The Project Gutenberg eBook of La vendetta paterna This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: La vendetta paterna Author: Francesco Domenico Guerrazzi Release date: January 15, 2015 [eBook #47978] Most recently updated: October 24, 2024 Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VENDETTA PATERNA *** BIBLIOTECA CLASSICA POPOLARE Volume VII F. D. GUERRAZZI LA VENDETTA PATERNA LETTERE INEDITE PREDICA DEL VENERDÌ SANTO CON PREFAZIONE DI G. STIAVELLI ROMA EDOARDO PERINO, TIPOGRAFO EDITORE Via del Lavatore 88 1888 FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI _Pochi, in verità, diedero sè stessi alla patria quanto Francesco Domenico Guerrazzi. Pochi ebbero la sua fede in un avvenire di libertà e di civiltà, la sua tenacia nei propositi, il suo carattere, il suo ingegno. Pochi lavorarono come lui alla effettuazione di un ideale._ _E l'ideale di F. D. Guerrazzi fu una Italia democratica, veramente libera, senza padroni e senza servi, senza moderati e senza preti, una Italia conscia di sè, senza tutori e senza pupilli, una Italia infine che non avesse paure, che non commettesse vigliaccherie. A questo ideale bellissimo, che fu pure quello di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, consacrò egli la giovinezza, la virilità, la vecchiaia._ _L'ideale di Mazzini, di Garibaldi, di Guerrazzi e tanti e tanti altri e pensatori, e soldati, e martiri, non si è per anche tradotto in fatto. Ma non disperiamo dei destini della patria. Ma lavorino i giovani, ma non si addormenti il popolo, e l'Italia vagheggiata da quei pensatori, da quei soldati, da quei martiri, sarà._ _In alto i cuori, o gioventù d'Italia! Fede e ardire, o popolo italiano! e l'alba dei giorni promessi, dei giorni tanto aspettati, arriderà alla patria, veramente a libera vita risorta._ _Ma questo non avverrà fino a che «l'odio per qualunque servitù e l'odio per qualunque tirannia» non avrà messo ben salde radici nei petti, come per tempo le mise in quello fortissimo di F. D. Guerrazzi._ _Nato a Livorno il 12 agosto del 1805, da gente antica, dedita un tempo all'agricoltura e alla guerra, il Guerrazzi ebbe educazione «popolana e severa», come egli stesso ci dice nelle sue auree _Memorie_. Il padre, che era lettore fervidissimo della storia di Roma antica, gl'inculcò primo nell'anima l'amore alla libertà e l'odio verso ogni tirannide. Un giorno che il piccolo Francesco Domenico si mostrava meravigliato delle geste di Pompeo e di Catone, il padre gli disse: «Eppure uomini erano e mortali come te!...», facendogli in questo modo capire che egli pure, quando gli fosse bastato l'animo, li avrebbe potuto emulare. E certamente una grande impressione fece sul giovinetto questa sentenza che il padre gli andava spesso ripetendo: «Meglio vale vivere un giorno come un leone, che venti anni come una pecora»; sentenza che Tippoo-Saib volle incisa sui gradini del suo trono._ _Per la libertà e per la patria, suoi santissimi amori, incominciò presto il Guerrazzi a fare, a soffrire._ _Sedicenne, mentre studiava legge a Pisa, venne per un anno bandito dalla università, reo di aver letto e commentato ai compagni i giornali che recarono le novelle di Napoli tumultuante. Gli parve quell'atto, come era, un abuso di potere, e, adiratissimo, andò a Firenze per chiedere giustizia al presidente del così detto _buon governo_, Aurelio Pilotini. — Questi gli disse di non potere far nulla in suo favore. Egli allora gli rispose, spartanamente: «Io ti compiango, signore, se occupando un posto, dove, anche senza volere, fate del male, e al malfatto non potete riparare, neanche volendo, la vostra coscienza vi consente di rimanere.» — Sono parole che ci dicono quanta fierezza, nella quasi universale paura, albergava nell'anima del giovinetto Guerrazzi; parole che pochi, anche oggi, in tanto strombazzamento di libertà, avrebbero il coraggio di pronunziare dinanzi all'ultimo rappresentante del_ potere costituito. _Laureatosi poi in legge, e ritornato a Livorno, nel 1831 ebbe una condanna di sei mesi di confino a Montepulciano, apparentemente per avere espresso idee troppo ardite in un elogio di Cosimo Del Fante, vecchio soldato delle guerre napoleoniche, elogio che egli lesse nell'Accademia labronica, ma in realtà perchè caduto in sospetto di avere aiutata l'Umbria ad insorgere._ _A Montepulciano fu a visitarlo Giuseppe Mazzini. Quelle due grandi anime s'intesero, e suggellarono in un bacio fraterno la loro fede all'Italia. Noi non sappiamo le parole che il Mazzini e il Guerrazzi si scambiarono; ma certamente dovettero essere parole di fuoco._ _Dopo i sei mesi di confino, il Guerrazzi andò a Firenze, smaniosissimo di fare. Colà strinse amicizia con Pietro Colletta, con Gabriele Pepe, col Giordani, col Leopardi, col Capponi, col Ranieri, con quanti erano a Firenze e letterati e patriotti, ma non trovò in tutti lo ardimento che lo animava. I più credevano immaturi i tempi ed erano di avviso che si dovesse ancora aspettare. Egli no; e, d'accordo con pochi, fece. Cercò di rovesciare il governo granducale e di dare così alle cose di Toscana un più libero assetto. Ma, scoperto, fu rimandato a Livorno «con ordine di non uscire dalle porte e ritirarsi a casa alle ore ventiquattro», com'egli ci narra. Oggi si direbbe: fu _ammonito_. Ciò non per tanto, continuò in Livorno a darsi da fare; e fu largo di aiuti di ogni sorta coi perseguitati dal governo papale che, fuggiti di Romagna, erano di passaggio per la Toscana._ _Stretto in dimestichezza con Giuseppe Mazzini, il profeta dell'Italia, del popolo, fondò con lui e con Carlo Bini, candidissima anima, lo _Indicatore Livornese_, un foglio che, con la scusa di propugnare il romanticismo, propugnava la rivoluzione._ _Accusato poi di avere aiutata la impresa di Savoja, fu arrestato di notte tempo, messo in prigione «fra, omicidi, donne di mala fama e facinorosi di ogni maniera», e rinchiuso indi a poco nel forte Stella di Portoferrajo, tra i prigionieri di Stato. Colà dentro, nel 1834, in mezzo a patimenti di ogni fatta, scrisse l'_Assedio di Firenze_, il suo capolavoro, il libro che non morrà. Già il Guerrazzi aveva scritto una tragedia intitolata _da Priamo_, i _Bianchi e i Neri_, che furono rappresentati al Teatro Carlo Lodovico di Livorno, tra un uragano di fischi, e la _Battaglia di Benevento_. Ma dello scrittore diremo poi._ _Nel 1847, ai primi fremiti di libertà che novellamente corsero l'Italia, lanciò fuori la rovente sua lettera al Mazzini, una lettera che quei fremiti aumentava, una lettera che era una scossa elettrica. In essa diceva al grande agitatore genovese: «Vieni, prima che la mia vita cessi, come rivo tra i sassi, nei giorni del sole. Io per aspettarti mi soffermo sopra il limitare della morte, che invoco. Impotente a stringere la spada come il Bardo normanno, mi ti porrò al fianco nel giorno della battaglia vicina; m'avanza qualche immagine di poeta nella testa, qualche affetto nel cuore da potere inalzare un ultimo canto — o la requie — o il trionfo dei valorosi.»_ _Corso a Firenze, dove Leopoldo II ondeggiava tra gli austriaci e le riforme, il Guerrazzi arringa il popolo, gli parla di patria, di libertà, lo sprona a fare, a sorgere, a imporre il suo volere al Granduca titubante. È arrestato nel gennaio del 1848 per ordine del Ridolfi, e rinchiuso nel Falcone di Portoferraio. Uscito di carcere in marzo, dopo la proclamazione della Costituente, ricomparisce in Firenze, allora tutta sottosopra, e dagli elettori di San Frediano viene eletto a far parte del Consiglio generale toscano. Nel settembre di quello stesso anno è mandato a Livorno perchè plachi il popolo e lo consigli a non commettere violenze, le quali molto avrebbero compromessa la causa della libertà. Ascoltata è la sua parola, seguito il suo consiglio. Ritornato a Firenze, vien nominalo ministro dell'interno; e, con Montanelli e con Mazzoni, pure ministri, cerca di mantenere il Granduca sulla via delle riforme. Ma il Granduca, impauritosi, fugge. Allora il Guerrazzi, il Montanelli, il Mazzoni, prendono le redini delle cose e costituiscono il governo provvisorio della Toscana. Sventano la congiura del generale Laugier, stato incaricato di sottomettere nuovamente il paese, e si rendono molto benemeriti della patria._ _Nella notte del 27 marzo 1849, viene il Guerrazzi nominato dittatore della Toscana: e, in quella carica, dà prova di alto coraggio e di grande energia. Ha da lottare contro gli austriacanti, contro i lorenesi, contro i moderati, anche contro il popolino, ma non si sgomenta per ciò; lotta e non si lascia vincere. È una fibra di ferro che, non soltanto non si rompe, ma nemmeno si piega. In quei giorni, F. D. Guerrazzi fu veramente grande; grande quanto un reggitore di stati espertissimo; grande quanto un eroe antico._ _Avvenuta, il 12 aprile, la restaurazione granducale, il Guerrazzi fu imprigionato nel forte di Belvedere. Indi, prima che gli Austriaci entrassero in Firenze per accompagnarvi Leopoldo II, fu trasferito nel Maschio di Volterra. Da quel carcere passò, nel novembre del 1849, in quello delle Murate di Firenze; e vi rimase fino al 1853. In questo secondo carcere scrisse parte della _Beatrice Cenci_ e _La Vendetta paterna_. Così non rimaneva egli inoperoso._ _Fattogli il processo, venne condannato all'ergastolo: ma la condanna gli venne poi commutata in quella di confino in Corsica._ _Si cercò nel processo di coglierlo in fallo per abuso del pubblico denaro, che egli avrebbe commesso nella sua qualità prima di ministro, poi di Dittatore: ma non vi si riuscì. Fu anzi provato che, in tutto il tempo che egli rimase al potere, non solo non aveva abusato del denaro del pubblico, ma vi aveva rimesso «del suo più del doppio dello stipendio.»_ _A propria difesa scrisse il Guerrazzi l'_Apologia_, nella quale vi hanno pagine eloquentissime, che anche oggi non si leggono senza ammirare._ _Il Guerrazzi giunse a Bastia nell'agosto del 1853 e vi rimase fino all'ottobre del 1856. Ivi terminò la _Beatrice Cenci_ e scrisse la novella_ «Fides». _Intimatogli poi il _«domicilio coatto»_, fuggì a Capraja, e di lì andò a Genova. Vi rimase fino a che il _danno_ e la _vergogna_ della patria durarono. Nell'epico _cinquantanove_ ricomparve in Toscana, e molto si adoperò per l'annessione di quella terra al regno unito d'Italia. Fu quindi eletto deputato prima a Rocca S. Casciano, poi a Livorno, poi a Casalmaggiore, poi a Caltanissetta, finchè, nelle elezioni del 1870, con patente ingiustizia ed ingratitudine, non venne lasciato in disparte; di che molto egli si accorò ed indispettì._ _Nella camera dei deputati il Guerrazzi sedè costantemente a sinistra, e spesso parlò, ascoltato sempre. Memorabile è il discorso che pronunziò contro la cessione di Nizza alla Francia. Disse parergli delitto levare col voto la patria a Garibaldi, quando egli, per ridarci con la spada la nostra, aveva messo a repentaglio la vita; e ammonì che cedere Nizza alla Francia era lo stesso di conficcare un chiodo nella bara della unità italiana._ _Generose, magnanime parole, ma vane!_ _Contro la _setta dei moderati_, come egli la chiamava, il Guerrazzi se la prese a morte, e attribuì ad essa tutte, o quasi, le disgrazie che poi all'Italia derivarono. Ma se egli avesse vissuto ancora, avrebbe detto forse egualmente di coloro che ai moderati successero nel governo della cosa pubblica, poi che gli uni non gli sarebbero parsi molto migliori degli altri._ _Ritiratosi a vita privata, nella sua nativa Livorno, fu spettatore di vergogne e di codardie senza nome, e ne rimase stomacato. La ingratitudine della nuova Italia, al cui risorgimento sapeva di aver tanto contribuito, lo ferì nel più vivo dell'anima. Mentre il governo livornese gli aveva fatto offrire una cattedra di letteratura nella università di Pisa, cattedra che egli sdegnosamente rifiutò, nessuna offerta gli venne mai fatta dal governo della nuova Italia, nemmeno quella del più umile posto di professorucolo, quasichè valesse egli di meno dei tanti ex preti, ex frati, ex austriacanti, ex Borbonici, ex papalini, verso dei quali i ministri della monarchia furono così prodighi d'impieghi e di onorificenze._ _Il Guerrazzi, nauseatosi della vita cittadina, ove tanto fango aveva visto agitarsi, si ritirò nei suoi ultimi anni al Fitto di Cecina, nella forte Maremma toscana, e colà visse «in compagnia del mare, delle foreste scarmigliate dal vento e della malaria, invocando, e non potendo ottenere, pace», come egli stesso ebbe a scrivere. Dalla fiera solitudine del Fitto di Cecina levava di tanto in tanto la voce a difesa dei diritti del popolo e a condanna di coloro che quei diritti ledevano, e le parole del vecchio solitario avevano un'eco potente in tutta l'Italia. — Vicino a morire, e conscio del suo prossimo fine, manteneva tutta la fierezza della gioventù, tanto da scrivere ad un amico: «Riapro il mio testamento per ordinare che, morto, mi brucino, e la cenere conservino in casa. La mia pelle, per gli Dei superi ed inferi, non servirà da tamburo in fiera ai ciarlatani moderati.»_ _La morte lo colse improvvisamente al Fitto di Cecina nella sua villa della _Cinquantina_, la sera del 23 settembre 1873. Ebbe grandi funerali di popolo, ai quali tutta Italia prese parte in ispirito, ed onorata sepoltura vicino alle ossa paterne, sul monte a capo della terra che gli fu culla, come, prima che lo sdegno gli suggerisse le sopra riportate parole, era stato suo desiderio._ _A quella tomba le madri italiane conducano i figli, e dicano loro le parole che nella splendida introduzione alla _Beatrice Cenci_ il Guerrazzi scrisse di sè:_ _«Qui dentro riposa un uomo, che ebbe la fortuna nemica fino dall'ora che gli versarono sul capo l'acqua del battesimo: tutta la sua vita fu una lunga lotta con lei; ma le lotte con la fortuna assomigliano a quella di Giacobbe con l'Angelo. Superato, non vinto, amò, soffrì e si travagliò del continuo pel decoro della Patria. Non provò amici popoli, nè principi; — lo saettarono tutti. Dall'alto e dal basso gli lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli logorarono le carceri; parte l'esilio. Prigioniero, meditò e scrisse: libero, si affaticò per la salvezza comune, e principalmente per quella de' suoi nemici ed emuli. Invano la ingratitudine tentò riempirgli l'anima d'odio. Le acque dell'affanno lasciavano ogni amarezza nel passargli sul cuore. Offeso, gli piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto, che tenne la vendetta passione di menti plebee: nè perdonava soltanto, ma (più ardua cosa assai) egli obliò._ _«La spada della legge, confidata nelle sue mani, non convertì in pugnale di assassino. — Quando altro non potè fare, col proprio seno tutelò la vita di uomini che sapeva essergli stati, e che avrebbero durato ad essergli, nemici. — Il popolo un giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo gittarono alle moltitudini insanite come schiavo nel circo delle fiere. Consumato nelle viscere, egli cadde sopra un mucchio di rovine e di speranze; e non pertanto, morendo, lasciava alle genti il desiderio di costumi migliori, e di tempi meno infelici. Le sue dita, con ultimo moto, segnarono per testamento sopra questa terra desolata le parole:_ Virtù, Libertà.» — _La forte, l'eroica, la socialistica Livorno decretò a quel suo grande figliuolo un monumento; e questo sorse il 17 maggio 1885, nella piazza che da F. D. Guerrazzi prese nome. Bene! Ma perchè raffigurare il Guerrazzi seduto, in atteggiamento di un notaio che stia rogando un suo atto, o di un fattore che pensi i saldi annuali? — Il Guerrazzi, o scultore Lorenzo Gori, doveva essere raffigurato su dritto della bella, della nobile persona, su fieramente impettito, tutto muscoli, in atto o di contemplare, superbo e sdegnoso, le bassezze pullulantigli ai piedi, o di gittare alle turbe la parola della libertà, la fatidica parola contenuta nei libri di lui. Oltre che con le azioni valorosissime, il Guerrazzi lavorò alla effettuazione del suo bello e forte ideale con le opere dello ingegno: esse, può dirsi, furono tutte a questo scopo dirette._ _E bene a ragione poteva egli scrivere al Mazzini: «Scopo supremo per me era tentare se scintilla alcuna restasse nel corpo della patria per accendere di vita le presenti e le future generazioni. Non mi pareva che corresse stagione di badare come le acconceremmo il manto o la corona; la questione era quella d'Amleto: _essere o non essere_. Tutto il mio concetto sta in questi versi di Francesco Petrarca:_ _«Che si aspetti non so, nè che si agogni_ _Italia, che i suoi guai par che non senta,_ _Vecchia, oziosa e lenta._ _Dormirà sempre, e non fia chi la svegli?_ _La man le avess'io avvolta entro i capegli!» —_ _«Quindi reputai carità adoperare tutti i tormenti praticati dagli antichi tiranni, e dal Santo Uffizio, ed altri ancora più atroci inventarne per eccitare la sensibilità di questa patria caduta in miserabile letargia; io la feriva e nelle ferite infondeva zolfo e pece infocati; la galvanizzava, e Dio solo conosce la mia tremenda ansietà quando le vedevo muovere le labbra livide e gli occhi spenti»._ _Non potendo egli combattere una battaglia, scriveva un libro; ed il libro, diremo con Giuseppe Mazzini «aveva in sè tutte le ispirazioni, tutte le alternative, tutto il furore d'una battaglia»; — il libro era una battaglia veramente. Contro chi? — Contro i nemici della patria e del popolo, chiunque si fossero, da dovunque venissero, prima contro i tiranni estranei, poi contro quelli indigeni, contro tedeschi, contro preti, contro moderati, contro tutti furfanti. E le pagine del Livornese bruciavano come tizzoni ardenti, come bottoni infocati, tagliavano come spade affilate, come baionette, come mannaie, facevano piaghe profonde, sanguinanti permanentemente, non rimarginabili._ _I colpiti dalla prosa del Livornese non trovavano più pace, quella prosa li stigmatizzava, l'infamava, li metteva alla berlina. Erano allegre vendette quelle del Guerrazzi, fatte in nome dell'Italia e del popolo! Si leggano la _Battaglia di Benevento_, l'_Assedio di Firenze_, la _Beatrice Cenci_, il _Pasquale Paoli_, il _Secolo che muore_, l'ultimo lavoro di lui, e si giudichi. Si giudichi se i libri del Livornese sono o no battaglie campali; se in essi il Livornese riuscì o no a rimescolare cielo, terra e inferno. L'Italia la rimescolò tutta, da un capo all'altro. La sua _Battaglia di Benevento_ e il suo _Assedio di Firenze_ furono il «sorgi e cammina» gridato alla patria che pareva cadavere._ _In proposito del Guerrazzi bene osserva Giuseppe Mazzini: «L'ufficio dello scrittore s'è rivestito nel suo concetto dei caratteri d'una missione. Audacie, pericoli, dolori inseparabili da ogni missione, egli ha tutto accettato. Ei s'è incarnata la patria. Le ferite della patria son sue ferite; i nemici della patria son suoi nemici; ed egli ha cacciato, non potendo altro, il guanto a tutti; papa, impero, oppressori o seduttori stranieri, oppressori o seduttori domestici, sono flagellati, flagellati a sangue uno per uno.»_ _Dalla lettura dei libri del Guerrazzi i giovani italiani si alzavano soldati, si alzavano eroi, come se tocchi da un qualche intuibile nume benefico. Ed entravano pieni di fede nelle cospirazioni, affrontavano sorridendo il patibolo, salivano cantando sulle barricate, si scagliavano come leoni nelle battaglie, e morivano col santo nome d'Italia sulle labbra...._ _Oh immortale rettorica, se rettorica è questa! —_ _I pedantuzzi d'Italia, essi che mai _non fur vivi_, ostentano oggi un grande disprezzo per le opere letterarie del Guerrazzi, sembrando loro che l'arte in esse difetti. Ma il popolo ama il Guerrazzi, lo legge sempre, e vi piange, e vi freme, e vi si entusiasma. E le opere letterarie del Livornese si continuano a ripubblicare, ed è giustizia che sia così._ _Un grande artista, ce ne duole pei pedantuzzi d'Italia, fu F. D. Guerrazzi. Se l'arte di lui non è più quella che noi, oggi, seguiamo, quella che i nuovi tempi richieggono, non vuol dire; è sempre arte, e rispettabile sempre. — Ma come si debbe scrivere la lingua che parliamo, può il Guerrazzi insegnarci anche oggi._ _Egli diede alla prosa italiana atteggiamenti nuovi, scultorii. Egli, in tempi nei quali belavano le arcadie e sfringuellavano le accademie, infuse nella prosa italiana l'anima che l'era venuta a mancare, le ridiede il sangue, il colore, la forza. — Fu egli chiamato il Titano della prosa, e la denominazione sta, poi che titanica è invero la prosa sua, così straordinariamente insolita._ _Ma guai agli imitatori di lui! Guai a chi volesse, soprattutto, imitarne lo stile. Questo, noi pure ne conveniamo, è, nei primi lavori del Livornese, gonfio e rettorico assai. Ma se ne corresse il Guerrazzi; e ciò può vedersi nel _Pasquale Paoli_, nell'_Asino_, nel _Buco nel muro_, nelle _Vite_ del Doria, del Ferrucci, del Burlamacchi, nello _Assedio di Roma_, nel _Secolo che muore_, nei quali libri lo stile non ha i voli turbinosi che si notano negli altri, ma procede quasi sempre calmo e sereno per via naturale e piana._ _Nei primi lavori il Guerrazzi, come scrittore, non s'era ancora fatto; non aveva ancora una individualità propria. Era bensì l'innamorato di Giorgio Byron, il suo scolare. Il Guerrazzi si fece di poi e divenne originalissimo scrittore. A qualunque genere letterario ei si accostasse, sapeva trasformarlo ad immagine sua, vi lasciava la sua impronta._ _La fantasia che egli ebbe fu alata, fu poderosa, fu straordinaria; proprio. Se fosse stato poeta nel vero senso della parola, avrebbe rivaleggiato con l'Ariosto. Ma un Ariosto molto triste e fosco sarebbe stato egli!_ _Romanziere, è il più immaginoso che abbia l'Italia. I romanzi di lui, sebbene s'intitolino da soggetti storici, sono, più che altra cosa, parti della sua fantasia._ _E, questa, nella sua corsa sbrigliata, non gli dava agio di fermarsi a considerare se quel carattere era umano, se quella situazione era naturale. Ed è cosi che i romanzi guerrazziani difettano spesso di umanità e di naturalezza. Ma non debbonsi giudicare coi criteri che del romanzo oggi abbiamo. Si pensi che il Guerrazzi non poteva essere un romanziere naturalista. Poi, egli aveva un genere di romanzo tutto suo; e, si aggiunga, un genere di storia, un genere di satira tutti suoi speciali. E, in quanto al genere satirico, che autore di satire il Guerrazzi! Ricorda Sterne ed Heine, ma non è nè l'uno nè l'altro; è lui, nessun altro che lui._ _Oltre che immaginosissimo romanziere e fine satirico, oltre che prosatore eletto, fu pure un erudito dei primi, da non scomparire nemmeno di fronte al Voltaire, che egli, anzi, si studiò d'imitare._ _La erudizione che egli ebbe fu varia e profonda, e la si trova disseminata nelle sue opere, siano romantiche, siano storiche, talora anche a scapito di queste, poi che a volte ne intralcia l'andamento e ne rende difficile la lettura._ _Se si fosse messo di proposito a scrivere di estetica sarebbe oggi tra i più poderosi nostri critici. Di questo ci assicurano moltissime sue pagine, nelle quali si ragiona d'arte con un senso del bello che pochi invero posseggono._ _Il Guerrazzi non va certamente immune da difetti, e noi, sebbene ammiratori fervidissimi di lui, ci guarderemmo dal proporlo in tutto e per tutto ad esempio. Ma egli va preso com'è, e, così com'è, è grande: grande tanto come scrittore quanto come cittadino._ Livorno agosto 1888. G. STIAVELLI. LA VENDETTA PATERNA «Maledetto chi non onora suo padre; — maledetto nella città, maledetto nella campagna —; io ti percuoterà con miseria, febbre, freddo, ardere, melume e malaria finchè tu muoia. — Il cielo sopra te sia di bronzo, la terra che tu calpesti di ferro. Il Signore sommuova dalla terra polvere, dal cielo piova cenere finchè tu vi rimanga sepolto; — ti dia in mano ai tuoi nemici; e mentre tu sorti per una via contro di loro, tu ne fugga per sette andando disperso per la terra. Il tuo cadavere diventi pasto di tutti i volatili del cielo, di tutte le bestie della terra, e nessuno lo porti via... Sii percosso d'insania, di pazzia, di furore di mente. — Va di mezzogiorno tentoni come il cieco nelle tenebre. — La tua moglie accolga nel suo braccio adulteri. — Fabbricherai la tua casa, ma non vi abiterai; pianterai la vigna, ma non la vendemmierai; ti uccideranno il bove, e tu non ne mangerai... e di questo si vedranno in te segni espressi, e prodigi.» _Deuteronom._ CAP. 27. 28. § I. ORAZIO, COME TUTTI I PERSONAGGI DI ROMANZO, PRIMA RICUSA A RACCONTARE, E POI RACCONTA; PERÒ CHE DIVERSAMENTE NON SI STAMPEREBBE LA STORIA. «In quanto a capelli diventati bianchi tutto ad un tratto, notò un bandito mentre scuoteva la pipa per farne uscire la cenere del tabacco, ho inteso raccontare, che quando don Flaminio il Marchese di santa Prassede maledisse i suoi figliuoli, le imprecazioni del vecchio bruciassero i capelli su cotesti loro capì, e ne calcinassero i cervelli come pietra in fornace: insomma, che il fuoco di Sodoma non facesse men peggio, nè più tardi.» «Fanfaluche!» esclamò Orazio avviluppandosi nel gabbano, e mutando fianco sopra il letto di foglie, che si era fatto sotto la quercia. «E come potete voi affermare che le sono fanfaluche?» «Perchè lo so. — Ah!, soggiunse poi, troppo più dura sorte incolse a quei miseri.» «In fede di Dio, interrogò una voce diversa che usciva da un cespo, che cosa mai poteva loro accadere di peggio?» «Marco, rispose Orazio con parole lente, e parti poi gran male la morte se ti coglie subita, e improvvisa? Di minuto in minuto limarti anima e corpo, e mandarteli dispersi come limatura di ferro, allungarti l'agonia, e non darti la morte, lasciarti la smania di rifuggirti sotto terra, e levarti il fiato di percuoterla, e dire: o terra, cuoprimi! Questo vedi, Marco, è troppo peggio della famosa spinta che un giorno o l'altro ti darà mastro Alessandro, per la quale fa conto di trovarti nello altro mondo senza che tu te ne accorga nemmeno.» «E pure, riprese il bandito che fu primo a parlare, che il caso dei figli del Marchese di santa Prassede fosse successo per lo appunto come io l'aveva contato seppi per cosa certa da un cugino della cognata del guardaportone del palazzo Massimi, che di coteste faccende doveva essere a parte meglio di voi. A voi chi lo ha raccontato, Orazio?» «A me? Nessuno.» «Or dunque, come lo sapete?» «Io ho veduto morire i figli maledetti.» «La notte è lunga; e al sonno, quando posa su le palpebre del bandito, par di sedere su i pettini da lino: or dunque narraci questa storia, Orazio; noi ti staremo a udire.» «Io conto, e narro quando me ne piglia l'estro, disse Orazio riponendosi a giacere sopra il letto di foglie: — voi poi, soggiunse poco dopo, se non sapete logorare meglio o peggio il vostro tempo, fischiate.» Ma il giovanetto, che soleva cantare le canzoni composte da Orazio, gli si pose accanto; mise le mani incrociate sopra la sinistra spalla di quello, e sopra le mani appoggiò la guancia; poi levando dolcemente gli occhi, così prese piuttosto a mormorare, che a dire: «Racconta, mio buono Orazio, racconta. Dio ti ha creato apposta per raccontare, come il rosignolo per cantare. — Orazio, in dieci colpi di archibugio tu ne sbagli due; ma le tue storie valgono anche meglio dei tuoi tiri. Orazio, tu sai condurre una imboscata come il Cavaliere dei Pelliccioni[1]; ma più hai talento per esporre un racconto. Tu sai tutto; tu ti sei trovato a tutto. Io penso, che tu ti fossi presente quando Dio appiccò in mezzo al cielo il gran lampione del Sole; tu devi avere insegnato a Noè a pigiare l'uva; e se non portasti mattoni alla torre di Babele ha da essere caso. Se non sapessi che tu sei carne battezzata, io ti crederei quel cane di giudeo che negò a Cristo di riposare all'ombra della sua casa, onde ei ne va condannato a ramingare pel mondo fino alla consumazione dei secoli. Se il Papa ci offrisse una coppia dei suoi cardinali in cambio di te, noi gli diremmo: — Santo Padre, tienti i tuoi cardinali, e lasciaci il nostro Orazio. — Veda un poco papa Clemente se possiede in corte un fiore di lingua come sei tu: forse il Baronio, che scrive storie da far dormire ritti? Racconta, Orazio, racconta una storia; tando tu ci metti quanto a cogliere una rappa di finocchio, e a strofinartene i denti.» Orazio a mano a mano che il giovanetto parlava si levò su la vita a sedere, gli toccò carezzando i capelli, e così prese a dire: «E non ci è verso; bisognerà che racconti la storia. Finchè l'uomo vive ha mestieri di un cappellinaio per appiccarvi il gabbano dei suoi affetti, per quanto logoro e rattoppato e' sia; ed io non posso negare niente a questo ragazzo. Il mondo va alla rovescia; gli usignoli incominciano a prendere i rospi: tu mi sforzi a parlare, Genesio, e poi tu piangerai; guarda bene ve' ch'io non ti veda nè ti senta; che alla croce di Dio ti do uno scavezzone da intronarti la testa; e il peggio è, che il caso al solo pensarci sopra mi stringe la gola, e nella zucca non ho goccia di vino. Ad ogni modo udite.» § II. LE TERZETTATE. Voi altri tutti siete romani di Roma, o della campagna; però di raccontarvi quale e quanta sia la famiglia dei Massimi di santa Prassede io mi passo. Questo poi importa che sappiate, come il marchese don Flaminio _requiescat_ rimanesse vedovo di donna Vittoria Savella, nobile e virtuosa dama se altra mai ne fu pari nel mondo, dalla quale egli procreò cinque figliuoli grandi della persona secondo la loro età, ben fatti a maraviglia e belli... parevano cinque di quelle sette stelle là dalla parte di tramontana, che hanno forma di un pastorale di vescovo: e poi parlavano come Marco Tullio; alcuni di loro cantavano di poesia all'improvviso, ch'era un portento; a spada e a pugnale da stare a petto e a mettere in cervello qualunque cavaliere, o vogli spagnuolo od italiano, che portasse cappa; nelle brigate piacevoli con tutti, festosi; insomma, fra i baroni romani per universale giudizio facilmente primi. Se il vecchio Marchese se ne tenesse lascio considerarlo a voi; e quando gli udiva lodare (cosa che di frequente gli accadeva) dava in pianto di tenerezza, il povero signore, ed esclamava: «Dio, Dio, questa è maggiore felicità di quella che il tuo servo possa sopportare: deh! temperamela con un poco di amaro, onde il troppo giubilo non mi ammazzi!»[2]. Va pur là, sciagurato, che moristi di giubilo! Questo degno barone aveva un cuore come il sole, che quando si leva fa bene a tutti così ai buoni come ai malvagi; alla rosa e all'aconito, a chi piange e a chi fa piangere; e là glorioso, affacciato dalla cima del colle, sembra che voglia dire propriamente così: «il mio ufficio è illuminarvi, esultate: più tardi verrà il mio creatore e il vostro a giudicarvi: io frattanto non condanno, rischiaro.» E poi non poteva fare a meno che non fosse così, perchè egli si reputava, ed era beatissimo; e l'anima nostra quando si sente serena vorrebbe che tutti fossero contenti. L'allegria rende l'uomo buono, e in fondo al fiasco, Dio mi perdoni, si pescano più sentimenti da galantuomo che su la bocca di un padre predicatore: ad ogni modo le prediche mi fanno dormire, e il vino cantare; e da noi vuolsi cosa ben truce stanotte, dacchè è chiaro che il signor nostro lasciandoci senza vino intende che ci sprofondiamo in pensieri di tristezza, brutta semenza d'iniquità. «Pur troppo! sospirò il vecchio Ciriaco, Orazio parla come un libro stampato. Ed io ancora mi buttai alla foresta quando mi ebbero impiccato Trofimo... il povero figliuolo. Che cosa aveva io a fare?... Lo aveva unico, e solo... e sua madre... meschina! ne morì di dolore... oh! oh!» Queste parole caddero sopra l'anima dei circostanti lugubri quanto l'antifona del _miserere_. Il buio denso della notte rotto a quando a quando dalla fiamma, che prorompeva crepitante... cessava, e tornava a comparire; il singulto degli uccelli notturni nel profondo del bosco, l'ora, la esitanza delle lunghe insidie, la memoria del passato, la minaccia dell'avvenire e l'aspettativa paurosa del racconto percuotevano il cuore, e lo empivano di affanno. Orazio proseguiva con voce più cupa: Voi potreste giuocare più presto agli aliossi con gli obelischi di papa Sisto, e mettervi in capo la cupola di san Pietro per morione, che cancellare una virgola dallo scartafaccio della sorte. Che cosa è mai questa sorte? Lo sapete voi? no: ed io? nemmeno. La sorte è una forza, che ti conduce per mano, se acconsenti, e ti strascina pei capelli, se resisti. La sorte è una necessità, che quando tu vai a dormire si pone a giacere teco, e ti si caccia sotto il capezzale; quando ti levi ti salta addosso prima della camicia: non dorme, perchè non ha palpebre; non si commuove, perchè ha viscere di pietra; le preghiere entrano nelle sue orecchie come la brinata in quelle delle statue di bronzo, e vi fanno effetto pari... ed ora, che cosa avete capito? Nulla; ed io quanto voi. La sorte è sorte; ciò è il più e il meglio che possiamo dirne, come di mille altre cose di questo mondo; e tiriamo innanzi. Marcantonio Colonna, il famoso nostro barone, che fu tanta parte della batosta che dettero i Cristiani a quei cani senza fede dei Turchi nella battaglia di Lepanto, pei molti meriti suoi venne eletto vicerè di Sicilia, dove sua virtù corrompendosi, siccome suole ordinariamente avvenire al soldato negli ozi della pace, ed essendo per natura inchinevole alle cose di amore, viziò una fanciulla bellissima di nobile parentado, e la tenne seco pei suoi piaceri. Le passioni nei petti di questi signori fanno come le rondini; sono di passo. Ormai al signor Marcantonio della sua bella Siciliana premeva più, che tanto; ma la generosità romana, la quale abita come in casa propria nel cuore di cotesto barone, non gli consentendo lasciare dietro sè quella meschina in balia del furore dei suoi parenti, i quali l'avrebbero senza fallo ammazzata, quando cessò dall'ufficio se la condusse a Roma. Però donna Rosalia, che tale aveva nome la bella Siciliana, stavasene in palazzo Colonna albergata magnificamente, e nutrita in sembianza di dama della Principessa madre; la quale essendo quella saputa e discreta matrona che tutti voi conoscete, andava pietosamente rammendando come meglio poteva gli strappi del figliuol suo. Ora don Flaminio Massimi, per essere nato da donna Fulvia Colonna e per la molta bontà e piacevolezza sue, aveva entratura grande con Marcantonio e con la madre di lui: per la qual cosa usando frequentissimo in casa Colonna, non potè fare a meno di mettere gli occhi addosso alla bella Siciliana; e parendole, come veramente ella era, leggiadra molto e sventurata, gli venne al cuore una immensa passione di conoscere i casi suoi, e quelli, potendo, sollevare. Oh bella! egli è tanto meritorio sentir compassione per le belle desolate, che il Papa le dovrebbe assegnare indulgenza plenaria per cento anni almeno. E se al Marchese urgeva consolare, a donna Rosalia urgeva del pari essere consolata, e sfogare le sue pene vecchie e nuove nell'animo di creatura disposta a compatirla; cosa che non poteva fare con altri, perchè da confidarsi con gente della famiglia la tratteneva pudore; e donna Fulvia la proteggeva, è vero, ma con quel suo fare alla spagnuola intirizziva la povera fanciulla per di dentro e per di fuori. Su cento consolatori novantanove diventano amanti; e questo è provato: nè chierica salva, che non è fatatura contro i colpi di amore; nè età, perchè il legno più arde quanto meno è verde. Breve; il vecchio Marchese tanto andò di giorno in giorno infervorandosi in cotesto suo sconsigliato amore, che certa volta propose a donna Rosalia di condurla per sua legittima sposa, e donna Rosalia rispose: «magari!» O perchè la giovane donna acconsentiva? Vallo a pesca. Forse in grazia degli anni di don Flaminio? Dio ne guardi: già essi erano troppi, e poi l'amore per gli anni camminava alla rovescia dello amore pei ducati; e di esperienza, amore che vive di scapataggine, non sa che fare: io so di certo, che le corde con le quali il carnefice fastidio strozza l'amore sono attorte co' primi capelli bianchi che spuntano sul capo degli amanti. In grazia della sua persona? Ahimè! Dallo insieme del corpo del vecchio Marchese si argomentava di leggeri come la bellezza fosse passata per di là, ma qual via avesse tenuto era difficile dire; — bottiglia di vino buono bevuto un anno fa! — E neanche io voglio credere, che la Siciliana il facesse per cupidità di averi; — forse per la molta piacevolezza e bontà del Marchese di che ho parlato; forse lo studio di uscire dalla abiezione in cui ella si trovava, che in queste faccende si ha un bel dire i panni non rifanno le stanghe, e vergogna non cuopre broccato d'oro; forse anche veruno di questi motivi, e la vaghezza di mutare stato, fosse anche in peggio, governa i cervelli degli uomini, e quelli delle donne molto più. Don Flaminio, come i vecchi amanti costumano, sospettoso non gli venisse sturbato il disegno, sposò in segreto e senza farne motto a nessuno la sua bella donna; e un bel mattino, parendogli avere espugnato Cartagine, ne menò trionfo per Roma a mo' di Scipione Affricano. — I vecchi, come pratichi delle faccende del mondo, vedendo quella nuova cosa stringevansi nelle spalle, tentennavano il capo, e tiravano innanzi. Giunto al palazzo don Flaminio petulante e festoso come fanciullo, raduna i figliuoli e la famiglia dei servi; e presa per mano la bella Siciliana, la presentava loro dicendo: «Figli miei, della mia esultanza esultate; io vi ho dato una nuova madre in questa mia consorte...... Marchesa di santa Prassede....» I figliuoli lo interruppero levando al cielo un grido acutissimo di dolore e di rabbia, dal quale rimasto il vecchio Marchese sbalordito, non seppe che cos'altro aggiungere di buono; ma perduta affatto la tramontana se ne andò per le corte, aggiungendo con voce commossa, che indarno però sforzava di rendere severa: «Voi, miei figliuoli, onoratela come mia consorte; e voi, servi, obbeditela come padrona: non occorre altro; andate.» Io che, come staffiere in casa al Marchese, chiamato con l'altra famiglia mi trovava presente a cotesto fatto, pensai vedere, ma avrei giurato aver veduto per certo una mano di scheletro girare lenta lenta per l'aria, e tracciare un cerchio dentro del quale venivano come ad essere comprese tutte quelle teste. Il vecchio Marchese si chiuse nelle sue stanze, e quivi rimase tutto giorno presso l'amata donna, consolandola con molli carezze e dolci parlari come giovanotto per la prima volta innamorato. I padroni giovani non furono visti in palazzo che a notte tarda, tranne Pompeo, il quale per essere tuttavia fanciullo stette in casa, ricusando però ostinatamente sempre sedersi in grembo alla bella Siciliana, che lo tirava a sè con modi soavi, e gli andava offerendo baci e confetti; anzi avendogli detto: «Don Pompeo, io vi farò da madre,» il giovanotto le rispose stizzito: «A me non fa mestieri altra madre che donna Vittoria Savella, la quale a quest'ora è lassù;» e col dito indicava il cielo. Non pareva davvero che in casa fossero state celebrate nozze, bensì mortorio; però che assai prima del consueto il palazzo fosse sepolto nel silenzio e nelle tenebre, — precursori della tempesta. Fortuna volle che a don Flaminio, il quale in corte del Papa teneva ufficio di camerario privato, ricorresse la volta nella prossima mattina; onde egli per non mancare si levò per tempissimo, e si abbigliò squisitamente di gala come costumano i vecchi, che studiano riparare con l'arte le offese degli anni: premeva a lui (che passata la prima notte aveva incominciato ad accorgersi del granchio preso) non gli fruttassero discredito in corte gl'improvvidi sponsali; e raddoppiando di reverenza e di zelo sperava che non glieli apponessero a torto, o alla più trista valessero a temperarne la sinistra impressione. La donna poi che viveva con sospetto grande, e a cui il sangue non porgeva nulla di buono, andava consolando dicendole: «Deh! cuore mio dolce, fatevi animo: per un po' di nebbia, o che credete voi che non abbia più a comparire il sole? Tutto si accomoda in questo mondo con un poco di pazienza e di piacevolezza, e voi di ambedue queste cose possedete dovizia. Orsù, fatevi animo; che a fine di conto i Marchesi miei figli sono cavalieri compiti, e fiore di gentiluomini, i quali si guarderebbero bene di far piangere quei due bei soli che avete in testa. Sicchè, vita mia, state lieta, e pensate stanotte, quando tornerò a casa, di farmi ritrovare la luce in un raggio dei vostri labbri divini.» E qui abbracciatala, e baciatale rispettosamente la mano, tolse commiato da lei cacciandosi festoso giù per le scale. Le camere dei giovani padroni stavano chiuse, e silenziose come sepolcri: noi altri servitori alzavamo gli occhi di ora in ora al campanello per vedere se si agitava: ma no, esso rimaneva come impietrito: verso mezzo dì si fece sentire un tocco solo — acuto, stridente, che parve gridasse: — ahi! — Accorsi, e trovai tutti i padroni vestiti da viaggio, tranne Pompeo, il quale io non vidi con essi loro. Don Marcantonio senza levare gli occhi di terra, con parole lente e stentate come se recitasse il _de profundis_: «Andate, Orazio, mi disse, ed avvisate la clarissima Marchesa di santa Prassede, che i suoi figliastri le domandano in grazia di essere ammessi all'onore di baciarle la mano, e di augurarle il buon giorno.» Mentr'egli così meco favellava, udii i suoi fratelli commettere ad altri famigli accorsi alla chiamata, che prendessero le valigie, e le accomodassero subito subito in groppa ai cavalli, che dovevano tenere in cortile insellati, e in punto di partire. Io sbirciando di traverso notai quattro sedie remosse da canto alla parete, e disposte intorno alla tavola dove pareva si fossero trattenuti a consulta, e vidi ancora sopra la tavola una carta scritta, e quattro para di pistole. Mala parata mi sembrò cotesta, e l'obbedire mi doleva; ma chi mangia pane altrui non ha la scelta: però senza badare ad altro portai l'ambasciata. Donna Rosalia udita l'ambasciata stette alquanto sopra di sè; poi come se di moto proprio non si sapesse risolvere, girò intorno la faccia quasi cercando chi la sapesse consigliare in cotesto frangente; ma non vedendo altri che me parve esitare, poi risolversi, e mosse le labbra per articolare parola: ad un tratto diventò vermiglia, punta forse dalla vergogna di consultarsi con un fante; e se fosse così, ben le incolse quello che le avvenne; forse anche non volle mostrare paura, e allora la compiangerei di più: fatto sta, che mi disse animosa: «Vengano, e saranno i benvenuti.» E come mi disse io referii. Ecco (mi pare di averli sempre davanti agli occhi) i padroni muovere lenti, pallidi, muti nel modo col quale è fama, che le anime dei morti nella notte precedente al giorno dei defunti se ne vadano a processione incontro alla tempesta, che Dio manda perchè i vivi si rammentino di loro. Appena si furono affacciati nella stanza ove si era fatta ad attenderli donna Rosalia, ella si levò in piedi e mosse un passo o due verso di loro, atteggiando il sembiante a lieta accoglienza. Quando i padroni le furono discosto un paio di braccia, e nè anche tanto, poco più di un braccio, il marchese Marcantonio così parlò: «I Marchesi di santa Prassede, prima di abbandonare per sempre, in grazia vostra, il palazzo dei loro onoratissimi antenati, sono venuti a darvi il buon giorno, e ve lo danno.» Quattro terzettate sparate a un punto stesso, che parvero una sola, fecero quattro finestre nel petto alla povera donna, che gridò Ge, e non ebbe balìa di compire Gesù, e cadde giù bocconi morta sul colpo. I padroni giovani com'erano venuti se ne andarono lenti, muti, senza pur degnare di uno sguardo il cadavere: scesi nel cortile inforcarono i cavalli, ed uscirono di Roma. Per la bella Siciliana non ci fu mestieri nè medico, nè prete. La copersi con uno arazzo; dalla parte del capo le posi il crocifisso grande di argento fitto sur un candelabro, che il marchese don Flaminio teneva nella camera da letto; da piedi le accomodai una lucerna accesa; le dissi presto presto un po' di _de profundis_, e poi mandai al Vaticano pel Marchese onde venisse subito a casa per affare, che non pativa dilazione; — e feci male; perchè a quello che era accaduto, o un giorno o un secolo oggimai non guastava più nulla. § III. LA MALEDIZIONE. Il marchese don Flaminio non si fece lunga pezza aspettare: improvvido e spensierato, il cuore non gli presagiva nulla di sinistro: saliva le scale canterellando, senza porre mente ai volti lugubri e al favellìo sommesso dei servi: non lo percosse la frequenza straordinaria della gente accorsa al rumore delle pistolettate, e nemmeno alla inchiesta dei curiosi: «dov'è successo lo ammazzamento?» Tanto lo teneva assorto quel suo matto amore! Quando entrò in sala, e vide il sangue prima, poi il cadavere in modo così disonesto fracassato, come colto da fulmine stramazzò. — Il medico accorso in fretta gli allentò la vena, gli applicò le ventose: e adoperandovi intorno ogni sforzo dell'arte, con infiniti argomenti gli riusci a farlo rinvenire; ma colpito il povero vecchio dal male di gocciola, ne rimase come morto: anzi si può dire morto addirittura, tranne il capo, rimasto mezzo vivo; imperciocchè non riuscisse, anche balbettando, a farsi capire: cibo e bevanda ricusava; mai di piangere rifinava; due rivi perenni gli scendevano giù per le gote, ed immollavano le lenzuola e i pannilini che ci soprammettevamo. Come quel cristiano potesse cacciar fuori tanta acqua dal capo, per me non sapeva capire davvero. Voi intendete, che andando avanti di cotesto passo poco cammino si poteva fornire: e fu così; difatti il medico sul far del giorno gli tastò il polso, lo guardò in faccia, e voltato ai parenti susurrò: «andate pel prete.» E il prete venne, che fu monsignor Romei vescovo di santa Sabina, il quale remossi tutti gli ostacoli lo confessò. O come fec'egli a confessarlo? direte voi, e questo dissi ancora io perchè della lingua non si poteva valere, e nelle altre membra era impedito; e pure monsignor vescovo dichiarò averlo inteso ottimamente punto per punto, e così com'ei disse si ha da credere che fosse; imperciocchè la virtù di Dio per operare miracoli sia onnipotente. Sempre più poi aggravandosi il male lo munirono dell'eucarestia, l'unsero con l'olio santo; breve, lo provvidero del viatico per imprendere il gran viaggio. In quel punto monsignor vescovo si allontanò un momento per confortarsi. A dire il vero suonavano allora le ventuna, e monsignore aveva pranzato a mezzogiorno; ma la fatica sofferta, e forse anche, chi sa, la vista dei patimenti dello agonizzante gli avranno messo appetito: a fin di conto non lo abbandonava solo; anzi lo lasciava in buona compagnia: stola su i piedi, e Cristo al capezzale. Noi altri servi stavamo intorno al letto pensando che di ora in ora passasse, quando il moribondo mandò fuori dalla gola un suono inarticolato dal quale intendemmo, si può dire a caso, ch'egli prima di morire desiderava vedere il suo figliuolo Pompeo. Andai pel putto, e lo collocai tra suo padre e il crocifisso di argento: il povero figliuolo si struggeva in lacrime; e veramente egli era un caro garzone come i suoi fratelli, eccetto quel negozio della matrigna, che non vo' negare un tantinello abbrivato. Il vecchio cessò dal pianto alla vista di don Pompeo: con occhi infiammati guardava prima fisso fisso il putto, poi il Cristo: stringeva i labbri, gonfiava le gote: le vene ingrossate e di colore di piombo stavano a un pelo per iscoppiargli su per le tempie e nella gola: si conosceva espresso com'egli si adoperasse a raccogliere tutti i suoi spiriti vitali in uno sforzo supremo, e, come piacque a Dio, secondochè desiderava gli riuscì; avvegnachè gli venisse fatto di sciogliere la lingua, e pronunziare distinte le seguenti parole[3]: «Signore, tu hai detto: chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia. Io nel tuo santo nome maledico gli scellerati, che uccisero di mala morte quella povera creatura senza pietà per l'anima sua, e me loro padre precipitarono violentemente dentro il sepolcro. Assenti col tuo volere alla mia maledizione, e fa che se ne vedano anche in questa vita i segni espressi per terrore dei malvagi, e per conforto dei buoni. Esalta poi questo innocente, benedicilo in ogni pensiero del suo cuore, in ogni opera delle sue mani; e come solo si astenne da contaminare di sangue la dimora dei suoi nobili maggiori, così rimanga di sua schiatta solo ad abitarla, ed a lasciarla in retaggio ai figli dei suoi figli.» — E forse intendeva favellare di più; ma la lingua ingrossata gli negò lo ufficio, ed ei si tacque: — nella notte passò. § IV. DON MARCANTONIO MASSIMI. Ora voi altri, se già non lo sapete, avete da sapere come in Roma s'incontrino tre maniere di giustizia: una per noi cavalieri della foresta e gentiluomini delle strade maestre, ed è di canapa bianca rattorta a meraviglia, e bella: la seconda pei signori della città che possiedono più lignaggio che ducati, ed è di ferro forbito e tagliente, da mettere la voglia in corpo di provare una seconda volta a cui l'assaggiò la prima: la terza spetta ai signori che hanno più scudi che nobiltà; e questa è di cera, avvegnadio prenda il marchio dalla moneta che vi s'impronta sopra. Ora i Massimi possedevano ricchezze stragrandi e parentado potentissimo, in ispecie li signori Principi Colonna, i quali tanto e tanto s'industriarono presso Cardinali e Auditori di ruota, che ottennero, quantunque con difficoltà assai, la liberazione del bando pei signori di santa Prassede. Tornarono i padroni a Roma — notte tempo: — taciti, guardinghi rientrarono nel palazzo dei loro maggiori, non altrimenti che se fossero ladri venuti per rubare. Salite le scale si avviarono alla stanza mortuaria del marchese Flaminio; ma per arrivarvi fu loro mestieri attraversare la sala dove avevano ammazzata la bella Siciliana. Appena misero i piè sopra la soglia, invece di passare addirittura per lo mezzo, furono visti studiarsi a rasentare la parete; e don Marcantonio in ispecie, per costume di persona oltre ogni credere lindissimo, passò in punta di piedi come si usa da cui vada per guazzo, per amore della calzatura. Arrivati che furono nella stanza del defunto genitore s'inginocchiarono tutti intorno al letto in sembianza di pregare, ed appoggiarono il capo alle materasse: di subito però, come se avessero toccato fuoco lavorato, si levarono d'impeto e partirono[4]. Don Marcantonio quando tornò a passare per la sala mi chiamò a sè con un cenno del capo; e mostratomi col dito il luogo dov'era caduta la matrigna, mi disse sotto voce: «Mi sembra, che in tanto tempo avreste pur dovuto trovare un momento per tòrre via cotesta macchia.» «Macchia! risposi io, e di che?» Tutti allora mi furono addosso, susurrandomi nel medesimo punto all'orecchio: «Di sangue... di sangue...» Ond'io, inchinatomi rispettosamente, soggiunsi loro: «In verità di Dio, padroni miei riveriti, si assicurino che con le mie proprie mani ho lavato sette volte il pavimento.» Allora si strinsero nelle spalle, e senza arrogere motto si partirono: io mi rimasi lì attonito, pensando che vagellassero. Breve però fu il convivere loro in famiglia: uno non poteva sopportare la vista dell'altro: ingiurie aperte non alternavansi mai, nè mai si levava rumore in casa, bensì di tratto in tratto si laceravano con motti coperti, che parevano morsi di cane da presa. Alfine chi se ne andò a ponente, e chi a levante: insieme rimasero soli due fratelli, stati per lo innanzi svisceratissimi, don Marcantonio e don Luca, di cui lo amore aveva retto alla forza segreta, che li menava a odiarsi scambievolmente: però ognuno di questi faceva vita nelle proprie stanze. Quinci a breve io vidi don Marcantonio farsi giallo in volto quanto i fiorini di oro di Firenze: gli occhi gli s'infossarono, e incominciò a guardare strambo; le gote e le tempie gli apparvero stranamente infossate, e su queste certe vene scure gli camminavano a modo di serpi verso il cervello. Ma quello che parve, e fu singolare davvero, consistè in questo: che di tanto magnifico egli era stato in prima, incominciò ogni giorno ad assottigliare la Spesa fino al puro necessario; licenziò i famigli; vendè i cavalli. Inoltre sul principio poco, più tardi punto uscì di casa, anzi dalla sua camera da letto: soffriva molestamente che io gliela nettassi: ed un bel giorno mi disse alla scoperta che me gli togliessi davanti agli occhi, e che non aveva bisogno dei miei servizi; lasciassi da mutargli lenzuola, salviette, nè niente, perchè era meglio tenersi intorno biancherie sudice, che servi assassini che spiano tutto, e ad altro non attendono che a rubarvi, e forse anche ad ammazzarvi. E siccome mi era saltato il grillo di non trangugiarmi cotesti improperi in santa pace, e faceva le viste di rispondere, egli agguantata una partigiana me la scagliò con tanta rabbia contro al corpo, che per miracolo la scansai; ed ella andò a conficcarsi nella porta, dove dopo avere tentennato un bel pezzo si tacque. La barba e i capelli gli crebbero sordidi e rabbuffati; lerce le mani; le unghie nelle punte nere come collari di tortora. Non accoglieva quel tristo nelle sue stanze nessuno, tranne certi sensali giudei e certi poveri diavoli con esso loro, che si menavano dietro come pecore condotte al macello: entravano cheti e languidi; cheti partivano, e barcollanti: qualche volta s'intendeva da cotesta porta uscire un rumore come di disputa, ma a voce fioca, che indi a breve diminuiva e poi cessava, quasi grido di gallina a cui venga tirato il collo; tale altra egli schiudeva un tantinetto la imposta perchè si mutasse l'aria della stanza, e vi si metteva davanti a fare la guardia: allora si spandeva fuori per la casa un fetore di lezzo da ammorbarne così, che tre bocce di acqua nanfa non bastavano a cacciarlo via. Agli operai, mercanti ed altra gente siffatta, quando venivano per danari, comecchè per la sua misera vita pochi fossero quelli che avevano credito con lui, faceva rispondere essere andato in campagna; a san Martino tornassero. I fratelli non trovavano la via a fargli metter fuori le pensioni a loro assegnate, che ora con questo, ora con quell'altro sotterfugio gli andava scarrucolando; finalmente dopo subbugli e minacce ottenevano formale promessa di pagamento; il giorno seguente venissero; troverebbero i danari belli e contati. Ma non eravamo a nulla: allorquando la notte seppelliva nel sonno ogni animale, ecco don Marcantonio alzarsi da letto, e con un lumicino, che pareva spento, appressarsi al forziere, aprirlo, e ai ducati quivi dentro con molto ordine disposti volgere queste parole: «Ah sciagurati, sconoscenti! che Dio vi danni, e il diavolo vi porti: perchè voi volete abbandonarmi? In che vi offesi? quando vi nocqui? quale mai danno avete riportato da me? Sopra l'anima, avanti di Dio vi adoro: io m'inchino, mi prostro davanti la vostra divinità: io vi ho ordinati, io messi in compagnia, io vi ho fatto gustare le dolcezze della famiglia. Sperperati nulla siete, uniti fate forza al cielo[5]; e perchè dunque, dopo avervi raccolto a prezzo della eterna salute e della mia fama di gentiluomo, volete lasciarmi in così grossa brigata? Che vi manca? ingratissimi! Forse non vi trovate in cassa forte? o forse non è bastante il serrame? o mancai mai pure una volta di chiudervi con diligenza? Qual madre vegliò mai il suo figliuolo com'io faccio con voi? Ed io mi sto qui del continuo seduto, pronto alla vostra chiamata, vigile per sovvenire ai vostri bisogni di notte... ma voi punto non vi commuovete; la pietà è chiusa nel vostro cuore di metallo. Andate; chiunque affligge suo padre non può far sì che non capiti male, ed io lo so; — fuori, serpenti, di casa mia; fuori, tizzoni d'inferno... io vi maledico... vi maledico... vi maledico.» E qui farneticando co' capelli ritti abbrancava ducati, e a manca e a diritta li sbatacchiava furiosamente per terra. Quando poi di ducati andava piena ogni cosa, e del forziere già si vedeva il fondo, tocco da raccapriccio, don Marcantonio sentiva cascarsi il cuore, gli pareva avere commesso sacrilegio; onde mutati ad un tratto intento e voglie, con mano paralitica si dava a raccogliere la sparsa moneta camminando su le ginocchia per ogni parte del pavimento, e in cotesta attitudine bestiale così andava in suono pietoso lamentandosi: «Ahi finalmente vi prende ribrezzo della ingratitudine vostra... voi piangete... Cessate le lacrime, in nome di Dio, o che il cuore mi si spezza: tiriamo un frego su gli errori passati: punto, e da capo: voi sapete che non posso fare a meno, ch'io vi ami... tremendamente io vi ami. Tornate tornate, figliuoli prodighi, a casa vostra; — tornate nelle braccia del padre; oggi bandiremo festa solenne, ammazzeremo la vitella grassa... Ma i fratelli pretendono le loro pensioni...? Che pensioni, e non pensioni? Quale hanno diritto costoro di strapparmi il cuore? E gli operai, e i creditori, e le loro famiglie come faranno a vivere se tu non paghi i tuoi debiti? E dov'è la necessità, che tutti cotesti uomini campino? Crepino cento volte prima ch'io mi separi dal mio dio, dal mio tutto.» Intanto aveva riposto, e chiuso come prima i ducati nel forziere. Allora, asciugatisi il sudore e la polvere dalla fronte, guardava con occhi stralunati il forziere, e in suono cupo di voce aggiungeva: «Mi hanno prima a scorticare vivo da capo a piedi, che tormi di sotto il più piccolo baiocco.» E la mattina se si presentavano i fratelli, ed ei li bistrattava; se operai e mercanti, ed ei per quanto era lunga la sala li rincorreva con la partigiana, e gli avrebbe seguitati giù per le scale, se la paura di lasciare la camera incustodita non lo avesse richiamato a dietro più che di passo. Alla fine dai oggi, dai domani, venivano i birri di corte a gravare i mobili di casa; e il marchese don Marcantonio si chiudeva nella sua stanza, tirava chiavistelli, metteva bracciòli, rizzava puntelli come se avesse dovuto sostenere l'assedio: ma sentiti i primi colpi alla porta, pauroso che gli atterrassero l'uscio, e vedessero le sue ricchezze e il suo stato, calava subito agli accordi; e domandato a quanto sommava il debito, udiva per il buco della chiave la voce del birro ammonirlo cosi: «Eccellenza! ducati mille per sorte principale.» «Ahi!» — E traeva un guaio acuto come gli avessero strappato un dente. «Eccellenza! ducati trentadue e baiocchi quindici per interessi scaduti alla ragione...» «Ahi! ahi! — Ecci altro?» «E ducati settantadue di spese, nelle quali vostra eccellenza è stata condannata...» «Ahi, boia! tu mi fai morire a poco per volta, tagliami di un colpo solo la testa.» «E ducati ottanta ammenda, nella quale la sacra Ruota vi ha condannato come temerario litigante...» «Ahi!» «E le spese del gravamento ducati dodici, e un po' di mancia, se piacerà a vostra eccellenza.» «Un paio di forche alte quanto il Colosseo.» «In tutto, eccellenza, ducati mille... cento... novantasei e baiocchi quindici.» «Senti, famiglio, fatti in qua; mi pare ravvisarti dalla voce, e tuo padre fu certo dei familiari di casa mia... Che fa egli il padre tuo?...» «Egli è morto cinquanta anni fa.» «Ouf! Senti, famiglio, tu sai quanto sia il credito di casa Massimi, in ispezie pel suo parentado con la clarissima casa Colonna, e tu mi pari garzone troppo...» «Eccellenza! garzone io? Traverso il buco della chiave vi servono male gli occhi; io ho sessanta anni suonati...» «Ciò non monta, famiglio; io posso farti favore se ti preme avanzarti di ufficio.» «A me non preme altro, che riscuotere i millecentonovantasei ducati e baiocchi quindici...» «E non si potrebbe risparmiarne almeno cento, e più... vedi un po' se ti riesce...» «Me li date, o non me li date...?» «Via, anche sei...» «Famigli, atterrate la porta.» «Al diavolo te e la tua infame schiatta, brutto Giuda Scariotte: statevi indietro se la vita vi preme, che or ora vi pagherò.» Quindi a breve si schiudeva a mala pena la porta, e ne usciva una mano scarna, che agguantava un sacco di moneta; e questo in gran fretta rovesciato si ritirava la mano come lampo, si chiudeva la porta con impeto, e si udiva per dieci minuti il cigolio di catenacci, paletti e bracciòli. — In una parola, il diavolo dell'avarizia aveva preso possesso dell'anima sua. § V. DON LUCA MASSIMI. A don Luca poi capitò per la testa un'altra strana fantasia: si mise a voler trovare il modo di fabbricare dell'oro, non mica per vaghezza di oro, oibò! bensì per comporre l'oro potabile da prolungare la vita; ed affermava come questo fosse altra volta accaduto, e doveva rinnovarsi: anzi su tale proposito raccontava che certo bifolco, nelle parti di Sicilia, ne aveva trovato pieno un fiasco; ed essendoselo bevuto tutto di un fiato, campò cinquecento anni e non so quali mesi[6]. Fece pertanto nelle sue stanze fabbricare fornelli, e quivi notte e giorno si tribolava il cervello fra le storte, i lambicchi, vetri e pentole a soffiare, rimestare, mescolare, bollire e squagliare, ch'era pietà: poi leggi e rileggi certi libracci che pareano messali, e puzzavano d'inferno cento miglia alla lontana: nè qui terminava la strana passione dell'uomo, che quante bestie gli cascavano sotto ammazzava, ricercandone poi studiosamente le viscere; piante, minerali e sassi, niente insomma sfuggiva alla perpetua sua investigazione: frattanto anch'egli trasanda le mondizie del corpo, e a lui pure diventano gli occhi torti e feroci. Un altro demonio aveva preso possesso dell'anima sua. Ora non istette guari che vedemmo comparire in casa uno accidente pieno di terrore: non vi era animale, o vogli cane o vogli cavallo, che più di tre giorni potesse durarci vivo; dagli animali la morìa passò negli uomini; morì il lacchè; morì poco dopo la sua moglie; morirono quattro staffieri uno dopo l'altro in un giorno solo; morì il cappellano che veniva a celebrare la messa nella cappella di palazzo: appena ebbe mangiato e bevuto il pane e il vino della eucarestia incominciò a urlare disperatamente: ohi! ohi!, a rotolarsi per la terra, e in breve, così parato com'era con la pianeta addosso, vomitando frammenti di ostia e il vino consacrati, e dibattendo la testa sopra i gradini dell'altare, se ne morì. Don Luca a tutte queste morti accorreva, tastava i polsi agli agonizzanti, ne speculava sottilmente le sembianze prima e dopo la morte loro, e raccolto con diligenza il vomito, si rinchiudeva dentro il suo laboratorio. Questi casi misero addosso ai suoi tanto fiera paura, che chiesta licenza abbandonarono il servizio; e taluni furono spaventati per modo, che se ne fuggirono senza domandarla nemmeno: nè solo i servi uscirono di casa, ma i vicini eziandio fuggivano la contrada. Anch'io andai per tòrre commiato da don Marcantonio come maiorasco di casa; ed egli schiusa alquanto la porta di camera, per l'apertura guardatomi in viso un cotal poco alla trista, mi rispose: «O chi vi para? chi vi ha mai parato? Potete andarvene quando vi piace: un mangiapane di meno.» «Sta bene; ma prima di andarmene, eccellenza, capisce che sarebbe di dovere mi saldasse il salario.» «Non vo' malinconìe: — oggi mi duole il capo — ne parleremo la settimana entrante....» E mi chiuse furiosamente la porta sul viso. Sicchè non potendo ottenere meglio, mi rassegnava ad andarmene; quando ecco con pari furia torna quel tristo ad aprire la imposta, e, fatto capolino, e' mi dice spedito: «Bene inteso però, che da oggi in poi non vi corre più paga.» E da capo giù la porta a scavezzacollo, e tira catorci, e metti bracciòli, come se si accostassero i turchi. Quinci me ne andai difilato nelle stanze di don Luca, e lo trovai secondo il solito intorno ai fornelli col soffietto in mano: mi udì senza guardarmi in volto, e cessare la sua bisogna; ma terminato ch'ebbi di parlare, mi battè sopra la spalla, e con sembiante umano mi disse: «Orazio, hai paura, eh? Non temere... io... qui... no, tu in casa non incontrerai niente di male..... fede di galantuomo..... anzi ho bisogno di te..... non te ne andare....» «Eccellenza, gli risposi, avendo avuto congedo da sua eccellenza don Marcantonio....» «Se don Marcantonio non ti vuole, starai con me; io ti voglio far del bene, e non voglio che tu te ne vada, hai inteso? Rammentati che ho le braccia lunghe, ed uscendo di qui mio malgrado, vattene difilato a prendere a pigione una fossa al camposanto: hai inteso?» «Eccellenza sì.» In questo modo rimasi. Nella stessa notte sento raspare alla porta della mia camera. «Chi è là?» — domando un cotal poco spaventato. «Zitto. Sono io; vèstiti prestamente, e vieni meco.» «Oh Dio! a quest'ora; ed a che fare, don Luca? Veda, casco proprio dal sonno!» «Vèstiti.» — E me lo disse con tale un suono di voce, ch'io reputai prudente vestire i miei panni e presto, senza altri discorsi; se non che fingendo di cercare qualche cosa sotto il capezzale, agguantai il mio bravo coltello, e me lo nascosi nel petto. Allora mi parve essere rinato. Don Luca, vestito che fui, mi diè a tenere la lanterna, ed ordinò mi avviassi alle cave del palazzo; e come mi venne comandato feci. — Scesi là dentro, egli chiuse cauto le porte, ed io di traverso gli stava attento alle mani; ma egli liberamente si accostò a me, mi tolse la lanterna di mano, e sollevatala verso il soffitto mi disse: «Vedi?» «Eh! vedo una bellissima carrucola agganciata dentro una campanella murata nella volta; — vedo una fune lustra e insaponata infilata nella girella toccare da due parti terra: e' non fa punto mestieri essere profeta per vedere chiare e distinte tutte queste cose.» «Or bene; fatti in qua.» Ed io mi accostai: quando gli fui presso egli si chinò, e accolse dal pavimento la fune; poi rialzò la persona, e mi pose una mano sul braccio. Allora mi cadde in pensiero ch'egli disegnasse fare su di me qualche suo matto esperimento con la corda, ond'io detti di un balzo indietro gridando: «Eh! don Luca, non vi sarebbe saltato in testa di darmi la colla?» «Oibò! all'opposto; tu la devi dare a me.» «Senti questa, che è nuova di zecca! — In fede di Dio mi sembrano gusti guasti; ma che vi par egli, eccellenza, che io vi abbia a collare?» «Fa' quello che ti comando, Orazio, e non badare ad altro.» «Ma don Luca.... pensate...» «Corpo di Pluto! Vuoi tu fare com'io ti comando? o che con le mie mani ti scanno qui come un cane;» e traendo il pugnale faceva le viste di corrermi addosso. «Don Luca, rimettete il coltello nel fodero: non ci abbiamo mica ad ammazzare per questo: corda volete, ed io vi darò corda a beneplacito.» «Or be'; legami le mani, le mani dietro la schiena...» «Eccole legate....» «Adesso tirami in su un poco per volta.» «Eh! Oe! Ecco, che vi tiro: faccio a dovere?» «Sì.... così pian piano...» «Don Luca, eccovi in cima...» «Bene: ora giù lo squasso...» «Che diavolo! volete anche lo squasso?» «Lo squasso! lo squasso! Traditore.... tu mi mangi il pane a tradimento... dammi lo squasso.» «Non v'incollerite, don Luca, ecco lo squasso.» Dopo lo squasso volle i piombi, ed io i piombi; dopo i piombi lo squasso ed i piombi, ed io lo squasso co' piombi; insomma le asperità della corda ei volle provar tutte, che voi, onorandissimi colleghi, già sapete per pratica, o saprete in seguito, come dobbiamo fermamente sperare. Don Luca sostenne da pari suo il tormento senza nè anche stringere ciglio; e così per bene un mese durammo, facendosi ogni dì più gagliardo a sostenere; per la qual cosa, su l'ultimo, quando lo sospendeva alla corda gli pareva andare a nozze.[7] Un giorno sul cadere delle foglie (saremo stati a fin di ottobre, o a mezzo novembre) il cameriere, che unico aveva conservato presso di sè don Marcantonio, venne ad avvisarci tutto atterrito, come il suo padrone da bene ventiquattro ore non avesse aperta la stanza; non osare aprirla egli stesso, perchè il padrone glielo aveva divietato; poi, perchè si era chiuso per di dentro; ed in ultimo, perchè sforzando la porta aveva sospetto di buscarsi una pistolettata; non sapere per tanto che pesci pigliare, essere ricorso a noi per consiglio. «Che vuoi tu ch'io ti consigli? rispose don Luca: quel tristo del tuo padrone sarà morto di fame, tanto è misero costui; e tu pure, vedi, barelli per la fame; vieni qua, sciagurato, prendi un sorso di questa acqua arzente, ch'io stesso con le mie proprie mani ho distillata, e so ben io che ti rimetterà l'anima in corpo»[8]. Il povero uomo dopo qualche smorfia buttò giù il bicchiere fino all'ultima goccia, e gli parve, com'egli disse, sentirsi riavere. — Io era lì presente, ma non lo potei impedire. Don Luca incominciò a pensare; sembrava sostenesse dentro una qualche battaglia, imperciocchè le gambe come impazienti di andare si agitavano, ed egli con le mani si aggrappava ora a questo, ora a quello altro oggetto a guisa di uomo che caschi giù dalla tettoia rasentando la parete della casa; e quando io lo confortai a rompere gl'indugi, e ad accorrere in soccorso del fratello, egli mi lanciò contro uno sguardo da basilisco, e mormorò fra i denti: «Che tu sii maledetto!» Finalmente ripiegò la persona, chiuse gli occhi, giunse ambe le mani facendo scricchiolare le dita incrocicchiate, e la sua faccia gli diventò verde: tacque lunga pezza a bocca aperta, poi susurrò con parole tronche: «Il demonio mi vince.... io non posso resistere al demonio.... e tra me e Dio si distende la maledizione paterna.» Ciò detto, prese risoluto certo suo astuccio con entrovi varie caraffine, e venne via. Ci fu mestieri abbattere le porte, però che don Marcantonio, come dubitava il servo, si era sprangato per di dentro; e quando, atterrati gli usci, ponemmo il piè sopra il limitare, un molto stupendo spettacolo si offerse agli occhi nostri. Il soffitto da un angolo all'altro sosteneva festoni di ragnatele, donde i ragni a modo di stelle cadenti precipitavano giù sopra gl'insetti: due gatti stavano accovacciati a piè del letto sbalorditi dalla fame e dal grave odore, che là dentro esalava: sopra un seggiolone a bracciòli foderato di velluto cremisino sedeva un rospaccio dalla vista maledetta, che pareva tutto un avvocato fiscale: di sotto lo stipo di ebano, per tarsìe di madreperla e di argento prezioso, sbucavano fuori due pizzughe: qua e là escrementi, ossa e rimasugli di sozzi cibi aborriti o rigettati dagli animali; da per tutto immondezze. In un canto, coperto da parecchie lenzuola, appariva un monte di argento lavorato: ve n'era d'ogni maniera; candelieri, calici, reliquiari, lampade da cristiani, lampade a sette becchi da giudei, cangiarri, ed altre più cose, tutto sottosopra a rifascio: una lunga tavola andava ingombra di lavori di oro e di gemme sciolte, o legate: alcune cantere dello stipo aperto lasciavano vedere inestimabile quantità di moneta di oro e di argento. Don Marcantonio giaceva sul letto supino con gli occhi stralunati; sopra le labbra gli ribolliva la spuma; contorcevasi smanioso, e mugolava ora sommesso, ora con urli spaventevoli; e i gatti allo schiamazzo infernale rispondevano miaulando, e il rospo gracidando. Don Luca, quando lo ebbe contemplato in faccia, disse: «Tra le altre belle doti, che il cielo gli ha dato, ci mancava il benedetto[9]: adesso può chiamarsi compita: tenetelo fermo, ch'io vi farò vedere mirabilia.» E così favellando andò allo stipo, donde tolse una manciata di ducati di argento, e questi prese a contare vicino agli orecchi dello infermo battendoli forte fra loro: — ecco don Marcantonio cessa dalla convulsione, e fa vista di porgere ascolto. Allora don Luca gli apre le mani, e vi mette cinque o sei ducati per parte. Volete crederci, o non ci volete credere? Se volete crederci fatelo gratis, però che io non voglia nè possa pagarvi. Don Marcantonio sgranchiò le dita; e quantunque fosse sempre fuori di sè faceva l'atto di contare la moneta: alla fine rinvenne[10]. — Oh come ratte e feroci vibrava le pupille d'intorno! parevano lingue di vipera. «Chi siete? — urlava. — Che cosa volete? come qui dentro? Non mi portate via la roba; piuttosto l'anima.... Non mi scannate..... vi do uno scudo per uno.... quanti siete?» «Tacete là, sciagurataccio, lo interruppe don Luca; chi mai vorrebbe avere la vostra ricchezza a costo della vostra miseria? Lo vedete! La trista vita che menate; — lo starvi qui perpetuamente intufato a tribolarvi su l'oro e su l'argento vi ha fatto capitare addosso il mal concitale. Adesso a che vi gioveranno le vostre ricchezze?» «Io mi vi farò stendere sopra, e morirò contento... Io comando, e voglio essere seppellito col mio argento, col mio oro, con le mie gioie....» «La è cosa da barbaro, fratel mio. Alarico è fama che ordinasse come voi[11]; ma forse si giacque costui più morbido degli altri morti sotto terra? I vermi vedendo l'oro del re gli fecero di berretta, o si rimasero a rispettosa lontananza? — Pensate che ogni testa di queste vostre tante monete nel giorno del giudizio, per virtù di Dio, acquisterà lingua e loquela per raccontare il misfatto pel quale voi lo estorceste alla vedova e all'orfano per seppellirle nello inferno del vostro forziere...» «Don Luca, se il demonio vi ha deputato suo procuratore per prendere l'anima mia, potete andarvene: tanto per ora non ho volontà di morire.» «In quanto a questo, Marcantonio mio, la vita e la morte non istanno nella volontà dell'uomo: e voi, vedete, tornate a sbadigliare e a torcere la bocca: indizio certo, che vi riprende il male.» «Andate via.... lasciatemi morire solo.... Taddeo, chiudi le cantere... portami le chiavi...» «Prendete presto una cucchiarata di questo elisirvite se non volete tornare a svenirvi.» E fattosi dare un cucchiaro pieno di acqua vi gettò dentro quattro gocce o sei di liquore da una delle caraffine dello astuccio, e l'acqua ribollì fremendo, e fiammeggiò come se fosse fuoco. Don Marcantonio vedendosi accostare il cucchiaro alla bocca lo allontanò rabbioso, dicendo con amaro sogghigno: «Don Luca, don Luca! E sì.... e sì che dovrebbe bastarvi quello che avete fatto fin qui...» «E che ho fatto io?» — rispose don Luca spaventato. «Voi? Siete presso a colmare la misura d'iniquità, che vi è stata assegnata per vostro compito.» Don Luca allora trangugiò il liquore che aveva mesciuto pel suo fratello: poi favellò pacato le seguenti parole: «Vedete, io l'ho bevuto; volete che io ne mesca un'altra cucchiarata per voi? La sincope sta per ripigliarvi... io vi assicuro che vi ristorerà...» «Ebbene, mescete,» — rispose don Marcantonio; e bevve senza sospetto. Di vero tanta parve esercitare virtù lo elisirvite di don Luca, che indi a breve don Marcantonio si levò in piedi e ci accomiatò con pessimo garbo, tenendo di occhio alle nostre mani; nè di ciò contento, quando fui per uscire me lo agguantò di forza, e aprendomi le dita mi disse; «Avete preso nulla? — E visto, ch'io le aveva vuote, soggiunse: — non mica per non fidarmi; ma talvolta, senza volere, qualcosa si attacca alle mani, e allora si passa per ladri... sicchè il meglio è ben guardare avanti.» — «Accomodatevi a vostro bell'agio, signor Marchese,» io gli risposi. E don Marcantonio, prima che avessi profferito le parole intere, mi pose le mani in tasca frugandomi così squisitamente, che un gabelliere non poteva far meglio; e tuttavia andava dicendo: «Non mica per non fidarmi... ma perchè in caso di mancanza... io non abbia a sospettare di voi, Orazio, che siete un galantuomo... pare...» E mentre con le mani frugava me, con gli occhi ricercava don Luca: però di un senso solo sembrava non si volesse fidare, e con qual pretesto mettere le mani addosso al suo fratello non sapeva: di repente gli cadde in pensiero un suo trovato, e fu di gittarsi alla vita, e abbracciarlo con affettuosissimo amplesso, intanto che con bel garbo gli andava palpando le tasche. Che pocanzi ci avesse accomiatati così villano o non ricordava, o faceva le viste di non ricordare. Don Luca rideva; e mentre don Marcantonio gli stringeva la vita, egli col pollice e lo indice delle mani allargati circondava il collo di lui esclamando: «O ineffabile dolcezza dello amore fraterno!» Nella giornata don Marcantonio mandò pel fabbro, e fece mutare tutte le serrature, e raddoppiare i ferramenti alle imposte. Inutili cure! Indi a due giorni egli venne sorpreso da orribili convulsioni e da sincopi, che lo lasciarono per morto. I fisici, dopo avere tenuto lunga consulta fra loro, lo dichiararono spacciato. Allora sentendosi egli in fine della vita, e degli umani rimedi senza speranza, ordinò gli si chiamasse il prete; il quale accorse senza farsi pregare, e sedutosi a canto al letto richiese il moribondo in che cosa potesse avvantaggiarlo. Don Marcantonio, dopo avergli aperta la intenzione sua di lasciarsi tanto bene quanto bastasse per andare in luogo di salute, se ci fosse verso, ad un tratto gli domandò: «Reverendo, e quanto mi metterete la dozzina di queste messe?» «Don Marcantonio, parvi questo tempo di scherzare? O che le avete prese per chiocciole? Parlate con più rispetto delle cose sacre.» «Ma signor no, ch'io non intendo mancare di rispetto alle cose di religione... segnatamente nello stato in cui mi trovo ridotto... e per di più con la speranza di potermi salvare mercè di quelle: — io credo, che senza peccato uomo possa informarsi di quello che ha da spendere...» «Eh! togliete la mente dagli oggetti mondani; di ciò prenderanno cura gli eredi...» «Gli eredi? Ci vo' pensare io...» «O che volete istituire erede voi stesso, come fece quel pazzo avaro di Ermocrate nell'antichità?» «Badate al fatto vostro, reverendo, e lasciamo stare gli antichi. Dunque, a quanto la dozzina le messe?» «Le cose di Dio non si comprano, nè si vendono: ma per elemosina della messa potreste assegnare mezzo ducato.» «Le dodici messe?» «Misericordia! O che limosina sarebbe allora cotesta vostra? Intendasi per ogni singola messa...» «Signore! E allora a morire si va proprio in rovina. — Sentite, reverendo, io non posso spendere assolutamente tanta moneta; — e poi ci è chi me le dice a meno: — se mi fate prezzo più grato io vi do la preferenza.» «Questo non è possibile...» «Come non è possibile? Il Priore di san Simone me ne ha chiesto quarantaquattro baiocchi per messa; — e poi, sentiamo un po' quante messe contate che mi abbisognino per andare in paradiso....?» «Innanzi tratto, eccellenza, messe sole non bastano per ottenere la eterna salvezza: in vita voglionsi opere buone; e se uomo ebbe la sventura di commetterne delle prave, allora fa mestieri una sincera contrizione di aver peccato: dopo la contrizione giovano i suffragi, ma quanti ne occorrano non può determinarsi; questo dipende dalla infinita misericordia di Dio.» «Ma allora quel tristo del Priore di san Simone mi ha ingannato quando mi accertava, che con sei dozzine di messe ed un mortorio egli lo reputava affare fatto! Anzi, avendolo supplicato che rifacesse i conti per vedere se qualcheduna poteva risparmiarsi, egli mi aveva promesso di ripensarci sopra, e darmene risposta. Ora, a sentir voi, con quattro dozzine si potrebbe sbrigare la faccenda, ed anche avanzarne...» «Potrebbe...» «Ma io non vo' che ne avanzi; ho sentito sempre predicare contro il lusso, ed ha ad essere un grosso peccato anche in paradiso.» «Difficile cosa è, che all'uomo avanzino meriti: ma quando anche ne avanzassero, non per questo andrebbero punto perduti; chè voi li potreste applicare in suffragio dei vostri defunti.» «Io non intendo applicar niente a nessuno: ognuno pensi a sè, e Dio per tutti. Quattro dozzine di messe per me giudico sufficienti: ora, alle corte, se voi me le celebrate a quaranta baiocchi l'una, io vi preferisco come parroco della mia parrocchia; diversamente mando pel Priore di san Simone.» «Eccellenza, io non venni qua a trafficare, bensì ad amministrare i sacramenti: la grazia _gratis_ fu data, e _gratis_ la compartiamo; se volete lasciare di che suffragare l'anima vostra, fatelo; la elemosina è necessaria, perchè la Chiesa campa con la Chiesa: ma mi prende rimorso e ribrezzo essermi trattenuto qui con esso voi, in momenti tanto solenni per l'anima vostra, in mercato così vergognoso. Quando vorrete confessarvi avvisatemi, che sarò da voi come me ne corre l'obbligo del mio ministero.» E se ne andò. Don Marcantonio nel vederlo partire diceva: «Un degno sacerdote in verità! Ma caro appestato! — Ribasserà,... ribasserà. Orazio, il falegname è venuto?» Ed io, che nella stanza appresso mi era sollazzato oltremodo a codesto colloquio, presago che stava per seguitarne un altro ancora più strano, accorsi pronto, e risposi: «Eccellenza, e' fa presso che un'ora, che il maestro aspetta in anticamera.» «Fatelo passare.» E il maestro passò. Don Marcantonio, di cui lo stato peggiorava a colpo d'occhio, con voce rantolosa gli favellò: «Buon dì, maestro Gioacchino: accostatevi qua... più qua... abbiamo bisogno di una cassa...» «Eccellenza sì; e per che cosa ha da servire?» «Per me.» «Capisco, eccellenza, che ha da servire per lei; ma per quale uso, via?» «Per me... per me... per rinchiudermivi dentro quando mi seppelliranno nella sepoltura di casa.» «Capisco, capisco, una cassa da morto per vostra eccellenza.» «Appunto così; — prendetemi la misura...» «Oh! non accade; veda, eccellenza, si fanno tutte a un modo.» «Male, malissimo. Per quelli che sono di statura breve come me avanza legno: e da questo spreco vengono aggravati di una spesa, che hanno ragione di non sopportare...» «Eccellenza, creda, la è cosa che non mena a nulla...» «Come non mena a nulla, sciupone? Io vo' che voi mi prendiate la misura...» «Come vuole vostra eccellenza;» — e lo misurò. «E quanto mi farete pagare questa cassa?» «A voi nulla, eccellenza; me la intenderò con gli eredi...» «Che eredi, e non eredi? e sempre con questi eredi. L'erede sono io; i conti l'avete a fare con me: — spendo del mio... vo' sapere io...» «Non s'incollerisca, di grazia; a volere una cassa andante, con la sua croce nera di tinta buona, e i chiodi di ferro pel coperchio, ci vogliono due ducati come pigliare un pane al forno: questo anno il legno è caro, ne chiedono otto ducati la canna: e se casca un baiocco te lo ripongono in magazzino. Ma per lei bisogna lavorare una cassa nelle regole, di legno noce, e chiodi con la capocchia di ottone, o di argento: converrà eziandio foderarla di panno nero, e metterci sopra la sua brava croce di tela bianca; — però... due e tre fanno cinque, (continuò il maestro contando sulle dita) e dieci quindici, e sette ventidue, trentaquattro... per farla co' chiodi a capocchia di ottone voglionci giusti trentaquattro ducati, e coi chiodi di argento quarantadue...» «Misericordia! Oh che rovina! oh che rovina, ch'egli è morire!... Maestro Gioacchino, la raccolta...» «Che dice, eccellenza?...» «Abbassatevi..... accostatevi..... mi manca la voce: la raccolta è andata male questo anno, e non posso fare così grossa spesa.... poi ho aborrito sempre queste vanità.... e dovete sapere, maestro Gioacchino, che offendono Dio: — una cassa alla liscia, intendete, e adoprerete certi usciali vecchi, che ho giù in cantina; un po' tarlati, è vero, ma per quello che devono servire ne avanza... sono anche un po' spaccati, ma con lo stucco rimedierete ogni cosa: col legno di mio... una cassa liscia.... quanto vi ho a dare?» «Allora mi darà — affare andante... due ducati.» «Col legno di mio?» «Eh! il legno non fa differenza, la è bagattella.» «Come bagattella? Non avete detto pocanzi, che il legno costava un occhio?... bugiardo... bindolo... andate via.» «Don Marcantonio, non ci guastiamo su l'ultimo: ho avuto l'onore di servirla sempre in vita, e intendo servirla anche adesso in punto di morte... col legno di suo vada per un ducato e mezzo.» «Un ducato... e ne avanza...» «Orsù, come vuole; darà da bere agli uomini...» «Ci è l'acqua _paola_... Io non posso accompagnarvi in cantina: frugatemi qui sotto il capezzale, prendete il mazzo di chiavi grosso... bene... quello... mostratemi le chiavi, non quella lì... quell'altra accanto è la chiave della cantina: badiamo di lasciare stare l'altra roba; quando entrerete e quando uscirete tenetevi davanti agli occhi il comandamento di Dio: _non rubare_: ricordatevi, che questo comandamento è uscito proprio da lui sul monte Sinai, e bisogna crederci... Voi troverete gli assi nel canto a man dritta appena entrato... hanno ad essere quattro... fate, che ne bastino tre... qui si parrà la vostra maestria, ed io non rifinirò mai di raccontare le vostre lodi, e raccomandarvi agli amici.» Il maestro muoveva il passo per andare, quando don Marcantonio incominciò a stralunare gli occhi, torcere la bocca, e volgere il collo come se gli svitassero il capo; le mani attratte a uncini agitava, le agitava in guisa di naufrago, e prima di perdere conoscenza affatto, gridò: «Ahimè! muoio... Orazio... don Luca, muoio... maestro Gioacchino, tre usciali bastano... i chiodi... ah! adesso me ne sovviene... ci ho anche i chiodi giù in cantina... dite... quanto mi defalcate dal prezzo co' chiodi di mio...?» Don Luca gli fece apprestare l'esequie magnifiche; immensi ordinò i suffragi per l'anima sua; e quando il cadavere fu tratto al sepolcro egli volle reggere un lembo del tappeto. Ripiegato come sotto un peso che non potesse sostenere, andava a capo chino, a balzelloni, versando dirottissimo pianto.[12] A quanto sembra però monsignor Taverna, che fu governatore di Roma in quel tempo, e credo che anche adesso lo sia, non si lasciava punto intenerire da coteste lacrime: imperocchè messo in sospetto dal numero spaventevole delle morti avvenute in casa Massimi, prese a ricercare sottilmente il successo, ed in breve gli venne fatto di accumulare tanti e tali indizi a carico di don Luca, che di subito ordinò alla Corte ponessegli le mani addosso, e lo menasse nelle segrete. Innanzi di scendere nel cortile dove lo aspettava la carrozza, impetratane licenza dagli esecutori, i quali trattandosi di persona di alto affare procedevano urbanamente verso di lui, mi trasse da parte, e a voce sommessa mi disse: «Orazio, fa' di aver cura degli arnesi miei, e tienli forbiti tanto che io torni. Che cosa vonno sapere da me questi gaglioffi? Tu, Orazio, mi hai armato, e fatato cavaliere della corda. A rivederci, Orazio.» «A rivederci presto: e degli arnesi non dubitate» — e gli baciai la mano. Ora giudicate voi quali fossero la mia meraviglia e il mio spavento, quando nel giorno appresso, verso l'un'ora di notte, venni chiamato in Palazzo, dove mi fu detto essere aspettato al carcere di Tordinona dal marchese don Luca mio padrone, il quale prima di andare a morte desiderava parteciparmi i suoi ultimi comandi! — Stetti per diventarne pazzo, e dubitai su le prime ch'e' fosse un rezzolone, come sanno trarne questi uomini di corte, per pescare; ma per questa volta presi errore, dacchè subito il Bargello mi licenziò. Corsi a Tordinona, e trovai don Luca seduto in sembiante nè lieto nè tristo, che tranquillo in atto e in sostanza, se non pareva di venti anni invecchiato, e tutta la sua faccia aveva colore di avorio antico. Poichè gli ebbi baciato la mano, ei mi fece cenno ch'io gli sedessi di contro; nella qual cosa avendolo obbedito, attesi ch'egli mi favellasse; ma considerato come distratto di pensiero in pensiero ciò non curava od obliava, ruppi io primo il silenzio dicendo: «Ahimè! riveritissimo padron mio, che novelle sono elleno queste? Che cosa sono gli ultimi comandi di cui mi hanno tenuto proposito? Come non vi ha giovato nulla lo esercizio della colla? E gli squassi, e i piombi, e le strappate?» «Anzi, rispose egli, giovarono moltissimo, che meglio non potevano fare: per bene otto volte sostenni il tormento accompagnato da squassi di tale maniera, da stiantare la campanella del soffitto: alla fine mi sciolsero, e il Giudice considerando come le impugnative sostenute con la prova della corda avessero virtù di cancellare agli occhi della legge ogni indizio raccolto, riferitone prima a monsignor Taverna, decretò essermi purgato da ogni sospetto ordinando la mia immediata scarcerazione: ma non sì tosto ebbe costui scritto e suggellato il decreto, e appunto in quella, ch'egli stava per consegnarmelo, non senza grandissime congratulazioni della prova da me sostenuta in pro della mia innocenza, ecco invadermi irresistibile il furore di confessare accusandomi delle tante commesse scelleratezze. Invano mi adopro tenere chiuse le labbra, invano stringere i denti, invano mordo perfino la lingua, e con ambo le mani mi abbranco le mascelle; tempo perduto! — Una forza feroce mi torturava dentro, e mi costringeva a confessare i miei misfatti a parte a parte come si usa al capezzale della morte. Raccapricciava il Cancelliere nello udire, ed a me pure correva un brivido per le ossa in raccontare quante povere anime con la maligna virtù dei miei veleni avessi traboccato all'altro mondo senza sacramenti. Ora io pensava tra me: e perchè mai mi resi micidiale di tanti cristiani battezzati? In verità non lo so. Odiava io forse gli uccisi? mai no: veruno odiava, anzi qualcheduno fra essi amava. Mi avevano per avventura offeso? neanche. Dunque? non ne so niente. Avvelenai il mio fratello maggiore per cupidità delle sue ricchezze? Neppure per sogno: di danari non fui vago giammai; e poi ne possiedo molti, forse troppi, di mio. — Perchè dopo avere sostenuto il tormento, perchè dopo ch'era stato spedito il decreto della mia liberazione mi sono accusato io? Non ne so niente, non ne so niente. Io sono una ruzzola in mano alla fatalità: io vado, io rotolo lanciato dal braccio del destino, io sono condannato a precipitare inevitabilmente; e così dissi al Giudice, e questo dico anche a te, Orazio. La maledizione di mio padre mi tira pei capelli... Guardalo, Orazio... vedi ve'... egli è qui...» «Chi mai, esclamo voltandomi di soprassalto, è qui?» «Il clarissimo Marchese di santa Prassede... don Flaminio Massimi... il padre mio insomma. In meno che non fa un'ora egli si è affacciato ben quattro volte sopra la soglia della prigione mostrando pressa, e mi fa cenno di seguitarlo...» «Per me non iscorgo nulla. E come volete, che si affacci sul limitare se hanno chiusa la porta per di fuori?» «Chiusa! chiusa! Come se porte e serrami lo potessero trattenere. Signor padre, io la supplico in cortesia a lasciarmi un'ora di libertà; poi stia pur sicuro, ch'io mi darò interamente ai suoi ordini... bene... gran mercè, signor padre. — Or via, Orazio, dacchè il Marchese ce ne dà licenza, torniamo al proposito nostro, e fa di ascoltarmi bene a dovere; avvegnaddiochè tu per te stesso tel vegga, il tempo stringe, ed è lunga la via. Bisogna che tu ti riponga bene in mente come domani a quest'ora la testa mi starà distante dal collo... poco... la grossezza di un ducato... forse anche meno... però quanto basta per non sentire più caldo nè freddo. Così l'anima potesse non sentire più nulla domani mattina, come il mio corpo non sentirà! Riceverò, o ricuserò i sacramenti? Chi lo sa? Io non dipendo mica da me. Se la forza che mi governa si parte dal demonio, posso fino da questo momento affermare di no; ma staremo a vedere...» «Mio reverito ed onorato padrone, interruppi io, dacchè la faccenda ha preso questa mala piega, che ormai, a giudizio mio, non lascia luogo a rimedio, o come l'alterezza vostra si accomoda a patire tanta infamia? A voi, che pur siete di sottile ingegno, non può davvero mancare un partito capace di sottrarvene... Mi spiego, don Luca?» «Anche troppo; ma non posso; te l'ho già detto: io non sono padrone di me: quello di che mi avverti mi viene impedito. Vedi, ecco qui il mio astuccio; non mi ha abbandonato: questo è tossico, e quest'altro è antidoto: quattro gocce del primo basterebbero ad avvelenare uno elefante; ma s'io mi provassi recarmi la caraffa alla bocca, il braccio mi ricuserebbe il suo ufficio; o se pure me lo prestasse, il liquore mi si spanderebbe giù pel mento...» «Ad ogni modo tentate...» «Ho capito... Tu credi, Orazio, che le sieno fisime di mente inferma: ti assicuro ch'è inutile; ho già provato meglio di dieci volte.» «Provate la undecima...» «E sia...» E' non ci fu che dire: chiuse tenacemente i denti e le labbra; e comecchè io vi adoprassi tutta la forza delle mie mani, non venni a capo di smuovergli i labbri, non che schiudergli i denti: i nervi su le mascelle gli s'incordavano duri più di metallo. «O Madonna dei dolori! Provate a cacciarvi di un coltello dentro al cuore; — quando sarò uscito di prigione, bene inteso: — se non avete pugnale eccovi il mio, io ve lo impresto volentieri, don Luca; non è da pari vostro, ma l'uffizio suo sa fare quanto un altro...» «No... no, tienlo per te: io non voglio fuggire al destino; egli è più forte di me; ma io voglio guardarlo in faccia fino all'ultimo, e morire.» «Signore! signore!, esclamai battendomi forte del pugno nel capo; e dovrò io sentire, che una fune plebea si dia il vanto di avere strangolato il mio nobile padrone come un volgare bandito?» «Oh in quanto a questo, Orazio, ti puoi consolare, perchè io sarò decapitato con la scure ai termini dei privilegi di cui gode da tempo immemorabile la nobiltà romana: su tal punto ci siamo già messi d'accordo. — Ma io sto novellando teco come se questo non fosse l'ultimo giorno della mia vita, senza averti dichiarato il motivo pel quale io ti chiamai. Porgi attenzione, Orazio, e bada non ti addormentare... — La maledizione di mio padre non si estingue nella morte di don Marcantonio e mia, ma dura sempre viva ed aperta sopra la testa dei miei fratelli, che mi sopravvivono; e quantunque volte io mi faccio a considerare come loro sovrastino destini pari ai miei, un peso di amarezza inestimabile mi si aggrava su l'anima. Quando la maledizione esige le sue giustizie, io fermamente credo che ricovrarsi nelle braccia di Dio non salvi: difatti per saldare l'antica maledizione dell'uomo lo Inesorabile volle sagrifizio di sangue.... nè Cristo supplicando potè ottenere, che il calice senza fine amaro fosse rimosso dalle sue labbra innocenti; — ed io mi sento immensamente colpevole. No, la vendetta strappa la sua vittima espiatoria anche di sotto al trono dell'Onnipotente; — tu, che rimani, vedrai, comunque sia, a me incumbe l'obbligo di tentare d'impedirlo... Consiglio inane, lo so; ma la mia vita non si compone ella di disperati conati? A noi non avanza che la intenzione..... pertanto, Orazio, prendi queste due lettere, e promettimi dì consegnarle tu stesso nelle proprie mani dei miei fratelli, Mario e Severo. Il primo io penso abbia a trovarsi qui in Roma; l'altro, comecchè io non ne udissi più novella mai, ha da stare a Vinezia: togli ancora questa marca, e recala al Sagrestano di santa Maria la Minerva, il quale tiene in serbo mille ducati d'oro di mio, e digli che te ne consegni ottocento; questi ti serviranno pel viaggio e gli bisogni che avrai, compreso il saldo del tuo salario con la casa Massimi: parti di essere contento?» «Magari, mio reverito padrone!» mi affrettai di rispondergli; ond'ei riprese: «Tanto meglio; e gli altri duecento aggiungerai da parte mia a fra Zanobi, ch'è l'uomo più piacevole del mondo, ch'io li lascio a lui _in primis et ante omnia_, però che quando si mettono danari in mano ai frati egli è lo stesso che cacciare la pecora dentro al roveto; qualche bioccolo di lana bisogna che si rassegni a lasciarci; e poi perchè ne faccia tante elemosine ai poverelli di Dio: e questo gli dirai che lo credo difficile, ond'io me ne rimetto in lui; — o ne celebri tante messe per le anime di Marcantonio e mia, e questo parmi più facile: o, se meglio gli sembra, gl'impieghi in tante merende e desinari, e questo gli tornerà facilissimo: — però bada ammonirlo, che tutto ciò io gli mando a dire per giuoco, e per sollazzarmi in questi momenti di passione, avvegnadio egli sia così giocondo come religioso e dabbene: e so che non mancherà ai suffragi ch'io gli ho commessi. Orazio, la tua madre vive?» «Eccellenza no.» «E il padre?» «Nemmeno.» «Cospetto di Dio! O che sei nato come un fungo?» proruppe impazientito. «Ah, reverito padrone, io nacqui da un uomo e da una donna travagliati quotidianamente dalla miseria così, che si affrettarono ad uscire da questo mondo come da una stanza senza impannate.» «E figliuoli ne hai mai generati?» «La villana che corre scalza alla macchia, potrà ella dire qual pruno le ha punto il piede? Nella medesima guisa la femmina, che a me si dette, avrebbe potuto dichiarare da cui rimase piena. Non menai moglie, e mi astenni dalla dolcezza dei figli: la memoria della brutta miseria dei genitori mi dissuase dal perpetuarla nei figliuoli.» «Tu parli di oro, Orazio; io te lo domandava perchè intendeva assicurarmi lo adempimento, che a te commetto delle mie volontà, col terrore della maledizione paterna, o materna; nè quella dei figliuoli deve pesare meno grave, se meritata; — ma bada, Orazio, ti arriverà terribile anche la maledizione del moribondo; — e dove, trasgredendo alla promessa sacra, tu mancassi di consegnare queste mie lettere ai miei due fratelli, Orazio, fino da questo momento io ti maledico...» «Eccellenza, oh! non mi parlate così, risposi io portandomi la mano destra al cuore; voi pensate a morire, ch'io penserò a consegnare le lettere ai vostri fratelli»[13]. «Sta bene; or bevi questo bicchiere di vino, e vattene.» Io bevvi senza sospetto. Allora come commosso dalla mia fiducia si alzò, e gittatemi le braccia al collo mi baciò in bocca. Povero don Luca! egli mi si era mostrato sempre umano e generoso: io per rispetto non gli resi il bacio sul volto, bensì su la mano, e come la faccenda andasse io non so dire; fatto sta, ch'io gliela bagnai di pianto. «Orsù, partiti, Orazio: incominciò di nuovo a parlare il mio signore, con quel suono pacato e soave di voce, che gli era consueto prima del casaccio della bella Siciliana: che pensi fare con le tue lacrime? che pensi che sieno le lacrime? Io volli conoscere di che cosa fossero composte, e le trovai formate con un po' di acqua e un po' di soda. Un pozzo di lacrime non crescerà ne diminuirà di uno scrupolo solo il tuo volume pesato dalla Provvidenza nella bilancia del destino: a me poi le tue lacrime fanno quanto il battesimo alle campane: non ch'io te ne sia ingrato, oh! no... fossero tanti diamanti del piviale del Papa io non le stimerei di più. Su, via, Orazio, risparmia gli occhi, che ben ti gioverà averli acuti per quelle maledette scale buie o a chiocciola, che ti hanno menato quassù. — Addio.» E in questo modo favellando mi prese risoluto pel braccio, e mi menò alla porta. Uscii pertanto lasciandolo solo: ma non sì tosto il carceriere ebbe richiuso la porta, che lo udimmo favellare a voce alta, ed anche un cotal po' risentita: onde presi il carceriere ed io dalla curiosità, incollammo, quasi per sentir meglio, le orecchie alla imposta, e senza perdere pure una parola ci venne fatto di raccogliere il seguente colloquio: «Ma signor padre, via, dove ci ha uomini ci ha modo; e salvo il rispetto filiale, che le ho professato sempre e professo, mi consenta dichiararle, che cotesta sua è una vera vessazione. Oh! che teme vostra signoria ch'io le fugga? — Momento più, momento meno non guasta: le mancherà forse tempo di starsi con me? Non ci dobbiamo trovare insieme per una eternità? E mi figuro che l'abbia ad essere una cosa ben lunga la eternità; da soddisfare eziandio i meglio indiscreti: poteva dunque soffrire in santa pace che mi trattenessi per un quarto di ora con Orazio fuori della sua presenza, come (e questo le dico senza amarezza alcuna, e nè anche per ombra di rimprovero) vostra signoria potrebbe pure chiamarsi contento, che don Marcantonio ed io avessimo espiato la sua maledizione.... Alfine siamo suoi figliuoli noi, ed ella col suo sangue ci ha generati, e le fummo cari una volta. No? — Ella tentenna il capo, ed accenna di no? Non le pare di avere ancora il suo saldo? Vostra signoria di mala morte li vuole dunque spenti tutti? propriamente tutti? Diavolo! Chi mai ebbe a fare con un uomo tanto inesorabile? Po' poi nè anche vostra signoria fu senza peccato; e mettere in casa Massimi per marchesa una femmina di partito e' fu azione, signor padre, da doverne render conto a Dio ed agli uomini. Se il Signore ha messo sopra la bilancia le nostre colpe, non creda già ch'ei non ci voglia mettere anche quelle di vostra signoria — ed egli imparzialissimo giudicherà. Vi ha qualche cosa, signor padre, che è troppo più potente della sua maledizione, e questa è la misericordia di Dio, nella quale sciolto adesso dalla nebbia della sciagura e del delitto riposo intera l'anima mia....» «Manco male, che ci si è accomodato!» — pensava io allontanandomi di costà; però che assistere più a lungo a quel vagellare di uomo sano avrebbe terminato col farmi dar di volta alle girelle anche a me. § VI. DON MARIO MASSIMI. Nella notte medesima senza porre tempo fra mezzo mi posi in traccia di don Mario un po' per allargarmi il cuore, ma più assai per soddisfare sollecitamente alla volontà del moribondo: che vi dirò? Quelle paurose parole di maledizione mi erano come esca accesa dentro le orecchie dell'asino. — Don Mario era della natura della lumaca, che dove passa lascia traccia; sicchè in breve mi venne fatto trovarlo. Verso l'una ora di notte entrai nella osteria dell'Angiolo, ove aveva preso usanza meglio che nelle altre taverne. I fiati, il fumo e l'esalazioni delle candele di sego di così grave nebbia empivano il luogo, che a me per buono spazio di tempo non riuscì distinguere le facce dei raccolti intorno alle tavole per bere. Però, anche senza cotesta infernale caligine, come mai avrei potuto raffigurare don Mario? Ficcai gli occhi nel viso ad un cotale, che udii chiamare il Marchese; ed, ahimè! come il bellissimo don Mario era diventato sozzo aspetto! La faccia aveva vermiglia color del rame, il naso gli protendeva fuori della fronte acceso, e pieno di bernoccoli paonazzi, quasi altrettanti testimoni prodotti dalla buona Coscienza al tribunale della Temperanza per sostenere l'accusa; la pelle gli pendeva giù floscia dalle mascelle, e vergata di rughe premature. Gittata là sopra una pancaccia la veste plebea, stavasene in camicia con una manica attorta su fino alla spalla, e l'altra abbottonata intorno al polso: i capelli, che una volta egli ebbe belli e ricciuti, ecco adesso scarmigliati come bioccoli della lana di capra, e di terra sordidi e di paglia. Dalla fronte, da tutta la faccia gli grondava giù il sudore, per la smania che gli si era messa addosso; e nondimeno ei beveva, e beveva, conciossiachè avesse giuocato con un vetturale a cui tracannasse più vino. I partitanti così dell'uno come dell'altro bevitore stavansi seduti, o in piedi variamente atteggiati, contando le fogliette bevute. Nessuno fiatava; cotesto silenzio era soltanto rotto dal gorgoglio del vino versato e dal colpo morto dei bicchieri battuti sopra la tavola, come bòtte che due nemici mortali si avventino in mezzo alla nebbia. I giuocatori quando posavano il bicchiere, ma più terribili assai quando l'orlo del vetro toccava loro la radice del naso, si guardavano fissi ferocemente, che pareva si volessero scannare: gli occhi avevano voce, e si vedeva espresso, che l'uno all'altro diceva proprio cosi: «Maledetto! perchè non cedi? O non vedi, che la tua ostinazione mi fa morire? Deciditi a crepare, cane rinnegato!» e forse anche peggio. Considerata alquanto la cosa detti spesa al mio cervello avvisandomi, che gittarmi lì framezzo a scompartirli tornava lo stesso che cacciare la mano fra la incudine e il martello; e non pertanto mi parve bene tentare un colpo ardito, per porre termine allo sconcio strazio. Mi accosto dunque di fianco a don Mario, e forte battendogli della destra sopra la spalla, gli dico: «Don Mario, io vengo dalla parte del vostro signor fratello il Marchese don Luca, condannato ad avere domani la testa mozza in capo al ponte sant'Angiolo, per ragionarvi della maledizione del vostro signor padre don Flaminio...» Come manzo, che abbia sciolto le funi in quella che il maglio lo ha percosso in mezzo alle corna, barcollò, chiuse gli occhi, e, declinata la faccia, prese don Mario a borbottare suoni indistinti e rotti in guisa di singulti: poi la pelle aggrinzandoglisi fitta fitta tremò, diventò in viso prima violato come il petronciano, poi colore di lupino secco: al fine aperse le braccia, e giù sul pavimento svenuto a mo' di pane di piombo. Degli adunati intorno alla tavola la più parte, presi da terrore, restavano immobili: alcuni, ma pochi, mi guardavano biechi, ma non ardivano muovere un passo. Io cinsi don Mario a mezza vita, lo sollevai di peso, e così com'egli era scamiciato lo trasportai all'aria aperta; immaginando tra me che il freddo, il quale in cotesta notte stringeva acutissimo, gli avrebbe apportato notabile giovamento. Lo deposi sopra un banco di pietra, e mi detti ad asciugargli il sudore strofinandolo forte forte per la fronte e pel petto. Allo improvviso ecco, ohimè! si risveglia... e sotto il pannolino vedo... in fè di Dio io non ho pelo che mi stia fermo, a rammentarlo soltanto. «Che cosa vedesti, di', Orazio?» domandarono ad una voce tutti i banditi i quali stavano con la faccia loro ammusati con quella di Orazio, come le formiche costumano quando s'incontrano per la via. Che cosa vidi? — Io vidi dalla carne viva di don Mario uscire fiammelle verdi e celesti, e scivolando attraverso i capelli abbrustolirglieli: i capelli poi ardendo si attorcigliavano, per uno istante duravano cenere figurata in sottilissime spirali bianche, e disperdevansi; la pelle della fronte si rialzava in gallozzole, le quali scoppiando lasciavano colare un sangue sieroso, e giallastro: pel seno altresì guizzavano lingue di fuoco, e ne abbruciavano i peli: insopportabile il fetore. — «Soccorso! urlai, soccorso per lo amore di Dio!» — Allora uomini e donne slanciaronsi fuori della osteria per portare aiuto; ma contemplando cotesto spettacolo spaventoso, presero a urlare a posta loro più forte che mai: «È il diavolo! Lo aveva detto, che non poteva essere altri che il diavolo!» — Ed io: «Ma venite appresso, che il vermocane vi colga; o non vi ho chiamati col nome di Dio?» E' fu fiato gittato: quei somari, come se mille demoni se li portassero, sempre gridando «Domine aiutaci!» spulezzavano parte, e furono i più, per la contrada; e parte, volendo ripararsi dentro l'osteria, accecati dalla paura dettero del capo negli stipiti, e nei muri. A me poi lo spavento partorì effetto contrario, dacchè mi sentissi come inchiodato sul terreno, e privo della facoltà di muovere le gambe. Al divampare del fuoco per la faccia lo sciagurato don Mario apriva gli occhi lustri da gatto, e quindi subito li stringeva come persona, che ammicchi per lascivia: le gote, in prima pendenti, ora gli si distendevano stirate verso le orecchie, e mostrava i denti bianchi chiudersi e serrarsi; talchè pareva che ridesse di matta allegria. Più di una volta tentai con le mani spegnere le fiamme: ma, oltrechè me le sentissi ardere da dolorose scottature, il leppo grave mi stringeva la gola. Finalmente la paura cacciandomi addosso il delirio della febbre, mi sciolse di un colpo le membra: — non corsi, volai via fuggendo da cotesto spettacolo abbominato, e nel fuggire il vento mi portava per le ombre della notte questa preghiera, singhiozzata dal misero don Mario nel rantolo dell'agonia: «Ho voluto affogare la mia maledizione nel vino, ed il signor padre me lo ha convertito in fiamma dentro le viscere.... Ahi! ahi! — pietà.... misericordia... una volta sola lo inferno... e dopo spirata l'anima... Oh Dio!» — Io mi chiusi gli orecchi per non sentir più lo strazio di quel doloroso guaio, ed alla prima chiesa che occorsi vi entrai dentro, e tuffai ambo le mani nella piletta dell'acqua santa; donde, poichè io me l'ebbi lungamente purificate, mi tolsi; ma non osando tuttavia uscire di sagrato, mi ridussi in un confessionale, e quivi quanto fu lunga la notte stetti battendo i denti per la gran febbre, che mi si era cacciata addosso. Quando incominciò a spuntare l'alba uscii inosservato per mutarmi di vesti, e poi piano piano mi avviai per la contrada di santa Agata, dov'era successo il caso; non bene sicuro per anche, malgrado le scottature delle mani, se quanto aveva veduto fosse sogno d'immaginazione febbrile, o verità. Appena io m'ebbi messo il piè nella ruga, i frequenti capannelli di popolo e le diverse novelle che si contavano a vicenda, mi persuasero il fiero caso essere stato vero pur troppo, ed a chiarirmene affatto io vidi... Oh! vogliatemi credere, compagni miei, — non mi date del bugiardo, chè in verità di Dio voi lo fareste a torto — un volume colore carbone, non più grosso di un pane da cinque libbre... una qualche cosa, come sarebbe a dire, una palla di terra argilla sformata, in capo a questo volume... quattro pezzi di materia carbonizzata pendenti giù dai lati, uno insieme schifoso, strano e terribile, somiglievole, più che altro, ad una testuggine tinta in nero voltata sotto sopra... ecco tutto quello che avanzava dì don Mario.[14] Lo schiamazzo, il frastuono, il lamentìo andavano a cielo. Un nugolo di frati, come i gabbiani sul mare agitato, si aggiravano pel popolo da molte passioni commosso, e andavano dispensando medaglie e insaccando testoni, secondo il solito. Uno di loro, nei panni e nella faccia tutto scarduffato, salito su di un muricciuolo, dopo averci predicato miracoli terribili e paure da cacciare la quartana addosso a noi altri poveracci che stavamo a udirlo, terminò con queste parole, che vi riporto tali com'ei le disse: «Profferire più bestemmie in un giorno, che dieci conventi di cappuccine non cantino litanie in un anno: tenere sempre in mano il boccale, e non mai il rosario: frequentare le bische, le taverne e il bordello, ed esser vago di chiese come i cani delle mazze: — per vizi, che precipitano giù a scavezzacollo nello inferno, tenere sempre preparato uno scudo nuovo di zecca; e pei fraticelli di Dio, che stanno a fare penitenza per voi, e vi menano diritto in paradiso, non avere mai un papetto... Ma che parlo io mai di papetti? nè manco un bolognino! — nè manco un baiocco di quelli vecchi col verderame sopra! — I sacramenti tenuti cari quanto i sassolini dentro le scarpe... I perdoni avuti in conto di bruscoli dentro gli occhi... i digiuni di zanzare, l'elemosine di tafani. Queste, queste con altre più assai, che taccionsi _honestatis causa_, furono le virtù, fedelissimi e carissimi fratelli in Cristo, _con le quali, e nelle quali venne a sostanziarsi_ quel peccato _connesso, complesso, e per di più continuato_, per cui il diavolo s'impossessò di quest'anima e s'impossesserà (se le speranze non tornano corte) quanto prima anche della vostra. Il demonio è venuto come _leo rugens quaerens quem devorans_, e con un colpo della sua terribile coda (dacchè i demoni giudicano e condannano soprattutto con la coda) lo ha frombolato dalla taverna nella ruga, dove avendolo abbracciato, stazzonato e baciato, mirate un po' come lo ha concio!...» E qui messo il dito sopra quella parte delle reliquie infelici, che presentava la traccia della testa, ella venne a sciogliersi in polvere; per la qual cosa tutti i circostanti proruppero in un grido di orrore, e si allontanarono. Ma questo spulezzare della gente non garbava punto ai disegni del frate, che, mugolando come toro di maggio, si sbracciò tosto a richiamarla con queste parole: «Fratelli dilettissimi, alto là! Se muovete anche un passo, guai a voi, fratelli, e soprattutto a voi altre sorelle! Cristiani, accostatevi, e udite la vera verità dalla mia bocca: Non vi ha peccato, per quanto grande egli sia, il quale non possa trovar grazia appresso Dio mercè una contrizione sincera e profonda. Così è, dilettissimi: il pentimento non opera mica in ragione della sua durata, bensì in ragione della sua intensità: un sospiro, vedete, ma di quei buoni, è capace a sollevare la basilica di san Pietro fino alle porte del paradiso: anzi si legge sui libri stampati come abbia di questo il diavolo mosso querela grande davanti la Corte del cielo, specificando qualmente una lacrimetta pianta a tempo lavasse più, e meglio, che ventiquattro bucati di voi altre donne romane: ed egli dopo avere lavorato ben trenta, cinquanta, e talvolta ancora ottanta anni intorno ad un'anima per farsela sua, mentre già teneva aperta la bocca del sacco per insaccarcela dentro, ad un tratto si trovava con le mosche in mano, e come, puta il caso, sarebbe ad aver giuocato di noccioli agli aliossi; — e questa, rimettendosi, non gli pareva giusta. — Sulla qual cosa io lascio che giudichino i più savi di me: quello però che posso giudicare io si è, che la sbaglia a partito, prende un granciporro grossissimo chiunque si avvisa potersi pentire con una sola parte del corpo; mentre, per lo contrario, il pentimento deve resultare dal complesso delle intere facultà e potenze così del corpo come dell'anima: e se volete pentirvi in parti, fatelo, io non vel contrasto; ma deh! che non sieno queste parti sempre le stesse. Infatti voi dite: — Padre, mi sono pentito. — Davvero? E dove, figliuolo mio? — Padre, nel cuore. — Ottima cosa, e nobilissimo viscere è il cuore, io non lo vo' negare, e non lo nego; ma chi ci vede là dentro? Dio, e il beccaio: e noi dii non siamo, e per vedervelo, come fa il beccaio, bisognerebbe spararvi per lo mezzo. In questo voi non trovereste il vostro tornaconto: dunque, orsù, pentitevi con qualche altra parte che possa esser veduta anche dagli uomini senza spararvi; pentitevi un po' con la mano: vediamo, su, via, da bravi; un segno di questo pentimento con introdurvela in tasca, e cavarne fuori un'abbondante elemosina.[15] Taluno forse di voi mi domanderà: e a che pro la elemosina? per suffragare l'anima del defunto? Ma no; s'ella se ne andava nello inferno non ci ha più mestieri acqua santa, nè moccoli; egli sarebbe un raddrizzare il becco agli sparvieri. No, dilettissimi; quelli che vestono un abito come il mio non consumano più olio che vino, per consigliarvi a gittar via ranno e sapone; conciossiachè io vi abbia fatto toccare con mano, che la sua anima anche di mezzo agli artigli del Maligno poteva riscattarsi in virtù di un sospiro: ma forse perchè dalle porte Salara e del Popolo entrano carni e frutti, e di ogni maniera derrate, non pagano essi la gabella? Mai sì che la pagano. Qual è pertanto la gabella, che le anime hanno da pagare innanzi di entrare in paradiso? Ho io bisogno di dirvelo? Questo conoscono i putti; questo è noto anche a quelli, che non sanno nè anco a quanti dì vien san Biagio: il Purgatorio — il Purgatorio. Ora lascio fare a voi; per me non me ne intrigo, che ne perderei la tramontana: a voi lascio fare il conto di quante diecine di centinaia di migliaia di anni dovrà questa povera anima tribolarsi dentro le fiamme del purgatorio. Dunque la messa torna a matutino: suffragi ed elemosine. Ma se ci ha tra voi altri (o ci sarà di sicuro, perocchè fin qua mi giunga certo odore di zolfo, che mi sforza a starnutire) qualche maledetto da Dio, turco o cristiano rinnegato, che a ciò non creda, si faccia avanti questo ser tale, e mi dica, su via, se ad ogni modo i suffragi anderebbero perduti? No davvero; perchè o si applicherebbero alli parenti vostri, o sarebbero messi da parte in benefizio di voi medesimi ora per quando passerete a migliore vita: la qual cosa io vi conforto a fare, quanto per voi più sollecitamente si possa, per la massima gloria di san Francesco ed esaltazione della santissima Madre Chiesa _in omnia sæcula sæculorum, amen_.» Tanto mi mossero le parole di questo valentuomo di frate, che sua disgrazia fu non avessi riscosso gli ottocento ducati, però che cento almeno io gliene avrei dati per suffragare le povere anime dei miei defunti padroni; non mi trovando addosso altro che uno scudo, quello donai, e volsi altrove i miei passi. Per parecchi giorni mi rimasi come melenso, ma il peggio avveniva durante la notte: aborriva nutrirmi; strane fantasie mi si aggiravano per la testa; la terra sotto non mi pareva ferma mai, e le gambe mi tremavano. Come sarei andato a finire io non so, quando mi risovvenni di colpo della lettera, che avevo promesso consegnare a don Severo. § VII. DON SEVERO MASSIMI. Alla memoria della maledizione di don Luca balzai ignudo da letto, sentendo quasi il fischio della frusta scossa per isforzarmi le gambe; onde, senza porre altro tempo fra mezzo, io mi disposi andarmene in traccia del marchese don Severo come mi sforzava religione di giuramento, e necessità di sollevarmi lo spirito agitato. Salito in nave ad Ancona, giunsi in Vinezia. Appena confortatomi alquanto dalle fatiche del viaggio, impresi a investigare sottilmente di don Severo: il quale, dopo moltissime ricerche mosse indarno, mi dissero per cosa sicura doversi trovare al Cerigo, luogo di convegno, per quel momento, delle galere della serenissima Repubblica; dove egli, mercè la molta bontà sua ed il valore miracoloso in più incontri dimostrato, era pervenuto al grado di capitano di galera, avendo schifato sempre avvantaggiarsi presso il Doge e i Signori per ottenere favore delle raccomandazioni del magnifico messere Marcantonio Colonna suo consorto. Non mi riuscì disagevole nè lungo rinvenire nave, sopra la quale imbarcarmi, dopo avere costeggiato le terre di Dalmazia; e fatto scala ad alcune isole del mare Ionio sottoposte al dominio viniziano, arrivai sul calare del giorno a Cerigo il dì undici aprile anno domini mille cinquecento ottantanove. In questa isola stanziavano per ordinario alcune fuste viniziane con altri legni minori sparvierati e sottili, messi là come sentinelle avanzate a speculare le mosse delle flotte turche, sorprenderle alla spicciolata, combatterle e impadronirsene, o apportare loro i danni, che si fossero potuti maggiori. Ond'io lascio che consideriate voi, se a quelli che li governavano, o vogli uffiziali o vogli marinari, e soldati, facesse mestieri essere arditi davvero, avendo a mettere quasi quotidianamente la vita in isbaraglio frammezzo a disperate avventure. Indicatami la galera di don Severo, mi parve bene presentarmi a lui nella sera stessa del mio arrivo. Egli mi accolse silenzioso e grave, salutandomi con un sol cenno del capo; mi ascoltò senza proferire parola: ed io, comecchè ne avessi soggezione grande, pure attentandomi di guardarlo sottecchi, gli vidi espresso conficcato da una tempia all'altra il chiodo della maledizione paterna. Pallido egli era, e i suoi capelli neri gli scendevano giù per le guance e per le spalle rabbuffati a modo di criniera; profondi gli occhi e sanguigni; i sopraccigli irsuti ed aggrottati per guisa, che le pupille accese traverso i peli parevano fuoco in mezzo ad un roveto; nel nome, insomma, e nelle sembianze egli appariva Severo. Sempre chiuso in sè, passava le intere notti a pregare genuflesso sopra i freddi gradini dell'altare, davanti la immagine di Gesù crocifisso; delle altre pareva non facesse conto; correva fama eziandio ch'egli costumasse portare addosso il cilicio, e lo avevano sentito più volte, nel buio, flagellarsi a morte senza dire un fiato. Con i soldati e con i marinari egli procedeva spietatamente giusto: nelle zuffe piuttosto belva feroce, che guerriero valoroso; di dare, e verosimilmente di ricevere a quartiere, alla ricisa nemico: ogni menomo indugio lo faceva montare in furore: non pativa esitanza, non monito: sua smania irrefrenata, suo delirio supremo, scorto appena un naviglio nemico avventarglisi addosso, arrampicarsi su pel sartiame, e combattere pugna manesca sul cassero. Sembrava cercasse con sommo studio la morte; e questa, siccome vediamo per ordinario accadere, quanto più era cercata, tanto più lo fuggiva: molte, e sconce ferite gli avevano lacero il corpo; ma, provvidenza o caso, egli era riuscito a non rimanerne storpio della persona. Siccome poi delle prede fatte egli non serbava per sè parte alcuna comecchè minima, ma le distribuiva generosamente intere alla ciurma, ne avveniva che marinari e soldati, un po' per affezione, molto più per paura, ogni suo cenno con esattezza eseguissero, nè di gittarsi a capo basso fra le baruffe più arrisicate balenassero. Tal era pertanto don Severo Massimi, l'ultimo dei figli maledetti da don Flaminio marchese di santa Prassede. Prese la lettera del fratello don Luca, la lesse tre, quattro volte e sei senza stringere labbro nè ciglio, o con altro moto qualunque palesare la interna commozione dell'animo; poi, levati gli occhi al cielo, esclamò: «Oh! se bastasse... Povero don Luca! egli fu sempre per noi amoroso fratello... ed uomo di ottimo giudizio... onde a me pare impossibile, che egli non siasi accorto noi spingere inevitabilmente a mala morte la maledizione paterna, e la vendetta di Dio.» E rivolgendo a me la sua faccia, proseguiva pacato: «Don Luca mi scrive lettere, nelle quali mi annunzia sentirsi prossimo a morire; non pertanto io osservo i suoi pensieri gagliardi, e la scrittura ferma così, che uomo sano non traccerebbe diversa. Non si sarebbe egli per avventura reciso la gola?» «Eccellenza no.» «Preso veleno?» «Oibò! le pare?» «Gittato nel Tevere!» «Nemmeno.» «Or dunque, dite, come moriva egli?» E siccome io, peritandomi, esitava a rispondere, don Severo con voce incavernata e tremante, come uomo che faccia forza a sè stesso, balbutì: «Orazio... questo sappiate... e tenete sempre davanti agli occhi... che io non ho costume d'interrogare due volte... Dite aperto... io sto apparecchiato a tutto...» «Ei morì giustiziato... don Luca.» «Giustiziato!» E ci pensò un poco sopra, e quindi a breve don Severo riprese: «E gli altri, giustiziati anch'essi?» «Domando perdono, eccellenza;» — e qui, vincendo l'orrore da cui io mi sentiva compreso, a parte a parte gli narrai il modo col quale avevano terminato la vita loro don Marcantonio e don Mario. «Dunque di mala morte sono morti tutti, tranne Pompeo?» «Per lo appunto così, eccellenza;» risposi inchinandomi rispettosamente. «Eh! già, così doveva ben essere; incerto il modo, certissimo il fine. — Strana cosa però!... Don Luca aveva migliori viscere degli altri, e non pertanto gli è toccata la morte più trista... ed ha commesso i delitti più atroci. Fatalità, che strascina! E noi siamo condannati non pure a capitar male, bensì a perdere la vita con accidenti strani e terribili, onde lo esempio nostro ammonisca a un punto e minacci. Però...» E qui si tacque rimanendo sospeso come persona, che ascolti le parole di un'altra; e quando gli parve che avesse cessato di favellare, quasi rispondendo, riprese: «Io vi chieggo mille scuse, ma non mi rimuovo dal mio proposito niente: ogni offesa ha espiazione, ogni vendetta confine; e la morte ignominiosa, signor padre (e qui si riscaldava, e su per le gote gli saliva un colore di rosa appassita), la morte ignominiosa poteva essere risparmiata da lei; — non fosse altro pel decoro della illustre casata donde ella e noi nasciamo — e per rispetto al suo bene amato Pompeo, a cui doveva essere studio comune trasmettere senza macchia la nobiltà del lignaggio dei Marchesi di santa Prassede. Lo avessero almeno giustiziato come a gentiluomo si addice! — Dite voi (m'interrogava ad un tratto, sbarrandomi incontro gli occhi ferocemente stralunati) come giustiziarono don Luca, con la corda, o con la scure?» «Con la corda? Nè manco per ombra! O che forse, dappoichè ella non ci è più, crede che le sieno state dismesse le buone creanze in Roma? Don Luca reclamò i privilegi del suo sangue, ed ottenne di quieto avere il capo mozzo per filo e per segno.» «Laudato Dio!.... ed anche questo è pure qualche cosa pel mio cuore desolato.» Egli è di facile contentatura don Severo, pensava così tra me e me; quando egli riprese a tendere il collo, ed a porgere le orecchie come per ascoltare; e poi di nuovo immaginando egli nella viziata fantasia di dar risposta allo udito, soggiunse: «No di certo.... io non sofistico.... io non presumo scusare i miei fratelli, molto meno me: — però, mi creda, il vituperio pungeva atrocissimo e tale, che ogni gentiluomo onorato doveva sentirsene disfatto senza riparo nella fama. Ma che mi burla, signor padre! Non sa ella come predicava l'obbrobriosa scritta? Forse non lo avrà informato veruno; adesso, che siamo al termine della tragedia, favorisca ascoltarmi. L'obbrobrioso libello era intitolato a lei, signor padre,.... a lei rappresentante e capo della prosapia dei Marchesi di santa Prassede, e diceva per lo appunto così: _«Le corna di oro e' fanno come i denti;_ _«Rodon cresciute, e dolgono nascenti.»_ Come se il principe don Marcantonio Colonna avesse rinvenuto in lei un vile paltoniere, che si fosse indotto a prestare il suo inclito nome per moneta, onde servisse di tabarro agli amori di lui con la bella Siciliana. — Eh! signor padre — la non tentenni il capo, e non si ostini a dire di no. Nei piedi nostri, veda, vostra signoria avrebbe fatto lo stesso, e forse peggio. — No?.. No?.. Ed io, salvo rispetto, persisto a replicare: sì, sì. Per Cristo santo, e vivo! bisognava non avere sangue nelle vene per patire di queto cosiffatti improperii. Dica piuttosto, che la fatalità nostra, ed anche la sua volle così, che dirà bene, e basta.» Tacque; e poco dopo, tutto raumiliato come se avesse ricevuto qualche rampogna, riprese: «No, senta signor padre, io non lo faccio per redarguire, nè per accusare; anzi mi chiamo soddisfatto del mio destino, e ne ringrazio Dio: egli era così per dire, e forse valeva meglio tacere; imperciocchè nè anche l'Onnipotente potrebbe cancellare lo accaduto.» Io voltava gli occhi al punto ov'egli indirigeva la favella; ma non mi riusciva scorgere persona, appunto come don Luca; sicchè incominciava a entrarmi il tremito della paura addosso, e desiderava trovarmi un miglio lontano da cotesta stanza; quando don Severo, allo improvviso chiamatomi per nome, mi favellò: «Io qui non possiedo altro albergo, dalla mia galera in fuori; andate a bordo, e intanto ristoratevi: domani poi mi chiarirete a vostro agio se piacevi restare, o andarvene. Se vorrete rimanervi, io vi accomoderò con vantaggio vostro di presente, e con speranza di meglio in avvenire: — ed io quanto più so e posso vi conforto a questo, perchè non può farsi nel mondo opera che tanto approfitti alla salute dell'anima, quanto spendere la vita in combattere i nemici della fede di Cristo. — Se all'opposto scerrete partire, io vi darò commiato in guisa, che vi chiamerete satisfatto: come vi talenta meglio operate.» La mattina dalla parte di oriente incominciava a comparire un colore grigio chiaro, che a mano a mano si faceva di rosa, quando amore di rinfrescarmi con la brezza matutina invogliandomi a salire sul ponte, io v'incontrai don Severo; il quale, con la vista tesa facendo delle mani solecchio, guardava qualche oggetto lontano sopra l'orlo estremo dell'orizzonte. «Due... sei.... dieci..... Per san Marco! ella è tutta un'armata.» Egli esclamò. Io pure mi posi a speculare, ma non iscorsi nulla. Don Severo dà un fischio, e subito dopo, come se fosse sbucato di sotto alle tavole per le fessure, comparve il comito della galera. Don Severo con presti accenti gli favellò: «Momolo, stamani hacci passo di smerghi: vedete per costà lo stormo dei mali uccelli: guardiamo un po' se qualcheduno ci riuscisse sbrancarne. Lasciate stare la galera; faremo meglio con la fusta: quaranta rematori bastano a spingerla come sparviere; del rimanente è in punto, che ieri la visitai da per me stesso dalla carena al pappafico; — tra dieci — tra cinque minuti alla banda della galera.» Udii, in meno che non si recita un _credo_, lo sfrenellare della ciurma; e la fusta sottile volava sopra le ale dei remi, tutta impaziente, tutta spumante, — cavallo arabo dei mari. Andiamo a vedere anche questa, io aveva detto nel calarmi dalla galera nella fusta; ma poi provai, che sarebbe stato meglio per me andare a terra, o rimanermi a bordo. Ora sapete voi, che cosa mi abbia tagliato così la faccia? Su, dite, via: giuoco Roma contro uno scudo, che veruno di voi la indovina in mille. «Una punta di picca?» disse un bandito. «Niente.» «Un man rovescio di pistolese?» interrogò un altro. «Neppure.» «Una scaglia di bombarda?» domandava un terzo. «Cerca.» «Da' retta, che la indovino io; e' fu una stiappa di legname...» Orsù, ve lo dirò io, interruppi; dacchè tanto non vi basterebbe l'animo di trovarlo di qui a un anno. Così mi ha concio un pezzo di cranio, ed ecco come. Di onda sguizzando in onda, giungemmo a tiro di bombarda dalla squadra turca. I legni nemici procedevano di conserva, ed a nessuno di quelli venne vaghezza di scompagnarsi per darci la caccia; molto più che vedevano potere ciò molto disagevolmente fare come quelli che avevano legni gravi a governare, ed il nostro scivolava stupendamente snello e leggero. I nostri zimbellavano in varie guise per attirarli, ora nascondendosi giù sotto le paratìe per dare ad intendere che scarsa fosse la ciurma a bordo, ora straziando la bandiera turca con mille vituperi: però lusinghe e minacce tornavano indarno, nessuno dei legni si scompagnava. Voga, arranca, ci accostiamo sempre più: in verità di Dio la nostra fusta aveva l'aria di una rondine, che andasse ad accattare briga con uno stormo di falchi. Il Comito si accostava a don Severo, e, cavatosi ossequiosamente il berretto, gli domandò: «Non vorrà l'eccellenza del signor Capitano ordinare, che voltiamo di bordo?» «Avanti! avanti! arranca! Forza di remi!» gridò don Severo con voce tonante. E fu fatta forza di remi. Oggimai eravamo arrivati a meno di un terzo di tiro di bombarda, quando il Comito, levatosi da capo il berretto con i medesimi segni di devozione profonda ripetè: «Sembrerebbe tempo alla eccellenza del signor Capitano ordinare, che dessimo di volta al timone?» E siccome don Severo teneva gli occhi accesi nella armata turca intenti così, che pareva volerla ardere col guardo, e come tratto fuori di sè alle parole del Comito nè badava, nè rispondeva, questi soggiunse: «Io mi tolgo ardimento, signor Capitano, di ammonirla, che alla prima scarica del turco, della carcassa della povera fusta non rimarrà tanto legno che basti per farne una croce, da piantarsi sopra la nostra fossa.» In questa, ecco si leva di sul legno nemico una leggera fumata; e in meno, che non si batte occhio, immaginatevi come fa il grano sbalzato dai vaglio quando di qua e di là si spande, e il vento se ne porta la pula... così se ne andò frantumato il capo di don Severo, colto in pieno da una palla di bombarda. Un pezzo di cranio, schizzato con forza, mi lacerò la gota sotto l'occhio sinistro. Il Comito trovò il cervello del marchese don Severo dentro il suo berretto. Il tronco del Marchese non cadde, giravoltò su le calcagna; poi mosse in fretta quattro passi o cinque, quasi volesse correr dietro alla testa; senonchè giunto alla sponda della fusta vi battè fieramente dentro con la pancia, e a gambe levate precipitò in mare. Il Comito, senza punto smarrirsi, e come se non fosse fatto suo, gridò: «Gira di bordo! Forza di remi!» Ma nel punto, che ogni supremo sforzo adoperavamo per allontanarci sollecitamente, ci piove addosso una vera tempesta di ferro e di fuoco: rotto il sartiame, crivellate le vele, gli alberi tronchi, spezzati i remi: i morti molti; troppi più i feriti. E la sciagurata fusta? Oh! ella non sembrava più il balioco cavallo arabo di dianzi, spumante e leggero; bensì ranchettava come pecora incannucciata. Alla Beatissima Vergine piacque salvarci per miracolo! Il Comito, ch'era di Spalatro in Dalmazia, garbato quanto il taglio di una scure, gittata ch'ebbe l'ancora ci chiamò tutti intorno a sè; e, bevuto prima un lungo sorso di acqua arzente, si forbiva con la mano la bocca, e poi ci favellava in questa sentenza: «Strenuissimi compagni! Don Severo da gran tempo cercava il male per medicina, ed io me n'era avvisto: egli voleva morire; le religione gli difendeva ammazzarsi, ed egli ha scelto questo partito per uscire dal mondo: adesso ha ottenuto il suo fine, e mi figuro che sarà contento! Essendo egli ottimo cristiano, hassi da credere altresì che con le faccende dell'anima si tenesse apparecchiato, come il buon capitano cerca di avere più presto che può le sue patenti a bordo. Tuttavolta, siccome qualche _de profundis_ di più non guasta nulla, così, o fuori o dentro la chiesa, voi farete bene a recitarglielo. In quanto alla sua morte non vi ha causa di piagnisteo, perchè morto per la fede; in quanto alla sua sepoltura nemmeno, perchè il sepolcro ampio e di acqua conviene al marinaro; dentro una fossa, con tanta terra addosso, ahimè! mi parrebbe affogare. Per le quali cose tutte concludo: che chi è vivo e sano vada alla osteria, chi è ferito sia portato all'ospedale, e chi è morto sia sepolto al camposanto. Amen.» A me parve di sentir parlare Marco Tullio in persona; però come a me non sembrò al cappellano della galera, il quale cheto cheto si accostò al Comito, e ponendogli la destra sul braccio glielo battè leggermente due volte, e favellò con voce soave queste parole: «Momolo, voi non avete parlato con spirito di carità. Don Severo pei molti meriti suoi era degno di miglior sepoltura, che le onde del mare non sono.» Intanto il sole si accostava al tramonto. Signore! come era terribile a contemplarsi! Pareva che nel fare il giro della terra egli avesse attratto a sè tutto il sangue, che gli uomini hanno versato sopra gl'infiniti campi di battaglia dappoi che mondo è mondo, ed ora lo rivomitasse a torrenti pel cielo e pel mare. Un flutto incalzava l'altro flutto, e nel rovesciarglisi addosso di vermiglio si faceva nero, mormorando un suono come di migliaia di disperati, che piangessero. Per mezzo ai flutti galleggiava un cadavere tronco, che di tratto in tratto sollevava le mani, e non sapevi ben dire se in attitudine di preghiera o di minaccia. La nera apparizione con istupenda celerità si accostava, si accostava alla banda del bastimento. «Misericordia!» Gridò il marinaro, che primo lo scoperse: un morto cammina sul mare. E gli altri tutti spaventati urlarono ad una voce: «Misericordia! È don Severo, che torna a visitare la sua galera.» Il Comito, ambe le mani appoggiate sopra la sponda della nave, e il busto sporto in fuori, sgomento in vista, urlò anch'egli: «Che vuole adesso? Che cosa cerca costui?» E il cappellano, facendosegli appresso, gli susurrò negli orecchi: «Cerca cristiana sepoltura in sacrato, e voi gliela darete. La espiazione è compita; l'ora della misericordia incomincia.» Il cadavero di don Severo fu ripescato, ed ebbe onorevole sepoltura a piè dell'altar maggiore nella Primaziale del Cerigo. Don Pompeo, l'unico figlio di don Flaminio non compreso nella maledizione paterna, vive e prospera; e, per quanto udii favellare in Roma, sta in procinto di condurre a moglie una dama di casa Obizza, nepote del cardinale. Questa è la vera storia dei figli maledetti da don Flaminio, marchese di santa Prassede. FINE. LETTERE INEDITE. A Ferdinando Bertelli _Caro Amico_ Mi hanno detto il molto, che ha fatto per me. La ringrazio di cuore. Siccome la faccenda tira in lungo, la prego a non intramettere le diligenze; il resultato non lo consegni a nessuno; verrà Maria fra dieci giorni da lei, ed ella si compiacerà consegnarglielo, e dirle se ha esaurita la vena. Siccome sto ordinando da me stesso questa prova testimoniale, così concentro tutti i fogli presso me. Gradisca i miei cordiali saluti e li faccia avere graditi alle sue Sigg. Consorte, e Figlie; e mi confermo _Firenze, 5. Mag. 1852._ _Suo aff.o Amico_ GUERRAZZI. _Bastia 25 Ag. 1853._ Cariss.o Amico_ Dopo varie fortune eccomi a Bastia: certo mi hanno fatto vuotare il calice fino alla feccia. Pazienza! — Ho avuto in aggiunta una infiammazione terribile agl'intestini: ora sto meglio. Vado ad abitare una villa in riva al mare, in mezzo ad un bosco di olivi: eremo vero, ma magnifico per vista, per elasticità di aria, per promessa di salute. Credo, che anche a lei farebbe bene: però senza tanti preamboli, se nel mese di ottobre vuole venire a rifare la salute, venga: la villa è tutta mia; il tragitto da Livorno a Bastia è 6 ore; i vapori eccellenti; ella mi consolerebbe con la sua vista: povero Sig. Ferdinando, è tanto buono per me!... Mille cose alla Signora Teresa, e alle figlie. È stato rassettato il matrimonio della Sig.ra Ersilia? — Rispondendo, consegni le lettere al Corsi, che penserà a inviarmele. Addio a tutti. _Aff. Am._ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli, sposa Sposa! Quando lo amore feconderà il tuo seno, rammenta come il carissimo dei miti della nostra religione sia la creatura, che allatta il suo creatore. I maestri di pittura sopra cotesta immagine dipingono una gloria meritamente. Dopo le bellezze celesti gli Angioli non possono deliziarsi in contemplazione più divina di quella della madre, che nudrisce di sua sostanza il proprio figliuolo. La religione degli antichissimi padri immaginò la capra amaltea altrice di Giove, e le stille di latte cadute pose nel cielo a formare la via, che noi chiamiamo _galassia_: la nostra non pose le stille di Maria in parte alcuna del firmamento, ma la umanità le raccolse nel profondo dell'anima, onde Maria venne salutata regina dei cieli, e vi regnerà eterna perchè regina dei cuori. Donna! Educa primamente il tuo figliuolo alla forza. Tu bada a me, che amo, e sento, e lascia dire le dotte larve, ludibrio di uomo. Può egli ricavarsi suono gagliardo dall'arpa fessa? Col corpo languido potrà l'anima durare nei suoi alti proponimenti? No, il corpo sano in pugno all'anima sana, è come l'asta di Vulcano nella destra di Achille. Il figlio, che ti desidero, o Donna, sia forte, sia bello, sia virtuoso, ma tu domanda dal cielo, che queste grazie si succedano ognuna nei loro tempi come le stagioni della vita. Donna, in buon tempo pensa, che il tuo figlio virtuoso sarà perseguitato; contro i buoni si accampano nemici tutti i vili, e questi sono i più: e tu fino d'ora rammenta, che l'asilo più sicuro pel figlio negl'infortunii della vita occorre nelle braccia materne sollevate sopra la sua testa. La donna di Ges, che stringendo il suo pargolo al seno fugge in Egitto per sottrarlo alla persecuzione di Erode, offre per la umanità trionfo più glorioso di quello, che menò Giulio Cesare sopra Farnace veduto, e vinto. Donna, Lutero leggendo la Bibbia là dove narra di Dio, che domanda al padre Abramo il sagrifizio d'Isacco, notò in margine: «Ma Dio non avrebbe osato domandarlo a Sara.» Queste le sono fole, ma se il Creatore avesse domandato il sagrifizio del suo sangue alla madre, sai tu che cosa gli avrebbe risposto? «Ente maligno, e crudele, cerca i tuoi trastulli fuori delle viscere delle madri.» Ma quando la Patria, la cara Patria, ha detto alla madre: «Ho bisogno del tuo figlio», che cosa ha risposto la madre? — Lo aveva generato appunto per questo, — tali furono le parole della madre di Brasida, quando le annunziarono il suo figliuolo caduto per la difesa di Sparta. Donna, e tremando io te lo annunzio: se il figliuol tuo, la carne della tua carne, dovesse un giorno salire il patibolo, bada al delitto non alla pena: pensa, che anche il patibolo è diventato segno di adorazione: rammenta che Maria compresse l'anelito tremendo di madre, e potè consolare lo sguardo moribondo del figlio col suo sguardo: non porre in dimenticanza mai, che uno dei titoli della Madre di Cristo — forse il più grande, certo il più pietoso, — è quello di Madre dei dolori. Ma Dio disperda questi augurii, e, come il mio cuore desidera, ti mandi figli forti — belli — virtuosi — e felici. _Bastia, Belgodere 10 8bre 1853._ F. DOM. GUERRAZZI. A Teresa Bertelli nata Guerrazzi _Carissima Sig.ra e Parente_ Io non ebbi più sue nuove, nè di Ferdinando, nè delle figlie: ciò mi duole assai, molto più, che la famiglia era in condizione non lieta; se fosse stato altramente, sopporterei con più rassegnazione il loro silenzio. Mi scrivano dunque, mi visitino con le loro lettere: io qui sono solo, e mi sono fatto uno esilio nello esilio: amicizie corse ho poche, italiane nessuna, e veramente se togli pochi non ne giova. Sicchè mi raccomando. Siccome è venuta presso me la nipote, così incominciano le mode: essa mi chiede di posta vestito, e cappello. Ed io mi rivolgo a lei perchè costà si spendono meglio che a Livorno: le includo mostre di velluto, e nastro: di questo ne prenderei quanto basta per un cappello, e i fiorellini di accompagnatura. Maria in certo fondaco in Vacchereccia ebbe tutto per uno zecchino: però si compiaccia acquistarmeli, e, mediante qualche riscontro, mandarli al Dot. Antonio Mangini, Livorno — Palazzo Bartolomei, 2.o piano, v. 4 Scali del Pesce. In quanto a me, se non eseguisce la commissione non la tormenterò, perchè non ho intenzione portare cappelli di velluto co' fiori, ma per parte della ragazza potrebbe essere diverso. Mi ragguaglierà anche del minimo prezzo col quale si può avere la seta di cui accludo mostra. Dello importo del velluto la rimborserà il D.e Mangini. In aspettazione di sue lettere e pregandola dei miei saluti a Ferdinando, ed alle figlie, con vero piacere _Bastia 10 10bre 1853._ _Suo aff.o amico e parente_ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli _Carissima Signora Ersilia_ Oh! questo poi lo sapeva, quando lor signore si ficcano in testa una cosa, e che contiamo noi poveri babbi, e poveri zii? Meno, che nulla. Infatti, e come potremmo sostenere la guerra civile? Noi correremmo rischio, mantenendoci in istato di ostilità, a trovare la nostra pappa diaccia, e buona a impastare gli avvisi della lotteria Poniatowski; tossendo, a sentirci dire: lisca! — a non trovare berretto da notte, le pantofole, la veste da camera; a trovare il letto marmato, lo scaldino pieno di acqua, sul guanciale un ago, nelle scarpe un sassolino... misericordia! Il padre di famiglia eccolo con la corda al collo ai vostri piedi, si arrende a discrezione, e voi, belle come pietose, usategli carità. Ma l'uomo pel quale, voi amabilissima, diventate di ora (i maldicenti dicono tutti i giorni come il _panem quotidianum_ del _pater noster_) in ora demonii incarnati, non vada lieto del suo trionfo: brevi gioie ha da aspettarsi, ecco la vita del marito: a tavola serva sempre, e a lui il più delle volte non rimanga minestra, o gliene rimanga poca, e fondaccio, della carne l'osso, del pesce le lisca, e di tratto in tratto, purchè non passi in consuetudine, la testa, e la coda: paghi il sarto, il mercante, il parrucchiere per fare comparire la moglie ornata, ma egli non sia temerario di darle braccio; al teatro si levi sempre, e ceda posto al primo venuto, e rimanga confinato accanto alla porta, esposto al reuma perpetuo; non si attenti salire in carrozza della sua consorte, ma si dica beato se, in passando, lo impolvera, e lo infanga; queste ed altre le giuste pene dei giovani per i peccati commessi e fatti commettere a danno di noi poveri babbi, e poveri zii. _Discite justitiam moniti._ Fuori di chiasso, sono lieto delle sue contentezze; saluti il buon Ferdinando, a cui auguro vedere cinque, o sei nipotini intorno a pungergli le gambe con le spille; non è vero il detto del frate; meno galline, meno pipite. La creatura umana vive di affetti, senza essi la vita è un festino senza lumi. — Alla signora Teresa dica, che spero vederla venire a prendere i bagni di mare quaggiù. Starebbe magnificamente, con piccola spesa; in paradiso, in somma; molto più che, attaccandomi un barbone, io potrei sostenere le parti di Padre Eterno. I miei nepoti salutano lei, lo sposo, e tutti di casa. Scrivetemi, che le lettere dei cari amici come voi, mi sollevano, e quando le ricevo, sto bene tre giorni. _Bastia, Villa di Belgodere, 27 Feb. 1854._ _Aff.o Amico_ D. GUERRAZZI. A Teresa Bertelli nata Guerrazzi _Bastia 23 Marzo 1854._ Carissima Signora, ed Amica_ Ebbi a questi giorni la sempre cara sua lettera del 13 corrente, dalla quale sento il matrimonio della Signora Ersilia; ella è felice; basta. O che cosa importa che quel benedetto Ferdinando si triboli a lambiccarsi il cervello se questa prosperità sia per durare o no? O che si è messo a fare l'astrologo? Lasci fare i lunari al Formigli. Godiamo del presente: noi poveri mortali siamo soli padroni del presente, ed anche è bazza. — Non ispendo parole a persuaderla che sto in Bastia; di qui non mi mossi mai, nè ho intenzione di muovermi; quando a Dio piacerà, mi muoverò per rivedere la dolce Patria, e voi diletti amici; e ciò avverrà tosto che si allontanino le armi straniere: fino a quel punto mi piace mantenermi esule. Nel mese entrante conto visitare l'Isola bella di memorie che piacciono al nostro cuore a cagione del Sampiero e del Paoli. D'altronde io sto benissimo con questi Corsi, dacchè i miei nepoti nasceano da madre Corsa, e gli amori di parentela sieno qua stupendamente tenaci, ed estesi. Nessuno vi ha retto lungamente, io ci sto volentieri, grazie alla mia casa, che pare fabbricata dalle mani delle fate, e alla parentela. Non passa giorno che non vengano a visitarmi dalla vicina città! Creda, Sig.ra Teresa, è uno incanto, e se le ho detto venga a prendere i bagni di mare quaggiù, io gliel'ho detto perchè se ne troverebbe contenta. A Ferdinando dirà che mi scriva quando vuole, ma mi dica tante cose: che cosa dicono, che cosa pensano laggiù? Che cosa fanno non importa, perchè non fanno nulla, e questa è vecchia; ma le ciarle, il bisbiglio, e se si preparano ad accogliere i Cosacchi. Saluti e carissimi a tutti per parte mia, dei nepoti, e della Maria che ingrossa a vista: ella mi abbia sempre _Per suo Aff.o Amico e P._ D. GUERRAZZI. P. S. Mandi le lettere per me al S:e D:e An:o Mangini, Livorno. _Villa Belgodere 23 Ap. 1854._ Carissima Amica, e Parente_ Se a lei, ed ai suoi giungono gradite le mie lettere per la benevolenza, che mi portano, graditissime mi hanno a riuscire le sue per affetto, per gratitudine, e per necessità, però che per gli esuli tutto quanto muove dalla Patria assume una certa fisionomia come di religioso, e di santo. In questi giorni la morte ha diluviato fra i miei parenti ed amici; pure la nuova della partenza del D:o Gius: Guerrazzi ha contribuito non poco a contristarmi: vero è però, che la sua età era matura, e la morte è la conclusione della vita. — Bisognerebbe che la morte di un tanto uomo fosse annunziata nei Giornali con un breve cenno biografico; ma a questa ora ci avrete pensato, ond'io con queste parole porto frasconi a Vallombrosa. Non ho veduto nella sua lettera parola riguardante le figlie: perchè questo silenzio? Fu casuale o a disegno? Se casuale, la prego a ripararlo, se a disegno, sarei temerario se le domandassi la ragione? I nepoti, e Maria stanno bene e le si raccomandano. Fin qui a lei; adesso al Sor Ferdinando. Credo benissimo a quanto ella mi dice, e la dispenso da giurarlo, ma non ci vedo verso: pur troppo temo il serpente abbia ragione: astuto è costui, e capacissimo a speculare il tempo pei suoi vantaggi. Io intendo benissimo, che volere riportare tutti i bisbigli di Firenze equivarrebbe ad ammazzare a colpi di pugnale tutti i moscerini, che si aggrappano intorno una botte di vino andata a male, ma pure taluni per la loro singolarità meritano essere riportati: me ne scriva dunque di qualcheduno. Il fondo della cosa è, che ormai non si sa più dove andiamo a cascare: ed io mi sogno una seconda santa Alleanza da Pietroburgo a Napoli; e il Papa liquefarsi, e noi respinti nella barbarie per qualche secolo. La confusione entra nelle faccende del mondo: nessuno fa la sua parte, e nello scompiglio contano le baionette, e Austria, Prussia, e Russia ne hanno molte, e appuntate. Francia non crede più a nulla; i popoli sono sfiduciati, discordi, queruli, e ciarlieri, e codardi; tra una bastonata e l'altra purchè possano rosicare un osso, e basta: per ora non vedo, che male, ed ogni rimedio, quando mai potesse apparire, temo sia tardi. Le stringo la mano e le do un bacio di cuore. _Suo Aff:o Amico e P._ D. GUERRAZZI. Ad Ersilia Bertelli _Bastia 20 Ag. 1854_ Carissima Sig. Ersilia_ Appena mi capiterà la occasione di spedirle un foglio, che non tocchi quarantina, avrà quanto ella, e l'amica sua desidera, non nuovo ma accomodato al soggetto; dacchè anche gli Album possono spargere buon seme, e il come lo dirà lo scritto. Non ho anco ricevuto la _Beatrice_. Io non l'ho potuta correggere, e temo vi sieno errori non pochi. Si emenderanno in altra edizione, se ciò fosse accaduto. Sento, che Pappà la legge, ella pure la leggerà: il vostro parere non chiedo, tanto mi procedete parziali, che parrebbe accattare lodi. No, senta quello, che la gente ne dice in pro, e contra, e si compiaccia trascrivermelo, onde io ne faccia, se merita, mio prò. — Conforto lei, e tutti a scrivermi le cose del paese; voi avete tempo per farlo, ed io m'illudendo sopra lo esilio penso così starmi in casa. Quando ritornerò, e ritornerò mai? Questo Dio solo sa. Intanto compie l'anno della mia partenza. Certo è amaro lo esilio, ma non è dolce starci in casa come state voi, e questo pensiero, invece di sollevare, accresce le noie. Sento però, che i privilegiati vivono contenti, e ai bagni si balla in allegria, mentre in città si muore di colera, e di miseria. Questo non mi maraviglia; dev'essere così, gli schiavi a catena non ponno avere i sensi degli Scipioni. Eppure la parte sana avrebbe da usare il disprezzo, arme non proibita, e che pure fa le più profonde ferite. Dicano quello, che vogliono: la Patria sta in mano delle donne; queste non possono difenderla con le armi, ma creano, ed allevano le braccia, e i cuori bastanti a ciò. Saluti a tutti in casa, e fuori agli amici se me ne rimangono, e se si ricordano di me. F. D. GUERRAZZI. _Set. 1854_ _Carissima Sig. Ersilia_ Se prima non adempii la promessa, e' fu per difetto di occasioni di mandarle la lettera. Se l'amica avrà cuore di mettere nel suo Album la pagina scritta, non mi dorrà di avere sprecato il tempo in queste baggianate. A un patto solo è sopportabile l'Album, ed è, che contenga quello, che io dico. E, quando sia cosi, non solo non fu grave, ma avrò caro contribuirvi. — Mi scriva, mi parli di lei, della mamma, del babbo, della sorella, di tutti, e di tutto. Ha letto la _Beatrice_? Morta o viva, è suo destino capitare in mano dei carnefici, e degli sbirri, e di _Valentino Turco_. Ch'effetto le ha fatto? Che ne dicono? _Crucifige, plagas_. La scotta, e la dicono eretica; ma non è cosi, frusta, e smaschera cotesti formicoloni del diavolo. O che credevano, che mi volessi ingoiare l'ergastolo come un sorbetto? Hanno finito essi: ora incomincio io. Una volta per uno, ed io non mi rimarrò finchè non gli abbia schiacciati come scorpioni. Addio. _Affezionatissimo_ D. GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Bastia 17 Set. 1854_ _Caro Amico_ Lasci dire, che alla fine si quieteranno. L'accusa di avverso alla religione è ignoranza, o ribalderia. Pochi, io credo, sentono la religione come me; certo non religione di Preti, tutto altro, bensì la religione di Gesù Cristo Salvatore; tentano confondere il personaggio del Cenci coll'Autore; il Cenci fu iniquo due volte il doppio di quello, che dico io; degna la morte alla infame sua vita; e mi pare, che veruno al mondo poteva esporlo alla esecrazione pubblica come ho fatto io; e Beatrice, ch'è protagonista del libro, e donna Lucrezia, e Bernardino, e Virgilio santissimi tutti perchè non li contano? Ma il libro, e la sua morale, non si devono giudicare dal linguaggio dei personaggi, bensì dalle considerazioni dello Autore. E Cenci non è nuovo a Firenze; vi è un Cenci di Shelley tradotto dal Niccolini, e stampato fra le sue opere dal Lemonnier; leggano e confrontino. So della persecuzione, che incontra; doveva essere. Ebbene, se vogliono battaglia, sono pronto a sostenerla: certo contro quegli abietti, che hanno reso nome di orrore la giustizia, ed atterrato questa colonna santissima su cui appoggiavasi la società, guerra sempre, finchè non sieno smascherati, e costretti a nascondersi per la vergogna. Anzi, trattateli bene questi scellerati; essi vorrebbero mangiare in pace, tranquilli, e per di più onorati, la infamia propria, e il sudore del popolo. Io li ringrazio di provocarmi, li attaccherò al palo, e ve li freccerò come fecero a San Bastiano. Se quelli che si avvisano a dire: fate piano, sapessero quattro anni e un terzo di prigione, che sia, e la salute rovinata, e le convulsioni e l'epilessia, e la rabbia di quella sbarazzinesca impudenza, e il sentirsi venduto dalla plebea viltà di otto o dieci mascalzoni... ma lascio, perchè mi viene il sangue al capo. — Fin qui non mi è capitato occasione di mandare il foglio alla Sig. Ersilia, e le quarantine durano. Qua continuiamo sempre senza _cholera_, e questo è il meglio. Giorni sereni per me squallidi e non per me, ma per la miseria della Patria, e dei miseri emigrati. Parecchi si ammazzano per disperazione, altri s'ingaggiano nella legione straniera, ch'è una morte più lunga. Povero.... povero... sangue, e Dio ne chiederà conto a cui n'è colpa, e con Dio fraude nè forza valgono. Saluti caramente la consorte, e le figlie; ella, o le donne non intromettete scrivermi, e come vi ho detto, di tutto, e su tutto, perchè anche una lucciola fa lume. Mi continui la sua cara amicizia, e mi creda sempre _Aff:o Amico_ D. GUERRAZZI. A Emilia Bertelli _Carissima Sig. Emilia_ Mi è stata sommamente gradita la carissima sua del 20 del passato mese, dalla quale sento le nuove sue, e di tutti di casa. Tanto la salute è buona, e se il Babbo ha ritrovato, povero uomo, un po' di calma, anche questo è benefizio di cui abbiamo a ringraziare Dio. Non so com'ella dica, che non hanno festeggiato il giorno onomastico della Mamma, se la sorella sua la presentò di versi, ed ella di un lavoro all'acquerello? nè meglio per loro, nè più giocondamente per la Sig. Teresa, potevano solennizzarlo, che presentandola di tali nobili frutti dello ingegno: quello che tutti possono fare, come un pranzo, poco è da pregiarsi. Festeggino sempre così le solennità domestiche, che le festeggeranno bene. Se là tempesta, qua rovina; miseria crescente, e caro orribile di ogni cosa; il _cholera_ cessò da molto tempo, e, quando apparve, appena si fece sentire, grazie alla eccellenza di questo clima; ma la città è desolata, a cagione delle famiglie, che hanno i loro congiunti alla guerra, e sono moltissime, però che i Corsi amino il mestiere delle armi, reputandolo scala da salirsi presto, e spesso s'ingannano. Qui s'insinuarono i Gesuiti, e si dimenano quanto il diavolo nella pila dell'acqua benedetta per fare proseliti, ma invano. Giorni sono bandirono gran festa per quaranta martiri di loro; prediche, mortaletti, un quadro sterminato _tinto_ in tre giorni, ed esposto come il gabbamondo dei teatri diurni, messa, fanfara.... raccolsero quattro franchi e dieci soldi: condannati nelle spese! È inutile, per essi è finita; rassomigliano al «_Quatriduano Lazaro, che pute._» Spero, che se ne andranno con le trombe nel sacco, perchè, dove non si guadagna, lasciano la presa. Saluti tutti in casa, anche per parte dei nepoti e di Maria, ed ella mi abbia sempre _Bastia 15 Novemb. 1854_ _Per suo aff.o Am._ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli _Bastia 17 Marzo 1855_ Carissima Sig. Ersilia,_ Cosi è, io le scrissi due volte perchè mi riesce sommamente grato rispondere subito alle sue lettere, che mi arrivano carissime; però non voglia maravigliarsi se le sono andate perdute; la Polizia, come donna, qualche volta è curiosa; e, se può rammendare lo strappo, le consegna, diversamente, le consegna a Vulcano. Anche qua avemmo sciagure orribili a deplorare; nei giorni nefasti 15-16 Febbraio proruppe un uragano spaventevole, migliaja di olivi sradicati, o schiantati per lo mezzo, casamenti naufragati, e una fregata bellissima con 750 uomini perduta così, che non si è salvato neppure un uomo. È venuto alla spiaggia il cadavere di un Corso, un tale Zuani, e gli hanno trovato in tasca una lettera per sua moglie; passando rasente all'isola sperava trovare qualche pescatore a cui consegnarla, ma l'ha portata egli stesso. Io sto raccogliendo notizie su la Corsica: ho intenzione di scrivere un racconto intorno al Paoli: il contrasto di questi costumi co' turpissimi, vigliacchissimi e frivolissimi nostri, mi piace; meglio, oh! meglio barbari così, che civili come nella fogna che si chiama Firenze. Tutti stiamo bene, e tutti salutiamo lei, la sorella, e Babbo, e Mamma; ci dia le sue nuove, e dei suoi, e mi abbia sempre _per suo Aff:o Amico_ D. GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Bastia, 15 Apr. 1855_ Mio caro Ferdinando_ Avevo sentito le disgrazie del nostro povero paese e la si può immaginare se contribuiscano a contristare uno spirito già contristato — Piove proprio sul bagnato! — Nè, da qualunque parte ci volgiamo, apparisce punto di chiaro. Sento, che hanno richiamato i tedeschi di costà; anche questo è qualche cosa, disse quegli che pisciava in Arno. Mi ha raccontato un uffiziale francese, venuto di Toscana, di certo duello fra un tedesco insultante, e un toscano, con la peggio del primo. Grande errore fu quello di chiamare i tedeschi in Toscana. Sono odii nazionali, che non si spengono manco con l'acqua santa. Rivoluzione. Reazione. Transazione; ma la terza parte non vogliono imparare, e forse è tardi, e le ingiurie troppo grosse. Hanno creduto farmi danno mortale, e me ne hanno fatto, e Dio lo sa, ma non è il peggiore dei mali starmi sopra uno scoglio, che sembra ben piantato a guardare cui tribola nell'acqua grossa. Vivo in paese napoleonista per interesse ed anche per genio, ma ogni dì più incupisce, e del futuro teme assai. Considera non la guerra, ma il modo rovinoso, e funesto. Di prendere Sebastopoli, non è più quistione, e su l'Austria non contano per nulla, quantunque confessino, che romperla coll'Austria sarebbe uno stroppio per loro. Noi italiani considerano per buoni a nulla, come se essi fossero buoni a qualche cosa. Quando ci sono io gliele canto in rima, ma, come a Dio piace, fin qui veruno mi ha risposto. In casa stanno tutti bene, e vi salutano, in ispecie la buona Maria; io così così, che i nervi e gl'intestini non danno tregua; pure, malato o sano, sono sempre _Il suo Aff:o Amico_ D. GUERRAZZI. Mille cose alla Sig.ra Teresa e alle figlie. A Ersilia Bertelli _Carissima Sig. Ersilia_ Dalla ultima sua ho sentito con piacere inestimabile le nuove del bene stare suo, e della famiglia tutta: però questa contentezza in parte viene amareggiata da quanto mi assicurano parecchi che hanno corrispondenza con Firenze, voglio dire che il cholera sia comparso costà, e minaccioso al punto di fare venti vittime al giorno. La prego a chiarirmi se questo fatto è vero. Non mancherebbe altro pel mio povero Paese. Mi parrebbe posto a bersaglio dell'ira degli uomini, e di Dio: ma voglio sempre sperare che ciò non sia. In qualunque caso taluno trova il suo tornaconto; però non maraviglio sul rimpianto degli ospiti nemici; confido sia di pochi, che se all'opposto fosse di molti, ciò mi angustierebbe più del mio esilio. Non è accaduto a lei, ma accade a tutti fare esperienza a spese proprie: e siccome l'acqua passata non manda molini, così il meglio sta nello attendere ad accomodarsi, con minore disagio, che si può, nelle condizioni presenti; perchè sa ella? Dalle rovine di un palazzo si può ricavare materia da fabbricarci una casetta da abitarci comodamente. E poi la vita è una battaglia, e tenga per matto chi crede non averne a toccare. Io me ne sto mestamente tranquillo: nulla desiderando per me, moltissimo per la Patria: ma qui la speranza mi si sbiadisce ogni dì più, quantunque i concetti della emigrazione tengano del febbrile: intendiamoci però, io dico di speranze immediate, perchè rispetto al fine inevitabile delle tendenze umane io non sono dubbio: la via è lunga, anzi non terminerà mai, ma veruno si auguri far camminare la società all'indietro: la natura è ella morta nello inverno? Senza i rigori invernali noi non godremmo Aprile. Si consoli; saluti la Sig. Teresa, il Babbo, e la sorella: mi scriva più nuove che sa. Qui in casa si raccomandano tutti alla benevolenza sua, e dei suoi; ed io facendo lo stesso ho il piacere di confermarmi _Bastia 20 Maggio 1855_ _Suo Aff.o Amico_ D. GUERRAZZI. _Bastia, 15 giugno 1855._ _Carissima signora Ersilia_ Sento con vivo dolore lo stato cagionevole dell'ottimo suo padre; molto più, che argomentando costà la stagione peggiore di qua, temo non sia per nuocergli. Io credo, che una cosa sola potrebbe sanare il povero Ferdinando, e sarebbe mutare aria, prendere le acque di Vicovaro, o altre simili, e poi per qualche tempo starsene a Livorno, dove potrebbe benissimo accudire ai negozi, e forse facilitarli, e ampliarli. Soprattutto mutare affatto sistema di nutrizione; esaminare attento quello che giova, e quello che nuoce; temperare la crudità con qualche rimedio blando, e mano a mano abituarsi al moto. Finchè stiamo nelle mani ai medici poveri noi! E lo so per prova. — Noi le Dio grazia stiamo bene. L'emigrazione tutta, dopo l'attentato del Pianori, è tormentata dalla Polizia, e internano or qua or là i più pericolosi, o riputati tali. — Ho percorso tutto il Capo Corso, e l'ho trovato bello di aspra bellezza; strade sul fianco di rupi scoscese, nere, e il mare sotto anch'esso nero, ed ampissimo; monti sopra monti, e gli ultimi incoronati di neve perpetua; paesi posti colà dove la rondine dubita porre il nido; miseria e cupidità smisurate, e qualche fortuna fatta in America straricca. Continui a darmi nuove di casa, gradisca, e faccia gradire alla Mamma, Babbo, e sorella i saluti miei, dei nepoti, e di Maria, e mi tenga sempre _Aff. Am._ D. GUERRAZZI. A Teresa Bertelli nata Guerrazzi _Carissima Amica_ Prima di tutto rettifico un fatto: io non ho detto già, che dubitava causa del non iscrivermi la paura di lordarsi i guanti, bensì le dita: e questo è altra cosa; perchè i guanti poco hanno da premerle, ma la mano le preme, e a ragione, perchè ottenni, che mi fosse _scoperta_ come la SS. Nunziata, e la trovai bellissima. Ma io volli scherzare, ed ella è troppo buona per rimproverarmi un riso appassito, nato appena a fior di labbra, e morto subito. Mi scrissero dello amico Corsi, della scossa, dello sdegno pubblico, della infermità: ma veruno, tranne lei, mi avvertì della pronta guarigione. Gli altri soddisfecero alla curiosità, ella sola al cuore: ma ella è donna, e queste tenerezze, non ci è che dire, non sanno conoscere altri che le donne. Se possa o no verificarsi quello che mi scrive, sta in lei: quello di cui l'assicuro è questo: qui spirare aria pura, qui non sapere cholera che sia, qui poterci fino a tutto settembre fare bagni in mare: una dimora lunga, grave, un soggiorno breve, divino, ed esserci qualche villetta assai conveniente da potervisi ripiegare due famiglie, e non cara. Sicchè se il cholera cresce, il che Dio non voglia, qui avrete asilo, e, meglio che asilo, salute, perchè Ferdinando potrebbe sperimentare le acque di Orezza per la sua infermità miracolose. Quaggiù niente di nuovo, ma in grandissima aspettazione. Saluti tanti a tutti. _Bastia, 27 luglio 1855._ _Affez. Amico e parente_ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli _Cariss.a Sig.ra Ersilia_ I mali dei nervi, lo creda allo esperto, si guariscono meno con le medicine, che con la propria volontà. Animo più riposato, genere di vita mutato interamente, e aria, e aspetti di cose nuove li cacciano via: ella lo sa pur troppo; alle Murate mi visitarono garbatamente tre accidenti nervosi, epilettici; temeva che la munificenza di Leopoldo II mi avesse donato per sempre questo guiderdone reale — dacchè gli antichi lo chiamassero morbo regio — ma ridottomi qui, sedato l'animo, mutati modi di vivere, esponendomi sempre all'aria, immergendomi nel mare, sento a poco a poco scomparire il male. Ella adoperi il medesimo sistema, e si faccia animo; ai giorni nostri si vuole la donna forte, che scuote l'avversità come la polvere dalla testa. È molto tempo, che sapevo la morte del povero Chiarini, e delle misere condizioni della famiglia: anch'io mi adopererò fare quanto più posso. Egli era uomo di fede. Con dolore odo non diminuito, ma cresciuto, il morbo costà, e, da due ordinari mancandomi lettere dell'amico Corsi, me ne spavento. Qual sobbisso di guai sono piovuti sul mio povero paese! E non siamo a mezzo. Mal fa chi dipinge il futuro di rosa; il futuro è nero; il mio cuore è pieno di compassione per quei matti, che stanno a sciupar tempo in processi puerili, e non vedono qual beccheria il tempo appresta per loro, ed anche per noi. Un giorno di febbre, accompagnata di delirio, agiterà il mondo: questo non credono, a questo non pensano; se tu lo predichi, ti ridono in viso, si sa; è decretato, nessuno si ricrede dalla sua infamia. — Cotesto paese, veduto da lontano, fa figura di decrepito cascato in melensaggine; — melensaggine bizzosa, cattiva, ma melensaggine da vecchi decrepiti. — Così piacerebbe sempre a cui piace; ma altro è popolo, altro è governo, e la distinzione quest'altra volta sarà detta in guisa che non sarà più dimenticata. Ma noi altro non possiamo che contemplare e compatire tutti, amici come nemici, però che, quando la mano di Dio percuoterà, non vi saranno amici nè nemici, bensì unicamente sventurati. — Che fa la signora Teresa, che la sorella, che il babbo? Non temano; bravi; la paura è mezza malattia; io traversai due cholera senza pensare a ripararmi, e sì che furono fieri, ma fieri davvero! — State sani, amateci, ed abbiate grati i saluti miei, dei nepoti, e della famiglia. _Bastia, 30 ottobre 1855._ _Aff. Am._ F. D. GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Bastia, 29 9mbre 1855._ Cariss.o Amico_ Sempre care mi arrivano le notizie sue, e di casa: vorrei fossero migliori quelle della Ersilia, e penso, che la risanerebbe, qualora per parecchio tempo stèsse lontana dalla città su le rive del mare, o su l'alto di una montagna, mutando affatto genere di vita: bisogna pensarci. Qua il cholera procede con molta severità, ci ha portato via parecchi conoscenti, e le donne in casa stanno di mala voglia; ma ormai partirci è dannoso quanto il rimanere; e bisogna far muso duro alla fortuna; sarà quello che sarà, e poi io mi governo un po' a uso Turco: era destinato! Tempi mai più visti, piagge sformate, piani straripati, monti franati, ogni cosa per la peggio. Fame, miseria, orrori: e tutto questo a cagione della profezia: l'_empire c'est la paix!_ Della guerra niente; buttano fuori bolle di pace, ma non c'è da crederci. La Russia vuole rifarsi; certo ella sta su le spine, ma nè gli Alleati riposano su le rose. La guerra andrà per le lunghe, e si strazieranno, finchè l'Austria e la Prussia non ci entrino di mezzo. La Inghilterra già ci ha guadagnato! Nè a noi sento meglio. Grande insegnamento sarebbe questo, che tanta mole di danni deriva dall'avere o con frode o con violenza rapito le libertà oneste ai popoli: ma sì, egli è un predicare alle rondini. I miei saluti alla signora Teresa, e alle figlie per parte mia, di Maria, e di tutti. Mi voglia bene. _Aff. Am._ D. GUERRAZZI. A Teresa Bertelli nata Guerrazzi _Bastia, 30 dicembre 1855._ _Cariss.a Parente ed Amica_ Sempre grati mi giungono i suoi caratteri, comecchè non mi annunzino liete novelle. Senta bene, e mi dia retta, unico rimedio di Ersilia, che ritroverà infallibile, è recarsi in campagna remota, e copiosa di paesaggi: darsi moto, accomodare lo stomaco, e il sangue, cibando latticini quanto più si può: insomma ingagliardire il sistema _venoso_ onde vinca il nervoso: in altro non isperi: ed io l'ho provato. Che tempi orribili avemmo, signora Teresa mia, e in parte abbiamo: qui non caro, ma mancanza assoluta di moltissime cose, qui cholera in fiocca; qui diluvio universale: tutto adesso è cessato, non la fame. Quaggiù per ora non si può più reggere, che alle miserie l'Italia ha aggiunto le sue: meglio di 10,000 contadini sono venuti quaggiù: e, orribile a dirsi! da Lucca mandarono orfani, i quali si vendevano pubblicamente da 10 a 12 franchi a capo. Queste cose eravamo riserbati a vedere in mezzo del secolo decimottavo. Le auguro anno migliore del bruttissimo che muore; saluti tutti in casa per parte mia, e dei miei, e col desiderio, non con la speranza di rivederla, mi confermo _Suo aff.o parente ed amico_ D. GUERRAZZI. _Bastia, 23 giugno 1856._ _Cariss.a parente ed amica_ Certamente voi immeritevoli colpisce la fortuna matta e maligna; ma mi riesce di non mediocre consolazione udire come rimetta alquanto dei suoi rigori, e se, come spero e desidero, l'aria, e i bagni di mare, renderanno la salute intera all'ottimo Ferdinando, non la malediremo del tutto. — Per ora la stagione corre contraria: ieri ebbi a vestire di panno: oggi poi fa caldo. Sono stato a viaggiare per l'isola: natura aspra, e gli uomini altresì, ma di cuore, la più parte s'intende. Per iscrivere sopra un argomento, quante volte ho potuto mi sono recato su i luoghi, e me ne sono trovato bene. S'ella non ha da darmi nuove, pensi se io, che vivo appartato in questa remota parte di mondo. Di tornare a casa non desidero nè spero. Con la libertà ne sono uscito, e non vorrei tornarci che con la libertà. Quantunque gli anni incomincino a farsi molti, io ho fiducia in Dio, che la patria nostra tornerà a godere le oneste franchigie, che sono bisogno della odierna civiltà, e cesserà il mal governo dei pessimi, che in ogni tempo di miseria pubblica scappano fuori, come erbacce da un campo non coltivato. Saluti tanti in casa, ed ella mi abbia sempre _Per aff.o suo parente ed amico_ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli _Bastia, 21 agosto 1856._ _Cariss.a Sig.a Ersilia_ Avrei dovuto rispondere prima alla sua lettera graditissima del 12 corrente, molto più che la materia lo meritava davvero: ma ho dovuto procrastinare, stante che ancora io ho sofferto un disturbo intestinale di cui non sono per ancora rimesso. Sento con infinito dispiacere, che la salute del buon Ferdinando non migliora, e a parere mio non fu savio repugnare al taglio dello ascesso; ma forse a questa ora lo avrà fatto coll'opera dello Zannetti: tanto io, quanto Maria e gli altri di casa, desideriamo avere notizie del Babbo, e le auguriamo migliori. Possa questa speranza non rimanere delusa! In attenzione di suoi riscontri, pregandola di dire tante cose a tutti, io mi confermo _Suo aff.o amico_ D. GUERRAZZI A Teresa Bertelli nata Guerrazzi _Comigliano, 20 novembre 1856._ _Cariss.a parente ed amica_ Ella mi narra disgrazie, io le taccio le mie, e se le mie consolassero le altre non mi starei in silenzio; ma come le crescerei il fascio senza pro, sicchè meglio e fare come faccio. — Il freddo mi travaglia, e non siamo a nulla. Non ho mente a scrivere per ora, ma quanto prima qualche cosa di fatto uscirà in luce. Sto solo in una villa arcigrandissima, e messa su alla grande: ci abitò la ex regina di Francia moglie di Luigi Filippo, ed ora la sua nuora mi sta poco lontana. Curiosa! tutti frantumi gettati alla spiaggia. Parliamo di lei. Intorno a Ferdinando, pazienza, dacchè il male se ne va; per Ersilia poi, finchè non muterà affatto sistema di vita, non guarirà mai; vuolsi aria montanina, e molto affaticarsi, e nudrirsi, e ingrassare. Quanto mi ragguaglia, circa a femmine, è brutto; più di tutto mi dolse dell'Alberti, di cui le sembianze tanto erano gentili, ma costumi secondo tempi, come frutti secondo gli alberi. Noi Toscani siamo ludibrio per la nostra codardia, e rilassatezza. Addio, stia sana, e si ricordi di noi. Salute a tutti. _Aff.o parente_ D. GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Genova, 5 giugno 1857._ _Caro Ferdinando_ Ho ricevuto la carissima sua del 17 maggio, e da questa mi pare dovere intendere che la signora Ersilia ebbe la bontà di mandarmi due lettere senza ch'ella ne avesse risposta. Che sia cosi non l'impugno, dacchè l'afferma; quello che le posso affermare è, che io ho risposto sempre esattamente, onde ci dobbiamo dolere che le abbiano ad essere andate smarrite. Mi rincresce che la sua salute non migliori; ma pure, avvertendomi ella, che per guarire radicalmente abbisogna per due mesi dei bagni di mare, mi è dato argomentare che sia in cammino di guarigione. — Con tutti i voti le desidero, che questa avvenga per lei, per la famiglia, e per gli amici. Non disperi; dopo uno sforzo successe sempre il periodo della prostrazione: questo importa nulla: a tempi quieti ci siamo noi che non pieghiamo mai. Quanto a salute sto bene. A Torino non vado; attendo a stabilirmi a Genova; dove ella venendo mi figuro, che mi vorrà onorare ospite. A tutti in casa salute, e ricordi amorevoli e grati. _Aff.o Am._ GUERRAZZI. _Genova, novembre 1857._ _Cariss.o Ferdinando_ Io sentirei con molto dispiacere le nuove del suo stato poco migliorato di salute se la giocondità della sua lettera non mi porgesse argomento, che per lo meno spera di rimanere in breve immune da ogni infermità. — Ho letto il bollettino dei Carnefici: vada franco, Dio ci è, e, quantunque non paghi il sabato, sempre paga. — Mi rincresce non poterle mandare l'_Asino_, come desidera: e sì che ci avrebbe un po' di diritto, essendo nato quando compiva l'opera di carità di venire a visitare i carcerati; e bisogna che si contenti della buona intenzione, che avrei di mandarglielo. — Procuri inviarmi migliori nuove di lei. Tanti saluti all'avvocato Serpente, e grazie della buona mente per me; gli dica, che gli sarò tanto e poi tanto obbligato se vorrà favorirmi qualche fatto, che si presti a farci sopra un bel racconto: negli spogli che fa, certo gli dovrebbero capitare fra mano casi stupendi; e gli dica ancora, che a scrivermi non rimetterebbe altro, che un po' di tempo. Ella potrebbe prendere la lettera e mandarla al mio amico a Livorno. Saluti a tutti e carissimi in casa. _Aff.o suo_ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli _Genova, 12 novembre 1857._ _Mia cara signora Ersilia,_ Davvero, che durano troppo le nuove non buone della sua famiglia, le quali quanto mi sieno di gravezza lascio a lei immaginarlo; confido però sentire che questa volta i bagni di mare tornino proficui al padre suo. La sorella bisogna che avverta a migliorare il sangue; per me ho fede nei bagni dolci prolungati, e nelle pozioni di salsapariglia, insieme con un regime rigoroso di vita. S'ella non ha nuove, figuri io! Che ormai sto da parte, avendo isperimentato avversi uomini e casi; non maledico persona, amo che altri si affatichi per la patria, ma comprendo essere più che stolto non richiesto mettersi nella calca a farsi pigiare. O quelli, che mi fecero il tiro veramente patrizio, o che fanno eglino? Che pesci pigliano? Educano i bachi da seta; bene; bravi; Dio li consoli. Saluti di cuore Mamma, Babbo e la sorella e mi abbia sempre _Per suo aff.o_ F. D. GUERRAZZI. _Genova, 13 decembre 1857._ Cariss.a signora Ersilia_ Avvicinandosi il natale, le scrivo per darle mie nuove, e domandare le sue. Sono usi vecchi, ma io non sono giovane, e poi, in certe ricorrenze rammentarsi degli amici e volgere loro un saluto, non so in che noccia alla sapienza moderna. Sicchè ella a mano a mano si rifà: coraggio! ogni maggio rinnova i suoi fiori, e le sue fronde: tutto ben pensato, il peggio è morire. Anco Ferdinando sta meglio; guarirà; ma gli dica che non abbia tanta smania di levarsi tutto il cattivo da dosso: badi bene prima a quello che ci rimarrà. Mi ricordo che una volta, andando a Volterra, e trovandomi in compagnia del signor Nervini, andammo a visitare le saline; dov'è uno staderone a bilico, sul quale passano gli asini carichi di sale; e se ne piglia il peso. Il prelodato signore si mise su la bilancia per farsi pesare, intanto che domandava: «Ma pesando l'Asino, e il sale in massa, o come fanno a conoscere il peso del sale?» — Signor mio, risposergli, si fa tara asino, e quello che rimane è sale. Dopo lui entrai io, e dopo pesatomi, io dissi al custode: «Per me non fate tara asino, perchè non rimarrebbe nulla.» — Il gaglioffo non intese. Questo racconti alla Colomba Andreozzi, se la vede, che la divertirà. Me ne dimenticai nell'_Asino_; sarà per la 3a edizione, che la seconda è uscita. Saluti in casa alla signora Teresa, alla sorella, e a tutti, e, se le riesce, insaponi le scale al casigliano. _Aff.o A._ D. GUERRAZZI. _Cariss.a signora Ersilia_ Le scrivo per avere nuove primamente del signor Ferdinando, dacchè le ultime non mi giunsero come avrei sperato soddisfacenti, e poi di tutta la famiglia che non dubito sana, e come si può in _hac lacrymarum valle_ contenta. Anche questa stagione perversa. Per ben 40 giorni mi sono chiuso in casa, tormentato da tutti i malanni dello inverno. Adesso vado meglio, e, mitigatasi la stagione, continuerà il bene essere. Malgrado il tempo reo, la gente insanì nelle bestialità carnevalesche; però meno dell'anno passato, e di Torino meno assai; dove la morte nel carnevale menò strage. — Torino si bandisce la seconda città d'Italia, e si rallegra di avere attinto in pochi anni 1785 anime tra buone e cattive. Sicuro eh! quando gli altri Stati italiani ci mandano ad abitare il meglio e il buono, non deve fare maraviglia se cresca in popolazione, decoro, sapienza, e civiltà. Ma se domani ognuno può tornare a casa, Torino rimarrà come prima. Si sollevi, si prevalga del tempo sereno, e dell'aria di campagna. Saluti cordiali a tutti in casa e addio. _Genova, 18 marzo 1858._ _Affezionatiss.o P._ D. GUERRAZZI. _Genova, 7 aprile 1858._ _Mia cara signora Ersilia_ Sono sorpreso della sua lettera, perchè non corre gran tratto di tempo, ch'io le scrissi chiedendole sue nuove, e dei parenti, e dandole le mie, e dei famigliari. Per certo la lettera deve essere andata smarrita. Ora la ringrazio dell'ultima gentilissima sua, perchè, oltre al bene di vedere i suoi caratteri, mi porge due notizie consolanti, la prima della migliorata salute del buon Ferdinando, l'altra delle nozze prossime della signora Emilia. Io gliele auguro di tutto cuore felici, e confido che Ferdinando spalancherà bene gli occhi per accertarsi che le abbiano a riuscire tali. E di lei o perchè non mi scrive niente? Il tempo non le ha recato veruna consolazione? Io vivo la vita dell'esule, rimpiangendo la patria, e desiderando di starmi lontano finchè durano le presenti condizioni. Quanto a speranze, io non ne ho veruna. Tante cose per me alla signora Teresa. Quanto al signor Ferdinando, io vado orgoglioso di avere contribuito alla sua eterna salute (a suo tempo); perchè, se egli esercitò tutte le virtù corporali puntualmente, come quella di visitare i carcerati, vado sicuro, che un bel seggiolone imbottito di crino per la estate, e di lana pel verno, lo aspetta in paradiso. A rischio però di essere ripreso d'ingratitudine, io non vorrei contraccambiarlo. Stia sana; saluti in casa tutti per parte mia, e dei miei, e si persuada, che le sue lettere saranno sempre per me argomento di contentezza. Mi abbia sempre _Per aff.o suo_ D. GUERRAZZI. _Genova, 28 giugno 1858._ _Mia cara signora Ersilia_ Come la trattano questi calori? Seguì il matrimonio della sorella? Come va la signora Teresa? E soprattutto come sta Ferdinando? Spero avere di ciò risposta soddisfacente. Ma voi altri che siete ostriche, le quali, attaccate allo scoglio, non si muovono mai? O perchè non venite mai quaggiù? Non fosse altro per vedere la figura, che fa questo grappolo di libertà malmenata dalla crittogama d'Italia e dall'altra di Francia. A mano a mano mi si fanno più rade le lettere del mio paese; ed a ragione; perchè gli esuli sono mezzo morti, e più che stanno fuori più muoiono. Ora, siccome so che i morti hanno sempre torto, mi taccio; e poi che dirmi che io non immagini? — Lamenti sempre indecorosi, ed anche ingiusti. Però anco qua vedo una svogliatezza, e i segni manifesti di decadenza in tutto; casca il commercio, cascano le case, cascano le pratiche religiose, e ripeto per isvogliatezza. Se così dura, lo sbadiglio diventa re del mondo. Ciò che adesso si fa sentire di più vivo, sono le cicale. La riverisco unitamente alla buona Maria, e la preghiamo di fare gradire in casa a tutti i nostri saluti e voti per la loro felicità. _Aff.o amico_ D. GUERRAZZI. _Genova, 13 Agosto 1858._ _Carissima Signora Ersilia_ Desideriamo sapere quale buon resultato abbiano per questo anno ottenuto dai bagni di mare. Sarebbe veramente tempo che la fortuna lasciasse in pace il corpo; quanto allo spirito se vogliamo possiamo provvedere anche noi. Poichè non c'è speranza vedere alcuno di voi da queste parti, Maria si dispone di venire costà, e intanto mi commette dirle, che dia bando alla malinconia, e che beva del buono: che tutto il suo male nasce dal bevere acqua, e che, se venisse a stare un mese qui meco, in questa mia meravigliosa villa, in mezzo della città, donde la vista, e i visceri rimangono confortati, n'escirebbe calafatata, e spalmata da durare contro tutte le tempeste dell'Oceano. Forse si promette troppo Maria, che l'aria non sana tutte le doglie del cuore; tuttavolta merita il pregio di tentare. Rispetto al sangue verde, deve essere così, perchè siamo impazienti e bisogna esserlo, ma gli eventi si maturano e, quello che deve avvenire, forza è che avvenga. Ma qui non è luogo di favellare su tanto argomento. Questo però abbia dinanzi gli occhi sempre, che il nostro destino è dentro noi, non fuori di noi, e ognuno ne porta il suo pezzetto in mano. Gli omei cacciano fuori le donne partorienti, non gli uomini operatori, e quindi degni di sorti migliori. Saluti alla Mamma, al signor Ferdinando, ed alla Emilia, e abbiatevi tutti le consolazioni che meritate, e che il mio cuore vi desidera. _Affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. _Genova, 2 dicembre 1858_ _Carissima Signora Ersilia_ E come fa a dire, che io non le scrivo? come può accusarmi, ch'io non rispondo? Scrissi col mezzo dell'Avv. Corsi, e s'egli non portò, o mandò la lettera, quale colpa ne ho io? Sappia ch'io rispondo sempre, chè così mi persuadono il debito, la natura ed il costume. Io, quanto a salute, non istò di peggio; dico di peggio perchè quei tali colpi nel capo si fanno di tratto in tratto sentire, non come dolore acuto, ma come un peso che pure vale ad impedire ogni occupazione. Dono regio contratto in prigione. Sento, che Babbo va migliorando. Signore! o quanto ci vuole a scattivirlo? Stia di buono animo, chè spero co' bagni, a stagione calda, guarirà. Notizie non le so dare, perchè vivo in campagna, quantunque in città. La nepote non è più meco; pigliò il volo come fanno tutte le colombe, e si è maritata. Io le ho data la dote in quattro bei mila scudi di mio; e la partita è saldata. Benedette figliuole! Veniste al mondo col levarci una costola, ma bisogna confessare che ci vivete logorandocene due. Eppure, senza donne non si può fare, tanto vero, che ho qui in casa una bambina di 5 anni che un mio amico ci lascia stare a sollievo della mia solitudine. Maria sta bene, e saluta lei e tutti i suoi parenti. Le auguro, o piuttosto torno ad augurarle, buono anno, carnevale allegro, oblio del passato, contentezza avvenire, milioni, cavalli, carrozze, e una collana di diamanti grossi come mele appiole. Lo stesso alla Mamma, meno i diamanti e l'oblio del passato. Lo stesso alla sorella, eccetto l'oblio. Lo stesso a Ferdinando, con meno i diamanti e con più la spalla sanata. Tutto suo _Affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. _Comigliano, 4 del 1858_ _Carissima Signora_ Sento dalla cara sua, nuove non buone, e mi duole non potergliene cambiare con buone; ancora io mi sento infermo di spirito e di corpo; ma, risoluto non lasciarmi abbattere, con lo aiuto di Dio supererò anche le presenti traversie. Siccome vivo romito, non so dirle niente del mondo per ora basta vivere. Mi rincresce che il capo doloroso non mi permetta trattenermi di più con la sua cara compagnia. Si distragga, faccia viso tosto alla fortuna, e viverà. I miei augurii sinceri al Babbo, alla signora Teresa, a lei, e alla sorella, e si ricordino di me. _Affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. _Carissima Signora Ersilia[16]_ Dopo molte inaspettate vicende, e pericoli non mediocri, arrivo qui in Genova, e vi ricevo sue lettere. Sento che la malattia non vuole lasciare ancora casa sua, ma, via, con un po' di cura, ne verrà a capo. In procinto di partire per Torino, non posso come vorrei scriverle più a lungo. Quando mi risponderà, mandi secondo il solito la lettera al Dott. Mangini. Saluti a tutti, e desideri di meglio. _Affezionatissimo amico_ GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Carissimo amico_ Sento con piacere che la sua salute non va di peggio, e vo' sperare, che questa volta Livorno le gioverà assaissimo. Le donne poi col mare si rimettono come fiori, e pare che sentano come Venere nacque dal mare. La cagione del mio silenzio, avrà veduto, se legge il _Diritto_: lì scrivo; lì stampo i discorsi alla Camera. E' pare che non abbiano smesso il vezzo delle pantraccole laggiù. Io non sono amico, anzi avversario aperto del ministro Cavour; però non ho mancato dargli ragguagli, e consigli sul mio paese; ahimè! indarno. La marea monta, e per colpa dei vili quanto inetti moderati un'altra stella sorge in Italia, che temo forte non iscombussoli ogni nostro concetto. Stia sano, mi raccomandi alla sua famiglia intera, e ringraziandola della buona memoria, che conserva di me, mi confermo _Suo affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. A Ersilia Bertelli _Carissima Signora Ersilia_ Che ardire, e non ardire? Sono io, che devo ringraziare lei, la sorella, e la Signora Teresa, e il Babbo, dell'amore vero, che mi portate, e della cortese memoria, che vi compiacete conservare di me. Ella sposa: così va fatto; e, se niente niente il consorte la fa arrabbiare, procuri avere il pozzo in casa, e a gambe levate lo scaraventi dentro, e poi se ne prende un altro. Si fa col Papa? O perchè non si potrebbe fare coi mariti? Figliuoli meno che sia possibile, io per me sono di avviso del padre Bendini: meno galline, meno pipite; ed io lo so, e non sono miei. Orsù, fuori scherzo, io con tutto il cuore le auguro mille felicità, e la ringrazio della lieta notizia, che mi dà. Abbracci tutti i suoi per me. Al Babbo dica, che non fu per complimento, ch'io gli dissi: venga 15 giorni qua da me. Ho stanza, che basta, l'aria purissima, e nuova, a mezza costa d'un colle sul mare, intorno boschi di olivi, clima da primavera, sole di prima mano; in sei ore si viene da Livorno; scegliendo un bel giorno di vento di terra è delizia. Insomma, quando dico: vieni, lo dico col desiderio che l'uomo venga. Addio dunque, e se la mia benedizione può esserle seme di felicità, io gliela mando con la pienezza del cuore. Abbracci tutti, e mi ami sposa come mi amò fanciulla, e questo è tale affetto di cui vado sicuro non ne andrà geloso il suo egregio sposo. _Affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. _Carissima Signora_ La sua ultima lettera, nell'annunziarmi finalmente che tanto ella che i suoi, godono perfetta salute, è riuscita oltremodo accetta a me, e a tutti di casa. Così spero e desidero che continui: al resto poi provvederanno il tempo e la buona fortuna. Quaggiù abbiamo corso burrasca. La legione straniera aveva fatto disegno d'impadronirsi della cittadella, ardere la città, ammazzare e rubare i ricchi, o riputati tali, perchè sento, che ci avevano messo nella nota anco me; scoperto il fatto, per denunzia di un complice allo Imperatore, una grossa vaporiera è arrivata a prenderla tutta per trasportarla in Africa. Io non mi adonto, anzi vado lieto, che mi abbiano tolto il titolo di Avvocato, dacchè non l'ebbi in pregio mai, e parrai (superbia o no) stare meglio solo. Qual'è commessuccio del Bargello che non si chiami Avvocati i Carcerieri, Cavalieri i Soprastanti? Dunque, la meglio, e la più pulita, è portare il solo nome proprio scosso e spazzolato da qualunque polvere. Niente mi parla di Firenze, nè di arti, nè di musica, nulla: questo è male. Una signora mi ha scritto da _Ragusa_ avvisandomi che i giornali costà dicono che io mi sono venduto al Governo; che in questo pensiero ella spasima; che non avrebbe più fede. Io non le ho risposto nulla. Può risponderle ella, ed ella può dirle se io sia uomo da vendermi; ha nome Paolina Lepès. Saluti a tutti. _Affezionatissimo A._ GUERRAZZI. _Carissima Signora Ersilia_ Mi sono arrivati davvero grati i suoi caratteri, imperciocchè appunto con Maria temeva quello che trovo essere arrivato, cioè che la salute vostra non era buona. Ora la sento migliorata; io ve l'ho detto, e ve lo ripeto, bisogna mutare abitudini di vita, nutrimento e in campagna; in campagna, e latte, erba, e pollo; in meno di sei mesi tornate sani come lasche. Seppi le insanie scellerate dei Fiorentini. Svergognati! meritano l'ira di Dio, e il disprezzo degli uomini. Se non poteva trattenerli il rispetto all'affanno di tanti esuli italiani in terre remote a stentare la vita con la speranza, che i rimasti a casa pensino a loro, e li compassionino, nè l'amarezza della perduta libertà, nè la memoria di tanti traditi morti sul campo, nè dei trucidati nelle città, nè delle bastonate tedesche, nè i lutti recenti del cholera, almeno, anime squarquoie, doveva frenarli il senso della miseria presente, e la minaccia della disperazione futura. O per chi, per chi, per chi, ci siamo sagrificati noi! È una schifezza, che supera ogni credenza. E in Livorno come a Firenze; a Roma e a Napoli eziandio, crogiolano nella servitù. Ci stieno: a me che importa? nulla. Arlecchino mangiava le saponette a colazione. Forse adesso si vergognano molti, per tornare a far peggio domani. Ora i Predicatori. Le cause vinte hanno torto, e a lungo andare non piacciono a Dio, agli uomini, e alle donne meno. Saluti a tutti in casa, la Mamma, il Babbo, e l'Emilia. _Affezionatissimo_ D. GUERRAZZI. P. S. Mi vorrebbe essere cortese a levare dalla sopraccarta _Avvocato_? La Corte di Firenze me lo ha levato, e a me non par vero obbedirla. Domenico Guerrazzi basta. _Carissima Signora Ersilia_ Mi è riuscito oltremodo spiacevole udire le male nuove della salute del Pappà. Per guarire dalle malattie intestinali bisogna mutare aria, non c'è rimedio. Quando il corpo si vizia lentamente sotto una temperie, nessuno speri guarire se non n'esperimenta una diversa. Comprendo quanto è critica la condizione di lei, ma ormai è forza sostenerla con fermezza, dacchè non so cosa giovi innaffiarsi lo viscere di bile. Triste è il caso, ma non degli irrimediabili. O io mi dovrei dare al diavolo, che mi trovo in esilio dalla terra, che amo, senza amici, senza colloqui intimi, di cui neanche in prigione era privo. Nipoti ho bene, ma giovani, e non devono starsi ad annoiarsi meco; ogni età ha i suoi piaceri: spesso mi trovo di faccia a Maria, zitti come olio, ella col gatto in collo, io co' cani fra le gambe. Abbiamo giorni procellosi, e tristi. Speriamo bene. Tanti saluti a tutti di casa, ed ella mi abbia sempre _Per suo affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. _Carissima Signora_ Le sue lettere mi giungono oltremodo gradite, molto più che non cessano, mentre le altre illanguidiscono. Così è, i miei amici di Firenze, o distratti da altre cure, o, come credo, piuttosto in virtù della sentenza, che uomo bandito è mezzo morto, a mano a mano si dimenticano di me. Questo è amaro a sopportarsi, ma, la Dio mercè, sortii un cuore capace da contenere questi, e bene altri dolori. Le passioni umane conosco tutte, e so compatirle; i lagni non valgono, e poi palesano debolezza: l'uomo non può essere diverso da quello che è. Qui non abbiamo cholera, e, se caso mai, o vaghezza o necessità vi persuadesse ad allontanarvi da Firenze, ricordi all'ottimo Padre suo come qua vi siano le acque di Orezza, portentose veramente alle infermità dei visceri. Dal continente vengono a curarsi i malati di stomaco, fegato, intestini, e gran copia di quest'acqua va all'estero. L'avverto, e le confermo, che il passaggio da Livorno in una bella notte si fa in 5 ore, ed in meno. «Bene! Brava! Mi parli del paese Parlami della mia, Della diletta tua patria natia.» Il cholera è scoppiato costà? Ma sarà paura? E poi è cessato: speriamo bene, dunque. A Livorno dicono il male più fiero; dicono, ma altri negano. La verità da qualche tempo è andata in campagna; in città si fa vedere più poco: ma il cholera vi sarà benissimo, e ciò pregiudica i divertimenti, i balli, le frivolezze di quel popolo frivolissimo, non è vero? Ogni giorno il cielo si fa più buio, e ormai, perduta la bussola, io mi abbandono nelle braccia di Dio. Non istò bene; tutt'altro: vivo romito e non vedo che il mare rotolare le eterne sue onde sotto casa mia, e più sento, che altrove starei peggio. Perchè la signora Teresa non mi scrive? ha paura tingersi le dita nell'inchiostro? Se avessi 30 anni meno, ella mi scriverebbe di più; oh! vedete che presuntuoso. Signora sì: quando aveva 20 anni mi pareva essere bello, e, a dirgliela nell'orecchio, pareva anche ad altri; ma di qui a quei tempi ci è che ire. I nepoti, e Maria in ispecie, salutano lei, e tutti di casa; io mi raccomando alla vostra memoria e mi confermo _Suo affezionatissimo amico_ D. GUERRAZZI. _Carissima Parente_ Duolmi lo incomodo del padre suo, e amico carissimo mio, e più mi sarebbe doluto, se al punto stesso Ella non mi mandava notizie del suo miglioramento: spero che progredisca, e in questa fiducia mi conforto. Conto di rivederlo, e rivedere lei unita alla sorella, e alla Mamma, ed esprimervi a voce i sentimenti di affetto profondissimo, che ha suscitato in me il vostro amore unico. Intanto abbiatemi per vostro _Amico e parente_ D. GUERRAZZI. P. S. Saluti a tutti. Ieri non risposi perchè il braccio non voleva andare, oggi fa mezzo a suo modo, e mezzo al mio. A Emilia Bertelli _Genova, 31 Dicembre 1858._ _Carissima Signora Emilia_ Io, intitolando questa lettera, non ho messo il suo casato, perchè lei, come l'anno, che cessando di essere 58, non è ancora 59, stando su la scala delle nozze, non è anco entrata nel forno del matrimonio. Però se propriamente lei entrerà nel forno del matrimonio, o il matrimonio entrerà in lei, questo è quello che mi dirà più tardi. Però, mettendo gli scherzi da parte, si abbia da me gli augurii per le felicità che meritano le sue ottime doti, e spero che, come ottima figliuola, riuscirà ottima sposa, e più tardi ottima madre. Mi duole che quella benedetta spalla di Ferdinando non voglia guarire affatto, ma in questo anno ha da sanare la sua piaga, e con essa saneranno bene altre piaghe; almeno così si spera. Ecco ciò che mi chiede: avrei voluto fare meglio; ma s'incomincia a invecchiare, e quando passa la stagione delle pesche si fa buon viso anco alle castagne. Maria sta bene e saluta tutti; in questo anno conta venire a Livorno, e può darsi che le incontri ai Bagni. Reverisca la signora Teresa, e la signora Ersilia, e di nuovo augurandole quanto il suo cuore desidera mi confermo _Affezionatissimo amico_ F. D. GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Genova, 13 agosto 1859._ _Amico carissimo_, Prima di tutto grazie a lei dello inalterato amore, e affetto, e reverenza a cui si mostra benevolo a me. — Pur troppo l'Av: pare siasi attirato (almeno pel momento) l'ira universale addosso: io l'ho ammonito come doveva, ma il suo sangue gli si è infiammato nelle vene, e ora a toccarlo si farebbe peggio. — Io tengo lei, e devo tenerlo come un fratello, ma creda, Ferdinando, che a me non è sicuro nè decente venire. Posso sbagliare, ma siccome penso molto alle cose, così paio ostinato, ma non sono. È difficile per lettera dir tutto, ma così in succinto basti questo. Fin dal febbraio passato promossi qua presso il Governo le cose di Toscana. Consigliai chiamassero di costà persona per informazioni: chiamarono Ridolfi, e al tempo stesso chiamarono anco me; nel punto di partire il Corsi mi avvisa venire col Ridolfi. — Aspettai a Genova nel concetto che, passando, mi avrebbero cercato, e così insieme andati a Torino. Vennero; non mi cercarono; Corsi mi scrisse di Torino perchè andassi; ma spedì la lettera al suo nipote Caprile qui in Genova, che la tenne 3 giorni senza consegnarmela; mentre mi disponeva andare mi vedo comparire il Corsi: parlammo insieme: predicò concordia; (questi signori l'hanno sempre su le labbra); averla anco raccomandata il signor Cavour. Per me ogni sacrifizio par facile per lo amore della patria: quanto a offese non se ne parlasse più: circa a politica avrei appoggiato quanto proponeva. Se scrivendo, poterlo fare di qui; se con la presenza in Toscana, ricordasse, che non mi permetteva la disastrosa fortuna tenere due case, una qui, una costà; e il traslocarmi con le mie robe troppo spendioso. Partiva: dopo un mese scrive il Corsi: non avere potuto incominciare la pratica dell'accordo; poi zitto: dopo altri 40 giorni mi dà notizia dello avvenuto a Firenze e mi conforta, se amo il paese, a durare in esilio: — Così mi scrissero altri, e così scrisse il Bon-Compagni al cavaliere Carlevaris, mio amico trentenne. Subito dopo l'oltraggio dell'amnistia. Io vidi allora le arti della fazione aristocratica, che arrolò Corsi, Malenchini, ed altri per tentare il terreno, e per gratificarsi il popolo, e governare tiranna; e così fu, e così è. Il popolo è rimasto attontito, intronato dalle minacce: guai! se ti muovi; guai! se ci tocchi; guai! se non ci lasci fare. — Traditore, parricida, matricida... anatèma! anatèma! anatèma! Gli atti di governo furono una serie di errori; ma avevano il piviale della Indipendenza addosso, e bisognò lasciarli stare. Ora io ho rimesso a servire il popolo il mio stato, mezza salute, mezzo ingegno, e più che mezzi gli averi: io non rinfaccio nulla: mi sento disposto a servirlo da capo, ma non mi sento disposto a elemosinare il permesso di finire questi avanzi di vita per lui. — Il popolo non mi ama, il popolo mi ha obliato; lo so, ingannato, e deluso: ma perchè, com'ebbi nemici operosi e implacabili a nuocermi, non gli ebbi del pari a giovarmi? E poi a che venire? Se per esprimere un voto per la decadenza dei Lorenesi, e per l'annessione al Piemonte? Io l'ho fatto col ritratto di Leopoldo II; con la dichiarazione del 12 agosto nel _Diritto_, col _Ricordo_ al Popolo toscano stampato in Torino. Tanto basta. All'altre cose del Governo vostro non potevo aderire: e la mia opposizione si sarebbe attribuita ad astio, e a mal talento. Di più, chi governa ora? Gente aristocratica; anzi oligarchica; ed io mi sento popolo schietto; forte, leale, e generoso sangue popolano: — essa non seppe e non volle perdonare di avermi atrocemente offeso: dunque intende stare in guerra meco: — uno di loro, Ridolfi, mi ha messo le catene alle mani iniquamente, per una sua poltronesca, e matta paura; l'altro, il Ricasoli, mi ha esposto ad essere fucilato dai Tedeschi per cruda, e fredda vanità di comandare. Ricordi ch'ero l'agnello da essere arrostito per il connubio di Ricasoli e Compagnia col Granduca restaurato. Ricordi il _furore_ col quale hanno avversato la mia elezione. Come intendano libertà lo vedo dallo sgoverno ombroso, e tirannico; quanto a giustizia vedo conservati i carnefici in seggio. — Non mi pare aria di tornare adesso. — Le ho detto e le ripeto, e le ripeterò invariabilmente sempre: se il Popolo mi vuole, mi chiami come conviene a lui, e a me: se non mi vuole, mi lasci. Certo, veda sorte disforme! Manzoni onorato, levato a cielo, e pensionato dal Re; io avvilito, oppresso, impoverito dal Popolo. Manzoni pel Re non fece mai nulla, io pel Popolo sempre e tutto. Bisogna pigliare tutto con equo animo, e senza querela, chè lo strillare è da bambini. Le sarò grato se mi darà più frequenti che può notizie intorno agli umori _reali_ non fattizi che si vanno sviluppando nel popolo costà. E agli amici veri dia comunicazione di questa lettera. Mi conservi la sua benevolenza; saluti alla signora Teresa, e alle figlie anche per parte di Maria. _Aff.o_ F. D. GUERRAZZI. _Genova, 29 agosto 1852._ _Cariss.o Ferdinando_ Ho ricevuto la sua lettera; ho detto _sua_, ma le dico alla ricisa, che non la credo _sua_; e poi mi giova sperare, che molte cose le non sieno come le conta, perchè, se fossero, io dovrei scapparmene in America. Che cosa ha l'_Apologia_, che mi faccia torto? — Sostenni che, eletto ministro del Principe costituzionale, compii con fede il mio dovere; e questo è vero. Dissi che dopo Novara pensai di farlo chiamare con patti, e garanzie: ed anco questo è vero. In che mi appuntano dunque? E che ha l'_Apologia_, di cui io mi abbia a vergognare? Amerei saperlo. Mi parla della difesa del Capponi. — Ma oh! non vede, che questa finta o vera moderazione è quella che tronca le ossa. Quali torti mi trova egli? Non egli mi propose ministro al Granduca? Non egli membro del Governo Provvisorio? — Forse non eseguii il mandato? Gli stessi _carnefici_ miei non lo attestano? Dunque quali torti ho io? E perchè egli consentì che mi tramassero l'orribile tradimento? Egli si scusò allegando la cecità sua; ma il cuore è cieco? Ella vuole non parli del 12 aprile; non ne parliamo; ma io che ho sofferto (ella lo sa) la più che quadrienne carcere, e i colpi di epilessia, e le poche sostanze rovinate, e con fredda crudeltà il trovarmi esposto alla fucilazione tedesca, e la squisita prigionia con tramogge, ribalte, ecc. ecc., bisogna che lo rammenti; e tanto più lo rammenti perchè credo non aggravarmi la coscienza reputando il Ricasoli, e il Ridolfi capacissimi di farmi assassinare. Il popolo ha dimenticato: pazienza! Gli auguro ogni bene, e non gli rinfaccio niente, e niente domando da lui. Chi ha avuto, ha avuto, e credo ci possa stare. E poi venire a chiudermi in una villa! stare _bonino_; seguitare la politica del Governo, come hanno fatto i miei amici, ed implorare la elemosina di potere logorare in prò dei padroni quel po' di vita, di averi, d'intelletto che mi rimangono? Chi le ha detto che i miei amici seguano la politica del Governo? La oligarchia, che regge costà, ebbe la destrezza di mettersi il piviale delle idee, che fin qui sono la passione del popolo, e con esse dura. Così sembra fautore della Unità, e dell'Annessione al Piemonte, mentre professò sempre massime autonomiste, e zelatrici della dinastia. Tanto vero questo, che il Ricasoli nel febbraio proponeva andare in palazzo a proporre a Leopoldo II la renunzia in prò di Ferdinando IV. E' mi paiono ladri, che avendo rubato la pisside, pretendono passare per sacerdoti. La non può tirare innanzi un pezzo; arriverà il bargello, e dirà loro: la pisside nel ciborio, e voi altri birbe in galera. — Se togli questi punti nuovi per loro, vecchi per noi: in che vuol ella, sia benedetto, che ci troviamo d'accordo? Quello che hanno fatto fecero tardi con la corda al collo. Essi amano la libertà quanto io e lei Pio IX. Rispetto a A. e T. mi occorre correggere una sua assertiva assai avventata. A. non mi scrive più, nè io gli scrivo; nè sono uomo da movermi da ciarle senza fondamento; e sperava, che la mi dovesse conoscere. Quanto a T. egli non mi consiglia, nè mi riferisce: lo aiuto, e fa quello che nella sua professione gli ordino. Ripeto, ho scritto un po' vivo perchè ho creduto di non scrivere a lei, e perchè nel suo foglio trovo giudizi, ed opinioni che non mi si affanno; ed ora basta. Se potremo rivederci a casa, bene, se no, basta che ci rivediamo in paradiso. Intanto mi scriva un po' lei, o mi faccia scrivere dalla Ersilia; e con un abbraccio di cuore, pregandola dei miei saluti in casa, mi confermo _Suo aff.o am._ F. D. G. P. S. Credo bene avvisarla di una cosa perchè c'intendiamo meglio. Io non cerco, nè cercherò mai deputazioni. Richiesto a Livorno di prova: per mettere il mio nome sul ruolo degli elettori, rifiutai; commisi al signor Mangini, e agli amici, astenersi da qualunque pratica per me. Anche pochi giorni fa il signor Romanelli, nel presagio di una renunzia alla deputazione di Arezzo, me la offeriva, ed io la renunziai. Non ho bisogno di deputazioni, nè di partiti; ho chiesto un po' di amore, e di essere restituito in patria senza trovare sulla soglia la infame sentenza, e la più infame amnistia. — Se alla giustizia dei miei concittadini pare troppo, io durerò in esilio. Forse un giorno mi loderanno di non essermi lasciato avvilire, ed esalteranno quanto ora deprimono. A Ersilia Bertelli[17] _Cariss.a signora Ersilia_ Rispondendo a lei rispondo all'amico Ferdinando. Io non mi guasto per così poco con le persone, che amo, e che mi hanno fatto del bene. — È costume dei signori, che ora obbedite, perseguitare a morte chi non partecipa la loro opinione; non mio: quando non ci possiamo intendere su materie politiche, non se ne discorre più, e rimangono inalterati gli affetti, gli uffici, e i termini di buona amicizia. D'altronde, se mi commossi un poco fu davvero per le nuove che Ferdinando mi fece la gentilezza mandarmi; anzi sarei veramente obbligato se me le rinnovasse; bensì m'increbbe l'approvazione, che in certo qual modo pareva che il Babbo dèsse a coteste grullerie; egli che vide quale strazio di me si facesse, e sa se lo meritai, e conosce quanto furono e sono crudeli, e superbi, i miei carnefici, come poteva consigliarmi a tornare, farmi piccino, piaggiare il Governo ecc.? — Questo, lo confesso, mi spinse una fiumana di sangue al capo. Lo stesso dicasi dello addebito stolto dell'_Apologia_. Io dissi questo, ed è vero: dopo Novara _pensai_, badi bene, _pensai_ ad armare il paese, e poi alla tornata dell'Assemblea orare in questo senso: soli contro Austria non possiamo reggere, bensì fare difesa disperata. Io vi conforto a mandare a dire a Leopoldo che spontaneo uscì, e spontaneo torni, se vuole, a patto che non vengano Tedeschi, e si mantenga lo Statuto; se così farete, l'Inghilterra promette la mediazione, e la garanzia, (io aveva riportata questa promessa); io mi condanno allo esilio, contento di portar meco la vostra affezione; se invece vorrete battervi, e me confermate nell'ufficio, farò il debito. Ecco quello che divisava fare. — Sostenere che gli Aristocratici hanno fatto ma non detto prima, è scempiezza, perchè il fatto basta e ne avanza; ma non è vero: lo dissero ancora e fu pei loro proclami, e assicurazioni che il popolo si rivoltò. Essi dicevano: col resistere, e coll'imporre garanzie, il Granduca vi chiama i Tedeschi a casa, e vi _assicuriamo_ libertà, immunità da occupazione straniera ecc. ecc. Questa è storia; i documenti avanzano a centinaia, ed a negarli ci vuole fronte più che di bronzo. E del Capponi ancora mi urta quell'aria di moderazione. — Chi consigliò il Granduca a pigliarmi ministro? Lui. Chi orò solo perchè mi deferissero il Governo provvisorio? Lui. Feci il debito? Tutti con giuramento risposero: sì. Dunque dove va a pescar torti? Torti sono i suoi, quando tradì l'antico amico, quando lo lasciò in mano dei suoi carnefici, quando lo espose ad esser fucilato dai Tedeschi. E, quando stava in prigione, mandò a scusarsi allegando la sua cecità; ma le cattive azioni muovono dal cuore, e il cuore non accieca. — Ferdinando queste cose sa, ha viste, ne fu parte; però doveva così rispondere e difendere l'amico perseguitato, e il parente? Sul rimanente della sua lettera non risponderò. Solo le dico, che alle mie mani avreste avuto meno lumicini e più schioppi. Le cose sono tutt'altro, che tranquille, e sicure. La libertà, cosa cara, caramente si acquista, e se pensano averla senza sagrifici, e atti virili, e risoluti, dubito assai se riusciranno. Ad ogni modo questo non ha da essere pensiero mio: ci provveda a cui tocca. Tanti saluti a tutti in casa; e di nuovo accerti Ferdinando ch'io l'ho per buono e caro amico, e lo prego e lo conforto a mandarmi le nuove di quello che vede, ed intende, chè io di certo me ne gioverò nella via, che rimane a fare. Addio; anche Maria saluta. _Affezionatissimo amico_ F. D. GUERRAZZI. A Ferdinando Bertelli _Genova, 26 Ottobre 1859._ _Caro Amico_ Rispondo tardi perchè stetti parecchi giorni a Torino. E' pare che Pandora versi il vaso dei mali sopra la sua famiglia: non può credere quanto questo ci affligge; ma a questa ora speriamo risanata la Signora Teresa, e gli altri mali attutiti. In questa speranza passo ad altro. Conferii parecchie ore con Vittorio Emanuele; e co' ministri più volte. Il Carignano non può venire; Napoleone lo vieta; chè vuole restituito il Granduca con territorio accresciuto: pure non lo metterà per forza, riproporrà il cimento del suffragio universale perchè lo avvenuto (egli dice) è ristretto, e spremuto da una _fazione_. Dunque tutto sta adesso nel disporre il paese a sostenere lo assalto del nuovo voto. Non si crede l'attuale Governo capace a ciò; è un po' logoro, corbellerie ne ha commesse, e asperità non poche, vecchie e nuove. Però si vedrà di convocare l'Assemblea, ed eleggere reggente il Gen. Fanti, buona e valente persona, prediletta al Re; no Ricasoli, perchè le sue rigidezze voglionsi temperare, perchè capo imporrebbe i suoi concetti, e così non si farebbe guadagno, e perchè Napoleone lo detesta; onde non si vorrebbe urtare con lui. Il Gen. Fanti comporrebbe il nuovo Ministero, conservando del vecchio quanto è popolare ed ha valore vero, l'altro licenzierebbesi onestamente. Il Governo così ricomposto avrebbe a proporsi questo fine precipuo: tenere il Paese ben disposto perchè, interpellato da capo, dicesse: 1 Non voglio Lorena e servitù 2 Voglio Savoia e libertà. Il Governo Sardo fa pratiche per questo: costà la pubblica opinione avrebbe a secondare con tutte le forze; e presto, perchè, com'ella bene avverte: in mal tempo arriva l'affare delle Dogane che, ledendo molti, li alienerà di certo, e queste cose vanno fatte a tempo e a luogo, e dopo molte avvertenze: e in tempo peggiore gli arresti (_segue una parola inintelligibile_), perchè scompigliano, lasciano zizzanie, e sono tanti voti contrari a Vittorio Emanuele che non ne ha una colpa al mondo. Se rimarrete neghittosi, vi troverete per la seconda volta Austria in casa. Addio. Mi scriva presto per darmi nuove della salute sua, e dei suoi. _Affezionatissimo_ F. D. GUERRAZZI. _Genova, 14 Novembre 1859._ _Caro Ferdinando_ Ho il cuore piccino come una nocciuola. Altro che feste! Potrebbe darsi, ma io non vedo che di due cose l'una, o restaurazione, o guerra. E badi, guerra col tedesco, guerra di rabbia, guerra di sterminio, e combattuta senza aiuto francese. Così bisogna mettere l'alternativa: e se il popolo vuole, si levi, e si apparecchi; se non vuole, torni alla stalla. Io ho motivo di credere, che il Re è lavorato di straforo non dai nemici, no, che questi sono aperti e leali, ma dagli amici, che già a quest'ora a Parigi armeggiano a cascare ritti in ogni evento. E di più non posso dire. Io non tornerò, perchè chi ha cominciato bisogna che finisca, e poi io non muto mai; anco, che mi disponessi a tornare a questi lumi di luna, io non muoverò passo se non chiamato: e se non mi vogliono, ci vuole pazienza. Perchè poi sia così ostinato, sappia, se io non gliel'ho detto, che il Governo presente, coll'organo del suo Capo, scrisse lettera con la quale si diceva, che, se amavo la Patria, stessi lontano per amore di _Concordia_!!! Dunque obbedisco. _Affezionatissimo Amico_ GUERRAZZI. P. S. _Dicesi_ in questo momento che dopo contrasto sia risoluto l'invio del Carignano. _Genova, 14 Dicembre 1859._ _Carissimo Amico_ È parecchio tempo che manco di sue nuove, e, certo, perchè ho mancato di riscontrare l'ultima sua; ma ciò non l'avrebbe a trattenere, perchè talora sono stanco di scrivere, e non ho, come lei, persona discreta a cui possa dettare; dunque mi dia sue nuove, e di tutti di casa. Che cosa è questo negozio? Comincerebbero per avventura ad accorgersi i fiorentini, che cotesto civilissimo governo si rassomiglia molto a quello, che adoperano in talune parti dell'America, co' negri lavoratori ai mulini da zucchero? Vedono alfine che dai modi vecchi ai nuovi la differenza che corre è di un L a un R? Resuscita il duca Valentino costà? Mi pigliano i rossori considerando in qual modo un arrogante aristocratico presuma avvilire la patria nostra. Mi occorre pregarla di un sommo favore, il quale è di volersi compiacere a fare consegnare a Giuseppe Montanelli in proprie mani la qui inchiusa lettera, dacchè da Livorno e da Firenze vengo assicurato che il liberalissimo vostro Governo viola il segreto delle lettere, ed io non amo punto ch'ei sappia i fatti miei. Qui la stampa suona a vituperio contro al Bey di Firenze; e credo che il Ministero stesso non lo veda con dispiacere. Mi saluti la Signora Teresa, il genero, e le figlie; anco per parte di Maria, e mi abbia sempre _per suo affezionatissimo amico_ F. D. GUERRAZZI. _Genova, 4 Gennaio 1860._ _Carissimo Amico_ In _primis_ buono anno a lei, alla famiglia, al genero, e a tutti; il passato poteva andare meglio, ma siccome poteva andare peggio, così contentiamoci. Quello che ci è, è questo, che, non solo in Firenze, ma in altri punti d'Italia credevano ballare a suon di violino, e bisognerà ballare a suono di cannoni. L'abietta e vile tirannide che opprime la Patria nostra è venuta in uggia quaggiù, e la bombardano a palle rosse. Chi porterà via questi rospi pieni di veleno e di goffaggine è nato. La Nazione armata, con a capo il Garibaldi, simbolo, ed espressione del popolo italiano. Via aristocratici, e tirannucci da sedici alla crazia, e voi scotete coteste vergognose some. La pazienza ha pure un confine. E sopporterete in nome di mentita libertà quello che non soffriste colla tirannide? Giù privilegi, giù tribunali eccezionali, giù ciarlatani. Libertà ed armi. Ecco le nuovità. Come le trova? Addio: saluti a tutti, e mi mandi nuove più che può e più spesso che può. Bisogna cavare fuori la spada, ed io lo faccio proprio tirato pei capelli, ma, tirata che sia, butto il fodero al diavolo. Stia sano. _Affezionatissimo Amico_ GUERRAZZI. Al cav. Cesare Stiavelli _Cecina, 4 Marzo 1871._ _Carissimo Signore_ Mi trovo favorito di un suo lavoro, di che la ringrazio. L'ho letto con l'attenzione, che meritava, e mi parve ben fatto; considerandolo come saggio di cosa maggiore, se a continuare nella impresa di illustrare monumenti le basta il conforto di una mia parola, io volentieri gliene do mille. Quantunque io non ci trovassi molto a riprendere intorno alla lingua, tuttavia mi corre l'obbligo avvertirla, che parecchie locuzioni da lei adoperate non vanno immuni da vizio, e talune parole voglionsi addirittura condannare, come a mo' di esempio: «_dettagliatamente_». L'obbligo di scrivere netto corre a tutti, ma più a lei che a pag. 10 mi esce fuori con queste parole d'oro: «La lingua che è il primo tesoro d'una nazione, e tanto la illustra, quanto più è bella, dovrebbesi con religioso studio adoperare in ogni maniera di scritti.» Ma so bene io donde la colpa: dai giornali, la più parte veleno di morale, di dignità, di libertà, di tutto. Gradisca queste parole come di padre, e mi abbia con stima per _Affezionatissimo suo_ F. D. GUERRAZZI. _Cecina, 20 Maggio 1873._ _Mio caro Signore_ Ho ricevuto da Lei una illustrazione intorno al quadro di s. Luigi Gonzaga, dipinto dal fu Angiolo Visconti annegato nel Tevere. Piango il miserrimo fato del povero giovane. Io non entro mai in chiesa, e se ci dovessi entrare, non vi considererei la immagine di Luigi Gonzaga, persona dalla quale di pieno cuore ripugno. Giovane stupidito dalla venefica influenza dei Gesuiti, fino al punto di temere una carezza della madre, anzi la sua medesima faccia come una tentazione del demonio. Può darsi, io già nol contrasto, che il quadro, come lei dice, possa meritare lode dal lato plastico, o vogliamo dire, tecnico; è impossibile che appaghi per la parte psicologica, o estetico-morale. Nè io mi sdegno col pittore circa la indegnità del soggetto, bensì col committente matto e beghino. La religione _cristiana_ possiede i suoi eroi, che meritano davvero essere celebrati co' carmi, co' marmi e coi pennelli; a mo' di esempio san Telemaco, che, precipitandosi nel circo, si pose tramezzo ai gladiatori combattenti, e a prezzo del suo sangue fece cessare coteste atroci carneficine. E quando ai cristiani altro non sovvenga, facciano dipingere Cristo in croce, la Madre da un lato, e san Giovanni dall'altro, simboli, o verità di anime divine che affermano col martirio la santità dei propri principii; di affetto materno, che vince ogni dolore, per porgere conforto al Figlio straziato: di amico cui basta di accompagnare il suo amico al patibolo, e lì alla presenza dei persecutori affermare il suo affetto al condannato. Questi gli argomenti nei quali l'artista può ispirarsi davvero, imperciocchè potente Musa in ogni maniera di arte esplicatrice dello spirito umano sia la commozione che nasce dal vedere la virtù che abbraccia la sventura per giovare alla nostra stirpe infelice. Dunque non si dipingano Luigi Gonzaga, nè Stanislao Kotska, nè altri santi della fabbrica dei Gesuiti. Gradisca i miei distinti saluti co' quali mi dichiaro con stima _Aff.o suo_ F. D. GUERRAZZI. PREDICA PER IL VENERDÌ SANTO COMPOSTA NELLE CARCERI DEL FALCONE IN PORTOFERRAIO IL 19 MARZO 1848. PREFAZIONE _Un degno popolano, quando nel 1833 andava prigioniero alla Stella, mi fu cortese, con suo sommo pericolo, e non lieve disturbo, di ogni maniera di benevoli uffici; nel 1848 il dabbene uomo non era punto mutato: gli anni, siccome avviene nelle anime bene disposte, anzichè scrollarlo lo avevano maravigliosamente confermato nelle sue convinzioni, ed anche per questa volta, (che spererei ultima), non mancò di procedere verso di me con coraggio pari all'amorevole volontà. Ora io avrei desiderato secondo le mie modeste sostanze ricompensarlo, ma non osava dirglielo, conciossiachè io conosca a prova come il popolo buono, il vero ed egregio popolo sdegni qualunque moneta che di cuore non sia. Egli però mi prevenne e mi disse avere un figlio giovanetto sacerdote; essere stato scelto a recitare la predica del Venerdì Santo nella Chiesa della Misericordia di Portoferraio; pregarmi in ricompensa dei presenti e dei passati servigi comporgli una predica. — Una predica! esclamai maravigliato. — Una predica, insistè egli, ed a me non sofferse l'animo ricusargliela. Ora come farò io? domandava a me stesso. — Quale oratore imiterò mai? Nei tempi andati aveva letto il Turchi e il Segneri, ma non me ne ricordava siccome avviene delle letture che mi lasciano poca impressione, bene mi rammentava di certo scrittore chiamato Carli il quale mi parve che con modestia pari alla bontà esponesse la dottrina di Cristo, e lo lessi in casa di certo Proposto campagnuolo mio amico, a cui lasciai le opere del Montaigne in memoria di me e certo non fu buono ufficio. Questo scrittore però non consuona alla mia maniera di sentire, onde io privo afatto di modelli da imitare mi rimaneva sgomento. — Ripensandovi sopra io favellava fra me: e che cosa importano le regole, e gli esempi altrui? Non basta lo Evangelo per ispirare? Raccogliendo la mente a contemplare i casi di Cristo forse non mi sentirò commosso? La commozione non genera forse le parole che valgono a impietosire? La pietà non accende la pietà come scintilla un gran fuoco? E Cristo sempre mi si accostò al cuore soavemente, come colui che bandì la libertà e la fratellanza fra gli uomini, e confermò la sua dottrina col sangue. — Così pensando scrissi di Cristo indegnamente forse, ma con animo pieno di reverenza. — Se in questa orazione manca l'arte, io vo' che sappiano piacermi assai che manchi. Fu scritta come il cuore la dettava, — in carcere per la libertà, mentre dentro e fuori le mura del luogo in cui io mi trovava ristretto risuonavano le grida di libertà. Che cosa importava a me se cotesti gridi non abbattevano la mia prigione? Essi avevano virtù di abbattere i ceppi della umanità, e in questo pensiero esultava. Altre volte la obbrobriosa tirannide mi chiuse in carcere, e uscito fuori mi parve entrare in un carcere più grande. Che giova al prigioniero starsi nel cerchio del carcere, o di una città quando il servaggio contrista la città e il carcere? Ma adesso le porte mi vennero aperte dalle mani della libertà. Chi ha cuore di patria non settanta giorni ma settanta anni di prigionia non vorrebbe avere sofferto per vedere compiti i prodigi che avvennero nel breve periodo di due mesi? Sia pertanto lode a Dio che alfine rivolse a noi i suoi giusti occhi. Altri ambisca altri onori, io mi chiamo contento di portare impresso sopra il mio volto l'ultimo sgraffio degli artigli dell'odiato dispotismo. Se quelli che leggono si sentiranno per metà commossi di quello che io fui quando scrivevo, mi parrà avere conseguito il mio fine, e non cerco altra lode._ Livorno. 29 marzo 1848. PREDICA PEL VENERDÌ SANTO _Ecce homo!_ Diciannove secoli vedono la legge del Vangelo come una bandiera in mezzo alla battaglia inoltrarsi gloriosa e trionfale per le vinte contrade, avanzarsi per lo universo e bandirvi lo amore. Questo divino vessillo candido di fede, verde di speranza, vermiglio del sangue dei martiri ha superato il volo delle aquile romane. Alla spada della superbia vennero meno il taglio e la punta; le catene di ferro caddero logorate dalle ire dei popoli, ma la legge della carità nelle procelle acquista vigore, ingagliardisce per contrasto, la persecuzione disperde e lo errore. Quelli che l'acquistarono se la stringono al seno con lo affetto della madre che abbraccia il suo primogenito, e quelli che ancora non la posseggono vi volgono desiosi lo sguardo tardando loro che appaia questo segno di pace su lo emisfero della libertà. Chi fu l'operatore di tanto prodigio? Quali arti impiegò? Di quali argomenti, di quali armi si valse? Voi tutti, o Cristiani e Fratelli dilettissimi, lo sapete, e non pertanto siavi grato udirlo adesso ricordare nuovamente da me. Povero io sono di spirito, e pusillo; la mia parola suona inesperta: a tanto ufficio nè io nè altri credono degno, ma Cristo mi sovverrà, quel Cristo che dei fanciulli formava sua cura e sua delizia, e sopra ogni altro voleva che a lui si accostassero e della sua dottrina testimonianza porgessero: _sinite parvulos venire ad me_. Dio pentito di avere creato l'uomo mandò il diluvio per esterminare la razza che aveva contristato il suo spirito immortale, e se stringendo poi il patto con Noè promise di non maledire la terra più oltre, ciò fece non perchè gli uomini fossero diventati punto migliori, ma perchè omai deponeva ogni fiducia che potessero migliorare: — «non maledirò più la terra da ora innanzi a cagione degli uomini: conciossiachè il pensiero e il talento degli uomini inchinino al male fino dalla loro infanzia:» _nequaquam ultra maledicam terræ propter homines; sensus enim et cogitatio humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua_. Ma Cristo scese a imprendere l'opera di migliorare le umane generazioni — fino nei cieli creduta disperata! Egli volle rendere gli uomini degni della benedizione di Dio; egli venne a bandire la legge dello amore, a confermarla cogli esempi, a suggellarla col sangue. A conseguire il magnanimo intento nel mostrarsi sotto umano sembiante prima di tutto egli scelse umili natali, e apparve figlio del popolo, gli uomini lo conobbero allevato dal falegname Giuseppe, e dicesi che sua madre Maria con operose industrie s'ingegnasse. Così egli insegnava il disprezzo delle superbe fortune che sono fregi anche del vile, chiariva come qualunque accolga in sè anima immortale possa conseguire nobili destini, palesa riporre principalmente la speranza di rigenerazione nel popolo come quello che possiede maggiore copia di affetti, ed è più facile a lasciarsi infiammare dal divino entusiasmo, e più esperto nei mali, di lieve si commuove di compassione alle sventure altrui. O figli del popolo, quanto è gloria potere dire a colui che vanta chiarezza di lignaggio, e abbondanza di averi: _la mia nobiltà comincia in me — in te finisce la tua_. E Cristo non iscelse tra i potenti della terra i suoi seguaci, ma li tolse dalle viscere del popolo e con uno sguardo li vinse, con una parola gli accese, li trasse dalla rete, per convertirli in pescatori di uomini. I soli figli del popolo si sentono capaci di morire pei maestri, per gli amici e per la patria, imperciocchè cosiffatti sagrifici non si paghino che con moneta di cuore, e questa moneta di cuore trova soltanto il suo corso fra il popolo. Maestri suoi furono la meditazione, e la volontà. Io sento quotidianamente molti del popolo sconfortarsi con manifesto errore di salire in fama di sapienti solo perchè di libri difettarono o dei maestri. Certo non vuolsi punto negare che questi sussidi aiutino con molta efficacia ad acquistare scienza, ma non si hanno a reputare necessari così, che mancando, l'uomo rimanga condannato alla ignoranza. Dove lessero, o dove impararono Lino ed Orfeo e gli altri incliti legislatori e poeti dell'antichità? Due volumi eterni pose Dio davanti agli occhi di coloro che anelano imparare, — la natura e il cuore dell'uomo. Emana troppo maggiore scienza dalla contemplazione delle glorie del firmamento in un plenilunio sereno — dalla esultanza dei fiori in un bel giorno di primavera — da una lacrima tremolante sul ciglio della riconoscenza, che non da centinaia di volumi. Cristo chiuso nei santi pensieri, siccome al Nilo, e ad altri larghissimi fiumi noi vediamo avvenire di cui ignoriamo le scaturigini, allo improvviso ci appare tutto splendido di Sapienza. Negli ombrosi recessi, nel silenzio delle vigili notti Cristo si cinse la zona del forte intorno alla vita, e si apparecchiò a compire la profezia del Precursore: «verrà dopo me un gagliardo che vi battezzerà col fuoco, metterà la scure dentro le radici, ed ogni albero sterile di frutti buoni sarà reciso e gittato sul fuoco: col ventilabro alla mano separerà il grano dal loglio, e getterà le paglie sul fuoco inestinguibile.» La vana scienza dei Dottori rimane vinta dal supremo intelletto del fanciullo di dodici anni; i Dottori confusi ammirano ed odiano siccome costumano fare sempre i Dottori dalle false dottrine, dalle timide, e insensate teorie. Cristo, continua la bene incominciata opera. Chi siete voi, ipocriti tristi, che sostenete Dio il gran padre della natura e degli nomini avere scelto un pugno di creature per metterle a parte del regno celeste condannando tutte le altre alla eterna dannazione? Abominevole calunnia! Dio senza volontà del quale non cade un capello dalla testa più umile, Dio che si toglie tanto benevola cura di un passero condannerà alla _gehenna_ del fuoco penace ove sono le grida disperate, il tremore dei denti, migliaia e migliaia di generazioni solo perchè non nacquero dal popolo eletto? Quale presunzione, quale vanità, e peggio ancora quale iniquità è mai questa? La Misericordia infinita ha sì grandi braccia che prende ciò che si rivolge a lei. Dio, Sole dell'universo, diffonde la benedizione dei suoi raggi sopra le cose e sopra gli animali. Gloria, onore, e pace a tutti coloro, qualunque essi sieno, che operano il bene, imperciocchè Dio aborra ogni parzialità di persone: _gloria, autem et honor et pax omni operanti bonum. Non est exceptio personarum apud Deum_, dice l'Apostolo delle Genti. Non ponete l'affetto vostro nelle cose che la tignola rode, e i ladri involano: ponete ogni pensiero a gentile acquisto di fama. La buona rinomanza sopravvive alla morte dell'ottimo cittadino come l'eco armonico dura a scuotere l'aria, cessata la vibrazione della corda, o come il profumo continua a spandersi pel tempio anche dopo la consumazione del grano d'incenso nel turibolo. La fama sola è il sudario di amianto che proserva i defunti dalla corruttela. Cura molesta di povertà non turbi l'anima vostra. Salomone in tutta la sua gloria non comparisce vestito come il giglio bellissimo della valle. Amatevi, cambiate liberali tra voi i doni della natura, e avrete copia di beni terreni. Chi serba il grano nel granaio non accumula nel regno dei cieli; chiunque terrà avaramente il vino nel celliere non sarà dissetato dalle fontane del paradiso. Battete e vi sarà aperto, finchè voi stessi apriate le porte ai bisognosi. Cristo povero ciba le moltitudini; certo cotesto fu prodigio, ma cotesto miracolo può essere rinnovato quotidianamente dagli uomini quante volte si sentano da mutuo amore infiammati. Allora non camminerà più brancolando il cieco, nè lo storpio arrancherà con affanno avvegnachè lo storpio sarà l'occhio del cieco, il cieco il piede dello zoppo. Figli di un medesimo Padre che regna nei cieli, fratelli tutti nella nostra parentela divina, maledetto colui che contrista uno spirito immortale, maledetto l'uomo che tiene il piede sul collo dell'uomo che piange, maledetto anche il fiacco che altro non sa che gemere sopra le sue catene, e non ardisce romperle, e convertirle in brandi per rivendicarsi in libertà. Se Spartaco servo pagano, quantunque la voce di Cristo a lui non gridasse nel cuore, ebbe siffatto ardimento, ora come potrà e dovrà essere emulato dal Cristiano consapevole avere Dio apparecchiato nei cieli i seggi più gloriosi ai magnanimi che per la Patria combatterono, e per la salute di lei fortemente perirono? Cristo insegna il perdono delle offese che dai nostri fratelli ne vengono arrecate, e ne forma fondamento principalissimo della sua legge divina. Umana cosa è errare, celeste condonare lo errore. Se il tuo fratello ti offende e tu perdona; se egli torna a offenderti, e tu di nuovo perdona, oblia la ingiuria, o seguace di Cristo, e ricorda soltanto il fine di carità e di amore a cui tendono le ale aperte dell'anima tua. Altri si stanchi piuttosto ad offenderti che tu a perdonargli. O Creatura mortale, conviene a te mantenere odio immortale? Perchè vorrai segnare la corsa rapidissima alla morte e che ha nome vita con una traccia di sangue? Narrasi come il santo Filippo Neri supplicando un sussidio pei poverelli del Signore da certo barone romano si ebbe acerba ripulsa: tornato a supplicarlo con insistenza il superbo uomo prorompe in bestiale furore e percuote il Santo nel volto; questi, comecchè sentisse tutto il sangue ribollirgli nelle vene, pure placido e mansueto gli si volse dicendo: — per me la guanciata: ora datemi un po' di aiuto pei miei poverelli! — Perdono ai fratelli traviati, perdono ai nemici vinti come il Sammaritano infuse pietoso balsamo e olio nelle piaghe del trafitto Giudeo. Cessata appena la cagione dell'odio anche verso il nemico subentri un senso di benevolenza e di carità. Le mani liberate dai ceppi non si distendano alla vendetta, ma s'inalzino al cielo per ringraziare lo Eterno. E voi pure che mangiate il pane della violenza, e bevete il vino della abominazione; voi pure che peccate col fallo più grave che mai possa commettere l'uomo al cospetto di Dio, voglio dire la infame schiavitù in cui tenete le umane creature, solo che diate segno alcuno di pietà, e torniate alle case vostre, dove la gente a voi più caramente diletta vi attende, noi vi pregheremo pace: _Passate l'Alpi e tornerem fratelli._ Ma però non crediate, o Cristiani, che il nostro Cristo tanto pietoso al perdono dei fratelli facili a ravvedersi, procedesse molle contro gli avversari della sua dottrina, o gli uomini a sopportare codardamente le miserie della servitù persuadesse, o a fiacca pazienza li consigliasse. Io vo' che sappiate come nella sua mansuetudine nessuno fosse più animoso di lui. Egli quantunque sapesse che cadrebbe vittima degl'ipocriti e dei farisei osò guardarli nella pallida faccia, e dire loro: «razza di vipere, sepolcri imbiancati: il vostro cuore vi sta nel petto come un lupo entro la tana: male pensate, peggio parlate conciossiachè l'uomo favelli con la sostanza del cuore, ch'è l'anima. Voi volete un segno? Voi avrete il segno di Giona.» Egli rigettò dai suoi labbri quella gente tepida, moderata di tutti i tempi, pei quali spunta l'alba del lunedì mentre pei popoli splende il meriggio del giovedì, fiore di paura, peste di ogni partito generoso, però che amarli tu non possa e odiarli affatto nemmeno; piante parasite che si avviticchiano intorno alle gambe del forte per impedirlo e per farlo cadere: arene infeconde, nuvole prive di acqua, cimiterio di ogni sentimento magnanimo, e preoccupati sempre di sè e dei propri comodi sotto lo eterno pretesto di provvedere al bene della patria comune. Privi di quella favilla di senno che Dio concesse a tutti i cuori sicuri, intendono imporre i loro spaventi come leggi, e le trepidanze affannose della paura come consigli di sapienza, e fu a gente di natura siffatta che contaminava in antico la Chiesa di Filadelfia e la causa della religione cristiana nel modo stesso che contamina oggi la Italia e la causa della libertà, che Cristo col mezzo del prediletto Evangelista mandò a dire; — conosco le opere vostre, voi non foste freddi nè caldi, e Dio volesse che foste stati o freddi o caldi, ma perchè nè l'uno foste nè l'altro io incomincio a vomitarvi dalla mia bocca. — Non è quegli che mossi appena i primi passi nella via, si asside sopra una colonna migliara, e accusa gli altri che poderosi lo precorrono, ma sì colui che dura infaticato fino al termine, che otterrà salute: _quis autem perseveraverit usque ad finem hic salvus erit_. La corona della vita non si acquista con Cristo se non che a patto di mostrarci costanti e fedeli: _sis costans ac fidelis et dabo tibi coronam vitae_. Lo entusiasmo è il raggio del sole che concentrato nel vetro emana potenza d'incendiare; se cotesto raggio cessa, il vetro solo rimane cosa sordida e vile. Lo entusiasmo dà l'ale all'anima, e chi glielo toglie, le tronca le penne all'alto volo che levandola da queste terrene dimore l'accosta al cielo. Chi spenge lo entusiasmo uccide l'anima. La quale cosa, se è vera in qualunque condizione della umana civiltà, vediamo poi essere verissima presso i popoli che aprono appena gli occhi dal mortale letargo di lunga, infame, e narcotica servitù, circondato come da un lenzuolo mortuario da tutti i vizi della tirannide, che appena conosce patria che sia, e per diuturna abitudine ha appreso a porre e intelligenza e cuore dentro la borsa. Sì, o Cristiani fratelli miei, in verità io vi dico chi spenge lo entusiasmo sacro uccide l'anima. Allorquando era mestieri propagare le sue celesti dottrine Cristo non pativa attorno a sè camaleonti morali, ma risolutamente dichiarava: — chi non è per me fa contro me — _qui non est pro me contra me est_; — consentaneo in questo a Solone salutato come uno dei sette sapienti dell'antica Grecia, il quale ordinando il governo di Atene messe una legge che dannava allo esilio il cittadino che non abbracciasse in patria un partito. Infatti i partiti non nuocciono alla città finchè sieno preordinati tutti al bene di lei. Le acque stagnanti imputridiscono, le sbattute mantengonsi cristalline e sane, e così degli uomini. I partiti sono come i venti i quali qualche volta imperversano, ma senza di quelli le vele inerti lungo l'alberatura non acquisterebbero mai forza di fare avanzare la nave; e il buon nocchiero odia la calma non i venti, quantunque gagliardi, conciossiachè nella prima venga meno ogni arte, e co' secondi faccia prova d'ingegno. Non vi ha affezione dell'anima, per quanto cara ella sia, che Cristo non abbia sagrificato all'ardente carità che lo infiammava del bene universale: conoscete voi cuore al mondo che come il suo amasse la Madre, e da lui fosse teneramente riamato? E nonostante alla opera della redenzione noi lo vediamo anteporre la stessa sua dilettissima madre. Un giorno ch'egli predicava alle turbe, sua Madre e i suoi fratelli lo chiamarono fuori per parlargli, ma egli rispose: «chi è mia Madre, chi sono i miei fratelli?» — E distendendo la mano sopra i suoi discepoli aggiunse: «Questa è mia madre, e questi i miei fratelli: chiunque farà i voleri di mio Padre ch'è nei cieli quegli mi è fratello, e madre, e sorella.» _Quæ est mater mea et qui sunt fratres mei? Et extendens manum in discipulos suos dixit: ecce mater mea et fratres mei._ Nè già crediate che Cristo ignorasse o dissimulasse le aspre contese che avrebbe dovuto incontrare, le divisioni, le persecuzioni ed il sangue; mai no, o Cristiani: all'opposto a sè e ad altrui manifesta i pericoli del suo divino mandato: «per me, egli favella ammonendo gli Apostoli, per me sarete perseguitati, e verrete in odio alle genti, ma non temete e quello che vedrete nelle tenebre voi palesate alla luce, quello che vi susurro dentro le orecchie voi predicate dai terrazzi, potranno uccidervi il corpo, l'anima no ch'è immortale, e non crediate che io sia venuto a mettere pace sopra la terra, ma la spada: i figli si separeranno dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera, i fanti verranno a contesa co' padroni; coloro che amano padre, madre, figlio e figlia più di me, di me non sono degni.» Una voce bugiarda accusa Cristo colpevole della rovina dello impero romano. Prima di tutto io vo' che sappiate, o fratelli Cristiani, come la distruzione di questo immane edifizio di violenza e di rapina non fu male: ma però siffatta accusa non è vera. Lo impero romano precipitò sotto il peso del furore del mondo, e corroso dai suoi delitti e dai vizi. Guai a noi se nella immane rovina che sparse di frantumi le parti più remote della terra non si fosse inalzata la Croce simbolo di salute come l'Arca dell'Alleanza fra le tenebre e le onde del diluvio universale. Il potere della spada era rotto, i barbari parvero lupi convenuti da tutto l'universo per divorare la preda; rabbia, vendetta, sete di sangue erano i venti che agitavano procellosamente cotesto mare d'ira... ora dove saremmo noi se i miti consigli dello Evangelo non avessero prevalso? Chi domò il Goto? Chi mansuefece il Normanno? Chi respinse l'Unno? La spada romana o la Croce di Cristo? Contemplate il Sicambro che tutto asperso di polvere cruenta scende nella sacra piscina; i gradini sotto i suoi piedi traballano, le acque del battesimo grondandogli dal corpo diventarono vermiglie — egli sembrò battezzato entro un lago di sangue: — non importa: di belva diventò uomo — di tormentatore fratello degli uomini. — Chiunque sostiene che lo Evangelo abbia virtù di avvilire i cuori mentisce alla Storia. — Fu codardo santo Telemaco che si precipitò nel Circo Romano in mezzo ai Gladiatori combattenti gridando le Creature di Dio non doversi trucidare per infame diletto? E perchè tutti io restringa in uno, codardi furono quei valorosi cristiani che da cento mortalissime punte trafitti, divelta la lingua, ardirono intingere il dito nel proprio sangue, e tracciare agonizzando sopra il terreno il segno della salute? Cristo rese le vergini innamorate delle palme del martirio assai più che della ghirlanda di fiori di arancio — simbolo di nozze terrene. Cristo convertì i fanciulli in eroi. Forse le battaglie combattute per la fede temono paragone di qualsivoglia battaglia pagana? La gesta di Giovanni Sobieski sotto le mura di Vienna non emula la battaglia di Canne? La impresa di Lepanto non può andare di fronte con Salamina? Se Curzio i pagani vantano e Codro, e noi abbiamo Pietro Micca torinese, e Bianchini parmense. Se i pagani si gloriano di Camillo, e noi del Principe Eugenio, se di Fabio e noi del Montecuccoli fortunato trionfatore del Turena, e cristiano fu quegli che vinse e superò tutti, Cesare, Annibale, Scipione, e quanti altri mai vissero capitani famosi nell'antichità — Napoleone! La sua aquila imperiale, e molti tra voi che mi ascoltate bene lo ricordano — la sua aquila imperiale si fermò in questa isola nobilissima per riposarsi un momento le ali affaticate e rifare le forze a nuovo volo, che fu l'ultimo. O Napoleone, quando tutti ti abbandonarono — e il figlio ti languiva lontano, e la consorte faceva getto del superbo vanto di avere cinto nelle sue braccia colui che aveva abbracciato il mondo — peso troppo grave per lei, — e la memoria degli uomini ingrati ti pungeva il capo come gli spini della corona di Cristo — Cristo ti si posò accanto sopra la coltrice deserta, conciossiachè egli visiti quando tutti disertano. O Napoleone, perchè mai vivendo non rammentasti più Cristo? Con la tua maravigliosa potenza di salvare quale fu il dono che facesti agli uomini? — La tomba. Tu fosti grande finchè la tua spada fiammeggiando simile alla nuvola di fuoco che precedeva gl'Israeliti nel deserto, precorse gli uomini sul sentiero della libertà, ma quando mordesti le mammelle che ti avevano allattato, quando convertisti le creature di Dio in isgabello dei tuoi piedi... ah! come cadesti basso, o stella matutina. Gli Angioli piansero vedendo il cielo vedovato da tanto splendore e tenebre fitte si diffusero sopra la terra. Napoleone fu l'ultima possibile espressione della potenza assoluta. Se i lauri gloriosi non bastarono a celare il taglio e il sangue della sua spada dispotica, come avrebbero potuto regnare tiranni astuti con la ferula del pedante? Colà dove vennero meno gli echi del ruggito del lione, avrebbe potuto durare lo schiattire di volpi coronate? — Guardate; — io vi dico guardate: il lampo che fende le tenebre e sparisce, il ruscello che sviene tra i sassi nei giorni del sole, la fronda inaridita staccata dall'albero dal primo fiato dello inverno, non somministrano paragoni bastevoli a darci idea della facilità con la quale un popolo grande cacciò via lo ignobile personaggio che alla magnifica legge della universale carità e dello amore di Cristo sostituì i calcoli di un vile e privato interesse. Oh! io non avrei mai creduto che un potente della terra, un uomo che portò corona potesse cadere tanto basso. Il popolo lo cacciò via con minore sdegno di quello ch'ei si faccia allontanando da sè una vespa importuna. La monarchia in Francia cessò come lo anelito esile dello agonizzante ottuagenario. Possano i tiranni dei Popoli, seppure di ora in poi qualcheduno altro osasse levarsi a contristare la Creatura di Dio, lasciare esempio non meno abietto e miserabile di lui. Ecco il preteso senno, ecco gli accorgimenti, e le coperte vie a che cosa menino! Le astutezze stanno co' vili e con esse paure, tradimento, e rovine, la lealtà sta co' forti e con essa fiducia, benevolenza, ed esaltazione. Non date ascolto ai sofismi della vana scienza, divino guidatore di popolo è colui che la mano sul petto, gli occhi al firmamento, lo conduce a magnanimi destini. Mi accosto tremando alla fine di Cristo. Voi vedeste com'egli figlio del popolo nascesse, come predicasse, come perdonasse, e punisse, come per la sua dottrina combattesse, e pegno di salute ai viventi lasciasse.... ora tutte le nostre virtù raccogliamo intorno al cuore e contempliamo la morte di Cristo. Fra la intelligenza e la ignoranza e la mediocrità immensamente più trista dell'assoluta ignoranza, tra la bruttezza e la bellezza, tra i codardi e i magnanimi corre uno astio roditore, una guerra d'istinto per cui i mediocri, i brutti e i codardi odiano a morte gl'intelletti divini, i venusti di forma, e i generosi. Non cercate altra causa alla infame persecuzione, che lo fareste invano. Cristo giacque vittima come infiniti grandi uomini giacquero, e come forse altri incliti personaggi giaceranno vittima della invidia. Nessuno uomo morì come lui. Socrate non può venirgli paragonato a gran pezza. Socrate non fuggì la morte; ma Cristo le andò incontro. Socrate fu consolato dai suoi discepoli, e si trattenne con sapienti colloqui con Platone e Senofonte; Cristo era tradito da Giuda, rinnegato da Pietro. Ahimè! la stirpe dei traditori non è anche spenta, anzi questa mala erba del Diavolo vegeta poderosa nei cuori umani e va crescendo. Gli odierni traditori superano gli antichi. Giuda antico gittò lo infame prezzo e disperato salì l'albero fatale, i Giuda di oggi esultano, e il prezzo del tradimento conservano e tengono caro. — Giuda Scariotta pentivasi, i traditori nostri lamentano che manchi loro materia a nuovi tradimenti. Giuda vendeva Cristo trenta danari, i nuovi traditori venderebbero trenta Cristi per un danaro solo. Socrate ebbe morte pacata: la tazza della cicuta era cinta di rose come la tazza dello allegro convito, Cristo durò morte obbrobriosa, e così piena di atrocissimi spasimi che all'anima nostra ne viene ribrezzo. Socrate rampognò superbamente i suoi Giudici, sè jattava uomo troppo migliore di loro, sè vantava salutato da Apolline come il più giusto dei mortali: non così Cristo: egli non redarguisce nessuno, non muove querela, non ostenta costanza. Di Giuda gli bastò dire: — meglio era che costui non fosse mai nato! — A Pietro si contenta volgere gli occhi gravi di amarezza. A Pilato che lo interroga se confessi lui essere figlio di Dio risponde modestamente: — tu lo dici — _tu dicis_. Per coloro che lo martoriano, lo avviliscono, e uccidono prega: _perdonate Padre a costoro, però che non sappiano quello che si facciano_. Venite, o Cristiani, seguitiamo i passi di Cristo sopra il Calvario: coronato di spini pungenti; pesto da molte migliaia di percosse; sotto la sferza del sole, e il peso della croce salisce sul Golgota; ogni passo ei segna con una stilla di sangue; le pulsazioni del cuore appaiono anche di sopra la sua veste vermiglia; con la bocca anela tremendamente, e dalle narici gli esce l'alito fumoso; cade sotto il peso; se lo rialzano non è per pietà, ma per imporglielo nuovamente addosso, e per costringerlo ad avvicinarsi al supplizio: chiede un sorso di acqua... gli è rifiutato, supplica refrigerio alla ombra della casa di Asvero, ed è rispinto. O Cristo, tu bene ci avevi insegnato nessuno essere profeta in casa sua, ma questo è troppo! — Eppure non è tutto! Giunto al Calvario lo spogliano, e sopra le sue vesti gettano la sorte, pongono sul patibolo uno scritto di scherno e d'infamia, conciossiachè ai tristi non basti rendere gli uomini infelici ma vogliano eziandio renderli infami; compagni di pena gli danno due ladri, e già gli avevano preferito Barabba; con aceto e fiele il dissetano, lo inchiodano, lo trafiggono. — Ahimè! torciamo lo sguardo spaventato da tanto strazio... Ch'è questo gran Dio? — La terra commossa traballa. — il sole vela la sua faccia — il velo del tempio si spezza — i morti balzano fuori dalle antiche sepolture, e strascinandosi dietro i funerei sudari per l'aperta campagna traggono lamentevoli ululati... In mezzo a tanto terrore ove cercare scampo alcuno di salute?.. Volgiamoci di nuovo al Calvario. O spettacolo portentoso di pietà e di grandezza! O come Cristo non sarà la religione degli uomini finchè gli uomini avranno un cuore che si commuove alla magnanimità, e alla sventura? Venite e vedete questo spettacolo: in mezzo alle tenebre profonde che ne circondano, esso splende illuminato dall'aureola di luce che incorona il sacro capo di Cristo; — egli sta sul patibolo dove ascese per confermare la sua dottrina di redenzione più glorioso di Salomone sopra il suo trono. A piè della Croce da un lato comparisce sua Madre Maria; dall'altro il suo amico Giovanni. La Madre trafitta il cuore come da spada non fa motto, non versa lacrima, non agita neppure le labbra; sembra trasfigurata dall'angoscia; — tutto il suo corpo è una fibra spasimante, ma l'amore materno vince la natura, e resiste alla immensità dello affanno; — per ora ella non vuole soccombervi sotto, — più tardi si darà in balìa del dolore come il naufrago si abbandona alla soverchiante onda dell'Oceano; adesso comunque fulminata sta in piedi, affinchè l'occhio morente del figlio si posi sopra una sembianza amica, e nello estremo punto del vivere suo non gli manchi questo supremo conforto. Come Maria dà esempio del quanto possa l'amore materno, tu San Giovanni, dimostri ove giunga la santa amicizia. Te non commosse il ludibrio delle genti, te non turbò il pericolo presentissimo di chiamarti amico del condannato Cristo, lo accompagnasti sul patibolo, e ti ponesti sotto la croce come in luogo di gloria per ricevere sopra il capo il sacro sangue e le ultime parole del divino maestro. — Qual'è l'anima che a spettacolo cosiffatto non si dissolva in pianto? Amore di umanità, amore di madre, amore di amico qui noi vediamo effigiati fino al punto in cui la umana natura venendo meno, la divina incomincia. E noi, o Cristiani, sempre fissi sopra cotesta Croce, imitiamo Cristo. Dai tetti, su per le piazze per noi si bandisca la legge della libertà, della fratellanza, e dello amore. La lampada accesa per illuminare le genti non deve rimanersi celata sotto il moggio, ma splendere luminosa sopra il candelabro; combattiamo per lei; per lei sappiamo morire. Imitiamo Giovanni il fedele amico, che in mezzo alle minacce, ai vituperii, e ai pericoli rende testimonianza di amicizia, — connubio divino delle anime, — fino sotto al patibolo. E voi italiane madri imitate... ahimè! che dico io? il mio cuore non ardisce pensarlo: le mie parole svengono sopra l'estreme labbra e non si attentano proferirlo... troppo... ahi! troppo è dolore confortarvi ad imitare Maria.... Come, povere Madri, potrete voi sostenere la vista delle viscere vostre dilettissime lacerate? Come lo strazio del dolce figlio che le mammelle vostre nudrirono, che con tanti affanni educaste? Come la morte di colui che doveva bagnarvi la bocca nella ultima ora, e chiudervi gli occhi in pace, — oh voi nol potete... Ma ecco alla accesa fantasia si presenta un'immagine di donna desolata avvolta in nero ammanto, pallida in vista che poco è più morte; essa non grida, e non piange: ma tiene la faccia sopra una urna che stringe nelle mani tremule; i cherubini dalla spada fiammeggiante, posti da Dio alla guardia dell'Eden dopo il bando dei nostri padri peccatori, la sollevano da terra, e la trasportano fremendo al trono dello Eterno, — le cime dei boschi piegano come per bufera, l'aria rotta dalle penne spaventose manda dietro un suono come di lamento — la natura geme; giù in terra lungo le sponde dello Eridano cento altre desolate, sciolte le chiome, palma battendo a palma, levano le braccia al cielo e supplicano che la rapita dai Cherubini presto giunga al Trono dello Eterno. Chi è colei? Chi sono esse? Ella è la regina del dolore; ella è la Niobe cristiana; ella è la madre vedovata di tutti i suoi figli... piangete o Cristiani, piangete o Madri... ella è la Madre dei Bandiera che va a deporre davanti al Tribunale di Dio le ceneri dei suoi figli. Costoro sono le Madri lombarde.... ahi! non più Madri per virtù del ferro straniero.... e insieme unite domandano non vendetta per loro, sibbene misericordia dal Padre dei viventi, affinchè alle madri italiane cosiffatte ambasce non si rinnovino. Fuori le belve feroci dalle belle contrade! Fuori, barbari dai pensieri di rapina, e dalle mani sanguinose! — Fuori i barbari fu il grido di Giulio II e adesso lo sia di Pio IX. Esultate! la misura dell'ira di Dio fu trovata colma di lacrime e di sangue. Esultate! le vostre prove, o fratelli, finirono — imperciocchè qui fosse imitato Cristo, qui Giovanni, qui le Madri i dolori della Madre Maria sopportassero. — Il giorno del riscatto è vicino. — Gloria a Cristo redentore padre degli uomini liberi e felici. Amen. FINE. Quando la mano di Dio scrive nel volume della Storia dei popoli, gli eventi corrono con le penne del fulmine. Le madri lombarde a questa ora ebbero vendetta, e la madre dei Bandiera placata abbraccia adesso nella schiera dei martiri le anime de suoi figliuoli, diventate cittadine dei cieli. NOTE: [1] Il cavaliere don Paolo dei Pelliccioni fu famosissimo bandito di cotesti tempi: le sue avventure e il suo fine sono tali, da formare argomento di tremenda tragedia. [2] Filippo il Macedone avendo ricevuto in un giorno stesso le notizie della nascita del figliuol suo Alessandro, della vittoria dei suoi cavalli nei giuochi olimpici, e della rotta data da Parmenione agl'Illirii, esclamò: «O Giove! dopo tre grandi contentezze piacciati mandarmi qualche disgrazia leggiera». _Plutarco_ in Alessandro. [3] Che la passione veemente dell'anima faccia forza al corpo impedito ed ostruito non pure per caso, ma per natura altresì, la storia ce ne somministra nobilissimo esempio nel figliuolo di Creso; il quale, quantunque muto per natura, vedendo un soldato di Ciro in procinto di ammazzare suo padre, recuperò ad un tratto la favella, e disse: «Ferma, soldato, tu uccidi Creso». _Erodoto, Storie, Lib. I, 85._ [4] Riccardo Cuore-di-leone, quando fu morto suo padre Enrico II, che lo aveva maledetto, si fece a contemplarne il cadavere. Giuntogli appresso gli scoperse la faccia, e s'inginocchiò accanto al letto per recitargli sue preci; senonchè appena ebbe appoggiata la testa ai lenzuoli si levò in piedi, uscì precipitoso dalla stanza e non comparve più. _Thierry, Storia della conquista dei Normanni tom. 3. p. 170._ [5] Questa fu sentenza di Cristoforo Colombo; e mentre così diceva non iscopriva l'America. [6] Nell'alchimia gli esperimentatori proponevansi due fini: quello di trovare l'oro, e l'altro di rinvenirlo potabile, il quale avesse virtù di ringiovanire e prolungare la vita. Il fatto del vaccaio di Sicilia, che ai tempi del re Guglielmo trovò sotto terra un fiasco di oro potabile, e bevutolo tornò giovane, viene referito da Rogero Bacone. _Opus maius_, p. 409. I Templari si proponevano simbolicamente la ricerca del _graal_, o coppa di oro, che raccolse il sangue di Gesù Cristo, la quale aveva due singolari virtù: di prolungare di 500 anni la vita a coloro che la guardavano, e di far morire quelli che vi si accostavano, meno i fanciulli. _Michelet, Storia dì Francia, tom. 3. pag. 130._ [7] Intorno all'arguzia di esercitarsi a sostenere il tormento della corda per non confessare il delitto leggasi il seguente curiosissimo caso, accaduto nel secolo stesso in cui cadde il fatto dei Marchesi Massimi; anzi pure in questa, medesima via Ghibellina, dov'è posto il Carcere delle Murate; dentro il quale, mercè il senno e la bontà altrui da parecchi anni dimoro: «Intorno all'anno 1570 viveva in Firenze un nostro concittadino chiamato Vincenzo di Zanobi Sarselli in apparenza buona persona, benchè come dimostrò la esperienza nutrisse nell'ànimo pensieri diabolici; dissi in apparenza buona persona, perchè udii già dire da un vecchio detto Giulio Ruoti, che circa 25 anni sono morì di età di più di 80 anni, che lo haveva molto ben conosciuto, frequentava le compagnie particolarmente quella di San Niccolò, detta del Ceppo, nella quale (per quanto diceva il medesimo Ruoti) il Sarselli mai non entrava se non si poneva in ginocchioni a ginocchi nudi, siccome nelle pubbliche processioni voleva essere quello, che portava il crocifisso; insomma faceva ogni estrinseca, et apparente divozione di pietà, et anco ho sentito da persone degne di fede, ch'egli da giovine si trattenesse in bottega di un mercante d'arte della lana nella quale s'impiegavano in quei tempi le persone civili, e ben nate. Con tale occasione s'intrinsecò familiarmente in una stretta amicizia con un giovane parimente lanaiolo chiamato Matteo di Bartolommeo Santini persona civile, e di buona gente. A questa coppia si aggiunse per terzo un homaccetto di bassa estrazione, il nome e cognome del quale non ho potuto rinvenire, ma persona di mezza tacca, come dire donzello, o servente di uno dei nostri magistrati, o simile; e però dovendolo io più volte nominare nel progresso di questo discorso lo chiamerò lo Incognito. Trovandosi dunque del continuo insieme questo terzetto di amici a cene, a giuochi, in casa di femmine e altrove, sì come in tutte le allegrie di spesa, che essendo eglino poveri compagni non solo con tenue patrimonio, ma piuttosto di quelli, che vivevano con la propria fatica, et industria: questo modo di vivere gli messe nella necessità dopo qualche tempo di pensare, non avendo essi come potessero fare, a valersi di quello di altri per continuare nella loro dissoluta vita. Onde il Sarselli, ch'era tra loro il più vecchio, e di maggiore autorità, una volta, che uno di loro si lamentava di non havere denari disse: a chi ha cervello non mancano mai denari, a me non ne sono mai mancati, e non ne mancheranno ancora a voi, se farete a mio consiglio, et interrogato da loro del modo di trovare con tanta facilità, con la qualità dei discorsi si aperse loro liberamente essere già un tempo, che egli quando in un modo, quando in un altro, industriosamente involando ad altri quello, che gli bisognava non solo per la necessità, ma per le voglie, e capricci ancora, e per mostrare, che ciò non fosse errore, o almeno molto leggero, come quello, ch'era un bel parlatore e pronto di lingua aggiunse a loro il seguente discorso: — Iddio e la natura che fanno ogni cosa bene, e niente operano indarno hanno messo in questo mondo per benefizio, e comodo del genere umano questi bene detti di fortuna perchè chi si ha di bisogno se ne pigli, e quelli, che si hanno più di noi non gli hanno per altro, se non perchè essendo stati più valenti uomini degli altri si sono presi la loro parte, e la nostra, di maniera, che il privarli di qualche particella non è torre loro, ma egli è bene il modo di tornare a riavere qualche cosa del nostro. — Con questi et altri discorsi mettendosi la cattività in ischerno fece a poco a poco sdrucciolare nella infamia et in un mare di scelleraggini quei due poveri giovani, i quali perduto in tutto e per tutto la faccia, e la vergogna assuefacendosi a poco a poco a torre quello degli altri, e passando dalle bagatelle alle cose grandi, e dalle grandi alle maggiori, divennero i più fini ladri del mondo, nella quale perfidia, e mal modo di vivere imperversarono tanto, che tutti alfine, chi in un modo, chi in un altro, si ruppero finalmente il collo. Era il Sarselli tristo, e come tale, considerato quello, che a lungo andare gli poteva intervenire, per armarsi ad ogni colpo di avversa fortuna fece un giorno ai suoi compagni il seguente ragionamento: — Non è dubbio, fratelli, che se i birri non guastassero, quello che abbiamo tra le mani non sarebbe il più bel mestiere del mondo, ma perchè tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino; io stimo necessario per regola di buon governo lo andarci preparando a tutti quei travagli, che noi possiamo verosimilmente incontrare per poterci in ogni caso schermire dai pericoli, che portano seco quell'imprese, che noi giornalmente intraprendiamo, e per dichiararmi meglio voglio dire, che non sarebbe gran fatto, che una volta, o alcuno di noi desse nella rete, o parlasse in prigione; in questo caso bisogna darci ad intendere di avere ad essere trattati con quei rigori, che è solita la Giustizia con i delinquenti, e perchè ho sentito dire, che la corda è la regina dei tormenti, et il più comune et usato mezzo del quale la Giustizia si serve per cavarne dei rei la confessione dei loro delitti, sarei di parere, che noi sperimentassimo una volta in noi medesimi questa sorta di patimento per potere poi in ogni caso resistere, e salvarci, e quando a voi paja di applicare a questo consiglio, e di metterlo ad esecuzione, io ho un luogo assai comodo e facile in casa mia dove se io non voglio non può entrare altri, che me: qui di notte tempo entreremo provvisti degli ordigni necessari, e senza che nessuno possi osservarci eserciteremo le nostre persone in questo cimento. — Piacque questo consiglio al Santini et allo Incognito et non andò molto tempo, che lo misero in pratica, perchè adunati una notte in casa del Sarselli, che abitava in quel tempo in _via Ghibellina_ in una casetta (credo di certo Menchi) posta quasi allo incontro di via Buonfanti ove era una cantina assai solitaria separata dall'abitato della casa, ov'egli aveva accomodato una carrucola con il suo canape ad una campanella di essa volta, e quindi ritirati loro tre soli a qualche ora stravagante della notte spartirono le cariche facendo uno da Giudice esaminatore, uno da reo, e l'altro faceva da famiglio, e tirava su e teneva il canape al quale il reo era attaccato e sospeso, e così cangiando ogni sera ciascuno di loro lo uffizio toccava una volta per uno a fare tutte le sue parti. Questo esercizio ebbe per alcuno di loro un fine molto diverso di quello, che essi supponevano, perchè osservando il Sarselli, che lo Incognito non reggeva al cimento con la medesima forza, che reggevano gli altri, gridò una notte per la impazienza del dolore mentr'egli lo teneva sospeso per la corda: — calatemi, che io lo dirò — il Sarselli mentre, che a poco a poco lo calava dato di occhio al Santini, il quale faceva da esaminatore, posto che fu lo Incognito in terra fingendo sciorgli le mani dalla fune gliel'avvolse al collo, e con lo aiuto del Santini lo strangolò, e lo avvolsero in un pezzo di rascia, e postolo uno di loro sopra le spalle, e l'altro facendogli scorta, camminarono di buon passo per la via dei Buonfanti, e lo portarono nei chiostri di Santa Croce, ch'è tra la chiesa, e il convento, e corrisponde alle scalere, giacchè la porta di quel chiostro stava in quel tempo tutta la notte aperta, e quivi entrati posero quel cadavere così involto in una delle sepolture, che sono nel medesimo cimitero, e poi serrata la detta sepoltura se ne tornarono alla casa loro con la medesima quiete come se fossero tornati da una cena etc. etc. Arrestati per sospetto, e torturati, Sarselli tenne fermo, Santini confessò, allora anche il primo dopo avere patito nuove torture palesò ogni cosa; — furono impiccati ec.» _Morbio, Storia del Municipii Italiani_ — Firenze — pag. 29 e segg. [8] Gl'Inglesi avevano già incominciato ad usare di questa bevanda, chiamata _acquavite_ o _acqua arzente_, nella guerra dei Paesi Bassi nel 1581, dandola ai soldati per infondere loro coraggio, e confortarli dai fastidii e dai danni ch'essi pativano a cagione della umidità. [9] Il mal caduco, o epilessia, chiamavasi in cotesti tempi _benedetto_, ed anche _mal comitale_. [10] _Descuret_ nella _Medicina delle passioni_, al Titolo delle passioni dominanti, narra di uno avaro caduto in frenesia, guarito da Celso mediante lo annunzio di molte successioni ereditate; — _e di una avara caduta in letargia rinvenuta per virtù di uno scudo nuovo messole in mano_; — finalmente di uno avaro in istato di _coma_ da ventiquattro ore, rinvenuto udendo il rumore della scrivania aperta dai figliuoli, onde trarne danaro per le spese. [11] Coll'opera di una moltitudine di schiavi fecero a forza voltare il corso del _Busentino_, piccolo fiume che bagna le mura di Cosenza. Nel letto vuoto scavarono il sepolcro reale, empiendolo con le splendide spoglie e i trofei di Roma: quindi si fecero tornare le acque nel nativo canale e restò per sempre celato il segreto posto in cui fu depositato il cadavere di Alarico con la inumana strage degli schiavi che si erano impiegati nello eseguire questa opera. — _Giornandes, De reb. Getic. c. 30 p. 634_, citato da _Gibbon, Storia della decadenza dello Impero Romano_. [12] Questo esempio di tremenda ipocrisia non è solo nella storia degli uomini. Giovanni senza paura, duca di Borgogna, fece ammazzare a tradimento il duca di Orleans; ed alle sue esequie teneva un lembo del tappeto mortuario, e piangeva con gli altri. — _Michelet, Storia di Francia, tom. 4. pag. 160._ [13] In Livorno fu un pinzochero ignorante, il quale confortava il padre moribondo con queste parole: «Lei, signor padre, pensi a morire, che io penserò a mandarla in paradiso.» Infatti egli logorò il suo patrimonio in messe e funerali, e morì povero lasciando i figliuoli mendichi. — È nota in Toscana la storia dello Ammannato, celebre scultore fiorentino, il quale, facendo il calcolo di vivere fino ad una certa età, si serbò tanto da campare da par suo, e l'altro suo avere donò ai reverendi Padri Gesuiti. Ora i suoi calcoli andarono falliti, ed egli si trovò a vivere oltre la previsione. I Padri donatarii non aborrirono, secondo l'antico loro costume, di lasciarlo andare mendicando per le strade, dove levava una voce di lamento, che diceva: «_Date un quattrino al povero Ammannato — A cui mancò la roba, e crebbe il fiato._» [14] Anche di recente lessi sopra i giornali casi di ustione spontanea per ebbrezza. _Lavi, Monografia ec._ racconta il seguente fatto. — Nel 1828, a istanza del Commissario di Polizia, visita nella sua qualità di medico una vecchia di 65 anni, perdutissima a bere liquori spiritosi. La stanza esalava fetore empireumatico, i vetri delle finestre erano di un colore più o meno rossastro, i muri coperti d'acqua crassa; — il cadavere era ridotto ad una massa informe carbonizzata, come un pane da quattro libbre; il petto e l'addome erano spariti, l'estremità eransi appressate alla testa, la quale toccata appena andò in cenere; la cuffia era intatta. Cotesta femmina soleva bere un litro di acquavite, e due bottiglie di vino al giorno; e non era troppo. — Il subito trapasso da un'alta ad una bassa temperatura è motivo di subitaneo sviluppo della combustione. [15] Questa ultima parte di predica udii io stesso; e non può negarsi che il buon frate non adoperasse lo epiteto di _pentita_ alla mano, con più sagacia del Minzoni nel sonetto «Quando Gesù con l'ultimo lamento» (famoso _nelle scuole dei reverendi Padri Gesuiti_) là dove dice: «Con la _pentita_ man fe' strazio ed onte». — Rincresce veramente nel vedere come quel grande intelletto di Ugo Foscolo si confonda a criticare la _pentita man_ del povero Minzoni: pare Domiziano, che si sollazzi ad uccidere le mosche col romano pugnale. [16] Questa lettera, e le sette che seguono, mancano nell'originale della data. [17] Nell'originale la lettera manca della data; ma sopra di essa vi è il bollo dell'ufficio postale di Firenze, in data del 14 settembre 1859. INDICE PREFAZIONE Pag. 5 La vendetta paterna § I. Orazio, come tutti i personaggi di romanzo, prima ricusa a raccontare, e poi racconta; però che diversamente non si stamperebbe la storia » 21 § II. Le Terzettate » 25 § III. La Maledizione » 36 § IV. Don Marcantonio Massimi » 40 § V. Don Luca Massimi » 49 § VI. Don Mario Massimi » 79 § VII. Don Severo Massimi » 90 Lettere inedite A Ferdinando Bertelli » 115 A Ersilia Bertelli sposa » 116 A Teresa Bertelli nata Guerrazzi » 119 A Ersilia Bertelli » 120 A Teresa Bertelli » 122 A Ersilia Bertelli » 126 A Ferdinando Bertelli » 128 A Emilia Bertelli » 130 A Ersilia Bertelli » 132 A Ferdinando Bertelli » 133 A Ersilia Bertelli » 135 A Teresa Bertelli » 138 A Ersilia Bertelli » 138 A Ferdinando Bertelli » 141 A Teresa Bertelli » 143 A Ersilia Bertelli » 145 A Teresa Bertelli » 146 A Ferdinando Bertelli » 147 A Ersilia Bertelli » 149 A Ferdinando Bertelli » 160 A Ersilia Bertelli » 161 A Emilia Bertelli » 168 A Ferdinando Bertelli » 170 A Ersilia Bertelli » 177 A Ferdinando Bertelli » 180 A Cesare Stiavelli » 186 Predica per il Venerdì Santo PREFAZIONE » 193 Predica per il Venerdì Santo » 197 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VENDETTA PATERNA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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