The Project Gutenberg eBook of La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte 3 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte 3 Author: Various Release date: March 15, 2016 [eBook #51464] Most recently updated: October 23, 2024 Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at DP-test Italia, http://dp-test.dm.unipi.it, and at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1846-1849), PARTE 3 *** LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1846-1849) TERZA SERIE III. STORIA. Pio IX e Pellegrino Rossi ERNESTO MASI. I moti di Napoli nel 1848 FRANCESCO NITTI. La Sicilia e la Rivoluzione FRANCESCO CRISPI. I moti toscani del 1847 e 1848; loro cause ed effetti NICCOLÒ NOBILI. FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI 7, Via del Proconsolo 1900 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATI TUTTI I DIRITTI _Gli editori_ R. BEMPORAD & FIGLIO _dichiarano contraffatte tutte le copie non munite della seguente firma:_ [Illustrazione: firma manoscritta] Firenze. — Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46. PIO IX E PELLEGRINO ROSSI CONFERENZA DI ERNESTO MASI Continuo il tema che mi fu assegnato l'anno scorso. Mi fermai al 16 luglio 1846, e, riepilogando l'effetto immenso, profondo, fulmineo del grand'atto compiuto da Pio IX, col perdonare a tutti i condannati politici, precorsi alquanto il tempo seguente. Mi conviene ora ridare alla cronologia tutti i suoi diritti: imprescrittibili sempre, più che mai lo sono a proposito di Pio IX. La sua gloria di primo promotore, nell'ordine dei fatti (s'intende), del risorgimento politico italiano ha non solo gli anni, ma i mesi, i giorni, le ore contate.... E a passar oltre sbadatamente si rischia di non comprender più nulla nè della storia, nè dell'uomo. La storia diviene una diatriba politica tutta pro o tutta contro, a seconda della fazione che la inspira; l'uomo un così confuso mistero di luce e di buio, di bene e di male, che la sua stessa personalità si oscura e si dilegua quasi del tutto, nè è più possibile distinguere e determinare la responsabilità sua e quella degli altri personaggi, portati via via accanto a lui o sbalzati lontano dalla bufera rivoluzionaria, che, non volendo, egli ha sollevata. Chi guardasse soltanto ai primi effetti e così straordinari dell'opera di Pio IX, ci sarebbe quasi per un momento da scambiarlo per uno degli _Eroi_ del Carlyle, la potenza creatrice dei quali è la sola realtà naturale, che, secondo il filosofo inglese, domini la storia. Questo, che è un po' il concetto medesimo del Machiavelli, per cui pure la volontà, l'energia, l'intelligenza individuale dei grandi uomini sono la causa unica di tutti i maggiori avvenimenti, non s'attaglia però che come un'apparenza fuggevole a Pio IX. È giusto soggiungere bensì, che, nelle complicazioni via via crescenti sempre più della storia moderna e contemporanea, tale concetto s'attaglia a tutti i grandi uomini sempre meno. Al Carlyle derivava da quella metafisica tedesca, per la quale la storia non era che l'incarnazione visibile d'un'_Idea_: e al posto dell'_Idea_ il Carlyle mise l'_Eroe_. Ma se quest'attenuazione o trascrizione inglese d'uno schema storico puramente metafisico è resa più pratica, più positiva, più francese, direi, dal Taine, che al posto dell'_Idea_ e dell'_Eroe_ ha messo un _Fatto_, da cui tutti gli altri provengono, e lo ha suddistinto nelle tre categorie: _razza_, _ambiente_, _momento_, che all'osservazione psicologica dovrebbero far scoprire il _documento umano_ nella storia, Pio IX, il nostro _eroe_, non se ne vantaggerebbe molto di più, perocchè in lui è tale sproporzione coll'_ambiente_ e il _momento_, che prima ancora che il _momento_ passi e l'_ambiente_ si muti, l'_eroe_ è già quasi scomparso. Ne ebbe la chiara visione egli stesso, e l'ebbe (sia detto a lode della sua sincerità) e l'ebbe prima d'ogni altro, quando nella piena luce della sua apoteosi: «mi vogliono un Napoleone, diceva, mentre io non sono che un povero curato di campagna!» Non per questo diviene vera e giusta l'affermazione del repubblicano federalista, Carlo Cattaneo: «Pio IX fu fatto da altri e si disfece da sè»; non per questo diviene vera e giusta l'affermazione del mazziniano Aurelio Saffi: «il papa delle speranze e dei desiderii degli Italiani non esistette mai nella storia.» No, Pio IX non si disfece tutto da sè. Molti altri aiutarono: lo stesso Cattaneo e i suoi correligionari fra i tanti. No. Il Pio IX dal 16 luglio 1846 fino all'Enciclica del 29 aprile 1848, con cui disertò la causa italiana, fu una vera e grande realtà della storia, e a cui Aurelio Saffi credette allora non meno di tutti gli altri. Più giusto, più vero, se mai, lo stornello contemporaneo del Dall'Ongaro: Chi grida per le vie: _viva Pio IX_, Vuol dir: viva la patria ed il perdono! La patria ed il pardon vogliono dire Che per l'Italia si deve morire...; espressione schietta d'un sottinteso, che sfuggì allora a Pio IX al pari che a tutti gli altri, siccome sfuggì allora a tutti, per esempio, che mentre il 16 luglio 1846 era concessa l'amnistia ai condannati politici, il 18 del mese stesso si concedevano premi e decorazioni ai benemeriti, i quali avevano represso il moto liberale di Rimini del 1845. Pio IX non s'accorse, che l'amnistia volea dire guerra all'Austria e indipendenza italiana, e niun altro s'accorse del pari, che fra quei premi, quelle decorazioni e l'amnistia era un'antitesi così balorda, da escludere persino il sospetto che fosse stata voluta. Un solo storico, e fra i meno noti, registrò questo fatterello, Benedetto Grandoni, un moderato e fanatico di Pio IX, ma fratello a quel Luigi Grandoni, ardente repubblicano e suicidatosi in carcere, perchè sospettato correo nell'assassinio di Pellegrino Rossi; contrasto intimo di famiglia codesto, da poter esso pure sembrare fortuito e insignificante, se non rappresentasse in piccolo quel ben più largo, vario ed universale contrasto, in cui moderati, repubblicani, riforme, costituzioni, costituenti, popoli, principi, insurrezioni, guerre, monarchie, repubbliche, tutto il gran moto nazionale, iniziato da Pio IX, fu travolto e precipitato in una sola, identica ed immensa ruina. Parecchi mesi erano passati dall'amnistia, e le buone intenzioni del nuovo Papa erano rimaste intenzioni: Segretario di Stato il cardinal Gizzi, perchè Massimo d'Azeglio l'avea pubblicamente giudicato uno dei meno peggio fra i cardinali, qualche circolare, qualche Commissione (i soliti armeggii di chi non sa che pesci pigliare), ma di vere riforme neppure un principio. Nonostante il popolo non si saziava di adorare Pio IX e d'incitarlo con le continue manifestazioni del suo entusiasmo e delle sue speranze, fra le quali, oltre alle solite d'ogni sera, sono rimaste celebri quella dell'8 settembre col grand'arco di trionfo a piazza del Popolo e il delirio di grida e di applausi, che accompagnò il trionfatore, e quella del 4 novembre, in cui gli applausi e le grida furono invece tanto minori, appunto per ammonire il Papa, che era finalmente tempo di muoversi. Si mosse di fatto: accrebbe il numero dei laici nella Commissione per la riforma dei codici; fra gli altri il Silvani, un rivoluzionario del 31; pensò a frenare il vagabondaggio; promise le ferrovie: bazzecole, se si vuole, ma il popolo e il suo tribuno, Ciceruacchio, non dovevano stentar molto a concluderne, che il loro schiamazzo o il loro silenzio entravano dunque per molto nelle risoluzioni del Papa, le cui esitanze avevano, si diceva, due cause segrete: gli ammonimenti dell'Austria e l'opposizione della Corte e della Curia Romana. Altri pretende che egli stesso repugnasse ad andar oltre. Non credo! L'idillio è vero e schietto ancora da ambe le parti: nel popolo, che chiede, nel principe, che concede. Ma il popolo è ombroso, geloso del suo idolo, e l'11 novembre al banchetto del teatro Alibert, Ciceruacchio, fra gli osanna a Pio IX, fa già vedere nel suo rude linguaggio qualche baleno di minaccia: Se alcun, corpo di Dio, de' rei nemici Fa un passo avanti.... noi già semo intesi! E l'anno 1846 finisce con due fatti, che mirano essi pure a schiarire la mistica nebbia, in cui l'idillio papale è ancora tutto ravvolto: la celebrazione del primo centenario della cacciata degli Austriaci da Genova e l'eco dolorosa della morte di Federico Confalonieri, il martire dello Spielberg, accaduta mentre tornava in Italia, attratto appunto da questo miracoloso chiarore di alba, che era spuntato sulla cupola di San Pietro. A capo d'anno del 1847 nuovi e sviscerati applausi ed augurii a Pio IX, di cui gli ottimisti presagivano sempre mirabilia, senza che mai l'effetto rispondesse, onde un acuto osservatore, Pellegrino Rossi, che, quantunque Ministro di Francia a Roma da quasi due anni, considerava nondimeno quanto accadeva sotto i suoi occhi con vero cuore d'italiano, se in sulle prime s'era sentito vinto e rapito esso pure da tutto quel nuovo spettacolo e descrivendo al Guizot le dimostrazioni popolari per l'amnistia diceva: «immagini una magnifica piazza, una notte d'estate, il cielo di Roma, una folla immensa, lagrimante, commossa, che riceve con amore e rispetto la benedizione del suo pastore e del suo principe, ed Ella non sarà stupita se aggiungo d'aver partecipato all'emozione generale,» Pellegrino Rossi, dinanzi alla lunga inazione di Pio IX, scriveva ora invece allo stesso Guizot: «questo non è un ideale di governo, bensì un governo allo stato d'idea.» E intanto la marea popolare pian piano saliva e salendo si ordinava: uscivano giornali; si aprivano circoli; le provincie fraternizzavano colla capitale; mentre da parte del Papa il 19 aprile si concedeva a mala pena una Consulta di Stato, estremo limite di riforme per lui in quel momento, principio invece di ben più larghe riforme per tutti gli altri; principio insomma d'un equivoco ancora latente, ma che al Rossi pareva non dover tardar molto a chiarirsi, sicchè osservando quelle continue dimostrazioni popolari, dal genio tribunizio di Ciceruacchio improntate già quasi di un carattere di disciplina e di simmetria militare, a chi si compiaceva di quel bell'ordine: «fin troppo bello, rispondeva, perchè rassomiglia già ad un'organizzazione!» E per un dottrinario alla Guizot, come molti lo giudicano, vedea abbastanza bene, mi sembra, la realtà sotto le apparenze! La debolezza del governo si palesava poi ogni giorno di più colla mancanza ovunque di sicurezza pubblica e con brutti torbidi in Roma fra una classe e l'altra d'operai o fra plebe ed ebrei, con forte sospetto, che fossero sobillati da austriacanti e gregoriani. Ed ecco domandarsi a difesa la Guardia Civica, istituzione, che noi abbiamo vista divenir ridicola e poi a poco a poco svanire, ma che allora era importantissima, uno anzi degli articoli di fede del _Credo_ liberale. Non volle saperne il cardinal Gizzi e si dimise. Tutt'al più avrebbe consentito a rifare i _Centurioni_ alla Bernetti. Che cime d'intelligenze anche allora fra certe aquile del Sacro Collegio!! Ma quella del Gizzi era essa una dimissione od una fuga? Siamo alla vigilia del primo anniversario dell'amnistia, ed il popolo, si può credere, s'apparecchiava a festeggiarlo più che mai. Ad un tratto, che è? che non è?... voci paurose si diffondono che l'Austria, d'accordo coi cardinali più avversi a Pio IX, coi Gesuiti e coi retrivi, trama di suscitare gravi disordini nell'Italia centrale per pescarvi un pretesto d'intervento e farla finita subito con tutto questo tramestìo riformista, che le puzza forte di rivoluzionario; i peggiori arnesi della vecchia polizia pontificia sbucano dal guscio delle loro paure e si mostrano di nuovo per Roma baldanzosi, insolenti; essere accorsi, dicevasi, briganti e borghigiani di Faenza, avanzi di sanfedismo, pronti al sangue e al saccheggio; monsignor Grassellini, governatore di Roma, di balla con essi; non altro aspettarsi che l'opportunità di agire. Ciceruacchio ne è informato; fa sospendere e rimandare tutte le feste già preparate; raduna i suoi seguaci più fidi; rincorre i sanfedisti; alcuni arresta, altri sbanda, altri costringe alla fuga; mette insomma il campo a rumore; ottiene un armamento provvisorio della Guardia Civica; fa destituire ed esiliare il Grassellini; s'incomincia un processo, la trama è sventata, ed il Gioberti può senz'altro paragonare Ciceruacchio a Cicerone, quando salvò Roma dalla congiura di Catilina. Tuttociò era avvenuto a vista ed a saputa di tutti; un proclama del nuovo Governatore di Roma l'aveva ufficialmente confermato. Eppure, lo credereste? Questa, che si chiamò allora _la gran congiura di Roma_ è da moltissimi scrittori negata; da altri tenuta in conto d'una fantasmagoria insignificante, che solo l'immaginazione popolare ingrossò, da altri infine è mutata addirittura in una cospirazione dei liberali contro i retrogradi. Due circostanze però, messe ora in piena luce, chiariscono il mistero: l'una è la contemporaneità d'un simile tentativo in altre dieci città italiane, l'altra è l'occupazione improvvisa di Ferrara per parte degli Austriaci il 17 luglio 1847. A questa avea preceduto l'offerta d'intervento armato nelle quattro Legazioni fatta dal Metternich a monsignor Viale Prelà, nunzio a Vienna, avversissimo a Pio IX, e confermata in Roma al cardinal Gizzi dal conte Lutzow, ambasciatore austriaco. La quale offerta è provata dalla corrispondenza diplomatica dei due residenti inglesi di Vienna e di Firenze con Lord Palmerston e da quella del Conte di Revel, ambasciatore di Sardegna a Londra, col suo Ministro degli esteri. Non accettata l'offerta, fu tentato provocar l'intervento, eccitando tumulti nell'Italia centrale, con che quella vecchia volpe del Metternich si proponeva due fini, come apparisce dalle sue lettere e dalle sue _Memorie_, l'uno che se il tentativo riusciva si percorreva al solito in sembiante di restauratori dell'ordine mezza Italia e tutto era finito; l'altro, che se il tentativo non riusciva, la brutale violenza dell'occupazione di Ferrara avrebbe provocato in modo il sentimento degli Italiani, che il riformismo, messo in voga da Pio IX, avrebbe per forza dovuto strapparsi la maschera e lasciar prorompere la rivoluzione e la guerra, e allora bazza a chi tocca, ma almeno s'avrebbe avuto di fronte un corpo, una cosa salda, e non un'ombra inafferrabile, e in ogni modo gli si sarebbe piombato addosso, mentre era ancor debole, scompaginato e, nell'opinione del Metternich, assai più impotente di quello che si mostrò in realtà. La cosiddetta _congiura di Roma_ è dunque veramente esistita, e grande o piccola che sia stata, un'ignobile bricconata fu di certo e tutta opera del Metternich, degli austriacanti e dei nemici di Pio IX. Se è parsa dubbia a taluno, se gli storici clericali si sono valsi di questa incertezza per negarla, se restò un abbozzo, anzichè un quadro finito, ciò non toglie nulla al merito del politico senza scrupoli, che la inventò e la promosse, tanto più che se il primo de' suoi calcoli andò fallito, il secondo riescì appuntino, e l'occupazione di Ferrara accelerò a precipizio tutto il moto italiano, chiuse il periodo delle riforme e iniziò quello delle costituzioni, delle insurrezioni e della guerra d'indipendenza, la vera cioè, la grande rivoluzione del 1848. Ma un altro dubbio sorge qui. V'ha chi pretende nient'altro che Pio IX fosse già complice dell'Austria in questo momento e già pensasse a fuggire da Roma e già avesse chiesto egli stesso l'intervento dell'Austria. Se non che alla gratuita affermazione di pochi manca persino ogni apparenza di prova, mentre invece basta riflettere che se il Papa l'avesse voluto, nessuno l'avrebbe allora impedito e che niente avrebbe giovato meglio al Metternich, per tagliar corto alle proteste del Papa sull'occupazione di Ferrara, e screditarlo per sempre nell'opinione liberale, del rivelare il segreto della sua complicità. No. Non si esclude che tra il Metternich ed il Viale Prelà a Vienna, tra il Lutzow ed il Gizzi a Roma qualche trattativa fosse corsa, e forse è in ciò il motivo della dimissione del Gizzi e la spiegazione dello strano motto del suo successore, Gabriele Ferretti, alla Guardia Civica di Roma, convocata per la tutela dell'ordine: «mostriamo all'Europa che noi bastiamo a noi stessi;» ma pel Metternich, come si rileva da una sua lettera al Ficquelmont del dicembre 1847, Pio IX è ancora un capo di Carbonari, riescito, non si sa come, a cingersi la tiara di San Pietro, nè il principe Cancelliere avrebbe giuocata coll'occupazione di Ferrara l'ultima carta, se avesse avuto tanto in mano da potersi sbarazzare di colpo e senza rischio d'un tale avversario. Alla popolarità di Pio IX la congiura di Roma e l'occupazione di Ferrara giovarono; ma tre conseguenze si manifestarono subito: l'odio alla Corte e alla Curia, che espresso da pochi per le vie fin dal marzo nel grido: _Viva Pio IX solo_, divenne ora il grido di tutti; l'allargarsi del moto riformista, il quale, se in Roma aveva già quasi compiuta tutta la sua parabola ascendente, agitò ora nello stesso modo Napoli, Palermo, Milano, Torino, Firenze, e infine l'aspirazione nazionale a cacciar l'Austria dall'Italia, che, dissimulata finora sotto il velo delle riforme, proromperà fra breve con un entusiasmo irresistibile e darà, ripeto, tutto il suo genuino carattere alla rivoluzione iniziata coll'amnistia di Pio IX. E comincia pure (se non sarebbe meglio dire: continua) l'equivoco fatale, per cui ogni atto, ogni parola del Papa si traggono ad un senso maggiore, più largo e in sostanza diverso, che non abbiano in realtà, e solo uno schiarimento ch'egli voglia dare del suo pensiero, de' suoi scrupoli o delle sue ripugnanze s'interpreta prima per un artificio e una vittoria dei gesuiti o degli austriacanti, poi per una sua defezione e finalmente per un vero e proprio tradimento alla causa italiana. La Consulta di Stato, che per lui era il _non plus ultra_ delle sue concessioni, si tira subito ad un principio di governo rappresentativo, e non sono i soli democratici e gli esaltati ad interpretarla così, ma gli stessi moderati, che della Consulta fanno parte. L'aver restituita a Roma una rappresentanza municipale pare al Papa un gran che e da doversene contentare i più esigenti. In quella vece la rappresentanza municipale chiede subito, come complemento necessario d'ogni riforma, la Costituzione, mentre d'altro lato cardinali, diplomatici, Gesuiti assediano Pio IX, perchè non si lasci andare alla corrente e profetizzano scismi, eresie, il finimondo, ad ogni nuova sua concessione. Delle ambiguità, delle incertezze, dell'innanzi e indietro di questa bizzarra situazione, il satirico popolare romanesco dà torto agli altri e non al Papa: Chè tra Erode e Pilato, Anna e Caifasso Io, er Papa dirà, me chiamo _gesso_; Cor una mano scrivo e l'antra scasso. Ed anche il grande satirico toscano lo scusa: Col parapiglia di questi anni addietro, Oh remerebbe adagio anche San Pietro! Se non che il Radetzky a Milano s'incarica esso d'accentuare le provocazioni del Metternich, fors'anco al di là delle intenzioni del principale; al _Viva Pio IX_ la soldatesca austriaca risponde a fucilate; si massacrano vecchi, donne, fanciulli; sono quelli, che Massimo d'Azeglio chiamò i _lutti di Lombardia_; ed in Roma nella stessa protesta vedete uniti i nomi di Ciceruacchio e di Marco Minghetti e nella stessa chiesa a pregar pace alle anime delle vittime, democratici e consultori di Stato, la bizzarra principessa Belgioioso e la saggia contessa Antonietta Pasolini. D'ora in poi gli eventi non si seguono più, ma s'accumulano, s'accavallano, come le onde d'un mare in tempesta, nè bastano neppur più le date a distinguerli, perchè esse pure si rincorrono, e si confondono le une sulle altre. Palermo insorge il 12 gennaio 1848; il 29 il Borbone di Napoli dà la costituzione; l'8 febbraio l'annuncia Carlo Alberto; il 17 il Granduca di Toscana; il 22 Parigi caccia gli Orléans e proclama la repubblica; il 13 marzo la stessa fedelissima Vienna insorge e manda a rotoli quell'onniveggente Principe di Metternich, che era persuaso d'aver imbrigliato il mondo per sempre; il 18 marzo Milano, e dopo una lotta eroica caccia gli Austriaci; il 22 Venezia, e l'Austriaco Zichy si perde d'animo dinanzi a un filologo e a un avvocato, a Tommasèo ed a Manin; il 29 marzo Carlo Alberto passa il Ticino. Mi fermo, signore, chè non abbiate a dire che io sto compilandovi un calendario. Ma appunto questa ressa incalzante di date, questa rapidità vertiginosa di eventi sono la caratteristica principale di questo tempo e spiegano meglio di molte parole il delirio, la febbre, il tumulto, che investono, sconvolgono e trascinano tutto e tutti. In men di tre mesi l'Italia è costituzionale, la lotta per l'indipendenza è cominciata, l'Europa è in fiamme. Pensate ora quello che doveva passare nell'animo di Pio IX, nell'animo di quel _povero curato di campagna_, quando, contemplando dall'alto del Quirinale l'universale pandemonio, che gli turbinava dinanzi, e rientrando in sè stesso, doveva dirsi: «e sono io, proprio io, che ha dato le mosse a tutto questo! tutti questi popoli si rovesciano l'uno contro l'altro, acclamando il mio nome! sono io la prima favilla, che ha fatto divampare questo incendio!» Se non si tien conto di questo smarrimento angoscioso dell'animo di Pio IX; se non si tien conto del dubbio terribile, che lo travaglia, d'avere per un fine politico messa in pericolo la religione; se la sua defezione seguente, la quale fu certo una delle cagioni principali della rovina di tutto il moto italiano ed europeo del 1848, si vuole arrecare o tutta all'insita e insuperabile contraddizione, che è fra il dogma e la libertà, fra il Papato e l'Italia, o tutta alla malafede e alla dappocaggine di Pio IX, che tratto dalla vanità delle lodi e degli applausi non chiede di meglio che farsi strumento ad una tregenda d'inganni per meglio dominare le coscienze e ribadire la servitù dell'Italia, non si comprende Pio IX, nè si è equanimi e giusti verso gli uomini politici, che da prima gli si accostarono, nè si valutano i fatti come sono. Appunto perchè quella contraddizione esisteva (non assoluta, perchè nulla v'è d'assoluto nei fatti umani) appunto perchè quella contraddizione esisteva ed esiste, era ed è naturale ancora, che vi fosse allora e che vi sia ora, chi credeva e chi crede alla possibilità di toglierla di mezzo o di conciliarla. Appunto perchè Pio IX non è un _Napoleone_, come diceva egli stesso, bensì un _povero curato di campagna_, tanto più sono palesi così la sua imparità alla mole di eventi, che gli si rovesciò addosso, e la sua imprevidenza, come la sua buona fede e la sua innocente meraviglia, il suo accusar tutti di ingratitudine, le sue esitanze, i suoi inutili tentativi di fermarsi e di retrocedere e finalmente la sua defezione. A questo tragico momento della sua vita, in cui miseramente affondarono la sua gloria, il suo nome, ogni sua benemerenza patriottica, quello stesso ideale forse, sia pure irraggiungibile, ch'egli avea creduto di rappresentare (e che altro sono, del resto, la vita e la storia se non una continua corsa verso ideali irraggiungibili?) a questo tragico momento della sua vita la reazione era lì pronta a spalancargli le braccia ed egli, da quel debole uomo che era, vi si gettò, vinto, disilluso, sottomesso, pentito. Sbaglierò, ma questo, secondo me, è il Pio IX della storia, non quel machiavellico tiranno _a nativitate_, che radicaleggianti e mazziniani ci dipingono; non quella vittima sacra all'eccidio e perciò appunto inebriata d'applausi e coronata di fiori dai liberali d'ogni tinta, che ci è rappresentata dal Padre Bresciani nell'_Ebreo di Verona_ e da tutta la massoneria gesuitica e gesuitante; non quell'ombra vana, fatta di nulla, mai esistita nella realtà e nella storia, ma soltanto in una aberrazione momentanea della fantasia popolare, che il Cattaneo ed il Saffi pretendono, e i cui errori e le cui colpe i radicali e i repubblicani attribuiscono tutte, per odio di partito, ai riformisti ed ai moderati, e questi alla lor volta attribuiscono tutte ai radicali e ai repubblicani, come se buona parte di quegli errori e di quelle colpe non spettasse rispettivamente agli uni ed agli altri, e come se i retrogradi, gli austriacanti, la Corte, la Curia Romana ed i Gesuiti non avessero approfittato egualmente degli errori e delle colpe di tutti, per riconquistare il terreno, che le prime mosse di Pio IX aveano fatto perdere loro e, a quel che pareva, per sempre. Se non che tali polemiche partigiane, surrogate ormai da tante altre peggiori, sono oggi fuori di moda. L'odierno positivismo storico, alquanto volgaruccio e che spesso si scambia, non so perchè, per libertà di pensiero, le scarta tutte, riferendo la grande illusione destata da Pio IX e i successivi disinganni e la catastrofe finale all'assoluta contraddizione storica e dottrinale, che è fra dogma e libertà, Papato ed Italia, e concludendo: «è accaduto così, perchè doveva accadere così e non poteva accadere altrimenti.» Ma che razza di positivismo è mai questo, che introduce una simile e così inesorabile fatalità nella storia? che per amore d'un preconcetto, sia vero o no, toglie ogni significato e ogni ragion d'essere ai fatti come accaddero e persino ai principali attori della storia ogni responsabilità? Perocchè se quella contraddizione è così assoluta e le conseguenze di essa sono così fatali, in tal caso, mi pare, il primo a dover uscire assolto da ogni torto avrebbe a essere Pio IX. Mettete pure un _Napoleone_ al posto del _povero curato di campagna_, e il risultamento potrebbe forse essere diverso? E che vogliono significare allora tutti quei popoli, che insorgono, e tutte quelle franchigie e libertà rivendicate, e tutte quelle battaglie combattute al grido di _viva Pio IX_ in Italia e fuori d'Italia? È tale e così grande spettacolo e così nuovo nella storia, che lo stesso Pio IX, quantunque angosciato già di mille scrupoli e di mille dubbiezze, ne è estasiato per primo, e dopo avere nell'allocuzione del 10 febbraio 1848, scritte le parole famose: «benedite, gran Dio, l'Italia», ripete a viva voce il giorno seguente a tutto il popolo quelle parole medesime, che avranno un'eco così potente, e quando Milano e Venezia e Parigi e Vienna sono insorte al grido di _viva Pio IX_, egli nell'allocuzione del 30 marzo non potrà a meno di dirsi commosso che i conforti della religione abbiano preceduto colà i pericoli dei cimenti e inspirati quegli eroismi patriottici, quei sentimenti di generosità verso i vinti, tutti segni esteriori di quell'accordo pieno, e sia pur momentaneo, di tutte le facoltà della coscienza umana, che formò allora la poesia nuova, l'universalità vera e mai più rinnovatasi di tutto il moto del 1848 e che sia pure dinanzi alla critica filosofica una grande illusione, non è meno un fatto per questo, i cui ricordi Cesare Correnti (un progressista impenitente) chiamava tanti anni dopo, con una delle sue frasi sentimentali, _le reliquie d'un amore tradito_, e su cui ben meschino è il positivismo storico, che può passare senza rispetto, senza risentirne le profonde emozioni di quei giorni, e peggio ancora che può sfatarlo del tutto per orgogli razionalisti, che in sostanza valgono quanto la fede delle beghine, o per passioni politiche, che valgono ancora di meno. Fino a questo momento è il _sogno del Primato_ di Vincenzo Gioberti, che sembra divenuto realtà; fino a questo momento Pio IX è quel Papa e l'Italiano è quel popolo, che il Gioberti ha sognato. La situazione è dominata ancora da questa potente idealità, e per qual via si giunge a vederla poi dominata invece da un'idealità affatto opposta, e surrogato insomma, per dir tutto in una parola, al Gioberti il Mazzini? Per via dell'equivoco, che passa fra Pio IX ed il popolo, al quale equivoco ho già accennato, e che ingrossando via via compirà il vero e irrimediabile distacco. Quest'equivoco s'insinua come un cuneo tra popolo e principe, e a profondarlo sempre più e ad affrettare il distacco raddoppiano i colpi i retrogradi da un lato e i demagoghi dall'altro. La malafede è qui, non in quel popolo e in quel principe, sbalestrati entrambi, se si vuole, da una reciproca illusione, ma per parecchio tempo ancora entrambi, agitati già forse da dubbi, scrupoli e dolorosi ricordi, ma schietti, sinceri, in buona fede nei loro intenti e nelle loro speranze. Quando questa buonafede verrà meno nel popolo e nel principe, sarà segno che retrogradi e demagoghi, gesuiti e mazziniani hanno compita l'opera loro. O io m'inganno a partito, o questa (a volerla fare) è la psicologia, positivista davvero, che in quell'_ambiente_ e in quel _momento_ ci fa scoprire i _documenti umani_ di questa storia. In forza di quell'equivoco niuno porrà mente alle riserve, che il Papa ha fatte, agli ammonimenti quasi severi e corrucciati, che si contengono nelle sue due allocuzioni del 10 febbraio e del 30 marzo. E le parole stesse, ch'egli, parlando al popolo dal balcone del Quirinale, ha immediatamente soggiunte al suo famoso: «benedite, gran Dio l'Italia» niuno le ha sentite o le ha volute sentire. Eppure egli avea detto chiaro e tondo: «non mi si facciano domande, che non posso, non debbo, non voglio ammettere,» e Pellegrino Rossi, che sentì quelle parole, disse, volgendosi a Marco Minghetti, ch'era con lui: «il Papa ha ricorso a un rimedio eroico; per questa volta sarà esaudito, ma guai, se si avvisasse di riparlare al popolo; ogni suo prestigio sarà perduto.» E così fu in realtà! D'ora innanzi si procede più in fretta, ma la fiducia reciproca va scemando nel Papa e nel popolo, appunto perchè il primo non concede, nè resiste a tempo, e la concessione è sempre più larga o slargata al di là delle sue intenzioni, ed al secondo pare sempre di non aver nulla ottenuto, se non ottiene di più. Così in poco d'ora, dal 12 febbraio al 10 marzo, si passa da un Ministero misto di laici e di prelati ad un Ministero quasi laico del tutto ed in cui entra col Pasolini e col Minghetti Giuseppe Galletti, i primi due le più spiccate figure del partito riformista e moderato nello Stato Pontificio, l'altro lo _specimen_ precoce di quei radicali ed ex cospiratori, che a cuor leggero trapasseranno dal Ministero Papale alla rivolta del 16 novembre, da questa alla Costituente, dalla Costituente alla Repubblica. Il 14 marzo anche Pio IX concesse la Costituzione, ed il Ministero che doveva attuarla, non solo non l'avea pensata e compilata lui, ma neppure la conosceva, perchè manipolata in segreto da una Commissione di prelati e di cardinali. Pellegrino Rossi, appena vide quell'informe intreccio di poteri, di giurisdizioni e di diffidenti cautele, annientantisi l'una coll'altra, la giudicò così: «è una guerra legalizzata fra sudditi e sovrano;» giudizio profondo, degno dell'uomo, ma giudizio solitario allora, e a cui nessuno partecipò. C'era ben altro! Ben altra guerra premeva: la guerra d'indipendenza, il _porro unum necessarium_ del Balbo, ed ecco il Papa in conflitto prima di tutto con sè stesso e coll'ufficio suo di pastore di tutti i Cattolici; ecco che il Ministero, il quale nella sua maggioranza non chiede di meglio che far la guerra e assecondare l'impeto d'entusiasmo, da cui è spinto tutto il paese, ecco che il Ministero si trova tosto alle mani il più intricato dei problemi: far dichiarare al Papa la guerra contro una nazione cattolica, o come principe metterlo in aperto contrasto con gli stessi suoi Ministri e coi sudditi, tutti d'un animo in tale questione. L'unica soluzione del problema pare una dieta federativa di stati italiani, a cui partecipi il Papa e che dichiari essa la guerra e stabilisca essa il contributo d'uomini e danaro spettante a ognuno dei confederati. Così la responsabilità diretta del Papa sarebbe eliminata, ed i suoi scrupoli, legittimi o no, sarebbero quietati. Chi n'avesse il tempo, signore, bisognerebbe seguire questo negoziato in tutte le sue fasi, vederlo trattato sotto tutte le forme, travagliarvisi intorno gli animi più elevati e i più eletti ingegni del tempo, indagare perchè non riesca mai e quanto per colpa delle intrinseche sue impossibilità, quanto per colpa degli eventi e quanto infine per colpa degli uomini. Certo la sua non riescita è la cagione più larga della rovina del gran moto del 1848, ma Pio IX, si noti bene, ci ha forse meno colpa di tutti gli altri, meno di certo degli statisti Piemontesi, i quali temono sempre di compromettere le aspirazioni dinastiche di Casa Savoia, meno di certo del Borbone di Napoli, il quale in piena malafede non pesca mai in questo negoziato se non un mezzo indiretto per domare la ribellione di Sicilia. Ciò è dimostrato dalle strane vicende della delegazione napoletana venuta in Roma a trattare e in cui fa la sua prima apparizione politica Ruggero Bonghi, e da quelle non meno strane dei negoziatori Piemontesi fino al Rosmini, il più illustre, il più sincero, il più convinto di tutti, e che perciò appunto si trovò alla fine sconfessato da' suoi stessi mandanti. Se non che mentre le pratiche diplomatiche per la Lega e la Dieta si trascinavano senza conclusione in difficoltà bizantine, i fatti s'incaricavano essi di concludere da sè soli. Carlo Alberto è già in campo contro l'Austria. Volente o no Pio IX, partono da Roma e da tutto lo Stato Pontificio i volontari e le truppe sotto la guida del Durando e del Ferrari, ed il Durando, con un proclama fornitogli dalla penna romantica e neoguelfa, che ha scritto l'_Ettore Fieramosca_ e il _Niccolò de' Lapi_, bandisce la guerra santa al grido di: _Dio lo vuole_; evoca i ricordi delle Crociate, di Alessandro III, dei liberi Comuni vittoriosi a Legnano; e passa il Po. Quando e dove mai s'era data una situazione politica simile a questa? Pio IX è già in guerra contro l'Austria ed ha ancora ai suoi fianchi l'ambasciatore Austriaco come in piena pace; i Ministri vogliono in cuor loro la guerra, e per calmare la collera del Papa sconfessano il Durando e il suo proclama (povero espediente in verità, e poco degno dei valentuomini che l'adoprarono) l'Austria ed i Gesuiti agitano dinanzi al Papa lo spettro d'un immaginario scisma germanico; la contraddizione tra il pontefice e il principe costituzionale sta per scoppiare; niuno sa più quale responsabilità prevalga, se la cattolica del Pontefice o la costituzionale del Ministero, ed ecco l'Enciclica del 29 aprile 1818, che come uno schianto di fulmine illumina per un istante la tenebra in cui tutti camminiamo a tastoni, poi la riaddensa subito più fitta e più minacciosa di prima. Con essa Pio IX separava nettamente la causa sua e del papato dalla causa italiana, e quell'Enciclica è rimasta nella storia come l'affermazione più solenne della defezione di Pio IX. È giusto; nè vi ha quindi vitupero che sia stato risparmiato a quell'atto: Roma e l'Italia ne inorridirono; l'Austria e i Gesuiti ne gongolarono come d'una grande vittoria. Ma questi effetti così potenti e così disastrosi furono essi veramente previsti e voluti da Pio IX? Il popolo Romano non capì alla prima il latino dell'Enciclica, ma forse neppure Pio IX si rese ben conto di tutta la portata di quel documento. Il Gioberti lo crede, e pensa che per troppe cose egli, nella sua scarsa coltura, dovea rimettersene al giudizio degli altri. Ad ogni modo, le proteste di Pio IX, le sue meraviglie coi Ministri, ed in ispecie con l'amico più fido, qual era per lui il conte Giuseppe Pasolini, l'aver pure ventilato ora il progetto di recarsi in persona a Milano, le sue promesse di riparare al mal fatto, l'averlo in più modi tentato, cogli uffici ai Ministri dimissionari, affinchè rimanessero, con una chiara allocuzione in italiano per essere ben inteso alla prima, colla missione Farini al campo di Carlo Alberto per assicurare la qualità di belligeranti in piena regola alle sue truppe e ai volontari, colla lettera, tanto celebre, quanto inefficace, all'imperatore d'Austria, tuttociò, se dimostra la sua inesperienza politica, dimostra altresì, mi sembra, ch'egli era forse il solo a credere incoscientemente di non aver fatto tutto il male che gli imputavano, nello stesso modo che non avea creduto coll'amnistia d'aver fatto tutto il bene, onde gli era venuta così gran gloria. Comunque, questa in realtà è la fine dell'idillio italico-papale! Da un lato lo sdegno popolare, arroventato dalle vecchie sètte, che rompono la tregua, si muterà ben presto in rivolta; dall'altro la reazione farà forza di remi per ripescar questo Papa, che, Dio sa come, gli era scappato di mano. Tant'è che monsignor Pentini, il quale avea scritta esso l'allocuzione papale in lingua italiana, con cui si volea medicare il cattivo effetto dell'Enciclica del 29 aprile, confidò al Pasolini (e questi n'ebbe poi la prova) che di nascosto del Papa quella buona lana del cardinale Antonelli l'avea sulle bozze di stampa sostanzialmente mutata, facendo il 1º di maggio affiggere sulle muraglie di Roma un documento, che non solo ribadiva, ma peggiorava, se mai, il latino dell'Enciclica. Siamo in piena _commedia dell'arte_: Pantalone vittima delle astuzie del suo servo Brighella; ma l'ilarità dura poco, che in un subito tutta Roma è in tumulto; la Guardia Civica frena a stento gli eccessi; Ciceruacchio, mentre i Ministri moderati, bravissime persone al solito, ma che non trovano nulla di più ardito e di più ingegnoso da fare che andarsene, Ciceruacchio è ancora il solo protettore di Pio IX; sorge il Ministero Mamiani, in cui balenò allora, precorritrice di trent'anni dopo, la mezzatinta soave del governo progressista; il Papa è già costretto di commettersi ad uomini, dei quali diffida; Pellegrino Rossi sinceramente si duole che Pio IX «abbia inutilmente sciupato un tesoro di popolarità;» l'Ambasciatore d'Austria invece se ne va finalmente da Roma, fregandosi le mani e dicendo: «ho messo il Papa in tale impiccio, che non ne leverà i piedi mai più!» La parte più nobile del Ministero Mamiani fu la ripresa delle trattative per la Lega; la più originale il tentativo d'attuare in pratica la Costituzione del 14 marzo. Nella mente del Mamiani (mente speculativa e letteraria per eccellenza) quell'informe aborto piglia le fattezze estetiche e le dialettiche simmetrie d'un sistema filosofico. Un po' alla volta il Mamiani si persuade che non può darsi anzi più bel modello d'irresponsabilità costituzionale di quella d'un Sovrano, che ha i piedi in terra e la testa in cielo, che collocato in tal regione intermedia fra il mondo di là e il mondo di qua, lassù _prega, benedice e perdona_, e quaggiù lascia a Ministri, umanamente fallibili e peccatori, la cura delle faccende terrene. Questa posizione a mezz'aria non piacque però a Pio IX, il quale si mostrò sempre ostile e diffidente al Mamiani, fino a sospettarlo ingiustamente di tradimento, e il Ministero Mamiani trascinò la vita in una crisi perpetua, resa ognora più grave dalle condizioni generali d'Italia, per la quale, colla giornata del 15 maggio a Napoli ed il richiamo delle truppe borboniche, colle successive vittorie degli Austriaci, contro i Pontifici a Vicenza, contro i Toscani a Curtatone, contro i Piemontesi a Custoza e a Milano, si chiudeva ormai tutto un periodo della sua rivoluzione e se n'apriva un'altro; si chiudeva cioè il periodo dell'esperimento Giobertiano e si apriva quello dell'esperimento Mazziniano. Il 2 agosto il Ministero Mamiani si dimise; successe fino a mezzo settembre l'interregno d'un Ministero del conte Eduardo Fabbri, durante il quale la dissoluzione organica dello Stato s'andò accelerando sempre più, e il 16 settembre era Ministro Pellegrino Rossi, destinato a rappresentare ed a pagare colla sua nobile vita il supremo sforzo, forse l'ultimo per sempre, di tener uniti ancora Pio IX e il suo popolo, il Papato cattolico e la causa della libertà e dell'indipendenza italiana. Chi era quest'uomo, che osava tanto e in un'ora così disperata? Compromesso nell'impresa Murattiana del 1815, avea esulato in Isvizzera; colà avea tenuto alto il nome italiano e, facendosi largo coll'ingegno e gli studi, era salito ai primi onori della repubblica. La sua fama, come scienziato, pubblicista e uomo di Stato era già europea, quando nel 1833 era andato a Parigi, chiamatovi dal Guizot, che gli affidò la cattedra di economia politica nel Collegio di Francia. V'era rimasto fra molto favore e non poche contrarietà, ma le aveva vinte tutte, e nel 1839 era Pari di Francia, nel '44 Ministro di Francia a Roma. Come tale, avea assistito alla morte di Gregorio XVI, ai primordi di Pio IX, e vi avea assistito, fedele interprete della politica francese, ma in pari tempo con quel cuore di patriotta e d'italiano, per cui, rivalicando le Alpi dopo quasi trent'anni d'esilio e rivedendo l'Italia: «ho pianto, diceva egli stesso, come un fanciullo,» e nel 1848 avea benedetto suo figlio, che andava volontario in Lombardia a combattere contro gli Austriaci. Di tuttociò sono documento splendidissimo la sua corrispondenza diplomatica e privata col Guizot e le sue lettere a Teresa Guiccioli, scritte quand'egli, dopo la Rivoluzione francese del febbraio, era rimasto in Roma da privato, nell'una e nell'altre delle quali appariscono tutta la profondità, la sapienza, la finezza, l'eleganza d'ingegno di Pellegrino Rossi, e insieme la grandezza d'animo, con cui considera uomini e cose del suo tempo; qualità tutte, rivelate persino dai vari motti del Rossi, così veri e scultorii, suggeritigli dagli avvenimenti, che gli passano sott'occhi e che ho citati via via per concludere che se si ricongiungono quelle qualità di animo e d'ingegno colla probità laboriosa della sua vita pubblica e privata e collo straordinario ardimento di opporsi solo, e mentre tutti gli uomini più eminenti del partito moderato si ritraggono timidi e sfiduciati, di opporsi solo, dico, alla fiumana reazionaria e repubblicana, che irrompe da ogni lato e salvar Roma e forse con essa l'Italia dalla rovina, Pellegrino Rossi è indubitabilmente il solo grand'uomo di Stato, degno di questo nome, che l'Italia abbia avuto prima e dopo il Conte di Cavour. V'ha chi oppone ch'egli tentò l'impossibile, e lo tentò, perchè imbevuto di quel dottrinarismo, che aveva appreso alla scuola del Guizot. Senza negare gli errori del Guizot e dello stesso Rossi, confesso che non partecipo punto al disprezzo dei cosiddetti _uomini pratici_ per la dottrina e alle loro ammirazioni per certi estemporanei della politica, che la corruzione del parlamentarismo fa spuntare (purtroppo per noi, che siamo l'_anima vilis_ dei loro esperimenti) sempre più fitti e più solleciti che mai. Che se il Rossi tentò l'impossibile, dirò che l'impossibile tenta appunto, come una fata morgana, ingegni ed animi pari al suo. Gli altri (oh non ne dubito!) preferiscono serbarsi ad occasioni più facili. Comunque, ch'egli tentasse l'impossibile non dovette allora essere in tutto l'opinione de' suoi avversari, se per fermarlo ai primi passi non trovarono altro mezzo che ucciderlo e ucciderlo prima (fu una delle grandi preoccupazioni degli assassini e dei loro mandanti) e ucciderlo prima che egli aprisse bocca nel parlamento, da lui riconvocato pel 15 novembre 1848. V'ha chi oppone ancora: «e s'egli fosse riuscito? Chi sa quando e come si sarebbero potute raggiungere l'unità d'Italia e la fine del poter temporale dei Papi?» Ah! si crede proprio che i primi e veri autori di questi trionfi nazionali siano i dissennati, che spinsero Carlo Alberto a Novara, o gli scellerati, che trucidarono Pellegrino Rossi il 15 novembre 1848? In verità che, a ragionar così, la storia diviene un bel coefficiente di moralità pubblica e privata! Pel Rossi però c'è una considerazione, che dovrebbe, se non altro, ammansare questi terribili _conseguenziarii_ della storia ed è che i Monsignori Romani (lo dice il Cantù, autorità non sospetta) esecravano il Rossi non meno dei demagoghi e che nascosero così poco la loro gioia per quell'eccidio (lo dice il Padre Curci, allora Gesuita) che molti credettero in quel tempo e credono anche oggi alla loro complicità. La lucidità, la precisione, la rapidità dei provvedimenti, che Pellegrino Rossi prese subito per frenare l'anarchia dilagante per tutto e infondere nuova vita a un cadavere furono meravigliose. Fra tanta dissoluzione d'ogni utensile di governo e tanta inerzia della parte migliore della cittadinanza, mentre in Roma il clericalume ribaldo lo odia, perchè egli ne combatte gli abusi e i privilegi, e la demagogia, rinvigorita dei gregari peggiori, che vi colano da ogni parte, lo assale, lo insulta, lo minaccia, lo scredita ogni giorno, come un rinnegato italiano, che per ambizione e avidità di lucro s'è fatto strumento di tirannia, egli affronta l'uno e l'altra all'aperto; dice chiaro il suo pensiero, non nasconde nulla de' suoi propositi, non indietreggia mai, tocca a tutto, accenna a rinnovar tutta la vita e l'organismo d'uno stato, che non ha più nè organi, nè vita. Con questo minaccia egli forse la libertà? No, certo! Non solo lascia a Roma infuriare una stampa, di cui nulla si può immaginare di più tristo e di più forsennato, ma discute anzi pubblicamente con essa, ed eletto Ministro alla metà di settembre convoca pel 15 novembre le Camere. Gli si rimprovera di aver voluto esser solo e far tutto. Ma chi dovea egli associarsi, se tutti lo lasciarono solo, e chi adoprare, se nessuno valea quanto lui? Un uomo, che si mette a tale sbaraglio, è naturale, che abbia grande coscienza delle proprie forze e se per indole il Rossi era fiero, sprezzante, sarcastico, ognuno ha i difetti delle proprie virtù e i suoi avversari non potevano certo inspirargli atteggiamento migliore. Resta la sua politica estera, che si riassume tutta nei negoziati per la lega fra gli Stati italiani. È singolare che il rimprovero di non averla conclusa gli venga principalmente dai Mazziniani, che a quest'ora a nient'altro pensavano, se non a proclamare la repubblica unitaria in Roma, e dai Piemontesi, che appunto ora avevano sconfessato il Rosmini, loro ambasciatore, il quale l'avea quasi conclusa, e null'altro volevano se non un contributo immediato d'uomini e di denaro per la ripresa della guerra. A che pro la lega dei Principi per chi voleva abbatterli tutti? A che pro il contributo d'uno Stato disfatto e perchè, se il Rossi, al pari del Gioberti, del Rosmini, di tutti i maggiori uomini italiani, giudicava una follìa disastrosa romper di nuovo la guerra all'Austria? Fatto è che il progetto sostituito dal Rossi a quello del Rosmini ha ben più l'aria di una dilazione, che d'altro, siccome il Congresso federativo promosso dal Gioberti a Torino non fu in sostanza che un'accademia, e la Costituente bandita a Livorno dal Montanelli non fu che il preambolo della repubblica del Mazzini. S'approssimava intanto il giorno della riconvocazione delle Camere, e per più segni era chiaro al Rossi che i demagoghi volevano tentar in Roma per quel giorno un gran colpo. Si provò a indebolirli e scomporli; ma se mandò in provincia la Legione Romana dei reduci di Vincenza, i peggiori rimasero e s'aggrupparono intorno a Luigi Grandoni; se confinò qualche esule Napoletano dei più torbidi, essi arrivarono a mala pena a Civitavecchia; se disperse uno o due caporioni di congiure occulte o palesi, essi non s'allontanarono quasi, o stettero col piè levato al ritorno; se chiamò Carabinieri e ne fece mostra per le vie, poco c'era da contare sulla loro fedeltà; se processò qualche giornale, aizzò vieppiù le loro ire; se mandò il generale Zucchi contro i facinorosi delle provincie, si tolse da vicino il solo uomo, che avrebbe opposto petto di soldato alla ribellione. Che cosa rimaneva al Rossi? Il suo coraggio, che in questa inefficace sproporzione, e certamente erronea, dei mezzi col fine, tanto più si palesa qual'era, quello d'un eroe. Che si congiurasse intorno a lui, che una sommossa fosse prestabilita pel 15 novembre, egli lo sapeva di certo. Che si volesse uccider lui, quantunque dovesse prevederlo e temerlo, non pare che l'abbia saputo di certo, se non all'ultimo momento. Così almeno s'argomenta dal più recente e autorevole studio su questi fatti (ma sfortunatamente ancora incompiuto), che è quello di Raffaello Giovagnoli. Da che fucine uscissero quelle congiure, l'ha detto il Rossi medesimo nell'articolo che osò pubblicare proprio alla vigilia del 15 novembre. In esso accusa apertamente, senza riserve nè attenuazioni, i clericali e i demagoghi, e dice loro: «badate! non vi darò quartiere!» Quanto a sè stesso: «il mondo sa, concludeva, che vi ha lodi, che offendono e biasimi, che onorano.» Tali parole, gettate in quell'ultim'ora come una sfida, sulla faccia de' suoi nemici, sono sublimi, e mi è caro ripeterle qui, dinanzi a una udienza, che certo sente profondamente vibrarsi nel cuore quanto v'è di grande, di nobile, di cavalleresco, di fieramente elegante persino, nella sprezzante audacia di quest'uomo. Ma notate! Egli accusa senz'alcuna distinzione clericali e demagoghi. L'avrebbe fatto il Rossi, ministro del Papa, se non avesse avuto le prove in mano di ciò che affermava? Aggiungete che le carte segrete del Rossi, raccolte la sera stessa del 15 novembre per ordine di Pio IX da monsignor Pentini e da lui consegnate al Papa, nessuno le ha viste mai più. Al mattino del 15 novembre sulla piazza della Cancelleria era schierato un battaglione di Guardia Civica, che avea fornito una diecina di militi, non più, per le solite sentinelle all'entrata e nell'interno del palazzo. I Carabinieri, per ordine del Rossi, erano consegnati nelle caserme a piazza del Popolo e nel palazzo Borromeo. Nelle vicinanze della Cancelleria molta gente, non folla, varia di condizioni e, a quel che pareva, di opinioni e di sentimenti; curiosi in gran parte; scarsissime le donne. Nel cortile del palazzo, che ha all'intorno portici a due ordini, molti, che vanno e vengono, e a gruppi una sessantina di reduci Vicentini della Legione Romana, tutti colla sozza e logora uniforme di tela, che la plebe solea perciò chiamare: _la panuntella_. Fra costoro, faccie torbide, agitate, e ora bisbigli all'orecchio, ora bestemmie, e voci di esecrazione e di minaccia al Rossi. Di questo brutto apparecchio il Rossi fu informato. Stette un momento sopra di sè, poi disse: «che si fa? bisogna andare!» Mandò l'ordine ai Carabinieri di muoversi dalle caserme, ma pare non giungesse in tempo. Al tocco il Rossi salì in carrozza col suo segretario per le finanze, Pietro Righetti, al quale, montando, disse: «se non ha paura, salga pure!» Nessun altro, nessun ministro (si noti) l'accompagnò, e così si mosse dal Palazzo della Consulta. Alla Cancelleria intanto l'irrequietezza e l'agitazione fra quella masnada di legionari andavano crescendo sempre più. I Deputati arrivavano spicciolati ed entravano senza destare attenzione. Uno solo, suscitò gli applausi dei gruppi di legionari, Pietro Sterbini, che passò salutandoli, e di cui Marco Minghetti dice ne' suoi _Ricordi_: «pochi uomini ho conosciuto più rei d'intelletto e d'animo, e più orrendi di faccia.» A un tratto due legionari, accorrendo dall'angolo di via de' Baullari, dicono ai compagni: «eccolo! eccolo!» Una carrozza s'avvicina, ma altre voci: «non è lui! non è lui!» Era la carrozza del Ministro di Spagna. Il furore nei gruppi di legionari aumenta a vista d'occhio; s'odono alcuni: «sta' a vedere che non viene questa carogna! Dovrebbe avere paura!» In quella giunge la carrozza del Rossi. «Eccolo, si grida, è lui! Dentro! Dentro!» I legionari rientrano tutti di botto e si dispongono di qua, di là, presso la scala; alcuni sui tre scalini, pei quali si monta ad un largo pianerottolo. La carrozza, rallentando, entra nell'atrio in mezzo a un grande silenzio, si ferma dinanzi alla scala e il Rossi si dispone a scendere. Allora prorompono urli e fischi: «Morte! Abbasso! Ammazzalo!» Egli guarda intorno fiero, imperterrito, s'avvia, e sale il primo scalino. Le due file dei legionari, che l'hanno lasciato inoltrarsi, gli si rinchiudono dietro e lo separano dal Righetti. Nel tempo stesso mentre il Rossi sale gli altri due scalini, qualcuno l'urta a destra, egli si rivolta sdegnoso, e da sinistra un altro gli immerge un coltello nel collo. Trenta, quaranta braccia s'alzano nello stesso istante per nascondere ciò che accade; sulle spalle del feritore alcuni gettano un cappotto da Guardia Civica e scompaiono con lui per una porticciuola di fianco; altri accorrono al portone del palazzo e trattenendo la folla, che si protende innanzi e interroga agitata, curiosa: «niente, niente, rispondono, fermi! Non è niente!» Il Rossi, raggiunto a gran pena dal Righetti, gli era caduto fra le braccia e trasportato nelle stanze del cardinale Gazzoli, pochi minuti dopo e senza profferir parola era spirato. Al di fuori la folla si diradò quasi subito. Nella Camera dei Deputati, che erano scarsissimi, alla prima eco degli urli e dei fischi, al primo annunzio d'un attentato al Rossi parecchi, il Minghetti, il Fusconi, il Pantaleoni, uscirono per portar soccorso, altri non si mossero dai loro scanni, il Presidente Sturbinetti fece leggere il verbale: apparenza d'impassibilità da Senatori Romani contro i Galli di Brenno; vigliaccheria solenne in realtà, che neppure osò alzar la voce a maledire l'assassino. Ma che dico maledirlo? Nessuno lo inseguì, nessuno lo cercò, nessuno seppe chi era, nessuno si curò di saperlo e per parecchi anni nessuno lo seppe, o chi lo sapeva non lo disse. La stessa sentenza del 17 maggio 1854 che per l'assassinio del Rossi condannò a morte Luigi Grandoni e Sante Costantini, altri due alla galera a vita, altri tre a vent'anni, quantunque lo annoveri fra i sorteggiati per compiere il delitto, non lo nomina più neppure fra i correi contumaci. Nello stesso famoso Sommario processuale del giudice Laurenti, che, prima dell'esame diretto delle sedicimila pagine del processo fatto dal valentissimo Giovagnoli, era la sola fonte a cui ricorrere, l'assassino vero del Rossi è una figura, su cui l'istruttoria trascorre sempre disattenta, e sì i processanti, che i giudici sembrano ignorare che alla data della chiusura del processo e della sentenza l'assassino vero era già morto da circa cinque anni. Esso fu Luigi Brunetti, il figlio maggiore di Ciceruacchio! Quanto alla preparazione del misfatto, le conclusioni del Giovagnoli sono che i complotti furono due, l'uno di vecchi settari della Carboneria, in cui sarebbe stato deliberato; l'altro di non più che sette sicari, scelti fra i reduci di Vicenza della Legione Romana. Allo Sterbini, al Ciceruacchio e agli altri capi del moto rivoluzionario, che poi finì colla repubblica del Mazzini, non dovette parere che il moto fosse ancora maturo; erano incerti ancora del contegno della truppa e della Guardia Civica; erano una frazione audace, pronta a tutto, ma frazione pur sempre; temettero forse gli strascichi della grande popolarità di Pio IX, forse una reazione nella capitale stessa e nelle provincie; tant'è vero che l'esperimento procedette per gradi, ed ucciso il Rossi, eliminato cioè l'ostacolo maggiore, la sera stessa del 15 novembre atterrirono la città, percorrendola al chiarore sinistro di faci in una specie d'orgia selvaggia, cantando a squarciagola l'orribile ritornello: Benedetta quella mano, Che il Rossi pugnalò, e levando in trionfo or l'uno or l'altro dei legionari (mai però il Brunetti!) fin sotto la casa, dov'erano raccolti in lagrime disperate la moglie e i figli del Rossi; tanto è vero che il giorno dopo imposero bensì colla rivolta un Ministero democratico a Pio IX col Galletti e lo Sterbini; ma non osarono di più; non osarono proclamar subito la Costituente e la Repubblica. Vi ricordate ora, o signore, che, appena trafitto il Rossi, i complici del Brunetti gli avevano fatto siepe all'intorno delle braccia alzate, lo avevano imbaccuccato in un cappotto da Guardia Civica e trafugatolo in fretta per una porticciuola di fianco? Ebbene, da quel momento, si può dire, l'assassino scompare per sempre; si dice il nome ora di questo, ora di quello, quasi mai il suo; il 25 novembre Pio IX fuggirà da Roma; il 5 febbraio 1849 si riunirà la Costituente; il 9 si proclamerà la Repubblica; il 3 luglio i Francesi, dopo superata una resistenza eroica, entreranno in Roma, e in mezzo a quella rapida e sfolgorante epopea della difesa di Roma, in cui brillano di gloria immortale tanti nomi sacri alla memoria degli Italiani, il nome di quel miserabile va travolto e perduto. Ma Garibaldi non si è arreso ai Francesi. Da Roma vinta il gran guerrigliero esce seguìto da molti compagni (Ciceruacchio e i suoi due figli fra questi) per raggiungere Venezia che resiste ancora; lo inseguono _quattro_ eserciti; passa fra mezzo a tutti invincibile, inafferrabile; sublime odissea, in cui, affinchè nulla manchi alla sua eroica poesia e alla sua grandezza morale, c'è ancora la morte alle Mandriole, presso Ravenna, di Anita, la donna amata da Garibaldi, e l'espiazione tremenda del delitto del 15 novembre 1848. Ciceruacchio e i suoi due figli, dopo che Garibaldi ha tentato imbarcarsi a Cesenatico per Venezia, dopo ch'egli ha dovuto retrocedere fino alle foci del Po e riparare nel porto di Magnavacca, Ciceruacchio, i suoi due figli e cinque altri, che li seguivano, si separarono da Garibaldi, cascano in mano agli Austriaci, e tutti, lo stesso Lorenzo, il figlio minore di Ciceruacchio, un bambino di tredici anni, trascinati sulla riva del Po a Cà Tiepolo, ora dei Papadopoli, sono fucilati, come belve rabbiose. Espiazione, sì, del vile assassinio di Pellegrino Rossi, ma il sangue innocente di quel bambino, che si aggrappa al petto del padre, mentre le palle li trafiggono entrambi, se implora perdono al padre ed al fratello, grida vendetta al cospetto di Dio contro chi l'ha versato e chi l'ha fatto versare!! Luigi Brunetti, l'assassino di Pellegrino Rossi, è finito così, la notte del 10 agosto 1849. Tuttavia neppure allora apparisce il suo nome. Egli per nascondere sè e il suo misfatto s'è consegnato agli Austriaci sotto un falso nome, forse sotto quello di _Luigi Bossi_, e nella lapide che nella chiesetta di Sant'Antonio, presso al luogo del supplizio, ricorda quegli infelici, vi sono bensì otto nomi, ma manca il suo; v'è il nome falso; postuma espiazione anche questa! Ora, ignoravano essi tutto ciò gli inquisitori e i giudici di Roma? Non direi! In quello stesso Sommario processuale del Laurenti, che il Giovagnoli chiama giustamente un romanzaccio da fare il paio con _L'Ebreo di Verona_ del gesuita Bresciani, v'ha le traccie delle conclusioni stesse, alle quali è giunto il Giovagnoli, v'ha le traccie cioè delle due riunioni, di quella del 13 novembre, in cui fu dai capi della demagogia romana deliberata la morte del Rossi, e di quella della notte del 14, in cui fra sei o sette figuri, che stanno bevendo in un'osteria a piazza del Popolo, comparisce lo Sterbini ed eccitato da lui Luigi Brunetti si profferisce pronto a scannare il Rossi il giorno dopo; ma l'inquisizione non si ferma su ciò, preferisce cercare origini remote alla congiura nel Congresso di Torino, in quello di Firenze, in un pranzo, a cui assiste con lo Sterbini e il principe di Canino, nient'altri che Terenzio Mamiani, sempre nell'intento non tanto di gravar la mano sui demagoghi peggiori, quanto di coinvolgere nell'infame accusa tutto il partito liberale e allontanare ogni sospetto dai clericali, che pure il Rossi aveva pubblicamente accusati. A tal fine il romanzaccio si slarga; v'ha una prima congiura di certi fratelli Facciotti alla salita di Marforio; una seconda nei fienili di Ciceruacchio, in cui i congiurati sono a centinaia; una terza di Legionari reduci da Vicenza nel teatro Capranica; e all'ultimo le tre congiure s'intendono e metton capo all'assassinio del Rossi e alla rivolta del 16 novembre, con lo scenario d'obbligo dei giuramenti sui pugnali (giura anche il conte Mamiani!), del sorteggio dei sicari, delle prove sui cadaveri, degli avvisi misteriosi alla vittima designata. In tuttociò è confusione di fatti, di tempi, di uomini, e mescolanza di vero e di falso, fatta ad arte per un fine politico e non per scoprire la verità, che forse i processanti conoscevano, ma premeva loro assai meno. Ciò non vuol dire che fra i condannati del 1854 vi fossero innocenti. Non lo credo. Ma la verità è che la congiura diretta fu di pochi; l'indiretta di molti, e vi contribuirono ugualmente l'odio dei clericali, la timidità dei moderati, la perversità dei demagoghi, il fanatismo dei repubblicani, e per ultimo la stessa audacia del Rossi, la soverchia fiducia in sè ed il soverchio disprezzo dei suoi avversari. Fu lasciato solo, quando salì al ministero, come fu lasciato codardamente solo (salvo che da Pietro Righetti) il giorno, che dovette affrontare i pugnali degli assassini. E appena egli è caduto, l'anarchia prorompe, il governo si dissolve, lo Stato, ch'egli reggeva nella potente sua mano, non esiste più. Nondimeno il Mazzini ed il Saffi negano che fra l'assassinio del Rossi, la rivolta del 16 novembre, la fuga del Papa, la proclamazione della Costituente e della Repubblica vi sia alcuna continuità. V'era tanto invece e così immediata, che nessuno pensò più neppure a scoprire e punire gli assassini del Rossi, ed i più noti fra essi ebbero premi, onori e compensi. È un'onta questa, cui non bastano a lavare gli eroismi della difesa di Roma, perchè la Repubblica fu opera d'una fazione e la difesa di Roma fu invece un fatto ed una gloria nazionale, e in quella luce radiosa di battaglia contro lo straniero non campeggia la squallida figura di Mazzini, bensì risplendono quelle omeriche ed ariostee di Garibaldi, di Bixio, di Medici, di Pietramellara, di Morosini, di Mameli, di Manara, e di cento e cento altri guerrieri italiani, che cadono «col nome d'Italia sulle labbra e la fede d'Italia nel cuore!» E Pio IX, di cui non abbiamo quasi più parlato?... Egli ha rinnegata la patria e chiamati gli stranieri; il _Vescovo d'Imola_, l'ospite caro di Giuseppe e Antonietta Pasolini a Montericco, il Pio IX dell'amnistia e del _Benedite, gran Dio, l'Italia_ sono scomparsi. In loro vece è il tristo ceffo brigantesco del cardinale Antonelli. Meglio, non parlarne più!! I MOTI DI NAPOLI DEL 1848 CONFERENZA DI FRANCESCO S. NITTI Ebbene — poichè l'accoglienza vostra è sì cordiale — permettete che vi dica che io non avrei dovuto parlare del '48 a Napoli. Non posso, non si può forse parlarne con severità; non vi è nemmeno la possibilità di una ricostruzione completa dei fatti. Troppe lacune, troppi errori: sopra tutto le passioni sono ancor vive e gli odii persistono ancora. I miei parenti furono tutti tra i perseguitati, anzi fra i tormentati dalla reazione borbonica. È difficile essere sereno; sopra tutto quando gli archivi conservano, ancora inesplorati, i soli elementi che possano gittare un poco di luce su tante cose che noi non sappiamo. La difficoltà appare maggiore quando si pensi che sono ancora viventi non pochi di quelli che nel '48 a Napoli ebbero un'azione diretta. Essi sono forse i peggiori giudici: ma sono anche i più incontentabili. Chi ha operato non può essere un giudice; ma non può nemmeno esser contento di chiunque giudichi senza aver operato. Le lotte tra i greci e i persiani, le aspirazioni di Filippo il Macedone si prestano alle considerazioni più varie; ma considerarle in un modo o in un altro non indignerà alcuno. Non si parla invece impunemente di quelle cose in cui i nostri padri, a ragione o a torto credettero, e per cui lottarono e soffrirono. La storia dei fatti di Napoli dal 27 gennaio al 15 maggio non è che la storia di pochi mesi; pure, a chi vi guardi dentro, apparisce la spiegazione di non poche delle difficoltà presenti. Molte cose sono scomparse; permangono tuttavia alcune tristi eredità. E il desiderio di pronte mutazioni, e l'insofferenza di disciplina, e il credere che si possa in pochi chiedere e ottenere trasformazioni, sono mali derivati a noi dalle rivoluzioni liberali tra il '20 e il '60. La rivoluzione del '48 non ebbe a Napoli nulla di grandioso: non fu molto diversa in altre parti d'Italia, ma la fine tragica diede altrove carattere di grandezza. La costituzione del 1820, data a Napoli da un re fiacco e di malafede, dipese da un moto incomposto. La costituzione del '48 fu concessa per equivoco, fu soppressa di fatto dallo squilibrio di due paure: la paura che il re avea dei liberali e la paura che i liberali aveano del re. Durante la dinastia borbonica la sola rivoluzione di Napoli che lasciò tracce durevoli e in cui vi fu il martirio dei migliori e dei più degni, fu quella del 1799: essa fu la condanna della monarchia borbonica; la vera, la terribile accusa che pesò sempre su Ferdinando IV e sui suoi successori. Il 1820 avea lasciato due dolorose eredità, due idee non ancora scomparse del tutto. La prima idea, comune alla monarchia e alle classi medie, che il regime politico potesse e dovesse esser mutato non per modificazioni progressive, ma quasi di assalto. Due sottotenenti e un prete aveano infatti nel 1820, per opera e con l'aiuto di una setta, determinato, sia pure fuggevolmente, un mutamento di regime. Dal 1820 al 1848 appare dovunque l'idea che si deva operare di sorpresa, che pochi uomini di buona volontà bastino a tutto. La massa era indifferente: che importa? Le classi medie non aveano nessuna preparazione: ma era necessario che l'avessero? I travisamenti della leggenda napoleonica faceano credere che un uomo solo potesse bastare a ogni cosa. Un patriota calabrese, che nei fasti del '48 ebbe gran parte, vedendo passare dei reggimenti della guardia reale, diceva al Settembrini che si sarebbe sentito con centomila baionette di fare più che Napoleone. Fra il 1830 e il 1848 questo stato di animo determinò dovunque piccoli tentativi di rivolta. Ve ne furono in Sicilia, in Abruzzo, perfino alle porte di Napoli, nei Principati. Due o tre famiglie perseguitate o insofferenti, o che aveano antichi rancori, bastavano qualche volta a determinare rivolte locali. In alcuni paesi si giunse a proclamare il regime costituzionale, a cantare il _Te Deum_ in Chiesa; qualche volta si dichiarò perfino decaduto il Re. Data la mancanza delle strade e l'insufficienza dei funzionari nelle province (accorrevano il più che si potesse nella capitale, che era la sola grande città del Regno nel continente), la monarchia borbonica avea in ogni paese una o più famiglie ricche o potenti, cui concedeva la sua protezione: in un piccolo centro rurale il potere era bilanciato tra il parroco e la famiglia più ricca. Era dunque esercitato assai spesso molto male e con la tracotante e volgare arroganza così comune alle famiglie ricche nei piccoli centri. La causa dei movimenti carbonari o settari spesso va cercata meno nell'odio per la monarchia che negli odii locali, nella prepotenza di qualche famiglia ricca (ricco volea dir spesso solo meno povero degli altri) che senza la nobiltà e la grandezza avea i pregiudizi e le idee di dominio dei vecchi feudatari. La seconda idea, non meno dannosa della prima e che non è ancora scomparsa nè a Napoli nè nel resto della penisola, è che si possa ottener tutto dallo Stato in tempi di rivolgimenti. La burocrazia già numerosissima, assorbiva in ogni rivolgimento un certo numero di elementi nuovi. Quando prevalevano i liberali, come quando prevaleva l'assolutismo, vi era sempre lo stesso numero di persone in cerca d'impieghi. Anzi il Re dava per grazia e poteva quindi negare; ma i liberali che avean bisogno di suffragio e di aiuto, parea che non potessero e che non dovessero. Ferdinando II, fra il '30 e il '48, cioè per diciotto anni, avea dato prova di molta mitezza e di molto accorgimento. Succedendo a un padre inetto e dopo periodi tristissimi per la vita della monarchia e del paese, avea trovato molto da fare, soprattutto moltissimo da disfare. E all'opera benefica di restaurazione si era accinto con ardore. Pochi principi italiani fecero fra il '30 e il '48 il bene che egli fece. Mandò via dalla Corte una turba infinita di parassiti e d'intriganti; richiamò i generali migliori, anche di parte liberale, e licenziò gl'inetti; ordinò le leve militari; fece costruire, primo in Italia, una strada ferrata; istituì il telegrafo: fece sorgere molte industrie, sopra tutto quelle di rifornimento dell'esercito, che era numerosissimo; ridusse notevolmente la lista civile; mitigò le imposte più gravi. Giovane, forte, scaltro, volea fare da sè, ed era di un'attività maravigliosa. Educato da preti e cattolicissimo egli stesso, osò con grande ammirazione degli intelletti più liberi resistere alle pretese del papato e abolire antichi usi, umilianti per la monarchia napoletana. Non coraggioso e non nato alle armi, avea compreso che il Regno di Napoli avrebbe avuta una grande importanza nella penisola se avesse avuto un solido potente esercito; e le truppe che avea trovato corrotte e demoralizzate avea cercato di risollevare e avea portato con grandi sacrifizi l'esercito stanziale a una cifra proporzionalmente molto superiore all'esercito attuale del Regno d'Italia. Avea molti pregiudizi del tempo suo e del suo ambiente; era sopra tutto troppo napoletano; ma avea anche molto desiderio di fare. È passato alla storia come _Re Bomba_ e non si ricordano di lui che il tradimento della costituzione, le persecuzioni dei liberali, le repressioni di Sicilia e le terribili lettere di Gladstone. Abbiamo troppo presto dimenticato che, durante quasi due terzi del suo regno, i liberali stessi lo chiamarono Tito e lo lodarono e lo esaltarono per le sue virtù e per il desiderio suo di riforme. Abbiamo troppo presto dimenticato il sollievo che le sue riforme finanziarie produssero nel popolo, e l'ardimento che egli dimostrò nel sopprimere i vecchi abusi. Io sarei molto imbarazzato se dovessi paragonarlo a qualcuno. Questo re, morto non ancora cinquantenne, ha riempito di sè l'Europa: era un misto strano di avvedutezza e di paura. Avea tutta la volgarità e le finezze del popolo minuto: avea tutte le debolezze della grande maggioranza dei suoi sudditi, cui anzi soverchiava nel desiderio di riforme reali in favore del popolo. Misto di superstizione, di scaltrezza e di intelligenza; bonario, desideroso di assicurare al popolo una vita migliore. Era così poco nato per esser crudele, che quando dovè esserlo fu assai male: e le sue crudeltà furono esagerate e occuparono la stampa europea. Quando vi furono rivolte contro la monarchia e perfino cospirazioni di soldati per ucciderlo, Ferdinando non usò alcuna ferocia: nessuno fino al 1848 fu condannato a morte per aver messo in pericolo il Re e la monarchia. Anche i poeti non cesarei esaltavano _chi il gaudio del perdonar provò_. Da Carlo V in poi, se si faccia eccezione del regno di Carlo III, è impossibile trovare nella storia napoletana un periodo di più utili riforme, di maggior quiete e di maggior libertà di quello tra il 1830 e il 1848. In tutta l'opera di Ferdinando si nota un avviamento progressivo verso un regime più largo. Non era la costituzione liberale che egli sognava: ma un regime autoritario temperato da una serie di riforme. Non avea vedute larghe; ma nemmeno era cieco di mente, sì come han detto i suoi denigratori. Ma le condizioni del regno delle Due Sicilie e il lievito che la rivoluzione del '20 avea lasciato e le difficoltà nuove che sorgevano per la influenza dei vari partiti e dei vari interessi rendevano non facile la funzione di governo, soprattutto non facile l'opera di riforme progressive voluta dal Re. Prima di tutto fra le varie classi sociali — tranne forse nel popolo, devoto alla monarchia per antica tradizione monarchica e sopra tutto per avversione da prima ai baroni e poi alle classi medie e ricche — era uno scontento grande; un lievito che facea temere fermentazioni. L'aristocrazia, diminuita costantemente da sessant'anni per opera dei re, guardava sospettosa. Il re Ferdinando con assai larghezza d'intenti avea chiamato alle cariche più importanti individui che non vantavano grandi casati, anzi nati umilmente. Era stato uno scandalo, n'era offesa soprattutto l'aristocrazia siciliana, così tracotante, così superba, così piena della sua grandezza e del suo passato. Le classi medie, incitate dagli esempi di Francia, aspiravano a conquiste maggiori. La borghesia, come ho detto altre volte, non sorgeva nel Mezzogiorno dal traffico e dalla industria: ma dal commercio del denaro, dall'intermediarismo agrario e dalle professioni liberali e principalmente dall'avvocatura temuta e potente. Vi era numerosa turba d'impiegati; e sopra tutto di persone in cerca d'impieghi. Nel 1820 e nel 1848 i maggiori errori furon dovuti al grandissimo numero di aspiranti a impieghi, che si unì prima a coloro che volevano mutamenti politici e imposero la costituzione; e poi, non potendo esser contentati se non in poca parte, furono, con i loro eccessi, la causa maggiore della reazione assolutista diventata più che necessaria, inevitabile. Non erano i partiti che mancavano nel regno. Alla vigilia del 1848 fra le classi medie del reame vi erano anzi partiti politici numerosi, e numerose erano anche le gradazioni di ciascun partito. Il partito di governo, il partito che raccoglieva le maggiori forze, era quello che volea la monarchia assoluta pura: _el rey neto_, come dicono gli spagnuoli. I fatti del '20 avean lasciato nei più ricchi e nei più desiderosi di pace un triste ricordo. Meno per convinzione politica, che per ignoranza della vita pubblica e per tradizione, i benestanti più ricchi vi aderivano: e vi aderivano anche coloro che per la loro situazione avean più facili e più sicure le carriere. Questo partito, così detto austro-spagnuolo o assolutista, perchè i suoi istinti e le sue tendenze lo spingevano appunto verso l'Austria e verso la Spagna, aveva avuto per _leader_ il principe di Canosa da prima, il marchese Del Carretto da poi. Si componeva nella maggior parte di nobili, dell'elemento militarista e del clero ricco. Non solo odiava ogni riforma, ma trovava troppo liberale la politica del Re, e volea dighe maggiori a tutte le aspirazioni unitarie e liberali. Per sua natura stessa devoto alla monarchia, non osava discuterne gli atti: ma aspirava a esercitare un'azione più larga. Aderiva a questo partito e n'era l'anima la così detta _camarilla_, un partito formatosi tra i bassi fondi di Corte e inviso anche alla parte più moderata per il suo spirito d'intrigo. Non tutti però coloro che del partito austro-spagnuolo facean parte erano assolutisti. Alcuni solo per odio al murattismo e a ogni intervento straniero, preferivano una monarchia assoluta e napoletana. I _murattisti_ costituivano a lor volta un partito numeroso. Gioacchino Murat, francese, era stato re di Napoli quasi per un decennio; e benchè l'_Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie_, pubblicato per cura della Corte di Napoli non lo mettesse più tardi nemmeno nella _serie cronologica dei Re di Napoli e Sicilia_, considerandolo come un usurpatore, avea lasciato ricordo di sè. Era stato troppo poco per determinare odii profondi: ma avea pubblicato molte leggi buone e cattive, e avea combattuto bene a capo di schiere napoletane. Era bello, forte, arditissimo; forse un po' ciarlatanesco. Ma ciò non gli noceva in alcun modo. La leggenda di Napoleone, rimasta vivissima nel Regno, ripetuta, ingrandita, dava prestigio alla tradizione murattiana. In Francia con Napoleone III la fortuna di casa Bonaparte risaliva; parea naturale che anche a Napoli dovesse risalire. In alcuni la fede nella italianità era scarsa, anzi mancava addirittura il sentimento; altri credeva che fosse più facile per le riforme legare la politica di Napoli a quella di Francia. Fra i _murattisti_ vi erano due fra le personalità più spiccate del reame: il generale Filangieri, che rappresentava tendenze militari, favorevoli a un assolutismo temperato e l'avvocato Bozzelli ch'era fra i desiderosi di costituzione liberale e che fu parte grandissima nei fatti del 1848. Ma questa soggezione allo straniero, anche negli ordinamenti liberali, questo invocare principe straniero e leggi straniere anche per causa di libertà, offendeva molti. Il senso d'italianità si era venuto formando: anzi si può dire che i moti del 1848 ebbero in generale più tendenza unitaria che liberale, a differenza di quelli del '20, che furono esclusivamente costituzionali. Gli scritti di Gioberti, di Balbo, di D'Azeglio, soprattutto l'opera di Mazzini, infiammavano le menti. Si ebbero monarchici, federalisti, repubblicani: ma il nome d'Italia era ripetuto da tutti. E vi erano ancora altri partiti e gradazioni infinite dei partiti maggiori. Era però male grandissimo che il movimento costituzionale e riformista fosse composto di elementi che speravan solo da passioni e da interventi esterni; e che la monarchia o il partito austro-spagnuolo, rimanessero soli a difendere, insieme con la indipendenza del reame, anche la tradizione napoletana. Due fatti derivarono da ciò: da una parte l'avversione della monarchia napoletana a ogni riforma, e dall'altra, quando la unità fu realizzata, una debole partecipazione dei napoletani nei benefizi del nuovo ordine di cose e di tutta la funzione di governo. La protezione che Ferdinando II parea accordasse ne' primi anni del suo regno agli studi coincideva con un risveglio intellettuale molto notevole. Il giornalismo, fra il '30 e il '48, attirò non pochi uomini di valore; era un giornalismo letterario, ma politicamente ebbe per effetto di far nascere il bisogno di cose nuove. Memorabile soprattutto lo studio del marchese Basilio Puoti, da cui uscirono De Sanctis, Settembrini e quanto di meglio ebbe Napoli; il purista grande, che affezionava gli scolari alla purezza dell'idioma italico e rinverdiva i vecchi testi, lavorava senza sapere, forse senza volere, alla grande opera dell'unità. Vi era dunque nel Regno, alla vigilia del 1848, un movimento delle idee; vi erano partiti immensi e vi era soprattutto quel fermento che precede i periodi di rivoluzioni. Ma la tradizione infausta della rivoluzione precedente e gli esempi recenti spingevano gli uomini più dissennati o più entusiasti a tentare da soli o in pochi trasformazioni profonde: e facea credere al sovrano che ogni manifestazione fosse effetto di setta o di organizzazioni tenebrose. Da una parte dunque si credeva che pochi uomini soltanto potessero scuotere le masse; non il martirio nobilmente sopportato, non il lavoro lungo e paziente di educazione progressiva, non l'opera assidua di tutti i giorni, ma i colpi di fortuna improvvisi. Pochi decisi a tutto uscivano in campo: i più numerosi seguivano e gridavano. Si voleva _trascinare_ il pubblico. Le voci eran così alte e numerose, lo scoppio così improvviso, che il Re cedeva. A sua volta il Re esagerava la potenza dei liberali: dieci persone unite, che scendevano in piazza a gridare, credeva rappresentassero setta interminabile e tenebrosa. La storia del '20 non è tutta in questi sospetti e in queste debolezze? Ora, verso la fine del 1847, nel fermento costituzionale che era in tutta Europa e con l'agitazione socialistica già vivace in Francia, nel Regno delle Due Sicilie doveano ripercuotersi necessariamente i fatti di oltre Alpe. Gli annunzi delle riforme di Toscana e di quelle concesse a Roma da Pio IX produssero agitazioni vivissime tra i liberali di ogni gradazione. La condotta del Re era stata tale in passato, che egli pareva più disposto a concedere che a reprimere. Durante il novembre e il dicembre 1847 vi erano state agitazioni e dimostrazioni. Nelle piazze, e fino sotto il palazzo reale, si era gridato: _Viva il Re! viva la costituzione!_ Il Re non avea mostrato di gradir molto applausi di questa natura, e la polizia avea disperso i dimostranti e arrestato i più accesi tra essi. La Sicilia, in cui già l'avversione per i napoletani più che per la monarchia borbonica era grande e in cui la tradizione e lo spirito separatista erano vivissimi, si agitava a sua volta ben più gravemente. I moti di Sicilia, cominciati il 27 novembre con le dimostrazioni del teatro Carolino, al grido di: «viva Ferdinando II! viva Pio IX!» assunsero presto carattere diverso. Si cominciò col chiedere alcune riforme amministrative: poi si chiesero modificazioni profonde nell'ordinamento amministrativo. La libertà non era la vera causa: quest'ultima bisognava trovare soltanto nel desiderio di ottenere con minacce di rivolte una completa divisione da Napoli. Infatti il movimento divenne presto separatista, e si volle che non altra unione vi fosse con Napoli che una unione personale: il Re comune e niente altro. Come il movimento si allargava non solo si vollero le riforme, ma si vollero a scadenza fissa, quasi con un _ultimatum_: il Re doveva darle entro il 12 gennaio. Il Comitato di Palermo mandò emissari dovunque: si parlava d'_indipendenza_, più che di libertà. Il Re, per prudenza o per timore, mentre si decise a reprimere l'insurrezione, il 16 gennaio concesse in gran parte ciò che la Sicilia chiedeva: si disse che era troppo tardi, e l'insurrezione divampò. Truppe furono spedite da Napoli per domare la rivolta di Sicilia: si batterono pigramente, furono battute e si ritirarono. Trasformatosi il movimento da trasformista in rivoluzionario per colpa della Sicilia, le dimostrazioni di Napoli assunsero un carattere più minaccioso. Il Re avrebbe potuto opporsi al movimento, mettersi a capo dell'esercito e resistere alle sedizioni e alle rivolte. Ma gli mancava l'audacia, e soprattutto credeva che i liberali, secondati dall'Inghilterra, avessero molto più forze che non avevano in realtà. Il 26 gennaio, quasi per dar ragione ai dimostranti, licenziò il ministro Del Carretto, capo del partito assolutista, e lo fece imbarcare il giorno stesso per Marsiglia: i liberali che erano in carcere furono liberati e con essi Carlo Poerio. Il 27 vi fu una grande dimostrazione. Le concessioni, fatte sotto l'impressione dei movimenti di piazza, non doveano arrestarsi. Il 28 il Re formò Ministero liberale: all'alba del 29 un _Atto sovrano_ annunziò la costituzione liberale e i capisaldi di essa. Dal 29 gennaio al 15 maggio, quando la costituzione fu uccisa dalle violenze della piazza, se pure nella forma fu ancora per qualche tempo mantenuta dal Re, non trascorsero che poco più di cento giorni. Ma la storia di quei cento giorni è così piena d'insegnamenti, più che di avvenimenti, che spiega non poca parte dei fatti posteriori. In quei 100 giorni vi furono tre ministeri, presieduti i primi due dal marchese di Serracapriola, il terzo dall'insigne storico Carlo Trova. Ferdinando non fece le cose a metà. A capo della politica fu messo da prima il Tofano e poi Carlo Poerio, cioè l'anima dei comitati d'azione: Ministro dell'Interno fu chiamato Francesco Paolo Bozzelli, fino alla vigilia perseguitato e ritenuto da tutti il capo dei liberali napoletani; nelle province furono mandati a governare i liberali più noti: Imbriani, D'Ayala, de Tommasis, ecc. Bisognava redigere lo Statuto: a chi darne incarico? Un uomo pareva più di tutti adatto. Era avvocato ed era autore di opere filosofiche e politiche; avea sofferto dura prigionia per ragioni di Stato; avea nei lunghi viaggi studiato, o si diceva che avesse, gli ordinamenti liberali in Francia, in Svizzera, in Belgio, in Inghilterra. Era o pareva un riformatore audacissimo e l'averlo il Re messo a capo del Ministero dell'Interno, indicava appunto il nuovo indirizzo. Il Bozzelli fu dunque incaricato di scrivere la costituzione. Chi era quest'uomo che è stato grandissima parte degli avvenimenti del '48, che autore della costituzione e chiamato egli stesso a dare garanzia ai liberali, fu poi ministro di reazione e raccolse le ire de' suoi antichi seguaci? In tre mesi egli passò dalla più grande popolarità alla più estrema impopolarità. Era un avvocato e quindi facile al cavillo, amante della parola, desideroso di trionfi oratorii. Giuseppe Massari, che fu suo amico e suo compagno e poi gli divenne fiero nemico, quasi per insultarlo lo chiama sensista e materialista, quasi che l'essere materialista significhi non aver coscienza. Certo era di una vanità senza limiti. E quando, per cedere alle pressioni dei liberali, Ferdinando gli affidò l'incarico della costituzione, credette di dover essere messo a pari dei grandi legislatori dell'antichità. Chiesto da Carlo Poerio e da altri delle riforme che avrebbe introdotte nel nuovo Statuto, rispose con enfasi da avvocato: — Se Solone avesse discusso le sue leggi con gli amici, non avrebbe fatto opera immortale. — In realtà Solone si contentò questa volta di scrivere 89 articoli, copiandoli quasi letteralmente e integralmente dalla costituzione di Francia e in parte da quella del Belgio. Il 10 gennaio il nuovo Statuto fu pubblicato e il Re gli giurò fedeltà dinanzi ai principi, ai ministri e al corpo diplomatico. Volle che la cerimonia fosse solenne, e dicono che nel giurare era commosso. Era in buona fede? Qualcuno ha mostrato di dubitarne, ma gli stessi storici liberali convengono della sincerità delle sue intenzioni. Proclamata la costituzione, la Sicilia avrebbe dovuto accettarla. Invece la ribellione continuò dovunque, e le truppe del Re furono discacciate e si ritrassero da tutta l'isola, tranne che dalla cittadella di Messina. A Napoli l'entusiasmo raggiungeva il delirio. Le dimostrazioni si succedevano alle dimostrazioni, le grida alle grida. Per settimane intere tutta la città imbandierata, uomini e donne con coccarde, spettacoli, rappresentazioni, perfino carri carnevaleschi con rappresentazioni allegoriche in odio al dispotismo e in onore della libertà. Napoli si trovò di un tratto a passare da un regime di dispotismo quasi assoluto a un regime di libertà quasi illimitata. Libera la stampa, libere le associazioni, libere le riunioni; mancava l'educazione per godere di tanta libertà. Un re che avea un esercito di circa 100 mila uomini e una grossa marina e saldi ordinamenti, avea accordata la costituzione non per lotta lunga e tenace, non per resistenza di popolo, ma perchè impaurito da grida e da dimostrazioni. Si credette che con le grida e le dimostrazioni tutto si potesse ottenere, dal momento che si era ottenuto il libero reggimento. Era Napoli allora città di 400 mila abitanti, con poche industrie manifatturiere. Rappresentava il grosso centro di consumo di un regno di circa 9 milioni di abitanti. Vi era una corte ricca e fastosa, vi erano principi e principesse; vi era un numeroso corpo diplomatico, v'era una numerosa amministrazione e un numero grandissimo di soldati; circa 30 mila nella capitale e ne' dintorni. Tutta la popolazione cittadina viveva dunque sullo Stato. Vi era un contingente non ricco e non prospero, e quasi tutto addetto a mestieri, in servizio della gente ricca. Grandissimo era il numero dei servitori; il popolo era vera plebe, cioè massa amorfa, capace di subite impulsioni, non cosciente, fantastico, abituato a servitù lunghe e rivolgimenti improvvisi. La classe media viveva quasi esclusivamente delle professioni liberali e degli impieghi; avvocati e impiegati nel più gran numero. Gli avvocati, i _paglietti_, quantunque diminuiti dalla pubblicazione dei codici, erano sempre potentissimi: causa di tutte le agitazioni, irrequieti, sempre disposti a sostenere qualunque governo come qualunque opposizione. Enorme il numero degli impiegati. Noi parliamo ora di burocrazia e siamo disposti a credere che si tratti di un male nuovo. Uno studio comparativo, fatto su documenti inconfutabili, prova invece che in molti dei vecchi Stati italiani vi era maggior numero d'impiegati che non vi sia ora in Italia, proporzionalmente, s'intende, al loro territorio e alla loro popolazione. Nel reame di Napoli soprattutto e, non v'incresca d'udirlo in Toscana, più grande era il numero degli impiegati. La Toscana è addirittura il paese che ha dato, nella formazione delle pensioni italiane, un maggior contributo; avea anch'essa stuolo grandissimo d'impiegati. Ma, nel reame di Napoli, il cui reddito era quasi esclusivamente agricolo e in cui per il grandissimo numero di avvocati difficile ai timidi e agli onesti riesciva l'avvocatura, non vi era per la borghesia media altro scampo che negli impieghi. Parrà quasi incredibile, ma alcune amministrazioni napoletane aveano non solo relativamente, ma anche assolutamente maggior numero d'impiegati che ora non abbia tutto il regno d'Italia. Il figlio dell'impiegato succedeva al padre, il quale a sua volta era succeduto a suo padre. Vi era una schiera infinita di postulanti, e il Re, per quieto vivere, a molti concedeva. Ora una costituzione era stata ottenuta con le grida; la massa dei disoccupati della classe media volle impieghi colle grida e con pressioni d'ogni specie. Il primo ministero, in cui oltre il marchese di Serracapriola e l'avvocato Bozzelli, erano il principe di Torella, il principe Dentice e altra gente onesta e desiderosa di far bene, si trovò di fronte a difficoltà impreviste. La costituzione era data, e con essa il regime liberale; si era creduto che la libertà bastasse a tutto; si vide che a sua volta conteneva cause di malcontento. La Sicilia, inorgoglita dei primi successi, non solo non accettava la liberalissima costituzione, ma si proclamava autonoma, dichiarava decaduto il Re e i suoi discendenti. Il Parlamento siciliano, vista l'impossibilità di una repubblica, decideva offrire e facea più tardi offrire la corona di Sicilia a Ferdinando di Savoia, duca di Genova, figliuolo secondogenito del re Carlo Alberto. L'onorevole Crispi vi parlerà della rivoluzione di Sicilia, e vi dirà forse molto diversamente che io ora non dica. Perchè la Sicilia non accettò la costituzione? perchè tentò in ogni guisa di creare ostacoli al Re? Perchè, si risponde, essa non avea fede nei Borboni. Questa mancanza di fede non è in alcuna guisa dimostrata. Perchè furono appunto i siciliani che nel 1799 ospitarono il Re, e furono essi, che, durante la monarchia francese di Giuseppe e di Giovacchino, gli furono fedeli. La Sicilia non era gravata d'imposte eccessive. Mentre adesso paga allo Stato per imposte circa 115 milioni all'anno, allora per le spese generali non contribuiva al bilancio dello Stato che tenuamente. Ancora nel 1860 il contributo della Sicilia alle spese generali del Regno non era che di 17 milioni. Certamente i magistrati e i funzionari che il Governo mandava non erano sempre irreprensibili e molti erano egualmente sensibili al danaro e devoti alle persone potenti. Ma le popolazioni siciliane, mantenute in uno stato di grande ignoranza, tutte le volte che potevano, mostravano il loro odio ai napoletani. Napoletano voleva quasi dire straniero. In più di un'occasione di impiegati e gendarmi napoletani fu venduta la carne nelle strade, quasi a selvaggia vendetta. La Sicilia avea tradizioni separatiste fortissime. Per secoli avea avuta una monarchia propria e reggimento autonomo e istituzioni differenti dagli stati della penisola. L'aristocrazia feudale potentissima e più resistente che altrove, odiava la monarchia da cui era stata diminuita. La classe media, desiderosa d'impieghi, vedeva di mal'occhio i napoletani: ogni impiegato napoletano rappresentava un nemico e un concorrente. Il popolo non si era ancora abituato dal 1734, quando per la quarta volta la Sicilia fu unita a Napoli in uno Stato solo, a considerare i napoletani come connazionali; li considerava come stranieri e come dominatori. Nel 1848 la Sicilia invitò un principe sabaudo, mandò molte bandiere e pochi uomini in Lombardia: ma in fondo fece un movimento separatista e fu la causa prima, come Settembrini e Massari riconoscono, della caduta del movimento liberale in Italia. Non solo separazione politica da Napoli; ma i suoi rappresentanti, con eccessivo ardore, dichiaravano dal Re di Napoli non voler accettare nemmeno le cose buone. Ora Ferdinando II avea creduto e gli era stato fatto credere che, all'annunzio della costituzione, la Sicilia si sarebbe calmata. Avveniva invece il contrario. D'altra parte i liberali pretendevano che la Sicilia non si dovesse sottomettere con le armi; volevano con la guardia nazionale che vi fosse una specie di nazione armata; pretendevano che il Re proclamasse la lega dei principi italiani e l'unità della penisola. Ora, tutte queste cose impensierivano il Re. Quasi metà del reame si era distaccato e lo avea dichiarato decaduto; l'esercito era malcontento; le passioni e le aspirazioni che il nuovo ordinamento avea determinato erano violentissime. I ministri, la stampa, il pubblico, non educati alla libertà, mancavano non solo di garbo, ma di convenienza. La stampa si permetteva sul conto della famiglia reale e degli antenati del Re apostrofi irreverenti; in pubbliche dimostrazioni si portavano sotto il palazzo reale i ritratti di Pagano, di Cirillo e di altri, che senza dubbio iniquamente, erano stati fatti uccidere dall'avo del Re. Questi richiami storici non aveano nulla di grazioso, nulla di rassicurante sopra tutto. Ma i ministri più degli altri mancavano di garbo; ve ne furono molti in cento giorni e tra essi uomini di grande valore come Bavarese, Poerio, Scialoia e altri insigni; ma la più gran parte erano avvocati, incapaci di risoluzioni energiche, sempre disposti a gridare, a concionare, ad apostrofare. La costituzione rappresentava quanto di più liberale si potesse volere; invece i ministri stessi, pochi giorni dopo la proclamazione dello Statuto, lo discutevano e i giornali dicevano che bisognava modificarlo. Lo stesso Ministro di grazia e giustizia del secondo ministero liberale, Aurelio Saliceti, invece di dare esempio di moderazione, proponeva nuova costituzione: voleva fosse conceduto alla Camera dei deputati il diritto di emendare la costituzione, fosse abolita la Camera dei pari, si dichiarasse subito guerra all'Austria, senza nemmeno bisogno di intesa con Carlo Alberto. Con garbo non eccessivo, al Re, che gli mostrava la difficoltà di tutte queste cose assieme rispose: — V. M. si ricordi di Luigi XVI e dei re che non concedettero le riforme in tempo. — Non era un modo molto gentile per ricordare a un re la storia; il richiamo era anche meno rassicurante quando si pensi che l'avola del Re, Maria Carolina, era sorella di Maria Antonietta. Ferdinando sentiva il bisogno — e si potea dargli torto? — di risolvere prima di tutto la questione siciliana. Si diceva invece dai ministri: — Lasciate in pace i siciliani. Andate in Lombardia e vi troverete la corona di Sicilia. — Si pretendeva risolvere nello stesso tempo il problema dell'unità e quello della libertà. Non persuaso, Ferdinando voleva almeno che fosse prima stabilito, in caso di vittoria, quali vantaggi avrebbe avuto il Regno del Piemonte, quali quello di Napoli. I liberali dicevano: — Si vedrà dopo. Bisogna andare senza discutere. — E il Re a malincuore mandò un suo delegato a Carlo Alberto e truppe in Lombardia sotto il comando di Guglielmo Pepe, che scontò poi nobilmente a Venezia tutti gli errori del '20. I giornali a Napoli pullulavano: se ne pubblicavano di ogni colore, di ogni gradazione, di ogni tendenza. Erano di una violenza di linguaggio appena credibile. Insultavano i ministri, non risparmiavano lo stesso Re. Gl'insulti più grandi erano per l'esercito; si diceva che la guardia nazionale, espressione del popolo, dovesse stare a difesa della libertà; l'esercito stanziale essere per sua natura artefice del dispotismo. I generali si erano opposti alla spedizione di Lombardia: era stata nuova cagione di insulti. Anche i migliori ufficiali rodevano il freno e si sentivano trascinati contro il nuovo ordine di cose. Mentre il 25 marzo si riuniva il Parlamento siciliano, e il Re, non potendo far altro, si contentava di fare una protesta, due mesi di libertà aveano trasformata Napoli in un alveare in rivoluzione. Si credeva che le istituzioni liberali fossero un banchetto a cui tutti dovessero partecipare. Cresceva il numero di coloro che voleva impieghi a ogni costo e non umili impieghi, ma funzioni elevate e ben retribuite. Si gridava contro i ministri. Il Bozzelli, esaltato fino al giorno prima, veniva insultato come un traditore e un retrogrado. A una prima crise ministeriale ne successe una seconda, a una seconda una terza. Si disse che i ministri eran troppi pochi, che bisognava accrescere il numero dei liberali nel Ministero. Da sette i ministri diventarono dieci. Ma non era possibile contentar tutti, e bisognava intanto quietare i più rumorosi. Qualche ministro fece nominare un sottosegretario di Stato, istituzione inutile, visto che v'erano dieci ministri e il reame non presentava un così grande numero di affari amministrativi, sopra tutto dopo la separazione della Sicilia. I sottosegretari ebbero 150 ducati al mese, e furon detti _i centocinquanta_. Nessun ministro volle fare a meno del suo _centocinquanta_, e peggio ancora si trovavano centinaia di persone che volevano essere _centocinquanta_ a ogni costo. Bodley dice che se si chiede a cento inglesi se si sentono capaci di governare il loro paese e di far meglio dei governanti, novantanove rispondono no; e laddove si domanda a cento francesi novantanove almeno rispondono di sì e hanno già una soluzione pronta pei mali del loro paese. Si può soggiungere che cento italiani sono concordi nel rispondere sì. Fra gli italiani lo spirito di anarchia e di indisciplina, che è in basso e in alto, dipende dalla troppa importanza che si attribuisce a sè stessi e dalla poca che si attribuisce agli altri. Nessuno crede da noi che il suo stato sia quello che le proprie attitudini hanno determinato; tutti sono convinti che solo l'ingiustizia della società condanni a una situazione modesta. Quante volte avete sentito dire da un piccolo avvocato, da un modesto mercante, o addirittura da un cocchiere: — Se io fossi Rudinì! se io fossi Giolitti! se io fossi Pelloux! — E qui una serie di soluzioni. Nel '48 a Napoli ragionavano tutti allo stesso modo. Al Settembrini si presentò don Carlo Basile, bidello dell'Università e autore di alcune insulsaggini a stampa. Voleva.... voi penserete che volesse un avanzamento; voleva invece, avendo un programma di riforme scolaresche, essere ministro della istruzione. Si credeva che la democrazia autorizzasse a tutto. I posti nelle amministrazioni furono moltiplicati; ma nessuna moltiplicazione era sufficiente al numero degli aspiranti. Si era ottenuta la libertà con dimostrazioni e con grida, perchè non si poteva ottenere un impiego? Le anticamere dei ministri rigurgitavano, e chi non era contentato diventava un denigratore e andava nei caffè e nei ritrovi pubblici, a gridare, a vociare, a minacciare. Parea di essere tra energumeni. Un'interpetrazione falsa della democrazia aveva rilassata ogni disciplina. Nessuno veniva risparmiato. Carlo Poerio, che era quasi passato dalla prigione al ministero, e che, ahimè! dovea tornare alla prigione, non potendo accontentare i postulanti veniva insultato. Si spargeva la voce che egli fosse spia del Re, anzi traditore. Il Bozzelli non era che un vanitoso; un avvocato facile più alla parola che pronto all'azione. Si diceva invece che ricevesse danaro dal Re. Una massa di gente chiedeva di essere restaurata dei danni patiti. «Tutti i ministri, dice il Settembrini, erano oppressi dalle petulanti e superbe dimande di uomini che parevano ubriachi e volevano essere uditi per forza, pretendevano tutto per forza e credevano la libertà un banchetto a cui ciascuno dovesse sedere e farvi una scorpacciata. Salivano tutte le scale, strepitavano in tutte le case; era un'anarchia brutta: e non v'era uomo sennato di qualsivoglia opinione, che non desiderasse di vedere un governo forte e non dei ministri avvocati, che chiacchierando sempre di legalità e di libertà, e avendo fede solo nelle chiacchiere, facevano andare ogni cosa a rotoli, e poi se ne spaventavano e davano le loro dimissioni, come fece il Ferretti, a cui fu sostituito il Manna, e come fecero poi l'Imbriani per onorate cagioni, il Ruggiero che si serbò a tempi migliori.» Il Ministro degli affari esteri andò ad abitare fuori di Napoli, sperando di mettersi in salvo: la sua casa continuò a essere invasa, come prima, da postulanti. Il ministro Vignali fu schiaffeggiato da una donna, che chiedeva con arroganza cosa ch'egli non potea concedere. Il conte Pietro Ferretti, ministro delle finanze, dovendo un giorno recarsi a palazzo reale urgentemente per un consiglio di ministri, fece dire alla folla d'importuni in cerca d'impieghi, che lo attendeva nell'anticamera, che non potea quel giorno, chiamato altrove da urgenti ragioni di Stato, ricevere alcuno: aggiunse anzi che dovea recarsi dal Re, per consiglio dei ministri di grave momento. La guardia nazionale che faceva da sentinella al Ministero delle finanze, invece di far eseguire il comando, si rivolse al Ministro e gli disse in tono epico: — Prima di essere ministro del Re, voi siete ministro del popolo. Perciò non dovete andare a palazzo reale e dovete star qui ad ascoltare il popolo. — Il Ferretti cercò invano di reagire: dovè cedere alla singolare apostrofe, e quel giorno non andò in consiglio dei ministri. L'anarchia delle strade cresceva con l'anarchia del Governo. Il partito assolutista, che aveva visto a malincuore le riforme costituzionali e che ora assisteva allo sfacelo degli ordinamenti liberali, intrigava per accrescere i disordini. Le vecchie spie licenziate, i Merenda, i Barone e altra turba numerosa e spregevole soffiavano ne' disordini, sperando che gli abusi stessi costringessero a tornare all'antico. Nei ministeri era impossibile il lavoro. La stampa pubblicava nefandezze di ogni genere. I timidi, gli incerti, molti fra i più onesti, quasi cominciavano a desiderare la fine delle forme costituzionali. Nei circoli chi più gridava e più insultava era il più applaudito. Si distinguevano i calabresi per violenza di linguaggio e per smodate aspirazioni. Il popolo che nulla intendeva di costituzione e che avea più fede nel re che nei liberali, si mostrava avverso al nuovo regime. Si diceva: — E se non si lavora e noi stiamo digiuni, che libertà è questa? Prima il re era uno e mangiava per uno; ora sono mille e mangiano per mille. — Alcuni sobillatori troppo esaltati o troppo perversi accendevano le menti popolari. Bisognava che la libertà assicurasse qualcosa. In un paese in cui non v'era nemmeno una classe operaia organizzata, ma un artigianato quasi medievale, si reclamò il diritto al lavoro. Gli operai torcolieri e i sarti fecero dimostrazioni clamorose, proclamando i diritti più strani. Altre dimostrazioni dello stesso genere vi furono nei paesi del territorio, dovunque fossero fabbriche. A Napoli la naturale mitezza del clima, la facilità della vita, la costituzione economica della città e della regione facevano esistere, fanno esistere tuttavia una gran massa di popolazione che vive quasi alla giornata. Turbe non educate le quali formano la base di ogni rivolgimento. Sono state le bande sanfediste del '99 e prima e dopo la causa più grande di agitazione e di pericoli in tutti i rivolgimenti napoletani: sono anche ora un permanente pericolo. Su queste turbe nessun altro potere esiste tranne quello dei preti. Ora nel '48 il clero fu trattato con assai poco riguardo, anzi fu messo da parte da prima, offeso di poi ripetutamente. Non potea ispirare e non ispirò che sentimenti ostili alla costituzione. Il ministro Saliceti volle l'espulsione dei gesuiti. Era una misura per lo meno intempestiva, quando già vi erano tante questioni ardenti. Fu deciso, invece, che da un giorno all'altro, entro ventiquattro ore, i gesuiti sarebbero usciti dalla città e dal Regno. Era una misura enorme, un inutile atto di prepotenza. I gesuiti, sempre abili, ne profittarono e si vendicarono. Andarono via teatralmente, in aria tristissima, trasportando il più vecchio in una carrozza scoperta, tra i guanciali. Il vecchissimo era agonizzante e dava spettacolo miserando a una turba infinita di popolo, che seguiva commossa e minacciosa. Non si aveva nè dai ministri nè dalle classi dirigenti alcuna idea precisa dei diritti e dei doveri. Il Ministro dell'interno, in una circolare famosa, mentre prometteva la divisione dei beni comunali ai cittadini, affermava che tutti _aveano diritto di partecipare ai benefizi della proprietà_. Libertà politica, diritto al lavoro, diritto alla proprietà: erano proclamazioni enfatiche e avvocatesche, di cui non si misuravano le conseguenze. Non si sapeva dove si andasse: lo Stato era una nave senza nocchiero: e se male le cose procedevano nella capitale, peggio procedevano nelle provincie. Gli antichi odii determinati da prepotenze di signori e di ricchi e dall'appropriazione abusiva da parte di costoro delle terre pubbliche, diventavano più terribili. In alcuni paesi i contadini invadevano le terre demaniali e feudali e se le dividevano sommariamente. In provincia di Avellino, in Basilicata, in Calabria, nel Cilento, dovunque erano scene selvagge di violenza. Si formavano bande armate di contadini per rubare e dividersi i beni dei ricchi. Coloro che il nuovo ordine di cose aveva offesi soffiavano dentro alle rivolte ed eccitavano i contadini ad atti di spoliazione. I coloni si rifiutavano di pagare gli affitti, e non vi era modo di astringerli al dovere. La rapina e i ricatti delle bande armate, scriveva Carlo Poerio, avevano finito con disgustare le masse degli onesti cittadini. Nella capitale, come nelle campagne il popolo che nulla comprendeva di costituzione, che per istinto e per tradizione odiava la classe media, rimaneva avverso al nuovo regime. La libertà: che cosa dava ad esso la libertà? I ricordi delle orde sanfediste, la tradizione dell'anno 1799 e della restaurazione borbonica, erano ancor vivi, e le masse, sobillate dai preti, non vedendo nessun beneficio dal nuovo ordine di cose, credevano che un ritorno al re assoluto avrebbe dato, sia pure per nuovi rivolgimenti, la possibilità di ricavarne qualche benefizio. Mentre la rivolta si faceva strada nelle province e la Sicilia aveva costituito un governo proprio; mentre la guerra era in Lombardia e il malumore cresceva; gli avvocati del governo impotenti a far nulla di serio a causa di tante pressioni, agitavano idee e propositi stravaganti. Si pensava più ai partiti che al paese; di ogni questione personale si faceva una question generale. Fu compilata una legge elettorale pessima; a chi si doleva fu risposto che era la migliore per far riescire gli amici. Le elezioni furono fatte il 15 aprile, e, per fortuna, diedero risultati superiori a ogni aspettativa. Carlo Poerio, degli Uberti, Ruggiero, Conforti, Imbriani ebbero elezioni multiple. Fra gli eletti vi erano Spaventa, Savarese, Dragonetti, Scialoia, Massari, Pisanelli, De Vincenzi, Mancini e altri degnissimi. Fra i deputati prevalevano coloro che in passato aveano sofferto persecuzioni; molti erano giovanissimi. Così come nel Parlamento del '20 vi era qualche prete, qualche proprietario, qualche nobile, alcuni professori; ma la grandissima maggioranza era di avvocati. Il Bozzelli, l'idolo della vigilia, l'autore della costituzione non fu nemmeno eletto. L'apertura del Parlamento era attesa con grande ansia, per lo spettacolo nuovo, per la speranza di vittoria che era in tutti i partiti, per il desiderio che era in moltissimi di battaglie di parole, di cui sempre molto avidi si sono mostrati i meridionali. Tre correnti si erano determinate: la prima, la più numerosa, raccoglieva i malcontenti, coloro che a pochi giorni dalle nuova costituzione volevano modificarla o abolirla. Si proponevano di rovesciare il Ministero, di fare che la Camera dei Deputati funzionasse da costituente e abolisse la seconda Camera, quella dei pari. Propositi dissennati, conseguenze di letture mal digerite, di esempi mal compresi. La seconda corrente avea carattere regionalista, era anzi una corrente napoletana. Non vedeva volentieri nè il movimento unitario, nè quindi la spedizione in Lombardia. Si aspettava che il Parlamento facesse ritornare le truppe dalla Lombardia e le spedisse in Sicilia. Fra questi costituzionali sinceri, ma non unitari, erano appunto Bozzelli, Blanch, Ciancinelli ed altri molti. L'ultima corrente era rappresentata da coloro che a tutto anteponevano il sentimento d'italianità; volevano che il re mandasse nuove truppe in Lombardia e rinunziasse, almeno per allora, a riconquistare la Sicilia. Così divisi erano gli animi dei liberali e troppe soluzioni erano escogitate e troppe ventilate con gran leggerezza. Così avveniva, che verso l'assolutismo, per desiderio di quieto vivere e per odio all'anarchia che invadeva tutti, cominciavano a ripiegare anche gli spiriti più temperati. I deputati giungevano dalle province. Molti erano seguìti da armati. O era la poca sicurezza delle strade, o era il desiderio di mostrarsi disposti a difendere la libertà, anche con le armi, o ardimento, vanità, o paura, o tutte queste cose assieme, soprattutto dalle Calabrie e dal Cilento giunsero armati e per le vie di Napoli circolavano facce contadinesche in aria spavalda e minacciosa. La guardia nazionale avea più bandiere che armi, quasi più ufficiali che soldati. Non istruita per mancanza di tempo e di disciplina, raccoglieva tutti, pretendeva essere considerata come la sola e la grande milizia della nazione. L'esercito minacciato, insultato, tenuto da parte rodeva il freno: e tra il più gran numero degli ufficiali eran propositi e desiderii di ritorno all'antico. In queste condizioni dovea aprirsi il Parlamento. L'apertura solenne fu fissata per il 15 maggio. Ma sette od otto giorni prima di essa vi furono in parecchie case riunioni preparatorie. Dopo una riunione tenuta in casa del medico Vincenzo Lanza, uomo sempre disposto a morire per la libertà, ma che poi visse in seguito benissimo sotto il dispotismo, fu deciso di riunirsi l'indomani nel palazzo di città in Monteoliveto. Fra tante difficoltà i deputati avevano un cómpito molto semplice e chiaro: evitare ogni inutile lotta e rassodare la costituzione. Invece, all'annunzio che il re avrebbe mandata l'indomani una formula di giuramento di fedeltà alla costituzione promulgata, fu grande fermento. Alcuno disse che avrebbe fatto appello al popolo, altri pronunziò parole di biasimo. Si diceva che il Ministero avea promesso di svolgere lo Statuto: e si sottilizzava che svolgere implicava anche il diritto di rifare da capo a fondo. Una costituzione, che era forse la più liberale di Europa o almeno fra le più liberali, pareva insufficiente e ogni avvocato volea modificarla: quasi si fosse trattato di un atto notorio o di una comparsa conclusionale. L'indomani vi fu una nuova riunione; e furono propositi anche più violenti. Giunse la formula del giuramento quale il re desiderava; era presso a poco quella attualmente in uso nei parlamenti dei paesi costituzionali: si prometteva fedeltà al re, allo statuto e alla religione. Com'era possibile rifiutarla? La maggioranza dei deputati non volle saperne. I ministri timidi, invece di appoggiare il re, decidevano che la miglior cosa fosse non giurare affatto. Il re consentiva ancora a modificare la formula del giuramento; ma nemmeno questa concessione valeva a nulla. I ministri andavano e venivano dal Re al Parlamento e dal Parlamento al Re: i deputati si ostinavano a dire di essere un'assemblea _costituente e non costituita_. La frase era trovata: la vaghezza del polemizzare e del discutere faceva quasi dimenticare il pericolo. Qualcuno fra i deputati annunziava che se si fosse dovuto giurare avrebbe proclamato dinanzi al popolo il tradimento della monarchia. Il ministero inetto non trovava alcuna soluzione. Il grande storico che lo presiedeva era accidentato e si facea trasportare: conosceva del resto assai più la vita dei Longobardi che le difficoltà de' suoi tempi. L'agitazione passava intanto nella piazza. Si diceva: — Il Re tradisce la costituzione! la Camera non è costituita! bisogna che il popolo si faccia valere. — Le bande armate cominciavano a circolare per le strade a tutela della libertà. Pietro Miletto e Giovanni Andrea Romeo, armati di _boccaccio_ l'uno e di _trombone_ l'altro, e seguìti da altri armigeri, tumultuavano e minacciavano. Si formavano di nuovo le dimostrazioni. Un deputato gridava ai dimostranti che i rappresentanti della nazione si sarebbero fatti uccidere piuttosto che permettere al Re di tradire. Nella sala dei deputati, individui estranei eccitavano alla rivolta. Non si sa bene per opera di chi le prime barricate si formavano. Si disfacevano le insegne, si rovesciavano le carrozze, si smuovevano i pavimenti delle strade. Un individuo che ebbe nome di patriota e di repubblicano, introdottosi abusivamente nella sala dei deputati alla testa di schiamazzatori e in aria di minaccia, propose non si facesse alcuna _transazione_ se prima il Re non consegnasse alla guardia nazionale i castelli e le armi. Quest'idea temeraria e dissennata fu accolta con un diluvio di applausi. Nella notte fra il 14 e il 15 il Re, sperando di evitare la rivolta, cedeva su tutto, tranne che sulla cessione dei castelli. Accettava perfino che la riunione del Parlamento avvenisse senza che i deputati prestassero il giuramento di fedeltà. Invece nella notte le barricate erano cresciute. Ve ne erano diciassette in via Toledo da San Ferdinando a Santa Teresa e sessantadue nelle vie adiacenti. I deputati, avendo ottenuto tutto ciò che volevano, facevano dal vicepresidente affiggere una notificazione, pregando la guardia nazionale di ritirarsi e gli amici della libertà di disfare le barricate, affinchè il Re potesse la mattina andare con il corteo ad aprire la sessione parlamentare della prima legislatura. La truppa intanto aveva occupato le piazze, temendo violenze da parte dei rivoltosi. La mattina del 15 vi fu nuova gravissima agitazione. Si pretendeva che il Re ritirasse immediatamente i soldati: solo allora, si diceva, si sarebbero disfatte le barricate. Ma dietro queste ultime erano alcuni energumeni, moltissimi di quelli che speravano e volevano nuovi rivolgimenti, perchè la libertà non avea data loro nessuna di quelle cose cui aspiravano. Su di essi nulla potè, non l'intervento del vecchio e venerando generale Gabriele Pepe, messo dai deputati a capo della difesa nazionale; non la commissione mandata dai deputati. Questi ultimi, la mattina del 15, sedevano in Monteoliveto e agitavano propositi disparati. Alcuni di essi erano sicuri che l'inaugurazione sarebbe avvenuta, ed erano in abito nero e cravatta bianca. I rivoltosi delle strade, non cedendo ad alcuna ragione, avevano invece rafforzate le barricate. Si trovavano di fronte, in parecchi punti, l'esercito e i rivoltosi. I soldati, che da parecchi giorni e da parecchie notti erano in uno stato di tensione grandissima e avevano a capo ufficiali contro cui più grandi erano le avversioni dei liberali, erano stanchi ed esausti. A un tratto, dalle barricate in piazza San Ferdinando furon tirati su di essi i primi colpi e caddero uccisi un granatiere e un capitano della guardia. Fu il segnale della battaglia: gli svizzeri, atterrate le prime barricate, si slanciarono per la via Toledo. La storia dell'eccidio del 15 maggio è nota. Nel combattimento per le strade parecchi furono uccisi; molti morirono che non avevano colpa alcuna. Gli svizzeri commisero alcuni atti di crudeltà: furono trucidati dei giovani di molto valore e che grandi speranze avean fatto concepire. Il popolo sopra tutto fece peggio dell'esercito, peggio degli svizzeri. Rubò, saccheggiò, incendiò come in tutte le sommosse e in tutte le rivoluzioni di Napoli. I morti furono molti, qualche centinaio forse: alcuni palazzi furono incendiati. La sera Napoli era in un silenzio di morte, in quel silenzio che segue le grandi tragedie di un paese. Chi potè fuggi la città: alcuni, prevedendo repressioni, si misero in salvo immediatamente. I deputati che avevano mostrato così poche attitudini nelle dubbiezze, o che almeno erano stati soverchiati dalla immonda marea che veniva dal basso, prima di separarsi scrissero gagliarda protesta e la consegnarono al più giovane, a Stefano Romeo, affinchè, rifugiandosi all'estero, la divulgasse in tutta Europa. La protesta, redatta da Mancini, fu sottoscritta da 66 deputati. Napoli fu prima a insorgere per la costituzione; fu anche la prima a cadere nella reazione. Dopo il 15 maggio il re non abolì la costituzione; tenne anzi fra i suoi ministri parecchi degli antichi liberali. Fu sciolta la guardia nazionale e il Re, proclamandosi ancora una volta difensore della Statuto, sciolse la Camera e indisse le nuove elezioni. Ma l'orientamento della politica nuova si vide quando, poco tempo dopo, richiamò le truppe che avea mandato a combattere in Lombardia. A spingere Ferdinando nella via della reazione contribuì il fatto, che parecchi fra i deputati, partiti immediatamente per le province, si proposero e tentarono di organizzare là rivoluzione. Qualcuno volle perfino ripetere la spedizione del cardinale Ruffo e mettere questa volta la Santa Fede al servizio della libertà. Furono tentativi e la spedizione di Calabria e le rivolte del Cilento, nonostante gli aiuti di Sicilia, non ebbero alcun risultato. Nell'anima popolare era assai più grande la fede nel Re che nei liberali. Tutte le volte che il popolo della città, come quello della campagna, si pronunziò liberamente, fu sempre per la causa legittimista, non per criterio o ragione politica, bensì per antica tradizione e per odio alla classe media. La sessione parlamentare che si tenne dopo i fatti del 15 maggio non poteva avere una grande importanza. Le elezioni avevano mandato uomini degni in grandissima parte, ma la sfiducia era in tutti. Il Re non abolì la costituzione; ma non l'applicò. Il Parlamento fu tollerato fin quando la causa della reazione in Europa non parve sicura, e fino a quando si temette l'intervento straniero. La stampa fu per poco tollerata anch'essa. I partigiani dell'assolutismo e alcuni che volevano far dimenticare la parte avuta nei moti liberali, fecero girare una sottoscrizione in cui si chiedeva al Re di abolire la costituzione. La stampa liberale era stata indegna: più indegna ancora fu la stampa che sorse in difesa del militarismo e dell'assolutismo. Invocava persecuzioni, repressioni, violenze, additava persone fra le più stimabili all'odio soldatesco e alle vendette del Re. Vi furono esempi mirabili di carattere da parte di quelli che, con la moderazione e con infiniti sacrifizi, cercarono di salvare la libertà pericolante. La prima cosa che il re volle, dopo il richiamo delle truppe di Lombardia, fu domare la rivoluzione di Sicilia. Quella sciagurata rivoluzione, troppo forse esaltata e contro cui nobilissime parole scrisse Vincenzo Gioberti, fu la vera causa, la causa intima e reale dei rovesci del 1848. La riconquista dell'isola non fu facile; vi furono combattimenti sanguinosi e qualche volta crudeli. I soldati lanciarono bombe sugli edifizi e Ferdinando fu detto _re Bomba_. Nell'animo del re si operò una trasformazione profonda. Fra il '30 e il '48 era stato principe liberale e vago di cose nuove e desideroso di assicurare la grandezza del suo paese. Quelli eran dunque i frutti della libertà? La libertà non produceva che disordini? la libertà era dunque la rivoluzione in permanenza? Lo incitavano, lo adulavano, lo stimolavano con l'adulazione bassa, con l'intrigo maligno a sbarazzarsi di chiunque fosse sospetto. Volle essere il difensore dell'assolutismo. Non era un fulmine di guerra, come suo padre e come il suo avo non erano; volle andare non di meno nel territorio romano a combattere la repubblica e a restaurare la monarchia pontificia. Quasi non vide il nemico, cui di molto soverchiava in forze e fuggì. L'umiliazione e gli scherzi che la stampa europea fece sul suo conto lo eccitarono: divenne più sospettoso, più timoroso. In altri tempi avea limitata la potenza dei preti: volle mettersi nelle loro mani più che potè. Mandò e fece mandare predicatori dovunque sospettava vi fossero liberali. Sospettoso di tutti si mostrò avverso a ogni novità, ad ogni riforma, ad ogni mutamento: gli parevano roba da _paglietti_, cioè da avvocati, e alle chiacchiere degli avvocati attribuiva i fatti dolorosi di cui egli e il regno soffrivano. In seguito alla repressione del 15 maggio, furono processati moltissimi cittadini e vi erano fra essi gli uomini più illustri della città, deputati che avevano fatta opera di moderazione e perfino i ministri, che fino quasi alla vigilia sedevano nei consigli del Re costituzionale. Ferdinando è stato ritenuto finora un tiranno: le sue crudeltà (se la paura è crudeltà) sono state esagerate e quella grossolana malizia di cui egli stesso si compiaceva e che era la sua forza e la sua debolezza, è parsa un'arte di dispotismo e di intrigo. Ma, a giudicare con serenità, dopo quarant'anni dalla sua morte, egli non fu se non un uomo buono e mediocre, intelligente e grossolano, animato dalle migliori intenzioni e rovinato dalla paura. I suoi ministri, i suoi cortigiani, perfino i suoi avversari furono spesso inferiori a lui. Come può essere chiamato crudele chi non fece, dopo i fatti del 15 maggio, eseguire condanne di morte? La causa contro i rei di Stato durò otto mesi ed ebbe 74 udienze pubbliche. Gli avvocati parlarono ampiamente, gli accusati furono giudicati non dai tribunali militari, ma dalle corti criminali. I giornali dell'alta Italia riproducevano i resoconti del processo, e il tribunale diventava in tal modo un mezzo di propaganda. Molte condanne vi furono, e molto inique. Ma la più gran parte furon poi commutate. Il Re era migliore della classe di governo e le colpe maggiori vanno imputate non a lui, ma ad altri. Quando noi ci ripieghiamo sulla nostra coscienza, vediamo che Ferdinando II fece meno di quello che governi liberi e in tempi di maggiore civiltà fecero per ragioni di ordine interno in periodi di rivolte. Le accuse su di lui sono state tante! Si è detto perfino che la prova più grande della corruzione e del disordine del suo reame si trova nel romanzo di Ranieri: _L'orfana dell'Annunziata_, pietosissima storia dei fanciulli esposti e ricoverati nella casa dell'Annunziata. Eran queste cose colpa del Re? Dopo mezzo secolo, e in regime liberale, un'inchiesta eseguita pochi anni or sono ha mostrato che queste torture non sono più possibili, poichè i bambini preferiscono, senza dubbio per loro volontà, morire tutti nel primo anno di età. Ferdinando è stato ritenuto responsabile di colpe non sue, e quella che era in lui pochezza o insufficienza, determinata dai pregiudizi dell'ambiente è stata giudicata ben altrimenti. La rovina della dinastia borbonica è stata determinata meno dall'essersi opposta alla libertà che dall'essersi opposta all'unità, movimento allora irresistibile e rispondente a un bisogno di tutta la civiltà europea. Ma anche in questa opposizione Ferdinando non fu cieco: e fin dopo il 15 maggio non escluse recisamente l'idea federativa. Volea solo assicurare al suo reame, che era il più grande, quella egemonia che, per insipienza de' suoi ministri e per mancanza d'iniziativa da parte sua, andò poi al Piemonte. Che cosa diede Napoli, nel 1848 e fra il '48 e il '60, all'Italia? Diede l'impulso, diede l'irrequietezza, diede ciò che è più, l'esempio. Il sapere all'ergastolo o nell'esilio, tormentati o profughi, i più alti intelletti d'Italia, una schiera illustre quale nessun paese d'Italia ebbe: Poerio, Settembrini, Scialoja, Pisanelli, De Sanctis, Mancini, Spaventa, Ciccone, De Meis, e tanti altri degnissimi era ragione continua di agitazione. Questa schiera illustre, o soffrendo nell'ergastolo, o nell'esilio combattendo nel giornalismo e dalle cattedre, eccitava le menti e l'autorità dei loro nomi, pareva ed era garanzia della causa. Fra il 1849 e il 1860 si può dire che l'agitazione sia stata fatta esclusivamente dai meridionali. Il giornalismo inglese non si occupava che del Regno di Napoli, che Gladstone avea visitato e in cui i processi clamorosi nei quali si battevano più per la causa italiana che per sè stessi uomini insigni, assumevano proporzioni di avvenimenti. Le colpe del Re erano esagerate, e quelle dei liberali dimenticate: ma l'esagerazione e l'oblio sono due mezzi di lotta antichi e servivano anch'essi alla causa. Solo, a mezzo secolo di distanza, noi abbiamo il dovere di una maggiore giustizia e non possiamo più attribuire a una dinastia, a un uomo le responsabilità di tutto un paese. Noi abbiamo ancora, anzi più che mai, il difetto di voler trovare nella storia dei _tipi_: cioè uomini che hanno rappresentato in bene o in male un'epoca. Quando giudichiamo il passato non amiamo i chiaroscuri, non amiamo la storia della folla. Il '48 in Italia ci pare raffigurato da Carlo Alberto, da Mazzini, da Garibaldi, da Ferdinando II, da Pio IX, da Pellegrino Rossi, dalla schiera illustre dei perseguitati di Napoli. Eppure noi intenderemo il '48 solo quando seguiremo il processo inverso, quando lasceremo di parlare di alcuni individui e scenderemo in basso e studieremo le passioni e i bisogni che agitavano le folle. Solo allora ci spiegheremo la diversa condotta di alcuni uomini, la incapacità di altri: solo allora vedremo con ampiezza e giudicheremo con serenità. LA SICILIA E LA RIVOLUZIONE CONFERENZA DI FRANCESCO CRISPI Spezzata, per un moto violento della natura, dal continente europeo — a pochi passi dall'Africa — siede, cinta dalle acque, la Sicilia nostra. La sua singolare struttura, i suoi confini eterni, la sua storia ne formano un corpo superbamente autonomo; ed essa avrebbe avuto gli elementi per reggersi indipendente e sicura, se la sua feracità e la sua bellezza non avessero risvegliato gli appetiti dello straniero. Da ciò la credenza popolare che là l'orbe abbia principio e fine, sicchè il poeta cantò: .......... sia baluardo suo Il mar che ne circonda...... * * * La Sicilia fu orgogliosa della sua autonomia, e la mantenne coi suoi Parlamenti anche quando costretta ad obbedire ai re lontani. Bisogna, però, ricordare che, nei momenti più faticosi della vita italiana, l'isola coraggiosa vi partecipò con le opere sue, e, nel periodo della nostra epopea nazionale, fu il punto di partenza dell'azione popolare. * * * Il mondo greco nell'isola fu splendore di civiltà. Con Siracusa ed Agrigento, la Sicilia nelle arti belle e nelle indagini severe della filosofia, nei fulgori dell'eloquenza e nell'impeto fascinante della poesia, vinse Atene e Roma. Ai Cartaginesi, come pena della sconfitta subìta in Imera, fu inibito di sacrificare agli dèi vittime umane. Gelone, non per sè, nè per la patria sua, ma per l'umanità pattuì il premio della vittoria. Il mondo romano ci soggiogò, e per la vita incerta fu spezzata l'opera del progresso. Con Cesare avemmo il diritto italico, con Antonio la cittadinanza romana, ma i due beneficii furono tosto annientati, e fummo annessi alle provincie abbandonate agli arbitrii del Senato. Seguirono i furti, le dilapidazioni dei pretori, le spoliazioni delle città e delle campagne; tanto che, a riparare i danni, Ottaviano Augusto dovette mandare coloni nei luoghi resi deserti dal mal governo. Più tardi, a compiere la cruenta èra dei martirii, quando, per le ingrandite conquiste l'impero fu bipartito, la Sicilia appartenne a Bisanzio, che non seppe governarla nè difenderla — e però l'isola cadde in preda dei Saraceni. Ma dall'epoca del dominio normanno, e, più propriamente, dal regno di Ruggiero, trae origine la moderna vita politica siciliana, la quale forma un ciclo di otto secoli, che si chiuse con la dittatura di Garibaldi. * * * La monarchia normanna precedette tutte quelle che più tardi si fondarono sul continente italiano. Essa estendeva il suo impero nella penisola — e mirava più lungi; tanto vero, che Ruggiero, in parecchi diplomi suoi, s'intitolava _re d'Italia_. Il nuovo principato fu costituito in tutta la pienezza della sua autorità. Il re, capo dello Stato, nessuno emulo suo, principe nazionale o straniero che fosse. O di mala voglia, siccome talora parve indicare la curia vaticana, o, com'è più logico, a premio della vittoria sul patriarcato bizantino, Urbano secondo cedette a Ruggiero, per sè ed i suoi successori in perpetuo, la legazione apostolica. Quindi il re istituiva diocesi, nominava vescovi ed abati, esercitava con sovrana potestà giurisdizione e polizia nella chiesa. Questa unità nel potere, questa armonia nell'esercizio delle funzioni regie, corroborarono la forza del principato. Sino ai giorni nostri il clero nell'isola fu regio e non papalino. Nelle cospirazioni, e sulle barricate, al 1848 ed al 1860, avemmo compagni preti e frati. Il clero papalino cominciò a fiorire dopo la legge del 13 maggio 1871. Questi ricordi possono essere un ammonimento ai moderni uomini di Stato. * * * La Santa Sede non concedette mai riposo ai re di Sicilia. Dai primi dubbii sulla interpretazione della bolla di Urbano, che condussero al trattato di Benevento del 1156, alle inimicizie palesi sotto Federigo lo Svevo, alle iniquità di Innocenzo III, è tutta una odissea più che secolare di triboli e di persecuzioni. Per colmo di misura, salirono l'un dopo l'altro, sul trono di Pietro, pontefici francesi nei quali le ambizioni e le insidiose abitudini della Curia non erano temperate da sentimento di patria. Avevano le teorie di Ildebrando senza la grandezza del principe. Dovrò io ricordare che Urbano IV esibì il regno di Sicilia al migliore offerente? Che lo concedette in feudo a Carlo d'Angiò? Dovrò ricordare la pietosa fine di Manfredi innanzi Benevento? E quella, dopo Tagliacozzo, di Corradino? E i sedici anni di infame, invereconda tirannide che ne seguirono? E l'epica, la fulminea ribellione del Vespro? O non è forse la guerra dei trent'anni sufficiente documento della fibra leonina del popolo siciliano, abbeverata nel proprio sangue, temprata ne' proprii dolori, inaccessibile a seduzioni, a corruzioni, a lusinghe? * * * Singolare a notarsi: dal 1078 al 1860 in Sicilia ebbero vita nove dinastie; molte di esse furono detestate, nessuna riuscì a metter salda radice nell'isola.... eppure il popolo fu mai sempre monarchico. Delle rare proclamazioni repubblicane fu causa l'assenza temporanea del principe: ma il governo del demo disparve, per mancanza di seguaci serii e convinti, senza rammarico — e mancò sempre forza e coesione di partigiani per restaurarlo, in più che quaranta rivoluzioni! Esempio insuperato di virtù — se virtù è la pazienza dei popoli — i Siciliani insorsero spesso contro gli uomini, non mai contro il regime. Così, indignati per la sfacciata corruzione dei pubblici funzionarii, feriti dalle nuove imposte cinicamente meditate dal Parlamento, ansiosi di un più mite governo — i palermitani insorgevano. E davano inizio alla sommossa, portando in trionfo il ritratto del re. Al 1547 il plebeo Alesi, superbo delle sue vittorie sui nobili e sui funzionarii dello Stato, respingeva i consigli di democrazia e voleva monarchicamente governare; ed il notaio Vairo, che, nel movimento dell'anno stesso non potè far valere le sue idee di repubblica, fu insieme ai suoi compagni, strozzato dal boia. La stessa sorte toccò ad Ignazio Volturo nel 1704, e nel 1795 a Francesco Paolo de Blasi e ad altri suoi compagni. * * * La monarchia siciliana surse con forme parlamentari. La sua costituzione risentì dei tempi e degli uomini che la formarono. Nei primordii, il Parlamento si riuniva in unica assemblea, nella quale intervenivano i prelati, i baroni ed i sindaci delle città libere. Sotto gli Spagnuoli l'assemblea fu ripartita in tre: il braccio militare, l'ecclesiastico ed il demaniale. E fu male, imperocchè bastava che i due bracci aristocratici si accordassero contro la parte popolare, per imporre la legge. L'autorità del Parlamento diminuì sempre sotto il dominio straniero. Si convocava soltanto quando il re avea bisogno di sussidii, e la rappresentanza nazionale si limitava a reclamare dal principe i provvedimenti pei pubblici servizii sotto l'umiliante titolo di _grazie_. Scoppiata la grande rivoluzione francese, i Borboni furono espulsi da Napoli e trovarono asilo in Sicilia, sotto la tutela dell'armata britannica. La sventura non fu loro di lezione; anzi, abusando della loro autorità, relegarono in un'isola parecchi Pari del Regno, i quali avevano protestato contro il re violatore della costituzione. La Corte, minacciata dal ministero inglese che voleva la pace nell'isola, venne a migliori consigli. Il re nominò a suo vicario il principe reale e si ritirò in campagna, e la regina, che era considerata provocatrice precipua delle violenze, partì per Vienna. Con questi mutamenti parve rasserenarsi l'aere politico. Le Camere, riunitesi, modificarono lo Statuto del regno, restituendo in vigore alcune delle antiche disposizioni che erano state revocate dall'arbitrio regio. Il buon regime fu di breve durata. Ferdinando, per le migliorate condizioni dell'Europa in suo vantaggio, riassunse il potere e sciolse la Camera. Quindi convocò i comizii e manipolò una rappresentanza di impiegati e demagoghi, a renderla spregevole. Finalmente il 14 maggio 1815, dopo il trattato di Vienna, chiuse il Parlamento per non più riaprirlo. A trovar complici nel popolo tentò con emissarii suoi di promuovere petizioni e spingere i consigli municipali a chiedere l'abolizione della costituzione. Ma conseguì un effetto contrario, perocchè l'azione perversa dei nemici del paese provocò una agitazione universale per la convocazione del Parlamento. Ne seguirono arbitrii e violenze, tra cui la chiusura delle stamperie e l'arresto dei tipografi per impedire la pubblicazione dei giornali. * * * La vita di un popolo è la sintesi della sua storia. Esso non perisce, ma si perpetua, e però gli eventi che nel corso dei secoli si svolgono in lui e per lui, ne costituiscono la forza intellettiva, la quale lo spinge per determinati scopi all'azione. Il colpo violento recato alle istituzioni politiche del regno ferì gravemente il cuore dei Siciliani. L'isola non aveva che tradizioni di libertà, ed i Borboni furono i primi fondatori del principato assoluto. Si comprende che le violenze del despotismo doveano figliare cospirazioni e rivolte. Davano singolarità al carattere dei miei conterranei: la monarchia tradizionale, il tradizionale Parlamento. E non si smentirono. Quando al 1820 furono spinti dalla carboneria a fondersi in quella menzogna geografica del regno delle Due Sicilie, risposero gridando per le strade: _Indipendenza o morte_. Si ricorda un fatto speciale di quei giorni che definisce la personalità dei nostri uomini politici. Il 18 luglio 1820, il popolo si volge al principe di Castelnuovo perchè voglia capitanarlo; il vecchio patrizio, al vedere il tricolore sul petto dei cittadini, grida: — Quella non è la coccarda siciliana. — E volge loro le spalle. Ebbene, Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, pari del regno di Sicilia, fu uno dei più ardenti promotori delle riforme politiche al 1812. Fu tra i baroni che al 1811 avevano protestato contro Ferdinando III, per aver questi decretato l'imposta sulla rendita senza l'autorità del Parlamento. Ministro delle finanze nei giorni classici della monarchia costituzionale, provocò la legge per l'abolizione della feudalità e del fidecommesso. Fu sobrio, rigido, uomo di Stato all'inglese. Venuti i tempi tristi della servitù, rifiutò il pagamento delle imposte, perchè non votate dalle Camere, e fu miracolo di cittadino sotto una tirannide che nulla perdonava. Morendo, ricco signore, distribuì la sua cospicua fortuna ad opere di beneficenza e di educazione popolare. * * * Fedele alle sue tradizioni, il popolo siciliano si teneva nel campo chiuso della sua politica locale. La _Giovine Italia_ non ebbe fortuna nell'isola nostra. Mazzini ebbe amici, non seguaci. I suoi scritti, il suo giornale _L'Apostolato_ si leggevano con ardore, come tutte le stampe proibite, ma non facevano proseliti. Al 1837, quando queste cose seguivano, nella insurrezione di Catania e Siracusa, nei proclami popolari, si rivendicava la costituzione del 1812! Per dare unità di scopo ai movimenti futuri, al 1844 fu costituito in Napoli un Comitato. Lo componevano cittadini napoletani e siciliani. Non si pensò affatto alla repubblica. L'ideale dei cospiratori era l'istituzione di un re con due Parlamenti, sull'esempio della Svezia e della Norvegia. Mentre l'azione segreta dei liberali si estendeva nel mezzogiorno della penisola, occorse un caso singolare a scuotere le nostre popolazioni: l'assunzione di papa Mastai. Pio IX si presentò alle accese fantasie del popolo italiano in veste di liberale riformatore. Ricordate gli entusiasmi, le frenesie! Ricordate gli entusiasmi, le frenesie! E l'apostrofe del poeta che al nuovo pontefice gridava: — Nessun fu così vicino a Dio, siccome tu in quel giorno! E, come vinti da un santo contagio, gli altri principi ne seguirono l'esempio — tutti, eccettuato il Borbone. La Sicilia, non pertanto, continuò la sua via, e non mutò il suo disegno, cioè il ritorno alla costituzione del 1812. Esempio nuovo nella storia, sui principii di gennaio 1848 apparve un proclama in Palermo dichiarante che se il giorno 12 di quel mese il re non avesse soddisfatto le giuste istanze del popolo, questo sarebbe insorto. Ed insorse; combattè ventiquattro giorni e vinse. Il moto palermitano fu impulso alle maggiori città d'Europa. Parve iniziativa alla rivoluzione universale. In Italia fu il segno d'una crociata contro lo straniero. I principi, non escluso il Borbone, a calmare i popoli, diedero le costituzioni. La Sicilia ferma nei suoi propositi, non s'illuse, e convocò il suo Parlamento. Uno dei primi decreti del potere legislativo fu la proclamazione della decadenza dei Borboni. L'isola fu quindi dotata di un nuovo Statuto, nel quale si sanciva la sua indipendenza e si proibiva al re di avere il dominio di altri Stati. * * * Se il contegno politico dei siciliani dimostrava la loro costanza, non può dirsi che l'azione dei medesimi pregiudicasse il successo della causa nazionale. Allora la guerra contro l'Austria era un sentimento universale, ma in pochi era la visione della grande patria italiana. Giova ricordare che al 1849 in Roma fu proclamata la repubblica romana e non la repubblica italiana. E quando Mazzini, triumviro, mandò suo legato a Firenze il dottor Pietro Maestri, Guerrazzi respinse le proposte di unione, invano offertegli dall'amico nostro. La lunga storia del 1848 e del 1849 è nella mente di tutti. Le insurrezioni furono fortunate, e lasciarono memorie gloriose degli eroismi popolari. Le guerre furono infelici; pei tradimenti dei principi, per malaugurate discordie, siamo stati sconfitti laddove credevamo sicura la vittoria. Carlo Alberto fu due volte vinto, e tutto parve perduto. Ma non mancò agli sperati trionfi la volontà, ed il coraggio della Sicilia. Essa ritornò sotto la tirannide dopo le arsioni di Messina e di Catania. Della romana repubblica ho l'angoscia di ricordare che fu soffocata dalla repubblica francese sua sorella; di Venezia, che fu vinta dalle bombe e dal colèra, dopo aver dato prova di un eroismo temprato nell'adamante delle sue fulgide memorie antiche. Qui comincia l'esodo dei migliori cittadini; ma le sventure furono scuola di abnegazione e di costanza nei sacrifizii. Gli esuli, quando suonò l'ora dei combattimenti, furono mente e braccio nell'azione suprema. * * * Ed or si apre un mondo nuovo innanzi a noi: la Sicilia italiana. La Sicilia, superba della propria autonomia, che avrebbe dato la vita per la propria indipendenza, cospira contro le sue tradizioni, rinunzia al suo re, al suo Parlamento, alla sua legislazione, per fondersi nella grande nazione, che si estende dal mare africano alle Alpi estreme. Il 30 dicembre 1849 il direttore generale della polizia, nella relazione sullo spirito pubblico, scriveva al suo ministro in Napoli, meravigliato ed indignato ad un tempo per quello che era avvenuto nell'isola. È incredibile, egli osservava, qual mutamento si è determinato nella opinione del paese. Questo popolo, fiero della sua autonomia, che si oppose con furore alla sua fusione con Napoli dopo il 1815, oggi parla di vita italiana. Sono popolari i nomi di Garibaldi e di Mazzini, e si lusingano le plebi che costoro verranno alla testa di un corpo di emigrati. Così fu — ed il nuovo ideale ebbe anch'esso i suoi martiri. Ma le fucilazioni e gli arresti arbitrari, le sevizie e le torture non spegnevano, anzi — come sempre accade — alimentavano l'apostolato. Il 27 gennaio 1850 il feroce Maniscalco, dando carattere ed importanza d'insurrezione ad una semplice dimostrazione popolare, fece fucilare il giovane avv. Garzilli con altri cinque compagni, i quali poscia, istruito il processo dalla ordinaria autorità giudiziaria, furono riconosciuti innocenti. Il 16 marzo 1857 toccò la stessa sorte a Giuseppe Bentivegna ed a Salvatore Spinuzza, imputati soltanto di cospirazione. La restaurazione fu dissennata quanto crudele. Il re nulla fece per affezionarsi le città, per amicarsi le campagne; tutto, invece, perchè gli odii rinascessero ed inacerbissero. Non eravamo un popolo da governare, ma schiavi da tenere in servitù. Il paese era un campo trincerato, nel quale stavan di fronte esercito e cittadini, pronti a rompere ed a lacerarsi tra loro. Il governo, temendo sempre un ritorno delle giornate del 1848, considerava ribelle e puniva di morte il detentore di un'arme, arrestava e torturava chiunque ricevesse la lettera di un esule che osasse scrivere di politica. E doveva avvenire quello che avvenne: lo scoppio irresistibile dell'ira popolare. * * * La insurrezione più volte tentata e più volte differita, ruppe il 4 aprile 1860 al convento della Gancia di Palermo. Alle prime notizie, Garibaldi, sciogliendo la fatta promessa, s'imbarcò coi Mille a Quarto e scese a Marsala. Pel duce fu una serie di vittorie, a Calatafimi, a Palermo, a Milazzo. Nell'epistolario di Massimo D'Azeglio è una lettera ad un amico, nella quale si meraviglia dei trionfi di Garibaldi. Egli non sa comprendere come il gran capitano abbia potuto vincere con mille uomini un re, difeso da valido esercito e che aveva una flotta potente a guardia del suo territorio. La spiegazione è facile: il Borbone aveva tutto il popolo contro di sè; e gli era ostile l'opinione d'Europa. * * * La Sicilia, interessata alla redenzione di tutta la penisola, non fu ingrata, nè imprevidente. Quando nel luglio 1860 le città dell'isola erano quasi tutte affrancate, il Borbone, scoraggiato dalle sconfitte, e volendo salvare una parte del regno, ebbe il pensiero di rinunziare alla Sicilia, consentendo che quel popolo decidesse a suo grado delle proprie sorti. Rifiutammo il dono insidioso. La Sicilia non poteva ripetere l'errore del 1848. La sua libertà non si sarebbe assicurata, finchè la dinastia non fosse stata cacciata da Napoli. E poi ci saremmo allontanati dallo scopo dell'unità nazionale e saremmo stati ingrati con gli esuli delle provincie meridionali del continente che erano venuti con noi a battersi nell'isola. Favoriva quel progetto Napoleone III, il quale si oppose al passaggio dello stretto, e vi sarebbe riuscito se l'Inghilterra non avesse fatto prevalere il principio del _non intervento_. Fu rapida la corsa di Garibaldi da Reggio a Napoli. In pochi giorni le schiere nemiche furono sbandate; e il 21 ottobre fu votato il plebiscito in tutte le provincie meridionali, plebiscito che proclamava l'unità della patria italiana. * * * Ma l'opera nostra non poteva arrestarsi qui: a maggiori altezze essa intendeva. Certamente, coll'affrancazione delle provincie meridionali della penisola noi avevamo elevato la parte maggiore del grande edifizio. Un anno innanzi ci era stato dato l'esempio dalla Toscana, prima a rinunziare alla sua antica autonomia; quindi l'Emilia, che dal 1820 in poi aveva tentato più volte di far sventolare nelle ubertose sue pianure la bandiera dell'unità nazionale. Dopo ciò il dominio dell'Austria non era più duraturo; e cadde anch'esso per necessità di tempi. Lo seguì nel precipizio il potere temporale dei papi, il quale, non più reggendosi per forza propria, seguì la sorte del suo protettore. * * * Così fu sciolto il gran problema; ma non dobbiamo arrestarci nella missione che l'Italia ha assunto, elevando il suo trono in Campidoglio. L'unità, per l'Italia, è garanzia d'indipendenza di fronte allo straniero. E perchè essa sia, bisogna che tutto il territorio nazionale sia emancipato dallo straniero. È debole la nazione cui manca il possesso delle frontiere segnate dalla natura; è debole la nazione, lungo le coste della quale si àncorano flotte straniere, continua minaccia alla volontà nazionale. Ma l'unità non è tutto, e perchè l'indipendenza sia vera e sostanziale, è necessaria la libertà. Un principe che non ha per sè tutte le forze d'un paese, è forte a metà. Uno Stato il cui popolo non sente la dignità dei proprii diritti, è debole ed esposto alle invasioni di chiunque voglia dominarlo. Ai bizantini non mancavano le frontiere, bensì la fede che scaturisce, come limpido zampillo, dalla libertà. I francesi nel 1815 avevano al Reno i confini che oggi loro mancano, e furono vinti a Waterloo per sola stanchezza di schiavitù. L'unità sarebbe inutile, se non dovesse portarci forza e grandezza. * * * Malauguratamente, l'unità della patria è insidiata, così dai micromani che vogliono rinchiudere l'Italia nel suo guscio, appartandola dalle grandi Nazioni, inibendole tutte quelle iniziative operose, dal cui sviluppo dipenderà un giorno il conseguimento dei destini suoi gloriosi, come dagli anarchici e dai clericali, sovversivi entrambi, entrambi negatori della patria. Io mi domando, non senza un brivido di sconforto, se valeva la pena che di sette Stati ne avessimo fatto uno, per poi discutere se questo Stato così laboriosamente formato, debba o non debba occupare il posto che moralmente e materialmente gli spetta! I miei avversarî — una ben nudrita coorte, in verità! — mi chiamano megalomane; e l'ingiuria mi giunge al cuore dolce come una lode. Sol chi nulla fece per la patria negli ultimi sessant'anni del movimento nazionale, chi nulla mai per essa sofferse, chi nulla le sacrificò, può far getto di nobili e sante ambizioni, che dovrebbero essere patrimonio comune ad ogni cuore italiano. Vigiliamo, dunque: gli uomini di buona volontà, i patrioti sinceri si uniscano e concordi attendano a prevenire i pericoli che minacciano l'unità della patria, mettendo in guardia le plebi contro le vane lusinghe e le grossolane seduzioni, ed avviando l'Italia nostra a quella grandezza senza la quale essa non ha ragione di essere, anzi non può essere. E noi vogliamo che l'Italia sia! I MOTI TOSCANI DEL 1847 E 1848 LORO CAUSE ED EFFETTI CONFERENZA DI NICCOLÒ NOBILI L'autore di questa conferenza non potè rivederne le stampe, perchè la morte lo incolse prima che il suo scritto vedesse la luce. Del Senatore Niccolò Nobili, molti ricorderanno, oltre alle benemerenze civili e patriottiche, la gentilezza dell'animo e l'amore agli studi: di che la Società nostra ebbe più d'una prova, mentr'egli fu Presidente della Deputazione Provinciale, che concesse liberale ospitalità alle _Letture_ nella Sala di Luca Giordano. Correva l'autunno del 1845 quando in tutti i ritrovi delle città di Toscana e specie di Firenze, che ospitava gran numero di emigrati pontifici, l'argomento delle discussioni cadeva generalmente sopra le esorbitanti condanne pronunziate da una Commissione straordinaria in Ravenna. A quei parlari più liberi seguì tutto ad un tratto un dir sottovoce, con frasi tronche e interrotte, come se per l'aria ci fosse qualche cosa di misterioso e di grosso. Si parlava di armi giunte in Livorno, portate nascostamente a traverso la Toscana e introdotte nella Romagna papale. Si diceva che accordi fossero intervenuti tra le città delle Legazioni e delle Marche, che la fiera di Sinigaglia ne avea offerto il mezzo; che si voleva far pro del malumore suscitato dalle condanne ravennati e che tutto era fissato per una contemporanea rivolta. Ora se ne dava il giorno come sicuro, ora si diceva che nulla stava più bene, perchè da Rimini era venuto un contrordine e che, di ciò offesa, una parte dei cospiratori era rientrata in Toscana. Mentre queste notizie, con le solite frangie, con le solite assicurazioni sopra l'autenticità delle fonti, correvano di bocca in bocca, si sa che la sommossa è scoppiata in Rimini; che un tal Renzi, con pochi de' suoi, s'è impadronito della caserma, ha arrestato i pochi ufficiali colti qua e là alla sprovvista ed ha proclamato il governo provvisorio sotto la sua presidenza. Due giorni dopo, la sommossa era svanita. Le Marche, le Legazioni eran rimaste tranquille: il Renzi e una trentina de' suoi rifugiati in Toscana, avean consegnate le armi, colla promessa che tutti sarebbero imbarcati a Livorno e avviati verso la Francia. Comunque abortito quel movimento, non il primo nè il solo, preconizzava un'agitazione popolare. L'atmosfera politica era grave di nubi, più o meno cariche di elettricità in ogni parte d'Italia, e neanche in Toscana il cielo potea dirsi tranquillo e sereno, benchè il clima, generalmente temperato e mite, non facesse temere lo scroscio di meteore devastatrici. E per metter subito da parte le forme rettoriche, mi spiego sul significato di questo mite clima toscano, delineando in breve il carattere del popolo, la condizione in cui questo si trovava al cominciare dei moti politici del 1846 e come vi fosse arrivato. Fermatevi per un momento con me dinanzi ad una di quelle tante urne cinerarie etrusche, di cui è ricco il nostro Museo. Guardate quella figura d'uomo, distesa come sopra un lungo guanciale, col torso a metà sollevato perchè l'avambraccio fa sostegno e puntello alla testa: quella figura ha gli occhi aperti e fissi, non volti nè alla terra nè al cielo: è quello un atteggiamento mistico non di molle riposo; è figura di uomo che pensa e par che vi dica: son pronto a levarmi su non appena sia d'uopo. Or bene: molti secoli son decorsi, molte generazioni son passate, ma quella figura può rappresentare ancora il tipo della gente toscana. Questo popolo ha mente acuta e sottile, facile a discernere il lato pratico delle cose; mite d'animo, alla violenza riottoso, disposto a soffrire finchè sia possibile, ma pronto a levarsi su se tutto si dolga. E per questa sua tendenza a pensare piuttosto che a fare, si spiega come il popolo toscano, non dimentico mai di quella libertà di cui furono moderatori l'Alighieri, il Machiavelli, il Giannotti, e difensori il Capponi, il Ferrucci, il Buonarroti, siasi appagato del presente con le memorie del passato, abbia sopportato il giogo mediceo, soddisfatto dall'essersi saputo reggere anche da sè medesimo e di non aver accettato il duca Alessandro come padrone, ma come capo della repubblica; si spiega come andasse lieto che il Rinuccini pel trattato di Utrecht avesse dichiarato, a nome di Cosimo III che il Granduca non può disporre dello Stato, ma che spetta alla repubblica il deliberare; che Don Neri Corsini avesse ripetuto in nome del medesimo principe, al congresso di Cambray, che il Granduca non poteva permettere che si facesse offesa alla città di Firenze e al suo dominio, e infine che lo stesso Giovan Gastone avesse trovata lena abbastanza per protestare contro il trattato di Vienna del 1731, perchè ledeva i diritti dei popoli toscani e distruggeva la libertà di Firenze. In uno Stato libero e indipendente, il popolo, comunque non libero, sente quasi di riflesso dallo Stato il sentimento dell'indipendenza e della libertà; e perciò, ancorchè il trattato del 1731 violasse davvero le ragioni del popolo, pure dichiarando la Toscana _Stato sovrano_, la riconosceva libera e indipendente, e il popolo se ne appagava tanto più facilmente, dacchè i Lorenesi mostravano della Sovranità saper far uso larghissimo. Leopoldo I, infatti, aveva convertito in legge i concetti dei più eminenti pensatori di quel secolo, proclamata la libertà del commercio, gettato nella legislazione il seme di quelle franchigie, che doveva poi germogliare e portare i suoi frutti. Mutarono i tempi, e forse neanche quel Granduca, che si disse filosofo, potè dal limitato principio misurare l'ampiezza, cui l'avrebbe sospinto la forza irresistibile del progresso. Ma intanto il sentimento dell'indipendenza e della libertà si era affermato nell'animo delle popolazioni toscane. Con la libertà di commercio la Toscana era entrata nel gran movimento europeo; con la libertà di commercio aveva ricevuta la solenne sanzione della libertà del lavoro, che è ricognizione di proprietà e garanzia di uguaglianza, e si trovava così preparata ad accogliere senza urti, senza terrori, senza spargimento di sangue, la fiumana di quei grandi principii che, superando con l'89 i contini di Francia, avrebbero dilagata l'Europa. L'impero napoleonico non dette alla Toscana la libertà, ma ne spezzò i ristretti confini chiamando a Parigi in Senato il principe Tommaso Corsini, il Fossombroni, il Venturi, il Giera; nel Consiglio di Stato Don Neri Corsini, il Giunti, il Serristori, il Capei, e al Corpo Legislativo i rappresentanti dei tre Dipartimenti dell'Arno, dell'Ombrone e del Mediterraneo. E comunque la Toscana non facesse parte di quelle regioni, con le quali costituiva il Regno d'Italia, pure l'idea che dall'Alighieri in poi aveva agitata la mente dei nostri pensatori, era divenuta realtà: in quel nome di Regno d'Italia era racchiusa una grande promessa, il germe dell'unità nazionale era gettato nella mente e nel cuore del popolo. Napoleone aveva offeso, e non impunemente, il principio di nazionalità, che alla lor volta invocavano le potenze alleate per dare alle loro armi quella forza che fino allora non avevano avuta; nè temevano esse di acuirlo col concetto dell'unità, tanto avevano in animo, a tempo e luogo, di soffocarlo. Era infatti il principio dell'unità nazionale che il Nugent invocava nel proclama di Ravenna, quando sotto l'intestatura: _Regno d'Italia indipendente_, scriveva: «Italiani, non state più in forse; siate italiani, e le nostre forze congiunte faran sì che l'Italia divenga ciò che ella fu già nei tempi migliori.» Era il principio dell'unità nazionale, che più tardi tornava a invocare l'arciduca Giovanni quando diceva agli italiani: «Non d'altro per voi v'è bisogno che di volere: sarete novellamente italiani, e l'Italia tornando a nuova vita, tornerà ad avere il suo grado tra le nazioni.» Dopo breve volger di tempo, le Potenze alleate, manipolando i trattati del 15, cadevano, per la ebrezza della vittoria, nel medesimo errore del loro grande avversario, sconfessando quel principio che poco prima aveano invocato. Divisa in brani l'Italia, anche la Toscana fu dichiarata _proprietà_ di Ferdinando d'Austria. La natura ha leggi somiglianti nel campo fisico e nel campo morale; e come il sonno dà nuova vigoria alle forze esaurite degli animali, lo stato di quiete e di raccoglimento dà alle idee, affinchè si facciano strada nella coscienza dei popoli, quella potenzialità che non hanno quando dapprima si palesano alla mente del pensatore, o si lasciano intuire dalla ispirata fantasia del poeta. E il sentimento, in cui si rispecchiavano le idee dell'indipendenza, della libertà, dell'unità nazionale, restò apparentemente sopito, e non diè per lungo tempo altro sintomo di vita che quello di qualche raro movimento politico. Il sentimento dell'unità nazionale restava peraltro sempre vivo nella coscienza del popolo toscano, e, come costantemente accade, si rivelava nella ispirazione dei suoi poeti. Il Giusti, il poeta popolare, faceva dire allo Stivale: Fatemi con prudenza e con amore Tutto d'un pezzo e tutto d'un colore. E poco innanzi Giovanni Battista Niccolini, il poeta civile, aveva fatto dire al suo Procida: Fui di Manfredi amico, e grande ed una Far la sua patria ei volle; come più tardi, quando nella Cappella del Pretorio fu scoperto il ritratto di Dante, lo stesso Niccolini con felice ispirazione cantava: Voi che la tenebrosa Coltre del tempo, che all'Italia aggrava La sua fronte immortal, levare osate, Or colla mano ardita Le molteplici bende lacerate Onde gelida a lei corre la vita, Perchè di tanti non sia più mancipio Ritorni alla beltà del suo principio; Generoso disegno Da sì lungo servaggio alzarla a regno! Era questo popolo toscano che sentiva nel suo idioma ardere il fuoco sacro dell'unità nazionale! In quel periodo non breve dal 1815 al 1845, in Toscana e specie in Firenze si viveva come in una famiglia. Dell'aristocrazia feudale, spossata già dalla repubblica democratica e dalla mollezza medicea, morta e seppellita con le riforme leopoldine, non si aveva neppur l'idea. Le famiglie più illustri eran venute su dal commercio, e salite a potenza per dovizie e per fama, perchè taluno dei suoi, in casa o fuori, aveva fatto fortuna nelle arti della seta, o della lana, o del cambio, e perchè non era mancato mai chi o col consiglio, o con la dottrina, o con l'opera, ne tenesse il nome alto e venerato. E il popolo, che sapeva esser quelle famiglie uscite dal proprio seno, le amava e le rispettava, quasi ne traesse ammaestramento che il lavoro le aveva nobilitate, e che il lavoro apriva a tutti la via onde conseguire dovizie ed onori. Il Governo lorenese, benchè assoluto, era stato quasi sempre paterno, nè quando avesse voluto infierire, avrebbe trovato in Toscana un Riccini o un Del Carretto. I Ministri del Granduca, mancati alla vita il Fossombroni e Don Neri Corsini, non avevano una gran levatura di mente, e, se ligii per paura all'Austria, eran di buona pasta e d'animo mite. L'epigramma era l'arma del popolo se offeso dalla prepotenza di qualche Commissario di polizia. Le sètte in Toscana non attecchivano, se si eccettua, per le sue condizioni speciali, Livorno; i Gesuiti cacciati da Leopoldo I, non eran più riusciti a mettervi piede, e fu per il popolo toscano un vero olocausto alla libertà e all'unità conquistata, quando il nuovo regno schiuse loro i vietati confini dell'ex Granducato. Le scuole eran poche, ma buone ed intese a istruire e a educare: la gioventù era generalmente ammaestrata nelle Scuole Pie, e bisogna pur dire che quei Padri, con l'insegnamento classico in specie, si studiavano di formare il carattere dei loro alunni; e instillando ad essi nel cuore l'amor della patria, li educavano ad essere e a sentirsi italiani. A diffondere le idee liberali non si trascurava mezzo ne occasione. E per offrire qualche esempio, il marchese Cosimo Ridolfi, anima candida, di grande ingegno e di largo sapere, lasciava il proprio palazzo in Via Maggio e andava ad abitare nella Pia Casa di Lavoro, della quale aveva assunta la direzione, per dare con l'esempio delle sue virtù, con la dolcezza della sua parola il più utile degli ammaestramenti a quei giovani là ricoverati. Il barone Bettino Ricasoli, uomo di elevati sentimenti, di saldi propositi, nei doveri verso la famiglia e verso la patria rigidissimo, si ritirava nel suo Brolio per dare ai suoi numerosi coloni un catechismo di morale insieme colle pratiche dell'agricoltura. L'Accademia dei Georgofili, discutendo delle libertà economiche, teneva vivo il sentimento delle libertà civili e politiche. Il Vieusseux, col suo gabinetto, dove convenivano pensatori, letterati, studiosi da ogni parte d'Italia, e con la sua _Antologia,_ faceva larga propaganda d'idee liberali; e cessata l'_Antologia_ per ordine del Governo, ne tenevano il luogo le edizioni di Felice Le Monnier, alle quali le ostilità e i divieti degli altri governi italiani, davano, mercè la clandestina diffusione, una più potente efficacia. Da tutto quanto vi ho esposto, facile è il dedurre come nessun popolo in Italia più del toscano, si trovasse all'alba del 1846 temperato agli alti ideali della libertà, dell'unità nazionale, e per essi pronto ad agitarsi, e a combattere! Quel Renzi, che aveva così infelicemente condotta la sommossa di Rimini, era di nascosto tornato in Firenze, e saputolo monsignor Sacconi, incaricato apostolico, ne aveva chiesta l'estradizione fondandosi sopra un vecchio trattato conchiuso tra il Granduca e il Pontefice. Grandi simpatie si destarono in tutta la Toscana a favore del Renzi, e Vincenzo Salvagnoli dettò una commoventissima supplica, che la stessa moglie del Renzi presentò, piangendo, al Granduca. Tutto fu inutile; nel Ministero toscano non era più chi potesse resistere a Roma: e con grande e generale rammarico, nella notte del 24 gennaio il Renzi, condotto al confine, fu consegnato ai soldati del Papa. Se poi il Renzi non si mostrò degno di tanta simpatia, ciò non tolse che il popolo giudicasse severamente e principe e governo, e che una eletta schiera di giovani, che si disse ispirata dal Montanelli, per combattere in nome della libertà, cominciasse allora e per quel fatto a valersi della stampa clandestina, arma potente ma pericolosa, e che avrebbe poi contribuito a precipitare il movimento a rovina. Vincenzo Gioberti col suo _Primato_ aveva apertamente posta la questione del risorgimento italiano, e comunque non si prestasse, specie in Toscana, gran fede ad una federazione di Stati sotto la presidenza del Papa, la discussione era sorta, ed era buono che i Gesuiti l'avessero inasprita, spingendo il Gioberti a modificare e temperare coi _Prolegomeni_ il suo primo concetto. Mentre il dibattito si faceva sempre più vivo, e lo stesso guelfismo lo rendeva più acutamente avverso all'Austria, moriva senza rimpianto Gregorio XVI, ed era in breve ara proclamato a suo successore Giovanni Mastai Ferretti vescovo d'Imola, uomo di molto cuore, ma non di gran mente, e che cedendo agli impulsi dell'animo buono, iniziò il suo regno con la solenne amnistia di tutti i condannati politici, dei quali rigurgitavano le galere e le carceri pontificie. Se il principe di Metternich, profondo conoscitore degli uomini e delle cose, fu costretto a confessare che un papa liberale non se lo era immaginato mai, si capisce come quell'atto magnanimo del nuovo Pontefice rendesse stupefatta l'Italia e l'Europa. Le idee giobertiane non eran più delle vane utopie. Ai liberali italiani l'amnistia, invece che la espressione di un mero sentimento di carità cristiana, apparve come la rivelazione di un gran concetto politico; e il fatto del papa liberale, mentre afforzò il sentimento dell'indipendenza e della libertà, di tanto avvivò il concetto della federazione di quanto fece impallidire e annebbiare quello dell'unità nazionale. Che se al Congresso degli scienziati italiani apertosi in Genova nel novembre, al quale per concessione del Papa intervennero anche i romani, si parlò di scienza, ma non meno di politica, e di confederazione tra i principi con a capo o Carlo Alberto o Pio IX; se a dire del. Lambruschini quel Congresso per altezza e saviezza di sentimenti superò tutti gli altri; se nel 5 e nel 6 di dicembre si festeggiò, pure in Genova, il centenario del Balilla, e per suggerimento del Mamiani, a mostrare la conformità degli intenti, in quelle due sere si accesero grandi fuochi su tutte, fino sulle più lontane vette dell'Appennino, era sempre il principio dell'indipendenza e della libertà non dell'unità che informava e i parlari degli scienziati e le dimostrazioni del popolo. Ma intanto lo spirito reazionario aveva levata la testa; chiamava Pio IX un intruso, un vecchio massone, un incredulo: negli Stati pontifici erano a fronte _gregoriani_ e _piani_, in Toscana retrogradi e riformisti, e la scissura, entrata fra i liberali, li aveva divisi in moderati e in esaltati. Alle lettere politiche, con le quali il Balbo accusava le società segrete, rispondeva irosamente il Montanelli con un opuscolo firmato _Un Romagnolo_. E mentre le forze dei liberali si sciupavano così nell'attrito delle accuse, delle querimonie, delle violente difese, i partiti estremi toglievano occasione dalle sofferenze delle classi povere per la carezza dei cereali prodotta dalle scarse raccolte, onde soffiare nel fuoco e far scoppiare disordini in Modigliana, in Pistoia, in Monsummano, e più gravi ancora in Livorno. Il 1847 cominciava sotto cattivi auspicii, e dava a credere che sarebbe stato torbido e burrascoso. La restituzione del Renzi e il sospetto che la Toscana dovesse servire ai raggiri dell'Austria aveva scemato l'affetto per il Principe, e reso impopolare il Governo. Si sapeva che il Neuman, ministro austriaco presso il Granduca, gli aveva offerto il concorso delle truppe imperiali per sedare i tumulti che avvenivano ora in questa, ora in quella parte della Toscana. Erano per di più arrivati in Firenze Francesco V di Modena, che da poco aveva ereditato dal padre il regno e l'odio dei suoi sudditi, e insieme con lui l'arciduca Ferdinando d'Austria, quello stesso che l'anno innanzi comandava la Gallizia, quando l'Austria, armata la mano dei contadini, aveva coadiuvata la più orribile carneficina di migliaia di polacchi, ed era giunta perfino a impedire le collette per le vedove delle vittime e per gli orfani, dei quali per più che 200, ancora infanti, non si conosceva neppure il nome, perchè i parenti, gli amici, i domestici loro erano stati uccisi in quell'immane eccidio. Naturalmente i fiorentini guardavano di mal'occhio i due ospiti, e nel modo medesimo, poco dopo, i pisani guardavano l'arciduca Ferdinando, il quale si era recato a Pisa, dove aveva palazzi e terre ereditate dalla madre Beatrice Cibo d'Este, e di là corrispondeva col Duca Carlo Lodovico di Lucca, uomo che in vita sua ne aveva fatte di tutti i colori; libertino, protestante, cattolico, liberale e in quel momento assolutista arrabbiato. E là si trattenne l'Arciduca finchè, annoiati i pisani per la sua presenza, con una pacifica ma espressiva dimostrazione dinanzi al suo palazzo, lo costrinsero a tornarsene in Austria donde era venuto. L'incertezza che dominava nel governo, si manifestava ogni giorno o col lasciare andare, o col prevenire soverchio, ora col subitaneo rifiutare, ora col troppo tardo concedere; e intanto l'agitazione cresceva. I così detti Bollettini della stampa clandestina fioccavano frequenti, ma non più da una sola e medesima fonte. Alla stampa dei giovani liberali, la quale se talvolta aggressiva, era ispirata pur sempre agli alti ideali della patria, si era aggiunta quella dei retrogradi e del partito d'azione; questo che voleva tutto e subito, quelli che cercavano di mandare tutto a rifascio il più presto possibile. La polizia si arrovellava invano per scoprire gli autori della così detta _clandestina_, e per sbizzarrirsi ficcava in prigione gran numero di operai tipografi, bandiva dalla Toscana il marchese Massimo d'Azeglio, ed esigeva dallo stesso Ministro Cempini che il figlio di lui, Leopoldo, giovane d'alto ingegno, d'animo aperto, di affetti e di entusiasmi facile, liberale fervido, ai compagni agli amici carissimo, dovesse a suo malgrado fare un viaggio in Germania. Ciò non ostante al Granduca e ai suoi Ministri non mancarono consigli valevoli a cancellare le insorte diffidenze e riportare la calma nelle popolazioni. Il marchese Cosimo Ridolfi, il quale come Aio del Principe ereditario, aveva consuetudine col Palazzo Pitti, non lasciava occasione per parlare al Granduca di ciò che il Paese desiderava, tanto che gli amici gli avevano dato il nome di _Predicatore_, comunque e' dicesse che predicava al deserto, e paragonasse l'animo del Principe a una lavagna, sulla quale si poteva scrivere ciò che si voleva, ma sulla quale chiunque venisse dopo, cancellava e riscriveva con la medesima facilità. Bellissima nella sostanza e nella forma è la petizione che il barone Ricasoli presentava al Cempini nel 3 marzo, esponendogli quale fosse il vero stato della Toscana, quali le necessità, quali i pericoli, e per quali mezzi fosse possibile scongiurare questi e a quelle provvedere. Saggi consigli, che il Ricasoli aveva maturati col Lambruschini e col Salvagnoli, e che avrebbero infrenato il movimento col farsene il Governo stesso guida e moderatore, e ridestato verso il Sovrano i sopiti affetti del popolo! Il Cempini lodò la petizione e promise di presentarla al Granduca; ma poi dicendo che si trattava di cose assai gravi e che occorreva tempo a ben ponderarle, pose tutto a dormire: se non che contro quel sonno cospiravano gli eventi. Pio IX in quel mentre emana un editto sulla stampa che tempera quello del 1825, e sorgono immediatamente due giornali, il _Contemporaneo_ a Roma, il _Felsineo_ a Bologna. E il Ricasoli, che nella sua petizione aveva esposta la necessità di render libera ogni onesta manifestazione di pensiero, torna dal Cempini, gli presenta una seconda petizione, dimostra il grave pericolo che la stampa clandestina ecciti ancora le passioni popolari, e l'urgenza che una legge sulla stampa sia emanata dal Principe con tutta l'apparenza della più assoluta spontaneità, e unisce alla petizione anche un disegno di Legge redatto dal Salvagnoli. Per mala ventura i liberali moderati trovarono in ciò un punto di disaccordo. Tutti deploravano le intemperanze della stampa clandestina; ma, per frenarla, gli uni volevano ottener dal Governo il permesso di istituire un giornale, che sostenendo i principii della libertà commerciale rassicurasse il paese dai timori di perturbazioni popolari e di attacchi alla proprietà, e dasse allo Stato la forza morale occorrente con lo spingere i cittadini a valersi delle neglette istituzioni municipali; gli altri sostenevano che prima di fondare un giornale si doveva ottenere che una legge sulla stampa fissasse nettamente i diritti e i doveri dei cittadini. Antesignano dei primi il Capponi, dei secondi il Ricasoli: la discussione si faceva sul _Felsineo_ di Bologna, scrivendo per questi il Salvagnoli ed il Buschi, per quelli il Digny. Ragione del discutere era il dubbio se la stampa clandestina potesse combattersi, quando il mezzo legale per esprimere liberamente il proprio pensiero non si fosse prima ottenuto. Validi gli argomenti degli uni e degli altri, ma deplorevole che le forze si scindessero quando più occorreva che si spiegassero unite. Il Governo studia a lungo, e di malavoglia il 5 di maggio emana una legge non peggiore di quella romana, ma ispirata dalla paura, dalla diffidenza, e dalla caparbietà poliziesca. Niuno se ne accontenta, e per quanto si voglia festeggiare la legge sulla stampa libera, la dimostrazione a Firenze riesce meschina, ostile a Siena, tumultuosa a Livorno. Si comprese, è vero, che certe restrizioni filate d'ottobre non sarebbero giunte a novembre; ed uno dei primi atti dell'ufizio di revisione in Firenze fu quello di permettere al Salvagnoli la ristampa del suo Discorso sullo stato politico della Toscana, in cui esponeva francamente ciò che principe, governo e privati avrebber dovuto fare per conseguire il bene e preparare il meglio di questo paese. Di giornali, primo sorse l'_Alba_ diretta dal La Farina, scrittori il Vannucci, il Mayer, il Mazzoni, la quale non ostante gli entusiasmi per Pio IX, si chiarì presto avversa al poter temporale. Uscì quindi la _Patria_, diretta dal Salvagnoli, in cui scrivevano il Lambruschini e il Ricasoli; e questa per il suo stesso programma — _alleanza tra libertà e principato_ — quando, invece di attutirsi, crebbero le diffidenze contro il governo toscano, si orientò verso il Piemonte. In Pisa era sorta l'_Italia_, la quale, diretta dal Biscardi con la collaborazione del Centofanti, del Giorgini e del Montanelli, s'ispirava al misticismo dell'idee giobertiane. Il _Corriere Mercantile_ in Livorno si era trasformato in giornale politico. Ma quasi che il movimento non fosse abbastanza rapido, un altro fatto venne ad imprimergli un impulso nuovo. Riccardo Cobden, il propugnatore nel Parlamento inglese delle istituzioni toscane sulla libertà del commercio, era nel maggio giunto in Firenze. La pleiade dei liberali, che aveva come suo centro l'Accademia dei Georgofili, brillava di nuovo splendore. Nelle allocuzioni, nei banchetti, nei parlari amichevoli, al tema delle libertà commerciali si associava quello delle libertà civili e politiche, e il Lambruschini chiudeva i festeggiamenti inneggiando alla libertà universale, che sarebbe stata la santa alleanza dei popoli e la preparatrice dei tempi, ai quali è promesso un sol gregge e un solo pastore. Il popolo, che dalle parole stesse del Cobden autorevolmente apprendeva come la piccola Toscana fosse stata presa ad esempio di libertà dalla potente Inghilterra, se ne sentiva altero, e la brama delle riforme liberali rinfocolatasi, gli faceva provare più odiose le incertezze e le resistenze governative; ciò che addimostrava così rumorosamente, che alla fin di maggio il Governo si trovò costretto ad annunziare essere stato dal Granduca deciso che fossero rivedute le leggi municipali, compilato il codice civile e quello penale, e a Commissioni speciali, oltre questi studi, fosse affidato anche quello sul modo di ampliare la Consulta estendendone le ingerenze consultive sui pubblici affari. Grave errore il non fare e promettere, più grave ancora il promettere timido e indeterminato! Mentre il Governo oscillava così tra il fare e il non fare, Pio IX nel luglio concede la guardia civica; di lì a poco le truppe austriache in onta ai trattati occupano la città di Ferrara; e una congiura contro la persona del Pontefice è scoperta, supposta esistere in Roma. Dai quali fatti gli animi dei toscani sono un po' naturalmente, ma più ancora ad arte talmente eccitati, che tumulti e violenze avvengono in Siena, in Arezzo, in Livorno, e sciaguratamente il conflitto avvenuto in Siena tra carabinieri e studenti, finisce colla morte dello studente Petronici, di cui l'accompagnamento funebre se poco ha di pietà, molto ha di solenne e di minacciosa protesta. Don Neri Corsini, Governatore di Livorno, mosso da un nobile sentimento di dovere verso il paese e verso il Sovrano, prima che quei tristi fatti accadessero si era rivolto al Granduca esponendo la gravità delle cose, deplorando che le promesse del maggio antecedente non fossero in nulla adempite, e proponendo i modi per render la Consulta proficua, e al bisogno dei tempi più consentanea la legge sulla stampa. Nè il clamore dei giornali, nè le dimostrazioni popolari, nè le raccomandazioni di nuovo dirette dal Corsini al Principe e al Ministero valsero a troncare gl'indugi. Anche adempite, le promesse fatte nel maggio più non sarebbero bastate; i fatti di Ferrara e di Roma un'altra istituzione reclamavano. Il popolo voleva le armi e chiedeva la guardia civica. Era fatale che alcuni dei Ministri per servilità verso l'Austria, altri per cieca debolezza, dovessero accordarsi nel temporeggiare, finchè costretti a fare qualche cosa in fretta e furia, la facessero male. Nel 24 agosto fu emanato il Motuproprio che riformava la vecchia Consulta in modo affatto manchevole, e la componeva quasi interamente di dipendenti dalla Corte e dal Governo. L'istituzione apparve illusoria, si tacque peraltro perchè nella Legge si diceva che la Consulta, per suo primo affare, doveva riferire sulla convenienza di istituire la guardia civica. Ma quando era decorso l'agosto e la Consulta non si adunava ancora, il fermento si spinse a tale, che in Livorno in una radunata di popolo si trattava di andare in massa e armati a Firenze, ingrossando per via, e là chiedere tumultuando la immediata istituzione della guardia cittadina. Il pericoloso disegno si sarebbe portato ad effetto se la sagacia di Don Neri Corsini non riesciva a fare adottare invece l'invio di una Commissione presieduta dal Gonfaloniere; la quale immediatamente partì, portando al Cempini una lettera del Governatore. La Consulta, convocata per urgenza la mattina di poi, 4 settembre, espresse, ne a quell'ora poteva caderne dubbio, il voto favorevole, e un Motuproprio sovrano dichiarò la guardia civica istituzione dello Stato. Gli affetti delle moltitudini son facili a fortemente manifestarsi come a passare da estremo a estremo, dalla fede alla disperazione, dall'amore all'odio, dalla pietà all'ira, dal dolore alla gioia; e appena nel pomeriggio del 4 si conobbe il voto della Consulta, la popolazione, che ieri rumoreggiava e fremeva, proruppe in giubilo: un solo e medesimo pensiero cadde come per incanto nella mente di tutti: domani, giorno di festa, dimostrazione al Granduca. L'accordo era prima fatto che proposto; e fu un subito correre di qua e di là, un affaccendarsi per improvvisare pennoni, stendardi, bandiere, avvisare gli amici, raccoglier bande musicali, dare a tutti il convegno intorno al tempio d'Arnolfo. E la mattina della domenica, un ventimila persone erano assiepate sulla Piazza del Duomo, disposte in ordine militare, divise come per compagnie e per plotoni, con un vessillo innanzi a ogni gruppo. Quando la testa di quella colonna fu pronta per muoversi, una brigata di giovani contadini le si fa innanzi e un di loro dice modestamente: «Non abbiamo bandiera, lasciateci unire, slam fratelli anche noi.» Quella parola fu come una corrente elettrica che percorresse tutte le fibre di quella massa di popolo: fu un grido entusiastico di _Viva i fratelli_, che accolse quei giovani e che si ripetè da tutti, senza che i più ne sapessero la ragione. Traversata la città giunsero i dimostranti tra il suono delle bande e i gridi di _Viva Leopoldo_, _Pio IX_, _l'Italia_, e senza un grido che suonasse per nessuno odio o disprezzo, sulla Piazza dei Pitti, dove l'entusiasmo salì a tale che il vicino abbracciava e baciava il vicino con le lacrime agli occhi, e si separavano senza che l'uno sapesse dell'altro nulla di più che erano italiani ambedue. Una Commissione, di cui erano a capo Ferdinando Bartolommei e Ferdinando Zannetti, due cuori ardenti di libertà, di nobile lignaggio, di pronto ingegno, d'animo generoso, il Bartolommei, pieno di sapere e di modestia, amato dai discepoli e dal popolo il professore Zannetti, salì a ringraziare il Granduca, il quale commosso affermò la sua determinazione di compier l'opera riformatrice. Circondato a quell'ora dall'amore di una intiera popolazione, era il cuore che parlava per lui, nè lo spettro dell'Austria poteva farlo scientemente mentire! Dimostrazioni si fecero nei dì seguenti a Pisa e a Livorno. In quest'ultima città l'esaltazione salì al colmo; si arringò il popolo dalle finestre delle case, si parlò di tirannide e di tiranno. Un _vero baccanale rivoluzionario_ definì quella dimostrazione Don Neri Corsini in una nobilissima lettera al conte Ferretti, nella quale spiegava il perchè delle sue dimissioni da Governatore di Livorno e da Ministro degli esteri. Nel 12 settembre, nuova dimostrazione in Firenze, cui prendono parte i rappresentanti di tutti i municipi, con le rispettive bandiere nazionali gli inglesi, i francesi, i tedeschi, gli americani, i greci e gli ungheresi residenti in Toscana. Più di 50,000 persone sfilarono davanti il Palazzo Pitti, e se questa seconda dimostrazione non si elevò all'entusiasmo cui giunse la prima, fu però più grandiosa e fu la più bella espressione dell'alleanza tra popolo e principe, di fraternità tra popolo e popolo. In questa dimostrazione il concetto unitario era rappresentato da poche bandiere tricolori e il concetto federativo da molte, nelle quali al bianco, al rosso, al verde il giallo era aggiunto. Le minaccie dell'Austria raffreddano gli animi del Granduca e de' suoi ministri. Don Neri Corsini, che aveva incitato Principe e Governo a frenare il movimento col metterglisi alla testa proclamando la costituzione, è invitato a dimettersi, ma la marea monta sempre più, e per farle argine Cosimo Ridolfi è chiamato al Ministero dell'interno. Intanto Carlo Lodovico di Lucca, smentendo le promesse che per paura aveva fatte ai Lucchesi, mercanteggia il Ducato con l'Austria, e il Governo toscano per impedirlo, cede a tutte le pretese del Ward, quell'uomo che dalla stalla era salito al grado il più eminente del Ducato ed era del suo Sovrano ben degno rappresentante. I trattati del 15 per la reversione del Ducato di Lucca al Granduca di Toscana imponevano la cessione di Fivizzano, di Pietrasanta, di Barga e di alcuni distretti lucchesi al Ducato di Modena, e Carlo Lodovico per anticipare quella reversione aveva preteso, e il Governo toscano concesso, la immediata cessione a lui del territorio e della città di Pontremoli. L'unione del Ducato Lucchese fu generalmente accolta in Toscana con gioia, ma porse ai funesti mestatori argomento per accusare il Governo d'aver tradito i popoli di Lunigiana, e per animar questi a disperata resistenza, specie dopo che dalle truppe estensi erasi proditoriamente occupato Fivizzano e non senza spargimento di sangue. Si tornò alle radunate di popolo, alle suppliche, alle minacele in favore dei fratelli lunesi. Pio IX, invocato da loro, aveva promesso spontaneamente di intercedere presso Francesco V e Carlo Lodovico; e il Governo, che non amava di meglio che serbare quei popoli alla Toscana se non glielo avessero impedito i trattati, aveva inviato il barone Ricasoli a Carlo Alberto, che non rifiutò i suoi buoni uffici, comunque dubitasse che la ressa dei Duchi fosse aizzata dall'Austria. Tutto riesci vano, e nel novembre del 1847 non si ebbe di buono che la firma dei preliminari per la lega doganale tra Piemonte, Roma e Toscana, e la promessa che Carlo Lodovico non avrebbe preso possesso di Pontremoli se non succedendo, secondo i trattati, a Maria Luisa nel Ducato di Parma; ciò che accadde ben presto. Morta la duchessa nel 17 dicembre, il duca di Modena e il nuovo duca di Parma si affrettarono nel 24 dicembre a fare un trattato di alleanza con l'Austria, la quale spinse subito le sue truppe sopra i Ducati. Gravi eventi si potevan prevedere per l'anno che incominciava, ma quali si avverarono, a mente umana non era dato vaticinare. L'Austria fin dai primi di gennaio si mostrò intenta a domare con la forza brutale, con ogni artifizio di mala guerra il risorgimento italiano. Infuriava con le sue soldatesche barbaramente sopra i cittadini inermi di Milano, spingeva il duca di Parma ad occupare Pontremoli, aizzava i demagoghi a vangelizzare le più strane utopie, e i retrogradi a spingere a rovina il presente inneggiando al passato: con l'aiuto dei sanfedisti e dei gesuitanti, ricercava ogni meato nell'animo debole del Mastai per arrivare a ferire la coscienza del Pontefice; e fomentava, ne questa era ardua impresa, la malafede di Ferdinando di Napoli, sul quale udiste poco fa invocare benevola l'ultima parola della storia imparziale, ma che io frattanto, ormai troppo vecchio per ascoltare quella parola che sarà tarda, proseguirò a chiamare il _Re Bomba_. I sovvertitori delle moltitudini trovano, in tutta la Toscana, nella città di Livorno il terreno ai loro fini adattato; e là si spargono scritti sediziosi, si invita il popolo a chiedere le armi, si accusano i Ministri di codardia e di tradimento. I tumulti che ne susseguono costringono il Governo a reagire mandando a Livorno come commissario straordinario il Ridolfi; il quale, fatto arrestare il Guerrazzi e mandatolo all'Elba, restituisce la calma all'intera città. Ma gli eventi precipitano. Il 12 di gennaio la città di Palermo, poichè il re Ferdinando non aveva concessa la domandata Costituzione, si mette in piena rivolta, e caccia le truppe regie. E' seguìta dalle altre città dell'isola e si proclama il distacco dal reame di Napoli della Sicilia, che si costituisce in Repubblica. Il fatto pone in fermento anche Napoli; e il Re, cui duole perdere la Sicilia, promette riforme, espelle il Del Carretto e persino il suo confessore: pochi giorni dopo, alla prima promessa aggiunge quella della Costituzione, e il 10 febbraio promulga lo Statuto fondamentale. Anche il re Carlo Alberto nel dì 8 febbraio pubblica le basi di quello Statuto, che promulgato poi nel 4 di marzo, doveva per fortuna d'Italia restare solo in vigore come l'arca santa dell'unità nazionale. Nel medesimo giorno, vo' dire nell'8 febbraio, si fanno a Roma tumultuose radunate di popolo per chiedere la costituzione e la secolarizzazione del Governo papale; domande, che spingono il partito reazionario chiesastico a iniziare una guerra sorda e feroce al risorgimento italiano. Nel 15 febbraio lo Statuto è pubblicato anche in Toscana, e se ne fanno grandi festeggiamenti, e se ne rendono pubbliche grazie a Dio e al Sovrano. _Signore e Signori,_ Sul quadro di cui andrò ora delineandovi appena i contorni, e al quale la vostra immaginazione darà quel colorito che io non saprò dare, due belle figure campeggiano: quella di Cosimo Ridolfi e quella di Bettino Ricasoli. Questi, costretto dall'amico, piuttosto che chiamato dal Ministro ad assumere l'ufficio di Gonfaloniere di Firenze, con grande riluttanza, più che accettarlo, lo subisce; ma subitolo, lo adempie con tale e tanto senno, con tale elevatezza d'animo e di consiglio che Firenze, comunque gli agitatori del popolo con ogni lena si adoperassero, resiste ai loro malevoli eccitamenti finchè rimane sotto il governo e la guida di lui. L'altro, il Ridolfi, da prima Ministro dell'interno poi Presidente dei ministri in luogo del Cempini, che fatto ormai vecchio si ritira, riesce a inspirare nell'animo del Principe e in quello de' suoi colleghi gli ideali della patria libera e indipendente, e con le sue concioni al popolo, con i manifesti, con i proclami del Granduca ai suoi toscani, torna a stringere affettuosi legami tra popolo e principato; e se la sua sagace iniziativa per concludere una lega italiana tra i quattro Stati costituzionali non fosse stata avversata dal Borbone e dal Vaticano, e non compresa o temuta dal Governo Sabaudo, le sorti d'Italia non sarebbero andate in rovina. Abbenchè non comparsa ancora sull'orizzonte, forse rendeva vani i saggi consigli di lui, quella stella d'Italia che doveva guidarci all'unità nazionale! Riprendendo il filo della narrazione sui moti toscani, non può omettersi che il Serristori, Ministro della guerra, preveduto saggiamente il futuro, aveva proposto che si portasse la leva a 4000 uomini, ma negandoglielo la Consulta si era dimesso e gli era succeduto Don Neri Corsini, il quale riesci ad ottenere che si facesse una leva di 2000 uomini almeno. E qui comincia la serie delle grandi sorprese. Sul cadere di febbraio la rivoluzione di Parigi, la caduta della Dinastia Orleanese, la proclamazione della repubblica in Francia, fanno passare quasi inosservata la costituzione concessa dal Papa, e danno modo al Mazzini di fondare in Parigi l'Associazione nazionale italiana, che in quel momento non poteva non esser che di danno all'Italia. Alludere col manifesto firmato dal Mazzini, dal Giannone e dal Canuti alle forme di reggimento repubblicano, e proclamare il principio dell'unità quando con le forze dei quattro principati si doveva conquistare l'indipendenza, condizione essenziale dell'unità, era errore e più che errore era colpa. Alla rivoluzione di Parigi succede di lì a poco quella di Vienna. Il terribile nemico delle nazionalità, l'autore di tante stragi, di tanti martirii, di tanti esigli, il principe di Metternich si salva a mala pena, fuggendo, dall'ira popolare, e il giorno di poi l'Imperatore concede la Costituzione ai sudditi austriaci. I Lombardi e i Veneti, che da tanto tempo mal soffrono il freno delle forze imperiali, pubblicano una forte e nobile protesta ai fratelli d'Italia e d'Europa, e pochi giorni dopo, nel 18 marzo, senza accordi ma per impulso d'animi ugualmente esacerbati, insorgono Milano e Venezia. Dopo una lotta eroica di cinque giorni, Radetzky è costretto a ritirarsi da Milano, e dopo un contrasto meno fiero che quel di Milano, il generale Zichy capitola e abbandona Venezia. I Modenesi si sollevano e il Duca fugge difilato a Mantova; Massa e Carrara insorgono, i popoli di Lunigiana si rivoltano e Carlo Lodovico fugge prudentemente da Parma. Il 24 di marzo il re Carlo Alberto passa il Ticino, e il giorno di poi 6000 piemontesi, freneticamente plaudente l'intiera popolazione, entrano in Milano. In 14 giorni si eran compiti eventi, che appena un secolo avrebbe potuto maturare e produrre! Il 19 di marzo giungono in Toscana le notizie di Vienna, il 21 quelle di Milano e di Venezia, e sorge un grido generale di guerra e la domanda di armi per correre sui campi lombardi. La Toscana era sprovvista di milizia e di ogni arredamento militare: i pochi soldati servivano per le parate di gala, e il popolo, scherzando, era solito dire che _per truppa era trippa e per trippa era troppa_. I nuovi chiamati eran da poco sotto le armi, il governo aveva chiesto al re Carlo Alberto ufficiali capaci di ordinare il piccolo esercito, e il Re aveva mandato allora il Beraudi, il Caminati, il Campia. Ma nonostante che in fatto di armamenti tutto fosse da fare, il governo aveva avviato alla frontiera le truppe regolari di cui poteva disporre. Alle notizie di Lombardia lo spirito patriottico si era levato sublime, ma lo spirito settario si agitava più vivamente di prima per le notizie di Francia. Bande di fuorusciti entrano dalla Francia in Savoia per abbattere il governo regio, ma ne son cacciati dai savoiardi. A Firenze si tenta sollevare la diffidenza contro il Ridolfi, e si eccita la plebe a strappare l'arme austriaca dal Palazzo dell'Ambasciata e a bruciarla sulla Piazza del Granduca; e si minacciava per di più di assaltare la stessa Ambasciata, se il ministro Corsini non fosse riuscito a persuadere la eccitata popolazione che non vi erano armi proditoriamente nascoste. In ogni parte d'Italia echeggia il grido di guerra. Ferdinando di Napoli spedisce in Lombardia un corpo di truppe sotto il comando di Guglielmo Pepe. Pio IX benedice i soldati e i volontari che partono da Roma guidati dal generale Durando. Il Granduca passa in rivista i volontari, li saluta con un discorso caldo di amor di patria, e l'Arcivescovo ne benedice la bandiera tricolore, che era dichiarata bandiera dello Stato. Anche il Battaglione della Guardia Universitaria parte acclamato da Pisa. Il 5 di aprile il Durando coi Romani è giunto in riva al Po, e dopo aver ordinato con un caloroso proclama, ai suoi militi di fregiarsi il petto della croce, e di muovere al grido «_Iddio lo vuole_,» entra sul territorio della Venezia. Prima di andare oltre, giova tener nota di due fatti importanti. Il primo, che dodici giorni dopo questo proclama, il principe Aldobrandini, Ministro della guerra, con un suo dispaccio al Durando ne approva in nome del Papa la condotta e lo autorizza a trattare un imprestito col Governo veneto; il secondo, che, nonostante lo stato di guerra, gli Ambasciatori d'Austria rimangono tuttora a Roma e a Vienna. La rettorica, che è stata sempre una malattia per noi italiani, ci aveva portata sul labbro la frase «_Fuori i barbari_,» e l'Austria ne aveva saputo fare suo pro per eccitare contro l'Italia lo spirito nazionale tedesco. La Repubblica francese con la minaccia d'invadere la Savoia sotto il pretesto delle inquietudini sorte in Europa per gli avvenimenti d'Italia; le proposte dell'Inghilterra di separare la causa della Venezia da quella della Lombardia, generosamente respinte dal Re: la Sicilia e la Venezia con l'essersi costituite a repubblica; il Mazzini col suo manifesto; i cardinali, i gregoriani, il ministro d'Austria col dare a credere al Papa, che, movendo guerra ai popoli cattolici, si sarebbe dato argomento a un nuovo e più terribile scisma, tutto congiurava contro le sorti d'Italia. Il Re di Napoli manda contro la Sicilia ribellata le milizie già pronte a partire per la Lombardia; Pio IX con l'Allocuzione concistoriale del 19 di aprile, dichiara di aver voluto inviare le truppe al confine per difendere l'integrità dello Stato, ma non volere, egli ministro di pace, far guerra all'Austria. Aveva un bello scrivere il Ridolfi lettere di fuoco al Bargagli, ministro toscano a Roma, e questi aveva un bel ripetere al Papa che se egli stesso non avesse predicata la Lega italiana, e non si fosse posto tra la Croce e la Spada e dettata legge a tutti, non solo sarebbe perduta l'Italia, ma perduto anche il Papato e il potere temporale. Il vaticinio del Ridolfi, comunque giusto e vero, non fu ascoltato, e il Papa non ad altro si indusse che a fare, il 3 maggio, una esortazione a Carlo Alberto di posare le armi, e all'Imperator d'Austria di rinunziare alla dominazione italiana. In questo mentre i Toscani scendevano sui piani lombardi. Brandite le armi, i giovani universitari eran partiti da Pisa e da Siena pieni di un santo entusiasmo, che si era cercato di smorzare trattenendoli a lungo per la via; ma che era cresciuto perchè lo aveva acuito l'impazienza del trovarsi di fronte al nemico. In una bella mattina d'aprile, valicando quei giovani, al canto d'inni patriottici, l'ultimo giogo dell'Appennino, si schiude innanzi al loro sguardo l'immensa pianura lombarda, coronata dai pallidi contorni delle vette alpine. Coperta da una nebbia leggiera e trasparente pei raggi del sole sorto allora sull'orizzonte, aveva l'apparenza di un mare quieto e tranquillo, e l'idea dell'infinito cresceva la magnificenza del grandioso spettacolo. Un grido solo di _Viva l'Italia_ eruppe da quei giovani petti. Era Italia quella immensa pianura, ed era calcata dallo straniero! In quel grido l'ideale della patria, l'aspirazione di tanti secoli che ora si compiva, la fede nell'avvenire, la certezza della vittoria, tutto si rivelava in un sublime tumulto di affetti! Il 3 maggio i Toscani, che per ordine di Re Carlo Alberto dovevan prendere la destra dell'esercito piemontese, sostengono con buon successo sotto Mantova una prima avvisaglia a San Silvestro: nel successivo dì 13, buon nerbo di austriaci attacca tutta la linea da Curtatone a Montanara ed è vittoriosamente respinto sotto gli occhi del ministro Corsini, che stette impavido in mezzo al fuoco, mentre il generale Ferrari se ne stava tranquillo e sicuro alle Grazie. Le truppe regie avevan combattuto eroicamente a Pastrengo, a Crocebianca, a Santa Lucia ed ora assediavano strettamente Peschiera, mentre il generale Nugent scendeva con grandi sforzi nel Veneto e costringeva il generale Durando a ripiegare su Vicenza. Il generale Ferrari era stato richiamato in Toscana, e da due giorni lo aveva sostituito il De Laugier, quando il generale Bava, sotto gli ordini del quale era il corpo dei Toscani, con ripetuti dispacci lo avvisa che forti distaccamenti di austriaci sono entrati in Mantova e si preparano ad attaccare all'indomani le posizioni occupate dai nostri; che occorrendo ripieghi su Goito, dove l'aiuto suo non gli sarebbe mancato. La linea guardata dai Toscani si stendeva undici chilometri da Goito per Sacca e Rivalta fino a Montanara; aveva una fronte rivolta a Mantova di oltre 3 chilometri di lunghezza, con la sinistra a Curtatone appoggiata al lago formato dal Mincio, e la destra a Montanara. La posizione era debole t mal difesa, A Curtatone, invece di coprirci con l'Osone, canale non guadabile, e con i suoi argini, si eran formate le nostre trincee al di là del canale e del solo ponte, che sulla via maestra lo traversava, più alto del piano di campagna, non coperto ne difeso. Montanara aveva la destra affatto scoperta e poteva facilmente essere attaccata e girata di fianco. Sulla linea di battaglia tra Curtatone e Montanara, il generale De Laugier non aveva che sei cannoni e 4600 combattenti, mentre Radetzky era uscito da Mantova con 40,000 uomini e 60 pezzi d'artiglieria. Alle 9 e mezzo della mattina comincia a tonare il cannone nemico, e in breve il fuoco dei fucili si fa su tutta la linea vivissimo. Il generale De Laugier per invitare, come egli disse, i suoi giovani soldati a sprezzare il pericolo, esce con i suoi aiutanti al di fuori delle trincee e percorre a cavallo, sotto il fuoco nemico, la parte della linea che dalla strada va a sinistra fino al lago, e al suo passaggio i soldati e i volontari, alzando i fucili, lo salutano col grido di _Viva l'Italia_. Di là il Generale corre a Montanara, tutti animando colla speranza della vittoria. Anche il Battaglione Universitario, che era accampato alle Grazie, e che il Generale aveva ordine di tenere in riserva, è portato sulla strada di Mantova per attendere in colonna serrata l'ordine di avanzare. Una densa nube di fumo si alza al di là del ponte e si ode un terribile rombo; era un cassone di munizioni, che i fuochi dell'artiglieria nemica ci aveano incendiato. Passano sulla strada i feriti in gran numero; fra questi il tenente colonnello Chigi e il tenente Niccolini, che si erano eroicamente battuti. «_Viva l'Italia! Vendicateci!_» grida, passando, il Niccolini ai giovani universitari, dei quali, a quel grido, non è più possibile contenere l'ardore. Il Battaglione, formato com'era in colonna serrata, si muove senza che nessuno glielo abbia comandato, e fu fortuna che nel breve tratto da percorrere prima di salire il ponte, lo incontrassero l'aiutante maggiore Milani e il capitano Caminati e lo facessero sfilare per due e passare alla corsa sul ponte, dove fulminavano i fuochi incrociati dell'artiglieria nemica, che ad alcuni di quei giovani furono pur nonostante fatali. Il fuoco dei nostri fucili durò a lungo e sempre vivace, mentre un solo cannone poteva di tanto in tanto, per mancanza d'artiglieri e di munizioni, far sentire i suoi colpi. Alle 4 pomeridiane, dopo sei ore e mezzo di combattimento, gli austriaci in forti masse si avanzano sulla strada dalla parte del lago, e il De Laugier assicuratosi della impossibilità di resistere ancora, ordina la ritirata e la fa batter più volte, perchè molti parevan decisi a morire sulle trincee piuttosto che voltar le spalle al nemico. Gli austriaci, convinti di avere avuto a fronte un grosso corpo di esercito, che avesse ripresa posizione alle Grazie, avanzano cautamente, e intanto i nostri, discretamente ordinati, si ritirano per Rivalta e Goito. Nè con minor valore si eran battuti i Toscani comandati dal colonnello Giovannetti a Montanara. Attaccati sul fianco destro da grandi forze nemiche, più volte si erano slanciati al di là delle trincee, ed eran riusciti a respingerle: l'artiglieria aveva fatto prodigii con i tiri bene aggiustati dei suoi due cannoni, ma artiglieri e ufficiali erano morti feriti sui loro pezzi. Nuove schiere nemiche ripetevano i loro attacchi, e quando sul tardi il Giovannetti, cui non era pervenuto l'ordine di ritirarsi inviatogli dal De Laugier, si accorse di avere a fronte un esercito poderoso e ordinò la ritirata, il generale Lichtenstein lo aveva girato di fianco e, sbarrandogli la via, lo attaccava alle spalle. Molti di quei valorosi perirono, molti non pratici del terreno furon circondati e rimasero prigioni. Dal maresciallo Radetzky, nella sua relazione sulla campagna del 1848, quella battaglia è chiamata memorabile e quella giornata gloriosa per l'esercito austriaco. E noi possiamo dire sulla indiscutibile autorità di lui, che dieci volte più memorabile fu quella battaglia e dieci volte più gloriosa fu quella giornata per i toscani, che dell'esercito austriaco non eran che la decima parte. L'eroica resistenza dei nostri aveva dato tempo alle truppe regie di raccogliersi a Goito, dove giunto Radetzky la mattina di poi e data battaglia, fu vinto e costretto a tornare indietro e chiudersi in Mantova. In quel medesimo giorno capitolava Peschiera. Ma fin d'allora il valore dell'esercito, l'eroismo del re Carlo Alberto e dei Principi suoi figli, non bastarono a rialzare le sorti delle armi italiane. L'esercito piemontese, non ostante che prodigii di valore avesse compiuti, pure due mesi dopo dovea fatalmente ripassare il Ticino. Nel 26 di giugno si era adunato per la prima volta il Parlamento toscano, che al discorso del trono, caldo di sentimenti patriottici e avvivato dalla fede nell'avvenire d'Italia, rispose con fragorosi, unanimi applausi. Ma nel mese successivo, quando la fortuna aveva voltato le spalle alle armi italiane, il governo, colpito dalla grave sciagura, era ricaduto nelle solite lentezze e incertezze. Si attendeva la presentazione di una legge sui volontari, perchè il timore degli austriaci vittoriosi faceva sentire il bisogno d'uomini e subito; ma il 30 luglio un movimento repubblicano, presa a pretesto la necessità di difendere il paese, messe tutta Firenze sottosopra, la Guardia civica non rispose all'appello, e la truppa piegò di fronte al popolo che invase l'aula dei Deputati. Niuna deliberazione fu presa dall'Assemblea sopraffatta, e ne seguì la dimissione del ministero Ridolfi. Gli succede un ministero Capponi, che ebbe una vita agitata di soli settanta giorni; durante i quali Livorno, conturbata dai sobillamenti del Guerrazzi e irritata per la espulsione del padre Gavazzi, si levò a tumulto, e rotto il telegrafo e arrestato il Governatore, pretendeva dettare la legge. Inviato dal Governo a sedare quei tumulti Leonetto Cipriani, ne avvenne fra il popolo e la truppa una lotta sanguinosa. Per il che dipartitosi il Cipriani da Livorno, a calmare gli animi esacerbati vi fu dal Governo inviato il professor Montanelli, e questi blandendo il popolo per farsene strumento a salire, gli promise la istituzione di una Costituente italiana, la quale avrebbe dovuto deliberare sopra la forma del reggimento politico e anche sulla conservazione della dinastia di Lorena. Intanto i partiti estremi rossi e neri, d'accordo sempre nel distruggere, avevano messo sottosopra anche Roma; e ucciso il Rossi, e minacciato il Vaticano, avean costretto il Papa a fuggire. Caduto in Toscana anche il ministero Capponi, il Montanelli e il Guerrazzi eran riusciti ad afferrare il potere. Le due Costituenti, la Costituente federativa dei trattati, piemontese, toscano e romano, che doveva risedere in Roma ed esser la personificazione vivente dell'Italia, e la Costituente legislativa sopra l'ordinamento interno di ciascuno Stato, costituivano il programma del nuovo Ministero democratico: concetto questo, cui prima aderì, poi respinse il Gioberti, allora presidente del Ministero Piemontese; concetto che più tardi doveva sollevare gli scrupoli di Leopoldo e indurlo ad abbandonare la Toscana. Sciolta la Camera dei Deputati, o Consiglio Generale, come allora chiamavasi, e riconvocati i Collegi elettorali, il Governo democratico nel dubbio di non aver favorevole il giudizio popolare, avea lasciato che in Firenze, in Pisa e in altre parti del Granducato il giorno delle elezioni si tumultuasse, si spezzassero le urne e fossero messi in fuga gli elettori dalla plebaglia eccitata. In sì triste modo si chiudeva il 1848, quell'anno di tante speranze, di tante prove, di tante sciagure. Il risorgimento italiano, cui l'elezione di Giovanni Mastai a Pontefice aveva dato come il suggello della giustizia divina, si era arrestato, ma non per sempre. Se al principio del 1848 era esso una fede nella coscienza del popolo, al cader di quell'anno fortunoso non era per altro che un debole ricordo di un sogno svanito. La speranza, non che spenta, era resa anzi più viva per l'ammaestramento che ci veniva dagli errori commessi. Se il 1848 aveva strappato dalle nostre mani inesperte le sorti della patria, le vegliava un destino benevolo. Gli errori del popolo le avevano compromesse, gli errori del principato dovevano prepararne la grande riscossa. Se Pio IX, se Leopoldo di Lorena si involavano, e con ragione, alla tirannia della piazza, era il fato benevolo dell'Italia, che doveva spingerli a rifugiarsi presso il Borbone sotto le ali tristamente tutelari dell'Aquila austriaca. Era il fato benevolo dell'Italia, che doveva nella tenebrosa fucina di Gaeta far preparare la violazione dei patti giurati, e la chiamata delle armi straniere sopra i popoli ancor fedeli della Toscana. Era il fato benevolo dell'Italia, che doveva offrire a noi medesimi, che avevamo errato, l'occasione della riscossa. Era il fato benevolo dell'Italia, che invece di un Papa, liberale senza saperlo, doveva darci in Vittorio Emanuele un Re Galantuomo, e far dello Statuto Sabaudo il gran faro cui potessero rivolgersi tutti i cuori e tutte le menti degli italiani. Era il fato benevolo dell'Italia, che doveva con gli errori del Granduca ravvivare il sentimento dell'unità nazionale, sopito ma non spento, nel popolo toscano, e dare a questo la fermezza di volontà e la temperanza di modi, che più tardi lo avrebbe fatto appellare un popolo di diplomatici, che sotto la guida salda e robusta del Ricasoli, avrebbe potuto render vani i patti di Villafranca, i suggerimenti amichevoli, gli autorevoli consigli delle potenze straniere, e, spezzando la propria corona, dare il primo e il più forte cemento all'unità della patria! Il vaticinio del poeta toscano si avverò: furono lacerate all'Italia Le molteplici bende Onde gelida a lei _correa_ la vita. Il generoso disegno fu opera grande e fortunatamente compiuta. Dopo lungo servaggio alzata a regno l'Italia fu libera, fu indipendente, fu una. Possa la mente del popolo non ricadere sotto il fàscino di coloro, i quali, negando persino il sublime affetto di patria, non aborrono dal gridar _viva_ ai nemici di lei, di coloro che saranno sempre, come nel 1848, causa non dubbia di grandi sciagure; possano gli errori d'allora essere a tutti di un ammaestramento costante; e l'Italia, ricostituita in nazione, per virtù di Re e di Popolo, possa per virtù di Popolo e di Re serbarsi grande e potente! INDICE Pio IX e Pellegrino Rossi Pag. 5 I moti di Napoli del 1848 57 La Sicilia e la rivoluzione 113 I moti toscani del 1847 e 1848: loro cause ed effetti 137 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1846-1849), PARTE 3 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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