Title: Linguaggio e proverbi marinareschi
Author: Emanuele Celesia
Release date: January 25, 2015 [eBook #48070]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
Credits: Produced by Giovanni Fini and the Online Distributed
Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was
produced from images generously made available by The
Internet Archive)
NOTA DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di punteggiatura e di stampa.
—La copertina è stata creata dal trascrittore usando il frontespizio dell’opera originale; l’immagine è posta in pubblico dominio.
—L’indice non è compreso nell’opera originale; ne è stato prodotto ed aggiunto uno a cura del trascrittore.
E
PROVERBI MARINARESCHI
PER
EMANUELE CELESIA
GENOVA
TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI
1884
——
Proprietà letteraria
——
UN grido egli è questo che omai dovrebbe erompere dal cuore d’ogni Italiano, a cui la dignità della patria non sia un nome vano senza soggetto.
Cieco chi non ne vede le prepotenti ragioni; sciagurato chi, pur veggendole, non s’adopera con ogni nerbo nell’onorato proposito.
Cui tolto è il fare, concorra almeno coll’opera della eccitatrice parola.
Poco io t’offero, o leggitore, e per giunta, merce stantia; ma gli è quanto io possa, non dirò già di meglio, ma di men reo.
——
SULLA costa orientale a poche miglia da Genova, siede murata sul mare, Camogli, terra operosa e ricca se altra fu mai. È munita di un porto che guarda verso ponente, e d’un molo ove si ormeggiano le navi, e che lo ripara alcun po’ dalle folate de’ venti. Quando soffiano impetuosi i rifoli di tramontana e di greco, impedendo ai legni l’approdo di Portofino e di Genova, e’ trovano in questa stazione un ben sicuro ricetto.
Il nome de’ Camogliesi e il loro ardimento son noti e celebrati per ogni dove. Niuna città meglio di questa Amalfi novella seppe comprendere la forza che viene dall’aggregare i piccioli capitali a compiere grandissime imprese. Su queste prode, ove sortiva la culla l’eroico Nicoloso da Recco, vive il tipo dei più intrepidi marinari ch’abbiano mai solcato l’oceano. E non gli uomini soltanto hanno i flutti in conto di vera lor patria, ma le donne istesse fan talmente a fidanza col mare, da crederle non degenere seme di quelle Liguri antiche, di cui diceano i Romani—aver esse l’ardimento degli uomini, come gli uomini la vigoria delle fiere.—
Udite memorabile caso. Correva il 24 aprile del 1855, e il Cresus, vascello inglese portentoso per l’ampiezza delle sue forme, carico d’armi e di salmerie destinate all’esercito che combatteva in Crimea, riparava, balestrato dalla tempesta, nell’acque di San Fruttuoso. Fischiava il maestrale, così fiero ne’ nostri rivaggi, il quale sforzando le gabbie, i trevi, la randa e la trinchettina, rendeva impossibile il governo della nave. Invano i marinai davano opera ad arridare sartie e stragli, a ghindare alberetti di[9] gabbia, a stendere le velaccie, le velacine, i coltellacci e gli scopamari; ogni lor prova era vana. Ben aveano cignato i palischermi, trincato l’albero di rispetto, tesato le manovre correnti e mainato le grandi antenne per issar le vele di fortuna; il mare infuriava più minaccioso, e il povero legno, presi tutti i terzaruoli e archeggiando di bolina, vedeasi quasi perduto. In così fiere distrette una voce tremenda fra il sibilo degli aquiloni e lo scrosciar delle vele s’udì echeggiare sulla tolda—Il fuoco! Il fuoco!—E una colonna di fumo tra i cui vortici scoppiettavano innumerevoli scintille, dava indizio certissimo che le fiamme eransi appiccate alla nave. Si ebbe sul primo speranza che l’incendio potesse venir tosto domato dai potenti ingegni ond’era fornito il naviglio; infatti si pose mano alle trombe, affaticandosi in mille guise i marinai a soffocare le fiamme. Ogni sforzo dovea cadere infruttuoso. Le vampe ringagliardite dalle rafiche di tramontana guizzano su per le sartie sino al calcese, e fanno impeto in ogni parte del ponte; cade incenerita l’attrezzatura degli alberi e delle vele, e in più luoghi l’istesso cordame già sta per ardere; l’opera dell’uomo omai torna impotente[10] contro quella furia divoratrice, che con mille lingue di fuoco slanciasi ovunque. Le strida, gli urli, i clamori vanno alle stelle.
Cadeva la sera. Al tetro baglior delle fiamme riverberate sui flutti, vedresti i marinai estereffatti gittarsi ne’ palischermi, e allontanandosi a voga arrancata, far prova di superare le ondate smaniose e afferrare le sponde; ma invano pur troppo; che grossi marosi venendo lor sopra gli tranghiottian negli abissi.
Gli uomini di San Fruttuoso discesi sul lido contemplavano intanto l’orrendo spettacolo e fremendo di rabbia stracciavansi i capelli, per non veder modo a portar soccorso di sorte alcuna a quelle vittime dell’acqua e del fuoco. I più animosi erano bensì corsi a sferrare i loro burchielli, e gittatisi in essi aveano tentato, punzando sui remi, di rompere l’impeto de’ cavalloni furenti; ma, eccoti, scostati appena dal lido, onde gigantesche spinte da fiero rovaio, rovesciarsi sui navicelli e affondarli. Taciti e con le pugne serrate i superstiti guardavansi in volto, e talora una fiera bestemmia irrompeva dalle lor labbra, per non poter dimostrarsi, quali erano veramente, gagliardi di cuore; quand’ecco scivolar loro dinanzi,[11] quasi aereo fantasma, un leggiero schifetto, che ora elevandosi sulle creste de’ flutti, or ruinando ne’ cavi gorghi, traeva alla volta di quel gigante dell’acque, omai converso in un ardente vulcano. Al sinistro lume dell’incendio vedeansi in questa saettia due giovani donne, che con robusta mano battendo dei remi, parea comandassero ai flutti; correndo a golfo lanciato s’appressarono al Cresus, e quasi prendessero a scherno i vortici delle fiamme irrompenti e la furia dell’onde, agevolarono a molti de’ naufraghi un modo di scampo. Maria e Caterina Avegno si è il nome delle liguri eroine. L’infelice Maria, più l’altrui che la propria salvazione curando, lasciava in quei pelaghi miseramente la vita[1].
Pochi istanti appresso, la nave più che a mezzo combusta, girando in globo sopra se stessa, inabissavasi nelle profondità del mare.
Su queste rive, e proprio in Camogli, viveva nel 1859 Emilio Schiaffino, che reduce da lontani viaggi, traeva in onesta agiatezza, frutto di lunghi traffici marinareschi, i suoi giorni. Toccava allora i cinquant’anni d’età, ma forte e spigliato di membra, abbronzato dal sole de’ tropici e sciolto ne’ modi, era, sotto ruvida scorza, la miglior pasta d’uomo che mai. I marinai di Camogli, di Recco, di Santa Margherita e di Rapallo lo avevano in conto del più sperto capitano di nave de’ tempi suoi; a lui facean capo ne’ casi di grave momento, lui consultavano prima d’avventurarsi in qualche viaggio ed eleggeano arbitro nelle quistioni delle stalie, delle carature, delle avarie e de’ noleggi che talora sorgeano: e gli armatori non ponean mano alla costruzione di un naviglio qualsiasi, se innanzi tutto e’ non ne avesse giudicati per buoni i disegni, l’attrezzatura e perfino il legname.
Non eravi uomo da quanto lui per conoscere il mare. Lo si vedeva quando il cielo[13] buttavasi al tristo, incamminarsi lungo le prode e fiutar la tempesta. Che è quel punto nero là in fondo? È una nave che lotta disperatamente co’ flutti; è uno schifo peschereccio che non può arrivare la spiaggia. E tolti senz’altro con se due compagni, e talora anche solo, saltava sul primo guzzo che gli dava tra i piedi, staccavane il canape, e abbrancati i remi, giù un’arrancata, e via di lungo sugli irati frangenti. Lo vedeano dal lido questo lupo di mare salire, discendere e salire di nuovo sulle onde arruffate, e in mezzo al turbine, saldo sul suo palischermo, abbordare il legno in pericolo, e aprirgli una qualche via di salvezza.
Egli aveva lunga pezza meditata e fatta sua la sentenza di Franklin, il quale c’insegna esser debito nostro d’onorare il mare, non solo come fonte inesausta di materiali vantaggi, ma eziandio come educatore possente del sentimento morale. Quanto l’umano intelletto, ei pensava, non si è affinato nel veleggiare l’oceano! Quanto le sue facoltà non si rinfrancarono nel combattere contr’esso! Di quai severi ed utili insegnamenti non ci fu dispensiero! Qual tesoro di cognizioni, d’esperienza e di saggezza dovè l’uomo acquistare,[14] anzi che egli potesse spiegar le sue vele sulla distesa dell’acque, solcarle colle sue navi per ogni verso, esplorare le coste irte di promontorî e di bricche, misurarne le sterminate voragini, tramutare infine l’Atlantico, sto per dire, in una strada ferrata! Eppure v’ha qualche cosa di più sublime che il mare istesso, e questa eziandio è opera sua: la potenza intellettiva che il mare ha svolto in coloro che a lui s’affidarono, fino al giorno in cui lor fu dato di stendere la vittrice mano sulla sua ondosa criniera, e calcolare, quasi problema algebrico, il cerchio annuale de’ suoi turbini, sottoposti pur essi ad un movimento di rotazione e a una legge indeclinabile, al pari di quella che governa il corso delle comete e degli astri.
Assorto in questi pensieri, ei divisava continuo il modo di migliorare le condizioni della gente di mare, e rigenerarla a nuova vita. E invero i nostri marini, dal capitano fino all’ultimo mozzo, quanto erano valenti di braccio e capaci di governare per sola pratica una nave fra traversie d’ogni fatta, altrettanto andavano quasi digiuni di quelle cognizioni scientifiche, che pur si richieggono a formare un intrepido[15] capitano, un destro pilota, un buon marinaio. Oggidì l’arte nautica è una scienza, anzi un complesso di scienze difficilissime, le quali hanno il lor fondamento non tanto sull’esercizio del navigare, quanto eziandio sopra i libri. Ed ei, lo Schiaffino, che gran parte della sua giovinezza avea speso sui legni americani ed inglesi, e conosciuto di quanto sapere andassero forniti i loro equipaggi, non potea mandar giù in santa pace la crassa ignoranza, che in Italia ancora offendea la gente dedita al mare.
Inoltre; le povere condizioni del semplice marinaio lo affliggevano d’assai; poichè se è a sperare, ei pensava, che le molte scuole nautiche, ond’è ricca l’Italia, possano dare al paese una generazione di naviganti che risponda alle necessità odierne, e tale da rivaleggiare colle altre nazioni, il misero marinaio che non può usare a tale scuole, e che va privo perfino dei primi elementi di lettere, trarrà sempre povera e grama la vita. Così questa classe tanto benemerita de’ nostri commerci, di costume integro ed onesto, fiera come leone e in un mansueta al pari d’agnello, esempio d’ogni virtù religiosa e domestica, questa classe che incallisce[16] sul remo e il più del tempo disgiunta da cari suoi, si mitre di un frusto muffito per raggranellare di che sostentare la moglie diletta e i figliuoli, non troverà mai chi la sollevi alla vera dignità di uomo.
I suoi disegni d’avvantaggiare le sorti dei marinai e di educarli possibilmente alla scienza, erano in lui raffermati da quotidiani avvenimenti che vieppiù lo accendeano nella sua fede.
Lungo la spiaggia di Sori sorge a uscio e tetto un abituro, che diresti privo di ogni ben di Dio. È notte alta; sovra un nudo giaciglio dormono tre fanciulletti, a cui sonni veglia una madre ancora giovane d’anni, ma pallida e rifinita dalle protratte vigilie. Com’è stile delle donne delle nostre costiere, essa è intenta a condurre innanzi alcuni merletti; senonchè più che al lavoro, corrono i suoi sguardi a specie lare il sinistro aspetto del cielo, che poteva affissare dall’aperta finestra. E l’orizzonte mostravasi tetro e il mare a montoni, cagione a quella misera d’infinita amarezza, certa qual era che in quelle acque aveva l’istesso giorno dato fondo il naviglio, che dopo un anno di lontananza recava alle sue braccia uno sposo adorato.[17] Ella vedea con terrore alla luce de’ lampi l’agitarsi d’una nave in contrasto co’ flutti; e quando il vento per brevi istanti taceva, pareale udire le strida de’ marinai invocanti soccorso. E allora cacciato a terra il suo tombolo, accendea prestamente una lampada ad un’immagine sacra che pendea sopra il capezzale, e svegliati di botto i figliuoli traeali innanzi a quella dicendo fra i singhiozzi—pregate, viscere mie, pregate la Madonna di Monte Allegro che vi renda salvo il genitore—.
E pregavano quegli innocenti levando al cielo le loro manine, mentre appunto il furore dell’onde e gli schianti del vento si faceano maggiori. Ed ella guardava lontan lontano sul mare, quando un lampo illuminando di tetro bagliore la solitudine dell’acque, le lasciò scorgere un uomo che disperatamente lottando co’ flutti tentava afferrare la sponda. Il cuore le balza nel petto: una voce interna le grida—è quegli il tuo sposo—. E forsennata di gioia cade innanzi all’immagine di Nostra Donna; indi strettosi al seno il minor de’ figliuoli e gli altri traendo per mano, scende deviata alla spiaggia per raccogliere nelle sue braccia l’uom del suo cuore. Infelice![18] Un immane maroso le sbatte a’ piedi un cadavere.
Traeano in quella da’ vicini casolari alla riva non pochi marinai, desiosi di recare, se lor tornasse possibile, un qualche soccorrimento alla nave, che dai fatti segnali argomentavano versasse in grave pericolo. Ma intanto un nodo di vento la mandava ad infrangersi contro gli scogli del litorale. Miserabile vista! Il corpo del naviglio giaceva a metà sepolto ne’ flutti; il fianco di dritta sfondato, gli alberi e i pennoni divelti, distrutto il traverso, i pavesi recisi, infranta la ruota di poppa. Tutti i naviganti per altro, stante la vicinanza del lido, ebbero salve le vite, da quello infuori, che smanioso di scendere a terra, volle tentare a nuoto l’arduo tragitto.
Non è a dire se i marinai accorsi alla riva si adoperassero a pro’ di que’ sventurati. Senonchè vista la salma del loro compagno, e accertatisi che ne’ suoi polsi non batteva più vita, lo tennero bello e spacciato; pur alcuni per tentare un’ultima prova, lo sospesero in guisa che dovesse dar fuori l’acqua ingollata. Altri s’adoperarono attorno alla donna, che uscita de’ sensi per avere in quel naufrago riconosciuto il proprio[19] consorte, venia trasportata in un co’ figlioletti nella sua casicciuola.
Die’ la sorte che mentre appunto que’ marinai, tenendo bocconi il sommerso, tentavano di fargli rigettar l’ acqua dal petto nella speranza di rivocarlo alla vita, si recasse in quel luogo Emilio Schiaffino, disceso anch’egli alla spiaggia per veder modo di provvedere alla salvazione di coloro che avean fatto naufragio. E vista quella buona ed ignara gente affaticarsi in così misera guisa intorno all’annegato, battendosi fieramente la fronte—non vedete, gridava, ch’egli è questo appunto il modo di soffocarlo?—E fattolo recar senza indugio nel vicino tugurio—ciascuno attenda, diceva, al modo che àssi a porre in opera nel soccorrere gli asfitici per sommersione. Ho fede che in manco d’un’ora questo cadavere sarà reso alla vita—. I marinai si ricambiavano dubitosi uno sguardo e taceano.
Ei cominciò a farlo spogliare tagliando le vesti madide e ricercando se avesse lesioni in qualche parte del corpo. Indi fattolo collocare orizzontalmente sur un letticiuolo, e avvoltolo in coperte di lana, inclinavalo alcun poco dal lato destro, e trattane la lingua fuor della bocca,[20] la mantenne così sporgente per mezzo di un anello elastico, di cui egli andava munito, e che affisse sulla lingua medesima e sott’esso il mento, collo scopo evidente di riattivarne la respirazione artificiale. Ciò fatto, postosi dietro il corpo del naufrago, afferrò d’ambo i lati la parte superiore del braccio presso la spalla, e così saldamente tenendolo, prese a tirare a se spalle e braccia, sollevandole alquanto e riconducendole quindi nella prima lor posizione. Questa operazione diretta ad effettuare energici movimenti di inspirazione e di espirazione ripetè lungamente, ma pur senza effetto di sorte alcuna. Senonchè egli aveva troppa fede nei risultamenti della scienza per porne l’esito in forse, e ben sapea per innumerevoli esempi, che spesso occorrono parecchie ore d’applicazione ordinata e metodica dei mezzi di soccorrimento, quando in ispecie la estrazione del naufrago è assai ritardata.
Comandò allora che un marinaio tenesse per i piè saldamente il cadavere, a ragione avvisando, che agitandosi tutto il corpo, mal si otterrebbe l’effetto di far dilatare il torace ed entrar l’aria nelle vie respiratorie. Quindi appigliandosi ad un altro metodo usato anch’esso con frutto[21] in simili casi, prese ad elevare le braccia dell’annegato, portandole sopra la testa e quindi riconducendole nello stato lor naturale. Questa operazione interrompeva talora per applicare le mani ai lati del petto, e imprimere brusche scosse al cadavere, scosse che valgono il più delle volte a rianimarne la respirazione: nè s’ingannava. Alcuni istanti appresso un lungo respiro accusava nel povero sommerso il ritorno alla vita; i marinai guardansi trasognati; il creduto estinto apre gli occhi.... La scienza aveva trionfato!
Ma l’ardente amore dello Schiaffino verso i suoi simili non appagavasi a tanto, e pensando a ciò che già fecero Americani ed Inglesi a tutela de’ naviganti, divisava il modo di stabilire in que’ paraggi una Stazione barometrica e una Società di Salvamento pei naufragî sull’andare di quella che il Cogan e l’Haves fin dal 1774 fondavano in Inghilterra. Quel negozio non era invero de’ più facili, porgendosi avversi od incerti i maggiorenti di que’ luoghi e l’ignoranza de’ suoi stessi compagni. Se è destino, diceano, che il nostro fato si compia, qual forza umana potrà lottare coll’oceano infuriato e contro il demone della tempesta? La Madonna del Boschetto saprà[22] alla peggio camparci da ogni sinistro; più delle vostre stazioni o società di Salvamento varrà a schermirci da ogni traversia l’accrescere le carature dovute alla Chiesa. Imperocchè àssi a sapere che da’ que’ lidi non salpa mai nave che non sia costituita in società commerciale, ponendo ciascuno, secondo i proprî averi, quel tanto di danaro che si richiede; queste parti son dette carati, e alcune di esse soglionsi assegnare al Santuario del luogo, acciò la Madonna franchi il legno da ogni fortuna, e faccia prosperare i suoi traffici. Di questa guisa rendendo maggiormente partecipe ai lucri del bastimento la Chiesa, que’ semplici uomini sfatavano ogni altro mezzo che gli ponesse al coperto dei pericoli della navigazione.
Non ostante questa ed altre contrarietà di tal fatta, venne il dì in cui potè mandare ad effetto il suo onesto disegno.
Bella e lieta terra è Rapallo, culla di intrepidi navigatori e di quel Biagio Assereto che nelle acque di Ponza ruppe l’armata di due monarchi e gli ebbe captivi. Ivi sortiva del pari i natali quel Bartolomeo Magiocco, che i nostri marinai hanno in conto di loro patrono. E chi non ne[23] conosce il più che umano ardimento? Era la notte del 6 di luglio 1550, e i Saraceni guidati dal feroce corsaro Dragut mettevano a ruba la terra, insozzandosi nel sangue de’ cittadini, e sfrenando le proterve lor voglie nelle vergini che trascinavano sui lor negri Caramussali e sulle loro Maone. Il Magiocco, desto a quell’insolito frastuono, balza dal letto, e udito che costoro traevano prigioniera la sua fidanzata, armatosi di un coltello che primo gli venne alle mani, si cacciò fra l’orde nemiche, e aggroppatosi intorno i più prodi fra i suoi, fe’ tal macello de’ Mussulmani, che costrinse alla fuga i superstiti, non senza prima aver tolto dalle lor mani la vergine del suo cuore.
Inauguravasi appunto a Rapallo alcuni anni addietro un cantiere, e i reggitori di quel luogo per invogliare i capitani a far ivi costrurre i lor bastimenti, avean promesso roma e toma agli armatori. Lo Schiaffino allettato dai grossi premî e dallo sgravio di ogni balzello che faceasi alle ferramenta e a’ legnami, avea posto ivi mano alla costruzione d’un naviglio. Tirati dalla fede che riponevano intera nella valentia e nella onestà sua, tutti correvano a gara per ottenere un[24] qualche carato, sia sul corpo come sul carico: e perfino i marinai non si teneano dal profferirgli il loro peculio in tanti anni di fatiche ammassato. Ei prescelse appunto le offerte di questi, promettendo loro altresì di prenderli al servizio del legno nelle diverse lor qualità di mozzi, velieri, gabbieri, contromastri, nostruomini, timonieri, macchinisti e piloti, alla sola condizione ch’e’ sapessero leggere, scrivere e far di conto.—Voi qui avete, ei dicea loro, una scuola serale per chi ancora va ignaro de’ primi elementi di lettere: avete una scuola nautica per chi già li possiede. Fino a primavera inoltrata il legno non sarà in punto: mettete a profitto questa invernata, ed io torrò meco i migliori tra voi.—Non è a dire se quei marinai mossi dai larghi guadagni ch’ei facea balenare a’ loro occhi, dessero opera assidua alla scuola, e ogni loro ingegno ponessero a riuscire valenti.
Imperciocchè e’ voleva altresì istrutti i suoi marinai per recare ad effetto un suo vagheggiato disegno sul linguaggio navale. Non era no lo Schiaffino un uomo di lettere; ma il divario che correa fra questo linguaggio, qual si attinge dai libri più usati, con la parlata comune de’ marinai,[25] divario, fonte talora d’equivoci nel comando e nel governo della nave, gli avea persuaso la necessità di attenersi a quel di essi, che meglio rispondesse allo scopo. Ma con qual criterio procedere in quella bisogna? La lingua de’ libri, scorretta, imbastardita da voci straniere, non poteva andargli a versi a patto veruno; quella de’ marinai concisa, colorita, vibrata, cadea per altro sovente nel triviale e nel fango. Tale era il suo avviso: e perciò volea culta la sua gente di bordo, poichè quasi per istinto sentiva, che quel linguaggio deterso da alcune macchie di pronuncia, d’elisioni, di eufonismi e di modi talora scurrili e proprî del dialetto soltanto, avrebbe finito per trionfare.
Quanto egli assennatamente sentisse avremo campo a dimostrare nei seguenti Dialoghi.
Intanto nel cantiere tutto era in moto: le maestranze affaticavansi quali alla struttura del corpo della nave, quali ad assestare gli attrezzi; argani volanti issavano enormi legni: fervea l’opera ne’ magazzini, ardean le fucine, da cui spricciavano le scorie infiammate a guisa di fuochi artificiali; mastri d’ascia, legnaiuoli, calafati, carradori, bozzellai, funaiuoli e trivieri senza[26] confusione veruna in piccolo spazio affrettavano i loro lavori. Vedevi là da un lato ammonticchiarsi le contre e le scotte; più in là le boline separate dalle drizze: cataste di bigote disposte a seconda de’ fori: ghiere, cigale, radancie, penzoli, castagne, trozze, paterassi e bozze di più ragioni. Lo Schiaffino avea cavato l’abete da Danzica: la quercia da Brema: questa per le interne parti; quella per l’ossatura di fuori. Volle d’olmo lo scafo, come quello che nutrendosi di acqua, fa ottima prova nelle parti sommerse. E qui ti occorreano allo sguardo sparsi sulla spiaggia i fasciami de’ tavoloni per l’interno rivestimento del naviglio, non che le serrette per coprire internamente il fondo e il fianco della carena: e traversi, puntelli, pilastri e lapazze. In altre parti bolliva il catrame, e i pegolieri ne imbeveano i filacci per poi torcerli in corde, mentre altri ne spalmavano le gomene ed i legnami per meglio securarli dagli effetti dell’umidore e dai tarli. Era ovunque una faccenda ed una pressa che mal potrebbe significarsi a parole.
E già la nave faceva di sè bella mostra: tutti maravigliavano la sveltezza delle sue forme, il garbo dell’ossatura, del fasciame, delle paratie,[27] la maestria delle sue proporzioni, la leggiadria della chiglia, delle ruote, degli stamenali e d’ogni altro nautico arredo. Era un legno veramente magnifico; staggiava mille ottocento tonnellate: munianlo due alberi: un albero di trinchetto con trinchetto di goletta, parocchetto e velaccio di trinchetto; e un albero di maestra con randa e freccia, una trinchettina, il fiocco e vele di straglio. Aggiungi una macchina di trecento cavalli ad alta pressione, che poneva in moto una elice doppia, la quale assicurava alla nave una velocità tale da poter filare sino a diciasette miglia all’ora.
Messo in assetto il naviglio, non altro restava che la cerimonia del suo battesimo e la formazione del ruolo dell’equipaggio.
Era un bel mattino di giugno e tutto il paese di Rapallo e gli uomini di Pagana, di Santa Margherita, di Portofino e delle terre contermini, messi a festa, traevano ne’ pressi del cantiere per assistere al varo. Il legno addobbato a gala con la pavesata adorna d’arazzi e bandiere d’ogni taglio e colore, tirava a sè gli sguardi di tutti. Il vessillo nazionale sbatteva al picco di mezzana; all’estremità dell’albero di maestra, lo stendardo[28] della Croce rossa in campo d’argento. Brulicavano d’immensa moltitudine i lidi: il mare istesso formicolava di trabaccoli, di burchielli, di guzzi, di tartanelle, di schelmi, di fuste, di bilancelle e di zattere: tutto insomma il barchereccio del golfo. Le campane scioglievansi a gioia: risonavano attorno allegre canzoni. Bandiere, orifiamme e pennoncelli dovunque.
Un degno sacerdote salito sopra la tolda compie i prescritti riti, e spargendo d’acque lustrali la nave, imponeale per ordine del capitano il nome di Biagio Assereto, il valoroso domatore dei re d’Aragona e Navarra. Ciò fatto, un fischio acutissimo s’ode echeggiare sul ponte: gli occhi di ognuno si convertono al legno: cadono a un tratto i ritegni che teneanlo fermo alla riva: vanno a terra i puntelli: una specie di tremito agita la gran mole che comincia a barcollare: fra tanto popolo accorso non udresti una voce, un sospiro; e soltanto dopo che il naviglio strisciando sulle guide spalmate di grasso, prese, fumigando, l’abbrivo al mare che tosto il cinse de’ suoi liquidi amplessi, un clamore infinito di urli di gioia andò a ferire le stelle.
Il dì appresso i marinai che s’erano offerti[29] allo Schiaffino, raccoglievansi nella di lui casa per dare i lor nomi sul registro dell’equipaggio, e fermare le condizioni della loro ascrizione. Trenta egli ne elesse destri, intelligenti e animosi giovani, per mezzo de’ quali sperava poter rigenerare negli abiti della vita e nella lingua navale le marinaresche popolazioni della costiera orientale; indi, accomiattandoli—domani, ei disse loro, alla punta del giorno noi farem vela.—
E alla punta del giorno il capitano saliva la nave, ma ombrato il volto, qual chi teme una imminente sventura. Gli uomini dell’equipaggio erano tutti al posto dai diversi uffici loro assegnato; i macchinisti, il pilota attendeano i comandi: e i comandi mai non impartivansi. Eppure l’aspetto del mare e del cielo annunciava che superato agevolmente il capo di Portofino, in poche velate sarebbesi imboccato il porto di Genova, ove la nave dovea completare il proprio armamento e prendere il carico. Due altri bastimenti ch’erano in que’ paraggi sull’àncore, aveano già preso del largo; i marinai non poteano insomma comprendere l’esitazione dello Schiaffino nel dar gli ordini della partenza. Peggio poi quando invece dell’ordine di salpare, s’udì[30] il capitano comandare di mettersi in panna, di gettar l’àncore, d’ammainare i bastardi e le antenne, come se minacciasse un fortunale. Una parte dell’equipaggio fu eziandio licenziata a scendere a terra.
E invero l’occhio espertissimo dello Schiaffino avvisava qualche cosa di sinistro sulla faccia delle acque e del cielo; lontan lontano s’udiva come un ronzio propagarsi sulle ancor quiete marine, foriero certissimo di non remota procella; vedeansi le nubi sbandare per rombi diversi; correan le onde non grandi, ma però spesse ed acute, e agitate da un cotal moto che all’occhio indagatore nulla prometteva di bene. L’aria impregnata d’elettrico: una lunga schiera di augelli rigava il cielo, e volgeasi rapidamente alla terra. Egli aveva inoltre osservato il barometro che improvviso scendeva: avea spiato la formazione dei cirri e gli aloni: tutto indicavagli insomma lo appressarsi della tempesta: ed ei volea cogliere il destro non solo di scampare la nave, ma di porre ad esecuzione una sua antica proposta.
E la tempesta non si fe’ attendere a lungo, e furiosa per modo, che i due legni che avevano prima sferrato, vedeansi da lungi lottare penosamente[31] contro l’urto dei venti che gli sbalestrava nelle scogliere del Capo, e contro le infuriate onde che parean seppellirli entro i lor vortici. E fu loro mestieri pel gran travaglio alleggerire gli scafi, ciondolarli alle bande, usare ogni argomento dell’arte per impedire che le àncore si rompessero sulle marre dei ronzoni. A mala pena poggiando alla banda, e filando gli ormeggi per occhio, poteano sostenersi sui flutti. Per contro il Biagio Assereto non uscito da quel securo seno, prendeva a scherno ogni ira di mare e di cielo. S’addiedero allora i marinai ch’aveano collo Schiaffino posto il piè a terra, da qual tremendo pericolo ei seppe francarli.
—Non avevi tu visto le procellarie e gli altri augelli marini aliare sinistramente sui flutti?
—La luna è al secondo suo quarto; ieri il sole tramontò listato di macchie ... cattivi pronostici per mettersi a vela.
—Ben l’indicava la salvastrella che incartocciavasi, e il trifoglio che levava ritti ritti i suoi steli.
—Che la burrasca fosse imminente diceanlo le mosche che succhiellavano più vivamente le carni; le passere che facevano uno strano cinguettare sugli alberi; le api che non si discostavano[32] dai loro alveari; i lombrichi che usciano di terra; il suono delle campane che udiasi ben di lontano ...—
E fedeli al proverbio che canta: della sapienza di poi son piene le fosse, tutti allora erano certi, che sarebbe stata follia lo sciogliere i canapi. Nondimeno compresi di viva riconoscenza traeano presso il lor capitano.
Stava egli allora a colloquio col sindaco e i maggiorenti del luogo in una sala della sua casa per avvisare sulla possibilità di recare un qualche soccorso ai due legni in procinto di naufragare, e fremea per l’impotenza di liberarli da un imminente disastro. La venuta de’ marinai e la presenza degli uomini più notevoli del paese parvegli occasione propizia per incarnare un suo antico disegno; ond’è che levatosi e raccoltigli intorno a sè, così prese a dire:
—Voi vedete, amici e compagni, l’impossibilità in cui per manco di mezzi noi siamo di recare un qualche soccorrimento a quei miseri. Ma s’e’ versano in gravi distrette, gli è perchè l’hanno eglino stessi voluto; io per certissimi indizi gli avevo ammoniti a non fidarsi oggi al femminile sorriso del mare; le sue carezze nascondevano[33] il tradimento. E se or non c’è dato volare in loro aiuto, tutta su voi ne ricade la colpa, o signori; ed io terrei questo pel più bel giorno della mia vita, se vi piacesse avvisar meco al modo di prevenire le fortune di mare, e di rendere affatto innocui i naufragî.—
Queste parole pronunciate coll’accento di sicurezza propria dell’uomo di mare, scossero profondamente gli astanti, i quali per bocca del sindaco—parlate, gli dissero; che àssi a fare per scongiurare i danni gravissimi che ad ogni istante gettano nella desolazione le nostre famiglie? Noi siam tutti presti a mandare ad effetto quanto voi saprete proporci. Parlate.—
In quello istante parve che l’uragano rimettesse alquanto della sua furia; il capitano, appuntato il suo cannocchiale, vide un de’ legni correre al largo, mure a sinistra, sotto le sue vele basse, le vele di gabbia, i parrocchetti, la brigantina ed i fiocchi; stava anzi in quel punto issando i coltellacci e i papaffichi. Anche l’altro naviglio, vinta la traversia, spiegava al vento il trevo della maestra, e serrata la mezzana, facea, correndo, la prua a Portofino. Ond’egli con animo più rimesso, così parlò loro:
—Voi conoscete il noto adagio: chi s’aiuta, Dio l’aiuta: ma noi siamo ancor lontani dal metterlo in pratica. Chiamare Dio e i Santi in mezzo ai pericoli della sconvolta natura, gli è certo un ottimo avviso; ma meglio ancor tornerebbe il prevenire questi pericoli, dacchè la scienza ci ha porto il modo di prevederli e schermircene. Uditemi. Non v’ha capitano il quale non sappia che le brusche oscillazioni barometriche accusano quasi sempre lo scoppiare d’una tempesta. Quindi è che le navi van provvedute di barometri, che il capitano ad ogni tratto consulta, ma che troppo spesso non sa interpretare, nè porre in relazione con le condizioni geografiche del luogo, con la temperatura e co’ fenomeni elettrici dell’atmosfera. Ma se i lavori dell’Associazione Marittima fondata dallo illustre Maury andranno, come ne ho fede, ogni dì più allargandosi, gli uomini di mare cresciuti alla scienza sapranno antivedere non solo la procella e i perturbamenti dell’aria, ma diminuirne eziandio la frequenza e cansarne i pericoli.—
—Senonchè i piccioli legni di cabotaggio e i navicelli de’ pescatori, tanto esposti nei nostri[35] rivaggi ai furori dei libecci, van privi di questi notevoli ammonimenti, e quand’anche ne fossero in possessione, non saprebbero oggidì per la loro ignoranza cavarne costrutto veruno. Eppure in altre nazioni e specialmente in Inghilterra si venne in loro aiuto. Il duca di Northumberland propose, non è molto, a Tomaso Sopwith presidente della Società meteorologica l’istituzione di Osservatorî nei numerosi villaggi de’ pescatori disseminati su quelle costiere. Era suo intento tutelare le vite e gli averi di tanti uomini laboriosi mediante la previsione del tempo, qual ci viene indicata dalle osservazioni barometriche e meteorologiche. Accolta con plauso una tale proposta, Sopwith e Gleisher si diedero con ogni studio ad erigere stazioni meteorologiche, e furono tenuti in conto di veri benefattori dei marinai di quelle spiaggie, i quali appresero a breve andare l’uso di quelli strumenti, di cui vollero farsi mallevadori e custodi. Ond’è che tali stazioni moltiplicarono in pochi anni per modo, che quasi tutta la costa n’è oggi fornita; i loro salutevoli effetti son senza numero. Io vi propongo adunque anzitutto la fondazione di uno di questi osservatorî, i cui risultamenti varranno a[36] risparmiare alla nostra riviera non poche vittime per ciascun anno.—
—Nè questo è tutto. Io leggeva poc’anzi ne’ vostri occhi e in ogni vostro atto un desiderio ardentissimo di correre a salvezza di que’ due legni, che sordi ai responsi della scienza, osavano incauti avventurarsi ad una calma infedele. Salvarli! È presto detto; voi mi conoscete, e v’è noto se io mi sia tale da indietreggiare in faccia al pericolo. Ma con questo furiare d’acqua e di venti, io non potea trascinare i miei compagni a inevitabile perdizione. Rammentate ciò ch’io testè vi diceva: che se, cioè, non mi venìa fatto di recare soccorso ai pericolanti fratelli, dovete voi soli tenervene in colpa. Ed eccomi pronto a chiarirvene. Avete voi mai pensato a fondare su queste prode, così esposte ai turbini ed alle procelle, una Società di Salvamento? Avete voi i così detti canotti di salvataggio, quali si hanno dalle più colte nazioni? Voi per certo da me non pretendete l’istoria di queste lancie di salvamento che devonsi a Enrico Greatheard, ingegnere inglese, nè il modo della loro costruzione. Io vi dirò solo esser tali, che il loro sommergimento riesce impossibile, perchè formate in guisa,[37] da far loro d’un tratto cambiare direzione per evitare o superare i marosi irrompenti: e munite di aperture nel fondo per lasciar colar l’acqua che talor le ricopre. Mediante questi agili arnesi torna assai facile lanciarsi ne’ flutti agitati, e volare in soccorso dei naufraghi. Nulla dirò di tanti altri mezzi, e in ispecie dell’artiglieria di salvamento, che consta di un grosso archibuso, con cui si scaglia un canapetto raccomandato a una freccia di punta barbonata, che conficcandosi in qualche tavola del naviglio sbattuto dall’onde, serve ai pericolanti per istabilire l’andrivello o altra via di salvazione. Vi basti sapere che migliaia di naufragî devono a questi congegni la vita.—
Il capitano taceva, e spiava negli occhi degli astanti l’effetto delle sue proposte. E questo fu tale da doversene assai tenere. Primi i marinai con quella eloquenza che appalesa l’interna agitazione dell’animo, levando in alto i loro berretti, ruppero in un grido, dicendo—vogliamo una stazione anche noi: vogliamo la lancia di salvamento.—E poste le mani ai borselli, proffersero chi più chi meno la loro moneta per la compra degli strumenti opportuni. Senonchè il[38] capo del comune e gli altri più cospicui signori, mal comportando che venissero gravati que’ marinai per un’opera che tornava a beneficio di tutta la terra, si tolsero essi stessi l’incarico di fondar la stazione e provveder gli altri arnesi; talchè giova sperare che tra non molto i paesi litorani della costiera orientale andran muniti di questi possenti mezzi di preveder le tempeste e scongiurare i naufragî.
Poche ore appresso sul Biagio Assereto tutto era in moto; il grido che comanda la rotta risuonò per la tolda—Orza alla banda!—E tosto vedevi il legno spiegar le sue vele, il trinchetto, la brigantina, la gabbia, i coltellacci, le vele di freccia e di straglio, e cazzate le scotte, pigliare i venti e l’abbrivo. Tirò subito al largo virando a ponente: e lasciandosi addietro i curvi rivaggi e le insenate del golfo, doppiò il capo di Portofino, le cui roccie cadenti quasi a fil di sinopia sul mare, il sole volgente all’occaso colorava di caldissime tinte. Allora apparvero a dritta in tutta la pompa della loro bellezza i lieti prospetti e le ingiardinate prode della riviera, spiranti un incognito indistinto di profumi e di odori. Rifletteva lo specchio delle acque il verde[39] delle soprastanti colline: ma tra quel tripudio della terra, delle acque e del cielo i marinai cessavano a un tratto le allegre canzoni, e quasi tirati da magica forza correan collo sguardo alle piagge fuggenti. Era infatti quell’ora, che come divinamente canta il poeta:
....volve ’l disio
A’ naviganti, e intenerisce il core
Lo dì ch’han detto a’ dolci amici addio:[2]
dileguavano da lungi i contorni de’ monti, e le ombre si distendeano sui flutti. In quel religioso silenzio un’ardente preghiera alla Stella del mare, a N. D. di Monte Allegro correa sulle labbra di tutti, dal capitano al mozzetto di poppa.
Intanto la nave filando dieci nodi all’ora, col trinchetto e la borda allargata di buon braccio, lasciandosi addietro una via schiumeggiante che allungavasi fin oltre la vista, imboccava quasi a levata di sole il porto di Genova. Meraviglioso prospetto! L’astro del giorno indora cupole e torri, e accompagna, sto per dire, la città che scende degradando dai monti, irti di baluardi e castella, per riposarsi nella curva sua rada. Eccoti[40] innanzi una selva di navi, su cui s’innalza il Faro superbo, con sotto le batterie fioreggianti; e dovunque sui sbarcatoi, moli e banchine una pressa, un agitarsi che accusa la vivezza de’ traffici, onde si privilegia la metropoli della Liguria.
S’udì allora squittire acuto il fischietto del capitano, e i marinai salirono di botto in coperta ad eseguirne i comandi. Ed egli fatte imbrogliare le vele, ammainare antenne e pennoni, ordinò si desse fondo ai ferri e si legassero a terra i provesi.
Nel tempo ch’ei spese a porre in pieno assetto la nave, in un porto frequentato da legni di tutte le marine italiane, lo Schiaffino ebbe campo vastissimo di studiarne la parlatura e raffrontarla con la lingua de’ libri, ma pur senza cavarne un chiaro e determinato costrutto; finchè sorse quel giorno in cui di proposito potè provocare la trattazione di un argomento che tanto stavagli a cuore. Come ciò avvenisse e qual ne fosse l’effetto, vedran que’ leggitori ai quali possa dirsi con Dante:
O voi che siete in piccioletta barca
Desiderosi d’ascoltar, seguite
Dietro al mio legno che cantando varca[3].
——
AL comando dell’Assereto venia dallo Schiaffino, già troppo oltre negli anni per commettersi ancora alle fortune di mare, preposto Nino Bixio, già in fama d’intrepido marinaio, al pari di valoroso guerriero. Nato sui flutti, avvezzo da primi anni suoi a lottare coll’impeto degli uragani, ei v’attinse quella tempra di ferro e quell’ardimento indomabile, di cui die’ sì nobili prove nella meravigliosa epopea del risorgimento italiano. E lustro a’ più doppi maggiore sarebbe,[42] siccome io penso, a lui derivato, e avrebbe l’Italia aggiunto il di lui nome a quello de’ più insigni ammiragli, se al povero mozzo del Pilade e Oreste, avezzo a salire in coffa per il passo del gatto, (egli ha comune con Garibaldi la gloria d’aver fatto le prime sue armi in quell’umile uffizio) fosse arrisa sì amica la sorte, da conseguire, anzichè d’un corpo d’esercito, il comando supremo di una armata navale.
Tale era infatti il desiderio più intenso della sua vita.
Volgeva il maggio del 1866, e la guerra contro l’Austria stava per iscoppiare. Il naviglio italiano raccoglieasi in Ancona: e se l’intera nazione ponea piena fede nelle sue schiere di terra, punto non dubitava che i marinai liguri e veneziani avriano al primo urto conquassate nell’Adriatico le forze nemiche. Con questa certezza nel cuore null’altro attendeasi che la scelta d’un ammiraglio, il quale aprisse a’ nostri prodi la via del trionfo.
Narrò allora la fama che Nino Bixio sollecitasse un’udienza a re Vittorio Emanuele che l’ebbe sempre assai caro. Fattosi innanzi a lui—Sire, ei diceva, manca un duce all’armata[43] che voglia e sappia vincere ad ogni costo; io ve ne chieggo il comando. Siavi mallevadore della vittoria il mio capo e quello de’ figli miei. Io fo qui sacramento di seppellirmi tra i flutti, o di tornar vincitore—.
Povero Nino! Parecchi dì appresso avvenne lo scontrazzo di Lissa, che gli seppe più micidiale d’un coltello nel cuore.
Con la passione del mare nell’anima, passione che più tardi lo spinse ad abbandonare l’esercito e gli onori di generale per lanciarsi un’altra volta in mezzo all’oceano, e aprir nuove vie nelle regioni dell’Indo-Cina al commercio italiano, non è a dire se accettasse di gran cuore il comando offertogli dallo Schiaffino. Perciò attese con sollecita cura a completar l’armamento della nave e a rifornirla di quanto i moderni trovati sapeano offrire di meglio.
Diè la sorte che nel gennaio del 1860 in una delle quotidiane sue visite all’Assereto io gli fossi compagno; e benchè quasi nuovo alle cose marittime, ebbi campo non solo ad ammirare la sua pratica marinaresca, ma e la sua profonda scienza nelle nautiche discipline. Avresti detto non aver egli atteso ad altro in sua vita che agli studi navali.
In quella occasione, stimolatovi dallo Schiaffino, che più volte s’era aperto con me intorno la convenienza d’unificare il linguaggio marinaresco, io mi proposi di fare appunto cadere il discorso su questo argomento. Infatti dopo l’asciolvere passammo in una camera che era insieme armeria, biblioteca e gabinetto di fisica e di metereologia, tante armi, libri, macchine, areometri e strumenti d’ogni ragione aveavi raccolto; ivi ebbe luogo fra noi il dialogo, che a un dipresso qui intendo trascrivere.
Autore.—Tu hai veramente tutte le parti che si convengono a valente capitano navale, come mostrasti posseder quelle di prode soldato: e ben a ragione la patria attende da te ancora gran cose.
Nino Bixio.—Non amo gl’incensi, tu il sai; il poco che mi fu dato operare era sacro debito di figlio verso la comun madre, l’Italia, il cui nome, per Dio, sarà fatto ognor da me rispettare.
A.—Cominciamo adunque a rispettarlo noi stessi. Se io testè ti lodai (e ogni lode invero è scarso tributo a’ tuoi meriti), gli è per meglio aprirmi la via, non dirò a un biasimo, bensì ad una esortazione, che per tuo mezzo vorrei indirizzare[45] agli uomini di mare, e della quale per carità verso la patria vorrai tener conto.
N. B.—Parla, parla; in te riconosco pur sempre il franco e leale amico de’ nostri primi anni: e ben sai ch’amor di patria ha in me tal potenza, da dar fuoco, ove occorra, a Santa Barbara e far saltare in aria la nave. Altro che tener conto delle tue esortazioni!
A.—Sollo; ma so del pari che non soltanto ne’ grandi cimenti si serve la patria; e ch’è mestieri riconoscerla sempre, in tutte le operazioni della vita, in tutte le ore, ne’ più minuti atti nostri. Da qual nazione cavasti le macchine, gli arnesi, il fornimento insomma della tua nave?
Emilio Schiaffino.—Dall’Inghilterra, e ciò per espresso consiglio di Nino.
A.—Io non vo’ cercar le ragioni per certo valevoli che ti mossero ad acquistare ogni arredo da costruttori stranieri, mentre si hanno in casa officine e operai........
N. B.—Oh questo poi gli è un voler spingere l’amor della patria oltre i debiti confini del giusto.
A.—Forse. Ma quando sento sulle tue labbra e su quelle di tutti i capitani di mare suonar[46] voci straniere scrie, scrie, e assegnar barbari nomi ad arnesi e cose ch’han vocaboli italiani e leggiadrissimi, non mi avrai per soverchiamente severo, se te ne fo’ riprensione in nome di quella patria, ch’ha dritto di sentire usata da suoi figli e a bordo delle sue navi la propria favella, anzichè un gergo non suo.
N. B.—Converrei teco assai di buon grado, se l’Italia possedesse al pari degli altri popoli una favella marittima comune a tutti i suoi figli; ma niuno ignora che corre fra essi un divario così spiccato e notevole, che il nome di ogni attrezzo cambia di punto in bianco ne’ vari porti italiani. Ciò non comprendono i letterati di professione, sprofondati ne’ lor libri e non usi all’aperto conversare colla gente di mare; ma noi che co’ tuoi classici c’andiamo un po’ grossi, noi, dico, sappiamo che una imbarcazione, a mo’ di esempio, si chiama passerella, caicco a Venezia, canotto, jola a Genova, pallone, serenì a Napoli, e va dicendo. Del resto, ciò è naturale. I governi che si succedettero in Italia nei due ultimi secoli, intesero a conciarla per modo, che i suoi figliuoli non si credessero membri d’una sola famiglia; onde ne venne che non potè costituirsi[47] un linguaggio marinaresco, che fosse glorioso patrimonio dell’intera nazione. Ne’ tempi a noi più vicini, dopo il misfatto del 1815, Napoli si sequestrò dalla Italia, l’Austria imbastardì la flotta veneta, Toscana, smarrite le splendide tradizioni de’ cavalieri di Santo Stefano, non ebbe, si può dire, più navi: e quanto a Genova, le fu imposta dal Piemonte, ben sai, la camicia di Nesso, cioè la favella francese, che soltanto nel 1836 potè tôrsi di dosso. Conseguenza di questi fatti si è la mancanza di un unico linguaggio che sia vivo e si mova e si parli sulla tolda delle navi italiane. Ond’è che ciascuno di noi adopera i proprî vocaboli, o quelli che più gli tornano acconci, senza che per questo l’Italia n’abbia a scapitare d’un pelo, come non scapitò mai per l’uso inveterato e costante de’ suoi vari dialetti. Se fosse altrimenti......
A.—E altrimenti è la cosa, mel credi. A te uomo d’azione e capitano fortissimo falli il tempo per dare opera a’ studi, che ti avrebbero appreso esistere il linguaggio di cui accusi il difetto, per quanto abbiano fatto i nostri oppressori, non nei libri soltanto, ma eziandio nei trecento mila marinari italiani che l’usano, e che[48] con esso in modo uniforme, se ne togli le poche accidentalità dei dialetti, ricambiano i loro pensieri. La favella ch’e’ parlano e che forse tu tieni a vile, come patrimonio plebeo, è invece il più nobile, il più poetico di tutti i tecnici idiomi; e mal s’avvisa colui che tenta sfatarlo, e sostituire a’ que’ modi ingenui e nativi un lessico di conio straniero, qual s’apprende nelle scuole e nelle scempie traduzioni de’ libri francesi od inglesi che in esse corrono. Tale è pur troppo il vezzo odierno: dispettare le patrie gemme, e in quella vece far pompa di fronzoli e di forestiero ciarpame. Farfalloni e scapucci da spiritare. Lascia, amico mio, le imbarcazioni al loro vero significato, cioè all’atto dell’imbarcare e non alla barca: lascia le altre voci da te memorate, come quelle che non hanno aria e fattezze nostrane, e vi sostituisci i vocaboli di palischermo, burchio, burchiello, sandalo, schifo, gondola, scafo e di altri piccioli legni fatti per servizio di grandi navigli, e tali da non dilungarsi troppo dal lido. Scendiamo al vero e originale linguaggio de’ marinai non adulterato per anco da oltramontana barbarie; ivi ci verrà fatto di rinvenire inesplorati tesori d’evidenza, di bellezza e di forza. Esso è tuttavia[49] quello, da pochi casi infuori, in cui dettaronsi opere famose ed immortali; a questo è mestieri rivolgersi, questo adoperare soltanto; poichè di tal guisa potrem dirsi veri italiani, stretti almeno nella unità della lingua, ch’è tanta parte della nazione. Nè tutto ciò tu ignori per fermo; ad ogni modo pensandoci un po’ adentro, rileverai di leggieri la sovrana venustà d’una lingua, alle cui fonti attinsero un giorno tutte le nazioni civili.
N. B.—Non posso negare che più volte mi passò, come in nube, alla mente, che una unica lingua esistesse fra la gente di mare: ma i casi della mia vita non mi consentirono di svolgere gli antichi scrittori e raffrontarli colla parlata di bordo, talchè l’ebbi in conto di sciatta e dammeno. Or son lieto che tu venga a scaltrirmi dell’error mio; e perciò entrambi ti sarem tenutissimi ove ti piaccia per intero accertarcene.
E. S.—Sie, sie; mano dunque alle prove.
A.—Non arduo l’assunto; anzi tu stesso, o Nino, verrai in mio soccorso, tu che la storia d’Italia hai, si può dir, sulle dita.
N. B.—Come c’entra la storia?
A.—Assai più di quanto a primo aspetto[50] non mostra. Non io posso invero consentire col Graser[4] ed altri tedeschi, che il più del nostro glossario marittimo fanno derivare dai Greci; questo ben so che gli avi nostri non tolsero nè dalla Grecia, nè da Cartagine la loro scienza navale, bensì da’ primitivi Pelasgi, dal cui carabo ci vennero le voci caracca e caravella, or ite in disuso, e da’ Tirreni od Etruschi, cioè da quelle stirpi italiche che prima d’ogni altro popolo ebbero vivezza di traffici e potenza d’armi navali, e rimontano tanto alto ne’ secoli, che la leggenda pone aver essi assaliti gli stessi Argonauti e rotti in guisa, che il solo Glauco giunse a scamparne.
N. B.—Pur la storia ci afferma, che non il popolo etrusco, bensì una quinquereme cartaginese, sbattuta dal fortunale sulle spiaggie latine, insegnò a’ figli di Romolo il modo di costrurre i loro navigli.
A.—Non àssi a dare soverchio peso ad un fatto, che forse contribuì a migliorare, non a creare le loro triremi, le quali foggiavansi sull’andare di quelle che usciano dai gloriosi porti[51] di Gravisca, di Vetulonia, Tarquinia, Alsio, Vulci, Luni ed Ardea. Se pertanto nell’età più lontane eravi una marineria italica, egli è giocoforza ammettere altresì l’esistenza di una lingua navale, che la triplice Etruria propagò in quelle parti della penisola in cui allargò il suo dominio, e di cui più tardi fu maestra, come avvenne di tante altre discipline, ai Romani. Vero è che la lingua etrusca è per noi buio pesto, tanto è ancora il mistero che sopra v’incombe; ma per quanto ragguarda la lingua latina, i dotti ben sanno ch’essa ha di molti contatti col volgare de’ marinai.
N. B.—La mi sembra, a dir vero, alquanto marchiana.
A.—I libri de’ classici ce ne offrono a macca le prove. Infatti........
E. S.—Cessa dall’anfanarti sopra un tale negozio. Io mi so di latino quanto un pescecane......
N. B.—E tu intanto con questi armeggî di parole, tu ci esci di carreggiata.
A.—Non parmi. Caduta la potenza latina e trasferitasi la sede dell’impero a Bisanzio, la necessità di conservare in soggezione le provincie che man mano staccavansi, indusse i successori[52] di Costantino a costrurre grandi armate navali, e le città italiche furono quelle che somministrarono legni e marinai, essendo soltanto in esse ancor viva l’arte del navigare, dacchè un editto d’Onorio e Teodosio[5] vietava, sotto pena del capo, ammaestrar gli stranieri nelle nautiche industrie. Una lingua marinaresca non potea dunque neppur allora far difetto fra noi. Intanto dalle rovine d’Aquileja sorgeva Venezia; Genova, Pisa, Ancona ed Amalfi assettavansi a libero reggimento, e le navi loro con quelle di Civitavecchia, di Ravenna e di Rimini furono le sole, che nella universale barbarie facessero sventolare i lor temuti vessilli per ogni lido. A chi non son noti gli eroici ardimenti delle nostre città marinare? Pochi per altro sospettano che il linguaggio parlato allora ne’ nostri navigli fosse quello istesso che corre oggidì sulle labbra della gente di mare.
N. B.—Avrei a grado d’esserne per intero chiarito.
A.—Nulla di più agevole. In un rapido sguardo dato a’ tuoi libri, m’occorse vedere i[53] Documenti riguardanti le due crociate di San Luigi IX re di Francia, raccolti ed illustrati dal nostro Belgrano. Eccoli appunto. Io trovo in essi nelle Proposte dei R. Commissarî al Comune di Genova e nella ratifica delle medesime nel marzo del 1246, adoperato ne’ termini tecnici quell’istesso volgare che abbiam tuttavia sulle labbra, salvo, che come i tempi portavano, si dà a’ vocaboli una terminazione latina.
N. B.—L’istesso nostro volgare, dicesti?
A.—Cessa ogni dubbio allorchè l’evidenza sottentra. Io vi veggo usate le voci: patrone, carena, coperta, cantiere, palischermo, gondola, sartie, timone, albero, penna, antenne, veloni, vela di cotone, artimone, terzaruolo, àncora, cantari, canape, veggia o botte, mezzaruola, barca, sentina, barrili, castello di poppa, remi, marinai, fornitori, albero di prora, nocchiero, saettie, panfili. E nelle Convenzioni stipulate a Parigi nell’ottobre dello stesso anno fra gli ambasciatori del re e Guglielmo di Varazze procuratore del nostro Comune, vi leggo: nolo, catena, grippia, gomena, amanti, giunco, candele, stanghe, annelli, baliste ed altre.
Gl’istessi vocaboli adopera anche il notaio[54] Leonino da Sesto[6], stipulando il 26 novembre del 1268 i patti per l’apprestamento di due navi fra la città nostra e gl’inviati di re Luigi: anzi vi ritrovo eziandio le voci seguenti taciute nei documenti anteriori:—nave, candelizze, anchini, paranco, fionchi, fionchi a senale, taglie pei fionchi, oste, orze, morganale, parome, pantenna, trozza con mantelletti e bigotte, gabbia, sàgala, arbore di mezzo, taglia, poggie, poggiastrelle, pezzi di abete, antenna di proda di mezzo e del velone, imbrogli, gavitelli di rame, provei, duglie di grippie, sparzina per rimburchio della barca di cantiere, scandaglio, arganello, calderone, palischermo, grappino....—
E. S.—Affè ch’io non voglio incaponirmi più oltre. E a dire che siamo innanzi al trecento......
A.—Date ora con la scorta dell’istesso notaio uno sguardo a’ fornimenti, che su per giù son quei d’oggidì, coi loro nomi moderni:—maracci, magugli, ascie, ascioni, chiodaie, verrocchi, verrine, lampioni, lampade di vetro, stadere, piccozze, manichette, lucerne, scalpelli, armadio, catene con[55] grappino, pajuoli per la pece, cazzuole, martinetti, leve, cassa, barrili, quartaruoli, lancie, gittarole, taglie a tre occhi, puleggie di luccio, stazza per la stiva, pennati o manganelli.—E seguono altri nomi d’arredi, che ci vennero pur essi dagli avi nostri, e ch’io mi passo dal leggere, perchè d’uso non esclusivo dei naviganti.
N. B.—Tu m’hai messo sopra una via in cui son nuovo affatto, e troppe cose mi restano ancora a conoscere, per iscorgere nelle tue proposizioni quella evidenza, a cui dianzi accennavi. Io punto non disconosco che le testè lette voci sono ancor verdi tra noi, come lo furono otto secoli addietro; ma un centinaio di vocaboli non basterebbe ancora a provare che questo linguaggio risalga inalterato oltre il mille.
A.—A questo io m’attendeva e l’ho caro, per rafforzar di vantaggio la mia qualsiasi dimostrazione. Sappi adunque che l’idioma navale seguì le sorti istesse dell’idioma comune.
N. B.—La parte dovea seguire il suo tutto: la cosa va di suo piede.
A.—Appunto. La favella nazionale non nacque per fermo dal corrompimento del latino o da loquele barbariche, come per alcuni si tiene;[56] essa costituiva la lingua volgare o pedestre di Roma, e salì soltanto in onore al primo sorgere de’ nostri comuni. Tanto avvenne del linguaggio marinaresco, di cui ci occorrono per altro non lievi riscontri negli autori latini; esso balza dalle tenebre de’ bassi tempi bello, intero e potente di vita, quando le città nostre cominciavano a lanciare le loro formidabili armate nelle più lontane regioni. Senonchè assai scarsi a noi ne giunsero i documenti, poichè allora più che a scrivere intendevasi a fare; ma però di tal peso, da porre in sodo che una tal lingua era in ogni sua parte completa, e che i modi adoperati ne’ vari porti italiani punto non differiano tra loro. Vaglia a tal uopo il raffronto tra i vocali usati nei documenti genovesi con quelli di uno scrittore toscano, vissuto pochi anni appresso, cioè Francesco da Barberino, che nel 1290 cantava:
Quinal porta e ternale,
Senale e quadernale,
Manti, prodani e poggia,
Poppesi et orcipoggia,
Scandagli et orce e funi
E canapi comuni.....
Se vedessi avvenire
[57]
Che vento ti rompesse
L’arbore grande tuo,
Metti nel loco suo
L’arbore tuo minore;
S’abbatte quel, può torre
L’antenna, e lei rizzare
Finchè luce t’appare;
In luogo di timoni
Fa spere e in acqua poni[7].
...........
...........
Vele grandi e veloni,
Terzaruoli e parpaglioni...
Egli ci somministra eziandio i seguenti vocaboli: calafati, marangone, palombaro, timoniero, prodero, gabbiere, pennese o ponnese, far getto, lupo per vela negra, savornare per metter zavorra, velare, ventare.
N. B.—Scarsi davvero i nostri scrittori di cose nautiche, se c’è mestieri far capo perfino a’ poeti.
A.—Se per altro tutti si raccogliessero i[58] passi di quegli autori che ragguardano le materie navali e le opere di chi largamente ne scrisse, come i libri del Crescenzio[8], del Pantera[9], del De Rosa[10], e in ispecie l’Arte del navigare di Bernardo Acciaiuolo (1580), non che le relazioni de’ nostri viaggiatori da Marco Polo a tutto il secolo XVII, si avrebbe un’ampia e preziosa raccolta, da far testimonianza che l’antica nostra terminologia si travasò pressochè intatta ne’ tempi presenti.
N. B.—Da troppi anni ho appreso a sputar sottovento e a battere l’acqua salata per poter avere dimestichezza con gli autori da te allegati: ma se i documenti prodotti non mi consentono di porre in forse un tal fatto per quanto s’attiene al sartiame e agli attrezzi della nave, tu meco dei consentire che il linguaggio nautico non è circoscritto, come già dissi, in così angusti confini.
A.—Tu mi stringi i panni addosso di guisa, che se avessi men buona causa alle mani, mi[59] terrei affatto perduto. Ma, per santa Firmina, ho scudo sì saldo da mandare a vuoto i tuoi colpi. Parte assai rilevante di questo linguaggio è l’armamento de’ legni, di cui tacciono il documento genovese e il poeta fiorentino; ma al loro diffetto largamente soccorre lo Statuto marittimo d’Ancona, anteriore al secolo XIV, nel suo cap. LXXIX in cui tratta De le arme che se de’ portare in nave per li marinari. Non sono un Pico mirandolano io da tenerlo chiovato nella memoria; ma mi fo mallevadore ch’ivi potrai riscontrare le voci—bombarde, schioppi, palle di ferro, balestre di staffa, verettoni, lancie, corazze, pavesi, gorzali, barbute o cervelliere, spade e coltello—voci ancora comuni tra noi e costituenti l’intero arsenale di guerra a que’ giorni.
N. B.—E sia pure che arredi, attrezzature e armamento non abbiano mutato il primitivo lor nome; ma per altro la fraseologia de’ nostri cantieri, dappoichè tanto alto salì la meccanica, dee aver subìto cangiamenti notevoli. A cose nuove, parole nuove.
A.—Per me ti rispondano questi versi dell’Alighieri:
Quale nell’Arzanà de’ Viniziani
Bolle l’inverno la tenace pece
A rimpalmare i legni lor non sani,
Che navigar non ponno, e in quella vece
Chi fa suo legno nuovo, e chi ristoppa
Le coste a quel che più viaggi fece;
Chi ribatte da proda e chi da poppa:
Altri fa remi ed altri volge sarte:
Chi terzaruolo ed artimon rintoppa.
N. B.—Sublime, anzi divino poeta! Con che magiche tinte non ti pinge le cose! Ma se gli antichi vocaboli non subirono alterazione veruna, i progressi delle arti industriali han di necessità dovuto recar nuove voci, significanti nuovi arnesi ignoti agli antichi, come bolina, fiocco, bompresso e altri tali. È saria di mestieri esser cieco, per non addarsi, che dalla galea che pugnava alla battaglia di Meloria o di Curzola, ai Monitor americani ed al nostro Affondatore, ci corre.
A.—Ci corre, ch’il nega? La scienza ha disteso le sue grandi ali: abbiamo ingrandite le navi omai tramutate in città galleggianti, ed i lor movimenti si resero di tanto più agevoli e in un più sicuri; ma nè le navi, nè il loro governo cangiarono natura per modo da dovere crear nuove parole. Nè scalza il mio ragionamento il vedere[61] alcune poche voci estere, quali son quelle da te allegate, radicarsi fra noi in un cogli oggetti che esprimono. Necessità lo esigeva, non avendo essi il loro riscontro nella lingua italiana. In simil guisa abbiam comuni con gli Arabi le parole: barca, feluca, fregata, galeotta, schifo, caravella, saettia, gomena, calafatare, cala, cavo, caravana, almirante e forse altre: ma chi fossero i primi ad usarle, se essi o i padri nostri ignoriamo: niuno per altro vorrà omai ritenerle quai voci straniere. Comunque sia, di fronte a un numero assai scarso di vocaboli a noi derivati da altre nazioni, io veggo tutti i popoli del mediterraneo arricchire le lor parlature marittime di modi italiani. E noi da esse ben soventi accettiam queste voci, quasi merce venuta di fuori e nuove di zecca, dove, studiate un po’ addentro ci sveleranno l’origine loro casalinga e domestica.
N. B.—Non posso mandarla giù così di leggieri.
A.—Non intendo per certo far forza alle tue convinzioni: pur abbondano siffattamente le prove, vuoi storiche, vuoi filologiche, che forse avranno una qualche efficacia sull’animo tuo. Ditemi, amici: vi venne innanzi giammai il[62] nome di qualche ammiraglio straniero, che dal X fino a tutto il secolo XVI abbia governato armate italiane?
N. B.—Non valgo a rammentarlo.
E. S.—Ned io.
A.—Sapreste all’incontro farmi il nome dei nostri, che per conto d’estere nazioni costrussero o comandarono navi o veleggiarono in traccia d’ignote regioni?
N. B.—E a chi non son noti? Essi sono d’altronde in tal numero, che non è lieve assunto il passarli a rassegna. Toccherò de’ principali soltanto. Fino dal 1317 Dionigi il Liberale re di Portogallo tirava a’ suoi stipendi col titolo d’ammiraglio Emanuele Pessagno di Genova, coll’obbligo di condur seco venti altri capitani di navi genovesi i quali dovessero costrurre, comandare e governare le armate di quella corona. Dal Pessagno ad Amerigo Vespucci, che fu pure a’ servigi del re Don Emanuele, il Portogallo per ben due secoli vide salir le sue navi da comandanti ed equipaggi italiani. Nulla dirò della Spagna, sapendo ognuno ch’ebbe nel 1492 a suo ammiraglio Colombo, e affidò l’alto ufficio di piloto maggiore a Sebastiano Caboto, e fu quindi illustrata[63] da quel Pigafetta, che fu il narratore del primo viaggio fattosi intorno al globo. Venendo alla Francia, trovo che le sue armate, da Carlo Magno ad Enrico II, furono comandate da duci italiani, e ne fan testimonio i nomi di Bonifacio, Adimaro, Ruffin Volta, Ranier Grimaldi, i Doria, il Verazzani e lo Strozzi. Chi manco ebbe d’uopo di noi fu l’Inghilterra; ma non così che Enrico VII non chiamasse a se Giovanni e Sebastiano Caboto, che scoprì Terra Nuova, e descrisse gran parte delle coste americane, da cui tentò primamente un passaggio nell’Indie.
E. S.—Aggiungo che non solo Enrico VII, ma eziandio Enrico VIII s’ebbe dalla Signoria veneta artefici di navi e marinai di cui difettava allor l’Inghilterra; che altri pur n’ebbe nel 1540 Gustavo di Svezia; che i nostri Pietro Veglia e Nicolò Sagri crearono le armate di Carlo V; che Sigismondo re di Polonia popolò de’ nostri costruttori e capitani gli arsenali di Danzica, donde uscì il naviglio ch’egli oppose al re di Danimarca. Nè la Russia fu estranea alla luce che allora Italia raggiava sulle industrie navali, poichè gli uomini di mare che Pietro il Grande chiese a Venezia, addottrinarono quei[64] barbari popoli a domesticarsi co’ flutti, e Doroteo Alimari insegnò loro il metodo per calcolare le longitudini. Di simili fatti riboccano, ben il sapete, le storie[11].
A.—E da questi fatti appunto raccolgo, che se i nostri furon quelli che precedettero a gran pezza le altre nazioni nelle nautiche imprese, se loro appresero a costrurre le navi e a governarle; se fino dal secolo XII non conosciamo altri viaggiatori, scopritori e descrittori di terre, da italiani infuori, noi dobbiamo a buon diritto inferirne, che il nostro linguaggio marino era già intero e venia recato dovunque dai ducento mila marinai che salivano le seimila navi delle repubbliche veneta e genovese. Che se una qualche affinità di vocaboli si riscontra, a mo’ d’esempio, nella lingua navale francese con l’italiana, non furono i nostri per fermo che tolsero a imprestito una fraseologia di cui non avean di mestieri: sì bene i francesi, cui apprendemmo a designare con italici nomi navi, attrezzi ed arredi, che i nostri, unici allora, sapeano costrurre, maneggiare e descrivere.
N. B.—Non so che opporre; ma certo i nostri superbi vicini non si adagieranno così di leggieri in questa sentenza.
A.—Che monta? Gl’insegnamenti della storia non van soggetti al mareggio delle passioni, e la Francia è ricca di troppe altre glorie per usurparci anche il lembo di un manto che le direbbe assai male. Infatti per bocca de’ suoi scrittori essa appunto rafferma la verità di quanto andai finora toccando.
N. B.—E come?
A.—Parecchi di loro posero mano a raccogliere i lor modi marinareschi, ciò che non abbiamo ancor saputo far noi. Rammento fra questi il Clairac, il Fournier e l’Ozanam, che scrissero nel secolo XVII, facendo ampia testimonianza dell’italianità di una gran parte del loro glossario nautico, come potrai sincerarti, facendo ricerca delle loro opere, senza ch’io più avanti ne dica; tanto più che mi resta a rincalzare il mio primo assunto col presidio di quelle prove filologiche, di cui pur ora fei cenno.
E. S.—Nè tanto si vuole da te, sprovveduti quai siamo di simili studi per poterti seguire nelle tue argomentazioni.
N. B.—Nelle quali starebbe ad ogni modo per te la vittoria e a noi lo smacco della sconfitta per non avere armi da opporti. E invero già fin d’ora ogni arme ci hai cavato di mano. Ma pria di rendermi a discrezione, avrei caro che tu mi assennassi intorno a certe voci di bordo, alcune delle quali, come troppo rozze e plebee, dovrebbero omai sostituirsi con nomi più ragionevoli, ed altre che puzzano di francese lontano un miglio. E trattando delle prime, ti par egli lecito convertire la nave in un serraglio d’animali? Imperocchè io vi trovo: grue, cicogna, camello, biscia, cavallo, cavalloni, pecorelle, aspe, serpe, cani, cicale, colombe, montoni, gazze, chiocciole, gabbiani, capone, delfini, code di topo, barbe di gatto e chi più n’ha, più ne metta; tutti nomi bestiali, i più d’attrezzi marinareschi, nomi che accusano la rozzezza di un linguaggio costretto dalla sua povertà a far sue queste voci, affatto aliene alle cose del mare. A.—Ciò che tu chiami rozzezza, io chiamo, e sia con tua pace, una fioritura poetica oltre ogni dire, poichè per mezzo di leggiadri traslati vengono a significarsi cose ed arnesi, ch’hanno una stretta relazione cogli oggetti da cui derivarono il nome. E vaglia il vero; quelle robuste travi[67] che sporgono dal bordo, ai fianchi ed a poppa del bastimento e sulle quali si alzano pesi, non rassembrano esse il lunghissimo collo della grue, che loro die’ il nome? Ciò dirai pure della cicogna, giacchè far cicogna null’altro, s’io non erro, significa fuorchè mantigliare un pennone sotto un angolo acuto, per farlo servire esso pure all’ufficio di grue, cioè d’innalzar gravi pesi. E che troverai di più appropriato del nome di camelli assegnato a quella specie di puntoni pieni d’acqua, posti uno per parte, sotto ai fianchi della nave e resi tali, che vuotati del loro contenuto, lasciano ch’essa emerga e che superi più facilmente un qualche basso fondo che fosse di ostacolo al suo passaggio? Nè ti movano a schifo le biscie, il cui nome parmi convenientissimo a quegli intagli fatti sulle piane o matere, a destra e a sinistra del paramezzale, per lo scolo dell’acqua lungo i canali della sentina, acciò fluisca verso le trombe. Che dirò del cavallo, ossia di quel risalto di sabbia che le correnti van talora ammassando nel fondo del mare o alla foce de’ fiumi? Questo parlar per immagini non è vera poesia? E tale ti parrà eziandio la dizione: il mar fa cavalloni: il mar fa pecorelle, quando come[68] ben sai, sotto l’azione del vento irrompono le ondate impetuose, o veggonsi i flutti increspati biancheggiar di lontano e coprirsi di spuma; onde a ragion il poeta cantava:
........in sembianza
Di bioccoli saltavano le spume,
Che fanno spesso negli equorei paschi
Di lanigere torme errar la gente[12].
Senonchè io mal potrei qui su due piedi e nuovo in siffatte materie, mostrarti la dicevolezza e la leggiadria delle altre voci, che dal regno animale passarono a specificare oggetti marinareschi; assai meglio a te verrà fatto d’apprezzare queste metafore e rilevarne le convenienze, ove tu voglia ad una ad una raffrontarle fra loro.
N. B.—Non potrai per altro negarmi che un torrente di voci bastarde non sia pervenuto d’oltre alpe a laidire il nostro linguaggio. E queste voci son tante ch’io mal saprei dove annaspare. Ecco: babordo, tribordo, amaca, ammarra, dematare, combatto, ghinderessa, trelingaggio, canotto, salvataggio, doblaggio, boa, plancia, gambeduna,[69] arpanta, culare, madune, buteverso, e perfino, Dio cel perdoni, il nome de’ venti, forestiero pur esso, e universalmente accettato.
A.—Vero pur troppo; ma dimmi: non senti salirti le vampe del rossore sul viso, quando per significar cosa ch’ha il suo proprio vocabolo nella patria favella, scendiamo a mendicare una locuzione straniera? Sostituisci al babordo e al tribordo, destra e sinistra: ad amaca, branda, ormeggio ad ammarra: disalberare ad amatare: combattimento a combatto, e via di questo tenore: giacchè io non vo’ atteggiarmi a dottore in una materia, in cui tu hai il vantaggio su me del cento per uno.
N. B.—Infatti questo bastardume di voci va sempre più scomparendo. Pure, dacchè m’hai tirato in ballo, lascia ch’io danzi e ch’io vuoti il mio sacco. Vedi tu quel bastimento là presso il mandraccio in punto di salpare? Esso è un brigantino presto a far rotta; mandraccio, brigantino e far rotta, tre voci in fede mia, che nulla han d’italiano. Quella catena lassù che tien dritto l’albero e immoto al suo posto, è una landra, che vale puttana. Ti par da tenersene? Vero è che accanto alle landre troviamo eziandio le bigotte, e non so come se[70] la dicono insieme. Le parole stazzo, calumare, randa, straglio, ralinga non son da strapazzo, e lana da pettinarsi col fuoco? Da che cavammo le tonnellate? Non è egli ridicolo chiamar pappafico una vela? Ove andremo a pescare il decoro e l’italianità di tai voci?
A.—Nel domestico patrimonio, se mal non mi appongo. E innanzi a tutto antichissima voce è mandraccio, con il qual nome in più luoghi della penisola veggo significata quella parte più secura ed interna delle stagioni navali, che i latini diceano angiporto. È voce semitica, che vale appunto ricetto, stazione. Un porto di Rodi avea questo nome, che troviamo anche in Cartagine. Dalla quale non sarebbe vana congettura il supporlo a noi derivato, sapendo che i suoi navili solean frequentare le prode della Liguria, e cavarne i più destri suoi frombolieri. Non gli si potrebbe a buon dritto negare cittadinanza italiana. Erri a partito se tieni che il nome di brigantino risalga allo inglese brig o al gallico brich; altri ebbe già a dimostrare doversi la sua radicale ricercare in briga, brigare, nel significato di procaccio, procacciare, essendo noto che siffatti legni nelle origini loro adoperavansi a servigi[71] d’un naviglio maggiore. E anche colla voce rotta dovrai riconcigliarti se osservi che altro è la route de’ francesi, altro la rotta o rompimento degli italiani, i quali per rotta intendono il solco che fa la nave rompendo i flutti marini, ossia spostando le acque colla carena, e perciò modo significativo e bellissimo[13]. Nè landra mi par tal voce da menar grave scandalo, per quanto abbia smesso dell’onestà sua primitiva, trapassando, come alcune altre, nelle lingue furfantine e ne’ lupanari. Bigotta, cioè carrucola senza puleggia vale, nè sono io già il primo a chiarirlo, doppia gocciola, poichè questi bozzelli van sempre appaiati, e arieggiano que’ membretti d’architettura che diceansi gocciole o guttae; e perciò voce pur essa italiana e laziare, dacchè questo attrezzo era anch’esso noto agli antichi[14]. Ne la parola stazzo, per capacità della nave, merita che tu gli faccia il viso dell’armi, poichè fu accolta e carezzata dal Caro[15]. Dovrai amicarti[72] egualmente con la voce calumare, per non tirarti addosso gli sdegni di messer Ludovico[16]. D’eguale legittimità va improntato il vocabolo randa, a cui farai di cappello, non fosse che per riverenza a Dante Alighieri[17]; essa ci viene da randellare o distendere, per l’ufficio che fa appunto la vela di randa. Straglio ci richiama al verbo straggere, che vale tirare in altra parte, come fa il cavo che tira l’albero di fronte, dove le sartie e le parasartie gli fan di sostegno dai lati e sull’asse maggiore[18]. Quanto a ralinga, col qual vocabolo, parmi, designate la corda cucita intorno le vele per rinforzarne le bardature, noi ne troverem la ragione nel latino riligare, come a tonnellata darem padre il tonnello, che successe alla veggia o botte, ch’era intorno il secolo XIV l’unità per valutare la capacità delle navi.
N. B.—Il tuo ragionamento quadra a capello; sarebbe ostinazione il negarlo: tutto ciò[73] corre evidente e piano com’olio. Ma tu devi avere omai secco il gorzuzzolo; Schiaffino, fa di dare aria a qualche bottiglia delle tue Cinque Terre.
A.—Non prima che io abbia detto del pappafico, che tanto ti sa di ridicolo.
N. B.—Questo poi è un voler stravincere ad ogni costo, e ben sai ch’ogni soverchio rompe il coperchio.
A.—Bene sta, ma pur odi. Pappafico nomavasi nel secolo XIII e forse anche più innanzi quel capuccio a becchetto, ossia quell’arnese di panno, che assestavasi in capo per ischermo della pioggia e de’ venti: dal quale uso, per un vago traslato, passò a significare il velaccio o la vela di punta de’ bastimenti. E questo aggiungo colla scorta del Guglielmotti[19], intendentissimo delle materie navali, che una tal vela per lo innanzi diceasi suppara o suppa, con vocabolo or ito in disuso, ma vivo in quel verso di Dante:
La vendetta di Dio non teme suppe:
verso inintelligibile al volgo de’ chiosatori, ma facile e piano a chi non ignora che davasi tal[74] nome a una vela, poichè si vedrà allora tralucere in esso un sublime concetto: essere, cioè, inutile far forza di remi o di vele per isfuggire le vendette celesti.
N. B.—Un nuovo orizzonte, tua mercè, mi si è aperto allo sguardo. Io sentia bensì dentro una voce che mi rendea ripugnante ad avere in conto di barbaro il nostro lessico marinaresco, e quasi per istinto diceami, che opere proprie di nautica in cui questo linguaggio si contenesse, dovea possedere l’Italia, e leggi, statuti, regolamenti, elenchi, contratti, proverbi, relazioni di viaggi, di scoperte e di guerre: ma il manco di forti studi non mi consentia di dare un passo più innanzi.
A.—E drittamente sentivi, sovvenuto, com’eri, dal tuo potentissimo ingegno; e se da te stesso non giungesti a scorgere il vero, ne dêi accagionare la tempestosa tua giovinezza e gl’istessi tuoi studi indirizzati più a moderni che non agli antichi scrittori; ma più di tutto a quella pressochè universale opinione che sfata il linguaggio marino, come dammeno; opinione che venne in noi ribadita da Bernardino Balbi, da Simon Stratico ed altri, i quali pretesero recar giudizio di[75] cose che punto non conoscevano. Oh! escano fuori una volta dai lor gabinetti i saccenti della giornata, che van sbraitando contro la parlatura de’ marinai, viva fin dall’origini del nostro linguaggio, e si convincano alfine che essa deve rifarsi alle antiche sue fonti. E già tutto nelle materie navali si volge all’antico. Io veggo rinnovarsi le navi corazzate e rostrate: rifarsi rembate e castelli; la forza del naviglio concentrarsi nella testa anzichè ne’ fianchi, la forma dello scafo allungarsi, la spinta delle palette dell’elice tener luogo de’ remi......
N. B.—Io qua’ ti volea per conoscere se cotesta schietta lingua italiana sarebbe da tanto da porgerci la descrizione della macchina a vapore de’ nostri navigli. Essendo essa un trovato affatto recente, sarei di credere......
A.—Io ti offrirò tal descrizione di questa macchina, non che de’ suoi più minuti congegni e delle lor varie funzioni, che tu stesso dovrai confessare che mai t’avvenne di leggerne la più esatta e completa.
N. B.—Tu vai troppo innanzi, tu vai....
A.—E per giunta te l’offrirò in isplendidi versi, quali appunto sapea tornire Lorenzo Costa,[76] dal cui poema il Colombo, troppo a torto negletto, io la tolgo. Prestatemi orecchio:
Luogo è sovr’esso la naval sentina
Non lunge all’arco della proda interna
Ove dedala man ponea capace
Clibano ardente; dall’infusa copia
De’ fossili carboni alimentato
Saetta un caldo, che simil nè bronzo
Cosse, nè ferro alla fucina, quando
Il mantaco più forte aura vi soffia.
A lui fe’ quindi sovrastar col peso
Di tutta l’acqua che nel centro aduna
Fermo lebete: rinterzate piastre
Condusse intorno a’ suoi fianchi, e la bocca
Ne suggellò d’impenetrabil chiuso.
Poichè sforzando ogni sottil meato
Nel cavo rame il sottoposto incendio
Si traforò non rattenuto e mosse
Vicino assalto alla nimica sua,
Quella agitarsi, gorgogliar bollente,
Urtar e riurtar dentro i pareti
La stanza che l’infesto ardor disagia:
Poscia dall’imo al circolar coperchio
Su per lo collo d’una canna bugia,
In vaporoso nembo attenuata,
Salir veloce. Ma perchè non mai
Dall’ignea sferza dileguata o scema
[77]Sia la cagion della fumante uscita,
Altra pur v’inserì girevol doccia
Come a rincalzo, e l’ordinò siffatta
Che l’un de’ capi suoi nel bulicame
Tien sempre immerso, e l’opposito insala
Fuor del naviglio, e con perpetua vece
Infonde il mar dove la fiamma asciuga.
La qual se molto divampando il fiero
Turbine ingrossi de’ volanti effluvii,
Pur lì s’interza di minor sifone
Tondo spiraglio, in cui sovente isfoga
Quel gran soperchio, e via per l’animella
Che nel transito suo scatta leggera
Va sciolto all’aer vivo e si disperde....
Segue il vapor con misurato ascenso
La prima entrata, e dolcemente infuso
Nell’alvo d’una tromba, ivi sue forze
Tutte sprigiona e a bene oprar comincia.
N. B.—Potente di bellezza e di vero, è questa pittura, e se il resto consuona ... Ma qui forse viene il difficile.
A.—Viene infatti il difficile, e lo sente il poeta che pur non si perita a sgroppare magistralmente quel nodo. Udite:
.....La mirabil tromba
Co’ piè l’interior dificio abbranca,
E aderge il fusto che d’un largo istesso
[78]La cavità che non ha sghembo aggira:
Lo stremo è chiuso, e s’incappella il sommo
Di lamina tegnente, e giù vi casca
Da vertical sospeso asta di ferro
Cilindrico volume, e per lo vano
A scender sempre ed a salir disposto,
Mobile è sì che non accerta il dove.
Sopra la base e sotto inver la cima
Son due forami, e da quel fianco aperti
Che un quarto parallelo organo affronta
Di stupendo artificio. Entra le vuote
Latebre o vena che dal mar vi bagna,
O lo spiro dell’aria, e il loco verna
Continuamente. L’una mole e l’altra
Benchè distinte di potenza e d’atto
Si dan mutuo soccorso, e par che nuovo
Sentimento d’amor scuota le fibre
Dell’inerte metallo e n’avvalori
Il congiurato sforzo ad un intento;
Chè dentro la maggior mole compagna
Dal fomite vicino in nugol fitto
Penetra il guazzo ribollente e occupa
L’intima chiostra. Allor ne va sospinto
Il pendulo serrame, e si raccoglie
Verso l’altezza ove dall’orlo estremo
Fa il denso fumigar subito salto
Per la cruna di sopra, e al ferreo dosso
Puntando gravemente lo rincaccia.
Ma dello scender giù nulla sarebbe,
Chè la piena costipa a randa a randa
[79]La via dal mezzo e vi frappone intoppo;
Senonchè fuor della gelata gola
Sbuca un alito vivo, e mesce addentro
L’accidioso fummo e lo rappiglia,
Sì che di lui riman solo parvente
Quasi un rorido velo, e cade a piombo
L’imminente cilindro. In questa forma
Il freddo vuota ed il bollore intasa
E la suprema e la sottana bolgia
Del terzo ricettacolo, e solleva
Sempre ed atterra quell’assiduo moto
Il volubile ordigno.......
......Il moto si dirama
Pel diritto manubrio ad uno stelo
Il cui centro su lunga asse librato
Contrappesa amendue le braccia opposte
Come in bilico lance. Ivi una verga
Il punto aggrappa che più dista eguale
Dal principio motore, e poi dà leva
Torcendo alquanto sua rattezza, e gira
Le ruote magne che son pinne al ventre
Della nuova e diversa orca natante.
E. S.—Mirabile invero!
N. B.—Sublime!
A.—Lasciate che io m’affretti alla fine:
È strepito ne’ lati, è turbinio........
.......Abbriva il legno e guizza
Rapidissimamente, e qual se tratto
[80]Fosse per l’ampio mar da cento coppie
Di volanti corsieri, il mar guizzando
Sega l’ardito legno, e fuor l’immane
Troncon che sopra vi torreggia e fuma,
Di caligine ondante in ciel fa zona.
N. B.—Io non credo che la musa italiana abbia osato affrontare giammai così temerarî argomenti e trattarli con tanta chiarezza. Io mi ti do piè e mani legato. Tu hai dissipato nella mia mente e soluto que’ dubbi in cui stavasi avvolta; sicchè molto in breve stringendo, parmi aver raccolto, che Italia nostra possedeva ab antico una lingua marinaresca completa e che intatta fu a noi tramandata, poichè l’arte del navigare mai non venne qui meno. Che se nei due ultimi secoli d’oppressione e di schiavitù, non sferrarono da porti italiani armate di guerra eguali a quelle d’altre nazioni che di tanto avanzavanci, s’ebbero però qui sempre arsenali, cantieri e marinai che bastarono a conservarci il patrimonio della favella navale: patrimonio ricchissimo, e pur troppo quasi ignoto a noi stessi.
E. S.—Aggiungi che molte voci già avute in conto di rozze o accettate dagli stranieri, son per contro di puro conio italiano, passate in un co’ nostri capitani ed artefici ad arricchire le marinerie[81] d’altre nazioni. Son queste le tue conclusioni?
A.—Sono: e resta a dire soltanto che se corre un qualche divario fra le parlature della nostra gente di mare, non certo eguali ma simili in tutti i porti italiani, queste dissomiglianze, invero assai lievi, ànnonsi a riferire alla diversità della pronuncia, alle desinenze, alle elisioni proprie dei diversi dialetti: ma l’essenza della locuzione è invariabilmente la stessa. Quando io sento l’agile e schietto idioma de’ nostri marinai, mi par di vivere ancora ne’ secoli delle nostre glorie navali; che poco o nulla è mutato il lor linguaggio da quello de’ nostri grandi ammiragli: i Pessagno, i Colombo, i Vespucci, i Dandolo, i Grimaldi, gli Spinola, i Morosini, i Doria, i Colonna ed i Cossa. Con questo idioma tra i denti Biagio Assereto sgominava, il sapete, le armate di due potenti corone: e Leone Strozzi vincea la giornata di Wight, rompendo Inglesi e Spagnoli. E fo voti che usando questo linguaggio possa in breve un qualche prode italiano seppellire nel fondo dell’Adriatico il naviglio tedesco, sostituendo all’odierno grido di guerra—abbasso le brande—che troppo mi[82] sa di bastardo, il solenne e italico grido—armi in coverta[20].—
A queste parole un fremito convulso, come di furore e di rabbia, invase la persona di Bixio: i suoi occhi brillavano di luce sanguigna, e strette le pugna, giacque immerso in tempestosi pensieri. Taciti lasciammo la nave, andando ciascun di noi per i suoi venti, non senza averci ricambiata una stretta di mano e fatta promessa di ripigliare di curto la nostra discussione. Ma del mandarla ad effetto per allora fu nulla. Correano que’ giorni in cui Giuseppe Garibaldi raccoglieva tra noi il fiore della gioventù italiana per lanciarla al riscatto delle provincie meridionali: e Nino Bixio, che fu l’Aiace della gran gesta, impadronitosi di viva forza, siccome è noto, del vapore il Lombardo, facea vela per la Sicilia. Ma il desiderio di ritornare nel debito onore il linguaggio marinaresco, e avanzare sotto ogni aspetto le nautiche discipline, da quel giorno in lui non ebbe più tregua. Ognun sa quanto egli si travagliasse perchè fosse creata una Giunta, o,[83] come dicesi, una Commissione d’inchiesta, la quale dovesse indagare le nostre condizioni marittime, per accertare quai nuove proposte e migliorie fossero tuttavia bisognevoli, e fondare scuole e istituti atti a formar valenti capitani, esperti piloti, abili maestranze e marinai. Di qui gli accurati suoi studi sull’Arsenale di Venezia, le sue ricerche sulla industria del ferro, sì strettamente connessa alla questione della costruzione e corazzatura de’ legni; di qui l’alto ossequio al P. Alberto Guglielmotti, di cui predicò le lodi in Senato, e volle in Roma nel 1870 complire in un col suo stato maggiore.
Lo Schiaffino, commesso a un altro capitano il suo legno, si ridusse in Camogli, ove spese la vita a beneficare la gente di mare e a volgerne in meglio le sorti; vero tipo del marinaio italiano, che ha per divisa: petto di bronzo e cuor d’oro. Noi lo rivedrem già canuto a bordo del Maddaloni, per ripigliarvi con Nino Bixio la trattazione dell’interotto argomento.
——
DA Nino Bixio convitato ad un desinare di bordo sul Maddaloni, ebbi la lieta ventura di abbattermi con Francesco Buzzoni che ne fu il capitano, col dott. Mariano Saluzzo, con Emilio Schiaffino, il vecchio lupo di mare, e con Agostino Tortello, colui, cioè, che in quattro anni e mezzo di navigazione percorse 87,370 miglia marittime, e perciò 29,530 più di Magellano; tagliò ben otto volte l’equatore con una goletta, la Sofia, di non più che centoventi tonnellate e[86] coll’equipaggio di soli cinque uomini; degno di andar di conserva coi più ardimentosi nocchieri. Evidentemente volle il Bixio raccolti al suo desco quegli uomini espertissimi nelle cose marinaresche per sentirne i consigli, specie per quanto riguarda il linguaggio navale, ch’egli in un collo Schiaffino avea preso a caldeggiare con quella tenacità di propositi, ch’era propria della sua indole. Però durante la mensa non si fe’ cenno di ciò; i ragionari furono di molti e diversi: squisita l’imbandigione in ispecie per vini di varie ragioni; la gioia e l’ilarità regnava in noi tutti. Il convito già volgeva al suo fine, quando levatosi in piè Agostino Tortello:
—Io v’invito, disse, o Signori, ad un brindisi al Maddaloni ed al suo valente armatore, augurando possa egli trovare nelle Indie orientali ben più oneste accoglienze di quelle che v’ebbe altra volta.—
Un solo e prolungato evviva scoppiò dal labbro de’ commensali. Senonchè le ultime parole del Tortello aveano desta in noi tutti la curiosità di conoscere quai venture incolsero al Bixio nel suo primo viaggio in quelle remote contrade. Ond’è che pressato da tutti noi, cominciò il suo racconto in tal guisa.
Nino Bixio.—Nel 1846 io lasciai il naviglio di guerra, e insieme con due miei fidatissimi amici, il Tini e il Parodi, feci disegno di imbarcarmi con essi loro per il Rio della Plata. Sorgeva allora a ruote nel porto sur un’àncora di leva un legno americano diretto a caricar pepe in Sumatra, e in difetto di meglio salpammo su quello in qualità di marinai. Non l’avessi mai fatto! Il capitano, per quanto onesto e abilissimo, apparteneva alla setta dei quaqueri; quindi a bordo letture di Bibbia, sermoni, preghiere, digiuni e una austerità di contegno e di modi, qual maggiore non avremmo trovata in un chiostro di certosini. A noi baldi di giovinezza e di brio, ed anche un po’ scappati, se vuolsi, quella vita di santimonie e di ferrea disciplina piacea come il fumo negli occhi; io m’ero sciolto dalla milizia per desiderio di più libera vita, ed eccomi dalla padella cascar nella brace. Voi conoscete l’adagio de’ marinai genovesi:
Senza vino si naviga,
Senza mugugni, no;[21]
e a noi perfino il mugugno, era severamente interdetto. Si convenne perciò tra noi, appena ce ne venisse il destro, di disertare. Infatti, giunti dopo prospera navigazione rimpetto a Sumatra, divisammo d’attendere la notte, lanciarsi ne’ flutti e afferrare a nuoto la riva. Calate le tenebre, il Parodi assai meno avventato di Tini e di me, ci pose innanzi il pericolo de’ pescicani e de’ squali, ond’erano infestati que’ mari, e che da più giorni vedevansi saltellare, come monelli, attorno alla nave; e noi per tutta risposta—non te ne incaricare—e giù a capo fitto nelle onde. Ed egli di botto con noi.
Nuotammo facilmente per alcune ore: ma la terra che di notte c’era sembrata sì presso, parea fuggire da noi e farsi più ognora lontana. Cominciava a fallirci la lena: pur si filava alla meglio, or facendo il morto, or nuotando di fianco: ma s’era spossati e quasi esausti di forze. Diedi attorno uno sguardo, e veggendo il Parodi assai discosto da noi, come men destro nuotatore che egli era, mi volsi per trarre in suo aiuto, quando a un tratto, ch’è, che non è, mi scomparve dinanzi. Pur troppo un di que’ voraci predatori del mare, de’ quali egli presentiva il pericolo,[89] l’aveva azzannato e travolto nel fondo; io n’ebbi certezza dall’agitazione dell’onda e dalla nera pinna del mostro a fior d’acqua, che intravidi nel punto in cui ci fu tolto per sempre. Povero amico mio! Non posso pensare a lui senza sentirmi stringere il cuore!
Cominciava ad albeggiare. Il rischio d’essere noi pur divorati da quegli enormi cetacei, ci aggiunse vigore; e buon per noi che scorgemmo non discosto un banco di corallo, ove dopo sforzi inauditi ci fu dato sostare. S’era omai rifiniti di stento e di fame. La fresca aura del mattino ed alcuni frutti di mare che agevolmente cogliemmo, ci ristorarono alquanto. La terra ci stava dinnanzi, ma occorrevano a raggiungerla non manco di tre ore di nuoto. Non c’era via di mezzo: o morir di fame in quello arido scoglio, o tentare quel guado. Ci buttammo adunque un’altra volta tra i flutti, e tanto sbracciammo di nuoto, che si giunse alla riva, ma come e in qual modo, vattelo a pesca: poichè fummo raccolti privi di sensi sul lido. Io rammento soltanto, che aprendo gli occhi, mi vidi disteso accanto il Tini, che già cominciava a riaversi, e una moltitudine di Malesi, intesa a[90] sovvenirci di bevande e di cibo. Forse que’ selvaggi ci tennero per esseri privilegiati, non potendo comprendere come ci venisse fatto di sfuggire ai capidogli onde ribocca quel golfo. Certo è che fummo trattati con la più squisita amorevolezza, fino a vestirci con calzoni rossi di seta e con tutti quegli altri fronzoli che colà si costumano. Queste cortesie durarono per alcuni giorni, e del vedermi addobbato in quel modo, io facea le grasse risa col Tini.
Ma ci cadde in breve la benda, poichè ci avvedemmo essere tenuti quai prigionieri. Non basta: un più serio pericolo ci minacciava; quello cioè, di dover sottostare alla formalità rituale e religiosa, che l’Islamismo impone ai credenti. Noi fieramente ci rifiutammo a subire la barbara operazione. Ma un ordine espresso del re imponeva a’ nostri custodi di eseguire colla forza quell’infame cerimonia sopra di noi. Non c’era più scampo; la nostra circoncisione dovea quanto prima eseguirsi. Ma v’ebbe chi vegliava su noi. Il buon quaquero, preso terra, seppe della nostra prigionia, e ammirato della fermezza con cui ci opponemmo a mutar religione e a subir la legge de’ Mussulmani, propose a’ selvaggi il riscatto[91] dei due fuggitivi. Qual moneta sborsasse a ricomprarci, non mi fu dato sapere; cert’è ch’egli ci accolse qual padre amoroso, e seco ci tradusse in America, da dove poi trassi in Anversa e a Parigi.
Ed ora che m’avete costretto a snocciolarvi queste mie buacciolate, io penso rifarmene a misura di carbone su tutti voi, invitandovi a trattare, come in famiglia, di cosa che altamente interessa noi tutti: il linguaggio di mare. È un vecchio tema, e parecchi di voi lo sapete, che giova omai ripigliare. Il nostro amico sostiene, ed io consento con lui, che l’Italia ha una lingua navale antichissima, originale, a cui attinsero tutte le nazioni civili, e che noi dobbiam tener monda da forestiere sozzure, se, quali di nome, vogliamo essere italiani anche nelle opere. Ed io fo qui giuramento che a bordo del Maddaloni non comporterò mai, che s’usino parole e modi diversi da quelli che a noi somministra la patria favella. Mi parrebbe delitto di lesa nazione. Posso io fare assegnamento su voi?
Agostino Tortello.—Rispondo per tutti: tu il puoi. Più volte mi frullò pel capo il pensiero del debito che lega noi tutti, quello, cioè, d’affermare[92] l’unità della patria anche nel linguaggio navale che va a poco a poco sconciandosi per l’assidua intromissione di voci barbare, mentre si hanno in casa locuzioni a dovizia atte a significare quanto ragguarda la nostra professione: velatura, manovra, nave, attrezzi di bordo, fenomeni atmosferici e simili cose. Se le altre nazioni, io dicea fra me stesso, pongono tanto studio a non usare che modi dedotti dal corpo della lor lingua, oh perchè gli uomini di mare italiani non faranno altrettanto? Perchè sopporteranno che una strana mistura di voci rinnovi a bordo delle lor navi l’esempio della torre di Babele?
N.B.—Quà la tua mano. Per tutti i fuochi di Sant’Elmo, tu m’hai compreso d’un fiato.
A.T.—Senonchè mi sviò dal tentare qualche cosa in proposito l’idea del ridicolo che gli uomini di picciola levatura, i quali mal sanno che lingua vale nazione, avrebbero potuto gittare sovra una proposta, che vuole essere messa fuori da uomini da ciò, e patrocinata da chi abbia il mestolo in mano e voce in capitolo.
Francesco Buzzoni.—Parmi or giunto veramente il tempo accettevole per tradurre la proposta ad effetto. La parola del general Bixio,[93] rincalzata dall’autorità de’ patrî scrittori, suona autorevole in alto, non che presso gli uomini di mare, i quali educati come omai sono alle scienze e agli studi, agevolmente comprenderanno, che l’unità della lingua nelle cose marinaresche, è anch’essa una suprema necessità de’ tempi che corrono.
Emilio Schiaffino.—Altro adunque non resta, che a stringere una lega fra noi. Nino Bixio se ne ponga a capo; una breve ma efficace scrittura dimostri alla gente di mare che tanto sente l’amor della patria, ciò ch’essa attende da loro: si sparga largamente un tale scritto in tutti i porti della penisola: e al vostro ritorno dalle Indie olandesi vi sarà dato veder già qualche frutto dell’opera nostra.
N. B.—Certamente una lega fra gli uomini di mare condurrebbe spacciatamente allo scopo: ma l’esperienza pur troppo m’ha appreso, che tornerà malagevole il rannodarla. Non siamo più ai tempi in cui i Milanesi aveano stretto il patto di non più fumare. Si tenti ad ogni modo la lega, ma non sia questa la sola via per arrivare la meta.
E. S.—Che altro dunque proponi?
N. B.—Se io fossi il ministro sulle cose marittime, saprei ben io che mi fare. Anzitutto vorrei che i decreti, le leggi, le istruzioni che escono dal suo dicastero, fossero dettate in istile italiano, dove ora sono, a quanto mi si dice, una illuvie di voci bastarde; in secondo luogo vorrei compilare un vocabolario navale, in cui fosse come stillato il tesoro della lingua di mare, a cui tutti fossero obbligati attenersi. Sarebbe pane casalingo e fior di farina. Così da parti diverse si punterebbe per conseguire l’intento.
A. T.—E questo non fallirà al certo. Sta in nostra balìa l’organare quanto prima la lega e raccogliere le adesioni de’ capitani; ma quanto al ministro, gli è un altro par di maniche..... Que’ signori ch’han mano in pasta, e che d’un cenno potrebbero sgroppare un tal nodo, sono per lo più tanti Stiliti, che non dànno mai volta sulla loro colonna.... N. B.—E noi minerem la colonna, se farà di mestieri, pur di costringerli a secondarci. Sebbene io non credo ch’e’ faranno orecchio da mercante, se veramente ci caglia di riporre nel debito onore la lingua marinaresca. Agitiamo intanto da un capo all’altro il paese: la lega darà[95] per fermo i suoi risultati, e la volontà universale farà forza a chi siede al potere. Ma io veggo là il nostro amico che non aperse ancor becco..... Saresti per avventura discorde da queste proposte?
Autore.—Anzi v’applaudo di cuore, e tutto m’offero a voi nella pochezza delle mie forze. Ambo le vie che disegnate calcare, la lega e il concorso del ministro sulla marina, paionmi invero opportune; ma non sieno le sole: altre ben altre ve n’ha, che non devonsi per noi trascurare.
N. B.—Carte in tavola adunque; ch’io per me non so dove tu peschi.
A.—La lingua marinaresca, come v’è noto, non fa difetto in Italia: si tratta soltanto di darle nuovo vigore; anzichè adulterarla col fango di parlature straniere. Eccovi perciò due questioni che noi dobbiamo partitamente trattare. Sapete voi chi va spegnendo in Italia la lingua navale, anzichè darle nuova giovinezza e incremento? Le scuole. Noi vantiamo oltre un centinaio di Istituti Nautici, ne’ quali, da poche eccezioni in fuori, si insegna ogni cosa, tranne questa favella. Io so di Istituti, in cui di lingua marinaresca non[96] si fa neppur caso, per la sola ragione che il docente non può insegnare quello di cui egli stesso è digiuno; ne conosco per l’opposto altri, in cui il maestro restringe l’insegnamento di lettere italiane ai soli autori del Trecento e al P. Cesari Potenzinterra! Come i poveri alunni trabalzati dal S. Concordio al Cavalca, dal Novellino allo Ugurgeri, vengan su grulli, sciatti e bighelloni, circoscritti in un mondo che più non è il nostro, usanti una lingua che sarà stata oro di copello in altri tempi, ma ch’è cacio bacato a questi lumi di luna, e per la gente di mare, lascio che per voi stessi il pensiate. E questi docenti che tradiscono in tal guisa la gioventù, continuano a spadroneggiare nelle scuole, anzichè esserne cacciati mille miglia lontano. Non basta. Seguite un po’ questi giovani nelle altre scuole. Eccovi una mano di professori che tratta di cose scientifiche: nautica, fisica, attrezzatura, disegno navale, velatura, astronomia, meteorologia e altre tali. Professori invero dottissimi; ma pure in tema di lingua sì addietro, che v’hanno ben pochi, i quali sappiano dare alle disquisizioni scientifiche, fattezze veramente italiane. Tutti i libri di testo, niuno escluso, o non sono che sconciature o versioni di libri[97] stranieri fatte in modo scempio e scapigliato; ovvero trattati originali, ma scritti del paro nel modo più scriato ed indegno. E intanto i poveri alunni che nulla san d’italiano, o che soltanto hanno appreso a balbettare le leggiadre vanità del Trecento, sprofondati per più anni nel pantano de’ libri di testo, v’attingono una lingua che non è nè carne, nè pesce, nè italiana, nè francese, nè inglese, ma infarcita di tutte: il caos, il pandemonio della favella di Nembrot. La verità di quanto affermo vedetela ne’ risultamenti dei loro esami finali ... Oh! so ben io con che pettine invece dovrebbe cardarsi la lana ai loro docenti!
N. B.—La pittura che tu fai delle scuole nautiche è fosca pur troppo, ma vera. La loro riformazione sarà adunque il terzo espediente cui dovremo appigliarci per mandare ad effetto il nostro disegno. Ma tu accennavi anche ad un’altra questione ...
A.—Io dissi eziandio che urge porre una diga alla infestazione straniera, che minaccia offuscare la purità del linguaggio navale. A tal uopo tornerebbe assai profittevole una serie di trattatelli e di letture, che pel loro tenuissimo[98] prezzo potessero correre per le mani della gente di mare.
N. B.—Vi fu, se non erro, chi parecchi anni addietro pose a concorso un’opera di tal fatta, col titolo—Il Libro del Marinaio italiano—Quel concetto s’ebbe lodi e plausi non pochi: ma i casi della mia vita non mi concessero di conoscere qual ne fosse l’effetto[22].
A.—Quello che poteva allora aspettarsi da una nazione, in cui per lunga consuetudine le[100] scienze marittime erano assai trascurate e la lingua marinaresca avuta in dileggio. Del resto la lega fra la gente di mare, l’azione governativa, la riformazione delle scuole nautiche, la diffusione di libri popolari: ecco i mezzi efficaci per riporre in trono una lingua, che fra tutte le lingue tecniche tiene a ragione il primato, come ricchissima ch’ella è e poetica al sommo. Rozzi se vuolsi, talora i marinai, non rozza la lingua loro, ma splendida di bellezze, di immagini figurate, di mille partiti insomma, come quella ch’è il complesso delle diverse scienze costituenti l’arte del navigare. I nostri classici riboccano d’allusioni marinaresche, le arti, le industrie e tutte le discipline s’avvantaggiano di questa lingua, che meravigliosamente si presta ad arricchire la lingua comune d’una folla di metafore, di proverbi e di modi smaglianti di vita e di brio. Essa infatti comprende tutti i vocaboli che si riferiscono ai fenomeni del mare, dei venti, ai materiali di bordo, alla navigazione, alle manovre, alla nave, in cui dall’albero in giù tutto è tropi e traslati....
N. B.—Piglia un po’ fiato, piglia: o per dirla alla marinaresca, gitta omai l’àncora, che[101] altrimenti ci farai perdere la tramontana. Nel tuo inno alla parlata di bordo, toccasti eziandio de’ proverbi....
A.—N’è infatti ricchissima, come eziandio di sentenze e modi proverbiali, i più leggiadri ch’io mi conosca.
N. B.—Ecco, amici, un tema bellissimo e nuovo per chiudere questa lieta giornata. Marinai, quali siamo, non ci fallirà la materia, e poi l’un proverbio tirerà l’altro, come le ciliegie.
A.—Accetto la tua proposta; io m’atterrò alla parte che ragguarda i modi proverbiali, poichè quanto ai veri proverbi di mare....
E. S.—Oh! questo poi è affar mio. Non sia mai detto che io abbia per quaranta anni scopato l’oceano, senza avermene fatto una buona satolla.
A. T.—Anch’io ne ho in serbo parecchi, che raccolsi nel mio assiduo contatto co’ vecchi marinai, e che a mia volta potrò scodellarvi.
N. B.—Or bene: dacchè noi rappresentiamo, può dirsi, le varie parti d’Italia, avrem per risultato che i nostri proverbi non saranno esclusivamente municipali. Tu, Mariano, benchè medico, non sei così nuovo alle cose di bordo, da non sapere gettar lo scandaglio e orientarti.
Mariano Saluzzo.—Farò anch’io le mie prove per prender terra; ad ogni modo mi trarrete al rimorchio.
N. B.—Chi spiegherà primo le vele?
A. T.—Parmi, che ciò s’addica a Schiaffino, il più attempato di tutti.
E. S.—Dacchè a me tocca prendere il largo, comincierò con alcuni proverbi che riferisconsi ai vantaggi del navigare.
Tre cose fan l’uomo accorto:
Lite, donna e porto.
*
*—*
Scienza, casa, virtù e mare
Molto fan l’uomo avanzare.
*
*—*
Un uccello di mare ne val due di bosco.
*
*—*
Chi va e torna, fa buon viaggio.
*
*—*
Popolo marinaro, popolo libero.
*
*—*
Chi vuol della roba esca di casa.
*
*—*
Chi va pel mondo impara a vivere.
*
*—*
Il sapere ha un piede in terra e l’altro in mare.
*
*—*
Chi non s’arrischia, non rosica.
*
*—*
Chi ha passato il guado sa quant’acqua tiene.
*
*—*
Piè di montagna, porto di mare
Fanno l’uomo profittare.
*
*—*
Chi non s’avventura, non ha ventura.
*
*—*
Chi non sa orare
Vada in mare a navigare.
E i Veneti:
Chi non va per mar
Dio non sa pregar.
*
*—*
Chi scappa d’una[23] scappa di cento.
*
*—*
Il mare fa la fortuna e non le fonti.
*
*—*
Giornata di mare
Non si può tassare.
*
*—*
Abbi fortuna e gettati in mare:
che se non è compagno compagno, arieggia il noto—fortuna e dormi.—
N. B.—Belli e calzanti davvero! Senonchè manca il loro riscontro. Il popolo che conservò tanto tesoro di sapienza sui vantaggi della navigazione, non può avere dimenticato i pericoli che talor ne derivano.
E. S.—Farò di rammentarmeli.
Loda il mare, ma tienti alla terra.
*
*—*
Preparati al mare prima d’entrarvi.
*
*—*
Chi disse navigar disse disagio.
*
*—*
Mare, fuoco e femmina, tre male cose.
*
*—*
Meglio chiamar gli osti in terra, che i Santi in mare.
*
*—*
Chi fa due volte naufragio, a torto accusa il mare.
*
*—*
Meglio starsi al palo ch’annegare.
*
*—*
Acqua di mare non porta mai quiete.
*
*—*
Chi non ha navigato non sa che sia male.
*
*—*
La fine del corsale è annegare.
*
*—*
La bellezza, il fuoco e il mare
Fanno l’uom pericolare.
*
*—*
Chi vuol viaggiare a stento,
Metta la prora al vento.
*
*—*
Chi s’impaccia col vento, si trova colle mani piene d’aria.
*
*—*
Chi semina vento raccoglie tempesta.
*
*—*
Acqua e pane, vita da cane:
Pane ed acqua, vita da gatta.
*
*—*
Uom di mare oggi ricco e doman povero.
*
*—*
Nuotare e nuotare e alla spiaggia affogare[24].
*
*—*
Ogni cosa si sopporta, eccetto il buon tempo.
Risponde al toscano—Il troppo dolce stomaca:—e al veneziano—ogni bel balo stufa.
Dal mare, sale: e dalla donna, male.
*
*—*
Se ho da annegare, vo annegarmi in mar grande.
*
*—*
Chi entra nel fiume, o lo passa, o la croce:
cioè v’annega.
In tempo di tempesta ogni scoglio è porto.
*
*—*
Chi sa navigare va al fondo, chi non sa, anche.
*
*—*
Chi sputa contro il vento, si sputa nel viso.
*
*—*
Chi ha beuto al mare, può bere alla pozza.
*
*—*
Chi è portato giù dall’acqua
S’abbranca ad ogni spino.
E in qualche luogo:
Chi s’affoga si attaccherebbe a’ rasoi.
A Costantinopoli:
Chi casca nell’acqua s’abbraccia anche al serpente.
*
*—*
Chi discioglie le vele a più d’un vento
Arriva spesso a porto di tormento.
Terminerò con alcuni che corrono sui litorali dell’Adriatico:
Vento potente, fote la corrente:
e vale: col vento gagliardo le barche a vela giungono a superar la corrente contraria.
I temporai più grossi vien a l’improvviso.
*
*—*
Co sbala la tempesta, se desmentega il temporal.
*
*—*
Chi xe in mar, naviga: chi sta in tera, radega[25].
N. B.—I tuoi motti m’hanno aperto la vena, sì che mi par mille anni di sfringuellarvene alcuni che han tratto alla nave.
A. T.—Siam tutti orecchi a sentirli.
N. B. Ben diremo, ben faremo:
Mal va la barca senza remo[26].
*
*—*
Fama vola e nave cammina.
*
*—*
Due capitani: nave ne’ scogli.
*
*—*
Vascello torto, purchè cammini dritto.
*
*—*
Casa senza amministrazione, nave senza timone.
*
*—*
Chi ha danari fa navi.
*
*—*
Gran nave vuol grand’acqua.
*
*—*
Gran nave, gran pensiero:
Consuona col noto:
Chi ha terra, ha guerra.
*
*—*
Nave senza timon va presto al fondo.
*
*—*
A nave rotta ogni vento è contrario.
*
*—*
Vecchia nave, ricchezza del padrone.
*
*—*
Non giudicar la nave stando a terra.
*
*—*
In nave persa tutti son piloti.
*
*—*
Tre cose son facili a credere: uomo morto, donna gravida e nave rotta.
*
*—*
Donna, cavallo e barca
Son di chi le cavalca.
*
*—*
Dove va la nave, può ire il brigantino[27].
*
*—*
Un po’ di bene e un po’ di male tien la barca dritta.
*
*—*
Quando il ciel bello varia
Convien darle dell’aria.
*
*—*
Dove può andare barca, non vada carro.
*
*—*
Nave genovese, mercante fiorentino.
*
*—*
Chi in mar la barca abbriva,
Sta con un piè alla riva.
*
*—*
Senza barca non si naviga.
*
*—*
A tal nave, tal battello.
*
*—*
Per un peccatore perisce una nave.
*
*—*
Naviglio ed acqua, febbre bella e fatta.
*
*—*
Chi non unge non vara.
*
*—*
La bandiera cuopre la mercanzia.
*
*—*
Ogni nave fa acqua.
*
*—*
Chi non rassetta il buchino, rassetta il bucone.
*
*—*
Chi s’è imbarcato col diavolo, ha da stare in sua compagnia.
*
*—*
Tira più un pel di femmina,
Che gomena di nave.
Nè i Veneti ne van privi. Uditene alcuni:
Chi mete pègola nella barca de altri, perde pègola e barca.
*
*—*
Barca neta non guadagna.
*
*—*
A barca sfondada ne ghe vol sèssola[28].
*
*—*
Quando la barca va, ogni cojon la para.
*
*—*
Barca ligada, no fa strada.
*
*—*
El vento no è bon se no da menar navi e galie.
*
*—*
A barca rota, ogni vento xe fortuna.
*
*—*
A barca desperà Dio trova il porto.
*
*—*
Barca rota, conti fatti.
*
*—*
Dai e dai, la barca arriva ai pai:
E vale: chi la dura, la vince.
Bastimento non sta senza saorda[29].
A. T.—Degni invero di porsi in brigata co’ primi. Eccone alcuni altri, men belli forse, ma pratici assai. Riguardano nocchieri e piloti.
Argomento al nocchier son le procelle.
*
*—*
Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana.
*
*—*
Accerta il corso e poi spiega le vele.
Ovvero:
Ognun sa navigar quando è buon vento.
*
*—*
Chi ha buon tempo navighi:
E chi ha denari fabbrichi.
*
*—*
Vento in poppa, mezzo porto.
*
*—*
Vento in poppa, vele al largo.
*
*—*
Secondo il vento, la vela.
*
*—*
Chi non teme, pericola.
*
*—*
Chi non s’aiuta, s’annega.
*
*—*
Di molti piloti: barca a traverso:
Ovvero:
Due piloti affondan la barca.
*
*—*
Chi mal naviga, mal arriva.
*
*—*
Bisogna navigar secondo il vento[30].
*
*—*
Chi naviga controvento, convien stia sulle volte.
*
*—*
Chi guarda le nuvole, non fa viaggio.
*
*—*
Tutti vogano alla galeotta[31].
*
*—*
Altro è vogare: altro arrivare.
*
*—*
Il mondo è fatto a tondo:
Chi non sa navigare va in fondo.
*
*—*
È un cattivo andare contro la corrente.
*
*—*
Gran laguna fa buon porto.
*
*—*
Chi ha da navigare guardi il tempo[32].
*
*—*
Più vale un sol remo che sia indietro, che dieci che vanno avanti[33].
*
*—*
Tra corsale e corsale non si perde che i barili vuoti.
*
*—*
In tempo di burrasca ogni tavola basta.
*
*—*
Isola fa porto[34].
*
*—*
Buono studio rompe ria fortuna:
Motto che i nostri storici riferiscono a quella birba di Carlo d’Angiò: e risponde al—cor forte, rompe cattiva sorte.—
Or viene la tua volta, Buzzoni.
F. B.—Dacchè non poss’io sgabellarmene, dirò de’ marinai.
L’arte del marinaio, morire in mare: l’arte del mercante, fallire.
*
*—*
Il buon marinaio si conosce al mal tempo.
*
*—*
O polli o grilli: o principe o marinaio.
*
*—*
Barca rotta: marinaio scapolo[35].
*
*—*
Chi è oste o fornaio e fa il barcarolo,
Dato gli sia d’un mazzuolo.
*
*—*
Promesse di barcaroli e incontro d’assassini,
Costano sempre quattrini.
*
*—*
Montagnini e gente acquatica,
Amicizia e poca pratica.
*
*—*
Giuramenti d’amore, giuramenti da marinaio.
*
*—*
I marinai son come la luna:
In tutti i paesi ce n’han una.
E ricordo d’aver udito in Venezia:
Un bravo trabaccolante xe un bravo vassellante.
*
*—*
Chi vol sentire el tibidoi,[36]
Vaga dove che ghe xe done e barcarioi.
E per la laguna si canta:
L’amor del mariner no dura un’ora:
Per tutto do’ ch’el va, lu s’inamora;
E se l’amor del mariner durasse
No ghe sarave amor che ghe impatasse.
N. B.—Bravo, il mio Buzzoni. Ma chi tratta del mare? Se il nostro Tortello che lo misurò in ogni più remota sua parte...
A. T.—Pronto a’ tuoi cenni.
Chi è padrone del mare è padrone della terra.
N. B.—Anche questo, per Dio, avrebbero i nostri reggitori dovuto imparare dal popolo.
A. T.—Oh, non sai tu a che lumi si vive? Ma lasciami, via, continuare.
Chi scapita in mare, scapita in terra.
N. B.—Vero pur troppo. L’infamia di Lissa costò ben cara all’Italia. Ma tira via, tira via, ch’a questo pensiero sento abbruciarmi il cervello.
A. T. Il mondo è come il mare:
E’ vi s’affoga chi non sa nuotare.
*
*—*
Chi teme acqua e vento, non si metta in mare.
*
*—*
Il mare è fatto a viottoli.
*
*—*
Chi in terra giudica, in mare naviga.
*
*—*
El mar xe ’l facchin de la tera.
*
*—*
Chi sa nuotar non se lo scorda mai.
*
*—*
Come ogni acqua vien dal mare,
Così ogni acqua torna al mare.
*
*—*
Non mettere e cavare,
Si seccherebbe il mare.
Risponde al
Leva e non metti, ogni gran monte scema.
*
*—*
Che il tristo manda al mare
Non aspetti il suo tornare.
*
*—*
Chi vuol tôrre a mattonare il mare
Perde il tempo ed i sassi.
*
*—*
Chi casca in mare e non si bagna,
Paga la pena[37].
*
*—*
Per mare non ci stanno le taverne.
*
*—*
Quei che con l’acqua mischia e guasta il vino, Merta di bere il mare a capo chino.
A.—Forse anche l’acqua offrirebbe alcune leggiadre sentenze.
Nè moglie, nè acqua, nè sale,
A chi non te ne chiede non gliene dare.
*
*—*
Ogni piè d’acqua immolla.
*
*—*
Onda che si piega, si riversa.
*
*—*
Ogni trista acqua cava la sete.
Ovvero:
Ad ogni gran sete ogni acqua è buona.
E Dante:
È nettare per sete ogni ruscello[38].
*
*—*
Acqua che non si move, marcisce.
Ed anche:
Acqua cheta, vermi mena.
*
*—*
Si passa l’acqua dove è più sottile.
*
*—*
Se ho da affogare, vorrei affogare nell’acqua chiara.
*
*—*
Acqua cheta rovina i ponti.
*
*—*
Dove non si crede, l’acqua rompe.
*
*—*
Acqua passata, non macina più.
*
*—*
Acqua torba non fa specchio.
*
*—*
Acqua chiara non fa colmata.
*
*—*
Ogni secchio non attinge acqua.
*
*—*
Guardati dalle acque chete[39].
*
*—*
In cento anni e in cento mesi
L’acqua torna a’ suoi paesi.
*
*—*
Acqua che corre non porta veleno.
*
*—*
Piccola spugna ritiene molta acqua.
*
*—*
Abbila per certa e tientela per cara,
Che il fiume non s’ingrossa d’acqua chiara.
N. B.—Non so invero saziarmi d’udir tante e sì nervose sentenze, che mostrano aperto essere il popolo il più savio di tutti i filosofi. Ma molto più resta a dirsi, e la pescagione darà campo a Schiaffino a gittar le sue reti.
E. S.—Per me non rimanga, dacchè lo volete, purchè alcuno di voi venga quindi a darmi una mano.
Chi dorme non piglia pesci.
*
*—*
Invan si pesca, se l’amo non ha l’esca.
*
*—*
Chi non ha sorte non vada a pescare.
*
*—*
Non è l’amo nè la canna,
Ma gli è il cibo che l’inganna.
*
*—*
Chi tende a la pesca, poco tresca.
*
*—*
Chi pesca a canna,
Perde più che non guadagna.
*
*—*
Chi pesca a togna,[40]
Perde più che non bisogna.
*
*—*
Chi va dietro a pesce e a penne
In questo mondo mal ci venne.
Risponde a quei de’ Veneziani:
Pesca e oselin fa l’omo meschin.
*
*—*
Nè oselador, nè pescador porta tabaro.
*
*—*
Per la gola si pigliano i pesci.
*
*—*
Pesce che va all’amo,
Cerca d’esser gramo.
*
*—*
A fiume torbido, guadagno di pescatore.
*
*—*
Al levar delle nasse si vedrà la pesca.
*
*—*
Il beccaio non ama il pescatore.
*
*—*
Chi vuol pesce, uopo è s’immolli.
Ovvero:
Chi pesce vuol mangiare
Le brache s’ha a bagnare.
*
*—*
Non si vende il pesce ch’è ancor in mare[41].
*
*—*
Quando il pesce viene a riva,
Chi nol prende e’ torna via.
*
*—*
Tal tende la rete che pesci non piglia.
*
*—*
È un di più tender bene
Se la rete non tiene.
*
*—*
In acque senza pesci non gettar rete.
*
*—*
Nelle grandi acque si pigliano i pesci.
*
*—*
Chi non ha saputo tirar la rete, suo danno.
*
*—*
Chi pesca in fretta, spesso piglia de’ granchi.
*
*—*
Senza l’esca l’amo non piglia.
*
*—*
Cento cale e cento pesci;
Una le paga tutte[42].
*
*—*
I pesci grossi stanno al fondo.
*
*—*
A pescespada non far bere il caffè[43].
*
*—*
Come l’anguilla ha preso l’amo,
Convien che vada dov’ell’è tirata.
*
*—*
Anche al buon pescator scappa l’anguilla[44].
*
*—*
Tener l’anguilla per la coda,
cioè, aver per le mani cosa che non può condursi a buon termine; onde l’adagio:
Chi piglia l’anguilla per la coda e la donna per la parola, può dire di non tener nulla.
*
*—*
Fa il bene e buttalo in mare; se non te lo riporta la gente, te lo riporta il pesce.
Se ad alcuno di voi piacesse darci il resto del carlino....
F. B.—Volentieri.
Sul tardi i muggini toccano[45].
*
*—*
Non v’è lin senza resca,
Nè acqua senza pesca.
*
*—*
I pesci grossi mangiano i piccoli.
*
*—*
Dal mar salato nasce il pesce fresco.
*
*—*
Quando il grano abbonda, il pesce affonda:
Quando il grano affonda, il pesce abbonda[46].
*
*—*
Non v’ha pesce senza lisca.
*
*—*
Pesce che scappa par più grande.
*
*—*
Un pesce in mano val meglio che un pesce in mare.
*
*—*
Chiaro di luna guasta il pesce[47].
*
*—*
Un occhio al pesce e un altro alla gatta.
*
*—*
L’ospite e il pesce in tre giorni puzza[48].
*
*—*
Meglio esser capo di luccio che coda di storione.
Ovvero:
Meglio esser testa d’anguilla che coda di storione.
Consuonano coll’Istriano:
Megio paron de caìcio, che mozzo di vassel[49].
E col genovese:
Megio padron di gotazza che garzon di nave.
*
*—*
Val più un’oblata che cento paraghi[50].
*
*—*
Chi lavora mangia un’acciuga, chi non lavora, due.
*
*—*
Il pesce guasta l’acqua, ma la carne la concia.
*
*—*
Meglio porco che pesce.
*
*—*
Il pesce comincia a putir dal capo[51].
*
*—*
Carne al sole e pesce all’ombra.
*
*—*
La carne fa carne e il pesce fa vesce.
*
*—*
Pesce cotto e carne cruda:
Carne giovane e pesce vecchio:
Pesce in mare e carne in terra.
*
*—*
Nè carpione, nè cappone
Non perde mai stagione.
*
*—*
Coda di pesce, testa di sermone.
*
*—*
Quanto è pesce in mare, non farebbe una candela di sego[52].
E nel Veneto:
Chi magna schile, ghe vien le gambe sutile.
E cesso per
Non saper più che pesci pigliare.
N. B.—Volerne!
Il pesce va mangiato quando è fresco[53].
*
*—*
Chi ha pesce, cammini[54].
*
*—*
A buon’ora in pescheria
E assai tardi in beccheria.
*
*—*
Dove è acqua, ivi è anche pesce.
*
*—*
Chi non sa cuocere il pesce, l’arrostisca.
*
*—*
Fra i pesci, il rombo: fra i quadrupedi, il lepre[55].
*
*—*
Chi mangia il pesce, rende le lische.
*
*—*
Chi mangia cacio e pesce,
La vita gli rincresce.
*
*—*
Quattro cose vuole il pesce:
Fresco, fritto, fermo e freddo.
E in alcuni luoghi:
Tre f. vuole il pesce: fresco, fritto e freddo.
*
*—*
Tre cose son buone al mezzo: il vino, il formaggio e il pesce.
*
*—*
Sui pesci, mesci.
E il mio tinello non sa spillarvi altro vino.
E. S.—Saporito davvero. Io m’avvisava di avervi dato i più leggiadri proverbi sui pesci, ma la giunta supera d’assai la derrata. È proprio il caso di dire:
Quand’io credea d’avere il vento in poppa,
Mi trovai fatta la barba di stoppa.
A. T.—Un ne udii in più luoghi dell’alta Italia in forma di dialogo fra la tinca ed il luccio:
Taci, taci, tenca rugginente:
Chè chi mangia di te tutto il dì febbre sente.
A cui la tinca risponde:
È meglio la mia testa che il tuo busto.
E presso a poco nel Veneto:
—Tenca, tenca de pantan,
Chi te magna no xe san.
—Luz, luz, val pù la mia testa che il to bust.
E poichè siamo tra i Veneti, non vi gravi udire questi altri:
Rede sbusada, picola pescada.
*
*—*
Co ’l pesce fa bianco l’ocio,
Xe segno che l’è coto.
*
*—*
Chi magna carpion, no xe babion.
*
*—*
Sfogio e barbon, no perde mai stagion.
*
*—*
Del barbon la testa x’l megio bocon.
*
*—*
Tenca in camisa, luzzo in pelizza[56].
*
*—*
Quando la segala fiorisse, i gamberi olisse.
*
*—*
I gamberi xe boni nei mesi dell’erre.
*
*—*
In mancanza de’ gamberi xe boni anco le zate[57].
*
*—*
Magnà i gamberi se ciuca le zate.
*
*—*
Le done, i cani e ’l bacalà,
Perchè i sia boni i ghe vol ben pestà.
*
*—*
Pescar a bacheta, oselar a çiveta e camminar sul sabion, xe tre gusti da cogion.
*
*—*
Pescador e sonador de violin,
A la fin de l’an no i ghe n’ha più un quatrin.
A.—Consentitemi prima di chiudere la rubrica del gregge,
. . . che il fresco erboso fondo
Del liquido cristallo alberga e pasce[58]
ch’io aggiunga, a mo’ di coda, due proverbi antichissimi, l’un cavato da Francesco da Barberino che suona:
A pelago lodato non pescare;
e vale, che le cose da tutti stimate buone, sono da molti occupate; e un secondo che trovo nelle poesie di Bindo Bonichi, rimatore pur esso del secolo XIII, cioè:
Piace alla gatta il pesce, ma nol pesca[59].
Nello stesso autore leggo pure quest’altro, sebbene nulla abbia a che fare co’ pesci:
Folle è chi sa nuotar se cerca fondo.
N. B.—E’ parmi che poco altro v’abbia ad aggiungersi in questa materia. Senonchè fu da noi lasciato da banda un tema bellissimo, che io ritengo fecondo d’argute sentenze. Su via, dottor Mariano, sciogli la tua parlantina, e dinne dei pronostici e segni del tempo.
M. S.—Tanto m’è bel quanto a te piace:
tanto più che da qualche tempo vo’ raccogliendo siffatte sentenze, nell’intento di porre a riscontro la scienza del volgo coi risultati della metereologia. E, a parlar tondo, entrai nella convinzione, che il popolo in questo tema avanza i dotti di assai.
Tramontana torba e scirocco chiaro,
Tienti all’erta, o marinaro.
*
*—*
Vento a libeccio: nè pane, nè neccio.
*
*—*
Quando il tempo è reale,
Tramontana il mattino, la sera maestrale.
*
*—*
Tramontana non buzzica
Se il marin non la stuzzica.
*
*—*
Levante chiaro e tramontana scura,
Buttati in mare e non aver paura.
*
*—*
Nuvole grosse, vento a mucchi.
*
*—*
Piove e fa sole: nozze del diavolo.
*
*—*
Piccola pioggia fa cessar gran vento[60].
*
*—*
Nuvolette al mare, acqua alla montagna.
*
*—*
Quando le nubi ascendono dal mare, non uscir di porto.
*
*—*
Quando il tempo è in vela,
Ogni nuvol porta sereno.
*
*—*
Nuvola vagante acqua non porta.
*
*—*
Quando le nuvole vanno per su, l’acqua viene per giù.
*
*—*
Chi guarda ad ogni nuvola, non fa viaggio.
*
*—*
Del mar le pecorelle
Annunzian le procelle.
Ovvero:
Cielo a pecorelle,
Acqua a catinelle.
*
*—*
Quando il cielo è fatto a pani,
Se non piove oggi, piove domani.
*
*—*
Aria rossa, o che piove, o che buffa.
*
*—*
Arco di sera, buon tempo spera.
*
*—*
Arco in mare, buon tempo vuol fare.
*
*—*
Arco in terra, il cielo in guerra.
*
*—*
La bonaccia, tempesta minaccia.
*
*—*
Seren fatto di notte
Non val tre pere cotte.
*
*—*
Pallidezza nel nocchiero
Di burrasca segno vero.
*
*—*
Se l’iride si vede la mattina Badate che il mal tempo s’avvicina.
*
*—*
Il pesce guizza a fior d’acqua: pioggia imminente.
*
*—*
Quando nel fosso salta la scardova, pioggia.
*
*—*
Montagna chiara e marina scura,
Sciogli le vele e non aver paura.
*
*—*
Greco in mare, greco in tavola, greco,[61]
Non avere a far seco.
E in qualche porto:
Chi si fida di greco
Non ha il cervello seco.
*
*—*
Greco, nè buon uomo, nè buon vento.
*
*—*
Apparso è il delfino; acqua fia.
Al qual pronostico accennava anche Dante, cantando:
Come i delfini quando fanno segno
Ai marinar con l’arco della schiena,
Che s’argomentin di campar lor legno[62].
*
*—*
Nessun si fidi del tempo sereno.
Ovvero:
Chi suol far del seren troppo gran festa
Avrà doglia maggior nella tempesta.
A questi proverbi che son proprî di tutti i volghi italiani, ne aggiungo alcuni altri sol proprî dell’Adriatico.
Da Santa Caterina varda la marina.
*
*—*
Nuvole verdoline e negrete, tempesta e saete.
*
*—*
De istà, varda il fonte; de inverno, il monte[63].
*
*—*
Quando se vede ’l mazoran, se la piova no vien ancò, la vien doman[64].
*
*—*
Sete, oto e nove,
L’aqua non se move:
Venti, ventiun e ventidò,
L’aqua no va nè in su, nè in zò[65].
N. B.—E della luna, cui tanto attende la gente di mare, neppure un zinzino?
M. S.—Io ci veniva pur ora.
Luna in piedi, marinai coricati:
Luna coricata, marinai in piedi.
*
*—*
Cerchio lontano, acqua vicina:
Cerchio vicino, acqua lontana.
*
*—*
Ponente, tramontana si risente.
*
*—*
A luna scema non salare
Se tu vuoi risparmiare.
*
*—*
Ogni granchio ha la sua luna.
*
*—*
Quando la luna è tonda, i granchi son pieni.
*
*—*
Luna mercurina,
Tutto il ciel ruina[66].
*
*—*
Al fare, in mare: al tondo, in terra[67].
E i Veneti:
Al far, in mar; al tondo, in porto,
Açiò che la quintadecima no te fazza torto[68].
A.—Or che di proverbi n’avete una buona stampita, vi darò un saggio di modi proverbiali, ch’andai registrando nel mio taccuino, i quali dimostrano quanto la lingua comune s’avvantaggi della lingua marinaresca. E’ son di uso giornaliero fra noi, e vigorosi di nerbo e di brio.
N. B.—Slazzera dunque i tuoi modi.
A.—A un patto, che quando v’avrò stracchi abbastanza, m’accenniate d’ammainare le vele. Aggiungerò qualche breve mia notarella per ischiarire le dizioni men note.
Mettersi in panna; vale esitare.
*
*—*
Pigliare il vento colle reti.
*
*—*
Nave senza biscotto. Uom senza denari.
*
*—*
Insegnare a nuotare a’ pesci[69].
*
*—*
Lasciarsi levare in barca. Ingannare.
*
*—*
Pescar nel torbido.
*
*—*
Nuotar fra due acque.
Ovvero:
Appoggiarsi a due àncore[70].
*
*—*
Fare un buco nell’acqua.
*
*—*
Menar la barca secondo il meridiano d’alcuno.
*
*—*
Ire a bastonare i pesci[71].
*
*—*
Lavorar nell’acqua.
*
*—*
Annegare in secco.
*
*—*
Pagar di scotta. Fuggire lasciando dei debiti.
*
*—*
Menar la barca a riva.
*
*—*
Pesce d’aprile.
*
*—*
Pescare per il proconsole. Fare opera non retribuita d’alcuna mercede.
*
*—*
E’ darebbe fondo a una nave di sughero.
*
*—*
Tempesta senz’acqua. Si dice di coloro che mangiano senza bere.
*
*—*
Il vino non ha timone.
*
*—*
Mettere la prua addosso a qualch’uno. Perseguitarlo.
*
*—*
Filar per occhio. Scomparire.
*
*—*
Vedere i tonni. Avere buone carte in mano.
*
*—*
Trar acqua dalle spugne.
E Dante:
Trassi dall’acqua non sazia la spugna[72].
*
*—*
Non è poi un mare a bere.
*
*—*
Affogare in un bicchier d’acqua.
*
*—*
Non troverebbe acqua nel mare.
E in qualche luogo:
Se andasse al mare, il troveria secco.
*
*—*
Portar acqua al mare e legna al bosco.
*
*—*
Marinaio d’acqua dolce. Dicesi di un soldato che mai non fu esposto a’ pericoli.
*
*—*
E’ darebbe in un occhio di pesce.
*
*—*
Star con gli occhi al pennello. Star all’erta.
*
*—*
Lasciar correre il pesce. Lasciar ch’altri si metta a qualche repentaglio, senza aiutarlo a cavarsene.
*
*—*
Andar coll’insegna sulla gaggia. Si dice di chi vuol fare il grande e filar del signore.
*
*—*
Andare colla vela a mezz’arbore. Si dice di chi s’appaga del mediocre.
*
*—*
Andar colle vele basse. Atteggiarsi a umiltà.
*
*—*
La vela è piena. Prosperità al colmo.
*
*—*
Andare a veder pescare la gatta.
N. B.—Bellissimi tutti; ma quest’ultimo non mi entra affatto. Che vale?
A.—Si dice di chi lascia d’attendere a’ suoi negozi per gire a qualche sollazzo.
Uno a levante e l’altro a ponente.
Od anche:
Ostro e tramontana.
*
*—*
Son calate le acque. È cessata la furia.
*
*—*
Nol troveria la carta da navigare.
*
*—*
Egli ha un buon friggere i pesci.
*
*—*
Tenere i panni a chi nuota.
M. S.—E questo che indica?
A.—Chiedilo al latino: e terra spectare naufragium.
*
*—*
Vo’ sapere in quanti piè d’acqua sono.
*
*—*
Promettere mari e monti.
*
*—*
Lasciar andar l’acqua alla china.
*
*—*
S’intende acqua e non tempesta.
*
*—*
Tener l’amo pendente. Vale tener l’arco teso: cogliere il destro; forse tratto da Ovidio: semper tibi pendeat hamus[73].
*
*—*
Qui bisogna bere o affogare. Accettare un mal minore per cansarne un più grave.
*
*—*
Perdere la tramontana, la bussola...
*
*—*
Tu hai trovato la stiva. Cioè, m’hai dato nell’umore.
*
*—*
I granchi soglion mordere le balene.
*
*—*
Pescar ne’ rigagnoli: per significar la sciocchezza di chi pon mano a cosa, da cui non può cavar cica di bene.
*
*—*
Egli è arenato.
*
*—*
Nol laveria quant’acqua corre al mare.
*
*—*
Gettare il giacchio tondo. Pigliar tutto.
*
*—*
Caricar l’orza, o il burchio. Mangiar molto, empier l’epa.
*
*—*
Al tempo che le scardove eran pesce.
*
*—*
Fuor, fagiuoli; chè vi ha a venir lamprede.
*
*—*
Pestar l’acqua nel mortaio.
*
*—*
M’apparve il fuoco di Sant’Ermo, ch’esprime lo scorgere tra un grave pericolo un pronto soccorso. Ond’è che Ariosto cantava:
Stero in questo travaglio, in questa pena
Ben quattro giorni e non avean più schermo:
E n’avria avuto il mar vittoria piena,
Poco più che il furor tenesse fermo;
Ma diede speme lor d’aria serena
La desiata luce di Sant’Ermo,
Che in prua d’una cocchina a por si venne,
Chè più non v’eran arbori, nè antenne[74].
E. S.—Affè ch’io non potea credere che la lingua comune traesse sì acconci partiti e sì vaghi traslati dalle cose di mare.
A.—E’ ce ne ho ancora una serqua, ma se devo sciare.....
N. B.—Che dici? Ancora un’arrancata.
A.—Sie, sie.
La va da galeotto a marinaro.
*
*—*
Navigar contr’acqua.
*
*—*
Montar la corrente[75].
*
*—*
Dar negli scogli.
*
*—*
Dar l’ultimo tuffo.
*
*—*
Andar colla corrente.
*
*—*
Far forza di remi e di vele. Cioè con ogni possa. E Dante nel senso istesso:
Chè qui è buon con le vele e co’ remi,
Quantunque può ciascun, pinger sua barca[76].
Uom di facile abbordo.
*
*—*
E’ lo sanno persino i pesciolini.
*
*—*
E’ non pesca troppo a fondo.
*
*—*
Cavar l’acqua dalla pietra pomice. Risponde al noto:—cavar sangue da una rapa.—
*
*—*
Andar per acqua col crivello.
*
*—*
E’ naviga per perduto.
*
*—*
Non dar nè in tinche, nè in ceci: si dice di tale che nulla valga a conchiudere; cioè sei grullo al par d’una tinca, e vali meno d’un cece.
*
*—*
È uomo che sa uscir da ogni mare.
*
*—*
Vuotare il mare con un cucchiaio.
*
*—*
Non so in quali acque mi peschi.
*
*—*
Trovare alcun di vela. Disposto a far servizio. E la vela porge altri infiniti traslati, come vela dell’orazione che leggesi in Tullio[77]; vela del desiderio in Ovidio[78]; e Dante più arditamente:
Per correr miglior acqua alza le vele
Omai la navicella del mio ingegno,
Che lascia dietro a sè mar sì crudele[79].
Proseguo:
Ministrar vino a’ pesci.
*
*—*
E’ par sempre il mal tempo.
*
*—*
Non giova il dire: di tal’acqua non bevo.
*
*—*
Zappare in rena o in acqua.
*
*—*
Voltarsi ad ogni vento.
*
*—*
Non istare a ripescar queste cose.
*
*—*
Voler sempre stare a galla.
*
*—*
Lasciarsi sfuggire i pesci cotti di mano.
*
*—*
Li piglia i pesci. Dicesi di chi gabba i sempliciotti.
*
*—*
Ha pescato assai e preso poco.
*
*—*
Gli porterei l’acqua con le orecchie.
*
*—*
Tu non sai di barca menata.
*
*—*
Lascia che il pesce si frigga nel suo olio.
*
*—*
Cavare il granchio dalla buca con le mani di un altro.
*
*—*
Esser dolce di sale.
*
*—*
Non è nuoto dalle mie braccia.
E Dante:
Non è pileggio di piccola barca
Quel che fendendo va l’ardita prora,
Nè da nocchier, ch’a sè medesmo parca[80].
Nuotar senza sugheri. Sapersi governare da sè[81].
*
*—*
Al levar delle stuore, si vedrà quel che butta il sale.
*
*—*
Dare una scardova per avere un luccio.
M. S.—Di questi ultimi due modi parmi conoscere il riscontro latino. Forse il primo risponde al noto—eventu facta probanda—e il secondo al—pileum donat ut pallium recipiat.
E. S.—Smetti da cotesti tuoi latinucci che ti puoi friggere. Eccovi piuttosto alcune dizioni che si riferiscono a luoghi speciali, e di cui dobbiamo tener conto:
Cercar pesci sul monte Argentaro.
*
*—*
In piaggia romana cercar libeccio.
*
*—*
Essere tra Scilla e Cariddi.
*
*—*
È rimasto nelle secche di Barberia[82].
*
*—*
Mar di Genova, mar senza pesci.
*
*—*
Portofino scuro: piove sicuro.
*
*—*
Andare a Patrasso, o a Scio[83].
*
*—*
So quanto si vende il sale a Chioggia.
*
*—*
Arno non cresce, se Sieve non mesce.
*
*—*
Passo di Malamocco[84].
*
*—*
Son di Peschiera e so pescare:
Ma se vo’ pesce, mel convien comprare.
E tu, Dottor Mariano, ci spiegherai mo’, perchè gli abitanti di Bova, risciacquando gli occhi malati ne’ flutti, usino, quasi fossero magiche, le parole:
E mare e mare:
Se è dolce, inghiottilo:
Se è amaro, recilo.
N. B.—Non saltiamo di palo in frasca. Dopo sì efficaci modi e locuzioni che attestano la ricchezza d’una lingua troppo ancora mal nota, e i molteplici aspetti in che può essere riguardato il proverbio, sarei vago di conoscere alcune similitudini, che non possono al certo mancare, dedotte dalle cose marinaresche, e di cui faccia suo pro la parlata comune.
A.—Tu m’inviti ad un tema che per l’ampiezza sua mal può svolgersi a braccia e senza le debite preparazioni. Nondimeno se t’appaghi di un semplice saggio, io farò di secondarti. Ma bada: gli è come mettere una goccia d’acqua nel mare.
N. B.—Bene: bene; tira oltre.
A.—Donna iraconda,
Mar senza sponda.
*
*—*
Donna in collera,
Mare in burrasca.
*
*—*
Beltà senza grazia
È un amo senz’esca.
*
*—*
E’ sa nuotare come il vomero.
*
*—*
Tu pungi come le resche da tutti i lati.
*
*—*
Son come il mare che nulla ha di brutto.
*
*—*
Andare innanzi come i gamberi.
*
*—*
Andare innanzi a spina di pesce.
*
*—*
Come la triglia:
Non la mangia chi la piglia.
*
*—*
Parla meglio d’un granchio ch’ha due bocche.
*
*—*
È come l’àncora che sta sempre in mare
E non impara mai a nuotare.
*
*—*
Il cuor de’ bricconi
È un mare in burrasca.
*
*—*
Sta come pesce nell’acqua. Cioè, a tutto suo agio.
*
*—*
Come pesce fuor d’acqua. Si dice d’un soro che non sappia che far di sè.
*
*—*
Egli è un mar di ricchezza.
*
*—*
Mare a montoni.
*
*—*
È più sano d’un pesce.
*
*—*
Far l’occhio di triglia.
*
*—*
Pesante come il sale.
*
*—*
Rosso come un gambero cotto.
*
*—*
Stivati a mo’ di sardelle.
*
*—*
Arrivar l’ultimo come la mazza del bome[85].
*
*—*
Far come i delfini. E vale ingannare, dalla credenza che i delfini conducano i tonni nella tonnara.
*
*—*
Come il pesce pastinaca
Senza capo e senza coda;
dicesi di cosa che non ha principio, nè fine, ovvero di cui non si trova via, nè verso. La ragione di un tal modo sta in ciò, che questo pesce, come sapete, non ha capo che sporti in fuori, e la coda, per essere di puntura malefica, gli vien mozzata innanzi di tradurlo al mercato.
Muto come un pesce.
M. S.—Converrai per altro che questo adagio non sempre tiene. Carus Sterne lo mostra ad evidenza. Voi conoscete senza fallo quella specie di grugnito ch’emette la rondine di mare: trigla hirundo; e chi è nato in Sicilia non ignora il suono della trigla volitans, di cui si fa così largo spaccio in Messina. Anche la sciaena aquila, che vive pur essa nei nostri mari, nella stagione della fregola manda un cotal suono, che potrebbe aver dato origine al mito delle Sirene.
A.—Tu m’esci del manico, e forse a ragione per ammonirmi, che troppo più che non era espediente, io m’indugiai sul preso argomento.[174] Smetto adunque non senza dirvi che troppi altri di questi modi scintillanti, concisi, vibrati, io potrei raspollare ne’ nostri scrittori, modi che tornano di grande efficacia a colorire lo stile; ma ch’è mestieri lasciare usare a chi sa, poichè come canta il poeta:
.....indarno da riva si parte
................
Chi pesca per lo vero e non ha l’arte.[86].
Intanto l’ora assai tarda consigliava i convitati a troncare i lor ragionari e tornarsi in città. Nino Bixio fe’ recar nuove bottiglie, di cui si vide il fondo di schianto; il vino, la lingua marinaresca, l’avventura narrata dal generale e l’imminente partenza del Maddaloni porsero tema d’altri e omai confusi colloqui. In tanta gaiezza niun potea sospettare che ne’ mari istessi, ove molti anni innanzi avea Bixio corso rischi si gravi, troverebbe a breve andare la morte e una profanata sepoltura.
[1] Nell’atrio del palazzo municipale di Genova si legge la seguente iscrizione:
affinchè non muoia l’esempio
di Maria e Caterina sorelle Avegno
che all’italiche schiere
veleggianti alla tauride
e sospese
tra le vampe del Cresus e gli abissi del pelago
remigarono soccorritrici
tra quelle diverse generazioni di morte
il terzo congresso operaio
1855.
[2] Purgatorio, c. VIII.
[3] Paradiso, c. II
[4] B. Graser, De Re Navali veterum, Berlino 1864.
[5] C. De Paenis.
[6] Guglielmotti, Storia della marina pontificia, V. 1, pag. 350.
[7] E l’Ariosto:
Rimedio a questo il buon nocchiero trova
Che comanda gittar per poppa spere.
[8] Nautica mediterranea, Roma 1607.
[9] L’Armata navale, Roma 1607.
[10] Nautica rilucente, Venezia 1700.
[11] Fincati, Dizionario di marina, pag. 25-26.
[12] Costa. Colombo, Lib. VI.
[13] Guglielmotti. La guerra dei Pirati, vol. i, pag. 169-80.
[14] Sulle voci landra e bigotta, v. Guglielmotti—Delle due navi romane ecc. pag. 52.
...e sì pigiati ai legni
Che si faccian da lor canale e stazzo.
Eneid. lib. X.
E caluma le gomene e fa prova
Di due terzi nel corso ritenere.
Ariosto, Orlan. Fur.
[17] Infer. c. XIV.—Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia, v. 2, pag. 303-1.
[18] Guglielmotti, Delle due navi romane ecc. pag. 55.
[19] Id. Delle due navi romane ecc., pag. 96, in nota.
[20] Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia, vol. 1, pag. 223.
[21] Voce dialettale che suona: lamento, protesta a bassa voce: borbottare.
[22] Stimo prezzo dell’opera il qui riferire il programma di Concorso al Libro del Marinaio italiano.
Il Comitato Ligure per l’educazione del popolo, che già fondava a beneficio della gente di mare una Biblioteca Circolante marittima, nel raccogliere d’ogni parte le opere che avvisava più acconcie alla coltura di questa numerosa classe di cittadini, ha dovuto convincersi, che non pur l’italiana, ma non una delle moderne letterature europee possiede un manuale, che sia come il compendio delle glorie e dei costumi degli uomini di mare, non che delle cognizioni che tornano lor necessarie. A riempiere questa lacuna intende il libro di cui si apre ora il concorso. L’opera sarà divisa in tre parti, cioè la Storia, la Vita e la Scienza del marinaio, che costituiscono tre diversi concorsi, con l’assegnazione di tre premî speciali.
Parte I. La Storia.—Conterrà una serie di biografie de’ nostri più illustri navigatori, ordinate allo scopo di far conoscere ad un tempo la gloriosa partecipazione degli Italiani nelle più insigni scoperte e ne’ più memorandi fatti marittimi, e le virtù per cui salirono in onoranza e meritarono che la storia conservasse i nomi loro.
Parte II. La Vita.—Questa seconda parte dell’opera ha per iscopo non solo la narrazione delle multiformi peregrinazioni e vicende del marinaio: ma intende anzitutto a dipingerlo quando reduce al natio focolare, stringe intorno a sè la sua famigliuola, e con le virtù proprie della sua professione ne cura l’educazione e il felice avvenire.
Parte III. La Scienza.—Per questa terza parte la Società nostra fa speciale appello agli uomini tecnici, dovendosi in essa per sommi capi, con istile facile e piano e nelle forme le più popolari, accennare ai principali elementi di quelle cognizioni che son proprie delle classi marinaresche, e che riguardano nelle loro pratiche applicazioni la nautica, la meteorologia, la geografia, la costruzione, l’attrezzatura, le macchine a vapore, il linguaggio nautico, l’igiene navale e infine tutto ciò che s’attiene alle cose di mare.
Genova 1 marzo 1870.
Il Presidente
E. Celesia.
Parecchi anni appresso, cioè nel 1879, il mio illustre amico comm. Daniele Morchio dava fuori Il Marinaio Italiano, in cui mise in chiaro le glorie più belle della nostra marina.
[23] Tempesta.
[24] In portu naufragium facere.
[25] Cioè: erra nel giudicare del fatto altrui, trovandovisi fuori. Il radica della Raccolta toscana è un errore massiccio. Vedi Pasqualigo: Proverbi veneti, pag. 141.
[26] Senza senno e prudenza, le belle parole son fiato sprecato.—Auxilio, non verbis opus.
[27] Dove va il più, può andare anche il meno.
[28] Cioè; i mezzi ordinarî non giovano a un affare o ad uom rovinato.
[29] Zavorra.
[30] E Ovidio:
Dum licet et spirant flamina, navis eat. Fast. IV.
[31] Cioè, tirando a se. Tirar l’acqua al suo molino.
[32] Trovo in Pier delle Vigne:
Com’uom ch’è in mare ed ha speme di gire
Quando vede lo tempo, ed ello spanna;
cioè, spiega le vele.
[33] Più vale un solo ad impedire un negozio, che molti a condurlo a buon fine.
[34] Forse dal virgiliano—insula portum Efficit.
[35] Cioè disoccupato.
[36] Chiasso.
[37] Chi scampa nel comun danno, si trova infine aver di peggio.
[38] Purg. C. XXII.
[39] Cave tibi ab aquis silentibus.
[40] Togna: matassa di fili cui s’appendono gli ami.
[41] Dicesi di cosa prematura.
[42] Non lasciarsi scoraggiare dalla mala riuscita delle prime calate della rete.
[43] Far del bene a un ingrato.
[44] Non v’ha chi non erri, nè salvano dagli errori la destrezza o la forza.
[45] Incappano nell’esca; per indicare chi giunge tardi, ma pure in tempo.
[46] Quando abbonda il grano il pesce è caro: e viceversa.
[47] Vale anche, per metafora, disturbare gli intrighi amorosi notturni.
[48] Post tres sape dies piscis vilescit et hospes.
[49] Malo in oppidulo esse primus, quam in civitale secundus; Giulio Cesare.
[50] Oblata: nel dialetto genovese êuggiâ: proverbio che s’usa per motteggiare alcuno che dia occhiate amorose e vivaci.
[51] Spesso il male vien dall’alto.
[52] In confronto della carne il pesce nutre assai poco.
[53] Piscis nequam est nisi recens.
[54] S’affretti a portarlo a casa, se no, comincia a puzzare.
[55] E Marziale:
Inter pisces rumbus, si quis me judice certet:
Inter quadrupedes gloria prima lepus.
[56] Vale: la tinca in estate: il luccio d’inverno.
[57] Zampe.
[58] Petrarca, Son. 35.
[59] Felis amat pisces, sed aquas intrare recusat.
[60] Vale anche: poche lagrime placano l’ira.
[61] Græca fides.
[62] Inferno, c. XXII.
[63] Fonte, cioè il mare, serbatoio universale.
[64] Mazoran, uccello acquatico.
[65] Trovasi registrato con alcuni altri, di cui mi sono giovato, nella lodata opera del Pasqualigo I proverbi veneti, a pag. 231; e vale che i flussi e riflussi son massimi nei plenilunî e novilunî, e minimi invece nelle quadrature, ossia nella maggior distanza della luna dal sole, come appunto avviene nei memorati sei giorni lunari.
[66] Luna nata di mercoledì porta pioggia e tempesta.
[67] Luna piena ha più rischi della nuova.
[68] Per tema che il plenilunio, al 15.º giorno, non rechi burrasca.
[69] Delphinum natare doces.
[70] Duabus sedere sellis. Servire a due padroni.
[71] Adigi ad triremes. Andare in galera.
[72] Purg. XX.
[73] De art. am. III.
[74] Canto 19.
[75] Contra torrentem niti.
[76] Purg. XII.
[77] Utrum panderem vela orationis. Tusc. IV, 5.
[78] Voti contrahe vela tui. Ex Pont. Lib. I. ep. 8.
[79] Purg. c. I.
[80] Parad. c. XXIII. E Fazio degli Uberti nel Dittamondo. Lib. I, c. 6:
...pregiato è il nocchier che i suoi pileggi
Conosce, e i tempi, e sa fuggir l’inganno.
[81] Nare sine cortice.
[82] Cioè ridotto al verde.
[83] Perdersi, morire; cavato dal fatto di qualche flotta perduta in quelle acque.
[84] Vale passo cattivo, difficile.
[85] Il bome, come lo definisce il Fincati pag. 90 del suo Vocabolario Nautico, è una grossa asta orizzontale e girante intorno ad una delle sue estremità ch’è fissata alla faccia poppiera dell’albero di poppa, la quale serve a tener bordata la randa. Il bome è sostenuto dal basso all’alto da due mantigli.
[86] Dante, Parad. c. XIII.