Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte 1
Author: Various
Release date: March 15, 2016 [eBook #51462]
Language: Italian
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LA
VITA ITALIANA
NEL
RISORGIMENTO
(1846-1849)
TERZA SERIE
I.
LETTERE, SCIENZE E ARTI.
La poesia del quarantotto. | Enrico Panzacchi. |
La poesia del Giusti. | Isidoro Del Lungo. |
G. G. Belli e la Vita Romana. | Alfredo Baccelli. |
Il Teatro. Una musa scomparsa. | Vincenzo Morello. |
Le Belle Arti: dall'Hayez ai fratelli Induno. | Ugo Ojetti. |
Il Vapore e le sue applicazioni. | Giuseppe Colombo. |
FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO
CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI
7, Via del Proconsolo
—
1900.
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RISERVATI TUTTI I DIRITTI.
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Firenze, 1900. Tip. Cooperativa. Via Pietrapiana, 46.
[5]
CONFERENZA
DI
ENRICO PANZACCHI.
[7]
Il '48 considerato in uno dei suoi tanti aspetti, forse il più attraente, si presenta a noi come una sonante e fulgida pagina di poesia. Aspettando che i miei illustri colleghi, rivolgendosi alla vostra ragione, di mano in mano illustrino gli altri aspetti di quell'epoca memorabile, lasciate che io v'intrattenga un poco di questa poesia del '48, la quale, più che nelle carte dei poeti, fu scritta nei fatti e nei cuori. Poeta ispirato e fecondo fu allora il popolo italiano; e tutti, in alto e in basso, furono poeti per un momento, poichè una corrente irresistibile trasse e confuse gli italiani di tutte le classi a vivere e ad agitarsi negli stessi entusiasmi.
Era il tempo in cui un frate benedettino nella solitudine del suo cenobio, nel silenzio della sua [8] cella, dopo avere scritto una storia della Lega lombarda, la dedicava al Papa con queste parole: — Affacciatevi, Beatissimo Padre, alla ròcca dei secoli, ed ascoltate la voce dei tempi nuovi. Scrutate i nostri cuori, e vedrete che noi siamo sempre degni nepoti di quei Lombardi, che così eroicamente congiunsero la fede e l'amor di patria. — Poi continuava: — Togliete, o Padre Santo, la bandiera che Alessandro III appese al sepolcro del beato Pietro, dopo aver debellato Barbarossa; e fatela sventolare al sole d'Italia! —
Strano frate ed insolito linguaggio! Era questa la voce isolata di un asceta sognatore?... No. Se il Padre Tosti dall'altezza di Montecassino avesse teso l'orecchio, avrebbe sentito voci somiglianti alla sua, in quei giorni benedetti, sonare per tutta l'Italia e passare le Alpi e invadere tutta l'Europa e volare at di là dell'Atlantico. Cessavano i tristi esilii. Uomini che per amor di patria avevano dovuto riparare in America ritornavano sopra una nave che s'intitolava «La Speranza», ed entrati nel Mediterraneo e visto nell'orizzonte gli umili confini della Patria si sentivano gonfiare gli occhi di lacrime, si abbracciavano, e gridavano: — Viva Pio Nono! Viva l'Italia libera! Dio lo vuole! — Che cosa era successo? Era sogno di menti esaltate? [9] No. Un semplice sogno non produce movimenti così forti, così universali e così perduranti. Il sogno vero e grande lo aveva fatto prima un altro tonsurato, Vincenzo Gioberti, il quale, là, tra il '40 e il '42, esule a Bruxelles, anch'esso per peccato di patriottismo, aveva accolto nella sua mente la più audace chimera che potesse mai attraversare il cervello d'un poeta. Egli, a quei lumi di luna, aveva immaginato «una Italia prospera, devota a Dio e concorde in sè.» Aveva immaginato e di prossimo evento, «i principi italiani e i popoli non più ringhiosi e sospettosi fra loro, ma affratellati in un'ammirabile concordia per costruire insieme l'edifizio di una patria grande e meravigliosa, che superasse in grandezza e in meraviglia tutte le altre nazioni.» E questo audacissimo Abate arrivava, nella grandezza del suo sogno, fino a vedere in tempo non lontano le altre nazioni civili, dapprima attonite, poi ligie e devote, inchinarsi a questa grande Italia «e prendere da lei le norme del bene e le forme del bello.»
Ebbene, tutto questo era passato rapidamente in pochi anni, non già alla sua realtà, ma ad inizii così fausti e felici, che quasi facevano credere prossimo il pieno adempimento. Tutto questo perchè, o Signore? Perchè da qualche tempo un uomo vestito di bianco di tanto in tanto si affacciava alla loggia [10] del Vaticano o del Quirinale, e dinanzi a gran folla di popolo inginocchiato invocava la benedizione di Dio sopra l'Italia. Ma quell'uomo vestito di bianco era «il Signor dei credenti,» come con frase un po' mussulmana lo chiama Giovanni Prati. E in quel suo augusto e semplice atto, era la spiegazione di tante e così stupefacenti novità.
Miracolo di Papa! aveva esclamato Pietro Giordani. Dal canto suo, il grande Cancelliere dell'Austria, Metternich, sconcertato in tutti i suoi disegni, aveva detto che nella sua prudenza politica egli tutto aveva potuto prevedere, tranne il caso inverosimile di un Papa liberale!
E gli avvenimenti si succedettero con una rapidità vertiginosa. In diciotto mesi, dice Cesare Balbo, avvenne per opera di Pio IX, soltanto riguardando all'interno dello Stato Pontificio, una serie di riforme alle quali pareva non dovesse bastare mezzo secolo: l'amnistia che ridonava alle famiglie gli esuli e i carcerati per colpe di patriottismo, poi la Consulta di Stato, la guardia civica, la secolarizzazione parziale del governo, la lega doganale dei principi, anticipante la desiderata confederazione politica, poi la Costituzione. Finalmente la guerra allo straniero, bandita dal «Signor dei credenti,» che era anche il padre comune di tutti i fedeli! [11] I principi dovettero seguire, chi di buon grado chi a mal in cuore, l'esempio trascinante di Pio IX. A Napoli il Re volle essere il primo a largire la Costituzione; e diede tutto con la facilità di chi è poi disposto a tutto ripigliarsi e tutto sconfessare.
Il popolo sorto a quel nuovo grido, abbacinato da tutta quell'improvvisa luce, entrò in un entusiasmo indicibile e in una specie di festività permanente. Se voi volete avere una qualche idea di tutta quella gioia inondante i cuori, io vi consiglio di non leggere gli storici liberali. Leggete invece il padre Bresciani, il quale, pure cospargendo di tante menzogne e di tante calunnie l'opera del partito liberale in Italia, narrò nell'Ebreo di Verona e con altri racconti i fatti del '48, non negandoli, anzi descrivendo quelle feste, quella gioia traboccante dai cuori, quella festività inenarrabile coi più vividi colori. E con arguzia maligna le intitolava «la luna di miele.»
Quando noi a tanta distanza di tempo con la fantasia [12] cerchiamo di ricomporre quel quadro incomparabile, ci immaginiamo, da un capo all'altro della penisola, popolazioni che sorgono acclamando. Vediamo da per tutto feste e luminarie e fanfare, e nella folla uomini coi capelli lunghi, vestiti all'italiana, che declamano, che strepitano, che imprecano, che piangono, tanta è la piena dei loro affetti; e donne belle, vestite dei colori nazionali, che agitano fazzoletti bianchi e gialli affacciandosi alle finestre e a' balconi a gettar fiori, fiori, fiori, sopra i volontari che passano giù per le strade, acclamanti ed acclamati, con la rossa croce sul petto. Essi vanno nei campi lombardi ad affrontare la morte per la cara patria. E sopra tutte le acclamazioni e tutte le grida, un grido altissimo quasi venuto dal cielo: — Italia libera, Dio lo vuole! — Tutto questo è certamente argomento di poesia. Che cosa avrebbe da fare la poesia in questo mondo, se non dovesse ispirarsi in questi momenti di ebbrezza e di beatitudine negli individui e nei popoli? Quindi viene spontaneo il domandare: Che parte ebbe la poesia in tutto questo moto?
È curioso che uno storico papalino della più bell'acqua, Giuseppe Spada, raccontando, alla sua maniera, i fatti di Roma del '48, verso la fine del suo terzo volume, risalendo dalle tristi catastrofi al [13] ricordo dei primi entusiasmi per Pio IX, cita lo Sterbini, il Guerrini, il Masi, il Meucci, tutti e quattro poeti, i quali «accendevano gli spiriti col genio dei loro versi.» E aggiunge che, quantunque essi non fossero che quattro giovani poeti, pesarono sugli eventi più che quattro generali d'armata. «Ciò serva di avviso ai reggitori dei popoli (conclude il nostro bravo storico) per stare in guardia sopra i coltivatori di un dono tanto mirabile ma tanto pericoloso alla pubblica quiete.» La polizia dunque era avvisata.
Povero genio! lo potrei leggervi, o Signore, alcune strofe di questi quattro geni e specialmente dello Sterbini che mi pare il migliore della brigata; ma non lo farò per non togliervi le illusioni, se mai ne aveste!
La verità è che il '48 non ebbe grandi poeti. Il Peretti, il Dall'Ongaro, il Montanelli, il Mercantini non si elevarono mai, anche nei loro momenti più felici, dalla «aurea» mediocrità. Quando la nostra mente misura l'intervallo enorme che corre fra il valore dei loro versi e l'importanza degli avvenimenti che intendono di celebrare, si rimane proprio costernati. Lo stesso Tommaso Grossi, il cantore inspirato di Ildegonda e dei Lombardi alla prima crociata, quando scosso dai grandi fatti [14] di Milano, le Cinque gloriose Giornate, vuole in un inno riecheggiare tanta costanza e tanto eroismo di popolo, compone delle strofe fredde, meditate, quasi lambiccate; e proviamo una vera pena domandandoci come mai un uomo di tanto ingegno non abbia subito compresa la grande disparità che era fra il tema del suo canto e la forma poetica che egli aveva miseramente potuto conquistare nella laboriosa concitazione del suo estro ribelle. A Firenze intanto Giambattista Niccolini viveva come un iroso appartato. Egli non aveva creduto mai al «miracolo di Papa.» Tutto quel gran contrasto tra le sue opinioni e i fatti, fra il suo sentire e quello dei più cari amici suoi, così fortemente lo scosse, che quasi la sua ragione si smarrì. Giuseppe Giusti nel '48 fu un misto di soddisfatto e di sfaccendato. Per una parte il suo spirito troppo fondendosi con lo spirito pubblico, si neutralizzò e quasi si volatizzò. Quindi il suo estro per natura acre e penetrante e battagliero, dovette adattarsi a cantare affettuosamente la parola del perdono e della fratellanza, volgendosi al granduca Leopoldo II; poi si limitò a punzecchiare un poco a destra e sinistra, raccontando i dialoghi di Ventola e di Vespa. Mancava insomma il naturale obiettivo alla sua Musa. Quando tutti sorridevano, a che il pungolo acerbo? a che l'ombra del sarcasmo? [15] perchè (come scriveva ad un amico) continuare a sonare a morto, quando tutti suonavano a festa?.... Giovanni Prati e Goffredo Mameli, ecco due figure di poeti che vengono subito in mente pensando alle grandi ispirazioni poetiche di quell'epoca. Ma anche qui la disparità non scema o scema ben di poco. Giovanni Prati non ebbe momenti felici nel '48. Li avrà poi. Nel '48 anch'egli, sopraffatto dalla grandezza degli avvenimenti, è come uno strumento che si sforza a vibrare in tutte le sue corde, ma il gran motivo epico non esce da quello strumento. Di Goffredo Mameli troppo si è parlato, troppo si è voluto esaltare. Io credo che la sua più bella lirica fu di morire eroicamente ai piedi del Gianicolo. Giosuè Carducci, analizzando il famoso inno «Fratelli d'Italia» arrivato alla strofa:
Dov'è la vittoria?
Le porge la chioma,
Chè schiava di Roma
Iddio la creò,
o io molto m'inganno, o il nostro Giosuè si batte anch'egli i fianchi per generare in sè stesso una larva di entusiasmo; ma poi è costretto a convenire che, per una parte, Goffredo Mameli rappresentava troppo la decadente evoluzione del romanticismo e [16] d'altra parte che tutto quel virgiliano o quel claudianesco della interrogazione lirica sopra citata contrastava troppo miseramente colla esiguità de fatti d'arme contemporanei. Onde anche egli è tratto a concludere che la grande poesia di questo giovane eroico fu nella sua breve vita e nella morte generosa per la libertà. Così mostra di intenderlo anche Giuseppe Mazzini, e così ce lo descrive, fino a commuoverci nell'intimo del cuore, in un'ammirabile pagina della sua prosa.
Ebbe la poesia del Quarantotto una voce più degna nella musa popolare? Nemmeno questo, io credo. Certo riandando quei canti, spesso volgarucci, non può non colpire il confronto coi canti anteriori: per esempio i canti del popolo italiano e specialmente toscano nell'epoca Napoleonica, qualche volta tutt'altro che triviali. Come suona in essi la diffidenza, come suona la tristezza! «Napoleone, guarda quel che fai!,» comincia uno stornello popolare. Ve ne sono altri che esprimono il gran dolore delle [17] nostre povere plebi per dover andare a combattere lontano, fuori d'Italia, per una causa non italiana:
Partirò, partirò, partir bisogna
Dove comanderà il nostro sovrano.
Chi prenderà la strada di Bologna,
Chi anderà a Parigi e chi a Milano!
E le strofe tristissime finiscono sempre col ritornello che pare un singhiozzo: «Dio, che partenza amara!» E la esclamazione amarissima ci fa correre con la mente ai versi di Giacomo Leopardi, quando lamenta il fiore della gioventù italiana mandata a morire fra i ghiacci delle «rutene squallide spiagge» senza nemmeno il conforto di poter dire alla cara patria lontana:
La vita che mi desti, ecco ti rendo,
poichè i prodi figliuoli d'Italia morivano, non per essa, ma per i suoi tiranni, per «coloro che la uccidevano!»
Insomma, nel Quarantotto abbiamo una serie interminabile di poesie popolari, delle quali credo che non metta conto intrattenervi: canzonette, canzonucce e canzonacce. In quella immobile gora però, [18] noi vediamo fiorire come una bianca e bella ninfea. È la canzoncina toscana:
Addio, mia bella, addio,
L'armata se ne va....
Non sgorgò veramente dal cuore del popolo la gentile ed eroica canzoncina, perchè si sa che ne fu autore un certo Bosi, il quale morì pensionato e tranquillo oltre il '60 dopo essere stato, credo. Sottoprefetto a Volterra. Ma il popolo la fece sua, il popolo se la assimilò e la rese interprete dell'anima sua. Ed è veramente una cara e poetica cosa; un toccantissimo motivo che ho sentito lodare e quasi invidiare all'Italia, nientemeno che da Riccardo Wagner. Questa candida e bella ninfea, in mezzo a tante erbacce e tanti rovi, trionfò nella lotta per la vita e si mantenne. Ritornò dai campi lombardi, dove nelle veglie delle armi aveva consolato i cuori magnanimi dei giovani toscani, che dovevano cessar di battere a Curtatone e a Montanara; e seguitò a risonare per le nostre campagne, per le nostre città. Sopraggiunti i tristi tempi della invasione straniera, la gentile ed eroica canzoncina non fu dimenticata; ed ogni tanto era sommessamente modulata dal popolo. Giunto il Cinquantanove ecco che torna sulle labbra di tutti, ed è ancora [19] la canzone prediletta del popolo! E sempre poi, mentre fervevano le ambizioni in alto, e mentre i partiti laceravano l'Italia, e mentre l'egoismo personale prendeva il posto dell'amor patrio, ostentandone sacrilegamente le apparenze, il popolo italiano continuava, nella innata bontà del suo cuore, a credere che bello era il combattere e il morire per la patria; e continuava a cantare:
Se non partissi anch'io
Sarebbe una viltà.
Però anche una grande lirica ebbe l'Italia del Quarantotto; e fu l'inno del Manzoni. Fatto curioso! Questo inno è il peana del Quarantotto, ma venne composto nel Ventuno:
Soffermati sull'arida sponda
Volto il guardo al varcato Ticino,
Tutti assorti nel nuovo destino,
Caldi in cuor dell'antica virtù,
L'han giurato!...
[20]
La verità è che nel Ventuno il Ticino non fu varcato. L'inno in sè stesso rappresentava un'aspirazione poetica dell'anima di Manzoni, il quale, come vide che al carme non corrisposero gli eventi prese questo partito: non scrisse, non pubblicò, e nemmeno affidò alla carta questo volo, questo sprazzo della sua anima poetica. Egli volle tenerlo gelosamente chiuso nel suo cuore come la parola dell'avvenire; egli l'avrebbe poi detta questa parola quando fossero giunti gli avvenimenti che essa affannosamente invocava. E di fatti, allorchè scoppiarono i grandi avvenimenti, quando non parve più un sogno lontano la redenzione della patria, allora Alessandro Manzoni scrisse l'inno pensato e meditato già da ventisette anni e lo pubblicò, dopo che (e questo va notato) egli aveva messo senza paura il suo nome sotto una protesta contro l'Austria, una protesta che, date le circostanze, poteva benissimo costargli la vita, poichè eravamo proprio alla vigilia delle Cinque Giornate. Allora finalmente, da un capo all'altro della penisola, risuonarono le affettuosissime voci:
Cara Italia! dovunque un dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio
Dove ancor dell'umano linguaggio
Ogni speme deserta non è;
[21]
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel silenzio matura,
Dove ha lacrime un'alta sventura
Non v'ha cor che non batta per te.
Alessandro Manzoni era stato dunque poeta e profeta; poichè aveva fin dal Ventuno vaticinato il grande consenso di tutto il mondo civile alla causa italiana. Nel Quarantotto infatti, tutto ciò che vi era di buono e di generoso nell'Europa civile di quel tempo, si raccoglieva veramente intorno alla rivoluzione italiana e faceva voti per lei.
La grande poesia del Quarantotto dunque, come vi ho detto in principio, o Signore, sta nei fatti principalmente e nelle condizioni degli animi.
E questo è ciò che quasi sempre si avvera. Non domandate che la poesia si renda interprete di ciò che avviene nel cuore umano quando il cuore umano è gonfio di passioni, quando la passione grida essa impetuosamente le sue voci non traducibili con parola precisa. Vi è una legge psichica di cui fanno testimonianza le storie di tutte le letterature, o Signore: i due grandi fattori della poesia sono, da una parte, l'aspettazione e la speranza che guardano innanzi, dall'altra il ricordo e il desiderio che si volgono indietro. La poesia o spera o ricorda. Quando l'uomo ama nel parossismo della sua passione, [22] sia anche poeta come Dante e come Petrarca, non aspettate da lui dei versi d'amore. I versi d'amore egli li compone, e sono veramente degni dell'arte, quando spera e sogna la felicità agognata, oppure quando ricorda con dolcezza e con tristezza la felicità che è fuggita da lui. Questi i due momenti psichici, i due fattori veri della poesia. Quello che avviene degli individui, doveva anche avvenire nella grande collettività del popolo italiano. Non è nell'orgasmo, non è nell'esaltazione, non è tra le luminarie e i baccani e le ansie dell'aspettazione, che la musa (la quale come disse Parini, formulando un canone eterno dell'arte «orecchio ama pacato e mente arguta e cuor gentile») poteva meditare e comporre il grande carme degno degli avvenimenti.
La poesia, lo ripeto, fu nei fatti. E se qualcheduno di questi fatti vogliamo ricordare, io potrei dirvi che la più alta poesia del Quarantotto esalò da un meraviglioso accordo, che i fatti inaspettati fecero balenare alle anime pensose e aspettanti di tutto il mondo civile, tra l'amore della libertà e l'amore della religione. Fu davvero un momento storico, meraviglioso, o Signore; perchè, se voi percorrete la storia del nostro Risorgimento, voi troverete che nessuno ha mai detto e spero che nessuno [23] dirà mai che fra amor di patria e religiosità vi sia un dissidio incompatibile. Ma è un fatto, che una certa diffidenza fra l'una cosa e l'altra vi è sempre stata, e purtroppo vi è ancora. Da Dante Alighieri, di cui il cardinale Beltrando Del Poggetto voleva disperder le ceneri perchè lo aveva in odore di eretico, alle censure ecclesiastiche dei libri di Antonio Rosmini, i sintomi e i sospetti di questo dissidio (non diciamo ora per colpa di chi) si sono sempre, più o meno, manifestati in Italia. E non fu questa l'ultima causa (diciamolo con coscienza d'uomini liberi) delle nostre divisioni e della debolezza nostra di fronte alle altre nazioni!
Poco prima dell'epoca di cui ci occupiamo, Giuseppe Mazzini aveva inalberata una fiera tradizione ghibellina, che non ammetteva patto nè temporale nè spirituale col sacerdozio cattolico. Cesare Balbo invece questo patto lo accettava e lo voleva. Si formò insomma una tradizione neoguelfa accanto a quella tradizione ghibellina; e gli animi ne rimanevano perplessi e dolorosi; e le coscienze timide non sapevano a cui fidarsi. L'amore di patria, come tutte le sante cose che la natura istilla nel cuore dell'uomo, mandava le sue querule voci, ma queste voci parevano superate e fatte tacere da una voce anche più autorevole.... Quando, a un tratto, ecco [24] che un vento liberatore spazza via tutta questa nebbia e nel cielo rasserenato appaiono congiunte, affratellate, la patria e la fede, perchè Pio IX dal balcone del Vaticano aveva benedetto l'Italia.... Ecco uno degli aspetti veramente poetici del Quarantotto! Un altro aspetto egualmente poetico di questa epoca, anch'esso intimamente connaturato colla storia, risultò da questo, che il movimento politico redenzionista suscitatosi nella penisola e in essa maturato con lunga preparazione, mercè l'apostolato del Manzoni, del Balbo, del Gioberti, del Rosmini, del Troia, e dello stesso Mazzini, si differenziò dai movimenti anteriori per la sua maggiore modernità. Guardate infatti: dal '96 al '31 gli Italiani erano insorti sempre in nome di un ideale classico molto austero e molto elevato, ma un po' troppo lontano dalla immediata percezione del nostro sentimento. Era il grande ideale classico di Roma antica, erano i fasci, i littori, la grande Repubblica conquistatrice del mondo, e tutto quell'insieme di reminiscenze e di anacronismi, che il Giusti aveva già schernito colla frase «i grilli romani.» Invece il Quarantotto, preparato da tutta una letteratura e da tutta una cultura italiana più moderna, richiamò il sentimento della nazione a qualche cosa di meno devulso, di meno separato da noi. Per forza di avvenimenti [25] l'Italia del Quarantotto non mira più a Roma antica, mira piuttosto al Medio Evo; voglio dire a quello che il Medio Evo conteneva di tradizione ancora viva, ancora permanente in mezzo a noi. Lo stesso neoguelfismo aiutava in questo. Quindi i poeti evocano, piuttosto che Roma antica e Bruto e i Gracchi, la Lega Lombarda e le Crociate; e i giovani volontari vanno al campo avendo sul petto una croce fiammante che significa insieme un ideale politico e religioso. Il Quarantotto evoca i liberi Comuni d'Italia, insorgenti eroicamente in nome dei loro civili diritti, in nome dei loro focolari e delle loro chiese, e combattono e vincono l'Imperatore. Legnano, Roncaglia; ecco i nomi che fervono nelle menti, che splendono alla fantasia come dei fari!
In questo il romanticismo ebbe la sua parte. Tutte quelle evocazioni storiche uscite dalle liriche, dai poemi e dai romanzi, avevano familiarizzato le fantasie dei nostri giovani e delle nostre donne con quanto di più cavalleresco e di più poetico aveva [26] il Medio Evo. Tra quel cavalleresco medioevale e i nuovi sentimenti suscitati dai fatti nuovi esisteva una reale affinità, una corrente di simpatie e di impulsi, che la classica Roma non avrebbe più potuto suscitare. Noi non guardavamo più al Campidoglio e alla Legione antica, guardavamo al Carroccio, guardavamo ai cavalieri della Morte, che avevano giurato di morir tutti piuttosto che permettere che l'altare del Comune benedetto dal Vescovo cadesse in mano dello straniero. Un potente alito di poesia cristiana correva nell'aria ed empiva i cuori.
Ma, come opera d'arte, io ve lo ripeto, la grande poesia non nacque e forse non poteva nascere. Mancava quella temperatura ideale nè troppo calda nè troppo fredda, che è condizione necessaria al nascere e maturarsi della pura opera d'arte, della poesia veramente degna di vivere nei secoli. Pensate inoltre, o Signore: il Quarantotto fu una gran luce, ma ebbe ancora, come sapete, le sue fosche ombre. Io mi sono astenuto da qualunque giudizio politico durante il mio discorso e non declinerò ora da questo mio proposito, perchè voglio lasciare intera libertà ai conferenzieri che mi succederanno di giudicare uomini e cose; ma credo di non rendere che un omaggio alla verità storica da tutti riconosciuta, [27] ripetendovi che il Quarantotto, se fu una gran luce, ebbe ancora delle ombre tristissime. Sotto tutti quei fiori, molti rettili strisciarono.... E per non essere trascinato dall'attraentissimo argomento, mi contenterò di ricordare una sentenza di Massimo d'Azeglio, il quale, scrivendo al suo amico Pantaleoni, diceva: «Credevamo di essere degli uomini e ci siamo accorti di essere dei fanciulli.» La sentenza non potrà, io credo, essere tacciata di severità.
E venne infatti la catastrofe, la grande catastrofe punitrice. Vennero l'assassinio di Rossi, le sconfitte Lombarde, le discordie pazze, le illusioni fanciullesche, i tumulti minacciosi, la fuga a Gaeta, e finalmente Novara, la tragica Novara. Carlo Alberto, dopo avere per un giorno intero cercato la morte sugli spaldi della fulminata città, dovette persuadersi che, se l'onore era salvo, tutto il rimanente era perduto! Ma pensò che egli poteva ancora rendere un grande servigio alla sua povera Italia, togliendosi di mezzo e lasciando il figliuolo, senza rancori e preconcetti, libero a trattare col vincitore i patti della triste resa.
Poi seguì un periodo che per sè stesso potrebbe essere argomento di un lungo discorso. Il giovane Re sorgeva appena sul trono, e d'ogni intorno era circondato da insidie, da accuse, da bieche discordie, [28] da diffidenze innominabili. Ebbene, o Signore, appena comincia l'epoca dei tristi ricordi, ecco che la poesia, come vera e grande opera d'arte, accenna a rifiorire. Giovanni Prati, che è stato mediocre nel canzoniere di Carlo Alberto, diventa il poeta sacro dell'anima italiana quando intuona una solenne e melanconica melodia all'arrivo delle sue fredde spoglie dalla terra dell'esilio, dove il Re magnanimo era andato a morire. Comincia, o Signore, la divina ispirazione delle memorie! Il poeta, rivolgendo uno sguardo indietro, trova accordi inusitati e crea una visione che è una delle più potenti, non dubito di affermarlo, che abbiano mai lampeggiato a fantasia di poeta italiano. Tutta la Trenodia pel ritorno delle ceneri di Carlo Alberto è un misto di palinodie dolenti e di speranze generose, di rimproveri ai popoli, di rimproveri ai Principi. Per un momento il poeta accenna a voler riunire gli uni e gli altri in un sentimento profondo di pietà e di commiserazione scambievoli, quasi col proposito di riprendere insieme, ammaestrati dai comuni errori, la via aspra e gloriosa. Ma poi, avvertito da un istinto infallibile che lo spinge a fissare gli occhi nell'avvenire, Giovanni Prati volge la sua ultima parola al giovane Re del Piemonte. E anche questa parola, sussurrata all'orecchio del Monarca, in mezzo [29] a tante insidie, a tanta diffidenza, a tanti maliaugurî, che, come sinistri augelli, allora svolazzavano intorno al trono, anche questa parola è improntata di un profondo carattere di poesia: poichè è la poesia della speranza!
Vittorio, Vittorio! Tu giovane Anteo,
Per questa dolente nel fiero torneo,
Tu l'ultima lancia sei nato a spezzar!
. . . . . . . . . . . . . .
La croce sabauda, che ornò sette troni,
Dinanzi alla furia de' tuoi battaglioni,
Raggiando sull'armi l'antico splendor,
Segnal di vittoria per gli occhi dei forti,
Segnal d'allegrezza per l'ossa dei morti,
Verrà benedetta sull'Adige ancor!
Ed ecco che la poesia italiana, la quale nell'orgasmo e nello stupore dei grandi avvenimenti non aveva trovato la parola sua, ecco che la trova nei giorni memori dello sconforto; e fa essa rifiorire la speranza! Quasi per dare una nuova conferma a quella sentenza di Federigo Schiller: che le cose di quaggiù, hanno bisogno di morire nella realtà, per rivivere e rifulgere immortalmente nell'ideale dell'arte....
[31]
CONFERENZA
DI
ISIDORO DEL LUNGO.
[33]
Signore e Signori,
Chi dice «poesia del Giusti» (della quale, in relazione con la poesia italiana, mi propongo parlarvi) intende comunemente qualche cosa di agevole e svelto, nato senz'ombra di artifizio, un concepimento simultaneo e un'unione così schietta d'idea e di parola, che la parola vela appena l'idea senza punto impacciarla, e letto che si è ci pare che la cosa non potesse proprio esser detta altro che in quel modo lì. Nè fanno ostacolo il verso o la rima: perchè i metri sono quasi sempre i più snelli, i più vivaci, i più carezzevoli; nè il verso chiede mai al metro nulla di più di quello che il metro, secondo il suo naturale congegno e le pose sue ovvie, conceda; e la rima, la rima sembra appostata in fondo al verso a riceverlo a braccia aperte, e che se vi accadesse di ripetere quelle cose conversando, [34] incappereste in quelle rime anche voi. Conversando, sicuro; perchè il Giusti è il poeta più conversevole che vi paia aver mai conosciuto: e quando egli scherza con voi, voi ne sentite la voce, voi lo vedete sorridere, e ammiccare, e comporre il viso, come il discorso richiede; cosicchè non manchi a quel tanto che la parola scritta ha di muto, non manchi (tale è, leggendo, l'illusione) l'avvivamento del tono, dello sguardo, dell'atteggiamento, del gesto.
Qual altro dei nostri poeti ci fa simile impressione? qual altro ci procura sensazioni consimili?
Ma la dimanda è troppo affrettata. Prima di rispondere, bisogna, a voler rispondere con giustizia, bisogna pure riflettere, se alcun altro de' nostri poeti facili e piacevoli ci fa pensar tante cose e tante altre sentirne; e dico, cose alte, nobili, a pensare, profonde o commoventi a sentire; quante si sentono o si pensano leggendo i suoi versi. Tutto quel «piccolo mondo antico» fra il '31 e il '49, che ci sfila gaiamente dinanzi per la lanterna magica di quei componimenti motteggevoli e ironici; co' suoi personaggi grotteschi e contraffatti, o disorpellati delle loro lustre, o messi addirittura al nudo del loro brutto e cattivo, o piantati alla berlina con le loro debolezze, o trascinati al redde [35] rationem delle opere loro: cotesto piccolo mondo, del quale egli v'invita a ridere, ve lo atteggia per modo dinanzi, che nel giudicarne voi dobbiate sempre fare appello ai sentimenti vostri migliori. Al sentimento della rettitudine, nel giudicare i Gingillini e i Girella, i Granchi e i Ventola, i Presidenti di buon governo e i loro Birri a congresso — al sentimento dell'umana dignità, nel far la debita stima di quell'aristocrazia sfiaccolata, di quei parassiti del regio rescritto, di quelle croci di Santo Stefano sul petto dei mal arricchiti, di quelle scritte matrimoniali combinate fra l'albagìa spiantata e l'ambizione plebea: — al sentimento della moralità educatrice, se motteggia sull'imperiale e real giuoco del lotto, o sul reuma d'un cantante, sull'abuso sentimentale del cloroformio, sulle bugie degli epigrafai: — al sentimento sanamente affermato della umana fraternità, se sfata con ironica iperbole le pericolose utopie umanitarie, le ipocrisie degli abolitori della guerra: — al sentimento della pedagogia naturale, o diciamo senz'altro al prezioso senso comune, se fra gl'Immobili e i Semoventi rivendica la libertà del fanciullo che i taumaturghi del metodo vorrebbero plasmare a macchina, e averne fantocci tutti d'un pezzo e d'un getto: — al rispetto delle memorie [36] ispiratrici, se vi descrive il ballo esotico nel vecchio palazzo appigionato dai posteri di Farinata, o scaglia sul viso dei gaudenti, dimentichi in carnevale perpetuo, il brindisi che esalta le gloriose quaresime degli eroi trecentisti: — alla carità santa d'Italia madre, quando per l'incoronazione austriaca sfilano in complice schiera i principotti italiani; o lo Stivale fa, dall'orlo al tallone, la sua storia dolorosa; o il poeta in Sant'Ambrogio di Milano, fra que' poveri Croati e Boemi mandati qua a odiare ed essere odiati, sospira una patria per se e per loro; o inculca e ribadisce a quelle polizie miopi e sordastre il delenda Carthago dell'indipendenza dallo straniero; o protesta al suo Gino Capponi contro l'insulto codardo alla Terra dei morti.
E poi, quando lo scherzo ha meno alta intonazione, e ritien più del bonario e del familiare, ma sempre con qualche vena di malinconico; le Memorie di Pisa, il Giovinetto romantico, il Profugo di Rimini, l'Amor pacifico, il San Giovanni canonizzato sugli zecchini d'oro, Momo salmista e predicatore, le virtù della Chiocciola, il re Travicello; nessuna di queste geniali comunicazioni della benevola ironia del Poeta passa pel vostro spirito, senza lasciarvi altresì qualche grano di moralità gentile, fermentatrice di bene.
[37]
E abbiate altresì presenti fin d'ora altre poesie del Giusti (pur abbandonando alla bibliografia le generiche e non caratteristiche, o nate morte che vogliate chiamarle) abbiate, dico, presenti, fra le vitali e vive quelle che non appartengono alla sua Satira: nelle quali, sia nelle poesie che chiamerei addirittura sentimentali, sia in quella Canzone reminiscente all'Alighieri maestro, egli è quanto alla forma un altro poeta, ma l'anima del Poeta, anche in codeste liriche, voi la sentite pur sempre la stessa.
Poeta, dunque, di profondo sentimento è, per sua propria missione, questo pur così amabile ed agile verseggiatore; questo umorista è, innanzi tutto, un moralista; questo satirico, nell'atto che ammonisce e sgrida, altresì persuade e commuove. E rilevati espressamente tali suoi caratteri, i quali è facile si accompagnino a difetti di aridità, pesantezza, accigliatura pedantesca; se, tuttavia, ci rinnoviamo la dimanda: Chi altri de' nostri è, alla pari del Giusti, poeta (come mi è venuto detto) conversevole? la risposta, nella quale credo dobbiamo convenire lettori e critici, è che nessun altro.
Di quanti altri, invero, sappiamo a memoria tanto e così svariatamente e a pezzi e bocconi, quanto di lui? E non è un saperne a memoria per [38] averne voluto o dovuto imparare; è l'essersi egli fatto imparare senza che noi ce ne accorgessimo, solo per quel farci tanto pensare e sentire, con immagini e parole e locuzioni e rime trovate così a proposito e tanto di nostro genio:
Dal
Girella, emerito
di molto merito,
al Credo bestemmiato da Gingillino,
Io credo nella Zecca onnipotente
e nel figliuolo suo detto Zecchino;
dalla Ghigliottina a vapore, che
fa la testa a centomila
messi in fila,
alla visione papale del Gioberti, di
prete Pero, buon cristiano
lieto semplice e alla mano,
che
vive e lascia vivere;
dalla
pallida capelluta
parodia d'Assalonne,
[39]
alla coppia felice, che
l'amorosa si chiama Veneranda
e l'amoroso si chiama Taddeo;
dal giro pe' chiostri
contando i tumoli
degli avi nostri,
alla partenza da Pisa, lasciando
la baraonda
tanto gioconda;
dal
Viva la Chiocciola,
viva una bestia
che unisce il merito
alla modestia,
all'esopiano re Travicello
piovuto ai ranocchi;
dal più o meno manzoniano
Apollo tonsurato
che dall'Alpi a Palermo
insegna il canto fermo,
alla patriottica baffuta Babele, che succhia
sigari e ponci;
[40]
dal «Toscano Morfeo» e dal «Rogantin di Modena», al padre X. conservatore dello statu quo: dal Congresso di Pisa che suscita le escandescenze del solito Rogantino, tirannetto
da quattordici al duetto,
all'idillio pacifico, che si direbbe scritto per l'Europa d'oggi,
Nè mai tanto apparato
d'anni crebbe congiunto
all'umor moderato
di non provarle punto.
Dormi, Europa, sicura:
più armi, e più paura.
Rispostici pertanto a quella dimanda, che nessuno de' nostri poeti c'è come il Giusti affiatato e accostevole, un'altra subito ce ne facciamo: — Donde attinse egli tale sua qualità? Fu natura? fu magistero? Ne trovò egli, studiosamente cercandolo, il segreto? o senz'altro, gli venne fatto così? Com'è che mettendoci in traccia di suoi predecessori, questi non si rinvengono, anche ragguagliando uomini a tempi, arte a vita sociale e civile, nè fra i Satirici propriamente detti, dall'Ariosto pel Menzini all'Alfieri; nè molto meno fra i Satirici [41] urbani, che dai Latini anche più direttamente assumono il Sermone e l'Epistola: e neanco poi, dove più si spererebbe, fra i burleschi, dal Berni pel Fagiuoli e il Pananti al Guadagnoli? —
Infatti, la satira del Cinquecento, della quale l'Ariosto è rappresentante meraviglioso, riflette spiccatamente il Rinascimento, che tutta informa la poderosa letteratura di quel secolo principe, ed è ancor essa, pur con andatura disinvolta e sprezzante, poesia signorile e dotta. La satira dei Secentisti, anche quando col Menzini si atteggia a vivacità fiorentinesca, non cessa di avere per nota sua dominante la declamazione retorica e l'amplificazione curiale. L'Alfieri poi, sfrondando cotesto frascame a buon dritto, però dissangua e stecchisce; e troppo gravemente, all'energia dello stile fa in lui difetto la spontaneità della lingua. Inoltre, il metro consacrato alla Satira è la terzina, la grave e magistrale terzina; come del Sermone è il verso sciolto, che il Gozzi accarezza blandamente, e il Parini magistralmente atteggia e trasforma: metri, l'uno e l'altro, nei quali la virtualità epica prevale sulla lirica, e perciò l'intonato e il governato sull'andante e familiare. Troppo dunque siamo, rispetto a chiunque di quelli scrittori, troppo siamo discosti dalla maniera del Giusti.
[42]
E questa medesima ragione del metro, già di per se pone distacco assai fra lui e i cosiddetti burleschi, sinchè la forma tradizionale anche di costoro séguita ad essere la terzina, o Capitolo, dal possente Berni e dal Lasca spigliato al corrivo Forteguerri o allo sprolungato Fagiuoli o al Saccenti triviale. Solamente quando il Pananti sostituisce a quelle divenute ormai dicerie la stanza narrativa de' poemi giocosi; la stanza narrativa, in sesta o ottava rima, che altri novellando (innominabili) avevano esercitata più o meno toscanamente, e che il Pananti atteggia specialmente al dialogo con felicità nuova; e quando il Guadagnoli, con maggior toscanità di chicchessia, assume cotesta umile e svelta sestina per le facezie de' suoi lunarii, alternando ad essa i metri della più tenue lirica, l'ottonario, il settenario, il quinario; — soltanto allora la poesia burlesca toscana ci fa presentire il Giusti: ma.... Adagio a dare! come dice il popolo: chè chi senz'altro lo aggregasse a quella famiglia di scrittori con la quale pure qualche attacco, massime col Guadagnoli, lo ha, commetterebbe, più che un errore, un'ingiustizia. Perchè bisognerebbe e al Pananti e al Guadagnoli aggiungere una coerenza d'intendimenti sì civili e sì d'arte, che nè l'uno nè l'altro ebbero: bisognerebbe addossare [43] al Giusti un bon po' di quella loro, sia pur simpatica, trasandatezza, dalla quale invece egli anche ne' suoi primi tentativi, anche in quelli un po' birichini e della vecchia maniera, quasi per istinto, si tenne lontano: — e poi, forse, sarebbe lecito dire: «Vedete come la poesia burlesca, nel secolo decimonono, si è svolta di mano in mano, dal Pananti passando al Guadagnoli, e da questo salendo al Giusti.» Il fatto è, che essa in que' due rimase burlesca; e nel Giusti, conservando ma nobilitando l'impronta sua paesana, addivenne lei la Satira nuova, che, messa a riposo l'antica, ne adempì con ben altro vigore di effetti le veci.
E nata satira più specialmente della regione toscana, addivenne popolare in tutta Italia, sì perchè a Italia tutta aveva il cuore il Poeta, e sì per le virtù nazionali della lingua toscana. Nè in altre regioni d'Italia nostra fu potuta la satira del Giusti imitare tollerabilmente, come potè essere quella del Guadagnoli dal Fusinato veneto. L'Italia ebbe dalla Toscana il suo Giusti; e basta. Rimase poi all'idioma meneghino la gloria del Porta artista sovrano; e il Piemonte patriottico ebbe un di mezzo fra il Giusti e il Béranger nelle Canzonette dialettali di Angelo Brofferio; e nel dialetto romanesco, il Belli atteggiò a epigramma popolare quel [44] vecchio peccatore aristocratico del Parnaso italiano, il Sonetto; ve lo atteggiò con arguzia che direi non emulata, se non avessimo, parlati dal popolo pisano, i Sonetti di Renato Fucini.
Ma tornando al Giusti, il quesito sulla originalità della sua poesia, fu, almeno indirettamente, cioè in questi altri termini, — come fosse ella fatta, e in che assomigli o dissomigli a poesia di altri, — fu proposto assai prima che si curiosasse di critica quanto oggi; e dette occasione a uno scritto di Gino Capponi, che è, ad un tempo, e la testimonianza più autorevole anzi l'autentica, e la critica più intima, che della poesia del Giusti si sia avuta, anche dopo le belle pagine del Carducci, del Panzacchi, del Camerini, del Martini, del Masi, del Biagi. Rispondeva il Capponi nel maggio del 1851, appena un anno dopo la morte del caro ospite suo, a un articolo del critico francese Gustavo Planche, il quale era venuto narrando a' suoi compatriotti, essere il Giusti una sorta d'improvvisatore [45] che, impaziente o incurante delle bellezze di stile, accettava senza pensarvi la prima parola che gli scendeva giù per la penna: perciò privo di vivezza, di eleganza, di precisione, di tutte insomma le doti proprie d'uno scrittore che ami e rispetti l'arte sua. Al che il Marchese, con quel suo sorriso benevolo che gli abbiamo conosciuto e quella temperanza che tanto più gravi quanto più miti faceva le sue sentenze, rispondeva, quello essere il ritratto non dell'amico suo ma di altri poeti (i burleschi appunto del penultimo periodo), diversi tanto dal Giusti, quanto «l'età decorsa, in ciò ch'ella ebbe di più sfrontato, discostasi dal sentire della nostra, e dalle norme ch'essa impone ad un'anima e ad una lingua naturalmente gentili.» Di questa lingua avere il Giusti, dai grandi scrittori e dal popolo, anche campagnolo, tratto tutto quanto è di più fino ma insieme di più nascosto, mediante un senso squisito suo proprio, educato sui classici latini e nostri, ed un grande studio ch'egli poneva con ostinata perseveranza nello scegliere le voci e collocarle industriosamente. Da ciò esser venuta alla sua poesia una efficacia piuttosto condensata e ristretta, «intesa com'ella è a penetrare più addentro»; tantochè aveva egli finito col quasi «negare parte di [46] sè alla spedita intelligenza di molti degl'Italiani suoi» (il che è verissimo, e i commenti venuti dopo lo dicono), non che dei Francesi. E a questi più particolarmente volgendosi, e «sfidando la Francia tutta» a cogliere il valore di certi motti giustiani, come quello (negli Eroi da poltrona) sulle sorti future d'Italia «Vattel'a pesca», adduceva il Béranger, «nome» dice il Capponi «che riviene spontaneo a proposito del Giusti»; e dichiarava che non avremmo noi osato, sebbene tanto più familiari e alla lingua e alle cose di Francia che non alla lingua e alle cose d'Italia i Francesi, non oseremmo noi, e saviamente, dare sentenza sul Béranger (come nè su certi altri quasi indigeti di quella letteratura, quali il Lafontaine, il Rabelais), per non risicare di giudicarlo piuttosto facitor di canzonette che poeta. L'onore del qual nome, nel senso di artefice consapevole, e in queste due cose soprattutto insigne, «squisitezza di forma, finezza di espressione», rivendicava egli al Giusti contro la condanna pronunziata dal Planche, che «i versi suoi non vivrebbero».
È passato ormai mezzo secolo; e quei versi vivono, e si ristampano, e (come il Capponi presentiva, nè gliene faceva lode) ce li commentiamo: di che non credo che per quelli del Béranger, ed [47] è pregio suo e della lingua, si sia mai sentito in Francia il bisogno; perchè, cominciando dall'arietta sulla quale, canzon per canzone, sono intonati, è in quelli tutto il di fuori che s'è accolto nell'anima del poeta, e ne rivola fuora trillando; laddove il Giusti (che ammirava il Béranger; ma quando lo chiamavano il Béranger italiano, ci faceva, e non soltanto per modestia, le sue brave eccezioni, cominciando da questa: d'averlo letto dopo essersi «imbarcato da un pezzo») il Giusti aveva lavorato la propria forma con un intendimento del tutto soggettivo e di sua iniziativa, pur mirando a «farsi interprete delle cose che gli stavano d'intorno». Ed invero le forme di que' due Satirici del vecchio mondo, che nel contrasto fra i due secoli «l'un contro l'altro armato» era destinato a frantumarsi, tanto poco, anzi nulla, avevano che fare insieme, che a tentar di adattare (come qualcuno si è provato) alle Chansons la toscanità degli Scherzi, anche quando i soggetti combaciano e si rasentano, si va nel goffo; e qualche imitazione in stile giustesco dal Béranger, per esempio, dal Bon Dieu quella del Creatore e il suo mondo, è, fra le apocrife appioppate al Giusti, delle più intrinsecamente aliene, nonostante le apparenze, dal fare autentico e legittimo di lui.
[48]
Il quale, è poi da aggiungere che se avesse potuto ascoltare il giudizio del critico francese, non ne avrebbe fatte grandi meraviglie, perchè già si era trovato, com'egli ci racconta, a sentirsi dimandare da un tale qui in casa sua, se avesse letto altro che romanzi e giornali; e ci racconta altresì, come «prontissimo ad immaginare, e assai lesto ad abbozzare, era poi una tartaruga a dare l'ultima mano, e credeva che la morte sola gli avrebbe portato via il pennello de' ritocchi»: dichiarando espressamente, che quel suo «modo di dir le cose alla casalinga» non provava nulla, e che pur troppo il suo difetto era di non contentarsi mai. E séguita confessando le proprie colpe: la stringatezza cercata; lo studio di apparire; l'aver avuto a combattere con quei metri, «facili in apparenza, difficilissimi in sostanza; i quali se non ti fai sostegno dell'inversione, ti slabbrano da tutte le parti», e la inversione poi va a finire nello «scontorcimento». «Gino Capponi mi aveva ammonito più e più volte d'andar per le piane, d'esser semplice e corrente, di lasciare le lambiccature, le finezze sopraffini, le frasi e le parole vistose; perchè, dice il proverbio, chi troppo s'assottiglia si scavezza.....» Insomma, a lasciarlo dire, e a dargli retta senz'altro, cioè senza [49] far la tara all'ipocondria di quel povero organismo malato, si finirebbe..... altro che l'«improvvisatore» denunziato dal Planche, o il «poeta conversevole» che io ho cominciato, Signore mie, dal ripresentarvi come una vecchia comune conoscenza.... si finirebbe, dico, a concludere che Giuseppe Giusti è uno dei più pedanteschi e impacciati scrittori che abbiano mai esercitata la pazienza delle nove sorelle.
Il vero è, ch'egli aveva, come nessuno de' contemporanei suoi, anche de' maggiori, riassunta alle lettere la toscanità della lingua, tornando alle fonti genuine del parlar popolare, ma questo poi atteggiando con vigoria d'artista in quelle forme di satira che gli eran balzate alle mani, nemmen lui sapeva come, e esperimentatele dapprima in gingilli di poco sugo, e alcuni anche sguaiatelli e volgarucci, con molta diffidenza di sè medesimo, le aveva poi deliberatamente elette siccome acconcie al suo disegno, quale gli si era venuto maturando nella mente. E questo era di far servire la Satira [50] a qualche cosa di ben alto; ossia al fine nazionale, verso cui tutte convergevano, serrandosi sempre in più stretto fascio, le volontà e le intelligenze italiane; e di questo ufficio della Satira vera e propria privilegiare la così detta Poesia giocosa, «ripulendola» son sue parole «dalla vana chiacchiera, dalla disonestà, dalla inutilità, che l'hanno «deturpata anco nelle mani dei maestri». Su qualche tentativo da lui fatto di poesia politica nelle forme tradizionali di tanti canzoneggiatori mediocri, egli scrisse di sua mano senz'esitare: «prosa rimata».
La poesia d'intendimenti politici era in Italia rampollata naturalmente da quella d'intendimenti civili del Parini e dell'Alfieri; e più particolarmente il nome di questo, con gli ideali suoi di antiche virtù repubblicane e col disdegno di tutto quanto non fosse sinceramente italiano, era rimasto simbolo di quella italianità, le cui tradizioni, conservate e alimentate dalla letteratura lungo i secoli di servitù e decadenza, aspettavano, per fiorire e allignare in novello ordine di cose, occasioni propizie dalle esteriori vicende. Fra queste vicende si trabalzò, nei burrascosi anni di Rivoluzione e d'Impero, la musa banderuola del Monti, fantasia mirabile di poeta senz'anima di cittadino, canto di Virgilio [51] senza cuore di Dante: — di mezzo a quelle vicende, mescolandovisi oratore e soldato, cattedratico e pubblicista, il Foscolo, ben altro intelletto, sentì che non era Italia in quelle «reggie adulate dove il ricco e il dotto e il patrizio vulgo si seppellivano»; e al risorgere di un «futuro popolo italiano», che l'Alfieri aveva vaticinato, preconizzò auspicii degni dai Sepolcri di Santa Croce: — e a questi sepolcri pure si volgeva, pallido della breve esistenza morbosa, il Leopardi, e vi salutava come altare di civil religione il cenotafio di Dante; e al valore italiano, prodigato in terra straniera per gli stranieri derubatori della nostra, evocava la trenodia di Simonide sui Trecento morti con Leonida per la patria. Erano le voci della grande arte antica, erano le virtù della civiltà grecolatina, che nella latina penisola si risvegliavano spontanee, prenunciatrici legittime della rivendicazione nazionale. Ma dalle memorie dei tempi venuti dopo la caduta di Roma pagana; dalle rovine dell'evo barbaro, di su le quali, all'ombra conserta del Papato e dell'Impero, il Comune era sorto e passato per dar luogo agli Stati; un'altra voce si levava, che inneggiato prima a Cristo liberatore dell'umanità, affigurava poi sotto più aspetti, e con le forme oggettive del dramma e del romanzo, nelle intrusioni [52] sovrapposte di Longobardi e di Franchi, nelle guerre fratricide degli Stati indipendenti, nelle vergogne lacrimevoli dell'oppressione spagnuola, tutta la storia luttuosa delle servitù italiche; e in nome della cristiana civiltà affermava, nel cospetto delle altre nazioni, la esistenza d'una nazione italiana. Era la voce di Alessandro Manzoni, ed era la prigionia del Pellico, erano dall'esilio i canti del Berchet e del Rossetti, erano sulla scena classica o medievale le figurazioni storiche del Niccolini, e nel romanzo quelle del Guerrazzi e dell'Azeglio; che accompagnavano i moti del '21 e del '31, e mantenevano, invitto a tutte le repressioni violente, non mai sodisfatto sin che avesse trionfato, il sentimento della patria.
Di questo sentimento volle il Giusti essere l'interprete in quella forma di poesia, dove la servitù non pure aveva impedito le manifestazioni della verità nuda e cruda, ma aveva anzi favorito la sostituzione della burla, dell'equivoco, della dissimulazione, della bugia. Ed era complemento oggimai necessario, massime dopo i casi del '31 e l'avvento regio della borghesia in quella Francia ormai da più di quarant'anni teatro di tutto il mondo politico europeo, era, dico, necessario che la poesia nostra non solo derivasse dal passato le grandi ispirazioni e gli ammaestramenti, gli ammonimenti e [53] i rimproveri, ma per entro al presente valesse e sapesse rimuginare il bene e il male della vita quotidiana, e in vive figure atteggiarlo: nè ciò poteva fare con efficacia, se non adattando a tale figurazione la veste dell'ironia, dello scherzo, dello scherno; nè questa veste poteva contessersi che di forme per eccellenza idiomatiche, cioè a dire toscane. Con tale concetto aveva il Leopardi data forma alla sua Batracomiomachia allegorica, ringiovanendo con felicità di grande artista il poemetto eroicomico; non però aspirando certamente con quello, in pieno secolo decimonono, a popolarità di lettori, di recitatori, d'imitatori. Con tale concetto Cesare Correnti, salutando anonimo l'anonimo Poeta toscano «delle vispe e mordenti caricature», dopo ricordato che «dalle sublimi imprecazioni dell'Alighieri alle calme e solenni proteste del Manzoni, la poesia non disertò mai la causa della patria e della sventura, non disperò mai della giustizia di Dio e dell'avvenire del Popolo», diceva che ben da Milano, quartier generale degli oppressori, eran venute le «melodie rossiniane» del Berchet, «ma dall'arguta Toscana, dalla patria del Berni e della commedia italiana, doveva venire il poeta popolare della satira e dello scherno».
[54]
Di quale satira e di quale scherno, e in quanto simile e in quanto no a quelli dei predecessori, il Giusti lo ha raccontato in quell'aneddotino tra carnevale e quaresima, che intitolò I brindisi. Dove egli, raccolti in brigata i tipi appunto della sua satira, fa prima brindisare l'abate volterriano nelle solite sestine da colascione, lardellate di equivoci tra il grasso e il magro, il sacro e il profano; e poi s'alza lui, e in strofette saffiche dove il quinario è come l'aculeo dell'ape che sfiora e della vespa che punge, dà l'aíre al «Brindisi per un desinare alla buona»:
A noi qui non annuvola il cervello
la bottiglia di Francia e la cucina,
lo stomaco ci appaga ogni cantina
ogni fornello.
. . . . . . . . . . . . . . .
Chi del natio terreno i doni sprezza
e il mento in forestieri unti s'imbroda,
la cara patria a non curar per moda
talor s'avvezza.
[55]
. . . . . . . . . . . . . . .
O nonni, del nipote alla memoria
fate che torni, quando mangia e beve,
che alle vostre quaresime si deve
l'itala gloria.
. . . . . . . . . . . . . . .
Tutto cangiò: ripreso hanno gli arrosti
ciò che le rape un dì fruttaro a voi;
in casa vostra, o trecentisti eroi,
comandan gli osti.
E strugger poi, crocifero babbeo,.....
Al qual punto il malcapitato padron di casa interrompe, col pretesto del caffè; e il poeta ci regala la parte rimastagli in tal modo fra il bicchierino e la chicchera:
E strugger puoi, crocifero babbeo,
l'asse paterno sul paterno foco,
per poi, briaco, preferire il cuoco
a Galileo;
e bestemmiar sull'arti, e di Mercato
maledicendo il Porco, e chi lo fece,
desiderar che ve ne fosse invece
uno salato?
. . . . . . . . . . . . . . .
Oh beato colui che si ricrea
col fiasco paesano e col galletto!
senza debiti andrà nel cataletto,
senza livrea.
[56]
Programma, com'oggi dicesi, del suo poetare; in contrapposto, annotava egli stesso, alle «brutte facezie, che hanno avuto voga per tanto tempo, lusingando l'ozio e la scempiataggine».
E nella «Origine degli scherzi», altra saffica che ben a ragione è stata chiamata la sua «Arte poetica», dice come, dopo avere da giovine «sbagliato se stesso» e «pagato al Petrarca il noviziato», la coscienza aveva rettificata la sua vocazione, e di mezzo alle due scuole d'allora de' Classici e de' Romantici aveva fatto balzar fuori la satira sua paesana, «nel suo volgare, col suo vestito», satira nutrita d'amarezza e di sdegno, «riso che non passa alla midolla», come quello del saltimbanco,
che muor di fame, e in vista ilare e franco
trattien la folla.
E «a uno scrittor di satire in gala»
Vedi piuttosto
diceva
di chiamare al banco
i vizi del tuo popolo in toscano,
di chiamar nero il nero e bianco il bianco,
e di pigliare arditamente in mano
il dizionario che ti suona in bocca,
che, se non altro, è schietto e paesano.
[57]
Sul qual proposito, però, è bene intendersi; e mi parrebbe ormai l'ora, prima che s'esca dal secolo che fra poco a chiamar nostro rimarremo soli noi vecchi. È stata una superba malinconia de' signori ottocentisti (consegnamoci senz'altro alla storia), una malinconia superba o piuttosto una iattanza vana, questa: che solamente a' dì nostri la letteratura italiana si sia giovata della lingua viva o, come è di moda dire, parlata; e ciò specialmente a rovescio e in onta di quel gran signore che fu il Cinquecento, il quale, a sentir cotesti scriventi loro soli la lingua parlata, non fu che uno sfarzoso accozzatore di locuzioni boccaccevoli, di emistichii petrarcheschi, di periodi ciceroniani. La verità vera è invece, che ciascun secolo ha scritto la lingua che parlava, finchè e nello scrivere e nel parlare non è entrata, con la servitù politica e, peggio con la intellettuale e morale, la corruzione anche dell'idioma; il che fu solamente dopo passato il Secento: e che se a' nostri giorni, col rivendicare il diritto e lo stato politico di nazione, ce ne siamo altresì venuto rifacendo, il meglio che si poteva, il carattere; se per la restaurazione di questo nella lingua, si è voluto e saputo, dopo la regressione al nazionale antico operata artificialmente ma non senza utilità dai puristi, volgerci al nazionale vivente [58] interrogando il popolo, e cioè il popolo di quella fra le regioni nostre che sola non abbia dialetto; tutto cotesto non vuol dire, come per certuni parrebbe, che la letteratura italiana incominci da quando si è racquistato il sentimento italico della toscanità; da quando l'unità della lingua in Firenze, non più astrazione litigiosa fra uomini di lettere dal Bembo al Monti, è divenuta una cosa dimostrata col fatto, meglio che con le teorie, dall'Autore dei Promessi Sposi; nè che il Giusti (per tornare al nostro argomento) sia quello fra i poeti che abbia, lui per primo, dato l'esempio del «pigliare arditamente in mano il dizionario che ci suona in bocca»: lui che, del resto, in una delle sue prefazioni, definì la propria «un genere di poesia che può avvantaggiarsi di tutta la lingua scritta e di tutta la lingua parlata».
Sarebbe non breve discorso, e trattazione d'un argomento a sè, il mostrarvi come cotesto dizionario si è saputo maneggiar sempre e da tutti, grandi e piccini, anche nel prevalere di questo o quello stile (perchè altro è lingua, altro è stile) fatti invalere fra gli scrittori dall'autorità preponderante di questo o quello fra i nostri solenni maestri, e specialmente nel Cinquecento dal Boccaccio e dal Petrarca. Mi contenterò (e non voglio entrare [59] nella prosa, solamente perchè vi parlo di poesia) mi contenterò di due soli esempi: e uno sia nientemeno che Dante. Non per la Commedia: la quale pure sappiamo oramai quanto grande portato ella sia, propriamente del volgar fiorentino del Due e Trecento (e le postille del Giusti al divino Poema mostrano com'egli ne sentisse tutta l'attualità, di contenuto e di forma); non pel Poema, dico, ma invece per certi Sonetti che Dante scrisse poco dopo il 1290, e che da quanto erano, diciamolo pure, piazzaioli, non si volevano nemmeno riconoscere per suoi; ma che pur troppo sono e suoi e del suo parente Forese Donati (colui che poi mandò, al Purgatorio fra i ghiotti), col quale fanno a dirsele a botta e risposta con quello zelo che in simili casi la parentela suole ispirare. Or bene, chi raffronti i documenti poetici di cotesta Tenzone di giovinastri con un certo Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai Libri criminali di Lucca da un ingegnoso erudito vivente, vedrà che il dizionario «schietto e paesano» del Giusti il divino Poeta lo sfoglia, pe' suoi tempi, con abbastanza modernità. L'altro esempio è di messer Angelo Poliziano, il poeta dell'Orfeo e della Giostra, il principe degli umanisti nel Rinascimento, che però fu anche il gaio rimatore delle Canzoni a ballo e [60] dei Rispetti. Ora io vorrei potervi leggere un paio solamente di quelle vispe e succinte e ogni tanto sboccate poesiole, e ne sceglierei due che si potrebbero intitolare, l'una Il segreto d'amore e la confessione, e l'altra Il galletto, la chiocciola e la nave in porto; e poi vorrei dimandarvi, se il Giusti, che nella sua piuttosto scarsa erudizione è presumibile non le abbia mai lette, avrebbe potuto ricusare all'eruditissimo fra i poeti la lode, che esso il Giusti, in quella sua Arte poetica degli Scherzi, si arrogava a buon diritto, di non avere «svisato i propri concetti» per l'ambizione di «tradurre sè stesso». Vi assicuro che le gentildonne fiorentine, leggendo a diletto in questo palazzo mediceo le strofette incantevoli del Poliziano, non avranno avuto alcun bisogno di ritradurre.
Più altri esempi ci offrirebbero e la poesia burlesca e la comica del Cinquecento, e nell'età di decadenza que' tali poeti con cui vedemmo che il Giusti per le qualità sue esteriori si ricongiunge. Il Fagiuoli, in quel suo interminabile profluvio di Capitoli slombati, ha qua e là, a sprazzi, dei quadretti di genere, dove la lingua fiorentinissima (e ben poco ci corre da quella d'oggi) colorisce graziosamente que' suoi fantoccini dal vero. E il Saccenti, dipingendo, pur dal vero, la vita di provincia [61] degli ultimi tempi medicei; e il Pananti, la girovaga del Poeta di Teatro ne' primi decennii del secolo; e il Guadagnoli, la Toscanina patriarcale dell'ultimo Lorenese, e il tran tran di quel mondo che, secondo la comoda teoria del ministro Fossombroni, andava da sè; non vengon meno, nè il Saccenti nè il Pananti nè il Guadagnoli, — mentre il buon marchese Angiolo d'Elci seguitava tranquillamente a scrivere le sue Satire in classico stile — non vengon meno davvero al dizionario che sonava in bocca dei loro valdarnesi e mugellani, e dei fedeli abbonati d'anno in anno al prezioso lunario di Sesto Caio Baccelli. Diciamo altresì che certi dialoghetti del Sesto Caio (il Baccelli infreddato, per esempio, o il Baccelli zoppo, o dello stesso Guadagnoli il bozzetto villereccio di Gosto e Mea), certe scenette pur dialogate del Pananti (quelle con lo zio prete, i battibecchi dei commedianti fra loro e col poeta), se non raggiungono l'efficacia drammatica che il Giusti infonde in quei bozzetti mirabili delle Istruzioni a un emissario, della Spia dopo le riforme, dei dopopranzo di Taddeo e Veneranda, delle disperazioni della moglie di Maso nel Sortilegio, son tuttavia derivazioni dalla medesima fonte che il Giusti è poi parso aver egli disuggellata.
[62]
Se non che il Giusti fu, e doveva essere, messo sopra a quelli altri, perchè nessuno di essi seppe o volle adoperare e temperare la lingua del popolo toscano alle alte cose alle quali lui la indirizzava; e nessun d'essi altresì aveva nell'anima ciò che il Giusti ci aveva, e che espresse nelle poesie che ho chiamate sentimentali; All'amica lontana, Affetti d'una madre, La fiducia in Dio, Il sospiro dell'anima, A Roberto nel 1841, A una giovinetta nel '43, e in quella stupenda, nona rima fra il '46 e il '47 a Gino Capponi, dov'egli, in cospetto del rinnovamento italiano e delle speranze magnanime, pronuncia il non sum dignus d'essere il censore del suo popolo risorto e ringiovanito. È il Giusti, che gareggiando con lo scalpello del Bartolini, scolpisce in un verso
quasi obliando la corporea salma
l'abbandono in Dio di chi non ha più altra speranza quaggiù. È del Giusti quella sublime espressione de' suoi ardimenti e sgomenti d'artista:
Sdegnoso dell'error, d'error macchiato,
or mi sento co' pochi alto levato,
ora giù caddi e vaneggiai col volgo!
. . . . . . . . . . . . . . .
E anch'io quell'ardua imagine dell'arte,
[63]
che al genio è donna, e figlia è di natura,
e in parte ha forma della madre, e in parte
di più alto esemplar rende figura;
come l'amante che non si diparte
da quella che d'amor più l'assicura,
vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
e d'innovarmi nel pudico amplesso
la trepida speranza ancor mi dura.
Sono del Giusti, o Signore, di questo poeta degli Scherzi, i versi più belli forse ne' quali abbia mai parlato la madre al figliuolo:
Goder d'ogni mio bene
d'ogni mia contentezza il ciel ti dia;
io della vita nella dubbia via
il peso porterò delle tue pene.
Oh se per nuovo obietto
un dì t'affanna giovenil desìo,
ti risovvenga del materno affetto!
nessun mai t'amerà dell'amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
ricercherai la madre, e in quelle braccia
nasconderai la faccia;
nel sen che mai non cangia avrai riposo.
Di cotesta vena, che in quelli ed in altri suoi versi si effonde, talvolta, se volete, con un certo languore lamartiniano, ma altresì con una delicatezza [64] d'imagini e soavità di concetti e nitidezza di frase, che li sollevano di gran tratto dalla comune maniera di certo romanticismo morboso; di cotesta, che è poi soprattutto vena d'affetto gentile; non c'è quasi poesia delle sue satiriche che non ve ne trapeli qualche stilla: in alcune poi, come nel Sant'Ambrogio, l'affetto è la nota dominante. Ben a dritto si sentiva egli lieto d'avere «di carità nell'onde temprato l'ardito ingegno, e tratto dallo sdegno il mesto riso.»
E più che io ripenso a tuttociò, e come questo sia uno dei distintivi nobilissimi della sua poesia, meno mi capacito, anche solamente per questo, come «scrittore di piccola mente» potesse (dispiace ricordarlo) potesse parere Giuseppe Giusti a Niccolò Tommasèo. E si avverta che il Tommasèo stesso, scrivendo al Capponi, riconobbe «elaborate e maestrevoli» le poesie del Giusti, vide in quel lavorío i «belli e svelti panneggiamenti dell'arte»; contuttociò, gli parve che negli sdegni e sogghigni «del poeta, il cuore non parlasse». E pregò il Capponi ad ammonirnelo: ma il Capponi, come vedemmo, d'altro sì l'ammonì, ma non di questo. Nè so invero chi possa, pur reverente all'autorità del Tommasèo, consentire con lui in cotesti giudizi. Poteva il Tommasèo trovare difetti, magari [65] più difetti che virtù, nelle poesie del Giusti; la stessa sorte ebbero, presso l'austero critico, il Foscolo e il Leopardi: potevano offenderlo certe, come egli disse, «celie profane», e metteva fra queste anche il combinarsi alcune bizzarrie metriche, che al Giusti avean fatto comodo, con l'innodia popolare della Chiesa. Ma «scrittori di piccola mente» e senza espansione di cuore, erano rimasti gli altri satirici toscani, dai quali il Giusti si staccò, come vedemmo, e si sollevò: in lui, anche sottoposto a giudizio, non che severo, acre, è debito riconoscere altezza di mente, finezza d'arte, potenza di sentimento; e fra i restitutori della italianità, nel secolo che doveva finalmente veder rivendicata l'indipendenza e l'unità d'Italia, segnare con sicura mano il suo nome. Non faremo che sottoscrivere una sentenza di Alessandro Manzoni.
Il nome suo di poeta. Come prosatore, è minore d'assai; e francamente può dirsi che nelle sue prose, troppo spesso prevalga la maniera all'ispirazione. Le hanno esaltate oltre il dovere quei teorici della lingua parlata che dicevo poco fa. Stando ai loro criteri, si sarebbe dovuto scriver tutti a quel modo, e concluderne che solamente dopo sei secoli la lingua nostra avesse sciolto lo scilinguagnolo. Era un po' forte ad ammettersi; e quel [66] vampo scolastico ha cominciato da un pezzo a dar giù. Io credo che il Giusti non avrebbe ambite lodi consimili, e che sopra teorie di tal fatta ci avrebbe architettato volentieri uno di que' suoi scherzi, coi quali ironeggiò sopra altre utopie non più fondate di questa. Del resto, la prosa sua la martellava, e come! Tormentava persino le lettere che scriveva agli amici; e il suo Epistolario, anche quando il Martini e il Biagi ce lo avranno dato genuino ed intero, seguiterà a farne testimonianza, anzi più espressa e sensibile. Quei difetti che abbiamo sentito il Capponi rilevargli, e che egli riconosceva, nella prosa stridono anche di più: perchè sono difetti (come il Capponi dice) di squisitezza; e la poesia, anche la familiare e satirica, consente alquanto più, che non la prosa, la ricerca del non comune, nel che appunto sta (come il vocabolo stesso significa) la squisitezza. Non è qui il caso nè il luogo: ma se volessimo esemplificare, sia dalla prosa sia anche dai versi, si farebbe capo le più volte ad abusi di locuzione figurata, con elementi non sempre coerenti fra sè e col soggetto, qualche altra volta a frasi e costrutti un po' sforzati; come pure non è lodevole certo scintillío di concetti continuato, che finisce con l'ingenerare stanchezza e monotonia. Tuttavia il Camerini, che [67] fa anch'esso' quest'appunto della squisitezza, ha altresì queste parole: «Ma quella lettera a Drea Francioni dalle montagne pistoiesi, che finisce con la mirabile dipintura del ballo villereccio in casa del notaro, è bella come le sue più belle poesie.» E dice bene.
Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto di raccogliere i suoi versi, «Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuori di stagione, e vorrei elevarmi all'altezza delle cose nuove che si svolgono dinanzi ai nostri occhi con tanta maestà d'andamento..... Se mi darà l'animo di poterlo tentare, certo non me ne starò: se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d'ostinarmi a sonare a morto in un tempo che tutti suonano a battesimo». E nel '48, preparando un'altra edizione, che doveva pur troppo uscir postuma nel [68] '52 per cura del Capponi e del Tabarrini: «Perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s'è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? E vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti: ma io, lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta; e col mio paese ringiovinito, ritorno anch'io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede posso dire non essersi spenta mai nell'animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza». Erano i giorni de' quali l'amico Panzacchi ha evocato qui, o Signore, dinanzi a Voi la giovinezza e la poesia; e in quei giorni appunto, il Giusti con parole di cittadino e d'artista, degni l'uno dell'altro, aggiungeva: «Ora che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d'immischiarci oltre nei solenni parlari di casa. L'inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta: ed io ne sento il preludio [69] e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di piantarvi i lauri e le quercie, all'ombra delle quali proseguiranno le generazioni che sorgono. Lasciate, o magnanimi, che un amico di questa libertà che vi inspira la impresa santissima, baci la fronte e il petto e la mano di tutti voi. L'Italia adesso è costà: costà, ove si stenta, ove si combatte, e ove convengono da ogni lato, quasi al grembo della madre, i figli non degeneri, i nostri primogeniti veri.»
Primogenitura di cuore e di braccio, che, nonostante tutto, si è continuata sino ai dì nostri; e che, oggi compion tre anni, sul campo doloroso ma glorioso di Adua rese nuova testimonianza di fede e di sangue all'Italia e alla Civiltà. E se a me fosse lecito evocare dai sepolcri la immortale poesia della patria, oggi dal colle di San Miniato, memore della gloria di Firenze repubblicana, le ossa di Giuseppe Giusti manderebbero, fremendo, a quei valorosi il saluto d'Italia madre; e la voce, con la quale il Poeta accompagnava le prime battaglie per l'indipendenza, echeggerebbe sino a quelle plaghe lontane, dove i nostri figliuoli e fratelli, obbedendo alle leggi della patria, son caduti sotto la stessa bandiera.
Quella voce, per essere non atteggiata in misura [70] di verso, non era però meno voce di poeta. Chè del resto, la musa del Giusti, e in quel tempo lieto e nel triste che poi subito sopravvenne (e le cui tristezze rimuginò egli, nelli estremi del viver suo, in pagine di Cronaca dolorose) la musa sua non sofferse già di tacere affatto. E come a Leopoldo secondo aveva, per le Riforme del '47, rivolto l'omaggio del libero verso,
Signor, sospeso il pungolo severo,
a te parla la Musa alta e sicura,
la Musa onde ti venne in pro del vero
acre puntura;
così in quell'effimero barattarsi di libertà infida e di licenza sconclusionata, che ricondussero tragicamente questa e le altre parti d'Italia, salvo il predestinato Piemonte, nell'antica miseria, il Giusti alle rime sentimentali, di cui pur di quel tempo lasciò tra le sue carte frammenti bellissimi, altre ne alternò della sua vecchia maniera, come la Repubblica (a Pietro Giannone); il Deputato (a Rosina); e (finiti o sbozzati) quei dialoghetti d'una supposta commedia, Granchio e Ventola, Trippa e Ganghero, Crema e Vespa; e i Sonetti epigrammatici, le Maggioranze, l'Arruffapopoli, scoccati fra una seduta e l'altra del parlamento toscano in Palazzo [71] Vecchio; ed anche qualche svolazzo lirico d'un inno patriottico, rifioritura d'altro simile tentativo fatto da studente pei moti del '31. Non può dunque dirsi, che dinanzi alle cose grandi la sua poesia, che di tante piccinerie aveva fatta giustizia, si tenesse in disparte; nè molto meno gli si attaglia la similitudine trovata dal Guerrazzi, di Sansone che, dopo avere scosse le colonne del tempio, si ritragga impaurito de' calcinacci che cascano. Dopo il '48, non cascarono calcinacci, pur troppo: furono rovine, e non di ciò che il Giusti aveva cooperato a demolire, ma di quello che e il Giusti e il Guerrazzi, e tutti i preparatori, avevano per modi diversi faticato a mettere in piedi.
Altre rime poi, fra il '48 e il '49, hanno il sentore d'una maniera nuova, che senza sguagliar troppo dallo stile ormai caratteristico del Poeta, procede più severa e composta, parineggiando quasi, ma sempre con vivacità toscanissima. Di questo nuovo atteggiarsi della poesia giustiana è singolare documento l'Ode dello scrivere per le gazzette, dov'egli promette a sè medesimo che non più
in aperto motteggio
travierà la rima,
mentre pur vuole «ripigliare il pungolo», che [72] nella beata illusione de' nuovi tempi avea creduto poter deporre: e si volge attorno, e vede la demagogia pullulata
come in pianura molle
scoppia fungaia marcida
di suolo che ribolle;
e da cotesto brutto spettacolo l'anima sua vola, e vola la strofa, alata veramente, all'ideale, da quei sozzi vapori ottenebrato, all'ideale della patria:
O veneranda Italia,
sempre al tuo santo nome
religïoso brivido
il cor mi scosse, come
nomando un caro obietto
lega le labbra il trepido
e riverente affetto.
Povera madre! il gaudio
vano, i superbi vanti,
le garrule discordie,
perdona ai figli erranti;
perdona a me le amare
dubbiezze, e il labbro attonito
nelle fraterne gare.
Sai che nel primo strazio
di colpo impreveduto,
per l'abbondar soverchio
anche il dolore è muto;
[73]
e sai qual duro peso
m'ha tronchi i nervi e l'igneo
vigor dell'alma offeso.
Se trarti di miseria
a me non si concede,
basti l'amor non timido
e l'incorrotta fede;
basti che in tresca oscena
mano non pòrsi a cingerti
nuova e peggior catena.
I primi versi di questa tenera filiale apostrofe sono stati scolpiti sulla base del monumento che fra i dolci colli del suo Monsummano lo ricorda ai credenti ancora nella religione della patria. Nè vi si leggono senza commozione, nè senza pensare che forse era quella (a me par di sentirlo con sicurezza) la forma evolutiva che ne'tempi novissimi avrebbe assunta la sua poesia. Que'tempi egli non vide, morendo sull'inizio del salutare decennio espiatorio, che ci condusse al '59. Le stanche ossa del Poeta posarono nel bel colle di San Miniato; e sulla tomba la parola del suo Gino attestò il compianto e l'onoranza d'Italia, per avere,
con arguto stile castigando i vizi
senza toglier fede a virtù,
inalzati gli uomini al culto dei nobili affetti
e delle idee generose.
[74]
Mancò a quel decennio l'ammonimento del mesto e cruccioso suo verso; mancò ai giorni delle pugne supreme e della vittoria il suo canto augurale. Così non paia, o Signori, che sia mancata alla decadenza delle libere istituzioni, all'obliosa ingratitudine dei dopo venuti, all'offuscamento de' principii di moralità civile, all'infiacchimento delle energie d'una nazione che ahimè troppo presto sarebbe esaurita, sia mancata la educatrice satira del Poeta, il quale non avrebbe accettato gli si raddoppiassero gli anni brevi di vita concessigli, se avesse dovuto ripigliare da vecchio, non più il pungolo d'Orazio sopra una società intorpidita e restìa, ma il flagello di Giovenale sopra una degenerazione di cittadini che tradissero le sante speranze della patria, per virtù di Re e di Popolo, dopo secoli di pianto e di sangue, a sè medesima restituita.
Firenze, 1º marzo 1899.
[75]
CONFERENZA
DI
ALFREDO BACCELLI.
[77]
Per intendere e giudicare convenientemente l'opera poetica dialettale di Giuseppe Belli occorre rievocare il quadro della vita romana quale fu dal 1830 al 1848, seguire il corso della vita di lui, penetrare nell'anima sua e comprenderla.
Roma si riassumeva allora nel Vaticano. Il supremo Pontefice, candido nella veste e magnifico, circondato dalle porpore cardinalizie e dallo stuolo solenne dei prelati, difeso dalla cavalleria dei dragoni dall'elmo crinito e lucente, appariva alle turbe come l'immagine della potenza divina in terra; e allo splendore delle forme esteriori rispondevano la forza e l'autorità che non conoscevano limite o legge.
La necessità di accrescere prestigio ai ministri della religione e di attrarre genti ed oro alla basilica universale aveva moltiplicato le feste e gli apparati; [78] dal Corpus Domini a San Pietro, dal Natale e dall'Epifania alla Pasqua erano sempre cerimonie, scampanii, processioni: di quando in quando canonizzazioni, beatificazioni, pellegrinaggi.
Il giorno di Pasqua, dopo la messa, era solenne la benedizione del Pontefice dalla loggia Vaticana. Sulla piazza formicolavano migliaia di persone. A un tratto il crocifero entrava sulla loggia, e si faceva profondo silenzio. Tra i flabelli, sulla sedia gestatoria appariva il Pontefice, e, levata la mano, benediceva il popolo: le sacre parole sembravano squillare nel silenzio della piazza gremita. Dopo la benedizione tonava il cannone, s'alzava il rullo del tamburo, squillavano le trombe. Quasi abbracciati dalle due curve delle colonne vaticane, i cattolici di fuori commossi adoravano il Pontefice-Dio: i romani ammiravano lo splendore della festa ma argutamente sorridevano. Sorridevano, perchè quel papa divino essi lo conoscevano per un beone volgare, quella mistica benedizione vibrante di cristiano amore la udivano dalla bocca di colui che ordinava supplizi e prigionie; e i cardinali amavano le belle, gli alti dignitari vendevano cariche e favori.
Lo spirito simoniaco del clero cattolico, che aveva un tempo acceso i primi fuochi della Riforma, era giunto nella Chiesa di Roma al guadagno quotidiano. [79] Basti rammentare che fino per la benedizione delle bestie il calendario notava il suo giorno: quello di Sant'Antonio; e si davano candele e si pagavano quattrini; e il privilegio, poichè tutto era privilegiato, di benedire asini, porci e capre lo godeva la confraternita di Sant'Eligio dei Fabbri-ferrai[1].
Ma perchè fossero meglio allettati i forestieri che venivano nella metropoli e fosse rallegrato il popolo (dare panem et circenses), alle feste sacre si alternavano le feste profane.
Le ottobrate romanesche, come le maggiolate fiorentine, invitavano ai campi; ma poichè l'agro romano non si allieta di floridezze agresti, le gite avevano per fine i pranzi nelle osterie. Nelle botti o nei legni a quattro posti le minenti, avvolte le spalle ampie e matronali nei fazzoletti di seta dai colori vivaci, col seno opulente, costretto da una vita pure di seta, splendevano per collane, orecchini e fermezze d'oro. In altre carrettelle, divisi dalle minenti, sedevano i popolani, con le giacchette e i calzoni di velluto. Sul cappello fiori: e un cantare, un gridare, uno stamburare da per tutto. Ma poi dal vino le risse; luccicavano i coltelli, [80] il sangue scorreva: le guardie del Papa non se ne curavano.
Non meno delle ottobrate erano famosi i carnevali romani. I carri con le maschere si commentavano come avvenimenti: le battaglie di fiori e confetti servivano per accendere gli amori, e sullo scalinone del palazzo Ruspoli nel Corso andavano a sedere, nascoste dalla maschera, signore nobili e belle; Massimo D'Azeglio ne sapeva. La corsa dei barberi entusiasmava il popolo, e i moccoletti spenti e riaccesi l'ultima sera come una miriade di lucciole illuminavano la morte del buon umore. Dopo, quaresima e digiuni. I romani avrebbero meglio tollerato qualche nuovo reggimento francese o una gabella di più, che il divieto del carnevale.
Si tentava così di distrarre verso le esteriorità delle feste l'animo dei romani: si dava sempre pascolo all'occhio perchè il cervello non avesse tempo di pensare. Guai, se avesse pensato!
Le leggi non si rispettavano; i privilegi e i monopoli più odiosi si concedevano ai favoriti del clero. Tutto e tutti dovevano cedere alla tirannia del prete, che con la forza della religione dominava nelle pareti domestiche, con la forza del governo sulle vie e sulle piazze. Non solo l'atto, ma la parola, il pensiero, il sentimento erano spiati e sorpresi [81] e violentati; una mano di ferro intollerabile comprimeva propositi e palpiti: la dignità calpestata, la vita pubblica sepolta, le attività intellettuali imprigionate, gli affetti domestici insidiati. Sacerdoti onesti e buoni non mancavano; ma l'eccezione conferma la regola. Mastro Titta, il carnefice, eseguì in 68 anni 517 pene capitali; le prigioni rigurgitavano; gli esilî erano quotidianamente comandati.
Papa Gregorio, dal naso rosso e bitorzoluto per l'eccesso del bere, reazionario, freddo, crudele, proibiva gli asili d'infanzia, non permetteva la costruzione delle strade ferrate e financo vietava ai vetturini di percorrere più d'una determinata distanza al giorno.
Con questa mente e con questo cuore, governava i Romani. Il suo primo ministro un tiranno: il cardinale Lambruschini; il suo favorito un volgare: Gaetanino Moroni; il suo tesoriere uno sciocco: il cardinal Tosti.
I fasti della Corte e del Clero e le pensioni a principi e cardinali pesavano aspramente sul popolo; l'erario era esausto; s'imponevano nuove gabelle, la rapace mano regia colpiva fulmineamente i cittadini, e non si esitava a contrarre debiti all'enorme tasso del 65 per 100.
[82]
Ai tentativi rivoluzionari del 1830 e del 1831, soffocati dalla reazione più crudele, successero la carestia e il colèra del 1837.
Nè ai danni morali e materiali potevano riparare i romani. Essi non conoscevano industrie, non conoscevano commercio: le campagne squallide e deserte, la città muta e senza popolo. Gli studi scientifici tarpati e rinviliti dal dogma e dallo spirito retrivo; le arti e le lettere languenti. Ai romani il governo papale, per dominare sicuro con le baionette straniere, aveva vietato la genialità sapiente che sa far valere il giusto e l'onesto, il virile esercizio delle armi che tempra il carattere e prepara alle lotte, la produttività economica che dà i quieti agi e la indipendenza. Così Roma, se pur avesse voluto insorgere, non avrebbe saputo come nè con quali mezzi: e se voleva vivere, doveva ricevere il pane dal principe padrone o dalla bottega ecclesiastica.
Nè erano onesti i costumi. Migliaia di preti e frati, non sapendo o non potendo vincere i cattivi istinti, diffondevano la corruzione e dovevano, per difendersi, ricorrere alla violenza o alla ipocrisia. Il malo esempio dalle più alte cime discendeva alle radici: dal cardinale, al monsignore, al curato, al prete; dalla principessa, alla ricca borghese, alla [83] popolana. Non mancavano nobili dame che concedevano agli umili i proprî favori: molte avevano più d'un amante: non rari mariti conoscevano e accettavano la protezione ecclesiastica sulla moglie: la facile concessione si pagava con doni o con sussidi; e se una ragazza si sentiva madre e invocava l'aiuto del curato o d'altro prete, ben dotata andava a marito.
Le vie della città sudicie: non decoro edilizio, non cura d'igiene, non comodo moderno. La notte rari lumi rompevano le tenebre delle viuzze tortuose: qua e là Madonne e Santi con lampade accese. I ladri imperavano da padroni, assalendo e depredando case e viandanti, senza che il Governo si curasse di proteggere la vita e gli averi dei cittadini. Il coltello sempre lampeggiante nelle osterie; il turpiloquio diffuso. Pei delinquenti volgari pietà negligenza; pei politici rigore tirannico; la libertà al ladro transeat, ma al giacobino non mai.
Quale, in cotesta vita, doveva essere la natura del popolo?
Il clima umido e molle, l'aria grave e non avvivata da ossigeno di piante, e forse anche l'eredità per l'ozio e l'abbandono secolare facevano il romano grave e neghittoso. Egli aveva retto giudizio, buon senso, intuito della convenienza, ma non conosceva vivacità [84] ed entusiasmo. La storica grandezza lo aveva fatto superbo, il governo papale ignorante ed ozioso.
I romani erano grandi di animo: davano generosamente e non temevano la morte. Il decus antico come era rimasto nella linea del volto e del fianco muliebre, così era rimasto nel sentimento e nel tratto virile, ma sforzato e falsato e contorto dai mali influssi clericali; la dignità era degenerata in rozzezza. Festaioli e ridanciani, duri nella forma e propensi al lazzo, amavano il bel tempo e lo scialo, odiavano l'attività laboriosa. Eleganza di vita, squisitezza di sentimento, cortesia di forma non sapevano che fossero.
Erano troppo evidenti i vizi del clero e l'artificiosa esaltazione di santi e d'immagini miracolose perchè potesse fiorire nel cuore del popolo la fede pura che fa grandi e onesti: come l'idolatria sensistica era stata sostituita alla mistica adorazione dello spirito, la fede cedette il luogo alla superstizione. L'ignoranza e la fantasia diedero a questa corpo ed ombre; e da ciò leggendari timori, stregonerie e chimere.
L'ozio generava la mendicità, che governo e ambiente fomentavano: fare il povero era un'industria, si prendevano più che ora in affitto i bimbi per impietosire i passanti.
[85]
Così fatto dalla natura e dal corso degli avvenimenti, quale doveva mostrarsi il popolo romano di fronte al governo tirannico e tristo?
Aveva luce d'intelligenza e forza di senso morale per conoscere i mali profondi e dolersene: l'acume del retto giudizio gl'insegnava diagnosi e critica: ma il difetto di vivacità e d'infiammabilità non gli concedeva di appassionarsene, mentre la neghittosità naturale e l'abito dell'ozio gli vietavano di pensare al riparo e di porre in atto i propositi. La superbia soffocava il lamento, l'apatia spegneva l'ira. Che poteva restare? Quella che nella tradizione storica germogliò spontanea nell'animo dei romani, dalle antiche atellane alle moderne pasquinate: la satira.
Il popolo di Roma rideva amaramente, e sferzava a sangue uomini e costumi, non senza, talvolta, qualche tenue vena di humour, soffio moderno nello spirito antico. E nel periodo in cui visse il Belli, una maschera originale riassumeva la satira: quella di Cassandrino, impersonata in Filippo Teoli. Filippo Teoli era un orafo che il giorno lavorava ed osservava dalla sua bottega sul Corso, e la sera, di fronte al Caffè Ruspoli, nel Teatro Fiano, muoveva le sue marionette, motteggiando e deridendo. «Cassandrino (annota il Belli a un suo sonetto), [86] l'attuale maschera, consiste in un vecchietto vestito alla moda dei nostri avi, alquanto ignorante ma arguto molto e fecondo di popolali facezie, che esprime con una voce veramente atta a muovere le risa»[2].
Tale era la vita che si offriva a Giuseppe Belli come fonte della sua poesia dialettale.
Giuseppe Belli (Gioacchino non è che uno degli ultimi nomi impostigli al fonte battesimale) nacque in Roma il 7 settembre 1791 da Gaudenzio e da Luigia Mazio: gli antenati paterni erano stati computisti: il padre, con maggior fortuna e decoro, aveva intrapreso il commercio. Durante i rivolgimenti politici, poi che il generale Valentini, dalla famiglia Belli ospitato e occultato, fu dai Francesi mandato a morte, essa fu costretta a fuggire. Ma, passando la notte in un albergo del Regno di Napoli, fu derubata di diecimila scudi, cioè di tutto [87] quanto possedeva. E in Napoli l'attendevano nuovi pericoli e stenti.
Se non che, tornato in Roma il pontefice Pio VII volle compensare il fedele amico, e Gaudenzio Belli ottenne un lucroso ufficio nella darsena di Civitavecchia. Allora i parassiti si addensarono intorno a lui: egli, generoso, li ospitava, e la sua casa risonava di feste e di risa, aperta a conviti di allegre brigate. Il piccolo Giuseppe, austeramente trattato dal padre, non si compiaceva di quei chiassi e di quel vivere grasso e ridanciano: anzi, melanconico, cercava la solitudine, fantasticava sentimentalmente la sera presso la riva del mare, e sovente si ritrovava cogli occhi umidi di pianto.
La famiglia ebbe a patire un nuovo furto di settemila scudi da sette grassatori mascherati, presso Civitavecchia, e così il futuro poeta satirico cominciava a conoscere per esperienza propria come fossero difesi le persone e gli averi dei cittadini dal governo pontificio.
Egli, sebbene severamente trattato, si mostrava poco attento e volenteroso nello studio del latino; ne le pene gravi (per essersi ritenuto un soldo il padre lo rinchiuse per tre giorni in una camera buia) gli corressero l'umore alquanto acre e vendicativo.
[88]
Frattanto, invasa la darsena da una mortale epidemia, Gaudenzio, prodigo della vita come già delle sostanze, si diede a curare i galeotti e a tentar ripari contro il flagello; ma prese egli stesso il contagio e ne morì.
Qui cominciarono disagi e dolori; Giuseppe, mandato alla scuola, studiava e vinceva i compagni, ma era insofferente delle battiture, metodo scolastico allora in voga; e non volendo sopportare una ingiusta pena abbandonò la classe.
Nel 1807 perdette la madre; ed eccolo, giovinetto appena, costretto a pensare alla famigliuola orfana e a soffrire amaramente della pietosa ospitalità dello zio, che gli faceva sentire tutto il peso della concessa elemosina. L'umore malinconico e gli avvenimenti lo venivano così formando pessimista.
Occupato, nella computisteria del Principe Rospigliosi, accenna a prendere la via dei disordini e a frequentare le male compagnie; così si eccita e si anima, e nel pessimista si prepara il sarcastico motteggiatore. Ma torna poi ai savi propositi. A 17 anni scrive i primi versi, italiani, che, come tutti gli altri italiani scritti dopo, erano senza impeto di sentimento, senza gagliardia di pensiero, senza grazia di forma.
Dopo essere passato dall'uno all'altro officio, [89] ottenne una grama pensione e soffrì la fame. Migliorò stato entrando come segretario del Principe Poniatowski, ma non vi rimase a lungo. Frattanto il fratello gli moriva e la sorella si votava monaca.
Egli proseguiva negli studi letterari; fondava insieme con altri nel 1813 l'Accademia Tiberina — era quello il tempo delle Accademie, vere cooperative d'incensamento — e imbevuto di poesie romantiche e specie di quelle dell'Ossian, continuava a comporre, oscillando tra varie forme. Il primo suo volumetto stampato fu: La Pestilenza stata in Firenze l'anno di Nostra salute MCCCXLVIII, scritta, secondo afferma lo Gnoli[3], nel 1812 e nel 1813.
Ma la sua attività intellettuale non si arrestava allo scriver versi; egli studiava le scienze fisico-chimiche e fisico-matematiche, e ne scriveva; studiava la lingua francese e l'inglese; si addestrava, come un meccanico, a costruire ingegni; leggeva molti libri e ne scriveva sunti ordinati; osservava avvenimenti, vita, costumi, e annotava le osservazioni. Si occupava anche di storia e geografia, e [90] suonava il violino; nè ometteva di copiare lunghi brani dei libri letti.
Tornato in Roma Pio VII nel 1814, egli, che non aveva mai amato ne ammirato Napoleone, acclamò quello in versi, assai violenti contro gli empi.
Di lui intanto si invaghiva la signora Maria Conti, vedova del conte Pichi, ricca ma di dieci anni maggiore. Egli voleva resistere, per non essere mantenuto dalla moglie; ma alla fine, nonostante la contrarietà dei parenti di lei, si piegò per la promessa, dalla Conti stessa ottenuta, di un ufficio presso il Governo, con dieci scudi mensili di stipendio. E così nel 1816 egli si congiunse in matrimonio.
Presso le compagnie il Belli era noto come un burlone, un collettore e arguto raccontatore di aneddoti e facezie, abilissimo nel contraffare altrui.
Acquistata l'agiatezza, egli potè con energia e tranquillità attendere ai suoi studi; intraprese dei viaggi annuali, durante i quali molto osservava ed annotava; e s'innamorò anche di una marchesina, che dapprima parve corrispondergli, poi si maritò per amore. A lei rimase, per altro, legato sempre da amicizia e da affetto: anzi, ebbe cari la figliuola di lei e, quel che è più maraviglioso, lo stesso marito.
Godendo la pensione dell'officio, cui non fu più [91] costretto ad attendere, se la passava lietamente, ed ebbe tempo e piacere di correre, nel carnevale, mascherato per le vie di Roma, dicendo facezie. Mentre viaggiava ed osservava e notava (di Firenze sopratutto scrisse, e comprese quanto la vita sua differisse da quella di Roma), nel Settembre del 1827 acquistò per novantasei bajocchi i due volumi del Porta, che lesse e rilesse, e che valsero forse a volgerlo alla poesia dialettale; alla quale più liberamente potè dedicarsi uscendo, come fece, nel 1828 dalla prigione intellettuale dell'Accademia Tiberina. Ed ecco giunto, quand'egli contava poco meno che quarant'anni, il felice periodo della sua gloria; periodo non lungo, durante il quale scrisse più di duemila sonetti in dialetto romanesco, flagellando Chiesa, clero e costumi; e fu il Belli forte, geniale, celebrato. I sonetti si diffondevano manoscritti per Roma, e tutti li conoscevano e li ammiravano.
Nel 1837 perde la moglie, che lascia anche imbarazzi finanziari, dei quali egli si sgomenta. Il colèra invade Roma e fa strage; e Giuseppe, temendo di morire, affida al Biagini, chiusi in una cassetta, i suoi sonetti; pare che ne desiderasse, in caso di morte, la distruzione... Nel 1838 rientrava nell'Accademia Tiberina; nel 1839 pubblicava, editore il Salviucci, dei versi italiani scritti in quel torno; [92] e nel 1840 si volgeva a quel pontefice Gregorio XVI che aveva flagellato ne' sonetti, perchè gli concedesse un ufficio da lucrare; e a ciò lo persuase il grande, singolare amore che portava a Ciro, figliuolo avuto dalla Conti e divenuto primo pensiero e prima cura della sua vita.
Così si preparava l'evoluzione. Dalla morte della moglie al 1849, ultimo della sua musa dialettale, cioè in 12 anni, il Belli non scrisse che 318 sonetti; mentre dal 1828 (non importa tener conto dei soli quattro sonetti anteriori a quest'anno, nè degli otto senza data) al Luglio del 1837, cioè in 9 anni, ne aveva scritti, salvo errore, 1812.
Ottenuto l'ufficio, che dopo due anni gli rese più di 40 scudi mensili di stipendio, il Belli scrisse ancora sonetti aspri e fieri contro il Pontefice e il Governo; ma la vena si inaridiva. Nel 1845 egli ottenne da Gregorio XVI d'esser giubilato e con l'assegno cui avrebbe avuto diritto se avesse prestato l'opera sua per 37 anni; e fu questo un singolare favore. Ottenuta la pensione, Giuseppe, anzichè tacere dischiuse una nuova fioritura romanesca (in poco più di 3 anni circa duecento sonetti) e continuò a dir male di papa Gregorio, dei Cardinali e dei preti, mentre in lingua italiana pensava e scriveva diversamente.
[93]
Partecipò egli pure degli entusiasmi per Pio IX, pontefice liberale; ma le violenze e i torbidi della repubblica che successe compirono la metamorfosi; e dopo il 1849 il Belli divenne reazionario. Nel testamento del 1849 egli rinnegò i sonetti romaneschi; e li consegnò al Tizzani perchè li bruciasse. Ma fu notato che, se avesse voluto bruciarli davvero, li avrebbe bruciati da sè. Il Tizzani li conservò, e così fu possibile l'edizione Barbèra e poi quella completa del Lapi, degnamente curata dal Morandi.
Tornato Pio IX dopo la repubblica, il fiero flagellatore del clero scrisse in lingua italiana un violento sonetto contro il Mazzini e i liberali; e prestò poi l'opera sua alla censura pontificia; e si mostrava più dei preti insofferente ed eccessivo. Attese a volgarizzare gli inni ecclesiastici del Breviario, e nel 1859 scrisse due componimenti in ottave sulla Passione. Ma la trasformazione dei sentimenti e dei pensieri aveva generato anche la trasformazione dell'arte: la splendida parentesi di gloria aperta dal 1828 al 1845 si era chiusa, e il Belli finiva come aveva cominciato: verseggiatore italiano men che mediocre.
Morì nel decembre del 1863; ma il Belli celebre era morto da un pezzo.
[94]
Dalla narrazione della sua vita, ch'io a bella posta ho riferito semplice e nuda di osservazioni e di giudizî, quale appare a noi la figura morale e intellettuale di Giuseppe Belli?
Dalla gratitudine ch'egli sentì per la moglie, dall'amore sviscerato che portò al figliuolo, dall'affetto che lo strinse agli amici, dalla benevola consuetudine che serbò verso la marchesina e la famiglia sua, dobbiamo dedurre ch'egli fosse d'animo affettuoso e soprattutto aperto ai sentimenti domestici, miti e quieti. Anzi, la sua casa e tutto quanto lo circondava amava così, da non tollerare il più lieve mutamento. Il che significa timidezza di spirito e misantropia e amore grande all'irradiamento dell'io.
Che fosse d'umore melanconico provano le sue lagrime adolescenti nella solitudine della riva del mare, le sue ripetute dichiarazioni e il concetto pessimista che si era formato degli uomini e della vita. Ma non era melanconia elegiaca: la punta della vendetta luccicava nella nera visione del mondo [95] agli occhi suoi: fanciullo, fu lieto dei rovesci del commercio paterno, perchè la nave che doveva condurre lui in Ispagna era stata invece mandata con grano in Africa. L'umore melanconico doveva atteggiarsi dunque più allo scherno e al sarcasmo che al lamento e alle lagrime.
Lo scherno e il sarcasmo tanto più vivi sorgevano quanto più rettamente morale s'era formato l'animo suo e sconciamente immorale appariva l'ambiente.
Lo scherno e il sarcasmo meglio che l'ira e lo sdegno sgorgavano dal cuore del Belli, perchè l'animo era mite e debole ed amava la pace e non sapeva entusiasmarsi.
Chi rammenta la pazienza con cui egli leggeva, annotava, copiava, e la minuzia con cui osservava e il suo diletto negli studi della fisica, della chimica, della meccanica; la scarsa parte da lui presa ai febbrili movimenti della rivolta, all'accesa rigenerazione del pensiero, alle grida di patria e libertà di cui fremeva la nuova aria italiana, sa come la sua non fosse natura ardente e vibrante.
L'indole e il non rigoglioso vigore del corpo e i casi della vita, pei quali fin da fanciullo aveva dovuto tremare nelle tempeste politiche e nei forti venti della rivoluzione, costituirono un carattere timido e fiacco.
[96]
La rassegnazione con cui egli, artista, si piegava all'esauriente giogo burocratico e adempiva scrupolosamente il suo dovere di buon impiegato — vada la barbara parola, — mentre ci prova l'onesto fondo della sua coscienza, ci dimostra l'arrendevolezza del suo spirito.
Egli della cosa pubblica non si interessò quanto avrebbe dovuto un buon cittadino. La sua mente non si fermò a riflettere sui grandi problemi del tempo e a risolverli: così che gli mancò la sicurezza piena del pensiero; nè alla deficienza del contenuto politico intellettuale poteva supplire l'impeto santo del cuore e il sentimento generoso, perchè la sua non era tempra passionale. Che avvenne? In quegli anni, nei quali le tempeste ruggivano abbattendo e spazzando, ed ora partivano da mezzodì, ora da settentrione, conveniva avere animo fermo come torre per non piegare ora a dritta ora a sinistra, e conservare sempre il carattere medesimo in mezzo ai più contrarî ambienti. Egli invece, che pensava e sentiva come abbiamo detto, fu il giunco che si piegò: si lasciò colorire dalla luce di fuori, si lasciò plasmare dalla mano del fato e dagli avvenimenti.
Dopo ciò, è da maravigliarsi se egli, per quegli affetti domestici che sentiva, sacrificò i politici che non sentiva e immolò la patria al figlio, la geniale [97] musa romanesca alla rettorica dell'Accademia, e chiese l'officio e lo stipendio a quel Gregorio XVI che aveva vilipeso?
Piuttosto è da maravigliarsi che, ottenuto il favore, non tacesse, e continuasse a scrivere sonetti acri e pungenti; e neppur questo gli fa onore, chè il sacrificare definitivamente una cosa all'altra e l'essere, se non buon cittadino, uomo grato era pure da apprezzare. Ma anche pei mutamenti improvvisi e radicali occorrono caratteri; i deboli cercano sempre di conciliare il passato col presente e d'essere quelli che sono, pur non lasciando di essere quelli che erano.
Fu religioso il Belli? Se si pone mente al primo e all'ultimo periodo della sua vita, conviene rispondere di sì; se si pone mente al periodo medio, a quello del Belli geniale, conviene rispondere di no. Il vero è ch'egli in religione come in politica non fu saldo e non ebbe pensieri chiari e certi, come non ebbe sentimenti accesi. Finchè durò intorno a lui l'ambiente favorevole e rimase l'effetto dell'educazione familiare, fu religioso; quando prevalse lo spirito dei tempi nuovi e la letteratura volterriana e l'arte sua fu vivace e peccaminosa, la fede scomparve; quando tornò l'onda reazionaria, e il suo timido carattere ebbe sentito orrore degli eccessi [98] rivoluzionari e la vecchiezza discese, come un tramonto lunare, a velar passioni e fantasie e a destare pensieri e melanconie della futura notte dell'altra vita, il Belli credette di nuovo.
Ma se l'animo del poeta era debole, l'intelletto era vigoroso. Noi che conosciamo ora il suo cuore, sappiamo ch'egli non poteva levarsi alle altezze sublimi del sentimento vivificatore, che non poteva con impeto d'ala accendere gli animi. Ma al suo sguardo sagace nessun aspetto di cosa o movimento d'anima sfuggiva: la sua mente raccoglieva e giudicava, raffrontando e rievocando. Egli sapeva sempre cogliere il particolare caratteristico, la nota significativa; assuefatto a raggruppare e a scegliere, aveva acquistato una rara maestria selettiva così pel fatto, come per l'immagine e per la frase. Minuto e paziente, riusciva maravigliosamente nel lavoro della perfetta composizione e della assidua lima.
Arguto e caustico, trovava sempre il pensiero frizzante; dotato di fine gusto, sapeva sempre dar rilievo di forma al pensiero.
La riflessione, il buon senso, il retto giudizio, se talvolta vietavano gli alti voli, davano un sapore di sagacia e di verità alle sentenze. Della verità e della semplice schiettezza la sua mente chiara e sana era [99] innamorata; e quando essa poteva liberamente esprimersi, senza passare a traverso la trasformazione di pensieri convenzionali e di forme retoriche, manifestava puramente il vero.
Nell'opera sua, dunque, non conviene cercare lampi geniali d'altezze sintetiche, non lusso smagliante di fantasia, non impeti gagliardi di sentimenti; ma potenti rivelazioni di anime, verità ed evidenza insuperabili di rappresentazione, vivacità, arguzia, satira, buon senso, sano giudizio: rilievo e perfezione di forma, fusione d'armonia nel componimento e varietà infinita di particolari.
Per coteste qualità d'animo e di mente scrisse sonetti ne' quali all'impeto prevale l'euritmia, al grande quadro è sostituito il particolare vivace, e l'arguzia finale ha singolare importanza. Per coteste qualità egli non parla mai, ed evita così di esprimere il sentimento suo, ma fa muovere e parlare gli altri, nei quali talvolta si rimpiatta; e la sua timidità gli permette di esprimere così più liberamente il pensiero.
Esaminando fra poco il metodo di cui egli si servì e l'opera sua — intendo sempre parlare dell'opera dialettale, chè della italiana non importa discorrere — vedremo come l'uno e l'altra fossero necessaria conseguenza dell'uomo e del tempo, e [100] come all'uomo e al tempo si attagliassero; e però la poesia del Belli è grande arte.
Ma il Belli, per esprimermi in sintesi, fu più artista che poeta, ed ebbe grande potenza di assimilazione.
Conosciuti così la vita romana del tempo e l'animo e la mente del Belli, cioè la fonte della ispirazione e il generatore dell'opera, sarà agevole intenderla cotesta opera, sia pel proposito che per l'esecuzione.
Del resto, il nostro poeta, nella lettera allo Spada amico suo, da più scrittori riprodotta, ebbe cura di esprimere così chiaramente e compiutamente il proprio pensiero, da risparmiarci il lavoro della interpretazione.
«Vengo carico (così egli scriveva), di nuovi versi da plebe. Ne ho sino ad oggi in centocinquantatrè sonetti, sessantasei de' quali scritti dopo la metà di settembre. A guardarli tutti insieme, e unendovi col pensiere quel di più che potrà uscire dai materiali già raccolti, mi pare di vedere che questa serie di poesie vada a prendere un aspetto [101] di qualche cosa, da poter forse davvero restare per un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i costumi, le usanze, le pratiche, la credenza, le superstizioni, i pregiudizi, le notizie, e tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene, a mio giudizio, una impronta che la distingue d'assai da qualunque altro carattere di popolo. Nè Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di gran cosa, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Di più, mi sembra non iscompagnarsi da novità la mia idea. Un disegno così colorito non troverà lavoro da confronto che lo precedesse.... Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso; insomma, cavare una regola dal caso e una grammatica dall'uso; ecco il mio scopo. Il numero poetico deve uscire come per accidente dal casuale accozzamento di correnti e libere parole e frasi, non iscomposte giammai, nè corrette, nè modellate, nè accomodate con modo diverso da quello che ci può mandare il testimonio delle orecchie. Che se con simigliante corredo di colori nativi [102] giungerò a dipingere tutta la morale e civile vita e la religione del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere, non disprezzabile da chi guarda senza la lente del pregiudizio. Non casta, non religiosa talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparrà la materia e la forma; ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e più lasciata senza miglioramento.»
Il disegno, come si vede, era vasto e geniale: ed egli doveva (le qualità dell'animo e dell'ingegno le abbiamo conosciute) colorirlo con perfezione di particolari, sia per la diligenza del raccogliere, sia per l'acutezza dell'osservare, sia pel fine gusto dello scegliere, sia per l'assidua cura della schiettezza, della semplicità e del rilievo di forma.
Il suo metodo è noto, perchè l'ha espresso egli stesso e ne son rimaste le prove: ed è il metodo più pedantescamente verista che si conosca, da disgradarne lo stesso Zola.
Il Belli frequentava le piazze, le strade, le osterie, tutti i luoghi nei quali conveniva la plebe di Roma: e colà guardava, udiva osservava e rammentava. La vista di un tipo, l'audizione di un dialogo o di un racconto, quando egli col suo fine gusto artistico [103] comprendeva che se ne potesse trarre un quadro vivo per carattere e colore, gli offrivano il motivo del sonetto; ed egli lo notava in fogliolini di carta. E v'aggiungeva l'immagine saliente o la frase arguta finale ed anche qualche espressione più significativa per caratteristica naturalezza; immagini, frasi, espressioni udite tutte dalla bocca della plebe. Così in ciascuno di quei fogliolini che egli custodiva con cura stava il germe e lo scheletro d'un sonetto. La polpa ce la metteva egli e senza stento, poi che il pensare, il sentire e il parlare del popolo gli erano passati, dopo tanta consuetudine, in succo ed in sangue.
Tutti i sonetti uscirono da cotesta medesima origine? No certo; come assai note rimasero nei fogliolini senza trasformarsi in sonetti, così è da credere che molti sonetti siano nati dalla fantasia del poeta, senza il soccorso delle note. Ma la sua memoria, per quel continuo esercizio di ascoltare, scegliere e raccogliere, era così piena di vita e di discorsi popolari, e la sua fantasia per quell'assiduo comporre sonetti romaneschi era così atteggiata a quel genere di creazione, che anche i sonetti scritti d'ispirazione e senza fogliolini non erano che l'effetto, più o meno avvertito, di immagini fotografate nel cervello e di materia raccolta e, [104] dopo una trasformazione chimica intellettuale, assimilate.
La prova più convincente che l'io del poeta aveva nella creazione di quell'opera una parte modesta è offerta dalla grigia mediocrità di tutti i versi italiani scritti da lui. Tanta differenza tra il poeta romanesco e il poeta italiano sarebbe incomprensibile, se egli fosse l'unico autore di tutti i suoi versi. Il vero è che la principale autrice del grande poema belliano fu la plebe di Roma, la cui arguzia e il cui umore satirico son celebri nella storia.
Merito singolare del Belli fu d'aver saputo cogliere fra le migliaia di fatti, d'immagini, d'espressioni che gli passavano dinanzi, i tratti essenziali del carattere, con finissimo gusto di scelta, e di averli saputi riprodurre con una verità e con un colorito dei particolari e con una fedeltà ed una schiettezza di rappresentazione, da metterci innanzi il quadro vivente, illuminato dalla genialità dell'arte. E però egli è grande e fra i poeti italiani del secolo occupa un luogo eminente; ma creatore non è.
Si è discorso dell'effetto che deve aver prodotto in lui la lettura del Porta; ed alcuno affermò che il Porta generò il Belli. Io non credo: corre troppo [105] grande differenza tra i due poeti. Che se da vero la lettura del Porta avesse eccitato la produzione dei sonetti del Belli, questi non avrebbero cominciato a piovere nel 1829, quando il Porta era stato letto da lui nel 1827; ma nello stesso anno 1827 o nel 1828. Credo perciò che il Porta possa aver acceso nel Belli il desiderio di scrivere in dialetto; ma non più di questo. Ripeto ancora; il poema belliano è dovuto in gran parte alla plebe di Roma.
Ed ora possiamo esaminarlo cotesto poema nella sua maravigliosa varietà; ed apprezzarne i principali motivi e le forme principali[4]. Ammirandolo, troveremo la prova di quanto abbiamo affermato e intorno alla vita romana e intorno al poeta.
Abbiamo già detto che quell'ambiente, visto da quella mente, attraverso i giudizi del popolo di Roma, doveva generare poesia specialmente satirica. E la satira difatti tinge del suo colore la [106] massima parte della produzione belliana: così che il Belli è universalmente noto come poeta satirico.
La satira, per la vita romana del tempo, doveva esercitarsi e si esercitò massime sulla religione, sul governo e sul clero; e doveva essere, come fu, acre e minacciosa. Ma si esercitò anche sui costumi e sui vizî del popolo, sebbene più blanda, allora, e quasi venata di un humour bonario.
Della religione il Belli scrisse come chi non ha la radiosa visione di Dio, non il dolce conforto della fede, per essere stati spenti l'una e l'altro dalla volgarità della simonia, dalla irrazionalità dei dogmi, dagli eccessi del culto. La sinistra luce che dal prete egli proietta anche sulle più pure concezioni, come Cristo e Maria, spiace, perchè spiace ogni eccesso; ma la fine arguzia, la logica stringente, la frase scultoria abbattono con tale violenza idoli, costruzioni teologiche e precetti preteschi, che, dopo la lettura del Belli, pare che su quel mondo abbia roteato la clava di Ercole.
Un povero popolano invoca per la moglie malata il miracolo di Santa Filomena e offre candele al prete: (III. 339).
Lui se l'acchiappa e ddoppo: «Fijjol mio
Me disce, vostra mojje a cche sse trova?
Dico: llì llì ppè ddà ll'anima a Dio.»
[107]
E llui: «Dec...i ch'io la fo sta prova?
Rieccheve li moccoli, perch'io
Nun vojjo scredità una santa nova.»
Ecco come si ragiona per difendere gli ebrei dall'accusa d'aver crocifisso Gesù: Gesù discese in terra
Cco' l'idea de quer zanto venardì.
Dunque, seguita a ddì Bbaruccabbà,
Subbito che llui venne pe' mmorì,
Cquarchiduno l'aveva da ammazzà. (IV. 162).
E perchè San Gregorio Magno era consigliato dallo Spirito Santo, che nei dipinti figura dipinto all'orecchio suo?
Va spargenno pe Rroma un framasone
Ch'er papa san Grigorio tammaturco
Era un furbo e un maestro de finzione.
E pprotenne quell'anima de turco
Che in ne l'orecchia, pe'cchiamà er piccione,
Ce se metteva un vago de granturco. (IV. 223).
Perchè il Vicario di Cristo mantiene i soldati, mentre il figliuolo di Dio non li ebbe?
«Fijjo, disce, voi sete un iggnorante,
E nun zapete come li peccati
Hanno fatto la cchiesa militante.
Pe' cquesto er Papa ha li surdati sui,
E ssi Ccristo teneva li sordati,
Sarebbe stato mejjo anche pe' llui.» (V. 291).
[108]
Ma del resto, fiacchi soldati i papalini. Un plebeo che racconta i suoi mali e le sanguigne sofferte, esclama: (II. 325).
Venti libbre de sangue! eh? cche ccanajje!
L'esercito der Papa nun ce tiggne
La terra, manco in trentasei bbattajje.
La carrozza che portava il miracoloso Bambino Gesù dell'Ara Coeli ribalta: (V. 132).
La cosa in zè mmedema nun è ggnente,
Ma a sti tempi che ppoco sce se crede
Va' cche impressione possi fà a la ggente!
Ggesù Bbambino, inzomma, fa sto sprego
De miracoli, e llui non ze tiè in piede!
Prima càrita ssincipi tabbègo.
Cotesto proverbio latino mal concio, invocato a sostegno della tesi, è un'uscita geniale. Ne potrebbe essere più comica l'antitesi in Santa Rosa: (II. 366).
Santa Rosa era sciuca e annava a scola;
E ffascenno la cacca a la ssediola,
Tirava ggiù mmiracoli a ccarrette.
E, prima di riferire qualche saggio di satira politica, importa riprodurre per intiero Er fugone de la sagra famijja, in cui la forza satirica, velata [109] dalla forma burlesca, raggiunge il vertice dell'arte: (II. 19).
Ner ventisette de dicemmre a lletto,
San Giuseppe er padriarca chiotto chiotto
Se ne stava a rronfà ccom'un porchetto
Provanno scerti nummeri dell'otto;
(sogliono i popolani sperimentare la bontà dei numeri pel lotto, ponendoli la notte sotto il guanciale).
Cuanno j'apparze in zogno un angeletto
Cór un lunario che ttieneva sotto;
E jje disse accusì: «Gguarda vecchietto,
Che festa viè qui ddrento a li ventotto.»
Se svejjò San Giuseppe com'un matto,
Prese un zomaro ggiovene in affitto,
E pe' la prescia manco fesce er patto.
E cquanno er giorno appresso uscì l'editto,
Lui co' la mojj'e 'r fio ggià cquatto quatto
Viaggiava pe' le poste pe' l'Eggitto.
Nella satira politica (e se ne intende agevolmente la ragione) il Belli è anche più violento ed amaro. Papi, cardinali, monsignori, curati, preti, frati, governatori, decani, favoriti, tutti son frustati; il mal costume, il disprezzo delle leggi, la disonestà delle amministrazioni, i lussi sfrenati, le acerbità del Fisco, le crudeltà delle persecuzioni politiche e la [110] tolleranza dei delitti, gli abusi d'ogni maniera sono immortalmente designati all'odio e al disprezzo degli uomini, in figure che paiono fuse nel bronzo.
Papa Gregorio era un beone.
Ho sentito mo ppropio de risbarzo
(Maah! mmosca veh! nun me ne fate utore)
Che Llui, Su' Santità, Nuostro Siggnore
Spesso se scola un quartarolo scarzo. (V. 118).
(Riflettete all'antitesi tra Nostro Signore e il quartarolo).
Papa Gregorio aveva fama d'uomo timido, e il Belli scrive cotesto capolavoro:
Er Viatico de l'antra notte. (V. 99).
Notte addietro, ar quartier de la Reale
De San Pietro, le scento sintinelle
Strillòrno all'arme! e a lo strillà de quelle
Er tammurro bbattè la ggenerale.
Pènzete er Papa! Bbutta l'urinale
E in camiscia, e ssi e nno ccò le sciafrelle
Va a li vetri; e cche vvede, Raffaelle?
Passà immezz'a ddu torce er Prencipale.
Cor naso mezzo drento e mezzo fora,
Chè ttanto inzin'a cqui llui sce s'arrischia.
Fa' allora: «Eh bbuggiarà! ppropio a cquest'ora!»
Povero frate! è ttanto scacarcione
Che ssi una rondinella passa e ffischia
La pijja pe' na palla de cannone.
[111]
Il Papa vuol avere la via sotterranea per Castel Sant'Angelo, perchè (V. 290).
Drent'a Ccastello ppo' ggiucà a bbon gioco
Er Zanto Padre, si jje fanno spalla
Uno pe' pparte er cantiggnere e er coco.
E ssotto la bbanniera bianca e ggialla,
Po ddà commidamente da quer' loco
Binedizzione e ccannonate a ppalla.
Ecco lo specchio del governo:
Cuanno er Zommo Pontefisce cià mmostro
Che cqualúnque malanno che sse dia
S'abbi d'arimedià co' un po' d'inchiostro.
Co' un po' d'incenzo e cquattro avemmaria:
Cquanno se vede che lo stato sbuzzica,
E che er ladro se succhia tutto er grasso,
E 'r Governo lo guarda e nun lo stuzzica;
Tu allora, che lo vedi de sto passo.
Di cch'er Governo è ssimil'a una ruzzica.
Che ccurre curre fin che ttrova er sasso.
E la parola fu profetica, perchè trovò il sasso e si fermò.
Ridicolo cotesto potere temporale del Capo della Religione, perchè (III. 146).
Che bbella cosa sarìa stata ar monno
De vede er Nazzareno a ffà la guerra
E a scrive editti fra vviggijja e ssonno!
[112]
E dde ppiù mannà ll'ommini in galerra,
E mmette er dazzio a le sarache e ar tonno
A Rripa-granne e a la Dogàn-de-terra.
Festeggiate la nascita d'un figliuolo? Male: non è da far festa.
Poveri scechi! E nun ve sète accorti
Ch'er libbro de bbattesimi in sto stato
Se poterìa chiamà Llibbro de morti? (III. 345).
Ecco come si vive a Roma:
Er ventre de vacca. (II. 347).
Na setta de garganti che rrameggia
E vvò tutto pe' fforza e ccò li stilli;
Un Papa maganzese che stancheggia,
Promettennosce tordi e cce dà ggrilli;
N'armata de Todeschi che ttraccheggia,
Ecce vò un occhio a ccarzalli e vvestilli:
Un diluvio de frati che scorreggia,
E intontisce er Zignore cò li strilli:
Preti cocciuti ppiù dde tartaruche;
Edittoni da facce un focaraccio.
Spropositi ppiù ggrossi che ffiluche:
Li cuadrini serrati a ccatenaccio;
Furti, castell'in aria e ffanfaluche:
Eccheve a Rroma una commedia a bbraccio.
Un ultimo quadro (mi si perdoni se citando il Belli io debbo sovente riferire immagini e parole sconvenienti [113] e rozze; le ho, per quanto era possibile, evitate, ma non del tutto, che son troppo familiari a lui e alla plebe di Roma e troppo caratteristiche) un ultimo quadro di genere e passeremo ad altri argomenti.
Er logotenente.
Come intese a cciarlà der cavalletto,
Presto io curze dar sor logotenente:
«Mi' marito.... Eccellenza, è un poveretto....
Pe' ccarità.... cchè nun ha fatto ggnente.»
Disce: «Mettet'a ssede.» Io me sce metto.
Lui cor un zenno manna via la gente:
Po' me s'accosta: «Dimme un pò ggrugnetto:
Tu' marito lo voi reo o innoscente?»
«Innoscente, dich'io;» e llui: «Sciò ggusto:»
E ddetto-fatto cuer faccia d'abbreo
Me schiaffa la man dritta drent'ar busto.
Io sbarzo in piede e strillo: «Eh, sor cazzeo...!»
E llui: «Fijjola, cuer ch'è ggiusto è ggiusto:
Annate via: vostro marito è rreo.»
Dei sonetti nei quali il Belli ha dipinto con colori satirici la vita dei chiostri, ne riferirò uno, notevole anche perchè inedito. Ne possiede il manoscritto l'egregio professor Pio Spezi, studioso del nostro poeta e autore di pregevoli scritti sull'opera sua. Eccolo:
[114]
Er capitolo.
Li frati ereno trenta; e ffra costoro
Venuto er giorno de creà er guardiano,
Prima pranzorno, eppoi, doppo lo spano,
Calorno in fi'a tutt'e ttrenta in coro.
Ellì, a uno a uno, ognun de lóro
(Comincianno, s'intenne, dar più anziano)
Co una cartina siggillata in mano,
Annò a fficcalla in un bussolo d'oro.
Fatto questo se venne a la lettura:
Frà Mmatteo, frà Ttaddeo, frà Bbenedetto,
Frà Elia, frà Bbeda, frà Bbonaventura....
Inzomma un doppo l'antro un terremoto
De nomacci, e' r guardiano nun fu eletto
Perchè tutti li frati ebbeno un voto.
7 marzo 1836.
Abbiamo detto che la satira del Belli non si arrestò alla Chiesa, ma, sebbene non senza bonarietà, si esercitò anche sui costumi della borghesia e della plebe.
La rozzezza e l'ignoranza, l'apatia e l'accidia, la prodigalità dissennata, il pettegolezzo e la maldicenza, la dissolutezza del costume, l'indulgenza verso il reato, l'inganno nel commercio sono effigiati in vive ligure.
Una popolana dà pegni al Monte di Pietà:
Pe' annà a Ttestaccio a divertisse un po' (IV. 290).
[115]
e una famiglia va a chiedere l'elemosina per poter bagordare il Martedì Grasso:
Pe mme vvojjo annà a lletto a ppanza piena;
E prima me daria la testa ar muro,
Che cchiude un carnovale senza scèna. (III. 28).
Uno dei più bei gusti è quello di deturpar le mura:
Tutta la nostra gran zoddisfazzione
De noàntri quann'èrimo regazzi
Era a le case nove e a li palazzi
De sporcajje li muri còr carbone
. . . . . . . . . . . . . . .
Quelle so bbell'età, per Dio de leggno!
Sibbè ch'adesso puro me la godo,
E ssi cc'è mmuro bbianco io je lo sfreggno. (III. 399).
E come s'educano i figliuoli?
Tiè, ccane; tiè, ccaroggna; tiè, assassino;
Tiè, pijja su, animaccia d'impiccato.
No, ffio d'un porco, nun te lasso, insino
Che ccò ste mane mie nun t'ho stroppiato. (V. 87).
Queste sono le grazziette de mamma: (V. 63).
Quanno che schiatti, vojjo fà un pasticcio
De maccaroni, e un triduo a ssant'Anna.
Per avèmme levata da st'impiccio.
[116]
Questa è l'aricompenza, eh? de le pene
De' na povera madre che s'affanna,
Vassalla infame, p'educatte bbene?
L'ignoranza presuntuosa è comicissima nel servo che deride il padrone perchè studia astronomia e pesa l'aria senza stadera. (V. 17).
Eh ssi ll'aria pesassi, addio scibbaria!
Pe' una la libbra de carne o mmaccaroni
Se pagherebbe dodiscionce d'aria.
La pigrizia si manifesta nell'adorazione del letto:
Oh bbenedetto chi ha inventato er letto! (III. 17).
e nessuna pittura potrà rendere l'immagine della fiacca e oziosa vita delle case romane di quel tempo meglio del sonetto sulla elezione di Papa Gregorio:
Quanno sparò er cannone, Bbëatrisce
Dava la pappa ar fijjo piccinino;
Mi' marito pippava, e Ggiuvacchino
Se spassava a mmaggnà ppane e rradisce.
Peppandrea s'allustrava la vernisce
De la tracolla, e io stavo ar cammino
A accenne cor zoffietto uno scardino
De carbonella dorce e de scenisce. (IV. 190)
Ecco il confiteor del romano: (IV. 35).
Tutta la mi' passione Sarvatore
Sarebbe quella de nun fà mmai ggnente;
[117]
E quanno che sto in ozzio, propiamente
Me pare, bbene mio! d'èsse un Ziggnore.
L'intrepidezza della guardia civica è scolpita in un sonetto celebre: (V. 97).
Stamo immezz'a 'na macchia, Caterina.
M'hanno assalito. Paura io? Di che?
Ma, ccosa vói?, nun me potei difenne.
E archibbuscio, e ssciabbola, e bbainetta!
Co' sta battajjeria d'impicci addosso,
Come avevo da fà, ssì bbenedetta?
Il romano s'accende soltanto se gli toccate il vino, e come grida contro l'editto delle osterie! (II. 200).
Noi mannesce a scannatte er giacubbino,
Spennesce ar prezzo che tte va ppiù a ccore,
Ma gguai, pe' ccristo, a echi cce tocca er vino.
Del mal costume delle signore e delle popolane offrono esempio, tra gli altri, i sonetti 199 V, 78 V; ed ecco un bel saggio della compassione de la commare. (V. 197).
Chi? echi è mmorto? er zor Checco? Oh cche mme dichi!
Me fai rimane un pizzico de sale.
E de che mmal'è morto, eh?, dde che mmale?
Ma ggià, de che! de li malacci antichi.
[118]
Ggesusmaria! Chi vvo' ssentì Ppasquale
Quanno lo sa, cch'ereno tanti amichi!
Ma ggià, er zor Checco, Iddio lo bbenedichi,
L'aveva, veh, una scera de spedale.
E cch'ha llassato? me figuro, stracci.
E la mojje che ddisce, poverella?
So ffiniti, eh?, li ssciali e li Testacei.
Vedova accusì ppresto! Ma ggià cquella!
Nun passa un mese che, bbon prò jje facci,
Va eco un antro cornuto in carrettella.
Non è possibile condensare meglio di così in quattordici versi tanta arguzia di psicologia, tanto tesoro di osservazione, così viva freschezza di forma. È la personificazione del pettegolezzo amaro e della finta pietà femminile. Li conti co' la cuscienza (IV. 38) mostrano quanto sia debole la morale del popolo; se si potesse far il male senza andare in prigione, si farebbe. Perciò sono un errore le grazie che fa il Papa nuovo.
Da un par de mesi in qua sto sor Giuanni.
Me dà gguai e mme scoccia li .........
Dunque bbisognerà che lo bbastoni;
E cquasi quasi è mmejjo che lo scanni.
A nnoi. Quant'anni hà er Papa? Ha ssettant'anni.
Va bbene: è vvecchio. Settant'anni bboni
So' un passaporto pell'antri carzoni.
Tanto ppiù ssi ssò uniti anni e mmalanni.
[119]
Tempo, amico. Per ora te sopporto:
Ma ssi er Papa da ggiù, ddove te trovo
Te lasso freddo. Er conto è ccorto corto.
Meno, scappo, sò ppreso, er Papa more,
Viè er concrave, se crea er Papa novo,
Fa le ggrazzie, e mme n'esco con onore.
Anche i pregiudizi offrono tema a sonetti (II. 111, II. 151, ecc.) e talvolta pregiudizi e ignoranza fusi insieme finiscono in una punta di satira psicologica, come, per esempio, nel sonetto La pietra de carne (IV. 305).
Ma se la satira costituisce la nota caratteristica del Belli, non è la sola della sua Musa.
La fierezza popolare e il senso d'onore hanno voci gagliarde, come nel III. 409; non manca il grido del povero operaio che confronta amaramente il suo lavoro e la sua miseria coll'ozio e gli agi dei grandi, precorrendo i socialisti di oggi (IV. 54); non manca l'esortazione morale in uno dei più efficaci sonetti: (III. 95).
Lassa ste vanità: llassele spòsa.
Ar monno, bbella mia, tutto finissce.
Come sèmo arrivati ar profiscissce,
Addio vezzi, addio fibbie, addio 'ggni cosa.
Quanto te credi de fà la vanosa
Co' ste pietrucce luccichente e llisce?
[120]
Diescianni, venti, trenta; eppoi? sparissce
La ggioventù, e cche ffai, povera Rosa?
Er tempo, fijja, è ppeggio d'una lima.
Rosica sordo sordo e tt'assottijja,
Che ggnisun giorno sei quella de prima.
Dunque nun rovinà la tu' famijja:
Nun mette a rrepentajjo la tu' stima,
Lassa ste vanità; llassele fijja.
L'amore, nell'alto senso della parola, sentimento così vivo e poetico, non trova in tanta mole di sonetti la sua rappresentazione. Molta volgarità di rapporti sessuali, ma nessuna squisitezza di sentimento. Perchè? Non sapeva amare la plebe di Roma? O era sordo il cuore del poeta? Non credo che la rudezza romanesca fosse fatta pei sensi gentili dell'amor vero: ma dei giovani e delle ragazze che sapessero amare dovevano pure trovarsene.
Non credo che il Belli fosse un uomo passionale (basta ricordare come volesse bene al marito della sua adorata marchesina e come sposasse una donna di dieci anni più vecchia di lui, perchè ricca); ma il momento sentimentale non gli sarà mancato. Comunque, il fatto è certo; nè può affermarsi che sia colpa del dialetto; perchè nel dialetto stesso Giggi Zanazzo ha scritto poesie squisite per gentilezza di sentire. [121] Gli affetti della famiglia, invece, e l'elegia hanno echi mirabili (IV. 310, 311, 375, 409); e valga per tutti: (IV. 120).
La morte de Tuta.
Povera fijja mia! Una regazza
Che vvenneva salute! Una colonna!
Viè una frebbe, arincarza la siconna,
Aripète la terza e mme l'ammazza.
Io l'avevo invotita a la Madonna,
Ma inutile, lei puro me strapazza.
Ah cche ppiaga, commare! che ggran razza
De spasimi! Io pe' mme nun zo' ppiù donna
Scordammene?! Eh ssorella, tu mme tocchi
Troppo sur farzo. Io so cch'a mme mme pare
De vedemmela sempre avanti all'occhi.
Fijja mia bbona bbona! angelo mio!
Tuta mia bbella! viscere mie care,
Che tt'ho avuto da dà ll'urtimo addio!
Quale contrasto tra la finta compassione della comare e cotesto grido straziante d'un'anima ferita! Tanta altezza lirica di passione non è frequente nel Belli, come, sebbene pieni di grazia, non sono frequenti i sonetti di tenerezza materna verso i bimbi; ma La morte di Tuta ha pure qualche compagno. Maravigliosi per sincerità ed efficacia rappresentativa i tre sonetti La povera madre. [122] (II. 175) in cui sono descritti il dolore e le sventure della moglie di un perseguitato politico:
Eccolo llì cquer fijjo poverello
Che ll'antro mese te pareva un fiore!
Guardelo all'occhi, a la carne, ar colore
Si ttu nun giuri che nuun è ppiù cquello!
Sin da la notte de cuer gran rumore,
Da che er padre je messeno in Castello,
Nun m'ha parlato ppiù, ffijjo mio bbello;
Me sta «sempre accusì: mmore e nnun mmore.
Non meno efficaci La vedova dell'ammazzato (V. 169) e La nottata de spavento (V. 109).
Udite quale tesoro d'amore ne La famijja poverella: (IV. 329).
Quiete, cratùre mie, stateve quiete:
Si ffijji, zitti, che mmommò'vviè ttata.
Oh Vvergine der Pianto Addolorata,
Provedeteme voi che lo potete.
No, vviscere mie care, nun piaggnete:
Nun me fate mori ccusì accorata.
Lui quarche ccosa l'averà abbuscata,
E pijjeremo er pane e magnerete.
Si ccapissivo er bene che ve vojjo!
Che ddichi Pèppe? nun voi sta a lo scuro?
Fijjo, com'ho da fa ssi nun c'è ojjo?
E ttu Lalla, che hai? Povera Lalla,
Hai freddo? Ebbe nnun mèttete lli ar muro
Viè in braccio a mmamma tua che tt'ariscalla.
[123]
Nè l'arguta musa rifugge dall'orrore tragico. Rari sono gli esempi, ma potenti; e il Pascarella, che nelle prime prove offrì notevoli sonetti di cotesta ispirazione, e il Sindici che alcuno ne ha scritto non dispregevole, trovarono la prima fonte nel Belli. Sentite la forza della selvaggia semplicità, de Li malincontri: (V. 328).
M'aricordo quann'ero piccinino
Che ttata me portava fòr de porta
A rriccòjje er grespigno e cquarche vvorta
A rrinfrescacce co' un bicchier de vino.
Bbe, un giorno pe' la strada de la Storta
Dov'è cquello sfasciume d'un casino
Ce trovassimo stesa lli viscino
Tra un orticheto una regazza morta.
Tata, ar vedella llì a ppanza per aria
Piena de sangue e cco' no squarcio in gola,
Fesce un strillo e pijjò ll'erba fumaria.
E io, sibbè ttant'anni so' ppassati,
Nun ho ppotuto ppiù ssentì pparola
De ggirà ppe' li loghi scampaggnati.
Chi conosce la tragica solitudine dell'agro romano è affascinato dalla potenza rappresentativa di cotesti quattordici versi.
Non sembra possibile che il fosco pittore dei malincontri sia il semplice e mite scrittore della poverella (II. 116). La poverella non pare un sonetto, [124] ma il nudo discorso d'una mendicante, tanto è naturale
Bbenefattore mio, che la Madonna,
L'accompagni e lo scampi d'ogni male,
Dia quarche ccosa a sta povera donna
Co' ttre ffijji e '1 marito a lo spedale.
Me la dà? me la dà? ddica eh? rrisponna:
Ste crature so' ignude tal e cquale
Ch'el Bambino la notte de Natale:
Dormimo sotto a un banco a la Ritonna.
Anime sante! se movessi un cane
A ppietà! ar meno ce se movi lei:
(Ecco l'umorista che fa capolino).
Me facci prenne un bocconcin de pane.
Signore mio, ma ppropro me la merito,
Sinnò, davero, nu' lo seccherei
Dio lo conzoli e jje ne reuni merito.
Perfino il sentimento della natura, che parrebbe estraneo all'animo di un poeta psicologico e satirico, ispirò al Belli un sonetto, che non morrà:
Er tempo bbono. (II. 415).
Una ggiornata come stammatina
Senti, è un gran pezzo che nnun z'è ppiù ddata.
Ah bbene mio! te senti arifiatata;
Te s'opre er core a nnu sta ppiù in cantina!
[125]
Tutta la vòrta der celo turchina;
L'aria odora che ppare imbarzimata:
Che ddilizzia! che bbella matinata!
Propio te disce: cammina, cammina.
N'avem'avute de ggiornate tetre,
Ma oggi se po' ddì una primavera.
Varda che ssole, va': spacca le pietre.
Ammalappena eh'ho ccacciato er viso
Da la finestra, ho ffatto stammatina:
Hàh! cche ttempo! è un cristallo: è un paradiso.
Sebbene molti saggi e forse troppi io abbia riferito per rendere l'immagine vera dell'arte belliana, di cui un solo aspetto è popolarmente noto, molti e molti altri dovrei citarne. Ma mi accontenterò di un ultimo, che è quasi la sintesi di quell'arte, per l'acutezza dell'osservazione psicologica, la vena tra umoristica e sarcastica, la filosofica rassegnazione e la consueta sincerità ed efficacia di forma. Si tratta dell'Amore delle donne; le colte e gentili uditrici non se l'abbiano a male, pensando che il Belli era un pessimista, e molto gli deve essere perdonato: (IV. 387).
L'amore d'una donna io te lo do
A uso de quadrini e ssantità;
Credilo sempre metà ppè mmetà:
Pijjelo, e ttira via come se po'.
[126]
Er bene che llei disce che tte vo',
E ttutte le scimmiate che tte fa,
Quarche vvorta ponn'esse verità,
E cquarche vvorta e un po' ppiù spesso, no.
Indòve l'occhio tuo nun po' vvedè
Ssi cce n'è un po' de meno o un po' de ppiù,
Quint'azzecca, Matteo, quanto sce n'è.
Co' le donne hai da fa ccome fai tu
Quanno bbevi favetta pe' ccaffè:
Striggni le labbra e bbon zuàr Monzù.
Per concludere, i sonetti del Belli costituiscono una enciclopedia romanesca; pensieri, sentimenti, costumi, frasi; satira religiosa e satira politica, satira di borghesi e satira di plebe: chiesa, governo, arti, mestieri, pregiudizi: ignoranza e rozzezza popolare, pettegolezzi di vicinato, dolcezze di famiglia e crudeltà di coltello, sentimento della natura, psicologia pratica, moralità e sfrenata licenza; tutto è osservato, raccolto, vivificato dall'arte. La storia e la cronaca sono inquadrate nei loro episodi e nei loro aneddoti; la rivoluzione e il colèra. Don Marino e il dragone ubbriaco, la morte del Pinelli e del Mucchielli, i trionfi della Bettini, della Cerrito e della Grisi; Leone XII, Gregorio XVI, Pio IX, è il Cardinal Tosti e il Cardinale Lambruschini, la scandalosa causa Cesarini, il Canova, i pranèzi degli [127] Arcadi, la pubblica colletta pel terremoto, l'abusivo passaggio della carrozza cardinalizia attraverso il cammino del Papa e gli sdegni di Gaetanino Moroni, la Madonna dell'Arco de' Cenci, l'editto dei doni vietati fra amanti, il Cardinal De Simone e la casa di piacere scoperta, tutto è rammentato e rappresentato.
Cotesta vita palpitante, nella sua varietà, dal pianto al riso, risorge innanzi alla fantasia con tal forza di carattere e classica semplicità di forma da parere opera di natura, anzichè d'arte. E però il Belli, che pur deve alla plebe romana la sua gloria, è passato ai futuri come uno dei maggiori poeti nostri del secolo: la vita romana dal 1830 al 1848, già così lontana da noi e morta per sempre, vive e vivrà, com'egli prediceva, nel monumento dell'arte, per opera sua.
[128]
Chi desiderasse conoscere la bibliografia intorno al Belli consulti il Bovet, Le peuple de Rome vers 1840: Neuchàtel, Attinger frères, 1898. — L'edizione più completa dei sonetti è quella del Lapi, curata dal Morandi, alla quale si riferiscono tutte le nostre citazioni (Città di Castello, 1886-1889, 6ª edizione).
Prima del Belli la letteratura romanesca era povera; degli stornelli e delle improvvisazioni popolari; un poema del Peresio, Il Maggio romanesco, uno del Bernieri, Meo Patacca e poi la Passatella del Ciampoli e dei sonetti del Giraud. Il più antico scrittore di sonetti romaneschi pare che fosse Benedetto Micheli (Jachello de la Lenzarà). Forse altre Opere esistono, ma ignorate. Nessuno di questi poeti merita di essere tratto dall'oblio.
Contemporaneamente al Belli vissero scrittori non dispregevoli, fra i quali lo Spada. Dopo lui debbono essere rammentati il Ferretti, autore della Dottrinella; Augusto Marini, che scrisse in romanesco impuro, ma con vena satirica; Giggi Zanazzo, il più geniale, il più vario e il più puramente romanesco di tutti; il Pascarella, arguto ed efficace; il Querini, il Giacquinto, il Salustri (Trilussa), ecc.
[129]
CONFERENZA
DI
VINCENZO MORELLO.
[131]
Signore e Signori.
Le conferenze di quest'anno abbracciano, voi sapete, il periodo storico che va dal 1846 al 49: breve periodo, che nella sua temperatura tropicale fa sbocciare insieme tutti i germi sparsi nella storia dell'idea nazionale. — Ma il mio tema m'impone di rifarmi un po' indietro nel tempo, e, poichè del teatro non si è parlato e non sarebbe stato possibile parlare nelle conferenze dell'altr'anno, di studiare tutta la produzione dalla prima metà del secolo.
Non breve cammino — come vedete — e forse non lieto. Non lieto. La comedia, in questi cinquant'anni, non ha freschezza e non ha eleganza, e il dramma ha forse troppe violenze e troppi furori. Non fiorisce la gioia nella società italiana, e non s'accende l'amore sulla scena. Manca la donna. [132] cioè il sorriso, la grazia, la bellezza, l'errore, il peccato; e manca la libertà, cioè la forza d'impulsione e d'espansione di tutti i pensieri e di tutti gli affetti umani. Se non vi è sole nell'aria, passano inavvertite le figure umane sulla lastra fotografica; e se non vi è amore e libertà nella vita sociale passano inavvertite le figure umane sulla scena. — Il dramma, almeno, si rifugiò nella storia, e col calore del sentimento patriottico diede alla morta gente ancora un palpito di vita, un gesto di gloria. Ma la comedia tentò invano di spingere il suo carro nelle vie e nelle piazze, e di agitare la sua maschera nelle fiere e nelle case. Le vie e le piazze erano deserte: le fiere e le case erano mute. Le feste dionisiache erano da un pezzo finite nelle terre d'Italia!
La comedia è un'espressione di vita; e dove questa manca, manca anche quella. Paragonate, di fronte alla miseria nostra, la ricchezza della Francia, nello stesso tempo, nella stessa forma d'arte.
Nessun paese credo possa vantare una più varia e abbondante produzione teatrale, che la Francia nella prima metà del secolo: comedia di carattere comedia di costume; dramma storico o dramma sentimentale. Una nuova società ivi sorgeva, e, sorgendo, amava, lottava, combatteva, gesticolava: un [133] vero semenzaio d'anime, un vero nido di spiriti nuovi che provano il canto e le penne nella primavera del secolo: un vero brulichìo di sostanze embrionali che si sforzavano di fissarsi e determinarsi in un nuovo ordine e in una nuova forma. L'antica società francese era spezzata, se non vinta; la tradizione ricominciava dall'89, se non dal 93: il plebeo, diventato generale sotto Napoleone, costretto a ridiventare rivoluzionario sotto i Borboni, per conquistare sotto Luigi Filippo il potere prima e la ricchezza dopo, e col potere e la ricchezza una fisionomia propria e un proprio atteggiamento, era un tipo maturo per il teatro. E voi vedete, o Signori, attraverso la formazione di questo tipo quanta vis comica e drammatica, e quanta materia d'osservazione e di discussione nella relativa formazione del costume e del gusto. — Ma in Italia! Mai società fu più stremata, mai vita fu più triste, più sconsolata, più tribolata. Dopo il periodo napoleonico, che, malgrado le leve forzate e le spoliazioni, aveva almeno influito, come disse il Foscolo, a ridestare un po' gl'ingegni, ed agguerrir le forze fisiche nella disciplina e nello studio; dopo quel periodo, dunque, la vita italiana fu a un tratto soppressa, per decreto internazionale — del quale fu affidata all'Austria [134] l'esecuzione. Chi pagò le spese della catastrofe napoleonica, in fondo, fu l'Italia. Il movimento di reazione del '15, che con troppa argutezza diplomatica fu detto di restaurazione, non ebbe altro campo di espansione che l'Italia. Da Odoacre in poi, non s'era vista nel nostro paese una più ardita invasione barbarica, di quella che mosse moralmente dal Congresso di Vienna. Tutto il popolo condannato quasi a domicilio coatto, messo sotto sorveglianza, spiato, punzecchiato, insidiato, oppresso. Che fare? Come i cristiani per sfuggire alle persecuzioni imperiali si chiusero nelle catacombe, gli italiani si chiusero nelle sètte. Ora voi sapete, Signori: la comedia ha bisogno, per esplicarsi, di lingua sciolta, di spiriti agili, di costumi aperti, di abitudini amabili; ha bisogno, per muoversi, di quella media temperatura cerebrale e sociale nella quale possa agevolmente fiorire la grazia, il sorriso, l'arguzia, la malizia, la critica: proprio gli elementi e la temperatura assolutamente contrari a quelli in cui si raccoglie e si concentra la vita delle sètte. Ora dite voi se in un paese, in cui i cittadini son costretti di adottare come mezzo di propaganda la cospirazione, in un paese in cui il silenzio è una legge e la reticenza una difesa, in cui lo spionaggio toglie la [135] libertà dei movimenti intellettuali, in un paese in cui la polizia dà l'orario della giornata e le formule del cerimoniale, e il prete la guida delle amicizie, il consiglio delle letture, e perfino il regolamento dei giuochi e delle feste, dite voi se sia possibile che la comedia si levi a guardare, in alto ed in basso, nel cuore o nel costume, nei vizi o nelle leggi, dei privati o del governo. In tali condizioni, la povera Talia non può, al più, che proteggere mestamente le innocue abilità dei tre Ludro, le vuote preziosità della Fiera, le modeste ingenuità dell'Ajo nell'imbarazzo. Non osservazione, non sentimento, non caratteri, non abilità tecnica, e neppure lingua italiana, in simili produzioni. Le idee dei personaggi non vanno al di là del palcoscenico; gli stessi personaggi, parassiti, cavalier serventi, mogli leggere, mariti compiacenti, non derivano nemmeno dall'esperienza dei loro autori, e si muovono in un mondo che nel 1830 non esiste più. E se gli autori, Alberto Nota, il conte Giraud, Augusto Bon, sono a loro volta ricordati, è solo con un intento negativo: per dimostrare, cioè, che Goldoni non ebbe figliuoli nè eredi nella storia dell'arte italiana.
Possiamo dunque passare senza fermarci accanto ai silenzi di questo chiuso mondo della comedia; — e [136] volgerci, invece, a interrogare i grandi fantasmi del teatro eroico, che i nostri poeti civili han richiamato dalle lontananze della storia, consiglieri e aiutatori nella riconquista del paradiso perduto di nostra gente: la coscienza nazionale.
***
Primo di questi fantasmi, sulla soglia del secol novo: Cajo Gracco.
Proprio sulla soglia del secolo, nel 1801, Cajo Gracco leva la sua voce possente di tribuno, e chiama quasi a plebiscito il popolo italiano, dalla scena:
Io per supremo
Degli dèi beneficio, in grembo nato
Di questa bella Italia, Italia tutta
Partecipe chiamai della romana
Cittadinanza, e di serva la feci
Libera e prima nazïon del mondo.
Voi, romani, voi sommi incliti figli
Di questa madre, nomerete or voi
L'italïana libertà delitto?
No — rispondono i cittadini.
No: itali siam tutti, un popol solo,
[137]
Una sola famiglia....
.... Italiani
Tutti, o fratelli.
Con questa affermazione, con questa votazione plebiscitaria, la poesia saluta la patria al principio del secolo.
Che cosa è dunque questo Cajo Gracco?
Il Monti aveva già dato al teatro Aristodemo e Galeotto Manfredi — due tragedie di mediocre invenzione e di mediocre struttura, senza caratteri, senza movimento, senza passione, malgrado la prima fosse sonante di liriche declamazioni, rimaste modelli del genere. Col Cajo Gracco egli diede alfine un'opera d'arte organica e forte, animandola di tutto il contenuto politico e morale ch'era più proprio ai suoi sentimenti, e, vorrei dire, più continuo e resistente nella troppo rapida varietà e variabilità dei suoi principî e delle sue opere.
Il Monti era un uomo debole. A ben considerarlo, par che non stia in piedi, che non abbia spina dorsale, e senta sempre bisogno di appoggiarsi a qualche cosa o a qualcuno; specie, se la cosa sia il governo e la persona un potente. Ma, a un tratto, per una strana esaltazione di tutte le sue facoltà morali, per un impetuoso risorgimento di tutte le sue forze poetiche, come se una divina primavera [138] fosse passata sulle cime della sua fantasia e della sua coscienza, egli riescì, a un dato momento della sua vita, a dare unità artistica agli elementi più puri e più belli che aveva sparso nelle varie sue opere, che per una ragione o per l'altra aveva dovuto rinnegare, o scusarne le origini e i motivi. E creò il Cajo Gracco. Il quale, secondo me, rappresenta una grande e solenne protesta: la più grande e solenne protesta che la letteratura del tempo abbia osato contro il giacobinismo, i cui fatti erano scritti a sangue non ancora disseccato nelle vie e nella storia di Francia; e insieme la più solenne e completa visione dell'eroe e dell'uomo politico dell'avvenire, che dovrà governare con la legge e per la legge, coi buoni e non coi tristi, in gloria dei più alti ideali e non delle più basse passioni dell'umanità. — Cajo Gracco era esule. Torna e Roma, quando, console Opimio, il Senato onnipossente opprimendo la libertà romana, crede sia suonata l'ora di risollevare il popolo e il diritto del popolo. — Con quali mezzi? — Fulvio, suo partigiano, consiglia: Con tutti. Ma egli risponde: Con uno solo: con la giustizia e con l'amore. — Fulvio non intende, e fa la sua via; e raccogliendo in una stessa azione i suoi sentimenti, l'odio e l'amore, dà il segno della sommossa, uccidendo [139] Emiliano, marito della sorella di Cajo, della quale è l'amante. Da questo delitto precipita la fortuna di Cajo e della casa dei Gracchi. — Il cattivo genio della tragedia è, come vedete, Fulvio: il giacobino. Nel primo atto, Cornelia lo investe e lo descrive: —
Di libertade
Che parli tu! e con chi? Non hai pudore,
Non hai virtude, e libero ti chiami?
Zelo di libertà, pretesto eterno
D'ogni delitto! Frangere le leggi
Impunemente, seminar per tutto
Il furor delle parti e con atroci
Mille calunnie tormentar qualunque
Non vi somigli....
Ecco l'egregia, la sublime e santa
Libertà dei tuoi pari, e non dei Gracchi.
Libertà di ladroni e d'assassini.
E ch'io non m'inganni nell'interpretazione di questo dramma, me lo dicono le altre opere del Monti. Confrontate, infatti, con quelli che ho citati, i versi seguenti del canto II della Mascheroniana, sui giacobini:
Dal calzato allo scalzo, le fortune
Migrar fûr viste, e libertà divenne
Merce di ladri e furia di tribune.
[140]
E questi altri del canto III:
Tutta allor mareggiò di cittadino
Sangue la Gallia: ed in quel sangue il dito
Tinse il ladro, il pezzente e l'assassino.
E questi altri del canto II della Bassvilliana:
E di sue libertà spietato e baldo
Tuffò le stolte insegne e le man ladre
Nel sangue del suo re fumante e caldo.
La stessa nota, con le stesse parole, quasi direi con lo stesso accento musicale. Quando rimproverato del delitto, Fulvio risponde a Cajo Gracco ch'egli non aveva fatto che eseguire il pensiero di lui, uniformandosi ai suoi precetti, tradurre in atto le sue parole, Cajo risponde indignato:
Fulmine colga,
Sperda quei tristi che per via di sangue
Recando libertà, recan catene.
Ed infame e crudel più che il servaggio
Fan la medesma libertà. Non dire
Empio, non dir che la sentenza è mia!...
Infatti, quella era la sentenza degli Hébert, dei Pétion, degli Isnard, dei deputati della Legislativa e della Convenzione, che dichiaravano utili e necessari i massacri del settembre, legittimi e [141] doverosi gli assassinî quando l'autorità delle leggi può sembrare al popolo qualche volta troppo lenta per garantirne la sicurezza, e legali e naturali le condanne senza prove, perchè basta il sospetto per la distruzione dei cospiratori. — Contro tali sentenze, contro tutta la dottrina contenuta in tali sentenze, il Monti oppone dottrina più nobile e più civile:
E che dunque? Altra non havvi
Via di certa salute e di vendetta
Che la via dei misfatti? Ah! per gli Dei,
Ad Opimio lasciate ed al Senato
Il mestier dei carnefici. Romani,
Leggi e non sangue!
Leggi — e non sangue: ecco la nuova formula e il nuovo comando politico. E contro il sangue, e l'opera già consumata o da consumare, si leva fieramente, protestando; e la protesta affida a un nome che è diventato titolo nobiliare di democrazia; e per quella protesta e quel nome disegna una figura ideale, le cui linee e i contorni e i caratteri il mondo vedrà riprodotti, quarant'anni dopo, in una figura reale, una figura tutta nostra, tutta italiana, nei cui occhi azzurri par che si rifletta la soavità di Gesù e nel cuore eroico palpiti il sentimento di Roma antica. Quando Cajo Gracco ode [142] la voce di un popolano, che, durante la sua arringa, minaccia: Morte ai patrizi — risponde subito: Morte a nessuno! — E così rispose Giuseppe Garibaldi dal balcone della Prefettura al popolo di Napoli che gridava furibondo morte a tanta gente! — Morte a nessuno! — Era, dal Cajo Gracco del poeta, al Garibaldi della storia, la vibrazione della pura coscienza italiana, nata nel diritto, aspirante alla pace e alla libertà, per la via della concordia e della giustizia!
***
Se Cajo Gracco è il primo personaggio del nuovo teatro; Ugo Foscolo è la prima persona, l'uomo nuovo della nuova vita italiana del secolo. Monti era ancora il letterato delle Corti: l'ultimo e il più straziato prodotto del mecenatismo di governo. Il mecenatismo aveva spostata la sua base: dal palazzo nella piazza, ed era diventata opinione pubblica, più meno ristretta e più o meno illuminata, ma arbitra ormai del destino degli uomini e della letteratura. Ugo Foscolo fu il primo uomo della pubblica opinione, che, volta a volta, cercò, secondo che i tempi richiedevano e il suo spirito [143] urgeva, di distruggere e di creare, di trasformare o soggiogare. In Monti il letterato scusava l'uomo. In Foscolo, l'uomo dominava il letterato. Strana e complessa natura insieme di uomo e di letterato! Egli par nato dalla violenta fantasia di Byron e dal ribelle sentimento di Alfieri: ha di Byron le tristezze improvvise e le improvvise esaltazioni, l'orgoglio indomabile e il disprezzo invincibile del prossimo; ha di Alfieri gli sdegni e la collera, gli ardori e la fierezza, e soprattutto l'intransigenza assoluta di contro agli stranieri di fuori e di dentro, in fatto di programma nazionale. Figlio di un secolo, che portava in sè tanti germi di malattie sentimentali e di idealità politiche, egli ebbe al più alto grado la febbre di quelle malattie, il furore di quelle idealità. Temperamento profondamente romantico, in una forma di elezione e di eredità classica, egli riprodusse in sè tutti i contrasti, tutte le contraddizioni dell'epoca in cui visse, e della quale fu il rappresentante più angosciato e la vittima più turbolenta. Mai si può dire di un letterato, con maggior verità che di lui: «che fu un milite.» Foscolo fu un milite, nel vero ed alto senso della parola. Dopo la vendita di Venezia all'Austria, odiò Napoleone, malgrado il suo sentimento e il concetto greco della gloria e dell'eroismo [144] lo spingessero ad amarlo. — Il sacrificio dalla patria è compiuto — così comincia la prima lettera di Jacopo Ortis. I miei concittadini son vili — così finisce una delle sue ultime lettere dall'Inghilterra. Aveva sperato in Napoleone; e questi vendeva la sua patria. Aveva sperato nei suoi concittadini, e questi si mostrarono ossequenti al dominatore. Che fare? «Io mi vergogno — scrive in quella stessa lettera — di accrescere ormai il numero degli italiani che da Dante in qua non han saputo altro fare che gridare, gridare!» E negli ultimi tempi di sua vita finì col chiamarsi «l'amico e il discepolo di Don Chisciotte.» Era il fallimento! Egli l'aveva presa sul serio, la vita, proprio come una milizia, ed alfine si vedeva costretto a spezzare le armi stesse che gli erano fornite nel combattimento. Qual forma di attività non aveva tentato? Nell'esercito, nella scuola, nel teatro, nella politica; multiagitante e multisonante come dice Omero del mar della sua patria di origine. Quando a quando, come il soldato che fermandosi a mezza via scuote col calcio del fucile un cespuglio e un volo d'augelli sale cantando nell'aria, nei momenti di riposo egli scuoteva il suo cuore e venivan fuori l'Ode all'amica risanata e i Frammenti delle Grazie. Ma subito dopo ripigliava la via, rientrava nella [145] lotta, più accanito e più disperato di prima. — Da una tale situazione di spirito, da una situazione così tragica, così personalmente tragica, poteva uscire la lirica, non la tragedia propriamente detta. La tragedia era troppo connaturata nell'artista stesso, perchè potesse essere ricercata e ricreata al di fuori. La tragedia poteva servire, come la lirica, ad esprimere lo stato d'animo dell'artista, non mai dei personaggi che questi immaginava per la scena. Il teatro d'Alfieri non crea che un solo personaggio: Alfieri. Voi potete sopprimere o mutare il nome dell'autore di Amleto o di Otello, potete chiamarlo Shakespeare o Bacone: poco importa: Amleto e Otello resteranno sempre le grandi tragedie del pensiero e del sentimento umano: vivranno sempre di vita propria, come dopo la creazione vive il mondo negli spazi. Ma se voi togliete il nome dell'autore, le tragedie d'Alfieri non esistono più: perchè esse sono la parola, la coscienza, la voce, il gesto di un uomo che tenta di influire su altri uomini, non di un artista che tenti di creare fantasmi poetici. E così è delle tragedie di Foscolo, il discepolo di Alfieri. Esse non sono tragedie, ma atteggiamenti tragici; non sono esplicazioni di lotta e di contrasti umani, ma accenni e indicazioni di sentimenti politici. Ajace è tutto [146] chiuso nel suo disdegno. Guelfo della Ricciarda è tutto chiuso nel suo disprezzo. Vi era Moreau in Ajace e Napoleone in Agamennone? Ricerca secondaria. Vi era certo il sentimento italiano umiliato di servire:
A che la gloria delle mie ferite
S'io, la mia patria e i miei guerrier, quand'arsa
Troja pur sia, servirem tutti a un solo? —
dice Ajace. E più, innanzi:
. . . . Agide e i suoi
Abbian tal prova omai che, se ognun trema,
In me la patria e la sua forza vive.
Finchè morendo, rivela tutto l'animo dell'autore espresso nelle lettere che ho sopra citato:
. . . . Ajace, fuggi
Ora più non vedrai nè traditori,
Nè tiranni, nè vili.
L'Ajace è del 1812. La Ricciarda del 1813. Furono tutte e due proibite dal governo imperiale. Qual è il motivo della Ricciarda? Lo stesso dell'Ajace: il disprezzo contro i vili; l'inutilità della lotta, a favore degli estranei. Amor d'Italia? — esclama Guelfo —
[147]
Amor d'Italia? A basso intento è velo
Spesso: e tale oggimai s'è fatta Italia....
.... Ch'io sdegnerei di dominarla, ov'anche
Sterminar potess'io tutti i suoi mille
Vili signori e la più vil sua plebe!
Ugo non carezzava nè i signori, nè la plebe: e ne era rimeritato! Scriveva al Cicognani: «Io avevo poco da lodarmi del governo napoleonico, e il governo assai poco a lodarsi di me — e in ciò le parti erano pari — perchè io nè volli nella Ricciarda partirmi dai miei sensi troppo italiani ed alteramente politici, nè chi governava lasciò che essa si rappresentasse se non mutilata.» — Ciò che, del resto, egli non permise. A Guelfo, che mostrava tanto disprezzo per l'Italia, Averardo risponde, scongiurandolo ad aver fede nel popolo, ad amarlo per la causa santa, a dare spade cittadine alle cittadine mani, e far gl'italiani
Non masnadieri, o partigiani, o sgherri,
Ma guerrieri d'Italia!
Era l'appello alle armi. Come nelle sue lezioni di eloquenza richiama il popolo alle istorie, all'unità di lingua e di costume; così lo chiama nella tragedia alla nazionalizzazione delle armi. Tragedie — ripeto — dell'anima del poeta, non dei suoi personaggi. [148] Ma che importa? In esse vi era semenza d'anima italiana. E quella semenza ha col tempo fruttificato!
***
E qui, o Signori, permettetemi una osservazione di ordine generale.
Lungo questa mia conferenza voi mi vedrete intento a ricercare il pensiero animatore di questa o quella tragedia, il sentimento ispiratore di questo o quell'autore; ma difficilmente mi sorprenderete a discutere il carattere poetico di un personaggio, e più difficilmente a descrivervene le bellezze d'arte. Non è mia colpa. La nostra letteratura drammatica è, in questo tempo, un mezzo e non un fine: è un indice dello stato d'animo dei nostri scrittori; non è la figurazione e la rappresentazione di uno stato d'animo dell'umanità. Non solo: ma, come vi dissi innanzi, che la povertà della vita sociale rendeva impossibile la comedia; aggiungo ora che i caratteri speciali del nostro spirito e della nostra fantasia hanno reso sempre difficile nella nostra letteratura la produzione del dramma, di qualsiasi genere. In fondo, o Signori, [149] la nostra letteratura è, essenzialmente, letteratura di riflessione. Noi eravamo un popolo vecchio, quando gli altri cominciavano ad aprirsi una via nella storia. «A noi quindi — dice benissimo il compianto Adolfo Bartoli — quell'infanzia d'intelletto e di cuore che presso le altre genti germaniche e latine fu così larga sorgente di ispirazioni poetiche, in grandissima parte mancò: noi fummo sempre molto congiunti con la storia, e poco con la natura. Per conseguenza lasciammo che leggende, canti epici, satire, fantasie di ogni genere sorgessero e pullulassero dovunque, o restando noi quasi affatto estranei a quel grande movimento, o prendendovi una parte che designa all'evidenza il nostro carattere.» E quale fu questa parte? Fu immensa, e quale soltanto noi potevamo compiere con la nostra matura intelligenza e la nostra superiore esperienza d'arte e di filosofia, di fronte agli altri popoli: ripensare, cioè, ricreare, rifare, in un più ampio contenuto ideale e in una più armonica costruzione formale tutti gli elementi, tutto il materiale che ci veniva pòrto dal lavoro fantastico e sentimentale degli altri popoli. Così dal caos delle visioni traemmo con Dante il poema sacro; dai fabliaux traemmo con Boccaccio la novella d'amore; e dalle canzoni di gesta e dai romanzi d'avventure [150] traemmo più tardi col Bojardo e con l'Ariosto il poema cavalleresco. Solo noi potevamo dare a tutti gli sparsi ed erranti elementi d'arte degli altri popoli d'Europa un organismo, una fusione, una forma definitiva, come solo noi potevamo dare, con la Summa di San Tommaso d'Aquino un organismo, una fusione, una forma quasi direi, ai vari elementi della scolastica. Noi fummo per molto tempo i sovrani dell'intelligenza, e gli altri popoli pareva che vivessero sol per farci l'omaggio e darci il tributo delle loro esperienze sentimentali e dei loro ardimenti fantastici. Ma appunto queste qualità che resero possibile la fioritura del poema sacro, della novella e del poema cavalleresco, dovevano anche rendere impossibile la creazione del teatro. Finchè si trattò di ripensare, di rifare, di riorganizzare, nel campo della tradizione, della storia, della filosofia, nel campo astratto, cioè, noi fummo signori. Ma quando si trattò di osservare, di intendere e comprendere direttamente la natura e la vita, quando si trattò di interrogare, di scrutare, di rivelare i secreti del cuore e della mente dell'uomo, allora più fresche fantasie, più limpidi occhi, più giovani spiriti, più libere coscienze dovevano avere ed ebbero il dominio nell'arte e nella poesia. Io non ho il compito di parlarvi delle origini [151] del dramma. Ma voi sapete, o Signori, che il dramma moderno nacque nella gran combustione della Rinascenza inglese, in quel formidabile periodo in cui esplosero quasi tutte insieme le forze del popolo più ricco e meglio dotato della storia moderna, e quaranta autori drammatici, fra cui Peel, Johnson, Marlow e l'infinito Shakespeare bastarono appena a ritrarre gli odii, gli amori, le follie, tutte le violenti passioni del senso e dell'intelligenza, tutti i sogni onnipossenti della gloria e del potere. — Noi che potevamo fare? Noi non avevamo che miserie da guardare, ricordi da custodire, e qualche speranza da infiorare.... Ma torniamo al dramma storico.
***
L'epoca napoleonica si chiude quasi con la Ricciarda. L'epoca nuova si apre con l'Adelchi. Foscolo rappresentava lo squilibrio delle violenze passionali, l'impeto delle ribellioni patriottiche, la tristezza delle illusioni perdute, degli ideali caduti, Manzoni rappresenta la rassegnazione,
Chiniam la fronte al massimo
Fattor....
La Reazione leva intanto il braccio minaccioso!
[152]
***
Durante gli ultimi anni della gloria napoleonica un grande e nuovo movimento letterario si era cominciato a disegnare in Europa: un movimento che non solo intendeva a rinnovare il contenuto poetico ed arricchire il materiale artistico, ma anche e soprattutto a rinnovare il contenuto morale. Il Romanticismo ebbe poco da combattere per piantare le sue bandiere cattoliche nella Repubblica delle lettere. Le Lezioni di letteratura drammatica di Augusto Guglielmo Schlegel, e le Lezioni di storia della letteratura moderna del fratello Federigo, nelle quali — specialmente nelle prime — sono dettate le nuove leggi letterarie, portano la data del 1818. Il libro di M.me de Staël sulla Germania, in cui quelle lezioni sono glorificate, porta la data del 1810. La Lettera semiseria di Grisostomo, cioè di Giovanni Berchet, è del 1816. Vi era stato, è vero, Klopstock prima di Schlegel, e Rousseau prima di M.me de Staël; ma il precetto, la regola, il ragionamento critico che serve di fondamento alla scuola, data da quegli anni e da quei libri. Il Cristianesimo si ripigliava alfine la sua rivincita [153] sul Rinascimento. Quel che il Rinasciniento aveva detto del Medio Evo, ora il Romanticismo dice del mondo pagano. Così, l'un dopo l'altro proclamano: Augusto Schlegel, che il «Cristianesimo avendo dato un nuovo indirizzo alla civiltà, è naturale che diventi base d'una nuova letteratura»; e M.me de Staël, «che la religione e la storia nazionale hanno diritto di informare e perfezionare la letteratura nazionale»; e Châteaubriand, memore della proposizione contraria di Boileau, «che convenga provare il Cristianesimo non essere un sistema, barbaro, la religione cristiana essere invece la religione più poetica, più umana, più favorevole alla libertà e alle arti»; e Victor Hugo: «Il Cristianesimo conduce alla verità»: e Manzoni, infine, a dichiarare che, nella «morale cristiana, essendo tutta la verità, egli nutriva sentimenti molto più irriverenti degli altri romantici verso i classici, perchè la parte morale dei classici e essenzialmente falsa, mancando nei loro scritti quella prima ed ultima ragione, ch'è stata una grande sciagura non aver riconosciuta.» — Con queste salmodie fu portata al sepolcro, per la seconda volta, l'eterna giovinezza dell'anima argiva: e, come disse Arrigo Heine, dal sangue di Cristo nacque il nuovo fior di passione del Romanticismo. Permettetemi [154] che aggiunga: anche dalla linfa di Rousseau.
Naturalmente, io non posso del Romanticismo descrivervi tutte le ramificazioni, le manifestazioni e le trasformazioni; ma devo dirvi solo quel tanto che mi è necessario per poter comprendere e spiegare la tragedia che n'è l'espressione più completa e più concreta: l'Adelchi. Il Romanticismo si propose, come accennai, due scopi: arricchire, in genere il contenuto poetico di tutto il materiale che la storia e la mitologia cristiana potevano offrire; e, cosmopolizzare, contemporaneamente, col libero scambio delle traduzioni e dei soggetti, la produzione dei varî paesi; e rifare, quindi, nel nome della religione, la coscienza degli uomini, deviata dal Rinascimento e corrotta dal Volterrianismo. — In questo senso, il solo vero, grande, convinto romantico, per forza di sentimento e di ragione, è Alessandro Manzoni: il cristiano più puro e sereno, l'artista più sincero e più casto, l'uomo più semplice e pio che la letteratura moderna possa vantare. Vi era, invero, nella sua fantasia e nella sua coscienza qualcosa dell'azzurro dei miti cieli di Galilea. Ripensata da lui, la vita umana quasi si purificava. Passando per il suo spirito, la religione diventava poesia. Ricercata dal suo sguardo, [155] pareva che la stessa storia si vergognasse delle sue colpe, e l'anima umana delle sue passioni. «In ogni argomento scoprire ed esprimere il vero storico e il vero morale, ecco quel che bisogna proporsi» egli scriveva. «E questo sistema, non solo in alcune parti, ma nel suo complesso, mi sembra avere una tendenza religiosa.» — La tendenza religiosa nel sistema, nel metodo, è ben tutto quello che può dare un'anima di religioso e di poeta!
Io non vi parlerò delle trasformazioni formali che il Manzoni portò nella tragedia. Se è vero che prima ancora della Prefazione del Cromwell egli bandì la guerra alle due unità, ed è suo merito, come dice il Carducci, di averne esposte le ragioni nella celebre lettera al signor Chauvet, mirabile di ragionamento e di stile critico; è anche vero che prima di lui, con l'esempio e col ragionamento, Volfango Goethe, un classico, aveva dato a quelle due unità il colpo fatale, col pugno di ferro del suo Goetz di Berlichingen, cinquant'anni prima! Chi ricorda il discorso ditirambico che il giovine Goethe pronunziò in gloria di Shakespeare, a Francoforte, nelle feste da lui organizzate, al ritorno di Leipzig, in onore del grande inglese? In quel discorso sono le seguenti parole, che troppo spesso sono dimenticate: «Letto Shakespeare, io [156] ebbi come il colpo di grazia, e rinunziai alla tragedia regolare. L'unità di luogo, mi sembrò triste come una prigione; le unità d'azione e di tempo, mi apparvero come pesanti catene alla nostra immaginazione. Io saltai allora nello spazio libero, e solo allora sentii che avevo mani e piedi. E ora ch'io vedo quanto male hanno fatto le regole dei maestri, e quante anime libere sono ancora curve sotto il loro giogo, il mio cuore scoppierebbe s'io non dichiarassi loro la guerra e non cercassi ogni giorno il modo di distruggerle. » — La guerra, dunque, alle regole venne indetta da un classico. Ed è bene constatarlo. Come è bene constatare che tre altri italiani erano insorti prima: il Metastasio nella dedicatoria alle sue prime poesie, fra le quali era il primo suo dramma Giustino, contro l'unità di luogo; il Goldoni, nella dedicatoria ai Malcontenti, contro l'unità di luogo e di tempo: e il Baretti nella polemica col Voltaire, contro tutte e tre le unità insieme: di tempo, di luogo e di spazio.
Ma torniamo all'Adelchi.
[157]
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Adelchi è nel mondo degli eroi, quel che è il Manzoni nel mondo dei letterati; ed è nel campo dell'arte, quel ch'è il Manzoni nel campo della vita. Meglio: sono tutti e due la stessa persona. Mai, credo, un autore ha dato ad un personaggio della sua fantasia un'impronta così profonda, così precisa, come di se stesso l'ha data il Manzoni nell'Adelchi. Il discorso sulla storia della gente longobardica in Italia è forse una scusa per allontanare il pensiero del lettore — o del pubblico — dal vero personaggio della tragedia e per impedire di constatarne l'identità; perchè mai personaggio fu meno storico dell'Adelchi del Manzoni, mai fantasma d'arte fu meno rispondente allo spirito, al costume, alle abitudini del tempo donde ha origine, quanto questo che il Manzoni ha scelto per rivelarci la filosofia del suo pensiero, la morale della sua filosofia.
Voi ricordate il fondo del dramma: la lotta fra Carlo re dei Franchi, chiamato in sua difesa da papa Adriano, contro Desiderio re dei Longobardi, il quale [158] non voleva cedere al papa le terre della Chiesa. Adelchi, figlio di Desiderio, non vorrebbe la guerra, e vi si sottomette solo per obbedienza al padre; ma vorrebbe invece che il padre restituisse alla Chiesa le terre e facesse la pace col pontefice. Ma Desiderio insiste, e, sorpreso alle spalle, è sconfitto — mentre la figlia Ermengarda, moglie ripudiata di Carlo, muore nel monastero di San Salvatore in Brescia. — Il Manzoni ha voluto fare tragedia storica nel più stretto senso della parola. Ma egli stesso si affretta ad avvertire: «Il carattere di un personaggio, qual è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni d'Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere insomma è inventato di pianta.» — Inventato, o meglio ritratto da un originale moderno. Partito così alla ricerca della realtà storica nel dramma, egli è tornato con una realtà psicologica: quella sua, di autore, non quella del personaggio. È vero, sì, che nella Prefazione del Carmagnola, parlando dell'ufficio dei cori, egli dice che, «rendendoli indipendenti dall'azione e non applicati ai personaggi,» ma facendoli quali organi del sentimento del poeta, si ottiene il vantaggio «di diminuire al poeta la tentazione d'introdurli nell'azione e di prestare ai [159] personaggi i suoi propri sentimenti» — ma è anche vero che la Prefazione del Carmagnola (1816-20) è anteriore all'Adelchi (1820-22). —
Questo Adelchi, dunque, è la tragedia della rassegnazione: la tragedia dell'inerzia: una contraddizione nei termini, come vedete. Non vi è, in essa, lotta di nessun genere; e non vi è affermazione di nessuna forza. Il teatro di Corneille è la glorificazione della volontà. Il Cid, dopo di avere vendicato il suo onore e suo padre, dice: Se dovessi, tornerei ancora a farlo. È il trionfo della volontà umana, che si fa la vita e le leggi della vita; così come la tragedia antica era il trionfo di una volontà superiore, contro la volontà umana, che vi si opponeva o tentava di opporvisi. — In Adelchi è soppressa la lotta, è soppressa la volontà, è soppresso ogni elemento di forza e di contrasto. Chiniam la fronte al massimo — Fattor — ecco la morale del personaggio e la morale della tragedia. Adelchi è il tipo dell'obbedienza passiva, in tutte le forme; e anche del pessimismo cristiano. Il papa vuol le terre? Perchè non dargliele? — I Franchi scendono in aiuto del papa? Perchè combatterli? — Egli consiglierebbe di lasciarli passare. Ma, poichè il padre impone il contrario, si sottomette al padre:
[160]
.... E tu mi chiedi
Ciò ch'io farò? Più non son io che un brando
Nella tua mano. Ecco il legato: il mio
Dover sia scritto nella tua risposta.
I Franchi vincono: la gloria dei Longobardi rovina: il padre perde il regno, ch'è pure il suo. Che importa? O, che farci? — Bisogna rassegnarsi:
.... Ti fu tolto un regno.
Deh, nol pianger, mel credi!
A che piangere del resto? Tutto passa a questo mondo. Anche il vincitore passerà. Quegli è un uom che morrà! — Impotente verso gli altri, impotente verso se stesso. Dopo la disfatta, mentre tutti i suoi vassalli lo tradiscono, e le città cadono una a una nelle mani del nemico, egli, angosciato, scoraggiato, disfatto, pensa di uccidersi. Ma da buon cristiano, corregge subito il suo pensiero. La religione impedisce il suicidio. La Chiesa non concede tomba al suicida. L'uomo non è padrone della vita che Dio gli ha data. — La tragedia classica aveva il suicidio in onore. Quando non poteva più nulla contro gli altri, il personaggio della tragedia classica diventava eroe contro se stesso. La sua vita gli apparteneva e ne disponeva. Le tragedie di Alfieri sono piene di suicidî. Carlo, [161] Isabella, Emone, Saul, Agide, Agesistrato, Mirra, sono suicidî. Nella stessa situazione di Adelchi, Antonio, rivolto ad Augusto, minaccia:
Qual sia l'eroe di noi, morte tel dica!
Adelchi, invece, inorridisce al solo pensiero:
E affrontar Dio potresti, e dirgli: io vengo
Senza aspettar che tu mi chiami?
Perchè, poi, diventar ribelle al voler di Dio? Per un affetto terreno? Ma la vita, la vita vera, è quella di là: Gesù disse: Il mio regno non è di questo mondo. Questo mondo non è che uno esperimento — questa vita non è che un sentiero di passaggio. E gli antichi cristiani chiamarono appunto dies natalis il giorno della morte! —
Io non nego valore e bellezza a tale dottrina, e alla coscienza di Adelchi che vi si uniforma. 11 disprezzo delle cose terrene; la convinzione che il mondo non meriti la pena di esser tenuto in conto: il rifugio dello spirito in una speranza ideale: il disdegno trascendentale per tutte le vanità: la dottrina insomma della liberazione dell'anima nella fede, è una dottrina senza dubbio venerabile. Ma nego che possa diventare sostrato, elemento, fondamento di tragedia; se per tragedia si debba intendere [162] ancora lotta di forze e di passioni. E nego anche possa diventare soltanto elemento e fondamento di educazione civile. — «Il Cristianesimo — dice il Renan nella Vita di Gesù — ha molto contribuito in questo senso a indebolire il sentimento dei doveri del cittadino, e a dare il mondo in balìa dei fatti compiuti.»
L'Adelchi porta la data di tristi anni: 1820-22; la data, cioè, della più feroce reazione che sia mai imperversata sull'Italia.
Mentre il Manzoni componeva questa tragedia e studiava le sorti del regno dei Longobardi e narrava i tristi casi di Desiderio e di Adelchi, Ferdinando I e il principe ereditario, suo figlio, componevano e rappresentavano, a spese del popolo napoletano, una lor triste comedia. Invitato a Lubiana dopo i moti del 21, Ferdinando I lasciò al figlio la Reggenza, con una lettera piena di nobili sensi e di severi propositi, nella quale, dopo di aver dichiarato che andava a difendere, secondo richiedeva la coscienza e l'onore, i fatti del passato luglio, lo esortava ad agire, nella sua assenza, secondo appunto i dettami di quella coscienza e di quell'onore imponevano. Voi sapete il resto: il tradimento di Lubiana: l'esercito napoletano disperso distrutto: il Parlamento e la Costituzione [163] sospesi: i patrioti sbaragliati: il re, tenuto alla reggia sotto la scorta dell'esercito austriaco. Complice il Reggente: colui, cioè, che dal padre aveva avuto il sacro deposito della fede giurata, dei patti accettati! — Ah, Signori, se Adelchi avesse avuto meno rassegnazione! Se Francesco di Borbone fosse stato meno obbediente al padre — al traditore di Lubiana! — Io non posso pensare a queste due cose, senza sentir freddo al cervello!
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La reazione del 21 spazzò il focolare domestico del patriottismo italiano, di tutti i poeti, gli scrittori, gli artisti, i pensatori, i cospiratori, che la polizia aveva in sospetto; e si accanì specialmente contro i liberali romantici, che, associandosi alla plebe, due imperatori e il re di Prussia non si vergognarono di infamare, con un manifesto che li qualificava «malfattori e violatori di ogni legge divina ed umana,» Salvo il Manzoni, tutti i romantici furono protagonisti: Il Cenacolo del Conciliatore fu sbandato: l'Arconati, il Bossi, il Pecchio, il Pisani, il Vismara, il Mantovani, il De Meester, salvatisi in tempo, condannati in contumacia [164] alla forca; Gonfalonieri, Andryane, condannati a vita; Maroncelli a 20 anni; Pellico a 15. E non parlo degli impiccati in effigie! Le vie e le campagne — come narra un contemporaneo — piene di fuggiaschi, le galere e gli ergastoli pieni di uomini illustri per natali e per ingegno, mescolati coi ladri e gli assassini. Santo Stefano, Pantelleria, Finestrelle, Rubiera, i Piombi, lo Spielberg, pieni tutti della giovinezza e dell'anima del popolo italiano. Nello Spielberg, accanto al Maroncelli, Silvio Pellico — socraticamente sereno fra i dolori e i tormenti, di contro ai giudici ingiusti e agli aggressori crudeli!
Silvio Pellico scontava nello Spielberg il gran delitto commesso da Paolo nella Francesca da Rimini, di promettere all'Italia il suo braccio nel momento del pericolo:
Per te, per te, che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò se oltraggio
Ti moverà l'invidia....
Quanti fremiti suscitarono questi versi! quanti cuori incitarono, quanta fantasia incoraggiarono all'azione! Per questi versi, più che per altro, la Francesca divenne la tragedia popolare per eccellenza. Come tragedia, è mediocre; e non a torto il [165] Foscolo consigliò amicamente al Pellico, quando gliela mandò a leggere, di lanciare all'inferno i personaggi di Dante. Ma vi era qualche cosa, tuttavia, in quella tragedia, che la faceva cara al pubblico: un senso di tristezza e di malinconia, che rispondeva simpaticamente allo stato di quegli animi contristati nella disperazione: una irresistibile tentazione di pianto che scendeva fino al profondo di quei cuori affaticati, e quasi dava un sollievo commovendoli. E poi, vi era l'invocazione all'Italia, che gli attori recitavano con fierezza di cittadini, con impeto di eroi! — Noi non dobbiamo dimenticare gli attori, in questo periodo di tempo. Essi furono più che i cooperatori, i motori delle opere stesse degli autori — che molte volte nascevano morte — e che essi vivificavano. Diceva l'Alfieri: «Non vi saranno attori in Italia, finchè non vi sarà pubblico atto a formarli.» Ma bisogna render giustizia agli attori, e, contro l'opinione del grande Astigiano, convenire che sono essi, invece, che hanno contribuito, se non pure a formare il pubblico, almeno a svegliare e tener desta nel pubblico la fiamma dell'entusiasmo, a dare il tono, l'accento, la linea, il colore dell'espressione alla passione patriottica. La forza dell'attore si consuma, pur troppo, nella stessa azione. La voce che [166] nella Francesca salutava il sole d'Italia e agitava la polve degli eroi; il gesto che nel Procida sollevava ad altezze epiche il verso contro il Franco invasore: Ripassi l'alpe e tornerà fratello — non rimangono suggellati in nessun libro, ne scolpiti in nessun marmo. Ma rimanevano bensì nel cuore e nella fantasia dei contemporanei, guida, ricordo, ammonimento, consiglio: suggestione d'idee e di sentimenti invincibile! Come tante altre cose ormai, noi chiamiamo retorica rappresentativa quella dei Modena, dei Salvini, della Ristori; e forse non ci rendiamo abbastanza conto dell'efficacia di certe intonazioni vocali che pareva venissero dalle profonde lontananze della storia; forse non ci rendiamo più conto dell'efficacia di certi gesti, che nella loro ampiezza eroica e sacerdotale pareva che raccogliessero tanto movimento di passione e di vita, per il passato e per l'avvenire. Certo, quegli attori, grandi e piccoli, comunicavano, davano al loro pubblico la formula ritmica, se così posso esprimermi, del pensiero patriottico; e quando, la piena degli affetti vincendoli, e l'impulso dell'anima trascinandoli, dimenticavano o fingevano d'ignorare il comando della polizia e della censura, e recitavano nella lezione originale il verso proibito, e rimettevano a posto la parola cancellata, e quando questo [167] non bastava, agitavano un nastro, un fiore, un fazzoletto dai colori nazionali; in grazia loro, il popolo eccitato si levava, con grida di gioia, in dimostrazioni di entusiasmo. Molti di quelli attori passavano la notte, dal palcoscenico sul tavolaccio della polizia; molti finivano con arruolarsi volontari, scendevano in piazza con gli altri cittadini nel momento del pericolo. Perchè dimenticarli? L'arte drammatica fu in quei tempi il bel gesto del patriottismo italiano. Salutatela anche voi, passando, o Signori, con un bel gesto di riconoscenza!
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Nella furia della repressione o della soppressione, come andarono a Milano distrutti gli ultimi residui della libertà dei cittadini, andarono anche distrutti molti manoscritti degli scrittori.
E così fu perduta anche una tragedia di Giovanni Berchet, la Rosmunda, che, nella fretta, per paura di una imminente persecuzione, la famiglia diede alle fiamme, assieme con le carte e la corrispondenza privata, che poteva compromettere gli amici. Ma nè supplizi, nè torture, nè soppressione [168] di poeti e di poesie, arrestano il cammino dell'idea, spengono la fiamma del sentimento nazionale. Alere flammam — era il motto dell'emblema scelto dal Berchet, per significare la costanza della propaganda patriottica. L'emblema consisteva in un'antica lucerna accesa, in cui una mano misteriosa versa l'alimento:
O man che scrisse Arnaldo
O petto di virtude albergo saldo,
Chi a' miei baci vi porge? —
chiedeva al vecchio il nuovo poeta di nostra gente. Quella che nel periodo più scuro della reazione, nel periodo più duro del dolore, dal 28 al 48, versò tanto alimento alla fiamma del sentimento nazionale, fu la mano di Giambattista Niccolini.
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Il teatro di Giambattista Niccolini non è ormai che una memoria letteraria; ma come tutte le memorie, esso racchiude la parte più viva delle nostre speranze, la parte più bella ed ardente delle nostre illusioni. Egli è il più grande fra gli scrittori di drammi storici che son fioriti nel suo tempo. Ogni [169] letterato italiano cercava allora un nome alla storia, un'occasione a quel nome per mettersi in comunicazione col pubblico e fare sventolare sulla punta dell'endecasillabo la bandiera tricolore. Chi ricorda oggi più tutti i Manfredi, i Masaniello, i Fornaretti, i Farinata, i Lorenzino, i Sampiero di Bottelica, i Vitige, le Leghe Lombarde che hanno occupato il nostro palcoscenico? Chi ricorda i nomi dei loro autori: i Corelli, i Sabbatini, i Turotti, i Giotti? Il nome di Carlo Marenco sopravvive in grazia delle lagrime che la Marchionni seppe strappare ai nostri padri nella Pia de' Tolomei; e il Revere e il Brofferio e il Dall'Ongaro rimangono nella nostra memoria, per altre cose che non per i loro drammi storici. — L'unico che sopravviva della scuola e della schiera è Giambattista Niccolini. Certo, nessuna delle sue tragedie ha l'ambizione di creare un nuovo cielo di fantasmi poetici: ma tutte hanno la gloria di aver contribuito a creare un cielo ben più nobile e più sacro: quello della coscienza nazionale. — Dell'Arnaldo il poeta stesso scriveva: Se non ho scritto una buona tragedia, credo di aver fatto almeno un'opera coraggiosa. E di questo l'Italia allora aveva bisogno. Così il Guerrazzi scriveva di aver voluto combattere una battaglia, più che scrivere un [170] libro, con l'Assedio di Firenze. Così il Berchet scriveva «di aver fatto sacrifizio della pura intenzione estetica ad un'altra intenzione: di aver fatto sacrifizio dei doveri di poeta ai doveri di cittadino.» — E non è il più lieve sacrificio, che, dopo la pace e la libertà perduta, questi fieri italiani abbiano fatto alla patria, e di cui dovremmo almeno avere la creanza di mostrarci loro grati! — So bene anch'io: il Niccolini, nei suoi personaggi, non disegna una fisionomia, ma abbozza appena dei contorni umani; non costruisce caratteri, ma sviluppa soltanto idee astratte, non crea anime, ma fa lezioni di storia. Che importa? — «Io vi esorto alle istorie — aveva detto agli italiani Ugo Foscolo — perchè niun popolo più di voi può mostrare nè più calamità da compiangere, ne più errori da evitare, ne più virtù che vi facciano rispettare, ne più grandi anime degne di essere liberate dall'oblivione.» — E il Niccolini si assunse proprio questa missione: di mostrar gli errori, di far rispettare le virtù, di liberar dall'oblivione le grandi anime della storia italiana. A teatro, egli conveniva il popolo, quasi a comizio. Così, il Foscarini. nel quale erano denunziate le iniquità dell'inquisizione di Stato, fu ripetuto, dal febbraio 1827 in poi, non meno di 200 volte. Il Giovanni da Procida, [171] rappresentato nel 1830, suscitò tali e tanti entusiasmi, da impensierir gli ambasciatori d'Austria e di Francia, e costringerli a chiedere al governo di impedirne le recite: ciò che naturalmente non stentarono molto a ottenere. Il Ludovico Sforza, scritto nel 34 e proibito nel teatro e nella stampa, fu ripreso col Procida nel 47, dando luogo, ogni sera, a tali dimostrazioni, che ogni recita fu chiamata una festa civile. E intanto l'Arnaldo, sfuggendo a tutte le vigilanze della polizia e della censura, correva le terre d'Italia: correva di nascosto, travestito, sotto una copertina che portava un altro titolo, battendo alle porte delle case e al cuore dei cittadini, ricordando, ammonendo, istigando, incoraggiando. Che cosa era Arnaldo? Era il libero pensiero che mostrava all'Italia la via del Campidoglio; era la libera protesta contro lo straniero invadente e il Papato opprimente: era la sintesi, rappresentata in un sol uomo, o sia pure in un sol nome, di una lotta che aveva affaticato per secoli l'Italia, e finalmente chiedeva con la palma del martirio, la corona del trionfo. Tutti gli elementi della gran lotta sono in movimento in questo dramma polemico, che contiene in se, scena per scena, la tesi e l'antitesi, l'esposizione e la confutazione, l'accusa [172] e la condanna: di fronte al sacerdote, il vangelo; di fronte al clero, il popolo; di fronte al vescovo, Iddio; di fronte al Papa britanno e all'Imperatore tedesco, l'infinita tristezza della campagna romana, dove un idealista lacero e scalzo, aspettando la morte, gitta fra le crete malefiche parole divine! — Il Niccolini raccolse nell'Arnaldo tutta la tradizione della coscienza civile italiana, tutta l'essenza dell'idea classica che animò la mente e mosse l'arte di Dante, di Machiavelli, d'Alfieri; e, passando sopra al romanticismo di Manzoni, e al neocattolicismo di Gioberti e di Rosmini, senza chiedere, come questi, accomodamenti, senza tentare, come questi, compromessi tra principi e papi, proclamò invincibile il dissidio, inevitabile la lotta, irreconciliabili i termini del problema e gli interessi delle parti combattenti. Parve, un momento, che i fatti gli dovessero dar torto, quando, tre anni dopo la protesta d'Arnaldo, un nuovo papa, più incauto forse che abile, distese, fra la commozione generale, sul tempestoso orizzonte d'Italia l'arcobaleno d'un saluto d'amore, di una promessa di pace. Ma la benedizione dei croati, subito dopo, e la fuga e il proclama di Gaeta e il ritorno a Roma su tutte le baionette straniere, e le paure e la reazione susseguenti, non tardarono [173] a dimostrare sempre opportuna l'indignazione del poeta ghibellino, sempre valida l'intimazione fatta da Arnaldo ad Adriano, nell'atto III, in Vaticano:
Sei pontefice, o re? L'ultimo nome
Mai non si udiva in Roma; e se di Cristo
Il vicario tu sei, saper dovresti
Che sol di spine fu la sua corona.
Con l'Arnaldo si chiude il ciclo della tragedia classica. E si chiude, per l'opera e per l'autore, degnamente; ond'è che a ragione l'Italia onorò il Niccolini come i Greci onorarono i suoi poeti nazionali: e dal Foscolo che, giovane, lo chiamò giovane di santi costumi, al Carducci che, vecchio, lo chiamò sacro veglio, tutti s'inchinarono a lui, come nella comedia di Aristofane si inchina il coro al passaggio di Eschilo che dai regni di Plutone la patria richiama tra i vivi in un momento di pubblico pericolo.
Alzate or tutti voi
Le sacre faci ardenti.
Lo scortate, onorandolo co' suoi
Carmi, coi suoi concenti. —
[174]
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E qui mi fermo.
L'arte, o Signori, fece il suo dovere verso la patria. Nei momenti tristi, la confortò coi ricordi; nei momenti di abbandono, la incitò coi rimproveri; nei momenti di lotta, la servì con le opere. L'Italia politica fu una creazione letteraria. Non siamo dunque tanto difficili a giudicare l'arte della prima metà del secolo! Di altro che di belle imagini e puri profili e armoniose strofe; di altro, di altro ell'era occupata, che di se stessa! La fantasia batteva dolorosamente le ali tra i ruderi della storia e i ferri delle prigioni; la parola aveva singulti, esclamazioni, vibrazioni d'anima in pena. Il teatro aveva l'aspetto di un Foro; e sui rostri del palcoscenico, ogni autore era un oratore in difesa della causa nazionale. Dietro le scene, intanto, si preparava qualcosa di più che la catastrofe di un gruppo di personaggi ideali: si preparava, e si sforzava a precipitare, la catastrofe del gran dramma secolare del popolo italiano! Che importa la forma? In certi tempi, la letteratura è azione. La miglior opera d'arte è nella [175] creazione di un fatto; e il massimo successo dell'artista è nel trionfo di quel fatto ch'egli è concorso a creare od a render possibile.
Quali sono i titoli dei drammi nella prima metà del secolo? Potete pure dimenticarli, o Signori, senza per questo recare offesa agli autori alla letteratura. La gran produzione del nostro teatro nazionale è una, e si chiama il Quarantotto: — protagonista, l'Italia, che dopo tanti errori e tante cadute, riconquista l'unità del suo spirito, e afferma contro tutti i suoi oppressori, contemporaneamente, la sua volontà e la sua personalità. — L'arte donde quella produzione è derivata, oggi non esiste più: si è consumata nel fuoco stesso che l'ha prodotta. Ma le ceneri restano sacre. Esse conservano ancora, e conserveranno a lungo' nell'avvenire, il calore del cuore e della mente della grande generazione che ridiede all'Italia una vita, agli Italiani una patria!
[177]
CONFERENZA
DI
UGO OJETTI.
[179]
Signore e signori,
Nella critica dell'arte odierna è di moda il pessimismo, anche perchè è facile fare a meno di conoscere quel che si disprezza. Non è più una quistione di temperamento, d'umor nero ed arcigno o d'indole entusiastica e presto fanatica; è addirittura una quistione di metodo logico. Oggi le lodi dei critici non sono che rari segni bianchi sopra una tavola nera. Io penso invece che sia più sincero e, al pubblico, più utile, delinear le proprie opinioni in nero sopra una pagina bianca. Anche nelle arti belle e anche in Italia la seconda metà del secolo che ora si chiude è gloriosa, quanto nei fatti della politica. Forse da quattrocento anni di qua dalle Alpi l'inno all'uomo — nella realtà e nel sogno, nel presente e nella speranza — non era stato innalzato con così franco volo, non aveva fatto [180] fremere i cieli con sì ampie penne, quanto ora. Forse da quattrocento anni l'uomo non ha amato la vita, la sana nobile laboriosa vita della perfettibilità, quanto ora. Forse da quattrocento anni l'arte non è stata così sincera, l'anima così presso alla superficie su dal profondo vorticoso mare delle apparenze.
Certo, se mai nella storia dell'arte nostra e più largamente dell'estetica nostra è stato tempo in cui ogni arte convenzionale e gelidamente formale, ogni arte, secondo il valor volgare della parola, retorica sia stata ripugnante al gusto diffuso, è questo in cui noi abbiamo la ventura di vivere. Ho detto ripugnante ma non incomprensibile. Quasi cinquant'anni di positivismo e di illuminato determinismo dànno ormai alle menti moderne la snellezza della versatilità, l'oggettività d'esame necessaria a veder con curioso e sereno studio i gesti e le parole di coscienze estetiche per fortuna dissimili dalle nostre, a comprenderle, a giudicarle, direi quasi a gustarle senza fastidio, specialmente quando nel confronto noi possiamo dedurre a nostro vantaggio un progresso solare, e possiamo concedere al nostro orgoglio e al nostro presente ottimismo una qualche soddisfazione.
Corrado Ricci che due anni fa con la sua agile [181] cultura e col suo affascinante garbo di dicitore vi intrattenne su le arti belle nei primi venticinque anni del secolo, vi condusse fino agli inizii di quella pittura che per il suo procedere parallelo alle letteratura fu detta romantica.
Quale era il gusto del pubblico verso il 1825? Quell'epoca, direbbe oggi Gabriele Tarde, era artisticamente un'epoca non di creazione ma di moda. Fede ed amore in altro che non fosse la materia e la material forma dell'opera erano cosa vana. L'immaginazione bastava a dare il tema, anche una semplice immaginazione illustrativa, suddita umile della letteratura — fosse questa letteratura storia o poesia. L'estetica winckelmaniana e le enfasi su l'Apollo soddisfacevano ancora le anime, e le maiuscole platoniche degli aggettivi Bello e Buono parevano un mirabile ornamento ad ogni orazione accademica. «I lavori più nobili di coloro che operarono in questa classica terra,» per dirla con lo stile d'allora, derivano ancora nel fatto dal David, nella teoria dal Lessing e ancora si credeva con lo Schlegel che la tragedia antica non fosse stata che della scultura. La Teoria del Bello di Francesco Ficker tradotta in italiano può esser considerata come il riassunto di quello che predicavano pittori e scultori e architetti i quali, al cospetto [182] di Dio e dei sovrani e dei colleghi, erano fecondi più che facondi oratori. «Il bello, in arte, è la rappresentazione di un'idea sotto forma sensibile conveniente, per via della quale si risvegli l'armonico esercizio delle facoltà dell'anima»: questa è la definizione precisa dove quel conveniente e quell'armonico annebbiano e gelano ogni speranza d'una sincerità anche prudente. Non il vero e non l'emozione per simpatia gli artisti si propongono, ma il nuvoloso metafisico prototipo od archetipo il quale era, proprio secondo le parole del Ficker, «un oggetto di somma perfezione pensato per mezzo delle idee e concreato o reso percettibile ai sensi con la fantasia.» Parole che oggi in cui la nozione della relatività e della mutabilità del bello è penetrata anche nella mente della folla, sembrano e sono incomprensibili, se non ingenue. Victor Cousin poneva a base d'un suo discorso sul bello le frasi di Diotima a Socrate nel Convito: «Bellezza eterna non generata e non caduca, scevra d'aumento e di diminuzione, che non è bella in una parte e brutta in un'altra, bella solo in un tempo, in un luogo, in un rapporto, bella per gli uni, brutta per gli altri, bellezza disciolta da ogni forma sensibile, da mani, da viso, da corpo, che non è nemmeno il tal pensiero o la tale scienza particolare, [183] che non risiede in alcun essere diverso da sè stessa, come in un animale, nella terra, nel cielo in altra cosa, che è assolutamente identica e invariabile per sè medesima, di cui tutte le altre bellezze partecipano, in maniera però che il loro apparire e disparire non recano a lei nè diminuzione nè accrescimento nè il più leggero mutamento.»
Nè questa che noi cultori dell'estetica psicologica potremmo chiamare teologia del bello, accennava a svanire verso le nuvole donde era scesa. Era tenace come una religione ed assiepata da intrichi di pregiudizî. Questo cosiddetto processo ideale che valeva mutilazione nella vita, falsità nella produzione, aveva i suoi fanatici e i suoi pontefici e, nelle Accademie, le sue basiliche. Nel 1834 ancora il professor Tommaso Minardi, cavaliere di più ordini, presidente e cattedratico di pittura nell'insigne e pontificia Accademia romana di San Luca, rappresentante onoratissimo del più puro purismo e del più pietoso pietismo overbeckiano, ripeteva in un solenne discorso quella esatta definizione del bello ideale con tanta fede, che in una copia che io posseggo, ritrovo di suo pugno questa solenne dedica a un amico: «Tu che comprendi la ragion delle cose, leggi e di' a me, Tommaso Minardi, se [184] imbroccai il Vero.» E il vero naturalmente ha il V maiuscolo. Ancora, nel 1842 Alessandro Paravia, professore di eloquenza alla regia Università di Torino, lodava gli artisti «i quali altro non fanno che riprodurre quanto di più vago e magnifico a lor si mostra.... Se ben, a che dico io, il riproducono? Meglio era dire il migliorano.» Ancora, nel 1857 Niccolò Tommasèo stampando qui a Firenze l'opuscoletto su la Bellezza e civiltà o delle arti del bello sensibile diceva che «il bello è ordine, è Dio, e l'ideale non è accozzo di belle forme in una, come si narra abbia fatto Zeusi nel suo famoso quadro; l'ideale è un'idea colta attraverso le cose.» E nello stesso anno Pietro Selvatico credeva necessario lungamente dissertare su la Opportunità di trattare in pittura anche soggetti tolti dalla vita contemporanea; sebbene il Tommasèo e il Selvatico ormai chiedessero al loro Bello Ideale la potenza di commuovere, riducendo così finalmente a teoria quella nostra pittura romantica che già declinava, anzi già — come vedremo — era vinta.
Gli scrittori d'estetica, lo so, arrivano sempre in ritardo paragonati agli artisti creatori, e non fanno che dedurre dalle premesse che questi hanno già poste con le opere. Anche Ruskin è venuto dopo Turner. Figuriamoci se il Tommasèo non doveva [185] arrivare almeno quindici anni dopo il Bacio dell'Hayez!
Ma il ritardo più doloroso è quello dei pittori italiani paragonati ai pittori di Francia. Tra il venti e il trenta mentre in Italia è ancor vivo e glorioso, — massimo tra i classicheggianti davidiani teatrali e lividi copiatori di statue, il Camuccini che ha dipinto la Moglie di Cesare e dipinge ancora per Bergamo la Giuditta che ringrazia Iddio dopo aver ucciso Oloferne, per Praga la Discesa di Gesù al Limbo, pei Torlonia l'Ingresso di Francesco Sforza in Milano, e soltanto l'Agricola e il Landi a Roma, Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli a Firenze tentano togliergli, imitandolo, la fastosa egemonia paragonabile a quella del Thorwaldsen in scultura, — in Francia il Géricault, il Delacroix avevano redento per varii modi l'arte dalla stupida cieca tirannia del cosiddetto stile e Corot era già stato in Italia e aveva dipinto il Ponte di Narni, il Colosseo e l'isola di San Bartolommeo.
Se una lotta visibile era in Italia, e sopratutto a Roma, era tra quei neoclassici davideggianti alla Camuccini e i puristi tedescheggianti alla Minardi. Overbeck, Cornelius, Veit, Schnorr avevano già dipinto a Via Sistina nella casa degli Zuccari per commissione del cavalier Bartholdy console di Prussia, [186] e nella Villa Massimo al Laterano avevano su per tutte le pareti con pallidi ma chiari colori illustrato con composta placidità Dante, il Tasso e l'Ariosto. Anzi in quegli anni il «nazareno» Overbeck, detto allora l'Angelico del secolo decimonono, ponendo in atto un antico piissimo voto, dipingeva estatico la fronte della Porziuncola francescana ad Assisi, in Santa Maria degli Angeli, sotto la cupola del Vignola.
Ora noi, dopo cinquant'anni, riuniamo sotto una stessa accusa gli avversarî, e a leggere l'opuscolo del Bianchini sul Purismo nelle arti o quello del Selvatico sul Purismo nella pittura e a guardar a Roma o a Perugia, dove egli fu per parecchi anni direttore dell'Accademia, i disegni anche più dei pochi squallidi dipinti del Minardi, non possiamo comprendere perchè le due scuole così timide di contro al vero non si riconoscessero sorelle in un comune peccato originale: quello di imitare una imitazione. A noi sembra che tanto valesse condurre in pellegrinaggio gli studiosi e gli stranieri qui a Firenze ad ammirare in casa Mozzi Il giuramento de' Sassoni a Napoleone dopo la battaglia di Jena dipinto dal Benvenuti o al palazzo della Gherardesca a godere il suo Conte Ugolino nella torre di Pisa, quanto su su per la scalinata [187] di Piazza di Spagna farli a Roma salire a venerare gli affreschi dell'Overbeck e dello Schadow a casa del Bartholdy.
Quando l'Hayez pensionato veneziano s'era, anni prima, presentato a Roma al Canova con le commendatizie del Cicognara, questi gli aveva parlato così: «Conosco lo scopo della sua venuta ma non il programma dei suoi studî: ritengo che l'intenzione sarà di studiare Raffaello e l'antica scultura greca per formarsi un'idea del bello che certamente quei sommi maestri hanno saputo scegliere dal vero.» E nei consigli del grande di Possagno i due indirizzi già si raccoglievano in un elogio che oggi da chiunque sarebbe mutato facilmente in un biasimo. Se da un lato le sculture classiche erano l'ideale che nei loro quadri camucciniani mettevano in moto come altrettanti manichini creati diciassette diciotto secoli prima a Roma o ad Atene o ad Alessandria pel loro comodo e pel loro piacere, dall'altro i nazareni tedeschi dalla lunga chioma e i loro seguaci italiani con minor rispetto aggiustavano madonne, santi ed angeli del Ghirlandajo o del Perugino col nobile scopo di riempire le tele che loro erano state allogate da qualche nobile, da qualche cardinale o da qualche confraternita. Col vero si aveva il minor rapporto possibile, [188] perchè il pericolo della volgarità era pericolo di insuccesso e di scomunica. Se il vero ideale per molto tempo era stato Talma l'attore eroico e magniloquente, ora anche questo simulacro è sdegnato dai puristi che si inginocchiano prima di dipingere, o meglio prima di copiare. In un elogio del Minardi scritto nel '21 quando dalla direzione dell'Accademia perugina cui l'aveva raccomandato quattro anni prima lo stesso Canova egli passò a Roma ad insegnare disegno figurativo in San Luca, si dice che per lui rivisse l'antico spirito perugino; e doveva dirsi che da lui si erano lucidate le antiche forme peruginesche. Se non fosse il colorito incenerato e la leziosa sdolcinatura dei tipi e dei gesti, se non si sentisse a ogni segno e ad ogni pennellata la stereotipata abilità di composizione e di ricomposizione sostituita alla franca geniale spontaneità dell'invenzione come la luna invece del sole, tutta l'opera del Minardi potrebbe nel metodo paragonarsi a quelli affreschi e a quei quadri che i più tardivi e i più torpidi discepoli di Pietro Perugino componevano adoperando a pezzo a pezzo i cartoni del maestro e voltandoli da un fianco o dall'altro e magari a una tunica d'apostolo infilando le braccia, i piedi e la faccia della Santa che loro era stata per pochi scudi e per [189] mezzo sacco di grano allogata. Ma le più stentate pitture di Tiberio d'Assisi e le più tardive opere di Giannicola Manni hanno ancora e sempre l'afflato divino e la sincerità e la sicurezza che a questi importanti monotoni sillabatori di poemi eterni mancano, e giustamente.
Intanto ad uso di questi miticissimi castissimi soavissimi pittori dal color di manteca e dal disegno esemplarmente calligrafico si venivano scrivendo vite e panegirici di Raffaello e di Perugino, dello Spagna e del Francia, del Ghirlandajo e magari del buon frate Lippi come se fossero stati altrettanti santi passati in terra belli e compunti, a miracol mostrare. E il Rio con l'Art chrétien raccogliendo dieci anni dopo tutte queste agiografie sarà considerato l'ideale storico dell'arte, e il padre Marchese nel 1846 fisserà in un breve enfatico scritto i suoi entusiasmi su quei puristi, che alla sua nobile anima parvero rinnovatori fecondi laddove non erano che plagiarî sterili gelidi e timidi.
Forse la parola plagio è troppo cruda per quegli onesti, perchè il loro plagio fu incosciente ed essi credettero fare opera di purezza commettendolo, e anche perchè ne furono puniti dall'immediato oblío tanto che i più di loro morti anche venti o dieci anni fa, oggi son rinnegati financo dai discepoli, e [190] dal pubblico abbandonati nelle ultime sale delle accademie e delle pinacoteche.
Non a loro torna l'omaggio che ogni giorno in Francia ravviva la memoria di ogni più oscuro pittore della libera scuola del Trenta; e in Germania stessa a Düsseldorf o a Monaco la pittura nazarena prima di Kaulbach o di Piloty è, più che biasimata, dimenticata. Per molto tempo essa gelida e diligente ha vissuto perchè nessuno vi trovava qualcosa da biasimare. «Queste grandi tele non insegnano nulla di nuovo e non lasciano alcun ricordo; sono corrette, decenti e fredde» diceva nel 1828 lo Stendhal uscendo dallo studio del Camuccini e avrebbe potuto dire lo stesso delle poche tele del Minardi.
Un vanto però va dato ai puristi intorno al Minardi, che in realtà fu solo un maestro e specialmente al senese e gentile Luigi Mussini fraterno amico dell'Ingres onorato così in Francia come in Italia, pittore e scrittore. Ed è un vanto di tecnica. Qui più cospicuamente si vede la rispondenza fra i puristi in pittura e i puristi in letteratura; qui più chiaramente Tommaso Minardi ci appare come il Basilio Puoti del pennello, e il suo Discorso su le qualità essenziali della pittura italiana scritto nel '34 continua venticinque anni dopo la Dissertazione [191] su lo stato presente della lingua italiana presentata dal Cesari all'Accademia milanese.
Essi abbandonarono quelle larghe masse di chiaro e d'ombra con che il Benvenuti e il Camuccini e tanti altri minori preparavano nei dipinti le parti luminose ed oscure, senza curarsi di tòrre questi effetti dal vero, ma disponendoli con una luce teatrale, della cui falsità (come narra nelle sue Memorie l'Hayez, che andando a Roma venne a riverire Pietro Benvenuti qui a Firenze nel suo studio e lo vide dipingere la Morte di Priamo), si gloriavano apertamente. Così i loro colori furono chiari se non ricchi, e con le velature ritornarono a dare lucidità e trasparenza alle cose dipinte, e su le mura riaddussero in onore l'encausto e ritrovarono i buoni metodi del fresco. Nella prospettiva, poi, ricominciarono a conformare la grandezza degli oggetti ritratti alle dimensioni della immagine prospettica, quale è descritta nel taglio del cono visuale, al punto in cui l'artista si pone così da non dover spostare, come avveniva spesso nei macchinosi quadri davidiani e come purtroppo riavverrà in molti frettolosi romantici, il punto della veduta due volte almeno per una stessa pittura.
Il Benvenuti muore nel '44, il Camuccini e il Sabatelli nel '50, il Biscarra che dal '21 era stato [192] da Carlo Felice chiamato a dirigere l'Accademia a Torino, muore nel '51. Il Biscarra che aveva studiato a Roma e aveva plagiato nel Caino il Delitto perseguitato di Prudhon, ebbe nella sua Accademia a direttore della scuola di disegno ornamentale quel Pelagio Palagi, bolognese, che nel '34 aveva osato nel reale palazzo di Torino e nelle ville di Pollenzo e di Racconigi distruggere tutte le delicatezze delle ornamentazioni Louis XV per sostituirvi le sue vuote classicherie lineari. Ma tutti costoro poterono prima di morire veder che nulla rimaneva loro fuor che gli onori. L'Hayez ormai trionfava, e il loro Olimpo color di mattone e sapor di niente era svanito. L'Hayez trionfava, e più che l'Hayez il popolo e la violenza del popolo trionfavano.
Ma perchè, per tanti anni la falsità e la imitazione e il gelo, contro ogni moda straniera, poterono seder sul trono e schiacciare ogni spontaneità di gusto? Non spetta a me in questa serie di letture definire le condizioni sociali, l'ambiente morale e politico dove l'arte ebbe a svolgersi, o meglio, dove l'arte ufficiale potè restare immobile.
Per quanto nel 1849 il Giusti rida amaramente della poca plebe sbrigliata in piazza, nel periodo che va dal '21 al '48, da quando a Modena Carlo [193] Felice smentisce con celere prudenza la rivoluzione piemontese fino alle riforme del '47 e alle costituzioni del '48, l'aristocrazia e l'alta borghesia d'Italia non dettero che esempii di timorati desiderii platonici. Composte nel gesto e nelle parole, ammonite dalla brutta fine de' moti del '31 e del '33 esse si rammentano dell'unità e dell'indipendenza della patria quando sognano non quando agiscono. Il 1848 è stato voluto e ottenuto dal popolo: è bene rammentarlo. Uscito di prigione Silvio Pellico che, come il Tommasèo e il Cantù, s'era dato alla educazione, nei Doveri dell'uomo ha questo passo caratteristico: «Il progresso sociale verrà con le virtù domestiche e con la carità civile, o non verrà in alcun tempo. Lasciamo dunque stare le illusioni della politica, facciamo cristianamente quel bene che possiamo, ciascuno nel nostro circolo: preghiamo Dio per tutti e serbiamo il cuore sereno indulgente e forte.» Ci voleva altro, signori miei, e, in realtà, altro ci volle che la serenità e la indulgenza e la carità predicata dall'autore della Francesca da Rimini! Ai più franchi, come Massimo d'Azeglio, la tirannide interna premeva poco; l'importante era fare l'Italia con la libertà se era possibile, e, se no, anche col dispotismo, anche con l'aiuto dei principi, con la conciliazione di tutti gli elementi. Ma [194] egli potè vedere che se gli individui non sono liberi, è inutile che sia libera la patria.
La scuola liberale lombardo-piemontese cui Pellico e d'Azeglio e Manzoni appartennero, e di cui — come disse il De Sanctis — Balbo fu il dottrinario, Gioberti l'oratore, Rosmini il pensatore, mettendo da parte la libertà come fine, volendo lasciare la società alle sue forze naturali perchè riescisse al progresso, respingendo ogni idea di violenza, sia che la violenza scendesse dall'alto, sia che salisse dal basso, non agitava che idee generali e larghe astrazioni e, soprattutto, era composta e misurata. Misurate e composte furono le classi dominanti finchè essa le dominò, cioè fino al 1848, cioè fino all'avvento della scuola democratica mazziniana.
Il neo classicismo che fu detto un involucro retorico mitologico, cioè una mitologia senza mito e una rettorica senza eloquenza — Camuccini, Landi, Benvenuti, Thorwaldsen, per non parlar che di quelli che verso il '30 sopravvivevano, — come poi il purismo minardiano, così placidi e frigidi, così lontani dalla realtà, così assestati, così teatralmente panneggiati o così misticamente diafani, poterono contentare formalmente quelle classi che uniche davano pane e lodi agli artisti. E specialmente lo poterono a Roma, dove fino a Pio IX non vi fu vita [195] se non di antiquarî e di dotti pietisti, e specialmente a Firenze, che un grande critico disse essere a quelli anni soltanto «un passato illustre immobilizzato e regolato.» L'Arnaldo da Brescia, come tutti sanno, è del 1844.
Ho detto che il classicismo e il purismo poterono contentare formalmente le classi dominanti, perchè occorse la pittura romantica per appagarle anche con la sostanza.
La scuola liberale, considerando e studiando la società come una cosa reale e spontaneamente e indefinitamente progrediente, dovette interrogare, per giustificare la sua calma e benevola aspettativa, la logica della storia, cioè divenire una scuola storica. E la storia fu a base anche dei lavori di immaginazione e si videro pullulare i romanzi storici, le tragedie storiche, e le pitture storiche.
Certo, anche la pittura che si è convenuto di chiamare romantica, ebbe su lo scoppio della rivoluzione italiana un'azione molto indiretta: ma di ciò diremo quando avremo veduto che cosa essa sia, quali ne sieno stati i capi, e quali i gregarî. Paragonata alla letteratura romantica, ad essa manca il suo Manzoni. Francesco Hayez non ne fu che il Tommaso Grossi.
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Alla fama se non alla gloria dell'Hayez giovò il momento storico che certo egli non creò, ma dal quale con versatile docilità si lasciò nella lunga onoratissima vita plasmare. La lettura delle sue Memorie purtroppo incompiute, sebbene esse non abbiano ne la vivacità fresca e inesausta dei Ricordi di Massimo d'Azeglio, nè la semplicità affettuosa di quelli di Giovanni Duprè, mostra limpidamente che egli è un pittore di transizione, non un rivoluzionario fanatico e fisso in ciò che egli creda essere la ideale verità infallibile. Troppi esempî di virile costanza e in letteratura e in politica e anche nelle belle arti — come vedremo parlando della scultura — in quei tempi avventurosi gli sorgono attorno, luminosi poli fissi a segnare la sua abile mobilità.
Egli che nel 1812, guidato dal marchese Canova, mandava al concorso dell'Accademia di Milano il Laocoonte famoso, tipo nel tema e nella tecnica di classicissima pittura, e nel '20 pure a Brera esponeva fra gli applausi il Carmagnola, e nel '30 i Profughi di Parga, eco degli entusiasmi filellenici, [197] e nel 1848 firmava un autoritratto Francesco Hayez italiano di Venezia, e nel '67 mandava a Parigi la Battaglia di Magenta: è il vero riflesso pittorico delle vicende politiche intellettuali e sentimentali le quali mossero e commossero l'Italia nel periodo che oggi riassumiamo. È il vero filo direttivo nel labirinto delle opposte tendenze dei sogni che balzano d'un tratto in piena realtà, dei fatti che lampeggiano invano per un attimo e si spengono sotto la nebbia dell'utopia.
Dal classicismo lo svegliò il cannone degli Alleati, e l'impero napoleonico cadde mentre egli dipingeva sopra un'ampia tela Ulisse nella reggia di Alcinoo re dei Feaci, e riparò a Venezia dove stette tre anni a decorar sale di palazzi con lo stesso gusto tanto che nello studiolo del conte Zanetto Papadopoli dipinse Diotima che insegna a Socrate l'arte monocromata e Alcibiade nel gineceo quando è rimproverato da Socrate, dentro un fregio di amorini dove l'Amor feroce è simboleggiato dalla tigre, l'Amor leggero dalla farfalla, l'Amor forte dal leone, e così via!
Se egli non fosse stato quel pronto spirito che dicevo poco fa, voi vedete in quale palude si sarebbe annegato. Ma ode da Milano i richiami del vecchio suo amico Pelagio Palagi, e vi accorre [198] ed espone il Carmagnola ed è salvo. Messosi così nella corrente, egli per sua ventura, non ne escirà più. L'ambiente è ben caldo; gli applausi, checchè egli poi ne scriva, lo confortano; l'amicizia con Tommaso Grossi lo esorta a perseverare.
Equilibrato compositore, direi quasi, con tutto il rispetto, coreografo sagacissimo, coloritore non oso dir veneziano, ma certo ammiratore dei Veneziani, disegnatore freddo ma onesto, poichè a Roma gli aveano ai primi anni diretto la mano gli inflessibili e impassibili neoclassici, ormai egli può abbandonarsi alla sua foga feconda, in gara coi letterati che han trovato il perfetto illustratore e lo chiaman fratello. Consigliere dell'Accademia di Brera, per qualche anno sostituto del Sabatelli cui poi nel 1850 succedette per trent'anni, ritrattista aulico di tutti i sovrani convenuti nel 1822 al congresso di Verona, protetto dall'arciduca Ranieri e dal Metternich da cui si vanta di essere stato a Vienna preso amichevolmente a braccetto, pittore nel soffitto della sala delle Cariatidi al palazzo reale di Milano quando si attendeva l'imperatore austriaco perchè cingesse la corona di ferro, se non fosse stato un pittore, sarei curioso di sapere come l'avrebbe giudicato il Guerrazzi. Ma in politica, anche nel 1899, ai pittori e agli scultori è permesso più di quel che sia permesso [199] ai poeti, e io devo parlarvi solo della sua versatilità artistica. Certo è che quando nel 1872 Francesco Dall'Ongaro lo proclama giustamente il veterano della pittura italiana, a me par di vedere in quella parola veterano scritta dal glorioso reduce di Venezia una punta di benigna ironia.
Il Bacio è forse il quadro più noto dell'Hayez, e meritatamente. Il sentimento, anzi, l'impeto amoroso, non è stato segnato con altrettanta intensità in altri quadri di quell'epoca. Giulietta nella veste di un bel limpido azzurro è così abbandonata su le spalle e contro le labbra dell'amante, con gli occhi chiusi per la dolorosa delizia di quell'addio, e Romeo col mantelletto marrone con la maglia di color bucchero è così saldo a sorreggerla e leggiadramente virile, che anche oggi, a prima vista, nonostante il disgusto delle oleografie untuose che primamente ce lo hanno rivelato e la noia di tutte le romanticherie cantate per anni sotto la luna, ci commove, sebbene, per fortuna, non ci piaccia più.
E la commozione patetica fu appunto lo scopo di tutta quell'arte romantica. Il bello morale, come essi dicevano, è il loro Dio, e ogni scolaretto ripete dal Forcellini l'etimologia del bello, bellus, da bonellus cioè dal buono. La forma che nei classici era stata il fine, nei romantici diviene il mezzo [200] per eccitare affetti. Tommaso Grossi appare allora superiore al Manzoni perchè egli fa piangere, Manzoni no. La così detta donna romantica è la sua fissazione; e la Fuggitiva, Lida, Ildegonda, Bice, Giselda sono il tema favorito dei pittori lacrimosi che, quando non furono l'Hayez, riuscirono spesso ad essere lacrimevoli.
Enumerare questi quadri dell'Hayez è impossibile e anche inutile. Di Imelda de' Lambertazzi, di Maria Stuarda, di Giulietta e Romeo, di Clorinda e Tancredi, della Congiura dei Fieschi, di scene delle Crociate da Pietro l'Eremita, alla Sete dei Crociati, egli fece tre, quattro, cinque variazioni in quadri grandi e in quadri a figure terzine, in bozzetti e in disegni. Così per i soggetti veneti, dal Carmagnola a Marin Faliero, da Vittor Pisani a Valenza Gradenigo, da Caterina Cornaro ai Due Foscari che voi avete qui alla vostra Accademia, egli fu di una attività da Briareo e di una varietà di combinazioni melodrammatiche degna di Felice Romani. E dall'estero le ordinazioni piovevano come le lagrime delle spettatrici. Nè perciò egli dimenticò i soggetti sacri, e anche, per tornare agli antichissimi, i soggetti mitologici. Ma per alcuno dei ritratti, massime per il suo agli Uffizi, essendo costretto a rendere il vero senza veli [201] rettorici e patetici, egli merita di essere ricordato anche oggi. Quelli del marchese Lorenzo Litta, del conte Giovanni Morosini e di Antonio Rosmini, quando qualche volonteroso che forse non è lontano, farà la storia del ritratto nella pittura italiana, dovranno avere nel periodo che va dal '30 al '50 un posto d'onore. Così a Roma il Consoni, il Capalti, il Cochetti suoi contemporanei, non meritano una menzione per altro.
E passiamo ai minori.
Intendo i minori per fama, perchè alcuni — e non vi dirò d'altri — spesso gli furono eguali per valore. In tutti i varii indirizzi a volta a volta riappaiono, secondo i bisogni della moda, del committente e del tema, e quello che nell'Hayez fu graduale evoluzione sincera, in loro o è incertezza di convinzione o destrezza di opportunismo eclettico.
Qui in Toscana è tempo che nomini Francesco e Giuseppe Sabatelli figli di quel Luigi Sabatelli che già vi segnalai come emulo del Camuccini e cui nella direzione dell'Accademia milanese succedette l'Hayez. Il padre li vide morir tutti e due. Francesco, maggiore di dieci anni, mandato giovanissimo da Leopoldo II a studiare in Roma, dopo soli diciotto mesi di permanenza e di amoroso lavoro, tornò a Firenze a finire la sala dell'Iliade [202] cominciata dal padre a Palazzo Pitti, quando quella d'Ulisse era stata dipinta da Gaspero Martellini e quella di Prometeo da Giuseppe Colignon e mentre Pietro Benvenuti dipingeva tutta la cupola della Cappella dei Principi in Piazza Madonna. Da questi sincronismi è facile supporre quale sia stato il carattere della sua arte. Migliore, cioè altrettanto ariosa nella composizione ma più franca nel colore è, nella minuscola cappella a sinistra del coro in Santa Croce, la figurazione di Ezelino da Romano ai piedi di Sant'Antonio. Del fratello Giuseppe, anche chi non ha cercato a San Firenze la misera cupoletta ormai cadente della Cappella della Madonna, o all'Accademia la Battaglia del Serchio con Farinata e Buondelmonti, rammenta le affettuose parole del Duprè nel cui studio ogni mattina egli si riposava andando al lavoro: «Era magro e pallido, e i mustacchi neri facevano ancora apparire più pallido quel viso mansueto e serio; dal suo labbro non uscivano che poche e benigne parole; la sua compagnia era mite e soave; e la memoria di lui mi ritorna mestamente serena come il ricordo di un bene smarrito ma non perduto.»
E altri due fratelli, non fiorentini questi, ma sanesi, Luigi e Cesare Mussini. Luigi che come ho detto, cominciò con l'essere un purista minardiano, [203] si inromantichì presto nel suo Decamerone sanese, e più nell'Eudoro e Cimodocea di questa Accademia, un quadro derivato da Chateaubriand, color di rosa e color di cenere, levigato e mantecato e illuminato non si seppe mai da che parte. Cesare fu un coreografo anche più complicato in quella Congiura dei Pazzi che verso il '45 era stimato uno dei massimi quadri moderni di Toscana e che poco dopo fu giustamente definita la «sintesi dell'impossibile.»
Per restar sempre tra i più noti, rammenterò il freddo e compassato Pollastrini che dopo aver fatto accademicamente melodrammaticamente morire Ferruccio a Gavinana, uccise anche Lorenzino de' Medici con altrettanta sapienza scenica e l'un dopo l'altro cacciò in nome del vittorioso Cosimo primo i sanesi da Siena. Ho detto un dopo l'altro: come nei Mussini così in tutti questi altri romantici le figure sono viste a una a una, e il chiaro e lo scuro è reso, non nell'insieme, ma su ciascuna di esse singolarmente e speciosamente.
Il Bezzuoli, che era di quarant'anni più vecchio di lui, verso il quaranta, dipinse un'Eva che aveva qualche floridezza e qualche freschezza di carni, ma subito ricadde nella coreografia trionfale con la gran tela figurante l'ingresso di Carlo ottavo in Firenze, [204] che ebbe l'onore di essere incisa dal Morghen. Andatela un giorno a vedere, all'Accademia, e mi perdonerete se sessant'anni dopo io ometta anche di criticarla.
Tra l'Emilia e la Romagna due nomi compendiano questo periodo: il Malatesta e il Guardassoni. Del Guardassoni non è di voi chi non conosca almeno un'oleografia dell'Innominato da lui più volte ripetuto, perchè le migliori opere di questo periodo sono state dalla Provvidenza destinate ad essere appunto riprodotte nel modo a loro meglio convenevole, cioè con l'oleografia. Certo per l'avveduta onestà della pennellata, per una certa vivezza di colore, per la disinvoltura del disegno, il quadro appare superiore a molti dell'Hayez, ma, ahimè, mostra anche tutto il gelo del Delaroche; e ciò basta a giustificare l'oblio. A Bologna cento chiese — San Giuseppe ed Ignazio, la Trinità, San Giuliano, Santa Caterina, San Bartolomeo, Santa Maria Maddalena, Santa Dorotea, Santa Maria Maggiore, San Gregorio, San Giorgio, SS. Filippo e Giacomo, San Salvatore, Sant'Isaia, Santa Caterina di Saragozza, la Madonna dei Poveri, San Giuseppe — hanno pitture sue eseguite prima e dopo il '50, con una mano sempre più facile e anche sempre più trascurata, celeremente, per poco danaro, alla brava.
[205]
Il Malatesta, modenese, nato nel 1818 morì nove anni fa. Dipinse con grande chiarezza molti ritratti, con minore arte quadri sacri e quadri storici, fra i quali il più noto è quello in cui i soldati della lega guelfa fanno prigioniero Ezzelino terzo alla battaglia di Cassano d'Adda. Un titolo, come udite, un po' lungo, e veramente io penso a trovarne di altri anche più esplicativi e più lunghi, che cosa dovessero valere quei quadri per chi non sapesse leggere o almeno non sapesse di storia.
Se nel Veneto più dello Schiavoni, del Lipparini, del De Min, del Gregoletti, del Gazzotto che illustrò Dante a penna, sono oggi memorabili solo i nomi del Molmenti e dello Zona, ben altro avviene in Piemonte. Nel 1842 in un salone del palazzo d'Oria di Cirié in via Lagrange si apriva la prima esposizione della Promotrice, con centocinquanta opere di autori viventi e quello fu il terzo grande avvenimento artistico del regno di Carlo Alberto, dopo l'apertura della Pinacoteca e la restaurazione dell'Accademia Albertina. Giuseppe Camino, i due Morgari padre e figlio, Francesco Gonin, Francesco Gamba erano tra gli espositori. Ma non è questo il momento di definir l'opera di tali valorosi, cui pochi anni dopo si deve la riscossa, — e non solo in arte. Ora rammento solo artisti più [206] vecchi: Ferdinando Cavalieri, amico dell'Hayez, che nel '45 era venuto a Roma a dirigere la scuola dei pensionati del re di Sardegna, e nel 1846 mandava di là per la sala dei paggi nel Reale Palazzo un quadro rappresentante Il conte Amedeo III che giura la sacra lega in Susa; il Biscarra che scendeva dall'Olimpo davidiano dei suoi Achilli, dei suoi Alessandri e dei suoi Mosè per romanticheggiare con una veramente misera Morte del conte Ugolino; Pietro Ayres che avrebbe dovuto limitare la sua attività ai ritratti; Amedeo Augero, l'autore del Voto e più l'autore di molti ritratti privi di luce ma di nitidissimo segno; e infine l'Arienti, che sebbene fosse nato presso Milano, pure è da iscriversi tra i piemontesi per essere stato dal '43 al '60 professore di pittura all'Accademia di Torino. Un'altra Congiura dei Pazzi, il Federigo Barbarossa cacciato da Alessandria che è in quel Palazzo Reale, e l'incomprensibile episodio della Lega Lombarda, che è nell'ultima sala della Pinacoteca bolognese, sono opere che raccolgono bellamente tutti i difetti suoi e dei tempi, ma hanno un certo fare largo ed energico, che l'Arienti deve a Luigi Sabatelli maestro suo.
A Roma vanno rammentati il Podesti e il Gagliardi. Che memoria resta di loro? Io che son [207] cresciuto fra gli artisti, e fin da bimbo ho udito pronunciare questi due nomi con venerazione, quando un giorno mi son determinato entrando nelle stanze di Raffaello in Vaticano a fermarmi nella prima stanza detta della Concezione e tutta affrescata dal Podesti con una squallida intonazione tra color di rosa e color di legno, con una compassata scolastica composizione che non si può più nemmeno dire teatrale; quando nella minuscola pinacoteca di Ancona sua patria invece di correre ad adorare la piccola madonna del Crivelli ho voluto guardare con qualche attenzione i cartoni, i quadri e i quadretti del tanto lodato «decano dell'arte romana», ho provato una delusione tale, che oggi non oso con esatte parole ripeterla. Il pittore de Sanctis che di lui morto parlò nell'Accademia di San Luca, affermò che tra il '50 e il '60 «il nome del Podesti risuonava alto nella pittura come quello di Verdi nella musica», un paragone che a noi di un'altra generazione oggi sembra irriverente addirittura. Pure la sua fama fu immensa; e da quando nel 1830 espose in Campidoglio nella prima Esposizione degli amatori e cultori di belle arti il Martirio di Santa Dorotea fino a che per commissione di Carlo Alberto eseguì il Giudizio di Salomone; da quando per don Alessandro Torlonia nella villa [208] fuori Porta Pia dipinse a fresco le imprese di Bacco e nel Palazzo di piazza Venezia il mito di Diana fino a che per Pio nono eseguì la stanza della Concezione; dal quadro dell'Assedio di Ancona che nelle esposizioni mondiali di Parigi e di Londra ebbe due medaglie d'oro e oggi sarebbe rifiutato in una promotrice provinciale fino a tutti gli innumerevoli soggettini romantici a figure terzine, egli fu venerato a Roma anche più di quel che l'Hayez fosse stimato a Milano o il Bezzuoli a Firenze. E come l'Hayez, morì novantenne.
Il Gagliardi è negli affreschi della chiesa di San Rocco a Roma più virile e ha un colore più franco, ma anche egli non sente la luce e tanto meno il chiaroscuro, e così non riesce al rilievo; le quali due accuse sono, in realtà, le massime contro tutta la pittura d'allora. Tanto che tutte quelle figure teatrali e i soliti guerrieri coi cimieri azzurri e i pennacchi rossi e le corazze turchinette e giallette, che modellan muscolo a muscolo la carne e i soliti toni di cobalto e di roseo alla Sassoferrato, fanno della Crocifissione cui allora stupefatta accorse tutta Roma, un quadro meschino presso le ampie figure zuccaresche dell'abside, ornamentali e baroccamente violente.
In Lombardia, oltre il Bertini, il d'Azeglio. Giuseppe [209] Bertini che nato nel '25 è morto quest'anno conservatore della Pinacoteca di Brera, sebbene sia più noto come primo maestro di qualche grande, pure meritò per la mobilità del suo stile dal Selvatico questa lode «or sa farsi Ghirlandajo, ora Tiepolo» dove il contrasto è così palese che la lode sembra un biasimo. L'arte di Massimo d'Azeglio invece fu protesa verso l'avvenire che egli bene intravvide, ma nel quale, come pittore, non riescì ad entrare. Più che la Sfida di Barletta o il Brindisi di Ferruccio o la Battaglia di Gavinana o lo Sforza che gitta l'accetta su l'albero o tutti i quadri di origine ariostesca, oggi ci importano i suoi paesaggi che egli studiava e, come diceva lui, finiva sul vero. Dei quadri supposti storici, dei quali ora più ci occupiamo, egli si gloria che avessero il gran merito — o piuttosto la condizione sine qua non di tutto quanto aveva fatto d'un po' significante — di servire cioè al pensiero italiano.
Ora questo per lui si può dir che sia quasi sempre vero: ma per gli altri lo fu? E se lo fu, questa pittura romantica raggiunse lo scopo, cioè affrettò la rivoluzione verso la unità e per la libertà individuale e nazionale? Lo stesso d'Azeglio che da giovane aveva veduto domare la rivoluzione francese e l'aristocrazia e il re tornare a Torino e i [210] cardinali e Pio VII tornare a Roma, parlando dell'Alfieri e delle sue tragedie in odio ai tiranni, osserva con ironia: «Quale appare secondo esse la via più breve onde condurre un popolo alla perfetta felicità, libertà, prosperità ecc. ecc.? Nascondersi dietro un uscio e far la posta al tiranno; quando passa, tonfete!, una buona botta sul capo, e tutto si trova fatto, compito e terminato; tutti sono contenti, tutti sono indipendenti, tutti sono liberi, felici, virtuosi, eguali, fratelli amorosi, insomma un popolo si trova diventato d'un colpo il paese della cuccagna! E il mondo va egli così? E tutto questo è egli vero, e mette forse in capo idee vere?»
E, aggiungo io, non si potrebbe dir lo stesso della pittura romantica e di tutte le Leghe Lombarde e di tutte le Congiure dei Pazzi e di tutte le Disfide di Barletta che furono dipinte allora? Invece di dire al vicino «La tua casa brucia» quei bravi artisti gli dicevano, ad esempio: «Brucia la Biblioteca d'Alessandria, o il Tempio di Diana in Efeso.» E ciò, come si capisce facilmente, poteva essere rettorico e, verso la polizia, comodo, ma poteva anche essere inutile. Eran ricordi di scuola, finzioni di mondi passati, spesso mai esistiti, favole non umane, irrealità e atteggiamenti e affettazioni, forme che non sprizzavano direttamente dal pensiero [211] e dalla passione vivi ma li viziavano e li impacciavano come paludamenti. La pittura fu, come disse il de Sanctis di quella letteratura, «un'Arcadia con licenza dei superiori,» Permettete a chi forse ammira troppo il tempo in cui vive di constatare che anche in franchezza, per fortuna, noi abbiamo progredito.
***
Prima di accennarvi come i fatti brutali e magnifici spinsero tutti gli animi a questa franchezza e lacerarono le maschere prudenti, e i pittori di Federigo Barbarossa e d'Ettore Fieramosca divennero o meglio dovettero divenire i pittori di Carlo Alberto, di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, vi dirò qualche parola su la scultura e gli scultori. E più che poche parole vorrei dirvene, poichè ho la ventura di parlare nella patria di Lorenzo Bartolini.
E tu giunto a compièta,
Lorenzo, come mai
Infondi nella creta
La vita che non hai?
Prima di lui la scultura classica del Canova, o [212] più propriamente inclinata alle semplicità del purismo nel Thorwaldsen e nel suo nobile allievo il nostro Tenerani, era in ogni modo stata regina in Europa. Per un momento tutta la nostra gloria artistica parve affidata a lei. Nè Dannecker nè Rauch in Germania, ne François Rude o David d'Angers Aimé Millet in Francia raggiunsero lo splendore d'onori, la fecondità pure diligente, la fattura squisita dei nostri. Per confrontare Thorwaldsen al conte Tenerani basta a Roma in San Pietro andare dal monumento di Pio settimo Chiaramonti a quello di Pio ottavo Albani; ma la castigatezza e il fermo modellare sì del maestro che del discepolo sono schiacciati dalle dorate vòlte pompose e ventose così, che al confronto il Gregorovius potè dire che le due tombe sembrano fra tanta sontuosità di cattolicismo due monumenti protestanti. È stato detto che il Minardi fu il Tenerani della scultura. Sì, ma il Minardi non seppe nè dipingere nè coi disegni commuovere; il Tenerani seppe e scolpire e commuovere. Dalla Psiche abbandonata che piacque tanto al Giordani fino all'altra Psiche svenuta che egli dovè ripetere quindici volte, dal rilievo della Deposizione dalla Croce che è tra gli ori candido vanto della Cappella Torlonia in Laterano fino al colossale San Giovanni Evangelista pel San Francesco [213] di Paola a Napoli, dal troppo classico Monumento pel conte Orloff al Monumento per Bolivar o alla statua di Pellegrino Rossi, egli ha mostrato veramente un'anima geniale e una scienza tecnica di polita gentilezza e un'abilità di panneggiare insuperata dallo stesso Thorwaldsen. E basta leggere una pagina della sua biografia scritta dal Raggi, per sentire quanto il mondo fosse allora pieno della sua fama.
Intanto il Marocchetti di Biella empiva l'Europa di cavalli e di cavalieri purtroppo ancora visibili, nessuno dei quali per fortuna nostra vale l'Emanuele Filiberto di piazza San Carlo a Torino. Però nessuno, e tanto meno lui, ebbe il virile animo e la tenacia diritta e la forza combattiva del vostro Bartolini.
Lo stesso Giusti, che per lui scriveva i versi detti poco fa, sembra che anche per lui abbia cantato:
In corpo e in anima
Servi il reale,
E non ti perdere
Nell'ideale,
parole chiare che diverranno una divisa di coraggio.
Francesco Hayez è vissuto tra il 1791 e il 1882, Lorenzo Bartolini tra il 1777 e il 1850. Confrontateli: [214] versatile, opportunista, già dimenticato il primo; rigido, intollerante, austero, ogni giorno più vivo e più degno di vivere il secondo. Figlio d'un magnano, fattorino di bottega, commesso d'un sarto, garzone d'un vetraio e d'un marmista, suonatore di violino nelle più buie orchestre di Firenze o di Parigi, il Delaborde in un articolo che la Revue des Deux mondes pubblicava quarantaquattr'anni fa, narra come il David stesso anche prima che il Bartolini scolpisse il bassorilievo della battaglia d'Austerlitz per la colonna Vendôme restasse stupito e soggiogato dal sentimento semplice, dall'ingenua larghezza, dalla sincerità mai volgare di quella giovenile arte di lui, che la natura voleva interpretare direttamente senza infrapposizioni di morte bellezze officiali.
Pochi giorni fa in un giornale d'arte romano di verso il '40 leggevo una sua caratteristica polemica, quando dette per tema agli scolari il bassorilievo d'Esopo, egli che, morto Stefano Ricci, autore del monumento a Dante, già insegnava scultura all'Accademia fiorentina, aveva scritto: «Diverse figure adattate per esercizio del nudo, servono a dimostrare che tutta la natura è bella, quando però è relativa al soggetto, e che colui il quale saprà meglio imitarla potrà quindi eseguire qualunque tema [215] gli venga proposto.» Un anonimo nel Diario di Roma, un tale Zanelli nell'Album, combatterono questa affermazione rivoluzionaria, questa ostentazione di massime antiaccademiche, questa franca glorificazione di tutta la vita. Dicevan gli avversarî che nei fiori, negli alberi, nel paesaggio la natura può prendersi qual'è, ma non nel corpo umano perchè esso ha peccato. E gli citavan Platone e il prototipo generato e Raffaello e Guido Reni e naturalmente anche Winckelmann; infine, a difesa del bello ideale, gli proponevano: «dipingete o scolpite cento vecchie e cento giovani con egual maestria, tutti guarderanno le giovani.» Il Bartolini sul Commercio rispondeva: «Come saranno brutte quelle giovani se l'avrete inventate voi!»
La sua ammirazione per Napoleone con quella sua misteriosa corsa all'isola d'Elba in pieno 1814 quando caduto l'imperatore la folla gli penetrò nello studio e gli infranse gessi e marmi furiosa, è un indice del suo cuore. La sua amicizia per Ingres con cui aveva studiato e vissuto a Parigi e che lo ritrattò, e per Byron e per M.me de Staël i cui busti egli scolpì, è un indice della sua mente.
Delle sue opere — poichè, se ne togli il gran Napoleone che è a Bastia vòlto al mare d'Italia [216] e la genuflessa Fiducia in Dio che è a Milano nel palazzo Poldi-Pezzoli e l'Astianatte impetuoso che pure a Milano è su la terrazza di palazzo Trivulzio sono tutte a Firenze — è inutile parlare. Chi di voi non conosce nella sala dell'Iliade a Palazzo Pitti, la Carità educatrice, in piazza Demidoff, il Monumento a Nicola Demidoff, o in Santa Croce la statua giacente della vecchia contessa Zamoyska che veramente sembra addormentata in un marmoreo sonno di morte? Chi non ha visto nel refettorio del convento di San Salvi i gessi dei ritratti in busto plasmati da lui, massimo quello dell'attore Vestri il cui marmo è alla Certosa di Bologna? Non dobbiamo dimenticare che egli nascendo all'arte trovò il mondo della scultura popolato di dèi e di semidei e di omerici eroi tutti belli. E quand'egli morì, l'Italia aveva il Vela e il Duprè, e si potè in Santa Croce sotto il suo monumento scrivere la insegna della sua vita Natura lumen artium.
Senza il Bartolini, nè Vincenzo Vela, nè Giovanni Duprè sarebbero stati. Come lui essi sorsero dal popolo, energici e fiduciosi; più bellicoso e saldo e taciturno il primo, più timido e gentile il secondo. Ma, se l'Abele del Duprè è del 1842, la Pietà è del 1862 e lo Spartaco del Vela appare [217] nel 1879. Così che l'esame dell'opera di questi due grandi, spetta a chi un altr'anno vi descriverà l'arte italiana dopo il '48.
***
Il quarantotto — lo ripeto — è una pietra miliare donde non solo una nuova politica si parte ma anche una nuova arte, più libera e franca sotto il sole.
Lentamente, da quel momento, l'arte e la vita tendono a riunirsi e nel 1843 Vincenzo Gioberti pubblica il Primato, nel 1844 Cesare Balbo le Speranze d'Italia, e d'Azeglio, il romanziere e il pittore di Ettore e di Ginevra, l'opuscolo Dei casi di Romagna subito dopo i moti di Rimini e di Bagnacavallo, il quale opuscolo, è ancora mite e quasi dottrinario rispetto al famoso libro su I lutti di Lombardia. Egli è ferito a Vicenza. Le cinque giornate di Milano, la difesa di Venezia, la difesa di Roma. Guerrazzi e Montanelli vogliono stabilire la repubblica a Firenze; Mazzini a Roma. Dopo Novara, il d'Azeglio accetta di essere ministro per la pace, e da quel giorno è ecclissato da Cavour. Il Conte di Cimié emissario d'Austria quindici anni [218] prima, tentando di spingere Carlo Alberto alla reazione con l'incitargli contro i tumulti della piazza più impetuosi, aveva detto: — Bisogna fargli assaggiar del sangue, altrimenti egli ci sfugge! — E il sangue, il sangue è apparso e non più quello dipinto con pallidi vermigli nei più tragici quadri romantici sul petto di uomini mascherati alla medievale, ma il rosso caldo sangue dei figli, dei fratelli, il sangue stesso di quelli artisti cui dai franchi occhi cadde il velo della rettorica e folgorò tra i lampi dell'armi la visione della patria quale doveva essere, — visione precisa, limpida, come un segnale dall'alto.
La scuola mazziniana democratica opposta alla liberale lombardo-piemontese — Campanella a Genova, Farini in Romagna, La Farina in Sicilia, Guerrazzi in Toscana, Carlo Poerio a Napoli — fece direttamente e indirettamente il '48 e l'insurrezione calabrese e la rivoluzione di Palermo, e le difese di Roma e di Venezia e le resistenze di Bologna e di Brescia, e Garibaldi. Il romanticismo — e Pellico e d'Azeglio e Balbo e Rosmini — cade dal governo incontrastato delle menti. E la pittura romantica è morta. S'è vista e s'è toccata la salda ardente realtà. Anche prima che in letteratura così il realismo comincia in pittura. Luigi [219] Mussini finirà a fare il ritratto di Vittorio Emanuele, l'Hayez che ha dipinto il Bacio di Giulietta e Romeo finirà a dipingere il Bacio del volontario che parte, come pochi anni prima il vecchio Camuccini aveva per Carlo Alberto dipinto Furio Camillo che caccia i Galli dal Campidoglio.
Tutta la tecnica si rinnova. E prima di tutto, nei quadri di paese. In Francia Rousseau, Corot, Troyon, Diaz, Daubigny, Millet, e accanto a loro tutti gli sfavillanti orientalisti di Francia da dieci o da venti anni attendono di predicar con le loro opere il vangelo della luce d'Italia. Dal Piemonte, prima che da ogni altra regione, partono per varcar le Alpi il Valerio, il Perotti e il Gamba, i quali hanno il torto di credere che il cammino più breve verso Parigi sia attraverso la Svizzera cioè attraverso l'imitazione della buja e piatta e scenografica scuola del Calame. Così che i rivelatori — quelli che, come fu detto con una frase troppo chirurgica, toglieranno le cateratte agli occhi della pittura italiana, — saranno napoletani.
Di Napoli io non ho ancora parlato. E chi avrei potuto indicarvi in quel gelo se non l'accademicissimo Tommaso De Vivo, o Giuseppe Mancinelli, che nell'Aiace e Cassandra del Palazzo Reale ancora [220] venera in ginocchio il Camuccini e nel San Francesco di Paola a Capodimonte, non fa che voltarsi a venerare il Podesti? Filippo Palizzi e Achille Vertunni e, quando dopo il '48 avrà abbandonato i suoi primi flebili amori coi puristi, anche Domenico Morelli: ecco quei rivelatori che solo un altr'anno vi saranno rivelati.
Il sentimentalismo dei romantici, per questa restaurazione della vita nell'arte, diverrà emozione sincera in due forme di pittura: una larga e, direi, sonora che al quadro teatrale e romantico sostituirà il quadro realmente storico ed eroico con gli Iconoclasti del Morelli, coi Dieci del Celentano, con la Stuarda del Vannutelli, col Sordello del Faruffini, alla Brera, coi Martiri gorgomiensi del Fracassini, in Vaticano; una più intima e più placida che sarà detta pittura di genere.
I fratelli Induno crearono la pittura di genere. Ambedue studiarono all'Accademia milanese sotto il Sabatelli, ambedue cominciarono a camminare sotto il giogo dell'Hayez. Ed è relativamente a questi inizii, e al loro tempo, che devono essere giudicati. E nell'uno e nell'altro il 1848 interruppe la vita artistica e cacciò Domenico ad esulare in Isvizzera e in Toscana, e Girolamo, più giovane di dodici anni, a combattere a Roma. I Contrabbandieri, [221] il Pane e lagrime, il Dolore del soldato, la Questua, il Rosario dipinti da Domenico, furono le tele che prime persuasero gli artisti non derivar solo dalla storia l'ispirazione, ma anzi la massima sincerità essere nella immediata contemporanea realtà del soggetto, e la sincerità di un'opera d'arte essere in rapporto diretto con la sua potenza emotiva. Per lui Pietro Selvatico scrisse quel saggio Su la opportunità di trattare in pittura anche soggetti tolti alla vita contemporanea, che aveva per epigrafe ancora un verso del nostro Giusti:
Di te, dell'età tua prenditi cura.
A Milano tra il museo del Risorgimento e l'Associazione patriottica e il Palazzo Reale e le ultime gelide sale di Brera[5], voi potete trovare le maggiori tele di Girolamo, e Crimea e Magenta e Palestro e la Partenza del coscritto, le quali, come dicono i titoli, sono tutte posteriori al '50. E anche in quel Palazzo Reale potete trovare il Cader delle [222] foglie di Domenico, che a me è sempre sembrato il suo più bel quadro con quell'etica pallida che si spegne in conspetto della larga campagna autunnale, quando sui monti azzurrini del fondo già biancheggiano le prime nevi. Certo la pennellata franca e avvolgente è migliore del colore ancora roseo e bigio, secondo la fievole intonazione che da mezzo secolo smorza ogni sole; ma, quando il modello è vicino e lo accende, egli è capace di creare il magistrale Ritratto d'uomo nella galleria d'arte moderna a Roma, d'un colore così affocato ed intenso e d'un'espressione, negli occhi stanchi, così dolorosa e lancinante che nessun altro ritratto là dentro regge al confronto.
***
Signori, con questo nuovo periodo l'arte italiana è libera — libera dal servile plagio degli antichi che è mille volte più dannoso della imitazione dei contemporanei, libera da ogni polveroso pregiudizio e da ogni angusto impaccio d'accademia, libera da quella che Ruskin disse l'insolenza della fede. L'individuo, diviene, almeno in arte, il padrone di sè stesso, e tutti — artisti, critici, pubblico, quali si sieno i loro gusti e le loro opinioni — sanno che [223] l'arte vera non è mai fissata o definita, ma è un continuo divenire come la religione e come la scienza. Lasciatelo dire a un ottimista: l'arte, il giorno in cui essa è tornata, nelle sue aspirazioni se non nella sua attualità, alla spontaneità anche violenta e anche intemperante, il giorno in cui si è compreso che le pitture più belle non sono le più pittoresche ma le più sincere, l'arte, dico, in quel giorno è tornata al suo massimo cómpito — cioè a farci amare la vita che ella stessa ha amato, poichè ha cercato di comprenderla e di renderla e di interpretarla per la nostra più precisa delizia. E questa è la sua funzione nella società.
«Quando leggo Omero, tutti gli uomini ai miei occhi divengono giganti,» diceva un grande poeta. Ahimè, non gli eroi omerici che il cavalier Camuccini si illuse di rappresentare, ci daranno questa sensazione di magnificenza e di ampiezza e di eternità, ma una quieta pianura dipinta dal Vertunni o un semplice ciuffo d'erbe dipinto dal Palizzi o una nuvola sul tramonto dipinta dal Fontanesi, perchè questi hanno visto e hanno reso la natura con semplicità d'amore.
[225]
CONFERENZA
DI
GIUSEPPE COLOMBO.
[227]
Due anni sono, invitato a parlarvi di Volta e delle scoperte scientifiche che illustrarono la fine del XVIII secolo e il principio dell'attuale, vi ho detto che quel periodo storico fu segnalato da due grandi avvenimenti, i quali dovevano produrre nelle condizioni economiche e sociali di tutto il mondo la più grande rivoluzione che la storia abbia registrato finora. Questi avvenimenti furono la scoperta della pila, dovuta a Volta, e l'invenzione della macchina a vapore, dovuta a Watt. Dell'una ho avuto l'onore di intrattenervi due anni fa; dell'altra, e delle sue prime applicazioni in Italia, ho la fortuna di potervi parlare quest'oggi.
È la macchina a vapore che ha creato l'industria moderna. Lo scozzese Watt, trovando la prima soluzione pratica del problema di convertire il calore [228] in forza, ha aperto all'attività dell'uomo un orizzonte sconfinato, verso il quale l'umanità si è slanciata con tanto ardore, che oggi il pensatore ha diritto di domandarsi se non si sia battuta una falsa strada e se l'invenzione della macchina a vapore si possa veramente dire, dal punto di vista sociale, un beneficio.
Non è un paradosso l'enunciazione di un simile dubbio. Certo la macchina a vapore ha prodotto un mutamento profondo nella vita sociale e individuale; ha permesso di creare immense ricchezze, ha soppresso le distanze, ha messo a disposizione dell'uomo mille nuove risorse che gli possono render facile e aggradevole la vita; ma ha anche moltiplicato la popolazione, e ha moltiplicati i suoi bisogni. Ormai presso i popoli civili il problema supremo è di continuare a produrre indefinitamente, e a cercare senza posa nuovi consumatori, sotto pena di soccombere sotto la concorrenza e di piombare nella disoccupazione e nella miseria. Se la felicità umana risiede nell'equilibrio fra i bisogni e i mezzi di soddisfarli, è molto dubbio se l'individuo si trovi più felice ora in mezzo a tanto progresso, che ai tempi antichi, quando non esisteva la grande industria, e non si conoscevano nè le macchine a vapore, nè le ferrovie.
[229]
La grande industria, come si svolse in questo secolo dopo l'invenzione della macchina a vapore, non esisteva presso gli antichi. C'erano, è vero, manifatture fiorenti, i cui prodotti erano conosciuti e consumati anche a grande distanza, come le ceramiche e le gioiellerie fenicie ed etrusche, i vasi di Egina e di Samo, i ricami frigi, le stoffe d'Egitto; gli studi fatti sugli avanzi dell'antica Falleri, così ben ordinati e raccolti a Roma nel Museo di Papa Giulio, mostrano chiaramente l'esistenza di questo movimento commerciale, e l'influenza dei prodotti importati sullo sviluppo delle industrie locali. Erano prodotti fabbricati a mano, col sussidio di utensili la cui forma ci è trasmessa sino ad oggi, e di quelle poche macchine che l'antichità conosceva e la cui origine si perde nella notte dei tempi. Il trapano è descritto nell'Odissea, ma rimonta certo all'epoca in cui si faceva il fuoco col metodo ancora in uso presso le popolazioni primitive, premendo un pezzo di legno appuntito contro un legno piano, e facendolo girare rapidamente fra le mani come un frullino; i vasi torniti di alabastro e di serpentino provenienti dall'Egitto, che si trovano nel museo di Berlino, dimostrano che 2 o 3 mila anni avanti Cristo si conosceva l'uso del tornio; come le fusarole di [230] pietra o d'argilla e i tessuti trovati nelle palafitte fanno testimonianza dei mezzi meccanici, già quasi perfetti, dei quali disponeva l'industria tessile preistorica. Ma si trattava sempre di industria domestica, press'a poco come quella che esisteva nel Giappone prima che vi penetrasse la civiltà europea; e siccome non vi si impiegava altra forza che quella dell'uomo o al più degli animali, così la produzione non poteva essere che assai limitata.
La grande industria non poteva nascere che colla possibilità di disporre delle forze naturali, come quella delle cadute d'acqua e del vapore. L'antichità lo intravide. Un inventore, rimasto sconosciuto, sostituì pel primo, alcune centinaia di anni avanti l'èra volgare, la forza dell'acqua a quella dell'uomo per la macinazione del grano, e forse per la lavorazione del ferro e del rame; e 120 anni avanti Cristo, un filosofo della scuola alessandrina ebbe la prima idea della forza del vapore, quando immaginò la celebre eolipila, che ancor oggi, a 20 secoli di distanza, si trova in tutti i gabinetti di fisica.
Ma i tempi non eran maturi. La ruota idraulica, cui il poeta greco Antiparo inneggiava come all'invenzione che doveva risparmiare il lavoro alle [231] schiave, rimase fin quasi alla fine dello scorso secolo un motore pressochè esclusivamente limitato, come nell'antichità, alle fucine e ai molini; e l'eolipila restò quella che era ai tempi di Erone, cioè un giocattolo scientifico.
Per spiegare questa lunga inazione, bisogna rammentare innanzi tutto la grande catastrofe delle immigrazioni dei barbari, che travolse, colla caduta dell'impero romano, tutto l'antico organismo sociale. Per qualche tempo, durante il dominio arabo in Europa, l'indagine scientifica si ravviva; ma la scuola d'Aristotile e i sofismi della scolastica immobilizzano e sterilizzano ben presto lo spirito umano. Finalmente, dopo lunghi secoli di oscurità, la scienza trova la sua vera base con Galileo, e può ormai procedere senza vincoli alla ricerca del vero. Colla scuola di Galileo, quando l'enunciazione delle leggi della caduta dei gravi fu il raggio di luce che squarciò le nebbie scolastiche diffuse su tutte le scienze, comincia il metodo di osservazione; ed è appunto coi suoi primi passi che si connette l'invenzione della macchina a vapore.
Per qualche tempo ancora, lo spirito inventivo erra nel vago e nell'indeterminato. Non si possono dimenticare ad un tratto i vecchi errori. La fisica [232] si perde ancora nelle sottigliezze della scolastica; si scrivono volumi per trovare le cause della distruzione del vitello d'oro, o per indagare quante migliaia d'angeli potrebbero stare sulla punta di uno spillo. Fu quella dal 1600 al 1650, l'epoca delle sterili elucubrazioni di Branca in Italia, di De Caus in Francia, e del marchese di Worcester in Inghilterra, tutti più o meno direttamente ispirati dalla Spiritalia di Erone, i quali a torto furono indicati come i precursori dell'inventore della macchina a vapore.
Ma un allievo di Galileo, il Torricelli, dimostra l'esistenza della pressione dell'atmosfera, e ne dà la misura, invano osteggiato dalla vecchia scuola che vorrebbe salvare l'orrore del vuoto e la scienza in parrucca, minacciata dalla fondamenta. Pascal aggiunge altre dimostrazioni di questa pressione; Otto von Guericke inventa a Magdeburgo la macchina pneumatica e mostra con quanta forza agisca la pressione dell'aria sulla parete di un recipiente in cui si faccia il vuoto; ed ecco Papin, il quale, partendo dalla conoscenza di questa forza, si propone di utilizzarla, e usa del vapore per la prima volta per produrre il vuoto, condensandolo con aspersioni di acqua fredda; e poi Savery che ne usa diversamente per sollevare l'acqua dalle miniere [233] di carbone, facendo premere direttamente il vapore sull'acqua da sollevare. Siamo al 1700.
Da questo momento la storia dell'invenzione della macchina a vapore diventa interessantissima, e io vorrei raccontarvela in dettaglio, se ne avessi il tempo. In meno di un secolo, la macchina a vapore moderna è inventata. Dapprima Newcomen e Cowley, un fabbro e un vetraio, si uniscono a Savery e perfezionano la macchina di Papin in guisa che quasi tutti i proprietari di miniere di carbon fossile dell'Inghilterra l'adottano come pompa a fuoco per prosciugare le gallerie sotterranee. Siamo al 1750.
Il fisico Black scopre a Glasgow il calore latente del vapore. Fra i suoi allievi c'è un giovane apprendista di genio, Giacomo Watt, che prende in esame le macchine esistenti, le trasforma radicalmente e ne fa uscire, verso il 1770, la macchina a vapore perfetta quale la vediamo tuttora. Nulla di veramente essenziale vi è stato aggiunto da quell'epoca ad oggi.
Voi sapete quali ne sieno i lineamenti caratteristici. Si mette dell'acqua in una gran caldaia chiusa, e la si riscalda finchè l'acqua comincia a bollire e vaporizzare. Di mano in mano che l'acqua si converte in vapore, la pressione interna dovuta alla [234] forza del vapore, cresce rapidamente e potrebbe anche far scoppiare la caldaia, se questa non fosse robusta e non avesse una valvola di sicurezza. È questa, in sostanza, la famosa pentola di Papin. Allora si apre la comunicazione fra la caldaia e la macchina. Il vapore, giunto nel cilindro della macchina, spinge davanti a se una parete mobile, detta lo stantuffo, il quale è veramente l'organo motore e trasmette poi il movimento a tutte le macchine che si tratta di fare agire.
È così che lo descrive il poeta Zanella nel suo carme sull'industria:
. . . . . . somigliante a domo
Chiuso Titano, cento rote e cento
Volve il vapor, che dall'assiduo stento
Francheggia l'uomo.
Esercitata così la sua azione, il vapore viene condensato con dell'acqua fredda, si riduce così ancora in acqua, lasciando il vuoto dietro di sè; e in questo stato d'acqua è ricondotto in caldaia. E adunque un ciclo, come si dice, quello che si compie: cioè è la stessa quantità d'acqua che alternativamente vaporizzata e poi condensata fornisce la forza alla macchina.
Questo risultato finale, cioè la forza della macchina, [235] o, per dir meglio, il lavoro che compie, sia sollevando dei carichi o macinando del grano o lavorando il ferro o movendo un bastimento o un convoglio, ossia facendo un trasporto o una trasformazione qualsiasi della materia, si ottiene bruciando del carbon fossile o un altro combustibile qualunque: si ottiene, cioè, consumando calore. Quindi la macchina a vapore è un mezzo per trasformare calore in lavoro.
Vedremo più avanti di farci un'idea più chiara e più completa dì questa trasformazione. Ma per ora soffermiamoci alcuni istanti a esaminare le prove e le più importanti applicazioni della macchina a vapore, che si sieno fatte in Italia nel periodo storico cui si riferisce questa serie di conferenze.
In Inghilterra, lo abbiamo visto, la macchina a vapore non era ancora perfetta, che già trovavasi impiegata per il prosciugamento delle miniere di carbone. Poi il suo uso si estese all'elevazione dell'acqua per diversi altri scopi; ed è anzi da un'applicazione di questo genere alla birreria Whitebread di Londra che nacque la denominazione, diventata poi così comune, di cavallo-vapore per designare la forza delle macchine; poichè la macchina a vapore doveva ivi, come altrove, surrogare il lavoro di un certo numero di quei poderosi cavalli [236] da birrai, così celebri per la loro forza, pressochè doppia di quella dei cavalli comuni. Ma in breve tempo se ne impadronivano pure l'industria tessile, e poi le altre industrie; e così, potendosi disporre, colla macchina a vapore, di forze enormi e quasi illimitate, l'industria casalinga cominciò a cedere il posto alla grande industria esercitata negli opifici.
È difficile di accertare con precisione l'epoca nella quale la macchina a vapore cominciò a penetrare in Italia a servizio dell'industria. Prima del 1830 esistevano certo degli stabilimenti industriali in Italia, ma erano scarsi e mossi tutti dall'acqua. Probabilmente uno dei primi motori a vapore, se non il primo, fu quello applicato nel 1832 alla raffineria di zuccheri Azimonti e Conti di Milano. Certo, ancora nel 1839, secondo ne scrisse Carlo Cattaneo, le macchine a vapore in Lombardia si contavano sulle dita. Nel 1838 il barone Testa fece il primo impianto a vapore per la bonifica di Brondolo su quel di Chioggia con macchine che erano destinate al lago di Garda, e nel 1840 fu fatto funzionare il primo molino a vapore di Bougleux a Livorno, con carbone di Montebamboli. Da allora in poi anche da noi l'industria si svolse sempre più largamente col sussidio di macchine a [237] vapore, per lo più importate dall'estero, finchè per l'opera d'un grande industriale, l'ingegner Tosi, che una mano scellerata sospinse innanzi tempo alla tomba, l'Italia potè per la prima volta non soltanto fornire a sè stessa i motori a vapore, ma farsene esportatrice.
Più che nel campo industriale è facile accertare le date delle prime applicazioni del vapore fatte in Italia per la navigazione e le ferrovie.
La storia della navigazione a vapore è ricca di incidenti. L'americano Fulton lancia nel 1803 un battello a ruote sulla Senna, ma non trovando appoggio in Napoleone, che lo crede un avventuriero, torna in America e inaugura il 10 agosto 1807 un servizio regolare a vapore sulla East River fra New York e Albany. Nel 1816 l'Elise, un battellino a vapore di soli 16 metri di lunghezza, traversa pel primo la Manica, malgrado una tempesta furiosa, in 17 ore; nel 1819 il Savannah di 380 tonnellate traversa l'Atlantico da New York a Liverpool, parte a vela e parte a vapore, in 25 giorni; nel 1825 l'Enterprise fa il primo viaggio alle Indie. Ma la vera navigazione transatlantica non comincia che colla famosa gara del Sirius e del Great Western. Il 5 aprile 1838 il Sirius di 700 tonnellate e 320 cavalli salpa da Cork; tre giorni [238] dopo salpa da Bristol il Great Western di 1340 tonnellate e 450 cavalli, e ambedue arrivano a New York il '23, salutati dai cannoni e dalle campane e da migliaia di imbarcazioni festanti. Le stesse gare si fanno ancora oggi fra i vapori delle grandi Compagnie transatlantiche; ma ora si tratta di vapori di 20 a 30 mila cavalli, capaci di 3 a 4 mila passeggeri, e la traversata di 3000 miglia si compie ormai dai vapori più veloci in meno di sei giorni, cioè colla velocità di 20 miglia all'ora. E le navi moderne da guerra hanno velocità ancora maggiori, sino a 30 e 35 miglia all'ora.
Le ruotaie esistevano già in Inghilterra alla fine del XVII secolo, prima di legno, poi di ferro, pel trasporto dei carboni fossili; ma le prime macchine datano soltanto dal 1804, e non rappresentano che tentativi mal riusciti. Nel 1815 Giorgio Stephenson, il cui nome rimarrà congiunto alla storia delle ferrovie come quello di Watt a quella delle macchine a vapore, costruisce una prima locomotiva soddisfacente pel servizio merci sul tronco fra Darlington e Stockton; ma la vera locomotiva moderna non nasce che col celebre concorso del 1829 per la linea Manchester-Liverpool, vinto da Giorgio e Roberto Stephenson colla macchina Rocket, che ancora si conserva come ricordo del grande [239] avvenimento. Su quella linea si inaugurò per la prima volta il servizio dei passeggeri. In due anni il dividendo dell'intrapresa sale al 10%, e comincia una sfrenata speculazione ferroviaria, che fu causa in quel tempo di grandi fortune e anche di grandi disastri.
A quell'epoca le locomotive pesavano poche tonnellate, e rimorchiavano sei od otto carrozze con velocità appena maggiore di quella di un buon cavallo, da 20 a 25 chilometri all'ora; ora si fanno locomotive perfino di 100 tonnellate, rimorchianti convogli di migliaia di tonnellate; e i treni diretti vanno a 90 e 100 e perfino 125 chilometri all'ora.
In Italia le grandi intraprese navali cominciarono tardi; ma la navigazione a vapore fluviale e lacuale si svolse poco più tardi che in Inghilterra. Infatti nel 1819 si varò a Genova il primo battello a vapore l'Eridano, costrutto nelle officine di Watt e destinato a navigare sul Po. Ma l'impresa ben presto fallì, e la macchina dell'Eridano fu messa a bordo di un battello varato a Locarno sul Lago Maggiore nel 1826 col nome di Verbano: e nello stesso anno fu varato il Lario destinato al Lago di Como, cui tennero dietro il Plinio e il Falco, e più tardi il Veloce e il Lariano, per la [240] inaugurazione del quale il nobile Lambertenghi scrisse questi versi, per vero dire poco peregrini:
Ve' sublime fra tanto navile
Vasto un legno torreggia signor:
Mai quest'onde solcava un simile
In audacia, vaghezza e lavor.
A Napoli toccò il vanto di avere la prima ferrovia costrutta in Italia: quella fra Napoli e Portici, inaugurata solennemente da Ferdinando II il 26 settembre 1839, e aperta all'esercizio il 4 ottobre successivo. La cerimonia d'inaugurazione fu un avvenimento; e come particolare curioso riferisce il De Cesare che la signora Cottrau, la quale aveva preso parte alla corsa inaugurale, si sgravò sul treno, durante il ritorno, d'un bambino, che fu quell'Alfredo Cottrau, il quale doveva tanto illustrarsi in materia di ferrovie.
Fu il Genio militare che costrusse quella linea e poi l'altra fra Napoli, Caserta e Capua, e ne diresse l'esercizio. Il Re stesso ne aveva determinato il tracciamento e fissate le stazioni; di gallerie non ce n'erano perchè ritenute pericolose alla morale pubblica e perchè il Re non voleva pertusi. Quando viaggiava il Re, era lui che dava gli ordini, e il capotreno, stando sul predellino della [241] carrozza reale, li trasmetteva al macchinista. Egli amava la gran velocità e faceva fare in mezz'ora i 32 chilometri fra Napoli e Caserta: ma alla Regina Maria Teresa non garbava correre a rompicollo, e perciò raccomandava al macchinista di andar piano come un somarello.
Benchè si trattasse di linee del governo, e il Re stesso si interessasse dall'esercizio, pure venuto l'uragano del 1848, diventarono anch'esse uno strumento di rivoluzione. Così il De Cesare racconta che il 15 maggio di quell'anno, essendosi dato ordine a due reggimenti di portarsi immediatamente da Capua a Napoli, il capo stazione di Capua, affigliato ai Comitati insurrezionali, mentre si preparavano i treni, fece smontare da un uomo di fiducia un tratto di binario, e partì poi egli stesso col primo treno per evitare un disastro; ma intanto riuscì con questo mezzo a trattenere le truppe per un giorno intero.
Alla linea Napoli-Portici succedette immediatamente quella fra Milano e Monza inaugurata il 13 agosto 1840. Nel 1841 cominciò la costruzione della linea Milano-Venezia, compiuta solo nel 1846. Intanto si apriva in Toscana la linea Livorno-Pisa il 14 marzo 1844 sotto la direzione di Roberto Stephenson; il Piemonte non arrivò che più tardi. [242] nel 1848, col tronco Torino-Moncalieri. Dal 1839 al 1850 in tutta Italia si costrussero circa 600 chilometri di ferrovie; ora ne abbiamo 15,500.
Sono ormai più di cent'anni che la macchina a vapore esiste; ed essa, perfezionandosi sempre più, continua a lottare vigorosamente contro tutti i suoi avversari, macchine ad aria calda, a gas, a petrolio, che tentano, ancora invano, di contenderle il primato, cioè di fornire la forza a un prezzo minore. Ma come si è perfezionata? E come potrebbe perfezionarsi ancora?
Qui entriamo nel cuore della questione della trasformazione di calore in lavoro. E una materia astrusa, forse poco adatta alla parte più gentile del pubblico che mi sta ascoltando; ma ormai al giorno d'oggi si può dire che nessuna questione, anche tecnica, non può nè deve esser straniera alle intelligenze educate.
Come si fa a convertire calore in lavoro nella macchina a vapore? Si prende dell'acqua: le si adduce del calore da una sorgente di calore qual è il combustibile ardente; la si converte così in vapore che compie il lavoro colla grande forza che possiede; poi questo vapore viene ridotto di nuovo in acqua raffreddandolo, cioè sottraendogli calore con un refrigerante, che non è altro che dell'acqua [243] fredda. E questo vapore così ridotto in acqua è pronto a compiere un secondo ciclo, anzi una serie indefinita di cicli simili al primo. In sostanza, si attinge vapore da un corpo caldo, che è il combustibile ardente, e si cede calore a un corpo freddo, che è l'acqua refrigerante. Una parte del calore è così semplicemente trasformata dal corpo caldo al corpo freddo, ma un'altra parte è scomparsa, cioè si è convertita nel lavoro fatto dalla macchina.
Ora, come mai il calore si può convertire in forza e lavoro? Considerate un corpo caldo; orbene: secondo l'ipotesi più probabile, l'impressione di calore che esso produce sul nostro senso del tatto non sarebbe che la comunicazione ai nervi di un movimento rapidissimo di vibrazione delle molecole del corpo caldo. Ciò posto, scaldare dell'acqua ossia comunicarle calore, vuol dire impartire alle sue molecole una rapidissima vibrazione. Quando il calore trasmesso è abbastanza forte, la vibrazione diventa tanto intensa, che le molecole dell'acqua non possono più stare insieme e si slanciano libere da tutte le parti; ed ecco che così l'acqua si converte in vapore. Queste molecole, diventate libere, sono come altrettanti proiettili che vanno a colpire le pareti del cilindro in cui il vapore è rinchiuso; se una di queste pareti è mobile, [244] come è appunto lo stantuffo della macchina, questa scarica di proiettili gassosi che vanno ad urtarlo, lo spingeranno avanti, vincendo le resistenze che gli si appongono. Ecco come il calore si converte in forza e lavoro: ciò che costituisce il principio fondamentale della teoria moderna del calore, il così detto primo principio, o principio dell'equivalenza.
Si fa dunque compiere al calore un salto da una temperatura alta a una temperatura bassa, mentre nel compiere questo salto una parte del calore si converte, nel modo che ho detto, in lavoro.
Ora non facciamo noi una cosa analoga quando adoperiamo la forza dell'acqua? Voi avrete visto un molino in montagna, per esempio: arriva l'acqua dal monte a un certo livello, e la si manda sulla ruota del molino; poi quest'acqua lascia la ruota a un livello più basso e va pel suo cammino. L'acqua ha qui compiuto un salto da un livello alto a un livello basso, e ha con ciò fornito del lavoro; ed è chiaro che quanto più grande sarà il salto, tanto maggiore sarà il lavoro ottenuto colla medesima acqua. Orbene: affatto analogamente, quanto più grande sarà il salto di temperatura in una macchina a vapore, più grande sarà l'effetto utile, [245] ossia il lavoro fornito da una medesima quantità di calore. È questo il secondo principio della termodinamica, il famoso principio di Carnot, l'avo dello sventurato presidente della Repubblica francese.
Se si potesse godere di tutto il salto di un corso d'acqua della sorgente fino al mare si caverebbe da quell'acqua tutto l'utile che essa può dare. Egualmente, se noi potessimo godere tutto il salto dalla temperatura del combustibile incandescente, che è la sorgente, sino al freddo assoluto, che i fisici pongono a 273 gradi sotto lo zero, e che è pel calore ciò che il mare è per l'acqua, caveremmo il più gran partito possibile dal calore, ossia dal combustibile consumato. E questo possibile? O entro quali limiti sarebbe possibile?
La pressione del vapore cresce assai più rapidamente della sua temperatura; e voi sapete, per le notizie che sentite di tanto in tanto di terribili scoppi di caldaie a vapore, quanto sieno pericolose le alte pressioni. Ma ci si va abituando, e d'altra parte si riesce ora a garantirsi sempre più contro simili eventualità con scelti materiali e una accurata costruzione e sorveglianza. Ai tempi di Watt una pressione di 2 o 3 atmosfere faceva spavento; ora si va a 10, 12, 15 atmosfere, e già si [246] fanno esperimenti a 30 e sino a 35 atmosfere. Ma anche se si adottassero queste enormi pressioni, la temperatura non si eleverebbe a più di 250° circa. È come dire che da questa parte il salto è stato aumentato per quanto era possibile, ma non potrebbe essere elevato molto di più.
D'altra parte, è egli possibile di scendere a temperature più basse di quelle dell'acqua fredda che serve d'ordinario come mezzo refrigerante? È possibile di avvicinarsi di più a quel limite dello zero assoluto, cioè a 273° sotto la temperatura del ghiaccio fondente?
Certo che sarebbe possibile, se adoperassimo vapori diversi da quello dell'acqua. Voi sapete che ormai la fisica è riuscita a liquefare tutti i gas colla pressione e col freddo. Questi gas, in sostanza, non sono che vapori di liquidi sconosciuti nelle condizioni di temperatura e di pressione nelle quali viviamo. Si è liquefatta l'aria, si è liquefatto l'idrogeno; ed ora si tratta l'aria liquida come se fosse dell'acqua comune. Orbene: l'aria liquida ha nientemeno che una temperatura di 190° sotto lo zero; e l'idrogeno liquido ha una temperatura ancora più bassa. E l'aria liquida non è materia nè pericolosa, nè instabile; con certe precauzioni la si può conservare sicuramente per parecchi giorni; [247] essa è tanto fredda che un carbone acceso, immerso in essa brucia con gran violenza, ma, mentre brucia, si copre di brina, poichè l'acido carbonico prodotto dalla combustione gela a temperatura assai più alta di quella dell'acqua liquida; e se voi esponete al fuoco un vaso pieno d'aria liquida, le pareti esterne del vaso si copron di brina, e le stesse fiamme che la lambono diventan neve: neve di acido carbonico, s'intende. E non è neppur difficile di maneggiarla, tanto che si può evaporarla lentamente e così spogliarla dell'azoto che è più vaporizzabile, oppure si può filtrarla come un liquido qualunque e spogliarla dell'acido carbonico che rimane sul filtro come residuo solido. Ecco dunque un refrigerante che si avvicina molto alla temperatura del freddo assoluto; ma non gioverebbe a nulla per una macchina a vapor d'acqua, il cui liquido gela a una temperatura assai più alta; quindi bisogna, per essa, accontentarsi di adoperare dell'acqua fresca alle temperature ordinarie, cioè a 10°, o a 15°. Dunque anche da questa parte il salto di temperatura disponibile per la macchina a vapore è assai limitato.
Son molto migliori, da questo punto di vista del salto di temperatura, le macchine a petrolio e a gas, colle quali si utilizza la forza d'esplosione [248] di una miscela di petrolio o gas e d'aria, che si accende entro la macchina stessa, servendo al tempo stesso da combustibile e da sostanza motrice, cosicchè la temperatura superiore oltrepassa anche i 1000 gradi. Nondimeno la macchina a vapore si è perfezionata tanto, che batte tutte queste sue concorrenti. Mentre una volta doveva consumare 3 o 4 chilogrammi di carbon fossile all'ora per ogni cavallo di forza, essa arriva ora a consumarne anche solo 600 o 700 grammi, che costano 2 centesimi, se si tratta di grandi forze; e così le macchine a gas non possono competere con essa per la spesa, e nemmeno le macchine a petrolio: le quali, se son preferite per le automobili, gli è soltanto in causa dell'assenza della caldaia che difficilmente si potrebbe mettere sopra una carrozza e meno ancora su un triciclo.
Ma appunto nel momento dei suoi più grandi trionfi, la macchina a vapore è, per due cause diverse, minacciata di morte, certo non ingloriosa e nemmeno immediata, ma sicura, e forse più prossima che non si creda. Da una parte si è constatata in modo sempre più preciso l'esauribilità delle riserve sotterranee di carbon fossile e di petrolio; dall'altra si ha la certezza di poter surrogare, quasi dovunque, la forza dell'acqua a quella del carbone.
[249]
Una ventina d'anni fa si credette in Inghilterra che le riserve di carbone accumulate sotto terra dai cataclismi cui fu soggetto il nostro globo non potessero durare più di 2 o 3 secoli, tenuto conto della progressione crescente che si verifica nel consumo di carbone in tutto il mondo. Ma quei calcoli non erano attendibili. Prima di tutto non si può ammettere che il consumo di carbone aumenti sempre nella stessa misura, poichè la scarsezza del carbone diventerebbe presto un freno a consumarne di più; questi calcoli, al pari di molti calcoli statistici, sarebbero, come argutamente osservò il celebre socialista George, tanto esatti quanto, il calcolo di colui che dicesse: il mio cane ha un mese di età e una coda lunga 5 centimetri; dunque a 5 anni avrà una coda di 3 metri. Poi bisogna tener conto delle riserve di carbone ancor conosciute. Già negli Stati Uniti si sono verificati dei giacimenti di carbone valutati (s'intende per la parte scavabile, cioè quella che si trova a meno di 1200 metri di profondità) più di 650 mila milioni di tonnellate, contro i 300 mila milioni dei giacimenti europei. Le riserve della China, ormai considerato come il paese delle più straordinarie e misteriose risorse, son stimate più di 600 mila milioni di tonnellate, poste quasi a fior di terra. Queste, intanto, non [250] sono ancora sfruttate, e se lo fossero, potrebbero al più spostare l'asse del mondo industriale, ma poco gioverebbero all'industria europea.
Ma il calcolo più concludente è forse quello fatto recentemente dal celebre Lord Kelvin. Quando la terra era appena uscita dal periodo di incandescenza, ed avviandosi a raffreddarsi, cominciò a coprirsi di vegetazione, l'atmosfera non era composta che di gas inerti, prodotti dalla precedente conflagrazione, cioè di acido carbonico, d'azoto e di vapore d'acqua.... Era quell'epoca geologica, quando ancora, come poetò lo Zanella nella «Conchiglia fossile»:
Riflesso nel seno
Di ceruli piani
Ardeva il baleno
Di cento vulcani;
e l'atmosfera involgeva la terra di quell'umido manto cantato dall'Aleardi:
L'aura, bagnata di mortal rugiada
Colle tepide nubi invidiava
Alla giovine terra il blando riso
Delle giovani stelle.
La vegetazione cominciò a separarne i componenti, appropriandosi il carbonio e l'idrogeno dell'acido [251] carbonico e del vapor d'acqua e mettendone in libertà l'ossigeno. Così si venne a formare l'ossigeno, che ora costituisce ⅕ dell'atmosfera. I combustibili bruciati da allora in poi e la respirazione degli animali assorbirono una parte di quest'ossigeno, ma la nuova vegetazione ne produsse dell'altro; cosicchè ora l'ossigeno dell'atmosfera è esattamente in proporzione con tutta la materia combustibile che contiene la terra, sia alla superfice sotto forma di vegetazione, sia sotto terra in forma di lignite, di carbon fossile e di petrolio. Calcolandone la quantità in proporzione a quella dell'ossigeno esistente nell'atmosfera, che si conosce (1000 milioni di milioni di tonnellate circa) Lord Kelvin, tenuto conto dell'aumento della popolazione e del consumo e di altre circostanze, ritiene che ce ne sarebbe per non più di 5 secoli, ammesso pure che gli uomini pensino, estendendo a tempo le foreste, a prepararsi l'ossigeno per la respirazione, perchè altrimenti l'umanità, prima di perire di freddo, perirebbe di asfissia. E certo molto prima di mancare del tutto, il carbone costerebbe così caro, che il calore e la forza, che esso può dare, diventerebbero consumi di lusso.
Ma calore e forza si avranno altrimenti, cioè coll'utilizzazione delle cadute d'acqua, ed è questo, [252] in fatto, il solo e vero formidabile nemico della macchina a vapore. Sarà l'acqua che ucciderà il vapore.
Quale sia l'uso dell'acqua per fornire forza motrice lo sapete tutti. E non è soltanto l'acqua delle cascate, che agendo con tutta la sua pressione sulle pale di una ruota, dia una forza tanto più grande, quanto più grande è la massa dell'acqua cadente e l'altezza della caduta; perchè un'enorme riserva di forza l'abbiamo anche nelle maree e nelle onde del mare. Mentre l'attrazione della luna solleva la marea, voi potete introdurre l'acqua sollevata in serbatoi dentro terra; e allora se nel periodo della bassa marea aprite le chiuse dei serbatoi e ne rimandate l'acqua in mare, quest'acqua farà una cascata che potete utilizzare come quella di un fiume o di un torrente. E lo stesso potreste fare colle onde, quando si precipitano alte e minacciose contro una ripida costa. Questi ed altri sistemi analoghi per utilizzare le onde e le maree sono state proposte più volte ed anche provate con perfetto successo: e state certi che si attueranno definitivamente in avvenire, sopratutto nei luoghi dove le onde e le maree si elevano a parecchi metri di altezza, come avviene, per esempio, nella Manica, nel Baltico e nel Mare del Nord. [253] Se non che queste incalcolabili forze naturali che l'uomo ha a sua disposizione nei monti e sulle rive del mare non avrebbero che uno scarso valore rispetto alla macchina a vapore, se non si potessero trasmettere economicamente a grandi distanze, dovunque si abbia bisogno di forza. Ora, la trasmissione delle forze si può fare, voi lo sapete, per mezzo dell'elettricità; ed è anzi questa l'invenzione forse più grande del nostro secolo, pur tanto fecondo di invenzioni di ogni natura.
Supponete di avere una forza disponibile in qualche luogo: per esempio, la forza d'una caduta d'acqua. Fate agire quest'acqua sulle pale di una motrice idraulica e servitevene per far girare un gomitolo di fili di rame fra le branche di una calamita. Ad ogni giro di questo gomitolo, il flusso magnetico che emana dalla calamita e che è tanto potente da attrarre il ferro, ha anche la potenza di produrre nel gomitolo una corrente elettrica. È questa la macchina che comunemente si chiama una dinamo. Orbene: prendete i capi del filo del gomitolo e tirateli lontano fin che volete: centinaia di chilometri, se è necessario. La corrente circolerà nel filo sin dove questo arriva. Ivi attaccate questi capi a una dinamo identica alla prima; e voi vedrete che il gomitolo di questa seconda dinamo si [254] metterà spontaneamente a girare, riproducendo la forza della lontana caduta. Senza dubbio ci sarà qualche perdita; ma si può diminuirla sin che si vuole secondo la grossezza del filo impiegato. Ecco in che consiste la trasmissione elettrica della forza; e vedete che non è una cosa molto complicata, ne difficile da capire.
Vi è noto con quanto entusiasmo è stata accolta questa invenzione, che data da dieci anni, e con quanta rapidità se ne è fatta l'applicazione. In America si è pensato subito al Niagara, dove è già in funzione un impianto di 150 mila cavalli, la cui forza in parte è impiegata sul posto e in parte si trasmette fino a Buffalo, a 45 chilometri di distanza. Altri 150 mila cavalli si stanno utilizzando all'uscita del fiume San Lorenzo dal lago Ontario. In Europa abbiamo gli impianti di Rheinfelden sul Reno e di Chèvres sul Rodano di 14000 cavalli ciascuno, di Cusset-Jonage e di Bellegarde sul Rodano di 18000 e di 10000 cavalli e altri numerosi di minore importanza; ma noi li abbiamo preceduti in Italia colla trasmissione di 2000 cavalli da Tivoli a Roma, e li emuliamo già con quella di Paderno, che porta a Milano a 31 chilometri di distanza, la forza delle rapide dell'Adda di 13000 cavalli, e li sorpasseremo fra [255] breve con quella di Vizzola, che distribuirà 20000 cavalli di forza attinta dal Ticino.
Ma tutte queste trasmissioni di forza a 30, 40 50 chilometri di distanza sono nulla a paragone di quelli che già si annunciano come sicuri. Il progresso dell'elettricità è così vertiginosamente rapido in questi anni, che niente più ci può sorprendere. Già gli inglesi si preparano a portare al Cairo la forza delle cateratte del Nilo, a 650 chilometri di distanza, per l'irrigazione del Delta: e calcolano che la forza utilizzata costerà meno di quella che si potrebbe ottenere sul posto con macchine a vapore. Tutta la valle del Nilo diventerebbe così una delle più feconde regioni della terra. Fu anche proposto di trarre partito dalla famosa cascata Vittoria scoperta da Livingstone sul fiume Zambesi per servire alle macchine lavoratrici del minerale d'oro della Rhodesia e del Transvaal. Grazie all'impiego di altissime tensioni si può esser sicuri oggi di portare la forza dell'acqua, quando sia gratuita, a centinaia di chilometri di distanza ancora con economia in confronto all'uso del vapore; cosicchè non sarebbe più da considerarsi come un'utopia l'idea di portare economicamente a Parigi la forza delle cascate dei Vosgi, o la forza delle cascate delle Alpi in tutta [256] la valle del Po. E così lo stesso problema, che pochi mesi fa pareva ancora assai difficile, di usare la forza dell'acqua per la trazione sulle grandi linee ferroviarie in luogo di quella delle locomotive, si presenta oggi di più facile e più probabile soluzione.
Voi vedete dunque che l'impero della macchina a vapore è già molto scosso, e che la futura scarsezza del carbone non può più ispirare paura; poichè colla trasmissione elettrica della forza non solamente surroghiamo la forza del vapore, ma possiamo surrogare lo stesso carbone. Infatti colla corrente elettrica possiamo produrre calore, sia per grandi operazioni industriali, quanto per la stessa economia domestica. Già si fondono i metalli coll'elettricità; già si può produrre la fiamma, servendosi della corrente elettrica per decomporre l'acqua, e così mettendo in libertà l'idrogeno, che poi si può bruciare come il gas; e infine voi avete già le stufe e le cucine elettriche, dove il calore è fornito da un filo metallico arroventato dalla corrente.
Gli uomini hanno un giorno o l'altro il loro momento di fortuna, e così l'hanno anche le nazioni; non si tratta che di saperne approfittare.
Noi siamo sempre stati tributari dell'estero per ciò che è l'anima di tutte le industrie, il carbone. Sono 100 a 120 milioni che mandiamo ogni anno [257] in Inghilterra per acquistarlo, e il mancarne affatto in paese è stata ed è una delle cause della nostra inferiorità industriale. Ma poichè siamo ricchissimi di acque perenni, non avremo più da subire le conseguenze della mancanza di combustibili fossili. Anzi, se sapremo utilizzar bene le nostre forze idrauliche, che ammontano a decine di milioni di cavalli, noi potremo facilmente duplicare e triplicare le nostre industrie, risparmiando 200 o 300 milioni di carbone e trovandoci in misura di far concorrenza a questi paesi che ora la fanno a noi.
Una sola concorrenza potremmo ottenere; ma è assai improbabile. Si potrebbe trovare un mezzo economico di immagazzinare la forza, di imballarla come una merce qualunque e di trasportarla lontano per terra e per mare. Gli Americani potrebbero allora utilizzare tutti i sei milioni di cavalli del Niagara, riservando ai forestieri soltanto alla domenica lo spettacolo della celebre cascata; e avrebbero tanta forza, insieme a quella degli altri loro grandi fiumi, da poterne fare una larga esportazione. Non è un'idea affatto impossibile, poichè ci sono già gli accumulatori elettrici, che permettono d'immagazzinare la forza, e anche di portarla attorno, come avviene sui carrozzoni delle tramvie, sulle vetture automobili, e ora anche [258] sulla ferrovia Milano-Monza. Ma, innanzi tutto, non si è trovato ancora l'accumulatore di forza poco costoso e leggero, che ci vorrebbe per poterla trasportare economicamente a grandi distanze e non par facile che si abbia a trovarlo così presto. E del resto, anche se si trovasse, ebbene, metteremo un dazio protettivo sulla forza importata dall'estero.
Per le nostre industrie, adunque, e per la prosperità dell'economia nazionale, l'avvenire ci sorride. A noi poco importa cosa diverrà la macchina a vapore, poichè siamo sicuri di poterne far senza. È venuto il momento di sfruttare le nostre risorse, e giova sperare che sapremo valercene con prudenza e con sagacia, senza sperperarle, e senza comprometterne l'avvenire per l'eccessiva fretta di goderne nel presente.
Allora potrà diventare un fatto compiuto ciò che il Sommeiller presagiva in seno alla Camera subalpina all'epoca del traforo del Moncenisio: «Signori, i torrenti delle Alpi son diventati nostri schiavi: essi lavoreranno per noi.» E io non saprei chiudere meglio questa conferenza che augurando al nostro paese il compimento della profezia, ringraziandovi di cuore della grande pazienza colla quale avete voluto ascoltarmi.
[259]
1. Belli, II, 326.
2. Belli, III, 177.
3. Il poeta romanesco G. G. Belli e i suoi scritti inediti nella Nuova Antologia, VII, 1879.
4. Mi asterrò dalle citazioni del 1º volume perchè questo contiene i sonetti meno perfetti e da quelle del 6º volume, perchè contiene i sonetti più osceni.
5. Mentre correggo queste prove di stampa, le ultime sale di Brera dove eran rifugiati i quadri moderni, sono da mesi sossopra, perchè due delle sale sono state cedute alla Galleria antica. Pare che nel 1901 essi saranno novamente e più ordinatamente ricollocati nelle sale residue.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.