fazione dei nobili e dei Baglioni egli era stato fatto prigioniere pochi anni dopo l'ultima rivoluzione, e rilasciato poi a condizione di dare il castello ereditato dai suoi antenati in mano ai proprj nemici[587]. Biordo dei Michelotti, altro condottiere, era capo della fazione del popolo a Perugia; la sua compagnia di ventura aveva più volte guastato il territorio di Pisa e [439] di Siena, ed aveva attirate severe rappresaglie sopra i Perugini[588]. Biordo erasi impadronito nel 1395 di Todi, ed in appresso d'Orvieto; si era fatto dichiarar signore di queste due città tolte ai Malatesti, ed aveva in tal modo offeso papa Bonifacio IX, dal quale dipendevano[589]; aveva quindi sforzato questo pontefice a nominarlo suo vicario nelle città da lui occupate[590].
Non doveva riuscire agevole cosa il contenere nell'uguaglianza repubblicana, chi, cittadino di Perugia, era principe in alcune vicine città, e comandava senza intervento d'altri ad un'armata assoldata; perciò Biordo de' Michelotti era in qualche modo signore di Perugia. Il di lui credito, del quale per altro egli non aveva ancora abusato, inspirò gelosia ad alcuni cittadini: lo zelo della libertà, o forse l'ambizione d'innalzarsi sopra le ruine di un uomo potente, li trasse in una congiura. [440] L'abate di san Pietro di Perugia, che era della casa Guidalotti, legata ai Michelotti dall'amicizia e dall'attaccamento allo stesso partito, entrò il 10 marzo con suo fratello ed alcuni amici nella casa di Biordo; disse di voler parlargli in disparte, e quando Biordo ebbe licenziate le persone che trovavansi con lui, l'abate gli pose la mano sulla sprilla dicendogli: «Biordo, Biordo, il popolo di Perugia non vuole tiranni.» Era questo il segno convenuto coi congiurati, i quali sguainarono all'istante i pugnali ed uccisero Biordo[591]. La famiglia di Biordo, che non aveva concepito verun sospetto, non s'accorse di nulla, ed i congiurati uscirono senza ostacolo, e recaronsi alla cattedrale per arringare il popolo: ma invece di trovarlo disposto a ricompensarli, non udirono intorno a loro che minacce e voci di vendetta. Ebbero per altro il tempo di fuggire coi cavalli che tenevano a tal uopo apparecchiati, ma le case loro furono dal popolo svaligiate, ed uccisi alcuni de' loro parenti[592].
Papa Bonifacio era probabilmente il principal motore di questa cospirazione, ed aveva fatto avanzare con un corpo d'armata fino a tre miglia da Perugia Malatesta de' Malatesti, uno de' signori di Rimini, per sostenere i congiurati. Ma il popolo affezionato a Biordo più assai che non pensavano il papa o l'abate di san Pietro, non si alienò per la di lui morte dal suo partito, ed il Malatesta fu costretto di ritirarsi senza avere raccolto alcun frutto dalla cospirazione da lui spalleggiata[593].
Un fratello di Biordo, Ceccolino dei Michelotti, aveva il comando d'Assisi, questa città gli fu tolta per sorpresa dagli abitanti, i quali, essendosi ribellati, si diedero a Broglio, altro condottiere che il papa aveva mandato nel loro paese[594]. Questo con mille cinquecento cavalli guastò quasi tutto il territorio di Perugia; da un [442] altro canto Ugolino dei Trinci, signore di Foligno, stringeva pure i Perugini, i quali trovaronsi in tale angustia, che ricorsero a Giovanni Galeazzo, ed erano sopra pensiero di darsi a lui per difendersi dal papa e dai condottieri[595]. I Fiorentini, avvisati opportunamente di questo trattato, spedirono subito ambasciatori a Perugia, per confortare il popolo a conservare la sua libertà, ed a riconciliarsi colla Chiesa[596]. In pari tempo rappresentarono al papa il pericolo cui si esponeva, spingendo i Perugini alla disperazione, poichè gli sforzava a gettarsi tra le braccia del Visconti. Gli fecero sentire, che se il duca di Milano metteva una volta piede negli stati della Chiesa, non tarderebbe a spogliarla di tutti. Con tali considerazioni lo persuasero a riprendere Perugia sotto la sua protezione mercè il pagamento di dodici mila fiorini, che gli stessi Fiorentini sovvennero ai Perugini; perchè questi erano stati in modo ruinati dalle guerre civili, che non sapevano [443] come pagare così piccola contribuzione[597].
Ma Giovan Galeazzo non rinunciava così facilmente alle speranze che aveva una volta concepite: il papa aveva congedato il Broglio, ed il duca di Milano, senza prenderlo al suo servizio, lo persuase con grossi regali a rientrare nel Sienese e nel Perugino l'anno 1399 per guastarne i territorj, spargendo voce che la compagnia di ventura da lui comandata riceveva soldo dai Fiorentini. Attribuendo in tal maniera le proprie frodi ai suoi nemici, ottenne di seminare la diffidenza fra le tre più grandi repubbliche della Toscana[598].
La repubblica di Siena non era meno esausta, nè meno debole della Perugina. Una lunga guerra con Firenze, i guasti delle compagnie di ventura, e più di tutto la violenza e l'imprudenza del proprio governo, alla testa del quale vedevansi uomini della più abbietta classe [444] del popolo, concorrevano a ruinare lo stato: per colmo di mali la peste erasi manifestata in questa città; poichè questa fatale epidemia aveva in sul declinare del secolo ricominciate in Italia le sue stragi con non minore violenza di quello che avesse fatto cinquant'anni prima. I Sienesi nello stato d'estrema debolezza, cui trovavansi ridotti, erano estremamente agitati, perchè vedevano prossima al suo termine l'alleanza convenuta per dieci anni con Giovanni Galeazzo, il 22 settembre del 1389. Sebbene in suo cuore il duca non desiderasse meno di loro di rinnovare questo trattato, andava però promovendo difficoltà; ingrandiva i suoi passati servigj, e dichiarava di non volere per l'innanzi proteggere che i proprj sudditi. Accrescendo in tal modo l'inquietudine de' Sienesi, li fece all'ultimo risolvere di darsi a lui. Le condizioni furono regolate dopo lunghe conferenze; e fu convenuto, che il luogotenente del duca a Siena avrebbe due voci nella signoria, e che questa, e il senatore ed il capitano del popolo verrebbero conservati nell'antica loro autorità. Obbligatasi il duca a non accrescere le imposte, a non mutare le leggi, e finalmente a non trasmettere a verun altra persona la propria [445] sovranità, che doveva conservarsi ereditaria di maschio in maschio nella sua famiglia. Il consiglio generale di Siena accettò il 6 di novembre queste convenzioni, ed il giorno 11 dello stesso mese, nell'ora indicata dagli astrologi, otto procuratori nominati dalla città fecero cessione agli ambasciatori del duca di Milano della sovranità della repubblica di Siena[599].
L'esempio di Siena fece una gagliarda impressione sopra gli abitanti di Perugia. Il duca di Milano aveva mandati nella loro città ambasciatori, i quali adoperavano ogni mezzo di seduzione per guadagnarli. Aveva assoldato Ceccolino dei Michelotti, ch'era sottentrato nel credito di Biordo, suo fratello: egli distribuiva regali tra i più riputati cittadini, ed adulava il basso popolo promettendogli feste e piaceri. Invano gli ambasciatori fiorentini cercavano coi loro discorsi di riaccendere l'amore di libertà, invano offrivano l'assistenza della loro repubblica per difendere Perugia. I medesimi priori [446] di Perugia proposero al consiglio generale di dare la signoria al duca di Milano sotto condizioni press'a poco uguali a quelle convenute coi Sienesi. Ottocento cavalli vennero introdotti in città da Otto Bon Terzo, uno de' generali del Visconti, e nell'istante indicato dagli astrologi, il 21 gennajo 1400, un'ora avanti il tramontare del sole, la bandiera del duca di Milano fu innalzata nella piazza di Perugia e portata in processione intorno alle mura[600].
E per tal modo, dopo l'ultima pace stipulata col duca di Milano, i Fiorentini vedevano questo principe dilatare le sue conquiste tutt'all'intorno del loro territorio. Siena, Pisa e Perugia dalla parte della pianura, i conti di Poppi e di Bagno ed i feudi degli Ubertini dal lato delle montagne erano passati sotto il suo dominio, e non pertanto i Veneziani, garanti dell'ultimo trattato, non osavano parlare [447] per impedire i progressi di Giovanni Galeazzo[601].
Sotto un altro punto di vista l'isolamento de' Fiorentini era ancora più terribile, perchè lo spirito di libertà s'andava spegnendo in tutta l'Italia. Genova, Perugia e Siena eransi volontariamente date ad un padrone; Pisa era stata venduta; Lucca e Bologna, che ancora pretendevano di essere libere, trovavansi in preda ad interne dissensioni che presagivano vicina la loro ruina; Venezia, chiudendosi nelle sue lagune, pareva che pensasse di abbandonare l'Italia all'infelice sua sorte; Roma stagnava ne' vizj della schiavitù: il regno di Napoli e la Lombardia avevano perfino dimenticato il vocabolo libertà e questa terra così ferace in altri tempi di cittadini e di eroi pareva abbandonata da tutte le virtù e da tutti i sentimenti sublimi. Un tiranno vile e perfido si adoperava nel distruggere in Italia tutto quanto portava ancora l'impronta della lealtà e dell'onore; non si riprometteva prosperi successi che In ragione de' crescenti vizj dei popoli, e rallegravasi quando Vedeva un governo [448] abbracciare la sua fraudolente politica, tenendosi allora sicuro di poterlo presto soggiogare. Tali erano i funesti presagi che accompagnavano la fine del quattordicesimo secolo. Per ultimo la peste si manifestò contemporaneamente in molte parti dell'Italia, ed i popoli, atterriti da così grande calamità, riconoscevano i gastighi che si erano meritati, e piegavansi innanzi alla divina maestà per implorare la sua misericordia.
Processioni de' penitenti bianchi. — Paolo Guinigi si rende padrone della signoria di Lucca. — Guerre civili a Bologna; Giovanni Bentivoglio usurpa l'autorità sovrana. — Deposizione di Wenceslao; Roberto di Baviera, suo successore, attacca senza profitto Giovanni Galeazzo. Questi si rende padrone di Bologna; muore improvvisamente.
1399 = 1402.
Mentre l'Italia teneva con inquietudine aperti gli occhi sopra le pratiche di Giovanni Galeazzo, e che non sapeva prevedere in qual luogo i Fiorentini troverebbero soccorsi per difendersi da questo terribile avversario, l'attenzione dei popoli fu distratta dai progetti ambiziosi del duca di Milano da un universale movimento di divozione, che per alcuni mesi allontanò gli uomini da tutti gl'interessi temporali, per non occuparli che intorno all'eterna salute. Grandi calamità percuotendo l'Europa, facevano credere vicina la fine del mondo, e tremare i Cristiani innanzi alla collera di Dio. Bajazette, [450] Ilderim, sultano del Turchi, aveva ridotta Costantinopoli quasi nella sua totale dipendenza; nel 1399 aveva invase l'Ungheria e la Polonia, e minacciava tutta l'Europa. Dietro di lui un conquistatore ancora più formidabile, Timour o Tamerlano, sultano di Samarcanda, pareva apparecchiarsi alla conquista dell'universo. L'incapacità di tutti i sovrani d'Occidente abbandonava i loro stati all'anarchia ed alla ruina. L'imperatore Wenceslao era ugualmente spregievole e dispregiato; Sigismondo d'Ungheria, suo fratello, era perduto nell'amore de' piaceri; Carlo VI, re di Francia, preso da follìa, e Riccardo II d'Inghilterra era stato deposto per dar luogo a suo cugino Enrico IV, duca di Lancastro. Lo scisma che divideva la Chiesa aveva palesati ai Cristiani i vizj de' loro pastori; perciocchè questi si andavano reciprocamente accusando e calunniando; mentre i devoti non dubitavano che la divisione della Cristianità non provocasse sopra di lei la collera del cielo, e che la peste, che ricominciava con violenza le sue stragi, non fosse un castigo dell'oltraggiata divinità.
Un prete oltramontano, che gli uni dicono spagnuolo, altri scozese, altri [451] provenzale, scelse quest'istante per predicare la penitenza. Dietro le sue esortazioni tutti i suoi uditori vestironsi di bianco, e portando crocifissi innanzi a sè, recaronsi fino alla vicina città cantando inni per implorare la misericordia del cielo, e per invitare gli uomini alla pace ed alla penitenza. Questa pratica di divozione fu introdotta in Italia dalla banda del Piemonte, e mentre passò di città in città attraverso alla Lombardia, valicò ancora le Alpi liguri. Gli abitanti della Polsevera, uomini, donne, fanciulli, in numero di cinque mila, entrarono in Genova il 5 luglio del 1399, coperti di bianche vesti[602]. Insegnarono ai Genovesi l'inno stabat mater dolorosa ch'era stato recentemente composto, e dopo avere in nove giorni terminato il loro pellegrinaggio, ed avere ridotti tutti coloro ch'erano in guerra a riconciliarsi gli uni cogli altri, tornarono alle proprie case.
Appena partiti questi, i Genovesi si mossero per imitarli. Dopo avere divotamente ascoltata la messa in sullo spuntar del giorno, dopo essersi confessati e comunicati, tutti si vestirono di bianco, o piuttosto con alcune lenzuola si fecero certe [452] grandi sottane di tela, che coprivano tutto il loro corpo, ed il volto. Il venerabile arcivescovo di Genova, Giacomo del Fiesco, troppo debole e troppo vecchio per camminare, montò un cavallo coperto pure di bianco, ed in tal modo condusse la processione. Tutti gli uomini, tutte le donne, tutti i fanciulli lo seguivano appajati, cantando le litanie, e prostrandosi di tanto in tanto per implorare sulla terra la celeste pace e misericordia. In questo divoto spettacolo eravi qualche cosa di seducente; coloro che avevano osato di porlo in ridicolo, non potevano meglio che gli altri preservarsi da un sentimento che solo animava tutto un popolo. La processione visitando tutte le chiese, tutte le cappelle di reliquie, in Genova e ne' contorni, continuò per nove giorni il suo cammino e le sue litanie. Il decimo giorno si riaprirono le botteghe, e tutti si restituirono ai consueti affari; soltanto i più zelanti ed i più robusti consacrarono questi nove giorni a portare più verso il levante questa nuova divozione. Alcune processioni genovesi giunsero a Lucca ed a Pisa, e comunicarono ai Toscani la loro istituzione. Lazzaro Guinigi capo di una famiglia guelfa che in allora governava [453] Lucca con un'autorità quasi assoluta, non vide senza inquietudine l'arrivo di questa processione di maschere, che poteva nascondere qualche stratagemma del duca di Milano, o de' Pisani suoi nemici. Quando si fu rassicurato da questo primo timore, concepì un'altra inquietudine, vedendo il movimento popolare che eccitava questa pratica religiosa, e l'immensa folla che di già apparecchiavasi ad uscire di Lucca in processione. Temette che la città non rimanesse vuota e senza difensori, e che i suoi nemici ne approfittassero per attaccarlo. In conseguenza la signoria di Lucca vietò alle processioni dei bianchi di uscire dalle mura; ma non potè impedire, che circa tre mila penitenti, che facevano portare un crocifisso avanti a loro, non si recassero a Pescia, ove visitarono le chiese, e persuasero le famiglie nemiche a riconciliarsi. Proseguirono poi il loro viaggio per Pistoja alla volta di Firenze; in tutti i luoghi per dove passavano vennero ricevuti con entusiasmo; ed in Firenze la signoria li fece alloggiare e nutrire a spese del pubblico. Ne' susseguenti giorni si videro arrivare nella stessa città simili processioni da Pistoja, da Prato e da Pisa, le [454] quali seguivano l'esempio loro dato dai Lucchesi, e tutte furono accolte colla stessa ospitalità[603].
Quando tutti gli stranieri penitenti furono partiti, i Fiorentini dal canto loro si apparecchiarono a cominciare la loro corsa di divozione; ed i priori per impedire il più che potevano a queste religiose compagnie d'allontanarsi dalla città, diedero loro per guide pubblici ufficiali. Il vescovo di Firenze accompagnato da quaranta mila persone, visitava le chiese del vicinato, e riconduceva ogni sera i suoi penitenti a dormire in città e nelle proprie case; ma un'altra truppa, condotta dal vescovo di Fiesole, si pose in cammino alla volta d'Arezzo, e quando giunse a Filigne si trovò composta di ventimila penitenti[604].
E per tal modo in tutto il tempo che si continuarono queste pie scorrerie, non fu commessa violenza alcuna, nè tramata alcuna frode; e quando le processioni giugnevano ancora ne' luoghi nemici, vi entravano confidentemente, e vi si ricevevano [455] con ospitalità. Dalla Toscana questa pratica venne portata negli stati del papa, e da questi nel regno di Napoli. Corse tutta l'Italia dall'una all'altra estremità, e non venne fermata che dal mare[605].
Per altro il papa era ben lontano dall'incoraggiarla; trovandosi sempre in guerra coll'antipapa e co' suoi proprj baroni e colle città del suo stato, ogni movimento eccitava la sua diffidenza, onde condannò le processioni dei bianchi come contrarie alla disciplina della Chiesa.
Ma non fu appena calmato questo universale movimento di divozione, che si videro manifestarsi nuove trame del duca di Milano. Voleva egli staccare i Lucchesi dall'alleanza de' Fiorentini, e la fermezza di Lazzaro Guinigi, che [456] allora reggeva questa repubblica, faceva vani tutti i suoi tentativi. Pure un fratello di Lazzaro, che batteva la carriera militare, aveva preso servigio sotto Giovanni Galeazzo, ed era in allora di guarnigione a Pisa. Il governatore di questa città lo chiamò un giorno in sua casa: «Felicitatevi, gli disse, che il duca di Milano, nostro padrone, è intenzionato di farvi signore di Lucca; tutti i partigiani della vostra casa vi seconderebbero se vostro fratello avesse cessato di vivere, in quanto a me io tengo ordine di sostenervi con tutte le truppe di cui posso disporre; d'altro più non si tratta che di vedere se l'uomo cui sono riservate tante grazie, vuole rendersene degno.» Il giovane Guinigi, che in ogni tempo era stato riputato uomo leggiere, si lasciò abbagliare da tali offerte; assunse tutti gl'impegni che volle il governatore, e la medesima sera passò a Lucca, ove chiesta avendo una segreta conferenza col fratello, tosto che si trovò con lui solo lo uccise a pugnalate. Subito dopo scese in piazza per chiamare il popolo alle armi, siccome aveva concertato di fare col governatore di Pisa, ma l'orrore del commesso delitto riunì tutte le persone contro di lui; e Michele [457] Guinigi ch'era in allora gonfaloniere lo fece arrestare, e condannare immediatamente a morte[606].
Giovanni Galeazzo non aspettavasi migliore successo da questa cospirazione. Voleva la morte di Lazzaro Guinigi e l'aveva ottenuta. La peste, che si manifestò subito dopo in Lucca, favorì gli ulteriori suoi progetti. Nella state del 1400 si videro spesso morire in un solo giorno cento cinquanta persone della città. Perirono quasi tutti i capi della casa Guinigi; Michele il gonfaloniere, un altro Lazzaro, Bartolomeo, e tutti coloro che godevano della pubblica considerazione, morirono gli uni dopo gli altri[607]. I loro amici, i loro clienti fuggivano nelle campagne e ne' più lontani paesi per evitare la mortalità; ed i Ghibellini di già si lusingavano d'una vicina vendetta contro la casa Guinigi, che gli aveva tanto tempo tenuti in basso stato[608].
Paolo Guinigi, il più giovane de' figli di Francesco, era rimasto a Lucca: dotato di scarsi talenti e non risoluto, la di [458] lui ambizione non era superiore ai suoi mezzi. Ma un intrigante notajo, ser Giovanni Cambi, che ci lasciò la storia di una rivoluzione di cui fu principale agente, si rese padrone del suo spirito, e lo determinò ad approfittare delle circostanze per innalzarsi alla tirannide. Gli fece credere che s'egli non attaccava verrebbe attaccato in breve, e s'incaricò di tutte le negoziazioni e di tutti gl'intrighi che lo dovevano condurre allo scopo. Guinigi cominciò coll'abjurare il partito guelfo, e l'alleanza de' Fiorentini, onde chiedere soccorso a Giovanni Galeazzo, il sostenitore di tutti gli usurpatori; ed il duca ordinò al governatore di Pisa di secondare il Guinigi con tutte le forze di cui poteva disporre[609].
Il gonfaloniere e gli anziani, che la sorte aveva designati per governare Lucca nei mesi di settembre e di ottobre del 1400, erano creature della casa Guinigi, onde gli permisero di corrompere i soldati, di introdurre contadini in città, di occupare con gente armata il palazzo e le strade vicine. Nella notte del 14 ottobre, [459] e nella susseguente mattina il gonfaloniere avendo adunati i dodici consiglieri della balìa, dichiarò loro che per la sicurezza di Lucca e della famiglia Guinigi, e pel mantenimento della libertà medesima, egli credeva necessario di nominare Paolo Guinigi capitano della città e delle milizie[610]. La balìa rigettò questa proposizione, e la ricusò egualmente il consiglio ch'era adunato; ma Paolo Guinigi era sulla piazza circondato dai soldati e dai contadini armati; il podestà erasi dichiarato per lui, ed il gonfaloniere gli rimise, in nome della repubblica, lo stendardo del popolo ed il bastone del comando[611].
La limitata autorità che fu in allora attribuita a Guinigi, non bastò a soddisfare questo nuovo signore, o piuttosto il suo intrigante consigliere. Il primo prese motivo da una trama da lui scoperta per domandare ed ottenere un assoluto potere; in principio del susseguente anno soppresse la signoria degli anziani, e si alloggiò egli stesso nel pubblico palazzo[612].
Mentre i Fiorentini vedevano con estrema inquietudine la città di Lucca staccarsi dalla loro alleanza, e l'usurpatore, che l'aveva fatta serva, cercare l'appoggio del tiranno di Lombardia, venivano informati che quest'ultimo, ossia il governatore che aveva mandato a Perugia, erasi per sorpresa impadronito della città d'Assisi[613]. Di già la guerra pareva inevitabile, quando il solo generale in cui avessero piena confidenza, messer Broglio, morì di peste il 15 luglio ad Empoli[614]. La loro città era pure travagliata dallo stesso flagello; ma mentre vi spargeva lo spavento, sorprendeva ancora taluno de' loro nemici. Uguccione di Casale, signore di Cortona, morì quando si apparecchiava a lasciare l'alleanza della repubblica per accettare quella del Visconti, e suo figlio Francesco che gli successe, rimase fedele ai Fiorentini. Nello stesso tempo morì Roberto conte di Popi; egli aveva sempre fatto la guerra ai Fiorentini, ed era l'alleato di tutti i loro nemici; ma morendo supplicò [461] la repubblica ad accettare la tutela de' suoi figli. La signoria accolse la sua domanda ed amministrò la tutela di questo nemico con non minor prudenza che generosità[615].
In novembre di quest'anno, si scoprì in Firenze una cospirazione, nella quale i Ricci, gli Alberti, alcuni Adimari, Strozzi e Medici erano entrati per ricuperare la loro antica parte al governo. Alcuni de' congiurati avevano trattato, senza saputa degli altri, col duca di Milano, l'anima di tutte le congiure d'Italia; ed i movimenti che si osservarono nelle sue truppe a Siena ed a Pisa, convinsero, ch'egli solo avrebbe raccolti tutti i frutti della cospirazione, se ella non veniva scoperta. I più colpevoli de' suoi capi perirono sul patibolo[616]. Ma non era per anco passato lo spavento cagionato da questa trama, che una nuova rivoluzione privò di libertà l'ultima delle repubbliche che rimanesse attaccata al partito fiorentino.
La repubblica bolognese era da qualche tempo governata dalla fazione che portava il nome dello scacchiere, essendo stata la contraria fazione de' Maltraversi esiliata. Trovavansi alla testa della prima nel 1398 due cittadini dotati di sommi talenti, e che godevano grandissima riputazione, Nanne Gozzadini e Carlo Zambeccari. Ambiziosi ambidue volevano elevarsi oltre il grado che si conviene a cittadini d'uno stato libero, e pensarono di formarsi un partito separato, per soppiantarsi vicendevolmente, ed occupare la sovranità. Il Gozzadini sceglieva i suoi partigiani nella fazione dominante, e per piacer loro perseguitava o esiliava quelli della contraria parte. Lo Zambeccari all'opposto assumeva la protezione degli oppressi, e colla sua dolcezza e moderazione aveva intorno a sè riuniti tutti coloro ch'erano affezionati al partito Maltraversa[617]. Il 6 maggio 1398 fece prendere le armi al popolo, e costrinse il senato ad accordare un'amnistia generale, ed a richiamare tutti i fuorusciti[618]. Quest'atto di clemenza [463] accrebbe molto il credito dello Zambeccari, e la sua pubblica riconciliazione coi Gozzadini che tenne dietro a quest'avvenimento, pareva promettere un nuovo periodo di prosperità alla repubblica di Bologna.
Ma, sebbene questa pacificazione fosse stata consolidata da matrimonj tra le due famiglie, Nanne Gozzadini la turbò bentosto. Egli si associò Giovanni Bentivoglio, gentiluomo i cui talenti ed attività uguagliavano la smisurata ambizione, e dopo avere seco convenuto intorno ai mezzi di sollevare il popolo, impegnò Giovanni, conte di Barbiano, capitano ch'era stato lungamente al soldo dei Bolognesi, a secondarlo colla sua compagnia di ventura. I partigiani dei Gozzadini, e tutta la fazione dello scacchiere doveva prendere le armi in principio del 1399, occupare la porta della strada san Donato, per aprirla al Barbiano, ed introdurre in città i suoi soldati. Il Gozzadini s'impadronì realmente di questa porta; ma il Barbiano, ritardato da un impreveduto ostacolo, non arrivò all'ora convenuta. Carlo Zambeccari al primo [464] allarme aveva ragunata una numerosa e determinata truppa, e gli sarebbe stato agevole cosa l'opprimere i suoi nemici; ma tostocchè questi offrirono proposizioni di pace, egli dichiarò che non verserebbe il sangue de' suoi concittadini, qualunque fosse il danno che gliene verrebbe dalla sua clemenza. Chiese che il Gozzadini ed il Bentivoglio deponessero le armi coi loro alleati, ed uscissero di città. Il primo fu relegato a Genova, l'altro a Zara, e la sedizione fu compressa senza spargimento di sangue[619].
Lo stesso partito eccitò nel medesimo anno una seconda sedizione, che venne egualmente compressa dai talenti e dal coraggio di Carlo Zambeccari. Questo cittadino acquistava ogni giorno una maggiore considerazione, ed un maggiore ascendente nella repubblica, quando la peste si manifestò in Bologna e portò la desolazione ne' consiglj. In uno stesso giorno morirono Carlo Zambeccari ed i suoi più zelanti partigiani, Obizzo Lazzari e Giacomo Griffoni. Questi due [465] uomini soli avrebbero potuto prendere il suo luogo, e farne scordare la perdita[620]. Il partito Maltraversa, che richiamato dall'esilio dallo Zambeccari, erasi posto sotto la sua protezione, venne assai più maltrattato dalla peste che il contrario partito. Il senato si trovò bentosto costretto a richiamare dal loro esilio Nanne Gozzadini e Giovanni Bentivoglio. Questi, appena ritornati, fecero prendere le armi ai loro partigiani, attaccarono i Maltraversi, di cui uccisero un gran numero, e forzarono il senato ad esiliare quasi tutti i capi della casa Zambeccari[621].
Appena Gozzadini e Bentivoglio si videro vincenti che si divisero per cogliere i frutti della vittoria. Il Gozzadini ricercò tutti i suoi partigiani nel popolo e furono le persone della classe infima che cercò di promuovere agl'impieghi. Il Bentivoglio per lo contrario prese i nobili sotto la sua protezione, ed ottenne di farsi risguardare come loro capo. Gli storici bolognesi lo fanno discendere da un bastardo [466] del re Enzio che morì prigioniero in questa città. Ma questa favolosa origine prova soltanto che la famiglia dei Bentivoglio non era antica, nè aveva avuta uomini che la illustrassero, poichè se ne cercava l'origine in così vicini tempi[622]. Per altro siccome al Bentivoglio non bastava l'appoggio dei nobili, si riconciliò colla vinta fazione dei Zambeccari, ed ottenne dal senato il decreto del loro richiamo[623]. Siccome non aveva altro scopo che il suo personale innalzamento, e non quello del partito, sapeva meglio che il suo avversario riunire sotto la sua condotta uomini di contrarj interessi e di opposti principj.
In tutto il 1400 i due capi di parte continuarono le loro pratiche l'uno contro l'altro senza venire alle mani. Mentre il Gozzadini confidava nel favore del popolo, il Bentivoglio, sicuro dell'amicizia dei nobili e de' Maltraversi, aveva inoltre contratta una segreta alleanza con Astorre Manfredi, signore di Faenza, [467] che trovavasi allora in guerra coi Bolognesi; e colla sua mediazione entrò pure in trattato col duca di Milano, sempre apparecchiato a soccorrere tutti i cospiratori.
Quando il Bentivoglio ebbe tutto apparecchiato, e che si credette sicuro dell'esito con alcune prove che aveva fatte delle proprie forze, il 27 febbrajo del 1401, diede ordine a suo figlio Bente Bentivoglio di prendere le armi co' suoi partigiani e soldati, mentre egli medesimo trattenne nel palazzo pubblico Nanne e Bonifaccio Gozzadini, che vi si trovavano nello stesso tempo che il Bentivoglio. La piazza pubblica fu vivamente attaccata da Bente e valorosamente difesa da Gozzadino Gozzadini; ma rimasto gravemente ferito quest'ultimo, e molti riputati cittadini uccisi dall'una parte e dall'altra, ed il popolo mostrando alla fine di decidersi a favore dei Bentivoglio, rimasero questi padroni del campo di battaglia e del palazzo pubblico.
Giovanni Bentivoglio usò moderatamente della vittoria, rese la libertà ai Gozzadini prigionieri, offrì loro la sua amicizia, richiamò gli esuli, e dopo avere nel corso d'un mese ricompensati [468] i suoi partigiani, accarezzati i vinti nemici ed adulato il popolo, si fece proclamare signore di Bologna, il 28 marzo 1401, da un consiglio generale di quattro mila cittadini[624].
La notizia della rivoluzione di Bologna riempì Firenze di costernazione. La lega formata contro il Visconti per la difesa della libertà italiana era disciolta. Più non rimaneva alcun popolo libero alleato della repubblica; e, ad eccezione di Francesco da Carrara, tutti i principi, de' quali aveva abbracciati gl'interessi, eransi staccati dalla sua causa. Francesco di Gonzaga, signore di Mantova, che i Fiorentini avevano difeso con tanto dispendio nell'ultima guerra, erasi nel successivo anno riconciliato col Visconti, colla mediazione di Carlo Malatesta suo generale[625]. Il marchese Niccola d'Este cercava dal canto suo di assicurarsi la neutralità nella prossima guerra, e quest'anno stesso si recò a Milano per farsi amico del duca[626]. [469] Non perciò la signoria di Firenze si scoraggiò: mandò ambasciatori a Giovanni Bentivoglio per felicitarlo intorno alla sua nuova dignità, e per persuaderlo a non abbandonare l'alleanza dei Guelfi, ch'era sempre stata utile a Bologna. Infatti il Bentivoglio, sebbene di già entrato in negoziazioni col duca, non volle farsi suo alleato, e promise di conservare la neutralità[627]. Ma la signoria, che poco contar poteva sopra di lui, stese nello stesso tempo le sue viste fuori d'Italia, e si sforzò di trarre profitto da una rivoluzione accaduta in Germania, per attirare da questa contrada in Lombardia un difensore dei diritti del popolo, un vendicatore degli oppressi.
L'autorità imperiale erasi in Germania ormai ridotta al nulla; il capo di quella confederazione era privo di mezzi costituzionali, per dirigere quel corpo composto di tanti membri indipendenti, e per mantenere la pace fra tanti rivali. Le guerre civili, e le ricompense che gli elettori avevano chieste per ogni [470] elezione[628], avevano tutte dissipate le entrate imperiali, e tutte annullate le prerogative e le giurisdizioni che la costituzione aveva riservate ai signori abituali. Per molto tempo i Tedeschi avevano risguardata ogni concessione strappata agl'imperatori come un acquisto fatto a favore della libertà; ma in sul declinare del quattordicesimo secolo, riconoscevano alla fine che l'indebolimento della primitiva costituzione della Germania altro risultamento non aveva avuto, che continue guerre interne, o piuttosto uno stato permanente di assassinio, ed al di fuori un'estrema debolezza, che poteva diventare ruinosa all'epoca in cui i progressi dei Turchi minacciavano tutta l'Europa.
Quando i principi secolari ed ecclesiastici cominciarono a sentire le tristi conseguenze della debolezza degl'imperatori, invece di convenire che l'avevano provocata essi medesimi col loro spirito di indipendenza, ne accusarono l'incapacità del monarca ch'essi avevano spogliato; ed il carattere di Wencislao, in allora regnante, dava verosimiglianza all'accusa. [471] Questo principe, dopo due deboli esperimenti per ristabilire la pace in Germania[629], erasi chiuso nel suo regno di Boemia, come se il rimanente dell'impero non lo riguardasse; ed ancora ne' suoi stati ereditarj la sua ghiottonerìa e la sua negligenza l'avevano reso tanto spregevole, che i suoi sudditi l'avevano tenuto due volte in prigione.
Le lagnanze ed i rimproveri de' Tedeschi consigliarono finalmente gli elettori ad adunarsi nel 1399 a Marpurgo per deporre Wencislao come incapace[630]. Essi procedettero con estrema lentezza. Il 22 marzo 1400 diedero udienza agli ambasciatori dell'imperatore; e siccome le sue giustificazioni non soddisfacevano, citarono il monarca a comparire personalmente a Rensè, l'undici agosto. Wencislao non ubbidì, ed il 20 agosto del 1400 quattro elettori lo dichiararono decaduto dalla dignità imperiale[631]; ed all'indomani [472] elessero in sua vece Roberto, elettore palatino.
La capitolazione che imposero al nuovo monarca l'obbligava a prendersi cura degli affari d'Italia. Desideravano i principi che l'imperatore si trovasse di bel nuovo abbastanza ricco e potente per difendere la Germania; ma essi non intendevano di spogliare sè medesimi per arricchirlo. Parve loro che il migliore spediente fosse quello di riempire il tesoro imperiale a spese dell'Italia. Il commercio aveva arricchita questa contrada, mentre la Germania era rimasta povera; le entrate di Firenze, di Venezia, di Genova, o di Bologna superavano quelle dei duchi d'Austria o di Baviera, e le ricchezze di Giovanni Galeazzo sorpassavano quelle di tutto l'impero. Credevano i Tedeschi questa sproporzione ancora più grande, e risguardavano l'Italia quale inesauribile sorgente di danaro. Sarebbesi detto che l'investitura accordata da Wencislao al duca di Milano li privasse d'un'entrata esigibile, e togliesse all'impero una delle sue provincie, poi ch'essi obbligarono espressamente Roberto, il nuovo re de' Romani, ad annullare tale investitura, ed a ricondurre il milanese sotto l'immediata sovranità [473] dell'impero. Per pagare le spese di questa guerra gli assegnarono l'entrata delle città d'Italia che occuperebbe[632].
Per soddisfare alle condizioni imposte, Roberto aveva spediti ambasciatori in Italia per notificarvi la sua elezione. Questi ambasciatori giunsero a Firenze il 30 gennajo del 1401; chiesero che la repubblica accordasse la sua amicizia all'eletto imperatore e lo ajutasse a farsi riconoscere dal papa. Infatti i Fiorentini nominarono deputati per accompagnare a Roma gli ambasciatori dell'imperatore; ma nè le loro istanze, nè quelle di Francesco da Carrara[633], non persuasero Bonifacio IX ad esporsi alla collera del duca di Milano.
I Fiorentini trovavansi ancora in pace con questo duca, se pure può darsi il nome di pace ad uno stato di diffidenza, e di vicendevoli ingiurie. Ogni giorno vedevansi sviluppare nuove trame formate dal Visconti. In agosto di quest'anno [474] Riccardo Cancellieri coi suoi partigiani tentò di dare Pistoja in mano al duca di Milano. I Panciatichi, da più secoli rivali della sua famiglia, lo prevennero e lo cacciarono fuori di città, ma egli sorprese il castello della Sambuca, e di là continuò per tre anni una guerra da pirata nel territorio di Pistoja; la quale non si terminò che colla soppressione di tutti i privilegj di Pistoja, e coll'intera unione di questa città allo stato fiorentino[634].
Dopo tante offese i Fiorentini più non dovevano avere rispetti per il duca di Milano. Roberto loro scriveva dal canto suo di volere caldamente agire contro il Visconti che aveva cercato di farlo avvelenare dal suo medico[635]. Prometteva di condurre in Italia sufficenti forze per togliere al Visconti tutti gli stati che aveva usurpati. Francesco da Carrara doveva aprirgli l'ingresso della Lombardia, ed i Fiorentini pagargli nel mese di ottobre [475] duecento mila fiorini per le spese della guerra, ed un'eguale somma sei mesi più tardi, quando si troverebbe di già nel territorio del duca di Milano[636].
La guerra d'Italia dovendo farsi a nome della nazione germanica, ed in forza di un decreto del collegio elettorale, Roberto ordinò all'armata dell'impero di adunarsi a Trento. A seconda delle costituzioni avrebbe dovuto ammontare a trenta mila cavalli, ma non se ne trovarono a Trento quindici mila[637]. Roberto, preso il comando dei Bavari, ch'erano tre mila, affidò a Francesco da Carrara gl'Italiani emigrati di Lombardia, lasciando le truppe dell'impero sotto gli ordini del burgravio di Norimberga, e del duca Leopoldo d'Austria[638]. Prima di porsi in cammino, Roberto aveva intimato a Giovanni Galeazzo di evacuare tutte le città dell'impero che ingiustamente occupava, cui il Visconti rispose d'esserne stato investito dal legittimo [476] imperatore Wencislao, e che non si lascerebbe spogliare da un usurpatore[639].
Gli apparecchi che il duca aveva fatti per difendersi erano proporzionati all'importanza della guerra. Aveva levata una straordinaria contribuzione di seicento mila fiorini ne' suoi stati, ed aveva posto ai confini un esercito di tredici mila cinquecento corazze, o dodici mila fanti[640]. Era quest'armata comandata da Giacomo del Verme di Verona, ed era quasi tutta formata di soli soldati italiani. Trovavansi sotto di lui quasi tutti i capitani che da circa vent'anni eransi resi famosi nelle guerre d'Italia. Il conte Alberico di Barbiano, Facino Cane, Ottobon Terzo di Parma, Galeazzo di Mantova, Taddeo del Verme, Galeazzo ed Antonio Porro di Milano, il marchese di Monferrato, Carlo Malatesta di Rimini, ed altri. Tutti questi capitani avevano più volte comandate intere armate; ognuno di loro aveva un corpo di truppe separato [477] ch'erasi volontariamente attaccato alla di lui fortuna, e che dipendeva da lui solo[641].
Da lungo tempo le truppe italiane più non avevano combattuto contro armate tedesche; ma gl'Italiani come i Tedeschi, rammentando le vittorie delle antiche compagnie avventuriere, non dubitavano della superiorità degli oltramontani. I Fiorentini menavano di già trionfo, quando Roberto entrò il 21 di ottobre sul territorio di Brescia, ed il duca di Milano, per evitare una disfatta, aveva ordinato ai suoi generali di chiudersi nelle città fortificate.
Ma Giacomo del Verme ed i suoi capitani avevano una più adequata opinione del proprio valore, e delle loro truppe. Dopo avere assaggiato il nemico in alcune scaramucce, ed avere così renduta ai soldati italiani la sicurezza che dovevano avere, Giacomo del Verme uscì di Brescia il terzo giorno ed attaccò il primo l'armata imperiale. La Germania e l'Italia impararono con eguale sorpresa dall'esito di questa battaglia a conoscere [478] la superiorità della cavalleria italiana. I Tedeschi non avevano altrimenti perfezionata la loro armatura o la loro tattica nel corso dell'ultimo secolo, ed i freni e le briglie erano troppo deboli perchè potessero signoreggiare il loro cavallo nel calore della pugna. Per lo contrario gl'Italiani, dopo che avevano riaperta la carriera militare, avevano fatto uso del loro ingegno inventore e della loro industria per rendere più forte l'armatura, per avvezzarsi a più rapide evoluzioni, per rendere più docili i cavalli e perfezionarne il movimento[642]. Il primo incontro tra le due armate decise della vittoria; il burgravio di Norimberga, opposto al marchese di Monferrato, fu rovesciato da cavallo; il duca Leopoldo d'Austria, che combatteva contro Carlo Malatesta, fu fatto prigioniere; e l'armata imperiale sarebbe stata tutta disfatta, se Giacomo da Carrara non ne proteggeva la ritirata con un corpo di cavalleria italiana che serviva sotto l'imperatore[643].
Tale rotta scoraggiò affatto gl'imperiali, perchè non potevano ascriverla nè ad inferiorità di numero, nè a sorpresa, nè a svantaggio di terreno, nè a militare astuzia. Leopoldo d'Austria, fatto prigioniero, non fu sordo alle proposizioni di Giovanni Galeazzo; venne rilasciato il terzo giorno, ma per seminare nel campo imperiale il sospetto e la diffidenza. Dichiarò ben tosto, e lo stesso fece l'arcivescovo di Colonia, di voler tornare in Germania. Le istanze dell'imperatore e degli ambasciatori fiorentini non valsero a ritenerli; e dopo la loro partenza Roberto medesimo si trovò così debole, che ritirossi verso Trento[644].
Per altro l'imperatore non sapeva risolversi a rivedere la Germania senza vendicarsi della ricevuta rotta; non voleva pure rinunciare del tutto ai sussidj dei Fiorentini, de' quali non aveva avuta che la più piccola parte. Il 6 di novembre tornò dunque a dietro, ed entrò in Padova con quattro mila cavalli; perciocchè era stato costretto a licenziare le truppe [480] dell'impero che avevano chiesto il loro congedo, e non rimanevagli danaro per pagare la piccola armata che non abbandonò le sue insegne. Perciò entrando in Padova, chiese avanti ogni altra cosa se erano giunti in questa città ambasciatori fiorentini che potessero sovvenirgli alcuni sussidj[645].
Gli ambasciatori ch'egli aspettava con tanta impazienza arrivarono poco dopo, ma non disposti a prestarsi a tutti i suoi desiderj. Erano già stati pagati all'imperatore cento dieci mila fiorini a conto de' promessi sussidj, ed i Fiorentini si lagnavano ch'egli non aveva dal canto suo soddisfatte le condizioni del trattato. Non aveva, essi dicevano, condotto abbastanza gente per assalire il Visconti, ed inoltre non aveva mostrata la debita perseveranza. Non era già per trattenersi tre giorni nel territorio del duca di Milano e per licenziare in appresso l'armata, che il collegio degli elettori lo aveva invitato a scendere in Italia; nè la repubblica gli aveva per così piccola cosa aperti i suoi tesori. Firenze [481] non gli rimproverava una disfatta, essendo ogni generale esposto agl'infortunj della guerra; ma gli rinfacciava il congedo accordato alle truppe dell'impero, quando poteva ancora tenere la campagna. Non pertanto offrivano gli ambasciatori di pagare i novanta mila fiorini, ch'essi ancora gli dovevano, purchè guarantisse d'impiegargli nel fare la guerra al Visconti[646].
Siccome si accusavano vicendevolmente di aver male osservato il trattato, l'imperatore ed i Fiorentini lasciarono la cosa in arbitrio de' Veneziani; e Roberto passò a Venezia, ove fu ricevuto con molta magnificenza. Il senato di Venezia vedeva con estrema inquietudine l'ingrandimento di Giovanni Galeazzo, e senza osare di dichiararsi apertamente contro di lui, favoriva i suoi nemici il meglio che poteva. Non pertanto la signoria sperava di aver celate al duca le sue pratiche, ed evitata la sua collera, perchè questi dissimulava il suo risentimento, e non ne faceva lagnanza. Scordavano i Veneziani che il Visconti divideva [482] sempre i suol nemici prima di combatterli. Il doge ed il suo consiglio cercarono di riconciliare l'imperatore coi Fiorentini; esortarono il primo a mettersi in campagna, i secondi a somministrare il danaro, rifiutando essi di nulla fare, quasi che non si trattasse della loro libertà e di quella dell'Italia. Durante queste negoziazioni l'armata di Roberto andava ogni giorno diminuendo, ed il suo indebolimento scoraggiava gli ambasciatori fiorentini. Il trattato stava per rompersi, e l'imperatore era già apparecchiato a tornare in Germania, ma fu trattenuto; i Fiorentini pagarono sessantacinque mila fiorini a conto, ed egli promise di mantenere il suo quartiere generale in Padova, e di ricominciare in primavera la guerra con maggior vigore[647].
Ma le sue forze non erano più temute, e Giovanni Galeazzo invece di pensare a dividere i suoi nemici, non temette di provocarne un nuovo. Dichiarò la guerra a Giovanni Bentivoglio, ed in dicembre [483] spedì contro di lui Alberico da Barbiano, personale nemico del signore di Bologna. Mentre il Bentivoglio si adoperava per giugnere alla signoria, aveva promesso al Visconti di cedergli poi la sovranità di Bologna per un convenuto prezzo; ma quando si trovò in possesso della medesima più non pensò a cederla[648]. Alberico adunò tutti i nemici del Bentivoglio e gli emigrati bolognesi ne' suoi castelli di Barbiano e di Luco in Romagna. Col loro ajuto occupò in principio del 1402 molti castelli in su quel confine; ma una malattia fermò le sue conquiste, e diede opportunità al Bentivoglio di sorprendere il suo campo con una compagnia di corazzieri fiorentini, e di ricuperare i castelli che aveva perduti[649].
Intanto Luigi, duca di Baviera, ed il vescovo di Spira erano passati a Firenze come ambasciatori di Roberto. Questi, vedendo il suo onore compromesso, desiderava la continuazione della guerra, ma trovavasi privo di mezzi; e se la repubblica [484] non provvedeva sola a tutte le spese della sua armata, gli era impossibile il mantenerla[650]. I dieci della guerra a Firenze opinarono, che quando Roberto altro non doveva essere che il generale delle loro truppe, ogni altro capitano costerebbe alla repubblica meno di un imperatore, e le sarebbe più subordinato. Risposero adunque di essere apparecchiati ad eseguire il loro trattato di sussidj, purchè Roberto adempisse dal canto suo ai suoi obblighi, e ricusarono di fare ulteriori sagrificj[651]. L'imperatore, dopo il ritorno de' suoi deputati, rinunciò finalmente alla sua spedizione, ed il 15 aprile prese la strada della Germania[652].
Giovanni Galeazzo attaccando il Bentivoglio l'aveva sforzato a gettarsi tra le braccia dei Fiorentini; era stata fra loro stipulata il 20 marzo 1402 una stretta alleanza[653]; ed ancora prima la repubblica aveva di già mandato nello stato [485] di Bologna Bernardone, suo generale, colla maggior parte de' suoi corazzieri. Giacomo del Verme vi entrò nel mese di maggio con sei mila cavalli e guastò tutte le campagne. Subito dopo una seconda armata, sotto gli ordini di Alberico da Barbiano, venne ad accamparsi a tre miglia dalla città. Bernardone, che aveva da prima tracciato il suo campo a Casalecchio, voleva ritirarsi innanzi a forze superiori, e chiudersi in Bologna, persuaso che il Barbiano non sarebbe per intraprendere l'assedio di questa città. Ma Giovanni Bentivoglio, con una presunzione non giustificata da veruna gloria militare, volle arrischiare una battaglia. Bernardone, che gli era subordinato, scrisse a Firenze per rappresentare la pericolosa sua situazione, ne, ed aspettando riscontro, fortificò, come seppe meglio, il suo campo di Casalecchio[654]. Il 26 giugno venne attaccato da Alberico; i Bolognesi, che detestavano il giogo del Bentivoglio, rifiutarono di combattere[655], e malgrado la vigorosa resistenza de' corazzieri il campo [486] fiorentino, fu forzato, Bernardone fatto prigioniere, come pure due figliuoli di Francesco da Carrara, e la più parte de' suoi cavalieri[656].
Giovanni Bentivoglio era fuggito in Bologna, e sperava ancora di poter difendere la sua capitale; ma il suo emulo Nanne dei Gozzadini trovavasi nel campo nemico con tutti gli emigrati bolognesi. Giovanni Galeazzo aveva loro promesso di ripristinare la repubblica, e tale speranza aveva loro procurati in città molti partigiani. Nella notte successiva alla battaglia, si attrupparono, gridando: viva il popolo, muoja il Bentivoglio! Questi li battè coraggiosamente nelle strade, ove ebbe uccisi sotto di lui due cavalli. In questo tempo altri insorgenti aprirono ai Milanesi la porta chiamata Saragossa. Il Bentivoglio li si fece loro incontro, e cercò di difendere il passo coi soldati che gli erano rimasti; ma perchè più non aveva che un pugno di gente, fu fatto prigioniere, e due giorni dopo ucciso per ordine di Alberico da [487] Barbiano[657]. Bardo Rittafè, uno de' due ambasciatori fiorentini, che trovavansi in Bologna, morì per le riportate ferite. L'altro, Niccola d'Uzzano, fu fatto prigioniere con molti suoi compatriotti: era in allora uno dei dieci della guerra, e dei principali capi dello stato[658].
Il duca di Milano aveva promesso al Gozzadini di rimettere Bologna in libertà, ed infatti permise che si eleggessero di nuovo gli anziani, e che tutti gli ordini si dessero a nome della repubblica; ma all'indomani la sua cavalleria corse le strade per prendere possesso della città; un nobile bolognese, Jacopo Isolani[659], propose la signoria al duca di Milano; il simulacro della repubblica fu atterrato, e Nanne de' Gozzadini forzato di nuovo ad emigrare[660].
Dopo la conquista di Bologna Giovanni Galeazzo piuttosto che spingere immediatamente [488] le sue armate nel territorio fiorentino, pensò di ruinare il commercio di questa repubblica, togliendole ogni comunicazione col mare e cogli altri stati dell'Italia. I Fiorentini più non erano ammessi ne' porti di Pisa e del Sienese, ed erano ridotti a quello di Motrone presso di Pietra Santa in Lunigiana[661]. Di là per passare a Firenze la strada attraversa una parte dello stato di Lucca. Giovanni Galeazzo mandò ottocento cavalli in Val di Serchio, per togliere questo solo passaggio ai mercanti fiorentini[662]. In pari tempo Riccardo Cancellieri, padrone del castello della Sambuca, infestava tutto il territorio di Pistoja colle sue scorrerie, e nuovi tentativi eransi fatti per sorprendere Samminiato; gli Ubaldini avevano fatto ribellare parte delle montagne, e minacciavano Firenzuola[663]. Da ogni parte la guerra si avvicinava al territorio fiorentino. Da dieci anni in poi questa repubblica sosteneva una lotta disuguale contro il duca di Milano; ella trovavasi [489] spossata dalle crescenti spese, e da una continuazione di rovesci; altro alleato più non restavale che il signore di Padova, questi ancora aveva bisogno d'essere soccorso, anzicchè poter dare ajuto altrui. L'imperatore era stato costretto a ritirarsi; il papa, senza credito e senza forze, sopportava in silenzio gli oltraggi che ricevuti avea da Giovanni Galeazzo, e non voleva provocare il suo sdegno. Venezia, acciecandosi intorno ai pericoli che correva, ricusava di combattere per la libertà d'Italia; la Francia, malgrado la sua fresca alleanza coi Fiorentini, non le aveva dato un solo soldato; Genova, Perugia, Siena, Pisa, Lucca e Bologna avevano perduta la loro libertà. Ma quando più non restava un solo difensore alla repubblica fiorentina, parve che il cielo la soccorresse. La peste manifestossi in Lombardia: Giovanni Galeazzo per evitarla, lasciò Pavia, e venne a chiudersi in Marignano, ove suo zio Barnabò erasi rifugiato in altra simile circostanza. Ma il contagio lo attaccò. Era di già infermo quando apparve in cielo una cometa, onde il Visconti, dedito com'egli era all'astrologia, più non dubitò che questo fenomeno non fosse il sicuro annunzio della sua morte. «Ringrazio Dio, egli disse, d'aver [490] voluto che si mostrasse in cielo agli occhi di tutti gli uomini un segno della mia chiamata[664].» L'evento giustificò il presagio; il duca di Milano morì il 3 settembre del 1402, e l'equilibrio d'Italia ch'egli aveva quasi rovesciato, si ristabilì da sè stesso[665].
FINE DEL TOMO VII.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO VII.
Capitolo XLVIII. Pontefici d'Avignone. — Urbano V vuole ricondurre la santa sede in Roma. — Seconda spedizione di Carlo IV in Italia; è cagione in Pisa della rovina di Giovanni Agnello, ed in Siena di quella dei dodici. — Viene scacciato da quest'ultima città. — Rende la libertà a Lucca. 1365-1369 | pag. 3 | |
1362 | 12 settembre. Morte d'Innocenzo VI. Gli succede Urbano V | 3 |
1305-1365 | Corruzione della corte pontificia in Avignone | 5 |
Gl'Italiani meno superstiziosi degli altri popoli | 6 | |
I Visconti, i tiranni di Romagna ed i Siciliani disprezzano le scomuniche | 8 | |
Propagamento della filosofia d'Aristotile e di Averroe | 9 | |
La religione renduta un mezzo affatto umano di governo | 10 | |
Indipendenza spirituale dei papi quand'erano perseguitati | 12 | |
L'indipendenza de' papi diventati sovrani fu vantaggiosa ai popoli | 13 | |
[492] | ||
1305-1365 | Apostrofe di Frate Andrea d'Antiochia a Filippo di Valois | 14 |
L'assoggettamento dei papi alla corte di Francia eccita le lagnanze di tutta la cristianità | 16 | |
In tempo delle guerre civili i papi non sono sicuri in Avignone | 17 | |
Urbano V dichiara di voler ricondurre la santa sede a Roma | 18 | |
Vani sforzi di questo papa per mettere in movimento una nuova crociata | 19 | |
Vuol pure distruggere le compagnie di ventura che devastavano l'Italia | 19 | |
1366 | Preparativi del cardinale Albornoz per ricevere il papa | 20 |
1367 | 30 aprile. Urbano V parte da Avignone per Roma | 21 |
Passa a Genova; guerre civili di questa repubblica | 21 | |
4 giugno. Sbarca a Corneto, ed i Romani lo riconoscono per loro signore | 22 | |
4 agosto. Morte d'Albornoz, suo carattere, suoi servigi | 24 | |
Formidabile lega contro i Visconti tra il papa, l'imperatore, il re d'Ungheria ed i signori di Padova, Ferrara e Milano | 25 | |
[493] | ||
1368 | Maggio. Galeazzo Visconti fa sposare sua figlia a Lionello, figlio del re d'Inghilterra | 26 |
1368 | 5 maggio. Ingresso di Carlo IV in Italia con una forte armata | 27 |
Tratta coi Visconti e congeda la sua armata | 28 | |
S'avanza verso la Toscana e tratta coi Lucchesi | 29 | |
5 settembre. Nel suo ingresso in Lucca, il signore di Pisa, Giovanni Agnello, si rompe una coscia, e quest'accidente fa ribellare i Pisani | 30 | |
Carlo IV vuole approfittare delle turbolenze di Siena | 32 | |
1355-1368 | Governo tirannico dei dodici di Siena | 32 |
2 settembre. I dodici ingannati dai nobili, ch'essi eccitavano a prendere le armi gli uni contro gli altri | 33 | |
Carlo IV manda Malatesta Unghero per essere suo vicario a Siena | 35 | |
Sedizione del popolo; nuova forma data al governo di Siena | 36 | |
L'imperatore contrasta ai Fiorentini il possesso delle terre dell'impero | 37 | |
Passa a Roma, e dà al papa molte testimonianze di rispetto | 38 | |
22 dicembre. Nuove turbolenze in Siena in occasione del ritorno dell'imperatore | 39 | |
[494] | ||
1369 | 18 gennajo. Carlo IV vuole adoperare la forza contro i Sienesi | 40 |
Le sue truppe sono battute, ed egli resta a discrezione del popolo | 41 | |
Spavento ed umiliazione dell'imperatore | 43 | |
Fine delle turbolenze di Siena dopo la ritirata dell'imperatore | 45 | |
Carlo IV non ardisce entrare in Pisa, trovandosi questa città in armi | 45 | |
24 febbrajo. I Gambacorti richiamati a Pisa | 47 | |
Moderazione di Pietro Gambacorti che diventa capo della repubblica | 48 | |
I Raspanti ed i Tedeschi scacciati dalla porta dei Lioni | 50 | |
L'imperatore vende la pace ai Fiorentini ed ai Pisani | 51 | |
6 aprile. Rende ai Lucchesi la libertà per duecento mila fiorini | 52 | |
6 giugno. Accorda ai Lucchesi nuovi privilegi | 53 | |
5 luglio. Parte alla volta della Germania | 54 | |
1370 | Aprile. I Lucchesi, avendo pagate le contribuzioni promesse all'imperatore, ricuperano la libertà | 55 |
[495] | ||
1314-1370 | Bella costanza de' Lucchesi durante la loro servitù | 55 |
1370 | Nuova organizzazione data alla loro repubblica | 56 |
Spianano la fortezza, ed istituiscono una festa in memoria della ricuperata libertà | 57 | |
Capitolo XLIX. Intraprese di Barnabò sopra la Toscana. — Gregorio XI attacca i Visconti; tenta di sorprendere la repubblica di Firenze sua alleata; i Fiorentini dichiarano la guerra al papa, e fanno ribellare tutte le città dello stato ecclesiastico. 1369-1378 | 59 | |
1369 | Giovanni Paleologo imperatore d'Oriente a Roma, ai piedi del papa | 60 |
1370 | 23 novembre. La città di Perugia sottomessa alla santa sede | 61 |
1369 | Samminiato si pone sotto la protezione di Barnabò | 63 |
1370 | 3 gennajo. Samminiato assediato e preso dai Fiorentini | 64 |
1369 | Il papa scomunica Barnabò, il quale fa mangiare ai legati le bolle di scomunica | 64 |
1370 | Urbano V torna di settembre in Avignone, e vi muore il 19 di dicembre | 66 |
20 maggio. Tentativo di Giovanni Acuto per sorprendere Pisa colla scalata | 66 | |
[496] | ||
1370 | Firenze fa la pace con Barnabò dietro la notizia della morte del papa | 68 |
Discordia in Firenze tra gli Albizzi ed i Ricci | 69 | |
1371 | I capi di queste due famiglie esclusi per cinque anni dal governo | 72 |
1370 | 31 dicembre. Gregorio XI, nipote di Clemente VI, succede ad Urbano V | 72 |
1371 | Barnabò riprende la guerra contro la Chiesa | 73 |
I Fiorentini diffidano del papa, e ricusano la di lui alleanza | 74 | |
1372-1373 | Guerra de' Visconti colla Chiesa | 75 |
1374 | 6 giugno. Tregua d'un anno conchiusa tra le potenze | 77 |
Il legato di Bologna vuole approfittarne per sorprendere i Fiorentini | 77 | |
Ambizione ed avarizia de' legati francesi della corte di Avignone | 79 | |
1375 | 24 giugno. Giovanni Acuto entra in Toscana per bruciare le messi | 79 |
Il legato protesta di non avere mandato l'Acuto contro i Fiorentini | 80 | |
I Fiorentini comprano la ritirata d'Acuto | 82 | |
Il legato di Perugia rende più odioso il governo della Chiesa | 83 | |
[497] | ||
1375 | I Fiorentini risolvono di muover guerra alla Chiesa | 84 |
Lega colle repubbliche di Siena, Lucca, Arezzo e Pisa | 85 | |
Lo stendardo della libertà mandato ai sudditi della Chiesa | 87 | |
Ribellione generale negli stati della Chiesa | 86 | |
1376 | 5 febbrajo. I Fiorentini citati al concistoro vengono difesi da Tomaso Barbadori | 88 |
Condanna de' Fiorentini; protesta del Barbadori | 90 | |
I Fiorentini cercano di sollevare Bologna contro il papa | 91 | |
19 marzo. Rivoluzione di Bologna eseguita da Taddeo degli Azzoguidi | 92 | |
20 marzo. La repubblica di Bologna ricupera la libertà | 93 | |
1376 | 29 marzo. Gli abitanti di Faenza uccisi dall'armata della Chiesa | 94 |
La compagnia de' Bretoni viene assoldata dalla Chiesa | 96 | |
Roberto di Ginevra coi Brettoni attacca Bologna, difesa da Rodolfo di Camerino | 98 | |
Feroci minacce di Roberto di Ginevra | 99 | |
1377 | 1.º febbrajo. Gli abitanti di Cesena uccisi per ordine di Roberto, cardinale di Ginevra | 101 |
[498] | ||
1377 | La repubblica romana alleata dei Fiorentini | 102 |
Lettera degli otto della guerra ai banderali di Roma | 103 | |
17 gennajo. Gregorio XI torna a Roma ma non vi esercita la sovranità | 106 | |
Giovanni Acuto passa al servigio de' Fiorentini, mentre che Rodolfo di Camerino gli abbandona | 107 | |
Negoziazioni di pace cominciate senza buon successo da S. Catarina da Siena | 109 | |
I Fiorentini disprezzano l'interdetto, e fanno riaprire tutte le chiese | 111 | |
Agosto. I Bolognesi si staccano dalla lega, e fanno separata pace col papa | 112 | |
1378 | Si apre in Sarzana un congresso per la pace | 113 |
27 marzo. Il papa muore impensatamente di mal di pietra, ed il congresso si scioglie | 114 | |
Capitolo L. Grande scisma d'occidente. Congiura de' Ciompi in Firenze. — La regina Giovanna spogliata del regno da Carlo di Durazzo. 1378-1381 | 116 | |
La morte di Gregorio XI cambia il sistema della politica d'Italia | 116 | |
1378 | 7 aprile. Quali cardinali entrarono in conclave | 118 |
[499] | ||
1378 | Due fazioni contrarie nel conclave; i Limosini ed i Francesi | 121 |
Il popolo di Roma domanda un papa romano | 122 | |
Deputazione dei banderali al conclave per chiedere un papa romano | 123 | |
Il cardinale Pietro Corsini loro risponde con fermezza | 125 | |
I Limosini risolvono di eleggere una delle loro creature, l'arcivescovo di Bari | 126 | |
Il cardinale di Limoges propone in conclave l'arcivescovo di Bari | 128 | |
8 aprile. Viene eletto a maggiorità di suffragi | 128 | |
I cardinali non osano annunziare tale elezione al popolo | 129 | |
9 aprile. L'elezione del papa partecipata ai banderali ed al popolo | 131 | |
L'arcivescovo di Bari accetta l'elezione, e prende il nome di Urbano VI | 132 | |
Legalità di tale elezione | 133 | |
Carattere di Urbano VI, sua imprudenza, suo orgoglio e suo impetuoso carattere | 134 | |
I cardinali ricusano di abbandonare Anagni per recarsi a Tivoli, ove il papa vuol villeggiare nell'estate | 136 | |
[500] | ||
1378 | Tutti i malcontenti si uniscono ai cardinali, e la compagnia de' Bretoni entra ai loro servigi | 137 |
I cardinali pensano di dare un coadjutore al papa | 138 | |
9 agosto. Dichiarano vacante la santa sede ed illegale l'elezione di Urbano VI | 139 | |
20 settembre. I cardinali francesi eleggono papa Roberto di Ginevra, che prende il nome di Clemente VII | 140 | |
Urbano VI soscrive la pace colla repubblica fiorentina | 141 | |
La più violenta di tutte le rivoluzioni di Firenze scoppia nello stesso tempo che lo scisma della Chiesa | 143 | |
1372-1378 | Contesa tra i Ricci e gli Albizzi | 144 |
1378 | Il partito degli Albizzi pensa a scacciare colle armi i suoi nemici dalla città | 145 |
Maggio. Salvestro dei Medici, eletto gonfaloniere, riunisce il partito che avevano formato i Ricci | 146 | |
Salvestro si appella al popolo dell'opposizione del collegio | 147 | |
Benedetto Alberti chiama il popolo alle armi | 148 | |
Una legge favorevole ai Ghibellini ed ai plebei viene accettata forzatamente | 149 | |
[501] | ||
1378 | I corpi de' mestieri si adunano per chiedere nuove riforme delle leggi | 150 |
Opposizione tra le arti maggiori e le minori | 151 | |
Le case dei capi del partito degli Albizzi sono svaligiate e bruciate | 153 | |
Nuove concessioni accordate al popolo dal governo | 154 | |
1.º luglio. Luigi Guicciardini nuovo gonfaloniere | 154 | |
Nuove pretese del partito ghibellino e de' plebei | 155 | |
Discorso di Luigi Guicciardini per calmare il popolo | 156 | |
Movimenti sediziosi della più infima classe dei cittadini, i Ciompi | 158 | |
Alcuni delinquenti gl'incoraggiano al saccheggio | 159 | |
La signoria fa arrestare Simoncino Buggiggatti, capo dei sediziosi | 161 | |
21 luglio. I Ciompi prendono le armi per liberarlo, o vendicarlo | 162 | |
S'impadroniscono del gonfalone di giustizia, e bruciano molte case | 163 | |
Armano diversi cittadini cavalieri | 164 | |
Loro smoderate pretese | 165 | |
Tutte le loro domande accordate dai consigli | 167 | |
[502] | ||
1378 | I priori spaventati fuggono dal palazzo | 168 |
Michele di Lando, cardatore di lana, tiene il gonfalone di giustizia | 169 | |
Viene dal popolo proclamato gonfaloniere | 169 | |
Dimette tutti gli antichi magistrati e muta la costituzione | 170 | |
Il popolo, scontento di Michele di Lando, si aduna a santa Maria Novella | 171 | |
Michele di Lando ferisce i deputati che gli sono mandati, e li fa porre in catene | 172 | |
Michele di Lando si apparecchia a resistere ai Ciompi | 173 | |
Combatte contro di loro nella pubblica piazza, e li rompe | 173 | |
Il partito degli Alberti e dei Medici raccoglie i frutti della rivoluzione | 175 | |
Rivoluzioni in altre parti d'Italia: Galeazzo Visconti muore il 4 di agosto | 175 | |
29 novembre. Morte di Carlo IV a Praga. Gli succede il figliuolo Wencislao | 176 | |
1379 | Una sollevazione in Napoli sforza Clemente VII ad abbandonare l'Italia | 177 |
Carlo di Durazzo, erede naturale di Giovanni di Napoli, allevato in Ungheria | 178 | |
[503] | ||
1379 | Urbano VI persuade Carlo ad attaccare Giovanna | 179 |
Negoziati di Carlo di Durazzo colla repubblica fiorentina | 179 | |
Congiure contro la repubblica, nelle quali prendono parte i generali di Carlo | 180 | |
I capi del partito degli Albizzi arrestati e tradotti in giudizio | 181 | |
I giudici non trovano motivi per condannarli | 181 | |
Il popolo furibondo domanda il loro supplicio | 182 | |
Gl'imputati si accusano essi medesimi preferendo il supplicio ai furori del popolo; sono decapitati | 184 | |
1380 | Urbano VI dichiara deposta la regina Giovanna | 186 |
29 giugno. Giovanna adotta Luigi d'Angiò per suo figlio e successore | 187 | |
Giannuzzo di Salerno attraversa la Toscana coll'armata di Carlo di Durazzo | 188 | |
14 settembre. Arezzo vien dato a Carlo di Durazzo | 189 | |
1381 | Carlo di Durazzo riceve dal papa l'investitura di Napoli, e prende il nome di Carlo III | 189 |
Estrema debolezza della regina e del suo partito | 190 | |
16 luglio. Carlo III entra in Napoli senza aver combattuto | 192 | |
[504] | ||
1381 | 20 agosto. La regina è costretta d'arrendersi al nipote | 192 |
1382 | 12 maggio. Questi la fa morire soffocata sotto un letto di piume | 193 |
Inquietudine dei Fiorentini per l'innalzamento di Carlo | 193 | |
Arroganza di Giorgio Scali e di Tomaso Strozzi | 195 | |
Benedetto Alberti si dichiara contro di loro | 196 | |
13 gennajo. Sedizione eccitata dallo Scali e dallo Strozzi per liberare un loro cliente | 197 | |
Irritamento del popolo. Giorgio Scali perisce sul patibolo | 198 | |
21 gennajo. Trionfo delle arti maggiori e del partito guelfo sopra il popolo | 199 | |
1382-1387 | Rigore del nuovo governo. Esilia Michele di Lando | 200 |
Benedetto Alberti, esiliato, muore a Rodi | 201 | |
1374 | 18 luglio. Morte del Petrarca | 203 |
1375 | 21 dicembre. Morte del Boccaccio | 203 |
Coluccio Salutati e Leonardo Bruno detto l'Aretino | 204 | |
Capitolo LI. Affari dell'Oriente. — Guerra di Genova in Cipro. — Quarta guerra tra Venezia e Genova; presa e ripresa di Chiozza; pace di Torino. 1372-1381 | 205 | |
Le repubbliche marittime isolate dell'Italia non si occupano che del Levante | 205 | |
[505] | ||
1355-1391 | Tutte le greche province dell'Asia conquistate dai Turchi | 207 |
Giovanni Paleologo fa abbacinare il figlio ed il nipote | 208 | |
I Genovesi di Galata si fanno protettori de' principi abbacinati | 209 | |
I principi promettono Tenedo ai Genovesi; il loro padre cede la stessa isola ai Veneziani | 210 | |
1372 | Rivalità dei Genovesi e dei Veneziani in Cipro | 212 |
Uccisione dei Genovesi fatta dai Ciprioti | 213 | |
1373 | Vittorie e moderazione di Damiano Cataneo in Cipro | 213 |
10 ottobre. L'isola di Cipro conquistata da' Genovesi, e renduta feudataria | 214 | |
Alleanza del re di Cipro con Barnabò Visconti per vendicarsi dei Genovesi | 216 | |
1356-1372 | Odio dei Veneziani contro Francesco da Carrara, signore di Padova | 218 |
1372-1373 | Guerra di Francesco da Carrara contro Venezia; egli viene umiliato | 218 |
Alleanza di Francesco da Carrara col re d'Ungheria e coi Genovesi contro Venezia | 219 | |
1378 | Barnabò Visconti fa attaccare i Genovesi per terra | 220 |
[506] | ||
Luglio. Battaglia navale d'Anzio tra Vettore Pisani e Luigi del Fiesco | 222 | |
1378 | I Genovesi attaccati a Famagosta dal re di Cipro e dai Veneziani | 223 |
1379 | 29 maggio. Vettore Pisani disfatto in faccia a Pola da Luciano Doria | 225 |
Fortificazioni delle lagune dalla banda del mare, dette l'Aggere o Arzere | 226 | |
Pietro Doria, ammiraglio genovese, attacca il canale, ossia porto di Chiozza | 228 | |
16 agosto. I Genovesi occupano Chiozza | 229 | |
1379 | Spavento de' Veneziani, domandano la pace | 230 |
Pietro Doria ricusa la pace ai Veneziani | 231 | |
I Veneziani rendono la libertà a Vettore Pisani, e gli danno il comando della flotta | 233 | |
Vantaggi di Carlo Zeno, ammiraglio de' Veneziani, in Levante | 235 | |
Carlo Zeno viene richiamato in patria | 236 | |
Il gran consiglio offre la nobiltà per prezzo delle volontarie contribuzioni | 237 | |
Una nuova flotta si arma e si esercita sotto Vettor Pisani | 238 | |
23 dicembre. Il doge Andrea Contarini attacca Chiozza | 239 | |
[507] | ||
1379 | Il canale di Chiozza chiuso per accidente ai Genovesi | 240 |
Vettor Pisani blocca i Genovesi all'apertura del Brondolo | 242 | |
Critica situazione degli assedianti e degli assediati | 243 | |
1380 | 1.º gennajo. Carlo Zeno giugne colla sua flotta in soccorso della patria | 244 |
Vettor Pisani chiude i Genovesi nell'isola di Chiozza | 245 | |
Modo di adoperare l'artiglieria a que' tempi | 245 | |
22 gennajo. Pietro Doria, l'ammiraglio genovese, viene ucciso da un colpo di bombarda | 246 | |
I Genovesi tentano di tagliar l'argine con un canale | 246 | |
19 febbrajo. Carlo Zeno sbarca nell'isola di Chiozza, e chiude i Genovesi in città | 247 | |
Matteo Maruffo mandato da Genova nel golfo con una nuova flotta | 249 | |
6 giugno. Si affaccia al porto di Chiozza, ed i Veneziani ricusano la battaglia | 250 | |
15 giugno. I Genovesi tentano di fuggire sui battelli, vengono sorpresi e bruciati i battelli | 251 | |
21 giugno. Sono costretti di arrendersi a discrezione | 252 | |
Conquiste di Matteo Maruffo nel golfo; morte di Vettor Pisani | 253 | |
[508] | ||
1381 | Negoziazioni di pace senza effetto | 254 |
2 maggio. Treviso venduto dai Veneziani a Leopoldo d'Austria | 255 | |
8 agosto. Pace di Torino tra i due popoli marittimi, ed i loro alleati | 256 | |
Capitolo LII. Rivoluzioni di Genova, di Napoli, del regno d'Ungheria. — Conquiste dei Veneziani in Oriente. — Potenza di Giovan Galeazzo Visconti. — Ruina delle case della Scala e di Carrara. 1382-1388 | 258 | |
Potenza spiegata dai Genovesi nella guerra di Chiozza | 258 | |
Fu cagione del suo indebolimento e della sua servitù | 260 | |
1356-1378 | Nuova aristocrazia formatasi in Genova tra i plebei | 260 |
1363-1378 | Rivalità di Gabriele Adorno e di Domenico di Campo Fregoso | 261 |
1378-1383 | Niccola di Guarco, doge in tempo della guerra di Chiozza | 262 |
1383 | 19 marzo. Sedizione contro Niccola di Guarco; tutte le fazioni si uniscono contro di lui | 264 |
1384-1390 | Antoniotto Adorno doge di Genova | 265 |
[509] | ||
1382-1384 | Guerre tra Luigi I d'Angiò e Carlo III di Durazzo per il possedimento del regno di Napoli | 266 |
1384 | 10 ottobre. Morte di Luigi d'Angiò a Biseglio nella terra di Bari | 268 |
1383-1385 | Contese di Carlo III con Urbano VI | 269 |
1384 | Urbano assediato dall'armata del re nel castello di Nocera | 270 |
1385 | Fugge da Nocera e si ritira a Genova | 271 |
Crudeltà d'Urbano verso i suoi cardinali | 273 | |
1382 | 11 settembre. Morte del re Luigi d'Ungheria, sua figlia gli succede | 274 |
1385 | 4 settembre. Carlo di Durazzo chiamato in Ungheria lascia il governo di Napoli a sua moglie Margarita | 276 |
1386 | Febbrajo. Carlo assassinato in presenza delle due regine | 277 |
Rivalità di Luigi II d'Angiò e di Ladislao di Durazzo | 278 | |
La morte di Carlo III vendicato contro le due regine d'Ungheria | 279 | |
1387 | 4 giugno. I Veneziani fanno restituire la libertà a Maria regina d'Ungheria, che sposa Sigismondo, marchese di Brandeburgo | 280 |
Indebolimento della corona di Ungheria, nuovo re di Rascia | 281 | |
[510] | ||
1387 | L'isola di Corfù, Durazzo, Argo e Napoli si danno ai Veneziani | 282 |
I Veneziani vogliono vendicarsi di Francesco da Carrara | 283 | |
1386 | Muovono contro di lui Antonio della Scala, signore di Verona | 284 |
25 giugno. Battaglia delle Brentelle, rotta dell'armata veronese | 285 | |
1387 | 11 marzo. Battaglia di Castagnaro, ove i Veronesi vengono nuovamente disfatti | 287 |
Giovanni Galeazzo era succeduto, il 4 agosto 1378, a suo padre Galeazzo | 288 | |
Il 6 maggio del 1385 aveva arrestato suo zio Barnabò, ed occupati i di lui stati | 289 | |
19 aprile. Francesco da Carrara accetta l'alleanza di Giovanni Galeazzo Visconti | 291 | |
18 ottobre. Verona presa da Giovanni Galeazzo. Il della Scala fugge a Venezia | 292 | |
Giovanni Galeazzo occupa pure Vicenza, e non la cede secondo le convenzioni a Francesco Carrara | 293 | |
1388 | Giovanni Galeazzo propone la sua alleanza ai Veneziani per ispogliare il Carrara | 294 |
Malcontento del popolo di Padova contro il suo signore | 296 | |
[511] | ||
1388 | Francesco da Carrara abdica la signoria a favore di suo figliuolo Francesco Novello | 297 |
29 giugno. Giovanni Galeazzo manda una diffida a Francesco Novello | 299 | |
I Padovani ricusano di difendere il loro signore | 300 | |
23 novembre. Francesco Novello cede Padova a Jacopo del Verme, e s'incammina alla corte di Giovanni Galeazzo | 301 | |
Francesco il vecchio cede pure la fortezza di Treviso | 302 | |
Giovanni Galeazzo non mantiene i salvacondotti dati ai Carrara e li ritiene in prigione | 302 | |
Capitolo LIII. Rivoluzioni nelle repubbliche toscane; intrighi di Giovanni Galeazzo. — Francesco da Carrara fugge a Firenze, e persuade questa repubblica a muovere guerra al Visconti. Conduce in Italia un'armata tedesca, e ricupera la signoria di Padova. 1388-1390 | 304 | |
Imprudenza dei Veneziani nel permettere l'ingrandimento di Giovanni Galeazzo | 304 | |
La Chiesa non poteva più far argine alla potenza de' Visconti | 305 | |
1389 | 9 novembre. Morte di Urbano VI. Gli succede Bonifacio IX | 306 |
Le case di Savoja, di Monferrato, dei Gonzaga e d'Este dipendenti da Giovanni Galeazzo | 307 | |
[512] | ||
Gli altri stati d'Europa tutti deboli e divisi | 309 | |
Ambizione e carattere di Giovanni Galeazzo | 311 | |
1384-1389 | Gelosia delle città libere di Toscana contro i Fiorentini | 312 |
1384 | La città d'Arezzo venduta ai Fiorentini il 17 novembre del 1384, mentre i Sienesi desideravano di conquistarla | 314 |
1385 | L'oligarchia artigiana dei riformatori scacciata da Siena il 24 marzo 1385 | 315 |
1388 | Turbolenze a Montepulciano, nelle quali intervengono i Fiorentini contro i Sienesi | 316 |
I Sienesi irritati offrono di darsi a Giovanni Galeazzo che non gli accetta | 317 | |
Tentativi di Giovanni Galeazzo per occupare Pisa | 318 | |
1389 | Cospirano in Bologna a favore di Giovanni Galeazzo | 319 |
Ottobre. Trattato di pace e di alleanza conchiuso coll'intervento del Gambacorti | 320 | |
Nuovi intrighi di Giovanni Galeazzo, suoi tentativi sopra Samminiato, Cortona e Perugia | 321 | |
Seduce Giacomo d'Appiano confidente di Pietro Gambacorti di Pisa | 322 | |
[513] | ||
1389 | Fuga di Francesco Novello da Carrara | 323 |
Giovanni Galeazzo, dopo avergli dato Cortazzone presso Asti, aveva voluto farlo assassinare | 323 | |
Marzo. Carrara fugge colla moglie, e passa in Avignone | 325 | |
S'incammina colla moglie lungo la riviera di Genova per entrare in Toscana | 326 | |
Dovunque viene minacciato ed inseguito | 327 | |
Pietro Gambacorti non ardisce riceverlo in Pisa | 329 | |
La signoria di Firenze s'astiene con lui da ogni relazione ministeriale | 330 | |
Va a Bologna per eccitare questa repubblica contro Giovanni Galeazzo | 331 | |
I Fiorentini l'incaricano di condurre dalla Germania un'armata contro Giovanni Galeazzo | 331 | |
Carrara chiede soccorsi al duca di Baviera ed al conte di Segna | 333 | |
Si pone in cammino per andare nella Rascia e nella Bosnia, quando è richiamato dai Fiorentini | 334 | |
1390 | Giovanni Galeazzo ed i suoi alleati dichiarano la guerra a Firenze ed a Bologna | 335 |
[514] | ||
1390 | Apparecchi de' Fiorentini per difendersi | 337 |
Le armate del Visconti occupano tutte le frontiere della Toscana | 339 | |
Francesco da Carrara si presenta alle frontiere del padovano | 341 | |
Gli abitanti della campagna prendono per lui le armi | 341 | |
Il 19 giugno entra in Padova pel letto della Brenta | 343 | |
Gli si danno tutte le fortezze di Padova e del territorio | 344 | |
I Veronesi si ribellano contro Giovanni Galeazzo, ma sono sottomessi di nuovo | 344 | |
1.º agosto. Il duca Stefano di Baviera giugne a Padova colla sua armata | 345 | |
Capitolo LIV. Disfatta del conte d'Armagnacco alleato dei Fiorentini. — Bella ritirata di Giovanni Acuto; pace di Genova. — Uccisione dei Gambacorti in Pisa. — Protezione accordata dai Fiorentini a Francesco di Gonzaga ed a Niccolò III d'Este. L'imperatore Wencislao accorda a Giovanni Galeazzo il titolo di duca di Milano. 1390-1395 | 347 | |
Francesco da Carrara sorpassa l'aspettazione dei Fiorentini. Non vi corrispondono i loro alleati di Germania | 348 | |
1390 | Il duca di Baviera ricusa di agire, e torna in Germania senza combattere | 349 |
[515] | ||
1390 | 30 ottobre. Il marchese d'Este costretto ad unirsi ai Fiorentini | 350 |
Domande di Giovanni Galeazzo alla repubblica di Siena | 351 | |
I Malavolti e gli amici della libertà uccisi o esiliati da Siena | 352 | |
1391 | I Fiorentini invitano il conte d'Armagnacco a combattere contro Giovanni Galeazzo | 355 |
Giovanni Acuto si avanza fino nella Ghiara d'Adda, e minaccia Milano | 356 | |
Luglio. Il conte d'Armagnacco entra in Lombardia | 357 | |
Provoca Giacomo del Verme chiuso in Alessandria | 357 | |
25 luglio. È battuto, fatto prigioniero, e muore poco dopo | 358 | |
Pericolo di Giovanni Acuto avviluppato nella Ghiara d'Adda | 360 | |
Ottiene un vantaggio a Paterno sopra Jacopo del Verme, e passa l'Oglio ed il Mincio | 361 | |
Viene chiuso nella valle Veronese tra l'Adige ed il Po | 362 | |
Giacomo del Verme rompe le dighe dell'Adige ed inonda il piano | 362 | |
Acuto attraversa il piano inondato ed esce a Castebaldo | 364 | |
[516] | ||
1391 | Jacopo del Verme porta la guerra in Toscana, e vi trova l'Acuto | 365 |
Proposizioni di pace fatte da Antoniotto Adorno | 366 | |
1392 | 28 gennajo. Condizioni della pace dettate dagli arbitri a Genova | 367 |
Francesco da Carrara cerca l'alleanza dei Veneziani | 369 | |
Nuove pratiche di Giovan Galeazzo in Toscana | 370 | |
Sua perfidia verso Francesco di Gonzaga, e risentimento di questi | 371 | |
3 settembre. Nuova lega tra i Guelfi firmata ad istanza del Gonzaga | 372 | |
Seguito degl'intrighi di Giovan Galeazzo a Pisa | 373 | |
Congiura di Jacopo d'Appiano contro Pietro Gambacorti, suo benefattore | 375 | |
21 ottobre. Pietro Gambacorti assalito ed ucciso coi suoi figliuoli da Jacopo di Appiano | 377 | |
Le case de' suoi partigiani abbandonate al saccheggio. Jacopo d'Appiano tiranno di Pisa | 378 | |
1390-1393 | Guerre civili a Perugia tra i Guelfi ed i Ghibellini | 379 |
1393 | 30 luglio. Uccisione di Pandolfo Baglioni e dei Ghibellini di Perugia | 380 |
[517] | ||
1393 | Sollevazione in Firenze contro gli Albizzi, che non serve che a consolidare il loro potere | 381 |
Giovanni Galeazzo intraprende a deviare il Mincio di Mantova | 383 | |
Francesco Gonzaga chiede l'assistenza dei Fiorentini | 383 | |
Il Mincio rompe i lavori di Giovan Galeazzo | 384 | |
31 Luglio. Morte d'Alberto d'Este; guerra civile in Ferrara tra i suoi eredi | 385 | |
1394 | 16 marzo. Morte di Giovanni Acuto | 386 |
Il marchese d'Este vuole far assassinare suo cugino; ma viene ingannato da Giovanni da Barbiano, incaricato di tale assassinio | 387 | |
Wencislao si offre per danaro di muovere guerra al Visconti | 388 | |
1395 | 1.º maggio. Erige in ducato Milano e la sua diocesi, e ne investe Giovanni Galeazzo | 389 |
Conseguenza di tale infeudazione per il diritto pubblico e per la pace d'Italia | 391 | |
Avventure di Carlo Montanini e d'Anselmo Salimbeni | 392 | |
[518] | ||
Capitolo LV. I Genovesi si danno al re di Francia. — Tentativo di Giovanni Galeazzo sopra Samminiato; si rinnova la guerra. — Disfatta dei Milanesi a Governolo; tregua. — Gherardo d'Appiano vende Pisa a Giovan Galeazzo. — Siena e Perugia si danno pure a lui. 1396-1399 | 398 | |
Spossamento dei Genovesi dopo la guerra di Chiozza | 398 | |
Molti partiti che si facevano guerra in questa repubblica | 399 | |
1390-1394 | Dieci rivoluzioni in Genova e dieci dogi che si soppiantano l'uno l'altro | 400 |
I marinai, clienti delle famiglie borghesi | 401 | |
Carattere d'Antoniotto Adorno | 402 | |
Sua alleanza con Giovanni Galeazzo | 403 | |
Adorno, ingannato da Giovan Galeazzo, si accosta al re di Francia | 405 | |
1396 | 25 ottobre. Genova si dà a Carlo VI, re di Francia, conservando i suoi privilegi | 406 |
1396-1398 | Nuove guerre civili. Morte d'Antoniotto Adorno | 407 |
Smisurata ambizione di Giovanni Galeazzo unita ad una somma timidità | 408 | |
Malgrado l'abituale sua falsità molti lasciavansi tuttavia ingannare dalle sue parole | 409 | |
[519] | ||
I soli Fiorentini ardiscono di giudicarlo, e di opporsi ai suoi disegni | 410 | |
1396-1398 | Maso degli Albizzi alla testa del governo; esilio di Donato Acciajuoli | 412 |
Le compagnie di ventura hanno mezzo soldo da Giovanni Galeazzo | 413 | |
I Fiorentini vogliono imitarne la politica e torna a loro danno | 413 | |
1396 | 29 settembre. Alleanza dei Fiorentini col re di Francia | 414 |
Resta senza effetto per la battaglia di Nicopoli | 416 | |
1397 | Alberico da Barbiano entra in Toscana senza dichiarazione di guerra | 417 |
17 marzo. Attentato di Mangiadori per togliere Samminiato ai Fiorentini | 418 | |
Gli abitanti di Samminiato scacciano i congiurati, e conservano la loro città alla repubblica | 419 | |
I Fiorentini dichiarano la guerra a Giovan Galeazzo | 421 | |
Alberico da Barbiano guasta la Val d'Arno | 422 | |
31 marzo. Giovanni Galeazzo attacca Francesco Gonzaga senza dichiarazione di guerra | 423 | |
14 luglio. La sua armata penetra nel serraglio di Mantova | 424 | |
[520] | ||
1397 | I Fiorentini spediscono soccorsi al Gonzaga | 425 |
28 agosto. L'armata e la flotta milanesi disfatte a Governolo | 426 | |
1398 | 11 maggio. Tregua di dieci anni garantita dai Veneziani | 427 |
1397 | 4 agosto. Congiura dei Medici, Ricci, Spini ec., contro Maso Albizzi | 428 |
Trama del Visconti per togliere Pisa a Jacopo d'Appiano | 430 | |
1398 | 2 gennajo. I milanesi tentano di occupare le fortezze di Pisa e sono respinti | 430 |
Giovanni Galeazzo abbandona i congiurati ed applaude al loro gastigo | 432 | |
5 settembre. Morte di Jacopo d'Appiano. Gli succede Gherardo suo figliuolo | 433 | |
Gherardo acconsente di vendere Pisa a Giovan Galeazzo | 434 | |
Suppliche dei Pisani a Gherardo perchè loro renda la libertà | 434 | |
1399 | Febbrajo. Giovanni Galeazzo prende possesso di Pisa. Origine del principato di Piombino | 436 |
I conti di Poppi e gli Ubertini dichiaransi pel Visconti | 437 | |
1393-1399 | Rivoluzioni di Perugia; condottieri usciti da questa provincia | 437 |
[521] | ||
1393-1399 | Braccio di Montone e Biordo dei Michelotti | 438 |
1398 | 10 marzo. Congiura contro Biordo. Viene ucciso | 440 |
I congiurati costretti a fuggire. Ceccolino succede a Biordo | 441 | |
1399 | I Fiorentini riconciliano Perugia col papa, e prestano danaro a questa città | 442 |
Giovanni Galeazzo fa saccheggiare dagli avventurieri gli stati di Perugia e di Siena | 443 | |
Debolezza ed anarchia di Siena | 444 | |
11 novembre. Si dà al duca di Milano | 445 | |
1400 | 21 gennajo. Perugia si dà pure al duca di Milano | 445 |
Gran numero d'alleati perduti dai Fiorentini | 446 | |
Caduta dello spirito di libertà in Italia | 447 | |
Capitolo LVI. Processioni de' penitenti bianchi. — Paolo Guinigi si rende padrone della signoria di Lucca. — Guerre civili a Bologna; Giovanni Bentivoglio usurpa l'autorità sovrana. — Deposizione di Wencislao; Roberto di Baviera, suo successore, attacca senza profitto Giovanni Galeazzo. Questi si rende padrone di Bologna; muore improvvisamente. 1399-1402 | 449 | |
Stato deplorabile di tutta la Cristianità | 449 | |
1399 | 5 luglio. Arrivo a Genova dei penitenti bianchi | 451 |
[522] | ||
1399 | Le processioni genovesi comunicano questa divozione a Lucca ed a Pisa | 452 |
Inquietudine di Lazzaro Guinigi, capo del governo di Lucca | 453 | |
Processioni dei Fiorentini | 454 | |
Il papa condanna le processioni de' penitenti bianchi | 455 | |
Congiura contro Lazzaro Guinigi. È assassinato | 456 | |
1400 | Paolo Guinigi prende parte in un'altra congiura | 458 |
14 ottobre. È dichiarato capitano della città e della milizia | 459 | |
La città d'Assisi passa sotto il dominio di Giovan Galeazzo | 460 | |
Congiura a Firenze dei Ricci, Alberti e Medici | 461 | |
1398-1400 | Rivalità in Bologna de' Gozzadini e de' Zambeccari | 462 |
Moderazione di Carlo Zambeccari, egli rialza il partito Maltraversa | 462 | |
Perdona ai Gozzadini e Bentivogli suoi nemici | 464 | |
Morte dello Zambeccari; richiamo de' suoi avversarj | 464 | |
1400 | Giovanni Bentivoglio si separa da Nanne Gozzadini | 465 |
1401 | 27 febbrajo. Bentivoglio occupa il palazzo pubblico, e si fa proclamare signore | 467 |
Francesco di Gonzaga e Niccolò d'Este abbandonano l'alleanza dei Fiorentini | 468 | |
[523] | ||
1401 | Caduta dell'autorità imperiale in Germania | 469 |
Wencislao oggetto del pubblico disprezzo | 471 | |
1400 | 20 agosto. Wencislao deposto; è nominato Roberto suo successore | 471 |
1401 | 30 gennajo. Ambasciatori di Roberto a Firenze | 473 |
I Fiorentini si legano con Roberto contro Galeazzo | 474 | |
Apparecchi di Giovan Galeazzo per resistere a Roberto | 476 | |
21 ottobre. Gl'imperiali battuti dagl'Italiani | 478 | |
Leopoldo d'Austria e l'arcivescovo di Colonia abbandonano l'imperatore | 479 | |
Nuove negoziazioni dell'imperatore coi Fiorentini | 480 | |
Ambidue ricorrono alla mediazione de' Veneziani | 481 | |
1402 | Giovanni Galeazzo attacca Giovan Bentivoglio, signore di Bologna | 482 |
15 aprile. L'imperatore Roberto torna in Germania | 484 | |
I Fiorentini soccorrono Giovanni Bentivoglio | 484 | |
26 giugno. Il Bentivoglio disfatto a Casalecchio | 485 | |
1402 | Bologna abbandonata ai Milanesi; è posto a morte il Bentivoglio | 486 |
[524] | ||
1402 | Giovanni Galeazzo fa chiudere tutte le strade al commercio di Firenze | 488 |
Cattivo stato dei Fiorentini | 489 | |
3 settembre. Giovanni Galeazzo muore di peste | 489 |
Fine della Tavola.
1. Francisci Petrarcae Epist. sine tit. p. 795, 806, ec.
2. L'autore parla della naturale inclinazione che in un clima piuttosto che nell'altro gli uomini hanno per le cose contemplative, come solo effetto dei mali o dei beni dipendenti dalla qualità del clima e del suolo: lo che nulla ha di comune colla vita ascetica e penitente, cui, non per umana disposizione, ma per impulso della divina grazia, che toglie, tanto alle delizie della più prospera vita e della più fiorente gioventù, quanto al vivere misero e stentato, persone d'ogni condizione, d'ogni sesso, d'ogni età, d'ogni paese. E la Grecia avanti che cadesse sotto il giogo de' Turchi, e l'Italia e la Spagna, poste ne' più temperati climi d'Europa, non furono meno feconde di santi solitari e di penitenti claustrali, di quello che lo fossero le infuocate rive del Gange, o le gelate coste del Baltico. N. d. T.
3. Raynal. An. Eccl. an. 1373, § 19, p. 520.
4. Il segretario fiorentino aveva fatto sagacemente osservare nelle sue storie, che mentre le scomuniche facevano tremare i popoli settentrionali, gl'Italiani punto non se ne curavano; e ciò per l'abuso fattone da alcuni papi. N. d. T.
5. Intorno all'influenza della filosofia peripatetica sulla credenza de' cristiani meritano di essere letti Lorenzo Moshemio. Instit. Hist. Eccles. — Brucherus Histor. Phil. ed il suo oppositore Agatopisto Cromaziano, ossia il P. Buonafede nella sua storia della filosofia, ove prende alla meglio a difendere gli aristotelici cristiani, che vollero conciliare le inconcusse dottrine del vangelo coi sogni peripatetici. N. d. T.
6. In quasi tutte le lettere del libro Epistolarum sine titulo.
7. Le osservazioni dell'autore sono vere parlando del generale depravamento del clero nel 14.º secolo, ma anche in questi tempi infelici, non era la chiesa priva di uomini santissimi, onde non lasciò d'essere santa nel capo Gesù Cristo, e nelle membra. Formavano questi quel piccolo numero di eletti che facevano udire il gemito della casta colomba, e che prepararono quella felice riforma de' costumi nel clero e nel popolo ch'ebbe compimento per opera del concilio di Trento nella seconda metà del 16.º secolo. N. d. T.
8. Il leggitore non dimenticherà che lo storico tratta questo argomento sotto le sole viste dell'umana politica, essendo estraneo al di lui istituto ciò che risguarda un ordine di cose superiori. N. d. T.
9. Matteo Villani, l. VII, c. 1, e seguenti.
10. Matteo Villani, l. VII, c. 3.
11. Raynald, An. Eccl. an. 1362, § 12, p. 418.
12. Matteo Villani, l. XI, c. 26.
13. Raynaldi An. Eccl. 1365, § 1, p. 441.
14. Fleury Histoire Eccles., l. XCVI, c. 51.
15. Cron. d'Orvieto, t. XV, p. 688.
16. Cronica Sanese, p. 187.
17. Raynald. An. Eccl. 1366, § 26, p. 462.
18. Petrarcae Rerum Senilium, l. IX, ep. 2, p. 947.
19. Vita Urbani V. ex Bosqueto, t. III, p. II, Rer. Ital., p. 617.
20. Georg. Stellae An. Genuen., t. XVII, p. 1096.
21. Ib. p. 1100.
22. Vita Urbani V, ex Bosqueto, p. 618. — Cronica d'Orvieto, t. XV, p. 691.
23. Matteo Villani, l. XI, c. 25, p. 709. Tu che leggi, grida il Villani, ed hai lette le altre maravigliose cose, che feciono i buoni Romani antichi, e tocchi queste in comparazione, non ti fia senza stupore d'animo.
24. Vita Urbani V, ex Bosqueto, p. 618.
25. Pompeo Pellini Storia di Perugia, t. 2, in 4.º, p. I, l. VII, p. 1025.
26. Raynaldi An. Eccl. 1397, § 15, p. 469. La città d'Orvieto aveva riconosciuto Albornoz per suo diretto signore; ed alla morte del legato si diede al papa in forza d'una deliberazione del consiglio generale, senza stipulare la riserva delle sue libertà. Cron. d'Orvieto, p. 692.
27. Raynaldi An. Eccl. 1367, § 17, p. 469.
28. Bernardino Corio Stor. Mil. p. III, p. 238.
29. Petri Azarii Chron., c. 14, p. 402.
30. Alba, Cuneo, Cerastro, Mondovì e Braida. Le nozze vennero celebrate con insolita magnificenza. La corte sedeva a varie tavole, secondo il rango de' personaggi; ma il Petrarca fu ammesso a quella de' principi sovrani. Bern. Corio Stor. Mil. p. III, p. 239.
31. La cronaca di Piacenza (t. XVI, p. 509.) pretende che avesse sotto il suo comando cinquanta mila cavalli, cosa probabile se aveva nell'esercito molte truppe leggiere, ed Ungari.
32. Chron. Estense, t. XV, p. 491.
33. Bernardino Corio Stor. di Milano, p. III, p. 241. — Chron. Estense, t. XV, p. 491.
34. Beverini Annales Lucenses mss. ex archivio Lucense, l. VII, p. 958.
35. Croniche di Pisa, t. XV, p. 1048. — Paolo Tronci Annali di Pisa, p. 417. — Beverini Annales Lucensium, 1. VII, p. 959.
36. Croniche di Pisa, t. XV, p. 1050. — Beverini Annales Lucenses, l. VII, p. 960.
37. Cronica Sanese, t. XV, p. 196. — Malavolti Storia di Siena, p. II, l. VII, p. 129.
38. Cronica Sanese di Neri di Donato, p. 197.
39. Malavolti Storia di Siena, p. II, l. VII, p. 130.
40. Orlando Malavolti Storia di Siena, p. II, l. VII, p. 130.
41. Sozomeni Pistoriensis Hist., t. XVI, p. 1084. — Leonardo Aretino Storia Fiorentina, l. VIII.
42. Cronica Sanese di Neri di Donato, p. 200.
43. Vita Urbani V ex Bosqueto t. III, p. II, p. 622. — Cronica d'Orvieto ad finem, p. 694. — Il Cronacista di Rimini dice di questo imperatore. E per certo, se io non ti avessi promesso da principio di scrivere della sua venuta, non avrei intinta questa carta, perchè me ne vergogno, in suo servizio, t. XV, p. 912.
44. Cronica Sanese di Neri di Donato, p. 203.
45. Massa, Montalcino, Grossetto, Telamone e Casole.
46. Orlando Malavolti, l. VII, p. 133.
47. Cronica Sanese di Neri di Donato p. 205.
48. Neri di Donato Cronica Sanese, t. XV, p. 206. — F. M. Pelzel trascorre rapidissimamente questi avvenimenti, ed in particolare la seconda spedizione in Italia del suo eroe. Karl der vierte römischer Kaiser, t. II, p. 811.
49. Malavolti Storia di Siena, p. II, l. VIII, p. 137.
50. Bernardo Marangoni Cron. di Pisa, p. 748. — Paolo Tronci Annali Pisani, p. 421.
51. Bernardo Marangoni Cron. di Pisa, p. 749. — Tronci An. Pisani, p. 424. Quest'ultimo è parzialissimo pei Raspanti.
52. Bernardo Marangoni Cron. di Pisa, p. 751.
53. Cronica Anon. di Pisa, t. XV, p. 1053.
54. Bernard. Marangoni Chron., p. 753.
55. Marchione di Coppo de Stefani Stor. Fior. l. IX, Rub. 708, t. XIV, p. 71. — Delizie degli Eruditi Toscani.
56. Bern. Marangoni Cronaca di Pisa, p. 755. — Paolo Tronci Ann. di Pisa, p. 427. — Scipione Ammirato Istoria Fiorent., l. XIII, p. 667.
57. Beverini Ann. Lucenses, l. VII, p. 965. — Pelzel non ha conosciute le particolarità della liberazione di Lucca, e passa rapidissimamente sull'azione che in Italia fece maggior onore al suo eroe, t. II, p. 814.
58. Beverini Ann. Lucenses, l. VII, p. 966.
59. Beverini Ann. Lucenses, l. VII, p. 968.
60. Ivi, p. 971.
61. Beverini Ann. Luc., l. VII, p. 966.
62. Ivi.
63. Ivi.
64. Cron. Sanese di Neri di Donato, p. 222. — Scip. Ammirato Istor. Fior., l. XIII, p. 674.
65. Osservisi nel t. IV, il c. 28.
66. Beverini Ann. Luc., l. VIII, t. III, p. 9.
67. Ivi, p. 24.
68. Marchione di Coppo de Stefani Stor. Fior. l. IX, Rub. 706, p. 69. — Beverini Ann. Luc., l. VIII, p. 18.
69. Beverini Ann. Luc., l. VIII, p. 29.
70. Gli otto d'aprile d'ogni anno perchè la bolla dell'imperatore era in data degli otto aprile 1369. Beverini, l. VIII, p. 21.
71. Malavolti, Storia di Siena, p. II, l. VIII, p. 135.
72. Aveva di già abbjurato nel 1355 sperando d'ottenere i soccorsi d'Innocenzo VI.
73. Raynaldi Ann. Eccles. 1369 § 1, p. 478. — Gibbon Decline and fall of the Roman Empire, cap. LXVI.
74. Laonicus Chalcocondyles de rebus Turcicis Script. Byz., t. XVI, l. I, p. 20.
75. In conseguenza d'un trattato soscritto a Bologna il 23 novembre 1370. Pompeo Pellini Istoria di Perugia, p. I, l. VIII, p. 1081. — Vita Urban. V, ex collect. Bosqueti, t. III, Rer. Ital. p. 623.
76. Sozomeni Pistor. Histor., t. XVI, p. 1086.
77. Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. I, p. 216. — Leonardo Aretino Hist. Fior., l. VIII. — Marchione di Coppo Stefani Istor. Fior., l. IX, Rub. 710, 711, p. 72. — Scipione Ammirato Istor. Fior., l. XIII, p. 669.
78. Ann. Bonincontrii Miniatensis, t. XXI, p. 14 e 15. Quest'annalista di Samminia ha gettata qualche confusione nelle date.
79. Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. I, p. 217. — Chron. Estense, t. XV, p. 492. — Marchione di Coppo Stefani Ist. Fior., l. IX, Rub. 716, p. 78.
80. Andrea Gataro Istoria Padovana, t. XVII, p. 162.
81. Dichiarò con una bolla in data di Montefiascone (26 giugno 1370), che i Romani non gli avevano dato verun motivo di lagnanza, che fosse cagione della sua partenza. Raynald. Ann. Eccl. 1370, § 19, p. 489. — Vita Urbani V, in Bosqueto, p. 625.
82. Fran. Petr. seniles Epist., l. XIII, epist. 13, p. 1026.
83. Sozomeni Pistoriensis Hist., p. 1089. — Poggi Bracciolini Hist., l. I, p. 218. — Bern. Marangoni Chroniche di Pisa, p. 759.
84. Cronica di Pisa, t. XV, p. 1057, 1058. — Bernardo Marangoni Chron. Pisana, p. 672.
85. Sozomeni Pistor. Hist., p. 1090.
86. Bern. Corio Storie Milanesi, p. III, p. 243.
87. Poggio Bracciolini, l. I, p. 219. — Chr. Estense, t. XV, p. 493.
88. Macchiavelli Istor. Fior., l. III, p. 198. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 680, 684.
89. Marchione de Stefani Istor. Fior., l. IX, Rub. 725, p. 92.
90. Le leggi non permettevano ai cittadini di adunarsi in maggior numero di dodici per trattare gli affari dello stato. Marchione de Stefani, l. IX, R. 731, p. 105.
91. Marchione de Stefani, l. IX, p. 107.
92. Ivi, R. 732, p. 109.
93. Ivi, R. 733, p. 111. — Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 207. — Leonardo Aretino Istor. Fior., l. VIII.
94. Rayn. Ann. Eccl. 1370, § 25, p. 492. — Fleury Stor. Eccles., l. XCVII, c. 19.
95. Il conte Corrado Lando, capo della grande compagnia, era stato ucciso presso Novara nel 1363. Chron. Placent., t. XVI, p. 507. Il nuovo avventuriere tedesco chiamavasi Lucio Lando.
96. Chron. Estense, t. XV, p. 494.
97. Marchione de Stefani Ist. Fiorent., l. IX, Rub. 738, p. 117.
98. Pompeo Pellini Storia di Perugia, p. I, l. VIII, p. 1111.
99. Veggasi questa lettera riferita dal Rayn. Ann. Eccles. 1371, § 7, p. 495.
100. Bernardino Corio Storie Milanesi, p. III, p. 245.
101. Math. de Griffon. Mem. Histor, t. XVIII, p. 183. — Chron. Placent. t. XVI, p. 516.
102. Bernard. Corio Stor. Mil., p. III, p. 246. — Chron. Est., t. XV, p. 497.
103. Gazata Chron. Regiense, t. XVIII, p. 81. — Chron. Placent. p. 519.
104. Cronica Sanese, t. XV, p. 241.
105. Marchione de Stefani Ist. Fior., l. IX, Rub. 746, p. 132.
106. Poggio Bracciolini Stor. Fior., l. I, p. 220.
107. Lion. Aretinus Historiar., l. VIII.
108. Cron. San. di Neri di Donato, p. 245. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 693.
109. Cron. Sanese, p. 242. — Poggio Bracciolini Istor. Fiorent., l. II, p. 221.
110. March. de Stefani Ist. Fior., l. IX, R. 751, p. 139.
111. Leonardi Aretini Hist. Fiorent., l. VIII. — Ann. Bonincontrii Miniatensis, p. 23.
112. I nomi di questi otto signori, che furono poi detti in Firenze gli otto santi della guerra, meritano di essere conservati. Erano Alessandro Bardi, Giovanni Dini, Giovanni Magalotti, Andrea Salviati, Guiccio Guicci, Tommaso Strozzi, Matteo Soldi e Giovanni Moni. — Sozomeni Pistor Hist. p. 1095. — March. de Stefani, l. IX, R. 752, p. 142. — Scip. Ammir. l. XIII, p. 694.
113. Poggio Bracciolini Ist. Fior. l. II, p. 222.
114. Cronaca Sanese di Neri di Donato, p. 245. — Cron. di Pisa, p. 1068. — B. Marangoni Cron. di Pisa, p. 772.
115. Lettera di Gregorio XI, presso Raynaldi Ann. Eccl. 1375, § 13 e 15, p. 536.
116. Gazata Chron. Regiense, t. XVIII, p. 85.
117. Poggio Bracciolini, l. II, p. 223-226.
118. Sozomeni Pistoriensis Histor., p. 1095.
119. Cronica Sanese di Neri di Donato, p. 245.
120. Cronica di Pisa, p. 1070.
121. Marchione de Stefani, l. IX, Rub. 753, p. 143. — Chron. Placent. t. XVI, p. 520.
122. Poggio Bracciolini, l. II, p. 226. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 695.
123. Cronica di Siena, p. 246.
124. Ivi, p. 247.
125. Chronichon Estense, t. XV, p. 499.
126. Marchione de Stefani Istor. Fior., l. IX, Rub. 753, p. 144.
127. Ann. Forolivienses, t. XXII, p. 189. — Cronaca Riminese, t. XV, p. 914.
128. Cron. Riminese, p. 914.
129. Ivi. — Agobbio fu una delle ultime a ristabilire lo stato popolare. Questa città si ribellò l'otto settembre del 1376. — Guernieri Bornio Storia d'Agobbio, t. XXI, p. 935. — Stando a questo storico Agobbio erasi costantemente conservato libero fino al 1350, mediante un censo di cento lire alla camera imperiale. Introduzione, p. 922.
130. Poggio Bracciolini, l. II, p. 229.
131. Raynaldus Annal. Eccles. 1376, § 1-6, p. 542.
132. Marchione de Stefani, l. IX, Rub. 754, p. 145.
133. Poggio Bracciolini, l. II, c. 233. — Leonardo Aretino, l. VIII. — Ghirardacci Storia di Bologna, l. XXV, p. 349. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 698.
134. Cronaca di Bologna, t. XVIII, p. 497.
135. Cronica di Bologna, t. XVIII, p. 498.
136. Cherub. Ghirardacci Storia di Bologna, l. XXV, t. II, p. 340.
137. Cron. di Bologna, l. XVIII, p. 501. — Math. de Griff. Memoriale Historicum, p. 186.
138. Cherub. Ghirardacci Storia di Bologna, l. XXV, p. 343. — Marchione de Stefani Ist. Fior., l. IX, Rub. 758, p. 150.
139. Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 504.
140. Ann. Eccles. Raynal., 1376, § 7, p. 544.
141. Sozomeni Pistoriensis Historia, p. 1096. — Marchione de Stefani, l. IX, Rub. 759, p. 151.
142. Gomez Albornoz, nipote d'Egidio, e legato nella Marca, si fece fare una bandiera bianca con queste parole: Ahora se vedra qui pueda mas, o los Berton o libertas. — And. Gataro Storia Padovana, p. 220.
143. Vita papæ Greg. XI a Bosqueto edita, p. 651. — Chron. Placent. t. XVI, p. 526. — Bernardino Corio Stor. Milan., p. III, p. 249.
144. Poggio Bracciolini Hist. Fiorent., l. II, p. 233. — Cronica Sanese, p. 249.
145. Cherub. Ghirardacci, l. XXV, p. 349.
146. Poggio Bracciolini, l. II, p. 235.
147. Poggio Bracciolini, l. II, p. 235.
148. Cronica di Bologna, p. 504.
149. Cherubino Ghirardacci, l. XXV, p. 351.
150. Cron. di Rimini, p. 915.
151. Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 510.
152. Chron. Estense, p. 500.
153. Cronica Sanese di Neri di Donato, p. 252.
154. Poggio Bracciolini, l. II, p. 236. — Cronica Rimin., t. XV, p. 916. — Leon. Aretino, l. VIII.
155. Cronica Sanese, p. 253.
156. Frammento d'un ms. del Vaticano stampato nelle Antiqu. Ital., t. II, p. 857. — Bonincontri, Annal. Miniat., t. XXI, p. 18, fa rimontare all'anno 1370 l'istituzione de' banderali, e quest'epoca fu adottata dallo storico de' senatori di Roma; ma tutta la cronologia del Buonincontri è assai fallace; onde io assegnerei piuttosto all'anno 1375 la creazione di tale magistratura.
157. Il trattato è stampato presso Raynaldi An. Eccl. 1376, § II, p. 545.
158. Questa lettera, che alla forza de' pensieri unisce il merito della più bella dizione latina, fu scritta da Coluccio Salutati, allora cancelliere della repubblica, e prima segretario d'Urbano V, e di Gregorio XI. Ella trovasi nella Storia dei Senatori di Roma, t. II, p. 327; ed in Rigacci, p. I, ep. 17, p. 58.
159. Stor. diplomat. de' Senatori di Roma, p. 330.
160. Cronica Sanese di Neri di Donato, t. XV, p. 251. — Georg. Stellæ An. Genuens., t. XVII, p. 1106.
161. Vita Gregorii XI a Bosqueto edita, p. 652.
162. Cronica Sanese, p. 252.
163. Cronica di Pisa, p. 1072. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 705.
164. Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. II, p. 237.
165. Leon. Aret., l. VIII. — Ann. Bonincontri Miniaten., p. 27.
166. Chron. Esten., p. 494.
167. Sozomeni Pistoriensis Hist., p. 1103.
168. Raynaldi Ann. Eccles. 1377, § 2, p. 552. — Marchione de Stefani, l. IX, Rub. 773, p. 179.
169. Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. II, p. 237. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 707.
170. Poggio Bracciolini, l. II, p. 239. — Marchione de Stefani, l. IX, Rub. 772, p. 178. — Cronica Sanese, p. 256.
171. Ghirardacci Storia di Bologna, l. XXV, p. 358.
172. Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 515.
173. Chronicon Estense, t. XV, p. 501.
174. Ghirard. Stor. di Bol., l. XXV, p. 364.
175. Cronica Sanese, p. 255.
176. Chron. Estense, t. XV, p. 502. — Cronaca Riminese, p. 918.
177. Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. II, p. 240. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1104. — Cronica Sanese, p. 257. — Cronica di Bologna, p. 516.
178. Vita Gregorii XI penes Baluzium Scr. Ital. t. III, p. II, p. 662.
179. Addimenta Codicis Patavini ad Ptolom. Lucensem, t. III, p. II, p. 677.
180. Ecco la nota di tutti i cardinali che componevano allora il sacro collegio; che è necessario di ben conoscere per intendere la storia dello scisma.
I cardinali assistenti al conclave furono
creato l'an. | morto l'an. | |
Uno spagnuolo. | ||
Pietro di Luna, cardinale diacono, del titolo di santa Maria in Cosmedin | 1375 | 1424 |
Quattro Italiani. | ||
Francesco Tebaldeschi, romano, cardinale prete del titolo di santa Sabina, arciprete di san Pietro | 1368 | 1378 |
Pietro Corsino, fiorentino, card. prete del titolo di San Lorenzo | 1370 | 1405 |
Giacomo Orsini, romano, card. diacono del titolo di san Giorgio in Velabro | 1371 | 1379 |
Simone da Borsano, milanese, card. prete di san Giovanni e Paolo | 1375 | 1381 |
Undici Francesi. | ||
Guglielmo d'Aigrefeuille, card. prete di santo Stefano | 1367 | 1401 |
Giovanni du Cros, vescovo di Limoges, card. prete de' santi Nereo ed Achilleo | 1371 | 1383 |
Bertrando Lagier, vescovo di Glandeves, card. prete di santa Prisca | 1371 | 1392 |
Roberto di Ginevra, arcivescovo di Chambray, card. prete de' 12 Apostoli | 1371 | 1394 |
Pietro Flandrin, card. diacono di sant'Eustacchio | 1371 | 1381 |
Guglielmo di Nouveau, card. diacono di sant'Agnese | 1371 | 1390 |
Pietro di Veruche, abate di Montmayeur, card. diacono di santa Maria in velo aureo | 1371 | 1403 |
Ugo di Montrelaix, card. prete dei 4 santi Coronati | 1375 | 1384 |
Gui di Malesec, vescovo di Poitiers, card. prete di santa Croce in Gerusalemme | 1375 | 1413 |
Pietro de Bernier, vescovo di Viviers, card. prete di san Lorenzo in Lucina | 1375 | 1394 |
Gerardo du Puy, abate di Marmoutier, card. prete di san Clemente | 1375 | 1389 |
I cardinali assenti nell'epoca del conclave erano | ||
Giovanni de la Grange, vescovo d'Amiens, card. prete di san Marcello, in allora legato del papa in Toscana | 1375 | 1402 |
I sei Francesi finalmente ch'erano rimasti in Avignone sono | ||
Pietro di Selvete Montirac vescovo di Pamplona, cancelliere della chiesa, card. prete di sant'Anastasia | 1356 | 1385 |
Giovanni de Blandiac, vescovo di Sabina, card. di san Marco | 1361 | 1379 |
Ugo di san Marziale, card. diacono di santa Maria in Portico | 1361 | 1403 |
Egidio Ascellino di Montaigu, vescovo di Frascati, card. prete di san Silvestro | 1361 | 1378 |
Angelo de Grimoard, vescovo d'Albano, card. prete di san Pietro in vincula | 1366 | 1387 |
Guglielmo de Chanac, vescovo di Mandes, card. prete di san Vitale | 1371 | 1394 |
181. Vita Gregorii XI penes Baluzium, p. 662, 663. — Vita ejusdem ex Bosqueto, p. 654.
182. Vita Gregorii XI penes Baluzium, p. 662.
183. Vita Gregorii XI ex additam. ad Ptolom. Lucens., 667. — Thomas de Acerno de creatione Urbani VI, Rer. It. t. III, p. II, p. 716. — Raynaldus Ann. Eccles. 1378, § 4, p. 2.
184. Vita Gregorii XI penes Baluzium, p. 663.
185. Roberto, avanti che morisse Gregorio XI, erasi adoperato assai per formare un partito opposto ai Limosini, ed erane rimasto capo. Raynaldi An. Eccl. 1378, § 1, t. XVII, p. 1.
186. Additam. ad Ptol. Lucensem, p. 679.
187. Additam. ad Ptol. Lucensem, p. 680.
188. Thomas de Acerno, de creatione Urbani VI, p. 719. — Additam, ad Ptol. Lucens, p. 681. Raynald. Ann. Eccles. — Secondo l'abate di Sisterone, e conformemente alla deposizione del vescovo di Recanati e Macerata.
189. Thomas de Acerno, de creatione Urbani VI, p. 720.
190. Thomas de Acerno, p. 721. — Secondo il Rinaldi che riferisce le deposizioni di molti vescovi, quelli che venivano informati dell'elezione del Bari volevano ucciderlo, t. XVII, p. 6.
191. Thomas da Acerno, p. 722.
192. Additam. ad Ptolom. Lucensem, p. 684.
193. Thomas de Acerno, de creat. Urbani VI, p. 723. — Theodorici a Niem de Schismate, Editio Basileæ in fol. 1566, l. I, c. 2, p. 2. — Una lettera dei 16 cardinali per comunicare ai loro colleghi rimasti in Avignone l'elezione unanime d'Urbano VI è riportata dal Raynaldi an. 1378, t. XVII, p. 8.
194. Item cardinali de Ursinis dixit quod erat unus sotus. Thomas de Acerno, p. 725.
195. Giovanni della Grange, del titolo di san Marcello, cardinale vescovo d'Amiens. Ap. Raynald. an. 1378, § 45, p. 22.
196. Theodorici a Niem de Schism., l. I, c. 4, 5 e 6, p. 5.
197. Thomas de Acerno, p. 726.
198. Additam. ad Ptol. Lucens., 687.
199. Thomas de Acerno, p. 728. — La dichiarazione del Tebaldeschi è stampata negli Annali ecclesiastici, p. 19.
200. Thomas de Acerno, p. 729. — Theodoricus a Niem de Schismate, l. I, c. 9 e 10, p. 9.
201. Thomas de Acerno, p. 727. — Gino Capponi del tumulto de' Ciompi, t. XVIII, p. 1111. — La pace tra il papa e Perugia fu soscritta verso lo stesso tempo, e pubblicata il 4 di gennajo 1379. — Pompeo Pellini Hist. di Perugia, p. I, l. IX, p. 1238.
202. Leonardo Aretino, l. IX, in principio.
203. In aprile del 1378 i capitani ammonirono Giovanni Dini, uno degli otto della guerra e de' più rispettati uomini dello stato. Marchione de Stefani, l. IX, Rub. 786, p. 207. — Scipione Ammirato, l. XIII, p. 213.
204. Macchiavelli delle Ist. Fior., l. III, p. 212.
205. Scipione Ammirato, l. XIII, p. 714. — Marchione de Stefani, l. IV, Rub. 787, p. 208.
206. Gino Capponi Tumulto de' Ciompi. Rer. Ital., t. XVIII, p. 1103.
207. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 790, t. XV, p. 4.
208. Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 214. — Gino Capponi Tumulto dei Ciompi, p. 1104. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 717.
209. Gino Capponi, t. XVIII, p. 1105.
210. Macchiavelli Stor. Fior., l. III, p. 216.
211. Macchiavelli Istor. Fior., l. III, p. 225.
212. Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 217.
213. Gino Capponi Tumulto de' Ciompi, p. 1106.
214. Sozomeni Pistor. Hist., t. XVI, p. 1107. — Marchione de Stefani, l. X, Rub. 792, t. XV, p. 8. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 719.
215. Gli atti di questa balìa sono stampati. Delizie degli Eruditi Toscani, t. XV, Monum., p. 145. — Vedasi Macchiavelli, l. III, p. 219. — Gino Capponi, p. 1107.
216. Gino Capponi, p. 1108. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 721.
217. Gino Capponi, p. 1109.
218. Macchiavelli Stor. Fior., l. III, p. 223. — Trovasi una notabile rassomiglianza tra questo discorso e quello di T. Quinzio Capitolino nel suo quarto consolato, l'anno di Roma 309. Talvolta l'erudizione impedisce a Macchiavelli d'essere originale. Tit. Livii Dec. I, l. III, c. 67.
219. Gino Capponi, p. 1109.
220. Dal vocabolo compère. I soldati francesi chiamavano spesse volte così i loro compagni di libertinaggio. Marchione de Stefani, l. VIII, Rub. 575, t. XIII, p. 54. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 728.
221. Gino Capponi, p. 1110.
222. Macchiavelli Ist. Fior, l. III, p. 228.
223. Gino Capponi Tumulto de' Ciompi, p. 1112. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 723.
224. Santo Spirito, santo Stefano a Ponte, san Pietro maggiore, san Lorenzo. Gino Capponi, p. 1114.
225. La tortura era stata adottata anche in Francia, e vi si esercitava crudelissimamente, come, per tacere di tutt'altro, ne fanno ampia prova gli atti della processura contro de' Templari. N. d. T.
226. Gino Capponi, p. 1114. — Macchiavelli Storia Fiorentina, l. III, p. 232. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 725.
227. Marchione de Stefani Ist. Fior., l. X, Rub. 795, t. XV, p. 18.
228. Guerriante Marignolli, uno de' priori, con Salvestro de' Medici e Benedetto Alberti. — Gino Capponi Tumulto de' Ciompi, p. 1115.
229. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 795, p. 19.
230. Gino Capponi, p. 1117. — Marchione de Stefani dà la nota dei cavalieri, l. X, Rub. 795, p. 22.
231. Macchiavelli, l. III, p. 234. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1109. — Cronica Sanese, t. XV, p. 259. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 727.
232. Gino Capponi, d. 1119.
233. Gino Capponi, p. 1121.
234. Gino Capponi, p. 1122. — Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 237. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 729.
235. Gino Capponi, p. 1123. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 730.
236. Macchiavelli Istor. Fior., l. III, p. 239. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 731.
237. Gino Capponi, p. 1124.
238. Macchiavelli, l. III, p. 240.
239. Gino Capponi, p. 1124.
240. Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 241.
241. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 804, t. XV, p. 52.
242. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 804, p. 50.
243. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 804, p. 54. — Leon. Aretinus, l. IX. — Macchiavelli, l. III, p. 242. — Cron. di Siena, p. 261. — Sozomeni Pistor. Histor., p. 1111. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 733.
244. Marchione de Stefani, Rub. 805, p. 56. — Macchiavelli, l. III, p. 245. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 735.
245. Chron. Placent., t. XVI, p. 543. — Bernardino Corio Ist. di Milano, p. III, p. 252.
246. Schmidt, Storia dei Tedeschi, l. VII, c. 9, p. 595.
247. Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1038.
248. Giannone Storia civile del regno di Napoli, l. XXIII, c. 3.
249. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 827, t. XV, p. 100. — Leonardo Aretino Hist. Fior. l. IX. — Scipione Ammirato, l. XIV, p. 743.
250. Marchione de Stefani, l. X, Rub. 824-826, p. 93. — Questo nojoso ed insipido storico, quali press'a poco sono tutti quelli che vennero pubblicati nella voluminosa e pedantesca collezione delle Delizie degli Eruditi Toscani, si rende assai interessante ne' mesi di novembre e dicembre 1379, perchè in tale epoca era egli stesso priore. Egli era partigiano delle arti minori.
251. Marchione de Stefani, Rub. 829, p. 105.
252. Leonardo Aretino, l. IX.
253. Con tal nome indicavansi tutti i giudici forastieri, podestà, capitano del popolo ed esecutore, ai quali era confidato il diritto della spada.
254. Marchione de Stefani, Rub. 833, p. 114.
255. Marchione de Stefani, Rub. 834. p. 116.
256. Ivi, p. 119. — Scip. Amm., l XIV, p. 746.
257. Marchione de Stefani, Rub. 835, p. 120.
258. Marchione de Stefani, Rub. 834, p. 119.
259. Marchione de Stefani, Rub. 839, p. 125.
260. Raynald. Ann. Eccles. 1380, § 1-3, t. XVII, p. 70.
261. Raynald. Ann. Eccl, § II, p. 73.
262. Cronica di Bologna, t. XVIII, p. 521.
263. Marchione de Stefani, l. X, R. 846-848, t. XV, p. 138-144.
264. Leon. Aretino, l. IX. — March. de Stefani, l. XI, R. 852, t. XVI, p. 9. — Scip. Ammirato, l. XIV, p. 750.
265. Marchione de Stefani, l. XI, R. 860, p. 18.
266. Marchione de Stefani, R. 867, p. 27. — Leon. Aret. l. IX.
267. Era Giovanni di Mone, uno degli otto signori della guerra, chiamati gli otto santi. March. de Stefani, l. XI, Rub. 870, p. 29.
268. Ivi Rub. 873, p. 33. — Leonardo Aretino l. IX. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1118.
269. Raynald Ann. Eccl. 1381, § 1, p. 80.
270. Ivi, § 20, p. 87.
271. Giannone Ist. Civ. del regno di Napoli, l. XXIII, c. 5.
272. Giornali Napolitani, t. XXI, p. 1041.
273. Giornali Napolitani, t. XXI, p. 1043.
274. Giannone Istor. civ. l. XXIII, c. 5. p. 341. — Tristani Caracciuoli opus. Historica, t. XXII, p. 16. — Maria sorella di Giovanna fu pure arrestata e tenuta in prigione. Morì poco dopo non senza sospetto di veleno. Theodorici a Niem hist. Schism. l. I, c. 25, p. 20.
275. Leon. Aret. l. IX. — Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 250.
276. Macchiavelli Ist. Fior. l. III, p. 252.
277. Sozomeni Pistor. Hist. p. 1121. — Marchione de Stefani, l. XI, R. 901, p. 67. — Memorie storiche di Ser Naddo da Montecatini. Delizie degli Erud., t. XVIII, p. 37.
278. Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 253.
279. Marchione de' Stefani, Rub. 902, p. 70.
280. L'arte de' Tintori ed altri membri, e l'arte de' Farsettai, Barbieri, ec.
281. Leon. Aretino, l. IX. — Sozomeni Pistor. Hist. p. 1122. — Marchione de Stefani, l. XI, Rub. 904, p. 77.
282. Ivi, Rub. 915, p. 100.
283. Ivi, Rub. 910, p. 85.
284. Il 14 marzo 1382. Marchione de Stefani, Rub. 918, p. 108.
285. Mem. di Ser Naddo da Montecatini, t. XVIII, p. 94.
286. Macchiavelli Ist. Fior., l. III, p. 259.
287. Memorie Storiche di Ser Naddo da Montecatini, t. XVIII, p. 99.
288. Memoires pour la vie de Pétrarque, l. VI, t. III, p. 798.
289. Scipione Ammirato, l. XIII, p. 692. — Tiraboschi Stor. della Letter. Ital. l. III, c. 3, § 21, t. V, p. 571.
290. Hist. Byzant. Nepotis Michaelis Ducæ, t. XIX, Scr. Byz. c. 13, p. 20.
291. Hist. Byzant. Nepotis Michaelis Ducæ, t. XIX, Scr. Byz., c. 12, p. 17.
292. Phranza Protovestiarius, l. I, c. 16, p. 18. Scrip. Byz. t. XXIII. — Ducas Michaelis Nepos, c. 12, p. 17. — Raphain Caresino, Cancellar. Venetus Chron. R. It., t. XII, p. 443.
293. Ducas Michaelis Nepos, c. 12, p. 18.
294. Daniele Chinazzo. Della guerra di Chiozza, t. XV, Rer. It., p. 711. — Raphain Caresino Chron., t. XII, p. 443.
295. Daniele Chinazzo Guerra di Chiozza, p. 711. — Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venezia, p. 680.
296. Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venezia, P. 679.
297. Uberti Folietae Hist. Genuen., l. VIII, p. 459.
298. Georgius Stella Ann. Genuens., p. 1104.
299. Georgius Stella Ann. Genuens., t. XVII, p. 1105.
300. Uberti Folietae Histor. Genuens., l. VIII, p. 462. — Maria Sanuto Storia dei Duchi di Venezia, p. 681.
301. Bernard. Corio Storia Milanese, p. III, p. 250.
302. Georgii Stellæ Ann. Genuens., p. 1108.
303. Daniele Chinazzo Stor. di Chiozza, p. 702.
304. Daniele Chinazzo Istoria di Chiozza, p. 707.
305. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 712. — Raphain Caresino Chron. Venetum, p. 444.
306. Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. VIII, p. 465.
307. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 712.
308. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 717.
309. Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. VIII, p. 463.
310. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 714. — Laugier Hist. de Venise, l. XV, t. IV, p. 270.
311. Ubert. Folieta Genuens. Hist., l. VIII, p. 464. — Daniele Chinazzo della guerra di Chiozza, p. 715.
312. Daniele Chinazzo, p. 718.
313. Ivi, p. 700.
314. Ivi, p. 719. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 683. — Laugier Hist. de Venise, l. XV, t. IV, p. 292.
315. Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venezia, p. 684. — Navagero Stor. Venez. p. 1058.
316. Ubertus Folieta Hist. Genuens., l. VIII, p. 466.
317. Daniele Chinazzo, p. 720. — Marin Sanuto Stor. dei Duchi di Venezia, p. 685. — Raphain Caresino Chron. Venetum, p. 446.
318. Giorgio Stella Ann. Genuenses, p. 1111. — Daniele Chinazzo, p. 723.
319. Le sei aperture da levante a ponente sono chiamate Treporti, Lidogrande, sant'Erasmo, due castelli o san Niccolò, Malamocco e Chiozza.
320. Ubert. Folieta Hist. Gen. l. VIII, p. 470.
321. Daniele Chinazzo, p. 725. — Marin Sanuto Vite dei Duchi di Ven., p. 689.
322. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 726.
323. Raphain Caresino Chron. Venet., p. 447.
324. Andrea Navagero Storia Venez., p. 1060.
325. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 727.
326. Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 691.
327. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 728.
328. Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 691. — Navagero Stor. Venez., p. 1061.
329. Daniele Chinazzo, p. 729.
330. Ivi, p. 730.
331. Vita Caroli Zeni a Jacopo Zeno ejus Nepote, t. XIX, p. 219.
332. Ivi, p. 225. — Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 747.
333. Vita Caroli Zeni, p. 226. — Daniele Chinazzo, p. 749. — Ducas Michael. Nepos., c. 12, p. 18.
334. Vita Caroli Zeni a Jacopo Zeno Scripta, p. 227. — Laugier Hist. de Venise, l. XV, p. 305.
335. Daniele Chinazzo guerra di Chiozza, p. 732.
336. Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 694.
337. Daniele Chinazzo, p. 739. — Raphain Caresino Chron. Venet., p. 449. — Marin Sanuto, p. 701. — Navagero Stor. Venez., p. 1062. — Ubertus Folieta Hist. Genuens., l. VIII, p. 477. — Laugier Hist. de Venise, l. XV, p. 340, t. IV.
338. Daniele Chinazzo, p. 739. — Marin Sanuto, p. 696.
339. Daniele Chinazzo, p. 740.
340. Raphain Caresino Chron. Venet., p. 451.
341. Daniele Chinazzo, p. 741. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 700. — Georgii Stellae Ann. Genuens., p. 1114.
342. Marin Sanuto, p. 700. — Navagero Storia Venez., p. 1063.
343. Daniele Chinazzo, p. 744. — Marin Sanuto, p. 701. — Raphain Caresino, p. 452. — Caroli Zeni Vita, l. III, p. 230.
344. Daniele Chinazzo, p. 745.
345. Daniele Chinazzo, p. 753. — Marin Sanuto, p. 704.
346. Daniele Chinazzo, p. 757. — Marin Sanuto, p. 704. — Georg. Stellae Ann. Genuens., p. 1115. — Raphain Caresino, p. 452. — Navagero Stor. Venez., p. 1604. — Caroli Zeni Vita, l. III, p. 239.
347. Georgii Stellae Ann. Genuens., p. 1115.
348. Ubertus Folietae Hist. Genuens., l. VIII, p. 481.
349. Daniele Chinazzo, p. 760.
350. Ivi, p. 762.
351. Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. VIII, p. 481. — Raphain Caresino Chron. Venet., p. 456.
352. Daniele Chinazzo, p. 764. — Marin Sanuto, p. 709.
353. Marin Sanuto, p. 710.
354. Daniele Chinazzo, p. 767. — Marin Sanuto, p. 712. — Georgii Stellae An. Gen. p. 1117. — Raphain Caresino Chron. Venet., p. 459. — Vita Caroli Zeni, l. IV, p. 255. — Laugier Hist. de Venise, l. XVI, p. 422.
355. Daniele Chinazzo, p. 772. — Marin Sanuto, p. 714. — Navagero Stor. Venez., p. 1066. — Laugier Hist. de Venise, l. XVI, p. 435.
356. Daniele Chinazzo, p. 778.
357. Daniele Chinazzo, p. 793.
358. Ivi, p. 790.
359. Marin Sanuto, p. 720. — Raphain Caresino, p. 464.
360. Daniele Chinazzo, p. 797. — Ubertus Folieta, l. VIII, p. 484. — Marin Sanuto, p. 721. — Andrea Navagero, p. 1067. — Georg. Stellae Ann. Genuens., p. 1119. — Laugier Hist. de Ven., l. XVII, t. V, p. 31. — Vita Caroli Zeni, l. VI, p. 297. — Joh. Lucii de Regno Dalmatiae et Croatiae, l. V, c. 1, t. III, Rer. Hung., p. 398.
361. Georg. Stellae Annal. Genuens., p. 1095.
362. Ivi, p. 1098.
363. Georg. Stellae Ann. Gen. p. 1100. — Uberti Folietae Hist. Genuen., l. VIII, p. 464.
364. Georg. Stellae An. Genuen., p. 1109.
365. Georg. Stellae Annal. Genuen., p. 1120. — Uberti Folietae Hist. Genuens., l. IX, p. 486.
366. Georgii Stellae Ann. Genuens., p. 1121. — Uberti Folietae Hist. Genuens., l. IX, p. 487.
367. Georgii Stellae Ann. Genuens., p. 1123. — Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. IX, p. 489.
368. Georgii Stellae Ann. Genuens., v. 1124. — Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. IX, p. 490.
369. Raynald. Ann. Eccl. 1380, § II, t. XVII, p. 78. — Giannone Ist. Civ. del regn. di Nap., l. XXIII, c. 5, t. III, p. 334.
370. Chronicon Estense, t. XV, p. 508.
371. Giannone Istoria Civile, l. XXIV, c. 1, t. III, p. 352. — Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1046.
372. Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1051.
373. Theodoricus a Niem. Hist. Schism. l. I, c. 28-32, p. 24. — Rayn. Ann. Eccles. 1383, § 3, t. XVII, p. 112.
374. Butillo, ch'era di que' tempi in età d'oltre quarant'anni, entrò con violenza in un convento, e violò una religiosa, distinta fra tutte le altre per la sua nascita e per le sue virtù non meno che per la sua bellezza. Quando ne fu portata l'accusa al papa, rispose: Buono! non è questo che un fuoco di gioventù. — Costanzo Ist. di Napoli, l. VIII. — Giannone Ist. Civile, l. XXIV, c. 1, p. 353.
375. Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1052. — Gazata Chronicon Regiense, t. XVIII, p. 91. — Annales Miniatenses Bonincontrii, t. XXI, p. 46.
376. Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1052.
377. Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. IX, p. 491.
378. Sozomeni Pistor. Hist., t. XVI, p. 1128. — Giannone, l. XXIV, c. 1, t. III, p. 357.
379. Theodoricus a Niem. Hist. Schismatis. l. I, c. 42, p. 34. — Raynald. Ann. Eccl. 1385, § 1, t. XVII, p. 120.
380. Theodoricus a Niem. Hist. Schism., l. I, c. 45, p. 38 e c. 51, p. 42. Questo storico venne incaricato egli medesimo dal papa di ricevere le deposizioni del cardinale di Sangro, e di alcuni altri, mentre trovavansi sotto la tortura.
381. Annales Miniatenses Bonincontrii, p. 48. — Raynald. Ann. Eccles. 1386, § 10, p. 126.
382. Joh. de Thwrocz. seu Joh. a Kikullew Chr. Hungar., p. III, c. 55, t. I, Rer. Hungar., p. 198.
383. Joh. Lucii de Regno Dalmatiae et Croatiae, l. V, c. 2. — Rer. Hung., t. III, p. 404.
384. Joh. de Thwrocz ad Steph. de Haserhag, Hist. Caroli Parvi, Scrip. Rer. Hungaric., t. I, p. 200, c. 1.
385. Joh. de Thwrocz Hist. Caroli Parvi, c. 3 e 4, p. 204. — Giornali Napoletani, p. 1053. — Andrea Gataro Storia Padovana, t. XVII, p. 521.
386. Joh. de Thwrocz, c. 6, p. 208.
387. Ivi, c. 7, p. 209.
388. Joh. de Thwrocz, c. 8, p. 210-212. — Andrea Gataro Storia Padovana, p. 523.
389. Giannone Istoria Civile del Regno di Napoli, l. XXIV, c. 3, t. III, p. 373. — Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1057.
390. Joh. Thwrocz Chron. Hungar., p. IV, d. 214.
391. Joh. Lucii de Regno Dalmatiae et Croatiae, l. V, c. II, t. III Rer. Hung., p. 409. — Raphain Caresino Chron. Venet., t. XII, p. 476. — Lo Thwrocz prende qualche abbaglio di date, e non parla dell'assistenza de' Veneziani. Chr. Hung., p. IV, c. 2 e 3, p. 215.
392. Joh. de Thwrocz, p. IV, c. 4 e 7, p. 216, 219. — Thomae Ebendorfferi de Haselbach Chron. Austriac., p. 821. In Pez. Rer. Austr., t. II.
393. Twartkus banno di Bosnia, avendo conquistata la Rascia o Servia orientale, nel 1386 assunse il titolo di re, e dal 1387 al 1390, occupò le città marittime in addietro possedute dai Veneziani. Joh. Lucii de Regno Dalmatiae et Croatiae, l. V, c. 3, p. 412.
394. Questa negoziazione con tutti i documenti ufficiali trovasi nella Storia di Corfù di Andrea Mormora nobile Corcirese, l. V, p. 228, un volume in 4.º Venezia, 1672. — Osservinsi inoltre Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 751. — Raphain Caresino Chron. Venet., t. XII, p. 472.
395. Vettor Sandi Stor. Civile Veneziana, l. V, p. II, c. 12, p. 190. — Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venezia, p. 760.
396. Chron. Estense, t. XV, p. 508.
397. Chron. Veron. in fine, t. VIII, p. 659.
398. Andrea Gataro Stor. Padov., p. 446.
399. Andrea Gataro Stor. Padov., p. 508.
400. And. Gataro Stor. Padov., p. 528.
401. Andrea Gataro Stor. Padov., p. 526-538. — Redusius de Quero Chron. Tarvisinum, t. XIX, p. 788.
402. And. Gataro Stor. Padov., p. 568. — Chron. Estense, p. 514.
403. And. Gataro Stor. Padov., p. 583.
404. Morì il 4 agosto nel 1378 in età di 59 anni lasciando a suo figliuolo Pavia, Asti, Vercelli, Novara, Piacenza, Alessandria, Bobbio, Alba, Como, Casal sant'Evasio, Valenza e Vigevano.
405. Cioè Lodi, Cremona, Parma, Borgo san Donnino, Crema, Bergamo e Brescia.
406. And. Gataro Stor. Padov., t. XVII, p. 498. — Corio Istor. Milan., p. III, p. 258. — Ann. Mediol., t. XVI, p. 784, c. 147. — Poggi Bracciolini Histor. Florent., l. III, p. 245. — Andreas Redusius de Quero Chron. Tarvisinum, t. XIX, p. 785.
407. And. Gataro Stor. Padov., p. 583. — Ann. Mediol., t. XVI, p. 779.
408. And. Gataro Stor. Padov., p. 592. — Chron. Tarvis. Redusii de Quero, p. 788.
409. And. Gataro Stor. Padov., p. 608.
410. Ivi, p. 618. — Raphain Caresino Chron. Venet., p. 474.
411. Consegnando una fortezza ad un comandante, si conveniva di non cederla che a colui che presenterebbe un segno simbolico, che il principe custodiva presso di sè. Chiamavasi il contrassegno.
412. Giovanni Galeazzo aveva sposata in seconde nozze Caterina, figlia di suo zio Barnabò e di Beatrice della Scala. Se per conto di questa gli spettava qualche diritto all'eredità degli Scaligeri, non era che dopo estinti tutti i maschi di quella casa e di quella di Barnabò.
413. Vitæ Patriarc. Aquiliens., t. XVI, p. 60.
414. And. Gataro Stor. Padov., p. 628.
415. And. Gataro Stor. Padov., p. 630. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 758.
416. Raphain Caresino Chron. Venet., p. 478.
417. Andrea Gataro, p. 632.
418. Perchè d'Italia, se non erano diversi quelli di tutto il rimanente dell'Europa, come lo provano infiniti esempj? N. d. T.
419. And. Gataro Stor. Padov., p. 638-640.
420. Galeazzo Cataro Stor. Padov., p. 643. Questo storico medesimo era uno degli anziani del popolo. Suo figlio Andrea, che citiamo più spesso, diede una nuova forma alla sua cronaca. Redusii de Quero Chron. Tarvis., p. 789.
421. Gataro Stor. Padov., p. 648. — Chron. Placent. Joh. de Mussis, p. 550. — Ann. Mediol., c. 150, p. 804.
422. And. Gataro, p. 650.
423. Ivi, p. 658.
424. And. Gataro, p. 662.
425. Ivi, p. 676. — Raphain Caresino Chron. Venet., p. 481. — Chron. Placent. Joh. de Mussis, p. 551.
426. And. Gataro, Stor. Padov., p. 701.
427. Georgii Stellæ Ann. Genuens., t. XVII, p. 1128. — Uberti Folietæ Genuens. Hist., l. IX, p. 491.
428. Rayn. Ann. Eccl. 1387, § 2, t. XVII, p. 128.
429. Ivi, § 8, p. 130.
430. Ivi, 1338, § 8 p. 137.
431. Ivi, 1389, § 12, p. 142.
432. Guichenon Hist. généalogique de Savoie, c. 24, t. II, p. 5, an. 1383-1391.
433. Benven. de san Geor. Montisfer., t. XXIII, p. 611.
434. Platina Hist. Mantuana, l. III, p. 752, Rer. It., t. XX.
435. Chron. Estense, t. XV, p. 516.
436. Cronica di Pietro Minerbetti, an. 1388, c. 1, p. 156. — Scriptores Etruriæ t. II. — Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 530.
437. Mariana Historia de las Españas, l. XVIII, c. 11.
438. Indices Rer. ab. Arag. Regibus Gestarum, Zurita, l. III, p. 259.
439. Annali Sanesi anonimi, t. XIX, p. 388, 390.
440. Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. VIII, fogl. 150.
441. Scipione Ammirato Stor. Fiorent., l. XV, p. 767.
442. Leon. Aretino Stor. Fior., l. IX. — Marchione de Stefani Stor. Fior., l. XII, R. 962, p. 49. — Scip. Ammirato, l. XV, p. 768.
443. Mem. Stor. di ser Naddo da Montecatini. Deliz. degli Erud., t. XVIII, p. 73. — Scip. Ammirato, l. XV, p. 770.
444. Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. VIII, p. 152.
445. Malavolti Stor. di Siena, l. VIII, p. 153.
446. Marchione de Stefani, l. XII, R. 977, t. XVII, p. 63. — Scip. Ammirato, l. XV, p. 771. — Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. IX, p. 154.
447. Cronica di Piero Minerbetti Scrit. Etr., t. II, an. 1388, c. 9, p. 164. — Scip. Ammirato, l. XV, p. 790.
448. Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. IX, p. 159.
449. Poggio Bracciolini Istor. Fiorent. l. III, p. 249. — Piero Minerbetti Ist. Fior. an. 1388, c. 9, p. 164. Noi faremo oramai frequente uso di questo storico fiorentino, che per lo spazio di ventidue anni seguì press'a poco il piano dei Villani, ai quali trovasi peraltro inferiore. Sembra che abbia avuto disegno di continuare la cronica di Marchione de Stefani, che finì nel 1386. Ogni anno della sua storia, che seguendo l'usanza fiorentina comincia il 25 marzo, forma un separato libro diviso in molti capitoli. È stampato nel tomo II degli Scrittori Etruschi, in foglio.
450. Piero Minerbetti, an. 1887, c. 4, p. 150. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 791.
451. Piero Minerbetti, an. 1388, c. 11, p. 167.
452. Pietro Minerbetti, c. 5, p. 158.
453. Cronica Miscella di Bologna, p. 534.
454. Pietro Minerbetti, c. 8, p. 185. — Scip. Ammirato, l. XV, p. 797.
455. Pietro Minerbetti, c. 14, p. 188. — Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. III, p. 251. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 798.
456. Piero Minerbetti, c. 21, p. 193.
457. Piero Minerbetti, c. 14, p. 188. — Pompeo Pellini Istoria di Perugia, p. I, l. IX, p. 1375. — Ivi, p. II, l. X, p. 11.
458. Bernardino Marangoni Cronica di Pisa, p. 804.
459. Andrea Gataro Stor. Padovana, p. 718.
460. Ivi, p. 720.
461. Giovanni Galeazzo aveva maritata Valentina, figliuola della sua prima moglie, a Luigi duca d'Orleans fratello di Carlo VI di Francia: gli aveva dato in dote il contado di Virtù, e la città di Asti. Da questo matrimonio nacquero Carlo, duca d'Orleans, padre di Luigi XII, e Giovanni, conte d'Angouleme, avo di Francesco I. Di qui le pretese di questi due re sugli stati de' Visconti.
462. Andrea Gataro Storia Padovana, p. 247.
463. Andrea Gataro, p. 726.
464. Andrea Gataro Storia Padovana, p. 732.
465. Andrea Gataro Storia Padovana, p. 734.
466. Andrea Gataro, p. 736.
467. Andrea Gataro, p. 740.
468. Andrea Gataro, p. 744.
469. Andrea Gataro, p. 756.
470. Andrea Gataro, p. 758.
471. Andrea Gataro, p. 760.
472. Ivi, p. 762.
473. Andrea Gataro, p. 763.
474. Andrea Andrea Gataro, p. 766.
475. Cronica Miscella di Bologna, t. XVIII, p. 539.
476. Andrea Gataro, p. 767.
477. Leon. Aretino Storia Fiorent. l. IX. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 801.
478. Piero Minerbetti an. 1389, c. 24, p. 196. — Poggio Bracciolini, l. III, p. 252.
479. Piero Minerbetti an. 1389, c. 26, p. 199.
480. Piero Minerbetti an. 1390, c. 5, p. 203, e c. 24, p. 218.
481. Ivi, c. 14, p. 210.
482. Ivi, c. 4, p. 203. — Scip. Ammirato, l. XV, p. 803.
483. Andrea Gataro Stor. Padovana, p. 769.
484. Ivi, p. 772.
485. Andrea Gataro, p. 777.
486. Andrea Gataro, p. 782.
487. Ivi, p. 784.
488. Ivi, p. 791.
489. Andrea Gataro, p. 793.
490. Piero Minerbetti an. 1390, c. 26, p. 221.
491. Andrea Cataro, p. 795.
492. Ivi, p. 798.
493. Andrea Gataro, p. 802. — Piero Minerbetti an. 1390, c. 25, p. 219, c. 30, p. 224. — Poggio Bracciolini Hist. Fiorent. l. III, p. 258. — Cronica Miscella di Bologna, t. XVIII, p. 545.
494. Piero Minerbetti an. 1390, c. 30, p. 224. — Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. III, p. 258. — Ann. Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 56. — Ghirardacci Stor. di Bolog. l. XXVI, t. II, p. 443. — Scipione Ammirato Stor. Fior. l. XV, p. 809.
495. Gli aveva avvisati pochi anni avanti il Petrarca:
Nè v'accorgete ancora
Del bavarico inganno, ec.
496. Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. IX, p. 170.
497. Piero Minerbetti, c. 27, p. 222.
498. Ivi, c. 31, p. 225.
499. Ivi, c. 34, p. 228. — Cherubino Ghirardacci Stor. di Bologna, l. XXVI, p. 447.
500. Orlando Malavolti Stor. di Siena, l. IX, p. 170. — Piero Minerbetti 1390, c. 38, p. 232. — Scip. Ammirato Stor. Fiorent., l. IV, p. 810.
501. Il senatore di Siena, come quello di Roma, era un giudice supremo o podestà.
502. Orl. Malav. Stor. di Siena, p. II, l. IX.
503. Piero Minerbetti Stor. Fior. c. 88, p. 232.
504. Ivi, c. 41, p. 235.
505. Il 6 settembre 1399. Malavolti, p. II, l. IX, p. 185.
506. Ivi, p. 171.
507. Leon. Aret. Stor. Fior., l. X. — Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. III, p. 261.
508. Piero Minerbetti 1390, c. 46, p. 238. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 816.
509. Piero Minerbetti 1391, c. 8, p. 247. — Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. III, p. 260.
510. Leonardo Aretino Hist., l. X.
511. Piero Minerbetti Ist. Fior., c. 18, p. 260.
512. Piero Minerbetti 1391, c. 18, p. 260. — Leon. Aretino Istor. Fior., l. X. — Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. III, p. 262. — Ann. Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 57. — Sozomeni Pistor. Histor., t. XVI, p. 1146. — Memor. Stor. di Ser Naddo. Deliz. degli Erud. t. XVIII, p. 125. — Bernardino Corio Storie Milanesi, p. III, p. 271. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 819.
513. Leon. Aretino, l. X. — Ann. Bonincontrii Miniat., p. 58. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 818.
514. Piero Minerbetti, c. 165 p. 257.
515. Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. III, p. 264.
516. Piero Miner. 1391, c. 16, p. 257. — Leon. Aretino, l. X. — Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. III, p. 264. — Chron. Est., t. XV, p. 523.
517. Piero Minerbetti, c. 5, p. 245, e c. 12, p. 252. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 823.
518. Piero Minerbetti, c. 24, 25, p. 268. — An. Sanesi anonimi, t. XIX, p. 396. — Scipione Ammirato, l. XV. p. 825.
519. Piero Minerbetti, c. 39, p. 282.
520. Leon. Aretino, l. X, verso il fine. — Poggio Bracciolini, l. III, p. 269. — Chron. Estense, t. XV, p. 525. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 829.
521. Leon. Aretino, l. X. — Annales Bonincontrii Miniat., p. 62. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 830.
522. Andrea Gataro, p. 811.
523. Ivi, p. 814.
524. Piero Minerbetti 1391, c. 47, p. 290; 1392, c. 1., p. 293; c. 9, p. 299.
525. Piero Minerbetti, 1390, c. 49, p. 240. — Sozomeni Pistor. Histor., t. VI, p. 1145. — Scipione Ammirato, l. XV, p. 813.
526. Platina Histor. Mantuana, t. XX, l. III, p. 756.
527. Piero Minerbetti, 1392, c. 2, p. 293. — Poggio Bracciolini, l. III, p. 270. — Sozomeni Pistor. Histor., t. XVI, p. 1150. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 834.
528. Scip. Amm., l. XV, p. 794, e l. XVI, p. 853.
529. Bernardo Marangoni Chron. di Pisa, p. 810.
530. Poggio Bracciolini, l. III, p. 270.
531. Memorie Storiche di ser Naddo di Montecatini. Delizie degli Eruditi, t. XVIII, p. 133.
532. Marangoni Croniche di Pisa, p. 811.
533. Piero Minerbetti, 1392, c. 18, p. 305.
534. Piero Minerbetti, 1392, c. 20, p. 308. — Chron. Esten., t. XV, p. 528. — Sozomeni Pistor. Histor., t. XVI, p. 1152. — Memor. Storiche di ser Naddo, p. 132. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 836. — Paolo Tronci Ann. Pisani, p. 472.
535. Leon. Aretino, l. XI.
536. Piero Minerbetti, c. 3, 1393, p. 314. — Pompeo Pellini Istoria di Perugia, p. II, l. X, p. 35. — Raynald. Ann. Eccles., 1392, § 6, t. XVII, p. 72. — Scip. Amm. l. XVI, p. 834.
537. Piero Minerbetti, c. 17, p. 322. — Vita Bracchii Perusini a J. Antonio Campano, t. XIX. Rer. Ital. l. I, p. 444. — Pompeo Pellini Stor. di Perugia, l. X, p. II, p. 47.
538. Piero Minerbetti, c. 21-24, p. 325. — Poggio Bracciolini, l. III, p. 271. — Sozomeni Histor. p. 1156. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 840.
539. Platina Histor. Mantuæ, l. III, p. 759.
540. Platina Hist. Mantuan., l. III, p. 760. — Chronicon Estense, t. XV, p. 529.
541. Chron. Estense, t. XV, p. 531.
542. Gio. Batt. Pigna Istor. de' Princ. d'Este, l. V, p. 411.
543. L'autore aveva di già osservato che Nicolò III era stato legittimato col matrimonio de' suoi genitori, onde doveva risparmiare in questo luogo all'Italia l'imputazione della successione all'eredità paterna de' figli illegittimi, cosa non tanto comune come pare volerlo insinuare il dotto autore, nè propria della sola Italia. N. d. T.
544. Leon. Aretino, l. XI. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 846.
545. Piero Minerbetti, 1393, c. 28, p. 331. — Priorato del Ridolfi, Deliz. degli Erud. Tosc., t. XVIII, p. 141. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 844. — Vita di Gio. Acuto di Domenico Maria Manni. Script. Etrur., t. II.
546. Gio. Battista Pigna Istor. de' Principi di Este, l. V, p. 418. — Cronaca di Bologna, t. XVIII, p. 562.
547. Leon. Aretino, l. XI.
548. Ann. Mediol., t. XVI, c. 157, p. 824.
549. Poggio Bracciolini Hist. Florent., l. III, p. 272. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 849.
550. Andrea Gataro Stor. Padov., p. 820.
551. Brescia, Bergamo, Vercelli, Como, Novara, Alessandria, Tortona, Bobbio, Piacenza, Reggio, Parma, Cremona, Lodi, Crema, Soncino, Bormio, Borgo San Donnino, Pontremoli, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno, Bassano, Sarzana ed altri luoghi meno importanti. Ann. Mediol., c. 158, p. 827.
552. Ecco l'ordine cronologico nel quale questi dogi efimeri succedettero ad Antoniotto Adorno, che, nel 1390, regnava per la seconda volta.
1390 Giacomo Fregoso;
1391 Antoniotto Adorno III;
1392 Antonio di Montalto;
1393 Pietro Fregoso, Clemente Promontorio, Francesco Giustiniani,
1394 Antonio di Montalto II, Nicolò Zoalio, Antonio Guarco, Antonio Adorno IV.
— Uberti Folietæ Hist. Genuens., l. IX, p. 495.
553. Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. IX, p. 491.
554. Ubert. Folieta Genuens. Hist., l. IX, p. 510. — Georg. Stellae Ann. Genuens., l. III, p. 1151.
555. Ubertus Folieta Hist. Genuens., l. IX, p. 514.
556. Piero Minerbetti 1395, c. 14, p. 354. — Memor. Storiche di Ser Naddo, p. 158. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 849.
557. Piero Minerbetti, 1396, c. 3, p. 359.
558. Gli storici fiorentini lo chiamano Bernardone. — Piero Minerbetti, c. 4, p. 361. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 854.
559. Piero Minerbetti, c. 7, p. 363. — Sozomeni Pistor. Hist., t. XVI, p. 1162. — Memor. Stor. di ser Naddo di Montecatini, p. 158. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 853.
560. Piero Minerbetti, c. 8, p. 364. — Jo. de Thwrocz Chron. Ungar., l. IV, c. 8, p. 221. — Gibbon Decline and fall of the Empir. Rom., c. 64, t. XI, p. 242.
561. Ann. Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 69.
562. Ann. Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 70.
563. Ann. Bonincontrii Miniat., p. 71. — Marangoni Chron. di Pisa, p. 815. — Piero Minerbetti, c. 12, p. 368. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 856.
564. Sozomeni Pistoriensis, t. XVI, p. 1163. — Leonardo Aretino, l. XI.
565. Piero Minerbetti, c. 13, p. 370. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 857.
566. Leon. Aretino, l. XI.
567. Piero Minerbetti, c. 14, p. 370. — Memor. Storiche di ser Naddo, p. 159. — Ann. Boninc. Miniat., t. XXI, p. 72. — Marangoni Cron. di Pisa, p. 816.
568. Leon. Aretino, l. XI. — Ann. Boninc., p. 73. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 858.
569. Platina Hist. Mantuana, l. IV, p. 763.
570. Platina Hist. Mant., l. IV, p. 778. — Jacobi de Delayto Ann. Est., p. 942.
571. Leon. Aretino Hist. Flor., l. XI. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 860.
572. Andrea Gataro Stor. Padov., p. 826. — Ann. Estens. Jacobi de Delayto, l. XVIII, p. 925.
573. Andrea Gataro, p. 830. — Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 937. — Memorie Stor. di ser Naddo da Montec., t. XVIII, p. 169. Questo cronachista termina il suo racconto con tale avvenimento. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1164. — Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venezia, p. 763. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 863.
574. Piero Minerbetti, c. 24, p. 385. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1165. — Jacobi de Delayto Ann. Estenses, p. 930.
575. Piero Minerbetti, c. 12, p. 378. — Memorie di ser Naddo da Montecatini, p. 167. — Sozomeni Pistoriens. Histor., p. 1164. — Bonincontrii Miniat. Annales, p. 74. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 861.
576. Piero Minerbetti, c. 20, p. 384.
577. Piero Minerbetti c. 25, p. 387. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1165. — Bonincontrii Miniat. Ann., p. 15. — Marangoni Cronache di Pisa, p. 817. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 865.
578. Piero Minerbetti, c. 26, p. 389. — Leon. Aretino, l. XI. — Corio Istor. Milan., p. IV, p. 279. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 866.
579. Piero Minerbetti, 1398, c. 6, p. 395. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 869.
580. Leonardo Aretino, l. XI. — Annales Bonincontrii Miniat., p. 76. — Marangoni Croniche di Pisa, p. 819. — Tronci pone in dubbio questa negoziazione, Ann. Pisani, p. 487.
581. Piero Minerbetti, c. 13, p. 398. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 870.
582. Poggio Bracciolini, l. III, p. 279. — Sozomeni Pistor., p. 1166. — Piero Minerbetti, c. 15, p. 399.
583. Ann. Bonincontrii Miniat., p. 77. — Marangoni, Cron. di Pisa, p. 820. Un altro figlio di Jacopo d'Appiano viveva povero nella Liguria ai tempi di Sozomeno. Hist. p. 1153.
584. Piero Minerbetti, c. 16, p. 400.
585. Piero Minerbetti 1399, c. 1, p. 402. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 871.
586. Piero Minerbetti 1393, c. 30, p. 333.
587. Vita Brachii Perus., t. XIX, l. I, p. 444.
588. Piero Minerbetti 1394, c. 7, 337.
589. Piero Minerbetti 1393, c. 5, p. 348.
590. Ivi, c. 16, p. 358. — L'anno 1397 Biordo dei Michelotti era signore nello stesso tempo di Todi, Orvieto, Assisi, Nocera, ed altri castelli. Pomp. Peliini Stor. di Perugia, p. II, l. X, p. 89.
591. Biordo aveva in allora quarantasei anni. Pompeo Pellini, l. X, p. 97.
592. Piero Minerbetti 1397, c. 27, p. 390. — Pompeo Pellini, Istor. di Perugia, t. II, l. X, p. 94.
593. Piero Minerbetti, c. 27, p. 391.
594. Questo capitano, la di cui famiglia diede in appresso alcuni marescialli alla Francia, discendeva da una delle sette principali famiglie di Chieri, piccola città del Piemonte. Viene spesso chiamato Broglia ed anche Brogliole. Lodrisio Crivelli de Vita Sfortiae Vicecom., t. XIX, p. 360.
595. Piero Minerbetti 1398, c. 11, p. 397.
596. Fu questa la prima ambasciata di Jacopo Salviati, che ne lasciò memoria. Delizie degli Erud. t. XVIII, p. 175.
597. Piero Minerbetti 1398, c. 17, p. 400. — Pompeo Pellini Ist. di Perugia, p. II, l. XI, p. 100-107.
598. Piero Minerbetti 1399, c. 3, p. 404. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1167.
599. Annali Sanesi an. 1399, t. XIX, p. 413. — Malavolti Storia di Siena, p. II, l. X, p. 185. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 872.
600. Piero Minerbetti 1399, c. 14, p. 414. — Sozom. Pistor. Hist., p. 1169. — Bern. Corio Istor. Milan., p. IV, p. 281. — Scipione Ammirato, l. XVI, p. 875. — Il trattato trovasi in compendio presso il Pellini, Istor. di Perugia, p. II, l. XI, p. 117.
601. Leon. Aret., l. XI.
602. Giorg. Stella Ann. Gen., l. III, p. 1172, t. XVII.
603. Piero Minerbetti, c. 8, p. 409. — Sozomeni Pistor. Hist. p. 1168.
604. Piero Minerbetti, c. 9, p. 410.
605. Chron. Placent., t. XVI, p. 569. — Ann. Mediol., t. XVI, p. 832. — Math. de Griffonibus Memor. Histor., t. XVIII, p. 207. — Ann. Estens. Jacobi de Delayto, p. 957. — Jannotii Manetti Histor. Pistor., p. 1069. — Poggio Bracciolini Histor. Flor., p. III, p. 279. — Platina Histor. Mant., l. IV, p. 792. — Ann. Bonincontrii, p. 79. — Ann. Forolivien., p. 200. — Comment. Leon. Aretini de rebus suo temp. gestis, t. XIX. p. 919. — Corio Stor. Milan., p. IV, p. 281.
606. Piero Minerbetti, c. 16, p. 416.
607. Gio. ser Cambi Cron. di Lucca, t. XVIII, Rer. It., p. 799.
608. Ivi, p. 804.
609. Gio. ser Cambi Cron. di Lucca, t. XVIII, Rer. It., p. 806.
610. Ser Cambi Cron. di Lucca, p. 806.
611. Ivi, p. 807, 808.
612. Ivi, 811.
613. Piero Minerbetti, 1400, c. 2, p. 420.
614. Ivi, c. 5, p. 422. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 878.
615. Bonincontrii Miniat. Ann., p. 81.
616. Piero Minerbetti, c. 11, p. 428. — Sozomeni Pistor. Histor., p. 1170. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 879.
617. Jacobi de Delayto Ann. Esten., t. XVIII, p. 931.
618. Cherub. Ghirardacci Stor. di Bologna, t. II, l. XXVII, p. 496. — Mathei de Griffonibus Memor. Histor. p. 205.
619. Math. de Griff. Mem. Hist., p. 206. — Cron. Miscel. di Bol., p. 564. — Cher. Ghirardacci Stor. di Bol., l. XXVII, p. 500.
620. Cherub. Ghirardacci, l. XXVII, p. 505. — Math. de Griff., p. 206. — Ann. Esten. Jacobi de Delayto, p. 956.
621. Cherub. Ghirardacci, l. XXVII, p. 507.
622. Infatto Giacomo di Delayto dice che la famiglia Bentivoglio non era illustre. Ann. Estens., t. XVIII, p. 962.
623. Cherub. Ghirardacci, l. XXVIII, p. 511.
624. Cherub. Ghirardacci, l. XXVIII, p. 517. — Math. de Griffonibus Mem. Hist., p. 208. — Cron. Miscella di Bologna, p. 567.
625. Platina Hist. Mantuana, l. IV, p. 789-791.
626. Gio. Battista Pigna Stor. de' Princ. d'Este, l. V, p. 442. — Cron. di Piero Minerbetti, 1401, c. 7, p. 361.
627. Leon. Aretino, l. XII. — Cherub. Ghirardacci, l. XXVIII, p. 522.
628. Wahl capitulation.
629. La pace d'Egra del 1389, che doveva osservarsi per sei anni, e la seconda pace di Francoforte del 1398, che doveva durare dieci anni.
630. Schmidt Hist. des Allemands, l. VII, c. 10, t. V, p. 36.
631. I tre elettori ecclesiastici e l'elettore palatino.
632. Schmidt Hist. des Allemands, l. VII, c. 10, p. 44.
633. Memorie di Jacopo Salviati, uno degli ambasciatori fiorentini, t. XVIII, Deliz. degli Erud., p. 199. — Piero Minerbetti, 1400, c. 12, p. 430. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 882.
634. Piero Minerbetti, 1401, c. 6, p. 438. — Jannotii Manetti Hist. Pistor., p. 1070. — Cron. di Lucca di ser Giovan Cambi, p. 824. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 884.
635. Piero Minerbetti, 1401, c. 4, p. 436. — Sozomeni Pistor., p. 1172.
636. Piero Minerbetti, c. 8, p. 440. — Leoni Aretino, l. XII.
637. Piero Minerbetti, c. 10, p. 442. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 885.
638. And. Gataro Istor. Padov., p. 841.
639. Bernard. Corio Stor. Milanesi, p. IV, p. 284.
640. Piero Minerbetti, c. 9, p. 441. — Ann. Mediol., c. 163, p. 834.
641. Andrea Gataro Stor. Padov., p. 841.
642. Leon. Aret., l. XII. — Ejusdem Comment. Rer. suo temp. gest. 919.
643. Andrea Gataro Stor. di Pad., p. 842. — Pog. Bracciol. Hist. Fior., p. 282.
644. Piero Minerbetti, c. 10, p. 443. — Cron. di Lucca di Gio. Ser Gambi, t. XVIII, p. 826. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1174.
645. Piero Minerbetti, c. 12, p. 444.
646. Piero Minerbetti, c. 12, p. 445.
647. Piero Minerbetti, c. 14, p. 447. — And. Gataro Stor. Padov., p. 845. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 887.
648. Piero Minerbetti, c. 3, p. 435.
649. Ivi, 1401, c. 1, p. 449. — Ghirard. Stor. di Bol., l. XXVIII, p. 527.
650. Piero Minerbetti, c. 17, p. 450.
651. Ivi.
652. Ivi, 1402, c. 1, p. 453. — Scip. Ammirato, l. XVI, p. 889.
653. Piero Minerbetti, c. 22, p. 453.
654. Poggio Bracciolini, l. IV, p. 288.
655. Cherub. Ghirard., l. XXVIII, p. 532.
656. Piero Minerbetti 1402, c. 7, p. 457. — Cron. di Bolog., p. 571. — Bonincont. Miniat. Ann., p. 87. — Sozomeni Pistor. Histor. p. 1175. — Andrea Gataro Stor. Padov., p. 853.
657. And. Gataro, p. 854.
658. Piero Minerbetti, c. 8, p. 458. — Math. de Griffon. Hist., p. 209. — Cron. di Bologna, p. 572. — Cherubino Ghirardacci, l. XXVIII, p. 533.
659. Jacobi de Delayto Ann. Esten., p. 971.
660. Ghirardacci, l. XXVIII, p. 536. — Math. De Griffonibus, p. 210.
661. Pietra Santa non appartiene alla Lunigiana, ma sibbene alla Versilia, ed è posta sulla strada da Massa di Carrara a Lucca. N. d. T.
662. Cron. di Lucca di Ser Cambi, p. 835.
663. Piero Minerbetti, c. 9, p. 459.
664. Ann. Bonincontrii Miniat., p. 88.
665. Piero Minerbetti 1402, c. 12, p. 461. — Leonardo Aretino, il quale chiude con quest'avvenimento il suo dodicesimo ed ultimo libro. — Andrea Gataro Stor. Padov., p. 858. — Jacobi de Delayto An. Esten., p. 972. — Marangoni Cron. di Pisa, p. 824. — Scipione Ammirato, l. XVII, p. 893.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.