The Project Gutenberg eBook of L'idolo

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Title: L'idolo

Author: Gerolamo Rovetta

Release date: April 16, 2015 [eBook #48717]
Most recently updated: October 24, 2024

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'IDOLO ***

L'IDOLO


GEROLAMO ROVETTA

L'IDOLO


ROMANZO


MILANO
LIBRERIA EDITRICE NAZIONALE
Via S. Margherita, 5


1904


PROPRIETÀ LETTERARIA

Tutti i diritti di riproduzione e di traduzione riservati all'autore

Como — Stab. Tip-Lit. Romeo Longatti — Como.


[1]

PARTE PRIMA.

[3]

I. La Conferenza.

A Milano: nella «gran sala» del Circolo artistico-letterario.

Un salone qualunque, abbastanza armonico, ornato di bandiere nazionali e di fantasia.

Giordano Mari, illustre pensatore e storico elegante: parla molto e scrive poco, per cui la sua fama è in continuo aumento. Bell'uomo: barba bionda, corta; capelli bruni, lucenti, ondulati; ciuffo alla moderna. Età, forse, quarantacinque anni, che all'occhio superficiale, e dopo le cure e la cura della toeletta, possono anche sembrare, forse, trentacinque. Diritto in piedi, sul palco elevato, accanto al tavolino, colla solita bottiglia e il solito bicchier d'acqua dal fondo arrugginito, parla da tre quarti d'ora sui Precursori della Rivoluzione.

Quando il conferenziere china lo sguardo per rivolgere il discorso alle signore — tutto un parterre fitto fitto di bei visetti intenti, rallegrato dalla vivezza dei papaveri, per la gran moda dei cappellini rossi — egli sorride sfoggiando la lucentezza [4] candida dei denti, e modula la voce penetrante con inflessioni morbide, quasi tenere. Poi, quando rivolge il capo, e un apposito periodo, ai giovani letterati, agli artisti del pensiero che spiccano qua e là, infissi alle pareti, colla testolina ben pettinata, i solini alti, marmorei e l'uggia classica spirante sui labbruzzi anemici, votati alla sigaretta, la sua parola si fa più lenta, la voce più fredda, la frase più acuta; mentre tuona come un poderoso baritono dell'eloquenza quando scaglia un nome, un'apostrofe o dedica una volatina agli artisti della forma, agli scultori ed ai pittori che lo stanno a sentire raggruppati sull'uscio in fondo alla sala, con le facce sudate — con più o meno barba — spiranti un'attonita maraviglia:

— Cribbio, che polmoni!... Che Tamagno!

Giordano Mari (continuando)... Ecco dunque, o signori, sopra la pleiade dei pensatori che apersero la via ai tempi nuovi e abbatterono l'antico edificio della tirannide, ecco elevarsi quattro grandi figure d'uomini e di scrittori, i maestri dell'idea nuova, i critici della storia universale: Montesquieu, Voltaire, Diderot, Rousseau...

Donna Fanny (uno dei cappellini rossi, il più straordinario, il più bizzarro e il più parigino, sottovoce ad Emma, indicandole, s'intende, il conferenziere) Guarda che bella mano! In un uomo, dopo i denti, io guardo subito la mano. Molte fanno un gran caso anche dei capelli; per me niente! Basta che non siano rossi!

La signorina Emma: (un visino sentimentale: non si muove, non risponde, forse non ha nemmeno udito quel che ha detto Fanny: ha tutta l'anima negli occhi e gli occhi nel conferenziere).

[5] Giordano Mari (continuando e fissando Emma che egli non ha mai visto, ma i cui occhi neri, intenti, ha subito notato fin dalle prime parole, e se ne serve, come fanno tutti gli oratori, per dirigere ed appoggiare il discorso)... Giganti della ragione i due primi, del sentimento i secondi: tutti egualmente degni della nostra ammirazione riconoscente, poichè, per dirla col nostro immortale Alighieri:

... ad un fine fur l'opere loro.

Fanny (sempre ad Emma e sempre riferendosi al conferenziere) Gli uomini, i biondi, specialmente, stanno benissimo col gilet bianco e la cravatta nera.

La signorina Emma (pallida, quasi smunta per la grande attenzione. Non è mai stata ad una conferenza, non ha mai sentito un uomo parlar tanto e così bene. Quando gli occhi di Giordano Mari si fermano nei suoi, prova un senso strano, quasi penoso, di soggezione, di oppressione, di timidezza vereconda... e quando Giordano Mari non la guarda più, le sembra d'essere rimasta al buio, d'un tratto).

Giordano (appunto: lasciando Emma al buio, per illuminare co' suoi sguardi i giovani letterati)... Montesquieu è il gran signore dello stile e della dialettica; il gentiluomo squisito che con gli eleganti periodi sbaraglia il vecchio esercito dei teologi: Voltaire è lo spirito diffuso, il re delle moltitudini, a cui con la frase limpida e facile rivela quanto di falso e di ridicolo sia nelle più venerate dottrine. Egli che, come fu detto, disinventa Dio, richiama l'uomo al buon senso...

Guido Bardi (un giovane e già illustre poeta che ha scritto delle novelle in prosa, una delle quali [6] sta per essere pubblicata, tradotta in francese, nella Revue Parisienne, a Nino Sebastiani, ma senza voltarsi, senza muoversi, sempre cogli occhi rivolti a donna Fanny, che occhieggia a sua volta, frequentemente) Taine!... Tutta roba del Taine!

Nino Sebastiani (autore drammatico molto applaudito, che non ha mai letto il Taine: contentissimo di averlo imparato a conoscere, risponde a Guido Bardi, anche lui rimanendo immobile e cogli occhi sempre rivolti alla signorina Emma, che non lo guarda mai) Tutta roba del Taine! Tutta la conferenza non è altro che un mosaico di furti... qualificati.

Guido Bardi (riferendosi a Giordano Mari, con una crollatina del capo) Non è che un falso erudito... un assimilatore.

Nino Sebastiani (sempre fissando Emma che fissa sempre il conferenziere: diventando geloso) Bel merito l'erudizione!... Tutta roba presa dagli altri! Mai niente di originale!...

Giordano Mari (il braccio proteso verso i pittori e gli scultori in fondo alla sala)... Il Diderot, vulcano erompente di eloquenza, lo richiama ai provvidi istinti della natura. Ma se questi hanno distrutta la vecchia società iniqua e artificiosa (nota di petto), Gian Giacomo Rousseau ha posto i fondamenti della società nuova, nella quale gli uomini non devono essere soltanto liberi, ma anche buoni! (Un momento di pausa: un sorriso: ritrova gli occhi fissi, incantati di Emma, vi si ferma coi suoi e ripiglia con sentimento, con voce amorosa, carezzevole)... Egli restaurò con le sue pagine il culto di tutte le cose sane, la solitudine, la campagna, il popolo, il lavoro; e [7] pose in cima del suo ideale sociale la donna, ben sapendo che senza la donna nulla di buono s'è fatto al mondo...

Nino Sebastiani (facendosi sentire dai più vicini) Nemmeno i conferenzieri.

Giordano Mari... Ben sapendo che l'amore (Emma trasalisce, pallida, palpitante, ma non batte palpebra)... Ben sapendo che l'amore è la forza sovrana nella fisica dell'umanità, che la passione, la quale trae le sue radici dalla natura, eguaglia veramente tutti gli uomini, innanzi al compito della vita! (Guarda l'orologio, così per dare ad intendere che parla improvvisando, a ora).

I pittori e gli scultori (approfittando della pausa per applaudire) Maraviglioso! Straordinario! Che forza di polmoni!

La più autorevole tra le barbe più incolte. I polmoni! Va benissimo, ma non è tutto! E l'ingegno? E il ragionamento? E la prospettiva? E il colore? Perchè è sempre — quel che si dice — un'impressione — più o meno — che noi vogliamo ottenere sul nostro pubblico. E dunque, appena il pubblico, sicuro, comincia a sospettare che l'artista possa mai sottintendere una qualche... intenzionetta, oltre alla tecnica della fattura ed alla tonalità dell'effetto, allora guai, si impunta da vera bestia, a non capir niente! E la logica dell'artista sta appunto nel raggiungere una chiarezza tale di... di... procedimento, che il pubblico abbia sempre da capir tutto, anche quando... el capiss no!

Il cavalier Venceslao Dionisy (il padre della signorina Emma: si tiene l'ultimo, scostato d'un passo dalla coda del pubblico stipato fin nella seconda sala, che serve d'anticamera. Le mani incrociate sul [8] dorso, il capo chino, egli non applaude il conferenziere, ma lo segue attento, dignitoso, approvandolo con un buon sorriso di autorevole compiacimento, che gli corre fra mezzo i peli della barba alla Verdi. È appunto questa somiglianza con Giuseppe Verdi che forma l'orgoglio, la soddisfazione, e il quotidiano «perchè» dell'impeccabile vita del cavalier Venceslao, che gl'impone negli atti, nelle parole, nel contegno, sopra tutto nelle approvazioni, quel riserbo calmo e sereno, dovuto alla coscienza della propria autorità personale. È tale la rassomiglianza, che egli stesso ne rimane ingannato, tanto che qualche volta gli accade di prendersi anche lui... per il Maestro).

Giordano Mari (avvicinandosi alla conclusione)... Così la filosofia s'alleava al cuore; così si ponevano da lungi le basi di quella società futura che noi tutti, o signori, vagheggiamo come una superba certezza, e nella quale tutti, sciolti da ogni vincolo favoloso col cielo, possiederemo la piena signoria della terra su cui siam nati e godremo piena la libertà dell'amore e del pensiero!

Nino Sebastiani (con sprezzo) Ancora del Taine...

Guido Bardi (che ha letto tutto) No; questa è di Giorgio Sand.

Nino Sebastiani (che non ha letto niente) Vecchiume romantico!

Giordano Mari (concludendo con arte, con calma, mentre prende i guanti dal tavolino e li tiene in mano)... Noi possiamo veramente dire che sta per aprirsi il nuovo «millennio» della giustizia e della ragione, alla cui salutare autorità noi andremo debitori di tutto, così della fondazione degli ordini nuovi, come della distruzione degli ordini antichi.

[9] Guido Bardi ha appena il tempo di esclamare:

— Ancora il Taine! Accidenti che saccheggio! — e già scrosciano gli applausi. Le smanacciate degli uomini s'alleano ai battimani in sordina delle dame inguantate. Tutti si muovono: il conferenziere s'asciuga dignitosamente la fronte e ridiscende tra i mortali.

[10]

II. In via San Paolo.

Mentre dura il rumore delle seggiole, il fruscìo delle vesti, e il cicaleccio complimentoso delle signore che si alzano, si salutano e si voltano per avviarsi verso l'uscita, mentre i pittori e gli scultori applaudono ancora, ma più fiaccamente, perchè delusi nell'aspettazione del razzo finale, Guido Bardi e Nino Sebastiani, stretti nei gomiti e scivolando abilmente con dei sommessi «pardon!» fra le vesti e gli strascichi delle signore e infine urtando, senza tanti riguardi, e sfondando la folla degli uomini, si precipitano alla conquista dei soprabiti che infilano sbracciandosi e scendendo a salti lo scalone.

Vogliono arrivare i primi a mettersi sulla porta di sentinella, per offrire i loro omaggi e la loro compagnia alle belle signore: anzi, più precisamente, Guido Bardi a donna Fanny, Nino Sebastiani alla signorina Emma.

[11] Ma le due amiche, proprio queste due, si fanno molto aspettare.

— Che cosa succede? — chiede il commediografo al poeta, scambiando una sigaretta con un cerino.

Quasi tutte le signore, sfollando, sono già uscite nell'angusta e tetra via di San Paolo, avvivandola, per un istante, di voci e di risa, rischiarandola, rallegrandola, colla gaiezza delle vesti, coi fiori vivaci dei cappellini... ma, ancora, nè donna Fanny, nè la signorina Emma non si vedono spuntare... e nemmeno il Verdi che le accompagna.

Nino. Che diavolo fanno lassù?

Guido. Andiamo a vedere.

I due giovani rientrano, attraversano la portineria, cacciano la testa nel vano dello scalone, guardano in su:

— Eccole!

Sono in alto, sul primo pianerottolo. Si ode la vocetta allegra e il riso metallico di donna Fanny che fa, colle solite moine, congratulazioni e complimenti al conferenziere, presentato loro dal nobile Barbarani, il piccolo e rumoroso presidente del Circolo artistico-letterario.

Nino Sebastiani e Guido Bardi (si guardano: si fissano: ognuno dei due, fuori un palmo di muso: la sigaretta si rizza fra le labbra e non fuma più).

Nino (colla voce grossa per un'indigestione di gelosia) Io le pianto e me ne vado.

Guido (furente, ma sempre diplomatico) No.

Tutti e due si vendicano, borbottando, scagliando invettive contro il nobile Barbarani: che c'entra lui a fare il presidente di un Circolo artistico-letterario? Se come artista non ha mai dipinto... [12] altro che i suoi baffi? Se come letterato non ha mai scritto... altro che al suo fattore? Se come mecenate non ha mai comperato altro che oleografie? Ma, appunto per questo, i letterati non volevano un artista; gli «artisti» non volevano un letterato, e allora, per non offender nessuno, hanno fatto presidente... un asino pieno di belle maniere, che non sa far altro che presentar la gente... che non si vuol conoscere!

Il Presidente (in alto: sul pianerottolo, con frequenti colpettini di tosse per rischiarare la voce stanca che gli si intorbida frequentemente) Ecco appunto — benissim — il nostro grande conferenziere Giovanni Mari: cioè, volevo dire Giordano, l'illustre commendator Giordano Mari, che ho davvero la squisitissima soddisfazione di presentare ad una delle più amabili e più belle signore, la nostra donna Fanny Simonetti, e, senza eccezione, alla più graziosa popolina di Milano, la signorina Emma Dionisy, di cui ecco l'artefice genitore — benissim: son proprio content!

La signorina Emma (arrossisce dinanzi al conferenziere che le sembra ancor più alto, più biondo, coi denti bianchi ancor più lucenti; china gli occhi quasi abbagliata, e al contatto della sua mano ha un tremito, una vibrazione nervosa).

Il cavalier Venceslao (un cilindro a larghe tese, un foulard bianco attorno al collo: si avanza serio, stendendo le mani al conferenziere: un colpo solo, fortissimo, e basta).

Il Presidente (che è ancora svelto e forte in gamba — soltanto in gamba — scende la scala a salti: vedendo nel vestibolo Guido Bardi e Nino Sebastiani) Benissim! Son proprio content! (Nuove presentazioni: [13] molta cordialità da parte di Giordano Mari, molti complimenti).

Giordano Mari (ai due giovani letterati che si inchinano appena, torvi, muti) Conoscevo già per fama il loro nome... con ammirazione le loro opere...

Tutti insieme escono dal portone e si avviano a due a due. Il piccolo presidente corre innanzi e indietro, da questo a quello, come un cagnolino che tiene in branco le pecore, abbaiando allegramente il suo benissim. Giordano Mari, dinanzi a tutti, si accompagna con Emma. Nino Sebastiani, che resta in fondo col cavalier Venceslao, si oscura ancor di più, e Guido Bardi, camminando a fianco di donna Fanny, si rasserena.

Fra il poeta e il commediografo non c'è nessuna alleanza intima: sono sempre insieme per forza di amore, perchè vanno sempre insieme Emma e Fanny. Ma se l'amore li unisce, la letteratura li divide — la letteratura e la grammatica: croce e delizia. — Delizia del poeta che ne è in possesso, croce del commediografo, che ne fa senza e si scusa dicendo:

— Se nessuno conosce la grammatica, è come non ci sia; dunque è inutile.

Giordano Mari (camminando diritto al fianco di Emma, pavoneggiandosi, colle falde del lungo abito nero, svolazzanti alla calda auretta del maggio). Ho una grande simpatia per Milano: non è come Roma colla sua storia schiacciante, non è come Venezia colle sue arti troppo belle: a Milano, lo spirito riposa. Quando si è visto ed ammirato il duomo, basta! (Dopo un momento di pausa: più sottovoce, con diretta galanteria) Parlo solo... dei monumenti.

[14] La signorina Emma (si confonde: le sfugge lo strascico dell'abito che aveva in mano: si ferma un attimo e lo riprende, poi continua a camminare, guardando sempre per terra, e notando, ad onta del suo orgasmo, della sua confusione, che anche i piedi di Giordano Mari sono bellissimi e ben calzati).

Giordano Mari (continuando)... È la buona città borghese, rivoluzionaria soltanto in politica: e, ciò che sembra una contraddizione e non lo è, rivoluzionaria per la propria conservazione. Ma in arte? I suoi artisti non fanno che copiare la natura. In letteratura? I suoi scrittori non fanno che copiare... l'articolo di moda. Il suo teatro? Niente Wagner! Niente Ibsen. I milanesi non vogliono pensare... che ai loro affari. Per questo l'opera tipo è la Bohème, il drammettino interessante, fatto soltanto per gli occhi e per le orecchie, e che sul finire vi spreme quattro lacrimette che fanno digerire il pranzo e preparano lo stomaco per la cena.

La signorina Emma (trova che egli parla molto bene, che ha molto spirito, una gran bella voce, e continua a guardar per terra e aspetta un altro complimento, forse il principio di una dichiarazione, e perciò diventa sempre più rossa senza apparente motivo).

Giordano Mari (sospirando, levandosi il cilindro e asciugandosi la fronte come uno che ha molto lavorato ed è molto stanco)... Qui si riposa: la mente non è assediata e oppressa dalle ombre del passato. Cor magis tibi Mediolanum pandit! Come avrei bisogno anch'io di riposare, di ritemprarmi in questa feconda modernità, fuor delle cose morte! Mi ci vorrebbe proprio un po' di Milano!

[15] La signorina Emma (con ansietà, ma vincendo la timidezza, perchè le preme molto di sapere ciò che domanda) Si fermerà, dunque, qualche giorno... a Milano?

Giordano Mari (lusingato, guardando la ragazza e trovandola, davvero, carina carina...) Tutta la settimana.

La signorina Emma (alzando il capo, alzando gli occhi, fissando il Mari contenta perchè in quel momento «tutta una settimana» le par lunga un secolo) Come è stata bella la sua conferenza! È la prima che sento! Che combinazione!...

«Che combinazione?» Di che? Di che cosa? Giordano Mari, stupito, torna a guardarla. Combinazione? Perchè? Di che cosa?

Di ciò che la giovinetta sente in fondo al suo cuore, che «cominciava allora... », cioè no, che ha cominciato un'ora innanzi, quando i suoi occhioni neri e profondi si sono incontrati negli occhi di quell'uomo bello e forte, così in alto sopra tutti gli altri, signore, dominatore di quella folla, ch'egli con una parola faceva fremere di ammirazione, o vibrare d'entusiasmo.

Il cavalier Venceslao (alla coda della comitiva, prende a braccetto Nino Sebastiani: vorrebbe sapere come ha trovato la conferenza).

Nino Sebastiani (con un moto di stizza e di sprezzo) Un mosaico internazionale!

Il nobile Barbarani (staccandosi da donna Fanny e raggiungendo di corsa, perchè sono andati molto innanzi, Giordano Mari e la signorina Emma) Diceva adesso donna Fanny, che vorrà pubblicarle, certamente, le sue conferenze?

Giordano Mari. Sì; le ho già cedute al mio [16] solito editore per l'Italia e alla casa Hartleben per la Germania.

Il nobile Barbarani. Ah! Ah! Benissim! Son proprio content! (si ferma sulle gambette a roncolo per aspettare donna Fanny con Guido Bardi, e dar loro la bella notizia).

La signorina Emma (con un fil di voce, mentre alzatasi la sottana fa un piccolo saltello per ischivare una pozza) E dopo Milano... dove va?

Giordano Mari. Prima a Bologna, poi a Napoli, poi a Roma, dove compirò il mio ciclo di conferenze... poi, a Venezia.

— Lei, appunto, è di Venezia?

— Quasi; ma sono nato a Padova.

La signorina Emma (con un trasporto di entusiasmo) Venezia e Padova sono due gran belle città!

Giordano Mari (dà un'altra rapida occhiata alla signorina Emma, pensando fra sè: è candore o civetteria?)

La signorina Emma (continuando con vivo interesse) E le ha già scritte tutte le sue conferenze?

Giordano Mari (crollando il capo con olimpica superiorità) Scritte? (un sorriso come sopra; un'altra crollatina di capo) Le scrivo dopo, più tardi, quando preparo il volume per l'editore: lo scriverle, non è altro che un lavoro di.... di selezione.

La signorina Emma (con meraviglia ed ammirazione) Ma allora, Dio mio! come fa?

Giordano Mari (dimenandosi ancora di più, quasi da riempiere, all'occhio, colle lunghe falde svolazzanti la stretta via di San Paolo) La mia conferenza non è mai nè un'opera d'arte, nè un'opera letteraria....

[17] La signorina Emma (interrompendolo con uno sguardo e mormorando con un sospiro che si innalzano come un'aureola di ammirazione amorosa attorno alla testa bionda, simpatica, dell'illustre pensatore) Oh! così bella! È stata tanto bella la sua conferenza!

Giordano Mari (non dice di no, anzi pare dica di sì, e continua) Ho solo un merito, forse raro, anzi sempre più raro: la sincerità! E la sincerità è la grande bellezza (pronuncia lentissimamente e con una sapiente modulazione — bel-lez-za — fissando Emma che torna a guardar per terra); la sincerità è la grande bellezza delle anime e delle cose. No; le mie non sono conferenze; io non tengo delle conferenze (un moto stizzoso, di sprezzo. Emma torna ad alzar gli occhi ed a guardarlo incantata), io parlo soltanto perchè ho qualche cosa da dire; forse.... qualche cosa di nuovo....

La signorina Emma (in estasi) Tutto, tanto nuovo... tutto, tanto tanto bello!

Giordano Mari. Certo qualcosa di.... di sincero (continuando a gonfiarsi a vista d'occhio). Come parlo per un'ora, potrei parlare per due, per tre, per un giorno di seguito.

Guido Bardi (con un sorrisetto sarcastico, sottovoce: facendo sorridere donna Fanny) As-sas-si-no!

Giordano Mari. Che cosa sarà la mia conferenza di Bologna? Il seguito di questa d'oggi, di Milano. E a Napoli che cosa dirò? Ciò che non ho avuto tempo di dire a Bologna: e a Roma lo stesso; e lo stesso a Parigi, alla Sorbona, dove mi hanno invitato, perchè il pensiero, araldo dell'arte e della letteratura, non ha più confini ormai, [18] è cosmopolita (seguiterebbe a tener conferenza anche per la strada, se chinando lo sguardo sulla sua compagna, non la trovasse più che mai estatica: carina, carina, molto carina! Avvicinandosi di più, fissandola negli occhi). A lei, signorina, è parsa bella la mia conferenza?...

Emma (risponde soltanto guardandolo; non ha più fiato per dir di sì; nemmeno per tenere sollevato lo strascico della veste, che spazza il marciapiedi del corso Vittorio Emanuele).

Giordano Mari.... Or bene, essa le è parsa bella perchè l'ha sentita sincera: non è merito mio; la bellezza è lo splendore del vero, diceva il divino Platone; e lo dicono anche i suoi occhi, signorina!

Guido Bardi (che allunga il collo per star a sentire, pesta sull'abito di Emma, che si ferma di colpo, chinandosi) Oh, pardon!

Il cavalier Venceslao (di lontano, con una vocetta esile che ricorda i cantori della cappella Sistina e distrugge tutto l'effetto autorevole della bella barba verdiana) Emma! Il signor Sebastiani ti saluta: dice di non poter venire oggi a pranzo da noi!

Nino Sebastiani è invitato a pranzo tutte le domeniche in casa Dionisy: e si sa, non ci manca mai per via della signorina Emma; anzi, per quanto è possibile, cerca di far entrare nelle domeniche anche qualche giovedì; ma stavolta, invece, dopo quella maledettissima conferenza, indispettito, ingelosito, furibondo, e sperando di fare un gran colpo decisivo sull'animo di Emma, ha dichiarato, sempre col broncio, al cavalier Venceslao di aver dovuto accettare un altro invito.

Il cavalier Venceslao (ripete con intenzione) [19] Emma! Hai capito?... Il signor Sebastiani non vuol venire a pranzo!

Emma (distratta, per dire un complimento) Oh chissà come la mamma ne sarà dispiacente!

[20]

III. In via Monte Napoleone.

Dinanzi al portone di casa Dionisy: la via Monte Napoleone, di domenica, a quell'ora, le quattro pomeridiane, è pochissimo frequentata.

Carlo Borghetti (un giovanotto nè bello, ne brutto, nè elegante, nè trascurato: l'aspetto serio, di un uomo che lavora; la cera fosca di Lindoro in collera con Zelinda. Passeggia su e giù da mezz'ora per incontrare «per caso» la signorina Emma, quando torna dalla conferenza: fra sè, stritolando il collo ad un sigaro di Virginia che non vuol tirare) Sono le quattro! Che chiacchierone di un conferenziere! Ancora un giro e poi me ne vado a casa! E poi dopo, si sa, mezz'ora di complimenti col drammaturgo fischiato!... Quel falso Verdi è un gran padre balordo! Lascia sempre sua figlia insieme con donna Fanny, una civetta... peggio, ancora, una donna maritata da un paio d'anni, e che, oltre ai clandestini, ha già un amante ufficiale per [21] paravento!.... (sorridendo sprezzantemente) Il poeta! Un poeta ridicolo!... Come quell'altro, l'amico indivisibile! Un commediografo... seccatore! (e aggrotta le ciglia).

Egli l'ha a morte contro i poeti, e i commediografi italiani specialmente... dal giorno che Nino Sebastiani s'è messo a corteggiare la signorina Emma.

Carlo Borghetti, un nobile di Crema, stabilitosi a Milano, sebbene molto ricco del suo, esercita l'architettura, e sebbene ancora più vicino ai trenta che ai quarant'anni, ha già acquistato una bella rinomanza; ma come egli tiene celato in fondo al cuore con sospettosa e ombrosa selvatichezza il suo amore per la signorina Emma, così tutta la vivacità del suo ingegno, rimane nella vita mondana, sepolta quasi, sotto un mutismo ombroso, sdegnoso, insofferente, lunatico... e che poi, in fondo, non ha altra origine che in un riserbo naturale, in una timida ritrosia.

C'è in lui, come c'era sin da giovane, una preziosa fusione di doti positive e di estri bizzarri. Mentre sarebbe parso a tutta prima che le prerogative principali del suo ingegno fossero il raziocinio matematico e l'austera severità della deduzione, ecco scintillare da quella sua mente eclettica, faragginosa ed equilibrata ad un tempo tutte le genialità, gl'impeti, e gli entusiasmi di un artista... Egli diventa un architetto nel senso classico ed in pari tempo nel senso moderno della parola. L'artista s'innamora delle bellezze del passato; lo scienziato si appassiona dei problemi del presente. Studiando i monumenti — e recando in quelle ricerche una coltura eccezionalmente varia e profonda — si fa archeologo e storico; e la sua [22] dottrina, unita al naturale senso per ogni cosa bella ed armonica, lo guida sin dagli inizii nel lavoro professionale, preservandolo da ogni volgarità, da ogni compromissione venale colla moda bottegaia, sfacciata e pitocca, in fondo, dell'epoca...

Ora, Carlo Borghetti si è buttato con fervore febbrile ad una missione che lo appassiona, che avrebbe consacrata la sua fama, e alla quale egli consacra la sua vita: la ricostruzione del monastero di Pontida qual'era nei tempi epici dei Comuni lombardi. Governo e Provincia gli hanno dato l'incarico: gli occhi di tutto il mondo sapiente si sarebbero rivolti all'opera sua.

Carlo Borghetti (guardando l'orologio) Sono le quattro e mezzo! Un ultimo giro, poi... a casa! (Ne fa due o tre degli «ultimi giri», poi guarda ancora l'orologio). Le quattro e tre quarti!... Vado!

Invece resta; e tanto più la signorina Emma avrebbe tardato a tornare a casa, tanto più egli sarebbe rimasto lì ad aspettarla, trattenuto dalla gelosia, dalla incertezza, dall'ansietà, dalla disperazione.

— Finalmente!

Lontano, lontano, in fondo alla contrada, due cappellini, uno rosso ed uno verde, il verde è l'importante, entrano dal corso Vittorio Emanuele in via Monte Napoleone.

— Eccola!

Un'occhiata rapidissima, un lampo, e l'architetto ha già visto non solo che c'è lei, ma anche, subito, che non c'è lui... il commediografo.

Ah! che sollievo!...

Sorride, diventa rosso, messo in orgasmo e intimidito da quel cappellino verde che si avvicina [23] lentamente. Egli si ferma colla scusa di accendere un altro sigaro, e intanto, mentre tiene colle due mani il cerino per difendere la fiamma dal vento e fuma, fuma come una locomotiva, guarda innanzi, spiando chi c'è in compagnia della signorina Emma.

Carlo Borghetti (fra sè come sopra) Donna Fanny... il poeta... il presidente... il Verdi... Per Dio, chi è?...

Il sangue gli dà un tuffo: l'architetto è diventato pallido: anche il secondo sigaro non tira. In fretta attraversa la contrada; vuole schivare, non vuol fermarsi con quella gente.

In quell'«andante maestoso» che si avvicinava con Emma, in quel gilet bianco, in quel cilindro lucente come un fanale, egli ha subito sentito, indovinato, il gran conferenziere, l'uomo del giorno, un nemico... il nemico!

Il nobile Barbarani (ha visto l'architetto da lontano: fa un piccolo salto, chiamandolo, e si pianta in mezzo alla strada per fermarlo) Carlo Carletto! Son proprio content! (rivolgendosi a Giordano Mari) Adesso le farò conoscere (colpetto di tosse: colla voce più forte) un grande originale. Molto ingegno! Molta erudizione! Matto, ombroso come un cavallo! Ha la specialità dei monumenti, delle antichità, tutta roba interessante per gli appositi amatori, per la storia — bravo! — Ma con la dovuta moderazione! (un altro colpetto di tosse perchè si arrabbia e soffoca) E col dovuto rispetto e le dovute convenienze per chi paga le tasse e ha diritto ai suoi comodi! Milano è una città modernissima — per i milanesi prima di tutto!... Non un museo per i forestieri! Carlo! Carletto!... Don Carlo!

[24] Carlo Borghetti — (risponde seccamente) Ciao. (Si leva appena il cappello e tira via diritto, affrettando il passo e con una faccia tale che tutti sorridono, ma nessuno osa fermarlo).

È proprio fuori di sè. Egli odia in quel punto tutta la gente e tutte le donne. Le donne in ispecial modo: leggiere, vane, civette, false!... Tutte le donne, che poi si riducono per Carlo Borghetti ad una sola, Emma, il cappellino verde, colpevole di farsi accompagnare per la strada da quel ciarlatano dell'oratoria; colpevole.... colpevole, sopra tutto, di non aver mai capito ciò ch'egli si è sempre studiato di nasconderle, a furia di musi, di scontrosità e magari anche di sgarberie!

Il nobile Barbarani (rimane per un istante sconcertato, fermo in mezzo alla strada; poi, brontolando, si mette alla coda prendendo sotto braccio il cavalier Venceslao) Che presunzione! Che arroganza! Per avere il diritto di mancare anche di educazione, bisognerebbe chiamarsi per lo meno... il Brunelleschi!

Giordano Mari (sottovoce, osservando la signorina Emma, dopo di aver osservato l'atto, il turbamento, quasi la fuga del giovanotto) Chi è quel signor.... Carletto?

Emma (con naturalezza... sincera) Mio cugino, l'architetto Carlo Borghetti.

Giordano Mari (con squisita cortesia, per fare un complimento alla famiglia) Oh, oh!... Il sapiente artefice restauratore, il rievocatore, dirò meglio, del monastero di Pontida?

Emma (sorridendo, perchè tutti ridono in coro delle originalità di suo cugino) Già: e si figuri: adesso, perchè lo zio è diventato ministro dell'istruzione [25] pubblica, voleva dare le sue dimissioni, sospendere i lavori...

Giordano Mari (vivamente interrompendola, parlandole più curvo, quasi inchinandola) Come, come, Sua Eccellenza l'onorevole Albertoni sarebbe dunque suo zio?...

Emma. Sì, fratello della mamma.

E così dicendo Emma arrossisce e torna a guardare per terra, confusa, turbata e inebriata. Sente che Giordano Mari le si è fatto più vicino, sente più vicino a' suoi capelli, alle sue guance, quella bocca eloquente, mobile, carnosa, dai bei denti lucentissimi e si sente tutta avvolgere da uno sguardo più fisso, più intenso, più caldo e... — Che peccato! — mormora, sospira ingenuamente. — Siamo già a casa!...

A quattro passi di distanza:

Donna Fanny (dicendo quasi la stessa cosa a Guido Bardi) Che peccato! Siamo arrivati!.... Ed io devo proprio salir un momento dalla signora Dionisy..

Guido Bardi (con una certa ansietà che gli rende la voce un po' velata) E... dopo?... Sì?... Vengo a salutarla?

Donna Fanny. Oggi... non si può. È domenica: devo andare anche da mia suocera: è il suo giorno.

Guido Bardi (si rannuvola... si morde i baffi).

Donna Fanny (guardandolo per consolarlo, con uno sguardo morbido come una carezza) Venga a prendere il caffè — con noi — dopo pranzo. Ma... non si faccia aspettare!

[26]

IV. Di sopra, in casa Dionisy.

Il salottino della signora Letizia, la madre di Emma: persiane chiuse, tendine calate; di primo colpo, buio pesto, poi a poco a poco si comincia a distinguere una figura bianca, gentile, che occupa, mollemente distesa, tutta la lunga poltrona a sdraio: capelli inverosimilmente biondi, occhi inverosimilmente neri: la signora, che è stata bellissima, è ancora bella: soltanto da un paio d'annetti circa non si lascia più vedere altro che allo scuro... sempre più allo scuro. Vicinissimo, un'ombra, una forma confusa, molto chinata su di lei. È il dottor Fabio Speranza che, dopo averle cercato e toccato il polso, è salito adagio, più su, colla mano, dentro la manica larga della soffice veste d'intérieur, e trovato morbido e piacevole il posticino, vi è rimasto, al caldo, senz'ombra di malizia.

Il dottore (eleganza stagionata: tutte le arguzie e le risorse della professione; parla lentamente, sommessamente, [27] con una monotonia di tono e d'argomenti che riposa, calma e persuade) Dunque, per oggi, la mia tosa, restiamo intesi così: la noce vomica, prima quattro gocce, poi cinque, poi sei, a colazione, e così a pranzo. E per il momento, direi nient'altro. Stiamo a vedere. La digestione è abbastanza regolare — vero? — La nutrizione soddisfacente, la cerina... buona; anche quei nostri piccoli fenomeni nervosi non si sono più ripetuti, dunque — da brava — dallo stato generale dell'organismo bisogna ragionevolmente concludere che il meglio è nemico del bene, quindi accontentarsi!

La signora Letizia (languidamente) E le pillole di ferro?

Il dottore (dopo averci molto pensato, gravemente) Io direi anche, se crede (pausa), sospendiamole per qualche giorno (lunga pausa e lungo sospiro). Potremo poi ricominciare più tardi, se sarà il caso la cura ascendente.

La signora Letizia. E dell'Emma che cosa ne dice?

Il dottore (ancora più grave, più serio, scrollando il capo, sospirando profondamente) Mah!... (un'altra pausa, poi risalendo colla mano dentro la manica della signora Letizia e premendole il braccio in modo significativo) Un marito; cara la mia tosa, darle marito. Tutto il resto, l'esercizio, l'aria buona, la montagna, il tennis... non dico di no: hanno ottenuto un risultato al di là del soddisfacente. La ragazza è bene sviluppata, ben nutrita... il pannicolo adiposo abbondante, ma... ma... (sospiro e pausa) tutto alla sua epoca indicata, alla sua stagione prefissa — sicuro. Adesso, Emma... — appunto — ha un certo pallore interessante... un certo brillare degli occhi... Viene la sua stagione per tutto — vero? — per [28] il cappellino di paglia e per la pelliccia. E dunque, eccoci: precisamente: adesso, Emma è nella vera stagione del matrimonio.

La signora Letizia (languidamente) Oh, dottore, è un po' il suo tic quello del matrimonio!

Il dottore (sorridendo e colla punta del dito mignolo rovesciando delicatamente il labbro inferiore della signora Letizia per guardare le gengive un po' esangui) È Domeneddio che ha fatto le cose in modo da giustificarmi pienamente!

La signora Letizia (rivoltandosi sulla poltrona, ridendo e nascondendosi il viso, impone colla mano al dottore di tacere, di non ricominciare colle solite enormità. Poi, quando si è bellamente riadagiata come prima, e il dottore le ha rimesso il cuscino di piume sotto il capo, riprende il discorso seriamente) Io credo che Emma, sotto certi rapporti, sia ancora... nel mondo della luna. Non so se mi spiego...

Il dottore le risponde, approvando col capo, che si spiega benissimo.

— Non sa, non immagina l'amore altro che dalla letteratura, dal teatro... e non è per lei altro che il Romanzo di un giovane povero.

— Oppure il Padrone delle Ferriere, che e più istruttivo.

— In conclusione, Emma non pensa a niente, non le importa niente di nessuno; prende tutto con indifferenza, anche la corte che le fa Nino Sebastiani e... non capisce niente. (Con due occhiate: una innalzata al cielo, l'altra rivolta al dottore, piena di rimpianto) Età felice!

Il dottore (continuando ad accarezzarle la mano, a premerle leggermente le ginocchia; con filosofia) Da brava: tutte le età hanno i loro [29] vantaggi e i loro inconvenienti; e in quanto ad Emma, trovo appunto regolare che lo sviluppo fisico preceda lo sviluppo morale. Regolare ed opportuno: così — vero? — è possibile guidarla, consigliarla, farle fare tutto ciò che potrà riuscire più conveniente per il suo bene. Invece, non prevenendo l'avvicinarsi della crisi, sappiamo noi che cosa ci può capitare? Possiamo prevedere.... le conseguenze? Emma, siamo d'accordo, è fredda di temperamento; è un po'... clorotica, potrà anche accontentarsi di essere amata; ma, d'altra parte, quella sua stessa mancanza di uniformità di carattere..., certi languori... Se avesse bisogno lei di amare? Allora diventerebbe forse pericoloso. (Pausa: poi ripigliando) Potrebbe perdere la testa — vero! — per un poco di buono, e in tal caso che cosa si fa? Esauriti gli argomenti persuasivi — sicuro — noi dovremo sempre finire coll'accettare anche il poco di buono e firmare la ricevuta.

La signora Letizia (con calma, senza scomporsi) Mi spaventa, dottore!

Il dottore. Mah! (Pausa: espressione quasi truce a furia di essere grave e severa). Bisogna prevedere per prevenire. Una volta Emma già maritata, a posto... se le succedesse anche, per un'ipotesi, per una combinazione come ne succedono tutti i giorni, d'innamorarsi... non andrebbe a finire il mondo: anzi, tutt'altro! — È sempre un disastro, un infortunio riparabile quando, parliamoci chiaro, non finisce per essere poi, addirittura, un beneficio. Io direi dunque, per il momento, di non pensarci nemmeno a don Carlo Borghetti. È un fisico troppo sanguigno, una natura troppo energica; prende tutte le cose troppo sul serio, ed [30] Emma finirebbe forse coll'essere sacrificata; mentre tutto al contrario, per quello che si può prevedere, perchè il matrimonio rappresenta sempre un'incognita, con Nino Sebastiani, finirà presumibilmente col fare a suo modo. Ho parlato, alla lontana, colla madre... del Sebastiani (pausa). Sarebbe — pare — contentissima; per il momento fisserebbe a suo figlio — dice lei — un assegno annuo di circa ventimila lire; — quindicimila ne porta l'Emma in dote?.. — dunque, diremo — aspetti un po' — quindici e venti, trentacinquemila — si può fare anche una vita buona, senza pensieri. E poi tre, o quattro volte tanto, in avvenire. Il più lontano possibile — vero? — La signora Sebastiani ha un vizio di cuore ancora compensato, ma, coi dovuti riguardi (pausa), come l'ho tacconata una prima volta, spero di poterla far tirare innanzi magari anche per una ventina d'anni! Nino poi, in quanto a salute, salvo casi impreveduti, potrei anche garantire. Ha un aspetto appariscente, l'indole... d'un cagnolino: oggi sta dietro e obbedisce alla mamma: domani farà altrettanto colla moglie. Se frequenta un po' il palcoscenico, se scrive qualche commedia... roba che passa. Capirà anche lui che una volta ammogliato — vero? — dovrà fare l'uomo serio. — Oggi l'Emma dove è andata? Al lawntennis?

La signora Letizia. No; è andata con Fanny ad una conferenza al Circolo artistico-letterario. Non aveva mai sentito conferenze...

Il dottore. Quel certo Giordano Mari? (pausa: poi) Già, avevo anch'io un biglietto, ma poi — al solito — non ho avuto tempo d'andarci (un profondo sospiro). Sono preso, come si dice, per il [31] collo. Ho finito per far colazione... quasi al tocco. Anche con Venceslao... direi, potrebbe parlarne di questo Sebastiani. E in quanto ad Emma, cominceremo un giorno o l'altro, con un po' di quiete, a tastar il terreno.

La signora Letizia. Venga domani a colazione...

— A che ora? Perchè alle dieci ho l'ospedale.

— Venga alle dodici. (Dopo un momento, interrompendo il dottore che intanto ha continuato a lamentarsi, sedendo più comodo e accavallando le gambe, d'essere in gran ritardo e di non poter nemmeno respirare per le molte visite che ancora gli rimangono da fare) Devo dirle proprio tutta la verità? Io l'Emma... non la capisco! Non me la spiego! E sì, che sono sua madre! Mai una tenerezza, un momento d'espansione — nemmeno d'allegrezza; di quell'allegrezza affettuosa che hanno tutte le ragazze....

Il dottore (fisso, cupo, aggrottando le ciglia) Invece... in certi momenti si mostra nervosa?... È facile all'irascibilità?...

La signora Letizia (continuando)... passano settimane senza che venga a darmi un bacio; anche la sera devo sempre essere io la prima. Mai nessuna confidenza, e come fa con me, tal e quale con quel... buon uomo di suo padre!...

Il dottore (conferma, ripetendo come un'eco) Buonissimo.

La signora Letizia. E così pure rimane dei giorni interi senza dirmi una parola...

— Un po' dispettosa — vero? — un po' contraddicente?

— E mentre io sono impensierita per non potermi spiegare il suo malumore, i suoi capricci, la [32] sua cattiveria, il suo mutismo, e comincio anche ad inquietarmi per la sua salute — ecco, non la sento a discorrere, a ciarlare, a magari ridere come una matta, colla sua cameriera? Di amiche ne cambia una ogni quindici giorni — come faceva colle bambole quand'era bambina. Adesso è un pezzo che tocca alla Fanny... Ma poi durerà anche colla Fanny?... No, no; creda, è proprio vero quello che le ho detto: Emma non pensa ad altro che a divertirsi, e non le importa niente di nessuno! Del resto... (la bella signora guarda il dottore con un'espressione che vuol dire... e dice molte cose), del resto... sarà meglio per Emma — non è vero, dottore?

È questa la solita ripetizione di tutti i giorni: quando il dottore comincia a lamentarsi delle troppe visite che ha da fare, la signora Letizia comincia, per suo conto, a lamentarsi della figliuola che non ha cuore.

È così — ed è sempre stato così, e nient'altro — il loro amore: il bisogno di lamentarsi sempre e di compiangersi l'un l'altra per quelle piccole infelicità... che fanno loro tanto piacere!...

Una grande scampanellata.

Il dottore, senza turbarsi, abbandona il braccio della signora Letizia.

— Visite?

Una seconda scampanellata.

Tutti e due quasi insieme:

— Venceslao.

Il cavalier Venceslao, quando rientra nel seno della sua famiglia, ci tiene ad avvertire ch'è proprio lui, perciò ha imposta la regola al portinaio che «per il padrone» si debba suonare due volte.

[33] Emma (entrando di corsa nel salottino, e precipitandosi addosso alla poltrona della mamma, stampandole sulla bocca due bacioni collo schiocco) Oh, mamma, mamma; che fascino! Che arte! Che maraviglia! Come ti saresti divertita! E anche tu, dottore, perchè non sei venuto! Hai fatto malissimo! Che cosa grande! (un altro abbraccio impetuoso, nervoso, altri due baci sul viso della mamma ancora più risonanti).

La signora Letizia (alzandosi mezzo soffocata, allontanando, come difendendosi, la figliuola) Emma! Emma! Che fai? (guardandosi nello specchio, un po' inquieta per l'amabile incarnatino delle sue guance) Una conferenza!... Si sa, poi, che cosa può essere di straordinario! (Si accomoda la bionda capigliatura a ricci che la figliuola le ha mandata un po' di traverso). Corri sempre da un'esagerazione all'altra!

Il dottore (crollando il capo con aria di sussiego e di sprezzo) Adesso sono di moda i conferenzieri (pausa, poi coll'intenzione di fare dello spirito) i quali non sono poi altro che predicatori vestiti da uomo!

Emma (subito: con slancio) Sei uno stupido!

La signora Letizia (richiamando la figliuola al dovuto rispetto) Oh! Oh! Oh!...

Il dottore (che se la gode: con fina malizietta) Sentiamo un po'... per valutare al giusto merito l'eloquenza di questo signor Giordano Mari... c'era alla conferenza — vero? — anche Nino Sebastiani?

Emma (colla più candida disinvoltura, come se si trattasse del sindaco o del prefetto) Nino Sebastiani? (ci pensa) No. (Ricordandosene) Cioè, sì!

Il dottore (ritorna serio, molto serio, osservando [34] Emma con grande attenzione, mentre, cacciate le dita nei taschini della sottoveste, fa risuonare continuamente le chiavette di casa).

Emma (riprendendo subito, ed esaltandosi, l'argomento che più l'interessa) Non legge, sai? Parla! Senz'esserci preparato! Improvvisando! (Voltandosi vivamente verso donna Fanny che sta per entrare nel salottino seguita dal nobile Barbarani, mentre il cavaliere Venceslao si ferma nel salone e si mette al pianoforte) Non è vero, Fanny?... Non è vero, papà, che cosa straordinaria?

Donna Fanny (più calma, dopo aver abbracciata, senza stringerla, donna Letizia e averle dato per aria i due baci di convenzione) Ha un gran merito!... Anche Guido lo riconosce... (Guido Bardi, s'intende). Come conferenziere è di prima forza!

Il nobile Barbarani (sempre saltellando, dopo aver battuto col palmo della mano sulle spalle e sulla pancetta del dottore) Di primissima forza! Di cartello!... Un vero oratore di cartello! Diceva benissimo il pittore Fioravanti, quello famoso che ha fatto il ritratto anche a donna Ida: È un Demostene, un Cicerone — coi polmoni del Tamagno!...

Il cavalier Venceslao (dal salone, solfeggiando e accompagnandosi cogli accordi del pianoforte) È un'eloquenza dantoniana! Drlirinin!... Irrompente! Drlaronn!... Maestosa! Drlarumm!...

Donna Fanny. E poi è un bel giovane, un bell'uomo! Ha magnifici denti. Il Barbarani ce lo ha presentato, ed egli ci ha accompagnate fin qui. Anche Guido lo ha trovato molto... signore! molto... come si deve!

Il nobile Barbarani. Non frequenta che la migliore [35] società. A Padova è stato l'amante della contessa Pianelli. Lo sapevano tutti: era... ufficialissimo! Stasera gli diamo uno champagne d'onore al Circolo artistico-letterario — Son proprio content! (Al dottore, che intanto ha continuato a guardare e a studiare la signorina Emma) Dovresti venire anche tu — benissim! — Dieci franchi a testa soltanto i soci frequentatori, perchè gli artisti, si sa, in Italia ne han pochi da spendere.

Il dottore (scrollando il capo e sospirando) Impossibile!... Sono così preso in questi giorni!(Guardando l'orologio) Sono le cinque e mezzo e dovrei già essere in via Cusani! Scappo! (Scampanellata; il dottore sente venire altre visite, si siede). Scappo subito.

È la vecchia marchesa Gonzales: vecchia per gli altri, non per sè stessa; ha molte pretensioni di eleganza, di gioventù e la smania di essere ancora corteggiata. Ingrassa ogni giorno, ma per conto suo ha invece l'illusione di dimagrare a forza di stringersi e di patir la sete, cosa che la fa essere sempre eccitata, rabbiosa. Quando le domandano se è stata alla conferenza, monta in furore. Ma come?... Lei?... La marchesa Gonzales alla conferenza di un ateo? Di un... eretico? Sa! Sa! Sa tutto!... Le hanno detto tutto! Le hanno già riferito i suoi amici — perchè lei ha degli amici veri, e tutti simpatici, fedeli, provati e tutti giovanotti! — le hanno riferito che cosa ha detto di bello quel signore! Che teorie! Che massime! Che dottrine!.. Che spropositi!

Lo sdegno e la veemenza della marchesa sono tali che tutti tacciono ammutoliti. La signora Letizia è quasi mortificata di aver mandato Emma [36] alla conferenza; donna Fanny di esserci stata lei; ed Emma, scossa, confusa, china il capo, quasi vergognosa, quasi addolorata.

Il silenzio è grave, penoso, rotto soltanto dagli accordi e dai solfeggi del cavalier Venceslao, e dal risonare delle chiavettine del dottore, il quale, in punta di piedi, gira intorno alla ricerca del suo cappello... poi, pianino, passando vicino ad Emma, toccandole, premendole le mani, le ricorda, sottovoce, le cartine di fosfato che ha da prendere prima di pranzo, e sparisce senza che nessuno se ne accorga.

Il nobile Barbarani (a un tratto scattando dalla seggiola e fermandosi ritto dinanzi alla marchesa) Miscredente?... Un ateo?... Un eretico?... Benissim! Ma in tal caso (un colpettino di tosse) sia quel che si sia — mi piace sempre dire la verità! — son proprio content d'essere un miscredente anch'io; perchè il Diderot, il Voltaire, il Rousseau, li leggo e li ammiro anch'io, e in quanto alla filosofia e alla storia c'è poco da ridere: credenti, o miscredenti, la storia — per sua regola, marchesa — resta quello che è; non si può cambiare.

Emma (si sente sollevata; lo guarda, sorride) Che bel vecchietto quel Barbarani! Leale, franco, simpatico...

[37]

V. All'hôtel della «Bella Venezia».

Giordano Mari (entrando cerca il portiere che non c'è, chiama il cameriere che non risponde, entra nel burò dove non trova nessuno; si mette a brontolare prima a mezza voce, poi molto più forte).

Il direttore (che si era addormentato in quel caldo pomeriggio, risvegliandosi e avanzandosi nel buio) Il signore?... domanda?...

Giordano Mari. Domando se ci sono lettere, telegrammi per me.

Il direttore (che non si ricorda chi è) Scusi?...

Giordano Mari (risentito) Per Dio! Giordano Mari.

Il direttore (lo guarda c. s.)

Giordano Mari (furibondo) Il numero 15!

Il direttore (con calma) Adesso domanderemo al cameriere.

Per il numero 15 c'era un telegramma ed una lettera: erano stati portati in camera: e per Giordano Mari dovevano essere importanti assai, perchè, [38] ordinato in fretta da pranzo, fa le scale d'un fiato.

Col telegramma, invece di una sola lettera, ce ne sono due. Una da Roma, l'altra col bollo di città.

Giordano, prima di aprire, guarda di chi sono: la lettera di Roma è quella che egli aspetta dall'onorevole Rocco Marana, sotto-segretario di Stato all'istruzione pubblica. Quella di città è del suo editore.

— Ma perchè mi scrive? Se l'ho avvertito che domattina sarei andato io da lui?

Da quella lettera Giordano Mari sente che deve aspettarsi una contrarietà, un rifiuto; tuttavia legge prima il telegramma:

«Impossibile ottenere rinnovazione: voci attendibili assicurano solito sovventore prossimo fallimento. Regolati.»

«Finardi.»

— Anche gli usurai che falliscono! Quando il diavolo ci vuole mettere la coda! E adesso... a quest'altro! — E comincia più lentamente ad aprire e a leggere la lettera di Roma. È la risposta ad una sua domanda per certa missione all'estero che ha più volte sollecitato e che gli procurerebbe, oltre al divertimento e all'onore di un paio di commende, anche qualche biglietto da mille:

[39]

Ministero
della
Pubblica Istruzione

Gabinetto del Sottosegretario di Stato.

Carissimo amico,

«Cattive notizie! Il tuo invio a Lipsia per l'esame e il possibile ricupero dell'epistolario galileiano, scoperto in quella città, — e di doverosa rivendicazione da parte del Governo italiano di fronte alle irregolarità di acquisto emerse dal recente processo — pareva cosa sicura. S. E. il ministro, anche l'altra sera, dopo un lungo colloquio intorno a molte altre cose, me ne aveva dato la quasi certezza, mostrando di ricordarsi molto bene di te, de' tuoi titoli e delle tue benemerenze. Credevo di potergli far firmare a giorni il relativo decreto e le commendatizie ufficiali presso i corpi diplomatici, allorchè, stamane, apprendo che la missione è irrevocabilmente affidata all'onorevole Toscolani. Questo nome, in questi momenti, ti dice tutto; ti dice specialmente, come non sia dipeso da mancanza di buon volere da parte mia l'esito negativo della pratica. Un elemento così irrequieto e tempestoso, da sottrarsi all'opposizione parlamentare ed extra-parlamentare, alla vigilia, o quasi, di un voto di vita o di morte pel Gabinetto, ha avuto il sopravvento anche nel campo... teoricamente sereno della scienza e delle arti. Tu sei troppo uomo di mondo, sebbene non rotto ancora a questa vitaccia politica, per non comprendere [40] certe supreme necessità del momento. A voce, e spero presto, a Roma, potrò dirti di più. Per ora non volermene e gradisci una filosofica stretta di mano dal tuo

Affezionatissimo
Rocco Marana

Giordano Mari non dice una parola, non fiata, ma sotto gli occhi gli appaiono due solchi lividi, profondi. Apre l'altra lettera, quella dell'editore di Milano.

Amodei e C. Editori
   Gabinetto del Direttore

Illustre e carissimo Mari,

«Mi offrite le vostre conferenze sui Precursori della Rivoluzione? Quali sono e quante sono? perchè io non ne conosco altro che una, la solita di Venezia, Torino e Genova; sempre bella, ma sempre quella, come la bandiera dei tre color! E poi... mi domandate duemila lire — anticipate — per un volume di conferenze? È vero che non è che una domanda... ma io non vi posso dare... che una risposta. Vi voglio molto bene, ma non posso, per voi, disgustarmi col mio interesse.

Affezionatissimo
Amodei.

«P. S. — Devo assentarmi da Milano per il matrimonio di mia nipote. Sono spiacente per me... e per voi. Vi avrei fatto conoscere l'architetto Carlo Borghetti, una vera capacità, un erudito [41] fenomenale. Avrebbe potuto esservi utilissimo per la vostra monografia su sant'Ambrogio... o il signor Ambrogio, come volete voi.»

Giordano Mari, pallidissimo, resta fermo, immobile su due piedi. È una disdetta. Tutto gli va male... tutto! tutto!... C'è fin da ridere, tanto è curiosa!... E ride infatti; ma ad un tratto il riso gli si ferma sulle labbra ed ha un sussulto in tutta la persona: riapre, rilegge il telegramma:

«Impossibile ottenere rinnovazione: voci attendibili assicurano solito sovventore prossimo fallimento. Regolati».

— Ma allora?... E le altre?... E tutte le altre?...

Anche gli ultimi echi degli applausi di un'ora innanzi, le febbrili compiacenze del successo, tutto è svanito, dileguato ormai... persino il bel viso ridente di donna Fanny e gli occhi intenti, appassionati di Emma. E sì che quest'ultima, mentre egli legge la lettera del Marana, gli è tornata in mente... quale nipote dello zio ministro.

— E le altre cambiali?... E tutte le altre?...

Fa due, tre passi verso la finestra, sempre cupo, sempre pensoso, a testa bassa. Prende macchinalmente le forbici dalla toeletta e macchinalmente continua e continua a tagliarsi, a regolarsi, a limarsi le unghie...

— E le altre?... E tutte le altre?...

Rimane ancora diritto in piedi, immobile, a testa bassa, occupato delle sue unghie, ma a mano a mano il suo viso da pallido diventa giallo, gonfio, sformato... i solchi sotto gli occhi diventano sempre [42] più profondi. Non ha più trentacinque anni nè quarantacinque... ne dimostra sessanta...

— E le altre?... Almeno dieci... dodicimila lire?...

Nella cameretta si sente solo il rumore del respiro greve, affannoso del Mari, e un tic-tic-tac delle unghie dure, che saltano via, mozzate dalle forbici.

Cameriere (battendo all'uscio) Signore...

Giordano Mari (trasalendo, voltandosi) Che c'è?

Cameriere. Il pranzo è servito.

[43]

VI. Dopo due settimane al club.

Giordano Mari ha rimandato ad altra epoca le sue conferenze di Bologna, Roma e Napoli; trovandosi a Milano, vuole invece approfittare dell'occasione, per fare tutte le ricerche necessarie e compiere sul posto l'importante monografia Ambrogio vescovo nella civiltà de' suoi tempi, che gli deve aprir la strada alla cattedra di storia in una delle principali Università del Regno. Intanto approfitta delle sere, e un po' anche del giorno (le biblioteche e gli archivi si chiudono presto) per far conoscenze e frequentare il bel mondo di Milano, in compagnia del presidente del Circolo artistico-letterario, il nobile Barbarani, sempre felicissimo, «proprio content», quando può fare il cicerone delle belle signore coi personaggi un po' celebri che passano da Milano.

— Sarà un debole — diceva il presidente Barbarani, scusandosi di questa sua manìa cogli amici che lo pigliavano a giuoco — ma a me la gente di talento... non mi dispiace! Si parla di tutto volentieri, e si vengono a sapere tante cose anche [44] curiosissime, che saranno vere sì, saranno vere no, questo non implica, ma interessano moltissim. Mediolanum, eccone una bella, per esempio, si compone di due parole, Med e Lan, che nell'idioma celtico significano Fertile terreno!

Ma questa volta, a proposito di Giordano Mari, altro che pigliarlo a giuoco! Per poco non lo pigliavano a... bastonate! Nino Sebastiani era furente contro di lui, perchè pareva che il grande uomo di Padova facesse la corte alla signorina Dionisy; e Guido Bardi gli teneva il broncio, perchè anche donna Fanny si montava la testa e civettava a segno da compromettersi. E oltre questi due, che lo lasciavano indifferentissimo, perchè già noti in Galilea pei loro furori da Otello, anche Carlo Borghetti non si prendeva il gusto di diventare ogni giorno più villanissim?... certamente per quelle gelosie, invidie e battibecchi tra scienziati, che, dacchè mondo è mondo, purtroppo, si sono sempre ripetuti, cominciando dal Caro col Castelvetro?...

La mattina di quel giorno, proprio per far dispetto, e dare anche una prova di indipendenza e di prepotenza ai tre moschettieri di casa Dionisy, Nino, Guido e Carlo Borghetti, il nobile Barbarani fa staccare una lettera d'invito, al club, per Giordano Mari: e fa male.

Questa volta, anche tutti gli altri soci, molto esclusivisti e però molto diffidenti e difficili nell'ammettere persone estranee, gli fanno osservazioni e lamentele.

— Quella è gente del tuo Circolo artistico-letterario! Bisogna andar adagio! tirar dentro il primo che capita! Va bene, è un letterato, uno scrittore, uno scienziato, anche un genio! Quella [45] è roba del tuo Circolo artistico-letterario! Ma qui, al club, che cosa ci verrebbe a fare? Intanto — come individuo — da dove è saltato fuori?

— Dalla più eletta società di Padova!

— Ma chi è, in fine? Chi è?

— È stato per tre anni l'amante ufficialissimo della contessa Pianelli, alla quale ha fatto la corte anche Don Carlos, sicchè mi pare — e il piccolo Barbarani tutto impettito si mette le mani sui fianchi, — mi pare, è sempre stato in buona compagnia!

Ma Guido Bardi e Nino Sebastiani soffiano nel fuoco, preparano una cabala contro Giordano Mari — tutti gli avrebbero voltate le spalle appena si fosse presentato — e il nobile Barbarani, a sua volta, per parare il colpo, continua a fare tutto il giorno una gran propaganda per il conferenziere!

Al club:

Il presidente Barbarani è in piedi in mezzo a sette od otto sportsmen, sdraiati intorno alla finestra del grande terrazzo. Nino Sebastiani, sul canapè, nell'ombra della sala, legge il Corriere della Sera: Guido Bardi, seduto al tavolo, col capo fra le mani, legge l'ultimo fascicolo della Revue des Deux Mondes.

Il nobile Barbarani. Vi assicuro — parola d'onore — per quanto pieno di talento, non esclude che sia anche di una educazione perfettissima! È qui il nostro Guido? precisament! Non è un letterato e un poeta di primissimo ordine, e medesimamente il più compito gentiluomo? E il bravo Sebastiani? Tutti applaudono le sue commedie che [46] sembrano scritte addirittura da un francese, e con questo?... Gentilezza e cortesia sono il suo emblema.

Il Bardi e il Sebastiani (tutti e due insieme scattano come molle: ma dopo un'occhiataccia torva e un'alzata di spalle, tornano a leggere).

Il nobile Barbarani (un saltetto di compiacenza, quindi ripiglia tendendo l'amo nel circolo dei «fashionables») Di cavalli, per esempio? Anche di cavalli, Giordano Mari se ne intende moltissim! Dei varii sport? (movimento di curiosità). È una vera competenza! Un'erudizione speciale!... Certi suoi confronti coi Greci e coi Romani, e con le nostre corse del giorno d'oggi, sono interessantissimi e curiosissimi! Le bighe, per esempio, erano nè più nè meno dei nostri tilbury: e anche nel Longchamp dei Greci, nell'ippodromo, tiravano a sorte ciascuno il suo posto e partivano insieme a un segnale convenuto. Invece l'ippodromo dei Romani era poi il circo, cioè la nostra pista: precisamente! E anche i Romani — tal e quale — avevano per l'appunto i loro bravi... — aspetta un moment (pausa, poi:) gli editores ludi! — benissim! Nè più nè meno della nostra Società delle corse! E anche le scommesse! Ma, allora — grazie tante! — come le prendevano sul serio! Sotto Giustiniano, per esempio.... (si ferma interdetto, per timore di Guido Bardi che alza il capo e sta a sentire) o sotto un Costantino.... (stizzito) Già l'uno o l'altro, non importa, è il fatto storico che preme! (Tossisce, si rischiara la voce: con impeto quasi aggressivo contro il Bardi) E questo è positivissimo!.. I varii partiti — che si chiamavano le fazioni — invece di scommettere, tranquillamente, [47] per Sansonetto o per Drusilla, si appassionavano al punto da far degenerare la discussione in una guerra punica ferocissima, che durava persino due o tre giorni, con venti e magari trentamila morti!... (Una risata, un saltetto e una fregatina di mani) Altro che totalizzatore!

Il Bardi e il Sebastiani continuano a leggere, sogghignando per quella erudizione da dizionario; ma, intanto, perdono terreno: i soci del club s'interessano allo sport dei Greci e dei Romani, ed anche a Giordano Mari; essi fanno parecchie altre domande sul conto degli editores ludi ed anche sui meriti della contessa Pianelli, delle corse degli auriga nel circo e delle avventure amorose del conferenziere a Padova; e così il piccolo Barbarani trionfa col suo grand'uomo, a dispetto del poeta e del commediografo.

Benissim! Son proprio content.

Ed anche un'ora dopo, sempre al club, ma nella sala da pranzo, egli continua a raccontare, a sdottoreggiare ed a sfiatarsi, sempre a proposito del suo illustre amico di passaggio.

Il nobile Barbarani, potentissimo come presidente del Circolo artistico-letterario, anche al club gode di una certa considerazione come direttore di mensa.

Quel giorno, al pranzo delle sette, c'è poca gente; mancano pure Guido Bardi e Nino Sebastiani, che quasi sempre, del resto, pranzano in famiglia; e il nobile Barbarani, fattosi più sicuro anche per questa assenza, è sul punto di arrischiare il gran colpo coi fedeli commensali, immersi, beatamente, nel tepido profumo del consumè, annunziar loro, cioè, che per l'indomani [48] egli ha invitato a pranzo, proprio al club, e proprio lui, il grande Giordano Mari! (Tossisce, si rischiara la voce più che mai arrochita e incomincia).

— Dunque, domani... — benissim! — sarà una conversazione veramente piacevoliss... (ma il resto gli rimane in gola: entra nella sala per mettersi a tavola l'architetto Carlo Borghetti, sempre in ritardo al pranzo delle sette, perchè arriva alle sette e un quarto da Pontida: linea di Lecco-Bergamo-Milano).


Carlo Borghetti.

Il nobile Barbarani.

I soliti commensali.

Il maggiordomo e un cameriere in frak: servitori in livrea.

Fuori, il rumore del tram, quando passa; dentro, l'odorino del consumè.

Carlo Borghetti (spettinato, accigliato, la faccia sudata e stanca, saluta col capo a destra e a sinistra, mentre il servitore di dietro gli spinge la seggiola: appena seduto, sorbisce in fretta due o tre cucchiaiate di brodo: disgustato).

— Porta via.

Un servitore gli porta via subito il consumè: il cameriere gli versa da bere.

Il nobile Barbarani (con grande cautela, senza nemmen guardare Carlo Borghetti, quasi avesse timore di toccarlo soltanto cogli occhi) Dunque, certissimo, non è vero?... Stasera sarai anche tu, di casa Dionisy?

Carlo Borghetti (fissandolo bieco) In casa Dionisy? Stasera?

— Venceslao festeggia il venticinquesimo anniversario [49] della prima rappresentazione dell'Aida. Tutto un concerto verdiano, interessantissim. (Tossisce: poi in falsetto, per tastare il terreno e preparare l'altra notizia dell'invito a pranzo) Io vi condurrò anche Giordano Mari, una persona proprio simpatici.... simpatichissima!

Carlo Borghetti (in collera, strapazza il maggiordomo perchè non trova il «menu»: poi pianta un palmo di muso).

Il Barbarani perde coraggio.

Uno dei commensali lontano (dopo un momento di silenzio) Un concerto? Con questo caldo? Non è finita la stagione dei concerti? (Ancora silenzio: rumorìo tranquillo, moderato, composto di piatti e di posate: i servitori camminano in punta di piedi...)

Un altro commensale. L'Aida! (col lungo sospiro dell'abbonato) Bei tempi per la Scala! La prima dell'Aida, la prima dell'Otello....

Il Barbarani (scattando sulla seggiola) Mai più! (Riscaldandosi) L'Aida del Verdi è stata scritta, nientemeno, per commissione del vicerè d'Egitto, col premio di centocinquantamila lire e rappresentata al Cairo con grande sfarzo nel 1871. Dunque settant'uno e venticinque...

I due commensali insieme. Novantasei!...

Barbarani (a Carlo Borghetti con un filo di voce e di speranza) Domani, per esempio, tu sei capacissimo di ritornare ancora a Pontida e di fermarti, magari, tutta una settimana?

Carlo Borghetti (sempre ingrugnito) No; per ora non mi muovo più da Milano. (Beve di colpo tutto il bicchiere di vino che ha dinanzi: il cameriere gliene versa dell'altro).

Barbarani. Come? Come? Come? Bevi durante [50] il pasto? E bevi vino?... Che cosa vuol dire quest'infrazione alle regole, al metodo di cura?

Carlo Borghetti. Vuol dire che ho sete.

Barbarani (punto leggermente) Benissim: son proprio content della bella notizia.

Carlo Borghetti (che non ha sete, ma beve per stordirsi, e per calmare il suo dispetto contro la signorina Emma, e la sua rabbia contro Giordano Mari: sforzandosi, volendo rimediare alla sgarbatezza) Sono stato molto al sole; tutto il giorno al sole.

Il commensale più lontano (mangiando) Proseguono... alacremente... i lavori... a Pontida?

Carlo Borghetti (non risponde: non risponde mai alle domande che gli fanno al club a proposito de' suoi lavori. Invece brontola e si arrabbia di nuovo contro una fetta di «rosbiffe» che non vuol cedere).

Barbarani (con uno sguardo obliquo all'architetto e a quel «rosbiffe», che minaccia di offuscare i suoi meriti di direttore di mensa) Forse non hai scelto... bene. (Chiamando il cameriere perchè gli riporti il piatto) Giorgio!...

Borghetti (con stizza: butta sul tondo coltello e forchetta) Porta via (E vuota tutto d'un fiato il terzo bicchier di vino).

Il nobile Barbarani (con sollecitudine paterna) Oh! Oh! Oh!... Non ci sei abituato!... Non bevi mai per la dilatazione di stomaco.... Oh! Oh! Oh!... Adagio!... È Gattinara vecchio!

Carlo Borghetti (con le guance che gli son diventate subito rosse per quel terzo bicchiere: prorompendo in una sghignazzata) E Gattamelata?... Come sta il tuo Gattamelata?

Barbarani (stupito, inquieto, senza capire) Gatta?.. melata?...

[51] Borghetti. Già: il grand'uomo patavino! Stasera, dunque, te lo porti in trionfo, da mia zia?

Barbarani (contento dello scherzo: sperando nella combinazione del pranzo per il giorno dopo) Ah! benissim! Giordano Mari?... Desidera vivissimamente di fare la tua bellissima conoscenza! Ha per te un'ammirazione addirittura straordinaria? Naturalissima, del resto: due persone di vero talento; due competenze reciprocamente simpati.... simpatichissime!

Carlo Borghetti (sempre colle guance accese: una guardatura ed un sogghigno insoliti) Dunque?... Si è deciso?

— ...?

— Per la bruna o per... l'altra?

— Cioè?

— Per donna Fanny o per la...

— ...?

— O per il matrimonio?

Uno dei commensali, il più furbo (a guisa di commento) Per il peccato... o per la dote?

Barbarani (serenissimo: non sospettando mai che l'austero e lunatico architetto potesse avere delle viste particolari su donna Fanny, e tanto meno sulla signorina Emma) Se dovessi proprio giudicare spassionatissimamente, starei quasi per dire viceversa. — Precisament. — Donna Fanny avrebbe un debole per il conferenziere: si capisce subito, del resto... basta guardare la faccia d'itterizia del Bardi!... Invece, mi pare, a Giordano Mari ha fatto colpo la fanciulla... (a Carlo Borghetti coll'aria, quasi, di congratularsene) la tua leggiadrissima cuginetta.

Ancora il commensale di prima (seguendo cogli occhi gli asparagi al burro che fanno il giro della [52] tavola) Spieghiamoci: gli ha fatto colpo la fanciulla o la dote?

Un altro commensale di faccia. L'una e l'altra: sono belle tutte e due.

Carlo Borghetti (a Giorgio che gli presenta il piatto degli asparagi) No! Ho detto di no! Porta via!

Il Barbarani (con un sospiro per la mortificazione del cameriere: al vicino di tavola) Quell'architett è proprio incontentabilissim!

Il più vecchio e il più autorevole dei «fashionables»: un pezzo ancora vivo del Museo del Risorgimento. (Nel 1857 ha ucciso in duello, per una delle belle signore di Milano, di cui era l'amante, un ufficiale degli usseri, austriaco: rifugiatosi a Torino, ha portato una lettera di Cavour al conte Nigra, a Parigi) I nostri giovani, per altro, del giorno d'oggi, hanno un gran torto: lasciano troppo libero il passo ai forestieri.

— Per forza!...

— Si rendono noiosi!

— Insopportabili!

Il nobile Barbarani. E poi, tutti lo stesso sarto, tutti lo stesso parrucchiere! Che cosa risulta? Che sono tutti eguali, e le donne amano la varietà!

Intanto il pranzo volge alla fine: si fa più vivo il risonare dei piatti e dei bicchieri, cresce l'animazione fra i commensali che parlano più forte, ridendo, scherzando; non si sente più il tram nemmeno quando passa, ed il pettegolezzo diventa meno prudente, meno riguardoso.

— E donna Fanny, per un esempio, credete che si diverta, con Guido Bardi?

— Poeta, come il Petrarca, sarà benissim...

[53] — Ma un gran poeta seccatore!

— Esigente! Gelosissim!

— Donna Fanny non ha più un momento di respiro, di libertà, specialmente poi quando suo marito è a Roma, e quell'altro può fare il tiranno a tutto spiano.

— Sicuro, l'amore moderno è così monotono e poco divertente che le nostre povere signore devono ricorrere al marito come ad un sollievo, come ad una liberazione.

— Allora questo onorevole Simonetti perchè non sta di più con sua moglie? Perchè non resta a Milano? Che cosa fa, sempre a Roma?

— Tace, e vota per Rudinì.

— Finchè sta in piedi Rudinì sarà sempre contento, anche se cade sua moglie!

— E Nino Sebastiani?

— Il commediografo?

— Perchè?... È in pericolo anche il commediografo?

— Il nobile Barbarani (tossendo due o tre volte e riuscendo ad imporsi colla vocetta strillante) Anche il commediografo!... Mea culpa! Deve dire mea culpa anche il commediografo? Perchè continua anche lui, colle sue pose di Romeo e di Otello, a filare il sentiment e la gelosia, sempre alla lontana? Perchè non farsi avanti? Che cosa aspetta, santo Dio? Che il frutto vada in fiore e il fiore in semenza?... Le ragazze, si sa, e le ragazze oneste tanto più, non amano che il matrimonio! — La signorina Emma gli piace? — E dunque coraggio! La sua brava domanda e il suo bravo matrimonio; altrimenti.... aspetta e aspetta, che cosa succede? Che ne capita un altro sull'orizzonte; e se quest'altro, come nel caso, se si verificasse, [54] del nuovo pretendente, è un bell'uomo e un uomo anche di genio, con una splendida posizione, con un grande avvenire, e col fascino della gloria, parliamoci chiaro, io trovo naturalissim che la ragazza possa perdere, come si dice, la sinderesi, e allora, signori miei.... (Il Barbarani s'interrompe).

Carlo Borghetti (a mano a mano, da rosso acceso, è diventato sempre più pallido: dopo inghiottito un altro bicchiere di vino, nel posare il bicchiere a calice con troppa forza sulla tavola, gli si rompe fra le dita).

Barbarani (vedendo la mano di Carlo Borghetti insanguinata: chiamando forte) Giorgio! Giorgio!

[55]

VII. Durante il concerto, in casa Dionisy.

Nel salone del concerto: la folla degli invitati: il maestro Arnaldi, del Conservatorio, eseguisce mirabilmente le Trascrizioni di Liszt sull'Aida: mormorii di approvazione: il cavalier Venceslao, — la cui bella testa italiana ha maggior risalto col frak e la cravatta bianca — ritto in piedi, accanto al pianoforte, volta le pagine della musica, ringrazia sorridendo, con dignitosa affabilità, il pubblico plaudente, o lancia occhiate terribili se appena uno si muove o dice una parola.

In fondo al salone, nascosti dalla portiera dell'uscio a destra: Guido Bardi e donna Fanny: scena di gelosia, sotto voce, ma vivacissima: quella stessa mattina donna Fanny è stata veduta sul Corso, dopo la messa in duomo delle dieci e mezzo, con Giordano Mari.

Accanto alla portiera dell'uscio a sinistra: Nino Sebastiani, colla faccia stralunata e l'occhio sempre attento con inquietudine ansiosa verso il grande finestrone che mette sul terrazzo: si lascia fare una gran corte dalla contessina d'Arborio: una [56] nanerottola napoletana, pertinacemente signorina dopo i trent'anni, che ha perduto una riputazione e sta formandosene un'altra, tutto ciò con un volumetto di Note e frammenti — versi e prose — assai fisiologicamente psicologici.

Nella sala da giuoco: la marchesa Gonzales, più gonfia per le strettoie del busto, più che mai abbarbagliante per i vividi colori dello sfarzoso abbigliamento, più che mai bisbetica e più che mai rabbiosa, per la smania che la rode di un bicchier d'acqua gelata, si sfoga colle sue conoscenze — tutti uomini e tutti bei giovinotti! — contro quel genio inconcludente di Guido Bardi, che non è corso ancora a complimentarla, e per conseguenza anche contro donna Fanny, che scappa via in furia dalla messa, per trovarsi sul Corso con quel luterano... che nessuno sa chi sia!

Nel salottino verde e quasi buio della biblioteca: la signora Letizia, quella sera più che mai sofferente, e perciò lontana dalla luce, lontana dal caldo, lontana dalla folla. Mollemente sdraiata sulla lunga e morbida poltrona, come in un lettuccio, scintillante di gemme e ancora affascinante, in quel mistero della fida penombra per l'incerto bagliore delle spalle e delle braccia ignude, essa sospira e langue, co' suoi più intimi, per il caldo che l'opprime, per i suoi nervi, per Venceslao che ne fa strazio a suon di musica, per Emma ingrata e disobbediente che non si cura di lei, che non si fa mai vedere, che non le vuol bene affatto.... E di tanto in tanto interrompe il lamento e manda il dottore sulle traccie della figliuola, per tenerla d'occhio, per sapere almeno con chi parla. Ma anche il dottore sembra molto preoccupato, sfiduciato, [57] e se ne va in punta di piedi alla ricerca di quella tosa senza giudizio, scrollando il capo e sospirando.

Sul terrazzo: Emma e Giordano Mari. Ci si vede appena, perchè la notte è bella, ma senza luna, e il salone di faccia, illuminato, lascia il terrazzo ancor più nell'ombra.

Le Trascrizioni di Liszt sull'Aida stanno per finire.

Emma. No! No! Adesso no! Mi lasci andare dalla mamma! Chissà che cosa dirà la mamma!

Giordano Mari. Resti ancora!... Tacerò!... Non ho sempre taciuto tutti questi giorni?... Tacerò! Per me sarebbe una colpa parlare! Per questo l'ho sempre sfuggita! (con una amarezza che mostra i bei denti candidi fra la barba bionda) All'uomo consacrato alla ragione, non è concessa la follia del sentimento!... Eppure... questo le dicevo, questo le voglio dire, questo solo. Era il misterioso fascino della simpatia o la suggestione eterna della bellezza? Era la visione di un'anima o l'incontro fatale del destino? Tutto; la folla, il fragore delle approvazioni, l'ansia del successo, il momento presente, l'evocazione immaginosa del passato, tutto si allontanava, illanguidiva, spariva!.. I suoi occhi soltanto; non vedevo altro che i suoi occhi dolci e buoni; i suoi occhi lucenti e fissi, che si erano impadroniti di me, coll'intimo, profondo turbamento di una nuova commozione, che si eran fatti oramai i visibili e magici conduttori della mia parola e del mio pensiero.... Signorina! (trattenendola perchè il maestro Arnaldi ha finito, scoppiano gli applausi, ed Emma rossa, confusa, intimidita, tremante e fremente, vuole scappar via) Ancora!... Ancora! Vederla soltanto! (Le afferra [58] la mano colla quale Emma tiene il ventaglio, gliela stringe forte, le fa male, molto male).

Emma (non si oppone, non dà il più piccolo grido. È lui: essa è contenta che la faccia soffrire; è contenta di quel dolore: essa lo sente; essa sola lo sa!)

Giordano Mari (continuando a stringere la povera manina) Vederla così!... Così bella!... Tacerò... o parlerò, ma come parlerebbe un babbo colla sua figliuola.

Emma (interrompendolo, urtata, offesa da quel confronto nella poesia del suo cuore) No! No! (ed alza l'altra mano rimasta libera per chiudergli la bocca... ed anche per nascondere quei denti bianchi di cui sente istintiva la vicinanza e l'insidia) No! No! Così no!... Così no! Non dica così!

Giordano Mari (lasciandole la mano rimasta tutta rossa, tutta livida) Eppure, signorina, è la verità: la verità che io non devo mai dimenticare che domando alla vita, al passato, che cerco di evocare dalla storia e di concretare colla filosofia e colla scienza: la verità; l'inesorabile e spietata verità che mi nega Dio... e mi toglie lei.

Emma (alza gli occhi sbigottita, poi rimane a guardarlo maravigliata: il cielo profondo, immenso, è pieno di stelle, e il pensiero di quell'uomo vi spazia solo, libero, sicuro. Egli impone un nome e una legge ad ognuna di quelle stelle e ne diventa il padrone. E, inconsapevolmente, la giovinetta superstiziosa e pia, la signorina cattolica e aristocratica, pensa che doveva essere così, così biondo, così bello e così forte — e pure in frak collo sparato bianco — l'angelo ribelle, il Lucifero di Milton. Essa ritrae da quell'uomo l'immagine della grandezza, e si sente umile al suo confronto, si sente debole, piccina. China il [59] capo confusa; rimane intimidita, ma non lo fugge, gli si avvicina invece con un moto irresistibile, pieno di grazia, di verecondia e di abbandono.... gli si avvicina palpitante, attratta da un misterioso e nuovo sgomento, attratta, commossa, dall'irresistibile poesia dell'amore).

Giordano Mari (guardandola, trovando maravigliosi quei capelli, i contorni di quel collo sottile, di quelle spalle candide e delicate, sboccianti colla fragranza d'un fiore dal modesto decolleté) Dunque?... papà... no?

— No.

— Eppure... è così. È perchè sono oramai un giovine vecchio, che lei deve avere in me tutta la fiducia, ed io devo impormi la calma e il ragionamento. Per questo ho aspettato che il Barbarani me lo dicesse tre volte, in tre occasioni diverse, prima di farmi presentare a sua madre, prima di venire in casa sua. Per questo è la prima volta che oso parlarle da solo a sola... (si avvicina di più, quasi a toccarla).

Emma (trasalendo: allontanandosi) È finito! (infatti il pianoforte tace) Mi lasci andare.

Giordano Mari (senza muoversi: rimanendo appoggiato alla ringhiera del terrazzo) Ricominciano. Chi è quel signore calvo e pingue che si accinge a cantare?

— Il maggiore Costamagna.

— Che cosa viene adesso?

— Il Credo di Jago.

— Ecco, incomincia. Suo padre volta le pagine lanciando occhiate terribili: chi oserebbe muoversi adesso? Entrare in sala?

Emma (sorride e resta).

[60] Giordano Mari (ritornando a guardarla molto e riprendendo il discorso di prima per ispirarle sicurezza e far combattere da lei stessa l'ostacolo dell'età, che egli capisce sarebbe stato il primo sollevato dalla gente contro di lui) Se non come suo padre... pensi, signorina, io avrò per altro... quasi l'età del ministro Albertoni!... Di suo zio!

Emma (subito) Ma lo zio è molto più giovine del babbo!... È fratello della mamma! (mettendosi, sorridendo con una cert'aria maliziosa, l'indice sulla bocca per raccomandare il segreto di quella sua gran confidenza) Ha due anni meno della mamma!

Giordano Mari (trovandola ancora più graziosa e piacente in quel passaggio dal candore sentimentale alla furberia birichina) Lei, vuol bene a Sua Eccellenza?

Emma.... Sì; è molto simpatico.

Giordano Mari (con aria disinvolta, senza parere: ma ha parecchie domande da fare che gli premono assai: fissando, ammirando la fanciulla tutta bianca e vaporosa, come l'evocazione fantastica di quella notte calda di giugno, egli non le dà, per sfondo al bel quadro, il cielo immenso e stellato: ma invece tutte le finestre illuminate dello splendido e ricco palazzo, in cui si raccoglie il superchic della nobiltà e dello sfarzo milanese. Quel fiore candido e profumato, quella fanciulla soave deve essere l'apportatrice di pace nelle preoccupazioni finanziarie che lo turbano, che lo agitano, che diventano di giorno in giorno più gravi e più minacciose: e nello stesso tempo la nipotina prediletta di Sua Eccellenza il ministro Albertoni deve essere pure l'araldo gentile della sua gloria: ed anche sotto questo rispetto la sua fortuna: e guardandola pensa con compiacenza) Non una fortuna [61] cieca, ma con due occhi maravigliosi. (Forte) E Sua Eccellenza, vedendola così bella, vedendola così buona, le vorrà molto bene?

— ... Sì; credo.

— Per altro... non vivono insieme?

— Lo zio è quasi sempre a Roma.

Giordano Mari (con voce timida, commossa, profonda — un capolavoro — anche perchè sta perdendo sinceramente la testa) Voglia un po' di bene anche a me, signorina!

Emma (diventa rossa, poi pallidissima).

Giordano Mari (supplichevole, umile, implorandola, domandandole scusa) Non ho detto niente! Non ho detto niente! Non mi risponda! Non mi risponda! Non mi mandi via!... Stiamo a sentire. Non parlo più! Che meraviglia di musica!

La voce baritonale del maggiore Costamagna è un po' aspra, un po' sforzata, ma la signorina Emma e Giordano Mari non se ne accorgono e la trovano davvero deliziosa. Emma sente che comincia allora un'altra vita per lei: che non è più la fanciulla di poco prima: sente che essa ormai appartiene a quell'uomo, il quale, fino dal primo momento che le è apparso, l'ha subito dominata, si è impadronito della sua immaginazione e dei suoi sensi... e Giordano Mari, in quel punto, è vinto a sua volta da un desiderio solo, quello di abbracciarla; dal desiderio ardentissimo di quei capelli odorosi, di quel bel corpo flessuoso e candido come giglio. Non fosse la ricca ereditiera; non fosse la nipote di un'Eccellenza, non la bacerebbe ugualmente molto volentieri?.. E per questo egli sente che il suo amore è spontaneo e disinteressato, e che egli dunque ha tutto il diritto di amarla.

[62] Costamagna finisce il Credo: Venceslao ringrazia il pubblico: il buon dottore approfitta del movimento della folla e capita sul terrazzo in punta di piedi.

Il dottore (ad Emma: Giordano Mari si è allontanato a tempo) Ma con l'umidità del giardino, la mia tosa, vuoi anche buscarti un po' di febbre?... Qui! Da brava! (le prende il braccio e lo mette sotto il suo) Andiamo — vero? — dalla mamma!... È un po' nervosina stasera... (sospiro, pausa) non bisogna tenerla agitata. E Sebastiani? (pausa) Hai veduto Sebastiani?

Emma (assai distratta, tenendo dietro coll'occhio a Giordano Mari, che entra nel salone e si avvicina a donna Fanny) No!

Il dottore (osservandola) Non hai la cerina solita... hai le labbra pallide... (toccandole la mano e tastandole il braccio) sei fredda... fredda. Sei stata troppo sul terrazzo senza niente sulle spalle. (Pausa: torna a fissarla, a studiarla) Hai preso — vero? — le cartine di fosfato?

Emma. Sì; le ho prese.

Il dottore. Allora — vuoi? — andremo dopo dalla mamma. (Pausa, fa due o tre passi, conducendo Emma verso Nino Sebastiani, il quale, appena vede il conferenziere entrare nel salone, fa un sospiro di sollievo e, voltando le spalle alla finestra del terrazzo per mostrarsi affatto indifferente con Emma, parla forte e gestisce molto animatamente colla contessina D'Arborio. — Il dottore ad Emma con una strizzatina d'occhi assai espressiva) Dobbiamo sentire anche noi che cosa dice il nostro Nino Sebastiani?

Emma (che ha visto Giordano Mari allontanarsi [63] dal salone con donna Fanny: nervosissima) No. Non seccarmi sempre con quel tuo antipatico Sebastiani! Andiamo dalla mamma!

Il dottore (scrolla il capo, diventa sempre più tenebroso: con un sospiro) Mah!.. (Poi, mentre passano vicino al cavalier Venceslao) La signora Letizia... ti raccomanda di non stancarti troppo. Prendi un bicchierino di Bordeaux, con due dita di Vichy.

Il cavalier Venceslao (calmo, affabile, sorridente) Adesso daremo le Trascrizioni di Liszt sul Don Carlos.

[64]

VIII. Durante e dopo le Trascrizioni di Liszt sul Don Carlos e il «Pace, mio Dio!» della Forza del Destino.

Giordano Mari e donna Fanny dietro la stessa portiera che nascondeva prima donna Fanny e Guido Bardi.

Giordano Mari (tenero) Finalmente!

Fanny. Bravo, professore! (Quando è stizzita o vuole scherzare lo chiama sempre professore). Vi ricordate che ci sono anch'io a questo mondo!

Giordano Mari (inchinandosi graziosamente ed osservando con un sorriso di compiacenza e una cert'aria di ricognizione tutto ciò che rivela lo scollo del busto o che lasciano trasparire i veli e le trine) Bellissima!...

Fanny (percuotendolo leggermente sui capelli col ventaglietto lungo, chinese) E... soltanto per lei!

Giordano Mari (continua ad ammirarla, approvandola per la toilette e il resto) Brava! Brava! Patet dea!

Fanny (calmandosi; fissando, come Emma, i bei denti bianchi di Giordano Mari) Con questi calori!... Con un programma storico-biografico di dodici numeri!.. Dall'Oberto di San Bonifacio al Falstaff!.. [65] (Sempre come sopra e cogli occhi sempre più lucenti) Se proprio non fosse stato per il signor professore, avrei inventata l'emicrania; oppure che mio marito doveva arrivare da Roma!

— Vi offrirò un quadretto votivo: Per grazia ricevuta!

Fanny (Percuotendolo ancora col ventaglio, ma più forte e sul naso) Sciocco!.. (Tornando in collera) Tutta sera, sempre con Emma!.. Ed io, invece, per tutta sera, rimproveri, minaccie, disperazioni e lacrime! Un bel divertimento! Musica e gelosia! E intanto Emma si monta la testa. Non dica di no! Si vede subito! Si monta la testa! Voglio sapere di che cosa parlavate, vicini vicini, come due colombe, sulla ringhiera del terrazzo, il professore fissando le stelle, la signorina, la punta dei piedi! — Voglio saperlo!

— Si parlava di cose indifferentissime! Di arte, di letteratura, di filosofia; di Nietzsche e... di Puvis de Chavannes.

— Una conferenza! Un'intiera conferenza! (Più stizzita che mai) Lei, caro signore, doveva farsi presentare alla marchesa Gonzales, come le avevo imposto; doveva far la corte alla marchesa Gonzales e tenerle alla marchesa le sue conferenze! Invece, il grand'uomo si diverte a farsi ammirare, a farsi adorare dalle fanciulle sentimentali, dalle fanciulle poetiche, ispirate! (Con un sorriso e un'occhiatina maliziosa) Ma... no, professore! (Scrollando il capo e cantarellando sottovoce) No! No! No! Con Emma, tempo perso! Appartiene alla drammatica! (battendo comicamente le sillabe) Alla dram-ma-ti-ca!

— Vede dunque? Le sue accuse sono ingiuste! [66] Ho preferito la signorina Dionisy alla marchesa Gonzales, semplicemente per il senso estetico.

— Lei non professa l'estetica, ma la storia: deve, dunque, preferire la marchesa, per il senso storico.

Donna Fanny (continua a scherzare, a punzecchiare Giordano Mari a proposito della signorina Dionisy: continua a scrollare il capo, a dir di no, ma, colla bocca mobile e quasi scintillante, si avvicina, come attratta irresistibilmente, alla bocca di Giordano Mari) Lei, no!... Mai! Giammai! Emma appartiene alla drammatica, al-la dram-ma-ti-ca!

Giordano Mari (punto sul vivo, ma trattenendosi) Lei vorrebbe rendermi anche ridicolo! Crede che io non mi veda bene?.. Non mi conosca a fondo? La signorina Emma? Troppo ricca e troppo giovane: potrei quasi essere suo padre.

Fanny (risentita e prorompendo) Adagio, col padre, perchè anch'io allora, l'avverto, non ho che tre o quattro anni più di Emma!

Giordano Mari. Appunto; anche lei. Se avessi dovuto chiederla ai suoi genitori, mi avrebbero risposto di no.

Fanny (pensa, riflette, ridiventando seria per quanto le è possibile) Appunto; e allora, anche per ciò... ho ragione di non fidarmi! Lei... (fermandosi colla punta del ventaglio, in atto di possesso, sullo sparato bianco della camicia di Giordano Mari) lei potrebbe architettare un bell'intreccio, romantico-sentimentale, col lieto fine del matrimonio...

Giordano Mari (diventa attentissimo: è anche un po' inquieto, ma si mostra indifferente e cerca di fare lo spiritoso) Per rubare anche il mestiere al commediografo Sebastiani?

[67] Fanny. Sicuro. Il mestiere e la signorina Dionisy, in un colpo solo. Lei...

Giordano Mari. Io?..

Fanny... Sì, lei; lei potrebbe pensare, per esempio: io faccio perdere la testa alla ragazza parlandole anche di Nietzsche e di Puvis de Chavannes, visto che tutte le strade conducono a Roma; e, una volta ben bene innamorata, la ragazza stessa può volere e imporsi al dispetto degli amati genitori... oppure la sensitiva comincia a perdere i colori e l'appetito, comincia a dimagrare, a languire, a soffrire, finchè salta in iscena il buon dottor Speranza; tasta il polso, scrolla il capo, pausa, sospiro, caso grave... e subito, recipe, il professore!

Giordano Mari (sentendosi diventar rosso, ride forte, troppo forte).

Donna Fanny (mettendogli il ventaglio sulla bocca) Sst!.. Silenzio! Non sentite? Pace, mio Dio! Ispiriamoci... e facciamo la pace anche noi.

— Chi è quel brutto sgorbio di soprano?

— La maestra Perticari. Ha insegnato a stonare, a bocca stretta, a tutta Milano.

— E il cavalier Venceslao?.. Come è grave, solenne in quel voltar del foglio!

— Ha una gran bella testa decorativa!

Finchè dura il canto. Giordano Mari e donna Fanny continuano a parlare molto sottovoce.

Donna Fanny (quando il «Pace, mio Dio» sta per finire) Cessa il canto; bisogna andare. — Io di qua: (indicando nel salone Guido Bardi) Ecco pronta... l'espiazione. Voi scappate in fretta di là, e speriamo che non vi abbiano veduto.

— E... domani?

[68] — Domani?.. Due giorni di seguito? È impossibile.

— Sì! Sì! Da brava!

— Come si fa?...

— Un telegramma dell'onorevole! Arriva l'onorevole! Dovete andare alla stazione.

— Mai più: è una scusa che mi può servire soltanto per il pubblico; non per Guido Bardi. (Con arguzia e molti sottintesi) Vorrebbe venire anche il poeta incontro all'onorevole... alla stazione!

— Ah no!... Viva Dio!

Giordano Mari insiste, prega, supplica: donna Fanny risponde che non può e ripete:

— È impossibile!

Ma continua a scherzare, a ridere, a guardarlo, a fissarlo.

Ad un certo punto, lui si fa molto vicino; lei, pronta, si tira indietro e lo minaccia col ventaglio:

— È impossibile. E poi... lo avete meritato? — No. Dunque... non voglio.

La signora Perticari ha finito. Scoppiano gli applausi: anche Venceslao ringrazia col solito sorriso dolcemente dignitoso; tutti si muovono: bisogna andare, scappar fuori dal nascondiglio: non c'è più tempo di ostinarsi, c'è appena il tempo di cedere e di intendersi.

Donna Fanny. Alle due? Può alle due?...

Giordano Mari. Sempre! Quando vuole! Qualunque ora!

Donna Fanny (gemendo) Ma, Dio mio, come farò?... (ci pensa: l'ha trovata) Sì, va bene; alle due. Per essere libera, inviterò mia suocera a colazione.

[69] Guido Bardi (la lente ficcata nell'occhio; i baffi da gatto più irti che mai, avvicinandosi a donna Fanny colla faccia da volerla mordere: l'ha veduta mezzo nascosta dalla tenda della portiera, ma non ha potuto capire se quell'altro era proprio Giordano Mari) Con lui? Ancora?

Donna Fanny (comicamente tragica) Sì; con lui! (percuotendolo col ventaglio sul braccio: con un'occhiata che lo calma) E col Barbarani! Lui non è stato solo altro che con Emma. Sapete?... È il Sebastiani che mi pare molto in pericolo!

Guido Bardi (ridendo con precauzione perchè gli può cadere la lente dall'occhio) Oh! Oh! Oh! Povero Nino!

Giordano Mari (nell'altra sala, incontrandosi col nobile Barbarani) E l'architetto? Don Carlo Borghetti? Non è ancora venuto?

Il Barbarani. Adesso! Adesso! In questo momento! Te l'ho detto, non è vero, che si è tagliata una mano con una bottiglia?... Cioè con un bicchiere?

Giordano Mari. Andiamo a cercarlo! Mi presenterai.

Il Barbarani (per cavarsela) Non è venuto in sala: appunto, per via della mano fasciata. Ha salutato appena la zia, la signora Letizia, poi si è messo subito a giuocare all'écarté, una partita interessantissima, colla marchesa Gonzales.

— Andiamo anche noi a vedere; così mi presenterai a tutti e due.

Barbarani (imbarazzato) Ti dirò — come vuoi, ma proprio stasera, quel lunatico nervosissimo...

È la terza volta che il Barbarani cerca scuse per ritardare quella presentazione: Giordano Mari, [70] a cui invece preme assai dopo la lettera dell'editore Amodei, dopo certi discorsi fatti a Brera e all'Ambrosiana, e per altri suoi fini particolari, di entrare in amicizia con don Carlo Borghetti, il cugino della signorina Emma, lo guarda, lo fissa diventando serio.

Barbarani (subito) Felicissim... (Tossendo più forte) Felicissimo!... Soltanto, volevo dir questo: un'ora di tête-à-tête colla signorina Emma sul terrazzo; lunghissima conversazione e intimissima, sotto la tenda dei segreti, con donna Fanny... Diventi troppo pericoloso.

Giordano Mari (con fatuità: prendendolo a braccetto) Ormai, passò quel tempo, mio caro. Non sono più pericoloso per le signore.

— Ma sei pericolosissimo per me.

— Per te?...

— Precisamente!... E questa sera, per esempio, non ti presenterei una seconda volta, per tutto l'oro del mondo, nè al poeta, nè al commediografo. — Ohi! Furiosissimo l'Otello! E, per vendicarsi, ha promesso di scrivere un dramma in collaborazione con la contessina d'Arborio. La conosci? No? Quella brutta sagoma, più larga che lunga?... Quell'originale che fa la Sand?

Giordano Mari (vivamente: coll'interesse di chi vuole acquistar cognizioni che, non si sa mai, possono sempre diventare utili) La contessina d'Arborio? Una signorina letterata?

Barbarani (spiritoso) Signorina e letterata... press'a poco.

— È ricca? Molto ricca?

— Questo poi sì. In mancanza di doti, ha una gran dote: un milioncino.

[71] — Dov'è?... Voglio conoscerla.

Barbarani (con entusiasmo) Subito! Benissim! Son proprio content!

Giordano Mari (con calma) No, no; dopo. Prima mi presenterai a don Carlo Borghetti.

Nella sala da giuoco: soli, ad un tavolino, la marchesa Gonzales e l'architetto. La marchesa sta facendo la partita all'écarté, per far passare il tempo e farsi passare la sete. Essa è in fortuna, marca sempre il re; e prova un ristoro alla compressione del busto — sforzo sovrumano di tre persone, la sarta e due cameriere — gridando addosso a donna Fanny.

La marchesa (giuocando) È una matta! Non si può dir altro, è diventata matta! E per chi? Per un maestro di scuola. Sì; me l'ha detto uno dei miei amici, per mettermi in guardia; a Padova faceva il maestro di scuola. Un antipatico predicatore di spropositi!... Dev'essere anche un repubblicano, un socialista. Io, col mio colpo d'occhio famoso, appena visto, l'ho subito giudicato: è un po' di tutto... Peuh! — Ho fatto il punto (lo nota).

Carlo Borghetti (risponde per lo più a monosillabi e giuoca distratto. Ha la faccia stralunata, un certo sorriso strano, melenso: ha una mano fasciata).

La marchesa. Finirà, quella matta, a far nascere uno scandalo; a disgustare anche Guido Bardi, e... allora?

Carlo Borghetti. Allora... poco male.

La marchesa (facendo due occhi e una bocca da mangiarselo vivo) Poco male?!

Carlo Borghetti. Sicuro! Se donna Fanny si [72] lascia far la corte da un altro, vuol dire che il Bardi non le preme; e se non le preme, anche se lo perde... poco male.

La marchesa. Poco male?... Malissimo! Una donna di giudizio deve pensare innanzi tutto alla propria riputazione; e il giorno nel quale Fanny non ha più l'usbergo del Bardi, addio, ti saluto. La sua riputazione è andata! (Rabbiosissima) Non avete atouts?

— Sì.

— Allora state attento!... Prendete.

Carlo Borghetti prende, ritira le carte. La marchesa ripiglia il giuoco e il discorso:

— Lui, come lui, il Bardi, ormai è stato accettato: dunque finchè c'è lui, non c'è nessuno; e finchè lui resta al suo posto, nessuno ha il diritto di accorgersi degli altri, di mormorare. — Marco il re! — (nota il punto, e si calma un poco). Sicuro; bella novità! Il Bardi, anche versi a parte, non è divertente. Ma quello scrivano di Padova è per di più un ineducato. Con me, per esempio, il suo obbligo era di farsi presentare. Ma, però, io sono una donna giusta e sincera: in fatto di sgarberia, anche quell'altro, anche il poeta può darsi il vanto! In tutta la sera non ha trovato un momento per venirmi a salutare. Ma io so come vendicarmi: invito a pranzo la Fanny coi miei amici: tutti giovanotti! tutti simpatici! e lui, quel noioso insopportabile... niente!... A casa.

Carlo Borghetti (non sorride più: è diventato molto scuro) Dunque avevo ragione io: poco male.

— Voi?

— Se questo Bardi è noioso, è insopportabile, donna Fanny merita indulgenza.

[73] — Niente affatto: lo ha voluto? Adesso è in dovere di tenerselo; così vuole la morale!

Carlo Borghetti (si ferma dal giuocare: la guarda).

La marchesa. Tocca a voi (Si china, vedendoci poco, per enumerare colle dita gonfie e corte, coperte di grosse gemme, le marche del piattello) Sono nove; dieci per nove, novanta. Se perdete anche questa partita, sono cento lire, per i miei poveri. Tocca a voi!

— Giuoco il re di cuori.

— Lo piglio io e allora faccio il punto. (Mescolando le carte) Anche quell'altra, sapete? Anche la Dionisy... l'amica... (Mettendo il mazzo di carte sul tavolino) Alzate.

— Mia cugina?

La marchesa (fa cenno di sì col capo) Alzate.

Carlo Borghetti (rauco, torvo) Con.... Giordano Mari?

La marchesa (più forte) Alzate! Bravo! (Dando le carte, poi guardando le proprie e mettendole a posto) A' miei tempi — e non sono lontani — le ragazze oneste, come si deve, usavano di prender marito prima di farsi far la corte dal terzo e dal quarto!... Ma adesso? Ragazze e maritate... non c'è più distinzione; è tutta una charlotte!

Carlo Borghetti (ancora più rauco e ancora più torvo) E... credereste?

La marchesa. Credo tutto. (Storce la bocca nera con ironia maligna e appunta come un istrice i peli corti dei baffetti) Mi hanno fatta diventare.... di una fede straordinaria!

Entrano in quel punto nel salottino il nobile Barbarani, saltellante, e Giordano Mari impettito, maestoso.

[74] La marchesa (sottovoce, in fretta) Giuocate! Giuocate! Arriva il grand'uomo col servitore di piazza!

Il nobile Barbarani (avvicinandosi alla marchesa col suo compagno dietro: due o tre colpetti di tosse) Permetta, cara marchesa gentilissima, che finalmente possa avere l'onore di presentarle io stesso il mio amico Giordano Mari, illustre pensatore, filosofo, illustre letterato, di cui la bellissima fama, certo... certissim... (e si fermerebbe anche da sè, ma la marchesa lo interrompe, offrendo la mano, assai graziosamente, anche al luterano).

La marchesa (perfettissima: vieux régime) Giordano Mari, e basta il nome, caro Barbarani. Basta il nome. Non sono poi così dell'altro mondo: anch'io ho applaudita, ho ammirata la sua bellissima conferenza. (Abbassa gli occhi, si dà una rapida occhiata orizzontale: tutto è a posto: amabilmente, facendo scorrere la collana di perle) Tutti speriamo di sentirne un'altra; sarà presto?

Giordano Mari (rivolgendosi collo sguardo anche a Carlo Borghetti) Per ora, no. Ho dovuto interrompere il ciclo delle mie conferenze per un lavoro più serio, più importante... (alzando gli occhi al cielo e mostrandosi stanchissimo) che mi occupa assai.

Barbarani (pronto, pigliando la palla al balzo) Un lavoro storico, alla Momsen, interessantissimo: Ambrogio vescovo, nella civiltà de' suoi tempi.

La marchesa (coi peli dei baffetti che tornano a rizzarsi, per pungere) Cioè... Sant'Ambrogio?

Barbarani (con acume e competenza) A' suoi tempi, non era ancora santo: era soltanto vescovo!

Giordano Mari (sempre rivolgendosi cogli occhi e col discorso all'architetto) Per questa mia monografia, per rivederla, per completarla, mi sono [75] fermato a Milano. Qui, sul luogo, ho molte ricerche da fare; moltissimi documenti da consultare. E, perciò, devo scusarmi con lei, signora marchesa, se, dopo aver ottenuta la gentile permissione di esserle presentato, non ho potuto, prima d'ora, procurarmi l'onore e il piacere della sua ambita conoscenza.

La marchesa. Appunto: pensavo anch'io: — che mai vuol dire questo ritardo? — Forse qualche... divieto? Ma, adesso, capisco benissimo: Sant'Ambrogio! E quando si ha da fare coi santi, non si scherza e non c'è più tempo per i poveri mortali. Dico bene, Barbarani?

Barbarani. Benissim! Son proprio content!

E il nobile Barbarani era davvero molto contento. Ormai, per le leggi dell'etichetta, era la marchesa che doveva presentare Giordano Mari a quel lunatico impetuoso del Borghetti.

Carlo Borghetti (alzandosi e offrendo alla marchesa, con un inchino, un biglietto di banca) Se permette, marchesa... il mio debito.

La marchesa (mostrando le cento lire a Giordano Mari e poi chiudendole nel portamonete colle dita tremanti e con un lampo di gioia ingorda negli occhi spelati) Sono... per i miei poveri. (Trattenendo Carlo Borghetti mentre le dà la mano e fa per andarsene, e presentandolo) L'architetto Carlo Borghetti: Giordano Mari.

Giordano Mari (Un grande inchino, e tutti i soliti complimenti: molto espansivo. L'altro risponde appena senza guardarlo, occupandosi solo della sua mano che gli si è un po' sfasciata).

La marchesa. Soffrite?

— No.

[76] Barbarani. Dovresti farti fasciare di nuovo e un po' meglio col taffetà, dal dottor Speranza.

— No.

La marchesa (che ha sempre bisogno di muoversi per quella sete che la brucia viva, ma non la dimagra: alzandosi adagio, appoggiando le mani al tavolino, soffiando e sbuffando; due minuti per ripigliar fiato; poi, accettando il braccio del Barbarani, e avviandosi con un po' di ondulamento) Andiamo in cerca del dottore (si sentono gli accordi al pianoforte) Sst! (ascolta un momento) il Falstaff!... Andiamo a farci vedere nel salone, da Venceslao. È troppo buono; non merita dispiaceri.

Giordano Mari, per lasciar passare tutta la magnifica marchesa col Barbarani, resta indietro, vicino a Carlo Borghetti.

Quella presentazione è stata troppo breve, troppo superficiale; egli ha paura che Carlo Borghetti gli sfugga; vuol trattenerlo ad ogni costo; ma, per trattenerlo, bisogna parlare.

Che cosa dire? Che cosa dire?

Giordano Mari ha la smania di parlare e non trova una parola. È rimasto ad un tratto, per combinazione, per dispetto, col cervello vuoto e colla lingua di piombo. Eppure bisogna parlare, parlare! Bisogna rompere il ghiaccio, o lasciarselo scappare!

Ma ogni istante che passa è un'occasione perduta; ad ogni istante cresce l'impiccio del momento... Giordano Mari si sente persino ridicolo.

Parlare? Parlare?... bisogna trovar le parole per parlare!

Carlo Borghetti rimane sempre più impenetrabile, freddo, muto, in un atteggiamento quasi ostile: [77] si sforza per annodare la fasciatura di seta nera attorno alla mano.

Giordano Mari (a un tratto, con premurosa gentilezza) Permette? Potrei aiutarla?

Carlo Borghetti (cacciando subito la mano nella sottoveste) Grazie; ho finito. (Gli volta le spalle e fa per andarsene).

Giordano Mari (tenendogli dietro ostinatamente, dicendo il primo scherzo, le prime parole che gli corrono sulle labbra) È stato un duello, non è vero? Me l'ha detto l'amico Barbarani! Un duello con una bottiglia!

Carlo Borghetti (fermandosi, voltandosi, fissandolo serio) No, non è vero; non l'ha detto. Il Barbarani non dice sciocchezze! (Guarda ben fisso Giordano Mari ancora per un istante, poi dà un'alzata di spalle e se ne va).

L'altro rimane sbalordito, a bocca aperta.

[78]

IX. La signorina Emma e Carlo Borghetti mentre gli invitati si affollano nel «buffet.»

Emma ha sentito dal Barbarani che suo cugino Carlo si è ferita una mano «abbastanza serissimament» col vetro di un bicchiere. Inquieta, corre a cercarlo dappertutto: lo trova, alla fine, solo soletto, seduto in un angolo della stanza più lontana, in fondo all'appartamento. È lo studio del cavalier Venceslao, denominato «lo studio del Maestro», perchè le pareti sono tappezzate colla raccolta completa di tutti i ritratti di Giuseppe Verdi, coi quadri allegorici di tutte le sue opere; coi ritratti degli interpreti più famosi. Sulle scansie, sulle mensole, statuette, figurine in bronzo, in terracotta: Aida, Ernani, Otello, il Trovatore, Falstaff, il gruppo dei tre congiurati del Ballo in maschera. Il calamaio, in argento russo, sempre pronto, con un quinterno di musica, vicino al pianoforte verticale, rappresenta una tomba colla iscrizione in oro: A Carlo Magno sia gloria e onor!

Emma (correndo appena lo vede, presso il cugino, che, sorpreso, si alza di colpo chinandosi per salutarla) Ti sei fatto male?...

[79] Carlo. No, no.

Emma. Mi ha detto il Barbarani che ti sei tagliato una mano con un bicchiere?

— Non è niente!

— Che non sia rimasto nella ferita qualche pezzettino di vetro?... Lasciami vedere!

— Grazie, ma non ne val la pena! Mi son fatto lavare anche col sublimato.

Emma (con stizza) Quel benedetto dottore! C'è sempre, tranne quando occorre! È appena andato via!

Carlo (sforzandosi per sorridere, per scherzare) Non è necessario amputarmi la mano, proprio stasera!... Il tuo dottore potrà aspettare fino a domani!

Emma (osservandolo) Ti sforzi per scherzare, ma devi soffrir molto. Sì, perchè sei pallidissimo. (Gli tocca la fronte) Dio mio, come bruci!... E hai gli occhi rossi, gonfi! Si direbbe persino che hai pianto! E poi ti sei nascosto quaggiù, solo solo, vuol dire che la tua mano ti fa soffrire. Forse avrai anche un po' di febbre...

Carlo. Ma no!

Emma. Lasciami vedere. Voglio vedere!... Almeno ti fascierò un po' meglio. Un po' più stretto. (Gli prendo la mano, gliela sfascia lentamente, e lentamente ricomincia a fasciarla di nuovo).

Carlo (Sta lì, proprio lì, sotto le sue labbra, quella testina cara e adorata... tanto cara e adorata e tanto bella! La fissa cogli occhi imbambolati, mentre quei due o tre bicchieri di vino bevuto, senza esserci avvezzo, gli ronzano nel cervello. Ad un tratto, barcollando, si china, quasi per baciarla, per toccarla colle labbra... ma non la tocca; si tira su: [80] è ancora più stravolto: fra sè, confusamente, sentendo la vocetta del Barbarani ripetere ciò che aveva detto a pranzo: «Le ragazze oneste non amano altro che il matrimonio... La ragazza gli piace? Avanti!... La sua brava domanda e il suo bravo matrimonio...»: forte) Emma!

Emma (spaventata) Ti ho fatto male?

Carlo. No...

Emma. Allora, lasciami fare. (E colla ingenuità spensierata di una fanciulla semplice, sincera... innamorata di un altro, essa gli sfiora il naso, coi suoi bei capelli fini e odorosi, attortigliati in una massa pesante sulla nuca: gli si fa vicina vicina, quasi addosso, avvolgendolo col suo stesso profumo, col suo stesso calore, rivelandogli inconsapevolmente, coi suoi atti, colle sue movenze graziose e serpentine, l'incanto della sua bellezza giovane e fresca) Così... così... Ecco; così va bene!

Carlo (a un tratto: rauco) Emma... Vuoi... volete sposarmi?

Emma (lo guarda: scoppia in una risata) Sì! Altro!... Quando vuoi!

Carlo (di colpo, abbracciandola) Ti amo! Ti amo tanto!

Emma (sciogliendosi con un grido: poi, a mano a mano, fissando Carlo: l'espressione del suo volto diventa triste, dolorosa: i suoi occhi, ad un tratto, si riempiono di lacrime) Tu? Tu? (con maraviglia, quasi con disperazione) Tu? Carlo?

Carlo (supplichevole; come scusandosi, come domandandole perdono) Sì, ti amo tanto!... Sempre.

Emma. Sempre?... E non mi hai mai detto niente?... Non mi hai mai detto niente?

Carlo. Ho sempre pensato di parlare: cento [81] volte sono stato sul punto di parlare. Non ho mai osato. Ero contento di vederti, mi bastava vederti: ecco la mia più grande felicità! Parlando, temevo di perderti, mentre invece non ho mai preso sul serio il tuo matrimonio col Sebastiani. (Con un'alzata di spalle) Tu? con Sebastiani? Non l'ho mai creduto! Certi giorni mi faceva dispetto, ero geloso anche di lui, per la sua sfacciataggine, per le sue arie di intimità, quasi di padronanza; lo avrei strozzato! Ma poi vedevo te così indifferente... mi calmavo, ridevo del Sebastiani, e, dopo averlo trovato ridicolo, pensavo che anche lui, forse, ti amava davvero, e allora mi faceva compassione.

Emma. Ma perchè non me lo hai detto subito? Perchè? Mi volevi bene? Tu? Tu? Ma... io non ci ho mai pensato. Tu?... A me?... Se siamo sempre stati insieme! Mi hai vista sempre!... Anch'io ti voglio bene, molto, molto... (si ferma come interrogando sè stessa, si passa una mano sui capelli, sospirando, stralunando gli occhi) Sì, molto: come a un fratello; ancora di più! Se tu me lo avessi detto prima, forse... Chissà? Chissà? Chissà?

Carlo (fissandola, le prende una mano).

Emma (guardandolo timidamente) Io non sapevo nulla. Ti ho fatto dispiacere? Ti ho fatto del male?

Carlo (tenendole sempre stretta la mano) Sì, molto; adesso. Ma non importa per me. Dimmi soltanto, francamente, lo voglio; adesso è troppo tardi? Ho parlato troppo tardi?

Emma (lo guarda ancora fisso fisso: ad un tratto, si lascia cadere sul canapè, scoppiando in lacrime. Sono quelle lacrime stesse che durante il suo colloquio con Giordano Mari le erano corse tante volte alla [82] gola, e che adesso soltanto trovano libera la via di prorompere, per quel gran dolore del suo povero amico).

Carlo, immobile, muto, l'osserva attentamente: le lacrime e i singhiozzi di Emma sembrano calmare il suo turbamento, il suo sconvolgimento. Egli non trema più; non è più barcollante. I suoi occhi sono più incavati, ma vivi; lo sguardo è risoluto. La sua voce è mutata; è un'altra; ma pure è ferma, chiara. — Le lacrime di Emma son la risposta della fanciulla: egli non ha più nulla da sperare: il suo destino è segnato. L'uomo — un uomo — a costo di morire, non deve nè imprecare, nè lagnarsi contro il proprio destino; deve accettarlo, subito: un uomo deve essere forte.

Carlo. Adesso è troppo tardi?... Giordano Mari, non è vero?... Lo ami?

Emma (col capo chino accenna di sì).

Carlo. Te lo ha detto?... Ve lo siete detto?

Emma (aspetta un istante, guarda Carlo, torna a chinare il capo e accenna un'altra volta di sì).

Carlo. Stasera?

Emma. Sì.

Carlo. E... hai fissato? Avete fissato? Vi sposerete?

Emma. Non so. Questo... non so.

Carlo. Non sai?

Emma (sottovoce, timidamente: sempre senza osare di guardarlo) Non me lo ha detto.

Carlo. E... (ancora un'ultima esitazione: forse coll'ultimo filo di speranza) e quando lo dirà?

Emma. Allora... sì.

Carlo. E la mamma? Ma la tua mamma?

Emma. Non so certo, avrò molto da lottare, da [83] soffrire; ma pure... oramai è deciso; è così. Quel che lui mi dirà di fare, farò.

Carlo. Anche... anche contro tua madre?

Emma. Lui non mi potrà mai consigliare una cosa mal fatta.

Carlo. Ma... lo conosci? Sei sicura di lui? — Come ne sei sicura? Lo conosci bene?

Emma. Lo sento!

Carlo. E subito?... Ti sei innamorata subito? In così poco tempo? Come ha fatto? Come hai fatto?

Emma. Non so: appena l'ho visto; fin dalla prima volta. L'ho visto così grande! Tanto superiore a me! E la prima volta che mi ha parlato ho sentito... che era padrone lui di me. Mi pareva quasi di dovermi inginocchiare dinanzi a lui.

Carlo. E vi siete veduti... molte volte?

Emma. Due... tre soltanto.

Carlo. E... vi siete detto di volervi bene?

Emma. No, mai, stasera...

Carlo. Stasera sì?

Emma (balbettando). Non domandarmi più niente... più, più; te ne prego. Ora sai tutto (quasi con rassegnazione accorata: quasi col presentimento di dolori misteriosi, lontani) Non parlamene più. Mi fa male; tanto male. Per me... e anche per te.

Carlo (dandole la mano) Sei buona: hai sempre ragione. Ti prego; soltanto questo: dimentica quanto ti ho detto.

Emma. Dimenticare quanto mi hai detto? Ma, Carlo, ti par possibile? Potrei dimenticarlo?

Carlo. Ebbene, anche fra me e te dev'essere come se io non ti avessi parlato... non ti avessi detto niente.

[84] Emma. Con lui, come con tutti gli altri, come fra me e te: sarà come se tu non mi avessi detto niente.

Carlo. E sarò... sono tuo fratello?.... Ancora?

Emma (con entusiasmo) Sì! Sì! Sempre! Sempre!

Carlo (dopo un momento di silenzio) Asciugati gli occhi. Cerca di ricomporti. (Più serio, quasi grave) Lui adesso dove sarà?

Emma (interrogandolo cogli occhi, meravigliata) Non so. Perchè?

Carlo. Poco fa, nervoso, irritato, gli ho risposto male. L'ho offeso; l'ho provocato. Voglio cercarlo, vederlo: gli domanderò scusa. Tu gli vuoi bene: gli domanderò scusa.

[85]

X. Due amici.

Nella sala del buffet:

Giordano Mari (prendendo il sorbetto: la sola cosa che in quel momento gli possa passar dalla gola: fra sè) Consigliarmi col Barbarani?... Mi par di sentirlo, quel piccolo guerriero da club!

Felicissim! Una questione d'onore? Benissim!

— E, intanto, se io piglio una sciabolata?... E pazienza la sciabolata; ma se mi toccasse di restare a letto?... Di non potermi muovere per una decina di giorni?.. Allora gli affari? Chi potrei mandare a Padova da quel vecchiaccio esoso di mio fratello colla lusinga del gran matrimonio?.. E l'armistizio da concludere col Finardi e compagnia? — Benissim! Felicissim! — ma, intanto, se sono a letto e non mi posso muovere?... Io devo restare sulla breccia: cambiali e signorina Dionisy. (Dopo due o tre cucchiaini di sorbetto: con un sospiro) Ma se anche mi lascio insultare senza chiederne ragione, addio poesia e addio matrimonio, per un altro verso! (Con stizza sempre crescente: le contrarietà, le incertezze, i «pasticci» lo urtano, gli seccano, lo fanno andare in bestia) Questi borghesi [86] arricchiti colle macchine e coi traffici e diventati nobili coi quattrini... Che piccola e brutta gente! Hanno nel sangue tutti i pregiudizii della stirpe bottegaia, compresa la fissazione che si debbano pagare i debiti sino all'ultimo soldo, non un minuto dopo della scadenza. E insieme si sono caricati anche dell'altra zavorra, i pregiudizii aristocratici. Vi parlano di correttezza e di diritto divino, di economia domestica e di splendore del casato; sono forti sul terreno e nell'aritmetica, hanno la vanità del loro stemma e del loro bilancio: fanno da maggiordomo o da gentiluomo, da fattore o da principe, secondo le ore della giornata e, come tutti gli ibridi, hanno, per atavismo, tutte le avidità del mercante e, per innesto, tutti i fumi del patrizio! (Il sorbetto ingollato in fretta e in furia gli dà un dolore nevralgico acutissimo alle tempie: si ferma, chiude gli occhi: quando il dolore gli passa e li riapre, rimane distratto, guardando fisso il resto del sorbetto, e facendo scorrere fra le dita il cucchiaino) Ed Emma?... Carina, lei, a dispetto della razza! Carina in tutti i modi! Colla freschezza sana e soda di una bella figliuola del popolo, e i piedini da marchesa. Con un'affettuosità sentimentale, docile, remissiva e credenzona; coll'onestà profonda della donna borghese nel sangue, e nell'anima, invece, le raffinatezze romantiche. Facile ad esaltarsi, ad entusiasmarsi e facile anche ad accontentarsi. Un amore di moglietta, sempre in adorazione dinanzi a suo marito... e che suo marito potrà educare in tutto e per tutto all'osservanza delle leggi ed alla moderazione. (Cercandola cogli occhi lustri) Ma dov'è? Dove s'è cacciata quella... marmottina? Il colpo mi è riuscito, [87] stasera, ma non bisogna perderla d'occhio. (Finisce in fretta il gelato; si asciuga i baffi col fazzoletto: gli viene un'idea) Se, invece, andassi a consigliarmi direttamente da lei, riguardo a quell'«oltracotante» di suo cugino?... Mi ascolterebbe tremando, a bocca aperta — che bocchina deliziosa! — ed io mi farei consigliare di non prendere la cosa sul serio per amor suo, di lei. Già, nessuno mi toglie dalla testa che quel bisbetico architetto è un altro Sebastiani, e, anzi, con più gradi di bollore! È innamorato della fanciulla. (Con un sorrisetto di compiacenza) E... il poeta?... È gelosissimo del professore! La gran simpaticona quella Fanny! E poi suo marito è deputato: un voto di più per la mia cattedra. (Rannuvolandosi) E Borghetti? È il Borghetti che mi manca sul più bello! (Tornando all'idea di prima) Emma! Emma! (La cerca cogli occhi, in mezzo a tutta quella gente, — le signore sedute, gli uomini in piedi, — che si affolla rumorosamente mangiando e bevendo attorno alla tavola del buffet). Dov'è andata? Forse da sua madre? Anche quella suocera, un ideale! Per farla scappare, basterà aprir le finestre! (Guarda ancora tra la folla, alzandosi in punta di piedi) No, non c'è. E nemmeno suo cugino! E nemmeno il commediografo! Che io abbia preso un gambero, e che la marmottina non sia invece altro che una famosa civetta? E che si diverta a tener in gioco l'architetto, il commediografo, e magari anche il professore? (Va a spiare fra le tende dell'uscio a destra, che mette nel salottino dove si fuma).

Niente. Emma non si vede.

C'è un generale che si sfoga col prefetto contro [88] i socialisti, e c'è Venceslao col sindaco di Milano: il cavalier Venceslao, le belle mani bianche da pianista incrociate dietro le reni, la bella testa un po' china, approva, umile in tanta gloria, una idea del sindaco, il quale vorrebbe intitolare col nome di Verdi una delle principali piazze di Milano.

Ad un tratto, Giordano Mari, sempre spiando fra le tende dell'uscio a destra, sente la voce di Sebastiani e caccia fuori la testa: Sebastiani non è con Emma. È invece colla d'Arborio.

Giordano Mari (si nasconde di nuovo, ma in modo da poter osservar bene la d'Arborio da vicino: fra sè, con stupore ammirativo) Un milioncino, mi ha detto il Barbarani! (Dopo aver calcolata la grossa dote accanto alla grossa contessina) Sarebbe guadagnato!... Ma sarebbe sempre un milioncino!

La D'Arborio (strillando forte perchè ha «un gran secreto», una confidenza da fare al Sebastiani) Sì! Sì! Voi mi avete conquistata! Io vi voglio aprire tutto il cuor mio! Ma solo a voi! Più vicino!... Solo a voi! (Nino Sebastiani non si muove: la d'Arborio gli va sopra, quasi addosso) Ditemi la verità: la verità del pensiero, del sentimento vostro: avete voi pure tutta questa grande ammirazione settentrionale (sottovoce) per i Promessi Sposi?

Nino Sebastiani (soffoca) ... No.

La D'Arborio (strillando) Ed io nemmeno! Solo a voi lo dico! Ed io nemmeno! Propriamente no!

Giordano Mari (guardando dall'uscio a sinistra) Finalmente! (Emma esce dallo studio del Maestro: è seguita da Carlo Borghetti) Toh, toh, toh! Era coll'architetto! (Giordano Mari pensa che l'architetto, per vantarsi, avrà raccontato alla signorina la scena [89] successa fra di loro: un sogghigno cattivo gli fa diventare la faccia lunga e verdognola).

Emma (appena lo vede, gli corre subito appresso: un po' più timida, arrossendo, combattuta dalla verecondia e dall'amore) Carlo, mio cugino, vuole parlarle, vuole scusarsi con lei per alcune parole di poco fa. (Supplichevole, fissandolo con gli occhi belli, illuminati) Mi promette, non è vero, di essere generoso, di essere buono?

Giordano Mari (dignitoso, diplomatico) Ma... che cosa le ha detto il signor Carlo Borghetti?

Emma. Ha timore di averle risposto male, di averla offesa.

Giordano Mari (interrompendola: eroico) Appunto: volevo rivolgermi al Barbarani ed al maggiore Costamagna per avere una spiegazione.

Emma (trasalendo, con un grido represso) No! No! È sofferente! Sta proprio male! Le domanda scusa! Le vuol domandare scusa! (Avvicinandosi palpitante, tremante, con uno sguardo che è tutto una preghiera, una carezza, una promessa) Per me! Per me! Lo faccia per me! (Congiungendo le palme, timidamente, con un'ondata di rossore che corre dalle spalle alla fronte) Voglio così!

Giordano Mari (cavalleresco, inchinandosi, offrendole il braccio) Allora, sia. Mi conduca da suo cugino.

Emma (lo avvolge con uno sguardo amoroso: i suoi occhi hanno un lampo, le sue labbra un tremito: passa leggermente la manina morbida e bianca sotto il braccio di Giordano Mari, e gli risponde appoggiandosi tutta, coll'aria quasi di abbandonarsi, di farsi portare) Grazie.

Giordano Mari (inebriato) Dov'è?

[90] Emma (indicando il Borghetti colla punta del ventaglio) Là!

Succede un gran movimento nella sala del buffet: le signore che hanno finito di cenare si alzano per cedere il loro posto alle altre signore, rimaste in piedi. Carlo Borghetti in quella ressa è ricacciato indietro. Emma e Giordano Mari non possono più andare avanti.

Giordano Mari (chinando il viso verso quello di Emma, che irresistibilmente sporge il suo) Devo perdonargli dunque? E devo volergli bene anch'io, perchè gliene vuol lei?

Emma (trasportata fra gli angioli) Sì; per questo.

Giordano Mari (dopo un momento: con un risolino maliziosetto, indicandole Nino Sebastiani) E... dovrei voler bene anche a quello là?

Emma (scotendosi con dispetto) Oh, a quello poi no! (Senza rifletterci) È vero, sa? Prima mi era indifferente; adesso mi è antipatico.

Giordano Mari (che invece riflette molto, riprende prudentemente l'affabilità paterna) Bambina! Sempre... una cara bambina!

Sono interrotti: Emma rimane appoggiata al braccio di Giordano, ma, presa in mezzo da tutta quella gente, deve rivolgere e ricambiare complimenti, ringraziamenti e saluti. Finalmente la calca si dirada e possono avvicinarsi a Carlo Borghetti, che intanto, per rinfrescarsi, ha continuato ad inghiottire champagne frappè.

Carlo Borghetti (molto sudato: stranamente pallido: si avvicina, vuol parlare, vuol sorridere, ma non sa fare che una smorfia).

Emma (arrossendo a sua volta per l'imbarazzo del cugino e sforzandosi per essere disinvolta e per [91] aiutarlo) Il signor Mari non è in collera; anzi, ha per te moltissima simpatia.

Carlo Borghetti (a Giordano Mari: colla voce troppo alta e fuori di tono) Le devo domandar scusa!

Emma (vivamente: si mette il ventaglio sulle labbra, facendogli segno di tacere) Piano! Parla piano!

Borghetti (rauco) Le voglio domandare scusa.

Giordano Mari (compitissimo) Scusa? Fra di noi? Fra due buoni amici?

Borghetti (borbottando a guisa d'eco le ultime parole) Buoni amici. Ho detto anche alla signorina Emma... (la guarda e i suoi occhi si riempiono di lacrime) buoni amici.

Giordano Mari (osservandolo con qualche inquietudine) Il torto è mio: lo scherzo a proposito della sua piccola ferita è stato inopportuno.

Borghetti (rintontito) Scherzo? Io non scherzo mai. Ho detto amici, ripeto amici.

Giordano Mari (dà un'occhiata espressiva alla signorina Emma, quasi imponendole di allontanarsi. Sarebbe rimasto lui con suo cugino Carlo: non lo avrebbe lasciato).

Emma (dolcemente, felice di mostrarsi ubbidientissima a quel primo comando, rientra nella sala del buffet, e sparisce in mezzo ad un gruppo di signore).

Giordano Mari (prendendo confidenzialmente sotto braccio Carlo Borghetti, e facendo un po' di violenza per condurlo via) E adesso, non è vero? — ce ne andiamo via anche noi?... E alla romana; ringrazieremo domani, portando un biglietto di visita.

Carlo Borghetti (lasciandosi trascinare) Sì; domani: basta un biglietto di visita.

[92]

XI. Nel Palazzo Visconti.

Giordano Mari e Carlo Borghetti si avviano insieme da casa Dionisy verso il corso Venezia. Carlo Borghetti, rasentando, a volte sfiorando il muro: Giordano Mari, camminando diritto, sicuro, il soprabito sul braccio, adocchiando il compagno.

Giordano Mari (respirando a pieni polmoni) Ah! Si rivive! In quelle sale, in quella luce, in quella folla c'era da soffocare.

Borghetti. Già, molto caldo; troppo caldo, (si lascia cader la testa di colpo sul petto).

Giordano Mari (osservandolo ancora, poi con un tono di maggiore intimità) Dove state di casa?... Molto lontano?

Borghetti (dopo un momento, come risvegliandosi) In via Monforte. In fondo a via Monforte.

Giordano Mari. Se mi permettete, vi accompagno. Immagino che non vorrete passare dal club. Abbiamo fatto troppo tardi.

Borghetti (ripete cupo) Già, abbiamo fatto troppo tardi.

E continuano a camminare l'uno a fianco dell'altro. Giordano Mari, diritto, con la testa alta, [93] sporgendo all'aria il largo petto dallo sparato bianco; il Borghetti, curvo, col capo chino, mezzo sprofondato nel bavero del pipistrello. Sempre senza parlare, arrivano in capo a via Monte Napoleone, attraversano il Corso, si inoltrano nella lunga via Monforte, deserta e buia.

Dopo che Giordano Mari ha dato un'altra occhiata a Carlo Borghetti.

— Dite la verità: vi sentite poco bene?

— Già; oggi ho preso molto sole. A pranzo avevo sete; anche stasera bruciavo dalla sete. Ho bevuto e non ci sono avvezzo; mi avrà fatto male.

— Certo, vi ha fatto male. Volete appoggiarvi al mio braccio?

— No.... Grazie. No.

Carlo Borghetti, istintivamente, si tira più vicino al muro. In quel suo stordimento, in quel suo istupidimento, con un ronzio crescente che gli gira pel capo e gli introna gli orecchi, egli si sente addosso come un peso, una sofferenza, come un'infinita, come la peggiore sofferenza, la compagnia, la vicinanza, la vista, l'ombra di quell'uomo; certe volte, passando sotto ai fanali, vede quell'ombra distendersi, allungarsi smisuratamente sul marciapiede. Quell'uomo... maledetto quell'uomo!... Maledetto il giorno che è capitato a Milano! È l'amante, è il padrone di Emma: Emma è cosa sua. Essa gli appartiene già coll'anima; essa lo ama, ne è innamorata!... Quell'uomo così alto, così forte, prepotente, brutale, non ha che a dire una parola; comandare, volere, ed Emma è cosa sua! Egli lo odia, sente di odiarlo per questo suo fascino, per questo suo potere misterioso — una malìa forse — lo odia, e lo teme: lo teme per Emma. Povera [94] Emma! Chissà?... — Lo odia, eppure si sente costretto a chinare il capo dinanzi a lui, e dinanzi alla sua volontà, alla sua forza, al suo ardimento e alla sua fortuna. Lo odia, lo teme, e, in fondo al cuore, lo invidia e lo ammira. — Così presto! Appena veduto, e l'ha subito innamorata, stregata, presa! Come ha fatto? Come c'è riuscito? — Emma!... Emma!... Emma!... — grida, spasima il suo cuore! Oh, ma è inutile chiamarla! Emma non ascolta, non sente, non obbedisce alla sua voce, alle sue lacrime! Se invece quell'uomo lì, che cammina al suo fianco, superbo, sfacciato, quel «gigante» l'avesse chiamata colla sua voce forte di comando, oh, con lui docile, ubbidiente, sarebbe corsa, si sarebbe precipitata di volo, fremente e palpitante, a buttarsi nelle sue braccia; forse alle sue ginocchia, perchè ha visto, ha letto in que' suoi occhi sfolgoranti: essa lo adora! Ma lui, Carlo, Carlo detto il lunatico, lui non si è mai fatto ascoltare, non è mai riuscito a parlare al cuore di lei.

E ricorda il colloquio di quella sera, lo stupore, le parole di Emma. «Mi volevi bene?... Tu?... Tu?... A me?» Sì, sì, sì! Egli non ha mai osato, egli non ha mai saputo parlare, è stato troppo debole, timido, vigliacco! Sono anni ed anni, sono dieci, venti, trent'anni, è tutta la vita ch'egli l'ama, ch'egli soffre per lei, che smania per lei, che pensa, studia, lavora, si strugge, tutto per lei, e lei, nemmeno se n'è accorta!... Quello lì, il «gigante», l'ha vista un momento: ha subito parlato: ed Emma è sua. — In quanto tempo? Ci ha messo un giorno? Un'ora?... Nemmeno!... Un minuto, una parola sola. — Ti voglio! — Eccomi! — E [95] tutto è finito! Tutto è finito! tutto! tutto! tutto! Perchè ormai... ormai è già come fosse sua, cosa sua, sua moglie! — Venceslao?... Avrebbe detto di no — pianino, per non guastarsi la voce, per ventiquattr'ore; poi avrebbe pensato ad un gran concerto per la sera della scritta. La signora Letizia? — sospiri, gemiti, e noce vomica, per non guastarsi lo stomaco e la carnagione. — E così Emma, povera Emma, così buona e così bella, bella, tanto bella, è in piena balìa di quel «gigante», di quello sconosciuto. È lui, adesso, il padrone, il solo padrone — padrone anche di non lasciargliela più vedere! E, forse, non è meglio? — Non sarebbe stato meglio non vederla più, mai più, quella leggera, vana, civetta, falsa?

Giordano Mari (toccandogli leggermente il braccio) Volete darmi la chiave? Aprirò io.

Carlo Borghetti guarda, trasognato, Giordano Mari, si guarda attorno, poi si ricorda; cerca nel taschino della sottoveste, gli dà il mazzetto delle chiavi. Sono giunti sulla soglia di casa sua, senza che egli se ne sia accorto.

Giordano Mari prova una piccola chiave: la porta si apre: entrano.

Giordano Mari (accendendo un cerino) Il servitore non c'è?

Carlo Borghetti. È a letto; sempre a letto.

Giordano Mari (indicando una bugia, sopra un palchettino, accanto alla bussola del portinaio) È questo il vostro lume?

Carlo Borghetti. Sì... questo (sempre con un tono profondo, doloroso) Questa candela... è la mia.

Giordano Mari accende il mozzicone: poi, col [96] palmo della mano, riflettendo innanzi a sè il chiaror della fiamma, si guarda attorno, sotto l'ampio vestibolo. Indicando a Carlo Borghetti l'invetriata dello scalone:

— Per di là?

— Sì. Per di là.

L'ampio e maestoso scalone, le invetriate, i tappeti, i fiori, gli stemmi, tutta quella grandezza e tutto quel lusso del vecchio palazzo, eredità dell'avo materno del Borghetti — un Visconti — fanno colpo su Giordano Mari: e lì per lì, nell'astuto e sfacciato avventuriero delle belle lettere, torna a galla, fa capolino, collo stupore rispettoso del plebeo, il figliuolo risalito del piccolo merciaiuolo di piazza delle Erbe a Padova.

Giordano Mari. Vuol darmi il braccio! Vuol appoggiarsi, don Carlo?

Carlo Borghetti. Grazie; no. (Si appoggia invece, per tirarsi su, alla maniglia e borbotta colla voce sempre più bassa, più fioca, più rauca, soffermandosi quasi ad ogni gradino) Si soffoca; si soffoca orribilmente.

Giordano Mari. È tutto chiuso. Vuol darmi il soprabito?

Su, nell'anticamera, Carlo Borghetti ostinandosi, arrabbiandosi, prende lui in mano la candela e cammina innanzi per indicare la via, aprendo gli usci, sollevando le portiere.

Giordano Mari (ad un tratto, accorrendo) A me! Dia a me, don Carlo! (Strappandogli il lume di mano) Imbratta colla cera tutti i tappeti, i mobili! È un peccato!

Attraversano una lunga fila di sale, poi entrano nella camera da letto.

[97] Carlo Borghetti (Improvvisamente: con un impeto di furore, si leva il cappello e lo scaglia sul canapè: il cappello rimbalza, ruzzola per la camera: diritto in piedi, con gli occhi attoniti, egli lo guarda ruzzolare, perdersi nel buio; poi, di peso, si lascia cadere, vinto, affranto, sopra una poltrona). La finestra... Aprite la finestra... Soffoco... Soffoco... muoio.

Giordano Mari (corre, spalanca i vetri: accende un'altra candela e la pone come la prima sul canterano: un mobile antico, dagli intarsi dorati: un capo d'opera: a mezza voce, girando gli occhi attorno ammirato) Quanta bella roba! (Osservando di qua, e di là, dove la camera resta illuminata: accanto al letto, in una cornice nera sopra una mensoletta di bronzo vede il ritratto di una signora: una vecchia fotografia di una giovane signora, che somiglia molto all'architetto) Sua madre, certo. Bella donna! (Ad un tratto, sorridendo e prendendo il lume per osservar meglio, più vicino) Toh, toh, toh! (Rivolgendosi al Borghetti con un moto istintivo) I Dionisy! La famiglia Dionisy!

Infatti, sopra un elegante palchetto, coperto di stoffe antiche e ornato a festoncini, c'è tutta una raccolta di ritratti di ogni dimensione e di ogni epoca. Dalle prime fotografie del Duroni ormai stinte e giallognole, alle ultime, le più recenti e più artistiche.

C'è, in grande formato «gabinetto», il cavalier Venceslao, seduto al pianoforte, la testa pensosa, chinata con intimo compiacimento sullo spartito del Trovatore; e c'è, piccolo piccolo, il ritrattino più piccolo e più scolorito, un bebè in camicina.

Giordano Mari (appressa la candela e legge) [98] «Emma Dionisy, di cinque mesi, alla zia Paola» (Vedendo il ritratto della signora Letizia in abito da ballo: l'ultimo suo ritratto: dal 1887 continua sempre a farsi far quello) Che spalle!... Che... che busto!... Che meraviglia! (Lo confronta con un ritratto di Emma recentissimo che le sta accanto) Era molto più... bella, la madre! (Continua a fissare il ritratto di Emma, spirante nel semplice vestito bianco la sua fresca giovinezza: lo fissa studiandolo, esaminandolo, con uno sguardo acuto, minuzioso, investigatore, ricercando somiglianze e rapporti, tra la madre e la figliuola) Anche la figliuola, è molto giovane ancora... si farà una bellissima donna. E questo?... (È il ritratto di Emma vestita per la prima comunione: la riconosce subito e gli viene da ridere) Ah! Ah!... La mocciosetta!

Poi c'è un'altra Emma colle gambine esili, e i piedi grandi, ancora informi, sotto il vestitino corto corto; poi Emma, ragazzetta, ma già più elegantina, e un po' pretenziosetta, colla grossa treccia pesante, sproporzionata, giù giù, lungo la vita.

Poi Emma, nell'amazzone, a cavallo, e tutti quei capelli cadenti sulla nuca, sulle spalle, e sporgenti in una massa enorme, sotto l'ala del piccolo cilindro; poi Emma in costume Empire, come era andata alla festa di casa Ottolini; poi Emma colla camicetta, il berrettino e la racchetta del lawntennis...

Giordano Mari (fra sè, di malumore: deponendo il candeliere) La raccolta è completa. Tutte le età, tutti i costumi, e tutte le pose! (Si volta verso l'architetto, guatandolo bieco, mentre a sua volta si sente rodere da una punta di gelosia leggera, sottile... [99] eppur molesta) Sono cugini; si sa: il cugino e la cugina! (Ma è un lampo: rivede gli occhi di Emma innamorata, e torna ad infischiarsene del Borghetti come del Sebastiani, e colla fede nella sua buona stella e nel suo talento e nella sua furberia gli ritorna la sicurezza, la contentezza e l'audacia — Sente un sospiro come un lamento: corre vicino al Borghetti) Volete il servitore? Devo sonare, per chiamare il servitore?

Carlo Borghetti. No! No!... Sto troppo male: non voglio nessuno.

Giordano Mari. Abbiate pazienza, ma se non vi sentite bene, lasciatemi chiamare il servitore. Vi aiuterà a mettervi a letto. Vi farà un the.

Borghetti (alzandosi in piedi d'un balzo, stravolto) Ma non capite che non sono ammalato? Sto male perchè... ho l'inferno. È l'inferno!... Qui!... Qui!... (Si batte sul petto violentemente colla mano ferita: si scioglie la fasciatura).

Giordano Mari (gli afferra il braccio: gli tien ferma la mano) Che fate?... Viva Dio! Perdete ancora il sangue! (E, come prima aveva fatto Emma, Emma così affettuosa, Emma così brava, ricomincia lui a fasciarlo di nuovo, ma con meno perizia, certo, e con meno garbo).

Carlo Borghetti (lo lascia fare, guardandolo muto, pensando sempre a quell'altra: poi ad un tratto gli occhi si riempiono di lacrime; gli si riempiono di lacrime il petto e la gola; si sforza, ma non può più trattenersi; ha un tremito convulso, e quando il Mari ha finito di fasciarlo e gli ripone la mano nella sottoveste, scoppia all'improvviso in un pianto dirotto; dà un calcio furioso a una seggiolina che gli impediste il passo e si butta sul canapè).

[100] Giordano Mari (lo guarda: resta un poco a guardarlo: piano piano, gli si siede accanto, senza parlare).

Carlo Borghetti (continua a piangere, a singhiozzare, a borbottare, a strapparsi i capelli, a disperarsi: poi, a poco a poco, si calma, cerca un fazzoletto, si asciuga gli occhi) Perdonatemi! Perdonatemi, signor Mari! Sono pazzo e poi mi sento male.

Giordano Mari (prendendogli una mano affettuosamente; con voce dolce, penetrante) Piangete, piangete, sfogatevi. Questo solo vi può far bene.

Carlo Borghetti (alzandosi di nuovo con ira) Ma no; no! Non ho nessun diritto nè di piangere, nè di disperarmi! (Dopo un momento di pausa: frenandosi, stendendogli la mano) Ve lo giuro, signor Mari; sono un pazzo e un ragazzo. Un ragazzo pazzo e ridicolo. Niente altro. Ve lo giuro.

Giordano Mari (a sua volta, stendendogli la mano con molta cordialità) Non dovete nascondermi nulla. Non dovete chiudervi con me; non dovete dissimulare. Siate sincero: la sincerità è gran parte della bellezza e della bontà. Siate sincero con me. Io vi sono amico; vi sarò sempre amico.

Carlo Borghetti (colle ciglia aggrottate, col suo fare burbero, ma risoluto) Grazie; vi ringrazio. Ma vi ripeto, tengo a ripetervi: stasera il caldo, il pranzo, lo champagne, mi hanno fatto male. Si vede che ho il vino melanconico, triste. Niente altro; ve lo giuro. Del resto, voi mi avete già dato prova della vostra amicizia, stasera, in casa Dionisy, quando avete accettate le mie scuse.

Giordano Mari. Non parliamone più. (Affettuosamente sorridendo, mettendogli un braccio al [101] collo) Dite la verità: mi avete odiato molto, stasera?

Carlo Borghetti (trasalendo, scostandosi, fissandolo) Non capisco, non vi capisco.

Giordano Mari (fissandolo a sua volta, ma con un sorrisetto pieno di furberia bonaria) Eppure, sarebbe così facile intendersi. Basterebbe un po' più di confidenza. Basterebbe ammettere, da parte vostra, una cosa sola.

Carlo Borghetti. Quale?

Giordano Mari è ancora titubante: si alza, passeggia su e giù per la camera.

— E se il colpo non mi riesce? Se invece di un tratto di genio, fossi per commettere un errore? In tal caso, pazienza! avrò perduta la bella ragazza e il buon matrimonio, ma avrò salvata la mia riputazione di uomo serio, di uomo di spirito e di uomo d'onore!

Come ha già detto a donna Fanny, egli non può sperare di ottenere la signorina Dionisy, domandandola ai genitori. Egli, anzi, e più che mai, in faccia al mondo, in faccia ai parenti della ragazza, deve aver l'aria di ritirarsi, di non volere, di nascondersi, di sacrificarsi. Tocca alla ragazza di compromettersi, tocca alla ragazza di fare il dramma, e imporre il lieto fine.

Carlo Borghetti (che ha notato l'esitazione, la lotta interna del suo nuovo amico, gli si avvicina, ripetendo più lentamente) Devo ammettere da parte mia una cosa?... Una cosa sola?... Quale?

Giordano Mari (calmo, ma con forza) Dovete ammettere di essere molto innamorato della signorina Dionisy.

Carlo Borghetti (prorompendo, come spaventato) No! No! No!

[102] Giordano Mari (mettendosi un dito sulle labbra) Zsst!... Non dite bugie, e non gridate tanto forte. Sveglierete la casa. Tutti dormono ancora.

Carlo Borghetti (il viso smunto, lucente di sudore e di lacrime; gli occhi pesti, bruciati dalla febbre; si guarda attorno, sorpreso, sbigottito. Il chiarore incerto delle due candele rischiara, or sì, or no, un angolo appena della camera vasta, profonda. Dalle grandi finestre spalancate si scorge un lungo tratto di cielo, fattosi più chiaro, più alto, più diffuso. Un soffio, quasi un alito fresco, leggero leggero, corre nella camera. È un gran silenzio intorno: un silenzio di ombre, infinito; la quiete d'ogni cosa viva. Come il mondo, tutto il mondo, sembra lontano lontano, in quell'ultima ora della notte! Come sembra indifferente quella moltitudine inoffensiva, quasi morta nel sonno).

Giordano Mari (gli prende una mano stringendola forte, con tenerezza) L'amore, giovane amico mio!... L'amore non si nasconde. Voi siete innamorato della signorina Dionisy.

Carlo Borghetti. Ebbene, sì; sono stato (con uno sforzo) innamorato della signorina Emma, ma la crisi è passata. (Nervosamente) Ormai è passata, è superata. Non parliamone più. Voi me lo avete chiesto: a voi, a voi solo, sento il dovere di confessarlo. Ma colla stessa lealtà, colla stessa franchezza vi ripeto: d'ora in poi, come sono amico vostro, sono amico suo. Un amico onesto; un fratello per tutti e due: l'ho promesso anche alla signorina Dionisy. Dovete credermi ed essere sicuro di me, perchè mi dovete stimare.

Giordano Mari. La vostra amicizia? L'accetto, ne sono orgoglioso. Anzi, colla mia testarda sincerità, [103] vi dirò di più: la cercavo, la desideravo. Dunque, «amico mio», sì. Ma... volete essere soltanto amico anche della signorina Emma? Voi l'amate... (s'interrompe: si preme una mano sul cuore, come per soffocarne i palpiti precipitosi) Voi l'amate: soltanto amico, della signorina Emma?... Perchè?

Carlo Borghetti (ha un lampo negli occhi, il cuore gli fa un sobbalzo, ma rimane muto, incantato, guardando Giordano, senza osare di interrogarlo, di parlare).

Giordano Mari (si preme la fronte e sospira: un momentino di pausa per raccogliere tutte le forze; poi riprende a bassa voce, con gravità, quasi solenne) Siamo stati matti un po' tutti; ed io, lo confesso, è stato solo per cinque minuti, ma... (un altro sospiro, l'ultimo) sono stato matto più di tutti. (Mettendosi a posto con un'alzata di spalle) Io ero lontano dalla realtà, dalla verità, dal possibile, persino dalla logica. Sediamo, torniamo a sederci, e per cinque minuti parliamoci sul serio. Che cosa vi abbia detto la signorina Emma per mettervi alla disperazione, non so, non voglio sapere, non ho diritto di sapere. Sì, anch'io, lo confesso, anch'io ho la mia parte di torti, di colpa. Anch'io ho subìto una seduzione dolcissima, un improvviso stordimento. Non ve l'ho detto? Anch'io ho avuto i miei cinque minuti di pazzia, ma, ripeto ancora, e posso dire con orgoglio, furono soli cinque minuti. Quel primo giorno ch'ero a Milano, quel giorno della mia maledetta, malaugurata conferenza; quell'espressione incantevole di sincerità, gli occhi, la bellezza pura, angelica, l'intelligenza della signorina mi hanno colpito, colpito al punto... [104] (con un mesto sorriso), che io, sin da quel primo giorno, a costo di sembrare ineducato, non ho più cercato di rivedere la... la signorina; anzi, ho fatto di tutto per sfuggirla. È stato quell'insistente seccatore del Barbarani che, per forza, ha voluto condurmi e presentarmi alla signora Letizia; è stato il cavalier Venceslao che è venuto a cercarmi apposta, all'hôtel, all'Archivio di Stato, all'Ambrosiana, perchè non mancassi al suo concerto; e stasera, appunto, ho avuto un lungo colloquio colla signorina, colloquio in cui le ho espresso la più viva simpatia e l'ho pregata anche di volermi un po' di bene... come una figliuola al suo babbo.

Carlo Borghetti (vivamente) Ma...

Giordano Mari (con forza, con maestà) Come una figliuola al suo babbo; perchè io sono molto più attempato della signorina Emma, e non mi sento di diventare ridicolo; perchè la signorina Emma è molto ricca, ed io, che sono quasi povero, non mi sento di diventare... un mantenuto di mia moglie. Perchè io sono filosofo razionalista e la signorina Emma è credente, è cattolica; perchè, infine, le mie idee e i miei principii, le mie aspirazioni, in fatto di politica e di ordinamenti sociali, sono precisamente agli antipodi con tutto il legittimismo reazionario, con tutto il detrito spagnolesco e austriaco di casa Dionisy. Parlo chiaro?

Carlo Borghetti (con impeto) Ma Emma mi ha detto...

Giordano Mari (imponendogli di tacere: protendendo le due mani aperte: voltando, torcendo indietro il capo per non sentire) Quello che possa avervi detto la signorina, non so: non voglio [105] sapere; non ho diritto di sapere. Vi ripeto — sì, — ho avuto cinque minuti di pazzia, come voi avete avuto la vostra crisi... nervosa. Ma gli uomini devono guarir presto, e noi siamo uomini: infatti, voi ormai siete più calmo, ed io ricomincio a ragionare. Vedete? (indicando verso la finestra) Ecco il mattino, come dice Shakespeare, che lievemente librandosi pare in procinto di slanciarsi sulla terra! A letto, andiamo a letto, amico mio; voi, per rialzarvi più forte, dopo qualche ora di riposo, e con tutte le vostre più belle e più care speranze nel cuore. Io, con un amico prezioso (con mesto sospiro) e colla costanza, la forza e il conforto del lavoro.

Carlo Borghetti (senza esitare, con uno slancio generoso) Se non volete, se non posso dirvi di più, vi devo dir questo, però: vi assicuro; voi siete in errore riguardo ai sentimenti della signorina Emma.

Giordano Mari (con mestizia) Ho quarant'anni, e sono quasi povero. Volete ripeterglielo voi, da parte mia, a quella cara figliuola?

Carlo Borghetti (torvo, accigliato) No.

Giordano Mari. Sta bene. Le scriverò io stesso, prima di partire.

Carlo Borghetti (vivamente: con un guizzo di gioia che non può frenare) Partite?

Giordano Mari. Appena avrò pronto tutto il materiale che mi può occorrere; documenti, note, memorie inedite per la mia monografia.

Carlo Borghetti (subito) So, so! Ambrogio vescovo nella civiltà de' suoi tempi.

Giordano Mari. Appunto. Anzi, vi dirò che il mio editore...

[106] Carlo Borghetti. L'Amodei?

Giordano Mari. L'Amodei... mi ha detto che voi avreste potuto essermi molto utile, per affrettare alcune mie ricerche.

Carlo Borghetti (diventa di nuovo melanconico, scrollando il capo, borbottando fra sè) Tanto lavoro, tante speranze... Tutto inutile!

Giordano Mari (sempre attentissimo: studiandolo) E non fu solo l'Amodei; tutti quelli cui ho parlato del mio argomento, pareva lo facessero apposta, venivano fuori col vostro nome. — Ma lei deve farsi presentare all'architetto Borghetti! — Ma lei deve cercar di conoscere l'architetto Borghetti! — ed io — vedete come sono sempre sincero? — (ridono gli occhi e sembrano ridere anche i denti bianchi) io, a costo anche di riuscirvi importuno, non solo ho voluto conoscervi, ma diventare anche vostro amico... per sant'Ambrogio!

Carlo Borghetti (ridendo a sua volta, ma con un riso amaro che sembra errare tristemente sulle labbra scolorite) Vi avrà parlato di me, monsignor Strada?

Giordano Mari. Il parroco mitrato di Sant'Ambrogio? Altro che! Vi ha definito il «Saturno degli archeologi» perchè vi mangiate i vostri figliuoli... cioè, perchè i vostri studii, le vostre note, i vostri commenti, li fate ingoiare dalle enormi fauci dei vostri cassetti, sempre aperte per ricevere e sempre chiuse, dopo.

Carlo Borghetti. Bel tipo, quel monsignor Strada!

Giordano Mari (alzandosi in piedi: la mano appesa, col pollice, al taschino del gilet: la sua solita attitudine di conferenziere) Bel tipo; interessantissimo [107] e singolare. Un bel prelato del Velasquez, ammorbidito, spiritualizzato da un pennello fiorentino! Quanta irrequietudine intellettuale sotto quell'apparente placidità fisica! E che passione gelosa, che ambizione superba, da monarca, per la sua illustre basilica!

Carlo Borghetti (stanco, sudato, continua a ripetere) Bel tipo!... (Ad un tratto, gli passa l'immagine di Emma dinanzi agli occhi; si scuote, si alza, trasalendo) Colla sua mansuetudine e la sua transigenza politica e mondana, serba la tradizione un po' ribelle dei parroci mitrati, anche di fronte alla Curia.

Giordano Mari (come il gatto che scherza col topolino: sempre pronto a ghermirlo) Io me la godo, come suol dirsi, a osservare quella sua grave pinguedine, la carnagione latte e vino, la mano morbida, dalle unghie rosee, periate, come quelle della più bella fra le sue aristocratiche penitenti.

Carlo Borghetti (corre col pensiero alla manina di Emma, e gli par di vederla nella mano di Giordano Mari: alzandosi di colpo) E, all'Ambrosiana, avrete conosciuto il prefetto, don Galimberti?

Giordano Mari. Oh, anche lui; tante volte mi ha fatto il vostro panegirico! Vi vuol molto bene. Ha per voi una grande ammirazione. (Compiacendosene: con ambizione) Che buon uomo! Sapete? Siamo diventati quasi amici. (Riprendendo la conferenza e di nuovo facendo penzolare la mano sul gilet) Quell'uomo serio, macilento, tranquillo, è un mostro di erudizione. Fa spavento. Lo stavo a sentire, queste mattine, magari per un'ora intera, e ne rimanevo sbalordito.

[108] Carlo Borghetti (socchiudendo gli occhi come evocando l'immagine del buon prete; poi sorridendo, accarezzandola con uno sguardo affettuoso) Con quella sua vocetta sommessa, rassegnata, che sembra una preghiera, vi dice una dopo l'altra le cose più complesse, più remote, più varie...

Giordano Mari (Interrompendolo: tuonando) E che memoria! Le date, poi!... L'anno, il mese, il giorno! È portentoso!

Carlo Borghetti. E par sempre che domandi agli altri; che non ricordi, che dubiti!

Giordano Mari (cambiando voce: fissandolo negli occhi: lentamente) E tanto monsignor Strada, quanto don Galimberti, mi hanno assicurato che voi possedete tesori... tesori. — Aiutatemi! (Risoluto, con un'espressione strana, che il Borghetti osserva a volo, con un tremito, diventando prima rosso, poi ancora più pallido) È perchè voglio partire, devo partire. Soltanto per questo vi dico: aiutatemi!

Carlo Borghetti (un po' balbettando) Sì, infatti. Anch'io, per molto tempo, ho lavorato, ho pensato allo stesso vostro soggetto.

— Tesori!... Tesori, m'hanno detto. Avete raccolto tesori.

— Poi, un bel giorno... Un bel giorno? Un giorno qualunque. Non ci son mai stati bei giorni per me. Un giorno, mi vien dato l'incarico della ricostruzione del monastero di Pontida; e allora, addio sant'Ambrogio e Teodosio; addio Marcellina e Susanna; Susanna la vergine caduta, la vergine innamorata. — L'amore, sempre l'amore! — E, invece, Federico Barbarossa e la Lega Lombarda — il Carroccio e la Battaglia di Legnano...

[109] Giordano Mari. E sant'Ambrogio?...

Carlo Borghetti (di nuovo stanco, abbattuto, la testa pesante) A dormire... (sbadigliando) L'ho messo a dormire.

Giordano Mari (afferrandogli tutte e due le mani) Fatemi partire... (scotendolo) Fatemi partir subito da Milano.

Carlo Borghetti (rimettendosi: fissandolo a sua volta) Tutto ciò che vi occorre, è vostro: ma non per farvi partire: restate.

Giordano Mari. Quando posso venire? Quando mi volete? Oggi? (coll'aria di esser lui che compie un sacrificio e insieme un atto generoso) Voglio oggi. Dopo colazione? Al tocco? (si ricorda del suo appuntamento con Fanny, e non lo vuol perdere, tanto più che — non si sa mai! — potrebbe essere anche l'ultimo) No; dopo colazione non posso. Mi devo trovare all'Archivio di Stato. (Tirando il colpo) E adesso? Un momentino? (Prendendolo sotto il braccio, stringendolo con effusione, guardandolo sorridendo) Un momentino?... Adesso?... Sì?... I nostri studii prediletti!... Sono la nostra forza! Il nostro conforto! La vita; la vita nuova! Dopo una cattiva notte, ricominciamo una buona giornata! (Tenendolo sempre stretto affettuosamente sotto il braccio, indicando appunto dove immagina sia lo studio del Borghetti, quasi coll'invito, col molle atteggiamento di una cocotte) Là?...

Carlo Borghetti. Mi promettete prima di non partire? Resterete a Milano?

Giordano Mari (baciandolo sulla fronte) Quanto sei buono, grandemente buono!

[110]

XII. Sant'Ambrogio.

Carlo Borghetti e Giordano Mari entrano nello studio ancora buio. Carlo Borghetti apre la finestra: è uno studio severo, raccolto: le pareti ricoperte da alte e ricche librerie, ornate dall'ingorda biscia viscontea, e in perfetto stile coi mobili severi, massicci, coperti di pelle a fregi istoriati. Non una penna, non un foglio di carta fuori di posto: fuori di posto, in quel luogo, in quel momento, sono quei due uomini dai frak polverosi, colle cravatte a sghembo, e sulle cui faccie stanche, smunte, giallognole, stride la purezza della luce mattutina.

Giordano Mari. Quanto ordine in questo studio! Chi direbbe che è l'officina di uno dei nostri più instancabili lavoratori?

Carlo Borghetti. Non è lo studio dell'architetto; qui non ricevo i clienti. È il mio studio particolare, in cui non entra, e raramente, altro che qualche amico.

Giordano Mari (pronto, accettando per sè quell'«amico») Non abuserò.

Carlo Borghetti cerca fra il mazzo delle chiavette; va ad aprire lo sportello d'uno degli armadioli, [111] che formano il ripiano, tutto all'ingiro, sotto gli scaffali dei libri, e ne leva una lunga cassetta, anche questa pur chiusa a chiave, e la porta di peso sulla scrivania.

Giordano Mari (seguendolo sempre coll'occhio: sempre in ammirazione) Sei maraviglioso! Come hai tutto a posto: le tue carte in pieno ordine, raccolte ne' loro cassetti, come le idee nella testa. Bravo!

Carlo Borghetti (aprendo e sollevando il coperchio della cassetta) Sono un pedante. Il disordine, la confusione in chi lavora... è un perditempo.

Giordano Mari. Anch'io sono come te. (Lanciando un'occhiata rapida sui molti fascicoli e sui pacchetti di cartelle, allineati, legati ad uno ad uno, numerizzati, che riempiono tutta la cassetta: con una certa monelleria soddisfatta) Ed ecco — non è vero? — gran parte di ciò che rimane dello spirito, dell'anima... del nostro caro Ambrogio.

Carlo Borghetti. Sì; del grande Ambrogio. Del santo, veramente santo, nel senso filosofico della parola: santo perchè giusto. E chi più giusto di lui? (Siede alla scrivania e accenna al Mari una seggiolina accanto, più bassa) Quale poeta non ha sciolto un inno al sole? Eppure, io sfido anche... (prova qualche difficoltà, per la sua naturale ritrosia, per la sua selvatichezza, a dargli, così subito, del tu) io sfido anche te, a dirmi di chi sia quest'invocazione, così ispirata e pura, degna di Francesco d'Assisi:

Tu, lux, refulge sensibus,

Mentisque somnu discute...

(Gli dà la cartella e lascia che il Mari, stupito, prosegua in silenzio la lettura).

[112] Giordano Mari. Come?... Ambrogio?... Sant'Ambrogio?...

Carlo Borghetti (scegliendo un altro foglietto) È il canto del gallo. (E mentre legge la prima strofa, la sua faccia sembra ricomporsi, il suo occhio ritorna vivo, scintillante).

Surgamus ergo strenue,

Gallus iacentes excitat;

Et somnolentos increpat,

Gallus negantes arguit.

. . . . . .

«Dei tristi che rinnegano

Il gallo è accusator!»

Sono inni armonici, canti descrittivi, liriche maravigliose, nella loro semplicità. A te, prendi, leggi il canto del Natale: «A solis ortus cardine — Ad usque terrae limitem». A te il Passio Laurentii martyris (e ad uno ad uno gli passa quei fogli preziosi).

Giordano Mari (li afferra con le dita tremanti, li scorre con uno sguardo rapido, aggrottando le ciglia, fissando gli occhi bramosi, trovando subito la nota, il riscontro, il punto più importante, colla pratica dell'usciere che cerca una cifra in una carta bollata; poi, sempre guardando, esaminando le preziose cartelle, si avvicina, per vederci meglio, alla finestra aperta, mentre il cielo si sbianca sempre più e di lontano, dalla via e dalla casa, giungono i primi rumori, i primi indizi del giorno che ricomincia) Io non sapevo, cioè sapevo, ma non fino a questo punto. Ambrogio poeta...

Carlo Borghetti (a mano a mano dall'abbattimento, dalla cupa taciturnità di prima, passa ad un'espansione vivissima, cordiale, ad un abbandono [113] senza limiti) Ambrogio poeta?... Ma è tutto un tesoro, tutta una rivelazione, una miniera! Semplicità, ispirazione, impeto lirico, fervore sacro...

Giordano Mari. E mi lascieresti vedere?... Potrei portare con me... per qualche giorno?...

Carlo Borghetti. È tutto tuo, roba tua. Prendi! Prendi! Fa conto che questo lavoro di amanuense io l'abbia fatto per incarico tuo. Tu eri a Padova, io a Milano: mi hai scritto, io ti ho servito, ti ho accontentato, ben lieto di accontentarti.

Giordano Mari (tra l'ansia, l'inquietudine, un po' di esitazione, e nello stesso tempo la smania di avere tutto) Ma poi, se qualcheduno venisse a saperlo ed esagerasse... l'importanza della cosa? o svisasse i fatti per farmi danno?... per combattermi?... È così pieno il mondo — e il nostro mondo specialmente — di invidiosi, di calunniatori. Se un giorno si venisse a sapere...

Carlo Borghetti (distrattamente) Sapere? Come? E poi sapere che cosa? Non è mio, come non è tuo: tutto questo è di lui. (Tornando ad infervorarsi nel suo argomento) È ciò che ha dato, ha creato, ha rivelato, anche nei versi, quella sua mente poderosa, complessa di romano fiorito sul limitare della barbarie; ed io... io non ho avuto altro che la pazienza di raccogliere, di ordinare...

Giordano Mari (ripiegando i foglietti dei versi per portarseli via) E la fortuna di poter disseppellire, scovare...

— Già; pazienza e fortuna. Ho rintracciato tutto, o almeno quasi tutto: liriche, inni, salmi. Il Biagi ed il Venturi avevano intuito, sospettato appena...

[114] — Tu hai avuto più fortuna, e colla pazienza sei andato fino in fondo.

Carlo Borghetti. Fino in fondo: sì, proprio, fino in fondo. Oh, qui c'è tutta racchiusa la grande anima! Tutto il pensiero di quell'uomo strano che visse in tempi più strani ancora. (Traendo dallo stipo altri fascicoletti di cartelle) Ecco qui i ritratti di Ambrogio. Che gemme di miniature! Sono sulla cartapecora: fregi di antichi messali. Guarda in questo pezzettino di raso: che ingenuità di disegno, ma che vivezza di espressione! Ecco un mio vanto. Chi mai ci ha pensato ai ritratti di Ambrogio?... E qui le sue missioni politiche, ma le inedite. Poi, tutta la verità contro la leggenda nelle sue lotte cogli ariani. Poi, la storia soave e cara di sua sorella Marcellina... E qui la sua crociata contro il lusso delle signore, a' suoi tempi, e contro le crapule e i banchetti. Sint pura cordis intima... E qui Agostino d'Ippona e la regina Frigitilla, e qui le lettere e qui la morte... la morte. (Ad un tratto l'immagine di Emma gli riappare più viva che mai, più bella che mai: tutto il suo entusiasmo si spegne, egli ricade di nuovo, affranto, esausto sulla poltrona, le gote smorte, i lividi profondi, sotto gli occhi fissi, immoti. Con voce cupa, con un atto che fa capire all'altro di andarsene, perchè egli ormai vuol restar solo: dimenticandosi di dargli del tu) Prendete, prendete tutto. Andate; sono stanco. Vi manderò tutto all'albergo.

Giordano Mari. Oggi stesso. Te ne prego: hôtel Bella Venezia. E poi, che serve? Dammi qua! Porto io, con me, senz'altro; senza incomodar nessuno. Ecco un giornale! Il Figaro!.. E se non basta, ne prenderemo due. Permetti, non è vero?

[115] Dopo fatto il pacco:

Giordano Mari. Ed ora, un ultimo favore.

Carlo Borghetti (alza appena gli occhi: lo guarda quasi con una timidezza supplichevole: sente dentro di sè, ha lo sgomento, lo spavento che gli parli ancora di Emma).

Giordano Mari. Devi permettere, mi devi concedere, che io intitoli al tuo nome, così simpaticamente illustre, il mio Sant'Ambrogio. Lo devo a te, per un debito di riconoscenza; e lo devo un po' anche a me stesso, agli scrupoli della mia delicatezza. (Vedendo che l'altro vorrebbe opporsi: insistendo) Va bene, va bene. Adesso non devi rispondere, adesso non devi dirmi nè , nè no. Te ne scriverò... forse, domani stesso; da Padova.

Mezz'ora dopo:

Carlo Borghetti è ancora nel suo studio; è ancor seduto, sprofondato nella poltrona, dinanzi alla scrivania, col capo fra le mani. Pensa ad Emma, sempre ad Emma, con un rimorso nel cuore, che si fa sempre più vivo, più acuto: ha dato al Mari, proprio al Mari, gli ha ceduto le sue carte, lui così avaro, così geloso de' suoi studii, de' suoi documenti, delle sue raccolte. E lo ha fatto soltanto perchè egli parta; per farlo andar via più presto.

Ed Emma? Emma? Emma che lo ama, quel Giordano Mari!

Povera Emma!

[116]

XIII. I fiaschi di Nino Sebastiani.

Salotto da pranzo in casa Dionisy: la mattina dopo il concerto: le dieci: l'ora della prima colazione.

Il cavalier Venceslao seduto alla tavola bianca elegantemente imbandita: il collo avvolto nell'ampio foulard, il naso un po' gonfio, un po' rosso e un po' intasato per la veglia e la fatica delle emozioni artistiche, fa colazione con discreto appetito: caffè e latte, panini arrosto e miele.

La signora Letizia. In fondo alla sala da pranzo: nel suo angolo prediletto della mattina, con accanto il piccolo tavolino, apparecchiato soltanto per lei: vestaglia vaporosa, veli, mezzi guanti di filo, sotto i quali luccicano le gemme degli anelli: melanconica, di cattiva voglia, tuffa nella sua tazza di cioccolato sospiri, lamenti e chifel.

La signorina Emma: non c'è. Il suo posto a tavola, in faccia al cavalier Venceslao, è ancora vuoto.

Venceslao (al cameriere) La signorina è stata avvertita?

Cameriere. Sissignore.

Venceslao. Avvertitela ancora.

[117] La signora Letizia (a Venceslao: uscito il cameriere) Emma, ieri sera, si è condotta malissimo: non vuol capire che è ancora ragazza: è stata un'ora sul terrazzino, sola, con quel Mari. Anche il dottore, capirai, è rimasto molto contrariato. Dopo tante raccomandazioni, tante prediche, ha tenuto col Sebastiani un contegno... ancora più impossibile.

Venceslao (sussultando, colla vocina inviperita) Per questo ti dirò che il vostro Sebastiani è stato lui, a sua volta, molto scorretto. Ha chiacchierato, ha parlato tutta la santissima sera. Anche durante il quartetto!... È pochissimo gentile codesto vostro Sebastiani!... Dirò, anzi, pochissimo educato; e, per parte mia, dichiaro a te e anche al dottore: se ad Emma non accomoda, io me ne lavo le mani.

La signora Letizia (con calma: lentamente) Tu farai e dirai ciò che sarà necessario di dire e di fare. Intanto, ricordati, le farai le tue osservazioni per ieri sera. (Un gran sospiro) Io sono troppo stanca di sentirmi poco bene, per dovermi sempre inquietare.

Un fruscìo di vesti e un ritmico tic-tac, risonante sui parquets.

La signora Letizia. Eccola. Mi raccomando. (Premendosi la fronte con una mano, perchè teme un principio dell'emicrania) E parlate sottovoce.

Emma (tutta rorida, tutta fragrante nell'abitino tutto rosa) Buon giorno!... Buon giorno!... Dio, Dio, come ho dormito tardi! Buon giorno, mamma! (Leggera leggera, quasi di volo, corre ad abbracciare la signora Letizia, che si lascia toccare appena per timore di spettinarsi. Saltando sulle ginocchia del cavaliere Venceslao) Buon giorno, papà!

[118] Venceslao (si asciuga prima i baffi e la barba, poi le offre gravemente le due guance: allontanandola da sè) Adesso, va; siediti al tuo posto e fa colazione; dopo, io avrò da parlarti.

Emma (interrompendolo: sapendo di fargli piacere) E la Perseveranza? Dice qualche cosa? Parla del concerto?

Venceslao (dandole il giornale: sempre assai gravemente) Un articolo fatto bene. Non ha dimenticato nessuno. (Riprendendo, mentre sceglie un altro panino arrosto, il discorso di prima) Poi verrai con me nel mio studio: discorreremo a lungo.

Emma (mentre il cameriere, che è rientrato, le prepara la colazione, apre e scorre il giornale).

Venceslao. Ho da farti le mie osservazioni per ieri sera.

Emma (d'un tratto: vivamente) Fiasco!... La commedia di Nino Sebastiani ha fatto un gran fiasco! (Leggendo forte) «I cavalli del sole», dramma in tre atti di Stefano Sebastiani al Costanzi di Roma: — primo atto, silenzio: secondo, interruzioni, mormorii: terzo, disapprovazioni insistenti. Il dramma, ibseniano nel concetto, sembrò troppo ingenuo e prolisso nello svolgimento» Oh, povero Sebastiani!

La signora Letizia (alzandosi sulla poltrona: a Venceslao: marcatamente) Ma... ma tu non avevi letta la Perseveranza?

Venceslao (stupito) Io, no... cioè sì. (Dopo un momento, sentendo gli occhi di sua moglie sopra di sè, e volendo rimediare alla propria inavvertenza, riprende con calma tutta la maestà dell'uomo superiore) Fischiato?... Che cosa vuol dire? (Stringendosi un po' nelle spalle) E la prima del Nabucco? [119] E la Traviata a Venezia? Fischiato? Il dramma, come si chiama?

Emma. I cavalli del sole.

Venceslao (con un sorriso amabile: compiacendosi del titolo) I cavalli del sole. Mi piace. Io già mi son sempre detto: — consoliamoci! — non si fischiano molto, altro che i capolavori.

Una lunga sonata elettrica dalla portineria.

Emma (contenta della diversione) Il dottore! Quel caro dottore!

Rientra il cameriere: apre l'uscio aspettando il dottore, e aspetta un pezzo.

Il dottore (finalmente, entra, soffiando, sospirando: guarda tutti in giro con occhio fosco: la barba spettinata gli fa il viso storto e la cera ancora più truce).

Il cameriere (adagio, gli versa la sua tazza di caffè, poi se ne va, in punta di piedi).

Emma (allegramente) Che brutta faccia, dottore! Sembri il re Erode, dopo la strage degli innocenti!

Il dottore (la fissa serio, accigliato, scrollando il capo per tutta risposta: passo passo, attraversa la stanza e si ferma dinanzi alla poltrona della signora Letizia. La guarda lungamente, strizzando gli occhi per raccogliere la luce)... Sicchè?

La signora Letizia (battendo le palpebre: con una vocina flebile, come fosse lì lì per piangere o per svenire) Ha sentito, non è vero, del nostro povero Sebastiani? Così buono! Così caro!

Il dottore (sempre truce, non risponde: continua a studiarla, a scrutarla, poi le tocca la fronte, le tasta la mano) Sicchè? Dopo lo strapazzo di ieri sera? È stata quietina? Ha potuto dormire?

La signora Letizia (allungandosi, stendendosi [120] voluttuosamente sotto lo sguardo fisso del dottore, come una gattina che fa le fusa) Avrò dormito forse qualche mezz'oretta; ma mi sono risvegliata stanca.. stanca... stanca... (Fa una sforzo per tirarsi su).

Il dottore (accorre per aiutarla, per sorreggerla).

La signora Letizia (dimenando la testa sulla poltrona; alzando, stirando le bellissime braccia che escono nude fin sopra i gomiti dalle maniche larghe, soffici, che le si riversano sulle spalle) Ma, dica, è proprio vero del Sebastiani? O ci sarà qualche esagerazione?

Il dottore. Vediamo, la mia tosa, da brava. (Le fa la solita ispezione alle gengive, alla lingua, alla gola; scrolla il capo, sospira, le ordina di riposare, di guardar bene di non inquietarsi; e poi si avvicina passo passo al cavalier Venceslao).

Venceslao (dopo avergli mostrato la lingua) I cavalli del sole? Io, per me, non lo ritengo un fiasco. Non ho ragione, dottore?

Il dottore (con due dita, delicatamente, gli solleva le palbebre) Già: le sclerotiche sono ancora un po' gialline (pausa). Continueremo colla Vichy. (Sempre passo passo va a sedersi dove il cameriere gli ha messa la seggiola, e gli ha versata la tazza di caffè; ma senza passare da Emma, senza nemmeno guardarla: il che vuol dire che è molto in collera con lei) Dunque, Nino Sebastiani... Mah! (Pausa; poi continuando fra una sorsata e l'altra di caffè) Del resto, era cosa facilmente prevedibile. Io l'ho sempre detto anche a sua madre: i giornali, i teatri, le commedie vanno sempre a finire in dispiaceri! Offelee fa el to mestee. (Con un'alzata di spalle e un'altra sorsata) Il successo! Il pubblico! Intanto, per cimentarsi col pubblico, bisogna essere [121] di quel ceto di persone — vero? — che non hanno niente da perdere: nemmeno la salute. (Pausa: depone la chicchera vuota: si asciuga la barba) Il telegramma da Roma è arrivato stanotte. Nino era qui al concerto. Sua madre si è spaventata (sospirando) e stamattina ha avuto uno dei suoi accessi. Quell'altro, il Nino, è verde come il sacco del fiele. Non mi stupirei se gli venisse la febbre: sicuro, con un seguito di cattive digestioni, di gastralgie. Mah!... E intanto in ballo ci sono io e devo correre.

Il cavalier Venceslao (rimane meditabondo, le braccia al sen conserte).

Emma (quietamente, dà fondo al caffè e latte, alle uova, e a tutto il piatto dei panini arrosto).

La signora Letizia (dal fondo: con voce di dolore) E non si replica nemmeno?.. È caduta senza rimedio?

Il dottore. Una catastrofe. Avete letto la Perseveranza? Bene: è ancor niente. Bisogna leggere la Lombardia. È stato Guido Bardi; me l'ha portata al Cova; era spiacentissimo anche lui del cattivo esito di Roma, per quanto avesse egli pure preveduto l'insuccesso. Voler fare l'Ibsen?... Ci vuol altro! (leggendo la Lombardia con voce sepolcrale) Ecco qui: «I cavalli del sole, dramma ecc. ecc. Primo atto, mormorii: secondo, interruzioni, disapprovazioni: terzo, risate, urli e fischi. Il dramma, che avrebbe voluto essere simbolista, non è riuscito altro che una vuotaggine noiosa, inconcludente!»

Emma. Oh, povero Sebastiani! (E, più che per altro, per la faccia comicamente costernata del dottore, trattiene a stento un risolino che per forza le [122] vuol bucare gli occhi vispi e le gote rotonde e morbide) Povero Sebastiani!

Il dottore (voltandosi, guardandola, e dopo averla guardata non potendo a meno di rasserenarsi) Ecco, se questo tuo sentimento diremo di... (si ferma, si gratta la barba con malizia) diremo — va bene? — di simpatia, fosse proprio spontaneo, starei quasi per dire, ecco appunto che da un male ne segue un bene. (Alzandosi gaio, prendendo sotto braccio Emma per condurla sul terrazzino: voltandosi verso la signora Letizia) Permette — vero? — La confesserò io questa mia tosa!... (minacciandola scherzosamente con la mano) E le darò anche la penitenza per ieri sera. (Appena sul terrazzo, alla luce chiara del mattino, il dottore fa la sua ispezione anche al viso di Emma; ma ne rimane soddisfattissimo) Continui — vero? — colle presine di fosfato?

Emma. Sempre: una alla mattina; una alla sera!

(Il dottore dandole un leggero buffetto sulla gota in segno di approvazione e di ammirazione) Brava! Ma, adesso, il faccino è così bello, la nutrizione così perfetta... direi... si potrebbe anche sospendere. Per la salute — vero? — le cure, i riguardi, il cambiamento d'aria, il moto, le distrazioni, tutto ciò va benissimo, ma non basta; anzi, in certi casi — mi capirai più tardi — terminano col far male, appunto perchè fanno stare troppo bene. «Tutto a suo tempo;» questa è la regola generale per ogni prescrizione. E da un po' di giorni, basta guardarti in faccia perchè ognuno diventi dottore; cioè, possa subito indovinare che cosa è ormai tempo di ordinarti. (Ride soddisfatto di questa sua scappata: la ripete un paio di volte: poi ritorna serio, ritorna grave e riprende colla solita lentezza) [123] Dunque, si sarebbe detto, appunto, un momento fa, colla signora Sebastiani... (si ferma, fissa Emma negli occhi).

Emma (che comincia a diventar nervosa prevedendo dove il dottore vuol andar a finire) Che cosa?... Si sarebbe detto, che cosa?... Fa presto! Ho la lezione di piano.

Il dottore (fissandola sempre con malizia bonaria) La maestra di piano. (Pausa) La maestra aspetterà. Si tratta di cosa ben più importante. Insomma, — per venire a una conclusione — sentiamo; a che punto sei con questo Nino Sebastiani?

Emma (diventando più rossa delle sue stesse labbra) Come? Non ti capisco!

Il dottore. Vi siete spiegati, sì o no? (Vedendo che Emma sempre più nervosa, e da rossa diventando pallida, si ostina a non voler capire) Benedetta la mia tosa! È un anno che questo Sebastiani ti viene per casa, è un anno che ti segue dappertutto, è un anno che per causa tua si arrabbia, si inquieta — come ieri sera, per esempio — e dopo risponde male a sua madre. Sai — vero? — che la signora Sebastiani ha un vizio di cuore? (Pausa, sospiro) Da una parte bisogna ricorrere alla digitale; dall'altra al chinino o alla fenacetina. (Alzando la voce: riscaldandosi) Cara mia, se non hai capito tu, ha capito ormai tutta Milano, e per questo è ora e tempo di venire ad una conclusione.

Emma (è arrabbiata: increspa le ciglia, allunga il musetto: la voce roca, aspra, con un'alzata di spalle) Tu... Fammi il piacere! Finiscila!... Hai capito?... Finiscila!

Il dottore. Quel povero Sebastiani! Si vede lontano un miglio! È innamorato morto. Innamorato [124] e geloso. Ieri sera, per esempio, con quell'altro là di Padova, sei stata un po' troppo a discorrere (Pausa: sospiro significantissimo). Sebastiani non ne poteva più; e intanto quella matta della d'Arborio andava in estasi, lei, per suo conto. Da brava: facciamo giudizio. È un bel giovane; il matrimonio è conveniente sotto tutti i rapporti. Non ci può essere — vero? — nessun ostacolo? E dunque, tutto a suo tempo: il tempo è venuto anche per te e facciamola finita. (Prendendole una mano e accarezzandogliela con affetto sincero, con tenerezza, e accarezzandola anche cogli occhi diventati buoni e dolci) Pensa, la mia cara Emma, che il tempo, per le ragazze specialmente, passa in un lampo. Come le rose; proprio come le belle rose. Un giorno di più di sole, o un giorno di più di acqua — vero? — e addio: i bei petali se ne vanno, e resta un torsolo.

Emma (col capo chino, pallida, sconvolta, agitatissima: tutta vibrante: una pila elettrica) Intanto, credo... anzi, sono certa, ti sei sbagliato. A me, il signor Sebastiani non ha detto in proposito nemmeno una parola.

Il dottore. No? Non ti ha detto niente? E che importa, anche se non ti ha detto niente? Via, da brava. Sei sempre stata sincera, e adesso, con me, devi esserlo tanto più. (Ridendo) Anche se lui non ti ha detto niente, tu, per parte tua, hai capito tutto!

Emma (in collera: rivoltandosi) Ti dirò, per altro... Mi stupisce che tu, proprio tu, mi faccia simili discorsi. E in questo modo! E in questo tono! Ho mio padre e ho mia madre. Non tocca a te.

Il dottore (la guarda, la fissa; diventa seriissimo: [125] poi la lascia sfogare, le lascia passar la collera, e intanto cammina su e giù pel terrazzino, ficcandosi le dita nel taschino del gilet, giocando, al solito, nervosamente, colle chiavette: dopo qualche tempo si ferma, torna a guardare Emma; scrolla il capo, fa un gran sospiro).

Emma (pentita, con effusione: stendendogli tutte e due le mani) Perdonami.

Il dottore. Perdonarti? Figurati! (Continuando ad osservarla, a studiarla, a scrutarla e a far risonare le chiavette) Ma, pur troppo, starei per dire, non basta perdonarti: per il tuo bene vorrei anche convincerti. E invece... (sospira) non vorrei, sul più bello, avere sbagliato la diagnosi (pausa)... ed essere andato fuori di strada. Cioè, tu, per conto tuo — vero? — avrai capito tutto, ed esser io, viceversa, quello che non ha capito niente. Insomma, senti, cara la mia Emma: lo vuoi questo Sebastiani, sì o no? Ricco, onesto, buono — adesso è geloso e non lo puoi giudicare; ma dopo, ne fai quello che vuoi: garantisco io. Anche per la salute. Al giorno d'oggi bisogna accontentarsi. E se ti ha fatto impressione l'incidente di Roma, a questo non ci devi pensare. Commedie non ne scriverà più. Sua madre, la signora Sebastiani, è una donna eccellente; e, come suocera, avresti in certo qual modo il vantaggio di non averla, perchè è sempre ammalata. Sua madre, per mio suggerimento, farebbe a Nino una grande intemerata: «Ti piace l'Emma Dionisy? Tu vuoi l'Emma Dionisy? E noi te la daremo volentieri, ma ad un patto: rinunciare per sempre alla manìa del teatro: non solo non devi più scrivere commedie, ma nemmeno sentirne; per schivare il contagio».

[126] Emma (che intanto ha pensato sempre a Giordano Mari, ha pensato anche a quel sì o no, al quale deve rispondere: risoluta) Ebbene... no.

Il dottore (meravigliato) No? Che cosa?

Emma. No: è impossibile. Sento che è impossibile!

Il dottore (la guarda; capisce e non capisce).

Emma (gettandogli le braccia al collo con trasporto, con tutta la passione... per Giordano Mari) Ma tu, tu che mi vuoi bene, vorresti vedermi morire?

Il dottore (colpito) Morire? Che spropositi! Che c'entra il morire?

Emma. Ascolta: il Sebastiani, non lo voglio, non lo voglio, non lo voglio! Non lo amo: è impossibile! Se penso soltanto di doverlo sposare, mi diventa insopportabile, lo detesto; mi diventa antipatico; lo odio. Dunque, no; dirò sempre no, no e no! E se poi dovessi sposarlo per forza, se me lo faceste sposare per forza, prima morirei. Hai capito? E se mi vuoi bene, lo devi dire al babbo e alla mamma. Devi dire — tu che mi conosci — che io morirei (colle lacrime negli occhi e nella voce, tutta sconvolta, tutta febbricitante, fugge nella sua camera a rinchiudersi, a nascondersi).

Venceslao (dopo un momento: cacciando fuori il capo da una delle finestre che dànno sul terrazzo) Pst! Pst! Dottore... E così?

Il dottore (voltandosi: forte) Altro che I cavalli del sole! Un fiasco ancora più tremendo!

[127]

XIV. Giordano Mari alla signorina Emma Dionisy.

«Torno in questo momento da casa vostra, dove ho portato a vostra madre un biglietto da visita, per prendere commiato: nell'uscire, proprio sulla soglia del palazzo, mi sono incontrato col cavalier Venceslao. Salutandolo e ringraziandolo delle cortesie fattemi, gli ho espresso pure il desiderio, la speranza, di poter forse rivedere ancora la signora Dionisy prima di partire; il dispiacere mio, in ogni modo, di dovermi così allontanare senza poterle esprimere, anche a viva voce, tutti i sensi della mia devozione, della mia ammirazione e della mia riconoscenza. A queste effusioni spontanee d'un cuore espansivo, forse disadatto alle formalità cortigiane ed al sussiego dell'etichetta, certo sincero ed appassionato e ingenuo, il cavalier Venceslao rispose con una freddezza compassata e studiata, con una durezza così inattesa e immeritata, da indurre in me non so più se stupore o dolore amarissimo.

«Vostro padre (e per la sua età e per la sua condizione, toccava a lui ad essere il primo), vostro [128] padre non mi stese la mano: io trattenni la mia, trattenni ogni slancio: il saluto mi si agghiacciò sulle labbra. Colpito, ma non volendo rispondere all'offesa, dignitoso e grave, mi raccolsi nel riserbo, nella fierezza altera dell'animo mio; sicuro della mia coscienza, sicuro di ogni mio sentimento, sicuro di ogni mio atto, di ogni mia parola, di ogni mio sospiro, così del passato come dell'avvenire; sicuro di poter nuocere forse a me stesso, non mai agli altri.

«Il cavalier Venceslao mi parlò con un tono quasi aspro, senza guardarmi in faccia. Eccovi le sue parole ad una ad una:

«Mia moglie, in questi giorni, è molto sofferente; non riceve altro che i parenti ed i pochissimi amici più intimi». Io feci un atto che esprimeva l'intenzione, l'offerta di una mia visita a lui stesso... Il volto così espressivo di vostro padre, quel volto in cui la bellezza, la bontà e l'intelligenza vanno a gara per suscitare e imporre la simpatia ed il rispetto, si mutò; divenne arcigno; non ebbe più che dell'avversione e dell'odio negli occhi.

«Grazie; ma io pure, in questi giorni, non posso ricevere alcuno. Ho molto da fare, dovendo assentarmi per la mia solita cura... di Montecatini».

«Signorina, oh, signorina Emma! Era un congedo questo; un congedo in piena regola, in tutte le forme; era un'offesa, un insulto fatto e immeritato; era la porta di casa vostra, che mi veniva chiusa in faccia. E da chi? Da chi?... Da vostro padre. Oh, signorina Emma, voi così buona e delicata e riguardosa e fiera, voi potete immaginare lo stato dell'animo mio, lo [129] strazio del mio amor proprio, e del mio orgoglio. Un orgoglio — sì — lo confesso, eccessivo, smisurato, sospettoso; in relazione colla assoluta indipendenza del mio carattere, con tutta l'imprudente, la temeraria sincerità della mia vita.

Mi sono imposto il più severo, il più scrupoloso esame di coscienza, ed innanzi a voi, soave ed impeccabile, che eleggo giudice, ecco l'accusato, forse il colpevole; eccovi il mio cuore, tutta la storia infelice del mio cuore. Ed eccovi insieme la mia risoluzione, la mia ultima volontà. Siate giudice severa, ma imparziale; leggete questa mia lettera voi sola — per voi sola. — Oppure distruggetela, datela alle fiamme: — lo dovete; — è la mia confessione.

«Vedrò il Barbarani; egli mi conosce; egli stesso vi dirà come io sia ben risoluto a sacrificarmi, a perdonare, ad obliare ed a morire, non mai a deviare d'un punto dalla retta via, dalla dolorosa via del dovere. E il Barbarani — il mio buon amico, il nostro buon amico, il gentiluomo dal cuore leale e cavalleresco — vi consegnerà questa mia lettera.

«... Ebbene, sì! È un mese ormai che io sopporto le angoscie del silenzio, che io mi struggo nell'ardore secreto che mi consuma... Io parto; voi non mi vedrete mai più; noi non ci vedremo mai più. Ma non credete mai, ve ne supplico con gli occhi pieni di lacrime e il cuore pieno di adorazione, non credete mai che io vi abbia abbandonata per indifferenza e che io paghi di ingratitudine un cuore che mi si mostrò sì appassionato [130] e sì nobile. No, mia cara amica; no, mia cara figliuola... Io non vi lascierò senza prima accertarvi che voi siete riamata; amata caldamente e teneramente. La riconoscenza per il vostro cuore che così spontaneamente è corso verso di me; un mite sentimento di tenerezza per la vostra gioventù, l'ammirazione grandissima per le doti dell'anima vostra e della vostra mente, faranno sacri quei palpiti, faranno pure ed ardenti quelle ansie, che una forza arcana, che il fascino della vostra bellezza e l'incanto delle vostre grazie, subito al primo vedervi, mi hanno suscitato nel cuore.

«Oh, il primo giorno che vi ho veduta! Beato giorno! Ricordate, Emma. Riunite tutte le forze del cuore e del pensiero nella memoria vostra e ricordate:

«Io parlavo, in alto, sulla folla intenta; mille occhi ansiosi, curiosi, erano fissi su di me. Ma gli occhi miei, incontratisi coi vostri, non videro più che i vostri: e da quel punto io non ho parlato se non per voi; non ho veduto, non ho sentito altro che voi. Scrosciavano gli applausi ed io rimanevo incantato nel vostro sorriso e in quel mondo di ignoti — voi — da quel primo incontro di due sguardi, e di due forze, non foste più ignota al mio cuore: eravate voi, la cara, la soave, l'attesa.

«Vi siete accorta del mio pallore? Io tremavo confuso, intimidito, balbettante. Ricordate Emma, ricordate: sul grande scalone del palazzo delle conferenze, io udivo la vostra voce e vi vedevo arrossire: il buon Barbarani mi presentava a voi e a vostro padre. E dopo?.. Dopo?.. Quella [131] via di San Paolo, percorsa al vostro fianco. E tutta la strada fatta insieme?.. E quando ci lasciammo sulla porta di casa vostra? — Casa vostra? — Ci son passato e ripassato, nella notte, furtivamente, pauroso di essere sorpreso. Qual'era la vostra finestra?.. Qual'era il vostro sogno di quella notte?

«Che delirio, che delirio! Cara, cara, dolce, soave amica... figliuola mia!... Oggi dovete tutto sapere: quanto vi ho amata e vi amo, quanto ho sofferto e soffro per voi. Così, soltanto così, per tutte le mie angoscie, e per tutte le mie lacrime, per la speranza di un'ora, e per il rimorso di tutta la vita, ho il diritto di pregarvi, di supplicarvi, di imporvi io stesso ciò che la vostra famiglia esige da voi per il vostro bene, ciò che per voi e per me diventa il dovere.

«Che delirio, che delirio, quel primo giorno! Rientrato all'albergo, subito, mi son chiuso nella mia camera. Tu eri là, viva, palpitante... bella... i tuoi occhi, la tua voce, i tuoi capelli, il tuo sorriso... il tuo rossore. Eri là; tutta là, tutta mia!

«Come ti ho baciata e come ti ho adorata! E ti ho scritto. Era la poesia, la più bella, più calda, più ispirata, più appassionata. Ti ho scritto una lettera d'amore, una lettera di fuoco: ti ho detta bella, con tutte le mille voci della passione e del desiderio; ti ho detta cara, con tutti i palpiti del cuore!.. E poi ho distrutto quella lettera; poi ho distrutto quegli inni. Troppo presto alla divina follia dell'amore successe la calma della ragione.

«Emma, Emma, figliuola mia! Per quante vie [132] tenebrose, per quanti sentieri seminati di ansie, di ardori, di pentimenti, di affanni, io vo errando da quel tempo, miseramente!

«Il buon Barbarani, la sera stessa, dopo la conferenza, voleva presentarmi a vostra madre: io trovai una scusa e declinai l'offerta.

«Per ben tre volte egli mi ripetè l'invito con un'insistenza che rendeva, oltrechè scortese, anche strano il mio rifiuto. Poi, lo sapete: venne vostro padre stesso a cercarmi, ad invitarmi...

«Oh, quella sera! Quella sera del concerto!

«Vi ricordate quel nostro primo, quel nostro solo colloquio sul terrazzo? — Quante cose sapevamo già prima! E la vostra voce? Oh, l'incanto della vostra voce!

«Io vi dissi:

«Parlerò, ma come parlerebbe un babbo alla sua figliuola». Voi mi guardaste attonita, coi divini occhi vostri, pieni di lacrime.

«No! No! Così no!... Così no! Così no!»

«Eppure io, offeso, avvilito, disprezzato, disconosciuto, quasi scacciato dalla vostra casa, eppure io, anche allora, in quel momento, dinanzi a voi — noi due soli — anche allora, ho avuto la forza, il coraggio di pensare a tutto; al vostro nome e alla vostra condizione sociale; alla vostra ricchezza e alla vostra giovinezza. E vi ho ricordato: ho ricordato alla figliuola mia, che io ero povero e non più giovane; ancora più povero per la spensierata prodigalità del mio cuore, per l'indipendenza ombrosa, sospettosa, caparbia del mio carattere... non più giovane, anche, per le fatiche della mente, dello studio, del lavoro.

[133] «Sì, sì; riacquistate la pace, l'affetto della vostra famiglia, e dimenticatemi. Io non potrò obliarvi; ma nel mio dolore avrò il conforto di essermi, per amor vostro, rassegnato costantemente al mio destino e di aver obbedito ai doveri d'un gentiluomo.

«Che cosa è successo? — Perchè vostro padre è così sdegnato? Ha capito qualche cosa? Ma come? Voi, forse, vi siete tradita... o vi hanno tradita? Qualcuno ha parlato? Chi? — Abbiamo degli amici, come il buon Barbarani e Carlo Borghetti; ma abbiamo pure dei nemici: donna Fanny Simonetti, per esempio... e quell'altro, quel giovane avventurato a cui la vostra famiglia e il destino riserbano la più grande, la suprema felicità.

«No, no, no! Non voglio, non posso pensare a costui; sento che non avrei più tanta forza, tanto coraggio quanto mi è d'uopo per mantenermi onesto e potervi dire: dimenticatemi.

«Avete avuto qualche dispiacere per cagion mia? Vostra madre, forse, è stata troppo severa?.. Ingiusta? — Perdonatemi, perdonatemi, buona, cara figliuola mia! — Ve lo prometto: domani, forse ancora stasera stessa, io partirò, io sparirò, e voi riavrete la serenità, riavrete la pace. La giovinezza è per sè stessa la felicità, e i felici sono immemori; voi, cara fanciulla mia, riuscirete a dimenticare.

«Anch'io: voglio dimenticare anch'io.

«Vi ripeto: che cosa sia accaduto fra voi e vostro padre o che cosa gli abbiano riferito sul conto mio, io non voglio sapere. Anch'io, voglio solo dimenticare. Ricordatevi bene: non mi dovete [134] rispondere; non mi dovete scrivere. Nessun rapporto deve più esistere fra di noi. Una vostra lettera mi farebbe troppo male. Voi non dovete essere più viva per me.

«Quanto oggi succede, persino il contegno di vostro padre a mio riguardo, era già da me preveduto; doveva finire così. Subito, appena vi ho veduta, vi ho amata e vi ho desiderata; e subito, d'intorno a voi, sorsero gli ostacoli, confusamente come fantasmi, a spaventarmi, a sbigottirmi, a farmi indietreggiare.

«Come chiedervi in moglie? Come sperarvi dai vostri parenti?... Mio padre non era che un piccolo mercante: io devo tutto a me stesso. E quando pure, per amor vostro, cambiassi carattere e mi avvilissi — mi avvilissi a segno da sposare, io povero, una fanciulla ricca — non perderei la stima del mondo?... E voi forse non sareste accusata di avermela fatta perdere? E voi, un giorno... — nascondetemi quei vostri occhi, buoni e cari e innamorati, perchè io possa avere il coraggio di dirvelo — e voi, un giorno, vedendovi nella mia casa, la casa modesta e silenziosa dell'uomo di lavoro e di pensiero, non potreste dire a voi stessa, colla voce amara del pentimento, che io avrei dovuto sapere, immaginare, io, non come voi inesperto, ma fatto maturo dagli anni, dalle passioni, dalle vicende, che il regno di quella casa e l'adorazione di quell'uomo erano troppo umili offerte per la signorina Dionisy.

«Cedete, ubbidite, non pensate ad opporvi, non pensate a lottare. Rimarreste vinta. Non sono fatti i vostri begli occhi per le lacrime. Siete [135] troppo bella. Fuggite l'amore, fuggite il dolore: esso farebbe sfiorire le vostre gote e impallidire le vostre labbra. Siete bella; trionfate del dolore e dell'amore e godete la vita.

«Una sola preghiera: distruggete questa mia lettera, cancellate da voi stessa, fin dall'ultimo dei vostri pensieri, ogni mia parola, ogni mio ricordo; lasciatemi morir lontano, solo, maledetto, calunniato, rinnegato; ma voi non cercate mai nemmeno di difendermi. Tacete, tacete, sempre... e per carità, per carità, ve ne supplico ancora, non commettete l'imprudenza di scrivermi. Il conforto pietoso di una vostra lettera, di una vostra parola, per quanto cara, bramata, invocata, sarebbe troppo pericoloso per voi.

«Sono povero; tutti i miei mezzi sono nel mio lavoro; tutte le mie speranze nella cattedra che sto conquistandomi con un volume di ricerche e di studii storici, per il quale ebbi più di qualche giovevole consiglio da vostro cugino Borghetti, un caro giovine che sento di amare quasi come un fratello. Tutta la mia ricchezza, per ora, sta nella filosofia insegnatami dalla sventura... e dal triste esempio di altri miei colleghi, che, per raggiungere la ricchezza e gli onori, diedero di sè insopportabile spettacolo, colla debolezza del carattere, colla rinuncia ad ogni fierezza, ad ogni indipendenza personale.

«Povero — io avrò l'immensa ricchezza di essere il solo padrone di me stesso — sempre indomabile e fiero. Ma tutto ciò potrebbe bastare forse per una giovinetta come voi?... Non sarei crudele e ingeneroso, e folle e imprudente, se [136] dovessi pretendere, da altri, sacrifici... e quasi privazioni? Oh, mia cara amica; non rispondete su questo punto, col vostro cuore, colla vostra poesia.

«Voi vivete in mezzo agli agi, in mezzo allo splendore della vostra casa e del vostro nome: e non solo ci vivete, ma ci siete nata, e non potete apprezzarne l'inestimabile valore perchè... perchè non ne siete mai stata priva.

«Oh, mia cara amica, certe virtù sembrano facili fuori dell'occasione; ma, pur troppo, non si possono esercitare se non dopo molti anni di sudori e di prove.

«La signorina Emma Dionisy, diventata, semplicemente, la signorina Mari, o la moglie del professor Giordano Mari!... No, no, no! È troppo poco, per voi! No, no, no! Voi che siete un angelo, dovete volare in alto... sempre in alto.

«Non posso più: non mi regge più nè la testa, nè il polso. L'anima mia ha fatto l'ultimo sforzo e le lacrime grondano sulle parole che scrivo col sangue del cuore. Addio: ascoltate, per carità, i consigli del vostro misero amico; abbiate pietà delle sue preghiere; obbedite ai vostri genitori che non vorranno mai farvi infelice. Stracciate questa lettera e non rispondetemi; già, stasera stessa o domani, lascio Milano per sempre. Obbedite, sacrificatevi oggi per il vostro bene, per il vostro avvenire. Pensate che, alla età vostra, gli affetti, le simpatie, passano presto: alla mia età soltanto le passioni restano, come le sciagure, perenni nella vita! Io vi amerò sempre: ve lo giuro, Emma, ve lo giuro [137] dal profondo del cuore; vi amerò fino all'estremo sospiro: e vi giuro, sull'onor mio, nessuna donna avrà da me una parola d'amore: vivrò; morirò solo.

«Non mi vedrete mai più; mai, finchè siete così bella, finchè siete ricca e felice. Ma se un giorno, ed io fossi ancora amato, se l'infermità, se gli anni vi rapissero la beltà e gli agi, se foste padrona di voi, se foste povera, disgraziata, se allora vi mancasse nel mondo un marito, un amico, un fratello, io volerò a voi — come oggi, che siete bella e ricca, fuggo da voi — e vi dirò: eccomi, cara; prenditi il mio cuore, l'anima mia... tutto me stesso; e vi sarò marito, padre, amico, fratello e fremerò d'amore ai vostri piedi. Ma, ve lo ripeto: questo giorno non potrebbe venire se non tardi; dopo la sventura. Oggi, un altro avvenire vi aspetta; quello che meritate, quello che è degno di voi, quello che vi promette, colla felicità, tutte le gioie della ricchezza e degli onori.

«Addio, con tutta l'anima, addio.

«Giordano Mari

La signorina Emma Dionisy a Giordano Mari:

«Sono giorni terribili: sempre in urto, in collera con tutti i miei. Ho tanto pianto, ho tanto sofferto. Ma, dopo la tua lettera, sono felice; adesso non ho più paura; sono contenta di soffrire. Sono tua: ricordati: sempre con te, l'anima mia, il mio cuore, tutte le mie promesse, tutti i miei baci. Scriverò Padova: ferma in posta.

«Emma

[138]

XV. A Padova.

In una casupola antichissima, sulla quale pesa la leggenda di un turpe delitto commesso da Ezzelino da Romano. La facciata nera dà sulla Piazza delle Erbe, ma vi si accede da un vicoletto augusto e da una porticina alta, al primo piano, sopra una piccola scaletta. Appena dentro, al buio, per un giro tortuoso di corridoi e seguendo nel tanfo di rinchiuso certe zaffate di un puzzo più forte di cavoli a lesso, si arriva dinanzi ad un piccolo uscio a vetri, con una tendina stinta; di fianco, inchiodato sul muro, vicino al cordone del campanello, un cartellino, con su scritto a mano:

Il signor Tancredi.

«Tancredi» non è un casato, come si crederebbe a prima vista, ma soltanto il nome del signor Mari.

— Che importa aggiungere il Mari, quando basta Tancredi? — Così spiega, alla sua serva, la vecchia Veronica, il signor Tancredi Mari, che risparmia sempre, su tutto.

[139] — Chi mi conosce, sa che il signor Tancredi sono io, e di chi non mi conosce, non me ne importa.

L'appartamento di Tancredi si compone di quattro stanze; la famiglia, di tre individui: il padrone, la serva e Truffaldino, un galletto vecchio e spennato.

Il cuore espansivo della serva ha bisogno di amore; ma il padrone, al galletto, avrebbe preferito un gatto. Il gatto si sarebbe mantenuto da sè, mangiando i topi, e per di più avrebbe permesso al signor Tancredi di papparsela allegramente, per una settimana, con polenta, cavoli e Truffaldino... Ma quando egli espresse questa sua idea, per poco la Veronica non gli cavò gli occhi. Tancredi borbottò contro tutte le donne, capricciose, pazze, romantiche... ma rinunciò al guazzetto di Truffaldino.

La Veronica era l'unico essere al mondo che tenesse un po' in soggezione il signor Tancredi, e al quale il signor Tancredi, a modo suo, fosse anche affezionato. La Veronica era sempre stata in casa; egli la pagava ancora, come l'aveva pagata suo padre, sotto i tedeschi, in ragione di sette svanziche al mese; e nascosta, sotto il pelo del suo cuore, c'era una punta d'invidia, di gelosia per la preferenza che la Veronica aveva sempre dimostrato a suo fratello minore, quello spampanone di Nano. Nano, il diminutivo di Giordano.

Nella cucina che serve anche da salotto e da studio: la Veronica, seduta sotto la finestra e con un paio d'occhiali, colle lenti rotte, inforcato sul naso, rattoppa delle calze blù, grosse un dito. Truffaldino, in equilibrio sopra una gamba sola, si [140] gratta il becco, fra le penne. Quando entra Tancredi, Truffaldino scappa, la Veronica non si muove.

Tancredi (ha la faccia, tale e quale, di suo fratello Giordano: ma bucherellata dal vaiuolo e senza barba. Non ha quasi più denti, ma i pochi rimasti sono bianchissimi come quelli di Giordano. Due, davanti, quando parla si allungano per ballare. È vestito con un'enorme giacca marrone, che sembra un saio. Le brache larghe, sformate, gli cascano da tutte le parti e gli nascondono, quasi, i piedi tozzi, piatti, con certe scarpacce di tela greggia, come le pantofole da bagno) Anche, per oggi, il pranzetto lo abbiamo guadagnato! E abbondante. (Butta un fagotto sul tavolo, e siede, ridendo sgangheratamente, sopra una seggiola di paglia, così bassa, che la giacca gli spazza per terra).

La Veronica (si alza lentamente, pone le calze sullo sgabello e gli occhiali sulle calze; si avvicina alla tavola e comincia a sciogliere i nodi del fagotto).

Tancredi (cogli occhi da ghiottone e i due denti che gli ballano dalla gioia) Una bella fetta di lardo, quattro carciofi, sedano, patate, cavoli. (S'interrompe, con un'altra risata di compiacenza).

Tutta quella «grazia di Dio» non gli costa un soldo. Gambe e talento; ma del vero talento, del suo; di quello che frutta. E gambe buone: fare un sei o sette chilometri, fra l'andare e il tornare, sotto il sole cocente, lungo lo stradone, fuori di porta San Giovanni.

Tancredi negozia in effetti privati. Il tasso varia dal venti al trenta per cento all'anno, sugli affari grossi, e dal cinque al dieci per cento al mese, sulle picciorlerie; cioè, sulle cambialette di poche decine di lire. Pei grossi affari ha i suoi agenti, [141] le sue teste di legno. Le picciorlerie, invece, le tratta da sè. Formano il suo passatempo, dal quale ritrae, oltre al solito frutto del cinque o del dieci per cento al mese, anche la piccola gioia quotidiana di un'economia sulle spese di casa.

Per ciò, questi suoi piccoli clienti li sa scegliere con molto tatto.

Ha le scarpe rotte?... Tancredi presta novanta lire per un mese, sopra una cambialetta di cento, ad un calzolaio, ed esige, per soprammercato, in ricambio «dell'amicizia», una buona rimonta.

E così ha fatto quel giorno coll'ortolano fuori di porta San Giovanni. Passando «a caso» per di là, è entrato nel podere, per riposare un poco; e dopo quattro chiacchiere sul prezzo dei cavoli, sul taglio del fieno e sull'Africa, lasciando balenare la speranza di una rinnovazione, ha fatto, gratis, la sua abbondante provvista per il pranzo.

— Sono sicuro, signor Tancredi? — gli dice l'ortolano, portandogli il fagotto fin sulla strada. — Sono sicuro? Mi fa il rinnovo per un altro mese?

— Sicuro, mai! — gli risponde Tancredi, con una cera misteriosa che lo sbigottisce. — In affari, posso promettere; ma non mai assicurare. Anch'io devo ricorrere alla Banca, e il Comitato di sconto è ancora più terribile, certe volte, del Consiglio dei Dieci! Ma vi prometto, brav'uomo, tutto il mio possibile, anche a costo di fare un sacrificio. — E col sorriso e il saluto del generoso benefattore, preso il fagotto, se ne torna a Padova.

Mentre Veronica, pulita e tagliata la verdura, la mette nel secchio per lavarla, Tancredi, che la sta osservando, sempre seduto sulla seggiola bassa, [142] sente il bisogno di una parola di lode, di approvazione:

— Dunque, Veronica, ho più talento io, che so conservare e far fruttare i pochi soldi di mio padre, o quella tua «bardassa cara» che ha dato fondo a tutto e si è riempito di debiti?

La Veronica tace; butta sotto la tavola, a Truffaldino, le foglie verdi dei cavoli e del sedano e comincia a mondare le patate.

Tancredi (per toccare il cuore alla Veronica) Anche il nostro Truffaldino fa la sua spappolata! Come becca di gusto! — Ohi, adagio, Truffaldino! Non mangiar tutto in un giorno, come Nano! (Tancredi ride per far ridere la Veronica; ma questa rimane seria, imbronciata). Gli puoi dare anche la buccia delle patate; gli fa bene: è un rinfrescante. (Chiamandola) Veronica! (più forte) Veronica!

Veronica (lo guarda, imbronciata, affettando le patate in una scodella).

Tancredi (strizzandole l'occhio) Mancano ancora quattro giorni soltanto; e poi la prima cambiale gli va in protesto.

Veronica (fissandolo cogli occhi torvi, la voce roca) Vergogna! Godersi del male di suo fratello! Vergogna!

Tancredi. Starà allegro colla gloria e le sue contesse!... Ridi, Veronica!

— No; non rido.

— Adesso, per altro, devi dire anche tu che Nano è un poco di buono e, per di più, un asino.

— No; non dico niente.

— Un poco di buono, perchè non paga i proprii debiti.

[143] — Se non paga vuol dire che non può. Del resto, ancora non si sa niente. Non mancano quattro giorni alla scadenza?

Tancredi (arrabbiandosi) Devi dire almeno che è un asino: lo devi dire! Quando non si può pagare, si corre, si cerca, si domanda; non si aspetta di aver l'acqua alla gola; non si lasciano protestare le cambiali; non si disonora la propria firma, il proprio nome!

Veronica. Ancora non si può dir niente sul conto del mio Nano. Ancora non si sa che cosa farà!

Tancredi. Il tuo Nano!... Però, se si lascia protestare le cambiali, questo sarà un disonore anche per il tuo Nano! Sì o no? Sarà un disonore, sì o no? (Non ottenendo risposta, dopo un momento, con un impeto d'ira, agguantando il galletto che continua a beccare sotto la tavola) Rispondi sì o no, o strappo la coda a Truffaldino!

Veronica (avventandosi, infuriata; togliendogli la vittima dalle mani) Vergogna! Disonore è il suo di fare il Caino!... Caino! Anche colle povere bestie!

Tancredi. Caino! Perchè Caino? È venuto forse, il gran talentone, a domandarmi qualche cosa? Forse che io gli dovrei correr dietro a costo di sporcarlo, soltanto a farmi vedere dalle sue madame, per ottener l'alto onore di pagare i suoi debiti? (Facendo colle dita il solito conto che seguita a ripetere da quindici giorni alla Veronica) Dunque quattordici, poi mille e cinquecento, poi altre duemila fanno diciassette e cinquecento... in tutto ventimila lire! Ha mangiato tutto il suo, più ventimila lire degli altri. Che appetito il tuo [144] Nano, la tua bella bardassa cara! Oggi — capisci l'aritmetica? — ha bisogno ancora di ventimila lire, soltanto per non aver un soldo! (Alzandosi, irritato per l'atteggiamento e il mutismo ostile di Veronica) Superbo, spampanone, vanaglorioso e asino, con tutta la sua scienza; (più forte) un bell'asino!

Veronica (si tappa le orecchie colle mani, allontanandosi per non sentire).

Tancredi (la segue gridando) Un asino! Un asino! Un asino! (L'afferra per un braccio e le urla sul viso) Un porco!

Veronica (divincolandosi) Finiamola! Mi lasci andare!

Tancredi (scotendola brutalmente) Devi dire che questa è un'azionaccia! Che non te l'aspettavi da Nano.

Veronica (tramortita: senza fiato e senza voce) No... non me l'aspettavo.

Tancredi. E che io sono un galantuomo e Nano, invece, no.

Veronica. Sì; sarà.

Tancredi. Sarà? No, per Dio, è!

Veronica (sciogliendosi: stirandosi il braccio indolenzito) È, è; sissignore! Ma è uno di quei galantuomini lei... che fanno paura ai ladri.

Si sente camminare in fondo alla scaletta, poi uno scricchiolìo leggero di scarpe che sale e si avvicina rapidamente. Veronica e Tancredi cessano dal bisticciarsi e guardano istintivamente verso l'uscio. Truffaldino posa per terra anche l'altra gamba, e, fissando l'uscio a sua volta, emette dal gozzo un corrocochè strozzato.

Dopo un momento di sospensione, entra Giordano [145] Mari, senza picchiare, spalancando l'uscio di colpo.

Giordano Mari. Addio! Tutti bene? Bravi! (E va ad appendere il cappello al solito piuolo, come se rientrasse per il pranzo, dopo la passeggiatina di una mezz'ora).

Veronica (è rimasta esterrefatta col mestolo in mano) Gesummaria! Il Nano! Proprio il Nano! (A mano a mano, diventa rossa dal piacere e le rughe della sua vecchia faccia sembrano spianarsi: rivolgendosi a Tancredi, sempre col mestolo in mano e in aria di trionfo) Vede, se io avevo ragione di voler aspettare a giudicare? Eccolo, che è venuto in persona.

Tancredi (sogghigna ironicamente, squadrando il fratello dalla testa ai piedi; fa una smorfia sprezzante in atto di stizza; si caccia le mani in tasca; poi, voltandogli le spalle, dimenandosi tutto e zufolando, passa nell'altra stanza).

Veronica (gridandogli dietro incollerita, mentre accende il fuoco sotto la pentola) È suo fratello! Vergogna! E dovrebbe vantarsi di averlo per fratello!

Giordano Mari (intanto fa i complimenti al galletto che gli si avvicina ciangottando sottovoce) Evviva Truffaldino! Corrocochè! Corrocochè! Sempre di buon appetito e di buon umore!

Veronica (pianino) È tornato per le sue cambiali, non è vero! Ha fatto bene. Adesso che è venuto, suo fratello gliele dovrà pagare.

Giordano Mari (fissandola, un po' inquieto) Credi, Veronica?

Veronica (indicando Tancredi nell'altra camera) Quel ludro è pieno di quattrini!

[146] Giordano. Non ho bisogno di quattrini: basta che mi faccia rinnovare le mie cambiali per sei mesi.

Veronica (sicura di quello che promette) Lo farà; si tratta di suo fratello.

Giordano. E di tutto il mio avvenire. (A bassa voce) Prendo moglie.

Veronica (tra lo spavento e la contentezza) Gesummaria! (Guardando esitante verso la camera di Tancredi) Almeno, la sposina, ha qualche cosa?

Giordano (ancora più piano: in un orecchio) Più di mezzo milione!

La Veronica rimane a bocca aperta, mentre il suo Nano entra nell'altra stanza, lasciando l'uscio socchiuso.

La camera da letto di Tancredi:

Un lettone alto e gonfio, colla coperta bianca e l'imbottita rossa: seggiole di paglia; lo sciugamano appeso ad un chiodo, accanto al catino. A capo del letto, l'oleografia di una Madonna addolorata, con una cornicetta nera, sottile, senza vetro.

Giordano. Puoi ascoltarmi cinque minuti, tranquillamente, e senza ingiuriarmi?

Tancredi (continua a fissarlo, a squadrarlo, e ghignare: i due denti davanti gli si allungano, ma per mordere) Parlare con me? Oh, oh, che degnazione! Ma, caso mai, intendiamoci: se tu mediti un colpo nella speranza di potermi imbalsamare colla tua oratoria, hai preso un gambero, anzi un'aragosta addirittura! (Ride contento del motto spiritoso: continua a squadrarlo beffandolo) Che lusso, commendatore! Non ti dico nemmeno di sedere. Sei vestito troppo alla milorda per le mie seggiole. Io, invece, come mi vedi, estate e inverno, sempre [147] lo stesso vestito! (Con invidia per l'eleganza del fratello e colla boria esosa dei proprii quattrini) Il che vuol dire che, non essendo un riccone milionario, come te, io soffro il freddo l'inverno e il caldo l'estate.

Giordano (cominciando a perdere la pazienza) Mi vuoi ascoltare? Ho da parlarti di affari serii, che premono.

Tancredi. A me, intanto, un solo affare mi preme; avvertirti che, se vuoi denari, non ne ho. (Soffiandosi sul palmo della mano) Tabula rasa. In quanto poi al tuo avito patrimonio, rivolgersi per informazioni all'avvocato Todeschini: e se hai fretta, gambe in spalla e corri: Portici del Santo, n. 337.

Giordano. Ho da parlare con te: con te.

Tancredi. Non hai capito che non ho denari? Nostra madre ti ha lasciato di più, nel testamento, perchè eri il più giovane, il più bello, il talentone della casa. E dunque, se non hai più un soldo, paga le cambiali colla bellezza e col genio.

Giordano (per la bile, gli diventa la faccia color di piombo: ma si sa contenere: sedendosi) Quando mi lascierai parlare, ti dirò che non ti domando niente, nemmeno un soldo.

Tancredi. Oh, oh, ti conosco, mascherina! Quando non hai bisogno di niente, non ti lasci vedere; non mi capiti fra i piedi. Allora, colla scusa di lavorare, col pretesto degli studii, scappi lontano, il più lontano possibile; e quando le tue contesse ti portano in trionfo nei loro tiri a due, allora, fingi di non vedermi per la strada, perchè hai vergogna di salutarmi!... Allora, quando ti domandano al caffè Pedrocchi, se sei parente del Mari [148] capitalista, allora, per cavartela, rispondi ai tuoi nobili che ce ne son tanti dei mari e dei monti. (Ridendo, trionfando, la faccia rossa, invasata; gli occhi loschi, la boccaccia enorme, sdentata, che perde la saliva) Fuori! Fuori di casa mia! Adesso ho vergogna io, di te! Sì, io, l'usuraio! Io che pago i miei debiti; io che non mi lascio protestare le cambiali; io che ho una firma onorata e alla quale tutte le Banche fanno di cappello! Va via! Vattene!... Ce ne son tanti di mari e di monti: io non ti conosco.

Giordano (abbassa la voce) Ho un affare da proporti. Un buon affare anche per te.

Tancredi. No, no, no; io sono l'usuraio dei signori. Lavoro sul sicuro. Affari con te? Niente! (Gli gira intorno di nuovo, osservandolo con dispetto e invidia per quella sua eleganza signorile) Certo che... a guardarti, a giudicarti dagli abiti... altro che Rothschild!

Giordano (con la voce bassa e con un tremito che pare d'incertezza, mentre non è che lo sforzo per trattenere la collera) Sì... hai ragione. Non ho avuto testa, mi sono rovinato. Speravo di ottenere dagli studii, dalle lettere, un compenso materiale molto maggiore. Invece (con un sospiro) non ho pensato che non siamo in Francia, ma nel paese più cretino, più ignorante e più pitocco, dove non leggono che i professori e i giornalisti... ai quali i libri bisogna regalarli! Hai ragione; ho commesso molti spropositi, ma ormai sono risoluto. Voglio cambiar vita.

Tancredi. Cambiar vita, alla tua età? (Ghignando) Fai ancora il biondino con abbastanza disinvoltura, ma i quaranta sono sonati anche per [149] te. Troppo tardi per cambiar vita... quantunque si direbbe che tu continui a mettere i denti. Una volta, o mi sbaglio? te ne mancava qualcuno.

Giordano. Sono sul punto di farmi una posizione, di ottenere una cattedra, di pagare tutti i miei debiti.

Tancredi (interrompendolo) Vuoi dar la scalata alla Banca d'Italia?

Giordano. Aiutami, te ne prego colle lacrime agli occhi. Aiutami, è la prima e sarà l'ultima volta. Non ti domando niente; non ti domando un soldo. Sarai contento di me, e anche tu avrai fatto un buon affare, te lo giuro. No? No? Ebbene, pensaci. Se non mi aiuti, al punto in cui sono, al punto di raggiungere la felicità, la fortuna e la quiete, perdio, mi ammazzo e sarà per colpa tua!

Tancredi. Per colpa mia? No, caro. Ammazzati quanto vuoi; io non ho rimorsi.

La voce di Veronica, dalla cucina. È suo fratello, vergogna! Lo stia a sentire. Lo deve sentire!

Tancredi (sottovoce) Animo, spicciati, perchè devo uscire. Non vuoi niente? Non vuoi un soldo? Allora, cos'è che vuoi?

Giordano. Poter concludere un matrimonio colla nipote di un ministro, molto ricca.

Tancredi (sogghigna, mostrandosi incredulo; ma nell'espressione della faccia gli si vede ancora la rabbia, l'invidia) Bravo! Congratulazioni! È... giovane? Non sarà più tanto giovane, voglio sperare; perchè sarebbe un altro sproposito, per tutti e due.

Giordano (risentito: sincero) Giovanissima; e [150] parlane con tutto il rispetto; e se la sposo, non è per interesse, ma perchè l'amo, appassionatamente, perchè ne sono innamorato.

Tancredi. Giovanissima? Male. La tua età è una brutta età per il matrimonio in generale, e per sposare una giovane in particolare. (Ridendo, coi due denti che gli ballano) C'è da diventar vecchi dalla sera alla mattina... e, al solito, avresti fatto un altro debito, senza aver da pagarlo. La nipote di un ministro! Salute, Eccellenza!

Giordano (scattando: afferrandogli un braccio) Finiscila di scherzare! Finiscila di ghignare!

Tancredi (spaventato: diventando livido, gridando) Veronica! Veronica!

Giordano. Non c'è da gridare, non c'è d'aver paura. Il tuo ghigno offende quella ragazza, e non lo voglio, perchè devi rispettarla. Hai capito? E devi ascoltarmi: ascoltami.

— Ebbene, non ti ascolto, perchè non ti credo.

— Non mi credi?

— No.

— Non credi al mio matrimonio?

— No.

— Ma, allora, perchè te lo avrei inventato?

— Per farmi pagare le tue cambiali.

— Ma ti giuro che è vero; verissimo; te lo giuro!

— No. Non ti credo; non credo niente.

Giordano (afferrandolo per una mano; sottovoce) Mi prometti di tacere? È la signorina Emma Dionisy di Milano, la nipote dell'onorevole Albertoni, ministro dell'istruzione pubblica. Scrivi a Milano, a qualche tuo corrispondente d'affari... ti diranno se non è vero. Mi basta che tu, con una [151] tua parola, mi ottenga la rinnovazione di tutte le mie cambiali per sei mesi. Sai che anch'io sono stato vittima di una disgrazia. Se quell'altro non falliva, col mezzo del Finardi ero certo di rinnovare. Pensa che colpo, che disgrazia sarebbe per me... e anche per te! Prima di ammazzarmi, penserei anch'io a vendicarmi. Lo direbbero tutti i giornali, che Giordano Mari si è ammazzato perchè tu, suo fratello, tu ricco, tu il capitalista, l'usuraio, ti sei rifiutato, non lo hai voluto aiutare.

Tancredi (colpito) Sei sempre stato... una disgrazia per tutti!

Giordano. Per nessuno; e per te ancora meno; ma per te, al caso, potrò diventarlo.

Tancredi (lo fissa cogli occhi sbigottiti: ha una gran paura istintiva dei tribunali, dei giornali, di tutto ciò che può mettere in pubblico i suoi affari e la sua vita... specialmente quella di notte. Se un cronista pettegolo avesse fatto cantare le ragazzette di una vecchia sarta in Prà della Valle, che egli, non ostante la sua avarizia, regalava di dolciumi... e di certe piccole statuette in legno rappresentanti sant'Antonio col bambino?) Ne anderebbe di mezzo anche il mio nome; sono sempre un Mari come te.

Giordano. Vedi, dunque? Bisogna star uniti, per l'interesse del nome, della famiglia, per l'interesse comune. Fammi rinnovare le cambiali, per sei mesi, soltanto. Ti regalerò cinque, diecimila lire.

Tancredi. Come vai di carriera! Si vede che hai in animo di amministrarla bene la dote di tua moglie. Le hai dato ad intendere, anche, di essere un milionario?

Giordano. Sa che sono povero.

Tancredi. E dunque?

[152] Giordano. Altra cosa è esser povero... e altra essere un fallito.

Tancredi. Tu sei un letterato; non sei un mercante. Dunque, tu non hai paura del fallimento. Non mi hai scritto, l'ultima volta, che ti avevano offerta la collaborazione in tante Riviste tedesche, inglesi, francesi? Ebbene, vuol dire che diventerai un collaboratore... anche del Monitore dei protesti! No; ti dico di no, la mia parola vale la firma e dovrei pagare per te. Ventimila lire! Sei matto!

Giordano (è agitatissimo: un tremito delle labbra, delle mani mostra la sua nervosità, il suo dispetto, la sua rabbia, il suo timore di non poter riuscire) Ebbene, come ti ho detto, informati a Milano. Non adoperare, s'intende, il primo che capita, ma uno dei tuoi manigoldi; uno molto prudente e che abbia rapporti coll'aristocrazia. Bada bene: sono i Dionisy, che hanno un palazzo in Monte Napoleone.

Tancredi (con un'alzata di spalle) Che ci siano i Dionisy e il palazzo non vuol dire.

Giordano (con qualche esitazione: poi vincendosi) Fa domandare se non è vero che la figlia unica dei Dionisy, la... (soffre nel dover dire quel nome a suo fratello, il cui occhio, il ghigno della boccaccia lurca, hanno dell'osceno nella loro volgarità) la signorina Emma, era quasi fidanzata ad un ricchissimo giovinotto, il Sebastiani; e se non è vero che il matrimonio è andato a monte perchè si è innamorata di un letterato, di Giordano Mari di Padova...

Tancredi (con sprezzo) Peuh! Sarebbe una bella matta da legare; ma non ti credo. Sei sempre [153] stato un bugiardo: questo lo diceva anche nostra madre e arriva ad ammetterlo anche Veronica: tu mi vuoi gabbolare per via delle cambialette. Alle ragazze piace di scherzare, di far le civette anche coi disperati: ma sposano i quattrini. In ogni modo, lontan dagli occhi lontan dal cuore, e quando le diranno che sei uno spiantato, un letterato... collaboratore del Monitore dei protesti per la picciorleria di ventimila lire, ti volterà le spalle e sarà come se non ti avesse mai conosciuto. (Vede di aver punto suo fratello sul vivo e contento, ripete le stesse parole con una sghignazzata).

Giordano. Ah, no! Anche volendolo, non lo potrebbe più fare. È in mano mia.

L'altro continua a sghignazzare. Ma bisogna aver pazienza, ingoiare gli scherni, gli insulti, soffrire e soffocare la collera; bisogna che suo fratello gli faccia rinnovare le cambiali o è perduto: perduta Emma, perduto tutto! Bisogna smuoverlo, bisogna convincerlo. Ha creduto la cosa assai più facile e sopra tutto sicura. Una firma; del denaro, più o meno, da sborsare dopo il matrimonio. E se, invece, quella canaglia si ostinasse? Se non volesse saperne ad ogni costo? Se lasciasse protestare le cambiali?... Egli trema convulso e ansima per la rabbia repressa, per l'orgasmo e per lo spavento dell'ultimo pericolo. Da plumbeo, è diventato livido: gli occhi affossati, cattivi. Non è più lui, Giordano Mari, il bel conferenziere, il gonfio e pettoruto padrone del mondo: è un altro: un vecchio dalla faccia losca, truce, curvo, schiacciato sotto il peso del delitto che sta per commettere.

Giordano Mari (afferrando ad un tratto, stringendo una mano di suo fratello: la voce alterata, [154] tremula) Se ti fo vedere le sue lettere?.. È una prova!... Ti basta? Mi fai rinnovare le cambiali?

Tancredi (ha un lampo negli occhi: il desiderio, la curiosità di quelle lettere per sè stesse: delle parole amorose, delle smorfie, dei baci, perchè ci devono essere anche i baci) Vediamo: fuori le letterine!... Due sole?

Giordano. Questa l'ho ricevuta a Milano, all'albergo (Gli dà, infatti, la prima lettera di Emma).

Tancredi (l'apre, la legge, slargando la boccaccia, coi due denti che sembrano cadere dalle gengive scoperte. Sente un profumo delicato uscir dal foglietto: lo fiuta a lungo, poi sternutisce per fare una buffonata spiritosa) E l'altra?... Vediamo l'altra...

Giordano (gli dà anche l'altra da leggere) Questa l'ho ricevuta adesso alla posta, prima di venir qui.

Non sono che due parole:

«Tua

Emma

Tancredi non ride più. Sente tutto il veleno della gelosia, dell'invidia, della rabbia contro suo fratello:

— Sai, che anche questa qui... è un bel capo? Buttarsi via in tal modo, senza nessuna vergogna, col primo che capita?

Giordano (gli salta alla gola, strozzandogli le parole).

Tancredi (gridando) Veronica! Veronica!

Giordano. Canaglia d'una canaglia! Bada come parli!

[155] Tancredi. Veronica!

Giordano. Non sei degno di baciare, colla tua bocca schifosa, dove questa creatura mette i piedi.

Tancredi. Aiuto! Veronica!

Veronica (sull'uscio) Gesummaria! Cosa succede?

Tancredi. Mi ammazza per le cambiali!

Giordano (spingendolo, buttandolo contro il letto) Va via! Sei una canaglia e un vigliacco!

Tancredi. Te lo giuro. Veronica. È per le cambiali! Ha tentato di ammazzarmi per le cambiali! Perchè gli ho detto di no!

Giordano. Sì; per cattiveria! Sai, Veronica?.. Mi ha detto di no! Per cattiveria! Perchè mi vuol vedere rovinato, morto. Lo sa, gliel'ho detto che mi ammazzo. E lui non ci rimette un soldo: sa anche questo. E gli ho fin promesso diecimila lire di regalo.

Veronica. Vada di là; si calmi. Parlerò io col signor Tancredi! Lo persuaderò io.

Tancredi. Dopo che mi ha messo le mani addosso? Piuttosto morire!

Veronica (spinge Giordano nella cucina: chiude l'uscio, rimane qualche momento sola con Tancredi, poi torna da Giordano: piano) È ancora troppo presto: bisogna lasciare che si calmi. Poi lasci fare a me. So che cosa devo dire. Gridavano tanto che ho sentito tutto. Lei, adesso, vada all'albergo. È alla Stella d'oro? Va bene. Più tardi glielo mando io, il signor Tancredi, o le faccio sapere qualche cosa. Aspetti un momento! (E la Veronica corre a prendere una spazzola, e pulisce dalla polvere il cappello e i vestiti del suo Nano, come faceva quand'era ragazzo, prima di mandarlo a scuola). Mi deve promettere però...

[156] — Che cosa?

— Una volta che l'ha sposata, quella sua signorina di Milano... di farle buona compagnia. Pensi alla sua povera mamma. È morta giovane; e lo so io di che male. È morta di lacrime, la poveretta!


L'arrabbiarsi non toglie l'appetito a Giordano Mari, e le ultime parole della Veronica sono state per lui un buon cordiale. Ha fatto onore, dunque, al pranzo della Stella d'oro: poi, preso il caffè, ha speso un'altra mezz'oretta fumando, centellinando il cognac, immollando nel bicchierino tutti i pezzetti di zucchero che gli sono rimasti. Ma poi, a poco a poco, è tornato inquieto, e non può più star fermo. È ormai notte; si alza e va a girare in piazza, tenendo sempre d'occhio il portone dell'albergo.

Non viene nessuno.

— Come mai? Che anche Veronica non abbia ottenuto nulla?

— Addio, Nano! — È Tancredi che lo ferma, sbucando ad un tratto fra le colonne dei portici.

— Buona sera.

— Sono stato dal Finardi. Ho parlato del matrimonio: riuscirò a persuaderli. Rinnovazione a sei mesi: ci metteremo d'accordo per la regalìa. Li ho persuasi che, protestando adesso, non c'è più niente da sperare; mentre, aspettando, possono fare un buon affare, oltre al ricevere i loro quattrini. Domani fisseremo tutto. Dammi, intanto, le lettere.

— Che lettere?

— Le lettere della ragazza.

— Perchè?

[157] — Le voglio io, come documento. Se le tue sono cabale... io voglio aver tanto in mano da giustificarmi con quella gente. Non ti persuade? Allora a monte e buona sera.

Giordano Mari (fermando Tancredi che fa per allontanarsi) Aspetta! Un momento! Ti darò una copia.

— Bravo! Per farmi dare anche del minchione.

Giordano Mari (impallidisce di nuovo. Guarda, fissa suo fratello) Mi devi giurare che queste lettere non usciranno mai dalle tue mani. A questa sola condizione...

Tancredi (interrompendolo) Le condizioni le metto io, che ti faccio rinnovar le cambiali; e non ne ricevo. C'è poco da scegliere; o dammi le lettere, o niente di fatto!

[158]

XVI. Emma!... Povera Emma!...

Giordano Mari, quella sera stessa, dopo lasciato Tancredi, tanto per fare ancora quattro passi e finire lo zigaro, torna alla posta. Non ci sono lettere. Ne trova, invece, due, la mattina dopo. Sorride contento, guardandole a lungo, accarezzando coll'occhio amoroso, commosso, il bel caratterino lungo, sottile, preciso. Si caccia in una via remota, per non essere disturbato dalla gente, le apre e le legge per ordine di data.

«Mercoledì sera, ore nove.

«Tua, sempre tua.

Emma».

— Cara!... Cara figliuola!...

«Giovedì mattina, ore sette.

«Le scrivo in fretta e in furia e telegraficamente, perchè ho il sospetto che la Rosina — la mia cameriera — abbia ricevuto l'incarico di sorvegliarmi e riferire; e poi così vinco la [159] soggezione, perchè scrivere a lei mi fa soggezione. Chi sa che cosa dirà dei miei sgorbi e dei miei sbagli! Andando alla messa, metterò in buca io stessa tutte e due le lettere, il salutino che le ho mandato ieri sera, e questa. C'è una buca sull'angolo, vicinissimo alla chiesa. Per quanto abbia i miei fondati sospetti sul conto della Rosina, essa non potrà impedirmi, intanto, di mandarle queste due lettere. Tornata a casa... sarà quel che sarà.

«Dio, Dio, anche ieri che giornata! Che brutta giornata! La mamma non ha fatto che piangere; poi ha finito a letto col solito dolor di testa dei grandi dispiaceri, e non ha ricevuto che il dottore, la Fanny e Guido Bardi. Temo che questi due sieno molto nemici suoi. Si regoli.

«Che vita, però, da un giorno all'altro! Che cambiamento! Tutti mi fanno il muso! Persino le persone di servizio sono contro di me. Quanti guai, quante lacrime, quanti rimproveri! Prediche, poi, da tutte le parti.

«Chi mi fa pena è il babbo; e mi fa pena, appunto, perchè non parla! Sarei così contenta se si sfogasse anche lui a strapazzarmi; invece, niente. Soffre, e soffro anch'io, vedendolo così.

«Quando non penso a lei sono molto infelice; ma a lei ci penso sempre e allora tutto passa e torna il sole. Mi promette che un giorno vorrà molto bene al babbo?... Ed anche all'Ernani, al Trovatore, al Ballo in Maschera? È una manìa; è la sua manìa. Ma è tanto buono, tanto onesto e leale!

«Coi Sebastiani, rottura completa. La madre Sebastiani è furente contro di me, e suo figlio [160] ha dichiarato al dottore di «non volermi più, nemmeno se mi vedesse a pregare, a supplicare, a morire». E ha ragione, mille volte ragione.

«È venuta in camera la Rosina e subito se ne è andata. Forse è corsa dalla mamma colla notizia che sto scrivendo. Mi ha guardato con certi occhi!... E i suoi occhi?... Non li vedo più. Cioè, li vedo sempre, ma... dove sono?

«Adesso, dunque, con Sebastiani, finito; non mi vuole. Nessuno più mi vuole. E lei?»

E.

«Si ricordi: mi deve scrivere tutti i giorni. La mattina, la prima cosa, appena alzato; e la sera. Ogni lettera la chiuda in una busta, colla data del giorno. Me le manderà tutte insieme, appena avrò trovato il modo di poterle avere.

«E Padova?... Come sento che mi dovrebbe piacere! Chissà, un giorno, se la vedrò? E i suoi parenti? Immagino quante feste le avranno fatto. Mi scriva tutto. Mi dica, anche, se suo fratello le rassomiglia: se ne ricordi. I padovani, adesso, m'interessano molto più dei milanesi.

«Un giorno, voglio vederla la camera sua; di casa sua; dov'è ora, in questi giorni; dove legge le mie lettere, dove pensa a me, dove scrive molto... a me».


Il dì dopo, niente lettere «ferme in posta» per Giordano Mari; poi una, quasi tutti i giorni.

[161]

«Sabato mattina, ore 5.

«Le finestre della mia camera sono ancora chiuse. Scrivo col lume.

«La Rosina, l'altro giorno, appena a casa, ha detto tutto. Grandi scene anche per le lettere: la mamma ha sempre il dolor di capo. Non la vedo da due giorni. Mi ha mandato il dottore a farmi una fiera intemerata e a dichiararmi che, «se continuo così», posso far conto di non vederla mai più. Ma il buon dottore, colla sua faccia tetra e il suo occhio terribile da Torquemada, non mi fa paura, perchè mi adora.

«Il papà, povero papà, ha cominciato pure per farmi la sua bella sgridata... e ha finito coll'abbracciarmi, piangendo. Ho pianto tanto anch'io! Mi ha pregata, supplicata per il mio solo bene... Per consolarlo, gli ho promesso tutto. Ma poi, a poco a poco, so io come pigliarlo il papà; e come convincerlo e persuaderlo a proposito... del mio solo bene. Oh, se invece di scriver libri, lei scrivesse musica... No, no! allora lei non sarebbe più lei.

«La mamma ha messo alla porta il Barbarani, il quale, per colpa nostra, ha contro di sè tutti i milanesi inferociti, specialmente donna Fanny (che credevo tanto mia amica), Guido Bardi e, s'intende, quell'altro, che non mi vuol più. La marchesa Gonzales è la sola, che osi difendere il Barbarani, ed ha il coraggio di sostenere che, per quanti letterati e poeti e scienziati abbia mai conosciuto, il più simpatico è Giordano Mari. — Non monti in superbia. C'è di mezzo una certa gita in stage combinata dalla Fanny [162] col Bardi e con altre signore e alla quale la marchesa non è stata invitata.

«Sento la Rosina nel corridoio; spengo il lume...

«Decisamente la Rosina ha l'incarico di farmi la guardia. È venuta fin sull'uscio: ha spiato dal buco della chiave: ha picchiato pianino... sicura che dormissi, è tornata via.

«Devo dirle ancora un'altra cosa, poi basta.

«In me c'è una gran contraddizione: capisco che lei non possa credere, ed io, invece, credo. Un giorno, mi spiegherà, non è vero, questa contraddizione?

«Ieri, dunque, le devo dire, che sono stata a confessarmi dal mio solito confessore, don Fulvio Crespi, il parroco di San Fedele: quello stesso che mi ha tenuta a battesimo. Ormai sono in collera con tutti!... Avevo bisogno anch'io d'una parola buona, affettuosa, di pace, di speranza e di perdono. Invece... niente. Anche don Fulvio era già stato istruito, preparato dalla mamma, e mi ha tenuto per due ore un magnifico ragionamento pieno di eloquenza e di belle citazioni; ma inconcludentissimo.

«Il tempo: mi fanno un gran caso, del tempo. Non ho avuto nemmeno il tempo di conoscerla abbastanza per...» (devo dire come dicono tutti, e anche don Fulvio) «per innamorarmi seriamente». Non possono capire com'è successo, sono tutti curiosi di saperlo... e lo domandano a me! Don Fulvio ha un gran talento; è fortissimo, dicono, in teologia, in numismatica, nella storia delle famiglie patrizie milanesi; insegna Dante e Petrarca; predica che è un incanto; [163] ma di certi argomenti, si capisce, ne parla a orecchio, e perciò non persuade.

«Gli avrei voluto rispondere, a proposito del tempo: — E allora, come mai, con Nino Sebastiani ho avuto tutto il tempo, tanto tempo... ed ho ottenuto questo bel risultato... che non mi vuol più?

«Quel primo giorno, quella domenica, se ne ricorda?... Io ero confusa nella folla: lei su, in alto, solo, più grande di tutti.

«Lei mi ha guardata: è bastato.

«Non è il tempo che passa quello che conta; ma il minuto che arriva e cambia tutte le cose e ferma tutta la vita.

«È vero: non mi sento bene. Tutti mi trovano con una bruttissima cera. Questo «bruttissima» comincia ad inquietarmi. Che cosa succederà?

«Mi preoccupa e m'inquieta, non per i milanesi ma per i padovani. E suo fratello? Sapesse quanto ci penso e come ho paura... di non piacergli subito. Vorrei tanto ch'ella avesse anche una sorella. Con sua sorella, sì; con sua sorella — non è vero? — potrebbe parlare di me anche senza nominarmi... per ora.

«Quanto vorrei bene ad una sua sorella!

E.

«Non so ancora se, e quando, e come potrò mandarle questa lettera. Vuol dire che me la metterò in tasca e aspetterò «il miracolo». Io non ho la sua mente, per la quale non c'è nulla di segreto, nemmeno nel cielo. Io sono una fanciulla semplice, e molto ignorante in tre lingue diverse: inglese, francese, italiana. Credo ancora [164] nei miracoli... anche a quelli straordinarii che non potrei ottenere a San Fedele, da don Fulvio Crespi».

«Domenica sera, ore otto.

«Come è buono mio cugino Carlo! Mi ha detto che gli facevo pena, vedendomi così giù: gli ho confidato della Rosina e delle lettere, e si è offerto lui stesso. Ho fatto male? Mi dica se ho fatto male! Ma intanto potrà mandarmi tutte le mie lettere. Subito, appena riceve questa mia, le porti subito alla posta: Architetto Carlo Borghetti, via Monforte.

«Subito! Subito! Subito! Quanta gioia mi dà il pensiero di ricevere tutte le mie lettere. Non sogno altro. E perciò dimentico tutto: quanto gridare, anche ieri sera, anche oggi, e quanto piangere! Io farò morir tutti, il papà, la mamma, il dottore... lo zio Albertoni. Sicuro, farò morire, anche lo zio, fino a Roma! Dio mio; non ne posso più, più, più! Ma oggi penso che avrò le mie lettere e sono beata! Lei non sa ancora fino a che punto Carlo sia buono. Ma un giorno lo saprà. Carlo, che tesoro! Gli voglio bene. Lo adoro. Se lei imposta subito le mie lettere, forse le posso ricevere ancora domani sera.

«Non mi sento molto bene.

«Domani! domani! domani!

«Voglio andare a dormir subito, per far venir domani più presto.»

«Martedì, ore undici.

«Non posso scrivere «un letterone» perchè sono sempre più sorvegliata, giorno e notte. E [165] poi anche per Carlo. Io sono una sensitiva. Quante cose sento — non è vero? — che non arrivo a spiegarmi. Per Carlo, non è lo stesso? Egli non sa se io le scrivo molto o poco. Ma adesso che le mie lettere le porta lui alla posta, non mi riesce più di scrivere... come prima.

«Donna Fanny, la suocera di donna Fanny e Guido Bardi, sono sempre i più tremendi contro di lei. Non capisco il perchè. Fossero i Sebastiani, ci sarebbe almeno una ragione! Inventano, o fingono di farsi scrivere da Padova delle cattiverie... persino volgari. Non glielo volevo dire; ma, tanto, è meglio saper tutto per regolarsi. Il Bardi vorrebbe divorarla vivo, anche come letterato. Poveretto! Se la rana avesse i denti!

«Sto sempre poco bene.

«Avrò le mie lettere stasera? Che gioia!»

«Giovedì.

«Credevo di essere così contenta. Son rimasta mortificata. Mi ha scritto poco e cattivo. È stato cattivo con me e con Carlo. Sognavo tanto tutte le mie lettere care, e invece non ho avuto altro che una lettera sola... e spiritosa.

«Vuole più particolareggiate le notizie della mia salute? — Eccole: sto benissimo.

«Emma Dionisy.»

«Sabato mattina.

«Rivivo! Rivivo! Che buona lettera! Grazie, grazie, grazie! Non posso scriverle di più. Il perchè glielo dirò domani. Non è per Carlo, [166] però. No, no. Glielo giuro. Lei ha ragione. Sarebbe una vera sciocchezza!»

«Lunedì.

«Sono a letto da due giorni, e il babbo è sempre in camera mia. Non mi lascia un minuto. Ma è buono, buono. Non si spaventi. Non è niente.»

«Martedì.

«Sempre... »

E il giorno dopo, il mercoledì, Giordano Mari, già molto inquieto, riceve pure un'altra lettera da Milano, ma non è di Emma. L'apre in fretta e corre coll'occhio alla firma: è di Carlo Borghetti:

«Vieni subito a Milano; ma cerca il modo di farti vedere il meno possibile. Potresti smontare e rimanere all'Hôtel du Nord, che è vicinissimo alla stazione. Telegrafami con che corsa potrai arrivare. Ti porterò subito io stesso le notizie che a tutt'oggi, ti assicuro, non sono inquietanti.

«Carlo Borghetti»

[167]

XVII. Il buon dottore.

La camera di Emma: una camerettina tutta tappezzata di mezzari, allegra, ridente come un giardino in fiore. Sul piccolo tavolino, accanto al letto, molti vasettini, boccettine, scatolettine, coll'etichetta della farmacia Zambelletti.

— È il buffet che mi ha apparecchiato il buon dottore — dice Emma, sforzandosi, per far sorridere il babbo.

Dopo un momento entra il dottore, e il cavalier Venceslao se ne va quasi subito, in punta di piedi.

Da un paio di giorni, precisamente da giovedì, Emma ha fatto qualche piccolo miglioramento, e però è stato convenuto in famiglia, che il dottore, quella mattina, avrebbe ricominciato, da solo, a tastare il terreno.

Il dottore (le applica il termometro: la copre bene, fin sotto il mento: le siede accanto) Adesso... per dieci minuti... stai quietina, quietina. (Dopo un momento: mettendole il palmo della mano sulla [168] fronte) Sempre un senso di gravezza — vero? — di peso?

Emma (con un filo di voce, rimanendo immobile) Sì; molto.

Il dottore. Però... un po' meno di ieri?

Emma (scuote leggermente la testina sul guanciale).

Il dottore. No? Allora diremo... come ieri. (Pausa: l'osserva, la studia, strizzando l'occhio) Da brava; fammi veder la linguina! (La guarda a lungo, arricciando il naso, facendo una bruttissima cera: pausa, sospiro) Ma già, finchè perdura la causa morale, i dispiaceri, le inquietudini, i patemi d'animo... persiste, per conseguenza, anche tutto il resto.

Emma (fissandolo cogli occhioni più grandi e più neri nel faccino smunto) Oh, dottore! Soffro, sai! soffro tanto!

Il dottore (gli occhi gli si riempiono ad un tratto di lacrime: si china col volto più vicino, più d'appresso ad Emma, per consolarla, per rianimarla: in quel punto tutto il cuore, tutta l'anima, tutta l'affettuosa dolcezza del buon dottore si è trasfusa ne' suoi occhi) Cerca di metterti in calma; di non pensare... o di pensare soltanto alle belle cose.

Emma. Oh, dottore, come si può non pensare? E, ormai, dove sono, per me, le belle cose?

Il dottore (con effusione, premendo sopra le coperte dove si vede il rialzo che copre le mani intrecciate di Emma) Ma tutto il mondo, cara la mia tosa! Tutto il mondo, per te, è pieno di belle cose! Non le vuoi guardare!

Emma (colla vocina sempre debole, ma con un leggero sorriso d'ironia) Per me, una bella cosa doveva essere anche Nino Sebastiani.

[169] Il dottore (si allontana: diventa truce) Forse, anche quel Sebastiani poteva essere un errore. La gente — sicuro — non si può mai dire di conoscerla abbastanza. Sai? Dopo la rottura successa, la signora Sebastiani non mi ha più fatto chiamare. (Pausa) Adesso ha quell'intrigante del Marzetti.

Emma. Oh, dottore! Anche questo per colpa mia!

Il dottore. Quietina! Quietina! (Le riaccomoda le coperte attorno al collo) In sostanza, approssimativamente, io posso dire anzi di averci guadagnato. Per quel tabernacolo della Sebastiani bisognava essere sempre in moto! Non si era mai sicuri nè di giorno, nè di notte! (Ridendo, per mettere Emma di buon umore) Io credo — veh! — che tutto il male del suo cuore proveniva dal fatto solo di non aver mai trovato modo di metterlo a posto! (Dopo un'altra risatina, si ricorda del termometro: guarda in fretta l'orologio).

Emma. È ora? Posso levarlo?

Il dottore. No, sono appena cinque minuti. (Pausa: guardandola, esitando: poi con precauzione, con un tono di voce lenta, uguale, penetrante) Sai — vero? — che cosa hanno scritto da Padova? Non ha propriamente un soldo. Suo fratello è ricco, ma pare... in malo modo. Il padre era un bottegaio. — Sicuro. — Io direi, adesso, prima di tutto, di guarire. Poi, a suo tempo, si potrà fare una scelta migliore, di generale soddisfazione, per la mamma, per il papà, per lo zio. Sua Eccellenza... a Roma. E, intanto, quel certo Giordano, direi proprio — vero? — di escluderlo assolutamente.

Emma (agitandosi) Oh, dottore, dottore, dottore! Non tornare da capo! Te ne prego! Te ne supplico!

[170] Il dottore (cercando di tenerla sotto le coperte) Quietina, dunque, quietina! I fatti, già, sono fatti, e non si possono cambiare.

Emma. Che fatti? Ma che fatti? Sai perchè non è ricco? Perchè non ha una posizione lucrosa? Perchè ha voluto essere sempre indipendente! Perchè il suo animo nobile e fiero non ha mai voluto abbassarsi a domandare, a strisciare come tanti altri che non hanno nè dignità, nè carattere. Ma il suo nome è conosciuto in tutto il mondo. Più del nostro, certo.

Il dottore. Ma... e questo Taine? E questi rubalizi letterarii?

Emma. Ci credi tu a Guido Bardi? Invidia, rabbia, cattiveria.

Il dottore. Resterebbe l'altro inconveniente... del fratello.

Emma. Suo fratello... Intanto, chissà se è vero; perchè anche queste sono le informazioni di donna Fanny.

Il dottore. Non soltanto di donna Fanny.

Emma. Sia pure: che cosa c'entra lui con suo fratello? Gli fanno anche un carico perchè suo padre era un piccolo mercante; ma il nonno del mio, siamo giusti, non era un farmacista?

Il dottore (scandalizzato) Che cosa vai adesso a pescare... indietro... fino ai tempi del Prina! (Dopo aver guardato un'altra volta l'orologio) Porta pazienza: ancora due minuti. (Pausa) Volevo dire, vedi, anche per l'età. Tu non hai ancora vent'anni.

Emma. Sì, fra due settimane.

Il dottore. Tu sei un fiore; cioè lo eri; ma tornerai come prima, soltanto con un po' di ragionamento. Invece con quel Giordano... di Padova, [171] non ci sarebbe nemmeno proporzione, e allora, appunto, succedono gli squilibrii. Pensa: quando tu avrai, per esempio, quarant'anni, il che, nel più dei casi, vuol dire per la donna il periodo della maggiore... attività, lui ne avrà sessanta, forse sessantacinque... o settanta.

Emma (sorridendo) Fermati, dottore! Fermati, per carità!

Il dottore (ostinandosi: cominciando a gridare) Sì, anche settanta! Anche settanta! E, forse, ancora di più! È ben conservato, ecco; questo sì. Ma ricordati, cara la mia tosa, che l'uomo è un'altra cosa. Non è come la donna. Di un uomo ben conservato non c'è mai da poter scommettere, nè giurare. Io non l'ho guardato altro che molto superficialmente; ma mi pare un uomo più di apparenza che altro. (Alzandosi per prendere il termometro) Vediamo.

Emma (gli dà il termometro).

Il dottore (la ricopre da tutte le parti, poi si avvicina alla finestra per guardare i gradi della febbre: dopo, scuote fortemente il termometro per farlo discendere. Il dottore è diventato più serio: si avvicina ad Emma, fissandola gravemente).

Emma. La febbre è cresciuta, non è vero?

Il dottore (sempre più serio: continua a guardarla, senza rispondere).

Emma (leva un braccio di sotto le coperte, e glielo fa vedere) Guarda, ormai, come sono ridotta.

Il dottore. No! No! No! Sotto! Sotto!

Emma. Tu mi vuoi bene?

Il dottore. Ma ti pare di domandarmelo?

Emma. So, so che mi vuoi bene: tu e anche il papà.

[172] Il dottore (subito) E la mamma: ti vuol molto bene anche la mamma. Anzi, direi, forse a suo modo, ma più di tutti.

Emma. Allora, se mi vuoi bene, ti prego di una cosa.

Il dottore. Che cosa?

Emma. Te ne prego tanto, tanto. Vieni più vicino.

Il dottore (si abbassa quasi a sfiorarle la fronte) Sicchè?

Emma. Lasciami morire.

Il dottore. Ma, ma, ma! Se ne deve sentire? (E al buon dottore, mentre la bacia sui capelli, cadono dagli occhi due grosse lacrime).


Il dottore, un momento dopo, entra dalla signora Letizia, che è più che mai sofferente e geme sulla lunga poltrona. C'è anche il cavalier Venceslao che non si vede, per il buio della stanza, ma si sente, dal gran soffiare, che è molto intasato.

Venceslao (inquietissimo: andando incontro al dottore) E così? Ha ancora la febbre?

Il dottore (pausa: avvicinandosi passo passo e fissando gravemente la signora Letizia) Trentanove.

Venceslao (disperato: alzando le mani al cielo) Ah, Dio mio!

La signora Letizia. Quasi come ieri. Non è vero, dottore?

Il dottore non risponde; si siede al solito posto vicino alla poltrona di donna Letizia; sospira.

Venceslao (al dottore: con uno schianto) Ma dunque? Ma di' la verità? Ma ci sarebbe pericolo?

Il dottore (mette una gamba sull'altra: si gratta la barba).

[173] La signora Letizia (premendosi le tempie per via dell'emicrania) Che pericolo vuoi che ci sia? Non esageriamo le cose!

Il dottore. Ecco, io direi: (pausa) le informazioni avute da Padova provengono appunto dalla via di donna Fanny, la quale ci consta che sarebbe interessata, come parte in causa, per aver avuto del debole, e, secondo la marchesa Gonzales, anche molto più che del solo debole, per quel certo Giordano. Dunque, direi, bisognerebbe sceverare quello che c'è di vero dalle possibili esagerazioni.

La signora Letizia (alzandosi a sedere sulla poltrona) Ma come, dottore? Anche voi mi diventate matto?

Il dottore (sospira: tace: torna a grattarsi la barba).

La signora Letizia. Pensate anche a tutto ciò che ha scritto mio fratello.

Il dottore. Questo non conta.

La signora Letizia. Come non conta?

Il dottore. Non conta niente, perchè anche Sua Eccellenza ha scritto, opponendosi, in seguito alle nostre lettere e alle nostre informazioni.

La signora Letizia (scattando) Non è vero!

Il dottore (senza badare all'interruzione della signora Letizia e seguendo lentamente il suo primo discorso) Dunque, sicuro, io direi, in certo qual modo, che bisognerebbe informare anche Sua Eccellenza di ciò che ne consegue. Come ministro — vero? — nella sua posizione, potrebbe anzi giovare al miglioramento, al collocamento di... del... di quel... appunto di... Giordano.

Venceslao (sempre più disperato: colle lacrime) Dunque? C'è pericolo?

[174] La signora Letizia (irritata contro il dottore) Ma rispondetegli di no! Che non c'è pericolo! E la sia finita!

Il dottore (dopo un momento) Intanto, questo stato di continue agitazioni, di continue contrarietà, di tensione, ha prodotto i suoi effetti anche sopra di lei.

La signora Letizia (inquieta) Sopra di me?

Il dottore. In dieci giorni è andata avanti di dieci anni. Non ha più il suo bel pallore; ma la sua tinta è addirittura cadaverica.

La signora Letizia (sempre più inquieta) E allora?

Il dottore. Allora bisogna mettersi in quiete, e, per mettersi in quiete, bisogna aver l'animo in pace e quindi rassegnarsi, occorrendo, anche a ciò che non accomoda interamente, pur di schivare ciò che può far male. Ad una certa età, se si trova la strada buona, piana, si va avanti per un pezzo; ma basta, come si dice, un urto, un'inciampata qualunque, per andare a precipizio.

[175]

XVIII. Il trionfo del nobile Barbarani.

Al Club, dopo che la signorina Emma Dionisy è guarita perfettamente e s'è fatta più bella di prima.

Il nobile Barbarani (vispo e saltellante in mezzo al solito circolo dei fashionables) Dunque, adesso, son proprio content! I fatti, benissim, cominciano a rendermi giustizia! Questo cacciatore di doti, che io ho avuto l'imprudenza, la leggerezza, la vanità di voler portare in giro e ficcar dappertutto, precisament, ha rifiutato la mano della signorina Dionisy.

Uno dei fashionables (dondolandosi sulla poltrona, anche per tutti gli altri che approvano coi cenni del capo) Se fosse vero, per parte di questo Mari, sarebbe assolutamente imperdonabile. Ha messo la famiglia Dionisy tutta sossopra; ha fatto ammalare la ragazza; le ha fatto andar a monte l'altro matrimonio col Sebastiani. Se adesso si ritira — parbleu! — sarebbe una canagliata.

Barbarani. Ritirarsi?... Un moment.

— Hai detto tu stesso che ha rifiutato la mano della Dionisy.

[176] — Rifiutata?... Un moment! Giordano Mari — posso proprio vantarmi — si è condotto perfettissimamente; non poteva essere più delicato. Ha fatto tutte le dichiarazioni più ampie e più lusinghiere tanto per la ragazza, quanto per la famiglia. Ma finchè non ha raggiunto quella posizione sicura, per quanto modesta, che gli possa assicurare un'assoluta indipendenza, per lo stesso rispetto che deve alla signorina ed a sè stesso, intende di procra... di protra... di procrastinare, magari infinitamente, il matrimonio, lasciando, ben inteso, la signorina Dionisy interamente libera e tenendosi lui, viceversa, impegnatissim! (la rabbia gli fa mancare la voce: colpetto di tosse) E questo, da parte sua, non mi sembrerebbe una canagliata; ma piuttosto — benissim — l'indizio di un animo delicato e aristocratichi... aristocratici... aristocratichissimo! Si presenta appunto al concorso, per la cattedra di storia, non so più se a Bologna o a Firenze.

— E se non vince il concorso?

— Impossibile. Intanto, l'Albertoni è ministro dell'istruzione pubblica.

— Ma era ostile, contrario a questo matrimonio.

— Appunto; ma adesso ha l'obbligo, per imparzialità, di non mettere, come si dice, i bastoni fra le ruote.

— Ma e i titoli?

— Ne ha addirittura una raccolta. Potrebbe essere professore di Università da dieci anni, se l'avesse voluto!... E poi basterebbe l'Ambrogio.

— ...?

[177]Ambrogio vescovo nella civiltà de' suoi tempi. Non hai letto il saggio nella Nuova Rassegna? No? Bisogna leggerlo: è importantissim! È la prova di una coltura, di un'erudizione veramente straordinaria. Prestissimo, tutta l'opera, illustrata, sarà pubblicata appunto dall'Amodei, il quale, per scegliere le opere e gli autori, me lo diceva l'altra sera anche Guido Bardi, ha un naso straordinarissim.

— Certo, per la signorina Dionisy, occorreva un uomo di talento. Ma non è più... tanto giovane.

— Proporzionatissimo alla Dionisy, che ha passati i venti e forse anche i ventidue. È un pezzo che cercavano di maritarla. Trovano un nome, che, se non è aristocratico, è celebre; un uomo di talento e di cuore. Subito, appena ha saputo che la Dionisy era indisposta, si è precipitato, incognito, da Padova a Milano, rimanendo chiuso, nascosto all'albergo del Nord per quasi un mese, non vedendo altri che il Borghetti, al quale leggeva il suo Ambrogio e che ha del Mari una stima straordinaria. Sì, sì; per parte mia, son proprio content! Anche donna Fanny, la quale l'aveva a morte con Giordano Mari, da un momento all'altro non so come, improvvisamente, certo perchè la verità vien sempre a galla e finisce per trionfare, si è schierata, invece, con Guido Bardi, tutta dalla sua parte. Anche sua suocera!... Per me, e posso proprio vantarmene, dopo tanti dispiaceri, è stato il mio più bel trionfo!

— Ormai, di nemici, questo tuo Giordano Mari, non avrà più che il Sebastiani.

— Perchè?

[178] — Non voleva sposarla? Non è innamorato della Dionisy?

Il Barbarani. Mai più! (colpetto di tosse) Adesso Nino Sebastiani è innamoratissim della Tina di Lorenzo.

Fine della prima parte.

[179]

PARTE SECONDA.

[181]

I. Il principio della fine della luna di miele.

Il commendatore professor Giordano Mari (anche professore, perchè già prima del matrimonio aveva ottenuta la libera docenza all'Università di Bologna per un corso sulle Origini dei Comuni italiani), il commendatore professor Giordano Mari ha immaginato e proposto uno straordinario viaggio di nozze a Parigi, a Bruxelles, in Norvegia, illustrato colle visite al Lemaître; al Brunetière della Revue des Deux Mondes; allo storico Boissier; ai filosofi critici Faguet e De Roberty: poi al Brandes, allo Strindberg, all'Ibsen, e, naturalmente, al Björnson. Ma invece Emma, la timida e innamorata Emma, spaventata dall'idea degli alberghi, della gente, del rumore, ha ottenuto di passare il primo mese all'Argentera, la villa nel Varesotto, ch'essa ha ereditato da uno zio materno e che gode tutte le sue predilezioni, per esser quasi nascosta in una solitaria e fresca vallettina, in mezzo ad un magnifico bosco di quercie e di castagni.

[182] Emma, subito, non ha osato dire apertamente che quel primo mese, almeno, avrebbe voluto passarlo nella tranquillità remota, nel gran silenzio della verzura folta, appena interrotto dal canto dell'usignolo e dal mormorìo delle acque correnti. Essa ha bensì ascoltato estatica la descrizione del viaggio interessantissimo e l'elenco di tutte le meraviglie e di tutti gli illustri da visitare, ma poi, sul punto di dover incominciare i preparativi, tremando un pochino, ed arrossendo molto, ha fatto indovinare al suo signore e padrone quel suo immenso desiderio; e il suo signore e padrone esita, riflette, si commuove e concede la grazia.

Nel cuore di Emma è sempre più viva e più profonda l'adorazione per il suo idolo. È una adorazione tutta poesia, tutto abbandono, timorosa quasi, tanto la bella fanciulla si sente piccina davanti a quel Dio gigante!

E Giordano Mari, dopo che Emma è stata gravemente ammalata per le contrarietà, le angoscie, il timore di perderlo, dopo che è guarita solo per miracolo d'amore, perchè ormai tutte le opposizioni sono state vinte, ogni ostacolo rimosso, Giordano Mari comincia ad assumere verso quella bimba innamorata un certo tono olimpico di salvatore, di protettore... e di despota. Egli si lascia adorare nella pomposa maestà del suo io magnifico, tutto lustro e profumato, tutto nuovo e fiammante, sempre nel lungo abito nero dalle falde svolazzanti. Si lascia adorare come l'Altissimo, dettando leggi e concedendo grazie.

I Dionisy, prima furenti contro di lui, poi rassegnati ad accettarlo, avevano finito col dover [183] pregare, inviando messaggi e suppliche. Era lui, Giordano Mari, che adesso diceva di no. Per la propria dignità, per gli scrupoli della propria coscienza, pure protestandosi innamorato della ragazza, voleva partire, andare in America, non farsi vedere mai più. Insomma, non poteva, non voleva assolutamente accettare, concludere un matrimonio, che per la distanza delle due famiglie, per la ricchezza della moglie, lo avviliva nella sua fierezza d'uomo, nella sua delicatezza forse eccessiva, forse anche troppo sospettosa.

Il buon dottore scrive per incarico della famiglia; poi fa una corsa a Genova dove il Mari si è recato, e i più temono per imbarcarsi:

— Insomma — vero? — data, diremo, l'urgenza delle circostanze sempre più critiche, bisogna mettere da parte e in certo qual modo sacrificare, o modificare, un eccessivo amor proprio, quando ne consegue la felicità, e più specialmente la salute, già ormai compromessa, di una persona giovane, buona e che merita tutti riguardi, sicuro, tutti i sacrifici, oltre alle maggiori attenzioni (pausa: sospiro), e verso la quale si dice e si protesta di nutrire, appunto, certi sentimenti di... di devozione ed anche — vero? — di affezione.

Giordano Mari sospira profondamente, commuove il buon dottore asciugandosi una furtiva lacrima, ripete di essere innamorato, perdutamente innamorato della signorina Emma... e impone molte condizioni che, ad una ad una, vengono poi tutte accettate. Sono, invero, condizioni, come quella, per esempio, di ottenere una cattedra per potersi mantener indipendente in faccia alla moglie troppo ricca e di una gran famiglia, che potrebbero essere [184] interpretate in due diversi modi: come esagerazione del punto d'onore, od anche, in fondo, come egoismo bello e buono; come furberia per mettersi a posto; come orgoglio, ambizione, interesse e vanità personale. Ma, adesso, per Giordano Mari spira l'aura favorevole. Se prima era di moda ingiuriarlo, calunniarlo, vilipenderlo, adesso, invece, è di moda l'esaltarlo. Qualunque cosa faccia o dica Giordano Mari, è tacitamente convenuto che dev'essere una gran bella cosa. Tutti i suoi sentimenti sono nobili, i pensieri delicati, le azioni da perfetto gentiluomo. La D'Arborio gli ha mandato all'albergo un suo manoscritto da leggere; al Club lo consultano sulla biblioteca e gli domandano, in confidenza, il valore, vero, delle pièces dell'Ibsen; la marchesa Gonzales lo invita a pranzo ogni giovedì, e donna Fanny, che è ritornata amicissima di Emma ed ha imposto a Guido Bardi «che non si parli più del Taine!», lo invita, invece, tutte le domeniche, con sua suocera e coll'onorevole.

Nella famiglia Dionisy, ormai, è tutto un entusiasmo per Giordano Mari; entusiasmo accresciuto per l'odio ancora dissimulato, ma accanito, esistente fra i Dionisy e i Sebastiani. Il cavalier Venceslao non può più suonare un pezzo della Traviata senza farlo sentire al suo futuro genero; la signora Letizia gli confida, tra i profumi, le caramelle e i misteriosi allettamenti, nel suo angolo buio, le illusioni e le delusioni di una salute troppo gracile e di un cuore troppo sensibile; e il buon dottore, che, per amore di Emma, lo veglierebbe anche di notte, pur di risparmiargli un po' d'infreddatura, sta studiando e dosando apposta, [185] per il suo stomaco e la sua voce, un nuovo vino chinato, da bersi prima delle conferenze.

Un altro, invece, per amore di Emma, Carlo Borghetti, è andato a fare un giro in Germania. Ha provato, ma non ha potuto resistere a rimanere in quei giorni a Milano. È partito; è fuggito! Ritornerà... chi sa quando... E intanto, anche Carlo Borghetti, che, una volta lontano da Emma, sente il bisogno di avvicinarsele, continua a scrivere a Giordano Mari, mandandogli appunti, note, aggiunte, correzioni per l'Ambrogio vescovo.

Emma... Emma sola non s'è mutata. Essa lo adorava prima, il suo idolo, quand'era così mal giudicato; lo adora adesso che tutti gli rendono giustizia, e si abbandona nelle sue braccia, tutta cosa sua, come in quel primo incontro dei loro sguardi, nell'attrazione arcana della simpatia, era corsa a lui, già tutta sua, la sua anima.

E quel primo mese all'Argentera è per Emma un dolcissimo sogno, mentre per Giordano le più audaci speranze, le brame più ardenti sono diventate realtà.

In fatti, tutto ciò che egli aveva desiderato, voluto, ormai gli appartiene: la bellezza florida della vergine innamorata, appassionata, che, nel candore ingenuo e nei trasporti del primo amore, fa quasi un umile omaggio di sè stessa al suo signore; e insieme anche la bellezza fertile della villa magnifica, il giardino inglese, il bosco immenso che la circonda. Egli, finalmente, ha ottenuto, colle gioie dell'amore, anche gli agi della vita, le lunghe passeggiate con Emma pei sentierelli fioriti e solitari, complici e confidenti, i folti rami dei faggi e le spesse fronde dei cerri e dei castagni, terminano sempre ad un dato punto [186] prestabilito, dove trovano in attesa la comoda vittoria, coi due giovani sauri, che non patiscono l'ombra.

E le sere?... Oh, le sere deliziose! Lui solo che parla, esaltandosi, vantandosi, improvvisando, mentre Emma lo ascolta fissandolo estatica, incantata, in adorazione... e al tocco, al tocco preciso delle dieci, Lorenzo, il cameriere, sempre in tutto punto nel frak irreprensibile, che entra passo passo, senza far rumore, portando il servizio splendido del the, tutto d'argento. E l'assoluta rinunzia di Emma ad ogni atto di padronanza, ad ogni diritto, su tutta la sua casa; la sua piena sommissione così nell'intimità della vita, come nell'amministrazione dei beni; e, per ciò, la deferenza del ragioniere, la soggezione del fattore, le scappellate dei contadini e il suono, così spiacevole, di quelle due parole: «signor padrone» che lo accompagnano dovunque e che, mutate nell'espressione di un sentimento più profondo, più squisito, più poetico, egli legge persino negli occhi amorosi di Emma!... Tutto ciò è per Giordano Mari la felicità; queste, sono queste le nuove gioie e i veri e sicuri godimenti dell'amore matrimoniale; e però non con Emma soltanto, ma con Emma e con tutta l'Argentera, compresi i cavalli, le carrozze, i servitori e i villani, egli passa beato i suoi giorni nella più perfetta luna di miele.

Ogni mattina, dopo un ultimo bacio all'adorata, che lascia alle cure della toeletta, scende in giardino, dove lo aspetta il suo fattore per ricevere i suoi ordini. Nel letterato, coi nuovi possedimenti, è divampata una nuova passione, quella dell'agricoltura; e col fattore gira e discute a proposito [187] degli impianti dei vigneti e della peronospora, delle varie coltivazioni dei terreni, della segatura e del filugello, finchè Emma lo chiama lei stessa dalla finestra, a terreno, della sala da pranzo:

— Vieni? È ora di colazione!

— Brava!... Portino in tavola!... — E continua a discorrere col fattore e a farsi ammirare, spiegandogli come, per un po' di nevrastenia del suo stomaco, guadagnata col grande e continuo lavoro a tavolino, in mezzo ai libri ed alle carte ingiallite, egli non può più aspettare quando si mette a tavola. Diventa nervoso, furioso, e perciò preferisce far aspettar sua moglie per esser sicuro, quando arriva lui, di trovar tutto pronto e darci dentro, subito!

Ma un bel giorno — come mai? — comincia a perdere l'appetito e ad essere oppresso dal sonno. Dopo colazione, dopo pranzo — di colpo — gli piomba addosso il sonno come una schioppettata!... Egli deve fingere con Emma di aver qualche lettera da scrivere, le bozze dell'Ambrogio da correggere; si chiude nello studio e dorme. Che sia il vino?... Beve acqua e continua a dormire. È un sonno pesante; una fatica, invece d'un riposo, che gli aggrava lo stomaco e la testa. Poi, quando il tempo vuol mutare, si sente inquieto, irascibile, gli par d'essere di vetro; gli dolgono le giunture delle dita. — Che sia la gotta?... — Poi un dolorino persistente alla nuca — una punta come di tarlo che roda... — e un formicolìo alle gambe... Comincia a capire e si spaventa.

Basta, basta, villa Argentera!... Basta per il momento, e quando si ritorna, bisogna riempirla di parenti, di amici, di distrazioni. Emma è giovane, [188] molto giovane, e ha diritto di godere il mondo, di divertirsi!


Dopo colazione: è arrivata la posta:

Emma (è seduta al caminetto. È d'ottobre, piove e fa freschino. Legge una lunga lettera del babbo che le descrive il grande successo ottenuto dall'Otello a Parigi, con Tamagno, e le esprime tutto il suo grande compiacimento, come musicista e come cittadino).

Giordano (finge di leggere il Corriere della Sera, e invece guarda, studia sua moglie: fra sè) Che bella cera!... Diventa fin troppo grassa (dopo un momento, posa il giornale sul tavolino: si alza, passeggia, va alla finestra). E intanto continua a piovere!... Quando piove, anche la campagna non è allegra.

Emma (corre anche lei alla finestra, pigliando a braccetto e stringendosi a suo marito) Perchè? A me, invece, piace tanto! Guarda! Non c'è più nessuno! Non si vede più niente! Come tutto è lontano, perduto! Mi piace tanto! (Abbracciandolo) Mi pare che siamo ancora più soli!

Giordano (scostandosi) Bada! Può venire Lorenzo.

Emma (tornando a tirarselo vicino, nel vano della finestra, con le due mani, con forza) Ma no! Anche Lorenzo, adesso, fa colazione. Da qualche giorno hai una gran paura di Lorenzo!

Giordano (guardando sempre dalla finestra) Che brutto tempo! E laggiù, come si fa sempre più scuro! Ne avremo per un pezzo.

Emma (in estasi: sorridendo) Magari! Mi par d'essere sola con te, in mezzo al mare! Di', Nino [189] (stringendosi di nuovo e molto), non ti piacerebbe di essere in mezzo al mare?... Noi due soli — soli, soli, soli. — Che incanto! Che sogno! Che felicità! E tu? Rispondi, dunque! Ti piacerebbe?

Giordano (dopo aver starnutito perchè ha preso dell'umido) Se hai sempre detto che lo soffri il mare?

Emma (coi begli occhioni che subito si riempiono di lacrime) Come sei oggi... cattivo! Perchè mi rispondi così, cattivo?

Giordano (graziosamente) Perchè sei una pazzerella. Carina tanto, ma pazzerella molto.

Emma (torna a sorridere: appoggia le due mani alle spalle di Giordano che sta diritto: alzandosi in punta di piedi per dargli un bacio sulla bocca) Io non ci arrivo! (Un po' dondolando: sull'aria della ninna-nanna) No... no... no! Io sola non ci arrivo! No... no... no!

Giordano (le dà un bacio in fretta: poi, subito, volendo cambiar discorso) Ha scritto il babbo, non è vero? Oh, da brava! Sentiamo che cosa scrive il nostro caro papà!

Emma (mortificata: gli dà la lettera) Prendi; leggi.

Giordano (con molta nobiltà) Oh, questo no: mai. Per massima, io non leggo le lettere che non mi sono dirette; mi sembra un'indelicatezza, se non altro, verso chi le scrive.

Emma (lo guarda e non può a meno di ammirarlo: suo marito ha sempre ragione) È stato a Parigi per l'Otello e...

Giordano. No, no, no, cara. Leggi, adagio, tutta la lettera. Mi fa tanto piacere sentirti a leggere. Leggi tanto bene, hai una voce tanto bella. Siedi [190] al tuo posto, da brava; vicino al fuoco. Dopo mi leggerai anche la lettera della mamma.

Emma (lusingata, legge le due lettere).

Giordano (intanto, seguita a camminare su e giù e pensa come intavolare il discorso della partenza dall'Argentera. Quando Emma ha finito) Brava! Tu sei molto brava e molto buona; e sei anche molto ragionevole. Questa, anzi, è la tua miglior qualità, perchè è la più rara di tutte, specialmente in una figlia unica.

Emma. E a che proposito mi dici tutto questo?

Giordano (con galanteria) A proposito... del bene che ti voglio! (Torna a passeggiare su e giù, un po' per tenersi lontano da Emma e molto per prudenza, perchè sente il sonno che è lì lì per piombargli addosso) Io, poi, devo essere ragionevole per forza; e sai come fo? Mi trovo bene in un luogo, per esempio, e non ci posso più stare? Io trovo il coraggio di dimenticare tutto il bello e tutto il buono di questo luogo, per non vederne più altro che gl'inconvenienti, gl'incomodi; se non ce ne sono, li creo, e così parto contento! All'Argentera, ecco... troveremo che ci dovrà piovere per un pezzo!

Emma (si alza, dando un balzo) Vuoi partire? Nino! Vuoi partire?

Giordano (con gran sospiro) Non io, cara, voglio; ma lo vogliono gli altri; i miei impegni precedenti. Le mie conferenze di Milano, di Napoli, di Roma, sui Precursori della Rivoluzione.

Emma (col più vivo interesse, avvicinandosi) Le tue conferenze? Hai da riprendere le tue conferenze?

Giordano. Certo: e non soltanto per la gloria, ma anche per la cattedra. (Guardando Emma: sospirando melanconicamente) Finchè resto all'Argentera, [191] non mi passano ordinario; e tu sai che io non sono ricco come te. Io ho l'obbligo, e tanto più ora, di lavorare per vivere. Mi ha scritto il Consiglio dell'Associazione universitaria di Bologna, poi la Presidenza della Filarmonica napoletana; poi tutti quegli altri di Roma. Sono conferenze che dovevo tenere fin dallo scorso maggio. Le ho sempre rimandate per te. Ed ora... (un altro sospiro, più profondo) Desidererei, vorrei tanto, per l'egoismo mio, poter scrivere a quella gente: non vengo più; non fo più conferenze. Ma, come si fa? Il ciclo, capisci? resterebbe interrotto.

Emma (vivamente) No, no! Devi rispondere che vai! Rispondi subito che vai! (Sforzandosi per sorridere, mentre due lacrimone le rigano le guance) E... dovremo partire... presto... non è vero?

Giordano. Presto... secondo. Quando anch'io sarò pronto. Ormai, son giù di esercizio, ho tutto dimenticato; anche i miei studii. Una conferenza, specialmente la prima, a Bologna, all'Università! Credi, cara mia, una conferenza, una vera e bella conferenza, costa assai più d'un libro.

Emma (con entusiasmo) Lo credo! (carezzevole, consolandosi, rianimandosi) Dunque, non si parte... così subito?

Giordano. No, ma... (guardandola: accarezzandole i capelli con aria di affetto paterno) Intanto ho bisogno di molto raccoglimento, di quiete assoluta, per poter riordinare le mie idee. Dunque, figliuola mia... (s'interrompe sorridendo).

Emma (lo guarda: è la prima volta dopo il matrimonio che la chiama «figliuola mia». Sorride anche Emma).

Giordano. Dunque, mentre io dovrò passare [192] le mie ore a leggere, a scartabellare, a consultare carte e documenti, tu pensa un pochino alla casa. E, finchè c'è tempo dinanzi a noi per far tutto con garbo e con comodo, pensa anche ai preparativi della partenza. Ricordati che di queste faccende io non me ne occupo affatto. Non so fare; e poi, ho altro in mente. Quando ho preso con me le mie carte, basta. (Sfiorandole appena i capelli con un moto rapido delle labbra: poi, subito, con serietà e imponenza, allontanandola da sè) Ed ora, figliuola mia, non c'è tempo da perdere. Bisogna rispondere a Bologna, a Napoli, a Roma. — Parla.

Emma (lo guarda, interrogandolo, coi grandi occhi incantati).

— Parla! Che cosa? Devo rispondere di sì, o di no?

— Sì, sì, sì! Devi rispondere di sì! Oggi stesso! Subito! Ma pensa, io sono tanto fiera di te! Così contenta, così beata, di saperti ammirato, apprezzato, desiderato! Io che ti amo per te, e che ti adoro perchè sei così superiore a tutti gli altri! Io che vivo della tua gloria; la respiro come l'aria; mi fa bene! So che non ho nemmeno il diritto di volerti tutto per me! Il tuo cuore, sì, non è vero? (gli mette sul cuore la piccola manina bianca, ingemmata) Questo, sì? Tutto, tutto mio! Ma lì (col ditino, graziosamente, tocca la fronte del marito), lì... ha diritto anche l'Italia... e tutti i popoli civili! Tutti i contemporanei e tutti i posteri! (ride, e, guardandogli la bocca e i denti bianchi, ha una voglia ardente di dargli un bacio: poi torna seria). Come avrei rimorso di darti un dispiacere, così avrei pure un gran rimorso di farti sacrificare, per un mio capriccio, per me sola, un'ora di lavoro. [193] (Appoggiandosi, abbandonandosi tutta sul suo petto) Sento che sarei indegna di te; che non meriterei più... (guardandolo, con uno sguardo lungo senza alzare il capo, fissando ancora la bocca di Giordano e sospirando) più, più... più nemmeno un bacio!

Giordano (serio, calmo, dignitoso: sollevando Emma colle due mani, tenendola ritta, un po' discosta) Allora, se devo rispondere, lasciami andare.

Emma (tenendolo per un braccio) Sì! Va! Va! Ma va!

Giordano (con gravità) Lasciami andare davvero; si fa tardi per la posta. (Assumendo un'aria paterna) E poi, anche tu, cerca di occuparti, come ti ho detto, cerca di far qualche cosa. Sei ancora troppo giovane per restare tutto il giorno a dondolarti in ozio. Guai, abituarsi! Finiresti come le donne turche, o, come tua madre, a passar tutta la vita sdraiata sopra una poltrona. Bisogna muoversi, camminare, stancarsi qualche volta, stare in esercizio colla mente e col corpo. Mentre io sono nel mio studio, per esempio, a lavorare, tu dovresti fare qualche bella passeggiata, arrampicarti su per il bosco.

Emma. Piove.

Giordano. Non dico per oggi; ma per un altro giorno. E poi, leggi qualche cosa; mettiti un po' al corrente colle ultime pubblicazioni, colle novità più importanti. Pensa che a Bologna, a Napoli, a Roma, devi vivere con me in un mondo intellettuale! Quand'eri ragazza, mi piaceva tanto la tua passione per i fiori; occupati del giardino.

Emma (guardandolo con un sorrisetto assai espressivo, tra il timido ed il birichino) Piove.

[194] — Piove oggi, ma non pioveva ieri e, speriamo, non pioverà domani. Sona un po'. Hai fatto malissimo a trascurare il pianoforte. Sai quanto ci tiene anche il papà! Sonami qualche cosa. Io di là, mentre scrivo, ti sento e mi diverto; mi fa tanto piacere!

Emma (carina molto: ricordando il loro primo colloquio, la sera del concerto e guardandogli sempre quella bocca, che vuol far la cattiva, e i denti bianchi) Sonerò le Trascrizioni di Liszt sull'Aida. Vuoi?

Giordano (che non può più lottare contro il sonno: senza capir niente) Ma sì, appunto! Sona qualche cosa! Quello che vuoi! Per me fa lo stesso! Io penserò che sono le tue manine care (le bacia, una dopo l'altra) e sarà per me uno squisito godimento spirituale. (Fa di nuovo per avviarsi verso lo studio).

Emma (lo lascia andare fin quasi sull'uscio, poi gli corre dietro e lo ferma ancora).

Giordano. Ma che hai, cara? Perchè mi guardi così? Piangi? (colla voce un po' alterata per un principio di collera) Ma che cosa vuoi, infine? Ebbene, risponderò a Bologna, a Napoli, a Roma, risponderò di no! Ma, o sì o no, devo rispondere; non sono un ineducato! — Lasciami andare!

Emma. Sì! sì! Non ho detto di sì? Va subito a rispondere di sì! Voglio! Non è questo! Non è questo che mi affligge, che mi rende melanconica, triste...

Giordano. E allora? Che cosa?

Emma (balbettando). Che dolore, che gran dolore dover lasciare l'Argentera! Dio, Dio! Pensandoci, mi sembra che in quel giorno in cui dovrò partire finirà qualche cosa... una parte della mia vita! Che dolore sarà quel giorno, per me... E per te, Nino?...

[195] Giordano (cogli occhi semispenti) Anche per me, sicuro, un grandissimo dolore! Ma torneremo, questa primavera. Persuaditi, cara figliuola mia, per l'autunno, specialmente quando cominciano le piogge, e qui poi non finiscono mai, non è un posto molto sano. La villa è troppo bassa, e per ciò non può a meno di essere umida. All'Argentera, per star bene, ci vuole il sole e il caldo.


Emma, malinconicamente, va al pianoforte, ma, senza più nemmeno pensarci, non sona le Trascrizioni di Liszt sull'Aida. Sona svogliata, distratta, una cosa qualunque, tanto per sonare, mentre guarda dalla finestra: il giorno è diventato bigio, oscuro, triste. Continua a guardare, continua a sonare, e quella pioggia, tutta quella pioggia minuta, fine, silenziosa, che gocciola dai rami senza foglie, le penetra, con un brivido, nelle ossa e nell'anima.

.... Giordano Mari, entrato appena nel suo studio, vi si chiude dentro a chiave; mette uno sull'altro i cuscini del sofà; si sdraia comodamente con un oh! di sollievo e quasi subito si addormenta e comincia a russare con un sottile fischiettìo.

[196]

II. Il ciclo delle conferenze.

A Bologna:

Giordano Mari ed Emma sono appena tornati all'albergo, dopo la conferenza sui Precursori della Rivoluzione. Sono soli, nel loro salottino particolare. Carolina, la cameriera di Emma, è andata nell'altra stanza a preparare tutto l'occorrente per l'abbigliamento; il conferenziere e sua moglie, i nipoti di S. E. il ministro dell'istruzione pubblica, sono invitati a pranzo dal prefetto.

Giordano Mari (lasciandosi cadere di peso sul canapè, affranto dall'emozione del grande successo) Che entusiasmo! Perfino sulle scale! Nel cortile! Sul portone! Un vero delirio! Che bravi giovani! L'ho sempre detto! Nei giovani c'è molto da sperare! (Asciugandosi il sudore) Mi hanno quasi commosso. E sì, che dovrei esserci abituato.

Emma (un po' incerta: un po' titubante: poi, finalmente, arrischiandosi) Ma... è stata ancora la tua conferenza... di Milano.

— Quasi; press'a poco. Nella seconda parte, per altro, ho detto molte cose nuove. (Con grande sicurezza) Te ne sei accorta?

[197] Emma (lo guarda, rimane convinta e risponde di sì. Poi, dopo un momento — Carolina è sempre nell'altra stanza — corre a sedersi sulle ginocchia del trionfatore, buttandogli le braccia al collo). Come parli bene! la tua voce è una musica, un vero incanto! E come sei bello, tu solo, in alto, in mezzo alla folla muta, estatica! Io ti adoro! E come mi piaci quando fai dell'ironia; quando ridi parlando. Ridi. Ti prego, ti prego: ridi.

L'altro ride, ed Emma, finalmente, gli dà quel bacio che le era rimasto sulle labbra per tutta l'ora della conferenza.

Giordano. Se non si cambia vita, figliuola mia, sarà un affar serio.

Emma (arrabbiandosi) Hai promesso di non dirmi più figliuola mia. Non mi piace. Mi è antipaticissimo!

Giordano. Vorrei soltanto persuaderti che se, per la conferenza mi son valso, in parte, del materiale di quella di Milano, ciò dipende dal fatto che non mi dai il tempo di studiare, di raccogliermi, di coordinare i fatti, le idee, gli appunti presi. Insomma, per parlare un'ora al pubblico bisogna avere la mente preparata, ben nutrita di argomenti e sopra tutto riposata.

Emma lo guarda, e risponde: «Verissimo», ma come un'eco. Si ricorda del loro primo colloquio in via San Paolo: «... Come parlo per un'ora, potrei parlare per due, per tre, per un giorno di seguito; le mie non sono conferenze: io parlo soltanto perchè ho qualche cosa da dire». Fosse vero? Fosse proprio stata lei, all'Argentera, a fargli perdere la freschezza della mente, l'agilità del pensiero, a intorpidirlo nell'ozio? Che rimorso sarebbe questo per lei! Che gran rimorso!

[198] Giordano. A che pensi, carina?

Emma. A Napoli. Per Napoli, preparerai una bella conferenza tutta nuova?

Giordano (subito: pigliando la palla al balzo) Ma... secondo. Bisognerebbe indurci a compiere un ben penoso sacrificio.

— Lo farò! Lo farò!

— Tu dovresti ritornare a Milano, dalla mamma, ad aspettarmi.

Emma (spaventata) Ritornare a Milano?.. Sola?

Giordano. Diversamente, con te vicino, mi conosco. (Abbracciandola teneramente) Tutti i più bei proponimenti sfumano.

Emma (disperata) Senza te? Senza te? Ma Nino, Nino mio, come potrei vivere un giorno, soltanto un giorno, senza di te? Ma ti par possibile? Lo credi possibile? Piuttosto ripeti la conferenza di Milano anche a Napoli!... Napoli, come studii, come centro letterario, non è più importante di Bologna.

Giordano (tanto per cominciare a mettere i piedi innanzi) E poi? Quando saremo a Roma?

Emma (agitata, impressionata, inquieta) A Roma? A Roma?...

— Alla Palombella. Lo zio mi ha scritto che c'è già un'aspettazione vivissima.

— Ma per Roma c'è tempo! Sì! Sì! Sì!... Per Roma, preparerai la seconda parte del tuo ciclo; una conferenza nuova, bella, la più bella di tutte! Me lo devi promettere. Prometti?

Giordano (sorridendo con molta diplomazia) Io, per me, te lo prometto. Ma... Sai bene. Non dipende solo da me.

[199] A Napoli:

A Napoli, prima ancora del conferenziere, ottiene un trionfale successo sua moglie, la nipote del ministro Albertoni, la ricchissima signora milanese: — Una Dionisy!

Giordano ed Emma sono arrivati a Napoli di lunedì; ma la conferenza non sarà tenuta, alla Filarmonica, altro che la domenica dopo. Emma non è mai stata a Napoli; per questo, gli sposi hanno anticipato di alcuni giorni il loro arrivo.

L'espansiva cordialità meridionale si è rivolta, spontaneamente, alla giovine signora, così bella e così elegante; così gentile, amabile, briosa. Fra il gran codazzo della gente seria, che circonda l'illustre pensatore per via dello zio Eccellenza — professori, artisti, letterati di carriera; qualche vecchio tarlo della burocrazia, qualche giovane postulante, con una raccomandazione da fare, od una parola da far dire, una croce od una commenda da ricordare, un posto od un avanzamento da ottenere — e fra la schiera giocondamente disinteressata degli «elegantissimi», pieni di quattrini, di spirito e di titoli risonanti, che fanno la corte alla moglie — si è formata attorno ai coniugi Mari una folla, una vera folla, solo intenta ed instancabile nel festeggiarli, nel rendere loro ancor più gradita, più splendida e più simpatica la proverbiale ospitalità napoletana.

Si aspetta con ansietà rumorosamente cortese la conferenza alla Filarmonica; ma intanto tutti corrono affaccendati vicino ad Emma, smaniano e perdon la testa per lei, la donna «ideale», la «soavissima», la «splendida milanese», la «magnifica lombarda», «la divina», l'«incantatrice».

[200] Ed Emma? Emma è felicissima; è un sole raggiante. Essa vede che tutto ciò lusinga l'amor proprio di Giordano; che tutto ciò lo rende più allegro e più amoroso, ed è lieta del suo trionfo, è contenta di piacere perchè così sente, capisce di piacere molto di più anche a suo marito.

Egli infatti la guarda, sorridendole, con intimo compiacimento, come scoprendo in lei nuove bellezze, come se si accorgesse adesso, per la prima volta, che sua moglie è bella assai.

All'Argentera erano soli; a Milano, Emma vi era nata, vi era cresciuta; che fosse bella non era mai stata una novità per nessuno, nessuno quasi ci badava, e però aveva finito col non badarci, o quasi, anche suo marito. E, come prima, donna Fanny avrebbe perduto per lui tutto il piccante della buona avventura e non sarebbe stata altro che una faticosa servitù senza le feroci gelosie di Guido Bardi; così adesso, quando egli rientra la sera all'Hôtel des Étrangers, e il tedesco di guardia chiude la porta in faccia a tutta quella folla desolata ed invidiosa degli adoratori di sua moglie, egli sente il bisogno di stringere più forte il braccio di Emma e di dirle con passione: Sei mia, tutta mia, soltanto mia.

E poi all'Argentera, in quelle ultime settimane, faceva freddo... e a Napoli continua a far caldo; all'Argentera era inverno e a Napoli una perpetua primavera; all'Argentera pioveva e a Napoli brilla il sole; all'Argentera c'era il Monterosa che intirizziva le gambe e a Napoli il mare e lo scoglio di Frisio che invitavano a cantare «Santa Lucia...».

E poi... Giordano Mari le pensava tutte. Non sarebbe stato bene prepararsi la scusa di Napoli [201] per il caso che a Roma non fosse stato in grado per la seconda conferenza del famoso ciclo? Già, era più per Emma che gli premeva, non per il pubblico. Lo conosceva bene il pubblico delle conferenze: beve grosso. Basta parlar forte e non fermarsi mai... Quelli che stanno a sentire non sanno fare altrettanto... e, maravigliati, battono le mani.

Ma a Napoli, proprio a Napoli, gli succede per la prima volta di confondersi, di incespicare: ad un dato punto deve fermarsi. Il periodo gli sfugge ed egli rimane a bocca aperta, colla sua mente, colla sua memoria smarrite dinanzi al vuoto. È il balbettamento, l'ingarbugliamento d'un attimo; salta tutto Diderot, si riprende con Rousseau, e la conferenza finisce con un'imponente ovazione... venti minuti prima.

Nessuno, meno Emma, se n'è accorto; ma Giordano ne rimane assai impressionato, tanto più che la sonnolenza, sparita appena a Napoli, gli ricomincia, improvvisamente, più grave, come un affanno, come una pena, e il dolorino della nuca, rode, rode, continua a rodere.


Giordano (ad Emma: l'ultima sera che restano a Napoli: invece di tenersela a braccetto, la lascia andar avanti sullo scalone dell'Hôtel des Étrangers e le tien dietro, faticosamente, appoggiandosi, tirandosi su per la ringhiera) A me quest'aria calda del mare, questo continuo scirocco dà maledettamente alle gambe. E a te?... No?

Emma (voltandosi in alto, sulla scala: tutta illuminata dalla luce elettrica, bella come la salute, la giovinezza e l'amore.) No. Io mi sento benissimo! [202] Mi piace tanto Napoli! (Sorridendo a suo marito che si è fermato sulla scala, qualche gradino più giù, per tirare il fiato) «Oh dolce Napoli... Oh suol beato!»

Giordano (brontolando) Ed io non vedo l'ora di essere a Roma.


Il giorno dopo, alle due, alla partenza del diretto per la capitale, tutta la corte di Emma e di Giordano Mari si trova alla stazione, sotto la tettoia, per i saluti. Gli adoratori di Emma le hanno riempito il coupé di fiori; gli ammiratori dell'illustre conferenziere gli hanno gonfiato le tasche a furia di giornali colle recensioni, le note, i dispacci che riportano il grande successo dei Precursori alla Filarmonica. Giordano Mari vuol darsi l'aria di non leggere i fogli politici altro che per avere le notizie d'Africa, ma invece ne è ghiotto, smanioso. Li scorre tutti colla speranza, coll'ansia di trovarvi il suo nome; e gli articoli più favorevoli se li fa leggere ad alta voce da Emma.

Un giovane «novelliere e pubblicista» che si è già raccomandato per un posto di professore, anche straordinario, alle scuole tecniche: gli si avvicina presso il predellino del vagone con aria di mistero: Una parola. Scusate, commendatore.

Giordano (gli sfugge un primo moto di noia, ma poi, dissimulando, scende dal predellino e lo piglia affettuosamente sotto braccio per sentire).

Quell'altro (sempre più misterioso) Voi, con Pietro Schiavino ci avete del rancore?

— Pietro Schiavino? Chi è?

— Il direttore del Popolo.

Mentre Emma faceva la sua toeletta la mattina [203] o si abbigliava la sera per il pranzo, senza dir niente nè a lei nè a nessuno, Giordano Mari aveva fatto la sua brava visita a tutte le redazioni dei giornali; però egli domanda assai meravigliato:

— Come, c'è un giornale che si chiama il Popolo a Napoli?

— No; è un giornale di Roma; un giornale radicale.

Giordano Mari (con aria olimpica, stringendo sprezzantemente le labbra, ma col cuore che gli batte forte) Io non mi occupo affatto di giornali; non ho tempo. Bisogna che me li mandino e che qualcuno me li faccia vedere.

— Pietro Schiavino è assai popolare a Roma, e il Popolo, quantunque ai suoi primi numeri, ha una bella diffusione.

— Che cosa dice di me?

— È un attacco sanguinoso. Si capisce che si sta preparando una guerra a coltello contro di voi. Forse perchè siete nipote di Sua Eccellenza.

Giordano Mari (con la voce alterata) Già; questo zio ministro è un bel regalo di mia moglie!

— Io vi sono amico dichiarato, e mi vanto un grande ammiratore vostro anche in mezzo ai vostri nemici.

— Nemici? Io non credo di averne.

Quell'altro (cupo, e più sottovoce: come fosse per svelare una congiura) Moltissimi. Ma voi non dovete temere. Non ci dovete manco pensare. Siete tanto forte, voi! Tanto grande! — E accettate un mio consiglio. Vi accorgerete presto che io vi voglio bene veramente: più assai di tutti costoro! (accennando alla folla che circonda Emma) Più assai! (Dandogli il Popolo col titolo piegato, nascosto) [204] Non lo dovete leggere questo giornale, lo dovete stracciare! E, sopra tutto, state bene attento che qualcuno di questi falsi amici vostri non lo faccia leggere a donna Emma.

... Il treno, finalmente, si muove, parte: tutti salutano alzando i cappelli, sventolando i fazzoletti, e gridando: «Arrivederci! Arrivederci!» — L'espansione di quest'ultimo addio è straordinaria.

Emma (dopo essere rimasta un pezzo col capo fuori del finestrino, rientra ancora tutta rossa, tutta commossa e comincia a levarsi il cappellino).

Giordano (si è già accomodato, rincantucciato nell'angolo opposto, col pensiero fisso, inquieto, nel numero del Popolo che ha in saccoccia e che brucia di leggere; ma non si arrischia per timore di Emma).

Emma (con entusiasmo pei suoi napoletani) Quanto sono buoni! E come ti vogliono bene!

— Anche a te, mi pare.

— Torneremo a Napoli? Mi ricondurrai a Napoli, non è vero?

— Torneremo; ma, intanto, se alzi il vetro del finestrino, mi fai piacere. In questo maledetto paese, non si sa mai se fa caldo, se fa freddo, quando è estate, quando è inverno: fa un po' di tutto tutti i giorni.

Emma (correndo a sedersi sulle sue ginocchia) Non essere cattivo colla mia Napoli! L'amo tanto! (Cantando sottovoce e baciandolo sui capelli) «Napoli! Napoli!... Oh dolce Napoli!»

— Dovresti fare una cosa.

— Che cosa, Nino?

— Dovresti prenderti un angolo tutto per te sola; così si sarebbe in due a stare più comodi.

[205] Emma si alza e si allontana mortificata, senza dire una parola.

Giordano (premendosi la nuca) Ho il mio solito mal di capo. La conferenza di ieri mi ha stancato assai. Scusami.

Silenzio. Giordano Mari, mettendosi la berrettina da viaggio, lancia un'occhiata a sua moglie: Emma, seduta immobile, al suo posto, guarda ostinatamente dal finestrino. Giordano pensa che quello è forse il momento opportuno per leggere il Popolo. Forte:

— Emma! (chiamandola) Emma! Vuoi leggere qualche giornale?

Emma (alzandosi e correndo accanto a suo marito con una gran voglia di far la pace) Parlano della tua conferenza?

— Sì, prendi; il Mattino, il Corriere di Napoli, il Don Marzio, il Fortunio.

— Leggo io?... Ad alta voce.

— No, ti prego! Ne ho abbastanza di conferenze, di giornali, di articoli. Dicono sempre le stesse cose! Non ne posso più! Lasciami un momento tranquillo, te ne prego! (Premendosi la nuca) Sai bene, quando ho il mio dolore nevralgico, se posso chiudere gli occhi un momentino, anche senza dormire, mi passa subito.

Emma (alzandosi lentamente, svogliatamente) Allora, se mi prometti proprio che passerà... me ne vado coi miei giornali. Addio.

— Addio.

— Salutami... almeno. (Gli stende la mano).

Giordano (baciandogliela per far più presto). Ciao.

Emma (cantando «Oh dolce Napoli!» va al suo [206] posto. È inquieta: ci sono le mosche e il sole che le dànno noia; poi si alza di nuovo perchè la tendina del finestrino non vuol calare; si arrabbia, soffia, sbuffa, pesta i piedi. Finalmente torna a sedersi, apre un giornale e cerca l'articolo). Nel Don Marzio non c'è niente?

— Sì, in terza pagina!

Emma (che ha un prepotente bisogno di muoversi e di parlare) In terza pagina! (Volta e rivolta tutto il giornale) Dov'è la terza pagina?

— Prima della quarta.

Emma. Ecco! ecco! Conferenze e Conferenzieri. (Comincia a leggere ad alta voce) «Giordano Mari, il più efficace, il più colorito e certo il più impressionante dei nostri oratori, il prosatore illustre, il filosofo critico della storia e della... »

Giordano (interrompendola per farla tacere) Sst!.. Emma... Emma... Ti prego.

Emma continua a leggere, ma a bassa voce: Giordano, piano piano, si leva il Popolo di tasca, lo apre e trova subito l'articolo. È un assassinio, addirittura. È un attacco fierissimo, sanguinoso; una demolizione spietata, completa. Giordano Mari è fatto a pezzi, a brani, senza pietà, senza misericordia, come conferenziere, come scrittore, come storico, come critico, come erudito, come uomo. E nemmeno gli vien risparmiato il ridicolo: è chiamato «il Gigione dell'eloquenza», il «rigattiere della filosofia e della critica». Sono citati autori da lui «saccheggiati» per la sua conferenza, le intiere pagine del Michelet, del Fouillée, del Taine, sopra tutto del Taine — oh quel Taine... Giordano Mari finisce coll'odiarlo. — E l'articolo, poi, così conclude: «Altro che assimilazione! [207] altro che plagio! Un ladro! Un vero ladro! Un ladro sfacciato fino all'incoscienza e imprudente fino alla stupidaggine!... E questo enorme kakatoa predicatore, questo fanfarone della sincerità, è tutto falso. Falso come scrittore e falso come artista; falso come filosofo e falso come critico; in una cosa sola è tutto vero, è tutto lui: nell'essere il mantenuto di sua moglie».

Giordano Mari diventa pallido, verde. Prima lo piglia uno sgomento strano; gli sembra che tutto il mondo debba aver letto quell'articolo, che tutti debbano saperlo a memoria, e quasi quasi non vorrebbe mai arrivare alla stazione di Roma per paura d'esservi fischiato. Poi quest'impressione si dilegua, a mano a mano gli subentra la stizza, la collera contro quello scriba spropositato, contro quel volgare diffamatore.

Emma (intanto ha letto tutti i suoi giornali: si volta e lo guarda) Ho finito.

Giordano, per il rumore del treno, e sempre assorto nella lettura del Popolo, non sente, non risponde. Emma allora gli si avvicina, allungandosi sui cuscini del sedile e cerca di leggere il titolo del giornale:

Il Pop... il Poppolo!

L'altro si scuote, dà un balzo e piega subito il giornale.

Emma. Lasciami vedere anche il Popolo. Che cosa dice della conferenza?

Giordano. Niente. Ancora non ne parla. È il numero d'ieri.

Emma (ostinandosi più per chiasso che per altro) Lasciami vedere.

Giordano. È un numero vecchio, ti ripeto.

[208] Emma (tentando di strappargli il giornale di mano) Voglio vedere.

Giordano. No: è un capriccio!

Emma. Voglio! Voglio! Voglio! (Afferra il Popolo, l'altro lo tira con forza, il giornale si rompe) Oh, scusa!

Giordano (gridando forte) Voglio è una parola che non mi accomoda!... Ricordalo bene!

Emma (spaventata) Scusa! Ti domando scusa!

Giordano (strappa il pezzo del giornale che Emma, attonita, smarrita, tiene ancora fra le mani, lo straccia col resto e lo butta dal finestrino) E questo ti serva di lezione! (A mano a mano arrabbiandosi sempre di più e sfogando con Emma la sua ira, la sua collera contro Pietro Schiavino) E dovresti aver capito una buona volta che ormai sono stufo, stufo, stufo!

Emma (gli occhi pieni di lacrime, le mani giunte, tremando, balbettando) Scusa... scusa, ti domando scusa.

Giordano. Sono stufo di smorfie, di leziosaggini; di trovarmi tra i piedi una bambola, una bébé! Hai passato i vent'anni, sei una donna, viva Dio!... Finiscila di essere ridicola!

Emma (scoppiando in lacrime) Scusa... scusa... ti domando scusa!

Il treno arriva a Teano: si ferma un momento, poi riparte subito. Giordano Mari intanto si è calmato: guarda Emma, che continua a piangere: è pentito, è dolente, le stende la mano:

— Facciamo la pace?...

Emma (balbettando più forte, perchè si sforza per trattenere le lacrime) Scusami... tanto... tanto.

Giordano. Ma no, cara; anzi, sono io che ho [209] avuto torto. Ho avuto uno dei miei impeti nervosi. Ti prego, se mi vuoi bene, non piangere più. Vieni invece a darmi un bacio.

Emma corre, ma quando si sente stretta fra le braccia di suo marito ha un altro scoppio di lacrime.

Giordano (accarezzandola, baciandole i capelli) Perdonami; sono io che ti domando perdono. La colpa di tutto è che tu... sei tanto più giovane di me. Io, per altro, sotto questo punto, non ho rimorsi. Te l'ho detto... a suo tempo. Non sto bene: mi sento nervoso; la conferenza di ieri mi ha stancato molto; per questo sono facilmente irritabile, irascibile. Ma poi mi passa subito, e finisce sempre che chi ne soffre di più sono io. Asciugati le lacrime, adesso; ridi; così; brava! Se lo zio, si sa mai, ci fosse venuto incontro e ti trovasse cogli occhi rossi, chissà che cosa mai potrebbe credere. Mi vuoi bene?

— Sì.

— Ancora come prima?

— Sì.

— Non hai bisogno di niente? (Indicandole una piccola valigietta nella reticella) Vuoi una menta? Un cioccolatino?

— No.

— Un grano di zucchero, immollato in un dito di cognac?

— No, grazie.

Un altro momento di silenzio, poi un grosso sospiro di Giordano che finisce in uno sbadiglio.

— A Roma, avrò molto da fare. Aspetterò magari anche un paio di settimane; ma darò la seconda conferenza del mio ciclo. Il difficile sta nel [210] ricominciare. Ho lavorato tanto, e avrei bisogno, adesso, lo sento... (Un altro mezzo sbadiglio) di riposarmi un paio di mesi; anche tutto l'inverno. Non sai quanto mi è costato l'Ambrogio?... E il lavoro logora... esaurisce. (Emma gli ha posato la testina sul petto: Giordano resta troppo incomodo per dormire) Non si arriva a Roma che alle otto. Non ti senti voglia di riposare una mezz'oretta?

Emma. Riposo qui.

Giordano. Ma qui, cara, non sei comoda. Aspetta... (Tirandola su; sorridendo) Aspetta e lasciami fare. Vedrai come starai bene. Farai una dormitina deliziosa. Così. Poi, a Roma, non sarai stanca. Andremo fuori a pranzare, a passeggiare. (Mentre parla, ha quasi portato Emma in un angolo del vagone. L'ha distesa sul sedile: le ha messo un piccolo cuscino sotto la testa: poi torna al suo posto, si accomoda, distende le gambe e subito si addormenta: dopo un momento gli cade la testa sul petto e comincia a russare colla bocca storta, la faccia stanca, livida).

Emma, coi grandi occhi spalancati, lo guarda senza muoversi; le par d'essere sola sola in quel vagone che corre traballando, attraversando paesi a lei sconosciuti, così melanconici e foschi, in quell'ora del tramonto.

[211]

III. Alla Minerva.

Gli sposi, la sera del loro arrivo a Roma, non possono veder lo zio, impegnato col presidente del Consiglio: gli fanno un'improvvisata al Ministero, la mattina dopo.

S. E. Albertoni (sciogliendosi dall'espansivo e straordinario abbraccio di Giordano, per guardar la nipote) Tu?... Saresti proprio tu?... La piccola e impertinentissima Emma, colle dita sempre sporche d'inchiostro?

Emma. Non è vero... Guarda (gli mette sotto il naso due ditini affusolati e profumati che il galante ministro non può a meno di baciare, odorandoli come un fiore).

— Sei diventata più grande e più... (ammirandola in tutto il complesso) e più, diremo col nostro grande Manzoni, ma-es-tosa! Quella bellezza morbida a un tempo e maestosa che brilla nel bel sangue lombardo!

S. E Albertoni, entrato nel Ministero per «l'equilibrio regionale» e per il giuoco e il passaggio dei portafogli capitato alla Istruzione, mentre forse si sarebbe trovato meno peggio all'Agricoltura, [212] sperava ancora di cavarsela bene a furia di citar Manzoni a orecchio.

Giordano (tutto zucchero candito) Ma intanto non vi siete ancora abbracciati.

Sua Eccellenza (con qualche esitazione, a Giordano) Dunque... si può?

Giordano (lasciandosi trasportare: con troppa enfasi) Ma sempre! Quanto vuoi!

Sua Eccellenza, subito, abbraccia Emma con molto entusiasmo.

Emma (un po' nervosa) Ma basta! Guarda cos'hai fatto!

Sua Eccellenza (vedendole il cappellino tutto storto: con malizia) Credo, pur troppo, che ormai si sarà abituato quel cappellino a certe scosse.

Emma (sorridendo) Perchè pur troppo?

— Perchè se avessi potuto immaginare la tua predilezione per le persone serie, mi sarei fatto avanti anch'io.

Emma. E avresti sentito un bel no. (Con una risata e senza badare alle faccie che le fa Giordano per raccomandarle di essere gentile) Zio e nipote? Mai più! Non mi piace! No! No! No!

Giordano (un po' inquieto) Emma! Emma!

Emma continua a ridere fissando lo zio, che continua pure a sorridere con una cert'aria motteggiatrice e conquistatrice: Emma, per la prima volta, l'osserva, lo studia, non più come nipote, ma come donna maritata, e conclude, fra sè, che bisognerà guardarsi da quello zio Eccellenza. È, infatti, una bella figura d'uomo, alto, snello, con una faccia resa espressiva e intelligente, dai folti capelli ben pettinati, molto più grigi della barba. Un tipo aristocratico, elegante, come la mamma. Un tipo all'inglese: [213] e la sua vanità, infatti, di ministro italiano, è di essere chiamato un uomo di Stato all'inglese.

Sua Eccellenza (sempre sotto l'attento esame della nipote) E così?

Emma. E così, perchè sei diventato ministro, non credere, signor zio, di poter fare il.... Richelieu!

L'Albertoni, che oltre ai Promessi Sposi ha letto anche I Tre Moschettieri e la Chronique de l'œil-de-bœuf, è abbastanza soddisfatto della risposta, e subito vuol condurre Emma a colazione al Caffè di Roma, dove non si occupa di Giordano altro che per presentarlo come il marito di mia nipote» — Ma Giordano Mari, che sa la vita, se ne contenta. Lo zio ministro, parecchi altri membri del Gabinetto, i pezzi più grossi del Parlamento, tutti si riscaldano, ringiovaniti e ringalluzziti, attorno a donna Emma e perciò un solo pensiero lo turba, lo inquieta: Pietro Schiavino, direttore del Popolo. Tutto il resto è chiaro; basta guardare sua moglie: va a vele gonfie! Ma Pietro Schiavino? Come fare per cavar i denti a quel cane idrofobo?

— Sentirò mio zio.

E, infatti, nell'uscire dal Caffè di Roma, e mentre Emma, sempre allegra e ridente, cammina innanzi, tra un sottosegretario e un consigliere di Stato, gli riesce di restare indietro, pigliandosi a braccetto lo zio Eccellenza.

— Ascolta: una parola.

Sua Eccellenza (guardandolo con diffidenza) Anche tu, avresti subito qualche raccomandazione da farmi?

— No, mai. Io non ti raccomanderò, dato il caso, altro che me stesso!

[214] — Benissimo! Si tratta della conferenza o della cattedra?

— Della conferenza, per il momento. (Più sottovoce, per non farsi sentire da Emma e nemmeno dall'ombra di Pietro Schiavino). Posso sperare nell'intervento della Regina?

— Non è molto facile; ma tenteremo. S. M. adesso deve recarsi a Napoli per alcuni giorni.

Giordano (contento) Benissimo: aspetteremo dopo.

— Dopo o prima. Insomma... si vedrà. Soltanto, forse, potendo ottenere questa particolare distinzione, bisognerebbe attenuare, almeno in parte, assopire, diremo, la retorica giacobina. Pensa un po' anche ai miei colleghi di Gabinetto! (Vivamente) Non devi venire qui, proprio a Roma, a farmi strillare i galli di Renzo! (In fretta, per allungare il passo e raggiungere la cara nipote) Ne riparleremo più tardi.

Giordano (trattenendolo) Ho anche bisogno di un tuo consiglio, a proposito di una tirata velenosa del Popolo contro la mia conferenza di Napoli. L'hai letta?

— Misericordia! Non arrivo in tempo nemmeno a leggere tutte le tirate velenose contro di me!

— Quel Pietro Schiavino dev'essere un gran farabutto!

Sua Eccellenza. No. (Sospirando) Pur troppo! Il mio prudentissimo consiglio è di fingere di non aver letto niente.

— E se continua ad attaccarmi? O se ricomincia dopo la conferenza di Roma?

— Tu non mutar sistema: fingi sempre di non leggere il Popolo.

[215] Giordano (riscaldandosi) Ma se lo legge mia moglie? Pensa, povera donna che impressione, che colpo, che dolore! Se mi secca, se lo temo anche questo maledetto Schiavino, è per Emma, soltanto per Emma! Per me? Figurati! Io sono nell'arte e nella filosofia sopra tutto sincero, e me ne infischio dei Popoli civili e incivili? Ma Emma, povera creatura! È tanto sensibile; ancora tanto gracile sotto la sua apparente floridezza! Se si mette a piangere, fa una malattia. Me lo ha tanto raccomandato anche il suo dottore. «Bisogna evitarle non solo i dispiaceri, ma persino la più piccola contrarietà». (Stringendolo sotto il braccio con effusione) Cerchiamo, cerchiamo insieme. È così buona! Così cara! Se fosse possibile trovare, in qualche modo, il giro... la persona per poter indurre quel tanghero temerario dello Schiavino a lasciarmi in pace.

Sua Eccellenza (dopo aver guardato fisso Giordano, stringendo le labbra e scrollando il capo) Impossibile! (Con amarezza) Si dice tanto male delle canaglie: eppure, quasi direi, in moltissime circostanze speciali, un galantuomo è ancora la peggiore disgrazia che ci possa capitare!

L'Albertoni e Giordano Mari continuano in silenzio per un lungo tratto del Corso. Sono assorti, rispettivamente, nei loro gravi pensieri. Tuttavia, il tenero marito rivolge di tanto in tanto, con un sospiro, un'esclamazione affettuosa verso la moglie, che cammina sempre dinanzi, dritta e svelta, col suo passo ritmico, sicuro, risonante, fra i due onorevoli che le fanno la corte; e lo zio ministro, pure di tanto in tanto, lancia qualche occhiata d'investigazione al bel profilo della nipote, così [216] elegante, così prosperosa e così slanciata. E appena Emma alza un po' la veste, ne ammira i bei piedini; e certe volte tra il voluttuoso fruscìo delle sete intravede — sono rapide apparizioni — il primo contorno, sottile e forte, di una gamba superba... capitolina.

Sua Eccellenza (d'un tratto, fermandosi di colpo e fissando Giordano che si ferma a sua volta) L'onorevole Cogoleto! Forse ho trovato l'uomo, il colonnello Cogoleto. Uno dei Mille. Ha salvato la vita a Garibaldi. Repubblicano puro, ma non irragionevole. Perciò, ammaestrato dalla conoscenza degli uomini, guidato dalla coscienza storica del paese e anche per non perdere il collegio, ha votato ultimamente con noi, che, se non altro, siamo personalmente e politicamente onesti. E anche, come ingegno, tutt'altro che un Carneade! Col tempo, se non un ministro, ne potremo fare un buon sottosegretario.

[217]

IV. Sul Corso.

La mattina dopo; è il secondo giorno che sono a Roma. Emma, già vestita, già pronta per uscire, picchia all'uscio di suo marito. A Roma vita nuova e camera separata, per poter preparare la seconda conferenza del ciclo sui Precursori della Rivoluzione. La moglie ha il numero 31, il marito il numero 30. Le due camere comunicano fra di loro: ma Giordano, prudentemente, per essere sicuro di non venir disturbato, mentre studia e lavora, gira la chiave.

Emma (col capo chino vicino all'uscio del numero 30) Sei pronto?

Giordano. Che cosa c'è? (Si è appena alzato e non ha ancora finito di vestirsi) Ho scritto sinora. Adesso mi vesto.

Emma (tornando a picchiare con voce amorosissima) Si può?

Giordano (apre il calamaio, sparpaglia qua e là sul tavolino alcune cartelle manoscritte, poi va ad aprire) Buon giorno, cara!

Emma (buttandogli le braccia al collo) Finalmente!

Giordano. Bada! Ho la barba bagnata. (Si [218] asciuga forte la faccia soffocando e poi comincia in fretta a pettinarsi).

Emma. La cravatta te la fo io. Vedrai come sono brava!

Giordano (molto dubitativo) Vedremo. (Spinge il collo verso Emma, tenendosi le due mani sul fianchi).

Emma, nel fargli il nodo, cerca di avvicinarsi sempre di più, mentre lui si sforza per rimaner sempre alla stessa distanza.

— Così! Ecco fatto. (Lo conduce dinanzi al grande specchio dell'armadio) Guarda; non sono famosa?

Giordano. Famosissima. Grazie.

Emma (abbandonandosi colla bella testolina ridente sul suo petto e ammirandosi nello specchio) E... (più sottovoce) non siamo molto belli e molto carini.... così?

Giordano (allontanandosi per mettersi il gilet) Bellissimi.

Emma (fa un sospiro un po' comico: gira per la camera: si ferma dinanzi alle cartelle) Oh, tesoro! Quanto hai scritto! (Fa per prendere una cartella).

Giordano (vivamente) Non si tocca!

Emma ritira la mano spaventata.

— Guai se io non trovo tutto al suo posto. Non mi ci... raccapezzo più!

Emma continua a girare per la stanza con le mani incrociate dietro la vita, cantarellando a mezza voce e curiosando da per tutto, senza toccar più niente: in fine, guardando ancora le cartelle:

— Hai finito?

— Che cosa?

— La conferenza.

[219] Giordano (offeso) Finito? La conferenza? Così, in due o tre orette? Come se si trattasse di scrivere la lettera per il Natale alla mammina o al caro papà?!

Emma (rimane mortificata: poi arrabbiandosi, perchè vede suo marito che ritorna a sedersi alla scrivania) Ma io devo uscire! Ho tante spese da fare. Devo passare dal Marchesini per il mio anello.

Giordano. Va pure. Ci ritroveremo qui, all'albergo, a mezzogiorno, per la colazione. Devo uscire anch'io, ma per mio conto.

Emma (vivamente) Non si va fuori insieme?

Giordano. Usciremo insieme più tardi. Faremo una bella scarrozzata. Passeremo dal Colosseo, dalla tomba di Cecilia Metella.

Emma (facendo un po' il musetto, comincia a levarsi il cappellino).

Giordano (alzandosi e sospirando in aria di vittima) Perchè, mio Dio? Non ricominciamo coi capricci!

Emma. Sola? Devo uscir sola?

Giordano. Sicuro! Non avrai già la pretesa che io perda il mio tempo... dentro e fuori le botteghe di Roma!

Emma (timida, supplichevole) Sola? Vuoi che vada sola... a girare per Roma? Non sono mai uscita sola, nemmeno a Milano.

— Credo bene: eri ancora una ragazza. Ma adesso sei una donna maritata, e ci vuol altro; devi abituarti.

Emma (avvicinandosi a suo marito, ridendo ed arrossendo) E se mi perdo? Se poi non mi troverai più... mai più?

Giordano (con quella gravità che esige la circostanza) [220] Devi abituarti, quando vai fuori, sola, a camminare diritta e svelta per la tua strada, con quel bel contegno serio, composto, che impone il rispetto. Se, per caso, incontri qualcuno di conoscenza, un cenno breve del capo, e via, senza fermarsi. Regola generale. Una signora, quando è sola, non deve fermarsi mai per la strada. Hai capito? (Guarda l'orologio) Uscirò anch'io con te.

Emma (battendo le mani dall'allegrezza) Bravo! Bravo! Come sei buono!

Giordano. Ti accompagnerò... (appoggiandosi lui al suo braccio, sorridendo) anzi, mi accompagnerai tu, fino da Aragno.

— È lontano?

— Non molto.

Emma. Che peccato! E che cosa vai a fare da Aragno?

Giordano. Sono aspettato dal deputato Cogoleto, che ti presenterò poi, stasera, perchè verrà a pranzo con noi. Ha da chiedermi un favore.

Emma. Che favore?

Giordano (sfoggiando la sua grande superiorità) Devi abituarti, essendo ancora molto giovane, a non domandare, mai di più di ciò che ti si dice.

Emma (sbuffando in un modo così comico e così carino che fa sorridere anche Giordano) Io devo abituarmi — tu ti devi abituare... — Auf! Come diventi... pedagogico!

Giordano. Un uomo che sente altamente la delicatezza ed il rispetto verso gli altri, non può dir tutto nemmeno a sua moglie... (sempre più teneramente, quanto più si avvicina verso l'uscio) All'amata... all'adorata... alla dilettissima.

Emma (fissando suo marito cogli occhi diventati [221] umidi, lucenti per l'improvvisa, dolcissima commozione) Perdono.

Giordano (offrendole il braccio) Perdono? Di che?

Emma. Sei così buono, così giusto, così grande. Perdonami, se non posso arrivare fino a te. Fino a comprenderti subito... sempre.

Giordano (stringendole la mano e baciandole i capelli) Cara... andiamo!

Emma è di nuovo felice; anche questa piccola nube è dileguata. Il cielo si rasserena così presto a vent'anni! Essa si appoggia mollemente al braccio di suo marito, e fa le scale; esce dall'albergo, attraversa piazza Colonna e si avvia per il Corso, chiacchierando, cinguettando, saltellando, allegra come l'allodoletta che frulla trillando sotto il sole di Roma.

Emma. È ancora distante, almeno, questo Aragno? Quel tuo... seccatore?

— No, cara. Ci siamo.

— Vieni ancora un pochino in giù. Sì! Sì! Sì! Nino mio! Nino caro! Accompagnami soltanto fino dal Marchesini!

Giordano Mari accompagnerebbe sua moglie volontieri. È tanto... straordinariamente bella! Tutti si voltano per guardarla, per ammirarla. Egli capisce che anche a Roma sua moglie gli farà una grande réclame. Guarda nel caffè Aragno: c'è già quell'altro che lo aspetta, leggendo il Don Chisciotte.

Giordano (con un sospiro: stringendo la mano ad Emma e guardandola con una di quelle occhiate buone, tenerissime, che la trasportano tutta in paradiso) Non posso cara, carina mia! Ma mi sbrigo in fretta; passerò anche un momento al Ministero [222] dallo zio, per sentire un po' di questa conferenza e, dopo, torno subito all'albergo.

Emma (tenendolo sempre per la mano) Soltanto fino dal Marchesini.... Prego.

Giordano (indicandole in fondo alla prima sala del caffè un signore in tuba, magro, alto, con un vecchio soprabito nero e due lunghissimi baffi verdi appuntiti, stecchiti) Ecco il mio uomo!

Emma. L'onorevole Coco...

— No, Co-co, Co-go: Cogoleto.

— Coco o Cogo: è un noioso seccatore!

— Spicciati anche tu col tuo Marchesini, colle tue spese, così faremo colazione più presto.

Emma (sottovoce: fissandolo: sull'aria della ninnananna) No, no; non torno più all'albergo!... Più!... Non mi troverai più! (Andandosene) Ciao per sempre!

— Gioia!... Cara!

Giordano entra da Aragno ed Emma prosegue per il Corso.

Emma (ricordandosi gli insegnamenti di suo marito e camminando in fretta lungo il marciapiede con quel bel contegno che impone il rispetto: fra sè, riepilogando tutto ciò che ha da fare) Prima di tutto da Marchesini: da Marchesini per farmi stringere l'anello del babbo — del mio babbo tanto buono. Poi? Poi da Janetti per comperarmi un ombrellino... se ne trovo uno molto bello — se no, no. Poi da Cagiati, per vedere un piccolo servizio da the per il viaggio. Il the da fare in camera nostra, noi due! Il the che fa tanto bene al mio Nino caro, quando è stanco, quando ha il dolor di capo, perchè studia, perchè lavora troppo. Caro, caro, il mio Nino, caro! (si accorge che molti si voltano e che qualcuno anche si ferma per guardarla) Dio, Dio... come [223] sono sfacciati qui, a Roma! (Ripensando alle sue spese) Dunque? Alla farmacia Inglese e poi ho finito. Alla farmacia Inglese devo prendere: Savons de peau d'Espagne — Extrait de peau d'Espagne — Eau de toilette de peau d'Espagne — Cipria de peau d'Espagne, tutto à le peau d'Espagne!

Un giovinotto biondo, insaccato in un enorme paltò nocciuola, rivolgendosi ad un lungo ufficialetto colla caramella:

— Che splendore! Saperlotte!

L'ufficialetto (cantando sottovoce: mentre tutti e due fanno ala al passaggio di Emma:)

«Sei tu dal ciel discesa

O in ciel son io con te?...»

Emma (tra sè: diventata rossa rossa, entrando di furia dal Marchesini) Come sono sfacciati!... E stupidi! (mentre si leva il guanto per togliersi l'anello e darlo al gioielliere, colla coda dell'occhio vede i due «stupidi» che si sono fermati, fingendo di guardare nella vetrina).

Emma si fa provare e riprovare la misura per l'anello; si fa mostrare delle perle, delle riproduzioni artistiche, romane, pompeiane, un magnifico gioiello destinato alla principessa Elena; compera una spilla americana con una piccola turchese — sono la sua passione le turchesi! — ma i due «stupidi» non se ne vanno! Emma allora si risolve; un po' confusa, un po' agitata, esce in fretta dal negozio, salutando col capo il gioielliere ch'è corso innanzi per aprirle la vetratina, e passa accigliata, furente dinanzi ai due ostinati e ineducati galanti, che quasi le sbarrano il passo, mentre, [224] l'ufficialetto poeta, dalla caramella, prende sotto il braccio il biondino dal paltò, mormorando «Ancor più bella nell'ingiusto sdegno!...»

Emma li detesta, li odia. Cammina ancora più in fretta, ancora più diritta, ancora più seria; pure, anche senza mai voltarsi, senza vederli, indovina, sente che i due le tengono dietro.

Emma (fra sè) Che gusto ci trovano a rendersi antipatici!... Se passando da Aragno, vedo mio marito, lo chiamo. E allora voglio godermi la loro faccia! (Ma quando passa da Aragno, suo marito non c'è più, ed Emma torna ad arrabbiarsi) No, no, no! Sola, a Roma, non voglio più uscire. Mai più! Mai più! Ma dov'è questo Cagiati?.. Forse l'ho lasciato indietro? (Si ferma un attimo incerta, guardando i negozii innanzi e indietro).

Un vecchiotto rotondo, con un gran barbone tinto e un catenone d'oro a doppio giro che la teneva d'occhio, le si avvicina subito, di colpo:

Madame!... Pardon, madame...

Emma si volta, trasalendo, e il rotondo vecchiotto, inchinandosi, levandosi il cappello e sfoggiando il grosso brillante del dito mignolo, continua con un barbaro francese e un marcatissimo accento veneto:

Pardon, Madame! Est-que vous cherchez quelque magasin?... Quelque fournisseur?... Je suis à vos ordres pour vous l'indiquer!

Emma (turbata: sorpresa) Cagiati...

Quell'altro. Cagiati?.. Il chincagliere?... Voilà! (le indica un negozio un po' più innanzi).

Emma. Grazie! (e voltandogli le spalle si avvia in fretta e in furia verso il negozio indicatole).

Quell'altro (correndole dietro) È facilissimo confondersi, [225] quando si è forestieri; perchè io scommetto che la signora non è di Roma.

Emma, senza rispondere, entra da Cagiati; il vecchiotto si ferma fuori in osservazione, e così, cogli altri due che arrivano... sono in tre!

La fierezza della giovane signora si rivolta ad una tale persecuzione; essa si sente sdegnata, ma in un attimo ritrova tutta la sua padronanza, la sua calma signorile.

Emma (a uno dei commessi del negozio, dopo aver scelto e preso il servizio per il the). Mi faccia il favore di chiamarmi una carrozza e dica al cocchiere di condurmi in via Condotti alla farmacia Inglese.

Emma attraversa in un lampo il marciapiede e salta nella carruzzella, mentre i due «stupidi» da lontano rimangono con un palmo di naso, e quell'altro, il tondo pancione, le fa una profonda scappellata.

Giunta alla farmacia Inglese, ordina al cocchiere di aspettare, scende, entra di volo nella bottega e ancora tutta ansante comincia le sue ordinazioni: sei scatole di sapone, dodici boccettine di estratto, sei bottiglie di acqua per toilette, sei scatole di cipria e ancora e ancora — anche colla fretta ci prende gusto! tutto ciò che può avere à la peau d'Espagne.

Mentre il commesso gira per il negozio colla lunga nota delle ordinazioni per preparare il pacco, Emma, sempre un po' in orgasmo, lancia occhiate sospettose fuori dai cristalli della bottega.

Emma (dopo aver battuto col piedino per terra nervosamente, irritata dalla flemma del farmacista) Può far presto, non è vero?

[226] Il commesso (con comodo) Se mi vuol lasciare l'indirizzo, le manderò tutto all'albergo.

Emma. Sì, sì; va bene: albergo Milano. (Poi, come per vendicarsi e per rinfacciare ai suoi persecutori la loro sfacciataggine, invece del suo, lascia l'indirizzo di Giordano) Giordano Mari, hôtel Milano, numero 30 o 31. E mandi insieme anche il conto (più forte, ben chiaro) a mio marito.

Uscita dalla farmacia, la «signora» Mari salta di nuovo in carrozza. Non ha girato nè la testa, nè gli occhi, ma ha già visto in un attimo, di su e di giù, per tutta via Condotti, che «quegli altri» non ci sono.

Emma (al cocchiere) Albergo Milano. Ma non passare dal Corso!

Anche in carrozza tutti la guardano, tutti si voltano; è un'oppressione; il suo piedino non può star fermo; si agita, batte sotto il piccolo sedile, ancora più irritato, ancora più nervoso.

— Che rabbia! Che rabbia! Che dispetto!

Ha sempre timore di veder comparire quei «due stupidi» e quell'otre rigonfio, dipinto e indorato.

— Dio, Dio! Come sono sfacciati qui a Roma! Sfacciati e sconvenienti! Eccoli! Eccoli!... Tutti e tre! (Forte: al cocchiere) Ti ho detto di non passare per il Corso!

Il cocchiere (senza voltarsi) Lo attraversiamo soltanto.

Emma. Fa presto! Albergo Milano!

— Sissignora, non dubiti. Ho capito!

Ma, intanto, i «due stupidi» si fermano sorridendo, fissandola:

— Pulcherrima Dea! — esclama l'ufficiale. E, [227] un poco discosto, l'otre dipinto che fa una nuova e ancora più profonda scappellata. E tutti gli altri che continuano a voltarsi, a fermarsi, lanciandole addosso occhiate lunghe, cupide, villane? Emma arrossisce, abbassando il capo. Certe volte le pare di sentirsi frugare, di sentirsi svestire da quelle occhiate odiose.

— Auf! Che bile! Che bile! Che rabbia! Che dispetto!

È un'impressione di avvilimento, è un senso di disgusto che rivolta le sue fibre più intime, tutto ciò che c'è in lei di delicato, di sensibile, di vivo, di vibrante. Emma ne soffre: ne soffre nel suo pudore e nel suo cuore; ne soffre la donna e ne soffre l'innamorata.

— Non sanno, non capiscono, non vedono questi romani che io sono una donna onesta e che appartengo ad un marito? Sì! Sì! Sua, soltanto sua, del mio Giordano, tutta sua. Sfacciati! Antipatici! Mio marito soltanto ha diritto di guardarmi! Lui sì, lo voglio! Sempre! Come lo amo! Quanto lo amo! Ancora di più! Sempre di più!

E in quel momento, in quell'orgasmo, in mezzo al dispetto, in mezzo alla collera, pensa a Giordano, a «suo marito», come ad una liberazione. Lo ama, lo ama appassionatamente, con tutto l'ardore e con tutto l'entusiasmo dell'animo e insieme con un senso di timore stranissimo. Potrà ancora trovarsi con lui, sola con lui, senza più vedere quelle facce, quegli occhi intenti, fissi, bramosi?

Emma (al cocchiere) Fa presto.

— Sissignora.

Che fretta di rivederlo! di correre, di buttarsi nelle sue braccia!... E che bisogno di dirgli tutto!

[228] Finchè non ha detto tutto a suo marito avrà sempre addosso, nei nervi e nel sangue, le occhiate, i sorrisi, le facce di quegli uomini. Ha bisogno di dirgli tutto, di dir tutto «al suo amore» per sentirsi sollevata, come purificata. Ha bisogno di essere guardata dai suoi occhi buoni, di vedersi desiderata dai suoi occhi cari, per sentirsi ancora interamente sua, solamente sua, come prima...

E un bacio? Che bisogno di un bacio da quella bocca adorata, così bella e così dolce!

Emma (smontata di carrozza: al portiere dell'albergo) Mio marito è ritornato?

Il portiere. Non ancora. Ci deve essere una lettera per il signor commendatore. (Va a prenderla, dov'era già appesa, al quadro dei forestieri, e la consegna ad Emma).

Emma. Appena viene mio marito, non mi cerchi al restaurant; sono di sopra. E pagate la carrozza!

Alcuni viaggiatori, ch'erano sul portone aspettando l'omnibus, rientrano sotto l'atrio dell'albergo per vedere più d'appresso la bella milanese. Emma comincia a salir le scale e vede che si avvicinano guardando in su: allora fa di volo i gradini e col fru-fru delle sue vesti sembra quasi un uccelletto che fugga spaurito, sbattendo le ali.

[229]

V. All'albergo.

Giordano Mari, che si è fatto aspettare fin quasi al tocco, trova Emma buttata sul canapè, tutta in lacrime.

Giordano (senza molto spaventarsi) Che è successo?

— Non sei venuto più. Ti aspettavo tanto tanto, e non sei venuto più.

— Non sono venuto? Eccomi.

— Adesso! Così tardi!

— Spero, almeno, che avrai avuto abbastanza giudizio per far colazione.

Emma è in collera; risponde appena con una alzata di spalle.

Giordano. Io non ho potuto esimermi. Ho dovuto, per forza, far colazione da Doney coll'onorevole Cogoleto: mi ha invitato: ha molto insistito. (Rivolgendosi a sua moglie, la testa alta, sporgendo il petto, coll'autorevole maestà dell'uomo d'ordine e di consiglio) Tu, cara, devi abituarti a non aspettarmi, quando vedi che si fa troppo tardi.

Emma. Impossibile.

— Come impossibile? Questa è una parola, per [230] esempio, che io non voglio mai sentire. Per me, a questo mondo, non c'è mai stato nulla d'impossibile.

Emma (ostinandosi) Impossibile! Impossibilissimo.

Giordano (colla voce leggermente alterata) Ti prego: bisogna abituarsi a riflettere. Non sono libero! Ho i miei studii, il mio lavoro, i miei impegni, non posso essere tutto il santo giorno a tua disposizione, perchè io... potresti anche generosamente risparmiarmi l'amarezza di dovertelo ricordare, io non sono ricco.

Emma (con effusione, con trasporto, per farsi capire, per giustificarsi) Impossibile! Ho detto impossibile perchè io non posso stare senza di te! Non voglio più uscire senza di te!

Giordano (osservandola) Ma, infine, che hai?

Emma (balbettando) Dio mio! Dio mio! Perchè sei tornato tanto tardi e sei tornato tanto cattivo, tanto cattivo, proprio oggi? (Lo guarda, lo fissa esitante: ad un tratto, gli si butta al collo stringendolo quasi disperatamente, sussultando, tremando, scoppiando in lacrime).

Giordano (con quella dolcezza forzata, stentata, che nasconde la stizza incipiente) Ma insomma, cara, che cos'è successo di nuovo? (La guarda: le dà un bacio sui capelli, poi fa per allontanarla).

Emma. No! No! Qui! Lasciami qui, sempre qui.

Fra quelle braccia, alla tenera effusione, al dolce calore, colla testina appoggiata al petto di Giordano, ascoltandone tutti i battiti del cuore, Emma si sente riavere, si calma a poco a poco, si consola.

Giordano (alzandole il capo) Dunque?

[231] Arrossendo, con un sorriso negli occhi furbetti che spunta ancora fra le lacrime, essa gli racconta le sue avventure della mattinata, le sue emozioni, la sua fuga in carrozza.

Giordano (con gravità) Questo succede, cara, perchè voialtre donne siete tutte un po' matte. Per piacere, per far colpo, buttate via tutto il vostro tempo e un monte di quattrini nei cappellini più strani e che dànno più all'occhio, nelle vesti più vistose, più appariscenti; state un'ora ad acconciarvi allo specchio prima di uscire, per far colpo, per far girar la testa a tutti gli uomini, e poi, quando finalmente siete riuscite a farveli correr dietro, vi spaventate.

Emma (colpita, mortificata, offesa) Ma io...

Giordano. Anche tu, quando vai fuori, cerca di vestirti con più semplicità, con più serietà e allora vedrai che la gente non ti correrà dietro.

Emma. Ma io mi vesto per te! Soltanto per te! Non voglio piacere che a te.

Giordano (sorridendo ironicamente) Già; la solita storia, per noi poveri mariti. Sai benissimo che per piacere a me non hai bisogno di grandi abbigliamenti! Tanto più mi piaci quanto più sei semplice. Per piacere soltanto a me non ci sarebbe bisogno di viaggiare con dodici bauli, come una compagnia comica.

Emma è diventata pallidissima, ma non piange più. Lo fissa un istante maravigliata, stupita; poi gli volta le spalle con un moto di collera, e va a guardare dalla finestra, appoggiando la fronte sui vetri chiusi.

Giordano (le dà un'occhiata di traverso, e, dopo un'alzata di spalle, comincia a passeggiare in su e [232] giù per la stanza: fra sè) Ci vuol altro con quella lì! Per tenerla allegra bisognerebbe continuare tutto il giorno a fare all'amore!

Giordano Mari, invece, ha mangiato male, ha forse bevuto più del solito col Cogoleto, nel calore del discorso, nell'enfasi della commozione, ed è tornato all'albergo di pessimo umore. Non è stato invitato, come ha detto a sua moglie, ma ha finito per invitare lui stesso il colonnello a colazione.

Col direttore del Popolo — il Cogoleto glielo ha detto subito — non c'è niente da poter sperare, nè dalle lusinghe, nè, tanto meno, dalle minacce. Non ha bisogni, non ha desiderii e perciò fa pompa d'incorruttibilità; è testardo come un mulo, ma nel fondo non è cattivo. Cattivo no; è sempre in buona fede anche quando fa il male. È un vecchio fanciullo, che morde qualche volta, ma, appunto perchè è rimasto fanciullo, si è conservato un ingenuo. Voi non siete andato in cerca di un ricco matrimonio? Voi siete stato quasi costretto a sposare la signorina Dionisy; avete ceduto alle preghiere dei parenti per un sentimento gentile di pietà, di compassione? Ebbene, tutto ciò, perchè non lo dite voi stesso allo Schiavino? Per parte mia, non c'è altro da fare: bisogna tentare il colpo di sorprenderlo, di commuoverlo, colla verità.

E così è stato convenuto. L'onorevole Cogoleto ha scritto la lettera di presentazione e Giordano Mari deve recarsi, la sera stessa, in cerca di Pietro Schiavino alla Direzione del Popolo.

Il passo è grave, è rischioso. Il pensiero di quell'incontro, di quel colloquio, lo agita, lo rende nervoso.

[233] C'è anche il pericolo di venire alle mani!

E continua, continua a passeggiare sempre su e giù per la stanza: torna a guardare sua moglie alla sfuggita: Emma è sempre alla finestra colla fronte appoggiata ai vetri.

— Anche lo zio! — Giordano non è arrabbiato soltanto per quel rospo dello Schiavino, ma ha preso la mosca anche per suo zio. È stato due volte al Ministero senza poter mai aver l'onore di essere ricevuto. Sua Eccellenza gli ha fatto dire di aver mandato una lettera all'albergo, e all'albergo il segretario, perchè il portiere era uscito un momento, gli ha risposto: — Niente per il signor commendatore!... Nessuna lettera; e così, della conferenza, che è lo scopo del suo viaggio a Roma, ne sa meno di prima. Nè quando si farà, nè dove, nè se interverrà la Regina, nè se potrà aver il tempo di prepararsi; niente.

Giordano Mari (fermandosi su due piedi: forte, rivolgendosi ad Emma) Ma... e dunque? Vuoi fare colazione sì o no?

Emma (senza voltarsi, colla voce un po' roca) Non ho fame.

Giordano (si avvicina a un tratto al campanello e lo sona a lungo, con forza).

Emma (sempre dalla finestra) Ho detto che non ho fame.

Giordano. Se non hai fame, fai benissimo a non mangiare. Pranzeremo più presto, quando vuoi. Avrai mangiato, come al solito, appena alzata, caffè e latte, burro, miele, biscotti!

Emma (col muso) Ho mangiato moltissimo.

Giordano. So anch'io che non puoi aver fame! Qui ti alzi troppo tardi e non siamo all'Argentera.

[234] Emma. Allora perchè hai sonato?

Si sente bussare all'uscio.

Giordano. Avanti.

Entra il cameriere: Emma si tiene nascosta fra i cortinaggi della finestra.

Giordano (al cameriere) E così? Questo portiere? C'è o non c'è?

— È tornato adesso. Ha detto che è arrivata una lettera, per lei, questa mattina, e che l'ha consegnata alla signora.

Giordano (chiamando forte, mentre il cameriere esce in punta di piedi e chiude l'uscio) Emma!

Emma (accigliata, col viso pallido, stravolto, si presenta senza avvicinarsi, rimanendo nel vano della finestra).

Giordano. Dov'è questa lettera?

Emma. Devo averla messa lì, in qualche posto, sul tavolino o sulla scrivania.

Giordano (fuori di sè) Non sai nemmeno? Non sai dove metti le lettere che mi devi consegnare? (Cercando dappertutto, frugando persino, sgarbatamente, nelle tasche della giacchettina di Emma che trova sopra una seggiola). E un'altra volta, per tua regola, per tua norma, cacciatelo bene in testa, le mie lettere si lasciano dal portiere! Le mie lettere non si devono toccare! Ma, viva Dio, io non ti capisco! Tu diventi tutti i giorni più... Ah! Eccola! (Trova la lettera sulla toeletta, sotto il cappellino di Emma).

Emma (con impeto, avanzandosi) Più... che cosa? Divento tutti i giorni che cosa?

Giordano (butta il cappellino sul canapè: apre e legge la lettera).

Emma (afferrandogli un braccio: scotendolo) Più [235] che cosa? Rispondi. Hai detto che divento tutti i giorni più?... Devi dirlo! Oh, ma devi dirlo, rispondi: più... che cosa?

Giordano (mentre legge, la sua faccia cambia a vista d'occhio: diventa raggiante: con un grido di gioia) La Regina! Ha accettato! Interverrà la Regina! L'avrò alla mia conferenza. Me lo ha scritto lo zio! Senti! (Circondando Emma con un braccio, stringendosela e tirandosela vicina sul petto, per leggerle la lettera).

Emma (sciogliendosi vivamente) No! no! Devi dirlo! Devi rispondere! Tutti i giorni divento più?... più?...

Giordano (distrattamente, tanto per calmarla) Più cara; tutti i giorni più cara. Senti, carina mia! (Ricominciando da capo la lettera che non aveva ancora finito di leggere) «Darai la bella notizia alla nostra Emma per la prima ed a mio nome; Sua Maestà, la nostra graziosa e benamata Regina, ci farà l'altissimo onore di assistere alla tua prossima conferenza. Fisseremo il giorno e l'ora più opportuna di comune accordo; ma, intanto, regolati che bisognerà far presto, il più presto possibile. Se devi prepararti, potremo fissarla per sabato o per domenica, ma non più tardi certamente, perchè Sua Maestà parte per Napoli ai primissimi della settimana ventura, e vi si fermerà, almeno si crede, parecchio tempo.

«Dirai alla mia formosissima e preclara nipotina che oggi, purtroppo, sono occupatissimo, ma che, per non aver da rimpiangere tutto un giorno perduto, verrò a prenderla questa sera alle nove per condurla al Costanzi: — Cavalleria Rusticana, for ever!

[236] «E a te, mio caro... la solita raccomandazione: dalle fiorite pagine

Sperdi ogni ria parola!

«Io non ti farò la predica, come il conte zio o don Ferrante, ma solo ti dirò, col frutto della mia esperienza, che per arrivare lontano, e per salire in alto, bisogna sempre andare adagio, molto adagio... anche colla filosofia!»

Giordano (con aria preoccupata) Sabato o domenica al più tardi? Oggi che giorno è?

Emma. Mercoledì.

Giordano (facendo il conto sulle dita) Mercoledì, giovedì, venerdì, sabato... quattro giorni!

Emma. Anzi tre, perchè oggi non conta.

— Brava! Domando io se in tre giorni si può preparare una conferenza!

Emma (rasserenandosi a poco a poco e dimenticando il proprio risentimento, ansiosa e inquieta per il buon nome e la fama di suo marito) Assolutamente, ricordati; se non ti senti, se non sei ben sicuro, se ti manca il tempo necessario, rispondi di no. Lo zio, sai, lo zio... anche per altri indizii mi pare inscemito; o gli è montato il portafoglio alla testa. «Salire in alto!» Ma che! Tu non hai bisogno di salire in alto: ci sei! Tu... sei tu, e basta. E mi pare che lo zio non l'abbia ancora capito. A Roma! Appunto! Siamo a Roma e non si scherza. Come hai sempre detto benissimo, Roma oltre l'essere la capitale politica, è anche il centro più intellettuale di tutta Italia. Dunque, pensaci bene: prima o dopo, non importa, ma devono restar tutti a bocca aperta, dinanzi a te, come a Milano.

[237] — Come a Milano, a Bologna, a Napoli.

Emma. Sì! Sì. Come da per tutto!

Giordano accarezza leggermente le guance, i capelli di Emma, scherza tirandole un po' il nasino, allungandole i ricciolini della fronte, ma, intanto, sta pensando, combinando il suo piano e l'idea gli sorride. Colla scusa della ristrettezza del tempo e tirando in ballo un po' le convenienze, un po' la volontà dello zio Albertoni, forse forse, invece di dover mettersi a fare, così stanco e svogliato, tutto il gran lavoro della seconda conferenza del ciclo, potrebbe finire, anche a Roma, col cavarsela bene, ripetendo la prima. Certamente, bisognerebbe cambiare l'esordio e la chiusa: tagliare qua e là: sopprimere la frase di Voltaire che disinventa Dio.

Giordano (ergendosi solenne e maestoso, e con quella sicurezza di sè che fa brillare gli occhi di Emma, perchè s'illude quasi di essere ancora in via San Paolo durante il loro primissimo colloquio) Giovedì, venerdì e sabato: tre giorni. Sono corti e sono lunghi, secondo; l'uomo, cara mia, quando vuole, fa ciò che vuole. Se abbiamo inventato e creato Dio, lo abbiamo fatto apposta... per fare insieme dei grandi miracoli!

Emma (non ha capito bene, ma è stretta fra le sue braccia: lo vede così alto, le sembra così grande: si sente piccola piccola, al suo confronto: si sente umile. Essa lo guarda in estasi, beata: e alzandosi sulla punta dei piedi e coi ditini bianchi, inanellati, scintillanti, sollevandogli i baffi, gli bacia quella bocca adorata, che sa dire tante belle cose con un suono di voce così tenero, così armonioso che la rapisce, la incanta, la commuove deliziosamente. Dopo [238] un momento: tenendosi ancora stretta, appesa al suo collo) Poco fa... volevi dire che divento tutti i giorni più noiosa... non è vero?

Giordano. No; ma no. Non parlarmene più o mi torna la luna.

— Mi hai perdonato? Per la lettera?

— Non ero arrabbiato con te. Ero seccato, un poco, per tuo zio che mi aveva fatto andare due volte inutilmente, su e giù, sino al Ministero; ed ero poi seccato moltissimo per aver dovuto far colazione con quel fanfarone del Cogoleto... senza la mia Emma buona, cara... senza la mia gioia bella.

Emma (colle lacrime, che le corrono subito agli occhi, pieni di amore e di riconoscenza) Quanto sei buono! E come hai sempre ragione tu. Nino! Mio! Caro!

Giordano (a sua volta: nobile e generoso) Mi hai perdonato?

— Io sì; e tu?

— Tutto! E, per oggi, riposo. Non voglio più lavorare. Voglio dimenticarmi, persino, di quella maledetta conferenza.

Emma (alzando la manina minacciosa, e contando colle dita e con un certo fare maliziosetto e molto birichino i giorni della settimana) Giovedì... Venerdì... Sabato...

Giordano (prendendole la mano, serrandola stretta nella sua e baciandola) Ma oggi è mercoledì! Oggi non conta! Si va fuori! Si fa una bella scarrozzata, come a Napoli, fino all'ora del pranzo!

Emma (ridendo) Io, veramente, andrei a pranzo prima, e farei dopo la bella scarrozzata.

— Ma sicuro, povera piccola! Non hai fatto ancora colazione!

[239] — Quando sono felice, ho subito fame; e adesso... ho moltissima fame!

Giordano suona perchè venga il cameriere; ordina la colazione. Intanto, Emma si accomoda un po' i capelli, che sono troppi e sempre spettinati, e si mette il cappellino.

Giordano (mentre si spazzola gli abiti e si liscia i baffi e la barba, torna a pensare all'incontro di quella sera, alla sua presentazione, alla sua visita al direttore del Popolo: dopo un momento, ad Emma) Dunque, siamo intesi: oggi tutta la giornata è nostra.

— E... Cogoleto?

— Nostra, fino all'ora di pranzo. Poi, dopo, stasera, mi prometti di essere ragionevole. Non vorrai condannarmi alla Cavalleria Rusticana a vita. Vai sola, collo zio, al Costanzi. Io, intanto, lavoro un paio d'orette, e sul tardi vengo a prenderti.

Emma (è pochissimo soddisfatta di quel progetto, ma vi si rassegna temendo l'umore di suo marito così variabile) Sì, sì, Nino; sarò ragionevole. Ma per altro... volevo sempre dirtelo e poi... ho aspettato che tu fossi di buon umore, per riderne insieme. Lo zio, sai, è... molto cambiato. Diventa un po'... strano.

Giordano (inquieto) Ti sembra meno premuroso? Meno affettuoso?

— No, no, anzi! (fissandolo sorridendo) Tutt'altro!

Giordano (rasserenandosi) Non ci devi badare; e non gli devi credere. È l'epoca!... È la scuola vecchia del giulebbe romantico-sentimentale a cui appartiene!

Emma. Invece... proprio no. Fa certi discorsi... alle volte anche certi scherzi...

[240] Giordano (ridendo) Oh! Oh! Avresti dunque ragione tu? Diventato ministro, è diventato anche... Richelieu?

Emma (esitando). Ieri sera... dopo pranzo... tu eri uscito... eri andato innanzi. Nell'aiutarmi a mettere la mantellina, mi ha dato un bacio... (arrossendo e indicando col dito un piccolissimo neo fra i ricciolini della nuca) proprio qui.

Giordano. E tu?

Emma (con un brivido, nervosa) Mi son voltata di colpo: gli ho data un'occhiata... Deve aver capito, perchè è diventato pallidissimo.

Giordano (conciliativo) È tuo zio. Ti ha sempre baciata da che sei al mondo!

— In una maniera ben diversa! E non mai trovandomi sola! E poi bisogna sentire tutte le... sciocchezze che mi dice!

— Ecco, sciocchezze! Hai detta la parola giusta. Lo hai messo a posto? Hai fatto benissimo e devi sempre regolarti così. Ma devi persuaderti che... appunto sono sciocchezze. E non ci devi più nemmeno pensare, per non turbare la profonda onestà della tua coscienza e per non correre il rischio di creare inimicizie... in famiglia. La donna di spirito e di tatto deve appunto sapersi difendere, deve saper tenere la gente a posto, ma senza bisogno di far musi, senza ostentazioni, senza esagerazioni. Gli hai data la sua opportuna e necessaria lezioncina? Gliel'hai fatta capire? L'ha capita? Brava: allora basta. È un incidente che dev'essere dimenticato da tutti e due, anzi, da tutti e tre, perchè c'entro anch'io, la mia parte. Del resto, credi pure: gli uomini, certe volte, commettono... sciocchezze, perchè se ne credono [241] in obbligo. Se per caso si trovano soli, con una donna, subito sentono il dovere di spiattellarle una brava dichiarazione, di farle il galante. È una regola dell'etichetta. E tu, cara, devi abituarti.

Emma (interrompendolo: congiungendo le palme in atto supplichevole) No! No! No! Ti prego, ti supplico! Farò tutto ciò che vorrai, ma senza abituarmi!

[242]

VI. Pietro Schiavino.

La redazione del Popolo: l'ufficio del direttore: un bugigattolo nei mezzanini, con un gran tavolo nel mezzo, pieno di giornali sfogliati e tagliati, e accanto all'uscio, riparata da un paravento, una scrivania sulla quale c'è appena il posto per le cartelle e il calamaio, tanto è ingombra di roba: libri, opuscoli, lettere e carte. Alle pareti: due sciabole intrecciate, la maschera e i guanti da scherma; i ritratti di Mazzini e di Cattaneo. Un caldo soffocante; un gran fumo di pipa; odore di gas e inchiostro fresco, e continuo, assordante, il fracasso delle macchine della tipografia vicina.

Sono le dieci di sera: l'ora in cui comincia il lavoro, perchè il giornale esce al mattino.

Pietro Schiavino (un gran testone arruffato: una bella faccia onesta con una lunga barba brizzolata: la sola vanità del direttore del Popolo. È dalle nove che s'è messo a scrivere l'articolo: scrive irregolarmente, ma rapidissimamente colla mano storpiata senza un dito, perduto — ormai chi sa dove! — in Sicilia).

Un ragazzo di stamperia, che fa anche da portiere, [243] sguscia tra l'uscio e il paravento e si presenta dinanzi al direttore, porgendo un biglietto di visita.

Schiavino (alza il capo e fissa il ragazzo, cogli occhi stravolti, stanchi dal lavoro) Che cosa c'è?... Ritorni domani.

Il ragazzo (sempre porgendo il biglietto di visita) Ha detto che se adesso, lei, è occupato, aspetterà, o ripasserà più tardi.

Schiavino (prende il biglietto, legge il nome e, subito, lancia un'occhiata rapida, istintiva alle due sciabole appese alla parete) Fa passare. No, aspetta! (Prende le cartelle scritte e le dà al ragazzo da portare al proto in tipografia) Che si regolino: ce ne sarà ancora per una mezza colonna. Poi fa entrare quel signore.

Uscito il ragazzo, Pietro Schiavino si alza e va in mezzo alla stanza: vuol essere pronto a difendersi, caso mai quell'altro fosse venuto per insultarlo o aggredirlo.

Giordano Mari (niente soprabitone dalle falde svolazzanti, niente cilindro: giacca bigia e cappello basso. Inchinandosi, presenta una letterina al direttore).

Schiavino (prende la lettera, salutando con un breve cenno del capo; ma, mentre comincia a leggerla sempre in sospetto, tien d'occhio ogni mossa di Giordano. Dopo aver voltato il foglio e vista la firma, con un «oh!» di maraviglia).

— Stefano Cogoleto!...

Giordano Mari. Siamo vecchie conoscenze di Venezia, di Padova. L'ho riveduto questa primavera, di passaggio, a Milano. Ieri ci siamo incontrati per caso e siamo andati a pranzo insieme.

[244] Pietro Schiavino si avvicina alla lampada a gas e ormai senza più nessuna diffidenza legge attentamente tutta la lettera.

Camera dei Deputati

Carissimo Schiavino!

«Se la monarchia, presentemente, ci divide, il nostro cuore, il nostro passato e la reciproca stima ci riuniranno per sempre; ed è con questa sicurezza, oso dire con questo diritto, ch'io ti presento il mio egregio amico Giordano Mari. Egli desidera darti alcune spiegazioni, ed io stesso l'ho consigliato, l'ho indotto a questo passo dopo aver molto pensato e discusso, e dopo aver finito dove si avrebbe dovuto incominciare, col ricordarsi sopra tutto che tu sei un uomo di primo impeto, ma di gran cuore, e agire in conseguenza.

«Un duello?... Perchè?... Anche Giordano Mari ha già fatto e assai brillantemente le sue prove. Tutti e due avete da lavorare; un duello sarebbe un perditempo inutile e dannoso, perchè maggiormente divulgherebbe l'offesa e ne darebbe cognizione a una persona cara, per la cui felicità e tranquillità Giordano Mari è in dovere di compiere qualunque sacrificio, anche quello del proprio risentimento.

«Va bene?

«Io ti conosco; so, da tutta la tua vita d'uomo, di soldato e di pubblicista (e di ciò ho reso convinto anche il mio egregio amico), so che tu non attacchi mai nessuna persona con mire indirette, [245] o per partito preso. Avrai ragione, avrai torto, ma tu, singolare temperamento di giornalista... politico, scrivi soltanto ciò che ti esce dal cuore. Il tuo articolo, però, a ragione o a torto, non è mai altro che un moto, un impeto spontaneo e prepotente del tuo animo libero, fiero, generoso, ma che può anche ingannarsi... o essere ingannato.

«È per tutto ciò, per questa tua bella e nobile schiettezza, che i tuoi vecchi amici, diventati oggi tuoi avversarii politici, ti conservano per altro e ti professano intera e inalterata la loro stima e contano, con orgoglio, sul ricambio della tua buona e fedele amicizia.

«Io, come te, avevo giudicato molto severamente il professore Mari. Spero che tu, con me, finirai col ricrederti sul suo conto.

«Una stretta di mano dal tuo caporale del '60 e dal tuo colonnello del '66.

Stefano Cogoleto»

Pietro Schiavino, dopo aver letta tutta la lettera, è diventato serio, triste. Gli succede sempre così, ogni qual volta si trova dinanzi il suo vecchio compagno d'arme, o si trova con lui in qualche rapporto.

... Quante speranze, quante lotte, quanti sacrifici per un ideale comune, e adesso?.. Eppure, Stefano Cogoleto, di Sarzana, è un galantuomo, un gran galantuomo, un patriota e, per Dio, un fegato sano!... Mah!... L'ambiente parlamentare!... È stato l'ambiente parlamentare!... Lo ha guastato e rammollito completamente!... Peccato!

[246] Schiavino (dopo queste considerazioni e fatto un sospiro, si rivolge a Giordano Mari, indicandogli una seggiola) Prego... se vuol sedere.

Giordano Mari. Se in questo momento ella ha da fare, io tornerò più tardi; anche domattina, se le fosse più comodo. Mi basta, per il momento, di averle consegnato la lettera del colonnello Cogoleto e di aver avuto l'onore di conoscerla personalmente. Vuol fissarmi un'ora? Quando vuole. Sono sempre a sua disposizione.

Schiavino. No, no; anche adesso; ciò che vuol dire, dica pure.

Giordano. Ma... e allora come si fa? (gli indica un gran cartello appeso ad un uscio, sul quale è stampato a lettere cubitali):

AVVISO IMPORTANTISSIMO

NON SI ESPORTANO GIORNALI DALLA REDAZIONE.
LE VISITE
NON POSSONO DURARE PIÙ DI DIECI MINUTI
ABOLITI I COMPLIMENTI I TITOLI
E LE PAROLE INUTILI.

Come si fa? Ho pratica anch'io di giornali, mi vanto di essere stato anch'io giornalista e di esserlo ancora un poco. So la fretta e la furia di questi momenti e d'altra parte... (sorridendo) mi potrebbe occorrere almeno un quarto d'ora.

Schiavino (parlando in fretta, coll'aria di chi non può schivare una seccatura, ma vuol sbrigarsene su due piedi) Lei mi domanda un quarto d'ora ed io posso accordarle venti minuti: il tempo per comporre l'articolo che ho mandato in tipografia. (Indicandogli a sua volta l'avviso stampato) Soltanto [247] tenga presente l'ultima raccomandazione: Sono abolite le parole inutili.

Giordano (siede democraticamente, mettendo il cappello per terra e le mani in tasca) Allora, eccomi a lei, francamente, lealmente, da gen... (stava per dire «gentiluomo», ma si corregge in tempo) da galantuomo a galantuomo. Ho letto il suo articolo contro di me. Lo chiamo articolo... (cominciando a riscaldarsi), ma potrei anche chiamarlo... con un altro nome.

— Lo chiami come vuole. Soltanto, l'avverto: ho scritto ciò che penso e non ritratto una parola.

Giordano (con fierezza: fissandolo in faccia arditamente) So che non si viene da Pietro Schiavino per domandare una ritrattazione. E tanto meno personalmente. In questo caso non sarei venuto; avrei mandato. Indotto, persuaso anche dal colonnello Cogoleto, io sono qui, ripeto, un galantuomo in faccia ad un altro galantuomo, non per domandare rettifiche, ma per ottenere la sua stima. Sissignore; perchè alla sua stima ho diritto... e perciò anche il dovere di pretenderla.

Giordano Mari parla chiaro, fissa bene in faccia, alza la voce, non ha paura: al direttore del Popolo riesce simpatico.

Giordano (continuando sempre sullo stesso tono) E intendiamoci bene, e subito. Non mi occupo nemmeno di quella parte dell'articolo dove si fa la critica. Il letterato, non lo difendo. In venti anni che scrivo, che lavoro, mi sono sempre abbandonato tutto intero ai miei critici, perchè si divertano. Ma si figuri! in vent'anni, non ho mai perduto la calma e l'appetito, nemmeno quando [248] c'è stato chi ha trovato il suo piacere, o il suo tornaconto, a darmi dell'asino! A lei, perchè è lei, potrei soltanto replicare, così alla sfuggita, che se più volte ho «saccheggiato il Taine,» l'ho anche più volte citato, come potrà facilmente verificare quando le manderò il volume delle mie conferenze. Potrei forse farle anche osservare, che per conoscere bene quanto in me ci sia di falso, come filosofo e come scrittore, bisognerebbe esser dentro nel mio cuore, o aver vissuto con me. Ma di tutto ciò, ripeto, non mi occupo. Ci vorrebbe altro! Ma lei, lei, proprio lei, mi ha insultato come uomo; e il suo insulto è tale, che se mi fosse stato lanciato da un cretino, prima lo avrei schiaffeggiato e poi gli avrei tagliato le orecchie.

Schiavino (alzando a sua volta la voce) Prego! La prego!

Giordano (continuando più forte) Se avessi avuto di fronte una canaglia, avrei fatto un processo.

— Può risparmiare le sue... supposizioni!

— Ma si tratta, invece, di Pietro Schiavino, e a quest'uomo che ho sempre stimato, che devo stimare, coll'amarezza nel cuore e colle lacrime in gola, dico soltanto: Vi hanno ingannato! Sì! Sì! Vi hanno ingannato! Dinanzi a voi — guardatemi in faccia! — non c'è un uomo abbietto... un... mantenuto... (la tensione è troppo forte, non può quasi finir la parola e si lascia cader di peso sulla seggiola, con uno scoppio di lacrime)... un mantenuto di sua moglie!

Schiavino (pesta i piedi con dispetto: gira per la stanza: poi si ferma: lo guarda: gli si avvicina battendogli sulla spalla) Su! Su! Per Dio!

[249] E torna a passeggiare borbottando. Pietro Schiavino ha visto degli uomini cadere ai suoi piedi col cranio fracassato da una palla, rimanendo impassibile; qualcheduno, ne ha ammazzato lui stesso, corpo a corpo, alla baionetta. Ma ha sempre sofferto una debolezza nervosa: quella di non poter veder piangere nè uomini, nè donne: gli fa ira, dispetto, rabbia.

Schiavino (battendogli più forte sulla spalla) Vostra moglie, stasera, era al Costanzi! In un palchetto col ministro Albertoni! — È una donna... si capisce benissimo. Ve ne siete innamorato e non avete avuto torto. Insomma, finitela! Ve l'ho detto avanti; non ho tempo da perdere.

Giordano (alzandosi, col viso ancora stravolto: fissando lo Schiavino) Ebbene, no.

Schiavino. No? Che cosa?

Giordano. Adesso sì; molto. Ma prima non ero innamorato; anzi non volevo assolutamente. È stata lei. (Con straordinaria gravità, ergendosi maestoso e stendendogli la mano) Vi domando il silenzio, sulla vostra parola d'onore.

Schiavino (colpito dalla meraviglia e dalla curiosità e attratto, tanto più dopo aver vista la bella donna, dalla inaspettata confidenza del marito) Parola d'onore. (E a sua volta gli stringe la mano).

Giordano (parlando sotto voce, rapidamente, concitato) Io ero pazzo per un'altra donna. Avevo un'altra relazione, a Milano. Uno di quei legami colpevoli e fatali, che vi turbano la ragione e la coscienza, e che, se qualche angelo, appunto, non vi salva, vi fanno uscir fuori dalla buona strada, forse per tutta la vita. La signorina Dionisy, succede quasi sempre così, colle ragazze, io la vedevo [250] frequentemente; ma con lei avevo parlato appena una volta o due; posso dire, non le avevo badato, non mi ero accorto di nulla. Fu un mio amico, il presidente del Circolo artistico-letterario di Milano, il nobile Barbarani...

Schiavino. Lo conosco.

Giordano (con entusiasmo) Una bravissima, una simpaticissima persona! Fu lui, appunto, che si ostinò a volermi far notare, da qualche indizio, la simpatia della signorina Dionisy per me: simpatia alla quale, naturalmente, io non potevo, non volevo credere. Poi il Barbarani mi riferì i discorsi che si facevano in giro, e che mi mettevano di buon umore come altrettante storielle amene. La ragazza era stata ad una mia conferenza; mi aveva veduto, sentito; io le ero stato presentato e l'avevo accompagnata a casa, e subito — un colpo di fulmine — era cascata, innamorata, morta! Chi poteva credere a tutto ciò? Nessuno, ed io meno degli altri; ma la prudenza, i riguardi m'imponevano di non andare in casa Dionisy, ed io, infatti, più volte invitato, sollecitato, ho sempre cercato e trovato qualche scusa. Di giorno, ed era vero, non avevo un momento disponibile, tutto preso dalla mia opera sul Vescovo Ambrogio, che uscirà prestissimo in una splendida edizione illustrata. La sera, ero occupato... diversamente. Ma, un bel giorno, che succede? Il padre della signorina, un dilettante di musica assai appassionato e intelligente, dà un gran concerto, e viene lui stesso in persona alla Biblioteca di Brera a cercarmi, ad invitarmi. Non vi posso dunque mancare, tanto più che anche quell'altra persona si recava al concerto. Vado; mi trovo colla signorina [251] Dionisy, scambio con lei qualche parola e subito devo accorgermi che il Barbarani ha ragione. Che cosa fo? Scrivo una lettera alla ragazza, nella quale, molto francamente, le dico questo: che io non sono ricco e che per età potrei essere quasi suo padre. Dunque, sarei ridicolo e colpevole lusingandola e lusingandomi d'amore.

Schiavino. Benissimo!

Giordano. E che in ogni caso — queste sono le precise parole — non sarebbe mai stata mia moglie, fino a quando io potessi comparir vile dinanzi a me stesso, seduttore verso i suoi parenti, interessato in faccia alla società.

Schiavino. Benissimo! Bravo!

Giordano (continuando, sempre più infervorandosi, riscaldandosi, coll'accento della verità e della passione) E lei allora, la signorina Emma che cosa mi risponde? «Sono giorni terribili, sempre in urto, in collera con tutti i miei; ma sono contentissima di soffrire per te, sono tua e sarò sempre tua con tutta l'anima, con tutto il cuore.» Che cosa avreste fatto voi nel mio caso?

Schiavino (si accarezza la barba e non risponde).

Giordano. Sareste partito? Sareste fuggito?

Schiavino (accarezzandosi sempre la barba) Probabilmente.

Giordano. Bravo! È quello, appunto, che ho fatto anch'io. Lascio Milano e vado a Padova. La ragazza mi tempesta di lettere. Io, prima, non rispondo; poi, costretto, rispondo tanto freddamente, che la poveretta ne soffre, comincia a star poco bene. Intanto quell'altra persona, di cui vi ho già parlato, si mostra indegna di ogni affetto serio, [252] profondo, e questo disinganno, questa delusione, è naturale, spinge il mio cuore sanguinante verso la dolce, la cara fanciulla. Essa in quel momento è il conforto, la vita nuova dell'anima. Pure, anche questo sentimento lo chiudo, lo soffoco dentro di me e continuo a non scrivere altro che assai raramente e assai freddamente, finchè un giorno, uno della famiglia stessa dei Dionisy, un cugino, l'architetto Carlo Borghetti...

Schiavino. L'archeologo?

Giordano. Precisamente! Carlo Borghetti mi scrive che la fanciulla sta molto male e mi prega di ritornar subito a Milano. (Si leva un grosso portafoglio pieno di lettere dalla tasca interna della giacca, e lo tiene sempre in mano finchè parla). Voglio mostrarvi questa lettera...

Schiavino. No, no; vi credo!

Giordano. Come avreste fatto anche voi, corro a Milano...

Schiavino. S'intende.

Giordano. Ma resisto ancora; resisto sempre. Oh, se fosse stata povera, quella ragazza! Ma era ricca, ed io ho sempre sacrificato tutto al mio onore, al mio orgoglio. — No! No! Non voglio! — Ma la povera ragazza, intanto, sempre male, sempre peggio! I genitori, prima, naturalmente, contrariissimi ed accaniti contro di me, dopo si mostrano arrendevoli, per finire col pregare, col supplicare. Io fo loro dichiarare dal Barbarani e dal Borghetti, li conoscete tutti e due, di esser pronto a partire, a scomparire per sempre dall'Italia, dall'Europa; e disperato anch'io, anch'io coll'amore e colla morte nel cuore, parto, fuggo, vado a Genova per imbarcarmi! (Cercando colle dita tremanti un'altra [253] lettera nel portafoglio) Sentite che cosa mi scrive, appunto a Genova, il dottore della famiglia.

Schiavino (a sua volta stanco, vinto, nervoso). No! ma no! Facciamo presto: vi credo: dunque, basta. L'avete sposata e avete fatto bene. Basta.

Giordano. No; non basta; perchè se avete pubblicamente stampato che io sono il mantenuto di mia moglie, lo avete anche pensato. Il dottore mi scrive queste precise parole: «Per un falso, un malinteso principio di amor proprio, non avete il diritto di porre a gran repentaglio la pace, la felicità di una rispettabilissima famiglia, che merita tutti i riguardi, e forse compromettere anche la vita stessa di una giovane, buona, affettuosa, la cui salute è già molto scossa e vacillante.» — Io non rispondo subito; il dottore viene a prendermi a Genova, mi porta per forza a Milano, e a Milano, pure protestandomi innamorato della ragazza, dichiaro a lei stessa, che, mentre io mi tenevo impegnato per tutta la vita, lasciavo lei, ancora, perfettamente libera; dichiaro ai suoi parenti che io sarei stato felice quel giorno soltanto, in cui avessi potuto sposare la signorina Emma, ma che per arrivare a quel giorno volevo prima assicurarmi, obbligandomi con un editore e coll'ottenere una cattedra, una rendita certa di almeno sei o settemila lire. Questa rendita, senza contare altri lavori straordinarii, avrebbe garantito la mia indipendenza e la mia dignità, colla sicurezza del pane quotidiano. E così ho fatto (Aprendo ancora il portafoglio) Volete vedere i documenti?

Schiavino (chiamando il ragazzo perchè gli porti le bozze dell'articolo) No! No!

Giordano (mettendosi il portafoglio in saccoccia). [254] Prevedevo e quindi disprezzavo anticipatamente le calunnie, le infamie degli invidiosi, dei tristi; ma mi premeva, volevo essere giudicato onesto dagli onesti. (Incrociando le braccia sul petto e fissandolo) E, adesso, rispondetemi: che cosa pensate di me?

Schiavino (stendendogli la mano, e anch'egli, oramai, dopo il calore e l'intimità del colloquio, continuando famigliarmente a dargli del voi). Lavorate di lena, e amate vostra moglie! (Prende le bozze dalle mani del ragazzo di stamperia che entra in quel punto, si mette al tavolino e comincia a correggerle).

Il ragazzo. Aspetto?...

Schiavino. Sì. (A Giordano: sempre correggendo le bozze) Del resto... avevo sentito qualche cosa di questo vostro... romanzo, a Varese, dove ho una sorella maritata e dove vado a passare le mie vacanze. Ma c'è tanto poco di vero... anche nei romanzi che non si stampano!

Giordano (avvicinandosi: aspettando ancora un momento) Dunque, il letterato, lo storico... (sorridendo) il conferenziere sopra tutto, ve lo abbandono; ma, come uomo, posso contare, ormai, sulla vostra stima?

Schiavino (seccato d'essersi lasciato sorprendere dalla commozione e volendo far capire al Mari che è ora di andarsene, continua a correggere le bozze, senza più rispondergli, nè guardarlo).

Giordano (abbottonandosi la giacca) Una sola promessa dovete farmi: quando saprò che sarete a Varese e verrò a prendervi colla carrozza per condurvi a casa mia all'Argentera, per presentarvi a mia moglie, non dovrete dirmi di no.

[255]

VII. La lettera di donna Fanny.

La mattina dopo. Non sono ancora le otto. Nel numero 31 le finestre sono ancora chiuse: è tutto buio. Un gran profumo di peau d'Espagne.

Emma, a un tratto, si sveglia: guarda verso l'uscio del numero 30, sospira, si volta dall'altra parte e si riaddormenta.

Un'ora dopo entra Carolina, la cameriera, portando il caffè e due lettere per Emma. Carolina, come di consueto, pone il vassoio sul tavolino che è accanto al letto della padrona, poi va ad aprire la finestra.

Emma (destandosi una seconda volta: rizzandosi d'un balzo a sedere sul letto e fregandosi gli occhi colle dita) È una bella giornata?

— Sì, signora! C'è un bellissimo sole! Come quello di Napoli.

Emma rivolge istintivamente una seconda occhiata verso il numero 30, canterella a mezza voce, tra un piccolo sbadiglio ed un sospiro:

Oh, dolce Napoli!... Oh, suol beato!

— Ci sono lettere?

[256] Carolina. Sissignora; due.

Emma (senza prenderle in mano: guardando la soprascritta, mentre beve a sorsi il caffè) Una della mamma e l'altra... (con un sorrisetto) Ah! Ah! Quella cara Fanny.!... E il mio babbo? Niente! (Alla Carolina: ficcandosi di nuovo, in fretta, sotto le coperte) Brr! Chiudi, chiudi! Fa freddo!

Carolina (ridendo) Siamo in novembre! (Chiude i vetri della finestra: prepara, accomoda la toeletta, riceve gli ordini per l'abbigliamento di quella mattina e se ne va piano, in punta di piedi, com'è venuta).

Emma (continuando a guardare le lettere che sono sempre sul tavolino, senza risolversi a prenderle e leggerle) Oh, dolce Napoli!... Oh, suol beato!... (sente un movimento al numero 30) Ti sei svegliato?

Giordano (dall'altra camera: colla voce grossa, rauca) No, dormo.

Emma. È tardi. Sono le nove!... Io ho già preso il caffè.

Giordano. Ed io, invece, ho ancora sonno. Stetti alzato tardissimo. Ho scritto molto.

Emma. Non ti ho mai sentito.

Giordano. Per due ragioni: la prima, perchè hai dormito sempre: la seconda, perchè a scrivere non si fa rumore.

Emma. Hai finito?

Giordano (arrabbiato) Finiscila tu col tuo «Finito? Hai finito?» Non sai dir altro!

Un momento di silenzio; poi Emma, di nuovo:

— Sei in collera?

— No.

— Vieni qui.

— No.

[257] — Allora vengo io.

— Non si può. Devo alzarmi in fretta e rimettermi al lavoro. Pensa che oggi è giovedì.

Emma (arrabbiandosi e rivoltandosi nel letto) Auf! Sono stufa! Stufa di questa Roma! Ieri sera, Richelieu a tutto pasto, e stamattina.... è giovedì!

Giordano (prorompendo: sinceramente, senza collera) Emma, Emma, giudizio! Mi raccomando! Ti prego, se mi vuoi bene. Ti supplico! Non ricominciare. Mi sono accorto, pur troppo, anche a Napoli, che non ho più la mia memoria di una volta. Lasciami studiare, lasciami tranquillo, o mi farai fare una figura ridicola.

Emma (sempre ben sotto le coperte, conta i giorni lentamente, appoggiando le dita al nasetto) Ancora giovedì, venerdì, sabato, domenica... e poi più conferenze!

Si sente un gran sospiro anche nel numero 30.

Emma tace: sta tranquilla tranquilla; sempre guardando le due lettere sul tavolino, che per pigrizia non si risolve a leggere. È lì lì, quasi per riaddormentarsi.

Giordano, non udendo più alcun rumore dal numero 31, comincia ad impensierirsi. Vorrebbe appunto, perchè non possa ripetersi il caso di Napoli, ripassare, studiare la conferenza: fissarsi bene in testa i tagli e le varianti... E poi dirla, ripeterla parecchie volte di seguito, per abituare e rinforzare anche la voce. Però la moglie vicina gli dà noia. Emma è ancora ingenua: non conosce le malizie del mestiere; non sa che la «maravigliosa potenza e facilità di parola» non è altro che uno sforzo paziente di memoria. E poi si accorgerebbe troppo presto che sono sempre i medesimi [258] precursori che viaggiano!... E come un lampo gli torna in mente lo scherzetto dell'editore: «Sempre bella — ma sempre quella — la bandiera dei tre color!» Bisogna liberarsi di Emma; bisogna mandarla a spasso per un paio d'orette! (forte) Emma!

Silenzio: nessuno risponde.

— Che cosa fai? (Più forte) Emma! Che fai?

Emma (imitando la voce di prima di Giordano) Dormo.

— È tardi. Alzati.

— Sono appena... le nove e mezzo.

— Appunto; è ora di alzarsi.

— Perchè? Tu lavori: io dormo.

— Devi alzarti anche... per salute! Devi abituarti.

Emma (interrompendolo) No, no! Ti prego! Non ricominciare coll'abituarmi!

Giordano (con vivacità) Insomma, alzati! Lo voglio! Sei giovane, sei sana! È una vergogna, star a letto tutto il giorno!

Emma (finge, per ischerzo, di piangere) Cattivo! Sto tanto bene qui!... Che cosa faccio poi, quando pure mi sono alzata?... Io sola?... Senza te... che devi lavorare?

— Andrai un po' fuori. Andrai a far le tue spese, le tue commissioni.

— Le ho fatte tutte ieri.

— Va... Va a prendere il tuo anello dal Marchesini, che sarà pronto.

— Mai! Mai! — Lo dichiaro: sola, sul Corso, di mattina, mai!

— Prendi con te la cameriera.

Emma (ridendo forte) Ah! Ah! Ah! Come a [259] Milano! Colla Rosina! (imitando la cantilena del dindirindera) Colla Rosina che faceva la spia — la spia perchè scrivevo di nascosto ad un brutto coso — un brutto coso invisibile che non vuol lasciarmi dormire.

Giordano (dopo un momento) Per esempio: perchè non andresti un po'... a messa?

Emma (ridendo di nuovo) Alla messa? Tu mi mandi alla messa? Oh! Oh!... come sarà contento don Fulvio Crespi!

Giordano. Perchè no? io sono sopra tutto sincero. Io posso pensare come voglio, ma mi piace che mia moglie abbia una fede: qualunque sia, ma una la deve avere.

Emma (seriamente: con un altro tono di voce) Qualunque sia, no. Bisogna avere la nostra: la sola buona, la sola vera: la santa. Sì; adesso mi alzo, e andrò a fare un po' di bene. Ma, prima, senti: sii molto gentile e molto carino per un momento, solo, solo. Vieni qui per leggermi due lettere che mi ha portato la Carolina. Una è della mamma e l'altra... l'altra bisogna indovinare. È di una persona che hai molto amato, che anche presentemente... forse... chi sa?... Non giurerei!

Giordano. Il leggere le lettere degli altri non mi diverte e non mi piace. Te l'ho già detto. È una indelicatezza verso chi le scrive. Finisco di vestirmi; poi verrò a sentire le notizie più importanti della mamma e di donna Fanny.

Emma. Ah! Ah! Vedi come subito hai indovinato?... (mentre si tira un po' su a sedere e apre la lettera della mamma) Sul colpo: donna Fanny! La cara Fanny! Mi fa un dispetto che tu dica quel nome odioso, colla stessa bocca e colla stessa [260] voce, come dici Emma. E mi fa sempre l'amica!... Ed io la devo sopportare per le convenienze! Come sono ipocrite le convenienze!... (facendo colle labbra un moto di sprezzo e di nausea) Peuh!...

Nei primi giorni del matrimonio, Giordano ha confidato alla moglie che la Simonetti, a Milano, è stata amante anche sua, per qualche settimana. E non è stato così leggero e loquace per vanità; Giordano Mari non è d'altro vano che di sè stesso; ma solo per prudenza; per un'abile diplomazia. In tal modo spiegava ad Emma quanto solo in parte era vero: cioè, che tutte le cattiverie, le insinuazioni, le falsità, le calunnie, messe in giro sul suo conto, sul suo passato, sulla sua vita, a Padova, sui suoi debiti, sulla sua famiglia, erano quelle solite guerre di donna, lo sfogo del dispetto, della collera, della gelosia di donna Fanny, la quale si credeva ingannata e si vedeva abbandonare per un'altra. Ma s'intende ch'egli non aveva detto tutto a sua moglie: non le aveva raccontato come era stata ottenuta la tregua da quella sua nemica acerrima: anzi, più ancora di una tregua: l'alleanza!

Egli aveva minacciato donna Fanny di spedire direttamente certe sue lettere divise in parti eguali, l'una all'Onorevole e l'altra a Guido Bardi.

Emma (che intanto ha cominciato a leggere la lettera della signora Letizia) La mamma ti saluta.

— Grazie. Sta bene?

— Dice di no, ma pare di sì! Mi scrive che il dottore, «date le condizioni eccezionali della sua povera salute, è però abbastanza... contentino...».

Giordano (sorridendo) Allora andiamo benone.

[261] Emma. Il babbo sta preparandoci un bellissimo regalo per il nostro salotto dell'Argentera. Il suo busto in bronzo. Poveretto, si secca due ore al giorno a posare per noi, nello studio dello scultore Quadrelli.

— Gli devi scriver subito e ringraziarlo.

— Ancora non lo dobbiamo sapere. È un'improvvisata!

— Sarà bene che tu gli scriva lo stesso. Gli devi dire anche della Regina, che assisterà alla mia conferenza. A tuo padre farà molto piacere. Devi rispondere pure alla mamma... Quando torni dalla messa, puoi fermarti a scrivere nella sala di lettura: c'è tutto l'occorrente; ci son tutti i comodi.

Emma (con uno scoppio di risa) Ah! Ah! Ah! Questa è bellissima!... È una notizia della tua Fanny! Nino Sebastiani ha scritto un dramma in collaborazione colla contessina d'Arborio, e il prefetto di Milano lo ha proibito perchè troppo immorale!... (Con un grido) Carlo Borghetti! Carlo è ammalato! Molto ammalato! (Con la voce piena di lacrime) Oh, povero Carlo!... Carlo! Carlo! Povero Carlo!

Giordano. Il Borghetti? Ammalato? Che cosa ha? (È corso col suo pensiero alla sua opera: ma si è subito calmato; oramai il volume sui tempi d'Ambrogio è pressochè tutto stampato. Anzi, dato il caso di una disgrazia capitata al povero Borghetti, sarebbe appena in tempo di sopprimere la dedica, pensandoci bene, forse troppo espansiva. Chiama il Borghetti persino suo collaboratore! — Entra in camera di Emma, ancora in manica di camicia, mettendosi i bottoni d'oro ai polsini) Che cos'ha? Non è in viaggio, in Germania? in Austria?

[262] — A Villach! In Carinzia! È ammalato di pleurite! (Emma è seduta sul letto, in lacrime, tremante, palpitante. I capelli si sono sciolti, slacciati; le cadono, a ondate, sulle spalle, sul collo, sul seno, sulla faccia: la coprono tutta) Leggi! Leggi! È in pericolo! (Gli dà la lettera di donna Fanny) Oh, povero Carlo! Di'? Di'? Ma morirà? Morirà? È subito partito il dottore. Questa è una consolazione! Un po' di tranquillità! Avrà almeno il nostro buon dottore! Ma la mamma? Come mai la mamma non mi ha scritto nulla?

Giordano. Tua madre è in campagna, e donna Fanny scrive da Milano. (Confrontando il timbro postale e la data delle due lettere) Questa di tua madre è stata spedita domenica o lunedì mattina; e la lettera di donna Fanny è di ieri. Appena è arrivato a Milano il dispaccio per il dottore (con un ghignetto ironico) donna Fanny lo avrà saputo subito e si è data una gran premura di scriverti!

Così dicendo egli guarda, fissa sua moglie, che continua a piangere, a singhiozzare, col volto tutto nascosto dai bei capelli, e pensando che donna Fanny si è affrettata a mandare quella notizia ad Emma, per cattiveria, per vendicarsi, per la gioia di dare una ferita al cuore della sua giovane rivale, prova un senso di dispetto, un miscuglio di gelosia strana, cupida, bramosa e astiosa, un impeto di passione e di padronanza brutale per quella donna che gli appartiene, che è sua, e che piange, che smania, che si dispera per un altro!... Per quel Borghetti, per quel cugino, che l'ha tanto amata, tanto desiderata; che l'ama e la desidera tanto da ammalarsi forse per questo e forse... da lasciarci la vita.

[263] Emma. E a te? Dì'?... Dì? Ma dì? Anche per te, non è un gran colpo? un gran dolore?

Giordano. Certamente, ma... copriti. Prenderai freddo.

Emma. Mi alzo, mi alzo! Voglio correre io stessa a telegrafare alla mamma, a Fanny, al dottore..

Giordano. Basta al dottore.

Emma. Anche alla Fanny, per sapere l'indirizzo del dottore, dell'albergo, a Villach.

Giordano (vivamente) Basta telegrafare al dottore, ho detto, a Milano, a casa sua, coll'ordine di far seguire.

Emma. Sì! Sì! Ma anche alla mamma, anche alla Fanny per sapere...

Giordano (arrabbiandosi: pestando un piede con forza) Ho detto di no! Basta al dottore! Finiamola colle esagerazioni, viva Dio! Si fa presto a far ridere la gente!

— Che importa della gente quando si tratta di Carlo?

— Importa, invece, perchè si tratta anche di te e di me! Ti ho dato il mio nome.

— Ma non parlarmi del nome, della gente, sempre delle convenienze, nient'altro che le ipocrite, stupide convenienze, anche quando Carlo sta per morire!

— Si direbbe quasi che questo signor Borghetti...

Emma. (sdegnata) Questo signor Borghetti? Lo chiami adesso il signor Borghetti? Ma ciò è indegno di te! — Questo signor Borghetti? Ma io non ti riconosco più!

Giordano (pallido, minaccioso) Silenzio! Finiscila! Finiscila di piangere, di gridare... di frignare! [264] Siamo in un albergo! Tutti possono sentire!

Emma (quasi impaurita, fissandolo con gli occhi smarriti, stringendosi la gola colle mani per soffocare i singhiozzi: balbettando) Ma tu... non sai... non sai tutto, povero Carlo! Non conosci tutto il suo cuore, la sua anima, non sai quanta bontà, quanta generosità, quanta abnegazione... E forse adesso, in questo momento muore, sta per morire lontano, solo... (con un grido disperato, buttandosi riversa sui guanciali e scoppiando in un pianto dirotto). E sono stata io! Per me! Sarò stata io!

Giordano (si avvicina, si siede sul letto accanto ad Emma distesa, bocconi: Emma continua a sussultare per l'urto dei singhiozzi: egli la fissa a lungo, le solleva tutti i capelli per scoprirle un po' la faccia: fa per rialzarla) Voltati! Guardami! Sono stata io, hai detto? Cioè! — Su! Voltati! Guardami! E spiegati! — Che lui fosse innamorato, lo avevo capito, indovinato, e si sapeva da tutti. Ma tu... Ma che te lo avesse detto, confessato, questo no. E vorrei sapere, ho diritto di sapere fino a che punto siete arrivati.

Emma (si volta, si alza d'un balzo, allontanandolo colle due braccia) Va via.

Giordano (con violenza) Dunque? Rispondi! Si risponde!

Emma. Io?... (Lo fissa a sua volta: tutta la massa dei capelli le ricade sulla faccia: essa scuote la testa per cacciarli indietro, poi li prende, li solleva colle due mani e li annoda fermandoli sulla nuca).

Giordano. Rispondi?

Emma (prorompendo) Io? Io no; tu, tu, sei tu che devi spiegare le tue parole... cattive!

[265] Giordano (con un leggero sogghigno) So io: zii e cugini... Siete così facili a prendervi certe confidenze, in casa vostra!

Emma (indignata: con profonda amarezza) Oh! Oh! Hai detto? Che cosa hai detto? Dio, Dio, fino a che punto! Fino a questo punto! Giordano... Nino, il mio Nino! Io che ti credevo così buono! Che hai? Che hai? Non è più nemmeno la tua faccia! Non è più la tua faccia! (prorompendo) Sì! Carlo! Il povero Carlo, ha confessato di amarmi! Me l'ha detto! Quella sera stessa! Dopo di te! Poi non mi ha più detto una parola. Più, più; mai più! Veniva di rado in casa nostra; quasi mai. Era sempre via da Milano. Solo quando ha saputo che io avevo tanti dispiaceri, che io soffrivo, è tornato. E quando mi sono ammalata, mi ha domandato se — essendo ormai un fratello, nient'altro che un fratello — avrebbe potuto fare qualche cosa per me. Ed io, capisci, io stessa, nell'egoismo cieco, spietato del mio amore, della mia esaltazione, io che non vedevo che te, che non sospiravo altro che te, pur di poterti scrivere e di poter sapere qualche cosa, di poter avere una notizia, una parola tua, ho avuto l'ardire, la sfacciataggine di consegnargli le mie lettere per te! L'ho visto diventar bianco, allibire, tremare... pure — ero pazza! — al suo amore, al suo cuore, alla sua gelosia, alla sua dignità, al suo strazio non ci ho nemmeno pensato. Te, sempre te, soltanto te, sino alla testardaggine, sino alla cattiveria! Ecco, questo è il punto a cui siamo arrivati! (coprendosi la faccia con un senso di orrore) E tu!... Oh! Oh!... Non ti voglio più bene; non ti amo più. Va via!

[266] Giordano. Basta, adesso... calmati. (Continua a fissarla con gli occhi lucenti: ha un leggero tremito nelle mani, nelle labbra: le guance accese) Capirai, anch'io vedendoti così in disperazione per tuo cugino...

Emma (con un nuovo scoppio di collera) E te l'ho scritto, anche, nelle mie lettere. Le avrai ancora le mie lettere, spero? Leggile. In una te lo devo aver detto, o fatto capire, che il povero Carlo mi amava. E quando io, quella prima sera, dopo essere stata con te sul terrazzo, gli ho risposto che «ormai era troppo tardi», che io ne amavo un altro — te — mi ha risposto colla disperazione negli occhi e colle lacrime in gola, che c'era stato, fra voi due, qualche parola, qualche malinteso, e che voleva venire a cercarti, per domandarti scusa. E in quella stessa sera, in quello stesso momento, sotto i miei occhi, ti ha domandato scusa. Ecco a che punto, fino a che punto siamo arrivati, io e Carlo. Adesso lo sai. Cioè lui no, forse. Lui è andato molto più innanzi di me. Fino al punto, povero Carlo, di ammalarsi, di morirne!

Giordano. Calmati, adesso basta! (Baciandole i capelli, le mani, cercando di abbracciarla: sollevandola) Perdonami. (Colla voce sempre più alterata) Facciamo la pace.

— Va via. No.

— Se ho avuto un impeto di gelosia ingiusta, irragionevole, è stato perchè ti amo tanto.... sei tanto bella.... bellissima...

— Va via! Va via! No.

Giordano (irritato: con un riso sinistro). È per Carlo? Mi mandi via per Carlo?

[267] Emma. Sì, sì, per Carlo! Per Carlo! Ma come sei tu?... Che uomo sei? Che cuore, che anima, che amore è il tuo? (d'un tratto, all'improvviso, allunga il braccio: suona due volte il campanello accanto il capezzale: Giordano si allontana, dispettoso, con un'alzata di spalle) Dirai alla cameriera dell'albergo che mi mandi subito la Carolina. Tu hai da fare oggi. Lavora pure; non pensare a me. Mi vesto in fretta; vado a telegrafare alla mamma e al dottore, poi vado in chiesa.

[268]

VIII. «A la peau d'Espagne.»

Emma, appena vestita, corre a telegrafare alla mamma e al dottore.

— Dio, Dio, povero Carlo!

È ancora agitata, commossa. Mentre se ne ritorna verso l'albergo, evitando il Corso, vede una chiesa aperta; pensa alla sua solita chiesa di Milano e vi entra con un sospiro, come attratta da un senso di sollievo, per pregare e per riposare. Sopra tutto per riposare.

Pregare?... Oh, ha pregato tanto, ha continuato a pregare fin allora! Mentre si vestiva, lungo la strada, scrivendo i due telegrammi, non ha fatto altro che mormorare fra sè: Dio, Dio! Carlo! Carlo! con tutto l'ardore più intenso, con tutta la fede e la tenerezza del suo cuore.

— Dio, Dio!... povero Carlo! — ripete ancora, appena in chiesa; ma si lascia cadere come stanca, affranta, sopra una seggiola.

Quante emozioni, quante angoscie improvvise, inaspettate! E quanto dispetto, quanta rabbia!

— Carlo!... Povero Carlo! — E Giordano? Che cattivo! In certi momenti non è più lui. Ha un'altra [269] faccia. Diventa persino brutto; sì, brutto, bruttissimo!... — E le torna in mente anche «quell'altra cattiveria», la prima, durante il loro viaggio da Napoli a Roma, e rivede Giordano assonnito, livido, colla faccia storta, e ne risente la stessa impressione. Ma è un attimo, un lampo. — E prima, a Napoli, com'era buono! E all'Argentera? E a Milano? A Milano, quella prima domenica in via San Paolo? A Milano, sul terrazzo, quella prima sera?... — Emma socchiude le palpebre: una dolcezza cara, un'onda voluttuosa le riempie, le trasporta l'anima; tornano i vent'anni a trionfare, torna il sorriso, e sgombra le nubi dalla sua fronte candida e luminosa.

La chiesa è buia, tepida, quasi deserta. Appena pochi devoti, raccolti in una luce rossastra, presso un altare, in fondo alla navata.. Nella mistica quiete delle ombre silenziose, Emma sente maggiore la fiducia nel buon Dio e più viva la speranza.

— Carlo è giovane, è forte; guarirà. E poi c'è il dottore!... — Emma sente che Carlo guarirà. Ne è sicura. — E quell'altro, il cattivo? il geloso? ... E Giordano, cattivo, ingiusto, violento soltanto perchè è geloso, Giordano ritorna Nino, il «suo Nino».

— Dice sempre che non è geloso!.. Vuol darsi l'aria di non essere geloso!... Invece è gelosissimo, persino di Carlo! È un Otello furioso, l'illustre pensatore! — Ed Emma sorride al suo Nino, al suo incanto, al suo idolo, più che mai innamorata.

Borbotta a fior di labbra un'ultima preghiera, distratta, spinta dalla fretta, dalla solita fretta di correre a casa, di rivedere suo marito, di buttarsi [270] fra le sue braccia. E questa volta non per domandargli perdono, ma per perdonare.

La gente si volta per la strada, si ferma a guardarla come il giorno innanzi; ma Emma non se ne accorge nemmeno, infervorata nel ripetere fra sè il discorsetto che avrebbe fatto a Giordano:

— Sei stato cattivissimo, ma ti perdono! Sono così contenta di perdonarti, perchè sono... così contenta che tu sii geloso. Sì, sì, sì, uomo grande; geloso, geloso; sei geloso della «tua piccola!» Ma però ti perdono a un patto: devi confessare di essere gelosissimo e ti proibisco di chiamare il povero Carlo, questo signor Borghetti! Assolutamente no, o resto in collera e allora... più nemmeno un bacio. Più, più, più!

Emma (entrando nell'albergo tutta rossa, trafelata: al portiere) Mio marito è ancora di sopra?

Il portiere. Sì, signora. Non l'ho veduto uscire.

Emma, di primo slancio, corre verso la scala, poi si ferma, si volta: e Carlo? (Forte, al portiere):

— Aspetto due telegrammi. Appena arrivano, badate di mandarmeli in camera, subito, subito.

— Non dubiti, signora.

Emma è già su, al primo piano: infila il corridoio, mette la mano sulla toppa del numero 30... ma in quel punto si ferma, rimane perplessa un istante, poi piano piano continua diritta ed entra nel numero 31, e sempre adagio, senza fare il minimo rumore, si avvicina ansiosa, tendendo l'orecchio verso la stanza attigua. Ha il seno ancora palpitante per la corsa fatta, il viso ridente, gli occhi sfavillanti di piacere, di gioia...

La bella voce di Giordano (dal numero 30) «... così la filosofia s'alleava al cuore! Così si ponevano [271] da lungi le basi di quella società futura, che noi tutti, o signori, vagheggiamo come una superba certezza e nella quale tutti, sciolti da ogni vincolo favoloso col cielo, possiederemo la piena libertà dell'amore...» (correggendosi pestando i piedi) «possiederemo la piena signoria della terra in cui siam nati, e godremo piena la libertà dell'amore e del pensiero!»

Emma (fra sè) Come? Ancora.... la conferenza di Milano? (Lentamente comincia a levarsi il cappellino e la giacchetta: non sorride più; diventa seria).

Giordano (ricominciando). «Così la filosofia s'alleava al cuore! Così si ponevano da lungi le basi...» (Tossisce). — Sono rovinato anche nella voce! Non ho più memoria e non ho più voce! (Torna a tossire). C'è una peste d'odore qua dentro! (Verso il numero 31). Viene di là! (Annusa forte con ira, brontolando) Già; sempre quella peau d'Espagne! Dà l'emicrania e intacca la gola!

Emma (si fa piccina piccina e istintivamente si allontana dall'uscio: ode il rumore dell'acqua versata da una bottiglia in un bicchiere; è Giordano che beve, poi ripiglia).

Maestà... signori. — Bisogna aggiungere Maestà — (alzando il tono) «Le basi di quella società futura, che noi tutti, Maestà... signori...»

Giordano s'interrompe di nuovo ed Emma, a sua volta, crolla il capo disapprovando: quel «Maestà, signori» non va bene.

Si sente un pugno forte dato sopra un tavolino, della carta che si straccia, poi Giordano che brontola:

— Impossibile! Bisogna cambiare la conclusione. [272] il finale. Così non va! (Canta a mezza voce) Non va! Non va! Non va! Bisogna cambiar tutto! — E, per più di un quarto d'ora, silenzio perfetto.

Emma, intanto, si sdraia in un angolo del canapè, ai piedi del letto, e inavvertitamente ritorna col pensiero a suo cugino ammalato, gravemente ammalato laggiù, in fondo alla Carinzia...

— E se muore? Se morisse? Che disgrazia, che dolore, e che rimorso! Sarei stata io!... (congiunge le mani e torna a pregare intensamente con tutta l'anima) Dio, Dio!... Povero Carlo!

Guarda l'orologio: per la risposta del dottore è ancora troppo presto; ma il telegramma della mamma dovrebbe già essere arrivato!

A un tratto, tutta la bella voce di Giordano, colla solita enfasi, il solito accento di convinzione:

«Così la filosofia s'alleava al cuore; così si ponevano da lungi le basi di quella società futura che noi tutti vagheggiamo come una superba certezza e nella quale, sciolti sì da ogni vieto pregiudizio, ma, dopo tante negazioni e tante bestemmie, riconciliati col cielo, da cui piove la luce dell'ideale, possiederemo la piena signoria della terra su cui siam nati, pur chinando reverenti il capo innanzi al mistero da cui essa al par di noi è uscita!» — Benissimo! È anche più nuovo, più moderno. — Il razionalismo, il materialismo, il verismo, hanno fatto ormai il loro tempo. Adesso gli uomini, e specialmente le donne, tornano a credere e vogliono dell'ideale! (sempre più soddisfatto) E questa, caro signor Schiavino, è tutta roba mia; assolutamente mia! Qui, il vostro Taine non c'entra!

Una fregatina di mani: poi Giordano torna a [273] ripetere due, tre, quattro volte, certo per impararlo a memoria, il nuovo finale della conferenza.

Emma è rimasta sempre sdraiata nell'angolo del canapè. Essa fa scattare nervosamente la punta sottile di un tagliacarte d'avorio. È diventata un po' pallida; ha il visetto in collera, con una piccola ruga, forse la prima, che le attraversa la fronte, e continua a scrollare il capo, in segno di malcontento e di disapprovazione, mentre suo marito, paziente e instancabile, seguita invece a ripetere la conferenza, collo stesso calore, le stesse intonazioni di voce, le stesse pause, i medesimi sorrisi, e le medesime cannonate, che hanno mandato in visibilio anche a Milano i pittori e gli scultori del Circolo artistico-letterario. Solo s'interrompe qua e là per aggiungere e provare il suono di qualche «Maestà», di qualche «Graziosa Sovrana»; o per tossire, per borbottare contro il raschio che sente in gola, contro quel profumo à la peau d'Espagne, che diventa sempre più acuto, più noioso.

Nel corridoio: un passo risonante, spedito, diverso dai soliti, si avvicina rapidamente al numero 30:

Giordano (di dentro). Chi è?

Il fattorino del telegrafo. Un telegramma. Signora Mari!

— È mia moglie. È uscita. Lasciate il telegramma dal portiere.

Emma (balzando in piedi e correndo fuori della stanza) Qui! Qui! A me! (Prende il telegramma, firma la ricevuta, e rientra in camera nello stesso punto in cui Giordano spalanca l'uscio interno di comunicazione).

Giordano (con impeto) È un pezzo che sei tornata?

[274] Emma. Sì.

— Stavi qui ad ascoltare?

— Sì.

— Questo non mi accomoda.

— Neanche a me! (Emma, agitatissima, straccia mezzo il telegramma per la fretta d'aprirlo).

Giordano (alzando la voce) Cioè?... Che cosa vuoi dire?

Emma (riferendosi al dispaccio ricevuto) Non è del dottore. È della mamma.

Giordano (sempre più forte) Che cosa volevi dire? Che cos'è che non accomoda neanche a te?

Emma (fissandolo a sua volta con arditezza) Sì; e te lo dirò, se vuoi saperlo! Non mi accomoda che tu ripeta anche a Roma, proprio a Roma, l'istessa conferenza di Milano, di Bologna, di Napoli! Piuttosto niente! O una nuova, o niente. Aspetta un altr'anno; questa primavera.

Giordano (frenandosi a stento) Dovresti abituarti a pensare soltanto ai tuoi cento cappellini e alle tue mille sciocchezze!

Emma. Invece no! «Abituarmi» no! — Io non sono fatta per «abituarmi»; io non mi «abituerò» mai, mai, mai... a niente!

Giordano (sogghignando) Sicuro; nemmeno... a ragionare.

Emma (offesa) Nino, ti prego; Nino!

Giordano. Intanto vuoi parlare, parlare, parlare, e, come al solito, non sai niente! La conferenza è alquanto modificata, così nella forma, come nella sostanza. Dirò... moltissime cose nuove.

— Tutte cose che non pensi, e le dirai soltanto per far la corte a mio zio!

— Per tua regola, io non ho mai fatto la corte [275] a nessuno, e tu ne sai qualche cosa. Dovresti imparare a riflettere quando parli con me, e sopra tutto quando parli di me. Bisogna pensare, bisogna sapere ciò che si dice!

— So, so, so benissimo, sempre, ciò che mi dico. Anche troppo!

— Davvero? Una cosa per altro non sai (Si chiude la bocca con una mano per non parlare).

Emma. Quale? Quale? Che cosa? Sarà un'altra cattiveria! È un'altra cattiveria! Sentiamo.

Giordano (prorompendo) Che con una donna come te, la quale fa perdere la pazienza dieci volte in un'ora, non si può nè lavorare, nè studiare, nè pensare! Bisogna diventare per forza un cretino, un imbecille!

Emma (colla voce bassa, rotta, strozzata) Mi sta bene; ti ringrazio. Grazie.

Giordano continua a camminare su e giù arrabbiandosi, pestando i piedi. Emma torna a sedersi sul canapè e torna a far scattare il tagliacarte: gli dà un colpo troppo forte; lo spezza.

Giordano si volta, la guarda e scoppia in una risata. A poco a poco è riuscito a calmarsi. Con voce dolce, affettuosa, sedendosi sul canapè vicino alla moglie, cercando di prenderle la mano:

— Vedi, cara, che ti succede a far la cattiva?

Alla parola «cara» gli occhi di Emma si riempiono subito di lacrime. Ma non può parlare, non vuol parlare; è ancora in collera, non vuol essere toccata e allontana Giordano con un moto dispettoso delle spalle, delle braccia.

— Vedi, cara, che ti succede a far la cattiva?... (Languidamente, ponendo la sua testa accanto a quella di Emma sullo stesso cuscino) Sai, come, in [276] che modo, mi fai perdere la pazienza dieci volte in un'ora?... Perchè, quando so che sei qui, qui, vicina — mia — non penso ad altro... che a questo. (Fa per darle un bacio).

— No. Va via.

Emma si alza, lo respinge, si allontana, sempre molto seria, sempre molto in collera.

— Basta. Ho detto basta. Mai più!

Giordano protesta, smania, prega, supplica... ma, dopo inutili sforzi, deve frenarsi e rassegnarsi. Sospirando, con aria docile, sottomessa:

— E la mamma? Che cosa, dunque, ha telegrafato la mamma?

Emma (getta il dispaccio sul canapè e va alla finestra).

Giordano (prende il dispaccio e lo legge ad alta voce) «Anch'io manco notizie; telegrafato dottore per averne — Villach — Carinzia — Austria — Hôtel Orso nero. Speriamo bene. Abbracciovi. — Mamma». Come vedi, tesoretto furioso, io avevo ragione! Il telegramma alla mamma potevi risparmiarlo.

Emma (con un'alzata di spalle, senza voltarsi) Vuol dire che se anche avrò telegrafato una volta di più a mia madre, sarà poco male.

Giordano. Certamente! Sicuro! Desidero soltanto giustificarmi! (Sempre pensando al modo di potersi liberare di sua moglie per un paio d'orette) Ti avevo detto, anzi — ti ricordi? — quando torni dalla messa, fermati nella sala di lettura, dove c'è tutto l'occorrente, e scrivi alla mamma una bella lettera... lunga.

Emma. Scriverò oggi, più tardi. Voglio prima aspettare la risposta del dottore.

[277] — Ma non dimenticarti che hai da scrivere anche al babbo, così buono colle sue piccole manìe! (Ridendo) Il Quadrelli è lo stesso scultore che ha fatto il busto anche a Verdi! Se non scrivi adesso... che cosa vuoi fare fino all'ora di colazione?

Emma (guardando fuori dalla finestra, dietro i vetri) Aspettare che mi venga appetito.

Giordano (ridendo) E allora, perchè ti venga appetito, sai che cosa dovresti fare, cara la mia figliuola?

— No, caro papà.

— Una bella passeggiata, e se non vuoi uscire a piedi, prendi una carrozza. È una mattina deliziosa, primaverile! Non avessi da lavorare, ti avrei condotta al Gianicolo, o a San Pietro. Appunto, perchè non andresti a fare una scarrozzata fino a San Pietro? Poi ritorni, con tuo comodo, ti fermi giù nel restaurant, per non seccarti a fare le scale, e mi mandi a chiamare.

Emma (sempre immobile, senza voltarsi) San Pietro non mi piace.

Giordano (maravigliato) Non ti piace? San Pietro? Perchè?

Emma. È troppo grande. (Comincia a suonare un valzer sui vetri, colle dita).

Giordano Mari ha un impeto di stizza, che riesce ancora a frenare. Torna a ridere; si avvicina ad Emma, le cinge la vita con un braccio e l'obbliga a voltarsi:

— Senti, amore. È una debolezza... di nervi, ma non posso vincermi. Io non resisto a lavorare quando ti so qui ad ascoltarmi, a criticare, a far niente. È impossibile.

Emma (risentita: diventando ad un tratto la signorina [278] Dionisy) Prendi un'altra stanza più lontana. Capirai, per i tuoi nervi, e per i tuoi comodi, io non mi sento di girare come una matta... i sette colli!

Giordano si piglia la lezioncina, e rientra, sbattendo l'uscio, in camera sua. Emma non si muove dalla finestra. Suo marito brontola, pesta i pugili sul tavolo, straccia della carta, ma Emma seguita impassibile a suonare il valzer.

Giordano (dopo aver molto tossito e annusato furiosamente) Ah! Ecco, viva Dio! Il veleno! Il puzzo! (Presentandosi sull'uscio con due grossi pacchi, uno per mano, trovati sotto un paltò accanto all'armadio) Cos'è questa roba? È roba tua? I tuoi profumi, i tuoi soliti pasticci!

Emma. Sì; il mio sapone, la mia acqua di toilette, tutta roba mia; l'ho presa ieri alla farmacia Inglese.

Giordano. E mi ha rovinato la gola; mi ha fatto svegliare col dolor di capo! Ti prego, un'altra volta, di dare il tuo nome e non il mio, e il numero della tua camera (Butta i due pacchi, sgarbatamente, sul letto di Emma).

Emma (seria, pallida, colla voce alterata, mettendosi il cappellino per uscire) C'è il conto? Avranno mandato insieme anche il conto?

Giordano (respira: sua moglie finalmente se ne va; apre uno dei due pacchi e trova il conto) Sì, cara. Eccolo.

— Dammi i danari. Prenderò una carrozza! Andrò a pagarlo.

— Subito!... Quanto ti occorre?

— Non so; guarda.

Giordano (dopo aver aperto il conto e letta la [279] cifra: scattando) Duecentoquarantacinque lire! Quasi duecentocinquanta franchi... in tanto sapone! (A mano a mano riscaldandosi sempre di più) Ma c'è da lavare... un reggimento di turchi! Duecentocinquanta franchi! Ma tu diventi matta, cara mia! Ci vuol altro! Non sono un milionario! E tu non hai più vent'anni! Dovresti moderare le tue voglie, i tuoi capricci, le tue stranezze! E poi... hai cuore, sì o no? In tal caso, non dovresti mai dimenticare che sei la moglie di un uomo che lavora! Che lavora per vivere!

[280]

IX. Piccole miserie.

I Precursori della Rivoluzione ottengono anche alla Palombella il solito straordinario successo e il nuovo «finale», più moderno, è accolto, come l'antico, da un'imponente ovazione. Ma i giornali? — apriti cielo! — Tranne i pochissimi, prettamente ministeriali, che, per un dovuto riguardo al ministro dell'istruzione, non danno altro che un brevissimo cenno di pura cronaca, tutti gli altri, in coro, a dir le sette peste della conferenza e del conferenziere! Naturale, in tanto accanimento, c'entra, in parte, anche la politica: i giornali favorevoli al Governo, ma che non vogliono passare per ufficiosi, approfittano dell'occasione e dicono corna del nipote per affermare la loro indipendenza dallo zio, e quegli altri dell'Opposizione... seguitano a far opposizione anche alle spalle del professor Mari.

I giornali del mattino lo attaccano allegramente, ridendo:

«Dopo i viaggi delle nostre dive», comincia il Corriere romano, «e dopo quelli dei nostri commendatori... all'estero, v'è qualcos'altro che [281] minaccia di diventare ricorrente, opprimente, schiacciante: le conferenze, o, meglio, la conferenza-carillon dell'illustre professore — professore di che? di che cosa? — Giordano Mari. Io ho avuto la sorte invidiabilissima di trovarmi a Napoli, a Milano e a Roma nel medesimo tempo del conferenziere omnibus, e ho dovuto godermi nei tre centri intellettuali, la ripetizione fonografica dello stesso frammento, istrionicamente rimpolpettato, della prosa maravigliosa... del Taine.»

E un altro:

«Il signor Giordano Mari, arrivato a Roma preceduto dalla fama di pensatore, di filosofo e di prosatore illustre, ha dato prova soltanto di memoria, di polmoni... e di molta disinvoltura. Ippolito Taine è davvero un grande filosofo, un grande pensatore e un grande prosatore, ma il signor Giordano Mari non è altro che un conferenziere di grido... anzi, di grida

Poi c'era il per finire:

«Da Aragno, a mezzanotte:

« — Sei stato alla conferenza di Giordano Mari?

« — Ne vengo via... sei mesi fa.

« — ?...

« — Ero a Torino lo scorso inverno. Cantava lo stesso pezzo... del Taine. Che bella voce!»

I giornali della sera prendono la conferenza sul serio e versano lacrime:

«Più ancora della dedizione di una coscienza è triste l'asservimento di un ingegno. Noi ricordiamo di esserci — caso raro! — sinceramente commossi allorchè udimmo Giordano Mari, a Genova, gittare ad un pubblico di anime giovani [282] la parola fiera e ribelle della ragione in conflitto col dogma, la sfida audace dell'avvenire al passato e giudicammo quell'oratore fervido e appassionato, un uomo di convinzioni e di battaglia. Lo abbiamo udito ieri sera svolgere lo stesso argomento, o, per meglio dire, parafrasare quella che a noi era parsa una splendida improvvisazione lirica e scientifica. Uscimmo dalla sala, scrosciante di applausi, ancor più fragorosi forse della prima volta, coll'animo addolorato. L'uomo si era per noi demolito: le sue parole costituivano la più docile, la più utile, la più ammirabile delle abiure filosofiche ed estetiche. Il formidabile razionalista aveva inzuppata la sua prosa (e un maligno aggiungerebbe anche quella del Faguet, del Taine e persino della Sand) nell'acqua benedetta, e la chiave della brutta sciarada la trovammo ricordandoci dei nuovi vincoli che il filosofo opportunista ha accettato di stringere colle Eccellenze più clericaleggianti, più conciliantiste. E, dopo tutto, perchè rattristarci? Invece di uno spostato, uno di più che si è messo a posto, e che farà carriera.»

Soltanto il Popolo di Pietro Schiavino è rimasto muto. Non ha aperto bocca nè prima, nè dopo la conferenza. Non l'ha annunziata e non ne ha riferito l'esito, nemmeno in cronaca. E, anche di questo contegno, Giordano Mari non sa bene se godersene o dolersene. «Ricordatevi», gli aveva scritto l'Amodei, l'editore, per confortarlo, «i giornali, il maggior male lo fanno col silenzio.»

— Nemmeno una riga dopo che, in fine, gli ho fatto l'onore di una mia visita! — E, non potendo [283] pigliarsela col direttore del Popolo, ne tiene il broncio al Cogoleto. Egli ha bisogno di sfogarsi. I primi giornali gli hanno fatto rabbia; adesso, gli ultimi, lo avviliscono.

— Se tutti si mettono d'accordo per buttarmi giù, precipito!

Infatti, Giordano Mari non è salito sulla vetta a poco a poco, faticosamente, come l'alpinista che prima di fare un passo si scava da sè stesso, nella roccia, il posto sicuro dove mettere il piede, graffiandosi, scorticandosi, insanguinandosi le mani. No, egli è stato portato su, e adesso lo buttano giù. Prima, tutti i giornali, uno dopo l'altro, come le pecore, scoprono in lui il grande oratore e «l'illustre pensatore». Adesso, sempre come le pecore, uno dopo l'altro, fanno la scoperta del Taine. E il povero conferenziere, coll'angosciosa e ingenua maraviglia di una prima donna che, diventata vecchia, si sente fischiare, domanda a sè stesso:

— Ma perchè questo cambiamento? Perchè tanta ferocia? Io non ho mai fatto male a nessuno!

Giordano soffre; diventa invidioso, sospettoso, velenoso, e del suo insuccesso e di «tutta quella grande congiura montata contro di lui», quasi quasi non accusa altri che sua moglie:

— Non mi lascia lavorare! Non mi lascia studiare! Mi ha fatto perdere il tempo, la testa, l'ingegno, la memoria ed anche la popolarità con quel bel regalo dello zio Eccellenza! (sospirando) Mi han fatto venire fino a Roma per far che? Per pagare col mio nome, colla mia fama il portafogli dell'onorevole Albertoni! Emma, Emma! Tutta colpa sua. Non vede niente, non capisce niente, [284] non pensa a niente altro che a far toilette! E mentre io soffro, mi rodo e mi ammalo, sembra che lo faccia apposta, diventa ogni giorno più fresca e più (sta per dire bella, ma cambia perchè è troppo arrabbiato) e più grassa.

Ormai egli non ha che una speranza: ottenere una rivincita col suo volume, la sua monografia, la sua «opera colossale» Ambrogio vescovo nella civiltà de' suoi tempi.

Giordano (fra sè) Ma, e quell'altro? il cugino? Il malinconico e antipatico signor Borghetti, diventato l'eroe del giorno, l'eroe di moda, il primo amoroso della compagnia, per aver preso un colpo d'aria in montagna? Ecco un uomo fortunato e che sa farsi la réclame colle signore! Perchè mo' non è rimasto a Villach?

Giordano Mari, ormai, si era abituato a questo pensiero, cioè che il Borghetti dovesse rimanere a Villach per sempre, e aveva già ordinato telegraficamente al direttore della tipografia di sopprimere la dedica.

Invece, dopo tanto chiasso e tanto spargimento di lacrime, il Werther meneghino si è rimesso, sta quasi meglio di prima e ritorna in Italia! E a Giordano Mari pareva che ci venisse apposta per intromettersi tra lui e sua moglie, fra lui e il suo «Ambrogio».

Il primo telegramma del dottore da Villach, era stato un po' inquietante, ma tutti gli altri, a mano a mano, si erano fatti sempre migliori e l'ultimo annunziava appunto il prossimo ritorno di Carlo a Milano.

«Andamento regolare — prosegue periodo lento miglioramento — anche dopo secondo consulto [285] professor Klebers preferibile stato attuale trasporto Milano fermandosi Tarvis, Udine, Verona.

Emma (a Giordano: appena letto il dispaccio) Facciamo trovare a Carlo un nostro telegramma a Tarvis. Vuoi?

Giordano (con un sorriso che mostra troppo i denti) Volentieri, cara.

Emma (siede e scrive in fretta) «Lietissimi felici tuo ritorno ti abbracciamo teneramente — Emma Giordano».

Giordano (studiando il dispaccio) O «lietissimi» o «felici». In un telegramma basta uno dei due. (Cancella: «felici»). Invece di «ti abbracciamo», «salutiamoti fraternamente». Non si vanta sempre di essere tuo fratello? (mentre suona al cameriere e gli consegna il dispaccio, declama ironicamente a fior di labbra) «... ti chiamerò col nome dolcissimo di sorella, e mi parrai cosa di cielo...»

Emma sorride, ma il sorriso dei begli occhi innamorati ha qualche cosa di diverso nell'espressione. Vi comincia forse a trasparire un primo barlume di quell'indulgente umorismo ambrosiano, così pieno di acutezza e di buon senso. Resta l'amore, ma l'orgasmo, lo stordimento della passione si calma ed Emma osserva, studia suo marito, non più dal basso in alto, tenendolo sollevato fra le nubi, ma guardandolo vicino, faccia a faccia.

— È geloso, gelosissimo, sì; ma perchè soltanto di Carlo? E perchè diventa tanto più geloso dopo che i giornali hanno detto male dei Precursori? — I giornali? — ha detto il Mari a sua moglie fin dal primo giorno dopo la conferenza. — Tutti d'accordo! Mi fanno scontare... tuo zio! — Ti [286] prego, e se non basta, ti comando di non leggerli.

Ed Emma, sdegnosa e orgogliosa dell'ingegno e della fama di suo marito, non se n'è curata, disprezzandoli; ma poi viene a saper tutto lo stesso, dal Cogoleto che, furibondo, le riporta i punti più salienti, soffiando come un gatto e schizzando bile dagli occhietti bigi e dai baffi verdi incerati, e dallo zio Albertoni che ne ride scetticamente. E pensa fra sè:

— Io gliel'ho detto: «Siamo a Roma e non si scherza. Se non ti senti, se non sei ben sicuro, se ti manca il tempo necessario, rispondi di no. Prima o dopo non importa. Ma per Roma devi preparare una conferenza nuova e bellissima: la più bella di tutte». Ha voluto ostinarsi, e adesso si arrabbia anche con me perchè la chiamano la conferenza-carillon!

Emma è sempre buona, cara, affettuosa, amorosa, innamoratissima...; pure succede adesso questo fatto curioso: che il grand'uomo le sembra più grande quanto più è lontano, e che suo marito torna ad essere il suo «Nino» dell'Argentera soltanto quando egli non è presente. Tutta la poesia, tutto l'incanto sembrano dileguarsi e tutto lo slancio del suo cuore sembra arrestarsi di colpo, appena si trova dinanzi a quel suo viso preoccupato, torbido, imbronciato. Si sente intimidita, si sente oppressa, si sente stanca. Giordano non sorride più coi bei denti bianchi, scintillanti fra i baffi biondi; ma sogghigna soltanto. Quando parla, non è più la sua voce bella, dolce, armoniosa, insinuante, penetrante: è una voce dura, aspra, ironica. E poi... arrabbiarsi e predicare; niente [287] altro! Predica la mattina, in letto, appena si sveglia; predica a tavola appena ha finito d'ingozzarsi di rosbiffe e di bile, e continua qualche volta a predicare anche quando dorme. Predica contro la musica di Mascagni e contro l'espansione africana, contro la Duplice, la Triplice e la guerra greco-turca; contro «l'asservimento» della magistratura e il «turpiloquio» della stampa venduta; contro la malafede, l'ignoranza «di una critica sgrammaticata» e contro il Taine: sopra tutto contro il Taine!


Un dopo pranzo:

Emma e Giordano sono stati invitati dallo zio nel suo quartierino elegante e lussuoso dei ricevimenti ufficiali. Giordano Mari, che ci ha presa confidenza, e che in buona fede lo crede l'origine di tutti i suoi guai, predica, s'intende, e tanto di più anche dinanzi al ministro Albertoni, il quale, durante le sfuriate, guarda sospirando la bella nipotina, per farle capire che le sopporta per amore di lei. E, infatti, egli diventa tutti i giorni più paziente, più tollerante, più arrendevole.

Giordano (rosso, invasato: hanno pasteggiato collo sciampagna) Il Taine! Sempre il Taine! Come se io fossi un ammiratore del Taine! Altro favolista! Secondo la sua teoria dell'ambiente, io dovrei essere... un rigattiere! E, secondo la sua politica, dovrebbe esserci ancora la Repubblica di San Marco! Egli disprezza nei popoli latini precisamente tutte quelle doti che sono le mie. Già, Robespierre è uno scrivano di notaio, Danton un facchino e Bonaparte è la reincarnazione spiritica di Cesare Borgia! E costoro, questi supercritici, a corto di sintassi, [288] ammirano l'Intelligence: un libro bellissimo... perchè non si capisce. E il Taine, che trovava i precursori a Shakespeare e a Michelangelo, non ne ha mica avuto lui dei precursori? Hanno letto il Taine... questi imbecilli: ma se sapessero un po' l'inglese! Che cosa avrebbe potuto fare il Taine se non avesse saputo l'inglese?...

Emma, in gran decolleté, per fare onore a Sua Eccellenza, ridente e rosea, colle gemme che le sfavillano sul collo e fra i capelli, e lo sciampagna che le brilla negli occhi, sta imparando — è lo zio che le dà lezione — a fumare le sigarette e a farle da sè. Ciò le occupa il dopo pranzo, la diverte e le fa piacere.

Giordano (continua masticando un grosso avana) E adesso, quando uscirò col «mio» Ambrogio, mi par già di sentirli: diranno roba da chiodi! Tutti contro! Quasi che, per aver la disgrazia di essere nipote del ministro dell'istruzione pubblica, non si possa più, non dirò aver diritto, ma nemmeno aspirare ad una cattedra!

Sua Eccellenza (sorridendo) Consolati: uno zio ministro è un male che dura poco. Piuttosto... (s'interrompe: prende una sigaretta, che Emma è riuscita finalmente ad arrotolare colle piccole dita inesperte, l'accende: poi, dopo una boccata di fumo deliziosa, ripiglia lentamente, facendo l'occhiolino alla nipote e inviandole sospiri e tenerezze dietro una nebbietta leggera, vagante, odorosa) piuttosto... dimmi la verità: questa volta... sei ben sicuro?

— Di che?

— È tutta roba tua?

Giordano (offeso) Credo bene!

— E allora... chi sa? Potremo fare qualche cosa [289] anche da ministro. (Sua Eccellenza, colla punta del piede, cerca il piedino di Emma e lo trova, ma Emma gli sfugge subito e, pur continuando a sorridere, si alza e va a sedersi più lontana sul canapè).

L'Albertoni ha inteso il latino senza aversene a male, e continua a parlare con Giordano, occhieggiando sempre la bella nipotina attraverso il fumo della sigaretta:

— E poi... Perchè questo Ambrogio? Questo Ambrogio vescovo?... Non capisco.

Giordano (scattando) Ambrogio vescovo nella civiltà de' suoi tempi! È uno splendido titolo!

— Ma non capisco il perchè di tante circonlocuzioni! Di tante ipocrisie!

Giordano (alzando la voce: sporgendo il petto impetuoso e maestoso) Ma io sono sopratutto sincero...

Sua Eccellenza (con un risolino pieno di arguzia) E allora chiamalo Sant'Ambrogio e che la sia finita! I titoli a chi vanno, ti dirò con... come appunto, con quel famoso personaggio del nostro grande Alessandro! E poi... lasciati guidare da me. Adesso è troppo presto; bisogna star quieto quieto, farsi dimenticare. L'Italia è il paese del genio, delle arabe fenici; però si rinasce facilmente dalle proprie ceneri. A suo tempo, ti darò io qualche buon consiglio. (Si rivolge ad Emma per essere ringraziato da un sorriso de' suoi occhi) I giornalisti poi, generalmente, bisogna trattarli come le belle donnine. Quelli che non si vendono, bisogna comperarli facendo loro un po' di corte.

.... Ma l'Albertoni, che ha fatto la pelle dura in mezzo all'accanimento della politica, è troppo [290] insensibile, è troppo scettico. I giornali, colle loro botte e i loro morsi contro la conferenza e il conferenziere, hanno prodotto un grave effetto: non tanto sull'opinione pubblica, quanto certo sulla salute di Giordano Mari.

Il dolore, la rabbia, le continue irritazioni e, per conseguenza, le cattive digestioni gli hanno guastato il sangue. Comincia un fignoletto sul collo, poi un secondo, poi un terzo dietro la nuca, più grosso e più maligno, che gli mette la febbre e non viene a suppurazione nemmeno cogli empiastri e le pappe di lino.

— Bisogna chiamare il chirurgo! Bisogna tagliare.

Giordano Mari ha un po' di febbretta, ma, per non perdere nemmeno questa occasione, finge il male anche maggiore. Sfoga contro sua moglie il dispetto e la rabbia per il fiasco della conferenza, tiene il broncio allo zio ministro e geme, piagnucolando, coll'onorevole Cogoleto:

— Vedete come mi ha ridotto quella gente?... Ditelo voi, ai vostri amici della stampa!... Se, proprio, me l'hanno giurata, se per partito preso vorranno straziare, dilaniare a questo modo anche il mio povero Ambrogio, finiranno coll'ammazzarmi!

Il Cogoleto, strizzando gli occhietti vividi sotto le sopracciglia aggrottate, lunghe come mustacchi, gira, borbottando, le redazioni dei giornali e torna all'Albergo Milano recando proteste di stima e promesse di articoli. L'Albertoni raccomanda il Sant'Ambrogio ad uno de' suoi segretari particolari, il solito che si tiene in contatto colla stampa.

L'Eccellenza di Destra e l'onorevole dell'Estrema [291] sono più che mai presi dalla bellezza giovane e gaia, dalle grazie affascinanti della moglie, e per amore di lei prendono sul serio anche i fignoli del marito, tanto più poi che donna Emma, buona e in buona fede, seconda, a meraviglia, il giuoco di Giordano. Essa è inquieta, turbata, addolorata:

— Giordano ha la febbre! Smania, soffre orribilmente! Bisogna chiamare il chirurgo!... Bisognerà tagliare!

La poveretta non sa, non pensa più ad altro. Il lieve umorismo, la punta di critica è scomparsa; l'idolo risale al terzo cielo. Il suo Nino colla febbre, che aspetta il chirurgo, il suo Nino caro, sempre buono, anche quando strapazza e brontola; il suo Nino che ha sempre ragione, anche quando ha torto; che è sempre bello, affascinante, anche col foulard delle pappe di lino attorno al collo! Essa raddoppia le carezze ed i baci; lo veglia giorno e notte, non lo lascia un minuto. La Carolina non c'entra, non deve farsi nemmeno vedere!... La tenerezza della donna innamorata è gelosa di quelle cure. È lei stessa, Emma, colle sue piccole mani ingemmate, così bianche e così morbide, quelle piccole manine che Sua Eccellenza bacia sospirando, e il Cogoleto arrossendo fin sotto il velo dei peli irti, è lei stessa che gli fa le pappe ben calde, che le distende sulla tela, sotto la garza, che ne sente il tepore prima sulla guancia delicata, e che poi lieve lieve gli avvoltola intorno al collo.

— Povero Nino mio, ti fo male?

— Bene no, cara; grazie.

E, tra un grazie e un cara, Giordano si fa curare e si fa servire, senza riguardi, senza scrupoli, [292] non lasciando a sua moglie nemmeno il tempo di vestirsi, di dormire, di respirare.

— Fa presto, cara; ti ho chiamata già due volte!... Grazie.

E così, sempre con una parola amara sotto la dolcezza della intonazione, come una bacca di tossico sotto una gelatina di zucchero candito, egli diventa ogni giorno più fastidioso, più permaloso, più sospettoso, più geloso. Geloso di una gelosietta acuta, certe volte, come una punta di spillo, ma senza collere, senza impeti, a estri, piena di rancori, di ironie, di bizzarrie. È geloso di un cappellino, di un vestito di Emma, soltanto perchè le stanno bene:

— Non hai altro in mente: tutto il tuo studio è di piacere... agli altri.

— Vieni via, cara, da quella finestra: tu vuoi farti vedere, si capisce, ma io piglio freddo!

— Non scherzare, non rider sempre così forte! Io, cara, ho passati i vent'anni... e anche tu!

E, nello stesso tempo, si gode, si diverte alla corte che fanno ad Emma l'Albertoni e il Cogoleto. L'uno, Sua Eccellenza, amabilmente e allegramente, con grande spreco di dolci e di fiori; l'altro, il vecchio colonnello garibaldino, furiosamente, mangiandola cogli occhi e coll'aria di volerla mangiare anche coi denti, e mettendo in fuga con le punte irte dei baffi verdi gli adoratori del seguito, il «coro di donna Emma», che si affollano al Pincio attorno alla sua carrozza, e a teatro ne riempiono il palchetto.

E si gode, si diverte alle spalle di quei due assidui e fedeli spasimanti, sfoggiando tutta la sua vanità di marito amato, adorato:

[293] — Quella mia cara Emma, così docile, così sottomessa, così amorosa! Non vive altro che per prevenire i miei desiderii. In mezzo ai miei dispiaceri, ho almeno sempre una parola dolce, una carezza, un bacio!... È così bella! diventa ogni giorno più bella! La mattina appena mi desto.... salta in camera mia... e vi entra il sole! Ed è innamorata più ancora del primo giorno!... — Troppo. — Non glielo dite, non scherzate con lei in proposito, perchè se ne avrebbe a male. Ma... volete sapere sin dove arriva la pazzia di quella creatura?... È gelosa della Carolina!

Giordano Mari sente, per altro, una gelosia vera, profonda, una gelosia esosa come l'invidia, atroce come l'odio, per Carlo Borghetti. Sempre e soltanto per Carlo Borghetti.

Adesso, quando arrivano lettere da Milano dirette ad Emma, egli dimentica le solite professioni di delicatezza; le apre, le legge per il primo e ne riferisce alla moglie quel tanto appena che gli accomoda. Donna Fanny scrive a lungo «dell'interessante architetto»; e Giordano, subito, impone ad Emma di troncare quella corrispondenza e quell'amicizia.

— Te ne prego, cara, assolutamente. E mi farai il preciso favore, a Milano, di non salutarla nemmeno più. Col suo Guido Bardi, e compagnia, è diventata una donna, ormai, troppo, moralmente, avariata.

Ed egli sta in guardia, e ancora più attento, alle lettere del dottore. Una, anzi, la fa sparire.

Il buon dottore annunziava appunto in questa lettera la partenza di Carlo da Milano per Val d'Olona, la campagna del Borghetti, non molto [294] distante dall'Argentera e, dopo una lunga e fitta pagina di storia e di minuta diagnosi della malattia, concludeva «che il lentissimo e saltuario miglioramento era, pur troppo, da ritenersi più che altro apparente e momentaneo, senza il concorso di nessuna risultanza, di nessun dato favorevole che inducesse ad un pronostico soddisfacente.»

Emma, finchè Giordano è ammalato, non s'arrischia nemmeno di scrivere al suo povero cugino. Gli scriverà subito, dopo, appena Giordano sarà guarito... e non avrà più tante idee così strane per la testa.

— Adesso non bisogna inquietarlo; soffre, ha la febbre.

E Giordano ne approfitta per dire tutto il male possibile «di quel Borghetti» e per mettere in ridicolo anche il dottore:

— Credi, mia cara, il tuo illustre e straordinario cugino non è altro che un erudito. E gli eruditi, sai che cosa sono?... I nostri rigattieri. Gli ho letto qualche capitolo del mio Sant'Ambrogio, e ho fatto male. Per aver ascoltato il suo consiglio ho troppo abusato di note, di documenti, di erudizione. Di primo getto mi era riuscito molto più agile! Mah! a Milano fate presto a inventare i genii!... Come, per esempio, anche quel noioso e interminabile funerale del vostro Esculapio a ripetizione!

Emma (supplichevole, colle lacrime) Il dottore, no! Il nostro buon dottore, no! Ti prego, ti prego!... Ma, pensa, quanto ha fatto per noi!... Devi voler molto bene anche tu al nostro buon dottore!

Giordano. Per noi?... Per te. Si sarebbe prestato [295] ugualmente volentieri se invece di me si fosse trattato (strizzando l'occhio) di Nino o di Carlino. Un matrimonio è quel che preme!... Per far moltiplicare i clienti!... Ma poi questo non toglie, cara, che anche il tuo dottore, per quanto di moda, non sia un grande esagerato. Tu, per esempio, a voler dar retta a quel Torquemada, dovresti esser morta e sepolta! Invece sei una bellezza! la mia bellezza cara!... La mia gioia! Vieni, dammi un bacio.

Spariscono le lacrime. Emma, ridente, salta sulle ginocchia del «suo povero Nino ammalato», e per quel bacio ch'egli le chiede essa abbandona allo strazio dei suoi epigrammi il povero Carlo e il buon dottore.

Giordano. Del resto, se non sono diventati tutti imbecilli, e se non mi vogliono veder morto per la solita invidia nazionale, — dàgli addosso a quel cane che si è innalzato sugli altri!... accoppalo!... — se non è, dico, per questo, il mio Sant'Ambrogio avrà un successo straordinario. Me lo scrive l'Amodei.

Emma. Sant'Ambrogio?... Dunque, hai cambiato il titolo? Sant'Ambrogio vescovo, come vuole lo zio?

— No, come voglio io. Sant'Ambrogio, e basta. Io sono sopra tutto sincero e aborro i bigotti di tutte le chiese, specialmente delle chiese nuove: i più fanatici e i più ipocriti. — Santo, sicuro. Sai che cosa vuol dire Santo? — Uomo giusto; nient'altro. È l'ignoranza, gioia mia, gioia cara, che impone la doppia servitù del pensiero e della parola!

[296] I fignoletti sono scomparsi affatto, da parecchi giorni, e Giordano Mari alle dieci del mattino è già uscito, ed è già stato alla posta, ufficio Pacchi postali, nella speranza di ricevere da Milano le prime copie della sua opera.

— Ancora niente.

— Niente.

Torna all'albergo brontolando contro la poca sollecitudine dell'Amodei ed entra subito al numero 31.

— Buon giorno, cara. È più tardi del solito e non hai ancora finito di vestirti?

Emma (come sempre, appena lo vede all'improvviso, correndo ad abbracciarlo con un grido di gioia) Sei già stato fuori?

— Sì. A comperarmi dei sigari.

— E il libro è arrivato?

— Che libro?

— Il Sant'Ambrogio!

Giordano. Non seccarmi sempre col Sant'Ambrogio! Arriverà... quando arriverà.

Emma (ancora colle braccia attorno al collo del marito, indietreggiando a un tratto per guardarlo, per osservarlo bene) Ma tu, scusa... (gli tocca leggermente una guancia colla punta del dito) Sicuro!... Sei gonfio!

Giordano. Gonfio! (corre a guardarsi nello specchio) Che mi venga qualche diavolo anche in faccia?

Emma. No, no! È un po' di gonfiezza, soltanto. Apri la bocca! Lasciami vedere in bocca!

Giordano (opponendosi vivamente) Ma no, non seccarmi! Mi secchi! (Cambiando tono, sorridendo) Bambina!... Pare impossibile!... Sempre il mio tesoro di bambina che giuoca! Adesso ti diverti [297] a giocare con me «al signor dottore». (Avviandosi verso il numero 30) Per te i dieci anni non saranno ancora passati, nemmeno quando ne avrai quaranta!

Emma (per seguirlo) Vengo io!... Hai un po' di tintura d'iodio o di laudano?

Giordano (con fermezza) Ti prego: c'è la Carolina per gli unguenti e per gli empiastri. Fammi il piacere di sonare e di chiamare la Carolina. Grazie.

Emma (suona mortificatissima e facendo il broncio).

Giordano (ritornandole vicino, accarezzandole una mano) Per un po', sta bene; ma adesso, basta. Le tue manuzzole sono troppo belle e desidero baciartele... senza sentir l'odore di seme di lino!

La Carolina (precipitandosi in furia) Sua Eccellenza! Il signor ministro! L'ho visto adesso entrare nell'ascenseur!

Giordano (ad Emma) Ricordati che io sono ammalato e che dormo! Già, non viene per me, ma per te! (Passa colla Carolina nel numero 30, e chiude a chiave l'uscio di comunicazione).

Emma, in un attimo, finisce di vestirsi.

Sua Eccellenza (in frak, decorazioni e un grande scatolone di dolci sotto il braccio: fermandosi sull'uscio) Troppo presto?

Emma. No, no, zio! Avanti!

Sua Eccellenza. Vengo presto perchè più tardi, oggi, non posso. (Sospirando) E poi dicono che non si lavora per il nostro paese! Alle dieci del mattino, come vedi, sono già in abito di fatica!

Emma (ammirandolo). Sei magnifico!

Sua Eccellenza (avanzandosi) Tuo zio, dunque, ti piace?

[298] Emma (birichina) Moltissimo... colla commenda!

— E allora, perchè sei brava, eccoti il premio. (Le dà la scatola dei dolci e il solito bacio, paterno, sui capelli).

Suo marito le ha ripetuto tante volte che «non c'è pericolo!» Ed Emma, ormai, chiude un occhio, e lo zio continua a prendersi qualche piccola confidenza. Suo marito le ha sempre predicato che non bisogna disgustarlo, anche per un riguardo alla mamma, ed Emma ha finito per lasciarsi fare un po' di corte, ricambiandola con molta civetteria graziosa, briosa, spiritosa. Del resto, con una lezioncina di tanto in tanto, Richelieu si tiene nei limiti, e la sua corte non ha che un eccesso di espansione in fiori, in dolci, in ninnoli. Sua Eccellenza è amabile, galante e di buon umore. È un innamorato che sospira ridendo. Ride anche donna Emma e comincia a divertirsi della corte dello zio, come si diverte e ha preso piacere alla sigaretta. L'una e l'altra, due cose che da ragazza non avrebbe nemmeno potuto provare; due passatempi da maritata e che si risolvono in un po' di fumo, che non dà la tosse a nessuno.

Emma (sdraiandosi sul canapè nel suo cantuccio solito e cominciando a rosicchiar dolci) Sai che Giordano sta poco bene?

Sua Eccellenza (con un'occhiata verso il numero 30) Sempre a cagione del Taine?

Emma (seria) Non scherzare; questo te lo proibisco. Scherza sul Cogoleto quanto vuoi, ma non su mio marito. (Ad alta voce) Ha una guancia un po' gonfia.

— È a letto? Dorme?

— Credo.

[299] Sua Eccellenza si allunga sul canapè, avvicinandosi colla faccia, fissando Emma.

Emma. Vuoi... un cioccolatino?

Sua Eccellenza (tenendo strette le dita che gli offrono il piccolo dolce, lo avvicina alle labbra di Emma) Metà per uno.

Emma (finge di non capire, libera la mano e spezza il cioccolatino) Ecco, prendi.

— Tutti i giorni sempre più... cattiva!

— Proibito parlare sottovoce!

Sua Eccellenza (forte) Allora vengo a prenderti colla carrozza prima di pranzo e stasera ti conduco a teatro, alla prima della Manon.

Emma gli accenna ripetutamente di no, scrollando il capo.

Giordano (dall'altra stanza, parlando colla bocca chiusa) Vieni a prenderla prima di pranzo colla carrozza; e stasera la condurrai a teatro.

Finchè la moglie è gentile, Giordano sa di poter essere sgarbato collo zio ministro, e però si sfoga, per mostrare la propria indipendenza, col trattarlo quasi arrogantemente.

Giordano (rivolgendosi dopo un istante a sua moglie, con un tono più sommesso e più affettuoso) E tu farai, almeno per questa volta, come ti dico io. Per guarir presto, ho bisogno, sopra tutto, che tu mi permetta di fare a mio modo. Ho bisogno di quiete, di silenzio assoluto, di dormire, di non mangiare e di non veder nessuno. Ti mando un bacio, cara. Buon giorno, zio!

Sua Eccellenza (subito, ad Emma, sottovoce) Allora vieni a pranzo con me!

Emma. Ti par possibile?

Sua Eccellenza. Col deputato Cogoleto, coi nostri [300] soliti! (nomina due o tre dei più assidui frequentatori di Emma).

Emma. Sola, senza Giordano e con Giordano che non sta bene? Mai più! Anzi, régolati: non venirmi a prendere, oggi, colla carrozza. Non voglio assolutamente.

— Hai sentito? Tuo marito me lo ha ordinato.

— Dirai a mio marito che hai avuto Consiglio, che non hai potuto.

— E... in compenso della bugia?

Emma. Verrò, forse, a teatro. (Sdraiandosi, sporgendo il piede che vede ammirato dallo zio, sul panchettino di velluto) Che cosa guardi?

Sua Eccellenza. Quel piedino! Quel piedino! (Mettendosi il pince-nez e chinandosi per ammirarlo più dappresso) Oh! il piedino delle signore milanesi!... Come il cielo di Lombardia, così bello! quando è bello!


La nipotina ha detto di no, ma Sua Eccellenza ritorna verso le sei colla carrozza: tentar non nuoce.

— Non sgridarmi! Non sono venuto a prenderti. Soltanto desidero avere le notizie di tuo marito. Come sta? (Guardandola: abbassando la voce) Hai pianto?

— No.

— Sì.

— No.

— Hai gli occhi rossi!

Emma. In tutto il giorno non ho potuto vederlo. Ecco che cos'ho! Tutto il giorno la Carolina, soltanto la Carolina!

— E tu lascialo colla Carolina, e vieni con me!

[301] La voce di Giordano (ancora più soffocata per la pappa di lino) Sei tu, zio?

— Sì, ma... (per obbedire ai cenni della nipote) ma devo scappar subito! Abbiamo Consiglio!

— Allora, dopo. Vieni col Cogoleto! Venite a prendere Emma! Io sto meglio, grazie, ma non posso parlare e non sopporto la luce. Invitate Emma a pranzo!

Emma (rivoltandosi furente verso il numero 30) Io fuori, a pranzo, non ci vado! A teatro, non ci vado! Dici sempre che ho passato i vent'anni! Sì! Sì! Sì! Ho passato i vent'anni, sono una donna e non sono più un baby da condurre a spasso! Voglio fare quello che voglio! Voglio restare a casa mia, a casa mia! Voglio restar sola, a casa mia!

Sua Eccellenza se ne va, in punta di piedi, sospirando, e senza sorridere. Giordano non fa sentir più la sua voce per tutta quanta la sera.

Emma, seduta, sprofondata nell'angolo del canapè, ha un libro in mano sul quale tien fissi gli occhi, senza voltar mai le pagine. Batte nervosamente la punta del piede sul palchettino, ha le ciglia aggrottate. Silenzio perfetto al numero 31: silenzio profondissimo al numero 30. Soltanto la Carolina va innanzi e indietro, e gira intorno alla padrona che non la guarda, che le tiene un muso tremendo. La Carolina soffia e sbuffa; vorrebbe forse parlare... dire alla signora qualche cosa, ma guarda verso il numero 30 e non si arrischia.

— Le fo portare da pranzo, signora? Sono le nove!

— No.

— Ma non vuol prender nulla? Ha mangiato così poco, quasi niente, anche a colazione!

[302] — Emma non risponde: rimane immobile, gli occhi fissi sul libro che tiene in mano.

La Carolina, avvicinandosi, molto sottovoce:

— Lei, se continua così, domani sarà ammalata e, invece, il signor padrone, glielo assicuro io.... starà benissimo.

Emma, le ciglia sempre aggrottate, alza il capo dal libro e fissa la cameriera. Perchè sorride?... Che cos'ha da ridere, la sciocca?...

Carolina, in punta di piedi, va fin presso all'uscio del padrone, ascolta attentamente, poi, passo passo, si avvicina di nuovo alla signora:

— Non c'è pericolo!... Dorme a suon di musica! (Guarda fissamente Emma e torna a sorridere).

Emma (alzandosi d'un balzo e gettando via il libro). In fine, che cosa c'è?

Carolina. Per amor del cielo! Ho promesso al padrone, ho giurato al padrone che avrei sempre taciuto, taciuto con tutti, ma specialmente con lei! Si figuri se io avrei mai parlato! Ma.... è tutto il giorno che la mia signora piange, soffre; sembra in collera anche con me! Io non ho coraggio di vederla così disperata per una sciocchezza, per una debolezza!

E Carolina, anche colle lacrime negli occhi per il gran bene che vuole alla padrona, non può a meno di non continuare a ridere.

Emma (nervosissima) Insomma... che cosa c'è?

Carolina. Badi, signora — mi raccomando! — il padrone ha minacciato di mandarmi via, su due piedi! È una sciocchezza, le ripeto!... Poi dicono, le donne! Ma se gli uomini sono in tutto e per tutto molto più donne di noi!

— Che cosa c'è? Senza tante chiacchiere!

[303] — Ha tre denti finti... Ma mi raccomando, per amor del cielo! Lei deve continuare a non accorgersene!

Emma fissa la Carolina come per voler intender meglio: poi passeggia per la stanza e diventa ancora più seria. La piccola ruga apparsa in quei giorni per la prima volta sulla fronte limpida, intatta dei bei vent'anni, si fa più viva e più profonda.

Sì, pensa Emma fra sè, è una sciocchezza; ma come si può fingere, come si può mentire, anche per una sciocchezza, con chi si ama, a chi si vuol bene? Io non gli ho mai potuto nascondere nemmeno un punto solo, un respiro, il respiro più lieve della mia anima!

Carolina. Ma perchè non ride? Si metta di buon umore! In fine, che c'è di male? È un bell'uomo; ci tiene! Mi promette, non è vero? Giura di non tradirmi col signor padrone?

Emma (seriamente) Basta! Basta! So ciò che devo fare. Tu, per altro, quando ti dicono di tacere, devi tacere.

Carolina (piccata) Se ho sbagliato, scusi; è stato a fin di bene! Sembrava in collera anche con me! Non mi diceva più una parola!... È naturale!... Prima lei, che è sempre stata la mia padrona, di tutti gli altri!

E la Carolina se ne va, anch'essa un po' imbronciata, dopo aver augurata la buona notte alla signora.


Emma (fra sè) Quando egli mi guarda, mi legge subito in fondo al cuore. Io, invece, no; capisco, non so leggere nel suo cuore; non ci vedo; è [304] buio, è chiuso! Dio, Dio, se non mi volesse bene Che gran dolore! Che fine di tutto! Che morte! E che orrore! (Si copre il viso colle mani, mentre un brivido le corre per la vita. Si è data, si è abbandonata così interamente, così appassionatamente: si sforza per calmarsi: sorride, ma con molta, con profonda tristezza). Anch'io sono una gran sciocca, stasera; mi monto la testa; esagero! Ma, pure, io gli avrei detto tutto, qualunque cosa, grande o piccola; fosse pure un'inezia e anche un torto mio; fosse pure una colpa. Impossibile tacere sotto i suoi occhi. Impossibile! Impossibile! Solo a guardarmi saprebbe sempre tutto. Invece, lui, mi fa una gran commedia per una ridicolaggine inconcludente!... Un pasticcio, segreti, misteri colla Carolina, colla cameriera, che scherza poi, e ne ride! E peggio ancora! Peggio ancora!... Ha il coraggio di restare un giorno intero senza vedermi; ha il coraggio di farmi soffrire un giorno intero! È troppo! No, è troppo! (Comincia a svestirsi sempre più eccitata e vibrante: i piccoli bottoni di madreperla saltano lontani, e i cordoncini di seta si aggrovigliano fra le dita nervose). Che donna mi crede? Come mi giudica? Ha più vanità per sè stesso — sì, vanità, vanità, vanità! — che non amore per me! Una vanità piccola, meschina, ridicola. E colla cattiveria di lasciarmi sola, tutto un giorno sola, senza poterlo vedere, inventando mille bugie, mille finzioni per allontanarmi! Voleva mandarmi fuori a pranzo, a teatro collo zio, col Cogoleto, con tutto il mondo! Perchè non ho accettato? Perchè non ci sono andata?... Oh, ma un'altra volta!... Lo merita.

Emma, sempre colle ciglia aggrottate, pallida, [305] smorta, senza mai guardare verso l'uscio del numero 30, ha finito di spogliarsi. Salta in letto, spegne il lume e si caccia sotto.... voltando le spalle al numero 30!

Chiude gli occhi, ma non riesce ad addormentarsi: resta immobile, rannicchiata senza voltarsi, senza distendersi, presa da un senso d'inerzia, di freddo. È tardi; lo scricchiolìo dei passi e le voci lungo il corridoio si fanno più rari; i rumori dell'albergo si allontanano, si perdono, e nella camera buia, silenziosa, a poco a poco, prima leggero, interrotto, poi, più forte, più lungo, entra il gran russare di Giordano, accompagnato da un sibilo, da un fischiettìo, che varia tutti i toni.

Emma si rannicchia ancora di più; caccia la testa sotto le coperte, per non sentire; ma quel rumore sempre più forte, continuo, misurato, la tien desta, l'opprime, la soffoca, riempie tutta la camera... e, sembra, tutto l'albergo.

Emma (sotto sotto, cacciandosi sempre più sotto) Dio, Dio, sentiranno?... Sentiranno nelle altre stanze?

[306]

X. Grandi novità.

La mattina dopo, il gonfiore è scomparso; Giordano Mari si sente in lena ed è di buonissimo umore. Ha ricevuto colla prima posta una letterina dell'Amodei che gli ha fatto molto piacere.

«Illustre e caro amico,

«Vi furono spedite ieri le prime copie del Sant'Ambrogio. Vedrete che splendida edizione! Che margini! Che carta! Mi direte bravo! E ho procurato al volume un articolo monstre, scritto da un critico famoso, professore d'Università, deputato... Indovinate chi è, e ditemi grazie. Dopo tantum nomen, se le rane vorranno gracidare, infischiatevene chiamandole rospi.

«Vostro affezionatissimo
Amodei.»

[307] Giordano Mari (in manica di camicia, dinanzi allo specchio dell'armadio, si strappa con una pinzettina i peli bianchi della barba: fra sè) Che miracolo! Emma stamattina non si fa sentire! Forse, dormirà ancora. (Tende l'orecchio verso l'uscio) No! c'è la Carolina. Sarà in collera. Ieri gliel'ho fatta grossa! Tutto il giorno Richelieu e niente Nino! (Ammirandosi nello specchio dopo aver indossato l'abito) Povera piccola!... Faremo la pace. (Spinge il capo, senza bussare, in camera di sua moglie che sta facendosi pettinare dalla Carolina) Che capelli straordinarii!

Sente un'ondata del solito profumo à la peau d'Espagne, ma quella mattina è una delizia.

— Buon dì, dormigliosetta! Nemmeno un saluto, per chiedere al povero Nino come sta?

Emma voltandosi, mentre la Carolina le tiene sollevata tutta la grossa e lunga massa dei capelli, stende le due mani a Giordano, ma per un senso improvviso, come d'imbarazzo, non lo guarda in faccia.

Giordano (colla sua voce più bella, colle modulazioni più tenere, stringendole le due mani e baciandola in mezzo alla testa sulla riga dei capelli, sottile come un filo di refe bianco) Guardami, gioia. Sono bello come prima?

Emma lo guarda, ma non gli osserva la bocca e arrossisce come una fiamma, perchè vede nello specchio, o le par di vedere, la Carolina che si sforza per non ridere.

Giordano (convinto che sua moglie è in collera per la «cattiveria» del giorno innanzi e voglioso di far la pace, siede sopra una seggiolina di fianco alla toeletta, in faccia, vicinissimo ad Emma) Hai [308] un cerino oggi, come direbbe il nostro buon dottore, un cerino incantevole. Sei fresca, bella, «bella al par d'una rosa». Non è vero, Carolina?

Emma (alla Carolina: un po' irritata) Fa presto!

Giordano (sorride fissando Emma e facendo sfoggio più che mai dei bellissimi denti) Com'è buono, soave l'odore dei tuoi capelli! È un peau d'Espagne delicatissimo! (Fiutando a lungo e chiudendo gli occhi) Un'ebbrezza!...

Emma si alza, con le mani agili dà gli ultimi tocchi di pettine ai riccioletti della nuca, poi, senza levarsi l'accappatoio, manda via la Carolina. Non può più vederla! Le riesce seccante, fastidiosa, insopportabile!

— Va! Va! Mi vesto sola.

La Carolina è intelligente: non fiata nemmeno; ma pensa, fra sè, andandosene pianino e chiudendo l'uscio, che l'ha sbagliata: ha fatto molto male a parlare.

Giordano. Ancora non mi hai dato un bacio. Sei proprio in collera?

Emma (adesso che non c'è più la Carolina lo guarda, lo guarda bene; ma non lo bacia sulla bocca; diventa rossa di nuovo e trova un altro posto dove baciarlo, sotto l'occhio) Ha scritto la mamma! Se vuoi la lettera, è nella mia cartella: guarda sul letto.

Giordano. Dunque, mi hai perdonato?

Emma. Lasciami far presto. — Sai? — Dev'essersi perduta una lettera del dottore. (Si leva l'accappatoio, sempre in fretta, per terminare di vestirsi).

Giordano. Ti aiuto io?

Emma. No, no. Da me sola fo più presto. Carlo andato a Val d'Olona, ma non sta ancora bene.

[309] Giordano. Cara, cara, cara! Perdonami. Ti prego, ti supplico! Perdonami.

Emma si arresta... Lo guarda seria seria, a lungo, prima in collera, poi cominciando a sorridere. È l'incanto, la carezza della voce tenera, morbida. È il fascino dell'amore, il primo amore dei suoi vent'anni!

— No. Sei stato troppo cattivo. Lasciami far presto.

— Cara, cara, cara! Perdonami! Ti prego! Lo voglio! Perdonami!...

Emma si sente stretta fra le braccia di suo marito: tutto dimentica, tutto svanisce, si sente vinta. È l'anima risorta in estasi! È la gioia, è la vita che torna nel cuore palpitante!

— Povero Nino mio — pensa in cuor suo — ha detto una piccola bugia, soltanto per piacermi! — Si volta, lo fissa colle pupille lucenti, tremule. Emma perdona, e gli butta a sua volta le braccia al collo coprendolo di baci. — Nino! Tesoro! Mio!...

Si bussa forte all'uscio:

— Un pacco della ferrovia. Libri.

Giordano. Il Sant'Ambrogio! (D'un salto correndo ad aprire) Avanti!

Emma, ancora in sottanina, ha appena il tempo di scappare nell'altra stanza. Poi, dopo un momento, appena l'agente della ferrovia che ha portato i libri se n'è andato, si nasconde, aspettando che Nino corra a cercarla. — Niente! — Allora, corre lei, cacciando il capo innanzi, e sorridendo: — Hai chiuso l'uscio?

Giordano (sforzandosi inutilmente per rompere la corda del grosso pacco) Dammi una forbice.

[310] Emma (correndo gli dà la forbice e gli fa una carezza) Hai chiuso l'uscio?

Giordano (distratto: tutto intento a disfare il suo pacco) Non so. Guarda.

Emma non guarda e, invece, finisce di vestirsi.

Giordano (ammirando uno dei grossi volumi in ottavo che formano il pacco) Magnifica!... Bravo Amodei! È una splendida edizione! (Legge il frontespizio): Giordano Mari, Sant'Ambrogio.

Emma (rimasta sempre un po' distratta) Come? È il Sant'Ambrogio? Fammi vedere!

— Guarda, gioia. È il mio Sant'Ambrogio! Che bella carta! Che bei margini! Forse la copertina, se fosse stata un po' più chiara.... Non ti pare? Il titolo risalterebbe meglio!

Emma (cogli occhi incantati, seguendo un pensiero che sempre più si allontana). È bello lo stesso!

Giordano. Ma se fosse stata più chiara, per l'effetto della vetrina sarebbe stato molto meglio. Adesso prendo la carrozza e in fretta. (Guarda l'orologio). Le dieci e mezzo. Sono quasi le dieci e mezzo. Porto due copie del Sant'Ambrogio allo zio e le altre due al Cogoleto.

Emma. E per me?

Giordano. Domani, o dopo, arrivano tutte le altre.

— Mi avevi promesso la prima copia.

— Sono tutte eguali, cara! Anzi, la tua te la farò legare. Una legatura artistica, di stile antico.

Emma (che sente il bisogno di arrabbiarsi) Però, mi avevi promesso la prima copia!

— Una allo zio e l'altra al segretario dello zio! Sono urgentissime, per la stampa. Più presto le consegno e più presto i giornali amici possono parlarne [311] e dare l'imbeccata! Per te, invece, giorno più, giorno meno, è lo stesso.

— No, che non è lo stesso. E le altre due copie? Tutt'e due al Cogoleto? Perchè tutt'e due?

Giordano (sbuffando) Perchè il Cogoleto mi ha pure promesso di procurarmi due articoli favorevolissimi, e in due giornali radicali, che nella mia condizione, collo zio al Governo, mi premono anche di più. (Cacciandosi in testa il cappello e cercando i guanti) Anzi, gli scriverai un bigliettino più tardi, invitandolo a pranzo. (Ridendo) E ti metterai quel tuo famoso abito ch'egli chiama «all'andalusa» e che lo fa andare in visibilio! (Serio) Non bisogna lasciar tempo al Corriere Romano, alle rane, cioè ai rospi, di alzar la voce per i primi. Guai se il pubblico rimane mal prevenuto. Sono rovinato! (Fa per avviarsi).

Emma (sempre più attonita e mortificata) Vai via... proprio così?

Giordano (dandole un bacio in fretta e in furia, col cappello in testa e le quattro copie del volume due per mano) Ciao, cara! Porta pazienza, per oggi! Non farmi quegli occhi, viva Dio! Che cosa c'è da piangere? Domani, non sono tutto per te? (Va via).

Emma (correndogli dietro: sull'uscio) Ti aspetto a colazione.

Giordano (in fondo al corridoio: senza voltarsi) Sì.

Invece non è più tornato... ed Emma ha fatto colazione sola.

E tutto il giorno rimane sola in quella camera d'albergo, senza vedere, senza parlare con anima viva. Legge, scrive al babbo, alla mamma, al dottore per avere le notizie di Carlo. — Oh, Carlo, [312] povero Carlo, com'è buono! — E, mentre scrive, prova una commozione, un intenerimento strano, morboso. Le lacrime le cadono grosse sulla carta, e deve smettere anche di scrivere. Non si sente bene. Tutto il giorno, tutto il giorno chiusa dentro, in una stanza; forse le ha fatto male il calorifero. Le gira la testa; prova un senso di nausea. Ma più di tutto è la noia! Quando la noia attacca i nervi diventa una malattia.

Verso le sei, quando può, viene lo zio a prenderla per la passeggiata, ed Emma, prima e dopo le sei, corre due volte alla finestra; ha sentito una carrozza fermarsi tutt'e due le volte, e ha sperato che fosse lo zio! Le avrebbe ripetuto la solita tiritera; le avrebbe voluto baciar la mano, guardare i piedini. Oh, ma almeno, avrebbe potuto parlare con qualcheduno!...

Invece niente! Quel giorno... nemmeno Richelieu!

— Auf! Che noia! Che noia! Come sono stufa! Stufa, stufa di questa Roma! A Milano avrei il babbo! Caro, caro il mio babbo! (E colle labbra gli manda un bacio) E all'Argentera, anche sola, avrei almeno i miei fiori!

Giordano Mari torna appena per il pranzo, e arriva ansante, gridando, ancora colla fretta e colla furia, come se n'era andato. Il Cogoleto aspetta d'abbasso, nella sala da pranzo; e lo zio li aspetta a teatro, per le nove e mezzo.

Giordano (ad Emma) Presto! Facciamo presto! C'è appena il tempo di vestirsi! Che cos'hai? Oh, ma ti prego, ti raccomando! Ancora quegli occhi! Oggi, proprio oggi! Sono assolutamente fuori di posto! Tanto più che io voglio vederti contenta, perchè sono contentissimo anch'io. Spero bene! [313] Dopo la guerra atroce che mi hanno giurata, si tratta della lotta per la vita e... pazienza! Devo sottomettermi al giogo più odioso, che ho sempre aborrito di più: a quello della réclame! Sorridi, ridi, cara, per amor di Dio! Tu anzi... sei tu che devi spingermi, farmi coraggio, tenermi allegro! Si tratta della cattedra! Lo zio ha promesso! Tutto dipende dal Sant'Ambrogio. Capirai, non è per la vanità di ottenere un gran successo — io, resto io! — Ma devo farmi una posizione! Lo sai anche tu; devo lavorare (sorridendo affettuosamente, tanto più che bisogna far presto a calmare Emma, per non far troppo aspettare il Cogoleto), devo lavorare per vivere e guadagnar molto, molto... (abbracciandola) con un tesoro in casa, che mi spende quasi trecento franchi soltanto in sapone! Fa presto, gioia!

Emma lo guarda, lo fissa stupita... e vede il sorriso dei bei denti bianchi, e le corrono alla mente le parole della sua prima lettera: «... Povero, io avrò l'immensa ricchezza di essere il solo padrone di me stesso — sempre indomabile e fiero...»

— È lui! Giordano Mari! È lo stesso di Milano! Ma pure com'era diverso quella domenica nella sala del Circolo artistico-letterario! E dopo in via San Paolo? E dopo, e dopo, all'Argentera... E dopo, fino a Napoli? Mah!... — sospira e pensa la giovane donna, mentre sta abbigliandosi e facendosi bella per il deputato Cogoleto e per lo zio ministro. — Mah!.. quello era il sogno, l'incanto... E la vita, la realtà, si sa bene, è sempre diversa. È brutta; è molto brutta la vita, la realtà!

Il giorno dopo, non succede altro che un piccolo cambiamento del giorno prima: suo marito [314] viene invece a colazione... e non a pranzo; mala sera, tardi, in compenso, le porta a casa, da leggere, uno splendido articolo sul Sant'Ambrogio; anzi, lo legge tutto lui, lentamente, colla bella voce alta e sonora.

— Porta pazienza, gioia cara. Forse, anche domani sarò occupatissimo, e forse, temo, dovrò pranzare col direttore del Corriere Romano; ma poi, dopo, tutto per te!

Lo zio ministro aveva parlato chiaro e lo aveva consigliato bene:

— Vuoi che il tuo volume sia lodato e portato alle stelle? Allora, devi non solo farti valere, ma farti vedere. I giornalisti sopra tutto! Ti raccomando i giornalisti! Non basta conoscerli, farsi presentare; ma bisogna frequentarli, viver con loro. Gridano, strepitano, certe volte; ma sono, in fondo, bravissimi ragazzi, divertenti, pieni di spirito e che ti daranno tutta la celebrità e la gloria che desideri, al patto di goderla un po' tutti insieme. — Perchè fabbricare un grand'uomo... per gli altri? Con che gusto? — E se tu resti chiuso, nascosto all'albergo con tua moglie, il Sant'Ambrogio... sarà un mezzo fiasco. Il suo valore? Il suo merito intrinseco, tu dici? Ma chi saprà mai, davvero, se è un capolavoro o, scusa, una bricconata? Nessuno; nè tu che lo hai scritto, nè i tuoi critici... che non lo hanno letto! Caro mio, non è il libro che bisogna fare; bisogna fare l'autore! Tanto è vero che ci sono molti autori celebri, che non hanno mai scritto niente! Hai capito? Mi spiego?

Giordano Mari ha capito benissimo; si mette a far la vita dei caffè e del Corso, affidando la moglie [315] allo zio, che diventa sempre più galante, e al Cogoleto, che diventa sempre più geloso. Ma, anche nel poco tempo che passa colla moglie, Giordano Mari non si occupa di lei, ma del Sant'Ambrogio, sempre il Sant'Ambrogio, il quale comincia, del resto, ad essere discusso seriamente ed apprezzato, ammirato dalla gente colta, dagli studiosi.

— Io non ti credevo capace di tanto! — dice un giorno Sua Eccellenza al nipote, guardandolo in faccia con un'espressione diversa dal solito, ed ammirandolo sinceramente. — Io non ho ancora avuto il tempo di leggere il tuo libro, ma me ne hanno parlato molto favorevolmente persone competentissime e tutt'altro che di facile contentatura. Il senatore Bernabeis — nientemeno! — il principe dei nostri storici, l'arca santa dell'erudizione!.. Ieri sera, dalla principessa di Campolatino, ha proclamato il Sant'Ambrogio un'«opera poderosa», un'«opera madre». Bravo! Sono contento! «Vergin di servo encomio», ti fo i miei complimenti e ti stringo la mano!

I medesimi «astiosi parrucconi», che non avevano mai preso sul serio Giordano Mari, nè come letterato, nè come storico, nè come critico, dopo che il Bernabeis ha letto e lodato il Sant'Ambrogio, vogliono vedere «che cosa c'è.» Lo leggono però con diffidenza, sogghignando, ma poi, onestamente, devono modificare il primo giudizio:

— Giordano Mari è un uomo che sa il suo conto. Non si scherza! Il Sant'Ambrogio non è un libro che s'improvvisa!... Ma perchè dal momento che ha la libera docenza a Bologna, non fa lezione?... È un valore...

[316] E Sua Eccellenza passa di maraviglia in maraviglia!

— Ma, sai, che, col riuscire a farti leggere dai contemporanei, hai fatto un gran miracolo?.. — È vero che sei stato felice nel titolo, e che hai avuto anche la combinazione fortunatissima di aver trovato un primo lettore: il Bernabeis. Già, dovrò finire col leggerlo anch'io! Ma, intanto, dal momento che hai chiesto e ottenuto la libera docenza a Bologna per un corso...

— Sulle Origini dei Comuni italiani.

— Precisamente; perchè non fai qualche lezione? Prendi un capitolo del Sant'Ambrogio e la lezione è bell'e scritta.

Giordano Mari (con dignitosa maestà) Questo poi no. Io mi vanto di essere sopratutto sincero e originale!

Tornato di moda, rimesso sul candeliere e illustre più di prima e con più credito, Giordano Mari torna sereno, affettuoso, espansivo, sorridente, e torna a sentirsi benissimo. Anche il dolorino persistente alla nuca, il «tarlo che rode» è scomparso. In casa ci sta pochissimo; non ha mai tempo! — ma in quelle ore fuggevoli la sua Emma, dolce e buona, la sua Emmina, bella e cara, è sempre «la dilettissima», «l'adorata» dell'Argentera!... E, anche fuori di casa, egli è cortese, alla mano, affabile con tutti. Dà del tu e si prende a braccetto l'ultimo dei reporters come gli uomini del Governo, i colleghi dello zio. La sua superbia s'è rannicchiata dentro di lui; sembra dormicchiare, beatamente soddisfatta, dopo una lauta indigestione di lodi. Soltanto lui è un grande storico, un grande letterato, un grande oratore, un grande lavoratore, [317] insomma il solo grande nei varii generi; ciò si sa e si deve sapere. Gli altri sono tutti asini e facchini; ma questa sua profonda e immutabile opinione egli la esprime senza astio e senza livori, serenamente e dolcemente, più col silenzio e coi sorrisi indulgenti che non a parole. Egli passeggia sul Corso, il cappello a cilindro sulle ventitrè, pavoneggiandosi come a Milano, nella modesta e oscura via di San Paolo, le falde del lungo abito nero svolazzanti, raccogliendo strette di mano, sorrisi, complimenti, congratulazioni e scappellate, ch'egli porta all'Albergo Milano condensate e mutate in altrettante carezze, in altrettanti baci per sua moglie. Non è più rabbioso, invidioso, bisbetico; si entusiasma invece per i cappellini e le acconciature che fanno risaltare la bellezza di Emma.

— Cara!... Gioia!... Vieni a darmi un bacio! — E quando Emma si alza in punta di piedi per baciarlo, non più sulla bocca, ma sotto l'occhio, egli la guarda sorridendo, «povera piccola», e gli par quasi impossibile che possa arrivare a tanta altezza.

— Fatti bella!... Sì, sì; sempre più bella! Anche tu devi rifulgere di gloria, e la bellezza è la gloria della donna!

E, dopo il Sant'Ambrogio e il suo trionfo, Giordano Mari non è più nemmeno geloso.

— Quel Borghetti!... (Sorridendo con bontà) E dire che ha avuto la debolezza di non scrivermi nemmeno un bigliettino!.. Non mi ha nemmeno telegrafato per il grande successo del Sant'Ambrogio! Ho fatto bene a levare la dedica. È un invidioso!... Tutti si sono fatti vivi in questa circostanza! [318] Il Barbarani, Guido Bardi, l'onorevole Simonetti, la marchesa Gonzales... persino la d'Arborio, per quanto innamorata di Nino Sebastiani; ma, invece, il signor architetto, niente. Si capisce, del resto, povero diavolo: invidia e gelosia. Carlo Borghetti?... Chi è? Il gran talentone di Milano, e che a Roma nessuno conosce, tranne quel tribuno quarantottesco di Pietro Schiavino. Pietro Schiavino? Ah! ah!... Il solo punto nero in mezzo a tanto cielo azzurro.

Giordano Mari gli ha mandato subito il Sant'Ambrogio, e, abbandonando per la circostanza lo stile novissimo, gli ha fatto una dedica alla Garibaldi:

All'atleta della libertà e dell'avvenire
questo propugnatore del passato.

Poi aspetta; ma non arriva niente. Giordano Mari non riceve nessun bigliettino di ringraziamento. Compera il Popolo tutti i giorni... niente; il Popolo non parla del Sant'Ambrogio.

Che il volume si sia smarrito negli uffici di redazione? È tanto facile! E si affretta a mandare una seconda copia:

Allo strenuo e integerrimo campione
dell'ideale
un «uomo giusto» d'altri tempi.

(Omaggio e ricordo dell'autore, coi più affettuosi e cordiali saluti)

[319] Niente. Anche dopo l'invio della seconda copia, nessuna risposta, nessun articolo.

— Che villano!... Avrebbe dovuto imparare un po' di educazione dal senatore Bernabeis!

E, uno dopo l'altro, manda il Sant'Ambrogio a tutti i redattori ordinarii e straordinarii del Popolo. Poi, finalmente, visto che non riesce a ottenere nemmeno l'annunzio, si dà pace infischiandosene con un'alzata di spalle:

— I rospi... lasciamoli tacere!


Una sera, prima di pranzo:

Due carrozze sono ferme presso l'Albergo Milano. Una carrozza di piazza per condurre Giordano Mari a Ponte Molle: un pranzo di amici, di tutti i colori: redattori della Monarchia e del Corriere Romano, dell'Avvenire e della Croce di Malta. E un grande landò di casa Campolatino che aspetta donna Emma.

La principessa di Campolatino, in voce d'essere la Ninfa Egeria del presidente del Consiglio, di solito non riceve che uomini, e non è molto amabile colle signore belle. Donna Emma è la nipote del ministro della pubblica istruzione; è la moglie di un grande scrittore in voga, e poi è milanese — è a Roma soltanto di passaggio — e non c'è da temere per la concorrenza.

Il numero 30 e il numero 31 sono inondati di luce e di profumo à la peau d'Espagne. L'uscio di comunicazione è spalancato. Giordano Mari, ancora in pantofole e in maniche di camicia, va innanzi e indietro affrettatamente, come se le due camere fossero ormai una sola. Ad Emma che sta pure abbigliandosi:

[320] — Se per caso non posso venire stasera dalla principessa, nemmeno sul tardi, ti prego, cara, le farai le mie scuse. Le dirai che un gruppo di giornalisti mi ha offerto un gran pranzo a Ponte Molle.

Emma (che ha sempre, da poco in qua, una cert'aria indagatrice) Ma se mi ha detto il Cogoleto che sei tu che hai invitato i tuoi amici a Ponte Molle?

Giordano (senza arrabbiarsi) Ti prego, gioia; non diventare contraddicente, e sopra tutto non diventare una pedante. Pensa che sei perfetta, in tutti i sensi, cara; dunque, per amore della bellezza e dello spirito, non guastarti. Dove hai messo l'allaccia-scarpe?

— Guarda sul canapè.

— Che ora è?

— Le sei e mezzo.

— E prima delle sette devo trovarmi da Aragno! Cara, suona per l'acqua calda.

— È andata la Carolina.

— Ho avuto tanto da fare, da girare! Sarò proprio costretto a tenere questa conferenza su Sant'Ambrogio e Marcellina. (Cantarellando) Sint pura cordis intima... Poi alla biblioteca... Devo raccogliere i materiali per fare almeno due lezioni a Bologna: La verità contro la leggenda e Sant'Ambrogio nelle sue lotte cogli ariani. Poi le feste, i pranzi, le presentazioni, le visite!... In questa Roma, non c'è tempo nemmeno di respirare!

— C'è tempo soltanto di annoiarsi.

— Ecco! Da capo! La pedantina cara che fa la contraddicente! (Baciandola sulla spalla nuda, mentre Emma si stringe nel busto) E che così... ha sempre ragione.

[321] Emma (rimasta fredda, indifferente) Se non mi lasci far presto, arriverò in ritardo.

Giordano (un po' piccato) Ma la Carolina, viene sì o no coll'acqua calda? (Riprendendo il discorso di prima) Adesso, che, finalmente, dopo tanto lavoro e tante amarezze, ho il mio quarto d'ora di legittima soddisfazione, tu ti annoi: quando invece ero ammalato e avevo un cumulo di dispiaceri, allora ti divertivi.

Emma. Non mi divertivo, ma allora vivevo con te; si stava sempre insieme, e adesso invece... sono sempre sola.

Giordano (di nuovo ridendo) Sola? Collo zio, col Cogoleto, con cento altri, sempre d'attorno e tutti innamorati?

Emma. Quando dico sola, intendo dire senza di te. Del resto, anche il signor Cogoleto finisce per seccarmi... molto.

Giordano. Per amor del cielo! È tanto permaloso!

Emma. Sia pure permaloso quanto vuole! Soltanto mio marito potrebbe permettersi certe osservazioni, certi musi e certe spostature, che si permette invece il signor Cogoleto, colle persone che mi accomoda di ricevere! E... tuo zio... (aggrotta le ciglia e si punge con uno spillo).

Giordano (inquieto) Che c'è di nuovo? Anche collo zio? Cosa c'è?

— Niente. Soltanto, spero... finchè resto a Roma, visite all'albergo non me ne farà più.

— Quando è venuto?... Oggi?

— Sì, oggi.

— Che cosa gli hai detto? Cos'è successo? Voglio sapere che cosa gli hai detto.

[322] — Taci!... La Carolina!

Infatti, la Carolina entra in quel punto coll'acqua calda.

Giordano (fra sè; versando l'acqua calda con impeto, e buttandola mezza fuori della catinella) Sta a vedere che mi disgusto, proprio adesso, col Cogoleto e collo zio! (Asciugandosi le mani si avvicina ad Emma, che sta mettendosi i gioielli e la interroga fissamente negli occhi: la Carolina, in fondo alla camera, ferma i bottoni ai guanti).

Emma (sottovoce) Niente. Le solite confidenze sempre più spinte e che io non posso, non voglio più permettere assolutamente.

Giordano (pure sottovoce) Hai ragione. Ma come vi siete poi lasciati? In collera?... Com'è andato via?

— Domandandomi scusa.

— Allora non era in collera?

— No, ma...

La Carolina si avvicina coi guanti, il dialogo resta interrotto.

Emma (forte) Non ti ho detto che mi ha scritto il fattore.

— Quello dell'Argentera?

— Sì, il signor Formenti. È arrivata tutta la tua roba da Padova, e tutto il mobiglio nuovo per le nostre due camere e il tuo piccolo studio del primo piano.

Giordano Mari, per allontanare da Emma ogni idea di recarsi a Padova, le aveva detto di essere in rotta con suo fratello, e ormai in modo irreconciliabile, per molte ragioni di interesse e sopra tutto di decoro. La «sua roba» erano poi le casse dei suoi libri ed alcuni oggetti che gli appartenevano, [323] ancora per l'eredità di sua madre: erano gli abiti e la biancheria che lo avevano raggiunto a Padova l'ultima volta che c'era stato. Tutta roba che allora, per non farsela correr dietro, aveva lasciato in deposito alla Veronica, e che poi, già da tempo, aveva scritto a Tancredi di fargli recapitare, in porto assegnato, all'Argentera.

Giordano. Benissimo! La mia roba, i miei libri! I miei libri andranno tutti nel mio studio del primo piano, vicino alla mia camera da letto.

Si bussa all'uscio: chiamano la Carolina, che va fuori, a vedere.

Giordano (appena uscita la cameriera, avvicinandosi vivamente a sua moglie) È in collera, dunque?... Lo zio è andato via in collera?

Emma. Non so; non credo; ma appunto, perchè io sono stufa e per evitare possibili dispiaceri... ti dirò poi una mia idea.

— Quale? Che idea? Sentiamo.

— Tu resti a Roma per la tua conferenza, poi vai a Bologna per la tua lezione, ed io, intanto, vado avanti sola, per due o tre giorni, all'Argentera; metto tutto a posto, la tua roba e la mia, il tuo studio e le nostre camere, e poi, quando sei libero, vieni a prendermi e si passa un po' di tempo a Milano, com'è già stato fissato, tutti insieme, col babbo e la mamma.

Quasi quasi, l'idea non dispiace a Giordano Mari. — Perchè no? — Un paio di settimane solo, libero... Potrebbe prepararsi a modo suo per la conferenza e per la lezione, senza l'incubo di Emma che sente, che ascolta dietro l'uscio... Sempre fuori a pranzo senza più il pericolo di andare in collera col Cogoleto o coll'Albertoni, e poi di [324] nuovo, dopo gli allori, l'«adorata» che lo aspetta nei lieti ozii dell'Argentera. — Perchè no? — Quasi quasi, l'idea non gli dispiace. Ma non bisogna mostrarsene troppo contento, per non dare dispiacere alla piccola cara.

— Ah! Ah! — Giordano sorride senza ironia, piacevolmente. — Vorresti ch'io ti lasciassi andar sola all'Argentera?... L'Argentera non è molto lontana da Val d'Olona. Potresti avere più fresche e più sicure le notizie del cuginetto!... del giovane Werther!

— Carlo! Oh, povero Carlo! Come lo dimentico sempre!

Con questo pensiero e con questo rimorso, che le attraversa l'anima, Emma fissa Giordano: per la prima volta, i due uomini li vede riuniti dinanzi ai suoi occhi e al suo cuore:

— Come sono diversi! Come sono diversi!

Ma non è che un lampo. Rientra subito la Carolina con una grossa lettera portata da un usciere del Ministero.

Carolina (consegnando il grosso letterone ad Emma) Da parte di Sua Eccellenza. Ho fatto domandare: non c'è risposta.

Giordano (vivamente) Che cos'è? Guarda cos'è.

Emma (che sta puntandosi nei capelli una piccola stella di brillanti) Adesso... Subito...

Giordano (strappando la lettera di mano alla Carolina) Guardo io. (Straccia la busta) Ci sono delle bozze di stampa e un biglietto! (Legge il biglietto sottovoce, poi forte, con un'esclamazione di gioia) È l'articolo della Rivista Nuova!

È l'articolo già da tempo promesso e annunziato dall'Amodei; Giordano Mari sapeva che doveva [325] uscire in quel numero, ma l'improvvisata gli fa molto piacere lo stesso! (Contentissimo, rivolgendosi ad Emma) Lo zio non è rimasto in collera! Tutt'altro! (Rilegge il biglietto ad alta voce) «Cara nipotina. Il mio segretario mi comunica le bozze di un articolo che uscirà nel prossimo fascicolo della Rivista Nuova. Io mi affretto a mandartelo, sperando di farti piacere e baciandoti la bella manina... in ginocchio». In fondo, è un buonissimo diavolo! (Guarda l'orologio) Sono quasi le sette. Non importa! Aspetteranno. (E legge a brani, ad alta voce, l'articolo) «Habemus un libro! Anzi, un libro è dir poco. Abbiamo un'opera, nel senso preciso e grande della parola: un'opera insigne, completa, che rispecchia tutta una esistenza di ricerche, di studii,» — Bravo! — «di intuizioni, di divinazioni!»

— Bravissimo!

«... Pareva smarrita nella nostra letteratura storica e scientifica la robustezza tradizionale di quelle visioni retrospettive che sembrano gettare sprazzi di luce e di calore sul passato. Giordano Mari col suo Sant'Ambrogio ci ha provato che in Italia, non solo si sa ancora scrivere, ma si sa ancora pensare». — Benissimo! — «E quando il pensiero critico, l'indagine storica, l'evocazione artistica, assurgono al valore contenuto in queste pagine, la monografia diventa poema: non si narra più, ma si crea».

— Precisamente!

«... L'efficacia riproduttrice dell'opera del Mari sul grande vescovo di Milano, fa ripensare alla trasmigrazione degli spiriti, nel senso che l'autore sembra uomo dell'epoca che ha impreso [326] a dipingere, rinato nella nostra età volgare per riaccendere entusiasmi e fedi quasi spente omai nell'anima del popolo».

— Anche questo è verissimo!

«... Per noi il Sant'Ambrogio, più che un libro raro, è una gloria della patria. Lirica e romanzo, storia e archeologia, gli uomini e i monumenti, il mesto insegnamento che emana dalle morte cose e l'inno fremente alla vita, tutto si alterna nelle pagine strane, dense, mirabilmente scritte e istoriate di questo Sant'Ambrogio, che Giordano Mari ha dato alle stampe. Quanti anni di lavoro, quante veglie, quanti entusiasmi ha chiesto un libro simile al suo autore?» — Verissimo! — «La poderosa monografia del Mari sull'età tipica delle libertà comunali lombarde si affaccia come un prezioso anacronismo. V'è in questo libro il profumo aspro, la rude poesia di quei secoli remoti. Nessuno, a parer nostro, potrà trovarvi traccia di una sola imitazione pedissequa e indolente». — Ah, no, viva Dio! — «Tutti quelli, che vorranno studiare e scrivere del personaggio insigne e dell'epoca sua, dovranno a quest'opera attingere come alla fonte più schietta, alla più doviziosa miniera. Il Sant'Ambrogio si afferma, nella produzione letteraria dell'anno, come l'opera madre». — È un bellissimo articolo. Sono contentissimo! Carolina! Fa presto, il calamaio! (Ad Emma) Scrivi, subito, una parola a nostro zio per ringraziarlo!

Emma (che ha già indossata la pelliccia) Io? No. Questo poi, no!

Giordano (facendosi il nodo alla cravatta e pestando i piedi perchè nell'orgasmo, nella fretta, non [327] gli riesce bene) Allora gli mando un telegramma, io, per tutti e due?... E finiscila di guardarmi con quegli occhi attoniti, incantati. — O sì... o no! — O fingere di non saper niente, o prenderla sul serio e andare sino in fondo, magari con una buona sciabolata!.. Risolvi!

Emma (con un'alzata di spalle) Fa come vuoi!... (E se ne va senza aspettarlo).


Che brutti giorni! Che brutti giorni!

— Sì! Sì! Voglio partire da questa Roma! — sospira Emma in cuor suo, chiusa nel landò della principessa di Campolatino. — Oh, vivere un po' sola, tranquilla, all'Argentera. Sola?... Sì, sola; sola davvero.

Ma poi, un giorno, non è più il pensiero dell'Argentera, della tranquillità, della solitudine che le sorride. È un altro: un pensiero che le infonde un nuovo slancio di affetto, di abbandono, di riconoscenza e di perdono, d'indulgenza, per suo marito. Sì, sì; a Roma, anch'essa era stata un po' cattiva, puntigliosa, capricciosa, ingiusta. In fine, che cosa gli può rimproverare? Qualche debolezza, qualche momento di cattivo umore, e poi?.. Mente altro!.. Ma, sotto il suo apparente egoismo, sotto la sua apparente vanità, sotto il suo orgoglio, egli era mosso da un sentimento nobile, delicato, elevato. Egli voleva crearsi uno stato col proprio lavoro, col proprio ingegno, coi propri studii, col proprio nome. Era vero che dapprima gli avevano mosso una guerra sleale, atroce, ed era naturale che adesso egli si comportasse in modo da difendere sè stesso e il valore di un'opera veramente bella, veramente grande...

[328] Oh, Nino! Il suo Nino era buono! Era caro! È lui che la rende beata! È lui che la rende felice!

Giordano vede sua moglie diventare ancora più bella, più ridente... E come prima, più di prima, affettuosa, amorosa, innamorata...

È pallida qualche volta, ma con una tenerezza infinita negli occhi luminosi...

— Che hai, gioia?

Emma si avvicina per parlare. Ma la parola che sta per dire si arresta e finisce in un bacio.

— ... Se ancora, se non fosse vero?...

Ma una mattina guarda fisso fisso suo marito, sorride, poi gli butta le braccia al collo e scoppia in lacrime.

Giordano (con un grido di gioia) Sì? Sei proprio sicura?...

— Credo... spero; spero tanto!

— Oh, ma brava!... Brava, la mia piccola cara! Bisogna telegrafare subito a Milano, alla mamma, al babbo...

Emma (diventando ancora più rossa) No! No! No! E se... non fosse?

— Hai ragione! (Guardandola sorridendo, accarezzandola, stringendola amorosamente fra le braccia) La mia gioia cara, il mio tesoro... — Mammina!

Emma a questa dolcissima parola trasalisce, guarda ancora suo marito, poi sorride, diventa pallida, pallida, e gli casca sul petto sopraffatta, sfinita dalla troppo forte emozione, dalla troppo grande felicità.

Giordano. Adesso bisognerà informarsi; mandar a chiamare un dottore. Sentire, assicurarsi...

[329] Emma. No, no; quando saremo all'Argentera. Il mio dottore, il nostro, il nostro buon dottore, soltanto. Ma oggi, sai, Nino mio, oggi voglio, sì voglio... te lo domando per... (si arresta di nuovo arrossendo e, nascondendo la faccia sul petto di Giordano, ripete sottovoce) Voglio...

— Che cosa?.. Parla!... Sì! Sì! Parla!... Parla!

— Oggi sei tutto mio; soltanto mio. Non... il grand'uomo, il grande scrittore, il grande pensatore! Nino, voglio il mio Nino. Prendiamo una carrozza, noi due soli... Andiamo fuori di Roma, noi due soli. Si scappa insieme fino a stasera, fino... a domani.

Giordano (contrariato) Oggi?.. Proprio oggi?.. Pensa, è impossibile. Sono a colazione dalla principessa di Campolatino col senatore Bernabeis.

Emma (irritata) Oh, questo poi... Manda un biglietto! Trova una scusa!

Giordano. Ma tu, cara gioia mia, non ti ricordi... di niente! Non sai che per oggi lo zio mi ha ottenuta un'udienza del Re e della Regina per presentare loro una copia del mio Sant'Ambrogio?... Domani, domani, cara, tutto il giorno! Cioè, no! Domani no! Anche domani, purtroppo, sono impegnatissimo. Non so ancora se terrò la mia conferenza Sant'Ambrogio e Marcellina alla Palombella o al Collegio Romano. E bisogna risolvere qualche cosa. Poi, forse, domani è probabile che venga a Roma l'Amodei e dobbiamo discorrere per una nuova edizione economica del Sant'Ambrogio. Dopo domani, invece, sarò libero certamente, almeno lo spero, e... si prende la carrozza e si scappa! Come sei bella! Angelo, angelo, angelo mio! Non so più trovare altra parola per [330] te! — Angelo! — Ed è vero? È proprio vero?.. Di', di', di', — angelo mio! — è proprio vero?.. A proposito. Hai visto le due copie del Sant'Ambrogio per le Loro Maestà? Me le hanno portate adess'adesso. Guarda che splendore di legatura!... E anche tu, ricordati; me lo hanno fatto capire tanto lo zio, quanto la Campolatino, dovrai domandare di essere presentata alla Regina. (Mostrandole i due libri, che leva dalle loro scatole) Guarda che magnificenza! E che bel libro! (Sorridendo) È un gran bel libro, dentro e fuori. Che vuoi?... Sì, te lo confesso! Lo amo il mio Sant'Ambrogio. E adesso, gioia cara, tesoro, adesso... mi devi capire di più, e, quasi direi, compatire. Il nostro libro, pensa, è come la nostra... creatura; è un figlio. Io pure, col Sant'Ambrogio, pensandolo, scrivendolo, ho provato, potrei dire, le ansie, i dolori, le gioie... della maternità!

Emma (arrossendo di nuovo: con un po' anche di dispetto) Io però, se sarà davvero... se fosse... ricordati; no, no, no; assolutamente. Non gli metto nome... Ambrogio!

[331]

XI. Al caffè Cova.

Subito dopo il passaggio da Roma dell'editore Amodei per «trattare» la seconda edizione del Sant'Ambrogio, arriva da Parigi monsieur de La Roche per acquistarne la traduzione francese; poi il dottor Ueberbacher del Pester Lloyd per pubblicarlo in tedesco e in ungherese; poi un collega, professore dell'Università di Upsala; poi un agente della «New York's Editors Society»; poi una cognata dell'Ibsen, parente pure del Björnson... insomma, tutto un gran da fare per Giordano Mari. Emma, convinta ormai che il giorno da lei tanto desiderato e implorato, per scappare con suo marito a Frascati o a Tivoli, non sarebbe mai venuto, e ristucca delle furie del Cogoleto e dei dolciumi dello zio, perde a un tratto la pazienza e decide, su due piedi, di scappar sola all'Argentera:

— Io me ne vado! Proprio, proprio! Sono stufa, troppo stufa!... Io me ne vado.

Giordano Mari alza gli occhi al cielo, sospira e acconsente:

— Sopra tutto io non sono un egoista. Non [332] voglio tenerti a Roma, sacrificarti, povera piccola, mentre lavoro... e il lavoro, come sai, è la dura eppur cara necessità della mia vita. E adesso devo lavorare ancor di più (baciandola teneramente), angelo mio; devo lavorare per... lui. Va, gioia; va pure all'Argentera; ma ti supplico, per amor del cielo, riguardati dal freddo. Dopo domani terrò la mia conferenza Sant'Ambrogio e Marcellina, poi a Bologna due giorni e poi di corsa all'Argentera, al ben meritato riposo, e al dolcissimo premio! Dirai al fattore di provvedermi un bravo cane da caccia. Ho bisogno di sgranchire le gambe — sempre al tavolino!... È un gran dolore vederti partire; restar solo. Mah! È la lotta per la vita. In premio dammi un bacio... (Emma, distratta, lo bacia sulla barba) No, no: angelo mio, uno dei tuoi baci. E dimmi che lo comprendi il mio sacrificio, e che io sono... molto buono! (Si commuove per la dolcezza della propria voce e scappa subito sul Corso, perchè non può resistere a veder sua moglie e la Carolina a preparare le valigie).

Emma si ferma a Milano appena una mezza giornata; vuole abbracciare il babbo, venuto apposta per vederla, da Brenzonino, la villa dei Dionisy in Brianza.

Anche la mamma desidera fare un'improvvisata alla figliuola; anzi, ha già dato tutti gli ordini e le disposizioni per la carrozza ben chiusa e per una mezza farmacia. Sono già pronte le pellicce, gli scialli, i cuscini, i guancialetti e persino l'acqua per lo scaldapiedi; ma poi, sul punto di montare in carrozza, cascante di forze e di vezzi e già imbacuccata fra i veli come una donna turca, guarda il tempo... — Che ne dici, Venceslao? — Il [333] tempo le sembra un po' incerto; lo strapazzo, cui potrebbe andare incontro, la spaventa.

— Che ne dici, Venceslao?... Che mi consigli di fare? Io, dopo, non voglio accuse, processi. — Dio mio!... Non voglio colpe!... Non voglio sentirmi sgridare nè da te, nè dal dottore.

Il cavalier Venceslao, sempre serio, grave, contegnoso, guarda il tempo anche lui da tutte le parti, ma non risponde, non apre bocca... e la signora Letizia manda un monte di baci alla figliuola e rimane desolata a Brenzonino, a gemere, a lamentarsi con una boccetta di Lavender Salts sotto il naso, e a farsi compiangere dall'arciprete, per i rigori eccessivi, tirannici, di suo marito e del dottore.

— Non mi è più permesso nemmeno di abbracciare la mia figliuola!


Alla stazione di Milano:

Il cavalier Venceslao (prendendosi Emma fra le braccia, mentre scende dal predellino del coupé e tenendosela stretta contro il petto) Dunque? Sei sicura?

Emma. Sì! E la mamma?

Venceslao. Ti aspetta a Brenzonino, più presto che puoi! È tanto contenta anche la mamma!... Voleva venire a Milano con me, ad ogni costo; ma sono stato io a non volere, a impormi. Il dottore le ha proibito assolutissimamente di pigliar freddo.

Emma. E il dottore? Il mio buon dottore? Dov'è?

Venceslao. Verrà forse domani a trovarti all'Argentera. È partito, al solito, per Val d'Olona. Carlo sta sempre poco bene.

[334] — Oh, Carlo! Carlo! Povero Carlo! — Emma aveva ancora dimenticato. — Ma come sta? È proprio molto ammalato? Non c'è pericolo, per altro? Non c'è pericolo?

Il cavalier Venceslao scrolla tristemente il capo, avvolgendosi il collo nel foulard bianco e aggiustandosi con un colpo di mano le larghe tese del grande cappellone di feltro nero:

— Pericolo no; almeno per ora.

Vinto il primo momento di emozione, il cavalier Venceslao è ritornato, in mezzo al via vai della stazione e della gente che si volta a guardarlo, molto serio, molto contegnoso. Aspetta diritto, immobile, che Emma abbia finito di dare gli ordini e le indicazioni necessarie alla Carolina, poi le offre il braccio per condurla alla carrozza.

Emma (appoggiandosi al braccio del babbo: affettuosa, carezzevole, felice di rivederlo) Eccomi! Son qui!... Sono ancora qui! La tua Emma!

Venceslao (dopo aver fatto salire Emma in carrozza) Dove andiamo a far colazione? Al Cova?

Emma. Sì, sì. Come vuoi! Andiamo al Cova!

— Al Cova — ripete il signor Dionisy al cocchiere e montando accanto alla figliuola, pur sorridendo affabilmente a chi lo sta osservando, cerca di rimaner nascosto il più possibile nel fondo del landò.

Alla Porretta, mentre egli andava o veniva da Montecatini, i viaggiatori di un altro treno di passaggio, scambiatolo per Verdi, gli avevano fatto una simpatica dimostrazione. Il cavalier Venceslao ne è rimasto commosso, ma ormai, per la sua delicata modestia, deve imporsi, pure con una certa soddisfazione, i maggiori riguardi.

[335] Al Cova, nel piccolo stanzino appartato, in fondo al caffè: i primi che si presentano alla signora Emma (sanno ormai tutti, a Milano, che vi sarebbe stata di passaggio) sono il nobile Barbarani e Guido Bardi. Emma, dimenticando le ingiunzioni del marito, si affretta a chiedere al giovane poeta le notizie di Fanny:

— È tornata a Milano?

Guido Bardi diventa rosso come un pomodoro e si ficca la lente nell'occhio tanto per far l'inglese, mentre il Barbarani lancia un rapido sorrisetto a Venceslao.

Emma. È tornata a Milano, o è ancora sul lago?

Guido Bardi (un po' rauco) È andata... a Montecarlo.

— A Montecarlo? Come? — esclama Emma stupita, non perchè la Fanny vi sia andata, ma perchè il giovane poeta è rimasto a Milano. — A Montecarlo?

Il cavalier Venceslao, per distrarla e per cambiar discorso, le mette dinanzi la lista delle vivande:

— Guarda, Emma, che cosa vuoi ordinare?

Barbarani (pure per cambiar discorso) Sicchè, dunque, benissim! Di trionfo in trionfo il nostro Mari! Son proprio content!

Venceslao afferma e approva coi cenni del capo, mentre Guido Bardi, confuso dalle domande di Emma, s'è messo in un serio impiccio: ha la lente non ben ferma nell'occhio e tiene in mano un calice colmo di Madera, rimanendo immobile e muto fra due timori: quello di versare il liquido e quello di lasciar cadere la lente.

[336] Barbarani. Io già, del resto, anche prima, ne ero più che sicurissim! Il Sant'Ambrogio sarà un gran capolavoro! L'ho sempre detto e adesso ho la soddisfazione, la compiacenza di essere stato buon profeta. In fatti, un entusiasmo generale. Anche tutti i giornali, per quanto io non dia nessunissima importanza ai giornali — tutt'altro — (si arrabbia, perde la voce: tossisce)... Ma quando, insomma, sono unanimi nel dover constatare, in certo modo, la verità per forza, è un bel vanto! E il nostro Mari l'ha meritato! Bravo! È un gran libro! Stupendo! Indovinatissim! E interessantissim! L'ho comperato anch'io, certo! Sono stato il primo. E me lo tengo lì, gelosamente custodito, sul tavolino accanto al letto. Sono smaniosissimo di leggerlo; ma... col Sant'Ambrogio non si scherza! Adesso ho l'approvazione del bilancio, l'assemblea generale al Circolo artistico-letterario! Voglio gustarmelo adagio, adagio, un po' per giorno, con tutti i sette sentimenti! — È un gran capolavoro. Anzi, benissim, più ancora d'un capolavoro, e il nostro Bardi, col suo buon gusto sintetici... sintetichissimo, lo ha definito egregiamente: è un'opera... capitale!

Guido Bardi (correggendolo) È un'opera madre! (Si risolve a un tratto; beve di colpo, ma la lente gli cade proprio nel bicchierino e spande tutto il liquido).

Barbarani. Un'opera madre! Ecco la parola giusta! A proposit (abbassando la voce e premendo affettuosamente sopra una mano di Emma che ha già capito e arrossisce, pur continuando a mangiare di lena) Posso dunque congratularmi? Tanto più che, in certo modo, e per quanto, pur troppo, indirettamente, [337] posso vantarmi di averci contribuito anch'io!... Benissim! (Ancora più sottovoce e continuando a premerle la mano) Bravo come il papà e bel come la mammina!... Mi raccomando!

Emma (rossa rossa, servendosi di un secondo tournedos con tartufi e rivolgendosi al Bardi per nascondere quel pochino di confusione) E lei? Lavora sempre, speriamo! Che cosa ci prepara di nuovo?

Guido Bardi (come un piccolo Domineddio che si riposa dopo il sesto giorno) Niente.

Emma. Niente? Che peccato!

Il cavalier Venceslao. Il vero artista è quando non fa niente che lavora di più.

Barbarani. È la mente, in certo qual modo, che continua a fantasticare.

Emma. E la sua novella? È comparsa nella Revue Parisienne?

Guido Bardi (parlando con la bocca tonda per tener su la lente che si è rimessa nell'occhio) L'ho passata al Figaro. Paga di più.

Barbarani. Benissim! Quando si può, bisogna imporsi! (Dando un balzo improvviso sulla seggiola) E della gran novità, signora Emma?.. Che cosa ne dice?

Emma (tenendo alzato fra le mani un piccolo calice di Château Lafitte) Quale novità?

Barbarani. Come? Non sa? Le nozze di can?

— Le nozze di Cana?

— Appunto! Delle nozze di Cana, hanno fatto al club le nozze di can! Ma, se ella ignora il grande avvenimento, non vorrei, alle volte, riaprire una ferita, forse non ben rimarginata... e farle perdere il suo maraviglioso appetito (dando un [338] altro saltetto sulla seggiola) Il matrimonio di Nino Sebastiani colla D'Arborio?

Emma. Nino Sebastiani? Sposa la D'Arborio?

Guido Bardi (lentamente: con suprema arguzia) Per amore... e per forza.

Emma (cogli occhi furbi, scintillanti) Ma perchè le nozze... di Cana?

Barbarani (ridendo, urlando, tossendo) Di can! Di can! Di can!

Venceslao (con garbo e pacatezza, gustando insieme la spiritosità e i tartufi) Le nozze dei cani, perchè è un pezzo che si corrono dietro.

Tutti ridono: la lente di Guido Bardi corre un altro serio pericolo: egli apre l'occhio, la fa cadere sul palmo della mano e la ripone nel taschino della sottoveste.

Barbarani (abbassando la voce: avvicinandosi ad Emma) Sa, non è vero, della commedia o dramma, Afrodite, che il Sebastiani e la D'Arborio hanno scritto in collaborazione?

Emma. E che il prefetto di Milano ha proibito perchè, pare, fosse non troppo morale?

Barbarani. Benissim!

Guido Bardi. Proibita, no.

Barbarani. Insomma, il prefetto ha fatto tanto colla Direzione del teatro, col capocomico, che non l'hanno più rappresentata! E allora — questo è il bello! Nino e la D'Arborio vanno a mettere in scena la commedia, o il dramma che sia, a Venezia, dove chi ne dice mirabilia e chi ne dice plagas; è stato un gran successo? oppure un gran fiasco? — Ancora mistero! Ma intanto...

Guido Bardi (tira fuori nuovamente la caramella [339] e il sussiego sdegnoso del collega) Fiasco, fiasco, un fiasco piramidale!

Il Cavalier Venceslao (indulgente: pensando alla «Traviata») Un gran fiasco è sempre un successo di battaglia.

Barbarani (continuando) Precisament! Ma intanto, fiasco o successo, il fatto sta che la comunione della collaborazione, la comunione del viaggio, la comunione, diremo dunque, del fiasco, per non fare andar in collera il nostro Bardi, la comunione dell'albergo della Luna... troppe comunioni! La D'Arborio non ha nè padre ne madre, va benissim, e se non ha ancora l'età del giudizio, è perchè in trent'anni non lo ha mai avuto; ma tutto ciò non toglie, per altro, che sia sempre una ragazza... in faccia alla legge, e dopo tante comunioni, un bel giorno, sono arrivati i parenti da Napoli, o da Palermo, e hanno imposto a Nino Sebastiani anche la comunione definitiva!

Emma. Oh, povero Nino!

Barbarani. Tutt'altro! Nino Sebastiani è innamoratissim, secondo la sua abitudine. Invece, per molto tempo, è stata la D'Arborio a non volerne sapere.

— Ma perchè?

Barbarani. Perchè... perchè... Perchè la D'Arborio è tutta psicologia, tutta Wagner, tutta simbolismo, tutta Ibsen... e il matrimonio le pareva una conclusione troppo manzoniana!

Dalla grande sala del caffè si ode la voce della marchesa Gonzales.

Guido Bardi (alzandosi in fretta) Signora Emma, le domando scusa! In questi giorni di scirocco [340] sono nervosissimo e alla marchesa Gonzales non ci resisto.

Emma (dandogli la mano) Si ricordi che lo aspetto col Barbarani all'Argenter;.

Guido Bardi s'inchina profondamente, alzando i gomiti come un'anfora, e se ne va scivolando tra le seggiole dietro alla sua caramella che gli vuole scappare.

La voce della marchesa Gonzales, che si avvicina sempre di più:

— Dov'è?... Ma dov'è?... Nel salottino?

Il Barbarani, d'un salto, le corre incontro: — Marchesa! Marchesa! — poi si tira indietro, inchinandosi, per lasciarla passare.

La marchesa (si presenta sull'uscio: un enorme cappellone tutto penne, un enorme collettone tutto pelo; un abitone con maniche enormi, d'un color bronzo lucente, tutto verde e tutto oro) Eccola lì! Eccola lì! Ma brava! (Si ferma per tirare il fiato) Bravissima! Si passa da Milano alla diplomatica? In incognito? Senza nemmeno avvisare gli amici?

Emma e il cavalier Venceslao si sono alzati: Emma è corsa ad abbracciare la marchesa, la quale le stampa sulle guance due bacioni risonanti che lasciano il segno.

Emma. Non ero sicura di fermarmi! È stato per il babbo! Ma sarei venuta certamente a salutarti!

Tutti ritornano al loro posto; la marchesa, lentamente, dondolando e soffiando per la fatica, si siede accanto ad Emma.

Venceslao. Che cosa le si può offrire, marchesa?

La marchesa. Niente! Mai niente! Io adesso ho [341] cominciato a non mangiare per non bere, e mi sento benissimo. Sono diventata più leggerina, più elastica! (Guardando, ammirando Emma) Lasciati vedere... Ma sai che ti trovo un sole di primavera? (Dandole un altro bacio, le domanda piano all'orecchio) Dunque? Proprio vero? (Emma torna a diventar rossa: la marchesa forte) Ma bravi!... Alla Guglielmo Tell!

Emma guarda la marchesa, stupita, sorridendo.

La marchesa. Dico bene, Venceslao?.. Alla Guglielmo Tell... Noi due c'intendiamo, e basta!

Il cavalier Venceslao approva, sorridendo, e mentre chiama il cameriere e gli ordina il caffè, il cognac, i sigari, la marchesa continua, con Emma, a farle un monte di domande: — Tuo marito è rimasto a Roma per la conferenza? Poi va a Bologna per una lezione all'Università? Poi ti raggiunge subito all'Argentera? Ma il resto dell'inverno lo passerete a Milano? E a Roma? E lo zio Albertoni? È vero che ti faceva una gran corte? Sappiamo! Sappiamo tutto! Sappiamo che a Roma hai fatto una gran strage di cuori! Anch'io ho i miei amici, i miei fedeloni a tutta prova, e simpaticissimi, che mi tengono sempre informata di quanto succede e... (si vede guardata, osservata da Emma: si ferma, guardandosi a sua volta) Ti piace il mio abito? Siamo sempre in ordine, pronti alla battaglia? Sì o no?

Emma (dopo aver scambiato un sorrisetto col babbo e col Barbarani) Alla battaglia e alla vittoria!

La marchesa. Dunque, il buon gusto non lo abbiamo ancora perduto? Se non altro, per far dispetto a certi poeti... del calendario! Io te li [342] definisco in due parole: poeti del calendario! E so io di chi parlo! La Revue, il Figaro, tutte spiritose invenzioni per darsi importanza! Ma che vadano un po' a imparare da tuo marito!... Quello è un vero letteratone! — Dico bene, Barbarani?

Benissim! Giustissim!

— E il Sant'Ambrogio! Che furori! (Ad Emma) Me lo darai, ricordati; voglio leggerlo, a suo tempo!

Venceslao. Adesso lo sta leggendo la Regina.

Barbarani. Anche la Regina? Toh! Son proprio content!

La marchesa. È un libro che farà epoca. È scritto poi magnificamente!... Insomma, ripeto, si tratta di un vero letteratone! Non è come certi scrivani, pieni di boria e d'invidia, che conosciamo noi! (Fissando Emma) Ho detto invidia, cara la mia Emma, e mantengo la parola. (Rabbiosissima: scoppiando) Ma sì! Avete capito tutti di chi voglio parlare! Di quell'astioso inconcludente del Bardi, ch'era qui adesso e che è sparito per non incontrarsi con me! Sai, Emma, perchè scappa sempre, quando mi vede?... Perchè lo chiamo Didone.

Emma (sorridendo, senza capire) Didone?

La marchesa. L'abbandonato!

Barbarani. La nostra cara signora Emma non può gustare la piccantissima allusione, perchè non è più al corrente della cronaca milanese.

La marchesa (maravigliatissima) Come? Non hai saputo a Roma?... Non ti ha scritto la mamma che tra la Fanny e il Bardi... tutto liquidato?

Emma. Non so niente!... Niente!...

La marchesa (quasi in collera) Allora diremo, cara mia, che hai vissuto, sinora, nel mondo della luna... di miele! (Guardandosi in giro) Eh? Siamo [343] spiritosi? (A Emma) Il Bardi è liquidato! Liquidatissimo!

Barbarani (a Emma) E il successore? Indovini chi è il successore... Ma l'onorevole! Il Simonetti!... Il marito!... Ma sicuro! Sono andati insieme a Bergamo per assistere ai preparativi e al matrimonio di una loro cugina, la Roccaberla, e pare insomma che assistendo ai vezzi, alle carezze, agli amoreggiamenti dei due giovani sposini... precisament!... Come basta, alle volte, un cattivo esempio!

La marchesa (che tiene le parti di donna Fanny) Barbarani! Non facciamo il volterriano!

Barbarani. Sono ritornati a Milano, e sempre insieme, sempre a braccetto. Hanno messo il Bardi più o meno alla porta; sono venuti più volte a colazione, a pranzo, loro due soli, qui al Cova, e poi un bel giorno hanno preso il volo, come Paolo e Francesca, e sono andati a Montecarlo, un po' in ritardo, se vogliamo, per la luna di miele.

La marchesa. Ma che ritardo!... E poi anche fosse? Trattandosi di riparare al mal fatto, meglio tardi che mai!

— Giustissimo!

La marchesa. Del resto, io sono sempre imparziale; e mi piace di constatare che la Fanny, in questa circostanza, si è condotta in un modo veramente ammirabile. Ha fatto tutte le sue brave visite con suo marito; è stata anche da me, s'intende; anzi, per una delle prime. E che mutamento! Adesso bisogna stare attenti come si parla! Si è fatta presentare all'arcivescovo...

Barbarani. E così, anche per donna Fanny, il paradiso non scappa più.

[344] La marchesa. Barbarani, Barbarani! Non facciamo l'eretico fuori di posto! Una donna, quando ha i veri principii fondamentali, sa benissimo che per il paradiso c'è sempre tempo! (A un tratto: con un sobbalzo di tutto il petto rigonfio) Dimmi un po'... E del povero Borghetti?... Lo vedrai, adesso, a Val d'Olona? (Crollando il capo) Ma, temo, lo vedrai ancora per poco... È spedito!

Emma (diventando pallidissima: con un piccolo grido) No. Ma no!...

Barbarani. Pur troppo! E sarà una disgrazia sentitissima per tutta Milano! Pieno di attività, di capacità, e, senza essere un'aquila, pieno di buon senso.

Emma (con un accento quasi di disperazione) Ma no!... Ma no! Era guarito dalla pleurite!

La marchesa. Dalla pleurite, sì; ma adesso pare che vada a finire in una tisi.

Emma. Ah no, ah no! Povero Carlo! No! No! No!...

Gli occhi di Emma si sono riempiti di lacrime: il viso di Carlo Borghetti è lì, dinanzi a lei; così vivo lì, a Milano, dove essa era solita vederlo, incontrarlo, come non gli era mai apparso fino allora. Quella parola «spedito» le ha serrato il cuore e la gola. In un attimo, insieme al sorriso, è scomparsa la sua gioia e, per la prima volta, sente possibile, sente vicina la morte di quell'uomo.

Barbarani (agitandosi sulla sedia) Era facile capire, del resto, che covava da un pezzo una grande malattia! (Con un impeto di stizza e la solita tosse) Non si sapeva più come fare, santo Dio, per avvicinarlo, per dirgli una parola! Anche al club, a pranzo, era un affar serio! Era diventato [345] di una incontentabilità e specialmente di una irascibilità quasi direi pericolosa.

La marchesa (sottovoce, all'orecchio di Emma) Amore, mia cara! Amore!... Che avesse del debole per te, era evidente, ma fino a questo punto!... (Forte) Non è vero, Venceslao? Chi mai lo avrebbe detto?

Venceslao (colla bella faccia intelligente un po' troppo rossa per il cognac, sospirando con mestizia) Mah!

La marchesa. Ecco! Bravo! Avete subito indovinato!... Già, fra noi due, basta un'occhiata e si colpisce al volo! Come Guglielmo Tell!

[346]

XII. Ugo Foscolo e il signor Tancredi.

A Roma, col bel sole e le tepide giornate, Emma si era sempre figurata l'Argentera fiorita e ridente e col desiderio avvicinava e affrettava l'ora in cui l'avrebbe rivista, mentre le più care memorie abbellivano quel momento, e il suo cuore salutava ogni punto ben noto della via maestra. Le cime verdeggianti, su cui si era arrampicata nelle sue passeggiate con Giordano, le folte boscaglie, le lunghe e tortuose stradicciuole fra le rive dall'ombra deliziosa...

Invece, prima per la nebbia, sempre la nebbia uggiosa, interminabile, poi per la sera oscurissima, Emma arriva all'Argentera, senza nemmeno averla veduta. Vi arriva stanca, intirizzita dal freddo, coll'anima desolata e la mente ingombra da tristi pensieri, da tristi presentimenti.

— Carlo, Carlo! Povero Carlo!... Una tisi? «Spedito?...»

Ma come mai Emma non ci aveva pensato? Era stata sempre leggera, distratta, lo aveva sempre dimenticato... E lo aveva creduto guarito... Le avevano scritto che era guarito, poi che stava [347] ancora poco bene, ma ammalato così gravemente, no! Una tisi, no!

Appena è smontata dalla carrozza, il signor Formanti le consegna due dispacci arrivati da mezz'ora. Uno era della mamma che le inviava mille tenerezze, l'altro di Giordano:

«Sempre teco: ansioso notizie: tutti miei baci».

Dopo tante ore di viaggio, sola, in mezzo alla nebbia, quei due dispacci le fanno piacere. Si sente correre nelle vene intirizzite come un senso di calore:

— Com'è buono il mio Nino! Com'è stata buona anche la mamma! — E risponde sul momento piena d'affetto, commossa:

«Verrò presto», alla mamma, — «Vieni subito», a suo marito.

Fa in fretta cinque minuti di toilette, poi scende per il pranzo e fa chiamare di nuovo il signor Formenti. In quella sala così ampia e così vasta e che dopo la illuminazione sfarzosa e gaia dei restaurants affollati e delle splendide sale dei palazzi di Roma, pare mezzo al buio, il posto vuoto di suo marito, e il servitore lontano che non si vede quasi, perduto nell'ombra, infondono in tutta la sua sensibilità eccitata un senso strano di malinconia.

Il signor Formenti (sempre un po' curvo per essere pronto a inchinarsi) La signora si sentirà stanca del viaggio?

Emma. Un po'; ma più del viaggio mi ha stancata la nebbia. Non credevo di trovar tanta nebbia!

Il signor Formenti. È il raccolto più importante [348] di questi paesi! E non hanno ancora pensato di metterci la tassa.

Emma, sempre pronta a variar d'umore, ride alla spiritosità del signor Formenti; poi gli domanda conto della signora Giovanna, sua moglie, dei figliuoli e sopra tutto della piccola Emmina, ch'essa aveva tenuta a battesimo e che aveva promesso di tenere anche a cresima.

Emma. La mobilia nuova è tutta di sopra?

— Sì, signora: la mobilia delle due camere da letto e dello studio.

— E anche le casse, i bauli del padrone?

— Sono nello studio nuovo del signor commendatore, come la signora padrona mi ha ordinato nella sua lettera.

— Domani le faccia aprire; si sono perdute le chiavi.

— Sì, signora; sarà fatto. — E il fattore rimane in piedi, immobile, senza più aprir bocca, aspettando nuovi ordini.

Emma (dopo un momento, quando il servitore è uscito per andare a prendere un'altra portata) Da qui a Val d'Olona, quanto tempo ci si mette in carrozza?

— Un'ora, un'ora e un quarto; coi due sauri anche meno.

— Domattina presto, prestissimo, manderà a prendere notizie del signor Borghetti.

— Manderò alle sette; appena giorno. Ho sentito dire che il signor Borghetti sta molto male. È vero?

Emma non risponde, ma il sangue le fa un tuffo. Sente di nuovo la stessa impressione angosciosa: una mano che le stringe il cuore e la gola. E il fattore continua colla voce che gli diventa cupa, cavernosa:

[349] — Dicono che c'è la minaccia di una tisi! È un gran peccato! Così giovane, bravo, ricco! Pareva il ritratto della salute e aveva tutto per essere felice a questo mondo!

... Non finisce mai!... Non finisce mai di parlare!

Emma (nervosissima) Adesso le darò un biglietto che farà consegnare al signor dottore.

— È a Val d'Olona, dal signor Borghetti?

— Sì. E manderà anzi il cocchiere colla vittoria a prendere le notizie per il caso che il signor dottore volesse venire all'Argentera. Può andare, signor Formenti. Favorisca dire alla Carolina che mi prepari subito la camera. Buona sera.

Prima di andare a letto, stanca, svogliata, triste, col pensiero di Carlo che l'addolora e l'opprime, passa dalla biblioteca per prendersi qualche cosa da leggere: guarda...

— Non c'è niente di nuovo. Non c'è niente di bello!... Cercherò domani, fra i libri di Giordano.

E va a letto senza più dire una parola, nemmeno colla Carolina, e si addormenta, sospirando, bagnando di lacrime il guanciale... E sogna di Carlo ammalato... lo vede morto nel suo letto... le fa paura, vorrebbe fuggire, ma non può muoversi, non può fare un passo. Poi non è più Carlo il morto, è suo marito... la faccia di suo marito, la faccia stanca, livida, la bocca storta, come nel viaggio da Napoli a Roma.

Si risveglia molte volte nella notte, di soprassalto, poi si riaddormenta; è sempre quell'agonia, quello stesso sogno. Ma, poi, ad un tratto, sente dentro di sè un movimento, un urto... come un piccolo colpo...

[350] È stata un'illusione, forse?...

Emma spalanca gli occhi e ascolta, ascolta.... aspetta ansiosamente e non pensa più che a quella vita, che si è mossa, che si è agitata in lei la prima volta... il buio le si riempie di stelle... e, a poco a poco, si addormenta placidamente e sogna gli angeli.


La mattina dopo:

Emma scende in giardino, avvolta in una gran pelliccia. Il Monterosa, tutto bianco, immerso nel cielo azzurro, sembra vicinissimo; il sole, non ancora alto, fa scintillare come cristalli vaghi e striati i rami degli alberi coperti di ghiaccio e gli steli lunghi, sottili, diritti all'aria, dondolanti.

Emma (al giardiniere) Il fattore ha mandato a Val d'Olona?

— Sì, signora. È andato il cocchiere colla vittoria, poco dopo le sette.

Il giardiniere conduce la padrona in giro pel giardino; le vuol far vedere certi lavori, certi scavi per la conduttura dell'acqua, ordinati dal signor commendatore. Poi la conduce nella serra, dove le ha preparato una improvvisata: una grande fioritura di lillà bianchi.

Emma, alla vista di quei fiori, si entusiasma. Per un momento è tornata bambina. Che bellezza! Che bellezza! Ne manderà subito alla mamma, al babbo, ne manderà un grosso mazzo a Carlo!... Poi pensa fra sè: «A Carlo, subito, no». La felicità che le danno tutti quei fiori la rende ancora più buona, più amorosa, più innamorata. E se il povero Nino fosse geloso?... Manderà a Carlo un bel mazzo di lillà, quando suo marito sarà all'Argentera. Ma, intanto, [351] se Carlo guarisse! Come si sentirebbe sollevata! Come respirerebbe felice, contenta, se non avesse quel rimorso, se Carlo guarisse... Oh, allora, come potrebbe godersi in pace i suoi fiori, il suo giardino, l'Argentera, e amare il suo Nino senza rimorsi e non pensare ad altro, ad altro che a quella sua gioia grande, immensa che la rende beata.

— Un baby, un baby, un baby mio! Dio, Dio, che felicità!

Il signor Formenti che corre?... Che c'è di nuovo?

Il signor Formenti, vedendo la padrona che si ferma per aspettarlo, si leva il cappello e corre ancora di più:

— Natale, il cocchiere, ha incontrato il signor dottore in carrozza, che veniva da Val d'Olona e andava alla stazione. Era stato chiamato a Milano da un telegramma, per un ammalato gravissimo. Ha detto a Natale di riverire la signora e di dirle che verrà, spera, domani mattina, o domani sera al più tardi, all'Argentera.

— E il signor Borghetti?

— Ha detto il signor dottore che da un paio di giorni è quasi senza febbre e che oggi potrà alzarsi per un'oretta o due.

— Dio, Dio, vi ringrazio! — esclama Emma con un gran sospiro di sollievo. Pensa che il babbo, e specialmente la marchesa Gonzales e il Barbarani devono, certo, aver esagerato colle loro previsioni. — Hanno esagerato, certamente!

In quella mattina piena di sole, col cielo così limpido e le montagne così chiare, nitide, vicine vicine, essa ritrova l'Argentera cara dei suoi ricordi, [352] il nido amoroso, avventuroso, di tutte le sue gioie.

— Ho un baby mio, tutto mio, il mio sangue, il mio respiro, le mie viscere, fatto da me!... Fatto da me!

Scrive una lettera lunga lunga a Giordano. Una lettera con tutto il racconto del suo viaggio, delle notizie ultime del caffè Cova; colle descrizioni e le impressioni dell'Argentera. Una lettera affettuosa e birichina in cui ogni parola, ogni scherzo è una carezza, è l'invito, la preghiera, lo stimolo di venir presto, e di venir subito. Chiude nella lettera un piccolo ramettino di lillà e nel far l'indirizzo, ripensandoci, con una delle sue astuzie di donna innamorata, invia la lettera a Bologna, sperando così di farlo partire più presto da Roma e, in pari tempo, gli manda un telegramma all'Albergo Milano:

«Ho scritto Bologna: fa presto. Ti aspettiamo.

Emma

Poi va di nuovo in cerca del fattore; non si fida altro che del fattore, quando vuol essere ben sicura per la posta. Gli consegna la lettera e il telegramma e gli parla del cane da caccia come gli aveva raccomandato suo marito.

— E la signora Giovanna?... Oh, ecco, appunto, la buona signora Giovanna!... — Ed Emma saluta allegramente, con affabilità ed espansione cordiale la timida fattoressa che non ha osato presentarsi la sera innanzi per paura d'incomodare la signora padrona, e fa molte feste a tutta la [353] nidiata dei figlioletti grandi e piccini; ma specialmente all'Emmina che bacia, ribacia, che si stringe fra le braccia con trasporto:

— Com'è bellina! Com'è carina!... Tesoro! Adesso, quanto ha?...

— Quasi tre anni, signora padrona.

— Com'è grande e grossa! Che begli occhioni!... Ha cominciato prestissimo, mi ricordo, a camminare?

— A otto mesi, camminava da sè.

— Cara! E non è mai stata ammalata, mai?

— Mai; ha sofferto un po' per il latte, ma l'ho divezzata presto e dopo è sempre stata bene.

Emma (diventando seria) Soffrono tutti, soffrono molto i bambini per il latte?

La fattoressa risponde di no, e dà tutte le spiegazioni che desidera Emma, la quale continua a farle mille domande sopra ognuno dei suoi figliuoli.

Intanto il signor Formenti, che ha già mandato la lettera e il telegramma alla stazione, ritorna dalla padrona.

— È stato tutto spedito in piena regola. Ha altri comandi da darmi? Ho già fatto aprire le casse e i bauli del signor commendatore, come la signora mi ha ordinato ieri sera.

— Benissimo! Bravo, signor Formenti! Fa freddo fuori!... Così ho qualche cosa da fare in casa!... Venga ad aiutarmi, signora Giovanna!

Prima che Emma partisse da Roma, Giordano, fra tante raccomandazioni, le aveva detto ancora, replicatamente, di ricordarsi bene che al suo arrivo all'Argentera voleva trovar pronto il suo studio da lavoro e i libri messi a posto. In quanto [354] all'altra roba, le casse, i bauli degli abiti e della biancheria, mandasse tutto in qualche stanzone a parte, o nel solaio. Lui, poi, con suo comodo, ne avrebbe fatto uno spoglio da regalare al fattore e ai suoi servitori.

Emma. Venga ad aiutarmi, signora Giovanna! Venga a vedere! Ci sarà forse qualche cosa, della roba ancora buona, che le potrà servire... per i bambini! (Rivolgendosi ai ragazzi) Venite tutti! (Prende per una manina la piccola Emma: corre innanzi con lei, facendo in fretta i passettini corti, imitando la voce, il cinguettare della bimba, ridendo e scherzando) Corri, corri, corri!... Piglia, piglia cavallin!...

Appena di sopra, i ragazzi si spingono innanzi tutti insieme per spalancare l'uscio dello studio.

— Non c'è altro, signora Giovanna? — domanda Emma alla fattoressa. — È tutta qui la roba del padrone che è stata mandata da Padova?

— Sì, signora. Due casse, un baule grande ed uno più piccolo.

Emma. Quando arriva il padrone, signora Giovanna, deve trovar tutto pronto: anche le due camere da letto, i gabinetti di toilette, tutto, tutto!

Emma comincia allegramente a vuotare una cassa di vestiti e di biancheria:

— Questa è roba per lei!... Questo è per lei! — e così via, carica le braccia della signora Giovanna e dei ragazzi di abiti vecchi e di biancheria stinta, sdrucita, per quanto bene lavata e bene stirata.

Emma (fra sè) È strano! Mio marito, tanto elegante, quand'era a Padova portava le camicie di lana coi solini e i polsini staccati! (Forte) Prenda, [355] signora Giovanna! Questa è tutta roba che può ridurre, che può esser buona per i suoi figliuoli!

— E per mio marito!... È una provvidenza! Una vera provvidenza, signora padrona! Scusi!... Guardi. Su questa giacca, è puntata una carta. Prenda!

Emma prende, con due dita appena, il mezzo foglio di cartaccia grossa, ordinaria, da cucina — la nota, evidentemente, di tutti gli abiti contenuti nella cassa — e si affatica, studia per poter decifrare quel carattere inintelligibile, quelle parole lunghe, storte, che sembrano sgorbi. Finalmente incomincia a capire qualche cosa.

Emma (legge a stento, compitando) «Nota di tuti li vistiti del Nano...» (ha una scossa: s'interrompe e continua a leggere sottovoce; poi rilegge ancora tutto da capo, ma sempre sottovoce) «Nota di tuti li vistiti del Nano ricivudi in con segna da la Veronica»... Del Nano?... (Pensa, ripensa, diventando a mano a mano sempre più seria) Del Nano?... (La nota corrisponde esattamente cogli abiti levati dalla cassa e gli abiti sono di Giordano) Dunque: Giordano... Nano. Dev'essere un soprannome. A Padova, suo fratello, tutti lo chiamano Nano! È bruttissimo!... «da la Veronica...»? Questa Veronica dev'essere la vecchia cameriera di sua madre, la governante, di cui mi ha parlato. «Li vistiti del Nano...»?

Ma poi, infilata sopra un paio di calze a mano, trova un'altra nota simile alla prima:

«Nota di tuti li e feti di biancaria del Nano.»

Emma (alla signora Giovanna) Per oggi, basta. Sono stanca. Domani; continueremo domani.

La fattoressa se ne va, ringraziando, colla roba [356] e coi figliuoli, ma la signora non risponde, non bada nemmeno alla piccola Emmina che le si era avvicinata aspettando un altro bacio.

— Vieni! Andiamo! Presto! — E la signora Giovanna deve tirarsi dietro la bambina, pigliandola per un braccio.

Emma (rimasta sola, dopo aver girato gli occhi pensierosi su quella cassa, su quella roba, su quelle due noticine della Veronica che tiene ancora in mano: fra sè) Mi prenderò un libro per leggere stasera... (e ripete macchinalmente a sè stessa ciò che ha già detto prima alla signora Giovanna) Poi basta, per oggi; sono stanca...

Si avvicina al baule più piccolo: alza lentamente il coperchio: è pieno di libri, di manoscritti, di carte. Essa guarda, osserva, chinandosi un po', appoggiandosi al coperchio alzato. Vede subito, dalla copertina, rossa, alcune dispense della Revue des Deux Mondes, e, dalla copertina gialla, molti libri francesi.

Emma (s'inginocchia per terra, dinanzi al bauletto, e cerca fra i libri) Lavisse... Boissier... De Roberty... Paul Sabatier, Vie de St-François d'Assise... Roba troppo seria per me!... Oh, ecco! Un volume del famoso Taine!... Ippolito Taine! Oh, che cosa c'è?... (Dal libro è caduta una lettera e un piccolo mazzolino di fiori secchi) Oh! Oh! Povero Taine, a che cosa serve! (Prende in fretta la lettera: ha riconosciuto, sull'attimo, il carattere della signora Simonetti).

Restando sempre inginocchiata, tiene la lettera alzata fra le due dita e legge e rilegge l'indirizzo, scritto con quel bel caratterino inglese, lungo, aristocratico:

[357]

Signor Giordano Mari
Hôtel Bella Venezia.

La busta è stracciata in un angolo e scorge due o tre paroline color violetto...

— Che tentazione! No! No!... Proibito!

Ma pure quella letterina se la mette in tasca. La consegnerà lei, colle sue proprie mani, a suo marito. Vuol vedere che faccia farà!... Chi sa!... Chi sa, quell'antipatica!... Quante frasi infocate!... Poi pensa al gran mutamento e alla nuova virtù di donna Fanny e sorride:

— Se questa letterina, la leggesse l'arcivescovo!... E sempre inginocchiata per terra, appoggiandosi con un gomito al bauletto, continua a pensare a Fanny, e a sorridere... e l'acuto profumo d'ambra, che esala da quella letterina elegante, le fa dimenticare, per un istante, le camicie di lana senza i polsini del Nano e le note della Veronica.

— Ci sono anche i fiori!... I fiori appassiti sul cuore!... Questi, per altro, non glieli dò! Basta la lettera! I ricordi del dolce peccato, si distruggono!

Ma guardando bene il mazzolino, guardando bene, sopra tutto, quel piccolo nastro azzurro e oro... non c'è dubbio, lo riconosce... è suo!... È suo!

— I miei fiori! I primi fiori che gli ho dato, cacciati... dimenticati in un libro qualunque, insieme ad una lettera... una lettera di quell'altra!

Subito gli occhi le si velano di lacrime, ritorna seria, scrolla il capo tristemente e sospira. Ormai conosce suo marito!

— In quel momento ci sarà stato un bell'articolone da leggere, o avrà dovuto vestirsi in fretta per qualche gran pranzo o qualche visita ad un [358] personaggio illustre e intanto i miei fiori e la letterina amorosa sono stati cacciati insieme, in fretta e furia, dove capita capita... e dimenticati! Ah, Dio mio!.. Mah!... Quello era il sogno, l'incanto... e la vita, la realtà, si sa bene, è sempre diversa... e brutta.

Continua a scrollare il capo, continua a sospirare e continua a guardare nel bauletto e a leggere svogliatamente i titoli delle opere e dei varii volumi che le vengono tra le mani.

Ugo Foscolo!.. Un altro grand'uomo che in genere «donne» deve averne fatte di grosse!... «Opere edite e postume di Ugo Foscolo»; «Epistolario»; Le lettere (vivamente, contenta, ammirando il volume) Le lettere di Ugo Foscolo!.. Ho sempre avuto tanta smania di leggerle!.. Devono essere bellissime, assai interessanti... (Guardando l'indice) «Alla contessa d'Albany», «Alla donna gentile», «A Silvio Pellico», «Alla marchesa Bartolomei... (Fa per voltare una pagina e il volume si apre da sè nel mezzo) Che c'è? Un'altra lettera di donna Fanny?... Ah no, meno male!... È il conto dell'albergo. «Milano: Hôtel Bella Venezia». Che disordinato! Proprio che disordinato! Invece di conservare tutti i conti in regola di data, come il babbo, li caccia dentro i libri per segno... come i miei fiori e i bigliettini amorosi! (Scorre qua e là coll'occhio sulle due pagine del volume aperto: a un tratto, rimane colpita da alcune parole che non le sembrano nuove, che ha già lette: rilegge tutto il periodo più attentamente):

«... Se l'infermità, se gli anni, se gli accidenti vi rapiranno la beltà e gli agi; se sarete padrona [359] di voi, se sarete disgraziata; se vi mancasse nel mondo un marito, un amico, io volerò a voi; io vi sarò marito, padre, amico, fratello...»

— Che combinazione!... Quasi le stesse parole!

Emma torna indietro, guarda l'intestazione della lettera:

«Alla giovane signora F. Giovio.»

Allora rilegge tutta la lettera, col cuore sospeso, senza batter ciglia, senza respirare...

— No, no! Che sospetto stupido, cattivo!... Eppure... qua e là... sì... Che combinazione strana, strana, strana...

E nella sua mente, quasi parola per parola, essa ripete quell'altra lettera, la prima lettera di Giordano, quella lettera che aveva letta, riletta cogli occhi pieni di lacrime, che aveva baciato, ribaciato, ch'era stata il suo tesoro, la sua ricchezza, la sua felicità, la sua vita... che per tante notti aveva dormito con lei, sul suo cuore, e che per obbedire a Giordano aveva distrutta, bruciata, in quei giorni in cui stava tanto male... in quei giorni in cui aveva creduto di morire.

— No! No!... È un'idea cattiva... È un sospetto cattivo. È tutta la mia cattiveria. Sono cattiva! cattiva! cattiva!

Ma adesso è con ardore, con ansia, colla febbre che cerca, che fruga fra quelle carte, fra quei libri... Non lo dice, non vuol confessarlo a se stessa, ma è una prova che cerca, è una prova che domanda, che invoca, che implora al suo Dio, alla sua fede, a tutto ciò che l'ha sempre protetta, benedetta [360] nella vita!... Una prova dell'amore di Giordano, una prova che riesca a calmare il suo cuore, a cancellare, a distruggere tutte quelle cattive, quelle tristi impressioni!

— La scrittura di Carlo?.. Che cos'è? Che cos'è?.. La scrittura di Carlo? Ma perchè la scrittura di Carlo?

Sono alcuni fogli manoscritti: i primi capitoli del Sant'Ambrogio.

Emma (leggendo) «Teodosio», «Sant'Agostino», «Ambrogio e Marcellina», «La verità e la leggenda nelle lotte di Sant'Ambrogio cogli ariani».

Ma Emma ormai non pensa più al Borghetti; i fogli manoscritti le son caduti dalle mani; il suo viso è diventato pallido come la morte. Ella fissa immota un piccolo pacchetto di lettere, avvolte da una striscia dell'istessa cartaccia mezzo sudicia, adoperata dalla Veronica per le sue note, con su scritto con un carattere grosso, rotondo:

«Cambiali e lettere della moglie consegnate alla Veronica e da restituirsi al fratello Nano».

Emma si è cacciata macchinalmente una mano sul cuore; ma il cuore non lo ha più; non lo sente più! Soltanto la testa... la testa che le brucia... le tempia che le martellano violentemente.

— Dio! Dio! Io divento matta! Io sento che divento matta!

E rilegge, deve rileggere per forza, per forza, ciò che è scritto su quella striscia, su quella cartaccia...

«Cambiali e lettere della moglie consegnate alla Veronica e da restituirsi al fratello Nano».

Sono, infatti, le lettere di Emma; Giordano Mari, nel rinnovare le cambiali, le aveva pagate [361] per un terzo e la Veronica aveva imposto al signor Tancredi quella restituzione.

— È una vergogna!... Adesso lei è sicuro dei suoi denari!... Gli restituisca le lettere... È suo fratello!... Vergogna!...

E il signor Tancredi ha restituito le lettere di Giordano, il quale non le aspetta che all'estinzione totale del debito, e, per risparmiare le spese di posta, le ha date alla Veronica da mettere nel baule colle altre carte di affari e di famiglia che appartengono al fratello.

«... Cambiali e lettere della moglie consegnate alla Veronica e da restituirsi al fratello Nano...»

Emma, ad un tratto, afferra quel pacchetto e d'un balzo si alza in piedi stracciando l'involto... Non ha più scrupoli, non ha più timori, non ha più riguardi:

— Sono le mie lettere! Sono le mie lettere! Sono le mie lettere!... E questi altri fogli sudici, pieni di cifre, di bolli, di timbrature, che cosa sono? Ma che cosa sono?... — «Caro Nano?...»

Emma si ferma ancora un istante, esitando, tremando. «Caro Nano?...»: poi gli occhi le cadono sulle parole «tua moglie» e allora legge tutto ciò che il signor Tancredi ha scritto al fratello dietro una cambiale estinta:


«Il Finardi mi ha assicurato che quegli altri possono presentemente accontentarsi della tua firma senza bisogno di garanzia o pegno, e perciò ti rimando le lettere di tua moglie. Ciao e sta sano.

Tancredi

[362] «PS. — Raccomando di essere puntuale anche alla prossima scadenza e di pagare un altro buon acconto a scanso di dispiaceri».


Emma non dice una parola, non fa un gesto, rimane immobile e muta, con le ciglia aggrottate, mentre la ruga in mezzo alla fronte diventa sempre più profonda a mano a mano ch'essa, nel disordine, nel turbamento delle sue idee, del suo cervello, riesce ad afferrare la verità, a indovinare, a capire tutto, tutto, tutto!

«... senza bisogno di garanzia o pegno, e perciò ti rimando le lettere di tua moglie».

A un tratto, sente camminare nel corridoio; dà un grido e si precipita contro l'uscio chiudendolo a chiave; ma in quell'urto, in quell'impeto, in quell'impressione di spavento, ha esaurito tutte le sue forze e si appoggia, cade quasi contro l'uscio, affranta, mezzo svenuta.

— Signora, signora! (È la voce del servitore). Signora, signora padrona!

— Cosa c'è?

— Un telegramma.

Emma aspetta ancora qualche momento. Poi apre l'uscio, prende il telegramma e torna a rinchiudersi a chiave nello studio. È di nuovo sola in quella stanza e torna a guardarsi attorno smarrita, perduta: — È vero?.. È proprio vero?.. È proprio vero?..

Quei libri, quei fogli, quella roba sparsa, buttata per terra, sono brani del suo cuore, sono tutte le sue illusioni, sono tutte le sue speranze, tutta la sua vita...

Finalmente apre, strappa, legge il telegramma:

[363] «Sant'Ambrogio e Marcellina successo immenso — Vero trionfo — Ovazioni deliranti — Commosso ti mando tutti i miei baci.

Giordano».

No! No! No!

Emma straccia in cento pezzi quel telegramma e con un brivido, un fremito d'orrore si nasconde il viso colle mani, come per respingere quei baci, per difendersi, per salvarsi da quei baci...

— No! No!... Oh! No! No! No!

[364]

XIII. I consigli del buon Dottore.

Il dottore, come ha fatto annunziare dal signor Formenti, arriva all'Argentera il dì appresso, verso mezzogiorno.

Egli si è preparata una faccia molto scura: spera in tal modo che ad Emma faranno maggiore impressione tutte le raccomandazioni e le prescrizioni che reputa necessarie.

— Avere dei figli è una funzione ordinaria, naturale. Anzi, quando l'organismo è ben costituito, può essere, in massima, più giovevole che dannoso; ma bisogna sottomettersi pazientemente a tutte quelle cautele che l'esperienza insegna e la prudenza impone.


Nel giardino dell'Argentera, dinanzi alla villa.

Il dottore (smontando di carrozza, al signor Formenti che gli corre incontro) Buon giorno, signor Formenti! Bella giornata, vero?

Il signor Formenti. Saprà, forse, che la signora padrona non è all'Argentera?

Il dottore. Già... (pausa)... Me lo sono immaginato. È andata a Brenzonino dalla mamma.

[365] — No. È andata a Val d'Olona dal signor Borghetti.

Il dottore, senza parlare, dà un'occhiata di traverso al signor Formenti, e la sua faccia diventa ancor più scura.

Il signor Formenti. È partita stamattina prestissimo. Non erano ancora le otto.

Il dottore (lisciandosi, grattandosi la barba: assai preoccupato) Quasi quasi, andando a Val d'Olona, potrei arrischiare d'incontrarla, strada facendo. (Pausa) Già, potrei incontrare la signora Emma, appunto, mentre ritorna a casa.

— Probabilissimo. Qui, non ha lasciato nessun ordine.

Il dottore (si volta lentamente per rimontare in carrozza, poi si ferma pensoso, fissando la testa del cavallo) E... come è ritornata da Roma? Bene?... La cera? Buona?...

— Buonissima, quando è arrivata. E ha pranzato anche con appetito! Ma poi, ieri, deve aver preso freddo, deve aver preso un po' di umidità durante il viaggio, si è sentita male, così... verso l'una o le due, e si è messa a letto. Non ha voluto mangiare; non ha voluto veder nessuno. Fortunatamente, il male è passato presto. Stamattina, alle sette, era già in piedi. E si è alzata sola, senza nemmeno chiamare la Carolina. Ha ordinato subito la carrozza e non l'ha voluta aspettare. Con quel freddo è andata avanti, sola, a piedi.

Il dottore (continua a scrollare il capo e a fissare la testa del cavallo) Benedetta tosa! (Poi si leva di tasca una brancata di lettere, di bigliettini, di telegrammi: li guarda: sospira) Tutte visite che avrei [366] dovuto fare stamattina. (Pausa) Sono preso in questi giorni da tutte le parti. Sicuro. Dovrò tornare subito a Milano in fretta e in furia. (Un'altra pausa ancora più lunga) Mah! (Al cocchiere, montando in carrozza) Allora... — Sai, vero?... — Prendi la strada a sinistra, dopo la chiesa, e puoi andare un momento in su, verso Val d'Olona.

Il signor Formenti prende il cavallo per il morso e aiuta il cocchiere a fare la voltata.

Il dottore (in carrozza, sulla strada di Val d'Olona cercando la «Perseveranza» nelle tasche del paltò) Sarà stato appunto un po' di freddo... preso allo stomaco... Benedetta tosa!... Perchè precipitarsi in questo modo a Val d'Olona, senza prima aspettare, consultarmi?.. Carlo è appena imbastito, alla bell'e meglio! Per il momento! Vedersi Emma comparir davanti, improvvisamente, può risentirne una scossa tale, da farlo andare in pezzi un'altra volta. Mah!... E poi, non è il momento questo, nemmeno per Emma, di affaticarsi, di strapazzarsi, di prender freddo. Il cuore!... Il cuore!... (Scrollando il capo e spiegando la «Perseveranza») Il cuore è una bellissima cosa... quando se ne può fare a meno! (Vede sulla «Perseveranza» il grande successo della conferenza di Giordano Mari) Bravo!... (Continuando a leggere) Anche per Emma è una soddisfazione, una grande compiacenza. Chi sa che contentezza!... Che smanie!... Il suo idolo!.. Figuriamoci!... Infatti, è una bella vittoria, tanto più che a Roma, in principio, non ne volevano sapere! Ma, già, è l'invidia, l'interesse, in tutte le professioni!... L'Italia è un paese così fatto, lungo e stretto: quando uno appena si muove o allunga un momento le gambe — tàffete! — tutti gli altri [367] hanno paura di essere buttati in acqua!... (Ride: poi torna serio, ripiegando il giornale) E dire, per altro, che anch'io, a primo aspetto... di questo Giordano... — proprio! — ... non avrei dato nemmeno un soldo! Invece anche la Perseveranza lo porta alle stelle! Emma l'ha indovinata: ha avuto più occhio di noi!.. Brava! (A un tratto strizzando l'occhio per mirare lontano) Eccola là! (Cacciando il capo fuori dello sportello) È in giacchettina!... Con questo freddo! (Sorridendo, diventando rosso per il piacere di rivederla, si alza in piedi nella carrozza, minacciandola colla mano e gridando): Senza la pelliccia!... Benedetta tosa!... (Tirando il cocchiere per il mantello) Ferma! Ferma! (Salta dalla carrozza e corre incontro ad Emma, che gli si butta fra le braccia).

Il dottore (cogli occhi gonfi di lacrime: commosso da quell'abbraccio, da quell'effusione) Vediamo un po'... Vediamo un po', la mia bellezza... Ma sai?... Sembri diventata persino... più grande! (Con due dita sotto il mento, alzandole la faccia) Vediamo... Vediamo la cerina!.. Ma... ma come?.. Sei pallida... Smunta... Hai quegli occhi lividi che non mi piacciono! (Osservandola, scrutandola a lungo) Che cosa vuol dire? Hai forse sospeso l'estratto di china?... Ieri, mi ha detto il signor Formenti, hai preso un po' di freddo — vero? — e sei stata poco bene... Ma, ma, ma... giudizio! giudizio! Specialmente... Da brava... (Mettendosi il braccio di Emma sotto il suo e battendole affettuosamente sulla mano) Ho sentito che... ci sono novità?

Emma (colla voce torbida, concitata) Sì; pur troppo!

Il dottore (fermandosi su due piedi) Pur troppo?

[368] Emma. Non posso esser libera come vorrei! Anche Carlo me lo consiglia, quasi me lo impone!... In faccia al mondo, anche colla mia famiglia, dovrò sopportare, se non la presenza, il nome di quell'uomo che detesto, che odio!... Dio, Dio, come lo odio!

Il dottore (trasecolato, stupefatto) Ma chi?.. Tuo marito?... Il... Giordano?

Emma. Dammi il braccio: mi sento affranta, morta.

Il dottore. Vieni in carrozza!... Montiamo in carrozza!

Emma (trattenendolo) No! Potrebbe sentire il cocchiere! Torniamo a Val d'Olona a piedi. Non è distante.

Il dottore. Aspetta! (Corre a prendere lo scialle dalla carrozza) Aspetta. Ti darò, almeno, il mio plaid! (Al cocchiere) Sai — vero? — dov'è la villa del signor Borghetti?... L'architetto?

— Sì, sì. Ci sono stato un'altra volta.

Il dottore. Allora, puoi andar avanti, al passo. (Ad Emma, mentre comincia a imbacuccarla nello scialle) Ma perchè hai fatto tanta strada?

Emma. Carlo desiderava alzarsi, ed io, intanto, ti son venuta incontro. Abbiamo immaginato, io e Carlo, che saresti arrivato, press'a poco, a quest'ora. (Fermandosi a un tratto, con impeto, cambiando voce, cambiando viso) Senti, quell'uomo... — ed è mio marito!... mio marito!... — quell'uomo è di un'infamia tale... Peggio, peggio!... È di una tale abiezione, di una tale bassezza, che mi fa ribrezzo!... E me lo sento sempre addosso, sulla faccia, nella carne... Che orrore!... Che orrore!... Che ribrezzo!... Che schifo!

[369] Emma non appare più stanca, sfinita: lo sdegno, la collera le dànno una nuova forza, una nuova vigoria. È l'impeto, è l'urto di tutto ciò che si spezza in lei!

Il dottore (fuori di sè) Il Giordano?... Ma se anche adesso, in questo punto, leggevo la Perseveranza... Ne fa un monte di elogi! (Cercando il giornale) Aspetta; voglio farti leggere...

Emma. So! So! La conferenza Sant'Ambrogio e Marcellina! Rubata! Rubata a Carlo!... Sì, sì!... Ma ciò che importa?... Niente. Ha approfittato, abusato della bontà, della confidenza di un amico! Non è che un'indelicatezza! (Con un riso stridulo, amaro) Sai che cosa ha fatto di più?... Vuoi sapere che cosa ha fatto? Ha dato in pegno le mie lettere, le mie prime lettere, comprendi?... La mia anima, il mio pudore e il mio onore — il mio onore, perchè non ero ancora sua moglie! — ha dato in pegno le mie lettere a Padova, a suo fratello, alla sua serva, ai suoi usurai, per avere del danaro, per... per certe cambiali, perchè era pieno di debiti!

Il dottore (agitato, ansante, per la forte commozione) Cioè? Spiegati!... Le tue lettere?... In pegno!

Emma (ridendo più forte) Ah! Ah! Non capisci!... Tu non arrivi nemmeno a capire tanta infamia. E anch'io, sai? Anche per me c'è voluto del tempo, molto tempo. Ho dovuto studiare, pensare, indovinare. E ho dovuto guardar la faccia, la vera faccia di quell'uomo, e tornare indietro, e ricordarmi tutte le sue parole, tutte le sue cattiverie, giorno per giorno, ora per ora, e vederlo — finalmente! — vederlo a occhi aperti, non come lo [370] avevo pensato, creduto, immaginato col mio cuore, colla mia fantasia, io stupida, io cieca, io innamorata, io pazza, ma come era lui veramente, realmente, lui, lui, falso, egoista, vano, volgare! E quasi non si dava nemmeno la pena di mentire, d'ingannarmi! Era sicuro. Sapeva che io era una stupida. Che mi ingannavo da me stessa. Oh, c'è voluto del tempo! Tanto tempo! E c'è voluto che le avessi io nelle mie mani, quelle lettere, quelle cambiali di suo fratello! Oh, anche a te, sì, sì, farò leggere! Farò vedere tutto anche a te!

Il dottore. Sì, ma intanto... calmati. Cerca di calmarti.

Emma (con uno scoppio di risa e di lacrime) E io lo credevo geloso di Carlo! Invidia! vanità! Sì, perchè quell'uomo non ha che la vanità, soltanto la vanità, di vero, di forte, di grande, di sensibile. Geloso? Guarda un po' se era geloso di mio zio? Per il suo interesse, per i suoi trionfi, per la sua cattedra, per un articolo di giornale, mi avrebbe buttato in braccio a mio zio! In braccio a tutta Roma!

Il dottore (scandolezzato, imponendole colle mani di tacere) Da brava! Da brava! Non voglio sentirle certe esagerazioni!

Emma. E le mie lettere? Le mie lettere non le ha fatte correre fra le mani di tutta quella gentaglia di Padova? E non c'ero io — tutta io! — nelle mie lettere? Ti ricordi quei giorni? Io diventavo matta di amore, di dolore, di angoscia. Ti ricordi quei giorni? In collera col babbo, in collera colla mamma, in collera anche con te! Sai com'ero ammalata? Ti ricordi? Eppure, di notte, disfatta dal male, dalla febbre, gli volevo scrivere — almeno [371] una parola, un bacio! — e mi sforzavo di parer lieta per non impressionarlo, per non spaventarlo! Ebbene, sono quelle mie lettere piene d'amore, di passione, di abbandono, sono quelle parole, sono i miei baci, ch'egli ha venduto, ch'egli ha dato in pegno a suo fratello, ai suoi creditori, ai suoi usurai! È il mio pudore, sì, il mio pudore, me stessa, tutta me stessa, io, come sono, svestita anima e corpo, ch'egli ha buttata in braccio a tutta quella gente!

Il dottore (tremante, diventato in viso quasi terreo, con due solchi sotto gli occhi, profondi, lucenti) Calmati! Calmati! Per amor del cielo! Se mi par di comprendere, se è proprio vero, hai tutte le ragioni; ma vuoi anche ammalarti?

Emma (rossa di fuoco, stravolta in viso, ma senza una lacrima) Senti, ascoltami. Al primo colpo, è stato tale il disinganno, il dolore, la vergogna — più di tutto la vergogna — che volevo uccidermi, buttarmi dalla finestra! Sì, sì, è vero, te lo giuro! Poi — non voglio farmi diversa da quella che sono — non è stato il pensiero della mia famiglia che mi ha trattenuta, nè della condizione in cui mi trovo; ma è stato l'odio, la febbre, la smania di buttargli in faccia le mie lettere, la lettera di suo fratello, tutto, tutto quanto! Una smania, la smania prepotente del mio orgoglio, delle mie fibre, del mio pudore, di fargli vedere — proprio vedere! — che non lo amo più, più, più; che mi fa ribrezzo, ribrezzo, nient'altro! Poi... sono corsa da Carlo. Volevo vendicarmi, volevo morire, ma a un tratto ho perduto tutte le forze, ho sentito un gran bisogno di piangere e sono corsa da Carlo. Erano tante tante ore che diventavo matta perchè non [372] potevo piangere! Avevo bisogno di vedere qualcheduno, di sfogarmi con qualcheduno... Da chi potevo andare? Dalla mamma, no. Era stata contraria al mio matrimonio, e avrebbe creduto di consolarmi vantandosi di aver sempre ragione. Dal babbo? Povero babbo! Lo avrei addolorato e non sarebbe stato capace di aiutarmi. Tu non c'eri e sono corsa a Val d'Olona! (Afferrandogli tutte e due le mani e fissandolo con un impeto di disperazione) Salvami Carlo, sai! Adesso devi salvarlo! Non voglio anche il rimorso di aver fatto morir Carlo per quell'uomo!

Il dottore. Carlo... Vedremo! (Accomodandole lo scialle sulle spalle e attorno al collo) Ma tu, intanto, non devi pigliar freddo. Invece procura di calmarti. È un fatto così inaspettato, straordinario. Così, su due piedi, non si saprebbe nemmeno che consiglio dare. Mi farai vedere — vero? — anche questa lettera del fratello? Insomma, io ho bisogno ancora di precisare le idee! Pensa per altro, da brava, pensa che, nel tuo stato presente, non hai il diritto di farti del male! È un caso di coscienza.

Emma. E penso anche, ricordati bene, che io non sono più la moglie di quell'uomo, che io non ho più nulla di comune con quell'uomo!

Il dottore. Certo, sussistendo il fatto, appunto, bisognerà vedere... bisognerà studiare, pensare a un qualche provvedimento. Ma intanto io direi... Senti, cara la mia tosa, io direi di andare subito a Brenzonino e di sentire anche la mamma. La mamma, certe volte, e, più che per altro, per le sue continue sofferenze, sembra, forse, un po' contraddicente... un po' dura... ma non è vero — veh! — E poi la mamma è sempre la mamma! Da [373] brava, resta ben coperta, e adesso, appena a Val d'Olona, ci faremo dare un the molto caldo con una goccia di rhum. La mamma, dunque, ha diritto, specialmente in un caso simile, così fuori del... del consueto, di saper tutto!

Emma. Io invece credo di no, e non sono del tuo parere. No; perchè il giorno che lo sa la mamma, lo saprà tutta Milano! Non credi?.. Non importa? Devo assolutamente parlare, dir tutto anche alla mamma?... Ebbene, se tu lo vuoi, lo farò, ma ad una condizione: dal momento che ci deve essere uno scandalo, voglio approfittarne per separarmi, per fare un processo, per non vederlo mai più, quel... signore, finchè vivo. (Interrompendosi: con un'alzata di spalle) E poi, no! (Eccitandosi nuovamente) E poi, no! Una volta ancora voglio vederlo! Una volta ancora gli voglio parlare! Deve capire, deve sentire come lo disprezzo!.. Noi due, fra di noi due... e nessun altro!

Il dottore. E, allora, non si dice niente alla mamma, non si dice niente a nessuno... e, appunto, cercate insieme fra voi due... un qualche accomodamento.

Emma. Un qualche accomodamento? Che accomodamento! Dovrà accettare le mie condizioni! Ciò che voglio io! E, prima di tutto, gli voglio buttare in faccia la sua vigliaccheria.

Il dottore (inquieto) Ecco... io invece sarei per consigliarti, in questo caso, la massima prudenza. Tu sola, per esempio, a tu per tu... (Pausa: scrollando il capo) Bada, veh, se è in realtà quale appunto verrebbe a dimostrarsi col suo procedere... potrebbe anche, una volta inasprito, irritato, non usare tutti quei modi... (arrabbiandosi e alzando [374] la voce) potrebbe anche, parlo chiaro, metterti le mani addosso!

Emma. Tu avresti paura di quell'uomo?

Il dottore. Insomma, io preferirei che, quando veniste ad una spiegazione fra voi due... foste almeno in tre.

Emma. Tu avresti paura di quell'uomo? Io no. È troppo vigliacco!

— Appunto. Non sono gli eroi che commettono certe cose!

— Troppo vigliacco, ed anche troppo interessato; troppo vano e troppo furbo! In fine, egli non dovrà perdere altro che... sua moglie, ed è tutto il resto che gli preme di più! Del suo onore, in faccia mia, che gliene importa?... È la sua vanità in faccia al pubblico che gli preme! Sono i suoi comodi, le sue conferenze, gli applausi, è il Sant'Ambrogio! Non temere, sai. È lui che avrà paura di me!

Il dottore (sempre inquieto, poco persuaso) E... che cosa gli vorresti dire?

Emma. Prima di tutto, che amo Carlo — perchè Carlo è la sua rabbia, la sua invidia — e così anche per fissar bene le distanze, subito, fra me e lui!

— Questo, invece, abbi pazienza, cara la mia tosa, ma è proprio inutile andarglielo a raccontare... nemmeno per ischerzo.

— Invece, è questo che mi preme di più! È per dirgli questo, per dirglielo in faccia, io stessa, che ho la smania di rivederlo!

Il dottore (dandole il braccio: battendole ancora affettuosamente sulla mano, sorridendo) Ma e... non pensi al... viaggiatore!... Sicuro; a chi è in viaggio? [375] (Emma si ferma, guardandolo fisso) Certamente: è anche suo. Anzi, la legge lo fa più suo che tuo.

Emma (con un'alzata di spalle, rimettendosi a camminare al braccio del dottore) Ma che! Gli farò scegliere tra mio figlio e i miei danari: sceglierà sempre i miei danari! (Fermandosi di nuovo) E tu... Senti dottore: ti prego, ti supplico! Non farmi diventare matta e cattiva. Non dirmi più che mio figlio è anche suo! Me lo faresti odiare! Non capisci, non comprendi... (rossa col viso che le diventa una fiamma, di foco) non capisci che è questo pensiero fisso — l'essere stata sua — che ho bisogno di strappare dal mio sangue, dalla mia carne? Mi odio — capisci? — mi detesto. Mi faccio orrore, mi faccio ribrezzo! La mia faccia ch'egli ha baciato, la mia bocca che l'ha baciato, mi fan ribrezzo!

Il dottore (continua ad accarezzare la mano di Emma: cercando di calmarla, di distrarla, e poi sempre inquieto, titubante le domanda) Ma e... e Carlo?

Emma. Carlo è pieno di buoni consigli, come te. Ma non importa. Faccio io ciò che voglio e non lo lascio più.

Il dottore (vivamente) Come, come... «non lo lascio più?»

Emma. Finchè è ammalato, verrò io tutti i giorni a Val d'Olona; quando sarà guarito, verrà lui, tutti i giorni da me, all'Argentera.

Il dottore (scrollando il capo e sospirando) Guarito...

Emma. Sì, guarito. Ne sono persuasa, ne sono convinta... Perchè credo ancora in Dio!

[376] Il dottore (le tira lo scialle sulle spalle, le copre anche un po' la faccia e, prendendosela a braccetto e continuando la strada verso Val d'Olona, ricomincia colla sua voce lenta, sommessa, penetrante) Sì, cara, ma quando si vuol ottenere un miracolo da Domeneddio, bisogna che anche noi, — vero? — da parte nostra, facciamo tutto il possibile per aiutarlo, per assecondarlo. E io credo che la tua vicinanza, la tua frequenza, il vederti, insomma, troppo spesso... non sia, direi, non credo molto indicato, nello stato presente di Carlo. Carlo non è guarito, veh!.. Pur troppo, non è il caso di farci illusioni! È uno stato ancora molto precario; la più piccola scossa, il più piccolo turbamento, la più piccola emozione, anche piacevole, gli potrebbero essere fatali. Però ti consiglierei, per il suo bene, di tenerti il più possibilmente lontana... da Val d'Olona. Già; appunto. (Pausa) Con te, è inutile far tanti misteri. Tu sei una donnina brava, buona, ragionevole. Hai perduto la testa una volta per quello là, di Roma, e adesso ti trovi a brutte conseguenze. Ma io spero ancora; vedrai. Passato questo giorno di burrasca, la vita avrà per te nuovi argomenti di distrazione, e di conforto... e anche di compiacenza. Su! Su! Con quel faccino, con quegli occhi! Non guardare per terra: guarda il cielo com'è bello, limpido, azzurro. E ti ricordi, invece, due o tre giorni fa, com'era fosco? Tetro? — Dunque... un buon colpo di vento e spazza via tutto — vero? — (Un'altra pausa) Tu sei piena di buon senso e di cuore, due cose che, quando vanno insieme unite, il che succede molto di rado, rimediano a grandi guai. Non vuoi dir niente alla mamma e a nessuno?... Forse, in questo, puoi anche aver ragione. [377] Fra te e... quell'altro là, potrete forse intendervi meglio. Ma quando vi troverete insieme, se io non devo essere presente, voglio almeno esserti vicino. In quanto a Carlo... se tu pensi anche a volergli bene... è un'altra quistione. Io non posso dire nè sì, nè no. Si tratta del tuo cuore e della tua coscienza. (Ridendo per far sorridere Emma) Io sono un dottore e non un confessore. E non mi preoccupo altro che della mia partita, cioè della salute del corpo! Per ciò, devo concludere, che non basta salvare le apparenze — cosa della quale sono convinto, vero?, hai troppo rispetto di te stessa — ma... alla larga, almeno per il momento, alla larga... da Val d'Olona! Già, siamo d'accordo: a Carlo non è scoppiata la pleurite perchè abbia preso troppo freddo o troppo caldo, ma in seguito ad un'anoressia nervosa, giunta persino allo stadio più acuto della sitofobia, e alla quale ha dato origine una forte eccitazione psichica di natura deprimente. Insomma, tu hai sposato quel... Giordano, e Carlo non è stato più bene; e come ti avevo scritto anche a Roma, in quella lettera che non si sa in che modo sia andata smarrita, è guarito della pleurite, ma gli è rimasto latente nei polmoni un... focolaio...

Emma (sorridendo, trasfigurandosi in viso) Eccolo Carlo! Eccolo, ci viene incontro!

Il dottore (punta gli occhi, diventando truce: gli si muove la barba come se masticasse qualche gran minaccia, ma poi la voce non corrisponde all'aspetto terribile) A casa, a casa!... Subito a casa!... E a letto!

Carlo (scarno, pallidissimo, soltanto con le gote un po' accese) Mi sento meglio, oggi!... Molto meglio!

[378] Il dottore (gli tocca il polso, la fronte) Ragione di più, per condursi in modo, appunto, da non perdere con un'imprudenza ciò che si può aver guadagnato, sicchè... (prendendolo per un braccio) torna indietro e per oggi basta: torna a letto!

Emma. Dottore!... Come sei cattivo!

Il dottore (arrabbiandosi) Insomma!... Bisogna tener presente che ancora tre o quattro giorni fa eravamo in alto mare, coi senapismi e colla digitale!

Carlo. Volevo soltanto prevenire la signora Emma che mi sono prevalso del suo nome e del suo permesso e che ho ordinato al suo cocchiere di attaccare.

Emma. Perchè?

Carlo. Perchè è meglio ch'ella ritorni all'Argentera mentre c'è ancora un po' di sole. Dopo, sentirebbe troppo freddo.

Il dottore. Carlo in questo ha ragione. (Al Borghetti) Hai fatto benissimo. Per il freddo, appunto, e anche per tutto il resto! (Ad Emma) Tienti il mio plaid se hai timore di non essere coperta abbastanza e... giudizio! Da brava! Ci rivedremo prestissimo. Intanto... torna quietina all'Argentera. Te lo ha consigliato Carlo; te lo consiglio anch'io.

Emma (sorridendo) Siete tutti e due tanto simpatici e coi vostri consigli — auf! — diventate tanto noiosi! (Vede la carrozza avvicinarsi: stringendo la mano al dottore, nel salutarlo) Ti troverò ancora qui, domani, a Val d'Olona?... Io ci verrò — ricordati — con qualunque tempo!

[379]

XIV. «L'idolo.»

Giordano Mari si è fermato un giorno di più a Roma dopo la conferenza, e deve poi rimanere tre o quattro giorni di più anche a Bologna.

Come si fa? Egli non vede l'ora di essere un po' fuori del mondo, non vede l'ora di riposare, ma anche a Bologna, dopo la sua lezione molto applaudita, gli studenti gli offrono un banchetto... e non può dir di no!

Giordano continua a telegrafare ad Emma per avvertirla di tanti ritardi, per esprimere il suo dispiacere e per chiederle notizie. Ma Emma, dopo il telegramma spedito a Roma, e la lettera mandata a Bologna, non si è fatta più viva.

— Povera piccola! È in collera! È arrabbiatissima perchè sono ancora a Bologna! Chi sa, così gelosa, quanti timori, quanti sospetti!... Ma faremo la pace all'Argentera!

Adesso che da qualche giorno ne è lontano. Giordano Mari sente davvero la mancanza di sua moglie, e si commove piacevolmente nel rileggere quella sua ultima lettera così carina e così affettuosa, così piena della sua grazia, delle sue carezze, [380] del suo spirito e di quel suo profumo à la peau d'Espagne, così inebriante.

— No, non gli metteremo nome Ambrogio!... Ma nemmeno Venceslao! — E pensando ai varii nomi della famiglia di sua moglie e della famiglia sua, dà in uno scoppio di risa: — Tancredi? Ecco! Trovato! Lo chiameremo Tancredi!... E perchè no? Se quell'animale volesse lasciarmi tutto il suo... Del resto, col tempo, chi sa? Non ci sono altri parenti, e se non sono io l'erede, sarà mio figlio! (Sorridendo) Mio figlio o mia figlia?... Ancora non si sa! (Accarezzandosi la barba, pavoneggiandosi) Diremo: ai miei figli... per non sbagliare!... Cara quella mia piccola!

Emma merita davvero ch'egli si sacrifichi per lei!... E, in fatti, Giordano Mari rinuncia a un invito a pranzo della marchesa Malvolti e ad una colazione offertagli dal professor Ercolani, e subito, dopo il banchetto degli studenti, la notte stessa, parte per l'Argentera.

Non ha telegrafato: conta di arrivare alla mattina presto.

— Emma, forse, dormirà ancora... Le voglio fare un'improvvisata!


Il fattore, avvertito dal giardiniere, il quale ha visto Giordano Mari da lontano, gli corre incontro premurosamente.

— Come mai, signor padrone? A piedi? Senza avvertirci?

— Sono venuto colla ferrovia fino a Venegono. Anzi, manderà subito alla stazione a prender la mia roba! (Guardando l'orologio) Da Venegono all'Argentera ci ho messo soltanto venticinque minuti! [381] Abbiamo la gamba buona, signor Formenti; gamba da cacciatore!... E il cane, a proposito, c'è?

— C'è, e famoso! È un bracco da ferma e da leva. Lo conosco e lo posso garantire, signor padrone.

— Bravo! Dopo colazione lo proveremo. Mia moglie dorme ancora?

— Non l'ho veduta, ma starà certo alzandosi. Ieri sera ha ordinato la carrozza, come al solito, per le dieci, e prima fa colazione.

Giordano (ridendo) Ah! Ah! A passeggiare in carrozza, alle dieci del mattino!.. Si vede che non ha paura del freddo.

Il signor Formenti. Va fino a Val d'Olona... (Giordano si volta: lo fissa. Dall'occhiata che gli dà il padrone, il signor Formenti teme di aver commessa un'imprudenza e cerca di rimediarvi) A Val d'Olona, per sentire le notizie del signor Borghetti e per prendere il dottore che accompagna fino alla stazione di Tradate.

Giordano (fissando sempre il fattore che vede impacciato, confuso) E quel povero Borghetti è spedito, non è vero?

Il signor Formenti. Ma... da qualche giorno, pare che ci sia un buon miglioramento. Certo, che è stato malissimo, e ancora stenterà molto a cavarsela!

Giordano Mari ha mutato faccia: è diventato di pessimo umore. Nell'attraversare il grande viale del parco vede due camerops che non furono bene impagliati, chiama il giardiniere e gli dà una strapazzata da levargli la pelle e continua a gridare arrivando fin sotto la villa:

— Siete tutti una massa d'imbecilli! Non fate [382] altro che mangiare il pane a tradimento! Finirò col mandarvi tutti, l'un dopo l'altro, fuori dei piedi! Voglio far casa pulita! Voglio essere servito a modo mio!

Emma, che sta vestendosi, sente la voce del marito, manda via la Carolina e chiude l'uscio della sua camera a chiave. Essa non ha avuto un tremito. Soltanto, da pallida che era, è diventata livida, aggrottando le ciglia, increspando le labbra ad un sorriso beffardo, provocante:

— Finalmente!... In faccia!... Tutto in faccia!

Si butta addosso, in fretta, un vestito, una giacca, si stringe un foulard attorno al collo.

Giordano (che ha trovato l'uscio chiuso: sforzando la chiave) Apri... (gridando) Per Dio!... Apri!

Emma (avvolgendosi, puntandosi i capelli sul capo: con voce ferma, aspra) Aspetta... Un momento!

Giordano (battendo violentemente contro l'uscio anche coi piedi) Apri!... Per Dio, apri!

Emma (si abbottona la giacca, si dà un'occhiata nello specchio, poi va ad aprire e ritorna in mezzo alla camera fermandosi, guardando fisso suo marito, aspettando).

Giordano (entra con impeto, sempre gridando, ma subito si arresta colpito, sconcertato dal pallore, dalla faccia, dagli occhi di sua moglie: si guarda attorno, domandandole sottovoce) La Carolina?

Emma. Siamo soli, soli: io e te!

Giordano (torna all'uscio, lo chiude, poi si mette ritto, le braccia incrociate, dinanzi ad Emma, che rimane immobile) Allora ti dirò che non hai nessuna ragione, nessun diritto di farmi una scena perchè io ho ritardato qualche giorno a ritornare!.. [383] Perchè ho dovuto fermarmi a Bologna, costretto dal mio lavoro, dalle mie lezioni, dai miei impegni!... Mentre tu, tutti i giorni, non hai fatto altro che andare innanzi e indietro dall'Argentera a Val d'Olona! Non negare! Mi hanno detto tutto! So tutto!

Emma ha un lampo negli occhi, fa un passo, fa per parlare, ma non può. La collera, i battiti violenti del suo cuore, la vista stessa di quell'uomo così sicuro di sè, così sfacciato, la soffocano, le serrano la gola. Essa continua ad avvicinarsi a suo marito, a fissarlo faccia a faccia e a ridere; ma l'espressione del suo volto diventa così terribile e l'espressione del suo riso così sinistra, che Giordano stesso ne rimane quasi spaventato:

— In fine, che c'è? Che cos'hai?... Che è successo?

Emma lo fissa ancora, così, con quel suo riso, per un momento, poi di colpo si slancia sul cassettone, lo apre, afferra il fascio delle cambiali, di tutte le lettere, e sempre muta, senza un grido, lo getta in faccia a suo marito.

Giordano diventa a sua volta pallidissimo, guarda per terra quelle carte, quei fogli sparpagliati, li raccoglie a uno a uno... pensa... e, a un tratto, ha come un barlume di quanto deve essere successo. Egli da tanto tempo era così lontano, non ci pensava nemmeno più ai suoi debiti di Padova, a quelle lettere! Come mai erano arrivate in mano a sua moglie?... E torna a guardare Emma, non più minaccioso, ma come per interrogarla, sbalordito, istupidito.

Emma (senza muovere un passo: sempre appoggiata al cassettone, col viso, cogli occhi stravolti) E, adesso, va via! Va via!

[384] Giordano (si sforza per contenersi, per dominarsi: alzando il capo, facendo l'atto di mettersi tutte quelle lettere in saccoccia, domanda arrogantemente) Come?... Perchè?... «Va via?...»

Emma (con un grido) Le mie lettere, no! Non voglio lasciarti le mie lettere! No! No! Mai! (Si avventa contro Giordano, afferrandogli il pugno ch'egli tien chiuso, stretto col fascio delle carte) Le mie lettere no! Le daresti ancora in pegno! Le venderesti!... Le mie lettere no!...

E, pur di riuscire a strappargli quelle carte, nell'ira, nel furore gli graffia le mani, tenta persino di morderlo.

Giordano. È roba mia! Questa è roba mia! (Non riuscendo a respingere Emma, fuor di sè, l'afferra per i capelli, per difendersi, per allontanare la sua faccia, i suoi denti).

Emma (colla voce rotta) Dammi le mie lettere, o chiamo, o grido a tutti, forte, che hai dato le mie lettere in pegno, a Padova, ai tuoi usurai! (Con un urlo di collera e di dolore) Aiuto! Aiuto!

Giordano (spaventato, dandole le lettere, lasciandola andare) Prendi le tue lettere! Basta! Taci! Taci, per Dio!

Emma (anelante, col viso graffiato, sfigurata: tutti i capelli sciolti che le cadono sulla faccia, sulle spalle) Se chiamo il signor Formenti, il giardiniere, sai che obbediscono a me, non a te!.. Abbassa la voce e va via! Se tu non mi vorrai costringere, io non farò scandali! E così... nè per i trionfi, nè per i tuoi interessi, non avrai niente da temere! Io ti cedo fin d'ora l'Argentera, i miei danari, tutto!... Dunque, tu puoi continuare la tua vita, godere la tua celebrità, salire sempre più in [385] alto!... Metto una sola condizione. Fra me e te, più nemmeno una parola. Saremo affatto estranei e affatto liberi l'uno dall'altra. E... se avrò un figlio, lo voglio io, dev'esser mio, soltanto mio. Del resto, ripeto, fuori di me e della mia creatura, se ci sarà, sei padrone di tutto. Sei disposto ad accettare questi patti, in silenzio, tacitamente? Bene. — In caso diverso, te li imporrò col mezzo del tribunale e faremo uno scandalo!

Giordano (colle lacrime nella voce) Ma io non ti comprendo... Io credo di sognare!... Io sogno!... È un sogno!... (Congiungendo le mani quasi supplichevole) E sei tu?... Tu, che mi parli così?... Tu, la mia Emma?... Emma!

Emma. Non chiamarmi Emma!... Non proferir più il mio nome!... Non voglio! Ho voluto vederti per questo! Per dirti che, per te, io non ci sono più!... (Ridendo ironicamente) Ah! Ah! Ti conosco! Finchè non te lo avessi detto io, io stessa... finchè tu non lo avessi letto nei miei occhi, sulla mia faccia, non lo avresti mai creduto! Avresti sempre sperato di potermi ingannare! Adesso sei persuaso?.. Sei convinto?.. Dunque, basta. — Non volevo altro da te. Va via!

Giordano. Andrò via, sì! Non mi vedrai mai più... Ma, prima, ascoltami.

Emma. No.

Giordano. Devi ascoltarmi!

Emma. No. Va via.

Giordano fa qualche passo per la stanza, poi nuovamente si avvicina ad Emma, calmo, quasi sorridente:

— Tu hai voluto offendermi, e mi hai offeso con le parole più sanguinose... eppure, vedi?.. io sono [386] rimasto tranquillo! (Sospirando, fissandola amorosamente, quasi cercando di sedurla, di affascinarla col ricordo delle loro carezze, col sorriso della bella bocca dai denti bianchissimi) Appunto, io sono tranquillo, buono, affettuoso, perchè in questo momento... non sei tu, non è la tua ragione, non è il tuo cuore che parla! Sei un'altra! Sei diventata un'altra, sei diventata pazza! Ma che cosa credi? Che cosa ti hanno fatto credere? Che cosa pensi?... Che io abbia perdute, lasciate in giro, date ad altri le tue lettere? Ma come?... Forse... non so, non capisco! Me le avranno rubate! Non ricordi più come io sono partito da Padova?... Il Borghetti mi aveva telegrafato che tu stavi male!... Io ho perduto la testa, sono precipitato a Milano.

Emma. Basta. Finiamola. Io voglio tenermi le mie lettere; non le tue cambiali. Prendile! Non so che farmene. (Gliele dà) E guarda... questa! Leggi qui, qui sotto, che cosa vi ha scritto tuo fratello!...

Giordano (legge: dopo un momento di esitazione, di angoscia) Ebbene, sì. Non voglio negare. È vero. Avevo la corda al collo!... Tu non conosci ancora tutta la mia vita! Tutte le mie disgrazie! Quelle cambiali non pagate, protestate, sarebbero stata la mia rovina, e la mia rovina, in quel momento, voleva dire perderti, perderti!... Tu non puoi giudicarmi, tu, perchè non puoi comprendere, capire, che cos'era la mia passione. Per te, per averti, avrei commesso anche un delitto! Disprezzami! Ma non odiarmi! Disprezzami, ma non abbandonarmi! Io ti amo come il primo giorno! Ti amo ancora di più! E ti domando perdono in ginocchio... (scoppiando in lacrime) Emma!... Emma!... Mia! Cara!... Perdonami.

[387] Emma (battendogli sulla spalla con un impeto di collera e di ribrezzo) Su! Su! alzati... Va via!

Giordano. Pensa... bada... che cosa fai!... Bada bada, Emma!... Non spingere un uomo, un uomo come me, alla disperazione!

Emma. Ammazzarti?.. Tu?.. No. Rileggi ciò che ti scrive tuo fratello. Avrai tutte le tue cambiali, i tuoi debiti puoi pagarli. Perchè?... Per chi vorresti ammazzarti?

Giordano. Non io! Non ho detto di voler ammazzar me. No! No! Prima qualchedun altro! (Minacciandola) E se devo uscire da questa casa, scacciato, abbandonato da te... Pensaci. Posso andare da... (s'interrompe, fissandola).

Emma (tornando a sorridere con sarcasmo, con disprezzo) Da chi?...

Giordano. Sai bene, da chi.

Emma (provocando) Da chi?... Parla!

Giordano. Da Carlo Borghetti. Dal tuo... (si ferma: esita ancora).

Emma (prorompendo) Sì! Sì! Dal mio amante!.. Dal mio amante! Voglio sentirlo dire! Voglio sentirlo da te!... Da Carlo, sì, dall'autore del tuo Sant'Ambrogio, dal mio amante!

Giordano (con un'alzata di spalle e una risata) E tu... vorresti farmelo credere?.. A me?.. Tu?.. Emma?... Emma?

Emma (trasalendo al suo nome ripetuto, poi calmandosi) No. Ciò che tu vuoi o puoi credere, mi è ormai indifferente. Soltanto, per farti ben comprendere che cosa tu sei diventato per me, ti avverto che ho detto tutto e che ho fatto vedere la cambiale, colle... quattro righe di tuo fratello, a Carlo e al dottore. No, no, no!... Non fare quel [388] viso, quegli occhi! Non minacciarmi, non mi fai paura. Sei tu che devi aver paura di me! E tu farai tutto ciò che io voglio, perchè tu temi lo scandalo ed io.. per me, no. Ora io vado a Val d'Olona, e non torno più qui, all'Argentera, finchè tu ci rimani. Hai capito? Va, sta, fa ciò che vuoi! Parlerai col dottore; combinerete insieme, vi metterete d'accordo su ciò che si deve dire e fare, per nascondere, il più che sarà possibile, la verità, al babbo, alla mamma, a tutti. (Avvolgendosi, fermandosi di nuovo i capelli sul capo, mettendosi un berrettino di lontra) E, adesso, ti ripeto che sono inutili le minaccie, e che non mi fai paura! — Lasciami passare! (Suonando forte il campanello e chiamando ad alta voce) Carolina!

Si sentono nel corridoio i passi della cameriera. Giordano, vivamente, si allontana dall'uscio.

Emma (passandogli dinanzi per uscire e fissandolo, in atto di sfida, colle mani nelle tasche della giacchetta: sottovoce) E se dovessi anche... morir presto... non credere che sia per te! No! No! Soltanto per il ribrezzo di essere stata tua!

[389]

XV. In Duomo, alla messa delle dieci e mezzo.

Donna Fanny (avvicinandosi colla sua seggiola a quella della marchesa Gonzales: sottovoce) Mi dài un po' di posto?

La marchesa (vivamente, pur sottovoce) Fanny!.. Ma brava!... Quando sei tornata da Roma?

Donna Fanny. Ieri sera, per l'onomastico di mia suocera.

La marchesa. E con tuo marito, già s'intende! Gl'indivisibili! — A proposito, appunto, dimmi un po'... È vero che Giordano Mari, a Roma, fa una gran corte alla Campolatino?

Donna Fanny. Pare... Ma per altro, sai, molto per bene; con molto tatto. (Coll'aria di voler difendere Giordano Mari) Ed Emma perchè non sta con suo marito? Perchè si ostina a voler rimanere all'Argentera? (Dopo un momento e un segno di croce perchè la messa è al «Sanctus») Dicono che Emma sia diventata bruttina, che sia data giù; è vero?

La marchesa. Dal giorno che è passata da Milano, mesi fa, io non l'ho più vista. (Chinandosi: ancora più vicino e più sottovoce) Anche a Roma dunque... se ne parla?

[390] Donna Fanny. La condotta di Emma è assai biasimata. Tanto più che Giordano Mari ha saputo guadagnare le simpatie generali. (Sospira: con una lunga reticenza e coll'aria di essere molto scandalizzata) È una cosa che mi fa dispiacere, perchè ad Emma io volevo molto bene!

La marchesa. L'assistenza agli ammalati è un'opera meritoria, e in questo caso il dottore... o la dottoressa ha fatto il miracolo di Lazzaro risuscitato!... Dico bene?

Donna Fanny (dopo un momento) E ormai all'Argentera, se è vero ciò che mi dicevano a Roma, non ci va più nessuno?... Soltanto Carlo Borghetti?

La marchesa. Gli altri, capirai, si fanno un riguardo.

Donna Fanny (sempre più scandalizzata) Mi stupisco di Venceslao che possa sopportare e tacere; e mi stupisce sua madre!

La marchesa. Ecco!.... Brava!... Sono tutti diventati matti! Non si può dir altro. Toccherebbe a sua madre!... Sua madre avrebbe l'obbligo di dire a Emma: «Figlia mia, ricordati bene: uno solo, e sempre quello, dà troppo nell'occhio!»

Una grande scampanellata: la messa è all'Elevazione...

La marchesa Gonzales e donna Fanny s'interrompono e s'inginocchiano devotamente.

Fine.


[391]

Opere di GEROLAMO ROVETTA

ROMANZI E RACCONTI.

TEATRO:

IN PREPARAZIONE:

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.