Title: Voli di guerra: Impressioni di un giornalista pilota
Author: Otello Cavara
Release date: September 25, 2018 [eBook #57977]
Language: Italian
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Queste impressioni recate dalle alte quote dell'atmosfera e dello spirito, io dedico a Nello Cavara, fratello mio ventunenne, che a maggiore e perenne altezza giunse, morendo in combattimento sulle Alpi.
OTELLO CAVARA
VOLI DI GUERRA
IMPRESSIONI DI UN GIORNALISTA PILOTA
MILANO
Fratelli Treves, Editori
1918.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.
Milano — Tip. Treves.
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Anche quando il giornalista vola da solo, le personalità a bordo del suo apparecchio sono due: il pilota e l'osservatore; l'uno agisce e l'altro nota. Se il fenomeno non gravita sulla portanza dell'apparecchio, raddoppia però il lavoro del singolare aviatore il quale, oltre provvedere alla manovra, all'orientamento, all'azione bellica, avverte i moti psicologici dai quali sgorga tale operosità, raccoglie con una preoccupazione di esattezza impressioni panoramiche, e procura di vivere nella sua totalità missioni anche se estese ad aeroplani, navi, truppe. Le abitudini [2] acquisite in numerosi anni di vita giornalistica — immediata ricerca nell'attualità di cause e studio di effetti — lo accompagnano pure in volo, mentre in terra si esplicano in implacabili interviste ch'egli infligge ai più esperti perchè la scienza acquisita in terra lo aiuti ad eliminare sorprese in cielo.
Si riesce aviatori, gli eroi per esperimentare primi le macchine di volo divinate dal loro genio; gli studiosi di meccanica e di aeronautica per amore di motori e di apparecchi; gli appassionati dello sport per il gusto di maggiori cimenti; i guerrieri per la voluttà delle battaglie individuali; i giornalisti per conoscere il meglio, il nuovo della vita e partecipare alla buona guerra nostra tra bagliori inauditi di bellezza e costumi superstiti di cavalleria.
Un pubblicista non giunge generalmente impreparato al pilotaggio di aeroplani. L'autore di queste note fu, come redattore del Corriere della Sera, in alta montagna a famigliarizzarsi con l'orrore del vuoto, con le vertigini, con [3] le temperature rigide e con l'ostinazione fisica; fu in aerostato a proclamare dalla quota di 4500 metri la decadenza delle proporzioni geografiche e il miglioramento dell'umanità ridotta a puntini; fu in dirigibile per la gioia di andare, almeno in aria, dove gli pareva; fu in aeroplano a constatare in sè una embrionale vocazione di pilota perchè negli sbandamenti si spostava con la persona per ristabilire l'equilibrio, nelle spirali storceva persino la bocca in fuori per non scivolare in dentro e raccomandava in silenzio, durante i viraggi, «attenti nelle voltate». Con tali precedenti si può quasi asserire che il giornalismo, stazione di transito per le più brillanti carriere, lo è pure per l'aviazione.
Esistono varie egregie letterature d'aviazione; tra queste una minima di coloro che volano e una massima di coloro che non volano. Alla prima appartengono frasi estremamente laconiche: «Nessuna impressione. — Tutto bene. — Nulla di straordinario». La seconda [4] è un inno: «Sorprendenti acrobazie. — Esseri d'eccezione — ....»
Tra l'una e l'altra s'insinuano queste note di un giornalista-pilota il quale fra l'altro confesserà d'avere sofferto, tra sensazioni epiche e leggiadre, gravi apprensioni durante certi impicci nei quali procedeva avanti perchè era rassegnato e deciso a non tornare più indietro. Ma la sensazione che maggiormente lo sorprendeva all'insperato ritorno era il desiderio cocente di riprovare l'avventura. Durante il volo drammatico aveva temuto di scendere psicologicamente diminuito, e a terra si scopriva aumentato.
Di qui il dovere del giornalista, proveniente da una professione che è già scuola del carattere, di rendere omaggio, con questi appunti sinceri, a un'altra eccellente scuola del carattere: l'aviazione di guerra.
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Forse l'allievo pilota vive il momento più emozionante quando presenta la domanda per essere ammesso a una scuola d'aviazione. Egli non reca in sè che un elemento certo: la decisa volontà di riuscire. Ma l'attitudine a volare è per lui un'incognita la quale lo pone fra l'avidità di provarsi e il dubbio di fallire nel tentativo.
La guerra ha creato un tipo speciale di volontario dell'aviazione: il pacifico borghese del tempo beato in cui non si credeva alla conflagrazione mondiale, pacifico borghese che dovendo in occasione della guerra assumersi la sua [6] parte di azione e di pericolo, e avendo una predilezione per gli atti che derivano direttamente dalla responsabilità individuale, sceglie l'aviazione conscio di rendere un servizio militare non meno prezioso e periglioso d'ogni altro, e conscio di valorizzare al massimo grado le proprie attitudini morali e fisiche in un'arma di straordinaria bellezza.
Ed è per ciò che oggi l'aviazione militare aduna rappresentanti d'ogni ambiente, d'ogni cultura e d'ogni mentalità. Diversi per il loro passato, gli allievi si identificano nell'esuberanza delle loro energie, nella dedizione completa ai cimenti aviatorii, nella fraternità che deriva dal comune mistero della loro sorte. Essi più o meno passano traverso le medesime fasi psicologiche: trepidazioni e speranze della vigilia; incosciente disinvoltura durante i primi voli; poi una successione crescente di depressioni e di rivincite al contatto di difficoltà sempre più intense.
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L'allievo giungendo alla scuola è curioso d'ogni particolare. I motoscafi e gli autocarri che recano gl'istruttori e gli scolari, sembrano colmi di gitanti spensierati: e in realtà costoro si accingono ad effettuare i quotidiani voli con la medesima disinvoltura con cui s'intraprende una passeggiata. La scuola aspetta con i capannoni spalancati innanzi all'ampio specchio d'acqua su cui dovranno svolgersi i voli. Gli idrovolanti sono allineati lungo la riva, ciascuno sulla propria pista di legno che dal capannone scende nell'acqua.
Maestri e allievi vanno a fare toilette. Ognuno ha i propri indumenti di volo. Chi indossa lo scafandro o la pelliccia, chi un maglione, chi s'avvolge il collo d'una sciarpa, chi s'applica un passamontagna, chi il casco. Tutti fanno uso di occhiali e guanti. La trasformazione è sensibile. Le fisionomie scompaiono sotto le maschere e le lenti. Eleganti ufficiali assumono aspetti strani, apparenze grottesche di palombari, di clowns, le loro linee svelte si [8] ricoprono — specialmente dopo l'applicazione del salvagente — di gonfie gibbosità.
Ad ogni apparecchio corrisponde un istruttore ed una sezione di allievi. Il primo allievo cui spetta di volare — si segue un turno a rotazione — s'ingolfa nella complicazione di fili dell'idrovolante e scende nello scafo, sedendo a destra dell'istruttore dopo aver messo in movimento il motore con giri di manovella. L'apparecchio si stacca dalla riva e l'allievo, afferrato il suo volante e occupati i pedali, si accinge a manovrare. Il maestro ha pure il suo volante e controlla la manovra del suo vicino intervenendo con cenni della mano o con dirette correzioni ogni qualvolta lo scolaro tarda, precipita o confonde i suoi movimenti. Gli idrovolanti partono ad uno ad uno striando lo specchio di spuma, oscillando per sollevare i galleggianti e la coda, poi raggiunta la velocità voluta, saltellano e spiccano il volo. Al ritorno, l'istruttore spiega gli errori commessi dal discepolo e questi li attenua affermando che sono passeggeri [9] e promettendone solennemente la sparizione per il volo successivo. Anche gli altri allievi della sezione presenziano al colloquio per immagazzinare esperienza a spese degli errori altrui.
Il nuovo arrivato osserva i colleghi più progrediti come esseri dotati di misteriose facoltà del cui segreto si vuole impossessare. Timidamente egli procede alla personale conoscenza dell'apparecchio introducendosi nello scafo: con circospezione afferra il volante, lo rigira, lo attrae a sè, lo respinge volgendosi a osservare alle estremità delle ali e della coda i movimenti degli aleroni e del timone di profondità. Si stupisce che i colleghi i quali lo hanno preceduto, spieghino la manovra come una funzione semplice. Poi rimane interdetto udendo il linguaggio d'aviazione fiorito di francesismi. Decollare: manovra per condurre l'apparecchio a staccarsi dallo specchio d'acqua; virare: mutamento di direzione durante il volo; picchiare: abbassare l'apparecchio [10] pure durante il volo; ammarare: far riprendere all'apparecchio il contatto con l'acqua.
Intanto il novizio sente parlare con rispettosa preoccupazione della manovella, il fatale istrumento che serve a mettere in funzione il motore e ad imporre soggezione al novizio: — Attenti ai contraccolpi — lo avvertono gravemente i colleghi che all'esordio conobbero il medesimo patema. — Bada che già vari si sono fratturati il braccio.... — Comincia così la mobilitazione dell'amor proprio: il neofita s'attacca all'insidiosa manovella, non riesce, ritenta e finalmente consegue la sua prima vittoria, girando la nemica con esuberanza trionfale.
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Più è prossimo il momento di volare per la prima volta e tanto maggiormente la sensibilità dell'allievo si paralizza. Pochi istanti prima di salire sull'apparecchio, il novizio, non avvertendo [11] più alcuna emozione, confonde questo stato d'animo con la tranquillità: viceversa è l'effetto di una tensione nervosa, la quale si trasforma in un fenomeno di serena voluttà non appena l'apparecchio si è librato. L'esordiente ha l'illusione che non sia l'apparecchio a sollevarsi, ma il panorama ad abbassarsi, a roteargli lentamente intorno. Una improvvisa, assoluta fiducia lo sorregge: una fiducia ispirata dalla stabilità dell'apparecchio che in volo si rivela solido, imperioso, sonoro e perde l'aspetto fragile osservato da terra. La velocità non è percettibile; pare che l'idrovolante si regga su un solido pernio invisibile. Il vuoto non esiste che per lo sguardo: l'atmosfera si manifesta anche al neofita un elemento consistente, soffice ma tenace, in cui l'apparecchio morde e si regge vittorioso. Ma quando l'idrovolante s'inclina per iniziare la discesa, il novizio si turba. Un rimescolìo passeggero agli intestini, somigliante a quello che dà l'altalena, lo coglie all'improvviso. Il [12] silenzio che segue al fragore del motore — perchè il motore viene fermato o ridotto a una velocità minima — determina una forma d'ansietà. La visione panoramica, che prima era preclusa in parte notevole al neofita dalla punta dello scafo protesa in alto, ora che lo scafo è inclinato, appare in tutta la sua vastità, come osservata da un altissimo balcone, e rivela la quota raggiunta. Si mostra come un'immensa carta geografica a rilievo. Lo specchio d'acqua appare come una enorme lastra metallica bruna e s'avvicina con crescente velocità. Quando mancano pochi metri da esso e l'apparecchio si dispone a posarvisi, si rivela fulminea la rapidità dell'apparecchio stesso: lo specchio gli sfugge di sotto vertiginosamente e il neofita trattiene il respiro in cospetto di questo imprevisto epilogo. Un lieve fruscìo, un impercettibile colpetto sotto lo scafo: l'apparecchio ha preso contatto con l'acqua, solleva intorno biancori di spuma e s'arresta rapidamente.
L'allievo confonde l'ammirazione per [13] il volo con la gioia di averlo condotto a termine: certo è raggiante. Difficilmente le sue impressioni sono da lui espresse in modo genuino, perchè non ha saputo analizzare sè stesso o perchè ritiene obbligatorio ricorrere a una di queste due opposte frasi: «Nessuna impressione» oppure «Impressione straordinaria» accompagnate da un prolungato sorriso ufficiale finchè egli si vede scrutato dai colleghi. Effetti fisici generali: ronzìo alle orecchie paragonabile all'uniforme canto dei grilli, appetito accentuato e richiesta da parte dei colleghi di una bicchierata per festeggiare il primo volo.
Nei voli successivi l'allievo ammesso ad abbozzare tentativi di manovra accanto al maestro, acquista l'improvvisa persuasione che per manovrare siano sufficienti le risorse dell'istinto. La sua convinzione di riuscire diviene tanto più fiera quanto prima dei voli era esitante. Si delinea in lui l'esuberante spirito d'iniziativa: egli scambia per aquilina audacia la propria ignoranza sulle [14] difficoltà del volo. I suoi tentativi di manovra sono senza sfumature. Se il maestro lo frena, egli insiste per ottenere una maggiore autonomia. Non esita ad affermare in piena buona fede che si sentirebbe di volare da solo. Naturalmente pretende di figurare tra gli anziani. In cospetto dei nuovi aspiranti si comporta da vecchio falco, spiega con degnazione annoiata la manovra, concludendo: — È semplicissima!
Ma quando l'istruttore gli affida realmente la manovra, l'allievo entra nella fase di depressione. Egli registra le nuove difficoltà nel suo diario: quasi tutti gli allievi conservano un diario con il numero e le caratteristiche dei loro voli. Oltre occuparsi delle condizioni dell'atmosfera, del motore, dell'acqua, lo scolaro osserva: «Oggi il maestro mi ha dichiarato che se egli non interveniva in tempo ci si infilava nell'acqua». — «Ho osservato che quando reggo io il volante, l'apparecchio disegna le montagne russe; non appena il maestro riprende il volante, l'apparecchio [15] torna in linea di volo. Dunque non è il vento. Il maestro dice che il vento lo faccio io». — «Quando correggo uno sbandamento ne produco uno maggiore. Il maestro dice che faccio fare all'apparecchio ciò che fa il cane quando è gaio; mena la coda a destra e a sinistra».
Se l'idrovolante giunto presso all'acqua non è posto in tempo in linea di volo, toccando l'acqua rimbalza in aria come un ciottolo a forma di piastrella lanciato parallelamente alla distesa liquida. Di qui la denominazione di piastrella a questo tipo di amérissage imperfetto. La piastrella è l'incubo dell'allievo il quale ricorre ai più ricercati sofismi per ripudiarne la paternità. Generalmente spiega che è derivata da un complesso di combinazioni: acqua poco visibile, colpo di vento, vicinanza di una barca, occhiali appannati....
A traverso queste prime esperienze l'entusiasmo del discepolo perde effervescenza: diviene solida meditazione. [16] L'allievo non ha più baldanza loquace, superficiale, nè severità di giudizi. Tace ed osserva. Segue i voli con sguardo da iniziato, rimugina le osservazioni fatte pilotando. Dal modo come si comporta un apparecchio in aria indovina chi lo guida. Anche in aviazione, la personalità, lo stile esistono. L'allievo comincia a comprendere che la manovra non è dettata dall'istinto, ma dalla fulminea entrata in azione di abitudini contratte studiando il volo. È un ricamo di innumerevoli eccezioni intorno a un semplice concetto fondamentale. Ma per conseguire questo senso della manovra occorre vivere la vita dell'apparecchio, occorre che pilota e idrovolante compongano una cosa sola.
La spirale: altra causa di crisi momentanea. L'istruttore la fa conoscere all'allievo d'improvviso ed eccezionalmente stretta per misurare la sua presenza di spirito. L'allievo vede il panorama inclinarsi e sollevarsi obliquamente come agitato da una danza diabolica, vede lago, fiumi, paesi, colli, [17] monti roteare, sovrapporsi quasi fosse giunta la fine del mondo. Quando la spirale cessa di fatto, nella testa dell'allievo continua. Egli rimane rigido, in atteggiamento di difesa, trattenendo il respiro. Scendendo reca il sospetto di non avere attitudine per l'aviazione, ma negli esperimenti successivi si comporta, anche intimamente, con assai maggiore disinvoltura fino a divenire egli stesso un abile autore di spirali, per quanto ampie e caute.
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Affermano in maggioranza i piloti che la loro più acuta soddisfazione derivò dal loro primo volo senza istruttore. Si giunge a questa prova sospinti da un bisogno imperioso di liberarsi dal controllo dell'istruttore. È un'apparente forma d'ingratitudine che ricopre una sostanza di rinascente idoneità. Quando l'allievo in volo si sente spersonalizzato, prova la luminosa illusione di aver sempre volato, considera normale la visione [18] dall'alto del panorama ed è insofferente degl'interventi nella manovra del suo maestro, è evidente che la convinzione di poter volare solo, matura in lui. Ciò che importa assai è la convinzione di poter condurre un apparecchio, tanto è vero che i capi-piloti fingono di mostrarsene increduli per accertarsi, traverso le proteste dell'allievo, ch'essa esiste veramente.
Se le discussioni in terra sono spesso vane, in cielo sono addirittura dannose. È necessario in volo perseguire un'idea unica, precisa, ferma. Due idee avverse nella testa di un pilota producono il medesimo disordine di due donne in una casa. Purtroppo l'allievo nel suo primo volo da solo reca due, tre idee per ogni fenomeno nuovo che lo interessa. Il suo è il volo dei dubbii. I fenomeni nuovi sono: il motore, l'orientamento e la solitudine. Quando l'allievo volava col maestro questi si occupava di regolare il motore, di indicare la rotta, e con la sua presenza aboliva la solitudine. Accade che l'allievo, [19] dovendo introdurre nella sua psicologia queste nuove responsabilità, smarrisca momentaneamente l'esatto senso del solo elemento di cui era sicuro: la manovra. Assalito da nuove preoccupazioni, diffida anche delle regole che già applicava con disinvoltura da tempo. Le impiega precipitosamente e provoca nell'apparecchio oscillazioni ch'egli si affretta ad attribuire al vento. Tutti i reduci del primo volo affermano che spirava un vento eccezionale.
Ma la crisi culminante del primo volo è provocata dalla discesa: — Quando spengo il motore? — comincia a chiedersi il neo pilota. — Adesso. No, è presto. Toccherei acqua troppo lontano dalla scuola. Però attento a non scendere contro gli hangars. Spengo adesso. No. Sì. No.
Intanto l'apparecchio, quasi avesse udito il dibattito del suo incerto pilota, si è abbassato per conto suo; l'allievo, allarmato, fa uno sforzo togliendo una mano dal volante per chiudere la manetta della benzina, e riportandola urgentemente [20] al volante. Con l'indice destro cerca il bottoncino del magnete, per togliere la corrente elettrica, ed ha l'impressione di non trovarlo. Eccolo. Preme. Il motore tace. L'allievo inclina l'apparecchio. Troppo. Lo richiama. Teme di scivolar d'ala. Ripicchia. Teme d'imbarcarsi: — Calma, calma, se no va a finir male — raccomanda a sè stesso. La discesa finalmente procede regolare con buona velocità. S'avvicina lo specchio d'acqua. Comincia la preoccupazione per l'amérissage. Si tratta di attenuare l'inclinazione dell'apparecchio, ma con dolcezza, con sfumature quasi impercettibili. Viceversa il reduce richiama a sè il volante troppo sollecitamente: è ancora a sei metri dall'acqua. Respinge il volante ma deve richiamarlo quasi subito perchè è ormai a un metro. Qualche esitazione ancora, poi alla fine l'idrovolante tocca l'acqua, un po' bruscamente e inelegantemente, ma senza eccessivi guai. Lungo respiro di soddisfazione dell'allievo il quale, riacceso il motore, fa ritorno alla scuola [21] salutato dai colleghi che sulla rotonda lo hanno seguìto in volo: — Bene, bravo, — gli gridano. Ognuno vuole stringergli la mano. Il trionfatore diventa insincero. Poichè lo lodano, egli assume l'atteggiamento di chi si merita la lode guardandosi dal denunciare gli errori commessi, anche perchè ha la coscienza di non ripeterli più.
— Quali impressioni? — gli chiedono.
— Mi sono trovato molto bene.
— Si vola meglio senza maestro?
— Non c'è paragone.
In questa fase di ascensione, caratterizzata da prove di crescente portata, il neo pilota è suscettibile di impressioni esagerate che derivano dal consumo eccezionale di energie quando ancora i suoi centri nervosi non sono sufficientemente sviluppati. Ma lo sviluppo nervoso nell'allievo di solida costituzione è alacre e gli consente di superare prove che pensate prima gli apparivano insormontabili. Un allievo che scende esausto da un esperimento [22] non raggiunto, porta nel segreto della sua anima uno sconforto che non sa confidare e che ha il colore della sconfitta. Ma all'indomani le sue forze sono gagliarde in una misura insperata. L'esperienza del giorno precedente, anzichè essergli nemica, gli è alleata.
La notevole altezza e la resistenza di volo sono sopratutto un risultato dell'amor proprio. La volontà ferma, orgogliosa di raggiungere la quota designata e di rimanere in aria per una durata stabilita è indispensabile come la benzina al motore. Essa servirà a neutralizzare gli effetti demoralizzanti del freddo, delle inquietudini atmosferiche, del vuoto sempre più profondo e vasto, delle nubi e della solitudine.
In altri ambienti amiamo vincere oltre che per noi stessi anche per il prossimo, ma in aviazione si vince sopratutto per noi stessi. Un pilota che dovesse cedere al vento, recherebbe con sè un incubo che graverebbe nei suoi successivi cimenti. Perciò il volo è un efficace mezzo per misurare, oltre [23] le qualità tecniche, le risorse morali dell'allievo. La cartina del barografo riproduce le peripezie psicologiche dell'allievo. Quella linea che s'innalza sicura, regolare, leggermente incurvata sino a una data quota — 1500 metri, 2000 metri — poi prosegue in una alternativa di tratti rettilinei, gobbe concave e convesse e finalmente ridiscende con una rapida obliqua, narra una serie di emozioni in contrasto: serena conquista della quota di metri 2000, poi lotta col vento, incertezze del motore, soggezione della solitudine, tentazione di scendere, reazione dell'amor proprio e finalmente discesa definitiva.
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Talvolta la sensibilità dell'allievo viene sottoposta a una prova singolare durante una traversata di nubi, l'incontro con le quali presenta varie caratteristiche e non sempre uguali. Può risultare abbastanza placido se sono nubi bianche, i carri, ma spesso è preceduto da [24] un avvicinarsi scapigliato di folate vaporose, dal gelo, dalla rarefazione dell'atmosfera, dall'incrociarsi volubile di raffiche. Poi penetrato l'apparecchio in questo mondo latteo, invisibile, misterioso, il motore diviene asmatico, il pilota perde il senso dell'orientamento.
Splendido è il momento in cui si esce da questa prigionia: splendido dal punto di vista tecnico ed estetico. Ci si accorge che l'apparecchio era sbandato malamente, troppo sollevato; ristabilitolo nelle condizioni normali si può ammirare a rapidi sguardi la nuovissima visione: un mare di immobili onde candide, compatte, raggianti, preceduto da lontani cirri solitari che fanno pensare alle avanguardie di un esercito fantastico. Ma la sensazione del bello è quasi paralizzata dal problema di tornare fra le nubi: problema che si risolve con una discesa a forte velocità, preferibilmente dove s'apre nella massa dei vapori un pertugio che lasci intravedere un pezzo del panorama sottostante.
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Vari sono gl'istrumenti che si recano a bordo per controllare la manovra: ma l'istrumento migliore che può ridurre al minimo il numero degli incidenti, è il sistema nervoso del pilota sorretto da esperienza e da perseverante studio. Il pilota affina la sua sensibilità al punto di giudicare in volo col solo udito il funzionamento del motore, col tatto sul volante il comportarsi dell'apparecchio. Solo istrumento di cui non tende a svincolarsi è la bussola che sul mare indica la rotta, mancando ogni altro punto di riferimento. Il pilota prima di partire osserva attentamente con occhio d'iniziato l'apparecchio e il cielo. Dell'apparecchio diffida. Egli ha perduto — a questo punto del suo allenamento — la beata fiducia dei primi tempi che gli faceva ritenere l'apparecchio il più sicuro veicolo. Egli sa che anche l'assenza di un bullone, un cavo non sufficientemente teso, già roso dall'uso, possono determinare la catastrofe. Egli, per volare sicuro, vuole aver controllato il suo idrovolante nei [26] più minuti particolari. E prima di partire legge nel volto infinito del cielo come gli uomini del mare e della montagna; le forme, i colori delle nubi gli rivelano l'altezza, la direzione e la velocità approssimativa dei venti. Un buon pilota sente di non poter manovrare efficacemente se ignora le condizioni dell'atmosfera, dell'invisibile pista su cui procede.
È evidente così come riesca impossibile al pilota esprimere le sue impressioni al profano che lo interroga avidamente. La sua vita quotidiana trascorrendo fra osservazioni sempre più particolareggiate di aerologia, elettrotecnica, costruzioni di apparecchi, topografia, trascorrendo in un mondo — il cielo — che per la grande maggioranza è cosa immensa di sola contemplazione, lo porta a sentire diversamente dall'umanità che non vola.
— Che impressione prova? — gli chiede il profano.
— Non saprei che dirle. Se vuol provare....
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— Ma neppure.... Si soffrono le vertigini?
— No, grazie.
— Però lei dimostra un bel coraggio.... E quando c'è vento?
— Si balla e si lavora molto.
— Ah perdinci, non vorrei neanche.... E se scappa un'ala?
— Eh.... allora....
— Che fegato occorre per andare in aria! E chi sa il vuoto che impressione produce!
— Per noi è cosa naturale.
— Io non mi abituerei. Si figuri che m'infastidisce guardare giù dal terzo piano. A che altezza vanno loro?
— Anche a 5000 metri.
— La saluto. Mi vien male a sentirlo dire soltanto.
Il contatto continuo con il fascino e l'incognita del volo abitua il pilota a famigliarizzarsi con superiori concetti di vita. Il sistematico esercizio di difendersi ogni minuto, ogni secondo da mortali insidie, lo arma di una filosofia serena, robusta, da cui il trepidante, [28] pavido, assoluto attaccamento alla vita rimane estraneo. Non che l'aviatore sia indifferente alla vita. Anzi ciò che fa di lui un vittorioso è il senso acuto dell'esistenza che lo porta a superare i limiti mediocri, a dominare una più ampia vastità di sensazioni e di spazi, a riconquistare ogni giorno, affrontando necessari perigli, il diritto, la gioia di vivere. Ma l'aviatore nel segreto del suo fervore sente che le sensazioni da cui è pervaso sono così fulgide da ripagarlo d'ogni più grave eventualità. Sente cioè che è importante più che vivere molto, vivere intensamente e utilmente anche se in breve spazio di tempo. Il coraggio è la sua aspirazione, il suo ansioso desiderio. Giunge un momento in cui il mistero della sua psicologia si svela: il momento in cui una cupa minaccia lo affronta in volo. O lo coglie un'invincibile tendenza a precipitosamente scendere, oppure si afferma in lui un'opposizione sdegnosa alla catastrofe e quindi un ponderato, [29] sagace impiego delle sue energie istintive e di esperienza.
In queste battaglie si allena il combattente del cielo: superate le prime avversità naturali si prepara a vincere quelle dell'aviazione nemica.
È il milite nuovo che fa suo e più ampio il motto del mare: «Vivere non è necessario, ma navigare e volare sì».
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Se Diogene capitasse col suo lanternino in una scuola d'aviazione troverebbe finalmente i soggetti da lui ricercati: i candidati al brevetto, i quali sono dei saggi o almeno dovrebbero essere tali.
Quando s'avvicinano alla gran prova essi s'impongono rigorosamente — c'è pure chi non fa nulla di tutto ciò — il regime dell'equilibrio: nessuna esuberanza, nervi a posto, sobri alla mensa, presto a letto, coronando così un periodo di assestamento indispensabile per comportarsi con calcolata energia in cospetto dì qualsiasi sorpresa aviatoria. [32] Il ritmo della scuola, la successione dei voli avevano già iniziato il consolidamento, l'educazione del loro organismo. L'equilibrio fisico del volo è in diretto rapporto con l'equilibrio morale del pilota.
Il candidato all'aquila o alla corona — per il primo brevetto si fregia dell'aquila e pel secondo sovrappone all'aquila la corona — si crea un programma attentamente meditato in cui rendimento d'apparecchio, quota da raggiungere, durata del volo e caratteristiche dell'atmosfera e del paesaggio costituiscono un tutto da attuare. L'io del partente è da giorni mobilitato e isolato: prova l'illusione che la vita aviatoria sia l'unica sua vita, immemore d'ogni altra vicenda estranea.
La partenza è imminente. I colleghi coadiuvano il brevettando nella accurata toilette del volo, destinata a fronteggiare la temperatura delle alte quote, e lo accompagnano allo scalo come fanno le comari intorno alla novella sposa che va all'altare; altri colleghi [33] con i meccanici passano definitivamente in rassegna l'apparecchio; il capo pilota interviene a sua volta con raccomandazioni, avvertimenti.... Nessun augurio, nessun accenno di commiato, quasi questo volo costituisse un episodio usuale: poichè nella vita di un aviatore novizio, un brevetto è un avvenimento eccezionale, irto di incognite, è consuetudine che le apparenze di contorno attenuino il senso di questa eccezionalità.
Il partente si lancia saturo di energie, da giorni accumulate, e perciò sovraeccitato; ma non appena si è librato, subentra in lui una placidità nuova; le sue energie cominciano a scorrere nell'esecuzione dell'agognato brevetto. Mette in funzione il barografo, regola il motore, controlla gl'istrumenti di bordo, aggiusta la manovra secondo il vento, stabilisce l'ora in cui dovrà scendere — tre ore dopo, se trattasi di secondo brevetto su idrovolanti —, si prefigge un itinerario che eviti possibilmente i punti dai quali traggono origini permanenti [34] inquietudini atmosferiche: centri abitati, corsi d'acqua, sbocchi di valli, vette nevose....
Anche le nubi sono da evitare. Il pilota se le vede accostare rapidissime. Sembra che vogliano avventarsi su lui per vendicare le solitudini violate. Il movimento che le caratterizza imprime loro aspetti di cose animate, vive, di strani mostri dai pallidi, foschi colori. Se si deve volare tra un blocco e l'altro di vapori, si ha l'impressione di transitare per un'angusta, candida valle. Sotto queste masse randagie il panorama terrestre si chiazza di larghe macchie d'ombra. Percossi dai raggi, i fiumi, i laghi, lanciano bagliori. Ma la foschia, le montagne fatte tozze, basse, sembra si seguano l'una all'altra in una fantastica, lenta cavalcata.... Le valli sono ovattate da evaporazioni candide, oblunghe. Il sole strappa dalla sommità dei cirri iridescenze porporine, violacee, argentee, effetti di luce che susciterebbero esplosioni di ammirazione se non fossero osservati in volo.
[35]
Perchè il panorama per colui il quale comincia a volare non è un elemento di ammirazione, ma di orientamento. La bellezza per chi deve allenarsi a mantenersi in equilibrio nell'atmosfera, non è comunicativa, ma fredda e ironica. La terra pare dica, specialmente al novizio: — Sono bella, ma sta in guardia di non cadermi sopra. — Il pilota diviene un ammiratore del panorama quando è ridisceso, quando la certezza della propria incolumità gli consente di sviluppare i ricordi estetici.
Ma durante il brevetto l'allievo deve dominarsi ricorrendo alle risorse della sua personalità migliore. A un certo punto la personalità debole gl'insinua: — Si balla molto. Scendiamo?
E la personalità forte: — Vuoi scendere per il vento? Ma tu non produci un vento più veloce con l'elica? Perchè ti hanno dato gli aleroni sull'apparecchio? Per reagire contro l'aria agitata.
La debole: — Ma debbo andare [36] avanti in queste condizioni per altre due ore?
La forte: — E che pilota sei, allora? Tutti sono capaci di restare in aria quando non si balla. Che diritto hai di mettere la corona se scendi per il vento?
La debole: — Tu hai ragione. Ma hai sentito che colpi proprio ora?
La forte: — Sono niente. Rifletti: fra due o tre giorni sarai in squadriglia: batterie nemiche ti spareranno contro, apparecchi nemici da caccia ti affronteranno.
La debole: — Andiamo avanti....
E intanto è trascorsa la prima ora e mezza. Come è passata la prima metà, così passerà la seconda. Il successo si delinea. L'allenamento è già sensibile. Il volo, sviluppandosi, ha la potenza di astrarre il pilota dal mondo reale, terreno, di assuefarlo al meraviglioso: paesi, città che passano ogni minuto, celebri vette che si umiliano, l'orizzonte che si fa smisurato. L'atmosfera a 4000 metri ha come un suo profumo, [37] una sua purezza. Più che mai il pilota è colmo dell'illusione che quella vita sia la sua unica vita, immemore d'ogni altra vicenda estranea.
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Le tre ore di volo sono compiute: il barografo le registra esattamente. Una trionfale gioia pervade il vittorioso, ma quella gioia è tosto sopraffatta dall'attenzione per la manovra della discesa: che il ritorno non sia soverchiamente rapido, che il motore non s'arresti, che lo sbalzo da una pressione all'altra, da una temperatura all'altra non nuoccia al reduce il quale è intento ad avvicinarsi alla scuola, in spirali tanto larghe che coloro i quali osservano da terra discutono se sono spirali o no. A 2000 metri l'atmosfera si rivela calda, persino troppo calda. Come un pingue inquilino discendendo dal quarto piano si riposa di pianerottolo in pianerottolo, così il pilota di quota [38] in quota riaccende in pieno il motore, pone in linea di volo l'apparecchio per abituarsi alle atmosfere sempre più grevi che incontra abbassandosi. E un altro fenomeno si manifesta: il panorama che alla partenza appariva grandioso, smagliante, ora è uniforme nei colori, piatto nelle forme. La permanenza a 4000 metri aveva aristocratizzata e insieme stancata la sensibilità dell'aviatore.
Il brevettato rientrando alla scuola consegna al capo-pilota il barografo con orgoglio di padre: la cartina è la sua creatura. Sordo, stanco, ma felice, passa di abbracciamenti in abbracciamenti, di stretta in stretta di mano, risponde con monosillabi, sorrisi alla carica di domande lanciate da superiori, colleghi, meccanici; senza avvedersi accetta contemporanei inviti a pranzo, promette bicchierate e visite mentre intorno gli amici, pure assediandolo, lo liberano degli indumenti di volo.
Da quel momento cominciano le innumerevoli repliche della sua narrazione: [39] «Come feci il brevetto». Sarebbe servizievole, in questi casi, un cartellino da portarsi appeso al collo, con il riassunto del racconto: «Partii alle ore tali. Il vento era veloce. Nubi sparse. Arrivato a 2000 metri cominciai a ballare.... ecc.»
Ma le persone alle quali il reduce non lesina particolari sono gl'istruttori e i meccanici: i collaboratori del suo successo, coloro i quali, insieme al capo-pilota, avevano seguito le sue prove di brevetto con muta, insopprimibile trepidazione. Gli istruttori. Ecco il primo che abituò l'allievo al volo: tutto giovinezza, disinvoltura, doveva infondere la persuasione che è facile il pilotaggio, purchè l'anima sia forte e il corpo sano; allegro anche nei momenti più critici sì da non allarmare l'inconscio aquilotto. Ecco l'istruttore della precisione: meticoloso, razionale, che doveva trasformare la nascente perizia dell'allievo dallo stato istintivo allo stato riflessivo, comprimendone i moti sino alla giusta misura. Ecco l'istruttore della [40] idoneità: taciturno, immobile, come sonnacchioso durante il volo, sì da lasciar persuaso l'allievo d'esser lui solo il responsabile della manovra, che torna repentinamente ai comandi e ingaggia spirali strettissime, frena il motore, lo riaccende per abituare alle sorprese i nervi dell'allievo.
E i meccanici? Sono gli oscuri organizzatori del successo, i pazienti studiosi del motore di cui vigilano ogni più delicato e recondito congegno. La bella, regolare sonorità del motore in marcia è il loro premio, il loro canto di vittoria, come ogni suono non ritmico, non fluido fa arguire loro un'irregolarità che limita le energie dell'organismo metallico.
Talvolta il motore viene accusato, ora a torto ora a ragione, di aver fatto fallire un brevetto. Se poi al mancato brevetto si aggiunge la scassatura dell'apparecchio, l'allievo pilota entra in una fase di desolazione. La scassatura si produce quando ormai il suo autore è convinto della propria infallibilità, [41] quando pensa: — Io non scasserò mai; chi scassa è un inetto! — Le cause predominanti della scassatura possono essere: distrazioni dell'allievo, il vento, lo specchio dell'acqua o le onde.
Avvenuto il guaio, l'allievo ha l'impressione di avere commesso un delitto. Ma un delitto colposo. In cospetto della sua vittima sente a sua volta d'essere vittima di una sorte immeritata. Gli sovviene quindi d'essere atteso al campo e un senso quasi di.... raccapriccio lo coglie pensando al capo-pilota indignato, ai colleghi ironici, allegri che gli grideranno: — Paga, paga!
— Che cosa? L'apparecchio?
— No, no: da bere.
Lo scassatore non vorrebbe più tornare (momento d'infantilismo), ma lo viene a rimorchiare un motoscafo che lo trascina come innanzi a un tribunale. Il capo-pilota è sullo scalo in atteggiamento monumentale: volto crucciato, sguardo fisso, braccia conserte. Prepara [42] il cicchetto. L'apparecchio con un'ala a sbilenco, i galleggianti schiacciati e magari con lo scafo bucato è ormai alla sua pista; il reduce con fisionomia da condoglianze ascolta la rampogna. — Se lei — esordisce il capo-pilota — avesse prestato maggiore attenzione.... — Dopo un minuto o due di svolgimento, la conclusione: — Lei sarà sospeso temporaneamente dai voli e vedremo se sarà il caso di farle pagare i danni. Lei oggi mi costa 30000 lire.
Che cosa rispondere? L'apparecchio a brandelli lo accusa. Chi rompe ha sempre torto, anche se qualche collega gli osserva: — Non si riesce grandi piloti se non si scassa. Il tale (e nomina una celebrità) ha scassato venti apparecchi. Il tale altro (e nomina un'altra celebrità) quindici.
Un secondo collega fa questa considerazione: — Si capisce che sei un novizio. Per aver messo fuori uso un idrovolante sembri disfatto: ti si potrebbe raccogliere a cucchiaiate. Viceversa dovresti [43] compiacerti d'aver dimostrato che sai sfasciare un apparecchio restando tu incolume.
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Filosofia arida di indifferenti! L'autentico conforto lo sfortunato se lo procura accostando un altro collega al quale sia accaduta di recente la medesima disgrazia. Perchè il mondo di un campo d'aviazione, nelle ore dei passi perduti, si suddivide spontaneamente in diversi gruppi secondo le affinità psicologiche: gli scassatori, gli eliminandi, gli scivolati d'ala, i neo-brevettati, ecc. Gli scassatori si sfogano contro il vento, si occupano unicamente del loro incubo, adottano nuove regole di manovra e ne ripudiano altre. Non appena riprendono a volare si comportano con circospezione da esordienti, e il felice esito del nuovo volo dà loro la sensazione di essersi riabilitati, per cui riesce loro facile riprendere la linea ascensionale [44] pur non disponendo della primitiva presuntuosa disinvoltura, ma anzi applicando l'esperienza derivata dall'incidente.
Gli eliminandi sono come sotto processo: su di loro grava l'imputazione di non avere conseguito progressi proporzionati al numero dei voli effettuati. Qualcuno di essi ha già compiuto il volo di prova. Quale peripezia! L'eliminando dirigeva la manovra e l'istruttore gli stava a fianco pronto a evitare un disastro. Eroico istruttore. Si vedeva l'apparecchio fendere l'aria a zig-zag, su e giù, inclinato trasversalmente, puntare un bosco poi evitarlo a un tratto, scendere a precipizio, poi risalire a forma di montagna russa.
L'allievo ridiscendeva congestionato ammettendo di aver fatto errore, ma attribuendone la causa all'emozione di sapersi sotto esame e al fatto d'averlo, l'istruttore, corretto con gesti disperati ed urla feroci. L'istruttore da parte sua asseriva d'essersi salvato per miracolo. Altre volte s'era visto un eliminando [45] portato come passeggero perchè si abituasse al volo, scomparire completamente entro lo scafo, ed esclamare al ritorno: — Quando alzavo la testa ed aprivo gli occhi vedevo un magnifico panorama! — Di un terzo si narrava che accompagnasse la sua manovra con dei commenti esplicativi: — Comincio a scendere. Siamo a cinquanta metri. Siamo a venti. Richiamo un poco, un altro poco. Siamo a dieci metri. — Pum! L'apparecchio aveva toccato acqua violentemente. E l'istruttore: — I dieci metri rimasti li faremo un'altra volta.
Gli scivolati d'ala sono intenti a chiedersi se rimane loro ancora la vocazione di volare dopo la caduta. Precipitati una volta non escludono di precipitare ancora. Se però riescono a ricostruire la esatta causa dell'incidente, possiedono elementi per tornare con fiducia al pilotaggio: maggior prudenza, conoscenza di un'emozione rara ed eccezionale che è — quando la caduta perdona — un collaudo di nervi. Essi [46] narrano che l'apparecchio non precipita fulmineo, allorchè per errore di manovra perde ogni sostentamento, ma offre ogni possibilità di rimedio, purchè naturalmente la scivolata non cominci a quota estremamente bassa. Pur troppo se gli apparecchi in generale sono più o meno docili, i piloti non lo sono affatto, perdono la serenità e agitano le manovre a tal segno da annullare le buone disposizioni degli apparecchi stessi. Se i piloti considerano inesplicabile il motivo del loro infortunio, non hanno altra soluzione che ritirarsi dall'aviazione; l'incubo della misteriosa caduta non cesserebbe dal turbarli.
I neo-brevettati sono agli antipodi psicologici degli scivolati d'ala. Spediscono e ricevono telegrammi, lettere in abbondanza, rigurgitanti d'ottimismo augurale; i loro discorsi sono delle fanfare, le aquile e le corone splendide d'oro, già da qualche settimana pronte nel più segreto angolo, sfolgorano al sole (se c'è il sole). Scoccano intorno [47] le ultime discussioni. — Quelle corone — afferma un collega — sono troppo cariche d'oro. — Io le preferisco su fondo nero. — Troppo grandi quelle corone. — Tutt'altro: stanno benissimo: sono fatte per essere vedute. — Il neo-brevettato gusta intanto il piacere di recare il nuovo fregio: se capita alla portata di uno specchio, come non rimirarsi? Se si vede osservato, tutta la sua vanità gorgoglia. Ma la vacanza dello spirito è breve. Non appena giunge il telegramma di servizio che lo destina in squadriglia, al neo-pilota militare si schiude tutta una serie di sensazioni nuove, una successione di ostacoli che la nostra massima nemica — l'immaginazione — si compiace di colorire a tinte gravi, forse per farci giudicare più facile e attraente la realtà. Il nuovo pilota considera che gli verranno affidate delle persone da portare in volo, delle missioni da eseguire in guerra, che dovrà ingaggiare combattimenti a grandi altezze, procedere avanti fra lo scoppiare dei proiettili. E tutto [48] questo programma esercita un doppio effetto sull'animo del candidato alle battaglie del cielo: meditazioni intense, gravi, e un fascino trascinatore, luminoso. E il nuovo combattente parte verso un mondo assolutamente inesplorato.
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La squadriglia più prossima al nemico, quella che a Grado sino all'ottobre 1917 fissò gli sguardi negli occhi dell'avversario e che ebbe gli sguardi dell'avversario fissi nei suoi occhi, era già in vista del nuovo pilota in viaggio «dove — secondo un brindisi dannunziano — la terraferma si trasforma in laguna e la laguna si confonde col mare aperto». La placidità vermiglia del tramonto era animata da un idrovolante che sembrava roteasse sull'ospite per dargli il saluto del cielo che lo aspettava. E il nuovo venuto provò quel senso di gelosia, d'ansietà che coglie [50] l'acerbo aviatore quando, non volando da vari giorni, assiste al volo altrui.
L'apparecchio incrociava fra la superstite basilica che afferma nella solitudine l'immortale gloria di Roma e l'isoletta antichissima, foggiata come avanguardia di Venezia, protesa a fissare le insenature «ove, prima o poi, giungeranno i nostri reggimenti e le nostre bandiere».
Poi scese la sera di guerra: tambureggiamento di artiglierie, indagini nel cielo di razzi e di proiettori dalle linee non lontane: i veterani della squadriglia parlavano con linguaggio pacato, semplice, delle imprese compiute e da compiere. Passavano nei loro racconti e nei loro progetti cenni austeri, sereni a combattimenti aerei, cenni a drammatici voli notturni fra le inimicizie del cielo e del mare e le insidie delle artiglierie e dei proiettori (uno dei veterani era sbandato sul lato sinistro per un paio di costole compromesse durante un tempestoso ammaraggio notturno, un altro era fregiato da una [51] cicatrice in fronte per un egual ritorno).
Tornavano alla memoria certe notti d'ansia per apparecchi che non riapparivano, vaganti per il mare o trattenuti da una secca, mentre rapide, minuscole unità li andavano cercando. Col muto linguaggio delle segnalazioni luminose, idrovolanti e motoscafi si erano ritrovati mentre le prime rose dell'alba si spargevano sulla gioia del ricupero, della salvezza, della missione felicemente compiuta. E i veterani della squadriglia si mostravano esperti della opposta, visibilissima costa militarmente nemica, ma psicologicamente sorella, nei suoi armamenti, nei suoi obbiettivi vulnerabili. Ognuno di essi ne aveva battuto a fuoco una zona bellica e rievocava un suo apparecchio avversario fugato o colpito.
Il sopraggiunto aquilotto, che aveva ascoltato attonito e con un segreto germogliare di emulazione, fu all'indomani portato in volo da un'aquila dagli esperti artigli, nel cielo delle battaglie, tra le [52] prime raffiche della fredda, ostile bora. E non appena l'idrovolante si fu slanciato dalle onde, apparve la magica curva verso cui si protendono le ansie italiche. La città bramata, in cospetto del mare conteso, degradante dai colli al mare, diffusa fra il candido castello imperiale e la baia un tempo operosa, era irrorata di luce dal primo sole e tendeva i suoi moli come braccia supplichevoli.
L'aquilotto si alzò in segno di saluto figliale e di muto proponimento. Poi il suo sguardo si volse al fiume famoso e alle tragiche ondulazioni d'oltre fiume. Sembrava che in questo dominio della guerra pesasse la solitudine, se improvvisi fiocchi di fumo, simili a minuscoli cirri radenti il terreno, non avessero affermato le ostilità. Laggiù, nell'irregolare, bizzarra maglia delle trincee sottilissime, nel picchiettio dei baraccamenti erano invisibili le nostre armate....
Ma quando si trattò di attuare i fieri proponimenti, il nuovo pilota s'avvide [53] che i veterani della squadriglia lo avevano involontariamente posto nell'imbarazzo descrivendo le loro gesta straordinarie con una semplicità impressionante e non corrispondente alle autentiche difficoltà ed alle severe caratteristiche atmosferiche, topografiche e belliche dell'ambiente in cui queste gesta s'erano svolte. Il nuovo arrivato, colmo di ammirazione per gli altri e diffidente di sè, intraprese una rude battaglia contro la propria inesperienza: ammaraggi conclusi contro un palo di canale per un insospettato colpo di vento al fianco, partenze e arrivi ingaggiati — con illegittima disinvoltura e conclusi fra ansie — in mare fra violenti sbalzi di onda in onda.
Una delle circostanze più considerate dai novizii nella squadriglia che Gabriele d'Annunzio definì L'Ala estrema d'Italia era l'eccezionale vicinanza fra la squadriglia stessa e la costa nemica dai cui semafori potevano essere vedute persino le partenze dei nostri idrovolanti. Anche un modesto volo di esercizio [54] presentava la possibilità di trasformarsi in un volo di guerra. Era sempre non superflua precauzione partire con la mitragliatrice. A cinquecento metri, anche restando sulla verticale della squadriglia, pareva già d'essere in casa del nemico: altri cinque minuti di volo e la costa avversaria era raggiunta. Allorchè occorreva conseguire una quota alta prima di operare, era necessario puntare l'apparecchio dalla parte opposta a quella del nemico. Da una breve gita aerea si poteva ricavare una sommaria cronaca della vita di Trieste: — Oggi Trieste era tutta imbandierata. Che cosa essi avranno avuto da festeggiare?
Da un nostro semaforo era divenuto interessante un signore con la barba che in ogni soleggiato, terso pomeriggio, alle 17, appariva davanti la chiesa di Pirano a passeggiare. Col cannocchiale lo si distingueva benissimo. Soltanto si discuteva il colore della barba: bruna? bionda? grigia? — La proprietaria del villino in cui risiedevano gli ufficiali [55] aveva potuto accorgersi col binoccolo, stando a Prosecco, fra Duino e Trieste, che il suo giardino di Grado era tenuto con cura. (Lo scrisse in una lettera mandata traverso la Svizzera ad una sua conoscente di Grado).
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Primo volo di guerra: ricognizione sulle linee e lungo la costa nemica. Serve al pilota per abituarsi all'atmosfera bellica. Il comandante gli spiega: — Lei va lassù a montare di sentinella, a esplorare le retrovie nemiche. — L'esito del volo dipende dagl'incontri che si fanno. Occhio. Giunto il pilota ad alta quota una delusione: il mare. Il novizio immaginava di dominare da una grande altezza chi sa quale sconfinata estensione marina. Viceversa dopo i mille metri già la linea esatta che separa il mare dal cielo, e che a terra dà l'idea dell'infinito, è cancellata da una foschìa la cui tinta confonde le due immensità [56] componendone una cavità sola, insignificante come la nebbia. Il pilota non ottiene dal mare alcun punto di riferimento per giudicare la posizione dell'apparecchio. Se non trova qualche nave randagia che si presti, anche se ridotta a una lineetta nera, si volge ansiosamente alla costa perchè abbia la cortesia di offrirgli una foce, una collina, una città per stabilire un confronto fra il punto terrestre e l'idrovolante. È il figlio che cerca la madre: quando la trova riacquista tutta la sua padronanza. Ma neppure il cielo nega il suo aiuto; è sufficiente una nube perchè il pilota possa orientarsi e regolare l'andamento dell'apparecchio.
Fortunatamente la zona d'azione assegnata a L'Ala estrema d'Italia era ricchissima di costa: quella mattina di prima ricognizione il pilota ne sbirciava i tratti più famosi, tra un'occhiata e l'altra alle ali ed agli istrumenti di bordo. Aveva alla sua destra la costa istriana violacea, vellutata dalle pigre evaporazioni delle prime ore, intarsiata nel [57] mare, picchiettata di chiazze bianche e gialle: i centri abitati. Laggiù era Pirano: il signore della barba.... Una strana impressione, quasi di fastidio, produce in volo questo inutile insinuarsi di cose lievi, buffe nella gravità della manovra. Ma ecco Trieste vasta, signorile, candida, lucente di barbagli, desolata col suo vasto porto deserto: — Quanti milioni d'italiani — pensava il pilota — vorrebbero essere quassù in cospetto della città desideratissima! — In volo i pensieri sono semplici, ingenui: si ritorna un po' bambini.
Il pilota puntando verso l'Hermada osservava che più egli era prossimo alle linee nemiche, tanto più disinvolta diveniva la sua manovra, più naturale la situazione: l'interessamento creato dalla vicinanza del nemico riduceva profondamente l'interessamento per il fenomeno del volo anche se caratterizzato da rispettabili colpi di vento. Il volo acquistava in quei minuti una ragion d'essere così persuasiva da abolire [58] ogni carattere di eccezionale sacrificio a chi si librava nell'atmosfera su un fragile congegno di metallo, di legno e di tela. Le linee nemiche perdevano intanto ogni ambiguità di sfingi: la realtà divenendo precisa ispirava più confidenza che suggezione: — Occhio agli apparecchi da caccia: stanno in agguato come falchi, a 5000 metri, poi piombano alla coda della preda e trac! (Il trac si riferisce alla mitragliatrice). Queste parole udite a terra dai più esperti, risuonavano ammonitrici nella memoria del pilota, il quale subito toccava con la destra l'osservatore, conficcato nel posto anteriore e gli accennava di guardare in alto e di dietro. Poi per esprimersi più efficacemente componeva con i due indici una croce per domandare: — Ci sono apparecchi con la croce? — L'osservatore si girava esplorando sotto, sopra, poi con l'indice faceva segno di no e con tutta la mano, come in atto di benedire, raccomandava al pilota di conservare fiducia nella sua vigilanza.
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Discorrere di temperatura, di pressione, di numero di giri a chi è profano di motori d'aviazione, significa usare un linguaggio incomprensibile. Sono nomi di dispiaceri aerei. Il motore che si scalda soverchiamente, che produce un numero instabile di giri; una crociera, un montante che vibra, un'ala che presenta un'incidenza maggiore dell'altra, sono cause di dispetto per il pilota, il quale vola amareggiato pensando ai giorni di prigione che infliggerà al motorista e al montatore, responsabili, secondo lui, degl'inconvenienti. L'osservatore che dal suo posto non può essere al corrente della situazione, volgendosi per scrutare il viso del pilota — il suo quadrante — e trovandolo corrucciato, gli chiede, agitando le cinque dita riunite sotto il naso: — Che cos'hai? — E il pilota, accennando con il pollice rovesciato verso il motore, intende rispondere: — Il motore lascia a desiderare. — Poi allungando la mano come per dire andiamo avanti vuole aggiungere che l'inconveniente [60] non è così grave da imporre l'immediato ritorno.
Tra questa mimica, in quella mattina di prima ricognizione, l'idrovolante era giunto in cospetto dell'Hermada, tozza, oblunga come una belva accovacciata, dalla giubba fulva e chiazzata. Intorno l'Hermada e nel Carso una caratteristica dominante: il terreno paragonabile alla crosta lunare quale la si vede traverso i cannocchiali potenti: una crosta arsa, bucata come da minuscoli, innumerevoli crateri spenti — le doline — serpeggiante di bizzarre striature bianche — le strade — o brune — le trincee ed i reticolati. — Non un segno di vita tranne qualche scoppio d'artiglieria rivelato da brandelli di fumo bianco. A 3000 metri su un apparecchio il quale col suo fragore presuntuoso pare la sola cosa esistente ed importante, il senso della guerra terrestre viene profondamente attenuato, specie di giorno, quando le strade sono deserte e gli uomini nascosti.
E il volo proseguiva verso una visione [61] ridente, ampia e chiara di edifici in una cornice verde — Gorizia; — proseguiva con a destra le tortuosità bianco-azzurre dell'Isonzo, lasciando indietro una larga chiazza verdastra — il lago di Doberdò — un'ombra lunga fra ondulazioni fulve — il Vallone. — Oltre Gorizia una gola fosca: la valle angusta tra le gobbe nude del Sabotino e del Monte Santo da cui sfuggiva, come ribelle a una stretta, l'Isonzo. Il pilota ebbe l'impressione di scostarsi troppo dal mare. Chi vola su idrovolante si trova a disagio se non ha sotto lo sguardo distese liquide, preferibilmente ampie. Una virata verso il nemico diede alla destra del pilota la foce del Timavo: un fiume tutto foce, le cui sorgenti si dispongono a delta capovolto: appena cominciato finisce, come certi sogni belli.
Improvvisamente l'osservatore si volse agitando le mani come ali per segnalare l'avvicinarsi di un apparecchio dalla parte del nemico. Il pilota da questo punto presta un'attenzione enorme. Scruta [62] l'orizzonte lontano: non vede nulla. L'osservatore alza due dita intendendo avvertire: — Due apparecchi in vista! — Il pilota guarda ostinatamente: non scorge nè il primo nè il secondo e constata quanto sia arduo scoprire in volo altri aeroplani in volo: l'occhio reclama un particolare allenamento. — Tre — indica con un gesto vivace l'osservatore il quale toglie la sicurezza alla mitragliatrice già carica. La cosa si fa seria. Il pilota novizio punta istintivamente l'idrovolante verso la zona da cui provengono i tre apparecchi. Finalmente li scorge anche lui: sono tre puntini neri più alti dell'idrovolante, uno avanti, due dietro ai lati. La fantasia del pilota assume fulminea l'assetto di battaglia: si libera del superfluo. Rimane con un'idea unica, fissa, insopprimibile: — Non lasciamoci prendere di coda: affrontiamo l'apparecchio che è in testa. Tagliare la corda (ritirarci) sarebbe offrirci al sacrificio.
I tre puntini avanzavano intanto in istrano modo: poichè la loro sagoma [63] si andava rivelando, pareva che scivolassero d'ala, che si spostassero sui fianchi da destra a sinistra, anzichè in senso longitudinale. Il primo perdendo quota forse voleva portarsi a un lato dell'idrovolante per aggirarlo. I due apparecchi seguenti eseguivano la stessa manovra. Il pilota, comportandosi con una disinvoltura mai conosciuta, piantava certi viraggi da pilotone per tenere sempre la mitragliatrice puntata contro i nemici....
— Non sono nemici! Sono nostri — fece rapido cenno l'osservatore portando al petto la destra come si fa per il mea culpa. Infatti alla tinta nera dei tre apparecchi si erano sostituite, per effetto dell'accresciuta vicinanza, le tinte autentiche fra le quali quelle tricolori dei segnali di riconoscimento. Di più erano visibili le principali caratteristiche di costruzione degli aeroplani nazionali. Pilota e osservatore dell'idrovolante salutarono festosamente agitando le mani — l'incontro fra apparecchi nazionali nelle solitudini aeree [64] è causa di felicità — e gli equipaggi dei tre apparecchi incontrati — uno da ricognizione e due da caccia — risposero con uguale vivacità. La causa dell'equivoco era del nemico che non aveva sparato contro i tre apparecchi misteriosi, lasciando supporre che fossero suoi, mentre si seppe poi che l'assenza degli spari era derivata dalla presenza nello stesso cielo di caccia austriaci imboscati ad altissima quota.
Tornata normale la situazione, il neo-pilota di guerra procedette a un rapido bilancio intimo: — Manovravo con la medesima disinvoltura con cui si va in bicicletta. Non ho mai eseguito viraggi pronti e stretti come in questa circostanza. Comprendo che occorre volare sul nemico per volare bene. La vita, in caso di combattimento aereo, si riduce a un quesito semplicissimo «abbatto il nemico, o resto abbattuto».
È questione di momenti durante i quali le nostre attività sono così interamente impiegate nella difesa e nell'offesa da non rimanerne alcuna per [65] registrare la paura, il dolore di soccombere, i rimpianti. Immagino che gli attimi supremi del combattimento annullino tutti i valori terreni e il valore stesso dell'esistenza. La grandiosità e l'eccezionalità assoluta dell'avventura rimpiccioliscono ogni altro elemento, suggestionano così perfettamente l'aviatore da presentargli come conclusione non strana la sua scomparsa fra tanta luce.
Il soliloquio, che forse non sarebbe avvenuto se l'atmosfera avesse fatto ballare l'apparecchio, fu interrotto dall'apparizione di bioccoli candidi davanti e intorno all'idrovolante, più alti e non ancora prossimi: — Tirano a me? — pensò il pilota più curioso che preoccupato della situazione alla quale viceversa sarebbe stata appropriata più la preoccupazione che la curiosità. L'osservatore si volse sorridente ed eseguendo verso il nemico, con le due braccia, un gesto che la censura vieterebbe di riprodurre, ma che significa una quantità di cose: — Ce ne infischiamo, [66] non ci prendete, sparate male, ecc.... — Volta la prua verso il mare, i colpi punteggiarono la scia dell'apparecchio; il pilota non li vedeva ma li sentiva come raffiche di vento e li intuiva nei replicati gesti di crescente dispregio dell'osservatore verso il nemico.
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L'idrovolante giunto sulla perpendicolare della costa cominciò a scendere; più perdeva quota e più saliva nei due reduci il caldo afflato della vita la quale andava riacquistando gradatamente certezza per un altro giorno. Toccata l'acqua, l'istinto di conservazione, tenuto a freno od abolito per varie ore, riprese un sopravvento deciso senza trovare ostacolo ma anzi accordandosi con la coscienza del dovere compiuto. Fra un volo e l'altro di guerra l'aviatore gusta le sue impressioni belliche ed estetiche sotto un manto di stanchezza voluttuosa, [67] di appetito, di sonnolenza. Egli finalmente comprende che il famoso laconismo degli aviatori descritto come un mistero, come una forma di eroica svalutazione o insensibilità delle proprie gesta, deriva invece dall'isolamento assoluto interpostosi fra chi ha volato e chi non ha volato. È di un'irrimediabile inutilità la descrizione di sensazioni le quali in cospetto di spettatori rimasti a terra riescono trasfigurate, puerili perchè imperniate sul contrasto fra minuscole cause tecniche e possibili grandi effetti. Poi l'aviatore non vince un'intima sdegnosità per l'interrogatore che ignora la quotidiana alternativa fra la vita e la morte, per l'interrogatore che non va oltre l'immaginare effetti estetici e psicologici — superati da gran tempo dall'aviatore — delle velocità, delle altezze e delle solitudini. Il silenzio tra aviatori su argomenti di servizio aereo deriva talvolta dalla riluttanza a confidare intime crisi di volo definite fife — le confessioni vengono qualche tempo dopo che le crisi [68] furono superate — oppure deriva dalla superfluità di intrattenersi su sensazioni reciprocamente note.
L'aviatore tra un volo e l'altro si riposa.... discutendo animatamente sugli argomenti più bizzarri, eseguendo o facendosi eseguire musica allegrissima — preferisce quella americana — ingolfandosi in rapide gite terrestri, in rumorose partite al biliardo o alle carte, tenendo conto scrupoloso delle superstizioni e sprofondandosi in dormite solenni. Riposati i nervi, è ripreso dalla nostalgia del volo e delle altezze spirituali. La vita senza incognite supreme gli diviene tediosa. Accanto a queste cause essenziali agisce l'emulazione per i colleghi che durante il suo riposo hanno brillantemente volato. Egli sente la necessità di nutrire il suo prestigio con nuove vittorie: s'accorge di amare il suo apparecchio come un essere vivo, intelligente, e ne è geloso. Non appena riceve l'ordine di partire, passa dalla effervescenza delle intenzioni alla diffidenza per le condizioni [69] meteorologiche e per l'apparecchio che esamina con una cura da san Tommaso, si rassegna alla partenza, sente l'urgenza di partire; appena è in volo ne prova gioia come fosse liberato da un incubo. Forse questa alternativa — insopprimibile anche dopo una lunga serie di voli — sarebbe evitabile se l'aviatore potesse rimanere nella magìa, nell'incanto delle avventure aeree quasi senza interruzione. Ma ogni intervallo è un tuffo nella realtà, è un ritorno all'apprezzamento dei valori terreni dai quali deve poi liberarsi — per volare moralmente bene — come da ingombri. L'aviazione è una successione di istanti meravigliosi, ma se fra questi istanti s'insinuano le nostalgie del passato e le aspirazioni dell'avvenire, l'aviazione perde per un'ora, per un giorno il suo potere suggestivo, salvo poi a riconquistarlo con arte smagliante e immediata.
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E si parte per un bombardamento. Volare in seguito a ordine ricevuto da superiori è delizioso. Molti aviatori hanno un culto per i voli comandati. Non si avverte il vento, non preoccupano le nubi. Si deve andare e si va. Per il bombardamento si vola con astuzia percorrendo il cielo come un dedalo di viuzze, evitando batterie, campi d'aviazione del nemico.... Ciò non impedisce che la via aerea diretta al bersaglio prescelto cominci a costellarsi di minuscoli cirri bianchi, rossi, neri, i quali aspettano al varco l'apparecchio salito dal mare, mentre altri cirri si aggiungono con intensità crescente come rinforzi inviati d'urgenza. La costellazione si stende, s'avvicina; nell'uniforme possente voce del motore si introducono lamentose lacerazioni dell'aria, rombi cupi prodotti dai proiettili scoppiati più vicini all'idrovolante, il [71] quale ha dei balzi che danno ciascuno un fremito ai due aviatori.
Sarebbe inverosimile, sovrumano non avvertire l'estrema gravità di questi fieri momenti. Ogni balzo dell'apparecchio può annunciare il capitombolo finale se si ricorda che basta una scheggia a tagliare un comando, a mettere fuori combattimento il pilota, a frantumare l'elica, a paralizzare il motore.... Ma si va avanti con una ostinazione sprezzante per tutte le incognite, con una inverosimile fede nella propria invulnerabilità, ostinazione e fede che contrastano con la più fredda, rigida percezione della realtà. Intorno ai due aviatori non tuona il fragore, nè trascina il movimento della collettiva battaglia terrestre, non c'è la possibilità dell'eroico oblìo e della sublime esaltazione: i due, soli, sospesi nell'abisso, divenuti bersaglio certo di batterie non contate e scarsamente vedute, debbono, oltre che superare questa situazione, viverla nei suoi più minuti particolari, come un paziente subirebbe, non addormentato, [72] un'operazione chirurgica; debbono prevedere tutte le possibilità, misurarne tutta la portata. Sino all'ultimo momento sono arbitri dei loro atti, sono investiti della più assoluta responsabilità, col volante stringono il loro destino; non debbono nè entusiasmarsi, nè abbattersi, la loro coscienza non deve velarsi tra le due estreme crisi dell'esuberanza e dell'esaurimento, mentre fra tante esteriori circostanze anormali debbono tener desta, vigile la diffidenza verso l'apparecchio: evitare che la pressione della benzina abbia a salire soverchiamente determinando lo scoppio del serbatoio; evitare che il motore abbia a scaldarsi o a raffreddarsi eccessivamente perchè nell'uno o nell'altro caso la sua marcia diverrebbe irregolare; osservare che gl'istrumenti di bordo conservino il loro fedele funzionamento. Credere nella vita malgrado tutte le insidie: ecco la consegna dell'aviatore i cui nervi, il cui cervello, i cui muscoli debbono dare le loro energie fino all'estremo perchè un solo secondo [73] di abbandono, un solo eccesso possono annullare tragicamente gli effetti di mesi e mesi di rispetto alle leggi del volo, di sagace prodezza nel combattere il nemico.
Ecco il bersaglio. L'osservatore confronta le caratteristiche della carta topografica di bordo con quelle del terreno. Tutti gli scrupoli gli sono intorno a raccomandargli la cura più meticolosa perchè sia colpito esclusivamente il bersaglio. Ed egli, individuato quella dolina, quel tratto di ferrovia, quell'incrocio di strade che gli danno il certo obbiettivo, sfibbia una dopo l'altra le bombe e ne osserva l'effetto mentre scendono obliquamente rimpicciolendo sino a scomparire. Poi nel bersaglio una muta macchia di fumo s'allarga pigramente. Il pilota, che già da vari minuti virava nel cielo dell'obbiettivo, inclina l'apparecchio per osservare a sua volta l'effetto del bombardamento, poi si dirige alla base fendendo alla massima velocità lo sbarramento di scoppi che gli contendono il ritorno. [74] Ma il successo della missione e la possibilità sempre più vicina di una felice discesa danno ai due reduci una gaia illusione di invulnerabilità. Giunti sul semaforo della base non aspettano di essere scesi per comunicare telefonicamente il risultato della missione, ma vi lanciano un messaggio chiuso in un tubetto di latta con nastri tricolori contenente l'estratto del servizio e le osservazioni fatte sul golfo. Avvenuta la discesa i due bombardieri contano i buchi, gli strappi prodotti nell'apparecchio dalle pallette e dalle scheggie incontrate per via. Certe constatazioni danno talvolta dei brividi: se uno dei proiettili fosse passato un centimetro più avanti avrebbe determinato la caduta dell'apparecchio. È l'ala fredda della cupa dominatrice che passa vicino. Queste traccie dell'artiglieria nemica sono oggetto di segrete gelosie, sono ambìte come medaglie, come distintivi: chi non ne ha avute nel suo apparecchio cova la speranza di procurarsene al prossimo volo di guerra. [75] Nel diario che molti aviatori redigono, il numero dei buchi occupa un posto d'onore.
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Si dovette partire prima dell'alba per giungere inosservati in quota a dirigere un tiro d'artiglieria. La costa istriana era una striscia violacea tra il celeste del mare e il rosa del cielo. L'idrovolante saliva a larghi giri verso la luce che già tripudiava dietro il torvo Carso, infiammando nubi randagie. A 3000 metri cominciò il colloquio traverso lo spazio fra le batterie e l'idrovolante che lanciava le sue invisibili segnalazioni dal filo radiotelegrafico pendente dallo scafo. Andava a «chiedere colpo» verso la batteria, poi tornava per vederlo sul bersaglio. Se il colpo tardava, il pilota doveva risolvere il problema di stare fermo andando alla velocità di 150 chilometri all'ora: e ci riusciva infilando una prolissa serie di viraggi. Il colpo arrivava. Troppo [76] corto, troppo lungo, più a destra, più a sinistra. Centrato! Giubilo a bordo.
Le nubi s'erano intanto accumulate, erano discese con tinte bigie e bieche intenzioni. Alla raggiante placidità dell'aurora s'era sostituita una grigia inquietudine in cui l'apparecchio avanzava vibrando, ora sollevato, ora senza sostentamento, con delle velleità ribelli, con lunghi, lamentosi, disuguali suoni di motore. Dalla costa veneta saliva un'immane macchia plumbea, oblunga come un'ala soprannaturale, la cui ombra sinistra si stendeva sul mare verdastro, striato di lividure. L'idrovolante, dopo tre ore di navigazione, scendeva a velocità vertiginosa per fendere le raffiche, e sull'Isonzo pareva sbalzasse di gradino in gradino da un'invisibile scala. Da poco aveva ammarato che tutte le ire accumulate nei regni violati si scatenarono sulla terra e sul mare, intimidendo la guerra degli uomini.
Nel pomeriggio la natura placata si riconciliò con il più smagliante dei suoi sorrisi rivelando ogni sua recondita bellezza, [77] anche la più lontana, la più insperata. Sulla verticale dell'Hermada a 3500 metri il pilota riammesso al dominio degli spazi sul suo idrovolante, vedeva in un giro di sguardo Venezia paragonabile a una minuscola corazzata nel suo bacino di carenaggio, Gorizia e Trieste di cui si potevano distinguere le più sottili particolarità, e Pola simile a una rosa bianca posata sugli estremi intarsi istriani. E intorno un prodigio di bellezze abbaglianti: cavalcate azzurre e nevose di vette, avanzate tortuose bianco-celesti di fiumi, luci porporine di distese abitate e gradazioni d'ogni verde di campagne; nel mare sterminati riflessi del sole nel suo supremo commiato dal giorno.
Ma questi fenomeni di visibilità sono rari e non coincidono certo coi giorni d'offensiva in cui il Carso sembrava trapuntato da crateri fumanti e la sua superficie ondeggiante appariva in ebollizione sotto una greve foschìa giallastra che era l'emanazione delle artiglierie, e al tramonto si appesantiva, si [78] stendeva come stanca di librarsi. Se si voleva vedere e colpire, si doveva volare bassi in questa atmosfera olezzante di sentori chimici. S'intuivano le movenze, le sagome della battaglia dal comporsi e dallo spostarsi di certe linee punteggiate fittamente di cirri, dal tramestìo insistente di puntini infiniti distribuiti a strisce. Un manto di fumo soffocava l'Hermada: per virtù di una poderosa zaffata di vento la belva poteva per qualche istante scoprirsi e respirare, ma un altro turbine le si avventava sopra e la ricopriva in una stretta asfissiante.
Alla semplicità di queste visioni terrestri si contrapponevano in cielo le complicazioni più stupefacenti. Una moltitudine di apparecchi d'ogni foggia, d'ogni proporzione, d'ogni velocità, di ogni fregio, ostruiva il passaggio sotto, sopra, a destra, a sinistra, metteva nell'imbarazzo il più disinvolto pilota. Sembrava di guardare dentro una ciclopica vasca di pesci. Prima di virare c'era da aprire tanto d'occhi per [79] non cozzare, per non ricevere soffiate. Il cielo non era più prodigo di infiniti spazi, almeno il cielo carsico. Gli apparecchi salivano o scendevano sbandati, buffi, quasi fossero stati intenti a tagliare la strada; quelli di fianco sembravano immobili sospesi nel vuoto, appesi a un filo invisibile. Vicine ali tricolori, ali più lontane annerite, improvvisi bagliori di agili caccia dalla testa di metallo, tingevano il cielo. Sonorità infernali di motori e d'artiglierie, rombi e sussulti tormentavano il volo. Più in alto c'era da diffidare delle traiettorie dei grossi proiettili, più in basso si diffidava ingiustamente delle bombe lasciate da apparecchi naviganti a quota maggiore. Il nemico, stordito, riesciva appena a spruzzare di tanto in tanto il cielo di colpi frettolosi e inesatti. S'insinuava la comicità nel dramma: passava un caccia che aveva dipinto sulla fusoliera questo ammonimento: Ocio fiol d'un can: poi mostrava l'altro fianco in cui sì leggeva: Ocio che te copo. Monitori inglesi sparavano [80] dal mare, apparecchi italiani dal cielo sparavano, fotografavano, dirigevano tiri.
Esaurite le munizioni, effettuata la missione, aeroplani e idrovolanti tornavano alle loro basi incontrandosi con stormi di apparecchi i quali accorrevano a dar loro il cambio, a nutrire di energie fresche la battaglia. Nei campi fervore febbrile: partenze, arrivi di apparecchi; squadre di operai che riparavano, che rifornivano; ufficiali a rapporto, conteggio di buchi negli apparecchi; trasporto premuroso di feriti; notizie, ordini per telefono e con la radio. Con l'estrema luce diurna sbucavano dalla fulva, acre foschìa gli ultimi combattenti del cielo; il cannoneggiamento accompagnava i preparativi delle aeree spedizioni notturne. E in questo sfondo immane la sentimentalità era rappresentata dai cani della squadriglia — porta-fortuna — i quali improvvisavano una ridda mugolante, capricciosa di giubilo intorno ai padroni tornati dalla battaglia aerea.
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Le tiravano col 381, l'assalivano di notte gl'idrovolanti austriaci, e i proiettili le cadevano intorno ai ricoveri, ogni sua missione si iniziava sotto il controllo dei semafori istriani, e da Trieste udivano i suoi motori mentre si scaldavano, non disponeva di un'ora sola veramente tranquilla, pativa la malaria e la bora, eppure la squadriglia di Grado, la squadriglia esule rievocò sempre la sua isoletta con nostalgia cocente. Lassù era in cospetto della storia, operava in vista dell'Italia nuova che rombante e sanguinando, muovendo da un ciclopico cantiere, scavava la sua via.
Forse a Grado il senso della guerra [82] risultava più drammatico che altrove perchè vi si avvicendavano, in improvvisi contrasti, episodi di vita bellica e di vita civile, per cui non era mai possibile ai combattenti della squadriglia entrare pienamente in quello stato di oblìo, di abbrutimento e di allucinazione sublimi che si riceve dalla trincea dove non si vede, non si vive e non si muore che la guerra, ed ogni aspetto della esistenza borghese appare un ricordo remoto ed inverosimile. A Grado gli aviatori erano coinvolti da vicende di guerra non soltanto in ore di volo, ma anche in quelle di riposo, con attacchi aerei e bombardamenti dalla costa nemica: così la loro tensione risultava incessante, la loro mobilitazione spirituale si manteneva rigorosa, la loro elevatezza morale — fatta di serene rinuncie supreme — perfetta. Ogni loro ora di vita conteneva un suo intenso valore. Il ritrovarsi vivi alla fine di ciascun giorno e di ciascun rischio era la constatazione di una vittoria contro la sorte.
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A traverso questo eccezionale stato d'animo venivano osservati con ingenua meraviglia — che negli aviatori si rinnovava dopo i loro bombardamenti diurni e notturni, le ricognizioni fotografiche, le direzioni dei tiri d'artiglieria, gli attacchi a navi nemiche — i più comuni episodi borghesi: l'apparizione, nell'ora dei bagni e della passeggiata, sul lungo-mare adorno di edifici lussuosi per la stagione balneare d'altri tempi, di alcune signore e signorine valorose nella loro ostinata permanenza a Grado, encomiabili, fra tante ansie, nel conservare ancora, all'ambiente rosicchiato dalle bombe, una estrema parvenza di eleganza mondana; il concerto nei giorni festivi dei marinai in piazza e le rappresentazioni dei filodrammatici indigeni in un teatrino: l'intermezzo della Cavalleria e la parodia di Francesca da Rimini mentre talvolta a poche miglia i motoscafi armati scambiavano cannonate con torpediniere austriache, ed aerei nostri provocavano nel cielo di Trieste moltitudini di scoppi; cori [84] di bambini poveri, raccolti in un ben munito refettorio dalla filantropia della Marina, con accompagnamento di artiglieria oltre Isonzo; gruppi di monelli che riempivano sacchi con la sabbia della spiaggia per irrobustire i loro illusori ripari sotto le catapecchie; popolani che dopo il bombardamento aereo uscivano a raccogliere scheggie, fondelli per le strade e pesci uccisi dallo scoppio di proiettili in mare e gettati in secca dalla risacca....
Grado era cara alla squadriglia: nei suoi marmi antichi parlava di Roma, e di Venezia parlava nel groviglio delle sue calli, delle sue piazzette, nello stile della sua torre, nel dialetto, nei costumi dei suoi popolani. Le fasi lunari ne capovolgevano le abitudini. Sonnecchiava di giorno e vegliava di notte. Lungo le calli s'udiva il sommesso chiacchierìo d'attesa di gruppetti invisibili nella penombra traversata da obliqui raggi lunari. Gli aviatori trascorrevano le notti parte nei sotterranei, durante le incursioni, e parte in volo nell'esecuzione [85] dell'immediata rappresaglia. Spesso le lettere degl'aviatori recavano frasi come queste: «Non ti ho risposto subito causa la luna», oppure: «Appena sarà finita la luna verrò in licenza». «Aspetto che finisca la luna per andare a Udine a provarmi la divisa nuova».
Per chi si abituava, la veglia non era assoluta: taluni tesoreggiavano col riposo le mezz'ore d'attesa intanto che il complice astro salendo dal mare preparava con flemma la battaglia. Prima di coricarsi, semivestiti, preparavano presso i letti e i divani, in luogo dell'acqua zuccherata, maschere per gas asfissianti, elmetti, cappotti.... Intanto nel crescente chiarore, nella placidità dell'atmosfera, nell'argentea vastità marina, nel tremito delle stelle, s'insinuava, in sostituzione di lontani incantesimi, la minaccia di aerei nemici. I veterani della squadriglia, in famigliarità con i rischi lunari, aspettavano di lanciarsi in volo suonando il pianoforte, giuocando al biliardo o partecipando alle conversazioni che si svolgevano in riva [86] al mare fra i notabili e le notabili di Grado, trattenuti all'aperto, più che dal fascino della notte serena, dall'aspettativa per le imminenti incursioni.
In quelle ore il mare, la notte, l'arco del golfo di Trieste perdevano quella misteriosa virtù d'illudere che avevano emanato quando non erano ancora dominati dal minaccioso volo umano. La serenità dell'ora suggeriva l'idea opposta a quella che avrebbe suggerito quattro anni prima: — Avremo una notte bellicosa. — In cospetto degli aviatori, il mare decadeva dalla posizione sovrana alla quale l'avevano elevato poeti in contemplazione, riducendosi a una distesa più o meno favorevole per partire e tornare con l'idrovolante, come al marinaio non appariva che un nascondiglio di mine, sottomarini, sommergibili.... Il panorama, la luna e le stelle servivano semplicemente come punti di riferimento. La maestà della sera era tagliuzzata dalle lame dei proiettori che su l'Hermada, a Duino, a Nabresina, a Prosecco, a Muggia, a Pirano, a Punta [87] Salvore si alternavano nell'ufficio di sentinelle sospettose. Lo sfondo violaceo delle colline istriane appariva ogni minuto bucato, schernito da queste luci della diffidenza che radevano il mare e talvolta si fissavano lungamente su Grado come vi facessero enormi scoperte, mentre dal Timavo verso Tolmino si sbizzarrivano in muti inchini i razzi.
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L'armonia della notte lunare s'irrigidiva completamente quando la sonorità dei motori austriaci si approssimava. Immersi nella penombra, con un'apparenza di esseri addormentati, i semafori, i posti di guardia, le batterie antiaeree, le torpediniere, i motoscafi si trasmettevano con pacato, serrato ordine, con un sistema fatto naturale dall'abitudine quasi quotidiana, l'avviso di stare pronti. Soppresso ogni lume, ogni segno di vita, proprio quando la vita dei difensori [88] raggiungeva l'efficienza massima, dal semaforo, il comandante della piazza, con un orecchio sugl'istrumenti acustici e con la bocca al telefono, indicava i punti del cielo contro i quali dovevano convergere i tiri antiaerei. E nell'invisibilità notturna centinaia di bocche da cannone si spostavano simultaneamente come una massa corale diretta da una sola mano, pronta a intonare.
C'era nell'insenatura di Muggia un raggio fisso di proiettore che rivelava agli osservatori di Grado la già avvenuta partenza degl'idrovolanti austriaci: serviva di guida agli aerei bombardieri della notte i quali prima si aggiravano sul golfo di Panzano o alla foce del Tagliamento per fare quota e poi scendevano con un minimo di giri di motore per agire non uditi sul bersaglio.
Sul golfo di Panzano e la foce del Tagliamento erano le zone di convegno degl'idrovolanti avversari intenti a far quota. Si davano a vicenda la caccia o a vicenda si preparavano a [89] bombardare le rispettive basi. Ombre nere librate nell'aria scivolavano l'una presso l'altra: fra esse s'accendevano momentaneamente minuscole luci elettriche con punti e linee. Talvolta erano apparecchi nostri che si riconoscevano, tal'altra erano apparecchi austriaci che facevano altrettanto. Non di rado apparecchi austriaci e italiani si lanciavano segnalazioni, ma appena si riconoscevano per nemici spegnevano bruscamente le luci e scambiavano raffiche di mitragliatrici, brevemente perchè la notte anche lunare non facilita a chi vola di scorgere a lungo un altro apparecchio: per pochi istanti si rivela per le fugaci fiammelle giallo-paonazze sfuggenti dal motore, poi sparisce nell'ombra immensa.
Queste vicende nell'aria tenevano in costante sospetto gli ascoltatori da terra, i quali dal diverso suono dei motori individuavano la nazionalità dell'invisibile velivolo. C'era il suono fluido, canoro come vibrazioni di diapason: nostro; c'era il suono brontolone, scandito, [90] disuguale: tognino. Gli apparecchi nazionali avvicinandosi lanciavano con le loro lampade elettriche i segnali convenuti; sembrava che si accendessero in cielo nuove stelle, più grandi. Quegli apparecchi erano i vendicatori delle incursioni austriache consumate o un'ora prima o la sera precedente su una delle località inermi del Friuli e del Veneto.
Da Grado erano gl'idrovolanti che si apprestavano a vendicare l'incursione imminente di cui dava l'annuncio il bronzo maggiore del campanile. Nel silenzio colmo d'attesa s'udiva dal semaforo un marinaio gridare al vicino campanile del Duomo: — Allarme! — Il campanaro strappava i rintocchi urgenti che facevano trasalire — il brivido che passa fra il sospetto e la certezza — i borghesi pigiati nei sotterranei. Gl'idrovolanti austriaci planavano sulla città le cui case, schiarite dalla luna, avevano l'apparenza di strani, pallidi visi esterrefatti, dai cento occhi spalancati.
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Sibili lugubri, fulminei, feroci fendevano l'aria e concludevano in un'esplosione cupa, o in un vuoto inatteso: segno, quest'ultimo, che la bomba non era scoppiata. Subito dopo sembrava che tutta la plaga intorno esplodesse: detonazioni, sussulti d'artiglieria, raffiche rabbiose di mitragliatrici, vampe fugaci a terra e scoppii in aria, agitazioni di proiettori, esordendo simultaneamente come a piena orchestra, infliggevano al paesaggio un aspetto infernale; le facciate e i tetti degli edifici trasalivano fra contrasti subitanei d'oscurità e di barbagli.
Una sera uno scoppio più imponente seguìto da una scia, come stesse precipitando un bolide, invermigliò il cielo su la laguna di Grado. Cessato il ruggito della battaglia, dileguatosi il fragore degli aerei fuggiaschi e caduti gli ultimi fondelli reduci dalle esplosioni d'artiglieria ad alta quota, varie imbarcazioni raggiunsero, boccheggiante in una secca, il viluppo attorcigliato, fumigante dell'idrovolante austriaco K212 [92] da cui emanava un complicato odore di benzina, olio, tela, legna e sangue. E per tutta la notte il proiettore di Muggia si ostinò nel cielo ad aspettare l'idrovolante assente e s'udì qualcuno degli aerei superstiti esplorare il mare.
Non era ancora cessata l'incursione austriaca che già cominciava la nostra. Alle bombe che avevano sgretolato qualcosa di Grado, che s'erano conficcate in buche profonde tra un edificio e l'altro degli aviatori, opponevamo le nostre da sfibbiare sui campi d'aviazione, sulle stazioni ferroviarie, sugli stabilimenti militari del nemico. I nostri capannoni trasalivano di luci, si popolavano di uomini usciti dai rifugi: squadre di manovratori spingevano in acqua gl'idrovolanti sui quali gli armaioli assicuravano le panciute, livide bombe, e controllavano le mitragliatrici; i meccanici accendevano i motori. Poi osservatori e piloti s'ingolfavano negli scafi, impartivano ordini rapidi e dei via urgenti. E gli aerei scivolavano [93] spumeggiando pel canale, si trasformavano in ombre con luci alle estremità delle ali e svanivano azzurri nell'azzurro, sperdendo il loro canto nella vastità....
Gli ufficiali, i soldati rimasti al campo fissavano la sponda nemica e dalle mute, crescenti esplosioni in cielo che si spostavano lungo il volo, traevano indicazioni per seguire i nostri apparecchi: — Sono sopra Trieste. Si dirigono verso Barcola. Ormai hanno raggiunto il mare. Ritornano. — Sul canale le vermiglie lampadine elettriche venivano accese perchè i reduci potessero riconoscere con precisione le sponde e sopratutto evitare i pali e i banchi di sabbia distribuiti nella laguna. Quell'effetto ottico sembrava un richiamo. Ed ogni aereo rispondeva accendendo e spegnendo la lampada elettrica di bordo secondo i convenuti segnali. Pareva di leggere in questo giuoco di luci la gioia della rappresaglia inflitta, l'allegrezza del sano ritorno e l'ansia dell'ammaraggio. Non appena l'idrovolante [94] s'era posato in acqua, un senso di gaia liberazione si spandeva negli astanti perchè il momento più delicato di tutto il volo — il contatto con l'acqua ambigua e rispecchiante le stelle — era stato felicemente superato.
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Non pochi piloti si ingolfarono improvvisamente nel loro primo volo notturno. Partiti al tramonto per una rapida operazione di guerra, s'erano poi imbattuti nell'imprevisto: siluranti nemiche scoperte in navigazione tra un porto e l'altro dell'Istria, incontro con aerei avversari; di qui combattimenti, poi ritorno quando ormai i 3000 metri di quota apparivano divisi in due zone: una al disopra della leggera foschìa serale, ancora illuminata dal purpureo commiato del sole e l'altra sottostante già violacea per l'invasione sulla terra delle prime ombre.
Il pilota ancora inesperto di voli notturni, [95] seguiva gl'idrovolanti compagni di navigazione mentre apparivano e scomparivano di tra i vapori della foschìa, fluttuando in una lenta altalena per passare sopra o sotto gli strati più densi, con delle lievi oscillazioni alle ali, sempre più bruni ed evanescenti. Giù a Grado s'intravedeva un faro: roteava per indicare la rotta ai ritardatari. Il pilota novizio faceva scendere cautamente il suo apparecchio sbirciando il panorama ridotto a macchie talune biancastre ed altre oscure. Il mare non era che una lastra bigia. Le distese abitate s'illividivano. I canali erano nastri di luce paonazza. A 100 metri gli edifici più spiccati sembravano placidi mostriciattoli sbalorditi.
Uno dopo l'altro gli apparecchi erano già scesi nel canale. Restava in aria il pilota novizio che dopo aver girovagato sul canale, ormai insidioso nella sua indeterminatezza, aveva finito per portarsi sul mare, riducendo gradatamente la forza del motore e reggendosi poco sotto alla linea di volo: abbassandosi [96] con cautela aveva sfiorato l'acqua.... Venere brillava in cielo e il faro di Grado fissava il velivolo ritardatario e incolume.
Il pilota gustava intanto la soddisfazione di aver penetrato d'improvviso, e con una disinvoltura maggiore di quella preveduta, parte del mistero che avvolge, agli occhi dei non iniziati, il volo notturno. La parola notte suggerendo l'immagine del buio, dell'invisibilità, turba il pilota che non può dissociare l'idea del volo da quella di vedere. Ma la luce lunare e persino la luce stellare riducono l'imperio delle tenebre.
Nei primi momenti del volo, appena staccato l'apparecchio dall'acqua, il pilota non scorge che una sola immensa tinta turchina intorno a sè come tutte le cose fossero d'inchiostro. Se la sensibilità fisica non gli provasse che già è librato, egli avrebbe ancora l'impressione di scorrere sull'acqua dato che nessun mutamento di colore è avvenuto tra acqua e cielo. Ma l'altimetro, [97] illuminato dalle lampadine elettriche, applicate nell'interno della cabina, indica l'aumento di quota al pilota il quale per la prima volta si trova a dover confidare esclusivamente nella sensibilità della propria persona per reggere con regolarità l'apparecchio.
Egli si guarda intorno ed a stento scorge le ali. Da uno stato di perplessità passa ad uno stato di confidenza perchè vola d'istinto e si accorge di volare bene, meglio forse che di giorno non ostante lo circondino il mistero della notte, una solitudine resa assoluta dalla temporanea invisibilità del panorama. Se l'atmosfera è placida e tepida, la voluttà di volare in quell'ora è suprema, è la maggiore che prodighi l'aviazione. Il pilota dirige la rotta valendosi della bussola. Poi osservando il firmamento s'avvede che le stelle lo aiutano a controllare la posizione dell'apparecchio. Sceglie la costellazione posta sulla sua rotta e ne fa la sua guida; grazie a questa amica l'orientamento riesce facile ed esatto. Si sente [98] allora psicologicamente più vicino agli astri visibili, che alla terra invisibile.
Guadagnando sempre più quota e fissando insistentemente in basso, il pilota comincia a distinguere due vaste macchie, una biancastra ed una bruna. La biancastra — ragiona l'esordiente — corrisponderà al mare e quella bruna alla terra. S'accorge poi che il mare, meno dov'è striato dai riflessi lunari, risulta bruno, mentre la terra è chiara particolarmente nell'intreccio delle sottili strade e nelle distese abitate.
Il fronte, quando serpeggiava da Duino a Tolmino, si presentava, nella notte, da 3000 metri, luccicante di razzi, di scoppi, di barbagli tortuosamente disposti con un'assurda apparenza di festosità. La costa da Duino a Pola appariva al contrario illuminata solo da proiettori i quali con l'avvicinarsi dell'idrovolante si spegnevano. Nell'atto di nascondersi, la costa dava l'impressione di un fosco mostro oblungo, rovesciato con la schiena a terra, che [99] ritraesse i tentacoli luminosi per fingersi immerso nel sonno. Ma appena l'aereo s'avvicinava, il mostro usciva dalla sua finzione e si difendeva convulsamente, sbarrando gli occhi, lanciando in alto i suoi tentacoli fosforescenti, agitandoli e incrociandoli con furia.
L'idrovolante di tratto in tratto era investito da queste ondate luminose assumendo l'aspetto di magica cosa infuocata. Il pilota nuovo a questo effetto aveva l'impressione d'esser preso di mira da chi sa quanti cannoni. I raggi fissati contro di lui aumentavano, lo accecavano, come si fosse improvvisamente sostituito, per un diabolico prodigio, il sole alla notte. Per sfuggire all'accerchiamento dei bagliori, abbassava l'apparecchio a tutto motore, poi, utilizzando l'eccezionale impeto, lo lanciava in alto, lo sbandava a destra ed a sinistra. Ad uno ad uno i raggi si staccavano per continuare la loro esplorazione. Non avevano scoperto il velivolo probabilmente perchè la loro potenza [100] era stata diminuita dal chiarore lunare.
Intanto, essendo giunto il momento per lanciare le bombe, il pilota scendeva sul bersaglio a motore rallentato: il bersaglio, che poteva essere costituito da nere strisce di binari fra bianchi edifici ferroviari e industriali, dava l'impressione a chi si accingeva a colpirlo, di vittima immobilizzata dal terrore, con gli occhi chiusi, muta, a pochi istanti dal colpo inesorabile. Ma liberati i proiettili e apparse le vampe tra i fasci delle rotaie, i proiettori si risollevavano di scatto e roteavano per il cielo freneticamente. E fra un candido raggio e l'altro, ecco gli scoppi vermigli e azzurri dei proiettili saliti dalle batterie antiaeree.
L'idrovolante, rivolta la prua verso il mare, tornava a pieno motore su Grado. Superata la preoccupazione del bombardamento, si presentava tosto nell'equipaggio quella del ritorno al campo. Il pilota notava i contrasti fra le indicazioni dell'altimetro e le apparenze del [101] mare, il quale si presentava più vicino del vero se striato da riflessi lunari, più lontano del vero se velato da tenui strati di vapori, certo sempre ingannevole, insidioso. Occorreva un punto preciso di riferimento e questo era costituito dal semaforo di Grado che si distingueva per le segnalazioni luminose con le quali pareva chiedesse all'aereo di ritorno; — Sei nazionale? Fatti riconoscere. — E l'aereo, per mano dell'osservatore che faceva funzionare la lampada elettrica, rispondeva: — Sono nazionale. Ecco la lettera di riconoscimento.
Allora il canale di Grado si precisava con le sue luci rosse, come volesse dire: — Puoi entrare. — Il pilota vi si portava all'imboccatura e a pochi metri da quello che riteneva il pelo dell'acqua: a destra ed a sinistra sfilavano, rapidissime, ombre di navi, di pali, di banchi sabbiosi, ombre d'indefinita distanza. Toglieva forza al motore, mirava con somma cura al centro del canale: un colpetto sotto lo scafo, [102] l'acqua. Trionfale respiro di soddisfazione: — Anche per questa volta mi è andata bene. — Motoscafando tornava allo scalo; interrogati pilota e osservatore, come colti da oblìo improvviso e da inesplicabile pigrizia mentale, non trovavano nulla di interessante da narrare fra le tante eccezionali emozioni provate e si limitavano a rispondere con frasi di generica soddisfazione.
Ma altre volte era accaduto a idrovolanti di incontrare, durante voli notturni, dense nubi che sopprimevano il soccorso lunare, che coprivano di un'oscurità uniforme mare e terra. Poi se fra le nubi si dibatteva la tempesta, gli aerei-fantasma, posti fra il cielo che li spingeva a raffiche in basso e il mare che apriva loro invisibili voragini, lottavano inseguendo il nord delle loro bussole, il nord delle loro amiche. I piloti avvinti ai comandi con una energia sconosciuta, gli osservatori con gli sguardi fissi nelle tenebre, procedevano, or soffiati in alto, ora trascinati in vuoti d'aria. Improvvisamente sotto i barbagli [103] dei lampi apparivano a istanti parvenze di una costa irriconoscibile. Gli apparecchi dispersi qua e là, invisibili gli uni agli altri, rimbalzando di onda in onda con strepiti che facevano pensare a schianti irrimediabili, s'irrigidivano su banchi sabbiosi.
Sotto il flagello dell'uragano gli equipaggi rivelavano la loro presenza con i mezzi luminosi di bordo. Lunga attesa fra le onde che sorpassando i banchi sabbiosi mordevano le prede. Poi a distanza voci d'interrogazione e segnali resi dubbiosi dagli scrosci delle acque.
Dagl'idrovolanti: — Siamo in Italia?
Da terra: — Sì, in Italia.
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L'ultimo volo della squadriglia su Grado italiana fu quello del ripiegamento. Fu un volo quasi improvviso spiccato per inevitabile ordine superiore. All'alba di quel cattivo giorno d'ottobre cominciò la sfilata dei profughi [104] verso i piroscafi e i vaporetti; profughi con involti e profughi con valigie e bauli, popolani e agiati. Grado si svenava. Mentre una parte della squadriglia riempiva febbrilmente di casse, di motori, di ali, le bettoline che i rimorchiatori avrebbero guidate lungo i canali delle lagune, l'altra difendeva per l'ultimo giorno, con tre suoi apparecchi, il cielo tanto suo fino a poche ore prima.
Chi partì in volo al tramonto, chi durante la notte. Tramonto lugubre di un giorno e di tutta una situazione bellica, tramonto sul Carso ancora fumante di scoppi a poche ore dall'abbandono, volo di desolante addio alle pianure per poche ore ancora nostre, fra l'Isonzo e il Tagliamento, fra il Tagliamento e il Piave, volo di separazione dalle pianure il cui verde sorriso, il cui opulento aspetto, le cui innumerevoli casuccie intatte sprigionavano un contrasto mortale col sinistro imminente destino che già si addensava su di loro.
Quando i nostri idrovolanti si slanciarono [105] in alto dal canale di Grado che tante volte li aveva veduti partire per bombardare di giorno e di notte, per vendicare le incursioni avversarie, per imprese ognuna delle quali era una sfida al nemico ed agli elementi, la squadriglia, dai suoi ufficiali ai suoi soldati, fu morsa dal cupo dolore che segna il principio di un esilio.
Tutta la notte il cielo carsico apparve vermiglio del più immane incendio, vasto quanto l'arco dell'orizzonte, con lampeggiamenti smisurati, con rombi, scoppi giganteschi nei quali pareva si sommassero tutte le artiglierie. Lungo il mare, che pareva di sangue, ritornavano, in un silenzio denso del più fiero cruccio, i motori, i pontoni che per tanti mesi avevano tuonato con i loro 305 in piena luce, da dominatori.
E gli aviatori scendendo in volo a Venezia rimasero stupiti nel mirarla così regalmente serena nel suo pallore. Dalla sua bellezza composta sorgeva un'allucinazione: che non fosse vera la realtà di cui i reduci da Grado erano [106] stati testimoni fino a cinquanta minuti prima.
Poi la squadriglia riprese il volo verso l'esilio. Tornare indietro così, significava essere esiliata. Non così doveva tornare in cospetto della vecchia Italia, non sospinta dalla sconfitta.
Prima dell'abbandono di Grado i ricoveri degli aerei nostri arsero. La squadriglia esule da allora predilesse un sogno: farli risorgere.
[107]
A caccia di siluranti si va con un'abbondante riserva di pazienza e di diffidenza. La foga, l'impeto restano in agguato sotto uno strato di tenace attesa pronti a scattare nel momento di qualche importante scoperta. Volando a basse quote per la solitudine del mare, si seguono certe striature, certe scie serpeggianti, certe chiazze. Ogni anomalia, ogni stravaganza dello specchio marino è argomento di sospetto e vi si rotea attorno come fanno i gabbiani....
Si sale per guardare lontano, si scorge un punto, una lineetta, uno spumeggiare insistente e vi si plana sopra [108] vertiginosamente fino a lambire le onde. Talvolta sono larghe macchie d'olio; tal'altra è una mina galleggiante, spesso sono capricci delle correnti.
Ma si vede il fondo del mare? domandano i profani agli aviatori. Il mare è mutevole: dopo un maraglione appare torbido, giallastro e occulta le insidie. Quando è calma piatta l'acqua fa specchio e lo sguardo dai 600 ai 1000 metri può meglio indagare verso il fondo. I sommergibili debbono abbassarsi per varie decine di metri per confondere il loro dorso nero col fondo del mare: scorti dall'alto sembrano travi.
Una mattina un idrovolante fu inviato alla ricerca di un sommergibile nostro che partito quattro giorni prima per una missione la quale non doveva oltrepassare le 48 ore, non era rientrato. Disponeva di un'autonomia di quattro giorni e mezzo. Nella giornata precedente non era stato possibile provvedere alla sua ricerca con mezzi aerei, causa una tempesta. Certo il battello si era rifugiato durante la tempesta in fondo [109] al mare. Ma in quella quarta mattina doveva essere tornato alla superficie perchè il mare e il cielo erano placati: scadevano le ultime ore della sua autonomia.
L'idrovolante seguendo la rotta data al battello per il ritorno, rimanendo a 600 metri e traversando pigre folate di foschìa, rimaste a vagare come scia della tempesta fugata, procedeva verso l'alto mare. L'osservatore e il pilota tra un'occhiata e l'altra alla bussola, esploravano accuratamente il mare. Già trenta miglia erano state percorse e nessun punto nero aveva rotto l'uniformità immensa, la quale in quella mattina di fraterna, amorevole ricerca, diffondeva un profondo senso di desolazione.
Poichè il punto d'incontro si presumeva non oltre il trentesimo miglio, il velivolo rivolse la prua verso terra e fu durante il ritorno che un'ombra nera apparve nella trasparenza dell'acqua. Il pilota e l'osservatore si scambiarono uno sguardo denso di speranze. Il pilota, diminuendo la forza del motore [110] e abbassando l'apparecchio, iniziò una spirale che aveva per centro l'ombra nera la quale con la diminuzione della quota acquistava più evidenza. Effettivamente si trattava di un sommergibile. Ma nostro? Ma quello che si cercava?
Il battello tra un rigoglìo di spume veniva a galla intanto che l'aereo continuava a roteargli intorno. Le sue caratteristiche corrispondevano esattamente a quelle del sommergibile ricercato. La torretta si scoperse con lo stesso gesto di un individuo che si toglie il cappello. Ne spuntarono due omini che si sbracciarono in frenetici saluti, mentre l'osservatore proteso dallo scafo dell'idrovolante, come un oratore enfatico, rispondeva dimenando le braccia. Il velivolo si pose a cinquanta metri dal sommergibile. I reduci dal cielo e i reduci dal fondo del mare si salutarono con quella piena fraternità che si sviluppa tra uomini avvolti da rischi e da solitudini.
— Che cosa vi è accaduto?
[111]
— Ieri tempesta, poi stamane avaria a bordo. Stiamo riparando.
— Potrete rientrare con i vostri mezzi?
— Calcoliamo fra un'ora.
L'idrovolante ripartì verso il semaforo della base su cui dall'osservatore fu gettato il messaggio nel quale s'indicava il punto ove il battello era emerso. Dieci minuti dopo fu visto un cacciatorpediniere uscire incontro al sommergibile. E l'aereo tornò sui due galleggianti per proteggerli. Altre siluranti nel frattempo erano spuntate sulla rotta: scortavano rimorchiatori.
Pilota e osservatore avvertivano con orgoglio la delicata, grave responsabilità della loro missione. Sospettando qualsiasi insidia avversaria, si portavano sulla rotta dei vari galleggianti per accertarsi che fosse sgombra di mine, di sommergibili nemici, ma contemporaneamente si preoccupavano che altri agguati non si celassero in coda ed ai fianchi dei convogli, per cui ritornavano ai lati e sulle scie delle siluranti, mutando quota dai 50 ai 500 metri. [112] Quante esistenze, quanti valori, che somma imponente d'ingegno, di coraggio, di ricchezza si stendevano sotto il dominio dell'idrovolante, e con quale ardore l'equipaggio aereo esplorava il mare e inseguiva ogni dubbio, ogni parvenza di minaccia! Poi giunsero altri idrovolanti a «dare il cambio» e le sentinelle del cielo in un incontro fulmineo si salutarono.
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Un pilota d'idrovolanti deve pure conoscere intimamente il sommergibile: l'arma di mare con la quale ha la maggiore probabilità di combattere. L'intima conoscenza si consegue con un'immersione. Il giorno in cui fu consentito ad un pilota questo esperimento, il sommergibile filò morbidamente verso il centro dell'Adriatico. Navigazione senza pennacchi di fumo, senza strepiti meccanici, ma in mormorante bizzarria musicale di onde e di spume ricamate [113] intorno ad una nota dominante sfuggente dall'interno del sommergibile: voce a bocca chiusa dei motori elettrici. Sospinta come da una energia segreta, possente e muta, la snella, nera silurante non scherniva la poesia del mare, ma armonizzava con essa sfuggendo con un'eleganza di marina belva in agguato.
Raggiunta la mèta, il sommergibile s'arresta. L'equipaggio dalla torretta si cala nell'interno del galleggiante: chi è pingue giudica insufficiente il diametro della torretta e arriva in basso sbuffando e paonazzo. L'ospite si trova in un ambiente illuminato elettricamente, lucido di una miriade di manometri, contatori, manubri, volanti; olezzante con discrezione di lubrificanti. Egli si sposta da un locale all'altro, ma viene pregato di interrompere la visita perchè il suo andirivieni ha una sensibile ripercussione su l'assetto del sommergibile.
Chiusi ermeticamente i portelli, nel silenzio d'attesa che dà al novizio un senso di commozione, la voce del comandante [114] segna un distacco spirituale netto fra lo stato d'emersione e quello d'immersione. Si inizia l'attacco alle incognite: — Chiusi i portelli? Chiusa la torretta?
Dai portavoce che affluiscono alla camera di comando arrivano le risposte affermative. S'intraprende tosto la manovra per allagare i doppi fondi. Ancora la voce del comandante: — Apri gli allagamenti. — Si comprende a questo punto — osserva l'ospite preoccupato di mostrarsi disinvolto — la differenza fra la donna leggera ed il sommergibile: al capriccio femminile non si pone rimedio, mentre alla leggerezza del battello si contrappone un aumento di peso con una serie di litri a poppa, al centro o a prua secondo gli appoppamenti e gli appruamenti da correggere.
Esiste viceversa — osserva sempre l'ospite — un'affinità fra il sommergibile e il beone: l'uno e l'altro per acquistare pesantezza bevono, bevono finchè s'immergono l'uno nel mare e l'altro nel sonno.
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Chi non sta al periscopio segue le vicende del sommergibile osservando il manometro di profondità che segnala i metri d'immersione ed osservando l'inclinometro che indica i gradi di sbandamento orizzontale. Ma il periscopio è più divertente. Orientato in direzione della prua, lascia vedere la parte anteriore del battello mentre s'immerge lentamente. Sotto la spuma, una dopo l'altra, svaniscono le particolarità della struttura superiore — intercapedine — le bitte, i timoni orizzontali. Lo specchio d'acqua tornato deserto, sale gradatamente. Le piccole onde si aguzzano, si protendono verso il periscopio, avide di sopraffare anche questa estrema punta del battello. Si prova l'allucinazione di annegare. Le onde coprono e scoprono il periscopio. Lembi di mare e di cielo si alternano con le iridescenze della spuma. Completamente assorto nella penosa contemplazione di questo giuoco, l'ospite, immemore della vita del sommergibile, solo con la fantasia alle prese col mare, con lo sguardo in [116] pieno contatto con le onde, come avesse il suo viso nell'acqua, si vede sommerso, liberato, sommerso di nuovo, sopraffatto. Poi il periscopio non mostra che una tinta verdastra; si è sotto le onde, si scende verso il fondo.
La sonorità prima avvertita sui fianchi, sulla vôlta del sommergibile si attenua: sonorità grave che fa pensare a raffiche, a sbotti di pioggia contro una fragile casa. È la voce delle onde che fluttuano nell'intercapedine. E con lo stendersi della calma acustica, scompare pure quel rollìo da cui era derivato prima un disagio di stabilità nel personale di bordo. In compenso il novizio si sente invaso da un torpore crescente.... Si addormenta. Due ore dopo un alito frizzante, ossigenato lo sveglia. Il battello è tornato alla superficie: i boccaporti aperti aspirano l'aroma del mare.
[117]
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Vi fu in un'alba l'apparizione di quattordici siluranti austriache verso un punto del nostro litorale adriatico. Era la terza di una serie di albe propizie. Generalmente per le loro imprese marittime o aeree, quando si tratta di traversare l'Adriatico, gli austriaci scelgono il terzo giorno favorevole, perchè il primo, dopo un periodo di maltempo, è ventoso forte, il secondo ha come conseguenza mare mosso, il terzo si presenta con calma piatta, il quarto è velato da foschìa, il quinto è grave di nubi, il sesto fa pioggia.
Dunque in quel terzo mattino di calma piatta, quattordici lineette brune, sette da una parte, sette dall'altra, componenti come un angolo, spuntarono di tra la foschìa viola-rosa, sullo sfavillìo del mare. Cominciò fra pilota e osservatore un muto scambio di cenni e di mimica i quali significavano:
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— Nostre non sono.
— Attenti alle bombe da lanciare.
— Per non equivocare bombardiamo dopo la prima cannonata.
E via a tutto motore in linea di volo — vale a dire alla massima velocità — verso le quattordici lineette che andavano rapidamente ingrossandosi. I cacciatorpediniere già si differenziavano dalle torpediniere. Ma la loro disposizione mutava: ognuna usciva di rango seguendo una rotta obliqua, tracciando curve scie per non farsi bersaglio. Soddisfazione enorme: un idrovolante metteva lo scompiglio in una squadriglia di siluranti. Vam, vam. Un sussulto alla coda. A destra, ad una trentina di metri, uno scoppio ampio come una parete di stanza, nerastro, somigliante al ghigno di un mostro. È il colpo atteso.
L'idrovolante da 1200 metri plana su un gruppo di sette siluranti: sulla verticale del centro sfibbia le bombe. Disgraziatamente vanno a tuffarsi a poca distanza da due siluranti in coda. Il cielo è un inferno. L'apparecchio è accerchiato [119] da scoppi, taluni a poche decine di metri dalle ali. La coda specialmente è scossa. La prua tende a buttarsi in giù. Il pilota e l'osservatore, attanagliati da due opposte sensazioni, quella di precipitare da un momento all'altro e quella di essere invulnerabili, irrigiditi nella esasperante intensità di queste vicende, traversano vertiginosamente il cielo della morte; la coda vibra eccessivamente, le crociere hanno un tremito anormale, il motore scaldandosi produce un suono minaccioso. Il pilota sbanda l'aereo a destra e a sinistra con decisione per disturbare la mira agli artiglieri avversari. Le esplosioni dei proietti, non ostante l'intensa sonorità del motore, si fanno udire con strepiti laceranti.
Intanto un rinforzo di idrovolanti nostri punteggia l'orizzonte. Pochi minuti dopo la squadriglia è sul bersaglio: di essa fanno parte piccoli fulminei caccia che piombano ad inaffiare di mitraglia le tolde nemiche. Rivolta la prua verso Pola, le siluranti con una manovra urgente [120] filano a tutta velocità lasciando una scia lunga, candidissima. Un treno armato, i cui colpi sollevano colonne d'acqua in coda alla squadriglia fuggiasca, spara dalla costa.
Le cittadine dorate nel litorale verde-azzurro, sembra assistano alla battaglia simboleggiando un'inalterabile serenità. E dall'alto dell'idrovolante la visione della costa estatica, delle navi in fuga, della squadriglia aerea — macchie nere contro il sole nel picchiettìo multicolore delle esplosioni — si domina con l'ebbrezza del buon dovere compiuto.
Poi il ritorno avviene a pochi metri dalla costa. Si naviga con motore ridotto, ma la velocità — doppia a quella di un direttissimo — consente di oltrepassare vertiginosamente cittadine, paesini, gruppi di villette, semafori, porticciuoli, canali, mentre ondate di folla, nelle zone più abitate, si protendono sulla spiaggia verso l'idrovolante da cui l'osservatore fa gli onori di casa sbracciandosi.
Quando un aereo è costretto a scendere [121] davanti ad uno di questi luoghi di passaggio, le popolazioni lo accolgono trionfalmente. Le nebbie improvvise gettate dal Po, dalle valli di Comacchio, nascondono talvolta la via del ritorno. Il mutamento di scena è quasi istantaneo. Ondate di foschìa turbinano intorno al velivolo. Il panorama si vela, diviene ambiguo anche traverso le particolarità più prossime. Gli edifici sparsi lungo la costa si scorgono solo a distanza di poche centinaia di metri. Poi tutto è nebbia. A bassissima quota il pilota, per non trovarsi improvvisamente contro la costa, volge la prua, in base alle indicazioni della bussola, verso l'alto mare. A due o tre metri dall'acqua egli distingue appena vaghe striature di onde morte: s'abbassa con precauzioni infinite, come in volo notturno, perchè in tali circostanze la visibilità dell'acqua è quanto mai problematica.
Con l'aiuto della bussola il pilota, dopo aver ammarato, torna verso la costa. Nella nebbia minuscole ombre di uomini sulla spiaggia, una palizzata, [122] un semaforo.... un'imbarcazione.... Fermato il motore, l'idrovolante è rimorchiato nel porto-canale. Sulle rive prima deserte s'improvvisa una folla dominata da veneziane, da scialletti. Quante interrogazioni nostalgiche, quante soavi missive agli aviatori: «Vienlo da Venezia? Come xea? Cara, benedeta, co bea che la xe! El me la saluda tanto. El ghe daga dei basi.»
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Quando allo spuntar del giorno si torna da una missione su una città, le vie, le piazze prima candide, deserte si ricoprono rapidamente di puntini neri i quali procedono da sotto le case al mezzo delle strade e delle piazze e poi restano fissi. Le finestre dei piani superiori, gli abbaini si animano pure di lineette variopinte e gesticolanti. Il pilota, costringendo il suo apparecchio ad abbassarsi, vede salire vertiginosamente campanili, terrazze, fumaiuoli [123] come una massa di edifici lanciata da una potenza sismica. Egli ridona tutta la forza al motore e riprende la salita riempiendo di fragore la città.
Questo il ritorno da una missione. Ma i preparativi di essa sono meno semplici. Se si deve effettuare in una zona nemica mai esplorata, si presenta circonfusa dalle attrattive e dalle preoccupazioni dell'ignoto. Allorchè l'aviatore riceve ordine di prepararsi ad un'ardua missione, una luce spirituale si sprigiona nell'animo suo dalla compiacenza di essere stimato capace di un eccezionale sforzo, dalla convinzione intima di riuscire, dalla prospettiva di svolgere un servizio utile segnalato nei comunicati, dalla speranza di meritare una distinzione.
Poi un senso di depressione emana dall'esame particolareggiato delle difficoltà. In una lunga traversata di mare — quattro ore di volo — è sufficiente che il motore pianti perchè la missione fallisca e la vita dell'equipaggio sia messa a repentaglio nella solitudine [124] dell'alto mare. Di qui un accurato esame del motore, degl'istrumenti di precisione. Altra difficoltà: necessità di oltrepassare isole nemiche prima di essere sulla mèta. Studio della carta geografica per girare possibilmente gli ostacoli. Ma se si allunga il percorso si rischia di rimanere senza benzina al ritorno. Meglio conseguire un'alta quota. Ma la stagione è fredda ancora: una permanenza di un'ora a 4000 metri può minacciare di congelamento l'equipaggio. Alcuni giorni prima due aviatori erano scesi col naso congelato per essere rimasti venti minuti a 3600 metri. Non bisogna prescindere poi dagli effetti del derapamento; la costa nemica nel centro dell'Adriatico si presenta con precisione solo dopo un'ora e mezza di volo, quando cioè sarebbe troppo tardi a correggere la rotta in base alla configurazione del panorama. All'osservatore il delicato compito di tener fedelmente d'occhio la bussola.
Seguono le possibilità di essere attaccati da apparecchi da caccia, di restare [125] coinvolti da una tempesta, data l'estrema volubilità meteorologica dell'Adriatico. I vari quesiti finiscono per restare risolti o diminuiti di gravità. Presi molti provvedimenti — il piccione viaggiatore da lanciare e i viveri da consumare in caso di forzato ammaraggio, la bomba incendiaria con cui distruggere l'apparecchio e una scorta di monete d'oro qualora fosse inevitabile cader prigionieri, l'unguento con cui coprirsi il viso per combattere il gelo, e l'apparato elettrico di riscaldamento — presi questi provvedimenti subentra uno stato d'animo soffuso di serenità e alimentato da dissertazioni filosofiche.
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Poichè tecnicamente la missione è già pronta, anche nello spirito occorre approntarla. È vero — ragiona l'aviatore — che si rischia di cadere prigionieri, di essere abbattuti dai caccia, di scendere in alto mare e trascorrervi [126] chi sa quante ore, di essere travolti da una buriana (tempesta), ma che valore morale, che bellezza psicologica offre la vita se non è temprata dai cimenti, se non è migliorata da continue ascensioni verso un sempre più schietto, puro disinteressamento? La vita dell'aviatore non è forse tutta protesa alla conquista di una superiorità morale, dal primo volo con l'istruttore, al primo volo da solo; dal primo brevetto, alle prime evoluzioni; dalla prima cannoneggiata missione di guerra, al primo combattimento? Sotto l'influenza di queste vigorose meditazioni si diventa più fieri, più sdegnosi del consueto persino con gli stessi camerati, per il solo fatto che costoro non sono stati incaricati o non hanno chiesto di eseguire la missione.
Essendo le condizioni meteorologiche le arbitre della situazione, si seguono con assiduità i venti, le nubi e il mare, si arzigogola su gli effetti della bora, dello scirocco, del grecale, si vive in intimo contatto con il mare, il cielo, [127] mentre la fantasia si abitua a vedere le cose panoramicamente da 4000 metri d'altezza. Quanto è estraneo alla missione, infastidisce. Le vicende normali di vita, le preoccupazioni minute mediocri di coloro i quali sono sicuri della loro esistenza, costituiscono un tutto disprezzabile per l'aviatore saturo ormai di energie eccezionali, divenuto normale nell'anomalia del suo gran volo in preparazione. Come da un'alta quota i particolari panoramici rimpiccioliscono sino a scomparire, così l'elevazione spirituale porta a non scorgere più, a non apprezzare i piccoli valori della vita.
Ogni alba sfavorevole pone nell'animo dell'aviatore una segreta, inconfessabile contraddizione: da un lato il dispetto di dover prolungare la vigilia d'attesa e l'ansia in cospetto di un ignoto che per altre ventiquattro ore non si svelerà; dall'altro una fisica, egoistica compiacenza di ricuperare altre ventiquattro ore di esistenza sicura.
Durante questa vigilia l'aviatore è [128] epicureo: gli sembrano indispensabili i cibi prelibati, i vini sobri in quantità ma fini in qualità. Conserva gelosamente le sue energie. Contrariamente a quanto si immagina, la lunga, forzata attesa non indebolisce moralmente l'aviatore; gli toglie, è vero, il primitivo eccitamento, ma lo famigliarizza con la visione dei rischi sino a dargli l'allucinazione che il gran volo sia ormai compiuto. Di qui una flemmatica attesa degli eventi.
L'alba favorevole appare finalmente. E la gran partenza avviene. Se un incidente di bordo o un improvviso cambiamento di condizioni atmosferiche obbligano al ritorno e al rinvio della missione, l'aviatore, che giudicava da giorni i suoi preparativi perfetti, teme che altre segrete lacune si celino sotto l'apparenza di una organizzazione completa e ricade in dominio del dubbio. Combatte il malessere provvedendo alacremente al rimedio e all'indomani si ritrova fornito della primitiva efficienza.
[129]
Nel gran quadro, minuscoli, buffi particolari. La boraccia, riempita di bevande forti da vari giorni, per eccesso di preveggenza, ora che si tratta di partire è vuota per iniziativa di ladra bocca ignota. Gl'indumenti di volo destinati a un pingue, sono stati indossati per equivoco da un mingherlino il quale non può dare in cambio all'altro i suoi....
Si ritenta la missione. Nella immaginazione dell'aviatore il mare Adriatico diventa un lago. Egli cabra l'apparecchio perchè è ansioso di vedere l'altra sponda, di sapere fra tante ipotesi considerate, quale si realizzerà. L'ignoto gradatamente si svela, si precisa in una prima striscia violetta o turchina, ondulata.... È il profilo della vittoria. Ma quanto lentamente si sciolgono i particolari della costa! Come sono scarsi 140 chilometri all'ora!...
················
Reduce dalla missione l'aviatore, traverso il suo esaurimento, giudica inverosimile quanto ha fatto, il volo su [130] l'Adriatico da una sponda all'altra, la permanenza sul bersaglio tonante d'artiglierie, il ritorno fra un'avanzata cupa di nubi, un ingrossarsi di mare, tra raffiche di vento.
Ma la stanchezza si smaltisce, i centri nervosi si riforniscono, le lodi dei superiori, l'aumentata considerazione dei colleghi che si manifesta nella diminuzione dei frizzi abituali, stendono nell'animo suo una soddisfazione ineffabile. Segue un periodo d'ozio nel quale le energie ridiventano esuberanti. A questo punto la missione quasi ripudiata appare circonfusa di facilità vittoriosa. L'aviatore è ripreso dalla nostalgia delle emozioni provate in quell'occasione; e senza iattanza, per un profondo convincimento, per le nuove energie rifiorite in lui, dichiara: — Mi sento pronto per un'altra missione, anche più rischiosa.
[131]
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E quando meno all'aviatore sembra probabile, la missione più rischiosa si realizza fulminea. La minore probabilità dovrebbe essere rappresentata, per esempio, da uno strato di nubi steso sul territorio nemico, strato che permettesse ad un apparecchio da ricognizione di arrivare senza essere visto fino a una zona libera da vapori su cui ricavare osservazioni, fotografie. Ma una brutta mattina in cui un nostro idrovolante, pur non essendo stato visto, era stato udito da Trieste, sbucarono dalle nubi, alte 2000 metri, due caccia terrestri con le croci, ai quali non restava che salire altri 500 metri per raggiungere la quota dell'idrovolante.
A bordo del nostro apparecchio tutto era tranquillo, allorchè l'osservatore, nel volgersi al pilota per scambiare uno dei consueti sorrisi significanti «Si va [132] bene», mutò di scatto l'espressione del volto da ridente in allarmato e protese le mani verso la coda. Il pilota ebbe un sussulto e si trovò ad aver istintivamente virato con manovra decisa sì da scorgere a destra, non più distante di 400 metri, un caccia con ruote e le croci. Con un violento viraggio a sinistra si procurò il piacere di fare la conoscenza con un secondo caccia pure munito di ruote e di croci.
L'osservatore s'era aggrappato alla mitragliatrice e già sparava a destra e a sinistra approfittando dei continui viraggi che gli piantava il pilota, il quale trovatosi pieno di un calore subitaneo, madido di sudore e con il cervello invaso come da una luce candidissima, aveva schierate le idee essenziali: virare incessantemente dall'uno e dall'altro lato per turbare la punteria dei due avversari e permettere all'osservatore di sparare loro contro, planare alla massima velocità per raggiungere le nubi e disimpegnare l'apparecchio — non fatto per il combattimento — da [133] un nemico soverchiante, usare il motore nella discesa, ma senza scaldarlo eccessivamente, non perdere d'occhio la pressione della benzina.
I caccia erano ormai a 100 metri e tenevano l'idrovolante sotto un fuoco incrociato: nelle rose d'argento delle loro eliche, lampeggiavano le fiamme delle mitragliatrici. Osservatore e pilota con rapidi gesti ed occhiate decidevano le mosse da attuare; ansimavano, erano congestionati, ma superata la sorpresa, apparivano più sereni e trovavano meno difficoltoso il combattimento di quanto avevano immaginato. Sbandando l'idrovolante ora in una direzione, ora in un'altra, costringevano i due caccia a scostarsi e ad interrompere i tiri.
L'idrovolante, come un direttissimo che entra in una galleria, s'immerse nella nube. La nebbia cinerea penetrò anche nella cabina, turbinò fra pilota e osservatore, nascose le ali. In un altro momento l'immersione nella nube avrebbe turbato sensibilmente l'equipaggio [134] perchè l'invisibilità toglie ogni controllo alla manovra, ma in quella circostanza la nube fu provvidenziale. L'apparecchio scendeva da uno strato all'altro come un bolide, sibilando e vibrando; il pilota non avendo nulla da osservare fuori, fissava gl'istrumenti di bordo e aveva cura di costringere i comandi al centro col volante bene abbassato, per non scivolare d'ala.
La violenta uscita dalla nube rinnovò l'impressione del direttissimo che sfugge da una galleria. Ottocento metri sotto era il mare. Qualche secondo dopo pure i caccia crociati uscirono dalle nubi ma a un chilometro uno dall'altro: per non cozzare s'erano separati. Ma un apparecchio con le ruote «non trova igienico» allontanarsi molto da terra, per cui i due caccia ripresero la via del ritorno.
Allorchè furono discesi, osservatore e pilota — un capitano e un tenente — si abbracciarono.
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Talune candidature all'aviazione fioriscono da un confronto: «Come volano gli altri, posso volare anch'io.» I candidati penetrano nell'ambiente fragoroso degli aviatori e «lavorano, violinano» coloro che godono fama di «pilotoni» per farsi portare in aria. C'è chi raccomanda: — Che i miei parenti non sappiano nulla.
Come si sono avuti dei casi in cui, appena librato, il novizio si è aggrappato al pilota proponendogli con cenni insistenti di diminuire la velocità dell'apparecchio perchè non riusciva a respirare e le vibrazioni lo scuotevano [136] tanto che ritornando, alla domanda: «È la prima volta che vola?» aveva risposto «No, è l'ultima», in maggioranza le nuove reclute sono scese iperbolicamente ottimiste: «Straordinario! Immenso! tutto bello! Tutto bene!» senza che magari si fossero avvedute delle «schiappinate» commesse dal pilota imbarcando acqua in partenza e in arrivo, avanzando di sbieco, «derapando»....
Se è vero che talune reclute tornate in acqua erano rimaste immobili nell'apparecchio, paralizzate dal tumulto delle sensazioni nuove, da non capire se erano in volo o no, fermi o in moto, è pure vero che altre reclute, prima ancora che l'idrovolante fosse frenato, erano scattate in piedi agitandosi in dimostrazioni di esultanza.
Gustato il primo esperimento, gli entusiasti avevano frequentato un corso osservatori insieme ad ufficiali d'artiglieria desiderosi di dirigere i tiri dall'aeroplano che è il migliore osservatorio, insieme ad ufficiali competenti [137] in topografia, leggitori squisiti di carte e di terreni, ad ufficiali reduci dai più svariati sports. Arrivati in squadriglia, i nuovi osservatori s'erano immediatamente proposti di guadagnarsi la fiducia dei piloti e sopratutto di quelli più quotati. Ma all'ultimo venuto non è lecito scegliere, nè esigere il pilota migliore che da tempo è requisito dagli osservatori più anziani.
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Il nuovo osservatore esordisce senza nutrire fiducia nel pilota assegnatogli, ma col proposito di ispirare fiducia a lui. Da tale contraddizione scaturisce il disagio, e, per nasconderlo al pilota, l'osservatore, durante i voli, si volge di tanto in tanto a sorridergli come per dire: «Mi piace volare teco. Vedi come sono tranquillo?» Così coglie l'occasione, senza averne l'apparenza, di accertarsi che colui il quale tiene i comandi sia in condizioni normali.
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Volendo mostrarsi disinvolto, mentre sa di non esserlo ancora, l'osservatore si alza in piedi, si sporge, ma si tradisce ricacciandosi a sedere d'urgenza al primo colpo di vento. E si tradisce ancor più nella discesa e durante l'ammaraggio, afferrandosi a qualche sporgenza della cabina. Ma se l'ammaraggio riesce regolarmente, egli dichiara giubilante al compagno: «Tu sei un pilotone». In altre parole: «Temevo che tu mi ammazzassi. Ti giudicavo più schiappino. Invece anche oggi porto la pelle a casa.»
La reazione al patema sofferto in volo continua a terra nel neo-osservatore che asserisce d'aver scoperto chi sa quante cose nelle retrovie nemiche. E gli osservatori anziani, fatti scettici dall'esperienza e rammentando come quasi tutti gli esordienti si ritengano in dovere di scoprire batterie nuove, gli rovesciano la doccia: «E la vampa l'hai vista?»
Formatosi la convinzione che il pilota assegnatogli non è il suo assassino, [139] l'osservatore, dopo aver confidato ai colleghi «il mio pilota si fa», diventa disinvolto sino all'esuberanza, eccede nei gesti, trascura di sorvegliare il cielo sopra, sotto e in coda all'apparecchio. Nella sua inconsapevolezza si divaga in volo, non pensa ad alcuna delle insidie aviatorie, privo di quella diffidenza da tecnico che induce il pilota a controllare l'andamento del velivolo col sistema nervoso, con la vista, l'udito, il tatto, e traverso gl'istrumenti di bordo.
Non di rado al ritorno da un volo il pilota è grave, reca nel viso l'ombra di un pericolo corso; l'osservatore in embrione è quasi sempre entusiasta sopratutto del proprio «ardimento» pur non avendo avuto il più vago sospetto di trovarsi minacciato. Le sue narrazioni cominciano involontariamente a prescindere dall'azione del pilota: «Io ho fatto una spirale, poi mi son messo in linea di volo. A un certo punto ho virato, quindi ho ripreso quota....»
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«Scusi — gli chiede il capo-squadriglia — e il pilota che cosa faceva?»
È il periodo, questo, in cui pilota ed osservatore, pur cominciando a stimarsi reciprocamente come aviatori, non vanno d'accordo: l'uno vorrebbe preponderare su l'altro. Ma le discussioni servono loro ad assestarsi. Trovati i punti di contatto, la coppia funziona egregiamente; anzi esagera nel mutuo incensamento: «Il mio pilota è grande! — Il mio osservatore è ideale!» E tutti e due, l'uno per l'altro: «Che fegato!»
L'osservatore simboleggia il fine e il pilota il mezzo. Il primo partecipa alla vita esterna dell'apparecchio e il secondo alla vita interiore. L'uno fotografa, prende rilievi, dirige tiri; l'altro manovra. L'uno ha l'entusiasmo di chi crea e l'altro ha la freddezza di chi deve rimanere nel limite delle possibilità. Ne derivano voli meravigliosi. Sino al momento di entrare in zona nemica, l'osservatore ormai maturo, rimane inattivo a sonnecchiare — c'era uno che regolarmente dormiva intanto che l'apparecchio prendeva quota — o [141] a divertirsi nella contemplazione del panorama. Entrato in funzione, si esprime con gesti lenti, rari come un sacerdote benedicente. Oltre raccogliere osservazioni preziose, scruta con metodo ed assiduità la parte di cielo da cui più facilmente può giungere un attacco avversario. Durante il ritorno si volge col viso verso la coda, perchè è in coda che possono mettersi i caccia crociati. Il suo difetto superstite è di sparare con soverchia abbondanza e con precipitazione contro l'apparecchio avversario senza aspettare di averlo bene a tiro. Conquistata anche la freddezza che porta all'economico, esatto impiego delle mitragliere, si delinea in lui la tendenza a sospettare ed a sperare nemici in tutti gli apparecchi in vista, come nei primi tempi egli inclinava — data la sua incompleta preparazione morale — a desiderarli nazionali.
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Osservatore e pilota si aiutano vicendevolmente e talora inconsapevolmente nelle rispettive fasi di debolezza. Se l'osservatore, constatando che il tiro antiaereo nemico guadagna in intensità ed esattezza, fa cenno di ritornare, il pilota, il quale non ha innanzi agli occhi che una parte del quadro e che sente il motore funzionare regolarmente, insiste per conservare al volo la rotta e la durata prestabilita: l'osservatore suggestionato riprende lena, limitandosi a correggere la rotta secondo il contegno dell'artiglieria austriaca. Se al contrario il pilota rimane infiacchito da continui perturbamenti atmosferici e vuol discendere, l'osservatore, che non ha partecipato alla fatica e che sta raccogliendo dati importanti sul fronte, insiste per rimanere nel cielo nemico. E il pilota affascinato ritrova nuove energie.
L'osservatore in piena efficienza non [143] si esibisce più di volare con chiunque e per qualunque ragione. Dispone ormai del suo apparecchio, del suo pilota col quale fraternizza, sotto l'influenza dei comuni rischi, fortune e glorie. Desidera volare solo per grandi missioni. Con fremiti di pentimento pensa all'epoca in cui, o per posa o per capriccio, si offriva di volare anche quando esordivano piloti appena arrivati o venivano provati apparecchi nuovi.
La discesa della parabola s'inizia quando per la lunga serie dei voli, l'osservatore acquista la sensibilità dell'apparecchio. Per il fatto che vola senza poter influire sulla manovra, pur comprendendola, l'osservatore è più audace del pilota. Più un aviatore diventa esperto e meno volentieri vola come passeggero.
Il posto anteriore sull'idrovolante da cui non è possibile osservare l'opera del pilota che sta dietro, è la sede di soliloqui come questo: «L'apparecchio sbanda a destra — dice tra sè l'osservatore. — E perchè non viene corretto? Un velivolo [144] ci viene incontro e noi non si muta rotta: che non se ne sia accorto il mio pilota? Eppure gli ho già fatti vari cenni. Ora si plana. Accidenti che picchiata da disperati! Siamo già prossimi all'acqua e ancora si scende a precipizio: che lui non veda l'acqua? C'è specchio! Ah sì l'ha vista! Richiama! Ma io in questo buco non torno più!»
Sono già passati vari mesi quando l'osservatore scopre d'avere imparato a vestirsi per il volo. Nei primi tempi s'imbottiva di maglie, sciarpe, passamontagna, pelliccie, guanti, soprascarpe in modo da trovarsi eccessivamente fornito di calore e impacciato anche per il più semplice movimento. Per quanto anticipasse la sua toilette, riusciva di rado a presentarsi all'apparecchio al momento fissato per la partenza e sempre trovava al suo posto il pilota nella cui muta, crucciata accoglienza, sentiva la protesta. In volo qualche inconveniente interveniva a infastidirlo: o le estremità della sciarpa si scioglievano e agitandosi provocavano [145] gesti dispettosi nel pilota o un passamontagna spostandosi gli copriva ostinatamente un occhio. Particolari da nulla, ma sufficienti in volo per inquietare. Ora l'osservatore possiede un estratto della sua antica toilette che applica con rapidità e praticità. Sarebbe come vivesse con poche ma buone idee in sostituzione delle molte, complicate e inconcludenti dell'adolescenza.
Acquistata la sensibilità della manovra, l'osservatore divide la sua attività fra la vita esterna e quell'interna dell'apparecchio. Se avverte colpi di vento o vibrazioni del motore, interrompe il suo còmpito — a meno che questo non risulti così travolgente da occuparlo tutto — per sorvegliare il pilota. Fa l'osservatore sì, ma anche del pilota. E fa pure il critico: «Se avessi avuto io i comandi, mi sarei comportato diversamente.»
Il suo concetto dominante è: «Se passassi al pilotaggio, imparerei in pochi giorni.» Conoscendolo ipercritico, i piloti, che prediligono passeggeri fiduciosi, [146] ammiratori della loro perizia, tendono a evitarlo. Egli comincia a sentirsi indisposto, a chiedere licenze con frequenza, a patire malumori, a raccogliere talismani contro la iettatura; è gaio quando piove, invoca di mutare squadriglia e di passare al pilotaggio.
L'esaudimento di quest'ultimo desiderio rifornisce l'ex-osservatore di ottimismo. Iniziando le lezioni di pilotaggio, assicura che mediante una decina di voli conseguirà il brevetto. Se i voli diventano venti, venticinque ed anche trenta, asserisce che per pilotare occorrono tre cose: «volare, volare e volare».
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In tale opinione s'incontrano gli osservatori e i piloti assurti alla loro piena efficienza, efficienza che i piloti raggiungono grazie a un falso presupposto: di essere dei pilotoni. Se conoscessero i loro difetti, forse chiederebbero l'esonero. Iniziano la loro parabola in squadriglia [147] volando molto, ma anche molto male. Quando scendono in vista di un palo, di una sponda, anzichè l'idea unica, precisa, fulminea, frutto di esperienza, che salva la situazione, si presentano loro tante idee contemporanee, confuse, contraditorie, paralizzatrici: «Che faccio? Levo il motore? Riparto? Vado a destra. No, a sinistra. Pum. Traaaaaac. (Un po' di futurismo è indispensabile a dare il suono delle ali che si lacerano). Ma nessuna meraviglia tra i superiori, tra i colleghi. Il fattaccio era nel bilancio. Gli apparecchi che vengono affidati ai piloti bisognosi di allenamento sono veterani della guerra messi in disparte «per fare scuola». E per insegnare ai giovani, i poveri vecchi gloriosi si sacrificano come ex-cavalli da corsa destinati al macello.
«Papà di famiglia» è definito il pilota allenato che parte, arriva regolarmente, resiste ai colpi di vento, non sfascia quasi più o pochino, pochino. Non è brillante. Vola piatto, gira largo, sbanda poco o nulla, diffida delle spirali, [148] entra nei canali soltanto se completamente liberi o dopo averli presi di mira molto da lungi. In compenso è resistente, si specializza nei voli di lunga durata, i voli «da tramviere» che fanno esclamare ai piloti più anziani e più vivaci: «Che barba!»
Poichè avverte che sta formandosi una riputazione, non intacca quella degli altri, parlando sobrio ed esclusivamente in favore del prossimo. Giunto per ultimo, è estraneo alla gloria dei predecessori, si occupa a crearsene una propria, senza passare per la mediocrità dei confronti, per i tormenti della gelosia. Però le narrazioni di eccezionali imprese da lui udite in principio con stupefazione, ora sono riudite da lui con naturalezza: la distanza fra la sua efficienza e quelle imprese è diminuita. Ma non è scomparsa. Il «papà di famiglia» non è ancora prodigo e s'indugia in queste temporanee teorie: «Faccio gli scherzi solo quando è necessario (come se gli scherzi — rapide manovre — si potessero improvvisare). Volo [149] soltanto quando mi comandano.» Siccome i più agguerriti attribuiscono la sua prudenza a fifa e ad incapacità tecnica, egli a sua volta attribuisce in segreto il brio dei più agguerriti ad incoscienza.
Riconosce d'aver torto qualche mese dopo allorchè «sentendo e avendo alla mano» l'apparecchio «si butta» anche lui. Giorno per giorno si fa più disinvolto: anzichè infilare i canali a distanza con lunghi, cauti planè, «li prende» improvvisamente con mezza spirale, raggiunge l'acqua con velocità, eseguisce viraggi e spirali a comandi invertiti, «picchiatone», salite «in candela» montagne russe. E diventa «sbruffone»: ama gli scherzetti a bassa quota, le rapide planate sino a sfiorare i tetti delle case. Gode nel mettere lo scompiglio fra la gente che s'era fermata nelle strade a mirare le sue evoluzioni. Quando scende va a raccogliere le lodi interrogando gl'intimi: «T'è piaciuta la mia spirale?» a somiglianza degli attori che domandano: «C'eri ieri sera?»
[150]
Con sgradevole sorpresa raccoglie pure le confidenze degli amici i quali in nome della franchezza e sotto l'usbergo dell'incolumità derivante dai rapporti cordiali, si esprimono su per giù così: «Ora che sei diventato veramente abile, permetti che ti si dica la verità: sino a un mese fa valevi poco. Gli osservatori volavano teco con apprensione. Il comandante domandava: — Ma perchè insiste a volare? — Ora, con sorpresa di tutti, sei riuscito un pilotone. Ma come hai fatto? Sai che oggi coi tuoi scherzi ci hai lasciati a bocca aperta e con i capelli ritti?»
Su queste confidenze, il pilotone svolge amare considerazioni: «.... Ed io che anche un mese fa, anche due mesi fa mi consideravo un gran pilota. Ma non ripudio quella mia opinione che è stata la creatrice della mia attuale forza. Ciò che m'interessa notare è che le lodi, le strette di mano d'allora non erano scrupolosamente sincere».
E diventa superbo, vendicativo. Non invita più alcuno a volare con lui, tranne [151] il fedele motorista, il segreto amico anche delle ore meno liete, finchè il malumore degli esclusi si manifesta con lagnanze, proteste contro le «parzialità» del pilotone. È l'ora del trionfo. Il pilotone recando in volo i critici pentiti e ravveduti, sciorina con maestria, con voluttà tutta la sua arte in una incessante serie di viraggi, spirali, picchiate e cabrate concludendo con un ammaraggio al «burro».
Consolidata su basi salde la sua fama, il «pilotone» domina l'ambiente con le sue virtù ed i suoi difetti, con le sue rumorose censure; segue i voli altrui con espressione di critico incontentabile. Agli apparecchi che gli passano davanti bassi e vicini urla, come i piloti a bordo lo potessero sentire: «Più piede! Tieni il volante a posto! Guardate come derapa! Non capisce neppure da dove viene il vento!»
Allorchè i piloti più giovani rompono apparecchi, egli, quasi non avesse rotto mai, non accetta per buone le giustificazioni, le attenuanti, ma sentenzia: [152] «Dite ciò che volete, ma è stata una schiappinata!»
La parabola continua inevitabilmente la ormai iniziata discesa. Il pilotone è avido di novità: vuol mutare ambiente, persone e sensazioni. Di tanto in tanto, in seguito ad un'arrabbiatura, chiede l'esonero dal pilotaggio, non si comprende bene se per il piacere di udire il «Rimanga» del comandante o per un'effettiva sazietà di voli; accusa una complicazione di disturbi: neurastenia, insonnia, inappetenza; ostenta il suo assenteismo, ma non appena vien richiesto dai superiori un importante volo sul nemico che eseguito da altri potrebbe menomare il suo primato, l'antico orgoglio, l'anima vera prorompono in lui: «Fuori il mio apparecchio» e pretende di partire per primo.
Lo accompagna volontariamente il vecchio osservatore che già da settimane non volava perchè si sentiva in crisi fisica e morale: di fronte alla bellezza di un ardito volo sul nemico, non [153] può trattenere gl'impeti del suo tempo migliore.
Superato lo slancio momentaneo, i veterani riprendono la discesa della parabola: giudicano che il meglio fiorì nel passato. Tutto ciò che lasciarono supera ciò che posseggono. Le loro imprese compiute rimangono insuperabili.
Se il vecchio osservatore è incaricato di portare sul nemico per la prima volta il pilota esordiente, appena raggiunta la quota di due o trecento metri, spara la mitragliatrice. L'esordiente trasalisce: «Come! Appena uscito e già in combattimento?» Ma il vecchio osservatore con gesti spiega e il pilota non comprende: «Ho provato l'arma». Raggiunte le linee, il vecchio lupo dell'aria instancabilmente ordina mutamenti di rotta e di quota, e il pilota ubbidisce come un automa senza capire e con riluttanza. Ricevendo ordine di tornare indietro l'esordiente s'illude che la missione sia finita, ma poco più tardi deve riportarsi sul nemico: era una finta.
[154]
Appena discesi: «Mi vuoi spiegare?» domanda il pilota.
«I viraggi, i cambiamenti di quota servivano a confondere il tiro antiaereo. Vieni qua. Osserva sulla carta. Vedi questa dolina? Vedi questi caseggiati? Altrettante batterie.»
Lo stesso procedimento segue il vecchio pilota col giovane osservatore i cui gesti per dirigere la rotta non ottengono ubbidienza tanto che egli a un certo punto si irrigidisce in una immobilità assoluta, per protesta.
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Il costume di caratterizzare gli apparecchi con simboli, fregi, pupi, motti, suscita due tipi dì superstizioni. Gli ottimisti confidano che rechi fortuna; i pessimisti temono il contrario. Così abbiamo interni di cabine con ferri di cavallo, piccoli teschi d'avorio con le effigi di Sant'Elia protettore degli aviatori; [155] abbiamo radiatori con pupi; abbiamo dipinti sui fianchi degli scafi i Fortunelli, i Cirillini, i Budda, gli Oronzio E. Marginati, i diavoli, i draghi, i leoni di San Marco, i cani con aeroplani crociati tra i denti, le stelle, le bombarde; abbiamo i motti: «I casi sono due», «Come vene, vene», «No i me ciapa», «Macaco, scansati», «Ocio fiol d'un can!», «Più alto e più oltre», «Sparviero», «O va, o spacca», «Tiremm innanz», «Il pennacchio mio», «Vein bein què, s'a t'è del curagg». Ma i pessimisti pensano che tali decorazioni risultano di malo augurio e citano il caso del «No i me ciapa» che tornava sempre sforacchiato e il caso del «Semo noi» che si scassò contro una sponda; ma il pilota sul nuovo apparecchio fece dipingere: «Semo ancora noi».
Esistono poi ricche collezioni di talismani nelle camere degli aviatori più perseguitati da incidenti: cornetti, chiodi, teschietti, ciocche di capelli, medaglie, frantumi di lava, brandelli di [156] stoffa, calze di seta. C'era un osservatore che intascava più o meno scongiuri secondo la gravità della missione che gli veniva affidata. Prima di partire trovava sistematicamente il caffè disgustoso. E si metteva in testa una finissima calza di seta, regalo della madrina. Aveva capottato tante volte!
Gli osservatori meno osservatori sono gli allievi piloti esonerati, ma rimasti in aviazione per volare almeno come passeggeri. Preferiscono volare a fianco del pilota di cui diffidano. Il loro sguardo si posa preferibilmente, anzichè sul terreno, sugl'istrumenti di bordo. Sono felici quando possono reggere almeno il volante. In questa inconsolabile nostalgia per la manovra è viva in loro la speranza di tornare al pilotaggio. Usciti dalla porta confidano di rientrare dalla finestra, facendo gli osservatori.
Intorno a queste figure dominanti si muovono figurine minori: l'impenitente scommettitore che conclude ogni discussione [157] su argomenti aviatorii con un «scommettiamo che io sono capace di...?»; l'ex istruttore abituato ai voli brevi, analizzati, finissimo pilota, ma affezionato al cielo del suo campo, melanconico nella solitudine, attivo nella creazione di nuovi piloti, nella correzione degli apparecchi e scarsamente battagliero; il cocciuto che s'impone il perfetto svolgimento di un programma: eseguire, per esempio, dieci ammaraggi senza sbagliarne uno e infilarne invece cinquanta senza raggiungere la decina segnata; il calcolatore che vorrebbe tutto prevedere ed è perseguitato dall'imprevisto per cui i partigiani della spensieratezza gli gridano: «È migliore il nostro metodo!»; il competente di motori che brucia i medesimi e viene soprannominato «Ingegnere Brusa» oppure «Ingegnere Grippa»....
Costoro si colgono nei loro allegri contrasti specialmente durante festose adunate quando il vento della letizia rende più trasparenti gli animi. Ad una [158] delle più care adunate era stato chiamato un ufficiale pilota che durante l'ultima estate di guerra nel cielo carsico aveva avuto la fortuna di traversare vicende favorevoli per una proposta alla medaglia. Formavano quadrato ardite figure di aviatori e di fanti della Terza Armata su cui sovrastava il Principe. Una voce chiamava gli eletti e leggeva le motivazioni delle ricompense.
Quando udì chiamare il suo nome, l'ufficiale pilota ebbe un rimescolìo violento nelle vene e nel cuore e salì pallido, ansimante sul palco d'onore in cospetto del Principe che gli appuntò la medaglia e gli disse con famigliarità paterna e con austerità militare parole affettuose ed incitatrici. Così completa era la confusione del decorando da usare in luogo dell'«Altezza sì» l'abituale «Signor sì»; ma poi se n'avvide e il Duca sorrise....
Intorno in un'immobilità, in un silenzio che rendevano più profondo il senso di quei momenti, guardavano i fanti [159] scesi dal Carso e gli aviatori scesi dal cielo avverso. Sopra la campagna soffusa d'autunno, le ondulazioni dell'Hermada, del Faiti erano picchiettate di scoppii. Un capovolgimento repentino di sensazioni si produsse nell'animo dell'ufficiale pilota, rigido sull'attenti in cospetto del Duca. La presenza di tante cose grandi e forti lo ammoniva che l'onore fattogli non segnava la conclusione di uno sforzo superiore, ma il principio; più che un premio era un incitamento. Salito su quel palco per inebbriarsi del proprio orgoglio, si trovava intenerito nella propria umiltà.
Il rombante fronte non lontano, i fanti e gli aviatori reduci dall'ardimento quotidiano, gli fecero sentire che quanto aveva fatto era assai meno di quanto gli restava a fare. Se la morte lo aveva sfiorato in fugaci incontri, la stessa minaccia insidiava o si attuava nella solitudine degli anonimi combattenti. Si sentì fratello minore d'innumerevoli sconosciuti cui non aveva arriso, nel [160] tumulto delle vicende belliche, la fortuna delle ricompense; si sentì fratello minore dei colleghi d'ali nei quali la continuità dei rischi aviatorii crea l'incapacità di misurare quanto si dà, nei quali passa senza brivido il quotidiano pensiero della morte, pei quali morire «è nel bilancio».
[161]
«Ella domani — comunicò il caposquadriglia all'ufficiale pilota che aveva chiesto di passare al caccia — potrà recarsi alla Stazione Idrovolanti Miraglia per intraprendere il nuovo allenamento.»
Per un pilota che lascia i 140 chilometri all'ora dell'apparecchio da ricognizione e bombardamento per i 200 chilometri del caccia, è penoso un viaggio in treno a 60 chilometri all'ora, sia pure limitato fra un punto e l'altro dell'Alto Adriatico. L'aviatore a terra è un prigioniero ribelle di quelle limitazioni che si chiamano treni, automobili, trams, fermate, passaggi a livello, [162] curve.... Scorgere un particolare dopo l'altro, un campanile, poi un ponte, poi un borgo del panorama girante, è assurdo per chi ha l'abitudine di dominare questi particolari in massa o a vasti gruppi. Procedere tortuosamente intorno a paesi e città, ora a destra, ora a sinistra di fiumi, di laghi, di monti, è una sofferenza quando si conosce il gusto di tracciare linee d'aria al disopra di tutti gli ostacoli terreni fra un campo d'aviazione e l'altro.
L'avidità per la velocità e per gli spazi, non ha limiti nell'aviatore allenato nel quale svanisce l'idolatria per un aeroplano da 200 chilometri all'ora, non appena ne vede un altro capace di raggiungerne 230. Come automobilista e motociclista, l'aviatore è un delinquente colposo perchè sembrandogli di procedere sempre adagio, sfugge come un proiettile fra la trepida incolumità dei pedoni. Generalmente gli aviatori si procurano il maggior numero d'incidenti con l'automobilismo ed il motociclismo.
[163]
Il passaggio dall'aeroplano pesante al caccia, è una necessità per il pilota, come è naturale nell'uomo il transito dall'adolescenza alla pubertà. La crisi del pilota che domanda l'esonero, che è irrequieto, incontentabile, si risolve col caccia il quale rappresenta una seconda primavera aviatoria.
I movimenti misurati, il calcolo e il rispetto dei limiti insuperabili che si debbono praticare inflessibilmente nell'apparecchio pesante, avevano prodotto nel pilota l'intolleranza, la neurastenia, la ribellione. Il caccia rappresenta la libertà quasi illimitata di manovra e di combattimento, la velocità massima, la raffinata maneggevolezza dei comandi, la voluttà sensazionale delle acrobazie, il senso della superiorità o della parità di condizioni con l'avversario, la signoria del cielo, la diminuzione delle responsabilità perchè si deve rispondere soltanto della propria vita. In aviazione si è più preoccupati dell'altrui esistenza che della propria.
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Il caccia interviene a valorizzare una efficienza, ad armarla, a trasferirla dallo stato potenziale a quello effettivo. Ma per formarsi, al cacciatore occorre l'ambiente propizio, suggestionatore, incitatore, come ai fiori tropicali è indispensabile la temperatura equatoriale. Stazione Miraglia: ambiente d'aviazione ove fa «molto caldo»; ideale per i cacciatori. Emporio degli apparecchi più progrediti, dei piloti più intraprendenti, delle missioni più arrischiate, ivi la meteorologia conta fino a un certo punto, le scassature non suscitano scalpori ed ironie perchè si ammette che chi risica rosica, perchè più della perizia tecnica è considerato nel pilota l'ardimento e il rendimento bellico. Si vola non per volare, ma per guerreggiare. Si scassi pure, ma si vada sul nemico.
Giunge un apparecchio nuovo di stile, [165] di manovre, di velocità? Lo si prova come fosse uno degli usuali anche se poi il pilota eseguisce involontariamente un completo giro sull'ala in luogo di mezzo, pur avendo dato alla cloche un colpetto identico a quello che usava negli apparecchi precedenti; anche se il pilota rimane per vari secondi con l'apparecchio capovolto — gambe in su e testa in giù — intanto che disegna un giro della morte. Spira un vento minaccioso, corrono nubi scure? Siccome occorre bombardare navi nemiche, si parte lo stesso. Piove? Si rimane in aria ancora.
Novembre eroico 1917! Quando l'aviazione terrestre, sotto l'incalzare della sventura e l'inclemenza del tempo, dovette trasportare dall'Isonzo al Piave, pur continuando a strenuamente combattere, i suoi ricoveri ed i suoi aeroplani, la Stazione Miraglia, rimasta unica, intatta organizzazione aviatoria dell'Alto Adriatico, mandò in una serie incessante di voli, dall'alba alla notte, per settimane e settimane, i suoi idrovolanti [166] sulle nuove linee, dentro, dentro terra a dirigere tiri, a ricavare fotografie, a fronteggiare i caccia, a scacciare ricognizioni, a bombardare nascenti squadriglie avversarie, a mitragliare tentativi di passaggi sul Piave, a lanciare la posta, i giornali e i messaggi ai nostri reparti isolati, a lanciare messaggi di fede alle popolazioni rimaste oltre Piave, a sostituire il servizio non ancora riattivato dei telefoni, ad assicurare preziose celerità di rinforzi mediante avvisi che recati con altri mezzi terrestri sarebbero giunti catastroficamente in ritardo.
Tali i ricordi che si affollano come animatori, incitatori nella mente dell'allievo cacciatore che si presenta alla Stazione Miraglia i cui eroi periti — Miraglia, Bresciani, Garassini e decine d'altri — sono presenti nelle vigorose traccie da essi lasciate, nelle opere proseguite dai successori, nelle citazioni frequenti che i successori, studiando i nuovi problemi, fanno dei loro criteri tecnici e militari. Il sereno culto dei [167] morti inobliabili è una delle caratteristiche predominanti che impressiona l'ospite entrando nel quadrato della Stazione Miraglia, dove gli eroi scomparsi sono ricordati nelle effigi che ornano il posto d'onore e in loro cospetto scorrono le giornate più pensose o più spensierate, le maschie mestizie che seguono incidenti di guerra, le sane allegrezze che seguono le fortune.
Questo fluttuare moderato di sensazioni è dominato da una costante tensione gagliarda per fare la guerra con slancio, con purezza, con aristocrazia, con buon gusto; è dominato da una gara, da un'emulazione incessanti verso le imprese migliori; unanimità di entusiasmo in cui gli ufficiali aviatori della marina si identificano così perfettamente da apparire confondibili l'uno con l'altro. È possibile distinguere tra essi soltanto il veterano dal novellino. I nuovi venuti — a meno che non siano reduci da fulgide imprese — restano un po' in disparte, laconici, riguardosi perchè l'assenza di un loro brillante passato [168] bellico dà loro il senso di un'inferiorità psicologica, mentre traspare dalla fierezza del loro silenzio la presenza di un programma ricco di generose intenzioni.
Fra gl'irrequieti aquilotti passa il comandante: di tutto e di tutti osservatore assiduo e pacato, nella parola sobrio e lento, non mai gaio ma leggermente enigmatico nel volto tra i limiti del sorriso e della pensosità. A bassa voce, con flemma, tra un fiotto di fumo e l'altro del suo sigaro immancabile, ascolta relazioni di servizio, proposte di missioni arrischiate, e pronuncia, fissando a un tratto i suoi sguardi negli occhi dei partenti, dei «sì» e degli ordini che implicano cimenti supremi. Entrando ed uscendo dal quadrato, il suo sguardo con abitudine inalterabile si posa sul barografo. Cammina adagio, leggermente claudicante per le ripetute rotture di gambe sofferte in burrascosi voli. Lui così dolce nel viso rotondo e roseo, prediligeva i voli in condizioni proibitive. Era il pilota della tempesta. E le crisi dei suoi voli battaglieri [169] hanno lasciato una traccia nel grigio precoce dei capelli che caratterizza i piloti ancor giovani ma già vecchi di esperienza. La sua autorità, il suo fascino si nutrono nel suo passato di precursore, nel suo entusiasmo sodo, annoso che traspare sotto l'inalterabile riflessione.
Gli fanno contrasto tre adolescenti già piloti cacciatori, dalle fibre ancor delicate, sotto il cui chiaro, tenue sorriso della prima giovinezza si consolida giorno per giorno, ora per ora, quella virilità d'animo, quella furba sagacia di manovra, quella fiera tenacia nello sforzo che senza la guerra, senza l'aviazione avrebbero realizzato in vent'anni di lente, rare occasioni, in piccole battaglie borghesi tra lunghe stasi sfibranti. Tornano dalle possenti prove con l'ansia vermiglia nel volto, col luccicore della febbre negli occhi, con il gusto accresciuto della lotta e della selvaggina.
A riaffermare l'immortalità dell'anima aviatoria, ecco colui che vide in viso [170] la morte, che vide morire il compagno di volo, colui che tornando da un'incursione su Pola in pieno giorno, con vivacità partenopea descriveva. «Volumi di fuoco. Dovevo tenere l'apparecchio di sbieco per diminuire il bersaglio.» Salito con un ardimentoso in volo per provare la prima volta l'avvitamento, era scappato all'apparecchio il piano di coda. L'altro era morto e lui era rimasto squassato, malconcio. Reduce dall'ospedale, assistendo a discussioni sul mortale incidente s'impazientiva: «Perdete la coda in volo e allora potremo discutere!»
Dopo la sventura la sua filosofia era: «Ormai dovrei essere morto come l'altro. I giorni che mi restano sono un benigno regalo della sorte.» E tra un volo e l'altro sul nemico, dirigeva un'orchestrina di marinai, tipo Piedigrotta, a base di chitarre e mandolini, di quelle che emanano fruscii di zanzare da sopracoperta delle siluranti in riposo nelle ore in cui con la sera scendono le nostalgie.
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Intanto che il concertino sì svolgeva, dopo colazione, davanti al quadrato della Stazione Miraglia, si vedevano alcuni ufficiali staccarsi dagli ascoltatori, fra la generale disattenzione e con la medesima usualità di modi con cui si va a gustare il sonnellino quotidiano. E invece andavano a Pola.
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I capi-gruppo e i capi-squadriglia dei caccia eccellevano nella disinvoltura a parlare di acrobazie e ad eseguirle. Usavano con tutta famigliarità: «È semplicissimo — non v'è alcuna difficoltà — basta provare una volta — è questione di spirito più che di tecnica.» E salivano in aria a infilare serie di viraggi e spirali a comandi invertiti, avvitamenti, rovesciamenti d'ala, looping, giri d'ala, mentre l'allievo cacciatore, col naso in aria e a bocca aperta, si sentiva domandare: «E lei quando fa quelle acrobazie?»
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Il cielo della Stazione Miraglia rombava di motori dall'alba al tramonto. I piloti liberi «di andare a terra» volavano per allenamento; le squadriglie «franche» si esercitavano in voli d'assieme. I varii cacciatori ingaggiavano prove di duelli. Partenze e arrivi per servizi di guerra si seguivano incessanti come in una grande stazione ferroviaria. Scariche di mitragliatrici, riaccensioni improvvise di motori, sibili di plané colorivano questa sinfonia aerea.
Non era possibile indugiare, in cospetto di sì mirabile efficienza collettiva, a esordire sul caccia. L'allievo aveva a sua disposizione apparecchi a volontà, ritirati dal servizio di guerra, ma validi ancora: — Non si preoccupi di rompere! — gli raccomandavano i piloti.
Nel primo volo è quasi il caccia che porta il pilota, sviluppando una velocità subitanea che lo stordisce; mentre l'idrovolante da bombardamento fatica a disimpegnarsi dall'acqua, quello da caccia s'apre il varco spruzzando spuma [173] a destra, a sinistra, traverso le ali, e anche sul pilota ignaro. Si libra repentinamente, guadagna i mille metri in pochi minuti, fende l'atmosfera con una stabilità inconsueta, morbida, supera i colpi di vento con attimi d'insofferenza, di ribellione alle ali.
Il novellino osserva tutto ciò con voluttà e stordimento. Segue i fenomeni anzichè precederli, rimane rigido ai comandi; dovendo girare e scendere sposta la cloche, i pedali con precauzioni infinite. Gli sembra d'essere tornato ai primi voli. Raggiunge l'acqua con incertezza, frena l'apparecchio quando ancora è a qualche metro dallo specchio, lasciandolo scendere pesantemente, goffamente.
Al secondo, terzo volo, egli si rende conto delle qualità e dei difetti tipici dell'idrovolante-cacciatore, applica i consigli degl'istruttori, si compone un corredo di regole fondamentali, si rinfranca, osa inclinare fortemente le ali, a girare stretto. I suoi progressi procedono sensibilissimi, per cui il comandante, [174] vedendolo ormai incapricciato di scherzetti, lo avverte che può tentare l'avvitamento: «Non si preoccupi, comprenda bene la manovra, l'applichi con decisione, fermezza, e tutto andrà bene. L'apparecchio è sicurissimo. L'esito della manovra è infallibile.»
La spiegazione della manovra, fissata in sobri appunti, fa pensare ad una ricetta del Re dei Cuochi: «Avvitamento. È un modo di perdere quota rapidamente. Si ottiene coll'impennare l'apparecchio a motore spento aiutandolo per mezzo della cloche dalla parte dalla quale desiderate avvitarlo. Nello stesso tempo date timone dalla stessa parte. Potete regolare la velocità dell'avvitamento col timone. Per riprendervi: mettete la cloche e timone in centro poi portate dolcemente la cloche indietro fino a che l'apparecchio non riprende la sua posizione normale.»
Più semplice di così.... Eppure chi deve esercitarsi per la prima volta ha l'impressione di essere invitato a gettarsi dal tetto di una casa dietro garanzia [175] che non si farà alcun male, ma che anzi si divertirà.
« — Dunque parta. Raggiunga i 1200 metri, tolga i gas e si avviti. Faccia alcuni giri di avvitamento, si riprenda e scenda subito.
— Sì, signor comandante.
— Non torni in quota per ritentare un secondo avvitamento. Basta uno, oggi.
— Non dubiti. Uno solo.
— È legato?
— No, signor comandante. Me n'ero dimenticato. Ecco fatto.»
E parte. L'apparecchio pare salga più rapidamente del solito. Che fretta! Ecco i 1000 metri! Ecco i 1100! Cento metri ancora, poi avvitamento. Al pilota sembra di avere freddo. La solitudine gli pare smisurata. Il panorama ha una fisonomia ironica, ostile. Ecco i 1200 metri! Il pilota osserva dov'è: fila davanti alla Stazione Miraglia. Sulla riva scorge puntini di persone: il comandante, i cacciatori, i marinai.... Lo guardano certamente. Una vampata d'amor proprio [176] lo scalda. È ormai deciso ad agire, come un bambino sotto lo sguardo della madre si decide a ingoiare l'olio di ricino. Toglie il gas con gesto brusco. Il frastuono del motore si trasforma in un fruscio. Il silenzio in quest'occasione è impressionante: fa pensare all'improvviso alt dell'orchestra nei circhi equestri quando sta per aver luogo un esercizio sensazionale.
L'apparecchio frenato a un tratto sembra trattenuto alla coda da una forza contraria, ma non così possente da proibirgli di proseguire il volo diritto, senza oscillare, senza abbassarsi. È la prima volta che il pilota si accinge a fermarsi nell'aria. Abituato su l'apparecchio pesante a ricercare sempre la maggiore velocità, gli sembra inverosimile doverne far senza. Il caccia sta perdendo la sua forza di sostentamento. Il pilota rapido riepiloga mentalmente la manovra dell'avvitamento, decide di buttarsi da destra e — coraggio! — con violenza che pare decisione ed è sovraeccitazione, trae a sè, a destra, tutta la cloche e [177] spinge a fondo il pedale dallo stesso lato. L'apparecchio s'impenna, rimane un istante immobile con la testa in su e la coda in giù, poi si rovescia a destra scivolando d'ala. Altro momento d'esitazione quasi volesse dire al pilota: «Se non vuoi avvitarti, sei ancora in tempo!» Il caccia è ora disposto tutto di sbieco quasi fermo nel cielo.
Il pilota che da uno stato di febbricitante trepidazione era passato, con l'evoluzione nuovissima, a uno stato di delizia ed aveva acquistato un'improvvisa fiducia di sè e dell'apparecchio, insiste a mantenere la cloche tutta a sè ed il pedale spinto a fondo. Il caccia piomba giù verticalmente poi comincia a frullare intorno al suo asse perdendo centinaia di metri in pochi secondi. Il panorama sale rapido, come la piattaforma di un immane ascensore, tra un sibilare acuto dell'aria e tra un più palpitante respiro nel pilota! Tranne questo effetto, nessun altro malessere, nessun capogiro nel pilota, ma una percezione esatta della quota e del terreno, [178] un dominio completo della manovra nel senso che compiuti alcuni giri egli, deciso di svitarsi, riporta i comandi al centro e ottiene effettivamente di interrompere la furlana.
Tanto è chiaro il dominio della eccezionale situazione, che il pilota si rammenta, nell'atto di uscire dall'avvitamento, della necessità di agire contrariamente agli oscuri consigli dell'istinto che lo porterebbero a trarre a sè la cloche per togliere l'apparecchio dalla posizione verticale, mentre in realtà è indispensabile mantenere premuta in giù la cloche perchè l'apparecchio possa nella discesa riprendere la velocità di sostentamento.
La fase più sgradevole segue allorchè il caccia uscendo dalla vite con una resistenza tenace e poi con uno scatto, prende a derapare furiosamente sì da infliggere al pilota — per il contrasto fra la sua volontà di andar dritto e l'azione che procede storta — un turbamento al capo e allo stomaco. Ripresa la linea di volo, il pilota deve come [179] raccapezzarsi e inseguire alcuni particolari del panorama per ristabilire la rotta. Scosso nei nervi, felicissimo dell'esito, consapevole di aver varcato il punto morto che separa nettamente l'aviatore per bombardamento da quello per caccia, egli ha l'impressione che l'apparecchio, dopo lo sforzo, vibri eccessivamente, che i comandi siano divenuti irregolari. Scende in acqua e si presenta al comandante, che lo ha seguito con lo sguardo e con trepidazione a ricevere le ambite congratulazioni. Riceve pure quelle di tutti i presenti con l'inevitabile «oggi si beve» perchè tutti i salmi aviatorii vanno a finire in gloria enologica....
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.... Come tutte le acrobazie sbagliate vanno a finire in avvitamento. La parola acrobazia non è gradita al pilota di guerra il quale la pronuncia in attesa che il novello idioma italiano d'aviazione [180] giunga a suggerirne un'altra con questo significato: il combattente dell'aria non eseguisce evoluzioni sensazionali per fare impallidire i pedoni, per strappare grida di spavento e d'ammirazione alle femmine, ma per indispensabile tattica di combattimento.
Nelle esercitazioni successive il pilota si avvita con una disinvoltura che gli sarebbe parsa impossibile sino a qualche giorno prima. Entra, esce dalla vite, ora volontariamente, ora no, come un capriccioso s'ingolfa e si libera da un labirinto. Allorchè tenta il dietrofront, il looping centrale, i giri d'ala, i rovesciamenti d'ala, gli accade per un movimento anticipato o ritardato, brusco o incerto, per aver levato il motore prima o dopo il momento giusto, di infilare capriole bizzarre, scivolate di coda e d'ala, di rovesciarsi a destra e a sinistra. Purchè tali bizzarrie si svolgano sopra i 500 metri di quota, il pilota non ha motivo d'allarmarsi. Nè si allarma: per mezzo di esse, conosce la voluttà di volteggiare nell'aria come foglia morta.
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Fra tutte, la sensazione principe è data dal cosidetto cerchio della morte, quando il caccia, dopo essere stato tenuto a pieno motore poco sotto alla linea di volo, per il lento richiamo della cloche s'innalza, si capovolge con solennità, con dolcezza, senza sforzo, senza vibrazioni, tenendo il pilota sospeso nel vuoto, col viso rivolto su l'abisso, poi ripiombando con la testa in giù a velocità vertiginosa. E il pilota conclude che l'uomo è il più adattabile degli animali e, allorchè le vive, giudica naturali le situazioni più stravaganti.
Non tutte le acrobazie riescono con uguale esattezza. Mentre in talune il pilota acquista crescente padronanza e si raffina in isfumature che poi costituiscono il suo stile e il suo segreto, in altre non riesce, per difficoltà che gli restano imprecise, oscure. Così si spiegano certi curiosi scambi fra esperti piloti da caccia: «Se tu mi dici come fai il looping centrale, io t'insegno come faccio il tonneau.» Evidentemente la proposta è accettata, perchè [182] i due si appartano a confabulare sommessamente, con mistero, accompagnando le parole con gesti di mano e di piede quasi tenessero la cloche e i pedali.
Gli assi si famigliarizzano così completamente con la loro abilità da giungere a porre, quale posta delle loro partite alle carte, i premi di mezzo apparecchio, di un quarto d'apparecchio.
« — .... Di quale apparecchio?
— Quello che abbatterò domani.»
Il collega osserva il cielo: « — Eh mi pare che il tempo non sia propizio. Forse domani piove.»
Gli assi curiosi di portarsi in battaglia pure il novello cacciatore, lo incitano a conoscere ed a far sparare in volo le mitragliatrici. Il molto problematico asso vola quasi a fior d'acqua, spara, non riesce a vedere gli zampilli sollevati dai proiettili, viceversa riceve negli occhi il fumo dei bossoli e nelle narici le acide esalazioni; se le armi s'incagliano tenta inutilmente di rifarle funzionare. Ma pure in questo allenamento [183] vince la prova: scorge gli zampilli proprio dove voleva scorgerli — segno che spara giusto — e non è più prodigo di colpi.
L'arte del cacciatore, come quella del risparmiatore, è di spendere poco e bene. Basta di perforare l'acqua. Altri bersagli aspettano: le lugubri croci. E immagina combattimenti nei quali riesce a mettersi in coda all'avversario e lo abbatte. Non dubita neppure di mettersi in coda. Si prende la rivincita contro i patemi sofferti quando avendo il pigro apparecchio pesante, temeva che i caccia austriaci o tedeschi si mettessero in coda a lui. Allora faceva consistere la sua abilità nel disimpegnarsi da attaccanti più agili, ora è smanioso di attaccare e si sente un signorotto del cielo.
Mentre egli fantastica sulle sue ipotetiche vittorie, gli autentici cacciatori che ogni giorno vanno a Trieste, Rovigno, Pola, conseguono vittorie effettive. Al ritorno ognuno descrive la sua parte nella battaglia. Ognuno è una [184] faccia diversa di quel fenomeno complesso che è l'audacia: c'è l'audacia sprezzante, orgogliosa dell'intelligente paradossale che si esprime fra sprazzi d'ironia e di umorismo sul conto dell'avversario; c'è l'audacia sfavillante, serena, canora e nello stesso tempo matematica dell'uomo impetuoso e calcolatore; c'è l'audacia fredda del pilota consumato nel lungo servizio, tutta nutrita di tecnica, ricamata di virtuosità, di eleganza, di raffinatezza; c'è l'audacia dell'insoddisfatto che non si confida, che rimane inalterabile sotto la sua maschera di scherno, sotto la sua breve parola tagliente.
Un combattimento fra pattuglie aeree non si può ricostruire, come non si può narrare a traverso quali procedimenti una matassa si è imbrogliata poi disimbrogliata, trattandosi di una complicazione di simultanei attacchi e contro attacchi, di cabrate, planate, rovesciamenti d'ala, avvitamenti, mitragliate, fughe, inseguimenti....
E intanto continua la sovrapposizione [185] dei racconti fra i reduci dal combattimento: un pilota tutto fulvo come un lioncello, irrompe con i suoi «Era notte!» per dire «Erano momenti pericolosi!» «Quanti K. C'era da fare un'insalata, mamma mia. Ma prima bisognava fare la festa ai caccia», e nella sua mimica di siciliano s'accompagna con gesti guizzanti come coltellate. E per lasciare intendere che il suo avversario aveva manovrato bene, gira il pollice e l'indice uniti della destra sulla guancia come dovesse chiudere un rubinetto.
Un altro pilota, dall'apparenza di giovinetto, forte come i marmi della sua Lunigiana, dall'aria sempre sonnolenta sotto gli occhi socchiusi, con la voce cavernosa, mugola brevi, saporiti epiteti per non aver potuto abbattere altri Ago austriaci, oltre i tre obbligati a scendere. Un volontario di guerra venuto dalla maschia Brescia, tarchiato nella figura, con nel viso l'impronta di due forze — quella lombarda e quella montanara — dice, con flemma e a tono [186] basso meno di quanto gli è accaduto, di quanto ha fatto, sperdendo le ultime parole con un «ma non vale la pena di narrare».
Rimane silenzioso, dolente uno dei combattenti il quale interrogato mostra una pallottola incurvata: — «Non ho potuto sparare causa questa....» e giù epiteti.
Entrano le torpediniere con a rimorchio gli Ago e a bordo due aviatori austriaci fatti prigionieri. La massa dei gregari, abituata alla vista dei trofei di battaglia, si schiera lungo le sponde a mirare la scena con calmo sorriso di perfetta soddisfazione. Chiusi i ricoveri, si reca come a una festa a sfilare davanti alla preda. Intanto si diffonde il «Noi abbiamo abbattuto tre Ago». Lo coniugano i meccanici, i montatori e i mitraglieri dei caccia, i marinai della manovra che accompagnarono nell'acqua e ritirarono all'asciutto i caccia, prima e dopo il combattimento.
Solo, inosservato, l'allievo cacciatore immagina con un'orgia di fantasia quando [187] ufficiali e marinai accorreranno ad ammirare l'apparecchio abbattuto da lui. Si presenta al comandante a chiedergli di essere messo in turno per la prossima missione.
« — Volentieri. Domani lo mando in pattuglia sul Piave, zona eccellente per l'allenamento dei cacciatori.»
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Quattro idrovolanti da caccia, uno dei quali pilotato dall'esordiente cacciatore, spiccarono all'indomani il volo per scortare un idrovolante da bombardamento incaricato di fotografare opere militari nemiche sul Piave. L'esordiente, partito per ultimo, si mise a girare per il cielo con il naso in aria per non smarrire di vista i quattro apparecchi già più alti. Piegava a destra e a sinistra, saliva manovrando come un corridore ciclista che non guarda la macchina sua, ma quella dei rivali. Il cielo popolato, la preoccupazione [190] di procedere «assuccato» con altri velivoli, gli toglievano la sensazione di librarsi nell'atmosfera.
Egli constatò che i voli d'assieme provocano un esercizio di conteggio elementare che quel giorno andava dall'uno al quattro. Mentre saliva verso il Piave, egli, ogni uno o due minuti, rifaceva il conto: «Il primo, con la macchina fotografica, mi è avanti più basso; il secondo mi è a destra e segue la costa; il terzo mi è a sinistra, più alto. Il quarto dov'è? Mi sarà sopra o sotto? a destra o a sinistra?»
L'esordiente volgeva indietro la testa, ma non l'apparecchio. Si proponeva di evitare una eventuale collisione, con la stessa tranquillità con cui si evita un ciottolo per istrada. Il volo in pattuglia gli suggeriva un soliloquio ininterrotto a base di dubbi, sospetti, patemi, letizie, entusiasmi, spaventi...: «Ecco il quarto. È sopra a me, a sinistra. Riepiloghiamo. Uno davanti e sotto: va a fare le fotografie. Due a sinistra diretti al ponte della Grisolera. E [191] fanno tre. Il quarto sulla costa diretto alla foce del Piave. Come salgono i tre caccia. Cabro anch'io. Un'occhiata agl'istrumenti di bordo. Olio a 8: bene. Benzina a 3,50: bene. Temperatura a 70: benissimo. Cabrato a 20: niente di male. 1350 giri di motore: cosa vuoi di più? E i tre caccia dove sono andati? Che scherzo è questo?»
Il pilota, senza virare — sempre per la famosa ragione delle collisioni — volse il capo più che potè e scoprì i tre caccia più bassi e più indietro. Riprese il monologo: «Il torto è mio perchè vado alla massima velocità. Ora riduco i giri di motore e il grado della cabrata. Eppure il capo-squadriglia m'aveva raccomandato di procedere alla minima velocità. Il caccia non è come l'apparecchio pesante e può prendersi il lusso di librarsi con una lieve forza di sostentamento. Io mi comporto ancora come fossi sul «pesante». È più difficile di quanto si immagini rimanere in compagnia per aria.»
Gli altri quattro idrovolanti nel frattempo [192] erano scomparsi di nuovo. L'esordiente era a 3200 metri e gli altri erano scesi a 1000 metri. Il difetto essenziale dell'esordiente consisteva nell'accorgersi sempre in ritardo, anche di pochi secondi, delle evoluzioni altrui. Per apparecchi che filano a 180-200 chilometri all'ora, bastano pochi secondi a distanziarsi l'uno dall'altro sino a ridursi dei puntini. «Perchè sono scesi così a bassa quota? Forse per qualche incidente? Mi abbasso anch'io. Non è igienico rimanere solo a 3200 metri presso le linee. I tognini hanno la pessima abitudine di navigare in tanti e ad altissima quota. Sarebbe uno scabroso inizio per me combattere contro dieci o dodici. Non son mica Piccio, io. Lo diventerò, ma per ora mi basta averne contro due o tre; o uno....»
I quattro idrovolanti pareva sfiorassero l'acqua davanti alla foce del Piave. È incredibile come scompaia la percezione della distanza fra l'aeroplano e il terreno (o il mare) allorchè li si osserva da una maggiore altezza. Sembra che il [193] sottostante apparecchio rada il suolo e al contrario è librato a 1000 a 1500 metri. Intanto i quattro idrovolanti continuavano a volteggiare davanti alla foce del Piave come quattro api indecise ad entrare nell'alveare. Mille metri sopra virava stretto, senza perdere quota, e senza perdere d'occhio la situazione generale, l'esordiente tutto intento a evitare sgradevoli sorprese.
Poichè il cielo appariva senza croci e poichè i quattro idrovolanti continuavano a scherzare sotto il naso, anzi sopra, del nemico, il cacciatore novello, per il quale il fronte del Piave era nuovo, lanciava sguardi pure lungo il fiume risalendolo sino ai monti dolomitici. Lassù erano Feltre, Belluno.... Quanta melanconia! E sì che in volo non v'è soverchio posto per le meditazioni prolungate. Ma al pilota abituato l'anno prima a volare sul Carso, pareva inverosimile che il fronte, visto di lassù, da dove i limiti tracciati nella terra sembravano segni di giuochi infantili, pareva inverosimile che il fronte [194] fosse sceso fino a rendergli invisibili i luoghi che aveva temuto ed amato, l'Hermada, il Faiti, il Vallone, Gorizia, il Sabotino, il Monte Santo, l'Isonzo, i luoghi coi quali aveva stretto famigliarità in quotidiani contatti.
Il Piave nuovo fronte! Quante volte eseguendo riposanti, dilettevoli voli di servizio fra Venezia e Grado, egli aveva guardato quel fiume, così lontano allora dalla guerra, come si considera la prima stazione di un viaggio. E quel fiume era diventato la stazione d'arrivo per giungere sul nemico. Sulle sponde i paesetti, le borgate inconsapevolmente ridenti sino ai primi giorni del novembre 1917, si presentavano ormai come mucchi d'ossa biancheggianti sotto il bruciore del sole. La campagna, di qua e di là dal fiume, come un viso giovane solcato dai precoci segni del dolore, si svegliava alla primavera con quel colore di terracotta, con quelle macchie disuguali creati dal tormento delle artiglierie, con le sottili rughe, con le scalfitture che corrispondono alle trincee, [195] ai viottoli, alle strade dal fresco taglio.
La missione di guerra distolse dalle meditazioni il pilota. I quattro idrovolanti s'erano lanciati sul Piave. E anche il quinto si mise in rango. Nel passare dietro ai primi, alla stessa quota, il quinto ballonzolò vivacemente per le soffiate le quali sul caccia non allarmano: «Potrei, come conseguenza estrema, avvitarmi, ma dopo mi svito!»
L'idrovolante da ricognizione arrivato sul ponte della Grisolera smozzicato dall'artiglieria nostra, vi si avventò sopra intanto che l'osservatore faceva scattare l'apparato fotografico, poi si risollevò, ridiscese ancora per mutare incessantemente quota. Sotto di esso i colpi fitti dell'artiglieria componevano come un mazzo di fiori neri, bianchi e rossi. E come intorno ai fiori stanno le lunghe palme verdi, così intorno al mazzo detonante dedicato al fotografico, stavano i colpi più alti, più distanziati per i cacciatori, non escluso il novizio [196] che si trovò a tu per tu con una nube nera.
Uscito dal fumigante contatto, il novizio dovette riprendere il conteggio dall'uno al quattro: «Ma dove sono andati? Erano qui sotto un momento fa! Ah eccoli! Che scompiglio!»
Un caccia gli passò sopra pochi metri, di traverso; subito dopo un secondo si presentò di sbieco in discesa quasi stesse per precipitarglisi addosso. Con una manovra che neppure lui avrebbe potuto ricostruire, il pilota, paventando che la famosa collisione stesse per realizzarsi, si trovò con la prua rivolta al mare, mentre un istante prima era rivolta ai monti: «Sono salvo. E il fotografico dov'è? Conto soltanto tre apparecchi. Tutti sopra me. Fanno le capriole. Rovesciamenti e giri d'ala, cerchi della morte, avvitamenti. Manicomio aereo per sbalordire l'artiglieria avversaria. Faccio il pazzo anch'io.»
Cloche alla pancia, pedata a sinistra, gambe in aria, testa in giù, sospeso nel vuoto, apparecchio sulla schiena, [197] in piedi, seduto, in linea di volo. Ma intanto, dopo questo looping d'ala, l'esordiente era più basso di tutti. E non era contento neppure di tale situazione: «Se salgono dei caccia crociati, il primo a incontrarli sono io. E invece dobbiamo incontrarci pattuglia contro pattuglia. Eccomi di nuovo solo!»
L'esordiente s'ingolfò in spirali sopra Cortellazzo come fa colui che avendo smarrito improvvisamente la compagnia in un centro affollato, gira intorno a sè stesso per cercarla: «Oltre il Piave nessuno. Sul mare nessuno. Verso i monti nessuno. Sulla laguna.... Sì, sì. Eccoli là. Uno, due, tre.... tre.... tre.... e quattro. Ritornano! Ed io stavo qui a fare le capriole.»
L'esordiente diede tutti i gas al motore e via in linea di volo alla massima velocità. Lo chiamava un ritorno, ma psicologicamente si assomigliava ad una fuga: «Sono solo, capisci? E se qualche tognino sceso dal cielo mi si mette in coda? Non scendono solo gli [198] angeli dal cielo. Forse in coda li ho già. Faccio dietro-front. Ma se mi volto perdo tempo. E se mi volto, anche i tognini farebbero altrettanto.»
Il sospetto divenne intollerabile. Il pilota eseguì un dietro-front repentino per cogliere di sorpresa gli eventuali inseguitori. Nessuno. Tornò tranquillo: «Però come si diventa impressionabili in certi momenti di volo. E sufficiente un'idea disgustosa a mettere di cattivo umore.»
Ripresa la serenità, il cacciatore reduce dal suo primo esperimento non fu insensibile alla visione della laguna che, sotto i riflessi di un tramonto turbato da bigie masse vaporose, sembrava una enorme bolgia d'argento incandescente. Per altri riflessi di raggi sfuggenti da nubi meno grigie e dense, Venezia e le sue isolette si mostravano quali pezzi d'oro cesellati. Sulla verticale di Venezia l'effetto di luce mutò ancora e presentò la regale città bianca come una trina antica sul fondo azzurro cupo dei canali tortuosi, complicati. [199] Oltrepassata e ormai lontana, Venezia non era che una nube viola, oblunga, posata sulla laguna senz'acqua tanto il fondo era visibile nelle sue diverse tinte giallastre e verdastre di immensa foglia macerata e striata.
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In cielo preparativi di pioggia, in terra preparativi di voli in massa. Nella Stazione Miraglia tutti i motori cantavano e i gregari febbrilmente manovravano. Era atteso dal fronte Sua Maestà. Accompagnati gl'idrovolanti in acqua, uno in coda all'altro, con gli equipaggi a bordo, i motori scaldati, i marinai si allinearono componendo una fascia bianca innanzi a ciascun ricovero.
Una pausa lunga di silenzio, d'attesa, di compostezza. Poi a ondate regolari, prima fioche, lontane, quindi in continuo crescendo: «Evviva il Re!» La lancia reale avanzava lenta nel centro [200] del canale, e i saluti alla voce lanciate dalle due sponde, le componevano come archi di omaggio.
Sceso a terra il Sovrano, uno dopo l'altro gl'idrovolanti s'alzarono con la stessa precisione ed eleganza di manovra con cui l'Armata muove le sue unità. Mentre l'idrovolante di testa già decollava, il secondo lo seguiva filando a tutta velocità sull'acqua, il terzo si metteva in moto aprendo con la prua un ventaglio d'acqua, il quarto accendeva il motore. Uno dopo l'altro a mezzo minuto d'intervallo seguirono la stessa via aerea, disegnando un'ampia curva sulla sinistra. Quando tutti furono partiti, la corona in cielo apparve immensa di ampiezza e di fragore.
Quindi la corona si scompose in tanti gruppi quante erano le squadriglie, ciascuno dei quali s'allontanò dalla verticale della Stazione Miraglia come altrettanti raggi dal centro. Per ordine di numero una squadriglia dopo l'altra ridiscese davanti ai suoi ricoveri. Mentre [201] l'idrovolante di testa raggiungeva il pontile, il secondo toccava acqua cento metri indietro, il terzo stava per terminare il suo planè, il quarto era cento metri più alto....
Sotto il cielo plumbeo due idrovolanti da caccia si preparavano alla consueta missione di Pola. Sua Maestà volle interrogare i due piloti — sottufficiali di marina — e costoro spiegarono che erano ormai così abituati a quel servizio da non ricorrere neppure più alla bussola per orientarsi. Felici delle parole incoraggianti udite dal Re, i due piloti tornarono ai loro apparecchi saltellando come monelli e balzati nell'aria scomparvero nello sfondo cupo del cielo piovorno....
L'allievo cacciatore, che aveva assistito al colloquio fra il Re e i due piloti, chiese al comandante se lo metteva in turno per la missione di Pola.
«Con il maggior piacere. In aviazione di guerra la volontà è tutto. Ai volontari sempre il primo posto. Alla [202] prossima missione parteciperà anche lei: ma si studi bene la mitragliatrice....»
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«Vado a Pola» continuò a dire l'allievo cacciatore, durante la vigilia, ai superiori, ai colleghi, ma non lesse nel loro viso che la tranquilla approvazione con cui si sottolinea il semplice esercizio del dovere. Andare a Pola era per essi consuetudine: «Quanto cammino occorre prima di raggiungere i valorosi d'avanguardia! Se durante l'incursione imminente riuscissi ad abbattere un avversario, sgorgherebbe il desiderio in me di abbatterne un secondo, un terzo, un quarto.... nelle successive missioni. Ma prima di eguagliare Baracca, Piccio, Fonck.... quanto cammino! Non fantastichiamo. Cominciamo con la missione di Pola che non è uno scherzo.»
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L'allievo cacciatore trasforma il suo apparecchio in un arsenale: caricatori da tutte le parti, massimo carico di benzina. Comincia a vestire le pelliccie un'ora prima per garantirsi la puntuale partenza. L'esperienza acquistata nelle precedenti missioni sul Piave, lo aiuta a mantenere il posto assegnatogli non appena il volo è iniziato: fra i sei idrovolanti che compongono la pattuglia, egli è il terzo di sinistra.
La pattuglia avanza e sale con calma, con motore ridotto, per restare ordinata dietro al primo dei suoi apparecchi che è da ricognizione. L'atmosfera pulita da un temporale qualche ora prima, è trasparente, inebbriata di luce pomeridiana: dopo le convulsioni della mattina ora si riposa e accarezza, tracciando lunghe striature nel mare su cui tutte le sfumature dal celeste al turchino sono prodigate.
All'altezza di Punta Maestra, dove sembra che il papà dei fiumi italiani protenda le sue braccia per assistere quanto può i velivoli nazionali lanciati [204] su Pola, la pattuglia prende rotta decisa sulla piazzaforte austro-ungarica. All'allievo cacciatore, mentre più avanza, sfugge gradatamente il senso della non comune missione, forse perchè è ininterrottamente occupato a restare in rango, forse perchè è in compagnia di cacciatori già usciti vittoriosi dai combattimenti precedenti. È quasi certo di trovarsi a un'ora di distanza dal suo primo scontro come cacciatore — perchè ognuna delle pattuglie andate a Pola nelle ultime settimane aveva incontrato idrovolanti avversarii — ma lo assiste una fiducia completa che non sa se attribuire a presunzione o a scarsa valutazione della realtà. Molto probabilmente deriva dal sapersi l'allievo cacciatore su un apparecchio suscettibile di qualsiasi manovra, ubbidiente alle esigenze dell'attacco e della difesa.
La formazione dei cinque caccia procede a organetto: allargandosi e stringendosi, con allungamenti ed accorciamenti. Di tanto in tanto il novellino osserva l'orizzonte, ma non scorge che [205] una lunga fascia violacea forse costituita dal contatto tra la costa istriana e nubi basse. La pattuglia aumenta di quota e di velocità. A 3500 metri, trascorsi appena quindici minuti dal momento in cui la pattuglia aveva scapolato Punta Maestra, già la costa istriana verde, azzurra e violacea rivela le sue maggiori insenature, le sue rotondità, le chiazze gialle delle sue città. Viene riconosciuto con precisione il Leme lucente e penetrante nelle colline a guisa di larga e lunga lama.
La visione dell'Istria abolisce il computo del tempo, suscita nell'allievo cacciatore i ricordi della guerra aerea vissuta l'anno precedente quando da Grado s'univa ai bombardieri aerei che ostacolavano i movimenti delle navi da Pola a Rovigno, da Rovigno a Parenzo, a Cittanuova, a Trieste. Non come nemica ma con il più brillante dei suoi sorrisi, con il più intenso fascino panoramico, l'Istria saluta la pattuglia tricolore. L'allievo cacciatore in cospetto [206] di Rovigno, Parenzo, Cittanuova, Umago, risente la letizia che danno le vecchie, care conoscenze. Sono tutte come affacciate sul mare, collegate tra loro da sottili file di minuscoli puntini bianchi: i piccoli paesi si presentano quali perle di una collana.
A 4000 metri la pattuglia si dirige all'estrema punta dell'Istria, Capo Promontore. Un sano orgoglio vivifica i sei piloti che dominano tutta l'Istria, l'imboccatura del Quarnaro, le isolette di Unie e Sansego. Nello sfondo le alture oblunghe, tozze, rosate dell'Isola di Cherso.
Raggiunta la verticale di Capo Promontore, la pattuglia punta decisamente verso Pola; e il novellino, da 4200 metri, ha finalmente sotto di sè la famosa piazzaforte la cui grazia di città moderna, dalle vie regolari, diritte, dal colore di cosa nuova, di città adagiata come su un guanciale verdissimo di miti colline, contrasta colla tinta cupa, col suono minaccioso della sua fama militare. La sensazione di volare su [207] Pola è data più dall'aspetto torvo del suo arsenale, nero e fumigante di carbone in vivace contrasto con il candore della città postagli intorno come voluttuosa parassita, che dalla visione della flotta la quale nella sua immobilità, nell'assenza di vita persino nei fumaioli, nella sua disposizione di oblique parallele, nelle proporzioni minuscole, la fanno sembrare dall'alto più che un'adunata di armi terribili, una raccolta di giuocattoli innocui.
Se non fumasse l'Arsenale, e se non si scorgesse qualche bruno tozzo galleggiante lasciare bianche pigre scie tra gli isolotti che spuntano come ciuffi verdi nel turchino del porto, Pola sembrerebbe una città abbandonata. Se a un tratto il cielo non si colorisse di scoppi variopinti e se in uno degli isolotti del porto, base di una squadriglia, non si scorgessero alcuni idrovolanti, queste divagazioni sulle apparenze di una piazzaforte marittima vista dall'alto, potrebbero continuare. Ma la città inanimata a terra, si anima in [208] cielo e gli aerei avversari forse si dispongono ad accettare la sfida degli aerei tricolori.
Le nubi basse, avvistate un'ora prima, si sono sollevate, ingigantite dietro Pola: lampeggiano e allungano tentacoli nerastri come giganti offesi per l'esplorazione che i velivoli italiani stanno eseguendo.
Intanto che l'idrovolante da ricognizione fotografa la flotta austriaca — perchè gl'italiani possano almeno vederla in effigie dato che essa è decisa a non mostrarsi, come le viole mammole — i cacciatori incrociano davanti alle isole Brioni e alla diga di Pola sempre fissando gl'idrovolanti immobili sul loro isolotto a guisa di ostriche. Trascorre così poco meno di mezz'ora. In luogo degli aerei nemici, avanzano le nubi. I cinque caccia, uno in coda all'altro, traversando una massa di vapori candidi, inseguiti da un raggio di sole, proiettano nella nube i riflessi dei loro cerchi tricolori. La massa si tinge di rosso e di verde e a dispetto del nemico, aggiunge [209] il suo bianco per comporre il simbolo italiano.
Poichè le fotografie sono ormai prese, il temporale s'avvicina e gli aerei austriaci restano lontani, la pattuglia riprende la rotta del ritorno inseguita dai tentacoli sempre più avidi delle fosche nubi.
Sotto il torbido incubo, l'Istria non sorride più, non scintilla ma pare che un velo in gramaglie la ricopra tutta.
Oh presunzione della geografia mortificata dagli aviatori! I sei piloti, nel centro del mare, a 4000 metri dominano l'Alto Adriatico. Oltre l'Istria ecco l'arco proteso di Grado non ancora raggiunto dalla carica delle nubi bieche; ecco le vene livide del Tagliamento, della Livenza, del Piave. La laguna veneta è sfavillante, è un incendio purpureo. Punta Maestra stende le sue braccia verso la pattuglia reduce da Pola. Un punto azzurro in un gran cerchio argenteo: Comacchio nella sua valle. Oblunghe strisce verdi svaniscono nel [210] nulla della foschìa: le pinete di Ravenna.
I cinque cacciatori, a guisa di sbarazzini dopo la scuola, s'indugiano nel ritorno in bizzarrie, in evoluzioni saettanti, ebbri di luce, di spazio, nell'assoluta signoria del cielo e del mare.
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Pag. | |
Dal giornalismo all'aviazione | 1 |
Come si diventa piloti | 5 |
La conquista del brevetto | 31 |
L'ala estrema d'Italia | 49 |
La squadriglia esule | 81 |
Combattimenti su l'Adriatico | 107 |
Parabole di osservatori e piloti | 135 |
Le prime «acrobazie» sul caccia | 161 |
Sul Piave e a Pola | 189 |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.