Title: La novellaja fiorentina
Author: Vittorio Imbriani
Release date: September 19, 2014 [eBook #46898]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
Credits: Produced by Giovanni Fini, Carlo Traverso and the Online
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NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.
—Le note a piè di pagina sono molto numerose e talvolta lunghissime, contenendo a loro volta molte altre novelle; sono state raccolte alla fine di ogni capitolo (novella) e contrassegnate da numeri arabi.
—Le note a piè di pagina sono a loro volta annotate con delle postille; queste sono state raccolte immediatamente dopo la nota a cui si riferiscono, evidenziate con un colore di sottofondo, rientrate e contrassegnate con numeri romani.
—Come nell'opera originale, l'indice è posto alla fine del libro.
—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell'opera originale. L'immagine è posta in pubblico dominio.
LA NOVELLAJA FIORENTINA
FIABE E NOVELLINE
FIABE E NOVELLINE
STENOGRAFATE IN FIRENZE DAL DETTATO POPOLARE
DA
VITTORIO IMBRIANI
RISTAMPA ACCRESCIUTA DI MOLTE NOVELLE INEDITE
DI NUMEROSI RISCONTRI
E DI NOTE, NELLE QUALI È ACCOLTA INTEGRALMENTE
LA NOVELLAJA MILANESE
DELLO STESSO RACCOGLITORE
IN LIVORNO
COI TIPI DI FRANC. VIGO, EDITORE
1877
Proprietà letteraria
ALLA GIGIA
A te, della quale non ho persona più cara al mondo, ripresento, dopo cinque anni, questo volume, riordinato ed accresciuto, come vedi, assai di mole, ed un poco, oso dire, anche di pregio.[1] Oso dirlo cresciuto di pregio, senza tema di peccar d'immodestia, perchè vino della mia botte qua non ce n'è, sebbene io v'abbia speso intorno molta fatica. Noterai, che il numero delle novelle toscane è stato aumentato di molto: le più, tra le nuove, sono dono del Nerucci. Ma l'incremento maggiore del volume si deve alle Note. Ritroverai in esse tutte le novelle ambrosiane, che componevano la mia Novellaja Milanese[2] ed i Paralipomeni alla Novellaja Milanese,[3] le quali vengono così collocate di fronte o, per dir meglio, in calce alla versione fiorentina, facilitando il raffronto: anche quella raccolta, fatta sotto agli occhi tuoi, doveva esser posta sotto i tuoi auspici. Vi troverai inoltre, nelle Note, alcuni capricci, poche osservazioni filologiche, molti riscontri, molte citazioni. Vi ho riferito per intero lunghi squarci di libri piuttosto rari e che non si scartabellan volentieri. Avrei potuto far certo più e forse meglio: ma non ho voluto dare un carattere preponderantemente scientifico alla Novellaja, ned andare studiosamente a caccia di raffronti: ho solo allegati quelli, che, in questi anni, m'ero venuto notando nel corso delle mie letture. Quanti altri, che ho inciampati nel corso della ristampa, potrei aggiungervi adesso![4] Così viene alquanto rimosso uno de' biasimi rivolti dal D'Ancona alla povera Novellaja Fiorentina, nella Nuova Antologia. Ecco appagato[vi] in parte il suo desiderio di più copiosi raffronti. Non li ho aggiunti però, tel confesso, per seguirne i suggerimenti, anzi sol perchè m'è impossibile di aver sott'occhi bozze di stampa senza ricamarvi su. Qui, non potendo innovare nel testo, non potendo aggiungervi o modificarlo, mi avanzava solo di fregiarlo d'annotazioni e di corredar le annotazioni di postille. Quanto in ciò sia stato indiscreto, sel sa l'Editore, che ha visto raddoppiata la mole presunta del volume e della cui tolleranza ed arrendevolezza io rimango non men sorpreso che riconoscente[5]. Il D'Ancona mi biasimava anche di avere stenografato senza ritocchi; secondo lui, avrei dovuto fare come i fratelli Grimm e che so io. Ma io non ho voluto; mi piace far sempre a mio modo, perchè fo sol dopo aver maturamente pensato al da fare; mi ripugna il trascinarmi sopra falsarighe tedesche; nè soglio seguire gli esempi altrui, soprattutto poi quando non mi quadrano. Intendevo dar le novelle tali e quali m'erano state racconte, e c'era il suo perchè. Certo, mi sarebbe stato più facile il narrare rifacendo di pianta la dicitura; anzi, con più ci avrei messo di mio nel lavoro e più mi sarebbe tornato agevole e meno avrei trovato nojoso il compito. Ma mi stava a cuore di ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo; e non avrei raggiunto lo scopo, colorendo da me, con qualche lieve ritocco, qualche sfumatura, qualche velatura, qualche piccola sostituzione o correzione. Il disegno non mi era guasto dal ridurre a forma aulica le parole del vernacolo fiorentino; ma ogni menoma giunta od alterazione nella dicitura l'avrebbe sventato. Il Nerucci, che la pensa diversamente da me e che si proponeva un fine diverso, ha tenuto modo diverso nello scriver le sue novelle. Il ringrazio d'avermi impinguato il volume; le novelle, anche raccolte in quel modo, son preziose; ma non ritengo però il suo modo miglior del mio, preferibile al mio: tanto è vero, che, per parte mia, persevero nel mio[6]. Quanto alla vivezza, al brio ed all'evidenza, che sono il carattere comune e generale del parlar fiorentino, secondo il D'Ancona, e che in questo libro, sempre secondo lui, apparirebber di rado, ci sarebbe che dire. Sarebbe storto e stolto lo immaginare, il credere, che ogni fiorentino, sol perchè fiorentino, parli con vivezza,[vii] con brio, con evidenza. Qualità rare a Firenze, come dovunque; e che solo di quando in quando dimostra chi più largamente le possiede, in Firenze, come dovunque. Se l'eloquenza e l'efficacia nel dire non fossero dono concesso a pochi, non sarebber parse cosa divina a tutti i popoli, ned affascinerebbero e signoreggerebbero le menti ed i cuori degli uomini, come tutto giorno vediamo accadere. Non cadiamo, per carità, nelle ingenue ammirazioni del Giuliani e d'altri; falsissime ammirazioni. Parecchi ed anche non volgari uomini mi hanno deriso, per avere io, come a lor pare, sciupato il tempo in queste fatiche. Io non io sciuperò a provarne l'utilità. Mi rallegro bensì, che l'esempio da me dato e gl'incitamenti miei abbian mosso parecchi a raccoglier con amore le fiabe e le novelle, che corrono appo i volghi italiani; e nominerò con lode singolare i signori Domenico Giuseppe Bernoni, che ne diè fuori un volumetto in veneziano; e Giuseppe Pitrè, che ne ha pubblicata una raccolta voluminosa ne' vernacoli siculi. Anch'io, sia qui detto tra parentesi, ne ho una numerosa raccolta di più centinaja ne' dialetti delle Provincie meridionali, somministratami da parecchi amici e benevoli. Più anche mi rallegro, sapendo di averti fatta cosa grata, a te, che amo tanto. Felice me, se, quand'io avrò finito di penare e tu sarai ancor fiorente e felice, riprenderai talora con amore questo volume in mano, ripetendo la ingenua preghiera, ch'è scritta sopra un manoscritto del Fiore di filosofi e molti savî, conservato nella Riccardiana di Firenze:
Iddio faccia riposare in pace
L'anima di colui, che lo fece,
Questo libretto, che tanto mi piace.[7]
Addio, Gigia mia. Fa di volere un pochino pochino di bene al tuo vecchio amico, il quale, in questi tempi tristissimi, amareggiato dalle sciagure, cui soggiace l'Italia, dalle vergogne, che tollera ed in cui si compiace la patria nostra, stomacato da questa pretesa riparazione e dalla marea fangosa, che cresce sempre, minacciando l'esistenza stessa della Monarchia e dello Stato, diventa ognor più misantropo ed ipocondrico;[viii] ma non cessa dall'amarti dal profondo del cuore. Quando ci rivedremo? Addio. Ricordami alla mamma ed alla Marta, allorchè le scrivi.
Roma, 31. X. 76.
Imbriani.
NOTE
[1]La prima edizione della Novellaja fiorentina, formava un volume in sedicesimo di trecensessantasei pagine, oltre l'occhio ed il frontespizio. La Novellaja fiorentina | cioè fiabe e novelline stenografate | in Firenze dal dettato popolare e | corredate di qualche noterella da | Vittorio Imbriani. || Napoli | Tipografia Napoletana | MDCCCLXXI. V'era impressa in calce la seguente postilla:—«Di questo lavoro, che venne pubblicato nelle appendici del giornale napolitano La Nuova Patria, diretto dall'egregio Raffaele De—Cesare, durante i mesi estivi del MDCCCLXXI, sono stati tirati a parte soli cencinquanta esemplari. Alcune altre Fiabe e Novelline fiorentine vengon pubblicate dal raccoglitore delle presenti, nelle note ad un suo lavoro in corso di stampa, intitolato: La Novellaja Milanese | Esempi e panzane lombarde | raccolte nel Milanese | da | Vittorio Imbriani.»—
[2] Pubblicata sul Propugnatore di Bologna. Se ne tirarono a parte pochi esemplari con questo titolo: La | Novellaja Milanese | Esempii e panzane Lombarde | raccolte nel Milanese | da | Vittorio Imbriani || Esemplari XL || Bologna | MDCCCLXXII, e con la seguente dedica:
A' miei amici di milano
Se tant'è ch'io ve n'abbia.
(In 8.º di 120 pagg. oltre quattro innumerate, che contengono frontespizio e dedica). Vi erano in principio ed in fine due avvertenze, che riferisco, qui sotto, notando, che nel fondere la Novellaja Milanese con la Fiorentina, ho stimato bene di non riprodurre tre novelle, che erano nelle note a quella; cioè, una toscana, intitolata Il Convento delle Monache delle Fotticchiate[i] e l'altre due napoletane, intitolate l'una Voglio—fà', Haggio—fatto e Vene—mm'—annetta e la seconda 'U Barbiere. Null'altro ho ommesso, ed in compenso ho aggiunto parecchie novelline milanesi inedite. Ecco ora le due avvertenze.
AVVERTENZA
(Stampata in principio della Novellaja Milanese)
Da parecchi anni, io raccolgo fiabe e novelline popolari. Finora ho sempre accumulato materiale, proponendomi di pubblicare in seguito ogni cosa insieme, ravvicinando e confrontando le diverse lezioni del medesimo racconto, diverse per dialetto e pel modo, in cui svolgesi il tema. Adesso, riflettendoci meglio, ho risoluto di stampare separatamente le novelle raccolte in ciascun dialetto. Procrastino il lavoro di raffronto e di paragone, pel quale è necessario un accumulo preventivo di materiale, che da un solo mal può procacciarsi. Se a me non riuscirà mai di eseguirlo, altri più felice sottentrerà prima o poi nel mio luogo; e mi sarà merito l'avergli agevolato il compito. Comincio dal mandar fuori un gruzzoletto di fiabe, facezie e novelline lombarde, raccolte in Milano stessa e nel contado. Le ho stenografate, mentre si narravano da contadine, operaje, domestiche; e quindi trascritte senza farmi lecito di mutar sillaba alla dicitura ingenua primitiva. Non ho cancellata una ripetizione, non un foderamento di parole; non ho supplito lacune. Avrei stimato delitto l'alterar checchessia, anche dove fondatamente poteva credere di migliorare. Malgrado l'ajuto benevolo di parecchi amici, non posso persuadermi di non essere incorso in errore di sorta: è sempre grandissima temerità l'affaccendarsi intorno ad un dialetto, del quale non s'è udito sillaba prima del sesto lustro. Ma dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia se non mediocremente, ha forse dritto almeno a qualche indulgenza. Forse! e forse anche la temerità sua merita di venir esemplarmente scorbacchiata e castigata. Della utilità d'un simigliante lavoro per la mitologia comparata, perla novellistica e per la filologia, credo inutile parlare, perchè non suppongo esista al mondo chi la revochi in dubbio. Risparmio al lettore lunghe note intorno alle origini ed alle vicende di ciascuna novella o fiaba; e voglio solo aver dichiarato, che, con questi ventotto racconti, non pretendo mica di aver dato tutte le tradizioni orali di Lombardia, nè la miglior versione di ciascuna delle tradizioni raccolte. So benissimo esser questo lavoro di quelli, ne' quali non può mai farsi tanto, che non rimanga da fare altrettanto e più.
Firenze, xxiii Marzo mdccclxx.
AVVERTENZA
(Stampata già in fine della Novellaja Milanese)
Nel terminare, dopo meglio che due anni, da che venne incominciata, questa pubblicazione, crederei mancare ad un dovere, ad un obbligo sacro, se non vi apponessi un ringraziamento pel chiarissimo commendator Zambrini, alla cui bontà e benevolenza debbo di averlo potuto condurre a termine. Degni l'egregio uomo gradire questo pubblico ringraziamento, come documento della mia gratitudine non efimera. Del lavoro stesso dirò, ch'io non ne sono gran fatto contento. Sapevo, nell'imprenderlo, di non trovarmi in condizione da condurlo bene; sapeva, nel cominciarne la stampa, di aver fatta cosa mediocre: veggo ora anche più apertamente i difetti dell'opera. Sulla tomba dello scultore Flaminio Vacca Romano, nel Pantheon d'Agrippa, è scritto: in operibus, quæ fecit, nusquam sibi satisfecit[ii]. Sono un po' come il Vacca e riconosco volentieri, che ogni scritto mio non val gran cosa; e non aspetterò mai, che altri me ne scopra le magagne, per accorgermene. Ma ripeto quel, che dicevo, principiando la stampa di questa raccolta di fiabe milanesi:—«Dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia, se non mediocremente, ha forse diritto almeno a qualche indulgenza.»—Specialmente la spero da' milanesi. E naturale, che, stenografando queste fiabe, abbia talvolta frainteso; che, nel trascrivere, abbia spesso errato; che l'ortografia non sia sempre giusta. Ripeto, io non ho udito sillaba di meneghino prima del sesto lustro. Forse, anzi senza forse, non ho incontrato le migliori novellatrici di Milano; forse, narrando in presenza mia, quelle persone si credevano in obbligo di nobilitare, di aulicizzare il dettato loro, più che non sogliano fare nelle veglie od innanzi ad un crocchio di fanciulli tutti milanesi (perchè già un poco il nobiliteranno sempre nel narrare, in Milano come a Napoli, come in Toscana e come in ogni altro luogo). Ma sarò troppo lieto, se un Ambrosiano puro sangue, per mostrarmi come avevo a fare, vorrà sobarcarsi ad una fatica consimile. Non pretendevo se non dare un esempio; non mi considero se non come un precursore. Fortunato, se potrò destare in altri l'amore per questi studî. Almeno sarà pruova dell'assoluta comunanza d'interessi e di studî fra tutti gl'Italiani; dell'affetto profondo con cui le varie provincie si amano; del sentire ciascuna di esse come cosa propria anche ciò, ch'è più speciale delle altre; questo fatto, che sarebbe stato impossibile fino a pochi anni sono: cioè, l'aver dato fuori un Napolitano di Napoli la prima raccolta di esempi e panzane milanesi.
Roma, xv Giugno mdccclxxii.
[i] Il Liebrecht annota:—«Es ist nichts anderes, als eine ins Volk gedrungene Version von Strapar. IX, 4. (vgl. Dunlop—Liebrecht S. 497 zu Morlini, n.º 726; Pfeiffer's Germ. I, 270. Von dem Moler mit der schön Frauen.»—Cf. Sacchetti, Nov. LXXXIV, del dipintore Sanese, ecc. ecc.)
[ii] Gli è quel Vacca appunto, che ha scolpito uno de' leoni, che sono sotto la loggia de' Lanzi in Firenze. Ecco per intero l'epitaffio:
D · O · M ·
FLAMINIO · VACCÆ ·
SCULPTORI · ROMANO ·
QUI · IN · OPERIBUS · QUÆ · FECIT ·
NUSQUAM · SIBI · SATISFECIT ·
[3] Pubblicati sul Propugnatore di Bologna: se ne tirarono una trentina di estratti. Eran tre novelle: La coa, La sciora e la serva, El cœugh. Le due ultime vengon qui ripubblicate, la prima è stata incorporata in un altro mio lavoro, che vede la luce contemporaneamente al presente, sotto il titolo: XII Conti | Pomiglianesi | con varianti | Avellinesi, Montellesi, Bagnolesi, | Milanesi, Toscane, Leccesi, ecc. | Illustrati da | Vittorio Imbriani || Napoli | Libreria Detken e Rocholl | Piazza Plebiscito | M.DCC.LXXVI.—A' Paralipomeni era premessa un'avvertenza, in data di Roma 10. II. 73. che diceva:
—«Capitato l'autunno scorso in Lombardia, per meno d'una settimana, ebbi pure occasione di raccogliere la fiaba e le due novelline seguenti, che debbo all'amicizia benevola dell'egregio commendator Zambrini di poter qui pubblicare, come una prima Appendice alla Novellaja Milanese. Spero di poterne aggiungere quandochessia altre, attingendo a quella fonte inesauribile, ch'è la tradizione popolare. A coloro, che si occupano di cosiffatti studî e che bramassero maggior copia di riscontri, indicherò un articolo del prof. Felice Liebrecht, traduttore tedesco del Pentamerone, negli Annali letterari d'Heidelberg (Heidelberger Jahrbücher der Literatur; numero quadragesimoquinto dell'annata mdccclxxii). Il dotto mitologo, ragionando appunto della mia pubblicazione, addita per ciascuna fiaba o novella, non picciol numero di riscontri ed analogie.» ecc. ecc.—riferendo i riscontri indicati dal Liebrecht allo esempio Èl Tredesin, Vedi pag. 340 del presente volume.
[4] Voglio solo aver indicato qui, che la Novella del Lando, riferita a pag. 113 nella quarta Nota alla Novella VII e trattata anche dal Firenzuola, si ritrova pure presso il Bebelio, con alcune modificazioni:—«Erat cuidam civi Augustensi pica humanam vocem edocta, quæ cum saepe audisset famulum proclamare, vinum domini quatuor denariis vendi, clamavit et ipsa. Cum autem nocte quadam palmites vitium ex pruina magno incommodo affecti essent, ut vina postridie duobus denariis carius venderentur, proclamavit nihilominus pica vinum quatuor denariis: unde magnus concursus populi ad domum domini factus est pro emendo vino, quod alibi sex denariis venderetur, adeo ut iurgiis virum impeterent, quod virum non daret uti proclamasset. Quare concitatus dominus, picam in lutum deiecit Quæ, cum sublevata esset, vidit suem accedentem, qui totus erat lutosus et stercore inquinatus. Ad hunc pica: Proclamasti ne, inquit, etiam vinum quatuor denariis? Putavit enim uti se, ita et suem in lutum deiectum, quod vinum quatuor denariis proclamasset»—
A pag. 313 aggiungerei volentieri l'esempio seguente di una condanna pronunziata dal colpevole stesso in proprio danno. Racconta Ludovico Domenichi nelle Facezie.—«Il Re Lodovico decimo di Francia, facendo un convito a' suoi Baroni, disse che il Re d'Inghilterra, suo zio, gli aveva scritto et domandato il parer suo; che pena aveva meritato un servitore ignobile, il quale avea tradito un suo nobilissimo Signore. Era a tavola Eberto, il quale, non sapendo che ciò fusse detto per lui, domandato del suo parere, rispose: che colui meritava il capestro. Et così condannato di sua bocca et strascinato dal convito, venne impiccato per la gola. [Il meschino si diede la sentenza contra da sè stesso.]»
[5] L'Edizione è riuscita molto corretta. E poi, come dice un poeta vernacolo:
Pe' quacche errore, che trovato avisse,
O lejetore mmio, drinto 'ste carte,
Mormorare è bregogna, ca chest'arte,
Porzì ad Argo la fa, comm'autro disse.
Solo voglio avvertire, che a pag. 276, linea 7 va letto pacchia e pecchia, invece di pacchia e pacchia; e che a pag. 337, linea 21 s'ha da porre c' 'o agliaro, invece di co' agliaro e cancellare del tutto la postilla (a). Per gli altri errori o dell'autore o del tipografo, ci raccomandiamo alla indulgenza del benevolo leggitore.
[6] Il D'Ancona, del resto, ripeteva solo un appunto più temperato del Liebrecht:—«Imbriani hat es sich angelegen sein lassen, das ihm Erzählte stenographisch aufzuzeichnen, in der augenscheinlichen, nur zu billigenden Absicht, damit lediglich das wirklich im Volksmunde Vorhandene, ohne alle fremde Zuthat wiedergegeben werde. Allerdings entspringt aus dieser unveränderten Wiedergabe des Vernommenen eine gewisse, auf die Dauer ermüdende Unbeholfenheit der Erzählung, wie sie meist dem Volke eigen ist, und welche durch eine leichte, mit vorsichtiger Hand geübte Nachhülfe, wie sie in unübertroffener Weise in den Grimm'schen Mährchen in Anwendung gebracht ist, hätte beseitigt werden können, ohne dass die Treue der Darstellung irgend welchen Abbruch zu erleiden branchie. Andrerseits wird Dem, welcher die eigentliche florentinische Volkssprache genau kennen lernen will, allerdings durch wortgenaue Aufzeichnung einer so grossen Zahl von Erzählungen ein umfangreiches Object zum studium jenes Dialects geboten, so dass der berührte Nachtheil durch diesen Vortheil wieder aufgewogen wird.»—
[7] Curiosissima sarebbe una raccoltina di tutti i versicoli, che s'era prima soliti a scrivere da' proprietarî su' frontespizî de' manoscritti e de' libri a stampa. Qui mi basta citar una quartina, che si legge sopra un codice modanese del Decameron:
Tu, che con questo libro ti trastulli,
Rendimel tosto e guardal da' fanciulli;
E fa con la lucerna non s'azzuffi,
Se tu non vuoi, che nell'olio s'attuffi.
Gli scolaretti tuttora disegnano rozzamente un impiccato, e vi scrivono sotto:
Aspice, Pierino appeso.
Quid hunc librum non ha reso;
Si hunc librum reddidisset,
Pierino appeso non fuisset.
Scrivono anche talvolta la tiritera seguente:
Questo libro è di carta.
Questa carta è di straccio.
Questo straccio è di lino.
Questo lino è di terra.
Questa terra è di Dio,
Questo libro è il mio.
Se piacesse a qualcheduno,
Se ne vada a comprar uno;
Quando io lo comperai,
. . . . . . soldi lo pagai!
E facendo oh! oh!
Questo libro non è il to'!
E facendo ih! ih!
Questo libro lascialo lì!
(Dedica premessa alla prima edizione).
—«Signor Imbriani, sia compiacente! Scriva un po' qualche libro che faccia anche per nojaltre. La mamma dice sempre che le cose Sue non le possiamo leggere; ed appena il postino ha recato qualche opuscolo di Lei, la lo chiude a chiave e non ce lo lascia vedere. Già la mamma quando s'è fitta una fisima in capo!...»—
La mamma, care le mie ragazze, fa più che benissimo; in questo, come sempre, si regola da quella santa donna ed accorta ch'ella è. Non che impermalirmi del divieto di leggermi a voi fatto, io l'approvo; anzi io, volendovi un gran bene, sono sempre io il primo a raccomandarle di custodir lontano dagli occhi vostri ogni mia scrittura. Ci conosciamo da lunghi anni, e sapete pure, neh?, che in fondo in fondo io mi sono un gran buon diavolaccio: epperò non vorrete pensar male di me. Ma quando vinco l'accidia ed impugno la penna, m'è forza d'ubbidire alla coscienza che m'impone di rappresentare il mondo, la società, la razza umana tale e quale, non secondo alcun pio desiderio. L'amor del vero mi signoreggia l'immaginazione; null'altro che[2] lo studio del vero può cattivarmi ed incatenarmi al lavoro. Nèd è colpa mia se il vero è in parte turpe. Ma questa parzial turpitudine umana importa per ora celarla e velarla alle menti vostre inesperte. Verrà giorno in cui dovrete fronteggiarne l'aspetto e sentirne il lezzo; ma allora l'intelletto adulto, il carattere formato, l'usbergo della buona educazione, vi renderanno intangibili dal pericolo, come un certo anello incantato assicurava chiunque lo portasse al dito da qualsivoglia possa nimica forza d'incantesimo.
Eppure, io vi bramerei sin da ora per leggitrici: con voi due, giungerei, credo, ad averne mezza serqua, e la mia ambizione letteraria sarebbe paga. Bramerei, giacchè ci vediamo di rado e per poco, che un qualche frontespizio vi rammentasse frequentemente l'amico lontano; che ogni qual volta ricercaste sullo scrittojo un libro, un quaderno, un cucito o l'albo dei francobolli, il mio nome v'avesse a dar nell'occhio. Mi sono persino provato a scarabocchiar qualcosetta d'ingenuo e d'idillico, apposta per vojaltre. Ma sapete che c'è? Non mi vuol riuscire; non son buono ad ispogliare il vecchio Adamo: l'ingenuità mi diventa ironia, l'idillio mi diventa satira. Non giungo, per isforzarmi ch'io faccia, a concepir l'uomo diverso da quel ch'io lo conosco. Eppure, io vi bramerei per leggitrici! Ad agognare ardentemente alcunchè sì diventa ingegnosi. Mi sono ingegnato ed eccovi un'opericciattola ch'è mia e non è mia. Dico mia, perchè a metterla insieme, di molta fatica m'è costato; ho dovuto pormici con l'arco della schiena; ma non vi si contiene un pensiero, una frase, una parola, ch'è una, di mio.
Voi sapete che da molti anni io raccolgo con diligenza i prodotti della fantasia popolare italiana in qualsivoglia dialetto: canti, racconti, proverbî. Mi avete visto stenografare anche in casa vostra le novelline narrate[3] dalla Giovannina e dalla Peppina; anzi m'avete ajutato a far meno male. Ora, io vi offero un gruzzoletto di fiabe e facezie fiorentine. Le ho poste in carta con sommo zelo, tali e quali uscivan di bocca a qualche cechino, a qualche vecchietta, a qualche balia, a qualche nonna, usa ad intrattener con esse i nepotini. Ho esagerata l'esattezza, segnando persin le esclamazioni e gl'intercalari viziosi, persino i foderamenti di parole; non supplendo le lacune; non correggendo gli spropositi evidenti, come quando, per esempio, la novellaja adoperava vittima nel senso di carnefice, tormentatore (forse storpiando pittima) ed asseriva la Verdea essere cosa mangereccia. Insomma non ho mutato od ommesso od aggiunto, nulla, nulla, nulla: fate conto d'ascoltare proprio il dettato di chi è nato all'ombra del cupolone di Brunellesco. Le differenze notevoli di stile dipendono dalle diversità di sesso, di età, di carattere, di educazione, di condizion sociale in chi narrava. E lasciatemelo dire, le persone più colte son generalmente quelle che peggio raccontano queste ingenue novelle tradizionali.
Un mio buon amico, il prof. avv. Gherardo Nerucci, ha voluto dar pregio a codesta pubblicazione ch'è qui, comunicandomi sette fiabe da lui raccolte e scritte, come vedrete, stupendamente; ma non già stenografate al pari delle mie, tali e quali venivan narrate. Ed il Nerucci vuole che vi sia ricordato il motto popolare:
La novella
'Un—n è bella
Se sopra 'un ci si rappella;
cioè, se il narratore non la frangia con invenzioni proprie.
Sottopongo senza palpiti il mio lavoro alla censura della mamma: vi sarà forse qualche goffaggine da condonarsi ad una povera ciana; ma di sconcio, di pericoloso non ci so veder niente, nientissimo. La convenienza[4] di siffatti racconti alle menti infantili è dimostra dal venir essi da parecchi millenni tradizionalmente trasmessi di generazione in generazione. E non v'ha Italiano cui tali storielle non venisser narrate durante la puerizia nel vernacolo natìo; che non vi riannodi sante memorie, reminiscenze carissime.
Queste favole, se convengono all'infanzia, sono anche oggetto di ricerche scientifiche, epperò mi diedi a raccoglierne. Sendo il più le fiabe retaggio comune degli Ariani tutti, avrei forse dovuto notare minutamente i riscontri e le differenze di lezioni tra le mie e l'altre già pubblicate e risalir fino ai simboli ed ai miti che in parecchie pajon contenersi davvero. Similmente potrei tesservi la storia delle raccolte analoghe o congeneri e de' lavori letterarî che hanno accattato il tema dalle fiabe popolari: parlarvi di Giambattista Basile (Gian Alesio Abbattutis), di Pompeo Sarnelli (Masillo Reppone), dello Straparola, del Perrault, del Musäus, de' fratelli Grimm, eccetera; d'italiani, di tedeschi, di francesi, di slavi, eccetera; delle Fiabe del Gozzi, del Malmantile riacquistato di Lorenzo Lippi (Perlone Zipoli), di molte féeries francesi, del Don Silvio di Rosalba del Wieland, di parecchi drammi del Platen, del Tieck, eccetera; e poi di nuovo del Panciatantra, del Pentamerone, della Posillecheata, dei Contes de ma mère l'Oye, dei Volksmärchen der Deutschen, degli Haus—und—Volksmärchen, eccetera. Ma di ciò parlan tanti volumi! e sarebbero erudizioni così facili! e se n'è fatto tanto abuso! Ed a vojaltre cosa importa? Ora, attenendomi a ciò solo che può gradirvi od interessarvi, io voglio provarvi che affetto per voi, desiderio di divertirvi, non vaghezza di lode altrui, e nemmen zelo per la scienza, mi ha stimolato a procacciare questa stampa. Nondimeno aggiungerò in nota sulle bozze di stampa, sulle strisce, sugli stamponi, sulle pruove di[5] torchio, via, que' riscontri letterarî italiani che per ciascuna novella mi sovverranno. Ma solo gl'italiani, e fra gl'italiani, quelli soli che mi sovverranno senza fatica e studio: non mi alzerò dalla seggiola per riscontrare alcun volume.
Avvertite che ho ridotte alle forme corrispondenti della lingua italiana, nobile ed aulica, di quella lingua che parliamo voi ed io, tutte le storpiature idiomatiche fiorentine. Ho lasciato suo per loro; e gli non solo pel plurale d'ambo i generi, ma eziandio pel femminile, come è regola nel vernacolo di Firenze, confortata od avvalorata da non pochi esempi classici. Ve ne prevengo a scanso di confusione ed acciò da una banda non si perturbino le vostre idee grammaticali, e dall'altra non crediate che veramente in Firenze non ci sia vernacolo e si pronunzino le parole nella forma aulica e senza smozzicatura alcuna, come c'è chi vorrebbe far credere.
Gradite e compatite la povera offerta, care le mie fanciulle: e vogliate un po' di bene al vostro
IMBRIANI.
L'ORCO[1].
C'era una volta marito e moglie che avevano tre figliole: poeri poeri poi erano. Ma per mangiare dissero a una di queste bambine:—«Vai nel giardino dell'Orco[2] a pigliare un po' di cavolo.»—E una di queste bambine andiede a prendere il cavolo. Quando ha preso il cavolo si sente dire:—«Dove tu vai?»—«Se il babbo e la mamma»—dice—«m'hanno mandato a pigliare un po' di cavolo! Siamo tanto poeri!»—«Vien su; tu starai bene.»—Dice:—«O per via della mamma e del babbo no davvero!»—L'Orco insisteva perchè venisse. E poi la bambina salì su; e per la quale l'Orco gli dà tre palle d'oro, E la conduce a girare tutta la casa e gli dice:——«Padrona di tutto, fuori che di questa stanza.»—L'Orco va via dopo; e rimane la bambina e dice:—«Che ci sarà egli in questa stanza?»—Ah! la curiosità la spinge, l'apre: non c'era niente, gua', altro che un armadio. Ehn? L'apre, e gli va di sotto una di quelle palle, che gli aveva dato l'Orco. Disperata, più che la lavava, eh gua'! sempre l'istessa, anzi più brutta. Torna l'Orco. Dice:—Dove sono le palle che t'ho date?»—E la poverina le fa vedere.—«Ah briccona!»—dice l'Orco. La prende per un braccio e la butta di sotto da quest'armadino dov'era andata la palla. Non fa discorsi, che! Si vede che quest'armadio era un pozzo dove ci buttava l'Orco tutte le creature. Venghiamo a' genitori che mandano a[8] cercare questa bambina per quell'altra sorella, disperati. E la chiama, chiama; il panierino c'era nel giardino, ma la bambina non v'era, perchè era morta, l'Orco l'avea buttata di sotto. Sentendo così chiamare e piangere, s'affaccia l'Orco e dice:—«Cos'hai, bambina?»—Eh la mia sorella,»—dice—«era mandata a prendere il cavolo...»—e gli fa tutta la spiegazione.—Vien su!»—gli dice l'Orco—: «tu starai bene.»—Gli dice l'istesso come aveva detto a quell'altra. Sta bambina la va su, già! E lui gli dà le stesse tre palle, come sopra, gli dice l'istesse parole:—«Padrona di tutto, fuori che di qui.»—Quando l'è andato via segue l'istesso: la si affaccia e gli cade la palla. Quella bambina era disperata più che mai; la piangeva; aveva pensiero de' genitori. E così tanto disperata si mette a lavare, e gli vien di su come a quell'altra, anche più inzuppata di sangue. E così l'Orco che torna e vede la palla peggio:—«Oh! briccona!»—gli fa:—«Vieni! vieni!»—La prende e la butta di sotto come quell'altra, nell'istesso dove le aveva detto che non ci andasse. Veniamo ora parimenti a' genitori: disperati gua'! Mandarono l'ultima bambina:—«Vai te a farci questa carità; a sentire quel che n'è delle tue sorelle.»—La va nel giardino, la trova i panierini, ma le bambine non ci erano. Si mette a urlare: la le chiamava per nome. S'affaccia l'Orco e gli dice:—«Che vuoi? Vien su: tu starai bene.»—Questa bambina:—«Ah! non ci sarebbe male! C è il babbo e la mamma inconsolabili di dolore che urlano! Ah bisogna che vada a casa.»—«Vien su!»—dice—: «tu starai bene: poi ti manderò a casa.»—Questa bambina la sale. E gli dà le solite tre palle d'oro, e dice:—«Padrona (come ti ho detto) tu vedi, di tutto; fuori che di questa stanza.»—Ma quando l'Orco è andato via, questa bambina che era più furba, la prende le palle e le ripone[9] prima di entrare nella stanza. Era più furba delle sorelle e la seppe fare. L'apre la stanza e dice:—«Sciocco! o che c'è in questa stanza?»—E vede quest'armadino; la l'apre e sente:—«Oohn! oohn!»—«Chi c'è»—dice—«costaggiù?»—«Siamo due bambine!»—dice.—«Ci han mandato il babbo e la mamma a prendere il cavolo!»—Le fanno tutto.—«E l'Orco ci ha chiamate, ci ha date tre palle, e una la c'è caduta affacciandoci. E lui quando è torno che ha veduto sciupata la palla, ci ha buttato di sotto.»—Ahn poverine!»—dice—«Voi siete le mie sorelle! Ahn poverine!»—Disperata, cerca delle funi, perchè queste bambine s'imbrachino e la le tira su. E così che lei dopo la le mise in una stanza segregata, che l'Orco non se n' avvedesse. La gli prepara da mangiare, la le custodisce e poi lei la vien via. Prende le sue palle e si mette ad aspettare l'Orco. E così l'Orco che torna:—«Dove sono le palle?»—«Eccole!»—dice.—Oh brava!»—dice—«Ora ti voglio bene. E starai sempre bene.»—Dunque tutti i giorni lui andava fuori e lasciava lei sempre. E lei, l'andava a custodir le sue sorelle. Venghiamo un giorno. Gli dice l'Orco:—Tu non sai? Io non mojo mai.»—Lascio dire che dolore ha la ragazza. Come aveva da fare ad andare da su' padre e con quelle sorelle? Ma non gnene diede a divedere all'Orco.—«come mai?»—dice.—«Perchè la mia anima è in un guscio d'ovo[3].»—Lei ha dolore, ma non lo mostra: ed invece lei la gli dice:—«Oh bella cosa che voi non moriate mai! Quanta felicità per me!»—Un giorno la si mette malinconica, senza mangiare, senza far niente.—«O cos'hai?»—dice l'Orco—«che non mangi?»—«Ho quel ch'i' ho. Voi mi dicesti che voi non morite mai. Ma non è possibile,»—dice—«subito che l'ovo un po' di sudiciume vi sarà drento; che sarà quello che vi farà[10] morire. Io bramerei di vederlo, se sarà sudicio o pulito per la quale. Bramo di vedere: quando s'è visto, son più tranquilla, gua'!»—«Ah briccona!»—dice—Tu mi vuoi tradire!»—gli dice l'Orco.—«Ah vi pare? A voi? Un benefattore a questo punto, ch'io voglia tradirlo? Ora? Impossibile!»—Insiste, insiste: quest'omo viene e gli fa vedere l'ovo; e lo teneva strinto lui nella mano perchè ella non lo toccasse. E mentre lei lo guarda—«Il sudiciume?»—dice.—Guardate se v'è li? Guardate quello scuro se c'è lì drento? che sarà quello che vi farà morire.»—Lui dice:—«Indove?»—lui.—«Ecco lì, non lo vedete?»—In mentre fa:—«Eccolo lì»—che la dice; la gli dà una spalmata, cade l'ovo e l'Orco riman morto. Ahn, quand'egli è morto, la corre dalle sorelle e dice:—«Venite via, bambine; chè io ho ammazzato l'Orco. Ora siamo felici.»—Così fanno una bella buca nell'orto, una buca grande e lo sotterrano. Poi prendon le chiavi di casa, serrano e vanno in traccia de' suoi genitori. E vanno e gli raccontano tutto il caso, preciso come gli era seguito. Questi genitori, potete credere, la contentezza di veder le bambine! che di poere, bisogna dire, l'eran divenute ricchissime, perchè l'Orco era tanto ricco e rimase tutto a loro. Andiedero alla casa dell'Orco, apersero, e divennero padrone di tutta quella ricchezza e vissero e se la godettero e in pace sempre stettero.
NOTE
[1] Confronta con le altre Novelle di questa raccolta, intitolate: Il contadino che aveva tre figlioli; Gli assassini; Le tre fornarine. Vedi tra le fiabe popolari veneziane raccolte da Domenico Giuseppe Bernoni quella intitolata: El Diavolo. Il Liebrecht in un articolo sulla prima edizione di questa Novellaja nel Num. 42 (1871) degli Heidelberger Jahrbücher der Literatur,[11] annota che questa fiaba—«gehört in den Kreis der Blaubartmärchen, über welchen s. Svend Grundtvig Danmarks Gamle Volkeviser zu No 183 Kvindemorderen, oder meine Anzeige in der Gött. Gelehr. Zeit. 1869. S. 1968.»—Confronta in Pitrè, Nuovo saggio di Fiabe e Novelle popolari siciliane, quella intitolata: La manu pagana; in Pitrè, Fiabe, Novelle, Racconti ed altre tradizioni popolari siciliane, il conto detto Lu Scavu; appo la Gonzenbach, Sicilianische Märchen, la storia di Ohimè (Die Geschichte von Ohimè).
[2] «Questa è una bestia immaginaria, inventata dalle balie per fare paura a' bambini; figurandola un animale, specie di fata, nemico de' bambini cattivi.... Questo nome però viene dall'antica superstizione de' Gentili, i quali chiamavano Orco l'Inferno. Virgilio, Eneide, Libro VI.... primisque in faucibus Orci. Ed intendevano per Orco anche Plutone, quasi Urgos o Uragus, ab urgendo, perchè egli sforza e spinge tutti alla morte. E perciò dalle madri e nutrici, per fare paura alli loro bambini, si dice che l'Orco porta via: il che viene dai Gentili, che pigliando Orco per la Morte, lo chiamavano inesorabile e rapace. Orazio, Ode XVIII, libro II. Nulla certior tamen, Rapacis Orci fine destinata.»—Così ingenuamente e secondo la dottrina del tempo è detto nelle Annotazioni al Malmantile. Cantare II, stanza L.
[3] Cf. con l'annotazione ad un luogo dell'altra fiaba xxii di questa raccoltina, ch'è intitolata: Zelinda e il mostro.
IL CONTADINO CHE AVEVA TRE FIGLIOLI[1].
C'era una volta un contadino che aveva tre figlioli. Passava un ortolano per vendere i cavoli, l'erba, l'insalata; vede i tre figlioli di questo contadino; dice:—«Che son vostri figlioli questi?»—«Sissignore.»—«Me ne potresti cedere uno per menarmelo nel mio appartamento? Sto benone, sapete? Sono una persona che sta benone. Potrei far felice il vostro figlio.»—Il giovanetto che sente dire che quell'omo l'avrebbe preso con seco, comincia a dire:—«Oh babbo, babbo, mi mandi.»—«Mandare, ti manderò: ma bisogna che tu tomi presto, perchè io senza vojaltri non posso fare il mio interesse.»—Gli consegna il figliolo a quest'ortolano con il dire che lui in capo a un po' di tempo gnen' avrebbe portato indietro, perchè lui ne avea bisogno di quel giovinetto. Vanno via camminando per andare a i' posto di quest'ortolano. Cammina, cammina, cammina, cammina! era tanto che camminava questo giovinetto.—«Oh che è tanto lontano i' vostro posto?»—«Eh fra breve tempo te lo farò vedere.»—Alla lontananza di un mezzo miglio questo ortolano gli fa apparire un bellissimo palazzo:—«Vedi tu, giovanetto, quel palazzo là?»—«Eh lo vedo!»—«Quello è i' mio appartamento.»—«I' vostro appartamento?»—e lo guarda da capo a piedi.—«Sì.»—«Uhm! un ortolano che gli debba avere un palazzo a quella maniera!»—Si spalanca[13] la porta quando sono vicini. Entrano drento: entra drento l'ortolano, entra drento il giovanetto; occhiano da tutte le parti.—«Vedi? questa è tutta mia ricchezza.»—«Eh, la vedo! E andate a vender gli erbaggi?»—«Eh! un'arte bisogna ch'io la faccia. Dimmi un poco, come tu ti chiami?»—«Mi chiamo Luigi.»—«Bravo Luigi. Ora è l'ora d'andarsene a rinfrescarsi, a mangiare, a bere; e poi anderemo a riposare.»—Ogni grazia di dio nella stanza da pranzo: mangiano, bevono.—«Per bacco!»—fa questo Gigi—«si sta bene qui.»—«Ehn, te l'ho detto io, che starai benone? Ora è l'ora d'andarsene a riposare.»—Una bellissima camera a Gigi; e una bellissima camera aveva quest'ortolano. Se ne spogliano e se ne vanno a riposare. Nella nottata riposano e tutto. Ecco la mattina che s'alza Gigi.—Alzati, che l'ora è tarda!»—Sente questa voce straordinaria: lo guarda in viso, all'ortolano, Gigi:—«Guarda, com'egli è strafigurato! Che affare è questo?»—«Senti, Gigi; t'ho da dire quarcosa. Vedi tutte queste ricchezze?»—«Sì, le vedo.»—«Se tu ti porterai bene, alla mia morte ti faccio erede di tutte queste ricchezze. Abbi da sapere, caro Gigi, che io vado a fare un giro. Alzati e vieni con meco.»—Quello s'alza e va con seco; e gli consegna non so quante libbre di carne umana:—«Vedi tu questa carne? Nel tempo insin che non torno nel mio quartiere dev'esser mangiata.»—«E chi l'ha da mangiare?»—«Te, l'hai da mangiare. Ahn!»—dice—«che te la mangi, sai, sennò guai a te. Addio: che al mio ritorno sia digrumata tutta questa carne.»—Lui dice di sì e il mago va via. Questo Gigi cosa ti fa?—«Io devo mangiare questa carne? Cheh! Or' ora la troverò bella!»—Va in giardino, ti fa una buca e sotterra quella carne che lui doveva[14] mangiare. Gigi fa:—«Oh non la trova più qua. La può passare alla liscia che io l'ho mangiata, inclusive che è sotto terra. Manco male: la passerò pulita.»—In capo a d'i' tempo, eccoti i' mago a casa.—«Gigi!».—«Comandi!»—«L'hai mangiata quella carne che io ti diedi?»—«Sì.»—«Vieni con meco.»—Lo piglia per un braccio e lo mena in camera sua. Apre un libro. Carne non mangiata, ci diceva in questo libro appena aperto.—«Dunque non l'hai mangiata? Vien con meco!»—e te lo porta con seco. Apre un uscio e te lo pianta drento. Là con una scure gli tramezza i' capo e te lo divide in due parti, Gigi, povera creatura! Con un gancio l'attacca alla testa e l'attacca a i' muro all'uso prosciutto; e dall'altra parte i' corpo, quest'ignorante di mago! Raccomoda i' baroccino e si riaffaccia da i' medesimo contadino. I' padre di Gigi che sente la voce dell'ortolano, subito scappa fori.—«Eh, l'è lui; è lui; l'è lui! Eh galantomo, venite qua. O che fa egli i' mio figliolo? perchè non me l'hai riportato?»—«O vo' vedessi, come l'è ingrassato! Sta veramente bene! Voi non lo riconosceresti neppure!»—Figliolo d'una tenerissima![2]—«Rimane ozioso un po' essendo solo. Non mi potresti dare anche i' mezzano? Allora si divertono dippiù.»—«Ed io? ch' ho a rimanere senza figlioli?»—«Eh vi dirò una cosa. Se mi date il mezzano anche lo piglio volentieri, che si divertono tutti e due. Come vi riporto questi due figlioli, allora mi prendo i' minore.»—«Ecco, babbo, la mi mandi, la mi mandi anche me. Gigi è ingrassato, si diverte: mi divertirò anch'io.»—«O pigliate anche questo! Ma se non me li riportate, i' minore non ve lo mando, perchè ne ho bisogno per i' podere. Vai!»—I' caro ortolano si porta via anche codesto dei figlioli.—«Addio, addio, babbo!»—e seguitano[15] i' suo viaggio. Quando gli erano per la strada, seguitando a camminare:—«O che gli è molto lontano ancora il vostro posto?»—Fa apparire i' solito palazzo, lui.—«Guarda, ecco là i' mio appartamento.»—Questo ragazzo comincia a chiamare:—«Gigi! Gigi!»—«E che cosa chiami Gigi? Gigi lo vedrai quando sarai a i' posto.»—Spalanca la porta; entran drento tutti e due; e rimane stordito vedendo quelle ricchezze ancor lui.—«Vieni qua con meco. Vuoi vedere i' tuo fratello? Te lo farò vedere. Tuo fratello è in villa, sai? È in villa i' tuo fratello. Te rimarrai qui adesso, infino a che 'un ritornerà di villa.»—Lo porta alla tavola d'i' pranzo: mangiano e bevono tra lui e i' giovanetto.—«Ora ce n'anderemo a riposare e domani ci si alzerà a buon'ora, perchè io ho da andare a fare un giro.»—«Oh bella! e che mi lasciate solo senza i' mio fratello?»—Si rizzano da tavola e se ne vanno a riposare.—«Come ti chiami?»—gli fa i' mago. Dice:—«Francesco.»—«Ohm! domani t'alzerai a buon'ora e verrai a vedere i' tuo fratello.»—«Ah, mi pare mill' anni a vedello.»—La mattina che la sera erano andati a riposare, la mattina si sveglia i' mago e grida:—«Francesco!»—«Che affare è egli? Guarda un coso brutto che è questo!»—«Alzati perchè l'ora è tarda e io devo partire e andare a fare i' mio interesse.»—«E i' mio fratello 'un l'ho a vedere?»—«Lo vedrai, quando io partirò di quì.»—Vestito s'era e tutto, Francesco.—«Vieni con meco!»—e gli consegna quelle tante libbre di carne umana.—«Nel tempo che io son fori devi mangiare queste tante libbre di carne.»—«Cheh? io l'ho a mangiare? Io non la mangio, sa Ella?»—«Tu non la mangi? Allora vieni con meco. Se non la mangerai, sarà peggio per te.»—E apre lo stanzino:—«Ecch' i' tuo fratello, lo vedi? Questo è i' tuo fratello!»—«Oh[16] poero Gigi! oh poero Gigi! oh poero Gigi!»—«Eh, non c'entra poeri Gigi! Se non mangi quella carne che io t'ho dato, quel che ho fatto a tuo fratello, lo farò a i' mio ritorno ancora a te.»—E va via. Rimase solo lì a piangere e sospirare la disgrazia d'i' fratello.—«Ora l'ho acquistata anch'io! Io quella carne non me la mangio di certo.»—Gira con questa carne Franceschino che non sapeva in dove te la piantare. Andato, scese due scale; trovata una cantina, fece una buca e ci sotterra la carne in questa cantina.—«Gua'! è sotterrata; crederà che io l'abbia mangiata.»—Quand'è un certo tempo, eccoti torna a casa i' mago.—«Francesco!»—«Comandi!»—«L'hai mangiata quella carne?»—«Sì.»—«Vieni con meco.»—Te lo piglia per un braccio e te lo porta n'i' suo quartiere. Prende quel libro, lo spalanca, trova subito: Carne non mangiata!—«Ah birbante! non l'hai mangiata neppur te! Vieni, vieni a fa' conversazione con tuo fratello!»—Te lo piglia per un braccio e te lo straporta in quello stanzino. Costì con una scure e' lo divide in mezzo ancora Francesco. Con due ganci, gnene attacca per la testa e l'attacca accanto a i' suo fratello, un pezzo per di qua e un pezzo per di là.—«Oh!»—dice—«ci siete tutti e due!»—La mattina di poi, ti prende i' baroccio e se ne va a vendere l'ortaggio, gridando l'ortaggio per la strada. I' contadino riconobbe subito la voce:—«Ecco l'ortolano!»—Corre per vedè' s'egli avesse tutti e due i suoi figli con seco. E fa:—«Oh per bacco! oh galantomo! oh i miei figlioli dove sono?»—«Oh i vostri figlioli non verrebbon via neppure a regalargli tutto l'oro d'i' mondo! Come stan bene tutti e due! Ci dovete portare quell'altro nostro fratello e dirgli a i' nostro signor padre che si tornerà indietro tutti e tre insieme. Ma almeno s'ha a[17] divertire anche quell'altro nostro fratello.»—«Babbo, babbo! ci vo anch'io, veh?»—«Bene, bene; ma con questo che torniate indietro tutti e tre.»—«Addio babbo! addio babbo! addio a quando ritorno!»—E gli era i' minore che i' padre gli voleva un bene! voleva bene a tutti, ma più a i' minore che si chiamava Antonio. Viavà con l'ortolano: cammina, cammina, cammina!—«Ditemi, galantomo, che è molto lontano i' vostro appartamento?»—«Eh in breve tempo lo vedrai.»—Gli fa apparire i' medesimo palazzo.—«Lo vedi là? Quello è i' mio appartamento.»—Tognino comincia a chiamare i fratelli.—«Cosa chiami?»—gli fa l'ortolano.—«Non ti posson sentire; sono a i' divertimento.»—Spalanca la porta, entran drento tutti e due. Comincia a chiamare Gigi e Franceschino.—«Ma cosa chiami Gigi e Franceschino? Gigi e Franceschino sono nella mia villa a divertirsi. Domani li vedrai tutti e due. Tempo è d'andare a riposassi.»—Mangiano e bevono: dopo mangiato e bevuto, se ne vanno nella sua camera, Antonio e l'ortolano; se ne spogliano e se ne vanno a diacere ognuno n'i' suo letto. La mattina a mala pena che spunta l'albore d'i' giorno, si sveglia i' mago:—«Antonio!»—E i' fanciullo si sveglia e comincia a tremare.—«Non siete più l'ortolano. Voi siete un brutto mostro e di qui voglio sortire,»—fa Antonio. Gli risponde i' mago:—«Di qui tu non sortirai. Hai viste tutte le mie ricchezze? A una mia morte, dev'essere tutto tuo.»—«Ma i miei fratelli?»—«Adesso te li farò vedere. Abbi da sapere che io vado a fare un giro. Ti lascio padrone spòtico[3] di tutte le mie ricchezze. Queste le sono quelle tante libbre di carne. Quando io ritornerò a i' mio appartamento, che questa carne sia mangiata.»—«E chi l'ha da mangiare?»—fa Antonio.—«Che l'ho da mangiare[18] io?»—«Sì.»—«Cheh! io non la mangio di certo.»—«Vieni, vieni con meco: se non la mangi, farai come hanno fatto i tuoi fratelli; e se la mangerai, sarà ben per te. Vieni, vieni a vedè' i tuoi fratelli.»—«Oh dove sono?»—«Vieni con meco.»—Apre lo stanzino:—«Li vedi?»—«Oh poeri miei fratelli!»—Piangere, stridere, scalpitare, ch'era una pietà a vedere!—«Dunque io vado via. Addio, sai. Che tu cerchi di mangiarle quelle tante libbre di carne! Sennò quel ch'io ho fatto ai tuoi fratelli ti sarà la medicina anco per te.»—Il mago va via e rimane lì Antonio dolente e tutto, pensando alla disgrazia dei fratelli. Ti prende questa carne in mano, lui:—«Cosa ne devo fare? Eh non lo so. Mangiarla, non la mangio di certo.»—Scende giù, cammina: entra in un giardino. Vede un corridojo lungo lungo che si vedeva nè quasi nè principio nè fine; gli viene di gran carriera nel fondo di questa corsia, di quest'andito: c'era due cani. E gli butta in terra quella carne. S'avventorno a codesta carne umana, te la inghiottirno in un battibaleno questi due cani e sparinno. Antonio gli torna addietro. Eccoti il mago n'i' suo appartamento.—«Antonio!»—«Comandi!»—«Cos'hai fatto della carne?»—«Mangiata.»—«Se l'hai mangiata, sarà ben per te.»—Te lo prende per un braccio e te lo porta n'i' suo quartiere.—«Dunque l'hai mangiata?»—Prende i' libro, lo spalanca: Carne mangiata.—«Bravo Antonio!»—te l'abbraccia per l'allegrezza.—«Caro Antonio! Te sarai l'erede di tutte le mie ricchezze. Abbi da sapere che io vado a girare i' mondo. So molto bene ch'è sposo un mio fratello: debbo andare allo sposalizio di mio fratello. Vieni con meco.»—E te lo mena con seco e te lo mena giù in una stalla, che ci era una cavallina ed un cavallo in codesta stanza.—«A questa cavallina[19] gli devi dare quelle tante libbre di fieno il giorno da mangiare, gli devi dare a questa fonte qua la tal'acqua da bere. E il cavallo gli devi dare carne di quella bona da mangiare, e dargli un vassojo di paste stritolate in questo vassojo e due fiaschi di vino di quello scelto. Tutti i giorni li devi custodire così.»—«Ho capito.»—«Poi vedrai al mio ritorno che sarò io per te!»—Si dà la combinazione che i' mago va via.—«Addio! Addio! A rivedersi.»—Tanto la sera che la mattina gli dovea dare questa roba da bere e da mangiare alla cavallina; al cavallo carne di quella bona, paste stritolate n'i' vassojo, con vino scelto. La cavallina n'i' quel mentre che faceva la porzione di quello che dovea mangiare i' cavallo, fa:—«Antonio! Antonio! Antonio!»—«Chi mi chiama?»—«Antonio, son io sai che ti chiamo.»—«Che sia la cavallina?»—«Sì. I' mangiare che devi dare a me, dallo a i' cavallo; e i' mangiare che devi dare a i' cavallo, lo darai a me. Ha' tu 'nteso?»—Fatto questo discorso:—«Antonio, prendi cotesta strada di cotesto viuzzolo, cammina; e quando sarai alla fine di codesto viuzzolo, vedrai una caldaja che bolle. Ma fai lesto, sai? e pensa bene e fai quello che dico. Quando sei presso a quella caldaja che bolle, devi inzuppar la testa drento e tirarla su subito.»—«O che mi vuoi fa' fare?»—«Fai quella capelliera drento nella caldaja e tirala su subito.»—Aveva dei capelli inanellati, una cosa veramente bella, Antonio. Approssimato Antonio a codesta caldaja che la vede bollire, dice:—«Eh, com'ho da fare a metterci i' capo drento?»—ci pensava.—«Diamogli retta!»—Apparisce lui senza paura, attuffa i' capo 'rento e lo ritira subito e si vede tutti i capelli inanellati d'oro. Ritorna dalla cavallina.—«Hai tu visto, come stai per bene, ora? Più bello assai che non eri!»—Ordine[20] d'i' mago che la cavallina e' l'aveva da bastonare tre volte a i' giorno:—«I' cavallo tiemmene di conto.»—Dice la cavallina:—«Vedi, Antonio, devi prendere quella stanga. Dagnene a i' cavallo, dagnene, lascialo anche stramortito in terra, ma dagnene più che tu non hai forze nelle mani. Devi andare n'i' quartiere d'i' mago, ci troverai bussola, specchio e pettine e ci troverai un nerbo, e questo ch'è qui con una capocchia così grossa. Prendilo questo nerbo e vieni davanti a me.»—Dice:—«Sì.»—Questo nerbo e' doveva prendere, una bacchetta che teneva accanto a i' letto e a i' cavallo dargnene:—«Non vuol dir niente!»—Come di fatti Antonio fece.—«Via, ora; si deve andà' via. Affranca la porta. Presa tutta questa roba, montami a cavallo a me.»—Antonio monta a cavallo alla cavallina e si chiude la porta. Via, via, via, a spron battuto, l'andava questa cavallina! Il fatto si è che dopo d'i' tempo eccoti i' mago n'i' suo quartiere:—«Antonio! Antonio!»—Antonio non c'era costì.—«Come va?»—Va nella stalla, apre; vede i' cavallo quasi stramortito in terra, non ci vede più la cavallina.—«Ah!»—dice—«Antonio me l'ha fatta! Antonio me l'ha fatta! Antonio me l'ha fatta!»—Va su n'i' suo quartiere; non ci trova nè specchio, nè pettine, nè bussola, nè nerbo; non ci trova neppure la sua bacchettina che lui aveva, fatata:—«Ah birbante! mi ha messo in mezzo!»—Quel cavallo, i' mangiare che lui gli faceva dare e tutto, ogni cinque minuti gli faceva cento miglia. Lui frusta i' cavallo per via che si rizzasse. Poera bestia! si rizza! ma ricascava giù. Ti prende due fiaschi di vino, d'i' meglio che lui avesse, e gli comincia a fa' de' bagnoli. Bagna oggi, bagna domani, bagna doman l'altro...—«Poerino! Guardiamo se si può trottare.»—Franca la porta, va per vedere se si può trottare, i' cavallo[21] gli ricasca giù. E bagna di bel novo, e bagna di bel novo, consumò non so quanti barili di vino. Si riprovò a montar su.—«Trotta! trotta!»—i' mago gli diceva a i' cavallo—«Trotta, trotta.»—Poera bestia, gli trottava, ma non come gli avrebbe dovuto: gli era tutto percosso. Comincia un pochino a assodarsi. La cavallina:—«Antonio!»—«Cosa vuoi, cavallina?»—che lui gli era sopra.—«C'è il mago sai, dietro.»—«Cosa devo fare, cavallina?»—Butta in terra i' pettine.»—Butta in terra i' pettine; gli viene un bosco folto, che quasi quasi non ci passava nemmeno l'aria. Fece sì tanto i' mago con le sue sclanfie che aveva nelle mani, cominciò a buttare a terra tutto i' bosco. Butta giù, butta giù, butta giù, venne i' momento che venne a passare tutto i' bosco così folto. Dice la cavallina:—«Oh Antonio! e' ci è i' mago, dietro, un'altra volta.»—«che ho io a fare, ora, cavallina mia cara?»—«Butta giù lo specchio in terra.»—Butta giù lo specchio e gli viene una montagna crepitosa. I' cavallo non ci potea salir di certo, e poi fornita gli era questa montagna di porcherie, che quando eran saliti, sdrucciolava giù. Sdrucciola oggi, sdrucciola dimani e ce la passa poi alla fine.—«Antonio?»—«Che c'è'?»—«C è i' mago. Butta giù la bussola!»—E butta giù la bussola. E apparisce un'altra montagna più crepitosa che di quella dello specchio. Ma anche quella e' la passò e andò dalla parte di là per volerli agguantare, tanto la cavallina, quanto Antonio.—«Antonio? E' c'è i' mago un'altra volta. Ma senti, tu non hai la bacchettina fatata? Prendi e batti. Sentirai dire: Comandi, signore. Devi comandare che apparisca una montagna crepitosa, tutta coltelli.»—Antonio gli ubbidisce e fa apparire una montagna crepitosa, tutta temperini, coltelli, rasoi, trincianti, bene affilati e tutto. I' mago[22] che si vede apparire chesta montagna:—«Birboni! me l'hanno fatta! me l'hanno fatta!»—Andava per voler ingegnarsi di voler salire, e ora gli cascava un dito, ora quell'altro. E gli era un pezzo in su quasi per strapassarla, gli si stacca dove s'atteneva con un dito a due rasoi, gli vien di sotto e s'affetta i' mago come una rapa. La cavallina:—«Tu non sai, Antonio? Si pole andare placidamente ora. Non importa più che io corra gran cosa, perchè i' mago non esiste più nin chesto mondo. La prima locanda che te troverai, fermati; perchè ci s'ha a rinfrescare, pernottare e tutto. Ma bada con questo che quel che mangi te, voglio mangiare anch'io; e accanto a i' tuo fianco m'hai a tenere, tanto a mangiare, quanto a dormire e tutto.»—Dice Antonio:—«Cara cavallina; noi siamo prossimi a una locanda e anche a una locanda regia.»—«È quello che io bramo.»—Si ferma questo signore a questa locanda. Vanno a prender la cavallina:—«Grazie, grazie: fermi! La cavallina che non sorta da i' mio fianco.»—«Non si può mettere nella rimessa, con rispetto, nella stalla?»—«No, no, no! deve stare accanto a i' mio fianco.»—Entra nella sala di pranzo, entra, si pianta la cavallina accanto a i' suo fianco sur un divano a sedere. Gli portava da mangiare, gli dava da bere, la custodiva in tutto. Dice:—«La camera! preparatemi una camera.»—Dicono i camerieri:—Guardiamo un pò se la mette a letto la cavallina.»—In camera in dove devo stare io, accanto a i' mio letto ci deve stare un divano grande; se non basta uno, anche due assieme; e sopra a riposare la cavallina accanto a i' mio fianco.»—Il fatto si è, accomodata la camera d'Antonio, accomodato per riposare la cavallina:—«Potete chiudere i' quartiere e di drento cercherò io di mettere i' mio segreto[4].»Andato[23] via i servitori, si chiude drento co' i' segreto, Antonio. Dice la cavallina:—«Caro Antonio, io qui non ci voglio dormire. Antonio, sai? voglio dormire n'i' letto tuo, in dove stai te, e si farà la coppia fra noi due.»—Dice:—«Una coppia di calci!»—Vanno a letto. Dice la cavallina:—«Alzati Antonio!»—Antonio s'alza:—«E che devo fare?»—«Prendi i' nerbo d'i' mago in mano. Cingitelo bene alle mani; e vieni di drieto a me. Ma senti Antonio, se te non fai questa operazione come devi, siamo traditi tutti e due.»—«Traditi tutti e due? E come debbo fare?»—Devi prendere il nerbo. Quanta forza che tu ti trovi addosso, cerca a darmi tre colpi fortissimi n'i' bel mezzo a i' codrione.»—«Ma ti farò male, sai, cavallina?»—«No, no; tu non mi fai più niente. Anzi più sode che me le dai e più meglio[5] è per me.»—Antonio si mette a far quest'operazione; ma con le lagrime agli occhi perchè temeva di non le far male. E quella si raccomandava perchè gnene desse con quanta forza aveva nelle mani. Fatto si è, Antonio le dà tre colpi ne i' bel mezzo a i' codrione, viene a squarciarsi un pezzo in qua, un pezzo in là e si viene a scoprire una bellissima femmina, che pareva che fosse di latte e sangue. Mangiato, avevano mangiato; se ne andiedono a riposare. La mattina a bon'ora si alza Antonio e dice:—«Ebbene, ora, bella femmina, con che ti devo vestire?»—«Non hai la bacchettina costì?»—Picchia la bacchettina; sente dire:—«Comandi!»—«Comando che sia rivestita da quello che lei si merita.»—A tutto in un tratto la vede tutta codesta bella femmina rivestita da Regina, con la corona in testa e tutto.—«Sai cosa devi fare? Ora devi battere la bacchettina fatata che te hai dell'Orco e comanda di essere straportati tutti e due in Portogallo.»—Figlia d'i' Re di Portogallo gli[24] era; che di faccia a i' palazzo d'i' suo signor padre batte la bacchettina fatata e fa uscire un bellissimo palazzo sulle Meraviglie, di faccia a quello d'i' suo signor padre, alle dodici e mezzo di notte, con servitù e tutto. Un palazzo bene ammobiliato! Antonio batte con quella bacchettina:—«Comandi signore.»—«Da mangiare d'i' meglio che ci pol'essere, da Regina com'ella è!»—Si mettono a mangiare tutti e due. Non istorno ad andare a riposarsi; essendo una cislonga di qua e una cislonga di là, si mettono tutti e due sdrajati in queste cislonghe, di faccia a i' terrazzino de i' signor padre. I' maggiordomo, la mattina che si alza, va a i' balcone; a un tratto:—«Ahimè, che affare è questo?»—e vede che avevano nella nottata stampato un palazzo sulle Meraviglie; I' maggiordomo tanto mira quella donna e quell'omo (due be' giovani tutti e due, ma belli! tanto belli!), che gli rimasono impressi intorno a i suoi occhi d'i' maggiordomo. Corre i' maggiordomo alla camera d'i' Re:—«Maestà! Maestà! Maestà!»—A un tratto si sveglia e dice:—«Cosa c'è? cosa c'è? cosa c'è?»—«Ah una gran bellissima meraviglia, Maestà mia cara. Di faccia a i' suo palazzo è stato fabbricato un palazzo sulle Meraviglie nella nottata. C'è due bellissimi giovani. Se è moglie e marito questo io non lo so. Ma è un gran bellissimo giovane, con capelli d'oro tutti inanellati e una gran bellissima femmina.»—«Fai lesto a farmi vestire; voglio vedere quaiccosa ancora io»—fa i' Re. Vestito che è, va insieme co' i' maggiordomo.—«Vede, Maestà?»—«Oh che belle creature che son quelle, maschio e femmina: fanno proprio innamorare.»—E i' Re si sentiva brillare i' suo core dall'allegrezza, di mirare quella bella femmina: chè, si vede, i' sangue tirava. Era sua figlia, ma lui non lo sapeva. Chiama un servitore suo, Fido, e lo manda[25] su i' Ponte—Vecchio[6] da i' suo orefice, che gli portasse una cassetta de' più bei vezzi che lui avesse, ricchissimi. Porta la cassetta l'orefice a Sua Maestà, che sceglie un vezzo dei più ricchi che lui avesse, lo mette in un vassojo di argento e ne manda a fare un regalo a questa bellissima femmina. Il Guardaportone che v'era alla porta, dice:—«Dove va Lei?»—«Si può andare da questi signori a fa' visita?»—«Sì. Aspettate, che passo parola!»—Passa parola.—«Dite che passi!»—Passa Fido, sale:—«Signori, si compiacciano che io possi passare?»—«Passate, passate, passate;»—tanto lei che lui.—«Sua Maestà Le manda questo piccolo regalo. Scuserà che lui ha preso questo ardire.»—«Oh! Oh! anzi! che è stato a incomodarsi. Ringraziatelo fortemente.»—Lei gli fa:—«I' avrei piacere molto che con le sue gentilissime mani me lo piantasse a i' collo i' Re.»—«Io gli porterò l'imbasciata e sentiranno la risposta che i' Re gli manderà.»—Va da i' Re e gli dice:—«Questo e questo, Maestà, m'ha risposto. La ringrazia infinitamente, ma gradirebbe che Lei con le Sue mani gnene mettesse a i' collo.»—«Benissimo!»—dice i' Re:—«È quello che io ci avrò piacere. Sai, devi ritornare là e dirgli che indispensabilmente che domani a ore quattro, gradirei che fossero a pranzo da me, se lo vogliono accettare.»—Va i' servitore, prende licenza da i' Re e gli porta l'imbasciata a questi due giovani.—«Si gradisce con tutto i' vero core di venire a pranzo da Sua Maestà; è quello che si brama. Anzi, venite qua. Tieni, questo è i' vassojo e questo è i' vezzo. Riportalo addietro; che oggi quando verrò a pranzo, Sua Maestà con le sue proprie mani me lo metterà a i' collo. E ringraziatelo di bel novo.»—Quando l'è l'ora, Sua Maestà fa attaccare la carrozza a sei cavalli, la carrozza più bella di gran[26] gala che lui avesse, per andare a prendere questi giovani. Entra in carrozza e non fa altro che svoltare e accostarsi a i' palazzo di questi due giovani. Dato di braccio la servitù a i' Re, che scendesse di carrozza e salisse la scala d'ingresso, per entrare nel palazzo di questi due giovani; entra nella sala in dove l'erano a sedere. Dice Sua Maestà:—«Signori, ben trovati.»—«Oh Sua Maestà!»—Si rizzano tutti e due; si rizzano per fargli la sua riverenza e tutti i suoi complimenti e tutto.—«State pur fermi. Ora è i' tempo di partire di qui ed entrare ne' miei appartamenti, d'i' mio real palazzo.»—«Signore»—la fa la femmina—«ora che sono arrivata nel vostro appartamento mi farete il regalo di mettermi il vezzo che mi avete mandato.»—«Più che volentieri. Fido!»—Siccome questa bellissima femmina faceva tanto per farsi riconoscere al padre che l'era sua figlia, perchè l'aveva un segnale nel collo, prossimo alle reni, d'una voglia d'un bellissimo granchio; si leva i' velo che aveva a i' collo. Eccoti i' padre che Fido gli avea portato i' vassojo con i' vezzo; prossimo a lei ci era una bellissima sieda; che i' padre prende i' vezzo per mettergnene a i' collo, quando gli è di dietro per fermargnene con la fermezza e tutto, a un tratto fa:—«Ohimmè!»—e si sviene.—«Uh! che è seguìto? cosa c'è? cosa c'è?»—«Portate roba da far rinvenire Sua Maestà!»—Rinviene:—«Se non fussi diciott'anni che mia figlia è fori della mia reggia, che rimase incantata da un mago, direi che fosse mia figlia, direi.»—«Signor padre, m'inchino davanti a Lei.»—Si rizza e s'inginocchia davanti a lui.—«Sei mia figlia, proprio?»—«Sì, mio padre, che io sono Sua figlia proprio. Chesto è stato i' mio liberatore, che due suoi propri fratelli, i' mago che incantò me, gli squartò tutti e due,»—e gli racconta tutt'i' caso com'era seguito, lei. I' Re:—«Bravo[27] Antonio! Bravo Antonio! Bravo Antonio! Dunque sarà, figlia mia, il tuo legittimo sposo.»—«Crederei a meno, signor padre.»—I' padre te l'abbraccia e te la bacia dalla contentezza.—«Ora è l'ora d'andare a pranzo,»—fa i' Re.—«Ci anderemo a pranzo, ma un momento!»—fa i' giovane.—«So molto bene che è vivente ancora i' mio poero padre. Voglio, qui assolutamente, carissimo socero, che sia a pranzo, ancora lui.»—«Dove si va a prenderlo?»—«In un momento lo farò venire in questo palazzo.»—Entra nella sala d'udienza la sposa, la sposa che doveva essere e i' Re vecchio, i' padre della ragazza. Lui prende la sua bacchettina che aveva sempre accanto a i' fianco e la batte. Battuta che l'ebbe, si sente dire: Cosa comanda?—«Comando che n'i' mio palazzo sia apportato a i' momento i' mio povero padre.»—Apparisce i' suo povero padre, con una barba che gli arrivava a i' ginocchio, vecchio decrepito da i' dispiacere di aver perso tutti e tre i suoi figlioli.—«Signori, Maestà!»—si mette inginocchioni—«cosa comandano? Sono mezzo fori di me.»—«Poero vecchio!»—fa Antonio,—«n'avevi tre de' figli, eh? Come si chiamavano?»—«Uno Gigi, uno Francesco e uno Antonio.»—«E dovresti, buon vecchio, riconoscere vostro figlio Antonio. Lo riconosceresti?»—«Altro s'io lo riconoscerei! Nell'essendo n'i' podere tra di loro fratelli, facevano i' chiasso, cascò all'indietro e si fece una fitta nella testa sopra un sasso[7].»—Antonio che si leva i' cappello, gira la testa. I' padre:—«Se non credessi che voi fussi un Re, direi che voi fusse mio figlio Antonio.»—«Sì, carissimo padre, che io sono vostro figlio Antonio.»—Che benchè avessi quella barbona lunga che gli passava i' ginocchio, fa un salto, abbraccia i' padre e lo bacia.—«Dimmi un po', Antonio, e i tuoi fratelli?»—«Eh, carissimo padre, abbiate da sapere[28] che questo ignorante di ortolano era un mago. Sapete? me li fece vedere tutti e due squartati n'i' mezzo.»—«Ah poeri miei figli! poeri miei figli e poeri miei figli!»—«Badate, carissimo mio padre, non esistono più a i' mondo i miei fratelli, ma neppure esiste più i' mago. Tanto ho fatto, che l'ho fatto morire. Alò[8], guardie, servitori e tutti, prendete i' mio poero padre, mettetelo in un bagno e lavatelo da capo a piedi e levatigli tutta quella barbaccia che lui ha davanti. Rivestitelo da gran signore da capo a piedi. Mettetegli una bella croce da cavaliere e lo spadino a i' fianco. Ora è i' momento d'entrare a pranzo.»—Se ne vanno a mangiare e bere. I' giorno agli spassi, divertimenti e tutto. Tornati dallo spasseggio entrano n'i' suo real palazzo. Feste per un par di mesi. A tutti i poeri della sua città, diedono pane, vino e carne; e se ne stettero, e a me nulla mi dettero.[9]
NOTE
[1] Variante della fiaba precedente. La prova di antropofagia si ritrova specialmente nelle tre novelle siciliane citate: Lu Scavu, La manu pagana, Ohimè. Gli ostacoli che assicurano la fuga si ritroveranno in Le due Belle—Gioje della presente raccolta. Vedi.
[2] Specie d'imprecazione che il narratore manda al mago. Nota che mago qui deve valer quanto Orco. Già l'Orco in tutti i dialetti lombardi si chiama: El mago.
[3] Probabilmente dispotico.
[4] Equivale a quel che a Napoli si direbbe mettere il lucchetto. Ma veramente le toppe son di solito fatte in Toscana diversamente che in Napoli. Nel Napoletano d'ordinario la serratura ha due buchi, uno da ciascuna parte dell'uscio, e chi vuol chiudersi in camera, toglie la chiave dal buco esterno e la mette nello interno e dà poi la mandata. In Toscana invece le toppe per lo più hanno un buco solo dalla parte di fuori e chi vuol chiudersi in camera, con un piccolo ingegno ferma la stanghetta[29] in guisa che dallo esterno non lo si può più mandare indietro neppure con la chiave. Questo ingegno appunto si chiama segreto.
[5] Più meglio, più peggio, son generalmente usati in tutti i dialetti italiani, e non ne manca esempli negli scrittori. G. B. Basile, Le avventurose disavventure, Att. I, sc. 1.
Che vita più peggior credo non sia
Del pescator, ch'ogni ora
Nel mobil flutto la sua vita arrischia.
[6] In Firenze, sul Ponte Vecchio, di qua e di là son tutte bottegucce d'orefici e giojellieri.
[7] Un contrassegno identico, che serve poi a distinguere il segnato dal suo Menecmo o Simillimo, si trova nella Cerva fatata, trattenimento primo della giornata nona del Pentamerone. Ed eran di moda simili trovati nelle commedie, quando le finivan presso che tutte con agnizioni. Dico il medesimo di quella voglia del granchio, per cui la principessa è riconosciuta dal padre.
[8] Alò, suvvia. Per fermo dal francese Allons.
[9] Non so resistere alla tentazione di appor qui una annotazioncella interpretativa, contra il mio proposito. In questa fiaba è contenuto un mito solare evidentemente. Il mago è l'inverno; Antonio è il sole; la Principessa è la terra che per opera del sole smette il lurido ammanto che ne copriva le bellezze. Tutti i particolari ritraggono di questo carattere, compresi i capelli d'oro d'Antonio e la voglia che allude a un segno del Zodiaco.
LA VERDEA[1].
C'era una volta un legnajolo di corte, e aveva tre figliole. Queste eran ragazze. Dunque il Re gli comanda di andare a fare un lavoro fori via, ma di molto; per cinque o sei anni. Quest'omo non poteva dire:—«Non ci vado!»—A voler mangiare!... Ma gli rincresceva d'andarsene lontano, in un paese, per affare di quattro o sei anni di lavoro. Torna a casa dalle figliole tutto inconsolabile, afflitto; e gli dice:—«Ragazze, Sua Maestà m'ha ordinato questo lavoro. Bisogna ch'io vada via, ch'io vi abbandoni. Ma voglio una grazia da voi.»—«Qual'è, babbo,»—dice—«la grazia?».—Che voi vi contentiate ch'io vi muri l'uscio.»—Dice:—«Oh come questo è, noi siamo contentissime!»—E così quest'omo fa murare la porta. Gli mette tutto tutto tutto quello necessario; gli lascia quattrini; e gli dice:—«Prendete questo bel paniere grande, e la fune del pozzo. E quando passa questi omini che vendon la roba, calategnene, e comprate quel che volete e così mangerete. E addio!»—«Addio!»—Le bacia: potete credere, gua', che pianti! E gli fa finire di murare la porta, perchè ne avea lasciato un pochino per passare; e si mette in viaggio[2]. Lasciamo che Sua Maestà stava dalla parte di dietro del palazzo, affacciato alla finestra. Ed appunto rimaneva di faccia alle finestre di queste ragazze; e le erano tutte e tre alla finestra sulle ventitrè, facevano per prendere un[31] po' d'aria. Gli vien voltato l'occhio per caso e vede queste tre belle ragazze; che l'eran proprio di latte e sangue, belle! Non istà a dire:—«Che c'è stato?»—La mattina si veste da poerone con un paniere di fila d'oro, e va girando:—«I' ho le belle fila d'oro! I' ho le belle fila! I' ho le belle fi'!»—E le ragazze dice:—«Si chiama quest'omo? Intanto che si sta chiuse si farà un bel lavoro, via.»—Lo chiamano; e lui:—«Comandino, cosa vogliono, signore?»—«Quanto le fate le fila d'oro?»—Gli dice il prezzo e loro gli calano i quattrini. Cari l'erano: il prezzo proprio non lo so, ma potrei anche dire immaginandolo. Dirò uno zecchino.—«Ma badino»—dice il Re—«le pesan di molto.»—«Eh!—dice loro—«siamo in tre! «Diamine, che in tre non s'abbiano a potere?»—E che ti fa, lui? S'attacca alla fune, al paniere; e su. Loro credon che le sian le fila d'oro che pesano e invece gli era il Re proprio. Loro, quando vedono che gli era un omo, loro non raccapezzano, no: lo volevan buttar di sotto. Ma lui disse:—«Ferme! sono il Re!»—e s'afferrò alla finestra.—«Avendo saputo che voi èrate sole, son venuto a farvi compagnia.»—Queste ragazze, potete comprendere, vergognate in quel momento, perchè poere; e dissero:—«Maestà, perdonate: noi siamo poere ragazze. Non vi si pol ricevere com'è il vostro merito. Ci vorrebbe altro!»—«Ah!»—dice—«Niente, niente! Io non ricerco la ricchezza. Io vengo da voi perchè di certo so che siete tanto bone ragazze. Ed io vengo per passare un'ora con voi. Quanto mi rincresce»—dice—«che non ci sia vostro padre! perchè io do tre festini: e m'incresce, perchè voi poerine non possiate venire.»—Le fanciulle gli fanno i complimenti:—«Troppo garbato, Maestà, troppo garbato.»—«Ma»—dice—«quando ci sarà vostro padre, io ne darò degli altri ed allora[32] vo' ci verrete.»—Si trattenne un altro poco, un'altra mezz'ora, dirò; e poi gli dice:—«Addio, addio a domani.»—Si rimette nello stesso panierino, e loro lo ricalano con la stessa fune, come gli è salito. Lui va al palazzo e le ragazze rimangon lì chiacchierando di questa cosa. Dice la minore:—«Che credete che questa sera vo' non abbiate a calarmi?»—a calar giù ancora lei.—«A fare icchè»—dice le sorelle—«ti s'ha a calare?»—«Voi mi dovete calare e non ricercare quel ch'io farò.»—Dunque insisteva. Loro di no; e lei sempre:—«Voi mi calerete, vo' m'avete a calare.»—S'erano stancate: dicevan di no e lei la diceva sì.—«Vuoi calare? e tu cala!»—e con la fune la calarono. Questa ragazza l'avea preso un paniere grande. Va all'usciolino secreto di Sua Maestà. Sta in orecchi; non sente nessuno. Lesta lei principia a salire e entra nella cucina. E siccome[3] tutte le guardie erano a guardare, sapete bene, là dove s'appartiene, qua non ci pensavan neppure. Che ti fa? La prende tutte le meglio robe, tutto arrosto, potete immaginare cosa ci sarà stato! e mette tutto nel paniere la meglio roba. E poi l'altra roba, quello che era rimasto lì per Sua Maestà, tutto cenere e acqua, la gnene sciupò tutta. E poi la va via, e va in cantina: prende i meglio vini, le meglio bottiglie, tutte le qualità che lei poteva prendere. E poi dà l'andare a tutte le botti, bottiglie e tutto quel che rimase; e vien via. Corre verso casa.—«Tiratemi su! tiratemi su!»—alle sorelle.—Eccoti le sorelle la tiran su: e videro un paniere di roba, pieno d'ogni grazia di dio. Gli domandano:—«In che maniera?»—E lei:—«Zitto! ve lo dirò. Serrate le finestre e ve lo dirò!»—Serrano e gli dice:—«Io sono stata così da Sua Maestà. Ho fatto questo e questo. Ho preso tutta la meglio roba; e poi ho spento con cenere la roba da mangiare ch'era rimasta. E[33] poi ho dato l'andare alle botti.»—Dice le sorelle:—«O cos'hai tu fatto!»—«Pensiamo a mangiare»—dice—«e non pensiamo ad altro.»—Venghiamo a Sua Maestà che di certo dopo aver ballato, ordina che gli sia messo in tavola: in tutti i festini ci è il suo buffè. Vanno i cuochi in cucina e trovan questo spettacolo. Rimangon più morti che vivi, addolorati molto, perchè non sapevan loro quel che dovevano andare a dire a Sua Maestà. Sua Maestà insisteva:—«Mettete in tavola!»—Allora un di quelli disse:—«Maestà, abbiate la bontà di venir con noi, e vedere la disgrazia che n'è seguita.»—«Ah bricconi!»—dice—«Traditori! Uno di voi gli è che m'ha fatto questo spregio!»—Loro gli si buttano ai piedi piangendo:—«Maestà, noi siamo innocenti!»—«Ah!»—dice—alzatevi. Almeno andate in cantina a prendere qualcosa da bere.»—E va da' signori e dice:—«Signori, ci è questo e questo. Si contenteranno di rinfrescarsi. Ormai la disgrazia qui c'è: qualche astro maligno, qualche fata che mi vol male assoluto.»—Gli òmini di corte vanno alla cantina e trovano il lago, più di mezz'omo. Urlano!—«Maestà, abbiate bontà di venire con noi, perchè...»—Va giù e vede tutto un lago, tutto buttato. Torna in su e dice a' signori:—«Signori, abbiano bontà. Veggon bene, non ho neppure da dar loro a rinfrescarsi. Questi birbanti chi sono?»—E piangeva per la vergogna.—«Ma domani sera, signori, metterò le guardie doppie. Così non seguirà. Perchè il primo che io posso scoprire, il pezzo più grosso dev'essere un chicco di rena. Questo ladro, questo birbante...»—I signori si licenziarono a corpo voto e Sua Maestà si mette a piangere; e pianse tutta la notte dicendo sempre:—«Sconta[4] delle mie bambine, che mi voglion tanto bene, con questi traditori che mi voglion tanto male.»—Venghiamo[34] alle ragazze.—«Oh!»—dice—«tra poco c'è da aspettarselo, Sua Maestà; c'è da vederlo, gua', chè ce lo promesse. Non facciamo vistosità che s'è fatta questa cosa.»—E così, dopo un quarto d'ora, Sua Maestà:—«Ho le belle fila d'oro![5]»—«Eccolo!»— dice. Gli calan la fune, e lui vien su; afflitto, con gli occhi rossi.—«Maestà, cos'avete oggi?»—gli dicono.— «Ah le mie bambine, ora vi conterò quel ch'i' ho,»— dice.—«Vi ricordate voi ieri che io dissi, che io dava tre festini?»—«Sissignore.»—«Abbiate da sapere che ieri sera all'ora che io doveva far mettere in tavola, i miei vanno in cucina e trovano tutta la roba con cenere e acqua, tutto straziato, ma uno strazio impossibile a dirlo. Loro rimasero più morti che vivi, questi miei servitori. Io insisteva che mettessero in tavola. Allora si buttarono ai piedi e dissero: Maestà, venite a vedere il caso brutto che è seguito. Ed io gli dissi: Ah, traditori, bricconi, uno di voi siete. Loro si gittarono ai piedi e conobbi bene la sua innocenza. Ma qui un astro maligno c'è, o una fata; o un traditore c'è. Ma se io lo scopro dev'essere più grosso un chicco di rena della sua persona! dev'essere spezzato più fine che un chicco di rena.»—«Ma come si fa a fare queste cose?»—gli rispondono le ragazze.—«Mentre che il Re è tanto il bon signore. Come si fa a fargli questi strazii di buttargli la roba?»—«Oh, ma stasera ci sono le guardie doppie, oh!»—Egli fa come a dire, gli pare d'averla tra le mani questa persona. Si trattiene un altro poco, poi se ne va:—«Addio, addio, a domani.»—Quando gli è verso le ventitrè, dice la sorella minore:—«Che credete voi che non abbiate a calarmi stasera?»—Dice le sorelle:—«Oh questa sera poi, non ti si calerà davvero. Avresti aver sentito! Gli ha detto, s'egli scopre questa persona, gli ha da essere più grosso un chicco[35] di rena. Noi non ti si cala.»—No e sì, no e sì, bisogna che la calino, son costrette a calarla. Quando l'hanno calata, lei via dall'usciolino solito. Sta in orecchi, cheh! non sente un'anima. Tutti erano attenti dove potevan credere che venivan le genti, ma di qua non c'era nessuno, non sapevan dell'usciolino segreto. La ragazza lo sapeva, perchè gnene aveva detto suo padre. Prende tutta la roba più dell'altra sera, perchè c'era più roba e più squisita; e fa l'istesso: quello che rimane tutto cenere ed acqua e tutto un piaccicume. Va alla cantina e piglia la meglio roba che ci possa essere, mah! bottiglie più squisite, sempre più della prima volta. La dà l'andare alle botti e poi la scappa a casa.—«Tiratemi su, tiratemi su!»—Va su; e le si mettono a mangiare in festa, tutte allegre. Venghiamo a Sua Maestà, che dice ai signori:—«Questa sera non è come ieri sera, no! Io ho messo le guardie doppie.»—«Mettete in tavola!»—dice ai cuochi, alla servitù. Vanno in cucina e trovano peggio dell'altra sera: tutto cenere, acqua; un marume.—«Maestà»—dice—«abbiate la bontà di venir di qua da noi.»—«Ahn? forse ci sarebbe lo stesso tradimento?»—«Maestà, venite a vedere.»—«Ah traditori, ora poi conosco che siete voi davvero. Con le guardie doppie non è entrato qui nessuno.»—Questi urlavano appiedi:—«Maestà, salvateci! siamo innocenti.»—Maestà dice:—«Qui c'è qualcheduno che mi vole un male a questo punto! Alzatevi, io vi perdono. Andate almeno in cantina: questi signori scuseranno, e si contenteranno di rinfrescarsi.»—Vanno alla cantina, e se la prima sera gli veniva sin qui a mezza persona, questa poi non si poteva neppure entrare, si affogava dal lago. Maestà è costretto a dire a que' signori:—«Vengano a vedere la disgrazia che ho addosso. Non solo... ma che quest'astro maligno vi sia e di non lo potere[36] scoprire!»—E quei signori ebbero a andare con le trombe nel sacco, come si suol dire, senza prender niente, quella seconda sera.—«Ma»—dice il Re—«domani sera ci sto in persona io.»—Vanno via. Venghiamo al Re che dà in un dirotto pianto. Piange sempre dicendo:—«Le mie povere bambine quanto mi voglion bene, e questi traditori quanto mi voglion male!»—Venghiamo alle ragazze.—«Oh!»—dice—«badate! Non ci sarà molto, che ora verrà Maestà. Procacciamo di non fare vistosità, sennò noi siam morte.»—E così dopo mezz'ora, ecco Maestà con le fila d'oro: non avea nemmanco fiato.—«Oh»—dice—«eccolo! coraggio!»—Calan la fune e lui va su, più morto che vivo.—«Felice giorno, Maestà. O come va? che si sente male?»—Un viso gli aveva, morto. Dice:—«Ah le mie bambine, voi non sapete! Iersera fu peggio dell'altra sera il tradimento.»—«Ah, ma come mai, signore? gli è tanto il bon signore! che gli debban fare queste cattività?»—«Eh, ma stasera ci sto in persona. Non ci sarà scusa. Eh se lo posso avere!... se io posso scoprire!... vi replico quel ch'io vi dissi: il chicco d'arena dev'essere più grosso di questa persona quando lo mando in tritoli.»—«Oh l'ha ragione! È tanto il bon signore!»—le replicano. Sua Maestà va via dopo essersi trattenuto un'altra mezz'ora. Ci era andato per passarvi un'altra mezz'ora, non per fin di nulla, via. Quando gli è andato via:—«Che credete che stasera non mi abbiate a calare?»—disse la minore di tutte.—«Ah che non ti si cala davvero noi, stasera. Non ti si cala; e si scriverà al babbo in qualche maniera, perchè noi non si vole di queste cose.»—Che volete? Sì, no, si, no; furono costrette a calarla anche stasera. Figuratevi, entra nell'usciolino: chè se la prima sera ci era d'ogni bene di dio, l'ultima non si pole spiegare, ecco![37] Prende il suo paniere e comincia a metter roba, tutta la più meglio che ci fosse. L'altra, fa il solito: tutt'acqua e cenere; la mette giù nel camino tutta sciupata come l'altra sera. E va in cantina. Scende in cantina, prende il meglio vino e le bottiglie le migliori[7], poi si volta e vede un vaso di verdea. Lesta lei, lo prende e lo mette nel panierino. Dà l'andare alle botti, poi lesta a casa:— «Tiratemi su, tiratemi su!»—La va su a mangiare con le sorelle. Lasciamo là quelle che sono in gaudeamus, a cenare come principesse, e venghiamo a Maestà che dice:—«Signori, stasera non sarà come l'altra sera: ci sono stato da me a guardare.»—E questi signori tutti contenti dentro di sè. Ora ordina di mettere in tavola. I cochi entrano in cucina e veggono più cento volte straziato delle prime sere. Più lesti andierono da Sua Maestà, perchè:—«Se stasera»—dice—«c'è stato da sè, non ci pole incolpare.»—«Maestà, venite a vedere.»—«E cosa c'è da vedere?»—«Venite a vedere»—dice. Va a vedere, che? figuratevi la cosa!—«Qui c'è un astro maligno, qualche fata che si gioca di me!»—Va dai signori:—«Signori, siamo alle medesime. Venghino a vedere anche loro!»—Poveretto, gua'. Vanno alla cantina, figuratevi, tutto un lago: non si vedeva proprio dove andare. Tutto cascato il vino e poi tutto mescolato. Dice a questi signori che gli abbino pazienza, ma che dei festini non ne dà più, perchè non poteva dar loro nemmanco da rinfrescarsi. Tutto un lago giù, non ci si raccapezzava nulla. Piangendo, sospirando, gli pareva mill'anni d'arrivare alla mattina, d'andare alle sue bambine. Dice:—«Le mie povere bambine quanto mi voglion bene, e questi traditori quanto mi voglion male!»—Per tornare un passo addietro, queste ragazze:—«Dove si metterà»—dice—«questo vaso di verdea?»—La verdea, l'è roba che si mangia come[38] una conserva, io m'immagino; ma cosa sia appuntino io non so[8]. Le non ci avevan posto: pensano di metterlo sotto al letto, rimpetto alla finestra, questo vaso. Eccoti Maestà:—«Ho le belle fila d'oro! ho le belle fila! ho le belle fi'.»—«Eccolo, eccolo! per l'amor d'iddio non ci facciamo conoscere. Ci vuol coraggio, gua'.»—Calano il paniere, le funi solite; lo tiran su. Piangeva a calde lacrime.—«Oh Maestà! Ma cos'avete?»— lo vedevan troppo disperato.—«Ah quel ch'i' ho? Peggiore di tutte l'altre sere! Non basta essere stato da me in persona. Questo è qualche astro maligno o qualche fata. Ma io non ne darò mai più di questi festini.»—Discorrevano del più e del meno, loro dicendo sempre:—«Tanto bon signore!»—e sempre replicavano questa parola. Sua Maestà si è trattenuto altra mezz'ora, come il solito, da queste ragazze, e se ne va:—«Addio, addio, a domani.»—Nel mentre le ragazze lo calano, lui vede il vaso della verdea sotto il letto:—«Oh traditore!»—gli dice, e fa per ritornare su in casa. E loro lo buttano di sotto senz'altri discorsi. Chi lo buttò fu la sorella minore. Sua Maestà si fece un male, ma male passabile. Lascio considerare le ragazze maggiori come rimasero, dicendogli, alla sorella:—«Qualunque sia il caso, la rea tu siei te. Noi non ci s'ha colpa.»—Venghiamo a Maestà. Va nel suo quartiere e subito scrive al suo padre, delle ragazze, una lettera fulminante: che in due ore e mezza, lui fosse al palazzo, altrimenti, pena la testa. Lascio considerà' quest'omo nella massima disperazione, pensando a più cose e non sapendo perchè Sua Maestà gli avea detto per sei anni e in capo a pochi giorni lo manda a chiamare:—«Eh, qualcosa ci è!»—dice.—«Le mie figliole non possan essere, perchè gli ho murato l'uscio; impossibile!»—Si mette in viaggio, più morto che vivo con questa pena, con questo pensiero; e arriva[39] al palazzo. Dice:—«Sua Maestà mi ha mandato a chiamare.»— E così Sua Maestà sente che gli è arrivato, dice:—«Fatelo passare.»—E passa quest'omo.—«Che mi comanda Sua Maestà?»—«Mettetevi a sedere»— dice. E quest'omo si mette a sedere.—«Ditemi, quante figlie avete voi?»—Lui, si sente una stilettata, perchè:—«qualcosa c'è sulle mie figliole!»— Dice:—«Tre, Maestà.»—«Bene: si potranno vedere queste tre figlie?»—«Maestà, quando Lei voglia. Ma si ricordi, che noi siam poverelli, noi. Non si pò riceverla come Lei meriterebbe di certo.»—«Non m'importa!»—disse Sua Maestà.—«Io bramo di conoscerle; ed una di loro la voglio in isposa.»—Quest'omo si butta a' piedi dicendo:—«Maestà, io sono un pover'omo. Impossibile che voi vogliate abbassarvi a prendere una delle mie figliole.»—«Oh io vi replico che una di tre io la voglio.»—«Allora,»— dice—«Maestà, mi permetterete che io faccia smurare l'uscio, perchè io gli ho lasciato l'uscio murato. E allora potremo andare.»—Va e fa buttare giù l'uscio, e va su dalle figliole, tutto... non sapeva nemmen lui quel ch'egli era.—«Oh babbo!»—Gli fanno le feste, lascio pensare.—«Oh babbo, ben tornato. In che maniera così presto?»—«Maestà mi ha mandato a chiamare, e io son dovuto tornare, eh. E mi ha detto:— «Quante figlie avete?»—Loro, figuriamoci, le maggiori, il suo core dove gli andiede:—«Ci siamo, gua'!»—«E io gli ho detto: Tre, Maestà; tre figlie ho.—Si potrebbero vedere? Io gli ho detto: Maestà, sapete bene, noi siamo poveri; non vi si potrà ricevere secondo il vostro merito. E lui ha detto: Cheh! no, no, vi replico; io voglio vederle, perchè una di tre la voglio per isposa. Quella che mi vole.»—La maggiore dice a suo padre:—«Io no, io non lo prenderei davvero.»—La seconda:—«Neppure io, sa, babbo; perchè...»—La[40] minore:—«Lo prenderò io»—dice.—«Io lo prenderò volentieri.»—Eccoti Sua Maestà che viene in casa con suo padre e va su, e si mette a parlare, a discorrere del più, del meno. Suo padre è costretto a dirgli:—«Sua Maestà una di voi vi accetta per isposa.»—La maggiore dice di no:—«Non per... ma che vole! ci vorrebbe altro! io non posso essere capace...»—La seconda l'istesso:—«Noi non siamo istruite, quel che Lei merita.»—La minore dice:—«Lo prenderò io, io sono contenta.»—Era lei che aveva fatta la mancanza. Ecco, conchiudono le nozze; fecero presto, in quattro o sei giorni. Così il giorno dello sposalizio, dopo l'anello, un momento di libertà ci vole. La gli dice alle sue damigelle:—«Io voglio fare una celia al Re.»—«Cosa, signora, vol fare?»—«Stai zitta. Io voglio fare una celia. Voglio far fare una donna tutta di pasta, e da qui in su tutta zucchero e miele: e poi ci siano ordinghi da potergli fare dire di sì e dire di no.»—Figuriamoci, non aveva finito d'ordinare che gli era bell' e fatta!—«Perchè la voglio mettere nel letto, voglio fargli una celia al Re. Come a dire invece d'io[9] che ci sia questa donna di pasta[10].»—Ed appena fatta, la fa mettere in letto con la berretta, tutta vestita, come se la fosse stata lei in persona. Dopo pranzo, dopo la cena, dopo tutta l'allegria, vien l'ora di coricarsi. E chiede lei d'andare prima un momento a letto. Invece di spogliarsi entra sott'il letto e si prepara con questi ordinghi, se mai, a tirare e a dire di sì e di no. Venghiamo a Maestà che dice ai servi:—«Non occorre che mi spogliate stasera: faccio da me.»—Entra in camera, e serra. E dice:— Briccona! Ti ricordi eh, quando io diedi tre festini e mi eran fatti quegli spregi; e che te andavi dicendo: è tanto bon signore!, traditora.»—Lei, sotto al letto:—«Sì, me ne ricordo.»—E tirava i fili, perchè[41] dicesse sì la donna di pasta.—«Ah, te ne ricordi, eh?»—«Sì»—la dice.—«Me ne ricordo.»—«Adesso è tempo della mia vendetta.»—Prende la spada e va al letto e la ferisce; via, ferisce quella bambola ch'era lì coricata. E gli spruzza tutto zucchero e miele.[11] E lui sentendo dolce, zucchero e miele, comincia a dire:—«Oh Leonarda mia di zucchero e miele! se io ti avessi ora ti vorrei gran bene.»—Lei dice:—«Io son morta.»—Lo dice, gua'! con una voce flebile. E lui insiste:—«Ah Leonarda mia di zucchero e miele! se ti avessi ora ti vorrei un gran bene.»—E lei ridice:—«Son morta.»—Quando la vede che lui gli era veramente per ammazzarsi (lui s'ammazzava), la sorte fôra e dice:—«I' son viva, son viva!»—S'attaccano al collo, si baciano, si perdonano, e nessun seppe nulla, perchè rimase in loro. Se l'ammazzava davvero, era morta: ma fu celia. La mattina s'alzarono, come fanno il solito. Leonarda la fece venire il padre e le sorelle e li fa i primi signori del palazzo. E così una cosa di celia, le riuscì di divenire una Regina. E visse bene, ma ci vol di quelle furberie.
NOTE
[1] È sottosopra l'argomento della Sapia Liccarda, Trattenimento quarto della terza giornata del Pentamerone:—«Sapia co' lo 'ngiegno ssujo, essenno lontano lo patre, sse mantene 'nnorata co' tutto lo male esempio de le sore. Burla lo 'nnamorato, e previsto lo pericolo che passava, repara lo danno. Ed all'utemo lo figlio de lo Rre sse la piglia pe' mogliere.»—Variante della presente è la fiaba di questa raccolta, intitolata: La bella Giovanna. La chiusa di questa novella (cioè, l'episodio della bambola) è identica con quella dello esempio milanese seguente, che è una fusione di due cunti del Pentamerone, cioè della Sapia Liccarda e di Viola (Trattenimento III della giornata[42] II.—«Viola 'mmediata da le sore, dappò assaje burle fatte e recevute da 'no prencipe, a despietto loro le doventa mogliere.»—)
LA STELLA DIANA[i]
Gh'era ona voeulta on spezièe, che el gh'aveva ona tosa[ii]. L'era vedov, el gh'aveva minga mièe[iii]. El ghe voreva tanto ben a sta soa tosa; e lee, l'andava a imparà a cusì de biancheria in d'ona soa amisa. E sta soa amisa, ghe piaseva tanto i fior; la gh'aveva ona terrazza; e tutti i dopodisnàa[iv] l'andava a dacquà sti fior; e per contra gh'era on poggioeu[v] e gh'era semper là on scior. Lu el saveva, che lee, la gh'aveva nomm: Stella Diana. El ghe diseva:—«Stella Diana, quanti foeuj[vi] fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—Lu, el dis:—I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«La mia maggiorana non si può rimirare.»—E lu, el gh'aveva tant piasè de vedella de visin sta tosa, l'è andaa intes con quella dove l'era in casa lee; el s'è vestìi e l'ha fint de vess on pessee[vii], de andà là a vend el pess. Quella dove l'era in casa da laorà[viii], la ghe dis:—«Famm el piasè a toeu de quel pessin.»—E la ghe dis: cosse l'è ch'el voreva. E lu, el gh'ha domandàa on prezzi carissim. E lee, la gh'ha ditt che le voreva minga, che l'era tropp car. E lu, el gh'ha ditt de fagh on basin, ch'el ghe dava el pessin. S'ciao! lee, la gh'ha fàa el basin, e lu, el gh'ha dàa el pessin. Al dopdisnàa la torna anmò su la terrazza; e lu, el ghe torna a dì:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—E lu, el dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«La mia maggiorana non se può rimirare.»—E lu, el ghe dis:—«Per on pessin, la m'ha faa el basin.»—Lee, l'era rabiada perchè el gh'ha fàa sto scherz; e lee, la pensava de faghen vun a lu. L'ha miss ona bellissima zenta[ix] in vita, magnifica, e l'ha ciappàa ona mula, e l'è andada a cavall e l'è passada via dove el stava lu, a posta pe fass vedè, che la gh'aveva sta zenta inscì preziosa. E lu, l'ha veduda e l'ha ditt:—«Oh che bellezza d'ona zenta! come me piasaria, che la fuss mia!»—L'è andàa de bass, e gh'ha ditt cosse l'è ch'el voreva (perchè l'era vestida de omm) per quella zenta. E lu (che l'era lee vestida de omm) l'ha ditt[x]: che lu le vendeva minga; che chi ghe faseva on basin in del cùu alla soa mula, el ghe dava la zentura. S'ciao! e lu, l'ha guardàa, l'ha vedùu che gh'era nissun attorno e la zenta la ghe piaseva tant, el gh'ha fàa el basin, e l'ha ciappàa la soa zenta e via! l'è scappàa via subet. Al dopdisnàa tornen de capp: lee, in su la soa terrazza, e lu, in sul poggioeu. E lu, el ghe dis:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—Lu, el dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare!»—E lee, la ghe dis:—«Anca la mia maggiorana non si può rimirare!»—E lu, el ghe dis:—«E per el pessin, la m'ha faa el basin.»—E lee, la ghe dis:—«E per la zentura, el gh'ha basàa el cùu a la mia mulla[xi].»—Quand l'ha sentìi, che lee, la gh'ha faa sto desprèsi[xii], allora lu el pensa de faghen on alter anmò a lee. L'è andaa in dove l'era in casa lee a laorà e l'è restaa intèe de fagh on scherz. Al dopdisnàa, lee, l'ha faa per andà a cà, quand l'è in su la scala, gh'è i basej[xiii] con denter di sfor, di bus, che l'è la scala che sott ghe resta la cantinna. El se prepara là e menter che la passava el cascia su la man e el ghe tira la vesta. Lee, la diseva:—«Sura maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia: gh'è nissun che mi abbraccia?»—Lee, la maestra, l'amisa, la diseva:—«Va, va, che la scala ti lascerà.»—Lee, adess la s'è ammalada e l'è stada on poo de temp senza podè andà a la soa scola. Dopo l'è andada e torna la stessa storia sulla terrazza. Lu, el ghe dis:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»— E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—E lu, el ghe dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«Anca la mia maggiorana non si può rimirare.»—E lu, el ghe dis:—«Per el pessin, la m'ha faa el basin.»—E lee, la ghe dis:—«Per la zentura, l'ha basàa el cùu a la mia mula.»—E lu, el ghe dis:—«Sura Maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia; gh'è nissun che mi abbraccia? Va, va, che la scala ti lascerà.»—Lee, la sent sti robb tutta rabbiada, la pensa de faghen vunna pussèe[xiv] bella. Donca la va a cà del so papà e la ghe dis de faghel sto piasè, de dagh di danèe:—«ma tanti, perchè ghe n'hoo de bisogn.»—Lu, el ghe dis:—«Cosa te n'hê de fann?»—Lee, la dis:—«Tel diròo, quand gh'avaròo faa, quel che gh'hoo intenzion de fà mi.»—E l'è andada e l'ha pagaa di servitor de la casa in dove el stava lu, per lassalla entrà ona sera in di stanz in dove stava el so padron. E lee, la s'è missa on lenzoeu in testa, bianch; ona gran torcia in man e on liber; e al moment che l'entrava in stanza de lu l'ha pizzaa sta torcia. E lu, a vedè sta fantasma tutt'on tratt, con sto ciar a comparì, el s'è stremìi.—«Questa l'è l'ultima ora de la toa vita: ti te devet morì!»—E lu, tutt stremìi, el diseva:—«Morte mortina, lasciami stare, che son giovinetto; va da mio padre ch'è più vecchio di me!»—E lee, la ghe diseva:—«No, questo è il tuo momento e non è il momento di tuo padre![xv]»—E poeu l'ha smorzaa[xvi] la soa torcia, e via la gh'è scomparsa. Lu, el pessèga, el sona el campanin e el dimanda la servitù tutt stremìi con paura: el fatt l'è che l'ha faa ona malattia de la gran paura che l'ha ciappàa e l'è stàa tanto temp in lett. Quand l'è andaa ancamò in sul so poggioeu, l'ha veduu la Stella Diana. Lu, el ghe dis:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—E lu, el ghe dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«Anca la mia maggiorana non si può rimirare.»—E lu, el ghe dis:—«Per el pessin, la m'ha faa el basin.»—E lee, la ghe dis:—«Per la zentura, l'ha basaa el cùu a la mia mulla.»—E lu, el ghe dis:—«Sura maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia; gh'è nissun che mi abbraccia? Va, va, che la scala ti lascerà.»—E lee, la ghe dis:—«Morte mortina, lasciami stare che son giovinetto! va da mio padre ch'è più vecchio di me.»—E lu, el sent che la gh'ha faa sto scherz, el dis:—«La m'ha fàa de sti azion! Adess me vendicaròo mi deversament.»—El va e le cerca al so pa per sposalla. E lu, el so pader, el ghe dis che l'è impossibel perchè l'è fioeu del Re. E lee, la tosa, la ghe dis a so papà:—«Lassa pur ch'el me sposa; mi el sposi subet volentera.»—Donca fann el contratt. Fissàa el dì di sposalizi, lee, cosa l'ha faa, lee? La pensa de fa on'altra robba innanz che l'avess avùu de sposalla, fa fà ona gran pigotta[xvii] granda, le mett in camisa cont on gipponin de lett[xviii] e la gh'ha faa mett ona vessiga, chì, in del stomegh, piena de lacc[xix] e vin e zuccher. Poeu la sera che l'è andada a cà dopo sposada, lee, la gh'aveva scondùu la soa pigotta in d'on vestee[xx]. Intrettant ch'el passeggiava in stanza, che lee la se disvestiva per andà in lett, la gh'ha miss in lett la pigotta. E lee, la s'è sconduda. E lu al va là, cont on stil:—«Ah!»—el dis—«adess me vendighi mi! Quest chì, l'è propi el to ultim moment, e l'è minga el mè.»—El ghe dà ona stillettada in de la vessiga: la, l'ha credùu de daghela in del coeur, e gh'è andaa on poo de sto vin e lacc dolz in bocca:—«Oh poer a mi! come l'è dolz el sangue della mia Stella Diana! Poer[xxi] a mi! coss'hoo mai fàa!»—a piang tutt desperaa.—«L'è vera che sont on Re; ma se fuss el Re de tutt i Re, la mia Stella Diana la farìa diventa viva anmò!»—Lee, l'ha lassaa piang desperàa. E poeu l'è vegnuda foeura e la gh'ha ditt;—«No, sont chi ancamò. La toa Stella Diana l'è minga morta.»—S'ciao! lu, dopo el gh'ha voruu ben; e lee, l'è stada soa mièe.
[i] Identico è il conto siciliano di Ficarazzi La Grasta di lu basilico presso Pitrè, Fiabe, novelle, racconti ed altre tradizioni popolari siciliane; e l'altro Von der Tochter des Fürsten Cirimimminu oder Unniciminu, presso la Gonzenbach, Sicialianische Märchen.
[ii] Tosa, fanciulla; pl. Tosànn. Da intonsa.—Celio Malaspini, Duecento Novelle, Parte II, novella XLVI:—«Il che veduto da lui, per il grandissimo spavento che lo soprapprese, egli rimase più morto che vivo. E poi si pose a fuggire con la maggior celerità del mondo, gridando: Ahimè nostra Donna di San Celso (chiesa molto celebre e devota di quella città) io mi vi raccomando insieme con i miei poveri figliuoli! o tosane ch'egli dicesse nello idioma milanese.»—Ibid, XXXIII.—«Al quale ella rispose:.... Per ora io non vi voglio dire altro, se non che voi lasciate la cura a me di questo negozio, sperando io di ridurre quelle tosane (le quali in Milano così si chiamano le figlie da marito) in tale stato che ve ne contenterete....» Il Pulci, Morgante, XXVII, 243:
Le donne e le tosette scapigliate
Correvan tutte come cosa pazza
Ed eran dalla gente calpestate.
Anche il Boccaccio nel Decameron adoperò questo lombardismo.
[iii] Miée, moglie.
[iv] Dopdisnàa o dopodisnàa, dopopranzo. Dacquà, adacquare, annaffiare.
[v] Terrazza, terrazzo, terrazza, altana, belvedere, verone. Poggioeu, terrazzino, il balcone de' meridionali. Linghèra, ballatoio.
[vi] Foeuja o foglia, femm. (pl. foeuj), foglia. Foeuj, masch. foglio.
[vii] Vess, essere. Pessée, pescivendolo, pesciajuolo. Pess, pesce. Pessin, pesciolino, pesciatello.
[viii] Il Cherubini, nello stupendo suo Vocabolario Milanese—Italiano, registra solo lavorà.
[ix] Zenta, cinta, cintolo, scheggiale. Zentura, cintura, cintola.
[x] Dice il Marino nell'Adone, Canto XIV, stanza XXVII, in una situazione consimile: Ei rivolto a colei ch'era colui.
[xi] Mula e Mulla, femm.; Mul masch.
[xii] Desprìsi, dispetto.
[xiii] Basell sing.; basej o basij, plur. Gradino, scalino, scaglione. Bus, buco, foro, pertugio. Sfor, luce, apertura, ogni vano nelle fabbriche.
[xiv] Pussée, più, dippiù; da più assai (?).
[xv] Nel seicento ebbe gran voga un libro d'educazione morale intitolato: L'Utile col dolce, cavato da' detti e fatti di diversi uomini saviissimi, che si contiene in tre decade di arguzie dal padre Carlo Casalicchio della Compagnia di Giesù; per ricreazione e spiritual profitto di tutti e consolazione specialmente de' tribolati et afflitti e per efficace antidoto contro la peste della malinconia. Nell'arguzia seconda della terza decade della parte terza, si mostra a qual precipizio conduchi la passione dell'interesse narrando un furto tentato da tre birbe a danno di un oste decrepito ed avaro, secondo il racconto del padre Giacomo Bidermano:—«Alle due o alle tre ore di notte, quando sentirono che l'oste tutta via russava, Andrea, chè questo era il nome di un de' tre ladri, apre pian piano la porta della camera del vecchio, e mascherato con una maschera che rappresentava la morte, e tenendo una tovaglia assai lunga in capo, che gli scendeva insino ai piedi, nella destra un arco con la saetta e nella sinistra un orologio di arena, sen va a dirittura verso del letto dove tuttavia dormiva il vecchio e crollatolo con una gran scossa, lo chiama per nome con orribilissima e luttuosa voce e gli annuncia ch'è necessario senza dimora alcuna partire da questa vita per passarsene all'altra. Qui il vecchio (che per lo stordimento del sonno, che per l'imagine di colui che pur vedeva col debil lume che gli dava una lampada accesa e che per le tenebre della notte spaventosissima gli pareva, ebbe veramente a morire) tutto tremante prega la Morte e la scongiura per dio e per li santi tutti del cielo, che voglia avergli compassione, così appunto dicendole: Morte non esser così spietata et inumana con un povero vecchio che avendo faticato e stentato tutto il tempo di vita sua ed avendo acquistato parecchi denari e molte ricchezze, avessi poi a morire senza disporre del mio e senza aggiustare che i miei figli abbino a godere ognuno per la sua parte i miei sudori! E giacchè siete stata sempre con me sì insino a questo tempo così amorevole e cortese che non me avete reciso il fil della vita, benchè l'abbiate fatto, senza nessuna misericordia, con tanti e tanti altri giovani e che non avevano nemmeno la metà de' miei anni, siatelo ancora, io non dico per anni o mesi benigna e cortese verso di me stesso col non togliermi la vita, ma per un giorno. Ciò stava dicendo colui ed Andrea interrompendolo così gli soggiunse: Non occorre più pregare nè dar suppliche, è venuto il tempo, nè si può differire, che tu abbi in ogni modo a passare all'altro mondo. Questa è quella destra e quella saetta che toglie lo spirito anche ai primi Principi e Potentati del mondo. Questo è quel ferro che uccide gl'Imperatori e i Re. Questo è quel dardo così crudele e potente che non la perdona a sorte veruna di persone e tutto insieme uccide e distrugge poveri e ricchi, giovani e vecchi, di qualsivoglia condizione e stato alla rinfusa e senza alcuna differenza. Questa, questa saetta dunque ha da toglierti la vita[46] et ora et in questo punto et in questo momento. Haec regios elisit hasta spiritus, Hic mucro principes viros, hic Caesares ictu potente fodit. Idem pauperes Evitat idem divites, dum sanguine promiscuo laetatur. Hoc telo et tuum denique caput petetur.»—Nei Detti et fatti piacevoli et gravi di diversi principi, filosofi et cortigiani, raccolti dal Guicciardini et ridotti a moralità, v'è il seguente aneddoto: La Morte dare grande spavento alle persone, massime alle molli et feminili:—«Una matrona molto onesta et amantissima del marito, piangeva et si doleva d'una grave malattia che egli avea, pregando Iddio, che se dovesse morire, mandasse piuttosto la morte a lei. In questo comparisce la morte d'aspetto orribile. Laonde la donna tutta spaventata et del suo voto pentita, prestamente disse: Io non sono quel che tu cerchi; egli è là nel letto, mostrandole il marito.»—
[xvi] Smorzà e Smorzà gio', spegnere.
[xvii] Pigotta (anche Popòla e Popoeura), bambola, fantoccio, pupo.
[xviii] Gipponin, farsettino, giubbettino. Il Cherubini non registra Gipponin de lett, bensì Gipponin de nott.
[xix] Lacc e Latt, più gentilmente.
[xx] Vestèe, armadio, armario.
[xxi] Il Cherubini ha solo pover.
[2] Nella Grattula—Beddattula e ne La figghia di lu mircanti di Palermu, appo il Pitrè (op. cit.) vi sono similmente de' padri, che partendo lasciano le figliuole murate in casa.
[3] Siccome nel senso di poichè, ben è dell'uso fiorentino odierno, come pure dell'uso universale in quel gergo infranciosato che fa le veci dell'italiano a' dì nostri: bene ha numerosi esempli di scrittori valenti come l'Alfieri; ma sarà sempre cansato, come un brutto gallicismo, da chiunque vuol serbar fattezze italiane nello scrivere. Il costrutto, veramente nostro, sarebbe col gerundio: Ed essendo tutte le guardie a guardare ecc.
[4] Sconta delle mie bambine: va in compenso. Saggio di Scherzi Comici, Firenze 1819. Nella stamperia del Giglio. Si vende da Pasquale Albizzi presso le scalere di Badia. Nel secondo scherzo, intitolato: L'amicizia rinnovata, ossia La Ragazza vana e civetta. Commedia in tre atti. Atto I, scena prima:—«Propio chi nun mor si riede. Ghi è tant'anni che nu' un ci siam viste. Sconta di quand' e' si staa tutt' a due 'n via Porciaia. Da ragazze si staa dirimpetto e da maritache cas' accanto. Un passaa giorno che nu' un ci trassim' assieme.»—
[5] Sarà forse non inopportuno il dar qui una scelta delle voci de' venditori ambulanti o di strada in Firenze, ossia di quegli intercalari co' quali profferiscono la loro mercanzia al pubblico, alcuni de' quali sono notevoli per umorismo e molti per gli equivoci licenziosi. Ma già l'Italiano è sboccato di natura.
Donne, laceratevi la camicia! c'è' il Cenciajolo! (Il cenciajo).
I' ho la bella bionda! (L'avellanajo).
Assuntina, ce l'ho un bocconcino, o Meo! (Il trippajo).
A chi le taglio le palle! (Il cavolfiorajo).
Chi ha i' dente diacciolo, 'un l'accosti (L'acquacedratajo).
Eccolo, i' vero medico! (Il perecottajo).[i]
Chi mi dà un soldo, gnene do due! (cioè: due scatole, non mica du' soldi come parrebbe. Il fiammiferajo).
Meglio che di cera! (Il zolfanellajo),
I' l'ho con l'uva! (sottintendi: la stiacciata).
Che robe! (Il merciajo).
Canarini che ballano! (Venditore di polenta fritta, napoletanescamente detta: scagliozzi).
Un soldo pieno, una crazia pieno! (cioè, il misurino di castagne secche).
Vero Cancelli! (Il pentolajo).
Queste le cavo ora! (Il caldarrostajo).[ii]
Co' i' pelo la càtera! (cioè: le mandorle ancor lattiginose, che mangian col guscio e col mallo).[iii]
Tutti drento dal sor Luigi! (Il venditor di siccioli).
Beccatelo ritto! (cioè: il carciofo).
Voitta come le ridono! (cioè: le testicciuole d'agnello).
I' ho de' bei bambini senza la mamma! (Il figurinajo).
Tre volte ve l'ho salati! (Il lupinajo).
Bolle, bolle, bolle, bolle. La me lo senta come l'ho caldo! (cioè: il castagnaccio).
Semina trastullino! (cioè: semi di zucca. In Sicilia i semenzari sogliono gridare: Svia—sonnu).
I' ho i moscioni! (Il marronajo).
A chi lo sbuccio i' gobbo! (L'ortolano).
I' l'ho co' i' mantiglione! (cioè: le barbebietole).
Rompi, bambino, rompi! (Il bicchierajo).
Come la me gli ha fatti la monachina! (Il brigidinajo).
Ce l'ho di Bologna! (cioè: le spazzole di padule).
I' ho i' core! (cioè: le susine).
Queste le vendo! (cioè: le granate di saggina)
Donne, buttachevi di sotto! (Il cenciajolo).
Gli è per l'oche! Ci 'ole i' pittore! Votta che tocchi! Questo ve lo do a taglio! Zucchero, oh! Sangue di drago! (Il cocomerajo), ecc. ecc.
[i] E da questa voce sembra a me che il Giusti abbia tolta l'idea di quel suo sonetto che incomincia: Verso le due m'intesi un po' malato, e termina:
Nota, il dottore, che me l'ha (le tonsille) toccate,
Era un buon semolino, un pollo allesso,
E un bel piatto di pere giulebbate.
[ii] Ad Italiani è supervacaneo il dire cosa sian le caldarroste. L'autore dell'articolo su Pietro Aretino, nella Biographie Universelle, traduce caldallesse, e caldarroste per bouilli et rôti chaud. Che cognizione della lingua nostra, eh?
[iii] Nel Saggio di Scherzi Comici, Firenze 1819. Nella stamperia del Giglio, si vende da Pasquale Albizzi presso le scalere di Badia; e precisamente nella Scena IV del II Atto dell'Amicizia rinnovata, ossia La ragazza vana e civetta. Commedia in tre atti, v'è il seguente dialogo:—«Lisabetta. O questa, Liberata, la unnè la ostra figliola Caterina?»—«Liberata. Ell'è lei; ma che volech'o ch' i' vi dica; se egli è entrach' ibbaco di un voler essecchiamaca Caterina? Dice che gli è un nome vilio; la se l'è mutaco 'n Calorina.»—«Caterina. Carolina e non Calorina.»—«Liberata. Nè l'un nè l'oltre, dic'iccontadino. Ittò compare, requiesca, e' ti pose nome Catera; e io ti ó chiama Catera flnch'i' arò gola.»—«Lisabetta. E fache bene. Se ghi è tanto bello innome di Caterina: s'è' c'è fin le mandorle della Caterina. Vu un ghi sentiche gridà pelle strade: I' ho la Caterina, I' ho la Catera grossa: grossa, grossa la Catera.»—
[7] Altro barbarismo dell'uso e de' più goffi, de' più ripugnanti all'indole della nostra lingua, è questa reduplicazione dell'articolo. In Italiano si dirà sempre le bottiglie migliori o le migliori bottiglie; e l'intrusione d'un secondo articolo innanzi allo aggettivo (le bottiglie le migliori) sarà sempre non solo un pleonasmo, anzi pure uno sproposito majuscolo, un francesismo imperdonabile; un peccato mortale e non già veniale di lingua.
[8] Verdea è veramente una specie di vino. Tassoni, Secchia rapita, vi, 46:
I tedeschi del vino ingordi e ghiotti
Dietro a certi barili eran trascorsi,
Che ne credeano far dolce rapina;
E in cambio di verdea trovâr tonnina.
[9] Il caso obliquo de' pronomi usurpa tante volte il posto del retto, che non è da stupire se anche il retto qualche volta in bocca del popolo s'intrude nel posto dell'obliquo. Chi la fa, l'aspetti.
[10] Questo episodio della bambola si ritrova anche intruso in fine delle Novelle sicule Die Geschichte der Sorfarina, appo la Gonzenbach e Trisicchia (di Ficarazzi) ricordata dal Pitrè in nota a Li tridici sbannuti. Alquanto variato è nella fiaba veneziana El diavolo, appo il Bernoni. Matteo Bandelle narra come Faustina romana fosse informata che il marito Marc'Antonio intendeva ucciderla e fuggirsi con una Cornelia:—«E volendo alla mina del marito fabbricare una contrammina, ebbe segreta pratica con uno eccellente legnajuolo, e fece fare una statua e della grandezza che ella era, ma di modo fabricata, che se le accomodava benissimo la pelle d'una bestia attorno; alla quale, ella avendo inteso il determinato punto che il marito voleva ucciderla, acconciò certe vessiche piene di acque rosse assai spesse, acciò facessero fede di sangue. Ella soleva la state ne l'ora del merigge corcarsi nel letto e dormire una e due ore; onde il marito in quel tempo voleva ammazzarla. Ella venuta l'ora andò in camera, e la immagine fatta acconciò nel letto, che pareva proprio che Faustina fosse quella che dormisse. Avevale anche concio certe funi, per far a suo piacere, stando sotto il letto, scuoter l'imagine. Avendo poi di già messo tutto ciò ad ordine che seco voleva portare, che era roba, come dicono i soldati, da manica, dicendo a le fantesche che voleva dormire, si mise sotto il letto, serrate le finestre de la camera. Venne il marito a casa, et intendendo che la moglie dormiva, mandò via due donne che in casa erano in certi servigi, che bisognava che stessero due ore a tornar a casa. Erasi già prima disfatto di quanti uomini soleva tenere. Fatto questo, se n'andò di lungo dentro la camera, ove credeva che la moglie dormisse. Quivi arrivato, quanto più chetamente puotè se n'andò al letto; e per esser l'uscio aperto, eravi pure un cotal barlume, dal cui splendore ajutato, vide, come egli pensava, la donna che sovra il letto boccone giaceva. E stesa la mano sinistra e quella posta sovra il capo de l'imagine, tirò fuor un pugnale, e con quanta forza puotè, quello ficcò ne le schiene a la statua. Faustina che sotto il letto era e sentì la percossa, tirò le funi, di modo che l'imagine tutta si scosse. Marco Antonio, pensando che la moglie volesse levarsi, le diede un'altra[51] ferita e passolla di banda in banda. Era da la prima ferita uscito di quell'umor rosso pure assai, e medesimamente dalla seconda[i]; il perchè egli sentendo che la moglie più non si moveva, pensando quella portar via, prese la statua, e quella in un necessario, che in camera era, gettò.»—Polieno, nel libro viii degli Stratagemmi:—«Poichè Cleomino prese Tito, gli domandò per lo riscatto due città: una delle quali si chiamava Epidauro e l'altra Apollonia. Non volle altrimenti dargliele il padre di Tito, ma comandò che lo ritenesse. Così Tito essendosi procurato la propria immagine a guisa di persona addormentata, la pose nella sua abitazione, e montato su d'un naviglio, mentre che le guardie badavano all'immagine, si fuggì secretamente.»—
[i] Una vescica piena di sangue, destinata a far credere ad alcun gonzo un ussoricidio simulato, vien ricordata dagli annotatori del Malmantile, alla stanza XXVIII dell'XI cantare, dove si parla di Celidora.
Che là nel mezzo a' suoi nemici zomba,
Di modo ch'essi sceman per bollire;
Che, dove i colpi ella indirizza e piomba,
Te gli manda in un subito a dormire,
Che nè meno col suon della sua tromba
Camprian gli farebbe risentire;
E quanto brava, similmente accorta,
A combattere i suoi così conforta.
Ecco l'annotazione:—«Questo Campriano fu un contadino astuto, come s'è accennato sopra, Canto IV, stanza XLVII»—Vedi in nota alla fiaba di questa raccolta intitolata: Manfane, Tanfane e Zufilo—«e come si vede dalla sua favolosa storia stampata col titolo: Storia di Campriano, il quale per far denari trovò diverse invenzioni di gabbare le persone semplici: e fra l'altre quella d'una pentola, che bolliva senza fuoco, perchè da esso levata mentre che gagliardamente bolliva, e portata in mezzo a una stanza, la fece vedere al corrivo a cui voleva venderla. Costui, vedutala veramente bollire, senz'aver fuoco avanti, subito se ne invaghì, ed accordossi di comprarla pel prezzo che convennero. Giunto poi questo tale a casa con la pentola, e volendo senza fuoco farla bollire e non gli riuscendo, si querelò con Campriano dicendogli che l'avea ingannato. Campriano chiamò la moglie e la sgridò, dicendo che non potev'essere, se non che ella l'avesse cambiata. La donna, fingendo un gran timore, con gran lacrime confessò, che per averla inavvertentemente rotta, glien'aveva data un'altra simile, per la paura che avea del marito. Di che Campriano mostrandosi fieramente adirato, cavò fuori un coltello, e con esso ferì la moglie nel petto, dove ella avea ascosa sotto i panni una gran vescica piena di sangue, il quale sgorgando pareva che uscisse dalla ferita fattale da Campriano; per la quale fingendo la donna d'esser morta cascò in terra. Il gonzo si doleva che Campriano per causa così leggiera avesse commesso un delitto così grave; ma Campriano con faccia allegra gli disse: sebben la donna è morta, io saprò risuscitarla quando vorrò; perchè basta, che io suoni questa trombetta. E stimolato dal semplice a farlo, gli compiacque: e sonata la tromba, la donna si rizzò, mostrando di risuscitare; onde il semplice con grande istanza chiese la tromba a Campriano, il quale dopo molte preghiere a gran prezzo gliela vendè. Costui, andato a casa, prese occasione di gridar con la moglie, ed in fine le diede una pugnalata con la quale l'ammazzò; e poi si messe a suonar la tromba; ma quella infelice, essendo veramente morta, non risuscitò altrimenti. E per questa causa, e per altre sue sciagurataggini, fu Campriano condannato alla morte che dicemmo sopra C. IV, st. XLVII. E di questa tromba parla il poeta nel presente luogo.»
[11] I costumi toscani richieggono che il latte ed il miele spruzzino casualmente sulle labbra del Re. Nelle varianti meridionali ch'io posseggo, con miglior motivazione (dal punto di vista estetico), il Re lecca quel sangue volontariamente sul coltello, perchè la superstizione popolare porta, che chi così fa, non è poi tormentato da rimorsi.
LA BELLA GIOVANNA[1].
C'era una volta un contadino, che aveva una figliola bellissima, vispola e di mente fine, sicchè l'era il passatempo del vicinato, nè si metteva su una veglia senza invitarci la ragazza, della quale[2] il nome, per quel che ne dicono le storie, fu Giovanna. Nella città vicina al paese di Giovanna comandava un Re, che pur lui aveva una figliola di molto bella, ma al contrario di Giovanna, s'addimostrava in viso seria e melanconica, e a nissuno era riuscito mai di farla ridere. Il Re suo padre stava molto in pensieri per questo naturale della figliola e s'ingegnava a tutto potere ogni dì a trovare qualche cosa di novo e d'allegro e buffone, acciò la ragazza si rallegrasse: ma tutto fu inutile[3]. Un giorno il Re discorrendo co' suoi cortegiani, uno di loro gli fece assapere, come nel villaggio presso la città fosse un contadino, padre di una figliola tanto gaja, che dov'essa era, la malinconia pareva bandita. Codesta nova racconsolò il Re oltr'ogni credere, e subito gli venne il pensiero di mandare a chiamare la ragazza per far compagnia alla propria figliola e vedere se a lei riuscisse tenerla svelta e obbligarla a ridere. Senza indugio mandò un servitore al padre di Giovanna con ordine espresso che si presentasse al Re. Il contadino rimase di stucco a sentire che il Re lo voleva; gli vennero mille ubbìe e sospetti in capo. E' dubitava d'avere commesso qualche malestro o lui o[54] Giovanna; ma più credeva Giovanna, perchè a quel modo scapata e di lingua lesta, che non badava a dir le sue a ogni persona e in ogni lôgo. La chiamò pertanto e con una faccia stravolta gli disse:—«Scommetto, vedi, che 'l Re mi vole per gastigarmi di qualche buaggine tua. Già, me lo figuravo, che col tuo girellonare e chiacchierare alla scapata ce ne doveva venir male.»—A cui Giovanna:—«Vo' avete tanta paura e io punta. Di dove cavate che 'l Re v'ha chiamato per le mie buacciolate? Andateci, e se è per me che vi vogliono al palazzo, non indugiate a farmelo sapere, che so ben'io come regolarmi.»—Il contadino, vestitosi de' meglio panni ch'avesse nella cassa, e data una pulita al cappello delle feste, s'avviò alla città; e giunto al palazzo del Re, fu dinanzi a questo menato. E' gli parea d'esser lì alla gogna; e quantunque il Re l'accogliesse con garbo, il contadino se ne stava tremante e grullo come chi aspetta mala sentenzia. Isquadrollo il Re da capo a piedi e poi gli disse:—«Galantomo, è egli vero che a casa tu ci hai una bellissima figliola?»—A quella richiesta il contadino, abbene che se l'aspettasse, e' fu come se gli avessero dato un manico di vanga tra capo e collo, e gli si rimescolò il sangue nelle vene; andava balbuzzicando e borbottava a tragòla, quasi fosse per tirare il calzino. Il Re, visto quel rimescolìo, e' si pensò che gl'intravvenisse per sospetto della sua reale persona, per cui confortava il contadino alla confidenza e gli ripetè la domanda:—«L'ha' tu o no, questa figliola?»—E il contadino a mezza voce:—«I' l'ho. Maestà, per mi' disgrazia. Ma io non ci ho che fare se l'è un po' scapatella e allegrona. Se l'abbi commesso qualche scangèo, egli è effetto di gioventù.»—«E che m'importa degli scangèi della tua figliola?»—riprese il Re:—«Vuo' soltanto sapere s'egli è vero che[55] la sia gaja e buffona, come m'è stato rapportato, sicchè tiene in gioja tutta il vicinato.»—«Sì veramente,»—disse il contadino;—«la mi' figliola l'è così fin da quando nascette, e non s'è voluta mai correggere. Anzi...»—Interruppe il Re:—«Queste chiacchiere non mi fanno. Torna a casa; e menami o mandami a corte la tua figliola, chè la voglio per compagnia alla mia figliola. Se gli riesce farla ridere, Giovanna, parola di Re, non sarà più povera. Corri e obbedisci.»—Al contadino gli parve essere ritornato a vita, sentita la voglia del Re. La strada per ritornare a casa gli apparì più corta che al venire; e in sull'uscio trovata Giovanna che lo aspettava bramosa, principiò a bociare da lontano:—«Allegri, allegri! il Re vuol te a tenere compagnia alla su' figliola, che a nessuno gli è riuscito farla ridere mai. Vuol te, perchè ha saputo che ridi sempre e tieni sderto tutto il vicinato a suon di chiacchiere e di buffonate. Su, vestiti, non c'è da perdere neanche un momento di tempo. E se, mattacchiona come tu sei, vieni a capo di far ridere la principessa, tu diventerà' ricca sfondolata. Me l'ha promesso il Re.»—«Vo subito,»—disse Giovanna; e a quel modo scalza com'era, e colla rocca al pensiero e il fuso in mano e i capelli su per le spalle, s'incamminò.—«Ferma»— gridò il contadino:—«Ma ti par'egli andare a corte in codesto arnese? Non ti vergogni tu? Ravvìati un po' il capo e poniti una sottana a garbo, e le scarpe in piè, e posa codesta roccaccia.»—E Giovanna:— «No davvero! Scarpe non ne ho mai portate e non vo' quell'impiccio da stroppiarmi. I' vuo' andar così. S'i' non vo a genio, torno a casa. Io non gli ho ricercati per mettermi in corte.»—E senza aspettar repliche, Giovanna se ne venne al palazzo del Re. Quando Giovanna fu al portone reale, riscontrò sentinelle e[56] servitori; ne prese uno pel braccio e gli disse:—«Andate dal Re e ditegli che ci son io[4].»—Il servitore stette lì un po' come sbalordito; ma sapendo chi dal Re fosse aspettato, salì nell'appartamento ad annunziargli che sul portone c'era una bellissima ragazza vestita alla contadina e scalza, con una rocca a' fianchi, e che aveva poche parole e meno cerimonie in bocca. A farla breve, Giovanna venne introdotta alla presenza del Re: ma lei, senza nemmanco salutarlo, dice:—«Dove sta la Principessa?»—e il Re alzando la mano per accennare la camera, Giovanna diviata entrò colà, e a mala pena vista la Principessa, si messe a cantare una canzona tanto ridicola, accompagnandola con gestri[5] tanto buffi e sversati, che la Principessa principiò a ridere così da non poterne più; ed essendo per le risa lì lì per isvenire, gridò che Giovanna uscisse subito di camera sua. Rotto il ghiaccio, bastava che Giovanna fosse colla Principessa, che a forza di canti, di balli, di scede, di racconti buffi, la Principessa non faceva che ridere da mattina alla sera, sicchè in pochi giorni si mutò affatto il carattere della figliola del Re, e di triste e melanconica che era prima, divenne di bon'umore e sempre allegra. Il Re non capiva in sè dal contento, e nominò Giovanna damigella della Principessa; e gli disse che chiedesse pure quel che voleva, chè tutto gli avrebbe subito conceduto. Già da qualche tempo Giovanna era alla corte del Re, quando gli venne bramosia anche a lei di vestirsi alla reale; e diceva alla Principessa:—«Che non istarebbe anche a me bene la robba[6] vostra? Rincricchiata a dovere, farè' la figura che dee fare una damigella di corte. Padrona, che ve ne pare? Allora potrei pure accompagnarvi alla spasseggiata.»—Detto fatto: Giovanna fu vestita da signora, ed apparì anche più bella. Di lì a poco Giovanna cominciò a pensare che,[57] abbene che messa come una signora al di fori, l'era poi una bella ignorante, giacchè manco sapeva leggere. E palesata la voglia d'istruirsi, subito gli dettero maestri; per cui il naturale spirito che aveva gli s'accrebbe oltre credenza e ognuno cercava la compagnia di Giovanna. Il Re poi e la Principessa la riguardavano come figliola e sorella, tanto gli volevano un ben dell'anima. Ma a dispetto delle premure che si avevano per Giovanna e della vita scelta che menava, lei, ragazza avvezza alla libertà della campagna, si sentiva spesso annojata delle cerimonie di corte e oppressa dall'aria chiusa del palazzo e della città. Un giorno disse alla Principessa:—«E che si fa noi qui rinserrate dalla mattina alla sera, sempre in sul medesimo tenore di vita? È vero che non manca nulla; ma se s'andasse via per un viaggio a divertirsi[7], a vedere luoghi e persone nove, sarebbe pur la bella cosa.»—A cui la Principessa:—«Tu se' matta, Giovanna: il Re mio padre non mi darebbe mai il permesso di andar sola con te a girare il mondo. Ti pare! Che direbbe la gente?»—«Vo' vi sgomentate di nulla!»—ripigliò Giovanna.—«Ecco la mia proposta. Sceglieremo altre dieci ragazze, tutte belle; le vestiremo tutte compagne come noi, e così viaggeremo. Chi volete che dia noia ad una frotta di dodici ragazze?»—Alla Principessa garbeggiò il consiglio e subito corse dal Re per ottenere il consenso: ma il Re negò darlo. Disse che lui era vecchio e voleva la figliola vicina; che a quei tempi e sempre le donne sole non potevano, senza pericolo e disonore, girandolare per terre lontane e sconosciute. Quindi la Principessa tornò da Giovanna, come suol dirsi, colle trombe nel sacco. Ma Giovanna non si smarrì, e disse:—«Ci anderò io dal Re e vedrete che non saprà negarmi la richiesta.»—E veramente lo raggirò in[58] modo, a forza di moine e belle parole, e tante gliene contò, che il Re si dovette dare per vinto, impegnato pure dalla parola reale, che avrebbe conceduto tutto quello che Giovanna bramasse. Dunque Giovanna si diede ad apparecchiare ogni cosa pel viaggio; e prima trovò le dieci ragazze e fece fare dodici abbigliamenti compagni; e quando ogni cosa fu pronta, la Principessa, Giovanna e le altre dieci ragazze salite in due vetture, dopo salutato il Re, se ne partirono e per parecchi giorni vagarono per molte castella e paesi, fermandovisi a pena per visitarle e riposarsi. Ma quando giunsero ad una grandissima e popolosa città, stabilirono rimanerci più a lungo, e però si allogarono in un albergo. Quivi ognuna attendeva alle proprie robbe, a tenere assestata la camera, meno la Principessa, che era servita da Giovanna. L'allegra brigata donnesca era tutta in sul darsi bel tempo, ora esaminando la città e i suoi palazzi e giardini, ora andando a diporto pe' contorni; e ciascuno stupiva di vedere tante belle ragazze sole e insieme unite, ed eran curiosi di sapere chi fossero: ma loro badavano a sè e non volevano òmini e impacciosi d'attorno. Un dì Giovanna, nell'assettare la camera della Principessa, essendo montata per aria a cavar la polvere da un quadro, lo alzò e con sua meraviglia ci scoperse al di sotto una finestra. E messivi gli occhi per dentro, vide una cucina e un coco affaccendato a preparare un pranzo tale, che non poteva essere altro se non destinato a qualche principe: la cucina dell'albergo non era di certo, e pranzi a quel modo mai non li avevano assaggiati lì. Almanaccando di chi diavolo fosse quel pranzo e a chi spettasse la cucina, si fece ad esaminare le vicinanze dell'albergo, e s'accorse ben presto, che la cucina era addetta al palazzo del Re di quella città. Subito gli saltò il grillo di fare una beffa al[59] coco; e lasciatolo allontanare, snella scese in cucina, saggiò tutte le pietanze, prese larghe porzioni delle meglio[8], e nelle rimanenti buttato sale a manate senza discrezione, in fretta rimontò dalla finestra in camera e la richiuse col quadro. Venuta l'ora del ristorarsi e conversare assieme, Giovanna diede alle compagne di quelli scelti cibi, ma non disse da dove li aveva portati via, e discorse tanto e di tante altre cose, sicchè nessuna gli domandò nulla. Il Re della città in quel medesimo giorno teneva corte bandita, e di molti e di gran parentato erano gl'invitati. Ma seduti a mensa, non ci fu verso che potessero mangiare le pietanze apparecchiate, talmente erano amare di sale[9]. Al Re montò la mosca al naso e fatto chiamare il coco, con un viso da Orco gli chiese ragione dell'avvenuto. Il pover'omo, tutto umile e sorpreso, gli protestò che di certo non ci aveva colpa, perchè aveva messo il sale nelle pietanze secondo il solito e non capiva come la cosa fosse accaduta. Ma il Re gli dette poca retta, e condannatolo a stare in prigione per qualche giorno, gli ordinò un altro gran pranzo per la ventura settimana; poi rimediato alla meglio al disappunto de' convitati, li accomiatò. Il coco, uscito di prigione, stava apprestando un altro pranzo reale e con premura badava alla misura del sale: ma allontanatosi per qualche necessità dalla cucina, Giovanna, che stava alle vedette, gli fece la medesima burla; per cui il pranzo del Re riuscì un'altra volta disgraziato. Il Re, imbestialito, fatto chiamare il coco, gliene disse delle nere ed era risoluto che gli si tagliasse la testa in piazza. Il coco, sentendo questo, si buttò in ginocchioni e assicurava il Re della propria innocenza con tante lacrime, che il Re si commosse. Allora il coco, preso animo, parlò così:—«Maestà, c'è di certo qualcheduno che mi vol male e mi fa questi dispetti: perchè bisogna sappiate che anche delle pietanze mi[60] sono sparite, e non so come. Ordinate un altro pranzo per la ventura settimana, e se non iscopro il birbone malestroso, allora vada pure la mia testa.»—Al Re la proposta garbeggiò, ed anzi egli stesso volle rimpiattarsi nella cucina per vedere chi v'entrava di nascosto a sciupare i piatti. Ed ecco il coco acciaccinato intorno al focolare: il Re frattanto si era messo in un armadio. Quando il coco fece le viste di allontanarsi dalla cucina, Giovanna che stava in sull'intese, schizza giù dalla solita finestra e commette i medesimi malestri: ma nel mentre risaliva per rientrare in camera, il Re sbucò fori del nascondiglio e l'acchiappò per una gamba.—«Ti ci ho chiappato!»—esclama:—«Eri tu dunque la ladra e la salatora! Adesso si faranno i conti!»—Giovanna però senza sgomentarsi gli rispose:—«Maestà, non sono una ladra, chè graziaddio non mi manca nulla. Quel che ho fatto era per beffa a questo coco e per divertirmi del vostro disappunto a mensa. Per cui perdonatemi e non se ne parli più.»—Disse il Re, che già cominciava a infocolarsi nel core alla bellezza di Giovanna:—«I patti li fai tu, a quel che pare. Io ti perdonerò dove tu mi palesi chi sei, di dove vieni e che arte è la tua.»—Allora Giovanna l'accontentò raccontandogli la sua storia sino a quel momento. Riprese il Re:—«Ebbene, giacchè ho fatto così la tua conoscenza, te e le tue compagne verrete al palazzo e desinerete con me e co' miei cortigiani.»—«Io, per me non rifiuto,»—disse Giovanna,—«ma prima bisogna che la mia padrona me lo conceda, e chi sa se lei ci vorrà venire. Ritornate domani, Maestà, a questa finestra; e vi darò la risposta.»—E il Re:—«Così farò. Addio.»—Quindi Giovanna risalì nella camera, e il Re andò tutto allegro per la scoperta nel proprio appartamento. Non ci fu verso di[61] tenere più nascosto alla Principessa e alle sue compagne quel che era intravvenuto. Al racconto di Giovanna, quale delle ragazze rideva, quale la rimproverava delle sue mattie. La principessa poi si addimostrava scorruccita di molto e si temeva compromessa. Ma Giovanna, con quei suoi garbi e con bone parole, le persuase così, che finalmente restò fissato di accettare l'invito reale, a condizione però che a mensa non fossero più di dodici giovani, compreso il Re, in maniera che ogni ragazza avesse il suo compagno. E perciocchè Giovanna stava in sospetto che il Re gli usasse qualche sopruso per rifarsi delle beffe patite, macchinò di recar seco dodici bone bottiglie del reame della Principessa e alloppiarle e poi darle a bere a' convitati. A tal effetto fu spedito un messo con una lettera, e in capo a pochi giorni Giovanna ebbe fra mano le bottiglie. Venuto il giorno di andare al pranzo reale, la Principessa, Giovanna e le dieci compagne si vestirono tutte eguali con gran sfarzo[10] e poi si recarono a Corte, dove il Re le aspettava con gli undici suoi giovanotti, trascelti fra i meglio signori della città. Si sedettero a mensa coppia per coppia, e Giovanna era col Re: ma quantunque parlasse più specialmente con lui, occupava tutta la brigata co' suoi scherzi e le sue novelle piacevoli. Alle frutta i giovani e il Re, avendo trincato, cominciavano a dirne delle belle: per cui Giovanna, temendo qualche brutto tiro, fatte portare le dodici bottiglie alloppiate, si alzò e disse:—«Signori, questo vino viene di lontano ed esce dalla cantina del Re mio padrone e padre di questa Principessa. Se siete cavalieri cortesi, io vi sfido a votarne una per ciascuno alla salute nostra.»—Detto fatto: le bottiglie furono votate, e di lì a poco il Re ed i giovani cominciarono a cascare dal sonno e si addormentarono sopra le loro poltrone, che parevano ghiri d'inverno.[62] Ma non contenta Giovanna della burla, tirato fuori un par di forbici, tagliò a tutti e dodici un solo mostaccio, e quindi via per le scale in fretta seguita dalle compagne, e a casa: dove giunte, messe le robe ne' bauli[11], se ne partirono colle vetture fermandosi ad una villa fuor di mano, distante qualche miglio dalla città. Il Re e i compagni suoi non si destarono che all'alba, ma rotti e sfracasciati pel disagio e pel vino bevuto; gli era come se avessero del piombo dentro il cervello. Cominciarono a stiracchiarsi e a scionnarsi, e guardavan qua e là a similitudine di smemorati. A un tratto disse uno a un altro:—«Oh! tu hai un mostaccio solo».—E quello:—«Anche tu n'hai un solo».—«Poffareddina!»—esclamò il Re:—«Siam tutti conci in simil modo! Ce l'hanno fatta. Su su, vendichiamoci, perchè l'è troppo grossa. Burlare un Re! Non son più Re, se a quella malestrosa Giovanna non gliela faccio pagar cara».[12]—Inutilmente però cercarono le ragazze per la città: ma il Re ben presto col mezzo delle sue spie seppe dove s'erano ricoverate, e quindi risolvette sorprenderle sotto mentite vesti. Pure, bisogna notare che il Re era rimasto un po' cotto di Giovanna, e non era soltanto la bramosia di vendicarsi che lo spingeva a corrergli dietro. Il Re immaginò trasfigurarsi da pellegrino: e preso un paniere, ci messe dentro dodici mele cotte e s'avviò fuor della porta, seguito alla lontana dagli undici suoi compagni. Giunse in sull'abbujare alla villa dov'erano le dodici ragazze e picchiò ammodino. Giovanna scese e visto chi fosse e sentito che voleva un po' di ricovero per la notte, perchè era di buon core, introdusse il finto pellegrino. E menatolo in cucina, lo fece sedere al focolare a riscaldarsi. Disse allora il Re:—«Signora, mi sono smarrito pe' dintorni mentre andavo alla città per portare queste mele cotte a un mio vecchio conoscente. Oramai[63] da qui a domani saranno ite a male; e siccome[13] non ho altro da darvi per rimunerarvi dell'accoglienza, se le volete, ve le offro. Son mele francesche e come bone!»—Giovanna accettò, e volendone far parte alle compagne, lasciato il pellegrino lì al focolare, andiede nel salotto. Ma scoperte le mele cotte, gli venne un po' di sospetto nell'accorgersi che fossero appunto dodici; per cui, rifatti indietro i passi, entrando in cucina, vedde il pellegrino alla finestra e sentì che diceva a qualcheduno:—«Su, lesti: ora vi vengo ad aprire, appena sono addormentate».—Giovanna non stette a dir: che c'è? Preso il pellegrino per le gambe, lo scaraventò di sotto. Fortuna che la finestra era bassa! Il Re battè il capo sull'erba, ma non morì: soltanto si svenne, per cui i compagni lo portarono via a braccia sino al palazzo e lo messero a letto. Nulla di meno al Re venne una grossa malattia, e tutti credevano che in breve se n'anderebbe. Il male era più di amore sprezzato, che altro; i medici non sapevano che mesticciarsi per rinsanichirlo, non intendendo, secondo il solito, che cosa avesse il Re. Intanto Giovanna stava in paura, e quando riseppe dalla gente che il Re era malato, si propose rimediare al malfatto, e pensò travestirsi da dottore e visitare il Re, perchè gli rincresceva che fosse ridotto a quel modo. A malgrado delle rimostranze della Principessa, Giovanna volle fare a modo suo, e giunta al palazzo reale, si fece annunziare come un medico capace di guarire sua Maestà. Disse:—«Io la cura la fo a quattr'occhi co' miei ammalati. E per grida che mandino, non permetto che nessuno accorra. Ma la guarigione è certa».—Credendo ciascuno il caso perduto, si promise a Giovanna di eseguire i suoi comandamenti: e lei, venuta al letto del Re, cavato un buon nerbo, con quello gliene dette tante sinchè non lo vidde svenuto: allora lo rinvoltolò nelle lenzola e poi se n'andò. Pochi[64] giorni dopo il Re uscì dal letto guarito. Ma Giovanna e le sue compagne avevano fatto fagotto e se n'erano a gambe ritornate presso il padre della Principessa; temendo la vendetta del Re burlato in tante maniere e di più nerbato. Questo però, incaponitosi di possedere Giovanna, chè pur si addiede lei fosse stata la sua guaritora, ordinato il corteo d'accompagnamento, venne al reame in cui abitava Giovanna, e per farla sbrigativa, la richiese in moglie. Il padre della Principessa cancugnò, sospettando che quel Re volesse Giovanna fra le mani per gastigarla. Ma Giovanna ardita e vogliolosa di diventar Regina, cavò la paura di capo al suo padrone, sicchè questo, datagli una dote reale e sposatala egli medesimo, gli disse addio. E lei partì col marito, non senza lacrime della Principessa e sue. Quantunque il Re marito adorasse Giovanna, pure aveva una gran bramosia che la scontasse le beffeggiature e le offese che lei gli aveva recate: e Giovanna, furba, stava con tanto di occhi aperti, sicchè di nascosto ordinò che gli fabbricassero una donna di pasta, e acconciatala nelle casse del corredo la portò con sè. Quando la prima notte gli sposi furono per entrare a letto, Giovanna colla scusa di vergognarsi, non volle il lume in camera. E una volta spento e restati al bujo, lei zitta zitta infilzò la donna di pasta tra le lenzola e poi ci si messe accanto, ma in ginocchio sul tappeto in terra contro la sponda dei letto. Il Re, sdrajatosi, principiò a dire:—«Tu siè' stata con me di molto ardita e traditora, Giovanna! Sarebbe questo il momento di gastigarti: ma siccome ti voglio bene, mi stimerò soddisfatto che tu mi chieda perdono e tu mi prometta che simili cose non le farai più.»—E Giovanna lì accosto con una voce da burla:—«Non mi pento di nulla; e quando mi capita, farò come prima[14].»—Il Re allora inferocito, agguanta la spada che aveva a capo del letto e giù un[65] picchio sulla donna di pasta, che credeva essere Giovanna, e gli taglia netta la testa. Se non che, sbollorata la furia, tastando, sente un corpo freddo, e non è a dirsi se diede in disperazioni dubitando avere ammazzato la moglie. Salta dal letto, esce di camera e chiama gente con lumi; i servitori e i cortigiani accorrono. Intanto Giovanna, tolta prestamente la donna di pasta smozzicata e ripostala, lei stessa si messe in luogo di quella, e finse d'essere ferita, tingendosi il collo con del sangue serbato in una vescica, e pareva come moribonda. Quando il Re colle persone del seguito rientrò in camera, si buttò a traverso il letto con gran pianti. E si strappava i capelli, accusando la sua maledetta rabbia, e non poteva darsi pace di avere ammazzato Giovanna. E Giovanna, lasciatolo un po' disperare, finalmente con meraviglia di tutti, si rizza a sedere e dice:—«Signori! veramente, se dovessi badare al trattamento del mio sposo la prima notte del matrimonio, io dovrei pigliare la robba mia e tornarmene là da dove sono venuta. Ma siccome io non tengo rancori e penso che quanto il Re ha fatto provenne da un po' di subita mattia, oramai quel che è stato è stato e non ci si pensi più. Soltanto, il Re esca di camera e mi lasci rimettere dalla paura che ho avuto.»—Il Re gli consentì ogni cosa, gli domandò perdono e gli dette arbitrio di chiamarlo accanto a lei quando gli piacesse e fosse rinsanichita. Giovanna fece le viste di stare malata per qualche tempo e alla perfine fatta la pace collo sposo, vissero allegri e contenti, e credo ancora lo sieno.
In santa pace pia,
Dite la vostra, che ho detta la mia.
NOTE
[1] Variante della Fiaba precedente intitolata La Verdea. La debbo al prof. avv. Gherardo Nerucci che la raccolse da Silvia Vannucchi del Montale—Pistojese.
[2] Il quale e la quale, pronomi, non sono di nessun dialetto toscano: (bene hanno essi la frase per la quale, ma vuol dire altra cosa). I Giorginiani, che vorrebbero ridurre la lingua allo stretto volgar di Firenze, ci priverebbero di questo pronome. Con quanto discapito, lascio dire a chiunque è costretto a far periodi un po' complicati dal tema che tratta, ne' quali non giunge a mettere un po' di chiarezza che alternando sapientemente che ed il quale nelle subordinate.
[3] Un figlio di Re che non ride mai, malgrado ogni opera ed industria de' servitori, si trova nella Introduzione del Pentamerone e spesso nelle fiabe.
[4] Come se le guardie l'avesser dovuta conoscere. Così raccontano a Napoli d'uno studente calabrese che si affacciò alla ferrata della posta, chiedendo se ci fosser lettere di suo padre. N'era giunta una con questo indirizzo: A mio figlio, vestito di nero, in Napoli. Gliela consegnarono senz'altro, stimando non senza ragione tal doppia prova d'insolita semplicità esser dimostrazione di parentela.
[5] Gestri per gesti. Nota l'intercalamento di quella r eufonica. Invece, ne' dialetti napoletani, la si fogna in casi simili, dicendosi nuosto, masto, fenesta, per nostro, mastro, finestra. E così, dalle Alpi al Lilibeo, tutti i vernacoli fanno a gara straziando in mille varî modi il puro tipo aulico dei vocaboli: chi toglie, chi aggiunge, chi muta; chi amputa, chi gonfia, chi stravisa: accade delle parole quel che delle leggi nelle preture e nei tribunali; e quel ch'è peggio, anche in fatto di lingua abbiamo pluralità di cassazioni! Manca l'unità di criterio.
[6] Robba, con due b anche presso il Giusti, in rima con gobba. Così pronunziano difatti malamente i toscani.
[7] A divertirsi, invece di a divertirci; così pure dicono come formola di addio arrivedersi invece di arrivederci, neutralmente. Andare per un viaggio a divertirsi è ciò che più comunemente suol chiamarsi fare un viaggio di piacere.
[8] Meglio, come apocope di migliore, è invariabile. Così[67] peggio, maggio, scorciamento di peggiore, maggiore. In Firenze, Via Maggio, che tuttora esiste, dove erano i giardini della Bianca Cappello, come può vedersi nelle novelle del Malespini.
[9] I rimanenti Italiani rimproverano a' Fiorentini di salar poco le vivande. Mi rammento ed ho conservato un articolo del Corriere Italiano, giornale che pubblicavasi a Firenze quando c'era la capitale. Diceva così:—«E poi confesso ch'io ho in uggia il fornajo prettamente fiorentino, per quel suo pane scipito.... È un gusto come un altro, ma a me piace salato un buon poco. Un bello spirito, la prima volta che gli venne fatto di mangiare del pane di questo paese, dolce dolce, da dare la nausea, disse come ispirato: To' to'! adesso comprendo!—Che comprendi? chiese un amico.—Mi spiego, cioè, rispose, l'esclamazione Dantesca: «Come sa di sale lo pane altrui!» Si comprende netto, soggiunse l'arguto commentatore, che forse in esiglio s'era inquietato anche di più, perchè costretto a mangiare il pane ben condito di sale.»—
[10] Gran sfarzo e più giù non stette. Da Dante al Berchet, dal Boccaccio al Manzoni,
Avess'io tanti gigliati
Nella vuota mia scarsella
quante volte i migliori scrittori han trascurato di metter l'aumento eufonico innanzi alla s impura preceduta da consonante, senza un riguardo al mondo per le nostre povere orecchie. Quest'urto disaggradevole di consonanti s'incontra nientemeno che in dugensettantatrè versi del solo Orlando innamorato del Bernia. Toscani, Lombardi, Meridionali hanno gareggiato nel trasgredir quella regola, che pure è fondata nell'indole stessa della lingua nostra. Già, anche il giusto incespica sette volte il giorno, e qui c'è l'esempio e la scusa dello abuso popolare. Ecco un gruzzoletto d'esempli autorevoli, da non imitarsi. Dante (Convito). Sue beltà piovon fiammelle di foco animate d'un spirito gentile. Bandello (Nov. XV). Tenendo il caso troppo vituperoso e il scorno grande. Marino (Adone, XIV, 95). Tosto, per porlo in su la tesa corda, E commetterlo all'aure, un strale ei prese. Stigliani (Mondo nuovo). Ell'era in somma in tutti i membri belli, Misurata ed egual non altrimenti, Ch'esser soglion le statue in fôro o in scena. Ecc. ecc. ecc.
[11] A proposito di baule, vedi, tra le commedie di Giambattista Fagiuoli, L'Astuto balordo (Atto primo, scena seconda): «Orazio. Il mio baule dove l'hai posato?»—«Meo. Ma, padrone, io non ho posato bauli in nessun luogo e non li ho visti mai de' miei dì.»—«Orazio. Dove son le mie robe, che si portarono iersera dietro al calesso?»—«Meo. Ah quella cassa di cuojo, tonda di sopra, che ha quelle manette dalle bande, con quelle bullette d'ottone in fila, ch'è serrata con una pallottola di ferro, per via d'uno stidione?»—«Orazio. Sì, quella....»— «Meo. E quella si chiama baule, eh?»—«Orazio. Sì bene.»—«Meo. O che nome, baule!»—«Orazio. Ora dov'è?»—«Meo. Questo baule, giacchè le casse alle vostre mani hanno ad aver nome baule, è in sala.»—
[12] Questa beffa del mezzo sbarbamento è narrata da parecchi. Anche l'Americano Barnum nelle sue memorie la racconta come facezia veramente accaduta. Neppure ne' più goffi scherzi sanno essere originali gli Americani;
......nation du hasard,
Sans tige, sans passé, sans histoire et sans art.
(Victor Hugo).
Bandello, parte I, novella XXV.—«Il giovine che bevuto non aveva, sapendo la virtù del vino, come vide questo, prese il corpo del fratello, e in luogo di quello v'appiccò uno degli otri e a casa se ne tornò tutto lieto; ma prima che si partisse agli addormentati guardiani la barba dal canto destro tagliò.»—Tutto l'episodio del convito dato da molti giovani ad altrettante ragazze che li alloppiano e derubano o sfregiano, più o men variato si ritrova appo il Pitrè (Op. cit.) ne' racconti intitolati Li tridici sbannuti (Palermo); Li dui figliastri (Casteltermini); Li Batioti (Cianciana); Soru Sosizzèdda (Vicari), Ecco il feroce scherzo che la protagonista fa a' mariuoli nel primo:—«S'assittaru a tavula e cuminciaru a manciari. 'Nta lu megghiu nisceru la buttigghina e l'alluppiaru a tutti: e ddocu chi vidistivu! cuminciaru a 'bbuccari. La picciotta, comu li vitti accussì, cci tagghia a cui lu nasu, a cui lu labbru, a cui lu jìditu: li fici stari 'na piatà. 'Un cuntenta di chistu, li so cumpagni si pigghiaru tutti cosi e si nni jeru. Jamu a li sbannuti. Quannu si sbriacaru, cuminciaru a dirisi: Chi si'[69] curiusu! ti manca lu nasu!—E a tia lu labbru!—E a tia lu jìditu!—E ddocu cunsiddirati la rabbia.»—
[13] Siccome non ho altro da darvi, e più giù siccome ti voglio bene, e siccome io non tengo rancori. Daccapo siccome nel significato di poichè! Sozzo gallicismo, che mi urta i nervi. Figuratevi come li debba avere urtati, poichè veramente l'uso di questo siccome è divenuto universale. Mi amareggia persin la lettura dell'autobiografia alfierana.
[14] Così nella rappresentazione di Don Giovanni, ho sentito il burattinajo far dire alla statua del commendatore: Pèntiti, Don Giovanni! e far rispondere al protagonista: Non mi voglio pèntere!
IL MONDO SOTTOTERRA.[1]
C'era una volta un omo che aveva tre figlioli. Si sa bene che più che vecchi non si campa; quest'omo, prima di morire, chiama i figlioli al letto e gli dice:—«Sentite ragazzi. Vedete, io sono per morire: mi raccomando che voi stiate in pace. E questo po' di roba, fatene le parti uguali.»—Dunque questo viene a morte, e non se ne parla più; e rimane questi tre figlioli poeri[2].—«Come si deve fare?»—dicono.—«Si venderà questo po' di roba e ci si metterà in viaggio per vedere se si fa fortuna.»—Vendon la roba e poi vanno via. Quando sono per la strada camminan quanton[3] posson camminare, e si mettono in un'osteria a mangiar qualcosa, perchè avevan fame, sapete? Poi si rimettono in viaggio e cammina cammina si trovano sur una bella piazza. E si voltano e vedono una lapide che ci diceva: Il Mondo sottoterra. E questi ragazzi trovano una casa di un contadino e picchiano. Dice:—«Ci dareste un corbello, una fune ed un campanello? Or ora noi vi si riporta?»—Questi contadini gnene dànno e loro si mettono ad alzà' questa lapide. L'alzano. Dice il maggiore:—«Entrerò io in questo corbello. Quando sentite ch'io sôno, tiratemi su; gli è segno che non trovo il fondo.»—Più che gli andava in giù, più bujo, più bujo. Sona il campanello e vien su. Quell'altro fratello—«Ma perchè?»—dice.—«Ora, ora, che vado io!»—Entra lui e va giù.[71] Anche codesto, quando gli è a un dato punto, sona e ritorna in su: gua', non trovava fondo! Dice il minore:—«Anderò io. O che si mora di fame, o che si mora nell'andare giù, gli è la medesima: qualcosa sarà di me.»——E così entra nel corbello e va giù, giù, giù: sino in fondo. E vede un cortile. Guarda: di qui morti, di qua morti, tutti morti attaccati. In mentre gli è lì a guardare i morti, sente dire:—«Che fai tu costì?»—Dice, poerino:—«Siamo venuti a cercar fortuna. Siamo tre figlioli che ci è morto il babbo. Siamo in estremo bisogno.»—«Ah poerino!»—dice—«tu non lo sai? Tu non vedi come sono questi morti? Come sei venuto te? Tu sarai come loro.»—«Perchè?»—«Ora ti dirò il perchè. Abbi da sapere che ci è un gigante che tiene una Regina tutta incatenata. Se ti riescisse d'ammazzarlo, tu l'avresti pur troppo la sorte. Tieni!»—dice:—«Questo è un mazzo di chiavi e questa è una falce. Va avanti. Ci sono sette porte da aprire da questo gigante. Se tu siei bravo e lesto con questa falce di tagliargli la testa, tu siei un signore.»—E sparisce il vecchio. Questo povero giovane comincia ad aprire una porta, ne apre un'altra, infino a sei[4]. Quando gli è all'ultima sente uno scatenìo, un rumore d'armi: era il gigante, che sentendo avvicinare il nemico, arrotava le armi. E lui un timor pànico, non sapeva neppure cosa si fare. Si fa coraggio, apre l'uscio, e con la falce lo piglia così alla gola e il gigante casca a terra. Appena cascato a terra, un urlìo:—«Eccolo il nostro salvatore! eccolo il nostro liberatore!»—Va dietro alle voci e trova la porta in dove era incatenata la Regina. Apre e vede questa disgraziata poerina lì più morta che viva, piena di catene. Gli apre le catene, gli leva tutte quelle che vede. Dice:—«Voi sarete il mio sposo, voi mi avete salvata la vita.»—Prendono[72] tutte le ricchezze che c'eran lì: e mettono tanta roba nel corbello; sonano e i fratelli tiran su, e veggono questa gran ricchezza di quattrini, d'oro, di tutto. Ricalano il corbello: per quattro volte il corbello fu pieno di queste gran ricchezze. Finalmente il fratello minore mette la sposa nel corbello, perchè la tirin su. I fratelli che veggon tutta questa gran ricchezza e questa bella donna, che fanno? Buttan giù la lapide, vanno a riportare il corbello e la fune e si rimettono in viaggio con la Regina e i tesori. Il fratello minore sta lì ad aspettare il corbello per venir su: l'aspetta ancora. Sente l'istessa voce del vecchio che s'affaccia:—«Vedi tu, se tu siei stato tradito? Ora tu siè' morto: che vuoi tu fare? Non c'è' altro scampo»—dice—«chè alle dodici viene il drago. O senti: li vedi questi morti? Mettigline tre o quattro costì; ed empigli un bel bigotto d'acqua.»—Questo ragazzo obbedisce subito a quel che dice il vecchio.—«E quando tu senti che gli ha mangiato tutti questi morti, e gli ha bevuto; lui s'addormenta. Vai adagio, adagio; attaccati al collo. Lui va via e ti porta via da questo posto.»—E questo vecchio si vole che fosse l'anima di suo padre, de' tre fratelli. Questo ragazzo gli fa tutta l'obbedienza; prepara tutta la roba come aveva detto e si mette da sparte d'un cantuccio, niscosto. Quando gli è le dodici, eccoti il drago, bruummatatapum! Si mette a mangiare tutti questi morti; beve; e poi si mette a dormire saporitamente. Questo ragazzo adagio adagio si attacca al collo; e il drago che sente e non sa che sia, via fori della buca. E lui, gli riesce di attaccarsi ad un albero.[5] Dunque la mattina, sapete bene, i contadini vengon giù presto, all'alba; quando sono a questo posto, dice:—«Oh c'è gente sopra quegli alberi.»—Dicono gli altri:—«Eh, c'è davvero, io vo' a casa.»—E tornano[73] tutti addietro. Vanno a casa; e prende la falce, prende la vanga:—«Perchè»—dice,—se è qualche traditore, in tanti si ammazza.»—Aspettan che si faccia lume e veggon che gli è un omo davvero:—«Che fai costassù?»—«Ahn!»—dice,—«sono un povero disgraziato! Èramo tre fratelli: siamo venuti per far fortuna...»—e gli fa tutta la spiegazione. Dicono:—«Questo de' esser quello! Io ho inteso che avete trovata la ricchezza?»—«Sì, appunto.»—Dicono:—«O non sapete che a mezzogiorno uno dei vostri fratelli gli è sposo della Regina che voi avete liberata?»—Gli metton delle funi, s'imbraca e vien giù questo poero disgraziato.—«Noi»—dicono i contadini—«vi accompagneremo sino alla casa de' vostri fratelli, poerino!»—Vanno alla casa e picchiano. I traditori s'affacciano e veggono che gli è il fratello.—«Che nessuno apra! che nessuno apra!»—Picchia picchia e nessuno apriva. Che ti fanno i contadini? Vanno alla giustizia e gli raccontano il caso. La giustizia picchia; e nessun risponde. E buttan giù la porta, oh lo credo, io!—«Oh traditori iniqui»—dice—«ora per voi è finito il bene stare!»—Li ammanettano, gli legano le braccia e li portano al bargello.—«E voi sarete lo sposo»—dice il giudice al fratello minore.—«E lo sposalizio seguirà a mezzogiorno con la vostra sposa.»—Ah potete credere la sposa quando lo vedde (può immaginarsi! il suo liberatore!) che gioja ch'ella ebbe. Segue lo sposalizio, com'era fissato; e all'ora del pranzo i fratelli furono impiccati tutti e due. Questo fu il pago che ebbero. E così loro, gli sposi, senza più paura e timore se ne vissero insieme in pace. E così questa novella è finita. O non è bella?
NOTE
[1] Il Liebrecht (art. cit.) annota:—«Gehört zu Grimm K.M. n.º 91. Das Erdmänneken. Vgl. Köhler zu Gonzenbach n.º 64. Die Geschichte von der Fata Morgana, und meine Bemerkung Gött. Gel. Anz. 1870. Seite 1421 (zu Radloff 3. 518. 'Hämra).»—Vedi anche Pitrè (op. cit.) La Jisterna, Lu munnu suttanu, Lu cuntu di lu magu e di li tre frati. Nello Jahrbuch für Romanische und Englische Literatur, Anno MDCCCLXVII, volume VIII, il Köhler ha pubblicata una fiaba di quel di Sora, raccolta da un certo Arminio Grimm in Roma, dalla bocca di un modello, e malissimo raccolta, come potevamo aspettarci da un tedesco, che poco sa la lingua e niente i dialetti nostri. Eccola, del resto, con poche emendazioni. Si noti che non è mica nel vernacolo di Sora: nient'affatto.
I TRE FRATELLI E LE TRE PRINCIPESSE LIBERATE.
C'erano una volta tre fratelli che andavano alla caccia. Quando venne la notte avevano perso il cammino nel bosco. Disse il più giovane:—«Io voglio montar su quest'albero: forse posso veder dove siamo.»—Quando fu montato, vide un palazzo illuminato. Scese e disse ai fratelli in che direzione dovevano andare. Quando furono al palazzo, lo trovarono illuminato tutto tutto e la porta chiusa. Bussarono co' fucili, ma nessuno rispondeva. Disse il più piccolo:—«Vogliamo sforzar la porta.»— E così entrando, girarono dappertutto senza trovar nessuno; ma in un gran salone stava una tavola con tre piatti e tre bicchieri e tre sedie e molta roba da mangiare. Alfine, perchè avevan fame, si messono a tavola; e poi, quando furono sazî, trovando una camera con tre letti apparecchiati, si coricarono. Ma soltanto i duoi più grandi dormivano, e il terzo restò senza dormir tutta la notte, ma non si fece veder niente. L'altro giorno presero consiglio di rimaner nel palazzo, e che il più vecchio restassi per cucinare immentre che gli altri andassero a caccia. Quando quelli furono via, entrò in cucina un uomo grande grande:—«Cosa fai qua?»—«Io sto cucinando per me ed i miei fratelli.»—«Chi t'ha fatto entrare in questo palazzo?»—«Noi siamo entrati perchè non c'era nessuno per aprirci ed abbiamo mangiato perchè avevamo fame.»—«Io ti voglio dare tante[75] bastonate quanti giorni l'anno ha.»—«Misericordia!»— gridava—«non me ne date tante.»—«Mettiti in posizione per ricever le tue bastonate.»—E il più vecchio fratello si messe in posizione e ricevette tante bastonate quanti giorni l'anno ha. La sera, quando i fratelli ritornarono, non disse niente.—«Cos'hai, fratello, che se' tanto pallido?»—«Io ho avuta la febbre,»—disse—«ho avuto un mancamento.»—L'altro giorno restò il mezzano in casa. Entrò il gigante.—«Cosa fai?»—«Io fo la cucina pe' fratelli e per me.»—«Come sei entrato nel palazzo?»—E la stessa risposta del primo.—«Io ti darò tante bastonate, quanti du' anni hanno giorni.»—«Misericordia! non me ne date tante.»—«Mettiti in posizione!»—E gli dà tante bastonate quanti du' anni hanno giorni. Quando i fratelli vennero la sera, domandava il terzo:—«Cos'hai fratello, che sei tanto pallido?»—«Io ho avuto un mancamento»—rispose. Ma al primo, che non diceva niente, fece un'occhiatina. E così il terzo giorno resta il più giovane. Ma aveva veduta quella occhiatina, e quando i fratelli furon via, se ne andò dietro pian piano per ascoltar cosa dicessero. Disse il primo:—«Io ho ricevute tante bastonate quanti l'anno ha giorni. Tu, quante?»—Disse l'altro:—«Io tante, quanti du' anni hanno giorni.»—Il terzo torna nel palazzo e si metteva a cucinare, quando quel gigante entrò:—«Cosa fai?»—«Quel che mi pare.»—«Come sei entrato nel palazzo?»—«Come m'è piaciuto.»—«Io ti voglio dar tante bastonate, quanti tre anni hanno giorni.»—«Io te ne voglio dar quanti sei anni hanno giorni.»—«Io sono più grande di te,»—disse il gigante.—«Io sono più grande di te»—rispose il giovane e si pose sur una sedia.—«Io sono più grande,»—disse il gigante, e si recava in alto, allungandosi d'un palmo.—«Io sono più grande,»—rispose il terzo fratello e salì sulla tavola. E la terza volta messe la sedia sulla tavola e vi saltò sopra.—«Io sono più grande»—disse il gigante e faceva il collo lungo lungo.... Pan! Il giovane prese la sciabola e gli tagliò la testa. Giù! E la tagliava in pezzi e li gittò nel pozzo. Quando vennero i fratelli, disse loro che voleva scender giù in quel pozzo. Si attaccò ad una corda e prese una campanella e disse che con la corda lo calassero, lo lasciassero andar giù: aspettassero tre giorni. Se dopo tre giorni non avrebbe sonato la campanella, sarebbe stato segno ch'egli era morto. E così scese e al fondo trovò una buca per la quale vidde un vasto prato con erbe e[76] be' fiori; e c'era una vecchia con un fuoco sopra al quale bolliva un caldajo.—«Cosa fai, vecchia?»—«Ohimè, ho perduto il mio figliolo; l'hanno tagliato in pezzi. Io lo voglio mettere in quel caldajo per rendergli la vita.»—Pun! Prese la vecchia e la mise nel caldajo, che vi morì. Cammina cammina, giunse ad un palazzo grande, dove il portone era chiuso. Bussa alla porta; ed apparisce alla finestra una bellissima giovane:—«Fammi entrar nel palazzo.»—«Ohimè, come capiti a questo palazzo, dove non vengono mai cristiani?»—«Io sono cristiano»—e fece il segno della santa croce—«fammi entrare!»—«Ci sono due serpenti che ti mangeranno.»—«Non ho paura.»—«Ci sta mio marito in letto: è un mago; ti mangerà.»—«Io non ho timore.»—Lo fece entrare allora, e gli si messono incontro i duoi serpenti. Pan! tagliava loro la testa. Andò su e trovò il mago nel letto.—«Oh! benvenuto, ti mangerò per pranzo,»—«Io ti mangerò, io.»—Pan! gli taglia la testa; e taglia un pezzo del suo corpo, un pezzo di serpente e se ne fece un arrosto. Allora venne la bella giovane:—«Felice me, che mi hai liberata di quel mago che mi ha rubato: portami via; andiamocene insieme.»—Disse che non poteva portarla via, perchè aveva ancora da fare.—«Ma come ti ricorderai di me?»—disse la giovane.—«Ecco un anello, ch'io ti do.»—Prese l'anello e andò via. Venne ad un palazzo più bello e più grande ancora. Bussa alla porta: e s'affaccia alla finestra una giovane molto più bella di quell'altra.—«Ohimè come sei venuto a questo palazzo, dove non vengono mai cristiani?»—«Sono cristiano io»—rispose—«aprimi la porta.»—«Ci sono due leoni che ti mangeranno.»—«Non ho paura.»—«C'è mio marito in letto che ti mangerà.»—«Non ho timore.»—Taglia la testa ai leoni e la testa al mago come la prima volta e si apparecchiò un pranzo con la sua carne e con quella dei leoni. E quando se ne volle andare, la giovane gli dette un fazzoletto, che non la dimenticasse. Trova allora un terzo palazzo più bello e più grande ancora ed una giovane che soprappassava le due altre di bellezza:—«Oimè, come sei venuto a questo palazzo, dove non arrivano mai cristiani?»—«Sono cristiano»—e fece il segno.—«Ma ci sono due tigri feroci.»—«Non ho paura.»—«Ma mio marito ti mangerà.»—«Non ho timore.»—Entra, taglia la testa alle tigri e la testa al mago, e la giovane gli dette per regalo una piccola bacchetta. E così la condusse via, e poi le altre due: che erano tre sorelle,[77] figliuole d'un Re, rubate da que' maghi. E quando giunsero al pozzo, il giovane suonò con la campanella e fece tirar su prima la meno bella delle tre. Quando i fratelli videro quella donna tanto bella, cominciarono a disputarsi. Uno:—«Io la voglio.»— «No, io la voglio,»—l'altro.—«Date la corda!»—gridava il terzo. E così tirarono su la seconda; e vedendola più bella, cominciarono a litigare, volendol'avere ciascheduno tutta per sè. E così per la terza. Restava allora il terzo fratello nel pozzo. Ma lui, invece di attaccarsi alla corda, vi attaccò un gran sasso. Ben glien'incolse. Chè i fratelli, quando fu mezzo in su, lo lasciarono ricadere ad un tratto, pump! e credendolo morto se ne andarono con le tre principesse. Ma il terzo fratello, non sapendo cosa fare, toccò la bacchetta.—«Cosa volete che si faccia?»—«Ah»—disse—«fatemi uscire da questo pozzo.»—Eccolo subito portato sopra. Tocca di bel nuovo la bacchetta.—«Cosa vuol che si faccia?»—«Fatemi il più valente, il più bello, il più istruito, il più ingegnoso giovane che mai sia stato al mondo.»—E subito, perchè prima era piccolo, divenne grande e forte. S'incammina e va finchè giunge nel Regno del padre delle tre principesse che avea salvate. Quando entra nella città, vede preparare una gran festa. E non poteva trovare alloggio. Si dovevano celebrar le nozze de' due fratelli suoi con due figliole del Re. Entra nella bottega d'un calzolajo.—«Posso io stare in casa vostra?»—«Sì, ma io non vi posso dare a pranzare.»—L'altro giorno il terzo fratello tocca la bacchetta:—«Cosa vuol che si faccia?»—«Io voglio un cane forte.»—Ecco subito il cane.—«Vattene nel palazzo del Re e prendi la tovaglia dove stanno a pranzare, e fa cader tutto a terra.»—Il cane entra nel palazzo e fa come gli era ordinato. Disse il Re:—«Questa è una gran disgrazia. Guardie! un altro giorno non fate più entrar quel cagnaccio.»—L'altro giorno il terzo fratello tocca la bacchetta.—«Cosa volete che si faccia?»—«Un cane più forte ancora.»—Ecco il cane.—«Mettiti sotto la tavola dove pranzano e levati in su, che si rovesci la tavola.»—E il cane fece come gli era ordinato. Ma le guardie lo inseguirono; e quando lo videro entrare dal calzolajo, presero quello per condurlo in carcere. Ma il calzolaio gridava:—«Io non ho cani; domandate a tutti i vicini miei, se io ho avuto mai cani.»—Subito venne allora il terzo fratello dicendo:—«Quei cani erano miei.»—Lo condussero a palazzo.—«Appiccatelo alla forca»—disse il Re.—«È permesso[78] che io pure dica due parole?»—«Dite.»—«A chi appartiene quest'anello?»—«È mio»—grida la più piccola delle tre figliole del Re—«me l'ha dato la mamma, quando aveva tre anni.»—«A chi appartiene questo fazzoletto?»—«È mio»—disse la mezzana—«me lo diede mia madre.»—«Chi mi ha data questa bacchetta?»—«Sono io,»—disse la terza;—«l'ho data a chi mi liberò dal mago.»—Spiegò allora chi era, e come i fratelli l'avevan voluto far morir nel pozzo. E i fratelli furono condannati alle forche e appiccati. E lui prese per moglie la più bella delle tre sorelle; e vi furono subito altri regnanti, che presero le altre due; e furono felici e vissero molti anni.
[2] Poero, che più esattamente si scriverebbe Póhero, giacchè il v non isparisce del tutto, anzi lascia dietro sè una lieve aspirazione. Il Fagiuoli, nello scherzo scenico La Virtù vince l'Avarizia, fa equivocar così un pedante ed un monello.—«Fidenzio. Heu, heu, tu puer!»—«Menghino. Dov'è egghi i' poero?»—«Fidenzio. Dico a te.»—«Menghino. Io non dico d'esser ricco; ma io non sono anche tanto poero, quanto io vi son paruto; me' pa' lagora su il suo, e non dovide quil po' ch'egghi ha con nessuno.»—«Fidenzio. Io non ho detto che tu sia poero.»—«Menghino. Ma io ho inteso a coresto mo', che ci faresti voi?»—«Fidenzio. Io t'ho chiamato puero, idest infante impubero.»—«Menghino. Io non sono infranto, nè son di sughero, io. Vo' m'ate scambiato: io son Menghino figghiol di Goro di Beco del Ficca dal Borratello.»
[3] Sic. Probabilmente lapsus linguae, per amore delle altre n, antecedente e seguente.
[4] Tutti sanno quanto di frequente ricorrano vasti palagi sotterranei in tutti que' racconti che pretendono al meraviglioso. Darò un esempio di simili descrizioni tolto dalla Dianea di Gianfrancesco Loredano, Nobile Veneto (MDCXLII):—«Floridea volle fuggire, ma oppressa o da stanchezza o da timore, fu costretta per non cadere appoggiarsi ad una pietra, che sporgeva più dalle altre fuori del monte. La toccò appena, che si mosse da sè stessa, quasi che le pietre avessero quella pietà, che non poteva ritrovare negli uomini. La spinse un poco più addietro e s'avvidde che serviva per turare l'entrata d'una grandissima grotta, per quanto si poteva comprendere a prima vista. Era quivi posta sopra alcuni cardini con tanto artificio, che con facilità chiudeva ed apriva quella bocca. Al di fuori mostrava[79] molto meno la sua grandezza, ed era situata in maniera che pareva prodotta dalla natura, non fabbricata dall'arte. Si apriva dalla parte di dentro e quando fosse stata assicurata coi puntelli, tutta la forza del mondo non sarebbe stata bastevole a muoverla. Stette per un poco sospesa la principessa: credeva di sognarsi, o pure si persuadeva che gli dei, mossi a pietà delle sue lagrime, le avessero fatto nascere quel ricovero, che solo le poteva difendere l'onestà e la vita. Le pareva strano il seppellirsi da sè stessa in una caverna; pure il timore presente di non cadere nelle mani del Duca, le fece precipitare ogni considerazione dei pericoli futuri. Entrata nella grotta, dubitando d'esser seguita, volle assicurare l'entrata con alcuni catenazzi fortissimi, ch'erano posti a quest'effetto. S'incamminò frettolosa verso dove la chiamava un grandissimo lume. Arrivò in un cortile, che adornato di bellissime colonne e di finissimi marmi, mostrava essere stanza piuttosto degli dei, che sepolcro, come s'aveva immaginato, degli uomini. Tenea nel mezzo situata una grandissima fontana, che da sette statue di politissimo alabastro mandava fuori acque limpide e cristalline. Quivi si fermò la Principessa; e trattasi la sete cagionatale dal timore e dalla fatica, dubbiosa tra sè stessa di quanto potesse sperare negli estremi delle sue infelicità, fu rapita da un soavissimo sonno, effetto o della sua stanchezza o del mormorio di quell'acque.»—La duchessa di Bel—Prato spiega in seguito a Floridea il mistero del sotterraneo:—«Quest'isola è l'amoroso Regno di Cipro. È fama che questa grotta fosse fabbricata da Venere per nascondere gli (sic) suoi amori; oppure da i primi Regi per assicurarsi dalle insidie. Ha sette bocche, che tutte corrispondono al mare, tanto distanti l'una dall'altra, quanto che può servire la vista d'un uomo. Credo, che sotto apparenza di religione, si proibisca la coltura a questa parte dell'isola, per levare l'occasione agli abitanti di spiare questi recessi o di osservare qualcheduno che se ne fuggisse. Tutto il contenuto è sacro; e l'uccidere una fiera o 'l recidere un arbore è delitto capitale. Per un lunghissimo giro restringendosi la bocca va a terminare in un palagio che si denomina dal Segreto. Crede il volgo, che abbia preso il nome da una fonte, che, bevendosi delle sue acque, fa rappresentare in sogno le cose venture; o, come io mi persuado, per queste cave sotterranee palesi solamente alla Maestà del Re e della figliuola, che per ordinario[80] se ne sta qui per essere il più forte e più delizioso luogo dell'isola. Nell'ultima stanza di Sua Altezza si ritrova l'entrata. È in una parte meno osservata: otturando il foro alcune tavole incastrate in maniera che ingannano gli occhi e il tatto. La facilità di levarle può esser solamente capita da coloro, che le veggono levate.»—
Chi ci darà un buon libro intitolato: Grotte e caverne nella fantasia del popolo Italiano? La natura è stata povera e meschina nel creare sotterranei e nell'adornarli, appetto alla inesausta immaginazione e balzana del popol nostro.
[5] Questo drago rimette in mente l'Ippogrifo: ed il cavallo alato della novella palermitana Dammi lu velu (Pitrè, Op. cit.) dov'è anche un tradimento simile al fraterno della nostra. Un Levantino conduce seco in luoghi impervii, appiè d'una balza inaccessibile, un picciotto disperato. Vergheggia il terreno: n'esce un pegaso, sul quale il ragazzo vola a raccoglier tesori in cima al monte per conto del Levantino. Così tre volte. Alla quarta lo stregone gli dice:—«Quel che piglierai è tuo.»—Lo rimanda lassù e poi fa sparire lo aligero destriero ed abbandona il meschinello sul cacume.
L'UCCELLINO CHE PARLA[1]
C'era una volta un Re. Non si sa per qual caso proibì che la sera non si sortisse[2], pena la testa; nessuno, indispensabilmente, sennò tagliata la testa. Alle ventitrè tutti avevan preparata la sua roba in casa per la sera non sortire. Il coco qui di cucina, ch'era giusto d'estate che sudava stando al foco, quando ebbe finito il suo impiego:—«Cheh! o ch'io moja che m'ammazzi Sua Maestà, o ch'io moja ch'io mi sento affogare, io vo' andar fori!»—E va fori, e si mette alle sponde d'Arno, come sarebbe su' nostri ponti, lì a prendere il fresco. In mentre gli è lì a prendere il fresco, sente delle voci che dicono:—«Oh, se Sua Maestà mi desse per moglie al suo scudiero, quanto sarebbon meglio le cose!»—Gli eran tre ragazze. L'altra la dice:—«O me, se mi desse al suo maestro di casa, quanto gli andrebbon meglio le cose!»—E la minore:—«Oh, se Sua Maestà mi sposassi, io gli farei tre figli: due maschi ed una femmina. I maschi di latte e sangue e i capelli d'oro; e la femmina di latte e sangue e i capelli d'oro e una stella in fronte.»—Quest'omo, il coco, quando ha sentito, guarda e prende il numero dell'uscio e torna a palazzo e va a letto. La mattina s'alza; e, appena sente che Sua Maestà s'è alzata, chiede di passare di là. Lo fecero passare.—«Maestà,»—dice—«io sono ai vostri piedi. Io ieri sera trasgredii i vostri comandi.[82] Perchè io mi sentiva affogare, io me n'andiedi fori. Mentre io era lì alle sponde a prendere il fresco, sento delle voci. Mi affaccio e vedo. Son tre ragazze (gli eran lì al fiume a lavare) che dicono: Oh se Sua Maestà mi desse per moglie al suo scudiero, vorrebbe vedere le cosa come anderebbero! una di quelle. L'altra dice: Oh lui, se mi desse il suo maestro di casa, o quello sì che le cose andrebbero bene; non anderebbero come le vanno. Una di quelle:—Se Maestà mi sposassi, io gli farei tre figli, due maschi e una femmina. I maschi di latte e sangue co' capelli d'oro; la femmina di latte e sangue co' capelli d'oro e una stella in fronte. Ora»—dice il coco—«son qua per pagare il mio fallo: aspetto la morte.»—«No»—risponde Maestà[3]—«io ti perdono. Ma vai subito in traccia di queste ragazze: e dirgli che le vengan da me in tutte le maniere con suo padre.»—Eccoti quest'omo va alla casa che la sera avea preso l'appunto e picchia[4]. S'affaccia una di quelle ragazze, dice:—«Chi è?»—«Apra»—dice il coco,—«gli ho da dire una cosa.»—«Oh babbo»—dice la ragazza—«c'è uno che mi vuol dire una cosa.»—«Tirate la corda, eh, qualcosa verrà.»—La ragazza tira la corda, il coco vien su. Gli dice il padre:— «Cosa vole?»—a quest'omo.—«Ordine di Sua Maestà, che le sue figlie vengan via con meco nel momento.»—«Verrò ancora io.»—«Venite ancora voi.»—Nel mentre che le si vestivano:—«Ma, ragazze, che iersera andaste fori?»—Gua', c'era ordine di morte e sospettava.—«No, babbo; noi non si sortì.»—Le scendevano una scalina della sua casa e le andavano al fiume: le non erano sortite. Il coco le porta al palazzo e le conduce a Sua Maestà. Maestà gli dice;—«Ditemi, ierisera, alla tal ora, o dov'eri[5] voi?»—Dice:—«Al fiume, a lavare,»—«E[83] cosa parlavate voi ierisera al fiume?»—La maggiore:—«Io dissi: Oh, se Sua Maestà mi desse per moglie al suo scudiero, vorrebbe vedere le cose come anderebbero!»—La seconda:—«Io dissi: Oh, se mi desse al suo maestro di casa, non andrebber come le vanno le cose!»—La minore:—«Io dissi: Oh, se Sua Maestà mi sposassi, gli vorrei far tre figli: due maschi e una femmina. I maschi latte e sangue co' capelli d'oro; la femmina di latte e sangue co' capelli d'oro e una stella in fronte.»—«Bene!»—risponde Maestà.—«Sarà fatto quello che voi avete chiesto. Voi sposerete il maestro di casa; voi, lo scudiero; e voi sarete mia sposa. Ma con questo, se non saranno eseguite quelle cose che voi avete detto, pena la morte.»—Concludon le nozze, fanno presto, gua'. La moglie dello scudiero in pochi mesi, eh! c'eran le scuderie che non parevan più quelle affatto: ricche, belle, per bene, i meglio cavalli. La moglie del maestro di casa gl'interessi andavan benone, di bene in meglio. Il Re era contentissimo: la sua sposa era rimasta incinta. Lasciamo quand'era già su' sette mesi la sposa che era incinta, un cugino del Re gl'impone guerra. Ma, per tornare un passo addietro, aveva due sorelle questo Re. Dovette andare alla guerra e lasciar la sposa: come si fa? Dice addio alla sposa:—«Ricordati quel che t'hai promesso»—gli dice. Queste sorelle che avevan tant'astio con questa donna, gli avevano una rabbia le sorelle del Re! Viene l'ora che la partorisce e fa un bambino di latte e sangue co' capelli d'oro. Che ti fanno queste sorelle? Prendono questo bambino e ti mettono in vece una scimmia leste leste. E danno ordine a un suo servitore che lo metta in un canestrino e lo butti in Arno. C'eran dei barcajoli: corron dietro a questo canestrino questi barcajoli; lo prendono e vedono questa gran bella creatura.—«Oh[84] birbante, chi gli è stato?»—dicono questi barcajoli; e uno dice:—«Lo porterò a casa e lo metterò a balia questo bambino.»—Che ti fa? lo prende e lo porta a casa e va cercando una balia per custodirlo, che la gli desse latte. Venghiamo ora a Maestà che doveva avere la risposta da queste sorelle, come stava la sposa, come l'aveva partorito. Gli mandano a dire che la sua consorte gli avea fatto una scimmia invece di un bambino di latte e sangue co' capelli d'oro; cosa ne dovevan fare?—«O scimmia o altro, tenete conto di lei»—risponde il Re alle sorelle. Dunque, quando lui gli ha finito la guerra, torna a Firenze. Ma non era l'istesso verso la moglie. Sì, gli voleva bene; ma mai non come prima, perchè sperava nella parola che la gli aveva data. In questo tempo, la ritorna incinta. Per tornare al bambino che è a balia, il balio vede questi capelli:—«Ma guarda»—dice alla moglie,—«non ti pare oro codesto?»—Dice la moglie:—«Sì, ch'è oro.»—Tagliano una ciocca di capelli e vanno a venderla. L'orefice la pesa e gli dà una somma, ma di molto, sapete, perchè era oro pesante e bello, che questo balio e questa balia erano arricchiti con questi quattrini. Ogni giorno gli tagliavano i capelli e andavano a venderli. Venghiamo ora a Sua Maestà, che mentre sua moglie gli era di sette mesi, suo cugino gl'impone guerra un'altra volta. Ecco lui va via, va alla guerra, dice addio alla moglie:—«Ricordati delle promesse!»—Vien l'ora che la partorisce e fa un maschio come l'aveva detto, co' capelli d'oro e con le carni di latte e sangue. Le birbanti delle sorelle[6] fanno prendere il bambino e ci mettono un cane. All'istesso omo dicono:—«Buttatelo, come avete fatto a quell'altro, in Arno.»—Questi barcajoli stessi veggono un altro canestrino, vanno e lo prendono e veggono un altro[85] bambino:—«Ah poerino! Ma che bricconate son queste?»—dicono i barcajoli. Quel navicellajo prende il bambino e fa come all'altro; lo porta a casa e poi va dalla balia e riprende quello primo e rimette questo a balia e vien via a casa[7] col bambino maggiore. Lasciamo a questi e venghiamo alla novità che doveva avere il Re, se l'aveva partorito la su' moglie. E gli mandarono a dire le sorelle:—«L'ha fatto un cane la vostra sposa; scriveteci quel che si deve far di lei.»—«O cane o altro, tenerne di conto;»—manda a dire il Re.—«O cane o cagna, tenetene di conto.»—Il navicellajo ogni tanto l'andava a veder questo bambino. E trova il balio arricchito, in una maniera! con tanta mobilia, loro vestiti tutti per bene.—«In che maniera»—dice—«vo' siete così arricchiti?»—«Oh»—dicono—«noi siamo arricchiti...»—tante bugie! Ma il navicellajo guarda il bambino e vede i capelli tutti d'oro: ci fa osservazione.—«Oh bricconi»—dice—«perchè non me lo dire? Voi mi renderete la metà dei quattrini che avete presi.»—Questi balii, gua'! gli danno la metà de' quattrini e gli dicono:—«Per amor di dio, la ci perdoni!»—«Eh!»—dice—«Io vi perdono. Basta che facciamo a mezzo, è finita.»—Venghiamo ora che lui torna alla moglie, gli mostra i quattrini e gli racconta il caso.—«Noi si taglierà i capelli al nostro e così si arricchirà.»—Eccoti che il Re che torna alla città e va al palazzo dalla sposa, sempre più serio. Ma poi, sapete, gli voleva bene di molto e sperava nell'ultimo figliolo. Lei rimane incinta un'altra volta. Mentre che la rimane incinta, eccoti il cugino che gl'impone proprio un'altra volta guerra al Re, destino proprio! Ma il Re deve andare alla guerra e gli dice:—«Addio; ricordati della promessa. Ora non ce n'è più che un solo de' figlioli.»—Ella la partorisce e fa la bambina[86] di latte e sangue, co' capelli d'oro e la stella in fronte. Le sorelle per l'istess'omo la fan mettere in un canestrino e buttare in Arno; e ci mettono una tigre in letto, piccolina. Scrivono al Re che la sua sposa l'ha fatta una tigre; quel che le avevano a fare della sua sposa. Lui gli dice:—«Quel che volete; purchè, come io vengo a Firenze, non ci sia nel palazzo.»—Torniamo ora a questi barcaroli. Veggon l'istesso canestrino[8], lo prendono e veggon questa bambina, che! una cosa che sorprendeva. La prendono e la portano a casa del solito navicellajo. E questo poi va cercando la balia, e riprende il maschio e mette la bambina. E de' quattrini de' capelli sempre facevano a mezzo. Venghiamo alle sorelle che il Re gli lascia piena libertà di far quel che le vogliono di questa donna. La prendono, la levano di letto, la portano giù in cantina, la murano di qui in giù; dal collo in giù, tutta murata, altro che la testa fori. Ed ogni giorno gli andavano a portare un po' di pane, un bicchier d'acqua; e uno schiaffo per una gli davano: questo era il suo mangiare. Per tornare un passo addietro, il Re gli aveva scritto che murassero le stanze di questa donna dov'era stata: non le voleva veder più. Il Re torna, bell'e finita la guerra, e non fa menzione della moglie, non ne ricerca, chêh! Entra nel suo quartiere, com'era solito, senza dir nulla. Altro dicendo:—«Guarda come sono stato messo in mezzo da questa donna!»—da sè diceva. Venghiamo ora al navicellajo, che la bambina era grande, la riprende, dà uno sborso al balio e la riporta a casa. Questi ragazzi e questa bambina crescevano che bisognava vedere che belle creature erano codeste! E il navicellajo avea fatta tanta e tanta ricchezza su questi capelli. Dice alla moglie:—«Qui bisogna pensare a questi ragazzi; bisogna fabbricargli un palazzo, poerini, per quando saran grandi.»—Ma[87] questo navicellajo stava poco distante dal Re, padre di questi bambini. Fabbrica questo gran bel palazzo che gli era anche più bello di quello del Re, davvero; con un giardino in dove c'eran tutte le meraviglie, non c'era più che desiderare. Que' bambini sempre crescevano, si fecero giovanettini; la bambina una ragazzina. Quando fu un dato tempo si ammala questo navicellajo e more. Per dispiacere, la moglie, sopraggiunge una febbre e more anco lei. E rimane questi tre giovanetti, ricchi, che figuratevi! non ve la posso dire la ricchezza che su' capelli aveva fatta il navicellajo. E i giovanetti procurorno d'occuparsi in qualche occupazione. La bambina rimaneva in casa a far le faccende domestiche. Quando aveva fatte le sue faccende domestiche, andava nel giardino così per passare una mezz'ora. Poi tornava i fratelli a mangiare, che s'adoravano: questi due fratelli adoravan la bambina e la bambina adorava loro, proprio s'adoravano da veri fratelli. Un giorno, quando l'era nel giardino, la dice da sè:—«Cosa manca in questo giardino? di più non ci pol essere. Oh che degna cosa che è questo giardino!»—Lì al cancello gli si presenta una vecchia:—«Te, tu dici che in questo giardino non manca nulla?»—la gli dice la vecchia.—«Ci mancano tre cose, bambina!»—dice.—«E quali sono?»—«Uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—In mentre la bambina la voleva dire:—«E in dove si pol ire?...»—la vecchia la sparisce, la non c'era più. E lei si mette a piangere disperata:—«Ah io credeva che non mancasse nulla, e ci mancano tre cose: uccello che parla; albero che canta; fontana, che brilla!»—E piangeva a calde lagrime. Tornano i fratelli e la veggono disperata in quel modo lì:—«Cosa c'è? cosa ci hai?»—«Eh lasciatemi stare! Era nel giardino che a me dicevo che[88] non mancava nulla, che proprio non ci poteva che desiderare. M'è apparito una vecchia che m'ha detto: Te, lo dici che non manca nulla; ci mancano tre cose: uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Ah!»—dice il fratello maggiore—«e siei disperata per questo? Sarò io che ti farò felice. Vado io cercando queste tre cose.»—Aveva un anello questo fratello in dito; se lo leva, e gnene mette in dito alla sorella, e gli dice:—«Quando sarà cangiata la pietra, sarà segno che io son morto.»—La sorella non vole che vada:—«Ah!»—l'urla—«io non vo'....»—Ma lui parte e non gli dà retta e va via. Quando gli ha fatto un pezzo di strada; ma un pezzo, via, molto, trova una vecchia che gli dice:—«Dove tu vai, bel giovane?»—«Oh vado in cerca dell'uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Poerino!»—dice—«tu non sai che hai da camminar tanto!»—«Eh»—dice—«cammini quanto volete: gua', io ho da trovar questa roba.»—In mentre che tu hai finita la strada, tu troverai una bellissima piazza dove c'è una porta. Entra dentro e vedrai un cortile lungo lungo, ma lungo! Di qui e di là non vedrai altro che statue; che sono uomini e donne andati come siei ito tu, tale e quale, per cercare queste tre cose. Te, le puoi avere. Se quando tu senti urlare, strapparti per la persona, se tu non ti volti, questa roba l'è tua; ma se ti volti, tu divieni statua.»—Questo giovane ringraziò questa donna e si rimette in cammino. E cammina quanto può e arriva a questa bellissima piazza che gli avea detto ed entra nel cortile. Appena ch'egli è entrato nel cortile principia a sentire urli.—«Acchiàppalo! acchiàppalo! Lascialo ire! Dàgli, dàgli!»—Chi lo strappa di qui, chi di là, una cosa impossibile, ecco! Lui resiste per un pezzo, ma poi si volta e viene una[89] statua. Veniamo alla sorella. La guarda l'anello e la vede che la pietra divien gialla. Urla:—«Ah! mio fratello, mio fratello è morto!»—Dice l'altro fratello:—«Se è morto il fratello, son vivo io per farti felice.»——E la bambina l'urla che non vol che vada via a nessun costo. L'urla! Ma lui non gli dà retta, scappa via ed è finita. E la ragazza rimane a piangere dicendo:—«Io son la vittima de' miei fratelli! io per la mia ambizione sono la vittima[9] de' miei fratelli!»—Il fratello cammina cammina; quando gli ha fatto un pezzo di strada trova la stessa vecchina dell'altro; l'istessa vecchina l'incontra. E lei dice:—«Dove vai, bel giovane?»—«Vado così a trovare l'uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Ah poerino, te hai a camminare assai!»—«Eh!»—dice—«questo si sa. Camminerò quanto ci vole! Tanto io l'ho da trovar questa roba.»—«Ma senti. Troverai una bellissima piazza...»—la vecchina gli dice come a quell'altro maggiore.—«E poi te troverai un bellissimo cortile. Appena che tu entri dentro sentirai urlare. Non ti voltare, altrimenti tu diventerai una statua.»—Questo ragazzo la ringrazia, va via, e trova la piazza col cortile e entra dentro. E sente:—«Ah piglialo! acchiappalo!»—Lo strascinavan di qui, lo battevano, mah! non era possibile, gua'! Stancato, si volta.—«Eh state fermi!»—Rimane una statua. Venghiamo alla sorella. Guarda l'anello e vede la pietra cangiata un'altra volta[10]. Lei urla e dice:—«Oh dio! l'è morto anche questo de' miei fratelli! Sono stata io la vittima!»—Che ti fa? Serra il palazzo e va via:—«Sono morti loro, e voglio morire anch'io.»—Quando ha fatto un pezzo di strada, la trova l'istessa vecchina.—«Ah, dove vai, bella ragazza?»—«Ah!»—la gli dice—«vado incontro[90] di uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Poerina!»—dice—«tu morirai!»—«Eh! come han fatto i miei fratelli! Sono morti loro e voglio morire anch'io!»—«Lo so, che quelli eran tuoi fratelli»—la gli dice.—«Tieni queste due pentole di lardo, con questo pennello. Tieni questa boccettina per mette' l'acqua della fontana. Se ti riesce di passare, èmpila d'acqua, prendi una rama di quell'albero e acchiappa l'uccellino e vien via. Di queste due pentole io ti do, quando tu torni addietro, ungi tutte queste statue, fra quelle c'è anche i tuoi fratelli. Ungile tutte, risuscitan tutte; quante ce ne è, tante risuscitano.»—Poi la gli dice—«questa boccettina, buttala nella tua vasca, tu vedrai come brilla! Quella rama, piantala dove tu vuoi nel tuo giardino, tu sentirai come canta! E l'uccello, mettilo su un posto nel boschetto, tu sentirai come discorre!»—Eccoti la bambina, la ragazza ringrazia questa vecchina e va via via via e trova il posto che gli aveva detto. Entra e principia a sentire:—«Acchiàppala! pìgliala! pìgliala!»—sempre urli; e chi la tirava di qui, chi di là. Ma lei costante, arriva al giardino senza mai voltarsi. Entra dentro, empie la boccettina di acqua, come la vecchina gli aveva detto, prende la rama dell'albero, acchiappa l'uccello e vien via. L'uccello se lo mette in seno e poi la prende queste pentole che gli avevan dato ed unge tutte le statue, che risuscitano. Urla! tutti, uomini e donne:—«Ah ecco la nostra liberatrice! Ah ecco la nostra liberatrice!»—Urla di tutti quelli che risuscitavano. Costì c'era anche i suoi fratelli. Figuratevi! baci, abbracciamenti vedendo la sua sorella. Ognuno andiede alle sue case. La ragazze e i fratelli tornano al loro palazzo. Lei, appena entra in casa, va nel suo giardino e butta l'acqua subito nella vasca. E[91] comincia a brillare quest'acqua: fontana che brilla, brilla che era una cosa che sorprendeva. E così pianta la rama; e la diviene un albero che comincia a cantare. E si cava l'uccellino dal seno e comincia a ragionare. Maestà s'affaccia e sente questi canti dell'albero, questi ragionamenti dell'uccello, vede questa fontana brillante e rimane estatico. E vede questi tre, due ragazzi e una ragazza, compagni come gli avea detto la sua sposa. Sente in sè un trasporto verso quei ragazzi, una cosa seria: eran suoi! Principia a discorrere a questi ragazzi:—«Oh! gran bel giardino che avete!»—dice—«gran bella cosa che avete!»—«Maestà,—dicono i ragazzi—«se Lei ci fa degni, pò venire pure a passeggiare una mezz'ora, un'ora nel giardino.»—«Ben volentieri accetterò quest'invito di venire.»—E va nel giardino di questi ragazzi, discorre del più e del meno e poi gli dice:—«Verreste a mangiare una zuppa da me?»—«Ah Signore»—dicono—«sarà troppo incomodo.»—«No;»—dice—«mi fate un regalo.»—«E allora accetteremo le sue grazie e dimani saremo da Lei.»—Il Re va via, viene a casa e dice alle sorelle:—«Domani ci ho persone a pranzo.»—«E chi ci avete?»—«Ci ho quei ragazzini di quel giardino là.»—«Quelli!...»—Esse lo sapevano che eran quelli i figlioli del Re.—«Ah noi ci dispensiamo, non si ci vole stare a questo pranzo»—dicono le sorelle.—«Perchè non ci volete stare? Son tanto boni que' ragazzi! Andiamo, andiamo, non facciamo chiasso.»—E le sorelle, gua! s'accordarono. La bambina la prende l'uccellino che parla e se lo mette in seno per andare al pranzo.—«Maestà,»—dice—«mi sono presa la libertà, ho portato ancora l'uccellino.»—«Bene: anzi sarà il divertimento della tavola!»—Quando furono sul bello del desinare gli dicono:—«Uccello,[92] non dici niente?»—«Oh signore,»—dice—«avrei un fatto da raccontare, se Lei mi permette. Vi era un Re: in un tal tempo, non si sa per qual caso, proibì che la sera andassero fuori dalle ventiquattro in là. L'omo di cucina che sente quest'ordine, era così stanco e sudato, dice da sè: O ch'io moja di caldo o che mi faccia morir Sua Maestà, tanto è l'istesso! io vado fori. E si mette alle sponde d'Arno a prendere il fresco. Mentre che gli è a prendere il fresco, sente voci che parlano. S'affaccia. Erano tre ragazze. Una di quelle dice: O se il Re mi desse per moglie al suo scudiero, dovrebbero vedere come andrebbero le cose! L'altra: Se mi desse al maestro di casa, quello sì che vorrebbe vedere come andrebbono! La terza dice: O se Sua Maestà mi sposassi, vorrebbe vedere! Gli farei tre figli: due maschi e una bambina. I maschi di latte e sangue e i capelli d'oro, che son quelli lì; la bambina di latte e sangue coi capelli d'oro e la stella in fronte, come Lei vede. L'omo di cucina raccontò tutto al Re, che gli perdonò la vita, e maritò le tre ragazze secondo le avevan detto. Le briccone delle sue sorelle»—e l'uccellino le accenna col becco facendo col capo così—«la sua Sposa l'aveva fatto questi bambini e loro dicevano l'aveva fatto la scimmia, il cane e la tigre. E la sua Sposa è giù in cantina, murata dal collo in giù, e tutti i giorni un po' di pane, un bicchier d'acqua e uno schiaffo da quelle scimmie.»—Maestà che sente questo, corre giù alla cantina con tutti i suoi signori che avea dintorno, e trova questa infelice, murata come aveva detto l'uccellino, più morta che viva. La fa smurare, la fa mettere su di una materassa, e portare su nel quartiere a riaversi. Il Re piangeva su di lei ed abbracciava i suoi bambini dicendo:—«Tanto birbanti le mie sorelle sono state! Ma mi saprò vendicare!»—Ordina[93] che sian rizzate le forche assolutamente nel momento. E nel mentre che la sposa cominciava a stare benino, nell'ora del pranzo, furono impiccate quelle briccone. Non si pò spiegare la contentezza di questo signore, quando vide che la sposa stava meglio e che gli perdonava. Gli chiese tanto perdono e i bambini sempre li baciava. Costì se ne stiedero tutti uniti fino che comparono. E lei gli fece degli altri figli; rimasero ricchi di tutta la ricchezza delle sorelle che avevano cose assai. E stretta la foglia e larga la via, dite la vostra che ho detto la mia. L'Uccellino che canta finisce così.
NOTE
[1] È in sostanza La 'ngannatrice 'ngannata, terzo racconto della Posillecheata de Masillo Reppone de Gnanopoli (Pompeo Sarnelli di Polignano, poi vescovo di Bisceglie). Tale e quale la Favola V de la Notte IV, presso lo Straparola.—«Ancillotto, Re di Provino, prende per moglie la figliuola d'un fornajo e colei genera tre figliuoli. I quali, essendo perseguitati dalla madre del Re, per virtù d'un'acqua, d'un pomo e d'un uccelletto, vengono in cognizione del padre.»—Affatto identica nella sua prima parte è la Istoria della Regina Stella e Mattabruna. Oriano, re di Belfiore, aveva una moglie.
2. Questa Regina Stella era chiamata,
Più bella donna che mai fosse alcuna.
Da sua Madonna era tanto odïata
La quale aveva nome Mattabruna,
Madre del Re, malvagia ed insensata.
Notate quel che volse la fortuna....
3. ............ Il Re non s'avvedia
Del falso cor che Mattabruna avia.
4. E stando un giorno insieme alla finestra,
Vide una donna che due figli avia
L'un da man manca, l'altro da man destra;
[94]In sulla piazza quella si venia
A provvedersi per lo suo mangiare.
Il Re la vide, e cominciò a parlare.
5. Dicendo: «O dio, che così fatto dono
«Hai fatto a quella donna in tanto bene!
«Ed io, che Re di tutta Spagna sono,
«S'io n'avessi uno sarei fuor di pene.
«Per tua misericordia, o signor buono,
«Mostra le tue virtù degne e serene;
«Per tua somma possanza e buon consiglio
«Della mia Stella mi concedi un figlio.»
6.Or come piacque alla Vergine pura,
Avvenne che la moglie ingravidossi.....
Di che il Re in gran gioja ritrovossi.
E Mattabruna, che questo non cura,
Come la nuora Stella approssimossi
All'ora e al punto che dee partorire,
All'altre donne così prese a dire:
7.Dicendo: «Ognuna vadi a sua magione
«Ch'io voglio con mia nuora rimanere....»
E nella zambra si serrò con lei,
Dicendo: «O figlia, fa quel che vorrei.»
8.Dal corpo della madre i figli uscendo,
Ciascun uscì di grazia dilettosa,
Cioè, con una catena d'argento,
Intorno al collo, fra le spalle e 'l mento.
9.Tre furo i maschi, ed una fanciulletta,
E ciascun quella catenella avia:
Avea una tal grazia benedetta,
Mentre che seco al collo la tenia
Non potea mai morir di morte in fretta.....
10.E Mattabruna, piena di nequizia,
Que' quattro figli subito prendia,.....
E un suo donzello chiamar si facia.....
Giunse il donzel, che Guido nome avia,
Dicendo: «Dama, che t'è in piacimento?»
Menol da un canto e diegli giuramento.
11.E nella zambra ove portò li figli
Lo menò e disse: «Tu mi servirai.
Or fa che questi pargoli tu pigli;
Dove a te piace tu li porterai.
E d'annegarli fa che t'assottigli;
Tal che novella non se n'abbia mai.
E da me n'averai buon guiderdone:
Innanzi a te, non sarà mai Barone.
12.Ma s'io ne risapessi mai nïente
Che tu il dicessi mai a creatura,
Io ti farei di tua vita dolente.»
14.Guido si parte allora e non si posa;.....
15.E giunto al fiume ch'era grande e grosso
Apre il mantel per volerli annegare.....
Guido li guarda, e cominciò a pensare.....
E per pietà si mise a lagrimare.....
16.«Son questi figli da patir tormento?
O s'io li getto in questo fiume al fondo,
Il mio cor non sarà mai più contento».....
17.E in su la riva del fiume li lassa
(E fegli addosso il segno della croce).
Rinvolti in quel mantel senz'altra fassa.
Poi ritornava alla vecchia feroce
Pien di paura con la testa bassa.
E giunto a lei, con un parlar veloce
Gli disse: «Dama benigna e gradita,
«Di quel che m'imponesti se' obbedita.»
18.E Mattabruna, che al mal far non cala,
Credendo che sien morti que' figliuoli,
In una stalla andò sotto una scala,
Dove una bracca avea quattro cagnuoli.
Tutti li tolse, e ritornò in la sala
Per metter la Regina in mortal duolo.
Con essi in grembo in camera fu gita,
Per farle con dolor perder la vita.
19.E quei cagnuoli glieli mise allato......
20.Dov'era il Re con la sua Baronia,
Che aspettava di sua donna novella,
Questa malvagia vecchia se ne gia,
Per metter empia fama addosso a quella.
E corrucciata forte gli dicia:
«Gran fallo ha fatto la Regina Stella.»
21.Il Re, sentendo sì fatto parlare,
Con quei Baroni ch'erano d'intorno
Alla camera andò senza tardare.....
E vide Stella con quattro can stare.
E Mattabruna allor non fe' soggiorno
Di dire al Re, sbattendose le mane.
«La prole, ch'essa fece, fu di cane.....
23.«Da te non son creati e manco nati,
Da lei procede questo fallo rio.»
Il Re allor con suoi sensi turbati
Alzò le mani al ciel laudando iddio.
Vedendo questo Mattabruna allora
Diè per consiglio al Re che Stella mora.
24. Dicendo: «figliuol mio, pronta vendetta
«Far dei sopra di questa miscredente.»
Il Re le disse: «Darle morte in fretta
Non potrei sopportar alma vivente.
[96]Perchè m'è stata sposa assai perfetta
Non soffrirei mai tanto inconveniente.»
La madre disse: «Fa ciò che t'ho detto,
Se non, da me, figliuol, sii maledetto.»
25.Il Re con gran dolor le diè parole
Che la Regina fosse imprigionata.
Non domandar se 'l Re si strugge e duole.
E Mattabruna, forte corrucciata,
Inver la zambra, come uccel che vole,
Se n'andò tutta quanta indiavolata.
Stella, sentendo allor ch'ella venìa
Piangendo disse: «O vergine Maria!»
26.E Mattabruna nella zambra entrava,
Con seco più donzelle in compagnia.
E Stella a furia pe' capei pigliava,
Con le pugna il bel viso le offendia,
E fuor del letto sì la strascinava,
Poi: «Falsa sposa» essa le dicia,
«Ch'al tuo marito hai fatto fallo tanto!»
E la Regina Stella fea gran pianto.
27.E li figliuoli volea ricordare.....
Mattabruna la fece imprigionare,
Poi comandò a ciascuno con istizza
Che la prigion non si dovesse aprire
Sotto la pena di dover morire.
28.Pane ed acqua le dava con sua mano:
Altra persona non andava a lei.....
29.E Stella piangea forte da sè stessa
De' bei figliuoli che perduti avea;
Spesso per la prigion si tramortia
Chiamando sempre la Vergin Maria.
31.Era un Romito in quella selva folta.....
E in su la riva del fiume venia.....
In que' figliuoli un giorno si scontrava,
Maravigliossi, e forte li guardava.
32.Ed una voce per l'aer favella;
«Togli, santo Romito, e va alla cella.....»
35.Or giungendo alla cella in sulla porta
Una cerva bellissima ha scontrata;.....
Cristo benigno sì l'ebbe mandata.
La bianca cerva in terra si distese;
Di dio la grazia il buon romito intese.
36.Le poppe in bocca a' pargoletti pose:
Gemea la cerva per gran tenerezza.....
37.Da que' figliuoli mai si dipartia,
Sempre stava con lor nella celletta.....
Così cresceva la brigata in fretta,
Tanto che ognun con suoi piedi ne gia
[97]Le catenelle in simile crescevano,
Che i putti dilettosi al collo avevano.
40.Poi che fur grandi si partir dal sito:
A spasso andavan per la selva folta;
Cristo benigno, ch'è signor gradito,
Spesso per un suo angelo gli manda
Pane che sazia con altra vivanda.
Il resto della Istoria della regina Stella e Mattabruna, cioè il modo in cui accade l'agnizione de' figliuoli e si riconosce l'innocenza della madre, è diverso in tutto dalla fiaba nostra.—Cf. De Gubernatis, Novelline di Santo Stefano di Calcinaja: XVI. Il Re di Napoli, ed anche XV. I Cagnuolini. Pitrè (Op. cit.) Li figghi di lu cavuliciddaru (Palermo); La cammisa di lu gran jucaturi e l'auceddu parlanti (Montevago); Suli e Luna (Capaci); Stilla d'oru e Stilla Diana (Casteltermini); Lu Re Turcu (Noto). Se ne legge un'altra lezione di Palermo, sotto il titolo di Re Sonnu nel Nuovo saggio di Fiabe e Novelle popolari siciliane, raccolte ed illustrate da Giuseppe Pitrè (Estratto dalla Rivista di filologia romanza, vol. I fasc. II e III). Imola, tip. d'Ignazio Galeati e figlio, via del Corso, 35. 1873. Vedi anche nell'opera della Gonzenbach la novella siciliana intitolata: Die verstossene Königin und ihre beiden ausgesetzten Kinder. Ridotta la fiaba a semplice novella e ravvicinata alla Storia di Genoveffa di Brabante si ritrova nella seguente panzana milanese.
LA REGINNA IN DEL DESERT.
Gh'era ona volta on fiœu d'ona Reginna, e l'ha tolt mièe, l'ha tolt ona bravissima giovina, e l'era bonna che tutti in casa l'amaven. E invece a la Reginna mader la gh'era antipatica. Ven che al so fiœu ghe ven l'ordin che l'aveva de andà a la guerra; e, prima de andà, el gh'ha raccomandàa tant la soa mièe a la soa mamma. Apenna che l'è stàa via, lee la comincia a no disnà pu insemma, nè andà pu nella stanza, nè nient. E pœu la scriveva a so fiœu che soa mièe la se portava mal e che insomma la tegneva ona condotta minga bella. On po che l'è staa via lu, la gh'ha avuu on mas'c; e lee, la mader, on dì la ciama on so servitor e la ghe dis:—«Sent, te see bon de fà quel che te disi mì? Ti, te mancarà pu nient per tutt el temp de la toa vita.»—El dis:—«Sì, che la me comanda, che mi sont per obedilla.»—«Ti, te devet fa ona robba che te disi mi. Te devet andà cont la sposa del me fiœu per fà[98] ona passeggiada, cercà de tiralla distant de chì, in d'on sit molto distant, in d'ona campagna, in d'ona foresta, e pœu te devet mazzàlla e portamm a casa la lingua.»—E lu, difatti, el fa quel che lee, la ghe dis. El va; e quand l'è in sto sit ch'el ved che l'è propizi per fa sta robba, el gh'ha minga coragg. In quel menter passa on pegorèe. Lu, el servitor, el ghe dis de vendegh vunna di so pegor: lu ghe le vend. E pœu le mazza e ghe trà foeura la lingua. E lee, la dis:—«Perchè t'hê mazzàa quella povera bestia lì?»—«Quand la vœur che gh'el disa, l'è perchè mi gh'hòo l'ordin de mazzalla lee, e portà a casa la so lengua.»—Allor lee la dis;—«Mi te ringrazi del to bon cœur, che te gh'het[i]. Lassa fà de mi, che se fuss de vegnì anmò de vess recognossuda, non palesaròo mai a nissun che ti te set quel che m'ha salvaa la vita, fin al moment propizî,»—al moment che fuss mort la mader. Sta poverinna cosse la fa? la va in cerca d'on quaj sit distant, la va, la va, la viaggia per on quaj dì, fin chè la po trovà ona grotta de podè andà a ricoverass. E là, la viveva cont di frutt che gh'era, salvadegh: per bev, gh'era ona fontanella; e lee, l'andava là per bev quell'acqua piovana. Ven che on dì l'era là e la ved che ven là ona cavra: e allora, lee, la se domestega sta cavra. E la cavra, la viveva d'erba di pràa che gh'era; e lee, pœu, la se serviva del latt de la cavra per podè nodriss. Adess la lassem lì. El servitor, el va a casa; el ghe porta sta lengua a la Reginna; e lee, tutta contenta a vedè ch'el gh'ha faa quel che lee, la gh'ha ditt. Lee, la nuncia a tutta la côrt, a tutt i servitor, la mort de la nœura. In tra lee e sto servitor, fan fenta de stà su a curalla lor e mettela in del còfen[ii] lor. La ghe fa fà i esequi, tutt quell che gh'era de bisogn come ona mòrta; la porten via e gh'era el cofen vœud. E pœu gh'era el fiœu: la Reginna, la ciappa ona cassettinna e le mett denter e le mett in d'on foss, òn acqua che gh'era là e le fà andà giò per el navilli de nott, nascost de tutti. E lu, quel pover servitor, ghe tocca de fà tutt quell che la Reginna la ghe diseva, perchè la ghe intimava, che la gh'avaria fàa morì anca lu, se el parlava. Lu, sto pover omm, l'è andàa per vedè, se le podeva trovà de nascost per soccorrell; per tant cercà che l'ha faa, l'ha mai poduu reussì a trovall. Lee, la ghe scriv al so fiœu, che la soa sposa l'era morta e el fiolin anca lu che la gh'aveva avuu. Lu, el ricev sta notizia,... insomma l'era tutt fœura de lu del dispiasè. Intant el fiolin, quand l'è miss in de l'acqua in sta cassetta, l'è passàa in d'on sit che gh'era on molin. Gh'era là el mornèe[iii], el ved sta cassetta, el dis:—«Cosse l'è ch'el ven giò adess?»—El corr, el va a tœu on pal, el tira la cassetta taccàa, e el ved che gh'era denter on fiolin. El va, el ghe le porta là a la soa mièe, el ghe dis:—«Sent, post che ten latten vun, latta anca quest che l'è on fiolin de tetta, che mi gh'hoo trovàa ch'el vegneva giò in del navili.»—Lee, la guarda sto fiolin e la ved che l'era fassàa denter in di pattej inscì fin, che ghe pareven de battista. Lee, la dis:—«Quest chì l'è on fiœu d'on quaj scior.»—Ma però gh'era minga de marca in sui pattej[iv], che se gh'era la marca capiven che l'era on fiœu del Re. Lee, la mornera, l'ha bajlìi sto fiolin; el gh'aveva già on trij ann, gh'è mai vegnùu i so gent de lu e la mornera le tegneva insomma al so fiœu come s'el fuss stàa so, de lee, anca quell. Ven che la guerra la finiss. El fiœu de la Reginna, el ven a casa; e la soa mamma, la ghe dis:—«T'hê sentii che disgrazia, eh, ch'è success? che l'è morta la toa sposa, el to fiœu?»—E lu, el dis:—«Pur tropp gh'ho avùu on gran dispiasè.»—Lee, la ghe dis:—«Te dovaresset tœu[v] la tal!»—che gh'era vunna, che lee, la gh'aveva in piasè ch'el tœuresset. Lu, el ghe dis, ch'el vœur minga saveghen, perchè el ghe voreva tant ben a quella che gh'è morta. Ben, lu, l'andava semper a caccia, per cascià via la malinconia; e on dì el va inscì distant, el passa via de quel molin, el gh'aveva ona gran set. El ghe dis a la mornera de fagh el piasè de favorigh ona tazza d'acqua. Là, el ved sti fiolitt. El ghe dimanda se eren tutt so quij fiolitt; e lee, la mornera:—«No!»—la dis—«quest chì l'è on fiolin che l'ha pescàa on dì me marii che el vegniva giò per el navili in d'ona cassetta.»—La ghe dis:—«L'era piccol che mi l'hoo lattaa, e adess el tegni com'el fuss mè, ghe vœuj ben compagn di me, precis.»—E lu, el dis:—«Oh che bel fiœu! com'el me pias! m'è simpatich tant quel fiœu!»—Lu, el va innanz, el va a continoà la soa caccia. Quand l'è on certo sit, el ved che el can el boja; el boja, e lu, l'era adrèe per tirà, che ghe sia ona quaj legora, ona quaj legora, on quaj cossa de podè ciappà. E invece el can l'andava là a bojà e poeu el coreva indrèe a fà cera al padron; e lu, el dis:—«Prima de tirà, bisogna che vaga là a vedè cosse l'è che gh'è.»—Infin el va là, in dove l'è sta grotta, el ved che gh'è la ona donna; e lee, la ghe guarda e la resta lì incantada. Lu, el cognoss minga che la sia soa mièe, perchè lu, l'era tant persuas che la fuss propri morta; e lee, la ghe dis:—«Ah te me cognosset no? te me cognosset pu? Guarda on poo el can che el m'ha cognossùu.»—E lu el dis:—«Ma dio! dimm chi te set?»—E lee, la ghe dis:—«Sont toa mièe!»—«Come!»—el dis—«te see mia mièe? ma mia mièe l'è morta!»—«Si, se avessen eseguìi i orden che gh'han dàa a quel che m'ha compagnàa chì, saria morta; perchè invece el gh'ha avuu compassion, el m'ha lassàa al mond.»—E lu el dis:—«Dimm chi l'è quel che gh'aveva orden de mazzatt?»—La ghe dis:—«On servitor de la toa mader. Ma te preghi de no stà a dill; perchè lu el m'ha salvàa la mia vita e vœuj salvagh la soa.»—E la ghe dis, che a casa, lee, la voreva minga andà; che la menass in d'on quaj sit; che fin a che viveva soa socera, lee, la saria minga andada a la cort. Lu, allora, el pensa, el ghe dis:—«Te menaroo in d'on sit che hin[vi] povera gent de cœur; e sont persuas, quij là palesen a nessun de quel che succed.»—Le mena là al molin. El ghe dis a sta gent, de fagh sto piasè, se voreven tegnigh lì sta donna, che l'era on poo malada, e de assistela. Lor gh'han dit:—«Nun semm povera gent; ma quel che podem fa, tutt quel che pò stà de nun, nun el farem.»—Lu, el ghe mandava là tutt quel ch'el ghe fava de bisogn; finchè lee, la s'è recuperada on poo de salut. La vedeva sti fiolitt a giugà, la dimandava a la mornera se eren so; e lee, la gh'ha cuntàa l'istessa storia che la gh'aveva cuntàa al so marì; che quell là l'aveven ciappàa denter l'acqua. E la ghe dimanda l'epoca che l'han ciappàa sto fiœu dent in l'acqua. E allor, lee, ghe ven in ment che non pò vess che el so fiœu; perchè la mader de so marìi, la gh'aveva scritt che l'era mort anca el fiœu. Allora so marìi el va là; e lee, la ghe dis:—«T'hê minga trovàa domà la mièe, ma anca el to fiœu. Quest chì, l'è el to fiœu.»—E la Reginna a cà la saveva nient, che l'avess trovàa la soa sposa. Domà che lu pœu, con quel servitor, che l'è stàa el deliberator de soa mièe:—«Dimm tutt quel che mia mamma la t'ha ditt de fa contra a mia mièe. Abbia minga parura che mi.... La mia mamma la savarà nient de quel che te me diset; e te, de nascost te andarà là a vedè el me fiœu, a trovà la mia sposa; e quand la mia mamma la sarà morta, allora la mia sposa la vegnirà in casa e ti te tegneroo come on amis de casa e pu come on servitor.»—S'ciao, quand la mader la fu stada morta, alor el Re, el ven in casa con la soa mièe e el so fiœu, cont el mornèe e la mornera e cont el servitor, pacificamente.
[i] Del to bon cœur, che te gh'het, forma pleonastica, impossibile a rendersi in italiano, dove sarebbe mostruosa. Similmente più giù troveremo: come s'el fuss sta so, de lee; e continuamente si odono a Milano, el me, de mi; el so, de lu; e simili locuzioni.
[ii] Còfen, è spiegato del Cherubini:—«Specie particolare di cassa da morti, fatta come a culla;»—e risponde precisamente al coffin inglese. Il Settembrini, traducendo con ingenua eleganza il Lucio del Samosatense, adopera in questo senso il vocabolo atauto:—«Io mi rancurava che doveva essere scannato e neppure morto giacere in pace, ma chiudere dentro di me la povera giovane ed essere l'atauto di quella innocente;»—ed annota:—«Atauto è voce spagnuola, ataùd. Il Giambullari l'usa nel IV Libro della sua Storia, dove dice che il conte Fernando di Castiglia, uccise di sua mano il conte di Tolosa: Il che fatto, comandò che e' fusse rivestito[99] onoratamente di drappi moreschi, e riposto in atauto sontuosissimo. I Napolitani hanno tauto, che non è nè bara, nè feretro, nè cataletto, ma cassa mortuaria. Io sarei tentato a dir piuttosto tauto, parola già modificata italianamente da un popolo italiano, che atauto, usata una sola volta dal Giambullari, il quale la copiò da qualche storico spagnuolo.»—Questo termine spagnuolo ataùd, è tanto bello, che sebbene i francesi ne abbiano uno perfettamente corrispondente in cercueil, il Branthôme cercò di gallicizzarlo e parlando di Bartolomeo d'Alviano, dice: Quel convoy et quelle pompe funèbre! Celle de messire Bertrand de Glesquin fust bien plus belle et plus honnorable, lequel estant mort devant le Chasteau—Randon et ceux de dedans s'estant rendus, fust ordonné et advisé par ceux de l'armée qui commandarent amprès luy, qu'on porteroit sur son tahu, où estoit le corps, les clefs, en signe d'obediance et humilité.
[iii] Mornée, mugnajo e Mornera, mugnaja.
[iv] Pattej (plur. di pattell) pezze, fasce pe' bimbi.
[v] Tœu assolutamente, per: torre in moglie. Dice una canzonetta popolare:
La bella bionda la va al poggiœu
Si gh'è on bel giovin che le vaur tœu.
Vun le vœur, l'alter le vœur.
La bella bionda ghe creppa el cœur.
[vi] Hin, sono, parola che parrebbe chinese. Si narra per ischerzo d'una signora, che andando a far visita a delle amiche, chiese alla portinaja se le padrone fossero in casa:—«Gh'hin?—cioè, ci sono? La portinaia chiede al cuoco delle signore, che usciva per far la spesa:—«Gh'hin?»—Il cuoco si volge alla domestica, che sciorinava e spolverava i tappeti ad una finestra, la quale affacciava sul cortile:—«Gh'hin?»—La domestica risponde al cuoco:—«Gh'hin!»—Il cuoco ripete alla portinaia:—«Gh'hin!»— E la portinaia dice alla visitatrice:—«Gh'hin, gh'hin!»—
[2] Usano sempre il sortire per uscir di casa. Più d'una volta m'è accaduto di domandare a qualche domestico o domestica se il padrone o la padrona fossero usciti e di sentirmi rispondere, quasi per correggermi e farmi la lezione: Sono sortiti. Ma tutti i ben parlanti, spero, persevereranno a dare al verbo sortire i soli significati antichi di aver in sorte e fare una sortita.
[3] Maestà, diceva la novellaja, più volentieri e più spesso di Sua Maestà, come si suol dire nella lingua aulica; e diceva bene, non essendo razionale l'uso del pronome possessivo, quando non ci sia a che riferirlo.
[4] Bisogna aver presente la costruzione solita delle casucce fiorentine, di quelle casucce caratteristiche con due finestrucole di facciata. I portoni non sono carrozzabili. Sorgono per qualche scalino. Ci ha tanti campanelli, quanti quartieri; ed i pigionali di ciascun quartiere tirando una corda di canape o di fil di ferro possono aprir l'uscio di casa.
[5] Eri, eravate.
[6] Vaghissima proprietà della nostra lingua di poter apporre il sostantivo allo aggettivo, quasi come un genitivo retto da questo. Boccaccio. Decameron, VII, 2.—«Almeno m'hai tu consolato di buona e d'onesta giovane di moglie.»—Il Firenzuola adopera questo modo di dire a tutto pasto: La trista della volpe, la pazza della barbiera, il semplice dello istrice, ecc.
[7] Nota quel vien via a casa, quanto più energico del va o torna! E nota la tendenza di adoperare alcuni verbi con qualche avverbio di moto e di luogo, alla inglese, invece del verbo semplice proprio. Così andar di sotto (invece di cadere); star su (invece d'alzarsi); venir su (invece di salire); ed infiniti altri.
[8] L'istesso, qui, nel senso di tale e quale. Sarà stato un canestrino simile, concedo; ma come avrebbe potuto essere il medesimo? Il navicellajo non era certo andato a restituirlo alla Reggia.
[9] Sic. L'effetto per la causa. Forse pittima?
[10] Vedi lo esempio milanese, L'esempi di trii fradej, in nota alla Novella del Mago dalle sette teste, dove invece dell'anello v'è un fazzoletto. Anche nell'Adone del Marini trovasi un anello incantato, che Venere dà al protagonista, ed il quale deve rappresentargliela quand'è lontana. Nel Costantino del De[103] Notariis (Canto XXII. Stanza LXXXIII) abbiamo invece uno specchio.
Specchio di terso acciar, grande a misura
D'un uomo allor che il braccio alto distende,
Tra quelle ricche e luminose mura,
Mostro di meraviglie anco riplende.
A chi l'occhio vi porta, apre e figura
Ne l'imagine sua cose stupende.
Ciò che brama veder, lunge o dappresso
Tutto vi scorge e vivamente espresso.
Nel Bandello (p. I. nov. XXI) v'è una imaginetta di cera, che il Musset, drammatizzando quel racconto, ha trasformato in uno specchio simile tascabile nella sua Conocchia di Barberina.
L'UCCEL BEL—VERDE.[1]
C'era una volta un Re di Francia che era molto amante della caccia. Un giorno, andando a caccia, i cani principiarono a urlare fortemente. E lui va per tirare a una fiera e invece ci trova una bellissima donna. Il Re, sorpreso di questa bellissima giovane, voleva sapere la ragione perchè l'aveva trovata sola in questo bosco, abbandonata? perchè stava in una grandissima afflizione? Lei dunque gli disse che facesse della sua vita quel che voleva, ma che non le strappasse il secreto de' suoi natali. Il Re rispettò il suo secreto, la fece mettere in corte, le dette il suo quartiere e disse che fosse rispettata come una di famiglia. Dopo alcun tempo il Re andò a far visita alla bella incognita e s'accorse da' suoi modi gentili e dal suo dolore che doveva appartenere ad una famiglia illustre e distinta. E quindi se ne innamorò talmente, che pensò di farla sua sposa. La madre del Re, indispettita di sentire che doveva avere per nuora una sconosciuta trovata in un bosco, giurò che ne avrebbe fatto crudele vendetta e che il sangue de' Reali di Francia non si sarebbe mai contaminato con una sì vile sposa. Difatti, dopo pochi mesi che il Re aveva sposata questa sconosciuta, arrivò un corriere d'Inghilterra intimando al Re una improvvisa guerra. Il Re non poteva intendere come l'Inghilterra volesse fare a lui la guerra senza alcuna ragione. Ma per meglio accomodare le cose pensò di andare lì da sè[105] con un piccolo esercito per conoscere la ragione di questa intimazione. Piangendo andò a congedarsi dalla sposa, la quale lo pregò di trattenersi qualche altro giorno perchè aveva qualche cosa da dargli. Difatti ella si pose a ricamare una bandiera francese; ma l'arme era d'Inghilterra; e disse:—«Quando sarai vicino al Re, spiega questa bandiera, chè nessuno ti farà danno.»—Il Re partendo raccomandò caldamente la sua sposa alla madre e le disse che la lasciava incinta; e le disse che avesse cura di lei e del figlio che sarebbe nato. Il Re, arrivato in Inghilterra, nulla trovò d'intimazione di guerra. Ma quando fu veduta la bandiera spiegata dal Re di Francia, tutti gli corsero incontro per fargli omaggio. E quando il Re d'Inghilterra seppe che la bandiera era stata ricamata dalla moglie del Re di Francia, lo abbracciò teneramente e gli disse:—«Tu sei mio genero.»—Il Re, pieno di gioia e di consolazione per questa felice scoperta, ebbe una lettera di sua madre nella quale gli diceva che sua moglie aveva partorito tre cani e si trovava in fin di vita. Il Re subito rispose che custodissero i cani e la sposa, che lui quanto prima sarebbe tornato trionfante nel Regno. Tornato il Re di Francia, trovò tutta la corte in lutto; e la madre piangendo gli disse che i suoi tre cani e la moglie erano tutti morti; lei era morta dal dolore di questo tristo parto. Il Re si afflisse tanto di questa cosa che fece giuramento di non vedere più nessuno. Si rinchiuse in una stanza, e meno che il servo che gli portava da mangiare, non era permesso a nessuno di entrare nella camera del Re. Dopo diciotto anni che il Re viveva in questo stato di disperazione, di abbattimento, una mattina sentì del rumore per la strada. Domandò cosa fosse quel rumore insolito che sentiva. E gli fu risposto che una giovine sorella di due guardie reali della Regina, aveva preso quartiere di faccia alla camera del Re, e che essendo tanto bella,[106] la gente andava a vederla; si fermava lì sotto alle finestre a vederla che era seduta al suo balcone. Il Re sentì desiderio di vedere questa ragazza: s'affacciò alla finestra e disse:—«È tanto bella che mi rammenta la mia Uliva.»—Informata la Regina madre di questa impressione del Re, di questa parola, sente nascere una grande avversione per questa ragazza. E non sapendo come più facilmente poterle nuocere, mandò a chiamare una vecchia strega che era la sua intima confidente. La strega le disse che era difficile nuocere a questa ragazza, perchè la Regina delle fate la proteggeva; ma che l'unico mezzo era quello di salutarla e dirle:—«Bella, tu se' bella! ma se tu avessi l'acqua che balla, che canta e che sona; l'albero del sole; e l'Uccel Bel—Verde[2]; saresti anche più bella.»—La sera appresso, sulle ventitrè, quando la bella Amalia si metteva sul balcone a lavorare, la Regina si affacciò e le disse:—«Bella, tu se' bella! ma se tu avessi l'acqua che balla, che canta e che sona; l'albero del sole; e l'Uccel Bel—Verde; saresti anche più bella.»—Appena dette queste parole alla povera Amalia, che soleva essere di carattere tranquillo e molto allegra, le entrò una smania addosso che non le diede più pace. Principiò a piangere dirottamente; e quando vennero i suoi fratelli, la trovarono immersa nelle lagrime. Uno di essi, chiamato Federico, volle assolutamente saperne la cagione. E quando sente le parole che gli aveva dette la Regina, disse alla sua sorella:—«Tu sarai più bella! Io ti troverò l'acqua che balla, che canta e che suona; l'albero del sole; e l'Uccel Bel—Verde.»—La mattina appresso, prese congedo dalla Regina perchè era guardia, si licenziò dall'Amalia e le lasciò un anello con la pietra turchina e le disse:—«Finchè quest'anello avrà la pietra turchina, spera che io ti porterò quel che ti manca. Se questa pietra turchina diventerà nera,[107] allora io sarò morto e il nostro fratello Alfredo penserà a cercarti ciò che desideri.»—Quindi si partì sopra un bel cavallo e se n'andò fuori della porta. Sceso, uscito fuori delle mura della città, si mise a pensare a che via doveva prendere. Mentre che era pensoso, seduto da una bottega, si presentò una vecchia e gli disse:—«Mi farebbe un po' di carità? Io posso consolarla in quello che desidera. So quello che Ella cerca: e se mi dà retta porterà alla Sua sorella l'acqua che canta, che balla e che suona, l'albero del sole e l'Uccel Bel—Verde.»—Lui disse:—«Ben volentieri farò tutto quello che tu vuoi.»—Allora la vecchia gli dette una boccia che gli attaccò alla cintura per mezzo di un nastro rosso; gli dette una gabbia, un'ascia d'argento e un vasellino contenente della pomata. Gli disse poi:—«Voi camminerete in fondo in fondo a questa strada tre giorni e tre notti senza riposarvi; alla fine del terzo giorno vi troverete in un gran prato che attraverserete. Quindi entrerete in un viale costeggiato di molte statue. Passate a diritto, senza voltarvi nè da una parte nè da un'altra. Finito il viale entrerete nel bosco dove c'è la fontana dell'acqua che balla, che canta e che suona e l'albero del sole con sopra l'Uccel Bel—Verde. Presentate la gabbia e l'uccello entrerà in gabbia; chiudetela, perchè non voli via. Presentate la boccia e si riempirà subito d'acqua: turatela, perchè non esca di dentro. Toccate l'albero del sole con questa accettina, toccate un ramo e vi si staccherà subito.»—Mi sono scordato che quando gli dette il vasellino, gli dette anche un pennello, questa vecchia a Federico.— «Quando vi siete caricato di tutta questa roba, ritornate nel viale delle statue e col pennello intinto nella pomata, toccate le statue che saranno alla vostra diritta.»—Mi sono scordata un'altra cosa: nel prato doveva lasciare il cavallo prima d'entrare; doveva smontare[108] da cavallo quando lui entrava nel viale delle statue.——«Farete tutto ciò con la massima velocità, senza mai voltarvi indietro. Sentirete urli, lamenti, preghiere: non vi voltate indietro. Raggiungete il vostro cavallo nel prato, salite e tornate a Parigi. Se vi voltate, siete morto.»—Federico, pieno di gioja, montò sul suo cavallo e fece tutto quanto la vecchia gli avea detto. Ma appena ebbe toccata qualcuna delle statue, quelle riebbero la vita, e piene di gioia e di riconoscenza, chiamavano, abbracciavano Federigo, per dargli una prova della loro consolazione. Federigo non ebbe la fermezza di non voltarsi: un momento si voltò e rimase statua anch'egli[3]. Il quarto giorno la povera Amalia guarda il suo anello: il suo anello era divenuto nero, la pietra; segno certo che Federigo più non ritornava. Disperata e piangente, torna Alfredo e gli racconta che la pietra era diventata nera e che Federigo era morto. Allora Alfredo gli dice:—«Io voglio seguitare la via di Federigo. O lo vendico e trovo l'acqua che canta, che balla e che suona, l'albero del sole e l'Uccel Bel—Verde; oppure voglio morire per vederti contenta.»—Quindi preso congedo dalla Regina che glielo diede con la massima consolazione: dato un anello con la pietra verde alla povera Amalia, che era indizio della sua vita se non cangiava colore; si partì dall'amata sorella nella speranza di farla felice. Appena uscito fuori di porta, si presenta la solita vecchierella, gli fa le solite offerte del fratello e gli dice che se avesse avuto il coraggio di non voltarsi, avrebbe salvata la vita anche a Federigo. Pieno di speranza e di sicurezza intraprende la strada; percorre velocemente la via; e dopo, ma dopo aver fatto tutto quanto la vecchia gli aveva detto, egli pure cade nelle lusinghiere parole degli amici, si volge indietro e resta statua di marmo. Al quarto giorno la povera Amalia guarda il suo anello fatale e vede che anche[109] il suo secondo fratello è morto. Nessun desiderio la lega alla vita; vuole seguire la sorte de' suoi fratelli. Si veste da uomo, monta sur un cavallo, esce fuori della porta e le viene incontro la solita vecchina, che l'ammonisce dei soliti oggetti per poter salvare tutti que' giovani e per poter fare invidia alla Regina con tutti gli abbellimenti che l'avrebbero resa più bella. Amalia monta a cavallo; percorre la via: traversa il prato; passa il viale delle statue; vede l'acqua che canta, che balla e che suona, l'albero del sole e l'Uccel Bel—Verde; in un attimo se ne impadronisce; col suo gran pennello unge tutte le statue che ha a diritta; e non badando nè a gemiti, nè a lamenti, nè a parole d'affetto, raggiunge il suo cavallo, ci monta ed è salva. Tutti i giovani liberati da lei sono già nel prato; tutti le rendono mille grazie del bene ricevuto; chi le dà collane, chi corone, chi anella: son tutti figli di Re incatenati da una trista fata che aveva fatto questo incantesimo. Il quarto giorno la strada del Re è popolata di gente. L'acqua che canta, che balla e che suona richiama tutta la popolazione; l'Uccel Bel—Verde chiacchiera con tutti quelli che lo interrogano[4]; l'albero del sole riflette i raggi e si volge sempre dalla parte ove il sole lo illumina. Il Re stesso si sente commosso a tanta gioja, s'affaccia, vede la bella giovane che gli rammenta la sua Uliva, vede tutto il popolo esultante a tanta festa, a tanta bellezza. Dopo diciotto anni si fa radere la sua barba, cambiare le sue vesti in più ricche vesti, e dice che desidera di vedere da vicino la bella Amalia. La Regina madre temendo di perdere il trono e che il Re suo figlio debba prendere un'altra moglie, manda a chiamare la solita strega e gli dimanda cosa può fare per ammazzare questa sua nemica. La strega gli dice che inviti tutti a pranzo, l'Amalia, Federigo, Alfredo, e che avveleni il pranzo. Essa finge di voler compiacere il Re e di voler invitare[110] i giovani a pranzo da lei. Amalia accetta con gioia: ma chiede la grazia di portare l'Uccel Bel—Verde, perchè l'Uccel Bel—Verde l'aveva già avvertita. Il Re, beato di questa dimanda. Il pranzo è imbandito, ma i giovani non mangiano altro che quello che l'Uccel Bel—Verde becca. Gli aveva detto che non dovevano mangiare altro che quello che lui avrebbe beccato. Alla fine del pranzo l'Uccel Bel—Verde chiede di poter contare una novella. Il Re è beato, la Regina madre si turba. L'Uccel Bel—Verde principia la novella raccontando la cacciata del Re; il ritrovamento della Uliva; il parto della Principessa che non aveva fatto tre cani, ma tre bei figli; ma che la Regina li aveva mandati in un bosco per essere ammazzati. Quello che doveva ammazzare i bambini ne ebbe compassione, li fece educare e poi li fece impiegare guardie della Regina. La Principessa del Re languiva da diciott'anni dentro una prigione e l'unico servo fedele della Regina era consapevole di questo misfatto. A questo racconto la Regina sviene; il Re monta in furore; si percorre il palazzo reale; si trova la povera Uliva quasi in fin di vita. L'uccello dice di essere una fata e di essere venuto per salvare quelli innocenti. La Regina madre muore di dolore. Il Re ritorna nel suo florido stato; amato dalla moglie e dai figli è ricompensato di diciott'anni di patimenti. La Regina è riconosciuta per figlia del Re d'Inghilterra; e una pace durevole si strinse fra quelle due nazioni.
NOTE
[1] A questa novella ed alla precedente, annota il Liebrecht (art. cit):—«Zu Grimm. K.—M. N.º 96. De drei Vügelkens; vgl. zu Gonzenbach N.º 5. Die verstossene Königin und ihre beiden ausgesetzten Kinder. Das von Grimm und danach von Köhler gemeinte Märchen der 1001 Nacht (von den beiden neidischen[111] Schwestern) befindet sich in der Uebersetzung (Breslau, 1836) Bd. x. S. 3. ff. (Nacht 426).»—La fiaba presente è una variante importantissima della precedente, dettata da colta signora. Difatti non ci trovi sgrammaticature, non idiotismi; tutto va per la piana e secondo le regole. Ma.... io antepongo il dettato della mia povera ciana analfabeta. In questa forma, ha maggior somiglianza con la Novella Prima della giornata decima del Pecorone:—«Il Re d'Inghilterra sposa Dionigia, figliuola d'un Re di Francia, che trova in un convento dell'Isola. Partorisce due maschi in lontananza del marito; ed obbligata, per calunnie appostele dalla suocera, a partirsi, con essi va a Roma. In quale occasione riconobbero i due Re con estrema gioja, l'uno la moglie e l'altro la sorella.»—Confronta anche per alcune parti con la Novella della pulzella di Francia, dove si racconta l'origine delle guerre fra i francesi e gl'inglesi di messer Iacopo di Poggio Bracciolini, occasione d'interminabili polemiche letterarie; e con la Penta Manomozza, trattenimento secondo della giornata terza del Pentamerone.—«Penta sdegna le nozze de lo frate e, tagliatose le mano, ce le manna 'mpresiento. Isso la fa iettare drinto 'na cascia a mare; e, data a 'na spiaggia, 'no marinaro la porta a la casa soja, dove la mogliere gelosa la torna a iettare drinto la stessa cascia; e, trovata da 'no Re, sse nce 'nzora. Ma, pe' trafanaria de la stessa femmena marvasa, è cacciata da lo Regno; e dopò luonghe travaglie, è trovata da lo marito e da lo frate e restano tutte quante contiente e conzolate.»—Così viene a confondersi con la Leggenda di Sant'Uliva (per la quale vedi: La Rappresentazione di Santa Uliva riprodotta sulle antiche stampe, Pisa, fratelli Nistri, 1868, e la dotta prefazione appostavi dal cav. prof. Alessandro d'Ancona; nonchè la Novella della figlia del Re di Dacia, testo inedito del buon secolo della lingua. Pisa, tipografia Nistri, 1866, e la dissertazione premessavi da Alessandro Wesselofsky). Popolarissima è la Istoria della Regina Oliva, figliuola di Giuliano Imperatore e moglie del Re di Castiglia, ad istanza ed esempio delle persone timorate di dio. (Ne ho sott'occhi la edizione di Bologna, 1875. Alla Colomba. Con permissione). Di questa Leggenda avremo occasione di riparlare; frattanto, per tema di dimenticar la citazione, a proposito di Penta od Uliva, che si amputa, mozza, recide le mani, perchè il padre od il fratello le dicono di essersi innamorati di lei, a[112] cagion della bellezza di quelle, porrò qui alcuni versi che Luigi Groto, nel Pentimento amoroso, pone in bocca a Dieromena:
Chiusa in silenzio eterno, in erme tenebre,
Dove nè tu nèd altri più mi veggiano,
Piangerò l'altrui fallo e 'l mio martirio;
E questi occhi che spesso ti mirarono
Come rei mi trarrò dal capo (fossero
Stati ciechi così già alquanto spazio!),
O si risolveran piangendo in lagrime.
E queste man, che sole tocche furono
Da te, come nocenti, (poi che furono
Tocche da man profana, immonda e perfida,)
Troncherò da le braccia, e a me medesima
Che 'l resto conservai renderò grazia.
[2] Uccel Bel—Verde. Vedi Gherardini, Supplimento, Vol. VI, pagina 196.
[3] Impietrimenti, statuificazioni si ritrovano narrati con molto ingegno e spirito, non solo nella fiaba della Posillecheata, che è perfetto riscontro di questa, e dove si racconta argutamente l'origine di parecchie statue che adornavano Napoli (alcune delle quali ci furon poi rubate dagli spagnuoli), anzi pure nella Pietà remmonerata, conto primo della Possillechejata stessa. Trasformazioni in pini ed in istatue nella Cinzia di Filippo Finella (Napoli, M.DC.XXVI). Altre trasformazioni in moltissime favole pastorali, nel Capriccio del Guidozzi (Venezia, M.DC.VIII); ne' Frutti d'Amore di Fra Cristoforo Lauro; nel Fillidoro di Pietro Matteuccio (Venezia, M.DC.XIII); ne' Tormenti d'Amore, Tragicommedia pastorale di Pietro Matteazzi (Venezia, M.DC.V). Questo Pietro Matteazzi è forse tutt'uno col soprammentovato Pietro Matteuccio: egli dice al suo lavoro
Esci, parto amoroso,
Da l'ombra del mio core,
Novo figlio di Febo, al sommo ardore;
Ed or, che l'Orïente
La notte indora in ciel chiaro e lucente,
Quivi t'innalza e intendi:
E poscia cadi, incenerisci o splendi.
Similmente ne' Miracoli d'Amore dello Iacobelli (Roma, M.DC.I). Lo elegantissimo Ieronimo Vida, nella sua Fillira tanto leggiadra, descrive, che non si può meglio, i sentimenti d'un uomo[113] converso in fonte, quando l'amica sua va a specchiarvisi (Atto III. Scena IV. Parlata di Carino che principia:
Che non fec'io per meritar suo amore?)
[4] A proposito di uccelli che parlano. Ortensio Lando narra che:—«un corvo... vide la madonna far una torta et merendar con una sua comadre; et venuto il padrone, il semplice corvo incominciò a dir: Madonna ha fatto torta, madonna ha fatto torta. Il padrone chiede la donna dove sia la torta. La donna con viso turbato et piena di mal talento li risponde che non vi è torta alcuna, et che di lui si maraviglia, come più tosto voglia credere ad un animalaccio che a lei. Acquetasi il buon marito, et fatto ciò che aveva da fare, tornossi fuori. La donna iraconda (sì come sogliono esser quasi tutte) appena fu il marito scostatosi un tratto di pietra, ch'ella se n'andò alla gabbia et spelò il capo al loquace corvo. Non istette molto, che venne un frate a chieder del pane; et cavandosi il cappuccio et essendo nuovamente raso, credette il corbe li fosse stato pelato il capo per aver parlato di torta, et a lui rivolto molte fiate replicò: tu hai parlato di torta, tu hai parlato di torta; et pareva si rallegrasse che il buon frate fosse caduto nella medesima sciagura ch'egli cadde.»—Racconto popolare diversamente narrato dal Firenzuola nella Prima Veste dei Discorsi degli Animali. Altro caso di zoolalia narrato dal Lando è poi il seguente, anch'esso facezia popolare che tuttodì variamente si racconta:—«Eravi un prete, il quale avevasi per suo trastullo nodrito un fanello, addottogli dalla Marca dove sono i migliori che si ritrovino. Et stando un giorno tutto spaventato col becco fra le piume, sopraggiunse il prete et sì gli disse: che fai bestia? Alzò allora il capo il fanello, et disse quel versetto di David pieno di mistero: Cogito dies antiquos et annos aeternos in mente habeo.»—
I FIGLIOLI DELLA CAMPAGNOLA[1]
Un certo Re (che era sempre giovinotto, e non aveva che la su' mamma viva, ma vecchia e superbiosa) andava così a spasso un giorno fuori della città e capitò a una casa di campagna, dove ci stavano tre ragazze. E queste ragazze, tutte da marito, discorrevano in fra di loro, sicchè dalla finestra di terreno, che era spalancata, si sentiva tutto quel che loro dicevano. E la maggiore diceva:—«Se dovessi pigliar marito, io per me lo vorrei fornaio, perchè allora non mi mancherebbe mai il pane, che ora si pena a guadagnarselo, e di molte volte ci tocca a stare senza.»—La mezzana diceva:—«Io poi il marito lo vorrei calzolaio, per non andar più scalza nè di state, nè di verno.»—E la più piccina:—«Per me il marito ha da essere il figliolo d'un Re: o quello, o niente! E al primo parto gli farei tre allegrezze di figlioli: un bambino con i capelli d'oro, e due bambine, anche loro con i capelli d'oro, e di più con una stella luccichente in sulla testa.» «Eh! dille grosse, almanco,»—bociarono la maggiore e la mezzana,—«chè tanto, chè tanto, è come bramar l'acqua nel deserto.»—Il Re, chè s'era fermato sotto alla finestra, sentito questo contrasto, gli venne la voglia di conoscere quelle tre ragazze, sicchè dunque picchiò di repente all'uscio.—«Chi è?»—Risponde il Re:—«Degli amici! Apritemi, chè ho bisogno d'un bicchiere d'acqua: ho tanta sete.»—Gli[115] aprirono e lui entrò dentro. E, quand'ebbe bevuto l'acqua, si messe a sedere in una scranna; e cominciò a dimandare a quelle ragazze, chi erano e come campavano, e tant'altre cose. Poi gli disse:—«Prima d'entrare i' ho sentito un po' po' i vostri discorsi: fatemi il piacere, i' vorrei ascoltarli daccapo, per saper meglio la vostra idea circa al pigliar marito.»—La maggiore e la mezzana gli replicarono in che modo gli sarebbe piaciuto il marito, per non mancare di pane e di scarpe: ma la più piccina, da prima si peritava a dar fuori il su' pensiero, fino a che poi anche lei disse, che lo voleva figliolo d'un Re. Dice il Re:—«E se vi toccasse il figliolo d'un Re, gli manterreste proprio la promessa di quelle tre allegrezze?»—«Di sicuro, che farei tutti gli sforzi per tenere la mi' parola.»—«Ebbene!»—dice il Re:—«Sappiate che io sono figliolo di Re e il padrone spotico di questo paese. Dunque la mi' volontà è di sposarvi, perchè mi facciate que' bambini che avete detto. Fra qualche giorno tornerò a pigliarvi e vi menerò al palazzo con meco e sarete Regina.»—E detto fatto se n'andette. Le tre ragazze rimasero lì sbalordite, e poi le due più grandi cominciarono a dire:—«Chè, è una sbeffatura che quel forestiero ha fatto a te per la tu' mattia! Se fosse davvero il figliolo del Re, bada! ma che ti pare che volesse sposare una povera campagnola?»—Dice la più piccina:—«Guà! sarà così: io però ci ho fede in quel che ha detto quel signore. Non aveva punto la cera d'imbroglione. E poi si vedrà.»—Il Re, arrivato al palazzo, va su dalla su' mamma:—«Sapete, mamma: piglio moglie.»—Dice lei:—«Bene, ci ho gusto, chè almeno tu avrai l'erede al trono. E chi pigli?»—E lui gli raccontò quel che gli era accaduto. La Regina s'imbizzì a sentir quella nuova:—«Oh! che sie' matto? Un Re sposare una tangheraccia campagnola, che non[116] si sa chi sia? E ti sie' lasciato acchiappare da simili promesse impossibili, come un mammalucco. Metti, metti giudizio, che ho paura che tu scherzi.»—«No davvero, mamma, che non ischerzo,»—dice il Re:—«Io ho detto di sposar quella ragazza e la sposerò.»—Insomma, dopo dimolti contrasti, bisognò che la Regina si chetasse, perchè lui volse fare a su' modo. Infatti, passati varii giorni, il Re ordinò un bel corteo, e presa la su' ragazza in carrozza, la menò al palazzo e gli diede l'anello di sposa. Ma la mamma di lui non la poteva patire questa sposa, e a mala pena la guardava, e la trattava come se fosse una serva. Infrattanto un Sovrano, che stava lì vicino, mosse guerra al Re; sicchè al Re gli convenne radunare i soldati e portarsi a combattere i su' nemici. Prima però di partire, fece di molte raccomandazioni perchè gli tenessero bene la sposa, che era di già gravida vicina a partorire e che gli scrivessero quando aveva partorito; anche volse che gli custodissero la su' cagna da caccia, lei pure gravida nel mese. Dopo, assieme all'esercito, se n'andò a dar battglia a' confini del regno. In quel mentre che il Re si trovava nell'accampamento, alla Regina sposa gli cominciarono i dolori, sicchè la messero nel letto e chiamarono subito due balie per assisterla. E da prima partorì un bel bambino con tutti i capelli d'oro; poi, una dopo l'altra, due bambine co' capelli ugualmente d'oro e di più con una stella luccichente in sul capo. La Regina vecchia quando vedde che la nora la premessa fatta al su' sposo l'aveva mantenuta, crepava dalla rabbia, e tutta invelenita pensò di tirarne vendetta con un brutto tiro: subito corse nel canile dove la cagna del Re aveva partorito tre cagnolini, gli prese in braccio e d'accordo colle du' balie, gli messe nel letto della sposa invece de' su' figlioli, e questi, rivoltati in du' cenciacci gli serrò dentro in una cesta e gli fece buttare[117] nella gora che passava a piè del palazzo: poi rivenne in camera della sposa. Dice la sposa:—«Oh! fatemeli vedere i miei bambini. Dovo sono, che non gli sento?»—E la Regina vecchia, con un visuccio tutto dispettoso:—«Eh! sì, che ve ne potete tenere de' be' figlioli, che avete regalato al Re vostro marito! Non ve gli hanno fatti vedere per non darvi ascherezza. Ma tanto non c'è rimedio, e bisogna che in tutti i modi vo' gli vediate. Belli! mirate che be' canini vi son sortiti di corpo.»—A quella vista la sposa si svenne e gli entrò una gran febbre addosso, sicchè vagellava e non sapeva quel che si dicesse: ma intanto quella vecchiaccia della su' socera aveva scritto al Re che tornasse subito; e lui, fatto una pace all'infuria, veniva via a spron battuto, chè non gli pareva che il cavallo corresse mai abbastanza. A male brighe arrivato e sentite le novelle, s'incattivì a buono, e la su' mamma l'aizzava. Sicchè lui ordinò che venissero de' muratori; e, cavata di letto la moglie, la fece murar viva in cucina vicino all'acquaio con solo una finestrina per dargli tutti i giorni un po' d'acqua e un po' di pane, tanto perchè non morisse; e i servitori dovevano sbeffarla e maladirla in pena della su' mal'azione. Ma torniamo alla cesta co' bambini dentro, buttata nella gora del palazzo. Questa gora finiva in un bottaccio di mulino, e, come si sa, i mugnai ogni tanto s'affacciano per vedere se c'è acqua per far girare le macine. Il mugnaio di quel mulino s'avvedde dunque una mattina che nel bottaccio c'era una cesta a galla che veniva adagio adagio in verso la cascata: lui, lesto, corre e piglia una pertica, e tanto fa che tira a proda la cesta, e quando l'ebbe aperta ci scopre que' tre bambini sempre vivi e che piangevano dalla fame. Pigliò allora la cesta e diviato la portò in casa alla su' moglie, e tutti e due almanaccavano per indovinare chi[118] mai avesse abbandonato lì a quel modo quelle tre creature. Finalmente disse il mugnaio:—«Senti, moglie: tu ha' sempre del latte e in casa ci sono du' capre. S'alleveranno questi bambini e si tireranno su alla meglio; e quando saranno grandi, ci potranno aiutare assieme[2] cogli altri nostri figlioli. Che te ne pare? Non sarebbe carità a lasciargli morire.»—«Sì, sì,»—dice la moglie,—«facciamo così. Si potrebbe anche ritrovare di chi sono.»—Passò del tempo e i bambini crescevano a vista d'occhio, ma belli, che avevano l'aria di signore dipinta nel viso; ma più che crescevano e la mugnaia gli aveva a noia. Non gli poteva soffrire a paragone de' su' figlioli veri, perchè loro erano bastardi; sicchè gli mandava fuori a guardare i maiali, e alle bambine gli dava della stoppaccia liscosa a filare, e quando tornavano a casa la sera, se i fusi non erano ben pieni, la mugnaia glieli sbatteva in sulle mani da farle piangere; e del pane e del companatico a que' poveri bambini gliene toccava a pena per tenersi in piedi. I bambini, che non sapevano chi fosse il loro babbo vero e la loro mamma vera, ma si credevano figlioli de' mugnai, erano disperati e si struggevano in lacrime sentendosi tanto maltrattati, e delle volte tra di loro si consigliavano come fare; ma il rimedio non c'era verso che lo trovassero, sicchè i giorni gli passavano senza consolazione. Un bel dì, che s'erano allontanati da casa co' su' maiali più del solito, arrivarono a un rio, e lì seduta ci stava una vecchina. Dice:—«Bambini! chi siete? che fate? dove andate?»—Dice il bambino:—«Oh! che volete, nonna, siamo de' disgraziati. La mamma ci tratta male, senza sapere il perchè, e si mena una vita disperata a far pascere questi maiali: e quando si torna a casa è miracolo se non se ne tocca.»—Dice la vecchia:—«Lo credo io, poveri bambini! Vo' non siete mica figlioli[119] de' mugnai. E' v'hanno ricolto dentro una cesta nel bottaccio, ora sono parecchi anni.»—«Oh! che ci raccontate?»—sclamarono tutti e tre.—«Il vero, bambini miei. Ma se mi volete ubbidire in tutto e per tutto,»—replicò la vecchina,—«potrei anche rimettervi in fortuna. Anderesti via volentieri lontano da' mugnai?»—«Eccome!»—disse la bambina maggiore:—«Basta che si sapesse come fare. Insegnatecelo voi, e vi si promette che vi s'ubbidirà in tutto e per tutto.»—E la vecchia:—«Statemi dunque a sentire. Io vi darò tre cose; ma badate d'adoperarle proprio nel modo che vi comando. Questa scatolina non la dovete aprire se non quando v'accade di avere un gran dispiacere, ma grande. Custodite bene questo cagnolino, e quel che mangiate, prima d'assaggiarlo, lo darete sempre a lui. Con questa mazzettina poi, picchiandola in terra, potrete ottenere tutto quello che vi garba. Avete inteso? Ora, tornate al mugnaio, rimettete i maiali, e poi zitti zitti e di nascosto partitevi da casa e andate pur lontano alla ventura, dove vi menano le gambe. Addio.»—E la vecchia sparì a un tratto. I bambini si sentirono tutti rinuzzolire alle parole della vecchia e allegri tornarono a casa co' maiali, e quando gli ebbero rimessi nello stalluccio, veduto che nessuno badava a loro, presero la via, come si dice, tra le gambe, e cammina cammina fino a che non arrivarono stracchi per bene in fondo a un bosco folto, che già era calato il sole e cominciava a far buio. Disse allora il bambino:—«Sorelline, non si pole andar più innanzi; dunque è meglio fermarsi qui a pernottare.»—«Ma dove ci s'ha a sdraiare?»—Domandarono quelle.—«Oh! bella: o che non ho con meco la mazza della vecchina?»—disse il bambino.—«Che volete voi? Un bel palazzo?»—«Sì sì, un palazzo e[120] che non ci manchi nulla dentro.»—Lui battè la mazza in terra e subito una voce per l'aria dice:—«Comandi.»—«Comando un palazzo bello in questo luogo,»—rispose il bambino. E detto fatto, eccoti apparire un palazzo tutto splendente, che era una maraviglia. Subito i bambini c'entraron dentro e quando l'ebbero girato, dice la bambina maggiore:—«I' ho fame: ci vorrebbe un bel desinare apparecchiato.»— E il bambino battuta la mazza, la solita voce domandò:—«Comandi.»—E una mensa riccamente imbandita comparve in un battibaleno in mezzo della sala. Sicchè dunque, mangiato a più potere, tutti e tre preso un lume se n'andarono nelle camere, e insaccato il letto dormirono della grossa. A bruzzolo si svegliano, e quando furono levati comparisce la vecchia.—«Bon giorno, bambini! Siete contenti? state bene?»—«Altro, se siam contenti!»—«Bravi via! veggo che m'avete ubbidito, e anch'io son contenta di voialtri. E se m'ubbidirete sempre, sarà bene per voi.»—«Oh! di certo, che vi si vole ubbidire in tutto quello che ci comandate. Diteci che s'ha da fare.»—E la vecchia:—«Or'ora qui nel bosco ci apparirà il Re di questo paese, che va a caccia: e lui vorrà entrare in questo palazzo. Fategli bell'accoglienza e invitatelo a desinare. Avete vo' capito?»—«S'è capito, sì, sì, e si farà come ci avete detto.»—E la vecchia se n'andò via. Passato un po' di tempo, ecco si sentono de' corni di cacciatori. Arriva il Re e vede in fondo al bosco quel bellissimo palazzo dov'erano alloggiati i tre bambini. Dice:—«Oh! che palazzo è questo? Chi se lo pol'aver fabbricato, se non c'era qualche settimana fa, quando venni a caccia per queste parti? Vo' sapere di chi è.»—Subito corre al portone e picchia e gli aprirono i bambini. Lui rimase a vedere quelle tre belle creatore tutte bionde, e le[121] bambine colla stella in sulla testa; e però diceva in tra di sè:—«E' paion quelle creature che m'aveva impromesso la mi' moglie!»—I bambini lo fecero entrar dentro e lo menarono a visitare il palazzo e tutte le ricchezze e maraviglie che c'erano; e lui non rifiniva mai di guardare e rimaneva a bocc'aperta insenza poter parlare: e poi anche non sapeva farsi una ragione, come que' tre bambini fossero soli, perchè non gli era riuscito vedere punti servitori, nè padroni grandi. Da ultimo il Re stava per licenziarsi; ma i bambini gli dissero che lo gradivano a desinare con loro, e lui, nella speranza di conoscere il babbo e la mamma de' bambini, acconsentì a restarci. Colla mazzetta impertanto il bambino maggiore fece comparire una tavola bell'e apparecchiata, che non ci mancava nulla, e proprio da Re; e all'ora di mangiare i bambini invitarono il Re nella sala e lo fecero mettere a sedere: sicchè desinarono allegramente con di molti discorsi, e i bambini raccontarono al Re che loro non sapevano chi fosse il loro babbo e la loro mamma, e il Re si confondeva a tutti que' racconti. Poi, finito il desinare, il Re se ne volse andare a casa e prima di partire disse:—«Sentite, bambini: m'avete accolto tanto bene e trattato anche meglio, ch'io me ne ricorderò ogni sempre. Anzi, tra quattro giorni io torno a farvi visita e voglio che vo' venghiate a desinare a casa mia. Intendo rendervi la pariglia. E poi vi voglio tanto bene, che tanto non ve ne vorrei se fossi mi' figlioli. Addio.»—La sera, il Re, arrivato al palazzo, disse a su' madre quel che gli era intravvenuto, e che aveva invitato que' tre bambini a desinare, perchè proprio rassomigliavano a quelli che la su' moglie gli aveva promesso. La Regina vecchia si sturbò a quel racconto, ma fece le viste di non essere sospettosa.—«Oh! già, son delle vostre solite! Una volta v'incapricciste[122] d'una campagnuola, e si vedde come andò a finire. Ora pigliate de' contadini bastardi per belle gioie, e ci almanaccate su di fantasia.»—Dice il Re:—«Non almanacco nulla, mamma. Quando gli vedrete que' bambini, conoscerete che ho ragione. E gli ho invitati a desinare, e non mancherò alla mi' parola di Re.»—«Oh! fate voi, che per me non me ne impaccio,»—gli arrispose la madre. Al quarto giorno il Re ritornò a far visita a' bambini. Intanto però bisogna sapere, che nel palazzo c'era riapparsa la vecchia e gli aveva istruiti come dovevano comportarsi.—«Se il Re v'invita a desinare, andate. Ma badate, veh! state all'ubbidienza. Non mangiate nulla insenza prima darne al cane, e non aprite la scatolina che quando vi si dia un gran dispiacere.»—I bambini dissero al Re:—«Noi si viene volentieri, ma a patto che Lei ci permetta di portar con noi questo canino. Senza lui non ci si parte da casa.»—Dice il Re:—«Menatelo pure: a me non mi dà noia.»—Sicchè tutti assieme uscirono fuori e arrivarono al palazzo del Re. Quando furono dentro, il Re menò i bambini alla presenza di su' madre:—«Guardi, mamma, che belle creature! e come sono ammodo.»—La Regina però gli guardava di traverso: poi a un tratto disse:—«Bambini, all'ora di desinare c'è tempo, e forse voi avete fame dopo una spasseggiata tanto lunga. Venite con meco in dispensa, qualche cosa da mangiare ci sarà.»—I bambini non se lo fecero dire du' volte e a salti andaron dietro alla Regina assieme col canino, che scodinzolava a tutto potere. Quando furono nella dispensa, la Regina prese una cofaccia dolce e la diede a' bambini perchè la mangiassero; ma loro, prima staccatone un pezzo lo buttarono al canino, che l'ingollò in un battibaleno, e a male brighe che l'ebbe ingollato, cominciò a dimenarsi e a buttarsi a pancia all'aria,[123] e doppo avere sgambettato annaspando co' piedi, rimase là morto stecchito colla bava alla bocca. A quello spettacolo i bambini si messero a piangere e a urlare che pareva il finimondo: e urla e piangi, che non c'era verso di farli chetare, corse tutta la corte assieme col Re. Tutto a un tratto la bambina maggiore dice:—«Ecco il momento vero di aprire la scatolina, chè un più gran dispiacere non ci si poteva dare:»—Tira la scatolina di tasca e l'apre, e appena aperta scappa fuori un vago uccellino, che comincia a volare per tutte le stanze del palazzo. Allora sì che i bambini urlavano e piangevano più che mai, perchè quell'uccellino gli era scappato via. Si messero tutti a corrergli dietro, ma era impossibile acchiapparlo; sicchè vola di qui, vola di là, non si fermò che in cucina sopra un armadio alto e principiò a cantare:
Piulì, piulì, piulì!
La vostra mamma è qui.
Il Re a sentir quel canto rimase tutto confuso e ratturbato. Dice:—«Oh! che vuol dire quest'uccellino?»—E in quel mentre l'uccellino volò sulla finestrina dov'era murata la moglie del Re; e lì daccapo:
Piulì, piulì, piulì!
La vostra mamma è qui.
Dice il Re:—«Presto! comando che vengano i muratori e cavino da quella buca la mi' moglie.»—I muratori vennero e col martello smurarono quella disgraziata, che era stata tant'anni a quel modo rinchiusa, e non aveva indosso che la pelle e l'ossa, e sulle gambe non ci si reggeva. La presero a braccia e la portarono nel letto, e con de' brodi e delle medicine[124] gli riuscì dargli un po' più di fiato. Allora il Re gli s'accostò e gli disse:—«Dite il vero e non abbiate temenza, chè son qua per difendervi a tutt'uomo; come sono andate le cose?»—Dice lei:—«Maestà! il vero è che questi tre bambini sono quelli che io gli avevo promesso di partorire al primo parto. Lei domandi alle balie che m'assisterono, chi me li portò via dal letto e ci messe invece tre cani. Lì presente c'era anche la Regina su' mamma. Senta Lei.»—Subito furono mandate a chiamare le du' balie, e loro confessarono che la Regina per astio aveva fatto lo scambio, e che gli aveva dato de' quattrini e una pensione a vita perchè stassero zitte. Si cerca la Regina, ma non si poteva trovare in nessun luogo; finalmente un servitore disse che l'aveva vista entrare dentro la carbonaia a nascondersi. Il Re ordinò che ci si mettesse foco, e a quel gran calore e fumo la vecchia dovette scappar fori, se non voleva morire affogata. Fu presa dalle guardie e legata; e il Re, radunato il tribunale de' Giudici, la fece condannare al supplizio, e senza misericordia gli tagliarono la testa. Il Re poi fece un nuovo sposalizio colla su' moglie, con grand'invito, e riconobbe i figlioli. E da quel giorno,
Se ne stettero e se la goderono,
E a me nulla mi diedero.
NOTE
[1] Variante delle due fiabe precedenti. Narrata da Ferdinando Giovannini, sarto, del Montale—Pistoiese; e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci.
[2] Assieme, insieme.
IL CANTO E 'L SONO DELLA SARA SIBILLA[1]
C'era una volta un Re d'una gran città, che ogni mattina all'otto voleva dell'ova a bere, ma fresche; motivo per cui il su' servitore andava per le strade a girare e gridava:—«Chi ha ova fresche da vendere pel Re?»—Una mattina che passava per una straduccia for di mano, questo servitore sentètte delle ragazze che discorrevano in fra di loro in una casa; sicchè lui si fermò per sapere quel che loro dicevano. Le ragazze erano tre, insenza mamma, nè babbo; e campavano la vita con il su' lavoro. La maggiore dunque diceva:—«S'i' potessi aver per isposo il fornaio del Re, i' farè' pane in un giorno solo quanto ne mangia la corte in un anno. Mi garba tanto quel giovinotto!»—Doppo di lei disse la mezzana:—«E i' vorrei per isposo il vinaio del Re, chè mi va a genio! e con un bicchier di vino vorrè' 'mbriacare tutta la corte.»—Ma la più piccina, che l'era anche la più bella:—«Io poi vorrei per isposo il Re; e se lui mi pigliassi, gli vorrè' fare a un parto du' bambini con una collana d'oro al collo, e una bambina con una stella in sulla testa.»—Ritornato al palazzo il servitore, in quel mentre che lui vestiva il Re, gli raccontò i ragionari di quelle tre ragazze. E il Re incuriosito disse al servitore:—«Vammi a chiamà subbito la maggiore, chè la voglio vedere»—Quando la maggiore gli ebbe quell'ambasciata, tutte e tre le sorelle[126] si sturbarono, perchè avean paura per il discorso fatto dalla più piccina; ma bisognò ubbidire al Re, che è quello che comanda. Arrivata in presenzia del Re, lui volse risapere da lei che discorso aveva fatto. E non gli valse lo scusarsi, che eran parole di chiassata, perchè lui le volse in ogni mo' risentire da lei Sicchè lei gliele disse.—«Non c'è nulla di male,»—disse il Re:—«Si chiami il fornaio e sarà subbito vostro sposo.»—E così fece.—Doppo mandò il servitore che gli menasse la sorella mezzana, e anco lei fu obbligata a rifargli quel discorso sentito dal servitore; e il Re la contentò col dargli il vinaio di corte per marito. Finalmente si viense alla più piccina delle tre sorelle. Bisognava vederla, genti mia! come l'era bella e garbosina, cogli occhi neri e co' capelli neri! e di più, per la vergogna, era diventa rossa rossa in viso.—«State vispola,»—gli disse il Re,—«e non abbiate sospetto. Voglio soltanto che mi ridiciate da voi le parole che v'enno sortite di bocca a udita del mi' servitore. Via, su, dite.»—Lei proprio non sapea da dove cominciare; ma poi, fai e rifai, si diede coraggio:—«Maestà,»—disse,—«si diceva per dire, così per chiassata, insenza un malo pensiero. Gua'! dissi, che se il Re mi pigliava per su' legittima sposa, i' gli arè' partorito, tutti assieme, due bambini colla collana d'oro al collo, e una bambina con una stella isplendente in sulla testa.»—«E saresti bona a mantiener la promessa?»—«Di sicuro, Maestà, che mi credo capace di mantienerla.»—Allora il Re, che a sentirla parlare se n'era innamorato, gli disse:—«Vi piglio in parola, e sarete la mi' legittima sposa, e Regina in sul trono.»—E doppo averla fatta 'struire con una bona educazione, seguirono le nozze con grandi allegrie per tutto il Regno, e le sorelle della Regina il Re gliele messe a servirla in corte per su' compagnia.[127] Ma loro non ci s'adattavano a esser da meno, e l'astiavano con un rodimento di core, che non si pole raccontare; e se gli potevan far de' dispetti, non si risparmiavan mica. Passato del tempo, de' mesi, via, la Regina era gravida e al Re gli toccò a andare alla guerra e lassarla sola nel palazzo; ma lui, prima di partire, la raccomandò a tutti e alle sorelle, che gliela tenessin bene e l'ubbidisseno ne' su' comandamenti, e che poi scrivesseno al campo quando lei partoriva. Difatto la Regina, quando fa il su' mese, partorì du' be' bambini colla collana d'oro al collo e una bambina colla stella luccichente in sul capo. Figuratevi l'ascherezza delle su' sorelle maligne! Che ti fanno? S'accordano assieme; e di niscosto, che nissun se n'avvedde, cavonno dal letto quelle tre creature e ci messano invece du' cani e una cagna; e poi, diviato scrissano al Re che la Regina aveva mantienuto la su' promessa a quel modo, col partorirgli du' cani e una cagna. Quando il Re lesse la lettera cascò 'n terra istramortito dal gran dolore; ma rivienuto in sè, mandò ordine in corte che la Regina fusse in nel momento presa e murata viva a piè della scala di palazzo, e che tutti quelli che passavano di lì, pena la testa, gli avessino a dare uno stiaffo o sputargli 'n faccia; e le sorelle eran sempre le prime a fargli quelli spregi e la martirizzavano quella povera donna innocente in tutte le maniere. Ma torniamo alle creature, che le zie avean cavato dal letto della Regina. Loro mandonno a chiamare una vecchiaccia, di nome Menga, e gli dissano:—«Piglia queste creature, mettile in una scatola di legno e buttale in mare, chè l'affoghino. E bada di stare zitta, se ti garba la vita.»—Poi alla vecchia gli regalorno di molti quattrini; e lei, ubbidiente al comando, se n'andiede al mare e ci buttò la scatola colle creature dientro: la scatola imperò, perchè era di legno, rimase a galla, e[128] l'acqua, dimenala di qua, dimenala di là, la fece approdare a un'isola, in dove steva un eremita. Quest'eremita un giorno spasseggiava per la su' isola e vede a un tratto la scatola in sulla spiaggia: lui corre e la piglia di peso in mano e l'apre e rimane com'un allocco a trovarci dentro quelle tre belle creature vive, ma che cominciorno a piangere dalla fame che avevano. L'eremita ritornò subbito alla su' capanna; e siccome[2] teneva delle capre, gli messe sotto le tre creature, che poppavano poppavano, e non ismessero se non quando satolle. A questo modo l'eremita rallevò le creature; e quando le furon cresciute, gl'insegnò a leggere e a scrivere; e in su i tredici o quattordici anni, i ragazzi andavano a caccia per il campamento, e la ragazza badava a casa e lavorava. Ma poi, doppo del tempo, l'eremita sentì di dover presto morire; gli prese un male, che non ci fu scampo; le coja vecchie tanto non reggono! Allora lui chiamò intorno al su' letto i ragazzi e la sorella e gli fece un bel discorso, che stessin d'accordo e si volessin bene, e che i fratelli difendessino sempre la sorella, e che forse, abbenchè poveri a quel mo', potevan col tempo diventar ricchi e ritrovare i genitori; e alla ragazza gli regalò una bacchetta fatata, che picchiandola in terra compariva quello che si voleva; e doppo rendette l'anima a Dio. A mala pena che l'eremita fu spirato, con pianti e lamenti loro gli dettano sepoltura e poi pensorno al modo di sortire da quell'isola, e colla bacchetta fatata la ragazza comandò d'esser tutti portati in nel Regno vicino. Quando si trovorno in terra, camminavano insenza sapere che strada era quella, e a bujo eccoteli tutti e tre in mezzo a un bosco, con una fame che proprio non ne potevan più. Dice il maggiore:—«Qui bisogna fermarsi. Sorellina, via, colla tu' bacchetta fa' comparire qualche cosa di bono.»—«Volentieri,»—disse lei:—«farò[129] comparire un bel palazzo tutt'ammannito a darci albergo e con una cena imbandita in sulla tavola.»—E pigliata la bacchetta, in un battibaleno, appare il palazzo, ma ricco, con tanti lumi, e la cena in sulla tavola; sicchè non fecien'altro che entrar dientro e mettersi a siedere a mangiare. A farla corta, que' tre stavan lì come in casa sua; e i ragazzi sortivan fori tutte le mattine a cacciare, e la ragazza teneva il quartieri ravviato o leggeva o cuciva, secondo come più gli garbava. Infrattanto il Re lo rodeva sempre la passione: dalla guerra gli era torno vincitore, ma a vedere la su' moglie murata lì a pie' della scala, non si poteva dar pace, e se non fussi stato per la su' parola di Re, l'avrebb'anco fatta le mille volte levare da quella pena. Ma per isvagarsi, lui sortiva quasi ogni giorno la mattina presto, e andava pe' boschi a caccia; e gira e gira, sicchè quando ritrovava il palazzo gli era tanto stracco, che non si reggeva in piedi dallo strapazzo. In somma, una volta gli accadde che lui si smarrì per un bosco, e aveva perso la via a rivienirsene alla città; sicchè a notte fatta, per non essere sbranato dagli animali, abbenchè avessi detto a ogni momento che per lui era meglio morire, s'arrampicò in vetta a un albero folto coll'idea di aspettar lassù il giorno. In nell'assettarsi per non cascare, vede a un tratto un lumicino lontano lontano, e ripensò che ci doveva essere qualche casa laggiù in fondo: scende e s'avvia per quel verso; e tanto camminò, che alla fine viense per l'appunto al palazzo de' su' figlioli: ma lui non lo sapeva che gli erano i su' figlioli. Picchia al portone e di dientro la ragazza domanda:—«Chi è, a quest'ora?»—«Sono un Re e mi son smarrito a caccia per la selva. Datemi un po' d'albergo, chè ho paura degli animali che mi sbranino.»—Scesero tutti con de' lumi e apersano al Re, e lo menorno in una cammera al foco, e l'asciugorno[130] tutto dalle guazze e poi gli diedano de' panni perchè si mutasse; e quando si fu riavuto lo volsano a cena con loro. Il Re non capiva in sè dall'allegrezza per quell'accoglienze, e badava a dire in cor suo:—«Ecco, potevo anch'io avere di questi figlioli, se non era la mi' moglie a mancarmi di parola. Paian proprio quelli che m'aveva impromesso.»—Alla mattina quando fu giorno, il Re s'alzò da letto per andarsene, e doppo colizione gli abbracciò e baciò tutti que' giovinotti e non si sapeva staccar di lì; pareva che ci fosse inchiodato: ma alla fine si fece animo e gli disse addio, con questo però, che lui volse che andasseno a trovarlo e stessero a desinar con lui nel su' palazzo, almeno tra una settimana. Loro l'accompagnorno giù al portone, e daccapo con abbracci e baci e pianti del Re, ognuno se n'andette per il fatto suo. Arrivato il Re alla su' casa, a corte, in quel mentre che era a tavola, raccontò tutte le cose che gli erano intravvenute, e di quelle belle creature che gli avevan dato albergo con tanta carità, e che lui l'aveva anco invitate a desinare. In nel sentire queste novità, le zie, ossia le cognate del Re, ci mancò poco che non si caconno nelle gonnelle dalla pena, perchè loro capirno bene che que' giovinotti colla ragazza erano i figlioli del Re; e se lui lo scopriva, loro dicerto l'ammazzava. Sicchè dunque infuriate corsano dalla vecchia:—«Oh! Menga, e che ne facesti voi di quelle creature che vi si diede per buttarle in mare e affogarle? Ci aresti vo' tradito?»—Dice la vecchia:—«Gua', la scatola ce la buttai nel mare, ma l'era di legno e stava a galla. Se poi gli andette a fondo o no, non stiedi mica a vedere.»—«Oh! sciaurata,»—dissan le zie;—«le creature son sempre vive e il Re l'ha 'ncontrate; e se le riconosce per sue, siem tutte morte.»—«Che rimedio c'è?»—«Il rimedio è questo. Che vo' andate, Menga, al palazzo[131] nel bosco, quando i giovinotti son fori a caccia, a chieder la lemosina. Vierrà la ragazza e nel discorrere gli avete a dimandare se i su' fratelli gli voglian bene. Lei dirà di sì. Ma vo' avete a rispondere: Se vi volessin bene vi porterebbano il Canto e il Sôno della Sara Sibilla. Se loro vanno a cercarlo, non tornan più mai, e la su' sorella creperà dalla pena.»—La Menga subbito si vestì da pitocca e diviata se n'andette a quel palazzo nel bosco e picchia al portone.—«Chi è?»—«Una povera vecchia tribolata. Fatemi un po' di lemosina per amor di Dio e n'arete rimerito in Paradiso.»—La ragazza dunque, che era sola in casa, scese colla lemosina e la diede a quella vecchiaccia malandrina, e cominciorno a attaccar discorso.—«Chi siete? Da dove venite?»—«Son di lontano, e vo a cercar di pane: non ho più nessun de' mia. E voi che ci state sola in questo bel palazzo?»—«Chêh! i' ho anco du' fratelli, che mi vogliono un ben dell'anima. Ma tutte le mattine vanno a caccia.»—«Vi voglion bene? Perdonatemi: se vi volessin bene...»—«Che volete vo' dire? Mi parete una bella sfacciata.»—«Eh! gnora no. I' so ben quel ch'i' dico. Se vi volessin bene, non vi porterebbano i vostri fratelli degli animali morti soltanto, ma il Canto e il Sôno della Sara Sibilla. Quello davvero sarebbe un bel regalo.»—Alla ragazza (si sa le donne son tutte compagne) quelle parole della vecchia gli messano il foco 'n corpo, per la smania d'avere quel regalo: sicchè dunque, quando i su' fratelli tornorno dalla caccia, lei non era più allegra e contenta al solito. Dicon loro:—«Oh! che hai? T'è accaduto qualche disgrazia?»—«No.»—«Ti senti male? ti dole i' corpo?»—«No, no.»—«Oh! dunque, che c'è' di novo?»—«C è che vo' non mi volete tutto quel bene che vo' dite.»—«Come non ti si[132] vol bene? Che ti manch'egli? Tu non siè' la padrona spotica d'ogni cosa e a tu' modo? Via, di' su: che ti manch'egli?»—«Cari fratelli, mi manca il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e se vo' mi volete bene andatemelo a prendere.»—«Ma in dov'è questo Canto e Sôno? Se si sapesse in dov'è, fuss'anco in capo al mondo, s'anderà per esso, perchè tu sia contenta.»—«Ma! i' non lo so. Ma esserci ci ha da essere: me l'ha detto una che lo sapeva; il su' luogo però non me l'ha detto.»—Insomma, per non vederla a quel modo appassionata la sorella, e anco avevan promesso all'eremita d'ubbidirla in tutto, il fratello maggiore deliberò d'andare il primo a cercarlo (se lo trovava) il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e innanzi di partire messe sur una tavola una boccia d'acqua chiara e disse:—«Se quest'acqua intorba, vuol dire che sono o sperso o morto, e che non tornerò più. Addio.»—Parte e camminò dimolti giorni, insino a che giunse a un luogo dove c'era un vecchino:—«Dov'andate, giovinotto?»—Ma lui, ingrugnito, gli rispose:—«La gente di bon affare non dimanda delle cose degli altri.»—«E vo', tanto superbioso, non tornerete addietro.»—E così gli accadette, perchè il giovinotto nel logo in dove andò ci rimase statua di marmo. Doppo questa disgrazia, l'acqua della boccia diventò torba, sicchè il fratello minore volse subbito partire anche lui, tanto per trovare il fratel maggiore che il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e come quell'altro, lasciò una boccia d'acqua alla sorella, perchè s'accorgesse se lui era sperso o morto. Arriva dopo dimolti giorni a quel vecchino:—«Dov'andate, giovinotto?»—«Vo dove mi pare; e se vo' avessi un po' di giudizio, non mi dimanderesti de' fatti miei.»—«Andate, andate pure: anche un altro, superbioso come voi, addietro non c'è tornato.»—Ma il giovinotto[133] non lo stiede a sentire, e arrivato al posto del su' fratello, rimase statua di marmo. Figuratevi la disperazione della sorella quando vedde intorbita l'acqua della boccia del fratel minore.—«Son io la sciaurata, che gli ho morti. Ma gli vo' andare a ricercare.»—Difatto si mette in via, e lei pure arriva in dove era il solito vecchino: ma lei non gli rispose a traverso, quando lui gli domandò:—«Ragazzina, dov'andate a codesto modo sola?»—«Che volete! i' avevo du' fratelli e mi viense la brama che mi portassino il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e loro andettero a cercarlo, ma non gli ho più visti e di certo son morti. Me sciaurata! son io che gli ho morti.»—«Eh! se mi devan retta, la disgrazia non gli accadeva,»—disse quel vecchino.—«Come? oh! che gli avete visti? Dov'enno? per carità, ditemelo. «Ma che son morti?»—«Morti no, ma quasimente. Son diventi du' belle statue di marmo, e della compagnia non gliene manca. Ma se mi date retta, ragazzina, vo' potresti riaverli sani e vispoli, purchè vi rinusca[3] impadronirvi del Canto e Sôno della Sara Sibilla. Del coraggio n'avete? Ma badate, veh! che ce ne vole dimolto, ma dimolto.»—Dice lei:—«Purch'i' ritrovi i fratelli son disposta a tutto. Coraggio non me ne manca e n'ho a dovizia. Che ho da fare?»—«Ecco: vo' vedete questo stradone lungo lungo: bisogna camminare per insino in vetta; lassù c'è un prato, e d'attorno tante statue di marmo, e le prime son quelle de' vostri fratelli; tutte l'altre, di cavaglieri, di Regi e di principi, che cercavano il Canto e il Sôno della Sara Sibilla e rimasono lì impietriti in pena del su' ardimento. All'entrata del prato ci stanno du' feroci leoni a far la guardia; e non lascian passare, se non gli si dà un pane per uno a mangiare; mangiato che hanno, s'abboniscono e vanno a accompagnare[134] il forastiero. Quand'uno è dientro al prato, bisogna che non si fermi mai, e giri e giri in tondo a guardar tutte quelle statue. Poi, alle ventiquattro, che sarà buio, deve mettersi ritto fermo in mezzo al prato e aspettar che soni la mezzanotte. A mezzanotte in punto nasceranno di gran rumori e comparirà una scala di cento scalini; subbito bisogna montarla per insino a cinquanta scalini e lì aspettar daccapo. Ma non ci vole temenza; perchè si vede scendere un'ombra smensa[4], co' capelli lunghi ciondoloni per le spalle, che è la Sara Sibilla. Lei scende insenza sospetto; e però bisogna di repente acciuffargli i capelli colle mane e badar che non iscappi. Allora incomincerà a urlare:—Ohi! ohi! che cercate da me?—Cerco il Canto e il Sôno della Sara Sibilla.—Chi ve l'ha detto? chi vi ci ha mando?—Rispondete diviato:—Vo' non ci avete a pensare. Datemi il Canto e il Sôno e po' vi lascio.—Lei dirà:—Lo volete rosso? lo volete celeste? verde?—Dovete risponder sempre di no, in sin tanto che non dice:—Lo volete color di rosa?—Quando la Sara Sibilla v'avrà dato quell'arnese, lei sparirà colla scala, e vo' dovete restar in sul posto in mezzo del prato insino allo spuntar del sole, e poi toccando le statue col Canto e il Sôno della Sara Sibilla, le statue ridiventeranno omini vivi. Avete vo' 'nteso?»—La ragazza, tutta contenta delle 'struzioni del vecchino, lo ringraziò ammodo, si fece dare i pani per i leoni, e via per lo stradone, sicchè arrivò all'entrata del prato ch'eran vicine le ventiquattro. Insomma lei ubbidì in tutto e per tutto alle parole del vecchino, e più brava di quelli che c'erano stati prima di lei, potette impadronirsi del Canto e Sono della Sara Sibilla: e quando l'ebbe avuto in mano codesto arnese (un arnese, ma com'era fatto non si sa) si messe a toccar le statue e in un momento il prato[135] fu pieno di persone vive. I fratelli l'abbracciavano la su' sorella; i cavaglieri, i Regi e i principi badavano a ringraziarla del su' coraggio, e chi gli profferiva una cosa, chi un'altra, o ricchezze, o tesori, o il Regno con la mano di sposo: lei però non volse nulla. Dissano i su' fratelli:—«E ora in dove si va?»—Dice lei:—Non s'ebbe l'invito di andare a desinare dal Re? Dunque andiamo a mantenergli la promessa.»—Si messano subbito in viaggio con tutto quel corteo dreto, perchè tutti volsan fare onoranza a quella che gli aveva liberati da morte a vita. Al vedere arrivare in città quella schiera di cavaglieri con alla testa la ragazza, che gli splendeva la stella in sul capo, la gente correva e gli accompagnò per insino al portone del palazzo. Il Re scese a incontrargli; e, quando fu per salire la scala, disse:—«Qui c'è' una legge: prima di vienir su, bisogna dare uno stiaffo o sputare in faccia a questa sciaurata confitta nel muro.»—Dice la ragazza:—«A questa legge noi non ci si sta. Chê: non si fanno di simili birbonate.»—E senza tanti discorsi se n'andette co' su' fratelli a albergo in una locanda. Il Re gli era disperato; perchè e' non voleva mancare alla su' legge, e gli dispiaceva che quelle tre belle persone non stessero a desinar con lui, anco per rimerito del bene che gli avean fatto nel bosco. Manda un'ambasciata, che lui si contenta che passino in senz'obbedire alla su' legge. Ma la ragazza disse:—«Quando si viene a desinare dal Re, a tavola ci ha da essere anche la padrona. Non si pole stare allegri colla padrona a quel gastigo.»—Il Re non sapeva propio come contenersi. Ma poi lo vinse la brama che que' tre stessano alla su' mensa, e comandò che la moglie si cavasse di drento al muro e fusse rivestita da Regina. Poera donna! gli era secca finita, allampanita, che non si reggeva in sulle gambe, tanto aveva patito per[136] tant'anni! Quando tutti furono a tavola che mangiavano allegramente (all'infuori delle zie, che tremavan come foglie dalla paura che si scoprisse ogni cosa), la ragazza tirò di tasca il Canto e il Sono della Sara Sibilla, e quell'arnese principiò a ballare e sonare in sulla mensa, e cantava a tutto potere:—«Quest'è la mamma, e questi i su' figlioli: e le zie l'hanno tradita.»—Il Re a sentir quel canto venne in sospetto; e le zie in quel mentre eran casche in terra tramortite. Sicchè lui le fece arrestare e mettere in prigione; e la su' moglie gli raccontò quel che loro gli avevan fatto. Cercorno della Menga e si seppe da lei tutto il tradimento. Il Re allora inviperito comandò che si rizzasse in piazza una catasta di stipa, e sopr'essa volse che ci si bruciasser vive tutte e tre quelle porche lezzone[5], e così gastigate fu finita la miseria.
NOTE
[1] Novella narrata dalla Luisa Ginanni del Montale (Pistoiese), e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci. È una variante delle precedenti. 'A 'Ndriana fata, Cunto Pomiglianese, Per Nozze. Pomigliano d'Arco, M.DCCC.LXXV è un riscontro che non ha potuto esser mentovato prima, con gli altri, perchè pubblicato dopo la stampa del foglio in cui essi si contenevano. Nella prefazioncina a quell'opuscolo è riferita anche una variante avellinese.
[2] Sic. Uff!
[3] «Riesca.» G. N.
[4] «Immensa.» G. N.
[5] Questo termine ingiurioso, tutto toscano ed ignoto a' rimanenti italiani, mi rammenta una graziosa novelletta, che si trova nell'opuscoletto: Rime bernesche di G. Zanetta, Napoli, 1830. Dalla tipografia di N. Pasca, Strada Toledo, sotto la casa del Principe d'Angri, num. 31 (e sulla copertina: Rime bernesche[137] di G. Zanetto. Napoli, 1830. Prezzo grana 20. In duodecimo di novantasei pagine).
Un certo fiorentino
Si recava ad un pubblico festino
Di soppiatto alla moglie. Se n'accorse
La scaltra donna; corse
Gridando come ossessa
A trattenerlo e volle andarvi anch'essa.
Frattanto, indispettito,
Il povero marito
Le disse:—«Moglie diavola, vedrai
«Che te ne pentirai.
«Credimi, per tuo danno,
«Benchè in bautta, ti conosceranno.»
Giunti appena al ridotto, un giocatore,
Ch'era stato più volte perditore,
Spogliando una primiera,
Forte sclamò:——«Lezzona! sei venuta!»—
Lo sposo allor:—«Consorte, ei ti saluta.
«Dàgli la buona sera.
«Se' tu ancor persuasa?
«T'hanno già conosciuta. Andiamo a casa.»
È una facezia popolare; e m'è piaciuto riportarne questa lezione del Zanetto, per ravvicinarla all'altra, più nota, del Pananti:
Il penultimo dì del carnevale,
Desiderò d'andar Berta alle sale
Ove un grosso si fa pubblico giuoco.
Pier, suo marito, sen curava poco;
Ma quella tanto si raccomandò,
Ch'ei disse di condurla:—«Ma però
«Purchè riconosciuta tu non sia;
«Se ti conoscon, ti conduco via.»—La
donna allora si contenta e tutta
La faccia si copri con la bautta.
Vanno; e appunto si mettono davanti
A un giocatore pieno di disdetta.
Che attaccata l'avria con tutti i santi.
Fe' primiera, e gridò dalla saetta:
—O B....., alfin ci sei venuta.»
Allor Pietro:—«Andiam via, t'ha conosciuta.»—
RE MESSÈMI—GLI—BECCA—'L—FUMO[1]
C'era una volta un omo che aveva tre figlioli. Si ammala e more quest'omo. I tre fratelli dicono:—«Che si ha a fare?»[2]—Dicono i due maggiori:—«Facciamo le parti di questa roba, perchè noi si vole andare a girare il mondo.»—Dice il minore:—«Andate, ma io non ci vengo, io rimango con la me' gattina.»—I fratelli maggiori vanno via e quest'altro piglia la gatta[3] e se ne fugge in una cantina. Quando gli è sul mezzogiorno, la gattina:—«Aspettami, or'ora vengo»—la dice. La va via e gli porta una bona minestra, un bel pezzo di lesso, un pezzo di pane e un pochino da bere. E questo ragazzo mangia e la gattina la gli dice di bel novo:—«Aspettami, ora ritorno.»—Poco distante da questa cantina c'era il palazzo d'il Re. La gattina principia a gnaulare: urli! gnau! ma urli! La servitù:—«Che hai tu, gattina?»—«Mi fareste la carità»—dice—«il mio padrone gli è cascato in un fosso, di darmi un vestito?»—«Volentieri»—dicono. Vanno e gnene danno. Dopo, poi, il giorno, la va e gnene riporta e li ringrazia. Dice uno della servitù:—«Dimmi, gattina, chi è egli il tuo padrone?»—«Un gran signore»—dice questa gattina. Dunque Maestà voleva sapere chi gli era. Un altro giorno la gattina la gli dice al ragazzo:—«Aspettami.»—Ogni giorno la gli portava da mangiare, la stessa minestra,[139] lo stesso lesso, lo stesso pane e un pochino da bere.—«Aspettami qui; or'ora ritorno.»—Principia a gnaulare, più che di quel giorno, ma urli!—«Gnau! gnau! gnau!»—«Che vuoi, poerina, icchè tu hai?»—«Fatemi il piacere»—dice—«di prestarmi lo stajo. Il mio padrone ha bisogno di misurare de' quattrini.»—Gnene danno e la gattina va via. I domestici vanno da Sua Maestà:—«Questo e questo verte. Gli è venuto la gattina per lo stajo per misurare i quattrini: gli ha da essere un signore davvero.»—Dice il Re:—«Come la ritorna, vo' dovete dirgli: Sua Maestà bramerebbe di conoscere il suo padrone, avrebbe molto piacere.»—Aveva la gattina una moneta di dieci paoli; va e la mette in fondo dello stajo; e gnene riporta.—«Grazie»—dice. I servitori vedon questa moneta:—«Gattina! gattina!»—dicono—«guarda, ci è questa moneta!»—«Eh»—dice—«prendetela per voi. Il mio padrone non ci ha neppure osservato!...»—«Senti, gattina; Sua Maestà ci ha detto, bramerebbe di fare amicizia col tuo padrone.»—«Sissignori, come loro comandano. Non pensino, glielo condurrò.»—Va alla cantina e dice:—«Oh! che domani si deve andare da il Re!»—dice—«intendi bene!»—«Da il Re, io? O tu non vedi, son tutto stracciato, tutto rifinito? Com'è possibile ch'io possa venire?»—«Tu non devi trasgredire quel ch'io ti dico; altrimenti, ti graffio»—la gli dice.—«Oh senti! Tu vedrai al palazzo tutti tappeti, tutte ricchezze. Alza i piedi, sennò tu caschi. Vai franco con meco, sennò tu passi per un poero.»—La batte la bacchettina fatata e lui vien vestito, non posso dire come, da andare da Sua Maestà: un abito bello. E vanno al palazzo. Subito corre parola che c'è questo. Sua Maestà va incontro a questo signore e lo fa passare nel suo quarto, nelle sue stanze.[140] Quando gli è lì, discorre del più e del meno, sapete, di tante cose.—«Ma Lei»—dice il Re—«avrà la sposa e i figli?»—Risponde la gattina:—«Nossignore; è giovinotto.»—Allora disse Maestà:—«Ma si trattien molto, signore?»—«Eh, per qualche mese»—rispose la gattina—«si trattiene.»—«Dica, signore, mi favorirebbe di stare a mangiare una zuppa da me?»—dice Maestà. La gattina:—«Sissignore»—dice—«gli accetta volentieri.»—Sempre la rispondeva lei. Si trattiene un altro poco lì Sua Maestà, poi va di là e li lascia soli. La gattina dice:—«Che non credi tu di mangiare come mangi nella cantina, che tu pari un lupo: gna, gna, gna. Ci sarà ogni bene di Dio. Tu devi mangiare di tutto, e poco di tutto.»—«Ma se ho tanta fame, come io farò a mangià' poco?»—dice lui alla gatta.—«Chètati, sennò ti graffio.»—Andiamo all'ora di pranzo. Questo ragazzo gradiva di tutto, ma pochino mangiava, come gli aveva detto la gattina. Diceva lui alla gattina:—«Gatta, i me' cenci!»—chè gli stava meglio alla cantina che lì, e lui insisteva.—«Chètati, ch'io ti graffio!»—Dice Maestà:—«Cosa dice il tuo padrone?»—«Eh dice: Gran bone pietanze che son queste! Nel suo paese non si fanno.»—Finito che fu il pranzo—«Oh senta»—dice Maestà—«oh si degnerebbe di rimanere anche stasera da noi a dormire? due o tre giorni? Mi fa un regalo!»—Lui guarda la gattina, che risponde:—«Sissignore, come Lei comanda. Quanto gli sarà di piacere, noi ci staremo.»—Maestà dà ordine ai servitori che mettan le lenzola le più grosse, le più ordinarie, che sieno nel palazzo.—«Perchè»—dice—«se gli è un signore, non entra nel letto. Se gli è un poero, non gli par vero; che sta a guardare le lenzola?»—Così fu fatto. La sera, quand'è l'ora di andare a letto, la gattina[141] entra in camera con lui, va e scopre il letto.—«Che tu non entri nel letto, sai, stasera!»—«Lasciami andare! Gli è tanti mesi che io dormo nella cantina, che non mi par vero!»—«Ti dico che tu non entri!...»—e lo graffia. Questo ragazzo si mette sur una poltrona e dorme. Venghiamo alla gattina che non era fatto giorno:—«Gnau! gnau!»—per il[4] palazzo, urla che la buttava giù il palazzo. I servitori s'alzano:—«Cos'hai, gattina, cosa c'è?»—«Cosa c'è, eh? per chi gli avete preso il mio padrone?»—dice.—«A mettergli quelle lenzola! Ha dovuto restare su d'una poltrona tutta la notte!»—I servitori corrono da Maestà:—«Maestà, questo e questo è stato con quelle lenzola!»—Maestà dice da sè:—«Gli ho detto ch'era un signore! Ed io gli voglio dare mia figlia in isposa.»—Aveva una figlia. Dà ordine ai servitori che la sera le più sopraffine lenzola, quelle di tela che rimangono in un pugno[5] gli fossero messe nel letto a questo ragazzo:—«E voi starete attenti domattina se il letto gli è arruffato, se gli è com'egli v'è entrato. Se gli è un signore, il letto è quasi tocco punto.»—Eccoti la sera vanno in camera e la gattina va a guardare il letto:—«Oh stasera entrerai nel letto. Ma bada bene, se tu ti movi, ti graffio in una maniera»—dice—«che quasi tu hai a morire!»—Figuratevi, gli entra nel letto, poero figliolo, se anche si moveva nel sonno, e il sonno fa fare degli scossoni, la lo graffiava, ma come! Tutta la notte fu sveglio: gua'! non poteva dormire. La mattina i servitori vanno a vedere se gli occorreva qualcosa, cioccolata o caffè[6], quel che gli fosse occorso, e vedono il letto senza toccare neppure. Vanno da Maestà:—«Se la vedesse, Maestà, non par neppure che gli abbia toccato il letto.»—Risponde il Re:—«Ve l'ho detto, eh, che era un signore?»—E[142] dice da sè:—«Oggi io parlo di matrimonio assolutamente.»—Venghiamo all'ora del pranzo. Il Re lo fa discorrere questo ragazzo del più e del meno; gli entrava sempre sul matrimonio:—«Via, si accaserebbe[7] Lei volentieri?»—dice Maestà a questo signore. Risponde la gattina:—«Se trovasse una ragazza per bene, una sua pari, volentierissimo s'accaserebbe.»—Risponde Maestà:—«Non fo per lodare mia figlia; ma se non gli dispiacesse, io gnene darei volentieri. Può star sicuro, è una ragazza per bene, come Lei brama.»—Lui sapeva d'essere tanto poero, non sapeva quel che dire, gua'. La gattina la gli fa che dicesse di sì:—«Quando Lei fosse contento, Maestà»—dicono tanto lui che la gattina—«volentierissimo nojaltri si farebbe questo passo.»—Eccoti, per farla corta, questa ragazza la la mandano a chiamare, perchè lei la stava su; e gli dice Maestà:—«Vedi? Questo è il vostro sposo.»—«Come Lei comanda, signor Padre!»—Di certo, gua', la non aveva volontà. Loro penarono poco a conchiudere le nozze e forse entro la settimana fu fatto lo sposalizio. Dunque eccoti che si trattennero forse un altro mese quaggiù da Sua Maestà. Poi gli dice la gattina:—«Sa bene»—gli dice—«il su' genero gli è un Re anche lui. È un pezzo che manchiamo dal nostro posto; e quando non c'è il Re, i sudditi han sempre da dire[8].»—Risponde Maestà:—«Hai ragione, poerina; e così è di me, sai? Nella settimana partirete... partiremo, perchè vengo anch'io ad accompagnarla la mia figliola.»—Maestà va nel suo quartiere; rimangono la gatta e il ragazzo soli.—«Ma dimmi un po', indove la vuoi tu condurre questa sposa? nella cantina?»—la gli dice questo giovane, gua'. Lei gli dice:—«Chètati, sennò ti graffio. Te, non ci devi pensare.»—Quando gli è il giorno di[143] partire, la gattina batte la bacchetta magica e gli viene tutte queste belle strade, tutte palazzi e ville. Maestà chiedeva:—«Di chi sono tutte queste ville?»—Le genti dicevano:—«Di Re Messèmi—gli—becca—'l—fumo.»—Eccoti partono con le carrozze tutte a otto e dieci cavalli; e lei si mette a cavallo vestita da fantino, la gattina. Gli sposi col padre entrano in carrozza e via. E per quante strade di lì fin che fossero al posto, tutti replicavano:—«Ma di chi sono queste ville?»—ed essa rispondeva:—«Del Re Messèmi—gli—becca—'l—fumo.»—E tutte le genti che si domandava, sempre ripetevano così. Arrivarono al palazzo. Da quanto era bello questo palazzo! l'architettura, tutte le mura, tutte pietre preziose. Principiando dalle scale, tappeti, lumiere, una cosa che sorprendeva. E servitori! Urlando tutti:—«Evviva gli sposi! Evviva gli sposi!»—Il padre si trattiene otto o dieci giorni in questo bel palazzo, fra queste belle robe, dicendo:—«Che sorte è stata questa per la me' figliola! Che signore è questo!»—Fra sè diceva:—«Io mojo contento per avere accasato una figlia a questa maniera.»—Eccoti il giorno viene:—«Io domani parto, non posso fare di meno, gua'!»—La mattina all'ora fissata—«Addio!»—«Addio!»—Bacia la figliuola:—«Ci scriveremo!»—E va via, e torna al suo posto. Venghiamo agli sposi che ogni giorno di bene in meglio, di bene in meglio, sempre più cresceva l'abbondanza. Un giorno la dice la gattina allo sposo:—«Avrei bisogno di parlarti in disparte.»—«Quando tu vuoi. Quando ho finite le mie occupazioni, io verrò da te e sarò a sentire quel che tu vuoi.»—Quando ebbe finito quel che doveva fare, eccoti, va di là dalla gattina:—«Cosa vuoi da me?»—«Ora, aspetta un po'!»—e serra tutti gli usci, bussole,—«Voleva sapere una cosa da te; ma bada di[144] dirmi la verità!»—«Te lo giuro. Dimmi, cos'è questo che mi vuoi domandare?»—Dice:—«Abbi da sapere che io son vecchia.»—«Ebbene?»—dice il ragazzo.—«Eh sai bene che più che vecchia non si campa. Un giorno io devo morire. Tu vedi il bene che io t'ho fatto. Se io morissi, cosa faresti di me?»—«Ah! Ah!»—si mette a piangere questo sposo.—«Ahi! Ahi! non discorriamo di queste cose!»—dice piangendo.—«Ah! non mi affliggere!»—Dice la gattina:—«Non credo di affliggerti. Voglio sapere quel che tu faresti di me.»—«Ahn, che vuoi?»—sempre piangendo questo ragazzo—«non ci posso pensare! Ma che vuoi ch'io ti facessi? Ti farei una custodia tutta soda d'oro e d'argento.»—Dice la gattina:—«Davvero?»—Risponde lui:—«Davvero. Ma non discorriamo di queste cose.»—«Ah»—la dice—«adesso non voglio altro; se vuoi andare, puoi andare.»—Lascia passare un tempo questa gatta, oh! anche più d'un anno. Una notte che ti fa? per tutti i tappeti e la meglio roba, con rispetto, la va di corpo. Con rispetto, vòmita per tutta la roba, quanta ce n'era, con un fetore insopportabile. E poi, nel quartiere bono, lei tutta sparata la si butta distesa morta. Venghiamo alla mattina che i servitori s'alzano per pulire e sentono un fetore, una cosa insopportabile. Apron le finestre e vedon tutta la roba straziata. Vanno nel salotto bono e vedon la gattina, tutta distesa lì, sparata, e sciupato ogni cosa.—«Noi non abbiamo colpa»—dicon tra loro.—«Si dirà a Maestà, Maestà vedrà, ma noi non ci s'ha colpa.»—Nell'ora in cui Sua Maestà s'alza e quando sorte dalla stanza e sente questo fetore:—«Cos'è stato? cosa non è stato?»—I servitori dicono:—«Maestà venga a vedere.»—E lo conducono nel salotto a vedè' la gattina tutta sparata; tutto conciato ogni cosa. Dice[145] lui:—«Oh porca sudicia! Prendetela e buttatela in Arno!»—Non aveva detta questa parola e si trovò giù nella cantina, con la sposa accanto e senza mangiare nè nulla. Dunque lui fu costretto a scrivere al padre della moglie la disgrazia seguita, che mandasse a prender sua figlia perchè lui era ritorno un poero meschino. Il padre sente questo e manda a prendere la figliola e la fa tornare lassù nel palazzo. E lui rimase poero; e in capo a poco tempo credo che morisse di fame e di rimorso.
In santa pace pia,
Dite la vostra, che ho detto la mia.
NOTE
[1] Ho messo l'accento sulla seconda e di Messèmi, per evitare che altri, pronunziando sdrucciola la parola e frantendendo, cada nell'errore in cui sembra incorso il LIEBRECHT, che annota: «König Schickt'—mich—ihm—pickt—den—Rauch. Zum gestiefelten Kater. S. G. G. A, 1871. S. 1408 zu N. 4.»—È lo Chat—Botté di CARLO PERRAULT; ed il Gagliuso, trattenimento IV della Giornata II del Pentamerone:—«Gagliuso, pe' 'nnustria de 'na gatta lassatole da lo patre, diventa signore; ma mostrannose sgrato, l'è renfacciata la sgratitudene soja.»—Nella imitazione Italiana intitolata Il conto de' conti, Gagliuso diventa Petrillo:—«Petrillo per industria d'una gatta lasciatagli dal padre diventa un signore, ma mostrandosi ingrato, gli è rinfacciata la sua ingratitudine.»—Ne la Chiaqlira dla Banzola questa novella è intitolata La fola d' Mascarin, e Mascarin è il nome del micio. V. GONZENBACH, Sicilianische Märchen (LXV. Vom Conte Piro). In PITRÈ (Op. cit.) la novella LXXXVIII. Don Giuseppe Piru. La prima favola nella undecima delle Tredici piacevoli notti del signor Giovan Francesco Straparola da Caravaggio, è identica a questa Fiaba. Forse sarà cosa grata a' lettori il poter confrontare la narrazione dello Straparola col semplice racconto d'una ciana. Essendo ora pur troppo lo Straparola[146] quasi irreperibile in commercio, trascriveremo qui la sua Novella.—«Trovavasi in Boemia una donna, Soriana per nome chiamata; ed era poverissima, ed aveva tre figliuoli, l'uno de' quali dicevasi Dusolino, l'altro Tesifone, il terzo Costantino Fortunato. Costei altro non aveva al mondo che di sostanzia fosse, se non tre cose, cioè un albuolo, nel quale le donne impastano il pane; una panara, sopra la quale fanno il pane; ed una gatta soriana[i] già carica di anni. Venendo a morte fece l'ultimo suo testamento; ed a Dusolino suo figlio maggiore lasciò l'albuolo, a Tesifone la panara ed a Costantino la gatta. Morta e sepolta la madre, le vicine per lor bisogna quando l'albuolo, quando la panara ad imprestito richiedevano. E perchè sapevano loro essere poverissimi, gli facevano una focaccia, la quale Dusolino e Tesifone mangiavano, lasciando da parte Costantino minor fratello. E se Costantino gli addimandava cosa alcuna, rispondevano: egli andasse dalla sua gatta che gliene darebbe. Per il che il povero Costantino con la sua gatta assai pativa. La gatta, che era fatata, mossa a compassione di Costantino ed adirata contra i due fratelli, che sì crudelmente lo trattavano, disse: Costantino, non ti contristare, perciocchè io provvederò ed al tuo ed al viver mio. Ed uscita di casa, se n'andò alla campagna; e, fingendo dormire, prese un lèpore, che accanto le venne, e l'uccise. Indi andata al palazzo regale, e veduti alcuni cortegiani, dissegli voler parlar col Re. Il quale inteso che era una gatta che parlar gli voleva, fecela venire alla presenza sua. Et addimandatela cosa richiedesse, rispose: che Costantino, suo padrone, gli mandava a donare un lepore, che preso aveva; e appresentollo al Re. Il Re, accettato il dono, gli addimandò chi era questo Costantino. Rispose la gatta: lui esser uomo, che di bontà, di bellezza e di potere non aveva superiore. Onde il Re le fece assai accoglienze, dandole ben da mangiare e da bere. La gatta, quando fu ben satolla, con la sua zampetta con bel modo empì la sua bisaccia, che da lato aveva, d'alcuna buona vivanda; e, tolta licenza dal Re, a Costantino portolla. I fratelli vedendo i cibi, de' quali Costantino trionfava, li chiesero che con loro i[ii] participasse. Ma egli, rendendogli il contraccambio, li denegava. Per il che tra loro nacque una ardente invidia, che di continuo gli rodeva il cuore. Costantino, quantunque fusse bello di faccia, nondimeno per lo patire che avea fatto, era pieno di rogna e di tigna che gli davano grandissima molestia. Ed andatosene con la sua gatta al fiume, fu da quella da capo a piedi diligentemente leccato e pettinato; ed in pochi giorni rimase del tutto libero. La gatta (come dicemmo di sopra) molto continoava con presenti il palazzo regale ed in tal guisa sostentava il suo patrone. E perchè ormai rincresceva alla gatta l'andar tanto su e giù e dubitava di venir in fastidio alli cortigiani del Re, disse al patrone: Signor, se tu vuoi far quanto ti ordinerò, in breve tempo farotti ricco.—Ed in che modo? disse il patrone. Rispose la gatta: Vien meco e non cercar altro; chè sono al tutta disposta di arricchirti. Ed andatisi insieme al fiume, nel luogo che era vicino al palazzo reale, la gatta spogliò il patrone, e di comune concordia lo gittò nel fiume; dopo si mise ad alta voce a gridare: Ajuto! ajuto! Correte, correte! che messer Costantino s'annega! Il che sentendo il Re, e considerando che molte volte l'aveva appresentato, subito mandò le sue genti ad ajutarlo. Uscito di acqua messer Costantino e vestito di buoni panni, fu menato dinanzi al Re, il qual lo ricevette con grandi accoglienze. Et addimandatolo per qual causa era stato gettato nel fiume, non poteva per dolor rispondere. Ma la gatta, che sempre gli stava dappresso, disse: Sappi, o Re, che alcuni ladroni avevano per spia il mio patrone esser carico di gioje, per venire a donarle a te; e del tutto lo spogliarono; e, credendo dargli morte, nel fiume lo gettarono; e per mercè di questi gentiluomini fu da morte campato.? Il che intendendo il Re, ordinò che fusse ben governato ed atteso. E vedendolo bello, e sapendo lui esser ricco, deliberò di dargli Elisetta sua figliuola per moglie e dotarla di oro, di gemme e di bellissime vestimenta. Fatte le nozze e compiuti i trionfi, il Re fece caricar dieci muli dì oro e cinque di ornatissime vestimenta, ed a casa del marito da molta gente accompagnata la mandò. Costantino, vedendosi tanto onorato e ricco divenuto, non sapeva dove la moglie condurre; ne fece consiglio con la sua gatta, la quale disse: Non dubitare, patron mio, che ad ogni cosa faremo buona provvisione. Cavalcando ognuno allegramente, la gatta con molta fretta camminò avanti, et essendo dalla compagnia molto allontanata, s'incontrò in alcuni cavalieri, ed a quelli ella disse: Che fate quivi, o poveri uomini? Partitevi presto, chè una gran cavalcata di gente viene, e farà di voi presaglia. Ecco che gli è qui vicina, udite il strepito delli nitrienti cavalli. I cavalieri spauriti dissero: Che deggiamo adunque fare noi? Ai quali la gattina rispose: Farete a questo modo. Se voi sete addimandati di cui sete cavalieri, rispondete animosamente: di Messer Costantino; e non sarete molestati. Et andatasi la gatta più innanzi, trovò grandissima copia di pecore et armenti; e con li lor pastori fece il somigliante, et a quanti per strada trovava, il simile diceva. Le genti che Elisetta accompagnavano, addimandavan: Di chi siete cavalieri? e: Di chi sono tanti belli armenti? E tutti ad una voce rispondevano: Di messer Costantino. Dicevano quelli che accompagnavano la sposa: Adunque, messer Costantino, noi cominciamo sopra il tener vostro entrare? Et egli col capo affermava di sì. E per questo la compagnia grandissimo ricco lo giudicava. Giunta la gatta ad un bellissimo castello, trovò quello con poca brigata e disse: Che fate, uomini da bene? Non vi accorgete della roina che vi viene addosso?—Che? dissero i castellani—Non passerà un'ora che verranno qua molti soldati e vi taglieranno a pezzi. Non udite i cavalli che nitriscono? Non vedete la polve in aria? E se non volete perire, togliete il mio consiglio, che tutti sarete salvi. Se alcuno vi addimanda di chi è questo castello, ditegli: di Messer Costantino. E così fecero. Aggiunta la nobil compagnia al bel castello, addimandò i guardiani di cui era e tutti animosamente risposero: Di Messer Costantino Fortunato. Et entrati dentro, onorevolmente alloggiarono. Era di quel luogo castellano il signor Valentino, valoroso soldato, il quale poco avanti era uscito dal castello per condurre a casa la moglie che nuovamente aveva presa; e per sua sciagura, prima che giungesse al luogo della diletta moglie, gli sopraggiunse per la strada un così fiero e miserabile rabile accidente, per lo quale immantinente se ne morì. E Costantino Fortunato del castello rimase signore. Non passò gran spazio di tempo, che Morando, Re di Boemia, morì; ed il popolo gridò per suo Re Costantino Fortunato, per esser marito di Elisetta figliuola del morto Re, a cui per debito di successione aspettava il Reame. Et a questo modo Costantino di povero e mendico, signore e Re rimase, e con la sua Elisetta gran tempo visse, lasciando di lei figliuoli successori nel Regno.»
[i] Tra le Annotazioni al Malmantile Riacquistato, v'è la seguente che si riferisce all'ottava XIX del IX Cantare: Un'altra (donna di Malmantile) con un gatto vuol la berta. Legato il cala. Ond'ei fra que' Ugnano, Sguaina l'ugna e con la bocca aperta Grida inasprito il suo parlar soriano. Ed il primo, ch'ei trova, egli diserta; Che, dov'ei chiappa, vuol levarne il brano. Così l'alz'ella e abbassa con la corda Acciò ch'or questo or quello ei graffi e morda.—«In parlar soriano, cioè in parlar da gatti. Gatto soriano si dice quello che ha la pelle di color lionato, serpato di nero: e tal colore, benchè si dia in altri animali o in panni, non si dice soriano se non de' gatti; forse perchè i gatti di tal colore sien venuti di Soria.»
[ii] I adopera spesso lo Straparola per li, alla caravaggese. E così bistratta presso a poco tutti i pronomi.
[2] Questo si ha a, si pronunzia veramente dal volgo contraendo le due a che s'incontrano, in modo che potrebbe figurarsi così: s'hâ. Onde spesso equivoci. Il Marchese M.*********, milanese, sentendosi domandare da un notajo fiorentino: S'ha a scrivere? ed intendendo: Sa scrivere? rispose meravigliato: Ma! un pochino! almeno ho imparato da ragazzo e fino ad iersera me ne ricordavo.
[3] Non sappiamo se fosse una maghera micia allampanata e strutta od un bel pelliccione. Vattel'a pésca. «Le donne, quando vedono un bel gatto, grande e grosso, lo chiamano un bel pelliccione, cioè: che ha una bella pelle o pelliccia.»—Ann. al Malm. Cant. IX, St. XXI. Di gatte così affezionate all'uomo ne troviamo una appo il Guicciardini:—«Una gatta inamorata d'uno fanciullo, supplicò Venere che la volesse in donna trasformare. Venere, avuta compassione di lei, le fece la grazia et le dette forma di bellissima giovane: mediante la qual forma et bellezza, essa ben tosto lo amante a letto si condusse. Or in questo stante, volendo Venere esperimentare se ella, mutata forma, avesse mutata natura, fece passare per il mezzo della camera un topo, verso il quale, subito saltata dal letto donna Gatta, corse per prenderlo. Di che sdegnata Venere, la ridusse immantinente nella sua pristina forma.»—
[4] Per il, con il, forme viziose e riprese con ragione da' grammatici, che nè l'esempio di valorosi scrittori, nè l'uso generale potranno mai render commendevoli o vaghe. Massime al plurale, quanto son goffi que' peri che verdeggiano e que' coni che piramideggiano in quasi tutte le scritture moderne!
[5] Senza dubbio di quella tela sciósciala ca vola, ricordata di continuo dal Basile nel Pentamerone. Raccontano che quando Re Carlo Alberto visitò Cuneo con la moglie, il consiglio comunale ragunato pensò bene fra le altre cose deliberate, d'invitare le signore a ricamare in oro un pajo di lenzuola pel letto della Regina, trovando troppo vulgari delle lenzuola di semplice tela,[150] ancorchè della più fina battista. Si vera sunt exposita, lascio immaginare che nottata passasse la Maestà Sua sulle asperità e le scabrosità di que' ricami, e con quanti lividori s'alzasse la dimane dopo una notte insonne. Ma ne raccontan tante di que' di Cuneo in Piemonte, e su per giù le medesime si narran de' Bustocchi (cioè degli abitanti di Busto Arsizio) in Lombardia; e d'altri nelle altre regioni d'Italia.
[6] L'offerta delle quali bevande forma da un pajo di secoli un obbligo d'ospitalità. Vedi Martelli, Satire:
S'ordini all'abil scalco il cioccolato
O la bevanda abbrostolita e fresca (?)
Di quei, cui dalla Legge è il vin vietato.
Non si può dir quanto i poeti addesca
Chi liberal ne' buccheri presenta
La bevanda indïana o la turchesca.
L'odor traspiri ed il frullar si senta
Nella stanza vicina: e tempo è allora
Di recitar quindici versi o trenta.
[7] Vocabolo che ho udito condannare come Napoletanesimo a Napoli, ma che è pure, come Napoletano, e Toscano ed Italiano. Fagiuoli, Cavalier Parigino: «Mia sorella.... ancora non ha risoluto l'elezion del suo stato. Alla quale coll'accasarmi io non so di pregiudicare in modo alcuno.»—Il Celano, negli Avanzi delle Poste (vol. II p. 224) ha detto spiritosamente sebbene non da purista:—«Molte volte (e se dico per lo più, non dirò male) i mariti, invece di accomodarsi col casamento, si scasano.»—
[8] Marino. Adone, XV, 206:
Senza capo e signor che 'l freni e regga
Erra et inciampa il popolo confuso,
Qual greggia a cui se avvien che non provveggia
Pastor, licenziosa esce dal chiuso.
LA CENERENTOLA.[1]
C'era una volta un omo che aveva tre figliole. Dunque gli ebbe ordinazione di andare fori via per lavoro. E gli dice:—«Giacchè io sono in viaggio, che volete voi quando io torno?»—Una, la gli ordina un bel vestito: l'altra, un bel cappello e un bello scialle. Dice alla minore:—«O te, Cenerentola, o che tu vuoi?»—La chiamavan Cenerentola, perchè la stava sempre nel cammino.—«Vo' m'avete a comperare un uccellin Verdeliò.»—«La sciocca! Non si sa che gli abbia a fare dell'uccellino! Invece di ordinarsi un bel vestito, un bello scialle, si piglia l'uccello chi sa per farne che!»—«Chetatevi!»—dice.—«Io son contenta così».—Eccoti il padre va via. Quando torna, a quella porta il vestito; a quella lo scialle, il cappello; e alla Cenerentola l'uccellino. Eccoti, siccome gli era uno che lavorava a corte, dunque il Re gli dice a quest'omo:—«Io dò tre feste di ballo, tre festini; se tu vuoi condurre anche le tue figliole, conducile; tanto quel poco le si spasseranno».—«Come Lei comanda»—dice.—«Grazie!»—e accetta. Torna a casa:—«Sapete, ragazze? Questo e questo; Sua Maestà vole che si vada alla festa da ballo, così e così.»—«Vedi tu, Cenerentola, se ti avevi ordinato un bel vestito? Stasera s'ha a fare di andare alla festa di ballo.»—Dice:—«Non me ne importa nulla! Andate pure, io non ci vengo»—Eccoti la[152] sera, quando gli è l'ora, si preparano tutte per bene, tutte pettinate, dicendo alla Cenerentola:—«Vien via, ti si accomoderà anche te.»—«Eh, io non voglio venire, andate voi, io non voglio venire.»—«Ma»—dice suo padre—«andiamo, andiamo! Vestitevi e venite via: lasciatela stare.»—Quando le sono andate via, la va dall'uccellino:—«Oh Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'[2].»—La vien tutta vestita di verdemare e tutta brillanti che a guardarla si accecava. Prepara due sacchette di quattrini l'uccellino; gli dice:—«Porta questi due sacchetti; e entra in carrozza e va via.»—Va alla festa e l'Uccellin Verdeliò lo lascia a casa. Entra nella festa. Appena i signori veggono questa bella signora (la faceva accecare da tutte le parti), il Re, figuratevi, principia a ballare con lei tutta la sera. Eccoti dopo che lei gli ha ballato tutta la sera, si ferma Sua Maestà; e lei si mette accanto alle sorelle. Mentre che lei gli è accanto alle sorelle, caccia fori un fazzoletto e gli casca un braccialetto.—«Oh Signora,»—dice la maggiore,—«Le è cascato questa roba.»—«Prendetelo per voi,»—dice.—«Oh se ci fossi la Cenerentola, chi sa che non fossi toccato a lei?»—Il Re aveva dato ordine, che quando andava via questa signora, stessero attenti dove stava di casa. Quando s'è trattenuta un poco, vien via dalla festa. I servitori figuratevi se erano attenti! Lei entra in carrozza e via. Lei si avvide d'essere perseguitata, la prende i quattrini e la comincia a buttarli via, fori della finestra della carrozza. I servitori ingordi, vi lascio dire, vedendo tutte quelle monete, non pensorno più a lei, si fermarono a raccattare i quattrini.[3] Lei la va al palazzo e sale su:—«Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'.»—La vien così brutta, orrenda tutta, tutta cenere, bisognava vedere in che[153] modo! Eccoti le sorelle che tornano:—«Ce—ne—reen—to—laa!»—«Oh lasciatela stare!»—dice suo padre—«la dormirà ora; lasciatela stare!»—Dunque le vanno su e gli fanno vedere questo gran bel braccialetto:—«Vedi, scimunita? Lo potevi aver te.»—«Non me ne importa nulla a me.»—Eccoti che vanno a cena. Il padre dice:—«Andiamo, andiamo a cena, a mangiare, scioccherelle.»—Venghiamo a il Re che stava ad aspettare i servitori. I servitori non avevano il coraggio di presentarsi a Sua Maestà, stavano lontani. Li chiama:—«O come è andata?»—Si buttano a' piedi:—«Così e così!... Ci ha buttati tanti quattrini!...»—«Vili! che non siete altro»—dice.—«Avevi paura di non essere ricompensati?»—dice.—«Ahn? bene!»—dice—«domani sera, pena la morte se voi non istate attenti.»—Venghiamo la sera dopo, c'è la solita festa. Dicono le sorelle:—«Stasera verrai, eh, Cenerentola?»—«Oh!»—dice—«non mi seccate! Io non ci voglio venire.»—E suo padre le grida:—«Oh, quanto siete seccanti! Lasciatela stare!»—Eccoti le si mettono ad abbigliarsi, figuratevi, più meglio dell'altra sera; e vanno via.—«Addio, sai, Cenerentola!»—Eccoti la Cenerentola, quando le sono andate via, la va dall'uccellino:—«Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'.»—La vien tutta vestita di verdemare; ricamate tutte le qualità di pesci del mare e poi brillanti mescolati che non si pol credere, ecco. L'uccellino gli dice:—«Prendi due sacchetti di rena. E quando»—dice—«sarai perseguitata, buttala fora.»—Dice:—«Così, rimarranno ciechi.»—Così la fa: la va via, si mette in carrozza e la va alla festa. Eccoti Sua Maestà che la vede, mah! subito si mette a ballare con lei e balla quanto può ballare, ecco! Dopo che l'ha ballato quanto poteva (lei non si straccava, ma lui si straccava!) la[154] si mette accanto alle sorelle; tira fori il fazzoletto e gli cade fori un vezzo, ma un vezzo tutto di carbonelle, bello! Dice la seconda sorella:—«Signora, Le è caduta questa roba,»—Dice:—«Prendetelo per voi.»—«Se c'era la Cenerentola, chi sa che non fossi toccato a lei! Eh ma domani sera la s'ha a far venire!»—Eccoti dopo un poco, lei la va via dalla festa. I servitori (figuratevi: pena la morte!) tutti attenti, eh! dietro! La principia a buttar tutta questa rena e rimangon ciechi. Eh, l'arena negli occhi, lascio dire! La va a casa, la smonta e va su.—«Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'.»—La viene così brutta, uno spavento, ecco! Veniamo alle sorelle che tornano:—«Ce—ne—reen—to—laa!»—le principian di giù.—«Se tu sapessi, che la ci ha dato quella signora!»—«'Un me ne importa nulla!»—«Ma domani sera tu ci hai a venire!»—«Sì, sì! vo' l'areste aère!»—Suo padre dice:—«Andiamo a cena, e lasciatela stare: impertinenti proprio che voi siete! Venite a cena.»—Vanno a cena. Venghiamo a Maestà che sta aspettando i servitori perchè gli dicano dove sta di casa. Invece gnene riportan tutti ciechi, perchè s'ebbero a fare accompagnare, gua'!—«Briccona!»—dice.—«Questa signora o l'è qualche fata o dove avere qualche fata che la protegge.»—Eccoti il giorno dopo le sorelle:—«Cenerentola, t'ha' a venire stasera! Senti: l'è l'ultima sera, t'hai a venire.»—Suo padre:—«Oh lasciatela stare! siete sempre a tormentarla!»—Allora le vengon via e si mettono a prepararsi per la festa. Quando le son bell'e preparate, le vanno via con suo padre, le vanno alla festa. Quando le sono ite via, la Cenerentola va dall'uccellino:—Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'.»—La viene tutta colore del cielo, proprio dell'aria del cielo; tutte le comete; le stelle, la luna nel vestito, e[155] il sole in mezzo alla fronte. Entra nella festa: chi la poteva guardare! solamente pel sole, gua', bassavan gli occhi, accecavan tutti.[4] Eccoti Maestà si mette a ballare, ma non poteva guardarla, perchè l'accecava: ballava, ma guardare non poteva. Di già aveva dato ordine Maestà ai servitori che stessero attenti, pena la morte: non andassero a piedi, montassero a cavallo quella sera. Eccoti, quando ella ha ballato anche più delle altre sere, la si mette accanto a suo padre codesta sera; tira fori il suo fazzoletto e gli cade una tabacchiera d'oro piena di zecchini d'oro.—«Signora, Le è caduta questa tabacchiera.»—«Prendetela per voi!»—Figuratevi quest'omo, l'apre e la vede tutta piena di zecchini: che contentezza! Quando la s'è trattenuta, la va via come l'altra sera e la va verso la casa. I servitori via a cavallo, lesti; stavano discosti dalla carrozza, ma col cavallo si pena poco. Ella s'avvede di non aver preparato nulla da gittare; non aveva nulla stasera:—«Oh!»—dice—«come ho a fare?»—Ma non poteva buttar nulla, perchè non aveva nulla. Lesta la smonta e gli cade una pianella nel far presto. I servitori la raccattano; prendono il numero dell'uscio; e vengon via. Venghiamo alla Cenerentola che va su:—«Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'!»—Non gli risponde l'uccello. Quando la gnene ha detto tre o quattro volte, gli risponde:—Briccona! bisognerebbe che non ti facessi divenire più brutta, ma....»—e la fa divenire brutta e poi gli dice:—«Ora e che vuoi fa'? Tu siei scoperta.»—La si mette a piangere, piangeva proprio. Venghiamo alle sorelle che tornano:—«Ce—ne—reen—to—laa!»—Eh figuratevi questa sera, non gli risponde, cheh!—«Guarda che bella tabacchiera! Se te fossi venuta, la potevi aver te.»—«Non me ne importa nulla! Escite di costì!»—«Andiamo, andiamo; venite a cena»—dice[156] suo padre. Vanno a cena ed è finito. Venghiamo ai servitori che tornano con la pianella e il numero dell'uscio.—«Che dimani»—dice Maestà—«appena fatto giorno voi andiate a questa casa; prendetemi la carrozza e portatemi questa signora nel palazzo.»—I servitori prendon la pianella: quella che gli stava, era lei; e vanno via. E picchiano. Si affaccia suo padre:—«Oh dio! è la carrozza di Sua Maestà! cosa ci sarà?»—Tiran la corda e van su i servitori. Vanno su.—«Cosa mi comandano?»—gli dice il padre, gua', a questi servitori.—«Quante figlie avete voi?»—Dice:—«Due.»—«Bene, fatecele vedere.»—Ecco il padre le fa venire di qua.—«Mettetevi a sedere»—dicono a una di quelle. Gli provano la pianella, cheh! la ci entrava dieci volte. Quest'altra si mette a sedere: gli era piccola.—«Ma ditemi, galantomo, non avete altre figlie voi? Badate a dire la verità, veh! Perchè Maestà lo vole: pena la morte!»—«Signori, ce n'è un'altra, ma non lo dico neppure. Gli è tutta nella cenere, nel carbone, se vedeste! Io non la chiamo nemmen figliola per vergogna.»—«Nojaltri non siamo venuti nè per bellezza, nè per abbigliatura: si vol vedere la ragazza!»—Eccoti, le sorelle chiamano:—«Ce—ne—reen—to—laa!»—ma urla, urla! Ma lei non rispondeva. Dopo un pezzo:—«Che v'è egli?»—la risponde.—«Bisogna che tu venga giù! c'è de' signori che ti vogliono vedere.»—«Io non vo' venire, io.»—«Ma bisogna che tu venga, ti pare?»—dice.—«Sì, ditegli che or'ora vengo.»—La và dall'uccellino:—«Ah Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'.»—La vien vestita come l'ultima sera, col sole, con la luna e con le stelle, e l'aveva per dippiù tutte catene d'oro, ma grosse! messe così. Dice l'uccellino:—«Portami via, sai? mettimi in seno, via, sai?»—Si mette l'uccellino in seno e principia a[157] scender le scale.—«La sentono?»—dice il padre—«la sentono? La si strascica la catena del cammino. Si figurino che orrenda cosa che sarà quella!»—Eccoti quelli, quando è l'ultimo scalo, la veggono apparire.—«Ah!»—riconoscono la signora dell'altra sera. Il padre, le sorelle, figuratevi che affanno che fu quello! La fanno mettere a sedere, la gli provano la pianella, eh! l'era sua, la gli stava! La fanno montare in carrozza e la portano a Sua Maestà. E riconosce la signora di queste sere. E figuratevi, innamorato com'egli era, gli dice:—«Assolutamente, voi siete la mia sposa.»—Lei acconsente, gua', lo credo! Manda a chiamare il padre, le sorelle e le fa venire tutte nel palazzo. Concludono le nozze. Figuratevi, che feste belle, che cosa che fece a questo sposalizio! I servitori li fa de' maggiori del palazzo, quelli che avevano scoperto dove la stava, in ricompensa. Se ne vissero e se ne godettero e a me nulla mi dettero.
NOTE
[1] Cf. con la fiaba XVI: La Maestra, Il Liebrecht annota:—S. Lemcke's Iahrbuch XI, 385 meine Anmerkung zu dem cyprischen Mährchen N.º 2.»—È lo stesso argomento del trattenimento VI, giorn. I del Pentamerone:—«Zezolla, 'mmezzata da la Majestra ad accidere la Matreja; e credenno, co' farele avere lo patre pe' mmarito, d'essere tenuta cara; è posta a la cucina. Ma ppe' bertute de le fate, dapò varie fortune, sse guadagna 'no Re pe 'mmarito».—Cf. Pitrè (Op. cit.), XLI, Picuredda e XLII, Grattula—Beddattula (della quale il prof. Malato—Todaro ha data una versione Italiana nella Rivista Sicula di Palermo, voi. VIII). Bernoni (fiabe popolari veneziane) VIII. La Conza—Senare. Prima che il libretto e la musica di due Italiani, ringiovanissero la fiaba della Cenerentola e fin dall'anno M.DCC.LIX, fu recitata a Parigi una Cendrillon, parole dell'Anseaume, musica del La Ruette, che non incontrò gran fatto. Gli aneddotisti dànno per[158] certo, che alcuni anni prima, il basso Thevenard, passando innanzi ad una calzoleria, stupisse della piccolezza elegante d'una pantoffola da ricucirsi; e che s'informasse dello indirizzo della padrona di quella calzatura; e volesse conoscerla; e se ne innamorasse perdutamente; e la chiedesse in matrimonio lì per lì, su due piedi; e non fosse in seguito nè più scontento, nè più infelice di tanti e tanti che hanno arrischiato il duro passo solo dopo mature considerazioni, ponderatamente. Anche il poeta tedesco Di Platen—Hallermünde, sepolto a Siracusa, ha trattato drammaticamente questo tema vaghissimo. Ecco due racconti milanesi che appartengono al ciclo della Cenerentola, il quale abbraccia due rami, quello di Peau—d'âne e quello di Cendrillon.
LA SCINDIROEURA.[i]
Ona volta gh'era on Re. El gh'aveva ona tosa. L'era tanto bella che le voreva per sposa, la voreva sposà per mièe; e lee la voreva minga, perchè l'era vecc. Lu, seguitava a seccalla de sposall; e lee, on dì per contentali, la gh'ha ditt:—«Famm dùu vestìi a me piasè e on'ochetta che parla, che te sposi.»—Come difatti, el gh'ha fàa dùu vestìi, vun pien de stell e on alter cont i ragg del sol. Sicchè, la sera, lu, l'è andàa in lett. El ghe dis:—«Adess ven anca ti, Maria.»—la se ciamava Maria. E lee, la dis:—«Adess vegni subet.»—L'ha ciappà i dùu vestìi e i ha faa su in d'on fagott e l'ha miss l'ochetta in d'on cadin con denter l'acqua. L'ochetta, la sbatteva i al: e el Re le dimanda:—«Maria, te vegnet a dormì?»—E l'ochetta, la ghe rispondeva:—«Vegni»—Lu, el Re, el s'è indormetàa; e el s'è dissedàa pu fin a la mattinna. La mattinna el leva su, el trœuva pu la soa tosa. Lee, l'ha miss on bell'—e—brutt[ii], ona finta che se cognosseva domà che i occ; e la s'è missa in viagg; e l'ha seguitàa a viaggià finchè l'ha trovàa ona cittàa, dove gh'era on Re. L'è andada alla porta del Re e la ghe dis a la guardia de digh a la Reginna se voreven ciappalla per fa la donzella. E la guardia la gh'ha ditt:—«Te gh'hê minga vergogna, bruttascia che te set, a cercà de vegnì a fà la donzella?»—Dopo, lee, l'ha tornàa a pregà se voreven ciappalla a fà la scindirœura[iii]; a stà a i fornell, a i fogolar a tœu su la zener. Allora la guardia l'è andada a dighel a la Reginna. La Reginna, la gh'ha ditt de lassalla pur vegnì. On dì, el fiœu del Re, el ghe dis a la soa mamma, a la Reginna:—«Diman, vœuri fa ona festa de ball»—E lee, la ghe dis:—«Fâlla pur.»—Quand l'è staa che eren adrèe a ballà, la Scindirœura, la ghe dia a la Reginna:—«O sura Reginna, che la me lassa andà a guardà denter almen dal bus de la ciav, a vedè come fan a ballà, perchè hoo mai vedùu.»—E lee, la Reginna, la ghe dis:—«Ben, va: ma torna subet, perchè s'el te ved el me fiœu, chi sa cossa el me dis.»—Allora lee, la Scindirœura, la va in la soa stanza, la mett su el vestíi pien de stell e la va de denter in sala. El fiœu del Re, el ved sta bella giovina; l'ha ciappada de ballà insemma. L'ha faa on gir; e pœu, lee, la ghe dis:—«Ch'el me lassa andà on moment, che torni subet.»—Invece l'è andada a casa a lavorà. El va a casa, el fiœu del Re, el ghe dis a la soa mamma:—«Se t'avesset de vedè, mamma, che bella giovina che l'è vegnùu là a la festa! la gh'haveva su on vestìi pien de stell ch'el lusiva per tutta la sala. L'ha fàa on gir, e pœu l'hoo veduda pu. La gh'aveva i occ che pareven tutt quej de la Scindirœura»—E lee, la seguitava a dì:—«Sont mi quella, sont mi quella.»—E lu, el dis:—«Cossa la dis quella cialla là?»—E lee, la tornava a dì:—«Sont mi quella, sont mi quella.»—El fiœu del Re, el dis:—«Diman, vœuri fà on'altra festa.»—Quand l'è stàa ch'eren adrèe a ballà, la Scindirœura, la ghe dis a la Reginna:—«Che la me lassa andà là, sura Reginna, a guardà denter del bus de la ciav, per vedè se gh'è là quella bella giovina.»—E la Reginna, la ghe dis:—«Te set on pòo tropp seccante! s'el te ved el me fiœu, chi sa cossa el dis.»—E lee, la ghe torna a dì:—«Voo là appenna on momentin e pœu torni subet.»—Allora la Reginna, la ghe dis:—«Ben, va.»—La Scindirœura, la va de sora in la soa stanza, l'ha tiràa via el bell'—e—brutt, la mett su el vestii cont i ragg del Sol, e la va denter in sala. El fiœu del Re l'ha ciappada subet per ballà. Lee, l'ha fàa on gir e pœu la ghe dis:—«Ch'el me lassa andà on momentin, che torni subet.»—Intant che la ballava la gh'ha tiràa giò l'anell del fiœu del Re; e la va a casa e la se mett a fa el so mestée. Va a casa el fiœu del Re, el ghe dis a la soa mamma:—«Se t'avesset de vedè, mamma! Gh'è vegnùu là ancamò quella bella giovina d'ier. La gh'aveva su on vestíi cont su i ragg del sol, che la lusiva per tutta la sala.»—La Scindirœura, la seguita:—«Sont mi quella, sont mi quella.»—E lu, el dis:—«La gh'aveva i occ, che paren tutt quej de la Scindirœura.»—E la torna ancora:—«Sont mi quella, sont mi quella.»—E lu, el dis adrèe a la soa mamma:—«Sent cosa, la dis quella cialla là.»—E lee, la torna ancamò:—«Sont mi quella, sont mi quella.»—El dì adrèe, el dà on'altra festa; e lee, la gh'è andata pu; e lu, de la passion, el s'è malàa. Gh'era pu nissun che podeva andà in stanza a portagh de mangià; e lee, la gh'è dis a la sura Reginna:—«Che la me lassa andà mì, a portagh el pantrid.»[iv]—E la Reginna, la ghe dis:—«Cialla che te set! el vœur nanca che vaga i donzell; t'hà giost de andà ti!»—E lee, la ghe dis ancamò, la Scindirœura:—«La vedarà, sura Reginna, che de mì l'accettarà.»—Allora la Reginna, la dis:—«Va pur.»—Lee, l'è andada in stanza. Prima de andà in del Re, lee, l'è andada in stanza e l'ha miss su el vestíi cont su i ragg del sol. E l'è andada a portagh il pantrìd. La gh'ha miss denter l'anell; e lu, allora, a vede sta bella giovina, de la contentezza l'è guarìi e l'ha sposada. Dopo hin andaa a casa a trovà so pader che l'aveva lassada.
SCINDIRIN—SCINDIROEU.
Gh'era on negoziant; el gh'aveva tre tosann: do eren brutt e vunna l'era bella. L'era la minor quella bella. E lor ghe voreven minga ben a sta sorella: e quand vegniva in cà quajchechedun, lor eren in casa a ricev e quella lì la trattaven come ona personna de servizi; e a l'inverno, lee, la stava semper in cusinna, in canton del fœugh a scaldass, perchè in sala i so sorell la voreven minga. Ven che el Re, el dà ona festa de ball. E lor, quij do sorell brutt, hin staa invidàa e hin andàa fœura de casa a fa tutt i provist, e tœu di vestii de seda, di robb de galanteria per andà a sta festa de cort. Ven quella sera che se vesten e van a ballà. Lee, sta povera tosa, la gh'aveva ona passion; e la va in giardin a piang; e la piangeva. Ghe va là ona donnetta:—«Cossa te gh'het, la mia tosa, che te set così malinconica? perchè te pianget?»—«Perchè i mè sorell hin andàa a la festa de ball a la cort del Re; e mi, han minga vorùu menamm.»—«Te see contenta a andagh anca ti?»—«Magara, podess andà!»—«Ben, tè: questa ch'è chì, l'è ona verghetta. Va de sora, va in la toa stanza, batt sta verghetta chì, e te vegnarà fœura quel che te fa de bisogn per andà a la cort. Quand te set sott a la porta, te battaret ancamò la verghetta, e te comparirà lì ona carrozza. Quand te set a la cort, ti te battaret la verghetta, e la carrozza, la scomparirà via.»—Difatti, lee, la va de sora, la batt la soa verghetta, e ghe ven fœura on magnifich vestìi, e tutt quel che ghe fava de bisogn e scarp e calzett e per la testa tutt. La se vestiss e la va. La batt la soa verghetta, e ghe ven la carrozza. Quand l'è entrada in sala de ball là, la ved i so sorell. Gh'è là el fiœu del Re; apenna che le ved, el dis:—«Oh che bella figura! che bella giovina! come l'è missa de bon gust!»—E le tœu su a ballà. Lee, la balla; lu, el ghe dis tanti tenerezz; e lee, apenna finíi, la va via. Lu, el fiœu del Re, el ved che la gh'è pu, tutt fœura de lu:—«Pover a mì, pover a mì! Se el saveva, ghe andava adrèe almen a mettela in carrozza.»—Lee, la va a cà, la se devestiss tutta e la va a dormì per non fass capì di personn de servizi in casa. A la mattina i so sorell van in cusinna, e lee, l'era là settada al camin. E discorreven de la festa che gh'era stàa; che l'è stada inscì bella; e che gh'è andàa là ona sciora, che l'era inscì ben missa, che no gh'era nissuna altra inscì ben missa de quej ch'hin andàa là; e che el fiœu del Re l'ha ballàa insemma; e che in d'on moment la gh'è scomparsa via e l'han veduda pu.—«Se t'avesset vedùu, Scindirin—Scindirœu! la gh'aveva duu occ che pareven tutt i tœu.»—«S'era mi quella!»—«Cossa t'hê ditt?»—«Hoo ditt de menamm ona quaj sera anca mì; minga andà domà vialter!»—«Cossa te vœut vegnì a fa ti, che te see minga bonna de ballà? Che vestíi te vœu mett su per vegnì a la cort?»—«I fee per vialter i vestíi, podíi famen vun anca per mì.»—Ven che el Re, el dà on'altra festa per el piasè de vedè ancora sta figuretta che gh'è andàa la prima sera. E lee, i so sorell tornen andà ancamò; e lee, quella sera torna a batt la soa verghetta ancamò. Ghe ven fœura on vestíi pusee bell ancamò, ghe ven fœura cambiament divers de mett in testa de robba finna e tutt, con di boccheritt[v], di mazzettitt de fior. La va e la entra in sala come l'ha faa l'altra volta. El Re le ved, el ghe corr a la contra; e le invida subet a ballà con lu. Lee, la ven giò e la va a fa on gir in la sala e la ghe da on mazzettin de fior per una a i so sorell, e pœu la ven via. El fiœu del Re, el ghe corr adrèe; lee, la batt la soa verghetta e la carrozza l'è subet lì: la monta in carrozza e la corr a cà; la batt la soa verghetta, le scompar tutt coss, e la và a dormì. A la mattinna i so sorell tornen ancamò andà in cusinna e ghe disen de la festa che l'era inscì bella, che gh'è andàa sta sciora, e che l'era pusee ben vestida de la prima volta, e che l'è andada là, e la gh'ha daa on mazzett de fior per un a lor:—«Ma te disi, Scindirin—Scindirœu, che la gh'aveva duu occ che pareven propi i tœu!»—«S'era mi quella!»—«Cossa t'hê ditt?»—«Hoo ditt, che se adess el fiœu del Re, el dà on'altra festa, vuj propi che me menè anca mi insemma!»—«Oh te sèe matta? coss'avemm a menâ ti? coss'hêm de menatt ti? L'è minga on sit adattàa per ti!»—Difatti, el fiœu del Re, el torna a dà on'oltra festa ancamò. Lee, la fa l'istess con la soa verghetta e ghe ven fœura on vestíi, ma ona bellezza! insomma gh'era nissun che podeva avè on vestíi compagn. Ven che la va; e apenna che la entra in sala, el fiœu del Re l'è là. El balla insemma; e pœu', el ghe dis ch'el desiderava de parlagh, de digh in dove la stava, che lu, el voreva falla per soa sposa. Lee, la ghe dis, che la podeva minga digh in dove la stava e che l'era impossibil che lee l'avess avùu de deventà soa sposa. Lu allora, el tœu giò on anell e el ghe le dà:—«E mi tœujaròo nissun, fin che non se presentarà quella che gh'hoo dàa el me anell.»—E lee, la ghe dis che l'anell l'accetta, ma che l'era difficil che la podess deventà soa mièe. E via la va a casa. L'è andàda a cà, l'ha battùu la soa verghetta, gh'è scompars tutt, e pœu l'è andàda a dormì. A la mattinna va là i so sorell e ghe cunten: che gh'è stàa là ancora quella sciora inscì ben missa; e che el fiœu del Re l'è innamoràa; e ch'el gh'ha dàa on anell per soa memoria.—«Ti disi, Scindirin—Scindirœu, che la gh'aveva duu occ che pareven propi tutt i tœu.»—«S'era mi quella!»—Ven, che de lì a on pòo de temp, i so sorell ghe disen a la Scindindin—Scindirœu, che el fiœu del Re l'era malàa per el dispiasè de podè minga avè cognossùu quella sciora, che andava a i so fest de ball. Lee, la Scindirin—Scindirœu, la va in giardin e l'era malinconica malinconica comè. Ghe compar quella donnetta, e la ghe dis:—«Cossa te gh'hêt? te sèe inscì malinconica?»—«Gh'hoo dispiasè, perchè el fiœu del Re, el s'è innamoràa de mi; e mi, l'è impossibel, ch'el me poda sposà.»—E lee, quella donnetta, la ghe dis:—«Te insegnaroo mi, come te devet fa. Ti, in casa toa, te tratten minga ben. Tira su quel pretest lì; e dì che te vœut andà a servì. E va a la cort, e va là e dimandegh se han de bisogn ona camerera, e cerca d'andagh in cà de la Reginna come donzella.»—Difatti, lee, inscì l'ha faa. La ghe dis a i so sorell: che lee, l'era stuffa de stà sott de lor; che la trattaven minga ben, la tegneven pegg che ona serva; e lee, l'ha pensàa de andà via a servì. Difatti, lee, la ghe parla a gent là de la cort per vedè se voreven tœulla per camerera. Lor el disen a la Reginna. La Reginna le ved, la ved sta tosa inscì bella, missa inscì ben, la ghe dis de fermass pur là che le ten per soa camerera. El fiœu del Re, l'era in lett malàa; ghe portaven de sora el pantrìd; e on dì, combinazion, lee, l'era de bass e la sent che aveven da portagh el pantrìd al fiœu del Re. E lee, la dis:—«Sa! vòo de sora, gh'el portaroo de sora mi; gh'el daroo al camerer che gh'è lì in anticamera.»—Intrettant che la va su di scal, la ciappa l'anell e le mett in la tazzinna del pantrìd, e la va in anticamera e la ghe dà la tazzinna al camerer. Lu, el fiœu del Re, el se mett adrèe per mangià el pantrìd, el trœuva denter el so anell, el ciama el camerer, el ghe dis:—«Dimm on poo, chi l'è che m'ha fàa sto pantrìd?»—«De bass el cœugh.»—«Chi l'è che te l'ha portàa su?»—«Ma mi sera lì in anticamera, è vegnùu la donzella de la Reginna e me l'ha portàa su lee.»—«Fa el piasè; ciamem subet la donzella de la mia mamma.»—El camerer el va; el ciama la donzella. La donzella, la voreva minga andà; ma el fiœu del Re, l'ha vorùu che la ghe andass. Quand l'è andada denter, el le guarda, el dis:—«Oh lee, l'è quella che vegneva a i mè fest de ball.»—La dis:—«Sì, l'è vera; ma mi saveva minga come fà a restituigh el so anell e hoo pensaa de metteghel dent in la tazzinna del pantrìd.»—E lu:—«Hoo ditt che quella che gh'aveva el me anell l'aveva de vess la mia sposa; e lee, la sarà la mia sposa.»—Lee, la voreva no, perchè la diseva che l'era ona povera tosa che l'era minga adattada a lu. Allora lu, el fa ciamà la soa mammin, el ghe dis che lu el voreva sposalla, quella lì o nissun. E la mader, la gh'ha ditt:—«Ben, sposala pur, se quella tosa lì, la dev vess quella che ha de rendet felice, sposala e mi son contenta; perchè l'è ona bona tosa, savia, educada.»—I so sorell, quand han sentii, che la Scindirin—Scindirœu, l'aveva de vess Reginna, ghe ven ona rabbia, che insomma!... Ma lee, tanto bonna, l'ha fàa in manera, dopo vess sposàda cont el fiœu del Re, de tirà là la soa famêja in compagnia.
[i] È il Peau—d'âne di Carlo Perrault. Cf. Degubernatis. Novelline di Santo Stefano di Calcinaia, III. Il trottolin di legno. La vergine ritrosa all'incesto si ritrova nel trattenimento VI della giornata II; ed anche nel II della III giornata del Pentamerone, intitolato: la Penta manomozza, se non che nella Penta trattasi d'un fratello impazzito e non d'un padre.—«Penta sdegna le nozze de lo frate e tagliatose le mano nce le manna 'mpresiento. Isso la fa jettare drinto 'na cascia a mare; e data a 'na spiaggia, 'no marinaro la porta a la casa ssoja, dove la mogliere gelòsa la torna a ghiettare drinto la stessa cascia; e trovata da 'no Rre, sse nce 'nzora; ma pe' trafanaria de la stessa femmena marvasa, è cacciata da lo Regno; e dapò luonghe travaglie è trovata da lo marito e da lo frate, e restano tutte quante contiente e conzolate.»—Simile è la favola III del Libro primo delle Tredici piacevoli notti dello Straparola:—«Tebaldo, principe di Salerno, vuole Doralice, unica sua figliuola, per moglie; la quale, perseguitata dal padre, capita in Inghilterra, e Genese la piglia per moglie e con lei ha due figliuoli, che da Tebaldo furono uccisi, di che Genese Re si vendicò.»—Ha molti punti di rapporto con questa fiaba la favola cristiana di Santa Oliva. (Vedi La Rappresentazione di Sant'Oliva, riprodotta sulle antiche stampe ed illustrata da Alessandro d'Ancona. Pisa. Fratelli Nistri, MDCCCLXIII). Vedi la prima annotazione alla fiaba dell'Uccel Belverde a pag. 110 del presente volume. Nella Difesa di Gio. Battista Filippo Ghirardelli dalle opposizioni fatte alla sua tragedia del Costantino (In Roma, per gli Heredi del Manelfi. MDCLIII. Con licenza de' Superiori) leggo alle facciate 179—180:—«Piacesse al cielo, che una colpa sì atroce, com'è il desiderio, manifestato da un padre, di torre alla figlia la pudicizia, fosse stata colpa, o non mai intesa, o almen sì rara nel mondo, che si rendesse inverisimile a chi l'ascolta ed apparisse impossibile a chi la legge. Per tacere[159] d'ogn'altro esempio, un solo ne porterò tratto dall'Istorie Ecclesiastiche, che diede già la materia ad una mia sacra tragedia, ed è quello di S. Dimpna, fuggita occultamente ad Anversa dall'ira del Re suo padre, dominator dell'Ibernia. Questi, vedendo la figliuola erede delle bellezze dell'estinta sua moglie, da lui amata sin all'insania, le voleva anche con la violenza torre quel fior verginale ch'aveva a persuasione di S. Gerberno consacrato all'Altissimo per gloriose primizie degli anni suoi. Questo è caso somigliantissimo al finto da me in Valeria, anzi in lei è più verisimile, atteso il costume perversissimo del tiranno Massenzio, noto a tutti per la lascivia, che con una audacia nefaria, violando la pudicizia delle Vergini più belle della sua patria, alcune di esse ne stimolò fin'all'incontrar (per fuggir le sue insidie) generosamente la morte; come fè con virtù veramente Romana la famosa Sofronia nell'antiche memorie sì decantata.»—Cf. Gonzenbach (Op. cit.) XXXVIII. Von der Betta Pilusa, Pitrè. (Opera citata) XLIII Pilusedda.
[ii] Bell'—e—brutt. Questo Vocabolo manca nel Cherubini; cosa voglia dire è spiegato dall'inciso apposizionale che gli tien dietro. La fattoressa narratrice pronunziava la parola così com'io l'ho scritta; e forse sarà stato il nome d'una qualche antica foggia di dominò, di bautta, od altrettale. Ma potrebbe darsi che avesse da scriversi belèe—brutt. Belèe, vuol dire (copio dal Cherubini):—«Ninnolo, balocco, ciancia, dondolo, crepunde. Il latino Bellaria, da cui il Ferrario (Octavii Ferrarii Origines Linguae Italicae. Patavii MDCCLXXVII) vorrebbe derivato il belee milanese, significava confetti, pasticci e simili o anche vini dolci. Il Varon milanes poi trae Belée da βὴλος (astro) facendo diventar gli astri tanti belee.»—Etimologia, quest'ultima, sul genere di quelle del prof. Francesco Mazzarella—Farao, che derivava il napoletanesco pacchiano (villano, da paganus);—«da παχκοινος, omnibus communis, cioè ordinario, da dozzina. O da παχις compactus, cioè grossolano e αννος, linum agreste, come se dir volessimo: che veste di canovaccio, come que' villani[160] lani di Senofonte a' quali fa παχὶα ἰματια περεὶν, crassa vestimenta gestare. O da ανος per ανοσος, morbi expers, come ordinariamente è tal gente, atteso il costumato suo tenor di vita frugale, ed in conseguenza robusta e di valida salute.»—'Mpostà, star ritto, verrebbe, secondo il Mazzarella—Farao—«da ποσθη, teretrum, il quale preso da estro non sì facilmente declina.»—Abbiamo voluto riportare questi esempli di demenza etimologica, perchè sventuratamente non è inutile il cospargerli di ridicolo, ora che Napoli, in tanto splendore di studî filologici, vede rinnovarsi queste orgie intellettuali da un professor calabrese, Vincenzo Padula da Acri, il quale pretende derivar dall'ebraico tutte le lingue, secondo lui stortamente dette indeuropee. Il Varon Milanes de la lengua de Milan, è opera di Giovanni Capis, aumentata da Giuseppe Milani ed Ignazio Albani, pubblicata la prima volta in Milano da Giangiacomo Cuomo, M.DC.VI, ristampata da Giuseppe Marelli nel M.DCCL; ripubblicata nella Collazione delle migliori opere scritte in dialetto milanese fatta in dodici volumi da Giovanni Pirotta; raro monumento d'insipienza dello editore, che si permetteva di alterare e correggere i testi. Questo Varron Milanese sembra che non parli sempre sul serio, anzi scherzi garbatamente. Ecco l'articolo su Belée.—«Cosa di qualche bellezza apparente per dare in mano a' figliuolini. Viene dal greco βήλος, che significa Astrum, poichè qual cosa più bella, più lucente e che più tenga fisso l'occhio del figliuolino che la stella? E perciò per una certa similitudine diciamo Belée, quasi una bellezza simile a quella d'una stella; e che sia il vero si dice propriamente d'una cosa lucida come specchio, vetro, denaro, oro, argento, ec. Quindi è traslato ancora quando diciamo Belin ad un bambino, significando ch'egli sia bello e lucido. Sebbene questa voce Belin la deriva il primo autore dal nome greco βερης qual significa fugitivus. Bella derivazione in vero, tratta dalla consuetudine de' figliuolini i quali schizzando fuggitivamente sempre vanno correndo or qua or là.»—
[iii] Dice il Cherubini:—«Scindiroeu, Scindiroeula. Cova 'l foco. Che sta a covare o a guardare il fuoco o la cenere. La Cendrillon de' francesi, che fu detta a' nostri giorni la Covacenere o la Cenerentola. Il Fagiuoli però, nel Traditor fedele (Scena V) scrive: la Cenerognola. Anche i Siciliani dicono Cinniredda.»—In Firenze, usano più comunemente Cenerontola. I Milanesi hanno (od avevano almeno) anche il maschile; la lingua antica il desidererebbe. Dice il Varon Milanes:—«Sciendiroeu. Uno pallido magro infirmo e che tutto il giorno stia nel canton del fuoco.»—Ecco il brano del Fagiuoli:—Aspasia. «Che fa Isabella?»—Sermollina. «Ricama e fa appunto un uccellino in sur un grappol d'uva, che se la becca.»—Aspasia.[161] «Orsù, mettiti lì da lei, e procura ch'Ella non si muova. Trattienla, perchè io debbo parlare a una persona, che non voglio, che Ella lo sappia.»—Sermollina. «Lasciate fare a me, mi metterò lì da lei a annaspare; e mentre che io annaspo, le conterò una novella.»—Aspasia. «O brava, contalene bella.»—Sermollina. «Le dirò quella della Cenerognola.»—Aspasia. «Dille quale tu vuoi; di te mi fido.»—
[iv] Pantrid; pan grattato, farinata. Pane grattugiato e cotto nel brodo o nell'acqua, con burro, sale e cacio grattugiato. Pantrid maridàa, pangrattato con l'uovo; Pantrid passàa, pangrattato passato per setaccio.
[v] Boccheritt, dal francese bouquet, che essendo oramai dell'uso italiano in tutte le provincie ed avendovi derivati, non può forse considerarsi più come vocabolo straniero. E di fatti già c'è chi arditamente ha scritto buchè. Po' poi non sarebbe peggio del bigiù, del dorè, del tanè, e simili termini. Gli è un fatto che la parola mazzo, non potendo usarsi mai assolutamente, avendo sempre bisogno dell'aggiunta di fiori, è incomoda: si è costretti ad usarla quasi sempre nelle forme diminutive: mazzetto, mazzettino, mazzolino. Per giunta, in molte provincie, ha un altro senso un po' sporco e mi ricordo d'avere sentito un teatro pieno scoppiare in omeriche risa ed inestinguibili a Napoli, allorchè un personaggio offriva alla sua signora il suo mazzo e voleva che 'l gradisse. L'autore del Vendemmiatore e delle Lagrime di S. Pietro tentò d'italianizzare più di trecento anni or sono il vocabolo napoletanesco ramaglietto, e ne' Capitoli giocosi e satirici testè pubblicati finalmente da Scipione Volpicella (Napoli M.D.CCC.LXX) dice d'un bicchiere:
A ciò che ad ogni senso dia diletto,
Il piè che 'l regge e 'l vaso ov'entra il vino
A guisa fatti son di ramaglietto.
[2] Presso il Basile, invece dell'uccello, abbiamo una palma, ed il carme è questo:
Dattolo mmio 'nnaurato!
Co' la zappetella d'oro t'haggio zappato;
Co' lo secchietiello d'oro t'haggio adacquato;
Co' la tovaglia de seta t'haggio asciuttato:
Spoglia a te e vieste a mme.
[3] Polieno, Stratagemmi, lib. III.—«Poscia che Demetrio prese la città di Atene, Lacare vestitosi con certa veste da servo e da villano ed inchiostratasi la faccia, portando un cesto coperto di sterco, segretamente uscì dalla città per una postierla; e montato a cavallo, tenendo dei darici d'oro in mano, se ne fuggì. I cavalieri tarantini però, tennergli dietro a speron battuto senza punto arrestare il corso. In allora egli incominciò[167] a spargere i darici d'oro per la via; i quali veggendo, i tarantini smontavano da cavallo e raccoglievano. Fatto questo più volte, egli tagliò loro il seguitarlo; e perciò Lacare cavalcando se ne venne in Beozia.»—Nè molto dissimile è l'altro stratagemma che nel libro IV Polieno narra di Mitridate. Cf. con la favola d'Ippomene ed Atalanta. (V. Guicciardini, Detti e fatti, il racconto intitolato:—«Quanto possa l'ajutorio divino nelle cose umane et per contra quanto nuoca la divina indegnatione.»—Vedi anche nel XXI dell'Orlando Innamorato del Bernia, la storia della figliuola del Re Monodante).
[4] Nell'Adone, Canto II, stanza LXIII:
L'altera dea, che del gran rege è moglie,
De l'usato s'ammanta abito regio:
Di doppie fila d'or son quelle spoglie
Tramate tutte e d'oro han doppio fregio;
Sparse di soli; e folgorando toglie
Ogni sole al sol vero il lume e 'l pregio.
Di stellante diadema il capo cinge,
E lo scettro gemmato in man si stringe.
IL RE PORCO[1].
C'era una volta una Regina che era gravida e stava lì al terrazzino a prendere il fresco. Passa una poera donna e gli chiede la limosina. Dice:—«Andate via, vecchia porca!»—Ma che son maniere quelle? Risponde la poera vecchia:—«Lei, la facesse un porco!»—Giusto era gravida. La partorisce e fa un porco! Figuratevi che bisbiglìo nel palazzo che ci fu: non si poteva spiegare. La Regina non faceva che piangere ricordandosi della parola detta:—«Eh!»—diceva—«Iddio mi ha castigata!»—Il porco cresce e lo mettono nel giardino. Che volete farne nella casa? Ma sotto questo pelo di porco era un giovinotto, un omo, aveva sentimenti come noi. Lì vicino c'era marito e moglie che avevan tre ragazze. Il porco vede queste belle ragazze e se ne innamora: pur che ne abbia una! E non dava pace di sè; urla; mugolìo[2]; non voleva mangiare; si spiegava che accennava in là; s'avvidero che voleva una di quelle ragazze. Andiedero a dire ai suoi genitori che una delle figliole bisognava che la prendesse questo porco, che li facevan ricchi. La minore dice:—«Io non lo voglio.»—La seconda l'istesso. La maggiore dice:—«Lo prenderò io per far felici il babbo e la mamma; io non guardo, io mi accordo.»—Che volete? lì non si fa sposalizio; altro che la sera andava a letto con questo porco senza andare a fare le cerimonie: se era una bestia! Quando[169] gli è in camera, il porco serra e gli viene un bellissimo giovinotto. Lei urla che la voleva il porco, non voleva quello:—«Ah no! no! io ho sposato il porco; voi non vi conosco.»—«Ah»—gli dice—«abbi da sapere, sono io il porco, che per la superbia di mia madre mi trovo in questo stato. Promettimi di non dir niente alla signora madre, altrimenti ti costa caro!»—Lei gli promette; ma dopo otto o dieci giorni chiede di parlare alla Regina. Dice:—«Ho una cosa da confidarvi, ma in secreto: mi raccomando che nessuno ci senta!»—«Venite pure»—dice la Regina—«nelle mie stanze.»—La ordina alla servitù che nessuno entri.—«Venga chissisia, la Regina non c'è.»—E dice alla nora:—«Dite pure, dite.»—Serra tutti gli scuri per paura che nessun la sentisse.—«Abbia da sapere, la sera il suo figlio, vedesse il bel giovinotto che egli è!»—«Ah!»—la fa la madre.—«Ma per amore di dio la prego a non palesarlo. Altrimenti, mi ha detto che la pagherò.»—«Ah!»—dice la madre—«La mia superbia è stata! e questo è il mio castigo.»—E vanno ognuna nel suo quartiere ed è finita: perchè lui, essendo fatato, sentì tutto. La sera va nella camera per andare dalla sposa e gli dice:—«Briccona, son queste le promesse?»—«Ah! ma io....»—dice.—«Chètati, insolente!»—Prende un ago calamitato[3] e l'ammazza. La more che non si distingue che è stata uccisa. Venghiamo alla mattina. La Regina non c'è, non s'alza, non chiama. I servitori giran la gruccia, vanno là e la vedon morta. Urli per il palazzo:—«Si vede che il porco l'ha soffocata!»—Credono che l'ha soffocata: una bestia, che volete! Più che mai la Regina madre gli rimane il rammarico, dicendo:—«Io sono stata causa di questo gran male, perchè se io non diceva quella parola, non aveva un figlio porco e non[170] seguiva questo!»—Il porco comincia a mugliare, a raspare il muro, peggio di prima; a fare cenni che voleva un'altra di quelle: s'intendeva bene. La seconda:—«Va»—dice—«lo prenderò io!»—Che volete? facevano uno sborso di quattrini ai genitori!—«Almeno starete bene voi.»—E così la sera il porco, quando entra in camera, viene un bellissimo giovinotto, come per quell'altra. E dice, assolutamente impone silenzio che la non dica nulla alla signora madre. Se quell'altra la stiede dieci giorni, la sarà stata anche venti, questa, zitta. Ma poi un bel giorno la chiede un abboccamento alla Regina, come quell'altra; e quando l'è nella stanza, tutta serrata, la gli palesa che suo figlio diviene un bel giovane, come quell'altra donna.—«Pur troppo lo so, per mia disgrazia, che lui viene un bel giovane!»—«Ma la prego a non dir niente.»—«Eh state pure contenta[4] che io non parlo.»—Vanno ognuna nel suo quartiere. Quando è la sera, il porco entra in camera e fa l'istesso.—«Ah briccona!»—dice.—«Son queste le promesse, eh?»—Prende l'istess'ago, cos'era? e l'ammazza. La mattina, la servitù, eran l'undici, mezzogiorno:—«Ma che fa la Regina?»—Apron la camera e la trovan morta ancor lei. Vanno dalla Regina madre e dicono:—«Venga a vedere, Maestà, anche questa l'è morta!»—E il rimorso! potete credere! Il porco riprincipia a mugliare al muro per aver quell'altra, la terza sorella. Ma i suoi non gnene volevan dare, lo credo! Ma poi s'ebbe da accordare e viene sposa del porco; e portano anche i genitori nel palazzo, in disparte. La sera il Re diviene un bel giovinotto come nell'altre sere:—«Abbi da sapere che io sono un omo, vedi; ma per castigo della signora madre, il giorno sono un porco. Ho da ringraziarne la superbia della signora madre. Ti prego di non dir nulla alla signora[171] madre.»—«E io ti prometto di non dir nulla.»—La sarà stata anche un mese senza dir nulla, ma poi la chiede di parlare alla Regina e gli racconta che il suo figlio diviene un bel giovine; come le altre, tal quale:—«Ma io la prego di non parlarne neppure all'aria.»—«Eh state pure contenta, io non lo dico.»—Eccoti la sera il porco entra in camera e viene un bellissimo giovane:—«Briccona, son queste le promesse, eh? Te, non ti ammazzo. Ma, prima di ritrovarmi, tu devi consumare sette mazze di ferro, sette vestiti di ferro, sette paja di scarpe di ferro ed empire sette fiaschettini di lacrime.»—E va via, sparisce: non c'è più porco, non c'è più nulla. La mattina, appena giorno, la sposa s'alza e va dalla Regina Madre, e gli racconta il caso. Potete credere il rimorso di questa donna!—«Guardate di che sono stata causa!»—Ordina tutta questa roba la Regina madre, e quando l'è fatta, la sposa la si veste di questa roba e si mette in viaggio; dice addio alla socera, la bacia:—«Addio! Addio!»—e si mette in viaggio. Cammina, cammina, con il baroccio, perchè l'altra roba l'aveva sovra il baroccio, sennò come si fa portarla! La trova una vecchina.—«Dove vai, poerina?»—«Oh!»—dice; la gli fa tutto il racconto.—«Tu non sai ch'egli è stato sposo il tuo sposo? Il tuo sposo gli ha preso moglie, lassù dove è andato. Tieni questa nocciòla. Quando sarai sulla piazza del Re, quando avrai ben camminato, non so in che posto, molto lontano, schiacciala. Verranno di gran galanterie, ma tanto belle. «La Regina»—dice—«se ne invaghirà; e ti domanderà quanto ne vuoi di queste belle cose. Tu devi dire: Una notte a dormire col suo sposo.»—Gli dà la nocciòla e va via, sparisce questa vecchia.—«Grazie! addio, addio!»—Cammina, cammina, cammina e la trova l'istessa vecchina, l'istessa[5] proprio:—«Poerina[172] dove vai?»—Gli fa tutto il racconto e questa vecchina gli dice:—«Sai! Tieni questa mandorla, fai lo stesso, stiacciala. Verranno di gran galanterie, ma tanto belle! La Regina se ne invaghirà; e ti domanderà quanto ne vuoi di queste belle cose. Tu non chieder quattrini: chiedi una notte a dormire con lo sposo.»—Quando l'è quasi per essere alla piazza gli si presenta un vecchino e gli dice l'istesso:—«Tieni»—dice—«questa noce. Vedi, tu ci hai pochino, vedi: l'è lì la piazza. Stiacciala questa noce e tu vedrai le galanterie che gli esce fori. La Regina se ne invaghirà e ti domanderà quanto ne vuoi di queste belle cose. Tu devi dire: Una notte a dormire col suo sposo.»—L'aveva consumato le sette paja di scarpe dì ferro, l'aveva consumato le sette mazze di ferro, l'aveva consumato i sette vestiti di ferro e l'aveva riempite tutte le fiaschettine di lagrime. Entra nella piazza e vede un palazzo: si mette a sedere in mezzo alla piazza e schiaccia la nocciòla. E viene le più belle galanterie, ma una cosa da non poter spiegare, ecco.—«Maestà»—dicono i servitori alla Regina—«Maestà, s'affacci; venga a vedere le gran galanterie che ci sono sulla piazza.»—«Dimandate quel che ne vole, che io le voglio comprare.»—Queste galanterie erano molte cose preziose, tutte pietre preziose; ci si accecava a guardarle. Gli domandano quanto ne vole:—«Una notte a dormire col suo sposo.»—I servitori si mettono a ridere:—«Una donna strana, vuol dormire con lo sposo della Regina, cah!»—La Regina:—«Bene! gli sia accordato! Prendete queste belle cose e stasera dite che alle dodici venga qua.»—La ordina al bottigliere che alloppî tutto tutto il vino; le bottiglie, tutto, sia alloppiato per il Re. Il Re, che non sapeva nulla, beve, un poco anche più del solito. Quando gli è un'ora[6], cade addormentato, lo portano[173] a letto e dorme come un masso. Ecco la donna alle dodici entra nel palazzo e la portano in camera. Entra nel letto, e dice:—«Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumate sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro, e ho riempito sette fiaschetti di lacrime.»—Quello dormiva, lo stesso che dire a questo tavolino. Si fece giorno, la donna fu mandata via e fu finito. La mattina schiaccia la mandorla. Figuratevi: tutte figurine che si movevano e saltavano, di pietre preziose.—«Maestà, c'è l'istessa donnina d'ieri: ma se la vedesse! che belle galanterie: assai più belle sono!»—La Regina dice:—«Domandatele icchè ne vole.»—Gli domandano quel che la vole.—«La notte a dormire col suo sposo.»—Dice la Regina:—«Sì, sì, sì. Prendete e pure; e stasera fatela venire alla solit'ora.»—Eccoti, dà ordine al cantiniere, che faccia l'istesso del giorno avanti, che alloppî tutto il vino: bottiglie, tutto. Il Re va al pranzo e beve più di quell'altro giorno, ma come! Quando gli è la sera, ecco la donna, gua', entra nel letto e principia a dire:—«Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumato sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro e ho riempiti sette fiaschettini di lagrime.»—Ma qui, dichiamo, questa fosse la camera; e qui, dichiamo, ci fosse le guardie. Sentono un mugolìo, stanno attenti; ed imparano tutto il lamento come l'avemmaria. E la mattina, appena giorno, i servitori la mandorono via questa donna. E queste guardie, quando s'è levato il Re, gli raccontano tutto:—«La notte ci viene una donna da Lei e Le dice: Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumato sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro e ho riempiti sette fiaschettini di lacrime.»—Ah, il Re si ricorda della sposa; chè aveva dimenticata ogni cosa. Andato[174] via da il palazzo della madre, si scordò di tutto.—«Non sa? Le dànno il vino alloppiato»—dice questa guardia.—«Bisogna che Lei non lo beva. Ci starò attento io.[7]»—La mattina, stiaccia la noce quella poera donna. Figuratevi! che galanterie! più belle dell'altro giorno. La noce gli era più grossa della nocciola e della mandorla e ne sortì più robba. La Regina dice:—«Domandatele icchè ne vole.»—Gli domandano quel che la vole e lei dice:—«Una notte a dormì' con lo sposo.»—«Prendete le ricchezze»—dice la Regina—«e ditegli che stasera venga all'istess'ora.»—Questa guardia che aveva fatto la spia al Re, dice al cantiniere:—«Pena la morte, se tu metti l'oppio nel vino del Re. Figura di metterlo, ma non lo mettere. Poi, sarai ricompensato. Invece mettilo a quello della Regina, l'oppio.»—Il giorno a pranzo, com'era solito, il Re beve, mangia. La Regina con quell'oppio s'addormenta; la mettono a letto; è finita. Eccoti Maestà che va alla camera, si spoglia e va a letto. Quando sono le dodici[8], eccoti la donnina. Lui figura di dormire; e lei principia a dire:—«Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumato sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro e riempiuti sette fiaschettini di lacrime.»—Lui per tre o quattro volte glielo lascia dire; allora figura di svegliarsi e l'abbraccia così, poerina! e la riconosce per isposa, e dice:—«Bisogna partì' subito! subito! far fagotto e via.»—Prendon tutte quelle belle robe che l'aveva schiacciate dalla nocciola, dalla mandorla e dalla noce, tutte quelle ricchezze, fanno fagotto, spogliano il palazzo, ecco! Prende la guardia che gli aveva fatta la spia con seco, prende il cantiniere e tutti via; e vanno a il palazzo della madre. Cheh! era quasi sempre a letto piangendo di dolore per questo figlio, gua'! Urli, strepiti di contentezza:—«Oh viva! viva!»—Tutta la[175] servitù, dicendo:—«Ecco la nostra sposa! ecco il nostro padrone!»—perchè raccontano. La Regina che sente questi urli, va di là e vede la nora. Dice:—«Questo è il suo figlio, che io sposai che era un porco e adesso è un bel giovane.»—Va nelle braccia la madre del figlio, chiedendogli perdono di quel ch'ella era stata causa ch'egli aveva patito. Lui gli perdona e così se ne vivono in santa pace. Venghiamo alla Regina, quell'altra moglie, che si desta. Chiama, chiama, nessun risponde, non c'è nessuno. La va per le stanze: tutte vote; tutto portato via; ogni cosa, tutto sparito. La va allo scrigno a vedere in dove l'aveva messe tutte quelle belle cose, tutte quelle gioje: la non trova più nulla. Caccia un grand'urlo e dal dolore cade e more. E così è finita.
Stretta la foglia e larga la via,
Dite la vostra che ho detto la mia.
NOTE
[1] Il Liebrecht annota:—«Vgl. Grimm. K—M. N.º 108 Hans mein Igel; und meine Bem. Heid. Iahrb. M.DCCC.LXVIII. S. 308 zu Schneller N.º 21»—È lo stesso argomento della Favola I, Notte II dello Straparola: Galeotto, Re d'Anglia, ha un figliuolo nato porco, il quale tre volte si marita; e posta giù la pelle porcina de divenuto un bellissimo giovane, fu chiamato Re Porco. Gonzenbach (Op. cit.) XLII. Vom Re Porco, Pitré (Op. cit.) Lu Sirpenti e varianti ivi abbreviate. Cf. De Gubernatis. Novelline di Santo Stefano di Calcinaja: XIV. Sor Fiorante mago, ed anche in parte: XIII. La Cieca (da paragonarsi con la III favola della III notte dello Straparola). Vedi pure nel Malmantile Racquistato, Cantare IV, dalla stanza XXXII in poi. Tutte queste versioni hanno attinenza con l'antica fola di Psiche. Eccone una milanese:
EL CORBATTIN.[i]
Ona volta gh'era on scior e ona sciora, ch'eren marì e mièe: pregaven el Signor, ch'el ghe dass on fiœu. Infin, on dì, gh'è compars in casa on corbattin. On dì, sto corbattin, el comincia a fa tanto de muson[ii]. Lor ghe dimanden cossa el gh'aveva. E lu, el voreva minga dighel. In fin, col seguità a dimandagh, el ghe dis, ch'el voreva tœu mièe. In la cort ghe stava on prestinèe[iii], ch'el gh'aveva tre bêj tosann. Sto scior, el ghe dis al prestinèe, se el voreva dagh ona tosa in sposa per el so corbattin. E lor ghe disen de sì. Come difatti, el l'ha sposada e han faa on gran disnà. Lu, quand l'è fenìi el disnà, el va denter in d'on tond e el seguita a sbatt i al; el ghe fava andà adoss tutt i gott de conza[iv] a la sposa. E la ghe dis:—Guarda, ciall[v], che te m'hè smaggiàa[vi] tutt el vestìi.»—E lu, l'ha ditt nient. A la sera, el va a dormì con la sposa: l'ha lassada indormentà e l'ha seguitàa a beccalla fin che l'ha fada morì. Dopo lu, la mattina l'è levàa su; e l'è andàa via; e l'è restàa via on sett o vott dì. Dopo el ven a casa e el comincia ancamò a fa tant de muson. I so genitor ghe dimanden cossa el voreva; e lu, el ghe dis ancora, ch'el voreva tœu mièe. E lor gh'han dit ancamò a sto prestinee se el voreva dagh anmò ona tosa per sposa. E lu, el gh'ha ditt de sì. Dopo sposada, han faa ancamò on gran pranz, e lu, el corbattin, el va denter anmò in del tond, sbatt i all e gh'ha faa andà su tutt i gott in del vestìi. E lee, la sposa, la ghe dis:—«Sta quiett, ciall, che te me smagget tutt el vestìi.»—Allora, la sira, el corbattin, l'è andàa a dormì con la sposa, l'ha lassada indormentà e l'ha seguitàa a beccalla,[177] che l'ha fàa morì anca quella. Dopo, lu, a la mattina, el leva su, el va via per on sett o vott dì, e dopo el ven a casa anmò, e el comincia a fà el muson, che el voreva tœu mièe anmò. Allora lor, so pader e soa mander, ghe disen al prestinèe:—«Ve demm ona borsa de danèe, e dènn la vostra tosa per sposa al corbattin.»—E lor, el prestinèe e la tosa, gh'han ditt de sì. Quand l'ha avuda sposada, han fàa on gran disnàa ancamò; e lu, l'è andàa denter ancamò in del tond a sbatt i al. E so pader, el gh'aveva ditt de digh nient. Come difatti a la sera hin andàa a dormìi e el gh'ha fàa nient. L'è vegnùu carnevàa, el gh'ha ditt:—«Varda che mi, diman, passaròo via de la porta vestìi in maschera; e te faròo on basin. Varda ben a dighel a la mamma! perchè, se ti te ghel dirèt: del turlurù sont vegnùu e del turlurù tornaròo andà.»—Come di fatti l'è passàa: el gh'ha fàa on basin. La soa mamma l'ha cominciàa a dì:—«Dimm, chi l'è ch'è stàa che t'ha fàa on basin? Se ti te mel diset minga, gh'el diròo al to corbattin.»—Lee, infin, la ghe l'ha ditt, che l'è stàa el corbattin. L'è passàa on mes, l'è passàa dùu, el corbattin l'è andàa a casa pu. E lee, la s'è imaginada de la parola ch'el gh'aveva ditt. L'ha fàa fa tre para de scarp de fer, e la s'è missa in viagg. In tutt i paes che la passava, la dimandava cunt per andà al paes del Turlulù. Col seguità a viaggià in fin la seguitava a piang e l'ha trovàa ona porta: gh'era ona stria[vii] in mezz e ona fila de tosànn per part. E sta stria, la ghe dimanda:—«Dove l'è che[178] la voria andà, o sposa?»—E lee, la ghe dis:—«vòo al paes del Turlulù.»—E la gh'ha cuntàa quel che l'è success. E la gh'ha dàa ona nizzoeula[viii] a la sposa, sta stria, e on pestonin[ix]; e la gh'ha ditt quand che l'avaria impienìi d'acqua de occ (perchè la piangeva, sta sposa) la trovarà on'altra porta. Come di fatti, l'ha seguitàa a viaggià; e quand l'è stàa pien el pestonin, l'ha trovàa la porta, che gh'era ona stria in mezz e ona fila de tosânn per part. E la ghe dis:—«Dove vorii andà, sposa? Dove vì, sposa?»—La ghe dis:—«Vòo al paes del Turlulù.»—E sta stria, la ghe da ona castegna e la gh'ha ditt:—«Tegnìi de cunt sta castegna, che la sarà l'occasion de fav andà insemma al voster corbattin.»—E la gh'ha dàa on alter pestonin; e la gh'ha ditt, quand l'avarìa impienìi d'acqua de occ, la trovaria on'altra porta. Come di fatti, l'ha seguitàa a viaggià. Quand l'è stàa pien el pestonin, l'ha trovàa on'altra tra porta: gh'era ona stria in mezz cont ona fila de tosânn per part. E la ghe dis:—«Dove vorìi andà, sposa?»—La ghe dis:—«Vòo al paes del Turlulù.»—E lee, sta stria, la gh'ha dàa on nôs; e la gh'ha ditt de tegnill de cunt, che sarà l'occasion per andà insemma al corbattin. E la sposa, la ghe dimanda a la stria, se gh'era ancamò on pezz a rivà al paes del Turlulù. E la stria, la gh'ha ditt, che se ved giamò el campanin; e la gh'ha insegnàa la manera come l'aveva de fa per andà a la cort del Re, che l'era po[eu] el so corbattin. Come di fatti, l'è andada a la porta del Re a dimandagh se voreven ciappalla pe fa la donzella.[x] E lor, gh'han ditt che ghen' bisognava no. E lee, l'ha pregàa almen de ciappalla per curà i pûj[xi]: e lor l'han ciappada. On dì l'era in giardin e gh'è vegnùu in ment de romp la nizzœula: e gh'è saltàa fœura ona bellissima rocca d'ora[xii], che la lusiva tant, che tutt i pûj s'hin miss a scappà. La Reginna, la ghe dis a la donzella:—«Guarda on poo quella cialla cosa l'hà fàa, che la fà spaventà tutt i pûj.»—La donzella, la guarda; e la ghe dis:—«Se l'avess de vedè, sura Reginna, che bellezza d'ona rocca d'ora che la gh'ha la pollirœula![179] L'è tant bella, che la spaventa tutt i pûj!»—E la Reginna, la ghe dis:—«Dimandela de sora.»—E la Reginna, la ghe dis a la pollirœula:—«Cosse l'è che te vœuret a dammela a mì?»—E lee, la ghe dis:—«Nient: solament ona nott a dormì insemma al so marì.»—E la Reginna, la ghe dis:—«Ben, te domiret.»—Lee, a la sira, la gh'ha dàa l'indormentinna[xiii], che l'ha seguitàa a dormì tutta la nott, el marì. Quand l'è stàa indormentìi el corbattin, la pollirœula la va in lett e la seguita tutta nott:—«O corbatto, o corbattin, l'è trìi ann che viaggio per mare e per terra, ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà, te.»—E lu, el s'è mai dessedàa. A la mattina, a bon'ora, ghe va là la Reginna e la ghe dis:—«Fuora, fuora, pellegrina, che l'ha da entrar la bella Regina.»—E lee, la s'è levada su; e l'è andada de bass. Quand l'è stàa el mezz dì, la romp la castegna e salta fœura ona pu bell'aspa[xiv] d'ora; la lusiva tant, che tutt i pûj s'hin miss a scappà. Allora la Reginna la ghe dis a la donzella:—«Va on pòo de bass; cosse l'ha fàa quella cialla?»—Allora la donzella la va de bass, la guarda e la ghe dis:—«Se l'avess de vedè, sura Reginna, che bellezza d'on aspa che la gh'ha la pollirœula! La lussis tant che tutt i pûj se spaventen.»—Allora la Reginna, la ghe dis:—«Dimandela de sora.»—E la Reginna, la ghe dis a la pollirœula:—«Cosse l'è che te vœuret a dammela a mì?»—E lee, la ghe dis:—«Vœuri dorm on'altra nott insemma al so marì.»—Allora la ghe dis:—«Ben, te dormiret.»—La gh'ha dàa ancamò l'indormentinna al marì, che l'ha dormìi tutta la nott. Quand l'è stàa indorment, la pollirœula la va in lett, e la seguita tutta nott:—«O corbatto, corbattin! l'è trìi ann che viaggio, per mare e per terra: ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà' te.»—A la mattinna a bon'ora, la va in stanza la Reginna:—«Fuora, fuora pellegrina, chè ha da entrare la bella Regina.[xv]»—Allora la pollirœula, la va de[180] bass; e la va ancamò in giardin cont i pûj. Quand l'è stàa mezz dì, la romp il nos. Allora ghe salta fœura ona bellissima carrozzetta d'ora, che la correva attorna per el giardin de per lee.[xvi] Allora tutt'i pûj s'hin miss a scappà. La Reginna, la ghe dis ancamò a la donzella:—«Va on pòo de bass, guarda cossa la fa la pollirœula.»—E la donzella la va de bass, la guarda e la ghe dis:—«Se l'avess de vedè, sura Reginna, che bellezza d'ona carrozzetta che la corr de per lee per el giardin! e tutt i pûj scappen.»—Allora la Reginna, la ghe dis:—Dimandela de sora.»—E la ghe dis a la pollirœula:—«Cosse l'è che te vœuret a dammela a mi?»—E lee, la dis;—«Nient. Vœuri dormì on'altra volta insemma al so corbattin.»—La Reginna, la ghe dis:—«Che cialla che te set! L'è minga mêj che te ciappet di danèe? Ten dòo fin che ten vœut.»—E lee, la pollirœula, la ghe dis:—«Vœuri minga on centesim: vœuri dormì on'altra volta insemma al so corbattin.»—El Re, el capiva ch'el stava minga tant ben a bev quella robba là; e lu, inscambi de bevela, l'ha trada via. La Reginna le saveva no. Quand l'è stà indorment, la pollirœula la va in lett e la comincia:—«O corbatt, o corbattin, l'è trìi ann che viaggio per mare e per terra; ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà te.»—Lu, el comincia a fa andà la testa. Lee, la torna on'altra volta a dì l'istess:—«O corbatt, o corbattin, l'è trìi ann che viaggio per mare e per terra; ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà' te.»—E lu, el se disseda. Lee, la torna a dì on'altra volta; e lu, el dis:—«Ma chi te set?»—E lee, la ghe dis:—«Sont quella tal, che te m'avevet sposàa e pœu te m'hê abandonada.»——Allora lu, el ghe dis:—«Come l'è, che t'hê fàa a vegnì chi?»—Lee, la gh'ha cuntàa tutt come l'è stàa. E lu, el ghe dis:—«Ben, mi faròo finta de dormì, quand che ven la Reginna; e ti leva su. Pœu, la pensaròo mi, bella.»—Lee, la mattina a bon'ora, la va la Reginna in stanza e la ghe dis:—«Fuora, fuora pellegrina, chè ha da entrare la bella Regina.»—Lee, l'è andada in lett insemma a lu, la Reginna. Dopo lu, el se disseda, el dis:—«Adess, mi levi su, e ti sta pur chì a dormì.»—E lee, la ghe dis;—«Sì; stòo chi on pòo tard, perchè me senti minga ben.»—L'ha lassada indormentà;[181] el gh'ha dàa el fœugh al lett e l'ha brusada in lett. Dopo l'è restada l'altra per soa sposa.
[i] Corbattin, ommesso dal Cherubini, val quanto Scorbattin, diminutivo di Scorbatt, contadinescamente Corbatt, corvo. Il Liebrecht annota a questa fiaba:—«Eingemischt sind auch Züge aus BASILE's Enleitung und N.º XLIII «Pintosmauto.»—
[ii] Muson, grugno, muso lungo.
[iii] Prestinèe, fornajo, panicuccolo. Il Cavour, ne' suoi discorsi parlamentari, ha adoperata la parola pristinajo, che è di pretta origine latina, con una metatesi.
[iv] Gotta, goccia, gocciola. Conza o Conscia, condimento, salsa, intingolo, broda: quel che ora nel gergo militare pedemontanamente dicon bagna.
[v] Ciall, sciocco. Cialla femm.
[vi] Smaggià, macchiare.
[vii] Stria, plur. strij, strega, maga, fata, fattucchiera, maliarda, magàra (come dice Filippo Finella nella Cintia, favola boschereccia, M.DC.XXVI.
....al fin ricorse
A la di crudeltà mai sempre piena
Magara Circe, come a sua gradita
Et ai disegni suoi fida consorte).
femmina fatturaja (come dice il Cieco d'Adria nell'Alteria, A. I, Sc. IV.
Eugenia. | Che son io incantatrice o qualche femina fatturaja, che con parola pajavi ch'io possa liberarlo? |
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Volpino. | Ben vi è lecito | |||||
il farlo. | ||||||
Eugenia. | Io non son maga. | |||||
Volpino. | La si fa—da—Gonzaga, | |||||
la vacca sozza..... |
[viii] Nizzoeula o Niscioeula o Niscioeura, nocciuola, avellana.
[ix] Pestonin, fiaschetto. Acqua de occ, lagrime.
[x] Donzèlla, cameriera.
[xi] Pûj, pollo, polli; polliroeula, pollajuola, guardiana de' polli, fille de basse—cour.
[xii] Veramente si avrebbe a dire òr, e non ora; ma ripeto, io stenografo e non mi fo lecito di correggere nemmanco gli spropositi evidenti.
[xiii] Indormentinna per narcotico, non c'è nel Cherubini.
[xiv] Aspa, aspo, naspo.
[xv] Dice una canzonella popolare lombarda
Se te fusset na Reginna
Te faria incoronà.
Ma perchè set contadinna
Va in campagna a lavorà.
[xvi] De per lee. Qui, automaticamente. Che la correva de per lee, automatica.
[2] Veramente la voce propria sarebbe grugnito, chè il porco grugnisce, ed il mugolare è del bue: ma le voci degli animali spesso si scambiano. Altre parole adopera Gentile Sermini nella novella de' trogli per le voci de' porci (ma veramente lì si tratta di porci selvatici, ossia cinghiali, che propriamente rugghiarebbero o ruggirebbero):—«Raddoppiava la stizza, onde assai più tartagliavan di prima; per modo che non fa mai zuffa di cani, nè le migliara dell'adunate scotte sul tetto di Camporeggi ove gridando fanno consiglio, nè 'l gracidare dello infinito numero delle ranocchie nel pantano di Grosseto, nè in quel piano le sveglianti cicale, nè i ringhianti porci del Tombolo, ringillando assaltati da lupi, nè di Val di Sora le passere, nè tutti gli stornelli del Paglietto di Massa, nè tutti questi nominati che facessero tanto schiamazzo; ed avendoli insieme raunati in un piano, se a un tratto ognun cantasse suo verso, non v'è dubbio che assai meglio si sarebbono intesi che quei quattro trogli.»—
[3] Calamitato poi perchè? Che sì che sì che la novellaja derivava la parola da calamità, quasi equivalesse a calamitoso, anzichè da calamita, ripetendo inconsciamente il bisticcio che fa il cav. Marino (Adone, IV. 282): D'ogni calamità sia calamita. Bisticcio di cui lo Stigliani pretendeva alla paternità, volendolo tolto dalle sue Rime:
Così in un tempo istesso ella si fa,
Mia calamita e mia calamità.
Ma Girolamo Aleandro diceva del verso del Marini:—«Quanto questo leggiadro detto sia differente da quel sciapito de' duo versi tronchi dello Stigliani, ciascun sel vede; perchè altro è il dire, che una donna allettando e tormentando l'amante gli si faccia calamita e calamità, altro, che alcuno tirandosi sopra tutti gl'infortunî si chiami calamita d'ogni calamità.»
[4] Contenta per tranquilla; come i tedeschi adoperano il loro «zufrieden.»—
[5] Anche qui l'istessa sta per una somigliantissima, una tal' e quale. Non era la vecchia medesima, no, ma la simillima della prima vecchina.
[6] Un'ora di notte, un'ora dopo le ventiquattro, alla Italiana antica.
[7] Questo particolare delle tre nottate vendute a carissimo prezzo e frodate con l'alloppiamento, si ritrova con qualche diversità nella Novella I della Giornata IV del Pecorone.—«Giannotto, morto il padre, va a Vinegia, ed è accolto come figliuolo da Messer Ansaldo, ricco mercante. Vago di vedere il mondo, monta sopra di una nave ed entra nel porto di Belmonte. Quel che gli avvenne con una vedova, signora di esso, la quale prometteva di sposar colui che giacendosi con lei n'avesse preso piacere.»—Da questa novella del Pecorone il Crollalanza (così italianamente avrebbe da chiamarsi lo Shakespeare) tolse in parte la favola del Mercadante di Vinegia. Vedi: Madonna Lionessa, cantare inedito del secolo XIV, giuntavi una novella del Pecorone (Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1866).
[8] Le dodici, cioè mezzanotte. E qui la Novellaja, che pur dianzi avea contate le ore alla italiana, le conta alla francese. Perchè già i due modi di contare sono in uso, e quando si adopera l'uno e quando l'altro. E mi pare di avere osservato, come per quel bisogno naturale che ha l'uomo di distinguere, per quello istinto che lo spinge a ricercar la chiarezza, acciò possa capirsi quando si parla all'italiana e quando alla francese, sia prevalso l'uso di aggiungere al numero la parola ore, quando si conta all'italiana; e di adoperare il numero assolutamente, quando si conta alla francese. Un'ora, due ore, tre ore, dodici ore, s'intende un'ora dopo le ventiquattro, due, tre, dodici ore dopo le ventiquattro, all'italiana. L'una, o il tocco, le due, le tre (antimeridiane o pomeridiane) significa una, due, tre ore, dopo mezzogiorno o mezzanotte, alla francese; le dodici, mezzogiorno o mezzanotte.—Voglio anche notar qui che il toscano divide l'ora in quarti e metà; ma non dice mai un terzo d'ora per venti minuti; com'è bell'uso meridionale.
IL LUCCIO[1].
C'era una volta una donna vedova, che aveva una figliola. Dunque, questa donna la trova da maritarsi con un vedovo, che aveva una figliola anche lui; ma quella di lui era bella; ma tanto bella, che non si pole spiegare! Un giorno Sua Maestà era alla finestra. Vede questa bella ragazza. Dice:—«Bella questa ragazza! quanto mi piace!»—Queste due ragazze, una la tesseva e una la faceva cannelli: i cannelli della seta. Dunque, Sua Maestà entra in casa; picchia e va su. Va e dice:—«Io son venuto da me a rivedere questa tela.»—E tutti i giorni, quando gli era quell'ora, Maestà andava in casa; se la bella gli è a tessere, gli dice:—«Bon dì e bon anno a quella che tesse; e bon giorno a chi fa i cannelli.»—La madre che era tanto astiosa (la fortuna, la voleva darla a sua figliola, avete capito?), la la mette a tessere e la bella a fare i cannelli. Eccoti il Re:—«Bon giorno a quella che tesse; e bon dì e bon anno a quella che fa i cannelli.»[2]—Dunque, la pensa, questa donna:—«Aspetta: la voglio mandare dalle fate per lo staccio; così me la mangeranno.»—Eccoti:—«Domattina»—gli dice—«quando avrete fatto quel che avete a fare, dovrete andare dalle mamme per lo staccio; a dire che facciano il piacere di darvi lo staccio.»—«Sissignora, come la comanda.»—La mattina si leva; la fa quel che l'aveva a fare; e la va[184] via e si mette in cammino. Quando ella ha camminato un pezzo, la trova una vecchina.—«In dove tu vai, poerina?»—«Eh»—dice—«io vo' così e così dalle fate a farmi dare lo staccio.»—«Ah poerina!»—dice—«tu hai da passare de' pericoli, sai? Quando t'hai fatte due altre miglia tu troverai una piazza. Quell'uscio dove c'è quattro finestre, gli è questa la casa. Abbi da sapere che ci sono le scale di vetro: fai adagio, che le non ti si rompino; sali adagino, adagino. Ogni piano tu troverai tutte donne che ti grideranno: Vien quà, poerina! vieni e cercaci, chè si ha tanto pizzicore! E le ti domanderanno quel che tu trovi. Tu troverai, con rispetto, cimici, con rispetto, pidocchi; tutti questi insetti sudici; ma tu devi dire: Perle e diamanti. Quando poi tu sarai su il piano della fata, tu gli dirai: Son venuta per lo staccio. Ma lei, prima di dartelo, ti dirà: Vieni meco, ragazza; vieni con me. La ti condurrà in una stanza, dove sarà piena di cappelli belli e brutti, di vestiti belli e brutti. Là ti domanderà: quale tu vòi? Scegli il più brutto abito e il più brutto cappello. Poi la ti dirà: Sai? quando t'esci fòri dell'uscio, tu sentirai il ciuco che fa: «irrahahn! irrahahn!» Non ti voltare addietro dove tu senti ragliare. Ma quando tu senti fare: «chicchericù!,» vòltati.»—«Grazie, Grazie!»—«Addio!»—«Addio!»—La va via questa donna. E la bambina arriva su questa piazza; e trova l'uscio; e va su; e trova queste donnine.—«Poerina, vien quà! Vieni a cercarci, che s'ha tanto pizzicore.»—Quando la le ha cercate:—«Cosa tu ci trovi?»—«Perle e diamanti»—la dice.—«E perle e diamanti avrai. Addio, sai, poerina, grazie.»—E va via la bambina, e la va su, e picchia. Dice la fata:—Chi è?»—«La m'ha mandato la mamma a prendere lo staccio.»—«Eccoci, eccoci! Poerina,[185] vieni, vieni di quà.»—La conducono in questa stanza dove c'era tutti vestiti: di quà belli e ricamati; di là brutti e stracciati; e i cappelli l'istesso, di quà belli, di là brutti. Gli dicono:—«Quale tu vòi?»—Lei la dice:—«Questo quà»—ma il più brutto, stracciato vestito, e il più brutto cappellaccio. Allora gli dicono:—«No, anzi tu hai da aver questo!»—E gli mettono il più bel vestito, il più bel cappello, perchè trovano che non è superba.—«Oh senti, piccina: tieni, questo è lo staccio. Quando tu esci, fòri dell'uscio, tu sentirai fare: irrhahn! irrhahn! Non ti voltare, sai? Quando tu senti fare: chicchericù!, vòltati allora.»—Eccoti la bambina:—«Grazie, grazie! Addio!»—«Addio.»—La ragazza vien via. Quando l'è all'uscio, sente ragghiare:—«Irrhahn! irrhahn!»—Uhm! la non si volta. Quando la sente fare:—«Chicchericù!»—la si volta e gli viene una stella nel mezzo della testa. Figuratevi che, se era bella, vestita in quella maniera e con quella stella in testa, non si pol dire che bellezza che era codesta! E picchia dalla sua madrigna. La matrigna si affaccia e vede, ahn! quella bella ragazza, e la prende quello staccio:—«Che t'ha ella detto la fata? e che hai tu qui?»—e la gli graffiava la stella. Più che gnene graffiava e più grande la veniva quella stella e più bella: lo credo, eh! Ah, questa donna, disperata dalla rabbia! perchè:—«Il Re»—dice—«ora la piglia davvero!»—Che ti fa? la mattina, dopo che l'ebbero fatto quel che l'avevan da fare, la vi manda la sua delle figliole a portar lo staccio.—«Così»—la penda—«la diverrà bella anche la mia.»—«Sai»—dice—«Domani, quando tu avrai fatto quel che tu hai da fare, ci anderai te a riportare lo staccio.»—«Sì, mamma»—risponde—«ci anderò io.»—Eccoti la mattina, quando l'ha fatto quel che ha da fare,[186] la si veste e la va via con lo staccio. Quando l'ha fatto un pezzo di strada, un pezzetto, la trova una vecchina.—«Ma dove tu vai?»—«Vo' a riportare lo staccio alla fata.»—«Ma ora c'è di molto da camminare ancora.»—«Appunto,»—dice—«questa gita non la farei io.»—«Tu troverai»—dice la vecchina—«una piazza con un palazzetto di quattro finestre: gli è appunto il palazzo della fata. Ma fa adagio, sai? c'è le scale di vetro;»—gli dice l'istesso come all'altra.—«Dopo che tu hai salito, troverai delle donne che ti chiameranno a cercare e ti domanderanno dopo: Icchè tu trovi? Tu hai a dire: «Perle e diamanti.»—«Sì, sì.»—La vecchina gli dice tutto l'istesso come a quell'altra e poi:—«Addio!»—«Addio!»—La ragazza la va via, arriva a questa casa e sale. E principia, bruntuntun, bruntuntun, a salire; e spezza tutte le scale, le rompe. Salite le scale, la trova un uscio:—«Vien qua, poerina, vieni a cercarci.«—«Sì, pare che sia venuta a cercarvi! Cercatevi voi; io non vi vo' cercare!»—Ma poi la si mette a cercarle. Dicono:—«Cosa trovi?»—La risponde lei, con rispetto:—«Cimici e pidocchi.»—la gli dice.—«E cimici e pidocchi avrai»—gli rispondono. La va su, proprio dalla fata, picchia.—«Chi è?»—«Se m'ha mandato la mamma a riportar lo staccio!»—«Brava! passa passa, vieni bambina.»—E la conduce nella stanza di questi vestiti, di questi cappelli.—«Quale tu voi di questi?»—dice la fata—«Guardali bene.»—Lei la va e sceglie il più bel vestito ed il più bel cappello.—«No»—dice la fata—vieni. Anzi tu devi aver questo.»—Gli mettono un vestito tutto stracciato e un bertuccio in capo.—«Senti: quando tu sortirai dell'uscio, tu sentirai il gallo che canta; non ti voltare. Ma quando tu senti fare: ihahn! ihahn! allora vòltati. Addio.»—«Addio!»—E[187] la vien via. Quando l'è all'uscio, sente fare:—«Cucchericù!»—e lei non si volta, cheh! Quando sente fare:—«Ihahn! ihahn!»—si volta e gli vien la coda dell'asino in mezzo la fronte. Gli era brutta, mah! non gli era guardabile! gli era impossibile esser più brutta.[3] E vien via e viene a casa da su' madre e picchia. Sua madre la s'affaccia e vede questo spettacolo della figliola con un pezzo di coda, figuratevi! in mezzo della testa. Più che gnene strappava e gnene tagliava e più lunga che la veniva. Ah! tutt'arrabbiata, la teneva la bella proprio per servaccia, la mandava al mercato, al bucato, l'affaticava, la strapazzava, per vedere se gli moriva. Un giorno la va al mercato e compra de' lucci. In mentre che la li ammazza, un di quei lucci gli dice:—«Non mi ammazzare! Buttami nella vaschettina»—dice. Questa ragazza la prende il luccio come gli dice, va nell'orticino e lo butta nella vaschettina.[4] Tutti i giorni Sua Maestà vedendo questa gran bella ragazza, Sua Maestà tutti i giorni torna a far visita, a vedere la tela e tutto quello che c'era da vedere.—«Oh sentite»—la dice un giorno alla madrigna—«o che vogliate o che non vogliate, vostra figlia io la voglio per isposa.»—Questa donna la s'ebbe da accordare, gua'. Come fareste a dir di no ad un Re quand'egli vole?—«Oh sentite, io»—dice il Re—«appena che io ho dato l'anello, io parto subito per fare un viaggio di molti mesi.»—Lei la gli dice:—«Bisognerà pensarci a questo viaggio»—dice la madre:—«perchè è così delicata, bisognerà ordinare tutta una carrozza di ferro; perchè in via, dell'aria, in questo viaggio, non gli faccia male, via.»—Eccoti subito, ordinata la carrozza: figuratevi, ordinata e fatta, la fu tutt'una. Bella e finita che la fu la carrozza, eccoti il giorno dopo che ci fu lo sposalizio: uno scialo! Dopo che gli[188] è corso l'anello, vanno al palazzo per i rinfreschi, sapete, dopo lo sposalizio, cose grandi! Eccoti lei la si ricorda del luccino: la sa che l'ha a partire e la si ricorda del luccino. Va nell'orticino e la lo chiama:—«Luccino!»—e lui viene.—«Io vo' via, sai?»—«Lo so, lo so. Levami di qui e mettimi nel lago.»—Eccoti lei lo chiappa, esce fuori della porta e lo butta via, in dove gli aveva detto—«Addio!»—Addio! noi ci rivedremo»—gli dice il luccino.—«Bada, tu sarai tradita.»—E lei la ritorna di quà dallo sposo. La vecchia la va e prende la sua figliola, la brutta, e la nasconde da un tino; e la dice alla bella:—«Sapete, quando noi si sarà da un pezzo di strada, dovete dire: I' ho voglia d'orinare; così mi fate piacere.»—Vengon via dal palazzo. Dice la Regina:—«Avrei voglia di fare qualcosa.»—Il Re dà ordine, fa fermare la carrozza. La madrigna la smonta anch'ella e la mena la bella là da il tino. La gli leva gli occhi, l'alza questo tino e la mette dentro; e gli aveva dato in mano gli occhi, dicendo:—«Tieni, metteli in tasca.»—Piglia la brutta ch'era di sotto il tino e l'alza in carrozza. Appena entrata in carrozza, principiano tutti i gatti, dietro la carrozza:—«Gnau, gnaulino! La bella è sotto il tino, la brutta va in carrozza e il diavolo se la porta.»—Allora il Re principia:—«Andate a vedere con questi gatti, cosa c'è sotto il tino.»—E lei non voleva, la madre, la non voleva. Vanno a vedere a il tino, l'alzano e trovano questa bella donna, ma l'aveva levati gli occhi. La gli dice, ai servitori:—«Accompagnatemi a il fiume, fatemi il piacere, accompagnatemi a il fiume, me li voglio lavare questi occhi.»—Quando è per entrare nel fiume, eccoti il Luccio e gli dice:—«Bàgnati così con quest'acqua e poi mettiti l'occhio; e così da quell'altra parte: e vedi che gli occhi ti tornano tutti e[189] due.»—Eccoti lei la si bagna come gli han detto e gli si riattaccan gli occhi come eran prima. Dice il luccio:—«Quand'ora tu torni addietro, fai levare quelle due scimmie di tua madre e di tua sorella, e per ordine mio falle mettere dentro a questo tino che nessuno gli dia aiuto. Poi torna a prender me e poi quando tu siei a casa, buttami nella tua vasca del giardino.»—Eccoti la va via, la va alla carrozza. La madre gli aveva ficcato la brutta in carrozza. Il Re vede apparire in vece dei servitori soli, la sua sposa anch'essa, e si vede una sposa in carrozza e una in istrada; due non ne poteva avere! Allora la gli dice, lei:——«Prima d'entrare in carrozza io voglio una grazia da voi, Maestà; che prima di entrare io in carrozza, sian prese queste due maligne donne e sian poste sotto il tino dove stava io: altrimenti, non vi conosco più.»—Eccoti subito levate queste due donne e messe dentro a questo tino, serrate a lucchetto, che nessuno ci potesse andare a dargli ajuto. Lei torna addietro, la prende il suo luccino, entra in carrozza, e via. Ora lo tiene addosso, quando l'è a casa lo butta nella vasca. Dice Maestà:—«Briccona! maraviglia che la volse la carrozza tutta di ferro! Mi voleva ficcar la figliola! Se faceva una carrozza tutta di cristallo, si vedeva! Traditora, ora comprendo quanto era maligna.»—Arrivarono al suo posto di Sua Maestà. Figuratevi!—«Evviva gli sposi! evviva gli sposi!»—chi di qua, chi di là; feste da tutte le parti. La prese il suo luccino e lo buttò nella sua vasca e tutti i giorni l'andava a discorrer con lui.—«Vedi se fu bene che tu non m'ammazzassi?»—gli dice il luccino.—«Se non era io, tu eri morta chi sa da quanto!»—Eh di certo, gua'; perchè pare che questi gattini fossero per effetto del luccino. Il luccino poi, dopo degli anni, venne a morte; e lei, la gli fece una campana tutta di[190] cristallo e contornata di pietre preziose e la teneva nel salotto bono. E così è finita. Stretta la foglia e larga la via, dite la vostra che ho detto la mia.
NOTE
[1] Pentamerone, Giorn. III, Trattenimento X: Le tre fate:—«Cecella, maletrattata da la matreja, è regalata da tre fate. Chella 'mmediosa nce manna la figlia che ne riceve scuorno. Pe' la quale cosa mannata la figliastra a guardare puorce, sse ne 'nnamora 'no gran signore; ma pe' malizia della matreja, l'è dato 'ncagno la figlia brutta, e lassa la figliastra dint'a 'na votte pe' la scaudare. Lo segnore scopre lo trademiento: nce mette la figlia. Vene la matreja, la sporpa co' l'acqua cauda e scopierto l'arrore, ss'accide.»—La nostra fiaba ha inoltre molti punti di somiglianza con la terza favola della terza notte dello Straparola:—«Biancabella, figliuola di Lamberico, marchese di Monferrato, viene mandata dalla matrigna di Ferrandino Re di Napoli ad uccidere. Ma gli servi le troncano le mani, e le cavano gli occhi; e per una biscia viene reintegrata e a Ferrantino ritorna.»—Cf. De Gubernatis, Le Novelline di Santo Stefano da Calcinaja; I. La bella e la brutta. Cf. Pitrè (Op. cit.) La figghia di Biancuciuri, Ciciruni, Burdilluni, Li dui soru (Lezioni tutte, nelle quali questa fiaba è più o men confusa con l'altra di cui diamo una versione fiorentina nella presente raccolta sotto il titolo d'Oraggio e Bianchinetta) soprattutto LXIII. La Mammadraa. Vedi anche la fiaba della presente raccolta, intitolata: La bella Caterina ossia Novella de' Gatti. Ecco una lezione milanese del Racconto.
EL SIDELLIN
Ona volta gh'era ona mamma e la gh'aveva dò tosanett: vunna l'era cattiva e l'altra l'era bonna comè. Ma la mader, la ghe voreva pusèe ben a la cattiva, che a la bonna. Ven, che on dì la ghe dis a quella cattiva:—«Và a cavà on sidellin[i][191] de acqua.»—Quella cattiva, la ghe vœur minga andà, la desobediss[ii] a la soa mamma; e quella bonna, la dis:—«Sa! che andaroo mi, andaroo mi a cavalla.»—La va a cavà l'acqua, ghe borla giò[iii] el sidellin in del pozz. Lee, la dis:—«Adess vòo a cà senza el sidellin, chi sa la mia mader cosa la me fa!»—La và giò in del pozz, e la trœuva come ona stretta[iv] che gh'era di uss; e la picca a on uss:—«Minga trovàa pess e pessin[v], corda e sidellin?»—Là gh'era on sant; el dis:—«No, la mia tosa.»—La va innanz e la trœuva on alter uss:—«Minga trovàa pess e pessin, corda e sidellin?»—«No!»—Quell là l'era el ciappin[vi], le rispond rabbiàa, perchè l'era ona bonna tosa; el ghe dis minga:—«La mia tosa.»—Lee, la picca in d'on alter uss:—«L'ha minga trovàa pess e pessin, corda e sidellin?»—Gh'era la Madonna e la ghe dis:—«Sì, la mia tosa. Sent, te podarisset famm piasèe a fermatt chì intrettant che mi voo via. Mi gh'hoo chi el me fiolin, che te ghe darèe la suppa[vii]; te scovaret, te faret tutt i robb de cà. E mi vegnaròo a cà, te daròo el to sidellin.»—La Madonna, la va via, e lee, la se mett adrèe a fà tutt i robb de cà, la ghe dà la suppa al fiolin, la scova; e in del scovà, invece de trovà rud[viii], la trovava di coraj, di robb bellissem, insomma robba[192] finna. Lee, la vedeva che l'è minga ruff, e l'ha mess là da ona part, per quand vegneva la Madonna per daghel. La ven a cà e la ghe dis:—«T'hê fàa tutt quell che t'hoo ditt?»—E lee, la dis:—«Sì, ma che la guarda sta robba chì, l'hoo trovàda per terra, l'è minga rud.»—«Ben, tegnela per tì. Te vœut el vestìi de percall o on vestìi de seda?»—E lee le dis:—«No, no, on vestìi de percall.»—E la Madonna invece la ghe da quell de seda.—«Te vœut on didàa de lotton[ix] o on didàa d'argent?»—«Me le daga de lotton.»—«No, tel dòo d'argent. Tœu, quest chì l'è el sidellin e la toa corda. Quand te set in fin de sto coridor[x] chì, guarda per aria.»—Lee, la guarda per aria e ghe ven giò ona bella stella in front. La và a cà; e la soa mamma, la ghe cor a la contra per criagh, perchè l'è stada via on pezz; e la fa per dagh di bott, e la ved che la gh'ha ona stella in front, che la lusiva che l'era ona bellezza; e la ghe dis:—«In dove te see stada fin adess? chi l'è che t'ha miss quella robba lì?»—Lee, la dis:—«Mi sòo minga cosse l'è che gh'hoo.»—La mader, la fa per lavaghela via: invece d'andà via, la ven pusèe bella. La ghe cunta cosse l'è che gh'era success. Allora, l'altra sorella, la vœur andà anca lee. La va via e la fa l'istess, come l'ha fàa soa sorella. L'ha lassàa anda giò el sidellin. La va giò, la picca a l'uss anca lee del sant:—«L'ha minga trovàa pess e pessin, corda e sidellin?»—«No, la mia tosa.»—La va in de l'alter uss; la picca:—«L'ha minga trovàa pess e pessin, corda e sidellin?»—El ciappin:—«No; l'hoo minga trovà; ma ven chì la mia tosetta, ven chì.»—Ma lee, la sent che l'ha[193] minga trovaa el so sidellin e la ghe dis:—«No, no, vòo innanz.»—La picca a l'uss de la Madonna:—«L'ha minga trovàa pess e pessin, corda e sidellin?»—La Madonna, la ghe dis de sì:—«Guarda che mi voo via; te ghe darèe la suppa al mè fiœu e pœu te scovaret. Quand tornaroo a cà, te daròo el to sidellin.»—La suppa, invece de daghela al fiœu, l'ha mangiàda lee.—«Oh!»—la dis—«come l'era bonna!»—La scova e la trœva tanto rud.—«Oh povera mi! Ma la mia sorella, l'ha trovàa tanti bej robb!»—Ven a cà la Madonna:—«T'hè fàa quel che t'hoo dìtt?»—«Sì.»—«Te vœut el didàa de lotton o quell d'argent?»——«Oh! el vuj d'argent!»—Lee, ghe dà quell de lotton.—«Te vœut el vestìi de percall o quell de seda?—«Che me le daga de seda.»—E lee, la gh'ha dàa quell de percall.—«Tœu, quest chi l'è el to sidellin e la toa corda. Quand te sèe fœura de chi, guarda per aria.»—Quand l'è stada fœura, la guarda per aria, ghe ven propi sul front ona boascia, che ghe sporca tutta la faccia e ven giò tutta la brœuda[xi]. La va a cà tutta rabbiada a piang, a tœulla cont la so sorella perchè lee la gh'aveva la stella e lee invece la gh'aveva quella porcaria lì sulla faccia. La soa mamma, la s'è missa adrèe a lavagh la faccia, a fregà via; e la maggia l'ha minga voruu andà via; sta boascia l'andava minga via. E allora, la mader, la dis:—«Capissi, che la Madonna l'ha fàa per famm vedè, che mi ami quella cattiva e trascuri quella bonna.»—
[i] Sidellin, secchiolino. Sidell m. e Siddella, f. secchio, secchia. (Ed il vocabolo italiano ed il termine meneghinesco vengono da situla e sitella latino). In napolitano, anche da un ètimo latino, si dice cato.
[ii] Il Cherubini non ha che desubedì; ma la mia fabulatrice diceva desobedì.
[iii] Borlà giò, tombolar giù. Firenzuola. Asino d'oro, Libro V:—«Nè mi parrà mai esser donna, nè viver certamente, insino a tanto ch'io non la fo tombolar giù di tanta felicità.»—
[iv] Stretta nel Cherubini c'è solo come termine musicale: la stretta del finale. Egli però registra Streccia (ch'è forma più ambrosiana del vocabolo) nel senso di chiasso, vicolo, ch'è appunto quello che ha qui Stretta.—Streccia del lett, strecciœura, stretta del letto, stradetta, stradella, tramezza.
[v] Pess e pessin, pesce e pesciolino. Ci son per la rima, m'immagino.
[vi] Ciappin, vale demonio, fistolo. Così pure il Chiappino in dialetto napoletano. Difatti ho trovato nella VII ottava del XVIII canto della Gerusalemme del superbo Fasano (superbo il chiama il Redi nel suo Ditirambo):
Ma pe' mmo' non faje fede, ca staje chino
Comm'uovo e te grelleja 'ncuollo chiappino.
—«Non piaci o non sei accetto al signore Iddio, perchè stai pieno come uovo e ti salta addosso il demonio.»—
[vii] Suppa. Zuppa, suppa. Che vendetta di dio non teme suppe. Sarà ridicolo il vederne l'origine nel pa sanscrito (bere) col prefisso su (bene)?
[viii] Rud, ruff e anche ru. Spazzatura, scoviglia, immondezza. Concio, letame, Sudiciume, loja, porcheria. Forfora. In una variante, la Madonna si fa pettinare dalla buona fanciulla e le cadono dal capo perle e gemme; poi, quando la pettina la cattiva, le piovono da capegli pidocchi e cimici. Così Adone sorprende Falsirena (Adone, XII, 171)
Trovò che allora appunto avea disfatta
La trecciatura del bel crine aurato,
E con l'avorio de la mano intatta
Pur d'avorio movea rastro dentato.
Piovon perle dall'oro, e, mentre il tratta.
Semina di ricchezze il verde prato.
Mentre i biondi capei pettina e terge
Tutto di gemme il suol vicino asperge.
[ix] Ditale, come inesattamente dicon molti, ossia, anello da cucire di ottone.
[x] Manca nel Cherubini, il quale ha però coridera e corridera, femminili; e nelle Giunte e correzioni al IV volume anche Corridor, maschile, ma solo con due rr.
[xi] Boascia o bovascia, Meta, bovina, buina, vaccina, sterco di bue. Brœuda, broda, fanghiglia, poltiglia.
[2] Tratto frequente nelle fiabe. Una pomiglianese comincia così:—«Nce stevano 'na vota tre figliuole e l'urtima 'e cheste ssi chiammava Viola. Tutt'e tre faticavane; ma 'a primma filava, 'a siconda tesseva e 'a terza cuseva. 'O figlio d''o Re ssi n'ammuravo; e sempe ca passava riceva:—Quanto è bella chella cu fila; quanto è cchiu bella chella cu tesse; ma quanto è cchiu bella chella cu cose! Mme cose 'sto core! Ebbiva Viola! Ebbiva Viola! 'E sore n'avevane 'mmiria e pi' dispietto 'a mittettere a filà'. Passava 'o figlio d'o Re e ricette: Quanto è bella chella cu tesse, quanto è cchiu bella chella cu cose; ma guanto è cchiù bella chella cu fila! Mme fila 'sto core! Ebbiva Viola! Ebbiva Viola! 'E sore 'a mittettere a tessere; ma 'o figlio d''o Re pure accussì diceva e sempe cu' Viola aveva.»—
[3] A proposito di questi due segnali diversi, piovuti dal cielo, trascriverò qui un brano della scena III dell'Atto II degli Amorosi Affanni, tragicomedia pastorale d'Andreano de' Ruggieri d'Atripalda (MDCXLIV).
TRISINDO. | Nacque l'empia Girasca Figlia d'Erpauro, che di notte Ilgiglio E seco Arcaldo mi furò, malvagia, Per farne un sacrificio al Re de l'ombre. |
SILVIA. | Et onde nacque in lei tanto aspra voglia? |
TRISINDO. | Perchè Girasca avea nel sen d'un rospo, E di Cleante i figli avean nel petto Il segno d'una stella. E sul Matese Dargli morte volea con un suo dardo; Per quel che poi mi raccontò Sirenio,—ecc. ecc. |
[4] Di pesci riconoscenti ce ne ha in parecchie fiabe e novellette. Ricorderò lo Straparola, Notte III. Favola L (Cf. Pentamerone, Giornata I. Trattenimento III Peruonto)—«Pietro Pazzo, per virtù d'un pesce chiamato tonno, da lui preso e da morte campato, diviene savio, e piglia Luciana figliuola di Luciano in moglie...»—Ecco come il novellator da Caravaggio narra il primo dialogo fra 'l pazzo ed il tonno:—«Il poverello un giorno prese un grande e grosso pesce da noi tonno per nome chiamato. Di che egli ne sentì tanta allegrezza, che 'l se n'andava saltellando e gridando per lo lito: Cenerò pur con la mia madre! et andava tai parole più volte replicando. Vedendosi il tonno preso e non poter fuggire, disse a Pietro Pazzo: Deh, fratello mio, pregoti in cortesia, che tu mi doni la vita. Come mangiato mi avrai, quale altro benefizio da me conseguir potrai? ma se tu da morte mi camperai, forse che un giorno io ti potrei giovare. Ma il buon Pietro, che aveva più bisogna di mangiare che di parole, voleva pure al tutto ponerselo in ispalla e portarselo a casa per goderselo allegramente con la madre. Il tonno non cessava tuttavia di caldamente pregarlo offrendogli di dargli tanto pesce quanto egli desiderava avere. Et appresso questo gli promise di concedergli ciò ch'egli addimanderebbe. Pietro che, quantunque pazzo fusse, non aveva di diamante il cuore, mosso a pietà, si contentò da morte liberarlo. E tanto e con i piedi e con le braccia lo spinse che lo gettò nel mare; ecc., ecc.»—Confronta anche con l'altra Fiaba della presente raccolta: Il Mago dalle sette teste.
LA BELLA E LA BRUTTA.[1]
Era un omo che aveva una figlia e si rimaritò e dalla seconda moglie ebbe un'altra figlia. E la prima che aveva i' suo marito, la matrigna non gli voleva punto bene. La prima, che non poteva lei, un giorno lei gli dava molto da filare e gli diceva.... gli dava una libbra di lino dapprima e gli diceva:—«Se stasera tu non hai finita questa libbra di lino, tu non devi aver da cena.»—Quella poera bambina andiede fòri; non faceva che piangere, non sapeva come fare a filare questa libbra di lino. Strada facendo, trovò una vecchina; disse:—«Cos'hai, bambina mia, che piangi tanto?»—Disse:—«Cos'ho? Debbo filare una libbra di lino, sennò mia madre non mi dà punto da cena. Io non so come fare.»—E lei, questa vecchina, gli disse:—«Stai zitta. Va là nel bosco. Troverai una vaccuccina e gli dirai: Con la bocca fila, fila; Con le corna annaspa annaspa; Ti farò l'erba, che pasca.»—Arrivò la sera, aveva finito i' suo lino bell' e annaspato e tutto. La sua madre fu contenta, ma i' giorno dopo mandò la sua figlia: e tornò, avendognene dato mezza libbra e non avendone filato neppure un quarto. I' giorno dopo rimandò quella, la prima, la figliastra; e gnene diede due libbre, che lei si struggeva di farla patire, non voleva dargli neppure da mangiare. E gli disse:—«Se stasera non avrai filate queste due libbre di lino, non avrai da cena.»—Questa[196] bimba, subito sortita di casa, cominciò a piangere. Quando fu alla metà della strada, ritrovò la solita vecchina. Gli disse:—«Cos'hai, bambina, che piangi tanto, poerina?»—«Mia madre, invece d'una libbra, me ne ha date due.»—«Vai n'i' solito bosco, troverai la solita vaccuccina, e gli dirai: Con la bocca fila, fila; Con le corna annaspa, annaspa; Ti farò l'erba, che pasca.»—Arrivò la sera, aveva finito i' suo lino, bell'e annaspato e tutto. I' giorno dopo, la madrigna gnene diede tre libbre e gli disse:—«Se stasera non avrai filate queste tre libbre di lino, non avrai da cena.»—Questa poera bambina, andiede fòri; non sapeva come fare a filare queste tre libbre di lino. Strada facendo trovò quella vecchina. Gli disse:—«Cos'hai, bambina mia, che piangi tanto?»—«Mia madre, invece di due libbre, me n'ha date tre.»—«Vai n'i' solito bosco; troverai la solita vaccuccina e gli dirai: Con la bocca fila, fila; Con le corna annaspa, annaspa; Ti farò l'erba, che pasca.»—Arrivò la sera; aveva finito i' suo lino, bell'e annaspato e tutto. Poi la madrigna gli diede una camicia a cucire e gli disse:—«Se stasera non hai finita questa camicia, non devi aver da cena.»—Questa poera bambina non faceva che piangere. Per fortuna ritrovò la solita vecchina; e la gli disse:—«Vai n'i' bosco; troverai la solita vaccuccina e falli i' solito discorso: «Con la bocca infila, infila; Con le corna cuci, cuci; Ti farò l'erba, che pasca.»—La madre, tornando a casa, avendo veduta cucita la camicia, non sapeva come fare a gastigarla. I' giorno dopo pensò di mandarla dalle fate a prende' lo staccio per istaccià' la farina per fare i' pane. Va dalle fate questa bambina, picchia alla porta. Le fate dimandano:—«Chi è?»—Disse:—«Amici!»—«Fate adagio; le scale son di vetro,»—Lei si levò le scarpe pe' fa' più piano. Arrivò dalle fate e[197] gli dissono:—«Fate i' piacere di pettinarmi. Che ci trovi in capo mio?»—«Perle e diamanti.»—«E perle e diamanti avrai. Fammi i' piacere di rifammi i' mio letto. Che ci trovi n'i' letto mio?»—«Oro e argento.»—«E oro e argento avrai. Fammi i' piacere di spazzammi la mia casa. Che ci trovi in casa mia?»—«Rubini e Cherubini.»—«Rubini e Cherubini avrai.»—La menorno alla stanza dei vestiti e gli dissono:—«Prendi un vestito a tuo piacere.»—Lei prese un vestito dei peggiori che avessero. Glielo levorno e gli diedono i' più bello che avessero nell'armadio. La menorono alla stanza dove avevano i quattrini e gli dissero:—«Prendi quello che ti fa piacere.»—E lei prese tre o quattro soldi poco boni. Gnene levorono e gli dierono dell'oro e dell'argento. La menorono alla cassetta delle gioie e gli dissono:—«Prendi i' pajo d'orecchini di tuo piacere.»—Lei prese un pajo tutti rotti. Gnene levorno e gli diedono un pajo di orecchini di brillanti. Gli dissero:—«Quando sarai sur i' ponte, vòltati indietro; sentirai un gallo cantare.»—Quando la fu sur i' ponte sentì un gallo cantare; lei si voltò indietro e gli venne una bella stella nella testa. Quando arrivò a casa, la sua madre gnene volea levare: con più[2] che col coltello la raschiava, credeva di levargnene e più bella diventava. La sua madre gelosa, che aveva avuta tanta roba, i' giorno dopo, per riportà' lo staccio, volse mandà' la sua figlia. Quando arrivò in fondo alle scale, picchiò. Le fate dissero:—«Chi è?»—«Amici.»—«Fate adagio, le scale sono di vetro.»—Con più che dicevano di fare adagio, e lei più forte faceva; che gli rompè tutte le scale.—«Pettinatemi. Che ci trovi in capo mio?»—«Zeccacce, pidocchiacce e brutte donnacce come siete vojaltre.»—«E zeccacce e pidocchiacce avrai.»—«Rifammi i' mio letto. Che ci trovi n'i' letto mio?»—«Pulci e cimici.»—«Pulci e[198] cimici avrai.»—«Spazzami la mia casa. Che ci trovi in casa mia?»—«Sudiciume, spazzatura, porcherie, come siete vojaltre.»—«Spazzatura, sudiciume e porcherie, come siamo nojaltre, avrai.»—La portorono alla stanza dei vestiti. Gli dissero:—«Prendine uno a i' tuo piacere.»—Prese i' più bello che ci fosse nell'armadio. Glielo levorono e gli diedono i' vestito più brutto che ci avesse. La menorno alla stanza dei quattrini; gli dissero:—«Prendi quello che tu vòi.»—Si era empito il grembiale di danari. Glieli levorono e gli dierono tre o quattro soldacci che ci avevano. La menorno alla stanza delle gioie. Dissono:—«Prendi i' pajo d'orecchini di tuo piacere.»—Prese un pajo de' più belli. Gnene levorono e gnene dierono un pajo tutti rotti. Dice:—«Quando sarai su i' ponte, vòltati indietro: sentirai un asino ragliare.»—Si voltò e gli venne una bella coda in mezzo alla testa. Tornò a casa: la sua madre gnene tagliava: con più gnene tagliava e più lunga diventava.[3] Era brutta prima e con questa coda più brutta che mai. Un giorno (avevano un melo vicino a casa) passò i' Re e gli disse alla sua madre che era lì fòri:—«Ci sarebbe da avere un poche di mele?»—Disse la madre:—«Sì, subito:»—e chiamò la sua figlia Luisa e gli disse:—«Arriva un poche di mele a i' Re.»—Prende la scala per arrivà' alle mele: con più credeva di avvicinarsi e più il melo si alzava, non ci arrivava! faceva di tutto per arrivarle e più il melo si alzava. Il Re disse:—«Com'è possibile che non siate bona a arrivarmi un poche di mele? Non ci avete nessuno altri in casa che sian capaci più di voi?»—«Ci ho un'altra, ma non è bona a niente, perchè è una Cenerontolaccia, che sta sempre tra la cenere; non è bona a niente.»—«Pure chiamate quella: potrebbe esser più bona di[199] voi.»—E la chiamò:—«Cenerontola, vien qui per arrivare un poche di mele a i' Re.»—Si messe un vestito, che gli avevan regalato le fate, che scendendo la scala sonava, che pareva un campanello. La sua madrigna disse:—«Sentite quella Cenerontolaccia, si tira persino la paletta addietro.»—I' Re gli disse:—«Arrivatemi un poche di quelle mele.»—La Cenerontola andiede sott'i' melo. I' melo si calò e s'empì i' grembiule pieno di mele in un minuto. I' Re avendo veduto questa bella giovine con questa bella stella nella testa, disse che la voleva per moglie. La sua madrigna gelosa, benchè pensava a i' tradimento, disse—«Sì»—che era contenta; e fissarono tra tre giorni d'andare a prenderla in carrozza e gli mandò i' vestiario con sette anella. La madre, la madrigna, la mattina dello sposalizio, invece di vestire la sposa, vestì la sua figlia da sposa e messe la Cenerontola drento a un tino ignuda, e messe a bollire una caldaja d'acqua. Va i' Re a prendere la sposa in carrozza e la porta via. Quando i cavalli cominciarono a camminare con la sposa drento, che il Re non avea veduto se era la bella o la brutta, e' gli andiede drieto un gatto. Gli diceva:
—«Gnaolo, gnaolino!
«La bella è drento i' tino;
«E la brutta malincotta,
«I' cavallo d'i' Re che se la porta.»—
Ma quelli non gli davano retta; seguitavano i' camminare. I' gatto seguitava sempre a gnaolare. I' Re, seguitando i' gatto, e' gli venne a nojare e disse:—«Meglio è indietro ritornare; ci dev'essere qualcosa.»—Tornorono indietro e i' gatto andava sempre innanzi a i cavalli; loro sempre indietro; e gli accompagnò[200] insino alla cantina. Entrorono drento e trovorono n' i' tino questa poera ragazza disgraziata, ignuda. I' Re l'ha riconosciuta, ha spogliato quella ch'era in carrozza, e ha vestito quella che era dentro a i' tino; e hanno messa n' i' tino quella che era in carrozza, ignuda com'era quella prima, e son partiti. I' gatto non l'hanno udito più. Dopo pochi minuti la sua madre ha cominciato a buttare delle pentole d'acqua bollente n' i' tino. La sua figlia diceva:—«Mamma, voi mi bruciate.»—La gli diceva:
—«La mia figlia non sei tu.
«La mia figlia è andata a marito,
«Con sette anella in dito.»—
E lei seguitava a dire:—«Mamma, voi mi bruciate.»—E lei rispondeva:
—«La mia figlia non sei tu.
«La mia figlia è andata a marito,
«Con sette anella in dito.»—
Ha seguitato a buttar acqua bollente insin in quanto non è stata estinta. Quando non ha sentito più parlare è andata giù a volerla levare. Credeva che la fussi la sua figliastra; e invece era la sua figlia. Non sapeva come fare per dillo a suo padre. L'ha vestita, l'ha portata in casa, l'ha messa a sedere sopra una seggiola, sopra alla porta di casa, con la rocca allato, figurando di filare. Arrivando a casa suo padre, era sull'uscio di casa a sedere sopra la seggiola. Suo padre ha detto:—«Cosa fai costì a sedere? Sei sempre a dormire! tu non lavori mai?»—Appena che lui gli ha toccata una mano, è caduta in terra. La sua madre s'è messa a gridare, dicendogli che lui gli[201] aveva ammazzata la figliola. S'è radunato di molta gente. Suo padre l'avevan fatto carcerare; ma avendo scoperto i' delitto di sua madre, in breve tempo l'hanno fatta fucilare. Prima hanno fatto carcerare lui e poi hanno fatto morire lei. La Cenerentola s'ha goduto i' suo marito; divenne Principessa. Se ne stiedero e se ne goderono e a me nulla mi dierono.
NOTE
[1] Variante della fiaba precedente. Sarà superfluo fare osservare la simiglianza della prima parte di questa versione, dove si tratta d'incombenze impossibili ad eseguirsi, con un episodio della storia di Psiche, che si ritrova anche in una delle novelle del Pentamerone? E la storia di Psiche non era forse una favola milesia, una fiaba, un cunto, una novella popolare insomma? Vedi, per quest'incarichi assurdi, anche la Prezzemolina, nella presente raccolta, ed appo il Pitrè (Op. cit.) XV Lu Re di Spagna e XVII Marvisia.
[2] Con più, corruzione evidente di com' più, come più, quanto più; adoperata anche dal Saccenti, Rime, II, 9. Del resto anche in Milanese si adopera così, p. e. Compù (o Con pu) el mangia, compu el sta mal, più mangia, peggio sta.
[3] Nel libro intitolato Études | sur | Aristophane | par | M. Émile Deschanel | Ancien Maître—de—Confèrences à l'École Normale supéríeure, || Paris | Librairie de L. Hachette et C.ⁱᵉ | Boulevard Saint—Germain, N.º 77 | 1867 | Droite de propriété et de traduction réservés; v'è un paragone interessante desunto da questa fiaba: Vous rappelez—vous ce conte de fées, où deux jeunes filles, deux sœurs, toutes les fois qu'elles ouvrent la bouche, en laissent échapper, l'une des fleurs, des perles et des pierreries; l'autre des vipères et des crapauds? De ces deux jeunes filles, faites—en une seule, dont la bouche répandra tout cela pêle—mêle: c'est la Muse d'Aristophane.
LA BELLA CATERINA[1]
C'era una volta una donna campagnola, che aveva due figliole: una delle quali era bellissima e si chiamava Caterina; l'altra, tutt' all'incontro, era brutta quanto dire si puole. Ma la madre voleva più bene alla brutta; e siccome tutte e due si rodevano d'invidia per la Caterina, perchè alla bellezza accoppiava pure una grande bontà, s'arrapinavano a fargli dispetti e cercavano tutti i modi perchè gli accadesse qualche malanno da ridurla imbruttita. La Caterina sopportava con pazienza le persecuzioni delle due arpie; ed, invece di farsi brutta per gli strapazzi, pareva ogni dì che gli s'accrescesse la bellezza. Un giorno la madre disse alla brutta:—«Sa' tu quel che ho pensato? Mandiamo la Caterina a pigliare lo staccio dalle Fate, che gli sgraffieranno tutto il viso; e la imbruttirà e nessuno più la guarderà.»—«Sì, sì!»—esclamò la brutta, gongolando di maligna gioia:—«Le Fate sono cattive e l'acconceranno pel dì delle feste.»—Subito la madre chiamò la Caterina e gli disse:—«Su via, sguajata: c'è da fare il pane e non abbiamo in casa lo staccio per ammannire la farina. Va' dalle Fate dentro al bosco e chiedigli lo staccio in prestito.»—A questo comando la Caterina divenne bianca dalla paura, sapendo per sentita dire, che chi andava dalle Fate ne ritornava malconcio. Pregò la madre che non la mandasse, pianse: ma la madre e la brutta sorella tanto la minacciarono, che[203] ripensando non potere soffrire dalle Fate un male maggiore, si piegò ad obbedire. Sicchè, mesta e piagnucolosa e mettendo un piede innanzi e due addietro[2], avviossi verso il bosco dove stavano le Fate. Quando la Caterina fu in sull'entrata del bosco, gli si fece incontro un Vecchietto; e, vistala a quel modo dolorosa, gli domandò:—«Che avete voi, bella ragazza, che parete tanto afflitta?»—La Caterina gli raccontò allora tutti i suoi mali, e che in casa non la potevano soffrire, e ora la mandavano alle Fate per uno staccio, perchè le Fate la sciupassero e la imbruttissero. Disse il Vecchietto:—«Non abbiate paura di nulla. V'insegnerò io com'avete da condurvi. E se m'ascolterete, non ve n'avrete da pentirvene. Ma prima ditemi un po' che cosa ho qui 'n capo, che mi sento tanto prudere.»—Il Vecchietto piegò un tantino la testa. E avendogliela la Caterina esaminata, disse:—«Ci veggo perle ed oro.»—Disse il Vecchietto:—«E perle ed oro toccheranno anche a voi. Statemi a sentire e fate quel che vi dico. Quando sarete alla porta di casa delle Fate, picchiate ammodo; e se vi diranno: Ficcate un dito nel buco della chiave; vi ficcherete uno steccolo, che ve lo stroncheranno. Aperto che sia, vi condurranno diviata in una stanza, dove mirerete tanti gatti; e chi cucirà, chi filerà, chi farà la calza, e insomma, tutti occupati a qualche lavoro: e voi adopratevi senza invito ad ajutargli ed a fornire l'opera ad ognuno. Dopo anderete in cucina; e anche lì saranno gatti alle loro faccende; ajutategli come quegli altri. Un po' più in là sentirete chiamare il gatto Mammone, e tutti i gatti gli racconteranno quel che avete fatto per loro. Il Mammmone allora vi domanderà: Che brami tu per colazione, pan nero e cipolla, o pan bianco e cacio? E voi rispondete: Pan nero e cipolla; e vi verrà dato[204] pan bianco e cacio. Poi il Mammone v'inviterà a salire una stupenda scala di cristallo: badate bene di non la rompere. Giunta al piano di sopra, scegliete sempre la peggio roba di quella che vi vorranno regalare.»—La Caterina promesse al Vecchietto di obbedirgli; e, dopo ringraziato e salutatolo, si avviò verso le Fate. E, picchiato alla porta, fece secondo l'ammaestramento. Sicchè apertogli, richiese le Fate dello staccio. Dissero le Fate:—«Ora ve lo diamo. Entrate intanto un po' e aspettate.»—Ed ecco vede tanti gatti per la stanza, che lavoravano a tutto potere.—«Poveri micini!»—esclamò la Caterina:—«Con codeste zampine chi sa quanta pena soffrite! Date qua; farò io, farò io.»—E preso il lavoro di ognuno, in quattro e quattr'otto l'ebbe terminato. Poi in cucina rigovernò, spazzò, rimesse in ordine tutti gli arnesi. Fu chiamato il gatto Mammone e i gatti miagolando dicevano:—«A me ha cucito!»—«A me ha fatto la calza!»—«A me ha rigovernato!»—e così fino in fondo raccontavano tutti al Mammone l'ajuto della Caterina; e saltavano a balzicùli per la stanza dal gran piacere. Il gatto Mammone, sentito l'opera della Caterina, gli disse:—«Che vuoi da colazione, pan nero e cipolla, o pan bianco e cacio?»—«Oh! datemi pan nero e cipolla,»—rispose la Caterina,—«non sono avvezza a mangiare altro.»—Ma il gatto Mammone volle che mangiasse pan bianco e cacio. Poi il gatto Mammone invitò la Caterina a salire nel piano di sopra e la condusse alla scala di cristallo: e la Caterina si levò gli zoccoli e salì su in peduli tanto pianino, che non isciupò la scala e neppure la sgraffiò. Qui gli furono profferite vesti belle e vesti brutte, oro e ottone. E lei scelse le vesti brutte e l'ottone. Ma il Mammone comandava invece alle Fate, che l'acconciassero splendidamente e gli fossero regalate[205] gioie legate in oro.[3] Quando la Caterina fu messa in modo, che pareva una Regina, il Mammone gli disse:—«To' su lo staccio; e andata fuori dell'uscio di questa casa, se senti ragliar l'asino non ti voltare; ma se canta il gallo, vòltati.»—La Caterina obbedì: al raglio dell'asino non se ne diede per intesa; ma al chicchirichì del gallo si voltò indietro, e subito gli venne una stella rilucente in sul capo. A mala pena la Caterina giunse a casa sua, che la madre e la sorella brutta se le rodevano la rabbia e il dispetto; quella stella poi gli era un pruno negli occhi. La brutta disse:—«Anch'io vo' andare dalle Fate, anch'io. Mandate me a riportare lo staccio, mamma.»—Quando lo staccio fu adoperato, la brutta se lo tolse su e s'avviò al bosco delle Fate. E all'entrata, lei pure trovò il Vecchietto, che gli domandò:—«Ragazzina, per dove così vispola?»—«Vecchio ignorante!»—rispose con superbia la brutta;—«i' vo' dove mi pare. Impaccioso! badate a' fatti vostri.»—«Brutta e scontrosa!»—disse il Vecchietto ridendo di sottecche:—«Va' va' dove ti pare! doman te n'avvedrai!»—Ed ecco la brutta all'uscio delle Fate; e agguanta in mano il picchiotto e dàgli, giù senza garbo, da scassinare le imposte. Dissero le Fate di dentro:—«Metti un dito nel buco della chiave ed apri.»—E la brutta caccia il dito nel buco; e quelle zìffete! e glielo stroncano. L'uscio si spalancò e la brutta, tutta rabbiosa, saltando in casa e gettato per terra lo staccio, si fece ad urlare:—«Questo è il vostro staccio, maledette!»—Poi visti i gatti al lavoro, disse:—«Oh! buffi questi gattacci! o che mesticciate voi, mammalucchi?»—E preso a loro gli arnesi, a chi bucò le zampe cogli aghi, a chi le tuffò nell'acqua bollente, a chi dette su per le costole la granata e i fusi. Ne successe un tafferuglio; e i gatti a[206] scappare di qua e di là, berciando pel dolore; sicchè al chiasso comparve il gatto Mammone; e i gatti strillando a modo loro gli raccontarono quel che avevano patito dalla brutta. Serio serio disse il gatto Mammone:—«Ragazzina, dovete aver fame: volete pan nero e cipolla, o pan bianco e cacio?»—E la brutta:—«Guarda che bella creanza! Se venissi a casa mia non vi darè' mica pan nero e cipolle e non vi stroncherei le dita. Voglio pan bianco e cacio.»—Ma, se volle mangiare, bisognò che si contentasse di pan nero e cipolla, perchè non gli portarono altro. Allora il gatto Mammone disse:—«Andiamo via, ragazzina, vi si regalerà anche voi di vestito e d'altro. Salite di sopra, ma badate alla scala, che è di cristallo.»—La brutta però non se n'addiede dell'avvertimento, e salì alla sgraziata la scala cogli zoccoli in piedi, per cui la fracassò da cima a fondo. E giunta su, le Fate gli domandarono:—«Che più vi garba, un vestito di broccato e pendenti d'oro, o una gonnella di frustagno e pendenti d'ottone?»—La brutta s'attaccò subito alla sfacciata alla robba meglio; ma gli convenne pigliare la peggio, perchè non gliene dettero altra. Tutta indispettita, la brutta prese il portante per andarsene, e, quando fu all'uscio, gli disse il gatto Mammone:—«Ragazzina, se canta il gallo tirate via; ma se raglia l'asino, voltatevi addietro, che vedrete una bella cosa.»—Di fatto, eccoti che l'asino raglia di gran forza; e la brutta, girato il capo tutta desio di vedere la bella cosa, una folta coda di ciuco gli venne fuori dalla fronte. Disperata, si diè a correre verso casa sua, per istrada urlando da lontano:
—«Mamma dondò,
Mamma dondò,
La coda dell'asino mi s'attaccò.»
In tanto la Caterina, più bella dal giorno che aveva visitato le Fate, fu vista dal figliolo del Re, che se ne innamorò così forte, da obbligare il Re a consentire che se la pigliasse per moglie. Le nozze si stabilirono, e la Madre e la brutta non ebbero ardire di opporsi al Re; pure macchinarono d'ingannarlo, sperando riuscirvi. Il giorno dello sposalizio, la Caterina fu messa in un tino chiuso giù nella cantina, e de' suoi vestiti e gioie si acconciò la brutta, e la Madre a questa gli rasò la coda d'asino d'in sulla fronte e poi gli ravvolse il capo con un fitto velo. Giunto, assieme al corteo[4], il figliolo del Re, la cattiva Madre gli disse:—«Eccovi la sposa bell'e apparecchiata.»—Il figliolo del Re stava per porgere la mano alla brutta, credendola la Caterina, quando a un tratto gli parve sentire de' lamenti sotto terra; e, stato un po' in orecchi e intimato il silenzio, s'accorse che qualcheduno cantava con voce piangente:
—«Mau maurino!
«La Bella è nel tino,
«La Brutta è 'n carrozza
«E 'l Re se la porta.»—
Il figliolo del Re, insospettitosi allora, volle che si cavasse il velo dal capo della sposa e scoperse l'inganno; perchè alla brutta di già la coda d'asino era tanto cresciuta da coprirgli gli occhi. Andò sulle furie, e cercata la Caterina, la tirò fuori dal tino e ci fece mettere invece la madre e la brutta. E ordinato che si bollisse una caldaia d'olio e che gli si buttasse addosso, quelle invidiose morirono subito. Il figliolo del Re, sposata la bella Caterina, la condusse al palazzo. E camparono insieme lunga vita e felice.
Stretta è la foglia e larga è la via,
Dite la vostra chè ho detto la mia.
NOTE
[1] È detta pure Novella de' Gatti. La debbo all'avv. professor Gherardo Nerucci, cui fu raccontata da Silvia Vannucchi del Montale.
[2] Bruno, Candelajo, III, 7.—«Bel combattere! Un passo avanti et dui a dietro, un passo avanti et dui a dietro, disse il signor Cesare da Siena.»—
[3] Questo Mammone che comanda alle Fate, ricorda il Memè che troveremo nella Prezzemolina.
[4] Assieme al. Che l'uso voglia imporci assieme invece d'insieme, passi; ma gli lasci almeno reggere il con come ha retto sempre ab antico!
LA PREZZEMOLINA.[1]
C'era una volta marito e moglie. E la sua finestra, di questo marito e moglie, rimaneva sull'orto delle fate. Questa donna era incinta. Un bel giorno s'affaccia alla finestra, e vede un prato di prezzemolo, il più bello! Lei sta attenta che le fate le vadan via, prende la scala di seta e si cala e si mette a mangiare il prezzemolo a tutto spiano. Mangia, mangia, poi la risale la scala, serra la sua finestra e via! Ogni giorno faceva questa storia. Un giorno le fate passeggiavano in giardino:—«E dimmi»—dice la più bella—«non ti pare che manchi del prezzemolo?»—Dicono le altre:—«E forse poco ne manca! Sai quel che si farà? Si figurerà di andare fòri tutte; e una si rimarrà niscosta; perchè qui c'è qualcheduno che viene a mangiare.»—Le fate le figurano di andar via tutte e la donna si cala a mangiare. Quando l'è per ritornare in su, la fata gli sorte di dietro:—«Oh briccona»—dice—«ora ti ho scoperta, eh?[2]»—«Abbiate pazienza»—dice questa donna—«io sono gravida; avevo questa voglia....»—«Ebbene»—dice la fata—«Ti sia perdonato. Senti, se tu fai un bambino, tu gli hai a mettere nome Prezzemolino; se tu hai una bambina, Prezzemolina; e, come è grande, la si vol noi: è per noi, via, non è più tua.»—Figuratevi questa donna! un dirotto pianto, dicendo:—«Malandrina la mia gola, la mi è costata[210] assai!»—Dal marito era sempre rimproverata:—«Golaccia! l'hai visto?»—La partorisce la bambina e gli mette nome Prezzemolina; e quando l'è grandettina, la la manda a scuola. Le fate, tutti i giorni che la passava, gli dicevano:—«Bambina, dì alla mamma, che la si ricordi di quella roba.»—«Mamma»—dice la Prezzemolina—«hanno detto le fate che vo' vi ricordiate di quella cosa.»—Un giorno la donna era sopraffatta; torna la bambina e gli dice:—«Vi dicono le fate che vi ricordiate quella cosa.»—Risponde:—«Sì, dì che se la piglino.»—La bambina la va a scola. Dicono le fate:—«Cosa ti disse la mamma ieri sera?—«Mi disse che la possin prendere, che la prendino quella roba.»—«Oh vieni, sei te quella roba che si deve prendere.»—Urli senza fine, questa bambina: lo credo io! Lasciamo questa bambina e torniamo alla madre, che passan ore e non la vede tornare. La si ricorda d'aver detto che la prendino quella roba:—«Oh, mi son tradita! Ora addietro non si torna.»—Dunque queste fate le dicono alla bambina:—«Sai, Prezzemolina, la vedi questa stanza nera nera?»—le ci tenevano il carbone, la brace.—«Come si torna, la deve essere tutta bianca come il latte e dipinta con tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti noi ti si mangia.»—Come volete che la facesse questa bambina? Le vanno via e la bambina si mette a piangere, piangi ch'io piango, singhiozzando; non si poteva chetare. Dunque l'è picchiato: lei va a vedere e crede che le sian le fate; apre e vede Memè, che gli era un cugino delle fate.[3]—«Che hai tu, Prezzemolina, che tu piangi?»—«Vo' piangereste anche voi»—dice.—«Vedete questa stanza? Quando le torna, le torna le mamme, di nera così dev'esser bianca e dipinta di tutti gli uccelli dell'aria, altrimenti le mi mangiano.»—«Se tu mi[211] dài un bacio»—dice Memè,—«te la fo nel momento questa stanza.»—Lei dice:—«Piuttosto dalle fate esser mangiata, che da un omo esser baciata.»—Dice Memè:—«Tu hai detto tanto benino! ti voglio far la grazia.»—Batte la bacchettina e divien la stanza tutta bianca, tutta uccelli, come avevan detto le mamme. Dunque Memè va via e torna le fate. Dice:—«L'hai fatto, Prezzemolina?»—«Sissignora, vengano a vedere.»—Le si guardano in viso:—«Eh, Prezzemolina, c'è stato Memè!»—«Non conosco Memè, nè la mia bella mamma che mi fè.»—Dunque la mattina:—«Come si fa?»—dicono—«non ci riesce di mangiarla.»—«Prezzemolina!»—«Cosa comandano?»—E allora gli dicono:—«Domani mattina devi andare dalla fata Morgana e devi dire la ti dia la scatola del Bel—Giullare.»—«Sissignore»—la dice. Eccoti la mattina la si mette in viaggio, la ragazza. E viaggia. Cammina, cammina, la trova una donna.—«E dove vai»—la dice—«bella bambina?»—«Vado dalla fata Morgana a prendere la scatola del Bel—Giullare.»—La ti mangerà, sai, poerina?»—«Meglio per me»—dice—«così la sarà finita.»—«Tieni»—dice la donna—«queste due pentole di lardo. Tu troverai due porte che si battono insieme. Ungile tutte, e tu vedrai che ti lascian passare.»—Eccoti la bambina la giunge a queste porte e le unge tutte da capo a piede e loro la lascian passare, gua'. Dopo che l'ha camminato un pezzo, la trova un'altra donnina. E la gli dice lo stesso:—«Dove tu vai, bambina?»—Dice:—«Vado dalla fata Morgana per la scatola del Bel—Giullare.»—«Poerina, la ti mangerà, sai?»—«Meglio per me, così la sarà finita.»—«Tieni questi due pani, tu troverai due cani che si mordono l'un con l'altro. Buttagnene uno per uno: così tu passi,»—dice.[212] Eccoti la Prezzemolina la trova questi due cani; la gnene butta uno per uno, e loro la lascian passare. Quando l'ha fatto un altro pezzo di strada, la trova un'altra donnina. Gli dice:—«Dove vai?»—«Dalla fata Morgana per la scatola del Bel—Giullare.»—«Poerina, la ti mangerà, sai?»—«Meglio per me, così la sarà finita.»—«Tu troverai un ciabattino che si strappa la barba per cucire e i capelli. Tieni, questo è spago per cucire, questa è lesina: tutto il necessario. Dagnene e lui ti lascerà passare.»—Eccoti la bambina la trovava questo ciabattino. Quando la gli dà tutta questa roba, lui la ringrazia e la lascia passare. Fatto un altro pezzo di strada, la trova l'istessa donnina e gli dice l'istesso:—«Bada, la ti mangerà sai?»—«Meglio per me, così la sarà finita.»—«Troverai una fornaja che spazza il forno con le mani: la si brucia tutta. Tieni: questi son cenci, queste sono spazzole; tutto il necessario. Tu vedrai, la ti lascia passare. Dopo poco tu troverai una piazza: quel bel palazzo che c'è, gli è codesto la fata Morgana. Tu picchi, e la scatola del Bel—Giullare, gli è dopo che tu hai salito due scale. Lei, quando tu picchi, la ti dirà: Aspetta bambina; aspetta un poco. Te, tu sali, prendi la scatola e vien via.»—Eccoti la bambina la trova questa fornaja. Quando la gli dà tutta questa roba, lei la ringrazia e la lascia passare. La picchia, la sale, la prende la scatola e la scappa via. La fata che sente serrar l'uscio, la s'affaccia alla finestra e vede la bambina che scappa via.—«O fornaja, che spazzate il forno con le mani, tenetemela, tenetemela.»—«Se fossi minchiona! Dopo tanti anni, che fatico, la mi ha dato i cenci e la spazzola! Passa, poerina, vai, vai!»—«O ciabattino, che cucite con la barba e vi strappate i capelli, tenetemela, tenetemela!»—«O io sì, che sarò un minchione![213] Dopo tant'anni, ch'io fatico, la mi ha portato tutto il necessario. Vai, vai, poerina.»—«O cani che vi mordete tanto, tenetemela, tenetemela!»—«O noi sì, che saremo minchioni! La ci ha dato un pane per uno! Vai, vai, poerina!»—«O porte, che vi battete tanto, tenetemela, tenetemela!»—«Oh noi sì, che saremo minchione! La ci ha unte da capo a piedi! Vai, vai poerina.»—E la fanno passare.[4] Quando l'è libera, la dice:—«Che ci sarà egli in questa scatola?»—La trova una piazza, la si mette a sedere e apre la scatola. Esce fori persone, persone, persone, persone: gli escono da questa scatola; che cantavano, che sonavano, tutte. Figuratevi la disperazione di questa bambina. Lei le voleva rimettere in questa scatola: ne prendeva una e ne scappava dieci. La si mette a piangere, potete credere! Eccoti Memè.—«Briccona, l'hai visto quel che t'hai fatto?»—«Oh! voleva vedere...»—«Eh»—dice Memè,—«ora non c'è rimedio. Se tu mi dài un bacio, io ti rimedio.»—«Meglio dalle fate esser mangiata, che da un omo esser baciata.»—«Sai? tu l'hai detto tanto benino, che ti vo' far la grazia.»—Batte la bacchettina e ritorna tutta la scatola come prima: serrata come l'era. La Prezzemolina va là a casa e picchia.—«Oh dio!»—dice—«È la Prezzemolina. Come mai non l'ha mangiata, la fata Morgana?»—Dice:—«Felice giorno»—la dice la bambina—«Ecco la scatola.»—Dicono le mamme:—«Che t'ha ella detto la fata Morgana?»—«La me l'ha data e m'ha detto: Fagli tanti saluti.»—«Eh»—dicono le fate—«abbiamo bell'e inteso! bisognerà mangiarla noi. Stasera, come viene Memè, gli si dice che la si deve mangiare.»—Eccoti la sera vien Memè:—«Sai?»—gli dicono—«la non l'ha mangiata, la Prezzemolina; la s'ha da mangiar noi.»—«Oh bene!»—dice[214] lui—«oh bene!»—«Domani, quando l'ha fatte le sue faccende, gli si fa mettere al foco le caldaje, quelle grandi che si fa il bucato. E quando le bollan bene, in tutte e quattro la si butta dentro a cocere.»—Lui dice:—«Bene, bene, sì, sì; riman fissato così.»—Eccoti la mattina le vanno via loro e non dicon nulla; le vanno via come eran solite. Quando le sono ite, ite via, eccoti Memè dalla Prezzemolina:—«Sai»—dice—«oggi, a un'ora, le ti ordineranno di mettere al foco le caldaje, quelle grandi del bucato. E, quando le bollan bene, le ti diranno, chiamaci; le ti dicono: diccelo. E le ti buttan te a cocere dentro. E invece noi s'ha a guardare se ci si butta loro.»—Eccoti Memè va via e dopo poco tornan le fate:—«Sai»—dice—«Prezzemolina, quando s'è pranzato oggi, che t'hai fatte tutte le faccende, metti le caldaje, quelle del bucato, che si fa il bucato; e quando le bollan bene, chiamaci.»—Quando l'ha finite tutte le sue faccende, la mette tutte queste caldaje. Le dicono:—«Fa gran foco.»—La fa foco, figuratevi, anche di più di quel che gli avevan detto. Picchia Memè:—«Oh!»—dice—«ora ora la s'ha a mangiare!»—e si fregava le mani.—«Oh»—dicono—«altro!»—Eccoti l'acqua quando la bolle, Prezzemolina la dice:—«Mamme, le venghino a vedere; l'acqua la bolle.»—Le fate le vanno a vedere lì alla caldaja se la bolle. Dice:—«Coraggio!»—alla Prezzemolina; gli dice Memè. Lui ne acchiappa due e le mette dentro; lei prende quell'altre e le butta; e bolli, bolli, bolli, finchè non fu staccato il collo non le levorno: sempre a bollire!—«Ora poi siamo padroni di tutto, la me' bambina. Vieni con me.»—La conduce giù in cantina, dove c'era una infinità di lumi e c'era quello della fata Morgana, grosso, grande; quello gli era il più grosso[215] di tutti. La maggiore delle fate! La sua anima, gli era un lume. Spenti che gli erano, le eran morte tutte, ecco!—«Spengi di costì e io spengo di questa parte.»—Così li spensero tutti e rimasero padroni di ogni cosa.[5] Andiedero lassù nel posto della fata Morgana. Il ciabattino ne fecero un signore; la fornaja parimente; i cani li portarono nel suo palazzo; e le porte le lasciarono stare e le facevano ungere.—«Te»—dice Memè—«sarai la mia sposa; questo è giusto.»—E si vissero e si godettero e in pace sempre stettero e a me nulla mi dettero.
NOTE
[1] Argomento stesso, in principio, nel Pentamerone, Trattenemiento primmo de la jornata seconna:—«'Na femmena prena sse magna li petrosine dell'uorto de 'n'Orca; e, conta 'nfallo, le promette la razza che aveva da fare. Figlia Petrosinella. L'Orca sse la piglia e la 'nchiude a 'na torre. 'No Prencipe ne la fuje, e 'nvirtù de trè gliantre gavitano lo pericolo dell'Orca; e portata a casa de lo 'nnammorato deventa Prencepessa.»—Ma il prosieguo ed il fine s'avvicinano piuttosto a lo Turzo d'oro (Tratt. IV Giorn. V)—Cf. Bernoni (Fiabe popolari Veneziane) XII. La Parzemolina. Pitrè (Op. cit) XX. La vecchia di l'Ortu. Gonzenbach (Op. cit.) LIII. Von der schönen Angiola.
[2] Cf. per questo particolare, Pitrè, (Op. cit.) XIX. Lu Scavre, XX. La vecchia di l'Ortu. Qui le fate, in altre versioni l'Orca o l'Orco, non fanno, minacciando di mangiarsi vivo vivo il furatore de' loro cavoli o del loro prezzemolo, la distinzione consigliata da Orazio satiro, il quale forse (chi sa?) alludeva a qualche fiaba analoga nello scrivere:
Nec vincit ratio hoc, tantundem peccet idemque
Qui teneros caules alieni fregerit horti,
Et qui nocturnus divum sacra legerit.
Versi che trovo tradotti così in meneghino:
Donca convegnarii, che ona personna
La qual la ve robbass in del giardin
[216]Quatter mognagh o on pizzegh d'erba—bonna,
L'è minga de confond con l'assassin;
E che a grattav on sold in su la spesa
L'è men del sacrilegg de robbà in gesa.
Vedi: Amicizia e Tolleranza | Satira | di Quinto Orazio Flacco | Esposta in dialetto Milanese | dal Dottore | Giovanni Rajberti | Et mihi dulces | Ignoscent, si quid peccavero stultus, amici || Milano | Dalla Tipografia di Giuseppe Bernardoni di Gio. | 1841.
[3] Forse il Demogorgone del quale il Berni, Orlando Innamorato, XLII, 29—30:
Sopra le fate è quel Demogorgone
(Non so se mai l'udiste nominare)
E giudica fra loro, e tien ragione,
E ciò che piace a lui può d'esse fare.
La notte scura cavalca un montone:
Travalca le montagne e passa 'l mare:
Con un flagel di serpi fatto, batte
Le fate e streghe che diventan gatte.
Se la mattina le trova pel mondo
(Perchè il giorno non posson comparire),
Le batte con un certo cotal tondo,
Che le vorrebbon volentier morire.
Or nel mar le incatena, e ben nel fondo;
Or sopra 'l vento scalze le fa ire;
Ed or pel foco dietro a sè le mena:
A chi dà questa, a chi quell'altra pena.
Vedi Stigliani, Occhiale, alla Stanza CCXXXII del XII Canto dell'Adone; e quel che Messer Fagiano risponde in proposito.
[4] Cf. De Gubernatis, Le Novelline di Santo Stefano di Calcinaja. II. La comprata.
[5] Cf. l'ultimo tratto con la favola di Meleagro e l'episodio della morte di Creonta nel XXI del Morgante.
IL RE AVARO.[1]
C'era una volta un Re avaro. E da quanto era avaro, aveva sola una figlia e la teneva su nelle soffitte, perchè nessun la vedesse. Era avaro e non voleva dar la dote. Viene un assassino a Firenze, e per l'appunto di faccia all'osteria dove si fermò, stava questo Re. Cominciò ad interrogare:—«Chi c'è?»—«C'è un Re, così e così; avaro, che tien la figliola nelle soffitte.»—Che ti fa questo assassino? La notte, quando gli è verso le dodici, va su' tetti alla finestrina, dove l'aveva la camera della principessa, e l'apre. Questa ragazza la cominciò a urlare:—«A il ladro! a il ladro!»—Corre la servitù e vede la finestra serrata, perchè lui, l'assassino, la riserra.—«Maestà si sogna:»—dicono i servitori—«chè non c'è nessuno. Lei sogna assolutamente.»—La mattina la racconta a suo padre questo fatto.—«Eh, l'avrà sognato!»—dice il Re. La seconda sera, all'istess'ora, il ladro apre la finestra per entrare in casa e andare da questa ragazza. E lei urla:—«A il ladro! a il ladro!»—Eccoti, corre i servitori e vede la finestra serrata.—«Ma, signorina, lei armeggia. Non vede che la finestra è serrata?»—Dice:—«No, che io ho veduto un omo.»—Ma, poerina, non gli credevano.[2] Eccoti la mattina gnene dicono a il Re e lui dice:—«Mettetegli insieme la sua damigella.»—La sua cameriera, dirò. Eccoti la sera all'istess'ora il briccone che apre.[218] La cameriera gli dice:—«La non urli! zitto, signorina, zitto!»—Ma quando gli è quasi entrato in casa, cominciano a urlare:—«A il ladro! a il ladro!»—Lui sente due voci in vece d'una, va via e lascia la finestra aperta; non ha tempo, gua', di serrare. Sopraggiungono i servitori che vedono la finestra aperta, che dicono:—«Gli è vero, poerina, che ci è il ladro. Ha ragione, ha ragione, gli è vero.»—La mattina dicono a il Re questo. Dice:—«Murate subito la finestra.»—Eccoti murata subito la finestra! Il briccone, la sera, all'istess'ora, tasta e sente per tutto muro. Batte l'acciarino, accende e vede tutto murato.—«Briccona! me la pagherai!»—dice. Lascia passare un tempo e poi si veste tutto da gran signore e chiede d'andare a udienza. Questa udienza fu fatta passare subito da Sua Maestà. E lo interroga del più, del meno, se gli era scapolo:—«Ma Lei»—dice—«è giovinotto; oppure è ammogliato?»—Questo assassino discorreva tanto bene e tanto bono, che faceva questa interrogazione per dargli la figliola, questo Re. Dice:—«Io son giovinotto. Pagherei»—dice—«per trovare una ragazza per bene, che non avessi tanti capricci. E sa»—dice—«sono uno che non cerca di dote, io, perchè io non ne ho bisogno. Voglio solo una bona ragazza.»—Questo avaro che sente che non prende dote, dice:—«Anch'io ho una figlia, che so che io pagherei per maritarla bene a un giovane come Lei. La vol vedere?»—dice.—«Volentieri»—dice l'assassino—«la vedrei.»—Maestà manda a chiamare la figliola, e lei la vien giù.—«Che comanda, signor padre?»—«Lo vedete quel giovane?»—«Sissignore»—la dice. Fa il complimento.—«Lui»—dice Maestà—«vi chiede in isposa.»—Eh! poerina, la non aveva volontà. La non dice nè sì, nè no, gua'! Gli domanda[219] se lui gli chiedeva qualcos'altra, e torna nelle sue stanze la ragazza, piangendo. Maestà dice all'assassino:—«Le piace?»—«Eh»—dice lui—«Molto mi piace. Io sono contentissimo. Quando è contento Lei, è accomodato tutto.»—«Dunque»—dice il Re avaro—«domani l'aspetto a pranzo da me.»—Questo va via, e Maestà manda a chiamar la figliola:—«L'avete veduto quel giovane? Vi ho detto anche dianzi che quello ha da essere il vostro sposo.»—«Signor padre»—dice la ragazza—«Lei non ha che una figlia sola. La marita senza sapere chi è chi non è. Potrebbe anche essere un....»—fa come dire: un briccone.—«Chetatevi!»—dice il Re.—«Vi do uno schiaffo.»—dice alla figliola. Questa poera ragazza la va via piangendo, pensando al suo stato. Eccoti il giovane la mattina viene a pranzo, questo briccone.—«Io»—dice—«ho di bisogno di sollecitare questo matrimonio. Io, che vole? è tanto che manco, ho bisogno di spicciarmi tornando al mio posto. Quando Lei vole, anche se La vole nella settimana, io sono pronto.»—Concludono le nozze; per farla più breve, si sposano; e l'assassino si trattiene altri due o tre giorni, non più. Il padre per regalo gli dà una scatola di gioje grande, ma grande, alla figlia a titolo di regalo. Un Re, avere una figliola sola e dargli solo una scatola di gioje! E va a accompagnarla per un pezzo di strada: gli sposi va accompagnare. E poi li lascia:—«Addio!»—«Addio!»—come si fa,—«A quando ci rivedremo. >—Quando gli è andato via, l'assassino comincia a imboscare; entrare nel bosco, ecco. Quando gli è nel bosco, gli pare d'essere sicuro, gli dice:—«Briccona, ti ricordi quelle sere, che io veniva là alla finestrina, e te urlavi: A il ladro! a il ladro!»—«Sì, me ne ricordo»—dice.—«Smonta di carrozza»—dice—«Ora è il tempo della mia vendetta.[220] Spògliati!»—Sta poerina si sarà levata la veste; ma lui volle che si spogliasse ignuda, ignuda.—«Tutta nuda, tutta nuda!»—dice. Quando la fa ignuda, prende due pentole di lardo e l'unge tutta da capo a piedi; la lega a un albero e gli mette la scatola con le gioje a' piedi, con le mani legate da dietro e i piedi incrociati: messi in croce, si direbbe. E gli dice:—«Come io torno, se non trovo quella scatola, ti butto in mare.»—Come volete che la facesse? era tutta legata. Quest'albero rimaneva sul mare; c'era tutt'i bastimenti. La principessa comincia a fare col capo, così, de' cenni; a chiamare.—«Guarda!»—dice uno di quelli del bastimento—«Non c'è' gente che chiama là?»—«Sì, sì, ci sono, altro!»—S'avvicinano i pescatori e vedono questa bella donna, in croce, legata a quest'albero:—«Poerina!»—dicono—«in che maniera?»—«Scioglietemi»—dice—«e buttatemi nel mare e questa scatola prendetela per voi.»—«Poerina, no certo!»—dicono. La sciolgono; e siccome erano mercanti di cotone, levan tutte le balle e la metton dentro nella barca; mettono tutte le balle sopra e vanno via. Venghiamo a questo briccone che torna addietro, e trova l'albero senza più nulla. Vede questa nave: dietro gli va questo assassino a questa nave. E senza dir nulla, prende le balle e le butta nell'acqua, le principia a buttar via.—«Signore, ma cosa cerca Lei? ci manda in rovina, buttando via tutto questo cotone. Se Lei ha qualche sospetto, prenda la spada e buchi, gua'! Non Le si può dir altro.»—«Avete ragione!»—dice. Prende la spada e buca. E siccome il cotone rasciuga, la spada veniva pulita; bucava il cotone, feriva la principessa, ma veniva pulita.—«Eh»—dice—«perchè a quell'albero laggiù, vedete? aveva lasciata roba e non l'ho trovata più.»—Rispondono questi barcaroli:[221]— La vede quella nave laggiù, laggiù? Codesta s'è veduta fermare.»—«Grazie!»—e va via l'assassino e corre dietro a quell'altra nave. E questi seguitano ad andare verso la città. Quando furono liberi, levano tutte le sue balle e trovano la donna svenuta e ferita in una mano. Gli dànno da riaversi. Lei la insiste sempre:—«Buttatemi in mare! Buttatemi in mare!»—Ma loro non gli dànno retta. La levano nella barca e ragionano tra di loro.—«Io»—dice uno—«Io, senti, ho la moglie giovane; a casa io non la posso portare. Gua' tu sai, le donne!...»—Quello che era vecchio, dice:—«La prenderò io e la porterò dalla mi' moglie.»—E così fanno. Si dividono le gioje a metà: il vecchio va a casa con questa ragazza, e quest'altro va dalla su' moglie. Il vecchio picchia alla casa; e la moglie tira e la gli apre. Va su e gli racconta il caso.—«Poerina!»—dice la moglie—«ti si piglierà pur troppo per nostra figliola! La si prenderà e la si tratterà per bene, poerina! La mi dispiace tanto!»—Dice questa ragazza:—«Voglio una grazia: non voglio veder nessuno omo di nessuna sorte, levato mio padre.»—Così chiamava ora quel vecchio che l'aveva presa.—«Come questo è, state sicura»—dice—«che da noi non ce ne vien davvero degli òmini.»—«Eh!»—dice—«queste gioje, bisognerà venderne qualcheduna, perchè io voglio fare dei lavori. Voglio che ne vendiate, e mi compriate tanta seta da ricamo.»—Questa vecchia la vende le gioje, la compra questa seta e la gnene porta. E la principessa fa un bellissimo tappeto, ma tanto bello che non ci poteva esser niente di più bello. Quando la lo ha fatto, vicino a questa vecchia là ci stava un Re; pochi passi distante, via.—«Voi»—dice la ragazza—«dovete andare da Sua Maestà a sentire se compra questo tappeto.»—La[222] vecchia prende questo tappeto e lo porta da Sua Maestà. E così Sua Maestà dice:—«Ma chi li fa questi bei lavori?»—Risponde:—«Una mia figlia.»—«Ah, una vostra figlia? È impossibile! Uhm! Sarà, gua'!»—Compra il tappeto e dà i quattrini. E la vecchia viene a casa e porta i quattrini. E la principessa dice:—«Sapete? domani, dovete comprarmi dell'altra seta con questi quattrini.»—La mercantessa gli compra la seta e la giovane fa un bellissimo parato da stanza. Quando gli è finito, la vecchia la lo porta a questo Re. Sua Maestà domanda:—«Ma quella donnina, ditemi la verità; chi li fa questi lavori?»—Dice:—«Mah! mia figlia!»—Il Re l'intendeva male, ma con tutto ciò bisognava che gli credesse, quando diceva ch'era sua figliola. Gli dà i quattrini e la li porta alla ragazza.—«Sapete»—dice—«domani dovete con tutti questi quattrini, comprarmi dell'altra seta parimenti.»—La vecchia gli compra la seta; e lei, la fa tutto un finimento di seggiole, di poltrone, di tutto ciò che occorre in una camera. Quando l'ha finito, la lo manda a Sua Maestà. Maestà non gli sta a dire:—«Di chi sono i lavori?»—sta zitto. Paga la vecchia e poi gli va dietro, dietro, dietro. Quando questa donna è per serrar l'uscio, gli spinge l'uscio: entra dietro. Questa vecchia comincia a urlare, a urlare. La giovane, che sente urlare, la crede che sia l'assassino, la va sotto il letto e si sviene. Vien su la vecchia e cerca per tutto: non c'è la ragazza; e il Re con lei.—«Oh!»—la urlava—«Lei che n'è stato causa!»—Guardano sotto il letto e la vedono svenuta. La tirano fori, la rianno: e lei apre gli occhi. La vede che non è l'assassino e lei gli ritorna il sangue in calma; perchè lei la paura non era altro che dell'assassino. Sua Maestà gli domanda:—«E perchè vi viene di queste mancanze?»—«La[223] mia disgrazia»—la dice. Vede Maestà questa gran bella ragazza, questa bella donna, se ne innamora. E tutti i giorni andava in questa casa per far visita. Dunque, facendo il discorso corto, la chiede in isposa[3]. I vecchi dice:—«Maestà, nojaltri siamo poera gente....»—«A me non importa. Io voglio la ragazza, non voglio i denari.»—Lei risponde:—«Io son contenta, ma voglio una grazia da voi.»—La ragazza dice così.—«E quale?»—dice il Re.—«Io non voglio veder òmini, levato che voi e mio padre, di nessuna sorta.»—«Come questo è,»—dice Maestà—«io sono contento. Io vi concedo la grazia.»—Da sè dice:—«L'è tanto bella! a me non mi par vero, che non voglia veder òmini!»—Eccoti, concludon le nozze, senza invito, senza nulla: la giovane non voleva veder òmini: fu quasi uno sposalizio occulto. Lascio dire i sudditi! che si sente lo sposalizio e la Regina non si vede da nessuna parte. Chi:—«Ha sposato un cane.»—Chi:—«Ha sposato una scimmia.»—Chi una cosa, chi un'altra. Tutti i signori della corte, parimenti un bisbiglìo. Lui fu costretto a dirgnene alla moglie:—«Tu bisogna che mi faccia una grazia: ma bada a non dir di no. La corte c'è tutto un bisbiglìo: se io ho preso un cane, se io ho preso una scimmia. Tu, bisogna che tu ti faccia vedere ai sudditi, che tu decida un'ora.»—Allora lei la dice:—«Dalle undici a mezzogiorno, starò sul terrazzino.»—Figuratevi le genti, da dove le venivano: da tutte le parti! Messi i bandi alle cantonate, dicevano—«Qui ci ha da essere una meraviglia.»—Eccoti, questo briccone d'assassino capita lì; legge: dalle undici al mezzogiorno la Regina su il terrazzino:—«Oh!»—dice—«vo' vederla.»—Si mette sotto il terrazzino e la riconosce, e fa così: si morde il dito e gli accenna così minacciando.[224] Quella lo riconosce e la va giù svenuta e si sfragella tutta la testa. La vecchia che sente questo colpo e la va di là e trova la ragazza che tutta sanguina, chè s'era spaccata la testa, principia a urlare. Corre il Re e vede questo spettacolo. La dice la vecchia al Re:—«L'avete avuta di farla vedere, l'avete avuta! Cos'avete ricavato di farla vedere a il pubblico? La vedete come gli è questa donna?»—Corre subito i medici; con balsami; gli fasciano la testa e la mettono a letto; quattro o cinque giorni, la stava benino. Venghiamo a questo briccone, che lascia passare un tempo: poi si veste da signorone e chiede di andare a udienza. L'udienza principia: mille discorsi, mille complimenti a il Re. Per la quale questo Re rimane incantato e gli dice se vol restare a mangiare una zuppa da lui.—«Volentieri»—dice—«accetterò.»—Costui accetta e stanno a pranzo tutti contenti. La Regina no, perchè la non voleva veder òmini.—«Via»—dice il Re—«si trattiene molto Lei qua?»—«Oh!»—dice questo assassino—«un pajo di settimane.»—«Se mi favorisse tutti i giorni di venire a mangiare una zuppa con me, Lei mi farebbe un gran regalo.»—Quando gli è il quarto giorno che andava a pranzo da Maestà, questo briccone ordina non so quante botti di vino tutte alloppiate; e bottiglie, una quantità d'ogni qualità, tutte alloppiate; e le manda al palazzo. Figuratevi la servitù che vede tutte queste botti di vino! Quando gli è l'ora del pranzo, che a tavola c'era bottiglie e loro ci avevano le botti: bevi ch'io bevo! Sua Maestà non fece che bere, ma una cosa da non la si poter credere, più di mezze le bottiglie. Quando è finito il pranzo, questo assassino vien via come le altre sere:—«Addio a domani; addio a domani.»—Quando gli è una certa ora, chi casca di qua, ubbriaco; chi casca[225] di là: tutte le guardie erano alloppiate e Sua Maestà gli era più di loro: lo misero in letto. Venghiamo a questo briccone. Entra nel palazzo e vede una guardia qui addormentata, tutti addormentati. Va nella stanza su lesto, gira la gruccia e apre. Dice lei:—«Chi è?»—la Regina. Risponde l'assassino:—«Sono io, briccona.»—Gli dice:—«Adesso è il tempo della mia vendetta. Esci dal letto e va a prendere un bacino d'acqua, quando io mi laverò le mani intinte nel tuo sangue.»—Lei la va lì:—«Marito mio, svegliati!»—la dice e lo scote. E lui, il briccone, risponde:—«Eh! non si sveglia, no.»—Manda poi per un asciugamano, poi per non so che altra cosa. E lei sempre:—«Marito, svegliati!»—Ritorna al letto e dice:—«Marito, svegliati!»—Ed esso si sveglia. Il marito si sveglia:—«Cosa c'è?»—«Vedete quel briccone? Mi vole ammazzare.»—Prende la pistola che avea sotto il capo, la scarica e ammazza l'assassino.[4]—«Oh, ora poi»—dice lei—«potrò vedere quanti òmini che voi volete. Ma abbiate da sapere che ce ne sono quarantatrè altri di questi assassini;»—la gli dice—«e stanno nel tal posto, nella tal città.»—Subito Maestà spedisce i soi òmini, quattro e sei, per questo posto ch'ella avea detto. Quattro e sei? Altro! anche un centinajo; tutta la gendarmeria, i soi scudieri: spedì tutto. E li chiapparono pari pari, credetemi, tutte quelle genti. Chi squartato, chi bruciato, chi strascinato a coda di cavallo di questi assassini. Entrorno nel palazzo di questi assassini; presero le ricchezze, che non si può credere, erano più ricchi di Sua Maestà, e le portorono via e diedero foco al posto:—«Perchè se ve n'è rimasto qualcheduno»—dicevano—«sien bruciati.»—Andarono al palazzo del Re, portando tutta la ricchezza che non si pò dire. Gli raccontano che hanno[226] fatta l'ubbidienza e poi hanno bruciato il palazzo degli assassini. E allora lui gli dice:—«Bravi, io vi ringrazio!»—E avrà loro fatto il regalo, questo è certo. La Regina, lei allora lì con tutti que' signori, non aveva più paura e andava in società come tutte le altre. La chiede un giorno una grazia a Sua Maestà:—«Voglio una grazia. Voglio che si faccia un invito a tutti i Re del mondo, tutti tutti, che vengano a pranzo da noi; e chi non interviene, pena la testa.[5]»—Bisogna venire, delle teste ce n'è una. Poi la Regina la ordina che per suo padre, questo Re avaro, tutto fosse fatto sciocco; le pietanze tutte sciocche. E poi fossero rizzate le forche. Tutti i Re, tutti tutti intervennero, ed anche questo padre di lei; ed era fatto tutto sciocco per lui. Tutti dicevano:—«bravo»—qua—«bravo»—là—«bravo il coco!»—Questo vecchio dice:—«Tutti dicono: bravo il coco! ed io sento ogni cosa sciocca!»—«Sciocco come Lei, signor padre»—la gli risponde, la Regina.—«Io, padre?»—dice lui.—«Lei padre»—dice—«che non aveva che una figlia. Lei si ricordi, che per la sua avarizia la maritò ad un assassino. Ed io»—dice—«debbo a questi vecchi che mi hanno salvata la vita. Venga con me!»—Lo conduce dove c'era le forche:—«Guardi»—dice—«quel che c'è' per Lei!»—«Oh me lo merito!»—dice il padre, vedendo le forche. Quando gli è il boja per dare il colpo, dice questa Regina:—«Ferma! gli sia perdonato!»—Potete credere, gli vien giù quel povero vecchio, gli s'attacca al collo, baciandola e chiedendole scusa e perdono. E lei gli disse:—«Alzatevi, io vi ho perdonato.»—Ma il colpo di questo vecchio, tra i rimorsi, tra la paura, tra la vecchiaja, campò pochi mesi. Venne a morte e lasciò tutta la ricchezza alla figliola. Figuratevi che ricchezza la fu[227] quella! Se ne vissero e se ne godettero, e in pace sempre stettero.
NOTE
[1] Cf. Pitrè (Op. cit.) XXI. Lu spusaliziu di 'na Riggina c'un latru.
[2] Vedi Straparola, notte III, fav. IV.—«Fortunio, per una ricevuta ingiuria, dal padre e dalla madre putativi si parte, vagabondo capita in uno bosco dove trova tre animali, dai quali per sua sentenza è guiderdonato: indi entrato in Polonia giostra, et in premio Doralice figliuola del Re, in moglie ottiene.»—L'aquila, il lupo e la formica avevan dato a Fortunio di prender le forme loro a piacimento:—«Doralice mesta si ridusse sola in una cameretta non meno ornata che bella, e stando così solinga con la finestra aperta, ecco Fortunio il quale, come vide la giovane, fra sè disse: Deh, che non son io aquila! Nè appena egli aveva fornite le parole, che aquila divenne. E volato dentro della finestra e ritornato uomo come prima, tutto giocondo, tutto festevole se le appresentò. La Pulcella, vedutolo, tutta si smarrì e (sì come da famelici cani lacerata fusse) ad alta voce cominciò gridare. Il Re, che non molto lontano era dalla figliuola, udite l'alte grida, corse a lei; e inteso che nella camera era un giovane, tutta la zambra ricercò; e, nulla trovando, a riposare se ne tornò, perciocchè il giovane, fattosi aquila, per la finestra si era fuggito. Nè fu sì tosto il padre postosi a riposare, che da capo la Pulcella si mise ad alta voce gridare, perciocchè il giovane come prima a lei presentato si aveva. Ma Fortunio, udito il grido de la giovane e temendo della vita sua, in una formica si cangiò e nelle bionde trezze della vaga donna si nascose. Odescalco, corso a l'alto grido della figliuola e nulla vedendo, contro di lei assai si turbò; et acramente minacciolla, che se ella più gridava, egli le farebbe uno scherzo che non le piacerebbe. E tutto sdegnato si partì, pensandosi che ella avesse veduto nella sua immaginativa uno di coloro, che per suo amore erano stati nel torneamento uccisi.»—Vedi anche Pitrè (Op. cit.) XIX. Lu Scavu. Cf. Con la Novella II della Giornata IX del Pecorone:—«Arrighetto, figliuolo dello Impeadore,[228] nascoso dentro un'aquila d'oro, entra in camera della figliuola del Re d'Araona, e fatto accordo con essa la porta per mare in Alemagna. Guerra che ne avviene e la pace fatta per ordin del papa sotto pena d'escomunicazione.»—Da dove comincia:—«Il Re di Raona ebbe una figliuola, la quale avea nome Lena, giovane, bella, vaga, costumata e savia, ecc.»—fino a:—«ed essendone certo, se ne tornò al padre, e dissegli che il figliuolo dello Imperadore era venuto in persona e furata l'avea.»—Cf. per questo ascondimento nella statua d'un uccello l'annotazione alla stanza XIII del II Cantare del Malmantile, che rimanda al II Canto del Mambriano e per altri particolari della fiaba, vedi l'annotazione alla stanza VI del medesimo Cantare del Malmantile. Nel quale, in fin de' conti, si narra l'origine del proverbio È fatto il becco all'oca, onde si hanno varianti senza numero.
[3]È notevole la somiglianza di questo episodio con la Istoria bellissima di Angelina Siciliana, la quale amava grandemente Gesù Cristo, dalla quale sentirete, che per vivere castamente vendè fino i suoi capelli, quali furono poi la sua fortuna (Bologna. Alla Colomba).
La madre co' capelli via andò
A veder se qualcun li vuol comprare.
Una nobil signora li guardò,
Fece sta donna avanti a se menare.....
—«Ditemi, donna mia buona ed accorta,
Questi capelli son di qualche morta?»—
—«No»—rispos'ella presto presto allora
—«Son d'una figlia mia, vi fo sapere,
Che tagliati se gli è, non è un'ora.
Il dir bugie a Lei non è dovere.»—
Rispose allor la prudente signora:
—«Questa vostra figliuola vo' vedere;
E con i suoi li paragonerò.
Danar quanti volete io vi darò.»—
Entra in carrozza e giunse in tempo poco
Là dove era la casta verginella.....
Mossa a pietà la nobile signora
Non puol dagli occhi rattenere i pianti.
Comanda ai servi prestamente allora,
Che vadano a trovar vesti ed ammanti.
Un nobil cavalier, magno signore,
S'ebbe di tal donzella innamorare.
[229]Fra sè dispose dentro del suo core
Per propria sposa volerla pigliare.
Chieder la fece con molta prestezza:
Gli risposer di si con allegrezza. Ecc. ecc.
[4] La storia di Scirone ladrone, nel Canto Quinto della Rodi salvata | canti sette | del Conte e Cavaliere | Vicenzo Marenco | Opera postuma | continuata e terminata | da | Giuseppe Turletti | con gli argomenti dello stesso || Carmagnola 1833. | per i Tipi di Pietro Barbiè; corrisponde perfettamente a quest'episodio. La racconta in Isciro, Gualtieri, signore di essa isola.
Fama è, ch'allora empio ladron tenesse
Coteste spiagge, che Sciron fu detto,
Che quanti il caso qui sospinto avesse
Stranieri, o il vento ad approdarvi astretto,
Con arte infame ad albergar traesse
Entro solingo ed esecrabil tetto,
Dove sotto accoglienze amiche e liete
Poi gli ancidea furtivo all'ombre chete.
Finchè da' venti qui sospinto venne
L'Attico Prence domator de' mostri,
Dal Termodonte le vittrici antenne
Qui raccogliendo e i coronati rostri;
L'usato stil con esso il ladron tenne,
E a scender l'invitò sui lidi nostri,
Chè de' tesori ond'era carco il legno
D'arricchirsi fra sè volgea disegno.
A lieta mensa il traditor l'accoglie
Col fior di quella gioventude Achea;
E medicati vin con certe foglie,
Che fan stupidi i sensi in chi ne bea,
Lor versa in copia; e 'n suo pensier già coglie
Dell'opra il frutto scelerata e rea,
Che pensa in breve a cupo sonno e forte
Veder ciascuno in braccio e darlo a morte.
Ma sua ventura vuol, che l'amorosa
Amazone bellissima Reina,
Del giovinetto vincitor già sposa,
Nè a bevanda nè a cibo il labbro inchina.
E allor ch'immerso in cupo sonno ei posa
Sola desta rimane a lui vicina,
Mentre, caduto già 'l diurno lume
Steso ei giacea su le malfide piume.
A par del Duce in stupida quiete
Giacean profondamente i Greci avvinti;
[230]E l'infame ladron tra l'ombre quete
Già tutti avea que' sventurati estinti;
Anzi già ne veniva alle secrete
Stanze, u' chiudea dal sonno i lumi vinti
Il buon Teseo fra l'amorose braccia
Della Reina, ch'al bel sen lo allaccia.
E gode, il suo giungendo al caro viso,
Pascer di dolce fiamma i suoi sospiri,
E sulle mute labbia un indiviso
Spirto raccoglier ne' di lui respiri.
Quando sul limitar, di sangue intriso,
Avvien che l'empio penetrar rimiri,
Al chiaror, che dagli astri entra nel tetto:
Ma vario dal pensier segui l'effetto.
Chè la vigile Amazzone coll'asta,
Che sempre a canto era tenersi avvezza,
Il ferro del ladron, che già sovrasta,
Qual può meglio ripara, e 'l colpo spezza;
Quel vinto dal timor già non contrasta.
Ma fugge, e sol ne' piè pon sua salvezza;
Scuote il Campion la spaventata donna,
Ch'alla scossa e al rumor più non assonna.
E fatto a un cenno della fraude accorto,
Stringe il brando e 'l fellon premendo segue,
Benchè per calle essendo obbliquo e torto
Oltr'ei trascorso, di lontan l'insegue.
Alfin lo scorge omai vicino al porto,
E tanto va, che par ch'ormai l'adegue,
E almeno di salir la nave u' solo
Potria salvarsi, l'impedisce a volo.
Vista de' fidi suoi sul lido infando
Avea intanto la strage il Greco Duce,
E contro il traditor di rabbia urlando
Come fiamma nel volto arde e riluce;
L'incalza a tergo con l'invitto brando,
Che gli folgora in man di mortal luce;
Tutta la notte il segue e già ne preme
L'orme coll'orme e d'afferrarlo ha speme.
Per pian, per colle, per dirupo e balza,
Quel fugge, e l'ali al piè timor gli porge,
Qual capriol, cui leopardo incalza,
Di vallone in vallon s'abbassa e sorge,
Sopra una costa, che stringendo s'alza
In erto scoglio alfin, e in mar ne sporge,
Sale e si trova in sul finir del monte
Con Teseo a tergo e 'l mar d'intorno e a fronte.
Tocca la cima e d'alcun lato scampo
Più non si vede, onde giù balza e piomba,
[231]Dov'altri scogli fanno ai flutti inciampo
E 'l lido e l'onda al suo cader rimbomba.
Giunge in vetta il guerriero in men d'un lampo
Che l'aria ancor del precipizio romba,
E lo sparso cerebro in sulle sponde
Ne vede e 'l busto volteggiar sull' onde.
[5] Fra' pregi della Novellaja fiorentina non può annoverarsi certo quello di dar giuste nozioni ed esatte di diritto internazionale. Pari in pari non ha imperio.
IL RE CHE ANDAVA A CACCIA.[1]
Il Re che si divertiva alla caccia, un giorno, mentre era alla caccia, si fa un temporale di fulmini, di tutto. Loro (il Re e i suoi signori, che vanno insieme) scappano chi di qua chi di là. Nello scappare inciampa in un mazzo di chiavi. Prova qui, prova qua, sur una piazza si trovorono, non apriva che un bel palazzo. Loro aprono e vanno su e domandano:—«Si pole?»—Uh, nessun risponde. Trovano, gira, gira, una bella stanza con una tavola apparecchiata, ma imbandita per trenta persone. Chiama chiama, nessuno risponde. Si mettono a mangiare, gua', se nessuno rispondeva! Dopo che gli hanno mangiato, principiano a girare il palazzo; e vedono da lontano tutto una quantità di lumi, tutto un chiarore: si vedeva bene che c'era una illuminazione, gua'. Vanno in là, entrano in questa stanza e vedono un catafalco alto, con una donna morta, una bella giovine morta. Maestà dice:—«Guardiamo se la si porta giù.»—a que' signori. La portan giù per vedere se la non era morta, la mettono sur un sofà e il Re comincia a fare:—«Ah che peccato, questa bella giovane, che sia morta! guardate che be' capelli!»—Nel far così, nel lisciarla, gli sente un bozzolino in capo; gnene tira via e la risuscita. Gli era uno spillo ficcato, uno spillo tanto lungo.—«Ah!»—dice la giovine. L'apre gli occhi e dice:—«Dove sono?»—«In che maniera»—gli[233] dice il Re—«questa cosa?»—«Una fata maligna, per astio»—dice—«che io era bella, fece questa cosa: ficcò lo spillo e m'ammazzò.[2]»—«Poerina!»—dice il Re.—«Ora non abbiate paura. Ora»—dice—«sarete con noi; non ci sarà paura di questa briccona.»—Eccoti, dopo il suo tempo, il Re va via e gli lascia tutto preparato, da mangiare quel che ci era e gli prende una damigella per compagnia. Invece d'andare una volta o due la settimana a caccia, ci andava ogni giorno, perchè gli premeva d'andare da lei, gua'. Lui gli dice:—«Sentite, io vi voglio sposare, voglio che siate per mia moglie.»—«Oh»—dice lei—«per me, sia un Re, sia un altro, è la medesima.»—Gli era figliola d'un Re anche lei. Eccoti che si sposano; e dopo poco, lei riman gravida. Allora sì che il Re più che mai spesso l'andava alla caccia: sempre gli era là. La madre s'insospettisce e la dice a uno dei soi:—«Quando mio figlio va alla caccia, andategli dietro, e guardate»—dice—«dove va.»—Dunque il figliolo è tornato. Quando gli è il giorno che va alla caccia, questo signore gli va dietro alla lontana, e vede che entra in questo palazzo. Questo signore domanda:—«Chi ci sta in questo palazzo?»—Dice:—«Una Regina ci sta. Per la quale»—dice—«sarà stata sposa. Non sarà neppure nove mesi che l'ha sposata un Re. Anzi ora»—dice—«l'è per partorire.»—Dunque, a tornare addietro, lui torna al palazzo e gli racconta tutto alla Regina madre. La Regina partorisce e fa un bambino. Dopo che lei ha partorito, il Re si trattiene un pezzo da lei; e poi torna dalla madre a il palazzo. Quando gli è tavola:—«Oh Rosa e Fiore, tu m'hai trafitto il cuore.»—E respira e dice codeste parole. La madre figura di non intendere. E sempre questi sospiri:—«Rosa e Fiore, tu m'hai[234] trafitto il core!»—Gli era la moglie e il figliolo. Eccoti lui va via e figura d'andare a caccia e torna dalla Regina, e la Regina l'era un'altra volta incinta. Viene e partorisce e fa una bambina. Si trattiene qualche giorno e poi ritorna a il palazzo da sua madre, lui. E a tavola diceva:—«Rosa, Fiore e Candida, tu m'hai trafitta l'anima; Candida, Rosa e Fiore, tu m'hai trafitto il core.»—E sempre così a tutta la tavola, sospira e queste parole. Che ti fa la vecchia? Scrive una lettera fulminante[3] a questa Regina, dicendogli che lei in tempo di sei giorni gli facesse tanto piacere di mandargli i suoi bambini per quattro a sei giorni. La manda per l'istesso signore che andiede addietro a il Re, questa lettera. Eccoti arriva lassù dalla Regina, gli fa leggere questa lettera. La legge e sente che la socera la bramava tanto questi bambini. Lei la lo crede, la crede che la dica il vero, la li prepara tutti per bene e la li manda per questo signore. E li porta alla Regina vecchia; questo signore la gnene porta questi bambini. La vecchia, manda a chiamare il coco:—«Questi bambini, ammazzali e falli arrosto.»—Quest'omo, invece d'ammazzarli, scappa dalla moglie e gli dice:—«Tienimi conto di questi bambini: poi tu saprai perchè.»—Eccoti va in mercato il cuoco e compra due porcellini, due porcellini piccoli, avete inteso? Gli leva il capo e le gambe e li fa arrosto. Venghiamo all'ora del pranzo:—«Oh Rosa, Fiore e Candida, tu m'hai trafitta l'anima; Candida, Rosa e Fiore, tu m'hai trafitto il core.»—Sempre così, dice il Re.—«Eh!»—la gli fa la madre; la gli dice a il figliolo:—«Eh!» mangiate e bevete, che dinanzi Fiore e Candida avete.»—La crede che siano i figlioli quelli che sono fatti arrosto. A tornare un passo addietro, il Re gli aveva donato una sonagliera alla sposa lassù, una sonagliera d'oro.[235] E gli disse:—«In qualunque bisogno tu abbi di me, sona questa sonagliera e io ti apparisco a tutte l'ore.»—Eccoti in questo tempo un suo parente gl'impone guerra; ed ebbe appena tempo di scrivere la lettera alla sposa e andar via. Dice addio alla madre, che figura di piangere; e alla sposa figuratevi che lettera gli manda! La madre, che sa che il figlio l'è alla guerra, scrive una lettera alla nora e dice: che la vedesse i suoi bambini, non li riconoscerebbe quanto sono avvenuti belli, e che a tutte le maniere lei la venga qua nel palazzo, che lei la sta aspettandola a braccia aperte. Eccoti la Regina riceve la lettera e sente queste cose: subito lei la si prepara per vedere i suoi bambini:—«Intanto»—dice—«starò con la sòcera.»—Eccoti la si mette in viaggio e arriva a il palazzo. La Regina vecchia aveva già dato ordine che il forno fosse scaldato, ma scaldato proprio da bono, da cocere. Arriva al palazzo, credendo d'essere ricevuta per bene:—«Oh»—dice—«dove sono i miei bambini?»—«Ah briccona!»—dice la vecchia—«ora vedrai dove sono i toi bambini. Tu avevi sposato il mio figlio!»—dice.—«Qual'è stata l'audacia di sposare il mio figlio? ora vedrai la vendetta che io farò, io.»—La conduce là nella stanza del forno.—«Vedi? quella ha da esser la tua morte; hai da andar lì dentro[4].»—«Se io»—dice—«devo fare la morte così, almeno imploro la grazia che mi dia un'ora di tempo prima di morire, da me, segregata, in una stanza segregata.»—«Ebbene, sia concesso»—dice la vecchia. La mette in questa stanza. Lei si ricorda della sonagliera, che il marito gli disse:—«In qualunque bisogno, sonala; ed io ti apparirò.»—Principia a sonare, sodo, sodo, sodo. Eccoti il Re che gli apparisce alla sposa. E gli dice lei:—«Vedi quelle fiamme, le son per me, per via di tua madre.»—Eccoti, apron[236] l'uscio per portarla nelle fiamme e vede la vecchia che ci è il suo figlio. Che ti fa, lui? Prende in collo la madre di peso e la mette in forno e serra. Ordina a tutti i servitori che nessuno aprisse il forno; lasciassero bruciare come l'andava. Eccoti il coco che sente che ci è il Re; scappa a casa dalla moglie, prende i bambini e li porta a palazzo:—«Maestà»—dice—«Maestà, questi sono i soi figli che la sua signora Madre mi aveva detto che li ammazzassi e li cocessi per Lei. E, invece di cocerli, li portai alla mia moglie e comperai due porcellini, gnene cossi e Lei li mangiò.»—«Ah traditora! Maraviglia che diceva: Mangiate e bevete, che dinanzi Fiore e Candida avete!»—Chiama la Regina: la vien di qua e la vede i soi bambini. Figuratevi questa donna, la sua contentezza, non si pò spiegare, gua'! a vedere i soi bambini! La dice:—«Qui va compensato quest'omo.»—«Saprò il mio dovere»—dice il Re. Il Re gli dice che vada a casa, prenda la sua moglie e venga a palazzo, che sarà lui il maggiordomo e sua moglie la prima dama della Corte. E così se ne vissero e se ne godettero, e a me nulla mi dettero.
NOTE
[1] Lo stesso che Sole, Luna e 'Talia, trattenimento V, giornata V del Pentamerone:—«'Talia, morta pe' 'n'aresta de lino, è lassata a 'no palazzo, dove capitato 'no Re, nce fa duje figlie. La mogliera gelosa l'ave 'mmano; e commanna che li figlie siano date a magnare cuotte a lo patre e 'Talia sia abbrusciata. Lo cuoco sarva li figlie e 'Talia è liberata da lo Re, facenno jettare la mogliera a lo stisso fuoco apparecchiato pe' 'Talia.»—Cf. Pitrè, (Op. cit.) LVIII. Suli, Perna ed Anna. Gonzebach, (Op. cit.) III. Maruzzedda e IV. Von der schönen Anna.—La bella Ostessina, altra Fiaba della presente Raccolta, è una variante di questa. Cf. De Gubernatis, Le Novelline di[237] Santo Stefano di Calcinaja XII. La crudel matrigna.—Da questa tradizione popolare, Luigi Groto (il Cieco d'Adria) tolse l'argomento d'una tragedia, la Dalida (Veggasi specialmente A. II. Sc. II). Se non che l'esito non è consolante appo il Groto. E qui mi cade in acconcio di notare, come tutti gl'istoriografi della letteratura italiana parlino da dugent'anni in qua del Cieco d'Adria e delle scritture di lui, che pur meriterebbero un esame attento, senza nemmen leggerlo: chè, se altrimenti fosse, si sarebbero accorti un'altra sua tragedia, l'Hadriana, essere una delle fonti del Romeo e Giulietta dello Shakespeare e trovarvisi persino il personaggio della nutrice (Vedi nella già citata Difesa del Costantino:—«Il bellissimo soggetto dell'Adriana, tragedia del Cieco d'Adria, leggiadramente imitato dalla prima novella del secondo volume del non mai a bastanza commendato Bandello, è 'l caso stesso del mio Poema. Il figlio di Mezzenzio, Re de Latini, assediando col padre la città famosissima d'Adria mentre che stava quasi per maturar l'onore del suo trionfo: mentre ch'era vicino a godere il frutto de' suoi sudori; scorgendo in una torre la vaga figlia del Re nemico, che (a guisa dell'Erminia del Tasso o di Romilda duchessa infelice del Friuli) osservava in quel luogo l'oste nemica, con bell'ordinanza attendata nella campagna, egli se n'invaghisce e se n'invaghisce sì fieramente, che posto in non cale il suo padre, la riputazione dell'armi, la fortuna de' suoi guerrieri, il proprio onore e la medesima vita; travestito introducesi furtivamente nell'assediata città, per poter discoprire alla figlia dell'inimico l'occulto incendio che 'l consumava. Ecc. ecc.»—) Ma quando avremo istorici letterarî che valgan qualcosa? Che leggano almeno gli scrittori de' quali ragionano? Pare che Francesco Redi fosse un po' più studioso delle opere del Groto, giacchè trovo ne' suoi scherzi un verso: S'aver ti posso un giorno in mio dominio, ch'è preso dalla Emilia del Cieco d'Adria (Atto II. Scena V) dove suona: Ma s'io potessi averla in mio dominio.
[2] Finchè dura un incantesimo, il corso del tempo è sospeso per la persona incantata. Appo il Pitrè, nel cunto XIX, intitolato Lu scavu, si legge:—«'Sti morti avianu persu la vita pi' manu di lu Scavu, e la maravigghia è ca nun passavanu mai, ma arristavanu sempri comu s'avissiru mortu allura.»—Così Torquato Tasso, nel primo del Rinaldo (St. XXXXIV), fa dire al vecchio, che spiega al protagonista l'incanto di Bajardo:
Nè ti meravigliar, se 'l destrier vive
Dopo sì lungo girar d'anni ancora,
Che 'l fil troncar d'alcun le Parche dive
Non ponno, s'incantato egli dimora;
Nè fra l'imposte al viver suo, gli ascrive
Il fato di quel tempo una sol'ora;
Grande è il poter de' Maghi oltre misura,
E quasi eguale a quello di natura.
[3] Fulminante, qui sta solo per premurosissima. La narratrice non doveva aver coscienza di tutto il valor del vocabolo.
[4] Pare che in questa corte fosse in uso la infornagione, come in quella di Nabuccodonosorre: Tunc Nabuchodonosor repletus est furore, et aspectus faciei illius immutatus est super Sidrach, Misach et Abdenago: et praecepit ut succenderetur fornax septuplum quam succendi consueverat. Et viris fortissimis de exercitu suo jussit, ut ligatis pedibus, Sidrach, Misach et Abdenago, mitterent eos in fornacem ignis ardentis. (Daniele III. 19. 20).
LA BELLA OSTESSINA[1].
C'era una volta (dove non me ne ricordo) una Ostessa, la quale era di molto bella, sicchè aveva una grande nomèa e tutti correvano al suo albergo, se non foss'altro per la curiosità di vederla e parlarci. L'Ostessa aveva pure una figlia, che crescendo superò la madre in bellezza e grazia, e a diciott'anni non c'era donna che gli potesse stare al paragone. La gente pertanto, se andava all'Albergo in gran numero, ora non ci andava più per la madre, bensì per la figliola, che veniva chiamata la Bell'Ostessina, per distinguerla dalla prima. Gli è un vizio delle donne, specialmente quando le cominciano a invecchiare, di farsi invidiose della gioventù; e così accadde all'ostessa. La figliola gli era un pruno negli occhi e non poteva soffrirsela d'attorno. E gli crebbe tanto l'odio e la rabbia contro il proprio sangue, che deliberò ammazzare la Bell'Ostessina, dove non gli riuscisse ridurla imbruttita. Piena di stizza, l'Ostessa cominciò a tenere la figliola sempre chiusa, a dargli poco da mangiare e a strapazzarla in tutti i modi acciò la cascasse in isfinimento; ma, non si sa come, la ragazza non ne pativa nulla e la bellezza gli cresceva. La madre avrebbe dato il capo per le mura; e finalmente deliberò di cavarsi la figliola dinanzi agli occhi e finirla. Per non dare sospetto, chiamò un servitore, su cui gli pareva poterci contare, e gli diede ordine di condurre la Bell'Ostessina in un[240] bosco e lì ammazzarla, e poi a testimonianza del fatto portare a lei le mani, il core e una boccetta piena del sangue della figliola. Il servitore, a quel comando, rimase di sasso; ma, conoscendo l'umore della padrona, temette che rifiutandosi non salvava di certo la ragazza, perchè la barbara madre in un modo o in un altro l'avrebbe scannata. Disse dunque di obbedire e il giorno dopo andò nella camera in cui era chiusa l'Ostessina e gli fece assapere che la sua mamma voleva che lui la menasse un po' a spasso in poggio a svagarsi. L'Ostessina, che era di cuor bono, non sospettò a male; anzi la si persuase che la sua mamma si fosse rimutata; però quest'idea gli era venuta con un tantino di turbamento: pure la si vestì de' meglio abiti e col servitore avviossi al bosco nel poggio vicino. Cammin facendo, il servitore stava sopra a pensiero, e non sapeva capacitarsi di dovere ammazzare quella bellissima creatura e mulinava al come avrebbe salvato capra e cavoli[2]. Nel frattempo giunsero in mezzo del più folto del bosco. Qui il servitore, buttatosi in ginocchioni, raccontò all'Ostessina quel che la sua mamma gli aveva comandato. L'Ostessina a quella scoperta si sentì tutta diacciare e quasi la dubitava una invenzione del servitore. Ma questo gli giurò che pur troppo era vero quel che diceva e che bisognava pensare a rimediarci, sicchè l'Ostessa non la pigliasse con lui se disobbediva e non s'arrapinasse per trovare la figliola per finirla dove sapesse che non era stata morta. L'Ostessina disperata disse:—«Piuttosto che vivere così e odiata dalla mamma, voglio morire. Ammazzami dunque e esegui quel che lei ti ha ordinato.»—Ma il servitore replicava:—«Ma vi pare che sia tanto spietato e birbone? V'ho menato qui apposta per salvarvi e vi salverò a tutti i patti!»—Nel mentre che que' due discorrevano contrastando,[241] venne a passare un pecoraio con di molti agnellini nati di poco. Al servitore gli nacque il pensamento di comprarne uno, scannarlo e cavargli il core, e portar questo assieme col sangue all'Ostessa, dandogli ad intendere che fossero della sua figliola: ma le mani? La ragazza disse:—«Tagliamele, che l'avrai.»—E il servitore:—«Come volete campar la vita senza le mani? Ne farò di meno.»—Comprato dunque l'agnellina, il servitore messe ad effetto quanto aveva macchinato. La ragazza si spogliò di tutti i panni, e rimasta colla camicia sola, li diede al servitore perchè anco quelli riportasse a casa, e fu lasciata in abbandono nel bosco[3]. L'Ostessa, che impaziente aspettava il servitore, gongolò dalla gioia, vedendolo ritornare con i segni dell'ammazzamento commesso; ma, quando s'accorse che mancavano le mani, gridò con mal viso al servitore:—«E le mani dove sono?»—Rispose il servitore:—«Che volete? non ho avuto coraggio di tagliargliele alla vostra figliola, dopo tanto male che per obbedirvi gli ho fatto. O che non vi bastano quest'altri segni? Ci son fino i vestiti.»—Abbene che l'Ostessa rimanesse con un po' di sconcerto nell'animo, pure s'addimostrò contenta. E imposto al servitore di stare zitto, sparse voce che la figliola era morta presso un parente lontano, da cui era andata per istarci qualche mese. La Bell'Ostessina intanto, lasciata lì sola e quasi ignuda nel bosco, fu sorpresa dalla notte, dal freddo e dalla fame; sicchè, piena di paura, intirizzita e rifinita, si sentiva morire. Tutt'a un tratto gli comparve dinanzi una vecchia, che gli domandò chi fosse e che facesse lì a quell'ora nel bosco e in quell'arnese. La ragazza gli raccontò per filo e per segno la sua cattiva ventura, per cui la vecchia gli disse:—«Povera fanciulla! ti piglierò con meco, ma a patto che tu mi sia sempre ubbidiente.»—L'Ostessina glielo[242] promise; e la vecchia, presala per la mano, la condusse ad uno splendido palazzo incantato, dove nulla gli fece mancare ed era trattata al pari di una Regina. La vecchia tutti i giorni andava a girondolare per gli affari suoi e non tornava che a sera tarda. Prima di uscire disse all'Ostessina:—«Senti, dammi retta e fai a modo mio. Io sono una Fata di quelle bone, e ti avverto che tu non ti lasci adescare da nessuno, che venga in questi dintorni. La tua mamma malandrina sta in sospetto che tu non sia morta, e tra poco lo saprà di certo e manderà a cercarti, perchè t'ammazzino. Dunque bada a tenere gli occhi aperti.»—Ciò detto, uscì. In quel frattempo l'Ostessa ripensava a quelle mani, che il servitore non gli aveva portato dopo morta la sua figliola, e sempre più gli cresceva il dubbio, che il servitore fosse un bugiardo e non avesse eseguito i comandi. Un dì, stando sulla porta dell'albergo, l'Ostessa vedde passare una Strolaga, sicchè la chiamò per farsi strolagare; a questo effetto gli porse la mano e gli domandò se gli poteva leggere in core. La Strolaga, fatti i suoi esami, disse:—«Bell'Ostessa, voi avete una figliola che pensate morta e invece è viva, e sta da gran signora nel palazzo di una Fata, che gli vole di molto bene, e nessuno la potrà mai ammazzare.»—Questa notizia riescì amara di molto all'Ostessa; per cui, arrabbiata, macchinò un nuovo modo per giungere a far morire la figliola. Siccome sapeva che gli piacevano i fiori, fece un gran mazzo e lo sparse di veleno; poi chiamato un servitore gli disse di fingersi un venditore di fiori e andare a urlare—«chi vuol fiori?»—sotto il palazzo della Fata. Il servitore obbedì a' comandi appuntino. La Bell'Ostessina, sentendo quel gridìo, dismenticando gli avvisi della vecchia Fata, scese e comprò il mazzo de' fiori; ma a mala pena c'ebbe messo il naso, che cascò morta in sul momento. Rivenuta[243] la Fata a casa, picchia e ripicchia e nissuno gli apriva; infine, impazientita, diede un urtone all'uscio e lo spalancò e su per le scale vedde lo spettacolo della ragazza morta stecchita. Esclamò:—«Te l'avevo detto, scapataccia, e non hai voluto ubbidirmi. La tua mamma l'ha lunghe le mani. Sarè' capace di lasciarti star costì e non ricorrere all'arte mia per farti rinvivire.[4]»—Ma, riguardando quel corpo tanto bello e ripensando quanto l'Ostessina era bona, si ripentì; e con certi unguenti e scongiuri ridiede alla vita l'Ostessina, che vispola e rinsanichita si alzò in piedi. Allora la vecchia soggiunse:—«Bada di non cascare un'altra volta in queste reti, perchè un'altra volta non sarò così misericordiosa. Voglio che tu m'ubbidisca, ha' tu 'nteso?»—La giovane promise, che da lì innanzi sarebbe stata ubbidiente. Qualche giorno dopo, la Strolaga venne a ripassare dall'albergo della bell'Ostessa; questa la chiamò per farsi di nuovo strolagare e gli perse la mano. La strolaga, esaminatala a garbo, disse:—«Quella figliola, che sta nel palazzo della Fata non si può ammazzare: la Fata l'ha in protezione e oggi è viva come prima.»—L'Ostessa non si perdette d'animo, ma volle ritentare la prova. Sicchè, sapendo che la sua figliola era ghiotta delle stiacciate[5], ne manipolò un certo numero e le empì di veleno; e poi le diede ad un servitore, che in figura di pasticciere l'andasse a vendere sotto il palazzo della Fata. La Bella Ostessina, che già più non pensava al risico trascorso, scese, comprò le focacce e, rimontata in camera, le mangiò tutte; se non che di lì a poco cadette morta in terra. Rieccoti la vecchia Fata, e picchia e ripicchia, e nessuno gli apre: dato un calcio all'uscio, lo spalanca; e, giunta in camera, trova l'Ostessina stecchita. Alla vecchia gli girò il boccino; e quasi quasi voleva tenere la promessa fatta alla ragazza di[244] lasciarla morta; ma poi, il buon core gli parlò meglio e la rinvivì. Quando la vedde in piedi, gli disse con faccia seria:—«Senti bene, e ti giuro che la mia parola la custodirò: se ti avviene un'altra volta un simil fatto, per me ti lascio stare e alla vita tu non ci ritorni.»—L'Ostessina gli disse che aveva ragione, e che da ora in là baderebbe di non ricadere in quelli sbagli. Accadde, che di lì a pochi giorni venne a cacciare per la selva il Re di una città vicina; e passando dal palazzo della Fata, vedde l'Ostessina alla finestra e se ne innamorò. Lui seguitando per varie volte quelle passeggiate e quelle occhiatine, anche l'Ostessina si sentiva tirata verso il Re; nulla di meno, siccome il Re non gli aveva detto niente, nè mandato ambasciate, così non sapeva quel che sarebbe nato. Intanto la Strolaga era ritornata dalla Bell'Ostessa, informandola come la figliola sua viveva sempre e come un Re se n'era invaghito. L'Ostessa, incaponita di riuscire nell'ammazzamento della figliola, sapendola alquanto ambiziosa e credenzona, macchinò di giungere a quell'intento con un novo inganno. Fece fare de' bellissimi abiti alla reale e una corona di oro piena zeppa di pietre preziose, e dappertutto messe del veleno, che al solo toccarlo credeva fosse capace di fare morire; poi, chiamati diversi servitori, li mascherò con livree e gli comandò di andare al palazzo della Fata, di cercare l'Ostessina e presentargli quelle robbe come un dono del Re suo amante. Quelli ubbidirono appuntino. L'Ostessina credette davvero che i servitori venissero da parte del Re; sicchè, presi gli abiti e la corona, senza frappor tempo se ne acconciò. Ma di lì a poco cascò morta in terra. Quando la vecchia Fata rivenne a casa e trovossi a quella tragedia, imbizzarrita disse:—«Tu l'hai voluta, e sia. Ora poi non ti rinvivisco a nessun patto. Ma anche questi luoghi tu me gli hai fatti venire in uggia.»—Presa[245] quindi in su le braccia la giovane, costruito un ricco catafalco nel mezzo del salone e per arte magica circondatolo di ceri perpetuamente accesi, ci pose sopra il corpo morto vestito com'era alla reale. Poi chiuse tutte le finestre del palazzo; e statuì che dentro vi fosse per tre anni quanto occorreva per il servizio abbondante di tre principi; e trasmutata la posizione della selva perchè il palazzo non si ritrovasse tanto facile, serrò l'uscio di entrata e ne tolse seco la chiave; la quale, giunta al mare, ve la scaraventò nel fondo e dietro a quella andò lei medesima. Il Re, di cui s'è fatto menzione, e che era un bel giovane scapolo, ritornando alla caccia, rimase sbalordito non ritrovando più la via del palazzo in cui aveva veduto l'Ostessina, e si confondeva nel pensare come accadesse tal contrattempo. Ora bisogna sapere, che al servizio di cotesto Re stavano certi pescatori, che gli fornivano ne' giorni di magro il meglio pesce marino. Un venerdì, non si sa come, pesce in mare non ne pigliarono punto, per cui il coco stimò necessario farne cercare sul pubblico mercato; ma sul pubblico mercato non c'era che un pescione sterminato, e agli spenditori gli convenne comprarlo in mancanza d'altro. Lo stupore del coco fu però grande, quando, sparato il pesce, gli rinvenne in capo una grossa chiave. Subito la portarono al Re, il quale non conoscendo che uscio aprisse, e sospettando che andasse a qualche toppa di palazzo meraviglioso, deliberò di non separarsene mai e a quest'effetto se l'appese al collo con una catena d'oro. Il Re intanto non si dava pace nel ricercare l'abitazione dell'Ostessina. Un giorno, presi con seco due servitori fedeli e messosi tutti lo stioppo da caccia ad armacollo, partirono a levar di sole. Dopo percorso gran paese e folte boscaglie, sopraggiunse una notte tanto buja, che nessuno sapeva dove mettesse i piedi fra mezzo agli alberi e a' pruni.[246] Si tenevano per perduti; e difatto il Re smarrì un compagno, sicchè andava solo a tentoni coll'altro. Ad un tratto gli parve da lontano scorgere un chiarore e a quello con molta pena s'indirizzarono; e stanchi e trafelati e intirizziti dal freddo, giunsero alla porta di un palazzo. Picchiarono e ripicchiarono, ma nessuno apriva. Al Re allora venne in mente la chiave, che teneva al collo; e avendola provata nella toppa, rimase stupito nell'accorgersi, che pareva la sua e che apriva la porta benissimo. Entrano, salgono le scale, e sebbene il palazzo fosse pieno di lumi, non appariva anima viva. Nella sala trovarono una mensa riccamente apparecchiata, su cui stava un gran mazzo di chiavi, e in un canto della sala istessa vi era un camminetto acceso. Il Re ed il servitore, esaminato ogni cosa, nell'idea di aspettare se qualcuno venisse a salutarli, si posero intanto al foco per rasciugarsi. Poi si sedettero a tavola e mangiarono. E ogni volta che le pietanze erano finite, mani invisibili ne recavano delle altre sempre più squisite e appetitose. Il Re capì bene che quel palazzo doveva essere incantato; per cui non istava senza temenza; ignorando se chi lo possedeva fosse un Genio buono o cattivo. Ad ogni modo, siccome il Re era di molto ardito, quando fu ristorato, disse al servo:—«Piglia un lume e visitiamo il palazzo; questo mazzo di chiavi di certo apre le porte degli appartamenti.»—Girarono tutto il palazzo, ma da ogni parte riscontrarono il medesimo deserto e la medesima solitudine. Quindi l'ammirazione di que' due era grande, tanto più che scorgevano una ricchezza di addobbi e di mobili incredibile; l'oro e le gemme luccicavano ammonticchiate. Quasi disperati di arrivare a scoprire i padroni del palazzo, si avviavano di novo nella sala, e nel ragionare il Re gettò gli occhi ad una porticella, che prima non aveva veduta: subito col servo e co' lumi corse a quella,[247] e dopo provatovi più chiavi nella toppa gli riuscì aprirla. La porticina dava accesso ad una fuga di stanze, anche più di lusso dell'altre; ma, giunti ad un salone, il Re ed il servitore restarono fra istupiditi e impauriti nel mirarvi in mezzo un catafalco circondato di ceri accesi e con sopra una donna morta. Rimessi un po' in calma, il Re s'avvicinò al catafalco, ed ebbe quasi a svenirsi, nella morta riconoscendo l'Ostessina tanto ricercata. Diè in disperazioni, e il servitore pensò bene di tirarlo via di là. Ma prima volle prendere un ricordo della giovane, e a quest'effetto gli levò un anello gemmato da un dito; se non che dal terrore gli si rizzarono i capelli in capo, giacchè appena cavato fuori l'anello la giovane morta mosse la mano. A quella veduta il Re disse:—«Quì c'è qualche incanto, e la ragazza non è morta. Proviamo a spogliarla.»—Detto fatto, la misero nuda come dio la creò. E a mala pena nuda l'Ostessina si stirava e sbadigliava, come se svegliata da un lungo sonno; e finalmente, aperti gli occhi, nello scorgersi in quello stato in faccia a due òmini, stava fra l'ingrullita e la vergognosa e cercava scappare e nascondersi. Avendola non pertanto il Re assicurata che nulla aveva da temere e raccontatogli in brevi parole l'accaduto, l'Ostessina si rinfrancò, e fattasi menare nella camera sua del palazzo, coi vestiti che ci erano sempre, in un momento acconciossi a garbo. A non andar per le lunghe, il Re e l'Ostessina, innamorati com'erano, si sposarono e vissero lì in quel palazzo da due o tre anni, senza che di nulla mancassero; anzi il matrimonio loro fu così felice, che ne nacquero due be' figlioli maschi. Frattanto la madre del Re, che dal giorno della partenza non aveva più nulla saputo del figliolo, ne faceva fare continua ricerca; ma indarno, e oramai credeva che fosse morto, e però aveasi rimesso l'animo in pace. Se non che in quel mentre capitò la[248] solita Strolaga dalla Bell'Ostessa e gli disse, come la figliola sua non era mica morta, e che invece se ne godeva gaudiosa vita, sposa del Re, nel palazzo incantato. L'Ostessa, sempre di mal'animo, che ti fa? corre dalla Regina e gli racconta tutto; per cui la Regina, se da una parte s'allegrò nel sentire vivo il figliolo, dall'altra era arrabbiata di molto in quantochè lui avesse preso in moglie una ragazza di bassa nascita e di vile mestiere.[6] Non pose dunque tempo in mezzo e pensò al rimedio, che fu di dividere a qualunque costo gl'innamorati; e a questo anche l'Ostessa per odio contro il proprio sangue la istigava, mettendola su con parole infinite e false calunnie. La Regina scrisse una lettera al figliolo, e siccome la via del palazzo incantato l'avevano ritrovata, gliela mandò con ordine di tornare subito alla Reggia a riprendere il governo del popolo. Ma il Re gli rispose che stava là troppo bene e non voleva per niente separarsi dalla sua cara moglie e da' suoi bambini. Allora la Regina ricorse a un ripiego: diede ad intendere al figliolo che la sua assenza aveva provocato l'ambizione del Re confinante, il quale s'era mosso colle sue genti ad assaltare lo Stato, di modo che lei stessa e il Regno si trovavano in gran pericolo, e il dovere del Re era quello di difendere tutti coll'armi e in persona. A colorire la invenzione richiese a un suo parente di radunare de' soldati a' confini, sicchè paressero i nemici. Il Re, che sull'onore non ischerzava, cadette nella rete, e apparecchiossi a partire, come di fatto partì per il campo colle sue schiere, dopo avere raccomandato a sua moglie di essere prudente per iscansare le insidie di chi gli volesse male; anzi, tirato fuori un vestimento tutto pieno di sonaglioli, lo porse all'Ostessina, dicendogli:—«Se caso mai t'avviene qualche cosa a traverso e tu sei in risico, mettiti questo vestimento e scotilo, ch'io lo sentirò, quantunque[249] lontano, e correrò senza indugio a darti soccorso.»—Di lì a pochi giorni, eccoti càpita al palazzo un'ambasceria da parte della Regina madre a fine d'invitare l'Ostessina a portarsi in città con i due bambini, perchè la Regina mandava a dirgli che voleva fare la conoscenza della moglie del suo figliolo, come pure dei nipoti; e che non avesse paura di nulla; anzi sarebbe onorata al pari di una Principessa. L'Ostessina, minchiona com'era, credette sincere le profferte della Regina; per cui, presi con seco i ragazzi, uscì dal palazzo assieme cogli ambasciatori e venne alla città. Giunta alla presenza della Regina, ci trovò accanto anche la sua cattiva madre: tutte e due la caricarono d'improperî, e finalmente la Regina diede ordine alle guardie che l'Ostessina si arrestasse e si buttasse in prigione co' figlioli; e volendo ammazzarla e spergere con lei la sua generazione, si consigliò coll'Ostessa. La quale, per isfogare la invidia rabbiosa che la rodeva, gli disse che facesse bollire una caldaia di olio e lì dentro sulla piazza pubblica ci gettasse l'Ostessina ed i figlioli. Era dunque tutto pronto per il supplizio, e l'Ostessina si rassegnava ormai al suo fine, quando si ricordò dell'avviso del suo caro sposo. E siccome in prigione gli avevano lasciato il fagotto de' panni, lei levò via da quello il vestito co' sonaglioli e se lo messe. E arrivata che fu in piazza vicino alla caldaia dell'olio bollente, si dette a scoterli a tutto potere. Allo scampanellìo, eccoti comparisce il Re di galoppo sul suo cavallo. Veduto il brutto spettacolo e informatosi delle cose accadute, per la sua autorità di Re, comandò l'arresto della Regina e della Bella Ostessa. Ed il giorno appresso, radunato un Consiglio, tutte e due le malvage donne dovettero morire legate assieme, bollite in quella caldaja di olio, che era stata ordinata per l'Ostessina e pe' suoi figliuoli. Così il Re e l'Ostessina, liberati da[250] ogni paura, regnarono amati da tutti; e se non fossero morti per la vecchiaja, vivrebbero tuttavia.
Il fosso sta tra il campo e tra la via;
Dite la vostra, che ho detto la mia.
NOTE
[1] Variante assai più compita della Fiaba precedente, intitolata: Il Re che andava a caccia. La debbo al prof. avv. Gherardo Nerucci. Vedi quel che dice non so quale dei due Grimm a proposito dell'interessantissima tradizione popolare contenuta in questa fiaba, nell'introduzione alla traduzione tedesca del Pentamerone, fatta dal Liebrecht. È in fondo una cosa stessa con La Scatola di cristallo, Novellina popolare Sanese, raccolta da Giuseppe Pitré. Palermo, tip. del Giornale di Sicilia, 1875. Questa versione del Nerucci contiene degli episodi forse appartenenti ad altre fiabe. Vedi, nelle note al Malmantile, secondo cantare, stanza sesta, la spiegazione del proverbio: Non è più 'l tempo che Berta filava, dove c'è qualcosa che ricorda anche il nostro Re Avaro ed il Luccio:—«Pipino, Re di Francia, per mezzo di suoi Ambasciatori sposò Berta dal Grampiè, figliuola di Filippo, Re d'Ungheria: la quale, avendo saputo, che questo suo sposo era brutto e nero, mal volentieri s'accomodava a dare il consenso; ma pare, vinta dalla reverenza dovuta al padre, condescese. Arrivata in Francia, lasciandosi governare dal giovenil sentimento, richiese Elisetta di Magonza, sua segretaria (la quale d'Ungheria, dove era nata del Conte Guglielmo di Magonza, ribelle di Francia, se ne veniva con Berta a Parigi) che volesse, fingendosi la sua persona, in sua vece sposarsi con Pipino, il quale, e per la somiglianza che era fra lor due, e per non aver Pipino mai veduta Berta, non l'avrebbe assolutamente riconosciuta. Elisetta da principio si mostrò renitente; ma persuasa poi da Grifone e Spinardo di Magonza suoi parenti, condescese a' voleri di Berta. E così arrivate a Parigi, Elisetta si sposò con Pipino invece di Berta. La qual Berta intanto, di consiglio de' detti due Maganzesi, s'era fermata in un luogo vicino a Parigi, con pensiero fermato con[251] detti Maganzesi di quindi occultamente partirsi e tornarsene alla patria con l'ajuto de' medesimi. Ma questi la tradirono, perchè, invece di servirla alla volta della patria sua, l'inviarono ad un bosco, con ordini a quelli, che la conducevano, che l'uccidessero. Ma costoro, mossi a pietà, in vece d'ucciderla, la spogliarono e legata ad un albero la lasciarono in preda alla fortuna e tornarono ai Maganzesi, dicendo che l'avevano uccisa. I Maganzesi, per occultare sì atroce delitto, fecero morire tutti quei sicarî, avendo prima anche d'arrivare a Parigi, fatte ritornare in Ungheria tutte le dame ed altre persone, non complici nè consapevoli di sì grande scelleraggine. Berta, intanto che se ne stava così legata, dolendosi e lamentandosi, fu sentita da un tal Lamberto, cacciatore del Re Pipino. Costui, seguitando la voce, si condusse dove stava Berta legata all'albero; e scioltala, alla propria casa la condusse, e la consegnò alla moglie, vestendola d'abiti vili e conformi alla possibilità di lui ed alla povera condizione, della quale Berta disse d'essere. Qui stette Berta cinque anni. Nel qual tempo guadagnò molti danari, di filare ed altri lavori, che insieme colle figliuole di Lamberto faceva. Avvenne un giorno, che essendo Pipino a caccia, si condusse solo alla casa di Lamberto: ove, veduta Berta, s'invaghì di lei, e con essa si congiunse sopra ad un suo carro. Nel qual congiungimento fu generato Carlo, così detto dal medesimo carro. In tale occasione Berta scoperse a Pipino il tradimento dei Maganzesi, narrandogli tutto il seguito. Per lo che Pipino fece abbruciare Elisetta ed una mano di Maganzesi e rimesse nel trono Berta. Da questa favolosa istoria nacque il proverbio: Non è più il tempo che Berta filava, ossia, non è più il tempo che Berta stava nelle selve filando e ricamando, per dire che le cose son mutate di bene in male.»
[2] Un villano aveva seco una capra, de' cavoli e un lupo. Giunse ad una fiumana, che si passava in zattera. Nella zattera entrava soltanto il villano ed una delle tre cose per volta. Come fare? Se lasciava capra e lupo insieme, addio capra! se capra e cavoli, addio cavoli! se portava all'altra riva la capra sola, durante il terzo viaggio si sarebbe rinnovato uno de' due pericoli. Come salvar capra e cavoli? Traghettò prima la capra; quindi tornò a prendere i cavoli. Sbarcati questi, riprese seco la capra, che lasciò sola mentre traghettava il lupo, e che poi venne a riprendere.
[3] Nota la somiglianza col mito di Giuseppe ebreo. Confronta con la Novella quinta della Deca seconda[i] degli Ecatommiti di Giambattista Giraldi.—«Cicilia ama Rinieri e diviene celatamente sua moglie: s'ingravida di lui. Il padre la dà nelle mani ad uno, che l'uccida; il quale le dona la vita. Ella partorisce un figliuolo. Rinieri ritruova il padre, che l'ha data ad essere uccisa. Egli è preso e condannato alla morte. La figliuola lo libera, e con somma letizia si gode con Rinieri»—Ecco il brano d'esta novella, che corrisponde alla nostra:—«La giovane infelice, credendosi di andare a piacere, si mise in cammino con coloro, che la menavano alla morte. S'inviò il Maltrova verso Ravenna e giunto in un foltissimo bosco, fingendo egli che si fosse spezzato uno dei legni della carretta, disse alla moglie ed alla giovane che scendessino, acciò ch'egli il legno rotto racconciasse. Scesero le due donne e poi che Cicilia fu in terra, la prese il Maltrova per un braccio e le disse: Raccomanda l'anima tua a iddio[ii]; chè quì, per le mie mani ti convien morire. A queste parole rimase come morta la giovane; e datasi a piangere e gridar forte, Ahi Maltrova, disse, sono queste le nozze a che condurmi vuoi? si trattano così le pari mie?—Sì, disse lo scellerato, così si trattano quelle, che senza riguardo dell'onor delle famiglie fanno quello che hai fatto tu, malvagia femmina; e qui le nozze ti si faranno, che ti si convengono. Conobbe a queste parole la misera, che il padre si era avveduto del suo fallo; e che perciò l'avea data a colui, che l'uccidesse. Ma con tutto ciò si gittò la infelice ginocchioni avanti il Maltrova, e piangendo disse: Io non niego di non avere errato, ma nondimeno io non offesi[253] mai te, nè vergogna ti feci onde tu ne debba far vendetta. Deh, se non vuoi pietade aver di me, abbi almen pietà della infelice creatura, che nel mio ventre si chiude, e non voler dar morte, oltre a me, a chi non peccò mai e non è ancor nato. E quindi rizzatasi, volta alla crudel vecchia: Ahi madre mia, disse, non consentite, vi prego, che io sia dal vostro marito, a cui io sempre giovai, come sapete, sì crudelmente morta. La spietata vecchia niente altro disse, che: Se tuo padre non ha avuto pietà di te, vuoi tu che l'abbiam noi? Morire hai; però cerca di non perdere insieme col corpo l'anima. Allora il Maltrova la prese per gli capelli, e alzò la spada per levarle la testa. A questo atto si mosse a compassion della giovane quella vecchia, in cui mai non avea potuto pietà, e prese il braccio al marito, e disse alla misera giovane: Quando di andartene tanto lontana tu ci prometta, che alcuno non ti conosca e che non abbi a dir giammai chi tu ti sia, ti farò donar la vita. La giovane, cui parve che questa fosse una voce caduta dal cielo, promisele e giurolle per dio di così fare. Allora la vecchia dispose, benchè malagevolmente, il marito a non la uccidere; ma, cavatole la veste di zendado, e tutti quegli ornamenti che poteano dare indizio di nobiltà, la lasciò in sola camiscia. La vecchia pure le diè una sua gonnelluccia molto logora, di che ella si vestì; ed il Maltrova, lasciatala nel bosco sola, e montato sulla carretta, via se n'andò co' panni della infelice giovane e con tutto quello che Messer Orazio a questo fine gli avea dato.»—[Confronta anche con la Novella quinta della Deca decima:—«Alfonso Gravina manda un suo servitore, che gli conduca la moglie da Napoli in contado. Il malvagio, fingendo che il marito gli abbia commesso che l'uccida per istrada, le promette la vita, s'ella gli vuol compiacere di sè. Vuol piuttosto la donna essere uccisa, che mancare di fede al marito. Ella in quella angoscia è liberata dalle mani del traditore da un cortese cavaliere. Il servo dice al signore, che ella da un suo drudo gli è stata tolta. Il marito sel crede e perciò brama di gastigar la moglie. Si conosce finalmente il servo malvagio e la donna fedele e il fraudolento ha la pena della sua malvagità.»—] Luigi Groto, il Cieco d'Adria, nella favola pastorale Il pentimento amoroso, fa che Ergasto pastore commetta a Melibeo capraio, suo servo, di ammazzar la Filovevia, Ninfa di lui tenerissima, per riguardo della quale niun'altra vuol impacciarsi seco.
Oltre a ciò son sì stanco e son sì sazio De la importunità, de la seccaggine Di questa Ninfa (che, già tanto spazio, Qual volta mi ritrova, supplicandomi E sospirando e piangendo mi sèguita, Mi prega, m'importuna e mi sollecita), Che più non posso patirla; e non dubito Che tolta via costei mille non m'amino. Onde ho conchiuso al tutto di levarmela Dinanzi agli occhi. Io farò, che ti seguiti Ella, ove tu vorrai. Tu, allor conducila In mezzo ai boschi più selvaggi et asperi, Tra faggi antichi e querce solitarie, Dove raggi di sol giammai non entrano. Falle por giù l'arco e gli strali e prendila Quivi dapoi senza pietade e uccidila; Ch'io di mia man non la potrei uccidere, Che so pur quanto ella m'ha amato e amami. Mora. E mora con lei la mia durissima Sorte, di non trovar Ninfe che m'amino. Mora. E mora con lei l'amor suo, che odio, Ch'è sol cagion di tutto 'l mio discomodo, Che a fin può sol con la sua vita giungere. |
|
Melibeo. | Ah non fia meglio ferirla in tal essere, Ch'ella non muora, ma faccia altri vivere? |
Ergasto. | Sei pazzo. Lascia pur gli scherzi e secale Tosto le canne de la gola e portami Il coltel tinto del suo sangue, e servimi, Chè questo è il gran servigio ch'io desidero. |
Ergasto muove la Filovevia ad accompagnar Melibeo, dicendole che gli abbisogna un'erba, la quale, colta da una vergine, muove ogni Ninfa ad amar quei che la porta addosso; così sarà amato dalla Dieromena. La Filovevia ha la dabbenaggine di consentire a procacciargli ciò, che deve servir contro di lei; e s'incammina col caprajo.
Filovevia. | Quanto siam lungi dal loco ove nascono | ||
L'erbe? | |||
Melibeo. | Or or vi sarem. | ||
Filovevia. | Dove mi meni tu? | ||
Che vie son queste selvagge, difficili Et erme, dove non appar vestigio Di piede umano? Non mi basta l'animo Di poter più tornar fuor. |
|||
Melibeo. | Sarà augurio | ||
Il tuo. | |||
[255]Filovevia. | Che dici? | ||
Melibeo. | Io dico, che 'l mio animo | ||
È come il tuo; pur, se vogliamo coglierle, Bisogna andar dov'elle si ritrovano. |
|||
Filovevia. | Dunque la maga v'ha detto certissimo, Che quell'erbe faran che Dieromena, Ami Ergasto? |
||
Melibeo. | Giurato anco per Ecate. | ||
Filovevia. | O sventurata me, che vado a cogliere La mia morte! |
||
Melibeo. | Verissimo! | ||
Filovevia. | E pur forza mi | ||
È andar, che amor può più che morte. | |||
Melibeo. | Fermati, | ||
Che siam dov'è quanto cerchiamo. Scingiti La faretra e pon giù l'arco. Non possono Tener ferro nè legno adosso quelle, che Colgon quest'erbe. |
|||
Filovevia. | Ecco fatto. | ||
Melibeo. | Benissimo. | ||
Filovevia. | Che vuoi far di cotesta fune? | ||
Melibeo. | Prossima | ||
Sei a vederlo. | |||
Filovevia. | Ah traditor! che imagini | ||
Di far? A chi dich'io? | |||
Melibeo. | Gridate, pecore: | ||
Be, Be; gridate ancor. | |||
Filovevia. | Perchè mi leghi tu | ||
A questo tronco? Ahimè così s'ingannan le Ninfe; così i pastori s'ubbediscono? S'Ergasto non t'ha dato cotesto ordine Di levarmi l'onor, perch'io non abbia Viso mai più di comparir tra gli uomini! |
|||
Melibeo. | Ninfa, non ti turbar, che non dei perdere L'onor qui, sta di questo sicurissima. Ma ben è ver, che Ergasto tuo commessomi Ha, ch'io ti debba in queste selve uccidere (Che il desio di voler erbe è una favola): Però, sostieni il colpo in pazienzia; E s'hai da dir qualche cosa, spedisciti, Acciò che io possa far poi questo ufficio. |
||
Filovevia. | Or veggo ben, ch'Ergasto m'è amicissimo, Ch'ha pietà del mio mal, poi che levarmene Vuol con la morte assai minor mal. |
||
Melibeo. | Guardimi | ||
Pur dio da tali amici! | |||
Filovevia. | Io ti ringrazio, | ||
Ergasto, de la tua pietà. Ricordati [256]Ben, che se vuoi la mia morte pensandoti D'ingiurïarmi, t'inganni; che ingiuria Fai a te, non a me, però che sendo la Mia vita, non più mia, ma tua, tu perdere Devi, non io. Dapoi, se del mio strazio, Se del mio pianto ti pasci, perdendomi Di che ti pascerai? Corri pericolo, Che 'l mio morir produca il tuo, mancandoti Quel cibo, onde tu vivi. Se per odio Il fai, crudel, che dispiacer conosci tu Da me? se così affliggi quei che t'amano, Che pena dei tu dare a chi t'ha in odio? Ma che accadeva, o Melibeo, a questi arbori Legarmi? Non sai tu, ch'io son legata da L'amor d'Ergasto con sì indissolubili E forti lacci, ch'io non posso muovermi? |
|||
Melibeo. | Voglio dar morte al corpo, non a l'anima. E perchè i buoi ch'io governo m'aspettano (Che questa è l'ora ch'io li meno a bevere) Però vorrei che finissi. E perdonami S'io son crudel contra te, che è mio debito Ubidir chi mi tien al suo servizio. |
||
Filovevia. | Io, Melibeo, ti perdono e scusoti, Chè tu ubbidisci a quello, a cui io similemente ho sempre ubbidito; e s'egli dettomi Avesse ancor, ch'io mi dovessi uccidere Di mia man, l'avrei fatto. Di te dolgomi, Ergasto, ben, che non mi festi intendere Cotesto, quand'io stava in tua presenzia, Acciò ch'io avessi almen potuto pascermi Avanti il mio morir della dolcissima Tua vista a voglia mia, come suol pascersi De la vista del sole anzi il suo incendio La fenice. Mi doglio, che ingannata mi Abbi, senza pensar, che comandarmelo Potevi apertamente; e mi rammarico, Che non abbi voluto farmi grazia Almen, ch'io mora nella tua presenzia. O che dolce morir! Ma ben dolcissimo Sarebbe stato poi se di tua propria Man, poichè non volesti farmi vivere, (Chè viver chiamo il vivere in tua grazia) Ti fossi contentato almen di uccidermi. |
||
Melibeo. | Ninfa, che fai? Su, bisogna risolversi, Poi ch'ho poi altro che fare. Comandami Un'altra volta, quand'io avrò più ozio. Vuoi dir altro mentr'io m'alzo le maniche? |
||
[257]Filovevia. | O dei, abbiate voi pietà de l'anima Mia, poi ch'altri non ha voluto averla del Corpo. Di ciò vi prego e poi vi supplico Perdonare ad Ergasto la mia prossima Morte, poi ch'anch'io voglio perdonargliela. E se gli avete a dar castigo, datelo A me per lui, che il prenderò lietissima. E prego, Melibeo, quanto è possibile, Che dapoi ch'io sarò morta, tu abbii Raccomandato il mio corpo, guardandolo, Che d'alcun non sia tocco; e riponendolo Con onestà sotterra; e s'avessi animo Pur di spogliarlo, almen, ti prego, lasciagli Quella vesta che a lui sarà più prossima; Chè, s'ai vivi giovare i morti possono, Ti gioverò per questo beneficio. Ti prego ancor quanto si può, nascondere Cotesto fallo, acciò che la giustizia Del giusto Pan, che in queste selve or'abita, Non danni il mio pastore, e non lo 'nfamino Gli altri pastor, le ninfe nol puniscano. E se tu stimi di poter nasconderlo Meglio, abbruciando questo corpo, abbrucialo, Che ben minor sarà quel de lo incendio Che provai viva. |
||
Melibeo. | S'io sto un poco a ucciderla, | ||
Son certo che costei mi farà piangere. | |||
Filovevia. | Deh, Melibeo, fammi una grazia. Appressami A' labri (poi che tu le man legatomi Hai), si ch'io 'l baci, il ferro, ch'ha da uccidermi. |
||
Melibeo. | Ecco il coltel ch'ha da ferirti, bacialo. Ma prima ch'io questo coltello approssimi Solo a toccar le vene a Filovevia, Ella col suo parlar m'apre le viscere. |
||
Filovevia. | O pietoso coltel, che 'l lungo strazio Di questa sventurata oggi dèi chiudere, Ti bacio e ti ringrazio. Orsù dunque, eccoti, O Melibeo, scoperto il petto; ed eccoti Parato il collo. Ora a te sta lo eleggere Qual vuoi ferir. Ma ben ti prego, ch'abbia, Se 'l petto vuoi ferir, gli occhi di grazia A non ferirmi il cor, non per mio comodo, Ma sol per non ferir in quella immagine Del mio pastor. Poi ch'i' sia morta, cavalo, Se puoi, intero (ch'io ti dò licenzia In questo di toccarmi), et appresentalo Ad Ergasto, che forse riconoscervi [258]potrà gli strai d'amore e la sua imagine, E forse allor n'avrà misericordia. E digli:—«Questo è il cor di Filovevia, Che fu più tuo, che suo; per questo, meritamente ella il manda a te.»—Ma bene avvisoti, Che gli dii a poco a poco la gratissima Nova della mia morte, acciò che 'l subito Piacer di udir, ch'io giaccia morta, similemente non tragga lui di vita. Spacciati Tosto e non mi tener di grazia a strazio. |
||
Melibeo. | O ninfa, il tuo parlar non fa quell'opera, Che pensi; il tuo parlar mi cangia d'animo; Io getto il ferro; io ti disciolgo. Or vattene Dove vuoi, ch'io mai non potrei ucciderti. |
||
Filovevia. | E come ubbidirai colui, che impostoti Ha, che mi uccida? |
||
Melibeo. | Non ci è alcun rimedio | ||
Se non un sol, che tu sola puoi porgermi. | |||
Filovevia. | Deh leva me di grazia di miseria, Te d'obbligo, et Ergasto di molestia. Dapoi ch'Ergasto et io vogliamo, uccidimi. |
||
Melibeo. | Deh invece de l'onor del beneficio, Ch'io ti fo, dammi tu questo rimedio. |
||
Filovevia. | Qual'è? | ||
Melibeo. | Che vadi sì lungi d'Arcadia, | ||
Che di te non s'intenda. Deh di grazia Vattene e fammi questa grazia. |
|||
Filovevia. | Andrommene, | ||
Poi che ti piace, in sì lontana patria, Che mai più non sarò vista in Arcadia. Andrò tra fiere e farò esperienzia, Se Ergasto può impetrar quel, che desidera, Senza sua nè tua colpa; e so, che abbattermi Non potrò in fiera peggior d'esso. |
|||
Melibeo. | Or vattene. | ||
Io dirò, che t'ho ucciso; e in testimonio Tingerò il ferro, per poter mostrarglielo, Nel caldo sangue d'un monton. |
|||
Filovevia. | Deh tingilo | ||
Nel caldo sangue d'un capro e poi daglielo, E fa prova se quel sangue può rompere Il diamante. O mio dolce e nativo aere! O selve! o erbe! o arbori! restatevi. Addio, ch'io vado, e non so dove. Lasciovi Per non vi riveder mai più.[iii] |
|||
[259]Melibeo. | Ripigliati | ||
In terra l'arco e la faretra. Or vattene, Che una ninfa da lungi a noi s'approssima. |
Negli Intrighi d'Amore, commedia attribuita al Tasso (ed a ragione, come io credo), abbiamo un episodio simile nella scena settima dell'atto terzo.
MAGAGNA, ERSILIA
Magagna. Talchè....
Ersilia. Talchè con ragion mi dolgo e posso dolere, che io sono la più scontenta tra le scontente giovani del mondo. Ahimè!..
Magagna. Questo pianto è proprio come il fumo dell'arrosto, che non ti giova a niente, perchè ti bisogna venire al monastero al tuo marcio dispetto. Cammina dunque e lascia tanti talchè, se non vuoi che ti calchi con un calcatoppolo la coppola.
Ersilia. Eh Magagna, il dolor non è perchè io vada al monastero; ma perchè mi manda in quest'ora così sola, senza compagnia di donne. Poteva pur tardar insino a domani.
Magagna. Signora no, perchè dice quel proverbio: Il mal che tarda, piglia vizio. Avvertendosi la signora, che voi bestialmente siete innamorata di Camillo, farà bene a farvi passar di questa vita presente.
Ersilia. Come di questa vita presente? Dunque mi farai morire?
Magagna. Oh poffar, che m'era scappata!
Ersilia. Ritorniamo a casa; che, se sarà così, mi contenterò volentieri, purchè mi conceda, che avanti la mia morte possa vedere e parlare al mio dolcissimo Camillo, il quale dà lume a questi occhi e dà spirito a queste labbra.
Magagna. Tu ti pensi, con le tue parole inzuccherate, farmi tornare indietro? ma t'inganni a fè. Cammina pure, perchè la vita presente non s'intende di farti morire, ma di passarti di questa vita presente cattiva e trista, che menavi, a vita onesta e santa, come sarà al monastero.
Ersilia. Eh Magagna, non si cangia pensiero per cangiar loco. Quanto più m'allontano dal raggio del mio sole, tanto più cresce in me il desiderio di scaldarmi al suo caldo. Io amo Camillo con zelo di matrimonio, e questo zelo è pur onesto e santo. Ma che cosa fai?
Magagna. Mi accomodo questo pugnale, dubitando di qualche repentino assalto, perchè colui che accompagna femmine bisogna andar vigilante.
Ersilia. Sicchè essendo questo mio zelo così onesto.... Ma che moti son cotesti?
Magagna. Mi metto in guardia e provo come ho da investire e offender colui che per sorte ne volesse assaltare.
Ersilia. E perciò sarà bene a ritornare a casa, che l'andar a quest'ora per queste strade sospette mi fa temere di alcuno inconveniente.
Magagna. Tu zappi nell'acqua, se pensi di ritornar indietro. Cammina e zitta!
Ersilia. Fammi questo piacere!
Magagna. Non posso.
Ersilia. Beato te!
Magagna. Non voglio.
Ersilia. Per grazia.
Magagna. Non mi piace.
Ersilia. Per amore!
Magagna. Cammina.
Ersilia. Per pietà, almeno!
Magagna. Mica.
Ersilia. Or come sei crudele!
Magagna. Crudelissimo.
Ersilia. Che ferro ti cadde dalle mani? Dove mi meni?
Magagna. Orsù, già che siamo al luogo determinato in questa parte rimota, dove non saremo visti dalle genti, acconciati, Ersilia; e pazienza.
Ersilia. Che pretendi di fare?
Magagna. Di rompere....
Ersilia. Che?
Magagna. Lo stame....
Ersilia. Che stame?
Magagna. Vitale.
Ersilia. Che vitale, che vuoi?
Magagna. Voglio....
Ersilia. Che cosa?
Magagna. Pertugiare.
Ersilia. Che?
Magagna. Il donne....
Ersilia. Che donne?
Magagna. Vuoi la palla mo'? Acconciati e zitta.
Ersilia. Se pensi offendermi l'onor mio, morrò più presto.
Magagna. Non voglio cotesto.
Ersilia. Ma che vuoi?
Magagna. Entrare....
Ersilia. Dove?
Magagna. Al cuore.
Ersilia. Di chi?
Magagna. Sei stata mai uccisa tu?
Ersilia. Io no.
Magagna. Hai parlato con nessun altro, che fosse stato ucciso?
Ersilia. Nè anco: perchè?
Magagna. Acciò ti fossi informata della strada, per la quale si cammina alla morte.
Ersilia. Ahimè, mi avvedo che mi vuoi far morire.
Magagna. Penso di sì.
Ersilia. E perchè, Magagna mia, e perchè tanta crudeltà?
Magagna. Non ti bisogna più mio, nè crudeltà; raccomandati l'anima e finiamola.
Ersilia. Io morire? Io morire per le mani tue, Magagna? E perchè? che t'ho fatto io? qual cagion ti move? qual ragion hai?
Magagna. Risolviti presto; e dimmi come vuoi che ti uccida; sotto, da mezzo, o di sopra.
Ersilia. Se non burli, Magagna, come è tuo costume, dimmi il vero, che cosa ti spinge a volermi uccidere? Io so, che non ti offesi mai, anzi ti ho giovato sempre. Da te, come da te, non hai cagione di farlo. La signora, se bene è matrigna, e non madre, non sarà. Camillo mio nè anco.
Magagna. A che fine lo vuoi sapere, se a te non serve più di sapere le cose di questo mondo, avendo da passare all'altro? Acconciati su, cala la testa, e a perdonare!
Ersilia. Deh! ferma di grazia, fermati per cortesia, Magagna.
Magagna. Son sordo.
Ersilia. Una parola.
Magagna. Non sento.
Ersilia. Sei Turco? sei Barbaro?
Magagna. Turco e Barbaro. Levati, che ti dò.
Ersilia. Eh per vita tua, te ne prego, te ne supplico; ascolta una parola.
Magagna. Or dì presto; chè non vorrei, che col tardare si raffreddasse il caldo del mio furore.
Ersilia. Dimmi di grazia, chi t'ha ordinato, che mi uccida?
Magagna. Pur siamo al medesimo: or leva, e non più parole.
Ersilia. È stata la signora, Magagna?
Magagna. Non so.
Ersilia. È stato Camillo mio, che sdegnato forse dell'indebite ingiurie dategli per Cornelia, e d'averlo scacciato di casa, comincerà a vendicarsi contra di me?
Magagna. Non so.
Ersilia. Se sarà così, morrò contentissima, morendo in soddisfazion di colui, che per soddisfarlo, mi sarebbe poco pigliar mille morti per amor suo.
Magagna. Vuoi altro che questo? Acconciati e spediamola.
Ersilia. Fammi un'altra grazia, Magagna mio; legami le mani e i piedi a questa colonna mezza rovinata, e ritorna a chiamare Camillo: acciò lo possa pregare, che mi uccida di sua propria mano, per morir contentissima; o almeno, che io veda quegli occhi soavi, prima che io muoja.
Magagna. Quietati; chè non è Camillo che ti fa morire; ma, per dirla in breve, la signora Cornelia è causa che, amando più che la vita sua Camillo, ella disegnava pigliarselo per marito, e tu avendogli guastato il giuoco per le mani, ti darà scaccomatto di pedina.
Ersilia. Et io morrò per questo? Ah Cornelia, Cornelia, che non da matrigna, ma da propria madre t'ho servita e onorata sempre, s'era tale il tuo disegno, me lo dovevi dire, che tu contenta e io contentissima restava in un tratto, bastandomi solo il mio Camillo nell'istessa casa, dove se non come marito, l'avrei almeno come signore servito. Ahi che è vero, che nessuna matrigna fu buona!
Magagna. Orsù, non più parole; fermati che io alzo.
Ersilia. Aspetta un poco per pietà, in fin che dica due altre parole.
Magagna. Ma siano brevi; e presto, chè io intanto passeggio.
Ersilia. In che orrendo spettacolo ti vedi, o Ersilia infelicissima! Oh cara mia madre, s'ora mi vedessi! Ed o Alessandro, mio carissimo padre, dove sei? che riaccasandosi con Cornelia, morendo poi mi lasciasti piccola, raccomandata tanto a questa crudele Medea! Vedi, vedi, che ora mi fa condurre al macello, e in man di chi? in man d'un vilissimo servo. Deh! spietata la mia sorte, poichè volesti che io morissi di mala morte, dovevi far almeno che io morissi o per man del mio Camillo, o d'altri della qualità mia. Giorno infelice, che io nacqui! perchè non mi affogai nella culla? poichè per amor io moro. Nè perchè mora mi doglio, ma perchè, ferendosi questo petto, s'offenderà la bell'immagine del mio bellissimo Cammillo, che vivamente vi sta impressa. Perdonami, Cammillo, se per me pati questa offesa; e ti prego a ricordarti, che quanto maggiormente si puote amarti, t'ho amato io.[iv]
Magagna. Troppo sei lunga; non accade più aspettare. Io mi risolvo in ogni modo di darti.
Ersilia. Deh, Magagna, che crudeltà è questa? Che ti ho fatto io? ricordati pure, che tu eri servo di mia madre; pensa all'affezion grande che ti portava mio padre. Considera che tu m'hai cresciuta sopra coteste braccia, e ora sarai micidiale quasi di te stesso? quasi del tuo sangue?
Magagna. È troppo il vero, ahimè!
Ersilia. Non sai, che sempre t'ho sovvenuto? Non ti ricordi, che ti ho difeso? Chi riparava a' tuoi danni, se non io? La mia borsa non ti fu sempre aperta? Che m'hai cerco, che non ti ho dato? Insino alle camice ti ho conce di mia mano.
Magagna. È troppo il vero. Uh, Uh, Uh!
Ersilia. Io ti faceva mangiar per tempo; ti serbavo anco le reliquie della tavola; ti ho riputato da fratello, ti ho amato da sorella; e ora tu, che dovevi essere il riparo della mia vita, il difensore[263] della mia persona, hai animo di uccidere una povera innocente, infelice pupilla? Ahimè, come non piangi di compassione?
Magagna. Non pianger più, chè mi tiri l'anima dall'antiporta del cuore. Io me ne pento: ecco qua il pugnale, uccidimi tu, perchè il torto è il mio, la ragione è tua; ovvero mettiamo mano al rimedio per salvar l'uno e l'altra.
Ersilia. Il rimedio è facile. Lasciami andare, ch'io ti prometto partirmi di qua, con proposito di non ritornarvi mai più.
Magagna. «Aspetta, pensa e poi fa»—dice il proverbio. Come faremo, che io mi trovo promesso alla Signora di portarle la vostra testa con i vestiti insanguinati? E se io non eseguisco a punto quanto mi ha detto, oltre il pericolo d'esser cacciato, perdo l'occasione di copularmi con essa. Perchè, per dirla, s'era appuntato fra di noi, che uccisa Ersilia, io, arso per amarla, entravo al suo arsenale, cioè che me la pigliavo per mogliera.
Ersilia. Or lascia fare a me. Non conosci tu quel sarto, che pratica di continuo in casa, ed era tanto amico della buona memoria di mio padre?
Magagna. Conosco.
Ersilia. Costui tiene un figliuolo, che scolpe al naturale. Andremo a casa sua, e con bell'arte faremo accomodare una testa, che rassomigli naturalmente alla mia, con la quale e con le mie vesti insanguinate, mostrerai alla Signora di avermi uccisa, che le basterà solamente di veder quella testa, e poi la nasconderai dove ti piacerà. Ed io dall'altro canto mi vestirò da uomo, tingendomi 'l volto e le mani da Moro per non esser conosciuta; e così tu averai l'intento tuo, e io ancora il mio; perchè, sotto quell'abito finto, cercherò di servire o di seguire dovunque il mio dolcissimo Camillo.
Magagna. Buona, buona! Mi piace, affè. Il negozio è riuscibile. Andiamo in casa del sarto; ed acciò non siamo conosciuti per istrada, alzati la veste, levati questo manto, mettiti la berretta e la cappa mia; che io, mettendomi il tuo manto, parrò vedova sconsolata in veste negra, e voi Marfisa in abito succinto.
La bella Fiorlinda; cioè: l'innocenza depressa e poi gloriosa; ossia: la Moglie giudice e parte, è una storia popolare diffusissima. In essa troviamo un episodio analogo a quello che ne occupa. Il principe di Gaeta si crede a torto burlato dalla moglie; e per liberarsene, manda a chiamare un marinaro e gli ordina di parar di nero due filuche.
—«Senti»—gli disse,—«imbarcherai mia moglie
Con due sue damigelle, empie canaglie;
[264]E quando in mezzo[v] al mar l'onda ti accoglie,
Nell'acqua tutt'e tre fa che le scaglie.
Lagrime non curar, nè finte doglie,
Perchè le donne sono tutte quaglie,
Che ti faranno smorfie e meraviglie:
Ma tu, lasciale in pasto a sarde e triglie.»—
Indi intima alla moglie e damigelle,
Di parco cibo non ancor satolle,
Che senza farsi nè lisciate e belle,
Le aspetta di Gaeta al piè del colle.
Vanno quelle innocenti meschinelle,
Che il Prence di veder desio le bolle.
E nell'entrar del mar nell'ampia valle,
Le portò il marinar sopra le spalle.
Il Principe montò l'altra filuca,
E la sposa mirò come nemica,
Che non sa dove il fato or la conduca;
Lo chiamava: ma indarno è la fatica.
Fero le damigelle in mar la buca,
Onde avvien che Fiorlinda esclami e dica:
—«Empî, che fate?»—in guardatura bieca,
Ma bella, che pareva Elena greca.
Poi presero Fiorlinda allora allora,
Ma tutti quasi con ridente cera;
Dicendo:—«Voi dovete, o mia signora,
Cenar con Teti in questa propria sera.»—
Ma lei si smania e strazia e si addolora,
Dicendo:—«Il Prence ha un cor di belva o fera.»—
Prega, singhiozza, lagrima e sospira,
Che d'un tigre averìa[vi] placata l'ira.
Era quel marinar pien di clemenza,
E immobil stette con la sua costanza,
E solo di salvarla il modo penza (sic)
E vivere sicur nella sua stanza.
Attribuì del mare all'inclemenza
E l'impeto suo proprio[vii] e l'incostanza.
La spoglia e poi da marinar l'acconza,
E la portò nell'isola di Ponza.
L'altra mattina addolorata e mesta
Ritornò la filuca alla sua costa,
Riportando a quel principe la vesta,
Che per la sposa sua fu fatta a posta.
Nel mirar questa spoglia atra e funesta
[265]A deliquio mortal quasi si accosta,
Toglierla comandò dalla sua vista
E nel proprio dolor piange e si attrista[viii].
[i] Scrivo per esteso Novella quinta della Deca seconda, acciò nessun dotto lettore prenda una papera simile a quella che prese il dotto Warburton. Il Pope, in una nota al Measure for Measure dello Shakespeare, il diceva cavato dalle Novelle di Cintio, Dec. 8. Nov. 5. Ed il Warburton, critico inglese, nella sua edizione dello Shakespeare, traduce in esteso quelle abbreviazioni, così: Decembre 8, Novembre 5. Similmente un dotto tedesco, il Beyreis, ricitando delle citazioni da un libro inglese, dove trovava scritto The same (cioè lo stesso, l'autore già citato) poneva Thesamius, prendendo quelle due parole per una, pel nome d'uno scrittore, e latinizzandolo. Che non si avessero a credere infallibili gli oltramontani!
[ii] Non mi permetto di alterare il testo del Giraldi, che ho sott'occhi e stimo corretto; ma un tempo s'insegnava nelle scuole iddio potersi usar solo al nominativo.
[iii] Cf. Schiller, Die Jungfrau von Orleans. Parlata che termina:—«Johanna geht und nimmer kehrt sie wieder.»—Un tedesco biasimerà forse il Groto per quel concettino del sangue del capro. Ed io mi permetterò di ridere a crepapelle dell'anfibologico Kehrt dello Schiller, che può significare tornare ed anche spazzare o scopare, sicchè quel verso sembra il congedo d'una domestica.
[iv] Che quanto amar si può, v'haggio amato io. Ariosto.
[v] Var. in alto.
[vi] Var. Che d'una tigre avria.
[vii] Var. Se l'epiteto proprio. Poco intelligibili ambe le lezioni.
[viii] Nota la consonanza fra le rime di ciascuna stanza: uglie, oglie, eglie; elle, olle, alle; uca, ica, eca; ora, era, ira; enza, anza, onza; esta, osta, ista.
[4] Rinvivire, Riavvivare, rivivificare, risuscitare.
[5] Stiacciata, e più giù stioppo. Ne' vernacoli toscani, lo schi (schj) della lingua nobile si trasforma in sti (stj). Anzi in istioppo questa forma è più etimologica, malgrado tutta la indegnazione di Vincenzio Monti, che scrisse:
Voci italiche son: schiaffo, schiamazzo,
Schiettezza, schiavitù, schioppo, schidione;
E tu m'insegni a dir: stioppo, stidione,
Stiettezza, stiavitù, stiaffo, stiamazzo?
Va va, maestro mio, va, che sei pazzo.
[6] Caterina I di Russia era anche da meno, facendo da serva in un'osteria, che non apparteneva a' suoi genitori.
I TRE FRATELLI.[1]
C'era un padre, che aveva tre figli; e nessuno di questi figli cercava moglie. Quest'omo, essendo vecchio, disse un giorno:—«Com'ho da fare essendo vecchio e avendo tre figli, che nessuno cerca moglie? È meglio ch'io collochi questi figli e trovi un mezzo per farli sposare.»—E gli diede tre palle e li portò sur una piazza e gli disse, che l'avessero buttate per l'aria: dove cascava queste palle avrebbero preso moglie. Una cascò sopra una bottega d'un bottegajo; una sur una bottega d'un macellajo; ed una sur una vasca. Il maggiore era quello d'i' bottegajo; i' secondo quello d'i' macellajo; ed i' terzo quello della vasca, che si chiamava Checchino, i' più piccino. I' padre, perchè non c'entrasse gelosia fra fratello e fratello, disse: Quella sposa che faceva meglio i' lavoro sarebbe stata la prima sposa che entrava in casa. Gli diede una camicia per uno a cucire ai figli, che la portasse ciascuno alla sua sposa; e quella, che la cuciva meglio, sarebbe stata la prima sposa a entrare in casa. Dunque ognuno la portava. E quello della vasca, che andiede alla vasca, non c'era che una rana.
—«Rana, Rana!»—
—«Chi è, che mi chiama?»—
—«Checchino[2], che poco t'ama.»—
—«M'amerà, m'amerà,
Quando bella mi vedrà.»—
E uscì un pesce dalla vasca, e prendeva questo fagottino in bocca e rientrava nella vasca: e dentro c'era scritto un polizzino:—«Quindici giorni a cucire questa camicia.»—E dopo quindici giorni tornava Checchino a prender la camicia e richiamava la solita rana.
—«Rana, Rana!»—
—«Chi è, che mi chiama?»—
—«Checchino, che poco t'ama.»—
—«M'amerà, m'amerà,
Quando bella mi vedrà.»—
E risortiva i' solito pesce cor[3] i' fagottino della camicia in bocca; fatta benissimo, preciso, molto meglio che quelle delle altre due. E poi i' padre, naturale, vede che quella lì era cucita meglio, ma non ostante, non persuaso, gli diede ancora una libbra di lino a filare per uno ai suoi figli, che ciascuno la portasse alla sua sposa, chè chi l'avesse filata meglio sarebbe stata la prima sposa a entrare in casa, perchè voleva che tra loro non c'entrasse gelosia. E gli dà i' tempo quindici giorni. Checchino andiede alla vasca.
—«Rana, Rana!»—
—«Chi è, che mi chiama?»—
—«Checchino, che poco t'ama.»—
—«M'amerà, m'amerà,
Quando bella mi vedrà.»—
E uscì i' solito pesce dalla vasca; e prendeva questo lino in bocca, e dentro c'era un polizzino, scritto:—«Quindici giorni a filare questo lino.»—E dopo quindici giorni Checchino tornava alla vasca a dimandare.
—«Rana, Rana!»—
—«Chi è, che mi chiama?»—
—«Checchino, che poco t'ama.»—
—«M'amerà, m'amerà,
Quando bella mi vedrà.»—
E gli riportò la libbra d'i' lino, bell'e sigillato in un rinvoltino, filato, com'avrebbe potuto fare una signora, perchè questa era una principessa, confinata in quella vasca perchè era fatata. Questo era burlato dai fratelli, che gli dicevan sempre:—«Eh, sposerai una rana, un pesce![4]»—E questo era sempre malinconico, di cattivo umore. Allora, quando gli ebbon riportato questa libbra di lino, i' padre volle provare, non persuaso ancora, perchè non voleva che ci fosse gelosia fra loro. Assegnò a ciascuno un piano della casa e disse, che chi avrebbe montato i' suo appartamento, spazio di quindici giorni, con miglior gusto, sarebbe stata la prima sposa a entrare in casa. Quello della rana, andiede alla vasca.
—«Rana, Rana!»—
—«Chi è, che mi chiama?»—
—«Checchino, che poco t'ama.»—
—«M'amerà, m'amerà,
Quando bella mi vedrà.»—
E sortiva i' solito pesce. Checchino gli diede a portare i' suo biglietto alla sposa, che in capo a quindici giorni i' quartiere doveva essere tutto mobiliato, doveva portare in casa letti, tende, poltrone, tutto. Dopo, quando andiedono a vedere i quartieri, quello della bottegaja era ammobiliato che non c'era male; quello della macellaja era persino sporco di sangue; e quello della rana era i' meglio quartiere di tutti, c'eran persin le tende di seta. Allora i' padre fissò, che i' piccino fussi[269] quello, che fosse i' primo a essere sposo. La mattina fissorno le carrozze per andare a prendere la sposa, e gli altri fratelli ridevano, perchè dicevano:—«Andiamo a prendere un pesce!»—Figuratevi come lo burlavano! E va alla vasca.
—«Rana, Rana!»—
—«Chi è, che mi chiama?»—
—«Checchino, che poco t'ama.»—
—«M'amerà, m'amerà,
Quando bella mi vedrà.»—
E sortì dalla vasca una bellissima Principessa, che era la Rana, con sei carrozze, con tutte dame vestite da corte, e vanno a sposare. I fratelli ridevano e lo burlavano, credendo che fosse una rana: quando videro uscire una bella signora, rimasero stupefatti. Dopo pochi giorni fissorno lo sposalizio degli altri due fratelli e che quelle altre due dovessero servire di cameriste alla prima sposa. I' padre, che aveva fatto tanto perchè non c'entrasse gelosia fra fratello e fratello, mancò di prudenza: si sa, le cognate non si potevan dar pace di servire alla sposa di Checchino. Dopo, lei ebbe una figlia, la Principessa; e la consegnarono alla prima camerista, come per governante; la doveva tenere come una sua figlia, per bene; la consegnarono a lei, che n'avesse tenuto di conto. Un giorno, andando a spasso per un paese, avendo questa figlia, e la vendiede a un marinaro, perchè era gelosa. E lei non sapeva più come fare a tornare a casa dopo. Andiede a gira' per i' mondo, perchè temeva, che se tornasse a casa l'avrebbero ammazzata. E la prese per cameriera un signore distante una cinquantina di miglia. Cadde ammalata. Essendo ammalata, confessò i' suo delitto, che aveva commesso. Questo signore, avendo saputo che era stata smarrita[270] questa figlia (avevon mandata la circolare) pensò di scrivere che aveva trovato quella, che aveva commesso questo delitto. La bottegaja guarì e fu consegnata a i' padre di questa figlia, che era divenuto Re, perchè aveva sposata la Rana. La presono, la feciono ricercare della figlia e a chi l'aveva venduta; e la murarono in un muro, lasciato fuori i' busto solo. E tutti i giorni doveva andare a portargli da mangiare la sua nipote di lei che l'aveva venduta (e che l'avevano ritrovata) per ricordargli i' suo delitto. E campò quattro anni e poi morì.
Stretta la foglia e larga la via,
Dite la vostra, chè ho detto la mia.
NOTE
[1] Annota il Liebrecht:—«Dazu K—M, n.º LXIII, Die drei Federn; Radloff I, 8. Der Kaufmann (vgl. Schiefner in der Vorrede, Seite XIII); und bei den Hindus sieh Asiatic Journal, n.º 19. p. 143—150. Stephens und Afzel. Svenska Folk—Sagor, etc. zu n.º XVII, Den förtrollade fästemän, wozu auch gehört n.º XV, Den fördrollade Grodan.»—Vedi Pitrè, Op. cit. XLVI. La Jmmiruta.
[2] Perchè il verso torni, va letto e detto Checchin, apocopando. Ma la novellatrice diceva Checchino, ed ho scritto Checchino.
[3] Cor per con. Uno stornello di Roccastrada nel Sanese dice:
In mezzo al mar che c'è un pesce prete
Accompagnato cor un altro abate:
Bella 'un vi si pol dir, brutta non siete.
[4] Le rane però non son mica pesci.
LA MAESTRA.[1]
C'era una volta marito e moglie che avevan due bambine. Ma eran figliole d'un'altra moglie che quest'omo aveva avuta prima e che era morta. Le mandavano a scola: sapete bene, i ragazzi! Suo padre andava a accompagnarle e a riprenderle queste bambine. La maestra gli piaceva quest'omo, il padre delle bambine, di molto, ma di molto; ne era innamorata proprio. Figuratevi le carezze e il bene, che la voleva a queste bambine. Le bambine:—«Sai che si pagherebbe, perchè fosse la nostra mamma Lei! La ci vuol tanto bene!»—«Eh»—dice—«bambine mie, che volete? L'avete la mamma, io non posso essere la vostra mamma.»—Tutti i giorni le dicevan così:—«Che si pagherebbe, che la fosse la nostra mamma!»—Lei la dice un giorno:—«Gua', se volete che io fossi[2] la vostra mamma, il rimedio ci sarebbe. Quando la mamma vi dà la merenda la mattina, che la la mette in una cassina, buttate lo sportello sopra; la riman morta. E così io sposerò vostro padre!»—Disegnò bene! Eccoti una mattina le bambine, quando la madre gli dà la merenda, le gli buttan sopra lo sportello, e la riman morta; le rimane il ferro dello sportello confitto nel capo. Scappan dalla maestra:—«Sora Maestra, l'è bell'e fatto! l'è bell'e morta la nostra madrigna!»—Le sapevan di molto la birbonata le piccine. Torna il marito, va di là e trova questa povera donna morta, gua'. Ahn, che ti fa? corre subito dalla sua maestra,[272] dalle bambine:—«Oh cosa gli è questo? Si vede proprio, poera donna, si chinava nella cassa, gli è cascato addosso lo sportello e gli è rimasta morta!»—Le bambine si mettono a piangere; la maestra l'istesso.—«Ah! poerina, che disgrazia!»—Figuaravano. Quest'omo le porta a casa le bambine, fa sotterrare la moglie. Che volete! era morta! Piangi ch'io piango: quest'omo piangeva davvero perchè la gli dispiacque. La Maestra dice alle ragazze:—«Sapete?»—dice,—«vostro padre, quando vo' vedete che piange, vo' gli avete a dire: La non pianga, via, signor padre! non c'è rimedio. Perchè la non isposa la signora maestra?»—Eccoti, quand'egli è in casa, piangeva quest'omo sempre e rammentava la sua moglie:—«Babbo! la non pianga! non c'è rimedio! Perchè la non piglia la signora Maestra che la ci vol tanto bene?»—«Bisogna vedere se la signora Maestra la mi vorrà. Io ho due figliole, vojaltre, sapete; non è facile.»—«E»—dicono—«gli si dirà noi; gli si dirà noi alla signora Maestra.»—Eccoti la mattina le vanno a scola.—«Così, cosa disse?»—«Chi sa se la signora Maestra la vorrà prender me? E noi gli si disse: Si dirà noi alla Signora Maestra; si sentirà quel che la dice.»—Dice la Maestra:—«Quando stasera egli vi domanda, voi gli avete da dire: Se gli è contento lui, io son contenta.»—Eccoti la sera ritornano:—«Cosa gli ha detto la Signora Maestra?»—Dicono:—«Ha detto: se gli è contento Lei, lei è contenta.»—«Bene»—dice—«vol dire che domani io verrò là e si discorrerà i nostri affari.»—Eccoti la mattina va là e si principia a discorrere:—«Io son contento.»—«Io son contenta.»—Facendo il discorso corto, in poco tempo furono sposi. Dopo che furono stati sposi, dopo sette o otto giorni, la principiò a strapazzare queste bambine; la gli tirava,[273] la non le poteva soffrire. Le bambine, quando tornava suo padre:—«Babbo»—dicevano—«quanto la ci strapazza, la signora Maestra. Quanto ci tira! La ci voleva tanto bene!»—«Eh!»—dice il padre—«voi sarete cattive, però....»—Un giorno torna a desinare. La gli dice lei:—«Assolutamente, o fori le bambine, o vado fori io. Io non ce le voglio.»—«Ma come!»—dice.—«Io devo mandar via le bambine? Dove voi tu, che io porti le mie bambine?»—«Ah tant'è! Io voglio così[3].»—Dunque, un giorno, il padre gli dice:—«Oh bambine, oggi, quando si sarà mangiato, s'ha andare a fare una passeggiata.»—La maggiorina la si veste; e, nella tasca, gli viene una idea, la si mette tutta crusca. La fa un bucolino alla tasca e ci mette la crusca. La perdeva; a camminare andava via. Eccoti, la moglie, la gli dice, a quest'omo:—«Portatele fori; quando siete fori, a un posto, gli avete a dire d'andare ad orinare e lasciarle.»—Così quest'omo, il giorno, va via con le sue bambine, tutto dolente, pover'omo, con un dispiacere da non credersi. Cammina, cammina, cammina e gli fa fare... chi sa le miglia? Non si sa, di molte. E poi gli dice, che aveva voglia di orinare[4]:—«Aspettatemi qui»—gli dice; e va via. Lui va a casa; e le bambine aspetta aspetta, si mettono a piangere; non avevan più il suo babbo e non sapevan dove le avevan da venire. Quella maggiorina dice alla sorella:—«Stai zitta! Guarda, guarda si anderà dietro alla crusca, ch'io ho presa; così si troverà la strada.»—Eccoti, dietro dietro alla crusca; e arrivano all'uscio di casa e picchiano. Picchiano. Picchiano, s'affaccia la maestra:—«Ah!»—dice,—«son le bambine! Ah quanto tu sei scellerato!»—Le salgon su e le dicano:—«Babbo, perchè non L'è venuto più a pigliarci? perchè La ci ha lasciate?»—«Ho trovato[274] un mio amico; e così mi sono scordato di voi.»—La moglie insisteva:—«Non avete inteso, che non ce le voglio? O via io, o via loro!»—«Sapete!»—dice suo padre un giorno.—«Oggi v'avete a vestire e si fa una bella passeggiata.»—«Sì! e poi ci lascia!...»—«Eh! non c'è pericolo; non c'è pericolo! Non vi lascio; non vi lascio! Non avete paura!»—Le bambine, le si vestono; ma non si mette crusca quella maggiorina; la non se ne ricorda, o non ce ne avea da essere in casa. Cammina, cammina, il padre le fece camminare centomila volte più della prima volta.—«Sapete»—dice—«bambine; io ho una gran voglia di orinare.»—«Ecco, già, e poi La ci lascia.»—«Non vi lascio, no; quand'io vi dico!...»—E va via suo padre: le bambine lo aspettano ancora. E si fece notte scura. Piangendo, non sapevano dove andare. Cammina, cammina; le vedono un lumicino lontano, ma lontano! Le van sempre appresso a questa luce, loro, gua'! Si avvicinano a questo lume e veggono una porta e picchiano. L'era la casa dell'Orco. Eccoti l'Orchessa (non c'era l'Orco) la tira la corda e vede queste due bambine.—«Oh poerine!»—dice. Eh! le fanno tutto il racconto.—«Il babbo ci ha lasciate»—e le fanno tutto il racconto.—«Poerine»—dice—«v'avete combinato male, perchè l'Orco vi mangia, sapete? appena, che[5] torna.»—La gli dà da mangiare, questa donna, qualcosa, perchè le si accomodino un po' lo stomaco; poerine! le avevan fatto tutte quelle miglia, senza mangiare; e le mette sotto un orcio, dopo che le hanno mangiato. Eccoti l'Orco, che torna a casa.—«Mucci, mucci, che[6] sito di cristianucci; o ce n'è o ce n'è stati, o ce n'è degli impiattati.»—«Eh, chetatevi!»—dice l'Orchessa—«Venite a cena, che si vada a letto! Sempre delle buffonate!»—Eccoti[275] l'Orco mangia e va a letto. E la mattina va via, perchè lui andava via presto. Dice l'Orchessa a queste ragazze:—«Poerine»—dice—«io vi do da mangiare; ma salve non vi fo, perchè, se torna, vi mangia. Non vi sarebbe altro vi mettessi su quel tetto, perchè su codesto tetto lui non ci va.»—L'Orco non ci poteva andare. Te le fa andare e mettere sur un tetto. Eccoti l'Orco, che torna; si volta in su:—«Ah briccone, or'ora voi siete mie! Lo diceva, che ci erano i cristianucci!»—Dunque va a casa e rimprovera la moglie. Dice:—«Che so io di bambini? Che conosco io le case degli altri? In casa mia non v'erano»—dice la moglie. Eccoti l'Orco va e picchia a tutte le case, perchè gli aprissero; voleva andare a prendere le figliole. Nessuno gli rispondeva: eh! che eran minchioni, che volevano aprire all'Orco? Lui va a casa e prende tutti i fiaschi, fiaschi voti[7]; e principia a fare una scala, avete inteso? con questi fiaschi e diceva:—«Ora le chiappo!»—Quando gli ha fatto tutta questa scala, si mette a salire. Figuratevi co' fiaschi questa scala! Quando gli è neppure a metà, gli vien di sotto e riman morto. Allora l'Orchessa, la va a prendere le bambine e la le tiene per sue figliole proprio, veramente; e ricche le erano. Quando le furono grandi, lei le maritò e stiedero sempre bene e sempre in pace con questa donna. Morto che fu l'Orco, ci ebbero la sorte; e del padre non se ne ragiona più.
Stretta la foglia e larga la via;
Dite la vostra, chè ho detto la mia.
NOTE
[1] Per lo più, nelle varianti di questa fiaba, il figliuolo che i genitori vogliono far disperdere è maschio, come nel famoso Petit—Poucet del Perrault. Una variante, che ho udita narrare in[276] Toscana, ma che non potetti sventuratamente stenografare, s'intitola Giovannino piccolo e ricco. Giovannino, sperduto due volte dal padre, ritrova la casa, perchè aveva seminato prima sassolini e poi crusca. Ma la terza, semina panico e gli uccellini se lo beccano. Una fata il mette sur un poggio e gli dà un flauto, che, quando lo si sona, quantunque Giovannino desideri, accade. Giovannino pacchia e pacchia; e fa ballare e capitombolare i genitori, che per riprenderlo vogliono ascendere il poggio. La madre, scorticata e ferita, ricorre al giudice; e Giovannino, sonando il flauto, desidera, ch'ella strombetti alla Barbariccia, semprechè le avvien di nominarlo. Il giudice offeso di que' suoni, la caccia dall'udienza. Ella, per chiudere il varco ai flati, ottura il sedere con la conocchia e torna al tribunale; ma, nominando Giovannino, il vento estrude la rocca con tanta violenza, che va a ferire il giudice nella gamba. (Confronta con la Novella CXLV di Franco Sacchetti:—«Facendosi cavaliere messer Lando da Gobbio in Firenze per essere podestà, messer Dolcibene, schernisce la sua miseria; e poi nella sua corte essendo mossa questione a messer Dolcibene, con nuova astuzia e con le peta vince la questione).»—La prima parte della nostra Maestra è identica al principio della Gatta Cenerentola del Basile (Pentamerone. Giornata I. Trattenimento VI.)—«Zezolla, 'mmezzata da la Majestra ad accidere la Matreja; e credenno, co' farele avere lo patre pe' marito, d'essere tenuta cara; è posta a la cucina. Ma pe' bertute de le Fate, dapò varie fortune, sse guadagna 'no Re pe' marito.»—Fino all'arrivo alla casa dell'Orchessa si riscontra perfettamente con la seconda fiaba della Gonzenbach (Op. cit.) Maria, die böse Stiefmutter und die sieben Räuber (salvo che nella versione della Gonzenbach la madre è morta naturalmente). Il matricidio, consigliato dalla Maestra per isposar lei il futuro vedovo ed eseguito col coperchio della cassa e la ingratitudine naturalissima della maestra, divenuta matrigna, si ritrova appo la Gonzenbach nel conto: Von Giovannino und Caterina.—La madrigna che odia i figliuoli del primo letto e li vuole sperduti si ritrova in Nennillo e Nennella, trattenimento VIII dèlla V Giornata del Pentamerone:—«Iannuccio ha duje figlie de la primma mogliere. Sse 'nzora la seconna vota e songo tanto odiati da la matrea, che le porta a 'no vosco; dove sperduto l'uno da l'autro, Nennillo deventa caro cortisciano de 'no Principe; e Nennella, jettannose a maro è[277] gliottuta da 'no pesce fatato e jettata sopra 'no scuoglio, è da lo fratiello reconosciuta e da lo Principe maritata ricca ricca.»—Ecco una versione milanese del racconto.
L'ESEMPI DI TRE TOSANN.
Ona volta gh'era marì e mièe: gh'aveven tre tosânn; ma la mader l'era madregna, come disem nun. Ona sera, (l'era in lett) la ghe dis al marì:—«Pensa ben a menà via quij tosânn, che mi voeuri minga vedej.»—E lu, el ghe dis:—«Diman i menaroo in quaj sit per faj perd.»—La tosa minor l'ha sentii; e l'ha faa finta de nient: l'ha preparaa i saccocc pien de farinna, e, quand l'è staa, che han finii de disnà, so pader, el ghe dis:—«Andemm, tosânn, vegnì adrèe mi, ch'emm de andà in d'on bel sit.»—E i ha menaa in d'on sit distant. La tosa minor la stava de drèe e ogni tocchell la metteva giò ona brancada de farinna. Quand l'è stàa nott s'hin ridott in d'on bosch, sicchè so pader el ghe dis:—«Buttemmès giò chì, in de sto cassinott, finchè el ven dì»—E lu, i ha lassàa indormentà e poeu lu l'è vengnùu via. E i tosânn hin restàa là. Dopo de lì a on pòo s'hin dessedàa e s'hin miss a piang, perchè han trovaa pu so pader. E la tosa minor la ghe dis:—«Lassèe fa de mi che soo la strâda per andà a casa.»—Come di fatti hin andàa a cà. De lì a on pòo de dì, la comincia ancamò la soa mièe; la ghe dis al marì:—«Pensèe ben a menà via ancamò quij tosânn, che voeuri pu vedej.»—Allora i ha menàa in d'on alter sit. E la tosa minor l'ha sentìi, l'ha impienìi i saccocc de sal e tutt i tocch la metteva giò ona grana. Dopo gh'è passàa i bè e ghe l'han mangiàa tutt. Quand l'è stàa nott, i ha menaa in d'on alter bosch, i ha lassàa indormentà, poeu lu l'è andàa a casa e i tosânn hin restàa là. Dopo s'hin dessedàa e han trovaa pu ancamò so pader. Allora la tosa minor la dis:—«Vegnì adrèe de mi, che sòo la strâda a andà a casa.»—La va innanz on gran tocch e poeu han pers la strada e han seguitàa a viaggià tutt el dì. In fin l'era quasi nott e saveven pu dove andà. Han vist on ciar distant in d'ona cassinna e lor hin andàa là a cercà alogg. E gh'era là ona donna; la ghe dis:—«Ve loggeria volentera; ma gh'hoo el marì che l'è on mago: se el ven a cà, el ve mazza.»—Allora sti tosânn gli han ditt:—«Se scondem sott a quella motta[278] de brugh là: inscì en ne troverà no.»—Come di fatti han faa inscì. E lee la ghe dis:—«Sentìi, tosânn; farem ona robba. Diman mattina hoo de fà el pan e a vialter ve diròo: Vegnìi chi a juttà a mett denter el pan in del forno. Lu el ve dirà de andà là a boffà in del foeugh, e vialter disìgh che si minga bonn, ch'el v'insegna lu.»—Come di fatti lu el ghe dis:—«Tosânn, vegnìi chì, a boffà in del foeugh.»—E lor ghe disen:—«Semm minga bonn.»—E el mago el ghe dis:—«Vegnìi chì, che v'insegnaroo mì.»—E el se mett adrèe a boffà. Allora lôr gh'han ciappàa ona gamba per unna e l'han casciàa denter in del forno. Dopo han seràa su; e l'è mort denter. E quella donna i ha tignùu là come i so tosânn, e staven benissem. On dì ghe va là on poverett a cercà la caritàa: e l'era so pader de sti tosânn. E sti tosânn gh'han ditt:—«Se rigordèe quand n'avìi menàa in del bosch per fann perd? El Signor, nun el n'ha benedìi e vu el v'ha castigaa.»—In quel menter gh'è s' cioppaà ona venna del coeur e l'è mort subet.
[2] Sgrammaticatura: che io sia. Benedetti soggiuntivi! Un ragazzo, che riprovammo tre anni fa negli esami di licenza liceale, si prese l'incomodo di stamparmi contro un libello, nel quale, fra le altre amenità, s'incontravano queste frasi:—«L'esaminatore Imbriani pretende, che la scelta fosse del professore, non badando, che in tutte le altre sedi liceali avvenisse il contrario....»—«Ciò l'Imbriani sceglie a preferenza, affinchè avesse un addentellato....»—Ed il poverino, senz'accorgersene, dimostrava così la giustizia della sua condanna.
[3] Traduzione pretta del Virgiliano:
Sic volo, sic iubeo; sit pro ratione voluntas.
[4] Più d'un lettore aggrinzerà il naso a questa parola, dimenticando che naturalia non sunt turpia. Ma i nostri maggiori non erano tanto schivi, quanto siamo noi, più forse per cresciuta ipocrisia, che per migliorata costumatezza. Dicevano le cose loro semplicemente, ingenuamente, senza malizia. Ne' Miracoli d'Amore, favola pastorale di Vincenzo Iacobilli (Roma M.DC.I), per esempio, Ranocchia villano è soprappreso da doloretti viscerali:
Ranocchia. | Che dïavol sarà? fan gran fracasso Le budella nel ventre. Oh gran dolore! [279]Quello caldajo di ricotta calda, Che poco fa mangiai, n'è la cagione. Ohimè, che sarà questo? par, che tenga Cinquecento folletti entro la pancia. Meglio sarà, che a scaricare il corpo Vada dietro a questi arbori, che forse Si partirà la doglia. |
||
Corimbo. | Io cerco il mio padron per dargli nuova Di duo agnellini, che son nati or' ora. |
||
Ranocchia. | Dïavol fa, che m'escan le budella. | ||
Corimbo. | Qualche rozzo villan dev'esser quello. Gli vo fare una burla. Vo gridare Al lupo. Al lupo! Al lupo! Vien pel bosco! Pastor fuggite e salvate la greggia. Fuggi, fuggi villan, s'esser non vuoi Dal lupo ucciso. |
||
Ranocchia. | Cancaro! m'è forza | ||
Con le brache calate fuggir via: Sia quel, ch'esser si vuol, purchè ne scampi. |
C'è della goffaggine; nol nego. Ma il riso, suscitato da questo e simili episodi, mi pare aver dovuto esser più salubre, più morale ed esteticamente superiore a quello, che destano certi moderni Acquazzoni in montagna, certe Missioni di donna, certe Nonne scellerate eccetera, eccetera.
[5] È noto (ma pur giova ricordarlo) appena che adoperarsi male co' tempi futuri per come, subito che, tosto che. Esempio:—«Appena, che sarà andato via il maestro, io verrò da voi.»—S'ha a dire: Come sarà andato via il maestro; oppure: tosto che sarà andato via, eccetera.
[6] Sito, a Firenze si adopera solo nel senso di puzza, cattiv'odore; mai in quello di luogo. Raccontano d'uno d'altra provincia d'Italia, il quale, visitando un casino, che voleva affittare per villeggiarvi, sclamava sempre: Oh che sito! oh che sito! La fattoressa, che il menava intorno, diceva fra sè: Dice, che v'è un sito! Guà'! I' 'un lo sento! Finalmente scesero in un chiuso tutto aranci, e gli aranci eran tutti fioriti ed olezzavano, che non si può dire l'odore, che rendevano. Sclama il forestiero: Oh che sito! che sito! La donnicciuola non si potè tenere di non gli dire: Oh senta! qui poi, sito, davvero 'un ce n'è!
[7] Que' vasi di vetro sottile ed impagliati, dal collo lungo e stretto e dalla pancia quasi sferica, ne' quali custodiscono e portano[280] in tavola il vino nella Toscana. Nelle provincie meridionali, in Lombardia, in Piemonte non usano. Sogliono esser capaci due litri e un quarto. Il piretto napolitano, più spiccatamente piriforme e più capace, è di vetro spessissimo e si regge in piedi senza impagliatura.
GLI ASSASSINI.[1]
C'era una volta un omo, che aveva tre figliole. Quando erano sulle ventitrè si affacciavano alla finestra. Passa un capo—assassino, si volta in su e vede queste belle ragazze. Che ti fa? Vede una bottega là di faccia:—«Scusate, chi sono quelle tre belle ragazze?»—«Sono figliole d'un poero sarto»—gli dicono—«che sta quì in questa strada.»—Quest'omo va alla bottega dove gli aveva detto questo ed apre. Dice:—«Cosa mi comanda?»—Gli era un sarto; credeva, che gli portasse del lavoro.—«Quante figlie avete voi?»—dice. Dice:—«Tre, signore.»—«Abbiate da sapere, che io le ho vedute: una delle tre la voglio sposare.»—«Signore,»—dice—«Io sono un poeromo. Non gli posso dar niente di dote, nè di altro.»—«Io ricerco la ragazza, e non ricerco quattrini. Mi fareste il piacere,»—dice—«di condurmi a casa e sapere chi di loro mi vole?»—«Volentieri.»—Chiude la bottega e va a casa e picchia.—«Oh dio!»—dicono le ragazze—«gli è il babbo con un signore.»—Tirano la corda. Vengon su. Le ragazze dicono:—«Felice giorno;»—fanno de' complimenti tanto a suo padre, che a questo signore. Il babbo, le fa mettere a sedere e dice:—«Vedete, ragazze; questo signore, una di voi vi vole per isposa.»—Dice la minore:—«No.»—Quell'altra anch'essa:—«No.»—Ma la maggiore dice:—«Lo prenderò io, quando sia[282] contento.»—«Io»—dice allora questo capo—assassino—«ho bisogno di sbrigare questo matrimonio, perchè ho bisogno di tornare nel mio posto.»—In quattro o sei giorni si concludono le nozze: si fa presto! Partono gli sposi; e lei dice addio a il padre, alle sorelle; lui lascia una borsa di quattrini; e vanno via. E principia a imboscare. La dice:—«Che c'è molto ancora per arrivare alla casa?»—«Eh»—dice—«c'è molto ancora; c'è un pezzo; c'è un pezzetto.»—Eccoti arrivano alla casa.—«Evviva gli sposi! evviva gli sposi!»—Tutti quelli altri assassini con le fiaccole. Una tavola apparecchiata: bocca mia, che vuoi tu? che ci era d'ogni ben di dio. Quando ebbero cenato:—«Abbiate da sapere, che noi siamo mercanti. Voi siete padrona di tutto tutto tutto il palazzo, qualunque cosa; ma si vole una grazia da voi.»—«E quale?»—dice.—«Che noialtri si va fori, si va via; e si rimane otto, dieci giorni. Quando noi si picchia, che voi ci aprite subito: questa è la grazia. Ma voi potete dormire in queste notti.»—Dunque, la notte, partono questi assassini; e rimane questa ragazza e comincia a guardare dappertutto, a piangere. La si accorge, che era fra gli assassini. La dice:—«Poero mio babbo! poere mie sorelle!»—E il sonno, piangi piangi, il sonno la prende. Eccoti gli assassini; e lei la dorme, non sente. Che ti fanno? buttan giù la porta. E il marito va su e l'ammazza. E dice ai servi, questo capo assassino:—«Portatela di là, dove c'è tutti gli altri morti.»—La mattina viene a Firenze questo capo—assassino e picchia alla casa delle sorelle e d'il padre:—«Uh»—dicono le ragazze—«gli è il nostro cognato, babbo.»—Tiran su la corda:—«Come la sta la nostra sorella?»—«Uh! non la riconoscereste: l'è ingrassata da non lo poter credere. Anzi la l'ha detto, una di voi la vi vol lassù, per otto o quindici[283] giorni.»—Dice la maggiore:—«Anderò io, verrò io.»—«Oh!»—dice—«venite quella, che volete.»—Partono e via, verso casa. Principia a imboscare, come fece all'altra. E la ragazza dice:—«Quanto c'è per arrivare a casa?»—«Eh»—dice questo assassino—«c'è tempo ancora!»—«Eh»—dice—«mi par mill'anni di veder mia sorella.»—Arrivano a il palazzo:—«Evviva! Evviva!»—tutti, che vengon giù a scortare. Dice la ragazza:—«Ahn, dov'è la mia sorella?»—Lei, la cerca subito la sua sorella.—«Ehm!»—dice il capo—assassino—«mangiate ora, la vedrete poi la sorella.»—«No, davvero, ch'io non mangio, s'io non la vedo, io.»—«Ebbene, conducetela a veder la sorella.»—Accendono una torcia, aprono la stanza mortuaria:—«Ecco, la vedete? E così sarà di voi, se non ubbidirete ad aprirci quando noi si torna. Ci dovete aprir subito, altrimenti finirete come quella. Stanotte noi si parte e si starà sette o otto giorni. Quando si torna, bisogna che ci aprite subito; altrimenti vi si ammazza.»—E vanno via. La notte partono; e rimane questa ragazza a piangere. Più che la piangeva, non dormiva, si disperava. E quando la notte lei doveva star desta, lei si addormiva. Eccoti gli assassini; picchiano e nessuno risponde. Dicono al marito:—«Non l'ammazzare, poerina; che vòi!»—«Eh!»—dice—«ce n'è un'altra!»—Va su e l'ammazza senza far discorsi. Giorni dopo, viene a Firenze; e va dalla cognata e dal sòcero; e picchia:—«L'è quì mio cognato; ma non ha la sorella, babbo.»—Dice:—«No?»—Risponde la ragazza:—«No.»—[2] e tira su la corda. Dice l'assassino:—«Dunque; vo' avete da sapere....»—«Oh, le sorelle?»—«Vo' non le riconoscereste. Le sono ingrassate tutt'e due, così; specie la me' cognata! E vole, che la veniate anche voi; e poi tornerete tutt'e due insieme.»[284]—Dice il padre:—«È impossibile!»—Dice:—«Io non posso rimaner solo!»—«Ed io Le prenderò una donna, che La custodirà.»—Prende una donna; e gli lascia uno sborso di quattrini a il padre e gli procura una donna per custodirlo. E va via con questa ragazza; e arrivano a il palazzo:—«Evviva! Evviva!»—Figuratevi, che festa facevano gli altri assassini. Ma lei, la dice:—«Dove sono le mie sorelle, dove sono?»—«Eh mangiate! alle sorelle c'è tempo.»—«Eh non mangio, quando non le ho vedute.»—«Ebbene, conducetela a veder le sorelle.»—Aprono la stanza mortuaria: e gli dice:—«Vedete le vostre sorelle? Perchè nojaltri gli si diceva, che ne aprissero, e loro dormivano, noi le si è ammazzate.»—«Bravi!»—dice—«Hanno fatto bene! Briccone, a non obbedì' questi signori!»—«Abbiate da sapere, che fra due giorni nojaltri andremo via; e si starà dieci, dodici giorni. Quando si torna, bisogna che ci aprite subito, altrimenti vi si ammazza. Dormite il giorno innanzi.»—Eccoti, vanno via dopo due giorni; e la ragazza riman sola. L'accende un lume e va alla stanza mortuaria a vedè' le sue sorelle. Piangeva:—«Poerine! se potesse vederci nostro padre!»—Piangeva; e mentre piange, sente fare:—«Uhuh! Uhuh! Uhuh!»—un rammarichìo. Lei crede che sien le sorelle, che si lamentano; tira fori tutti i morti, e tira fori un figliolo del Re, che era ferito, ma non era morto. La lo tira fuori, la lo mette sopra un materasso, con i balsami la gli medica le ferite; e poi, la gli fa delle gelatine, dei brodi, e lì per lì. La rimette tutti i morti adagio dentro la stanza; e poi, trascina il malato adagio adagio e lo mette in una stanza in disparte, che nessuno poteva trovar questo ferito, che lei l'aveva girata la casa e sapeva quel che si faceva. La gli medica le ferite, la gli prepara quel brodo e poi la si mette alla corda.[3] Eccoti,[285] gli assassini picchiano. Lei lesta la tira la corda:—«Ah brava!»—Chi la pigliava di lì, chi di là, regali!—«Voi siete brava! Vedete, quando siete brava, noi come si tratta?»—«Ma sicuro! Non si prendono gl'impegni piuttosto!....»—Lei, la mangia tutt'allegra.—«Ma»—dice il capo—assassino—«fra qualche giorno noi partiremo e si starà anche da venti giorni fòri.»—«Quanto mi rincresce!»—dice:—«Son sempre sola!»—«Eh, ma non pensate! Quando si torna, si starà anche un mese con voi!»—E così loro vanno via; e lei la corre subito da il figlio del Re: e lo trova, che stava veramente benino, ecco. Dopo due tre giorni, dice il Re:—«Morti per morti, qui bisogna scappare.»—Che ti fanno? vanno giù alle scuderie e prendono i meglio cavalli e si caricano di quattrini, di robe, figuratevi! caricano questi cavalli e vanno via.—«Morti per morti, gua'!»—dice. E principiano a imboscare; perchè, per volere, che andassero a casa, bisognava passa' pel bosco; con una paura potete credere! Ma finiscono il bosco liberi. Vanno al palazzo del Re. I servitori dice:—«Se non fosse morto il nostro padrone, si direbbe che gli è lui.»—S'avvicina al palazzo e i servitori lo riconoscono: urli!—«Ah! Ecch'il nostro padrone! ecch'il nostro padrone!»—La Regina, che giusto la non faceva che[4] piangere, la sente quest'urli; la corre a vedere, la riconosce il figliolo. Vi lascio dire! dalla contentezza la si sviene. Quando s'è riavuta, gli dice:—«Questa è la mia sposa!»—e gli racconta tutto il caso, com'era stato.—«Oh!»—la madre.—«Lo credo poerina, ve lo meritate pur troppo!»—Dunque seguono, per far più breve, le nozze: loro penan poco a sposarsi, si sposano, via. E lasciamo a questi, che stanno in festa; e venghiamo agli assassini. Gli assassini, picchia picchia, uh! nessun risponde. Dice un di quegli:—«'Un l'ammazzare,[286] sai, poerina?»—Dice quello:—«Io non l'ammazzo, cheh! cheh!»—Buttan giù la porta; vanno su; e chiama chiama, nessun risponde. Non c'era, gua'! Principiano a girare il palazzo, vanno alla stanza mortuaria e principiano a cavar tutti i morti: e vedono che manca il figliolo del Re.—«Ah briccona! ora ti s'è trovata dove siei! S'è scoperto! col figlio del Re!»—Dice il capo—assassino:—«Acchiappate un orso ed ammazzatelo!»—Quando l'hanno ammazzato, gli levan la pelle; e l'assassino con tutt'arme si fa metter dentro a questa pelle, cucito, che paja un orso vero. E gli dice:—«Portatemi alla piazza del Re. Quando Maestà mi vorrà comprarmi, chiedetene una gran somma.»—Vanno sulla piazza e si metton fermi sulla piazza; e quest'orso, scherzi, ma una cosa che sorprendeva, ecco, una meraviglia! Dice la servitù:—«Maestà, La s'affacci alla finestra, La venga a vedere, che degna cosa, che è questa!»—Maestà s'affaccia; e vede quest'orso, che.... non era possibile, ecco, le maniere che faceva quest'orso. Gli dice a' servitori:—«Domandate quel che vole. Quel che vole, vole; chè io lo voglio comprare.»—Eccoti i servitori:—«Dite, galantomo, lo vendete quest'orso?»—«Nossignori, io non lo posso vendere, su questo ci campo.... Altro che con una gran somma!...»—Così i servitori vanno da Maestà e gli dicono:—«Lo vende, ma con una gran somma.»—«Voglia quel che vole, io lo voglio comperare.»—E l'assassino gli chiede cinquanta o sessanta scudi, ora non mi ricordo. E il Re gli dà i quattrini; e i servitori prendon l'orso. Figuratevi lo scherzo, che gli faceva a il Re questa bestia... Ma non si pol credere: faceva apposta lui, avete inteso? E Maestà dice:—«Chiamate la Regina, che venga a vedere la compra che ho fatta!»—I servitori gnene dicono. Essa risponde:—«Dite a il Re, che se vol bene a me, ammazzi[287] l'orso. Se poi vol bene all'orso, io me ne vado.»—Eccoti i servitori gli portano l'ambasciata:—«O L'ammazza l'orso, oppure la Regina se ne va.»—Potete credere, il dolore che gli ebbe Sua Maestà a dire che gli aveva da ammazzar questa bestia:—«Poerino!»—gli diceva all'orso il Re—«Ah quanto son dispiacente! eppure, t'ho da fare ammazzare. Tra poche ore tu hai da esser morto! Il dovere gli è verso la moglie e non verso te.»—Quando sono le ventitrè, eccoti i maniscalchi e ammazzan l'orso; i maniscalchi quelli di mercato, che ammazzan le bestie, i macellari. Quando gli è morto, allora Maestà manda a dire alla Regina, se ora la può venire di qua a vederlo almeno da morto, se non l'ha voluto veder vivo. Lei la risponde:—«Nossignore, che non ci verrò, fino che non è sparato.»—Ritornano i servitori:—«Maestà, la Regina non voi tornare, altro che quando sarà sparato l'orso.»—«Poerino!»—fa Sua Maestà—«ancora sparato, tu vedi!»—Lo fa sparare e ci trovano questo assassino con tutte le qualità dell'armi più peggiori.[5] E la Regina, la viene allora senza esser chiamata:—«Vedete, ch'è due volte»—la dice—«che v'ho salvata la vita? Voi non li conoscevi, perchè rimanesti ferito; ma io li conosco appieno, mentre che (sapete) mi trattenni tutti quei giorni, che io vi medicava. Dunque in quel posto, che noi siamo partiti, ce n'è rimasti altri trentadue: questi bisogna di spengerli.»—Vanno lassù quelli comandati da il Re e li chiappan caldi, caldi. A forza di cannoni, di fucilate, chi bruciato, morirono tutti tutti tutti. Presero tutte le ricchezze, che potete considerare! Danno foco a il posto e vengon via, e portan tutta questa gran ricchezza a il Re. La Regina fa ricerca di suo padre: gli era vecchio, vecchio, ma gli era vivo. La gli racconta tutto il caso delle sorelle, di lei; quel che[288] l'ha patito. Suo padre pianse, potete credere! Lei, lo fece il primo signore del palazzo. Se ne vissero e se ne godièdero, ed in pace sempre stiedero.
Stretta la foglia sia, larga la via,
Dite la vostra, chè ho detto la mia.
NOTE
[1] La fiaba della presente raccolta, intitolata Le tre fornarine, è una variante di questa, che va pure confrontata con quelle intitolate L'Orco ed Il contadino che aveva tre figlioli, nonchè, per alcuni punti, con l'altra intitolata Il Re avaro. Vedi Gonzenbach (Op. cit.) X. Die jüngste kluge Kaufmannstochter. Pitrè (Op. cit.) XXII. Li sette Latri, ecc.
[2] Si abbia sempre presente la costruzione delle case fiorentine, che accennammo in nota all'Uccellino, che parla.
[3] In altre versioni, il Principe è ben morto e la giovane il risuscita o con un unguento miracoloso, che i suoi padroni posseggono, oppure anche con un'erba di strana virtù il cui uso le è stato insegnato da un uccello. Era difatti un tempo credenza generale, che esistesse un'erba con la potenza di risuscitare o di risanar le ferite. Brunetto Latini dice nel Tesoro:—«Rigogolo è un uccello de la grandezza del pappagallo, et volentieri usa ne' giardini et ne' luoghi freschi et inarborati; et chi vae al nido loro et tronca la gamba ad uno de' figliuoli loro, la natura gli dà tanta conoscenza, che gli va per una erba, et portala al suo nido, et la mattina li truova l'uomo sani. Et simigliantemente, se l'uomo lega bene li suoi pulcini, l'altro dì li truova isciolti, non sarebbeno stati legati sì fortemente. Et non puote l'uomo saper con che erba elli li guarisce, nè con che ingegno li scioglie.»—Vedi anche in Pitrè (Op. cit.) il conto XI. Li tri belli curuni mei; e, nella Posillechejata del Sarnelli, il conto I. La pietà remmonerata:—«Pececca pe' compassione menaje 'na savorra sopramano; e pe' bona fortuna cogliette lo vozzacchio e le fece cadere la palommella da le granfe. La quale, caduta 'ncoppa a 'na troffa d'erva, a malappena la toccaje, che subeto, fatte quatto capotrommola[289] e brociolejata 'no poco 'nterra, sse ne tornaje a bolare bella e bona, comme se maje fosse stata scannarozzata.»—Con la stessa erba la Pacecca risuscita il figliuol del Be di Campochiaro, che se la sposa; e poi il cognatuzzo, del quale le veniva a torto apposta l'uccisione. Questo racconto del vescovo di Bisceglie ha infiniti punti di contatto, anzi è tutt'una cosa in fondo, col conto CXII del Pitrè (Lu tradimentu), il quale ne è una trasformazione religiosa. (Così il divo Antonino Pio è divenuto in Sorrento Sant'Antonino; così Ercole Ostiario divenne San Cristoforo, ed i miti pagani si trasformarono in leggende cristiane e da noi e dovunque). Altro riscontro a La pietà remmonerata può leggersi nella prima dispensa della Scelta di Curiosità Letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XVII, edita dal librajo Gaetano Romagnoli, in Bologna. È la Storia d'una donna, tentata dal cognato, scampata da pericoli, ritornata in grazia del marito per sua castità e divozione, che il Zambrini ricavò da un codice miscellaneo dell'Università bolognese, segnato di n.º 158.
[4] Che, nel significato di se non; è gergo infranciosato moderno; ma in buona lingua non si dice.
[5] Vedi, nel Pecorone, la Novella Prima della Giornata Vigesimaquinta:—«Democrate di Ricanati delibera di dare una caccia di animali selvaggi, a certi signori forestieri. Muore di questi un'orsa grossissima. Alcuni masnadieri fanno disegno di rubare Democrate. Un di loro si veste della pelle di essa; e, messo dagli altri in una gabbia, si presenta a Democrate, fingendo che gli mandi quest'orsa un albanese suo amico. La notte introduce i compagni. Al romore accorre un fante, e va a raccontare che l'orsa è fuori della gabbia. È uccisa, e allor si scuopre l'infelice masnadiero.»—Questa novella, Ser Giovanni Fiorentino la desunse dall'Asino d'oro di Apulejo. (Vedi, nella versione del Firenzuola, il Libro IV).
LE TRE FORNARINE.[1]
C'era una volta un omo, che faceva il fornaio in un sobborgo di campagna; e quest'omo aveva tre bambine, una più bella dell'altra, tanto, che s'eran tirate il soprannome d'Occhi di Sole. Un giorno, che le ruzzavano fra di loro sulla sua bottega, passò di lì un signore tutto vestito di nero, con una bella catena d'oro ciondoloni al collo e carico di tant'altre gioie e pietre preziose. A un tratto, questo signore si fermò a guardare quelle bambine; e poi s'affacciò alla bottega del fornaio e gli disse:—«O galant'omo, tenetemi conto di queste bambine, l'hanno a essere un mio boccone!»—e, senza che il fornaio avesse tempo di rispondere, riprese il suo viaggio. Ma il fornaio tenne bene a mente quelle parole; motivo per cui tirava su le figliole da signorine, perchè lui diceva che una di loro l'avea da sposare un signorone, e l'altre due dietro a quella l'avrebbero fatto altrettanto[2]. Per tornare un passo addietro, quell'omo vestito di nero, quel giorno che si fermò alla bottega del fornaio, fece una carezza per una alle tre bambine, e gli regalò un anellino molto bello. Quelle bambine, le si ricordavan sempre di quella carezza e di quell'anello; e specialmente la maggiore l'era sempre a guardarselo in dito. Loro eran già diventate grandi e il fornaio aspettava il signorone, quando un giorno stando la maggiore alla finestra tutta impensierita, vede nella strada quello stesso signore, che aveva veduto da piccina[291] e neanche cangiato d'un neo. Questo signore, che si chiamava Centomogli, entrò in casa; e, senza tanti discorsi, chiese al fornaio la figliola maggiore in isposa. Ma il fornaio furbo disse che non gliela avrebbe data, se prima non vedeva la casa dove dovea andare. Centomogli rispose che era giusto; e subito, fatta attaccare una carrozza, vi fece salire il fornaio; e poi via come il vento, arrivarono ad una bellissima villa con tanti bei loggiati di marmo e tante statue, chè il fornaio non n'aveva mai vedute di simili. Figuratevi se rimanesse a bocca aperta! Centomogli scese col fornaio; picchiò alla porta, che subito fu aperta da un gran gattone nero, che non finiva mai di far riverenze al padrone. Centomogli, dopo aver dato ordini per un gran pranzo al gatto, menò il fornaio a vedere quella villa, dove dovea andare la sua figliola. Il fornaio, a vedere tante meraviglie, aveva perso la parola, e camminò zitto zitto come un pulcin bagnato; e non poteva credere che quella bella casa e quella bella roba dovesse essere della sua figliola; e gli pareva mill'anni d'andare a casa per raccontarglielo. Figuratevi poi com'e' rimanesse, quando vide il gatto far da desinare, apparecchiare, portare in tavola! Un po' si sganasciava dalle risa, e un po' rimaneva serio, perchè gli pareva ch'e' fosse tutto un sogno. Dopo il desinare, rimontarono in carrozza; e via di galoppo, come eran venuti, ritornarono a casa. Ci volle tutta la sera, perchè il fornaio finisse il suo racconto. La figliola maggiore si sentiva venir l'acquolina in bocca; e le sorelle, in cambio d'averne invidia, gli dicevano:—«Oh! vai, vai, Caterina; e presto ti verremo a far visita; e si starà allegre col gatto che ti farà il servitore, che ti stirerà, che rifarà i letti!»—Per la mattina dopo fu fissato lo sposalizio; e tutti contenti videro montare in carrozza la Caterina, che anche lei, a pensare alla villa, rideva lasciando la su' casuccia.[292] Ma appena ebbero fatto un po' di strada, la vide il suo sposo farsi nero come un nuvolo d'inverno: in casa sua gli avea fatto tanti complimenti e ora 'un gli diceva neppure una parola e non la guardava neppure. Sapeva da su' padre, che la strada da farsi era bella e che doveano passare da tante ville: e, quando si vide entrare in un folto bosco, s'azzardò a domandare allo sposo, se era quella la strada. Ma Centomogli gli rispose bruscamente che stasse zitta. La poveretta incominciò a tremare, tanto più che il bosco era di molto buio, che non ci si vedeva più. Allora si buttò in un cantuccio della carrozza e cominciò a piangere, e mandar urli, e chiamare il su' babbo. Centomogli stiede un pezzo zitto e finalmente gli disse in bona:—«Caterina, sta zitta. Tanto il tuo babbo è lontano, e non sentirebbe una cannonata. E, se tu gridi dell'altro, e' si rischia d'essere sentiti e presi dagli assassini, che sono in questo bosco.»—La Caterina si chetò a queste parole; ma la paura gli faceva battere i denti, che pareva che la battesse la terzana. Cammina, cammina, arrivò notte; e Centomogli disse alla sposa che c' era poco altro da correre, ma che bisognava scendere di carrozza per iscorgere la casa. La Caterina, la 'un si reggeva ritta, ma la si sforzò tanto, che in poco tempo tutt'e due arrivarono a un punto, da dove si vedeva un lumicino.—«Eccoci»—disse Centomogli. E la Caterina si sentì consolare. Quando furono vicini al chiarore del lume, che veniva da un finestrino, Centomogli picchiò a una porticina d'un gran castello tutto nero. E questa volta invece del gatto fu una cagna ad aprire. Anche lei, tutta riverenze, ricevè gli ordini del padrone. Cenarono, ma ancora Centomogli non diceva nulla alla povera Caterina. Passarono quattro giorni, senza che la Caterina avesse sentito la su' voce; andava a desinar con lui, a cena, a letto, ma lui sempre zitto; e lei la si[293] disperava come un can perso. Alla fine dei quattro giorni, Centomogli disse alla Caterina:—«Domani parto; e sto fori un mese. Se tu mi prometti d'ubbidire a' me' ordini e d'osservarli, quando torno io sarò per te un buon marito, e ti menerò nella villa, che vide tuo padre.»—La Caterina si buttò in ginocchioni e promise a costo di morire che avrebbe ubbidito a tutto quello che gli comandasse. Allora Centomogli gli consegnò un mazzo di chiavi e gli disse:—«Eccoti le chiavi di tutte le porte di questo castello. Tu vi troverai da divertirti per tutto il tempo che starò fuori. Ma ti proibisco di aprire quella dalla chiave d'oro. Bada, che tu non mi puoi ingannare. Me lo racconterà la cagnolina; e poi, ti darò un mazzolino che mi renderai al mio ritorno, che diventerà secco subito, che entrerai nella stanza, che ti ho detto.»—Lieti e contenti cotesta sera cenarono; e poi si dissero addio. Rimasta sola la Caterina colla cagna, tutti i giorni apriva una stanza; e difatti vi trovava sempre qualcosa che la divertiva. Mancavano due giorni a finire il mese, e già la Caterina aveva veduto tutto il castello; era scesa in giardino. Ma ogni volta che passava davanti alla porta dalla chiave di oro sentivasi spingersi ad aprirla; ma, se s'era vinta le altre volte, questo giorno, che non aveva da far nulla, non potè resistere alla curiosità. Dopo provato tre o quattro volte ad aprir la porta, entrò nella stanza. Girò appena gli occhi intorno, che cadde svenuta. Si rinvenne poco dopo, ma fuggì via subito. Quella stanza era tutta circondata di donne attaccate a tanti chiodi, chi per la vita chi per le braccia, chi per il collo, alle mura di quella stanza. La povera Caterina, bianca come un panno lavato, andò a nascondersi in camera sua, perchè non la vedesse la cagna in quello stato, e vi stiede tutt'e due i giorni, sempre al buio; perchè la cagna andava[294] a portargli da mangiare. Tornò Centomogli e trovò la Caterina sempre in camera, che non ebbe coraggio di dirgli una parola. Ma lui, senza aver bisogno del mazzolino, sapeva quello che aveva fatto la Caterina. E non bastò che la piangesse, che la si buttasse in ginocchioni; perchè lui la prese, la menò nella stanza della chiave d'oro e l'attaccò come quell'altre a un chiodo, e gli disse:—«Anche te hai fatto come l'altre; dunque hai da avere un gastigo compagno.»—Poi, come se nulla fosse, richiuse l'uscio. Il giorno dopo andò dal padre di Caterina e gli disse che la su' figliola voleva la sorella mezzana in compagnia, e che gliela mandasse per qualche giorno. Il fornaio acconsentì e mandò la figliola, senza metter tempo in mezzo. Centomogli, quando fu per la strada, gli raccontò il fatto della sorella e gli disse che, se voleva diventar lei sua sposa, l'avrebbe provata a quel modo; e, se avesse ubbidito, l'avrebbe menata a quella bella villa e gli avrebbe voluto bene. Quella povera ragazza gli promesse Roma e Toma; ed il giorno dopo che fu arrivato al castello, Centomogli partì. Stette fuori due mesi e quando tornò, per farla corta, messe anche la sorella della Caterina appiccicata al muro coll'altre donne. E il giorno dopo, eccotelo daccapo dal fornaio a chiedergli quell'altra figliola per compagnia di quell'altre. Ma questa non volle partir da casa subito in quel modo; e si trattenne per più d'otto giorni senza risolversi a nulla; e non sarebbe ita, se non l'avesse spinta il su' babbo. La bella Clorinda volle partir di sera, sicchè arrivò al castello di giorno. Ma Centomogli questa volta non disse altro delle sorelle, che se la le voleva rivedere, l'erano in castigo; ma fino a tanto che egli non tornava, non avrebbe potuto scoprirgliele; e se anche lei disubbidiva al suo comando, sarebbe stata messa dove la Caterina e quell'altra. Intanto gli lasciò le chiavi e gli impose che[295] non aprisse le stanze dalla chiave d'oro e di argento. Clorinda non rispose niente; e, dopo che fu partito Centomogli, la prima cosa, andò ad aprire la stanza dalla chiave d'argento. Non vide nulla in tutta la stanza, ma sentì un certo mugolìo, che veniva come di sottoterra. Allora girò, guardò e scoprì una lapida. L' alza e vede che era un pozzo. E da questo pozzo veniva una voce, che chiedeva ajuto. Allora la cara Clorinda non sapendo come fare a dar soccorso a chi era laggiù, sorte dalla stanza, va a chiamare la cagna e gli ordina di mettere dell'acqua a bollire. E quando l'acqua fu ben bollente, disse alla cagna:—«Portami in camera quell'acqua.»—E nel mentre che gliela portava, Clorinda prese la cagna di dietro all'improvviso e la buttò nella caldaia, dove tutta pelata vi morì[3]. Rimasta padrona del castello, piglia la porta e va a trovare un carbonaio, che stava all'entrata del bosco (e lei l'aveva visto, perchè era passata da que' posti di giorno) e gli ordinò di venire con una cesta ed una fune al castello. Insomma riprese dal pozzo un bellissimo giovinotto, tutto sfinito per il patimento. Ma Clorinda, avanti d'interrogarlo, gli diede da mangiare e lo fece riavere. Tutti e due si erano belli e 'nnamorati e fissarono di fuggire insieme e concertarono d'andar col carbonaro, rimpiattati nelle balle del carbone. E intanto che il carbonaio preparava, Clorinda aprì la stanza della chiave d'oro, e vide le sue povere sorelle morte a quel modo. Non ebbe coraggio d'andargli vicino, e scappò via subito; che gli pareva sempre ch'avesse a tornare Centomogli. Domandò al giovinotto dove voleva andare. E lui rispose:—«Io sono figlio del Re di Portogallo. Io ti farò Regina e mia sposa.»—Ci si può figurare, se Clorinda era matta per la gioia! Ma per la strada, rinchiusa nelle balle del carbone, ebbe a patire non poco; e il viaggio era lungo e pericoloso fra mezzo a quel nero[296] bosco[4]. Dopo otto giorni arrivarono sani e salvi in Portogallo; ma così rovinati, che il Re non riconosceva più il suo figliolo. Ora, per tornare un passo addietro, dovete sapere che il figliol del Re tre giorni avanti, che arrivasse la Clorinda al castello, era a caccia; e fu preso dagli assassini e messo in quel pozzo nel castello di Centomogli, che era il capo degli assassini. Il Re fece grandi feste, perchè il suo figliolo era tornato con una bellissima sposa; e tutta la corte si messe in gala per lo sposalizio, che fu fatto con molta allegria. Passato due mesi, che Clorinda viveva tanto contenta col suo marito, tornò al castello Centomogli e trovò la porta di casa aperta. Sali la scala, chiamò la cagna; ma non c'era nessuno.—«Ah! perfida maledetta, ti troverò quand'anche tu fossi in cima al mondo!»—diceva Centomogli. E subito si travesti da vecchio e andò spiando da per tutto e scoprì del carbonaio. Allora corre da quello e non parendo su' fatto, gli domanda come potè riuscire a salvare quei due poveri giovani del castello. E il carbonaio spifferò che gli aveva menati nelle balle da carbone al Re di Portogallo. Centomogli non stiede a dir che c'è egli?, e in due giorni fu in Portogallo. Passeggiava tutti i giorni dinanzi al palazzo, per vedere se vedeva la Clorinda. Un giorno finalmente, che la s' affacciò alla finestra, Centomogli disse fra sè:—Ora tu ci sarai!»—E subito si portò da un mago, e si fece fare un orologio, che messo in qualunque posto di una casa, tutte le genti si addormentassero da non si potere svegliare. E quando l'ebbe avuto, che era tanto bello da non se ne vedere, andò dal Re. Ma mi sono scordata di dire che Centomogli aveva sentito raccontare che la Clorinda era gravida, e che la notte lei non poteva mai chiudere un occhio a cagione della gravidanza cattiva. Centomogli, dunque, si presentò al Re e gli dimandò se voleva quell'orologio, che aveva la[297] virtù di far dormire. Il Re subito lo comprò, benchè a caro prezzo, per la Regina; e volle che quell'uomo stasse per quella notte nel palazzo, per assicurarsi se diceva il vero; chè, se non fosse stato come gli aveva detto, gli disse che gli avrebbe dato un gran castigo. Centomogli non desiderava altro! e' gli pareva mill'anni che venisse la notte. E quando tutti furono a letto, lui si levò e andò in camera della Regina. E quella dormiva come tutti gli altri per la magìa dell'orologio. Centomogli andò per prenderla dal letto e portarla via. Ma, quando le persone eran toccate da lui, la virtù dell'orologio spariva. E la Regina al primo tocco si svegliò; e vedendosi davanti quell'omo, che voleva pigliarla, principiò a gridare. Ma era inutile! Faceva sforzi, sonava il campanello. Ma ogni cosa era sorda. Centomogli intanto la levava dal letto. Ma Clorinda con tutta la sua forza s'atteneva al letto e poi alle seggiole e a tutto ciò che poteva agguantare. Finalmente Centomogli la strascicò. Se non che, giunti al mezzo di camera, buttarono giù un tavolino, dove si trovava l'orologio incantato e tutt'e due i mobili si rompèrono. Il rumore fece svegliar tutti, perchè l'orologio rotto aveva persa la sua virtù. E tutti corsero alla camera della Regina, che si era svenuta. Presero Centomogli, lo messero in una prigione e presto lo fecero morire, perchè si seppe che gli era un capo—assassino, e che (dopo gli altri delitti) aveva preso cento mogli e l'aveva ammazzate come Caterina e sua sorella. Clorinda si riebbe, e poco dopo fece un bel bambino; chiamò alla corte suo padre e su' madre; fecero al solito grandi feste, e se ne godettero e se ne stettero e a me nulla mi dettero.
Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, chè ho detto la mia.
NOTE
[1] Variante, nella prima parte, della fiaba Gli Assassini; nella seconda del Re Avaro (Vedi lì pe' riscontri). Ha pure de' punti di somiglianza ed appartiene al ciclo stesso dell'Orco e d'Il contadino che aveva tre figlioli. Risponde anche alla Novella intitolata Le cento sporte, che si contiene nell'opuscolo: Due|fiabe|toscane|Annotate da V. I.||Esemplari C|| Napoli|Stabilimento tipografico A. Trani|Strada Medina 25| M.DCCC.LXXVI. Fu raccolta dalla signora Larissa Giorgi da Prato. Eccone una lezione milanese:
I TRE TOSANN DEL PRESTINEE[i]
Gh'era on prestinee, ch'el gh'aveva tre tosânn; eren on poo cattiv; faven immattì i soeu gent[ii]. E la soa mamma, in att de rabbia, la dis:—«Se veniss anca on lader a tœuv, mi ve lassi toeu[iii].»—Domà che de lì a on poo de temp, va on scior a cercà vunna di so tosânn. Lee, la dimanda chi l'era; e la voreva savè de che famiglia l'era per podè dagh la soa tosa. Lu, el gh'ha portàa tutt i so cart in regola: e lor han vedùu, che l'era on bon partii. Ma sti cart eren tutt cart fals, che lor han minga cognossùu, ch'eren fals. El ghe dis, ch'apenna sposada, l'avaria menada in dove stava lu, in la soa citàa. El ghe fa di bej regaj de robba finna e fan sto sposalizi e pœu la mena via. Lee, la saluda i so gent, la saluda i so sorell; e pœu via van. Domà che fan tanta strada, tanta strada! distant!... e bosch!... quand hin staa in d'on sit, che gh'era propi nissun, in d'on bosch, el picca in d'ona portascia[iv], e là ven di omen[299] a dervigh. Lu, el ghe dis a sti omen:—«Ecco, questa l'è la mia sposa!»—E pœu el ghe dis, a lee:—«Sappia, che se te vœut dormì, dorma del dì. Ma de nott bisogna che te staghet dessedada, perchè nun a la sira vemm via e ti te dèvet stà attenta, per quand vegnem a cà, che picchem la porta, a dervinn. Se de no, mi te mazzi.»—Lee, sta povera tosa, la cercava de dormì del dì; e de nott la stava su per stà attenta per quand piccaven la porta. E l'aveva capíi, che l'era andada in man a on capp de la compagnia di lader[v]. Ven, che per on poo de sir l'è semper dessedada. Ona sira, la s'è indormentada. Lu, l'è andaa denter e l'ha minacciàa de mazzalla. Lee, la s'è missa a piang e a domandagh perdon, che saria l'ultima volta, che ghe fuss capitàa quella cossa lì. Ven, che ona nott vann a cà e anca allor la s'era indormentada e lu l'ha mazzada. E lu cosse l'ha fàa? El dis:—«Andaroo a tœu l'altra sorella.»—El va là di so gent (de soa mièe); el ghe dis che la soa tosa (de lor) la st ben, ch'ie manda a saludà tutt; e se voreven vunna di so sorej andà là a fa compagnia a lee. Vunna di sti sorej, la dis:—«Vegnaròo mi, vegnaròo mi.»—E quand l'è a cà de lu, la cerca la soa sorella. Lu, el ghe dis:—«L'è inutil che te cerchet la toa sorella, perchè l'hoo mazzada! «E se te faree minga quel che te disi mi, te mazzaroo anca ti.»—El ghe dis:—«Ti te dèe stà de nott dessedada, per stà pronta, quand vegnem a cà nun, de dervinn.»—Lee, l'ha seguitàa on poo de temp e l'è semper stada dessedada; ona nott, la s'è lassada andà del sogn[vi]. E lu, el va dent e le minaccia; e lee, le prega de perdonagh, che le saria minga success la segonda volta. Dopo tanto temp, ona nott el va a cà; e lee, la dormiva. Lu, el le desseda no; senza dì no, el va là e le mazza anca quella. Dopo, el pensa de andà a tœu la terza. El va là e el ghe dis a i so gent (de lee), che gh'han ditt i so sorell de digh de andà là anca lee in compagnia on poo, e pœu che sarien vegnùu a casa insemma. Lee, la terza sorella, la ghe va. E quand l'e là, la trœuva minga i so sorell.[300] E lu, el ghe dis che eren tutt e dò mort; e che, se lee la stava minga dessedada, la mazzava anca lee. Lee, quella là, la ghe dis de tœugh on quader de sant'Antoni, che lee l'era divotta, che inscì la starìa a fagh orazion a sant'Antoni e la saria stada dessedada. Difatti, lee, tutt i nott, la gh'aveva sto sant'Antoni e la s'è mai indormentada. Ona nott i lader vegnen a cà. Picchen la porta. La va a dervì, e ved che vegnen dent e portaven denter vun in spalletta. Derven on stanzin[vii] e van là e el metten giò in de sto stanzin. Lee, a la sira adrèe, apenna ch'hin andà via, la va in de sto stanzin a guardagh cossa aveven mess giò; e la ved che gh'era là on giovin in terra buttàa giò, che el pareva mort. La ghe guarda; e la ved, che l'è ferìi. Lee, la saveva indove i lader tegneven on cert onguent, che se ontaven lor quand vegneven a cà, che eren feríi. La và a tœull e la prœuva a ontagh[viii] la ferida. La ved che el rinvèn; e lee, allora la va in cusinna[ix], la ghe dà on brœud per podè sostanziall[x]. La ghe dis:—«Come l'è, che fa a trovass chì, lu?»—Lu, el dis, che l'è stàa assaltàa di lader e che l'han ferìi:—«Lor, me creden mort, e m'han miss là, perchè a lassam in strada, gh'han pagura de vess scopert, perchè mi sont el fiœu del Re.»—Lee, allora la dis che apenna che saria stàa in forza, lee gh'avaria fàa el mezz de podell fà scappà.—«Mi sol, no; con ti, scapparoo; perchè se de no, se i lader trœuven pu mi, allora ti te mazzen.»—Fan el dacord[xi] a la sira adrèe de andà via tutt e dùu, apenna[301] che i lader eren via. I lader van via; e lor van, scappen. Lu el cognosseva i strad; e l'è andàa in d'ona fattoria, che l'era lì poch distant, che l'era on fattor sott a la cort del Re. Van là; lu, el fiœu del Re, el ghe dis, s'el podeva menall a casa soa, perchè lu, l'era stàa assassinàa di lader e so pader le saveva no, e desiderava de faghel savè pusèe prest, che fuss possibel. El fittavol pensa de caregà on carr de fen, de paja, fàa in manera de andagh denter tutt e dùu, el fiœu del Re e la tosa[xii] del prestinèe, e de podè avegh el sit de fiadà. Van, se metten in viagg. Quand hin a on certo sit, incontren i lader; iè fermen:—«Cossa gh'avii lì?»—«Oh»—dis—«cossa gh'hoo de avè? L'è on poo de paja, che meni giò per sternì[xiii].»—S' ciao! E lor:—«Eh ben»—disen—«andèe!»—e el lassen andà. Quand hin a la cort, i so guardi voreven minga lassall andàa denter in la porta. La, el ficciavol[xiv], el ghe dis, che l'è el fiœu del Re, che gh'ha dàa orden de andà denter. Ghe disen, ch'el fiœu del Re, el gh'è minga, che anderan a dighel[302] al Re de sto orden, che gh'han lor. Van a dighel al Re. E lu, el dis:—«Magara el fuss ver ch'el fuss el me fiœu! Ma el me fiœu l'è on pezz che no sòo in dove l'è, che el se ritrœuva![xv]»—El Re, el ghe dis:—«Vegnaròo giò mi a vedè.»—Difatti el va. El ficciavol, el ghe dis che l'è propi el so fiœu, che gh'ha dàa l'orden de andà denter, e che anzi l'è lì in quell carr. Lì pesseghen, descareghen el car[xvi]. El fiœu, el ven giò; e el pader, a vedè el so fiœu, l'è tutt content. E pœu, el ghe ved insemma sta donna. Allora el fiœu, el ghe cunta quel che gh'era success; e che quella lì l'era quella, che gh'ha salvàa la vitta. Allora el pader, el ciappa sta tosa, le ringrazia tant. El fiœu, el ghe dis, che lu, el voreva sposalla. El Re ghe le conced. S' ciao! Ven, che el capp di lader l'ha scopert che quella lì l'era scappada cont el fioeu del Be; e l'ha sentíi che era success sto matrimonî. Lu, el saveva che lee ghe piaseva tant Sant'Antoni. L'ha fàa fa on quader magnifich, grand e pesant, che ghe voreva quatter omen a portall, e l'ha mandàa a la Cort; l'ha mandàa a digh che gh'aveven on quader de Sant'Antoni, che l'era inscì bel. E lee, la sposa, la ghe dis a so marì de tœughel. Lu, ghe le tœu; e lee, le fa mett in la soa stanza. E lee, l'andava semper a pregà sto sant, che per i so orazion, che le ghe fava, lu l'ha salvada de la mort; e pœu lee, l'ha podùu salvagh la vita a quel che l'ha sposada. De lì a on tre dì, la sentiva sto quader, che el fava di vers[xvii]:—«cricch![303] cricch! cricch!»—Ona sera, la va in lett; e tutt a on tratt la sent ona molla come a derviss. La guarda al quader, e la ved che el se mœuv. E lee sonna el campanin in pressa. In d'on moment va denter gent; e fan andà denter i guardi e arresten el Sant'Antoni, che l'era el lader[xviii]. E via a tœu tutt[304] i alter. E han trovàa là, in dove staven i lader, han trovàa di gran robb finn, tutta robba robada. E el capp, l'han condannàa a mort e l'han faa morì. E lee, la tosa del prestinèe, l'è restada Reginna, l'è andada a tœu i so gent, e se i è tiràa là a la cort cont lee; han fàa pu el prestinèe, han fàa i sciori anca lor.
[i] Il Limbrecht annota:—«Kinder—Märchen, N.º XL. Der Räuberhauptmann; «und N.º XLVI Fitcher's Vogel.»—
[ii] I sœu gent, i suoi genitori. Si noti la parte, che ha in questa variante la maledizion materna, motivo mille volte adoperato e dalla fantasia popolare e nella letteratura propriamente detta.
[iii] Tœu, (con l'œu breve, a differenza di tœu, tuoi, che lo ha lungo) adoperato assolutamente, ha, fra gli altri sensi, anche quello di pigliar moglie, sposare. Doma o nomà, solo, soltanto, solamente. Domà che de lì a on poo de temp, di lì a poco, sol dopo poco.
[iv] Piccà, bussare, picchiare. Portascia, Usciaccio, portaccia. Dervì, aprire; a quindi dervigh, aprirgli; dervinn, aprirne.
[v] Capp, in milanese, non si adopera isolatamente nel significato proprio di capo, testa, anzi solo in alcuni significati tropici o metaforici. Capp de lader, capobandito. Si noti quell'on poo de sir, letteralmente: un poco di sere, una poca di sere.
[vi] Sogn, tanto sonno, quanto sogno. Lassass andà del sogn, è locuzione, che manca al Vocabolario Milanese Italiano di Francesco Cherubini.
[vii] Portà in spalletta (secondo il Cherubini)—«che i contadini dell'Alto Milanese dicono portà in pepiss o in gigiœura. Portare a zanchellini, portare a cavalluccio o a pentole o a pentoline. È quello che i lodigiani dicono portà in pegorina e i bergamaschi portà in croppa.»—Stanzin, stanzino, stanzibolo, bugigattolo.
[viii] Ned Onguent, ned ontà, si rinvengono appo il Cherubini. Anzi solo il verbo Ong, contadinesco Vong (ungere, ugnere) e il sostantivo (nel Supplimento) Ongiuda (ugnimento, untata). In altre novelle, non è un unguento specifico, anzi un'erba miracolosa, che risana il ferito e spesso risuscita il morto, come ho posto in un'altra nota. Alla quale mi giova aggiunger qui, che un'erba simile, che riappicca le membra troncate, si ritrova nella XII delle Novelle Antiche stampate in calce al primo volume del Catalogo dei Novellieri Italiani in prosa, raccolti e posseduti da Giovanni Papanti.
[ix] Cusinna, tanto vuol dir cucina, quanto cugina.
[x] Sostanzià, manca affatto nel Cherubini.
[xi] Dacord, accordo, convenuto, concerto. Fà el dacord, concertare accordarsi (locuzione trasandata dal Cherubini).
[xii] Tosa usavano anche i Provenzali. Giraldo Riquiero ha detto:
Toza, senz cor vaire
E senes estraire
M'auretz tan quan viva.
Dove il Nannucci annota:—«I Bolognesi e i Lombardi Tosa per fanciulla; o viene forse dal tonsus de' Latini, quasi proprio di chi ancora non ha capelli.»—L'etimologia è erronea; non viene da tonsa, ma invece da intonsa, chè le fanciulle lombarde portavano i capelli lunghi, ma li tagliavano nel dì delle nozze; onde il Manzoni, nell'Adelchi, fa dire ad Ermengarda ripudiata, che si rivolge alla madre morta:
Quella Ermengarda tua, cui di tua mano
Adornavi quel dì con tanta gioja,
Con tanta pièta; a cui tu stessa il crine
Recidesti quel dì, vedi qual torna!
Anche il Varon Milanes dice:—«Tos, Toson (Figliuolo. Putto. Fanciullo). È tolto dal participio tonsus, che viene dal verbo tondeo, es, qual significa tosare, perchè per il più i figliuolini vanno tosati, acciò forse i capelli non gli offendano il cervello ancora tenero, il che ce lo dà ad intendere l'aver udito consiglio di saggi medici, i quali volevano, che i figliuolini in quella tenera età andassero scoperta la testa per la sopraddetta causa.»—O che scienza ed igienica ed etimologica!
[xiii] Sternì o starnì, (dal latino sternere); far l'impatto, impattare, fare lo sterno o il letto delle bestie.
[xiv] Ficciàvol o Fittavol. Fittajuolo, affittajuolo, fittuario.
[xv] Dev'essere un Italianesimo, che non si ritrova segnato nel Cherubini.
[xvi] Si dice tanto carr quanto car; sebbene il primo sia più usuale. Entrambi sono registrati dal Cherubini. Io m'attengo scrupolosamente alla pronunzia della mia novellaja, che adoperava quando l'una e quando l'altra forma del vocabolo. Anche in Italiano, la stessa persona dice talvolta ommettere, ufficio, Allighieri, eccetera e tal altra omettere, uficio, Alighieri e via discorrendo.
[xvii] Per vers, in Milanese, s'intendono tanto le voci, con le quali ci rivolgiamo alle bestie, domestiche o selvatiche, per allettare, radunare, incitare, istizzire, iscacciare; quanto le voci degli animali stessi: el vers del loff; el vers del can; ecc. Non c'è lingua più ricca della nostra italiana per indicar con verbi, locuzioni e sostantivi speciali le voci ed i suoni, che emettono le varie specie di bestie. Ne ho formato un elenco, che oltrepassa i cento verbi; e non credo di averle registrate tutte; ecco perchè non lo inserisco qui con la sinonimia de' dialetti, che posseggon pure parecchi be' termini analoghi, i quali la lingua aulica desidererebbe. Ognun vedrebbe di quanto rimane al di sotto la nomenclatura delle voci degli animali in francese, ch'è tra le Rabelessiana del De L'Aulnaye in calce alla sua edizione del Rabelais. Ma non so resistere alla tentazione di aggiunger a questa postilla alcuni versi di un cinquecentista obbliato, che appunto mentova in essi parecchi termini siffatti, tra cui ce ne ha de' fidenziani e degli obsoleti. Questi è Gabriele Zimano, che nel Caride, favola pastorale, dedicata da Reggio il III Ottobre MDCX alla serenissima signora Margherita Gonzaga Estense, Duchessa di Ferrara, così fa parlare due pastori:
Timio. | E tacerai tu dunque? ah, negli estremi Miseri avvenimenti tu non chiedi Col tuo soave dir dolce soccorso? |
Caride. | Soccorso? Ah, convien ch'io Fra tutti gli animali Taccia i miei casi; e che saria il narrarli, Se non far compatir gli amici meco? Ogni male ha rimedio, eccetto il mio; Incurabile è il mio. Il toro mugge; L'upupa si lamenta; La civetta il gran torto Mostra con aspro intorto; L'ostropor la cicada Forma, sfogando il duolo; Ulula il lupo; ed il susur si sente, Da i dolci favi; l'umile belato Forman gli agnelli; il mattutino gallo Espergifica lieto; Lieto ancora il cavallo Innisce; e l'elefante Chiede con i mestissimi barriti Soccorso; e agl'indistinti Suoni lor non si nega Se non mercede dono Da la pietà, che al mio distinto dire Chiude le crude orecchie! Onde ben posso dire Che non è verso me la pietà pia. Chi mi darà soccorso Se la pietà lo nega? |
[xviii] Per l'uomo nascosto dentro una statua (od un quadro) oltre le novelle indicate in nota al Re Avaro vedi anche: A. Sgubernatis. Le Novelline di Santo Stefano (VIII. Argentofo).—Pitré, Opera citata: XCV. L'acula, chi sona (Geraci Sicula) XCVI. L'acula d'oru (Borgetto) e Lu Re Fiuravanti (Palazzo Adriano). Gonzenbach, Opera citata: LXVIII. Vom goldnen Löwen. Aloise Cintio de' Fabrizî, Origine de' Volgari Proverbî (M.D.XXVI.) la spiegazione del proverbio L'è fatto il becco all'oca, eccetera, eccetera.
[2] Che, come si dice per proverbio, l'una avrebbe ajutato a maritar le altre. Ned altrimenti, per suggestione di Romeo, persona umile e pellegrina, calcolò Raimondo Berlinghieri: e le sue previsioni si avverarono.
[3] Un modo simile di sbrigarsi di persone incomode lo abbiamo visto nella Prezzemolina.
[4] Di fughe cosiffatte ne sono piene le istorie e le favole. Ne citerò una dalla Historia Varia del Domenichi:—«Sarà più fresca memoria e alquanto più felice consiglio d'una certa nuova et non più usata astuzia di Nicolò Picinino, il quale egli, famosissimo capitan di guerra del suo tempo et affezionatissimo del Duca Filippo, lasciò a' posteri; dalla qual cosa non si può dubitare, quanto fusse notabile e accorto l'ingegno di tale uomo. Perciocchè, essendo egli vinto in battaglia da Francesco Sforza, capitan generale della Signoria di Vinegia, et essendo fuggito et ricoveratosi a Garda, sul lago di Salò, sì come quel che non vedeva speranza alcuna di salvarsi, perchè egli non poteva ir salvo a trovare i suoi, nè anco si poteva molto fidare in una terricciuola, sì come è Garda; fece uno atto nuovo et non mai più udito innanzi quel giorno, di farsi portare in un sacco da un famiglio tedesco per il campo degli Sforzeschi, mostrando egli di portar pane a' suoi padroni, talchè finalmente egli si salvò in quel modo. Nel quale uomo difficilmente si potrà conoscere, a cui si dia la parte principale, o alla fortuna, che troppo lo favoriva; o alla fede del servidore, il quale con pericolo della sua vita lo portò a salvamento; o più tosto alla troppa fidanza del Picinino, il quale, mentre ch'egli avea paura dello Sforza più che non bisognava, non dubitò d' arrischiarsi a qual si voglia pericolo.»—
LE TRE MELARANCE.[1]
C'era una volta un Re, che aveva un figlio che era sempre serio; non era mai riuscito a farlo ridere. Dopo aver tentato tutte le vie per rallegrarlo, fu stabilito di mettere tre orci d'olio, ove il popolo sarebbe andato a raccoglierlo dalle fonti. Giunto al terzo giorno, che l'olio veniva a piccole goccioline[2], venne una vecchierella con una boccettina, che con gran fatica riuscì ad empire d'olio. Quando lei si avviava per andarsene, il principe gli gittò dalla finestra una palla sulla boccetta; e la boccetta si spezzò. Il principe sorrise allorquando si ruppe la boccetta e cadde l'olio in conseguenza. La vecchia si voltò in su e gli disse:—«Non avrai bene, finchè non avrai trovato la bella dalle tre melarance.»—Dopo quel momento, il principe tornò nuovamente ad esser serio. Una mattina finalmente il padre, alzandosi da letto e cercando del figlio, trovò una lettera, che gli diceva che era partito in cerca della bella dalle tre melarance. Cammina cammina, il principe, dopo aver percorso molti paesi, arrivò finalmente ad una casetta; e domandò dove si poteva trovare questa bella dalle tre melarance, e gli dissero che era poco distante; ma che era guardata da un orco, che, quando aveva gli occhi chiusi, era sveglio, quando li aveva aperti, dormiva[3]. Arrivato al posto, si attenne alle indicazioni; e prese le tre melarance, senza che l'Orco si disturbasse o se ne accorgesse. Ne aprì una e ci sortì una bellissima[306] signora, e chiese di vestirsi. Ma il Principe non aveva premunito niente e la bella sparì. Comperò un vestito ricchissimo; e poi aprì la seconda. E ci sortì un'altra signora, che era più bella della prima, e chiese di vestirsi. Quando la signora fu tutta vestita, gli mancava il pettine. Il Principe al pettine non ci aveva pensato e la bella sparì. Finalmente aprì la terza; ci sortì un'altra signora, che era più bella di tutte le altre. Chiese di vestirsi. Fu vestita. Chiese il pettine. Il Principe le diede anche il pettine; e non mancandogli altro, decise di condurla alla corte. Però, pensa che non era conveniente di condurla a piedi; e disse:—«Io anderò a prendere delle belle carrozze. Dove ti lascerò?»—Alzando gli occhi la vide un albero foltissimo. Dice:—«Bene, monterò lassù, e intanto mi pettinerò.»—E così fece: montò sull'albero e si mise a pettinare. Il Principe andò a prendere tutto il corteggio. Sotto l'albero ci era un pozzo; poco distante dal pozzo una casetta, ove abitavano tre ragazze tutte brutte[4]. La maggiore prese la brocca e andò a attinger l'acqua al pozzo, ove rispondeva l'immagine della principessa sull'albero. Nel tirar la brocca, vide quella bella immagine, credette d'esser sè stessa, buttò la brocca e se n'andò. Tornando a casa, disse:—«Tutti mi dicono che io son brutta, ma io son tanto bella; e l'acqua non l'ho voluta tirare.»—La seconda fece lo stesso della prima. La minore, più furba di tutte, alza la testa e vede la bella principessa sull'albero. E disse subito:—«Signora, verrò a pettinarla.»—E salì. Si mise a pettinarla, e quando era già pettinata, gli mise uno spillo nella testa. La Principessa divenne una bella colomba e fuggì; e la brutta si mise gli abiti della Principessa. Arrivò il Principe con tutto il corteggio; e quando la vidde, non si persuase da tanto bella trovarla tanto brutta. Tutti i ministri si guardarono[307] e sorrisero: non potendo persuadersi che le descrizioni date dal Principe di tanta bellezza fossero in un momento cambiate, ne domandarono le ragioni alla Principessa. E lei gli disse che, stando sull'albero al sole, l'aveva tinta e cambiata. Giunti al palazzo, il giorno dopo fu imbandito un magnifico pranzo. Giunti all'arrosto, invano l'aspettavano. Quando venne su il coco e disse che l'arrosto s'era bruciato. Disse che si era affacciata alla finestra una colomba, che aveva detto:—«Bondì, sor coco.»—Lui gli aveva risposto:—«Bondì, sora colomba.»—E lei rispose:—«Che l'arrosto vi possa bruciare, e Serafina non lo possa mangiare.»—Dice il coco al Principe:—«Per tre volte ho rimesso l'arrosto, ma è sempre bruciato.»—Il Principe disse:—«Prendete questa colomba e portatela qui.»—La sposa non voleva. Però il coco, ascoltando la voce del Principe, scese; e riuscì a prender la colomba e portarla su in tavola. Subito andò nel piatto della principessa e gnene rovesciò sull'abito. Indignata sgridò e voleva scacciare la povera colomba; il Principe però la prese e l'accarezzò; e sentì che sulla testa aveva un piccolo gonfio. Nel toccarlo questo gonfino, si accorse che era uno spillo; si sfilò e questa colomba ritornò la bella signora delle tre melarance, che era sua sposa. La brutta fu bruciata in piazza con una camicia di pece[5]; e la bella fu felice e stette col Principe.
Se ne vissero e se ne godettero;
A me nulla mi dettero.
Mi dettero un confettino:
Lo messi in un bucolino:
Vai a vedere se c'è sempre.
NOTE
[1] Alla mancanza di brio, ad un non so che di pesante nel dettato, il lettore si accorge subito, che questa novella è stata raccolta dalla bocca di persona, che aveva la sventura di non essere analfabeta. Tale e quale, salvo il principio, Le tre cetre, trattenimento IX della V giornata del Pentamerone.—«Cenzullo non vole mogliere; ma, tagliatose 'no dito sopra 'na recotta, la desidera de petena 'janca e rossa comme a chella, che ha fatto de recotta e sango. E pe' chesto cammina pellegrino pe' 'o munno, e a l'Isola de le tre Fate have tre cetra. Da lo taglio d'una de le quale acquista 'na bella Fata conforme a lu core sujo; la quale accisa da 'na schiava, piglia la negra 'ncagno de la 'janca. Ma, scoperto lo trademiento, la schiava è fatta morire, e la Fata tornata viva deventa Regina.»—L'episodio della persona reale incapace di riso, della fontana d'olio, eccetera, si ritrova poi nell'introduzione del Pentamerone. Cf. De Gubernatis. Novelline di Santo Stefano di Calcinaja IV. Le tre mele; ed anche X. I tre aranci. Gonzenbach (Op. cit.) XIII. Die Schöne mit den sieben Schleiern.—A. Wesselofsky. Le tradizioni popolari nei poemi d'Antonio Pucci (pag. 11). Pitrè (Op. cit.) XIII. Bianca—comu—nivi, rossa—comu—focu (Palermo). Pitrè (Otto fiabe e novelle pop. sic.) La bella di li sette citri. (Casteltermini). Carlo Gozzi tolse da questa fiaba l'argomento della sua rappresentazione: L'Amore delle tre melarance. Ecco una lezione milanese, scritta sventuratamente anch'essa sotto la dettatura d'una colta signora.
I TRII NARANZ.
Gh'era ona volta on fioeu del Re, che l'era preso da la malinconia; e alora, el Re, el ghe fava fà tanti divertiment per vedè de rallegrall, ma nient reussiva. On dì, che l'era su on poggioeu, el ved a passà ona donnetta goeubba e con la faccia color del ramm: e lu, el s'è miss a rid. Alora la donnetta, che l'era ona stria, la se volta e la ghe dis: Com'è? te gh'hêt coragg de ridem adrèe a mi? Behn! mi te faroo on striozz[i] e te ridaret mai pu[309] fin a che te avrèe trovàa la Tôr di Trìi Narans[ii]. Difatti, sto fioeu del Re l'ha mai podùu rid, per quant al fasessen divertì. E alora, so pader, el gh'ha ditt: L'unica l'è, che te se mettet in viagg per rivà a la Tôr di Trìi Naranz. E alora donca, el se mett in viagg con tanti servitor e cavaj e carrozz. El va, el va! Va che te va, va che te va, e mai el rivava; quand finalment el ved ona tor lontan lontan e quella l'era la Tor di Trii Naranz. El gh'aveva adrèe ona quantità de savon, di saoch de savon per disrugginì i cadenazz; e di sacch de pan per dagh ai can, che, se de no, ghe saressen saltàa adoss. Donca, el derv i cadenazz; e denter in la tôr, el ved sul camin trìi naranz. El ne derv subit vun; e salta foeura ona bella giovina, che la ghe dis: Damm subit de bev, che mi moeuri, Lu, el corr a toeugh l'acqua; ma le riva minga in temp e la bella giovina la moeur. Quella lì la va, s' ciao! El ne derv on alter; e 'n salta foeura ona pussèe bella giovina ancamò, che la dis: Damm de mangia; se de no, mi moeuri. Sicome[iii] el gh'aveva minga de dagh de mangia, e così[310] anca quella lì la moeur. Finalment el derv el terz; e ven foeura ona bellissima giovina ancamò che la ghe dis: Mi no gh' hoo nè sed nè famm, mi no vuj che voregh ben. Alora ghe passa tutta la malinconia. E le mena via subet pe menalla a cà de so pader e sposalla. Sta giovina l'era tutta despettinada, ma lu le voeur menà via l'istess; e se metten in viagg tutt e dùu per tornà a casa del Re. Quand hin a metà strada, el fioeu del Re, lee, la gh'ha sed, e lu, el va a toeugh on poo d'acqua, e le lassa lì sola per on moment. Lee intant la sent ona vôs su d' ona pianta, che ghe dis: O come te sèe bella! Ma te voeut andà a casa così consciada? Aspetta, che vegni giò mi a pettinat. E intant ven giò de la pianta quella tal veggetta goeubba color del ramm, ch'el fioeu del Re el ghe aveva ridùu adree. E la se mett a pettinalla, e la ghe mett dùu sponton[iv] in testa e tutt in on tratt la diventa ona colomba e la vola via, e resta lì invece ona brutta giovina cont i oeucc losch. Torna indrèe el fioeu del Re; el resta lì de sass a vedè sto cambiament; el se frega i oeucc; ghe par de sbagliass; el ghe dis: Ma come mai te see diventàda insci brutta? Ma mi gh'hoo vergogna a menatt a casa del me papà. Ma lee, le ghe dà d'intend, che la tornarà a diventà bella e de menalla con lu l'istess. Invers el fioeu del Re e rabbiàa come on scin[v], el mena via sta brutta tosa. El riva a cà; e so pader, el voeur trà via la testa a vedè sto brutt moster. El ghe dis: Ma t'hê de andà inscì lontan per toeu inscì on moster?[vi] Ma, in somma,[311] quel che l'è, l'è; lu, l'aveva minga el coragg de mandalla indrèe. E l' ordina el pranz de spos. Intant, ch'el coeugh l'è adrèe a preparall, ven denter in la cusinna[vii] ona colomba; e la ghe dis: Cuoco, bel cuoco, cosa fate?—Lesso e arrosto, lu el rispond. Lesso e rosto subito bruciato, perchè la vecchia strega non ne abbia mai mangiato. E subet brusa tutt côs in di cazziroeul. El coeugh stremìi, el va subet a avisà el fioeu del Re de quel che el ghe succed; e lu, el capiss che gh'è denter on striozz. El ghe dis de tornà a mettess in cusinna e de lassa vegnì denter la colomba in cusinna. La colomba, la torna a vegnì lì; e la ghe torna a dì: Cuoco, bel cuoco, cosa fate? E lu, el rispond nient; e la colomba, la ven denter; e lu le ciappa e ghe le porta là al fioeu del Re. El fioeu del Re, el guarda sta colomba, le carezza, e el se accorg, che la gh'ha dùu sponton in testa. Ghe ne tira via vun: el ved a vegnì foeura mezza faccia de la soa sposa, che l'aveva perdùu. Alora, el ghe tira foeura via l'alter: e ven foeura tutta quella bella giovina, che gh'era tant piasùu. Alora el cascia via la brutta stria, el sposa quella lì, che el ghe pias, e fan on pranz con l'oli d'oliva e la panzaniga l'è bella e finida.
[i] Striozz, che anche dicesi Striaria, Instriament, Instriadura e Striament: Stregheria, Malia, Fattucchieria, Incanto, Malefizio, Incantesimo, Fattura, Indozzamento, Magia, Stregoneria, Affatturazione, Affatturamento, Fattia, Stregoneccio.... Ne volete più, de' sinonimi?
[ii] Naranz, tanto Arancio albero, quanto Arancia frutto. Dice il Cherubini:—«L'Ariosto (nel Furioso XVIII, 188) si lasciò cader dalla penna anche Narancio; lombardesimo perdonabile al poeta, se vuolsi, ma che i Dizionari di Bologna, di Padova e di Livorno non dovevano, per avventura, raccogliere senza accennare l'idiotismo, o il men di meno farsi coscienza d'un Vedi e dici Arancio, come fece il Vocabolario di Napoli.»—Ecco il luogo dello Ariosto:
Del mar sei miglia o sette a poco a poco
Si va salendo in verso il colle ameno.
Mirti e cedri e naranci e lauri il loco
E mille altri soavi arbori han pieno.
Ognun vede quanto facilmente lo Ariosto avrebbe potuto cansare lo idiotismo servendo ed aranci. Eppur volle usar naranci (e chiunque ha gusto comprende quanto naranci stia bene qui); volle che da questo e mille altri luoghi del Furioso, e soprattutto delle Commedie, trasparisse di qual provincia egli era. E ben fece; e sciocco è chi non fa francamente altrettanto, e stima di potersi mascherare in guisa nello scrivere, da farsi credere d'una provincia diversa da quella, in cui è nato ed educato. Aggiungo che, quanto sta bene quel naranci, sotto la penna d'un lombardo, quanto starebbe bene adoperato dalla penna di chi ha lungamente vissuto in Lombardia, altrettanto parrebbe strano ed affettato sotto quella d'un siciliano, per esempio, non avendo l'esempio dell'Ariosto popolarizzata quella forma.
[iii] Il sicome milanese nel senso di poichè, essendochè, è di uso relativamente recente nel dialetto; essendovi stato introdotto da' barbarizzanti, che anche in Italiano lo adoperano pur troppo nel senso istesso alla francese.
[iv] Qui nel senso di spillone,—«ago d'oro con capocchia grande, o tonda quadra, che sia, a uso d'appuntare lo sparo di petto delle camice, fisciù e simili.»—
[v] Scin, dice il Cherubini:—«Forse sincope da Moscin.» —E spiega Moscin:—«Mucino, micino, gattino.»—Dannaa (arrovellato) o Negher (Nero; cangiato di colore a cagion d'ira) come on scin, modo proverbiale, che veramente non saprebbe spiegarsi, se scin volesse dir micino. La narratrice mi diceva il vocabolo valer quanto anima dannata.
[vi] Difatti, salvo ch'e' si trattava d'un Principe e non d'una Principessa, era il caso ricordato dal Beato Iacopone nel Cantico: O anima mia creata gentile:
Se 'l Re di Fransa avesse una figliuola
Et ella sola—en sua reditate;
Giria adornata di bianca stola:
Sua fama vola—per tutte contrate,
s'ella in viltate—entendesse in malsano
Et desseise in mano—a sè possedire
Che potria uom dire—di questo trattato?
Versi, che a me sembrano contenere un'allusione patente ad una fiaba diffusissima.
[vii] Cusinna vuol dir tanto cucina, come in questo luogo, quanto cugina.
[2] —«Picciola finestrella e boccuccia picciolina disse il Boccaccio; piccolo satirello il Sannazzaro; piccolo battelletto il Segneri; parvum tigillum, Fedro; parvam naviculam, Cesare; ed aviculam parvam, Gellio; per non affastellare altro stuolo di esempli.»—Così, per giustificare il suo piccolo focherello, annota alla prosa V, l'autore, ne la Mergillina, Opera pescatoria, di Emmanuele Campolongo, con annotazioni del medesimo. Dedicata a Sua Altezza Serenissima il Signor Principe Giuseppe Langravio d'Hassia Darmstatt vescovo di Ausburg. In Napoli M.DCC.LXI. Presso Vincenzo Flauto. Con pubblica autorità.
[3] In 'A fata 'Ndriana | Cunto Pomiglianese.|| Per Nozze.|| Pomigliano d' Arco | M DCCC LXXV, la fata—«se chella sta cu' l'uocchie apierte, chella rorme; se sta cu' l'uocchie 'nghiuse, chella sta 'scetata.»—In un altro conto pomiglianese, intitolato Viola:—«Llà, nce sta 'nu puorcospino. Chillo, quanno sta cu' l'uocchie apierte, dorme; e quanno sta cu' l'uocchie 'nghiuse, sta 'scetato.»—Nella XVI delle Novelline di Santo Stefano è detto che un drago dorme due ore del giorno, da mezzogiorno[312] alle due. Il De Gubernatis annota:—«Avvertasi bene l'ora; il drago dorme di pieno giorno, in piena luce; il mostro notturno, il mostro tenebroso è allora pienamente disarmato. Perciò dicono le novelline che l'Orca, il mostro, il drago, dorme quando tiene gli occhi aperti, ossia dorme di giorno, dorme quando ci si vede, dorme quando noi ci vediamo.»—
[4]Più spesso si tratta di tre od anche di una schiava ghezza.
[5] Nella versione pentameronale il Re mostra la sposa spalombata a tutti i cortigiani e chiede loro, che meriterebbe chi facesse male ad una creatura tanto bella. La schiava saracina, quando viene la sua volta, risponde in lingua franca Meritare abbrosciare e porvere da coppa castiello jettare. E si trova aver pronunziata così la propria sentenza. Situazione, che spesso si ripete nelle fiabe popolari e della quale piacque al Metastasio di avvalersi; ma egli poi fa rimetter la pena al reo dal Re offeso.
Alessandro. | Solo un consiglio | ||
Da te desio. V'è chi m'insidia. È noto Il traditore e in mio poter si trova. Non ho cor di punirlo, Perchè amico mi fu. Ma il perdonargli Altri potrebbe a questi Tradimenti animar. Tu che faresti? |
|||
Timagene. | Con un supplicio orrendo Lo punirei. |
||
Alessandro. | Ma l'amicizia offendo. | ||
Timagene. | Ei primiero l'offese, E indegno di pietà costui si rese. |
||
Alessandro. | (Qual fronte!) | ||
Timagene. | Eh di clemenza | ||
Tempo non è. La cura Lascia a me di punirlo. Il zelo mio Saprà nuovi strumenti Trovar di crudeltà. L'empio m'addita, Palesa il traditor, scoprilo omai. |
|||
Alessandro. | Prendi, leggi quel foglio e lo saprai. | ||
Timagene. | (Stelle! il mio foglio! Ah son perduto! Asbite Mancò di fè.) |
||
Alessandro. | Tu impallidisci e tremi? | ||
Perchè taci così? Perchè lo sguardo Fissi nel suol? Guardami, parla. E dove [313]Andò quel zelo? È tempo Di porre in opra i tuoi consigli. Inventa Armi di crudeltà. Tu m'insegnasti, Che indegno di pietà colui si rese, Che mi tradì, che l'amicizia offese. |
|||
Timagene. | Ah signor, al tuo piè.... | ||
Alessandro. | Sorgi. Mi basta | ||
Per ora il tuo rossor. Ti rassicura Nel mio perdono; e, conservando in mente Del fallo tuo la rimembranza amara, Ad esser fido un'altra volta impara. |
Anche nella Mortella (Basile. Pentamerone I, 2.) le colpevoli pronunziano con la propria bocca la condanna loro; e nel Burdilluni (Pitrè. Op. cit. LXI).
ORAGGIO E BIANCHINETTA[1]
C'era una volta una signora, che aveva due figli: il maschio si chiamava Oraggio, la femmina Bianchinetta. Da ricchissimi, che erano, per alcune disgrazie divennero poveri. Fu deciso che Oraggio sarebbe andato a servire; come infatti s'impiegò in casa di un Principe come cameriere. Dopo diverso tempo, contento il Principe del suo servigio, lo cambiò e lo mise a pulire i quadri della sua quadreria. Fra le varie pitture un ritratto di donna bellissimo formava continuamente l'ammirazione di Oraggio. Spesse volte il Principe lo sorprese ammirando il ritratto. Un giorno gli domandò per qual ragione passava tanto tempo innanzi a quella pittura? Oraggio rispose che quel ritratto era la vera immagine di sua sorella. Essendone lontano da diverso tempo, sentiva il bisogno di rivederla. Il Principe rispose che non credeva che quella pittura somigliasse alla sua sorella, giacchè aveva fatto cercare e non era stato possibile trovare nessuna donna, che a quella somigliasse. Inoltre soggiunse:—«Falla venire qua; e, se è bella come dici, la farò mia sposa.»—Subito scrisse Oraggio a Bianchinetta; ed essa immantinenti partì. Oraggio andò a attenderla al porto; e, quando cominciò da lontano a scorger la nave, ad intervalli gridava:—«Marinari dall'alta marina, guardate la mia Bianchina, che il sol non la tinga.»—Nella nave, dove si trovava Bianchinetta, eravi pure un'altra giovane con la[315] madre, bruttissime ambedue. Giunte vicine al porto, la figlia dette un colpo alla Bianchinetta e la gettò nel mare[2]. Giunte, Oraggio non sapeva riconoscere la sua sorella; e quella brutta ragazza si presentò dicendo che il sole l'aveva così tinta, che non si riconosceva più. Il Principe rimase sorpreso a vedere quella donna così brutta, rimproverò Oraggio e lo cambiò di ufficio; lo mise a guardare le oche. Tutti i giorni conduceva al mare le oche. E tutte le volte che le portava al mare, Bianchinetta usciva e le ornava di fiocchettini di diversi colori. Ed esse tornando a casa dicevano:
Crò! crò!
Dal mar venghiamo,
D'oro e perle ci cibiamo.
La sorella d'Oraggio è bella,
È bella come il sole:
Sarebbe bene al nostro padrone.
Domandò il Principe ad Oraggio, come mai le oche dicevano tutt'i giorni quelle parole. Ed esso raccontò che la sua sorella, gettata in mare, era stata presa da un pesce marino e l'aveva condotta in un bellissimo palazzo sott'acqua, ove la teneva incatenata[3]. Però, con una lunga catena, che gli permetteva di venire fino alla sponda, allorquando lui portava fuori le oche. Disse il Principe:—«Se è vero ciò che racconti, domandagli cosa ci vorrebbe per liberarla da quella prigione.»—Il giorno dopo domandò Oraggio a Bianchinetta come avrebbe potuto fare per toglierla di là e condurla al Principe. Essa rispose:—«È impossibile togliermi di qua. Così almeno mi dice sempre il mostro: Ci vorrebbe una spada che tagliasse quanto a cento; E un cavallo che corresse quanto il vento. Queste due cose è quasi impossibile trovarle. Tu vedi dunque, per me è destino,[316] che debba rimaner sempre qua.»—Tornando Oraggio al palazzo, riferì la risposta di sua sorella al Principe. Ed esso fece di tutto, e riuscì a trovare il cavallo che correva quanto il vento, e la spada che tagliava quanto cento. Andarono al mare: trovarono Bianchinetta, che li attendeva. Li condusse nel suo palazzo. Con la spada fu tagliata la catena. Montò sul cavallo e così potè liberarsi. Giunti al palazzo, il Principe la trovò bella quanto il ritratto che guardava sempre Oraggio, e la sposò. L'altra brutta fu bruciata in mezzo di piazza con la solita camicia di pece; e loro vissero contenti e felici.
Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, chè ho detto la mia.
NOTE
[1] È Le doje pizzelle, trattenimento VII della giornata IV del Pentamerone—«Mariella, pe' mostrarese cortese co' 'na vecchia, have la fatazione; ma la Zia, 'mmediosa de la bona fortuna soja, la jetta a maro, dove la Serena la tene gran tiempo 'ncatenata: ma, liberata da lo frate, deventa Regina e la zia porta la pena de l'arrore sujo.»—Cf. Gonzenbach (Op. cit.) XXXIII. Von der Schwester des Muntifiuri e XXXIV. Von Quaddaruni und seiner Schwester. Pitrè (Op. cit.) LIX. La figghia di Biancuciuri e LX. Ciciruni. Nel XIX Canto del Morgante l'episodio della Principessa Florinetta di Belfiore, figliuola di Filomeno, ha qualche tratto lontanamente simile con altri della nostra fiaba. La quale del resto è da ravvicinarsi al Luccio della presente raccolta ed alle sue varianti.
[2] Vedi un breve componimento, firmato S. S. (Dottor Savino Savini) pubblicato nel numero 50 (15 Gennajo 1843) del periodico La Parola, che stampavasi in Bologna. Sarà forse opportuno trascriverlo, perchè il dir Vedi, trattandosi d'una bazzecola pubblicata più di trentatrè anni fa su d'un giornalucolo,[317] potrebbe sembrar caricatura al lettore. Raccolta qui, avrà più lunga vita, chè le effemeridi sono effimere per propria natura ed intrinseca, mentre i libri durano un po' più. Intorno ad esso componimento, mi scrive Rinaldo Koehler:—«Die von Ihnen mitgetheilte Arpa stupenda ist eine treue Uebersetzung eines von Rask aufgezeichneten faröischen Liedes, welches in der Ursprache und in schwedischer Uebersetzung (als Seitenstück zu einem schwedischen Volksliede) mitgetheilt ist in E. G. Geijer's und A. A. Afzelius' Svenska Folk—Visor (Stockholm, 1814. I, 86) und danach zuerst ins Deutsche übersetzt sich findet in G. Mohnike's Volkslieder der Schweden (Berlin, 1830. I, 194). In neuester Zeit ist es auch von Rosa Warrens wieder in' s Deutsche übersetzt worden.»—
POESIA IN PROSA
(imitazione)
L'ARPA STUPENDA
Vanno due cavalieri a una casa, cercando una sposa; di due sorelle dimandano la piccola e la maggiore disprezzano.
La più giovane sa filar lino, e la grande sa guardare li porci.
La più giovane può filare dell'oro, la grande non può filare la lana.
Dice la grande alla piccola sorella:—«Andiamo in riva del mare.»—
—«Che faremo noi alla riva del mare? Nulla dobbiamo portarci.»—
—«Già somigliamo e diverremo così bianche del pari.»—
—«Oh! s'anco ti laverai ogni giorno, bianca non diverrai più di quel, che dio ha voluto. E quand'anche ti facessi bianca più della neve, non avresti l'amante mio.»—
Siede la piccola sorella in una roccia, la grande la spinge nel mare. La poverina innalza le braccia.
—«Mia cara sorella, ajutami!...»—
—«Io non ti ajuterò, se non prometti cedere a me il tuo fidanzato.»—
—«Se potessi, il farei: ma di lui non posso decidere. Cercherò doni e un amante per te.»—
Soffia terribile Ostro e spinge il corpo nel mare.
Corre il vento sulle onde cilestri e torna il corpo alla riva.
Già soffia levante e spinge il corpo verso la prua d'un battello.
Due pellegrini raccolgono il cadavere.
Compongono un'arpa delle braccia della donzella; e formano corde co' biondi capegli suoi.
—«Andiamo alla casa vicina, ivi si fan delle nozze.»—
Pongonsi appresso alla porta, e s'ode l'arpa.
Dice la prima corda:—«Mi è suora quella sposa.»—
E la seconda:—«Uccidevami gelosa.»—
E la terza:—«Dello sposo fui morosa.[i]»—
Si fa rossa, come bragia, la fidanzata:—«Questo suono mi fa male.»—
Si fa rossa, come sangue, la fidanzata:—«Non vo' più sentire quell'arpa.»—
E dice la quarta corda:—«Oh quest'arpa non riposa.»—
La fidanzata si corica in letto.
L'arpa suona più forte, e il cuore della giovine scoppia.
[i] Morosa qui per amorosa, alla veneziana; e non già femminile di moroso, da mora, indugio.
[3] Qui ci vorrebbe la descrizione del palagio sottomarino. I lettori se la fingano con la scorta, che fa di quello di Nettuno il Marini nell'Adone:
Strana di quella casa è la struttura,
Strano il lavoro e strano l'ornamento.
Ha di ruvide pomici le mura,
E di tenere spugne il pavimento.
Di lubrico zaffiro è la scultura
De la scala maggior; l'uscio è d'argento.
Variato di perle e di conchiglie
Azzurre e verdi e candide e vermiglie.
ZELINDA E IL MOSTRO[1]
C'era una volta un pover'omo, che aveva tre figliole. La minore, essendo la più bella e la più manierata e dolce di carattere, era di molto odiata dalle altre due sorelle, ma in quella vece il padre gli voleva un gran bene. Or'avvenne, che in un vicino paese, appunto nel mese di gennaio, vi fosse una fiera; alla quale andando il pover'omo per provvigioni a campare la famiglia, ciascuna delle figliole gli domandò che gli portasse qualche regaluccio: la Rosina volle un vestito, la Marietta uno scialle, e la Zelinda si contentò di una rosa[2]. Il giorno dopo a bruzzolo, il pover'omo si messe in viaggio. E arrivato in sulla fiera, comprate che ebbe le provvigioni, gli fu facile trovare il vestito per la Rosina e lo scialle per la Marietta; ma non gli riescì, per quanto s'affannasse a cercarne, trovar la rosa per la Zelinda. Pure, voglioso di accontentare quella sua cara figliola, si rimesse in viaggio alla ventura lì pe' dintorni, e, cammina cammina, giunse ad un bel giardino; e siccome n'era il cancello aperto, e' vi entrò diviato. Il giardino era carico gremito d'ogni sorta di fiori, e in un cantuccio sorgeva su un[3] cespuglio di vaghe rose sbocciate e di colore smagliante. Non pareva che ci fosse nel giardino anima viva, cui domandare una rosa in compra o in regalo; sicchè il pover'omo, allungata la mano al cespuglio, staccò una rosa per la sua Zelinda. Misericordia! chè appena colto il fiore,[320] di dentro al cespuglio, con gran fracasso e fiamme, sbucò uno spaventevole Mostro in forma di dragone[4], che fischiando a tutto potere, disse:—«Temerario, che ha' tu fatto? Bisognerà che tu moja subito, giacchè avesti l'ardire di toccare e sciupinare la mia pianta di rose.»—Il pover'omo, morto più che mezzo dalla paura, si messe a piangere, a raccomandarsi in ginocchioni, chiedendo perdono dello sbaglio commesso, e si diè a fare racconto del perchè cogliesse la rosa. E poi diceva:—«Lasciatemi andare. Ho famiglia; e, se non ci son'io, l'è finita per lei e va in perdizione.»—Ma il Mostro inferocito gli rispose:—«Uno ha da morire. O portami quella che volle la rosa; o, se nò, t'ammazzo in sul momento.»—Invano il pover'omo pregò e ripregò: il Mostro non gli diede agio di partire, se non dopo che il pover'omo gli ebbe promesso con giuramento di ritornare colla figliola. Figurarsi con che core il pover'omo rientrò in casa sua! Diede i regali alle figliole; ma con un viso tanto stravolto, che quelle gli domandarono con premura se gli fosse accaduta qualche disgrazia. Dàgli e ridàgli, finalmente il pover'omo piangendo gli raccontò la storia del suo viaggio e a che patto era potuto ritornare; e disse:—Bisognerà che io o la Zelinda si sia mangiati dal Mostro.»—Allora sì che le altre due sorelle scaricarono il sacco contro Zelinda:—«Bada lì»—dicevano—«la smorfiosa, la capricciosa! Lei, lei anderà dal Mostro, che ha voluto la rosa. Il babbo ha da rimanere con noi.»—E la Zelinda:—«È giusto che paghi chi ha fatto il danno. Anderò io. Sì, babbo, menatemi al giardino e sia pure la volontà di dio!»—Dopo varî contrasti e battibecchi, si decise che la Zelinda anderebbe nel giardino del Mostro e ci sarebbe lasciata sola. E così fu; chè, postisi in cammino l'indomani lei col padre, in sull'imbrunire giunsero al[321] giardino. Entro a quel luogo ameno non ci veddero, secondo il solito, anima viva; ma osservarono un gran palazzo signorile illuminato e colle porte spalancate. Si introdussero i due viaggiatori nell'atrio; e subito quattro statue di marmo si mossero da' loro piedistalli per fargli lume su per le scale sino ad una sala, dove nel mezzo era una mensa apparecchiata d'ogni ben di dio. I due, sentendosi affamati, si sederono; e satolli, le medesime statue, presi i lumi, gli condussero in due belle camere, dove andati a letto dormirono saporitamente tutta la notte. Al levar del sole, Zelinda e il padre suo pur essi si levarono; e vennero serviti della colazione da mani invisibili. Poi, scesi in giardino, si diedero assieme a cercare del Mostro; e, giunti davanti al cespuglio delle rose, eccotelo sbucar fori in tutta la sua bruttezza e terribilità. La Zelinda dalla paura diventò bianca e gli tremavano le gambe. Disse il Mostro al pover'omo, dopo avere guardata fissa la Zelinda con due occhiacci infocati:—«Sta bene: tu hai mantenuta la promessa. Ora vattene, vecchio; e lascia quì sola la ragazza.»—Il pover'omo si sentiva morire dalla paura; e non meno dolorosa se ne stava la Zelinda. Ma, per preghiere, che facessero, il Mostro rimase duro come un sasso; sicchè bisognò, che il pover'omo se ne andasse, abbandonando la figlia, la sua cara Zelinda, alla discrezione del Mostro. Quando il Mostro fu solo colla Zelinda, principiò a farle carezze e moine; e tanto s'adoperò, che gli riuscì rendersi amabile a lei. Non la lasciava mancar di nulla. E tutti i giorni, discorrendo con lei nel giardino, gli domandava:—«Che mi vuo' bene? Vuo' tu diventarmi sposa?»—Ma la ragazza rispondeva:—«Signore, vi vo' bene sì, ma non diventerò mai vostra sposa.»—E il Mostro si addimostrava molto addolorato; e raddoppiava carezze e buoni garbi; e, sospirando a modo suo, diceva:—«Eppure,[322] se tu mi sposassi, accaderebbe una cosa di molto maravigliosa. Ma non te la posso dire, fino a che tu non voglia essere la mia sposa.»—La Zelinda, sebbene non si trovasse lì malcontenta, pure di sposare il Mostro non se la sentiva punto, perchè troppo brutto e bestiale; quindi alle richieste del Mostro aveva sempre pronta la medesima risposta. Un giorno, il Mostro la chiamò in fretta e gli disse:—«Senti, Zelinda, se tu non acconsenti a sposarmi, è decretato, che moja tuo padre: già sta male e in fine di vita e non lo potrai più rivedere. Guarda, se dico il vero.»—E, cavato fori uno specchio incantato, il Mostro fece vedere a Zelinda il padre moribondo sul letto nella camera di casa sua[5]. Allora Zelinda, tutta disperata e fori di sè dal dolore, gridò:—«Che viva il babbo e lo possa riabbracciare. Sì, vi prometto, che sarò in ogni modo vostra sposa fedele e subito.»—Non ebbe a mala pena la Zelinda profferite quelle parole, in un tratto il Mostro si trasmutò in un bellissimo giovane. La ragazza ne rimase sbalordita; e il giovane, presala per mano, gli disse:—«Cara Zelinda, sappi, che io sono il figliolo del Re delle Pomarance[6]. Una vecchia strega, toccandomi, mi ridusse a Mostro; e mi condannò a stare in quel cespuglio di rose in questa figura, sino a tanto, che una bella fanciulla non acconsentisse diventare mia sposa. Per grazia tua, Zelinda, eccomi ritornato come avanti. Ora andiamo da tuo padre, che è già rinsanichito; e dopo faremo il matrimonio, ottenuto il consentimento dal Re delle Pomarance.»—Zelinda e il giovane a cavallo si partirono dal giardino; e, quand'ebbero riveduto il padre di Zelinda, tutti assieme andarono nel Regno delle Pomarance, dove il Re, alla vista del figliolo, mancò poco non cascasse morto dall'allegrezza. Il giovane disse al Re quel, che gli era intravvenuto. Ma, alla novella[323] dello sposalizio fissato fra il figliolo e la Zelinda, il Re si turbò fortemente; e fece protesto, che, per quant'obblighi avesse alla ragazza per la liberazione del figliolo, a quella richiesta non poteva acconsentire, perchè da molto tempo innanzi aveva impegnata la sua parola di Re, che il suo figliolo si maritasse alla figlia del Re di Prussia. E non ci fu versi di tramutarlo da quel deliberato, per preghiere e pianti degli innamorati. Per cui, non vedendo altro rimedio, il giovane e Zelinda fissarono scappare assieme di notte tempo. E, travestiti da pitocchi, a piedi uscirono fori dal palazzo alla chetichella; e si posero in cammino per la campagna. Zelinda e il suo sposo, dopo avere viaggiato un giorno intero così alla ventura, in sull'abbujare entrarono in una selva e vi si smarrirono. Gira di quà, gira di là, non trovavano la via ad uscirne; ed erano sul punto di sgomentarsi e darsi ormai per perduti e per morti, quando lontan lontano scorsero un lumicino.[7] A tentoni si diressero laggiù, finchè giunsero alla porta di una spelonca e picchiarono colle nocche delle dita. Dopo qualche momento, s'affaccia a un finestrino una donna, che aveva due zanne di porco sporgenti fori delle labbra, che con una vociaccia sgangherata gridò:—«Chi siete? che volete a quest'ora?»—Disse il figliolo del Re delle Pomarance:—«Siam due poverelli, marito e moglie; e ci siam smarriti in questa selva. Dateci in carità ricovero per la notte e un pò di pane, che siam stanchi.»—«Oh! meschini!»—sclamò la donna dalle zanne,—«dove siete mai capitati! Questa è la casa dell'Orco; e io sono la sua moglie. Scappate, ma presto, chè a momenti torna. E se vi sente e vi trova, per voi l'è finita; vi divora tutti e due vivi in un ammenne.»—« O dove volete, che si vada?»—disse il giovane:—«Guardate di rimpiattarci in qualche logo riposto, e domani[324] a giorno ce n'anderemo senza farci sentire.»—E l'Orchessa:—«Ma che vi pare! Alla porta, dal di dentro, c'è quì una gabbia d'oro, tutta grema zeppa di sonaglioli; e ci sta un uccellino, che fa la spia e svolazza; e nella stalla c'è un cavallo con una sonagliera, che fa altrettanto. Se entra qualche cristiano in casa, l'Orco lo risà subito, perchè le bestie collo scampanellìo e il diavoleto de' canti, de' nitriti, dell'ali e delle zampe[8] glielo ridicono. E allora l'Orco cerca dappertutto; e per chi trova, non c'è scampo.»—«Tant'è,»—riprese il giovane,—«morti per morti, apriteci e lasciateci venire dentro, accada quel, che vole accadere.»—L'Orchessa, capito, che que' due non se ne volevano partire, e bramosa di fargli un po' di bene, s'avviò per la scala ad aprirgli; e in quel mentre, che tirava catenacci su catenacci e bracciali e saliscendoli e catene, con che era assicurata la porta, una vecchina tutta grinzosa apparì di fori a Zelinda e al suo sposo e presto presto gli disse:—«Pigliate questo cotone, questi confetti e queste focacce. Quando sarete dentro, tappate col cotone tutti i sonaglioli della gabbia e del cavallo, e staranno cheti. Poi, quando l'Orco è a letto e dorme, scappate via e rubate la gabbia coll'uccellino. Quando sarete in mezzo la selva, ammazzate l'uccellino e apritegli il capo. Nel capo e' ci ha un ovo. Rompetelo con una pietra; chè, rotto l'ovo, l'Orco morirà, essendo lì nell'ovo l'incantesimo della sua vita.[9]»—Ciò detto, disparve. Intanto la porta era aperta; e l'Orchessa, introdotti gli smarriti, li condusse in cucina, li rifocillò alla meglio e poi li messe a dormire nella mangiatoia del cavallo e li ricoprì colla paglia e col fieno per nasconderli all'Orco. Que' meschini pensavano di fare quel, che gli aveva detto la vecchina grinzosa, quando eccoti l'Orco: e l'uccellino a cantare e scotere la gabbia; e il cavallo a nitrire e[325] a saltare tentennando la sonagliera. L'Orco, insospettito, tanto più che aveva naso fine, si diè a fiutare quà e là, borbottando fra le zanne:
—«Mucci, mucci!
«Sento puzzo di cristianucci:
«O ce n'è, o ce n'è stati,
«O ce n'è de' rimpiattati.»—
Poi, rivoltosi alla moglie, disse:—«Moglie, c'è carne umana, non è vero? Dove l'ha' tu riposta?»—E l'Orchessa, facendo l'indiana:—«Ma che? Stasera tu ha' bevuto, marito, tu ha' i frazî nel naso. Va' vai a letto.»—L'Orco non era punto persuaso e storse il grugno alle parole dell'Orchessa. Stette in fra le due e poi disse:—«Sono stracco e non vo' mettermi in sul ricercare adesso. Domani poi frugherò bene la casa; e, se trovo carne umana, mi servirà per colazione.»—L'Orco se n'andiede a letto e di lì a un po' russava da sentirlo un miglio lontano. Pian pianino si alzarono il figliolo del Re delle Pomarance e Zelinda; e, gettate le focacce al cavallo e i confetti all'uccellino, perchè stessero zitti, col cotone tapparono tutti i sonaglioli della gabbia e del cavallo. Poi, senza pensare ad altro, vogliolosi com'erano di scappare, aperta la porta non senza fatica e agguantata la gabbia, via a corsa per la selva. Quando la gabbia fu fori della soglia della porta, l'Orco si svegliò con una scossa e urlò:—«Mi portan via la vita»—e, saltato il letto, corse dietro a' fuggiaschi. E, siccome aveva le gambe lunghe e l'odorato bono, presto li raggiunse; sicchè quelli impauriti abbandonarono la gabbia. L'Orco allora si contentò di ripigliare la gabbia e si sentì ritornare le forze, che cominciavano a scemargli; e, rinvenuto alla spelonca, la serrò con gran cura. Intanto i fuggiaschi s'eran[326] messi a sedere ansimando per la corsa fatta. Ed eccoti la solita vecchia grinzosa, tra il losco e il brusco, gli riapparì e gli disse:—«Oh matterelli, che non avete saputo fare l'interesse vostro! Se l'Orco era morto, tutti i suoi tesori (e sono di molti) diventavano cosa vostra. Andiamo! ritornate stasera dall'Orco e fate quel, che non avete fatto.»—Que' due si sentivano poco vogliosi di ritentare la prova. Ma la vecchina gliene disse tante, che alla sera ripicchiarono alla porta della spelonca; e, dopo le solite cerimonie dell'Orchessa, che non gli riconobbe per que' della sera prima, gli entraron dentro. Ma, per tornare un passo addietro, bisogna sapere, che la vecchina aveva dato al figliolo del Re delle Pomarance una boccettina, dove stava racchiuso un liquore, che, odorato da chi la teneva in mano, rendeva ottuso il naso dell'Orco. Messi nel solito posto i due sposi, sentirono tornar l'Orco, che fiutava e borbottava la medesima canzone di prima; poi disse alla moglie:—«Questa volta, moglie, non sarò tanto mammalucco. Dammi un lume. Vo' cercare bene prima di andare a letto. E, se c'è cristiani, me li pappo in due bocconi.»—Gira e rigira, l'Orco venne alla stalla; ma il giovane annusò la boccetta, sicchè l'Orco perdette la bussola; e, non iscoprendo nulla, credette meglio andare a letto. Quando fu addormentato e russava, i due sposi, impiegate le stesse diligenze della notte avanti, tolser la gabbia dal chiodo e via per la selva; e l'Orco dietro sbraitando. Ma il giovane, cavato fuori l'uccellino, gli sfrantumò il capo con un sasso, per cui l'Orco cascò in terra morto steccolito intra fine fatta. Il che accaduto, Zelinda e il suo compagno ritornarono alla spelonca; e, caricato sul cavallo dell'Orco tutto il tesoro, presero la strada del Regno delle Pomarance. Quì giunti, si presentarono al Re, che molto lieto li ricevè; e, mirato le grandi ricchezze acquistate, consentì[327] allo sposalizio di Zelinda con il suo figliolo. E gli sposi vissero a lungo assieme e allegramente; e lì nel Regno
Si goderono e se ne stiedero,
Ed a me nulla mi diedero.
NOTE
[1] Più comunemente: Belinda e il Mostro; ed anche Rosina e il mostro. Raccolta dall'Avv. Prof. Gherardo Nerucci. Il Liebrecht annota:—«Der Haupttheil dea Märchens (bis zur Verwandlung des Ungeheuers in einen schönen Jüngling) entspricht dem Märchen aus dem Schwalmgegend, angeführt von Grimm. Kinder—Märchen III, 152 zu N.º LXXXVIII. Das singende, springende Löweneckerchen.»—La connessione della prima parte di questa fiaba col mito della Psiche è evidente e salta agli occhi. Cf. con lo esempio milanese, che segue.
L'OMBRION.[i]
Ona volta gh'era on papà[ii]. El gh'aveva tre tosànn[iii] e l'era molto[iv] pover e l'andava à cercà la caritàa, per portà[328] a cà de mangià a sti sò tosànn. E on dì, gh'han ditt de portagh a cà on pòo d'aj[v]. L'è andaa fœura de cà, l'è passàa d'on sit, l'ha vist on bell giardin, e l'è andàa dent[vi]. L'ha vist, che gh'era on bell scepp[vii] d'aj; e l'è andàa là e n'ha cattàa on poo. In del strappàll, l'è borlàa per terra e l'ha ditt:—«O daj[viii]!»—E gh'è compars come on'ombria. E st'ombrion l'ha ditt:—«Còsse te set vegnuu a fa cont st'aj?»—E lu, l'ha ditt, che l'è per portà a cà ai sò tosànn, che gh'han ditt lor de andà a cattall. E lu, l'ombrion, el gh'ha ditt:—«Ben! o ti te menet chì diman a st'ora vunna di tò tosànn, o la tòa vitta l'è andada.»—E lu, sto pover—òmm, l'è andàa a cà tutt stremìi[ix] a piang. I so tosànn gh'han ditt: cosa l'era, che lu el gh'aveva? E lu l'ha ditt quell, che gh'era success. Donca[x] i tosànn, la maggior l'ha vorùu minga andà, la segónda nanca[xi], e la minor l'ha ditt:—«Ghe andaròo mi!»—e l'è andada lee in sto sit cont el pà[xii]. E quand el pader l'è stàa là con la sòa tosa, l'ha fàa a la stessa manera, che l'aveva fàa, quand l'ha strappàa l'aj. E allora l'è compars l'ombrion e l'ha ditt:—«Lassala chì, che la toa tosa l'è in bon man e la patirà minga.»—L'ha menada giò d'ona scaletta; e quand l'è stada giò, l'ha veduu on magnifich sit, inscì bell, ch'el pareva on palazz. E no ghe mancava nient, qualunque cossa, che lee la podeva desiderà. Solament, che la gh'aveva semper st'ombrion denanz ai œucc[xiii], e la podeva mai pizzà el ciàr[xiv] de sera; el gh'aveva proibìi lu, ch'el[329] voreva minga, che de nott se pizzass el ciàr. E, quand el dormiva, lee, le sentiva a ronfà[xv] come ona persona. E la ghe voreva molto ben: la s'era tant affezionada, che la ghe voreva molto ben. La gh'ha cercàa el permess d'andà a cà a trovà i sò sorej[xvi] e el sò pà. E lu ghe l'ha daa el permess domà[xvii] per vintiquattr'or[xviii]. E lee, la gh'ha promess, che la saria vegnuda prima anca di ventiquattr'or. L'è andada a cà, l'ha trovàa i sò sorej e el sò pà; e la gh'ha cuntàa, che la stava inscì ben, che ghe mancava nagott[xix]. La gh'aveva el dispiasè, che la podeva minga pizzà el ciar, e che la nott la sentiva l'ombrion a ronfà come ona personna. Lor, i sorej, gh'han daa de podè pizzà el ciar; candela e zolfanej[xx], per pizzà el ciar quand lu, l'ombrion, el dormiva. I sorej voreven tegnilla là; e lee, la gh'ha ditt:—«No, poss no, perchè gh'hoo promess, che saria andada prima di vintiquattr'or.»—L'è andada; e lu, l'era là a ricevela. E l'è staa content, perchè l'è andada anmò[xxi] prima de quel, che lu, el gh'aveva ditt. La sera, quand hin andàa a dormì, lee, l'ha lassàa indormentà; e pœu l'ha pizzàa el ciar. E l'ha vedùu, che l'era on bellissem gioven. El gh'aveva al coll on cordon cont attach[xxii] ona ciavetta[xxiii]. Ghe l'ha tiràda via e l'è andada a provà in di stanz, che gh'era intorna al só palazz, per vedè, dove l'è, che l'andava ben sta ciav. L'ha trovàa, che in sta stanza gh'era denter tanti donn, che lavoraven e che diseven:
Fee fass, patton[xxiv] e pattej [xxv]
Per el fiœu del Re.
E pœu l'ha saràa su e via l'è andada. Gh'è vegnuu a la contra lu, l'ombrion, in forma d'on bel gioven[xxvi]. El gh'ha ditt:—«Adess, pòdem pu stà insemma!»—E lee l'ha ditt:—«Insegnem, dove hoo de andà; che mi ghe andaròo, dove te vœut.» —Lu, el gh'ha ditt:—«Va a la cort del Re, che mi soo, che lu l'aloggia i forestee[xxvii], quej, che desideren de andà là. Che tutt i nott vegnaròo mi a trovatt.»—Lee, l'è andada; e là l'han aloggiada. La prima nott, che l'ombrion l'è andàa a trovalla, gh'è ona lampeda là sul scalon; e, quand l'era là, el ghe diseva:
Lampada d'argento, stoppino d'oro,
La mia signorina riposa ancora?
E la lampeda, la ghe diseva:
Vanne vanne, a buon'ora;
La tua signorina riposa ancora.
Lu, el ghe dis a la lampeda:
Quando mio padre saprà,
[331]Con fasce d'oro ti fascerà[xxviii].
Quando i galli più non cantano,
E le campane più non sonano,
Sino a giorno starò qui.
On servitor, l'ha sentìi sta robba, ona nott e dò. E l'è andàa a dighel al Re, che sentiven de nott quest, che vegniva a dì sta robba. E lu, el Re, l'è andaa e l'ha voruu sentì lu; e di fatt l'è andaa e l'ha sentìi sta robba. L'ha pessegàa[xxix] a mandà a fa mazzà tutt i gall e a fa sonà pu i campann. Quand gh'è staa pu campann, che sonass, nè gaj, che cantass, quella nott l'ombrion l'è andàa e l'ha tornàa a dì anmò alla lampeda l'istess, che el ghe diseva i alter volt:
Già le galle[xxx] più non cantano,
Le campane più non sonano,
Sino a giorno starò qui.
E la mattinna[xxxi], a l'ora solita, che ghe portaven el cafè[xxxii] a sta tosa, van denter; e veden, che gh'è là on alter scior insemma. E lu, sto scior, l'ha cercàa, se se podeva parlà al Re. El Re, che l'era quel, ch'el desiderava, quand l'ha vedùu, l'ha riconossùu, che l'era sò fiœu, che l'era staa instriaa. E allora lu l'ha ditt:—«Quella l'è la mia deliberatrice; se no gh'era questa, mi podeva minga vess deliberàa; pérchè mi, el mè instriament l'aveva de bisogn de trovà vunna, che me voress ben, anca che mi fuss mostruôs.»—E so pader, el gh'ha ditt:—«Ben, e ti te la sposaret; e la sarà toa sposa.»—E s' ciao[xxxiii].
L'è passàa on carr d'oli[xxxiv] d'oliva,
La panzanega[xxxv] l'è bell'è finida.
[i]Ombrion, manca nel Cherubini, dove c'è solo Òmbra ed Òmbria per ombra, spettro (da non confondersi con Òmbra ed Ombria, ombra ed ombria. Avé paura de la so ombria). Rispond a Lo Catenaccio, trattenimento IX della giornata II del Pentamerone.—«Lucia va ped acqua a 'na fontana e trova 'no schiavo, che la mette a 'no bellissimo palazzo, dov'è trattata da Regìna; ma, da le sore 'mmidiose consigliata a bedere co' chi dormisse la notte, trovatolo 'no bello giovane, ne perde la grazia ed è cacciata; ma dopò essere juta sperta e demerta grossa pena 'na maniata d'anne, arreva 'ncasa de lo 'nnamorato, dove, fatto 'no figlio mascolo, dopò varie socciesse fatto pace, le deventa mogliera.»—Si tratta sempre del mito di Psiche.
[ii]Papà, paperin, babbo, papà. Il signor Reali postilla:—«Il modo più comune, se non il solo, che si usa per cominciar la narrazione, è: Gh'era ona volta, e non: Ona volta gh'era. È una formola quasi sacramentale, come l'in diebus illis, che non si può indifferentemente mutare nell'in illis diebus.»—La novellaja avrà narrato male, ma diceva com'ho scritto.
[iii] Tósa, sing. tosànn, plur. fanciulla, ragazza, tosa. Il diminutivo tosètta, fa al plur. tosarètt. Vedi pag. 42 e 301 nelle postille.
[iv] Parola che non è nel dialetto.
[v] Aj; aglio. Coronna d'aj, resta d'aglio. Coo, capo. Gesa, spicchio. Coa o sgaùsc, coda.
[vi] Dent o denter. Andà dent, entrare.
[vii] Scepp, fra gli altri significati ha quello di cespo, cesto, cumulo di molti figliuoli sur una sola radice di frutti o d'erba; lo stesso che ceppaia, ceppata (sceppâda) negli alberi. Da non confondersi con s'ceppàa, fesso, screpolato; s'ceppa, schiappa, ecc.
[viii] Dàj, esclamazione, dagli! Ma qui v'è un bisticcio con d'aj.
[ix] Stremìi, impaurito, sbigottito. Fà stremì, impaurire. Stremiss, rimescolarsi, sentirsi rimescolare. Stremizzi, rimescolamento. Tœu sù on stremizzi, rimescolarsi.
[x] Donca e donc. Ergo donca, trii conchin fan ona conca: modo scherzevole di conchiudere.
[xi] Nanca, gnanca e gnanch.
[xii] Pà e pàder, padre.
[xiii] Oeucc, occhio, plur. simile al sing.
[xiv] Pizzà, appicciare, accendere. Smorzà on mocchett per pizzà ona torcia. El ciàr, il lume.
[xv] Ronfà, roncà, russare, ronfiare, ronfare; (de' gatti) tornire.
[xvi] Sing. sorella; plur. sorell, e sorej.
[xvii] Domà e nomà, solo, soltanto, solamente.
[xviii] Òra, sing. Or, plur.
[xix] Nagott e nagotta, nulla; da ne gutta quidem, probabilmente.
[xx] Il Cherubini nota come bella parola contadinesca Solfanèll o Zolfinèll, invece del cittadinesco Zoffreghètt o Zoffreghìn.
[xxi] Anmò, ancamò; ancora, anche; tuttora, tuttavia.
[xxii] Attacch, accanto, allato, presso, vicino, accosto.
[xxiii] Ciavetta, chiavetta, specialmente quella dell'oriolo, diminutivo di ciav.
[xxiv] Fee, fate. Fass s. masch. plur. fasce. Patton, qui è sinonimo di pattonin, pezza a più doppî o imbottita, che si sottopone per pulizia a' bambini lattanti fra le pezze line e quelle di frustagno.
[xxv] Pattell (e più comunemente al plurale pattij), pezze, que' pannilini onde avvolgonsi i fanciulli in fasce.
[xxvi] Giuven e Gioven.
[xxvii] Forestée. Avendo Pietro Giordani stampato, in un articolo della Biblioteca Italiana, fra le altre cose, che, nella moderna Italia, forestiere, come nell'antichissima Roma, vuol dire inimico, Carlo Porta gli rispose col seguente sonetto:
Quand i nost vicciurritt e fiaccaree
Menen intorna on Milanes a spass,
Ghe diraven, a chi gh'el domandass,
Che menem in caroccia on Forestee.
Quand i nost sciori inviden on vivee
Di sò amis Milanes a refisiass,
Hin solet digh al cœugh, de regolass,
Che gh'han di Forestee, tant che sia assee;
E lu, ch'el stà chi inscì a s' ceppà i radis,
L'ha el coragg de stampann in sul muson,
Che in Milan Forestee el vœur dì nemis?
Ah! on'altra vœulta innanz trà lì secch secch
De stì goffad con tanta presùnzion,
Ch'el consulta el cervell, minga i busecch.
[xxviii] Gonzenbach. (Op. cit.) XLIII. Die Geschichte vom Principe Scursuní:
Dormi, dormi e fa la ninna!
Si to nanna lu saprà,
Fasci d'oru ti farà.
Del resto quella novella della Gonzenbach si ravvicina più al nostro Re Porco.
[xxix] Pessegà, spessegà, affrettasi, sollecitarsi; spicciarsi dicono continuamente nel mezzogiorno. Spessecare è nelle Vite de' Santi Padri, per lo essere sollecito nell'agire delle formiche. Il Firenzuola ha detto spessicare.
[xxx] Sic, ma è sproposito evidente della novellatrice lombarda, che non può far testo nelle frasi italiane.
[xxxi] Matinna o Mattinna.
[xxxii] Usanza moderna, che è stata recentemente interpolata nella fiaba.
[xxxiii] Ciao, ciavo, s' ciao, schiavo, come formola di congedo e d'addio.
[xxxiv] Oli e presso il volgo æuli ed æuri.
[xxxv] Panzànega. Fiaba, fola, panzana, favola, pantraccola. Il Cherubini riporta così questa chiusa comunissima:
E œu gh'han miss sù la saa, l'asès e l'oli d'oliva; E la panzanega l'è bella e finida.
Risponde al modo toscano:
Stretta la foglia sia, larga la via.
Dite la vostra, che ho detta la mia;
nel quale è da notarsi, che spesso (e così l'ha scritto Nicomedo Tabacchi, ossia Domenico Batacchi, nel canto IX del Zibaldone) il primo verso suona:
Il fosso sta fra il campo e fra la via;
e talvolta semplicemente:
In santa pace pia.
[2] Il padre, che, partendo, chiede alle figliuole cosa vogliano in dono, si ritrova nella Gatta Cennerentola del Basile. Dove il padre dimentica il dono per la migliore ed il suo bastimento viene arremorato. Episodio mancante nella nostra lezione della fiaba presente.—«Soccesse, ch'avenno lo Prencepe da ire 'Nsardegna pe' cose necessarie a lo stato sujo, dommannaje ped'una a 'Mperia, Calamita, Sciorella, Diamante, Colommina, Pascarella, (ch'erano le seje figliastre) che cosa volesseno, che le portasse a lo retuorno. E chi le cercaie vestite da sforgiare; chi galanterie pe' lo capo; chi cuonce pe' la facce; chi jocarielle pe' passare lo tiempo; e chi 'na cosa, e chi 'n'autra. E ped utimo, quase pe' dellieggio, disse a la figlia: E tu che vorrisse? Ed essa: Nient' autro, se non che mme raccommanne a la Palomma de le Fate, decennole, che mme manneno quarcosa. E si te lo scuorde, non puozze ire, nè 'nnanze, nè arreto. Tiene a mente chello che te dico, arma toja, maneca toja. Jette lo Prencepe, fece li fatte suoje 'Nsardegna, accattaje quanto l'avevano cercato le figliastre, e Zezolla le 'scìe de mente. Ma 'mmarcatose 'ncoppa a 'no vasciello, e facenno vela, non fu possibile mai, che la Nave sse arrassasse da lo puorto; e pareva, che fosse 'mpedecata da la remmora. Lo patrone de lo Vasciello, ch'era quase desperato, sse pose pe' stracquo a dormire, e vedde 'nsuonno 'na Fata, che le disse: Saje, pecchè non potite scazzellare la nave da lo puorto? Perchè lo Prencepe, che bene co' buje, ha mancato de prommessa a la figlia, allecordannose de tutte,[333] fora che de lo sango propio. Sse 'sceta lo patrone, conta lo suonno a lo Prencepe, lo quale, confuso de lo mancamiento, ch'aveva fatto, jeze a la Grotta de le Fate, e, arraccommannatole la figlia, disse, che le mannassero quarcosa.»—Un simile arremoramento ritrovo in una fiaba, che ho raccolta in Napoli da una crestaina e che il Liebrecht chiama ein ganz eigenthümliches neapolitanisches Märchen:
'A FATA ORLANNA[i].
Nce steva 'na vota 'nu mercante. Nu' teneva figlie; era sulo isso e 'a mogliera. Aveva a piglià' 'a mercanzia, aveva a partì'. Sse vota 'nfaccia 'ô marito, 'a mogliera:—«Chiss'è 'n aniello; mettitello 'ô rito. Mm'haje a portà' 'na pupa granne quant'a mme, che fa qualunque atteggio, che cose, che ss'assetta. Sì te scuorde, 'st'aniello sse fa 'rosso 'ô dito; e 'u vapore non va avante nè arreto.»—Comme 'nfatte accussì fuje. Sse dimenticaje 'a pupa, sse mmise 'ncoppa 'ô vapore, e 'u vapore no' volea camminà'. 'U pilota sse votaje:—«Signure, v'avite dimenticato quarche cosa?»—a tutt' 'e signure, che nce stevano.—«Nossignore, niente.»—All'urdemo d' 'o vapore steva chisto mercante:—«Signò'; v'avisseve dimenticato quaccosa, pecchè 'u vapore non po' camminnà'?»—Isso sse guardaje 'â mano e decette:—«Sì, mm'haggio scordata 'na cosa; 'a pupa de moglierema.»—Calaje, prese 'a pupa, e sse mmisedi nto 'ô vapore; e cammenaje. Arrivaje a Napole, portaje 'a pupa 'â mogliera, tutta ben vestita, tutta elegante: pareva 'na bellissima giovane. 'A mogliera, tutta contenta, che parlava, che discorreva co' 'sta pupa, che lavoravano vicino 'ô balcone tutt'e doje. 'Nfaccefronte steva 'u figlio d' 'u Rre: ss'annamoraje 'e 'sta pupa e nce cascaje 'mmalato d' 'a passione. 'A Recina, che vedeva 'stu figlio 'mmalato, diceva:—«Figlio mmio, che è stato? ch'haje? Dill'a mammà. Oggi o domane, nuje morimmo e tu regne: e poi chi regna, se tu piglio 'na malattia e more?»—Sse votaje:—«Mammà,[334] haggio presa 'sta malattia, pecchè 'na figlia, 'a figlia d' 'o mercante, che sta derimpetto, tanto che è bella, che mme fa 'nnamorare.»—Dice 'a Recina:—«Sì, figlio mmio, io t' 'a faccio sposà'. Doppo ch'è 'na figlia de 'mmonnezzaro, t' 'a faccio sposà'»—«Sì, mamma mmia, faciarrisseve 'na cosa bona. Mo' mannammo a chiammà' 'ô mercante.»—Mannajeno 'o servo a casa d' 'o mercante:—«Sua Maestà ve vole a palazzo!»—«E che bo'?»—«Dèbbo parlareve[ii].»—'U mercante va a palazzo; dice:—«Maestà, cosa comanna?»—«Tu tiene 'na figlia?»—«Maestà, no.»—«Comme dice, che no? 'U figlio mmio è caruto ammalato p' 'a passione, che ha pigliate p' 'a figlia toja.»—«Majestà, io ve dico, che chella è 'na pupa, non è mai cristiana.»—«Io no' boglio sape' chiacchiere! Se no' mme presente a figliata 'ntermine de quinnece ghiuorne, 'a cape toja sott' 'â chillottina.»—'A chillottina no' sapete che è? È la forca. Ca sse 'mpenneva, se non portava 'a figlia doppo quinnece ghiuorne. Annaje a casa chiancenno 'sto mercante. Le decette 'a mogliera:—«Che è stato, che t'ha detto lo Re a palazzo, ca tu chiance?»—«No' nzaje, che mme succede? 'U figlio d' 'o Rre è caruto 'mmalato pe' chella pupa, che tu tiene!»—sse votaje 'nfacci' 'â mogliera. Sse votaje 'a mogliera:—«È caruto ammalato? non ha visto, ca è 'na pupa?»—«No' 'u crerette: e dice, ca mm'è figlia; e ca se no nce presento 'â figlia mmia 'ntermine de quinnece ghiuorne, 'a cape mmia sott' 'â chillottina.»—«Be', pigliatella»—sse votaje 'a mogliera—«e portatella a 'na parte de campagna. Vire, che può ffà'.»—Mente, ca 'a menava, tutto sbegottito, trovaje a 'nu viecchio:—«Mercante, cosa vai facenno?»—Sse votaje, decette:—«Eh, vicchiariello mmio, che t'haggio a dì'?»—Sse votaje 'u viecchio:—«Io so tutto.»—Dice 'u mercante:—«Eh già, che sapite tutto, trovate 'nu 'rremedio p' 'a vita mmia.»—Dice:—«Appunto. A tale e tale paese, cammina, nc'è' 'na fata, ca sse chiamma 'a fata Orlanna. Tene 'nu palazzo, ca no' nce sta guardaporto e no' nce sta scalinata. Chisto è 'nu violino, chesta è 'na scalella de seta. Quanno arrive a chillo palazzo, tu miettete a sonà'. Ss'affaccia 'a fata co' tutte 'e dodece damicelle. Chessa te po' dare 'ô 'rremedio, 'a fata Orlanna.»—'U mercante cammenaje, cammenaje; e trovaje 'ô palazzo, ca no'[335] nce steva guardaporto e no' nce steva scalinata. Sse mette a sona' 'ô violino. Ss'affaccia 'a fata co' tutte 'e dodece damicelle. E decettero:—«Che buo', che nce chiamme?»—«Ah! fata Orlanna, dateme 'nu 'rremedio.»—«E che 'rremedio vuoje?»—Dice:—«Tengo chesta pupa, ca 'u figlio d' 'u Rre è caruto 'mmalato, sse n'è 'nnamorato. Io comme faccio?»—Faceva:—«'Ntermine de quinnece ghiuorne, se non 'a presento, 'a cape mmia sarrà tagliata.»—Decette 'a fata Orlanna:—«Mitte chesta scalella vecino 'ô muro. Damme chesta pupa. Aspetta doje ore e poi te 'a donco.»—Aspettaje doje ore e ss'affacciaje 'a fata:—«T'ecchete a figliata. Chesta parla a tutte, parla 'ô Re, 'â Recina; ma 'ô Prencepe no' nce parla. Statte buono, addio.»—Sse n'entraje 'â parte de dinto 'a fata Orlanna, e 'u mercante sse n'annaje co' 'a figlia. Annaje a casa e nce 'a portaje 'â mogliera. Dicette 'a pupa:—«Mammà, comme state?»—«Sì, figlia mmia, sto bona. E tu, addò' sì' stata?»—«So' ghiuta 'â villeggiatura co' papà e mo' so' venuta.»—'Ntermine de quinnece ghiuorne, 'u mercante 'a vestette tutt'elegante e 'a portaje a palazzo. 'U Re, conforme 'a vidde, sse vota co' 'a Recina:—«Have ragione, figlio mmio, ch'è 'na bella giovane!»—Essa sse mese dent' a' galleria a parlà' co' 'u Rre e 'a Rrecina; e co' 'u Prencepe no' parlava. 'U Prencepe morteficato:—«Co' papà parle, co' mammà parle; e co' mme no! Comme va 'st'affare? Forze sarrà 'a soggezione, ca non mme parla.»—Ss' 'a sposaje; e neppure nce parlaje. Tanto che fuje costretto 'u Prencepe, ca sse spartettero senza nisciuna cosa. 'U Prencepe steva a 'na parte e essa a 'n'auta, in doje appartamienti. Isso sse mettette a fa' l'ammore co' 'n'auta Prencipessa. Pigliaje, mente 'na mattina, ca steva mancianno chesta 'nnammorata, chiammaje 'u cammariere:—«Viene cca, 'u prencepe sta a tavola?»—«Altezza, sì.»—«Aspetta!»—Sse taglia 'e doje mane e 'e menaje dinto 'ô furno. Asciette 'nu ruoto co' diece cape de sacicce.—«Portancelle 'ô Prencepe.»—«Prencepe, ve manna chesto 'a Prencipessa.»—Dice:—«E comme so' fatte?»—«Prencepe, ss'ha tagliate 'e doje mane, 'e ha menate dint' 'ô furno;»—sse votaje 'u cammariere:—«Mm'ha fatto stravedè'.»—Dice 'u cammariere, ca ss'era maravigliato. Dice:—«Basta, manciammole.»—Sse votaje 'u Prencepe. A 'nnammorata sse votaje:—«'U faccio anch'io.»—Sse taglia 'e doje mane, 'e mena dentr' 'ô forno, e sse bruciajeno e morette.—«Oh[336] che mm'ha fatto! mme n'ha fatto morì' a una!»—dicette 'u Prencepe. 'Ncapo 'e tiempo assaje, sse mise a fa' l'ammore co' 'n'auta. Quanno fuje 'a primma jornata, che annaje a tavola cu' essa, 'a Prencipessa chiamma 'n auto cammariere:—«Cammariè', addò' vaje?»—«Majestà, vaco a tavola d' 'o Prencepe, che sta mancianno.»—«Aspetta!»—Sse taglia 'e doje vracce, 'e mena dint' 'ô furno. Esce 'nu ruoto co' doje sanguinacce. Dice:—«Portancello 'ô Prencepe, a tavola.»—«Prencepe!....»—«Vattenne, ca no' boglio sèntere chiacchiere.»—«Ma sentiteme, lassateme conta'!»—«Ebbe', conta.»—«'A Prencipessa mm'ha chiammato: 'U Prencepe sta a tavola?==Prencipessa sì. Ss'ha tagliate 'e doje braccia soje e 'i ha mmenate dint' 'ô furno. N'ascette 'nu ruoto co' doje sanguinacce; e v'ha mannate 'sti doje sanguinacce. Majestà, ma chella mm'ha fatto remannè' accussì! Tene anche 'e vraccia 'n'auta vota.»—«Eh basta! manciammole! So' bone!»—Sse votaje 'a Prencipessa, l'auta 'nnamorata:—«Eh lu farrò anch'io! boglio vede'!»—Vedè', essa pure! All'urdemo d' 'a tavola, sse taglia 'e vracce e 'e mena dint' 'ô furno. Sse bruciajeno e morette. Diceva 'o Prencepe:—«Ah mme n'ha fatto morì 'n'auta!»—'Ncapo 'e tiempo, sse mise a fa' l'ammore co' 'n'auta. 'U primmo juorno, che annaje a tavola co' essa, 'a mogliera chiammaje 'ô cammariere. Dice:—«Majestà, cosa volite?»—«'U Prencepe sta a tavola?»—«Majestà sì.»—«Aspetta!»—Sse taglia 'e doje gamme e 'e mena dint' 'ô furno. Esce 'no bello ruoto, granne, co' doje prosutte 'mbottite.—«Portancelle a tavola.»—«Majestà, nu' sapite....»—«Vattenne, ca no' boglio sèntere niente!»—«Majestà, lassateme contà! vuje mo' mme ne cacciate!....»—«Ebbè, conta, co'.»—«So' passato 'â parte d' 'a Prencipessa e mm'ha chiammato: 'U Prencepe sta a tavola?==Maestà sì.==E aspetta. Ss'ha tagliate 'e doje gamme, e 'e ha misse dint' 'ô forno e mm'ha date doje pregiutte.»—«Embè, manciammole.»—secutaje. Quanno fuje 'nfine d' 'a tavola, sse votaje a 'nnammorata:—«Che nce' vo'? 'U faccio pur'i'.»—Sse taglia 'e doie gamme; 'e menaie dint' 'ô forno. Sse bruciajeno 'e gamme e morette. Dice 'u Prencepe:—«Ahie! mm'hâ[iii] fatto co' tre!»—Sse votaje 'u[337] Prencepe:—«Sfortunato mme! No' haggio a fà l'ammore co' nisciuna cchiù.»—Quann' a la notte, ca steva curcata 'a Prencipessa, int' 'a nottata 'a lampa deceva:—«Signurì, voglio bere.»—«Agliariè', dancelle a bevere 'â lampa.»—«Signurì, mm'ha fatto male.»—«Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quant'è bella 'a fata Orlanna! Quant'è bella 'a fata Orlanna! Quant'è bella 'a fata Orlanna!»—Faceva accossì tutt' 'a nottata 'nsino a ghiuorno. Erano tutte cose affatate: 'a lampa, l'agliariello. 'U Prencepe, che senteva, sse votaje 'na mattina 'nfaccia a 'nu cammariere:—«Tu, stasera, haje da entrà' dint' 'â cammera d' 'a Prencipessa. Nce haje da stà tutt' 'a nottata sott' 'ô lietto. Haje da vedè, cosa fa tutt' 'a nottata.»—'U cammariere trase sott' 'ô lietto. Quanne fuje 'a notte, cominciaje 'na vota 'a lampa:—«Signurì', voglio bere.»—«Agliariè', dall' a bere 'â lampa.»—«Signurì', mm ha fatto male.»—«Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quant'è bella 'a fata Orlanna! quant'è bella 'a fata Orlanna!»—Fece chesto tutt' 'a nottata. 'U cammariere, ca 'scette fora:—«Prencepe, vuje sentite 'na bella storia 'a notte là!»—«E che diceceno?»—«Majestà, 'a lampa parla co' 'a Prencipessa; 'a Prencipessa parla co' agliaro[iv] e sse vota: Quant'è bella 'a fata Orlanna!»—Sse votaje 'u Prencepe:—«'Stanotte nce vaco i'.»—Quanno fuje 'â notte, sse mmettette sott' 'ô lietto d' 'a mogliera. Tornaje a fa' 'a stessa storia 'a lampa:—«Signurì', voglio bere.»—«Agliarè', dà bevere 'â lampa.»—«Signurì', mm'ha fatto male.»—«Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quanto è bella 'a fata Orlanna!»—Tutta 'a nottata deceva:—«Quanto è bella 'a fata Orlanna!»—Responnette 'o Prencepe:—«Benedetta 'a fata Orlanna!»—«Eh tanto nce volea, pe' di' 'na parola?»—sse votaje 'a Prencepessa. Ss'abbracciajeno e sse vasajeno e sse cuccajeno tutt'e doje. E stiettere cuntente e felice. Loro stanno a Roma e nuje stammo ccà.
Chi ha cuntate, 'nu piatto 'i rucate,
[Chi ha scritte, 'nu piatto 'e turnise;]
E chi ha 'ntiso, 'u penziero nce ha miso.
[i] Cf. Pitré. (Op. cit.) LXIIII. La fata muta; e soprattutto la variante castelterminese intitolata La figlia di la balena. V'è un giovane innamorato di una piavola, nella Novella in versi di Giosuè Matteini da Pistoja, intitolata La Bambola e l'Amante notturno. Vedi Favole | e | novelle | di | Giosuè Matteini | di | Pistoja || Ride si sapis | Mart. || In Pistoia MDCCLXXXVIII | Nella stamperia d'Atto Bracali | con approvazione.
[ii] Affettazione di linguaggio aulico.
[iii] L'accento circonflesso indica il prolungamento della pronunzia, cagionato dallo assorbimento dell'articolo: mm'hâ sta qui per me lo ha.
[iv] Anche qui l'articolo è soppresso, lasciando allungate l'o di co' ed il primo a di agliaro.
[3] Su un. Cacofonia orribile, alla quale potrebbesi ovviare, od intercalando un r eufonico o dicendo su d'un; e voglio avvertire, che forse in questa locuzione, il d non è preposizione, anzi puramente incremento eufonico e che quindi sarebbe per avventura da scrivere sud un. Lo Ariosto, Canto II. Stanza XLI del Furioso, bene ha detto:
Che nel mezzo, su un sasso, avea un castello
Forte e ben posto e a meraviglia bello.
Ma il non esserci dieresi fra l'u accentata della preposizione e quella dell'articolo e l'impossibilità di pronunziare in una sillaba due u distinte ed entrambe accentuate giunta, ci avverte doversi dire e scrivere su 'n, aferizzando l'articolo indeterminato qui, come in mille altri luoghi.
[4] Questo Mostro, che sta fra' rosai, in un roseto e tanto geloso delle sue rose, mi ricorda lo Scimmione d'un Esempio milanese, che si racconta a' bimbi, per impaurirli dall'andar soli a ruzzare lontano di casa.
L'ESEMPI DEL SCIMBIOTT E DI ROS.
Ona volta gh'era on sciôr e ona sciora; e eren in campagna e gh'aveven ona tosa. E sta tosa l'andava fœura de la porta; e soa mader ghe diseva:—«Vœui no, che te vaghet fœura de la porta ti de per ti.»—«No, no, vòo apenna chì de fœura.»—E on dì, cerchen la tosa de chì, cerchen de lì, poden mai trovalla. Ven la sira, sta tosetta la ven minga a cà. La soa mamma la manda attorno, dappertutt, per cercalla, e nissun le trœuva. La soa mamma, la mattinna, la va in strada; e tutt quij, che la incontra, la ghe dimanda, se aveven veduu ona tosetta. E ona donna, la ghe dis:—«Sì, l'ho veduda mi, che l'andava denter de quij restej, là, indove gh'è quel giardin.»—Allora lee, la mamma, la corr e la va denter in sto giardin; la gira dappertutt e la pò trovà nissun. Gh'era on bel palazz, di magnifich sâl, tanti corridor. In fin la incontra on scimbiott gross e la ghe dis:—«Voj ti! Ier è vegnùu chì la mia tosa, denter chì in sto giardin. Dimm in dove l'è; o se de no, mi te dòo fœugh al to palazz.»—E lu, el resta là; e el ghe fa segn, che lu, el sa nient. E lee, la ghe torna a dì:—«Damm la mia tosa; se no, mi te[339] mazzi.»—Lu, el ghe fa segn de spettà; e lle, la ghe dis:— «Se te vegnet no, guarda, che mi ghe dòo el fœugh a la toa casa.»—Finalmente el ven, el ghe fa segn de andagh adrèe a lu. Lee, la ghe va adree; la ved, che el va in giardin; e là, gh'era tanti scepp de rôs, tanti piant d'ogni qualitàa. E la ved, che el gh'aveva in man ona verga. El va là, el tocca on scepp de sti rôs, e ven fœura la soa tosa de lee. E lee allora la dis:—«Tocca anca quell scepp lì»—E l'andava adrèe a vun a vun a faghi toccà tutt:—«se no, te mazzi e te doo el fœugh al palazz.»—El fatt l'è, ch'hin vegnuu fœura ona gran quantità de mas'cett, de tosannett: eren tutt incantàa, deventaven tutt de sti scepp de rôs. E lee, la ghe diseva:—«De chi l'è, che sìi vialter?»—E allora tutti ghe diseven:—«Sêmm del tal, sêmm del tal alter.»—E, sti fiœu, i ha mandàa tutti a i so famigli. E l'era sto scimbiott, che fava raccolta de fiœu e fava diventà tutti in rôs.
[5] Nel XII canto dell'Adone, Venere, pregando il giovane di allontanarsi per iscansar l'ira di Marte, gli dona un anello potente contra ogni incanto.
Di più la gemma, ch'è legata in esso,
È d'un diamante prezioso e fino;
Quasi piccolo specchio, ivi commesso
Fu da Mercurio, artefice divino.
Qualor colà fia, che t'affisi, espresso
Il mio volto vedrai come vicino;
Saprai come mi porto o con cui sono,
Dove sto, ciò che fo, ciò che ragiono.
Non è picciol conforto al mal, che sente
De l'amata bellezza un cor lontano,
Avere almen l'immagine presente,
Ch'Amor scolpita in esso ha di sua mano.
Qui vo pregarti a rimirar sovente,
Che non vi mirerai, credimi, invano.
Qui meco ognor, ne' duri esìli tuoi,
E consigliare e consolar ti puoi.
Vedi la decima delle note apposte più su alla fiaba intitolata l'Uccellino, che parla.
[6] Pomarance è un paese di Toscana: Celio Malespini parla molto di un improvvisatore e cortigiano di quel luogo. Fu anche, se non erro, patria d'un pittore piuttosto celebre. Qui però, Re delle Pomarance dev'essere uno scambio pel solito Re di Portogallo.[340] Ne' dialetti meridionali, le melarance dolci si addimandano portogalli, le amare cetrangole, quindi si spiega agevolmente lo equivoco.
[7] Da questo punto in poi la nostra fiaba di Zelinda e il Mostro comincia ad aver somiglianza non più tanto con la favola di Psiche, anzi con un'altra tradizione popolare, della quale ecco una lezione milanese:
EL TREDESIN.[i]
Ona[ii] volta[iii] gh'era on pover—òmm. El gh'aveva trèdes[341] fiœu, e el saveva minga come fa per dagh de mangià. On dì, el ghe dis a sti fiœu:—«Andèm in campagna, in d'on quaj sit, a vedè, se podem trovà quajghedun[iv] de podè damm on poo de pan, on quajcoss[v] de podè mangià.»—«Reussissen a vess in d'ona campagna: là, gh'è on sit cont[vi] ona córt, e van denter. Gh'e là ona donna; e el Tredesìn el ghe[342] dis, se la gh'aveva de dagh quajcoss, ch'el gh'aveva tredes fiœu. E lee la ghe dis:—«Pover—òmm, adess, me rincress, poss dav nient, perchè bisogna, che ve sconda; perchè, se ven a cà el me marì, che l'è el mago[vii], l'è bon de mèttes adrée à mangià i voster fiœu. Donca, prima besogna, che ve metta in cantinna; e che daga de mangià a lu. E pœu dopo gh'el diròo, che[viii] ve faròo vegnì de sora e ghe daroo de mangià anca ai voster fiœu.»—Difatti, el mago, el ven a cà. El ven a cà e el dis:—«Truss trusc[ix], odor de cristianusc[x].»—«Tœu el mangià, perchè chi gh'è nissun de mangià.»—Quand l'ha avùu ben mangiàa, lée la ghe dis allora[xi]:—«Sì caro ti; hoo scondùu in cantinna on pover—òmm con trèdes fiœu. Te vedet, di fiœu ghe n'emm anca nun. Sicchè, te vedet, donca, besogna dagh de mangià a quij pover fiœu lì.»—S'ciao, je fa vegnì de sora, e ghe dan de mangià a sti fiœu. E lu, el dis:—«Ben, adess, metti a dormì tucc. E mettegh in còo, ai noster de nun, la barretta bianca; e ai só de lu, ona scuffia rossa.»—E s'ciao, vann à dormì. Lu, el Tredesein, el lassa indormentà tutt i fiœu; e pœu adasi adasi el va, el ghe tira via la scuffia di so fiœu[xii] e ghe l'ha missa in testa a i fiœu del mago; e quella, che gh'aveva i fiœu del mago, ghe l'ha missa in testa a i so de lu. E lu, el mago, la mattinna el se desseda, el leva sû, el va, el ciappa tutt quij della scuffia rossa e je mazza tucc e pœu via el va. E allora el Tredesin, che stava lì a guardà, che lu, el se l'è immaginàa, che ghe stava denter quajcoss, che lu (el mago) el voreva fa quel tradiment, el ciappa i sò fiœu, je fa vestì e pœu via el scappa. La mièe del mago, la va per fa levà su i sò fiœu, la je trœuva, ch'eren tutti mazzàa. Ven a cà el mago; la ghe dis:—«Cosse t'hé fàa, ti? t'hé mazzàa tutti i noster fiœu.»—Allora el mago el dis:—«Ah quel[343] baloss[xiii] de quel Tredesìn! l'ha capíi, che mi voreva mazzàgh i fiœu! e lu, l'ha scambiàa i scuffi e mi ho mazzáa i mè.»—S'ciao, el Tredesìn, el va, el saveva minga come podè fa per viv con tutti sti fiœu. Ven, che on servitor del Re l'ha sentùu sta robba, che era success de sto Tredesìn; e lu ghe le conta al Re, per vedè s'el podeva dagh quaijcossa a sto pover—òmm, ch'el podeva minga mantegnì i so fiœu. E lu, el Re, el dìs:—«Sent, digh inscì: se l'è bon de andà là del mago a robà quel pappagall, ch'el gh'ha lu, che mi ghe darò ona gran sòmma.»—E lu, el Tredesìn, el dis:—«Ma com'hoo de falla mì? Basta, provaròo d'andà là, quand el gh'è minga in càsa lu, che forsi con soa mièe poderoo robaghel.»—Difatti, el va; la gh'era, lee. L'era lì cont in man el pappagall per portaghel via, quand càpita el mago. El mago, el ghe dis:—«Ah, te set chì adess? Te ne m'hê fàa già vœunna; adess te see chì per famm quella di dò[xiv].»—El l'ha ligàa, e pœu el dis a la soa mièe:—«Guarda chì, adess andaròo a tœu l'acqua rasa, che vœuj dagh el fœugh. Ti intrettant ciappa sto bell legn chì, e la folc; e s'cèppa sto legn. Che inscì, quand vegni a cà, metti su quij legn lì e l'acqua rasa e el brusi.»—Lee, sta povera donna, la ghe dava per s'ceppà sto legn; ma la stentava a s'ceppall, perchè l'era tant dur. El Tredesìn, allora, el ghe dis:—«Povera donna, deslighem on moment e tel s'ceppi mì; e s'ciao! dopo, te tornet a ligamm, e inscì el tò marì el ven a ca e el trœuva bell'e s'ceppàa la legna.»—Lee, le disliga; e lu, appena desligàa, corr, va a tœu el pappagall e via el scappa. Ven a casa el mago per dagh el fœugh, el trœuva, che gh'è pu nè el Tredesìn, nè pappagall. Allora, el se mett a batt la mièe, perchè l'ha desligàa e l'ha lassàa andà via; e el fa ona barruffa del diavol. Intrattant, lu, el Tredesìn, el va a portagh[344] el sò pappagall al Re. El Re, el ghe dà on gran bell regal, che l'era content comè[xv]. El dis:—«Adess, te devet famen on alter. Mi desideri, che te vaghet là a robagh quella coverta, che lu el gh'ha in sul lett, che l'è tutta pienna de campanitt[xvi].»—«Cara lu, com'hoo de fà mì, a andà a tœu ona coverta, tutta pienna de campanitt?»—«E pur, te devet fa el possibel[xvii] de andalla a tœu.»—Tredesìn, el va. El va là intrettant, che soa mièe ( del Mago ) l'era de bass a fà i sò robb; e lu, el va de sora adasi adasi cont del bombas; e l'è stàa là a imbottì tutt sti campanitt per non fà, che sonassen; e pœu el s'è scondùu.[xviii] A la sîra, el mago, el va in lett; lu, el Tredesìn, el le lassa indormentà ben ben; e pœu el comincia a poch a poch a tirà in giò, a tirà in giò. Lu, el mago, el se desseda[xix]; el dis:—«Cosse l'è[xx] inscì, che sent la coverta a tirà giò?»—E lu, el Tredesìn, el fa:—«Gnau, gnau!»—el fa mostra de vess on gatt. El le lassa indormentà ben ben e pœu a poch a poch l'è reussì a tiraghela giò. E pœu via l'è andàa con la soa coverta. El mago, la mattinna, el cerca la coverta e la trœuva no, el la trœuva in nissun sit. Cerca e cerca, no gh'è vers de trovalla in nissun sit:—«Ah, quel balòss de quel Tredesìn, ch'el m'ha fàa quella di trè[xxi]. S'el[345] me po reussì a vegnì in man.... domà, che poda reussì a aveghel in di man, mi già el mazzi, perchè el me n'ha faa tropp.»—Lu, el Tredesìn, el va del Re. El Re, el ghe dis:—«Bravo, ma te see propi bravo, te ghe see reussì. Adess te do ona gran somma, che pœu ti te staree ben. Adess te devet famen on'altra: allora te set on sciòr[xxii]. T'hê de femen on'altra, e allore te devantet on sciòr. Te devet fà in manera, de consegnamm a mi el mago.»—«Com'hoo mai de fà? Ch'el mago adess, s'el me ciappa, el me mazza! Basta, faroo de tutt, per fagh anca questa.»—El pensa, el se vestiss[xxiii] tutt divers de quell del sò sòlit[xxiv], el mett ona barba finta e pœu el va là. El ghe dis a soa mièe—«Voj![xxv] gh'è minga in cà el voster marì?»—«Si, ch'el gh'è; adess vòo a ciamall subet.»—E el Tredesìn, el ghe dis:—«Mi sont vegnùu chì de lu, perchè gh'hoo bisogn on piasè[xxvi]. L'ha de savé, che mi hoo mazzàa vun, che ghe disen el Tredesìn, e hoo de fagh la cassa e gh'hòo minga de ass[xxvii] de faghela. Sont vegnùu de lu a vedè, s'el vœur mingà damm di ass.»—El mago, el dis:—«Bravo, t'hè fàa ben de mazzall: te doo subet i ass. Ven chì, ven chì! Te juttaròo[xxviii] anca mi a falla, la cassa, per mett denter quel birbòn. Va là!...»—El ghe da di ass; e lu, el s'è miss adree, el Tredesìn, a fà la cassa. E lu, el mago, l'è semper stàa lí a guardagh adoss. L'ha preparada in manera de vess pront a podella sarà[xxix]. Quand l'ha finida:—«Adess mo sont infesciàa[xxx], perchè sòo minga la grandezza, per vedè se l'andarà ben. Me par, ch'el sia grand compagn de lu[xxxi], el Tredesìn. Ch'el prœuva on poo[346] «Se la ghe va ben a lu, l'andarà ben anca al Tredesìn.»—«Ben, spetta, adess vòo denter subet. Guarda, guarda, se la va ben.»—Quand l'è stàa denter, el Tredesìn, el mett su el coverc[xxxii], e tich tach in d'on moment l'è stàa piccada giò[xxxiii] la cassa. Però, el gh'aveva faa di bus[xxxiv] in de la cassa per podè fiadà, perchè lu l'aveva de consegnall viv al Re. El gh'aveva visin di sò amis, per juttall a portà sta cassa. Lór hin[xxxv] stàa là pront; e hin andàa e l'han portada là a la cort del Re. Ghe[347] «a andà denter lu, che inscì vedaroo, perchè l'è grand come lu, l'han consegnada al Re: e el Re, l'è stàa tutt content a vedè, che l'è reussìi a consegnagh el mago bell e viv. El gh'ha daa ona gran somma, che l'è stada assèe de fà el scior per tutt el temp de la soa vita.»
[i] Tredesin, qual soprannome nel senso di padre di tredici figliuoli, manca nel Cherubini (o decimoterzogenito, come nelle migliori lezioni di questa fiaba); dove è solo registrato nel senso del tredici di marzo:—«Credesi, che in questo dì si piantasse in Milano la fede cristiana e vi s'inalberasse la croce per la prima volta. Nel secolo scorso, celebravasi la festa relativa nella Chiesa di San Dionigi, scomparsa sul finire del secolo stesso, e a tale festa concorreva tutta Milano a foggia di corso. Oggidì si festeggia per lo stesso oggetto nella Chiesa del Paradiso a Porta Vigentina. Corre opinione, che la pioggia, la neve, il vento e il sole abbiano ogni anno alternativo dominio su questa giornata, e per verità l'opinione è avvalorata dal fatto quasi sempre. Il Balestrieri (Rime III, 29 e segg.) ha una poesia sul Tredesìn.»—Cf. Basile, Pentamerone, III, 7. Corvetto.—«Corvetto, pe' le bertolose qualetate ssoje 'mmediato da li cortesciane de lo Re, è mannato a deverze pericole; e, 'sciutone co' grann'onore, pe' maggiore crepantiglia de li nemmice ssuoje, l'è data la 'Nfanta pe' mogliera.»—Gonzenbach (Op. cit.) LXXXIII. Die Geschichte von Caruseddu. XXX. Die Geschichte von Ciccu. Pitrè (Op. cit.) XXXIII. Tridicinu (Borgetto) XXXV. Lu cuntu di 'na Riggina ( Salaparuta ). Il Liebrecht annota:—«Gehört zu Grimm KM N.º CXXVI Ferenand getrü und Ferenand ungetrü. Vergleiche Gött. Gelehrt. Ans. MDCCCLXXI. Seite 1517 zu Die Waise. Ueber den Zug mit den vertauschten Muetzen, sieh Reinhold Köhler zu Gonzenbach Sicilianische Märchen II, 255 (zu N.º 83). Füge hinzu Bechstein, Deutsche Märchen, Der Kleine Däumling (Seite 134, siebente Auflage.) Arnason, Islonskar Thiodsögur, etc. II, 443 Sagan af Thorsteini. Hahn, Neugriech. Märchen N.º 3 Var. 1—3 (II. 178 ff.) Der Zug ist schon alt und findet sich bereits bei Hygin. (fab. IV). Athamas, in Thessalia Rex, cum Inonem uxorem, ex qua duos filios susceperat, perisse putaret, duxit Nymphæ filiam Themistonem uxorem: ex ea geminos filios procreavit. Postea rescuit Inonem in Parnaso esse atque bacchationis caussa eo pervenisse. Misit qui eam adducerent; quam adductam celavit. Resciit Themisto eam inventam esse; sed, quæ esset, nesciebat. Cœpit velle filios ejus necare. Rei consciam, quam captivam esse credebat, ipsam Inonem sumpsit; et ei dixit, ut filios suos candidis vestimentis operiret, Inonis filios nigris. Ino suis candidis, Themistonis pullis operuit. Tunc Themisto decepta, suos filios occidit. Id ubi resciitt, ipsa se necavit.»—
[ii] On, masch., ona, femm. sono articoli. Vun od un, masch. vunna e veunna, femm. sono numerali.
[iii] Volta ed anche voulta, che comincia a schifarsi da' ben parlanti. Il dialetto milanese è andato e va continuamente ringentilendosi; e certo non è più vero a' giorni nostri ciò, che diceva il Bandello da Castelnuovo Scrivia, quando (parte I. novella IX) dopo aver lodato la bellezza ed i costumi delle milanesi, e' soggiunge: —«Et a me (per dirne ciò, ch'io ne sento) pare, che niente manchi loro a farle del tutto compite, se non che la natura le ha negato uno idioma conveniente a la beltà, a i costumi et a le gentilezze loro. Chè in effetto il parlar milanese ha una certa pronuncia, che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende. Tuttavia elle non mancano con l'industria al naturale difetto supplire, per ciò che poche ce ne sono, che non si sforzino con la lezione dei buoni libri volgari e con il praticare con buoni parlatori farsi dotte; e, limando la lingua, apparare uno accomodato e conveniente linguaggio, il quale molto più amabili le rende a chi pratica con loro.»—Non mancano negli scrittori d'altre parti d'Italia frizzi innumerevoli contro i dialetti lombardi. Mi limiterò a trascrivere quel, che un seicentista, vescovo di Bisceglie, ha scritto in vernacolo napoletano:—«'Na vota, cammenanno 'no cierto Felosefo de Posilleco pe' la Lombardia, pecchè parlava napulitano chiantuto e majateco, tutte sse ne redevano. Isso po', pe' farele toccà' la coda co' li mano, decette ad uno, ca faceva lo protonquanqua:—Vedimmo 'no poco, de 'razia, si songo meglio li parole voste o li noste. Nuje decimmo Capo; e buje, comme decite?==Nuje decimmo Co,—respose l'auto. Ed isso:—Nuje decimmo Casa; e buje?==Cà,—responnette l'auto.—Nuje decimmo Io; e buje?==Mi,—'llebrecaje lo lommardo. Ora lo Felosofo decette accossì: Dì alla 'mpressa le parole mmeje a lengua toja: Io, Casa, Capo.—E lo lommardo subbeto:—Mi, Ca, Co.==E si te cacò,—decette lo Napulitano,—te lo' meretaste, pocca sse dice a lo pajese, ca non è mmio: lengua, ca no' la 'ntienne, e tu la caca. Ora vide chi parla a lo sproposeto nuje o buje? E, pe' dicere lo vero, no' pareno pataccune chelle belle parole accussì grosse e chiatte, ca non ce ne manca 'na lettera? Non saje chello, ca se conta, de 'no poverommo de li nuoste, lo quale, partuto da Napole, addove lo PANE sse chiamma pane, arrevaje a 'n auto pajése e trovaje, ca se diceva Pan; passaje cchiù 'nnanze e sse chiammava pa; tanno decette a lo compagno: tornammoncenne, ca se cchiù 'nnanze iammo, non trovarrimmo cchiù pane e nce morarrimmo de famme.»—
[iv] Quajghedùn, quejghedùn o quaidun.
[v] Nel Cherubini c'è solo quaicòssa. Ma io sono ben certo di avere udito non una volta, nè da una novellatrice, quaicòss, con l'articolo maschile on. De podè mangià; il podè è superfluo, pleonastico; ma così suole accader parlando, che uno ripeta gli ausiliarî e li reduplichi.
[vi] Il t di cont è eufonico, e si mette solo quando la parola seguente comincia per vocale.
[vii] Mago, Orco: manca nel Cherubini.
[viii] Questo che è un mero sproposito della Novellaja, è puramente riempitivo e pleonastico.
[ix] Truss Trusc, mucci mucci; manca nel Cherubini.
[x] Cristianusc, per cristianucci, forse, e senza forse, non esiste se non in questa sola frase.
[xi] La costruzione più comune sarebbe: Lee allora la ghe dis.
[xii] Più correttamente si direbbe: el tira via la scuffia di so fiœu; o meglio: el ghe tira via le scuffi ai so fiœu. Così pure in vece di ghe l'ha missa, sarebbe più grammaticale ghe le mett; e, più giù, in vece di se l'è imnmaginaa, dovrebbe dirsi se l'era immaginaa, l'imperfetto invece del presente.
[xiii] Balòss, barone, furfante, paltoniere. Così chiamansi per antonomasia nel basso Milanese que' vagabondi, che si presentano sul far della notte alle cascine, chiedendo alloggio e vitto, certi d'ottenerlo; pel timore, che incutono facilmente a' cascinai, abitanti in luoghi pericolosi, perchè isolati. In tutta Italia e specialmente nel mezzogiorno, chi s'è dato in campagna, trova sempre ricovero e vitto nelle masserie isolate, i cui proprietarî ed abitatori troppo avrebber da temere della loro vendetta, se osassero dare un rifiuto; e quindi son costretti ad essere manutengoli involontarî.
[xiv] Dò, due, femminile; al maschile si dice duu. Quella di dò, quella di trèdes e modi simili, la seconda, la decimaterza, eccetera. Fághela de dò, ficcarla di boléa, fare una burla di pepe ad alcuno.
[xv] Comè; molto, assai, quanto mai. L'è grand comè, è grande assai. Vuol pur dire come, siccome.
[xvi] Campanitt, campanelli. In questo senso proprio non è nel Cherubini, ansi solo come nome di fiori, bucaneve; come nome d'istrumento musicale, padiglione chinese; e come appellativo di que' ferri posti nelle macine, acciò quando non è più grano fra quelle, risonando su di esse, diano avviso al mugnaio di rifornirle di grano.
[xvii] Il Cherubini nota possibel come voce contadinesca.
[xviii] Avendo detto el va de sora, sarebbe più grammaticalmente corretto, se la novellaja avesse proseguito: el va de sora adasi adasi, cont del bombas l'imbotiss su pian pianin tutt i campanitt per non fa, che sonen, e pœu el se scond.
[xix] Dessedà, svegliare, excitare; 'scetà 'de' Napoletani.
[xx] Còsse si dice spesso familiarmente invece di cossa. Cosse fet tì? che musi tu? Còsse l'è? Cos'è? che c'è? chèd è? Coss è? solo, vale: cosa? che? Còsse, vale anche: quanto.
[xxi] Trii, masch. tre, femm.—«Al maschile s'usa tre solo nel modo aritmetico La regola del tre; ed è cosa curiosissima, che in questo solo noi abbandoniamo quel nostro trii maschile, che i tedeschi ci vengono a chiedere per questo solo caso, onde poter nominare la loro Regel de tri;»—Così il Cherubini; al quale mi permetterei d'osservare, che onde in italiano non può regger l'infinito nel senso di per.—Quella di tre, la terza.
[xxii] Sciòr, signore. Sont un sciòr, significa pure: sono a cavallo.
[xxiii] Se vestìss, si veste.
[xxiv] Sòlit o sòlet. Quell del sò solit, il solito suo.
[xxv] Vòj, Olà, ehi, A te, A te dico. Vòj oh! Ehi, ehi! Vòj ti, a te!
[xxvi] Piasè; e piacèri solo nella frase avegh tant per i sò minuti piacèri.
[xxvii] Assa, sing. un'asse; ass, plur. le assi; ass, sing. asso.
[xxviii] Juttà, ajutare, aitare.
[xxix] Sarà, serrare, chiudere; rammarginare, cicatrizzare, saldare; (de' cavalli) pareggiare il dente; salare.
[xxx] Infesciâ. Impicciare, imbrogliare, imbarazzare; (gh'è pœu on'altra robba, che m'infescia: qui poi è un'altra cosa che mi rompe); disajutare, esser di disajuto; inzafardare, imbrattare.
[xxxi] Grand compagn de lu, grande quanto Lei, della sua taglia. Lorenzo Da Ponte, nelle sue Memorie, parla de' biasimi di malevoli al suo Burbero di buon cuore:—«Casti si trovò imbarazzato e non osò dir male apertamente d'una opera, che tutti lodavano. Prese una via di mezzo: lodò, ma v'aggiunse tanti ma, che la lode stessa finiva in biasimo. Ma in fondo, diceva egli, non è che una traduzione: bisogna vedere come andrà la faccenda in un'opera originale. Ma è peccato, ch'egli negliga tanto la lingua: taglia, per esempio, non vuol dire statura; nella quale significazione io aveva adoperata quella parola. Mi trovai accidentalmente dietro alle sue spalle, quand'egli, in tuon derisorio, e più col naso che con la strozza disugolata, gorgogliava questo verso a un cantante: La taglia è come questa. Passai allora dalle sue spalle al suo petto, e in suono anch'io di strozza disugolata e nasale, gli ripetei questo verso del Berni: Gigante non fu mai di maggior taglia. Guardommi, arrossì, ma ebbe la onestà di dire: per dio, ha ragione.—Signor Abate, gli dissi io allora, chi non può criticar in un dramma che qualche parola, ne fa un grandissimo elogio. Io non ho mai criticato i gallicismi del Teodoro. Non gli diedi tempo di rispondermi e me ne andai. Quel cantante rise; ed il signor Abate rimase mutolo per più di dieci minuti. Così mi disse poi quel cantante, Stefano Mandini.»—Il verso del Bernia (citato del resto inesattamente dal Da Ponte), si trova nella IV stanza del XXXIX canto dell'Orlando Innamorato
Fra quelle due castella il fiume corre:
L'arco del ponte sopra lui voltava.
E d'ogni lato aveva un'alta torre:
Nel mezzo d'essa Balisarda stava.
Alla persona sua non puossi apporre,
E meno al guarnimento, che l'armava.
Gigante non fu mai di miglior taglia,
Di piastre tutto coperto e di maglia.
[xxxii] Coverc, coperchio. El diavol el fa i caldar, ma minga i coverc. Parlando di pentole, caldai, ecc. il milanese chiama test il coperchio di ferro, coverc quello di rame o di terra cotta, spazzœu, quello di legno.
[xxxiii] Piccà giò, ficcar giù, spiega il Cherubini; è chiaro, che qui vale inchiodare.
[xxxiv] Bùs, buso, bugio, buco, pertugio. Fà di bùs, sforacchiare; fà bùs, far colpo.
[xxxv] Hin, sono. Mi sont, ti te set, lu l'è, nun sem, vu sìe, lor hin. (Vedi la postilla a pag. 110).
[8] Sarebbe stato più proprio il dire dello starnazzare e dello scalpitare; ma qui le membra vengono adoperate invece de' romori, che si formano con esse.
[9] Cf. con la fiaba I di questa raccolta, intitolata l'Orco. Anche lì l'anima dell'Orco protagonista è in un guscio d'uovo, che la beneficata da lui si fa mostrare con lusinghe e schiaccia con astuzia. Appo la Gonzenbach, nella fiaba Vom Joseph, der auszog sein Glück zu suchen, bisogna ammazzare un drago setticipite; spaccargli la settima testa, dalla quale vola via un corvo; pigliar questo prontamente, ucciderlo, e cavarne l'uovo, che ha in corpo, e colpire con quest'uovo il gigante giusto in mezzo la fronte: allora il gigante muore. Vedi anche in un altra fiaba appo la stessa raccoglitrice (Die Geschichte von dem Kaufmannssohne Peppino) un tratto analogo. In un conto pomiglianese (Viola) l'Orco dice:—«Pe' mm'accirere a mme, ss'ha da ì' a tale e a tale parte. Llà nce stà 'nu puorcospino. Chillo, quanno stà cu' l'uocchie apierte, dorme; e quanno sta cu' l'uocchie 'nghiuse, sta 'scetate. E quanno rorme ss'accire; sse piglia chill'uovo che tene 'nguorpo, mme sse sbatte 'nfronte, e i' moro.»—Di questi incantesimi riposti in un uovo, mi piace accennar qui ancora quello, che si legge nella Leggenda di Virgilio Mago. (Vedi: Antiche Leggende e Tradizioni, che illustrano la Divina Commedia, precedute da alcune osservazioni di P. Villari. Pisa, tipografia Nistri, 1865):—«Era nel tempo de Vergilio preditto, edificato uno castello dintro mari, sopra uno scoglio propinquo a la cità de Napoli, lo quale oge appare et ei chiamato castello marino o vero de mari. In de la opera del quale castello, Virgilio delettandosi, con soi arti consacrao uno ovo, lo primo che fece una gallina, lo quale ovo pose dintro una carrafa, per lo più stretto forame de la carrafa preditta, la quale carrafa la pose dintro a una cabia, dintro a una piccola camera, sotto lo preditto castello alogare fece. La quale camera secreta e ben rechiusa, con gran sollicitudine et diligencia[348] guardata fo, et da quello lo ditto castello pigliò lo nomo: imperciò che al presente èi chiamato castello dell'Ovo, che primo chiamato era castello de mari, como è ditto de sopra. E li antiqui Napolitani teneano claramente, che da lo preditto pendeano li fati et la fortuna de lo ditto castello, e che durare dovea tanto, quanto l'ovo se conserva sano et salvo et cusì ben guardato.»—
IL FIGLIOLO DEL PECORAIO.[1]
C'era una volta un omo e una donna, che facevano i pastori in montagna ed avevano un ragazzotto di diciassette anni per figliolo. Ma non gli volevano punto bene. Sicchè, per levarselo d'attorno, lo mandavano sempre al bosco con un tozzaccio di pan nero a badare alle pecore. Un giorno, un agnello del branco cascò in un botro e si sfragellò tutto e morì. Non c'è da dire quanto que' cattivi genitori strapazzassero il povero ragazzo. Ed anzi, picchiatolo a quel dio, abbenchè fosse già notte, lo scacciarono fuori di casa, minacciando ammazzarlo se più ci tornasse. Il meschino, piangendo, vagolò un pezzo ne' contorni senza sapere dove andare, fino a che, rifinito e affamato, giunse ad un fosso vôto; e, raggriccito dal freddo, lì si potè alla peggio accoccolare, dopo essersi accomodato un po' di lettuccio con foglie secche. Ma non gli riuscì dormire, sia dalla paura di trovarsi solo al bujo, sia perchè ripensava a' casi suoi e incerto del poi. Era da poco il ragazzotto dentro al sasso, quando capitò un omo, che gli disse:—«Ohè! tu hai preso il mio letto, temerario. Che ci fai costì?»—Tutto impaurito, il ragazzotto si messe a raccontargli le sue disgrazie. E lo pregò, che non lo scacciasse, ma s'accontentasse per quella notte di fare a mezzo del ricovero, che a bruzzolo anderebbe via, dove la sorte lo menasse. L'omo acconsentì di bona voglia ed anzi fu molto contento nel trovare il vôto del sasso[350] pieno di foglie secche; chè lui non ci aveva mai pensato a farsi con esse un letticciuolo meno duro e più caldo. Il ragazzotto si rannicchiò da una parte quanto più potè, e stette quieto e finse di dormire, perchè era in non piccolo sospetto del compagno. L'omo intanto borbottava fra sè e sè, credendo non essere inteso; e diceva:—«Che cosa regalerò a questo ragazzotto, che m'ha empiuto di foglie secche il mio ricovero, e si tiene così da parte per non darmi fastidio, sicchè pare, che non ci sia?»—Il ragazzotto sentiva bene il ragionamento, ma figurava di essere appioppato. Venuta la mattina disse l'omo:—«Ha' tu dormito, ragazzo?»—E lui:—«Altro! meglio che nel mi' letto. Ma è giorno: devo andar via e girandolare per il mondo, perchè a casa non mi ci vogliono più, e, se ci torno, il babbo e la mamma m'han detto, che m'ammazzano. Scusate l'incomodo. Addio.»—E s'avviava piangendo.—«Aspetta un po', ragazzo;»—gli disse quell'omo:—«Stanotte sono stato contento di te, e ti voglio regalare certe bricciche, che ti possono essere di gran comodo per il mondo. Ecco. Questo è un tovagliolino di filo; ogni volta, che lo spiegherai, se tu gli ordini da desinare, ti darà da mangiare per te e per quanti siete a tavola[2]. Questa è una scatolina; ogni volta, che tu l'apra, ti darà una moneta di oro[3]. Questo è un organino; se tu ti metti a sonarlo, balleranno, sinchè tu voi, tutti quelli, che lo sentiranno. Ora va' e non ti scordare di me.»—Il ragazzotto, un po' incredulo, accettò i regali e se n'andò pe' fatti suoi. Cammina, cammina, il ragazzotto giunse ad una città piena di popolo, dove si preparavano grandi feste e giostre. Il Re aveva bandito, che chiunque fosse tanto ricco da mettere in deposito una grossa somma di quattrini, lo avrebbe lasciato giocare la sua propria figliola, con promessa di darla in moglie, assieme[351] al tesoro ammucchiato, al vincitore. Questo saputo, il ragazzotto disse fra sè:—«Ecco il momento di far prova della scatolina. Anche io vo' mettermi in fila, se la scatolina mi dà i quattrini.»—Detto fatto, comincia ad aprirla e chiuderla; e ogni volta c'era dentro una bella moneta di oro lampante. In poco tempo ebbe una bella somma, e si comprò de' cavalli e delle[4] armi, prese de' servitori, e si vestì come un principe. E, andato dal Re, gli dette in deposito una gran somma di quattrini, facendosi credere figliolo del Re di Portogallo, e volse essere accettato per giocatore della sua figliola. In somma, fu assistito dalla fortuna; e, guadagnata la partita, il Re lo dichiarò fidanzato della Principessa. Ma il ragazzotto pastore, non essendo stato allevato che fra le pecore, commetteva tante malcreanze, che diede molto sospetto del suo parentato. Segretamente, dunque, il Re spedì persone fidate e furbe pel Regno e per i paesi vicini a ricercare notizie; se il promesso della Principessa era o nò figliolo del Re di Portogallo. Le diligenze fatte portarono a scoprire la verità: per cui il Re, stizzito dalla rabbia e dalla vergogna, ordinò, che subito si arrestasse il traditore e si ponesse nella prigione sotterranea, che rimaneva sotto la sala del convito. Il ragazzotto si trovò a un tratto in prigione, quando s'era creduto diventare Re. Lì vi eran pur altri diciannove carcerati, che, vedendolo entrare, gli dettero il ben venuto con grande allegria. E lui a raccontargli quel, che gli era intravenuto; e chi n'aveva compassione e chi lo sbeffeggiava. Dopo poco, eccoti il carceriere a portare da mangiare: pan nero, e a mandarlo giù, de' secchi d'acqua pura. Disse, allora che il carceriere ebbe riserrato l'uscio co' catenacci, il ragazzotto:—«Buttate via codesta roba: ce l'ho io un bel desinare per tutti.»—E i compagni:—«Che buffone! o che sie' matto? Come vo' tu fare[352] a darci tavola imbandita?»—«Ora vedrete,»—rispose il ragazzotto. E, spiegacciato il tovagliolino di filo, disse forte:—«Su, tovagliolo, apparecchia per venti.»—Detto fatto, apparì un bel desinare per venti, chè non ci mancava proprio nulla, neppure del meglio vino. I carcerati buttarono via il pan nero e l'acqua, e papparono al tovagliolino a crepa—pelle. Il carceriere intanto, tutti i giorni, vedendo il pan nero e l'acqua per le terre, e nonostante vegeti e vispoli i carcerati, non sapeva che lunarî farci su; e, andato dal Re, gli raccontò quel, che accadeva. Il Re, incuriosito, volle assicurarsi della cosa cogli occhi suoi e interrogare da sè i carcerati; e, sceso giù nella prigione, disse:—«Com'è, che sbeffate il solito desinare e pur campate e bene? Via, non dite bugie, che vi perdono di già, se mi schiarite del vero.»—E il ragazzotto, fattosi innanzi, gli rispose:—«Maestà, sono io, che dò a tutti i miei compagni da mangiare e da bere, meglio che alla vostra tavola. Anzi, se volete accettare, v'invito oggi anche voi; e v'assicuro, che resterete contento.»—«Accetto,»—disse il Re:—«Vo' vedere come tu sa' fare e come mi tratti.»—Il ragazzotto subito spiegacciò il tovagliolino di filo e comandò forte:—«Su tovagliolo, apparecchia per ventuno e da Re.» Il tovagliolo obbedì; con grande meraviglia del Re, che desinò meglio che alla propria tavola. Finito di mangiare, il Re disse al ragazzo:—«Mi vendi il tovagliolo?»—«Perchè no, Maestà?»—gli rispose il ragazzo.—«Ma a patto, che mi lasciate dormire una notte colla vostra figliola, mia fidanzata.»—Il Re pensò un poco; e poi disse:—«Sì, te l'accordo. Ma a patto, che tu starai sulla sponda del letto, a finestre aperte; e in camera ci saranno otto guardie e un lampione acceso.»—«Vada per quel, che volete, Maestà,»—riprese il ragazzotto—«e il tovagliolo[353] è vostro.»—Il ragazzotto dormì una notte colla figliola del Re, a quel modo, senza potersi mòvere e toccarla. E, il giorno dopo, il Re lo fece rimettere in prigione. Quando i carcerati veddero rientrare in prigione il ragazzotto, si posero a canzonarlo e bociavano:—«Che citrullo! guarda il minchione! Bisognerà bene mangiare adesso pan nero e bere acqua di pozzo. Che patto grasso tu facesti col Re!»—Disse il ragazzotto:—«Se non si mangiasse anche co' quattrini!»—E i carcerati:—«O dove gli hai i quattrini da scialare?»—«Lasciatevi servire,»—replicò il ragazzotto. E, tirata fori di tasca la scatolina, si messe ad aprirla e serrarla, sicchè in un momento ammonticchiò di molte monete d'oro. Con queste apparecchiò tutti i giorni un desinare ai carcerati; sicchè di novo tutto maravigliato il carceriere corse dal Re, a raccontargli l'avvenuto. Il Re subito sceso nella prigione, quando seppe ogni cosa, disse al ragazzotto.—«Vo' tu vendermela la scatolina?»—«Perchè nò, Maestà? Magari!»—gli rispose il ragazzotto.—«Ma col medesimo patto di prima.»—«E io te l'accordo,»—disse il Re,—«co' medesimi patti di prima.»—Stretto il contratto, il ragazzotto dormì un'altra volta colla figliola del Re; ma non la potè toccare, meno che colla punta di un dito. Il giorno dopo, il Re lo fece rimettere in prigione. I carcerati, vedendo di novo il ragazzotto, più che mai lo canzonarono; e bociavano:—«Ora poi la cuccagna è finita. Bisognerà bene adattarsi al pan nero e all'acqua di pozzo.»—«Pazienza!»—riprese il ragazzotto.—«Ma non mancherà l'allegria. Se non si desina da signori, si ballerà da matti.»—«Come, come?»—gridarono i carcerati. Disse il ragazzotto:—«Aspettate, che il Re sia quì sopra al convito, e vedrete.»—Di lì a un momento sonò la campana del pranzo reale; e i convitati, andati in sala col Re e la[354] sua corte, si sedettero a mensa: quando il ragazzotto, tirato fuori l'organino, disse:—«Organino, comando, che tutti ballino alla mensa del Re;»—e si diè a sonare di gran forza. Come presi dalla mattìa, tutti cominciarono a ballare a furore nella sala del convito: uomini, donne, mobili; le stoviglie si sfrantumarono; le pietanze andarono per le terre; chi picchiava la testa ne' muri o nel soffitto da' gran sbalzi, che era obbligato a fare; il Re urlava a gola squarciata, non sapendo in che mondo si fosse. Avendo il ragazzotto smesso un po' di sonare, il Re, tutto trafelato, scese nella prigione; e domandò, chi fosse la cagione di quello scompiglio.—«Son'io,»—disse il ragazzotto,—«con questo organino!»—e giù a sonare da capo. E il Re salta di quà, salta di là, che pareva un razzo matto.—«Smetti, smetti!»—berciava il Re—«mi rovini!»—Quando il ragazzotto ebbe smesso, disse il Re:—«Vo' tu venderlo, cotesto organino indemoniato?»—«Perchè nò, Maestà?»—rispose il ragazzotto:—«ma a che patti?»—«A' patti di prima,»—riprese il Re. E il ragazzotto:—«Marameo! O novi patti o ricomincio a sonare; e sono, finchè non siate tutti morti sfiaccolati.»—Il Re, impaurito, disse:—«Fagli te i patti!»—«Ecco,»—il ragazzo rispose:—«Voglio, che mi s'accordi di sentire le brame della vostra figliola, quando sono nel su' letto; e che lei sia obbligata a rispondere. Io starò a quel, che lei vole.»—Il Re pensò un poco e poi disse:—«Te l'accordo. Ma in camera ci saranno doppie guardie e due lampioni accesi.»—A pena uscito di lì, il Re fece chiamare in segreto la figliola, e gli disse:—«Ti comando, che, questa notte, quando tu sarai al letto collo sposo, tu risponda sempre di no alle sue richieste.»—La figliola, inchinandosi, replicò:—«Padre, sarete obbedito.»—Venuta la sera, il ragazzotto se n'andiede[355] a letto colla figliola del Re; e, dopo un po' che erano sdraiati, disse lui alla Principessa:—«Col fresco, che fa, vi par bene, sposa mia, che le finestre stiano aperte?»—Rispose la Principessa:—«No.»—«Dunque, guardie,»—gridò il ragazzotto,—«per comando della Principessa, serrate le finestre.»—E le finestre furono serrate. Poi disse il ragazzotto:—«Vi par bene, sposa mia, che stiamo al letto con tutte queste guardie d'attorno?»—E la Principessa:—«No.»—E il ragazzotto:—«Dunque, guardie, per comando della Principessa, andate via, subito.»—E le guardie se s'andarono. Poi disse il ragazzotto:—«Vi par bene, sposa mia, che si dorma con questi lampioni accesi?»—E la Principessa:—«No.»—E il ragazzotto, alzatosi, in un attimo spense tutti e due i lampioni; e restarono al buio. Rientrato a letto nel suo cantuccio, lasciato passare un po' di tempo, disse il ragazzotto:—«Siamo sposi e pur si sta tanto discosti fra noi! Vi par bene, sposa mia, che si resti la notte così lontani?»—E la Principessa:—«No.»—Allora diviato il ragazzotto si fece vicino alla Principessa, la baciò e l'abbracciò[5]. Quando venne il giorno, e il Re seppe tutto l'accaduto, s'adirò fortemente; e, chiamata la figliola, gli disse di molte male parole per la sua disobbedienza; e voleva, che si tagliasse la testa al ragazzotto. Ma la Principessa gli protestò d'averlo obbedito appuntino e gli raccontò come fossero andate le cose; poi soggiunse:—«Caro padre, questo è ormai il mio sposo; e quel, che è fatto, è fatto. Perdonateci, che ci vogliamo un gran bene.»—Il Re, visto che non c'era più rimedio, cambiò idea; e volle, che lo sposalizio della figliola col ragazzotto pastore si facesse con ogni solennità di feste e di giostre. E i due sposi camparono felici lungamente. E, alla morte del Re, il ragazzo pastore ereditò il Regno.[6]
NOTE
[1] Raccolta da l'avv. prof. Gherardo Nerucci, che l'ebbe dalla bocca dell'Elena Becherini del Montale pistojese. Il Liebrecht annota.—«Zu Grimm (K. M. N.º 36) Tischchen deckdich u. s. w.»—ecc. I riscontri a questa Novella possono dividersi in tre serie diverse. Nella prima serie, il possessore di oggetti incantati li perde per l'astuzia d'una donna e poi li riacquista mediante frutta, delle quali una specie produce un difetto corporale, che vien guarito dall'altra. Nella seconda serie, manca questa ultima parte; ed il possessore riacquista gli oggetti, od impedendo la principessa di frodarlo al giuoco o facendosene amare. Nella terza serie finalmente, due oggetti incantati vengono frodati per sostituzione dagli ospiti e riacquistati mediante il terzo, che suol essere un bastone, che batte comandato senza remissione. Alla prima serie di riscontri appartengono:—I. Gesta Romanorum, il capitolo CXX (dove i fichi fanno diventar lebbroso).—II. La vurza, lu firriolu e lu cornu 'nfatatu (Pitrè. Op. cit) Tre fratelli trovano sotto tre mattoni della soglia della casa paterna, che il padre s'era riserbati nel venderla, una borsa denenaripara, un ferrajuolo invisibilifico ed un corno, che suscita eserciti. Il maggiore si fa rubare tutt'e tre le cose da una Reginotta; cui poi vende de' fichi, che fan venir le corna; e da cui se le fa restituire, per guarirla.—III. Von dem Schäfer, der die Kœnigstochter zum Lachen brachte (Gonzenbach. Op. cit.) Un pastorello trova sul margine d'una fontana uno anello, che fa sternutire senza fine, chi l'ha alla destra. Delibera servirsene, per ottenere la Reginotta, promessa in isposa a chi la farà ridere. Pernottando sur un albero, sente un colloquio di ladri; e poi ruba loro un tovagliuolo, una borsa ed un fischietto incantato. Ponendo lo anello sternutatorio al dito del Re, fa ridere la Principessa. Ma il Re, sdegnato, il manda in carcere; dove poi, mantenendo egli allegri i compagni di sventura co' tre oggetti incantati, questi gli vengon fatti rapire dal Re. Evade. Scopre una ficaja con fichi bianchi e neri; i primi fanno passar le corna prodotte da' secondi. Così riacquista le sue quattro coserelle ed ottiene la Reginotta in moglie.—Alla seconda serie di riscontri, appartengono:—I. La novella presente.—II. Petru lu Massariotu (Pitrè. Op. cit.)—Alla terza serie di riscontri[357] finalmente spetta:—I. Lo Cunto dell'Uerco, trattenimento I. della I. giornata del Pentamerone:—«Antuono de Marigliano, ped essere l'arcefanfaro de li catammare, cacciato da la mamma, sse mese a li servizie de 'n Uerco. Da lo quale, volenno vedere la casa soja, è regalato cchiù bote; e sempre sse fa corrivare da 'no tavernaro. All'utemo le da 'na mazza, la quale castiga la 'gnoranzia soja, fa pagare la penitenzia all'Oste de la furberia e arrecchisce la casa soja.»—II. Pitrè (Op. cit.) Lu scarpareddu mortu de fami.—III. Pitrè (ibid) La Munachedda.—IV. Gonzenbach (Op. cit.) Zaubergerte, Goldesel, Knueppelchen schlagt zu.—V. Bernoni (Op. cit.) Ari Ari, caga danari.—VI. De Gubernatis, (Novelline di Santo Stefano di Calcinaja, XXI.) Bastoncrocchia.
[2] Similmente ha favoleggiato il Marino nell'Adone (Canto XIII, 228—229.) Mercurio parla in siffatta guisa al figliuol di Mirra:
Poi che una noce d'or colta ne avrai,
Fa che appo te, ne' tuoi viaggi incerti,
La rechi ognor, senza lasciarla mai;
Perchè valloni sterili e deserti
Passar convienti, inabitati assai,
Là dove stanco di sì lunghi errori
Penuria avrai di cibi e di licori.
Il guscio aprendo allor de l'aurea noce,
Vedrai nuovo miracolo inudito.
Vedrai repente comparir veloce
Sovra mensa real lauto convito;
Da ministri incorporei e senza voce,
Senza saper da cui, sarai servito.
Nè mancherà d'intorno in copia grande
Apparato di vini e di vivande.
Difatti, (Canto XIV, 8.) Adone
...Perchè da la fame è spinto a forza
E da la sete a desiar ristoro,
Tosto de l'aurea noce apre la scorza,
E credenza gli appar d'alto lavoro;
E la sete e la fame in un gli ammorza
Vasellamento di cristallo e d'oro,
Pien di quanto la terra e 'l mar dispensa;
E non ha servi et è servito a mensa.
[3] Nell'Adone del Cavalier Marino (Canto XII, stanze CCLXX—CCLXXII), l'Idonea promette in nome della Falsirena al protagonista il dono di una moneta,
Che, sempre, a chi la spende, indietro riede.
Se la spendessi mille volte il giorno,
Mille volte in tua man farà ritorno.
Una sua borsa ancor vo', ch'abbi appresso,
La cui virtù meravigliosa è molto:
Dentro vi cresce ognor ciò, che v'è messo,
E rende al doppio più, che non n'è tolto.
Vedrai, se l'apri, tosto, da sè stesso
Moltiplicarsi quel, che v'è raccolto:
Se poi vota la lassi e d'oro scarca,
Ve ne ritrovi almen sempre una marca.
La lucertola avrai da le due code,
Perchè, giocando, a guadagnar ti serva, ecc.—
Fra le Novelle Morali del Chierico Regolare Somasco Francesco Soave ce n'è una, intitolata Alimék o la Felicità, Novella Araba, il cui protagonista possiede una borsa, ch'è piena d'oro, qualora egli vuole.]
[4] De' cavalli e delle armi. Sarebbe più italiano: armi e cavalli.
[5] Racconta Tommaso Costo, nella prima delle Otto giornate del Fuggilozio:—«Un certo messer Nazario, milanese, avendo ire a Genova per un suo negozio, non sapeva come farsi, a lasciar la moglie sola e sicura: e perchè essendo giovane e bella, come geloso dell'onore, ne stava grandemente in sospetto; e massime ch'ella era un poco leggeretta. Alla fine, essendo pur costretto a partirsi, le lasciò quest'ordine, che a qualunque persona la richiedesse di qualche servizio, dovesse dir di no. Ciò intendendo un suo vicino, uomo in far delle truffe diligentissimo, andatosene dalla buona donnicciuola, sì le disse: Madonna Pierina, (così aveva nome) se io vi facessi quel servigio (e glielo dichiarò) ve l'avreste voi a male?—No, rispose la galante femmina, ricordandosi dell'ordine del marito. E così furono d'accordo e 'l povero di messer Nazario per la sua sciocca avvertenza rimase burlato; e debitamente, perchè il poco accorto marito suole talvolta esser cagione dell'errore della semplice moglie.»—
[6] In questa novella abbiamo oggetti incantati. Affine a questo genere di finzione sono i viaggi fantastici, per paesi meravigliosi, dove si trovano cose impossibili e stupende, de' quali abbiamo anche esempli greci, e mi basterà citare la Storia vera del samosatense, ed i quali diresti scritti per mettere in caricatura i viaggiatori bugiardi. Rifiorì quindi questa maniera di favole nel cinquecento; e piace sempre, come testimonia la popolarità de' Viaggi del Gulliver. Non so resistere alla tentazione di offrirne uno esempio, ricavato da un antico libro e dimenticato, che s'intitola: Opera Nuova, molto utile et piacevole, ove si contiene quattro dialogi, composti per l'eccellentissimo dottor delle Arte (sic) et medico aureato (sic) Messer Angelo de Forte MDXXXII (com'è detto in fine: Stampata in Vinegia per Nicolo (sic) d'Aristotile detto Zoppino nel mese di Agosto MDXXXII). In essa narrazione si troverà una descrizione del paese favoloso, che poi, sotto nome di paese di Cuccagna, doveva essere celebrato dal Folengo, dal padre Quirico Rossi e da tanti altri, con più o meno spirito.
In questo Dialogo si introduce Piacevolezza, felice Peregrino, hauer cercato il mare tutto, dentro et di fuora, la terra et lo aere per fino al cielo, et in questo visto et fatto cose degne di memoria, di grandi et notabili significati, quali narra a Desio, suo amico:
Desio. S'io non erro, ecco il mio amico, qual tanto desiderato ho, già sono hormai molti anni et ciascheduno fermamente crede, che sia morto. Questo, che uedo, non è sogno: son par uigilante. Sia quel, che esser può, uo salutarlo. Dio te salui, amico mio; et doue sei tu tanto tempo stato, ouero da quali lontani a noi te transferisci, con spettacolo de habiti tanto strani?
Piacevolezza. La longa peregrinatione me ha fatto così da uoi alieno.
Desio. Dunque, tu ai peregrinato?
Piacevolezza. Non te l'ho ditto io?
Desio. Et in che paesi?
Piacevolezza. Tutta la terra, il mare, de fore e dentro, l'aere anchora e il concavo (cioè la parte intrinseca) del continente cielo; e ho trouato in questi, li paesi della mirabilità.
Desio. Et che uuol dire, che io non intesi mai nominarli?
Piacevolezza. Perchè non se ha memoria d'altro, che me, della nostra regione, in quelli hauer peruenuto.
Desio. Dunque tu hai trouato nuoui paesi?
Piacevolezza. Certamente nuoui.
Desio. Et che in quelli uisto hai?
Piacevolezza. Mirabile cose.
Desio. Mirabile?
Piacevolezza. Sì; e, per tanto, regione de mirabilitate le chiamai.
Desio. Et che mirabil cose sono queste?
Piacevolezza. Tanto che ogni credenza humana trapassano.
Desio. Dì, te prego; e non mi lasciar pendente nel tuo parlare.
Piacevolezza. Forse non le crederai.
Desio. E como non uoglio credere io un tanto amico, quando afferma hauer uisto e toccato?
Piacevolezza. Sì, e con giuramento anchora, quanto più santamente me sera possibile. Dunque, ascolta. Che io te giuro per tutti li nulli e la lor potentissima deità; e per la congregatione delli nienti, e li compagni, matre e fratelli, cosa che ognuno teme e abborre; anchora te giuro per la deità e summo potere de uano: che tutto quello dico, ho cercato; e tanto è uero, quanto la equal pianura è monte, o quanto il gambaro, elefante, ouero la mosca, grua e sparuiero. Stante el giuramento, me potrai tu credere.
Desio. Fermamente.
Piacevolezza. Sono già dodice anni passati, che io, cupido di sapere delle nouitade e cose mirabile, se trouano nelle insule sparse per lo ampio mare occeano, preparai una grande e buona naue, con tutte cose conueniente a mia nauigatione; e, quando me parse tempo, con uento felice, dal sino persico, demo a uenti le ampie uele, uerso la parte meridionale, tuttauia sgionfe. E per spatio de quindeci giorni sulcate le liquide onde, allhora che nel oriente splendido di raggi, dal mare in alto si elleva il sole, peruenimo in la insula Miracolosa. Nella qual preso porto desiderato, li compagni nostri, con uarij giovenil esercitij in la nuoua terra se dauano piacer, e festa, quando uedemo uer de noi uenire gente in battaglione, con ordini et signi de cruda e mortale guerra fare. Spauentati dunque di tanta nouità, gli facemo assapere nostri affari et conditione, quali intesa amicheuolmente receuettero noi. Così allegri l'una e l'altra parte, de molte cose hauessemo a ragionare: ultimo ne fecero certi, come da una insula lì uicina, ueniuano huomini mirabili, audacissimi e crudeli, quali Ferulari chiamano, perchè da ferule marauigliosamente edificati sono, e poi temprati con suco de sferracavallo, impedimento certo d'ogni pungente ferro, o che taglia, smacca e seca. E spesso spesso solleuano la insula, molestando predare: e che eran ritornati in Ferulara (perchè così la insula se appella) a refrescar del magico suco[361] la dura tempratura, e siccata li giorni passati dalli caldi raggi del potente sole; e in quel tempo espettavano il rabbioso stuolo devere, refattosi, lì retornare. Noi, de tanta novitade fatti attoniti, suspensi alquanto, perchè natando sulcauano le acque presti e leggieri, e non potean da alcun tormento per acuto o graue, che fosse, esser dannegiati, pensamo inusitato modo, de superare questi peruersi, iniqui e scelerati. Demo buon animo dunque alli nuoui amici, promettemoli uittoria; e certificamo lor salute. Ascolta, amico mio, cosa mirabile e de che maniera. Fessemo una rete, larga de passi pur assai, e longhezza tanta, che la insula tutta circondaua, de mistura ottima, che abrusia dentro l'acqua e conferua ogni liquore, de solfore dico, salnitrio, bitumine, oglio de sasso, camphora, rasa, oglio de lino, e simigliante cose. Non tanto presto la rete fo distesa, che ecco per le onde, equalmente natando uenia la mala gente, con impeto de ululi, e squassar nell'acqua con le bracce, testa, gambe e piedi. Spumaua il mare, l'aere deuenne nubilo, la terra tutta incominciò tremare. Spauentaronsi li nostri hospiti. Ma noi, sicurati dall'arte, demo segno de uittoria. Finalmente gionti al lito uniti e in fretta, tutti in poco d'hora se insaccaro nella rete. Li ministri, che ciò aspettauano, impicciato il foco per ogni parte, in uno istante la materia atta seguì suo potere: per la qual cosa in fiamma, fummo e cenere, si conuertì ogni magico e infesto lauoro. Allegri dunque li acquistati amici, a merauiglia ferno festa con suoni e canti, giuochi anchor diuersi, secondo lor costume. Noi, per spatio de quindeci giorni, se dilettamo tra costoro: ma la natural uolontà del sapere, pongendo, spronaua accelerar in altra parte nostro camino. Fornimosi dunque de quello bisognaua et delle mirabilitate, dal paese fessemo partita.
Desio. No te rencresca narrar alcune degne cose.
Piacevolezza. Te uoglio compiacere. Tollessemo molti uccelli, quali due uolte il dì, (cioè mattina e sera ordinariamente) in aere se elevando, suolano; e con la bocca aperta, receueno le nebule, uento e fumo, cibo proprio de simili animali, con li quali se nutricano, crescino, e ingravidano poi. E lor parto è oue, che, poste in mare, con il moto delle spesse onde, la dura scorza nel lito limano. Finalmente rotta, produceno tauri bianchi e piccolini, quanto un porco de mezza statura ciascuno. Questi se notricano de nebule, fumo e uento anchora; e, con le corne, la soda terra rompeno e sulcando arano; nelli quali solchi il superfluo, che de lor uentre esse, nascondino; e, in termino di sei mesi, preduce arbori, che fruttifican meloni, de grandezza d'una botte ognuno; nutrimento buono, come da noi si fa del pane. Ma delle seme ascolta marauiglia! le[362] poneuano in acqua, che li radiaua il sole; e, per spatio de una reuolution lunare, sgionfauano; finchè, non possendo più la scorza estendere, se rompea; della quale sorgeuan arditi polledri, e, passato l'anno, eran apreciati corsieri.
Desio. Tu non hai ditto come si chiamano, e in che maniera stan formati.
Piacevolezza. Li pretermessi per esser più breue; ma, perchè te piace, ciò non mi chiami auaro, li uccelli son chiamati nefilophagi da Greci, li Itali nebuliuore appellano. Hanno questi testa e collo de gambello, de elephante il corpo, le suspendente ale a notule somigliano, piedi han quattro, con le ongie adunche, come li auoltori, la coda de anguilla, leue e nuda, eccetto che in cima, con la ponta reuolta, acuta, dura e uenenosa, coperta de minuto pelo, de color uario ciascuna piuma; tardi con li pedi, ma uelocissimi nel uolo. Le oue sono de grandezza, in longo e lato, d'un braccio e mezzo l'uno, di color uerde, con alcune giocce rosse maculati, e chiamanosi questi Van—estima. Li Tauri seguino, e sono bianchi come ho nominato, grassi e belli, con corne grandi, e piccolini, pur assai movino quelli, come della orecchia fanno, perchè sola una oprano, sotto el barbazale: uentre amplo e nella summità arculato, piedi come gli altri e coda simile, ma la ponta de fece priua e abbonda in molti corti et sottili peli. Chiamanosi questi Limmati, per uera ragione. Lo superfluo del uentre, che produce arbori de meloni, Heremati, per le orecchie trascorrendo, suona, e assomiglian le fugace, che nelle uille (per la Grecia) fanno. Li meloni e li arbori sono in colore d'oro, lustri e trasparenti da ogni parte; hanno grandezza gli arbori de ampilo e spesso platano: hor l'uno e l'altro Matticole chiamano. La seme, che in ultimo polledri produce, de Pupillimachi assume il nome.
Desio. Della insula e habitatori nulla ditto hai.
Piacevolezza. La insula Vericona ho inteso menzonare, e li abitatori, Verincole se appellano. Fannovi de gli altri frutti, come castagne e pomi de virtù miranda et inopinata, quali proficui forno molto al nostro nauigare.
Desio. In che maniera?
Piacevolezza. Et anche questo te faro palese. Li pomi sono bianchi, de uerde uirgolati, de longhezza de uno passo, la larghezza tre braccia; scorza han dura e leue. Ma quello dentro è come de citro, odorifero, dolce et buono. E se gli fa un buso de che grandezza, che altrui uuole, e poi il foco impizza con legne; nella opposita parte dal quale, se soffia, como sente caldo, uento buono per il nauigare; e dura così cocendo per spatio d'uno anno, a[363] qualunque naue che lo adopra; dopo cotto è cibo perfetto a nauiganti, de sapore de torte de marzapani. Le castagne sono de color aurato, de grandezza ciascuna de uno di pomi, durissime de scorza, e lor sustentia è stiptica e amara. Fasse anchor in quelle il buso e il foco come nelli pomi; quale, scaldate, mandano fora uento furioso, da summergere ogni gran naue.
Desio. Tu dici cose, che mai da altri audito, ouer in scrittura se ritrouano. Ma segui te prego oltra el tuo nauigare.
Piacevolezza. Fessemo uela dalla insula Vericona, e per spatio de giorni sette, trouamo in la parte meridiana la insula chiamata Nominanza, da Giganti habitata, et abonda in ricchezze e marauiglie. Sono questi giganti di braccia dodece per longo ciascuno, e tre per largo il corpo. Sei piedi hanno: li primi sono d'huomo, li secondi di leone, li terzi all'asinina. Ma della testa, occhi, bracce e mano,..........[i] non te so ben dire, perchè le imprestano l'un l'altro, e alcuni li uendono, e non pochi li furano, ouer uiolentemente se gli assumeno; altri poi per amor gli accomodano. Et pochissimi li danno per amor di dio. Hor quello tra essi è il più degno et honorato, che de più teste, occhi, bracci e mano abbonda: e così li gradi sono locati per il più e meno de queste cose. Ma, se tu intendi come nascono, stupido restarai a marauiglia.
Desio. Per altro che mirabile cose udire non espetto io.
Piacevolezza. Questo ancora te serà palese. Sappi, quando la terra trema, se everge e sfende, in molti luochi. Nel tempo poi che la tempesta[ii] giù per l'aer descende, se empino tutte quelle aperture. Lui defensi che 'l sole non può come gli altri consumare, superuenendo la notte, insieme con la terra se adunano; et nel giorno sequente fongi grandi, et rossi de colore, se retrouano. Così operando la uirtù lunare, le intrinseche parte uigoranse; e in pochi giorni receuino sustantia anemata. Qual, per spatio d'uno anno, si rompeno la spoglia, de fongi in giganti si trasmutano, e per la regione habitano. Sono questi della terra mirabili cultori; e come tra noi del grano, meglio, faue, pizoli e simigliante seme fanno gli uillani, non altramente essi le monete d'oro e d'argento, le perle e ogni gemma pretiosa, seminano, cultiuano et finalmente recoglieno e conseruano in le fosse, case e magazeni. Ascolta anchora piu alta marauiglia! Quelli fili, che lo insidioso ragno, per[364] le stolide mosche prepara e nell'aere tesse, rotte dal uento, come in terra plicano e sorben del humido, se ingrossano e diuentan anguille, grasse e grande quanto un porco, de longhezza quanto che si estende il filo, e così nel lago uicino se ne uanno. Iui poi li pescano questi giganti; e della lor polpe, con uino e faue in poluere, missidando impastano; con la quale informano imagine de donne, secondo che a lor piace; e, in termino de giorni sette, poste al sole, surgen uiue femine, perfette ad ogni proua[iii]. Questi Giganti non le adopran molto, ma se dilettano della effigie bella videlicet placida scultura, uendinoli, imprestano e donano a qualunque a piacere. Vanno queste nude, con centure e corone de uarij e traspiranti fiori, sopra delle bionde trezze de seta fatti, temprati con suco, de bel apparere; et li ammaestrano a seruitij e piaceri de peregrinanti. Anchor così nude di fiori adorne ordinatamente, una uolta la settimana per fermo, e alcune altre più, circondan tutta la città; e è lecito a qualunque forastiero ellegerse quella de esse, che più gli ua in fantasia, e conducerla seco per uintiquattro hore a sollacciare. Noi in questo loco per un integro mese a nostro buon parere dimorammo, e così ricchi de zoglie e monete, accompagnati de belle e gratiose donne, li Giganti lasciamo e lor paese; e, con lo aiuto del pomo e fuoco, empite le stese uele de felice uento, per sopra le inquiete onde, sulcò la naue giorni diece. E ecco, nel undecimo, pigliamo porto in la placida insula del Conuiuare, mirabile certo, de cose buone, mai più intese.
Desio. Anchora queste me farai sapere.
Piacevolezza. Vicin del porto è una ampla pianura, de uerdeggiante herbicelle adorna, de uarij e allegri fiori. Hor per qualunque parte che alcuno uuole sedere, quelle gratiose uerdure fiorite se uniscono et fanno sedia, secondo conuiene alla persona. Dauanti poi la simile materia, se intessendo elleua e prepara la mensa, de longhezza opportuna. Noi, stupidi de tal apparato, l'un l'altro mirauamo uacillando. Et ecco uarie sorte d'uccelli con le piume lustre, de bianco uerde e rosse maculate, in uoce humana salutarne e dire:—«Non state più sospesi, così è proprio de nostri paesi. Qui se onoran tutte le persone. Sappiate oltra, che la insula abonda in cose da mangiare e in tutto quello, che se beue, o altramente li occhi e naso diletta, secondo li appetiti uarij. Discorreti dunque e dilettatiue senza sospetto alcuno: chiami pur ciò che alcun uole e ogni cosa li uenirà dauanti.»[365]—
Desio. Questa me ua ben per la fantasia, gionta con le prime. O che gli fusse stato io!
Piacevolezza. Vedeui, amico mio, per la mensa, quando se domadaua, pauoni, pernice, fasiani, colombini, caponi, starne, beccafiche, tordi, lepori, cerui, latanti uitelli, capretti, castroni, oue fresche, figatelli, latte tremante e calde puine, con acqua rosa inzucherate, butiro, formaggi di qualunque modo, carpioni, sturioni, trute, orate, triglie, cephali, barboni, rosti, lessi, fritti, e di ciaschedun altro buon sapore; Vernacce, Maluasie, moscatelle, nostice, romanie, uinigrechi e tibidraghi, con quelli del mortar: anchor d'ogni altra specie, buoni, di odore, di gusto e colore delettabile; perfette ceruisie ueniano di ogni qualitate, fin la bosa, beuanda turchesca, qual alcuni de riso e altri de miglio fanno; sapori e saporetti, de marasche e de uua, salsa con menta fatta, petroselino, cannella, zafrano, con pane rosto, acqua rosa, zuccaro e aceto, suco de agresta fresca, anchor de l'antiquata, mostarda e piperata, e de mandole peste anchora con petti de gallina, acqua rosa, zuccaro e cannella; sapor d'aglio fatto con noce e oglio dolce, ben pestate, uolti e reuolti, in fin bianco come neue; sapor fatto de rossi d'oui e pan grattato, con suco de agresta, ouer limoni, acqua rosa, con cannella, e zafrano. Ultimo uenne certa strania compositione, chiamata solo da uno de' compagni, e fo nel brodo de capone o uitello, formaggio grattato, grani de uua bianchi e negri, mollica de pane, butiro, grasso de porco, persutto ben tagliato, porri e ceuolette, mele, uino, aceto, con spetie forte inzafranate.
Desio. O che uaria mistura!
Piacevolezza. Anchora de altre molto più strane; ma io uoglio narrar delle salatucce. Vedeui alcune fatte de latuche tenerelle, de bianche endiuie, appio, petrosellino, menta e finocchio, sol un poco, oglio de mandole, aceto con zucchero e acqua rosa. Altre uariauan con nasturcio e sinapo, ramponzoli e pulegio, nepita, finocchio e petrosellino. Molti eran contenti nella bugiossa e non pochi della cicorea feuan stima. Alcuni nel fior della boragine, ben condíta, si satisfacean, ouero de altri simiglianti fiori. Chi nelle cappare daua il sapore; assai eran che nelle sardelle, persutto, formaggio e caviaro. Alcun con la sappa poi le confacea, torte de marzapani, pignocati, pistachie, mandole confette, de quelle damaschine, coriandoli, picichini moscati, citroni, naranci[iv], limoni, zenzeri uerdi, noce, peri moscatelli, aringhi, e ogni candito, de zuccaro coperto. E se gli altri tutti io te dicesse, stupido resteresti a tanta impresa.
Desio. O mia sorte! e perche teco non uenne io? Segui, te prego, almanco odendo mi uo satisfare.
Piacevolezza. Quiui propinquo una alta montagna si elleua, de pasta tutta fatta de bianca e sottil farina, acqua rosa, musco, e ambracan, fulta de arbori, con selue grande. Le foglie delle quale son lasagne; li pampani uermicelli et macaroni; li fiori crostole et crispelle. Ma li frutti sono uariati secondo il sito della regione. E per tanto, uerso la parte, che se leua il sole, produce fugace ogni mattina, bianche, molle et ben leuate. Nella meridionale, buciolati, con tortani, grandi e piccolini, dolci et forti, odoriferi, et d'ogni altra buona mistura, secondo che più et meno si elleuano dal tronco, uerso la cima. In quella d'occidente biscotelli liggieri, frangibili et de buon sapore. Nel settentrione, biscotti de qualunque sorte et natura. Nella summità poi tutte produceno fritole piene de mandole con acqua rosa et muschio inzuccherate. Segue a questa un'altra montagna de carne, per grandezza non minore che la prima, folta de selue et d'arbori, che han simile natura. Per fiori nelli quali son figatelli; le foglie, grasso et songia; ma li frutti sono d'ogni maniera d'animali. Alcuni d'essi produceno caponi senza penne, grossi et grassi, che per la lingua pendino; de pauoni li altri, con simile conditioni; de colombini; poi pernice, starne et fasani, quaglie, tordi, tortore et becafiche; galline piene d'oui; galetti gravidi de buona mistura, de peri dico moscatelli, susini et marasche, oliue, oue sbattute, mandole peste, zuccaro, petrosellino, canella, peuere et zafrano; lepori non pochi, conigli, ceruotti et cerui, capretti, castroni et uitelli, porcelletti et porchi domestichi et seluaggi. De pessi seguino gli arbori a questi non lontano; de ostreghe, ricci anchora, granceuoli, cappe, dattoli, pantalene et quanto mai se ponno trouare per il mare tutto, per li fiumi et dentro le lacune. È uero, che la mattina fino all'hora de mangiare, tutti sono lessi, a mezzogiorno rosti, soffritti la sera, et la mezza notte de molti et quasi infiniti gusteuoli sapori. La terza montagna è de recotta marauigliosa, con boschi et selue d'arbori senza foglie, ma frutta tutti, secondo la uaria stagione, perchè la mattina son puine calde et tenerelle, cauo de latte et gioncade; nel mezzo giorno, formaggi dolci et formagietti, e de quelli longhi, anchora degli altri, che chiamano teane; la sera son duri et salati. Quando se sfende la scorza per leuante corre botiro; uerso il ponente, latte; et nel tronco, in forma de fongi, tutti produceno eccellenti rafioli. Nella estate, odoran d'acqua rosa et uiole, nell'inuerno son tutte moscate. La quarta montagna, che dapò per ordine se colloca, è de zuccaro tutta, de herbe coperta,[367] de boschi et selue, poco minore delle prime; et son confetti li frutti, li fiori. Le scorze, li tronchi et le radice anchora hanno mirabile proprietà: se la scorza intacchi o sfendi, como siropo distilla gioso, abondante de sapor buono et uario nel colore, perchè odora del legno da doue descende. Iui tu uedi le selue de canella, de zenzero uerde, et quella de noce moscata, de gariofili, et del balsamo li arbustelli, de tutte le specie, ancor de mirabolani citroni, limoni, naranci et pomi adami, peri moscatelli, et tutti altri ancora, mandole et noce, persichi et susini, ceriese con marasche, zucche, cucumeri, citruli et meloni. Tu non potrai tanto diligentemente immaginare tra le cose tutte, che in quella non troui de più e de migliore. La quinta montagna, larga e spatiosa, che tra l'oriente e mezzo giorno segue, de uerde ellera è coperta, et produce per fiori gotti, tazze, ingestare e altri belli uasi per beuere. E, da poi beuuto, se mangiano, de sapore del uino, anchora tenti del proprio colore. E pullula per tutto territufoli in molta quantità, che parono edifici adorni d'ellera, grandi como case; ma quando, o per tempo o per artificio, se sfendino, buttan uino in modo de fiumara, di qualunque sapore, odorante et buono; e discorrendo giuso in la pianura, fanno de uino un gran lago, che par mare, tra le onde del qual monstri assai notano, de effigie certo marauigliosa. Representan queste bestie faccia humana, non in tutto, perchè han pochi denti, il mostaccio acuto, come musciolini le ale; uanno intorno in forma de rota, non correspondenti in alcun uolere, il uentre hanno de porco, mozzo il busto senza coda, spinoso tutto, come riccio marino. Ecco, può questi, uno alto monte, che tocchi in cielo, con fontane, riuoli e fiumicelli, de traspirante acque et ogli d'odor soaui, laghi anchor assai de zibetto e altri unguenti pretiosi, grotte e cauerne quasi infinite, de terra che par musco ad ogni proua, e non pochi de ambracan, monti di belzuin e di storace, selue, boschetti, intorno e in cima, de ligno aloe, e simile piante, d'odor suaue, ch'io non dico. Verso la parte de oriente, sta una gran pianura habitata di ragni, grandi come boui. Niente differissen dagli altri, dico de colori uariati, eccetto nel uolto, che par a quello d'huomo se assomigli. Questi filano e tessino panni e tele de lino, lana e seta, de qualunque finezza e degno colore. Frequentano la insula tutti li circunuicini, ma non ui abitano molto tempo, perche quel'aere, a qualunque molto ui dimora, produce pedocchi grandi e rabbiosi, che tutto lo stracciano, magnano, e finalmente con la miseria lo uccide.
Desio. O fortunati quelli, che a questa finitimi stanno! O sorte, e[368] perchè non son io lì uicino habitatore! O beato te, Piaceuolezza, che de tante buone cose hai fatto proua!
Piacevolezza. Noi del eminente pericolo aduertiti, de ciò, che era bisogno, condutto in naue, il terzo giorno, lasciati da parte li conuiuali liti, uerso oriente drizzauamo il camino, tuttauia con lo pomo e fuoco, a nostro uolere faceuamo la uela sgionfa. Così per giorni quindeci ne conuenne le onde sole e il cielo uedere, fin che una mattina al leuar del sole, uedemo un pesse de grandezza tale, che li occhi soli pareano due montagne, eleuate oltra mesura, lustri, scintillanti, e per entro se uedeano campagne, monti, con cittate, gli huomini anchora, e ogni loro opra. Tutti gli altri membri a questi correspondeano. Con la bocca aperta espettaua noi per ingiottirne con tutta la naue.
Desio. Et che facesti uoi?
Piacevolezza. Voltata in la destra parte la prora, con lo aiuto del pomo, come prima, e le castagne con il foco per nostro riparo uoltamo al pesse, e li facemo gran fortuna, exasperando le spumose onde in alto, che pareano toccar al cielo, fin tanto che della uista nostra fu occultato: quieti d'animo nauigando, lasciamo ogni paura. Finalmente, nel uigesimo giorno, si trouamo in un dilettante et ameno loco; ma, perchè la regione incognita era, da longi fece firmar nostra naue, et scandagliando l'acque nostro gubernatore, s'accorge, che dalla montagna emimente et sublime, lì uicino, nimbo descendea gliomerante, con strepito e furioso. Impauriti dunque tutti, abbassamo li arbori, et con pegola et stoppe serrata ogni perta, così ascosi e timidi dentro aspettauamo nostra uentura. O mirabilità del mondo! come serò creduto io de cosa tanto inaudita e noua? Il nimbo uenne: l'onde del mare bolliuano, rompironse le porte, che con le tenace ancore il legno sosteneuano. In un subito (ascolta marauiglia) quanto che 'l nimbo bagnò della naue, in pesce fo conuertito, la prora con il castello capo deuenne, il resto corpo, in longa coda nostro bon timone. De ligno dunque in acquatile animal trasmutato, discorreua il mare, di sopra, per mezzo, al fondo, et in ciascun loco, così nella superfice. Vedeuamo insule assai, grande, piccole et mediane, ferme, natante, alcune altre s'occultauano, e non poche sorgendo nasceuan da dentro il mare. Tutta uia, scontrauamo pesci di sopra, di sotto et di qualunque lato, de corpi et figure tanto strani, che la mente teme lor memoria. Montagne eran nel basso, pianure, con ualle, arbori, boschi, uille, castella et città, habitation prima d'huomini. Arbori de coralli in altre parte, rossi, bianchi et neri; gemme assai, oro, argento, e ogni altro minerale; fonti d'acqua dolce che sorgean, grosse fiumare disperse per tutto, come qui di sopra.
Desio. Per donde uedeui tu tante cose?
Piacevolezza. Eran certe uie artificiate, con gradi in modo de scala, da noi fatte, per le qual si ascendea nell'ultimo concauo delli occhi del pesce, da doue discerneuamo ogni cosa.
Desio. Segui, te prego; che uedesti anchora?
Piacevolezza. Li pesci ne eran molesti per ogni lato, conoscendo noi dentro gli occhi caminare; ma il nostro, che di ciò se accorse, mordeali e stratiaua con denti, feriua con le spine, et sbattea hor questo, hor quello con squassi del mustazzo, ale, e coda, de maniera, che piccoli e grandi nel geno marino odiauano noi. Ma un giorno, tra gli molti, (discorso il mare, può la mirabile trasformatione, sette fiate) infestaronlo quasi infiniti pesci potenti e marauigliosi, di sopra, di sotto, e d'ogni parte, di modo che per li affanni tanti non potea più far defensa. E per tanto, rilassate le ampie ale, e piegata la affannata testa, finalmente abbandonata la gubernatrice coda, se remesse. Pensa, amico, se eramo gionti à mal partito! Uniti dunque tutti li compagni, se consigliamo far l'ultimo potere: e così ponamo a segno tutte l'artelarie, schioppi, archibusi et bombarde, parte per la bocca, aperta con forza de legnami, et parte per sotto della coda, da doue il superfluo se espurga. Quando ne parse tempo, dessemo foco. Li tuoni forno grandi, il uento multiplice et il fumo. Bolliua il mare, per ogni parte se uedean le gran ferute, altri moriuan subito, alcuni alla morte uicini, stropiaronsi molti, e non pochi, storditi dal romore e nouità, fuggirono: de maniera che libero da tanti affanni restò il nostro, per le onde bellamente prendendo riposo. Quando, nel meglio della nostra quiete, un mirabil pesce, de potere oltra misura, inuilito forse per l'aspra guerra e bombardare (cosa inusitata, e da quello mai più compresa) pose il mostaccio e tutta la testa, sotto il uentre del nostro, che dormia, et con gran prestezza dall'acqua in aere sbalzando eleuollo. Questo, compreso e dal dormir remesso, le ampie ale stende, l'accorto hospite sostiense in quelle, et retarda suo peso, che cala, non in mare ma in terra, senza incommodo de corpo, lontano assai del lito. Priuo dunque del sussidio marino, piegò la testa, sotto del gran uentre, poi quella coperse tutta delle ale, e intorno colla coda circongirolla. Trascorsino li giorni, e, per il caldo del sole, desiccosse il grosso corio e diuenne scorza dura. Il caldo dentro uigorato fece sua opra, e, come gionse la luna nel destro trino, sfessesi per longo nella parte suprema, per la qual drago alato, grande e fulminante fora cacciosse. Così con piedi per la terra, con le estense ale per aere, ad ogni suo piacere (audace e forte sopra tutte cose) non restaua da parte in parte il mondo[370] cercare. Vn giorno, discorrendo, nelle montagne e spelonche di dragoni peruenne. Questa è una regione, Dragonara appellata, perchè li draghi (e non altri) iui stanno, grandi e superbi, molto rabidi e insidiosi. Quando l'han uisto, uniti tutti a gran furore il nostro insultano, con sibili orrendi, crudi morsi e dispietato sgrafognar de ongie, ma non che restassero aspramente battere anchora con le code. Defesesi, con audacia e potere, il nostro buon compagno, hospite fido, e curioso capitano. Questo et quell'altro sbattendo, hor con morsi uigorosi squassaua, hor stracciaua con le adunche e dure ongie, e aspramente feria anchora esso con la coda. Così, per spatio di tre giorni, durò l'aspra e marauigliosa guerra. Ma essendo solo e la moltitudine unita, che tutta uia li sopragiongea, remirando, se tirò da parte, disperato a l'ultima difesa. Noi, che per entro gli occhi uedeuamo ogni cosa, mettemo in ponto nostre artelarie; et con grossi e longhi legni la gran bocca li tenemo aperta. Il simile anchora quella uscita, che è dopo il uentre e tra la coda. Apri e serra, così in un tratto con il foco scrocamo le artellarie per ogni parte. Il romor fo mirabile e stupendo, multiplicosse la poluere e il gran fumo per tutta la mala regione. Li draghi feriti e morti forono assai, stropiati non pochi, e altri, perterriti dal nouo caso, fuggirono. Noi, conseguendo la incominciata uittoria, non mancamo con bombarde, fulminare per le selue tutte, spelonche e alte montagne. Per la qual cosa nelli folti boschi il foco fiammegiaua, e con l'aiuto de nostre castagne, spengemo il uento molto furioso, intorno girando, fin che de draghi ne parse hauer sufficiente la uendetta. Finita dunque, il nostro triumphalmente abbandonò la mala, iniqua e pessima regione; e, per molti miglia allontanato, se ritronò in la prouincia della Verità. Questa in alto sopragiace de una elleuata montagna, piana tutta e circulare, intorno ui stanno ombrosi boschi, de spineti assai; non è molto ampla, ma abbonda de marauiglie. In mezzo della qual sorge un uiuo fonte, de uirtù miranda, perchè qualunque di quella limpida e chiara onde beue, conosce, sa e intende ciò, che tacitamente le pietre parlano, li metalli, le herbe, gli arbori e tutti li animali. Vacillaua per il primo nostra mente; poi, fatti usi, prendeuamo piacere. Iui se odiuano tutte quelle cose, che fanno de una in un altra effigie trasmutare: di uecchi gioueni, belli e uigorosi: de poueri, ricchi: de infelici, fortunati: de matti, temprati: de ignari, sapienti: de pigri, ueloci e liggieri: de uili e eietti signori nominati: de muti, eloquenti: de sterili, fecundi: de brutti, belli; e simile marauiglie, con soaue e diletteuol melodia.
Desio. O felice peregrino, che anchora serui tanto accortamente la memoria de tutte queste cose, non te rincresca memorar qualche bel detto.
Piacevolezza. Volentieri, aponto de questa pietra, che ho qui meco, dentro la scarsella, qual notte e giorno simil uersi canta:
Io fo passar l'huomo invisibile
Et d'ogni nocumento il do securo.
Con mente allegra e corpo impassibile.
Dall'hora in qua intendemo il uoler del drago e esso il nostro anchora.
Desio. Recogliesti uoi de tante degne cose?
Piacevolezza. De tutte. E poi fessemo partita. Così, in pochi giorni, discorrendo e con il uolo, conuenimo nel Regno della infirmità. Questo è amplo e spatioso tanto, che non basteria una età caminarlo; con alte montagne, cauerne, vore, e precipitij infiniti, e sopra tutti quelli, stan signori proprij, sudditi alla potente Regina, per recogliere la seme delle lesione, molestie e impedimenti, alli corpi animati. Dalle uore profonde, il uiolente morbo nasce; dalle alte montagne, le seme della febre; della podagra nel piano morbida se annida; della rogna in grebani quiesce e così proportionatamente ciascuna.
Desio. Come facesti con tali signori?
Piacevolezza. Bene, perchè eramo securi, a dirti il uero, con le tante uirtù de herbe, gemme e metalli, che erano con noi.
Desio. Ho sempre inteso le mirande uirtù nelle herbe e pietre esser, anchor nelle parole.
Piacevolezza. Questa ultima se troua in Ferulara insula. Ma perchè iui habitano le inique e false persone, de quelle, dico, che con le rete e fuoco fessemo gran strage, pretermessi. E per tanto, drizzato nostro camino in la insula Nominanza, dalli giganti habitata, acquistamo gemme e monete d'oro e argento, quale superan tutte le cose del mondo, che se fanno e reggino.
Desio. Et che poter hanno li signori prenominati, sudditi alla tremenda Regina?
Piacevolezza. Obedissen a quelli tutte le seme; e, doue a lor piace, mandanle, quando soffia il uento; e secondo, le legge se li impone, fanno. Sappi, che de tutte recogliessimo noi entro le scatole e sacchi e molte casse anchora.
Desio. Et perchè?
Piacevolezza. Per mandarle doue, che ne fosse di piacere.
Desio. Obediuano poi?
Piacevolezza. Come a lor proprij signori. Finalmente, abbandonati li penosi luochi, capitassimo in uno altro Regno, molto più stupendo delle marauiglie prime. Edificio, gran signor, quello gubernia, compartito in sette parte principali: la prima tutta è de castelli, campanili e torre, habitata: la seconda, de pallazzi, ampli e sublimi: la terza de case d'ogni qualitate: la quarta de muri semplici e colonne: la quinta de fenestre uariate: la sesta de scale, de qualunque maniera: nella settima e ultima del Regno, le uessate e stridente porte stanno. Il paese è piano tutto, de belle campagne. Parlano questi in lor linguaggio come noi, se maritano e fan figliuoli, peregrinano e contrattano faccende, fanno guerre e inimicansi, mangiano e beuino, uestino, dormino, uigilano, e fanno delle altre cose; ma, sopra tutto, li castelli, torre, e campanili, sono musichi e eccellenti cantori. Anchora, in molti luochi di questo Regno, ascolta marauiglia! longo tempo bandiscono la morte, con ditto manifesto, che ciascuno intende! Di fuori son tutti felici. Ma se tu uedessi dentro! de quanti incommodi, sinestri e mali repleti stanno, de sorzi, toppi ciechi che cauano la terra, de orsi, che con le adunche ongie, sotto di quelli le cauerne preparano, anchor de uolpe, conigli e formiche: piangeresti della gran pietate. Noi dunque, pieni de cordoglio, a molti prestamo rimedio.
Desio. Et che poteuase per quelle fare?
Piacevolezza. Snodamo molti sacchi et scatole delle seme della infirmità, in quelli dentro per ogni luoco. Secondo le legge della tremenda Regina; a qualunque se annidasse per li lor confini, strettamente abbraccino.
Desio. Che seme forno?
Piacevolezza. Della rogna primo, e d'ogni spetie di dolori, di febbre, uomiti, flussi, sospiri, gemiti, uertigine, podagra, ciragra, grauezza e curuità nelle suddite spalle, fame, sete e uigilie, terrori subiti, e d'ogni altra spetie, che offende gli animali nelli castelli, torre, e campanili. Questo fatto, lasciamo da parte ogni lor marauiglia. Tuttauia in questo e in quell'altro luoco peregrinando procedeamo (e per breuemente dirti in conclusione) fin che la terra tutta da noi fo cercata, le uille, le castella e le cittade, le prouintie, montagne e monti, ualle con pianure, e ciascuno altro accessibil luoco. Questo ti basta fin qui del sodo haver inteso, ascolta un poco dell'aere e haverai piacere. Cercata la terra, volando in aere se elleva il drago, per vedere; e nel primo, scontramo le strighe, li demoni tutti, le fantasme, le furie, con le pene; altre anchora figure horrende, de nebule[373] o fumo impastate, che mai in una preseruano, anci quanto più le sguardi, se scambiano, e fanno altrui qui dal basso uacillare, quando in montagne, boschi, case, castella e cittade, teste de bestie terrene e de pesci uarij, navigi efferati: e in summa quanto mai alcuno si puote immaginare, quiui è la sua sedie e principal imperio.
Desio. Hai tu uisto la pioggia, le grandine e neue, li tuoni e fulgori, da doue cascano? e perchè soffian li venti tanto uarij?
Piacevolezza. Si bene. Et hauerai piacere, se tu le intendi. Nota, prima che altro io dica: queste cose tante, che da qui giù se uede nel aere, delle strighe e fantasme paventose, sono suggette uariatamente a proprî signori, che li esercitan doue a lor piace. Et per tanto, alcuno di essi, con sacchi de tela de ragno, come nebule fatti, uanno dentro al mare; e, pieni d'acqua, nell'aere poi le portan suso. Così delli fiumi, rivoli e fontane. Altri nelli deserti uanno per siccita; per il freddo, alcuni, nelle gelate parte; molti nelle torride, per il caldo e fuoco; e non pochi, dalle caverne e tra monti li venti eccitando, con li udri sorbino. Variano questi, secondo che a lor patroni segue il dominio, in una o in un'altra parte. Nell'aere gionti poi, quando che hanno fretta, quelli delli sacchi e questi con li udri, strengensi, comprimendo l'un l'altro: e di quel ui è dentro, per forza in gioccie convertito, esce, e giù precipitando per l'aere discende, uince la moltitudine e quella appare. Ma la neue sottilmente la taglian a sfogli, e così distesa la tengono in parte, l'un sopra l'altro liggiermente stivati, e quando è il conflitto dalla parte settentrionale, se rompono in pezzetti: e qui più gravando cascano. Le grandine sono cristallo dal freddo anchor non confirmato, gravan nell'aere e discenden gioso. Li folgori intervengono, con li tuoni, quando battaglian questi gran signori tra loro; li serui in quello stretti l'un l'altro furiosamente batte e percote; infiammase l'aere per la fretta, e giù da noi risplende, le botte per il vacuo intonano, e ui fan tanto stupidi mirare. Li udri si rompono per il forte sorbire; fugge il uento, che iui se aprende, e discorre per le parte qui da noi. Sappi più oltra, che l'aere, così spatioso, è tutto abitato de cose uarie, quanto cape la terra e mare. Dall'in giù le seme descendino; fruttifican poi, secondo son locate. Più che circonda sta lo antiquo drago, qual tutto de occhi scintillanti suo corpo adorno riueste, gionge la testa con la coda, li piedi ambi, e tutto couerze con le ale. Vno occhio solo ha in fronte, grande, lustro, claro e bello. Vn altro può in la ponta della coda, qual uoglie et riuoglie spesso e l'affatica. Con questi e con li altri,[374] anchor con quelli, che da qui non si uedeno, mira nell'aere, nella terra e nel mare: così a suo modo le regge e diletta. Quando questo antiquo, uicini esser ne comprese, sdegnato forte sguardò nell'aere e tutto il commosse. Per fuggir dunque, il nostro Duce, in questo et in quell'altro lato uolgendo giraua, ma non potea oltra passare, perchè il tutto intra sè abbraccia. Hor in tal maniera da parte in parte per l'aere uagando, ostacoli parati troua, guerra continua, e pugna; che non manca iui gli affanni, e le gran fatiche; iui abbondan li sudori sanguinolenti; iui la morte ogni ora era palese. Finalmente, retornati in noi, con le herbe, con li metalli e con le gemme anchora, mitigamo li obstaculi e quel antiquo drago; e per la uirtù intrinseca, che non manca, se fessemo conoscere, et esso conoscemo noi. Per la qual cosa, de terore in piacer tutti reuolti, tornamo in giù, e te primo che altro ho qui ueduto.
[i] Alle quattro parole, alle quali ho sostituito puntini, vedi un riscontro nel Verville, Moyen de parvenir. (LVI. Théorème) dove parla degli abitanti di Lubecca.
[ii] Tempesta, qui val gragnuola, alla lombarda.
[iii] Cf. Basile, Pentamerone. Pintosmauto.
[iv] Naranci. Vedi, pagina 309, postilla i.
IL MAGO DALLE SETTE TESTE[1].
C'era una volta un omo pescatore, il quale aveva una moglie sterile, abbene che fosse a lei da molto tempo marito. Un bel giorno, il pescatore colle sue reti se n'andò a pescare nel lago vicino. E gli venne fatto di chiappare un pesce di gran bellezza e grossezza; che, subito messo fuori dell'acqua, si diede in tono pignucoloso a raccomandarsi a quell'omo, che lo lasciasse andar via, promettendo insegnargli uno stagno lì vicino, dove lui avrebbe potuto in un momento fare una ricca pescagione[2]. Rimase il pescatore mezzo imvecille e impaurito, nel sentire un pesce a parlare; e gli parve sì gran miracolo, che, senza frapporre indugio, gli ridiede la libertà. Poi andò allo stagno insegnatogli dal pesce e ci ricavò in due o tre buttate di rete una smensa quantità di bonissima pescagione. Col carico addosso, il pescatore, ritornato a casa, fece vedere alla donna la preda insolita e gli raccontò quel, che gli era intravenuto. La moglie, sentendo questo, s'imbizzarrì fuor di modo e lo trattò di mammalucco, perchè si fosse lasciato scappare il bel pesce d'in fra le mani. Disse:—«Bada bene di ricercarlo domani e portarlo a casa, che lo voglio. I' ho una bramosia di acconciarmelo in un intingolo da levarmi la fame per un pezzo.»—Il pescatore, il giorno di poi, fu al lago; e, buttate le reti, il pesce parlante c'entrò dentro. Ma alle suppliche sue il pescatore non seppe resistere,[376] sicchè anche questa volta lo liberò; e, fatta abbondante pesca nel solito stagno, se ne rivenne a casa. Non è a dire se la moglie del pescatore uscisse fori da' gangheri, quando riseppe, che il pesce era stato chiappo daccapo e che il suo marito non l'aveva con sè. Messe le mani su' fianchi e con una faccia malandrina principiò a urlare:—«Grullo, che se' un omo di stoppa? Non te n'addai, che quì sotto gatta ci cova, e che è la fortuna, che ti viene incontro e tu la spregi? O domani tu mi porti il pesce o ti nimicherò finchè campi.»—Sospinto e incoraggito dagli sberci della moglie, il pescatore, la mattina dopo, arrivato al lago e buttate le reti, alla prima tirata il pesce c'era dentro: e senza badare alle parole sue, corse diviato a casa e lo porse vivo sempre alla moglie, che lo prese e lo messe in un catino d'acqua fresca. Lì stavano d'attorno a rimirarlo e a farci sù de' ragionamenti; e la donna fantasticava, cercando qual fosse il miglior modo di cucinarlo. Il pesce allora, tirato un po' fori dell'acqua il capo, disse:—«Giacchè veggo, che non c'è più rimedio e ho da morire, lasciatemi almeno far prima testamento.»—Avendovi consentito il pescatore e la donna, il pesce soggiunse:—«Quando sarò morto, sparato e cotto, mangi le mie carni la donna, date a bere alla cavalla la broda della lessatura, buttate le ossa alla cagna, e le tre più grosse teghe mie piantatele ritte nell'orto vostro.»—Ammazzato il pesce e cotto, i due conjugi fecero appuntino quel, che il pesce gli aveva detto. E n'accadde, che la donna, la cavalla e la cagna, ognuna di loro insomma partorì tre creature mastie della sua specie, e le teghe piantate nell'orto crebbero e diventarono tre lance. Tanto queste, che le creature nate, si rassomigliavano così, che era impossibile riconoscerle fra loro senza mettergli un segno. Quando i fanciulli furono giovanotti grandi, il padre[377] diede un cavallo, un cane e una lancia a tutti e tre, e ci aggiunse del suo uno stioppo da caccia. Ma non passò di molto tempo, che il primogenito si straccò di stare a casa povero. Sicchè volse andar per il mondo in cerca di fortuna. Montato dunque a cavallo, prese con seco il cane, la lancia e lo stioppo a armasollo, salutò quelli di casa, e, lasciando una boccetta turata piena d'acqua chiara, disse:—«Se quest'acqua s'intorba, venite a cercar di me: io, o sarò morto, o mi sarà intravvenuta qualche disgrazia. Addio.»—E partì al galoppo. Il primogenito, dopo avere camminato di molti giorni per paesi ignoti, s'imbattè alle porte di una grandissima città e popolosa, dove entrato, si maravigliò oltre credenza nel vedere tutti gli abitanti di quella vestiti a lutto e mesti in viso. Incuriosito, ne domandò la ragione al primo incontrato. E seppe: come un Mago spaventoso con sette teste da lungo tempo compariva tutti i dì nel giardino reale al tocco di mezzogiorno, e divorava quanta gente gli capitava dinanzi; come il Re, a rimedio di peggio male, s'era obbligato col Mago di apparecchiargli a sorte un corpo umano al giorno; e come, quella mattina, la sorte era appunto cascata sulla stessa figliola del Re, e per questo la città tutta disperata vestiva di bruno.[3] Il giovane, che era coraggioso, disse:—«Non c'è forse modo di salvare la figliola del Re e liberare la città da simile flagello? Conducetemi al Re.»—Detto fatto, il giovane fu condotto alla presenza del Re; e gli chiese il permesso di combattere col Mago e di ammazzarlo. Il Re gli rispose:—«Giovane ardito, sappi che di molti prima di te si sono provati all'impresa, ma ci rimessero la vita. Se però anche te vuoi risicarla, io non te lo impedisco. E se tu vinci, quella mia figliola, oggi destinata per pasto al Mago, te la dò in isposa, e tu sarai mio erede nel Regno.»—Niente impaurito[378] il giovane, ma di più messo al punto di diventare genero del Re e suo erede, si fece menare nel giardino reale, dove già la Principessa se ne stava in ginocchioni, raccomandandosi l'anima, aspettando l'apparita del Mago. Quando il giovane la vidde, gli si accostò e la chiamò per nome; e gli raccontò, che era venuto lì per liberarla dalla morte e poi sposarla. La Principessa, girati gli occhi inzuppi di lacrime, disse:—«Disgraziato, vai via! o il Mostro spietato avrà oggi due da divorare invece di me sola. È un Mago tutto pieno d'incantesimi, come vuoi fare ad ammazzarlo?»—Il giovane, che nel mirare la Principessa se n'era già innamorato fortemente, gli rispose:—«Tant'è, oramai vuo' correre questo risico per amor vostro; e sarà quel che è destinato.»—Di lì a poco, scoccò all'orologio di palazzo il tocco del mezzogiorno; e la terra si diè a trabalzare; e di repente con gran fracasso s'aperse una buca; e da quella, tra il foco e il fumo, scaturì il Mago dalle sette teste. Il Mostro subito andò verso la Principessa con tutte le sette bocche spalancate; e fistiava dalla gioja, perchè in quel giorno c'erano due da divorare. Ma il giovane, senza frapporre indugio, saltato sul cavallo, si fogò contro il Mago, aizzandogli il cane; e con una lanciata lo passò parte parte. E 'n quel mentre, che il cane lo tratteneva coi denti, lui, sceso, colla scimitarra in un attimo gli tagliò le sette teste; sicchè l'ammazzò intra fine fatta e rompette l'incantesimo, liberando da morte la Principessa e la città da quel flagello. Quando il Mago non dava più segno di vita, disse la Principessa al giovane:—«Tu sei mio sposo. Ma piglia i segni della vittoria e portali al Re, acciò conosca, che fosti te l'ammazzatore del Mostro, e ti permetta darmi l'anello.»—Il giovane allora tagliò al Mostro le sette lingue e le ravvolse in un pannolino; e, rimontato a cavallo, s'avviò ad un albergo[379] per mutarsi i vestiti e comparire dinanzi al Re in figura garbata e pulita. Or'accadde, che, in una casuccia vicina al giardino reale, ci stava un ciabattino meschinello, sudicio e stralinco, ma di gran furbizia e cattiveria. Lui aveva da lontano visto il combattimento e sentiti i discorsi fra la Principessa ed il giovane; e mulinò fra sè un chiupparello:—«Profittiamo,»—disse,—«di questo bue, che ha lasciato nel giardino le teste del Mago e sciupa il tempo a vestirsi in ghingheri.»—Subito si cala nel giardino da una finestra; raccatta le sette teste mozzate; le nasconde in un sacco; e, preso un coltellaccio, che prima tuffò nel sangue, in mano, corre via a furia dal Re, e dice con un'aria di birbone:—«Maestà, ecco dinanzi a voi l'ammazzatore del Mago. Queste sono le teste, che con questo coltello gli ho staccate dal corpo. Mantenetemi dunque la parola e datemi la vostra figliola in isposa.»—Il Re si sturbò a vedere quel pezzente e alle parole, che proferì; e non sapeva capacitarsi come fosse ita la faccenda. Credette, che il giovane ardito l'avesse divorato il Mago; e che il ciabattino, profittando del contrattempo, avesse assaltato e finito il Mostro. Ad ogni modo la parola reale era data. Epperò il Re disse:—«Se così è, e pare a' segni, la mia figliola è tua. Pigliatela.»—In quel mentre, eccoti la Principessa nella sala; e, sentendo il trattato, cominciò a protestare, che il ciabattino era un bugiardo e che lui non aveva per nulla ammazzato il Mago. E qui nacque un battibecco; e il ciabattino metteva innanzi le teste a provare che diceva la verità. Sicchè il Re, per forza del giuro suo e dei segni, decretò che la sua figliola si chetasse e la volse fidanzata al ciabattino. E subito diede ordine, che s'annunziasse al popolo l'avvenimento e si apparecchiassero tre giorni di corte bandita con tre grandi conviti ogni settimana; e all'ultimo di questi[380] si sarebbero celebrate le nozze. Intanto, il giovane vincitore del Mago si avviava al palazzo del Re; ma, arrivato all'ingresso, non lo volsero fare entrare. E sentì nel medesimo tempo il banditore, che annunziava lo sposalizio della Principessa col ciabattino. Ebbe un bel protestare, urlare, che lo facessero parlare al Re; le guardie stettero dure, per ordine del ciabattino, e finalmente scacciarono a forza il giovane di lì. E lui, mezzo arrabbiato e mezzo piangente, rifece i passi e tornò all'albergo, ruminando quel, che gli convenisse mesticciare per impedire le nozze e farsi riconoscere per quello, che aveva morto il Mago. Nel frattempo, a corte, la mensa era pronta e di molti gl'invitati. E il ciabattino fu messo accanto alla Principessa, riccamente vestito e con sotto da sette cuscini, perchè gli stasse comodo. Il giovane, in quel frattempo, dopo stato un po' a pensare, si voltò al cane, che gli era a cuccia in su' piedi; e, a un tratto, gli disse:—«To', corri su; va dalla figliola del Re e festeggia lei sola; e, prima che si principî a mangiare, butta all'aria la mensa; poi scappa e non ti lasciar chiappare.»—Il cane ubbidente partì correndo; e saltò diviato in grembo alla Principessa, e lì ad accarezzarla e leccarla senza fine. Lei lo riconobbe. E si rallegrava; e, lisciandolo colle mani, gli domandava del padrone. Ma il ciabattino n'aveva sospetto e voleva, che il cane si scacciasse fuori della sala. Si messe la zuppa in tavola; e il cane, addentato un lembo della tovaglia, tira ogni cosa a sè con tutto l'apparecchio e manda tutto per le terre; e poi, via a gambe giù per le scale, e nessuno potè raggiungerlo e vedere, dove mai fosse andato. Lo scompiglio e il trambustìo tra i convitati non si può neanche raccontare, tanto fu smenso. Dopo otto giorni, si venne al secondo banchetto. Il giovane disse al cane:—«To', corri: fa' lo stesso come l'altra volta.»—Quando[381] la Principessa rivedde il cane, si rallegrò di molto. Ma il ciabattino se ne indispettì; e voleva assoluto, che il cane fosse preso e scacciato a suon di legnate. La Principessa però lo difendeva così, che il ciabattino non ardì fargli forma, abbene che stesse di mal'animo. Portata la zuppa, il cane, lesto, addenta la tovaglia, butta sottosopra ogni cosa, e fugge ratto più del vento. Le guardie e i servitori gli si sfilano dietro; ma fu inutile, perchè non poterono raggiungerlo. Al terzo banchetto, il giovane disse al cane:—«To', corri: fa' lo stesso dell'altre volte. Ma questa, lasciati pigliare all'uscio di camera mia.»—Di fatto, il cane eseguì gli ordini a puntino; sicchè le guardie, giunte alla camera del giovane e chiappato il cane, sentito che era suo, anche lui lo arrestarono e lo condussero davanti al Re. Il Re a vederlo lo riconobbe, e gli disse:—«Non se' tu quello, che ti profferisti salvare la mia figliola dalle branche del Mago?»—«Sì, son'io»—riprese il giovane,—«e la salvai ed è mia sposa.»—Ma il ciabattino, alzando la voce, cominciò a urlare:—«Non è vero, non è vero! I segni dell'ammazzamento son'io, che gli ho portati al Re; e son'io, che ho morto il Mago.»—Allora il giovane, senza sturbarsi, rivolto al Re, disse:—«Ebbene! si portino qui le sette teste mozzate dal Mago, e si vedrà chi ha ragione.»—Quando le sette teste furono messe a' piedi del Re, il giovane soggiunse:—«Guardate un po', se hanno le lingue nelle bocche.»—Le lingue non ci erano, gua'! Il giovane, cavato di seno il pannolino, le mostrò in quello rinvoltate; e poi si fece a raccontare, come la cosa fosse andata. Il ciabattino, non ostante, non si dava per vinto; e pretese, che le lingue si misurassero, per conoscere se si adattavano alle teste. La prova però tornandogli a carico, ogni volta, che si eseguiva una misura, lui scaraventava via un cuscino; arrivato al settimo e ultimo, se la diede a[382] gambe. Ma raggiunto e arrestato, per comando del Re, venne subito impiccato. Tutti allegri, il Re e gli sposi assieme a' convitati si sedettero a mensa e si diedero bel tempo; poi furon fatte le nozze. La mattina, appena giorno, il giovane si levò; e, aperta la finestra, vedde dirimpetto una folta selva piena di uccelli e gli venne voglia di andarci a caccia. Ma la moglie lo scongiurava che non ci avesse il pensiero, perchè quella selva era incantata e chiunque ci entrava dentro non ritornava più. Il giovane però, pieno di coraggio e di temerità, appunto perchè nella selva ci si correva un risico, s'incaponì d'andarci; e, preso il cane, la lancia e lo stioppo, partì. Aveva di già ammazzato di molti uccelli, quando a un tratto eccoti un temporale, che pareva il finimondo; toni e saette da sbalordire e l'acqua cascava giù a bocca di barile. Il giovane, bagnato sino all'ossa, cercava uscire dalla selva; ma non trovava più la via. Sicchè, venuta la notte, vedde una grotta e ci entrò. La grotta era piena di statue di marmo bianco in varî atteggiamenti; ma il giovane non ci badò troppo, molle e stanco com'era. Ravviate delle legna secche, coll'acciarino lui accese un pò di foco per rasciugarsi e còcere gli uccelli morti, avendo fame; e, intanto, pensava alla moglie; e si pentiva di non avergli dato retta. Di lì a poco, eccoti nella grotta una vecchierella, che sbatteva i denti, come intrizzita dal freddo, e tutta fradicia dal capo a' piedi. E, fattasi vicina al giovane, lo pregò, che la lasciasse riscaldare. E lui:—«Venite pure, mi terrete compagnia.»—La vecchierella si sedette, e offerse al giovane sale per gli uccelli arrostiti, pane pel cane e sugna per ugnere le armi. E il giovane, di nulla sospettando, accettò. Ma a mala pena ebbe mangiato lui gli uccelli, il cane il pane e l'armi furono unte, tutti diventarono statue di marmo. In sulla sera, la Principessa, non vedendo tornare il marito, lo[383] credette morto; e il Re, addolorato, diede ordine, che la città si vestisse a bruno. Infrattanto, nella casa paterna del giovane primogenito, che era partito, guardavano tutti i giorni la boccetta dell'acqua, che lui aveva lasciata: un giorno a un tratto, ecco! l'acqua s'intorba. Allora il secondogenito dice:—«Il fratello maggiore o è morto, o gli è intravvenuta qualche disgrazia. Vo' andare a cercarne. Tenete: anch'io vi dò questa boccetta d'acqua chiara; se s'intorba, sapete quel, che vi tocca a fare. Addio.»—Monta a cavallo; e col cane, la lancia e lo stioppo ad armacollo, parte di galoppo. Il secondogenito, dappertutto, dove passava o si fermava, faceva delle ricerche sul fratello suo, dicendo:—«Avete visto uno compagno a me?»—E ognuno rideva, rispondendo:—«Oh bella! non siete voi quello dell'altra volta?»—A questo modo il giovane capiva, che pur' anche il primogenito era passato da quei luoghi. E quando lui arrivò alla città, dove il primogenito aveva morto il Mago e sposata la figliola del Re, in nel suo entrare, tutti facevano le meraviglie e gridavano:—«È lui! è salvo! Viva il Principe!»—Sicchè, fermato e condotto dal Re, tanto questo, che la Principessa e la corte intiera, ingannati dalla gran somiglianza, lo sbagliavano col primogenito. E lui? zitto! non conoscendo se era in mezzo a gente di garbo o a gente traditora. Ma tanto la rigirò con furbizia, interrogando e rispondendo a proposito, che venne a capo di raccapezzare a un dipresso le avventure del primogenito, le sue nozze colla Principessa e il suo smarrimento nella selva incantata. Venuta la notte, il secondogenito fece le viste di essere di molto sturbato pe' disagi sofferti e stracco morto; e, messosi sovra una sponda del letto, lontano dalla Principessa, si addormentò. Alla mattina, si sveglia, si alza e apre la finestra e vede la selva dirimpetto. Coll'animo bramoso di ricercare il fratello, dice alla Principessa:—«Vò[384] andare un po' a caccia laggiù.»—E la Principessa piangendo:—«Ma che non ti basta il pericolo, scansato una volta, e le pene, che m'hai fatto soffrire a cagion tua? Non andare nella selva.»—Il secondogenito però non gli diede ascolto, e partì verso la selva assieme al cane, e con la lancia e lo stioppo. E costì a lui pure gli accade tutto quello, che era accaduto al primogenito; e rimase anche lui nella grotta trasmutato in istatua di marmo. La Principessa, non vedendolo tornare, lo tenne per perso; e la città daccapo si vestì a bruno per comando del Re. Nella casa paterna, intanto, dei tre fratelli, anche la boccetta del secondogenito si sturbò. E il terzogenito non frappose indugio; ma, sellato il cavallo, vi montò sopra; e, detto addio al padre e alla madre, partì a ricercare i due suoi fratelli. Prese con seco anche lui il cane, la lancia e lo stioppo. Cammin facendo, sempre chiedeva notizie, dicendo:—«C'è passato di quì due compagni a me?»—E tutti rispondevano:—«O perchè fate sempre la stessa domanda? Che siete matto?»—In questo modo, capiva, che i suoi fratelli avevano tenuta la medesima strada. Giunto alla città, venne accolto con gran festa e menato dal Re: e al solito, per la gran somiglianza, tutti lo sbagliavano pel primogenito. Andato poi a letto colla Principessa, si finse stracco e dormì sovra una sponda. La mattina, a levata di sole, il terzogenito si affacciò alla finestra, e, vista la selva, disse alla Principessa:—«Voglio andare a caccia laggiù.»—La Principessa diede in disperazione e gridava:—«Dunque proprio tu vuoi andare in perdizione? e finirai con farmi morire di paura.»—Ma il terzogenito non si commosse, avendo fissato in core di ritrovare a ogni costo i proprî fratelli. Sicchè, prese le armi ed il cane, s'avviò alla selva. Quando fu lì, ammazzò di molti uccelli. Ma, tutt'a un tratto, s'alza il temporale. Sicchè[385] smarritosi, gira e rigira, capitò nella grotta; e, guardate le statue, ci riconobbe subito anche i proprî fratelli. Disse fra sè:—«Qui c'è qualche inganno; ma starò a occhi aperti.»—Accese il foco per rasciugarsi e per cocere gli uccelli; ed eccoti la medesima vecchierella, che, accostandosi, gli chiese di lasciarla scaldarsi. Il giovane la sbirciò di traverso; e con mal garbo gli disse:—«Va 'n là! accanto a me non ti ci voglio.»—La vecchierella parve sconcertata a quest'accoglienza: e soggiunse frignando:—«Quanta poca carità avete! pure io vi offerirò di che meglio cenare. Eccovi del sale per gli uccelli arrostiti, del pane pel cane e della sugna per ungere le armi.»—«Eh! vecchia strega,»—urlò il giovane,—«me, tu non mi cucchi!»—E, saltatogli addosso, la buttò in terra e ce la tenne con un ginocchio sul ventre. Poi gli serrò la gola colla mancina, tirò fori la scimitarra e, accostategliela al collo, disse:—«Stregaccia infame! o tu mi rendi i miei fratelli o ti cavo l'anima senza misericordia.»—La vecchierella protestava, che nulla di male aveva fatto; ma, vedendo che il giovane non si commoveva e che stava lì lì per segargli la gola, piena di paura, promesse, che avrebbe obbedito a quel, che il giovane gli comandava. E, frugatasi in tasca, cavò un vaso di ungento, perchè ne ugnesse le statue, assicurandogli, che a quel modo sarebbero tornati tutti in vita. Il giovane non lasciò la vecchierella; ma, minacciandola sempre coll'arme, la obbligò a fare lei l'operazione: sicchè in poco d'ora tutte quelle statue erano rimenate a vivere e la grotta ne fu piena. I fratelli subito si riconobbero e s'abbracciarono; tutte le altre persone pure non trovavano parole, per ringraziare degnamente chi l'aveva salvate. Nel trambustìo intanto la vecchia cercava svignarsela; ma, essendosene accorti, gli furono sopra e la squartarono e così ruppero l'incanto[386] della selva. Di più, il primogenito gli prese il vasetto dell'unguento, che rendeva la vita agl'incantati e a' morti. Cammin facendo per ritornare in città, i fratelli si raccontavano le avventure patite; ma il primogenito, nel sentire, che gli altri due erano stati a letto colla Principessa, preso da furore geloso, sfoderata la scimitarra, ammazzò i suoi fratelli. Non appena però commesso quel delitto, che un gran rimorso gli nacque in core; e si buttò su' corpi de' morti, e diede in disperazioni e voleva tagliarsi in tutti i modi la gola. Ma gli altri lo impedirono. Tutto a un tratto, si ricordò lui dell'unguento preso alla vecchia strega; e, pensando, che era bono a far rinvivire i fratelli, ne fece la prova, ugnendo le loro ferite; e, miracolo! que' due si alzarono in piedi rinsanichiti e vispoli. Pieno di allegria, il primogenito chiese e ottenne perdono dai suoi fratelli; e poi con loro e la frotta dei compagni si recarono dal Re. Furono ricevuti con grande contentezza; si ordinarono canti e feste per la città; e si dette nelle campane, che pareva il nabisso. Il Primogenito si riunì colla Principessa; e il Re trovò mogli signorili agli altri due fratelli e gli messe nelle prime cariche di corte.
NOTE
[1] Raccolta dall'avv. Gherardo Nerucci; e gli fu raccontata dall'Elena Becherini del Montale pistojese. Il Liebrecht annota:—«Zu Grimm (K.M. n.º 60) Die zwei Brueder; s. zu Gonzenbach n.º 39. Von den Zwillingsbrüdern und n.º 40. Von den drei Brüdern.»—Parte di questa fiaba è identica alla III favola della X delle Tredici piacevoli Notti dello Straparola:—«Cesarino di Berni calavrese, con un leone, un orso e un lupo si parte dalla madre e dalle sorelle; e, giunto nella Sicilia, trova la figliola del Re, che doveva esser divorata da un fierissimo dracone; et con quelli tre animali l'uccide; e liberata da morte, vien presa da lui in moglie.»—È pure in gran parte iden[387]tica a lo Mercante, trattenimento VII della prima giornata del Pentamerone:—«Cenzo, rompe la capo a 'no figlio de 'no Re, fuje da la patria e libera da 'no dragone la 'nfanta de Pierdesinno. Dapò varie socciesse, le deventa mogliera; ma, 'ncantato da 'na femmena, è liberato da lo frate. Lo quale (pe' gelosia avennolo acciso), scopierto 'nnozente, co' na certa erva le torna la vita.»—Cf. anche e soprattutto con la Cerva fatata, trattenimento IX della I giornata:—«Nasceno pe' fatazione Fonzo e Canneloro. Canneloro è 'mmidiato da la Regina, mamma de Fonzo, e le rompe lo fronte. Canneloro sse parte. Deventato Re, passa 'no gran pericolo. Fonzo, pe' vertute de 'na fontana e de 'na mortella, sa li travaglie suoje e vace a liberarelo.»—Vedi anche, nel secondo cantare del Malmantile di Lorenzo Lippi, trasportato parte di questa fiaba, che l'autore avea desunta dal Cunto de li Cunti. Ecco l'argomento di esso secondo cantare: Dei due gran figli del signor d'Ugnano, Prodigioso natal narra Baldone: Come s'acquista moglie Floriano, E vien dall'Orco poi fatto prigione; Come Amadigi libera il germano, E il mostro spaventoso a terra pone; E dice alfin, che l'un di questi dui Fu padre a Calidoro e l'altro a lui. Cf. De Gubernatis. Novelline di Santo Stefano di Calcinaja, XVII. I tre fratelli; e XVIII. Il Pescatore. Mi scrive il Pitré:—«Riscontri siciliani editi col Mago delle sette teste, non ne conosco. Bensì vi sono ravvicinamenti e somiglianze parziali. Questo tipo di novella non è stato ancora pubblicato in Sicilia.»—Cf. per alcuni luoghi, Morgante Maggiore, Canto IV, stanze XL—LXXIX e segg.; episodio del Re Corbante, di Fiorisena, della città di Carrara e di Rinaldo accompagnato dal leone. Una pessima, monca, scorretta e corrotta lezione di questa fiaba è la seguente milanese.
L'ESEMPI DI TRII FRADEJ[i]
Ona volta gh'era trii fradei. E sti trii fradej eren sciori e eren restaa indree de pader e de mader. Ma eren trii gioven e se voreven ben tutt e trii. Quel, che voreva l'un, el condissendeva l'alter. On dì, hin andàa d'accord d'andà a girà el mond[388] tutt e trii. E han ciappaa on cavall per un e ona spada, cont adree on can per un. Hin andàa via insemma; e, quand hin stàa innanz tanti mija, s'hin spartii, perchè vun l'è andàa d'ona part e l'alter dell'altra. E s'even daa, prima de spartiss, on fazzolett bianch; che el fazzolett l'eva de restà smaggiàa de sangu, se vun de lor restava in pericol. Vun, l'è stàa el minor, l'ha veduu on bel palazzi e l'ha vedùu di bej argant[ii]; e lu, l'ha trovàa, che no gh'era nissun; e lu, l'è andàa denter. E gh'era là ona veggia. La ghe dis:—«Liga quel can, che mi gh'hoo paura! Liga quel can, che mi gh'hoo paura.»—E lu, quel gioven, el fa:—«Liga quel can! Liga quel can! coss'hoo de doperà per ligall?»—E lee, la gh'ha ditt:—«Dopera on cavell di mè! Dopera on cavell di mè!»—E lu, el fa:—«Dopera on cavell! Che forza el gh'ha d'avè vun di to cavej, de ligà el can?»—El condiscend e l'ha ligàa el can; e el cavell, l'è restàa ona cadenna, perchè lee, l'era ona stria. Dopo, lee, la gh'ha ciappàa el cavall; e dopo ligàa el cavall e lu, l'ha mettùu in d'on sit sotterranî, che le faseva morì a onz a onz. El fradell, quell'alter, el second, el ruga in saccoccia, el ved el fazzolett bianch tutt smaggiàa de sangu e allora el s'è accort, che el fradell l'era in pericol. L'è andaa in cerca del so fradell; l'è andàa giust in su quella strada e l'ha veduu quel palazzi, che gh'era nissun; e lu, per logass, (che gh'era domà che sto palazzi pien d'argant tutt illuminàa), lu, l'è andaa denter. E gh'era là sta stria: la s'è settada giò in d'on canton, l'ha vist a entrà con quel can e con quel cavall. L'ha faa l'istess, come con quell'alter.—«Via quel can! Liga quel can, che mi gh'hoo paura!»—E lu, el gh'ha condissenduu; el gh'ha ditt.—«Coss'hoo de doperà per ligall?»—E la gh'ha ditt, de doperà on cavell di so. E l'ha ligaa e gh'è restaa ona cadenna. Dopo, lee, l'ha mettuu con quel so fradell e l'ha faa consumà a onz a onz, perchè gh'era ona porta: chi entra in questa porta, non più risorto.[iii] Poeu, el so fradell, quell'alter, anca lu, l'ha trovaa el fazzolett smaggiàa de sangu in saccoccia.—«I me fradej, po' dass, hin in pericol de mort.»—L'è andaa in su l'istessa strada, l'ha trovaa sto palazzi e l'è andaa denter.[389] Gh'era là ancamò quella stria; e la gh'ha ditt de ligà el can, che lee, la gh'aveva tanta paura. E lu, el s'è faa risolutto, perchè el s'è accort, che gh'era denter i so fradej. El gh'haa parlaa seriament, con risoluzion, che el voreva i so fradej, se no con la spada el ghe tajava via el coo. E lee, la gh'ha ditt de ligà el can, che i so fradej i avaria faa vegnì voltra. E lu, el gh'ha ditt.—«Ah! che can! che can! soo minga ligà di can.»—Dopo, la stria, per la paura, l'ha bisognaa condiscendegh e andagh a tirà voltra i so fradej. Ma eren là in angonia[iv] tutt e duu; e lu, iè voreva san, tal e qual hin andaa denter.—«Se de no!...»—El ghe fa vedè la spada. E la stria, la gh'ha faa ona onzion e i ha faa guarì. E la gh'ha tornaa a dà el so cavall per un, el so can; e hin partii tutt e trii. Dopo, hin andaa a cà insemma.
[i] Il Liebrecht annota:—«Imbriani verweist auf Basile n.º 7 Der Kaufmann und n.º 9 Die bezauberte Hirschkuh; zu letzterem Mährchen vgl. Sizil. Mähr. zu n.º 39—40. Von den Zwillingsbrüdern.»—
[ii] Argant, sono les lampes d'Argant francesi, così dette dal fabbricante inventore.
[iii] Lasciate ogni speranza, voi, ch'entrate.
Dante.
[iv] Angonia, agonia; e così dicesi in parecchi dialetti e dicevasi anticamente in lingua aulica, per ravvicinare la parola alla etimologia di angere, più comprensibile al volgo della vera e greca. Questi raffazzonamenti di parole fatti dal volgo, per rendersi ragione a modo suo del valore d'un vocabolo, son comunissimi. Così, nel dialetto napoletano, gendarme si trasformava in cientarme (quasi uomo armato di cento armi). Così Afrodite (nome comunissimo in Pomigliano d'Arco per una Sant'Afrodite), diventa Fiorita. Così il toscano incolto dice alberinto, invece di labirinto, riconducendo il vocabolo alla radice albero, ecc. In un dispaccio di Francesco Michiel, ambasciatore veneto alla altezza di Carlo Emmanuele II, pubblicato testè per Nozze Bianchi, Michiel (Roma, 1876) la parola Maggiordomo è scritta Maggior d'huomo, attribuendole un'etimologia fantastica, che non può neppure giustificarsi con la natura della cosa, sendo i maggiordomi di corte, di solito, men che uomini. Narra il Domenichi, nelle Facezie, che:—”facendosi la vigilia di Beffania giuochi a vegghia, come s'una in que' tempi, fu all'improvviso domandato M. Vincenzio Arnolfini, gentilomo Lucchese, amicissimo mio, da una valorosa et nobil donna, che aveva un suo pegno, s'egli lo rivoleva. Et rispondendo egli di sì, quando che a lei fusse piaciuto: Ditemi, disse la donna, se rivolete il pegno, perchè la festa di domani sia detta Beffania?—È detta Beffania, rispose egli subito senza pensare, per la beffa, che i Magi fecero a Erode, che, avendogli promesse di tornare e riferire, dose era Cristo, se n'andarono per un'altra via et l'uccellareno. [Pronta risposta et degna di valoroso gentiluomo.]”—
[2] Abbiamo già visto un pesce parlante, ed indicato nella Novella intitolata il Luccio. Se ne trova un altro nella fiaba seguente:
IL PESCIOLINO[i]
Tempo fa, ma sono di molti anni, regnava ne' paesi una grande carestia, e la gente non aveva da mangiare, sicchè ne morivano de' cristiani dalla fame tanti, che era una disperazione e faceva 'scherezza a vedere que' disgraziati cascare, chi di qua, chi di là, per le terre senza fiato. A que' medesimi tempi, campava una povera donna pigionacola in un borgo; e il su' marito gli era morto da un pezzo; e lei era rimasa vedova con du' figlioli, un mastio più grandino e una bambina doppo lui; e il mastio lo chiamavano Gianni. Dice un giorno la su' mamma a Gianni:—«Se tu andessi a cercare un po' di pane, bambino! è tanto che non si mangia! Qualcuno forse tu lo trovi, che ti faccia un po' di carità per l'amor di dio.»—Gianni dunque si messe a girandolare per que' luoghi, ma non potiede raccapezzare da nissuno manco una briciola di pane. Che volete! con quella carestia, ognuno n'aveva di catti a tienerselo per sè. Sicchè Gianni, stracco morto e allaccato tra la fatica e la fame, si buttò giù a diacere al sole sulle sponde d'una fossettina, dove ci correva della bell'acqua chiara. E, nell'esser lì, tutt'a un tratto vedde un pesciolino, che navicava; e pareva, che fosse d'argento. Lui pensò subbito d'acchiapparlo e portarlo a casa alla su' mamma, perchè lei almanco lo mangiasse. E piano piano, sceso dentro il fosso, gli riuscì serrare il Pesciolino tra le mani. Ma il Pesciolino principiò a discorrere e a raccomandarsi a Gianni di lassarlo libero, e che l'avrebbe ricompensato della su' bona azione. Gianni, in nel sentire quell'animale, che parlava, s'impaurì[391] e spalancò le dita, e rimase lì mezzo grullo in sospetto di qualche gastigo. Il Pesciolino però gli disse:—«Non aver temenza, chè del male non te ne voglio fare, sai. Oh! perchè mi volevi mangiare?»—Dice Gianni:—«No' siamo tanto affamati a casa e non s'ha pane: ogni cosa è bona in tempo di carestia. La mi' poera mamma fila la stoppa; ma, bene che guadagni poco, prima s'andava innanzi; ora 'nvece ci converrà a tutti morire affamati.»—«Senti,»—disse il Pesciolino,—«tu mi garbi, e io vi aiterò tutti di quel, che v'abbisogna. Quando vi manca qualcosa, basta, che tu dica, per essere esaudito:
«Pesciolino, mi' amante,
Saresti a me costante?
Mi faresti la carità?»—
—«Allora,»—gli arrispose Gianni,—«i' lo dico in questo vero momento:
«Pesciolino, mi' amante,
Saresti a me costante?
Mi faresti la carità?
M'abbisogna del pane.»—Alle su' parole, il Pesciolino fece apparire un pane di dieci libbre, perchè lo portassi a casa. Ma gli comandò a Gianni, che doveva star cheto e non raccontare del Pesciolino fatato di quel fosso[ii]. Gianni dunque andiede dalla su' mamma con quel pane di dieci libbre; e inventò, che gliel'aveva regalo uno zio mugnajo per limosina. Dice su' madre:—«Chè, questo è impossibile; è una limosina troppo grossa per de' tempi di carestia. Tu l'ha' rubo, sciaurato, non dir bugie.»—E Gianni a giurare di nò, e che era un regalo del su' zio. Dice su' madre:—«Oh! s'io degli zii è tanto, che non n'ho più; son tutti morti e seppelliti da un bel pezzo.»—E Gianni:—«Guà, vole dire, che voi non gli cognoscevi tutti; e che questo[392] l'ho trovo io nel su' mulino di molto lontano di casa nostra. Gnamo, chetatevi, mamma, e non dubitate di nulla. Anzi lo zio m'ha promesso di darmi tutto quello, che m'abbisogna.»—Abbenchè quella donna non fosse tanto persuasa delle parole del su' Gianni, siccome aveva fame, si messe a mangiare il pane assieme co' su' figlioli, e in quel mentre gli scappò detto:—«Pan solo! anche il pan solo è bono, quando non c'è altro. Ma sarebbe più bono tavia con del cacio e con un po' di vino per mandar giù meglio ogni cosa.»—Dice Gianni:—«Lassatemi ritornare dallo zio e il cacio e il vino vo' l'avrete.»—Insomma, per non farla tanto stucca, bastava, che Gianni andesse dal su' Pesciolino e gli chiedessi della robba, che tutto quel, che voleva, lui l'aveva; e, quando viense il freddo di verno, Gianni portò a casa una pezza di lendinella per fare il vestito alla mamma e alla sorella, e un'altra di panno per sè, chè erano prima quasi gnudi e battevano le gazzette. Ora gli accadè, che un giorno, Gianni era dientro a un bosco a cercare di legne, e s'accostò a un palazzo e ci vedde al balcone la figliola del Re; una bellezza da levar gli occhi a guardarla soltanto. Pensò Gianni:—«Se fosse mia! Ma com'è possibile ch'i' possa sposare una figliola di Re, io meschino accosì?«—E stava lì sotto al balcone a strolagare. Ma quella ragazza non ci badò a lui più che tanto. Figuratevi, se una Principessa a quel mo' voleva badare a un poero straccione di per le strade! A un tratto Gianni scrama:—«Che tu possa fare un figliol mastio per virtù del mi' Pesciolino!»—e se ne va diviato a casa. Le parole di Gianni non cascorno invano; perchè la figliola del Re si cominciò a sentir male. Subbito chiamano i dottori a visitarla. E, doppo averla tastata chi di qua e chi di là, gli dissano:—«È gravida.»—Nascette un buggianchio in tutta la corte, perchè la Principessa giurava, che lei non aveva dato retta a nissuno e che era innocente. Ma il Re la ragione non la intendeva, vedendo che alla su' figliola il corpo gli cresceva sempre. Che ti fa? ordina che senza indugio sia serrata dentro a una torre con delle guardie. E lì ce la tiense finchè lei non ebbe partorito un figliol mastio. E il Re volse, che questo mastio fosse rallevato nel palazzo; e badava a cercare se mai si scoprisse chi aveva ingravidata di niscosto la Principessa. Quando il bambino arrivò a du' anni finiti, il Re, che si struggeva di sapere chi fosse il babbo, fece attaccare per tutti i canti del su' Regno un bando:[393] che a un giorno fissato s'adunassino nella corte tutti i signori e cavaglieri e che lui avrebbe concesso per isposa la su' figliola a quello tra loro, stato scelto dal bambino, con una palla d'oro, che gli voleva mettere nelle su' manine. Al sentire quel bando, anco Gianni pensò d'andare alla Corte. E si messe addosso i meglio vestiti e gli riuscì bucare, senz'esser visto, nella sala dell'adunanza, addove in mezzo, sur un tappeto, c'era il figliolo della Principessa colla su' palla d'oro tra le mani. E, abbenchè Gianni si fosse accoccolato in un cantuccio, nonistante il bambino lo trovava sempre e la palla d'oro la dava a lui. Figuratevi, che stupore di quel Re e di que' signori! La Principessa, poi, diventava quasi matta, in nel vedere la trascelta del su' figliolo, perchè lei Gianni non l'aveva mai cognosciuto. Infine tutti incattiviti a bono, a spintoni discacciorno Gianni fori di lì. E il Re disse, che quell'adunanza non gli garbava più e che ne voleva fare un'altra col bambino quand'era più grande; tra un anno, via. L'anno dunque arrivò e i bandi furono appiccicati alle cantonate del Regno; sicchè anco Gianni ci volse ritornare al palazzo. Ma prima andiede al fosso del Pesciolino e lo chiamò come lui gli aveva insegnato:
—«Pesciolino, mi' amante,
Saresti a me costante?
Mi faresti la carità?»—
Dice il Pesciolino:—«Che vo' tu, Gianni?»—Dice lui:—«Voglio diventare un gran signore, con di be' vestiti, de' cavalli, la carrozza e i servitori, cucchieri e cacciatore, tutti colla livrea.»—Dice il Pesciolino:—«Per farne che di tutta questa robba?»—E Gianni allora gli raccontò quel, che gli era intravenuto colla figliola del Re; e che lui l'aveva ingravidata per virtù del su' amante Pesciolino; e in somma gli scoperse ogni cosa. Dice il Pesciolino:—«Vai, mi' Gianni, che tu sie' esaudito.»—Il giorno dell'adunanza, dunque, ci venne anco Gianni con un traino alla reale, che non ce n'era altri de' compagni. E nissuno potiede raccapezzare chi fosse quel gran signore e di che paese del Regno; ma in ogni mo' lo lassorno ascendere in fino in sala. E lui si messe a siedere assieme cogl'invitati. E quando cominciorno le prove per iscoprire il babbo del figliolo della Principessa, questo, senza manco pencolare, portò la palla d'oro nelle mani di Gianni. Dice il Re:—«Dunque siete voi[394] quello, che ha 'mpregnato la Principessa mi' figliola.»—Arrispose Gianni:—«Al parere è accosì, Maestà.»—La figliola del Re però non stiede zitta; e cominciò a urlare, che non era vero, che lei non lo cognosceva quel signore prutenzionoso e che lei non lo voleva per isposo. Ma il Re la fece stare cheta, perchè la prova per lui era bona e intendeva di mantienere la su' parola. Sicchè diede il comando, che ogni cosa fosse ammannito per le nozze della su' figliola con Gianni. A quell'ordine, la Principessa, perchè Gianni non gli garbava, disse:—«Almanco sua Maestà, m'accordi una grazia.»—Dice il Re:—«È accordata, purchè tu sposi chi è stato trascelto per babbo dal tu' figliolo.»—«Sposare lo sposerò,»—arrisponde lei;—«ma che lui, prima di menarmi con seco, mi fabbrichi un palazzo con un giardino compagni e dirimpetto al palazzo reale, per poterci star dientro da par mio; e vo' sapere chi sono i su' parenti.»—A quella domanda nonistante non si sgomentò Gianni nel sentirla; e gli promesse alla su' sposa, che subbito la contenterebbe a su' piacimento. E, senza indugio, andiede dal Pesciolino; e al solito lo chiamò fori:
—«Pesciolino, mi'amante,
Saresti a me costante?
Mi faresti la carità?»—
Per non allungarla troppo, il Pesciolino fece apparire in nel momento quel, che Gianni volse; e la mattina doppo, quando la Principessa fu levata e s'affacciò alla finestra, vedde un bel palazzo novo e col giardino pieno di piante, di fiori, e con un bosco fitto tutto di cedri, che non ci mancava nulla e pareva il palazzo reale. E venuta poi l'ora delle nozze, eccoti! comparsero la mamma e la sorella di Gianni, vestite come tante Regine. E accosì bisognò che la Principessa s'accordasse a diventare sposa legittima di Gianni: ma lei non era contenta. Anzi, che lei non era contenta l'addiede subbito a divedere; perchè, in nel mentre che spasseggiavano nel giardino, lei colse un bel cedro e poi lo messe di nascosto in tasca a su' padre; e, quando furono a tavola alle frutte, lei disse:—«Sarei più allegra se qualcuno non m'avesse rubbato il più bel cedro del mi' giardino.»—A quel discorso tutti si dettano a cercare per le tasche, e il Re lo trovò in nella sua. Guà, poer'omo! diventò rosso come un carbone acceso dalla vergogna. E, doppo un pezzo, che strolagava chi gli[395] aveva fatto quel brutto scherzo, la su' figliola gli disse:—«Caro padre, non vi state a confondere a cercare chi è stato, e non vi sbigottite: ma arricordatevi, che anch'io non sapevo chi m'aveva ingravidata, e in ogni mo' e' mi conviense di star serrata nella torre per vostro comando e pigliar poi lo sposo, che m'avete trascelto. Il cedro in tasca vi ce l'ho messo io.»—Il Re, a questo rimprovero, non ci arrispose. Ora, per tornare un passo addietro, bisogna sapere, che, quando Gianni andette per l'ultima volta dal Pesciolino, il Pesciolino gli disse, che lui partiva per un altro paese, ma che non voleva dibandonarlo. E però gli fece il regalo d'una lampana d'ottone; e, a stropicciarla, questa lampana, subbito appariva tutto quello, che Gianni bramava; ma lo pregò d'essere di molto prudente e a badare di non perderla la lampana, insennò non c'era più rimedio; tutto l'incanto finiva[iii]. E siccome Gianni del possesso non n'aveva, tutte le su' entrate le cavava dalla lampana; pagava i mercanti a mesi; una stropicciatina alla lampana e la lampana buttava i quattrini secondo il bisogno, per le carrozze, per i cavalli, per i servitori, in somma per ogni spesa giornaliera; e così tirò innanzi per un bel pezzo. Ma, per su' disgrazia, Gianni la testa non l'aveva sempre con seco, e po' colla su' moglie non ci steva troppo d'accordo. Sicchè, lui, gli era sempre a girare di qua e di là; e la lampana la serbava accosì niscosta dientro un cassettone fra delle ciarpe e delle robbe smesse. Un giorno, dunque, che Gianni era fori, viense a passare di sotto alle finestre del su' palazzo un rivendugliolo, di quelli, che comprano cenci e rottami d'ogni sorta. In nel sentirlo urlare per la strada, la cameriera della Principessa andiede a trovarla e gli domandò se voleva dar via quel, che c'era di vecchio per la casa. Dice la Principessa:—«Sì, sbrattiamo della robba inutile il palazzo.»—E si messano a rinfrustare tutti gli armadî e i cassettoni, sicchè trovorno anco la lampana d'ottone; e, concredendo che non fosse bona a nulla, la vendiedero per pochi soldi a quel merciajolo ambulante. Quando però si viense alla fine del mese, che Gianni doveva fare i soliti pagamenti, cerca di qua, cerca di là, la lampana non la trovò più addove lui la tieneva. Tutto sbigottito, corre dalla moglie e gli domanda se lei quella lampana l'ha veduta. Dice la Principessa:—«Sì, l'ho veduta; ma i' la vendetti[396] per ottone vecchio a un merciajolo.»—Scrama a quella nova Gianni:—«Oh! me sciaurato! No' siem fritti! Quella lampana era tutta la mi' rendita, perchè era una lampana incantata!»—Allora la Principessa, invece di racconsolarlo, lo mandò subbito via dal palazzo e lui tornò poero come prima.
E finisce accosì la mi' novella:
Se vo' sapete, ditela più bella.
[i] Novella narrata dalla Luisa Ginanni del Montale Pistojese all'avv. prof. Gherardo Nerucci. Cf. Pentamerone, I. 3. Peruonto.—”Peruonto, sciaurato de coppella, va pe' fare 'na sarcena a lo vosco. Usa no termine d'amorevolezza a tre, che dormeno a lo sole; ne receve la fataziene; e, burlato da la figlia de lo Re, le manna la mardezione, che sia prena d'isso. La qual cosa saccesse; e, sapenno essere isso lo patre de la creatura, lo Re lo mette dento na votta co' la mogliera e co' lo figlio, iettannolo dinto mare. Ma, pe' bertute de la fatazione ssoja, sse libera da lo pericolo; e, fatto 'no bello giovene, deventa Re.”—Lo stesso racconto è presso lo Straparola. Notte III, Favola I. (Vedi pag. 194 del presente volume tra le note alla Novella XIII Il Luccio). Pitrè (Op. cit.) CLXXXVIII. Lu loccu di li passuli e ficu. Pitrè (Otto fiabe e novelle siciliane, raccolte dalla bocca del popolo ed annotate, Bologna, 1873). III. Lu Cuntu di Martinu.
[ii] Che alcuni pesci fossono addomesticabili e benevoli all'uomo è stata opinione diffusa. Narra Brunetto Latini:—“Et elli si trova ne le storie antiche, che uno garzone nutricò uno delfino col pane et amavalo tanto, che 'l fanciullo lo cavalcava et giucava con lui. Avvenne, che 'l garzone morio; et elli, stimando che 'l fosse morto, se lasciò morire. Et anche in Egitto, un garzone nutricò un altro, che simigliantemente lo cavalcava et giocava con lui. Addivenne, che questo garzone, a preghiera d'uno signore, si lo fece uscire fuori et saltare ne la piazza; et quelli lo uccisero.”—
[iii] È la lampada di Aladino delle Mille e una Notte.
[3] Ricorda l'antica Andromeda; Olimpia ed Angelica legate al duro sasso dell'Ariosto; il Mostro Turchino del Cerlone, ecc.
LE DUE BELLE—GIOJE.[1]
C'era una volta un Re e una Regina: in capo a qualche anno rimase incinta. Nell'essere un giorno alla tavola d'i' pranzo con il suo legittimo sposo, risponde e dice:—«Carissimo sposo, io pretenderei di farmi strolagare per vedere o maschio o femmina ch'io devo fare e su che destino nasce.»—Dice:—«Avrei piacere ancora io.»—I' Re subito manda a chiamare un astrolago per fare strolagare la sposa. Apparisce l'astrologo con i' suo bravo libro sottobraccio, se lo leva di sottobraccio e l'apre. Si turba lo strolago. I' Re:—«Cosa c'è?»—«Eh maestà, sarebbe disgrazia; mi perito anche a dirgnene. Sua sposa partorirà una bellissima femmina, e, nasce sur i' destino, che deve esser portata via da i' vento.»—I' Re:—«Quando sarà i' momento, che te partorirai,»—dice alla sposa—«farò mettere subito mano a fabbricare una gran torre innanzi a i' mio palazzo; e per entrare n'in chesta torre ci sieno tre porte da aprirsi e da chiudersi, per via che i' vento non possa far male a nessuno.»—Quando fu l'ora e ì' momento, fabbricata questa torre, v'era quartieri da Regina e da Re, come fusse stato n'i' palazzo. Vi straportano la Regina in una bellissima camera; che costì, compiti i nove mesi, cominciò i dolori d'i' parto e partorì una bellissima femmina. Prese una buona nutrice pe' rilevà' la figlia d'i' Re, per nudrilla. Datogli le sue dodici[398] damigelle alla bimba, datogli tutta quella servitù, che a lei le si apperveniva. Venendo in crescenza la figlia; andando a ora di digiunè, a ora di pranzo, a ora di rinfresco nella torre con tutta la sua famiglia, lui, la sposa e la bimba; vedendo la figlia, che, quando gli avevano mangiato e bevuto si rizzavano:—«Addio, sai, Nini; addio, sai, bimba; stai bona!»—si rizzavano e se ne andavano via; alla servitù, che aveva dintorno, dice:—«Io vorrei sapere, o perchè io devo stare sempre qui?»—«Eh signorina, io non lo saprei neppur io. Lei deve ubbidire ai Suoi genitori. Quello, che vole i' padre e la madre. Lei deve stare all'ubbidienza.»—La stava zitta, poerina! Ma si struggeva: e i' babbo e la mamma, che gli volevano un bene dell'anima, tanto feciono, che seppero perchè la stava così immalinconita. Fu costretto i' Re di fare un invito nella torre della figlia; un invito d'un pranzo, che lui dava: ci fusse di tutto; tutta l'udienza e tutto. Fissato quest'invito, che aveva dato i' Re, apparisce i' tal giorno a pranzo nella torre. Dice:—«Signori, io vi ho invitati quì nella giornata a pranzo da me, per avere un consiglio da vojaltri.»—«Eh Maestà, i' consiglio si dovrebbe prender nojaltri da Lei e non Lei da nojaltri.»—«Anzi da vojaltri. Siccome abbiate da sapere, che la mia figlia è nata sur destino che, compiti che lei avrà i diciott'anni,... è nata sur destino che deve esser portata via da i' vento;—voi, ingegneri, volendola menare fori a passeggio, ci potrebbe essere una maniera, che non fosse portata via da i' vento?»—«Sacra Maestà, fabbricata che fosse una carrozza di ferro fuso con delle buche, tanto per vedere l'aria, i palazzi, questi campanili, queste cupole, questi casamenti, potrebbe vedere gnincosa e non potrebbe essere straportata via da i' vento.»—Gl'ingegneri presono di potergnene fare questa carrozza[399] di ferro fuso. Fu straportata questa carrozza nella torre, aprendo una porta alla volta. I' padre e la madre e la figlia, rivestiti da quello, che gli si apperveniva, entrano nella carrozza tutti e tre, i' padre e la madre e la figlia. Dice:—«Eh quì siamo a i' sicuro! nè io nè la mia figlia non possiamo essere straportate da i' vento! Andiamo, andiamo!»—Sortendo dalla torre, la carrozza va e se ne vanno alle Cascine. Non gli parea vero esser sortita fori, vedendo tutte quelle belle cose, tutti quei bei palazzi, chiese, campanili e tutto. Smirava, l'era mezza grulla in carrozza dalla contentezza. Si dà la disgrazia che, quando sono vicino a i' prato più grande delle sue Cascine, si dà la disgrazia una folata di vento, una ventolazione in grande, che ti sbalza la carrozza e ti porta via la figlia d'i' Re. E i' padre e la madre a piangere fortemente di aver persa la figlia, che non potettero mai sapere in dove i' vento l'avesse straportata. La combinazione fu, che i' vento la straportò in un'isola la più grande, che ci fusse; sur un tetto, che ci abitava una Fata[2]. Poerina, essendo in su questo tetto, che lei non sapeva in dove l'era e dove non era, poerina! piangeva e sospirava, su codesto tetto. E questa fata, che sente rammaricarsi:—«Voglio andare a vedere, che diamine c'è sur i' mio tetto.»—Salisce la fata:—«Chi mai ti ha straportata sur i' mio tetto?»—«Abbia da sapere, che io son la figlia d'i' Re; ed era nata sur i' destino, che doveva essere portata via da i' vento.»—«Per me, ti hai da essere figlia di un Re, ti hai da essere anche figlia di uno spazzaturajo; se vuoi venire giù, vieni; se lavorerai, mangerai!»—gli fa questa fata. Te la mette lì in casa:—«Dimmi un po', dimmi. Di primo impeto: io vo sapere come t'hai nome.»—«Mi chiamo Bella—Gioja[3].»—«Sì, eh? fussi minchiona a chiamarti Bella—Gioja! Ci ho[400] i' figliolo, che si chiama Bella—Gioja. Guarda, s'io ti vo' chiamare Bella—Gioja, te? Ti metterò nome Troja.»—«Oh mi metta i' nome come vo' Lei.»—Poera ragazza! Eccoti i' figliolo, che torna a casa della fata. A un tratto vede quel bel pezzo di ragazza.—«Dà retta, non gli ponere gli occhi addosso, che non ti vengano delle simpatiacce; che io peno poco a rimandarla di dove l'è venuta.»—«Io vi dirò una cosa, sapete, mamma?»—gli fa Bella—Gioja, i' figliolo della fata, alla fata:—«Io vi dirò: e' si guarda una fascina, ch'è di tre pezzi; posso guardare quella femmina, che l'è di un pezzo solo.»—«Andiamo, s'ha a mangiare.»—Mangiano, la tavola gli è bell'e apparecchiata.—«Non gli dai da mangiare a quella ragazza, mamma?»—Dice:—«Te, t'hai da pensà' per te. Come la lavorerà, mangerà. Se non lavorerà, non mangerà.»—La gli dà per non parere un bicchier d'acqua, neppur pieno i' bicchier d'acqua, e una fettina di pane, ch'era più quasi a una fetta di salame.—«Come si chiama, mamma?»—«Fammi i' piacere, fammi, non me lo rammentare neppure come si chiama!»—«Perchè?»—«Perchè, fammi i' piacere, fammi, se tu sapessi come si chiama! Si chiama Bella—Gioja. Io, che ho te, che ti chiami Bella—Gioja, non vo' far altro che chiamar Bella—Gioja lei!»—«Ma, o come gli hai messo nome?»—«Oh senti, che ti piacqua o non ti piacqua, io gli ho messo nome Troja e la dee aver nome Troja.»—«O non le sapevi metter altro che di nome Troja?»—«No, ha da esser chiamata Troja, Troja, Troja!»—Si rizza Bella—Gioja e va a i' suo travaglio, alla sua bottega a lavorare quello, che faceva di mestiere. Fatto si è la sera, quando gli è l'ora delle ventidue, torna a casa Bella—Gioja. Dava sempre delle occhiatine a quell'altra Bella—Gioja. Non gli veniva mai detto:—Troja»—a[401] i' figliolo; la rispettava, com'ella aveva a esser rispettata. Come di fatti si mettono a tavola. Dice alla madre Bella—Gioja:—«Dategli quaiccosa anche a quella femmina là. Che volete? senza mangiare non si sta ritta.»—«Come la lavorerà, la mangerà. Una fettina di pane e mezzo bicchier d'acqua.»—E Bella—Gioja gli dava d'occhio a quell'altra Bella—Gioja, come a dire:—«Zitto! la s'addormenterà mia madre e io starò sveglio.»—Come di fatti, lui cercava di ubbriacare ogni sera sua madre, per via ch'ella cominciasse a russare.—«Sai, Bella—Gioja, s'ha ire a riposare, che domattina tu t'hai a levà' presto; t'hai da andare a lavorare. Te, Troja, vien quà. La vedi quella cassa lì?»—«La veggo.»—«T'hai a sdrajare su quella cassa e t'hai a dormire lì.»—Se ne vanno a letto, Bella—Gioja e la madre. Quando Bella—Gioja sente, che la madre l'ha attaccato i' sonno, adagio adagio, sorte d'i' letto, lui. Va alla cassa:—«O Bella—Gioja, che dormi?»—«No, non dormo.»—«Oh alzati! vieni di qua con meco.»—La s'alza, poerina, e va di là insieme con Bella—Gioja:—«Accomodati a sedere.»—Con la bacchettina fatata... batte la bacchettina fatata:—«Comandi, Signore!»—«Comando le meglio bevande e pietanze; da Regina, come lei è.»—Ed apparecchiata la tavola d'ogni ben di dio, e tutti e due (le due Belle—Gioje), a mangiare a bere a spron bàttuto:—«Sai, Bella—Gioja; io t'ho da avvertitti d'una cosa, perchè la mia scelleratissima mamma ti vorrà far fare cose, che te non le hai mai fatte a questo mondo, e non le puoi fare mai. Non piangere, nè sospirare. Tu non devi far niente; perchè, quando sono le ventitrè, apparisco io e faccio tutto quello, che mia madre vole che facci te. Ora verrai a riposare in un bellissimo letto. Altro, che[4], a mattina, sparirà i' letto, che te hai[402] riposato nella nottata; e te ti troverai sulla cassina. Non vol dire niente.»—Va di là, batte la bacchettina fatata e apparisce questo bellissimo letto. Si trova spogliata Bella—Gioja e si trova messa n'i' letto, che n'i' suo palazzo non avevano un letto uguale a quello, che quella nottata riposava Bella—Gioja. Bella—Gioja, la terza sera, quando ebbero mangiato e tutto, andiede a letto con la mamma; e la ragazza sulla cassa. Quando fu addormentata la mamma, Bella—Gioja il giovanotto s'alza e va dalla ragazza:—«Bella—Gioja, alzati e vien di là.»—S'alza di sulla cassa e vien di là. Lui batte sulla cassa e gli apparisce d'ogni grazia di dio, di bevande, di pietanze e tutto.—«Intanto che te mangi, sai, Bella Gioja, si fa una faccenda stasera.»—Andò a prendere una caldaja, la empì di acqua e la messe a i' foco; prese della farina, diverse libbre di farina; e cominciò a fare la pasta. Fece tutti maccheroni. Cotti (che li ebbe) e tutto, prese questi maccheroni; e quicchè v'era d'arnese nella casa, principiando da' panchetti del letto, asserelli, attrazzi del letto e tutto, seggiole, imposte, arali, tutti gli attrazzi, che v'era per la casa, a tutti diede i maccheroni; alla paletta poi, che stava nel camino, a quella lì... li ebbe abbondanti, perchè nel posto, che stava Bella—Gioja a dormire sulla cassa, messe la paletta sulla cassa. Pare almeno, che gli abbia contentati tutti, nel suo tenitorio, in dove stava insieme con la madre!—«L'ora, cara Bella—Gioja, è tale di partì' di quì.»—Si prende la bacchettina fatata, che aveva la madre; carica due muli tra verghe d'oro e d'argento; montano su in questi muli carichi; chiudono la porta; e via a spron battuto. Se ne vanno via, trottando, via, via, via. La fata, che si sveglia la mattina e tasta, che non sente che c'è Bella—Gioja, il suo figliolo, la mattina:—«Eh si vede, ch'è andato via a bottega. Troja! alzati, che[403] gli è tardi.»—«Ora!»—la paletta gli risponde.—«lasci stare un altro pocolino, sono stracqua.»—«Ora, ti dico, che tu t'alzi.»—Oh! c'era un malandrino sgabello sott'i' letto della fata, che s'erano scordato dargli i maccheroni:—«Chiamala, chiamala la Troja! gli è costì la Troja!»—fa questo sgabello.—«Chi sa le miglia, che gli hanno fatte, vedi! Si son caricati due muli fra verghe d'oro e argento e sono scappati via.»—«Ah birboni! ah birboni!»—Questa donna sorte da i' letto; sorte da i' letto, si veste, e via di gran carriera per corrergli dreto. Trova una bottega di ortolano; c'era l'omo sulla porta della bottega, che vendeva erbaggio.—«Ditemi, galantomo, avreste visto passare un omo e una donna con due muli carichi?»—«A un soldo i' mazzo i broccolini!»—«Ma vi ho detto, se avevate visto passare un omo con una donna e due muli carichi?»—«I broccolini un soldo i' mazzo! i broccolini un soldo i' mazzo! Volete i porri? un soldo i' mazzo!»—«Io vi dico, se avete visto passare un omo con una donna e due muli carichi?»—«Un soldo i' mazzo le cipolle!»—«Andate a farvi sbudellare!»—Gli volta il sédere[5] e tira via. Un pò più in sù, cammina cammina, la trova una bottega di merciajo:—«Ditemi, giovanotto, avreste visto passare un omo con una donna e due muli carichi?»—«Un soldo la pezza i' cordoncino!»—«I' ho detto, se v'avete visto passare un omo con una donna e due muli carichi?»—«Come La lo vol'Ella? Renza? o nastro di cetone, di seta, di velluto?»—La s'imbizzisce, la scappa via anche da lui. Trotta, trotta, la trova un chierico su una cappella d'una chiesa.—«La dica, sor chierichino, non avrebbe visto passare un omo con una donna e due muli carichi?»—«I' prete gli è in sacrestia, che si veste pe' dì' messa.»—«I' ho[404] detto, se l'ha visto passare un omo con una donna e due muli carichi? »—«Adesso gli esce di sacrestia per andare all'altare.»—«Oh non mi rompa i' capo! Gli dico, se gli ha visto passare un omo con una donna e due muli carichi? La mi dice: ora gli è per entrare la messa!»—«Ora gli scende all'altare tare per segnarsi e cominciar la messa.»—«Io ho detto: se ha visto passare un omo con una donna e due muli carichi?»—«Gli è a i' confiteor, gli è!»—«Andate a farvi benedire!»[6]—La gli volta i' sédere e la scappa via. Corre, corre a spron battuto, da disperata: cammina! cammina! Diceva:—«Oh! m'ha sbudellata anche bene.»—Si volta Bella—Gioja la ragazza e vede la fata, che era dreto:—«Oh Bella—Gioja!»—«Che cosa c'è?»—«C'è vostra madre dietro, sapete?»—«Lasciamola essere; tiriamo via, tiriamo.» Il fatto gli è, che batte la bacchettina fatata e fa venir su un bosco fitto.—«Eh birbone! m'hai tradito anche bene.»—Con quelle mani, che l'aveva, fa sì tanto, che; a un pò per volta, la sbrana i' bosco e la trapassa. Sempre Bella—Gioja corre con la testa voltata addietro, per vedere se la vedeva la fata.—«Bella—Gioja!»—«Cosa c'è'?»—«Vostra madre, a i' solito.»—«Lasciala, lasciala venire! Qualche volta si fermerà.»—Batte la bacchettina fatata, fa venire una montagna crepidosa con tutto un porcume da poter sgrusciolare, da non poterla salire.—«Ah birbone! me l'ha fatta!»—Si provava e brrr! giù e sdrucciolava. Sdrucciola parecchie volte, venne sì tanto a fare, che la montagna la trapassò anche quella. Cammina, cammina, cammina, Bella—Gioja si volta addietro a vedere la fata:—«Oh Bella—Gioja, ci è vostra madre.»—«Lasciala essere! Verrà i' momento, che la 'un ci sarà più.»—Batte la bacchettina fatata.—«Comandi.»—«Comando[405] una montagna di tutti arnesi bene arrotati, bene affilati e tutto.»—«Oh birbone! me l'ha fatta bella!»—E la va lei a provare, se può passare quella montagna, adagio adagio. Le si stacca un dito, le si stacca quell'altro, che, alla fin d'i' salmo, con i' sali e sali e sali, quando la fu in cima, gli si strappa quei due arnesi che la teneva un dito tanto dalla parte sinistra che destra. La venne di sotto e la s'affettò, la cara fata, come una rapa.[7] Camminavano, andavan trottando tutt'e due le Belle—Gioje, quando i' giovane disse alla ragazza:—«Non importa, che si trotti gran cosa: perchè la mia madre non esiste più nin questo mondo, sai.»—«Davvero?»—«Noi si pole andare con la nostra libertà.»—Lei, poerina, la non sapeva neppure quasi quasi la città, di dove l'era.—«Non lo sai, eh, Bella—Gioja, che nome l'ha la tua città, in dove eri nativa?»—Dice:—«Eh, no!»—«Eh la troverò io.»—Batte la bacchettina fatata lui; non istà ad impazzire.—«Comandi, signore.»—«Comando si sia straportati sulla real piazza d'i' padre della mia Bella—Gioja qui.»—Furono straportati in un battibaleno. Straportati, che furono, Bella—Gioja il giovinotto:—«Oh»—dice—«questo, vedi, è i' tuo palazzo.»—«Va bene.»—«Facciamo un'altra cosa, battiamo la bacchettina fatata.»—Batte la bacchettina fatata.—«Comando, che di faccia a i' palazzo reale, apparisca qui un palazzo sulle Meraviglie, tre volte più bello di quello d'i' Re, con tutta la servitù e i guardaportoni alla porta; servitori a dargli i' braccio alla Principessa; facchini a portar su le verghe d'oro e tutto n'i' palazzo suo.»—Torniamo a i' padre della ragazza. Che, alla mattina, si sveglia i' suo maggiordomo, se ne va a i' barcone d'i' terrazzo d'i' Re, e, a un tratto:—«Che affare è questo? Oh che bel palazzo sulle Meraviglie![406] Come mai? Iersera non c'era niente. O sogno o sveglio.»—E comincia a stropicciarsi gli occhi:—«O dormo o sono sveglio»—dice.—«Ma sono sveglio, non dormo.»—Va da Sua Maestà, picchia alla bussola:—«Maestà, si pole passare?»—«Passa, passa.»—«Ah che bellissima cosa, Maestà!»—«Cosa c'è? Cosa c'è?»—«Chiami il cameriere, si faccia vestire; deve venire di là e affacciarsi a i' terrazzo. Un palazzo sulle Meraviglie, assai più bello d'i' suo; e v'è due giovani, maschio e femmina! sono due occhi d'i' sole.»—I' Re, che ti va insieme con i' suo maggiordomo; a mala pena che va sul terrazzo e vede quel palazzo, ti occhia que' due be' giovani, tra maschio e femmina, i' suo sangue a un tratto gli faceva i cavalloni.—«O caro Maggiordomo, chiamami i' mio servo, e digli indispensabilmente, che vada là nin quel palazzo e gli dica: Sua Maestà li riverisce tutti e due; vorrebbe sapere lui da che parte vengono e da che parte non vengono.»—A i' servitore gli dice Bella—Gioja i' giovinotto:—«Non posso spiegare qui n'i' mio appartamento. Pagherei di essere in conversazione da Sua Maestà e gli spiegherei i' tutto. Andate e ditegnene a Sua Maestà.»—«Sissignore.»—Si leva i' cappello.—«Adesso porterò l'imbasciata e la risposta, che gli manderà Sua Maestà.»—Va i' servitore davanti a i' Re:—«Maestà, son due occhi di sole, proprio educatissimi n'i' discorrere, n'i' parlare e tutto.»—Sua Maestà, che sente questa risposta, che è costì, cosa ti fa? Gli manda per i' servitore:—«che oggi alle ore cinque farò attaccare i miei cavalli e verrò a prendere quei due giovani, che verranno a pranzo n'i' mio palazzo.»—Portano la risposta a tutte e due le Belle—Gioje:—«Si gradisce con tutto i' vero core, di venire a pranzo da Sua Maestà.»—Gli portan la risposta:—«Oh Maestà, lo gradiscono[407] con tutt' i' vero core, di venire a pranzo da Lei.»—«Benissimo, benissimo!»—Quando è vicino alle cinque i' giorno, fa attaccare i cavalli alla carrozza di gran gala. All'ordine che è la carrozza, Sua Maestà non fa che[8] scendere da i' suo palazzo, entrare in carrozza e svoltare i cavalli, per entrare n'i' palazzo di Bella—Gioja. Tutt'a due le Belle—Gioje, che vanno a riscontro d'i' Re per le scale:—«Fermi, fermi, signori! non v' incomodate adesso! ho la mia servitù, che mi fa salire.»—Quando sono per entrare n'i' salone, ci si mettono tutt'e due inginocchioni davanti:—«Alzatevi, signori; meno complimenti, meno complimenti, alzatevi.»—Si alzano e tutto. Alzati, che sono:—«Ora è l'ora e i' momento di venire n'i' mio Real Palazzo.»—«Maestà, si viene con tutto i' vero core.»—Scendono le scale dell'appartamento di Bella—Gioja e montano in carrozza di Sua Maestà. Montati nel Real palazzo, (che gli erano di braccio a salir le scale) e tutto:—«Signori, si accomodino alla sala di pranzo.»—E viene i' Re padre di faccia a Bella—Gioja la figliola e la Regina di faccia a Bella—Gioja i' giovinotto.—«Ditemi, bel giovane»—fa i' Re—«come vi chiamate?»—«Eh Maestà, mi chiamo Bella—Gioja.»—«Oh non me lo dite, non me lo dite, non me lo rammentate neppure questo nome! Oh Bella—Gioja! Aveva una figlia, che si chiamava Bella—Gioja. Mi nacque una figlia sur i' destino, che doveva esser portata via da i' vento; e i' nome si chiamava Bella—Gioja. E i' vento se la rapì. Non so, poerina, se è viva o morta. Io non lo so!»—E dà in un rotto di pianto. Bella—Gioja, che te lo vede piangere fortemente, dice:—«Eh Maestà, non si disperi tanto; perchè, Sua figlia, La fa conto d'averla avanti ai suoi propri occhi.»—Dicono, tanto i' padre che la madre:—«Come? quella, che è mia figlia?»—«Sì,»—gli[408] fa Bella—Gioja,—«che è Sua figlia.»—Si rizzano tutti e due e gli s'avventano a i' collo a sua figlia, a baciarla tutti e due dell'allegrezza.—«Ah, poera mia figlia, come t'è andata, figlia mia?»—«Che vuole, signora madre! il vento mi straportò su i' tetto d'una fata, che era madre d'i' mio liberatore, che è qui. Carissima madre, quella che mi faceva fare! Cose innumerabili, che non poteva esser capace neppure a smovermi di quì a lì[9]. La prima volta, la mattina, mi menò in una stanza, che era piena di tutte le civaje, che le doveva scegliere: i fagioli coll'occhio da sè; i fagioli bianchi da sè; i' granturco da sè... Quando Le dico, tutte le civaje. Bella—Gioja qui, i' mio legittimo sposo, che dev'essere...»—«Si, figlia mia, dev'essere i' tuo legittimo sposo...»—«Che, se non era lui, io non faceva niente. Veniva e mi trovava, che piangeva: Al solito, Bella—Gioja, che piange! Ti dico, non piangere! Ci sono io per te, che rimedio a i' tutto. La seconda volta, la fata mi diede una stanza di tutti panni sudici; li doveva ammollare, pulire, bucatare, rasciugare, stirare e tutto! La terza volta poi, i' caro Bella—Gioja qui, mio liberatore, qui, si pensò caricare due muli, prendendo la bacchettina fatata della sua scelleratissima madre, e scappar via con due muli carichi tra verghe d'oro e d'argento.»—«Eh carissima figlia! n'hai sofferto! n'hai sofferto! Ma ora non ne soffrirai più. Questa fata, voi Bella—Gioja, che abita ancora in questo mondo?»—«Eh»—dice Bella—Gioja,—«non esiste più in questo mondo.»—«Ora è l'ora e i' momento di mangiare e di stare allegramente.»—Viene le pietanze, i' vino: mangiano e bevono e si divertono. La mattina dopo, Sua Maestà fa:—«Qui farò bandire, che io ho ritrovata mia figlia e i' suo liberatore, che gli ha salvata la vita e straportata[409] alla mia presenza. Domani si annuncierà.»—Ne fa consapevole a tutte l'altre Corone: un invito generale allo sposalizio della figlia d'i' Re. Segue lo sposalizio: dettero a mangiare ai poveri della città, pane e vino e tutto. Se ne godettero e a me nulla mi dettero:
Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, che ho detta la mia.
NOTE
[1] Bisogna distinguere varî tratti in questa Novella. Prima di tutto la figliuola del Re, chiusa, come quella d'Acrisio, in una torre, acciò non le accada una grande aventura preastrologata e segnatamente non venga rapita dal vento. Cf. Lo Viso, trattenimento III della Giornata III del Pentamerone:—«Renza, chiusa da lo Patre a 'na torre, ped essere strolacato, ca aveva da morire pe' 'n uosso masto, sse 'nnamora de 'no Prencepe. E, co' 'n uosso portatole da 'no cane, spertosa lo muro e sse ne fuje. Ma vedenno l'amante 'nzorato vasare la zita, more de crepantiglia; e lo Prencepe, pe' lo dolore, ss'accide.»—Cf. soprattutto Le tre corune (Ibid. IV. 6.)—«Marchetta, arrobbata da lo viento, è portata a la casa de 'n Orca; da la quale, dapò varie accidente, recevuto 'no boffettone, sse parte, vestuta d'ommo. Capeta 'n casa de 'no Re; dove, 'nnammoratose d'essa la Regina e sdegnata pe' non trovare cagno e scagno, l'accusa a lo marito de tentata vergogna. È connannata ad essere 'mpesa. Pe' virtù de 'n aniello, datole da l'Orca, è liberata; e, fatto morire l'accusatrice, essa deventa Recina.»—Madama di Sévigné alludeva senza dubbio a qualche fiaba francese analoga, scrivendo alla figliuola, il ventuno giugno M.DC.LXXI:—«Ie ne vois pas bien où vous vous promenez; j'ai peur, que le vent ne vous emporte sur votre terrasse; si je croyais, qu'il pût vous apporter ici par un tourbillon, je tiendrais toujours mes fenêtres ouvertes et je vous recevrais, dieu sait! Voilà une folie, que je pousserais loin!»—
[2] Brunetto Latini:—«Sono operationi, le quali l'uomo fa senza la sua volontà, ciò è per forza o per ignoranza; sicome el vento levasse un uomo e portasselo in un altro paese.»—
[3] Narra Ludovico Domenichi nelle Facezie (Libro I) di—«un M. Nicolò da Genova, il quale.... era chiamato dalle donne Genovesi M. Nicolò dalla Bella Gioja, ecc.»—Q. V.
[4] Altro, che, qui è modo ellittico per non altro, se non che.
[5] Sédere, sdrucciolo, in vece di sedère, piano. Vedi pag. 472 tra le note alla novella seguente di Leombruno.
[6] Queste risposte a sproposito rammentano il dialogo tra Calasiride e Tirreno (nell'Etiopiche d'Eliodoro, Libro V.) sulla spiaggia di Zacinto:—«Non era molto ancora dal lito dilungatomi, quando io veggio un vecchio pescatore sedersi dinanzi a la porta di casa sua, acconciando le reti rotte d'un altro pescatore. Fattomigli dunque vicino, gli dissi:—Dio ti salvi, buon uomo; saprestimi tu insegnare, dove io potessi trovare alloggiamento?—Et egli mi rispose:—Colà, vicino a quel capo di monte, che sporge in mare, appressatosi ad uno scoglio, si squarciò come tu vedi.—Io non cerco di sapere questo, diss'io. Ma tu ti porteresti bene e cortesemente, se o ci ricevessi tu, o ci guidassi a qualcun altro, che ci desse ricetto.—Non già io, diss'egli, perciocchè io non navigava con esso loro; nè Tirreno avrebbe mai commesso un tal fallo, nè si sarebbe stancato per la vecchiezza. Ma e' sono stati certi fanciulli, che hanno fatto questo errore; perciocchè, non avendo contezza de gli occulti scogli, la trassero, dove non convenia.—Io pure a la fine accortomi, che costui avea l'udir grosso, alzato alquanto più la voce, gli dissi:—Dio ti salvi! insegnami di grazia, perciocchè io son forastiero, dove io possa alloggiare.»—(Traduzione di Leonardo Ghini MDLVI) Ecco come Giambattista Basile nel Teagene, (Canto X. Stanza XII—XV di quel poema postumo, impresso a Roma MDCXXXVII) rende questo brano:
Molto non fui dal lido io dilungato,
Che scorsi un pescator, bianco e canuto,
Seder sul limitar del lido amato
Sua rete a risarcire intento e muto;
A cui fatto d'appresso, e domandato
(Poichè umano gli fei dolce saluto)
Dove stanza trovar presso potrei,
Così pronto rispose a' detti miei:
—«Colà, non lungi a quel capo di monte,
Ad un scoglio vicin, ch'ivi il mar fiede,
[411]Squarciossi; or qui convien sudar la fronte,
Perchè mi vaglia a far l'usata preda.»—
—«Tai non cerco da te cose aver conte.»—
Diss'io,—«ma, s'al tuo cor favilla siede
D'umanità, deh! con amico affetto,
Dammi, o dimmi ov'aver poss'io ricetto.»—
—«Io non già»—soggiuns'ei—«perchè con esso
Lor non solcava l'onde; e men Tirreno
Un cotal fallo avrebbe unqua commesso,
Nè sudor sparso in ciò, d'anni già pieno.
Ma semplici fanciulli, a cui concesso
Non era altra notizia, ch'entro al seno
Di questi mar celati scogli stanno,
Fur incauta cagion di tanto danno.»—
Pur io m'accorsi alfin, ch'avea l'udire
Dal tempo offeso; e, rinforzando il grido:
—«Sia propizio il ciel»—dissi—«al tuo desire;
Piova ogni grazia al tuo felice nido;
Dimmi (e perdona d'un stranier l'ardire,
Che peregrino è giunto in questo lido)
Dimmi, ove ritrovar cortese usanza
Possa d'ospite umano amica stanza.»—
Altre risposte a sproposito son divenute proverbiali. Vedi nel Conte di Bucotondo del Fagiuoli:—«Anselmo. Ciapo? o Ciapo? che roba è codesta?—Ciapo. Ghie ne un baullo, ghie ne.—Anselmo. Lo veggo fin costì; domando di chi è?—Ciapo. I' viengo dall'osteria.—Anselmo. O buono! o buono! Ch'hai tu in quel sacco? Io vo a Firenze. Dove vai? Le son cipolle.»—Un episodio simile a quello della nostra fiaba fiorentina, con riposte a sproposito, si trova anche nella seguente milanese.
EL RE DEL SOL[i]
Ona volta, gh'era on gioven; e l'è andàa in d'on caffè. Gh'era là on scior; el gh'ha ditt, s'el voreva fa ona partida al bigliard; e lu el gh'ha ditt de sì. Sto scior, el ghe dis, s'el veng[ii] lu[412] la partida, sto gioven, ch'el ghe dava la soa tosa per sposa. L'ha vengiuda sto giovin la partida. E quel scior, el gh'ha ditt:—«Mi sont el Re del Sol e prest ghe scrivaroo.»—Lu, l'è andàa via; e poeu, el gh'ha scritt pu. E sto gioven, el s'è miss in viagg. Quand l'è staa festa, la domenega, el s'è fermaa in d'on paes; el spettava, che vegniss fœura la gent de messa. El ghe dimanda d'on omm vecc, s'el saveva, che ghe fuss el Re del Sol. E lu, el gh'ha ditt, ch'el gh'è; ma lu, el sa minga, in dove el sia:—«El soo, ch'el gh'è; ma soo minga, in dove l'è.»—E lu, l'ha viaggiàa on'altra settimanna. Quand l'è stàa festa, el s'è fermàa ancamò in d'on paes: el spettava, che vegniss fœura la gent de messa. El ghe dimanda ancamò a on vecc, s'el saveva, che ghe fuss el Re del Sol. E lu, el gh'ha ditt, ch'el gh'è; e el gh'ha insegnàa la strada. Sto gioven, l'ha viaggiàa on'altra settimanna ancamò. Quand l'è staa festa, el se ferma in d'on alter paes: spettava, che vegness fœura la gent ancamò de messa. El ghe dimanda ancamò a on omm vecc, s'el saveva, che ghe fuss el Re del Sol. E lu, el gh'ha ditt:—«L'è chì visin: in fond de sta strada, gh'el so palazzi.»—E là, el gh'ha insegnàa la manera, come el doveva fà, per andà là; perchè l'era on palazzi, ma gh'era minga de porta. El gh'ha ditt, de andà in de quell boschett là, che lor, dopo mezz—dì, van là, i trè tosânn del Re del Sol; e gh'è ona vasca, on laghett; e van denter a novà[iii]. E lu, de scondes in d'on quaj sit; quand ch'el ved, che se disvestissen, de andà là e portagh via i vestìi de sti tosânn. E i tosânn vegnaran pœu fœura e diran:—«Cià, i mè vestìi!»—E lu, che el ghe disa:—«Che me menen de so pader, che mi ghe daròo i vestìi.»—Quel tal omm, el gh'ha insegnàa:—«Ch'el varda, che el Re, el ghè farà fà la scelta de sti tosânn; ma el ghe mettarà ona benda a i oeucc.[iv][413] «E lu, che el ghe tocca i man. Quella, che el trœuva cont on did môcc[v], quella l'è la pusèe bella.»—Come difatti, l'è andàa in quel boschett; e, dopo mezz—dì, hin andàa là i tre tosânn del Re del Sol. E gh'era là ona vasca; e lor van denter à nodà. È lu, el s'è scondùu in d'on quaj sit. Quand ch'el ved, che se disvestissen, l'è andàa là; e el ghe porta via i vestìi de sti tosânn. E i tosânn vegnen pœu fœura e disen:—«Cià, i mè vestìi!»—E lu, el ghe dis:—«Che me menen de so pader e mi ghe daròo i vestìi.»—E lor l'han menàa de so pader. Allora sto giovin l'ha ditt al Re:—«Sont chì per sposà la soa tosa.»—E lu, el gh'ha ditt de sì:—«Diman se farà la sposa: ghe faròo fà la scelta.»—Difatti, el gh'ha miss ona binda a i occ. Ghe ne manda vunna; el ghe tocca i man; el ghe dis:—«Questa la me pias minga.»—El Re, el ghe ne manda on'altra. El giovin, el ghe tocca i man; el dis:—«Anca questa la me pias no.»—El Re, el manda pœu quell'altra. El gh'ha toccàa i man; el dis:—«Questa chì, vœuri sposalla mì.»—«E ben, diman se farà el sposalizî.»—Come, di fatti, l'ha sposada, e la sira hin andàa in lett lo sposo e la sposa. Quand l'è stàa mezzanott, la sposa, la ghe dis al spos:—«Sent, el me papà, l'è andrèe a combinà de fatt mazzà.»—E la ghe dis:—«Lassa fà de mi.»—Leven su a de bon ora; e han ciappàa on cavall per un, e hin montàa a cavall e hin andàa via. A la mattinna, el leva sù el Re: el guarda, el trœuva pu i spôs. El va in scuderia[vi]; el ved, che ghe manca duu cavaj i pusèe bej, ch'el gh'aveva denter. Allora, l'ha mandàa ona troppa de soldàa de cavalleria, a vedè se podeven ciappaj, a vedè de arrestaj insomma. Lee, la tosa, la sent a vegnì sta troppa de cavaj; la se guarda indrèe e la ved, ch'hin soldàa, che ghe van adrèe per arrestaj lor. La mett giò el pettin, che la gh'aveva in testa, le mett in terra e hin restàa in d'on bosch. E gh'era là on omm e ona donna, che streppaven i sciocch[vii]. E quij soldàa ghe disen:—«Avii vedùu la tosa del Re, cont[414] so marì a passà?»—E lor gh'han rispost:—«Nun semm adrèe a streppà i sciocch; e quand l'è nott, vemm a cà.»—E lor gh'han ditt:—«Hòo ditt, s'avìi vedùu la tosa del Re à passà cont so marì?»—E lor ghe tornen a rispond:—«Ma quand emm streppàa ona carretta, lassem stà.»—E lor s'hin stuffìi, hin tornàa indrèe sti soldaa. E van a ca. El Re ghe dimanda:—«I avìi minga trovàa?»—Lor ghe disen:—«Serem quasi visin e, tutt a on tratt, semm rèstàa in d'on bosch; e gh'era là on omm e ona donna; e ghe dimandem, s'han vist a passà la tosa del Re cont el so marì; e lor rispondeven semper all'incontrari.»—E el Re ghe dis:—«Dovevev arrestaj, ch'eren lor.»—Allora, ie torna a mandà indrèe. Come difatti, i han tornàa a ciappà. Quand hin stàa quasi visin, la tosa del Re, la mett in terra el petten; e hin restàa in d'on giardin; e gh'era là on omm e ona donna, che faseven su i mazz de zuccoria e ravanej[viii]. Sti soldàa ghe dimanden:—«Han vedùu la tosa del Re, a passà cont so marì?»—E lor ghe risponden:—«I ravanej on sold el mazz, e la zuccoria on sesin[ix].»—Ghe tornen a dimandà ancamò, s'han veduu la tosa del Re passà cont el so marì. Allora ghe tornen a dì:—«I ravanej on sold el mazz, e la zuccoria on sesin.»—E lor s'hin stuffìi, hin tornàa indrèe. Van a cà; e el Re, el ghe dis s'i han minga restàa. È lor ghe disen:—«Sarem là quasi visin e s'emm trovàa in d'on giardin e gh'era là on omm e ona donna. Ghe dimandem, s'han vist la tosa del Re passà con so marì; e lor risponden semper a l'incontrarî.»—E lu, el ghe dis.—«Dovevev arrestaj, ch'eren lor.»—El Re, el ghe dis:—«Tornèe indrèe e guardèe s'hin là ancamò; arrestej, ch'h in lor.»—Come difatti, hin tornàa indrèe; e han reussì de ciappaj ancamò. Quand ch'hin stàa quasi visin, la tosa del Re la mett in terra el petten e sti soldàa hin restàa visin a ona gesa; e gh'era là dùu secrista[x], che sonaven la messa. E lor, sti soldàa, ghe dimanden, s'han vedùu la tosa del Re passà cont so marii. E lor, sti secrista, ghe disen:—«Adess, sonem el segond; pœu dopo sonem el terz; e pœu, ven fœura la messa.»—E lor, i soldàa, s'hin stuffìi e hin tornàa indrèe. Van a casa del Re; el[415] ghe dis:—«Ma i avìi minga trovàa?»—«Serem là quasi visin e s'emm trovàa visin a ona gesa. E gh'era là duu secrista, che sonaven la messa. Gh'hemm dimandaa, se aveven veduu la tosa del Re passà cont so marì. E lor ne rispondeven semper a l'incontrari; e nun semm stuffìi e semm vegnùu via.»—El Re, el ghe dis:—«Dovevev arrestaj, ch'eren lor!»—Intant lor, el gioven e la tosa, gh'han avuu temp d'andà a cà. El Re, gh'è rincressuu molto, perchè l'era la soa maghessa pusee brava.
[i] Novella composta da frammenti di parecchie altre. Il viaggio del giovane; la sorpresa delle fate o maghe nel bagno ed il sequestro degli abiti; la scelta della sposa a gatta cieca o fra parecchie velate ovvero simigliantissime; il suocero, che insidia la vita del genero, che vien salvato dalla moglie (Danao); la fuga con le trasformazioni ecc. ecc.
[ii] Veng, vincere, guadagnare.
[iii] Novà e Nodà, notare, natare.
[iv] Racconta il Domenichi, che:—«In Milano era fra gli altri un prelato, il quale ritrovandosi un giorno aver seco a desinare molti suoi amici, cadde fra loro un ragionamento della perfezione e imperfezione delle lingue d'Italia. E da questo si venne incidentemente a dire in che modo i Bergamaschi scrivessero questa parola occhi, affermando alcuni, che scriveano ogi, altri oci et alcuni dicevano oghi. Onde il gentil prelato per levare l'occasione di sì basso ragionamento, con parole s'interpose, dicendo loro: Io vi leverò ben tosto da questa contesa. Et chiamato a sè un suo credenziere bergamasco, gli disse: A te sta dar sentenza et terminare questa quistione, dicendo come nel tuo paese si scrive questa parola: occhi. Al quale il credenziere, senza punto pensarvi, bergamascamente rispose: Monsignor, mi non so miga come se scriva, ma mi so be cert, cha 'l si dis: Te vegna el cancher in te i occhi. Alla cui inetta risposta si levò tra loro sì grande et piacevol riso, che fu cagione di por fine a sì debil contesa.»—
[v] Mocc ed anche Mott, mozzo.
[vi] Manca nel Cherubini. Italianesimo. Ed in Italiano è Gallicismo.
[vii] Streppà o strappà, strappare, svellere, estirpare. Sciocch, quì tallone, virgulto, rampollo.
[viii] Zuccoria, radicchio. Ravanell è contadinesco per Ramolassin, radicetto ravanello, Raphanus sativus parvus.
[ix] Mezzosoldo (austriaco) era il sesin.
[x] Secrista, sacristano.
[7] Di queste fughe, assicurate per forza magica, ne abbiamo già vista una nel Contadino, che aveva tre figliuoli, della presene raccolta pag. 12 e segg. (V. Basile, Petrosinella, ecc.) Si ritrova lo stesso incidente nelle due novelle Milanesi seguenti:
I TRII NARANZ[i]
Ona volta, gh'era on albergator. El gh'aveva ona tosa. La stava semper in stanza; la voreva mai sorti. So pader, per fala andà almen a la finestra, ona volta, l'ha daa ona festa in quella contrada, e l'han imbonida[ii] d'andà alla finestra. L'han lassada sola; e gh'è passaa ona stria. La gh'ha strengiuu on dit e l'ha strusada giò[iii] in spalla. L'ha portada via distant in d'on sit, che gh'era domà[iv] ciel e acqua; gh'era on piccol sentee, che gh'era pœu la ca de la stria. L'ha lassada là e la gh'ha ditt:—«Guarda, che mi voo via; e, quand vegni a casa, te diroo: Figlia mia, figlia cara; lassa giò la toa trezza e tira su la toa mamma cara.»—So pader el va desora, el trœuva pu la soa tosa. L'ha mandaa duu servitor con la carrozza; el gh'ha ditt, chi trovava la soa tosa, ghe la dava per sposa. Infin, vun l'è propi andaa in del sit, in dove l'era; là, el s'è informaa d'on vesin; e el gh'ha ditt, el gh'ha insegnàa la manera d'andà in sta casa, de digh:—«Figlia mia, figlia cara, lassa giò la toa trezza e tira su la toa mamma cara.»—Lu, sto servitor, l'è andaa là. El gh'ha ditt, el gh'ha dimandaa:—«Figlia mia, figlia cara, lassa giò la toa[416] trezza e tira su la toa mamma cara.»—E lee, sta tosa, pronta, l'ha lassàa giò la trezza e l'ha tiraa su. El gh'ha dimandaa com'a l'è staa, d'andà in quel sit là. E lee, là gh'ha ditt, che l'è stada ona stria; e la gh'ha ditt, de fa prest a andà via, perchè, se la va a casa, chi sa cossa la ghe fa. E lu, l'è andaa ancamó in de sto vesin. De li a on poo, va a casa la stria; l'ha capii, che gh'era staa on quajghedun; e la gh'ha ditt:—«Mi per trii di, vegni a casa pu. Te doo sti trii naranz chì. Se ven chì on quajghedun, traghen adree vun, ch'el restaraa in d'on gran fastidi.»—Dopo, va là ancamò el servitor. El gh'ha ditt a la tosa:—«Fa prest, ven giò, che gh'hoo chì la carrozza.»—E la voreva minga andà, per la paura che la trovass la stria. La ghe dis:—«Se la trœuvem, chi sa cossa la me fa.»—E lu, el gh'ha ditt:—«Tœu su i trìi naranz, che al cas che la trœuvem, ghen butterem adrèe vun, chè la restarà lee in d'on gran fastìdi.»—Come difatti, han viaggiàa on gran tocch; e lee, la se guardà indrèe; e la ved, che ven la stria. La ghe trà indrèe on naranz: lee, l'è restada in d'on sit pien de fumm, che la podeva pu difendes. Quand l'ha poduu pu, la ghe dis:—«Ciappin[v], ajutem; che, se i ciàppemm, ne femm vun per un[vi].»—Dopo de lì on poo,[417] la tosa la se guarda indrèe; e la ved, che ven ancora la stria. La trà indrèe on alter naranz, e la stria l'è restada in d'on sit pien de sass, che la podeva pu difendes. La ghe dis ancamò al ciappin:—«Ajutem, che, se i ciappem, ne femm vun per un.»—Dopo de lì a on poo, la tosa la se torna a guardà indrèe; e la ved ancamò, che ven la stria; e la ghe trà indrèe on alter naranz. La stria l'è restada in d'on sit pien de spin, che la podeva pu difendes. E la ghe dis ancamò al ciappin:—«Ajutem, che, se i ciappem, ne femm vun per un.»—El servitor fa prest a fa corr i cavaj; infin l'è reussì a corr in gesa, perchè appena de drèe della carrozza gh'era la stria e gh'aveven pu de naranz. Allora el gh'ha mandàa la nœuva a i so genitor, che l'aveva trovàa la tosa. Gh'han mandàa incontra a ricevell a son de banda. Infin hin andàa a cà. Dopo, l'è andàda per sposa; e inscì l'è finida.
I TRE TOSANN DEL RE
Ona volta, gh'era on Re. El gh'aveva tre tosann. Tutt i dì andaven a fa la passeggiada insemma a la soa bonn.[vii] On dì, van a fa sta passeggiada; e hin andà in d'on sit, che gh'era[418] de l'erb, del verd insomma. E lor, s'hin miss a slontanass da la soa bonn. Dopo on pezz, che ie vedeva minga, la va a cercaj. La guarda de per tutt i part, no la po vedej; ie ciama, no le sent a rispond. La va a cà, e la fa dì al Re, che i ha perduu. El Ree, tutt desperaa, el da ordin, che se vaga a cercaj. Lì, gh'è andaa tanti a vedè, se podeven: de ona part, de on'altra, e han mai poduu trovà sti tôsann. L'era già on ann, che, insomma, lu l'ha mai poduu trovaj. Ven, che on dì, va là tre disertor; e van a presentass del Re. Ghe disen, che lor sarissen andaa in cerca de vedè se podessen trovà i so tre tosann. El Re, l'ha daa ordin de andà in della soa stalla e de andà a tœu su on cavall per un, per andà in gîr a cercà sti tosann. Lor hin andaa, han giraa per tanti dì attorna deppertutt. Infin, on dì eren stracch mort, eren in d'ona campagna, han distaccaa i so cavaj, i han ligaa in d'ona pianta e lor s'hin buttaa giò a riposà. Quand s'hìn dessedaa, veden che gh'è li ona donnetta; e ghe dìsen a sta donna:—«Dove l'è, che poderessem andà a tœu quajcoss per mangià?»—che lor gh'aveven famm. E lee, la dis, de dagh i danèe a lee, che la saria andada a procurà de tœu de mangià. La ghe dimanda dove l'è, che andaven. E lor gh'han ditt, che andaven per vedè, se podeven trovà i tre tosânn del Re. E lee, la gh'ha ditt, che la gh'avaria insegnàa lee in dove l'è, che l'eran; e la manera de podè andà a tœuj, perchè l'era el mago, che i aveva robbàa. La ghe dis:—«Ecco! per podè andà a tœu i tosânn, bisogna che lor comincen per tœu tanta corda.»—E la gh'ha insegnaa el sit, che lor doveven andà, che avarien trovaa on uss e denter ona gran stanza granda. Che avarien ligàa i so cavaj. Là gh'era ona preja: de tirà su quella preja là e de lassass giò vun a la volta. E quand eren abass, l'era scur: ma lor d'avegh minga paura, d'andà innanz semper dritt, che avarien trovàa el ciar. E la gh'ha dàa ona nôs, ona castegna e ona nisciœula:—«Quand sarèe in pericol, che vedarìi lu, el mago, che ve corr adrèe, trèe vunna de sti robb, che ve doo.»—Difatti, inscì han fàa: hin andàa. Difatti han trovàa st'uss, han trovàa sta stanza e s'hin lassàa giò. E quand hin stàa giò, hin andàa semper dritt, dritt, dritt; e a poch a poch han cominciàa a vedè on pòo de lus. E pœu hin andàa innanz, han cominciàa a vedè on palazz; e là gh'era a la finestra vunna di sti tosânn. Lee, la s'è accorta, ch'eren gent ch'andaven per deliberalla. La ghe fa segn[419] de andà adasi adasi innanz, ch'el mago i avess avùu de sentì. E la tœur su di gemm, di robb prezios, ch'el mago el gh'aveva regalàa:—«Per mi, me fan minga de bisogn; ma vœur dì, che i tœui su, per dà a la gent, che m'ha deliberàa. Adess»—la dis—«andem innanz, che là ghe sarà on'altra mia sorella.»—Là, anca de quella la fa istess, la ven giò e via, la scappa insemma a l'altra sorella. Van innanz on tocch anmò; là gh'è on alter palazz e denter gh'è la terza. Quand hin tutt e tre salvàa, van i trè donn e i trij omen, van dritt, van pu de la part, ch'hin vegnùu, van dritt che gh'è l'istessa strada. Quand han faa on poo de strada, se volten indree; e veden el mago che ghe corr adree.—«Pessèga; trà via la nôs.»—In d'on moment, gh'è staa on lagh d'acqua. E allora lu el podeva minga corregh adrèe fin che st'acqua la s'era minuida, perchè l'andava via a poch a poch. Vann innanz anmò on pòo; quand han faa on poo de strada ancamò, guarden indrèe. L'acqua l'è scomparsa e el mago el ghe torna a corr adrèe. Allor lor tran via la nisciœula; e se ved on gran incendi, on gran fœugh. E lor ciappaven temp e corriven per podè rivà a quel sit, che lu, el podess minga ciappaj. Tornen a guardà indrèe, el veden anmó:—«Tra via la castegna!»—E lor eren abass e in alt se vedeva ona gran montagna, fin ch'hin rivaa in quel tal sit, in dove eren andàa a tœu i so cavaj. Là han tolt su i cavaj, pœu han miss i so tosânn e via hin andàa a drittura a la cittàa. Là appenna ch'i han vist a comparì, che tutti saveven la disgrazia del Re; s'hin miss adrèe a sonà i campann, a fa festa, eh! El Re, el dis:—«Cosse l'è, che gh'è? coss'è success, che fan sta legria? Andè a ciama.»—El moment che van per dagh la risposta, van denter de la porta sti trij, ch'hin andàa via cont i so tosânn. Allora el Re tutt content a vedé i so tosânn, che gh'aveven deliberàa! I tosânn ghe cunten, che, quand lor eren là tutt e tre insemma a discorr distant de la bonn, era vegnùu sto mago, ch'i ha menàa via tutt e tre con gran forz, e lor han minga poduu nè ciamà la bonn nè nient. El Re a quij trii disertor el gh'ha perdonaa; e pœu elgh'ha fàa on gran regal, che lor hin stàa contentissem e s'ciau. È passàa on car de merda de pipì, in bocca a tutti i sciori, ch'hin stàa chì a sentì.
[i] Da non confondersi con l'altra dal titolo stesso, riportata a pag. 308 del volume presente.
[ii] Imbonì significa non solo placare, anzi pure indurre, persuadere.
[iii] Strusà, strascinare, strascicare. Strusà giò, strascinare abbasso tirar giù.
[iv] Domà o nomà, solo, soltanto, solamente.
[v] Ciappin, demonio, diavolo. Vedi pag. 191 del presente volume. In Napoletano Chiappino vuol dire, secondo il Galiani, furbo, astuto, onde forse lo Scapin francese. Cortese. Lo Cerriglio 'ncantato. VII, 21.
Ma Tonno mò', ch'era 'no gran chiappino,
Sentette da lontano lo grà' addore.
Ma ognun vede, esser questo un senso traslato, metaforico. Non so che relazione abbiano il Ciappin milanese ed il Chiappino napoletano, con lo Scappino toscano. Nella stanza XXXIX del primo cantare del Malmantile, si legge, che alcuni soldati orbi di Bieco de' Crepi, duca d'Orbetello, monocolo.—«Dietro al Duca, che ognun guarda a traverso, vanno cantando l'aria di Scappino.» E nelle note:—«L'aria di Scappino era una canzonetta, che cantavano i ciechi, in piazza del Granduca in Firenze, a' tempi del poeta.»—Quanto avrebbe meglio fatto l'annotatore, trascrivendola e non profanando il nome di poeta, con l'applicarlo al Lippi!
[vi] Questa invocazione del diavolo, ci mostra che qui la stria è semplicemente una strega, non già una fata. Nel Pentamerone si tratta d'un'Orca, Il mescuglio delle fate col diavolo è cosa letteraria, appartenendo queste due creazioni a due cicli mitici diversi. (Ricciardetto XX 1—3).
Il diavol, donne mie, può far gran cose:
Basta solo, che dio lo lasci fare.
Però non siate punto dubitose
Di? ciò che udiste ed udrete cantare
De l'opere di lui meravigliose.
Chè, sebbene il tristaccio non appare,
E su le fate si versa la broda;
Ei però vi pon sempre e corno e coda.
So ben, che ci son molte come voi,
Che credono romanzi e favolette
Le cose delle fate: ma son buoi,
Nè sanno che il demonio non perdette
In uno con la grazia i pregi suoi,
E le virtù, che dio gli concedette;
Le quali tante sono, che potria
Guastare il mondo in un'Avemmaria.
E poi le sacre carte non son piene
Di maghi e streghe e cose simiglianti?
E in chiesa l'acqua santa a che si tiene?
E a che si fanno tanti preghi e tanti
Su le campane? Perchè suonin bene,
E la fune e il battaglio non si stianti?
Si fanno solo per guastar con esse
Le traversie, che il diavol ci facesse.
[vii] Bonne, francese; aja, governante, bambinaja.
[8] Non fa che (sic). Leggi e dì: non fa se non.
[9] Queste incombenze ineseguibili riconducono naturalmente al pensiero il mito di Psiche. Vedi l'altre fiabe di questa raccolta, intitolate La bella e la brutta (pag. 195) e La Prezzemolina (pag. 209) Cf. Pitré. (Op. cit.) XV. Lu Re di Spagna; XVII Marvizia ecc. ecc. ecc.
L'IMPIETRITO.[1]
C'era una volta un gran ricchissimo mercante, che aveva tre bastimenti: uno d'oro, uno d'argento e uno di pietre preziose e diamanti. Aveva tre figlie questo mercante. Di queste tre figlie, che lui aveva, ne aveva due che erano perfide e scellerate; e una era bona, che non sortiva mai del suo quartiere e non confavolava mai con le sorelle. Questo mercante va da quella bona delle figlie e dice:—«Sai, figlia mia, domani andrò a mercanteggiare con il primo bastimento. Posso esser sicuro, che le mie figlie, che non mi sciuperanno niente del palazzo?»—«Eh, signor padre, vada, vada, vada; faccia Lei il suo interesse.»—Guarnito di mercanzie il primo bastimento d'argento e tutto per andare a mercanteggiare; quando è a un buon punto, gli apparisce un vascello di Levantini. L'assaltano, che il povero mercante ha un dicatti di scampare la pelle e perde il primo bastimento. Piangendo e sospirando d'aver perso il primo bastimento, se ne torna al suo palazzo, entra nel suo quartiere e vede mancanti alcuni effetti di roba.—«Guardate, ignoranti delle mie figlie; avendo avuto la perdita del primo bastimento e mi cominciano a sfogliarmi la casa di roba!»—Va da quella bona nel suo quartiere.—«Figlia mia, avete sentito che novità? Ho perduto il primo bastimento e le vostre sorelle mi cominciano a sfogliarmi la casa.»—«E che vole, signor padre! Ci vol pazienza.»—Dice:—«Dimani[422] andrò a mercanteggiare con quello d'oro. Vedremo, eh, figlia?»—«Eh, signor padre, vedremo! Speriamo bene!»—la fa, la bona figlia. La mattina va dalle figlie, quelle che son cattive, dice:—«Figlie, vado a mercanteggiare col secondo bastimento, d'oro. Vedremo se continuerete a sfogliarmi la casa.»—«Vada, vada, signor padre! vada, vada!»—Di mattina, lui va via alla riva del mare. Pronto era il bastimento d'oro; e lui va via per andare a mercanteggiare. Prende un'altra strada differente e non prende quella, che gli assaltarono a il primo bastimento; ne prende un'altra. Di novo due vascelli di Levantini, che assaltano il bastimento, e ha dicatti di salvar la vita il povero mercante e perde anco quello. Torna addietro, piangendo e sospirando della perdita di due bastimenti, di quello d'argento e di quello d'oro.—«Se io perdo l'ultimo bastimento, non sarò più innominato il gran ricco mercante; sarò innominato un poero mendico, che anderò a mendicare un pezzo di pane per sostentare le mie figlie.»—Il poero mercante, piangendo e sospirando, si conduce a casa; e vede la casa, che quelle due figlie gnene avevano mandata a buon porto di spogliargnene. Povero mercante, che va nella stanza della figlia bona a raccontarli la sua disgrazia, che lui aveva avuta!—«Eh figlia mia!»—«Che vole, signor padre? ci vol pazienza!»—«E le vostre sorelle impertinenti, che mi disturpano tutto, ogni cosa nel mio casamento! Eh cara figlia, smentite di chiamare il signor padre un gran ricco negoziante; smettetelo e smentitelo. Mi potete chiamare un gran poero mendico, s'io vo a perdere l'ultimo bastimento. Se piace a dio, figlia, domani tornerò col terzo bastimento a mercanteggiare. Se poi perdo anco questo!...»—La mattina si alza e va per andare a fare i suoi interessi con l'ultimo bastimento.[423] Prende altre vie, per non prendere quelle medesime, in dove era stato assaltato. Un altro bastimento di Levantini, per Bacco! comincia ad assaltare il ricco negoziante, che ebbe campo di salvar la vita e di perder anche l'ultimo bastimento. Vien via il gran mercante dispiacente. Piangendo e sospirando, si condusse al suo palazzo. Le figlie, che ti veggono tornare piangendo e sospirando il padre a casa:—«Bada veh! è che ha perso l'ultimo bastimento. Oh! signor padre, felice giorno.»—«Eh così avete da dire: Felice giorno, signor padre? Vedete ignoranti delle mie figlie? Ho avuto la disgrazia di perdere tutti e tre i miei bastimenti; e vojaltre mi avete spogliato tutto il mio quartiere, che non c'è niente più di bene!»—Avevano asserbato un pajolo e un piccolo lume da poter veder lume la sera; non avevano serbato altro. Piangendo e sospirando, va in camera della figlia bona a rammaricarsi:—«Eh che vole, signor padre? e' ci vol pazienza.»—Non aveva altro in bocca che:—«Ci vol pazienza.»—«Fintanto che ci sarà da potersi sdigiunare, vi sdigiunerò; sennò mi toccherà di andare a fare come tutti gli altri, di andare a chiedere un tozzo di pane per potervi sostentare a vojaltre.»—Passa quel primo giorno, passa quell'altro, oggi e domani, e leva leva leva ogni gran monte scema, rimase pulito di tutto, ogni cosa.—«Eh figlia mia»—ora a quella bona gli dice—«Mi tocca di andare a prendere un tozzo di pane: ora prenderò quella porta, ora quell'altra, tanto di potervi portare ogni giorno da sdigiunare a tutt'e tre.»—La mattina si alza, se ne va fori di una porta, cercando la limosina. Gli aveva un pezzo di pane, gli aveva il soldo, gli aveva la erazia[2]; e intanto giù di sù gli andava a provvedersi un pochino di vitto, per sè e per tutte e tre le figlie. La mattina dopo, prende da un'altra porta, e[424] se ne va chiedendo la limosina in quel casamento, in quell'altro, in quella bottega, e giù per sù tira via e fa anche il suo fastello delle legna. Fatto anche il suo fastello, come dico, delle legna; fatto del pane e dei denari come lui aveva fatto; si ritrova in un bellissimo prato, che costì in cotesto bellissimo prato ci era piantato tutto cavol nero, ma bello.—«Cogliendone un torso,»—pensa lui,—«un torsolo quà, un torsolo là, nessuno se ne può avvedere. È meglio, che faccia il mio fastello anche del cavolo, giacchè non c'è nessuno.»—Comincia, come dico, un torsolo qua, un torsolo là, aveva fatto il suo fastello del cavolo. Si dà la combinazione, che nel mezzo del prato vede un bellissimo torsolo, di questa portata, ch'è quì:—«Oh bello! Sarei capace di coglierlo!»—dice. Ah! si mette lì nel mezzo, e si mette a dimenare in quà e in là questo torso del cavolo, sin tanto che lo tira fori. Nel tirarlo fori, salta fori un serpente.—«Mercante, cosa fai, che vieni a derubarmi il mio cavol nero qui? Hai figlie te?»—«Sissignore, ne ho tre.»—«Tu m'imprometti di portare una delle figlie? Riacquisterai il primo bastimento, che te perdesti. Cogli pure quanto cavol nero, che tu vuoi, e vattene via. Dimani ti aspetto. A bon'ora ti aspetto cor una delle tue figlie.[3]»—Va via a casa, piangendo e sospirando, che pensava a una delle sue figlie di portarla e lasciarla nelle mani di un serpente. Va a casa con il fagotto delle legna, il fagotto del cavolo e tutto. Cammina cammina si conduce a casa. Le figlie, che veggono; che erano alla finestra, e veggono il padre con il fagotto del cavolo, il fastello delle legna e tutto:—«Eh! Eh! leste, leste! stasera ci farà mangiar bene il nostro signor padre. Si farà le fette con il cavol nero.»—Gli dà tutto, i danari per comprare quel che c'era di bisogno; e si piantano la sera a mangiare. Portato il mangiare anche di là a quella bona,[425] il mercante, nell'esser lì a tavola, guardava quella delle figlie, guardava quell'altra, gittava un sospiro e gittava le lagrime anche dagli occhi.—«Cos'ha, signor padre, che ci guarda lei, dà un sospiro e getta le lagrime dagli occhi?»—«Eh»—dice,—«la vostra disgrazia piango e sospiro, figlie mie.»—«Che disgrazia sarà?»—Dice:—«Questo e questo mi è successo. Nin quel mentre, che era lì e coglieva quel cavolo, nell'aver visto quel torsolo più grosso, che avrete visto anche vojaltre, nello spiantarlo m'è apparito un gran serpente; e mi ha domandato, se avevo figlie. Io gli ho detto: Tre ce ne ho.—Se mi prometti di portarmi una delle tue figlie, ti farò riacquistare il primo bastimento, che te perdesti.»—La maggiore delle figlie:—«Bene, o che male, eh? signor padre. Non sospiri più, nè pianga. Vengo e vengo volentieri.»—«Come, nelle mani di un serpente andate volentieri?»—«Non è niente, sa, signor padre.»—Se ne vanno a letto.—«Domani, signor padre, io sarò bell'e pronta.»—«Avete un gran coraggio, figlia mia.»—La mattina si alza la figlia, si veste e tutto. Preparata che è, va alla camera del suo signor padre.—«Signor padre, quando si deve partire, son bell'e pronta.»—«Eh figlia mia, avete un gran coraggio!»—Allestito che era anche il padre, prende la figlia e via a braccetto te la straporta in questo prato. Quando è a una distanza di diverse braccia, salta fori il serpente dalla buca.—«Caro mercante, vieni avanti te, e mandamela via! non la posso vedere.»—E va avanti il mercante e gli fa alla figlia:—«Vai, vai a casa.»—«Tieni, gran mercante; questa è una borsa di luigi d'oro[4]. Va alla riva del mare e troverai quel primo bastimento, che tu perdesti; ma con questo, portami una di quell'altre, che ti rimane, domani.»—Il mercante era allegro, perchè va alla riva del mare e trova il primo[426] bastimento, che lui aveva perso:—«Oh questo è ritornato! meno male!»—Va dalla figlia bona e gli racconta il fatto, come io ho detto.—«Potrebb'essere, caro signor padre, gnene porterà quell'altra domani, ma non sarà fatto niente di nulla.»—«Non mi dare questo dolore, sai, figlia mia.»—E va di là da quell'altra figlia, mangiano, bevono; sempre col pensiero quel gran mercante, che al domani doveva portare al serpente quell'altra figlia.—«Non lagrimi, signor padre, non sospiri.»—La mattina, seconda mattina, era pronta anche quest'altra delle figlie. Se quella era stata pronta avanti, quest'altra più che mai. Prende la figlia e via insieme. Cammina, cammina, cammina, quand'è a una distanza di poche braccia, salta fori il serpente dalla buca:—«Gran mercante, mandamela via e vieni avanti te.»—«Vai a casa, vai a casa!»—gli fa alla figlia. Il serpente:—«Veggo il tuo bon core, caro mercante; che di tre, che n'hai, me ne hai portate due. Ma dimmi un po': sono tutte perfide e scellerate a quella maniera? Tieni, questa è un'altra borsa di zecchini in oro. Va alla riva del mare, vi troverai il secondo bastimento, che te perdesti. Ma con questo, portami quell'altra tua figlia domani.»—«Sì, gnene porterò,»—dice il mercante al serpe; ma con il dolore in corpo gnene portava codesta. Va alla riva di mare, come ho detto; ritrova il secondo bastimento; lo mette al sicuro; e se ne va a casa. Se ne va in camera a piangere e sospirare la disgrazia di quella bona:—«Eh figlia mia!»—piangendo e sospirando.—«Non pianga, nè sospiri, signor padre. Vengo e vengo volentieri.»—«Volentieri, figlia mia, vai nelle mani di un serpente?»—«Non è niente, caro signor padre. In breve tempo, caro signor padre, si avrà le mie notizie.»—«Eh! devo sapere le vostre notizie a cedervi in mano d'un serpente?»—«Sì, in breve tempo[427] «Le saprà. Dimani partiremo.»—La mattina dopo, la figlia, se quell'altre perfide e scellerate erano allestite avanti, questa più avanti che mai.—«Eh figlia mia, avete un gran coraggio!»—e piange e piange e piange il padre. Il rincrescimento di perdere la figlia! Dice la mattina addio alle sorelle, fa i suoi complimenti al padre, te lo abbraccia e te lo bacia, te lo prende a braccetto e via. Via, camminando per andare incontro a il serpente. Quando sono alla medesima distanza, salta fori il serpente e dice:—«Vieni, vieni, caro diletto mercante, con la tua diletta figlia.»—E' non gli venne un arciprete[5] a codest'omo, ma poco meno. Si avviticcia il serpente alle vita di quella ragazza; e in quella buca, brrrrrrmmp! di sotto, lui (il serpente) e quella ragazza; e rimane il mercante lì solo. Ritorna in sù il serpente con un sacchetto di luigi d'oro:—«Tieni caro mercante; questo è un sacchetto di luigi d'oro, che io ti regalo. Vai alla riva del mare, ritroverai l'altro bastimento, che tu perdesti. Potrai mercanteggiare quanto tu vuoi; se tu eri ricco, diventerai più ricco che mai, chè non sarai molestato da nessuno.»—Alla riva del mare ritrova l'ultimo bastimento. Tornando alla figlia del gran ricco mercante, essendo portata in cotesta buca, ci trova uno, vestito come fusse uno di nojaltri; e era il Maggiordomo del figlio del Re di Spagna, che era incantato per un anno e tre giorni di essere un serpente. Questi ultimi tre giorni si dovevano combattere insieme con i demonî[6].—«Eh carissima sposa, mi vedete, che io sono un serpente?»—«Si, che io vi vedo, che siete un serpente,»—la gli fa questa figlia del mercante.—«Stasera, alle ore dodici, sentirete un grandissimo scatenìo, che sono i demonî che vengono a combattere insieme con nojaltri. Vedi qui: è un anno preciso, che il mio maggiordomo non mi ha mai abbandonato[428] di star con meco sottoterra; e, fra te e lui, sarete quelli, che mi libererete da' demonî e dall'incantesimo.»—Nell'essendo lì sottoterra, la figlia del gran ricco mercante dice:—«Caro Maggiordomo, dimmi un po', che ora sono?»—Tira fori la sua ripetizione e dice:—«Regina»—gli fa:—«Regina, sono vicine alle dodici.»—Lei alza gli occhi al cielo e una mano:—«Domanda, Signora»—si sente dire.—«Una spada e una bottiglia di licore.»—Apparisce la spada e la bottiglia di licore. Le venivano dal cielo. Prende la bottiglia e la gli tronca il collo, lei: mezza la beve lei e mezza la dà al maggiordomo del Re. Bevuto cotesto licore e tutto, lei si cinge la spada alla mano.—«Maggiordomo, forza e coraggio, per liberare il tuo padrone!»—Scocca le dodici e trrrr! si sente uno scatenìo immenso di demonî che venivano per combattere insieme con il serpente. Batti, batti, batti; tra lei e il maggiordomo e i demonî, si battono bene bene bene. Scocca il mattutino, spariscono i demonî; e si vede il serpente dalla pianta dei piedi sin qui diventato carne, rimasto ferito un poco in una coscia. Lei, la figlia del mercante, alza gli occhi al cielo e la mano.—«Comandi, signora.»—«Un vasettino d'unguento prezioso!»—Gli apparisce il vasettino d'unguento prezioso e unge la ferita dello sposo, che lei doveva avere; e così viene a guarigione. La sera, quando a lei pare, che sia vicino le dodici, la risponde:—«Maggiordomo, guarda la tua ripetizione e dimmi che ore sono.»—«Regina, è le dodici vicine.»—Alza gli occhi e la mano; e sente una voce, che dice:—«Comanda, Regina.»—«Comando la solita spada e due bottiglie di licore.»—Tronca il collo a tutt'a due le bottiglie. Una la dà a il suo maggiordomo e una se la beve per sè:—«Forza e coraggio, maggiordomo, per liberare il tuo padrone.»—Scocca le dodici e[429] un grossissimo scatenìo. Se la prima sera ne venne parecchi, la seconda sera altrettanti di soprappiù de' demonî. Cominciano a combattersi. Batti, batti, batti, quand'è lo scocco del mattutino, sparisce i demonî; e si vede in carne in sin quì il serpente. Rimasto ferito, lei, con il medesimo balsamo, unge la ferita e viene a guarigione: l'era rimasto ferito a una coscia il serpente:—«Vedete, carissima sposa, che queste due volte, il vostro legittimo sposo, che deve essere, in tanto è carne. In quest'ultimo combattimento, se mi liberate, si sarà sopr'a terra subito.»—Come difatti, ci s'approssima la terza sera.—«Maggiordomo! guarda, che ore sono.»—«Regina, vicino alle dodici.»—Alza gli occhi al cielo e chiede la l'istessa[7] spada e tre bottiglie di licore: una la dà a il suo maggiordomo; una la beve di per sè; di quell'altra, mezza lei e mezza il suo maggiordomo:—«Allò! maggiordomo! È l'ultima sera, che si deve liberare il tuo padrone.»—Che credo che nell'inferno non ve ne fusse rimasto neppur uno dei diavoli! Quando è lo scocco del mattutino, sparisce i demonî, e si vede tutto in carne il figlio del Re. Ferito, l'unge col balsamo. Il suo maggiordomo avea portato un vestito; l'infilza nelle braccia del suo padrone e lo copre; e subito sopr'a terra tutt'e tre[8]. Camminando, facendo, andierono a risiedere la sera dopo in una locanda, che gli apperveniva a il figlio del Re. Il locandiere, che vede che era il figlio del Re di Spagna, fa allestire ogni cosa.—«Per me,»—dice il maggiordomo—«non allestite niente. Questa stanza quì cor una tavola, tappeto, candeliere e lume e una sieda per sedere.»—Mangiano, bevono: dopo mangiato e bevuto, il Re e la Regina si ritirorno ne' suoi quartieri. Il maggiordomo, nella sua stanza, dove gli avevan fatto preparare, si mette a sedere. E si mette così pensoso a pensare a[430] i' caso, che lui gli era intravvenuto, a stare un anno e tre giorni sottoterra, a stare insieme con il suo padrone, che gli era divenuto serpente. Nello stare così a pensare, apparisce quattro incappati; e si dicono tra loro quattro:—«Felicissima sera!»—«Felicissima sera!»—«Felicissima sera!»—e—«Felicissima sera!»—Risponde uno di questi quattro incappati:—«Ah è stato libero, eh, il figliolo del Re di Spagna dall'incantesimo di esser un serpente? E l'ha liberato la figlia di un ricchissimo mercante, tra lei e il suo maggiordomo.»—«Ma no»—risponde un altro di questi quattro incappati—«sta bene, che lui sia stato libero dall'incantesimo di essere un serpente. Ma non sapete niente voi, eh? Il Re, il figlio del Re è in camera sua, che scrive due versi a il suo padre, che venga al riscontro di lui e della sua sposa, che lui deve prendere. Il padre, io vi ho da dirvi questo, verrà a il riscontro del figlio, gli farà delle garbatezze e cose simili; ma se n'invaghirà della nora, che lui deve avere. Il padre, sapendo che il figlio gli piace tanto le mele, gli farà avvelenare il suo melo; ed, appena arrivati nel palazzo, gli dirà: Figlio mio, è tanto tempo che non avete mangiato mele, andate nel giardino e levatevene la voglia. Ma, se il suo maggiordomo, che gli vole tanto bene, che è stato un anno e tre giorni sottoterra con lui, non gli si allontanasse mai dal fianco; e, quando fosse per pigliare la mela, gnene strappasse di mano e gnene buttasse via; sarebbe libero da il veleno della mela. Ma quì, se ci fosse qualcuno, che ne sentissi e ne parlassi, di pietra e marmo diventassi.»—Risponde il terzo di quell'incappati e dice:—«Quando il padre vedrà, che è libero da il veleno della mela, gli farà avvelenare il pasticcio, che deve avere avanti. Con politica d'il suo maggiordomo, gli si mettesse[431] al suo fianco, che quando il suo Re è per prendere il pasticcio, per metterselo alla bocca, gli prendesse il pasticcio, lo buttasse via e gli mettesse il suo davanti, sarebbe libero anche da il veleno d'il pasticcio. Ma qui, se ci fusse qualcheduno, che ne sentissi e ne parlassi, di pietra e marmo e' diventassi.»—Ecco l'ultimo incappato, che risponde e dice:—«Tra il veleno del melo, tra il veleno del pasticcio, vede che è libero; eh! di nottetempo, alle ore dodici, gli farebbe apparire un grosso leone in camera per divorarlo. Ma, se il suo maggiordomo, che gli ha voluto tanto e tanto bene, chiedesse grazia a il suo Re di pernottare nella nottata sur una sieda in camera sua; che quando fusse vicino alle dodici, si sbracciasse, si levasse il soprabito, che ha addosso, e si buttasse su il letto ai piedi del suo Re; che con la spada, che l'ha liberato dai demonî montasse su il letto e uccidesse il leone, sarebbe libero anche dalla morte d'il leone. Ma qui, se ci fusse qualcheduno, che ne sentissi e ne parlassi, di pietra e marmo addiventassi.»—«Felicissima notte!»—«Felicissima notte!»—«Felicissima notte!»—e—«Felicissima notte!»—e spariscono tutt'e quattro. Il maggiordomo, che è rimasto solo lì a pensare ai suoi casi:—«Credeva di aver fatto festa! mi pare a me di cominciare adesso.»—Mattino si alza il Re, si alza la sposa; si preparano, fanno una bona colezione e se ne vanno fori dalla locanda, incontr'a il padre, che veniva a riscontrarli: sortendo fora per andare a il riscontro del padre, sentendo alla lontana la banda con i soni e tutta la sua soldatesca. Il padre vede a il figlio, gli fa dei garbi boni, ma non gran cosa d'allegria, più che sia alla sposa, che doveva prendere il figlio. Entrando nella sua città trionfalmente e bene, si approssimano a il palazzo. Andato, andato:—«Figlio[432] mio, è tanto tempo, che voi non avete mangiato mele; andate nel giardino e levatevene quella voglia.»—Il maggiordomo, sempre accanto a il suo fianco, va il figlio del Re per prendere una mela ed avvicinarla alla bocca; il maggiordomo dà un colpo alla mela, la butta per terra, non si parla più di mangiar mela e cambia discorso. Il padre, che vede che è liberato da il veleno del melo, il giorno gli fa apparire davanti alla tavola il pasticcio avvelenato. Il figlio d'il Re, che va per prendere il pasticcio, il maggiordomo gnene piglia e gnene getta fori e gli pianta il suo davanti. Disse il padre fra sè:—«Uh che affare è questo? Gli è libero anche da il veleno del pasticcio. Ma, nella nottata, gli farò apparire questo leone.«—Il maggiordomo chiede una grazia a il suo Re:—«Che grazia voi, ti sarà concessa.»—«Io, nella nottata, gradirei di riposare sur una delle sue siede nella sua camera.»—Come difatti, gnene concede la grazia il figlio del Re. Entra in camera e si mette a riposarsi in una sieda. Il Re, te lo spogliano e te lo mettono al letto. Addormentato, che è, il Maggiordomo prende la sua ripetizione e guarda che ore sono.—«Eh! sono vicine le dodici.»—Si leva il suo soprabito d'addosso, si sbraccia bene bene e monta su il letto appiede d'il figlio d'il Re, adagio adagio, con la medesima spada, che si era combattuto co' demonî. Se la cinge bene alla mano. Apparisce questo grosso leone. Uccide il leone; e il leone rimane in cenere. Il Re, che si sveglia e vede appiede d'il suo letto il maggiordomo con la spada sguainata, grida:—«Ajuto, guardie! ajuto, guardie! Il maggiordomo m'ammazza! il maggiordomo m'ammazza!»—Preso il maggiordomo, è messo in una scura carcere. Dopo tanto bene, che gli aveva fatto! Viene il momento, che fu condannato a morte il maggiordomo.—«Voglio una grazia da Sua Maestà, il mio padrone.»—«Gli[433] sia concessa!»—fa, tutto severo.—«Voglio la grazia di parlare al mio padrone in mezzo alla sala d'udienza.»—Prese le misure, cominciò a parlare:—«Maestà, si rammenti bene, che, io sono stato un anno e tre giorni con lei e tre giorni con la sua legittima sposa, che lei ha sposato, che siamo stati fra me e lei il suo liberatore ad essere liberato da essere incantato in un serpente. Sortendo di sottoterra e andando in quella bellissima locanda, si rammenti bene, che io mi feci preparare un tavolino con un tappeto e un candeliere, con una candela e una sieda per riposare. Pensando io ai casi successi, nel momento mi vedo apparire quattro incappati; e si danno la bona sera ognuno coll'altro: Sapete cosa ho io da dirvi di novo? Che il figlio del Re di Spagna è stato libero dall'incantesimo di essere un serpente; tra lui e la figlia di un gran ricchissimo mercante e il suo maggiordomo. Ma abbiate da sapere, che lui è nel suo quartiere, che scrive due versi a il suo signor padre, che lui venga a riscontro del figlio e della nora, che lui deve avere. Risponde il secondo: Ehi sta bene, che lui scriva due versi a il suo signor padre. Non sapete, che lui farà più complimenti alla sposa, che deve prendere il figlio, che a il figlio? A il figlio, siccome lui è tanto tempo, che lui non mangia mele, gli farà avvelenare il melo. Ma se il suo maggiordomo, che gli ha voluto tanto e tanto bene, stessi sempre al fianco del suo Re; quando è per prendere la mela per mettersela in bocca gnene gettasse via; libero rimarrebbe dal veleno della mela. Se ci fosse qualcuno, che ne sentissi e ne parlassi, di pietra e marmo addiventassi.»—Ti vede il Re il maggiordomo, che, dalla punta de' piedi insino qui, rimane di marmo. Dà un lancio dalla sua sieda e gli va lì da il suo maggiordomo:—«Maggiordomo, per pietà, non discorrere più, stai fermo!»—«Maestà, condannato[434] a morte Lei mi ha; dunque io rimarrò per belluria nel mezzo del gran salone d'udienza. Di qui non mi posso più smovere; è meglio, che io seguiti a parlare. Risponde quell'altro degl'incappati: Ebbene, e quando il suo signor padre vedrà che lui è libero da il veleno della mela, gli farà avvelenare il pasticcio, che lui deve avere avanti nel pranzo. Ma se il suo maggiordomo gli si mettesse al suo fianco; quando il suo Re è per prendere il pasticcio per metterselo alla sua bocca, gnene strappasse, lo buttasse via e gli mettesse il suo avanti; il Re sarebbe libero anche da il veleno del pasticcio. Ma se ci fosse qualcuno, che ne sentissi e ne parlassi, di pietra e marmo diventassi.»—E diventa insino alla vita e qui di pietra e marmo:—«Per pietà, Maggiordomo, non parlà' più!»—«Che vole? di qui non posso sortire, non mi posso smovere; è meglio, che io finisca di ragionare. Risponde il quarto degl'incappati: Quando il suo signor padre vedrà, che lui è libero anche da il veleno del pasticcio, nella nottata, a ore dodici, gli farà apparire nella sua camera un gran leone, per divorare il suo figlio. Ma, se il suo maggiordomo, che gli ha voluto tanto e tanto bene, chiedesse in grazia al suo Re di pernottare questa notte in camera sua con la spada medesima, che l'ha liberato da' demoni, lo potrebbe liberare anche dalla morte del leone. E se ci fosse qualcuno, che ne sentissi e ne parlassi, di pietra e marmo diventassi.—Felicissima notte!—Felicissima notte!—Felicissima notte!—e—Felicissima notte!»—E diventa tutto di pietra e di marmo, il Maggiordomo. Eh! dispiacente e disperato Sua Maestà, quando sente, che il suo Maggiordomo è diventato tutto di pietra e di marmo! Va in camera della sposa:—«Eh! carissima sposa, un gran rincrescimento ho avuto! Il mio maggiordomo è divenuto tutto di pietra e di marmo!»—Eh! dispiacente ancora[435] lei. Il Re chiede grazia alla sposa di partire dalla sua Reggia.—«Addio! Addio!»—«Addio! Addio!»—e se ne va via. Cammina cammina e arriva alla locanda, in dove era stato, che il suo maggiordomo aveva visti questi incappati. Il locandiere vide, che gli era il figlio del Re. Dice:—«Niente preparativi! la stanza, che pernottò il mio maggiordomo. Come stava lui, è come m'avete a fare a stare anche a me: con tavola, tappeto, candeliere e la candela e una sieda per riposare.»—Quand'è l'ore dodici, si vede in codesta stanza apparire questi quattro incappati, e si danno la bona sera l'un coll'altro.—«Felicissima sera!»—«Felicissima sera!»—«Felicissima sera!»—e—«Felicissima sera!»—«Oh, gli ha buscato un bel premio, povero maggiordomo, dopo d'aver liberato il suo Re da il veleno della mela, da il veleno del pasticcio e da esser divorato da il leone! Fu messo in carcere e presto presto venne a esser condannato a morte.»—Risponde un altro:—«Eh! poero maggiordomo, che è rimasto di pietra e di marmo, che è meglio che morte. Il Re, abbiate da sapere, che è qui insieme con nojaltri. Sua Maestà.... che credete, che non ci fusse rimedio per Sua Maestà di riavere in carne il suo maggiordomo? Altro! Perchè Sua Maestà, ch'è qui, quando lui partirà di qui, dalla locanda, per andare inverso la sua città, inverso l'ora di mezzogiorno sentirà un gran sonìo di campane, cannonate, schioppettate, da tutte le parte. Sarà la sua sposa, che partorirà due bellissimi maschi.»—«Questo»—risponde l'ultimo incappato—«ch'è il bello, che se Sua Maestà avesse tanto di coraggio e lo facesse di bon core, quando lui è da entrare nel suo palazzo, scambio di prendere la scala maestra, prendesse quella secreta, vedrebbe tutt'e due i suoi bimbi in una culla, bianchi e rossi, poerini! Ma se[436] lui lo facesse di bon core, di prendere una bacinella con una spugna (ma badate! sapete? lo deve fare di bon core!), li prendesse a uno a uno: con la spada, che ha a il suo fianco, li scannasse tutt'e due, che il sangue ne andassi in codesta bacinella; andesse nel gran salone d'udienza innanzi al maggiordomo; e lo bagnasse dal capo insino ai piedi col proprio sangue dei suoi figli; avrebbe il suo maggiordomo vivente, sano e salvo, e riavrebbe i suoi figli in bona salute. Ma sempre ragionare di farlo di bon core.»—«Felicissima notte!»—«Felicissima notte!»—«Felicissima notte!»—e—«Felicissima notte!»—Mattina, il Re parte dalla locanda. Quand'è verso l'ora di mezzogiorno, sente un gran sonìo di campane, cannonate, schioppettate da tutte le parti. Quando ha[9] entrare nel suo palazzo, scambio di prender la scala maestra, prende quella secreta; e trova tutt'e due i suoi bimbi in una culla, bianchi e rossi, poerini! Prende una bacinella con una spugna e li scanna a uno a uno con la spada, che ha a il suo fianco, che il sangue ne va in cotesta bacinella. Poi va nel gran salone d'udienza, innanzi a il maggiordomo; lo bagna, come ho detto, da capo insino ai piedi; e lo rià in perfetta e bona salute il maggiordomo.—«Oh Maestà!»—«Oh caro mio maggiordomo!»—Te l'abbraccia e te lo bacia.—«Vieni, vieni a vedere cosa io ho fatto, per riavere te in perfettissima salute. Vedi cosa ho fatto, caro maggiordomo! Ho scannato tutt'e due i miei figli, per riaverti in perfettissima e bona salute.»—«Oh Maestà! questo, che è qui, non lo doveva fare.»—«Ma vieni, vieni, caro il mio maggiordomo!»—Te lo prende pel braccetto e te lo porta nella stanza, dove c'erano tutt'e due i suoi bimbi. Erano nel suo quartiere, che si pascolavano con un pomo d'oro in mano tutt'e due. Il Re fa:—«Cielo, io vi ringrazio, del favore,[437] che voi mi avete fatto; di aver reso alla luce il mio maggiordomo e i figli viventi!»—Prendendone uno per uno, uno il maggiordomo e uno Sua Maestà:—«Andiamo a far visita alla Regina in camera.»—La Regina, che ti vede il maggiordomo:—«Come mai? Oh maggiordomo!»—«Carissima sposa, questo e questo ho fatto. E ho avuto la grazia di riavere in perfettissima e bona salute il mio maggiordomo innocente, e ho avuto in bona e perfettissima salute anche i figli.»—Fu rinnovato tra il Re e la Regina novo sposalizio tra di loro. E rimasero contenti e felici tra il Re, la Regina, i figli e il maggiordomo, che tra sè se la godettero e a me nulla mi dettero:
Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, che ho detta la mia.
NOTE
[1]Il Liebrecht annota:—«Zu Grimm K.—M. n.º VI. Der treue Johannes. Sieh meine Anzeige von FRÈRE's Hindoo Legends in den Heidelb. Jahrb. MDCCCLXIX, Seite 489 f. n.º V. Rama und Luxman.»—Vedi Lo cuorvo, trattenimento IX della giornata IV del Pentamerone:—«Iennariello, pe' dare gusto a Milluccio, Re de Fratta—Ombrosa, fratiello sujo, fa luongo viaggio; e, portatelo chello, che desederava, pe' liberarelo da la morte, è connannato a la morte. Ma, pe' mostrare la 'nnocenzia ssoja, deventanno statoa de preta marmora, pe' strano socciesso, toma a lo stato de' primmo e gaude contiento.»
[2] Antica moneta toscana; valeva sette de' nostri centesimi. Il soldo ne valeva tre. Quindi il Giusti il chiamò uno e trino.
[3] Confronta questo esordio, con quello dello esempio milanese L'Ombrion, a pag. 327 del presente volume.
[4] Il Luigi d'oro era moneta franzese antica di ventiquattro[438] lire francesi (livres); il napoleone d'oro è moneta di questo secolo di venti franchi (pari alle lire Italiane); ma si usano promiscuamente i due termini. Nell'Alta Italia si chiama marengo il venti franchi d'oro, perchè introdotto dopo la celebre battaglia. In gergo: giallino.
[5] Eufemisticamente per accidente; e forse satiricamente, giacchè talvolta i cattivi preti ed arcipreti fan più danno che gli accidenti e l'apoplessia:
E fuvvi un tempo una vecchia lombarda,
Che credeva che il papa non foss'omo;
Ma un drago, una montagna, una bombarda!
[6] In tutte le novelle e fiabe, che io ho raccolte in Toscana, ecco il solo, unico accenno a personaggi della mitologia cristiana; e ci stanno appiccicati collo sputo, proprio, i demonî in questo racconto.
[7] Sic. Questa tendenza ad amalgamare e confonder l'articolo col vocabolo seguente (massime quando comincia per vocale) c'è in Italiano; anche senza alludere alle parole arabe, come almanacco, ammiraglio, alcole eccetera, nelle quali tutte l'articolo originario è divenuto prima sillaba del vocabolo nostro.
[8] Ecco un sogno di Nifeo, Scena V dell'Atto II dell'Avventurose Disavventure di Giambattista Basile.
....Odi 'l tutto, e dirai, ch'ascosi in questi
Velami, alti misteri il ciel comprenda....
....Non fui sì tosto in dolce oblio sopito,
Che di veder mi parve (o pur già vidi
Con certa visïon) squalida serpe,
Che per lo mar notando a te veniva.
Tu allor, fuggir volendo,
Fosti da quella in mille nodi avvinta,
Come l'edera al tronco o vite a l'olmo.
Dal destro lato, intanto,
Sento una voce dir:—«Togli pur, togli,
Giovane disperata, il caro amante,»—
Con sì grata armonia,
Che ne l'orecchio ancor dolce risuona.
Così, tre volte replicando, al fine
Dal soverchio desìo vinto il timore,
[439]La man stendesti ardita;
E da te strinta appena
Le vedevi lasciar l'antica spoglia....
....Tu allor, lieta e ridente,
Di cotanta avventura,
L'abbracciavi e baciavi; e del tuo pianto
La rendevi già molle.
Quando veder mi parve, che giungesse
Al lido empia balena,
Per farvi del suo sen tomba vitale....
....Or tu, veggendo tronche in sul fiorire
Le tue gioje, versavi da' begli occhi
Pioggia di vaghe perle. In questo apparve
Candida nube, che 'l marino mostro
Coperse. Ond'ei cangiossi in bel delfino;
Che, piacevole in vista,
Ti fea lusinghe e vezzi. E, mentr'io, lieto
Di tua felice sorte,
Teco mi rallegrava, agli alti gridi
D'alcuni pescator, che poco lunge
Traean le reti, mi destai dal sonno.
[9] Quell'ha s'ha a pronunziare lungo, essendo una contrazione di ha a.
LA NOVELLA DI LEOMBRUNO.[1]
C'era una volta un gran pescatore. Questo pescatore la mattina si alza co' il suo garzone e va per andare a far la pesca. Quando lui gli ha armato la sua rete, la getta in mare; ma butta giù e tira sù non pescava nemmanco un pesce.—«Vai garzone, vai a casa; e fatti dare la rete di numero uno, per vedere se si pesca qualche pesce.»—Butta giù la rete nel mare; va per tirarla sù: questa rete non veniva. I curiosi, tutte le genti, si fermano per vedere, si mettono alla rete, a il canape, e tira, tira, tira, tiran su la rete, e salta fori un serpente tra i pesci. Tutte quelle genti fuggirono, vedendo il serpente. Dice:—«Pescatore, cosa fai?»—«Che vole, signore, son quì che faccio la mia pesca; gli è il mio mestieri, per tirarmi un poco avanti.»—«Dimmi un po', hai figli?»—«Oh, ce ne ho dodici.»—«Dodici ne hai?»—«Sì.»—«M'imprometti di portarmi uno dei tuoi figli domani? Farai pesche innumerabili, che diventerai un gran ricco pescatore ancora te. E se non me lo porti, io ammazzerò te e tutti i tuoi dodici figli.»—«Oh Le pare! Sarà ubbidito. Sissignore, che io gnene porterò uno di dodici... Troppo onore per lui.»—Accomoda le crine de' suoi pesci e le manda a vendere per l'omo, che lui aveva. Caro pescatore, se ne va a casa, dispiacente, pensando che lui doveva portare un figlio a un serpente. Li guarda a uno a uno, sospira e getta le lagrime[441] dagli occhi.—«Che ha, signor padre? ci guarda a uno a uno, sospira e getta lacrime dagli occhi.»—«Eh! figli miei, sospireresti anco vojaltri, perchè questo m'intravviene, figli miei: nel tirar sù la rete, m'è saltato fori un serpente; e mi ha detto, quanti figli che avevo?—Dodici.—Ne vole uno di questi dodici figli, sennò ci ammazza tutti quanti. Con qual core un padre vi deve portare nelle mani di un serpente?»—Risponde il maggiore:—«Non è niente di male, signor padre. Vengo e vengo volentieri.»—«Oh avete un bellissimo coraggio, di andare nelle mani di un serpente!»—La mattina, a mala pena che lui vedde albore, si veste:—«Signor padre, quando si deve partire, partimo; che io son bell' e all'ordine.»—Il padre va dispiacente, prende il figlio a braccetto e te ne vanno via tutt'e due. Salta fori il serpente, quand'è una piccola lontananza:—«Mandalo via, che non lo posso vedere! e vieni avanti te.»—«Vai, vai, figlio mio! e va a casa.»—Va avanti il pescatore.—«Dimmi, caro Pescatore, li hai perfidi e scellerati tutti a quella maniera i tuoi figli?»—«Sono tutti eguali.»—«Portamene un altro, domani.»—Il caso di questo, gli è il caso di tutti quegli altri dieci. Si conduce il caro pescatore di portargli l'ultimo figlio, il minore, che lui aveva, dei dodici, che gli rincresceva e gli passava il core questo Leombruno, perchè gli voleva tanto e tanto bene. Va intorno a Leombruno il padre a piangere e sospirare.—«Cosa piange, signor padre?»—«Caro Leombruno, piango la tua disgrazia.»—«E che disgrazia è la mia?»—gli fa il figlio a il padre.—«La disgrazia è la tua di andare nelle mani di un serpente.»—«Cheh! caro signor padre, la disgrazia non è niente. Ci vengo, ci vengo volentieri.»—Ancora questo poero Leombruno. La mattina era allestito innanzi di quelli altri undici fratelli,[442] Leombruno.—«Signor padre, quando si vol partire, sono all'ordine.»—«Eh, figlio mio, avete un gran coraggio!»—Prende il padre il figlio a braccetto e se ne vanno inverso la riva del mare. In quel mentre salta fori il serpente:—«Vieni, vieni, caro pescatore, con il tuo diletto figlio!»—«Gli mancò il fiato: in quel momento non sapeva più che rispondere, il padre. In quel mentre, che gli era per consegnarlo a il serpente, gli apparisce un'aquila, e che ti fa? te lo prende per il groppone di dietro e te lo porta in aria a Leombruno. Il padre rimane così in estasi, dispiacente che l'aquila gli aveva portato via il figlio[2]. Il serpente:—«Eh sei stato di parola; me li hai portati tutti e dodici; non ho niente a divider con teco. Te, getta pure le reti in mare; pescherai pesci quanti vuoi; e diventerai un gran ricchissimo pescatore.»—E gli sparisce il serpente. Torniamo ora a Leombruno, che l'aquila l'aveva straportato via. L'aveva straportato sur un'isola, la più alta che ci potesse essere sopra la terra, sopra un tetto d'una certa Madonna Chilina[3]. Sendo costì poero Leombruno sopra codesto tetto, si rammaricava:—«Ahi! Ahi! Ahi! dove sono? Ahi! Ahi! Ahimè.»—Questa, che l'è una fata, ha inteso, questa madonna Chilina. Aveva dodici damigelle d'attorno, questa. Fa:—«O ragazze, venite davanti a me. Sento un rammarichìo. Andate a vedere cosa c'è'; e straportate davanti a me quello, che vojaltre trovate.»—«Sissignore[4], Regina.»—Vanne su, su questo tetto, e veggan questo giovane»—«Cosa fai? qual mai vento ti ha straportato in codeste parti?»—Leombruno, che si metteva a discorrere quello, che gli era intravvenuto.—«Niente, niente! Vieni con nojaltre, discorrerai con la Regina.»—Te lo straportano giù. Dice:—«Regina, s'è trovato questo giovane.»—La lo guarda bene in viso:—«Qual[443] mai vento ti ha straportato sur il mio tetto?»—Gli racconta lui la novella:—«Gli è un caso, che il mio signor padre l'andava a pescare. Tirò fori la rete piena di pesci; e, tra questi pesci saltò fori un serpente; e gli disse: Pescatore, hai figli?—N'ho dodici, signore.—Se mi prometti di portarmene uno, farai pesche innumerabili; e, se non lo porti, ti ammazzerò a te e a tuoi dodici figli.»—E così gli racconta tutta la novella alla Regina, il caro Leombruno. La Regina, madonna Chilina, dice:—«Starai qui con meco.»—E se lo tiene per sè, che lei questo Leombruno se l'avea fatto per suo legittimo sposo. Era ben servito e ben corteggiato di tutto quello, che lui voleva. Passando il mese, passando quell'altro, madonna Chilina dice:—«Caro Leombruno, io vi ho da dire una cosa.»—«Dite pure quello, che voi comandate.»—«Abbiate da sapere, che io sono nel vostro interno; conosco il vostro pensiero, che voi avete. Spiegatemelo un poco per vedere, se io sbagliassi. Quanto paghereste di andare a fare visita a il vostro signor padre, alla vostra signora madre e a tutti undici i vostri fratelli?»—Dice:—«Regina....»—«Domani mattina troverete preparati i regali, che dovete dare al vostro signor padre, alla signora madre e agli undici vostri fratelli.»—La mattina si alza Leombruno. Alzata era anche madonna Chilina; dice:—«Vedi, caro Leombruno, questo è il regalo, che io mando a mio socero, a mia socera e a i miei undici cognati. Tieni, ti consegno le chiavi a te. La più grande è del tuo signor padre; una cassa più minore va alla tua signora madre; e giù giù insino alla coda de' tuoi fratelli, vanno a diminuire in più piccolo. Senti, Leombruno, te consegnerai le chiavi al tuo signor padre, alla tua signora madre e a' tuoi undici fratelli; guarderanno quello, che io gli ho mandato. E diventeranno[444] ricchi strafondati e si compreranno la croce da cavaliere, si compreranno lo spadino, si compreranno ville e poderi e diventeranno signoroni. Vedrai il tuo signor padre, essendo diventato tanto signore, ti menare ai divertimenti, agli spassi, a questa festa, a quell'altra, a divertirti e tutto. Ti menerà anco nel Casino dei Nobili, che lì fanno anche i giochi di tutti i modi. C'è una stanza, caro Leombruno, che diranno diversi signori: Signore, che ha di rarità, Lei?—Oh! io ho un bellissimo quartiere!—Oh! io ho una bellissima villa. E la voglion vedere. Diranno: E Lei, bel giovane, non ha niente di rarità? Che non vi venga mai detto, che voi avete una bellissima sposa, sennò sarete tradito.»—Lei va, si leva un anello di dito:—«Tieni, caro Leombruno,»—e gnene mette in dito a Leombruno.—«A un bisogno grande, fregate quest'anello nel muro, domandate quello, che voi volete, tutto vi apparirà. Rammentatevi bene, caro Leombruno, di non dire, che voi avete una gran bellissima sposa, sennò sarete tradito. Addio! Addio!»—«Addio! Addio!»—E se ne vanno via. Caricate tutte le ricchezze e straportato via in un battibaleno. In quanto se ne discorre, fu straportato all'uscio (con le carrozze, i facchini e tutto) del suo signor padre e della sua signora madre di Leombruno. Sorte di carrozza Leombruno e bussa alla porta del suo signor padre e della sua signora madre. Si affaccia la madre alla finestra; gli fa:—«Signore!...»—«Farebbe grazia di aprimi?»—«Oh signor cavaliere, sissignore.»—Scende e gli apre.—«Signor cavaliere, ben arrivato.»—«Ben trovata, sposa. Dite, che io non so in queste parti come contenermi di niente. Vi contenterete, che nella vostra stanza qua, facessi diposare questi imbarazzi, che è qui? E se voi vi contentate, riposerei qui stanotte.»—Eh,[445] signor cavaliere, è casa di poera gente, non abbiamo gran cosa.»—«Il contento son io, se voi siete contenta.»—«Contenta, contentissima per me.»—Accomodati i bauli in codesta stanza e tutto, rimane Leombruno e la sua signora madre soltanto, e sparisce ogni cosa: servitù, carrozza, facchini e tutto; altro che i bauli: i bauli rimane, e Leombruno insieme con la sua signora madre. In questo contrattempo eccoti il pescatore a casa. Vede questo cavaliere:—«Oh signor cavaliere!»—Si leva di cappello e tutto e lo riverisce. Dice:—«Caro pescatore, ci avete molti figli, voi?»—«Eh, caro signore, non me ne rammenti neppure! perchè di dodici figli, che io aveva, ne persi uno, che mi stava proprio a il mio core; e l'ho pianto sempre giorno e notte.»—«Come si chiamava?»—«Leombruno ai suoi comandi, signor cavaliere.»—«Oh come va?»—E gli racconta la novella il pescatore, che l'avea portato via un'aquila; che doveva averlo un serpente; e che, in quel momento d'avviticciarsi il serpente alla vita di Leombruno, apparì un'aquila, che lo straportò via:—«Che non so, poero mio Leombruno, in dove sia!»—«Ditemi, caro pescatore: se il vostro figlio lo doveste riconoscere, lo riconosceresti?»—«Eh, caro cavaliere; fusse tra tremila giovani, il mio figlio lo riconoscerei! Abbiate da sapere, signor cavaliere, che tra loro bimbi, quand'erano piccoli, facevano il chiasso tra di loro, ruzzolò una scala e si fece un sette nella testa, il poero mio Leombruno!»—Si leva il cappello Leombruno e va per rasciugarsi il sudore così, con il fazzoletto, che lui aveva in mano. Il padre e la madre, che ti riconosce il sette, che lui aveva nella testa di quando ruzzolò la scala:—«Ohimè! quello è Leombruno!»—cadono in terra tutt'e due svenuti. In questo presente momento, ti apparisce tutt'a undici i[446] fratelli. Tutti a levarsi il cappello:—«Felice giorno, signor cavaliere; felice giorno, signor cavaliere! Cos'è stato?»—vedono in terra il padre e la madre.—«Uh, sono cascati non so in che modo,»—fa Leombruno.—«Qui bisogna riaverli.»—Prendono dell'acque odorose e rianno il padre e la madre. Il padre e la madre, riaviti tutt'e due:—«Figlioli miei, lo vedete questo cavaliere qui? Questo è vostro fratello Leombruno, come vojaltri.»—Gli s'avventorno al collo tutt'e undici, per baciarlo e tutto.—«Fratelli miei, lasciatemi stare; sennò mi consumerete tutto da' baci e la mia sposa come anderà? Venga, signor padre, tenga. Questa è una chiave sua; deve aprire e prendere il regalo, che le manda la mia legittima sposa; questa è della mia signora madre; e questa è una chiave per uno anche a vojaltri: il regalo della mia sposa, che vi ha mandato.»—Vanno a codesti mobili; aprono, ognuno con la sua chiave; e veggono tutte verghe d'oro e d'argento. Comincia il padre a dire:—«Guarda quante ricchezze ci hai portate, figlio mio!»—Dà via queste verghe d'oro, e compra ville, poderi e stabili da tutte le parti, che era diventato un gran signorone. Principia a comprarsi una croce, una bella croce da cavaliere e uno spadino per il fianco, il padre e tutti e undici i suoi figli. Il padre dice:—«Sai, caro Leombruno. Domani ci è feste innumerabili: anderemo a gòdersele[5], eh?»—«Sì, caro signor padre.»—Un giorno lo menava a quella delle feste; un giorno a quell'altra; un giorno poi lo mena al Casino dei Nobili. Entrano alla stanza di quel gioco, entrano alla stanza di quell'altro, si divertono. La stanza entra, che faceva parecchi signori:—«Io ho una bellissima casa.»—«Io ho una bellissima villa.»—«Io ho una bellissima di quella cosa.»—«Io ho una bellissima di quell'altra».—Il caro Leombruno[447] stava in un angolo, zitto; e non diceva niente. Va diversi signori da lui:—«Lei, signore, non ha niente? non dice niente? non ha voce in capitolo? non ha niente da dirci?»—Rammentandosi sempre della sua legittima sposa, gli vien detto:—«Signori, ho una bellissima sposa.»—«Avete una bellissima sposa? Tempo tre giorni, che la sposa sia portata a il casino. Si vuol vedere.»—«Sentino, signori, non la posso straportare a il casino quassù. Tante e poi tante miglia lontano da me, non la posso straportare.»—«Se, in tèmpo di tre giorni, non è apparita la sposa al casino, pena la testa a voi.»—Dispiacente Leombruno, la mattina di poi se ne va al casino:—«La vostra sposa si vedrà nella mattinata?»—«Si vedrà, se potrà venire.»—«Male per voi, se non ci viene.»—Frega lui l'anello a il muro. Sente dire:—«Comandi, Signore.»—«Comando, che indispensabilmente apparisca la mia legittima sposa nel Casino dei Nobili.»—Lei gli manda una camerista bellissima, vestita di Regina. Gli apparisce.—«È questa la vostra legittima sposa?»—«No.»—«Oh! e allora?»—E gli sparisce. Va a dir di no, testa di tinca anco lui! poteva dir di sì. Rifrega la seconda mattina l'anello a il muro.—«Comandi, signore.»—«Comando, che indispensabilmente apparisca la mia legittima sposa.»—«Se quella era bella, la prima camerista, che gli aveva mandata, gnene manda un'altra più bella assai, che la prima, che gli aveva mandata. Apparisce lì.—«È questa, signore, la vostra legittima sposa?»—«No.»—Gli fa il visocúlo, gli volta il sedere anco questa e gli sparisce la seconda di quelle damigelle di corte, che madonna Chilina aveva.—«Signor cavaliere, domani è l'ultimo giorno. Quì in questo gran salone sia rizzata la ghigliottina, perchè dovete lasciar la testa, se non apparisce la vostra legittima[448] sposa, che voi dite.»—La terza mattina, che lui è nella stanza del Casino dei Nobili, si raccomanda fortemente; e prega, che gli apparisca di vero zelo la sua legittima moglie, sennò lui è tradito, ha la morte. Fregando l'anello al muro, lì, la gli apparisce lei.—«È questa la vostra legittima sposa?»—«Sissignori.»—«Oh una volta s'è veduta!»—La va lei, gli strappa l'anello d'il dito, gli lascia andare un manrovescio e sparisce:—«Addio, l'hai avuta la sposa!»—Sparita, che l'è, lui se ne va via con il signor padre insieme, piangendo e sospirando:—«Cosa piangi e cosa sospiri, caro figlio mio? Hai portata tanta ricchezza; c'è da vivere tutti nojaltri, e poi, prendendo moglie i tuoi fratelli, con tutti i figli loro.»—Risponde Leombruno al suo signor padre:—«Senta, signor padre, non ho pace di me, se non vo a cercare la mia legittima sposa.»—Il padre dice:—«Figlio mio, che vuoi io che ti faccia? Vuoi andare incontro alla sposa, eh?»—«Sì, carissimo padre e carissima madre.»—«Vi dirò una cosa, figlio mio. Vi potrò dare de' denari, vi potrò dare delle cambiali, che voi potete fare il vostro interesse di andare incontro alla sposa.»—Abbraccia il padre, la madre, i fratelli e tutto:—«Addio, addio! Saprete delle nove.»—Carico di cambiali e di quattrini e se ne parte davanti il padre e la madre e i fratelli e via. Via, cammina, cammina, cammina, cammina. Ne' posti, in dove lui si fermava a rinfrescarsi oppure a mangiare, domandava, se avessero sentito, in dove risiedeva una certa Madonna Chilina. Cammina, cammina, cammina, cammina, trova una locanda; entra dentro in codesta locanda:—«Signore, si accomodi, si accomodi. Si vuol rinfrescare?»—Si rinfresca bene bene; soddisfa, paga l'oste. Gli domanda anche a lui, se avesse sentito, in dove risiedeva una certa Madonna Chilina.—«Cheh! non s'è sentito nominare di[449] cotesti nomi.»—«No?»—e via di gran carriera. Trotta, trotta, trotta, trotta, nel trottare passa in un posto e sente contrastare due.—«Guardiamo, in dove sono.»—Guarda in un borro. Gli erano due giovinotti, fondo ma fondo, che avevano delle ricchezze, che ne facevano due parti. Eran due assassini.—«No, che tu non l'hai fatte giuste le parti! Qui ce n'è più, qui ce n'è meno.»—E si contrastano. Leombruno, che stava a guardarli:—«O giovinotti, che avete a contrastarvi?»—Rialzano il capo:—«Giusto Lei, la guardi, giusto Lei, ci faccia il piacere, venga qui da nojaltri.»—«Vi dirò una cosa: se fossi un uccello io ci verrei volentieri.»—«La guardi, La dee prendere codesto viùzzolo; e La vien via giù giù; e La si ritrova, in dove siamo nojaltri.»—Dice:—«Ho capito.»—Si ritrova fra questi due giovanotti.—«Dunque, cos'avete a ridire fra vojaltri? siete[6] boni, siete.»—«Qui La deve assapere, che questa qui è roba rubata. Semo due assassini, noi.»—«Oh mi rallegro con vojaltri.»—«Abbia da sapere, giovinotto, che queste qui non mi pajon parti fatte giuste.»—«State zitti; ve le farò io.»—Piglia una ripetizione di quà, una di là, le bilancia nelle sue mani e gli fa le parti, fra vezzi, anelli, tutte quelle ricchezze, che avevano robate. Dice:—«Ora queste le son parti! Queste, ma non quelle, che s'eran fatte fra nojaltri! Badi, sa Ella, c'è due altri capi grossissimi. Un pajo di stivali, che camminano quanto il vento.....»—«Benissimo»—fa lui.—«E un mantello: ce lo mettiamo addosso, non siamo più visti da nessuno.»—«Benissimo più che mai. Fatemi vedere questi stivali.»—«Eccoli lì.»—«La se gl'infilzi Lei»—gli fa a uno di questi assassini. Arriva e s'infilza questi stivali.—«Prendi il mantello, mettitelo sotto il braccio, guarda di andare su quella montagna tanto[450] alta là.»—In un battibaleno gli era su quella montagna.—«Mettiti il mantello!»—E gli arriva questo giovinotto e si mette il mantello.—«Eh mi vede?»—«Eh no. Vien giù. Oh pròvateli te ora.»—Si leva gli stivali, si leva il mantello e se li mette quell'altro. Fa la solita anco lui. Va su quella montagna, si mette il mantello:—«Che mi vede?»—«No! Oh vien giù.»—Gli apparisce giù da Leombruno. Leombruno:—«Oh ditemi un po': io qui vi ho fatto le parti e ogni cosa: che me li faresti provare gli stivali e questo mantello?»—Dice:—«Sicuro!»—fra di loro.—«Sicuro!»—Gli apparisce il caro Leombruno e s'infilza gli stivali; prende il mantello e se lo mette sotto il braccio e via! Quando gli è sulla montagna:—«Eh! si metta il mantello!»—Si mette il mantello il caro Leombruno[7].—«Che mi vedete, giovanotti?»—«No.»—«Eh non mi volete vedere!»—e non si fa più vedere il caro Leombruno. E tra di loro si pigliano a tu per tu, si picchiano e tutto. E il caro Leombruno, con il suo mantello addosso, gli era giù da loro, gli era. Si dà la combinazione, che s'ammazzano tutti e due; e rimane solo Leombruno, lì. Il caro Leombruno di due parti e' ne fa solo un monte e si carica di tutte quelle ricchezze e va via. Cammina, cammina, cammina, cammina, si condusse a una locanda.—«Oh! qui mi voglio rinfrescare. Ditemi, locandiere; di primo impeto, innanzi rinfrescarmi, voglio sapere, se voi sapete, in dove pò risèdere[8] una certa Donna Chilina?»—«Venga, signore, venga qua, nojaltri non se ne sa niente di questi nomi. Ma venga qui. Vede quelle sette montagne? Tanti e tanti hanno domandato di questa donna Chilina, perchè non hanno mai potuto resistere di poterle salire.»—«Ditemi, ditemi, che io le salgo.»—Mangia, beve e tutto di questa locanda; e poi, a il locandiere[451] gli dà una bellissima ripetizione d'oro e due anella, e alla locandiera gli mette a il collo un bellissimo vezzo con una fermezza d'oro, per regalo. E gli lascia due cambiali di dugento scudi l'una, dando il regalo a tutti anco della locanda. Dice addio e va via. E sale tutte e sette queste montagne a una alla volta con gli stivali, che aveva. Gli facevano comodo. Si trova su, in questo prato, e nel mezzo a questo prato vede, come si dice? in dove stava l'eremita[9]. Picchia lui, picchia; e fa l'eremita:—«Chi mai, diavolo, ti ha straportato in queste parti? Vattene nel profondo del tuo abisso!»—«E' un casca nulla! E' mi ha preso per il gran diavolo!»—Ripicchia. L'eremita, che si affaccia:—«Chi mai vento ti ha straporto in queste parti?»—«Il mio pensiero, caro eremita!»—E gli apre l'eremita. E Leombruno sale.—«Cosa desiderate, bel giovane?»—«Desideravo sapere, in dove risiede una certa Donna Chilina.»—«Eh sentite, bel giovane, io non ve lo so dire; ma abbiate da sapere, che qui tutt'e sette i venti vengono nel mio quartiere a riposare.»—Viene, quando gli è una cert'ora, il Vento Marino:—«Oh bona sera, eremita! chi è questo giovane?»——«Eh! gli è un giovane, che cerca di ritrovare la sua sposa; una certa Donna Chilina.»—«Oh guarda! Io ne torno ora, torno adesso, caro bel giovane. Io ti ho da ditti una cosa: che, dimani, qualche altro vento, o Scirocco, o Marino, o Ponente, o Levante, o Pisano, o Tramontano!... chi sa che non tocchi a il Tramontano a andare domani da Madonna Chilina? che quell'isola non rimane mai senza ventolazione.»—«Oh! io ho piacere,»—risponde Leombruno. Viene adagio adagio tutt'e sei i venti; e l'ultimo gli è il settimo, che gli è il Tramontano.—«Badate,»—gli fa l'eremita,—«bel giovane, non vi spaventate; adesso sta per apparire il Tramontano; che la cella va da una[452] parte all'altra, che il Tramontano la porta in qua in là: ti sbarberebbe anco le mura.»—«Oh non mi spavento!»—In codesto contrattempo gli altri venti:—«Ma diteci, bel giovane, che è di voi?»—«La mia legittima sposa....»—fa Leombruno; gli dice tutta la novella.—«Dapò in qua, che voi mancate dalle sue braccia, Donna Chilina ha messo due grossi leoni alla sua porta d'ingresso; che un poveretto, che è per entrare dentro, è divorato.»—«Non ho paura.»—Tutt'in un tratto si sente brrrr! brrrr! brrrr! che gli era il Tramontano, che appariva, che la cella gli andava da una parte all'altra. E apparisce il Tramontano.—«Oh bona sera!»—fa.—«Che fa qui questo giovanotto? Che bon vento l'ha straportato?»—«Oh stati zitto, sai, caro Tramontano!»—e gli fanno tutto. Dice il Tramontano:—«Ma tu non sai, te? tu vuoi ire nelle braccia della tua sposa? Tu non poi, sai, andare.»—«Come io non posso?»—«Che voi venì' con meco?»—«Sì, che io vengo con teco.»—«O che cammini quanto me, te?»—«Sarà più facile, che cammini più io che te.»—«È possibil mai? E poi, anche che te cammini come me, non sai, che chi s'accosta al suo appartamento è divorato dai leoni?[10]»—«Non ho paura. Guarda, se io sarò liberato dai leoni!»—Spiega il mantello e se lo mette in dosso.—«Oh mi vedi, Tramontano?»—«No, che io, te, non ti veggo. Ho bell'e capito, gua'! te, tu vai nelle braccia della tua legittima sposa presto presto; ci hai tutti gli ammennìcoli!»—gli fa il Tramontano. Il Tramontano lo lascia e va via. Innanzi di lasciarlo, dice:—«Tu non te lo piglierai per male, se te lo dico: ci sarà le cameriste della tua legittima sposa, che fanno il bucato; quando sono per stenderlo lì, io apparisco lì, e gli butto tutto all'aria.»—«Buttagli tutt'all'aria,»—fa[453] Leombruno—«a me non me n'interessa niente.»—Lui, quand'è vicino, si mette il suo mantello addosso. Arriva, vede i leoni; e passa tra mezzo i leoni e entra nel suo appartamento. E si mette accanto a sedere sur una sieda, accanto alla sua legittima sposa. Dice:—«Ohimè!»—la fa lei. Sona il campanello.—«Comandi, Regina.»—«Portatemi qualche cosa: mi sento venire una mancanza.»—E arrivano e gli portano una bella zuppiera con del brodo. Cambio di prenderla lei, apparisce Leombruno, si prende la zuppiera e se la manda giù.—«Ohimè!»—la fa lei e si sviene.—«Ohimè, questo è il mio poero Leombruno! Chi sa la fame, che lui patisce. Lesto, portatemi qualcos'altro.»—Gli portano altra roba, per potersi sostentare della mancanza, che lei aveva avuta. La mangia Leombruno.—«Dimmi, che siei tu esso, che siei qui da me? Fammi la carità, fammi il piacere, fatti vedere, se siei te!»—Va lui e si leva il mantello:—«Sì, sì, son quello io, mia carissima sposa!»—Lei, che te lo vede, te l'abbraccia e te lo bacia dalla consolazione.—«'Un sai, eh? caro Leombruno; come hai fatto a venire da me nelle mie braccia?»—E lui, gli racconta tutta la novella, che gli era incorsa per la strada, nel venire a salutare la sua legittima sposa.—«Mi hai tu visto, carissima sposa, entrare nel tuo appartamento, accanto a te?»—«No.»—«Vedi, se non avessi avuto questo mantello, che è qui, sarei stato divorato dai leoni.»—«E quei leoni,»—la gli fa Madonna Chilina—«vedi, che ci è alla porta, ti saranno i tuoi fedeli, che ti salveranno dalla morte. Dico io una cosa: in quattr'e quattr'otto... Quanto tempo avrai perduto te, per fare la gita di venirmi a trovare me? E io ti dirò: in quattr'e quattr'otto voglio, che qui alla mia presenza appariscano il mio socero, la mia socera e tutt'e undici[454] i miei cognati.»—E come di fatti, lei frega il suo anello a il muro.—«Comandi, signora.»—«Comando, che indispensabilmente, in questo momento, apparisca mio socero, mia socera e tutt'e undici i miei cognati nel mio appartamento.»—E Leombruno, che se li vede apparire: il padre, la madre e i fratelli. Il padre e la madre:—«Oh carissimo figlio!»—Fanno il complimento alla nora. I cognati similmente. E trionfalmente rinnovano lo sposalizio la mattina di poi. Il padre, che, benchè avesse la croce di cavaliere, benchè avesse lo spadino al fianco, gli fu consegnata una croce imbrillantata, che valeva un tesoro ed una spada l'istesso; e a tutti cognati l'istessamente la croce imbrillantata. La socera, rivestita, che, benchè non ne avesse di bisogno, nel modo e nella maniera, che volle Madonna Chilina, e se la tenne al suo fianco. Il padre l'istessamente al fianco della nora. E i fratelli, che erano undici, intorno al fratello; a onorare il fratello tutt'e undici quanti gli erano. Rinnovano le nozze e furono di bel novo sposi. Invito di signori, pranzo suntuoso. Diede da mangiare e bere a tutte le poere genti. E così se ne godettero e se ne stiedero.
Stretta la foglia e larga la via;
Dite la vostra, che ho detta la mia.
NOTE
[1] È in sostanza il libretto popolare intitolato: Bellissima Istoria di Liombruno, dove s'intende, che fu venduto da suo Padre, e come fu liberato, ed altre cose bellissime, come leggendo intenderete.
CANTARE PRIMO
Dammi ajuto, che puoi, musa divina,
[455]Di componere una istrana istoria,
Che la mia cetra non vi si rovina;
Ma ajuta la debol mia memoria,
(Perchè, nè di saper, nè di dottrina,
Nemmen di poesìa non vanto gloria)
Sì ch'io possa narrar un caso in rima,
Ch'a ciascun piaccia dal piede alla cima.
Signori, trovo, che per povertade
Molte persone son male arrivate,
Hanno perduto la lor libertade,
La povertà sì forte l'ha cacciate.
Voglio cantar di una veritade,
Qual'è di un padre (se mi ascoltate),
Com'egli venne a così gran periglio,
Che per campar vendè un suo figlio.
Il pover uomo era un Pescatore,
Ed ogni giorno sì andava a pescare.
Per sua disaventura, a tutte l'ore,
Poco pesce veniva egli a pigliare.
Terra, nè vigna non aveva ancora,
Ben tre Figliuoli avea da nutricare;
La sua Donna era fresca più che rosa,
Viveva di pescar, non d'altra cosa.
Una mattina il buon uom si levò,
A pescar con la barca fu andato.
Punto di pesce il giorno non pigliò,
Onde il buon uomo si fu crucïato.
E a un'Isoletta del mare arrivò,
Ed ivi un gran Corsaro ha ritrovato;
Il qual gli disse:—«Che mi vuoi tu dare,
«S'io ti darò del pesce, e assai dinare?»—
Rispose:—«Io ti darò ciò, che tu vuoi;
«Onde ora dimmi ciò, che posso fare.»—
Parlò il Corsaro con i detti suoi,
E dissegli:—«Se tu mi vuoi menare
«Su st'Isoletta uno dei figli tuoi,
«Se mi prometti di non m'ingannare,
«Io ti darò del pesce per ristoro,
«E ancor moneta assai d'argento ed oro.»—
E quel buon'uomo n'ebbe gran dolore;
Per povertà convien che gl'imprometta,
E gli rispose:—«Io ti darò il minore,
«E menarollo su quest'Isoletta.»—
[456]Il mal Corsaro non fece dimore:
Pigliò del pesce ed empì la barchetta;
Moneta gli diè assai, chè gliel portassi.
Disse:—«T'annegarei, se m'ingannassi.»—
E quel buon uomo gli rispose ardito:
—«Io certamente non t'ingannerò.»—
E poi verso di casa ne fu ito
Con tutto il pesce assai dinar portò,
E di buon vestimento assai vestito.
La moglie ed i figliuoi ben adobbò;
Di vettovaglia la casa ha fornita;
Ma del figliuolo avea una gran ferita.
E poi chiamò il suo figliuol minore;
Nella barchetta seco lo menò;
Dentro del cor aveva gran dolore,
E navigando a l'Isola arrivò.
Onde dalla barchetta il trasse fuore,
Dicendo:—«Aspetta sin che tornerò.»—
Così lasciò il figliolo con affanni,
Qual non avea passato li sett'anni.
Essendo il Padre suo da lui partito,
(Che del figliuol non vuol veder la morte)
Il Corsar Turco gli apparse ardito,
E via 'l volea portar per cotal sorte.
E quel figliuolo forte fu smarrito,
Che non aveva nissun, che 'l conforte.
—«Ajuto! Ajuto!»—cominciò a gridare,
Che il Turco tosto si mise a scappare.
Rimase il fanciullin con gran paura,
Solo soletto su quell'Isolella;
E guardò, e vide sopra dell'altura
Sotto forme grifagne una donzella,
Che un'Aquila parea la sua figura.
E pel fanciullo se ne venne quella,
E gli disse così:—«Non dubitare,
«Che da questa Isoletta ti vo' trare.»—
Disse il fanciullo:—«Non mi vuò partire,
«Perchè mio padre qui debbo aspettare.»—
L'Aquila all'ora sì gli prese a dire:
—«Dov'è tuo Padre ti voglio portare.»—
E prese quel fanciul, senza mentire,
Sopra dell'aere cominciò a volare:
E così lei per l'aere il portava,
[457]E meglio che in barca camminava.
Poi gli mostrò 'l bel paese soprano,
E il suo Castello, ch'era in lunghe parte
Quattrocento giornate per certano.
E più ancora fa menzion le carte:
Che l'Aquila con quel fanciullo altano
In una notte se gli andò per arte;
La sera, che dall'Isola traeva,
E la mattina al suo Castel giungeva.
Poselo in una sala molto bella.
—«Ora m'aspetta fin che torno»—disse;
Ed entrò in zambra, e diventò donzella,
E parve fuor del Paradiso uscisse.
Lucevan gli occhi suoi più che la stella,
E assomigliava il Sol, che risplendesse;
Era vestita di molti bei panni,
E non avea passati li dieci anni.
La fanciulla, la qual ora vi dico,
Lei si chiamava madonna Aquilina,
Che scampò quel fanciullo dal nemico,
Quando lo trasse fuor della Marina.
Andò da lui, e disse:—«O bell'amico,
«Io ti auguro la buona mattina:
«Io son colei, che in alto ti portai,
«Quando da quel Corsaro ti scampai.»—
E quel fanciul, con grande sentimento,
Cortesemente esso la ringraziò,
E dissegli:—«Madonna, io son contento
«D'esser tuo servo; e sempre tal sarò.»—
E lei rispose:—«Non pigliar spavento,
«Ch'ancora più contento ti farò.»—
E lei dieci anni avea, ed egli sette:
E così più d'otto anni ancora stette.
Quando cresciuti furon in etate,
Egli pareva un giglio, ella una rosa;
Quella Madonna, piena di bontade,
Disse:—«Il mio cor giammai non avrà posa,
«Se non adempio la mia volontade;
«Propongoti, ch'io sia la tua sposa.
«Poichè allevato t'ho, donzel gradito,
«Ora ti piaccia d'esser mio marito.»—
E quel fanciullo, con buona dottrina,
Cortesemente gli ebbe parlato,
[458]E gli rispose:—«Madonna Aquilina,
«Con gran fatica m'avete allevato,
«Voi mi cavaste fuor della marina,
«Ciò, ch'a voi piace, son apparecchiato.»—
Ed il suo nome dico a ciascheduno:
La gente sì lo chiama Liombruno.
E poi sposò la donna a cotal sorte:
Lei per sua sposa, e lui per suo marito.
Il suo Castello era cotanto forte,
Di ciò, che bisognava, era fornito;
Per fin nell'aere aveva due porte,
Fatte per arte ed in cotal partito,
Che niuna persona intrar potea,
Se madonna Aquilina non volea.
E Liombruno sapea l'incantamento,
A suo diletto usciva egli ed entrava;
E sì spesso facea torniamento,
In belle giostre al tutto si approvava.
E quella donna di buon sentimento
Di giorno in giorno sempre più l'amava,
Perch'era bello e pien di gagliardìa,
Sì che la donna gran ben gli volìa.
E, stando un giorno tutto pensieroso,
Quella donna gentil gli ebbe parlato,
E sì gli disse:—«Marito, mio sposo,
«Perchè stai tu alquanto corrucciato?»—
Rispose Liombrun tutto doglioso:
—«Madonna, un gran pensier mi si è levato,
«Li miei fratelli veder io vorria,
«Ed il mio Padre e Madre in compagnia.»—
Disse la Donna:—«Se tu vuoi andare,
«Voglio, che mi prometti senza inganno,
«Termine ti darò, di ritornare:
«Voglio, che tu torni al fin dell'anno.»—
E Liombruno gli prese a parlare:
—«Madonna, el sarà fatto senza affanno.»—
Ed ella gli donò un bell'anello,
Che da disagio campasse il Donzello.
Disse:—«A l'anel ciò ch'avrai dimandare,
«Tu l'averai a tutto tuo piacere;
«Denaro e robba senza dimorare,
«Ti sarà dato a tutto tuo volere.
«Ma guarda ben, non lo manifestare,
[459]«Che mai più grazia non potresti avere!
«E fa, che dentro un anno tu ritorni,
E, se più stai, non varcar quattro giorni.»—
E Liombruno disse:—«Volentiere.»—
E questa donna nobile e gradita,
Innanzi che partisse a tal mestiere,
Ben quattro dì fe far corte bandita;
E fecelo far anco Cavaliere,
Fugli ben cinta la spada forbita.
E fatto questo prese esso comiato,
Messer Liombrun: così era chiamato.
Egli avea d'andar giorni quattrocento,
Innanzi ch'al suo paese arrivasse;
E questa donna, per incantamento,
Ordinò che lui si addormentasse.
Ed all'Arte ella fa comandamento,
Che in suo paese presto lo portasse.
E Liombrun s'adormentò la sera,
E la mattina nel suo paese era.
Ma quando venne sù l'alba del giorno,
Presto Liombruno si fu risvegliato;
Rizzossi in piedi, guardossi d'intorno,
Il bel Paese ha ben raffigurato.
Di Liombrun quel Cavaliere adorno,
Umilmente la Fata ha ringraziato,
Ed all'anello grazia gli chiedia,
Ciò che gli domandava gli venia.
Per la virtù, ch'avea quel bell'anello,
In prima se gli diede un buon destriero;
Un vestimento poi sì ricco e bello,
Come bisogna a ciascun Cavaliero.
Valige poi ancora appresso quello
Fornite di fiorini, a tal mestiero,
E gente gli chiedeva senza fallo:
Assai ne venne a piedi, ed a cavallo.
Con questa gente e con quelle valici
Andò a sua casa, ove trovò suo padre
E' suoi fratelli, ch'erano felici,
E le valige appresentò alla Madre.
Danari avea per sè e per gli amici,
Per li parenti e cugine leggiadre;
I suoi parenti dicea ciascheduno:
[460]—«Ben sia venuto messer Liombruno.»—
Ed essi pur dicevan tutti quanti:
—«O Liombruno, dove sei tu stato?»—
E Liombrun gli rispose davanti:
—«In veritade, ch'ho ben guadagnato;
Io son stato con ricchi mercadanti,
Che m'han così vestito ed addobato,
Per il bene servir, che ho fatto a loro,
M'han fatto Cavalier di Bufaloro.
E a questi mercadanti io ho promesso,
Prima che passi un anno, di tornare.»—
Li suoi parenti gli dissero adesso:
—«O Liombruno, dove voi tu andare?
Il gran Re di Granata sta qui appresso,
Ed una figlia sua vol maritare.
Il torneamento ha fatto già bandire,
Che chi vince ne faccia il suo desire.»—
E quando Liombruno questo udìa,
Vennegli il cor di veder sua ventura:
Ed all'anello subito chiedia
Un bel corsier con tutta sua armatura.
Ciò, che domanda, tutto gli venìa,
E Liombrun si armava a dirittura,
Da suoi parenti comiato pigliava,
E ciaschedun di loro lacrimava.
E Liombruno sì prese comiato.
Tanto cavalca, ch'è, giunto in Granata,
Là dove il torneamento era ordinato,
E la gran Giostra era già cominciata.
L'altro giorno ivi se n'andò sul prato,
Dove la gente era ben radunata.
Ivi era un saracin molto possente,
Che nella Giostra era quasi vincente.
Quel Saracino avea tanta fortezza,
Nissun a lui non si volea accostare;
Perchè era prode e pien di gagliardezza,
A suoi colpi nissun potea durare.
Ma Liombruno, pien di gentilezza,
Davanti a lui s'andò a presentare;
Dissegli il Saracino:—«A me ti rendi;
O, se tu vuoi giostrar, del campo prendi.»—
E Liombrun gli disse:—«Volontieri.»—
Arditamente del campo pigliava;
[461]Il Saracino, ch'è forte e leggeri,
Su 'l buon destrier all'ora s'affermava.
E rivoltorsi i nobil Cavalieri,
L'un inver l'altro forte spronava.
Li Cavalieri insieme fur scontrati,
Or udirete i colpi smisurati.
Il Saracino e messer Liombruno
Venivansi a ferir arditamente:
Dui gran colpi si dettero ciascuno,
Ma pur il Saracino fu perdente.
Arme, ch'avesse, non gli valse un pruno;
Che Liombruno, nobile possente,
Il ferro e l'asta nel cor gli cacciò,
E giù del destrier morto lo gettò.
Caduto in terra morto il Saracino,
Liombrun forte nel campo ferìa;
Quanti giungeva metteva a declino;
Ma ciascheduno gli dava la via,
Che ben pareva un franco paladino.
Con alta voce ciaschedun dicia:
—«O non combatter più, franco Signore,
Che della Giostra tu hai vinto l'onore.»—
Il Re fece venir il Cavaliere,
E sì gli disse:—«Baron valoroso,
La mia figliuola sarà tua mogliere,
E tu sarai mio genero e suo sposo.»—
E Liombruno disse:—«Volontiere,
Ciò ch'a voi piace, alto Re glorioso.»—
Ma lo Re innanzi, che gliel'abbia a dare,
Co' suoi Baroni si vuol consigliare.
Il Re a' suoi savi ebbe dimandato,
Dicendo:—«Che vi par del Cavaliere?
Voi dovete saperlo.»—Ebbe parlato:
—«Fuor ch'in suo paese egli ha mogliere,
E non ci par di così gentil stato,
Che s'acconvenga a voi per tal mestiere.
Benchè sia prode e pien di gagliardia,
A noi non par, che convenevol sia.
«Ma, se volete a nostro senno fare,
Voi ordinate, che ciascun si vanti,
E, dopo, il vanto, senza dimorare,
Ve lo presenti subito davanti.»—
E l'altro dì si fece ritornare
[462]In su la Sala i Baron tutti quanti,
Ove ordinò, che ciascun s'avanzasse,
Poi li vanti davanti ad un portasse.
Chi si avvanta di bella mogliere,
Chi si avvanta di bella magione,
Chi di Caval corrente e buon destriere,
Chi di gentil Sparviere e buon Falcone,
Chi di Palazzo e chi di Torri altiere,
Chi si vanta di sua condizione;
E quando poi ciascun si fu vantato,
Messer Liombruno si fu domandato.
Or disse il Re:—«Perchè non vi avanzate?»—
E Liombruno così rispondia,
—«Sacra Corona or deh! mi perdonate.»—
Rispose lui:—«Perdonato ti sia.»—
E Liombruno disse:—«In veritade,
Io pur mi vanto della donna mia,
Più bella donna non la puoi trovare;
Fra venti giorni lo voglio provare.»—
—«Termine mi dimandi venti dì,»—
Rispose il Re:—«Io te ne vuò dar trenta.»—
Liombruno disse all'anello lì:
—«Monna Aquilina tosto qui appresenta.»—
E quella donna, perchè a lei fallì,
Non vuol venire, acciò ch'egli si penta.
Ne passa trenta giorni senza resta,
Alli trenta dovea perder la testa.
A i trenta giorni quella fu venuta.
Fuori della Città si ritenìa.
Una donzella gli ebbe travestita,
Mandolla al Re e sua baronia.
E quando il Re costei ebbe veduta,
Che era piena di tanta leggiadria.
Disse a Liombruno:—«È quella tua mogliere?»—
E lui rispose:—«Nò, dolce messere.»—
La cameriera presto si arrivava
Davanti al Re e ad ogni Barone,
Quando il Re la donzella non guardava.
Quella era tanto bella di fazione!
Verso di Liombruno lui parlava:
—«È questa tua moglie gentil campione?»—
Disse Liombruno con dolce favelle:
[463]—«Signor nò, ambedue sono donzelle.»—
E Madonna Aquilina fu arrivata,
Col suo bel viso, che rendea splendore;
Davanti al Re si fu rappresentata,
Poi di lì si partì senza dimore.
E quando il Re costei ebbe guardata,
Disse a Liombruno:—«Nobile Signore,
Or mi perdona per tua cortesia.»—
—«Perdona a me.»—Liombrun rispondia.
E Liombruno prese comiato,
E dietro alla sua donna se ne gia.
Ella l'aspetta con viso turbato;
Liombruno gridando la chiedia.
Ed ella disse:—«Falso rinegato,
Della tua morte ancor m'incresceria!»—
Per Arte quella donna se n'andava,
Nè arme, nè caval non gli lasciava.
Nè arme, nè caval non gli lasciò,
Liombruno in un bosco fu entrato,
Dove che tre malandrini trovò,
Che ciascheduno parea disperato.
Nel secondo cantare vi dirò,
Ciò che al Cavaliero fu incontrato,
Di Liombrun dett'ho il primo cantare,
E la seconda parte vò contare.
CANTARE SECONDO
Signori, dissi nell'altro cantare,
Come Liombruno dal Corsar scampò;
Di punto in punto v'ebbi a ricordare,
Come per grand'onor al padre andò.
Ed io vi dissi quello, ch'ebbe a fare,
Come madonna Aquilina il lasciò
Senz'arme e (quel, ch'è più) senza cavallo,
E come s'incontrò in un gran fallo.
Tre malandrini avevano rubbato,
Duoi mercanti e morti a gran furore,
E lor denari avevano essi a lato
Sopra una pietra per partir allore (sic.)
Ciascuno quivi parea disperato,
Insieme facendo essi gran rumore.
Per darsi morte le spade son tratte,
[464]Per un mantello, per un par d'osatte.
E quel mantello lo voleva l'uno,
L'altro le osatte, nè si può accordare;
Al terzo poi non ne rimaneva uno,
E tutti tre si ebbero a crucciare.
In tanto ivi arrivava Liombruno;
E quando lui gli vide così stare,
Il più antico di loro il chiamò;
E Liombruno prestamente andò.
E sì gli disse:—«Amico valoroso,
«A queste cose abbi gran providenza,
«D'esto mantel, ch'è tutto grazioso,
«Di queste osatte dacci la sentenza.»—
E Liombruno sì gli ebbe risposo:
—«Acciò che possa dar giusta sentenza,
«La virtù del mantello voi mi dite,
«E delle osatte poi che voi sentite.»—
Uno di loro, ch'era più saputo,
A Liombruno si prese a parlare,
E sì gli disse:—«Sarà provveduto,
«Chi questo manto indosso avrà a portare:
«Da uom del mondo non può esser veduto.
«Di quelli osatti ti voglio contare:
«Chi gli ha in piedi camina più che vento,
«Perchè son fatti per incantamento.»—
Disse Liombruno:—«Non lo crederia,
«Se primamente non l'avrò a provare.»—
Ed il più antico sì gli rispondia:
—«Or te li metti e poi comincia andare
«Alquanti passi su per questa via.»—
Lui se li mise senza dimorare;
Di poi si fu calzato, Liombruno
E del mantello dimandava ad uno.
—«S'egli è ver ora quel, che voi dicete,
«Un gran tesoro vale, in fede mia!»—
Disse il più antico—«Se ve lo mettete,
«Voi vedrete s'egli è vero o bugìa»—
Lui se lo mise, e disse:—«Mi vedete?»—
—«Non vi vediamo»—il malandrin dicia.
Lui prese dei fiorini a suo piacere,
Perchè niuno non lo può vedere.
Sì che Liombruno non tardò niente,
Ma il mantello e gli osatti ha via portato,
[465]Lì malandrini rimaser dolente.
Sul più antico il lor cruccio han disfogato
Dicendogli:—«È tuo amico, o tuo parente?»—
E gli altri due così l'hanno ammazzato,
Benchè dicesse:—«Il giuro, nol conosco,
«Nè mai il vidi se non in questo bosco.»—
E fatto questo, s'ebbero voltati
Verso la pietra, ov'eran li denare;
E vedendo, che gli erano scemati,
Tosto poi tra lor s'ebbero a sdegnare;
Dicendosi l'un l'altro:—«Li hai rubbati.»—
E con le spade cominciorno a dare.
Li colpi furono sì crudeli, e forti,
Che ambi restonno su quel punto morti.
Liombruno sentiva il gran rumore,
Voltossi indietro, e se ne sta a vedere.
E vide crudi colpi di valore,
Che ciaschedun si dan di buon volere.
Indietro ritornò senza timore,
E prese de' fiorini a suo piacere,
Ch'eran da trenta milla e settecento,
Poi caminava più che non fa il vento.
E Liombruno tanto caminò,
Che ad una gran Città fu arrivato;
Dentro d'un'Osteria lui entrò,
E tre Mercanti lì ebbe trovato,
E quei cortesemente salutò.
Lor il saluto gli ebber raddoppiato,
E pel saluto, che fe' Liombruno,
In piedi fu levato ciascheduno.
Vedendo Liombrun li Mercadanti,
Che ciascheduno gli facea onore
E gli parlava con dolci sembianti,
—«Assentatevi giù, gentil Signore;»—
E Liombruno disse all'Oste innanti:
—«Reca del vino, dico, e del migliore;
«A questi Mercadanti dà da bere,
«Che voglio star con lor di buon volere.»—
E così stando, il vino fu recato,
Poichè ebbero bevuto lì davanti,
Liombruno a loro gli ebbe parlato,
E si gli disse:—«O gentil Mercadanti,
«Voi che cercate del Mondo ogni lato,
[466]«Li Regni co' paesi tutti quanti,
«M'insegnate la terra oltremarina,
«Ov'è signora madonna Aquillina.»—
Niun di loro gli sapea insegnare,
Ma volto l'uno l'altro a quel, che chiese,
Rispose:—«Mai l'udimmo nominare,
«Noi per il vero questo tal paese.»—
Disse il più antico:—«Tu potresti andare
«Millanta miglia, e forse più d'un mese,
«Caminaresti, cotal argomento
«Ne tel potria insegnar se non il vento.»—
Disse Liombrun:—«V'è nessun, che sapesse,
«Come si possa il vento ritrovare?»—
Il più antico par, che rispondesse:
—«Se su quel monte tu potessi andare,
«Ed aspettar il vento, che venesse,
«A casa d'un Romito ad albergare,
«Più di sessanta venti per certano,
«Quando là sono ogn'un par corpo umano.
«Ma dell'andar non ti metter in prova,
«Che giammai non vi fu uomo creato.
«Sol un Romito, e questo vi si trova,
«Perchè da' venti lui vi fu portato;
«Ed ogni capo d'anno si rinnova.
«Siccome l'alto Eolo ha ordinato,
«Così vi viene portato dal vento,
«Conforme al grande Nume è in piacimento.
«Quella montagna ha sì grande altura
«È sì pendente da montarvi suso,
«Che mai nissun vi monta per sciagura,
«Ch'a mezzo miglio non ne venghi giuso
«Morto per terra in quella pianura.
«Però d'irvi ciascuno è pauroso;
«Deh non vi andar, se tu non vuoi morire.»—
Dice Liombruno:—«A me convien pur gire.»—
Per la virtù, che avevan quegli osatti,
Allegramente Liombrun caminava,
E giunse alla montagna in cotal patti,
Che sopra quella non timido andava.
Arrivato al romito, batti batti!
E quel Romito si maravigliava,
Ed alla cella fuori si facea:
[467]Aprì il portello e nissun non vedea.
E quel Romito gran paura avea,
Perchè credeva fosse un spirto fello.
Ma Liombruno a dietro si traeva,
E dal dosso si trasse il mantello,
Acciò che il Romito lo vedea,
E poi sì fè davanti del portello.
Allora quel Romito s'assicura
Vedendo di persona la figura.
Ancor non era il Sol ben tramontato,
Secondo che l'Istoria ne fa conto,
Quando Liombrun dal Romito arrivato,
Gli disse:—«Amico, che sei quà tu giunto?»—
Quel buon Romito l'ebbe addimandato;
—«Or da qual parte sei qui sopra assunto?
«Non fu mai uomo alcun, che ci venisse,
«Salvo, che il vento ce lo conducisse!»—
E Liombruno sì gli rispondia,
E disse a quel Romito con desìo:
—«Mi ha portato la ventura ria,
«E questi osatti, che a' piedi ho io,
«Sol per amore della donna mia,
«La qual mi tiene legato il cor mio.
«Monna Aquilina si chiama palese,
«Che signoreggia di strano paese.»—
E quel Romito, da lui invitato,
A Liombruno si prese a parlare:
—«In la mia vita mai in nissun lato,
«Cotal paese non udì nomare.»—
Disse Liombruno:—«Mi è stato insegnato,
«Che quà su i venti vengon albergare,
«Per lo mio amor quando saran tornati,
«Pregovi di averli interrogati.»—
—«Or entra dentro»—quel Romito disse,
—«Fin che tornino i venti ad uno ad uno,
«Che gli domanderò se lor sapisse.»—
Dentro la cella n'andò Liombruno.
Nel luogo del Romito egli si misse.
Per fin che i venti tornasser ciascuno,
E quel Romito poi li congiurava,
E di Aquilina gli addimandava.
In prima venne il vento Ponente,
E di poi quello veniva il Garbino;
[468]Vento Levante; e poi, subitamente,
Il gran vento, che tuttor vien d'Alpino;
Vento Maestro venne similmente,
Vento Greco, ed il buon vento Marino;
Vent'Ostro, vento Borea, e Tramotana,
E molti venti del mar della Tana.
Quel Romito da Liombrun pregato,
Ad uno ad uno scongiurava i venti,
Che quel paese gli avesse insegnato
In qual parte si trovava presente,
Ciascun diceva:—«Non vi son mai stato.»—
E un di loro parlò immantinente,
Disse:—«Scirocco è già per arrivare,
Forse, che lui ve lo saprà insegnare.»—
Così essendo Scirocco già arrivato,
Che quel romito per virtù inclina,
Di quel paese gli ebbe domandato,
Dov'è signora madonna Aquilina.
Sirocco disse:—«Lì, vi son ben stato.
E ritornarci voglio domattina.»—
E Liombruno sì gli prese a dire:
—«Se 'l t'è in piacer, con teco vo' venire.»—
Disse il vento:—«Vuoi tu con me venire,
Che il paese è tanto lontano?
D'aspettar te io vedo non potire.
Amico caro mio, tu parli in vano.»—
Disse Liombruno:—«È proprio mio volire!
Seguir ti voglio per monte e per piano;
Se domattina tu mi vuoi chiamare,
Quando sei in punto di voler andare.»—
Disse Scirocco:—«Io ti chiamerò,
Poichè con meco pur tu vuoi venire;
In niuna parte non t'aspetterò,
Questo ti dico, e ti faccio gire.
La strada col cammin ti mostrerò;
Vedrò, vedrò se mi potrai seguire.»—
—«Io son contento,»—Liombrun dicìa,
Purchè mi trovi il cammin e la via.»—
E quel Romito da cena gli dava,
Di quelle cose, che per lui aveva;
E mentre per ciò egli preparava,
Mai da Sirocco Liombrun si parteva.
Poscia a dormire subito n'andava,
[469]E gli osatti da' piè non si traeva,
Per esser presto, se il vento il chiamasse,
A seguitarlo dove quello andasse.
E quando il giorno cominciò a spuntare,
Scirocco Liombrun ebbe chiamato,
E disse:—«Amico, voi tu camminare?»—
Rispose lui:—«Io son apparecchiato,»—
E uscì di fuori senza dimorare,
La strada, ed il cammin gli ebbe mostrato
—«Vedi quella montagna, ch'è sì lungi?
Lassù me troverai, se tu m'aggiungi.»—
Poi si partiva Scirocco fuggendo.
E Liombruno da quel Romitello
Prese comiato; e vassen via, correndo
Dietro il vento, e messesi il mantello.
Sirocco indietro si andava volgendo,
E Liombruno andava innanzi ad ello.
E così alla montagna arrivò prima
Del vento, e l'aspettò su quella cima.
Or disse il vento:—«Che uomo sei tu,
Che per la via non ti posso vedire,
E quanto io cammino, e ancor tu più?
Non mi credea, che potessi venire.
Quella montagna lungi vedi tu?
Fin là con meco ti convien seguire,
E poi là mostrerotti, amico bello,
Di madonna Aquillina il suo castello.»—
Allor Scirocco innanzi s'avviava;
E Liombruno il mantel si mettea,
Ed innanzi del vento se n'andava.
Scirocco pur indietro si volgea,
E spesse volte Liombrun chiamava,
Liombruno, che innanzi rispondea,
E come alla montagna fu arrivato
Innanzi il vento, il mantel s'ha cavato.
Liombruno allora levato il mantello,
Il vento giunse presto; e sì gli disse:
—«Io ti prometto, caro amico snello,
Tu sei miglior corrier, che mai vedisse!
Or leva su, che ti mostri il castello.»—
E poscia il vento da lui dipartisse;
E per un'altra via il vento andava,
[470]E Liombruno al castel caminava.
E Liombruno niente ha dimorato;
Con allegrezza prese a camminare,
E dentro del castello fu entrato.
Salì il palazzo senza più tardare.
Nella sala trovò apparecchiato,
Che madonna Aquillina è a desinare;
E con lei stava a mangiare a tagliere,
E non vedean le donne il Cavaliere.
Una donzella di coltel tagliava,
L'altra donzella di coppa serviva,
E Liombrun di buon cor mangiava,
Ciò gli bisogna, e nissun nol vedia.
E quella donna si maravigliava,
Di quella robba, ch'innanzi venia,
La quarta parte non gli par mangiare,
Di quel, che innanzi si facea recare.
Per la virtù, ch'aveva questo mantello,
La donna non vedea quel sì ardito;
E Liombruno aveva ancor l'anello,
Che essa gli donò quando fu partito,
Ed egli allor si ricordò di quello,
Liombruno gentil, Signor gradito,
Sopra il tagliere lo lasciava gire.
La donna il vide, e presto prese a dire:
—«Questo è l'anel, ch'è tanto grazioso,
Ch'a Liombruno diedi quella volta!
Ancora l'averia fatto giojoso,
Se la virtute non gli avesse tolta.
Sempre il mio core ne sarà doglioso,
L'alma mia in pena si è rinvolta.»—
A la passion che la donna ha sentita,
Svenne, ed al suolo cadde tramortita.
. . . . . . . . . . . . . .
E la donzella di camera uscia,
Come la donna gli avea ordinato.
Nascosto Liombrun dentro ne gia,
Ed alla sponda lui si fu accostato.
Quella donna pel gran dolor dormia;
Appresso lei egli fu appoggiato,
Al chiaro viso, e in bocca l'ha baciata:
Allor la donna si fu risvegliata.
E Liombruno il mantel si mettea,
[471]Sì che la donna nol vedea per niente,
Subitamente quella allor dicea
In fra sè stessa:—«Lassa me dolente,»—
(Che Liombruno morto ella credea),
—«Io me lo insognava certamente!
Tapina me, ch'io non ho più conforto,
Questo è segnal, che Liombruno è morto.»—
Allor la bella donna imantinente,
Un'altra volta si mise a dormire,
E Liombruno fece similmente,
Il mantello fingendosi scoprire.
Ma ella si voltò ben prestamente;
Che col mantel non si puote coprire.
Ed alquanto lo vidde ella per certo,
Prima che col mantel fosse coperto.
Di dormire Aquillina allor s'infinse
E Liombruno il mantel si è levato.
Ella fu presta e con le mani il cinse,
Prima che Liombrun l'abbia indossato;
E così fortemente ella lo strinse,
Dicendo:—«Liombrun, chi t'ha insegnato
Lo incantamento, che adopri per Arte?
Chi t'insegnò venir in questa parte?»—
E Liombrun gli disse tutti i fatti,
De' malandrini, che trovato avia,
Di quel mantello e ancor di quelli osatti,
E del vento, che gl'insegnò la via,
In tra lor dui non ci bisogna patti,
Le braccia al collo ciascun si mettia,
Ed ambidui con un amor verace
Sposandosi, così fecer la pace.
Entrambi stetter poi allegramente,
Per fin che visser, con perfetto amore.
Io prego il mio lettore paziente
Di perdonare ogni mio grave errore.
Auguro a tutta la mia buona gente
Che si mantenghi in pace e buon umore;
E al fine ognuno di voi abbia gloria!
Al vostro onore cantata ho l'istoria.
La popolarità di questo poemetto, del quale la lezione è scorrettissima, può argomentarsi da quanto narra l'autore delle facezie di Messer Poncino.—«Un certo pazzarello, tocco dal[472] fumo dell'ambizione, per essergli stata laudata una sua frottola senza frutti da non so che ignorantissimi Cinciglioni, aveva abbandonato l'esercizio suo, ch'era d'armar nastri et altre simili cordelle e s'era persuaso Poeta.»—Il Poncino gli diè la soja, ond'egli tutto si ringalluzzì.—«Prese finalmente congedo, dopo, che ebbe oltre modo nojoso e lungo tedio recato al visitato gentiluomo con suoi pazzi cinguettamenti, Filippo Mastrucci, che questi erano il nome et il cognome del mentecatto giovine; e, ritornato alla sua povera casa, serratosi in un suo camerino, cominciò a voltare quando Buovo d'Antona, quando Dama Rovenza dal Martello, quando Aiolfo di Barbiconi, quando la vita del francese Gargantuaso e quando la frottola di Liombruno.....»—Vedi, Le piaceuoli | et ridicolose | facetie | di M. Poncino | dalla Torre Cremonese. | Di nouo ristampate | Con l'aggiunta d'alcune altre, che nella prima | impressione mancauano. | In Venetia, M.DC.XXVII | Appresso Girardo, et Iseppo Imberti.
[2] Rammenta il mito di Ganimede.
[3] Aquilina.
[4] Curioso quel sissignore divenuto invariabile, col semplice significato di sì, ma con una sfumatura di cortesia maggiore.
[5] Gódersele, facendo il verbo della seconda, in ère lungo, anzi che della terza, in ere breve.
[6] Siete, quì per siate.
[7] Veramente Liombruno la fece da mariuolo. Questo mantello vien ricordato dal Pananti nel Poeta di Teatro, canto XXIV.
Se scorgo una carrozza, ove suppongo
Che possa riconoscermi qualcuno,
Mi turo, mi rannicchio, mi nascondo,
Il mantello vorrei di Liombruno.
Liombruno è ricordato anche nel Canto XVII di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.
.....È un giovanotto di circa trent'anni
Instivalato e avvolto in mantel bruno,
Che il copre e par gli metta al corso i vanni.
Dice Marcotte allor:—«Questi è Liombruno,
Che fece col mantello vari inganni.»—
[8] Risèdere, sdrucciolo. Dicendo essi spessissimo sèdere, verbo e sostantivo. (Vedi in questo volume la novella intitolata Le due[473] Belle Gioje e la Nota a pag. 410). Il che mi ricorda quell'aneddoto dell'improvvisatore, che s'indusse dopo lunghe preghiere ad improvvisare e cominciò in tal forma:
Oh che bel vèdere
Se spunta il dì....
Subito l'interruppe uno degli astanti e compì la strofetta:
Si ponga a sèdere,
Basta così.
N.B. Questo aneddoto si narra anche diversamente. Secondo un'altra lezione, l'improvvisatore avrebbe detto:
O che bel vèdere,
Sul far del giorno
Volar la grù!...
E l'interuttore:
Si ponga a sèdere.
Si ride intorno:
Non parli più.
[9] Suppongo, che s'abbia a dire Romitorio oppure Eremo ovvero Romitaggio.
[10] Questi leoni ricordan Cibele.
LA NOVELLA DEL SIGNOR GIOVANNI.[1]
Vi racconterò la Novella del signor Giovanni da Costantinopoli, ched era un signore ricchissimo. Nell'essere a i' balcone d'i' suo terrazzo d'i' suo appartamento, vide passare una sposa con un bimbo per la mano, che l'accompagnava alla scola.—«Sposa!»—«Che comanda, signor Giovanni?»—alzò sù il capo.—«Potreste salir sù col vostro bimbo?»—«Sissignore.»—Questa, la sale sù:—«Oh, signor Giovanni, felice giorno a Lei; ben alzato. Cosa mi comanda?»—«È vostro questo bimbo?»—«Sissignore, è mio.»—«Ah! io non ho nessuno nin questo mondo! per me, sono solo, unico! Un signore come io sono, pieno di ricchezze e tutto, non ho a una mia morte da lasciare le mie ricchezze!»—Dice:—«Guardate, lo prenderei volentieri per mio figlio nel mio appartamento. Io gli metterei il maestro d'imparare le vere educazioni; se venisse ad imparare un'arte o cosa simile, gli metterei anche tutte le maestranze, gli metterei. Altro che soltanto vi darei un regalo d'un sacchetto di luigi d'oro. Non è per comprare il bimbo; padroni gli sposi di venire a far visita al vostro figlio, quando che gli pare e piace.»—«Signor Giovanni, caro signor Giovanni, bisogna che io vada a casa e gnene dica a mio marito, perchè, se mio marito è contento, io gnene porto il bimbo. Sa, signor Giovanni, ci ho anche una bimba, sa....»—«Ah,[475] non me ne ragionate delle donne, perchè non le posso vedere. Il bimbo, sì; ma le donne non le posso vedere,»—dice. Ella va a casa da i' marito, co i' bimbo pella mano. Va a casa e picchia. S'affaccia alla finestra:—«Beh! cos'hai fatto? Non l'hai accompagnato a scola i' bimbo?»—Dice:—«No. Apri, che ho da dirti alcune parole. Il signor Giovanni di Costantinopoli, che mi ha chiamato e mi ha detto questo: che lui vorrebbe il mio figlio nelle sue mani, che lui verrebbe a un punto di esser l'erede di tutte le ricchezze del signor Giovanni di Costantinopoli.»—«Bah! che vuoi? me ne rincresce.»—«Ma, con questo, sai, padroni gli sposi di andare a far visita al nostro figlio, quando ci pare e piace. E, con questo, ci dà un sacchetto di napoleoni d'oro. Un bisogno, che occorre, gua', si ricorre là e siamo soccorsi d'ogni nostro bisogno.»—Dice:—«Vai e portagnene. Vieni, poero Franceschino!»—fa i' padre al figliolo (si chiamava Francesco il figlio); lo bacia e tutto:—«Addio, addio, addio!»—La madre se lo prende per la mano e lo porta al signor Giovanni di Costantinopoli. Il signor Giovanni di Costantinopoli, che l'era là al balcone e vede tornare la madre con il bimbo, gli brillava il core dell'allegrezza:—«Come, sposina mia cara?»—«Mio marito è contento.»—«Fate conto di entrare nel vostro quartiere, quando entrate nel mio palazzo!»—La madre del bimbo te lo piglia, te lo bacia:—«Addio Franceschino! Addio Franceschino!»—Non se ne sapeva distaccare. Il Signor Giovanni va lì e prende quel sacchetto di luigi d'oro e lo dà alla madre e dice:—«Addio, fa conto, quando volete vedere il bimbo, di entrare in casa vostra.»—«Addio, addio!»—la madre se ne va via. Il signor Giovanni:—«Ah poero Franceschino!»—te lo piglia, te lo abbraccia e[476] te lo bacia, e te gli mette su un perfettissimo maestro; per imparargli l'educazione a i' bimbo. Viene in crescenza; dice:—«Signor Giovanni, io vorrei fare la tal'arte,»—secondo; e lui gli piantava i' maestro. Principiando da codesto de' maestri, Franceschino, che veniva a perfezione, diceva:—«Io vo' fare la tal'arte, la tal'altra; io vo' fare l'indoratore, l'intagliatore,»—secondo. Un bravissimo giovanotto venne; bravissimo nelle sue arti, che lui voleva imparare, di pittore, di tutto; e venne a perfezione. Venne sù un gran pittore bravissimo. Nell'essendo a tavola co' i' signor Giovanni, Franceschino (che all'ora di digiunè lo teneva seco; all'ora di pranzo, l'istesso; all'ora d'i' rinfresco l'istesso: non se lo lasciava mai di fianco) venne una volontà a i' signor Giovanni di dirgli:—«Franceschino, voglio, che te mi facci un regalo di un bellissimo quadro con cornice intagliata, indorata e tutto. Fammi uno scherzo, sai? quel che ti piace, ma non volto di donna, bada; non te ne ingerire, sai.»—«La sarà servito, signor Giovanni»—gli fà Franceschino. Franceschino entra nel suo studio e comincia a travagliare e comincia. Gli venne fatto i' quadro, tagliato i' cristallo, dorato e tutto; e una bellissima pittura gli fece, di un bellissimo volto di Venere. Si sa molto bene che i pittori!... Cosa ti fa Franceschino? te l'accomoda e tutto; e, a ora quieta, te lo porta nella camera del signor Giovanni e gnene mette accanto allo specchio, che quando il signor Giovanni faceva la toaletta e lo vedeva subito. La mattina, si alza il signor Giovanni; e se ne va al suo quartiere, allo specchio a fare la toaletta. Un tratto:—«Ohimè!»—dice—«che cosa è questa!»—e rimane stupito.—«Franceschino, Franceschino!»—«Come, signor Giovanni?»—«Vieni quà, davanti a me. Cosa io ti dissi, che io volto di femmina non lo voleva?»—«Che[477] vole, signor Giovanni, perdoni e compatisca, che i pittori son pazzeschi, sono. Cosa gli viene per la testa, bisogna che faccino. Mi è venuto per la testa questo e io ho fatto questo.»—«Dilontanatevi da me!»—Ora di digiunè, non era più chiamato; ora di pranzo, non era più chiamato; ma tutto quel, che gli serviva, gli era portato nel suo laboratorio.—«Anco così si va innanzi; mangio anche così. Non m'importa di mangiare col signor Giovanni. Tutto quel, che mangia lui, viene anche costì: si mangia per tutto!»—fa Franceschino. Il signor Giovanni, in capo a qualche po' di tempo, chiama Franceschino:—«Franceschino!»—«Comandi, signor Giovanni!»—«Devi prendere quel quadrettino, che te facesti; te lo devi mettere nella tasca ladra del tuo soprabito, te lo devi mettere; e andartene alla riva del mare di Costantinopoli; e fare staccare il mio bastimento. Tanto a piedi che nel bastimento, tu devi girare tutto il mondo; e mi devi promettere di portarmi un ritratto, come te hai fatto.[2]»—«Caro signor Giovanni, io farò tutto quello, che Lei comanda; ma mi mandi compagni con meco.»—«Ci viene quel giovane a giocare e spassare nel nostro appartamento. Tu domandagli, se viene. Tu intanto non istai ad andar solo.»—Comparisce la sera questo giovane quà nel palazzo.—«Oh sai, amico»—dice Franceschino a questo giovane,—«ho da fare un giro, nella barca qua del signor Giovanni di Costantinopoli. Vuoi venir con me?»—«Ci vengo volentieri.»—«Sente signor Giovanni? ci viene volentieri.»—«Io ti do tempo, caro Franceschino, un anno e tre giorni a portarmi nel mio palazzo un volto, come te hai fatto.»—Franceschino chiede licenza a i' signor Giovanni:—«Vado via. Addio, addio, addio!»—Giovanni abbraccia Franceschino e lo bacia:—«Addio[478] e felice ritorno. Cerca di fare ogni cosa pel bene di quello, ch'io ti dico.»—«Sissignore.»—Vanno alla riva del mare, staccano i' bastimento, entrano dentro, dànno le vele al vento, addio! per andare a girare i' mondo. Gira di quà, gira di là, gira di sopra, gira di sotto e gira dappertutto, non trovava mai un volto simile a quello, che lui aveva fatto. Via! e tiran via sempre a camminare n'i' bastimento del signor Giovanni. Da lontano Franceschino vede certe fiamme sur un'isola, che pareva, che prendesse foco roba.—«Arriviamo quà»—al piloto.—«Arriviamo a quell'isola lassù, che tanto ci si rinfrescheremo.»—Montando su quest'isola, sortendo d'i' bastimento, Francesco occhia una bimba e l'era tutta il ritratto. Va al compagno:—«Guarda! sai, se la fosse a tiro, la sarebbe proprio il ritratto! Ma lascia fare a me. Ora è entrata in quella bottega di pizzicagnolo. Aspettiamo, che sorte, e gli voglio dimandare quante sono in famiglia.»—Sorte questa fanciulla di bottega del pizzicagnolo. Francesco dice:—«Bambina, scusatemi, venite qua.»—«Cosa volete, signori?»—la gli fa questa fanciullina a questi due giovanotti, tanto a Francesco che a quell'altro giovanotto. E loro gli dissero:—«Non ci è nessuno qui, che dia da rinfrescarsi?»—Risponde la fanciullina:—«Signori, venghino pure, perchè ora entra a tavola il mio signor padre; dà da rinfrescarsi e da mangiare a tutti i viaggianti, che vengono su in quest'isola.»—Che questo, abbiate da sapere, era un carbonaro, fabbricava il carbone, e però vedevano le fiamme da lontano. Entra drento Franceschino, il suo compagno e tutto. Questa fanciulla dice:—«Signor padre, c'è questi due signori, che si voglion rinfrescare.»—«Falli accomodare a tavola, che adesso si va a pranzo.»—Si accomodano a tavola e tutto. Viene il carbonajo,[479] viene la moglie, viene un figlio e questa ragazzina. Francesco non poteva stare alle mosse, e fa:—«Dica, signor Padrone, non c'è altro che loro in famiglia?»—E i' padre risponde e dice:—«Oh che? Rosina non è venuta! Cosa sta a fare? Ditegli, che venga a pranzo.»—Va di là la sorella; dice:—«Rosina! Cosa fai? Non vieni a pranzo, ha detto il signor padre.»—Dice:—«Senti, io non ci voglio venire, sai? C'è quei duoi signori, io mi vergogno.»—Va di là questa ragazzina, dice:—«Sa, signor Padre, non ci vuol venire, perchè si vergogna, che c'è questi due signori.»—Tanto Francesco che quell'altro sente dire.—«Ah!»—dice,—«dica pure, che nojaltri non siamo signori di soggezione. Può venire, può venire a pranzo. Non si pigli soggezione di nojaltri: può venire, può venire a pranzo.»—Va dentro la sorellina e gnene dice.—«Adesso finisco di far la toalette e verrò.»—Eccotela e viene per andare alla tavola da pranzo. Francesco, che te l'occhia, fa così al compagno:—«Lascia fare a me, che l'è tutta il vero ritratto!»—Eh! un pranzo quello, ch'è lì, sontuoso: bottiglie, caffè, confetture; mangiano, bevono, si divertono. Dice Franceschino:—«Sa, signor Padrone; ora mi dirà quello, che devo dare.»—Dice:—«Niente. A questi signori, che vengono sù in quest'isola, che è qui, non faccio pagar niente.»—«Sa, signor padrone, Lei,»—dice Franceschino—«bisogna, che venga a vedere una cosa bellissima nel mio bastimento, che si divertirà di molto, sa. Deve venire a vederla tutta la sua famiglia, sa.»—Si alzano di tavola, si rivestono benone, tanto il carbonajo, la carbonara, il figlio, le figlie per andarsene insieme con questi due giovanotti nel bastimento. Si rizzano, sortano da il posto, vengon fori, chiudono la sua porta e se ne vanno in verso la riva del mare per[480] entrare nel bastimento. Quando entrati sono nel bastimento, Franceschino dà d'occhio ai marinari, che diano le vele a il vento, per andare di gran carriera a Costantinopoli[3]. Intanto Franceschino gli fa vedere tutte quelle belle rarità, che gli avevano. C'era un bellissimo giardino con piante di limoni e di tutti innesti nel bastimento. Se ne vanno al primo piano, che c'era un bellissimo salone con un bellissimo digiunè grande e intorno intorno tutte siede. Fa portare bottiglie, confetture, paste, cose simili.—«Si deve rinfrescare»—fa alla conversazione d'i' carbonaro.—«Oh»—il carbonaro—«Bello! bello! belle cose! Non n'ho mai visto! N'è venuti dei bastimenti; ma non pieni così di tutte queste belle rarità!»—Dice Franceschino:—Signori, verranno a questi altri piani. L'abbiano da sapere, che io ci ho un terrazzo; che torno torno a questo terrazzo ci è diversi vasi, tra fiori e limoni e aranci.»—Ah, se ne vanno su, sulla terrazza. Il Carbonaro dice:—«Ah qui siamo nelle mani degli assassini.»—Franceschino dice:—«Come nelle mani degli assassini? Siete nelle mani di due giovani di garbo.»—«Non sapete, che io sono distante da' miei appartamenti quelle tante e tante miglia? Noi siamo nelle mani degli assassini.»—Francesco cava di tasca quel ritrattino, che egli aveva fatto:—«Prenda questo ritratto quì; l'esamini alle Sue figlie; come somiglia?»—«Tutto mia figlia maggiore, tutto mia figlia maggiore.»—«Dunque[4] nelle mani degli assassini non siete, caro signore; siete nelle mani di due giovani di garbo. Vostra figlia la devo portare in Costantinopoli al suo legittimo sposo, che lei toccherà a sposare.»—«Quando questo è, tiriamo avanti il vostro viaggio.»—«Viene per andare nelle mani d'un signorone, più ricco che ci sia in Costantinopoli.»—Via, via, via, che andava sempre[481] via come fiamma il bastimento. Quando è vicino per arrivare a Costantinopoli, Franceschino fa dare il tocco de i' cannone, come a dire:—«Ecco qui Franceschino addietro!»—Il signor Giovanni di Costantinopoli:—«Questo è Franceschino! questo è Franceschino!»—Se n'esce del suo palazzo, piglia un piccolo vascello e se ne va all'incontro del bastimento. Franceschino, che te lo vede, gli va incontro anche lui. Quando sono prossimi, si abbracciano e si baciano.—«Cos'hai fatto, Francesco?»—«Eh! ho fatto tutto quello, che Lei l'ha comandato.»—«Dunque si può vedere la sposa, che devo prendere?»—«Altro.»—Va alla bussola della camera, picchia. Dice:—«Chi è?»—Dice:—«Rosina, ci è il Suo legittimo sposo, che deve essere, che la vuol vedere.»—Dice:—«Adesso finisco di fa' la toalette e vengo nelle sue braccia.»—Eccoti la Rosina, che viene fori. Viene fori la Rosina; lui, che te la vede, potete credere i complimenti e tutto. Dice:—«Questo chi è?»—«Questo è il suo signor padre, questa è la sua signora madre, questo è il suo fratello e questa è la sua sorella.»—Riverisce tutti, e sortono d'ir bastimento tutti insieme e se ne vanno sopra terra. Cammin facendo, se ne vanno a i' palazzo del signor Giovanni di Costantinopoli. Entrati, che sono nel suo palazzo, lui fa subito bandire, che egli, in tanti, faceva sua sposa una bellissima femmina, figlia di un tal ricchissimo carbonaro. Venne a prossimarsi lo sposalizio del signor Giovanni e di questa bellissima femmina. Per sei mesi, diede un regalo ai poveri di pane, vino; e quelle tante libbre di carne per sei mesi a testa. Dice un giorno il socero, che l'era i' carbonaro:—«Carissimo genero, abbiate da sapere, che io ho tante libbre di carbone, che mi va a male. Bisogna, che io ritorni al mio destino.»—Dice il signor Giovanni:—«Oh Franceschino, vieni[482] qua. Te sarai quello, che accompagnerai mio socero, mia socera e il mio cognato nel suo posto. Ditemi un pò, carissimo socero, non avete parenti nel vostro posto?»—«Oh lontani!»—«Lontani o vicini, io dico, che cediate loro tutte le vostre ricchezze. E te, Franceschino, riportali addietro in Costantinopoli; che qui c'è da vivere e da fare i signori ancora loro, come uguali sono a me.»—Il fatto si è che... Lasciamo stare questi, che son là, che dispensano il suo a queste tali persone e torniamo a Giovanni e alla sposa.[5] Abbiate da sapere, che ci era un altro signore, che era ricco sì, ma non tanto quanto il signor Giovanni. Questo signor Giuseppe, nell'andando a i' caffè, il caffettiere fa:—«Oh signor Giuseppe, è tanto tempo, che Lei manca di venire nella mia bottega! Eh sarà stato degl'invitati allo sposalizio del signor Giovanni di Costantinopoli; eh?»—«Eh, non sono stato degl'invitati, non sono stato.»—«Eh Le dirò per cosa, eh, signor Giuseppe, perchè non sarà stato invitato. Siccome[6] il signor Giovanni saprà, che Lei è un galluccio, però non l'avrà invitato allo sposalizio.»—Dice:—«Che gallo e che non gallo! Quanto tempo è, che non ci è stato il signor Giovanni di Costantinopoli?»—«Oh»—dice—«gli è tanto!»—«Si che venisse in questo contrattempo, io vorrei fare una bellissima scommessa fra me e lui. Prendo l'impegno di stare dieci minuti insieme con la sua sposa. Che, se ci sto, pena la testa a lui; se non ci sto, pena la testa a me. Questa è la scommessa, che io fo. Se avete luogo di poterlo vedere e di potergnene fare assapere questo affare qui, mandatemi ad avvisare, che io vengo subito qui, per fare questa scommessa.»—«Sì, signor Giuseppe.»—Dice:—«Addio, caffettiere.»—«Addio, Addio.»—«Avete inteso quel, che io vi ho lasciato detto.»—Va via[483] il signor Giuseppe, com'io ho detto; e di lì ad una decina di minuti come fusse mezzo quarto d'ora, eccoti qua il signor Giovanni nella bottega d'i' caffettiere.—«Oh signor Giovanni, benvenuto! Vede, se Lei era venuto avanti una decina di minuti e qualcosa, Lei ci trovava il signor Giuseppe.»—«Ah, quello sciocco?»—fa il signor Giovanni.—«Ha lasciato una imbasciata.»—«Un'imbasciata ha egli lasciata?»—«Ha lasciata un'imbasciata, che fa volentieri una scommessa.»—«E che scommessa vo' fare?»—«Di stare dieci minuti con la Sua sposa.»—«La faccio, la faccio! E che scommessa vol fare?»—«Se ci sta, pena la testa a voi: se non ci sta, pena la testa a lui.»—«La faccio! la faccio! Andate a chiamarmelo!»—Spedisce un giovane di bottega, vanno intorno per vedere, se trovano il signor Giuseppe. Questo giovane, te lo vede da lontano:—«Signor Giuseppe! signor Giuseppe!»—«Cosa c'è?»—«C'è il signor Giovanni, che l'attende a bottega.»—Via! Arrivato, che è a bottega del caffettiere:—«Oh, signor Giovanni!...»—«Oh! signor Giuseppe!»—si riveriscono tutti e due.—«Voi fate questa bella scommessa, eh? Volentieri la faccio ancora io;»—fa il signor Giovanni. Si prendono a braccetto tutti e due, chieggono licenza al caffettiere e se ne vanno fori: comperano i fogli bollati e tutto. Se ne vanno in Delegazione di Costantinopoli; là, con i fogli bollati e tutto, suggellano.[7] Uno se ne va da una parte, uno dall'altra; e non si guardano più, tra il signor Giovanni e il signor Giuseppe. Il signor Giovanni se ne va a i' suo palazzo. Entrato, che è a i' suo palazzo, riverisce la sposa, riverisce la cognata e se ne va alla tavola del rinfresco. Qui:—«Io vado, carissima sposa, a far un giro per andare a rivedere i miei beni»—fa il signor Giovanni alla sua sposa.—«Qui avete[484] tutto: non vi manca niente. Qui avete la mattina la lattaja, che vi porta il latte; chi è, che vi porta il burro, e chi la carne da i' macellajo. Non vi manca nulla. Statevi in conversazione con vostra sorella; divertitevi; fate quello, che vi pare e piace; e addio al mio ritorno. I complimenti li faccio ora, perchè parto di notte; non istò lì a svegliarvi nessuna delle due.»—La mattina (lui nella nottata si alza da i' letto, si veste, se ne va via, lasciando la sposa e la cognata); la mattina, viene la lattaja a portargli il latte. Pensa la sposa di dire alla sorella:—«Sai, le persiane di sulla strada le devi chiudere. Ci si servirà delle stanze per di dietro, di quel terrazzo e di quel bel giardino, che ci sta; ci si divertirà costì nojaltre. Che le muraglie le sono tanto alte, che le genti, che passan per la strada, non hanno campo di poter occhiar nessuno.»—Bisogna ritornare ora a quello, che aveva fatta la scommessa, a i' signor Giuseppe, che gira in giù, in sù, in qua, in là e non poteva mai occhiar la moglie del signor Giovanni, neppur vedella. Si combatte un giorno, che il signor Giuseppe andava in sù, in giù, disperato; gli pareva, come se fosse un pazzo il signor Giuseppe. Siccome in su la cantonata prossima alla porta d'ingresso del signor Giovanni, c'era una vecchia a sedere sur una seda, nel vedendo il signor Giuseppe, fa questa vecchia:—«Eh, signor Giuseppe, eh! che vol dire a diventar vecchia! la non mi guarda più in viso!»—«Eh vai, ho altre cose nella testa, a guardare in viso te.»—«Ma La dia retta, signor Giuseppe; ma che ha Ella in testa?»—«Quel, ch'io ho, non te lo posso spiegare a te, impacciosa, che tu non sei altro.»—«Ma La dia retta: ma se io nella cosa, che ha nella testa, Le potessi rimediare, oh che non rimedierei? o che non rimedierei?»—«Che vuoi rimediare?»—Vecchia[485] maligna, che è questa!—«Ma La senta: ma mi dica qualcosa!»—«Vuoi, che ti spieghi il tutto? Te lo spiegherò. Abbi da sapere, che io feci una scommessa con il signor Giovanni di Costantinopoli di stare almeno dieci minuti con la sua sposa: così non si riesce davvero! L'è una cosa da nulla, sai? Ho messo la testa: che, se ci sto, la testa del signor Giovanni; se non ci sto, la mia testa paga.»—«Uh! poero signor Giuseppe, la testa sua non deve pagare. Io, Lei mi deve menare in casa sua e rivestirmi dal capo insino ai piedi come una signora. Prendo una carrozza, un carrozzino fori di porta di Costantinopoli; e di mezzanotte così anderò a picchiare alla porta del signor Giovanni di Costantinopoli; e passerò di essere sua sorella del signor Giovanni. Che, benchè Lei sappia, che non ha parenti da nessuna parte, posso passare di essere sua sorella del signor Giovanni con questo inganno, che è qui; che non si sappia, che ci son neppure in questo mondo.»—Te la riveste e tutto, gli prende questo carrozzino, te la pianta drento e via. Quando gli è vicino alla porta del signor Giovanni, sorte di carrozza la vecchia. Sona il campanello questa vecchia. La sposa del signor Giovanni sona il campanello alla sorella, come a dire:—«Vai a vedè' chi è a quest'ora bruna: sona il campanello! Non so, che affare possa essere.»—Va a aprire:—«Chi è?»—«Scusi; ci è un appartamento qui del signor Giovanni di Costantinopoli?»—«Sì, gli è l'appartamento; ma non ci è, sapete, è fora.»—«Oh questo mi rincresce! Io era venuta (avendo saputo di tante miglia lontano, che mio fratello era stato sposo), era venuta a fargli una visita. Ma la sposa non c'è'?»—Dice:—«Sì. Adesso vado a dirgnene alla signora.»—«Fallo, sì; e digli, ch'è la sorella del signor Giovanni, che non sa neppure, se egli abita più in questo mondo,[486] dagli anni, che gli è, che non ha visto più il suo fratello.»—Dice la Rosina alla sorella:—«Dammi la mia veste da camera. E te, vagli ad aprire; e falla salì' su.»—Entra la sorella, che dava a intendere, che gli era del signor Giovanni.—«Oh»—dice: «che gli è questa la sposa del mio fratello?»—La gli s'avventa a i' collo e la bacia fortemente dall'allegrezza e dalla consolazione. Vecchia birbona!—«Carissima cognata, avete appetito, eh?»—«Dirò, che ho viaggiato tutta la notte e tutto il giorno....»—«Apparecchia e dàlle da mangiare e bere.»—La mette a tavola. Dopo mangiato e bevuto e tutto:—«Gradireste di andare a riposare, cara cognata?»—la gli fa la sposa.—«Eh gradirei volentieri; sì andiamo.»—Si alzano, la prende sotto il braccio e la porta in un altro quartiere. La fa questa vecchia:—«Ditemi un po', cara cognata, che l'è la camera di mio fratello, questa qui?»—«Eh nò.»—«Voglio vedè' la camera d'i' mio fratello, io.»—Ecco, gli fa:—«Volete vedè' la camera del vostro fratello? Venite, venite.»—«Oh, stasera, non essendoci lui a dormire, voglio stare a dormire io nel posto, che dovrebbe starci i' mio fratello.»—Si spogliano tutte e due; e se ne vanno a letto le cognate. Quando è questa vecchia, che sente, che questa cognata aveva attaccato il sonno, adagio, adagio sguscia d'i' letto, prende il suo lapis, che lei aveva portato, e carta; e disegna tutta la camera come la stava; letto, poltrona e tutto, come stava la camera, e la disegna. Sopra il suo buffetto, sopra il suo comò, via, aveva posate tutte le sue gioje, che l'aveva in dito, la sposa. La va e gli prende i' più bel giojello, che lei avesse, questa vecchia, che lei avesse su i' cassettone; poi la gli va intorno i' letto, adagio adagio te la scopre, tutti i panni, che lei aveva in dosso; la gli piglia un brucchio di capelli,[487] che lei aveva dalla collottola e la gli taglia per portagli come contrassegni anche quelli. Te la ricopre adagio adagio e ti fa finzione di rientrar nel letto adagio adagio la vecchia. Voltati di qua, voltati di là, faceva finzione di svegliarsi, faceva. La sposa, che sente questo tramenìo, la fa:——«Cara cognata, che siete sveglia?»—La fa:—«Eh cara cognata, l'ora è tarda; bisogna, che io parta, che io vada via di quì; perchè, alla tal ora, bisogna, che io sia nella tale e nella tal città; e non posso far di meno. Dunque fatto si è....»—«Aspettate, mi alzerò anch'io.»—«No, no! State pure a letto! Non vi alzate! Non è ora per voi di alzarvi!»—Sona il campanello, chiama la sorella. Dice:—«Vai accompagnarla insino alla porta, perchè vole andar via.»—«Oh, per pietà!..... Andar via di notte!...»—Abbraccia la cognata, abbraccia anche la bimba:—«Addio, addio! Fate tanti saluti anche a mio fratello!»—e la va via. Chiusa la porta d'ingresso, e via subito di gran carriera questa vecchia la va a casa del signor Giuseppe. Il servitore, che sente picchiare alla porta, va ad affacciarsi e dice:—«Chi è?»—«Ci è il signor Giuseppe?»—«Che tu caschi morta, vecchia malandrina! O che va a fare, infi' a quest'ora a importunì' le genti!»—Va in camera del signor Giuseppe il servitore:—«Signor Giuseppe! Signor Giuseppe! Signor Giuseppe!»—«Che c'è?»—«C'è la tal di tale, che Le vuol parlare.»—«Falla passare! Falla passare!»—Dice il cameriere:—«Oh diavolo! son vecchi decrepiti tutti e due!.....»—Te la fa passare. Passa in camera del signor Giuseppe:—«Te, sai, ti puoi ritirare nel tuo quartiere»—a i' servitore.—«Ah signor Giuseppe, ben trovato. Io ho fatto tutto per Lei, io ho fatto.»—Gli dà il disegno della camera, che lei aveva disegnato.—«Questo[488] è l'anello; il più bel giojello, che lei avesse in dito. Può dire alla Delegazione, che Lei gnene ha regalato con le sue proprie mani. E poi questi sono i capelli della collottola.»—«Anche questi t'hai presi?»—dice.—«Brava! Brava! Brava!»—Dice:—«Va nel mio comò, costà; tre cassette, che c'è, àpritele e sèrviti nin oro e in argento, èmpiti anche le tasche del tuo vestuario[8], che io ti ho fatto; e vattene in pace, io ti ringrazio.»—Codesta vecchia se ne va via. Eccoti, quando è giorno, il signor Giuseppe, che si alza da il letto, si veste e tutto, prende i fogli e se ne va in Delegazione e davanti a i giudici.—«Oh, signor Giuseppe, ben arrivato!»—Tira fori i fogli come i rinvolti. Mostra il foglio, dov'era dipinto la camera e tutto.—«Questo è i' più bel giojello, che lei l'avesse: me l'ha regalato con le sue proprie mani. E questi sono i capelli della collottola.»—I giudici si messono a ridere:—«Guarda! insino i capelli della collottola! Bravo! Bravo! potete andare!»—a i' signor Giuseppe. Pigliano il disegno, pigliano tutto, fanno i' rinvolto e lo sigillano. L'arresto personale, quando entrava il Signor Giovanni in Costantinopoli, che le guardie giravano per tutto. Sentono da lontano:—«Cià, cià, cià! Cià, cià, cià! cià cià cià!»—Era il signor Giovanni, che tornava in Costantinopoli co' suoi cavalli e i servitori e tutto. Gli va la squadra e li sofferma:—«Fermi là!»—Il signor Giovanni, che sente dire:—«Fermi là!»—mette il capo fori dello sportello, e vede, che è la polizia. Dice:—«Signori, cosa comandate?»—Dice:—«Eh, signor Giovanni, Lei è in arresto.»—«Oh! quando io sono in arresto, io pagherò quello, che io devo pagare.»—Sorte di carrozza, paga la vettura, e se ne va via in mezzo alla polizia. E il popolo di Costantinopoli, che ti vede il signor Giovanni nin bel mezzo[489] della polizia:—«Poero signor Giovanni, che ha egli fatto? Guardate in che mani, che egli è!»—tutti dispiacenti. Menato in Delegazione, davanti ai giudici:—«Signor Giovanni, ben arrivato.»—«Ben trovati, signori.»—Dice:—«Venga qua, Lei. Vede la sua camera? Che la riconoscerebbe, Lei?»—«Altro se la riconoscerei.»—Quindi prendono i' disegno.—«Non c'è un pelo, che pende, come sta la mia camera e come sta il disegno, che è stato fatto.»—«E questa gioja la conosce, signor Giovanni?»—«Altro se la conosco! è l'anello d'i' matrimonio.»—«Benissimo.»—fa i' giudice.—«Questi, sono un rivoltino de' capelli della sua collottola di Sua moglie. Li riconoscerebbe? Che possono esser suoi?»—«Eh altro, se son suoi anche questi! Benissimo, la mia testa la pagherà.»—Portato via dalla polizia, e scritto l'ora, il momento e i' giorno, che lui gli doveva esser fatta la testa sulla piazza di Costantinopoli. Un bisbiglìo per tutta Costantinopoli:—«Guarda, poero signor Giovanni! l'ha avuta la bella sposa e gli tocca ad andare alla morte per la sposa!»—Un bisbiglìo, che non finiva mai. Voglio dire, che anche la sposa d'i' signor Giovanni sentiva questo bisbiglìo; ma non raccapezzava nulla, che cosa fosse e che cosa non fosse questo ronzìo. La sposa la fa, la chiama la sorella e gli dice:—«Senti, come viene domani la lattaja, tu gli hai a dire, che la salga su da me, che io ho bisogno di parlargli.»—Viene la lattaja, la mattina. La sorella della sposa gli dice:—«Sapete, lattaja? la mia sorella sù ha bisogno di parlarvi.»—«Parlarmi? cos'ha ella da sapè' da me?»—con un atto di superbia, perchè la sapeva, che l'aveva da andà' alla morte il suo sposo. La non voleva ire, la non voleva ire, ma poi la salì dalla sposa de i' signor Giovanni. Sale sù. Saluta, quando è davanti alla[490] sposa de i' signor Giovanni.—«Signora, ben alzata»—la gli fa la lattaja.—«Che vuol Ella da me?»—«Che superità ha Lei, di rispondermi in questa maniera?»—la gli fa la signora alla lattaja.—«Io mi vergogno inclusive anche a discorre' con Lei.»—«In che motivo?»—«Il motivo gli è, che domani, all'undici, sulla piazza di Costantinopoli, devon fa' la testa al Suo sposo.»—«A i' mio sposo? gli devon fa' la testa?»—«Sì, per cagion Sua.»—«Per cagion mia?»—«Lei è stata una notte insieme con il signor Giuseppe di Costantinopoli nel letto Suo.»—«Io, sono stata? chi è questo signor Giuseppe di Costantinopoli?»—la fa questa sposa alla lattaja.—«Eh, Lei ci ha dormito insieme!»—«Chi è questo signor Giuseppe? Gradirei di conoscerlo, perchè, da quando io l'ho dato a balia, non ho avuto il piacere di vederlo. Sai, lattaja, porta latte bono e burro di quello bono e vieni di bon'ora, che farai colezione fra me e te e la mia sorella. E te allora m'insegnerai, chi è questo signor Giuseppe; perchè io non lo conosco; non conosco signori Giuseppi, io. Vieni e non mancare, veh! farai colezione con me, perchè io voglio liberare dalla morte il mio legittimo sposo innocente. Tanto io che lui, innocenti tutti e due.»—La mattina, a bon'ora, ritorna la lattaja dalla signora con i' burro; e preparano una bona colezione. Semelli e chifelli arrosti imburrati e tutto. Rispose alla lattaja la signora:—«Mangia, perchè adesso vado a prepararmi, perchè poi devo andar via.»—Lei si carica in un fazzoletto bianco tutte gioje; le rinvolta in questo fazzoletto e le mette nelle tasche del suo vestuario, che lei s'era messo addosso. Allora:—«Ora partiremo, per andare su i' Ponte—Vecchio[9] di Costantinopoli da i' mio orefice.»—La signora e la lattaja vanno. Entra drento in bottega d'i' suo orefice.—«Ben[491] arrivata!»—«Ben trovato, orefice. Prendetemi la misura a questo piede quì di una pianella; e questa, che è qui, deve essere guarnita con tutte queste gioje. Che al momento sia pronta.»—L'orefice fa:—«Oh che si cammina cor un piede?»—«Eh! quell'altra, me la faccio arrende' da chi me l'ha rubata.»—«Faccia una piccola giratina per i Lungarni, torni addietro e la troverà la pianella bell'e fatta.»—Torna addietro:—«Ecco, signora. Venga, venga; se la provi.»—Se la prova: la gli stava benone, codesta pianella. La rinvolta nel medesimo fazzoletto, dov'era le gioje, e se la mette in tasca.—«Addio. Sarai avvisato, per venire a prendere i danari.»—«Vada, vada, signora.»—E le vanno. Va via insieme alla lattaja. La gli fa la lattaja:—«Signora, che non ci si passerà, sa, nel bel mezzo alla piazza!»—«Cheh! cheh! cheh! Io voglio passare; e te, prendimi pel mio vestuario di dietro e non mi devi lasciare, sai? Passo io, devi passare anco te.»—Va per passare la moglie del signor Giovanni; le guardie, che la volevan mandare indietro; lei fa cedere di qua e di là e passa nel bel mezzo della piazza con la lattaja, che aveva attaccata addosso. Nell'andare inverso ai giudici, la gli fà la lattaja:—«Vede, signora, quello nin mezzo a i giudici con quel cappello bianco in capo? Gli è il signor Giuseppe.»—«Oh hai fatto bene a dirmelo.»—Sicchè, quando è davanti ai giudici:—«Signori, ben trovati: voglio giustizia.»—«Eh, adesso, signora, non si può dar retta a Lei, perchè c'è questa festa a fare. Bisogna prima far questa; e poi, daremo retta a Lei.»—«Anzi, appunto voglio, che mi sia consegnata la compagna di questa pianella, che questo signore mi ha derubato.»—I giudici si voltano da i' signor Giuseppe:—«Come è mai, signor Giuseppe, questo affare qui?»—«Come mai dar retta, che[492] io abbia rubata la pianella, se io non conosco questa signora, perchè, da quando io l'ho data a balia, non ho avuto il piacere di vederla?»—«Dunque, porco sudicione, che tu non sei altro, come puoi fare e dire, che te hai dormito una notte con la moglie d'i' signor Giovanni, se tu hai detto adesso ai giudici, che, da che mi desti a balia, hai l'onore di vedermi ora? Hanno sentito, signori?»—si volta a i giudici, da i' signor Giuseppe.—«Dunque, signor Giuseppe, Lei dice di aver pernottato una notte con la moglie d'i' signor Giovanni; e la moglie d'i' signor Giovanni, dopo che la diede a balia, la vede ora?»—Ebbe a confessare a i' pubblico la pura verità di tutto, ogni cosa:—«Non c'è niente di guasto. I ferri, che ha il signor Giovanni di Costantinopoli tanto alle mani che ai piedi, sian levati e messi a i' signor Giuseppe.»—È mandata a prendere per la squadra la vecchia a casa, per istraportarla sulla piazza di Costantinopoli, nin mezzo ai giudici. Ci va la squadra a casa della vecchia; bussano. S'affaccia questa vecchia dell'aceto:—«Che vuol'ellin', signori?»—«Giù a terra. Dovete venire avanti ai giudici.»—«I giudici da me non hanno da aver nulla. Cosa hanno ellino da aver da me i giudici?»—«Colle bone venite via, se no verrete colle cattive.»—Non voleva aprire l'uscio. Buttarono giù l'uscio; presero la vecchia; catene a mane e piedi; e la straportaron sulla piazza di Costantinopoli. Come difatti, l'ebbe a confessare dall'i insino all'a a i' pubblico ancor lei. Fu messa sur i' patibolo; e i' signor Giuseppe a stare a vedere a falli la testa a questa vecchia. E, dopo della vecchia, fecero a montare sul patibolo anche il signor Giuseppe e decollorno ancora lui. Il popolo, che vedde cotesta e costì, cominciorno a dare in un picchìo di mano:—«Evviva! evviva la sposa d'i' signor Giovanni di Costantinopoli,[493] che ha salvato i' suo sposo.»—Furono presi pell'aria tutti e due per istraportarli nel suo palazzo. Nin questo contrattempo, torna Franceschino con il socero, la socera e i' cognato d'i signor Giovanni. Danno i' tocco d'i' cannone: corre la famiglia d'i signor Giovanni. Lui, che sente questo:—«Eh addietro alla riva d'i' mare! è i' riscontro di Franceschino!»—disse i' signor Giovanni. Smonta Franceschino, la socera, i' socero, i' cognato da i' bastimento e vengono sopra a terra. I' signor Giovanni, che gli va incontro, abbraccia Franceschino e te lo bacia e tutto i' resto. Straportato ne i' palazzo d'i' signor Giovanni di Costantinopoli, manda i' signor Giovanni a prendere i' padre, la madre e la sorella di Franceschino, che fossero straportati nel suo palazzo: e vennero. Franceschino sposò la cognata d'i' signor Giovanni; e i' fratello della Rosina (che era la moglie d'i' signor Giovanni) sposò la sorella di Franceschino. Fecero due sposalizî in grande, che gli diedero da mangiare pane e vino e tutto i' necessario ai poveri di Costantinopoli per sei mesi. Festa in grande, che da sè se ne godettero e a me nulla dettero.
Stretta la foglia e larga la via,
Dite la vostra, che ho detta la mia.[10]
NOTE
[1] Il Liebrecht annota:—«Gehört in den Kreis der Erzählungen, die v. d. Hagen Gesamtabent N.º LXVIII Zwei Kaufmänner und die treue Hausfrau behandelt hat. S. auch Reinhold Köhler in Lemcke's Jahrb. VIII. 44 ff.»—Vedi Pitrè (op. cit.) LXXV. La stivala. ed anche LXXIII Ervabianca (che il Pitrè ha pubblicata anche in Italiano con qualche modificazione in una strenna stampata a Milano nel M.DCCC.LXXII[494] e chiamata L'Adolescenza).—Gonzenbach (op. cit.) VII. Die beiden Fürstenkinder von Monteleone. (Cf. Simrock, Deutsche Märchen N.º 51).—Sgubbernatis (op. cit.) X. Il Guanto d'oro.—Bernoni. (Fiabe e novelle popolari veneziane) I. I do Camarieri.—La mente del lettore corre subito ad una delle più vaghe novelle del Boccaccio.
[2] Non è molto chiara l'espressione. Intende, una donna simile perfettamente alla figura, da te ideata; una donna, della quale, questa tua figura possa considerarsi ritratto, che sia come l'originale di questo ritratto. Innamoramenti per ritratti si trovano non di rado nelle fiabe e frequentissimamente nelle opere letterarie. Potrei farne un lungo elenco; ma mi restringerò a due citazioncelle del mio prediletto seicento:
Giovan Francesco Loredano, nobile veneto, che scrisse, verso il M.DC.XXXV la Dianea, v'introduce parecchi personaggi innamorati de' ritratti di belle Principesse; e l'un d'essi, Celardo, viene così ripreso da un vecchio romito:—«Possibile, che 'l senso così vi tiranneggi la ragione! Possibile, ch'un parto dell'arte, tanto più vile, quanto più comune a tutti, possa tormentar gli effetti d'un cuore, ch'è maggiore dell'arte e della natura! Io non biasimo la pittura, che sa eternare coloro, che non viverebbero alla memoria nonchè agli occhi. Biasimo l'intemperanza delle nostre compiacenze, la pazzia de i nostri pensieri, la cecità del nostro intelletto, che riceve alterazione da fantasimi imaginarî, da larve finte, da sembianze o imitate o adulate. Che direste, se questa pittura fosse non una copia del vero, ma un capriccio artificioso d'un pennello, che avesse, senza vederle, imitate le idee della bellezza? Dunque l'uomo ha da languire per i delirî d'una mano, che imita assai più la fantasia che 'l senso? Dunque si doverà permettere la sovranità sovra i nostri animi ad una cosa insensata, mentre la neghiamo il più delle volte alle potenze del medesimo cielo? L'amare è sempre una infelicità. L'amare però una pittura è il pessimo dei mali. Non v'è corrispondenza. Il diletto si ferma solamente negli occhi: e si può amare una cosa, che o non sia, o che ritrovandosi si vegga così adulterata, che cagioni piuttosto pentimento che amore.»—Doramiro, principe di Cipro, com'egli stesso narra nella Rosminda, favola drammatica di Don Antonio Muscettola (Napoli, M.DC.LIX), cacciando ne' mesi invernali, vide pericolare un legno:
—«................ giunto
Nel loco del naufragio, invan cercai
Uom, che vita godesse; e, mentre mesto
Procuro almen saper che gente e quale
In quella nave era sommersa, vidi
Picciol'arca dorata
Da quell'onde agitata.
Tosto fei tôrla; ed in aprirla, (oh dio!
Che memoria infelice!)
Gli occhi abbagliommi e fulminommi l'alma
Di sovrana beltà leggiadra immago.
Vidi in angusta tela
Smisurate bellezze,
Ed in ombre mentite un vero sole,
Ch'uscì del mare al tramontar del giorno.
Nè pria il vidi, che n'arsi:
Così le fiamme mie nacquer da l'onde;
E, poi che fu del mar spento il furore,
Fè naufragio il mio core.»—
[3] Un'astuzia simile troviamo nel IX trattenimento della IV giornata del Pentamerone, intitolato Lo cuorvo; che nel resto, è identico alla fiaba di questa raccolta, che s'intitola: L'impietrito.
[4] Stupendo quel dunque! Proprio logico!
[5] Da questo punto sino alla fine, La Novella del signor Giovanni è identica a La Pianella di Domenico Batacchi.
[6] Sic.
[7] Fa proprio piacere il veder la tassa di registro e bollo entrata così ne' costumi, che il volgo comincia a considerarla, come condizione sine qua non del contratto; a non saper concepire un contratto senza di essa. Gran fortuna per un popolo quando le leggi s'immedesimano co' costumi, poichè ormai la sapienza moderna non pensa più a farle conformi a quelli.
[8] Vestuario e non vestiario.
[9] Il povero cechino pidocchioso, che mi raccontava questa novella, non poteva immaginar Costantinopoli diversa dalla sua Firenze. Ci aveva ad essere un Ponte—Vecchio con gli orefici ed i Lungarni e tutto, in Costantinopoli tal' e quale come in Firenze.
[10] Quasi ogni Novelliere Italiano ci offre una variante di questo racconto, che ha pure fornito molto tema ad una mediocre tragedia dello Shakespeare... Che dico mediocre? Il Gervinus, col solito buon gusto germanico, con quel senso fine del bello[496] poetico, che, come tutti sanno, è retaggio esclusivo de' teutoni, la dichiara il capolavoro del cosidetto Cigno dell'Avon! Il Liebrecht terminava così l'articolo suo sulla edizione Napoletana del M.DCCC.LXXI del presente lavoro:—«Aus vorstehender Uebersicht dieser Sammlung erhellt, dass sie ihrem Inhalt und ihrer Abstammung nach, ausnahmslos der europäischen Märchenwelt angehört, sich also in dieser Beziehung den übrigen italiänischen Conceptionen dieser Art, so weit sie bisher bekannt geworden, anschliesst, ob wohl sie andrerseits in vielen einzelnen Zügen oder deren Fassung und Zusammenstellung genug Eigenthümliches enthält, um ihr Erscheinen als sehr willkommen begrüssen und dem Herausgeber für die darauf verwandte Sorgfalt besten Dank sagen zu können, und zwar auch selbst von deutscher Seite, trotzdem Imbriani es nicht hat zu hinterlassen vermocht, unsern Landsleuten bei einer herbeigezogenen Gelegenheit einen Hieb zu versetzen, indem er gelegentlich des Märchens von dem Herrn Johann bemerkt: Fast jeder italiänische Novellist bietet eine Variante dieser Erzählung, die auch zu einem mittelmässigen Schauspiel Shakespeare's den Grundstoff hergegeben. Warum jedoch sage ich mittelmässig? Gervinus, mit dem gervöhnlichen guten Geschmack der Deutschen, mit dem feinen Sinn für poetische Schönheit, die, wie weltbekannt, ein auschliessliches Erbtheil der Teutonen sind, erklärt dasselbe für das Hauptwerk des sogenannten Schwans vom Avon. Trotzdem dies nicht die erste uebelwollende Aeusserung gegen die Deutschen ist, in der Imbriani sich ergeht, so will ich doch nichts darauf entgegnen und somit einen schlagenden Beweis liefern, dass wir Deutschen gar wohl wissen, was guter Geschmack ist.»—Non è lecito neppure di mettere in dubbio l'infallibilità tedesca, nè rilevare una corbelleria od uno sproposito detto con prosopopea da que' loro barbassori! Vi pare? Sacrilegio! Le altre nazioni debbono stare con la faccia nella polvere, adorando gli oracoli d'ogni professore o professorucolo o professorone germanico, finchè un altro professore o professorucolo o professorone germanico anch'esso non si benigni di provare che sono corbellerie od ispropositi. Ci son molti grulli, che si rassegnano a questa parte. Io no, no davvero, no e poi no, io.
CONTENTO NIMO NEL MONDO[1]
Che direbbe Lei? che ce ne fussano della gente contenta nel mondo? Chê! ognuno ha la su' ascherezza. La stia dunque a sentire. C'era un Re, ma non c'era verso, che lui fusse mai contento; lui, la su' contentezza non l'aveva. Colla moglie non stevano d'accordo e sempre si battibeccavano, che era una disperazione[2]; eppure non gli mancava nulla, e della grazia di dio in casa ce ne stramoggiava; una dovizia, via! Che ti fa il Re? Chiama il su' fido camberieri e dice:—«S'ha a andare a girar per il mondo, se si potessi trovare, se de' contenti ce n'è. Almeno per aver questa consolazione, E di vedere qualcheduno un po' contento.»—Presero una cassetta sotto 'l braccio, tutta piena di gioielli, d'anellini, di buccole per gli orecchi; e poi, travestiti da orefici, partirno da casa, e cammina cammina, loro non si fermorno, che quando furno dimolto lontani. E così tutti i giorni camminavano di qua e di là con quel mestieri d'orefici; ma della gente contenta a modo non ne trovan mai. Chi steva in nimicizia colla moglie, chi co' figlioli, chi aveva a ridosso i parenti. Ce n'erano, che leticavano pe' tribunali, o si battagliavan col prossimo. Insomma tutti, chi più o chi meno, la su' croce l'avevano a portare; dappertutto de' malcontenti. Un giorno, questi du' viaggiatori sentiron dire d'una città, in dove ci comandava un Re, che lo chiamavano il Re delle contentezze. Sicchè dunque deliberorno[498] di fargli una visita, perchè, con quel nome, loro si figuravano, che quel Re fussi molto contento. Si messano in cammino; e, arrivati alla città di quel Re, si presentano al palazzo e subbito gli feciano passare a udienza. Il Re gli ricevette da par suo e comperò de' gioielli; e poi gli orefici gli garborno tanto, perchè gli parseno gente per bene, che lui gli volse con seco a desinare. Quando ebban finito di mangiare e che eran satolli, discorsano del più e del meno, in quel mentre che bevevano il caffè; e il Re, dalle parole e dalla su' allegrezza in viso almeno, s'addimostrava contento. N'aveva il nome delle contentezze! Dice quello, che era travestito da orefice forastiero:—«Lei, Maestà, non si pole lamentare; sta bene e non gli manca nulla. Dunque gli è per questa ragione, che lo chiamano il Re delle contentezze?»—«Eh! di sicuro, questo pare. Ma venite con meco e vi farò vedere i mi' contenti. Venite, venite.»—S'alzano; e il Re innanzi a girare per tutto il palazzo, pieno d'oro, di pietre preziose; una ricchezza, che cavava gli occhi a vederla; poi arrivorno a un salone, giù fondo—anche qui c'è fondo—ma lì, al paragone, fondo, chè la fine non si vedeva. Dice il Re:—«Guardate quelle tre belle donne, che lavorano: una è la Regina, la mi' sposa; e quell'altre due sono le su' camberiere, che gli tengono compagnia. Avre' a esser contento io, con quel tocco di sposa! è una bellezza splendente; non ce n'è altre di compagne.»—Tutti assieme si avvicinorno. Ma, più che il Re s'avvicinava e la su' sposa cominciava a allargar le braccia e a tremolare; e, quando lui gli era dinanzi a petto, la Regina si trasmutava in una statua. Dice il Re:—«Ecco le mi' contentezze! Una bellissima sposa, che non la posso toccare, perchè diventa una statua. I' sono un omo sperso; e 'l mi' Regno non avrà eredi.»—Que' du' viaggiatori rimasono[499] sbalorditi a quello spettacolo; e, quando si furno licenziati dalla corte, disse il servitore al su' padrone:—«Maestà, torniamo a casa e state colla vostra moglie; perchè si vede, che, nel mondo, de' contenti non ce n'è, e della miseria n'è più in casa degli altri, che a casa vostra.»—Detto fatto, ritornano addietro, e il Re s'avvezzò a non si lamentar più della su' scontentezza, e s'accomodò a quel che dio gli mandava.
NOTE
[1] Narrata dalla Luisa Ginanni del Montale Pistoiese e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci. Nimo, cioè nessuno. Fagiuoli. Il sordo fatto sentir per forza.—«Laura. Ma s'io non lo scoilto dire a nimo a codesto moe. Frasia. Se tu non lo scoilti dire a nimo, te lo dich'io; e bada a me e non a nimo. A nimo, eh? A nessuno dei dire.»—Confronta con la Novella I della Giornata.... del Pecorone.
[2] Chi sa quante volte non avrà pensato come quel marito, che, (in un sonetto di quel Zanetto, mentovato a pagine 136—137 del presente volume), alla moglie, la quale biasima i vivicomburî delle Indiane sul cadavere del marito:
—«Hai ragion»—le rispose—«è una follia.
Che giova, a chi nol sente, un tanto amore?
Ti regola altrimenti, moglie mia.
«Non aspettar, ch'io giunga all'ultim'ora;
Anticipa, mio ben, bruciati in pria,
Ed io dirò: Che moglie di buon cuore!»—
FIORINDO E CHIARA STELLA[1]
Un Re andava a caccia; e una volta, nel girare, incontrò un contadino, che per una selva strolagava di notte le stelle. Dice il Re:—«Oh! che fate voi costì?»—«Strolago le stelle.»—«Per farne che? Vo' non potete esser capace.»—«Capace i' sono; e fo la strolagazione, perchè ho la moglie soprapparto, che m'ha da partorire un bambino; e le stelle prognosticano, che lui sarà il Re di Spagna.»—A questo discorso il Re si sturbò, perchè lui gli era proprio il Re di Spagna in persona e figlioli maschi non n'aveva per legittimi eredi. Ma stiede zitto e 'nvece gli disse a quel contadino:—«Gli farò da padrino, se vo' siete contento, alla vostra creatura. Vo' non ve n'arete a pentire.»—«Oh! faccia Lei, se si vole incomidare; vienga pure in casa con meco.»—Entrano dunque in casa del contadino, e già la donna aveva partorito un bel maschio. E gli si messan tutti d'attorno per ammannirlo alla cirimonia del comparatico; e, fatto che ebbano ogni cosa, come costuma in simili casi, il Re disse:—«Questo figliolo lo voglio io. Me l'avete a dare, perchè, se lui dev'esser Re, bisogna dargli un'aducazione; e voialtri per questo non n'avete i mezzi. Io de' figlioli non n'ho, e 'nvece tierrò questo per mi' figliolo legittimo.»—Si sa, gli omini tacciano e le donne discorron di più: il contadino steva zitto e non opponeva difficoltà; ma la su' moglie si[501] lamentava, che gli volessan portar via la su' creatura a mala pena nata. Ma poi, doppo del pezzo, di' e ridì', anco lei si persuase; e il Re, col bambino rifasciato, lassata una bona mancia a' su' genitori, se n'andette assieme al su' servitore, che l'aveva accompagnato insino a lì. Quando furno drento a un bosco folto, che c'era il mare vicino, disse il Re al servitore:—«Piglia questo coltello e ammazzalo codesto bambino e buttalo 'n mare. I' t'aspetto all'osteria; e 'ntendo, che tu mi porti il fegato del bambino, che me lo vo' mangiare.»—Il servitore rimase nel bosco; e, doppo che il Re si fu dilontanato, badava a dire da sè:—«Gua', che be' modi! rubbare i bambini degli altri per poi ammazzarli! E bisgognerà, che l'ammazzi per l'ubbidienza; chè, se non gli portassi 'l fegato, la mi' testa non la salverei.»—Alzò il coltello e alla creatura gli diede un colpo nel collo; ma in quel mentre che gli tirava, gli comparse a piedi un agnello; e subbito ripensò di levare il fegato all'agnello e la creatura lassarla nel bosco, a quel modo ferita, alla bontà di dio: e a quel modo lo fece. E quando il Re ebbe il fegato dell'agnello, sicchè lui e' lo credè quello del bambino; e con rabbia se lo mangiò, scramando:—«In sul mi' trono tu non ce lo barbi il sedere!»—Ma che vadia pure il Re a casa sua allegro e contento per aver commesso questo delitto! Tanto, quel che è scritto 'n cielo non si scampa; e 'l su' destino a chi tocca tocca; e rinusce ogni sempre a quel modo come dio ha decretato. Torniamo dunque a quella creatura sciaurata lì a diacere dentro un cesto di stipa nel bosco, e colla piaga sanguinosa nel collo; la piaga imperò non era mortale, perchè poi rinsanichì e gli lassò soltanto una ciprigna, che a toccarla si sentiva sotto le dita. La mattina doppo, a levata di sole, un signore di que' contorni girava a caccia co' su' cani; e, quando i[502] cani giunsano al cesto di stipa, addove steva il bambino niscosto, eccoti a scagnare, che pareva il finimondo. Il padrone corse subbito là, perchè lui pensava, che ci fusse la liepre al covo; e ti vede la creatura che ugnolava dalla fame.—«Oh!»—dice,—«Iddio m'ha provvisto! appunto non ho figlioli, e anco la moglie sarà contenta d'aver questo per suo.»—Lo prende pian piano e lo porta a casa, che era un'allegrezza. Quelle du' bone persone l'allevorno per su' figliolo, sicchè diventò grande e lo facevano 'struire da de' maestri 'sperti nel leggere e scrivere e gli posano nome Fiorindo. E Fiorindo cresceva a vista d'occhio, robusto e virtudioso, che era proprio una maraviglia. Aveva Fiorindo in su i tredici anni e assieme cogli altri ragazzi del vicinato ruzzava; un giorno, che facevano a nocino, lui perse per il valsente d'otto quattrini: a que' tempi correvano sempre i quattrini. Ma questi otto quattrini per le tasche non ce gli aveva. Dice:—«Vi pagherò domani.»—«No, si voglian'ora.»—«Ma io con meco non ce gli ho. Lassatemi andare a casa a chiedergli al babbo e alla mamma. Son ricchi, sapete, e domani ve gli porto.»—«Dal babbo e dalla mamma?»—quelli risposano beffeggiando:—«Poero grullo! Non son mica il tu' babbo e la tu' mamma que' signori, che t'hanno rallevo in casa.»—«Come?»—«Eh! di certo: ti trovorno in un bosco, lì dibandonato, con una piaga di coltello nel collo; e, se tu ti tasti, tu ci trovi tavia la ciprigna.»—A simili discorsi Fiorindo rimase sbalordito; e corse a casa e volse sapere come le stavan le cose; e prega prega, e' gli dissan tutta la verità. Scrama lui:—«Allora, se non son vostro figliolo, me ne vo' ire. Vi ringrazio di tutto 'l bene, che m'avete fatto, ma io qui son bastardo e non ci vo' stare.»—«Ma senti! per noi tu sie' nostro figliolo. Ti si darà quel, che tu voi; ma[503] non ci lassare disperati e solingoli accosì.»—Lui però stiede fermo nel su' pensieri; e 'n tutti modi volse, che lo riaccompagnasser nel bosco, addove l'avevan trovato; e non ci fu versi di smoverlo. Solo lì nel bosco, pensava da che parte andare; e principiò a camminare a caso; e cammina cammina, gli eran vicine le ventiquattro, e la stracchezza e la fame gli devano alle gambe. Sicchè si fermò al cancello di un giardino, addove dentro il giardinieri annacquava le piante e i fiori; e, nel voltar gli occhi, vedde Fiorindo. Dice:—«Chi siei? che vo' tu?»—«Sono un poero ragazzo insenza babbo, nè mamma; e sono stracco morto e ho fame. Che mi piglieressi costì nel giardino ad aitarvi? Mi contento del mangiare.»—Al giardiniere gli era garbato dimolto il giovinotto, soltanto a mirarlo; sicchè gli arrispose:—«Vieni pure, qui da mangiare non ne manca. Il giardino gli è del Re di Spagna e io sto al su' servizio.»—In quel mentre, che Fiorindo abitava col giardinieri, il Re andeva spesso a spasseggiare per il giardino, e nell'imbattersi con lui gli garbava. Gua'! ci sono sempre le persone, che incontrano! Sicchè un giorno gli disse:—«Fiorindo, tu ha' da vienire con meco per camberieri.»—A Fiorindo non gli parve vero; e fu alloggiato nel palazzo reale, e vestiva il Re e sempre accosto alla su' persona.—Ora, bisogna sapere, che questo Re de' maschi non n'aveva punti; bensì aveva una figliola di tredici anni, che si chiamava Chiara Stella; una bellezza da non si dire; manierata, gentilina, con una faccia di sole, sempre piena d'allegria. Vo' capite quel, che gli accadde. È facile, che i giovani s'innamorino nel solo vedersi, massime se s'intendono tra di loro. Fiorindo preparava tutte le mattine un mazzolino con un po' di geranio, un po' di dittamo, delle rose, delle viole ammammole; e, quando Chiara Stella sortiva per il giardino[504] in compagnia della camberiera, lui glielo dava. Discorsi non se ne facevano, ma cogli occhi parlavan meglio che colla bocca. Insomma, finirono col volersi un ben dell'anima, e tutti se n'erano accorti all'infori del Re. Già, i babbi e i mariti son sempre ciechi a bono. Ma, in nelle corti, degl'invidiosi ce n'è dovizia; e tutti gli altri servitori astiavano all'arrabbiata Fiorindo, perchè il Re l'aveva sempre d'attorno e si confidava con lui d'ogni cosa. Cominciorno dunque a fargli la spia e a riportare al Re, che lui faceva all'amore colla su' figliola.—«Chê,»—arrispondeva quel Re mammalucco:—«Non la posso credere tanto sciaurata la mi' figliola, da mettersi a fare all'amore con un camberieri.»—Ma la badaron tanto quelli astiosi, che una sera la fecian trovare assieme con Fiorindo, che si discorrevano da soli. A quella vista, il Re, impermalito che lo tradissero nella su' fede, pensò subbito al gastigo. Sicchè diede ordine, che Chiara Stella fusse dilontanata dal palazzo e mandata al fratello del Re, che lui pure era Re del Portogallo. E gli scrisse, che la tenessi custodita. Sì, tieneteli anco in prigione sotto terra gl'innamorati, che tanto loro trovano il modo di darsi le novità! Cominciorno dunque a scriversi; ma una di queste lettere capitò in nelle mani d'un servitore, che la portò al Re. Dice il Re:—«Questa lettera è di Chiara Stella!»—e gli venne a lui tanta rabbia, che l'amore per Fiorindo lo trasmutò in barbarità. Lo fa chiamare e gli dà una lettera sigillata, che la porti al Re del Portogallo. E nella lettera c'era scritto, che 'l corrieri dovesse essere impiccato drento una settimana. Oh! badate la bella sorte degl'innamorati! Fiorindo arriva nella città del Re del Portogallo, e 'ncontra appunto Chiara Stella, che spasseggiava colla su' guardiana in certi chiostri. E quando si veddano, che feste! che allegrie! Fiorindo gli sporse[505] la lettera di su' padre; ma Chiara Stella n'ebbe sospetto; e insenza cancugnare, l'aprì e ci lesse drento quella po' po' di birbonata. Figuratevi, che pena! Imperò non perdette il giudizio. Lei scriveva come su' padre; e strappò quella brutta lettera e ne scrisse un'altra, in dove ci diceva:—«La mi' brama è di sposare Chiara Stella a un valoroso cavaglieri. Fatela tra una settimana giocare alla giostra, e chi la vince, sia sua.»—A male brighe, che il Re del Portogallo gli ebbe in nelle mane questa falsa lettera, bandì la giostra per tutto il Regno. E ci accorsano principi, baroni e cavaglieri di cartello. In quel mentre, Chiara Stella fece, che Fiorindo anco lui addimandasse di giocar la giostra. Ma al primo e al secondo combattimento non ce lo volsano, perchè lui non era cavaglieri; sicchè dunque Chiara Stella, con uno de' su' gioielli, essendo lei figliola di Re e erede del trono, lo nominò cavaglieri e lo mandò pure lui alla giostra. E ci si diportò tanto da virtudioso, che vinse tutti, e bisognò dargli per isposa Chiara Stella. E s'era per far le nozze, che a un tratto comparì un corrieri con una lettera crociata di nero. E ci diceva, che il Re di Spagna era morto, e Chiara Stella doveva regnare. Che bella combinazione! Tanto quel, che è scritto lassù e' non c'è modo di scansarlo! E le stelle dissano il vero, perchè Fiorindo diventò Re di Spagna[2].
Fiorindo e Chiara Stella!
Chi vuol la libertà, vadia per ella.
NOTE
[1] «Narrata dalla Luisa Ginanni del Montale di Pistoja all'avv. prof. Gherardo Nerucci. Vi è a stampa un poemetto popolare col titolo:—Storia di Florindo e Chiara Stella, dove[506] s'intende varj avvenimenti di due amanti con felice fine. Firenze (con approvazione).»—G. N.—Vedi Guppernatis. (Novelline di Santo Stefano) VII. Il Re di Spagna.—Pitré. (Op. cit.) C. Lu mircanti 'Smailitu Giumentu. Si troveranno alcuni punti di somiglianza ne L'Aldimiro | del | Cavalier | Fra Carlo de Conti | della Lengueglia. | Dedicato | All'Illustrissimo Signore | Il Signor | Christoforo | Centurione | In Milano. | Per Filippo Ghisolfi MDCXXXVII. | Ad instan. di Gio. Battista Cerri, | et Carlo Ferrandi. | Con licenza dei superiori. (Vedi specialmente Libro secondo). L'autore stesso confessa, che,—«sotto il nome di Aldimiro è un accidente di Carlo Magno narrato dal Petrarca nella terza delle sue pistole, et in quello di Nefiteo l'avvenimento di Corrado secondo, scritto da Giovanni Villani a capo quattordici dell'undecimo libro. Volendo scrivere non mi sono appigliato alle sole favole, poichè quel gentil maestro di buoni costumi condanna per cosa sconcia, il raccontare alle brigate i vaneggiamenti dei proprî sogni. Ho condotti questi due imperatori sotto finto nome nell'isola di Cipro; nè però stimo, che abbia a dolersene la Germania, la quale è stata a' forastieri popoli di suoi tanti Principi liberale: oltrechè fu buon augurio, che non dovessero le loro amorose fiamme essere infruttuose, trasportandogli in quell'Isola, ove anche le fiamme sono di volanti parti feconde,» ecc. ecc.—Vedi pure quanto di Corrado Imperatore si racconta, nel Libro VI della Historia | Varia | di M. Ludovico | Domenichi, | nella quale si contengono | molte cose argute, nobili, e degne di memoria | di diversi Principi et huomini illustri; | divisa in XIII libri; | con due tavole, la prima de' | nomi delle persone e delle cose notabili, et | l'altra della proprietà delle cose. | Con Privilegio. | In Vinegia appresso Gabriel | Giolito de' Ferrari. | M D L X V. Noterò, per utile degli studiosi di novellistica paragonata, che l'avventura di Carlo Magno, utilizzata da fra Carlo è la stessa, che forma l'argomento dell'avvenimento II della I delle Sei Giornate dello Erizzo.—«Il Re Carlo, congnominato Magno, amando una giovine morta e non potendo abbandonare il suo corpo, fu inteso per rivelazione divina, la cagione di quel suo furore essere un anello, ch'era sotto la lingua della giovine. Il quale dal vescovo coloniese rimosso e dipoi gettato in una palude, il Re torna nella primiera sanità del suo animo.»—Giangiacomo Lavagna, altro secentista, fece un bel sonetto su questo tema, che termina:
Nè sperar posso già pace o ristoro
Al mio strano languir, al mio tormento,
S'amo la morte e suoi trionfi adoro.
[2] Come dice il Metastasio?
Nasce al bosco, in rozza cuna,
Un felice pastorello;
E, con l'aure di fortuna,
Giunge i Regni a dominar.
Presso al trono, in regie fasce,
Sventurato un altro nasce;
E, fra l'ire della sorte,
Va gli armenti a pascolar.
ADELAME E ADELASIA[1]
Adelame era un cavaliere al servizio d'un Re, e l'Adelasia era la figliola unica e bellissima di questo medesimo Re. Si sa, che i cavalieri usano fare una settimana per uno a stare negli appartamenti reali e presso il Re; sicchè dunque, Adelame, in nel praticare il palazzo, vedde spesso l'Adelasia; e finì con divenirne innamorato e l'Adelasia di lui. Ma all'amore facevano di nascosto, perchè Adelame non era di sangue regio. Il Re, di questi amori, non ne sapeva niente; e ci furono di quelli di corte, che, per invidia, o che so io, glielo andarono a ridire. Lui però non ci voleva credere; ma gli messero tante prove in mano, che bisognò ci credesse. Lui, che tifa? Chiama l'Adelasia e gli dice:—«So che tu discorri[2] con Adelame.»—Dice lei:—«Cheh! non è vero, signor padre.»—Arrispose il Re:—«Eh! quel, che dico io, ne son sicuro, e non vale il negare. Dunque, con Adelame non voglio, che tu ci discorra. Se tu seguiti, lui lo esiglio dal Regno e te ti rinchiudo nella torre. Ha' capito?»—Passa qualche tempo e Adelame seguitava a discorrere con l'Adelasia di nascosto, perchè gli riesciva farla pulita. Un giorno però si trovarono in un boschetto del giardino reale e furon visti da un servitore del Re. Lesto, diviato il servitore corse dal Re a farli pippo[3], che la su' figliola era nel giardino con Adelame. Sicchè il Re andò là con diverse guardie e sorprese que' due, che[509] non se l'aspettavano. Dice il Re:—«Cavaliere, tempo tre giorni a uscire dal Regno; pena la testa, se disubbidite o ci tornate mai. In quanto a voi, figliuola disubbidiente, anderete incarcerata nella torre a mi' volontà.»—La ragazza fu subito menata via dalle guardie. E la chiusero dentro alla torre, dove c'era una bella camera tutta mobigliata da Regina, ma con una finestra alta da terra. E poi in camera non ci poteva entrare nessuno; e anche da mangiare, e tutto quel, che voleva, alla figliola del Re, glielo davano per la rota[4]. Il cavaliere Adelame intanto, a quel modo disgraziato, bisognò che partisse, senza neppure dire—«addio»—all'Adelasia. Esce dalla città per andare fori di Stato, e, cammina cammina, arriva a una campagna, dove oberano dimolti contadini a vangare. Dice Adelame:—«Chi vol mutare i su' abiti co' miei, si farà a baratto.»—«Io, io,»—dicevan tutti, perchè non gli pareva vero di far quello scambio. Dice Adelame:—«Adagio: il baratto lo farò con quello, che ha de' vestiti, che mi tornino addosso.»—Difatto, si mutò il su' vestito da cavalieri con un contadinotto, che aveva il su' stesso personale. E messo a quel modo alla contadina, che non pareva più lui, seguitò a camminare dimolti giorni, finchè giunse a un'altra città, fori dello Stato del su' Re. Da per tutte le città ci sono degli uomini, che fanno il mestieri, come sarebbe a dire, di mezzano o sensale a trovare impieghi a chi ne vôle. Sicchè, un di quest'omini, quando vedde Adelame a girottolare qua e là per le strade e per le piazze, e s'accorse che era forastieri, gli s'accostò e gli disse:—«Ohè! quel giovine, che vi mancherebbe un impiego? I' son bono a trovarvelo, se vi garba.»—Arrispose Adelame:—«E' non mi parrebbe vero; appunto sono disoccupato.»—Dice il mezzano:—«Oh! che sapete fare?»—«Di tutto,»—gli ripricò Adelame. Dice il mezzano:—«Bene,[510] bene! C'è appunto una signora, che gli manca l'ortolano e giardinieri, e forse sarebbe contenta d'avervi al su' servizio. Ora vo subito a sentire. Aspettatemi qui.»—Il mezzano va, picchia e lo fanno passare dalla signora; e lei s'accorda, che piglierà Adelame al su' servizio. Dunque Adelame va anche lui da quella signora; che, appena lo vede, gli dice:—«Come vi chiamate?»—Dice Adelame:—«I' mi chiamo Antonio:»—chè 'l su' vero nome non glielo volse palesare, per non essere scoperto.—«E quanto vôi di salario a farmi da ortolano e giardinieri?»—Arrisponde:—«In quanto al salario, mi proverà per un mese, e io proverò Lei; e poi, dopo, se si resta contenti, combineremo, chè non ci sarà nulla da ridire.»—«Sì, sì: come tu vôi,»—dice la signora. Poi dà la mancia al mezzano e mena Antonio, ossia Adelame, che s'era preso quel soprannome, nell'orto e giardino; che pareva un serpaio, tant'era trascurato e tutto in disordine. Adelame ci si messe coll'arco della stiena; e tanto lavorò, che in pochi giorni il terreno e le piante era una meraviglia a vederle, e 'n capo a venti giorni raccolse dimolta roba primaticcia, come insalate, cedri, limoni e fiori della stagione. Prese ogni cosa e va dalla padrona: e gli dice:—«Se Lei me lo permette, anderò a vendere in campagna questa roba.»—Dice la signora:—«Vai, vai pure.»—Adelame piglia un corbello, ci mette dentro la su' roba e esce fori delle porte alla campagna; e, a cinque o sei miglia di distanza, trova un paese e lì ci vende tutto, e col corbello vôto ritorna a casa. Adelame si presenta alla signora:—«Padrona, ecco i quattrini, che ho preso della vendita;»—e gli dà una ventina di lire. La signora rimase, perchè non aveva mai ricavato nulla dal terreno; e dice:—«Bravo! son proprio contenta di te. Dunque, i' ho deliberato[511] di darti questo salario: lire trenta al mese e tutto spesato. Che te ne pare?»—Dice Antonio:—«Io, per me, son più che contento.»—Passano de' giorni e l'orto e il giardino prosperavano a vista d'occhio, va allora Antonio dalla padrona e gli dice:—«Senta, io addosso non ci posso portare dimolto, e ci avrei robba in quantità da vendere e pigliare quattrini al doppio. Se Lei me lo permette, comprerò un ciuchino da mettergli la soma, e con du' ceste di qua e di là dal basto, potrei caricarlo a mi' modo.»—Dice la signora:—«Fa' pure.»—Antonio, dunque, comprò un ciuco; e gli accomodò le ceste al basto, che riempiette d'ogni ben di dio, e ci aggiunse anco un bel mazzo di fiori. E poi sortì al solito fuori delle porte della città e camminò dimolti giorni, insinacchè venne a entrare nello Stato del Re, e diviato se n'andò alla su' città. Comincia a urlare:—«Ortolano, ohè! chi vol di be' cavoli, pera, limoni primaticci, e d'ogni cosa?»—A quel bocìo la gente correva da tutte le parti; e chi voleva una cosa e chi un'altra. Quando Antonio fu sulla piazza del palazzo reale, lì sì che bociava. E a quegli urli, eccoti anche il coco del Re. Senza tanti discorsi, prese tutto il carico. Dice Antonio:—«Oh! Lei chi è? dev'essere un gran signore.»—Dice il coco:—«Cheh! sono il coco del Re.»—Dice Antonio facendo l'ignorante:—«Re? o chi è il Re? che vôl dire un Re?»—Dice il coco:—«Senti! il Re è quello, che comanda tutto lo Stato; e sta in quel palazzo.»—Dice Antonio:—«Come! in quel palazzo con tutte quelle finestre ci sta uno solo? Oh! che non ha nissuno questo Re?»—Dice il coco:—«Già, ci sta solo lui. Gli avrebbe anco una figliola; ma la faceva all'amore di nascosto con un cavalieri, e su' padre l'ha rinchiusa in una torre, e non si pole nè vedere, nè parlargli.»—Dice Antonio:—«Poera[512] ragazza! con che animo starà lei là dentro serrata!»—«Figuratevi!»—arrisponde il coco. Dice Antonio:—«Tenga, gli voglio dare questo bel mazzo di fiori a Lei, che ha compro tanta roba. Gua', se crede, lo mandi a quella sventurata.»—«Eh! questo si potrà anche fare,»—disse il coco.—«Dunque, addio! Addio! a rivederci,»—e ognuno andò pe' su' versi. Adelame aveva intanto saputo così, che l'Adelasia era sempre viva e chiusa nella torre. Ritorna dalla su' padrona e gli dà un monte di quattrini della robba venduta: e figuratevi se quella signora stava allegra! Dice Antonio:—«Padrona, le vendite vanno bene; ma io ho bisogno di caricare di vantaggio. Se Lei me lo permette, invece del ciuco, comprerò un cavallino e un barroccino, e vedrà poi quanti quattrini gli porto.»—Dice la signora:—«Sì sì, sono contenta. Fa' come ti pare.»—Antonio, dunque, vende il ciuco e invece compra il cavallino col barroccino. E quand'ebbe da caricarlo di robba proprio bona e avvistata, ce la messe su con un altro mazzo di fiori, ma belli e appariscenti, per regalargli al solito coco. Poi ripiglia la strada; e, dopo dimolti giorni, eccotelo daccapo nella su' città davanti al palazzo reale. Il coco del Re, quando lo vedde, subbito corse per comprare, e gli prese tutta la robba. Dice Antonio:—«Questo è un altro mazzo per Lei; ma avre' bisogno d'un consiglio e d'un aiuto.»—Dice il coco:—«In quel, che posso, vi servirò.»—Dice Antonio:—«Fori della porta ho riscontrato una povera donna inferma, che voleva venire al palazzo reale a presentare una supplica, perchè il su' marito dev'esser condannato, e lei chiede la grazia alla figliola del Re. La piangeva questa donna, che non si poteva movere. E m'ha pregato tanto, ch'i' gli facessi recapitare questa lettera sigillata alla figliola del Re! Come si può contentarla?»—Dice[513] il coco:—«Sentite, è dimolto difficile. Il Re ha proibito di parlargli alla su' figliola: e poi, in camera non ci si pole entrare.»—Dice Antonio:—«Se si trovasse un ripiego, quella donna ha detto, che mi darà la mancia, se riesco. Io, a voi, vi do la mancia, che m'ha promesso quella donna, e ce n'aggiungo un'altra del mio, se fate recapitare questa lettera alla figliola del Re.»—Dice il coco:—«Non c'è altro, che la metta tra' piatti del desinare, che gli si danno per la rota.»—Dice Antonio:—«Fate, come vo' credete meglio! Ma i' ho bisogno della risposta. Se dunque la lettera sigillata torna colla soprascritta graziata, allora portatemela, e io vi darò la mancia. Domani, all'istess'ora, sarò giù di qui per piazza.»—D'accordo, il coco prese la lettera e la messe tra' piatti del desinare, destinato alla figliola del Re, siccome aveva promesso. E nella lettera c'era scritto:—«Adelame vol sempre bene all'Adelasia; e, se l'Adelasia è sempre dello stesso sentimento, Adelame intende condurla via con seco, se si cala dalla torre. Quando questo gli garbi all'Adelasia, scriva graziata sulla lettera e la rimandi, e domani a mezzanotte, Adelame sarà sotto la torre a ricevere la su' Adelasia.»—Figuratevi quel, che pensasse l'Adelasia quando lesse questa lettera! Dunque, delibera di scappare; e scrive graziata sulla lettera e poi la rimette tra' piatti; e intanto fa i su' preparativi per calarsi giù dalla finestra della torre: taglia le lenzole a strisce, le annoda e così fa una bella fune lunga, che arrivava infino a pie' della prigione. Il coco poi, avuta in mano la lettera, il giorno dopo la riporta in piazza a Antonio, o Adelame, che si voglia dire. Dice:—«Eccovi, galantomo, la vostra lettera.»—Dice Antonio:—«Oh! che c'è scritto sopra? Leggetemelo, i' non so leggere.»—Dice il coco:—«Gua', e' c'è[514] scritto graziata.»—«Davvero!»—sclama Antonio:—«Datemela, e che dio ve ne rimeriti. Intanto, pigliate di mancia questo zecchino da me, per il vostro incomodo. Poi avrete anche la mancia, che m'ha promesso quella donna. Addio, addio.»—Diviato va Antonio in un chiassettolo e apre la lettera. E vede, che Adelasia acconsentiva a tutto; e lui non poteva stare alle mosse, che venisse la mezzanotte. Quando sonava la mezzanotte, Antonio, e da ora in là gli si darà il su' proprio vero nome, Adelame, era sotto la torre a aspettare; ed ecco dalla finestra, prima cala giù una cassina, che c'era dentro le gioie e i quattrini con diversi panni dell'Adelasia; poi scende anche l'Adelasia. Adelame la riceve tra le su' proprie braccia; e poi lesti vanno alla stalla e sul carrettino da ortolano scappan via fori della città; e cammina cammina, arrivano a giorno alla spiaggia del mare. Adelame lascia lì il cavallo col barroccino; e, vista una barca, ci monta su con l'Adelasia e la cassina, e co' remi e colla vela s'allontanano. Dopo un pezzo, che erano in mare, comincia una fiera burrasca, sicchè ebbero dicatti d'essere spinti in un luogo deserto, che non ci si vedeva anima viva. Sbarcano; e Adelame, presa addosso la cassina, cominciano a camminare verso un bosco folto, che ricopriva una montagna. Sali, sali, sali, era già buio fitto, e non sapevano dove mettevano i piedi e dove andavano. A un tratto, gli pare di scorgere un lume da lontano. S'avvian dunque verso quel lume e trovano una capanna di frasche, che dentro c'era un eremita vecchio in ginocchioni a fare orazione con una barba lunga lunga, che gli scendeva sul petto. Dice Adelame:—«Abbiate, padrino[4], la finezza di ricoverarci questa notte, che siamo due smarriti e non si sa dove battere il capo.»—Alza il capo l'eremita e gli guarda; e poi esclama:—«Sciagurati! che avete vo'[515] fatto?»—Adelame e Adelasia rimasero sbigottiti e come di sasso, a sentire quelle parole. E l'eremita seguita a dire:—«Sciagurati! siete in peccato. Vo' avete trasgredito alla legge umana e alla legge divina. Alla legge umana, perchè disubbidiste al padre e al Re, e sappiate che il Re vi fa cercare dappertutto per dàrvi la pena di morte. Alla legge divina, perchè siete insieme senz'essere marito e moglie.»—Que' due allora, tutti impauriti, gli si buttarono a' piedi; e lì a pregarlo, che gli aiutasse in qualche modo, che ormai il male era fatto e non c'era rimedio. Dice l'eremita:—«Ma veramente volete essere sposi?»—Risposero assieme:—«Sì, sì: sposi e per sempre.»—«Ebbene!»—dice l'eremita:—«Vi sposerò io; e, per questa notte, vi darò ricovero. Ma domani bisogna, che ve n'andiate, perchè qui non ci potete stare con me.»—Allora l'eremita gli sposò e gli benedisse; e poi, in un canto della capanna, e' gli messe a dormire su delle foglie. Quando poi fu giorno, Adelame e l'Adelasia dovettero andar via, dopo ricevuta nova benedizione dall'eremita. Bisogna sapere, che infrattanto, al palazzo erano andati a portare da colazione alla rota della camera dell'Adelasia: ma la colazione c'era sempre all'ora di desinare. Vanno dal Re i servitori e gli raccontano quel, che è successo. Il Re ordina, che s'apra la camera, per vedere se la su' figliola sia malata; e entrati dentro s'accorgono, che lei è scappata via e che non c'è più nessuno. Il Re montò sulle furie, che pareva un cane arrabbiato, perchè capì, che l'Adelasia gliel'aveva portata via Adelame. Sicchè dunque mandò soldati a cercarne dappertutto lo Stato, e messe un bando, che gli fossero menati que' due morti o vivi, perchè a ogni modo e' gli voleva ammazzati. E quando dall'eremita Adelame e l'Adelasia seppero di questo bando, badarono a scansare i confini dello Stato del Re. Sicchè[516] seguitarono a camminare dimolti giorni, campando alla meglio, col vendere le robe dell'Adelasia e dormivano per le capanne; finchè si ritrovarono in un luogo selvatico e deserto in vetta a un monte, che pianeggiava. E lì risolvettero di fermarsi. Adelame ci fece una capanna; e, scoperto che a qualche miglio giù nella valle c'era un paesuccio, si messe a tagliar legna, a far carbone, e l'andava a vendere per comprarsi il necessario. Eran lì da qualche mese, quando l'Adelasia s'accorse d'esser gravida. A su' tempo partorì un bel maschio; e se lo battezzarono colle proprie mani e gli messero nome Germano. Germano cresceva a vista d'occhio, vispo e giudizioso; e, quando fu in negli otto anni, il babbo suo se lo conduceva con seco al bosco, e poi col carico delle legna o colle sacca del carbone a vendere al paese; e, quando poi ebbi diciott'anni, lo mandava anche solo. Dice un giorno Germano:—«Babbo, perchè non comprate un ciuco per portare le some? Si durerebbe meno fatica, e si potrebb' anco fare un carico più grande.»—Dice Adelame:—«Compriamolo pure.»—E difatto, comprarono un ciucarello di poca spesa; e con quello andavono a vendere al paese. Un giorno, Germano parte solo col ciuco carico e scende al paese; e, in un tratto, s'incontra con un omo, che aveva in mano un uccellino raro dentro una gabbia. A Germano gli venne voglia d'averlo quell'uccellino e dice:—«Galantomo, che me lo venderesti codest'uccellino?»—«Magari!»—quello gli arrispose.—«Oh! che volete?»—«Oh! si fa lesti. Voglio il ciuco col carico!»—«D'accordo,»—dice Germano, e gli dà il ciuco col carico e lui piglia l'uccellino colla gabbia e tutto; e poi ritorna diviato a casa. Quando la mamma lo vedde, dice:—«Oh! del ciuco, che n'è stato?»—Dice Germano:—«Badate! l'ho barattato colla soma e tutto con un omo,[517] che m'ha dato questo bell'uccellino in gabbia[5].»—«Oh! sciaurato!»—sclamò l'Adelasia:—«Quando torna Adelame dal bosco e sa il tu' operato, t'ammazza di sicuro.»—Germano, a quelle parole della su' mamma, s'impaurì. Sicchè, lasciata lì la gabbia coll'uccellino, escì dalla capanna e via alla ventura dove lo portavano i piedi. Ma l'Adelasia credeva, che fosse andato a cercare il babbo. Eccoti in sulle ventiquattro viene Adelame; dice l'Adelasia:—«Germano, addove l'ha' lasciato?»—« I' non l'ho visto da stamane in quà,»—gli arrispose Adelame.—«Oh! pover'a me,»—sclamò l'Adelasia:—«Addove sarà ito mai? I' l'ho gridato un po', perchè ha dato in baratto di quest'uccellino in gabbia il ciuco col carico e tutto; e gli ho detto, che, se tu tornavi, l'avresti ammazzato. E lui è sortito e credevo fosse venuto a cercarti. Oh! me sciaurata, dove sarà ito il mi' figliolo?»—Dice Adelame:—«Vedi, tu ha' fatto male a dirgli quelle parole e a rimproverarlo. Lui ha operato secondo il su' sangue; ha operato da Re, sebben non sappia, che è di stirpe reale.»—Insomma, aspetta aspetta, Germano non lo veddero più, abbenchè s'arrabattassero a cercarne e dimandarne pe' contorni. Ma lasciamo que' du' poveri disperati e ritorniamo a Germano. Lui camminò dimolti mesi chiedendo la limosina, e alla fine giunse alla città del Re su' nonno. E siccome[6] era vestito tutto di pelle di bestia salvatica e pareva una cosa strana, tutti gli si facevano d'intorno, per sapere chi fosse, da che paesi veniva, se era solo o aveva il babbo e la mamma. E lui rispondeva sì e no, secondo i casi, ma non potette dir mai, da che paese gli era partito. Con tutto questo fracasso di gente, arrivò sulla piazza del palazzo reale, che appunto il Re stava alla finestra; e, quando vedde quella rannata, mandò subito un servitore a sentire, che cos'era. Dice il servitore:—«Maestà, è un giovinetto[518] forestiero, vestito di pelle. E gli fanno mille domande; e lui risponde pronto, che non si sgomenta.»—Dice il Re:—«Fatelo salir su, che lo voglio vedere e gli voglio parlare.»—Il servitore ubbidiente va e chiama Germano e lo fa salire alla presenza del Re. Dice il Re:—«Chi siei? di dove vieni? il babbo e la mamma gli hai? che mestieri fanno?»—Dice Germano:—«Son figliolo di du' boscaioli, ma il nome di loro non lo so; non l'ho mai sentito ricordare. Io mi chiamo Germano e son figliolo solo. Son partito da casa; e, cammina cammina, mi son perso. E non so neanche in che paese i' ero!»—Dice il Re:—«Vo' tu stare al mi' servizio?»—Dice Germano:—«Sì, volentieri, perchè fin'ora ho campato colla limosina.»—A farla corta, Germano fu messo per mozzo di stalla; e, dopo qualche mese; passò aiuto del coco, e poi fu fatto credenziere di corte e il Re gli dava un bon salario. Ma lui s'era annoiato; e un giorno dice al Re:—«Senta, Maestà, i' me ne voglio andare, perchè a servire così mi sono annoiato.»—Dice il Re:—«Oh! come mai? Eppure ti dò un bon salario e non ti manca nulla.»—«Tant'è, che vôle, i' non posso durarla così.»—Dice il Re:—«Ma che faresti volentieri qualche altr'arte?»—Gli arrisponde Germano:—«Per dir vero, mi piacerebbe la vita del militare.»—Dice il Re:—«Ci ho da contentarti a tu' piacimento. Entra nell'esercito e addio.»—Germano dunque entrò comune nell'esercito, e in pochi anni divenne Maggiore. Quando fu Maggiore, un giorno il Re lo fa chiamare e gli dice:—«Dimmi un po', Germano! ma che a' tu' genitori non ci pensi mai? Non t'è mai venuto in testa di ricercarne?»—«Altro, Maestà. Gli è il mi' pensiero di tutti i giorni,»—arrispose Germano:—«Ma non so, che strada prendere per ritrovarli questi genitori.»—Dice il Re:—«Piglia[519] quel, che ti bisogna, e vai a vedere se gli trovi. E, se gli trovi, portameli quì. Ti do un permesso per quanto tempo tu vôi.»—Germano dunque, avuto il permesso dal Re, trascelse a su' fido compagno un vecchio Capitano. E tutti e due, montati a cavallo, sortirono una mattina dalla città. Dice il Capitano:—«Ma sie' sicuro, Germano, che questa è la porta, da cui la prima volta entrasti in questa città?»—«Sì sì, ne sono sicuro. La riconosco. Non mi sbaglio;»—gli arrispose Germano. Camminarono dunque dimolto tempo; e finalmente giunsero a un luogo deserto e salvatico, a piè d'una montagna, e non c'erano sentieri per salire su. Dice il Capitano:—«A me mi pare, che tu sbagli la via. Oh! non vedi, che non c'è modo di salire? e poi siamo per un deserto salvatico.»—Dice Germano:—«Abbenchè da tanto tempo, eppure mi pare proprio, che questi posti son quelli, che attraversai, quando venni via di casa.»—Dice il Capitano:—«Gua', e' sarà! Ma io dico, che tu ha' scambiato.»—Ma Germano cominciò a salire su pel monte e il Capitano gli andava dietro alla meglio; e, sali, sali, arrivarono in vetta. Dice Germano:—«Ecco, son proprio ne' mi' posti. E la capanna de' mie' genitori eccola laggiù in fondo a questa spianata.»—L'Adelasia, in quel mentre, era lì a raccattar delle foglie. Quando vedde que' du' soldati, si sconturbò tutta, perchè credette fossero venuti per arrestarla e gli parve di vedere tutta l'effigie del su' babbo; motivo per cui impaurita, corse dentro alla capanna, ne serrò l'uscio e cascò in terra stramortita. Germano, che aveva riconosciuto la mamma, gli corse dietro anche lui a cavallo, e di fori urlava:—«Mamma, mamma, son'io; sono il vostro figliolo. Che non mi riconoscete? Aprite, non abbiate paura.»—Ma quella non rispondeva, perchè era svenuta. Allora Germano, con un calcio, buttò[520] giù l'uscio; e prese l'Adelasia tra le braccia; e badava a chiamarla e a dirgli, che la stasse di bon'animo e che era il su' figliolo. L'Adelasia aprì gli occhi e guardò ben bene Germano. Dice:—«Sì, ti riconosco. Ma tu m'ha' tradito.»—Dice Germano:—«Perdonatemi. Ora son qui da voi, per condurvi dal Re assieme col babbo.»—E l'Adelasia piangendo:—«Lo vedi? se lo dico, che tu m'ha' tradito!»—In questo mentre, eccoti anche Adelame, che tornava dal bosco; e, nel vedere lì que' soldati, anche lui credette, che fossero venuti per arrestarlo. E si buttò in ginocchioni a dimandar pietà per lui e per la moglie. Bisogna ora sapere, che quel Capitano vecchio, era stato padrino dell'Adelasia. Sicchè dunque, a sentire tutte quelle cose, finì con riconoscerla; e rimase, quando s'accorse, che Germano era figliolo di Adelame e dell'Adelasia, e però nipote del Re. Entrò di mezzo anche lui e disse chi era. E tanto s'adoperò, che Adelame e l'Adelasia s'addomestichirono, e la paura gli cominciò a andar via d'addosso, e si lasciarono persuadere a tornare tutti alla città del Re. Quando ci furono arrivati, il Capitano fece entrare Adelame e l'Adelasia nel palazzo reale per una scala segreta e gli messe in una camera in disparte; e poi con Germano andò dal Re. Dice il Re:—«Ben tornati. Che gli avete scoperti i genitori di Germano? Non me gli avete menati, come vi ordinai?»—Dice Germano:—«Trovati i' gli ho. Ma che vôle, Maestà, son gente avvezza al bosco e mezzo salvatichi, non sono voluti venire con me.»—«Male, male! avete fatto dimolto male a non gli condurre con voi,»—disse il Re mezzo scorruccito. Dice il Capitano:—«Senta, Maestà, il vero è, che que' due sono venuti con noi. Ma io non glieli presento davvero, se prima non mi concede la grazia della vita a tre persone.»—Dice il Re:—«Oh! che domanda è questa?»—Dice il Capitano:—«A[521] Lei non gli costa nulla questa grazia e me la pole fare.»—Dice il Re:—«Ebbene, in vista, che siete il più vecchio de' miei uffiziali, la grazia è concessa.»—«Scusi veh! Maestà,»—dice il Capitano:—«Ma Lei mi deve giurare sulla corona, che mi manterrà la parola ad ogni patto.»—Al Re parve un po' ostica questa pretensione del Capitano; ma, per non contraddirlo, giurò come voleva lui. Allora il Capitano fece entrare Adelame e l'Adelasia, che si buttarono a' piedi del Re, chiedendo perdono. Quando il Re gli riconobbe, tutto incattivito, sclamò:—«Bricconi! ci siete capitati nelle mi' mani. Ora poi vo' fare le mi' vendette.»—E tira la spada dal fodero per ammazzare l'Adelasia per la prima. Germano, che vedde quel lavoro, non si ritenne; e anche lui cava la spada e l'appunta al petto del Re:—«Se Sua Maestà non si ferma, e vôle ammazzare la mamma, io invece ammazzerò Lei.»—In quel mentre il Capitano aveva preso il braccio del Re e gli dice:—«Sua Maestà si rammenti del giuramento. E poi ripensi, che questo è suo sangue; e che Germano è il suo unico nipote ed erede.»—Al Re a poco per volta gli passarono le furie; e sentito che Germano era figliolo legittimo di Adelame e dell'Adelasia, e quanti stenti e patimenti avevan sofferto tutti per tanti anni, finì con perdonarli e rimetterli nella su' grazia. Sicchè se ne stettero col Re; e, morto lui, Germano diventò padrone dello stato.[7]
E così termina la novella:
Ditene, se vi pare, una più bella.
NOTE
[1] Narrata da Ferdinando Giovannini, sarto del Montale—Pistoiese, al cav. prof. Gherardo Nerucci.
[2] «Discorrere, nel vernacolo, fare all'amore.» G. N.
[3] «Far pippo, vale far la spia.» G. N.
[4] I padri tiranni a questo modo e peggio, sono frequentissimi ne' racconti e popolari e letterarî e nella vita pur troppo. Ne troviamo uno nell'esempio milanese seguente:
LA MONEGA[i]
Ona volta gh'era on Prenzip. L'era vedov; el gh'aveva minga de miee, l'era morta. E el gh'aveva ona tosa; e in casa soa, la sera, gh'era semper conversazion. De quij, che andava là alla conversazion, gh'era on cont; e el ghe fava l'amor alla tosa de sto Prenzip. Quand el pader è vegnuu a savell, el gh'ha proibii alla soa tosa de parlagh; ma lee, de scondon, la ghe parlava semper. Ven, che lu, sto cont, l'ha ditt:—«Mi vòo a cercalla al pader.»—E el pader, el gh'ha ditt, ch'el voreva minga maridalla, che l'era tropp giovina, e de lassalla sta. Ma lee, la ghe voreva tant ben e lu l'istess, che han combinàa de sposass secretament. E lì han cercàa on pret e di testimoni; e ona sera, de nascost del pader, hin andàa e s'hin sposàa. Ven, che lee, è vegnuu on moment, che bisognava, che al pader ghe le disess, che lee, l'era maridada. Quand ghe le dis al pader, lu, el va in tutt i furi; e el ghe dis, che l'è minga vera e ch'el ghe cred minga. E la ghe dis, che gh'è el pret e i testimoni. E lu, a la sera, l'ha fàa su tutta la robba de la tosa; de scondon l'ha fàa taccà sott; l'ha missa in carrozza; e l'ha menada distant, che lee l'ha minga podùu capì in che sit, ch'hin reussìi. Fatt l'è, che l'era de nott: el pader, el va a on convent, el ghe dis:—«Quest l'è el sit, in dove te devet stà ti.»—El parla cont la badessa, e el ghe dis la manera, che doveven regolass; e pœu el va via, el lassa lì la soa tosa. Lee, la se trœuva in de sto monastee. E i monegh ghe disen, che la doveva fà l'ann de novizziàa e dopo fass monega.[523] Lee, la dis che la podeva minga.[ii] Difatti, de lì on trì mes, la gh'ha avuu ona tosetta. Lor, sta tosetta, i monegh, per part de la mièe del giardinèe l'han dada via a bailì. E pœu, lee, in seguet, voreven a tutt i cunt, che la se fass monega. E lee, la ghe diseva, che la podeva minga: che, se lee la se fava monega, la fava on sacrilegg, perchè l'era maridada. So pader, el mandava là a vedè sta soa tosa come la se comportava. Lor ghe diseven, che la voreva minga fass monega; e lu, el ghe diseva a i monegh, de dagh di gran castigh. Ven, che i monegh l'han ciappada, l'han menada giò in d'on sotterani. E là, no la gh'aveva nient, on lettin propi come in terra, a dormì a l'umed: per vedè, se lee l'avess avùu de podè fa la monega. Ma lee, l'è semper stada ferma. La ghe diseva:—«Putost la mort, che fà on sacrilegg.»—Quella, che andava de bass a portagh el mangià, l'era ona moneghella, che anca lee l'han missa denter, contra la soa volontàa. E quand l'andava de bass a portagh el mangià, le confortava; e la ghe diseva semper de sperà in dio, che l'avaria juttada. Ven, che quella tosetta, che aveven fa bailì, era già passàa on ses o sett ann, e l'han tirada lì in del convent; e i monegh l'educaven lor, ma semper con l'idea, che la dovess fa la monega. Ma sta tosa la gh'aveva poca vocazion. È passàa on poo de temp e la gh'aveva già on quindes ann. Lee, l'andava cont i monegh al mattutin tutt i ser; e passaven via d'on corridor e la sentiva di volt ona vôs, on lament, che a sta tosa el ghe fava[524] penna. La ghe le dis, a quella tal moneghella, che l'era lee, che gh'aveva i ciav e che andava giò. La moneghella, lee le dis, che l'era ona povera infelice, che l'era in castigh. Lee, la gh'ha ditt, che la desiderava de vedella, sta povera infelice, per podè confortalla. E la monega, la dis:—«Ben, sent. Diman de sira, quand tutti hin a dormì, mi te menaroo de bass; ma guarda ben a confidaghel a nissun; se de no, mi voo in bordell[iii].»—Lee, la ghe dis:—«No, no; sta certa, che mi no ghel diroo a nissun.»—La sera adree, quand tutti hin a dormì, che gh'è quiett depertutt, van e derven st'us'c sott a sto coridor e van giò. Sta tosa, la dis:—«O che aria umeda, che ven! povera donna! come la dev avè soffert!»—Van là; e sta donna, la dis:—«Chi l'è, che ven de sti or in de sta povera infelice?»—E la monega le dis:—«Sont mi, che te meni giò ona novizia, che la desidera de vedett.»—E lee, la ghe dis:—«O brava! vedi volentera, che te l'abbiet menada chì.»—La ghe dimanda a sta giovina, se la voreva propi fa la monega; e lee, la ghe dis: se le fava, le fava per forza; perchè lee, la gh'aveva minga la vocazion de fa la monega. E sta donna, la malada, la ghe dimanda quanto temp l'è, che l'è denter; e lee, la ghe rispond, che dopo che l'è vegnuda granda, l'è stada semper denter lì. La ghe dimanda, quanti ann la gh'ha; e la tosa, la ghe dis, che la gh'ha quindes ann. E lee, allora, la ghe dis:—«Allora te see nassuda chì denter!»—e la se volta con la monega e la ghe dis:—«Dimm la veritàa, che questa l'è la mia tosa?»—Allora la monega, la dis:—«Si, mi hoo mai vorùu dì nient per no inquietàtt, ma questa l'è la toa tosa.»—Allora la tosa, la ghe trà i bracc al coll a soa mader e la ghe dis:—«Subet che mi sont la toa tosa e mi saroo quella, che te salvaràa de chì.»—E s' ciavo e van via. La monega, la dis:—«Per caritàa, digh nient a la badessa; fa minga in manera, che mì gh'abbia andà de mezz.»—E lee, la ghe dis:—«No, sta sira l'è tropp tard; ma diman, quand saran tutti a dormì e quiett, mi e ti emm de sortì del convent. Ti, te see pratica de sta cittàa chì; e andarem tutt e dò de l'arcivescov. E quand sarem là, lassem parlà de mi.»—Adess bœugna tornà del marì. Combinazion, ch'el marì l'ha mai podùu savè, in dove l'avess compagnàa soa miee so pader de lee. E lu, l'andava semper de sira de spess in de sto[525] arcivescov in conversazion; el ghe diseva tutt i so dispiasè, ch'el gh'aveva: e lu, l'arcivescov, el ghe diseva de sperà, che chi sà che on quaj dì o l'alter l'avess avuu de podè trovà ancamò la soa mièe? Ven, che quella sira l'era là in conversazion, quand va denter on servitor. El ghe dis:—«Soa Eminenza, gh'è chì dò monegh; han de bisogn de parlagh.»—Allora l'arcivescov, el và là, el ghe dis:—«Come! dò monegh de sti or fœura del monestee?»—E lee, allora, la tosa, la ghe dis:—«Si, el bisogn, el m'ha faa sortì anca de sti or chì!»—e la ghe cunta i maltrattament, che ghe faven a la soa mamma, che han mai voruu cred, che la fuss maridada.—«E mi sont vegnuda a savè, che mi sont la soa tosa; e vegni a interced grazî per la mia mamma»—Allora lu, el dis:—«Ben, diman vegnaroo subet al convent; faròo finta de andà a vedè tutt i local.»—El ghe dis a quella monega:—«Ti, che te gh'hét i ciav de tutt, quand semm sott a quel portegh, damm ona oggiada, che mi allora voreroo vedè anca quel sit là.»—S'ciao, ie fa compagnà a casa col servitor; e lor van a casa e van in la soa cella e van a dormì. El dì adree, ghe va l'arcivescov. E la mader badessa, la corr, ma la corr a la contra! la ghe fa cera e la ghe dis:—«Che novitàa de vegnì, che nun l'aspettavem minga?»—E lu, el ghe dis, che l'era andàa per fa ona visita al convent. La mader badessa le mena attorno deppertutt; e quand l'è sott a quel portegh, la monega la ghe fa on segn. E lu, el dis:—«Ma sto uss chì, dove l'è, che el va?»—E lee, la Badessa, la ghe dis:—«Oh l'è on uss d'ona cantinna; l'è minga on uss.... non se va mai giò.»—E lu, el dis:«—Ben, posto che visiti tutt, vœuj visità anca sto sit.»—La badessa l'è restada lì e la po minga digh de no; e lee, la monega, la pessèga, la derv. Ven giò l'arcivescov: el resta lì a vedè sta povera infelice lì buttada giò in su on pajassin. El ghe dis:—«Che delitt l'ha commess sta donna de maltrattalla in sta manera?»—E lee, la ghe dis, lee, la malada, che la maltratten in quella manera lì, perchè lee l'è maridada e lor voreven, che la professass a fà la monega. Allora lu, l'arcivescov, el ghe da ordin immediatamente de levà quella donna de quel sit lì, de portalla de fœura e mettella in su on lett e de dagh quaicoss de podè tiralla su, perchè l'era tanto svenuda, gh'era vegnùu fastidi. El fava stà lì la soa tosa e quell'altra monega. L'è stada lì per on poo de dì; e pœu l'arcivescov l'ha mandada a tœu,[526] lee e la tosa e la monega insemma tutt e tre, l'ha missa in d'ona casa fina, che l'ha podùu recuperà on poo de salut. On dì va là el cont, el torna a parlà di so dispiasè: allora l'arcivescov, el fa taccà sott, el ghe dis:—«Andem, che vœuj menav in d'on sit a fa ona visita.»—E le mena là, dove gh'era la soa mièe:—«Ecco»—el dis—«la cognossìi questa chì?»—E lu, el dis:—«Mi no.»—«Ben, questa l'è la vostra mièe e questa l'è la vostra tosa.»—E lu, l'è restàa ben content d'avè trovàa la mièe e la tosa. L'arcivescov l'ha dàa on gran castigh a la badessa e pœu l'ha mandàa a ciamà so pader de lee. Anca a lu, el gh'ha dàa ona gran strapazzada[iv]. E quella monega che gh'era insemma, che l'ha salvada, l'è restada anca lee cont lor, perchè lee, la monega la fava contra la soa volontàa. Hin restàa insemma e s'ciavo, n'occorr alter.
[i] Il Liebrecht annota:—«Klostergeschichte. Nichts besonderes.»—Ma ognun vede quanto importa questa novella, come documento di ciò, che ribolliva nelle menti de' volghi.
[ii] Un frammento di canzonetta popolare, raccolta a Crenna, nel quale il processo di dialettizzamento è rimasto incompiuto, dice:
In stassira e l'altra sira Son passada del monistee, E hoo incontrà d'ona giovina bella, Che l'andava monighella. La s'è voltada de penseo, E el so fradello caro Gh'ha donato d'on bel libretto. —«Mi non voglio questo libretto: Ma mi voglio quel giovinetto, Che me consolarà.»— L'han ciappada per ona man, L'han menada in d'ona stanza scura, E pœu sì l'han fada morì. —«Adesso, che tu sei morta, Te farem di gran onor. Farem cantà di offizii E altretanti sonador.»—
[iii] Andà in bordell andare a rovina.
[iv] Strapazzada, rabbuffo.
[5] Padrino. Ricorda e spiega il parrinu Calabro e siculo, che val prete.—Bebel. Facetiarum Liber I.—«Vidimus nuper Eremitam promissa barba insignem, qui, cum multa esanctimoniae ab aliquibus praedicaretur, surrexit unus ex nostris, qui parvam existimationem tribuebat universis illis eremitis, dicens: Unde sanctitatem auguramini, an ex promissa barba? Non est sie, ô simplices sodales: si enim barba probitatem adderet, hircus esset vel omnium probissimus.[i]»—
[i] Ricordo confuso un epigramma, in cui c'è lo stesso pensiero, ma si parla di filosofi e termina: quid vetat, caper esse Plato.
[6] Sic.
[7] Questo negozio, questo baratto svantaggioso, ricorda l'esordio del Trattenimento V della Giornata III del Pentamerone:—«Nardiello è mannato tre bote da lo patre a fare mercanzia co' ciento docate la vota; e, tutte le bote, accatta mo' 'no sorece, mo' 'no scarrafone e mo' 'no grillo. E, cacciato pe' chesto da lo patre, arriva dove, sananno pe' miezo de' st'anemale la figlia de 'no Re, dapò varie socciesse le doventa marito.»—
IL FIGLIOLO DEL RE DI PORTOGALLO.[1]
Il Re di Portogallo aveva un figliolo di nome Pietro, dimolto voglioso di pigliar donna; ma a modo suo non la trovava. Un giorno tornava da caccia e passa per una strada della città; e, sulla porta di una bottega di ciabattino, vede una bellissima ragazza. Questa ragazza aveva una capelliera, che tutti i capelli parevan d'oro e folti; e du' occhi poi neri brillantini e come lagrimosi dentro; e una cera rosata com'una mela.[2] Dice Pietro intra di sè:—«Oh! che bella ragazza, per esser mi' sposa!»—Arriva al palazzo, posa lo stioppo e si riveste da par suo e ritorna fori:—«Tant'è, voglio andare a discorrere!»—rimuginava Pietro:—«Peccato, che sia figliola d'un ciabattino!»—Arriva alla bottega del ciabattino e si mette a discorrere colla ragazza; e s'accorge, che non era solamente bella, ma anche ben'alleveta. Sicchè dunque se n'innamora. Dice Pietro:—«Mi vo' per isposo?»—«Chè, Lei fa celia,»—risponde la ragazza:—«Ma gli pare! Lei è il figliolo del Re, e io sono figliuola d'un ciabattino.»—Dice Pietro:—«Non importa e non fo celia. Se tu mi vo', ti sposo.»—Per farla corta, si promessero di sposarsi. Pietro va al palazzo, che era l'ora di desinare. Si mettono a tavola e cominciano a mangiare. Quando sono alle frutta, dice Pietro:—«Sa, signor padre, mi son risoluto a pigliar donna; e la sposa, l'ho bell'e trovata.»—Il Re, a[528] sentir questa novità, in sul principio si rallegrò tutto. E gli addimandò al figliolo, chi era questa sposa, e lui glielo disse. Dice il Re, tutto sconturbato:—«Ma come? una figliola d'un ciabattino! E' non è una donna per un Re. Che direbbe la nobiltà e tutto il popolo a vedere una ciabattina sul trono di Portogallo? No davvero, questo matrimonio non si può fare.»—«Signor padre,»—disse allora Pietro:—«Mi dispiace, che Lei non sia contento: ma io gli ho promesso e gli ho dato parola di Re, a questa ragazza, di sposarla. Dunque, bisogna, che la sposi.»—«Quand'è così,»—disse il Re,»—«mantenete la parola; ma, fori di palazzo e del Regno; qui non vi ci voglio nessun de' due.»—Dopo pochi giorni, fu fatto lo sposalizio. E poi gli sposi, montati con una cameriera dentro una vettura, se ne partirono per le poste per andare verso Parigi. Quando fu notte, Pietro, la sposa e la cameriera s'addormentarono in carrozza, e i vetturini, camminato per un pezzo in un gran stradone, arrivati a due vie, siccome era notte dimolto buia, invece di pigliare quell'a manca, sbagliarono e mossero i cavalli per quell'a manritta. Sicchè entrarono per una macchia folta, che non ci si vedeva lume. Eccoti, a un tratto, sbucano una gran quantità di bestie feroci; e assaltano i vetturini e i cavalli e li divorano in un momento. A quel rumore si sveglia Pietro. Chiama i vetturini e nessun risponde. Scende, e vede lì per terra soltanto gli stivali de' vetturini e gli zoccoli de' cavalli. Allora scendono leste anco le donne, e tutti insieme, alla meglio, cercano di scappare a piedi fori di quella macchia. E arrivati in un logo aperto, strafelati dal correre, Pietro con delle frasche fece un capannotto; e lì si messero a riposare al coperto il restante della notte. Quando fu giorno, Pietro si leva su e vede alla lontana una fonte d'acqua viva:[529] piglia lo stioppo, che mai lo lasciava, e ci s'avvia per lavarsi. Arrivato, che fu alla fonte, si cavò il cappello di capo; e sopra ci messe un anello con un brillante, che teneva in dito, per meglio sciacquarsi le mani e il viso. Ed eccoti, che in quel mentre, che si lavava, viene volando un uccellino, gli becca l'anello e poi va a posarsi su di un frutto. E Pietro, abbrancato lo stioppo, corre diviato per tirargli. Ma l'uccellino, quando lui s'impostava, via su di un altro frutto più lontano; e quello dietro. Insomma corse Pietro tutta la giornata e non potette mai tirare all'uccellino; sicchè finalmente l'uccellino s'appollaiò su di un frutto, quand'era notte, e tra le foglie non si vedeva più. Allora Pietro ci si messe a dormire sotto, col pensiero d'ammazzarlo, a mala pena si levasse il sole. E difatto, a levata di sole, Pietro stava di già impostato per tirare all'uccellino. Ma questo gli scappò daccapo; e, di frutto in frutto, lo menò per insino a un muraglione altissimo e lo traversò, sicchè Pietro lo perdette di vista.[3] Pietro, disperato, si messe a girare intorno al muraglione, per cercare se ci fosse un'entrata: ma porte non ce n'era di nessuna specie; soltanto un grand'albero, da un lato, aveva un ramo sporgente sul muraglione. E lui, non fa discorsi; s'arrampica sull'albero e monta in sulla cresta del muraglione. Guarda e vede un bel giardino; e lontano ci stava l'uccellino a beccare per le terre. Allora, Pietro, aiutandosi col ramo sporgente dell'albero, si cala nel giardino, e adagio adagio s'accostava all'uccellino per ammazzarlo: ma quello, al solito, scappa via, ritrapassando il muraglione. Pietro non sapeva più quel, che si fare, e voleva uscire di lì; ma non c'era modo. Mentre dunque si sforzava di arrampicarsi su per il muraglione, apparisce un Mago con du' occhi, che schizzavan foco; che, tutto arrabbiato, urlava:—«Briccone, ladro! ti ci ho colto a isciuparmi[530] «le piante!»—Dice Pietro:—«Vi sbagliate! son entrato qui per questo e questo, e non per isciuparvi e portarvi via niente.»—Ma il Mago non voleva sentir ragione e gli tralucevano gli occhi dalla stizza, e voleva Pietro morto in tutti i modi. Pietro gli si gettò in ginocchioni, pregandolo, che non l'ammazzasse; e gli raccontò tutto quello, che gli era intravvenuto. Dice il Mago:—«Bene, bene! si vedrà col tempo, se tu sie' veritiero o bugiardo. Vieni dunque con me al mi' palazzo.»—Vanno al palazzo; e c'era la Maga, moglie del Mago. Dice:—«Che c'è marito?»—Dice il Mago:—«Ho trovato questo giovane a sperperare il giardino. Che se n'ha a fare?»—Dice la Maga:—«Gua', se è vero quel, che t'ha raccontato, provalo; e poi si vedrà quel, che s'ha da farne.»—Dunque, Pietro fu messo, come giardiniere e ortolano, a lavorare la terra di quel rinserrato: e lui, prudente e ubbidiente, contentava que' due in ogni cosa, e gli teneva per bene tutta la coltivazione, sicchè il Mago e la Maga gli volevan bene come a un figliolo. Era dimolti mesi, che Pietro stava con que' Maghi, quando un giorno il Mago gli disse:—«Tu m'ha' a vangare questo campicello, che ci vo' fare una sementa a modo mio.»—Pietro si messe subito a vangare; e, in quel mentre che vangava, eccoti, che vede l'uccellino, che gli aveva beccato l'anello, volare giù da una pianta nel lavorato a razzolarvi. Corre lesto a pigliar lo stioppo, tira all'uccellino e l'ammazza; e nel gozzo sente colle dita, che ci aveva sempre l'anello. Alla botta venne anche il Mago e dice:—«Che c'è?»—E Pietro:—«Eccovi, zio,»—perchè e' lo chiamava zio,—«la prova, ch'i' sono un galantomo e dicevo il vero, quand'entrai qui la prima volta. Io ho morto l'uccellino, che mi rubò l'anello; e l'anello l'ha sempre nel gozzo.»—Vennero allora nel palazzo; e, aperto il gozzo[531] dell'uccellino, tiraron fuori l'anello tal'e quale. Dice il Mago:—«Ora, poi, tu ti puoi considerare come figliolo di me e padrone qui dentro quanto me; perchè proprio ho veduto, che siei un bravo ragazzo e non sai dir bugie.»—Tuttavia Pietro non era contento di star rinchiuso in quel giardino; e sempre s'appalesava voglioso d'andar via. Sentita il Mago questa sua idea ferma, per il ben, che gli voleva, non aveva cuore di contraddirlo. Un giorno gli disse:—«Senti, di qui a escire c'è gran pericoli, perchè il paese di fuori è tutto pieno di bestie feroci. Anzi, non so, come tu sia scampato da loro prima di entrar qui dentro. Ma, se tu aspetti, io conosco quando ci sarà tempesta in mare: e, quando c'è tempesta in mare, l'acqua arriva per insino alla cresta del muraglione, e ci vengono i bastimenti e li legano a que' campanelloni, che tu avra' visti. Se tu aspetti, tu potra' andartene con un di que' bastimenti.»—Passano diversi mesi; e, un giorno, il Mago dice:—«Pietro, domani c'è tempesta in mare. Se tu sie' sempre della medesima idea, preparati pure alla partenza. Ma prima, va' nel mi' tesoro e piglia quattrini a tu' piacimento.»—Pietro non se lo fece dir du' volte; e, andato nel tesoro, si empì le tasche di quattrini. Il giorno dopo, la tempesta accadde; e i bastimenti stavan legati alla cresta del muraglione, Pietro andò a uno e domandò:—«Capitano, per dove?»—Dice il capitano:—«Vo al porto di Spagna.»—«Bene,»—dice Pietro:—«I' vengo con voi; e mi sbarcherete al porto di Spagna.»—Detto addio al Mago e alla Maga, Pietro montò sul bastimento; e, in pochi giorni, giunse al porto di Spagna; e lì scese a un albergo per riposarsi del viaggio. Non sapendo Pietro, che si fare nel porto di Spagna, dice al cameriere dell'albergo:—«Ci sarebbe modo di trovare un impiego in questa[532] città?»—«Perchè no?»—gli arrispose il cameriere:—«C'è un omo, che fa appunto questo mestieri di trovare impieghi a chi ne vuole; e capita qui ogni mattina. Lui sarà capace di contentarvi.»—Poco dopo, eccoti infatti quell'omo: e Pietro gli domandò, se aveva come impiegarlo. Dice quell'omo:—«Oh! se volete, manca il cameriere al Governatore della città; e sarebbe proprio un posto bono per voi.»—Si trovan d'accordo: quell'omo condusse Pietro dal Governatore, e Pietro diventa il su' cameriere fidato. Dunque, Pietro andava tutti i giorni ad accompagnare a scola i figlioli del Governatore; e il Governatore dava a' su' figlioli una tascata di quattrinelli per far l'elemosina a' poveri lungo la via. I ragazzi, a chi gli chiedeva qualche cosa per amor di dio, gli davano un quattrino per uno; e Pietro, invece, gli dava un paolo per uno, di quelli avuti in regalo dal Mago. Subito si sparse per la città questa notizia; e il popolo cominciò a mormorare contro il Governatore, e badavano a dire:—«Sarebbe meglio, che fosse Governatore il cameriere, e non quell'avaraccio.»—Insomma, fecero un tumulto e corsero sotto le finestre del Governatore a urlare:—«Abbasso il Governatore. Si vole Pietro cameriere per Governatore.»—Ma Pietro s'affacciò alla terrazza e fece cenno colla mano, che tutti stassero boni; e la gente a quel cenno se n'andò. Ora, bisogna sapere, che il Governatore aveva anche una figliola grande da marito, che s'era innamorata di Pietro; e, quando vedde, che il popolo lo voleva invece di su' padre, fece tanto, che il Governatore bisognò glielo desse per isposo. Intanto Pietro seguitava a far elemosine sempre di più moneta, perchè dava sino a tre paoli per testa: sicchè ne venne un altro tumulto più grande del primo. E il Governatore dovette andar via a una sua villa fuor di città; e ne' su' piedi c'entrò[533] subito Pietro, e governava tanto bene, chè ogni persona era contenta. Ma, per fare un passo addietro, torniamo alla moglie e alla cameriera, che Pietro aveva lasciate in quel capanno di frasche, quando l'uccellino gli portò via l'anello. Le donne, perso Pietro e non lo vedendo tornar più, si messero a cercarlo. E, dopo dimolti mesi, cammina cammina, arrivarono anche loro a piedi nel porto di Spagna; e, entrate in un albergo, da un parucchiere si fecero tagliare corti i capelli e da un sarto presero de' vestiti e si trasfigurirono da omo; poi domandarono al cameriere dell'albergo, se c'era modo d'impiegarsi in qualche casa. Dice il cameriere:—«C'è un omo a posta, che cerca servitori per gli altri. Se volete, tra poco ha da venir qui, potete parlar con lui.»—L'omo venne e le du' donne gli dissero i' loro pensiero. Dice l'omo:—«Oh! appunto manca il coco e il cameriere al Governatore novo della città. Vi metterò lì.»—Fatti i patti, la figliola del ciabattino pigliò il posto di coco e la su' cameriera quello di cameriere: ma nè Pietro le riconobbe, nè loro riconobbero punto Pietro. Passato diverso tempo, dice un giorno Pietro alla su' moglie, la figliola del Governatore:—«Oggi non sono a desinare: m'hanno invitato fori certi signori e ti lascio sola.»—E la moglie:—«Allora, io anderò in villa dal babbo, per qualche giorno, a tenergli compagnia.»—E così fecero; e ognuno andò pe' su' versi. In casa, eran rimasti il coco e il cameriere, cioè, quelle du' donne vestite a quel modo. Dice il coco al cameriere:—«Vo' pulire per bene la cucina. Fammi il piacere, piglia per un po' quest'anello, che mi dette il mi' sposo, quando ci si sposò, che non lo vorrei sciupare. Me lo renderai domani, dopo finite le faccende.»—Il cameriere prese l'anello e se lo messe in dito; e poi, andò a rifare la camera de' padroni. Ma lì, anche lui, per[534] non isciupare l'anello, se lo cavò e lo messe sul cassettone, per poi ripigliarlo; e invece se ne scordò. La sera, torna Pietro, cena e va a letto. Quando la mattina si levò, e' vedde luccicare l'anello sul cassettone:—«Di chi è quest'anello?»—Lo prende e gli pare di riconoscerlo. Chiama il cameriere:—«Di', chi ha messo qui quest'anello? di chi è?»—Dice il cameriere:—«Scusi, signor padrone, ce l'ho lasciato io per dimenticanza codest'anello. Ma non è mio: è del coco.»—«Chiama dunque il coco,»—dice Pietro. Vien su dunque il coco: e, per farla corta, chiedi, domanda, cerca e rispondi, finirono per riconoscersi. Ma Pietro non era però tant'allegro, perchè pensava, che aveva preso un'altra moglie e non sapeva come rimediarla. Quando però venne dalla villa la figliola del Governatore, Pietro gli raccontò tutta la su' storia; e gli disse:—«E come si rimedia a questa faccenda?»—Dice la su' seconda moglie:—«E' si può stare tutti uniti e d'accordo. Io per me non son punto gelosa, che tu abbia, invece d'una, anche du' mogli. Stiamo insieme.»—A Pietro non gli parve vero. Venuta la sera, dice Pietro:—«Dunque, chi viene a dormir con me?»—E la figliola del Governatore:—«È giusto, che ci venga stasera la tu' prima moglie, perchè è tanto tempo, che non vi siete veduti.»—E Pietro andò a letto colla su' prima moglie. Quando era un po' di tempo, che erano a letto, la figliola del Governatore piglia du' pistole cariche e va alla porta di camera. Dice:—«Si pol passare?»—«Entra, entra pure,»—rispose Pietro. E lei entra, va al letto e con du' colpi ammazza Pietro e la moglie. A quel rumore, si sveglian tutti nel palazzo. Vanno in camera e ti vedono quello spettacolo! E le guardie arrestano subito la figliola del Governatore, che, il giorno dopo, menata in piazza in mezzo al popolo sollevato, la messero sur una catasta di legna[535] con una camicia di pece, e lì la bruciarono viva per il su' delitto commesso.
NOTE
[1] Narrata da Giovanni Becherini, contadino del Montale—Pistoiese e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci.
[2] Insomma, Fortuna ed Amore, nel formar questa ragazza, come dice il Carteromaco II, 42
....Fer di bellezze un vasto ammasso;
E poscia ne formaro una donzella
Di cui non fu giammai cosa più bella.
[3] L'abbandono involontario della innamorata nel bosco ed alcun particolare ricordano la terza novella della giornata quinta del Decameron.—«Pietro Boccamazza si fugge con l'Agnolella. Truova ladroni. La giovane fugge per una selva ed è condotta ad un castello. Pietro è preso; e delle mani de' ladroni fugge; e, dopo alcuno accidente, capita a quel castello, dove l'Agnolella era. E sposatala, con lei se ne torna a Roma.»—Maggiori sono i riscontri e più importanti con la Istoria di Ottinello e Giulia, quale tratta, come fu preso da' Turchi e con riscatto liberossi e con l'edificazione della città di Taranto per mezzo loro, ch'è una delle storie popolari più diffuse in Italia ed anche fuori, sott'altro nome. Vedi La storia | di | Ottinello e Giulia | Poemetto popolare in ottava rima | riprodotto sulle antiche stampe || Bologna | presso Gaetano Romagnoli | 1867. Noterò qui solo tre riscontri, che rimasero sconosciuti al d'Ancona, il quale curò questa ristampa e vi premise una dotta prefazione. Sarebbero: A) La XXII delle Porretane di M. Sabadino Degli Arienti, Bolognese.—«El figliuol del Re di Portogallo, fingendo andare per voto in Hierosolîma, ne va in Anglia e mena via la figliuola del Re, sua amante; et ambedue in diversi lochi rapiti sono in servitù posti. In la quale dimorati un tempo, in Portogallo in ottima mente se trovano, dove con gran festa e letitia se maritano.»—(da carte 51 a carte 59 della edizione di Verona M.D.XL. per Antonio Putelleto )—B) L'Avventura di Sifanto, nel XVII Canto del Mondo Nuovo di Tommaso Stigliani da Matera.—C) La Novella LVI della Parte I delle Duecento[536] Novelle di Celio Malespini:—«Avvenimento infelice di Orio e Pulicastra, che poi si terminò in infinita allegrezza.»—Dalla Francia la storia è tornata in Italia sotto altra forma ed altro nome; ed è lo argomento d'un opuscolo popolare prosastico, del quale ho sott'occhi un'edizione recente: Storia memorabile | e molto piacevole | per ogni generoso e nobile cavaliere | del valoroso | Pietro di Provenza | e della | bella Maghelona | dove sono ampiamente dichiarate | le loro prodezze ed amori || Torino 1863 | Tipografia e Libreria fratelli Canfari | Via Doragrossa N.º 52.
FANTA—GHIRÒ, PERSONA BELLA.[1]
A' tempi antichi vivette un Re, che de' figlioli maschi non n'aveva, ma soltanto tre belle fanciulle, e si chiamavano così: la prima Carolina, la mezzana Assuntina e l'ultima Fanta—Ghirò, persona bella, perchè gli era la più bella di tutte. Questo Re pativa d'un certo male, che nessuno l'aveva saputo guarire, sicchè passava le su' giornate nella cambera. E nella cambera, ci teneva tre siede, una celeste, una nera e una rossa. E le su' figliole, quando andevan da lui la mattina, guardavan sempre su che sedia s'era messo il padre; se su quella celeste, voleva dire allegria; su quella nera, morte; su quella rossa, guerra. Un giorno, entrano in cambera e il Re siedeva sulla sedia rossa. Dice la maggiore:—«Signor padre, oh! che gli è intravvenuto?»—«Ho ricevuto una lettera dal Re a confino, e lui mi dichiara la guerra. Ma io, a questo modo ammalato, non so dove sbacchiare il capo, perchè da me non posso andare al comando dell'assercito. Bisognerà, che trovi un bon generale.»—Dice la maggiore:—«Se lei me lo permette, il generale sarò io. Vedrà, che son capace a comandare a' soldati.»—«Chê! non son affari da donne,»—gli arrispose il Re.—«Oh! la mi provi.»—«Sì, farò a tu' modo,»—disse il Re:—«Ma con questo, che, se per istrada tu rammenti cose da donne, subbito 'ndietro e a casa.»—Quando si furno accordati, il[538] Re chiama il su' fido servitore e gli comanda di montare a cavallo colla Principessa per accompagnarla alla guerra; ma che lui la rimeni al palazzo, se la Principessa rammenta cose da donne. Ogni cosa pronta, montano a cavallo e vanno via; e 'l servitore accanto della Principessa. E, camminato che ebbano un pezzo, arrivorno a un bel canneto. Dice la Principessa:—«Oh! che belle canne! Se s'avessano a casa, quante ma' rocche ci si faremmo.»—«A casa, a casa,»—disse il servitore:—«Vo' avete ricordato cose da donne.»—E tornorno a casa. Si fece allora alla presenzia del Re la mezzana, che volse in tutti i modi andar lei a comandar la battaglia; ma il Re ce la mandò co' medesimi patti della maggiore. E, arrivata che lei fu al canneto, stiede zitta; poi passorno in mezzo a una palaia. Dice la mezzana:—«Bada, Tonino, che be' pali svelti e diritti! Se s'avessano a casa, quanti ma' be' fusi per filare.»—«A casa, a casa,»—disse Tonino servitore:—«Vo' avete rammentato cose da donne.»—E bisognò ritornare alla città dal Re. Il Re s'era messo per perso; ma eccoti, va da lui Fanta—Ghirò e lo supprica di mandarla lei alla guerra. Dice il Re:—«Tu sie' troppo bambina! Non son rinuscite quell'altre a bene, che vo' tu, ch' 'speri 'n te?»—«Che mal ci sarà egli a provarmi, babbo? Vedrete, che non vi farò disonore, se mi mandate.»—Volse il Re provare anche lei, e al servitore gli diede i medesimi comandamenti: 'ntanto Fanta—Ghirò si vestì da guerrieri, colla su' spada, le pistole, la montura; pareva un bel dragone valoroso. Montano a cavallo e via, coll'assercito dreto. Passano il canneto, passano la palaia, e Fanta—Ghirò zitta. Arrivati al confino, Fanta—Ghirò si volse abboccare col Re nimico, che era un bel giovinotto sderto. E lui, a male brighe vedde Fanta—Ghirò, disse in tra di sè, che gli era una donna; e la 'nvitò[539] al su' palazzo per parlarsi meglio delle ragioni della guerra prima di battagliare. Quando questo Re fu al palazzo, corse da su' madre, e gli raccontò del guerrieri, che comandava l'assercito contrario, e che l'aveva condotto con seco per l'abboccamento:—«Oh! mamma, mamma!»—scramava dalla passione, che si sentiva nel core:
—«Fanta—Ghirò, persona bella,
Du' occhi neri, drento la su' favella:
Carissima madre, mi pare una donzella.»—
Dice su' madre:—«Portala in nella stanza dell'armi. Se lei è una donna, non le guarderà e non le vorrà toccare.»—Il Re fece subbito a quel modo: ma Fanta—Ghirò pigliava le spade e le provava, scaricò gli stioppi e le pistole, proprio a somiglianza d'un omo. Il Re torna da su' madre:—«Mamma, lei brancica l'armi come un omo. Ma in d'ogni mo':
Fanta—Ghirò, persona bella,
Du' occhi neri, drento la su' favella:
Carissima madre, mi pare una donzella.»—
Dice la madre:—«Portala nel giardino. Se lei è una donna, piglierà una rosa o una viola in mano e poi se la metterà nel petto: ma, se gli è omo, vederai, che si ferma al gelsumino catalogno; e, doppo averlo annusato, se lo metterà all'orecchio.»—Dunque il Re menò Fanta—Ghirò nel giardino a spasseggiare; ma lei le rose e le viole non le guardò neppure; colse bensì un gelsumino catalogno, l'annusò ben bene e poi se lo messe nell'orecchio. Il Re torna da su' madre:—«Ha fatto com'un omo. Ma io son sempre della medesima idea:
«Fanta—Ghirò, persona bella,
Du' occhi neri, drento la su' favella:
Carissima madre, mi pare una donzella.»—
Dice la madre, che vedeva il su' figliuolo tanto disperato per l'amore, e a lui il core gli faceva tuppete tappete dalla gran passione:—«'Nvitala a desinare. Se lei piglia il pane e per tagliarlo l'appoggia al petto, è una donna; ma, se 'nvece lo taglia accosì per aria, allora poi è dicerto un omo, e non vale star tanto sollevato.»—Ma anco questa prova non fu bona; perchè Fanta—Ghirò tagliò 'l pane insenza metterselo alla vita. Torna il Re da su' madre:—«Mamma, gli ha fatto tutto 'l contrario d'una donna. Ma son sempre dell'istessa idea:
«Fanta—Ghirò, persona bella,
Du' occhi neri, drento la su' favella:
Carissima madre, mi pare una donzella.»—
Dice la madre:—«Tu m'hai l'aria d'un matto. Ma fa' anco questa di prove. Menala a letto con teco. Se è una ragazza, dirà di no.»—Il Re andò subbito a trovare Fanta—Ghirò:—«Quanto i' sare' contento, se voi volessi vienire a dormir con meco.»—«Sarebbe il mi' piacere, Maestà,»—disse lei:—«Se lei vole, sia pure: stasera si dormirà assieme.»—Prima di mettersi a letto, però, volsano cenare; e il Re aveva fatto un grand'apparecchio di bottiglie, e a Fanta—Ghirò la bottiglia gli era alloppiata; ma lei furba, non beveva. Quando furno al fine del mangiare, dice lei:—«S'ha da fare un brindesse prima d'andare a letto.»—Si baciorno, si presano a braccetto, e Fanta—Ghirò cantava:
—«Bevi su, compagno,
'N sennò t'ammazzerò:»—
E il Re arrispondeva:
—«Non m'ammazzar, compagno,
Perchen'io beverò.»—
E 'ntanto, lui beveva, insenz'accorgersene, la bottiglia alloppiata. Sicchè, quando fu 'n cammera, si buttò nel letto e intrafinefatta s'addormentò, che russava com'un animale. Allo svegliarsi della mattina, il Re vedde Fanta—Ghirò bell'e 'n piedi e tutta vestita da dragone, e non potiede sapere, se era donna o omo. Figuratevi le disperazioni e la passione! Non poteva più campare. Il Re torna da su' madre, che cominciò a gridarlo fortemente della su' mattia. Ma lui badava a dire:
—«Fanta—Ghirò, persona bella,
Du' occhi neri, drento la su' favella:
Carissima madre, mi pare una donzella.»—
Dice la madre:—«Dunque fa' anco questa di prove: ma sarà l'ultima. 'Nvitala, Fanta—Ghirò, a bagnarsi gnuda con teco nella pescaia del giardino in sul mezzodì. Se lei è donna, o non ci viene, oppuramente tu te n'addai insenza dubbio.»—Lui, difatto, fece quell'invito a Fanta—Ghirò; gli disse:—«Non mi par vero! Anco a casa son'avvezza a lavarmi ogni giorno, e ora gli è un pezzo, che non son'entra nell'acqua. Ma però il bagno s'ha da fare domattina; stamani no, chè non posso.»—Subbito Fanta—Ghirò chiama il su' fido servitore, che monti a cavallo e porti una lettera al Re suo padre, e con pronta risposta. Nella risposta, da mandarsi per un dragone de' meglio, ci[542] aveva a dire:—«Che lui steva male in fin di vita, e che voleva rivedere Fanta—Ghirò prima di morire.»—Il servitore di carriera se n'andette coll'ambasciata. Intanto, il giorno dopo, in sul mezzodì, il Re aspettava nel giardino Fanta—Ghirò, e s'era cominciato a spogliare, quando la vedde comparire da lontano per una redola. Lesto, si leva d'addosso il resto de' panni e si tuffa nella pescaia. Lei però disse:—«Non mi voglio ancora bagnare: ho troppo caldo e son molle di sudore.»—Ma faceva così, perchè gli arrivassi il corrieri colla lettera. Aspetta, aspetta, mezzodì era già sonato da un pezzo, e non appariva nessuno. Fanta—Ghirò moriva dalla pena, perchè il Re la pintava a gnudarsi e buttarsi giù in nella pescaia. Dice Fanta—Ghirò:—«Mi sento male. Mi vien certi gricciori per le spalle e per le gambe. Gli è un segno cattivo; c'è qualche disgrazia per aria.»—Il Re s'impazientiva:—«Non è nulla. Spogliatevi e buttatevi giù, chè ci si sta tanto bene. Che disgrazie volete, che ci sieno?»—In quel mentre si sente un rumore; scrama Fanta—Ghirò:—«Un cavallo, un cavallo alla carriera, con uno de' miei dragoni sopr'esso. Sta, sta. Deccolo.»—A male brighe il dragone gli viense dinanzi, gli diede la lettera di su' padre a Fanta—Ghirò; e lei fece le viste d'aprirla con gran premuria. E, quando l'ebbe letta, disse al Re:—«Mi rincresce, Maestà, ma ci sono delle cattive nove. Lo dicevo io, che que' gricciori eran un segno cattivo! mi' padre è lì lì per morire e mi vole rivedere. Dunque, bisogna, che parta in nel momento. Sicchè facciamo la pace; e, se volete, vienite a trovarmi nel mi' Regno. Il bagno si farà un'altra volta.»—Figuratevi, se il Re era disperato davvero, perchè lui proprio credeva, che Fanta—Ghirò fusse donna, e ci moriva sopra dalla passione. Ma gli conviense adattarsi al destino e lassarla[543] andar via. Lei, dunque, passò prima dalla su' cambera; e in sullo 'nginocchiatoio ci messe un foglio scritto, che diceva:
—«Fanta—Ghirò,
Donna è venuta e donna se ne va,
Ma 'mperò cognosciuta il Re non l'ha.»
Quando, la mattina doppo, il Re gli andette in quella cambera per isfogarsi della passione, in nel girar gli occhi vedde il foglio e lo lesse; sicchè rimase lì di sasso, come un baiocco, tra 'l dispiaciere e l'allegrezza. Corre diviato da su' madre:—«Mamma, mamma! l'avevo indovinato, che Fanta—Ghirò era donna. Leggete questo foglio, che ha lassato scritto in sullo 'nginocchiatoio della cambera.»—E non stiede ad aspettar la risposta di su' madre; ma, fatta attaccare la carrozza, si messe dreto a tutta carriera a Fanta—Ghirò. Fanta—Ghirò, intanto, steva alla presenzia di su' padre e gli raccontava le cose, che gli erano intravvenute, e come a quel mo' avessi vinto le battaglie; quando, doppo poco, si sente un rumore nella corte; era il rumore della carrozza con quel Re innamorato, che subbito volse rivedere Fanta—Ghirò. E lì, dissano tante cose, chè la concrusione fu la pace tra que' Re e lo sposalizio di Fanta—Ghirò col Re dapprima nimico. Sicchè lui la menò con seco al su' palazzo nel su' Regno; e, quando poi morì il babbo di Fanta—Ghirò, lei ebbe in eredità tutto il Regno di su' padre.
NOTA
[1] —«Fanta o Fantina, aggiunto a donna, vale come il latino Virago. Può essere, che Ghirò sia una corruzione di Virago. Fanta—Ghirò, Fanciulla—eroina?»—Così il raccoglitore[544] prof. avv. Gherardo Nerucci, cui venne dettata da Luisa Ginanni del Montale—Pistojese. Cf. Con La Serva d'Aglie, Trattenimento VI della giornata III del Pentamerone:—«Belluccia, figlia d'Ambrouso de la Varra, ped essere obediente a lo patre, facenno lo gusto sujo, pe' portarese accortamente 'n chello, che l'era stato commannato, deventa maretata ricca ricca co' Narduccio, primmogeneto de Biasillo Guallecchia; ed è causa, che l'autre sore poverelle siano da lo medesemo dotate e date pe' mogliere a l'autre figli suoje.»—
LA FRITTATINA.
C'era una volta una donnina, che aveva una stanzina piccina piccina, e ci aveva una gallina. Questa gallina, la fece l'ovo. E la donnina, la lo prese e ne fece una frittatina picchina picchina picchina, e la la messe a freddare alla finestra. Passa una mosca e gnene mangia: figuratevi, che frittata avea da esser quella![1] La donnina la va da il Commissario e gli racconta il caso.—«Oh!»—dice—«quando voi la vedrete, la mosca, tenete questa mazza»—e gli dà una mazzettina—«quando voi la vedrete, picchiatela, ammazzatela.»—In quel tempo, la gli si mette su il naso a questo Commissario una mosca. La donnina, lei, la crede, che sia quella; e gli dà una bastonata, come gli aveva detto, e rompe il naso a il Commissario.[2]
NOTE
[1] Questa frittata, veramente omeopatica, mi rimette in mente un raccontino, una novelletta del Tresatti, ignota al Gamba, al Borromeo, al Passano, al Papanti, eccetera, eccetera (e degna di rimanere ignota) che ricavo dalla sua edizione de' cantici del Beato Jacopone da Todi.—«Voleva uno cuocer funghi: et dimandava ad un vecchio, come ciò far potrebbe a fin che riuscissero assai buoni a mangiare. Io te l'insegnerò, disse il vecchio; che saranno ottimi. Piglia de' funghi sì poco, quanto sia l'ugna del tuo dito piccolo et non più; et mescola seco et sbatti dell'ova fresche et del formaggio buono grattato et del butirro.[546] Et vi aggiungeva dell'altre cose sì fatte. Et conchiudeva: Or vatti con dio, che, cocendo tai funghi con diligenza, saranno stupendi buonissimi.»—
[2] Vedi Vita | Pentimento, e Morte | di | Pietro Bailardo | con | Pulcinella | accarezzato da' diavoli e spaven | tato dall'ombra di Merlino | Tragicommedia Magico—spettacolosa | in quattro atti. || Napoli | Tipografia Francesco Saverio Criscuolo. | Presso Giuseppe d'Ambra strada Portacarrese | Montecalvario n. 1. | 1852.—Nella scena V dell'Atto II, il Bargello narra a Pietro Bailardo, nel condurlo in prigione, la storia di alcuni carcerati.—«Pietro. E quell'altro là? Bargello. Quello poi è innocente, innocentissimo; e si trova qui per avere uccisa una mosca. Pietro. Come! Se è così, non merita alcuna pena. Spiegatevi. Bargello. Eccomi. Stava costui al servizio di uno speziale. Adocchiò, che il suo padrone aveva molto denaro nel bancone; e siccome (sic) il suo naturale è stato sempre di volersi appropriare della roba d'altri, così, spalancati tanto d'occhi su quel piccolo tesoro, e' cercava modo d'impadronirsene. Ma, non potendogli riuscire a causa della vigilanza del padrone, nè volendo commettere un delitto coll'ucciderlo, andava cercando una occasione opportuna, onde soddisfare (sic) le sue brame. Questa gli si presentò un giorno di està dopo pranzo, in cui il suo padrone dormiva nella spezieria, sdrajato su di uno scanno. Una mosca impertinente gli succhiava il sudore, che gli grondava dalla fronte. Il dormiente non la sentiva, perchè assopito nel sonno; ma questo buon uomo, ch'era sempre sveglio e vigilante negl'interessi del padrone, ben se n'accorse; e, per fare un atto di carità, prese un maglio; e, con un colpo da maestro diretto sopra la mosca, la ridusse a zero. Pietro. Oh cielo! E la testa del padrone? Bargello. La fece come una focaccia.»—
LA DONNINA PICCINA PICCINA PICCINA PICCIÒ.[1]
C'era una volta una donnina, piccina piccina piccina picciò; aveva una casina, piccina piccina piccina picciò, e una gallina, piccina piccina piccina picciò. Questa gallina, piccina piccina piccina picciò, fece un ovino, piccino piccino piccino picciò. Questa donnina, piccina piccina piccina picciò, fece una frittatina, piccina piccina piccina picciò; e la pose sopra la finestrina, piccina piccina piccina picciò. Passò una moschina piccina piccina piccina picciò e ci cadde drento. La donnina, piccina piccina piccina picciò, tutta arrabbiata, val dal Gonfaloniere e si lamenta di questa sventura. Il Gonfaloniere, tutto meravigliato, gli dà un bastoncino piccino piccino piccino picciò e gli dice di bastonare la moschina piccina piccina piccina picciò appena[2] la vedrà. In questo tempo una moschina piccina piccina piccina picciò si posa precisamente sul naso del Gonfaloniere; e la donnina, piccina piccina piccina picciò, gli dà una bella bastonata. Il Gonfaloniere si risente di questa mossa inaspettata e la donnina, piccina piccina piccina picciò se ne andò pe' fatti suoi.
NOTE
[1] Variante della Novelletta precedente.—Pitrè (Op. cit.) CXL. Lu Re Befè.
[2] Appena; leggi e correggi: come.
PETRUZZO[1].
C'era una volta marito e moglie, che avevano un figliolo. Suo padre, di questo ragazzo, s'ammalò. Mandano a chiamare il medico; e gli ordina la minestra di cavolo. Dice la mamma:—«Petruzzo, Petruzzo, va a cogliere il cavoluzzo, per tuo pa', che ha male.»—«Io no, ch'io non voglio andare,»—dice Petruzzo.—«Dirò alla mazza, che ti dia. Mazza, dà a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a cogliere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—«Io no, che non vo' dare,»—dice la mazza.—«Dirò al foco, che ti bruci. Foco, brucia la mazza, perchè la mazza non vol dare a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a cogliere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—«Io no, che non vo' bruciare,»—dice il foco.—«Dirò all'acqua, che ti spenga. Acqua, spengi il foco, perchè il foco non vole arder la mazza, perchè la mazza non vol dare a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a cogliere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—«Io no, che non voglio spengere,»—dice l'acqua.—«Dirò a' bovi, che ti bevino. Bovi, bevete l'acqua, perchè l'acqua non vole spengere il foco, perchè il foco non vole arder la mazza, perchè la mazza non vole dare a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a cogliere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—«Noi no, che non si vol bere,»—dicono i bovi.—«Dirò alle funi,[549] che vi leghino. O funi, legate i bovi, perchè i bovi non vogliono ber l'acqua, perchè l'acqua non vole spengere il foco, perchè il foco non vole arder la mazza, perchè la mazza non vol dare a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a cogliere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—«Noi no, che non si vol legare,»—dicono le funi.—«Dirò ai topi, che vi rodino. Topi, rodete le funi, perchè le funi non vogliono legare i bovi, perchè i bovi non vogliono ber l'acqua, perchè l'acqua non vole spengere il foco, perchè il foco non vole arder la mazza, perchè la mazza non vol dare a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a prendere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—«Noi no, non si vol rodere,»—dicono i topi.—«Dirò al gatto, che vi mangi. Gatto, mangia i topi, perchè i topi non vogliono rodere le funi, perchè le funi non vogliono legare i bovi, perchè i bovi non vogliono ber l'acqua, perchè l'acqua non vole spengere il foco, perchè il foco non vole arder la mazza, perchè la mazza non vol dare a Petruzzo, perchè Petruzzo non vole andare a prendere il cavoluzzo, per suo pa', che ha male.»—
Dice il gatto:—«Io mangio, io mangio.»—
Dice il topo:—«Rodo, rodo.»—
Dice le funi:—«Lego, lego.»—
Dice i bovi:—«Bevo, bevo.»—
Dice l'acqua:—«Spengo, spengo.»—
Dice il foco:—«I' ardo, i' ardo.»—
Dice la mazza:—«I' dò, i' dò.»—
Dice Petruzzo:—«I' vo', i' vo'.»—
NOTA
[1] Il Liebrecht annota:—«Ein Häufelmärchen wie Der Bauer shickt den Jäkel aus. Vergleiche meine Anzeige von Bleek's Reinhard Fuchs in Afrika zu n.º 17 und n.º 42 des ersten Buches.»—Vedi Gradi (Saggio di Letture Varie) La Novella di Petruzzo.—Pitrè (op. cit.) CXXXI Pitidda.—Bernoni (Tradizioni popolari Veneziane, puntata terza) Petin—Petele.
IL TOPO.[1]
C'era una volta un topo. Dunque, questo topino entra in una stalla. C'era il gallo e gli becca il cervello a questo topino. Il topo principia a urlare e dice:—«Dove ho a andare a farmi medicare?»—Dice il gallo:—«Da il medico, eh!»—«Medico medicò, medica il cervellò, dove il gallo m'ha beccato.»—Dice il medico:—«Portami delle toppe.»—Delle pezzette, si dirà.—«E dove ho andare?»—«Da il sarto.»—«Sarto sartò, dammi toppe e toppò, che le porti al medico medicò, che mi medichi il cervellò, dove il gallo m'ha beccato.»—«Portatemi del pane eh!»—dice il sarto.—«O dove ho andare?»—«Da il fornajo, eh!»—«Fornajo fornajò, dammi pane e panò, che lo porti al sarto sartò, che mi dia toppe e toppò, che le porti al medico medicò, che mi medichi il cervellò, dove il gallo m'ha beccato.»—«Portami delle frasche, eh!»—«E dove ho andare?»—«A il bosco.»—«Bosco boscò, dammi frasche e frascò, che le porti al fornajo fornajò, che mi dia pane e panò, che lo porti al sarto sartò, che mi dia toppe e toppò, che le porti al medico medicò, che mi medichi il cervellò, dove il gallo m'ha beccato.»—Dice il bosco:—«Portami del concio, eh!»—A volere, che il bosco sia coltivato, ci vol del concio.—«E dove ho andare?»—«Da il bove, eh!»—«Bove bovò, dammi merda e merdò, che[552] la porti al bosco boscò, che mi dia frasche e frascò, che le porti al fornajo fornajò, che mi dia pane e panò, che lo porti al sarto sartò, che mi dia toppe e toppò, che lo porti al medico medicò, che mi medichi il cervellò, che il gallo m'ha beccato.»—Eccoti il bove dice:—«Aspetta, aspetta!»—Con rispetto, gli fa un'evacuata ed affoga il povero topino[2]. Gli stava lì!
NOTE
[1] Cf. Pitrè. (Op. cit.) CXXXV. Lu nasu di lu Sacristanu (la seconda parte).—Bernoni. (Tradizioni popolari veneziane, Puntata terza) Galeto e Sorzeto.—In tutta Italia vi ha gran quantità di novelline puerili, le quali (come questa e quella di Petruzzo) si riducono ad un esercizio mnemonico ad uno ispratichimento della lingua. Ne soggiungerò due esempi milanesi, de' quali conosco varianti infinite ne' dialetti meridionali.
EL RATTON E EL RATTIN
El ratton l'è andàa a provved el disnà. El gh'ha ditt al rattin de scumà la carne, e el rattin l'è borlàa dent in del caldar. Ven a cà el ratton, el cerca el rattin per tutta la cà e le troeuva no. Guarda in del caldar; el troeuva el rattin mort. Allora, disperàa, el trà el caldar in mezz a la cà. La banca, la dis:—«Perchè t'hê tràa el caldar in mezz a la cà?»—«Perchè el rattin, l'è mort; e mi hòo tràa el caldar in mezz a la cà.»—La banca, la dis:—«E mi saltaròo!»—E la s'è missa à saltà. L'uss, el ghe dis a la banca:—«Perchè te saltet?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz a la cà, e mi salti.»—L'uss, el dis:—«E mi andaròo innanz e indrèe.»—La scala, la dis:—«Perchè te vee innanz e indrèe?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz a la cà, banca salta, e mi voo innanz e indrèe.»—La scala, la dis:—«E mi andaròo tutt a tocch.»—La porta, la dis:—«Perchè te set tutt a tocch?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el[553] caldar in mezz a la cà, la banca salta, uss innanz e indrèe; e mi sont andada tutt a tocch.»—La porta, la dis:—«E mi andaròo giò de chanchen.»—Gh'era on carr de foeura de la porta; e el gh'ha ditt:—«Perchè te set giò de canchen?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz a la cà, banca salta, uss innanz e indrèe, la scala tutt a tocch, porta scanchignada.»—El carr, el dis:—«E mi andaròo senza i boeu.»—Passa ona vipera e la dis:—«Perchè te see senza i boeu?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz a la cà, banca salta, uss innanz e indrèe, scala tutt a tocch, porta scanchignada e mi vòo senza i boeu.»—La vipera, la dis:—«E mi me pelaròo.»—La vipera, la passa d'on fontanin. El fontanin, el dis:—«Perchè te see pelada?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz a la cà, banca salta, uss innanz e indrèe, scala tutt a tocch, porta scanchignada, el carr, el va senza i boeu, e mi sont pelada.»—El fontanin, el dis:—«Ben! e mi me sugaròo.»—Ven ona serva a cavà l'acqua e la ghe dis:—«Perchè te see sugàa, fontanin?»—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz a la cà, banca salta, uss innanz e indrèe, scala tutt a tocch, porta scanchignada, el carr, el va senz i boeu, la vipera, la s'è pelada, e mi me son sugàa.»—E lee, la dis:—«Ben; e mi trarròo el sidellin in mezz a la strada.»—E' vegnuu el padron; el ghe dis:—«Perchè t'hê tràa el sidellin in mezz a la strada?»—E lee, la ghe dis:—«Perchè rattin l'è mort, ratton l'ha tràa el caldar in mezz la cà, banca salta, uss innanz e indrèe, scala tutt a tocch, porta scanchignada, el car, el va senza i boeu, la vipera, la s'è pelada, el fontanin s'è sugàa e mi hoo tràa el sidellin in mezz a la strada.»—E lu, el dis:—«E mi, che sont el padron, la faròo in di calzon.»
ON RE E DÒ ZÒCCOR[i].
Ona volta on Re e dò zòccor[ii] hin andaa in d'on giardin su ona pianta de pér[iii] a cattà[iv] pòmm[v]. L'è rivaa el padron de sti nespol e l'ha ditt:—«Giò de quij figh, ch'hin minga voster quij brugn[vi].»—E l'ha ciappàa on sass, che no gh'era; e ghe l'ha dàa tant su i calcagn, ch'el gh'ha fàa dorì[vii] on'oreggia[viii] per on ann.
[i] Nella Posellecheata de Masillo Reppone (Scampagnata a Posillipo di Pompeo Sarnelli) opera in dialetto Napolitano del seicento, che contiene cinque fiabe (canti) capricciosamente raffazzonati dal vescovo autore, fra le canzoni cantate dalla forese Ciulletella è la seguente:
E l'autra sera, quanno fuje la festa,
Pigliaje la ronca e ghiette a semmenare.
Trovaje 'no sammuco de nocelle:
Quanta ne couze de chelle granate!
E benne lo patrone de le perzeche:
—“E bi', ca non te magne 'ste percoca!”—
L'aseno, ca saglieva a lo ceraso
Ppe' cogliere 'no tummolo de fiche,
Cadette 'nterra e sse rompìo lo naso.
Li lupe sse schiattavano de risa.
La vorpa, ca facìa li maccarune,
Li figlie le grattavano lo caso.
La gatta arrepezzava le lenzola,
Li surece scopavano la casa.
Esce 'no zampaglione de la votta,
Piglia la spata e sse ne va a la corte.
—“Sio capetanio, famme 'no favore:
Piglia la mosca e mettela 'mpresone.”—
La moaca se n'ascìo pe' la cancella......
A 'no povero cecato 'na panella.
L'ultimo verso indica, esser questa una tiritera, solita a cantarsi da' ciechi, nel chieder l'elemosina. La canzone è viva tuttora con infinite varianti nelle provincie del mezzogiorno d'Italia. Le quali varianti non è qui opportuno il riferire.
[ii] Zòccara o Zòcchera o Zòccola, Zòccolo. Zòccor de capuscin, sandali. Zòccor de patta, zoccoli a guiggia intera (Sgalmare, in Venezia ). Zòccor de mezza patta o zòccor de montagna, zoccoli a mezza guiggia.
[iii] Pianta de pér, si dice anche on pér.
[iv] Cattà, cogliere, captare, frequent. di capio.
[v] Pomm, mela, ed anche il melo.
[vi] Brugna; tanto il prugno o susino che la prugna o susina.
[vii] Dorì, dolore. Insalata de fràa, bombon de monegh, fan semper dorì el stomegh.—“Insalata di monache eh! E' si spende più a mangiarne a capo d'anno, che a mangiar starne e fagiani. Gelli, Sporta.”—
[viii] Oreggia, sing. Orecc, plur.
[2] Nel quarto libro dell'Asino d'oro di Agnolo Firenzuola, il povero ciuco narra, come, per non so qual suo fallo, gli aizzassero addosso alcuni rabidi cani:—«Allora io, senza dubbio alcuno vicino alla morte, veggendo tanti cagnacci e così grandi e così fieri, che non avrebbero avuto paura nè degli orsi, nè dei leoni, incrudelirsi ogni vie più contro di me per le lor grida, preso consiglio in sul fatto, restai di fuggire; e, dato la volta addietro, con presti passi me n'entrai nella stalla di quella casa, donde io mi era partito poco fa. Perchè eglino, avendo con gran fatica rilegati i cani, attaccatomi con una buona fune a una caviglia, di nuovo mi cominciarono a mazzicare. E avrebbonmi senza dubbio alcuno ammazzato, se non che il ventre pien di bietole e di altri erbaggi, assaltato, la mercè di queste bastonate, da una sdrucciolevole soccorrenza, schizzando come un nibbio, di loro una parte ricoperse, e un'altra ne ammorbò con quell'odore; sicchè, per lo miglior loro, e' furon forzati a tormisi d'in su le spalle.»—
LA CAPRA FERRATA.[1]
C'era una vedova, che aveva un figlio. Un giorno, ha detto a questo figlio:—«Stai 'n casa. Voglio andare a i' vivajo a lavare i' bucato. Bada, non mi lasciare l'uscio aperto, perchè ti potrebbe entrare la capra ferrata in casa, con la bocca di ferro e la lingua di spada.»—Questo poero bambino volse andare a trovà' sua madre e lasciò l'uscio aperto. Quando fu a mezza strada, si rammentò, che non aveva chiuso l'uscio; tornò indietro. Va per entrare in casa, c'era la capra ferrata:—«Chi va là?»—«Son io. Son la capra ferrata, con la bocca di ferro e la lingua di spada; e, se t'entri drento, ti affetto come una rapa.»—Questo poero bambino si messe sulla porta a piangere. Passò una vecchina:—«Cos'hai, bambino mio, che piangi tanto?»—«Cos'ho? I' ho lasciato la porta di casa aperta, per andare a trovare mia madre. Mi ci è entrato la capra ferrata. Non so come fare a mandarla via.»—«Quanto tu mi dai, te la mando via io?»—«Da mia madre vi faccio dare quel, che volete, basta che me la mandate via.»—«Mi devi dare tre staja di grano; io te la mando via.»—Va a picchiare all'uscio di casa:—«Chi è?»—«Son io.»—«Son la capra ferrata, con la bocca di ferro e la lingua di spada; e, se t'entri drento, ti affetto come una rapa.»—Quella donna disse a quel bambino lì:—«Senti, bambino mio; non m'importa di[557] quelle tre staja di grano; ma io non te la mando via davvero.»—Questo poero bambino non faceva altro che[2] piangere. Passò un vecchio:—«Cos'hai, bambino mio, che piangi tanto?»—«Poerino! sono disgraziato. Ho lasciato l'uscio di casa aperto. Mi c'è entrato la capra ferrata. Non so come fare per mandarla via.»—«Se te mi dai quattro forme di formaggio, te la mando via io.»—«Se me la mandate via, quando torna mia madre, io ve le faccio dare.»—Va a picchiare alla porta e domanda:—«Chi va là?»—«Son la capra ferrata, con la bocca di ferro e la lingua di spada; e, se t'entri drento, t'affetto come una rapa.»—E questo poero vecchio va da i' bambino:—«Senti, bambino mio, poi fare quel, che voi, ma io non te la mando via davvero.»—Questo poero bambino non faceva che piangere e passò un uccellino:—«Cos'hai, bambino mio, che piangi tanto?»—«Poerino, che non ho io? M'è entrata la capra ferrata in casa e non mi riesce di mandarla via. Se torna la mia madre, non pole entrare in casa.»—«Quanto tu mi dai, te la mando via io?»—«Cosa ti devo da', che non ho nulla? Se me la mandi via, ti farò pagare a mia madre.»—«Mi devi dare tre staja di panico e io te la mando via.»—Dice:—«Sì. Io te lo do.»—L'uccellino va:—«Chi va là?»—«Son la capra ferrata, con la bocca di ferro e la lingua di spada; e, se t'entri drento, t'affetto come una rapa.»—«E io, cor i' mio becchino, ti beccherò i' cervellino.»—E la capra ferrata s'è impaurita e è sortita di casa. E i' bambino ha dovuto pagare tre staja di panico all'uccellino.
Stretta la foglia e largo il bocciolo,
Della pelle di mi' nonno io ne farò un lenzuolo!
NOTE
[1] Vedi Morosi. (Opera citata in nota alla novella di Manfane, Tanfane e Zufilo della presente raccolta).—«Una volta entrò una capra nella tana della volpe, mentre questa non era in casa. Si fece sera e la volpe si ritirò a casa. E trovò la capra, e fuggì; perchè si spaventò delle corna della capra. E passò un lupo e anche si spaventò. E passò un riccio; e questo entrò là dentro e punse la capra. E la capra uscì; e il lupo l'ammazzò e la volpe la mangiò.»—Pitrè. (Op. cit.) CXXXII. Cummari Vurpidda; CXXXIII. La Crapa e La Monaca.
[2] Che; leggi e correggi se non.
I DUE GOBBI.[1]
C'era due gobbi, due compagni, via; ma tutti e due gobbi; ma uno più gobbo dell'altro. Poeri gli erano, rifiniti, senza un quattrino. Dice un di quelli:—«Io vo' andare a girare il mondo»—dice—«perchè qui non si mangia, si more di fame. Voglio vedere, s'io fo fortuna.»—«Vai davvero. Se tu la fai te, che tu torni, anderò a vedere io, se io fo fortuna.»—Questo gobbo si mette in cammino e va via. Ma siccome questi due gobbi gli eran di Parma, questi due gobbi il suo posto gli era Parma; quando gli ha camminato un pezzo grande di strada, trova una piazza, dove c'era una fiera, dove vendevano di tutte, di tutte le sorti. C'era uno, che vendeva cacio; gli dice:—«Mangino il parmigianino!»—Questo povero gobbo credeva, che gli dicesse a lui:—«Mangia il parmigianino!»—Scappa via e si nisconde in un cortile, dirò. Quando gli è un'ora, sente uno scatenìo, uno scatenìo! E sente:—«Sabato e domenica!»—per tre o quattro volte. Questo povero gobbo e' dice:—«E lunedì!»—e risponde.—«Oh dio!»—dicono quelli, che cantavano—«chi è quello, che ci ha accordato il nostro coro?»——Vanno a cercarlo e lo trovano questo povero gobbo niscosto.—«O signori,»—dice—«non son venuto per far nulla di male, sanno?»—«Eh! noi siamo venuti per ricompensarti; tu hai accomodato il nostro coro. Vieni[560] con noi!»—Lo metton sur una tavola e gli levano il gobbo. Lo medicano, sarciscono la ferita e poi gli danno due sacchi di quattrini.—«Ora»—dicono—«tu poi andare.»—Esso li ringrazia, e via, senza il gobbo. Gli stava meglio, lo credo! E viene in Parma a il suo posto. Eccoti l'altro gobbo:—«Guarda! o non mi par tutto il mio amico? Chêh! ma gli aveva il gobbo! non è! Dài retta! Tu non siei il mio compagno, così e così?»—«Sì,»—dice—«son io.»—«Dai retta: o tu non eri gobbo, te?»—«Sì. M'hanno cavato il gobbo e m'hanno dato due sacca di quattrini, ora ti dirò il perchè. Io»—dice—«arrivai in questo posto»—gnene dice dove; a me non l'ha detto e io non lo so, io!—«e sentii a principiare a dire: mangialo il parmigianino! mangialo il parmigianino! Io ebbi tanta paura, mi nascosi.»—Gli dice il posto:—«In un cortile, così e così.»—Dice:—«Quando fu un dato tempo, sento uno scatenìo; e sento a principiare: Sabato e domenica! un coro. Io, dopo tre o quattro volte, gli dissi: E lunedì! Questi vennero cercando me e mi trovorono, dicendo che io aveva accomodato il suo coro, e che mi volevano ricompensare. Mi presero,»—dice—«mi levorono il gobbo e mi diedero due sacca di quattrini.»—«Oh dio!»—dice l'altro gobbo—«voglio andare anch'io, sai?»—«Vai poerino, vai pure, vai, vai, vai!»—Poero gobbo!—«addio, addio!»—Si mette in viaggio e va via e arriva a questo posto. E si mette niscosto, dove gli aveva detto il compagno, preciso. Passato un dato tempo, eccoti tutto uno scatenìo; e sente:—«Sabato e domenica!»—così tutto un coro. E quegli altri, l'altro coro:—«E lunedì!»—Questo gobbo, dopo tre o quattro volte, che dicevan così:—«Sabato e domenica e lunedì!»—dice—«E martedì!»—«Dov'è»—dicono—«quello, che ci[561] ha sciupato il nostro coro? Se noi lo si trova, gli ha da andare in pezzi.»—Questo poero gobbo, considerate, lo picchiano, lo bastonano, via, quanto posson loro. Lo bastonano; e poi, dopo, lo mettono sull'istessa tavola del compagno.—«Prendete quel gobbo»—dicono—«mettetegnene davanti.»—Prendono il gobbo e gnene appiccican davanti; e poi, a suon di bastonate, lo mandan via. Va nel suo posto e trova l'amico:—«Misericordia»—dice—«o che non è quello il mio amico? Chêh! non è, perchè gli è gobbo anche davanti»—dice.—«Ma dài retta,»—dice—«non sei tu il mio amico?»—«Altro!»—dice piagnucolando.—«Non volevo il mio di gobbo e mi tocca ora a portare il mio e il tuo! e tutto bastonato, tutto rifinito, non vedi?»—«Vien via»—dice l'amico—«vieni a casa e così si mangerà un boccone assieme; e non ti confondere.[2]»—E così, tutti i giorni, gli andava a mangiare una zuppa dall'amico; e poi saranno morti, m'immagino.[3]
NOTE
[1] Vedi Gradi (Saggio di Lettere varie pe' giovani). Novella de' due Gobbi.—Pitré. (Op. cit.) LXIV. Lu scarparu e li diavuli.—Pietro Piperno. (De Nuce maga Beneventana) Casus II. De Gibboso vi Dæmonis mutato in arenationem, seu ante pectus in convivio nucis Beneventanae mag.—Anche il Gozzi ha narrato questa frottola. Francesco Redi, scriveva il XXV Gennajo M.DC.LXXXIX di Firenze al Dottor Lorenzo Bellini in Pisa.—«Come una mamma amorosa, che, intenerita di quella sua figliuola gobba e sciancata, vorrebbe pure, ch'ella comparisse con l'altre a una festa, e perciò s'affanna a farle raddoppiare i tacconi alla scarpa del piede zoppo, e le rimpinza guancialetti e batuffoli di cenci intorno a' fianchi ed intorno alle spalle; così ho fatto io di nuovo intorno a quelle terzine, una di queste notti così gelate, mentre mi tribolava, che non poteva dormire. Ma penso,[562] che sarà avvenuto come accadde a quel gobbo da Peretola, il quale, avendo veduto, che un altro gobbo suo vicino, dopo un certo suo viaggio, era tornato al paese bello e diritto, essendogli gentilmente stata segata la gobba, lo interrogò, chi fosse stato il medico, ed in qual paese fosse aperto lo spedale, dove si facevano così belle cure. Il buon gobbo, che non era più gobbo, gliela confessò giusta giusta. E gli disse, che, essendo in viaggio, smarrì una notte la strada; e, dopo lunghi aggiramenti si trovò per fortuna alla Noce di Benevento, intorno alla quale stavano allegramente ballonzolando moltissime streghe con una infinità di stregoni e di diavoli. E che, fermatosi di soppiatto a mirare il tafferuglio di quella tresca, fu scoperto, non so come, da una strega, la quale lo invitò al ballo, in cui egli si portò con tanta grazia e maestria, che tutti quanti se ne maravigliarono; e gli presero perciò così grande amore, che, messoselo baldanzosamente in mezzo, e fatta portare una certa sega di butirro, gli segaron con essa, senza verun suo dolore, la gobba, e con un certo impiastro di marzapane gli sanarono subito subito la cicatrice e lo rimandarono a casa bello e guarito. Il buon gobbo da Peretola, inteso questo e facendo lo gnorri, se ne stette zitto zitto. Ma il giorno seguente si mise in viaggio; e tanto ricercò e tanto rifrustò, che potette capitar una notte al luogo della desiderata noce, dove, con diversità di pazzi strumenti, quella ribaldaglia delle streghe e degli stregoni trescava al solito in compagnia de' diavoli, delle diavolesse e delle versiere. Una versiera o diavolessa, che si fosse, facendogli un grazioso inchino, lo invitò alla danza, ma egli vi si portò con tanto malgarbo e con tanta svenevolaggine, che stomacò tutto quanto quel notturno conciliabolo. Il quale poi, mettendosegli attorno e facendo venire in un bacile quella gobba segata al primiero gobbo, con certa tenacissima pegola d'Inferno la appiccò nel petto di questo secondo gobbo. E così questi, che era venuto qui per guarire della gobba di dietro, se ne tornò vergognosamente al paese gobbo di dietro e dinanzi; conforme suol quasi sempre avvenire a certi ipocondriaci cristianelli, che, volendo a tutti i patti e a dispetto del mondo, guarire di qualche lor male irrimediabile, ingollano a crepapancia gli strani beveroni di qualche credulo ma famoso medicastro e di un sol male, per altro comportabile, che hanno, incappano[563] per lo più dolorosamente in tre o quattr'altri più dolorosi del primo, i quali presto presto li mandano a Patrasso, ch'è un oscuro paesello lontano da Firenze delle miglia più di millanta. Or voi, caro Bellini, applicate questa frottola alle terzine del mio sonetto. Leggetele, ridetevene, burlatemi, cuculiatemi, che me lo merito; e se non ho potuto rabberciarle io, fate la gran carità di rabberciarle voi:
«Che per onor dei fichi e delle pere
Fra' medici più saggi di Parnaso,
Foste creato l'arcimastro e il sere,
E in ogni cul potete dar di naso.»—
Il paragone de' cristianelli allude ad un altra frottola, ricordata anche da Michele Zezza, in uno de' sonetti del Carteggio poetico di Picà e di Picò.
Lungi droghe, che qui portan gl'Inglesi
Dal nuovo mondo a noi: queste, in mia fè,
Ci mandano più presto a quei paesi.
Per questo appunto lo Spagnuol morì;
Ma pria sull'urna sua scrivere fè:
Per volere star meglio, ora son qui.
Stefano Francesco di Lantier, nella XXXVI lettera della sua Correspondance de Suzette d'Arly:—«On racconte, qu'un Italien, assez content de son sort, se maria pour être mieux; il mourut après six mois de mariage. Il ordonna de graver cette inscription sur son tombeau: Stava bene, per esser meglio son qui. Combien de gens, à l'exemple de ce pauvre mari, se remuent, s'agitent, pour être plus mal.»—
Il Noce di Benevento vien ricordato anche nelle Poesie Italiane | e in | Dialetto Napolitano | di | Domenico Piccinni || Napoli | Da' tipi di Cataneo | 1827. (pagina 105; componimento intitolato: La Notte).
Sta 'na noce chiantata a Beneviento,
Addò', come la Notte s'abbicina,
Nce veneno 'ncopp'acqua e 'ncopp'a viento,
E da parte lontana e da vicina
Le streghe: parte int'a 'no vastemiento
'Ddò' de diavole so' 'na cinquantina,
Chi accavallo a 'no crapio e chi a 'no puorco.
Chi portata da 'n Urzo e chi da 'n Uorco.
[2] Non ti confondere equivale al napoletanesco non te ne 'ncarrecà'! E mi sia lecito di rivendicare il piccolo onore di avere, sette anni prima della Canzonetta di Masto Raffaele, richiamato l'attenzione sull'importanza demopsicologica di quell'intercalare partenopeo, in una bizzarria intitolata: I Serpenti di Panarano.
[3] I poveri gobbi sono argomento d'infiniti racconti burleschi. Ne riferirò due, ne' quali si equivoca sulla parola gobbo, che ha avuto ed ha anche altri significati. Il primo è cavato da Le piaceuoli | et ridicolose | Facetie | di M. Poncino | dalla Torre Cremonese. | Di nouo ristampate | con l'aggiunta d'alcun'altre, che nella prima | impressione mancauano. || In Venetia, M.DC.XXVII. | Appresso Girardo, et Iseppo Imberti.—«Si spendeva a quei tempi, nel Ducato di Milano, una certa piccola moneta; perchè era stata coniata sotto un Duca gobbo, Gobbo si chiamava; tre de' quali facevano un soldo. Il nome di cotal moneta, perchè pareva che fosse a disprezzo del Duca, fu causa, che si bandì. Furono nondimeno costituiti banchieri, che tutti questi simili danari ricevessero et gli tagliassero et all'incontro ne dessero il valore con altrettanta moneta d'altra sorte. Vide Messer Poncino per avventura un giorno su la Piazza di Cremona tre uomini di basso affare tutti tre gobbi; i quali immaginossi con l'occasione del sodetto bando di burlare in cotal guisa. Andossene dunque da loro et disse: Amici, fatemi di grazia un servigio. Venite per cortesia ad esser testimonî ad un instromento, che a quel banco là ho da trattare, che io ve ne restarò con obbligo.—Volontieri, risposero i gobbi; ma ben avremo di caro, che tosto ne sbrighiate, perciocchè abbiamo anco noi faccende.—Non perderete tempo, replicò Messer Poncino; ma in tre parole sarete spacciati. Così di compagnia giunti ad un banco, dove si cambiavano et tagliavano di quei danari gobbi, disse al banchiere Messer Poncino: Eccovi tre gobbi; datemi un soldo et a vostra posta tagliateli. Rimasero attoniti i gobbi; et il banchiere, tra perchè era faceto anche egli, sì eziandio, perchè poco gli costava, diede a Messer Poncino subito il soldo, et uscito dal banco, insieme con due altri suoi compagni, presero i gobbi, et dentro la bottega facendo vista di volergli portare, per tagliargli, gli posero in grandissima smania. Alfine lasciatigli, si svoltorono essi a M. Poncino et con rampogna gli minacciavano il castigo.[565] Ma egli et gli altri, che quivi intorno s'erano raunati, ridendosene, fecero che più che di fretta i gobbi si partirono; et fra gli uomini quanto più potevano andavano nascondendosi.»—L'altra novella la tolgo da' Cento Racconti, raccolti da Michele Somma, dov'è intitolata: Gli equivoci, certe volte, sono la rovina dell'uomo.—«Un certo cardinale di Roma, dovendo dar tavola un giorno, e mancando in detta città i gobbi, che qui in Napoli chiamansi cardoni, scrisse ad un suo amico di questa capitale, acciò gliene avesse mandato una ventina. L'amico, credendo, che il cardinale bramava i gobbi per far qualche burla, radunò venti di questi, e gliel'inviò, colla promessa, che avrebbero avuto un buon regalo. Arrivati che furono i gobbi in Roma, e passandone il cameriere la notizia al cardinale, gli fu risposto, che li avesse situati nella cantina. Ciò udendo il povero cameriere, mentre incominciava a far la causa di que' stanchi gobbi, venne rimproveràto fortemente dal cardinale. Sicchè, convenendogli di ubbidire, trascinò i poveri gobbi nella cantina. Considerate voi, che timore e sbalordimento sopravvenisse a quegl'infelici! Dopo due ore, il cardinale chiamò nuovamente il cameriere; e gli ordinò, che avesse battuto sopra dei gobbi cinque o sei brocche d'acqua. A questo secondo complimento, impietositosi il cameriere, rispose: Eminenza, e perchè tanta barbarie con questi poveretti? Non ancora avea proferite queste parole, che ricevette una seconda strapazzata più terribile della prima; sicchè gli convenne per la seconda volta ubbidirlo, scaricando per la ferriata più di cinque o sei brocche d'acqua sopra degl'intimoriti gobbi. Avvicinandosi finalmente l'ora di tavola, il cardinale disse al cameriere: Calate giù nella cantina, prendete quattro o cinque gobbi, scorticateli ben bene, e poi fateli a pezzi minutissimi. Ciò inteso il cameriere, quantunque avea risoluto di non più ostarsi al cardinale, pure incominciò a dire: Ma Eminenza, e che umanità.... A questo terzo rimprovero, prese il bastone il cardinale; e, se non se la scappava il cameriere, sarebbe stato castigato. Sicchè, per non perder il pane, fattosi animo, e chiamato in aiuto altre persone di servizio, scese nella cantina e così disse ai tremanti gobbi: Cari miei, io non ho che farvi, e Dio sa che ho sofferto per voi; sicchè cinque o sei di voi debbono essere scorticati, e fatti minutamente a pezzi. A quest'ultima antifona incominciarono i gobbi ad urtarsi l'un[566] l'altro, ed a gridare in modo, che, rivoltandosi tutto il palazzo, si affacciò il cardinale; ed interrogando il motivo di sì forte schiamazzo, gli fu risposto dal cameriere, ch'erano i gobbi. Dunque i gobbi gridano? ripigliò il cardinale. Signore, rispose il cameriere, questi non sono muti ma gobbi, cioè storpi. Ciò udendo il cardinale, tra le risa e il capriccio, disse al cameriere: Cacciateli dunque dalla cantina, e portateli qui. Venuti i semivivi gobbi alla presenza del cardinale, questi li cercò scusa, e gli disse, che egli voleva i gobbi, che si chiamano cordoni, non già quelli, che si chiamano gobbi; e che perciò li avea sì malamente trattati, e li avrebbe trattati peggio, se non avessero urlato. Regalò loro assai bene e finalmente ne li rimandò qui in Napoli, dove arrivati, ed interrogati dall'amico del cardinale del trattamento ricevuto, gli raccontarono tutto l'accaduto su di essi. Non potè fare a meno di ridere smascellatamente l'amico corrispondente per l'equivoco avvenuto.»—
LA NOVELLA DEL SIGNOR DONATO.[1]
La Novella del signor Donato? Io non la vo' dire, bisogna, che mi preghiate. Se mi pregate di molto, ve la dirò[2]. C'era una volta marito e moglie, che avevano la serva. Dunque, la padrona andava di fori: sapete bene, quando c'è la serva. Nel mentre che lei faceva le faccende, un topo sale sul prosciutto del padrone e gnene rodeva. La prende il gatto, perchè lo mangi questo topo:—«Oh»—dice—«che fai tu, che non lo mangi?»—Il gatto gli era rimasto attaccato a il topo, proprio attaccato, non veniva più via. Grida la serva:—«Eh, vien via!»—Lo acchiappa per la coda e rimane attaccata anche lei. Siccome questo prosciutto rimaneva sur una terrazza, che dalla strada si vedeva, torna a casa la padrona, e di quì si volta e vede la serva e gli dice:—«Oh che stai tu qui a fare, grulla, invece di fare le faccende?»—«Ah! signora padrona!...»—«Animo, animo!»—La vien su; l'apre;—«Vien via!»—la gli dice; la scuote; e rimane attaccata anche lei. Eccoti torna il signor Donato e vede quelle donne:—«Che state a fare quassù?»—dice.—«Abbi da sapere,»—dice la moglie—«che la serva l'ha visto mangiare il prosciutto da un topo. L'ha messo il gatto e l'è rimasto attaccato. La lo gridava: Vien via! l'è rimasta attaccata anche lei. Io son torna; dicendo: Vien via! son rimasta attaccata anch'io. Vedi, veh!»—«Animo,[568] sciocche!»—dice il signor Donato; le scote e rimane attaccato anche lui[3]. Eccoti il tempo che il topo gli vien voglia di fare il suo bisogno. La fa, con rispetto, in bocca a il gatto. Il gatto la fa in bocca alla serva. La serva la fece in bocca alla padrona. La padrona la fece in bocca a il signor Donato. E il signor Donato? In bocca a chi m'ha pregato. La novella dice così: io non ci ho colpa.
NOTE
[1] Cf. Pitré. (Op. cit.) CXXXVI. Li vecchi.—Bernoni. (Op. cit.) Na giornata de sagra. Il Liebrecht annota:—«Vgl. Grimm K. M. n.º 64 Die Goldgans.»—Questa novellina è una goffaggine, lo veggo bene anch'io da me. Ma la goffaggine popolare, le goffe invenzioni della fantasia nazionale, importano anch'esse allo studioso, alla demopsicologia. Dello stesso genere, o brutto o bello che piaccia chiamarlo, è la seguente novella milanese.
LA REGINNA SUPERBA
Gh'era ona Reginna, che l'era molto superba; e, in quel temp, che regnava sta Reginna, i stronz parlaven. Donca, el fioeu de sta Reginna, l'ha tolt mièe; e la Reginna sta soa nœura le piaseva no, perchè l'era minga de sangu real come voreva lèe. Gh'aveven on bellissem giardin; e lee, savend minga come perzipità[i] sta soa nœura, l'ha pensàa d'andà a fà el so bisogn in giardin. El Re, passeggiand, l'ha vist sta porcaria e l'ha ciamàa tutt la gent de servizi a dimandagh chi l'è, che l'ha fatt sta porcaria. Lor saveven no; han seguitàa a digh, ch'eren innocent, che saveven nient. E la Reginna:—«T'hê tolt ona donna ordinaria? e sarà stada lèe, che l'è andada là, a fà sta robba.»—Allora el Re, l'ha mai podùu savè nient, el voreva andà al fond de sta robba, el fa mett tutt in procession sta gent de servizi e poeu l'ha ditt a la mader:—«Cara mader, bisogna, che la vaga lee insemma a la gent de servizi[569] e mi e mia mièe.»—Lee, la mader, l'ha vorùu vede veso l'ultima, sperand che el Re l'avess de dì:—«Basta! basta!»—l'avess de stufiss. Donca, ha cominciàa la gent de servizi:—«Stronz, bel stronz, chi t'ha fàa?»—ghe diseven i gent de servizî a vun a la volta. E lu, el respondeva:—«Minga ti.»—Vegneven tutt i alter servitor; e lu, el diseva semper:—«Minga ti, minga ti.»—de meneman[ii] che passaven. Ven al Re. El Re, l'è andàa là anca lu, per dà soddisfazion; el ghe dis:—«Stronz, bel stronz, chi t'ha fàa?»—Semper:—«Minga ti.»—Passa la sposa, e anca quella ghe dimanda:—«Chi t'ha fàa?»—«Minga ti.»—Allora la veggia la saveva minga come fà, la s'è tirada su tutta, l'era on pòo agitada, e allora la ghe dis:—«Stronzellino, bel stronzellino, chi t'ha fatto?»—Lee, in del so coeur:—«El me dirà minga, che sont mi!»—E lu, el ghe rispond:—«Ti, veggia porca.»—Allora, el Re, perchè el gh'aveva dett a tutti:—«Chi l'è stàa, soo mi el castigh, che ghe daròo!...»—e la mader gh'è vegnùn fastidi del dispiasè...: e el fioeu, poeu, allora, send la mader, el dis:—«S'ciao! bisogna metti sott al silenzi sta cossa!»—L'ha minga vorùu castigalla. Ma del rest, lee, la gh'ha avùu semper la vergogna in faccia a la gent de servizi d'avè fàa sta porcaria; e inscì la soa superbia, perchè l'era tant superba, l'è stàda castigada.
Il medesimo argomento, ma senza lo elemento fantastico, che da tanto umorismo alla precedente novelletta milanese, è trattato da Tommaso Costo nella V. Giornata del Fuggilozio.
= Aveva un ricco speziale molti garzoni; l'uno de' quali, avendo una sera a cena mangiato soverchio, gli venne poi a mezzanotte una furia di corpo siffatta, ch'ei fu costretto alzarsi dal letto bene in fretta. E, corso all'uscio della bottega, quivi, senza rispetto alcuno, si scaricò il ventre. Del che avvistosi poi la mattina lo speziale, come quegli, che si levò più per tempo degli altri, tutto adirato verso i garzoni, dimandò chi fosse stato di loro. Ma negando tutti, diss'egli:—«Adunque sarò stato io. Orsù, voglio essere il primo a por le mani in quella bruttura. Ajutatemi tutti, che a un po' per uno la sgombreremo ad un tratto via.»—Ciò sentendo i garzoni, tutti quelli, che erano innocenti, con mal volto e mormorando si moveano mal volentieri a farlo. Ma quegli, che aveva fatto il male, per parere ubbediente[570] e guadagnarsi l'animo del padrone, disse:——«Ben dice messere; e voglio essere il primo io a porvi le mani.»—Allora lo speziale, come accorto, disse:—«Ah furfante, ribaldo! tu, che volentieri alla penitenza t'offerisci, dimostri esser senza dubbio l'autor del peccato.»—E così, a suon di buone bastonate, fece fare il tutto a lui, e poi lo cacciò. =
[i] Perzipità o Parzipità. Quanto a Precipità, secondo il Cherubini, si adopera solo nel senso di far le cose frettolosamente e male (acciabattare).
[ii] De meneman. Di mano in mano.
[2] Questa novella appartiene al genere, che si chiama dei Chiapparelli, perchè con essi si acchiappa, si burla, chi ci prega di novellare. Eccone per esempio un altro de' Chiapparelli fiorentini, somministratomi dal D.ͬ Giuseppe Pitré ed intitolato: Il Gallo. Avanti di raccontarlo, il novellatore si fa promettere una noce:—«C'era una volta un gallo; questo gallo gli scappò. Passò una donna. O quella donna, avete visto il mi' gallo?—No, 'un l'ho visto. Passò un omo. Quell'omo, avete visto il mi' gallo?—Sì, l'ho visto, sur un monte, che cantava con una bella voce, E merda in bocca a chi m'ha promessa la noce.»—Chiapparelli sono pure i due seguenti milanesi:
L'OMM APÔS AL DOMM
Ona volta gh'era on omm
Apôs[i] al domm,
Cont el gerlett in spalla....
Ma tasii s'hoo de cuntalla.[ii]
L'OMM, CHE ANDAVA A ROMMA
Ona volta gh'era on omm e ona donna,
Che andaven a Romma;
Gh'è andaa on moschin in del cuu,
Hin borlaa giò[iii] tutt e duu.
Genere diverso di chiapparelli è quello, di cui può dare un'idea la seguente novelletta milanese:
EL GESSUMIN.[iv]
Ona volta, gh'era on giovin; el vorreva tœu miee. Sicchè, ghe disen che gh'è tre tosann, s'el voreva vedej, ch'el menaven a vedej: el podeva fa la scelta de quella, che ghe piaseva pusee. El va là in casa e ghen fan vegnì de bass vunna. La ven giò e la dis:—«O, che dolor de vitta! o che dolor de rênn! o che mal!»—«Cossa la gh'ha?»—el ghe dis, lu.—«Ah, caro lu, la me donna de servizî, la m'ha miss el lenzœu invers; el pont—sora del lenzœu, el m'ha faa tant mal, che sont chì tutta mezza ruvinada.»—Lu, el dis:—«Questa, l'è minga bonna per mi, l'è tropp delicada!»—Ven giò l'altra tosa con la testa in man; e la dis:—«Ah che dolor, che dolor de testa!»—E lu, el dis:—«Cossa la gh'ha?»—Ah, s'el savess! La mia donzella, per pettinamm, la m'ha strappaa on cavell; e mi gh'ho tutta la testa ruvinada.»—E lu:—«Anca quella»—el dis—«la fa minga per mi.»—Ven giò on'oltra, tutta zoppa. El dis:—«Cossa la gh'ha a quel pè, che ghe fa inscì mal?»—«Ma, caro lu, sont stada in giardin; e m'è andaa on gessumin[v] sul pè.»—Lu, el ghe dis al so amis:—«Caro ti, gh'han de quij difett, che per mi fan no. Sent, dimm on poo ti, qual'è quella cossa, di quij trii lì, che po fa men mal?»—E lu, el so amis:—«El pontsora, el po anca fa on poo mal; el cavell, l'istess: strappà on cavell! Ma el gessumin! Chi fa men mal, l'è el gessumin.»—E lu, allora, el ghe rispond:—«Tanta merda in sul to bocchin.»—
Questo giovane inussoraturo (per italianizzare un vocabolo napoletanesco 'nzoraturo, coniato dal Basile e che risponde perfettamente al jeune homme à marier de' francesi), sdegnato con l'amico, gli dà i monnini.—«Dare i monnini.... vuol dire, quando uno, parlando con un altro, lo forza a dir qualche parola, che rimi con un'altra, che a quel tale dispiaccia. Per esempio, il Giraldi disse ad un chierico: Non fu mai gelatina senza.... e qui si fermò, fingendo non si ricordare della parola, che finiva il verso. Ed il chierico, il quale ben sapeva la sentenza, gliela suggerì, dicendo: senz'alloro. E il Giraldi soggiunse:[572] Voi siete il maggior bue, che vada in coro[vi]»—Ci sono molti racconti popolarli, ne' quali si obbligano così gli uditori a profferire una parola, per dir loro villania o per lasciarli burlati e delusi. Ecco tre esempî di queste goffe facezie, di due provincie lontanissime d'Italia, cioè due milanesi, l'altra napoletana.
FATTA, SALADA E SCOA
(Milano)
Il Narratore.—Gh'era ona volta tre tosann. Vunna la gh'aveva nomm Fatta; l'altra, Salada; e l'altra, Scoa. La mamma de sti tre tosann, la ghe dis a quella Fatta:—«Famm la minestra.»—E ghe le fa fatta fatta fatta. Alora lee, la ghe dis a quella Salada:—«Famela ti, Salada.»—E ghe le fa salada salada salada. Alora la ghe dis a quell'altra.... Comme la se ciamma?...
Un uditore.—Scoa.
Il Narratore.—Merda in bocca toa.
'NZOGNA, 'RASSO E STOPPA[vii]
(Pomigliano d'Arco)
Il Narratore.—'Na vota nce steva 'na mamma, ca teneva tre figlie. Uno sse chiamava 'Nzogna, uno 'Rasso e 'n'ata Stoppa. 'Nu juorno 'a mamma sse moreva 'e fridde. Chiammava 'ô primmo; dicette:—«Appicceme 'nu poch' 'e fuoche, ca i' mme moro 'e fridde.»—Le dicette:—«Io so' 'Nzogna; mme stegno.»—Chiammava 'ô secondo; dicette:«—«'Rasso, vene mm'appicce 'nu poch' 'e fuoche.»—Chille dicette, ca era 'Rasso e sse squagliava. Chill'auto.... comme sse chiamma?...
Un uditore.—Stoppa.
Il Narratore.—E chisso naso 'nculo mme 'ntoppa.
EL PEGORÉE[viii]
Il Narratore.—Ona volta gh'era on pegorée, che l'è andaa cont i pegor per dagh de mangià in campagna; e l'era de passà[573] d'on'acqua; e l'ha ciappaa i pegor a vunna a vunna per portaj de là.....
Un uditore.—E poeu? Va innanz!
Il Narratore.—Quand ch'è passàa i pegor, andaroo innanz a finill.
[i] Apôs, dietro, dopo, forse dal post latino. In alcune parti di Brianza, apoeus. Regge il dativo: apôs a l'uss.
[ii] Variante: Cont el s'ciopp in spalla.... Hoo de dilla o de cuntalla? Ne ho pubblicate parecchie versioni delle Provincie Meridionali nel mio Saggio di Canti popolari delle Provincie Meridionali. Vedi Pitré. (Op. cit.) CXLI Lu cuntu di lu Varveri.
[iii] Borlà giò, cascare, tomare. Bandello, p. I, n. II:—«Quando l'averà a le stelle levato, mossa da naturale instabilità, quello lascerà tomare fin ne l'abisso.»
[iv] Il Liebrecht annota:—«Vgl. Schnaller, N.º 45.»
[v] Gessumin, gelsomino, giasmino.
[vi] Annotazioni al Malmantile. Cantare I. Stanza XLIV.
[vii] Cf. Pitré. (Op. cit.) CXXXVII. Parrineddu.
[viii] Vedi nel Novellino, dove conta d'un novellatore di Messer Azzolino. Cf. Pitré. (Op. cit.) CXXXVIII.—La Truvatura. Vedi nelle Oeuvres complètes | de | E.F. de Lantier | Précédées | d'une notice biographique et littéraire | Paris | Auguste Desrez Imprimeur Editeur. | Rue Neuve—des—petits—champs N. 50 | MDCCCXXXVIII, tra' Contes en vers, quello intitolato Le Conte interrompu. Stefano Francesco di Lantier nacque in Marsiglia il primo d'ottobre MDCCXXXIV e vi morì di XCII anni, il trentun gennaio MDCCC.XXVI. Lo ricordo, perchè, cultore sfegatato degli studi italiani, ha evidentemente tolto dal Novellino il tema del suo racconto.
[3] Per gli appiccicamenti, confronta la favola Mercurius et Mulieres, ch'è tra le XXX fedriane, e manuscripto Bibliothecae Regiae Neapolitanae codice nuper editae. Delle due donne, l'una, madre di un lattante, implora di veder presto barbuto il figliuolo; quaestus placebat alteri meretricius, che prega ut sequatur sese quidquid tetigerit:
Volat Mercurius. Intro redeunt mulieres:
Barbatus Infans, ecce vagitus ciet.
Id, quum meretrix forte ridet validius,
Nares replevit humor, ut fieri solet.
Emungere igitur se volens prendit manu,
Traxitque ad terram nasi longitudinem,
Et aliam ridens, ipsa ridenda extitit.
L'AMMAZZASETTE.[1]
Fu una volta un bel giovanetto in Garfagnana, detto Nanni, il quale, per la sua mendicità, dormiva in una capanna da fieno. Quivi essendo egli un giorno per riposarsi e ripararsi dal caldo, si messe a pigliare mosche: e ne aveva ammazzate sette, quando comparve quivi una bella fata e gli disse, che, se le donava quelle sette mosche per cibare una sua passera, l'avrebbe fatto ricco. Gliele concesse egli più che volentieri; ond'ella, innamorata di questa sua cortese prontezza, lo prese per la mano e lo condusse alla sua caverna, dove, rivestitolo e datogli danari ed armi, gli pose in testa un elmo o berretta, in cui era scritto a lettere d'oro: Ammazzasette; e lo mandò al campo de' Pisani, i quali, in quel tempo, con l'ajuto de' Francesi guerreggiavano co' Fiorentini. Arrivato Nanni a detto campo, chiese soldo a' Pisani; e domandandogli del nome rispose:—«Io mi chiamo Nanni; e, per avere io solo in un giorno ammazzato sette, ho per soprannome Ammazzasette.»—Fu per questo e per esser anche ben formato, con buon soldo e con non minore stima accettato. E, sendo poi fra pochi giorni in una scaramuccia morto il capo delle truppe francesi, e volendone essi fare un altro, erano fra di loro in gran differenza, perchè, essendone proposti diversi, coloro a' quali non piacevano i soggetti proposti, gridavano Nanì, Nanì. Onde i soldati Italiani, che credettero che dicessero Nanni Nanni e che avessero creato lui, cominciarono a gridar Nanni, Nanni,[575] iva Nanni; e così, a voce di popolo, Nanni detto l'Ammazzasette restò eletto capo di dette truppe; e divenne ricco, siccome gli aveva promesso la Fata.
NOTE
[1] Tolgo questo racconto dalle celebri Annotazioni al Malmantile, nelle quali è posto per illustrare la stanza XXVII del I Cantare:
Ov'anco in breve Celidora arriva
Con armi indosso ed altre da far fette;
Perchè, una volta alfin fattasi viva,
Ha risoluto far le sue vendette;
Che l'usbergo incantato della diva
L'ha fatta diventar l'Ammazzasette;
Ed alle risse incitala talmente,
Ch'ella pizzica poi dell'insolente.
Ecco poi quattro lezioni milanesi del racconto:
I. EL SCIAVATTIN[i]
Ona vœulta, gh'era on sciavattin[ii]; sicchè, on dì, l'era tant stuff de fà el sciavattin, el dis:—«Adess vœuri andà a cercà fortunna.»—L'ha compràa ona formagginna[iii] e l'ha missa sul tavolin. La s'è impienida de mosch e lu l'ha ciappâa ona sciavatta, el gh'ha dàa ona sciavattada[iv] e i ha mazzàa tutti.[576] Dopo i ha cuntàa, cinqcent eren mazzâa e quattercent n'ha ferii. Dopo l'ha miss on sciabel cont in testa ona lumm[v] e l'è andàa a la cort del Re, e el gh'ha ditt:—«Io sono il capo guerriero delle mosche, quattrocento n'ho ammazzate e cinquecento n'ho ferite.»—El Re, el gh'ha ditt:—«Subet che te set on guerriero, te sarèe bon de andà su quel mont, che gh' è su dùn maghi, e t'i mazzaret. Se t'i mazzaret, te sposaret la mia tosa.»—El gh'ha daa la bandera bianca; e quand i ha mazzàa, d'espònela:—«e te sonaret la tromba. Te mettarèe la testa denter in d'on sacch, tutt dò i test, per fami vedè a mì.»—Donca, lu, l'è andaa su; e l'ha trovaa ona casa: sta tal casa l'era on' ostaria: gh'era marì e mièe, che eren poeu sti maghi. L'ha dimandàa alogg e de mangià e tutt insomma. Dopo, l'è andaa in d'ona stanza: prima de andà in lett, l'ha guardàa per aria. Gh'era ona gran pioda[vi] de sora al lett; e lu, inscambi d'andà in lett, el s'è miss in d'on canton. Quand l'è stàa ona cert ora, i maghi han lassàa giò sta pioda e l'ha schisciàa tutt el lett. A la mattinna, el va de bass; el gh'ha ditt, che l'ha mai podùu dormì per el gran fracass. E lor gh'han ditt, che ghe cambieran la stanza. Sicchè, la sera, l'è andaa in stanza e l'ha guardaa e gh'era anmò sta pioda. E lu, el s'è tiraa in d'on canton. E quand l'è staa ona cert'ora ancamò come prima, l'han lassada giò. A la mattinna, el va de bass, el ghe dis anmò che l'ha mai poduu dormì per el gran frecass. E lor gh'han dit ancamò, che ghe cambieran la stanza. Quand l'è staa ona cert ora, hin andaa in del bosch marì e mièe a tajà on fass de legna. Dopo, hin vegnuu a cà; e lu, l'ha preparàa ona folc[vii] e el gh'ha ditt:—«Spettè, che ve jutti mi a tirà giò el fass.»—E lu, el sciavattin, el gh'ha dàa ona folciada, l'ha tajàa via el còo al mago. Dopo, la va a casa lee; e lu, l'ha fàa l'istess, l'ha cattaa via el coo anca a lee, la maga. Dopo, l'ha spiegàa la bandera e l'ha sonàa la tromba, e gh'è andaa contra la banda a ricevel[viii]. Dopo, l'è rivàa a la[577] cort; el Re, el gh'ha ditt:—«Adess che t'è mazzàa ì dùu maghi, te sposaret la mia tosa.»—Sicchè lu, l'è andàa in lett, dopo sposada; e l'era tant sueffaa a tirà el spagh, ch'el gh'ha dàa i pugn a la mièe; e lee, l'ha vorun pu dormì insemma. E el Re, el gh'ha dàa tanti danee e l'ha mandaa a casa.
II. EL SCIAVATTIN
Ona volta, gh'era on sciavattin, che, stuff de tira el spagh, el pensava la manera de fà fortunna. Intant ch'el stava lì col nas per aria a cuntà i travitt, el s'era desmentegàa, che l'aveva miss sul banchett ona basla de lacc; e i mosch, perchè l'era d'estàa, hin andàa in gran quantità sul lacc, tant che l'era deventàa tutt negher. Alora, lu, el se accorg de sta robba, e el se alza su tutt infuriàa, e el slarga la man come fan i ciappamosch e giò on gran colp. Tanti hin scappàa, ma ona bona parte gh'hin restàa in di man. Alora gh'è taccàa de cuntaj: eren cinqcent. Cosse l'ha fàa lu alora? L'ha fàa on gran cartellon con su scritt: Con una mano ne masso cinquecento. Poeu l'ha taccàa sto gran cartellon foeura de la botega. Avii de savè, che, in quel temp, el Re, el ghe aveva ona gran guerra cont on so visin. Ma l'era semper stàa battùu, tant che on dì, ch'el scappava, l'è passàa cont el so seguit denanz a la bottega del sciavattin e l'ha vist sto gran cartellon. El Re, l'ha mandàa subet a ciamà; e lu, tutt stremii per paura, ch'el ghe fass quajcossa, e anca vergognôs de trovass a la presenza de soa Maestà, l'è cors là subet.—«L'è vera, che voi con una mano ne massate cinquecento?»—«Si»—el respond, lu, tutt tremant. El Re:—«Ve sentireste el coraggio d'andare a combattere i[578] miei nemici?»—El sciavattin, ch'el sperava de fa fortunna, da ona part el gh'aveva paura, e dall'altra el dis:—«Tant l'è l'istess: morì o seguità a fà el sciavattin non savaria qual'è el peggior di mai. Mi tenti!»—E, alora, el ghe rispond al Re:—«Sì, Maestà. Ch'el me daga on cavall, che mi vòo subet a fà scappà tutt i so nemis.»—«Bene»—el Re—«se voi riuscite, io vi darò in sposa la mia figlia.»—Ditto fatto, el sciavattin, el monta a cavall, che quasi l'era gnanca bon de sta su; e cont ona gran bandera, dove gh'era scritt: Con una mano ne masso cinquecento, l'è andàa incontra al nemis. El nemis, ch'el ved arrivà costùu, e che el legg sta gran bandera, l'ha cominciàa a ciappà paura; e poeu, de meneman ch'el sciavattin el vegniva innanz, han cominciàa a scappà, i nemis; e in men de quella ghe n'era pu gnanca vun. El Re, ch'el ghe vegniva adrèe a la lontana, quand l'ha vist sta poca fotta, l'è cors anca lu a juttà el sciavattin. E quand di nemis ghe n'è stàa propi pu nessun, hin tornàa a cà; e, el dì dopo, han fàa el sposalizî co la tosa del Re. La prima sera, ch'hin andàa in lett i dùu spôs, el sciavattin l'era tutt content. Ma, quand el s'è indormentàa, el s'è insognàa de vess ancamò al banchett, sicchè el ghe menava pugn de lira a la soa sposina. Questa chi, a la mattinna, l'è andada tutta piangenta dal sô papà a lamentass; el qual, non savend come combinalla, l'ha ordinàa, che i dùu spôs dormissen in dòo stanz. E l'è per quest, che i Re e i gran sciori no dormen minga insemma marì e mièe.
III. EL SCIAVATTIN
Gh'era on sciavattin, che l'era al banchett[ix] a lavorà. E el gh'aveva on formaggin. E, sto formaggin[x], ghe andava su tanti mosch, e lu, n'ha mazzàa tanti, ch'el diseva:—«Cent i ho mazzàa e cent i ho de mazzà.»—La gent sentiven a dì:—«Cent i ho mazzàa e cent i ho de mazzà.»—Gh'han ditt, se l'era bon de andà a toeu la città de Casti. E lu, el gh'ha ditt de dagh on cavall, ch'el saria andàa a toeu sta città. E lor gh'han daa on rozzon[xi] d'on cavall, on cavallasc come se sia. El saveva nanca fa a sta a cavall e l'andava come un desperàa.[579] E veden a vegnì sto matt, ch'el diseva:—«Cent i ho mazzàa e cent i ho de mazzà;»—e gh'hin cors a la contra subit, cont i ciav de la città de Casti. In del vegnì indrèe, l'è passàa d'on sit; e là gh'era on mago. E là, sto mago, l'ha ciappàa e l'ha miss in d'ona stanza, e el ghe dava minga de mangià. El mago, el ghe dis:—«Voj! ven chì. Mi gh'hoo ona balla inscì grossa: se ti te see bon de ciappà sta balla chì e de buttalla fina in del mar, mi te lassi andà.»—Lu l'ha ciappàa sta balla, l'ha avùu forza assee de buttalla in del mar. Adess, el sciavattin, el dis:—«Ti te dee fa quel, che te disi mi. Adess de mi e ti emm de guardà chi l'è, che l'è pusèe fort de tirà giò sta pianta.»—E là s'hin miss adrèe con sta pianta, per tralla giò. El sciavattin, el ghe dis:—«Spetta, che andaròo su de la toa mièe e ghe diròo de damm la folc.»—El va de sora de la soa mièe e el ghe dis, el sciavattin:—«El m'ha ditt inscì el so marì, de damm la ciav del secretér[xii].»—E lee, la va a la finestra e la ghe dis al so marì:—«Voj! hoo de daghela?»—E lu, el gh'ha ditt:—«Sì, sì, dàghela, dàghela in pressa.»—Lu, el sciavattin, dopo l'è andàa al secretèr e l'ha portàa via tutti i danèe, che l'ha trovàa. Lee, la mièe, la credeva, che fussen intès, perchè el gh'aveva ditt lu, el mago, de dagh la ciav al sciavattin; la credeva, che fussen intes de toeu su i danèe. Lu, el sciavattin, l'è andàa via per l'altra porta, l'è minga passàa, per dove l'era el mago. Lu, el mago, el ved ch'el ven no, el ciama la soa mièe, el ghe dis:—«Ma voj! te ghe l'è dada?»—«Sì, l'è on pezz. L'ha mò de vegnì?»—E lu, el ved ch'el ven no, va a vedè in dove l'è. El ghe dis a soa mièe:—«Ma com'è? el gh'è in nissun sit? Cossè l'è, che te gh'hê dàa?»—«La ciav di danèe.»—«Ah poverà mi! l'era la folc, che ti te gh'avevet de dà, minga la ciav. Pover a mi! adess dov'hoo de andall a toeu?»—Guarda de chì, varda de lì, el sciavattin l'ha minga podùu trovà pu. Lu l'ha ditt:—«Invece de andà a quistà la città de Casti, hoo quistàa di danèe de viv.»—
IV. EL SCIAVATTIN.[xiii]
Gh'era on sciavattin, che l'era tolt ona formagginna; e la s'è impienida de mosch. L'ha ciappàa ona sciavatta e i ha schiscià[580] tucc. E poeu, l'ha ciappàa on fer e i ha fàa saltà foeura a vunna a vunna: e i ha cuntàa. E poeu l'è andàa atorna a vosà per la cittàa. El diseva: Giovanni Vedino n'ha mazzàa cincent in d'on colp sol; cont pusèe ghen fuss stàa, cont pussèe[xiv] ne averia mazzàa. E el Re, l'ha faa ciamà; e el gh'ha ditt, se el voreva andà a caccia la matinna adrèe insemma a lu. E lu, sto sciavattin, el gh'ha ditt de sì. E aveven de andà a ciappà do besti, che aveven mai podùu ciappaj. Sto sciavattin, quand l'è stàa a metà strada, l'ha dett: Vialter andèe giò de chì e mi voo giò de lì. E sto sciavattin, quand l'ha vedùu a vegnì ona bestia, l'ha buttàa via el s'ciopp e l'è scappàa in su ona pianta. Sta bestia, l'ha fàa per corregh adrèe; e gh'era foeura on legn de la pianta e sta bestia l'è restada taccada su. Lu, allora, el s'è fàa coragg de vegnì giò. Dopo, l'è andàa innanz on poo; e l'ha vedùu a vegnì l'altra bestia. E gh'era li ona casa con denter duu uss. E lu, l'è andàa denter in de sta casa; e l'ha fàa per andà denter sta bestia; e lu, l'ha sarada denter. È vegnuu el Re; el gh'ha ditt, se i ha ciappàa. E el sciavattin, el gh'ha ditt de sì; e el gh'ha ditt:—«Vunna l'hoo ciappada per la coppa e l'hoo taccada su quella pianta; e l'altra l'hoo ciappada per l'oreggia e l'hoo missa denter in quella cà.»—E dopo, lu l'era de sposà la tosa del Re, perchè l'ha ciappàa sti besti. E el dì adrèe, eren de andà a prend la cittàa de Casco. E a la nott, el s'insognava, che l'era adrèe a tirà el spagh; e el gh'ha dàa i pugn a la soa mièe, che l'era la tosa del Re. A la matinna, el sciavattin, l'è andàa a cavall per andà a toeu la cittàa; e, perchè el borlava giò, el continuava a dì: A casco. E i alter ghe dimandaven, se el borlava giò; e lu, el diseva, che l'andava a toeu la cittàa de Casco. Dopo de lì a on poo, l'è borlàa giò; e in quel menter passava ona legora; e el gh'ha ditt, che l'è vegnùu giò apposta per ciappalla. Innanz a on poo de strada anmò, l'è tornàa a borlà giò e gh'era ona crooz. E gh'han dimandàa, se el s'era faa mal: e lu, el gh'ha ditt, che l'aveva fàa per ciappà su sta crooz. Quei de la cittàa de Casco han sentìi, che vegniva st'omm inscì fort, gh'han dàa i ciav de la cittàa e hin scappàa tutt. S'ciao.
[i] Il Liebrecht annota:—“Grimm K. M. n.º 20. Das tapfere Schneiderlein, S. zu Sicil. Maerch. n.º 41. Vom tapfern Schuster.”—
[ii] Sciavattin, ciabattino. Fà el sciavattin, oltre a fare il mestiere del ciabattino, significa anche lunediare. A proposito di ciabattini, nel cinquecento, come desumo da Celio Malespini, Duecento novelle, parte II, novella LXIV (dove narra delle nozze d'un d'essi) v'era in Milano un uso nuziale, ora dismesso:—«Acconciata che le ebbero la testa, et essendo ora di girne alla chiesa accompagnata da infinite donne; non così tosto ella fu uscita fuori del stallo, che non gli fussero d'intorno più di duecento fanciulle, gridando all'uso loro: Dove la menè? A casa del ferrèe, a conzà i colzee; alludendo ad Imeneo, iddio delle nozze; vetusto costume di quella grandissima città, che continua tuttavia e continoverà.»—
[iii] Formagginna, non registrato dal Cherubini, probabilmente diminutivo di Formaggia. Vedi pag. 578 postilla seconda.
[iv] Sciavattada, ciabattata, colpo di ciabatta.
[v] Lumm, tricorno, nicchio, cappello a tre punte, cappello da prete.
[vi] Pioda, pietra piatta e grande, lastra, lastrone.
[vii] Folc, falce. Folciada, falciata.
[viii] La povera Fattoressa analfabeta, che mi raccontava questa novella, diceva tutto con semplicità ed accennava più che descrivere l'ingresso glorioso del ciabattino nella città reale. Chi volesse tradurre la novelletta in Italiano ed ornarla di fiori rettorici di buon gusto, potrebbe avvalersi qui delle frasi, con cui un lacchè del ministero riparatore celebrava nel Nuovo Friuli l'ingresso del Presidente del Consiglio in Udine nell'Ottobre M.DCCC.LXXVI, degne proprio d'esser tramandate a' posteri come saggio di servilità democratica.“—Come descrivere adesso, colla fretta e furia di mandar fuori il giornale, e col proto inesorabile alle reni, che viene a strapparci le cartelle di mano prima che sieno interamente coperte di scrittura—come descrivere adesso l'ingresso per il maestoso borgo Acquileja! Non è fare una frase rettorica, se diciamo che fu un vero ingresso trionfale. Un popolo immenso, che mischia la sua voce poderosa ai concenti della musica, un agitarsi di fiaccole, una fila di carrozze precedute da un gruppo di bandiere, una luce continua, vaporosa, di fuochi bengalici rossi, verdi, violetti, che si riflettono sulle faccie delle case. Immaginate, ampliate, colorite, quanto volete, e avrete una pallida idea dell'ingresso di Depretis a Udine.”—
[ix] Banchett, deschetto, banchetto.
[x] Formaggin, caciolo, formella di cacio. V. pag. 575 postilla terza.
[xi] Rozzon, rozzone, rozzaccia. Cavallasc, manca al Cherubini.
[xii] Secretér (da Secrétaire, francese), segretario, cioè armadio e scrivania nel contempo.
[xiii] Questa variante è gallaratese e vi si notano alcuni idiotismi particolari a quella città.
[xiv] Vedi pag. 201 del presente volume la nota (2) alla Novella XIV di questa raccolta.
LA NOVELLA DEL SONNO.[1]
Nella provincia di Genova si trovava una vedova, che aveva tre figli, che si chiamavano Francesco, Tonino e Angiolino; e Angiolino sempre voleva dormire, quasi non che la notte, ma tutto il giorno. I fratelli principiarono a rimproverare la madre, dicendo così:—Madre, non si può più andare avanti con nostro fratello. Dunque voi pensate quello, che si può fare, perchè noi siamo molto sdegnati contro di lui.»—La madre, che è tenera pe' figli, principiò a dir loro:—Figli miei, io non lo posso discacciare, perchè è figlio come voialtri. Proviamo a dargli moglie e allora si sveglierà.»—Ed i fratelli l'accordarono. Prende moglie Angiolino. E, arrivato la mattina ad alzarsi, la moglie si voleva alzare; ma lui gli disse:—E Cosa fai?»—E la Carolina soggiunse:—«Mi voglio levare, acciò che i tuoi fratelli non abbiano a gridare.»—«No, fintanto che non m'alzerò io, non ti devi movere di qui.»—E i fratelli stavano ad aspettare, che si levassero; ma l'aspettare fu assai, che in fino a ora di pranzo non apparirno in sala. Allora i suoi fratelli sdegnati, così dissero a sua madre:—«Per l'indietro era solo, e adesso sono due. Noi ci si vol partire[2].»—E così decisero di mandargli via. Angiolino e la Carolina presero la sua roba e s'incamminarono verso la città del Modanese, capitale del Regno. Ma in breve consumarono tutto il suo, e furno[582] costretti a ritirarsi in un piccolo villaggio, presso un fiumicello, che di là passava. Un giorno, che non avendo[3] da mangiare, disse alla Carolina così Angiolino:—«La fame mi ha fatto passare anche il sonno. Ma ho pensato. Quaggiù, nel fiume, ci è dei pesci; voglio andare a pescare, per vedere, se posso fare fortuna.»—Ciò detto, prese la rete e si partì. Giunto nel fossicello, gettò la rete nel fondo di un recinto di acqua e la tirò su.—«Oh dio!»—esclamò:—«che pesce mai è questo?»—Tornasene subito a casa, dicendo:—«Guarda, Carolina, che pesce ho trovato.»—Risponde la Carolina tutta piena di gioia:—«Andiamolo a vendere; e allora potremo comprare del vivere per un pezzo, perchè è una meraviglia, che nessuno ne pole aver veduto un simile.»—«No,»—rispose Angiolino con voce supplicante verso la moglie, che languiva:—«Io lo voglio andare a regalare a i' Re.»—E così ambedue s'incamminarono verso la città. Giunti che furono dentro alla porta, di novo lei lo esortava a volerlo vendere, dicendo, che si poteva levare il sonno più presto che andare da i' Re.—«Ma io ho disegnato di portarlo a lui e non lo voglio vendere.»—E la cara consorte fu costretta a restare a bocca asciutta e fori della porta. Angiolina arrivato però al primo ingresso del palazzo, ritrovata la prima sentinella, gli dimandò:—«Dove vai? e che vôi?»—«Io vado da i' Re a portargli questo regalo. Si pole?»—Soggiunse la sentinella:—«Se tu mi darai la metà del premio, ti lascerò passare: se non altrimenti, poi ritornare di dove siei venuto.»—Allora Angiolino, attirato dall'ingordigia del sonno, perchè non aveva potuto dormire quanta gli era parso, non ripensò all'inganno dell'infame soldato: raccordò e tirò via. Arrivato perciò alla cima della ritorta scala, trova ancora una seconda guardia.[583] Questa lo interroga, di che vada a fare da i' Re. Lui rispose:—«Io sono per fargli un regalo. Di', che ho trovato un pesce, che non ne degno che lui.»—«Come! è dunque una rarità?»—«Sì,»—Angiolino replicò.—«Ma, se non mi dai la metà del premio,»—disse la guardia,—«che ti darà, non ti lascio percorrere più avanti.»—Angiolino l'accordò e tirò via. Giunto che fu alla sala d'aspetto, che ci era la terza sentinella, subito gli domanda:—«Che vole?»—Rispose:—«Io voglio parlare a i' Re.»—Ma il soldato, avvisato già dalla prima sentinella, subito gli domandò della parte del denaro, che gli dava il Re. Angiolino, che già aveva pensato come fare, gli accordò tutto e fece passare parola a i' Re. Subito fu fatto passare. Arrivato Angiolino dinanzi a Sua Maestà, gli presentò questa meraviglia; e i' Re, veduto il pesce, esclamò:—«Dove mai hai tu trovato questo?»—Allora fu chiamata la Regina, chè anch'essa lo vedesse. I' Re soggiunse:—«Dimmi qualche cosa te; di', che gli devo dare in premio di dono così grande.»—«Gli si pol dare cento scudi adesso e in seguito si aiuterà.»—Angiolino rispose, poi che fra sè pensò:—«Questo dono non l'accetto.»—«Oh! dunque, che cosa vôi?»—«Io voglio cento staffilate.»—«Come! siei matto o lo fai?»—Rispose la Regina:—«Dagli cento scudi e mandalo via questo citrullo.»—«Io ho già detto, che voglio cento staffilate,»—disse Angiolino:—«e, per intender meglio, cento nerbate.»—Dice il Re:—«Eh! se le vôi, te le darò.»—Fece chiamare quattro soldati; e gli ordinò, che preparassero tutto quel, che ci voleva, per dargli le busse in sala, acciò che tutti potessero vedere senza moversi da sedere. In un momento fu tutto portato e messo in esecuzione, e tutti sclamarono:—«Questo è matto!»—Allora dice il Re:—«Pigliate quest'omo e gli darete cento staffilate.»—«Sì,[584] è giusta,»—dice Angiolino:—«ma una grazia.»—«Che grazia vôi?»—«Mi deve mandare a chiamare la prima sentinella.»—Subito fu chiamata; e, in presenza sua, gli fu domandato ad Angiolino,—«cosa voleva da lui?»—Dice:—«Voglio da questo ribaldo, che gli sia dato la metà del premio, che Lei mi darà, Sua Maestà. Dunque io ho preso questo premio, è di ragione che l'abbia mezzo.»—Maravigliata tutta l'udienza, ma accertati del fatto, fu messo sotto la sentinella, ed a suo scorno gli furon date cinquanta nerbate: e a quelle percosse saltava come un capretto. Servito che fu questo, fece chiamare la seconda sentinella, e così dicendo Angiolino:—«Ancora questo infame mi voleva mandare addietro, se non gli promettevo un quarto del premio. Gliene siano date venticinque.»—E così fu fatto.—«Ancora quello della sala d'aspetto deve essere premiato.»—Questo tremava a verga, perchè aveva sentito tutto l'andamento di tutto l'affare: ad un tratto si sente chiamare e fu premiato come gli altri. Allora disse il Re:—«Ti ce ne rimane dodici anche per te.»—«Sì, è giusta,»—dice Angiolino:—«Ma io voglio vedere se trovo chi le compri.»—Ciò detto, si partì; e, giunto per le varie strade della città, trovò una bottega, dove si vendeva questi staffili. Gli domandò:—«Quanto costano questi?»—Rispose:—«Dodici paoli l'uno.»—«Io ce n'ho dodici da i' Re,»—dice Angiolino:—«Ve gli do a tre paoli.»—«Ed io gli piglio.»—«Ma bisogna, che venite con me.»—Arrivati alla sala, disse Angiolino:—«Questo è quello, che ha comprato gli staffili.»—Sorridendo il Re, dice:—«Dunque siei quello, che hai comprato?»—«Sì, Sua Maestà.»—«E quanto gli hai fissato?»—«Tre paoli.»—Disse i' Re ai soldati, che gli dassero le dodici nerbate. Quello disse:—«I' ho comprato gli staffili e non le busse.»—Ma[585] aveva detto, che gli aveva comprato; e per forza gli furon date e dovette pagare. A questo fatto tutta l'udienza accordarono che fosse premiato di cinque lire al giorno Angiolino e la moglie, e così andare a casa a stare allegramente. Angiolino si partì lieto e andò a ritrovare la Carolina. E fecero molta allegria ed una gran festa ed un bellissimo desinare; e fecero tutto l'invito dei suoi fratelli e sua madre, e tutti si godettero una tranquilla pace.
La mia novella non è più lunga:
Tagliatevi il naso e io mi taglio l'unghia.
NOTE
[1] Scritta a memoria e di propria mano da Pietro di Canestrino, bracciante del Montale—Pistojese; raccolta e comunicata dall'avv. prof. Gherardo Nerucci. Nel Fascicolo primo (15 Maggio 1835) de Le Ore solitarie, Opera periodica (Napoli) si leggeva il seguente Aneddoto firmato E. Bevere:—«Passava Re Carlo Borbone, ai tempi in che era in Napoli, per certa ccontrada, ove scontrossi in un villano, che innestava non so qual albero. Re Carlo era cortese assai, e molto amante di que' della plebe; però alcun poco fermossi a risguardarlo, e s'intrattenne eziandio con esso lui a parlare de' pregi dell'albero, aggiungendo, per sola vaghezza di spirito, che volentieri ne avrebbe mangiato il primo frutto. Or avete a sapere siccome Carlo partissi per le Spagne, e siccome fu prodotto quel tale frutto da lui addimandato. E ben pensò il rustico stivarne un paniere, ed imbarcarsi per le spagnuole terre, chè vide allora esser giunto tempo proprio al fatto suo. Quivi giunto appena, inverso le regie soglie portavasi, quando gli venne vietato l'ingresso; ma dicendo egli come e quando fosse stato dal Sire conosciuto e perchè veniva, fu lasciato passare, dopo che si costrinse cedere la metà del premio che sarebbe per riportare dalla sua gita. Ascese le scale, rattrovò un altro inciampo; e quivi pure, per liberarsene, è forzato promettere l'altra metà del premio; e però tristo il meschinello e riverente appresentossi al Rege. Benignamente da Re Carlo si fu ricevuto e assai tornò gradito il suo presente; perchè il Monarca dappoi richieselo di ciò, che sopra ogni altra cosa avrebbe bramato,[586] ch'egli l'avrebbe concesso in grazia della memoria, che di lui per tanti anni avea conservata. Ricordossi in quel momento il miserabile delle promesse fatte, e, dopo che per poco ebbe guardato il silenzio, addimandò cento bastonate. Maravigliò forte il Principe a tale strana inchiesta; però il perchè saper volle ei la facesse; e, satisfatto, non poco sturbossi; e, dato comandamento che i vili traditori sbanditi fossero da la sua casa e dal suo paese, rinviò il villano ricco di doni e di cortesie alle sue terre natali, dove ancora rammentasi un tale avvenimento.»—Racconta il Voltaire nella prefazione di Caterina Vadé ai Racconti di Guglielmo Vadé:—«Il y avait autrefois un Roi d'Espagne, qui avait promis de distribuer des aumônes considérables à tous les habitants d'auprés de Burgos, qui avaient été ruinés par la guerre. Ils vinrent aux portes du palais; mais les huissiers ne voulurent les laisser entrer qu'à condition qu'ils partageraient avec eux. Le bonhomme Cardero se présenta le premier au monarque, se jeta à ses pieds et lui dit: Grand Roi, je supplie Votre Altesse Royale de faire donner à chacun de nous cent coup d'étrivières.—Voilà une plaisante demande, dit le Roi; pourquoi me faites—vous cette prière?—C'est, dit Cardero, que vos gens veulent absolument avoir la moitié de ce que vous nous donnerez. Le Roi rit beaucoup, et fit un présent considérable à Cardero. De là vint le proverbe qu'il vaut mieux avoir affaire à dieu qu'à ses saints.»—Una delle Facezie di Arrigo Bebelio s'intitola Van dem Pfarrherr von Kalenberg:—«Sacerdos Caecii Montis in Austria, de cuius facete urbaneque dictis integri libelli perscripti sunt, cum semel principi suo, duci Austriae, donare vellet grandem piscem, non ante admissus est ingredi ab hostiario, quam promitteret ei mediam partem muneris a principe accepti. Quam ob causam Sacerdos facetissimus quidem, hominis avaritiam exosam habens, nolebat quicquam accipere a domino, nihilque aliud quam verbera expostulans, quae (cognita re) facile obtinuit. Et cum hostiarius pro sua parte caedendus astaret, clamavit ille: Ego libere pono tibi tres muneris partes, reservans mihi unam tantum, et hostiarium efflictum caedi obtinuit.»—
[2] «Cioè, vogliamo fare le divisioni del patrimonio.»—G. N.—V. pag. 599. Nota seconda alla novella Manfane, Tanfane e Zufilo.
[3] «Voleva dire: avevano, se pur non è una specie di latinismo popolare.»—G. N.
MANFANE, TANFANE E ZUFILO.[1]
C'era una volta tre fratelli; e si chiamavano Manfane, Tanfane e Zufilo. Ma Zufilo era piuttosto imbecille che nò, al paragone degli altri due maggiori dimolto furbi. Tutti questi fratelli facevano, come sarebbe a dire, l'arte di allevare capi di bestie grosse, vacche, manzi, vitelli, tori; e la mandria la tenevano in combutta, senza divisioni, ma ogni cosa assieme. Un giorno Manfane e Tanfane, che volevano diventar padroni dispotichi di tutta la mandria, senza farne parte al fratello piccolo, gli dissero con furbizia, perchè era giucco:—«S'ha a partire[2] la mandria: un rinserrato per uno; e' capi, che ci vanno dentro, saranno di chi è il rinserrato.»—Si trovaron d'accordo in sul patto e ognuno si messe di bona voglia a fare il rinserrato. Quelli di Manfane e di Tanfane erano di belle frasche tutte verdi e fronzute, e Zufilo invece scelse per il suo de' pali secchi e frasche senza foglie. Sicchè, dunque, la mandria andò tutta ne' rinserrati di Manfane e Tanfane; e nel rinserrato di Zufilo non c'entrò che una vacca magra magra, che gli si vedevano tutte le costole. Zufilo disse allora alla moglie:—«Che se ne fa di questa manza secca allampanata? È meglio ammazzarla e venderne la pelle in città.»—«Sì sì,»—disse la moglie.—«Ammazzala, si venderà la pelle a caro prezzo.»—Zufilo preso un coltello, scannò dunque la vacca. E poi la[588] scorticò. E il cojo, lo fece seccare al sole; e, quando fu ben rasciutto, se lo messe in spalla, e colla moglie andò alla città vicina. Entrato dentro, per le vie gridava:—«Una bella pelle da vendere! La vendo pelo pelo un soldo.»—Ma tutti lo pigliavan per matto; e non ci fu nessuno, che volesse comprare il cojo di Zufilo. S'era già fatto notte; le botteghe si chiudevano e i cittadini si ritiravano in casa. Zufilo disse alla moglie:—«Che ci si fa qui? Andiamo via. Tanto il cojo non c'è caso di venderlo più. Torniamo a casa.»—E s'avviano per una porta della città. Usciti fori dell'abitato, Zufilo e la moglie si trovarono per uno stradone lungo, tutto pieno d'alberi dalle parti; sicchè, cammina cammina, si fece buio fitto, e spersero la strada. Arrivati un pezzo in su, c'era un mucchio di querce; e, nel pulito, come de' sedili e delle tavole di pietra. Dice Zufilo:—«Moglie, non è capo seguitare a ire. Mi par meglio fermarsi e montare sur una di queste querce a riposare, che 'n sennonoe gli animali ci potrebber anche divorare. A bruzzolo, si ritroverà per rimetterci a casa.»—E, detto fatto, s'arrampicarono su per una grossa querce; e tra' rami s'accomodarono come gli riuscì[3]; e Zufilo aveva sempre il cojo sulle spalle. Tutto a un tratto, ecco un branco d'assassini. Accesero de' lumi; e, tirato fori de' sacchetti di quattrini, si messero a sedere e a giocare su quelle tavole di pietra. Zufilo e la moglie, tutti impauriti, badavano anche a non rifiatare, per paura d'essere scoperti e ammazzati senza misericordia. Dopo un po' di tempo, dice Zufilo:—«Moglie, non ne posso più. Ho voglia di pisciare. I' piscio.»—«Noe, per amor di dio! Se tu pisci, marito, siamo morti!»—disse la moglie sotto voce.—«Tant'è, i' 'un la reggo. I' piscio.»—E giù per le rame, Zufilo lascia ire una bella pisciata, che va a cascare sulle tavole, dove gli[589] assassini giocavano.—«Oh!»—dice uno:—«E' pioviccica. Ma 'un sarà nulla. Via via! Seguitiamo.»—E seguitano a giocare. Passa un altro po' di tempo; dice Zufilo:—«Moglie, la mi scappa. I' ho voglia di cacare.»—«Pover'a noi!»—dice la moglie:—«Ora poi, se tu la fai, siam morti davvero. Trattiella[4].»—«Cheh: i' 'un posso. I' la fo.»—E, sbottonati i calzoni, Zufilo fa 'l fatto suo. Uno degli assassini, sentendo cader roba, si volta in su e poi dice:—«È manna. Seguitiamo a giocare. Nun è nulla.»—E seguitano. Passa un altro po' di tempo; dice Zufilo:—«Moglie, questo cojo mi pesa; mi rompe le spalle. Lo butto via.»—«Ma sie' tu matto?»—dice la moglie.—«S'ha da morire scannati in tutti i modi. Ora poi non si scampa!»—Ma, in quel mentre, Zufilo lascia ire il cojo, che, secco a quel mo', giù per le rame della querce faceva un fracassìo indiavolato.—«Il diavolo! il diavolo!»—cominciarono a urlare gli assassini; e fuggi in un battibaleno, lasciando tutti i quattrini sulle tavole! Quando non ci fu più nessuno, Zufilo e la moglie scesero dalla querce; e, rammucchiato l'oro e l'argento, lo messero dentro al cojo; e, già essendo giorno, ritrovata la via, ritornarono allegri e contenti a casa.[5] Arrivati che furono a casa, Zufilo e la moglie con quel cojo pieno di quattrini, Manfane e Tanfane si divoravano dall'astio.—«O come hai fatto,»—gli dissero,—«a diventar tanto ricco?»—dice Zufilo:—«Guà! son'ito alla città e ci ho venduto il cojo della mi' vacca a un soldo il pelo.»—Allora, sentendo questo, Manfane e Tanfane dissero fra di loro:—«Anche noi si può far meglio di questo giucco. Via! ammazziamo le due più belle vacche della mandria; e se ne venderà il cojo a due soldi il pelo.»—Detto fatto e vanno alla città. E lì urla che ti urlo:—«Du' belle[590] pelli, chi le vole? A due soldi pelo pelo.»—Ed eccoti gran radunata di popolo; e lì a contrasto:—«Siete matti? Aresti a esser come quello dell'altro giorno! Aete anche cresciuto la chiesta! O che credete, che i cittadini sieno imbecilli?»—E poi improperî a' malcapitati; e finirono con rimandarli fori della porta a suon di calci e legnate, sicchè tornarono Manfane e Tanfane a casa, tutti pesti e malconci. In quel tramezzo, Zufilo n'aveva pensata un'altra dentro la su' zuccaccia citrulla. Prese un barile senza fondo e l'empì in bon dato di sterco umano, e il di sopra tutto di miele sopraffino; e, poi andato in città, si messe per le strade a gridare:—«Cacca melata bona, chi la vole?»—De' minchioni per le città ce n'è sempre! Gli disse uno:—«O che vendi?»—E lui:—«Guà! cacca melata. La volete?»—Il fatto si è, che quello comprò il barile pieno, senza nemmeno guardarlo dentro e glielo pagò per bene. E Zufilo, furbaccio, gli disse:—«Ora non posso stare a aspettare che lo votate: verrò per esso stasera, quand'io ho fatto le mi' faccende in città.»—«Sie sie, d'accordo. A rivederci!»—E chi s'è visto s'è visto. Zufilo ci ha ancora da tornare a pigliare il barile voto. Manfane e Tanfane perdono 'l capo, nel vedere Zufilo tornare sempre dalla città, carico di quattrini: astiosi, l'invidia se li mangiava vivi. Gli andarono incontro a Zufilo; e un di loro gli domandò:—«O di dove gli ha' tu cavati tanti quattrini?»—«Guà!»—rispose Zufilo:—«I' ho fatto così e così; i' gli ho presi 'n sulla cacca melata. Provatevi anche voi.»—«Sì sì, che si proverà. S'ha a fare anche meglio di te.»—E subito, accomodano due barili di sterco, ricoperto con miele sopraffino; e il giorno dopo, a bruzzolo, via alla città.—«Si vende cacca melata. Chi la vole? Ohè!»—Càpitano, per su' disgrazia, dinanzi[591] la bottega di quello, che aveva comprata la cacca melata da Zufilo; gli sente e esce fori con un randello:—«Brai Mei!»—gli dice:—«Aresti a essere della stessa genìa di quell'altro, che mi messe in mezzo. Ma, per zio, me l'avete a pagare.»—E picchia ch'i' ti picchio senza rembolare; non gli dette neanche il tempo di rispondere. Accorse gente a quel chiasso. E tutti addosso a Manfane e Tanfane, che gli ebber dicatti di mettersi a correre e scappare a più non posso, buttando via i barili. E arrivarono a casa coll'ansima e alleniti, tutti pesti e più morti che vivi. Quando si furono un po' rimessi, Manfane e Tanfane, pensavano tra di loro:—«Eppure questo giucco ci ha minchionato, e come ci ha minchionato, per du' volte. Ma gli s'ha a far pagare.»—Dice Manfane:—«Ammazziamolo.»—Tanfane però disse:—«Chè! gli è fratello. Sarebbe un peccato troppo grosso ammazzare un fratello. Piuttosto si cucirà dentro un sacco e si metterà 'n sulla spiaggia del mare, e lì o i pesci o l'acqua lo porteran via, e non se ne saprà più nulla.»—Detto fatto, agguantano Zufilo; e per forza lo metton dentro un sacco e ce lo cuciono alla rinfranta; e poi lo portano alla spiaggia del mare e lo lasciano lì. Era quasi buio e Zufilo dentro al sacco mugolava, come chi si lamenta. Eccoti un pastore con delle pecore, che le rimenava nel chiuso. E sonava uno zufilo per la via. Tutt'a un tratto sente il lamento e si ferma per conoscere di dove veniva, e vede il sacco con quell'omo dentro. Dice:—«Oh! che ci fai costì dentro? Oh! chi siei?»—E Zufilo furbo:—«Non ho voluto sposare la figliola del Re, e m'hanno messo in questo sacco sulla spiaggia del mare, finchè non dico di sì. E io non la voglio la figliola del Re.»—«Che bue!»—dice il pastore:—«Se me la dassero a me, la pigliere' subito.»—«Guà!»—gli[592] rispose Zufilo:—«T'ha' a far così. Aprimi e entra nel mi' posto. Domani tornano a sentire, se ho mutato pensieri. Se tu sei nel mi' posto, quella bella sorte toccherà a te. I' non t'avrò astio.»—«D'accordo!»—disse il pastore; e scuce Zufilo e entra in vece sua nel sacco. E Zufilo ce lo serra dentro a doppio cucito; poi piglia lo zufilo del pastore e fischiettando va via colle pecore. E il pastore rimane lì sulla spiaggia del mare a aspettare gli ambasciatori del Re. Aspetta! gli hanno ancora da arrivare! La notte venne una tempesta e portò via il sacco col pastore dentro, che non se ne seppe più nulla. Infrattanto Zufilo arrivò a casa colle pecore e zufilava da lontano. Manfane e Tanfane erano rimbecilliti a quello spettacolo. Gli pareva e non gli pareva che fosse Zufilo. Ma poi lo riconobbero quando gli fu vicino; e gli andarono incontro per sapere com'era uscito dal sacco e avesse fatto l'acquisto delle pecore. E Zufilo gli raccontò ogni cosa, sicchè quelli, disperati, di non poter vincere con Zufilo, s'ammazzarono tra di loro, e addio! E così Zufilo restò padrone d'ogni cosa e campò tuttavia in godimento per dimolto tempo.[6]
NOTE
[1] Raccolta in Prato dall'avv. prof. Gherardo Nerucci. Negli studî | sui | dialetti greci della terra d'Otranto | del | prof. dott. Giuseppe Morosi | preceduti da una raccolta | di | Canti Leggende Proverbi e Indovinelli | nei dialetti medesimi || Lecce | Tip. editrice salentina | 1870 vien riferita una leggenda di Martano, della quale trascriverò qui la versione dal grecanico, data dall'istesso Morosi:—«Una volta c'era un padre e una madre. Venne la morte; e portò via la madre e lasciò il padre con tre figli. Que' tre figli, uno si chiamava Ipazio, l'altro Antonuccio e il terzo Trianniscia, perchè era piuttosto sciocco. Cadde ammalato il padre e chiamò il figlio grande e anche Antonuccio e[593] disse: Venite, figliuoli miei, che devo accomodarvi. Io posseggo due buoi ed una vacca. La coppia buona ve la do a voi; e la vacca grama datela al Trianniscia. Morì il padre; e quelli rimasero con la coppia buona e il Trianniscia con la vacca grama. E che fece il Trianniscia? Prese e scorticò la vacca e ne buttò la pelle sopra un pero agreste. La pelle si disseccò ben bene; ed egli la legò con un filo alla sua persona e andava camminando e facea il tamburrino. Arrivò ad un canale, dove i ladri stavano spartendo molti denari. Essi udirono il tamburro e dissero: Lasciamo i denari, che vengono i carabinieri e ci conducono in prigione. E il Trianniscia li prese e ritornò a casa sua e mostrò i denari a' suoi fratelli. E i suoi fratelli gli dissero: Come facesti, fratelluccio nostro? Ed egli disse: Scorticai la mia vacca, ne seccai la pelle e la vendetti. Si voltarono i fratelli e dissero: Facciamo anche noi come fece costui? Ammazzarono i buoi, ne buttarono la pelle sopra un pero agreste e la fecero disseccare e la presero e andavano dicendo: Chi vuole pelli a cento ducati il pelo? a cento ducati il pelo? Vennero i carabinieri e li pigliarono. E quando uscirono, voleano ammazzare il loro fratello. E questo prese una cesta e andò ad un paese, da un cantiniere; e gli lasciò la cesta e disse: Non me la tocchino; che io devo andare ad ascoltare la messa. E quando ritornò, non ritrovò la cesta; perchè i servi del cantiniere l'aveano presa per mettervi dentro sterco; e cominciò a fare parole. E il cantiniere gli disse: Non parlare più che io ho cento ducati e te li dò. Quegli, quando ebbe i danari, pigliò strada e se n'andò. E di nuovo che fece? si nascose nella chiesa, entro un confessionale. Stavano sotterrando una signora; ed egli rimase la notte e aperse la tomba; trasse fuori la signora, la caricò sulle spalle e la portò fuori della chiesa. Trovò un cavallo, gli mise un basto e collocovvi la signora sopra e andò a Lecce. E di nuovo arrivò da un cantiniere, dove avea vedute tre belle fanciulle. Prese e calò la signora, e disse al cantiniere: Tenetemela bene, questa signora; lasciatela dormire, che io vò ad ascoltare la messa: non me la scoprite. E andò alla chiesa e tornò e fece mostra di averla trovata morta e incominciò a fare parole. E il cantiniere disse: Non gridare, che io ho tre figlie; pigliane una; quale ti piace? Ed egli ne scelse una, e ritornò con la bella fanciulla da' suoi fratelli. E i fratelli si voltarono e dissero: Che cosa ci ha fatto questi? Una[594] e una, due; e una tre. Pigliamolo, leghiamolo in un sacco e portiamolo al mare. E lo caricarono in ispalla per buttarlo nel mare. E arrivarono ad un muro e gittarono il sacco dietro al muro e andarono ad ascoltare la messa. Vi era un mandriano, che stava suonando la sampogna; e vide questa cosa, e venne dietro al muro e disse: E che cosa c'è in questo sacco? Rispose di dentro il Trianniscia: Vieni ed entra tu, che esco io. E il mandriano lo sciolse; ed uscì quello di là dentro e vi entrò il mandriano. Uscirono i due fratelli dalla messa, andarono e si caricarono il sacco in ispalla, e, quando furono giunti al mare lo presero e lo buttarono là dentro. E pigliavano a tornare dal mare e diceano: Ci siamo liberati di lui. Ma, quando arrivarono là, vicino al muro, trovarono il Trianniscia, che suonava la sampogna. E dissero: Trista nostra sorte! Questo è un qualche diavolo, che ci va corbellando.»—Il Morosi, dichiara di pubblicare—«Quattro leggende, tre di Martano e una di Sternatia, che altro forse non sono, se non leggende o conti italiani, entrati nel fondo greco di queste colonie, tanto più che di solito, come mi fu assicurato, si narrano appunto da' Greci stessi in italiano; e che non riusciranno, io credo, affatto inutili a chi studia nelle leggende, come ne' proverbî e ne' canti, il nascere e il trasformarsi progressivo de' sentimenti e delle idee delle singole moltitudini e quindi, che meglio importa, la parentela più o meno stretta, che fra loro collega le moltitudini diverse, i diversi rampolli di una medesima stirpe. Notevole fra tutte è la prima, ossia la leggenda dello sciocco astuto, che è, se non erro, patrimonio comune dei popoli di stirpe ariana.»—Ecco poi una variante, toscana anch'essa, della nostra novella:
IL MATTARUGIOLO E IL SAVIO[i].
La sorte fece nascere du' fratelli, che, 'nnanzi che fussano grandi, erano rimasti insenza il babbo, sicchè stevano colla su' mamma sola. Di questi du' fratelli, il maggiore gli era un giovinotto savio, che gli garbava lavorare e manteneva tutta la casa, da poero bracciante, ma pure non gli faceva mancar di nulla. Quell'altro,[595] il più piccino, gli era mattarugiolo, un po' scemo, via! in nella testa; e' non sapeva movere una paglia a modo; le faceva tutte alla rovescia le su' cose. Un giorno il Mattarugiolo va dal Savio; dice:—«Quanto mi garban quelle ragazze di laggiù 'n fondo alla via! Anco loro, se le 'ncontro, mi guardano e ridono.»—Dice 'l Savio:—«Vieni a veglia.»—«Oh! che ci si fa a veglia?»—«Si discorre, si raccontan delle novelle; e, quando s'è 'nnamorati, alla dama gli si tira dell'occhiate.»—Il Mattarugiolo, quand'ebbe avuto queste 'struzioni, va nella stalla in dove erano le capre e gli leva a tutte gli occhi e po' di quest'occhi se n'empie una tascata. La sera, si mette addosso la meglio giubba e va a veglia da quelle ragazze; e lì a dire buacciolate e a far de' versacci. Sicchè tutta la conversazione rideva a crepapancia e lo sbeffavano a bono il Mattarugiolo. Ma lui comincia a tirar di quegli occhi di capra nel grugno alle ragazze. A quel brutto scherzo loro si messano a urlare:—«Porco lezzone, 'gnorante!»—E, dato di mano a un bastone per una, te lo legnorno insenza rembolare e a forza di spintoni lo buttorno fuori di casa e gli sbacchiorno l'uscio in sulle reni. Il Mattarugiolo, tutto pesto e svergognato, corse a casa piangendo dal Savio; dice lui:—«Oh! che ha 'tu fatto? Chi t'ha concio a codesto mò?»—«I' son' ito a veglia dalle ragazze in fondo alla via, e loro m'hanno legnato.»—Dice il Savio:—«Ma come? Come ti sie' tu diportato?»—«Gua'! I' gli ho tiro dell'occhiate di capra.»—«Dell'occhiate di capra? Che vo' tu dire con quest'occhiate di capra?»—«Gua'! I' ho levo gli occhi alle capre e me ne son fatta una tascata, e a quelle ragazze gliel'ho butti 'n faccia. Tu non dicesti ch'i' gli avevo a dar dell'occhiate?»—Sclamò il Savio:—«Oh! birbone, imbecille! Tu ha' guasto le capre! Tu sie' la rovina di questa casa[ii]!»—Passorno[596] de' giorni e il Savio gli era andato al mercato per le su' faccende; dice il Savio:—«Abbi giudizio e provvedi alla casa.»—In quel mentre che il Savio stava fuori, ecco passa un pentolaio:—«Pentolaio, donne: tegami e pentoli, chi ne vole?»—Lo sente il Mattarugiolo e si fa 'n sulla porta:—«Ohè! galantomo. Quanto volete voi di tutto il cacciucco?»—«Il corbello pieno costerà dieci paoli. Che volete comprare ogni cosa?»—«Sì; perchè bisogna ch'i' provvegga alla casa.»—E insenza altri discorsi, il Mattarugiolo sale in cammera e dalla cassa piglia[597] una muneta di dieci paoli, che c'era dentro, e la dà al pentolaio per valsente del su' corbello di cocci; poi gli mette tutti 'n fila nella cucina. Torna il Savio dal mercato e vede quello spettacolo; dice:—«Chi ha porto tutti questi cocci?»—«Gli ho compri io per provvedere alla casa.»—«Oh! i quattrini chi te gli ha dati?»—«Gua'! I' gli ho presi dalla cassa: quel coso tondo luccichente, che c'era.»—Il Savio stiede in sull'undici once di picchiarlo il Mattarugiolo a quella brutta notizia:—«Oh! poero me,»—sclama,—«tu mi vo' proprio rovinare.»—Dopo del tempo, il Savio dovette dilontanarsi di casa e gli era di verno; chiama il Mattarugiolo, prima di partire, e gli fa una bella predica.—«Non fare al solito. Tien la testa con teco e bada alla casa. Abbi 'l pensiero alla mamma. Poera donna! gli è vecchia e ha freddo. Riscaldala e che non gli manchi nulla al bisognevole. Ha' tu 'nteso? Non esser tanto allocco.»—«Non dubitare,»—disse il Mattarugiolo,—«alla mamma ci penserò io.»—Quando dunque il Savio fu andato via, il Mattarugiolo vedde che la su' mamma sbatteva i denti dal gran freddo, che aveva: faceva un'asprore, chè il vino si diacciava nel bicchieri.—«Mamma, vi fa freddo? Aspettate che vi riscaldo a modo.»—Piglia delle fascine il Mattarugiolo e arroventa il forno, e poi ci accomida drento una sieda e ci mette li accoccolata per forza quella sciaurata di vecchia; sicchè in un attimo gli era stecchita e mostrava i denti. E il Mattarugiolo tutt'allegro:—«Vo' ridete, eh! mamma. Che bel caldo che c'è costì!»—Eccoti torna il Savio:—«E della mamma che n'ha' tu fatto? L'ha' tu custodita com'i' ti dissi?»—«Eccome!»—dice il Mattarugiolo:—«Vieni a vedi, s'i' t'ho ubbidito.»—E lo mena al forno. A quello spettacolo il Savio fu per cascare morto per le terre dal gran dispiacere.—«Oh! assassino, mammalucco, invecille! Tu ha' ammazzato tu' madre,»—principiò a urlare il Savio, e si strappava i capelli dalla disperazione. Dice:—«Qui non ci si pole più stare: se la giustizia viene in cognizione di questo delitto, ci taglia la testa a tutti e due. Via! bisogna scappare e andar lontano. Mattarugiolo, piglia l'uscio e viemmi dietro.»—Il Mattarugiolo mezzo sbalordito da quegli urli e da quelle gridate, leva l'imposte dell'uscio d'in su i gangheri, se le butta in ispalla e corri chi ti corro in su' passi del fratello. Camminato che ebbano un pezzo, s'era fatto notte scura in mezzo a una macchia, sicchè il Savio si fermò, e arrivoltandosi vedde il Mattarugiolo colle 'mposte addosso.—«Oh![598] poero a me, tu non ne fa' una a garbo.»—Dice il Mattarugiolo:—«Oh! tu non ha' detto, piglia l'uscio e viemmi rieto?»—«Sì, ma ho volsuto dire, nusci di casa, allocco.»—Ma in quel mentre, che contrastavano, si sente de' rumori e delle voci. Dice il Savio:—«Zitto, ci sono gli assassini. Presto, montiamo in vetta a questa quercia, insennonnò ci ammazzano.»—E subbito s'arrampica su per il tronco e s'accomida alla meglio nel folto delle foglie tra du' rami; e anco il Mattarugiolo gli andette rieto, insenza però lassare le du' imposte. Figuratevi che fatica! Doppo un po', eccoti compariscono gli assassini; sarà stato in verso la mezzanotte: e loro accesano de' lumi, poi stesano una tovaglia e lì prima ci contorno dimolti quattrini rubbati e poi si messano a mangiare e a bere, perchè con loro avevano presciutti, salami, de' fiaschi di vino e insomma ogni ben di dio. In su 'l più bello dice il Mattarugiolo al Savio:—«Mi scappa da pisciare.»—«Non la fare, sai. Che se ci scoprono, siemo morti.»—«I' non posso tienerla. Mi scappa.»—E 'n quel mentre piscia. Gli assassini, che eran sotto alla quercia, a sentirsi tutti bagnare, si rivoltorno 'n su per vedere quel, che fosse. Dice il capo—ladro:—«Di certo c'è tra' rami qualche uccellaccio. Gli si tirerà domani a levata di sole.»—E si rimettono a mangiare. Di lì a un po' dice il Mattarugiolo:—«Savio, i' non la tiengo, la mi scappa. Ho voglia di cacare.»—«Ma che sie' scemo insenza rimedio? Non la fare, sai.» Il Mattarugiolo però non gli diede retta, si calò i calzoni e giù. Gli assassini a veder quella delizia cascare in nella tovaglia, s'arrabbiorno a bono. Ma 'l capo—ladro gli disse:—«Non vi confondete; è un uccellaccio, che fa queste porcherie: ma domani i' lo pago con una stioppettata.»—E seguitorno la cena. Tutto a un tratto dice il Mattarugiolo:—«I' non le reggo più: mi scappan di mano dal peso!»—e, non badando punto alla disperazione del Savio, lassa le imposte dell'uscio, che ruzzolan giù a precipizio tra' rami della quercia. A quel fracassio gli assassini si rizzorno spauriti; e, credendo che la quercia gli cascasse in sul capo, telorno via più presto del vento, dibandonando lì per le terre quattrini e robba. Quando gli fu passato lo spavento e giù il sole si levava, il Savio scese dalla quercia per vedere quel, che era successo. Dimolti fiaschi di vino quelle imposte l'avevano rotti in tricioli; ma tutto il resto era sano. Sicchè tra lui e il Mattarugiolo radunorno, nella tovaglia, il mangiare e i quattrini; e ripresano col carico in dosso la via per tornarsene a casa. Addove arrivati, ricchi a quel modo, non patirono più la fame,[599] feciano acquisto di poderi e se la godettano allegri e contenti a quel dio.
[i] Narrata dalla Luisa Ginanni del Montale—Pistoiese al prof. avv. Gherardo Nerucci.
[ii] Fra le facezie del Bebelio, ce n'e' una intitolata: De fatuo rustico:—«Cuidam ditissimæ viduæ unicus erat filius, sed crasso pecuarioque ingenio, omniumque stultissimus: qui cum in vicinia quandam virginem nobilem efflictim deperiret, petit illam sibi dari uxorem. Parentes virginis, etsi nobiles essent, inopia tamen et angustia rei domesticæ premebantur, neque facile eorundem natalium filiae virum deligere potuerunt: unde opulentia rustici permoti, non difficulter sunt precibus rustici assensi. Mater autem illius, stultitiæ nati conscia, verita ne propter incompositos mores virgo illum negligeret atque fastideret, curiose satis, quibus moribus esse debeat, instituit. Et cum primum fatuus virginem adiisset conciliandi amoris gratia, virgo abeuntem chirothecis donavit ex aluta, hoc est, tenuoribus pellibus confectis: quibus cum indutus abiret, imbris tempestate in nihilum redegit. Unde mater eum corripiens aiebat: Debebas, fili, thecas complicasse, atque pectorali involvisse. At ille secundo virginem accedens, accipitre donatus est. Abiens ergo et maternæ institutionis memor, eundem pectorali involvit: cumque matri munus ostendere vellet, mortuum accipitrem eduxit. Quem rursum matrem castigans, ait, eundem manibus gestandum fuisset. Tertio, cum virginem salutasset, nec prius thecas aut accipitrem curasset, donavit eum illa cribro frumentario; ex præcepto matris, abiens hoc ineptum capitulum cribrum super manibus, uti accipitrem debuisset, gestavit: matre iterum docente, idem equinæ caudæ appendi debuisse, memoriæ commendavit. Ultimo virgo desperatos hominis mores contemptui habens, eum larido condonavit: quod ille abiens caudæ equi appendit, in diversasque partes antequam domum veniret, per rubos et sentes discerpsit. Tandem mater verita ne filius propter incompositos mores omnino repudiaretur, custodiam domus illi commisit, ipsaque ad parentes virginis profecta est, obtinuitque ut dies nuptiarum diceretur: filio tamen mandata dedit, ne quid interea turbarum domi faceret hac abeunte. Ipse vero se in apothecas vinarias contulit, vinumque depromere volens, totum vas in pavimentum perfudit: quod ne mater videret sine profluvium, tosto farre et quidem plurimo constravit. Deinde in cœnaculum divertens et insolenter ingressus anserem incubantem exterruit, qui clamitans Gag ag gag, stulto timorem incussit, quasi diceret Ich will's sagen. Quare anserem arripiens quod se dicturum polliceretur, quæ in cellis vinariis egisset, obtruncavit, seque et totum corpus protinus melle, quod in propinquo vasculo inveniebat collinivit, contractisque undique ex pulvinaribus plumis ex mellis natura, in locum anseris incubandi gratia consedit. Matre itaque ex arce virginis domum repedante, filium more anseris incubantem reperit. Quæ dum hostium pulsasset, filiumque vocasset, respondit filius Gagag quasi voce et incubatione anseris officio fungeretur. Tandem relicta cavea, multis minis et interminationibus matrem intromisit. Quam cum nuptura virgo illico aubsequeretur, illa omnia incommoda quæ interim commiserat indulgendo, illum instituit quibus moribus sponsa esset salutanda, ut scilicet oculos hilare et comiter in eam conjiceret. At ille hac adveniente, maternis ovibus universis oculos eruit, omnesque illos in faciem virginis proiecit: sic enim oculos in eam conjiciendos esse putavit. Nihilominus tamen divitiae, optimum amoris vinculum, matrimonium procuraverunt. Quæ cui suppetant, nobilitatem, formam, prudentiam et cuncta alia donant.»—Cf. Basilo. (Pent.) Vardiello, ecc.
[2] Dividersela fra noi.—G. N.—Vedi, pag. 586.
[3] Ecco un altro esempio di ventura, incontrata, per essersi arrampicata sugli alberi, da persona dispersa.
EL PEGORÉE[i].
Gh'era on fradell e ona sorella. El fradell, l'andava fœura cont i pegor; e, ona sira, ghe ne mancava vunna. El va a cà a piang a piang. Ma la soa sorella, insomma, l'era rabbiada, perchè ghe mancava sta pegora; e la ghe dis:—«Guardet ben, che se te vegnet a cà ona quaj altra sira cont ona pegora de men, te podet lassà stà de vegnì in cà.»—Lu, el ven on'altra sira, che ghe ne mancava on'altra anmò. El compagna i so pegor fin a l'uss e pœu l'è tornàa via, perchè el gh'aveva pagura de andà in cà de soa sorella; e l'è reussíi a vess in d'on bosch. El sent di pedann[ii], el gh'aveva pagura, el va in su ona pianta. Là ghe se ferma tre donn. Sti donn eren tre strij: se metten a discorr di striament[iii] che aveven faa quella sira. E vunna la dis:—«Mi hoo instriàa la tosa del Re, e gh'è nissun che pò falla guarì, qualunque[iv] dottor ghe vaga, gh'è nissunna medesinna bonna. Varda»—la dis—«mi l'hoo instriada e per fagh andà via l'instriament, bœugna che ciappen on boggettin e che vaghen in de la tal fontanna a impienill de quell'acqua là e che ghel daghen a gotta a gotta a gotta a gotta e savè fà anca a daghel. Allora la guarirà.»—Sto fiœu, el sent tutti sti discors, che faven lì sti donn, el dava a trà[v] quel che diseven e el stava lì quiett, quiett, quiett. E lu, dopo, i ha lassàa andà via e l'è vegnùu giò e l'ha ditt:—«Coss'hoo[600] de fà mi adess chì? Bœugna, che vaga distant, innanz che mia sorella vegna a savè che mi sont di sti part chì!»—L'è andàa, e l'è andàa a cercà on sit de trovà de servì, de fa el servitor de stalla, perchè l'era on pajsanell[vi], per podè trovà de guadagnà on poo de pan de mangià. L'era on trì o quattr ann che l'era via, soa sorella la saveva pu nient dove l'era, no l'aveva nè nœuva nè ambassada. Ven, che lu el sent, che diseven, che gh'era la tosa del Re d'on sit distant dove l'era lu, che la stava inscì mal; insomma, che gh'era andàa tutti i professor, tutti i dottor e nessun podeven falla guarì. E lu, el Re, l'aveva ditt, che chi podeva fa guarì la soa tosa, fussen stàa pover, fussen stàa scior, de qualunque condizion, lu el ghe le dava in sposa, se la voreven. E se lor la voressen minga per sposa, lu iè fava ricch. Lu, el pajsanell, ghe ven in ment de quella storia, che l'ha sentìi su la pianta. Allora el dis:—«Vœuj andà mì»—I so padron:—«Perchè te vœut andà via? in dove te vœut andà? te stèe ben chì!»—«No»—el dis—«vœuj andà a girà el mond.»—L'ha minga vorùu dì, dove l'era la soa intenzion, ch'el voreva andà. El va in quella citàa, in dove gh'era sto Re, che gh'aveva la tosa, che la stava inscì mal. Lu, prima de andà là, l'è andàa a tœu la soa acqua, quella tal acqua de quella fontanna e el se l'è portada adrèe. El va là a la cort, el se fà annunzià, el ghe dis, che lu l'era lì per fà guarì la tosa del Re. E lor, i servitor, se metten a guardagh e a rid, perchè gh'era andàa là tanti medegh e tanti professor, ch'hin mai stàa bon de falla guarì. E lu, el gh'ha ditt:—«Ben! s'hin mai stàa bon lor, mi saròo quell, che le farà guarì.»—E van a dighel al Re, che gh'era sto tal, che gh'aveva la pretesa de fa guarì la soa tosa. El Re, el gh'ha ditt:—«Ch'el vegna pur chì, che mi ghe parlaròo mi.»—El va là del Re. El Re, el ghe dis:—«Sent, se te credet de vess bon de falla guarì, ben; ma, se te fet per fa on scherz, varda, che ti te la passaret mal.»—E lu, el ghe dis, che l'era persuas de fa guarì la soa tosa. Allora, el Re, el ghe da orden de lassall entrà in della stanza de la soa tosa e de lassaghel pur là lu sol. Lu, quand l'è stàa là, el ved sta giovena, che l'era là come moribonda. El comincia[vii], el tira fœura el so boggettin e el ghe dà on cuggiarin de st'acqua. De lì do or, ghe ne dà on alter; el ved, che la comincia a poch[601] a poch a revegnì. E a poch a poch, ogni do or, el ghe dà semper el so cugiarin de acqua, fin che l'è stàa finìi el so boggettin. E quel di trìi dì, la tosa l'è restada sana; la se sentiva ben e la gh'aveva pu nient. Allora, el Re, tutt content, el dis:—«Dimm, cosse l'è, che ti te desideret; mi tel daròo.»—«La soa tosa per sposa, no; perchè l'è minga adattada a mi. Mi desideri, che me passen ona pension de viv, finchè scampi mi e la mia sorella.»—E lu, el Re, el gh'ha ditt:—«Benissem! mi te dòo tutt quell, che ti te vœut.»—Lu, dopo che l'è restàa ricch, l'è andàa a cà de so sorella. Lee le cognosseva gnanca. El gh'ha ditt:—«Mi sont chì a tœutt, per sta insemma a mi; perchè adess mi sont ricch; e ti, te gh'hê pu de bisogn de sta chì a fa la pajsanna. Sont on scior!»—E s'ciao, hin stàa content tutti dò.
[i] Cf. Pentamerone G. II. T. II. Verdeprato—«Nella è ammata da 'no prencepe, lo quale pe' 'no connutto de cristallo va spisse vote a gaudere con essa. Ma rutto lo passo da le 'mmediose de le sore, sse taccareja tutto e sta 'nfine de morte. Nella, pe' strana fortuna, 'ntenne lo remmedio, che sse po' fare, l'appreca a lo malato, lo sana e lo piglia pe' marito».—Cf. pure G. II. T. V. La serpe. Cf. con la seconda parte, dell'Esempi di lader, qui appresso.
[ii] Pedanna: Pedata, orma, vestigio. Il suono della pedata.
[iii] Striament o Strioss. Stregheria, malia.—Vedi a pag. 308 tra le postille.
[iv] Italianesimo: non c'è nel Cherubini.
[v] Dà a trà: Dare fantasia o mente o retta, badare, abbadare. Dà a trà a vun: Ascoltare (i suggerimenti di) uno.
[vi] Pajsanell: Contadinello.
[vii] Comincià non meno che comenzà.
[4] Questa pretesa singolare della moglie di Zufilo mi rammenta un'altra facezia popolare, della quale metterò qui la versione, che trovo nelle Rime Bernesche di G. Zanetto (Vedile citate a pag. 137 del presente volume nella nota[5] alla fiaba intitolata Il Canto e 'l Sono della Sara Sibilla ed anche in nota alla fiaba Nimo contento al mondo).
Poichè lo divulgò celere fama,
Udite un fatto, che non è bugia.
Vicina a partorir Donna Sofia,
Ajuto! oimè! tra forti doglie sclama.
Don Marco, suo consorte, molto l'ama;
Ma spesso avvien che nell'inerzia ei stia.
Solo dice alla vecchia Anastasia
Vanne e la levatrice presto chiama.
Corre la serva, che indugiar non lice.
Ma frattanto a Sofia crescon le doglie,
Il marito la guarda e nulla dice.
Ecco, ella grida, il fo... Chi mel raccoglie?
E Marco: Or or verrà la levatrice;
Non partorire ancor, mia cara moglie.
[5] Questa parte della nostra novella risponde alla milanese seguente:
L'ESEMPI DI LADER[i]
Ona volta, gh'era marì e mièe. Eren pover; e, on dì, el marì, el dìs:—«Vœuri andà a cercà fortunna.»—El ghe dis a[602] la mièe:—«Guarda, che mi vòo innanz, tira adrèe l'us'c.»—E lee, l'ha capìi de portall adrèe. Andàa innanz on gran tocch, la ghe dis al marì:—«Spettem, ajùtem a portall, perchè l'è molto grev.»—E lu, el ghe dis:—«Cialla, che te set! T'ho ditt de tirall adrèe, ma minga de portall adrèe.»—El dis:—«Adess, che sem chì, che l'è giamò[ii] tard, anderem in quel bosch a dormì.»—Come di fatti, hin andàa sott a ona pianta; e pœu lu ghe ven in ment:—«Andà ben[iii], chì ghe ven i lader a dormì.»—El dis:—«Andem su, su sta pianta tutt e dùu.»—E pœu ghe ven in ment:—«E pœu, se venen i lader e veden, che gh'è giò l'us'c, guarden su e me veden l'istess.»—Come di fatti, a mezzanott, ghe va ona troppa de lader sott a quella pianta: e vun se mett adrèe a fà el risott e i alter se metten adrèe a cuntà i danèe, ch'aveven robbàa. Quella donna, la dis:—«Voj vu! gh'ho volontàa de pissà.»—E lu, el dis:—«Falla on poo, ch'è l'istess.»—De lì a on poo, la ghe dis al marì:—«Voj vu! ho volontàa de cagà.»—E el dis:—«Falla on poo, ch'è l'istess.»—Allora, i lader s'hin miss a dì:—«Oh el signor come l'è bon! el ne fa vegnì giò la manna del ciel.[iv]»—E lor, gh'è scappàa el rid a sti dùu; gh'è scappàa de rid a tucc dùu: lassàa andà l'us'c. E i lader han sentìi sto bordell[v] a vegnì giò, s'hin miss a scappà; han lassàa giò el risott e tutt i danèe. Lor, dopo, hin vegnùn[603] abass, e han tolt su tutt i danèe e hin andàa a casa. Inscì viveven de scior. Hin andàa innanz on poo de temp e i danèe i han finii; sicchè, el marì, el dis ancamò:—«Chì bisogna andà ancamò a cercà fortunna.»—E la mièe, la dis:—«Andaroo mi.»—E l'è andada ancamò in su quella pianta, che l'eren andà prima. Quand l'è stàda mezzanott, ghe passa doo strij. E vunna, la dis adrèe l'altra:—«Te see minga? Gh'è malàa la tosa del Re, già licenziada[vi] di dottor. E gh'è nissun rimedi de falla guarì, fœura che l'acqua de quella fontana là: trè gott sol hin assèe de falla guarì.»—Allora, la mattinna, quella donna, la va a tœu on boggettin e le empiss de st'acqua. E la va là a la porta del Re; e la ghe dis a la guardia, de lassalla passà, che la gh'ha on remedi, per fa guarì la tosa del Re. Allora la guardia l'è andada a dighel al Re; e el Be gh'ha dett de lassalla passà, che l'è facil a savenn pusée lee che nê[vii] i medigh. Allora, lee, la va dessora; e la comincia a daghen ona gotta e la tosa del Re la comincia a dervì ì œucc. Ghe n'ha dàa on'altra gotta e la tosa del Re la comincia a parlà. Ghe ne dà on'altra gotta e la tosa del Re l'è stada guarida. Allora el Re, el gh'ha daa ona gran somma de danee, de fa la sciora fin che la scampa, lee e el so marì. Ona soa vesina la gh'ha avùu invidia e la dis:—«Vœuri provà anca mi, andà a cercà fortunna.»—Come difatti, l'è andada in quel bosch in su l'istessa pianta. A la mezzanott, ghe passa anmò quej dòo strij. La comincia vunna e la dis:—«Voj! te see minga, che l'è guarida la tosa del Re? e gh'era nissun rimedi, fœura che quell'acqua là. Andà ben, gh'era chì on quajchedun in del bosch a sentimm. Adess guardi: se trœuvi on quajchedun, el tâj tutt a tocch.»—E la comincia:—«Usc, usc! el sa de cristianusc!»—e la guarda su sta pianta, la ved che gh'è su sta donna. Gh'è andàa su la stria e l'ha trada abass; pœu l'ha tajada tutt a tocch.
[i] Il Liebrecht annota:—“Ein Ehepaar bringt de Nacht auf einem Baume zu, an dessen füss sich Diebe einfinden; die Frau verrichtet von oben herab ihre verschiedene Bedürfnisse und lässt endlich auch die thörichterweise mitgenommene Hausthür herabfallen. S. K. M. n.º 59. Frieder und Katherlieschen; Reinh. Koehler in Lemckes Jahrbuch 8. 241 ff. Abtheil. II. Die Frau im obigen Märchen heilt dann,durch einem den Hexen abgelauschten Rath eine Kranke Prinzessin, während ihre Nachbarin, der sie davon erzählt, von den Hexen bestraft wird; s. dazu K. M. n.º 107 Die beiden Wanderer und besonders die dazu 3. 188 aus Pauli agesführte Version; sieh auch Koehler a. a. O. 7. 3 ff.”—
[ii] Giamò, già. È evidente l'etimologia latina.
[iii] Andà ben, andà de dio, andà de Re, andà de pappa, andare di vantaggio o di rondone o in poppa o a seconda.
[iv] È impossibile qui non ricordarsi del celebre sonetto di Carlo Porta sulla manna degli Ebrei, che forse gli sarà stato ispirato da una reminiscenza di questa novellina intesa da bimbo. Vedilo riferito più innanzi in postilla allo Esempio Milanese I duu mai content.
[v] Bordell. Rovina, chiasso, bordello:—«Fa tanto bordello, Il Re Travicello.»—Giusti. La parola milanese non ha punto ed in nessun caso il senso, che vieta alle persone ben educate di adoperare nel discorso comune la parola italiana analoga.
[vi] Licenziada, spedita.
[vii] Nê, in questo caso significa no. Che nê dal ciel a andà dove el sta lu.
[6] Ecco come l'espressione dar la Berta viene illustrata nelle annotazioni al Malmantile racquistato (Cantare IV. St. XLVII).—«Raccontano le donne, che un sagace villano nominato Campriano[i], essendo venuto in mano della giustizia per le sue cattive[604] opere, fu condannato a esser messo in un sacco e buttato in mare. In esecuzione di che, fu messo dentro al sacco e consegnato a' famigli, che lo buttassero in mare. Nell'andar costoro ad eseguire gli ordini imposti, furono per istrada assaliti da alcuni masnadieri, i quali si crederono, che in quel sacco fosse roba di valore. Onde i famigli, per iscampar la vita, lasciato quivi il sacco con Campriano, si fuggirono. Campriano piangendo si doleva della sua disgrazia; il che, sentito da uno di quei masnadieri, gli domandò perchè piangeva ed a qual fine era stato messo in quel sacco. Il sagace Campriano gli rispose: Io piango di quel, che altri gioirebbe; ed è, che questi signori voglion darmi per moglie Berta, unica figliuola del Re nostro, ed io non la voglio, conoscendomi inabile a tanto grado, per esser un povero villano. E perchè essi dicono, che se non si marita a me, l'oracolo ha detto, che questo Regno andrà sottosopra, mi hanno messo in questo sacco per condurmi a farmela pigliare per forza; e questa è la causa del mio pianto. Il masnadiero, credendo alle parole di costui, si concertò co' compagni d'andare esso a pigliare questa buona fortuna e ripartirla con essi. Onde, fattosi mettere dentro al sacco da Campriano, che non restava di pregarlo a volergli far del bene, quando fosse poi Re, fece allontanare i compagni; e, serratolo entro al sacco, stette aspettando, che ritornassero coloro, i quali non istettero molto a comparire con nuova gente. E, veduto quivi il sacco abbandonato, lo ripresero. Ed, essendo giunti alla riva del mare, ve lo precipitarono. E così sposarono a Berta il balordo masnadiero. E di qui venne dar la Berta o la figliuola del Re, che vuol dire burlare, minchionare. Si dice anche dar la madre d'Orlando, perchè da alcuni si crede, che la madre di Orlando Paladino avesse nome Berta[ii].»—Identica è la novella milanese seguente:
L'ESEMPI DE BERTOLD.[iii]
Ona volta, Bertold, el ghe fava tanti raddrizz[iv] al Re; e lu, l'ha ciappàa, l' ha fàa mett in d'on sacch per buttall in de l'acqua.[606] Intant, quij, che aveven de buttall in de l'acqua, l'han poggiàa al mur; e el sacch l'era ligàa. E lu, el diseva:—«No, vuj propi tœulla no, la tosa del Re.»—E gh'era on alter, che l'ha sentìi; el dis:—«Cosse l'è, che te diset?»—«Perchè me vœuren fa tœu la tosa del Re, e m'han ligaa denter in del sacch e me vœuren buttà in de l'acqua. Mi la vœuri propi no, la tosa del Re.»—E quell'alter, che l'ha sentìi, el ghe dis:—«Ben, l'è per quell che te vœuren buttà denter in de l'acqua? Ben, allora, ven fœura ti, che ghe vòo denter mi in del sacch.»—E Bertold, l'è vegnùu fœura, eva denter quell'alter, e pœu l'han buttàa in de l'acqua. Lor saveven minga, ch'el fuss pu Bertold. E pœu veden Bertold, ch'el ven giò di collinn[v]; e gh'han dimandaa:—«Ma in che manera, ch'el Re t'ha faa buttà in de l'acqua, che te set chiancamò?»—E Bertold el ghe dis che el Re, l'era minga bon de fà quell, che faseva Bertold per salvà la vitta.
[i] Vedi a pag. 51 del presente volume, la postilla in cui è riferita un'altra parte della Storia di Campriano.
[ii] —«Dubito forte, che dar la Berta derivi dal mito raccontato, che è piuttosto foggiato sulla somiglianza delle due parole. Berta nome di donna; Berta per burla. Di più noto, che si dice Berta quello strumento, che serve a conficcare i paloni per una palafitta.»—Nota dell'avv. prof. Gherardo Nerucci.
[iii] Il Liebrecht annota:—«Eine Episode des bekannten italienischen Volksbuches von Bertoldo. S. K. M. n.º 61 Das Burde und n.º 146 Die Rübe. Koehler in den G. G. A. M.DCCC.LXXI seite 2096 zu n.º 41.»—Straparola. Notte prima, Favola terza: Prete Scarpacifico, da tre malandrini una sol volta gabbato, tre fiate gabbu loro. Finalmente vittorioso con la sua Nina lietamente rimane:—«.... Laonde sdegnati andarono a casa del prete e non volsero più udire le sue fole; ma lo presero e lo posero in un sacco con animo di affogarlo nel vicino fiume. E mentre che lo portavano per attuffarlo nel fiume, sopraggiunse non so che ai malandrini; onde forza gli fu metter giù il prete, che era nel sacco strettamente legato, e fuggirsene. In questo mezzo, che il prete stava chiuso nel sacco, per avventura indi passò un pecoraio col suo gregge, la minuta erba pascendo. E così pascolando udì una lamentevole voce, che diceva: I me la vogliono pur dare ed io non la voglio, che prete sono e prendere non la posso? e tutto sbigottito rimase, perciocchè non poteva sapere, donde venisse quella voce tante volte ripetita. E voltatosi or quinci or quindi, finalmente vide il sacco, nel quale il prete era legato; ed accostatosi al sacco (tuttavia il prete vociferando forte) lo sciolse e trovò il prete. Et addimandatelo per qual causa fusse nel sacco chiuso, e così altamente gridasse, gli rispose: che il signor della città gli volea dar per moglie una sua figliuola; ma che egli non la voleva sì perchè era attempato, sì anche perchè di ragione avere non la poteva per esser prete. Il pastorello, che pienamente dava fede alle finte parole del prete, disse: Credete voi, messere, che il Signore a me la desse?—Io credo di sì, rispose il prete quando tu fosti in questo sacco, si come io era, legato. E, messo il pastorello nel sacco, il prete strettamente lo legò, e con le pecore da quel luogo si allontanò. Non era ancor passato un'ora, che li tre malandrini ritornarono al luogo, dove avevano lasciato il prete nel sacco; e, senza guatarvi dentro, presero il sacco in ispalla, e nel fiume lo gettorono. E così il pastorello invece del prete la sua vita miseramente finì. Partitisi i malandrini, presero il cammino verso la lor casa; e, ragionando insieme, videro le pecore, che non molto lontano pascevano. Onde deliberarono di rubare un pajo di agnelli; e, accostatisi al gregge, videro prete Scarpacifico, ch'era di loro il pastore, e si maravigliarono molto, perciocchè pensavano, che nel fiume annegato si fusse. Onde dimandarono come fatto aveva ad uscire dal fiume. A i quali rispose il prete: O pazzi, voi non sapete nulla! Se voi più sotto mi affogavate, con dieci volte artante pecore di sopra me ne veniva. Il che udendo i compagni, dissero: O messere, volete voi farne questo beneficio? Voi ne porrete ne' sacchi e ne getterete nel fiume; e di masnadieri custodi di pecore diverremo. Disse il prete: Io sono apparecchiato a fare tutto quello, che vi aggrada; e non è cosa in questo mondo, che volentieri per voi non la facessi. E trovati tre buoni sacconi di ferma e fissa canevazza li pose dentro; e strettamente, che uscir non potessero, li legò; e nel fiume li avventò; e così infelicemente se n'andorono le anime loro a i luoghi bui, dove sentono eterno dolore. E prete Scarpacifico, ricco e di denari e di pecore, ritornò a casa e con la sua Nina ancora alquanti anni allegramente visse.»—Vedi anche De Gubernatis. Novelline di Santo Stefano di Calcinaja. XXX. I due furbi e lo scemo. Tralascio di indicare infinite altre varianti, che non mi sovvengono con tutta precisione.
[iv] Raddrizz non ho trovato nel Cherubini.
[v] Vegnì giò di collinn. Sarebbe proprio lo scollinare; adoperato dal Fagiuoli.
IL PRETE CHE MANGIA LA PAGLIA.[1]
C'era una volta un citto. Questo citto era rimasto solo, privo di tutti, ma aveva diversi quattrini. Un giorno era per una strada che camminava, trovò il prete della su' cura, e si salutorno tutti e due. Costì questo citto gli disse che era solo; e il prete gli domandò, se voleva andare a star con lui. Questo citto non gli parve vero. Il prete disse:—«Bene, bisogna fissare così; il primo che si adirerà, pagherà cento scudi.»—«Oh non dubiti.»—«Sai»—gli disse il prete a questo giovanotto,—«domani mattina devi andarmi a seminare un po di grano.»—«Sicuro.»—Questo ragazzotto sapete cosa fa? Il prete gli aveva dato un sacco di grano, che l'avesse seminato tutto in quel campo.—«Così»—disse il prete—«s'adira quando vede tuto questo lavoro.»—Arrivò quel ragazzo, prese i bovi, appena fu al campo, e fece tutto un sogo e te lo buttò tutto lì dentro quel grano, e poi lo ricoprì.—«Cordone si deve adirare lui e no io!»—e poi si buttò a ghiacere. Poi aspetta la colazione, e la colazione non veniva.—«Ah il prete me la fa bellina, ma tornerà peggio per lui!»—Sona mezzogiorno, e vede venire la serva a portargli la colazione.—«Tenete, io vi ho portato la colazione.»—Gliela lascia lì, e la va via. Questo va per mangiare, e trovò la zuppiera siggillata.—«Guarda, questo prete crede, che io mi voglia adirare!»—Gli aveva un maniolo;[608] con l'occhio del maniolo, spaccò il culo della zuppiera; e mangiò la minestra. Poi va per bere, e trovò siggillato il fiasco, gli da un tonfo, e gli leva il collo, e beve. La serva gli aveva detto al padrone, che l'aveva trovato a dormire. Dice il prete:—«O poerino a me! azzecca cosa mi ha fatto.»—Tornò a casa questo giovanotto. Il prete:—«Che l'hai seminato tutto il grano?»—«Sì.»—«Come hai tu fatto?»—«Oh! ho fatto un sogo e gliel'ho buttato.»—«Oh, che tu m'hai rovinato!»—«Oh signor padrone, che L'è adirato?»—«Ti pare?»—Questo giovanotto s'era innamorato della serva, che si chiamava Gigia.—«Senti Gigia,»—gli fa il prete,—«t'hai veduto, Marco ti vuol tanto bene. Gli è tanto pauroso, tu devi sentire di che cosa ha paura. Domani sera io tornerò più tardi; e te domandagli ogni cosa, che poi tra me e te si penserà qualche cosa per farlo adirare.»—L'indomani il prete l'andò via, e rimase solo la Gigia e Marco. Sta serva, nel discorrere, si messe a dir delle paure.—«Dimmi, Marco, di che cosa t'hai paura te?»—«Io, più paura, che abbia, io ho paura di il chiù[2].»—«Eh, dio mio! di un uccello così tanto piccinino?»—«Ah sta zitta, quando lo sento cantare più di una volta, mi vien male!»—In questo mentre venne il prete, e andorno a letto. Quando fu andato a letto Marco, il prete ritornò dalla serva.—«Di che cosa l'ha paura Marco?»—«Mi ha detto, che gli ha paura di il Chiù.»—«Senti, spogliati. E poi ti melerò tutta; e poi t'anderai a buttarti su quella massa di penne: tu parrai un Chiù tale e quale. E poi t'hai a montare su quel melo, che c'è nel giardino di faccia alla finestra di Marco, e t'hai a principiare a dir: Chiù, Chiù. Tu vedrai, che lui s'arrabbierà, e vorrà andare via arrabbiato, così piglio cento scudi.»—E costì tanto[609] fecero. Questa serva, quando fu montata in quest'albero, avviò a cantare: chiù chiù (non si veglia più). Marco, che sente chiù, figuratevi come si diede da fare.—«Ah poero a me! ne ho ragionato oggi di il chiù; e lì canta che ti canto questo chiù!»—e Marco s'era nascosto sotto i lenzuoli, ne aveva fatte di tutte. Sicchè gli era scappata la pazienza, ci aveva il fucile carico, s'affaccia alla finestra, e tira una schioppettata addove sentiva la voce. E sente cascare giù roba.—«Canta ora, tu l'hai auta!»—e costì se ne tornò a letto. Il prete s'affacciò alla finestra nel sentire questo scoppio; e vidde la sua Gigia, che gliela aveva ammazzata. Il prete via da Marco.—«Ah, birbante, cosa t'hai fatto!»—«Se non si cheta gliela tiro anche a Lei.»—«Che ti sei adirato Marco?»—«No; ch'era adirato Lei?»—«No.»—E costì la feceron finita, ritornarono a letto. Per tornare un passo adreto, il prete gli disse:—«Sai, Marco? domattina prepara il cavallo, si deve andare da un nipote, è stato sposo.»—«Sì? ho a preparare un po di cacio, un po di vino, qualche cosa?»—«'Un preparare nulla, si arriva presto.»—La mattina, Marco si levò, e preparò ogni cosa come gli aveva detto il prete. Il prete si leva, montò a cavallo e andò via; e Marco appiedi.—«Così si adirerà!»—Ogni tantino, diceva il prete a Marco:—«Che sei adirato?»—«No, signor padrone; che è adirato Lei?»—e gli cominciava, a crescere la fame al prete, ma Marco era ben preparato. Sicchè disse Marco:—«Sa, bisogna, che mi faccia salire un po me, perchè io non posso camminare più.»—Il prete scese, e montò Marco. Marco diede una trotta al cavallo, via. Il povero prete rimase adetro. Si rifece buio a una casa di un contadino. Gli dissero questi contadini:—«Venghino in casa nostra, staranno almeno al coperto.»—Il prete, per[610] fare adirare Marco, disse:—«No, noi si sta dietro il pagliaio;»—e costì si messero tutti e due rincantucciati. Mentre che erano lì zitti zitti, Marco si levò il suo cacio di tasca, una bella forma, e tagliò un pezzo di pane, e si messe a mangiare. (Al buio non vedeva il prete). Il prete, che sentì Marco che masticava:—«Cosa tu fai?»—«Che vole, sor padrone? guardo se mangio un po' di paglia»—«Oh che si ingolla bene?»—«Lo credo, basta masticarla.»—«Eppure mi voglio provare un pochino anche io a mangiarla.»—E il prete si messe a mangiare la paglia. Marco aveva una bella fiaschetta di vino, e si messe a bere.—«Marco cosa tu fai? che bevi?»—«Che vole, signor padrone? mi è rimasta tutta in gola la paglia, mi sputo in bocca.»—«Oh fammi il piacere, sputami un pochino anche a me, che io non ci arrivo a sputarmi in bocca.»—E Marco non intese a sordo, e sputa in bocca al prete.—«Oh non me ne dare più, la mi basta.»—E Marco seguitava sempre a mangiare.—«Oh che tu mangi ancora Marco?»—«Sfido, ho una fame che non la vedo; mi tocca a mangiare ancora un po' di paglia. Oh signor padrone, che è adirato?»—«No, no.»—E costì si fece giorno. Seguitorno a camminare. Camminonno quasi tutta la giornata. Sicchè arrivò il prete da' suoi parenti. Appena che viddero il suo zio prete, si figuri quanti complimenti, che gli fecero, ma gli dispiaceva che le nozze oramai erano belle e state, non aveva fatto a tempo. E costì gli volevano dar da mangiare, tante cose; e lui diceva che non aveva fame, perchè si vergognava. E costì andorno nel canto del foco in conversazione; e a questo ragazzo gli domandorno se aveva fame. E lui disse di sì. E costì ci avevano de' polli avanzati dallo sposalizio, gliene diedero un tegame. Mangiava veramente bene; e stiacciava quegli ossi di[611] pollo. E il prete gli faceva gli occhioni, diceva:—«Dammene un pochino, allungami un ossino.»—E Marco, per fargli dispetto, 'un dava nulla. Insomma i suoi nipoti:—«Zio prete, avete fame?»—E Marco per fargli dispetto:—«Che! Che! ha mangiato, non ha fame.»—Il prete cert'occhiacci gli faceva a Marco. Il prete gli discorre nell'orecchio a Marco, che l'aveva accosto. Dissero i nipoti:—«Cosa l'ha lo zio, cosa l'ha?»—Il prete rispose:—«Niente, niente.»—Allora rispose Marco:—«Sa, si vergogna a dirvelo, gli dole il corpo, vorrebbe andare a letto.»—Si figuri questo prete, dalla rabbia non vedeva lume. E costì per bene, presero un lume e lo portorno a letto, ma assieme ci andava Marco a dormire con il prete. Marco, quando l'ebbe mangiato, volle andare a letto. Appena fu entrato in camera, va dal suo padrone e gli domanda se l'è adirato. Sicchè l'andò a letto Marco con il prete! tutta la notte rivolta rivolta. Rivoltoloni, che aveva fame, 'un ne poteva più.—«Senti, Marco; hai veduto dove hanno riposta quella farinata, che hanno dato a te?»—Che gli avevano dato a Marco polli e farinata.—«Vo a pigliarmela e me la mangio qui nel letto. Ma io ho paura di non ritrovare il letto.»—«Senta, non ha un gomitolo di spago in tasca? lo deve legare alla gamba del letto, e lo ritrova.»—«Guarda, tu dici bene.»—E costì, questo prete tanto fa, che va in cucina; e trovò la 'nfarinata e la carne; e Marco, mentre che il prete era in cucina, prende il filo, che gli aveva legato alla gamba di il letto, e va a legarlo a il letto degli sposi, che era in una camera lì accosto. Quando ebbe fatto il prete tutto quello, che voleva fare, tornò via di cucina; e via prese il suo filo in mano per ritornare alla camera. E Marco stava attento. Appena fu entrato in questa camera degli sposi, avviò a chiamare Marco. Per l'appunto c'era[612] una scarpa nel mezzo, 'nciampò in questa scarpa, e la 'nfarinata cascò tutta nel viso agli sposi. La Sposa si risvegliò, a urlare:—«C'è i ladri, c'è i ladri!»—Questo prete, nel sentire che era in camera degli sposi, c'era una finestra, diede una capata a questa finestra, e saltò di sotto, e si rompiede il collo. Sicchè tutti andarono a vedere, e veddero che era il suo zio prete. Si figuri come rimasero dispiacenti, e il caro Marco se ne ritornò a casa del prete, e si godiede tutta quella bella roba. Se ne prese moglie, e lì sarà ancora.
Fece le nozze, e un bel confetto;
E a me mi toccò un bel calcio nel petto.
NOTE
[1] Donatami dal Dott. Giuseppe Pitrè, cui era stata somministrata dall'Avvocato Giovanni Siciliano, che l'aveva raccolta dalla Maria Pierazzoli di Prato—Vecchio nel Casentino. Se la memoria non m'inganna, ce n'è un riscontro negli Ecatonmiti del Giraldi. Ma non ho qui il volume per riscontrare e verificar la cosa.
[2] Chiù, un uccello notturno.
FAR' E PATTI[1]
Sicchè donche, cuand'e patti e' si fanno da sene, e' vantaggi e' si pigghiano ugni sempre a su' proprio mo'; come ghi accadette tra i' lupo e i' granchio, cuando i' lupo e' si riscontròe co' i' granchio su pe' 'na macchia e si mettiede a sbeffallo, perchène lui ghi andèa accosie di traèrso, chè paréa isciancato. Diss'i' lupo:—«Bada lie, che archilèo! Oh! nun hae la prutenzione di ripire 'n vetta a i' poggio! Se tu ci arrìi, ch'i' arrabbi!»—In der sentì cuelle palore redicole, i' granchio si fermòe d'un subito, lìe 'n su du' piedi, per arrispondegghi:—«Sicchè donche,»—e' disse,—«a i' tu' parere, de' brai nun ce n'ène antri che tene. Gua', e' sarà anco! Pe' mene, imperòe, i' dìo com'e' dice cuello: A vorte i' giudizio d'i' contadino e' var' cuello d'i' cristiano.»—I' lupo ghi arruffòe i' pelo e ghi arrotàa e' denti, chè parea 'na gramola, tant'e' s'era iscoruccito a i' discorso d'i' granchio, perchène e' se n'era uto a male. Dice:—«I' 'un soe chi mi tienga, ch'i' nun ti piedichi com'una meggia di vacca. Oh! 'spricati, via! Icchè tu 'ntendi di dì' con coresto proerbio? Un invecille tutto straolto, ch'a i' mi' petto e' pare 'na pillacchera 'n sur uno zoccolo, pincomberi! vercia sentenzie da 'un essecci manc' accezione. Sicchè donche, opri bocca. Che è 'n'i' tu' pensieri?»—Dice i' granchio:—«Ohimmèa! con coresti sberci e tu m'aressi lèo la confidenzia, s'i' redessi,[614] 'mperòe, che la piccinezza di mene mi mettessi drento 'n seportura. Ghi ène i' vero; i' hoe le gambe tareffe e cuarch'antro taccolo in su i' groppone; e tu sie' togo e bono a marimétte', non che mene, anch' un branco di pecore, bisognando. E nun stravòrge' ghi occhi! nun mi guarda' malucano! Tant'i' 'un hoe pavura di tene 'na malidetta, pe' minuzzino ch'i' sono; e la veritàe a i' su' posto. Lassami di' alla libera. Vo' tu far'a corire per insino 'n vetta a i' poggio? I' ti doe anco la giunta, e tavìa i' ci vo' arrià' prima di tene.»—Arrispose i' lupo, e 'n cuel mentre lui sgretolava le zanne:—«S'i' 'un sapessi, che tu ugni sempre guazzi pe' l'acqua e 'n de' pantani, i' rederè' 'uasi che tu' sie' 'mbriaco, mammalucco!»—«Nòe, nòe,»—ripricòe i' granchio:—«'un ci fracchienemo a fa' lo spocchia e i' cattìo! Vo' tu far'a corire con meco? O sìe, o nòe.»—«Nuscianome!»—dice i' lupo:—«perchène s'i' 'un mi tempero con pacienza, i' mi' comprumetto a i' sicuro. In dòe s'ha egghi a corire?»—«Su di quìe,»—dice i' granchio;—«E' patti 'mperòe i' ghi fo io. Arricordati. Cuand'i' t'addenteròe 'n vetta alla coda, e te, liccia! Ghi ène i' segno delle mosse.»—Sicchè, donche, i' lupo e' s'arrivortòe e i' granchio ghi acciuffa a qui' mo' la coda; e cuello, via su p'i' bosco, chè parèa 'na saeppola, oppuramente, che ghi aessi ghi sbiri rieto. Arriò 'n vetta a i' crinale d'i' poggio, chè ghi ansimaa con la sua lingua fori un parmo, e diviato e' s'arrivorse a vede', 'n dove i' granchio ghi era rèsto; e 'un vedèa nimo[2]. E lui a sbergolà':—«O granchio! o mattarello! scropiti, addove sie' tue? S'i' torn'arièto, pe' zio! i' ti vo' trepilar 'a mi' mo', insino a che i' 'un n'abbi fatto di tene una focaccia.»—Dice i' granchio, cor una vocina tutta raumiliata:—«Oh! s'i' son quìe in su i' crinale 'nnanzi a tene! che sbergoli tue? I'ho vint'i'[615] palio.»—«Brao!»—ghi arrispose i 'lupo, cuando lo vedde lì pe' le terre tutto richino:—«Tu me l'ha' fatta 'n sull'auzzatura. T'ha' ragione: i' bue son'io, ch'i' t'ho lascio fatti fa' e' patti da tene. A riedècci, sai!»—E se n'andiede, e i' granchio ghi scoppiaa da i' ridere. E si poe di' anco, ch'a i' lupo ghi 'ntraviense com'a l'aquila, cuando lo sgricciolo e' la disfidòe a chi volava più erto; perchène lo scriccolo e' ghi s'appiccicòe co' i' becco a una penna d'un'alia, che nun se n'addiede; e, cuando l'aquila disse:—«Sgricciolo, addove sie' tue?»—e lui, lesto dàe una volatina più 'n sue e po' piola:—«Deccomi quìe.»—E ghi messano allo sgricciolo i' soprannome di Re Cacca, perchène e' vincette l'aquila pe' la su' furbizia.
NOTE
[1] Apologo popolare, in vernacolo del Montale—Pistoiese, raccolto dall'avv. prof. Gherardo Nerucci.
[2] Nimo, nessuno. Vedi pag. 499.
I TRE AMICI.[1]
Tre amici arrivarono una sera ad una piccola osteria di campagna e fecero una cena frugale. Poscia, prima di andare a letto, dissero all'oste, che la dimane, prima di ripartire, volevano far colezione. L'oste gli rispose, rincrescergli molto di doverli prevenire, che la cosa era impossibile; perchè, oltre quello che aveva loro dato, non gli avanzava in casa se non un quarto di tacchina, un piccolo panetto ed il vino, che vedevano, nella bottiglia, poco più di un bicchiere. Gli amici si trovarono male. Ma, decisi di consumare quel poco, che vi era, e se non tutti uno almeno mangiare, fissarono, che colui fra di essi, che nella nottata avesse fatto il sogno più bello o più brutto, avrebbe fatta colezione la dimane e gli altri sarebbero rimasti senza. Così venne combinata la scommessa in presenza dell'oste, che nominarono giudice de' sogni, che avrebber fatto. E se ne andarono a riposare. Uno di essi, svegliatosi la mattina all'alba e sentendo appetito, andò in cucina; e, preso dall'armadio il pane, la tacchina ed il vino, mangiò e bevve tutto. Alzatisi gli altri, il trovarono con l'oste, che fecero sedere in un vecchio caregone, perchè decidesse della qualità e del merito de' sogni di ciascuno. Il primo narrò, di aver sognato di ascendere in paradiso e di godervi tutti i piaceri della beatitudine, i quali eran tali e tanti, da non potersi da umano labbro raccontare; e concluse non potersi fare un più bel sogno.[617] L'altro disse, d'aver sognato di precipitare nello inferno, sottostandovi a tali e tanti patimenti, e soffrendo tale e tanto spavento, da rimaner tuttora sbigottito. L'oste osservò al primo:—«È innegabile, il vostro sogno esser bellissimo.»—E volgendosi al secondo gli diceva:—«È del pari innegabile, il vostro sogno esser orrendo. Ora sentiamo il terzo.»—Ed il terzo, calmo e ridente, raccontò, che aveva sognato, essere i suoi due poveri compagni morti, assunto l'uno in Paradiso, e precipitato l'altro all'Inferno. Che, pe' dogmi della nostra santa religione, da que' luoghi, o bene o male che vi si stia, non si ritorna in questo mondo; e difatti di quanti son partiti per andarvi, nessuno è mai tornato. Persuaso quindi, nessuno de' due aver più bisogno di colezione, si era alzato; e, credendo di dover partir solo, avea mangiato quanto vi era e beuto il poco vino avanzato. L'oste rise di cuore dello ingegnoso trovato; e decise, che, per quanto bello il sogno del primo degli ospiti ed orrendo quello del secondo, il più logico era però il terzo: e che non v'era da ridire sul fatto. E condannò i due digiuni a pagar tutta la spesa nella sua locanda. I perdenti trovaron giusta la sentenza e l'accettarono; e, saldato il conto, si licenziarono, proseguendo il viaggio con l'intenzione di fermarsi alla prima taverna per istrada e mangiarvi a sazietà, come fecero.
NOTE
[1] Tolgo questa novella da un zibaldone manoscritto di aneddoti e facezie popolari, raccolti in Castrocaro dal Dottor Ludovico Paganelli, che lo ha gentilmente messo a mia disposizione. Il presente racconto è uno de' pochi compresi nel zibaldone, che non sia indecentissimo. Vedi Giraldi. Ecatonmiti. Dec. I. Nov. III.—«Si ritrovano tre uomini insieme, senza aver altro, che mangiare, se non una picciola schiacciata. Sono a contesa di chi debba essere.[618] Conchiudono, che ella si sia di chi più nobil sogno farà de' tre. L'uno, che era soldato, lascia gli altri due colla loro sapienza scherniti.»—Casalicchio, VI. I. VI. Chi cerca d'ingannare il più delle volte resta ingannato.—Pitrè. (Op. cit.) CLXXIII. Lu Monacu e lu Fratellu.—Riunisco, in quest'ultima nota del volume, un gruzzoletto di novellette e facezie milanesi di vario genere.
I. EL BOFFETT[i]
Ona volta, gh'era ona festa in d'on paes; e gh'era un, che l'ha ditt, ch'el voreva andà anca lu a vedè sti fest. E gh'era tanta gent. El ven sira; e, per andà a cà, l'era tropp tard. E lu, el dis:—«Me fermaroo chì a dormì.»—El va in d'ona osteria; gh'è minga sit. El va in d'on'altra osteria; e là ghe disen, che gh'era on fraa, che l'era in d'on lett grand, e, se lu l'era content a dormigh insemma, che sarèssen andà a ciamagh, se l'era content anca lu. Lu, el se contenta. Van del fraa; ghe dimanden, se lu, l'era content de dormì insemma a on alter forestee, che gh'era capitaa. Sicchè lu, el gh'ha ditt:—«Sì, mi sont content; ma bisogna digh, che mi gh'hoo ona imperfezion, che foo di vent cald.»—L'alter, el dis:—«Ben, fa nient; perchè gh'hoo anca mi ona imperfezion: foo di vent fredd[ii].»—E lu, prima de andà a dormì, el tœu su on boffett e se le porta in lett. El va in lett, el se volta vun d'ona part e vun d'on'altra. Ven, che el fraa el comincia a fa sti vent cald. Quell'alter cascia el boffett in mezz i gamb e pfu! pfu! pfu! Quell'alter, el dis:—«Che frecc!»—«Ma, cara lu, ch'el scusa! lu iè patiss cald e mi i patiss frecc!»—E allora quell là, el fraa, tutt rabbiàa, voltess dell'altra part, mettess in sulla sponda. E quell'alter, tutt content:—«Almen, adess, se ghe vegnerà di vent cald, anderan giò della sponda del lett e minga adoss a mi.»[619]—
II. EL CURAT, CHE L'ERA IGNORANT COMÈ.
Ona volta, gh'era on curat e l'era ignorant comè, ch'el saveva nanca quanti dì gh'aveva ona settimana. El metteva ona fassinna tutt'i dì in d'on monton; e, quand ghe n'aveva ses, el dì adrèe el diseva messa, perchè el diseva che l'era festa. Ona volta, la serva, la s'è ricordàa pu de portà ona fassinna; e lu, l'ha cuntaa, eren appenna cinq, e el dì adree l'ha vorsuu dì no messa, e l'era festa. El secrista, la mattinna, l'è andaa su in stanza a digh de levà su, che l'era già sonàa el terz de messa; e lu, el diseva, che l'era minga festa; e l'ha minga vorsuu levà su e el gh'ha faa perd messa a tutti i paisan. Allora, sti paisan, tanto rabbiaa, han dà su on ricors a l'arcivescov; e l'arcivescov, el gh'ha mandàa a dì, ch'el saria vegnuu lu a vedè, se l'era vera quel, che diseven. Allora, el curat, a sentì sti robb, el s'è stremìi, l'è cors a casa in la Perpetua a contagh; e allora, la Perpetua, la gh'ha ditt de stremiss no, che l'era nient; e—«Ch'el me lassa fa de mi!»—L'ha faa buj on gran caldaron d'acqua; e l'ha missa denter in di aquasanteri in gesa e l'ha gh'ha ditt:—«Adess el vedarà, come saran consciaa polit i paisan!»—A la mattinna istessa, l'è arrivàa l'arcivescov; el curàa, l'ha menàa in gesa e el gh'ha ditt:—«Adess el vedarà quanti vers fan i paisan.»—I paisan saveven nient, metten dent la man in l'acquasanta per segnass e s'hin miss adrèe a saltà in aria per el dolor, ch'han sentìi. E allora, el curat, el gh'ha ditt:—«El ved, scior arcivescov, se sont mi o lor ch'hin matt?»—Allora, l'arcivescov, el gh'ha daa on gran rimprover ai paisan, e el curat l'è tornàa a stà lì anmò in l'istess paes.
Passàa on carr d'oli d'oliva,
La panzanega l'è bella e finida.
III. EL PAISAN E EL PRET. [iii]
Ona volta, gh'era on paisan. El passava via de la casa d'on fattor, e l'ha vist là tanti bej pollit, e gh'è vegnuu la gola e[620] de robbann vun. E l'ha faa per robball e gh'è restàa in man la cova. A pasqua, quand l'è andaa a confessass, el gh'ha cuntaa che l'ha faa per robbà la pola. E el pret, el gh'ha ditt, che valor podeva avegh. E lu, el gh'ha ditt, che la poreva varè on vott lira. Allora, el pret, el gh'ha ditt, de portaghi là, per far dì tant ben per i mort. Allora, sto paisan, el ghe dis:—«Ma mi, l'ho minga robbada, mi!»—E el pret, el ghe dis:—«El peccàa l'hi faa istess.»—El paisan, per ciappà l'assoluzion, el gh'ha promess, che el gh'avaria portaa i danee. E de nott, el seguitava a pensà, e gh'è vegnuu in ment de ciappàa on poo de carta e bagnalla e mettegh dent on poo de moneda. Alla mattina, inscì ben l'ha faa: l'è andàa in del pret, cont sti danee in la carta bagnada e l'ha miss dent el palpirœu in del cappell. E el gh'ha ditt:—«Sur Curat, sont chì. Che ie tira fœura del cappell, i danee.»—El curat, el gh'ha ditt:—«Demmi vu.»—E el paisan:—«No, no: l'è mej, che ietira su lu.»—Allora, el curat, l'ha faa per tirà su el palpirœu; e la carta l'era bagnada e la s'è rotta; e donca, gh'è restaa dent i danee in del cappell e el paisan ghe l'ha dada come el vent. E el curat, el vosava:—«Vuj! m'è restaa in man domà la carta!»—E el paisan, el gh'ha rispost:—«Anca mi, m'è restaa in man domà la cova.»—L'è finida.
IV. LA SCIORA E LA SERVA.[iv]
Ona volta, gh'era ona sciora, che la gh'aveva in cà ona serva; e l'era tant avara! La voreva minga dagh de mangià. E, ona volta, la s'è amalada sta serva, e la s'è ciappaa puntigli e l'è andada semper a mangià a ca soa. E la padronna la ghe dimandava:—«Cossa te gh'het, dì, che te manget pu?»—La serva, la gh'ha ditt:—«Sont amalada; sont stada vott dì senza mangià; e adess gh'hoo famm pu.»—La padronna, l'ha ditt:—«Provaroo anca mi a sta vott dì senza mangià, per vedè,[621] se me ven famm pu anca a mi.»—Quell di trii o quatter dì l'è andada innanz; e pœu, quell di cinq dì, l'è stada pu bonna de levass su de la gran famma; e l'era pu bonna nanca de parlà. La seguitava a fa segn con duu dit, che ghe calava[v] apenna duu dì a finì. E la serva, l'ha veduu che la parlava pu, l'è andada a ciamà el pret. El pret, el ved che la fa semper segn con sti duu dit, el gh'ha dimandaa a la serva, cossa la voreva dì con sto segn. E lee, la diseva, sta serva, che, intant che l'era in vitta, la diseva semper, che la soa sostanza l'era de spartì in duu, al curat e a la serva. E gh'andava là tutt i so parent; e ghe diseven, cosse la voreva dì? perchè la fava sti segn? E ie diseven a tutti, che la lassava la soa sostanza a duu. El pret, l'ha faa giò el so testament lu; e, quand l'è morta, han ciappàa lor duu tutt coss.
V. EL COEUGH.[vi]
Ona volta gh'era on scior, ch'el gh'aveva in nomm:—«Abbaa, che mangia e bev senza pensà.»—E gh'è andàa là el Re; l'ha veduu fœura sto cartell; el ghe dis: s'el gh'aveva[622] minga de pensà, el ghe dava lu de pensà. El gh'ha ditt de fà in vott dì i tre robb, ch'el diseva lu. Vunna, de savè digh quanti stell gh'era in ciel[vii], quanti brazza de corda ghe voreva per andà in ciel e cossa el pensava lu. El cœugh, el vedeva, ch'el so padron el cantava pu; l'era semper con la testa poggiada al tavol; e el gh'ha domandàa cossa l'è, ch'el gh'aveva. E lu, el gh'ha cuntàa su. El cœugh, el gh'ha ditt, s'el ghe dava la metà de la soa sostanza, el ghe despediva lu sta robba. El gh'ha ditt de dagh la pell d'on asen mort, on carrett de corda e el so ponc e el so tabarr. E l'è andàa lu del Re, sto cœugh. E el Re, el gh'ha ditt:—«Sicchè, quanti stell gh'è in ciel?»—E el gh'ha ditt:—«Ch'el cunta sti pel de st'asesin chì, ch'el savarà quanti stell gh'è in ciel.»—E el Re, el gh'ha ditt de cuntaj lu; e el gh'ha responduu, che la soa part l'era già cuntada, che adess el toccava al Re a cuntaj. E el gh'ha ditt: quanti brazza de corda ghe voreva per andà in ciel. E lu, el gh'ha ditt:—«Tì, ciappa la corda de andà su finna in ciel»—e pœu de vegnì giò e cuntà quanti brazza eren. E pœu, el gh'ha ditt:—«Coss'è che pensi mi?»—«Lu, el pensa che mi sia on abbàa e invece sont el cœugh e gh'hoo chi la cazzirœula de fagh provà el brœud.»—
VI. I DUU MAI—CONTET.[viii]
Gh'era ona donna, che ciamaven Chiara. L'era povera; l'andava a cercà la caritàa e a tœu su el rud[ix] per i strad. On[623] dì l'ha trovàa ona gianda de zucca e l'ha piantada. Poch temp dopo, de quella gianda è cressùu ona pianta, che la rivava finn a al ciel. So marì, el ghe dis:—«Te dovariet rampegà su quella pianta; e andà del signor, a domandagh, de dann almen pan assèe.»—E lee, l'andava su e—«Tacch, tacch!»—«Chi l'è?»—«L'è la povera Chiara, che gh'ha bisogn ona grazia.»—Allora, el signor ghe rispondeva:—«Che grazia te vœut?»—«La grazia de avegh almen pan assèe.»—«Va, che el pan assèe te ghe l'avaret.»—Dopo, el marì, el ghe diseva de tornà anmò in ciel, a cercà la grazia, d'avegh la minestra tutt i dì e la carna a la festa. E el signor:—«Te gh'avaret la minestra tutt i dì e la carna a la festa.»—Ma el marì, mai content, el ghe diseva de tornà sù, per domandà la carna tutt i dì e la tavola a la festa. El signor, semper bon, i ha vorrùu contentà anca in quest. El marì, el torna ancamò a dì de cercà la tavola tutt i dì e la carozza per andà a spass. El signor:—«Te gh'avaret la tavola tutt i dì e la carozza per andà a spass.»—Dopo, la gh'ha dimandàa al signor el titol de contessa per lee e de cont per so marì. Ma el signor, l'ha perdùu la pazienza; el gh'ha rispost:—«Va, che ti te saret ona stronzessa e to marì on stronz.»—La pianta, la s'è spezzada e l'è borlada in del rud insemma ai dùu mai—content.[x]
VII. L'ESEMPI DI OCCH.[xi]
Ona volta, gh'era on Re; e sto Re, el gh'aveva ona tosa; e lu, l'ha semper tegnuda in collegg, finchè l'è stada granda. Quand l'è stada granda, l'ha tirada a cà; e el gh'ha dimandàa,[625] se la voreva maridass o cosse l'è che la voreva fà. E lee, la gh'ha ditt, che la soa vocazion l'era d'andà monega. E lu, el gh'aveva domà che sta tosa, el ghe rincresséva. E lu, puttost che mandalla lontan, l'ha fabricàa on convent in de l'istessa citàa. E lee, allora, la restava la superiora. El Re, l'aveva fàa on lascet de tanti ben, de tanti feudi, per quej, che voreven andà monegh e che podeven minga; el ghe aveva lassàa de viv con sti fondi. I pisonant[xii] aveven semenàa[xiii]; e gh'è vegnùu giò dodes occh salvategh e gh'han mangiàa su tutt el gran. Sti pisonant hin andàa a dighel a la superiora, che lor han semenaa e che sti occh han mangiàa su el gran e che lor podeven fà pu raccolta. E la superiora, la gh'ha ditt:—«Ben, andèe a cà e disìj che vegnen chì, in del cortin rustegh, che i ciama la mader badessa.»—E lor, i pisonant, prima de mandà là i occh, n'han ciappàa vunna; e l'han fàda cœus e l'han mangiada: e lor credeven de falla franca, che la mader badessa l'avess minga savuu. I occh hin andàa propi de bon, perchè lee, la superiora,[626] l'era ona santa. Hin andàa, e lee l'ha fàa la correzion a sti occh e la gh'ha ditt:—«Cossa gh'entrèe vialter a mangià el gran de la mia campagna? l'è voster el gran?»—I occh staven lì a scoltà[xiv]. Dopo d'avegh dàa quella correzion, che la gh'aveva de dagh, la gh'ha dàa la benedizion e i occh hin andàa in alt, ma hin andàa via no, perchè ghe mancava la soa compagna. E lee, iè torna a benedì la segonda volta e lor ghe faven festa, vosaven, ma andevan via no, perchè voreven la soa compagna. E lee, lee i ha tornàa a benedì quella di tre volt e l'ha veduu che andaven minga, e lee l'ha mandàa a ciamà i pisonant, e la gh'ha dimandàa:—«Coss'avii fàa a sti occh? Disimm la veritàa, e guardèe ben de dì la bosia.»—E lor gh'han ditt:—«Nun, pœu, s'emm de dì la veritàa, quand emm vist, che vegniven chì, nun emm storgiùu el coll a vunna e l'emm mangiada.»—E lee, la ghe dis:—«Cossa gh'entrèe vialter de mangià i occh? hin voster?»—E lor gh'han ditt:—«No; hin minga noster.»—E lee, la gh'ha dimandàa:—«L'avii mangiada tutta?»—E lor gh'han ditt:—«Gh'emm là quattr'oss in la biella[xv].»—E lee, la gh'ha ditt:—«Porteemi chì, tal e qual hin; tocchej no.»—E lor gh'i han portàa, e i ha fàa press cont i man inscì in d'on pugnœu, e gh'è sortìi fœura l'oca viva, e gran festeggio! L'è andada insemma i so compagn; e tutt i so compagn han fàa gran festa a la mader badessa. E lee, i ha benedìi; e la gh'ha ditt de andà de quella part, ch'hin vegnùu.
VIII. GIOVANN
Gh'era ona volta on fiœu, ch'el se ciamava Giovann: e on dì, l'è andàa a predica. El pret, che gh'era su a predicà, el diseva, che bisognava passà per ona strada stretta e spinosa per andà[627] in paradis. Alora el Giovann, el corr a casa de la soa mamma; el ghe dis:—«Damm duu pan e des centesim, che vuj andà in paradis.»—E la soa mamma ghi ha dàa. E lu, el va, el va, el se trœuva su ona bella strada; e l'ha seguitàa a girà, ma l'ha mai trovàa quella stretta e spinosa. El va ancamò; e el trœuva finalment sta strada. Alora lu, tutt content; el tira su i calzon finna a metàa gamba, el va denter in sta strada. Ma, tutt i moment, el borlava in terra e el se insanguinava tutt. Ma l'ha fàa tant, che el gh'è reussìi andà finna in fin. Quand l'è in fin, el ved ona casa; e lu l'ha credùu, ch'el fuss el paradis, e el se mett a vosà:—«Ah Signor, sont chì anca mi in paradis con vu e cont la Madonna!»—Alora ven fœura on fràa (perchè quella casa l'era on convent de fràa) e el ghe dis:—«Ah el me poer fiœu, come te set insanguinaa!»—E l'ha ciappàa in brasc; e lu insemma a i alter fràa, l'han miss in lett. Ma de lì on poo de temp, hin minga bastàa i cur di fràa e l'è andàa propi in paradis.
IX. SANT'AMBRŒUS E I TRE TOSANN
Gh'era ona volta tre tosann pover pover, che saveven minga come fà a viv; e gh'aveven minga de mamma e minga de papà. E sti poer tosann, ghe toccava andà a messa vunna a vunna, perchè gh'aveven un vestii sol intra tre. On dì, passa via Sant'Ambrœus della casa de sti tosann e el ved sul tecc i angiol a ballà. E lu, el val denter; e el ghe dis a i tre tosann:—«Chì l'è, che sta chì in sta porta? Sii domà vialter?»—E lor ghe disen:—«Sì, semm domà nun; ma semm pover pover e gh'hemm minga de mangià.»—Allora lu, el dis:—«Ben, mi soo, ch'el signor el m'ha fàa capì, che vialter sii bonn.»—El gh'ha miss sul tavol ona borsa de danee; e el gh'ha ditt a sti tosann:—«Ve doo sta borsa, che pussee en tiraree fœura de danee, pussee ghen sarà denter[xvi]. Ma se vialter sarii cativ e consumarii i danee, guardee, che el signor el ve castigarà.»—On mes dopo, el torna a passà via. El guarda sul tecc, e invece de vedè i angiol, el ved i ciapitt, che balleven. Allora lu, el corr in casa di tosann; el ved là tanti giovin e lor vestii de seda, e la casa[628] tutta in lusso e preparàa di disnaa de princip. Alora, lu, el va adasi adasi, el porta via la borsa e pœu el ghe dis a i tosann:—«Hin quest i promess, che m'avii fa de vess bonn? e l'è quest el ben, che ghe vorii al signor? Vialter no salvarii l'anima, se no andarii in d'on desert a fa penitenza e a morì là.»—I tosann, alora, s'hin pentii; e hin cors in d'on desert, in dove no faseven che piang e pregà. Quand hin mort, s'è vist tre colomb a volà in ciel. Eren l'anima di sti tre tosann.
X. CICCIN BORLIN
Gh'era ona volta on fiœu, che se ciamava Ciccin Borlin[xvii]. E la soa mamma, on dì, la ghe dis:—«Mena i bœu a mangià in quel praa là. Te faroo on bel chisciœu[xviii]; tel mangiaret intant, ch'el bœu, el mangia.»—Ciao, el fiœu el va cont el chisciœu e el bœu. Quand l'è là, el sent ona vos sott terra, che la dis:—«Ciccin Borlin, cascia dent el to didin, in del chisciotin[xix] e te vedaret tanti bej robb.»—Lu, l'ha casciàa denter; ma apenna l'è staa dent el dit, el s'è trovaa sott terra; el s'è trovaa cont ona stria veggia veggia, che l'ha miss in caponera, e l'ha lassaa dent on mes. Quell di duu mes[xx], la va là attacch a la caponera, e la dis:—«Gigin Borlin, cascia fœura el to didin, per vedè se te set deventaa grassin.»—E lu, invece de cascià fœura el dit, l'ha casciaa fœura on ciod. E la veggia, la fa:—«Sta denter, sta denter, che te see magher ancamò.»—De lì a on poo de temp, i tosann de la stria ghe disen a la soa mamma:—«Nun vœurem mangià el Ciccin Borlin;[629] grass sì, grass no, nun el vœurem mangià.»—E la veggia, la fa:—«Com'hoo de fà a fall morì?»—«Ti, tirel fœura della caponera; e mett su on caldar d'acqua bujenta[xxi]; e digh, de fà sott et fœugh. Quand l'è drèe a fà sott el fœugh, vagh de drèe, ciappel per i gamb e buttel denter in del calder de l'acqua calda.»—Ciao, i tosann van via; e la mamma, la va a tirà fœura Ciccin Borlin de la caponera, e la ghe dis:—«Ven chì, a fà sott el fœugh.»—E lu, el dis:—«Mi sont minga bon; famm vedè come se fà.»—E lee, la ghe fà imparà; e lu, el va de drèe, le ciappa per i gamb e le butta in del caldar. Quand l'ha buttada denter, el scappa, el va su ona pianta, el sta là tant temp. Ven a casa i tosann, e se metten a vosà:—«Ven de bass a mangià el Ciccin Borlin, mamma, che l'è cott.»—E se metten a mangià la soa mamma, che l'era in del caldar. Dopo, tiren fœura la testa de la soa mamma; e se s'hin accort, che l'era la soa mamma e minga el Ciccin Borlin. Alora, hin andàa a cercà in la caponera e in giardin el Ciccin Borlin; e l'han trovaa sulla pianta; e ghe disen:—«O Ciccin Borlin, come t'hê faa a andà sulla pianta?»—E lu, el dis:—«Ho ciappaa ona bacchetta longa longa de ferr e guzza; e pœu l'hoo fada scaldà ben ben, pœu me sont settàa su e sont andaa su la pianta.»—Alora, i strij hin cors a tœu la bacchetta de ferr rossa e se s'hin settàa su tutt e do, e hin restàa lì mort. E alora, el Ciccin l'è vegnuu giò, e l'ha ciappaa tutt i danèe di strij e l'è andaa a casa a fa el scior co la soa mamma.
XI. EL FIŒU, CHE l'È ANDAA SUL SOREE.
Gh'era ona volta on fiœu, ch'el gh'aveva el papà e la mamma, che ghe daven i bott e el voreven mandà fœura de casa. Allora, sto fiœu, el se mett a piang. El so papà el ghe dis:—«Tàs; e va a tœu l'oli[xxii] e l'asee.»—El gh'ha daa i pestonitt per metti denter, e i danèe. El fiœu, el va; e, quand l'è a mezza strada, ghe borla giò i pestonitt e se rompen. Allora, lu, el dis:—«Ah poer a mi, come l'è ch'hoo de fà, a portà a casa l'asee[630] e l'oli?»—Ciao, el va innanz. El va là in de l'oliatt[xxiii];, el ghe dis:—«Ch'el me daga l'oli e l'asee.»—«Dove l'è, che l'hoo de mett, car el me fiœu, che te gh'hê minga adree i amolitt?»[xxiv]—E lu, el fa:—«Che me le metta chì, l'oli in del cappell.»—«E l'asee? dove l'è, che te l'hoo da mett?»—E lu, el volta el cappell, el lassa borlà giò tutt l'oli, e el dis:—«Che me le metta chì dessora del cappell.»—Ciao, el paga; e pœu el va a casa del so papa, ch'el ghe dis:—«Dove l'è che t'he miss l'oli e l'asee, o birbon d'on birbon?»—E lu, el ghe fa vedè el cappell, e el ghe dis:—«De chi, gh'è l'aseè!»—El volta el cappell:—«E de chi, gh'è l'oli!»—El so papà, el gh'ha dàa ona filza de bott; e le manda fœura de casa. E lu, el se mett a piang e a dì:—«Dove l'è, che hoo de andà mi adess?»—Quand ghe ven in ment, ch'el gh'aveva ona zia, sciora comè, in d'on paes visin. E lu, el va. Quand l'è su la strada, l'incontra on baston, ch'el ghe dis:—«Lassem vegnì adrèe.»—E lu, el dis:—«Mi no, mi no: cossa l'è, che hoo de fann de ti?»—El baston, el dis:—«Te vedaret, che saront[xxv] bon a quicoss.»—E ciao, el ghe va adrèe. De lì on poo de pass, l'incontra ona rœuda, che la ghe dis al fiœu:—«Lassem vegnì adrèe.»—E lu, el dis:—«Mi no; coss'hoo de fann de ti?»—E lee, la dis:—«Te vedarett, che te juttaroo.»—Dopo l'incontra on guggin[xxvi]; el fa l'istess, el ghe[631] va adrèe. Dopo l'incontra on leon; el ghe va adrèe anca lu. Dopo l'incontra on sciott de merda[xxvii]; el ghe va adrèe anca lu. E vann, vann in de sta zia sciora. E lee, la gh'era minga in casa. Allora, el baston, el dis:—«Mi me scondi de dree a l'anta[xxviii].»—La rœuda, la dis:—«E mi de dree ai sidej.»—El sciott, el dis:—«E mi sul bernàzz[xxix].»—El guggin, el dis:—«E mi me ponti denter in del sugaman.»—El leon, el dis:—«E mi voo in lett.»—El fiœu, l'è andàa sul soree[xxx]. Ven a casa la zia. Appenna denter de l'uss, el baston, el ghe dà tanti bastonad[xxxi]. La fa on pass innanz; e la rœuda, la ghe corr su i pee. La va là, per tirà su on poo de fœugh col bernàzz, e la se sporca i man. La fa per sugass in del sugaman, e la se spong. Stuffa de tutt sti malann, la fa per andà in lett, el leon le mangia. Allora, el fiœu, el ven giò del soree; l'ha ciappaa tutt i danèe de la soa zia, e l'ha faa el scior.
[i] Cf. con la Novella CCXXV del Sacchetti:—“Agnolo Moronti fa una beffa al Golfo; dormendo con lui, soffia con un mantaco sotto il copertojo; e, facendoli credere, che sia vento, lo fa quasi disperare.”—
[ii] Com'è possibile parlare di venti freddi, senza ricordarsi il faceto errore d'un famigliare del duca Litta? che, leggendogli un libro od un giornale, interpretò le parole:—“Il bastimento era spinto da un venticello fresco di S. E.”—cioè di Sud—Est, come soglion barbaramente dire, in questo modo:—“Il bastimento era spinto da un venticello fresco di Sua Eccellenza!”—
[iii] Abbiamo una Novella poco diversa appresso il Bandello: Parte IV. Novella III.—«Un cortigiano va a confessarsi; e dice, che ha avuto volontà di ancidere un uomo, benchè effetto nessuno non sia seguito. Il buon frate, che era ignorante, nol vuole assolvere, dicendo, che voluntas pro facto reputatur, e che bisogna avere l'autorità del vescovo di Ferrara: su questo una beffa, che al frate è fatta.»—Cf. anche con la novella CXCVI del Sacchetti.—«Messer Rubaconte, potestà di Firenze, dà quattro belli e nuovi judicii in favore di Begnai.»—
[iv] Se la memoria non m'inganna, il Casalicchio ha trattato questo argomento, stemperandolo con la solita sua dicitura prolissa. Ma non ne son certo; e nessuno, credo, vorrà farmi un delitto del non avere riscartabellate quelle indigeste centurie, per assicurarmi della cosa.
[v] Calà, mancare.
[vi] Cf. Pitrè. (Op. cit.) XCVII. L'Abbati senza pinzeri.—Corrisponde alla IV novella (in ottava rima) della Settimana Villereccia del barone Michele Zezza, sul tema: Può sapere un villan più d'un signore? Questa graziosa opericciattola del Zezza, stampata dapprima in un volumetto in ottavo, venne poi ristampata nelle Opere | Poetiche | di | Michele Zezza | Volume II. || Napoli, 1818 | Nella tipografia della società Filomatica. Le domande fatte all'abate dal principe sono:
Quanto i cieli da noi lontani stanno?
Quanta d'acqua nel mar copia vi sia?
Ciò che nell'Indie que' selvaggi fanno?
E quanto vale la persona mia?
Simile è,—«l'Istoria del beato Griffarrosto,»—che forma il canto VIII ed ultimo dell'Orlandino di Limerno Pitocco (Teofilo Folengo). Ecco le domande, che Rainero fa al prelato di Sutri:
Cerco saper da voi, quanto è vicino
Il ciel da terra in ogni regione.
Oltre di questo, dite giustamente
Quant'è dall'oriente all'occidente.
Due cose giunte a queste, intender anco
Desidero, Monsignor Griffarrosto:
Dite, piacendo a voi, nè più nè manco,
Quante son gocce d'acqua che ha l'angosto
Adriaco mar insino al lido franco,
Pigliando il Greco col Tirreno accosto.
Ultimamente, buon servo di dio,
Vorrei saper qual'è il pensier mio.
Franco Sacchetti. Novella IV.—«Messer Barnabò, signore di Milano, comanda a un abate, che lo chiarisca di quattro cose impossibili: di che uno mugnajo, vestitosi dei panni dello abate, per lui le chiarisce in forma, che rimane abate e l'abate rimane mugnajo.»—
[vii] Vedi la stessa dimanda nelle esempio milanese La stella Diana a pag. 42 del presente volume.
[viii] Il Liebrecht annota:—«K. M. n.º 19. Der Fischer und seine seine Frau.—G. G. G. M.DCCC.LXVIII. S. 110 zu Radloff, S. 313.»—
[ix] Rud. Vedi l'ultima postilla a pag. 191 del presente volume.
[x] È difficile il persuadersi, che Carlo Porta non fosse ispirato anche da questa novellina, quando compose il celebre sonetto sugli Ebrei scontenti della manna:
Coss'evela la manna, ch'el signor
El fava piœuv dal ciel per i sœu Ebrej?
L'era on certo compost d'ogni savor
Fàa a boccon press a pocch come i tortej.
Sti savor se postaven de per lor
In di bocch a mesura di so idej;
Voreven figattei?... rost?... cavolfior?,..
Mangiaven cavolfior, rost, figattej.
Pur gh'han avùu anmò faccia, sti canaj,
De digh a nost signor, che n'even sacc;
E lu, al de là de bon, màndegh di quaj!
Se sera mi el signor, stampononazza!
Che voreva fa piœuv in sul mostacc
Ona manna de stronz longh quatter brazza.
[xi] Il Liebrecht annota:—«Gehört zu einer weitverbreiteten mythischen Vorstellung. S. meine Bemerkung in Ebert's Jahrb. 3. 157. Heidelb. Jahrb. M.DCCC.XXIX. S. 506.»—Questa novellina mi è stata narrata da una bustocca, cioè da una di Busto Arsizio. Non so veramente da qual vita di santa sia dedotta la storia di questo miracolo, analogo a quelli di san Cucunno, derisi tanto lucianescamente dal Voltaire. Di simili tradizioni ce n'è parecchie in tutta Italia. Giuseppe Giusti, parlando della montagna pistojese in una delle sue lettere ripicchiate e pretenziosette, dopo aver accennato a tradizioni della storia antica, soggiunge:—«Vi sono quelle della moderna e alcune tradizioni d'epoca assai più recente, che sanno di scemo e di fantastico a un tempo stesso. Tra le altre, te ne riporterò due. Prima che fosse fatta la grande strada da Pistoja all'Abetone, narrano, che in un luogo detto il mal passo, cadde giù per una rave un mulo con una soma d'olio e che il conduttore, persuaso che si fosse fiaccato il collo, non volle nemmeno guardargli dietro e se ne tornò a casa tutto sconsolato. Nel tempo, che raccontava alla moglie la sua disgrazia, e che questa si scapigliava e lo rimproverava d'esser venuto via senz'altro, eccoti che sentono i sonagli all'uscio, aprono, e sai? era il mulo sano e salvo con l'olio e tutto. Questo caso l'attribuiscono a miracolo e lo narrano come un gran che, e ne hanno appeso il voto alla Madonna. Che disgrazia è la nostra di avere questo eretico di criterio! che il mulo lasciato in quello sprofondo in balìa di sè, era alla meglio risalito nella strada e tornato alla stalla, come fanno tutte le bestie domestiche! Ma quest'altra è più strana. Un tal giovane Iacuzzi da Pistoja (citano nome, paesi e millesimo) vide nel campo di Juro (dove ristorò l'Oranges) una bellissima serpe; e tanto fece, che l'ebbe presa, le cavò i denti e la teneva per casa, cibandola di semola e fancendone il suo divertimento. Non si sa come, se per isbadataggine, o perchè credesse che le serpi non bevessero, non le dava mai da bere, e così la teneva, quando cominciò a sentirsi male, a dimagrare, e le medicine non bastavano. Così andò per un anno fino a che, consultato il parere d'alcuni medici (e qui ficcano il Camici e il Vaccà) vennero a sapere la cosa della serpe e lo consigliarono a riportarla, dove l'aveva presa. Il giovane lo fece, ma non l'ebbe messa in terra, che si fece un gran temporale, e cominciarono a piovere saette e grandini, che pareva scatenato l'inferno. Domandammo: Dicerto la serpe era o un diavolo o qualche anima dannata di quei soldatacci dell'Oranges? Risposero: Eh, chi ne sa nulla?—Ma dite; la mattina era nuvolo? Risposero, accorgendosi del veleno della domanda: Eh! può anch'essere? Vidi, che le raccontano con fede; ma, se poi gli altri non le credono, non ci si piccano: viva i cristiani della montagna!»—Ecco un'altra novellina lombarda del genere meraviglioso:
EL STRION
Ona volta, gh'era fœura on omm in campagna a laorà; e el gh'ha ditt a on so amis, se l'andava adree insemma a lu a spass. E el gh'ha ditt de sì e el gh'ha insegnàa el sit, dov'eren de trovass lor duu. E quand ch'eren lì a la sera, gh'era lì duu bee negher. È l'han fàa andàa su a cuu indrèe. E el gh'ha fàa francà i man denter in del pel e el gh'ha ditt:—«Un'ora a andà e un'ora a tornà»—a sti duu monton; e hin andàa che pareven el diavol. Quand hin staa là, in de quel sit, ch'eren de fermass, hin vegnìi giò; e el strion, l'è andà in dove l'era de andà e l'ha lassàa lì quell'alter inscì de per lu. E quell'alter, el sentiva di robb là sulla scês e i ha cattàa, e eren tanti come burlitt e i ha mess in saccocc. E pœu è vegnuu quell'alter omm, hin andàa ancamò sul so monton e hin andàa a cà. A la mattinna, la soa mièe, minga del strion ma de quell'alter, l'ha trovàa tanti coraj in del fà el lett denter in di fœuj. E la gh'ha dimandàa al so marìi, dove l'era andàa a tœu sti coraj. E lu, el gh'ha cuntàa, che l'era andàa insemma a quell'alter e che l'ha trovàa là sti robb e i ha cattàa. Al dì adrèe, l'è andàa in campagna st'omm e el gh'ha ditt:—«In che sit l'è, che ti m'ha menàa, che hoo cattàa tanti coraj?»—E el gh'ha ditt:—«Menem ancora in sta sera.»—E luu, l'ha volsuu menà pu, sto strion, perchè l'ha fàa savè che l'era on strion.
[xii] Pisonant, luogajuolo, pigional campagnuolo. Il Pisonant lavora il terreno a vanga ed a braccia, non ad aratro e buoi; non paga pigione di casa e paga fitto in derrate d'un luogo, che dipassa rare volte una settantina di pertiche. Il semplice pigionale toscano è il giornadèe lombardo.
[xiii] Semenà non c'è nel Cherubini.
[xiv] Nella Vita di Sant'Antonio Abate, estratta da Sant'Atanasio, da San Girolamo, da Palladio ed altri (nelle Vite di diciassette confessori di Cristo del P. Giovan Pietro Maffei della Compagnia di Gesù) si narra, come Antonio nella Tebaida coltivasse un pezzetto di terra per sostentar sè e rifocillare i visitatori:—«E perchè diversi animali salvatichi, invitati dall'acqua, venivano a bere, e insieme facevano danno al seminato; egli, presone uno, disse molto graziosamente a lui e agli altri: Perchè fate voi danno a me, non offendendo io voi? andatene, e da parte del signore non vi accostate più qua. Cosa mirabile! Quasi impauriti da tal precetto, non osarono mai più di tornarvi.»—
[xv] Biella, tegame.
[xvi] Vedi, per borse denaripare, la novella Il figliuolo del Pecorajo a pag. 349 del presente volume e particolarmente la nota [3] a pag. 358.
[xvii] Cicin, o Ciccin, ragazzo amabile, Cecino. Borlin, tondo, grassoccio. (In tal senso manca nel Cherubini).
[xviii] «Chiscioeu, è una schiacciata, che fanno da noi con farina gialla, burro, zucchero, acqua e qualche volta anche dell'uva.»—Così la raccoglitrice. Nel Cherubini non c'è Chiscioeu, ma bensì Chiscioeura, voce contadinesca e Chizzoeu, voce de' paesi del Milanese, finitimi al Bergamasco, per Brusada o Brusava—«Stiacciata. Schiacciata. Pane soccenericcio. Pane, fatto di pasta di grano turco, abbrustolata in pochi minuti e le più volte malcotta. Nella pasta intridono spesso finocchio, cipolle, uva o simili. La Brusada di grano è detta con particolar nome Fugascia o Fugascionna in campagna; e in città Carsenza.—Brusada con dent i figh (voce e usanza brianzuola: pan ficato).»—
[xix] Chisciotin, vezzeggiativo di Chiscioeu, manca nel Cherubini.
[xx] Quell di duu, il secondo.
[xxi] Bujenta, femminile di Bujent, Bollente.
[xxii] Oli, che (secondo il Cherubini) alcuni del volgo infimissimo dicono più idiomaticamente Oeuli, ed i contadini Oeuri: Olio.
[xxiii] Oliatt, manca nel Cherubini: gli è però evidente ch'è sinonimo di Olièe; Oliandolo, oliaro; ma vocabolo contadinesco.
[xxiv] Amolitt, non c'è nel Cherubini. Debbono esser però lo stesso di Amolin, Ampolle, Ampolline.—«Si prendono comunemente per que' due vasetti da tavola, in cui tiensi l'olio e l'aceto da condire l'insalata e simili, e che i francesi distinguono in Vinaigrier ed Huilier.»—«Portamolin. Ampolliera, Panieroncino da ampolle, Portaolio. Arnese di latta, di metallo o simili, in cui si portano in tavola tutte due insieme le ampolline dell'olio e dell'aceto. S'impugna per la chiave.»—Narra il Balestrieri, che:
Ghe fu on garzon d'on ost,
Che in del portà del bev a on forestèe,
Per pressa el scappuscè.
El forestèe criè
—«Te spanteghet el vin tutt per la camera.»—
El garzon respondèe:
—«Tutt è nagott, purchè se salva l'amera.»—
[xxv] Saront, lo stesso che saroo, sarò.
[xxvi] —«Guggin, spilletto.»—
[xxvii] —«Sciott, stronzo, stronzolo»—monosillabo, l'i vi è mero segno ortografico.
[xxviii] —«Anta. Imposta. Intelajatura, per lo più di legname, che bilicata o ingangherata serve a chiudere usci o finestre.»—
[xxix] —«Bernàzz o Barnàsc. Paletta, Pala da fuoco. Ferro noto, che s'adopera nel focolare. Dal lat. Prunatium, dice il Varon Milanes; ma forse meglio dallo svizzero Bernase o Bernaase.»—
[xxx] Soree o Solee; solajo, granajo.—«Spazzacà, detto anche in vari paesi del Milanese Sorèe e Capascèe; Soffitta. Stanza a tetto. Solajo. Quel vano, che l'arcatura dei tetti d'una casa lascia fra essi e l'impalcatura delle stanze immediatamente inferiori al tetto, e dove si sogliono riporre legne, vecchiumi, eccetera.»—
[xxxi] Bastonad, plurale di Bastonada, che, secondo i casi, diremo bastonata, bacchiata, randellata, batacchiata, vincastrata, giannettata, mazzata, ecc. ecc.
FINE.
N. B. I titoli delle Novelle sono indicati in quest'indice in corsivo; i nomi degli autori delle allegate in majuscoletto. L'Asterisco * indica la Novelletta trovarsi nelle postille alle Note; la crocetta + essere delle somministrate dallo avv. prof. Gherardo Nerucci ed il segno § contraddistingue quelle in dialetto.
Dedica—Prefazione. Alla Gigia | pag. | v | |
Note | » | ix | |
Pica loquax (Bebel. Cf. pag. 113) | » | xiij | |
Impiccagione di Eberto (Domenichi. Cf. pag. 312) | » | ivi | |
A Marta e Gigina. (Dedica premessa alla prima edizione) | » | 1 | |
Novella I. | |||
L'Orco | » | 7 | |
Note | » | 10 | |
Novella II. | |||
Il Contadino, che aveva tre figlioli | » | 12 | |
Note | » | 28 | |
Novella III. | |||
La Verdea | » | 30 | |
Note | » | 41 | |
§ | La Stella Diana (Milano) | » | 42 |
* | Si mostra a qual precipizio conduca la passione dello interesse (Frammento del Casalicchio) | » | 45 |
* | La morte dare grande spavento alle persone (Guicciardini) | » | 46 |
Voci de' venditori ambulanti in Firenze | » | 48 | |
Fuga della Cornelia (Frammento del Bandello) | » | 50 | |
* | Storia di Campriano (Frammento. Cf. pag. 603) | » | 51 |
Fuga di Tito (Polieno) | » | 52 | |
Novella IV. | |||
+ | La Bella Giovanna | » | 53 |
Note | » | 66 | |
Calabresata | » | ivi | |
[634] | |||
Novella V. | |||
Il Mondo sottoterra | » | 70 | |
Note | » | 74 | |
I tre fratelli e le tre principesse liberate (Sora) | » | ivi | |
Frammento della Dianea del Loredano | » | 78 | |
Novella VI. | |||
L'Uccellino, che parla | » | 81 | |
Note | » | 93 | |
Istoria della Regina Stella e Mattabruna (Frammento) | » | ivi | |
§ | La Reginna in del desert (Milano) | » | 97 |
* | Gh'hin | » | 101 |
Specchi magici | » | 103 | |
Novella VII. | |||
L'Uccel Bel—Verde | » | 104 | |
Note | » | 110 | |
Impietrimenti | » | 112 | |
Il corvo spelato (Lando. Cf. pag. xiij) | » | 113 | |
Il fanello della Marca (Lando) | » | ivi | |
Novella VIII. | |||
+ | I figlioli della campagnola | » | 114 |
Note | » | 124 | |
Novella IX. | |||
+ | Il Canto e 'l sono della Sara Sibilla | » | 125 |
Note | » | 136 | |
La Fiorentina al Festino (Zanetto) | » | 137 | |
Berta al Veglione (Pananti) | » | ivi | |
Novella X. | |||
Re Messèmi—gli—becca—'l—fumo | » | 138 | |
Note | » | 145 | |
Costantino Fortunato (Straparola) | » | 146 | |
Notajo Fiorentíno e Marchese Milanese | » | 149 | |
Gatta innamorata d'un fanciullo (Guicciardini) | » | ivi | |
Re Carlo Alberto a Cuneo | » | ivi | |
Novella XI. | |||
La Cenerentola | » | 151 | |
Note | » | 157 | |
§ | La Scindiroeura (Milano) | » | 158 |
§ | Scindirin—Scindiroeu (Milano) | » | 162 |
Fuga di Lacare (Polieno) | » | 166 | |
[635] | |||
Novella XII. | |||
Il Re Porco | » | 168 | |
Note | » | 175 | |
§ | El Corbattin (Milano) | » | 176 |
Novella XIII. | |||
Il Luccio | » | 183 | |
Note | » | 190 | |
§ | El Sidellin (Milano) | » | ivi |
Pietro Pazzo (Frammento dello Straparola) | » | 194 | |
Novella XIV. | |||
La Bella e la Brutta | » | 195 | |
Note | » | 201 | |
Novella XV. | |||
+ | La Bella Caterina | » | 202 |
Note | » | 208 | |
Novella XVI. | |||
La Prezzemolina | » | 209 | |
Note | » | 215 | |
Demogorgone | » | 216 | |
Novella XVII. | |||
Il Re Avaro | » | 217 | |
Note | » | 227 | |
Fortunio (Frammento dello Straparola) | » | ivi | |
Storia bellissima di Angelina Siciliana (Frammento) | » | 228 | |
La Morte di Scirone ladrone (Vincenzo Marenco) | » | 229 | |
Novella XVIII. | |||
Il Re, che andava a caccia | » | 232 | |
Note | » | 236 | |
Novella XIX. | |||
+ | La Bell'Ostessina | » | 239 |
Note | » | 250 | |
Non è più 'l tempo, che Berta filava | » | ivi | |
Salvar capra e cavoli | » | 251 | |
Cicilia e Rinieri (Frammento del Giraldi) | » | 252 | |
* | Spropositi del Warburton e del Beyreis | » | ivi |
Frammenti del Pentimento Amoroso del Groto | » | 253 | |
Frammenti degl'Intrighi d'Amore del Tasso | » | 259 | |
Frammento de La Bella Fiorlinda | » | 263 | |
[636] | |||
Novella XX. | |||
I tre Fratelli | » | 266 | |
Note | » | 270 | |
Novella XXI. | |||
La Maestra | » | 271 | |
Note | » | 275 | |
* | L'Esempi di tre Tosann (Milano) | » | 277 |
Al lupo! al lupo! (Frammento di Vincenzo Jacobilli) | » | 278 | |
Oh che sito! | » | 279 | |
Novella XXII. | |||
Gli Assassini | » | 281 | |
Note | » | 288 | |
Novella XXIII. | |||
+ | Le tre Fornarine | » | 290 |
Note | » | 298 | |
§ | I tre Tosann del Prestinee (Milano) | » | ivi |
Astuzia di Niccolò Piccinino (Domenichi) | » | 304 | |
Novella XXIV. | |||
Le tre Melarance | » | 305 | |
Note | » | 308 | |
§ | I trii Naranz (Milano) | » | ivi |
Frammento dell'Alessandro del Metastasio (Cf. p. xiij) | » | 312 | |
Novella XXV. | |||
Oraggio e Bianchinetta | » | 314 | |
Note | » | 316 | |
L'Arpa stupenda (S. S.) | » | 317 | |
Novella XXVI. | |||
+ | Zelinda e il Mostro | » | 319 |
Note | » | 327 | |
§ | L'Ombrion (Milano) | » | ivi |
§ | Frammento della Gatta Cennerentola del Basile | » | 332 |
§ | 'A Fata Orlanna (Napoli) | » | 333 |
§ | L'Esempi del Scimbiott e di ros (Milano) | » | 338 |
§ | El Tredesin (Milano) | » | 340 |
§* | Lo Felosofo de Posilleco (Sarnelli) | » | 341 |
* | Il purista confuso (Da Ponte) | » | 345 |
Incantesimo fatto da Virgilio | » | 347 | |
[637] | |||
Novella XXVII. | |||
+ | Il figliolo del pecorajo | » | 349 |
Note | » | 356 | |
Messer Nazario (Costo) | » | 358 | |
Dialogo tra Piacevolezza e Desio (De Forte) | » | 359 | |
Novella XXVIII. | |||
+ | Il Mago dalle Sette Teste | » | 375 |
Note | » | 386 | |
§ | L'Esempi di trii fradej (Milano) | » | 387 |
* | La Beffania (Domenichi) | » | 389 |
+ | Il Pesciolino (Montale—Pistojese) | » | 390 |
Novella XXIX. | |||
Le due Belle Gioje | » | 397 | |
Note | » | 409 | |
Frammento dell'Etiopiche di Eliodoro | » | 410 | |
Frammento del Teagene del Basile | » | ivi | |
§ | El Re del Sol (Milano) | » | 411 |
* | Il Credenziere bergamasco (Domenichi) | » | 412 |
§ | I trii Naranz (Milano) | » | 415 |
§ | I tre Tosann del Re (Milano) | » | 417 |
Novella XXX. | |||
L'Impietrito | » | 421 | |
Note | » | 437 | |
Sogno di Nifeo (Basile) | » | 438 | |
Novella XXXI. | |||
La Novella di Leombruno | » | 440 | |
Note | » | 454 | |
Bellissima Istoria di Leombruno | » | ivi | |
L'Improvvisatore spropositante | » | 473 | |
Variante del precedente aneddoto | » | ivi | |
Novella XXXII. | |||
La Novella del Signor Giovanni | » | 474 | |
Note | » | 493 | |
Innamoramenti per ritratti | » | 495 | |
Novella XXXIII. | |||
+ | Contento nimo nel mondo | » | 497 |
Note | » | 499 | |
La moglie di buon cuore (Zanetto) | » | ivi | |
[638] | |||
Novella XXXIV. | |||
+ | Fiorindo e Chiara—Stella | » | 500 |
Note | » | 505 | |
Novella XXXV. | |||
+ | Adelame e Adelasia | » | 508 |
Note | » | 522 | |
§ | La Monega (Milano) | » | ivi |
Eremita promissa barba insignis (Bebel) | » | 526 | |
Novella XXXVI. | |||
+ | Il Figliolo del Re di Portogallo | » | 527 |
Note | » | 535 | |
Novella XXXVII. | |||
+ | Fanta—Ghirò, persona bella | » | 537 |
Nota | » | 543 | |
Novella XXXVIII. | |||
La Frittatina | » | 545 | |
Note | » | ivi | |
Come s'hanno a cuocere i funghi (Tresatti) | » | ivi | |
Frammento della Tragicommedia Vita, Pentimento e morte di Pietro Bailardo | » | 546 | |
Novella XXXIX. | |||
La Donnina piccina piccina piccina picciò | » | 547 | |
Note | » | ivi | |
Novella XL. | |||
Petruzzo | » | 548 | |
Nota | » | 550 | |
Novella XLI. | |||
Il Topo | » | 551 | |
Note | » | 552 | |
§ | El Ratton e el Rattin (Milano) | » | ivi |
§ | On Re e do Zoccor (Milano) | » | 554 |
§* | La Canzone di Ciulletella | » | ivi |
Frammento dell'Asino d'Oro del Firenzuola | » | 555 | |
Novella XLII. | |||
La Capra ferrata | » | 556 | |
Note | » | 558 | |
La Capra e la Volpe (Morosi) | » | ivi | |
[639] | |||
Novella XLIII. | |||
I due Gobbi | » | 559 | |
Note | » | 561 | |
Il Gobbo di Peretola (Redi) | » | ivi | |
Lo Spagnuolo, che voleva star meglio (Zezza) | » | 563 | |
L'Italien, qui se maria pour être mieux (De Lantier) | » | ivi | |
Facezia di Messer Poncino a tre gobbi | » | 564 | |
Gli equivoci, certe volte, sono la rovina dell'uomo (Somma) | » | 565 | |
Novella XLIV. | |||
La Novella del Signor Donato | » | 567 | |
Note | » | 568 | |
§ | La Reginna superba (Milano) | » | ivi |
Il Garzone dello Speziale (Costo) | » | 569 | |
Il Gallo, chiapparello | » | 570 | |
§ | L'omm, apôs al domm (Milano) | » | ivi |
§ | L'omm, che andava a Romma (Milano) | » | ivi |
§ | El Gessumin (Milano) | » | 571 |
Il Giraldi, che dà i Nonnini | » | ivi | |
§ | Fatta, Salada e Scoa (Milano) | » | 572 |
§ | 'Nzogna, 'Rasso e Stoppa (Pomigliano d'Arco) | » | ivi |
§ | El Pegoree (Milano) | » | ivi |
Mercurius et Mulieres (dalle Favole Fedriane) | » | 573 | |
Novella XLV. | |||
L' Ammazzasette | » | 574 | |
Nota | » | 575 | |
§ | El Sciavattin (Milano) | » | ivi |
§ | El Sciavattin, Variante (Milano) | » | 577 |
§ | El Sciavattin, Variante (Milano) | » | 578 |
§ | El Sciavattin, Variante (Gallarate) | » | 579 |
Novella XLVI. | |||
+ | La Novella del sonno | » | 581 |
Note | » | 585 | |
Aneddoto di Re Carlo Borbone (E. Bevebe) | » | ivi | |
Le bonhomme Cardero (Voltaire) | » | 586 | |
Von dem Pfarrherr von Kalemberg (Babel) | » | ivi | |
Novella XLVII. | |||
+ | Manfane, Tanfane e Zufilo | » | 587 |
Note | » | 592 | |
Trianniscia (Morosi) | » | ivi | |
+ | Il Mattarugiolo e il Savio (Montale—Pistojese) | » | 594 |
* | [640]De fatuo rustico (Bebel) | » | 595 |
§ | El Pegorée (Milano) | » | 599 |
Don Marco e Donna Sofia (Zanetto) | » | 601 | |
§ | L'Esempi di Lader (Milano) | » | ivi |
Dar la Berta, Frammento della Storia di Campriano (Cf. pag 51) | » | 603 | |
§ | L'Esempi de Bertold (Milano) | » | 604 |
* | Prete Scarpacifico, Frammento (Straparola) | » | 605 |
Novella XLVIII. | |||
Il Prete che mangia la paglia | » | 607 | |
Note | » | 612 | |
Novella XLIX. | |||
§+ | Far' e patti (Montale—Pistojese) | » | 613 |
Note | » | 615 | |
Novella L. | |||
I Tre Amici (Castrocaro) | » | 616 | |
Note | » | 617 | |
§ | El Boffett (Milano) | » | 618 |
* | Il Venticello fresco di Sua Eccellenza | » | ivi |
§ | El Curat, che l'era ignorant comè (Milano) | » | 619 |
§ | El paisan e el pret (Milano) | » | ivi |
§ | La sciora e la serva (Milano) | » | 620 |
§ | El cœugh (Milano) | » | 621 |
§ | I duu mai—content (Milano) | » | 622 |
§ | L'Esempî di occh (Milano) | » | 624 |
* | Il mulo caduto giù per una rave (Giusti) | » | ivi |
* | La serpe che non beveva (Giusti) | » | ivi |
§* | El Strion (Milano) | » | 625 |
* | Miracolo di Sant'Antonio (Maffei) | » | 626 |
§ | Giovann (Milano) | » | ivi |
§ | Sant'Ambrœus e i tre tosann (Milano) | » | 627 |
§ | Ciccin Borlin (Milano) | » | 628 |
§ | El fiœu, che l'è andaa sul soree (Milano) | » | 629 |
§* | El garzon de l'Ost (Balestrieri) | » | 630 |