The Project Gutenberg eBook of Il Falco (Cronaca del 1796) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il Falco (Cronaca del 1796) Author: Alessandro Varaldo Release date: October 23, 2016 [eBook #53350] Most recently updated: October 23, 2024 Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL FALCO (CRONACA DEL 1796) *** ALESSANDRO VARALDO LA MAREA IL FALCO (CRONACA DEL 1796) MILANO — ROMA EDIZIONI A. MONDADORI _PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA_ _I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda_ * _Copyright by Alessandro Varaldo_ 1922 IV. MIGLIAIO A DARIO NICCODEMI A. V. _Tum meae (si quid loquar audiendum)_ _Vocis accedet BONA PARS; et, «o Sol_ _Pulcher! o laudande!» canam, recepto_ _Caesare felix._ ORAZIO — _Carm._ IV, 2 PREFAZIONE “Multa incredibilia vera, multa credibilia falsa”. Frequentez vous les bouquinistes? _Queste parole, di colore forse oscuro per la comune dei lettori mi apparvero all'aprir che feci un volumetto attinto in una cassetta di rivenditor di libri usati._ _Amo i viaggi di avanscoperta nelle bottegucce buie spesso e ingombre e impregnate di quel caratteristico odor di muffa dei vecchi libri, bottegucce pudicamente celate in vecchie strade, o nel doppio fondo ermetico dei cortili: amo tuffar le mani fra le cartapecore spesso taglienti, le pelli umide e i fogli molli, macchiati le più volte di quella specie di giallume lebbroso, che si è convenuto di chiamar il mal sottile dei libri. È fra i diletti più cari non d'un sapiente — che monsignor Gesù ne scampi! — ma di un curioso di sapienza, chè il libro è tutto, poichè tutto racchiude e compendia. Ora appunto questo viaggio nelle bottegucce dei rivenditor di libri usati si chiama bouquiner, secondo il grande dizionario dell'Accademia Francese, riassunto da un curioso amante di libri, Carlo Nodier, bibliotecario dell'Arsenale e accademico, in un vocabolario manuale che i fratelli Firmin Didot, librai editori, divulgarono:_ Bouquiner — chercher de vieux livres, des livres d'occasion; Bouquineur — celui qui aime à bouquiner; Bouquiniste — celui qui achète et revend des vieux livres. _Comprenderete adesso perchè quelle parole di colore oscuro — forse — mi fermarono. Scossi lo strato di polvere veneranda, che ammantava il libercolo, maneggiandolo alla marinara, sottovento, perchè la polvere non coprisse me, che rispetto la vecchiaia sì, ma senza entusiasmo quando si tratti di strati polverizzati di ragnatele annose. Nel battere il volume, delicatamente, vi prego di crederlo, ne sbirciai il frontespizio._ “Les Francs — Taupins — Histoire du temps de Charles VII, 1440, par P. L. Jacob Bibliophile, membre de toutes les Académies”. _L'edizione era del Meline di Bruxelles, formato piccolo, ornata sulle due copertine d'una vignetta rappresentante un _beffroi_. Se ne trovano ancora di tali volumi qualche volta: apparvero in lunga serie e compresero tutto il movimento romantico dopo il Renduel e il Gosselin: caratteri precisi, nel gusto gotico, curati fino allo scrupolo: chi sa che magnifici principeschi correttori di bozze in quel tempo!_ _Il bibliofilo Jacob — al secolo P. L. Lacroix — fu in quel fiorire del romanticismo un paziente studioso, intabarrato d'artista: l'opera sua non ha il valore della _Cronaca di Carlo IX_, o di _Cinq-Mars_, di _Nostra Signora di Parigi_ e nemmeno di _Isabella di Baviera_. Ma come fedeltà pittoresca le sorpassa ancora, forse. Preso a modello Walter Scott, si diè cura di ambientare e di arredare i suoi racconti (probabilmente il Manzoni nel creare la sua teoria lo ricordò spesso) con una precisione di particolari (come fra noi, cinquant'anni dopo, l'ingiustamente dimenticato Edoardo Calandra) che raggiungevano la meticolosità. Oggi ad esempio cambia ad ogni stagione la moda: in allora — prendiamo il 1440 — mutava secondo il capriccio di un principe o di una gran dama che possedesse qualche pizzico di fantasia; e non la moda soltanto delle vesti, ma delle armi, dell'else, e delle iscrizioni sulle lame, dei gioielli, de' bei modi di società, di quanto insomma aveva attinenza alla persona. Forse un gentiluomo campagnolo poteva nel 1446 portare pugnale con impugnatura borchiata ad aspra invenzione d'orafo peregrino del 1435: non era ammissibile che un cortigiano la ostentasse. Descrivere in modo sommario un abbigliamento, una corazza, un giustacuore ricamato, l'equipaggiamento di una cavalcatura non era permesso: la fedeltà storica e l'amore del pittoresco non lo permettevano. Vediamo a prova, fra noi, come Tomaso Grossi fa parlare un armaiuolo, e come il dottor Carlo Varese descrive un cavaliere italiano errante al tempo di Marignano. Ma io vi parlavo dei _Francs-Taupins_ e del Bibliofilo Jacob: orbene credete che non me ne allontano._ _Spolverato il volume l'aprii, ed ecco a inchiodarmi curioso una prefazione: _L'histoire et le roman historique_. Naturalmente l'autore parla di Walter Scott: ed è naturale. Al principio del secolo scorso il grande romanziere scozzese ha esercitato un'enorme influenza nella letteratura europea e nord-americana. Si può dire che l'ha dominata. E dichiariamolo subito: influenza benefica, salvataggio, rinnovazione, resurrezione: Walter Scott, fu, si può dire, il Cristo della letteratura._ _La dominazione d'un'idea in un'epoca non è mai duplice: quando prevale la politica decade la letteraria. Napoleone è l'esempio tipico. Rotto l'impero della forza fisica ecco risorgere quello della forza intellettuale._ _La Francia non è mai rifiorita letterariamente come dopo una disfatta: ad esempio dopo il '70. Ed a maggior ragione vinto l'impero e distrutto, fiorisce il romanticismo che fu, si può dire, la salvezza della letteratura non soltanto francese. Walter Scott dominò così da capitanare discepoli come Balzac (se ne vanta lo stesso autore degli _Chouans_: vedi _Illusioni Perdute_) come Hugo, come Dumas, come Merimée, come il Barante, lo storico dei duchi di Borgogna, e come il nostro bibliofilo Jacob, astro minore artisticamente, stella di prima grandezza come coscienza d'antiquario, e fedeltà di particolari cronologici. Influenza benefica ripeto, poichè il romanziere, che prendeva a maestro lo scozzese, imparava due grandi verità che ogni scrittore, il quale pretenda raccontare, dovrebbe avere impresse dinanzi agli occhi: la coscienza dei particolari, l'ausilio della fantasia._ _Ed eccoci all'Assente._ _Parlo della Fantasia._ _La miseria letteraria d'oggigiorno, e l'Italia in fatto di miseria letteraria non ischerza, è dovuta all'Assente, a Madonna Fantasia, la decima musa, che s'è chiusa nella torre d'avorio, sdegnosamente, regale fuoruscita, e senza la quale purtroppo, non c'è salvezza! Oggi non si sa più raccontare._ _Il male francese del naturalismo ha tutto infestato. L'esempio deleterio di Emilio Zola ha tutto inquinato. Si bandì la crociata contro la fantasia. Il romanziere non ha che da guardarsi intorno, e descrivere quello che vede. È un escursionista munito di Kodak. Non si costruisce più il romanzo, basta incominciarlo, introdurre due o tre personaggi, farli parlare e qualche volta muovere, infilzare cronaca spicciola su cronaca spicciola, sommariamente, e qualche volta sbadigliare sopra una teoria politica o sociale malamente digerita o annusata su qualche articolo di fondo._ _Il giorno infausto in cui Emilio Zola aprì il famoso libro di Claudio Bernard, fonte di tutta la sua sapienza e si pompeggiò, come d'un vestito da veglione, della teoria determinista e _si documentò_, la strada facilona fu aperta. Che divennero la minuziosa ricerca di Gustavo Flaubert _(sono le minuzie che fanno la perfezione, diceva Michelangelo)_, la precisione e la proprietà dei Goncourt, ed il colore di Alfonso Daudet, davanti alle centomila copie _dell'Assommoir_? Madonna Fantasia fu scacciata come una serva infedele. Ed il pontefice del naturalismo (?) poteva scrivere in uno degli articoli che periodicamente mandava a un giornale russo, _Le Messager de l'Europe_, articoli raccolti poi nel volume _Les romanciers naturalistes_, queste parole di cui non si sa se lamentare più l'ignoranza o l'impudenza _“Ce qui je saisis moins c'est la profonde admiration de Balzac pour Walter Scott.... Il est très curieux de voir le fondateur du roman naturaliste (?) se passionner ainsi pour l'écrivain bourgeois, qui a traité l'histoire en romance. Walter Scott n'est qu'un arrangeur habile...”__ _Come del resto poteva comprendere una passione, o semplicemente un entusiasmo di Balzac, il naturalista (?) Emilio Zola?_ _Il male fu che la foga bruta iconoclasta prese la letteratura, che trovò una così facile strada aperta: la composizione del romanzo come un muro a secco, o meglio come un terrapieno od uno sterro in cui non si sa quello che si mette o dove si mette tutto quello che capita sottomano._ _La fantasia fu così bandita, come può essere bandita la moneta d'oro da chi non possiede che la valuta cartacea._ _Il perchè è semplice._ _Chi possiede il dono meraviglioso della fantasia è un narratore per eccellenza, narratore come Schahrazade, come i poeti epici da Omero all'Ariosto, come i novellieri nostri di Toscana, come Walter Scott. È colui che nel canto del fuoco intrattiene fino a tarda notte, finchè non siano spente le ultime braci e consumati i rami resinosi negli anelli, corti principesche o veglie di popolo: chi possiede la fantasia sa costrurre un edificio di racconto senza annoiar mai, ma tenendo ben desta e vigile e fresca l'attenzione anche — e specialmente — se descrive una contrada o un mobile o un manto o un'elsa o uno strumento: chi possiede la fantasia fa vivere verbalmente e non si accontenta d'accatastar marionette di gesso o di fango sopra un'asse mal sicura: chi possiede la fantasia insomma è colui che solo ha diritto di narrare e di essere ascoltato._ _Ecco perchè Onorato di Balzac, signore della Fantasia, si inchinava a Walter Scott ed ecco perchè il marionettista da fiera che si inorgogliva d'una coltura occasionale fatta sopra un libro mal compreso di Claudio Bernard non lo poteva capire. Ma chi possiede la fantasia è un gran signore e non si accontenta di una facile vittoria sopra un borgo di villani: va in Terrasanta, nel regno del Prete Gianni, e piange quando sente che non potrà conquistar la luna. Ma chi possiede la fantasia ama il pittoresco e costruisce pittorescamente, e narra con tutte le risorse che la decima musa gli fornisce._ _Ma chi possiede la decima musa osserva l'undicesimo comandamento: non annoiare._ _Dov'è oggi? Ahimè! oggi la Fantasia è assente._ _Parlo dell'Italia, chè gli scrittori Inglesi e un nuovo manipolo di francesi, oggi se ne gloriano. Ed Eça de Queiroz, oggi, basta ad illuminare una nazione che par brancolare nel buio, soltanto perchè agita la face della fantasia._ * * * _Siamo lontani, non è vero dal Bibliofilo Jacob? Forse. Ne siamo lontani se ci frulla per il capo d'aprire un libro, oggi, un libro italiano. Pare che gli scrittori montino in cattedra e si camuffino da retori politici, o da predicatori sociali. Si gonfiano, rane di Esopo, convinti di avere una missione morale: vogliono esser detti gli storici del costume, i cronisti dell'evoluzione, piccoli Villani che vantano una ricchezza culturale da banchieri del dopoguerra e credono in buona pace d'aver qualche cosa da dire per salvare, o ammaestrare o indirizzare l'umanità. Per conto mio ripeto un verso di Alfredo De Musset:_ Il mio bicchiere è piccolo ma io bevo nel mio bicchiere. _Voglio raccontare solamente, semplicemente, come la bella tradizione nostrana mi ha mostrato da messer Giovanni Boccaccio ad Alessandro Manzoni, voglio raccontare come se parlassi a una comitiva da tener desta, voglio raccontare avendo per divisa l'undecimo comandamento, raccogliendo le belle memorie della mia terra e porgendole all'orecchio del benigno lettore: Me lo insegnò messer Torquato:_ .................. asperso di soave liquor l'orlo del vaso _Ed avrò dinanzi per esempio fedele i narratori felici, che, pur minuziosamente descrivendo luoghi cose e persone, hanno allietato generazioni intere, compagni ed amici inestimabili e cari, sempre vivi, poichè non si vive che nella gratitudine di chi resta._ _Ed ogni mattina al sorgere del sole nel sedermi al mio tavolo da lavoro con gioia, eleverò una preghiera all'Assente, perchè sia Presente._ Milano, Aprile del 1922. PROLOGO CRONACA DEL 1794 L'anno 1794, cominciato con una crescente agitazione sul litorale e per le vallate, avea ridotta la città di Ventimiglia ad una pericolosa anarchia. Le riforme e le vittorie della grande rivoluzione, la fuga del Re di Piemonte, le contese dei partiti nobiliari, che si disputavano le redini della città, apersero un adito a quel borghese vento di Fronda, ringagliardito dal concorso popolare, che, in modo tanto irruento, distrusse o trascinò, abbattè o domò, quanto si opponeva al suo cammino. Le guerre di successione avevano esaurito quello che una libertà comunale ed una dominazione di ferro s'erano studiate d'accumular di resistenza e di orgoglio: un Governo borghese di Magnifici finì per distruggere l'orma, forse feudale, ma potente, d'una gloriosa autonomia. Sicchè alle prime avvisaglie della rivoluzione e della discesa del generale Massena, coloro, che i nobili sprezzantemente chiamavano la canaglia, drizzarono l'albero della libertà sormontato dal berretto frigio, ed obbligarono le più nobili dame a ballarvi intorno. Pochi si ribellarono ai santi diritti di ballo del popolo: tre soltanto resistettero e furono il conte Luca Lascaris, il nobile Camillo Altariva, ed il duca Almerico di Nervia. Abitavano i castelli aviti posti fra Mentone e Bordighera ove si asserragliarono da prima con forse duecento partigiani, sperando con una guerriglia di opporsi all'invasione sul litorale, come l'imprendibile fortezza di Saorgio si sarebbe opposta fra le prealpi. Subito le intenzioni dei nobili signori parvero mirabilmente riuscire: la città cedette ed il generale Arena si ritirò senza aver ottenuto il chiesto passaggio libero per l'esercito della Repubblica. Ma il pericolo maggiore di Massena si avvicinava con troppa celerità: L'Altariva che aveva ottenuto il comando in capo dei insorti, fece distruggere un lungo tratto della via della Cornice, per impedire il transito delle pesanti artiglierie francesi e poi, lasciando che la città si disbrigasse come poteva meglio, sicuro di Saorgio difesa dal Saint-Amour, si ritirò a seguitare le ostilità sullo sbocco della vallata del Nervia. La sera del sei di Aprile, che incombeva triste e nuvolosa e pesante sulle colline e sul mare, lo sorprese accampato sopra uno sprone di collina, alle porte del comune di Camporosso, che si sospettava di fellonia e ch'era necessario sorvegliare. Nell'attendamento non si udiva alcun rumore: le scolte vegliavano ed i fuochi erano spenti. Camillo Altariva giaceva per terra avvolto in un ampio mantello: era a testa scoperta e s'appoggiava al cubito. Non si distinguevano per il crepuscolo bigio che gli occhi lucenti e grifagni e l'impugnatura d'oro della spada. Il Nervia tranquillamente russava coperto pure da un mantello. Presso di lui, seduto sopra un tamburo, il conte Luca Lascaris, esile e fine come una giovinetta, elegantemente vestito di un abito a coda attillato e di calzoni di pelle bianca, intrecciava sul cappello rotondo un nastro d'oro che dovea sostenere la coccarda bianca della reazione. Calzava stivaloni lucidi dalle risvolte bianche e portava gli speroni d'oro. L'alto colletto, avvolto con più d'un giro dalla cravatta ampia di merletto, usciva da un panciotto ricamato, sotto il quale spuntava il calcio d'argento d'una lunga pistola. Piccole mani e piccoli piedi e spiovente capigliatura: pareva una travestita eroina cavalleresca. Taceva assorto nella sua frivola occupazione di personalità del mondo elegante, come se fosse dietro un paravento presso la bella marchesa di Spigno, per la quale si diceva sospirasse in segreto. Si prolungava il silenzio: non giungeva che a quando a quando il rumore volontario che facevano le scolte urtando fucile e spada per provar più a sè stesse che agli altri di vigilare. Ad un tratto sotto la collina, fra gli ulivi, per ben tre volte si udì, troncato subito, il grido riconoscibile della civetta. Un soldato che giaceva presso il Nervia alzò il capo destandolo col movimento lieve ed ascoltò: poi ad un cenno dell'Altariva, allo stesso modo rispose tre volte. I tre signori s'erano alzati ed attendevano: così, di fronte, una differenza notevole appariva fra di loro: per quanto d'effeminato, di delicato, di fragile mostrava il Lascaris, altrettanto di robustezza di forza e di fierezza risaltava dall'Altariva e dal Nervia. Il secondo pareva padre del primo ed aveva forse qualche anno di meno. Come il canto della civetta si ripetè per tre volte ancora, avanzarono fino ad un breve spianato che finiva la collina ed attesero. Una mano di cavalieri che saliva lo sprone a briglia sciolta si fermò ad un comando e colui che li precedeva, uno scherano del Nervia, chiamato il Seborga, s'inchinò profondamente gridando: — Per il Re! L'Altariva ed il Lascaris a mezza voce risposero: — Per il Re! Ed il Nervia interrogò invece: — Che notizie porti? — Cattive, signor duca — rispose il Seborga. — Che ti caschi la lingua!.... — incominciò i Lascaris. Ma l'Altariva lo interruppe: — Conte, le brutte notizie ci sono state sempre compagne da che la guerra ebbe principio: non può esser colpa del Seborga se continuano. — Sicuro che la colpa non è mia, signore, ed il signor duca mio padrone sa che sono abituato a guardare il fuoco nemico. Così tutti avessero fatto sempre come me. — E chi non l'ha fatto? — domandò il Lascaris. — Saint-Amour, signor conte. — Saint-Amour? — Posso giurarlo. Il generale Massena girando la città si mostrò all'improvviso davanti a Saorgio, senza che potessero giocar le nostre artiglierie: Saorgio è francese e la strada è libera per Massena. Il comandante Saint-Amour non ebbe neppur gli onori delle armi. Nessuno fiatò: i soldati cercarono i rosari. — Ma non c'era che un sentiero — mormorò il Nervia — qualcuno dunque li guidò? — Sì, padrone — rispose il Seborga — qualcuno che abbiamo colto con le mani nel sacco. — Ah! ah! Prigionieri? L'Altariva ch'era rimasto sopra pensieri interloquì. — Se le notizie del Seborga sono vere, noi siamo perduti. E non possiamo dubitare delle sue parole. Massena sarà padrone della vallata domani, forse questa notte. Non ci rimane che una via di scampo: il mare e il rifugio in Sardegna. — Ma la città? — gridò il Lascaris. — La città non fugge. Ritorneremo. Saltò in sella e tutti l'imitarono. — Incendiate il bosco! — brevemente ordinò. Alcuni uomini l'obbedirono. — Ma i prigionieri? — fece osservare il Seborga. — Legateli ad un albero, morranno di fame. — Ed arrostiranno graziosamente — aggiunse il Nervia lisciando mollemente la criniera del cavallo. — Non li volete interrogare, signore? — A che pro? Non hai detto di averli trovati con le mani nel sacco? — Sicuro — confermò il Seborga — si vantavano di avere insegnato il valico agli azzurri e avevano centomila franchi d'assegnati nelle tasche. — Dunque basta, legali ad un albero! S'avanzarono due cavalieri che portavano in groppa ciascuno un corpo legato: scaricati e sciolti, apparvero una vecchia e un fanciullo, che si gettarono in ginocchio appena liberi. La vecchia donna potè appena articolare la parola pietà che il fanciullo cadde all'indietro come un cencio. Allora si gettò sul piccolo corpo con un grido rauco. — Non abbiamo fatto nulla, ve lo giuro, per la Madonna benedetta di Lampedusa. Due soldati ci hanno chiesto per dove si passava e l'abbiamo indicato a quei poveri giovani morti di freddo. Non è far del male indicare una strada, miei buoni signori! Mentre parlava pensò forse al denaro che le avevano sequestrato: lo credette ingente e n'ebbe paura. Vedeva due soldati spogliare il tronco d'un olivo: temette di dover essere impiccata. Raddoppiò gli urli della rauca voce stanca. — Pietà! Pietà! S'accorse di non essere ascoltata: si trascinò presso il Lascaris e gli abbracciò le ginocchia. — Se abbiamo fatto del male è mia la colpa, solamente mia: salvate il ragazzo ch'è innocente, ve lo giuro, che non mostrò la strada ai soldati. Sono io che li accompagnai. È così giovane, mio buon signore, ed è così duro morire quando si è giovani! È innocente come Nostro Signore sulla Croce. Non importa se mi farete morire; io sono vecchia.... — Taci, strega! — mormorò un soldato respingendola col calcio del fucile. Ma gettò un urlo di dolore alla scudisciata del Lascaris, che s'intromise: — Siamo gentiluomini, Altariva, siamo cristiani, Nervia! Perchè incrudelire sopra una vecchia e un bimbo? La donna indovinò l'aiuto. — Ah! mio buon signore, che la Madonna vi tenga la sua santa mano sul capo. — Lascaris — gli rispose a mezza voce l'Altariva — pensa che i francesi domani saccheggieranno il tuo castello, che i tuoi furono obbligati a fuggire in esilio.... Non finì, chè l'altro senza più far parola, bruscamente, con una strappata di briglia sparve di galoppo dall'altura. E per lungo tempo udì ancora gli urli della donna, che bastavano soli a destar nella notte illune gli echi della vallata. Poi non li udì più, con le proprie orecchie, ma sibbene attraverso la voce del Nervia che bestemmiava: — Per la croce di Dio! Mettetele il bavaglio! E allora gli giunse l'imprecazione: — Maledetti!.... Maledetti i vostri figli!... Non altro. Rabbrividì, mentre il bosco parve d'un tratto una sola fiamma. Un sordo galoppo lo seguì. L'Altariva e il Nervia giungevano a briglia sciolta con i soldati. — Che ha urlato? — chiese ai sopraggiunti il Lascaris con la voce un po' incerta. L'Altariva ebbe la parola tronca da un tremito. — Lasciate, conte: è cornacchia, e conviene che gracchi. A sua volta il Nervia mormorò: — Forse era meglio un colpo di pistola, ma la polvere è preziosa. L'Altariva arrestò d'improvviso il cavallo. — Seborga, fa suonar la sosta! I soldati si fermarono. — Nervia, Lascaris, conviene dividerci. Io tenterò di rientrare in città: per voi la salvezza del mare. Non ribellatevi, voglio così; mi avete giurato obbedienza. La piccola truppa si divise in due silenziosamente: i tre gentiluomini si abbracciarono. — Chiunque di noi, amici — continuò l'Altariva — giungerà salvo dal Re, gli ricordi che fummo fedeli sino alla morte. Addio! S'alzarono tre possenti gridi che la vallata accolse con gli echi sonori. — Altariva, per il Re! — Lascaris, per il Re! — Nervia, per il Re! E sparvero nella notte. Il sonito ferrato dei cavalli, il rumore delle armi urtate sopravvissero ancora, poi s'allontanarono, tacquero. Il silenzio riprese possesso della notte per la vallata. Solo brillava l'incendio come un faro. CRONACA DEL 1796 I. Uscita dalla piccola città la cavalcata si radunò sul breve piazzale dominante la discesa ripida verso il mare. Comandava Emanuele Embriaco, fuoruscito genovese, che s'era voluta concedere la voluttà d'attraversare terre interdette. Disceso dalla vallata del Nervia con i sessanta uomini concessigli dal marchese di Spigno aveva, non per solo capriccio di condottiere avventuroso, impunemente bravata la guarnigione di Ventimiglia, chiedendo il salvacondotto per oltrepassare, col pretesto di dover riconoscere le terre a settentrione sulla catena che costeggia il Roia ed adempiere un incarico della Repubblica segretamente ostile al Re di Piemonte. Il comandante della città, vecchio soldato, che di raggiri poco s'intendeva, benchè avesse qualche mese prima fatto bandire il premio vistoso di cento lire non genovesi a chi vivo o morto riuscisse a consegnare l'Embriaco, abboccò all'amo e discese in persona sino a metà del ponte per incontrar l'avventuriere col quale s'intrattenne amichevolmente. Lo volle ospite anche nella sua casa e gli donò un bel pugnale con le borchie d'argento che l'Embriaco galantemente gli contraccambiò con una scatola di guanti profumati per la signorina sua figlia, donna Chiara, sospiro di innumerevoli provinciali. Ed alla porta della città il comandante con molti inchini s'era accomiatato dall'ospite senza menomamente sospettare d'aver avuto in mano per quasi tutto un pomeriggio quel bandito che a Genova continuavano a credere nelle terre di Ventimiglia e contro il quale riceveva di continuo raccomandazioni di vigilare sui dintorni e per le vallate. Il sole discendeva quietamente dietro il monte di Roccabruna, quando i sessanta uomini dell'Embriaco sotto gli ordini di Bracciodiferro e del Ricciuto, luogotenenti, si disposero su quattro file ed attesero l'ordine di cominciar l'ascesa. Emanuele Embriaco robusto gentiluomo di mezza età, dai capegli tutti neri ancora e dal viso aperto ed infuocato, ritto sulle staffe, sollevando la spada, fissò la porta, che si richiudeva, con un sorriso di scherno e salutò ancora il Comandante che dal poggiolo amichevolmente cennava. Poi comandò la marcia con la abitual voce imperiosa, brevemente. E seguì il drappello. Uomini abbronzati dai volti bestiali e dagli sguardi feroci facevano parte della squadra scelta di Bracciodiferro, vecchio bravo del marchese di Spigno: salvati più volte dal capestro e dalle galere, gli ubbidivano ciecamente e lo seguivano con una fedeltà degna di eroi. Le casacche di cuoio greggio, i larghi cinturoni di pelle, bianca una volta, gli stivali informi ed i cappellacci usati dalle intemperie attestavano poco della eleganza; ma l'uomo di guerra sùbito appariva dalle armi. Il moschetto, la spada lunga, le pistole, il coltellaccio da lupi, tutto quanto era arnese di guerra, si mostrava accuratamente forbito, lucido, quasi prova d'un'informe civetteria d'amanti: le borchie risaltavano, le canne luccicavano, le lame risplendevano: gli ottoni dei foderi pareano d'oro. I diciotto sottoposti di Bracciodiferro compivano dunque una degna corona al loro capo. Breve, tarchiato, nerboruto, dalle corte gambe, ma dalle braccia lunghe, lo scherano dell'accorto marchese di Spigno, tra i suoi uomini, anche da chi ne ignorava il grado, non poteva che essere creduto il capo. Le mani sgraziate ma possenti, dalle dita erculee, mancavano accuratamente di tutte le unghie, che gli erano state strappate dalla tortura quando, ai soldi meschini di un nobile di Lunigiana, aveva dato l'assalto ad un villaggio, non lasciando pietra su pietra. Il suo padrone s'era fatto in quattro per salvarlo, ma la Repubblica genovese inflessibilmente s'era imposta, e poichè Bracciodiferro non aveva menzionato complici o mandanti (si supponeva nel Fregoso padrone di Molasso l'incitatore) la tortura l'aveva conciato in tal modo, con qualche tratto di corda per compenso, da credere di guarirlo moralmente per sempre. Curato, rimase per qualche anno prigioniero in un castellaccio presso Novi che restò, dopo un lungo processo, di proprietà del marchese di Spigno, il quale s'intendeva d'uomini e di guerriglie come un condottiere o meglio un politico del seicento. Bracciodiferro cominciò ad impietosire la marchesa Fiorina, e poichè, alla giovine sposa il vecchio marchese nulla negava, il prigioniero liberato fu ammesso agli stipendi grassi del marchesato. In poco tempo se ne mostrò riconoscente e fu elevato di grado, finchè, al comando d'una squadra un bel giorno si trovò a seguir le sorti dell'Embriaco. Al contrario di Bracciodiferro, il Ricciuto non era uomo di guerra, ma chierico fuggito da un complicato affare di donne che egli attribuiva al suo cattivo destino. Esile, biondo, pallido, vestito con ricercatezza di velluto nero, con guanti di pelle nera e con una spada signorile, il Ricciuto comandava negligentemente venti soldati dell'esercito regolare del Re di Piemonte che appartenevano al presidio della Ferania. Potea vantare il grado onorifico di maresciallo d'alloggio ma non vestiva l'uniforme, perchè distaccato in permanenza al marchesato. Bracciodiferro aveva il viso attraversato da un colpo di spada, il Ricciuto l'aveva adornato da un civettuolo neo biondo in fondo alla guancia sinistra. Tutti e due nella rabbia arrossavano i loro particolari contrassegni: il primo sentiva diventar vermiglia l'ampia cicatrice, il secondo la pelle tesa intorno al neo ricciuto, che gli aveva dato il soprannome. Entrambi però d'un coraggio consono al tempo eroico e turbinoso in cui si svolgeva la loro vita avventurosa. Nel salire il declivio incolto della collina indifferentemente stavano a capo degli uomini che loro appartenevano, e badavano a dirigere la cavalcatura tra i cespugli e le roccie ingombranti il sentiero appena tracciato sino ad un fortino di brutta apparenza. Veniva ultimo l'Embriaco soprapensieri. Dominò il silenzio nella comitiva sino al primo ciglione di muro a secco oltre il quale una breve piazzetta preludiava altre trincee del forte, che s'alzava minaccioso e torvo sulle loro teste. Ma l'Embriaco non dubitava di poterlo oltrepassare con l'astuzia usata in città, astuzia che gli aveva procacciato un salvacondotto in piena regola. Quando adunque sulla piazzetta le cavalcature dei due luogotenenti si fermarono ed i soldati poggiarono a terra i moschetti, egli tolse dalla tasca d'arcione il foglio e l'infilò sulla baionetta del soldato che aveva più vicino. — Ricciuto — disse — portati con quattro uomini a chiedere il passaggio. Il comandato obbedì senza parola, benchè sembrasse stupito che un fortino tanto minaccioso in apparenza, non avesse neppure l'indizio d'una sentinella avanzata che annunciasse un arrivo d'armati. Ma riflettendo, che con tutta probabilità il Comandante di Ventimiglia poteva aver già dato gli ordini opportuni per mezzo del passaggio segreto che senza dubbio doveva unire il forte alla città, sparve nelle trincee con gli uomini. L'Embriaco rimasto nello spiazzo libero conquistato, guardava la collina che declinava al mare con una ripida scesa e la città ineguale che distendeva sino al Roia le case nere e la geometrica riga delle mura chiazzate di muschio e lucenti d'artiglierie. Vedeva al di là del fiume una pianura verdeggiante di canneti e di strami, poi la linea d'argento del torrente Nervia, poi del verde più rado contornato da roccie crude, poi sulla punta nel mare Bordighera inerpicata e raccolta come un alveare. Prima, al di là di Ventimiglia, i monti ripidi e bui delle Maure, dalla folta e selvaggia chioma di pini e di quercie secolari, spiegavano quasi una spalliera misteriosa alla città. Oltre il declivio di sterpi e di assi, il mare deserto sino all'ultimo orizzonte: il sole che tramontava parea delineare degli strati vermigli e turchini con dei toni lattei, dei riflessi d'agata, degli opachi luccichii d'onice sull'infinita distesa tranquilla, che il cielo d'un tenero perla a poco a poco nel lontano inchinante al grigio limitava tangibilmente. — Ritornano — mormorò Bracciodiferro, tirando a sè le redini con un moto brusco abituale, per far sì che il cavallo si scuotesse impennandosi, e s'accingesse al nuovo cammino. L'Embriaco volse il capo, tranquillo in viso, ma poco sicuro dentro di sè. Ritornava infatti il Ricciuto, lentamente e si teneva all'indietro del cavallo che discendeva con isforzo il ciglione montano. Lo precedevano sparsamente i quattro uomini, uno dei quali portava sempre infilato sulla baionetta il salvacondotto. — La strada è libera, monsignore — gridò il pallido luogotenente. — Avanti dunque, — comandò l'Embriaco agli uomini che l'attorniavano. E pensò: — Prudenza ad ogni modo. Salirono ancora. Il sentiero che s'inerpicava tra le roccie ed i terrapieni, malagevolmente nascondeva alla vista il forte. Lo scoprirono d'un tratto allorchè vi furono dappresso e doveano passare quasi rasentandolo. Andavano a gruppi dispersi progredendo come potevano per le asperità del cammino: veniva ultimo il condottiero. Al di là del forte continuava il ciglio estremo della collina che s'univa ad una seconda poi ad una terza finchè non apparivano le grandi torri d'un castello feudale adorno d'un'ampia bandiera svettante al vento del crepuscolo. Emanuele Embriaco guardava quel castello, quando quasi senza accorgersene, oltrepassò un corpo di guardia, munito d'una specie di postierla, il cui selciato risuonò sotto i passi dei cavalli. S'udì nell'interno un sùbito comando: — Fuoco! Rispose un grido d'allarme. E sibilarono proiettili nell'aria. II. Prima però che l'Embriaco avesse potuto rendersi conto di ciò che succedeva, una voce forte e risoluta che giungeva dall'altro versante della breve collina, gridò: — Olà del forte! Olà del forte! Il fuoco cessò come per incanto, senza aver fatto alcuna vittima e l'Embriaco, non ancora uscito dallo stupore, stava per inviare il Ricciuto a chiedere la ragione della brusca accoglienza, quando apparve una cavalcata elegante, quantunque poco numerosa, a varcare il ciglio estremo risolutamente. La capitanava un'amazzone di età dubbia, fortemente conformata, che domava uno stallone bianco di meravigliosa bellezza. La donna vestiva d'un panno marrone chiaro con ricami d'argento e di seta nera, e portava sui capegli quasi grigi un ampio cappello a falde larghe d'un feltro pure marrone, sormontato da una piuma nera. La seguivano due dame d'inferior condizione e due scudieri disarmati. Avanzò scuotendo lo scudiscio, mostrando l'ira che le accendeva la faccia risoluta e le faceva balenar lo sguardo imperioso. D'un solo balzo lo stallone raggiunse la vetta del colle da quel ciglione ove era apparso e fece risuonare sotto le zampe ferrate le selci dure e gli echi dell'archivolto. — Dov'è il Comandante? Chiamatemi il Comandante! Al silenzio, che il primo grido mandato dalla signora aveva imposto, era succeduto un sussurrio nel corpo di guardia: apparivano dalle feritoie visi di soldati sorpresi e canne di fucile, che sùbito sparivano. Si faceva notare una grande animazione ed un vocìo attenuato e contradditorio d'ordini a mala pena interpretati e sùbito repressi. Finalmente, quando già la signora, stanca della breve attesa, come colei ch'era avvezza ad essere obbedita ad un cenno, aveva fatto impennare lo stallone incitandolo a varcare un breve grado che divideva il sentiero dalla parte superiore dell'archivolto ove s'apriva il portone del fortino, le porte massiccie gravemente si schiusero ed in mezzo ai soldati apparve con la spada sguainata il Comandante. Comandava allora il castelletto un vecchio soldato della repubblica, Nicola Borzone, avanzo della guerra di successione, uomo rigido e fedele osservatore di consegne che si conosceva sotto il nome di _Senza-dio_, non perchè professasse le teorie d'ateismo che cominciavano a diventar di moda in provincia, ma perchè mancava del pollice della mano destra: _senza-dito_ quindi, ma poichè _dito_ in genovese è pronunciato _dio_, quel nomignolo, come succede spesso per nomi storpiati, era senz'altro rimasto al vecchio soldato. Nicola Senza-dio, apparso in arme sulla porta del castello, vedendo la signora che aveva spinto il cavallo sin presso allo scalino, indietreggiò arrossendo e fece un goffo inchino. Nello spingersi indietro urtò nei soldati ed il rumore di ferracci smossi violentemente sembrò assai poco gradevole allo stallone signorile, che tentò d'impennarsi di sorpresa, ma che fu sùbito ricondotto al dovere da una piccola mano che si mostrò greve sotto il guanto di sottil cuoio. — Comandante — gli chiese la donna sul cui viso l'ira splendeva ancora — da quando in qua mi si accoglie a fucilate? Mi avete presa per una vivandiera sanculotta od abbiamo una nuova armata di Spagna alla vista? Sarei curiosa di sapere che cosa ne penserebbe mio figlio se conoscesse la bella accoglienza che mi fanno i vostri soldati! Per Nostra Signora del Miracolo, non voglio ritardarmi di molto il piacere della curiosità sodisfatta. Ve la sbrigherete con lui, Comandante: siete vecchio, è vero, e lo sono io pure, ma le dame hanno diritto a ben altri madrigali che non siano di piombo come i vostri, signor mio. Intanto sappiate che io vado secondo il mio piacere e che non mi alletterebbe molto una seconda salve di gioia come quella di poco fa. Date gli ordini, ve ne prego. E fate presto! Il Borzone, rosso dalla vergogna e umiliato, si avanzò inchinandosi ancor più goffamente nel modo maldestro di chi è uso ad indossar la casacca più che gli abiti di seta, i nastri e le fibbie ingioiellate. — Signora marchesa, incominciò..... Ma l'amazzone, senza dargli il tempo di scusarsi, lo interruppe irosamente e sarcasticamente. — E mi parlate con la spada in mano, Comandante? Non sono il signor marchese de Sade io per compiacermi a certe nudità oscene di ferraccio. Nascondete codesto schidione anzi tutto e badate alle convenienze quando vi si permette di parlare ad una dama. Il Comandante ringuainò la spada: ma trovandosi libere allora le mani il suo impaccio crebbe: onde non seppe che allargare le braccia ed accorciare il collo fino ad avvicinare il mento, non troppo accuratamente sbarbato, al collare unto della casacca. — Signora Marchesa — ripetè — signora Marchesa, vi prego di scusarmi: Vostra Signoria sbaglia pensando che il fuoco dei miei soldati le fosse diretto: sono troppo vostro umile servitore e l'illustrissimo Signor Conte mi onora troppo della sua benevolenza perchè un simile pensiero mi possa neppur attraversare il capo.... — Ed allora perchè?.... Ma nel mentre la dama s'accingeva a parlare, lo stallone fece un brusco movimento di scarto e l'amazzone scorse gli uomini dell'Embriaco, fermi ed in armi, dall'altro versante del colle, a pochi metri da lei. — Per Nostra Signora del Miracolo — gridò — degli altri soldati? Ma è un agguato questo! Il Comandante si decise ad uscire dalla soglia. — Su quelli avevo dato ordine del fuoco! Il comandante di quei banditi, quel nero laggiù vestito di velluto, è il fuoruscito Emanuele Embriaco, su cui pesa una taglia della Serenissima Repubblica di Genova! L'Embriaco aveva assistito in silenzio al dialogo fra l'amazzone e il vecchio soldato: la naturale configurazione del terreno l'aveva per di più tenuto nascosto alla cavalcata ultima venuta, e la cui signora egli aveva udita chiamare Marchesa. Pensò giustamente che doveva essere la marchesa Isabella di Spigno, contessa Lascaris, madre del conte attuale a cui apparteneva il turrito castello che vedeva pompeggiare nell'azzurro chiaro del giorno morente sopra un culmine di collina a dominare la vecchia città, l'antica strada romana ed il declivio ripido al mare tra i faggi i pini e gli olivi. L'avventuriero misurò d'un tratto geniale quanto fosse precaria la posizione in cui si trovava: fuoruscito perseguitato, bandito dalla potente Repubblica, tra una città nemica posta sotto la protezione della Repubblica stessa ed un vecchio soldato di quel governo che egli aveva tentato invano di rovesciare, con pochi soldati, riconosciuto oramai, posto quasi nell'impossibilità di combattere, assolutamente di indietreggiare: a quale partito più scaltro appigliarsi dunque se non a cercare una salvaguardia in quella signora altera e sprezzante che la benigna fortuna aveva posta sulla sua strada? Per il che, fatto cenno ai suoi di non seguirlo, s'avanzò verso la dama che lo guardava stupita e, salutandola con la cortigianeria di chi è uso ad una società che non doveva esser la stessa del Borzone, fatto tre volte sventolare l'ampio cappello, e toccate della piuma nera l'aria e la strada, piegando il ginocchio così s'espresse, con voce ferma e dolce, senza tremiti nè timori, guardando con occhi pieni di una lieta meraviglia e d'una grande confidenza la cavalcatrice: — Eccellenza, illustre e bella marchesa di Spigno, contessa Lascaris di Tenda, permettete ch'io deponga ai vostri piedi l'omaggio mio personale.... Ed alzandosi poi alteramente: — .... e che vi dia novella del fratel vostro mio benamato caro ed illustre signore, il Marchese Ibleto di Spigno, che mi manda messaggero, umile per una causa grande, ma fedele per meritarmi la sua benevolenza, al figlio vostro, il glorioso conte Luca Lascaris di Tenda, che Nostra Signora del Rimedio conservi lunghi anni per l'onore della nobiltà di Liguria e l'esempio a quella di tutto il mondo. S'inginocchiò di nuovo. — Ho detto. Voglia ora l'Eccellenza Vostra darmi con benigna condiscendenza facoltà d'alzarmi e permettermi, giunti al castello dei Lascaris, che il discendente d'un patrizio genovese possa, o bella signora, vantarsi di avervi retta la staffa. Il Borzone, per quanto rude ignorante e duro soldato, si accorse che tutto il brillante parlare dell'avventuriero ad altro non mirava che a togliersi dal passo pericoloso in cui si trovava, onde, senza altro, avanzandosi fin presso all'Embriaco, stizzosamente borbottò: — Che mi va cianciando costui? Ho dalla Serenissima l'ordine di arrestarlo! Dunque si leghi! Olà! Ma la Marchesa, fiammeggiando ira dagli occhi, spinse il cavallo fra i due. — Signor Comandante, avete giurata quest'oggi la mia dannazione? Per Nostra Signora del Miracolo, volete voi questa notte, pendere a capo all'ingiù dai merli della vostra bicocca? Quando mio figlio saprà in qual modo accogliete gli ambasciatori che i suoi congiunti gli mandano, giuro per la salvezza dell'anima mia, che non vorrei trovarmi neppur vostra vicina! E come il Borzone aveva fatto il gesto d'afferrare il freno del cavallo, alzò lo scudiscio. — Olà signore, voi mi diventate pazzo? Vi ho concesso l'onore di conversar con voi e da villano ne abusate di già? V'ordino allora di lasciar libera la strada al mio seguito: mi piace di tornar al castello. — Ma è l'Embriaco! È un bandito! — mormorava ruggendo Nicola Borzone, mordendosi fino al sangue il labbro inferiore. — Fosse l'ultimo dei ribaldi, viene a me sotto il nome di mio fratello. Sgombrate! E tratte le redini si volse, incamminandosi per l'erta, seguita dall'Embriaco, discreto nella vittoria, e dai soldati del Ricciuto e dai bravi di Bracciodiferro. Nicola Borzone immobile sotto l'archivolta, vide il seguito numeroso campeggiare sullo sfondo azzurro chiaro del tramonto sereno, poi, seguendo la strada romana, che serpeggiava di vetta in vetta tra le colline, dirigersi verso il castello dei Lascaris che si stagliava cupamente illuminato da un sinistro bagliore di croco nello sfondo sotto l'egida possente del feudale gonfalone. III. La cavalcata giunse al castello dei Lascaris nell'assenza del conte Luca, uscito per la caccia. L'Embriaco fu condotto nell'appartamento destinato agli ospiti ed il Ricciuto ve lo seguì. Quando furono soli, ed il fuoruscito, spogliatosi della rude casacca e deposta la spada, si fu sdraiato in una soffice poltrona, lo scherano guardò con un sorriso di confidenza l'avventuriero e tentennò il capo. — Che hai, Ricciuto — chiese l'Embriaco — o che vuoi? — Magnifico signore, vorrei la sicurezza. — Non lo siamo forse noi sicuri? — rispose il fuoruscito osservando all'intorno le forti muraglie del castello, della cui resistenza e solidità facevano testimonianza i profondi vani delle finestre. — Vossignoria s'illude — mormorò mestamente il Ricciuto. — Affè mia, preferirei essere all'aria aperta con la mia brava carabina sulla spalla, e trovarmi anche sotto il tiro delle artiglierie del Borzone. Qui mi par d'essere in trappola. — Suvvia, sei lugubre, Ricciuto, come un vecchio barbagianni spennacchiato! — Vedo giusto, signor conte! — Vedi giusto? — esclamò l'Embriaco. — Osi dire di veder giusto, quando la stessa Marchesa madre mi ha offerto ospitalità? — La Marchesa madre, sicuro, non il Conte figlio. — Che vuoi dire? — Voglio dire, signor conte, che in questi tempi la politica fa spesso esser di diverso parere moglie e marito, come i Marchesi di Spigno possono dimostrare e tanto più madre e figlio; in ispecie quando, come nel caso nostro, vedono diversamente. — Tu parli per enigmi, Ricciuto! — Io parlo per verità. Non ricordate forse, signor conte, che se la Marchesa di Spigno tiene per il Re di Piemonte, il marito apertamente parteggia per le nuove idee venute di Francia? — Ma non abbiamo a che fare coi Marchesi di Spigno, qui! Sono lontani, per volontà di Dio! — Non molto, signor conte: la bella Marchesa Fiorina di Spigno, in altri tempi, assai recenti del resto, fece gli occhi dolci al conte Luca Lascaris, che, a quanto sottovoce si narra non fu insensibile, nè, pare, sfortunato. — Va bene! Lo so! E con questo? — Credete voi, signor mio, che la bella Marchesa di Spigno, degna di ben più alti cuori, si sarebbe abbandonata ad un amoretto annacquato col giovine cugino senza un ragione tanto più forte quanto più nascosa? L'Embriaco ascoltava interessato. — E cioè? — E cioè di guadagnare alla causa del Re di Piemonte il conte Lascaris: il Re di Piemonte ha un grande amico in queste riviere.... S'avvicinò alla finestra e mostrò un castello nero e solitario sopra una scogliera presso il mare. — .... Il nobile Camillo Altariva. Se potesse guadagnare anche il conte Lascaris, le nuove idee di Francia non arriverebbero nè a Genova nè a Torino. — E tu credi? — Io nulla credo: quando si tratta di una donna bella ed astuta come la marchesa Fiorina, non si può dubitare: è certo. — Dunque Lascaris cospira con la Spigno? In questo caso sono salvo. — Il Ricciuto rise sotto il mento. — Lo credete, padrone? — Per il Papa, se lo credo! Siamo partigiani. — Io non lo credo però! — Perchè? — Perchè il conte Lascaris non ha alcun interesse a rompere con la Serenissima apertamente: se l'avesse, avrebbe già rotto. No, signor conte; si cospira. Dunque si teme la luce del sole. E poichè la Repubblica di Genova dubita del conte Lascaris, e con ragione, il conte Lascaris darà del fumo negli occhi alla Serenissima, consegnandovi al Borzone. Chi siete voi, dopo tutto? Un uomo fuori della legge, pericoloso per amici e nemici. Consegnandovi, il conte Lascaris farà palese la sua buona fede di amico della Repubblica e cospirerà poi con tutta sicurtà. L'Embriaco preoccupato osservò: — Ma se l'intesa fra Luca e Fiorina fosse già avvenuta? — Non può essere avvenuta! Il messaggero non cammina come noi! — Secondo te, dunque io sarei perduto.... — Certamente.... a meno che.... — A meno che? — Non foste voi davvero il messaggero tra Fiorina e Luca Lascaris. L'Embriaco si alzò: — Che dovrei dunque dire a Luca? — Nulla dire, signor conte, mostrare! — Mostrar che cosa? — Una lettera della marchesa di Spigno. I due si guardarono. — E tu credi che.... — La bella marchesa di Spigno è troppo gran dama per degnarsi di scrivere.... firma soltanto ed ancora con una tal quale disinvoltura che la rende illegibile. Così. Togliendosi dalla cintura un calamaio di legno ed un fascio di fogli, il Ricciuto, con bella sicurezza, tracciò un ghirigoro che l'Embriaco osservò arrossendo. — È proprio la firma di Fiorina! — Precisa! Certo il Marchese di Spigno scrive da erudito e legge il signor di Voltaire. Ma la Marchesa.... ecco qui tutto il suo sapere. L'Embriaco esitava. L'altro proseguì: — Vi piacerebbe pendere appiccato dai merli del fortino? L'Embriaco non rispose. — Salvarsi da tutte le reti per incappare nelle mani di un Borzone! A Genova ne riderebbero della grossa. In quella, un suon di corno giunse da lontano. — Il conte Luca ritorna! — mormorò il Ricciuto. Il suon di corno risuonò più vicino. — Decidetevi dunque: volete? Allora l'Embriaco, quasi scuotesse di dosso l'uggia d'una risoluzione impellente, mormorò: — Ho sonno, Ricciuto: occupati tu dei miei affari, ti prego. IV. Il Conte Luca Lascaris tornato dalla caccia ebbe un colloquio temporalesco ma breve con la marchesa Isabella: poi con la rude cortesia che anche nei momenti meno simpatici gli era abituale, si fece annunziar presso l'ospite. L'Embriaco lo ricevette con un grazioso inchino. — Scusatemi, signor conte, — gli disse il Lascaris — se l'ospitalità del mio castello non è quella che si conviene ad un gentiluomo pari vostro.... L'Embriaco non lo interruppe. — .... ma vi assicuro che io sarò dolente allorchè ne varcherete la soglia per i molteplici negozi che senza dubbio reclamano fuori di qui la vostra presenza. — Il che vuol dire — il fuoruscito rispose — che bellamente mi negate asilo? — Negarvi asilo? Dio non voglia. Ma il mio castello non è nè chiesa del Signore, nè convento riconosciuto e tanto meno piazza forte. D'altra parte il mio patto di fedeltà alla Serenissima Repubblica di Genova mi vieta di ricevere i suoi nemici. — E così mi consegnerete al Borzone? — Vi prego di non male interpretare le mie parole. Finchè sarete sulle mie terre nessuno oserà toccarvi: quando ne uscirete, alla grazia di Dio! L'Embriaco chinò il capo. — Quando dovrò uscire dal castello? — A piacer vostro, signor conte! — Subito allora. Il Lascaris non rispose. Restò un po' curvo, ciò che l'aggraziava, giacchè era un bel gentiluomo, elegantissimo, quasi effeminato, ed amava d'eguale amore armi e profumi. — Prima però, — l'Embriaco riprese — permettete che io adempia sino all'ultimo l'incarico affidatomi da una dama. Il Conte Lascaris trasalì. — Un incarico per me? — Per voi. Date ordine che ci lascino soli. Ad un cenno la scorta del castellano si ritirò nell'antisala. L'Embriaco lentamente, quasi centellinasse, quasi succhiellasse ogni parola, continuò: — Ed ora vogliate scusarmi se mi spoglio innanzi a voi. Si tolse la casacca, sbottonò il giustacuore, poi fra la camicia ed un sottil giaco tolse una lista di pergamena avvolta intorno alla persona. Il Lascaris lo seguiva dello sguardo stupefatto: accolse con diffidenza la pergamena che l'Embriaco gli porse, vi gettò uno sguardo annoiato ed arrossì violentemente. — Chi ve la diede? — esclamò afferrando la mano del genovese. — Scusatemi se io ve la porto senza sigillo nè stemma e senza nastri. Ero malsicuro per i passaggi guardati. Ho dovuto avvolgerla, sotto il giaco, alla persona, perchè all'occorrenza passasse con me. — Vi ringrazio — potè appena articolare il castellano — vi ringrazio e vi prego di non tener calcolo delle mie parole di poco fa. Gli tremavano le mani, il viso gli si era fatto più pallido del consueto. — Ad ogni modo credete che vi libererò presto della mia presenza — l'Embriaco riprese crudelmente. — Vi potrete ad ogni modo servir di me per una risposta, se vi parrà che ne valga la pena. Il Lascaris non rispose: leggeva concitato e tremante. Poi alzò gli occhi in viso all'ospite. — Fu la marchesa Fiorina a consegnarvi questa lettera? — Fu la marchesa Fiorina. Ma siccome non ignorava i pericoli ai quali andavo incontro, volle che imparassi a memoria la missiva che forse non avrei potuto consegnarvi. — Vi ringrazio — cominciava il Lascaris. In quella uno scudiero si avanzò nel vano della porta. — Il signor Nicola Borzone chiede di parlare al signor conte. Si voltò di scatto il Lascaris. — Dite al signor Borzone che non l'ho fatto chiamare: che attenda i miei ordini al fortino. Un lampo di gioia, subito celato, illuminò il volto dell'avventuriero. — Perdonatemi — susurrò il Lascaris, e si raddrizzò con aggraziata alterezza: perdonatemi. Sono tempi questi in cui bisogna diffidare anche delle persone più legate dal sangue. Non me ne vorrete, io spero, se ho dubitato di voi. — Non ve ne voglio. Tutt'altro. Penso che il primo dovere di chi cospira, sia il sospettar di tutto e di tutti. — E chi vi ha detto che io cospiri? — domandò il giovane castellano corrugando le sopracciglie, ripreso a suo malgrado dalla diffidenza. L'Embriaco evitò lo sguardo inquisitore, non troppo abile nè penetrante del resto, e sorrise. — Chi non cospira oggi? È dovere ed è l'unico piacere che ci si permetta ancora. Fra due contendenti si parteggia, fra tre si cospira. La Repubblica genovese da una parte, la Francia dall'altra, il Re di Piemonte e cioè l'Austria.... Il Lascaris era troppo giovane: trasalì. — Vedete — riprese l'Embriaco — vedete? Cospirate anche voi, e fate ottima cosa. Però cospirar da soli è sterile e voi non siete uomo da perdervi in vanità. Non mi parlate, non vi confidate. Vediamo prima: colui che la marchesa Fiorina di Spigno degnò della propria confidenza, può essere un amico per voi? — Lo può! — E allora.... non parlate, no, chè può legarvi un giuramento! Parlerò io. — Parlate. — Tre uomini in questo estremo lembo di Liguria possono opporsi all'invasione francese: voi e Camillo Altariva per queste vallate e il signor duca di Nervia per la sua: stretta fra voi la città di Ventimiglia, ove si dibattono chi parteggia per Francia e chi per Genova, è innocua: il Re può così esser sicuro di conservar le sue terre e il suo potere: finchè voi vorrete i francesi non passeranno..... — È certo che non passeranno. — Lo penso anch'io. Ditemi solo una parola che non vi può compromettere: Per il Re? Luca Lascaris tese la mano. — Per il Re! — Alla buon'ora! — esclamò l'Embriaco stringendogli la mano tesa. — Alla buon'ora! Vedete come ci s'intende facilmente! Alla buon'ora! Un ultimo dubbio serpeggiava nel cuore del castellano mentre mesceva all'ospite il bicchiere del benvenuto. Ma l'Embriaco dissipò anche quest'ultima nube. — Al diavolo la politica e le cure degli affari di guerra. Non bevo a voi, signor conte, ma al fiore della cortesia, della grazia e della bellezza, all'impareggiabile Marchesa Fiorina di Spigno, degna del Re Sole.... o di voi! E i calici gaiamente tintinnarono. V. Lo stesso giorno, mentre accadeva quanto è oggetto dei capitoli precedenti, in una casa della città verso le mura e prospicente quindi la vallata del Roia, si notava un allegro via vai. Betto Grimaldi, il comandante della città, ritornava dall'aver accompagnato l'Embriaco, recando alla figliola il dono dell'avventuriero. Lo scortavano alcuni soldati che si fermarono al portone, tutto aspro di chiodi, e già salutavano il vecchio soldato che s'accingeva ad entrare, quando un rumore di passi pesanti e sonori s'udì nella viuzza. — Guarda chi arriva, Giano — ingiunse il Grimaldi a un soldato della scorta, il più giovane, il più lisciato, che pareva d'origine meno popolaresca del restante. — È il Moncherino, Comandante — rispose l'interrogato. — Lo manda il Borzone, dunque? O che mai vorrà? Digli che si spieghi a te. E stava per rinchiudersi dietro il battente, quando colui che sopraggiungeva esclamò ansimando: — Magnifico messere! magnifico messere! Cerca proprio di me — notò Betto Grimaldi un po' inquieto, e soggiunse: — Spiegati, e spicciati, che ti colga il malanno! Il nuovo arrivato era un vecchio adusto e asciutto, vestito d'una rozza casacca ed armato d'un paio di pistole, tutt'e due da un lato. E questo perchè gli mancava la mano sinistra, donde il soprannome che lo distingueva. — Magnifico messere, è il comandante Borzone che mi manda, e che vi prega di raccogliere quanti più uomini potete e correre a dargli aiuto! — O che? Sono comparsi i francesi? O il nobile Altariva s'è ribellato? O che..... — Magnifico messere, il traditore Embriaco..... Al nome del bandito, il vecchio Betto fece un salto. — È avvistato l'Embriaco? Fulmini del cielo! Corri tu dal capitano Cavalli e che faccia sonar la raccolta! Si trovò nelle mani la scatola di guanti, dono dell'Embriaco per madamigella Chiara: la porse a Giano dicendogli: — Tieni, porta questa scatola a mia figlia e raggiungimi. Giano, bastardo Lercari, alfiere della Serenissima Repubblica di Genova, ma più innamorato che alfiere, afferrò l'occasione con gioia e la scatola con ambe le mani, affrontando poi di corsa la ripida scala che metteva al piano abitato dal Comandante. Fu fermato in antisala da una vispa servetta che gli fece riverenza. — Qual buon vento vi porta, messer Giano? — Annunciami a Madonna, Gilda: è il magnifico suo padre che m'incarica di consegnarle questo.... — Posso io stessa recarlo a Madamigella — rispose Gilda allungando le mani. Ma il Lercari fece tre passi indietro e crollò il capo. — Obbedisci, Gilda! E annunciami a Madamigella. La cameriera con una smorfietta si diresse verso l'interno e Giano la seguì. Non era troppo vasta la casa abitata dal Grimaldi: ad una porta mascherata da un ampio arazzo e che apparve in capo al breve corridoio nel quale finiva l'antisala, s'arrestarono entrambi e Gilda bussò leggermente. Rispose una voce limpida e tranquilla che l'invitò ad entrare, e la cameriera obbedì scostando la tenda per agevolare il passo al Lercari. Una stanza non ampia, addobbata a salotto, un salotto rococò in cui stonavano delle poltrone recenti venute di Francia, sotto dei grandi mobili secenteschi, illuminata da due finestre all'uno e all'altro lato dell'angolo, aperte, e inquadranti il paesaggio fronzuto della vallata, apparve come impari cornice a una dolce figura di giovane donna, vestita di bianco, ritta dinanzi ad una minuscola scrivania ingombra di carta elegante e di sigilli. — Siete voi, Giano? — domandò la damigella Chiara fissando gli occhi azzurri sul soldato. — Sono io, Madamigella. Il Magnifico vostro signor padre vi manda questa scatola...... — Che cos'è, Giano? — Credo che siano guanti, Madamigella, — Guanti? giunti da Genova o da Torino? — Lo ignoro. Li ha donati per voi al Comandante un cavaliere straniero. — Vediamo! Vediamo! Aiutata da Gilda aprì la scatola, ne trasse con brevi gridi giocondi i guanti bianchi e neri, da conversazione e da cavalcare e battè poi le mani come una bimba. Quindi si ricordò: — E mio padre, Giano? Perchè non è con voi? — Vostro padre, Madamigella, fu chiamato dal Borzone! — Ah! Un istante d'imbarazzante silenzio. Poi la damigella Chiara con voce tremula riprese: — Voi lo raggiungerete, Giano? — Sì, Madonna! — Al forte del Borzone? — Suppongo. — E non c'è lassù, almeno, dite, non deve trovarsi lassù un inviato del generale francese? — Un inviato del generale francese? Domani, Madamigella.... O, scusate, anzi avete ragione: deve già trovarsi colassù. — Ecco — rispose soddisfatta la damigella Chiara — ecco! E vi dispiacerebbe incaricarvi d'un mio messaggio...? Sospese. Ma il Lercari arrossendo compì: — Perchè l'inviato di Francia lo consegni al vostro fidanzato? Stava per aggiungere: — Non è precisamente l'incarico che bramerei. Ma lo tenne per sè. Abbozzò invece un inchino e tacque. — Appunto — riprese la fanciulla. — Ve ne sarei tanto grata, messere! — Ai vostri ordini. Madamigella! La figlia del Grimaldi non avvertì il celato dispetto di chi le rispondeva. Nel suo egoista piacere sorrise invece al giovane e raccomandò alla Gilda di servirgli dei rinfreschi. — Stavo appunto scrivendo quando mi foste annunziato, messere. Datemi licenza, vi prego, che finisca la lettera perchè possa consegnarvela. Giano Lercari s'inchinò e seguì poi la Gilda che lo precedette allegramente, soddisfatta in cuor suo dello scacco subìto dell'innamorato alfiere. Rimasta sola, donna Chiara s'avvicinò alla piccola scrivania, sedette su la punta d'una scranna leggera venuta di recente dalla Francia e riprese la lettera incominciata. Rilesse innanzi tutto quello che aveva scritto. La lettera diceva così: Ventimiglia 19 giugno 17.... _Rompo il mio lungo silenzio, giacchè mi si presenta questo poco di tempo opportuno, per rispondere alle vostre graziose ed a me care lettere._ _Sento dalla pregiata vostra prima datatami dei dodici giugno, che le mie _non adorabili_ grazie mi hanno assicurato il vostro cuore. Non so quale idea vi abbia fatto scegliere una compagna che certo non ha mai pensato sulla vostra amabile persona, per molti motivi, li quali mi riserbo con più lunghezza di tempo a farveli noti. Ma visto che tale è il vostro genio, non posso a meno che tenermi fortunata di poter acquistare un compagno sì bello, sì grazioso, sì amabile, quale siete voi. Ciò non pertanto...._ La lettera dalla venuta di Giano Lercari era rimasta interrotta a questo punto. La fanciulla tagliò accuratamente un'altra penna e continuò: _..... vi faccio sapere che da me non dipende il tutto, e che bisogna che prima consultiate i miei superiori, dalli quali ne dipende il tutto, ed una volta consultati favorevolmente questi, potete dire che avete navigato senza alcun contrasto. Sento poi dall'ultima vostra un rimprovero, che certo non mi si conviene, dell'abboccamento che doveva aver luogo. Vi posso assicurare sulla mia fede che io non ho saputo niente di questo, e che nissuna persona me ne ha parlato._ _Finisco per la brevità del tempo e pregandovi di tener celata la presente e di compatire li miei mal espressi sentimenti e brutti caratteri._ _Favorite aggradire tutti li epiteti e cerimonie di cui nelle care vostre voi mi fregiate (sebbene contro tutti li miei meriti), nel mentre che ho il bene di sottoscrivermi e dirmi la più fortunata di tutte le giovani_ _vostra affezionata ed umile amica_ Chiara Grimaldi Quand'ebbe scritto, con un sospiro di sollievo, piegò il foglio in quattro e lo sigillò con un'ostia minuscola, color ciliegia, che non si peritò di umettar da sè. Poi sul foglio così chiuso, a caratteri minuti scrisse: _A colui, che mi adora, ed ama._ Nel tracciare i motti ingenui, sorrise quasi ad un ricordo. Cercò in un cassetto che aveva daccanto un sacchettino di pelle bianca sul quale di sua mano aveva ricamato un nome: Filippo Balbi, in vermiglio e verde, vi chiuse la lettera e ne cucì la bocca con un filo d'oro i cui capi riunì e sigillò con cera bianca imprimendovi il castone d'un grosso anello che portava appeso alla cintura. Il tramonto che rallegrava la ripida scesa del colle verso il mare, incupiva invece la selvaggia vallata del Roia, quella vallata che, appunto in quelli anni, il Foscolo facea percorrere al fatale Jacopo, il quale dal ponte presso la marina aveva “_spinto gli occhi fin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte sulle cervici dell'alpi altre alpi di neve che s'immergono nel cielo e tutto biancheggia e si confonde.....”_ Jacopo, probabilmente dispeptico, vedeva tutto in nero, ma lo scenario non era meno selvaggio, e la criniera di pini che coronavano le roccie di Roverino e le balze che attorniavano la foce del torrente Bevera non erano meno irsute. Lo spettacolo si presentava pur tuttavia grandioso per la vastità del letto del fiume e l'ampiezza della valle: era tale da attristire per la cornice buia della cupa verzura nel tramonto rossastro. Chiara abbrividì. Alzò alle labbra il sacchetto di pelle bianca, lo baciò e cercò di guardar se contro luce lo scritto apparisse. Nell'alzare gli occhi s'accorse d'un lume di fiaccola agitata laggiù dove il torrente Bevera sfociava nel Roia. Il segnale non le parve ignoto; era un alzar verticale, ed un seguire orizzontale della fiaccola, come se si volesse tracciare una gigantesca croce di fuoco. La fanciulla trasalì. Poi retrocesse, fino alla porta e chiamò: — Gilda! Signor Giano! I chiamati accorsero. — È pronta la lettera, Madamigella? La notte si avvicina e la strada è malagevole. — Eccola! L'alfiere s'inginocchiò, ricevette il sacchetto che nascose nell'interno della giubba, poi s'inchinò per accommiatarsi. — Guardate laggiù, signor Giano — disse allora Chiara additandogli il segnale luminoso. In silenzio, curvandosi per meglio acuire gli sguardi, il giovane osservò. Quando rialzò il capo era agitato, quasi febbrile. — Che Iddio nol voglia! — mormorò. E poi: — Datemi licenza, Madamigella! È necessario che raggiunga il Comandante. — Ma — insistette Chiara — non vi sembra un segnale?.... Non compì. Compì l'altro invece. — È il segnale dei realisti infatti, Madamigella! È il segnale dei ribelli Altariva e Nervia, Madamigella! Ma come sono discesi nella nostra valle? Ed a chi fanno il segno di riconoscimento? Chi invitano o chi aspettano? Alzò gli occhi. Sopra il fortino del Borzone, sulla collina mozza, svettava il gonfalone dei Lascaris. Rabbrividì. — Che Iddio nol voglia! — ripetè. S'inchinò. — Madamigella, spero che il vostro messaggio giunga questa sera istessa a destinazione. Pregate il cielo che sia così.... E mentalmente proseguì: — O siamo tutti perduti. E si ritirò prestamente seguito dalla Gilda. Chiara, sopra pensiero, tornò alla finestra. La sera scendeva rapida, i picchi di Roverino rosseggiavano, ma i recessi della vallata opposti al tramonto annerivano come se li avviluppasse un cupo velario. E il segno infuocato della croce si ripeteva laggiù, nel sinistro silenzio dell'ora. Ad un tratto s'udirono i rintocchi d'una campana della città, poi d'un'altra, poi d'una terza. A poco a poco risposero le pievi e gli eremi dispersi nell'alto in mezzo alle foreste. La croce di fuoco si spense. VI. Il signor abate Bernardino Viale, in Arcadia Amarillo Glucosio, invitato dalla Marchesa Isabella aveva alzato il bicchiere sottile colmo di giallo vino spumoso, così cominciando un sonetto improvvisato ad onor dell'Embriaco: _L'ospite viator, che, stanco il piede,_ _bussa alla porta della magion, sia,_ _poichè di Marte dai perigli riede,_ _il bene accetto.................._ quando contro ogni etichetta, all'improvviso, i due battenti della porta che sbarrava la gran sala s'aprirono ed apparve fra due torce, un volto severo di gentiluomo. Se l'abate rimase interdetto e gli si essicò nel gorgozzule la fonte d'Ippocrene, se la Marchesa Isabella aggrottò le sopracciglia spazientita, se l'Embriaco sentì rimescolarsi in cuore un non so che di simile all'inquietudine, il Conte Luca Lascaris invece si alzò di scatto col viso irradiato dalla gioia, e gridò: — Camillo! Il nuovo arrivato, un uomo di mezza statura dal volto più che severo, cupo, d'un pallore ossessionante che spiccava ancor più sull'abito nero privo, meno che ai polsi, di un qualsiasi pizzo o ricamo, fece un inchino profondo alla Marchesa e, prima di fermarsi sull'Embriaco, lasciò per un attimo posar lo sguardo un po' sprezzante sull'abate, il quale, appena lo potè senza farsi scorgere, si crocesegnò frettolosamente e borbottò una preghiera latina che sapeva di esorcismo. E del resto Camillo Altariva autorizzava paure e scongiuri. Nobile senza titolo, possessore d'una ingente fortuna e del castelletto grifagno sul mare che quello dei Lascaris teneva in soggezione, era temuto più per idea che per volontà, giacchè fuggiva i simili e non viveva che tra i vecchi libri pieni del dubbio di cui andava stanca e infelice l'età penosa che attraversava. Non superbo forse, ma schivo degli uomini che forse non odiava, ma non amava certo, dal solitario nido ove passava la triste vita, s'era ad un tratto mischiato ai suoi pari, per nascita se non per pensiero, incitandoli alla resistenza contro la marea eguagliatrice dell'invasione francese. Il conte Luca Lascaris ne subìva l'influsso in modo tale che il solo nome dell'Altariva bastava a farlo ribellare pur anche alla madre, autoritaria così che la nuora aveva dovuto abbandonare il castello per sottrarsi ad un dominio che non sapeva tollerare. Anzi la fuoruscita della contessa, che si usava attribuire alle inquietudini dei tempi — aveva emigrato a Torino e seguiva ora le peripezie della Corte di Savoia — era avvenuta per consiglio dello stesso Altariva, donde la poca cordialità della marchesa Isabella, sempre all'erta e sempre sospettosa. Fermo sulla soglia il nuovo venuto si guardò intorno un attimo, fece poi un profondo inchino alla dama, un cenno breve all'abate, un più cordiale al Lascaris e frenò la poco piacevole meraviglia scorgendo l'Embriaco a lui ignoto di persona. — Mio nobile vicino — disse il conte Luca non senza una qualche titubanza — voi mi avete fatto felice venendo al mio castello. Vi prego, prendete posto accanto alla mia signora Madre: l'ospite nostro, il conte Emanuele Embriaco..... L'Altariva impercettibilmente trasalì. — .... sarà felice al par di me nel conoscere il nobile Camillo Altariva. — Il nobile Camillo Altariva! — ripetè l'Embriaco alzandosi di scatto. — Ma io mi vanterò di questo giorno come del più fortunato..... — _Albo signanda lapillo_ — mormorò l'abate seccato d'esser rimasto a mezzo del suo peccato con le Muse. — Vi ringrazio di tutto cuore, signor Conte — rispose l'Altariva con una certa quale freddezza non priva d'una punta d'ironia. — E mi duole dover rispondere poco aggradevolmente alla vostra cortesia chiedendovi licenza di sottrarvi la compagnia del conte Luca, al quale ho una importante e urgente comunicazione da fare. L'Embriaco rispose a sua volta con un inchino garbato ma non privo d'altezzosità. — A me chiedete venia, signore? Chi son io se non l'ultimo degli ospiti, quando è presente la graziosa marchesa Isabella di Spigno, contessa Lascaris di Tenda? Corse il figlio al riparo, e d'impeto come soleva: — Camillo, che c'è di così misterioso che mia madre e il mio maestro — fece un cenno all'abate — non possano ascoltare? In quanto al conte Embriaco..... Qui s'arrestò. Non voleva confessare che gli giungeva latore d'un biglietto della Marchesa di Spigno. Ma l'esitazione del figliolo fu tagliata a corto dalla madre, che intervenne prontamente. — Il conte Embriaco è un amico, signor Altariva. Pronunciò la parola _amico_ quasi le donasse uno strano significato. E l'Altariva ascoltò senza stupore, o almeno senza mostrarne. Soggiunse appena: — Vorrei poter dire altrettanto. — Mi lusingate, signore d'Altariva — replicò il fuoruscito. Al che l'altro pronto: — Altariva soltanto, signor Conte! — Come si diceva soltanto Rohan allora, fino a pochi anni or sono. — La nobiltà degli Altariva, intervenne in buon punto l'abate, risale a Magone cartaginese, come risale alla Imperatrice Eudossia, per non addentrarci nelle caligine dei tempi barbari, quella dei Lascaris. Voi non ignorate, signor Conte, che la famiglia dei Barca..... — L'abate è partito con la lancia in resta — esclamò il Lascaris, e se non interviene la signora mia Madre, nessuno qui ha potestà di arrestarlo.... — Magone cartaginese nella sua terza spedizione contro gli Ingauni, cacciato nell'occidente da un Appio romano o ligure con cittadinanza non bene identificata, approdò secondo la tradizione.... L'Altariva lo fermò col gesto: — Non mi sembra, signor Abate, degno della vostra abitual cortesia tessere lodi alle nostre famiglie, quando è dinanzi a voi il discendente d'uno dei ventinove Alberghi della Serenissima, nobile del Portico vecchio e del libro chiuso..... — Tu non m'inganni con le tue spagnolerie, — pensava intanto il fuoruscito, — e sarebbe assai meglio farti sputare quello che mastichi e che può essere interessante, per me almeno. Ma come fare? La Marchesa Isabella era intervenuta nel dibattito. L'udir vantare la schiatta dei Lascaris l'era dolce, ma non quanto le lodi e glorie degli Spigno. — La nobiltà piemontese — disse — non la cede a nessuna per antichità e per belle imprese. La famiglia degli Spigno..... — ....è antica almeno quanto lo son le rose, — aggiunse con bel garbo il genovese — e non vedo la necessità di cercarne la ragione risalendo a Bisanzio o tanto meno a Magone. Un sorriso della dama fu il ringraziamento, e non il solo. Amarillo Glucosio andò in estasi, levò le braccia al cielo e chiese all'Embriaco il permesso di tornire un madrigale sul detto memorabile. E l'Embriaco stava per accordare il chiesto permesso, quando giunse all'orecchio dei commensali, non troppo chiaro ma sicuro, il brusìo crescente di una folla, brusìo che il vento di ponente a intervalli portava distintissimo come se la gente si trovasse nella stanza vicina. VII. La Marchesa s'era alzata e batteva sul timpano: ma non ci fu bisogno di chiamare, apparve il maggiordomo, e dietro di lui, brutto di fango e gli abiti in disordine, un vecchio adusto ed asciutto. Nè il maggiordomo aveva ancòra aperta la bocca, nè il vecchio apparso per conto suo aveva articolato parola, che già l'Altariva, freddamente e pacatamente rivolto all'ultimo arrivato gli diceva: — Sappiamo tutto, Moncherino, sappiamo tutto. — Tutto che cosa? — esclamò la dama. — Gesù, Giuseppe e Maria, tutto che cosa? — appoggiò l'abate, pallidissimo. — Quello che con buona licenza di Magone cartaginese e di Eudossia di Bisanzio, avrei già detto, — replicò l'Altariva — se qui non si fosse parlato d'altro mentre il villaggio di Sant'Antonio bruciava. — Il mio villaggio di Sant'Antonio brucia? E perchè? Chi è causa dell'incendio? Altariva che ne sapete voi? — urlava il Lascaris. — Quello che vi dirò probabilmente se mi lascerete parlare: ed è breve: un improvviso sconfinamento di sanculotti, come al solito: questa volta più grave poichè sono giunti sin sotto la città. — E i terrazzani, e i poveri terrazzani di Sant'Antonio! — chiese il conte Luca impetuosamente. Parve che il brusìo portato dal vento di ponente s'incaricasse di rispondergli: giunse trascicato come un ulular di dolore in tutti i toni, dai bassi agli argentini, misto di imprecazioni, di pianti, di lamenti, voci di donne e di bimbi, disperate, ansimanti. — Maledetti francesi! — Maledetti, perchè? — l'Altariva replicò. — Perchè adoperano, la forza come possono? O perchè l'hanno questa forza? Perchè si battono coi denti e con le unghie? Perchè.... — Voi li difendete? Voi? — Difenderli? Si difendono, anzi offendono! Ma non li difendo io. Vi faccio osservare che imprecare e odiare è impotenza. Io li combatterò, io cercherò di schiacciarli come potrò, con l'astuzia o con la frode, chè in guerra tutto è permesso, ma è inutile imprecare e perdersi in vane querele. — E che fare allora? — I fatti! Quali sono i fatti? — Interroghiamo quella gente! — È inutile — interruppe l'Altariva — so tutto io, ho visto ogni cosa e se quei poveri terrazzani sono qui e se all'incendio ed al bottino materiale non si è aggiunto l'assassinio o la retata degli uomini validi alla coscrizione, come i francesi usano fare, se tutto ciò fu evitato lo si deve a me. Una colonna di predoni, poichè voi sapete che, se pur sono truppe regolari, sconfinano senza ordine di capi e soltanto perchè spinti dalla fame e comunque dal bisogno, una colonna di centocinquanta predoni almeno e forse più, non discende il versante di Roccabruna, senz'essere avvertita. Ho capito che avevano l'intenzione di gettarsi sul villaggio più vicino, Sant'Antonio, ho fatto avvertire gli abitanti, e anzi li ho incolonnati, carichi di quello che potevano portare, il bestiame innanzi, e sciolto quello che non poteva correre, di modo che i francesi trovando poco o niente hanno incendiato le case. Poco male. Non è il tempo di vivere alla Florian nei villaggi, questo: l'uomo di qualunque età, sano o capace di sollevare una falce, combatte: vecchi e donne e bimbi si chiudano in città o nei porti o nei castelli. Difender poco per poterlo difender bene, ecco quello che occorre. — Ben detto! — esclamò l'Embriaco — ben detto, signor Altariva. Ma scusate: avete parlato della città, mi pare. — Sì: ho detto che son giunti presso la città. Perchè? — Ventimiglia? — Ventimiglia. Perchè no? — Siete sicuro di Betto Grimaldi e di Nicola Borzone? Il Moncherino fece sentire un grugnito di poco buon augurio, ma l'Embriaco gli poggiò la mano sull'omero confidenzialmente. — So chi sei tu, amico senza paura, ma so pure, signor Altariva, che cos'è la Serenissima Repubblica di Genova. Verrà a patti, ve lo garantisco io. Intervenne il Lascaris. — Permettete, conte. La vostra avversione al governo della Serenissima offusca forse il vostro giudizio che so limpido, acuto e sereno. Non posso accettare il vostro punto di vista, per rispettabile che sia. Qui c'è presente — e additò il Moncherino — un messo del signor Betto Grimaldi: ciò prova che tanto il Grimaldi quanto il Borzone hanno idea di opporsi ai sanculotti ed alla sanculotteria, armata e non armata..... — Per Nostra Signora delle Virtù, giuro che il signor Conte Lascaris ha pienamente ragione — esclamò il Moncherino. — Che volete concludere, Luca? — domandò l'Altariva. — Questo. Che se il Grimaldi ci dà una mano, ci opporremo d'ora innanzi agli sconfinamenti degli scamiciati predoni. — Amen — mormorò l'abate. Un momento di silenzio e d'attesa, rotto da un gesto della Marchesa, la quale mosse verso la porta. Il Conte Lascaris l'interrogò dello sguardo. — Vado — ella rispose — a dar gli ordini opportuni perchè quella povera gente sia ricevuta e sfamata, come ce ne sarà di bisogno. Quando un vassallo si presenta fiancheggiato dalla sventura, diventa un nostro simile, disse un Lascaris che fu cavalier errante e trovatore di Clemenza Isaura. — Ben detto, signora Marchesa! Noi dal canto nostro, ci renderemo conto del pericolo che ci minaccia. La Marchesa uscì scortata dall'abate. Rimasero i quattro uomini a fissarsi in silenzio. — Credo — pronunciò finalmente l'Altariva — che il Moncherino ed io potremo bastare ad una ricognizione che occorre fare questa notte stessa. Sono persuaso che si tratti, come al solito, di una mano d'affamati straccioni in rottura di bando e di disciplina, ma è necessario sapere con esattezza e non mi fido che dei miei occhi. — Spero che non vorrete privarmi della vostra compagnia, Camillo — aggiunse il Lascaris: — abbiamo fino ad oggi diviso disagi e pericoli: non mi farete l'ingiuria di lasciarmi qui dove basta mia Madre. — Come vorrete, Luca. L'Embriaco fece un passo avanti. — Ci conosciamo da pochi momenti, signor Altariva, da poche ore, Conte. Non pretendo che abbiate in me la fiducia che vi ricambiate tra voi. Non vi domando quindi che il posto più pericoloso perchè possiate mettere a prova — e speriamo dura — la mia fraternità e l'amor mio per quello che amate più della vita. Camillo Altariva esitò brevemente, poi tese la mano all'avventuriero. — Sia pure, signor Conte. E vi ringrazio. Non siamo così ricchi d'uomini e di energie da poterne rifiutare. Venite con me. — Vi seguiremo, Camillo — dichiarò Luca Lascaris. — So dove occorre trovarsi. Credo che potremo far senza scorta. È più semplice e più facile fra di noi. Mi promettete di obbedirmi anche se ve ne possa dolere? — Lo promettiamo. — E allora non perdiamo tempo. VIII. Betto Grimaldi ricevette il Borzone frenando a stento l'impazienza che lo dominava. — Notizie dell'Embriaco? Avete notizie dell'Embriaco, vecchio _Senza-dio_? Dov'è? Dov'è? Non era certamente il rude soldato preposto al comando del fortino che avrebbe potuto far dell'ironia, tono che ignorava affatto. Pure le sue prime parole furono della schietta ironia, quantunque sincere e piene di stupore. — Notizie dell'Embriaco, magnifico signore? Ma ne avrete certamente voi più di me. — Ehi! Nicola Borzone! Giochiamo agli indovinelli come nella notte del primo dell'anno? Non siete voi che mi avete fatto chiamare col pretesto del dannato Embriaco? Animo dunque: sputate! Il vecchio _Senza-dio_ nutriva ancora un'illusione: che cioè l'Embriaco fosse passato attraverso la città con un salvacondotto. La politica della Serenissima era così tortuosa, venivano tanto spesso ordini e contrordini, si bandivano e si raccoglievano subito dopo a braccia aperte tanti uomini pericolosi, vigeva insomma un tale altalenarsi di partiti, che dopo il primo tentativo d'arresto, e dopo l'opposizione della contessa ratificata dal conte Lascaris, aveva persino sospettato d'essere incorso in un errore grossolano. — Che l'Embriaco, — aveva pensato — sia di nuovo in buona con Palazzo Ducale? Che il partito del Cattaneo sia in prevalenza? Non si sa mai! A Genova il magnifico Cattaneo impersonava le antiche tradizioni repubblicane, rigide: voleva l'opposizione ad oltranza contro la Francia e quindi si trovava spesso in urto col tentennante governo dogale. Verissimo pur anche il fatto che il franco ed esigente Cattaneo non poteva fornicare con un avventuriero della risma di Emanuele Embriaco: ma come esser certi della politica genovese? — Non si sa mai! — aveva concluso il Borzone. E quindi era sceso in città per fare un rapporto più che per dare un allarme. E tuttavia dinanzi allo stupore del Grimaldi, sentì rinascere i propri dubbi ed anzi restò convinto della verità. Disse con una tal quale peritanza che gli affilò persino la voce roca: — Perdonate, magnifico signore: non avete avuto oggi quale ospite l'Embriaco? — Oggi.... ospite.... Un sudor freddo coronò la fronte del comandante: gli traballò improvvisamente la vista: ripetè: — Oggi.... ospite.... io?..... E cadde pesantemente sopra una scranna, annichilito. Qualche istante di silenzio passò per la stanza, imbarazzante silenzio che nessuno osò peraltro interrompere. Poi, vincendosi con isforzi e con pena, Betto Grimaldi sospirò: — Cercate il bando per l'Embriaco, vi prego, capitano Cavalli. Il Cavalli usci e rientrò poco dopo seguito da un vecchietto rinsecchito, dalla barbetta rada e dal naso adunco sormontato da due occhi spenti: erano le prime qualità avvertibili del sopraggiunto. Poi lo sguardo si doveva fermare sopra una palandrana di velluto spelacchiato e una papalina di seta, nera in origine, ma diventata quasi verde. Null'altro meritava d'essere guardato, sopra tutto le mani sporche, orlate di nero da qualche lustro. Era il nobile Orengo, archivista del Governatorato. Portava seco — non avrebbe permesso che un atto qualsiasi passasse per altre mani che le sue o quelle del comandante — portava seco un foglio arrotolato che spiegò e cercò di leggere strisciandovi sopra il naso inquietante. — Qua, date qua, vi prego — esclamò il Grimaldi strappandogli il foglio. S'avvicinò al doppiere, lesse, anzi cominciò a leggere chè gli cascarono le braccia. — Volete che legga io, magnifico — chiese il capitano Cavalli. Ma non c'era quel bisogno: un'occhiata, nè ci voleva di più per convincersi dai connotati, che il cavaliere gentile, donator di guanti profumati per la damigella Chiara, altri non era che il fuoruscito su cui pendeva una taglia e la cui cattura avrebbe procurato a lui, Betto Grimaldi, senatore della Serenissima in disfavore del partito preponderante e quindi relegato in un governatorato di secondo ordine e dei più pericolosi, un enorme successo, la possibilità di tornare in Genova e chissà, forse, a fin d'anno, la berretta dogale. All'istante di smarrimento tenne dietro una sorda rabbia dell'impotente e quel natural tentativo di scaricare su qualcuno la responsabilità che gli pesava addosso. — Io... io... sta bene.... posso aver sbagliato! Chi si ricordava quei benedetti connotati? Ma voi, voi Borzone, che lo conoscevate di persona mentre io non l'avevo mai veduto, come va che voi l'avete lasciato passare? Animo, Borzone, che potete dirmi per giustificarvi? Preso alla sprovvista e di petto, il vecchio soldato non abituato alla retorica, s'impapinò. — Io?.... Io?.... Per San Teodoro, magnifico! Io.... io?.... — Voi, sicuro, voi! Come va che vi è passato per la bocca, sotto l'archivolto del forte, senza che almeno gli abbiate scaricato addosso la vostra ferraglia? E voi lo conoscevate di persona, voi?! Dopo qualche momento di bocca spalancata dalla stordita meraviglia, il Borzone potè finalmente difendersi. — La contessa Lascaris, magnifico! — Che c'entra adesso la contessa Lascaris? Con un po' di garbuglio, con idee non troppo chiare e qualche circonvoluzione, Betto Grimaldi fu dal Borzone messo al corrente dell'accaduto. Vide subito il senatore genovese una sua propria scusante nella ribellione della contessa Lascaris: e d'altra parte teneva tante lettere pressanti ricevute da Genova e istruzioni di cercare ogni mezzo per attrarre nell'orbita della politica genovese il Lascaris, tante volte gli era stato ingiunto di non guastarsi con i signori del Castello _ad ogni costo_, che forse, pensava, la scusa era bella e trovata. Ciò non ostante bisognava correre al riparo. — Siete voi certo, Borzone, che l'Embriaco sia ospite dei Lascaris? — Lo suppongo, magnifico signore. — Ebbene, andate a chiederlo in consegna a mio nome. Nel mentre il vecchio _Senza-dio_ si recava al castello dei Lascaris con quel costrutto che conosciamo, Betto Grimaldi rifletteva, come poche volte, ai casi suoi. Non erano tempi da riflettere quelli: la vita non correva: annaspava. Non i due partiti che impongono la decisione, ma i molti, i troppi che fan vivere tentennanti e all'erta. Genova seguiva una politica la quale per voler essere troppo furba, finiva per diventare inabile: tentennamenti verso la Francia, tentennamenti verso il Re di Piemonte e l'Austria, adattamenti col partito della tradizione che, per agire in qualche modo come faceva, diventava sempre più simpatico al popolino pronto in ogni momento a seguire chi si muove ed urla di più. Il Re di Piemonte pur non confessandolo nemmeno a se stesso, faceva quasi l'istessa politica di Genova: sottomesso all'Austria, sì, ma volentieri patteggiante con la Francia, benchè in opera si mostrasse tutto all'opposto. In verità non si sapeva, nè si intuiva che strada prendere: le armate repubblicane s'erano fatte rispettare e temere. Già vittoriose, respinta l'invasione legittimista e tedesca, lasciavano trasparire il desiderio di portar la guerra fuori dei confini, sia per offendere, il che è più pratico che difendersi, ed anche, e specialmente, per far bottino e livellare così l'esausto bilancio della repubblica. Fortunatamente per gli offesi la disciplina del giovane esercito repubblicano era più scarsa ancora dei mezzi di cui disponeva, e quindi facile o almeno possibile il cercar d'opporsi alla invasione o meglio agli sconfinamenti di bande avide e senza disegno fisso. Le soldatesche della Serenissima e le truppe regolari del Re di Piemonte e dell'Austria fino al giorno del nostro racconto erano sempre riuscite ad impedire assalti e parziali invasioni: mancava alla repubblica un braccio ed un cervello uniti in un sol uomo, ciò che non erano Massena, Kellermann od uno qualunque dei generali francesi. Tale dunque lo stato delle cose che faceva, se non riflettere, pensare almeno Betto Grimaldi nell'ora che trascorse dalla partenza del Borzone al suo ritorno con le pive nel sacco e l'umiliante confessione che il conte Lascaris non lo aveva per anco voluto ricevere. Quell'ora di attesa aveva tuttavia calmato lo spirito di Betto Grimaldi, non più nuovo alle traversie d'ogni genere ed al pericolo di cadere in disgrazia del governo dogale. C'era sempre, in quei tempi, la risorsa di alzare lo stendardo avverso. Contro il Senato pel Cattaneo, contro il Cattaneo pel Lascaris, contro i due insieme pel Re di Piemonte, contro il Piemonte per l'Austria o per la Francia, quando non era forse meglio chiudersi a Monaco nella bicocca avita e dichiararsi neutrale e cioè amico del più forte. Ciò che acuiva la curiosità di Betto Grimaldi era sopratutto il sapere quale politica avrebbe seguito il nobile Camillo Altariva, unica incognita che avesse qualche ragione d'essere. Delle tre grandi famiglie feudali di quella estrema Liguria di occidente, il duca di Nervia s'era subito dichiarato per il Re di Piemonte contro la Francia e poichè Genova s'era mostrata neutrale, pur non intrattenendo con Ventimiglia relazioni di alcun genere, aveva permesso od almeno non s'era opposto al transito per la vallata importante come chiave strategica da cui prendeva il nome. Il Lascaris invece oscillava ancora ma il suo attaccamento per la marchesa di Spigno facea prevedere o sospettare quale sarebbe stata la sua condotta. Di Camillo Altariva invece nulla aveva ancora tradito il celato pensiero. Lo si diceva d'accordo col Nervia, sì, ma lo si sapeva amicissimo del marchese Ibleto di Spigno, volterriano ammiratore delle insanità degli enciclopedisti, all'avanguardia del Piemonte, odiato dal Re e dalla Corte, amico di Barras e incitatore dalle Langhe all'Entella d'ogni spirito bizzarro e libero: s'era addottorato in medicina, non teneva abate nel castello, spirito libertario insomma che pubblicamente insegnava le dottrine della trilogia rivoluzionaria. Che pensare dunque di Camillo Altariva? Meglio rinunciare a stillarsi inutilmente il cervello e Betto Grimaldi rinunciava quando gli entrò nella stanza eccitato e ansimante, il bastardo Lercari. Anche il bel Giano portava notizie: il segnale di fuoco alla foce del torrente Bavera. — Un segnale? Avete veduto un segnale? Non sarà forse la missione francese che ci è stata annunciata per domani? — Una croce di fuoco, magnifico signore, una croce di fuoco! Quando mai la repubblica francese ha usato dei segnali a forma di croce? È contrario alla teoria dell'Ente Supremo. — Teoria in disuso, Lercari. Ma può darsi che abbiate ragione e che sia un segnale diverso. Che cosa ne arguite voi, animo, parlate franco e chiaro. — Penso che il duca di Nervia e Camillo Altariva si siano finalmente intesi e che vogliano tentare un colpo di mano sulla città. Il vecchio _Senza-dio_ crollò il capo dubbioso. Ma il capitano Cavalli giovane e impetuoso entrò a dire la sua tumultuosamente. — Niente di più probabile, magnifico messere, niente di più probabile. Sommate gli avvenimenti di questa fatale giornata. Il bandito Embriaco che osa attraversare le terre della Serenissima, la contessa Lascaris che lo salva dal Borzone e lo ospita nel suo castello, il conte Lascaris complice della madre. — Un momento! Un momento! Potete aver ragione, ma restiamo calmi. Bisogna osservar da vicino quello che accade alla foce del Bevera, ecco l'importante. — Datemi licenza e vi corro con la mia compagnia. — Grazie tante! Sessanta uomini e rumore per mille! Mi congratulo con voi! — Posso andar solo! — Perchè se vi si uccide, noi si resti all'oscuro? Di bene in meglio. Il bastardo Lercari avanzò: — Datemi licenza, magnifico signore, d'andare col capitano Cavalli. — E con me, per San Teodoro! — esclamò il Borzone. — Non voi, vecchio _Senza-dio_! Chi resterebbe al fortino? Andate pur voi due, Cavalli e Lercari: mi raccomando prudenza innanzi tutto: il valore temerario è inutile oggi e sarebbe assai dannoso a tutti noi. Siate prudenti e tornate, mi raccomando. — Uno almeno — sussurrò il Borzone. I due promisero tutto quanto chiedeva Betto Grimaldi e s'allontanarono. Prima però che uscissero il governatore li ammonì di avvertire il Moncherino che si recasse da lui. — E subito! Anche il Moncherino fu incaricato di una missione di fiducia che nessuno seppe, nessuno, nemmeno il Borzone, il quale aveva riguadagnato il suo forte. Infine, Betto Grimaldi nè tranquillo nè soddisfatto, ma con la coscienza che quasi gli perdonava l'avventura del pomeriggio, si ritirò in silenzio e fece onore alla cena che l'aspettava da più di un'ora e che per verità non aveva guadagnato nell'attesa. IX. Appena fuori dalla porta Giano Lercari chiese al Cavalli: — Che si fa, Capitano? Era il Cavalli uomo di lettere e d'armi come non raramente se ne incontravano allora nei gradi superiori. Giovane ancòra, povero, lontano dalla politica e dagli intrighi, non viveva che per il servizio e per Virgilio. Portava seco in una delle profonde tasche dell'uniforme un piccolo volume che comprendeva l'Eneide e qualche pagina delle Georgiche: il resto mancava: probabilmente aveva servito da stoppaccio a qualche fucile. Il capitano Lavinio Cavalli, uscito dal gran Seminario di Genova un giorno per passeggio, non era più tornato. L'avevano proclamato disertore, come in allora si usava, durante il refettorio serale, mentre il giovinetto seguendo una compagnia di ventura che aveva ammirato sur un ciglione dominante la Doria, provava la differenza che esisteva fra i dolci ozi della _Somma teologica_ e il duro terreno su cui quella sera stessa aveva dovuto dormicchiare. Ma non s'era pentito. Possedeva una tenacia non rara in quei tempi: il latino l'avea servito anche sotto le armi e quando la Compagnia, come avveniva di frequente, era stata assoldata dalla repubblica genovese, il Cavalli aveva fatto passaggio d'armi col grado superiore, grado non superato da dieci anni ormai senza querimonie inutili. Prendeva il mondo come veniva, impassibile, da uomo che ne aveva contemplate di cotte e di crude e si consolava con Virgilio. Nel Seminario aveva appreso che durante l'umanesimo il poeta latino era tenuto in conto di profeta: non aveva infatti predetta quarant'anni prima la nascita del Redentore in quella quarta egloga che fu oggetto di tanti commenti? Il mago Virgilio era consultato in ogni occasione: si apriva il dolce libro e si leggeva a caso, interpretando poi con infinite deduzioni. Alla domanda repentina di Giano Lercari, il capitano Cavalli fermò un soldato che precedeva una pattuglia e le rischiarava il buio vicolo con una lanterna: gli comandò d'alzarla e traendo il libercolo di tasca l'aprì a caso. Lesse un verso, il primo che gli venne sott'occhi, del decimo libro: — .... _litora praecipere et venientis pellere terra._ e guardò poi sorridendo Giano Lercari che ben di donne s'intendeva ma non di latino, facendogli cenno di seguirlo. Uscirono dalla città per la porta del Piemonte e seguirono la strada buia finchè si mantenne a ridosso della collina. Poi d'improvviso fu illuminata dalla luna che aveva fatto capolino sopra Nostra Signora delle Virtù e le Maure di ponente. Allora sostarono. Laggiù, dopo San Bernardo, allo sfocio del Bevera, nulla più si scorgeva del segnale che Giano Lercari aveva con tanta chiarezza descritto: un silenzio grave, non turbato nè dalle rane o dai grilli canterini o da quello sconosciuto sussurrìo dei mille esseri invisibili che dominavano i luoghi agresti e solitari, s'imponeva. — Dove andiamo, capitano? — .... _litora praecipere_ — mormorò il Cavalli abbandonando la strada e lasciandosi cadere di ciglione in ciglione verso il letto del Roia. E il bastardo lo seguì. Camminarono a lungo nell'intrico di sterpi e di strami che costeggiava il fiume: l'acqua corrente era lontana chè il letto immenso parea congiungere le due linee di colline buie: la luna era sparita dietro Roverino e soltanto la Grande Orsa e Cassiopea scintillavano opacamente come perle ammirate nell'ombra. Raggiunsero la foce del Bevera a notte fonda, risalirono sopra un sentiero ove riposarono alquanto, spossati. — Vedete nulla ancora, Lercari? — Nulla, capitano. — .... _et venientis pellere terra_. — Che significa? — Vedrete. Andiamo avanti. — Andiamo pure, Capitano. Ma non sarebbe meglio armare una pistola? — Guardatevene! Potreste servirvene all'occasione e saremmo scoperti. Meglio l'arma bianca. — Come volete. Il sentiero piegava a gomito brusco. Al di là buio ancora più fondo. Sotto, ad una distanza poco apprezzabile, il torrente Bevera mormorava come un ruscelletto dell'Astrea. Mormorava dolcemente narrando al virgiliano Cavalli strane istorie di ninfe boscherecce, le oreadi montane, le driadi delle selve, le napee dei campi e le amadriadi sbucanti dagli alberi prediletti e il sognatore s'inebriava dei freschi profumi notturni e della via lattea che parea quasi vicina in quella solitudine e premeva con una mano il caro volume, dolendosi d'una cosa, d'una soltanto e cioè di non potersi sedere _sub tegmine fagi_ ed aprirlo e dissetarsi a quell'_Ippocrene_ secolare. Ma Giano Lercari più pratico e forse anche più stanco ad un certo punto si fermò. — Con buona pace del vostro latino, capitano, mi sembra che qui si proceda alla cieca! — Virgilio non può sbagliare, signor Lercari, — gli rispose Cavalli bruscamente scosso dall'estasi. Nel mentre profferiva il suo asserto, qualche ombra più nera della notte piombò sul sentiero e i due soldati vennero senz'altro imbavagliati. — Avvicinati, Moncherino — comandò una voce sonora — e smaschera la lanterna. L'interpellato obbedì: alzò la fiammella oleosa in volto ai catturati ed esclamò: — Giano Lercari! e il capitano Cavalli! — Siamo in paese di conoscenze, a quanto vedo — sussurrò un'altra voce. E quella di prima: — Che fate qui, signori? Il Moncherino aveva già ritolto il bavaglio a Giano Lercari, il quale altezzosamente replicò: — Prima di rispondervi, con che diritto ci avete fermati? — Diritto? — sghignazzò una voce sconosciuta, mentre le prime due possedevano dei toni noti — diritto! Ci vuole una bella ingenuità per parlare di diritto a quest'ora, di notte e su questo sentiero! — Sono il conte Luca Lascaris! — invece rispose una delle due voci di prima. Il capitano Cavalli abbozzò un inchino verso il punto donde gli era pervenuto il noto nome. — Buona sera, signor Conte! A voi posso dire che probabilmente ci conduce qui la vostra istessa ragione. — E cioè? Giano Lercari urtò leggermente il braccio del compagno con l'intenzione di farlo tacere, ma il Cavalli non credette opportuno accontentarlo. — Furono segnalati dei fuochi al confluente del Bevera, signor Conte: non siete qui voialtri forse per riconoscerli? — Avete ragione. Ma non c'è più nulla da fare. — Li avete scoperti? — Li abbiamo scoperti. È un'avanguardia francese. Giano Lercari sorrise nell'ombra, ma nel sorridere parve che sogghignasse. Il Conte Lascaris gli si volse di scatto. — Non credete? — Mi permetto, signor Conte, di avere un'opinione diversa dalla vostra. — E quale, se v'aggrada? Giano Lercari esitò. Ma la presenza del Moncherino accanto al Lascaris lo rassicurò. — Questa: chi s'accorse del fuoco al confluente del Bevera fu l'umile vostro servo che vi parla. Ma non mi accorsi di un fuoco..... — E allora? — M'accorsi di un segnale. — Un segnale? — Una croce, signor Conte, il segno dei ribelli Nervia ed Altariva. Gravò qualche istante di silenzio, frettoloso, come se avesse impazienza di passare. Una delle due voci ignote di poco prima, la più calma e la più grave interrogò: — Perchè chiamate ribelli Nervia e Altariva? — Permettete anzitutto che opponga alla dichiarazione del signor Conte Lascaris qualche cosa di preciso. Non possono esservi francesi al confluente del Bevera. — E perchè? — Per la ragione che domani in città si attende un parlamentario del nuovo generale di Nizza. — Che prova questo? — Non si entra a viva forza quando c'è ancora la possibilità di entrare pacificamente. — Dunque il signor Betto Grimaldi ha intenzione di lasciar libero passaggio ai sanculotti? — Ignoro le intenzioni del mio comandante e se non le ignorassi certo non ve le direi. Ma suppongo che il nuovo generale non sia così inabile da offendere dopo aver preannunciato un parlamentare, all'oscuro com'è delle intenzioni nostre che gli potrebbero anche essere favorevoli. Il silenzio gravò di nuovo. Finalmente _quella voce_ riprese: — Io sono Camillo Altariva..... — Ah! — .... e posso assicurarvi, signor mio, che non ho per adesso intenzioni ribelli, come non ne ha il signor duca di Nervia... — Che è quel signore laggiù? L'unica ombra sconosciuta ancora, crollò il capo. — ... che non è qui, — riprese l'Altariva pazientemente — ma le cui intenzioni io conosco. E posso anche assicurarvi che i fuochi in questione appartengono ad un bivacco di sanculotti. Posso anche dirvi di più. — Che cosa? — Non sono truppe regolari francesi. È una banda nizzarda sconfinata per cercar bottino. E l'ha trovato. Il villaggio di Sant'Antonio non esiste più: fu messo a ferro e a fuoco. — E gli abitanti uccisi? — Fortunatamente s'accorsero in tempo dell'invasione e, salvo qualche malato incapace di muoversi e qualche imprudente o traditore, sono tutti ricoverati nel castello del conte Lascaris. — Ah! maledetti! — sordamente esclamò il capitano Cavalli. — Imprecare è vano, signori. Voi sostenete che domani un parlamentario del nuovo generale verrà in città? — Lo crediamo almeno. Dovrebbe a quest'ora trovarsi di già nel fortino del Borzone. — Tanto meglio. Lasciatemi credere che ci unisca lo stesso interesse, opporci all'invasione. Lasciatemi credere che la Serenissima una buona volta si tolga alle sue eterne incertezze.... — Permettete che v'interrompa, signore! Non dimenticate che ho l'onore di servire la Serenissima — s'affrettò a gridare il Cavalli. — Non ho l'intenzione di offendere il vostro governo. — Vi ringrazio. — Spero soltanto che mi facciate l'onore d'incaricarvi di un nostro messaggio al vostro comandante. — Non vedo che vi si opponga inconveniente di sorta. Anche Giano Lercari assentì. — Ripetete a Betto Grimaldi quello che vi ho detto circa l'assalto al villaggio di Sant'Antonio e chiedetegli a nome del conte Lascaris e mio, se vuole accogliere quella povera gente in città, quella parte almeno che il castello del conte Lascaris non può contenere. — Glielo dirò, signor Altariva, — promise il Cavalli. — E presentategli anche a mio nome una preghiera — aggiunse Luca Lascaris. — Dite, signor Conte! — Desidero avere un colloquio con Betto Grimaldi, prima dell'arrivo del parlamentare francese, o anche alla sua presenza. Non dopo almeno. — Sarò lieto di fare la vostra ambasciata, signor Conte. — Me ne congratulo. Buona notte signori! Vi lasciamo il Moncherino con la sua lanterna. Siamo i più vicini. Le ombre si divisero: i tre sparvero quasi per incanto. — Sarei curioso di sapere chi fosse il terzo personaggio che non ha avuto la cortesia di presentarsi, — sussurrò quasi fra sè Giano Lercari. Dall'oscurità, in alto, una voce beffarda gli rispose: — Ti contento sùbito, bastardo. Sono Emanuele Embriaco, e ti prego di.... Giano Lercari fece fuoco in direzione della voce. — .... salutar Betto Grimaldi e di chiedere a madamigella Chiarina se i guanti erano di misura. Un'altra detonazione del Lercari. La voce beffarda riprese, dalla parte opposta: — Sei bastardo anche nel tirare! E più lontana, ma sempre sghignazzante: — Buona notte! X. Fine di marzo, dolce mattina. Il primo sole penetrava nella stanza di madamigella Chiara, in quella non ampia, addobbata a salotto, un salotto rococò in cui stonavano delle poltrone recenti venute di Francia sotto dei grandi mobili secenteschi e illuminava la sottile figura vestita di bianco, sparsi i capegli biondi per le spalle, ritta dinanzi a un _coffano coperto di veluto cremisi di tolla a fiori indorati_, ove Gilda inginocchiata stava accomodando il corredo prezioso della promessa sposa. Presso la finestra l'archivista Orengo sostava spesso, leggendo con voce stanca la _lista dei giocali dati a Madamigella Chiara Grimaldi in occasione del di lei matrimonio coll'illustrissimo signor Filippo Balbi_. L'omuncolo leggeva trascicando la voce nasale: — _Quattro donzine di camicie, cioè una donzina e mezzo di tela Constans Silisia e Olanda ed il rimanente di lino, ma di prima qualità e tutte guernite di Mussolina e pizzi._ — Signore Eterno Padre dacci la vita santa, che bellezza, madamigella! Queste devono carezzar la pelle più delle nobili mani del signor Filippo! — Gilda! Gilda! Taci, ti prego — mormorava Chiara arrossendo. — _Sei pezze di tela di lino di bellissima qualità..._ Madamigella Gilda, vi prego di non gingillarvi.... _Quattro donzine di fazzoletti, cioè una donzina di tela di Troes, una di lino nuovi, una di tela Pista di prima qualità, sei di Batis con pizzi, e sei di seta._ — Bisognerebbe esser osso di prosciutto come siete voi, magnifico Orengo, per non sentir la voglia d'accarezzare tutte queste belle cose! Quattro donzine come dite. — Gilda, Gilda, un po' di rispetto per il signor Archivista, ti prego. — Lasciatela dire, nobile damigella! Non gliene voglio! So bene che — scusate l'irriverenza e l'ardire — so bene che raglio d'asino non va in cielo! E assicurandosi gli occhiali malfermi continuò: — _Otto Braziere, cioè due di Obletto di Francia, due di tela di Troes e quattro di tela di lino.... una tovaglia ricamata di Picardia...._ Nel frattempo Gilda alzati gli sguardi alla padrona, aveva mormorato: — Se è quello il cielo, preferisco l'eresia! — Gilda, Gilda, ti prego! — _Otto mude di scuffie lugagianti e Tornato cioè una di pizzo di Fiandra alto quattro deta...._ — Quattro delle mie, sei di madamigella, ma per lo meno otto delle vostre che sembrano gli stecchini che usano i cinesi per il riso, come assicura il capitano Cavalli che non so davvero come faccia a sapere tutte quelle cose, a meno che non le legga nel suo latinorum. — _.... due di pizzo di Melines nuove....._ — Sant'Anna, che bellezza! Guardatele, magnifico Orengo! Farebbero bello anche voi! — _.... una di pizzo di Milano fatto a Mignonetta_ — brontolò l'archivista come se trangugiasse amaro. Ritta dinanzi ad una delle finestre, il volto pieno di sole, parea che Chiara bevesse avidamente l'azzurro. Si sentiva pienamente felice. In quei tempi avventurosi bisognava godere l'ora fuggente, superare l'ansia del domani ed afferrarsi come si poteva meglio a tutte le brevi ineguali moriture dolcezze dell'oggi. Bimba ancora, Chiara Grimaldi, della stirpe dei Principi di Monaco, figlia di un senatore della Serenissima, aveva dovuto ballare intorno all'albero della libertà, due anni prima con degli scamiciati puzzolenti d'aglio e di sudore represso, al tempo della prima invasione francese al comando di Arena. Poi, forzato e girato Saorgio dall'esercito della repubblica, la fuga di notte nell'alta valle del Roia, il ramingo errare per i casolari alpestri fino a quando, ritiratasi la marea invadente, ricomposti animi e affari, potè col padre e le poche soldatesche fedeli tornare in città, nella casa devastata e insozzata, col cuore in continuo sobbalzo e la bocca sempre amara. Purtuttavia quasi due anni erano trascorsi in una tal quale relativa tranquillità. Erano tornati il nobile Altariva nel castello sul mare, e il conte Lascaris in quello della via Romana: solamente il duca di Nervia non avea ripreso possesso del suo: bivaccava continuamente per tenere in soggezione la sua vallata, con incarico segreto del Re di Piemonte, in guardia sempre contro la Serenissima. Non era tornata la contessa Lascaris, l'amica di Chiarina Grimaldi: la si dicea col figliuoletto in Sardegna. Ma quasi a supplirla nel cuore della fanciulla, solitario cuor timoroso, ecco Filippo Balbi, ufficiale della Serenissima distaccato presso l'esercito francese. Nobile del portico nuovo, Filippo Balbi, ambizioso, di stretto cervello, oggi lo si direbbe con nuovo termine appropriato un arrivista. Ma elegante, abituato agli imbottiti salotti genovesi, svenevole, profumato, figura di moscardino in burbera uniforme. Bello, di una bellezza delicata, bianco e roseo e biondo, magro, piccole mani e piccoli piedi, parlare affettato e ristretto cervello, ma ne cresceva per turbar la fantasia di una piccola provinciale pavida e sognatrice. Ritta dinanzi alla finestra aperta, bevendo l'azzurro, Chiarina guardava le linee delle colline oltre il Bevera, ove presumibilmente s'era fermata la missione francese. Nulla sapea la damigella ancora dell'incendio del villaggio di Sant'Antonio: siffatte notizie non le giungevano che con molto ritardo e del resto villaggi a sacco e sconfinamenti di bande erano all'ordine del giorno. — _Sei scuffie fatte a disaspuer di muzzolina, cioè tre soglie e tre guarnite di picò tutte però guernite di bindello_ — continuava l'Orengo con la sua voce fioca. E adesso anche Gilda, stanca, l'aiutava. — Undici paia di calzette..... — Un momento, un momento. E ripeteva leggendo la lista de' giocali: — _Undeci para di calzette, cioè sei para di lino, due para di seta, due para di Fioretto e un para di castor da inverno...._ — Perchè poi proprio undici? Non si poteva compir la dozzina? — Giustamente, madamigella Gilda, ma il duodecimo vestirà i piedi della damigella Chiara, nel giorno delle sue nozze. — È vero, non ci pensavo. Un'andriena, signor magnifico! — Quale, madamigella. Forse quella di _brocato in seta con fondo color di perla, o quella di color di rosa con bordi d'argento di Grodetor_? — Nè l'una nè l'altra, signor magnifico! — Ah! ecco: _Andriena di satino fiorato con fondo color d'oliva_. Un momento, un momento: seguiamo l'ordine, vi prego, madamigella Gilda! Chiara stanca a sua volta e un po' vinta dal sole che si facea forte e imbiancava l'azzurro, si voltò verso i due. Le passavano sotto gli occhi tutte le cose belle e nuove di zecca preparate per il corredo, cose utili ed inutili, accomodate nei cofani come insensibili morticini, fredde ancòra, ignote al morbido corpo, vuote. A terra su carta fiorata, giacevano i ninnoli: i ventagli di tartaruga e di madreperla, i bottoni di _Grillo ligati in argento_, le fibbie per la cintura e le scarpette, un paio di forbici d'argento e un ditale, una spazzola per pettini, una croce di perle fine legate in oro, dei pendenti di Grillo, una collana di perle e persino un paio d'anelli d'oro con castelli di pietre diverse. E la voce dell'Orengo: — _Un petanlor di satino con fondo giallo fiorato, un busto di grodetor bianco, due gardanfan...._ D'un tratto la Gilda uscì in un'esclamazione di maraviglia: — Madamigella! Madamigella! Guardate! Che bella cosa? Che sarà mai, magnifico Orengo? — Un momento! Un momento! Dell'ordine prima di tutto.. Verrà il turno di quell'arnese! — Arnese? Me lo chiama arnese, l'eretico! Chiara s'era avvicinata curiosa e preso dalle mani di Gilda una specie di cuscino trapunto in damasco giallo, foderato di taffetà e bordato d'argento, lo esaminava attentamente. — Sant'Anna benedetta! La si direbbe una coperta da bambole, madamigella. L'archivista però aveva raggiunto sulla lista l'oggetto. — Un momento! Eccolo! Non può essere che questo: _un coperto da culla...._ Ah! che dolor dolce, che trafittura dolcissima al cuore di madamigella Chiara, e la ferita le si dilatava e la gola le si chiudeva, quasi fino a svenire. Ah, che dolor dolce! XI. Un bussar rispettoso alla porta. — _Due manizze, una di piuma, l'altra di pelo...._ Invece di rispondere Gilda corse all'uscio. — È il Moncherino, madamigella. Il vecchio soldato fece un goffo inchino, restando sul passo dell'uscio socchiuso e restò in silenzio aspettando per rispetto d'essere interrogato. — Buon dì, amico. Che vuoi? Chiarina Grimaldi era l'idolo dei soldati che l'avevano veduta bambina e che la tenevano un po' come figliola comune: l'amavano perchè era famigliare e non si rifiutava mai di intercedere presso il padre o il Borzone, perchè donava spesso e, come potea, largamente, e perchè sapeva suggerir farmachi o allacciar bende. Il Moncherino parlò dunque abbastanza sciolto e rapido e, in fe' di Dio, credo anche abbozzando un sorriso, ciò che era contro ogni disciplina. — Porto una buona notizia, madamigella. Chiara si fece di scarlatto. — È arrivato!.... — esclamò precipitosamente e non meno precipitosamente s'interruppe. — È arrivato, sì, il magnifico signor Filippo Balbi ed è con il magnifico signor padre di madamigella: anzi è il magnifico signor padre che mi ha dato ordine di venire ad annunciarli. — Vengono qui, Moncherino? Hai capito bene? Vengono qui?! Il magnifico signor mio padre non mi fa chiamare nelle sue stanze? — No, madamigella: vengono proprio qui: ho capito bene, anzi mi sono fatto ripetere l'ordine. Viene il magnifico signor padre di Madamigella, il magnifico signor Filippo e forse il capitano Cavalli che era seco loro poco fa. — Oh! poveretta me! Hai capito Gilda? presto, presto nascondi tutto questo inventario..... Afferrò dalle mani dell'archivista, il quale a bocca aperta era rimasto interrotto e interdetto, la lista dei giocali e la gettò alla rinfusa nel cofano più vicino con qualche cosa che le capitò tra le dita. — _Un para di mitine...._ Un momento, un momento, madamigella, vi prego! Un momento, o tutto il nostro lavoro sudato di stamane sarà inutile! — Viene il mio signor padre con gente di condizione, e non voglio che tutto il mio corredo sia esposto a occhi profani! — Un momento! Un momento! Per carità! — Presto, presto, Gilda! La vispa camerista ridendo sotto il naso adunco del vecchietto parea si desse d'attorno ad aumentare il disordine, gettando con apparente furia nei due cofani alla rinfusa le camicie coi fazzoletti, le braziere, le mantelline, le scuffie, le _andriene_, i busti, i guanti e quante belle cose linde si trovavano sparse per la camera, mentre l'Orengo, le mani nei capegli — pochi ed unti — levava dolorose interiezioni. Finalmente calati i coperti, e seduta sopra il più vicino, Gilda esclamò: — Auff! Non s'addolori il magnifico Orengo! Avremo così il piacere di rivederlo un'altra volta oggi stesso o domani! — Ma ho da prestar l'opera mia al governatorato — gemeva il vecchietto — tre decreti almeno da classificare e da spulciare! — Vergogna! Posporre le dame a un brutto decreto su carta raschiata! La palinodia non avrebbe vista così presto la parola _fine_ senza un susurrio di voci ed uno strepito di passi speronati che aumentavano avvicinandosi. Chiara sbiancò, cadde a sedere sulla scranna più vicina, ma poi facendosi forza e comprimendo il cuore con ambe le palme, ciò che poteva anche parere un preparativo per il prossimo reverente inchino, avanzò di tre passi verso l'uscio socchiuso, sul quale comparve sùbito il Grimaldi, pomposo, precedendo un giovane ufficiale vestito della divisa francese; ed infine la faccia assente del Cavalli sporse fra i due seria e meditabonda. — Chiara, ecco il signor Filippo Balbi, tuo sposo promesso — annunciò il governatore ed aggiunse: — Le cure del suo e nostro ministero ne hanno alquanto sofferto ma il signor Balbi era impaziente di vederti e di confermarti l'affetto suo. — Benvenuto il signor Filippo Balbi — mormorò con un filo di voce Chiarina inchinata più forse del necessario che del conveniente, premendosi però sempre con ambe le palme il cuore. — Chiedo umilmente perdono se non troverò parole degne, — rispose il Balbi profondamente chinato — ma la felicità mi toglie ogni possesso di me stesso. Il lambiccato complimento fu detto con voce metallica e precisa che mal combinava con la pretesa emozione delle parole. E probabilmente il secco animo del giovane non si sarebbe che addentrato in un ginepraio di belle frasi fredde, pur abilmente poi uscendo con tutto l'onore delle armi dal labirinto, se la Gilda avanzando le sedie non avesse posto quella del Grimaldi fra Chiara e Filippo. Il bel conversare non si aggirò dunque che sulle notizie di Genova e di Francia: anzi il governatore che teneva assai ad essere informato interrogò più spesso che non fosse interrogato distraendo, a pro suo, pensiero e viso del promesso sposo dalla sposa promessa. Eppure, anche dalle sterili nuove senza interesse per lei attingeva Chiara grande felicità: si parlava del governo frivolo succeduto al terrore, di cose senza importanza, di uomini sconosciuti, eppure ogni parola di lui era dolce per lei, come se fosse parola d'amore, perchè usciva dalla bocca del fidanzato. Pendeva la fanciulla da quelle labbra strette e sottili che s'aprivano di rado interamente, per non far vedere tutta la dentatura sana, ma ineguale e non candida. Benchè non mordesse la cartuccia Filippo Balbi usava però nei bivacchi la lunga pipa soldatesca, ciò che non si confà alla dentatura. Ma non importava a Chiarina ch'egli parlasse con grazia e di che parlasse; purchè potesse abbeverarsi e disalterarsi a quella fonte poco badava donde sgorgasse la bella linfa che le riempiva il cuore. — Il governo di Barras è scettico, teoria del giorno per giorno, del rattoppare per non rifare, sforzo di diplomazia più che azione.... — Ma i generali? Hoche? Massena? Moreau? — Braccia valide e sicure, ma braccia. Non è ancora apparso l'uomo che abbia in sè pensiero ed azione e non credo che si trovi. S'era sperato in Dumoriez, l'unico che possedesse un cervello ma dopo la catastrofe che crollo anche per Dumoriez! Hoche? Un santo, capace d'ogni sacrificio ma non di costruire. Massena un testardo intrigante. Moreau un intrigante bello, cospiratore fallito e sempre con la tentazione di ricominciare. No, credete, nulla, il vuoto. La povera Francia non ha che il cervello di Barras e la bellezza di madame Thermidor, null'altro, ed è poco, molto poco. — Genova non ha nemmeno un Barras. — Ha peggio. Il magnifico Cattaneo è un fanatico, e le nazioni non si conducono nè col fanatismo nè con lo scetticismo. La giusta misura, l'uomo capace di far l'epopea e il codice, di ragionare e di far sragionare, di dominare i cervelli e di trascinar le masse, l'uomo che sia prosa e appaia poesia.. Chiarina ascoltava: i bei conversari a poco a poco si riducevano ad un solo conversare, quello di Filippo Balbi, che abbeverato ed anzi saturo dei temi unici delle conversazioni mille volte udite nei salotti e nei caffè della Parigi del direttorio se ne pavoneggiava pur tuttavia usando della grazia e della scioltezza elegante. Più spesso Chiarina non comprendeva, non seguiva, non riesciva a capire, ma il suono di quella voce la cullava in tanti tanti sogni d'oro nei quali faceva capolino — chissà perchè poi? — _il coperto da culla di damasco giallo foderato di taffetà bordato d'argento_! E senza una ragione al mondo la fanciulla arrossiva e per impedire alle sue guance di farsi scarlatte si costringeva in uno sforzo che diventando coscienza la faceva arrossire vieppiù. Ora il conversare s'aggirava sul campo di concentramento francese a Nizza, tema d'attualità. — Quanti uomini? — aveva chiesto il Cavalli. — A un dipresso trentamila. — Come: a un dipresso? — E chi può contare, magnifico signore, le bande affamate, lacere, scalze, prive d'armi di munizioni e di capi, ribelli ad ogni fede e ad ogni disciplina, prive di soldo da mesi, ridotte a procacciarsi il vitto con i furti e le scorribande, chi può contare quella valanga immonda presso la quale mi trovo al seguito d'una specie di generale. — C'è dunque finalmente un generale? — E chiamiamolo pure così, se vi piace. È un paria còrso, affamato come i suoi soldati, mingherlino e mal nutrito che pochi anni or sono vegetava nell'artiglieria e che oggi per intrighi di donne..... S'interruppe per rispetto a madamigella Chiarina. Ma il Grimaldi, curioso come tutti coloro abituati alla grande città e costretti invece alla provincia, non istette in sè. — Raccontate, raccontate, signor Filippo Balbi. Il vostro nuovo generale è salito per intrighi di donne? — A Parigi tutto è possibile, magnifico signore: a Parigi ove un prete spretato, ex-vescovo scomunicato, regge la diplomazia, e un libertino senza legge e pudore governa, anzi sgoverna con favorite e con ballerine peggio ma peggio assai che ai tempi del Reggente o di Luigi il bene-amato, a Parigi tutto è possibile! S'interruppe ancòra e guardò Chiara. Ma la fanciulla aveva ricuperato il suo bell'incarnato più tendente al pallore che al rossore: pareva in estasi, al settimo cielo, troppo lontana, troppo estranea alle brutture di quaggiù. E d'altronde non era possibile che comprendesse nelle velate insinuazioni, il senso recondito che gli uomini afferravano immediatamente e gustavano. — Voi non potete, magnifico signore, farvi una idea della corruzione e della incuranza della classe dirigente a Parigi. La rivoluzione ha avuto almeno degli uomini: il Terrore, che Iddio lo danni, ha avuto degli uomini. Ma il Direttorio non ne ha. Armate sul Reno fiorenti affidate a generali — badate a generali, il che non vuol dire uomini di capacità direttiva civilmente — affidate a generali di coraggio e di fortuna: la Vandea pacificata per merito di Hoche, uomo di Plutarco più che del nostro secolo, e che, se un Richelieu od anche un Andrea Doria lo dirigesse, potrebbe conquistare il mondo come Alessandro il Macedone, ma che senza spalliera civile si sente a disagio e inabile a malgrado la dichiarazione di Salvator della patria come capo dell'Armata dell'Oceano: poichè hanno delle trovate letterarie quei ballerini di Parigi. Ordunque Reno e Vandea ben guarniti, mezzogiorno pur con le bande custodito, la Francia a prima vista parrebbe sicura. Ma nelle frontiere, entro i suoi confini ha il nemico peggiore: la sommossa quotidiana, il popolo disoccupato, la mancanza del pane, l'agricoltura abbandonata e Parigi, il cervello, nelle mani di un cinico e di una turba femminile avida di lusso e di piacere. La prima donnetta senza scrupoli che vi capiti diventa una Caterina dei Medici. Poco tempo fa è piombata come una cavalletta dispersa dal vento, una creola, una certa vedova Beauharnais, bellezza del diavolo, femmina fino alle unghie, la quale si gettò nelle braccia di Barras per conquistare in un sol blocco fama e fortuna. Ma Barras è infido peggio del mare e si stanca presto, peggio di un sultano: e allora per liberarsi della donna la fa sposare a una sua creatura, già creatura di Robespierre, un soldato di fortuna caduto in disgrazia, un certo Bonaparte.... Il capitano Cavalli alzò il capo sorpreso. — Bonaparte? Aspettate, signor Filippo. Un giovane quasi nero di viso, dai capegli lunghi e incolti, un aspetto di tisicuzzo..... — Perfettamente. Lo conoscete? — Sicuro: due anni or sono, mi pare, fui chiamato a Palazzo e mi fu affidata una missione di fiducia: aspettare alla Lanterna un inviato di Francia, inviato _in incognito_. E mi trovai con codesto Bonaparte, se è lui, allora generale dell'Armata del Varo, se non erro. Credo che avesse il segreto incarico di spiare il Faipoult. Rimase a Genova poco tempo e se ne andò di punto in bianco senza prendere congedo nemmeno da me. Uomo di poche parole, nervoso, malato, che tossiva, specialmente di notte in modo spaventevole, e che perdette gli occhi sugli affreschi di Palazzo Spinola, ove sono le piante di qualche nostra città capitale. Viveva d'erbe e non beveva mai vino, ma leggeva il sommo Virgilio nella traduzione dell'abate Delille. Ciò me lo rese quasi simpatico. — E invece lo è poco, signor capitano. Generale per merito di donne! Se ne accorgerà la nazione! Me lo vedo, il giovanotto generale delle sottane a rimettere in assetto le bande indisciplinate e disorganizzate del Varo! E a questo proposito, magnifico Grimaldi, mi permetterete più tardi di darvi comunicazione dei suoi ordini..... poichè li chiama ordini il côrso favorito. — Ordini! Benissimo! — E il Grimaldi rise amabilmente. — Benissimo. Ma attendendo di conoscere gli ordini del vostro generale ballerino non vi dispiacerebbe di rinfrescarvi con un po' di sciroppo di rose? Animo, Gilda, prepara le guantiere, e tu Chiarina, fa la padrona di casa! XII. Fine di marzo: tempestoso tramonto. Le nubi si accavallavano migrando in cirri giganteschi verso l'alta vallata del Nervia già quasi tutta verde per l'inizio precoce della primavera. Il castello dei duchi di Nervia, disabitato, le finestre in disordine, ma il gran portone chiuso in fondo al parco devastato, parea un albergo di spettri. Almerico di Nervia non lo abitava più da lungo tempo, forse due anni, dalla prima invasione francese. Teneva in possesso la vallata con i più fedeli fra i contadini delle sue terre e qualche soldato del Re di Piemonte: bivaccava qua e là ramingo per la valle ove gli parea che più fosse necessaria l'opera sua per tener soggetti i paesi vassalli, che aveano preso gusto a tutte le licenze dell'albero della libertà. In quella sera della fine di marzo mentre le nubi gonfie di pioggia turbinavano risalendo giganti verso le gole montane, aveva fissato il proprio accampamento sopra il paese d'Isolabona al confluente d'un minaccioso torrentaccio, gonfio per lo scioglier delle nevi, che scendeva al Nervia dalle alture di Perinaldo, raccolti gli innumerevoli rivi e rigagnoli e fossi di quella marca vulcanica ove s'aderge il paese di Baiardo e per cui si discende poi nell'opposta parte a San Romolo e quindi a San Remo. Per quella strada lunga e disagevole aspettava Almerico di Nervia una visita inusitata. Nientemeno aspettava la marchesa Fiorina di Spigno, emissaria del generale Colli, il comandante delle Armate di Piemonte e d'Austria. Il litorale non era sicuro: il generale francese Serrurier da Garessio a Savona — si credeva — Cervoni a Voltri: le valli fino al Finale risuonavano della Carmagnola e della Marsigliese. Per questo la bella marchesa di Spigno, con una mano d'uomini, cavalcando un muletto alpino s'era lanciata all'arembaggio di tutti i valichi anche i più tortuosi e per le valli del Cento e dell'Impero e poi per l'Argentina aveva intrapreso la strada poco sicura che per San Romolo, Perinaldo e Apricale discendeva a Isolabona. Una staffetta l'avea preceduta di poche ore e Almerico di Nervia, fatta continuare la staffetta al Lascaris, impiantato il bivacco a cavaliere delle due valli, attendeva impaziente. Dovevano essere importanti le notizie perchè la bella marchesa si sobbarcasse a un tanto disagioso cammino! Il Nervia, uomo di mezza età, la barba piena e rotonda, gli occhi vivaci, possente di corporatura, vestito di cuoio alla cacciatora senza sproni agli alti stivali, seduto sopra un albero dimezzato dal fulmine, tentava di spingere lo sguardo fin dove la gola già quasi buia e le nubi che parevano basse e gettate a ferirsi in fra gli alberi spettrali, lo permettevano. Non portava altra arme che un coltello da caccia alla cintura e la mano impaziente agitava lo scudiscio e le labbra irrequiete lasciavano sfuggire un fischiettar sordo e frammentario. Una calma enorme teneva le vallate, chè il vento era troppo in alto e, se accavallava le nubi, non giungeva ad urlar fra le gole: soltanto lo scrosciar dell'acqua precipitosa del torrentaccio scandiva la pace solenne. E a volta a volta lo stridulo grido delle scolte, un misto di civetta e di cucùlo, chè ovunque si avversava la rivoluzione l'allarme e l'avvertimento degli _chouans_ vandeani s'era imposto. Soltanto, a un dato momento furono due i richiami che giunsero da un punto imprecisato, due che si seguirono a breve distanza, isocroni. Il duca lasciò di flagellarsi lo stivalone con lo scudiscio, s'alzò e tese l'orecchio. Il richiamo doppio si ripetè. Nello stesso tempo, quasi rispondesse telepaticamente a un muto appello, dalla tenda più vicina che era appunto quella del comandante, benchè non differenziasse dalle altre che per le dimensioni e per essere più esposta ad ogni pericolo del cielo e degli uomini, un vecchio sbucò all'improvviso. — Hai udito anche tu, Seborga? — Sì, monsignore, e se non erro è stato il Monferrino. — Il Monferrino? Ma non è di guardia verso Isolabona. — Sì, Monsignore! — Non è dunque ancora avvistata questa benedetta Marchesa? — No, monsignore: credo che sia invece il conte Lascaris. A malgrado l'impazienza che l'aduggiava, il duca Almerico non potè trattenere un sorriso. — Benedetti gli innamorati! — Dice un proverbio, monsignore — confidenzialmente aggiunse il Seborga — che il cuore marcia con gli stivali delle sette leghe. — Avrei preferito parlare senza testimoni con Fiorina! — Ma il conte Lascaris se ne sarebbe offeso. — Hai ragione, vecchio Seborga. Nella tua bocca si forma il buon senso. Va' all'incontro degli ospiti, amico mio. Il vecchio obbedì, come un fedele scudiero doveva ubbidire. Fido servo del Nervia, nato sulle terre feudali vent'anni prima del suo padrone, il Seborga non se n'era staccato un solo giorno da quando lo conduceva a tuffarsi nel mare, e gli insegnava a cavalcare a dorso nudo. Non viveva che di lui e per lui, e ne conosceva i più reconditi pensieri, quelli anche, forse, che Almerico non confessava neppure a se stesso. Muto, impassibile, non apriva bocca e non diceva la propria opinione che in presenza del suo solo padrone, a tu per tu, senza ambagi e senza falsi rispetti. Almerico di Nervia conservava una superstiziosa fiducia nei giudizi sommarï del vecchio Seborga: anche in quella sera quando lo vide tornare precedendo gli ospiti, l'interrogò con lo sguardo fisso. Il vecchio crollò il capo, segno che qualche cosa non gli garbava. Ma non potè saperne il pensiero completo: dietro di lui, concitato apparve il Lascaris seguito da un gruppo di uomini ignoti al Nervia. — Ebbene, Almerico? — Nulla ancora, Luca: sii calmo, te ne prego. Con un cenno interrogativo mostrò le persone sconosciute che seguivano l'ospite e che s'erano fermate a qualche passo di distanza. Il Lascaris si ricompose. — Hai ragione, duca, hai ragione. D'un gesto staccò una persona dal gruppo: — Il conte Emanuele Embriaco. Mentre alzava lo sguardo al sopraggiunto, Almerico di Nervia incontrò l'occhio assonnato per abitudine ed ora sfavillante del Seborga. Per il che osservò attentamente, quanto almeno la cortesia gli permetteva, il gentiluomo presentato e che si inchinava amabilmente. — Benvenuto, signor conte, — disse poi. — Sapevo che da qualche giorno eravate ospite dei nostri in oggi poco ospitali paraggi. E ringrazio il conte Lascaris di avervi qui condotto.... Luca l'interruppe. — Almerico, permetti! Il conte Embriaco non sa ancora la ragione della mia venuta. Abbiamo fatto diverse strade: io pel litorale, egli per la Rocchetta e non ci siamo congiunti che al confluente giù, ove credevo di trovar Camillo Altariva disceso per le Maure, e che invece è ancora in ritardo. Appena raggiunto, mi premeva correr qui da te.... — Comprendo, comprendo. Tanto più ti comprendo..... Strana cosa! Il muto Seborga, vassallo dalla nascita e come tale quindi beneducato a rimanere al suo posto davanti a personaggi pari al padrone, intervenne con una famigliarità che soltanto un ecclesiastico potea permettersi pur essendo di rango inferiore. — .... in quanto la signora marchesa di Spigno non giungerà, questa sera almeno. Padrone di se stesso Emanuele Embriaco lo era e lo dimostrò nel non lasciar muovere un sol muscolo del viso: ma non così il Ricciuto che gli stava a qualche passo dietro e che trasalì di colpo. Almerico di Nervia osservò l'ombra che s'era spostata violentemente al solo pronunciar di un nome e sporse il capo come se interrogasse il Lascaris sulla scorta. — Gente fida, Almerico: gente mia e del conte Embriaco. Troppo uso l'avventuriero agli agguati ed alle sorprese d'ogni genere per lasciarsi placar da un cenno di capo rassicurante: aveva seguito lo sguardo parlante del Seborga, drizzate le orecchie all'infrazione d'etichetta che nemmeno il trovarsi in campagna autorizzava, e per di più lo scatto del Ricciuto e la curiosità istintiva del Nervia erano sopravvenuti per non lasciarlo troppo tranquillo. Per la qual cosa credette opportuno di correre al riparo e lo fece con scioltezza elegante. — Gente fida, sì, duca, ma non mia. Il conte Lascaris non ricorda esattamente. Ricciuto, Bracciodiferro, avanzatevi. I nominati obbedirono. — Permettetemi signor duca: il Ricciuto, maresciallo d'alloggio del Re di Piemonte, Nostra Sacra Real Maestà.... Si scoprì e tutti l'imitarono. Poi continuò: — .... appartenente al Presidio della Ferania. E Bracciodiferro vassallo del signor marchese di Spigno. Un istante di silenzio. Rumoreggiò il tuono al nord verso il monte Altomoro. Qualche rada goccia di pioggia crepitò sulle foglie novelle. Nel silenzio il torrente raddoppiò lo scrosciare. A ricomporre animi e visi, ecco il Seborga impassibile, nella sua compostezza servile di vassallo di gran casa: — Il signor duca e gli ospiti del signor duca sono serviti di rinfreschi nella tenda del signor duca! XIII. Primo a rompere il silenzio fu Luca Lascaris. Il pensiero che l'assillava mal gli faceva sopportar l'inazione. Avrebbe voluto muoversi, avrebbe voluto risalir verso Perinaldo incontro alla donna tanto più amata quanto più da mesi e mesi ne ignorava la esistenza sentimentale. — Mi stupisco di una cosa, di una soltanto, duca, e cioè di vederti qui inattivo e neghittoso mentre una dama corre chi sa quali pericoli, alle prese con le spie francesi e con i banditi della vallata. Muoviamoci, per Nostra Signora di Lampedusa, andiamo tutti incontro alla dama che viene verso di noi: le abbrevieremo almeno le fatiche del cammino. — Perfettamente ragionato, Luca, — rispose il Nervia pacatamente — Non sono io l'uomo al quale tu puoi rimproverare di mancar di riguardo non solo verso una dama del nostro mondo, ma neppure verso una donna. Ti prego soltanto di prestarmi attenzione e di arrischiare uno sguardo fuori di questa tenda: è posta sull'innesto di due sentieri, l'uno che sale a Perinaldo, l'altro che s'inerpica verso il nord, e precisamente verso il valico del Cravana. Da qual parte discenderà la marchesa? Non potevo arrischiare di mandarle incontro il mio vecchio Seborga, quantunque conosca le parole di benarrivo, degne di una tal dama.... Il Seborga afferrò immediatamente l'occasione che gli porgeva il suo signore. Disse, umile, con voce dimessa: — E d'altra parte il signor duca bramava attendere gli eccellentissimi signori conte Lascaris e Camillo d'Altariva.... Anche il Seborga si rifiutava di pronunciare il nome Altariva privo dell'attestazione di nobiltà. — Eccomi, — interruppe Luca — dividiamoci ed avviamoci! Almerico di Nervia consultò con lo sguardo il fido scudiero e replicò: — Che ne consigli, Seborga? Il vecchio servo rispose: — Ho l'onore di approvare il progetto dell'eccellentissimo signor conte Lascaris. — Ben parlato, per Nostra Signora di Lampedusa. Questo è per te, vecchio Seborga: tienlo per mio ricordo! Staccò dalla cintola il pugnale dall'impugnatura aspra di borchie preziose e lo porse allo scudiero. — Umilmente ringrazio Vostra Eccellenza, e mi auguro di sguainarlo presto in vostro servizio.... — E della marchesa Fiorina! — E della eccellentissima e graziosa signora marchesa di Spigno. — Sia pure — concluse il Nervia — dividiamoci. Ma chi attenderà Camillo Altariva? Incoraggiato dal buon successo, il vecchio Seborga si permise ancora di interloquire. — Se le Vostre Eccellenze permettono..... — Ascoltiamo il parere del mio buon Seborga, — annuì Almerico di Nervia — Se avesse presto il braccio come ha pronto il senno, ci porterebbe certo a guidare contro le masnade avide e brute di Barras e di Arena. — Se pure è sempre Arena che ci viene incontro dal Varo — mormorò Luca Lascaris — Mi parlò il Grimaldi d'un generale ballerino mantenuto di donne..... — O Arena o chi sia lo sapremo sempre a tempo, Luca: ma ascoltiamo il piano del Seborga! Anche l'Embriaco ne parve desideroso. — Ecco, eccellentissimo: sarei dell'umile parere che il mio eccelso signore qui rimanesse ad attendere il signor d'Altariva, o la illustre dama di Spigno, la quale potrebbe — e non ne stupirei — ben anco evitare i sentieri e scendere direttamente dai monti. Il signor Conte Lascaris ed il signor Conte Embriaco potrebbero affrontare i due sentieri. — E come divideresti la scolta, Seborga? Il vecchio scudiero non rispose: parve attendere che altri lo facesse in vece sua: ma nessuno fiatò. Un'occhiata dell'Embriaco era bastata per fermare un'imprudente offerta del Ricciuto che aveva seguiti i nobili signori nella tenda per invito del Seborga. Il quale allora terminò: — Bracciodiferro, vassallo del Marchesato, potrebbe seguire il signor conte Embriaco ed andare così incontro alla sua nobile signora, ed il Ricciuto — lo salutò graziosamente — far la scorta al signor conte Lascaris. — Accetto — rispose l'Embriaco. E parve felice. — Accetto — ripetè il Lascaris. E poi: — Affrontiamo la via prima che faccia notte. — Non senza il bicchier della staffa, eccellentissimi ospiti ed amici — propose il duca. Il vino rosso di Dolceacqua fu mesciuto nelle ciotole di legno che il Nervia usava portar seco nella sua vita errabonda: tanto l'Embriaco che il Lascaris vi appressarono appena le labbra, e così pure il Ricciuto. Ma Bracciodiferro che fumava la pipa seduto sul tronco d'albero su cui ci è apparso il Nervia, non si fece pregare: ne bevve anzi più del necessario. Ora, il vino rosso di Dolceacqua è traditore, dà alle gambe: sicchè quando le due piccole truppe vollero incamminarsi, il vassallo del signor marchese di Spigno tentò inutilmente d'alzarsi. — Per tutti i diavoli di Satanasso — masticò la lingua grossa e la bocca pastosa — per tutti i diavoli di Satanasso, giuro che non mi è mai capitata una cosa simile! — Ciò significa, signor mio, che non avete mai trincato del vino di Dolceacqua, — gli osservò mellifluamente il Seborga. — Vino di Dolceacqua? Che canchero mi va dicendo il vecchio Gelindo! Vino di Dolceacqua? Ma ho tracannato botticini di vini delle Langhe e del Monferrato, del Polcevera e delle Cinque Terre, senza che le gambe mi facessero mai un simile scherzo. Per tutti i diavoli di Satanasso e per le sue cinquecentomila spose! non avrei mai creduto che un bicchierotto di legno col fondo alto un dito mi conciasse in questo modo! Alle gambe il vino! Ho sempre creduto che salisse al cervello! — Al cervello di chi ne possiede, balordo — gli rispose ben secco l'Embriaco, apparso per l'appunto sul passo della tenda — al cervello di chi lo ha! Per intanto eccomi qui ridotto senza scudiero! — Non sia mai detto che la Eccellenza vostra non venga servita come merita! E che debba privarsi di chi le regga la staffa, — replicò il Seborga. — In mancanza di questo balordo, che davvero, m'accorgo, non può muoversi, ascriverò a somma ventura di offrire i miei umili e modesti ma zelanti servigi al signor conte! Solo allora l'avventuriero comprese che il tiro non era accidentale, ma servito con tutte le regole, e che il Seborga nascondeva un pericoloso disegno a suo svantaggio. Già ne aveva avuto il primo sospetto nell'udirgli svelare il probabile arrivo della marchesa di Spigno, che il Lascaris gli aveva taciuto, morso da un po' di gelosia, di cui non sapeva padroneggiarsi dopo la famosa lettera. Ma quello che era stato quasi fanciullesco pudore e innata ritrosia qualificò per disegno a suo danno ed unì Luca e Seborga in una sola intesa. — Attento Emanuele — mormorò internamente a se stesso — qui si congiura contro di te. Attento, mio caro! Ma padrone de' propri nervi mostrò un viso ilare alla cattiva fortuna e cennò amicalmente al vecchio scudiero del duca di Nervia. — Ci guadagno una guida senza pari, — dichiarò. — Per il che, tutto sommato, posso anche perdonarti l'infrazione alla disciplina, Bracciodiferro. Ma ne riparleremo al mio ritorno, se tutto sarà andato a dovere. Bracciodiferro apparve così sbalordito che trangugiò senza far motto il balordo regalatogli prodigalmente dal Seborga, mentre in tempi normali avrebbe per lo meno denudato, senza pudore alcuno lo schidione che teneva fra le mani. Il Lascaris già in sella, impaziente, frenetico quasi, troncò la possibile querimonia. — Andiamo! Andiamo dunque! — Sii prudente, Luca — ammonì il Nervia. Per tutta risposta l'altro spronò il cavallo. Il Seborga resse la staffa all'Embriaco, il quale salutò l'ospite con tutta cortesia. Poi lo seguì. Le due piccole truppe s'avviarono per qualche diecina di minuti entro lo stesso malagevole sentiero, poi, giunte ad un bivio, senza parola si separarono, dirigendosi l'una verso levante e l'altra, quella dell'avventuriero, verso il nord, fosco e chiuso. XIV. Per un po' di tempo cavaliere e scudiero — quest'ultimo a piedi presso la staffa a sinistra — tennero la testa del manipolo composto di sei valligiani. E stettero silenziosi. La strada era d'altronde malagevole, un sentiero da capre, che soltanto il cavallo montato dall'Embriaco, un cavallino tozzo delle scuderie del Nervia, poteva arbitrarsi a tenere. S'inerpicava il sentiero nel buio fondo incassato entro una specie di depressione del terreno, spoglia d'alberi e d'erbe, e rocciosa a giudicarne dal battere isocrono della zampa equina, che tentava ogni volta, prima di posarsi. — Da che parte mi conduci, amico? — domandò l'Embriaco al Seborga chinandosi nel buio, ove possibilmente potea trovarsi il compagno. — Che la Eccellenza vostra si lasci guidare, mio grazioso signore: potrò forse errare, chè tutti noi, miseri mortali, siamo soggetti all'errore, ma ho nel pensiero che la nobilissima signora marchesa per più sicurezza abbia preferito scendere dal Monte Acuto, e, fra il Bucarin e il Cravana, girando quest'ultimo, riprendere per Apricale. In questo caso è proprio verso di noi, fortunati, che apparirà d'improvviso. — Me ne dispiace per il conte Lascaris, — osservò ridendo l'avventuriero. — Ma perchè hai scelto questa strada per me, amico? — Non ho scelto, mio nobile signore. Il conte Lascaris si è avventato sulla via di Perinaldo, su quella cioè che gli è parsa la più probabile. Ma ho in animo che abbia errato, se posso così esprimermi per un tanto illustre signore. — Andiamo dunque incontro alla bella Fiorina! E chi sa che non l'accompagni il buon Ibleto pel quale certo l'amico arcade Amarillo Glucosio troverebbe la rima in faceto. — Il signor marchese di Spigno! Voi credete che il signor marchese di Spigno possa viaggiare in compagnia della illustre signora marchesa? Tutto quanto era di pertinenza del marito, aggettivi e titoli il Seborga pronunciava con un'apparente colore di sprezzo, mentre riserbava la tinta, dell'entusiasmo per la bella Fiorina. — E perchè no? Forse che non sono marito e moglie? O monsignore il Papa ha scoperto per dividerli qualche impedimento? — Sono, è vero, marito e moglie, — replicò il Seborga con tanta serietà nella voce che l'altro ne fu colpito — ma sono pur anche, e più profondamente del burrone che fra poco fiancheggeremo, divisi dalla politica. La marchesa è per il Re. Il marito è un giacobino e un volterriano. Credevo che la Eccellenza vostra, che ha dimestichezza con le corte di Spigno, non l'ignorasse. L'Embriaco drizzò le orecchie. La parola dimestichezza era stata pronunciata con una tal qual tinta d'ironia che mal gli suonò: l'altra parte ogni motto del vecchio scudiero gli giungeva fasciato d'intenzioni oscure e gli facea bollire in petto impeti d'ira trattenuta. Le relazioni fra l'Embriaco e i marchesi di Spigno erano state cordiali sì, ma solamente col marito: per la sua avversione alla Repubblica di Genova, dominazione oligarchica senza alcun effetto di governo reale, fastosa, vuota, solenne e nulla, s'era trovato l'avventuriero immediatamente d'accordo con Ibleto di Spigno: con Fiorina invece poca dimestichezza: il Ricciuto con i suoi uomini s'erano accompagnati per un tratto breve di strada, quello che dalla Ferania va a Savona, poi tanto l'Embriaco che il Ricciuto conosciutisi ed apprezzatisi a vicenda avevano allungato insieme il cammino, semplicemente. I soldati in quel tempo camminavano come tante pecore dietro il campanello del capo mandra, nè si sarebbero stupiti se il Ricciuto li avesse condotti in Bretagna o in Iscozia, come avvenne per l'invasione francese dell'Irlanda. D'altra parte Bracciodiferro e i suoi scherani seguivano l'Embriaco: o perchè non avrebbero dovuto seguirlo i soldati regolari del Ricciuto? Tutto questo però non aveva aumentati i rapporti dell'avventuriero con la marchesa Fiorina, che conosceva appena. Ora per l'appunto, dati simili precedenti, ecco la ragione dell'inquieto animo di Emanuele Embriaco! Infine, che cosa sapeva quel dannato vecchio scudiero? Era forse a cognizione della falsa lettera di Fiorina a Luca Lascaris? Sospettava o non sospettava nell'avventuriero quello che era veramente? O che era poi veramente Emanuele Embriaco? Fino a quel punto uno spettatore, e disinteressato, che avrebbe potuto decidersi o per il Piemonte o per la Francia, a seconda, od anche per la Serenissima ove i Serra, i Brignole ed i Cattaneo fossero mandati a piantar cavoli nei propri orti feudali: non aveva preferenze Emanuele Embriaco, e soddisfatto qualche odio personale non avrebbe chiesto che una buona paga e le terre e i palazzi confiscati. Tale era la sua posizione dopo tutto: ma chi può ben giudicare delle persone e chi è giusto? Non il Seborga certo. Il quale Seborga, sospettoso, come tutti coloro che tengono ambe le chiavi del cuore del proprio signore, ma pur furbo, lavorava, secondo il pensier suo, diplomaticamente. — Non è forse la Eccellenza Vostra addentro alle cose della corte di Spigno, come il signor conte Lascaris ha assicurato al mio padrone? — Ah! cani, — mormorò fra sè l'Embriaco — te la darei io la corte di Spigno, a te e a quel zotico del tuo padrone! Zotico no, ma vestito fuori di moda sì: in certo qual modo il damerino Embriaco s'apponeva. E ad alta voce: — Sono, è vero, intimo di quella che tu chiami la corte di Spigno, ma se ho parlato di politica, qualche volta col marchese Ibleto, mi sono ben guardato dall'importunare la graziosa marchesa. — Si tratta di princìpi, non di politica, illustre signor conte! A questo punto, miglior guida del Seborga, il cavallo dello Embriaco si fermò duro sopra un ciglione rifiutandosi d'avanzare e scuotendo la testa e tentando impennarsi. — Manda a vedere che accade, scudiero! Il Seborga obbedì: mandò due degli uomini di scorta, i quali tornarono subito con la lieta notizia che si trattava di un impiccato. — Che ne avete fatto? — Lo abbiamo gettato nel precipizio. L'Embriaco si curvò nel buio e chiese con la sua voce più tranquilla e più melliflua: — C'è un precipizio, vicino? — Sì, mio illustre signore, un burrone a dirupo: lo costeggeremo fra poco. Ma non temete: conosco la via. — Sono perfettamente tranquillo con te, amico. Se non che un passo falso è presto fatto ed un altro qualunque impiccato può farmi impennare il cavallo. È dunque meglio che i tuoi uomini ci precedano, come del resto mi par prudente: daranno meno o meglio l'avviso. Il Seborga approvò. — L'illustre signor conte Embriaco ha ragione! I sei uomini che rimanevano al seguito raggiunsero i due che si trovavano all'avanguardia. Ed il drappello riprese il suo cammino: soltanto il Seborga rimase alla retroguardia, qualche passo dopo la staffa destra dell'Embriaco, avvicinandosi e mettendosi quindi alla pari quando intendeva parlare. Il tempo carico e buio s'era mantenuto calmo come se aspettasse lo scoppiare della tempesta. A volte nello addentrarsi della comitiva in qualche gola si sentiva il vento fischiare e gli alberi svettare, a volte invece la calma era di tomba. Quando però il drappello riprese il cammino nell'ordine sopra descritto cominciarono a cadere grosse goccie di pioggia. Poi rumoreggiò il tuono, lontano. — Fra poco avremo un regalo — susurrò nel buio la voce del Seborga. L'Embriaco istintivamente si tastò alla cintura, sentì il largo e acuminato coltellaccio da cinghiale e pensò che meglio sarebbe stato entro le carni del vecchio scudiero che non nello sdruscito fodero di grosso cuoio. Ma riflettè che un grido solo, un solo grido l'avrebbe dato nelle mani della scorta a lottare contro gli otto contadini. — Eppure — pensava — quest'uomo m'incomoda. Che cos'abbia con me non so, che sospetti non so nemmeno. Sento che mi prepara qualche brutto scherzo. Ad ogni modo sarebbe prudente che scomparisse prima d'un probabile incontro con la Spigno, poichè sento che proprio noi, a maggior dispetto di Luca Lascaris, incontreremo la bella Fiorina. Scomparire è presto detto: ma come? Quasi in risposta guizzò in capo alla gola un lampo violento, mostrando nel serpeggiar che fece scoscese pareti di monti irti di alberi spettrali e profondo incavo di valle. — Tenetevi a sinistra, signor mio colendissimo, — avvertì il Seborga alle spalle del cavaliere — chè siamo in prossimità del burrone. Per tutta risposta l'Embriaco liberò dalla staffa il piede destro. Un altro lampo guizzò, il tuono rombò a breve distanza. Le rade goccie s'erano mutate in pioggia dirotta, che ad uno svolto improvviso lanciata dal vento venne a flagellar la comitiva. Poi uno scrosciar d'acqua quasi sotterraneo risuonò nell'abisso. — Dove siamo, Seborga? Sul burrone? — Sì, monsignore! Tenetevi a sinistra! Un altro lampo: e al breve lume l'avventuriero scorse alla sua destra un precipizio scosceso e roccioso come fauci spalancate ad inghiottire. Allora frenò impercettibilmente il cavallo, così da permettere allo scudiero che lo seguiva di mettersi al suo passo. Come lo avvertì aderente alla gamba destra libera dalla staffa, l'inarcò, la sferrò, e d'un calcio possente lanciò il vecchio che non stava sulle sue e che non ebbe il tempo d'un urlo, nell'abisso. XV. La notte nera e tempestosa a poco a poco nello schiarir dell'alba s'acquetava quando un primo strappo nella cortina plumbea s'appalesò verso l'alta valle del Nervia. Un cane lupo tutto nero, dagli occhi di brage abbaiò furiosamente da un greppo spianato su cui sorgeva una capanna da pecoraio in maggese, muro a secco e tetto di paglia. In quel primo livido incerto apparir del giorno, quel cane avventato sul ciglio del greppo, le orecchie e la coda inarcate, il pelo arruffato, aperte le fauci e le pupille sinistre, parea l'unica viva cosa del creato, l'unico ribelle. — Nerone! Che c'è, Nerone? Il cane scuotendo la coda raddoppiò il furore. — Nerone! La voce che chiamava il cane era evidentemente una voce di donna: veniva dalla capanna nuda al cui stipite dell'imposta era addossata la sentinella, un soldato regolare piemontese, la doppia tracolla allentata, il fucile fra le gambe, il capo coperto dal berretto a punte e le ghette color cioccolata. Probabilmente la guardia s'era addormentata, nè l'abbaiar del cane nè la voce femminile erano abbastanza forti per destarlo. — Nerone! Il cane si voltò scodinzolando come se presentisse l'apparire di qualcuno, e infatti, scostando appena l'imposta pesante ed informe, apparve sulla soglia un'amazzone. Probabilmente non la si sarebbe creduta pericolosa se chi la doveva giudicare si fosse fermato all'apparenza: una statuetta di Sassonia bionda, esile, guance color di rosa e nasino impertinente a dividere due occhi azzurri insondabili. Il cane lupo, che rispondeva al nome di Nerone, venne a prostrarsi dinanzi a due piedini minuscoli calzati d'alti stivaloni rossi e poi s'alzò a lambire due manine di fata, nude però, dalle unghie rosse, così, che parea si fossero intonate alle guance. Tanto i piedini come le piccole mani — a quanto parve — non bastarono a Nerone perchè d'un balzo tentò una più ardita carezza, nientemeno che di lambire una guancia. Ma una frustata della fragile mano che si mostrò invece di ferro, lo fece ricadere a terra mortificato, e Nerone per darsi un contegno o per rimediare con un servigio l'ardimento, si rilanciò ad abbaiare furiosamente sull'orlo del ciglione. — È certo che Nerone sente qualcuno! — mormorò la dama aguzzando la vista per quanto la foschia mattutina glielo permetteva. In quella che si chinava come se volesse lanciar lo sguardo nel vuoto, inarcando la bella gamba che lo stivalone rosso calzava come un guanto, dalla capanna rimasta semiaperta uscì un nuovo personaggio. Era un vecchio segaligno dal viso arrugato e non raso da qualche giorno, chiuso in un pastrano color nocciola a doppia fila di mantellina che non passava il gomito: non ne usciva da una parte che la testa e dall'altra i piedi chiusi in stivaloni gialli sormontati da una fibbia di ferro greggio. Camminò verso la dama a piccoli passi da salotto, soffiandosi accuratamente sulle dita. Poi disse: — Fiorina, amica mia, vi pare il modo forse di lasciar socchiusa la porta di quella stamberga? Una stamberga che neanche Gian Giacomo avrebbe accettato per mèta delle _Passeggiate d'un solitario_? E solitario mi avete lasciato, mia bella amica? E di amici si ha bisogno!..... Senza ascoltarlo, intenta verso il vuoto velato dalla nebbia, la dama gli chiese, noncurandosi nemmeno di voltarsi: — Ma davvero, Ibleto, non sentite nulla? Il cane raddoppiò i latrati furiosi, irto il pelo, quasi inferocito contro l'invisibile. — Sentire? Sentite qualche cosa? E che cosa? — Ascoltate, ascoltate! Ma silenzio! — Silenzio? Silenzio, se volete. Volete che la mia voce possa far concorrenza a quella di una donna? — Ascoltate, ascoltate! L'altro tese l'orecchio, docilmente. — Ascolto. Ascoltiamo. L'occhio gli brillò: tutto un impeto di sarcasmo che non gli colorì il viso nè glielo illuminò, visse nella pupilla. Ma la piccola dama non gli badò; per qualche momento se ne stette nella posizione d'attenta aspettativa, sporta sul ciglione, poi ad un tratto esclamò: — Ecco, guardate, non m'ingannavo! Dalla bruma sottostante uscirono prima il rumore di sassi scostati ed urtati, poi delle voci, infine delle vaghe siloette umane. A capo delle quali un cavallo col relativo cavaliere, seguito da una scorta di otto soldati regolari. — Guarda! Guarda! Guardiamo! Per il primo neo vezzoso che hai portato, Fiorina, giurerei di conoscere quell'uomo! Quell'uomo ha già fatto breccia nella mia memoria di prim'ordine dopo quella del signor di Fontenelle. — Non posso dire altrettanto, Ibleto. Quell'uomo mi è perfettamente sconosciuto. In quella ecco la cavalcata salir l'erta del ciglione e presentarsi dinanzi all'accampamento. Il cavaliere che la precedeva, senza attendere che qualcuno gli reggesse la staffa, balzò di sella e venne precipitosamente a piegare il ginocchio davanti alla marchesa, radendo il suolo col feltro. — Ecco, a malgrado le brume, il sole è già sorto per me, chè i miei occhi vedono la bellissima signora Marchesa Fiorina di Spigno e si rasserenano poi nel contemplar la saggezza fatta persona, l'eccellentissimo e nobilissimo signor marchese Ibleto di Spigno! — Per la natura maestra di tutti noi! Ma è l'Embriaco, quella buona lana di Emanuele Embriaco! In fede mia, Embriaco, mi par di leggere un capitolo del Gran Ciro o dell'Astrea o un romanzo del signor De Foe, tanto mi stupisco! La marchesa di Spigno aggrottava le sopracciglia in segno di contenuto dispetto: aveva sperato fino a quel punto, complice la semi-oscurità della mattina, che fosse un altro il cavalier dell'incontro. E lo sapeva quest'altro che Fiorina si trovava per istrada collo specioso pretesto della politica, ma in verità per arrendersi all'ardore di certe lettere insensate e pazze. _«Fiorina, anima mia, — _diceva qualcuna di quelle lettere,_ — pietà di me che non vivo più, che ti sogno anche ad occhi aperti, che ti desidero come un assetato, non vivendo che per te, macerandomi nell'impossibilità di correre a te come tutto il mio essere pretende. Fiorina, anima mia, come non senti la mia passione e poichè l'amor mio qui m'incatena, perchè non ti muovi alla mia volta, crudelissima cara, tiranna dolce di colui che una volta si chiamava....»_ E qualcun'altra: _«Il mio dovere lo so è oggi più forte dell'amor mio. Ma domani, ma domani, Fiorina? Per carità, vieni! Tu che mi fosti accesa amante, siimi da lontano amica, per tramutarti poi quando le mie braccia ti stringeranno al mio seno, come si tramutavano le Dee quando accorrevano ai mortali che le adoravano in sogno»._ E un'altra ancora: _«Questa notte mi sono apparsi gli avi miei, dal prode che si oppose a Magone Cartaginese a quello che vinse il Cesare romano, dall'imperatore di Bisanzio al Trovatore di Provenza, dal Crociato che seguì Pietro l'Eremita al consigliere sereno del Bearnese: tutti dall'amico di Filiberto, che gli cavalcò vicino quando entrò in Pinerolo, a colui che digiunò con Vittorio Amedeo: tutti mi apparvero piangendo, Fiorina, tendendomi le braccia e scuotendo mestamente le teste pensose. — Che avete, lor chiesi, perchè piangete? — E quelli: — Perchè tu certo domani calpesterai l'onor della tua casa e abbandonando le tue terre all'invasore correrai pazzamente da una donna, che è la tua signora, e pel cui bacio daresti — che monsignor Gesù te lo perdoni — anche l'anima tua e la tua vita eterna»._ Ed altre ed altre ed altre, tante da emular in numero le opere del signor Aronet di Voltaire o del grande Muratori. Tante che Fiorina aveva dovuto ordinare un cofano capace e comandarne la serratura a un fabbro fiorentino sotto un falso nome perchè un'altra simile non si trovasse nel Regno di Sardegna. Tante che le avevano fatto dimenticar senno e prudenza e spinta al viaggio penoso, poichè in quei tempi politica e guerra non servivano spesso che di pretesto all'amore. Non aveva, pudor di dama contegnosa, osato certo di avvertir l'amante dell'arrivo prossimo, no, ma sibbene il duca di Nervia, di tutto consapevole, e che non avrebbe mancato di fare, anche indirettamente, l'ambasciata. Ciò che noi sappiamo era infatti avvenuto. Ed ecco, invece del bel cognito viso, della persona ben cognita, un volto ed un uomo sconosciuti, il quale pur tuttavia sembrava gentiluomo a giudicarlo dal gesto corretto con cui si tolse il feltro sformato dalla pioggia e dall'inchino profondo sì, profondissimo anzi, ma di stile, che gli piegò la persona per qualche minuto e cioè fino alla prima parola che la marchesa pronunciò, e che fu: — Buon giorno, signore! — Fiorina, mia cara, permettete ch'io faccia le presentazioni. Vi presento il conte Emanuele Embriaco, che suppongo del partito.... — .... della bellezza. Così l'interruppe il nuovo arrivato. E continuò: — È impossibile che in questo fosco mattino, il quale pretende farci credere che il sole sia nascosto mentre acceca me poveretto ma prediletto dagli dei, è impossibile pensare con altro che con gli occhi se pure abbacinati. Prego la eccellentissima signora marchesa di Spigno di accogliere il mio umile fervente e devoto saluto come in Elicona le Muse accoglievano benigne anche i più umili canti dei semplici pastori. La marchesa — le donne facilmente sono disarmate dalle parole sonore che forse non comprendono ma che sempre intendono — sorrise all'Embriaco, mentre Ibleto di Spigno, sarcastico ma fine, proruppe: — Ben tornito, ben tornito, il madrigale! Madrigale che il cavaliere di Parny avrebbe chiuso certo nel castone di una quartina e Piron entro uno snello epigramma, li vedo, ma non vedo chi li avrebbe detti meglio in prosa, nè gli Scudery, nè l'abate Bernardino Viale, mio collega in Arcadia, e dolce più del miele attico, siccome mi dice il nome di Glucosio che porta. A proposito di porta, se rientrassimo nella capanna? Punge il mattino, Fiorina, più che le spine delle rose di Ronsard. XVI. La Marchesa con un cenno del capo approvò l'invito, e precedette i due nobili signori nella capanna. Oggi, la pratica vita che viviamo fa degli accampamenti notturni improvvisati un sommario emporio delle pochissime cose indispensabili: l'individuo esce dalla cornice abituale, cornice dorata, per entrare, una notte almeno, entro una cornice grezza e si obbliga a tante piccole rinunzie che addizionate formano il disagio. Non allora. Il lettore ne avrà un esempio se mi permetterà di mostrare succintamente l'interno della capanna, il giorno prima oscuro e miserevole abitacolo di mandriani, oggi, ossia nel giorno in cui vi entriamo, non indegno ricetto della marchesa di Spigno. Pareti e tetto occultati da pesanti cortinaggi di broccato rosso ed il terreno battuto coperto di tappeti folti: un paravento alto la tagliava a metà ed occultava il letto della signora, ma non l'inginocchiatoio: al di qua una tavola bassa, molti cuscini e persino qualche stampa di scena villereccia appuntata nella tappezzeria: sulla tavola un volume aperto ed una lucerna a molti becchi. Semplice, come il lettore vede, facilmente smontabile e facilmente ricostruibile, ma comodo e tiepido, chè non vi mancava un bracere per mitigare la temperatura notturna. Emanuele Embriaco non era certamente abituato alle mollezze, ma le pregiava, e quando gli era possibile se ne circondava. Sedette quindi volentieri ad un cenno della marchesa in sui cuscini offerti ed accettò una tazzina di caffè dalle mani d'Ibleto. Poi cominciarono a conversare e conversarono amabilmente, anche parlando di cose quotidiane e pressanti. Diede la stura il signor di Spigno che assillava la curiosità. — Come e perchè, se mi è permesso interrogarvi, e v'interrogo nell'interesse comune, ho la fortuna di vedervi sorgere dalla bruma in questa mattina che ha la pretesa di annunciare la primavera, o valoroso Embriaco? Parve all'avventuriero di sentir fissi e imponenti sopra di sè due formidabili occhi femminili. Già nel vedersi dinanzi invece della sola Fiorina anche Ibleto, avea pensato che l'appuntamento col Nervia e gli amici suoi dato dalla marchesa fosse dal marito ignorato. Era doppio il gioco e lo sguardo parlante di Fiorina chiedeva all'Embriaco una tal quale complicità, se, come sospettava la dama, fosse l'avventuriero in relazione col Nervia: ed ecco perchè aveva guardato e non parlato: poteva l'Embriaco trovarsi sbandato e solo senza alcuna relazione con i cospiratori. Ma la complicità con Fiorina serviva all'avventuriero, il quale ricambiò lo sguardo con un altro d'intesa e in cuor suo si rallegrò di non aver al seguito nè il Ricciuto nè Bracciodiferro troppo noti al marchese di Spigno. Pensò: — Quel maligno di un Seborga — pace all'anima sua, _requiem aeternam_ — è stato di una furberia che si è voltata a mio vantaggio: gli farò dire una messa quando ne avrò l'occasione. Per intanto liquidiamo Genova. E rispose ad alta voce: — Se vi è permesso interrogarmi? Ve ne prego. O sono indotto in grossolano errore o mi par che voi pure, eccellentissimo, non vediate di buon occhio, la politica della Serenissima.... E pensava: — Genova posso buttarla a mare impunemente: nè Fiorina nè Ibleto ci tengono. Infatti il marchese scoppiò in una stridula risata. — La Serenissima! Darei volentieri un Manuzio petrarchesco, che amo come la pupilla degli occhi miei, per sapere che cosa macchina la repubblica di Genova. E lo darei in pura perdita, gioco, poichè la repubblica di Genova, a mio avviso, non macchina un bel niente. Poichè niente può macchinare un cervello vuoto. — Sono del vostro avviso per il partito al potere. Ma il popolare del farmacista Morando e dell'eccellentissimo Cattaneo? — Popolare? Che popolare mi andate cianciando? Ciance, vere ciance quelle del partito del popolo: levati di lì che mi ci metto io. Non c'è partito di popolo senza libertà, uguaglianza e fraternità. — Lo supponevo — fra sè gioì l'Embriaco. Ma l'occhio fisso ed insistente di Fiorina pesava sempre sull'avventuriero, il quale rispose con uno sguardo d'intesa. Intanto Ibleto proseguiva: — Ma per tornare a voi, signor conte, e sempre con vostra licenza, qual'è lo scopo vostro nell'errare che fate in questi luoghi a capo d'una scorta di soldati regolari? — Come i vostri, signor marchese. — Come i miei, ne convengo, benchè i miei siano più di scorta alla marchesa che non a me. Io non conto, e me ne trovo benissimo: conta Fiorina, ciò che le fa piacere, e contenti tutti e due. Ma voi..... — Io, se mi è lecito il paragone, sono vostro pari nelle condizioni momentanee: non conto. Chi conta è un brav'uomo di scudiero che suppongo appartenere alla casa Nervia..... Occhiata di Fiorina, ricambiata. — .... e che mi ha raccolto questa notte e poi s'è allontanato, ignoro con quali intenzioni, lasciandomi in balìa di questi soldati che ne sanno, credo, meno di me. Ecco la mia storia, marchese. — Ma Bracciodiferro, conte? Qui l'Embriaco rimase un po' dubbioso. La domanda a bruciapelo vagamente l'intimoriva. Quali interessi coesistevano fra i due coniugi perchè le aspirazioni e le simpatie od anche il partito dell'uno o dell'altra avessero il sopravvento? Quale dei due era da temere? Quale dei due da giocare? Non s'illudeva l'avventuriero: marciava sopra il filo d'un rasoio e non un rasoio da barbiere di reggimento, no, ma sopra un taglientissimo affilatissimo rasoio. Avrebbe potuto durarla a lungo? D'altra parte il marchese di Spigno aveva con somma abilità scelto il _ruolo_ dell'interrogante, facile anche per chi doveva rispondere, ma non a lungo. Pure che fare? Quel nome di Bracciodiferro gettato là a che scopo? Che sapeva Ibleto? Che nascondeva Fiorina? Rispose: — Non avete dunque incontrato Bracciodiferro? Occhiata di Fiorina ricambiata. E la dama accorse: — Avete forse inviato Bracciodiferro al Nervia? — Per l'appunto, nobile signora. — Ecco, vedete, marchese, a che approda la vostra testardaggine? A non farci incontrar Bracciodiferro. Ibleto alzò le spalle. — Mi curo di Bracciodiferro come della mia prima parrucca, e non ne domandavo che incidentalmente. Piuttosto, conte, quali notizie dell'esercito francese? La marchesa di Spigno raddrizzò la snella personcina ed il viso di maiolica le si colorì tanto che gli occhi vispi apparvero iniettati di sangue. Parve pendere dal labbro dell'Embriaco. — I francesi? — L'esercito, sì, l'esercito francese al comando del nuovo generale, il piccolo Bonaparte? — L'esercito del Varo? — Ma sì, l'esercito del Varo. — Lo credo a Nizza il vostro esercito del Varo. — A Nizza? Come? Non è ancora incominciata la formidabile avanzata? — No, ch'io mi sappia. Marito e moglie s'interrogarono dello sguardo. Poi: — Le informazioni erano precise — fece lei. — Induzioni forse, previsioni, ma non informazioni, che il malanno colga gli informatori intelligenti! — borbottò lui. — Aspettate — replicò allora l'Embriaco — Se per esercito del Varo intendete le bande senza freno e legge che si sono adunate su Nizza aspettando munizioni e soldo, e se per avanzata alludete agli sconfinamenti abituali, anzi giornalieri delle dette bande, posso darvi forse delle notizie fresche. Viva curiosità della illustre coppia. — Non più tardi.... aspettate.... di due giorni or sono fui spettatore d'uno di quei sconfinamenti. — Spettatore? E in qual modo? — Ecco, veramente spettatore no, ma ne ho avuto notizie precise.... Si tratta del sacco d'un villaggio.... — Quale? — Sant'Antonio, mi pare. — Proprio alle spalle di Ventimiglia, allora? — Precisamente. Aspettate, ora che ci penso, credo che ci sia sotto qualche cosa di più grave. — Ah! davvero? — Credo. Ho sentito parlare di un ufficiale francese in missione presso il comandante Grimaldi. — Non si trattava allora d'una banda spersa o d'uno sconfinamento senza importanza? La marchesa intervenne: — Potrebbe darsi che le due cose fossero indipendenti l'una dall'altra. Lo Spigno scosse il capo in aria dubbiosa. — Mi spiace assai contraddire una dama di tanto valore, — aggiunse al dubbio di Ibleto l'Embriaco — ma ora che ci ripenso, mi sembra che si parlasse d'un messaggero, non francese, sibbene d'un ufficiale genovese addetto al comando nemico. — Aspettate: Filippo Balbi! — Il fidanzato di Chiarina Grimaldi! — esclamò la marchesa. — Per l'appunto, per l'appunto: quello! Qualche istante di silenzio gravò sotto il damasco della capanna. Chi lo ruppe fu il marchese di Spigno, lisciandosi la barbetta in aria pensierosa. — Fiorina, mia cara amica, Embriaco amico mio, ho bisogno del vostro consenso. Sopportar forte disagio, mia dama, e voi conte, condurci al presunto attendamento francese: è cosa della massima importanza e della massima urgenza. XVII. La Marchesa curvò il capo. L'Embriaco si premette la destra palma sul cuore e si chinò. — Sono ai vostri ordini Marchese! Ibleto pensò a lungo, poi riprese: — Che consiglio mi dareste in coscienza, conte? — Consiglio? Su quello che avete detto? — Grazie no: sulla via da seguire. — Capisco: lasciatemi riflettere. Meditò che l'Altariva ultimo atteso al convegno doveva essere a quell'ora giunto da tempo e che quindi s'offriva la strada che avea tenuto colui e cioè quella delle Maure. La quale non metteva pur tuttavia che ai piedi della città e allora o prendere il mare per isbarcare a Latte.... — Niente mare — dichiarò Fiorina. — .... o continuare il sentiero alpestre fino a Siestro, girar la punta di Roverino ed attraversare il Roia dinanzi al confluente del Bevera. — È lunga la strada? — Meno assai d'una tappa fino al Roja: poi nelle mani di Dio. — Il fiume è gonfio? — Non più di quello che sia un fiume in istagione prossima allo scioglier delle nevi, ma ignoro il guado. — Quindi: incognita? — Vi ripeto: nelle mani di Dio. — E allora consigliate la via del mare? — Umilmente, sì. Specie scegliendo la notte per dar meno nell'occhio. — Una barca di pescatori non potrebbe destare sospetti. — Una barca, no davvero. Ma basterà? — Per tre persone? certamente. — Tre persone? E le scorte? Ibleto di Spigno lisciandosi la barbetta rispose: — Le scorte? A che servirebbero? — A difenderci. — O non piuttosto a darci un'apparenza offensiva? No, niente scorte. O si trattò di pochi sbandati ed a quest'ora fatto il bottino sono rientrati a Nizza: o si tratta d'una vera avanzata e allora a che servirebbero le scorte composte di pochi uomini, sia pure dell'esercito regolare del Piemonte! Dopo tutto non era meglio per l'avventuriero il perdere una buona volta quei soldati non suoi e che gli potevano costituire un pericolo continuo? Il disegno di Ibleto gli quadrò. — Avete ragione, Marchese, come un teorema, direbbe il padre Pesante mio degno ex precettore. Seguiamo dunque la vostra idea. Ma prendiamo le Maure e discendiamo a San Secondo. Il castellano di Spigno diede un ordine e in poco meno di mezz'ora la capanna rustica fu restituita al suo primitivo squallore. La marchesa Fiorina pur tuttavia non disdegnò dal presiedere in persona al ripiegamento dei tappeti, alla smontatura del letto, dello inginocchiatoio e della tavola: il tutto fu legato con cura, le suppellettili e i cuscini in cassette e pacchi, i tappeti arrotolati e fasciati in balla: ne risultarono sei colli che furono caricati su due muli poderosi. Ad un cenno la carovana si dispose in fila indiana e preceduta dall'Embriaco discese nella valle. I soldati del Nervia passivamente seguirono i compagni. Il mattino persisteva nuvoloso, ma verso il mare cirri enormi erano accavallati dal vento, un vento di tramontana che spianava ed increspava le acque giallastre fino quasi a un miglio da terra e fin dove si spingevano le due correnti del fiume e del torrente che convergevano, sicchè il solo delta era giallastro: il restante della marina mostrava un colore ferrugigno livido instabile come ferrugigni lividi instabili si mantenevano i monti di cirri fumosi. Il delta formato dal triangolo addossato al bosco delle Maure e limitato nei due cateti dal fiume Roja e dal torrente Nervia fino al mare, ciò che poi fu il borgo Sant'Agostino e la spiaggia delle Asse, appariva breve e stretto in allora: dalla parte del torrente era un groviglio di strami e d'ontani sopra un fondo paludoso e vergine di sentieri o guadi, meno la breve striscia della cornice fangosa o polverosa a seconda delle stagioni: verso il fiume Roja era più triste e sinistro ancora: ospitava un cimitero là ove si stende oggi la stazione della ferrovia, poi gli speroni delle colline si confondevano entro una chioma di pini silvestri, rossa d'estate come se avesse patito un incendio, nera nelle altre stagioni e irsuta come la chioma d'un gigante da leggenda. La strada di comunicazione della Cornice aveva qua e là il segnacolo di qualche casetta, rivendugliolo od oste, un maniscalco, ma rozzi abituri sperduti che non mettevano in quel sinistro paesaggio foscoliano nemmeno quasi la nota della vita. Sul ponticello del rio San Secondo esisteva un corpo di guardia perduto, il primo segno della città vicina. La scorta avrebbe permesso di prenderne cura e certo il graduato e i suoi uomini che l'occupavano avrebbero fatto _pro forma_ opposizione al passaggio d'una carovana così imponente. Ma — chi sa mai — avrebbero potuto anche dare l'allarme, cosa spiacevole e di fastidiose conseguenze. Per il che l'Embriaco si permise di consigliare la fermata e l'attendamento provvisorio della scorta che sarebbe poi penetrata in città con i passaporti ad attendere gli illustri ed eccellentissimi signori. Ed intanto loro tre ed un solo bravo avrebbero potuto discendere alla spiaggia e trovare infallantemente una barca peschereccia. Così fecero e un'ora dopo si trovarono al bordo umile d'una paranzella che si mosse a vela doppiando al largo la foce del Roja con tutta l'apparenza di cercar buona pesca con la rete d'alto mare. Da un miglio in mare, costa colli monti e città assumevano tragici aspetti. Natura selvaggia, chiomata di neri pini, folta, bizzarra, seminata di ciglioni calvi di puro macigno e di caverne dall'aspetto preistorico, feroce. Una sopra le altre, a metà delle Maure, occhio ineguale acciecato come quello del Ciclope d'Odisseo parea che fissasse immobile, senza vederlo, dal cavo profondo, il mare fangoso che attraversavano. La pianura verso Bordighera tutta marese e dune intersecate dagli speroni delle colline a segnar le vallette: la punta di Sant'Ampeglio a capo della pianura, pareva una macchia nera sul mare giallo. A sinistra facea spalliera alla città di Ventimiglia, punto avvallato di congiunzione di due infinite ali di montagne, una sequenza di montagnole più sinistre ancora delle altre e si perdeva nella valle del Roja bieca e spoglia nell'alto. Ventimiglia assumeva l'aspetto d'un immane teschio posato sul vertice d'una collina di tufo, e pronto a ruinar sempre verso il mare a dirupo verso la spalliera misteriosa d'ombre e di foreste sottomarine che ancor oggi si chiama delle Calandre e che vista dal largo ha l'apparenza precisa d'un nordico fiordo. Soltanto il campanile della cattedrale, un antico tempio romano, rompeva l'aspetto di teschio mozzo assunto dalla città, e posato in un piatto il cui orlo era formato dalla cintura delle fortificazioni. Sotto il cielo nuvoloso, chi sa per quale rifrazione, il cumulo dei tetti livellato prendeva certi toni biancastri molto simili a quelli del marmo sfaldato da tempo con venature di ruggine simili alle giunture d'un cranio disseppellito. — No davvero ch'io non invidio Betto Grimaldi — susurrò il marchese di Spigno — la residenza in una simile città non deve avere nulla di piacevole! — E sopra tutto la dolce Chiarina — aggiunse la marchesa — io sento in coscienza di non invidiare: preferisco il mio castello del Monferrato per noioso che sia! — Certamente che la nobiltà vostra ornata di grazie e di doni morali, — rispose l'Embriaco — farebbe in quel costone laggiù l'effetto d'una regina rediviva entro una necropoli: ma, e ne sono sicuro, ravviverebbe la cornice malinconica e muffita come certe castellane vostre antenate avrebbero tenuto corti d'amore in bicocche nude e fredde e spoglie delle Langhe e della Val d'Aosta! Fiorina sorrise all'elogio, e Ibleto riprese: — Sapete voi, conte, con precisione da chi sia circondato Betto Grimaldi? — Gente di nessun conto, se ne si eccettui il capitano Cavalli. — Lavinio Cavalli, l'innamorato di Virgilio? — Perfettamente: il resto non val la pena di menzione: c'è, ve lo noto di sfuggita, quel soldataccio di Nicola Borzone, detto Senza-dio.... — Un volterriano? — Che? un analfabeta privo d'un dito..... — Ah! ah! capisco: grazioso il bisticcio. E poi? — E poi, che so? Ah! aspettate: un bastardo di casa Lercari, Giano, lisciato e impomatato come un'insegna di profumiere..... Fiorina parve risovvenirsi: — Giano Lercari? Mi pare di averne avuto notizia. — L'avrete probabilmente incontrato l'inverno scorso nelle conversazioni di casa Brignole. Fu lasciando il vecchio Brignole che ottenne il grado d'alfiere. — Sì, mi ricordo: aveva un certo spirito nei conversari! — Può darsi: quel che però è sicuro è che non l'affina laggiù. E mostrò la città che stavano doppiando. La barca peschereccia che li portava al suo bordo aveva oltrepassato le Calandre: qualche breve punta apparve e quindi la scogliera che vietava l'accesso dal mare al castello Altariva. — Voi conoscete Camillo? — domandò Ibleto. L'Embriaco accennò approvando. — Lo conosco, se per conoscere volete intendere che l'abbia avvicinato. — Naturalmente. Che ne pensate? L'interrogato si strinse nelle spalle. — Penso che tenga per il Re: Credo che di questo non faccia mistero. — D'accordo. Ma con quale scopo? Dopo i primi entusiasmi della giovinezza non si milita in un partito, o non si sposa una causa, anche nobile, senza un interesse qualsiasi, immediato o lontano. Ch'io mi sappia Camillo Altariva non fu mai alla Corte, non ebbe mai dimestichezza con Sua Maestà nè con chi l'avvicinava. Non avvicina persona, Camillo Altariva. Perchè dunque si lega ad una causa che non può credere che perduta? La marchesa mormorò senza volerlo: — Forse per questo. Ibleto si fe' pensieroso. — Potete aver ragione, mia cara amica. L'Embriaco osservò: — Ma ben altri l'hanno sposata senza una ragione: il Nervia, Luca Lascaris.... Lo Spigno sorrise leggermente. Poi rispose: — È diverso il punto di vista, mio caro. È diverso per i due che avete citato. Hanno fatto ambedue la scuola dei paggi, hanno abitata la Corte, Luca vi ha trovato moglie. Fiorina trasalì, ma Ibleto non parve accorgersene. Continuò: — .... ed Almerico di Nervia è ambizioso e Luca Lascaris è impulsivo. Ma Camillo nulla chiede e riflette troppo. Perchè dunque? Si sposa una causa.... — .... quando non si ama nessuno — completò Fiorina. Il marchese rise argutamente. — Diderot non avrebbe meglio risposto, amica mia. Anche il castello Altariva restò a poppa. Si profilava come centro d'un piccolo seno la spiaggia che forma un ruscello chiuso nella foce dall'alzarsi delle dune: quella spiaggia però vantava una caratteristica afferrabile a prima vista: aveva le arene candide. Il pescatore, che teneva la scotta della vela latina, sputò silenziosamente nel mare come se compisse un rito, poi sempre muto alzò gli occhi a fissare i passeggeri. — Che c'è, amico? — gli domandò Ibleto. Per tutta risposta il marinaio puntò l'indice verso le arene candide, poi con isforzo pronunciò: — Latte. — Ah! siamo dunque giunti? Per tutta risposta un cenno del capo. I tre si guardarono incerti. Parve che in ognuno dominasse un pensiero diverso che convergeva però in un unico pensiero, e finalmente il marchese domandò: — Da Latte si va a Sant'Antonio? Un cenno affermativo. — La strada è lunga? Un cenno negativo. — E allora, Fiorina, amica mia, e voi, conte, consigliatemi. — Approdiamo — fu la risposta dell'Embriaco. La Marchesa parve indifferente, per il che Ibleto rivolto al pescatore impassibile, ordinò: — Approda! XVIII. Dopo un'infruttuosa nottata di ricerche febbrili, tornava Luca Lascaris furioso all'accampamento del Nervia, con la speranza ardente di trovarvi chi aveva inutilmente cercato, quando all'incrocio di due sentieri vide nel basso inerpicarsi un gruppetto di contadini che parevano sorreggere un pacco voluminoso e portarlo con molto rispetto. A malgrado l'impazienza che lo dominava, per la volontà, superiore ad ogni passione, di non lasciarsi dietro gente ignota, si voltò al Ricciuto che lo seguiva e gli disse: — Guarda che succede laggiù. — Debbo andare, Monsignore? — Naturalmente, ma spicciati e torna subito. Il comandato obbedì. Scese dalla cavalcatura, ne affidò le redini al soldato più vicino e s'avviò. Raggiunse la comitiva ignota un centinaio di metri più sotto. Erano sei villani e un prete che salivano salmodiando: precedeva un giovanottone dal viso ebete e dai capelli rasi che reggeva una rozza croce nera; seguivano quattro gagliardi montanari portando un'informe graticciata di pini selvatici sulla quale giaceva un corpo coperto nella parte superiore da uno straccio che avrebbe anche potuto passare per un pezzo di coperta da muli; seguiva il prete fiancheggiato da un vecchio untuoso che ripeteva le preci dei morti. Il Ricciuto giudicò inutile prender lingua dal villano che precedeva e la cui forza ebete mal gli pareva dovesse rispondere a un questionario anche succinto: si scostò addossandosi alle piante umide ancora della parte a monte per lasciar passar graticcio e portatori, e rivolgersi al prete che seguiva: — Posso chiedervi, padre mio, chi accompagnate al cimitero di così buon mattino? — Figlio — rispose il prete interrompendo le preci, ma non sospendendo il cammino — figlio, si tratta di un disgraziato il quale secondo ogni previsione mise un piede in fallo al passo delle Martore. Lo hanno trovato questi miei parrocchiani e lo portiamo adesso a dormire i suoi sonni eterni lassù, nel sacro recinto d'Apricale. _Requiem aeternam_... — ... _et lux perpetua_.... Il Ricciuto si fece il segno della croce, si tolse il feltro sformato dalla pioggia e seguì mestamente il convoglio unendosi alle risposte del sagrestano. Giunta la comitiva ove il Lascaris aspettava, per rispetto si fermò, e il prete riprese le sue spiegazioni. — Sapete chi sia, padre? — domandò il gentiluomo. — Lo ignoro, colendissimo domine. Precipitò probabilmente assonnato, senza il tempo di riprendersi, testa all'ingiù, fracassandosela: è irriconoscibile. Tanto che credo inutile scoprirlo per non lasciare una trista memoria nei vostri occhi, Monsignore. — Padre, non sono un damerino profumato, nè una svenevole damigella. Ne ho visto d'ogni colore. D'altra parte attendo amici che avrebbero dovuto giungere fin da ieri. Per levarmi dunque dall'ansia, vi prego di scoprire codesto morto, affinchè m'assicuri dell'esser suo. — V'obbedisco, monsignore, quand'è così. Uno dei portatori tolse la rozza coperta ed apparve un corpo coricato di fianco: abbigliamento dimesso, scarponi da montagna e giubbone di nessuna eleganza: il capo informe, una poltiglia di rossastro e di grigio impastata con ciocche di capegli bianchi. — È strano — mormorò il Lascaris — come abbia potuto conciarsi così: direi quasi che dovette subìre una spinta o una violenza! — Profondo è il passo delle Martore, monsignore, e tutto irto di rocce nude. Fu trovato proprio in fondo. — Pace all'anima sua! Che Nostro Signore gli conceda il purgatorio, se non trapassò in peccato mortale! Ricopritelo pure, buona gente, ch'io non lo conosco..... No, no, un momento, aspettate! Sporto dall'alto del cavallo, discopriva la parte celata del cadavere. Si accorse di un lucicchìo vivo. — Guardate, vi prego, che arma porta alla cintura. — Un pugnale, monsignore! — Datemelo, vi prego. — È peccato grave, colendissimo domine, di spogliare i morti! — Obbedite! Il più vicino dei portatori consultò dello sguardo il prete che annuì, poi si curvò sul morto e gli trasse dalla cintura un pugnale dall'impugnatura aspra di borchie preziose che Luca riconobbe immediatamente. — Per nostra Signora del Miracolo! O mi prendono le traveggole o codesto è il pugnale che ieri ho donato io stesso al Seborga in premio dei suoi saggi consigli! Porgetemelo padre, ve ne prego! Chè il villano aveva consegnata l'arme al prete. Il quale la benedisse e la porse al Lascaris. — Non c'è alcun dubbio: è lo stesso. Costui che giace morto davanti a noi è forse dunque il buon Seborga? Ad uno ad uno gli uomini del Lascaris vennero curiosamente ad esaminare il cadavere: ma tutti appartenevano al drappello del Ricciuto ed avevano intravveduto il Seborga a mala pena la sera prima. Nessuno dunque lo riconobbe. — Padre — dichiarò Luca allora — io sono il conte Lascaris..... I villici si sberrettarono e il prete s'inchinò. — .... ed ho il sospetto che codesto povero morto sia lo scudiero del duca di Nervia..... Nuovo sberrettamento e nuovo inchino. — .... che accampa qui vicino. Ve ne prego, non vi spiaccia di allungare per poco la strada: il mio illustre amico ve ne sarà grato se i miei sospetti s'appongono. — Nulla abbiamo da rifiutare all'eccellentissimo signor conte Lascaris ed al nostro signore il possente duca di Nervia: indicateci il cammino, monsignore, ed i vostri umili servi seguiranno le vostre traccie. S'avviarono lentamente ma senza più salmodiare poichè non avevano più per mèta il cimitero. XIX. Nella notte in cui era avvenuta la morte violenta del Seborga, mentre Luca Lascaris da una parte e l'Embriaco dall'altra, erravano alla ricerca dei marchesi di Spigno, Camillo Altariva accompagnato da due servi giunse all'accampamento del Nervia. Edotto sommariamente di quanto era accaduto e della partenza dei due drappelli, partenza che disapprovò, si ritrasse nella tenda di Almerico e più regolarmente dei due che erano partiti lo mise a giorno degli avvenimenti. Parlò così: — Posso errare, sebbene non lo creda, ma l'assalto di Sant'Antonio mi fa pensare che non si tratti d'una delle solite scorribande francesi, nè di semplici affamati alla ricerca di bottino. Sono accaduti tre fatti che non mi spiego. In primo luogo i banditi che hanno occupato Sant'Antonio non sono fuggiti dopo il colpo di mano, ma l'occupano ancora. Perchè? Si sentono dunque protetti alle spalle e quindi si tratterebbe d'un'avanzata vera e propria, non d'un semplice sconfinamento. È un'avanguardia, lo sento. Ma di chi? Forse dell'esercito del Varo? Ma fino a pochi giorni or sono l'esercito del Varo si componeva di pezzenti privi non solo d'armi e di munizioni, ma di vestiti e di vettovaglie. Fino a pochi giorni or sono si trattava di un'accozzaglia indisciplinata con qualche ufficiale per insegna più che per vera inquadratura d'esercito. Si è dunque compita una riforma radicale, ed una mano robusta ha preso la guida di quel gregge disperso? È un pensiero che m'assilla e mi preoccupa davvero. — Lo comprendo, Camillo — rispose il Nervia. — Altro fatto non meno importante. Betto Grimaldi ha ricevuto un messaggero. Si tratta, è vero, di Filippo Balbi, suo futuro genero, il quale per quanto messaggero _pro forma_, è sempre ufficiale della Serenissima distaccato presso il Comando Francese. Quale comando? Ecco il problema. Fino ad oggi fu a Parigi. Ma oggi? Che abbia seguito il nuovo generale in capo e che sia presso il Grimaldi per chiedere il lascia passare? Voi sapete che cosa ci sia costato l'opporci ai francesi due anni or sono..... Almerico di Nervia aggrottò le sopracciglia: qualcuno meno temprato di lui avrebbe rabbrividito. Rispose con voce sorda: — Lo so. — Non risolleviamo dolorosi ricordi. Se è destino si compirà. Ma ricordate però — questo sì — che la città, ligia a Betto Grimaldi e alla Serenissima, oggi, e ieri presa dalla fremebonda pazzia parigina tanto da innalzare quello scherzo di cattivo genere, parodia d'albero di cuccagna, che chiamarono albero della libertà, ricordate che la città sola è nostra nemica e che merita un esempio. Vassalla dei Lascaris, dei Nervia e degli Altariva, si darebbe al primo venuto piuttosto che a noi ed al re. Mi comprendete? Mi approvate? — Vi comprendo e v'approvo. — Ordunque stringiamoci noi due, noi due, in questo patto: la città nostra! — Per il Re! — Sia: per il Re. Ma nostra! — E di Luca Lascaris! — E di Luca Lascaris. Ma poco possiamo contare sul nostro compagno valoroso e fedele di due anni or sono. È dominato da una folle passione per quella castellana di Spigno.... — Ma Fiorina è con noi, per il Re! — La donna segue il vincitore. S'alzò, uscì sulla soglia della tenda e rientrò. — Che notte! Sembra fondo inverno. Che ore saranno? — L'alba fra poco. Ma non mi avete confidato il terzo avvenimento al quale alludevate poco fa. Camillo Altariva fece appello alla memoria. — Avete ragione: ecco qua: è sparita la contessa Lascaris madre. Il Nervia più che colpito guardò stupito l'interlocutore. — Sparita! E in che modo? Spiegatevi. — Facilmente. Ieri mattina la contessa uscì dal castello per la cavalcata abituale, seguita al solito da una scorta di quattro uomini. Non tornò, od almeno ieri poco prima del tramonto, quando io sono passato al castello per cercarvi Luca e recarmi qui con lui, seppi che non era tornata. Il fatto è senza precedenti: la contessa Isabella non ha mai prolungato oltre due ore la cavalcata mattutina. Le ultime notizie sono queste, madre e figlio uscirono insieme, girarono il forte, si separarono: Luca discese per guadare il Roia e girar Roverino per recarsi al vostro convegno, e la contessa, pare, scese verso il Bevera. Poi nulla più se ne sa. — E in città? Che sia rimasta presso Chiarina Grimaldi? — No: l'abate Bernardino Viale che vidi al castello, veniva appunto di città: niente contessa Isabella. — E allora che sospettate? Camillo Altariva si strinse nelle spalle. — Sospettare è inutile. Credo che sia al campo francese. — Al campo francese? Sostenete allora che esista un campo francese? — Non lo metto più in dubbio. Seguì un lungo silenzio. Lo ruppe il grido d'allarmi della scolta. I due gentiluomini s'alzarono e trassero verso l'uscita. Un sergente s'avvicinava. Fece il saluto e rimase in posizione immobile. — Che c'è, sergente? — chiese il Nervia. — È avvistata una mano d'uomini, monsignori. — Conosciuti? — La scorta dell'illustrissimo signor Conte Lascaris. — Sta bene. Libero passo. Chi sa — proseguì rivolto all'Altariva — che Luca non ci accompagni i marchesi di Spigno. Avremo così qualche altra notizia importante. Ibleto è un gazzettino ambulante. Del resto, avete mai osservato, Camillo, che le notizie su ciò che ne avvicina arrivano sempre da lontano e ci sono portate dagli estranei? — È naturale. Anime e cervelli sono presbiti, Almerico. S'incamminarono verso il limite del breve spiazzo a dorso di collina su cui l'accampamento sorgeva. Il duca di Nervia doveva essere ben sicuro del suo servizio di scolte d'avamposti e di sentinelle perdute per accampare in luogo così facile a sorprese, sprofondato fra i picchi e le creste, avvallamento a sua volta vertice di collina ma circondato da minacciose muraglie scoscese, oltre le quali avrebbero potuto impunemente affacciarsi truppe nemiche dopo una preparazione facile d'imboscata. Vero è che vi si intrecciavano i due sentieri, ma il luogo era chiuso, era soffocato, e sotto lo spicchio di cielo nuvoloso tagliato e frastagliato bizzarramente dai picchi, avea l'apparenza d'una fossa difficilissima ad essere difesa e pronta a diventar tomba. — M'accorgo adesso, Almerico, della strana località che avete scelto per accampamento, — disse Camillo un po' sorpreso. — Non l'ho scelta: l'ho subìta. Ma non temete: ho disposto un vasto servizio di sorveglianza in alto e in basso. — Oh! lo credo: vi conosco. Proseguirono in silenzio, fino ad una gola oltre la quale si scopriva un tratto di sentiero già occupato dalla truppa che giungeva. — È Luca Lascaris. Ma chi viene con lui? Si direbbe una portantina o una barella. — Che abbia incontrato gli Spigno? — rispose Camillo con qualche cosa su le labbra che somigliava ad un sorriso: è proprio il caso di dire che Eros lo protegge. — Se è portantina, è troppo rozza per esser degna della bellissima Fiorina. Ma non mi sembra, no anzi non è. Guardate: si direbbe un convoglio funebre. — Avete ragione. I due, preoccupati, avanzarono lentamente, non perdendo mai di vista la comitiva sopravveniente. La quale incominciava adesso la salita per cui la rozza portantina vista di scorcio, somigliava ad un informe bagaglio sopportato da due uomini di fatica. — È una barella! — esclamò ad un tratto il Nervia. — Lo sospettavo! — rispose l'Altariva. La comitiva si mostrava a breve distanza: i due gentiluomini affrettarono il passo. — Almerico — gridò la voce di Luca Lascaris, — avvicinati, amico! Il chiamato obbedì: la truppa sostò e si divise in due ali: non rimase nel centro che la barella deposta sul terreno e il prete ritto da capo. Luca Lascaris prese la parola, sordamente: — Guarda tu, Almerico, se riconosci colui che giace morto colà: io gli ho tolto stamane quello che ieri gli avevo donato poichè l'anima sua più non bada ai doni terreni. Guarda, Almerico! — Il mio vecchio Seborga! Non una lagrima brillò sul viso bruno del Nervia: impietrò. Piegato il ginocchio vicino alla barella, tese la mano sul capo informe del cadavere. — Che monsignore Iddio ti abbia presso di sè, mio vecchio Seborga! — Amen — rispose il prete. — Camillo, Luca, io desidero che il mio vecchio servo riposi vicino a coloro che ha servito ed amato durante una lunga vita che fu tutta devozione e sacrificio. Non vi dispiaccia unirvi a me nel pio tributo che intendo portare a colui che considero della mia casa. — Noi siamo con te, Almerico — rispose Camillo Altariva. Luca Lascaris piegò, annuendo, sulla sella. — Al castello dei Nervia! XX. Il nido secolare dei Nervia di forma tozza e quadra, con la grande torre verso occidente, era posto sul declivio della collina che in allora chiudeva la valle a sinistra, separata dalla foce e dal mare da torbidi acquitrini e poi dallo accavallarsi di mobili dune. Il parco immenso lo precedeva e lo circondava ed il parco a sua volta era chiuso da una cerchia di mura in massima parte a secco, larghe e massicce che dal basso risalivano fino al vertice della collina e si riversavano sul declivio opposto. Da tre anni almeno, e cioè dalle prime minacce dell'invasione, Almerico aveva, con i servi più fedeli, inviato la duchessa e i due figli a Genova, donde, secondo l'abitudine incorsa, avevano preso imbarco per la Sardegna, l'isola essendo per la Corte di Piemonte e la nobiltà ligia un rifugio più sicuro. Da tre anni dunque parco e castello erano quasi abbandonati: pini sulla collina e platani nella pianura non più disciplinati dalle cesoie messe di moda da Le Nôtre, parevano tornati allo stato selvaggio: l'erba appariva alta sul largo viale che si mostrava dietro il cancello: giardino ed orto incolto s'erano arruffati come una capellatura non pettinata. A quei tempi, dal paese di Camporosso al mare, il torrente aveva tanto allargato il letto che occupava tutta la vasta cuna adagiata fra i due sproni di collina, quella delle Maure verso Ventimiglia e l'opposta verso Vallecrosia. Sicchè girato a monte il paesetto silenzioso, la cavalcata discese a valle quasi dinanzi al chiuso parco dei Nervia, e si accinse ad attraversare il letto del torrente, a secco in gran parte, chè non era ancor cominciato lo sciogliersi delle nevi, ma ingombro d'alti strami, d'ontani a macchie, di tutta insomma quella vegetazione posticcia che cresce a vista d'occhio là donde le acque si ritirano apparentemente. — Possiamo attraversar con franchezza — dichiarò l'Altariva dominando con uno sguardo il paesaggio che pareva deserto e silenzioso e arcigno e quasi feroce. Nè il castello sbarrato e il parco folto l'ingentilivano poichè parevano laggiù di faccia drizzarsi a respingere chi minacciasse un'invasione. — Sì, — annuì Luca Lascaris di malumore perchè obbligato a lasciare l'accampamento ove Fiorina poteva di momento in momento arrivare. Sì, non vedo pericolo alcuno, fuorchè nel _gaogrosso_. Nel dialetto quasi provenzale dell'estrema Liguria, si dice _gaogrosso_ al corso d'acqua maggiore che esista nel letto d'un fiume o d'un torrente, quello appunto che ne costituisce l'essenza. Per tutta risposta il Nervia alzò la mano libera dalle guide, e apparve un omuncolo sciancato, rivestito di pelli caprigne, il capo coperto da un cencio a guisa di turbante, reggendo con ambe le mani al petto un'enorme conchiglia univalva di forma allungata, simile ad una tromba rustica. — Il Bagato va a cercare il guado — mormorò un soldato, e il mormorio si propagò e la truppa guardò curiosamente l'essere informe che saltabeccava agilmente fra gli strami e gli ontani e il cui nome evidentemente era derivato dal gioco dei tarocchi, anzi dal primo tarocco. Le popolazioni marinare e in ispecie quelle dei pescatori, hanno in ogni tempo — l'estrema Liguria non ne mancò mai — qualche essere sgraziato e segnato dalla nascita che, un po' matto e un po' scemo, passa il suo tempo a studiare il cielo e il mare, a predire il vento e la pioggia, il fortunale e la tempesta, dando l'allarme ai dintorni, soffiando in una conchiglia univalva e traendone un suono cupo simile ad un muggito. Il Bagato era evidentemente un rustico Nostradamus, ed i soldati che furono sempre i bimbi della feroce umanità, s'impossessarono del novello gioco offerto e attesero con giuliva curiosità il segnale che doveva avvertire della scoperta d'un guado. Nè il segnale tardò. Un muggito d'un tono solo ma lento, stanco e strascicato si levò dal centro del letto, là dove presumibilmente il _gaogrosso_ scorreva; e la truppa seguendo Almerico di Nervia, che per il primo lanciò il cavallo nella discesa, si diresse disordinatamente serpeggiando verso il punto donde il cupo muggito giungeva a intervalli. A poco a poco erbe e rami contorti d'ontani diradarono, qualche spiazzo di greto disseccato s'allargò, poi delle chiazze verdastre di muffa apparirono e degli acquitrini e delle pozzanghere, specchi di cielo intorbidati dalle zampe dei cavalli, poi una specie di baluardo di grosse e bianche selci calcaree e il torrente — il gao — apparve, largo venti metri almeno, nella sua parte più strozzata: nel mezzo il Bagato opponeva il corpo alle onde schiumose e scroscianti alzando la conchiglia alla bocca, statua vivente d'un piccolo fauno bacchico irsuto e giocondo. La truppa guadò, risalì un altro baluardo di selci calcaree, poi ricominciarono i greti sgombri e gli acquitrini e finalmente per una penosa scarpata rovinante si trovò sulla strada maestra della vallata. Si fermò. Il Nervia s'occupò di piazzare personalmente le sentinelle, verso valle e verso mare, poi col restante s'avviò risoluto al cancello che s'intravvedeva fra i platani e gli ippocastani torreggianti. Invece di sciogliere l'enorme groviglio di catene arrugginite che avvinghiava le sbarre, vi postò due altre sentinelle, poi scostando i rami che piovevano in disordine dagli alberi annosi, cercò il muro di cinta. Scese allora da cavallo e fu dagli altri imitato. I due servi dell'Altariva alzarono la barella ove giaceva il corpo del Seborga appoggiandosene l'estremità sulle spalle e seguirono Almerico, poi Luca e Camillo e il Bagato chiusero la marcia. Il rimanente della truppa restò sul viale dinanzi al cancello celata fra gli alberi. Il Nervia costeggiò a lungo penosamente il muro di cinta e il cammino era malagevole per lui più che per gli altri, anche per i due servi carichi della barella, poichè s'insinuavano nello spazio che egli faceva. Giunsero finalmente là dove il muro a secco incominciava: il fogliame v'era più folto e l'edera polverosa e pelosa vi si abbarbicava quasi con accanimento, formando una vasta placca nerastra. Senza sforzo alcuno il Duca alzò la cortina che pareva formare un corpo solo col muraglione ed apparve una breccia a fior di terra, un largo buco informe d'un metro almeno di diametro. Per il primo Almerico si chinò e passò. Poi passarono i due col funebre fardello, poi gli altri: il Bagato per ultimo lasciò cader la cortina. Al di là un altro busso vietava il passaggio: ma fu lasciato a sinistra ed apparve una radura, a capo della quale una cappella rotonda mostrava un pronao dorico e la porta aperta. Vi si diresse il duca di Nervia, ma, come fu vicino al pronao, si voltò ai due gentiluomini. — Qui, voi lo sapete, dormono nella pace del Signore, quelli della mia casa che non lasciarono la vita in battaglia o nel mare o in prigionia presso i nemici o gli infedeli. Pochi uomini degli avi miei qui giacciono dunque e quasi tutte le donne invece. Non vi stupisca, amici, che intenda qui dar sepoltura al mio fedele Seborga: già un altro servo dei Nervia vi riposa, morto degnamente difendendo il castello da una scorreria di Dragutte il Barbarossa. Non già servo, ma amico fedele fu il Seborga per me. Mi cullò bimbo fra le sue braccia, m'insegnò i primi passi, mi pose per il primo su un cavallo, mi curò in una malattia mortale e contagiosa, fu in guerra con me, dormì nel bivacco al mio fianco, si privò della sua razione per sfamarmi, mi difese col suo corpo a scudo in battaglia, avrebbe dato per me, che Monsignor Gesù non ne veda che l'intenzione onesta, l'anima sua, la vita eterna per me! Stese le mani sulla salma. Gli astanti si scoprirono. — Povero amico, l'avversa fortuna ha voluto ch'io dovessi renderti il pietoso omaggio ch'io ti rendo. Ma te felice almeno che qui dormi fra coloro che hai tanto amato e tanto fedelmente servito! Chi sa, mio Seborga, ove dormirà il tuo padrone, mentre oggi profugo della sua casa non la visita che furtivamente, come un lupo inseguito, solo ormai, lontano da chi ama, ultimo fedele d'una causa perduta. Verranno i giorni migliori, forse, e i miei figli, tornando sulle nostre terre, me forse non troveranno a dormire nel sepolcro dei miei. Ma te almeno troveranno mio Seborga: ebbene, faccia il Signore Iddio che le lagrime e le preghiere che udranno queste tombe siano fra te e me divise, fedele amico, siccome abbiamo tutte le buone e le male venture nella vita. E se tu qui mi rappresenterai, ebbene, che i miei figli piangano sul tuo sepolcro come se fosse il mio! Tacque. D'un gesto sobrio indicò il fondo ai servi dell'Altariva; i servi s'alzarono e vi si avviarono. C'era, fra due grandi urne di pietra, una rozza tomba in muratura coperta da una lastra di marmo sulla quale era impressa a punta di pugnale una croce e sotto due parole: _Fido Sebastiano_. — Sollevate quel marmo — comandò il Nervia. Il coperchio del sepolcro fu smosso: apparvero poche ossa bianche e un teschio lucente in mezzo a polvere nera impalpabile. — Il fedel Seborga può dormire col fedel Sebastiano. Il cadavere tolto dalla barella fu adagiato nella polvere nera e v'affondò come se le braccia del fedel Sebastiano s'aprissero per accogliere l'altro servo fedele. E il marmo tolse per sempre agli sguardi profani il corpo che l'anima certo contemplava da un mondo migliore. XXI. Quando si ritrovarono di nuovo sullo spiazzo dinanzi all'attico pronao, Almerico sostò e chiese: — Che pensate, amici, della morte del Seborga? Silenzio: i due curvarono il capo. — Dunque: il mio sospetto. Luca Lascaris parlò: — Sospetto è vaga parola ed è accusa grave. Il Seborga partì con Emanuele Embriaco della cui onestà posso rispondere..... — Sono davvero i tempi in cui si può rispondere della onestà di qualcuno! — mormorò sordamente l'Altariva. Il Conte s'impennò: — Camillo, vi prego di ricordarvi che l'Embriaco venne a me con una lettera della cui verità nessuno ha il diritto di dubitare me vivente e sano. Emanuele Embriaco è fuoruscito.... — Bandito. — .... sia pure, bandito genovese: titolo di stima per noi che combattiamo per il Re. Venne con soldati regolari e con vassalli del marchese di Spigno. Si rifugiò nel mio castello..... — Per iscampare dal Grimaldi e dal Borzone. — .... potrei rispondervi che era munito di tal lettera che gli dava pieno diritto alla mia ospitalità. E se pur venne per iscampare dal Grimaldi e dal Borzone lo fece nella sua qualità di fuoruscito.... o bandito se meglio vi piace. Da allora però seguì la nostra fortuna fedelmente. Vi faccio anche notare che ieri a notte chi divise i drappelli fu il Seborga che mi diede lo scudiere dell'Embriaco e s'unì alla scorta del Conte.... Almerico di Nervia intervenne. — Lascaris, non accuso dicendo che sospetto.... come del resto voi due sospettate: Camillo..... — .... fin dal primo momento. — .... e voi Luca nell'interno del cuore, a malgrado le ragioni che accumulate. Può darsi che nella notte buia sia sdrucciolato un piede al vecchio Seborga, benchè a giudizio di chi l'ha raccolto sia stato rinvenuto proprio nel fondo senza che l'erba e le piante del precipizio presentino traccia alcuna del passaggio. E chi pone un piede in fallo s'aggrappa, lotta, urla, chiede aiuto. Come non l'hanno udito? Pur tuttavia non accuso, no, sospetto.. Abbiamo per buona ventura di che fortificare o dissipare il nostro sospetto. Abbiamo i due scudieri di Emanuele Embriaco, l'uno rimasto con me, l'altro.... — Venuto e tornato meco. — Precisamente. Sapremo da quei due la verità. Sono all'accampamento: mando un ordine per farli qui proseguire. — Bada, — fece osservare l'Altariva — bada a quello che fai. Ho più d'una volta osservato i due scherani: l'uno è grossolano soldato, un reitro del buon tempo antico, e non lo credo al corrente dei fatti e pensamenti del suo padrone. L'altro, quello che vi seguì, Luca, è volpe fina, astuto come un chierico: non ne caverete nulla. Il Nervia sorrise: — O con l'oro o con la tortura parlerà. — Possibile: tentar non nuoce. In quella ululò la conchiglia. Ma contemporaneamente il verso della civetta si fece sentire tre volte a eguali intervalli: poi le frasche fuor del muro di cinta stormirono, agitate con violenza come da persona che vi si intromettesse. L'Altariva e il Lascaris avevano per istinto messo mano alle armi: il Nervia era invece rimasto tranquillo. — Non v'esaltate: qualcuno dei miei. L'edera della breccia venne sollevata dall'esterno e apparve un montanaro per nulla dissimile dagli altri del Nervia. — Sei tu, Becco-in-croce? Che notizie porti? E prima che l'altro parlasse, rivolto ai due gentiluomini, Almerico proseguì: — Probabilmente nulla d'importante: è la sentinella che sorveglia la spiaggia. Notizie della città. Rivolto al nuovo venuto gli diè licenza: — Parla, Becco-in-croce! L'uomo parlò: — Vostra Eccellenza.... questa mattina... il gentiluomo che abita con sua Eccellenza il Conte — mostrò Luca — si è imbarcato con un altro gentiluomo e una gentildonna e un servo. I tre si guardarono sbalorditi. — Fiorina! — esclamò il Lascaris. Un cenno: il Nervia interrogò: — Non hai sbagliato, Becco-in-croce? Hai proprio riconosciuto il gentiluomo che è ospite del Conte Lascaris? — Sì, Vostra Eccellenza. — Com'erano i suoi compagni? — Un gentiluomo d'età, col viso che pareva una pera martina secca, e una barbetta quasi bianca.... — Ibleto di Spigno! — .... e una gentildonna giovane e bella, che vestita da uomo pareva un ragazzo..... — Bionda? Becco-in-croce pensò un poco: poi trionfalmente: — Sì, Vostra Eccellenza! — Fiorina! È Fiorina, non c'è più dubbio! — Luca! Ancora fuor di sè il Lascaris si voltò a scudisciare una pianta. — Si sono imbarcati, Becco-in-croce? — Sì, Vostra Eccellenza. — Verso? — Verso Latte, Vostra Eccellenza, ma doppiando la foce al largo d'un miglio almeno. — A che ora presso a poco? — Tre ore di giorno almeno, Vostra Eccellenza, ed anche quattro. — E soltanto adesso vieni a riferirlo? Becco-in-croce non parve intimidito. — Vostra Eccellenza mi perdoni, ma come potevo immaginare che Vostra Eccellenza fosse al castello? — E da chi l'hai saputo? — L'ho saputo all'accampamento, Vostra Eccellenza! — Vieni dunque di là? — Sì, Vostra Eccellenza. Il Nervia riflettè un momento, poi chiese consiglio. — La posta al bivio di Apricale non ha più ragion d'essere da poi che gli Spigno sono passati a nostra insaputa e ne ha beneficato il conte Embriaco.... Luca flagellò con raddoppiato vigore l'albero. — .... nulla più ci trattiene lassù: che ne direste d'uno spostamento di campo? — Dove? — domandò l'Altariva. Senza rispondere alla domanda il Nervia ripetè: — Spostiamo dunque l'accampamento? — Spostiamolo, per tutti i diavoli! — urlò Luca. Camillo annuì. — Becco-in-croce — comandò il Luca — ritorna al campo e dà ordine che si levino le tende e che si discenda e si passi il _gao_, a metà strada fra Dolceacqua e Camporosso. Noi vi saremo e la conchiglia del Bagato indicherà il punto preciso. Va Becco-in-croce e porta l'ordine mio. Il montanaro s'inchinò e ripassò la breccia. — Ed ora a noi. Il mio sospetto, Luca, aveva ragione d'essere secondo quanto abbiamo udito. L'Embriaco si liberò violentemente del mio povero Seborga. — Ma gli Spigno? — Ibleto ha sempre fornicato con i francesi: lo sappiamo tutti. Credo che a quest'ora sbarcati a Latte e in istrada per Nizza, o per mare tuttavia, si riducano al campo dei sanculotti sul Varo. — E Fiorina? — Di buono o di malgrado li segue. Luca Lascaris alzò le pugna al cielo. — Voi mi sembrate un ragazzo imbelle, Conte, un ragazzo imbelle al quale abbiano furato il giocattolo. Siate uomo, per nostra signora di Lampedusa! Verrà la nostra volta, e vinceremo la nostra posta. Per intanto vi apro intero il cor mio: sono stanco di questa vita raminga e inutile. Rivedere il mio castello dopo sì lungo tempo mi ha rimessi in cuore i germi della nostalgia. Liberiamoci, prendiamo una decisione, scegliamo un nemico. Siamo qui esitanti fra Genova e la Francia: pretendiamo tenerle in ballo tutte e due. Grave errore. Facciamo onor stragrande alla Serenissima, che fa paura o meglio vuol far paura con le mani vuote. Vi offro una via d'uscita: giriamo le Maure, usciamo dopo Roverino, per il Bevera, piombiamo sui predoni di Sant'Antonio, e appena li avremo liquidati assalteremo la città isolando il fortino del Borzone. Ventimiglia non ha che un Governatore di figura e pochi uomini di parata dei quali verremo presto a fine. Riprenderemo poi la guerriglia con una difesa come la città, il forte ed il vostro Castello, Conte Lascaris. I Francesi non passeranno o gireranno da Saorgio. Guadagneremo tempo ad ogni modo, che ve ne pare? Camillo Altariva prese la parola. — Il tuo piano, Almerico, è buono come linea generale: ma i particolari verranno. Per intanto l'approvo fino all'assalto dei predoni di Sant'Antonio. — Io tutto approvo — esclamò Luca Lascaris, — purchè ci si muova e non si resti qui neghittosi. Ho bisogno di far del male a qualcuno. — Ne avrete presto l'occasione, conte. Quando ci congiungeremo con la mia truppa troveremo i due scherani dell'ospite vostro: se mi permetterò d'interrogarli io stesso, per la memoria invendicata del mio povero Seborga, li consegnerò poi dopo alla vostra giustizia, chè vi appartengono. — Vi ringrazio, Almerico! Ma il progetto del Nervia non potè avere esecuzione. A metà strada fra Dolceacqua e Camporosso attendeva bensì la truppa del Nervia, ma il Ricciuto e Bracciodiferro non ne facevano parte. S'erano allontanati con gli uomini che comandavano, subito appena apparso Becco-in-croce, e conosciuto che ebbero la nuova direzione dell'Embriaco, pretendendo il Ricciuto d'aver ordini tassativi in proposito. — Non importa — osservò il Nervia — ignorano il nostro piano e quindi non ci sarà allarme: del resto potremo raggiungerli: non perdiamo tempo! XXII. La nuvolosa mattina che per la campagna diffondeva pur tuttavia una luce tutta eguale, manteneva in città un buio di tomba. Le undici; i cavalli scalpitavano sul selciato di pietra attraversato nel mezzo da una guida di mattoni sanguigni: le due mule che reggevano la portantina davano appena segno di vita col dondolar la coda infiocchettata fra le stanghe a batocchio, e due soldati reggevano le torcie per illuminar la viuzza caduta nel buio, fondo per le alte case. Nell'ufficio del governatore due lucerne spandevano queto chiaror raccolto: sotto l'una sgobbava l'archivista Orengo raschiando con la penna d'oca una carta ruvida e slabbrata sotto pretesto di vergare un'ordinanza. Sotto l'altra lucerna il capitano Cavalli attentissimo e lontano dal mondo leggeva Virgilio. In una stanza da letto interna che avrebbe dovuto prender luce da un vicolo, il quale naturalmente non manteneva le sue promesse, Betto Grimaldi si abbigliava aiutato dal Moncherino, il quale a sua volta, e poveretto non per colpa sua, dava aiuto come il vicolo dava luce: ma il governatore non aveva fretta, parea che succhiellasse il tempo per farlo passar lentamente. In un'altra stanza, che conosciamo appuntino, la vispa Gilda s'affaccendava intorno a Chiara e benchè un po' più di luce vi penetrasse dalla finestra verso la vallata, la bella camerista brontolava pretendendo che si fosse non quasi a mezzo il giorno, ma nel crepuscolo del mattino. Mentre questo accadeva, due altri personaggi di nostra conoscenza misuravano i cento passi dell'allea del Fontanino, fuori della porta omonima; l'uno parlava pacatamente come se ragionasse d'Euclide o di d'Alembert, l'altro ascoltava bevendo le parole e l'interesse gli traspariva dagli occhi lucidi. — Credete a me, Giano de' Lercari, — dicea Filippo Balbi — credete a me, che vedo lungi le cose, imitatemi. Non c'è per noi che una via aperta oggi, le armi. Eppure non a me, cadetto di gran casa, ma cadetto, e non a voi di gran casa ma, non v'offendete, più cadetto di me perchè irregolare, possono offrir qualche futura fortuna le armi della Serenissima. Non ci illudiamo: stanno di fronte l'Austria e la Francia, chè non vi conto il Re di Piemonte, boccone maggiore, nè la Repubblica di Genova, boccone minore. Austria e Francia: l'una contro l'altra oggi e domani: decidersi: o la carriera delle armi in Piemonte e quindi in Austria, ma a quale scopo Lercari? Allo scopo di poltrire e ammuffire nei gradi subalterni e vedersi di punto in bianco anteposto un damerino di Corte, con un gran nome, un moccioso irresponsabile che viene a comandarvi, a farvi sgobbare e rischiar la vita per prendere il merito ove ne sia il caso senza rimetterci del suo perchè troppo con le spalle al muro, figlio di papà o di mammà, uscito dalle gonne della favorita. Giano, credetemi: sono un cadetto della casa Balbi, grande casa a Genova; ma nato capitano morrei capitano, come voi nato alfiere morreste alfiere. E a quale scopo infine? Se l'Austria schiaccerà la Francia servire l'Imperatore, se la Francia schiaccerà l'Austria venire incorporati a forza nelle masnade sanculotte. Credetemi, Giano Lercari, fate come ho fatto io: saltate il fosso. Il Piccolo Bonaparte ci lascerà probabilmente l'anima che regge coi denti, ma c'è Massena, Moreau e Hoche e tanti altri e c'è il capo di Stato Maggiore del _piccolo_ Bonaparte, il serio greve e ponderato Berthier, il quale mi ha promesso un battaglione al primo fatto d'armi e un reggimento al secondo. C'è poi anche il caso che il piccolo Bonaparte riesca nel suo disegno, tenebroso disegno che niuno conosce, forse nemmeno Berthier, ma che può essere grande come è audace chi l'ha concepito. E il piccolo generale che ha tutta l'aria di un falchetto pronto a piombar sulla preda, a malgrado la sua amicizia con Robespierre il Giovane e le sue imprese di Vendemmaire, è un aristocratico, ama circondarsi di nomi ed aiuterebbe voi e me, piuttosto che quel garzone birraio di Murat, che ha per aiutante di campo, o che quel legulejo di Junot, altro aiutante, che non l'abbandona un momento. Giano Lercari ascoltava come se gli si raccontasse una fiaba. — La verità è — osservò — che agli ordini della Serenissima si muffisce in guarnigioni come questa. — Mentre che in un esercito combattente c'è l'impreveduto che aspetta e fa la vita varia. — E voi credete, Filippo, che fra l'Austria e la Francia si debba preferire la Francia? — Non vi ripeto che il mio giudizio, quello che io stesso ho giudicato preferibile, ma non intendo nè darvi consigli precisi, nè invitarvi a prendere una decisione qualsiasi. Restate pure l'alfiere della Serenissima, presso questo nobile Comando. Soltanto, per semplice spirito d'amicizia, vi offro di pensare se vi convenga. — Avete ragione Filippo. Ma pure, ammesso che mi decida.... Ne aveva tanta voglia che fra sè avea già preso la risoluzione di imitare il Balbi. — .... in che modo debbo contenermi? — Per far che cosa? — Per imitarvi. Non posso già disertare. — Chi vi parla di disertare! Fate come ho fatto io, e cioè fatevi attaccare all'esercito francese dal vostro comandante. — Betto Grimaldi? Irresoluto com'è e con la paura del Governo di Genova, non lo farà mai. — Chiedetelo a Genova. — Non avrò risposta, e, se pur l'avrò, sarà qui fra un mese almeno! — Non c'è che un mezzo, allora. — Cioè? — Farvi chiedere dal Generale Bonaparte, o dal Berthier, ciò che avrà anche più autorità. — Chiedere? Al Governo della Serenissima? — No: a Betto Grimaldi. — E credete che accetterà? Che dirà di sì? — E credete voi che Betto Grimaldi negherà o dirà di no a un desiderio del Generale che con lo stringere un pugno può domani stritolar lui e la città? E poichè Giano Lercari crollava il capo continuò: — Betto Grimaldi col suo cervello corto ma di buon senso crede sè il più debole dei due, oggi. Non già una banda sconfinante ha davanti, ma trentamila uomini inquadrati, irregolarmente ancora, ma inquadrati e condotti da un falchetto che ha voglia di preda e che l'ha promessa ai suoi sanculotti. La prova che si crede di già debole l'avete davanti agli occhi. Indicò la porta del Fontanino da cui usciva la cavalcata ufficiale preceduta da un trombettiere e da quattro soldati: seguivano Betto Grimaldi e il capitano Cavalli e infine la lettiga portata dalle due mule: chiudevano la marcia altri due soldati. — Se Betto Grimaldi si fosse ritenuto il più forte avrebbe invitato il Generale nemico in città e invece si scomoda per recarsi da lui e porta con sè la mia fidanzata..... Lo aveva Filippo stesso suggerito al Governatore, ma non lo disse. — .... per omaggio e degnazione. Credete voi, Giano mio, che se a quell'uomo con la paura dipinta in volto si chiedesse qualunque cosa, la rifiuterebbe? No che in verità Giano Lercari non lo poteva credere. — E allora decidetevi! — Sia: fatemi domandare al comandante. — Alla buon'ora. Qua la mano: correremo la stessa fortuna. Vi prometto il mio grado al primo fatto d'armi. — Naturalmente conto su di voi, amico Filippo. — Contateci: ma per adesso acqua in bocca. Lasciò il compagno, inforcò il cavallo che un soldato gli teneva a poca distanza e corse di carriera verso la cavalcata che s'avvicinava lentamente. — Il buon mattino a Vostra Eccellenza, comandante Grimaldi, e col vostro permesso, il buon mattino alla Bellezza nostra. Chiara sporse il capo dalla lettiga, rossa in viso, ma felice porse la mano al fidanzato, che si piegò in arcioni con magnifico e difficile spostamento per baciarla. XXIII. Quando la barca peschereccia ebbe sbarcati i suoi passeggeri alla foce di un torrentello schiumoso, colui che la conduceva rimase ad attendere gli ordini. Ma Ibleto gli porse una moneta d'argento che l'altro ricevette con l'avidità di una scimmia alla quale si offra un frutto acerbo. E per verità il danaro in metallo era già raro: da due anni almeno correvano gli assegnati e i buoni di qualunque specie firmati da nomi e da Autorità eteroclite, dal Sergente al Generale, dal Giudice al Governatore. — Devo aspettare, monsignore? — chiese il marinaio al quale pareva che il dono meritasse almeno un titolo. I due Spigno ricambiarono uno sguardo. — Non importa! — rispose Emanuele Embriaco. Ed aggiunse, rivolto ai compagni: — Voglio sperare, per la Dama almeno, che non si tornerà per mare. Fiorina gli sorrise. — Conte, avete ragione, ragione da vendere! — concluse Ibleto. E licenziò la barca. Mentre per un istinto comune la guardavano allontanarsi, il marchese fece schermo della mano destra agli occhi, curvandosi: quindi esclamò: — Ecco quel che temevo! Alla sinistra indicò, forse a due miglia al largo, verso la Madonna della Ruota od almeno all'altezza di Sant'Ampelio, la siloetta di una nave. — L'abbiamo scampata bella! — Che è, Ibleto? — domandò Fiorina. — La prima delle cannoniere inglesi che sorvegliano la costa, e probabilmente mancano di notizie poichè invece d'essere laggiù sarebbero qui. L'Embriaco alzò le spalle. — A che servono le cannoniere inglesi? — Ben detto, il moscardino! — esclamò una voce sonora. Ed uno scoppio di risa coronò l'interruzione. Dopo il breve greto della foce, una specie di muro a secco si alzava che parea sbarrasse il corso del torrentello. E proprio lassù i tre che s'erano voltati di scatto alla risata videro una strana apparizione. Sporgevano dal muro a secco tre o quattro visi sporchi, dai capegli arruffati, ma visi ridenti, dentature meravigliose ed occhi neri o azzurri, brillanti. Sulle teste, in piedi sul vertice del muraglione, un giovane iddio pompeggiava, un Bacco giovane con qualche fattezza di pastore omerico. Vestiva una specie di divisa soldatesca a falde rialzate sopra un paio di calzoni a righe, corti e sfrangiati: null'altro: nè camicia, nè berretto, nè tracolle, nè armi, nulla fuorchè una sciabola brandita dalla destra in alto sopra la selva dei capegli biondi arruffati. Le carni bianche apparivano da innumerevoli buchi dei calzoni, legati pur tuttavia un po' sotto il ginocchio da un nastro rosa, che vantava chissà quale provenienza. — Ben detto, il moscardino! — ripetè quel giovane iddio selvaggio — ben detto, parola di Tibullo, qui presente, soldato della Repubblica, una e indivisibile, armata del Varo! Le teste apparenti sul muro a secco fecero un coro assordante. — Per l'Ente Supremo e per le corna di Barras, riprese Tibullo sempre rivolto ai tre attoniti, o l'unico figlio di mia madre, la gloriosa Cornelia delle Halles, si sbaglia come un deputato, o scorgo un viso degno dell'ex Maria, sposa dell'ex Giuseppe e Madre del cittadino Gesù! Non sia mai detto che i soldati della Repubblica dimentichino gli omaggi dovuti al sesso! Io mi rammento d'essere figlio di _Brin-d'amour_, sergente bianco del tiranno Capeto e amico personale di Danton il quale come ognun sa, aveva un forte debole per le donne. Camerati, un evviva per la cittadina che viene dal mare come la ex-Venere! Il coro assordante ricominciò. Poi tacque ad un tratto sotto l'ordine di Tibullo, il quale saltò dal baluardo, venne innanzi alla marchesa e fece un inchino strisciato degno d'un maestro di ballo, alzò la sciabola lucente e d'un colpo si tagliò, tenendola tesa con la sinistra una ciocca di capelli che sparse ai piedi della dama. — Non ho berretto da levarmi e debbo scoprirmi ad ogni modo davanti al sesso. Scusa, cittadina, ma ognuno si scopre come può. — Sei galante, cittadino Tibullo — rispose Ibleto rinvenuto per il primo dalla sorpresa — e grazie all'Ente Supremo che ti ha posto sulla nostra strada! Libertà, eguaglianza.... — .... e fraternità! — compì il soldato. Le teste sul muro a secco s'agitarono. — In quanto a voi, camerati, rimettete le vostre ricche assise per presentarvi convenientemente dinanzi alla dama. Le teste scomparvero. — E tu, cittadino, — chiese Tibullo volto all'Embriaco, per il quale provava un'istintiva simpatia per gratitudine dello sprezzo verso le cannoniere inglesi — non dici nulla, cittadino? Hai esaurito il tuo repertorio? — Ti ascolto, cittadino, e imparo! La celata ironia non isfuggì al soldato che aggrottò le sopraciglia. — Oh! Oh! Cittadino, la tua risposta puzza d'aristo una lega lontano. Non c'è più Massimiliano, è vero, ma il _piccolo_ ama i _çi-devants_ come il fumo negli occhi, te ne avverto. — Chi è il _piccolo_, cittadino? Apparvero di dietro al muraglione abbigliati, chi più chi meno come Tibullo, cinque o sei soldati ridendo a gola spiegata. — Il _piccolo_? Domanda chi è il _piccolo_? — È il _piccino_! Il _tira l'anima coi denti_! — Il nostro generale che ci ha promesso grasse città e belle donne. — Ed ha ragione! Una mano si levò per carezzare il viso di Fiorina ma si ritrasse immediatamente sotto una scudisciata. — Morde la donnetta — urlò il colpito. — E morderà ancora! — aggiunse Fiorina lasciando ricadere lo scudiscio sopra un viso che s'avvicinava troppo al suo. Qualche picca e qualche sciabola fu brandita e non mancò un fucile maneggiato — per qualche evidente ragione d'utilità immediata — come un bastone. Ma Ibleto e l'Embriaco fecero scudo alla dama e Tibullo s'interpose. — Giù le zampe, camerati! Con un po' di buona volontà s'ottenne un relativo silenzio, quale almeno occorreva per farsi intendere. E ne profittò immediatamente Ibleto rivolgendosi al soldato: — Non siamo qui nè per errore e nemmeno naufraghi, come i tuoi camerati vogliono credere, cittadino: siamo qui venuti volontariamente e portiamo con noi un salvacondotto che speriamo ci procurerà un po' di rispetto. Tibullo non battè ciglio: attendeva. Lo Spigno continuò: — Una lettera del generale Laharpe..... Il soldato salutò. — .... al generale Nissard.... Nuovo saluto. — ... che comanda, crediamo, la tua divisione. Tibullo crollò il capo. — Niente Nissard, cittadino. — Comanda forse Massena? — Niente Massena, cittadino. — È tornato per caso Serrurier? Fa lo stesso. — Niente Serrurier! — Augereau allora? — Niente Augereau! I due Spigno e l'Embriaco si guardarono. — Chi comanda allora? — chiese Ibleto. Un urlo s'elevò dai soldati rimasti qualche passo discosti. — Il _piccino!_ — Il _piccino!_ — Il _piccino_, il _piccino_, il _piccino!_ Tibullo impose il silenzio. Poi: — Hai inteso, cittadino? Qui comanda il _piccino_ o se meglio ti piace il generale Bonaparte. Fiorina spalancò i begli occhi sbalordita e Ibleto si tirò la barbetta caprina. Ma l'Embriaco risoluto prese la parola. — E sta bene, cittadino! Andiamo dal generale Bonaparte! XXIV. Al di là del muro a secco un sentiero s'inerpicava sulla riva sinistra, ma un sentiero da capre, disegnato appena fra i sassi calcarei e i magri ontani bistorti. La stretta valle però si presentava ridente a malgrado il giorno coperto. Un'occhiata ed una smorfia di Fiorina destarono la galanteria di Tibullo. — Sono dolente, cittadina, di non poterti offrire un cavallo almeno. Sono forse quindici giorni che abbiamo mangiato l'ultimo e sarebbe stato assai meglio che l'avessimo mangiato quindici anni prima. Con un sorriso la marchesa ringraziò il soldato ed aggiunse: — Grazie, cittadino, ma non temere: so camminare anch'io. — Sui tappeti, a giudicarne dai tuoi piccoli piedi. Ma non importa: quando sarai stanca ti porteremo. Il sentiero si allargava sulla ripa e, nell'addentrarsi che fecero entro la valle, i viaggiatori, dopo la temperatura quasi rigida provata nel tragitto marino, ecco una quasi tepida ne trovarono come se entrassero in una serra. — Qui fa quasi caldo — fece osservare Tibullo che s'accorse del refrigerio provato dai suoi ospiti: — il _piccino_ ci si crogiola a suo bell'agio. E ne aveva bisogno. Tiene l'anima coi denti e per di più, dicono, ha sposato l'amante di Barras, una creola bella e sana da far impazzire, una donna da mettere a terra più uomini che Kleber non isfianchi cavalcature. — Già, l'ho sentito dire — osservò Ibleto mellifluamente — ed ho sentito dire che il comando dell'armata del Varo fu il cestello di nozze di Barras.... per gratitudine. Tibullo aggrottò le sopraciglie. — Spero che non ci sia niente di losco nelle tue parole, cittadino..... — Lungi da me tal pensiero! — s'affrettò a replicare lo Spigno. — .... perchè t'avverto, senza complimenti, che per istare in concordia con noi non bisogna dir male del _piccino_, neanche per ombra! Di' quello che vuoi di Massena e degli altri, e di tutti i politicanti di Parigi, ai quali farei portare per qualche settimana i cannoni, invece dei muli che non abbiamo: parla male anche di Hoche, se vuoi, ma lascia stare il _piccino_: il _piccino_ non si tocca! — Vuoi molto bene al tuo generale a quel che vedo, amico? — susurrò Fiorina per aiutare il marito — Lo conoscevi forse prima che giungesse a Nizza? — No, cittadina, mai visto prima. E che bisogno ce ne sarebbe stato? Gli uomini si conoscono a colpo d'occhio, come io ho conosciuto il tuo vecchietto.... Ibleto si raddrizzò offeso. — .... e quell'altro là dietro che non parla, ma che sarebbe un magnifico capo di battaglione. Gli uomini si conoscono all'occhio... — E le donne, Tibullo? — domandò un soldato ridendo. — Al tatto. Le risa raddoppiarono svegliando gli echi della vallata. — Cosicchè, cittadino — chiese Fiorina divertendosi, — tu hai conosciuto all'occhio il tuo generale? — E all'orecchio. Sfido io! Come si fa a non seguire un _piccino_ che invece di parlarti di Repubblica una e indivisibile, di onore (quello del Direttorio) e di patria (la pancia di quei signori) e di tante altre cose da farti crescere la barba tanto da camminarvi sopra, arriva senza complimenti, non degna di uno sguardo i colonnelli e i generali, ma si mette in mezzo a noi e ci dice senza tanti preamboli: «Ragazzi miei, vedo che avete fame e freddo: dividiamo quello che c'è e visto che quei signori di Parigi non sono buoni che a chiacchierare e a mantener sgualdrine, venite con me che vi porto in un posto dove troverete da mangiare come papi, da bere come frati e da.... carezzar donne come cardinali». Ti pare, cittadina, che un piccino simile non meriti simpatia? — Evviva il _piccino_! — urlarono i soldati entusiasti. E colui che possedeva un simulacro di fucile fece partire un colpo in aria! — Che succede, olà, camerati? — urlò una voce stentorea dall'alto d'un ciglione: accompagnate forse il carro del bue grasso? La comitiva sostò, gli occhi di tutti s'orientarono donde veniva la voce: ne furono abbagliati e bisogna dire che ce n'era ad usura la ragione. Figuratevi un giovane di forse venticinque anni ed in tutto lo sfarzo della giovinezza che sboccia senza freni. Snello ed aitante, una copiosa capellatura — a testa nuda come usavano in allora i giovani ufficiali della giovane Repubblica — la faccia colorita, stretto nella uniforme d'aiutante di campo, prestigiosa ed aiutata ancora da una fascia fantasia intorno alle reni e da una sciabola turca munita d'un'elsa solare: stivaloni alla scudiera su calzoni attillati grigio perla: sopra un enorme cavallo velloso nelle gambe e sul muso come una cavalcatura cosacca, arricchito da una gualdrappa di velluto rosso acceso, di provenienza ignota benchè il bordo tutto d'oro la facesse sospettare appannaggio di chiesa: ecco l'apparizione che stupì, anzi che sbalordì i nostri viaggiatori. Byron deve aver tratto od essersi ispirato da un ritratto di Murat giovane per il suo Mazzeppa, senza dubbio. La comitiva sostò per un momento, poi Tibullo con la confidenza che in allora esisteva tra soldati e ufficiali, rispose a voce spiegata, facendosi schermo della mano ad imbuto: — Cittadino aiutante Murat, ti conduciamo degli aristo che vantano una lettera per il cittadino generale in capo. — Avanti gli aristo, cittadino! Fece d'un salto varcare al cavallo il ciglione e compì l'ardua impresa con una tal grazia che tradiva il suo recente passato di guardia costituzionale del Re Luigi e di cacciatore a cavallo, abituato a caracollare dinanzi alle belle ragazze ed a sfidare il pericolo nelle cariche sfrenate. Quando si trovò davanti ai tre viaggiatori e vide per il primo Emanuele Embriaco che celava in certo qual modo Fiorina, mentre Ibleto di Spigno s'era tanto profondamente chinato da celare il viso, non potè trattenere un gesto di sorpresa e di diffidenza. — Corpo d'una pipa! — esclamò — dei vandeani anche qui! E certo l'abbigliamento dell'avventuriero potea giustificare ed avvalorare l'esclamazione. Se non che l'Embriaco, il quale mentalmente con sintesi degna di Tacito, avea pensato che le parole — qualunque fossero — sarebbero state oggetto d'una interpretazione sommaria da soldataccio incolto, e che quindi era meglio stare zitti fino a tempo opportuno, fece la mossa più abile che cortigiano consumato potesse immaginare: si tirò da un lato e scoprì Fiorina. Murat ne restò abbagliato. Mormorò: — Corpo di..... Ma non andò oltre. Discese però da cavallo. E s'accorse d'Ibleto piegato in due, tutto intento a lisciarsi la barbetta. Assunse allora un'aria burbera per darsi del contegno: — Che vuoi tu, cittadino? — Cittadino aiutante — rispose Ibleto cercando le parole — ho qui una lettera del generale Laharpe per il tuo generale, il cittadino Bonaparte. — Qua la lettera! Il marchese di Spigno esitò: — Ma.... Intervenne allora Fiorina col più seducente dei sorrisi: — Porgete dunque la lettera al cittadino aiutante, amico mio! L'altro obbedì. Porse un plico ben suggellato a Murat, il quale imbarazzato più che mai lo voltò e rivoltò fra le dita incerto. — Come vedi, cittadino aiutante, — continuò sorridendo la marchesa — è indirizzato al generale in capo, ma poichè tu ne sei l'aiutante, credo che potresti aprirlo. Il _credo_ fu pronunciato con una tal quale inflessione ironica che sfuggì completamente al burbero Murat. E colui, che doveva coprirsi di tanta gloria personale, era fin d'allora quell'essere debole che si dimostrò di poi, quando entrò nella storia, offerto cioè all'influenza del primo o della prima che lo sapesse dominare adulandolo o gettandolo nei bivii più crudeli. — Naturalmente che lo potrei — rispose gonfiandosi come un tacchino — ma non ne vedo la necessità. Il generale è qui a due passi, in un luogo detto San Bartolomeo, e può ben leggere da sè. All'udir Murat esprimersi in tal guisa si sarebbe supposto che avesse col Bonaparte un'intimità da camerata. — E possiamo noi, cittadino aiutante, accompagnar la lettera? — Naturalmente che lo puoi, cittadina... anzi lo potete..... Fissò la donna, che gli sorrideva, ma non ne sostenne lo sguardo. — E — continuò Fiorina — poichè sono stanca, non puoi tu, cittadino aiutante, prestarmi il tuo cavallo? Per tutta risposta, davanti a Tibullo ed ai soldati stupefatti, Murat si chinò, raccolse, come se fosse un bimbo, la marchesa nelle mani e la depose sulla gualdrappa fantastica. XXV. _L'altra_ comitiva non aveva passato le avventurose peripezie della _prima_. Discesa dalla strada romana in poco tempo aveva raggiunto San Bartolomeo ove l'attendeva un aiutante di campo del generale Bonaparte, il quale era partito di buon mattino per riconoscere strade e valichi, personalmente, accompagnato da Berthier suo capo di Stato Maggiore, e da un altro aiutante di campo che non si discostava un passo dalla persona del generale in capo. L'aiutante che ricevette il Governatore di Ventimiglia e il seguito, era un giovane ufficiale segaligno, dallo sguardo freddo e tagliente, asciutto di viso, di poche parole: non aveva che ventidue anni e ne dimostrava almeno trenta: labbra sottili, fronte rannuvolata, parca sempre sopra pensieri, preoccupato dell'avvenire e celava sotto l'apparenza impassibile quell'inquietudine che è oggi chiamata, con una barbara parola, _arrivismo_. — Buon giorno, aiutante Marmont — disse Filippo Balbi, smontando — spero di non essere in ritardo. — Anche se tu lo fossi, capitano Balbi, poco male! — Ho capito: il generale Bonaparte è partito per qualche ricognizione. C'è almeno Berthier? — Accompagna il generale con Junot. — Ah! il fido Acate! Udendo nominare un personaggio virgiliano il capitano Cavalli s'avvicinò. — Chi parla di fido Acate, capitano Balbi? — È il nomignolo dell'aiutante di campo Junot, che non si distacca mai d'una linea dal generale Bonaparte. Ma non si tratta di questo, ora: permettimi, Marmont, di fare le presentazioni. Condusse l'aiutante dal Grimaldi che lo ricevette con sussiego e che fu trattato da quantità trascurabile. Probabilmente il chiuso aiutante di campo non lo giudicò persona adatta per servire in qualche modo da gradino. Consentì purtuttavia a sgelarsi davanti a madamigella Chiarina: apparteneva a discreta famiglia Marmont, ed era figlio d'un capitano del reggimento d'Hainaut. Davanti ad una dama (come del resto accadeva a quasi tutti gli ufficiali di cui Napoleone Bonaparte si circondava) assumeva un atteggiamento Reggenza. Fece un inchino passabile ed aiutò la damigella ad uscir dalla lettiga. — Non abbiamo salotti per le dame, — disse mostrando la casa rustica, la quale serviva d'alloggio per lo Stato Maggiore — nemmeno la stanza del generale s'adatterebbe: c'è però quella di Murat. E ripetendo l'inchino precedette la comitiva nella stanza di Murat, che merita l'onore d'una breve sosta. L'uomo pomposo, che doveva diventare Re di Napoli, rivelava fin d'allora le sue attitudini al fasto, e le rivelava naturalmente come poteva. La stamberga al piano terreno ove abitava era uno strano amalgama delle cose più disparate. Due tamburi coperti da vecchie gualdrappe dai colori vivaci, l'una gialla, e verde l'altra, servivano da sedie. L'una delle pareti spariva sotto una bandiera nazionale spiegata e nuova di zecca: Murat se l'era fatta prestare probabilmente dal commissario. Sulla parete di fondo un labaro, chi sa a qual chiesa di Provenza rubato, mostrava le _Tre Marie_ che scendono dal mare sulla Crau; nel fondo un mostro tutto cresta sul dorso raffigurava la famosa _Tarasque_. Sulla terza parete un piviale con un sole fiammante nel centro, affetto da calvizie, ed accanto al piviale, conficcata con chiodi celati da coccarde nazionali una carta.... della Turchia, sormontata da un pezzo di carta pecora dipinto rozzamente e raffigurante un'orgia di fucili e cannoni con una divisa in fondo che portava la leggenda: _Souvien-toi d'Alexandre_. Probabilmente alludeva al Macedone. Una sciabola, nell'angolo a destra, dal fodero infiocchettato come una mula spagnola e il cappello d'ordinanza appeso in alto sopra Alessandro il Macedone e riccamente guarnito d'una penna color canarino piantata là dove i tirolesi portano la propria. L'impiantito di mattoni spariva sotto una tovaglia riccamente macchiata di vino a guisa di tappeto. Nell'entrare, madamigella Chiarina trattenne appena un grido di sorpresa, ma Gilda battè le mani. — Madonnina! — esclamò — par d'essere dall'indovina coi tarocchi! Non presero purtuttavia meno possesso della stanza così stranamente apparata e madamigella Chiarina sedette sopra un tamburo, Betto Grimaldi sull'altro e la Gilda restò in piedi accanto alla padrona. Il capitano Cavalli rimase appoggiato allo stipite della porta e cavò di tasca il vecchio Virgilio immergendosi nella lettura. — È un prete o un ufficiale il vostro compagno? — domandò l'aiutante Marmont a Filippo Balbi, additandogli il capitano che parea leggesse il breviario. — È un dotto come il fu signor di Voltaire — gli rispose l'interrogato. E trasse in disparte il francese. — Questo giovane alfiere — gli disse a bassa voce, si chiama Giano Lercari ed è di illustre famiglia genovese..... Marmont alzò gli occhi sul bastardo e salutò. — .... e chiede per sè quello che Berthier ha ottenuto per me. L'aiutante fe' cenno d'aver compreso. — Credete voi la cosa possibile? Strano: fra due ufficiali a tu per tu correva il _voi_ dell'_ancien régime_, che in pubblico il tu era regolamentare: gli era perchè Marmont ci teneva, come del resto una gran parte degli ufficiali di Bonaparte e di Massena e di Moreau (meno quelli di Hoche) a disinteressarsi della rivoluzione, della Repubblica e del Governo e del popolaccio di Parigi: facevano anzi a gara nel disprezzarlo. — Credo possibilissima la cosa, mio caro, purchè il vostro amico non domandi di appartenere allo Stato Maggiore..... Fin d'allora esisteva quella sorda ostilità dei preferiti del giovane generale contro i possibili competitori e la tendenza ad isolare il Bonaparte, tendenza di cui Napoleone si lamentò spesso e che lo spingeva qualche volta, più per malinconia da vincere che per popolarità da coltivare, a mischiarsi con i soldati, famigliarmente. — Ma — continuò Marmont — se chiederà di prestar servizio ad esempio col generale Serrurier o col generale Laharpe ci avrà tutto da guadagnare. Che grado ha il vostro amico? — Alfiere. — Chiedete dunque per lui a Berthier il grado di capitano presso Serrurier che è a Garessio. Capitano d'una Compagnia di ricognizione. È un bel posto e può rendere utili servizi. — Seguirò il vostro consiglio — annuì Filippo. — Volete che parli io stesso a Berthier? — Grazie, non vi scomodate: parlerò io. Giano Lercari credette suo dovere cercar qualche parola di ringraziamento, ma l'aiutante non gliene diede il tempo, chè gli porse la mano, diventato affabile. — Eccoci camerati! Buona fortuna! E poichè s'udì un rullo di tamburo si lanciò donde il suono veniva. Sul sentiero che conduceva al mare un'altra comitiva s'inoltrava. L'imponente cavallo di Murat parea superbo di portare una perfetta figurina di dama. Due gentiluomini seguivano e lo stesso aiutante di campo Murat precedeva tenendo al guinzaglio il cavallone. Un nugolo di scarmigliati sanculotti avvolgeva il gruppo. Il quale appena era apparso allo svolto del sentiero che metteva nel sagrato di San Bartolomeo quando il capitano Cavalli (leggeva sì, Virgilio, ma probabilmente leggeva con un solo occhio come la gatta di Masino dormiva) saltò su urlando e sguainando la spada: — Ah! L'impudente traditore! D'un balzo fu davanti alla comitiva che giungeva e portandosi di rimpetto a l'Embriaco lo percosse col piatto sulla spalla gridando: — Tu sei bandito dalla Serenissima e sei mio prigioniero! Il colpito non mosse ciglio, ma l'aiutante Murat, con gli occhi fiammeggianti di collera subitanea, frammettendosi, urlò a sua volta stentoreamente: — Chi è che parla di far dei prigionieri nel campo francese? — Questo è territorio della Serenissima — ribattè il Cavalli — ed ho diritto d'arrestare i banditi. — Arrestatemi intanto quest'insolente! E prima che il buon Capitano avesse potuto nemmeno mettersi sulla difensiva fu disarmato e ridotto alla impotenza da un nugolo di soldati sanculotti. — Protesto! — urlava il Cavalli. Ma ebbe uno sforzo disperato quando s'accorse che un soldato s'era impadronito del suo caro Virgilio. Si liberò con una forza erculea, rincorse il rapitore, gli tolse il suo tesoro e si fermò ansante e bollente davanti a Murat. XXVI. L'affare non ebbe seguito. S'intromise Betto Grimaldi, il quale riuscì a calmare l'esasperato capitano: fu restituita la spada confiscata e l'aiutante Murat si degnò d'offrire con le sue stesse mani una coppa di vino a colui che aveva fatto arrestare. Il subbuglio aveva richiamato sulla porta Gilda prima di tutti e poi anche la damigella Chiarina un po' spaventata. Ma lo spavento si mutò in lieta sorpresa quando la fanciulla si vide innanzi a pochi passi una figura di donna che le sorrideva come se l'invitasse. — Fiorina! — Chiarina! I due fiori si piegarono l'un verso l'altro, avrebbe detto l'abate Bernardino Viale, in Arcadia Amarillo Glucosio, nel casto amplesso delle corolle fresche. E senza occuparsi degli inchini di Ibleto e di Betto, i quali non trovarono di meglio che offrirsi a vicenda la tabacchiera, scrutandosi nel bianco dell'occhio, le due amiche ripresero possesso della stanza eteroclita dell'aiutante Murat, stanza che risvegliò alte meraviglie e adorabili smorfiette nella marchesa. — Chiara, mia dolce Chiara, da quanto tempo non ti vedo? — Tre anni almeno, mia Fiorina! Tre anni! Un secolo nella vita d'una giovane donna e d'una fanciulla! Amiche di collegio, il nobile collegio di Santa Brigida, inseparabili Chiara Grimaldi e Fiorina Adorno! Caratteri opposti: l'una dolce come l'evangelico agnello, tutta fuoco l'altra, indomita, come uno scoiattolo. — Rammenti? Fiorina arrossì ma rispose: — Rammento. Candidamente Chiarina ricordava la grande novella che Fiorina le avea dato ad un ritorno d'autunno. Grande novella davvero per la buona fanciulla onesta e contegnosa che non avrebbe ardito levare gli occhi in volto ad un uomo, fosse quest'uomo suo padre o l'archivista Orengo, Dio! la grande novella! Fiorina aveva permesso ad un giovane — oh! di gran casa naturalmente — di dirle che la trovava bella, che l'aveva colpito, che l'amava! Dio! Buon Gesù, che immediata confessione aveva suggerito Chiara all'audacissima Fiorina! — Rammenti? — Rammento. Il consiglio di Chiarina fu seguito e che scandalo ne seguì! La reproba Fiorina fu tenuta un mese almeno senza assoluzione, e senza poter quindi la domenica appressarsi alla mensa del Signore. Pianti, disperazioni, digiuni che sortirono strano effetto. Interrogata da Chiara, Fiorina ebbe a confessarle che, a malgrado la sospesa assoluzione e lo scandalo, provava uno struggente piacere ogni qual volta rammentava la dichiarazione d'amore del giovane di gran casa. Fiorina Adorno era uscita per la prima dal convento, per andare a nozze. E quando l'amica le aveva chiesto se il promesso sposo fosse colui della dichiarazione, era scoppiata in un pianto disperato. Non era, no, lo sconosciuto giovane di gran casa — sconosciuto da tutti anche da Chiara, chè l'amica s'era cucita la bocca — ma il marchese di Spigno già vecchio e mai veduto. La povera Fiorina veniva sacrificata alle convenienze della famiglia che si dibatteva nelle ristrettezze, come gran parte dei nobili Genovesi i quali avevano abbandonato le mercature e quindi speso senza incassar più. Le nozze con Ibleto erano una fortuna per la famiglia e la povera Fiorina aveva dovuto curvare il capo. Ma l'amore non era cessato. — Rammenti? — Rammento, cara. Ma, o tu, Chiarina? Parliamo di te. Chiarina arrossendo narrò il fidanzamento con Filippo Balbi. — L'ami? — È il mio fidanzato! Candore delle nostre nonne! Come non amare il fidanzato scelto dal padre! dal signor padre, anzi! Fiorina crollò il capo sogguardando attraverso l'uscio aperto Filippo Balbi in istretto colloquio con l'aiutante Marmont. — Com'è bello, non è vero, Fiorina? — Hum! — fece la marchesa di Spigno. Certo Filippo Balbi non poteva che esser dichiarato bello, ma pure quella fronte buia e quelle labbra sottili non convincevano Fiorina. La quale a suo malgrado lo comparava con Luca Lascaris. Il maschio volto, l'altero portamento, l'occhio sicuro e pieno di disinteresse non erano tali da subire un confronto, con le fattezze forse più regolari, ma chiuse del Balbi: l'uno era tutto vigoria, l'altro invece si facea notare per una certa aria di sufficenza, quale in allora si mostrava comunissima nella classe dirigente, sia delle corti che dei reggimenti così detti a volontà libera di popolo. Ma Luca Lascaris, aveva a suo vantaggio il lato romanzesco. Fiorina e Luca s'erano incontrati in un settembre ormai quasi lontano, un settembre di cinque anni prima, quando la Serenissima inquieta per la prima volta della grande Rivoluzione aveva chiamato _ad audiendum verbum_ i nobili delle provincie. Luca Lascaris, ospite in casa Adorno, s'era invaghito della fanciulla in tutto e per tutto differente dalle dame che avea conosciuto e che conducevano una vita da Reggenza. Casa Adorno, austera, imponeva ai figlioli un rispetto esagerato e se il fratello di Fiorina, Giacomo Adorno si permetteva di giocare al pallone e quindi anche di cospirar contro il Governo (pare che in allora l'una cosa non si separasse mai dall'altra), Fiorina mutava l'educandato con un'altra prigione, la casa paterna, ove si trovava sola in un giardino chiuso ed entro un'alta biblioteca. Non che il Senatore Tomaso Adorno, l'imponente padre, fosse un dotto, no, e nemmeno un lettore, ma la biblioteca esisteva in casa Adorno e quindi la si doveva accrescere con le opere nuove, in abbonamento o in sottoscrizione. Se ne occupava l'abate Borlasca, il vecchio precettore di casa, asino candido, che acquistava i libri ad offerta e non leggeva che quel tanto di breviario per cui aveva l'obbligo canonico. Nessuno quindi aveva impedito a Fiorina di leggere un'opera strana intitolata: _La nuova Eloisa o Lettere di due amanti_, e di divorarla. In quel tempo era capitato Luca Lascaris, immagine vivente secondo la fanciulla, di Saint-Preux, donde l'idillio presto, ahimè, troncato dalla volontà ferrea della contessa Isabella, madre di Luca, la quale aveva preparato per il figliolo un matrimonio ricco e di gran parentado. Ma il caso volle che Ibleto di Spigno, fratello di Isabella e zio di Luca, si portasse all'altare con Fiorina: il caso ha spesso di simili circoli brevi, ciò che spesso ha fatto osservare come sia piccino il mondo. Ecco di nuovo adunque Luca e Fiorina di fronte. Una breve sosta del Lascaris al castello di Spigno per interessi di famiglia, li aveva riavvicinati, nè il marchese, diplomatico sottile s'era minimamente insospettito. Anzi, pretestando un viaggetto qualunque, li aveva lasciati soli. Soli nell'ampio castello complice, nel complice amplissimo parco tutto seduzioni primaverili, in una solitudine, in quella solitudine ch'è già mezzo peccato, poichè poche tempre vi potrebbero resistere: e l'Aretino avrebbe ragione di chiamarle inumane in quei suoi _Ragionamenti d'Amore_ che sono oggi l'esempio del primo determinismo di cuore! _Quel giorno più non vi leggemmo avante!_ E naturalmente! avrebbe esclamato il sincero Gian Giacomo. Tornato in cattivo punto lo Spigno, gli amanti incominciarono le loro imprudenze come tutti gli amanti che si rispettano. Ma il vecchio marchese divenne cieco, moralmente s'intende. Cieco fino al giorno in cui Luca alzò risolutamente la bandiera del Re di Piemonte col Nervia e l'Altariva. Soltanto allora parve che il marchese cominciasse a vederci chiaro, a fare il terzo incomodo, a trovarsi dove discretamente non avrebbe dovuto, ad abbandonare la biblioteca per il salotto della moglie, a seguirla nel parco e a segregarla di notte. La posizione diventò insostenibile, tanto che Luca cedendo ad un richiamo della madre tornò a Ventimiglia e Fiorina rimase libera, libera anche di Ibleto che lasciò parco e salotto per la biblioteca, e i conversari alla moda per ricevere ceffi di dubbia pulizia e per leggere lettere di ancor più dubbia letteratura. Una soltanto la ragione: Ibleto non sapeva come orientarsi fra quei quattro punti cardinali che si chiamavano Piemonte, Austria, Francia e Genova, donde la partenza per la frontiera per rendersi conto _de visu_ della situazione, e risolversi, dato che ne fosse il caso. Le cose erano a questo punto quando la fortuna, o sfortuna che fosse, volle riuniti in pochi metri quadrati quasi tutti i personaggi di questa istoria, nelle strettoie dell'improvvisato campo francese e nella attesa di quel famoso generale ballerino, salito per voler di Barras e per intrighi di donne ad una responsabilità che probabilmente — così almeno doveva essere nel disegno di chi l'aveva spinto — l'avrebbe schiacciato. La disposizione dei personaggi è adunque, per l'intelligibilità del lettore, così riassunta in quattro gruppi; Chiara e Fiorina quasi sull'uscio della stanza di Murat: Marmont, Filippo Balbi ed il bastardo Lercari dall'un lato: Betto Grimaldi e Ibleto di Spigno dall'altro. Come sfondo il gruppo dei soldati sanculotti, il giovane Tibullo, Murat ed il capitano Cavalli, col prezioso Virgilio sotto braccio e il fraterno bicchiere in mano. E qui è necessario che i lettori ascoltino contemporaneamente il dialogare utile od inutile dei quattro gruppi. XXVII. Soglia della stanza di Murat: _Fiorina_. — È quello dunque il tuo fidanzato? _Chiara_. — Com'è bello! Non è vero, Fiorina? _Fiorina_. — Non potrei dire il contrario. E tu l'ami? _Chiara_. — Oh! Ne dubiti forse? Come lo puoi? _Fiorina_. — Ma non ne dubito, carissima: ti domando se l'ami? _Chiara_. — Perchè me lo domandi allora? _Fiorina_. — Perchè mi sembra una cosa tanto rara di poter amare il proprio fidanzato, e poi di potersi unire per sempre all'uomo che si ama! Sei felice, tu, dunque, Chiarina? _Chiara_. — Tanto! E tu non lo sei felice, Fiorina, col tuo sposo? — _Fiorina_. — L'hai ben guardato? L'umile dolce sguardo della damigella Chiarina si posò sul gruppo formato da Ibleto e da Betto. * * * Leggero declivio verso il torrente: Betto Grimaldi e Ibleto di Spigno. _Betto_. — Non avrei pensato di trovarvi qui, marchese. _Ibleto_. — Il che prova la potenza della vostra polizia, Grimaldi. _Betto_. — Forse, ma prova che ci possiamo incontrare nelle idee investigatrici, Spigno. _Ibleto_. — Avreste forse l'orgoglio di equipararci agli auguri di Catone, Grimaldi? _Betto_. — Me ne guardi il cielo, Spigno! Vorrei soltanto conoscere le ragioni che vi trassero qui. _Ibleto_. — Le vostre probabilmente. _Betto_. — Non ho ragioni, Ibleto: non ho che dei doveri. _Ibleto_. — Ve ne lodo, tanto più che io stesso obbedisco a delle ragioni che possono dirsi doveri. _Betto_. — Ve ne do lode a mia volta.... Uno scroscio di risa li fece volgere al lato opposto ove il gruppo dei soldati e del Cavalli s'intratteneva giocondamente per un'interruzione di Tibullo, e per la seguente ragione: _Il capitano Cavalli_. — È certo, aiutante Murat, che la vostra vita è più lieta della mia. _Aiutante Murat_. — Non potrei, mio caro capitano, adattarmi alla vita di guarnigione. _Il capitano Cavalli_. — La sorte del soldato è tutta nell'obbedienza passiva, aiutante Murat. _Aiutante Murat_. — Nell'obbedienza passiva, come ben dite, mio capitano, quando ci sia un generale. _Il capitano Cavalli_. — (a mezza voce) _Imperator_. _Aiutante Murat_ — (sobbalzando). Mi permetto di farvi osservare, mio capitano, che, dopo la rivoluzione sono cessati fra noi i Re e gli Imperatori. _Il capitano Cavalli_. — Vi prego di scusarmi, aiutante Murat. Ho chiamato _Imperator_ il vostro generale alla maniera dei romani: duce supremo, palladio, insegna della Patria. Aiutante Murat — (sfolgorando). Ci sto, mio capitano. Voi non potevate definir meglio il pic... il generale Bonaparte. Imperator! È lui, sputato. E con lui che bella vita piena d'avventure! Altro che la vostra di guarnigione! _Il capitano Cavalli_. — (soprapensieri pronuncia come se succhiasse e centellinasse qualche cosa di sciropposo); Deus nobis... _Tibullo_. — (interrompendo e continuando)...... _haec otia fecit_. Stupore del capitano Cavalli che ha trovato un collega là dove non credeva esistesse che crassa ignoranza e risata di Murat per lo stupore del capitano ed eco dei soldati. Ma un solo gruppo non se ne accorse, quello formato da Marmont, da Filippo Balbi e dal bastardo Lercari. _Marmont_. — Credo che la vostra decisione, signor Lercari, sia quella che vi convenga di più, ed io dunque l'approvo. E dò lode al capitano Balbi che vi ha suggerito la buona via da seguire. Credo che il generale vi chiederà al vostro comandante ma non credo sia opportuno che il capitano Balbi ed io stesso ci facciamo vostri presentatori. _Giano_. — E chi allora? _Marmont_. — Voi stesso, mio caro. Che ne dite, capitano Balbi? _Balbi_. — Credo che abbiate ragione. _Marmont_. — Il nostro generale è sopratutto un soldato. Intende che non esista barriera fra il suo grado e l'ultimo dei fantaccini. Quando passa tra le file prende per il mento e per l'orecchio il soldato che lo fissa più risoluto. Non c'è generale della Repubblica, meno forse Hoche, che unisca tanto bene la disciplina con la cordialità, anzi con la famigliarità. Ognuno, anche il più umile, ha il diritto di fermarlo, di interrogarlo e di chiedergli a tu a tu quello che desidera. Accorda o nega: e allora guai a insistere. Ma teme le vie tortuose, odia gl'intrighi e la diplomazia. Dicono che fosse amico di Robespierre il giovane, ma io credo che ammirasse il dispotismo di Massimiliano perchè ama le posizioni nette: comandare o obbedire. Ed anche perchè crede che ogni Stato si debba reggere come ogni esercito, sotto il dispotismo di uno solo. Dice sempre che è più utile un mediocre, ma unico, al Governo, che dieci saggi, con dieci pareri diversi, quindi. Crede alla forza ed alla velocità, anche se la forza possa degenerare in prepotenza e la velocità in turbine. Ha in sè l'anima di un Brenno con in più tutta l'esperienza dei secoli sopraggiunti. Travolge: da Parigi a Nizza ci ha stupìti e ci ha spaventati. A Nizza attendevano un bellimbusto, come spesso Barras ama distribuire — per disprezzo scettico di ciò che non sia se stesso — nelle ambascierie, nei comandi e in tutte le rischiose avventure che tenta da quel rotto giocatore che è; attendevano un _blanc-bec_ da mangiarsi in un boccone e si sono trovati dinanzi un giovane, sì, anzi un ragazzo, che se regge l'anima coi denti e tosse e sputa sangue forse, ha tanto fuoco negli occhi e tanta febbre nei polsi da domare ben altro che un esercito di scavezzacolli, ma facili all'entusiasmo, come i nostri soldati. _Balbi_. — Parlate bene, aiutante Marmont. _Marmont_. — Vi prego, anzi, di scusarmi, se ho fuorviato, ma col capo di Stato Maggiore Berthier, con Murat e Junot, io posso intuire del nostro generale quello che più si avvicina alla verità. E per questo vi ripeto, signor de' Lercari: se volete che il generale Bonaparte vi noti e vi esaudisca, domandategli voi stesso quello che desiderate. _Lercari_. — Seguirò il vostro consiglio, aiutante Marmont. * * * _Chiara_. — Mi sembri poco propensa al mio fidanzato, Fiorina. Perchè? _Fiorina_. — Non vorrei darti un dispiacere od anche un dolore confessandoti che non mi piace, Chiara. _Chiara_. — (con i dolci occhi pieni all'improvviso di lagrime). Perchè? _Fiorina_. — Ho paura che non ami persona più di se stesso, mia adorata. Mala raccomandazione per un futuro compagno della vita, di tutta quanta la vita, Chiarina. Più di te, più del tuo pensiero e dell'amor tuo, nell'occhio suo freddo e fra le sue labbra sottili dubito che predomini la sfrenata ambizione. _Chiara_. — Tutti gli uomini — ce l'hanno insegnato nella storia — vivono per qualche cosa d'altro che non sia l'amore! _Fiorina_. — È naturale: per qualche cosa di nobile..... (e stava per aggiungere: non per qualche cosa di basso come è l'ambizione, ma si frenò e disse invece)..... ma che importa se tu lo ami! L'importante è amare: l'essere amati è secondario! E tu l'ami, non è vero, Chiarina? _Chiarina_. — Se l'amo? L'amo per tutti e due! (e si fece di scarlatto). * * * Betto. — Credete voi a questo generale di Barras, marchese? _Ibleto_. — Credo a quello che vedo, anzi a quello che vedrò, Grimaldi. * * * _Il capitano Cavalli_. — Voi dunque conoscete Virgilio, amico? _Tibullo_. — Ci posso marciar sopra, cittadino capitano: sono baccelliere. E tu? _L'aiutante Murat_ (pensando, una delle poche volte in cui ha pensato). Che cosa si sarebbe detto qualche anno fa nelle _Guardie Francesi_ udendo un capitano interpellar col _voi_ un caporale, e il caporale rispondere col _tu_ al capitano? * * * Un rullare scrosciante di tamburi. Ed una voce stentorea. — Il Generale! XXVIII. Lo spiazzo, a monte, nel viluppo degli alberi selvaggi, si coronava d'un ciglione a picco, scenario invidiabile per l'apparizione di Colui che tutta quella gente, con desideri e sentimenti diversi, confessabili o no, attendeva. E l'Atteso apparve, lassù, dominando la scena sottostante. Apparve un omino che neppure l'uniforme prestante da generale della repubblica riusciva ad aiutare, un omino che parea fasciato nella sciarpa tricolore, sproporzionata, come il nano della favola dal collare del mastino. Tre cose in quell'omino colpivano a prima vista: gli stivaloni alti, la sciarpa altissima e la selva scarmigliata dei capegli incolti, spioventi sulle spalle a zazzera e lungo le guancie, ineguali, sottili e pur ruvidi, stiliformi come capegli di zingari, lisciati dal sudore più che dall'unguento, ignari di barbitonsore come il vello d'un capro del Tibet o d'un muflone sardo. Poi si scorgeva un naso affilato, grifagno, pesantemente accentuato, dominatore di tutto il viso scarno, emaciato, dalle guancie affossate d'un color livido, rossi gli zigomi sporgenti, esangui le labbra sempre chiuse, come in uno sforzo a nascondere i denti. Splendevano gli occhi però, incavati sotto la fronte invasa dai capegli incolti, occhi di fascino brucianti, isolatori, imperiosi, pregni d'una volontà feroce, implacabile, sovrumana. Il generale Bonaparte si fermò un attimo sul ciglione. Senza muovere il capo avvolse d'uno sguardo circolare li astanti uniti e rispettosamente inchinati, ad eccezione degli ufficiali e dei soldati rigidi e impettiti: poi discese rapido, quasi di corsa, ed entrò in una casetta dietro a quella di Murat, scandendo poche parole che oscillarono dietro di lui come se fossero trapunte sur un gonfalone. — Berthier e l'aiutante di servizio! Marmont, lasciando il Balbi ed il Lercari si precipitò dietro il generale, mentre Murat accorreva ad avvertire Berthier che lavorava insensibile e invisibile al piano superiore della casetta, il cui terreno era stato trasformato in tenda addobbata in quella eteroclita maniera che sappiamo. Soltanto allora gli ufficiali ed i soldati, discesi dal ciglione col Bonaparte, si mischiarono con coloro che già riempivano lo spiazzo, e un giovanotto robusto e paffuto, nell'assisa di aiutante, venne curiosamente ad esaminare le due dame che si mostravano sulla porta della stanza di Murat. Passò una prima volta dignitosamente, con l'aria un po' spavalda che assumono spesso i timidi davanti alle donne, e si dimenticò di salutare: allora, pentito e confuso ripassò di nuovo e fece un saluto in piena regola, ciò che provocò le risa di Fiorina, e quindi raddoppiò l'imbarazzo del giovanotto. Capitò in buon punto Filippo Balbi, rimasto vedovo di Marmont, e prendendo il giovane ufficiale per un braccio lo portò davanti alla fidanzata. — Chiarina, permettetemi di presentarvi l'aiutante Junot. Saluto di grande parata ed inchino profondo da parte della damigella. — Ed ora, Chiarina, vi prego, presentateci entrambi alla signora marchesa di Spigno. In quel punto l'aiutante Marmont uscì sulla porta della casetta ov'era sparito il generale Bonaparte e chiamò ad alta voce: — Signor conte Emanuele Embriaco? — To', a proposito, dove s'era nascosto l'Embriaco? — pensò ad alta voce Fiorina. Un'eguale domanda si dovevano aver fatta così Betto Grimaldi che Ibleto di Spigno, poichè si avvicinarono alle dame e così pure il capitano Cavalli che a sua volta ad alta voce pensò: — Già: dove s'è rintanato il.... — .... bandito. Completate pure il vostro pensiero, capitano: sono bandito, fuggiasco, fuoruscito come lo fu il vostro Enea. Ma forse non lo sapete: le pagine del secondo canto mancano probabilmente al vostro Virgilio. E l'Embriaco, apparendo all'improvviso, passò davanti al gruppo, salutò da provetto cortigiano le dame, fe' un cenno d'intesa allo Spigno, sorrise beffardamente al Grimaldi, e, seguendo Marmont, entrò nella casetta del Comando Generale. — Bestemmiatore! — gli mormorò dietro il Cavalli indignato. — Consolatevi, capitano, — gli disse Fiorina la quale da gran dama poteva permettersi di rivolgere la parola a persona che ancora non le fosse presentata, consolatevi: se il conte Embriaco vi ha toccato sul vivo, che dovremmo dir noi, signore e padrone di vassalli, di quel generale sanculotto, che ci è passato davanti senza nemmeno degnarsi di farci un breve cenno di saluto? Junot e Murat fecero un salto di traverso all'udir così maltrattare il generale in capo, ma Fiorina allegramente non se ne diede per intesa e proseguì: — Dicono che ce lo mandi Barras, il quale secondo le buone lingue ha installata una nuova era di reggenza. Ma il suo generale non gli fa onore: è spettinato come uno spazzacamino, e magro come uno studente di Salamanca. È inutile che mi facciate gli occhiacci, aiutante Junot: dite come me e vi permetto di baciarmi la mano. Gliela tese e poichè il giovine ufficiale la baciò si sarebbe potuto affermare che dividesse le teorie della marchesa. Ma il giovane aiutante, prima d'arruolarsi, era stato studente: non era dunque il volgaretto sanculotto salito dalla giberna come uno spauracchio per fanciulli, buono soltanto a menar le mani e non la lingua. — Bacio volentieri la mano alla marchesa — disse — ma darei la vita per il mio generale.... — E per me, aiutante, non la dareste? — l'interpellò Fiorina col più civettuolo de' suoi sorrisi. — Per voi, marchesa, la conserverei per servirvi come ad un uomo si conviene e s'addice. — Ben risposto, sangue di Giove! — esclamò Murat. Gli astanti sorrisero, Ibleto un po' a denti stretti, il Balbi con deferenza: Fiorina ricevette la botta da leale giostratrice, sorrise a piene labbra e seguì il filo del discorso. — Lo amate dunque tanto il vostro generale? — Sì, marchesa, lo amiamo e, quel che più importa, gli crediamo, ciecamente. Prima di muoverci da Nizza ci ha promesso la vittoria e la conquista dell'Italia.... — .... le belle donne e le buone bottiglie — mormorò Murat leccandosi le labbra. — .... e la gloria — completò Junot — ed è come, scusate la popolaresca espressione, se l'avessimo in tasca. Intervenne Betto Grimaldi. — Ci sono settantamila Austro-Piemontesi a difendere la strada di Genova, signor aiutante, e dei generali provati e provetti come il vecchio Beaulieu, per non parlare del generale Colli che anche lui ha il suo merito. Credo che troverete del filo da torcere. — E lo torceremo, cittadino! — proruppe Murat. — Le sorti delle battaglie non dipendono dal numero degli uomini che le combattono, — sentenziò Ibleto di Spigno. — Si legge in Plutarco che un milione di Persi furono vinti dai pochi. Ma del resto voi tutti sapete di Serse e sapete di Salamina.... — Mio Dio, ecco Ibleto che ha inforcato il cavallo con le ali — esclamò Fiorina — parliamo d'altro, signori! Vi pare un argomento degno di intavolar con le dame la guerra? — La guerra è bella — sussurrò il capitano Cavalli — e rende nobili gli uomini..... — .... se non li rende feroci! — Piuttosto — intervenne furtivamente Giano Lercari — che cosa è l'amore se non una guerra? — Oh! — esclamò Chiara battendo le palme per protesta. — Il cittadino ha ragione — approvò Murat — ci sto per l'eguaglianza della guerra e dell'amore. Quando amo credo sempre di entrare in un quadrato a cavallo con la spada in mano! — Esagerate, aiutante, esagerate — ribattè Fiorina, che si divertiva a tener testa a tutti quegli uomini. — Spada in mano, quadrato, cavallo! Esagerate, aiutante. — Murat usa il linguaggio figurato — disse Junot. — E non ha torto — aggiunse Ibleto — potrei citarvi dei testi delle scritture che lo suffragano. Il capitano Cavalli si fece nuovamente in mezzo. — La guerra e l'amore! Ecco l'argomento di tutti i poemi, da quelli d'Omero e di Virgilio, a quelli... — Del signor di Voltaire — completò Ibleto. La valletta dal dolce clima cominciava ad oscurarsi: i soldati all'intorno accendevano i fuochi: qualche rullo di tamburo vicino e lontano accennava il mutar della guardia. Sul puro cielo colline e profili di monti parevano appena posati delicatamente da mani femminili che ricamassero. Una campana rintoccò ed ogni altro rumore, anche quelli del servizio, parvero per un istante assopirsi, finchè il rintocco risuonò grave e melanconico nell'aria immota. — Quali intenzioni ha il mio signore e padrone, — chiese Fiorina — come e dove si pernotterà? Betto Grimaldi s'inchinò: — La città è vicina e la mia casa s'onorerà d'ospitarvi. — È più vicino il castello dei Lascaris. — Non credo che il conte vi si trovi. — Vi sarà certamente Isabella — osservò Ibleto. Murat e Junot si guardavano stupiti come se davanti a loro si parlasse una lingua sconosciuta. Il secondo finalmente si decise ad aprir bocca. — Scusate, signora marchesa, ma voi parlate di tornare in città od al castello del conte Lascaris. La camera del mio collega Murat e la mia non bastano a madamigella Grimaldi ed a voi? — E se vi rispondessi che non bastano? — Proverei l'immenso dolore di dichiararvi che nessuno può uscire dall'accampamento senza l'ordine del generale. — Cioè: siamo prigionieri. — Siamo noi vostri prigionieri, marchesa! Un silenzio imbarazzante interrotto dall'aiutante Marmont. — Il generale aspetta il signor marchese Ibleto di Spigno. L'interpellato si mosse, ma l'aiutante con un cenno lo pregò di attendere. — Ordine del generale: Junot e Murat cedete le vostre stanze alla marchesa e alla damigella Grimaldi. Le signore sono pregate di ritirarsi. Il Capo di Stato Maggiore Berthier attende il signor comandante Grimaldi, il signor Capitano Cavalli ed il signor Alfiere Lercari. — Ma questi sono ordini, mi pare? — esclamò Fiorina impennandosi. Freddamente rispose Marmont, inchinandosi appena: — Ordini, signora marchesa, del generale in capo. XXIX. La prima cosa che colpì Ibleto di Spigno nell'entrare entro la stanza in cui Marmont lo aveva preceduto, fu la nudità delle pareti e la crudezza del battuto. Non vide che un basso letticciuolo, d'un dubbio candore, ed una rozza, ampia tavola, formata d'assi posate su cavalletti. Sopra la tavola una carta geografica ed un pezzetto di carbone: la carta qua e là conservava traccie evidenti di nero fumo, a tal punto che un osservatore anche non superficiale ben poco ci si sarebbe potuto raccapezzare. Nell'alzare gli occhi dalle suppellettili alle persone vide Ibleto il generale Bonaparte, il cui viso nella semi oscurità rotta appena da una lucernetta appesa al soffitto parea più infossato e gli occhi più vivi e brucianti: vide poi anche, ma soltanto perchè il Bonaparte gli si rivolse, l'Embriaco. — Andate, dunque, conte: siamo intesi. — Perfettamente: ai vostri ordini, generale. Anche l'aria spavalda e ambigua dell'avventuriero aveva ceduto: appariva quasi umile, strisciante, desideroso d'eclissarsi, come se la presenza del giovine condottiero gli pesasse o lo incomodasse o lo intimidisse. Rimasto solo con lo Spigno — chè anche Marmont ad un cenno era uscito — il Bonaparte senz'altri preamboli domandò: — Quanti sono? Il marchese s'irrigidì quasi avesse provato l'effetto d'una guanciata. — Quanti sono? Che intendete dire, generale? Gli occhi brucianti fissarono il visetto vizzo del vecchietto. — Intendo dire: quanti sono gli Austro-Piemontesi? — Mi prendete per una spia, generale? Sono il marchese Ibleto di Spigno. — Lo so. — E allora? — E allora vi chiedo: quanti sono? Mi pare che soltanto per questo vi siate mosso, dietro ordine di Barras..... — Dietro invito, vi prego. — Non mi piace d'essere interrotto: ricordatelo una volta per sempre. Barras mi ha fissato qui il convegno con voi: qui devo sapere a che cosa vado incontro. — Non lo sapete? — Nè m'importa saperlo. La mia missione è d'andare, ma la mia volontà è anche d'infrangere ogni ostacolo. Ricordatelo. Un istante di silenzio. Poi: — Sono circa settantamila. — Molti. — Forse anche di più. — Troppi. Ma non importa. Dove sono? — Sbarrano tutti i valichi dalle langhe al mare. — Muniti? — Eccellentemente. — La via è libera fino....? — Quasi al Finale. Il giovane generale si piegò sulla carta e rimase immobile. Il silenzio gravò a lungo. Senza alzare il capo, ad un dato momento chiese: — Qui c'è uno sbarramento? Un forte? — Dove? — Qui, sopra Savona. A sinistra del colle d'Altare. Ibleto di Spigno si curvò sulla carta. — Forse: è da codeste parti il castello di Cosseria. — Ben munito? — Lo credo anzi sguernito. — Può sostenere un assedio di due giorni? — Può. Domina le langhe da ogni parte. — Penseranno ad occuparlo? — Beaulieu è volpe vecchia. Colli.... — .... è un asino. Ha l'esperienza d'Arena e di Saorgio e mi lascia via libera. Ibleto parve riflettere. — Via libera? Chissà. Forse qui c'è chi vi può trattenere. — So. I tre nobili, guerriglia da _chouans_. Infatti mi possono far perdere un giorno: ma non di più. — Chissà! — Io lo so: e mi basta. D'altra parte Colli non lo sa e mi basta anche questo. Guerriglie da chouans, dilettantismo guerresco! La guerra non è un ideale, è una necessità. Offendere o difendere degli interessi, non delle idee. Neanche le crociate lo hanno fatto. Ibleto di Spigno alzò il volto su cui errava un leggiero sogghigno e si lisciò la barbetta caprigna. — Credevo che gli eserciti della Repubblica avessero la missione di svelare ai popoli la libertà, la eguaglianza e la fraternità. Il viso del Bonaparte si rischiarò. — Precisamente: come Roma largiva ovunque la propria cittadinanza. — Roma..... — Roma fu la forza ed ogni forza è Roma. Troncò d'un gesto rapido la discussione. Rispose. — I vostri tre nobili mi ostacoleranno? — Forse. Ove il conte Embriaco non li dissuada. Il generale Bonaparte si tirò il lobo inferiore dell'orecchio sinistro. — Vedete molte cose, voi! — Sono vecchio, ho molto osservato, ho riflettuto molto, ed ho cercato non di indovinare gli effetti, ma di cercare le cause. L'avvenire è tutto qui. Un silenzio. — Continuate. — Voi, generale, siete un forte. I pochi che vi conoscono lo sanno e chi vi ha dato in mano i mezzi di rivelarvi non vi conosce. Non vi avrebbe favorito. È così che spesso il destino procede: chi crede di far precipitare offre invece il declivio per la salita rapida. — Continuate. — Continuerei volentieri se vi vedessi una qualche utilità..... — Per voi...? — Per me? No. Che posso temere? Io non ho da conquistare: non ho che da conservare e per conservare debbo orientarmi verso il più forte. Ora intuisco chi è il più forte e del resto l'avevo già prima sospettato. Purtuttavia posso anche ammettere di vedere una qualche utilità per me: sì, posso essere utile e quindi chiedere che utili mi si sia: posso essere utile perchè ho l'esperienza, perchè conosco gli uomini per quel tanto che è dato conoscerli e perchè li guardo con serenità sopra le passioni umane, sopra gli odii e gli amori, al di là della fortuna, lontano dagl'immediati interessi: posso essere utile e aver dell'utilità, cioè soddisfare il mio spirito osservatore e giocare con le anime come voi, generale, giocate coi corpi. Il Bonaparte stava curvo sulla tavola, come se studiasse i segni del carboncino senza preoccuparsi di quanto diceva l'uomo vizzo e magro che parlava lisciandosi la barbetta caprina. Pure quando l'ometto si tacque alzò il viso e domandò: — E verreste voi con me? — Sì, verrei con voi. Vi credo: credo in voi. E debbo essere il primo a dirvelo. — Il primo? — Credo di sì. Non conto coloro che vi amano, chè, non hanno merito a credervi. Conto solamente coloro che con lucido spirito vi hanno osservato. Non credo che siano molti, e voi non sareste al posto che occupate. — Può darsi che abbiate ragione. — L'ho. Non ne dubitate nemmeno voi. Il generale repubblicano piegò di nuovo il capo sulla carta mormorando: — Riparleremo di tutto questo. — A piacer vostro. Un cenno che poteva passare per un commiato. Ibleto di Spigno salutò e si diresse alla porta. Fu richiamato. — Marchese! — Generale! — Vi prego di avvertire la marchesa che le presenterò fra poco i miei omaggi. — La marchesa ne sarà onorata e ve ne ringrazia a mezzo mio. Dubito però che possa ricevervi come desidererebbe e come meritate. — Ho disposto perchè Junot le cedesse la propria stanza. — Ve ne ringrazio. Un nuovo cenno del capo, breve, come un comando. Ibleto uscì ed il Bonaparte ripiegò il viso sulla carta. Passò forse un'ora: il giovane dai capegli incolti, fasciato nella sciarpa tricolore e insaccato negli alti stivali rimase immobile. Pareva addormentato. La lucernetta appesa al soffitto spandeva un lume fioco: il silenzio era profondo. Attraverso le imposte sconnesse lo sguardo avrebbe potuto affondarsi nel cielo buio, così buio che puranco le stelle vi scomparivano. A tratti un passo cadenzato di sentinella frangeva il silenzio: con probabilità camminava sull'erba, rotta per un breve spazio da un po' di lastricato, forse la pietra d'un pozzo. Tutto dormiva, forse, all'intorno, meno il giovane febbricitante che inseguiva il destino! Parea d'un pezzo solo con la tavola e la carta. Quando anche la lucernetta diede gli ultimi guizzi, e si spense, il giovane condottiero non si mosse, quasi che le linee tracciate sulla carta gli permanessero nella retina e le vedesse anche al buio. Restò così a lungo a lungo, poi con un gesto secco e risoluto s'alzò e si avvicinò alla finestra. Tuffò la testa bruciante nel fresco della notte, ne provò un refrigerio, macchinalmente s'aggiustò la sciarpa e si ravviò con la destra i capegli. Poi si avviò verso la porta, l'aprì, se la richiuse dietro. XXX. La marchesa Fiorina di Spigno stava acconciandosi per la toilette notturna aiutata da Gilda, la quale dopo aver messo a letto — se si poteva chiamare letto l'esiguo numero di tappeti e di coperte possedute da Murat — la padrona come aveva potuto meglio, era passata dalla marchesa a ripetere le sue funzioni. Chiarina dormiva di già sotto la protezione delle _Tre Marie_, ciò che l'aveva più consolata del letto reso abbastanza soffice dai cuscini della lettiga. La Spigno invece aveva penato alquanto per ridurre la cuccia di Junot all'alta carica di letto marchionale, ed ora dimessi gli abiti maschili s'era avvolta in un accappatoio formato alla bell'e meglio dal damasco che copriva la lettiga dei Grimaldi, e seduta sur un cassone abbandonava la bella chioma fluente, così lunga che l'avrebbe potuta ricoprir come una santa Agnese, nelle mani di Gilda, la quale felice di maneggiarla non si sbrigava davvero, protestando che prima di ravvolgerla entro un fazzoletto di seta adattato a cuffia, le era necessario districarla pazientemente. Ed intanto chiacchierava, da stordita qual'era. — Sono tutti allegri questi soldati! Sembra che vadano a festa più che alla guerra. E il signor Tibullo è il più allegro di tutti, ma si prende troppe libertà con le ragazze onorate.... — L'avrai però messo a posto, imagino, Gilda! — Ho tentato, signora marchesa: ma non è facile, chè questi soldati forse abituati con le vivandiere sono latini di mano più che di lingua.... — Ha voluto abbracciarti eh! Tibullo? — Il signor Tibullo s'è preso un bello e buono rovescio di mano sul viso..... — Gli avrai fatto poco male: hai le mani soffici. — Non tanto, chè ci ho le nocche anch'io, e lo sa oltre il signor Tibullo anche il signor aiutante Murat.... — Come? Anche l'aiutante? Ma tu fai strage più del cannone, Gilda! La vispa cameriera un po' confusa apriva tuttavia la bocca per replicare, quando la porta si spalancò e Marmont annunciò vibrato e imperioso: — Il Generale! Entrò il Bonaparte a passi brevi e rapidi e licenziò d'un cenno Gilda, la quale spaventata s'ecclissò davanti a Marmont che richiuse la porta uscendo. — Signore — esclamò la marchesa alzandosi e raccogliendosi intorno alla persona la coperta di damasco — in quale società di villani avete imparato a trattar con le donne? Vi prevengo che nelle mie stanze non entra che chi piace a me, dopo che me ne ha chiesto permesso! La coperta di damasco era più lunga che larga, di modo che una spalla e le gambe dal ginocchio in giù ne sfuggivano: una spalla non piena ma dal puro contorno, e due gambe affusolate, che la calza carnicina svelava scrupolosamente. I capegli fluenti, lunghi, serici e gli occhi sfolgoranti di dispetto davano alla piccola marchesa, che nel parlare s'era alzata sulla punta dei piedini, l'apparenza dell'angelo armato di fuoco posto a guardia del Paradiso Terrestre. Ma il giovane generale non ebbe un solo sguardo nè per la spalla nuda, nè per le gambe perfette, nè per la vibrante capigliatura: sedette sopra un alto cassone e come se domandasse la cosa più semplice di questo mondo, le chiese: — Dov'è il vostro amante? Accade spesso che gettando fuoco su fuoco, invece di ravvivarsi maggiormente, sembri spegnersi lì per lì: così la marchesa rimase interdetta sotto il nuovo insulto. Mormorò: — Il mio amante? — Sì, il conte Lascaris. Tutto poteva aspettarsi la marchesa dal nuovo ignoto che le stava dinanzi come un giudice ed un padrone, tutto, meno che le svelasse i suoi stessi segreti, quelli che credeva difesi da tutti, lontani da ogni sospetto. Mormorò ancora fissando il giovane generale quasi spaurita: — Il mio amante? — Il vostro amante. So che insieme al duca di Nervia ed al signor d'Altariva sta facendo una guerriglia da _chouans_ e che s'illude d'opporsi al mio passaggio. È per questo che vi chiedo se sapete dov'è in questo momento e se vi incarichereste di dirgli da parte mia che è pazzo. Fiorina a poco a poco riprendeva l'imperio di se stessa. Quel vedersi trattata come un oggetto qualunque, senza l'etichetta alla quale era abituata e la distanza che scavava un abisso fra la gente di corte e la borghesia, alla quale il giovane generale doveva appartenere, borghesia da codino stremenzito e senza parrucca, quel discorso a tu per tu da padrone ad inferiore la fece impennare. — In quale fattoria di villani avete imparato a star seduto dinanzi ad una dama in piedi? — Preferite che vi tratti da dama, anzi da donna, poichè la rivoluzione ha abolito gli aristo? S'alzò, le si avvicinò, le posò una mano sulla spalla nuda brancicandola. — Villano! E la marchesa torcendosi tentò di sottrarsi alla mano adunca e imperiosa: ma il cassone che aveva dietro glielo impedì. — Villano! Lasciatemi o grido. — Gridate a piacere vostro, piccina! Potete star certa che nessuno aprirà quella porta. Fiorina sentì gli occhi pieni di lagrime, forse lagrime di rabbia, ma lagrime. Ed implorò quasi: — Lasciatemi.... mi fate male! Forse ogni altra parola, anche violenta, anzi meglio violenta, avrebbe allontanato dalla donna il giovane generale, che non s'era mosso che per ragioni d'interesse bellico. Ma l'animo tenebroso del Bonaparte chiudeva istinti quasi sadici e subiva eccitamenti improvvisi che dovevano essere sodisfatti subito per non farlo dolorare come per insostenibile tortura. L'implorazione femminile lo richiamò all'idea della donna e la donna gli mise nel sangue altri pensieri che non erano i politici. E quindi invece di lasciarla, più fortemente la brancicò: sopra la spalla nuda, la mano adunca si chiuse come un artiglio: con l'altra mano la cinse alla cintura e s'inchinò sopra il volto spaventato avvicinando la bocca alla piccola e fresca bocca che pareva socchiusa dal singhiozzo. In quel pericoloso momento l'altro spirito indomito che si dibatteva in contrasto al maschile, ridiventò padrone di se stesso: il corpo della donna s'irrigidì, si torse, le mani libere sfiorarono il muro che avevano d'accanto: l'una trovò i fiocchi della sciabola di Junot che era appesa alla parete, per istinto salì all'elsa. Ed era sciabola di buon soldato facile ad uscir dal fodero e ne uscì. Fu librata nell'aria e ricadde sul capo del Bonaparte. Fortunatamente per i destini del futuro imperatore la mano era debole e per calare un fendente occorre un braccio nervoso e cinque dita sicure nell'elsa. La sciabola cadde a piattonata ma il colpo bastò a stordire l'uomo che ricadde all'indietro sui tappeti del lettuccio e vi restò senza fiato, immobile. Un gorgoglio rauco saliva dalla bocca dell'abbattuto fino alla marchesa spaventata e senza fiato, gli occhi sbarrati e nell'anima il vago timore di una catastrofe. Il quadro avrebbe sedotto più d'un famoso pennello: il giovane generale a metà sdraiato sul lettuccio, i capegli all'indietro e le mani contratte, fasciato della sciarpa tricolore, in iscorcio, duro il mento volontario, divaricate le gambe sottili: dall'altro lato la donna un po' curva, sciolta dalla coperta di damasco e difesa quindi dalla sola camicia corta e sottile, la sciabola pesante con la punta a terra, il volto contratto, la capigliatura intorno al corpo, nel biblico e leggendario costume d'Eva pittoresca, ma anelante, la bocca aperta, gli occhi gonfi di paura: il quadro avrebbe certo meritato, almeno quale documento storico, una matita fedele e geniale. Rimasero lunghi istanti così, nell'immobilità della stanchezza e dello stordimento, finchè il Bonaparte non si rialzò con uno sforzo, puntando le mani sotto le reni. E la donna pure si raddrizzò, rialzando la coperta damascata e fasciandovisi. Poi coraggiosamente impugnò la sciabola a due mani e gridò: — Se vi avvicinate vi ferisco! Ma l'altro, subito, non la guardò nemmeno. Si ravviò i capegli, si riaggiustò gli alti stivali e la sciarpa e lo sparato. Poi s'avviò alla porta, di là si volse. Aveva una faccia grifagna e macchiata di tracce sanguigne, la bocca torcentesi in un _rictus_ sinistro. L'immagine d'un uccello di rapina frustato nella furibonda calata sulla preda. Con uno strappo aprì la porta e se la richiuse dietro con violenza. XXXI. L'aria fredda notturna gli fece bene. Avidamente la bevve. Poi mosse il primo passo. E allora Marmont si fece innanzi impassibile e mormorò: — L'altra dama è nella stanza di Murat. Ed ebbe un cenno di risposta e restò irrigidito finchè l'ombra sottile non si perdette nella notte. Nei pressi della stanza di Murat due altre ombre s'aggiravano guardinghe, furtive, celandosi all'angolo della casetta ove una specie di tettoia rozza, evidentemente adibita a ricovero di carri offriva un complice rifugio. — Credete, amico Filippo, che il generale accoglierà la mia domanda? — Giano mio, lo credo. Aspettate purtuttavia che l'aiutante Junot vi rassicuri sull'umore del generale. Bisogna andare a colpo sicuro: un no sarebbe sgradevole e per sempre. Aspettate il parere di Junot. — Anche l'aiutante Marmont... — Non vi fidate dell'aiutante Marmont: è geloso di chiunque e credo che mi ostacoli la promozione a comandante. Ah! Se potessi fra un anno ottenere la brigata che mi era stata promessa! — Io mi accontenterei del grado di capitano. — Naturalmente, ma io debbo scontar delle promesse: fino ad oggi le cose sono andate come le avevo presagite e il generale è sempre grato a chi non lo induce in errore. — Che cosa avevate presagito, Filippo? Un silenzio. Poi: — Giano mio, non bisogna essere curiosi! E quindi, quasi a correttivo della lezione: — Sono affari di servizio! Scusate se non credo lecito di ripeterveli. — Avete ragione — rispose il Lercari confuso — scusatemi voi. E tacquero. In quella un'altra ombra, sottile, irrequieta ma non guardinga apparve dal lato opposto dirigendosi verso la porta della stanza di Murat. — Per Iddio — sclamò soffocatamente il Balbi. — Chi si fa lecito d'avvicinarsi alla stanza della mia fidanzata? D'un balzo fu quasi a tu per tu con la nuova ombra apparsa. — Olà! Chi siete e che volete? Giano che l'aveva seguito alzò d'improvviso la lanterna sul viso dello sconosciuto. Filippo Balbi fece un balzo all'indietro. — Il generale! — Il generale! — ripetè Giano. — All'ordine, signori ufficiali! — Il Bonaparte seccamente replicò. — Che fate voi stessi qui? Filippo Balbi interdetto rispose: — Generale, in questa stanza riposa la mia fidanzata. — La vostra fidanzata! — La damigella Grimaldi, generale! — E voi? Chi siete voi? — Il capitano Filippo Balbi, generale. — Ed io sono il cugino, l'alfiere Giano Lercari.... Il Bonaparte frenò un gesto d'impazienza. — Dov'è Murat allora? Dov'è Murat? Al Balbi non era ignoto che l'ordine d'alloggio per le due dame era stato dato dallo stesso Bonaparte: vide la scusa, s'insospettì, frenò un guizzo torbido e rispose: — Vuole il generale che m'informi? — Sì, andate.... ambedue..... Un rigido saluto e l'ombra li riavvolse. Ma dopo alcuni passi, nell'angolo che possedeva la tettoia, il Balbi spinse lungi da sè Giano. — Va, va, lasciami! L'altro esitava. — Va.... presto.... va! Rispondo io del tuo grado! Ed il Lercari s'allontanò velocemente. Rimasto solo Filippo Balbi tese l'orecchio sporgendosi dal ricovero. Udì il rumore secco e distinto del rozzo chiavistello che cedeva e il cigolare gemente della porta che s'apriva. Entro la stanza c'era una lucerna accesa: ne apparve uno sbiadito rettangolo sul terreno e quella fioca luce fu subito invasa da un corpo che però non l'occupava tutta. — Dio! — mormorò Filippo fra sè. La porta fu richiusa. L'ombra era entrata o no? Il Balbi non istette in forse, ma si lanciò fuori dalla tettoia e in due passi fu all'uscio. Era chiuso. Allora accostò l'orecchio alla toppa. Il cuore gli batteva così che subito non concepì alcun rumore anche leggiero: ma poi gli parve d'udire uno strisciar felpato di passi. E quindi il silenzio. Ed il silenzio durò a lungo. Che faceva colui nell'interno dinanzi alla fanciulla che giaceva nel sonno casto e verginale? Esitava? Si pentiva? Sarebbe tornato? Od era in preda al torbido fuoco del desiderio impuro e pur tuttavia si tratteneva come dinanzi a cosa sacra? Il silenzio durò a lungo. E il cuore batteva al giovane ufficiale fino a spezzarglisi in petto, gli batteva sordamente e dolorosamente sì, ma più d'attesa che d'orrore. Con l'orecchia incollata alla toppa, le mani aggrinzate sul petto a comprimersi il sobbalzar doloroso, attendeva. Attese a lungo. Finalmente un grido sùbito soffocato echeggiò nella stanza terrena, poi giunse l'eco d'una breve lotta, poi delle implorazioni femminili; — Pietà.... padre.... Filip..... L'udire il proprio nome sussurrato in aiuto fece sul giovane ufficiale l'effetto d'una guanciata. Ma non si mosse. Di dentro la sorda lotta continuò, poi un grido lacerante, poi un lamento gorgogliato come di bimbo che piangesse in silenzio, poi nulla più. Ma nel momento istesso in cui, stanco, si rialzava, sull'omero di Filippo una mano tremante si posò: — Balbi.... avete udito? Riconobbe la voce di Betto Grimaldi, tremula e si drizzò di scatto. — Ho udito — rispose con la voce malferma, — ho udito..... ed ho creduto che fosse.... vostra figlia. La voce tremula domandò: — E.... non era? — Mi.... sembra.... che no. Tacquero. Non si potevano vedere chiaramente in viso, ma s'indovinavano. L'uno respirò: — Mi sento più tranquillo! L'altro gli fece eco nel respirare. — Anch'io! L'una voce non era già più tremula, nè più mal ferma l'altra. E stettero in forse. — Andate a riposare, Filippo? — Stavo per farlo, Grimaldi! In quella, ecco, l'uscio della stanza, dinanzi a cui si trattenevano, s'aprì. Una voce imperiosa chiamò: — Marmont! — Generale! — Rispose il chiamato. E l'aiutante alzando una lanterna uscì dall'ombra. Stettero a guardarsi, immobili. Poi sotto gli occhi di fuoco del giovane condottiero pallidissimo, scarmigliato, sudante, gli altri occhi si abbassarono. E ruppe il silenzio brutalmente chi più degli altri avrebbe dovuto tacere. — Conte — parlò secco e deciso — mi meraviglio di trovarvi qui.... L'altro barcollò. Il Bonaparte riprese: — .... Credevo, speravo, che aveste già assunto, il comando della vostra mezza brigata. Filippo Balbi sentì un'onda vorticosa di sangue salire dal cuore al cervello. Mormorò: — Generale!.... — Non mi ringraziate — fu la breve risposta, che s'addolcì, per quanto lo poteva la voce nata per il comando. Parlava a Betto. — Signor Grimaldi, non ho alcuna intenzione di prendere la vostra città. Conservatevela. — Generale!..... — Non mi ringraziate! E poi: — Buona notte, signori! Solo con l'aiutante Marmont, senza guardarlo, anzi volgendogli quasi le spalle, ordinò: — Fra un'ora firmerò brevetto e salvacondotto. Mosse un passo: ristè ancora. — Marmont, cerca la cameriera di madamigella Grimaldi! Credo che ce ne sia bisogno! XXXII. Nell'ampia sala del Castello dei Lascaris la marchesa Isabella seduta rigidamente presso la tavola pareva immobile, mentre dall'altro lato l'abate Bernardino Viale, in Arcadia Amarillo Glucosio, curvo sotto un'alta lampada a quattro becchi — un alone d'oro morbido nel buio fondo — leggeva monotono e grave e cadenzato dei versi: _L'azzurro mar preclude il varco al mondo_ _novo, che divinò ligure mente:_ _i colli e i monti in diadema tondo_ _serran da tergo il pian qui e là spiovente:_ _in alto s'inabissa il ciel profondo:_ _è breve terra ma superba gente_ _v'opra ed è figlia prediletta al sole:_ _ma chi v'impera è bizantina prole._ — Spero — sussurrò l'abate dopo aver atteso invano una parola d'approvazione — spero, confido d'essermi chiaramente espresso nella sommaria esposizione di quello che sarà il soggetto del primo canto del mio poema. L'argomento del detto canto è la descrizione della terra di Liguria, fra il mare, i monti e il cielo, sotto il dominio della possente famiglia dei Lascaris. Nutro la speranza che la signora marchesa approvi l'epiteto _bizantina_ in omaggio a Teodossia, principessa di Bisanzio, capostipite..... — Ho gustato l'epiteto, abate, e l'approvo. Quello che mi lascia dubbioso è l'affermazione che sulla terra di Liguria imperi la mia famiglia. Mi sembra alquanto esagerato. — Mi permetto di contraddire calorosamente la signora marchesa, e di dimostrarle in pari tempo la verità del mio asserto. Nei poemi, che precedono il mio, c'è ovunque, per indicare un popolo, indicata invece una prosapia. Così nella enumerazione delle forze greche nell'Iliade, che mi dicono il signor cavalier Vincenzo Monti stia traducendo in versi liberi con l'aiuto del dotto grecista padre Biamonti: così Virgilio enuncia i popoli dell'Italia che Enea sconfigge, così Stazio e così Lucano, e per venire ai moderni il Tasso, che, ad esempio, sottomette le Puglie a Tancredi. Ecco perchè ho chiamato poeticamente ad imperare sulla Liguria i conti Lascaris, pensando che ne hanno i titoli. Quale famiglia infatti risale a così antichissima origine che si perde nella notte dei tempi? Nessuna invero, neppur quella dei Re di Sardegna. — In questo sono con voi, abate! — Godo d'aver con le deboli forze della mia circoscritta mente saputo convincere l'illustre e dotta marchesa Isabella di Spigno, contessa Lascaris di Tenda. E chiedo quindi licenza di proseguire. — Proseguite pure, abate. Amarillo Glucosio — scusino i lettori — l'abate Bernardino Viale tossicchiò, si dimenò sulla sedia e, quasi gli spiovesse dalle labbra il miele ibleo, accarezzò così le parole: — Canto primo: invocazione. Non ho invocato la vergine musa, no: temo d'aver tanto osato. Chiamo a me la musa madre, Mnemosine..... _Madre, che sulle mitiche pendici,_ _donde Pegaso a vol l'aere fendea,_ _tra le figlie traevi i dì felici_ _sul mondo, che dal tuo labro pendea,_ _tu stessa il plettro mio guida, tu dici_ _che madre e prole è qui maggior d'Enea:_ _Madre che bina una corona preme,_ _Prole che è Marte e che è Minerva insieme._ L'abate si tacque modestamente e curvò il capo gravato dal peso dell'alloro e la marchesa lusingata stava per aprir bocca ad assentire per largirgli il premio dovuto quando si aprì invece la porta ed il Moncherino annunciò: — Il signor conte Emanuele Embriaco! Prima ancora che la marchesa concedesse l'assenso, ecco l'avventuriero sulla soglia, sprofondarsi in un inchino e spazzare delle piume del feltro l'impiantito. — Conte, benvenuto! Quali novelle portate di mio figlio? — Liete novelle, spero, illustre signora marchesa, e più liete e sicure saranno se avrò l'ausiglio vostro. — Parlate sibillino, conte! Da qualche istante l'abate ritto sotto l'alta lucerna faceva profondi saluti all'Embriaco, il quale finalmente se ne accorse e li restituì affabilmente, pur rispondendo in pari tempo alla dama: — Quali parole possono sembrar sibilline all'acuto discernimento della illustre signora marchesa? — Le vostre, conte mio, le vostre che vi prego di spiegarmi. — Agli ordini della illustre signora marchesa se vorrà darmi benigno ascolto. M'accorgo però — e me ne dolgo — d'aver interrotto l'eminente signor abate. La illustre signora marchesa perderà di leggieri nel confronto! L'abate si profuse in inchini e in sorrisi mentre la dama rispondeva: — Tregua ai motti ricercati, conte, e parlatemi di mio figlio. — La signora marchesa non ne ha avute più notizie da quando partì meco? — Nessuna, conte. Voi lo lasciaste da poco, vero? Ed è lui che vi manda? — Due giorni or sono mi distaccai da lui. Ma non vengo a suo nome. Vengo bensì per lui. — Parlate! Parlate! L'Embriaco parve raccogliersi un istante: poi dichiarò: — Un grave pericolo sovrasta sul capo del conte Lascaris..... — Di mio figlio?! — Del conte Lascaris, del signor d'Altariva e del signor duca di Nervia e sul vostro, signora marchesa, e sulla città..... — Un grave pericolo? — Gravissimo. Le orde repubblicane si rovesciano di nuovo sugli Stati d'Italia! — Ripasseranno l'Alpi come due anni or sono. — Temo che no. Le guida oggi, non una vecchia giberna come Arena, ma un giovane generale che vede lunge e che sprona sete di gloria e ambizione di potere. Le comanda un intelletto degno di comandare. — E questo genio è a Parigi fra gli eleganti e le creole? — È qui fra i soldati e i cannoni. — Qui? — A pochi passi, a San Bartolomeo. I villani di Sant'Antonio non furono cacciati da bande sperse che sconfinarono, ma da esercito ingordo di bottino ed anelante di saziarsi sulle belle contrade e le bellissime donne. — Orrore! — sclamò l'abate facendosi il segno della croce. Anche la marchesa Isabella rabbrividì, ma nascose il turbamento ed eluse il discorso. — Mio figlio? dov'è mio figlio? — Il conte Lascaris, col signor d'Altariva e il duca di Nervia, bivaccano a oriente della città, ripromettendosi probabilmente d'opporsi all'invasione. Folle pensiero. Poche centinaia di partigiani male equipaggiati come potranno resistere ad un esercito regolare trecento volte più numeroso, dotato d'artiglierie e fornito di munizioni ad esuberanza? Tacque. Concluse: — Saranno travolti, annientati, e inutilmente. Un istante di silenzio. Poi la voce della marchesa sibilò: — Venite a nome delle orde repubblicane, conte Embriaco? Rimase interdetto, subito, preso così a bruciapelo, l'interpellato. Ma si rinfrancò e fu calma la risposta. — Vengo come amico, vengo come colui che per vostra bontà, illustre signora marchesa, non si logora le mascelle in un qualche sotterraneo della Serenissima; infine vengo come colui che sedette a questa tavola, mangiò il vostro pane e bevette nel vostro bicchiere. E vi prego di credermi e d'aiutarmi. — Credere che cosa? Aiutarvi in che? — Credere in me, nella mia sincerità, nelle mie buone intenzioni. Aiutarmi a persuader vostro figlio. — Persuaderlo a far che? — A non resistere. — A tradire? — A non resistere, vi ripeto, dato che la resistenza è inutile e che sacrificherebbe delle vite umane senza costrutto. La marchesa sogghignò: — Non vi avrei mai creduto accessibile alla pietà, conte Embriaco. Affè mia che vi consiglierei quasi di cambiare la casacca che indossate con l'abito del signor abate. — Voi scherzate sopra un vulcano, marchesa! — Prova che non mi avete convinto. — Volete permettermelo? — Fate. — Badate che il tempo stringe e che forse a quest'ora.... — V'avverto che impiegate argomenti poco atti a convincermi. Qui l'abate non vi troverà certo somiglianza alcuna con i grandi oratori del passato. L'Embriaco si raccolse — o parve — poi risolutamente: — Vi prego di ascoltarmi seriamente, marchesa. — Vi ascolto. La porta si spalancò all'improvviso. — Vi prego di dire: v'ascoltiamo, madre mia! Ed il conte Luca Lascaris penetrò nella stanza con Camillo Altariva e col duca Almerico di Nervia. XXXIII. Dal distacco nella notte infernale a quest'altra notte che poteva ben diventare infernale peggio della prima, i quattro patrizi non si erano trovati più di fronte. I sospetti iniziali de l'Altariva, quegli altri sospetti del Nervia, non erano pure tuttavia suffragati da prove evidenti nè da ragioni essenziali. E per di più Luca Lascaris non poteva dimenticare che portator d'una cara lettera gli era giunto colui che in quel momento, stando alle apparenze, avevano quasi forzato nel covo. Emanuele Embriaco per troppe emozioni della vita avventurosa ben si era fatto un uso del pericolo continuo: se l'esistenza gli premeva, pur tuttavia la rischiava come il giuocatore la borsa colma d'oro, che gli è tutto e solo patrimoniale. Alla voce del Lascaris non diede subito a veder di commuoversi, ma pensando poi che un apparenza di insensibilità avrebbe potuto essere interpretata a suo favore e accrescere i sospetti, se ve n'erano, si voltò sorridente in viso di lieta sorpresa e salutò con effusione mal trattenuta, quasi che il rispetto dovuto alla dama gl'impedisse di mostrarsi quale avrebbe voluto e l'amicizia richiesto. — Mi chiamo pupillo della fortuna! E godo che qui a saggiare gli argomenti, semplici del resto, ch'esporrò, siano tre miei pari, provati dalla guerra, maestra sempre di pratiche soluzioni, anche se guidi o sproni un ideale. La marchesa Isabella si trovava separata dal figlio appunto da l'Embriaco: s'accontentò quindi d'uno sguardo, intuendo che qualche cosa di ben più importante d'un'effusione materna stava per accadere. Ci fu quindi un attimo d'immobilità nella sala. Poi Luca, restituendo il saluto, ripetè: — Vi ascoltiamo dunque, conte Embriaco: parlate liberamente. — Liberamente parlerò, certo, Lascaris! Quello ch'io debbo dire è troppo importante e voi troppo sottili, perchè non abbia il suo effetto: debbo dir questo. Abbiamo alle spalle un esercito agguerrito e possente; e lo guida un giovane generale spregiudicato che fra noi piomba come falco sulla preda. Non rotea già più, ma piomba. L'esercito è composto d'orde scamiciate e indemoniate che scatena per l'anima un canto patriottico, bollente come acquavite in fiamma, e per il corpo uno sfrenato desiderio di bottino nelle nostre ubertose campagne e nelle pingui e grasse città. Nulla e nessuno varrà a frenare l'impeto irruente dell'orda: non l'esercito d'apparato del Beaulieu, nè quello mal condotto dal Colli. Sfortuna vuole che scaglioni repubblicani si trovino già sulle terre nostre: al rovesciarsi del fiume, tutti i torrenti vi sboccheranno, v'affluiranno i rivi, e se ne avvantaggierà per non indietreggiare. Ha un vantaggio sulla coalizione austro-piemontese: ma che dico un vantaggio: ne ha mille. Questi: È formato di volontarï e voi sapete, perchè capitanate volontarï, quanto siano preferibili, per la guerra che facciamo, ai regolari, alle truppe di lunga ferma, che assomiglierei volentieri alle ciurme delle galere, ai condannati al remo, posti in comparazione coi forsennati _buonavoglie_. Di più non hanno da difendere che se stessi, non terre, non famiglie, non averi. Ma che dico difendere! Essi giocano la pelle nella posta con la fortuna. Ed escono da città in preda al disordine ove han sofferto la fame e si son visti pendere sul capo la mannaia. Dicono di portar la libertà ma invece vengono a conquistarla. Faranno la guerra di Alessandro e di Cesare: avanzeranno cioè senza curarsi delle spalle, finchè non possederanno qualche cosa da mettere in salvo. Il che non avverrà certo fino a che non irromperanno nelle pianure di Lombardia. Eccovi in breve dunque che cos'è l'esercito che non isconfina per bande in cerca di che sfamarsi, ma deliberatamente per una conquista organizzata. Migliaia migliaia e migliaia d'uomini ben decisi e ben guidati. Ho detto. Adesso chiedetemi. Un penoso silenzio gravò nella sala: immobili tutti, meno l'abate che si fece il segno della croce. Infine Luca Lascaris mostrò di voler parlare, ma fu fermato da Camillo Altariva. — Vi prego, Lascaris, lasciate ch'io solo interroghi il conte Embriaco sulla situazione. — Fate, Camillo. L'avventuriero con un cenno mostrò d'attendere. L'altro fu breve e fu reciso. — Vi manda il generale Bonaparte? L'interpellato ebbe un moto, subito represso. Volle chiedere: — Subisco forse un interrogatorio? Ma si morse la lingua. E rispose tranquillamente: — Sì, oggi, il generale Bonaparte manda me. — Perchè, _oggi_? — non potè trattenersi dal domandare l'irruente Luca Lascaris. L'Altariva represse un atto di stizza. Ma il male era fatto ed Emanuele Embriaco ne approfittò subito. — Perchè domani, se per qualunque ragione il mio passo d'oggi fallisse mi seguirebbe un oratore ben più convincente. Non aspettò questa volta d'essere interrogato. Compì: — Il marchese Ibleto di Spigno. — Voi mentite! — urlò il conte Lascaris mettendo per istinto mano alla spada. Anche questa volta l'avventuriero seppe afferrar l'occasione che gli si presentava. Con accento doloroso esclamò: — Sono ospite vostro e sono disarmato. Datemi campo e modo, quello che vi converrà, di rispondervi. Camillo Altariva intervenne: — Luca, ve ne prego, frenatevi. Il signor conte Embriaco vi ha mal compreso e vi comprenderà meglio se porrà mente a un fatto importante: la parentela che vi congiunge agli Spigno. Un sorriso ambiguo dell'Embriaco diede luogo a varie interpretazioni. E per non lasciare che il Lascaris, a pena calmato, ancora si desse in braccio alla imperizia, l'Altariva domandò senz'altro: — Il marchese di Spigno è dunque al campo francese? — Vi apponete. — E voi l'accompagnaste colà? — L'incontrai nella mattina di ieri, dopo una notte d'incerto cammino, poichè avevo nelle strade buie e malagevoli smarrita la scorta: fui dal marchese condotto al campo francese. E se domani Ibleto di Spigno verrà ufficialmente a convincervi, oggi io mi sono allontanato per poche ore, senza alcun incarico, spontaneamente. — Per noi? — Non per voi: non credevo di trovarvi, non lo speravo. Ma bene speravo di veder qui la illustre marchesa. — E qual'era il vostro pensiero? — Questo: non v'opponete: è inutile. Ritarderete d'un giorno il passaggio del generale Bonaparte, forse. Dico forse perchè può qui lasciare un migliaio d'uomini a combattervi se guerriglierete e correre innanzi come vuol correre. Non ne guadagnerete dunque nulla e perderete i vostri uomini e perderete voi stessi: le vostre campagne saranno devastate, o, quel che è peggio, date in balìa al popolo di Ventimiglia che non vi seguirà, poichè Betto Grimaldi è al campo e tratta, e peggio, spera in un salvacondotto che gli permetta di conservare la città. Saranno spianati i vostri castelli e condotta in prigionia la nobile marchesa qui presente, e voi, se resterete in vita. Sacrificio inutile, credete a me. Stava per protestare Luca Lascaris, e la stessa marchesa per intervenire, quando l'Altariva rispose: — Vi credo! Qui lo stesso Embriaco fu sorpreso. — Vi credo — replicò l'Altariva — ma pongo due condizioni. — Ditele. — Veder domattina Ibleto di Spigno ed avere un colloquio col generale Bonaparte. — Le credo accettabili. Gravò il silenzio per qualche istante. — Siamo dunque d'accordo, Emanuele Embriaco? — D'accordo. E vado a comunicar quanto chiedete. Un inchino, e l'Altariva si scostò scoprendo Almerico di Nervia, il quale era stato fino allora silenzioso e che si fece avanti, cupo in volto, lentamente. — Vi chiedo scusa, signori. Desidererei domandare qualche breve schiarimento al signor conte Embriaco. L'avventuriero provò un senso di gelo. Ma cortesemente rispose inchinandosi: — Dite pure, duca. Sono ai vostri ordini. — Vi ringrazio e sarò breve. Parve riflettere, parve riordinare memorie e frasi. Poi con uno sforzo evidente, che si appalesava quasi commosso, incominciò: — Diceste, se non erro, poco fa che incontraste nella mattina di ieri il marchese di Spigno, quando smarrito e abbandonato dalla scorta erravate lungi dalla buona strada. — Credo infatti d'essermi espresso così. — Vi ringrazio. Ma poichè v'avevo accolto nel mio accampamento ed io stesso v'avevo data la scorta vedo in quello che avvenne un po' di colpa mia..... — Duca! Che dite! — Lasciatemi dire. Ho mancato, spero crederete inavvertitamente, ai doveri elementari dell'ospitalità: ho mancato e tengo davanti a questi nobili uomini a chiedervene perdono. — Duca! Ve ne prego! — Lasciatemi dire.... — Non una parola di più, duca! Me ne offenderei. — Perdonate! Ma non ho finito. Errai, mi perdonaste e ve ne son grato. Ben altri però hanno errato più di me, e tengo a che vi chiedano scusa. Nella sala regnava profondo stupore. Nessuno comprendeva: anzi il Lascaris pensò che il duca vaneggiasse. Ma il rude gentiluomo non si distrasse. Dichiarò: — Permettete che vi chiami il colpevole maggiore. E grazie se lo perdonerete, conte Embriaco. Si voltò verso la porta, la spalancò di colpo e con voce stentorea gridò: — Olà, vecchio Seborga, vieni avanti! XXXIV. Per quanto si possa per infinite ragioni di vita avventurosa, e per non contar nulla, o meno di nulla, da anni giorno per giorno la vita, rotti ad ogni improvvisa emozione, ed abituati a dominarsi corpo e spirito, nervi ed atti, pur tuttavia dinanzi al soprannaturale sempre l'uomo esita e barcolla e sente smarrirsi, anche per un attimo che può bastare alla sua perdita senza speranza alcuna. Fu all'appello stentoreo del Nervia, a quella voce potente, a quel gesto teatrale di spalancar la porta, a quel nome che più non credeva d'udir sulla terra, a tutto quell'improvviso apparato per una resurrezione di Lazzaro, che Emanuele Embriaco perdette la partita; e si scavò la fossa ai piedi. Aprì gli occhi smisuratamente, con le braccia annaspò nell'aria, indietreggiò fino al muro e stette immobile sperduto intento al miracolo della risurrezione che doveva avvenire, o che in quell'istante aveva creduto e credeva che dovesse avvenire. Ma nessuno apparve sulla soglia: restò la porta spalancata, niun passo marcò la scalea, nel quadro non s'incorniciò alcuna figura spettrale. Ed il silenzio fu così profondo come in nessun deserto mai d'Arabia o dei ghiacci. Allora Almerico di Nervia mosse un passo, richiuse la porta e con la voce sorda pronunciò: — La prova è palese: vi siete accusato d'assassinio. Ed io, duca Almerico di Nervia, vi getto sul viso, conte Emanuele Embriaco, l'onta di fellonia! — Ben giocato — rispose l'avventuriero tornato in un attimo padrone di sè, ben giocato! Ansava ancora, leggermente, poichè si dominava, ma sorrise e continuò: — Potrei dirvi che non sono forte negli enigmi, e che non capisco la vostra accusa. Ma ben invece comprendo che l'accusa di fellonia m'avete gettata per mettervi al mio paro, giacchè suppongo che mi vogliate assassinare. — V'ingannate, signor conte! Il duca Almerico di Nervia non assassina. Ha diritto d'alta e bassa giustizia e potrebbe condannarvi per volere di Nostro Signore Iddio. Ma ben sa che il vostro nome, quantunque indegnamente portato, è titolo nobiliare pari al suo. Fra eguali di casta non c'è che una soluzione quando si getta come ho gettato in viso ad un nobile di schiatta l'onta di fellonia. Non c'è che il Giudizio di Dio e che una giustiziera: questa! — E sguainò la spada. — Alla buon'ora! Ecco una proposta piacevole! Avevo appunto bisogno di sgranchirmi le braccia! Si volse con un inchino alla marchesa impietrita: — Non sarà spettacolo il più acconcio, per una dama, quello delle smorfie e degli sgambetti d'un moribondo, poichè non vedo altro esito a quello che il signor duca appella _Giudizio di Dio_ pomposamente, mentre io più semplicemente lo chiamerei un preziosissimo piccolo sgozzamento o sdrucio al corpo. E quindi mi permetto d'offrirvi il braccio, marchesa e contessa, per condurvi alla soglia. — Vi ringrazio, signor conte, — rispose Isabella — una marchesa di Spigno, contessa Lascaris di Tenda non è una borghesuccia per ispaventarsi di qualche goccia di sangue azzurro! Se questi nobili signori mi permettono, una nobile dama farà da testimone al nuovo Giudizio di Dio! — Madre!.... — esitò il conte Lascaris. — Ho detto, Luca! Tre inchini rispettosi furono la risposta. La marchesa Isabella sedette nel vano della finestra in fondo alla sala, e pallido e tremante le si rannicchiò vicino l'abate, il quale non isperò più di potersi allontanare. S'inginocchiò, il viso al muro, la faccia nelle mani, mormorando con la voce rotta: — Mio Dio! Mio Dio! Buon signor Gesù! Dinanzi ai due fu dal Lascaris e dall'Altariva trascinata la grande tavola del centro e disposta in modo da far barriera: poi la sala fu sgombrata dagli scranni e i due nobili signori assumendo senza invito, con necessaria semplicità, l'incarico di testimoni, misurarono l'impiantito e si degnarono d'accendere i doppieri che guarnivano le mura all'intorno. L'ampio vano apparve così sfavillante di luce e soltanto avvolto in semioscurità restò il fondo ove i due spettatori, l'una rigida e imponente, l'altro umile e raggomitolato, assunsero l'apparenza di figure immobili ed indecise di cera. — Le vostre spade, signori! — chiese Luca Lascaris. Ciascuno degli avversari tese l'arme propria. La precauzione era di prammatica, ma inutile, chè tutte le spade in uso fra la gente di corte e di guerra erano della stessa misura. Differenziavano però nella larghezza della lama: più sottile quella di Emanuele Embriaco, più piatta quella del Nervia. Camillo Altariva fece l'osservazione e il conte Luca, sguainata la propria la confrontò con quella dell'avventuriero. Parevano gemelle. Mentre però si voltava per porgerla al Nervia, l'Embriaco intervenne: — L'insulto maggiore che un gentiluomo possa subire, dopo quello all'onore, è di vedersi privato dalla propria spada in leale combattimento. Ve ne prego, adunque, conte Lascaris: lasciate al signor duca la spada. Troppo mi dorrebbe d'un vantaggio anche leggero.... Finì sorridendo. — .... e troppo mi dorrebbe se dovessi cadere per l'arme vostra, conte, nel vostro castello. — Vi ringrazio — fu la risposta del Nervia. Gli avversari furono posti con le spalle al muro al lato opposto a quello ove la marchesa e l'abate si trovavano: ebbero quindi alla sinistra il muro sul quale potevano appoggiarsi con la mano libera invece di brandire il pugnale, che non usava più, è vero, nei duelli, ma che sarebbe stato di regola nei Giudizi di Dio! L'Altariva e il Lascaris, nude le spalle contro il corpo, con l'elsa sul petto e le braccia incrociate si disposero. Secondo l'uso d'allora, non si diede segnale d'attacco: non si poteva nemmeno intervenire che nel caso di palese slealtà d'uno dei due: i padrini erano puri testimoni e, sull'onore, non dovevano trar parola. Non dovevano che intervenire dietro appello d'un avversario nei duelli semplici: in niun caso in quelli che non sarebbero terminati che lealmente. Il silenzio e l'immobilità regnarono dunque nella sala. Prima il Nervia accusatore, poi l'Embriaco accusato, salutarono, rigidamente: alzarono quindi le armi, per invito ad attacco: subito il duca abbassò la propria ed attaccò. Stavano di fronte due maestri della nobile arte, due maestri che troppi anni e troppe occasioni avevano consumati nel fedele maneggiar dell'arme: si riconobbero a vicenda la maestria, si saggiarono, e si attaccarono, l'uno impassibile, sorridente l'altro. Si riattaccarono, alte le spade, le coccie al petto, d'impeto, a corpo a corpo: di comune pensiero si ristaccarono con un salto. E la schermaglia continuò. Le botte personali, messe in uso, fallirono: erano botte segrete, ma ognuno dei due sapeva che l'altro avrebbe messo in uso una botta segreta e dalla guardia stretta quando uno si toglieva, contemporaneamente si chiudeva in una più stretta difesa. Giunse un momento in cui, anelanti, i due si guardarono, le punte a terra, lontani, addossati alle due pareti opposte. Nemmeno allora i due padrini si mossero: pareva che la gran sala non ospitasse che figure di pietra. Finalmente a un gesto del Nervia anche l'Embriaco si mosse e le spade s'incrociarono di nuovo. Questa volta però nessuno dei due si gettò a capofitto nell'assalto furioso, ma bensì a vicenda attaccarono e si difesero pacatamente, come se si trovassero in una palestra con le lame mozze della punta. Si svolse allora un'accademia alla quale, pur immobili restando, s'appassionarono i due padrini e la stessa marchesa, tutti capaci d'apprezzar le maestrie. Ad un momento l'Embriaco fece un passo falso e barcollò: l'avversario lo sostenne. Ad un altro momento un abile girata di mano dell'Embriaco fece saltar la spada al Nervia. Avrebbe avuto il diritto l'avventuriero di ferire e d'uccidere l'inerme avversario: il Nervia allargò anche le braccia sussurrando una preghiera. Ma l'arme dell'Embriaco si abbassò: — Riprendete la spada, duca: cortesia per cortesia. Il disarmato obbedì con un inchino. Si fece allora innanzi Camillo Altariva. — Assai vi lodo, nobili cavalieri! E poichè m'avvedo che nessuno di voi due intende approfittare d'una possibile inferiorità dell'avversario vi chiedo se non sarebbe opportuno che v'assicuraste l'elsa alla mano. Due sguardi d'interrogazione e due assensi. L'Altariva ringuainò la propria spada e s'accinse a servir da scudiere al Nervia legandogli l'elsa alla mano, ed altrettanto fece il Lascaris per l'Embriaco. In quel momento di sosta dall'altro lato della sala un breve dialogo s'intrecciò: — Ve ne prego, signor abate, allontanatevi, che ve ne dò licenza. Vedo che le forze non vi sostengono più. — Le forze, è vero, mi mancano, illustre signora, ma la vostra presenza e l'abito che porto mi sosterranno, spero, chè non mi è permesso..... — Ve ne dò licenza, allontanatevi. — Sono cristiano e vi sono servo..... — E allora ve lo impongo! Non potè l'altro replicare che già i due padrini avevano ripreso la posizione di prima ed il duello era ricominciato. E continuava pacato. E poichè i due non si sarebbero scostati più dalla condotta che tenevano, più di difesa che di offesa, troppo maestri dell'arte loro per non contar che sulla stanchezza fisica, il Giudizio di Dio sarebbe durato a lungo, e probabilmente anche sospeso. Ma il caso — come sempre accade — se ne immischiò. Un grido soffocato della marchesa che vide cadere come un sacco il povero abate svenuto, risuonò smorzato nella sala. Almerico di Nervia non badò: più curioso l'Embriaco stornò per un attimo lo sguardo e nello stesso istante cadde di colpo trapassato il petto dalla lama avversaria. E si torse appena sull'impiantito: e s'immobilizzò. Subito l'Altariva ed il Lascaris si curvarono sul caduto: poi si rialzò il primo e crollò il capo. Ma compiè il suo dovere come l'uso imponeva e lo chiamò tre volte a nome: — Conte Emanuele Embriaco! La marchesa cadde a ginocchio alzando le mani giunte. — Conte Emanuele Embriaco! Anche Luca piegò il ginocchio. — Conte Emanuele Embriaco! Ed allora ad alta voce: — Monsignore Iddio si è pronunciato! Giustizia è fatta! Almerico di Nervia si diresse verso la grande tavola, vi prese un foglio sul quale delle lineette eguali erano tracciate. Vi gettò lo sguardo senza forse vedere e, senza accorgersene forse, lesse: _L'azzurro mar preclude il varco...._ Alzò la spada insozzata di sangue e la ripulì ben tranquillamente sul foglio segnato dai versi dell'abate. XXXV. Qualche istante meditabondo si librò increscioso per la vasta sala silenziosa. Il Nervia ringuainò dopo aver salutato il morto, poi si volse interrogativo al Lascaris, il quale comprese ed agitò il cordone del campanello che si profilava sull'arazzo. Al tenue strepito del passo la Marchesa s'alzò. — Vi chiedo licenza di ritirarmi, nobili signori. Tre inchini, poi: — Il signor abate non può offrirvi la mano, signora madre — rispose Luca Lascaris — Mi permetterete d'accompagnarvi. Ma l'abate, pur tremando e battendo i denti, s'alzò e pose ogni studio nel volger le terga al cadavere e, pur essendone attirato ad ogni passo dalla mala curiosità, pervenne a raddrizzarsi, a irrigidirsi, ad assumere un contegno decente e, quantunque barcollando, ad alzare la destra e ad offrirla quasi galantemente alla dama. — Signor abate, voi siete un eroe — gli sogghignò dietro il Nervia. Un servo accorso alla scampanellata alzò la portiera e la coppia scomparve. Il servo ad un cenno di Luca ne chiamò altri e tutti insieme s'accinsero a sollevare il cadavere dopo averlo avvolto nel mantello. Mentre il funebre gruppo s'avviava lentamente passando innanzi ai tre signori, due dei quali in omaggio pio si fecero il segno della croce curvando il ginocchio, un gentiluomo s'affacciò alla porta e poi si fece da parte perchè il gruppo avesse agio ad uscire. — Il conte Embriaco è caduto sopra la punta fatale — disse il nuovo venuto — _Qui gladio ferit, gladio perit._ Buona pace! Espresso così leggermente l'epitaffio al morto avventuriero entrò nella sala e salutò: — Godo assai, Luca, nel vedervi in buona salute. — Il marchese Ibleto di Spigno! — In persona, in ossa e cartilàgini e pelo annesso. La vostra nobile signora Madre è vegeta e sana? E quel famoso colpo di spada, il cui effetto ho appunto osservato, è dunque opera vostra? — Opera mia, signor marchese! — Almerico di Nervia! Signor duca, vi sono schiavo, e mi dichiaro lieto di trovarmi in paese di conoscenze. Cioè, domando perdono.... presentatemi al signore, vi prego. Luca! — Il nobile Camillo Altariva — mormorò invece il Lascaris additando nello scostarsi il terzo presente. L'occhio vivo dello Spigno ebbe un guizzo. Il vecchietto si sprofondò subito, per celare la propria sorpresa, in un vasto inchino e s'accarezzò la barbetta concitato. — Godo assai nel conoscervi, nobile Altariva! — Conosco per fama la vostra saggezza, marchese! — La mia saggezza è frutto di alcuni libri letti e di molto genere umano osservato. È dunque dovuta più all'età che al merito, dato che vi piaccia chiamarla saggezza. E godo nel poter constatare che la saggezza non esiste, dato che esistono soltanto le cose o le astrazioni compiute e non quelle in via di formazione. La mia saggezza oggi con voi tre potrebbe completarsi. — Parlate sempre a indovinelli, Ibleto? Non ne avete perduta ancora l'abitudine? — esclamò Almerico di Nervia rozzamente. — Le vostre cartaccie polverose vi divertono dunque ancora? — Sempre, Almerico, nella guisa istessa che a voi piace di schidionar la gente. — Alludete al mio colpo di spada? Fu dato in disfida leale, vi prego di crederlo, e non senza la testimonianza di questi due signori. — Vi credo, poffarbacco, vi credo! Emanuele Embriaco non era uomo da lasciarsi cavare una libbra di sangue senza pretendere di vederci chiaro e disputarla coi denti e con le unghie. Ve lo credo, Almerico! E mi dispiace di non aver assistito al certame singolare, appetto al quale le battaglie scozzesi che l'abate Cesarotti sta mettendo in versi volgari furono passatempi di bimbi, certamente! E se il conte Embriaco, non avesse voluto, da ingordo, qual'era, lasciarmi indietro, non ne sarei stato dal cattivo destino privato! Camillo Altariva aggrottò le sopracciglia. — Perdonate, signor marchese, ho mal compreso o avete voluto comunicarci che dovevate qui venire in compagnia del conte Embriaco? — V'apponete, infatti, nobile signore? — Mandati ambedue dalla stessa persona? — Dal generale Bonaparte, sicuro. Credo anzi che se il generale avesse un po' prima parlato col vostro umile servo, di me solo si sarebbe servito, non d'altri, nemmeno del conte Embriaco, ciò che avrebbe portato assai meglio per lui! Luca Lascaris e l'Altariva si guardarono: il Nervia più semplice esclamò: — Come! Come! Spiegatevi, Ibleto. — Sono qui per questo. Fatemi portare, vi prego, di che umettar la gola.... nè vino però, nè rosolio, che la mia renella me lo vieta: un po' di pura acqua, _acqua fontis, splendidior vitro_ secondo il parere del Flacco. Ve ne sarò veramente grato! Fu servito e bevve a lungo. — L'acqua è veramente il primo di tutti gli elementi — osservò nel posar la tazza — elemento primo perchè ci dà la salute del corpo di dentro e di fuori, mentre gli altri non sono mai duplici. Credo però che questa osservazione sia già stata fatta... — Lo spero — interruppe l'impaziente Almerico, — e spero altresì che non siate venuto per fare degli esperimenti sull'acqua del pozzo di Luca! — Avete ragione, Almerico! Ma che volete, la vecchia abitudine di argomentare e di sottilizzare mi prende troppo spesso la mano. Si lisciò la barba diamantata di qualche goccia. — Una presa? Porse al Nervia la tabacchiera. — Vi ringrazio, ma preferirei ascoltarvi. — Eccomi dunque a voi. Parve raccogliersi, ma sorrise invece. — V'aspettate probabilmente ch'io sia qui per riferirvi o per proporvi chi sa che. No. Sono qui per consigliarvi..... — Come il conte Embriaco? Ibleto di Spigno parve lieto della intenzione irruente del Nervia. — Come volete ch'io sappia quello che vi ha consigliato la buon'anima dell'Embriaco? Anzi, guardate, per meglio intenderci, ditemelo. — Possiamo contentarvi con poche parole. Ci consigliò di non opporci all'invasione francese. — E perchè? — Pretendeva inutile ogni reazione. — Nulla è inutile al mondo — rispose Ibleto — ogni parola anche la più astratta ha il suo corrispondente reale. Appunto perchè c'è la parola, esiste la cosa. Le due sillabe _spettro_, ci offrono una realtà, come le tre _anima_ e le cinque _perseveranza_. Ogni reazione è dunque utile. Riconosco alle pretese esposte l'incolto spirito del conte Embriaco. È vero che si riprendeva spesso la rivincita con altre qualità. Ma non dobbiamo trattare di ciò. Vi ha dato, mi è duopo di riconoscerlo, dei consigli, ben superbi ed anche presuntuosi. Comprendo agevolmente la vostra ribellione. Che! Io non sono qui per offendervi, che certi consigli sono offese. Io sono qui invece per offrirvi il destro di confermarvi nei vostri propositi. I tre si guardarono sorpresi ed Almerico non trovò motto. — Spiegatevi — disse invece l'Altariva fino allora silenzioso. — È facile. Avete un nemico, poichè volete combatterlo. Ma lo conoscete? Questo è uno stato di fatto. Non lo conoscete? E allora prima di combatterlo, cercatelo. — Ci portate un invito del generale Bonaparte. — Ahimè non ho questo incarico. Vi dico soltanto: posso introdurre uno di voi nella tenda del generale. Li guardò ad uno ad uno. Poi: — Signor Camillo Altariva, non vi piacerebbe e non vi gioverebbe di conoscere il vostro nemico? Non vi fu lungo silenzio. — Sì, mi piacerebbe, marchese! XXXVI. — Non crediate ch'io speri molto nell'incontro che il marchese di Spigno ha con tanta abilità preparato, — aveva detto Camillo Altariva ai due sodali prima di lasciarli nel castello ad attenderlo. — Non ispero anzi affatto. Ma il signor Marchese ha ragione. Chiunque abbia alle dipendenze degli esseri umani ne risponde: ha la cura delle anime — qui sorrise — e della salute dei corpi. Debbo io dunque, anche per voi, sapere qual nemico abbiamo dinanzi e qual pericolo ci sovrasti. A conoscere il nemico, diceva Cesare, si guadagna già mezza battaglia. Andrò da quel generale fortunato e giovane, sulle cui spalle grava un peso così vasto e che si accinge alla conquista con la istessa leggerezza del Macedone. Non credo che mi convincerà, nè che lo tratterrò con le mie parole, ma credo, sì, che ne trarrò un vantaggio per la nostra causa. È del resto un dovere e col dovere non si discute. Che ne dite? — Vi approviamo, Camillo, — aveva risposto Luca Lascaris. Più rude il Nervia invece: — Quanti ragionamenti, per morire! Se sarà necessario morremo! — Morremo, sì, noi, ma gli altri? — Gli altri? quali altri? — Coloro che ci seguono e combattono per noi. Qui Almerico di Nervia parve cascar dalle nuvole. — I miei vassalli? Ma devo forse interpellar le pietre del mio castello se mi piace di farlo crollar su di me? Nè il Lascaris, nè l'Altariva replicarono. L'indomani, alto già il mattino, due cavalieri con la sola scorta d'un servo uscirono dal castello dei Lascaris e fiancheggiando il vecchio edificio seguirono la strada romana avviandosi verso il campo francese nel dislivello delle colline. La primavera imperava dal mare ai monti: il cielo sgombro e puro, l'aria chiara, l'orizzonte distanziato a perdita d'occhio. Ma l'allegria della natura si limitava al cielo e al mare: pareva che la terra non partecipasse al gaudio comune. Campi e maggesi per i declivi delle colline apparivano spogli e abbandonati, gli alberi troppo ramati per la mancata potatura, l'erbaccia lussureggiante che allignava dovunque, i termini, le siepi, le barriere sfondate, slabbrati i canali irrigatoi, le cisterne e le peschiere ingombre di rifiuti e di melma, i pagliai spettrali, vuote le rimesse, aperte le stalle; si andava nella desolazione. Parea che la terra madre aprisse le braccia alla crocifissione. — Ecco l'effetto della guerra! — esclamò Ibleto fermando la cavalcatura sul margine più alto della strada. Ed accennò in alto e in basso il quadro disastroso. — Guardate laggiù, nobile signore! Un aratro spezzato giaceva a mezzo sepolto dalle zolle erbose nel centro d'un campo tutto rosso di fango, di quel rosso vivo che caratterizza le terre di Provenza. — Laddove il lavoro muore appare il sangue, nobile signore! L'Altariva rispose: — Pure la guerra è una necessità. — Ve l'ammetto: necessità di salasso della umanità rigogliosa troppo. Ma — badate; è un'ipotesi — non potrebbe il salasso diventar periodico e smungere tutti gli inutili? — Chi chiamate inutile, marchese? — Difficile domanda. Pure credo che potrò rispondere chiarendo il mio pensiero. Perchè non potrebbe governare un'aristocrazia qual s'intendeva _ab antiquo_, e cioè una selezione di saggi, la quale distribuisse vite e beni serenamente, estirpando quanto non concorresse con la mente, le braccia, o la bellezza al bene comune? — Vorreste forse comporre una lunga novella ad imitazione di quelle del signor di Voltaire, marchese? — Perchè no, mio nobile signore? Dalle fantasie accese spesso è sgorgato più bene che dai cervelli ragionanti. L'Altariva stava per replicare quando uscì da un avallamento del terreno una voce gioconda: — Olà! olà! _Sero venientibus ossa!_ Mi dispiace per voi, cittadini cavalieri, ma la zuppa è già discesa fino ai calcagni e non vi possiamo offrire che qualche magro inchino alla maniera d'una volta! La faccia ridente di Tibullo apparve nello svolto della strada in discesa. L'allegro e spregiudicato sanculotto precedeva un gruppo di compagni che reggevano infilato ad un'antenna il formidabile marmittone del rancio: più indietro altri soldati circondavano una lettiga e quindi seguivano un'amazzone ed un cavaliere appesantito in arcione. — Buon mattino, amico, — rispose Ibleto. — E, se ti è lecito confidarmelo, chi precedi? O casco in grossolano errore e v'è da incolpar la mia vista vacillante — ahi! _dura senectus_! — o mi sembra di intravedere laggiù la mia diletta consorte e signora! — Vedresti una pulce sopra un campanile, cittadino _çi-devant_, e quella è proprio la tua invidiabile moglie sibarita privilegiato, poichè la rivoluzione non ha tolto il privilegio del monopolio d'una bella donna per un sol uomo! — O perchè dunque Fiorina è partita senza attendermi com'era convenuto? — chiese a sè stesso il marchese volgendosi però all'Altariva che si strinse nelle spalle. — O bella, cittadino, — rispose Tibullo — per accompagnar probabilmente la damigella sua amica malata! Soltanto allora lo Spigno pose mente alla lettiga che avanzava lentamente. Era non più la splendida portantina della vigilia, ma una rozza barella, retta su due travi e portante su tappeti un corpo disteso. La parte superiore a curva della lettiga era priva di tende nei due lati e soltanto chiusa in avanti e nel fondo. Il corpo che vi giaceva si potea dunque soltanto scorgere a mezzo: una mano bianca tuttavia pendeva dall'orlo e un enorme cane da pastore che camminava di conserva, ogni poco alzava le fauci pericolose e lambiva quella mano inerte. — Nobile signore — disse allora Ibleto a Camillo — sproniamo se non vi dispiace! — Vi seguo, marchese. Spronarono e in pochi tratti raggiunsero la lettiga. Benchè non fosse tale da abbandonarsi alla curiosità Camillo Altariva nel passare accanto al gruppo si chinò a pena. E scorse abbandonata, come se fosse morta, sui tappeti scomposti Chiarina Grimaldi. Non vide che la massa dei serici capegli schiacciati sul cuscino e un viso arrossato, un viso in fiamme, ardente nella congestione più negli zigomi e sulle tempia, e tumefatte le labbra semiaperte e inchiodati i denti. Parea morta. Le braccia pesavano tanto sui tappeti, che vi segnavano un solco. — È molto malata quella giovane dama — disse Camillo Altariva senza poter distogliere gli occhi della lettiga. E non udì nemmeno la presentazione che di lui faceva il marchese Ibleto di Spigno alla sopraggiunta coppia di cavalieri. — È molto malata infatti — ripetè Fiorina. — Se la stagione mite m'autorizzasse — osservò Ibleto — direi che può essere stato un colpo di sole. — Ma se ieri di tarda sera s'intrattenne con me piacevolmente e scherzò e costrusse progetti fino all'ora di separarci! — replicò la marchesa. E aggiunse: — Fu soltanto questa mattina che Gilda la trovò così come ora la vedete! Uno scoppio di pianto risuonò dall'altro lato della lettiga, donde la vispa camerista apparve disfatta dalla commozione. — Oh! Signore Iddio..... la ho creduta morta.... faceva paura — singhiozzò. E poi timidamente: — Che l'abbia punta il vampiro notturno? Soltanto allora Ibleto e Camillo alzarono quasi di comune accordo gli occhi sul cavaliere ch'era rimasto indietro, muto, a capo chino. Videro un volto più terreo e più sfatto che quello d'un cadavere. — Vi faccio auguri di gran cuore, Betto Grimaldi — pronunciò a mezza voce lo Spigno. E s'ebbe in risposta un saluto abbozzato. Soldati, lettiga e cavaliere proseguirono, passarono. Rimase indietro la marchesa. Esclamò corrugando le sopracciglia: — Non vi stupisce una cosa, Ibleto? — Quale, Fiorina? — Un'assenza? — Un'assenza? E chi, se vi piace? — Ma come? La povera Chiarina è così malata che fa l'impressione di vederla passare di momento in momento, ed il suo fidanzato non è qui con noi, presso di lei? Camillo Altariva intervenne: — Permettete: non è la nobile damigella Grimaldi promessa sposa del marchese Filippo Balbi? — È quella stessa: v'apponete. E non è qui con lei! — Forse — le osservò lo Spigno — è trattenuto dal suo servizio, chè, se non erro, è capitano della Serenissima. — È colonnello, da oggi, colonnello comandante una mezza brigata e francese per giunta. — Poffarbacco! Fa carriera _le jeune homme!_ — Forse lo trattiene il dovere al campo — notò l'Altariva. — Dovere? Ma quando vi facciamo l'onore d'amarvi, signori uomini, il vostro dovere è di restar presso di noi, a nostra volontà! E la piccola marchesa spronando il cavallo si allontanò al galoppo. XXXVII. — Sarebbe un dovere che si assolverebbe di gran cuore — concluse Ibleto di Spigno rivolto al compagno. — Ma guadagnamo il tempo che si è perduto: il generale ci attende. Giunsero al campo francese in brev'ora e lo trovarono in piena effervescenza, che si levavano le tende: e benchè spiccia fosse la bisogna per i succinti eserciti della giovane repubblica, pure del tempo ne occorreva anche per gli stracci e le povere suppellettili. Passarono quindi quasi inosservati, se non urtati nell'infuriar delle faccende e quindi, accolti e preceduti poi da Murat, aiutante di servizio, giunsero dinanzi alla porta dietro la quale si celavano i destini d'Italia. Murat bussò: s'ebbe in risposta un breve: — Avanti! — Ed entrò. Riuscì subito e fece passare Ibleto. Anche quest'ultimo si fermò pochi momenti: riapparve sulla soglia, tenne socchiusa la porta e cennò al compagno. Il generale Napoleone Bonaparte ed il nobile Camillo Altariva si trovarono di fronte. Più giovane, più impetuoso, meno padrone di se stesso, il primo annodò le mani dietro la schiena e fissò l'antagonista che aveva di fronte battendo la punta del piede sinistro sull'impiantito e gonfiando il petto, e stirandosi per assumere, forse incoscientemente, dinanzi all'ignoto, il contegno adeguato alla propria importanza, ciò che fu sempre una delle preoccupazioni sia del generale che del primo console e dell'imperatore, poichè Napoleone Bonaparte ebbe sempre il torto di vergognarsi della propria fisica persona. L'Altariva ne sostenne lo sguardo, ma senza mostrar turbamento, nè assumere pose teatrali, nè cercar di parlare. Attese. Non molto. — Voi siete il capo degli insorti? — gli domandò a bruciapelo il giovane generale. — Insorti? Ch'io sappia s'insorge contro un'autorità legittima o costituita, che non vedo in voi. — Poche parole: siete il capo di coloro che si oppongono a me. — Come voi siete il capo di coloro, che invadono e saccheggiano le mie terre. Invece di provar sorpresa o sdegno il Bonaparte sorrise: — Diritto di conquista, signore. — Diritto di difesa, generale. — Bene, mi piace: siete un _çi-devant_ che ragiona, voi. — Non sono il solo. — Me ne compiaccio: faciliteremo le risoluzioni. — Non domando di meglio. E tacquero. Poi: — Sedetevi, signore. — Grazie, generale. E sedettero. L'ombrosa suscettibilità dell'ombroso condottiero repubblicano, il quale vedeva in tutti ed in tutto, sempre, un assalto o un dispregio alla propria autorità, pareva placata. Forse vedevasi di fronte ad un pericolo reale, e dinanzi al pericolo colui che fu Napoleone, si ritrovava, dominava i propri nervi, comandava alla propria diffidenza: acquistava insomma la piena disponibilità delle proprie risorse. Parlò quasi pianamente: — Dunque, signore, voi vi opponete a me. — Ieri, forse, generale: oggi è un'altra cosa. — Ah? E perchè? — Perchè bisogna essere pazzi per contrastare con quattrocento uomini il passaggio d'un esercito. Odio gli eroismi inutili e del resto m'accorgo che non è vostra intenzione depredare il paese. — Da che cosa ve ne accorgete? — Dal ritorno delle donne e delle autorità in Ventimiglia. Alla città che si vuol mettere a sacco non si rimandano gli abitanti. — Bene. E allora? — E allora noi non vi contrastiamo..... — Vi ritirate? — Ci ritiriamo. Spuntò un'unghia del leone. — Se ve lo permetterò. Senza perdere la sua funebre calma l'Altariva replicò: — Credete di poterlo impedire? — E perchè no? Voi stesso avete osservato che ho un esercito contro un pugno d'uomini. — Altra cosa è sgominare i lupi discesi dai monti ed altra catturarli. — Può darsi, ma il mio preciso dovere è di catturarli, perchè le leggi militari della repubblica francese impongono d'accrescere l'esercito di tutte le popolazioni conquistate. — E allora catturate. — Cominciando da voi? Si guardarono fissamente. — Potrei dirvi che sono un parlamentare. — E così ritiro la parola cattura e la sostituisco con un'altra. — Quale? — Vi invito. — Vi ringrazio..... Senza un gesto continuò: — .... ma non accetto. — Comprendo. Vi trattiene un giuramento. — Vi sbagliate. Non ho giurato fedeltà ad alcuno. — Pure difendete la causa del vostro re. — Perchè è la mia. — La vostra.... forse. Non quella dei vostri vassalli. — Vi sbagliate ancora: quella dei miei vassalli più che la mia. Il generale Bonaparte aggrottò le sopracciglia. — Voi disconoscete dunque le conquiste della rivoluzione? — Quali, vi prego? — La libertà, l'eguaglianza, la fraternità. Per la prima volta un sorriso, leggero e profondo insieme, si disegnò sulle labbra del nobile Altariva. Le sopracciglia del Bonaparte già aggrottate, si contrassero. — Negate forse che la rivoluzione abbia dato al popolo e libertà ed uguaglianza? — Vedete che anche voi adesso vi rimangiate la fraternità, e fate bene. Un sentimento non s'impone, nè sovvertendo l'ordine, nè abbassando o alzando uomini. Sulla vostra bandiera c'è dunque già una parola almeno inutile. — Ma la libertà? Ma l'eguaglianza? — Quale eguaglianza? Il _tu_ che accomuna tutti? Il dovere di dare spiegazioni anche agli ubbriachi? Il diritto di sospettare, di insultare, di mettere alla gogna, di chiedere umilianti giustificazioni? Quale eguaglianza, ditemelo, esiste fra voi e — non voglio troppo discendere — il generale che vien dopo di voi? Quale eguaglianza fra voi e il vostro governo centrale? — E le prerogative nobiliari, le _corvées_, le esazioni, le decime.... — Abusi..... come quelli del resto che farete voi. — Ah! Voi li condannate? — Non li voglio nemmeno discutere, chè non debbono esistere. — Ma esistono.... o almeno ci furono. — E i vassalli si ribellarono, come la corda tesa a lungo si spezza. Anche questo è nell'ordine naturale delle cose. Non legge, ma consuetudine, consacrò gli abusi. Quando avvenne il tacito patto fra l'uomo d'arme ed il contadino: _tu mi difendi ed io ti mantengo_, abusi non esistevano: l'abuso cominciò dal diritto inumano d'ereditarietà, non dei beni acquistati, ma di quelli tramandati.... — L'ammettete? — Certamente. Ma credete voi che ne sarete immuni? Mio generale, l'uomo è accentratore, è conservatore, è rapace, è avido, e vuole vivere anche oltre la morte, almeno nelle cose sue. L'idea di patria è supplementare a quella di proprietà. Chi non possiede non ha patria. Chi non obbedisce non ama l'ordine e l'ordine è tutto: è quello che regge il mondo, è quello che fa vivere, è quello che dà la fiducia. Voi siete l'ordine, ed è per questo che siete anche il primo nemico della vostra rivoluzione. Il volto del generale Bonaparte s'era totalmente ricomposto, muscoli rilassati, rughe e ciglia appianate. Pareva una statua: soltanto — e forse involontariamente — l'occhio scintillava. — Credete, generale, che l'uomo aborre dai reggimenti democratici. L'uomo è nato per avere un padrone, per farsi difendere e lavorare e produrre in pace all'ombra della protezione altrui. La libertà non è che una parola astratta: nulla c'è di libero al mondo, tutto è legato, poi che tutto è costretto nell'ordine infinito e incommensurabile. La libertà è una figura politica, è il nutrimento a buon prezzo che si dà al povero volgo in cambio delle braccia e del sangue. Ah! meglio assai la franchezza dei padroni veri che davano il pane! E del resto che cosa fece la vostra rivoluzione se non imporre dei nuovi padroni? Volete, generale, che vi dica la risposta d'un mio avo al quale, per metterlo in guardia contro un intendente ladro, si susurrava che possedesse ricchezze esorbitanti? Rispose: «_Colui è già ricco: se lo cambio, il nuovo vorrà diventarlo_». Voi siete i nuovi padroni ed il popolo..... non fu sagace come l'avo mio. Il volto marmoreo del Bonaparte non espresse alcun sentimento. — Non c'è dunque mai sotto il sole una lotta di principii, ma soltanto di uomini. Soltanto i sognatori, i martiri, i crocefissi agitarono delle idee: gli altri non isventolarono che dei contratti. Questa volta il generale sorrise. — Gian Giacomo sottoscriverebbe la vostra teoria? — È forse errata? — E lo chiedete a me? — Non lo chiedo: la credo giusta, e me lo auguro e lo spero. Voi che uscite da una tutela ne subite un'altra peggiore oggi. E badate, non difendo i miei pari, chè non ne ho: difendo la verità, poichè riduco tutto alla sua ragion vera d'essere! Il popolo è fanciullo: ama cambiar di trastulli, ama rompere i trastulli con i quali si è divertito, o che ha ammirato: il popolo non ama la libertà, ma la sicurezza, il pane ed i giochi del circo. La libertà? Ma si può morire per una donna o per una memoria, o per una bella frase, ma sempre alla condizione d'essere ebbri. S'era acceso parlando. Parve, non pentirsi delle sue parole, ma crederle superflue, chè mosse un passo verso il generale repubblicano e gli chiese a bruciapelo: — Siete voi come io vi penso? Siete un padrone? — Che intendete? — Intendo questo: se è vostra intenzione, se è scopo vostro chiudere nella vostra mano le fedi tarlate e i cervelli codardi e asservirli a voi per il bene di tutti. Io che vi parlo, e che sono fra gli uomini più intelligenti e sicuro di me in apparenza, io sono, come tutti sono, dall'umil servo della gleba alla testa coronata: cerco un padrone che pensi per me, che risolva per me, che giochi anche per me. Tenetevi la vostra vana libertà, brandello di cencio, e datemi invece un padrone! — Un padrone?! S'era lanciato ma si riprese: — Datemi la mano, signor d'Altariva. Forse un giorno verrà ch'io vi ricordi le vostre parole. Spinse d'un colpo la porta, quasi per sottrarsi ad un pericolo o ad una paura: — Murat! L'aiutante apparve. — Il signor d'Altariva sia munito di salvacondotto, per sè e per coloro di cui darà i nomi. Una stretta di mano ed una parola tanto a bassa voce, pronunciata, che non si sarebbe potuto dire chi l'aveva emessa: — Grazie. XXXVII. Nella stanza non ampia, addobbata a salotto rococò in cui stonavano delle poltrone recenti venute di Francia sotto dei grandi mobili secenteschi, la damigella Chiarina moriva. Immobile, chiusi gli occhi, giaceva nel letto verginale, affondata nei guanciali, nimbata dai capegli biondi e parea che non respirasse nemmeno. Accanto al letto Gilda, muta e in lagrime, sventolava un pannolino sul viso della malata. Nel vano della finestra, chiuso, il cofano del corredo. Ad un tratto nell'anticamera suonò uno strepito di passi: la porta fu schiusa e il naso affilato dell'archivista Orengo fè capolino. Susurrò l'ometto, meno d'un soffio: — Gilda! La camerista non si mosse. Quegli, più forte, ripetè: — Madamigella Gilda! L'interpellata si scosse, volse il capo e s'attraversò la bocca coll'indice: — Ssssss! — Gilda — ripetè l'archivista, — il magnifico Grimaldi chiede se madamigella può ricever visite? — Visite? Ma se è qui come morta! Benedetta la Madre dei sette dolori, lasciatela in pace! L'ometto ritrasse il capo, ma non per questo la porta si richiuse, chè anzi fu spalancata e la contessa Isabella Lascaris e la marchesa Fiorina di Spigno entrarono seguite da Betto Grimaldi e dall'abate Bernardino Viale. — Chiara! — mormorò Fiorina curvandosi in singulti sul letto. La malata non si scosse. — Suvvia, ricomponiti — susurrò alla marchesa di Spigno, ch'era scoppiata in lagrime, la marchesa Isabella. Ed al Grimaldi inebetito: — Che dice il medico? S'ebbe in risposta uno sguardo atono. — Non si cercò di rianimarla con qualche cordiale? — chiese l'Abate. — Cordiale? — rispose Gilda. — È da stamani in questo stato. Il medico teme la congestione. — E non le cavarono sangue? E non le applicarono mignatte? Fiorina aveva preso il posto di Gilda ed agitava il pannolino, quando sulla soglia apparve il capitano Cavalli. — Magnifico Grimaldi entrano i francesi in città! — Vengo! Vengo! — rispose il comandante e si profuse in inchini. — Chiedo licenza! Chiedo licenza! Il dovere..... — Andate, Betto, andate, rimaniamo noi!..... Il capitano Cavalli immobile, osservava la malata. — Povera damigella — mormorò poi seguendo il Grimaldi — pare.... pare.... — Sospirò. — .... la vergine Lavinia! La stanza ricadde nel silenzio. Dalla finestra aperta il tramonto d'oro penetrava. Di faccia incupiva la rocca di Roverino, mentre un po' della chioma fronzuta di Siestro rifletteva il sole morente. Silenzio ancora, pesante, inquietante. Ad un tratto risuonarono giù, sotto la città, sul ponte del Roia dei prolungati rulli di tamburo. — I francesi! Passano i francesi! — disse Gilda sporgendosi verso la finestra aperta. — I francesi? — ripetè la contessa Isabella curiosamente accorrendo. I rulli di tamburo crescevano, un brusìo soffocato da prima, poi sonoro, pieno, di folla tumultuante si propagò, e l'eco delle colline lo respinse e tutta l'aria se ne riempì. La gran dama e la camerista accumunate dal desiderio di vedere si sporsero maggiormente e Fiorina si staccò dal letto attratta dallo spettacolo insolito. I rulli marcarono il passo della moltitudine, poi nel rullar solenne si sposò un coro marziale: _Allons enfants de la patrie...._ — No!.... No!.... No!.... Il monosillabo raucamente risuonò. Le dame e la camerista trasalirono, si volsero, accorsero. Chiarina s'era alzata a sedere, puntando nelle coltri i pugni, gli occhi spalancati, sciolti i capegli, pallidissima, spettrale. Già il coro diventava assordante. — No!.... No!.... No!.... Ricadde nelle braccia di Fiorina, annaspò delle dita nelle coltri, torse la bocca, gli occhi le si arrovesciarono. Ma fu un attimo. Il volto dolcissimo si ricompose, le labbra socchiuse lasciarono sfuggire delle parole. — Che dice? — esclamò Fiorina. Curvò sulla bocca della fanciulla, che teneva sul petto, l'orecchio. Chiarina ripetè accorata e soave: — Filippo.... perdonami.... E spirò. EPILOGO Poca gente rimaneva nella cattedrale di Ventimiglia, antico tempio di Giunone, inginocchiata sul marmo inciso di fresco per rammentare che si celava là sotto il frale di Chiarina Grimaldi, volata nel grembo del Signore, angelo purissimo, vergine pia, sposa celeste, lasciando nel dolore eterno il nobile padre ed il nobile fidanzato. La folla uscendo per le due porte laterali si cacciava nei vicoli angusti della vecchia città e spariva, chè la sera discendeva, dopo il breve crepuscolo, veloce, e per le ordinanze della Serenissima il coprifuoco essendo in vigore, se non brillasse la luna, c'era da trovarsi al buio peggio che nella bocca del lupo. Una figura femminile pur tuttavia giaceva inginocchiata sul marmo: e poichè all'entrata della cappella quattro servitori con le torcie l'attendevano, c'era da supporre che fosse nobil donna. Rimase l'ultima e soltanto quando lo scaccino s'aggirò per le navate facendo suonar le chiavi, si riscosse e s'alzò. Allora soltanto un'ombra parve uscire dall'ultima colonna, quella d'un uomo alto, ammantellato, che tuffando la mano entro la pila porse l'acqua benedetta alla dama. Ed a malgrado il buio parvero riconoscersi, chè le due mani si toccarono tremanti. Fuori, verso le Crotte, nello sboccar d'un vicolo buio, la nobile signora sostò e l'ombra le si avvicinò. — Siete voi, Luca? — Sono io, Fiorina. Tacquero. S'incamminarono. La donna riprese. — Ho saputo da vostra madre, Luca, che avete ottenuto un salvacondotto e libere le terre e il castello. Ne godo per voi. Il Lascaris crollò le spalle: — Che me ne importa! Riprese: — Non per questo mi tengo legato: altri mercanteggiarono per me. Forse Camillo ebbe ragione guardando le cose e i sentimenti come le guarda. Ragiona, e ragiona troppo. Io sento. Ma purtuttavia, Fiorina, guardate: lascerò le mie terre, il mio castello e mia madre, tutto lascerò dietro di me, anche il giuramento che mi lega al Re, immemore di noi.... tutto sono pronto a lasciare, se manterrete la vostra promessa. Camminavano lentamente, ma la dama ristette e con lei si fermarono i servi protendendo le torcie accese sicchè ne illuminarono il volto stupito. — La mia promessa, Luca? Quale? — Immemore siete dunque, voi, come il Re, Fiorina? E pure è promessa recente e non di parola che il vento possa portarsi..... Ebbe timore la dama che il conte vaneggiasse. Cennò ai servi che s'avvicinassero e quelli impassibili, alte le torcie enormi, la chiusero in un quadrato inespugnabile. — Ve ne prego, Luca, parlate chiaro.... Per tutta risposta il conte si svolse dal mantello, cacciò la mano entro l'abito, dalla parte del cuore e ne trasse un foglio piegato a tricorno e legato d'un nastro azzurro. — Ecco. Mi duole però dover constatare come le vostre promesse vi stiano così poco a cuore. Fiorina afferrò il foglio, lo svolse, l'aprì, s'avvicinò ad un servo che abbassò la torcia e lesse: _Luca,_ _il conte Embriaco vi porta il presente per dirvi che mi precede e ch'io vengo a voi, fiduciosa che i nostri destini s'uniscano finalmente come desiderate e come desidera pur sempre_ FIORINA DI SPIGNO. — Ma è falso, Luca! Io non ho mai scritto, io non potevo mai scrivere.... Dio! Perchè insultarmi così, Luca? L'uomo provò la sensazione d'una mazzata: vacillò, s'afferrò al servo più vicino, d'impeto, sicchè quegli cedette e la torcia violentemente scossa gli bruttò le mani di cera scottante e ne bruttò la fronte del nobile signore. Il servo urlò dal dolore, ma il conte parve invece averne un refrigerio. S'irrigidì. Mormorò soltanto: — Ed ho lasciato che l'uccidesse Almerico! S'avvolse di nuovo nel mantello. — Addio, Fiorina. — Luca, Luca, ascoltate — gli sussurrò la dama — calmatevi, salite con me, datemi questa consolazione..... — Grazie, vi ringrazio, ma non posso venire con voi.... Ho bisogno di restar solo.... — Domani, domani almeno! Vi attendo. Promettetemi di non mancare. Ibleto vi vedrà con piacere. — Addio, Fiorina, — rispose il conte crollando il capo e cercando di svincolarsi, chè quella lo teneva come in una strettoia. — Luca.... vi prego.... Luca.... — Badate ai servi, marchesa — ebbe la forza di susurrarle con la voce quasi calma. La donna lo lasciò. Ma insistette: — Verrete domani? Me lo promettete? — Addio, Fiorina, — rispose il Lascaris e fuggì precipitosamente ingoiato dall'oscurità. — Lancia, Borgogna, correte! — ordinò Fiorina, ma si riprese subito. — No, avvicinate le torcie. Rilesse il biglietto, fece una smorfia, poi ridusse in minutissimi pezzi la carta. Le rimase il nastro azzurro. Se lo annodò al polso con un nodo d'amore. * * * L'ordine di servizio portava scritto: — «_All'avanguardia la mezza brigata del colonnello Balbi...._». La sera, presa Cosseria, il Bonaparte chiese a Berthier: — Come si comportò la mezza brigata del colonnello Balbi? — Eroicamente, generale. — E il colonnello? — Morto all'assalto. — Ah! _FINE._ OPERE DI ALESSANDRO VARALDO VERSI _Marine Liguri_ (esaurito). _Romanze e Notturni_ (esaurito). _Le Settembrine e le Odi Funambolesche._ ROMANZI _Due nemici._ _Un fanciullo alla guerra._ _La Bella e la Bestia._ _I Re Magi:_ I. L'Ultimo Peccato; II. La grande Passione; III. L'amante di Ieri. _La Marea:_ I. Il Falco; II. Cuori Solitari; III. Mio zio il Diavolo. NOVELLE _La Principessa Lontana_ (esaurito). _Una Rosa d'Autunno._ _Genova sentimentale._ _Le Avventure._ _La Costa Azzurra._ _Moralità Immorali._ _Il Carnevale di Nizza,_ _Donne profumi e fiori._ CRITICA _Per un poeta della Vecchia Scuola._ (esaurito). _Fra vizio e belletto — Profili d'Attrici e d'Attori._ TEATRO Vol. I. — _L'Altalena_ — _Il Medico delle anime_ — _Un marito innamorato_. Vol. II — _La conquista di Fiammetta_ — _L'amante del sole_ — _Appassionatamente_. Vol. III — _Diamante o Castone_ — _Il più sincero dei tre_ — _Una sciarada_ — _Il selenita_ — _Il Gatto nero_ — _Don Giovanni si pente_. IN PREPARAZIONE _Commemorazioni — Profili di Scrittori e di Attori._ _Il Cerchio Magico_ — Commedia in 3 atti. _Il fiore d'agave_ — Novelle. _Il Cavaliere Errante_ — Romanzo. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL FALCO (CRONACA DEL 1796) *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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