Title: Del governo della peste e della maniera di guardarsene
Author: Lodovico Antonio Muratori
Release date: October 14, 2021 [eBook #66537]
Language: Italian
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
BIBLIOTECA
SCELTA
DI OPERE ITALIANE
ANTICHE E MODERNE
vol. 297
LOD. ANT. MURATORI
GOVERNO DELLA PESTE.
DEL GOVERNO
DELLA PESTE
E DELLA MANIERA DI GUARDARSENE
TRATTATO
DI L. A. MURATORI
DIVISO
IN POLITICO, MEDICO ED ECCLESIASTICO
CON AGGIUNTA
DELLA RARISSIMA RELAZIONE
DELLA PESTE DI MARSIGLIA
PUBBLICATA
DAI MEDICI CHE HANNO OPERATO IN ESSA
MILANO
PER GIOVANNI SILVESTRI
M. DCCC. XXXII.
[v]
Di umile schiatta nacque il dì 21 ottobre 1672 in Vignola, terra del Modenese, ed ebbe in età fanciullesca un dozzinale maestro di rudimenti di lingua latina da cui spesso distaccavasi volentieri per deliziarsi nella lettura dei romanzi della francese Scudery. Si portò giovanetto a Modena, dove vestì l’abito chericale, e dove sortir potè migliori institutori, ch’egli seguitò con fervore. Iniziato già nelle leggi e nella moral teologia, volealo il padre di nuovo in Vignola a fine che tornasse utile alla bisognosa famiglia, ma preso avendo grande affetto alla poesia, alla eloquenza ed alla conversazione di svegliati ingegni, egli ottenne di non distaccarsi da una città che ben presto riconobbe in lui un prodigio di spirito e d’ingegno. Il celebre P. Benedetto Bacchini si prese singolar cura nel dirizzarlo a’ migliori studi, come pur fatto avea col Maffei, sicchè potè quegli dirsi il padre de’ due più grandi Italiani del suo secolo. La lettura delle opere di Giusto Lipsio invaghì il Muratori dell’antica erudizione, e, voglioso d’impadronirsi della lingua greca, seppe riuscirvi da sè solo dopo ostinata fatica. La fortuna gli rise intanto propizia nell’incontrare a mecenati il march. Gio. Gioseffo Orsi, bolognese, e monsig. Anton Felice Marsigli, vescovo di Perugia, e col mezzo loro potè esser invitato dal conte Carlo Borromeo di Milano a prender posto nella famosa biblioteca Ambrosiana. Laureatosi prima in leggi con istraordinario applauso, si recò subito a Milano alla fine dell’anno 1694, dov’ottenne titolo di dottore dell’Ambrosiana, e [vi] prima che terminasse l’anno susseguente venne ordinato sacerdote. Primo e nobil saggio del suo utile rovistare i codici della biblioteca furono gli Aneddoti latini, a’ quali succedettero gli Aneddoti greci, e sì agli uni come agli altri aggiunse illustrazioni di antichità cristiana, e di disciplina ed erudizione ecclesiastica. Salì in rinomanza; e non toccava ancora il suo vigesimoquinto anno, che già i primi letterati italiani, un Noris, un Bianchini, un Ciampini, un Sergardi, un Magliabecchi, un Salvini, e que’ di oltremonti, un Mabillon, un Ruinart, un Montfaucon, un Gianningo, un du Pin, un Baillet, un Papebrochio gli dimostravano grande benevolenza e considerazione. Cinque interi anni si passarono da lui nell’Ambrosiana, frammischiando a’ serj studi anche i più gentili, intervenendo alle accademie che allora s’instituivano, e strignendo amicizie considerevoli, siccome fu quella del valente numismatico Gio. Antonio Mezzabarba, e l’altra del valoroso poeta Maggi, che mancato a’ vivi l’anno 1699, ebbe nel Muratori lo scrittore della sua Vita.
Le indagini genealogiche che allora per commissione dell’elettore di Hannover si facevano a fine d’illustrare l’origine italica della casa di Brunsvico derivata dal ceppo Estense, impegnarono il sovrano di Modena, Rinaldo I, a richiamare il Muratori alla contrada nativa, ed egli, rassegnato ad obbedire al suo signore, quantunque con pena lasciasse gli amici di Milano, l’anno 1700 fu reduce a Modena, dove si tenne costantemente fermo pel mezzo secolo che tuttavia visse, rinunziando poi ad ogni offertaglisi più splendida fortuna, ed il più bel fregio diventando della biblioteca Estense. Concepì in patria il grandioso disegno dell’opera delle Antichità Italiane del medio evo, libro immortale e senza cui non avremmo forse oggidì nè le storie del Gibbon, nè quelle del Sismondi. Nacquero intanto in Italia piati e puntigli per lo dominio di Ferrara e di Comacchio, e ’l nostro Bibliotecario non poche scritture pubblicò, che ’l misero anche in voga d’uno de’ più scienziati pubblicisti, ed in fatti riuscì tale da rapir di mano la palma al Fontanini, bellicoso campione dei diritti della corte romana. Da questa controversia nacque nel Muratori il pensiero della famosa Raccolta [vii] degli Scrittori delle cose d’Italia, che ordinò e rese ricca di cognizioni storiche risguardanti la gente italiana dal secolo V al XV; e nel frattempo che sì sontuosa impresa andava progredendo colle stampe in Milano, quasi per sollievo e diporto compose il Trattato della perfetta poesia, in cui spiegò un sistema conforme a’ pensamenti di Bacone da Verulamio. Di altro disegno fu l’opera che colorì poco dopo del Buon gusto, o sia Riflessioni sopra le scienze in genere; ed anche questo libro, dettato con facile stile, e pieno, pe’ suoi tempi, di novità, ebbe alto grido, e collocò l’autore tra que’ filosofi che precipuamente adopravansi all’incremento del sapere italiano. Tra le amene sue distrazioni vanno ricordate le Vite che scrisse del Petrarca, del Castelvetro, del Sigonio, del Tassoni, del march. Orsi, del P. Segneri juniore. Era tale e tanta la fecondità del suo ingegno, che due opere ad un tratto stava per ordinario scrivendo, e non solo di erudizione o di critica, ma attenenti eziandio alla teologia, all’ascetica, alla filosofia, alla politica, e sin alla medicina, come il comprovano il suo Trattato del Governo della peste[1], e la sua Dissertazione De potu vini calidi; e tutto questo faceva senza mancar mai un istante all’adempimento più scrupoloso de’ doveri del religioso suo stato. Egli era Proposto della Pomposa in Modena con cura di anime, e con zelo vivo e indefesso vi attendeva esemplarmente, rendendosi sino benemerito della umanità colla filantropica instituzione di una così detta Compagnia della Carità. Quanto fosse vivamente compreso di vero spirito di religione può conoscersi dall’unico suo Trattato della Carità Cristiana, che intitolò all’imp. Carlo VI, il quale lo regalò di ricca collana d’oro; e quanto fosse maestro profondo in divinità scorgesi dalla sua opera De ingeniorum moderatione in religionis negotio, [viii] opera che non soltanto in Italia, ma in Germania ed in Francia ebbe assai credito. Ma libri tanto frequenti e di genere sì disparato non poterono talvolta non promovere opposizioni, dibattimenti, censure; il Muratori poi niente inquieto di quelle che ad argomenti scientifici si riferivano, con rigido occhio mirava soltanto le teologiche e le ecclesiastiche.
Era già il Muratori alla sessagenaria età pervenuto; nè potendo più reggere alle parrocchiali fatiche per la indebolita salute, rinunziò alla propositura della Pomposa, attendendo soltanto con perseveranza a comporre e pubblicare opere sempre nuove. Deonsi a quest’epoca i suoi Compendj in lingua italiana delle Dissertazioni delle Antichità d’Italia del medio evo; la seconda parte delle Antichità Estensi; il Nuovo Tesoro delle iscrizioni, ed i libri di brieve mole, ma non men rilevanti, della Morale Filosofia; delle Forze dell’intendimento umano; della Forza della fantasia; dei Difetti della Giurisprudenza, e quelli risguardanti antichità profane, come la Dissertazione de’ Servi e Liberti; quella de’ Fanciulli alimentarj di Trajano, e quella dell’Obelisco di Campo Marzo. All’erudizione sacra ed a materie ecclesiastiche spettano i volumi che scrisse contro l’inglese Burnet; le Missioni del Paraguay; l’Antica Liturgia romana, e sopra tutto il classico Trattato della Regolata divozione[2], con cui volendo estirpare certe pratiche superstiziose volgarmente in corso, erasi proposto di assuefar meglio i fedeli al culto interiore. Il cardinale Gerdil chiama aureo il suo Trattato della Pubblica Felicità, e dice essere la voce del cigno, perchè lo scrisse un anno prima della sua morte. Anche i celebratissimi Annali d’Italia sono un frutto di sua vecchiaja, e di essi ne diede un ponderato giudizio il valente ultimo biografo del Muratori il ch. Francesco Reina.
Egli già già toccava l’anno settantesimosettimo della sua vita quando dopo avere languito per lunga malattia, ed essere sin rimaso privo della luce degli occhi, per colpo di paralisia passò da questa a più gloriosa e durevole vita il dì 23 gennaio 1750.
[1]
Grande apprensione e paura, o illustrissimi signori Conservatori della città e sanità di Modena, se vogliam confessarla schietta, ci han recato nel prossimo passato anno 1713 i romori di peste. Inoltratasi ella dall’Ungheria nell’Austria, e quindi in Praga, in Ratisbona e in altri paesi, e nello stesso tempo svegliatasene un’altra, ch’io suppongo diversa, in Amburgo, aveva un tal malore col miserabile scempio di que’ popoli spinto il terrore anche in tutti i vicini. Già i men coraggiosi quasi la miravano passeggiar per le contrade d’Italia e andavano divisando le maniere di scamparne; anzi non lasciavano i più saggi di dubitarne anch’essi sul riflesso di varie circostanze che si adunavano a rendere fondato il dubbio, e non irragionevole il sospetto.
Imperocchè gran tempo è corso che l’Italia non ha provato questa, che alcuni chiamano guerra divina; ed essendosi dall’una parte osservato nel corso di tanti secoli addietro, che dopo il periodo ora di molti, ed ora di pochi anni, ma non già [2] quasi mai aspettando un secolo, suol tornare la peste a visitar i popoli; e dall’altra parte, costando che dal 1630 e 1631 fino all’anno 1713 ne avea goduto la Lombardia una totale esenzione, poteva probabilmente temersi che tal disavventura omai venisse spedita anche a noi dall’adorabil Provvidenza di Dio, e massimamente considerando le colpe nostre, degne di questo e di peggio. Aggiungevasi aver noi in pochi anni provato tanti mali, ora di guerre, ora di carestie, ora di freddi acerbissimi con seccamenti di viti e d’altri alberi, ed ora di spaventose inondazioni che in altri tempi si sarebbe facilmente creduto vicino il giudizio finale. Quando si cominciano ad infilare l’un dietro l’altro i malanni, sembra che non ne finisca il corso e la catena sì tosto, e che anzi il compimento di tutti gli altri soglia essere il terribile del contagio.
Parimente dava e poteva dar moto ai timori d’alcuno la fierissima e compassionevole mortalità de’ buoi, che, non ancor ben estinta da tre anni in qua, è andata e va desolando la misera Lombardia con tanti altri paesi, fino a temere alcune città ne’ lor territorj il totale eccidio di bestie sì necessarie all’uomo. Non è già che a simili epidemie tenga sempre dietro quella degli uomini; imperocchè d’una peste de’ buoi accaduta nel 1514 fa menzione il Fracastoro nel suo Trattato del Contagio; e pure ella non venne seguitata dalla strage del genere umano. D’un’altra preceduta dalla sterilità delle viti lasciò memoria il Poeta Sassone all’anno 809 con tali parole:
. . . . . . . . . . . . Sævior omni
Hoste nefanda. Lues pecudum genus omne peremit, ec.
[3]
Ma nè pure allora passò sopra gli uomini il micidiale influsso. Così per attestato di Rolandino storico nell’anno 1238: Fuit hyems aspera et horribilis, ita quod nivis et frigoris superfluitate insolita, mortuæ sunt vinæ, olivæ, ficus et aliæ multæ arbores fructiferæ (altrettanto noi provammo nel principio del 1709). Et post illam pestem eodem anno pestis sequuta est avium, et præcipue gallinarum, boum et multarum utilium bestiarum. Ma non si legge accaduto lo stesso agli uomini ne’ seguenti anni.
Contuttociò non mancavano giusti fondamenti al timore, mentre, per sentimento di celebri autori, l’infezione del genere umano non rade volte è stata preceduta da quella dei bruti; ed eccone gli esempi. Infin l’antichissimo Omero, narrando nel lib. I dell’Iliade la peste (vera o finta, non importa) che fu scagliata dall’arco d’Apollo, cioè dal soverchio calore del sole, nell’esercito de’ Greci, scrisse che prima ella fece strage delle bestie, e poscia penetrò negli uomini:
Assalì prima e muli e cani, e quindi
Scagliò le sue mortifere saette
Contra gli uomini stessi.
Livio nel lib. 41 delle sue Storie fa menzione d’un’altra con queste parole: Delectus consulibus eo difficilior erat, quod pestilentia, quæ priore anno in boves ingruerat, eo verterat in hominum morbos, ec. Così Ovidio, descrivendo una peste nel lib. VII delle Metamorfosi, la dice prima toccata anche ai buoi:
[4]
Strage canum primo, volucrumque, aviumque, boumque,
Inque feris, subiti deprehensa potentia morbi est, ec.
Pervenit ad miseros, damno graviore, colonos
Pestis, et in magnæ dominatur mœnibus urbis.
Ammiano Marcellino nella sua Storia attribuisce a’ vapori corrotti che escono dalla terra le pestilenze, inferendone perciò prima la morte de’ bestiami che pascono l’erba, e poi quella degli uomini. Affirmant alii, dice egli, terrarum halitu densiore crassatum aera, emittendis corporum spiraminibus resistentem, necare nonnullos. Qua caussa, animalia præter homines cetera, jugiter prona, Homero auctore, et experimentis deinceps multis, quum tales incessunt labes, ante novimus interire. Così Claudiano nel lib. I contra Ruffino:
Ac velut infecto morbus crudescere cœlo
Incipiens, primo pecudum depascitur artus,
Mox populos, urbesque rapit.
E l’antico medico Paolo da Egina nel lib. II, cap. 36, lasciò scritto che la morte degli animali reca una gagliarda coniettura di una futura pestilenza anche degli uomini.
Andarono unite nell’anno 820 molte disgrazie mentovate negli Annali Fuldensi, perciocchè hominum et boum pestilentia longe lateque ita grassata est, ut vix ulla pars regni Francorum ab hac peste immunis posset inveniri. Fruges quoque vel colligi non poterant, vel collectæ putruerunt; vinum etiam propter caloris inopiam acerbum et insuave fiebat. Così per attestato di Matteo Paris nella Storia Anglicana [5] all’anno 1103: Pestifera mortalitas animalium maxima quoque hominum hoc tempore fuit. Aggiungasi Ermanno Contratto, il quale nella sua Cronaca scrive che dell’anno 1044: Maxima pestis pecudum et hyems satis dura et nivosa magnam vinearum partem frigore perdidit, et frugum sterilitas famem non modicam effecit. Poscia all’anno 1046 aggiunge, che magna mortalitas multos passim extinxit. Anche nelle Memorie stampate dalla città di Ferrara per la preservazion dalla peste del 1630, si legge che nel marzo di quell’anno fu replicata la proibizione di mangiar carni di bestie morte da sè, perchè in quelle parti si cominciava a sentir la mortalità nelle bestie bovine, non cagionata, come pensavano alcuni, dall’inondazione di tre anni avanti del Po nella Diamantina, ma sì bene da contagio speziale comunicato dalle bestie bovine del Mantovano, rifuggite nel Ferrarese, come si conobbe evidentemente. Ma io non so dire se questo contagio precedesse quello degli uomini. Dirò bensì che il cardinal Gastaldi nel suo Trattato della Peste accenna anch’egli qualche mortalità d’animali e nominatamente de’ buoi, la qual precedette la pestilenza del 1656. Che più? S. Ambrosio nel lib. de Noe et Arca, cap. 10, così scrive: Si quando est pestilentia corrupto cœli tractu, prius ea quæ sunt irrationabilia lues dira contaminat, et maxime canes, equos, boves; atque ea inficit, quæ cum hominibus conversari videntur. Sic morbi vis etiam genus humanum implicat. E nella sposizione sopra S. Luca nel lib. X: Quæ omnium fames, lues pariter boum, atque hominum, ceterique pecoris, ut etiam qui bellum non pertulimus, debellatis [6] tamen nos pares fecerit pestilentia? E però il Quercetano ed altri, in ragionando della peste riposero tra i segni che minacciano il contagio agli uomini il precedente dei buoi, avendolo probabilmente imparato anch’eglino dalla sperienza. Alcuni sono d’avviso che gli aliti pestilenziali de’ buoi o de’ lor cadaveri infetti, sieno finalmente cagione che anche gli uomini contraggano il morbo. Verisimilmente ciò non sussiste, veggendo noi e sapendo da tanti altri esempi che la peste d’una spezie d’animali d’ordinario non passa nell’altre. Ma senza questo, perchè potevasi dubitare che da alcuni anni in qua fosse corrotta in qualche maniera l’aria o pure il sugo stesso della terra, mentre non solamente si mirava il suddetto luttuosissimo morbo de’ bestiami, ma di più una fiera ed insolita copia di vermi, che rodevano i grani in erba, e qualche, per dir così, inclinazione del terreno alla sterilità o a produrre assai loglio con tante altre immondezze, e a non istagionar più i frutti che sì facilmente poi marcivano (colpa forse tutta delle stagioni sconcertate); certo non pareva sprezzabil coniettura che di qui ancora potesse venir danno agli alimenti e agli uomini de’ corpi umani, ed essersi potuto formare o disporre qualche fomite anche per la loro pestilenza. Maggiore ancora poteva temersi questo pregiudizio, mancati quegli animali che guadagnano il pane all’uomo, e il cibano colle lor carni e coi lor latticinj, riconoscendosi che una tal disavventura poteva tirar seco delle peggiori conseguenze.
Quel nondimeno che, prescindendo anche dalla considerazione de’ nostri peccati e delle circostanze [7] accennate, solo bastava a porgere giustissimo fondamento di timore agl’italiani, si era il vivo e strepitoso contagio della Germania ch’io di sopra accennai. Non s’intenderebbe punto di peste chi non sapesse qual gran facilità ella s’abbia d’innoltrarsi e di far conquiste nuove qualora non le sia posto argine. Per tacere di tanti altri tempi, l’anno 1630, in cui avvenne l’ultimo contagio della Lombardia, ben trovò maniera il veleno pestilenziale di penetrar per l’Alpi e d’infettar poi e di desolare assaissime città d’Italia. Molto più poi ragion di temere c’era in questi tempi, durando la scarsezza de’ viveri e la guerra, e tanti altri sconcerti del mondo che la sperienza ha fatto conoscere, non dirò solo per forieri, ma per mirabili disseminatori e veicoli de’ contagi. Quindi pertanto nell’anno prossimo passato si credette obbligata a tante diligenze e a tanti rigori, la prudenza di molti principi d’Italia e massimamente della sereniss. Repubblica di Venezia, sempre acuta in prevedere e sempre attenta a provvedere, per quanto possono le forze umane, acciocchè non passino nel suo dominio mali stranieri. Quindi medesimamente venne il gravoso interrompimento di commercio fra tante città con tanti stabilimenti di guardie, di cancelli, di fedi, cose tutte che andavano dicendo che si temeva e si doveva temere.
Ma finalmente in Vienna, in Praga, in Ratisbona e in altre città e contrade della Germania è terminata col benefizio del freddo la terribile e minacciosa influenza, di maniera che sembra estinta col male anche ogni ragione di non paventarlo più per ora in Italia. Già è restituito il sospirato commercio [8] fra le città della Lombardia; ed essendo spuntata in questi tempi anche la pace a consolare i popoli cattolici, moltiplicate ragioni abbiam tutti di dar lode e di render grazie immortali all’onnipotente Dio che ci vuol far sentire in varie guise gli effetti della sua misericordia. Ora in tal congiuntura due cose abbiam potuto imparare, meritevoli di somma attenzione. L’una è che il temere ed anche l’eccedere in timore, ove nascano sospetti di contagio, suol conferire assaissimo a preservarsi dal contagio medesimo. Imperciocchè allora si moltiplicano i ripari e si mettono in opera que’ ripieghi sì spirituali come temporali che la religione e l’umana prudenza suggeriscono per fermare il corso a un sì poderoso nemico. Certo che non alle diligenze degli uomini, ma alla provvidenza benefica di Dio si dee attribuire il gran benefizio di conservarsi immune dalle pestilenze e da altri flagelli. Contuttociò, essendo anche certo, piacere a Dio che le creature ragionevoli operino dal canto loro ciò che si conviene alla natural preservazione, valendosi egli dell’operar nostro per effettuare i suoi incomprensibili disegni; perciò utile e necessaria cosa è, e sempre sarà, il non perdonare in casi tali a precauzione e industria alcuna, di cui sia capace l’intendimento del saggio. A certe persone di mezzana comprensione pare un augurio di peste il solo udir parlare di peste, e ad altri poi compariscono facilmente eccessivi i timori e i rigori che nei sospetti delle pestilenze si usano da alcuni principi ne’ loro stati. Ma in fine ci vuol poco a capire che il ragionarne, il paventare e il provvedere, per quanto mai si può, in pericoli sì [9] fatti e per precauzione dell’avvenire, non è quello che metta l’ali alla pestilenza e la faccia calare dai paesi stranieri o confinanti. Certo altresì ha da essere, che il non aver paura, o l’occultarla, questo sarebbe uno spedirle solenne ambasciata, invitandola a venirci a visitare il più presto che ella può. E perciò ogni ragion consiglia l’imitare in altre simili congiunture più tosto i rigori, benchè forse superflui ed anche molto dispendiosi, ultimamente praticati da parecchie città della Germania e dell’Italia, che l’uso di altri popoli men paurosi o meno guardinghi. Sarà, anche molto più da desiderare che occorrendo tali sconcerti, a niuna delle città d’Italia venga impedito dalla positura de’ suoi siti ed affari il camminar concorde con le altre, a fine di tener lungi con egual diligenza un malore che minaccia tutti, ma che però suol portare rispetto a chi rigorosamente si oppone ai suoi passi.
L’altra verità che abbiamo imparato in questa occasione, si è, che accadendo sospetti o rischi di pestilenza, allora si mirano in gran confusione ed imbroglio non solamente le private persone, ma gli stessi pubblici magistrati di molte città, mentre tutti in quel frangente vorrebbono pur sapere come abbiano da governar sè stessi e gli altri, ma senza per lo più poter rinvenire chi abbastanza gl’illumini. Non mancano libri, è vero, che hanno trattato questo argomento; ma i più del popolo ne patiscono inopia, e moltissimi nè pure un solo possono mostrarne, siccome opere che non si leggono mai volentieri, e che, finito il bisogno, si lasciano alla polvere o a’ pescivendoli, cercandosi poi esse [10] indarno ove ritorni a fischiare questo pesante flagello. Che se non mancano libri tali ad alcuni studiosi, tuttavia suol avvenire che in man loro non si trovino anche tutti i migliori, che pure più degli altri sono da consultare in simili e in altre occasioni. Ora pensando io a questa non lieve necessità de’ privati e del pubblico, fattaci pur troppo avvertire dal grave pericolo che ultimamente ci sovrastava, mi applicai fin l’autunno prossimo passato a leggere quanti antichi e moderni potei ritrovare che maneggiassero questa materia; e col notare ciò che mi compariva più utile a sapersi, venni stendendo il presente Trattato del governo della peste, con isperanza che il mio studio privato potesse tornare in qualche benefizio e comodo ancora del pubblico, e spezialmente della patria mia, sì per preservarsi, e sì per sapersi regolare in casi di tanta sciagura. E l’intenzione mia è stata di fare un trattato popolare, cioè utile e intelligibile ai più del popolo, avendo io perciò fuggito le quistioni spinose e scolastiche e insino i termini astrusi, con cui alcuni professori della medicina cercano di farsi credito con poca spesa presso i meno intendenti. Per altro col fiero influsso che è passato, parrà, il so, passato ancora il bisogno; ma non è così, perciocchè i posteri nostri, anzi la nostra medesima età, avran sempre da temere di provare un dì quello che è piaciuto alla divina Clemenza di non far sentire ai presenti giorni. Non convien aspettare che sia giunto il nemico per istudiar poi allora la maniera del difendersi; ma s’hanno da aver sempre l’armi preparate e pronte. Gli altri, finita la peste, sono stati soliti a [11] scrivere e pubblicar libri intorno la stessa; ed io altresì suggerirò quel che può essere più a proposito, affinchè essa mai non cominci, o pure acciocchè s’abbia con facilità il migliore regolamento, qualora ne tornasse mai più il bisogno. Così in Firenze si va oggidì ristampando la Relazion del Contagio del 1630 fatta dal Rondinelli, perchè ultimamente è stato avvertito ch’esse era divenuta stranamente rara, e vuolsi perciò provveder meglio all’avvenire. Così la peste che nel 1679 fece le sue prodezze in Vienna, in Sassonia e in altre parti, con grande apprensione anche allora dei popoli italiani, diede motivo al saggio maestrato della sanità di Ferrara di pubblicare nel 1680, per prudente precauzione de’ tempi venturi, un’opera molto utile, ove son registrate le regole da osservarsi ne’ sospetti di contagio. Altrettanto dunque ho risoluto anch’io di fare, o illustrissimi signori, acciocchè voi e il popolo nostro abbiate e un attestato dell’ossequio mio, e quel soccorso di più, quando mai accadessero que’ miseri tempi, ch’io desidero lontani sempre dagli stati di ciascuno e massimamente da quei della sereniss. Casa d’Este e della patria nostra. Ho pertanto divisa la materia del governo della peste in tre parti, cioè in politica, medica ed ecclesiastica, immaginandomi che maggiore con ciò possa anche riuscire il benefizio. Imperocchè gran copia di libri può ben qui mostrarci l’arte medica per quello che a lei s’aspetta; ma scarsissimo ne è il governo politico e l’ecclesiastico. Oltre a ciò, non solendo trovarsi uniti insieme tutti e tre i suddetti governi, sembra a me d’avere a moltissimi risparmiata la fatica [12] di pescare qua e là ciò che per lor servigio si troverà qui raccolto in un solo trattato. Chi più degli altri avrà maneggiato e letto libri intorno a quest’argomento, quegli sarà più atto a comprendere l’utilità e il comodo che può venire al pubblico e al privato dall’operetta, qualunque sia, che io ora vi presento.
In questa impresa dunque mi son io regolato sulle notizie ed osservazioni degli antecedenti scrittori, con ponderare, scegliere, disporre ed aggiugnere, secondochè è paruto meglio al mio corto intendimento e giudizio. Che se talun chiedesse, come io, che medico non sono di professione e nè pure mi son trovato giammai a quel terribile incendio, abbia preso un tale assunto con fidanza di potervi competentemente soddisfare, risponderò, che se non ne posso io parlar di vista, ho ben potuto io parlarne con tanti morti che furono spettatori delle pestilenze, e che ce le hanno lasciate in tanti libri descritte. E se non son io medico, studiarono ben medicina per me e la praticarono in tempi di contagio quegli scrittori ch’io citerò, di maniera che non l’autorità mia, ma quella dei professori di quest’arte potrà dar credito al mio Trattato, il quale in oltre non uscirà alla luce senza l’approvazione de’ migliori filosofi e medici che si abbia la nostra città. Per altro confesso anch’io che la parte medica potrebbe promettersi maggiori chiarezze e più lustro e più ordine nella divisione dei medicamenti, ove la trattassero medici insigni tra i moderni. E spezialmente si avrebbe a sperare questo vantaggio dalla mano di que’ valentuomini che oggidì illustrano cotanto con le loro opere, [13] stampate ugualmente, le lettere e il dominio della serenissima Casa d’Este, cioè i signori Bernardino Ramazzini, gloria di Carpi, e Antonio Vallisnieri, decoro di Reggio, che nella famosa Università di Padova empiono le prime due cattedre della medicina; e il signor Francesco Torti, splendore di Modena, medico del mio padron serenissimo, e pubblico lettore anch’esso nella patria; e il signor Antonio Pacchioni reggiano, che in Roma fa risplendere il suo sapere in pro della medicina; siccome ancora molto potrebbe sperarsi dal signor Dionisio Andrea Sancassani da Sassuolo, medico primario di Comacchio, dalle cui fatiche riconosce molte utilità la cirugia. Mi sia lecito nondimeno di dire che quantunque ingegni grandi si applicassero a trattar questa materia, pure non sarebbe subito da sperare che molti d’essi potessero produrre rimedj migliori e più efficaci di quelli che anch’io ho saputo e potuto raccogliere. Più tosto potrebbe accadere che alcuni d’essi, senza curarsi di edificar meglio, distruggessero ancora quel poco ch’io colla scorta de’ più accreditati autori ho qui esposto, giacchè questo è il costume d’oggidì, nè par difficile il mettere nella medicina quasi ogni cosa in dubbio per farla conoscere non men lei un’arte fallace e debolissima che i suoi medicamenti dubbiosi e talvolta ancora nocivi, siccome fecero già il Carrara, l’Agosti ed altri, ed hanno tentato ai dì nostri di mostrar nelle opere loro il defunto Lionardo da Capova, e il vivente signor Anton Francesco Bertini, medici rinomati, l’ultimo nondimeno dei quali l’ha del pari difesa. E assai più sarebbe questo facile, trattandosi di quel [14] fierissimo morbo desolatore, in cui confessano tutti i medici savj che l’arte loro va più che altrove a tentone, nè ha sistema sicuro, nè medicamenti da fidarsene molto.
Ma comunque sia, penso io che troppo importi il non atterrire, nè far disperare il popolo in tali congiunture con biasimargli e screditargli tutto. E però avendo io composto il presente libro, non per desiderio di gloria, ma per brama unicamente di giovare in ciò, per quanto io posso, alla patria mia, e a chiunque non avrebbe altri migliori aiuti, per regolarsi, almeno con qualche prudenza, nei pericoli e nei tempi di tanta calamità, io mi auguro ch’essa riesca veramente utile; ma di gran lunga più auguro a tutti che non se n’abbiano mai a valere, se non per un mero divertimento della loro curiosità. Che se pure avesse un giorno da arrivare ciò che nessuno di noi desidera di vedere, probabilmente non si pentirà alcuno d’aver prima in questo mio libro imparato alquanto a premunirsi col conoscere la faccia di questo terribil nemico, e i disordini e gli strani suoi effetti. Pur troppo ne abbiam mirato anche un picciolo abbozzo, ma però esempio vivo, nella funestissima mortalità della spezie bovina, penetrata nel prossimo passato settembre anche in varj siti del ducato di Modena, Reggio, ecc. Da questo flagello si è già potuto apprendere non poco qual cura più esatta si dovesse avere in pericoli di contagio degli uomini, per non restar delusi dalle guardie che si dicon fatte, ma certo non bene; e per vietare a tempo i mercati e le fiere nostre e l’adito alle straniere, benchè non apparisca entrato colà [15] peranche il malore, e con quai rigori e ripieghi si possa precedere per disputare a passo a passo il terreno a questo male, facendo su i principj e finchè la sciagura è fuori di casa, grandi strepiti, intimazioni rigorose, visite frequenti ed improvvise, e quanto mai si può far concepire, se pure è possibile, ai contadini e alle guardie, il pericolo che loro non pare mai imminente, e il gravissimo danno di chi è colpito da simili disavventure, il che non s’intende mai bene se non dappoichè non c’è più tempo di rimedio.
Pensano alcuni che questa crudel pestilenza dei buoi non solamente si comunichi pel contatto delle bestie, o degli uomini che abbiano conversato con bestie infette, ma ancora spontaneamente salti fuori in alcune stalle, lontane talora più miglia dal paese infetto e custodite con rigorose diligente. Lo stesso vien sovente e sospettato e creduto anche nelle pestilenze degli uomini. Non voglio io mettermi qui a negare assolutamente questa partita; ma dico bene che non è se non difficilmente da credere, avendo noi veduto illese tante stalle, nelle cui bestie sarebbe stato pronto e tosto si sarebbe acceso il fomite del male, se queste avessero comunicato con altre infette. Per ogni buon fine saggiamente si fa e si farà sempre in ogni peste, ad operare, come se il morbo non si pigliasse mai se non per via di contagio. Bisogna figurarsi che ancorchè non si sappia trovare, pure ci sarà stata qualche persona o roba che avrà portato il veleno in quella casa. I cani, le guardie, i medici stessi possono disavvedutamente portarlo con seco; e dall’accuratissimo nostro signor Vallisnieri nel T. X dei [16] Giornali d’Italia è stato anche avvertito che fra le molte maniere di propagarsi la peste de’ buoi c’è stata quella di condurli senza precauzione alcuna a farli benedire con altri, o pure il permettere che taluno andasse a benedire indifferentemente tutte le stalle. Quello che più d’ogni altra cosa affligge e spaventa, si è il verificarsi in questa mortalità de’ buoi ciò che già Virgilio nel fine del lib. III della Georgica, ed altri osservarono in simili pestilenze d’animali, e vien confermato nel suddetto tomo X de’ Giornali dell’anno 1712 dall’autorità di varj valentuomini, cioè che nessun rimedio può dirsi fondatamente che vaglia; e se bene alcuni paiono talvolta giovevoli (essendo guarita ancora in queste parti una porzione d’essi buoi infetti), pure non servono poi a tanti altri; anzi voglia Dio che talora alcun d’essi non affretti loro la morte, e non faccia perire chi senza rimedi sarebbe risanato. Pur troppo avvien lo stesso anche nelle pestilenze degli uomini. Perciò egli è cosa da savio il non fissarsi mai tanto in alcune massime, precauzioni e rimedj, che sopravvenendo lumi migliori, non si voglia più, nè si sappia mutar registro. E più lumi per l’ordinario avrà una persona giudiziosa sul fatto che un intero magistrato in lontananza. Ma veniamo finalmente a trattare l’argomento nostro nel nome di quell’onnipotente Signore, la cui giustizia dobbiam tutti temere, la cui misericordia dobbiam tutti implorare, tanto nelle prosperità, quanto nelle tribolazioni.
Modena, 15 giugno 1714.
[17]
Spiegazione della peste: origine e durata d’essa. Differenze fra l’una peste e l’altre. Suo orribil danno ed aspetto. Obbligazione e possibilità di difendere il paese da questo flagello. Diligenze umane utili e necessarie.
La peste, uno de’ più terribili mali che possano affliggere il genere umano, benchè non sia propriamente lo stesso che il contagio, pure suol avere fra noi il nome di contagio, perchè col toccare i corpi, o l’aria degli appestati, o le merci, o robe loro, se ne infettano i sani, con più forza e strage che non accade in altri morbi epidemici e attaccaticci; dilatandosi la peste sino a spopolar le città, le campagne e le province d’abitatori. Consiste la pestilenza in certi spiriti velenosi e maligni, che, corrompendo il sangue o in altra maniera offendendo gli umori, levano di vita le persone, spesso in pochi, e talora in molti giorni, o pur all’improvviso. Quella che nasce dalla totale infezion dell’aria, [18] mai, o quasi mai non suol accadere, benchè per accidente succeda che l’aria ambiente gli appestati s’infetti anch’essa, e tanto più cresca tal infezione, quanto più copioso e vicino è il numero di quegl’infermi. All’incontro bensì frequentemente accade quella che è infezion di corpi contagiosa, cioè, che s’attacca agli altri col contatto e che riesce maggiormente pericolosa nelle città molto popolate e ristrette, e dove non soffiano venti che purgano l’aria.
Non è affatto improbabile che a differenza di altre epidemie, le quali si generano e saltano fuori spontaneamente nei luoghi per cagion dei cattivi alimenti, o degli aliti paludosi, o dei venti nocivi, o d’altri simili seminarj di morbi, la peste sia un’epidemia stabile che vada mantenendosi in giro pel mondo, e passando d’uno in altro paese, e tornandovi dopo molti o pochi anni, secondo che la negligenza degli uomini, la disposizion de’ corpi o altre circostanze le aprono la porta, quantunque sia certo che la peste d’un tempo non sia simile in tutti i suoi sintomi ed effetti a quelle degli altri tempi. E per dir vero, la sperienza ha fatto veder troppo spesso che la peste non nasce da per sè stessa in tanti paesi, ma o vi ripullula talvolta da panni che ritengono il veleno della peste antecedente, o vi entra, portatavi da altri paesi (e questo è frequente) col mezzo di persone, o di merci, o di altre robe infette e senza che alle volte si penetri il come. Chi potesse raccogliere sicure annue notizie di tante e sì varie province dell’Asia, Affrica ed Europa, troverebbe che non c’è anno, in cui la peste non vada desolando qualche paese, e dopo [19] la strage d’uno non passi nel vicino a sfogarsi colla stessa carnificina. Gli stati massimamente suggetti al Turco, sono, sto per dire, un perpetuo seminario dì peste, perchè quasi mai non se ne disparte ella, e particolarmente si fa sentire spesso in Costantinopoli e nel gran Cairo in Egitto, di modo che è pericoloso sempre ogni commercio con que’ paesi. E appunto le più recenti pesti dell’Italia e dell’Europa, o son passate per trascuraggine d’alcuni dall’Affrica nelle isole cristiane del Mediterraneo e poi entrate in terra ferma, o pure dall’oriente penetrando nell’Ungheria, Dalmazia, Polonia ed altri confini del Turco, hanno poi afflitto varie altre parti della nostra Europa. Non occorre far qui menzione di tante pestilenze che di secolo in secolo hanno più volte desolata la terra; ma non si vuol lasciar d’accennarne una delle più terribili che si sieno mai provate, descritta da varj storici e spezialmente dai Cortusi, dal Petrarca e da Matteo Villani. Si partì questa nell’anno 1346 dalla Cina che anche allora era conosciuta, e s’andò avanzando per le Indie Orientali sino alla Soria e Turchia, all’Egitto, alla Grecia, all’Affrica, ecc. Alcune navi di cristiani partite di levante nel 1347 la portarono in Sicilia, Pisa, Genova, ecc. Nel 1348 giunse ad infettar tutta l’Italia, salvo che Milano e certi paesi vicini all’Alpi che dividono l’Italia dalla Germania, ove fece poco nocumento. Nel medesimo anno passò le montagne stendendosi in Savoia, Provenza, Delfinato, Borgogna, Catalogna, Granata, Castiglia, ecc. Nel 1349 prese l’Inghilterra, la Scozia, l’Irlanda e la Fiandra, a riserva del Brabante, ove poco offese. Nel 1350 oppresse l’Alemagna, [20] l’Ungheria, la Danimarca ecc., continuando ad affligger poscia altri paesi; e quindi tornò indietro di nuovo in Francia e in Italia nell’anno 1361, ove desolò Milano, Avignone e Venezia con levar di vita lo stesso doge Delfino e molti cardinali. Passò dipoi un’altra volta a Firenze nel 1363 e vi morì il suddetto Villani. Ora ecco come l’un paese infetti l’altro. Così nel 1393, siccome scrive S. Giovanni da Capistrano nel suo Specchio della coscienza, da un infetto fu portata a Bologna la peste, e dalla Romagna passò ella in barca a Genova e Venezia, e un altro l’introdusse dipoi in Brescia, Verona, ecc. Tuttavia con questi ed altri infiniti esempj che si potrebbono recare, io tengo che la peste nasca talvolta da sè stessa, senza essere portata altronde, cagionata o dalla cattiva costituzione dell’aria, o dal fetore de’ cadaveri, o pure dai patimenti degli uomini per qualche fame o guerra, o da altri simili disordini, e nata poi l’infezione contagiosa, si attacchi ai vicini e si chiami contagio o peste, quando essa ha certi sintomi e fa grande strage de’ popoli.
L’ordinaria permanenza della peste in una città suol essere di nove in dodici mesi, dopo di che suol cedere. Ma in alcuni paesi ove si vive con bestiale sprezzo o troppa familiarità di questo morbo, e senza curarsi molto delle espurgazioni, e senza mettere in opera tanti altri rimedj che si usano nelle savie città, vi ha fatto soggiorno più anni, o pure vi è da lì a non molto ripullulata. Della suddetta peste del 1348, narra il Villani che essa non durava più di cinque mesi in ciascuna terra: i Cortusi dicono sei mesi. Nel 1630 la peste [21] che saccheggiò cotanto l’Italia, entrò anche nella nostra città di Modena nel mese di Luglio, siccome appare dagli editti d’allora e cessò il dì 13 di novembre di quello stesso anno, benchè si continuasse a star senza commercio, e con tutti i riguardi sino al fine del gennaio dell’anno seguente 1631, sì per attendere all’espurgazione, come ancora per non praticare colla gente o sospetta o infetta del contado, essendo anche dopo il dì suddetto di novembre succeduto in città qualche caso di morte pestilenziale che fece proseguir le cautele. Nelle città grandi e popolate non è sì facile che la peste ceda presto, perchè il pascolo della morte è grande, e non bastano spesso tante diligenze e spurghi in campo sì vasto. Gli esempj son chiari di Venezia, Milano, Napoli, ecc. In questa ultima città si accese ella l’anno 1526, e continuò del 27, 28 e 29, come narra il Summonte. Tuttavia, ove si pratica esattezza singolare, la pertinacia del male resta vinta. In Roma entrò la peste l’anno 1656 sul principio di giugno; e verso la metà di marzo nell’anno seguente 1657, mercè del buon governo si cominciò ivi a goder buona salute. Ma succeduti dipoi nuovi casi, si replicarono le diligenze finchè il male cessò affatto sul fine del seguente luglio.
Più strage suol ordinariamente far la peste nei mesi caldi o negli autunnali che nei freddi; ma non lascia ella d’infierir talvolta anche più nel verno che nella state, forse perchè allora occorrono venti caldi, o perchè cominciata la peste nell’autunno o nella state, il suo maggior furore ed accrescimento viene a cadere nel verno. La peste del 1630 [22] fu al sommo in Padova ne’ mesi di giugno e luglio, ma in Venezia la stessa fece strage maggiore nell’ottobre, novembre e dicembre, continuando poi quasi tutto l’anno seguente 1631 sempre diminuendo. Nella Gheldria la peste del 1636 esercitò le maggiori sue forze dal principio di maggio sino al fine d’ottobre. Gran varietà è in questo punto; ma, come dissi, la state d’ordinario mette in maggior rabbia questo perniciosissimo veleno, e il verno freddo o l’indebolisce o l’estingue.
Un’altra diversità fra peste e peste suol appunto consistere nella minore o maggior fierezza. Alcune son funestissime, ed empiono la terra di strage; altre men crudeli si contentano di un tributo più discreto di morti. Quella del 1348 che testè accennammo, levò del mondo quasi le quattro delle cinque parti della gente europea per attestato del Villani e d’altri scrittori. Nel medesimo secolo altre non men fiere pestilenze portarono un’incredibil mortalità per l’Italia, Germania, Francia e Spagna. Quella del 1564 sì rabbiosamente infierì pel Lionese, per la Savoia con istendersi ne’ confini degli Svizzeri e nel territorio de’ Grigioni, che in quelle bande uccise poco meno dei quattro quinti. L’altra che nel 1575 e nei seguenti afflisse alcune città d’Italia, fu di gran lunga più mite in Milano, che un’altra ivi pur succeduta prima nel secolo stesso; e all’incontro essa fu perniciosissima alla città di Venezia. L’altra del 1630 portò un’orribil desolazione al suddetto Milano, nella qual città e diocesi dal principio d’aprile, in cui si dichiarò per peste, fino alla metà del prossimo settembre, ascese la mortalità a 122 mila persone, continuandovi poi [23] ancora per alcuni mesi. Si è anche osservato che qualche peste ha infettato gli uomini di certe professioni o nazioni, e lasciati intatti quei d’altra professione o nazione, benchè tutti abitassero nel medesimo paese infetto.
Questa differenza di effetti deriva o dalla qualità della pestilenza medesima, i cui spiriti sono ora più ora men velenosi; o pure dalla più o meno esatta cautela e preservazione delle città, o dalla precedente diversa disposizione dei corpi, delle stagioni e dell’aria. Nel 1628 fu gran carestia nello stato di Milano e in altre parti della Lombardia, accresciuta poi dalla guerra che sopraggiunse, di maniera che in quello e nel seguente anno 1629 morì di fame e di stento in Milano stesso non poca gente, e vi fu una sollevazione del popolo. Ora non è da maravigliarsi se succedendo poi la peste da lì a poco, e trovando sì mal nutrita e piena di mali umori la povera plebe della Lombardia, ne levò tante centinaia di migliaia dal mondo. In Modena però e nel suo contado noi sappiamo che il mal contagioso non infierì come in altri paesi. Per altro non sono d’ordinario men sottoposte a perir di peste le persone sane e ben nutrite, che le infermicce e mal nutrite, anzi talvolta è accaduto che più quelle che queste sieno restate preda del male. Un’altra differenza si può osservar fra alcune pesti, ed è che le une porteran seco flussi di sangue, petecchie, dissenterie, ed altre vomiti, frenesie, abbattimenti di forze e simili altri sintomi. Sogliono nulladimeno tutte le vere pesti generar carboni e buboni, del che ragioneremo a suo luogo.
Mi terrò io lontano dal voler qui atterrire i lettori [24] coll’immagine orribile di qualche peste, esposta secondo la relazione di coloro che ne furono miseri spettatori, perchè piuttosto mio intento sarà di preparare e consigliar coraggio in sì funeste occasioni. Tuttavia, affinchè le persone, e massimamente i magistrati, considerando per tempo, e serbando viva davanti agli occhi l’eccessiva miseria di questo gran flagello, mettano in opera qualunque possibil mezzo e diligenza per preservarsi e per tenerlo lungi, stimo necessario di ricordare che fra i mali che possono affliggere un pubblico, non c’è il più orrido, nè il più miserabile della peste, sì per quei che soccombono alla sua fierezza morendo, come per quei che si van conservando in vita. Chi mira una città sana in questo punto e vi figura poi entrato il contagio, può senza timor di fallare dire fra sè stesso: Ecco di tante migliaia di persone robuste e sane, di tanti artefici ed operai, di tanti cittadini onorati, dabbene, utili, alcuni miei parenti o amici, e tutti fratelli in Cristo, tanti e tanti non ci saran più, e fra pochi mesi; e una gran mano d’essi morrà quasi all’improvviso, benchè sanissima dianzi, parte barbaramente abbandonata da’ figliuoli, da’ fratelli, dai mariti, da’ parenti o dai suoi più cari, parte di stento e per difetto o di soccorso o d’alimenti; e ciò ne’ lazzeretti medesimi che pure sono inventati principalmente per la salute de’ poveri appestati; e talvolta senza sacramenti e senza chi assista a quel gran passaggio, e con total disperazione, siccome fuggita o derelitta da tutti. Al prender poi vigore la peste è incredibile che terrore assalisca chi non è provveduto di buon coraggio (e questi [25] sono i più del popolo) al mirarsi circondato di morti, all’udire il suono o al vedere il brutto aspetto delle carrette che asportano ammontati l’un sopra l’altro i cadaveri degli estinti, e al temere continuamente che da un’ora all’altra possa intervenire lo stesso a chi ora si sente benissimo di sanità. Il solo doversi tener rinchiuso per settimane o per mesi in casa (e tanto più se per ordine del magistrato) è una penosissima prigionia, aggiunti tanti bisogni che occorrono, e il non potersi allora far molto capitale d’amici, o di parenti o dei suoi contadini, per la difficoltà o impossibilità del commercio, talmente che al vedersi attorniati da tanti suoi ed altrui mali, alcuni diventano come stolidi, ed altri si muoiono anche senza essere tocchi dalla peste. E siccome i principi perdono in tal occasione il nerbo maggiore del loro dominio, cioè tanti sudditi, e la maggior parte delle gabelle e dei tributi, e ciò per molti anni appresso, essendo di più anch’eglino costretti a digerire non pochi disagi e pericoli, durante il contagio, e dipoi, giacchè i principi stessi, al pari dell’infimo de’ sudditi, son sottoposti agli assalti e alle ferite di questo tirannico male: così i sudditi si trovano allora per la maggior parte privi delle proprie rendite e del traffico, e però sottoposti a diversi altri gravosissimi incomodi delle lor case. Nè colla peste suol finire il danno della peste, mirandosi per lo più venirle dietro la carestia per mancanza di chi lavori le campagne, e non trovarsi se non difficilmente i necessarj artefici, operai e servitori, e doversi pagar carissimo tutte le manifatture dimestiche e le robe forestiere, senza rimettersi o [26] mai più, o se non dopo lungo tempo, nello stato di prima l’abbattuta e desolata terra o città.
Ho detto molte, e pure non ho detto assai per far ben intendere i gran danni, terrori e miserie che reca seco la pestilenza. Ma si può facilmente immaginare il resto, e questo ancora è di troppo, per discendere ad una importantissima riflessione, cioè alla necessità che hanno tutti i principi, magistrati e capi de’ popoli, d’impiegare quanto mai possono sì d’ingegno e di attenzione, come di premura e spesa, per impedire alla peste l’adito nei lor paesi, e per tenerla lontana o scacciarla presto introdotta che sia. Bisogna pertanto persuadersi che le diligenze umane, purchè non vadano disgiunte da un fedele ricorso a Dio, possono preservare e preservano dal contagio i paesi, e per conseguenza che il non usarle per quanto si può e a tempo, questa è una solenne e miserabil pazzia, o pure una negligenza difficilmente degna di perdono sì presso agli uomini come presso a Dio. Nè pretendesse alcuno di esentarsi da tale obbligazione, o di sfuggire tal sentenza con dire che quando Dio vuol flagellare una città, a nulla servono le diligenze umane; perciocchè quantunque sia certissima questa conclusione, pure non tocca a noi ciechi mortali il voler entrare ne’ gabinetti dell’alta provvidenza di Dio; ma bensì a noi s’appartiene il far quanto prescrive l’umana prudenza per preservar noi e il prossimo nostro dalle infermità, morti e miserie, implorando nel medesimo tempo dal misericordiosissimo nostro Dio il perdono delle colpe e il soccorso nelle necessità. Ai soli Turchi si lascia il non provvedere, quando [27] pur si possa ai mali o presenti o avvenire, quasi ciò sia un temerario o superfluo operare contra i decreti del cielo. Il cristiano ha da venerare in tutto i santi e sempre giusti e saggi voleri di Dio, certo superiori a tutti gli sforzi degli uomini; ma non crede egli quel fato, o destino che insegnarono i gentili: e sa che la divina provvidenza non confonde il corso della natura e delle cagioni seconde, nè toglie la libertà agli uomini, anzi comanda loro l’uso della prudenza negli affari e nella custodia e conservazione di questa vita terrena. Però in infinite altre occorrenze, e nel guardarsi da tanti altri mali, anche i più dotti e santi non debbono ommettere, nè ommettono diligenza veruna, e spezialmente ciò fa e dee fare la cristiana repubblica ne’ pericoli de’ contagi.
Si può anche opporre che poco frutto s’abbia in fine da sperare in molti paesi da sì fatte diligenze, considerata la mancanza di tante cose e massimamente di vettovaglie, per provveder le quali dovendosi necessariamente commerciar co’ vicini, troppo riesce difficile il non partecipar della loro sciagura. Ma si risponde esserci regole e maniere d’aver commercio infin co’ paesi infetti o sospetti in tempo di peste per trarne vettovaglie, senza che per questo se ne tragga ancora la peste. Le accenneremo a suo luogo. Il punto sta che tali regole non si fanno osservare, nè son bene spesso osservate, con restare perciò inutili tutte le antecedenti diligenze; e però qui ha da essere lo studio e l’attenzione più premurosa de’ magistrati, acciocchè nessun vi manchi per frode, interesse o negligenza non perdonando per questo oggetto nè a premj, nè a pene, nè a vigilanze, nè a spese.
[28]
Ma perciocchè a convincere che una cosa può facilmente farsi, non c’è il più palpabile argomento che il mostrarlo facilmente ed effettivamente fatto in tante altre congiunture: cito qui la memoria di molti a ricordarsi di quante pestilenze sono accadute a’ suoi giorni, o sono a lui note per altra via; e in ognuna d’esse troverà egli che la peste si lascia porre degli argini, e non s’inoltra dapertutto, ma si ferma ai confini, e alle porte di chi vi s’oppone con prudenti e rigorose cautele. Pochi anni passano, che non s’oda regnar la peste o in Costantinopoli, o alle Smirne, o in Grecia, Bossina ed altre province del Turco, confinanti al dominio Veneto; e pure non penetra ella d’ordinario più innanzi, stante la gran precauzione di quell’inclita repubblica, la quale può appellarsi maestra di tutti anche nella diligenza e prudenza di tener lungi questo terribil flagello. Pochi anni sono, la Polonia, l’Ungheria, la Prussia, la Danimarca ed altre province settentrionali furono gravemente infestate dal contagio; ma questo non passò già a maltrattare le contrade confinanti. Si vide il medesimo regnar in Vienna d’Austria a’ tempi di Leopoldo I, ma fu così ben posto argine alla sua furia che non si stese per tanti altri paesi. Così la città di Conversano nel regno di Napoli a’ tempi della sede vacante d’Alessandro VIII ne restò fieramente afflitta, ma mercè d’un cordone di separazione dagli altri paesi sani, non comunicò il suo malore ai vicini. Nell’anno 1576 furono oppresse dalla peste le città di Milano, Mantova, Padova, Venezia ed altri luoghi; ma la maggior parte dell’altre città della Lombardia si difesero; e fu osservato dal [29] Cavitelli che nel Cremonese non si godè mai sì buona salute, come allora, quantunque Parma e Piacenza avessero bandita quella città per sospetto ch’ella non potesse esentarsi dal commercio con Milano. Infierì essa peste allora anche nella Sicilia, e nella Calabria e Puglia, e pure la città di Napoli tante diligenze e strettezze usò che seppe preservarsi, e ciò contuttochè per attestato del Summonte vi penetrassero di nascosto alcuni appestati, i quali occultamente furono curati senza danno degli altri. Nel 1656, Roma, Napoli, Genova ed alcune poche altre città soggiacquero alla peste; ma senza che se ne comunicasse il veleno al di qua dall’Appennino, nè alla Toscana, nè a tanti altri paesi confinanti. Anzi Castel Gandolfo, benchè vicino a quel di Marino e ad altre terre infette, si preservò per cagion delle diligenze ivi adoperate.
Ma per venire alla peste del 1630, funestissima in tutta la Lombardia, e di cui dura puranche memoria nella nostra città, egli è certo che la città di Treviso, avvegnachè assediata d’ogn’intorno dal male, restò illesa. Ferrara anch’ella si preservò; e pure, come diremo, entro d’essa accadde qualche caso di peste. La città di Faenza fu quella che col mantenersi sana tagliò i progressi al morbo, che da Bologna si sarebbe inoltrato nella Romagna. E ciò avvenne, perchè poste dai Faentini le guardie ad un fiume che scorre poco lungi dalla città, un degno prelato ch’era allora al governo e alla custodia d’esso, indefesso di giorno e notte, quando manco si pensava, compariva a cavallo a riveder le guardie e i passi del fiume più facili; e tenendo le forche in piedi fuori della città, non risparmiava [30] nè terrore, nè gastighi ai disubbidienti. Così la città di Reggio, benchè posta fra Modena e Parma, ambedue città infette, lungamente si mantenne sana, e forse ne sarebbe andata esente, se il male non vi fosse stato portato disavvedutamente da chi era di sopra alle leggi. E in quella medesima peste del 1630, egli è noto fra noi che nel ducato di Modena le terre di Vignola, Guiglia, e tante altre castella della collina e della montagna, quantunque confinanti ad altre infette dalla pestilenza o circondate da essa, pure col mezzo delle guardie e diligenze usate schivarono così terribil disavventura.
All’incontro quasi tutte le terre e città invase dalla peste, sanno e saprebbono dire, onde sia proceduto il principio della loro infezione, cioè dall’aver trascurate le debite diligenze, e dal non aver fatto osservare le leggi prudentemente stabilite in somiglianti pericoli e disordini. Io non parlerò qui se non di Roma e Padova. Infierendo l’anno 1656 la peste in Napoli (che v’era penetrata dalla Sardegna) furono asportate molte vesti e panni, che maneggiati da persone appestate aveano contratta la semenza del male; e questi introdotti in Civitavecchia e Nettuno, passarono anche furtivamente entro di Roma stessa, accendendo poscia in tutti que’ luoghi il fuoco contagioso che a poco a poco si dilatò ne’ contorni. Penetrò la peste in Padova nell’anno 1630, perchè furono poste le guardie a’ confini del Vicentino infetto; ma queste erano malamente tenute con far anche supplire i ragazzi, e trovarsi talvolta gente ai passi, a cui bastava mostrare qualche bulletta per passar oltre. Persone potenti da un’altra parte entravano per [31] forza nel distretto padovano, essendo in qualche paese le leggi, come le tele di ragno che fermano le mosche, ma cedono tosto a chi ha l’ali più vigorose. L’interruzion del commercio avea ridotta la città in secco di molte merci solite a condursi da Venezia, e in particolare di cordovani da scarpe, il che era di gran molestia. Fece un mercatante venire alquante balle d’essi cordovani da Venezia già infetta, e parte ne introdusse nel luogo della contumacia per farne lo spurgo e parte fece furtivamente tirarli di notte su per le mura. Questi ultimi infettarono prima i facchini e poscia ogni sorta di persone. Tralascio altri esempj.
Ecco dunque di che conseguenza sia l’uso o l’ommissione delle diligenze umane in pericoli sì gravi quali sono quei d’una pestilenza. Ma se l’accuratezza del governo politico può tener lungi da una terra e città questo orribil male, la conseguenza è chiara, esser degni di gran vitupero presso degli uomini i capi del popolo che le trascurano, o non le fanno eseguire ne’ sospetti di peste, e dover eglino rendere un conto strettissimo a Dio d’avere per lor negligenza così mal difesa in sì importante bisogno la gente raccomandata alla lor cura dalla provvidenza divina. Di più questo è non meno un obbligo gravissimo che un interesse rilevantissimo tanto dei sudditi quanto del principe. Nè perchè possono costar molte spese al pubblico e moltissimi incomodi ai privati, sì fatte diligenze, si dee tralasciare; perciocchè ha da star fissa in mente dei principi, dei magistrati e dei privati questa gran verità, cioè, non esserci spesa, nè incomodo che uguagliar possa in conto veruno le spese e [32] gl’incomodi terribilissimi d’una peste; e non impiegarsi mai meglio le fatiche e i danari, che per conservare a un tempo stesso la salute propria e la vita del popolo tutto. Si spende, e si dee spender tanto in lazzeretti e mantenimento di poveri, e cure d’infermi, e in guardie e ministri, allorchè è venuta una peste; e pure anche allora si perdono migliaia di persone utili o necessarie alla repubblica: quanto più dunque si dovrà amare o tollerare di spendere, e spendere tanto meno, per tener lontano un contagio e salvar con ciò la vita a sì gran numero di persone che perirebbono per mancanza di tali spese e diligenze? Chi s’intende punto di economia e molto più di carità cristiana, tosto comprenderà la necessità di queste preventive diligenze, delle quali passerò ora a trattare con esporre il governo politico in tempi di peste.
Argini e difese da opporsi affinchè il contagio non s’accosti. Con quali diligenze se gli abbia a disputar l’ingresso e l’avanzamento. Entrato il morbo, tentativi per soffocarlo. Quarantena proposta a questo effetto.
Bisogna sulle prime figurarsi che nei sospetti e pericoli di peste una città si trova nello stato medesimo, come se fosse minacciata di guerra da un principe o popolo vicino di gran possanza e fierezza, che pensasse ad occupare e devastare il territorio di lei e in fine lei stessa; con questa sola differenza che i mali e danni d’una guerra vengono [33] regolarmente da chi è nimico e straniero; e quei della peste da chi regolarmente è amico ora straniero ed ora del paese, o da chi involontariamente vi porta la rovina anche sua. Ma chiunque vuol offendere la vita nostra e del popolo nostro, quantunque internamente non covi egli in seno sì barbara voglia, pure si presume nostro nimico; e si può o si dee tener lontano colla forza e metterlo in istato di non poterci nuocere atterrendolo, fermandolo, gastigandolo, ed anche rigorosamente secondo i differenti casi di maggiore o minore negligenza, malizia e fraude. Sicchè a guisa de’ pericoli della guerra s’ha ne’ pericoli della peste da adoperare ogni possibil forza e difesa, a fin di salvare il proprio distretto e la propria terra o città.
Allorchè dunque s’ode incrudelire questo terribil morbo in paesi contigui all’Italia, o di tal positura che possa di colà passare alle nostre città, convien subito mettersi in difesa e unirsi coi confinanti e coll’altre città italiane, per impedirgli l’entrata in Italia. Avendo il Signore Iddio separata coi monti e col mare questa grande e felicissima provincia dall’altre, non è a lei difficile il guardarsi e salvarsi dalla vicinanza o dagli assalti d’una peste, purchè la violenza sregolata dell’armi e degli armati non disordini e renda inutili le buone regole degl’Italiani e non venga per forza a rovinarci. Le diligenze che usa una città o provincia di frontiera in simili casi, sono non men difesa di lei, che difesa dell’altre, le quali stanno più addietro; e appunto le leggi della natura e delle genti ci obbligano tutti a simil difesa anche per salute de’ vicini.
[34]
Che se penetrasse in Italia, e si avvicinasse il contagio pestilenziale, coll’andar superando gli argini dell’altre città più esposte, allora la nostra dee raddoppiar le diligenze e difese, come se l’effettivo esercito o principe nimico venisse per assediarla e soggiogarla. Consistono tali diligenze in esigere le fedi della sanità con gran rigore, avvertendo bene che non vi sia frode in esse, e che per le persone del distretto sieno almen riconosciute e segnate dal curato della villa. Ne’ pericoli gravi sarà prudenza non solo il contrassegnar le fedi, ma ancora il bollarle con sigillo a posta, mettendovi anche numero d’abaco particolare e usando altre cautele. Accade pur troppo che alcuni concedono fedi le quali non contengono verità con aggravio ed inganno de’ vicini. Altri le falsificano, ed altri non sapendole ben leggere, o confrontare, restano delusi. Ne’ gravi sospetti non si ammette forestiero e nè pur terriero se non si sa di certo che egli sia dianzi stato per molto tempo in luogo sano. Parimente convien sospendere il commercio a luoghi sospetti, non accettando senza quarantena persone o robe che vengano di colà; e in levarlo affatto ai luoghi infetti di peste, con regolar solamente qualche comunicazione per le grascie e vettovaglie, se la necessità il richieda secondochè diremo più a basso. In oltre il costume è di mettere guardie a tutto il confine, distanti in maniera che nessuno possa entrare senza veduta e permissione dei deputati; di far battere da gente a cavallo la pattuglia ai confini; di tagliar tutte le strade che abbiano comunicazione col paese appestato, talmente che resti interdetto ad ognuno, sia forestiero, sia paesano, [35] il venir di colà se non per la via che per necessità fosse stata destinata e riservata dai magistrati e sotto gli occhi di chi è deputato alla custodia de’ passi; di custodir bene le porte e mura della terra o città, chiudendo ancor le porte men necessarie, e di usar altre simili cautele e provvisioni che son triviali e notissime a tutti. Ma si avverta che riusciranno inutili le guardie, se non si farà buona guardia alle stesse guardie; cioè saranno necessarie persone d’autorità e d’attività che indefessamente facciano eseguir gli ordini e fare il suo dovere alle sentinelle e ai corpi di guardia, altrimenti la trascuraggine o venalità di costoro lascerà per poco entrare la peste e indarno si dirà poi: Bisognava fare così e così: io non credeva, e simili altre superflue scuse e inutili pentimenti.
Appresso è da osservare che per ben assicurarsi da questo non men fiero che fraudolento nimico bisognerebbe non contentarsi d’un solo trincieramento ai confini, ma disporne alcun altro più indentro e finalmente alle porte della terra o città, acciocchè se mai per negligenza o malizia delle guardie poste a’ confini penetrasse il male, non passi egli il secondo argine, o superato questo non s’inoltri al terzo e così al cuore del popolo. Si dee far quanto si può per custodire tutto il confin dello stato; ma perchè tal custodia suol riuscire pericolosa e difficile, ove i confini dell’una giurisdizione coll’altra son vasti e facili a superarsi, nel qual caso talvolta i forestieri e sovente i paesani poco scrupolosi e molto ingordi di guadagno passano e ripassano: perciò il più sicuro trincieramento [36] si dee credere che sia quello de’ monti, fiumi, canali grossi, fosse profonde e simili. Un grande argine facile a guardarsi, purchè si volesse far bene il suo ufizio, sarebbe per esempio il Po allorchè dalla Germania penetrasse la peste nell’Oltrapò, e il di qua da Po potrebbe agevolmente preservarsi. Ma conciossiachè in sì gravi pericoli non convien fidarsi molto de’ vicini, oltre alle guardie che dovrebbero porsi ai confini esposti di tutto lo stato del sereniss. Duca di Modena, bisognerebbe ancora metterle alle rive della Secchia e del Panaro e in una linea da tirarsi fra questi due fiumi, per custodir Modena, e lo stesso dovrebbon fare dal canto loro l’altre città e terre del suddetto stato, ai fiumi o canali o argini che paressero più proprj; affinchè se il confine dello stato non bastasse a tenere indietro il nemico, quest’altro più forte trincieramento l’arrestasse. Che se nè pur questo reggesse, le porte e mura della città sono e possono essere d’un antemurale fortissimo e sicuro, purchè si osservino accuratamente le regole prescritte dai saggi in tali congiunture, col non permettere commercio fra i cittadini sani e i forensi infetti e col non prendere le robe di questi se non colle cautele che si accenneran più a basso. E sopra tutto s’abbia ben l’occhio in ogni popolazione a certuni, le cui rendite, anzi il quotidiano vitto son riposte nel condurre continuamente da un paese all’altro o vettovaglie o bestiami o altre robe venali. Costoro anche colla forca sugli occhi vogliono continuare il loro mestiere, nè si può dire con che pregiudizio o pericolo della pubblica salute.
Anzi è da sapere che entrato il male anche nella [37] città, qualora se ne accorgano per tempo i magistrati, si può sopire e per così dire affogare nei suoi principj, chiudendo e tagliando fuori dal commercio degli altri quelle case che avessero qualche persona infetta e le persone che avessero comunicato con esso lei o maneggiato sue robe. C’è di più, può anche darsi che col tagliare una contrada o un quartiere d’una città si preservi il rimanente degli abitanti. Ripullulato il contagio in Firenze l’anno 1632 si serrò nel quartiere ove esso faceva danno e in venti giorni tornò a restituirsi il commercio. Così nella peste di Roma del 1656 una porzione della città di là dal Tevere, scopertasi infetta, fu in una sola notte rinserrata e fatto un muro all’intorno con istupore e con inutili doglianze di quegli abitanti che se ne avvidero la mattina. Così in Venezia nella peste del 1576 declinando il male nella parte della città di qua dal canal grande, questa fu difesa con guardie dall’altra, ove tuttavia infieriva il male. Narra il Faustini nelle storie di Ferrara che del 1630 essendo già la peste in Verona, si dilatò la mortalità sino ad Ostiglia, da dove essendo passato a Ferrara un Veronese appestato, andò ad alloggiare in casa d’un suo compare abitante incontro alla chiesa di S. Antonio vecchio. Costui si pose a letto con febbre, e visitato da’ medici fu giudicato tocco della peste, siccome era in fatti, e in due giorni morì. Il perchè quel cadavero fu subito sepolto nella calce viva, e chi l’avea ricettato in casa fu condotto colla sua famiglia al lazzeretto fuori della città e chiusa la sua casa. Quindi si rinovarono le diligenze, e non restò per tal accidente presa dalla peste quella [38] città, benchè il male si dilatasse poi sino a Melara e Brigantino, e passato il Po venisse ancora al ponte del Lagoscuro e in altre ville poco lungi da essa Ferrara. In somma convien tentare tutti i mezzi per vedere di opprimere sì crudele avversario, disputandogli a palmo a palmo il terreno come si fa nelle città assediate, delle quali, insin quando l’oste contraria s’è impadronita della fossa e de’ bastioni, a forza di tagliate e barricate si va mantenendo il cuore della città. Ma si ricordino bene tutti i principi e magistrati, essere un punto di somma importanza il non avere allora nè lasciar avere parzialità per alcuno, sia cavaliere, sia dipendente da’ ministri, sia privilegiato dal principe stesso. Un solo peccato d’indulgenza può portare l’eccidio a un pubblico tutto. Riuscì bene in Roma nella peste del 1656, perchè non si guardava in faccia ad alcuno.
Ma poniamo che il morbo, superato ogni riparo, ed entrato in una terra o città non si possa colle vie suddette soffocare, e che oggi uno, domani due o tre e in luoghi diversi dalla città, comincino a morir di peste, in guisa che resti solo ii gran pensiero di salvare da così fiero incendio i più che si potranno del popolo, allora è necessario che i magistrati con una pronta e ben pesata consultazione propongano l’ultimo de’ rimedi che son per accennare. Non è già esso da mettere in disputa, essendo efficacissimo e tale che si dee, purchè si possa, tosto abbracciarlo; ma solo è da esaminare se si abbiano o possano aversi mezzi per mettere in opera questo ripiego, il qual pure fu insegnato e praticato in vari luoghi con felicissimo [39] successo dal P. Maurizio da Tolone cappuccino, siccome egli narra nel suo Trattato Politico della Peste, opera molto utile, stampata in Genova l’anno 1661. Consiste esso nel mettere in quarantena almeno tutto il basso popolo della città, dal quale, e non dai nobili e dalle persone comode, la sperienza fa troppo spesso vedere che il male è facilmente disseminato e introdotto anche nelle case de’ più guardinghi. Cioè dopo avere ordinato che chi vorrà in termine di alcuni giorni partirsi dalla città, possa farlo, si ha assolutamente da rinserrare nelle proprie lor case il volgo e i poveri tutti sotto pena della vita, con interdire ogni commercio fra una casa e l’altra, e con provveder poscia ai rinserrati bisognosi il vitto ed altro che occorra. Scorgendosi dipoi infetta alcuna d’esse case, quella colle robe sue e non le altre, si dovrà purgar coi profumi, avendo buona cura delle persone che, o ivi restano o si conducono altrove, siccome sospette del male. Che se anche nell’ordine più civile de’ cittadini fosse penetrata la peste, i medesimi si dovrebbono obbligare a questa medicinal prigionia.
Un gran bene si ricava da tal rinserramento, perchè così vien tolta l’occasion di conversare e di vicendevolmente imbrattarsi. I magistrati più facilmente esercitano le loro incumbenze; e si schivano le ladrerie costumate in simili tempi, nei quali la vil plebe si fa lecito ogni disordine e coll’appropriarsi le robe degli appestati, tira addosso a sè la morte e la comunica ad altri. Basta il tempo di quaranta giorni per recidere e soffocare il male, mentre chi è sano, si fa conoscer [40] tale dopo tal prova; e chi tale non era o avea in casa i semi del male o manca di vita o guarisce; ed espurgandosi immediatamente la sua casa e robe, si taglia la via al male di passare ad infettare altre persone e case. Il sequestrar la plebe minuta nella forma suddetta, può conservar la vita a loro e a tante altre migliaia di persone, le quali pel conversare potrebbono contrarre un morbo che sì facilmente si comunica per commercio o delle persone o delle robe. Dopo i suddetti quaranta giorni scorgendosi che non muore alcuno di peste, ed espurgati i luoghi e le robe o sospette o infette, si può rimettere come prima il commercio interno della terra o città.
Il punto sta, come dissi, in consultar bene se vi sia nerbo per provveder di vitto il popolo rinchiuso. Ma si osservi, essere di spesa ed impegno maggiore il mantenimento delle capanne e dei lazzeretti, i quali in fine non difendono la gente dalla morte, anzi talvolta servono a far morire chi non sarebbe morto o ad affrettargli il passaggio, e certamente non sono atti ad estinguere il male già penetrato ed allignato in una città. Nè la spesa di tal quarantena si troverà insoffribile alle prove, sì perchè moltissimi cittadini si saran già ritirati alle ville; e di quei che restano in città, buona parte sarà provveduta di vettovaglie, senza che i magistrati abbiano da pensare al loro sostentamento. Io per me non so precisamente, come riesca e fosse per riuscire in pratica e massimamente in città grandi, questo rimedio che in teorica mi comparisce sommamente utile, per non dir anche necessario. Ma so [41] bene che nelle due pestilenze che tanto afflissero la popolata città di Milano negli anni 1576 e 1630 dopo esser morte tante migliaia di persone, non cessando il male, altro rimedio non si trovò per vederne il fine (e si noti bene) che quello di mettere in quarantena, cioè di rinserrar nelle sue case per quaranta dì tutto il popolo, sì nobile come ignobile a riserva de’ magistrati, ministri e serventi necessari: dopo di che restò oppressa e cessò affatto la pertinace mortalità, mantenuta fino allora dal commercio de’ cittadini, e spezialmente da quello della plebe e de’ poveri. Ma se infine bisogna ridursi alla quarantena o sia a tal rinserramento, per salvare le reliquie del popolo fin allora preservate dal comune incendio: quanto più gioverà e sarà convenevole quando mai si possa, il tentare lo stesso rimedio e scampo su i principj per vedere di mettere in salvo la cittadinanza tutta? Per compimento di ciò aggiungerò le parole stesse del soprammentovato cappuccino, il quale dopo aver consigliato e commendato questo ripiego, come atto a purgare dal contagio qualsivoglia città, così conchiude: La lunga pratica ed isperienza è quella che m’ha insegnato, non potersi dare rimedio nè più facile nè più efficace, nè più presentaneo di questo.
[42]
Alleggerire le città d’abitatori. Poveri se si abbiano da escludere. Libertà ai cittadini di ritirarsi in villa. Fuga utile e permessa a tutti, fuorchè alle persone necessarie per la repubblica.
Passiamo ad altre provvisioni necessarie in sospetti di contagio. La prima d’esse ha da esser quella di alleggerir di gente la città. Appena s’odono casi di peste lontana sì ma che obblighi alle precauzioni delle fedi di sanità e ai rastelli o cancelli, si debbono licenziar dalla città, anzi da tutto quanto lo stato in termine di pochi dì, i birbanti, vagabondi, cingani, questuanti, lebbrosi, impiagati e simil sorta di gente che non eserciti qualche arte, e non voglia procacciarsi il pane se non col mezzo troppo comodo del mendicarlo. Tal proclama ha da essere per i forestieri, perciocchè ragion vuole che costoro non occupino essi il pane ai veri poveri del paese nelle strettezze d’una pestilenza; e non è un mancare di carità verso di quelli l’assicurarsi il più che si può che non venga meno la carità a’ poveri della patria sua, perciocchè nell’ordine della carità hanno questi da essere preferiti agli altri. Anzi in ogni buon regolato governo nè pure in tempi liberi da ogni sospetto di male si dovrebbono permetter coloro che non vogliono faticare, ma sì bene vogliono nudrirsi delle altrui fatiche nella terra non sua, con pregiudizio di chi è ivi cittadino, ed è veramente bisognoso e degno dell’altrui [43] limosina. Facilmente bensì potrebbono mancare i magistrati alla giustizia e carità, se in pericoli di contagio volessero espellere fuori dello stato anche i poveri nativi o già divenuti cittadini della terra, essendochè questi sono parte della repubblica e hanno diritto d’essere soccorsi nella loro necessità dalla lor patria. Nè gioverebbe il dire che non lavorano; poichè, qualora possono lavorare, ha da imputare a sè il principe, se non gl’impiega e costringe alla fatica lor conveniente; e quando non sieno atti a guadagnarsi il pane colla fatica a cagione delle loro infermità, tutte le leggi della carità insegnano che s’hanno da alimentare coi soccorsi e colle fatiche dei sani della sua terra. Anzi se avvenisse che trovandosi oramai chiusi tutti i passi non potessero sloggiare dal paese i poveri forestieri, non è lecito il cacciar via nè pur questi; ma si debbono tollerare e soccorrere in tal congiuntura, essendo colpa dei soli magistrati il non avere per tempo scaricato il paese di queste bocche. Io non intendo però con questo di riprovare la sentenza del Ripa legista, il quale insegna doversi anche espellere i poveri del paese che possono e non vogliono lavorare; perchè, dice egli, e dice il vero, costoro coll’andar qua e là questuando son quelli che seminano e dilatano il contagio. Quando non si potesse provvedere a questo inconveniente con altro che con iscacciarli, allora sarà lecito il farlo. Ma si potranno trovar de’ rimedi men crudi di questo.
Avvicinandosi poi a gran passi la peste, o accaduto qualche caso in città, onde si vegga evidente il rischio di non poterla cacciar fuori o tenerla [44] lontana, hanno alcuni osato d’intimar la partenza dalla città a chi non ha maniera di sussistervi; ed altri nè pure han voluto dar licenza ai cittadini di ritirarsi alla campagna e alle loro ville. L’uno e l’altro ripiego è crudele ed ingiusto. Il primo, perchè si espone la povera gente ad un manifesto pericolo di morir poscia di fame o di stento per la campagna; il secondo, perchè si espone troppa gente al pericolo d’infettarsi in mezzo al commercio e alle morti frequenti d’una città. Sarà pertanto convenevole e giusta la determinazione di permettere a chiunque voglia il ritirarsi fuor della città, e il cercare ricovero in parte men pericolosa. Questo può essere ugualmente utile a chi va e a chi resta.
Imperocchè certa cosa è che il contadino o cittadino in campagna, siccome segregato dagli altri e lontano dal concorso e commercio di chi può attaccargli il male, purchè si abbia buona cura nel praticar co’ vicini, e non porti seco nella solitudine il veleno già preso, si può con gran facilità preservare illeso dalla pestilenza. All’incontro diminuendosi il numero degli abitanti nella città, men pascolo viene a restare al morbo, e men occasione di comunicarlo vicendevolmente l’uno all’altro. Volesse perciò Iddio che in sì terribil congiuntura si potesse trovar modo, che o tutti abitassero largo in una terra, o città sorpresa dal contagio, o che coll’uscire alla campagna tanto si diradasse il numero degli abitatori che divenisse ancora più rado il commercio di chi resta in essa terra o città. La conversazione e il concorso son quelli che fomentano e dilatano di troppo il male quantunque ancora [45] si serrino le strade e si suggellino le case; e dove le città sono di gran popolazione, e le famiglie, massimamente de’ poveri, sono strette di casa e sono affollate, quivi la peste fa incredibile strage. Perciocchè è da sapere che un infermo di peste può infettar tutta l’aria della camera ove si ricovera, e con ciò venir ad infettar le vicine se quell’aria può passarvi dentro; e perciocchè i poveri non hanno via per l’ordinario di segregarsi dagli appestati della lor famiglia, però agevolmente restano anch’essi trafitti; e col moltiplicarsi l’aria infetta, giungono talvolta a penetrar nelle abitazioni contigue gli spiriti velenosi colla rovina ancora di chi rinserrato nella sua stava in diligente custodia di sè stesso e de’ suoi.
Perciò nelle contrade più strette e ricolme di poveri abitanti, entrato che vi sia il male, si vede in poco tempo una spaventosa desolazione; e le città più popolate restano a proporzion più afflitte che l’altre men popolate, non solo per la maggior copia delle persone, ma ancora per la maggior facilità, necessità, e strettezza del commercio e delle abitazioni. Così Venezia e Milano nella peste del 1630 diedero uno spaventoso spettacolo di morti; e così avvenne anche a Napoli e a Genova in quella del 1656, laddove Roma in questa ultima non ebbe che circa sedicimila estinti, non tanto per le ottime diligenze ivi usate, quanto ancora per l’abitato che è largo. Il perchè torno a dire che l’alleggerire il più che si possa la città d’abitanti all’arrivo d’un contagio, questo è uno de’ più utili mezzi per levare il pascolo alla morte che s’avvicina, e per conservare più facilmente in vita [46] chi esce e chi resta. E qui si vuol far menzione delle famose pillole dei tre avverbj decantate da tutti coloro che trattano della peste, come di quel rimedio e preservativo che si conosce tosto pel più efficace, e più sicuro di quanti mai si possano prescrivere contra la pestilenza nel governo politico e medico. Bisogna prenderle per tempo, e a tempo; e così prese certo è che faranno un mirabile effetto. Consistono esse in questi tre avverbj mox, longe, tarde, cioè nel fuggir presto, andar lontano e tornare ben tardi. Ciò fu espresso nel seguente distico:
Hæc tria tabificam tollunt adverbia pestem,
Mox, longe, tarde, cede, recede, redi.
Sel tengano a memoria i lettori; e giacchè la fuga in tali casi è lecita, e nello stesso tempo utile al pubblico e al privato, hanno i principi e magistrati da permettere che tutti i cittadini a’ quali non manchi la comodità di farlo, si ritirino alle lor ville e al largo della campagna, ricordandosi ancora di quelle parole d’Ezechiele, cap. 7: Qui in civitate sunt, pestilentiæ et fame devorabuntur, et salvabantur qui fugerint ex ea.
Da questa general regola e permissione però si debbono eccettuar le persone, che trovansi per lo speziale ufizio loro impegnati ed obbligati al servigio della repubblica, e sono in sì funesta congiuntura necessarj all’altrui conservazione e governo. Tali sono i magistrati, i parochi, i medici, i cerusici o barbieri, i notai, le levatrici, o sia le mammane ed altre simili persone, alle quali si suole e si dee con pubblico editto vietare l’absentarsi dalla città. In oltre, secondochè occorra il bisogno, [47] si possono i gentiluomini ed altri cittadini (seguitando però sempre la giustizia distributiva) obbligare a certi ufizj e guardie che sieno credute necessarie, ciascuno per la sua parte e rata di tempo. E sono specialmente tenuti i nobili, siccome persone che si presumono più fedeli e più zelanti del ben pubblico, alla guardia delle porte, alle quali si avverta che non dee permettersi il giocare, nè il dar ivi colezioni, nè il far bagordi; siccome ha anche da essere vietato ad ogni ufiziale o ministro il prendere mancia alcuna dai passeggieri.
Finalmente (e si avverta bene) se sono esentati i cittadini dal trattenersi nelle terre e città in sì pericolosi tempi, non si hanno già da credere esentati anche da alcune leggi della carità cristiana, restando allora nelle città i mendichi, gli artigiani, e tanti altri soliti a guadagnarsi il pane alla giornata, perchè loro manca la comodità di ritirarsi altrove; e dall’altro canto potendo cercar asilo nella campagna i soli meglio stanti: ognuno intende che viene a mancare alla povera gente della città, chi loro faccia limosina, e somministri da lavorare, e perciò vien loro meno il granaio e la dispensa di ogni giornata, con rimaner tutti esposti al quotidiano pericolo di morir di fame, non meno che di pestilenza. Pertanto non è un solo consiglio, ma ancora un precetto chiaro della carità cristiana che stando anche i cittadini fuor di città, aiutino in sì estrema necessità, e soccorrano i rimasi nella medesima, ciascuno secondo le forze sue, siccome più precisamente diremo a suo luogo.
[48]
Necessità di magistrati prudenti e attivi pel governo della peste. Autorità e rigore conveniente ad essi. Loro cautele per preservarsi. Elezione d’altri subordinati. Non doversi forzare i medici alla cura degl’infetti; e come governarsi per conto d’essi.
Il maggior benefizio che nel governo politico possa accadere ad un popolo, durante il pericolo, o la disavventura d’un contagio, si è l’essere provveduto di buoni magistrati che colla lor vigilanza e prudenza arrestino il morbo ai confini, ovvero l’imprigionino in qualche terra o porzion del paese ove sia penetrato, o pure così valorosamente gli facciano fronte arrivato che sia nella città che o presto si soffochi o non faccia considerabile strage. Non riceve mai la peste forze maggiori, nè più francamente si dilata, quanto dai disordini della vil plebaia, allorchè sprovveduta di buoni capi e di leggi, o perduta la riverenza ai magistrati, ogni cosa confonde. Debbono pertanto in occasione di tanto bisogno mettersi al governo degli affari della sanità persone piene di carità e d’onore, e persuase di doversi acquistare presso gli uomini, e infinitamente più presso Dio, un merito grande per le lor fatiche in benefizio della loro afflitta patria. Scelgansi persone abbondanti di amore verso la lor terra e verso il prossimo, e provvedute di competente saviezza, esperienza e di attività il più che si può coraggiosa e non timida. Chi ad ogni [49] menomo aspetto della nostra mortalità, si sente cadere il cuore a terra, dee starsene in casa ad aiutar con orazioni pie e con atti di carità il prossimo suo. La vigilanza de’ magistrati, col non trascurar nulla, e principalmente finchè è tempo, può far dei miracoli in tutte le occasioni, ma spezialmente in questa; perchè in fine si tratta d’un nemico, il quale non porta seco artiglierie per valicar colla forza i confini d’uno stato, o superar le porte di una città. Oltre di che, introdotto il morbo, le negligenze de’ magistrati il rendono sfrenato. Certo in sì gravi pericoli, e in tanta necessità di conservare il popolo, chi governa si potrà ben pentire di non aver fatto assai, ma non mai d’aver fatto troppo. Non la mansuetudine e piacevolezza, ma il rigore è qui necessario a chi governa; e ciò per maggior bene della repubblica stessa, a cui si nocerebbe coll’indulgenza, e si può giovare infinitamente col fare a puntino e irremissibilmente rispettare ed eseguir le leggi. In tempi tali, secondo il parere dei savj, è maggiore sopra i sudditi la podestà del principe e dei magistrati, potendosi condannar le persone a varie pene per soli sospetti e senza processo, e valersi delle lor case, poderi, danari, vettovaglie, ecc. qualora il pubblico ne abbia bisogno.
Filippo Ingrascia, celebre medico di Sicilia, che scrisse un utile trattato della peste, prescrive per principalissimi rimedj, espugnatori di questo male i tre seguenti, cioè l’oro, il fuoco e la forca. Il primo pel mantenimento de’ poveri, e per tante altre spese che occorrono allora; il secondo per l’espurgazion delle case, robe ed aria e il terzo [50] per l’osservanza delle buone leggi e regole da stabilirsi in quel tempo. Può mancare il primo di questi rimedj; e in quanto al terzo, si suol far piantare in più luoghi, entro e fuori della città, esse forche, per punirvi prontamente certi gravissimi delitti di disubbidienza dannosa al pubblico. Facciasi però il men che sia possibile, potendosi con altri minori gastighi e col terrore tenere in dovere i popoli, e massimamente in queste parti d’Italia ben diverse nella focosità dai cervelli della Sicilia. Un esemplar gastigo dato sulle prime gioverà assaissimo, siccome ancor il lasciar correre voce che sieno stati immediatamente uccisi alcuni trasgressori degli ordini della sanità. E se taluno si avesse a far morire per qualche delitto, il divolgare che tal gastigo venga per la trasgressione suddetta, metterebbe gran freno agli altri. Le città e terre preservate non hanno riportato sì gran benefizio senza la morte di qualche disubbidiente in cose gravi, quale è chi venendo da luogo appestato passa i confini senza fedi, o con fedi false e simili trasgressori troppo nocivi; per altro ai conservatori della sanità s’ha a dare in tali casi un’assoluta balìa ed autorità di poter procedere mori belli contra i trasgressori; e, se la necessità il richiede, sarà carità verso il pubblico il rigore verso qualche privato disubbidiente, e massimamente nella guardia de’ confini e delle porte in sospetti di contagio. A quattro prelati della congregazione della sanità di Roma nella peste del 1656 fu data autorità di poter procedere anche contra le persone ecclesiastiche e regolari a qualsivoglia pena ed esecuzion d’essa, sino alla morte [51] naturale exclusive per qualsivoglia delitto concernente la sanità, sola veritate inspecta, denegatis defensionibus, more belli. Così debbono fare anche i vescovi nelle altre diocesi. Il vuole il diritto della natura. Anzi tiene il cardinale de Luca nel cap. 41 del Principe che dai sudditi sani si possa negare l’ingresso e il commercio al principe infetto, perchè l’esporre alla peste un luogo sano, non è un operare da principe padre de’ popoli.
Un punto poi di grande importanza sarà, che i magistrati conservino ben sè stessi per poter conservare gli altri. Perciò sia lor cura di far circondare la casa dove abitano, o si adunano con rastrelli di legno, ai quali niuno possa avvicinarsi se non in lontananza di quindici passi. Tengano pochi servitori, e vietino loro il conversar fuori e il vagare; e non sieno con esso loro donne, fanciulli, cani e gatti. Facciano buona provvisione di ciò che spetta al vitto, ed abbiano seco sacerdote, medico e cerusico coi medicamenti per curare la peste. Uscendo di casa, vadano a cavallo o in seggetta, parlino alle guardie e all’altre persone solamente da lontano, incaricando ai servitori il fare lo stesso; e tornati a casa, facciano lavare i cavalli de’ quali si saranno serviti. Finalmente mettano in opera tutti gli altri preservativi generali e particolari che s’andranno accennando sì nella pulizia della casa, come nella temperanza del vitto, nell’uso de’ profumi e in altre somiglianti cautele.
Non è men necessario l’eleggere per subordinati e deputati alle guardie, al regolamento delle contrade, allo spurgo, alla distribuzion del pane, alla cura de’ lazzeretti, ecc., altre persone fedeli, abili [52] e dabbene, nobili, cittadini, mercatanti, ecclesiastici e religiosi, in numero nondimeno che non generi confusione, dando loro quella autorità che conviene, con ordine di comunicare al magistrato supremo tutto ciò che di rilevante andrà succedendo nella lor giurisdizione. Chi di tali deputati, ufiziali e subalterni avrà da praticar con infetti e sospetti, dovrà anch’egli contarsi nel numero de’ sospetti, cioè dovrà astenersi dal commercio dei sani e portar segni visibili d’essere sospetto; e la casa e famiglia sua non comunicherà coi sani. Bene spesso terminerebbe presto la peste, se non vi fossero ufiziali che volessero far la loro fortuna colle spoglie altrui: il che però non viene lor fatto, perchè anch’essi muoiono, e sovente senza nè pure aver tempo di accusare ai ministri di Dio le loro iniquità. Adunque per quanto mai si può, convien cercare persone disinteressate e timorate di Dio, con assegnare a ciascuna un competente salario. Nello spazio di due mesi il P. Maurizio da Tolone cappuccino scacciò da una città di Provenza la peste, non tanto co’ suoi profumi, quanto per la fedeltà degli operai e dei prefetti delle cariche. Sempre poi gioverà per certi ufizj di molta gelosia il deputare qualche ecclesiastico, o secolare, o religioso, d’accreditata integrità che esercitando quel caritativo impiego con fedeltà, sappia egualmente piacere a Dio ed aiutar la sua patria. Pongasi anche mente alla necessità di deputare per cadauna villa qualche persona d’abilità e buona fede, che invigili, visiti e avvisi ogni caso di male, o altro disordine a uno de’ conservatori destinato a posta per questo. Anche i parochi possono giovare [53] assaissimo. Qualor si difenda il territorio, egli è facile il salvar la città.
Per conto de’ medici e cerusici, s’è ben di sopra chiamato giusto il costringergli a non partir di città; ma non sarebbe già conforme alla giustizia il forzargli ancora a medicar gli appestati. Dicono che le leggi il vogliono; e in Sicilia fu fatto così; e lo stesso venne una volta preteso in Padova, perchè nel prender ivi la laurea dottorale si fossero obbligati i medici a servire anche in tempo di peste. Ma grida la ragione che non son tenuti ad esporsi e non si debbono esporre per forza all’evidente rischio della vita persone, la conservazion delle quali è troppo necessaria alla repubblica. Non ci vuol poco a formare un buon medico; e formato che sia è un grande interesse del pubblico ch’egli non perisca. Oltre di che se i medici avessero per forza da conversare con gli appestati, nulla farebbono di giovamento ai medesimi per l’apprension della morte e per la rabbia e per l’abborrimento a quell’impiego che parrebbe loro, e non immeritamente, una gran pena e gastigo. Aggiungasi che più non potrebbono, dopo aver trattato con gl’infetti, praticar coi sani; e infermandosi questi di qualche malattia, chi dovrebbe poscia curarli? E se perissero i medici nella cura degli appestati, chi avrebbe poi cura degli appestati e dei sani? Aggiungasi per compimento di tutto, che pur troppo i medici non hanno recipe alcuno specifico e sicuro per espugnare una peste; e però non si può chiamare precisamente necessaria la loro visita personale o assistenza agl’infetti, nè si dee pretendere ch’essi per [54] forza espongano la loro certa salute per l’incerta altrui, potendo essi in altre guise e colla mano e voce d’altri sustituti, supplire il bisogno e somministrar que’ rimedi che crederan più a proposito.
Ma, e non ci ha da essere, dirà taluno, medico per i miseri appestati e per i lazzeretti? Debbono senza fallo i magistrati far tutto il possibile per indurre a tal cura quei che occorrono, non già col duro mezzo della forza e del comando, ma col dolce de’ premj e d’un buon stipendio; e invitino ancora, se possibil fia, qualche straniero che assuma tale incumbenza. Nè mancherà chi l’assuma: imperocchè, siccome dirò in altro luogo, v’ha i suoi mezzi di preservarsi illeso fra la gente appestata, e ciò spezialmente per i medici. Notisi ancora, che più aiuto darà nei contagi un medico pratico ben mediocre o un cerusico, il quale facendosi avanti senza timore, aiuti ed istruisca gl’infermi, o porti loro cerotti ed empiastri o tagli ed operi, che non sarà un gran medico pauroso. E il soprammentovato cappuccino che più volte fu in mezzo ai contagi, asserisce non essere necessari i medici ne’ lazzeretti, ma sì bene i cerusici, i quali veramente, allorchè il male prorompe alla cute o con buboni o con carboni, possono salvar molti dalla morte, e però sono sommamente utili e necessari e si debbono salariar bene, acciocchè con puntualità e carità facciano il loro uffizio in tali congiunture.
Intanto i medici debbono attendere a preservare i sani e a visitare chiunque è infermo, ma non di contagio, per la città. Impiego loro altresì ha da essere di assistere ai magistrati e di consultar [55] con essi e fra loro il metodo e i medicamenti che possono allora credersi giovevoli o riconoscersi per nocivi. Prendano giornalmente quante notizie possono dai cerusici intorno ai sintomi e accidenti del male e al successo o utile o vano de’ metodi e dei medicamenti, con farne sperimentar molti, e mutar di mano in mano secondo le osservazioni e il bisogno. Che se nella visita degl’infermi s’abbatteranno contro lor voglia a praticar con qualche appestato, allora dovranno per dieci dì chiudersi in casa colla lor famiglia, siccome sospetti, in guisa che alcuno non v’entri, o ne esca, restando nondimeno libero a tali medici di uscire se vogliono, ma coi segnali de’ sospetti e senza poter praticare liberamente co’ sani. In Ferrara, nel 1630 si videro buoni effetti d’un proclama fatto, ove si astringeva ognuno a denunziar quello che sapeva di pregiudiziale alla sanità. Altrettanto è da fare altrove in simili casi; e riuscirà anche più utile, se oltre alle pene si aggiungerà la proposizione de’ premj ed anche l’impunità ai trascorsi altrui, quando fossero col solo onesto fin del ben pubblico denunziati da persone onorate.
[56]
Peste comunicata pel contatto dell’aria, de’ corpi e delle robe appestate. Come l’una parte del paese abbia da difendersi dall’altra. Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera di opprimere la pestilenza introdotta.
Egli è notissimo che dall’intrinseco veleno della peste viene l’uccider ella sì facilmente gli uomini, e che dal suo contagio, cioè, dal toccar l’aria o i corpi o le robe appestate vien poi l’ucciderne ella tanti, e lo spopolar le città: il perchè contagio suol anche appellarsi la peste. Il principal dunque e quasi infallibil rimedio per guardarsi da così terribil nemico, non è altro che il guardarsi dal toccamento di tutto ciò che può contenere e comunicare il veleno pestilenziale. Gli altri rimedi son fallaci le più delle volte: questo solo vien comprovato per sicuro dalla sperienza di tutti i tempi. Perciò abbiam lodato cotanto di sopra il fuggire, ed ora dobbiamo maggiormente inculcare che la gran cura dei magistrati ha da consistere nell’impedire affatto o nel regolar così bene il commercio che i corpi sani si difendano dal malore degl’infetti. Nullum praesentius remedium adversus pestem comprobavit usus, quam sana corpora adiuvare, ne inficiantur, così scrisse dopo la sperienza fattane il cardinal Gastaldi.
Ora in due tempi e forme si dee levare il commercio delle persone e robe; cioè o ne’ sospetti [57] di peste o dopo aver già la peste invasa la città. Per conto del primo le savie città, udito qualche sospetto o romor d’infezione nelle circonvicine, non fidandosi (e con troppa ragione) degli avvisi delle medesime, spediscono segretamente colà qualche medico non conosciuto o altra persona accorta che s’informi bene e ponderi ogni successo; e sulla relazione prendono poi le loro misure e cautele. Poscia appena s’udirà grave sospetto o dichiarazion chiara di peste in qualche popolo, che gli altri popoli sani, i quali ragionevolmente possono temere di contrarre quel morbo, debbono interrompere il commercio con esso, bandendolo con rigorosi editti, e non accettando più, se non colla quarantena, persone, merci e robe di colà procedenti, e nè pure ammettendole talvolta colla quarantena, secondo la qualità o vicinanza del male. Questo è notissimo; e volesse Dio che gli altri popoli imitassero in ciò la saggia e severa condotta della repubblica veneta. Egli è facile, così facendo, lo schivar le pesti, e però il poco fa citato cardinal Gastaldi formò queste due verissime conclusioni: Contagium negligere crebrior in pestilentiis error a prudenti regimine magis cavendus. Pestis praevisa facile vitari potest. Poscia crescendo il pericolo, dee ogni terra e città ordinare che ognuno denunzi qualunque malato all’ufizio della sanità. Di cadauno sia fatta la visita attenta da qualche medico o chiamato da essi o deputato dalla città, il quale fedelmente riferisca con fede in iscritto la qualità di quel male, per poter passare ad ulteriori ripari in caso di bisogno. Niuno, eccettochè il medico ed altre persone [58] necessarie, possa visitare infermi, ancorchè non si sia peranche scoperta la peste. Anche i conventi de’ religiosi e delle religiose, e i conservatorj saran tenuti alla stessa denunzia; e il medico e cirusico d’essi luoghi dovrà anch’egli dare la relazione.
Ma qualora la peste, superati i confini d’uno stato, penetri in qualche terra, castello o porzion del medesimo, i circonvicini e la città capitale debbono bandirla e tagliare ogni commercio con quella parte infetta, serrandola, mercè d’un cordone o d’altri ripieghi, tanto che non comunichi il suo veleno alle parti intatte di quello stato o distretto, ma senza mancare di prestar loro ogni possibile soccorso ed istruzione in tanta calamità. Così l’un castello può e dee difendere sè stesso e il territorio suo dall’infezione degli altri, levando loro ogni commercio. Di più infettata la città capitale, non solamente possono, ma debbono le altre città e terre bandirla; anzi il principe o i magistrati debbono loro ordinarlo. Così fece ancora il nostro duca Francesco I nel contagio del 1630, scrivendo a san Felice e ad altre terre che mettessero sotto il bando la stessa città di Modena. Altrettanto fu eseguito nel contagio di Roma del 1656, essendosi con pubblico proclama ordinato che le terre e castella sane potessero e dovessero bandire Roma infetta co’ suoi casali, vigne e case di campagna. E certo una tal cautela e difesa delle parti sane è secondo il gius della natura; e i principi e superiori peccherebbono contra la giustizia a contra la carità, anzi contra il pubblico e proprio interesse, ove non cercassero [59] di salvare quanto si può dello stato loro e volessero per la loro o negligenza o ostinazione involto tutto nel comune naufragio.
Quel solo che qui è da avvertire si è che il distretto suburbano e le ville poste nel contorno della città si debbono ben difendere colle possibili diligenze dal contrarre il morbo penetrato nella città; ma non possono elle, nè debbono con rigoroso bando segregarsi da essa città: altrimenti affamerebbono i cittadini padroni d’esso territorio; e inutile ancora riuscirebbe un tal rigore, ove tali ville fossero anch’elle infette. Sicchè la cura che i rustici di queste terre e i cittadini hanno d’avere, sarà quella di ben regolare il commercio de’ viveri e delle persone, in guisa che i sani non prendano l’infezione dei malati e seguiti a concorrere alla città quel soccorso di vettovaglie che le occorre e le è dovuto. Anzi, siccome vedremo, si può ordinar bene il commercio dei viveri, che annona e grascia vengono appellati, tra una città o terra infetta e bandita, e le altre sane, senza che si comunichi o si riceva il veleno pestilenziale; e perciò le terre e castella sane che abbiano bandita la città, debbono poi permettere il trasporto delle grascie ad essa città colle cautele decretate.
Allorchè la peste s’è finalmente spinta ed ha preso possesso in qualche città, o popolazione, s’ha da attendere a vietare il commercio, per quanto si può, fra il popolo infetto o sospetto e il tuttavia sano ed illeso. Qui è il difficile e qui ha da essere lo studio più acuto e la maggior attenzione e vigilanza dei magistrati; imperocchè il [60] nemico feroce è in casa e la maggior parte del popolo costretta dalla necessità a fermarsi ivi, non gli può abbandonare il campo. Ove dunque ci sia modo di mettere su quel principio in quarantena tutto il popolo, riuscirà, siccome dicemmo, assai facile il liberar la terra o città in poche settimane dal male, non essendoci più efficace maniera d’impedir la comunicazione, non che la dilatazione d’una pestilenza, e di poter purgare in breve tutta la città che questo imprigionamento e questo levare affatto il commercio. Ma perciocchè a molte città mancheranno i mezzi per istituire e sostenere questa rigorosa universal quarantena o pure per negligenza o frode d’alcuni non se ne caverà il profitto che pure se n’avrebbe a sperare: convien sapere e mettere in opera gli altri consigli e mezzi finora praticati dal saggi magistrati per impedire o per ben regolare il commercio e salvarsi in mezzo alla peste e fra la gente appestata o sospetta.
In tre maniere si può ricevere il veleno della pestilenza, cioè toccando i corpi umani appestati o le robe e gli animali da loro maneggiati e toccati ovvero l’aria respirata da essi o contigua. Gli spiriti velenosi di questo fierissimo morbo, oltre all’uccidere con facilità quelle persone, in cui si cacciano, agitati dal respiro e dal calor febbrile ed interno; si spargono ancora per l’aria a una debita distanza dal corpo infetto; e s’attaccano alle merci, a’ panni e ad altre robe e agli animali e agli altri corpi umani, co’ quali esso corpo infetto ha comunicazione col contatto. Per questo i sani debbono guardarsi dal commercio e contatto [61] non men delle persone infette che delle robe e dell’aria loro. Io tratterò in primo luogo del commercio delle persone.
E qui avanti ad ogni altra cosa si dee osservare, qualmente scoperto, che la peste sia contagiosa ed abbia già avuto adito nello stato o nella città, si fa un solenne sproposito a volerla tenere occulta, per timore di perdere il traffico e commercio coi vicini. Questa è la via di lasciarle ben prendere piede e dilatarla, senza più speranza di espugnarla e con danno gravissimo sì de’ cittadini che dei forestieri, i quali praticando alla buona e non usando le debite cautele, perchè non avvisati del male, s’infettano e portano a’ vicini e a’ lontani la rovina. Bisogna dunque subito scoprirla e combatterla e avvisare del pericolo il popolo tutto e chiunque dianzi praticava con libertà. Per sentimento del Rondinelli, se quando in una città il contagio comincia, si potesse far tosto crederlo tale a tutti e farlo temere per quel mostro divoratore ch’egli è, il male non farebbe tanto progresso nè si vedrebbe nelle case l’esterminio che molte volte accade. Appresso è sommamente da avvertire che in sospetti di peste hanno i medici da stare attentissimi ad ogni accidente o malattia, per avvertirne i magistrati e discernere se vi sia caso di peste. Ma si tengano essi lontani da quelle strane dispute che son talvolta succedute ne’ principj del male, cioè se sia o non sia pestilenziale, sostenendo ciascuno per impegno l’opinione sua, ma con incredibil danno della città, che su questo dubbio non si risolve agli ultimi rigorosi spedienti e rimedj. Nel 1576 la pestilenza [62] prese gran piede in Venezia, con farvi poi un’orribilissima strage, perchè non si dichiarò, se non troppo tardi che era peste vera; e ciò per colpa de’ medici che non finirono mai di disputare se fosse o non fosse. Per quanto narra nelle sue storie Natal Conti, furono chiamati da Padova a Venezia Girolamo Mercuriale e Girolamo Capovacca, celebri medici, i quali sostennero quelle non essere infermità pestilenziali e si esibirono alla lor cura. Così continuando il commercio cominciò a morir tanta gente e a dilatarsi cotanto la furia del male, che i due medici suddetti conoscendo scaduta la loro riputazione ed in pericolo d’oltraggi la loro persona, si ritornarono a Padova mal soddisfatti di sè medesimi. Altrettanto avvenne in Firenze per la peste del 1630, altrettanto in Malta per quella del 1675. Altri esempi ce ne sono stati; ma pur troppo ce ne darà degli altri il tempo avvenire, perchè le teste umane saran quelle di sempre. Meglio è in tali casi ingannarsi col prendere per effettivo contagio quello che non è, e provveder per tempo, benchè senza bisogno, che il trascurare gli opportuni ripari per volerla far da accurato filosofo nel riconoscere la vera essenza e le qualità del male. Se a questo si fosse badato meglio dai medici di Vienna, non avrebbe nel presente anno 1713 preso tanto possesso in quella imperial città l’epidemia contagiosa che vi regna o almeno si sarebbero facilmente preservate da sì dannosa influenza altre province confinanti all’Austria, le quali gemono anch’esse sotto questo flagello con pericolo ancor dell’Italia.
[63]
Ho detto di sopra che la città di Ferrara si preservò illesa nel 1630 dal contagio, quantunque fosse attorniata dal medesimo, e succedesse entro la stessa qualche caso di peste. Ora debbo aggiungere potersi attribuire una sì mirabil preservazione a varie cagioni sì naturali, come soprannaturali, come sarebbe l’essersi finalmente appigliato quel magistrato al rigore di non lasciar entrare in città persone, tuttochè procedenti da luoghi sani, senza una particolare ispezione, e di negare affatto l’ingresso a qualsivoglia mercatanzia, di cui anche vi fosse stato bisogno, con lasciare che i mercatanti gridassero, e con escludere insino le suppellettili degli stessi Ferraresi che aveano villeggiato, e con altre esecuzioni d’austerità contro i trasgressori delle leggi, ladri di robe infette, ecc. Ma forse il più utile dei ripari fu la sollecitudine ed esattezza nel pubblicare ed estinguere il male nascente. Altre città, come Verona, Milano, Parma fecero quanto poterono per occultar l’infezione già presa, o sia perchè ivi troppo si disputasse, secondo il solito, se fosse o non fosse male di peste, o sia perchè ad ognuno rincresce d’essere bandito e privato del commercio co’ vicini. E perciocchè tali città dai vicini più attenti vennero bandite, non s’udivano che querele, ascrivendosi tali bandi a precipizj e a passioni, benchè poi simili prevenzioni de’ vicini restarono comprovate giuste dalla peste che giunse da lì a poco a non potersi negare. I savi magistrati di Ferrara non si guidarono così, come si ha dalle lor memorie stampate. Appena addì 13 di maggio fu scoperto il male del Veronese di sopra accennato che, tuttochè non [64] fosse se non dubbioso quello essere tocco di pestilenza, fu risoluto di pubblicarlo come veramente pestilenziale, con trasportare di bel mezzo giorno al lazzaretto tutti gli abitanti della casa ove morì costui, colle robe loro, e sequestrando chi aveva conversato con esso lui, credendo meglio i Ferraresi il perdere, siccome avvenne, per tal rumore il commercio co’ vicini, che l’esporre la patria al pericolo d’un danno incomparabilmente maggiore. In fatti gli abitanti d’essa casa, al numero di sette, morirono successivamente di poi, e parte d’essi con buboni e carboni evidenti. Altri casi di chi morì chiaramente di peste succedettero in quello stesso anno nella città medesima; ma colla pronta provvisione si troncarono tutte le conseguenze pregiudiziali. In una parola, dopo il primo caso si stabilì e fu conosciuta necessaria, non che utilissima, quella gran massima di sempre interpretare per peste ogni accidente indicante indifferentemente peste e non peste; e quantunque alcune volte (furono nondimeno esse ben poche) forse non si accertasse ivi nel giudicare, tuttavia si accertò sempre in assicurar la patria, essendosi apertamente veduto che in sette o otto casi almeno dentro la città e in altri nel territorio restò oppresso il male vero e reale, senza lasciargli campo a dilatarsi. In effetto molte terre di quel distretto, contuttochè circondate dal morbo, seppero così ben difendersi col rigore e colla diligenza, o opprimere il male introdotto, specialmente col confinar esso, e con lo starsene le persone ritirate, che la passarono netta. Gioverà ad ognuno l’avere sempre mai presenti simili rilevanti esempj, per [65] non dormire e per non disperarsi quando mai venissero que’ miseri tempi. Il perdere il commercio de’ vicini, il penuriar di molte mercatanzie e d’altri comodi della vita, certo è un male; ma questo male può dirsi un nulla in paragone del fuoco divoratore della peste; anzi la perdita di esso commercio, benchè mal veduta, può chiamarsi un gran bene, perchè serve anch’essa a impedire la comunicazione del contagio. In somma ebbero, secondo me, ragione i Ferraresi di conchiudere nelle lor memorie poter eglino certificare agli altri che il pubblicare prontamente il male, e il tenere per contagioso ogni caso che sia capace di sospetto, è l’unico rimedio all’estinzione del medesimo male.
Commercio fra le persone come da regolarsi, qualora non si possa opprimere la peste. Lazzeretti e sequestri, e attenzione agli infermi. Provvisione per li mendicanti. Cimiteri pubblici fuori della città. Regole per li medici, cerusici, confessori, e loro segni. Sequestro de’ fanciulli e delle donne. Provvisioni per li beccamorti. Commercio fra’ cittadini e contadini.
Qualora poi sembri o vicino o inevitabile il malore, s’hanno allora da preparar lazzeretti con tutta sollecitudine, quando non se ne avessero dei già preparati, e quando abbiano le comunità nerbo per così dispendiose provvisioni. Potendosi mettere sui principj in quarantena la terra o città, si elegga [66] per ogni contrada un capostrada, uffizio di cui sarà il far portare alla gente rinchiusa della contrada a lui commessa le cose bisognevoli, consegnando ad ognuno entro una cesta, che verrà calata dalle finestre, la porzione competente alla sua famiglia, e tenendo sempre buona nota di cadauna persona d’essa contrada, e de’ malati e morti, che ogni giorno si darà al suo commissario, e da questo al magistrato. Se alcuno si ammalasse di peste, converrà senza dimora trasferirlo al lazzeretto, e gli altri della famiglia, siccome sospetti d’aver contratto il male, al luogo del sospetto, di cui parleremo a suo tempo. Si segni immediatamente quella casa, acciocchè subito sia purgata coi profumi, e renduta abitabile nell’avvenire, notando poi con altro segno che quella è purificata.
Non potendosi tentare l’utilissimo rimedio della general quarantena, di mano in mano si manderanno gl’infetti di peste al lazzeretto; e chi si trova aver praticato con esso loro, al luogo del sospetto, espurgando e purificando immediatamente le case e robe loro. Quando non si possano aver lazzeretti e luoghi del sospetto, bisognerà fare come si può; cioè sequestrare nelle loro case le famiglie infette o sospette, le quali con profumi purgando tanto le camere ove sono stati infermi, quanto le robe loro, oppure con segregarsi affatto da quelle stanze e robe appestate, dovranno cercar di salvarsi; e scoprendosi sane dopo almeno venti giorni, si potranno con licenza de’ deputati rimettere alla libertà del commercio, purchè prima sia seguita l’espurgazione legittima delle loro case e robe. Ogni quartiere della città abbia un medico [67] ed un cerusico assegnato, i quali per quanto potranno, fedelmente e con zelo faranno l’uffizio loro per iscacciare o reprimere il veleno della pestilenza. Sopra le porte delle case infette o sospette, e perciò chiuse d’ordine de’ magistrati, si dovrà scrivere SANITÀ, o fare una croce o altro segno ben visibile e notificato a tutti, acciocchè ognuno conosca non potersi entrare colà, nè indi uscire senza permissione de’ conservatori, sotto pena della vita, nella quale ancora incorrerà chiunque levasse il segno suddetto o il mettesse alle case non sospette. Partita la città in varj quartieri, per maggior comodità de’ ministri si segnerà ogni casa di cadaun quartiere col suo numero, cominciando dall’uno, e seguitando innanzi con ordine, e facendo quel numero ben visibile con terra rossa o d’altro colore sul muro, vicino alle porte delle case. Miransi tuttavia contrassegnate in Genova le case nella forma suddetta, perchè posti que’ numeri in occasione del fierissimo contagio del 1656 s’è trovato utile il conservarli per potere con facilità identificare e distinguer le case nella distribuzione de’ pubblici aggravj e in altre occorrenze.
Procede poscia in ogni sistema di governo intorno alla peste la notissima regola di proibir subito le scuole, le feste da ballo, i ciarlatani, i giuochi pubblici, i mercati, fuorchè de’ commestibili, le fiere, ed altre adunanze e conversazioni allora non necessarie, siccome ancora il sospendere i tribunali giudiziarj per le funzioni strepitose a fine d’evitare il concorso. E perciocchè nessuno più facilmente che i mendicanti, o sia limosinanti, e birbanti suol portare e dilatare il contagio, si [68] dee far quanto si può per provvedere a questo pericolo: il che avverrà ove si possano rinserrar tutti alle spese del pubblico in qualche luogo spazioso fuori della città con santissimo ed utilissimo ripiego, essendo i poveri per lo più quei che rendono frustraneo il buon regolamento del contagio e della città afflitta. Dovrà questo luogo esser guardato da milizie per impedirne la fuga, diretto da ministri savj, come un monastero, per togliere la confusione; e con divieto che niuno ne esca e niuno v’entri, se non chi per uffizio dee farlo; e con prevedere e impedire gli scandali che potessero nascere dal mescolamento d’uomini e donne. Vi sia divisione di stanze per gli accidenti che possono occorrere. Trovato alcuno che si fosse occultato per non ridursi al luogo destinato, sia punito, con lasciar adito agli altri nascosti di potersi colà ridurre, e avvertendo di non mettere i nuovi a tutta prima con gli altri, ma di tenerli per qualche giorno in luoghi separati per assicurarsi d’ogni dubbio. Che se non vi sarà forza per effettuar questo disegno, veggasi di rinchiudere essi questuanti nelle proprie lor case, alimentandoli poi alle spese del pubblico, o con limosine raccolte per mezzo di persone deputate dal magistrato, e facendo proibizione agli altri di questuare o mendicare. In caso di necessità si permetterà ai bisognosi il questuare, ma con istar fermi in qualche luogo loro destinato da chi avrà tale sopraintendenza, il quale darà loro un bollettino; e senza questa licenza in iscritto sia vietato a cadauno il mendicare. Si osservi nondimeno che il radunar tutti i poveri in luogo appartato può esser bene, [69] purchè tutti sieno sani, altrimenti un solo appestato può successivamente ammorbar tutti gli altri. Dovrà parimente pensarsi ai filatoi della seta, utilissimi ai poveri, ma pericolosi in tempi tali per lo concorso colà dei medesimi. Sarà pertanto da esaminare se debbano chiudersi, oppure se si possano permettere con varie cautele. Convien anche deputare un nobile per commissario della sanità sopra il ghetto degli Ebrei; e caso che entri la peste in città, converrà tener ivi chiuso quel popolo, con avvertenza di prendere per esso una casa vicina al ghetto, ma non comunicante col ghetto, ove stieno cinque o sei deputati ebrei per far tutte le provvisioni necessarie alla loro università; nè questi entreranno mai dentro i rastrelli che chiuderanno il ghetto.
In Roma nel 1656 fu fatto (e così dee farsi altrove) editto di denunziare qualunque malato e qualunque morto, benchè non dessero segno o sospetto di peste, all’uffizio del notaio deputato per ogni quartiere, con obbligare a ciò i suoi famigliari, il medico e il parroco, o chi ha cura d’anime, sotto pena della galera e anche della vita, e con vietare a’ medici e cerusici il dar medicamenti a chicchessia se non denunziassero tali persone. Ogni dì si dovrà dare tal denunzia dal notaio, o da altro deputato ai magistrati, con tenere esatta nota di tutte le case o sospette o infette, siccome ancora delle espurgate. Gioverà a motivo di maggior cautela, oltre ai contrassegnati da buboni, carboni e petecchie, creder tutti morti di peste coloro che nello spazio di soli sette giorni fossero mancati di vita. Parimente fu proibito ai [70] beccamorti il seppellire alcun cadavero senza partecipazione del deputato. Così è da vietare a tutti l’esporre fuori di casa morto o malato alcuno, se non per consegnarlo ai ministri della sanità. Non potendosi poi commetter più grave nè più pericoloso errore quanto è quello del seppellire nelle sepolture ordinarie e ne’ cimiteri delle chiese, e massimamente entro le città, i cadaveri degli appestati, perchè ciò fomenta il male, e si crede che possa facilmente ravvivarlo anche dopo molti anni; quindi è che tali cadaveri debbono assolutamente seppellirsi fuori della città in luogo destinato, in fosse profonde e con gran terra addosso, coprendoli prima di calce viva, che presto li consumi e impedisca le perniciose esalazioni, e con editto che non si muova più quel terreno. Ivi stieno guastatori a posta per cavare le fosse. Nel contagio della nostra città l’anno 1630 fu permessa la sepoltura in chiesa e ne’ cimiteri, quando colla fede giurata di medico approvato costava che alcuno fosse morto senza peste. Tuttavia essendo nati troppi assurdi e frodi da tal permissione, fu dipoi generalmente proibito il seppellire alcuno, fosse sospetto o non sospetto, eccettochè nel luogo destinato fuori della città. Così dee farsi in altre simili congiunture, e non permettere pompa alcuna di funerali in que’ tempi; anzi si dee consigliare e desiderare che, per non somministrare maggior pascolo alle rapine de’ beccamorti, i cadaveri vengano loro consegnati se non ignudi, almeno quasi ignudi, per quanto comporta la decenza; e certo non mai con addobbi e superfluità, che servono solo di spoglie ai suddetti beccamorti per appestar [71] poi altre persone, e aumentare o far ripullulare il male. I ricchi si possono portare in cassa da quattro serventi esposti che avvisino, occorrendo, le persone a ritirarsi. I poveri si conducano in carro coperto. E prima della notte sieno asportati i cadaveri, per vedere che i beccamorti non asportino robe rubate. Che se per poca avvertenza alcun morto con segni di mal contagioso fosse stato sepolto in chiesa, quelle sepolture si debbono ben murare, o impiombare, e non aprirsi mai più senza licenza de’ magistrati, o senza lo spurgo che accenneremo. Sopra ciò fu fatto editto in Roma ed anche in Modena ne’ contagi passati. E perciocchè alcuni per non esser condotti a’ lazzeretti, o non veder ammontati e seppelliti i suoi alla rinfusa col volgo, occultano le malattie della lor casa, e giungono sino a seppellire scioccamente nelle proprie case i cadaveri de’ loro congiunti: si tenga nota distinta dal deputato d’ogni contrada di quanti si trovino in cadauna casa, per potere in tempo e forma propria riscontrare il numero d’essi, con farli venire alle porte o finestre, e così schivar que’ pericoli e quelle frodi che possono tornare in gravissimo danno non meno di quelle famiglie che del pubblico. In Palermo ogni mattina i deputati riconoscevano se alcuno delle famiglie loro assegnate mancava, o era infermo, o mostrava cattiva ciera, facendo venir cadauno alle porte.
Fu ordinato in Roma che nessuno potesse entrare, nè fermarsi di notte in casa di meretrici. Che gli osti non potessero dar da mangiare a più di quattro persone per tavola, sfuggendo ogni [72] ridotto, bagordo e raunanza. Che non fosse permesso il visitar malati, eccettochè a quei della sua famiglia, a’ parochi, confessori, medici, cerusici, speziali, notai, testimonj, mammane ed uffiziali della sanità. Gli altri senza licenza non poteano. Ma affinchè il commercio di queste persone eccettuate con gli appestati non pregiudichi al resto dei sani, è da lodare e seguire il metodo poscia ivi prescritto; cioè furono deputati e salariati dal pubblico due medici e altrettanti cerusici con titolo di sospetti per visitar la gente sospetta, e due altri medici con titolo di brutti (si possono chiamare esposti) per visitar le persone infette. Nella stessa maniera i confessori erano distinti parte in sospetti e parte in brutti, o sia esposti; nessuno di questi medici, chirurghi e confessori potea andare alla visita delle persone sane, nè conversar con esso loro, nè entrare in casa che non fosse già stata dichiarata brutta (cioè infetta) ovvero sospetta, nè uscir mai fuori della propria casa senza portare in mano una bacchetta lunga almeno sei palmi e scoperta, con una crocetta di sopra, affinchè potesse vedersi da tutti e fuggirsi la loro pratica, portando di più gli esposti un abito di taffettà o di tela incerata. Furono ancora destinate due mammane, o sia levatrici, per le donne gravide sospette, con indicare nel pubblico editto i nomi e la casa d’esse mammane e de’ medici e cerusici deputati.
Ivi ancora fu fatto editto che gli speziali e cerusici, soliti a servire infermi, quando fossero chiamati da essi dovessero somministrar loro medicamenti, cavar sangue, ecc., purchè essi infermi [73] avessero attestato dal medico di non essere aggravati da mal contagioso. Che se per disavventura il male si fosse scoperto tale, doveano i suddetti cerusici e speziali star rinserrati solamente dieci giorni, dopo i quali, ritrovandosi goder buona salute, erano liberi. Del pari fu ordinato che nessuno potesse mutar casa senza licenza de’ soprintendenti; che nessuno ardisse di mutarsi nome; che agli osti e locandieri non fosse permesso senza licenza de’ magistrati il ricevere in loro casa malato alcuno; e che niuno, sotto pena della vita, osasse uscire di qualsivoglia casa serrata per cagione della sanità, siccome neppur dai lazzeretti, senza averne licenza da’ soprintendenti. E perciocchè fuggì un ministro de’ lazzeretti e alcun’altra persona, con pubblico bando e gravi pene fu intimato a’ complici ed informati il denunziar tali fuggitivi. Fu parimente proibito che niuno si fermasse nelle strade uscendo dalle case o botteghe sue per unirsi ove comparissero i ministri de’ lazzeretti, o dove fossero condotte via persone sospette o infette, con ordine ai ministri che camminassero per mezzo alle strade coi loro contrassegni, ammonendo le genti a star lontane da essi.
I fanciulli sino all’età di quindici anni almeno (altri dicono sino a’ dieci, ma par troppo poco), siccome quelli che più innavvertentemente conversano con tutti e son più facili pel tenero lor temperamento ad infettarsi e ad infettare, perciò per consiglio de’ medici e di tutti i professori, si debbono confinar nelle case loro, senza permettere loro l’uscirne. Altrettanto (benchè non sia necessario un egual rigore) si dee ordinar per le [74] donne, anch’esse per la lor complessione sottoposte ad una facile infezione, avvertendo però, che alle povere donne e famiglie, alle quali per non potere uscir fuori mancasse il mantenimento, gliel’ha da provvedere il pubblico, o per via d’un sussidio giornaliere o con somministrar loro da lavorare: altrimenti sarebbe lo stesso il morire di fame, che di contagio. In alcune città, e spezialmente in Modena, fu fatto il suddetto regolamento, obbligando a pene pecuniarie i padri, i mariti, i fratelli e i padroni di chi contravveniva. Solamente fu dai nostri conservatori saggiamente permesso che per ogni famiglia mancante d’uomini, una donna avesse libertà d’uscire di casa per provvedersi del bisognevole a quell’ora che sonava una campana determinata, e potesse star fuori, finattantochè essa campana cominciasse a sonare i botti o tocchi, nel qual tempo aveano esse donne da ritirarsi prima che finissero i botti. Furono eccettuate da tal proclama quelle donne e que’ fanciulli che poteano andare in carrozza propria, purchè non fossero di case sequestrate; come ancora le contadine ed ortolane, portanti vettovaglie e frutta, con ordine però che non entrassero in casa alcuna e portando a’ padroni qualche cosa, la ponessero sulla porta della casa senza entrar dentro. Furono altresì eccettuati i fanciulli contadini che venissero avanti ai buoi e non altrimenti; e le rivenderuole d’erbe e frutta non abitanti in case sospette e non inferme, e le levatrici, alle quali era lecito l’andare a levare i parti, ma non ad altro nè per altro. Sarebbe sommamente utile il provvedere ancora a que’ gravi disordini che possono cagionare, molto [75] più in questi che negli altri tempi, le donne da partito o pubbliche meretrici. E per conto dei servitori e delle serve, avvertano i padroni, che chi ha il comodo, li faccia dormire cadauno in un letto da per sè solo, acciocchè portato il male da un solo non pregiudichi a tutti.
Emanò anche editto in Modena che nessuno ammalato, o di pestilenza o di qualsivoglia altro male, potesse camminare per le città, siccome nè pure introdursi in essa città o mutar casa, senza licenza del magistrato. Sarebbe anche necessario il far girare di notte tempo la pattuglia con alcuno della sanità, sì per impedire i furti e delitti, e sì per sorprendere chi violasse i sequestri e i trasporti furtivi di robe infette, con contravvenire a’ premurosi editti che saranno stati fatti e si dovranno rigorosamente far eseguire, dipendendo in gran parte da questi due riguardi o la continuazione o l’aumento irreparabile del contagio. Gioverebbe ancora serrar con barricate tutte le contrade o almen le più infette, e custodirle poi di notte, per vietare i suddetti disordini, con libertà a chi fa la guardia di tirare archibusate a chi furtivamente tentasse la fuga. Ciò fu saviamente praticato in Palermo per le contrade che avevano tutti gli abitanti infetti, facendo mutar casa solamente a quei pochi che non erano peranche colpiti dal male. Si fuggono d’ordinario assai volentieri i beccamorti, e spezialmente in tempo di peste; contuttociò fu saggiamente ordinato con pubblica grida, che i medesimi (siccome gli altri serventi de’ lazzeretti) portassero tutti un abito uniforme, cioè un camiciotto di tela incerata del medesimo colore, acciocchè [76] ognuno si tenesse lungi da loro; e, fuori del tempo del loro uffizio, stessero serrati nelle case loro assegnate in sito men geloso, con sola permissione di andare ad un’osteria destinata per loro soli, i cui abitanti non poteano aver commercio con altri. E per animar le persone basse a questo abborrito bensì, ma molto caritativo impiego, si tassò la lor mercede a sette lire (queste presso a poco importavano allora dieci paoli) per ciascun morto che portavano a seppellire in casse; e per gli altri fuori delle casse lire cinque; e per gli poveri l’uffizio della sanità pagava loro quaranta soldi per ciascuno. Nessuno poteva esercitar la funzione di beccamorto senza licenza ed approvazione del magistrato. Tutto saggiamente. E si avverta che per quanto si può s’hanno a scegliere persone dabbene per tale incumbenza. Ma perchè non è molto facile il trovarne delle sì fatte, ma sì bene è facilissimo che assumano tal carico uomini immodesti e disordinati, e quasi tutti con disegno e speranza di far bottino, non mancando avaroni che contra tutti i divieti cercano di profittare colla compra di tali robe, si procuri almeno di dar loro uno o più capi timorati di Dio e di maggior prudenza e disinteresse che li tengano in freno e possano gastigarli o farli gastigare, occorrendo, ancora col più grave de’ gastighi, in caso di disubbidienza; invigilando sopra tutto che non rubino con discapito dell’anima loro, e con accrescere mercè delle robe infette il pericolo a sè stessi o ad altri di perire un giorno. Questo disordine è quasi irremediabile, e si provò anche in Venezia, dove pur tali persone nascono eredi [77] della professione; ma può rimediarvi non poco la vigilanza dei magistrati, mettendo spie, diffidenze e uomini dabbene fra loro. È stato osservato che alquanto dopo fornita la peste mancano di vita non pochi di costoro che s’erano preservati in mezzo alla peste. Per altro la sperienza fa vedere in que’ tempi che i beccamorti, benchè tutto dì maneggino con graffi, uncini e bene spesso colle mani cadaveri appestati, pure non ne sogliono restar essi infettati, o sia perchè siccome ad altri veleni si può a poco a poco avvezzare un uomo, così anch’eglino s’accostumino a quello della peste; o sia (e questo sembra più verisimile) che s’imbattano a far quel mestiere persone di temperamento opposto alla forza di questi spiriti velenosi e incapace di riceverli, siccome d’ordinario sono incapaci di ricever la medesima peste tanti quadrupedi ed uccelli, quantunque praticanti con uomini appestati. Non si vuol però tacere che sul principio delle pestilenze molti de’ beccamorti sogliono sloggiare anch’essi dal mondo, e restar preda della loro preda; e così, non subito, ma a poco a poco viene a formarsi l’assemblea di quei che restano vivi, perchè resistenti al male e che seppelliscono tanti senza cader eglino mai nella fossa. Per altro in Roma fu osservato che nessuno di quelli che toccavano corpi morti, quando erano nudi, fu assalito dalla peste: il che se fosse vero, darebbe valore all’opinione di chi crede che nei cadaveri, quando son freddi, sieno mancati ed estinti i semi dell’infezione, e che solamente dai corpi caldi si possano tramandare gli effluvj velenosi. Ma queste sono sperienze dubbiose, e la [78] prudenza insegna che non se ne ha molto a fidare se non in caso di necessità. Ogni quartiere avrà i suoi beccamorti assegnati, che o la mattina per tempo o la sera sul tardi raccoglieranno i cadaveri per trasportarli sulle carrette al luogo destinato, dando segno alle case o con la voce o in altra forma. In caso di gran necessità si potrà dar questo impiego a chi già fosse stato condannato alla morte o alla galera, s’eglino il vorranno, badando però che non sieno rei di ladrerie, nè di coscienza troppo perduta. Così può ancora farsi negozio, affinchè i poveri si guadagnino il vitto o con tale impiego o con servire ai lazzeretti.
Essendosi poi osservato in Modena che riusciva di molto pregiudizio il commercio de’ cittadini coi contadini, comunicando disavvedutamente gli uni agli altri il mal contagioso, fu con pubblico proclama ordinato che essi contadini, venendo alla città, non potessero praticare, nè commerciare co’ cittadini, nè entrar nelle case d’essi, fuorchè ne’ cortili e nelle cantine, in occasione d’introdurvi le uve ed altre entrate della campagna. Anzi scorgendosi quasi estinto nella città il morbo da cui non erano alcune ville peranche affatto immuni, fu pubblicato nuovo editto, in cui si proibiva ai contadini l’entrare in modo alcuno in città con fedi di sanità o senza. Nulladimeno conducendo vettovaglie, si permetteva loro l’ingresso, purchè dirittamente andassero a varj luoghi destinati nella città per venderle, e non uscissero da questi luoghi e serragli. E chi conduceva carri con legna, fieno, vettovaglie e simili rendite della campagna, dovea condurle a dirittura ove erano destinate, senza [79] però entrar nelle case, e con iscaricarle nella strada. Ma perchè i cittadini o per inavvertenza, o per malizia, poteano trattare e commerciar con costoro nel loro passaggio, anche a ciò sarebbe stato bene il trovar ripiego. Non ben sopito il male nella nostra città, fu ordinato che i cittadini, i quali andavano e tornavano di villa, non avessero più questa libertà, ma in termine di otto giorni, se voleano, ritornassero entro la città, avvisando però due giorni prima di venire, acciocchè si prendessero le dovute informazioni se si potevano ammettere. Non venendo entro quel termine non erano più ammessi: e ciò per essersi osservato molto pregiudiziale l’andar loro e venire dopo aver praticato coi contadini infetti.
Si stese la cura e lo zelo dei conservatori della nostra città al buon ordine delle ville del distretto in que’ fieri tempi. Pertanto con pubblica grida furono destinati per ogni villa uno o due deputati de’ meglio stanti e più abili, i quali fossero tenuti ad assister ivi, e far eseguire i seguenti ordini della sanità: cioè, che avessero tutti tanto contadini come cittadini ivi abitanti, da denunziare i morti e gl’infermi a persona destinata; che non si facesse ivi trasporto o maneggio di mobili infetti o sospetti; si provvedesse ai miserabili; si destinassero beccamorti coi dovuti riguardi; quei d’una villa non andassero a messa in altra villa; non potessero, nè anche per condurre vettovaglia alla città, partirsi dalla lor villa, senza licenza del deputato e fede del curato attestante la sanità, il quale andasse ben circospetto in farla; si vietassero conviti, giuochi, trebbi, adunanze, ecc; dovesse [80] ogni massaro o sostituto ciascuna domenica far leggere alla chiesa i nomi e i cognomi dei morti per contagio, e de’ vivi sospetti e di chi avesse trattato con esso loro a fine di fuggirne il commercio. Con questi ed altri ordini si procurò soccorso e difesa anche al contado. E qui si ricordino i conservatori e le terre e le ville d’aver l’occhio attentissimo sopra le donne che vanno a trar la seta, chiamate da noi calderane. Da queste, che finite le lor faccende, vogliono a tutti i patti tornarsene alle lor case, fu nel 1630 disseminata la peste in varie parti delle montagne di Modena che dianzi godeano buona salute. Dai vignolesi, che continuamente battevano i propri confini, ne furono sorprese due, e impedito loro fortunatamente il passaggio, perchè da lì a poco si scopersero infette e lasciarono poi di vivere sotto una quercia, ma senza nocumento di quel paese.
Commercio co’ forestieri interdetto. Regole per preservarsi illeso nelle terre e città appestate. Cautele del vestire e del praticar con infetti. Prove che si può facilmente preservare, tratte dalla sperienza. Necessità e utilità dei coraggio in tali casi.
Altri utili regolamenti furono fatti e pubblicati dalla nostra città, soliti e comuni anche alle altre, per evitare sul principio e nel proseguimento della peste, il commercio co’ forestieri. In tempi tali, [81] venendo persone da luogo infetto o sospetto, hanno i deputati ai passi e confini, senza nè pure riconoscer le fedi d’esse, da rimandarle; o se già sono entrate, gastigarle o metterle in contumacia, cioè costringerle alla quarantena o in lazzeretti o in capanne alla campagna o in case destinate a posta, facendo loro buona guardia. Per altro nei timori del male si vieta l’ingresso a persone tali sotto pena della vita; e alcuni magistrati che conoscono necessario il rigore, talvolta hanno fatto eseguire tal pena per terrore degli altri. Il permutarla e diminuirla secondo la maggiore o minor frode loro e più o men grave pericolo dello stato, si rimette alla prudenza e carità di chi comanda. Venendo poi viandanti da luoghi non infetti nè sospetti, i deputati non li lasceranno avvicinare se non quanto possano udirli e vederli, finchè sia riconosciuta la fede legittima della sanità. Nel ricever le fedi, dovranno i suddetti deputati avere in mano una canna (o altro simile strumento) e in capo ad essa pigliarle, e prima che le tocchino farle passar sopra il fuoco, quanto basti per purgarle. Venendo seco lettere, non le lascino passare, senza prima abbronzarle, purchè sieno espresse nelle fedi, e non vengano da luoghi sospetti, dovendosi in dubbio chiarire. Dee pure provvedersi ai corrieri, postiglioni e staffette, affinchè si regolino anch’essi colle leggi degli altri, e duri, finchè si può, il commercio delle lettere, ma senza pregiudizio della sanità. L’aver talvolta disputato con gran freddezza l’ingresso a certe persone o mercatanzie dubbiose, ha dato quasi miracolosamente assai tempo di scoprire ch’esse [82] portavano seco la peste. Ferrara preservata ne vide alcuni esempi. Dee parimente provvedersi ai disordini che potrebbono recare i birri in portarsi a far le loro esecuzioni entro o fuori della città.
Sotto pena della galera e di 200 scudi, ed anche maggiore, niuno, sia forestiero, sia del paese, venendo da territorio straniero non bandito nè sospeso, possa indirettamente o furtivamente, e fuorchè per le strade destinate, entrar nello stato o distretto, e nè pure toccarne una parte, senza aver prima presentate ai confini e passi le sue fedi ai deputati. Chi poi entrasse furtivamente, venendo da paese infetto o sospetto, benchè con fede di sanità, è senz’altro già incorso nelle pene dei bandi. Trovando i contadini alcun forestiero fuori delle strade maestre, saranno obbligati, sotto pena afflittiva ed altre, ad interrogarlo ove sia indirizzato il suo viaggio; e conoscendo o dubitando che si sia divertito dalla diritta strada, o pure solamente scorgendo che non abbia fede di sanità, saran tenuti a fermarlo, ovvero, occorrendo, dovranno levargli dietro romore e condurlo immediatamente all’ufficio della sanità del passo più vicino, consegnandolo all’ufiziale. È anche da farsi rigorosissimo editto che nessuno ardisca di uscire del territorio per andare in luoghi sospesi o banditi per esca di guadagno o per altro rispetto con pensiero di ritornarsene poi segretamente nello stato.
Notizie, triviali forse per alcuni, ma certo ignote e necessarie ai più del popolo, per non essersi eglino mai trovati in sì terribili assedj, sono in buona parte le fin qui esposte. Non si può dire, [83] nè raccomandare abbastanza cosa importi e quanto giovi in questi cimenti il guardarsi dal commercio altrui, e insin delle persone che sembrano più sane e più guardinghe. Il cardinal Gastaldi, che fu uno de’ principali regolatori di Roma nella peste del 1656, scrive che di tanti rimedi che si proponevano, non si trovò mai il meglio di quello di proibire severamente il commercio fra le persone, imperocchè troppo disavvedutamente si riceve e si comunica il contagio pestilenziale. Magnopere, dic’egli, semper institi, ut severe commercia omnia interdicerentur, experientia edoctus. Più delle amicizie giovano in tempo di contagio le nemicizie, ed è meglio trovarsi allora in prigione che poter liberamente vagare qua e là. In fatti si osservò nella peste suddetta di Roma e in quella di Modena del 1630 che non penetrò il male in alcuni conventi di religiosi, e molto meno in quei delle monache; e se cacciossi pure in due o tre, non vi fece verun progresso, ma si soffocò con gran felicità.
Sicchè (e sel ricordino bene i lettori) il morir di peste, d’ordinario non viene dal trovarsi in mezzo alla peste, e in una città o terra appestata, ma dal non sapere o dal non poter ivi schivare o ben regolare il commercio colle persone. E ciò mi fa scala ad un altro punto di grandissima importanza, che desidero ben impresso in mente di tutti. Dico pertanto che in tempi di contagio chiunque non può ritirarsi dalla città ed è necessitato a fermarsi ivi, sia perchè non ha ricovero altrove, o perchè gl’impieghi, uffizj ed interessi suoi l’obbligano a non partirsene: dee [84] farsi animo e concepire un gran coraggio, persuadendosi che con tutto lo strepito della pestilenza egli ne potrà facilmente campare, e ne camperà coll’aiuto del Signore Iddio, in cui dee riporre la sua maggior fiducia, se userà quelle cautele e quei preservativi che s’andranno divisando.
E che ciò sia vero, non c’è il migliore argomento per provarlo che l’esperienza stessa. Egli è notissimo che chi allora può tenersi chiuso nelle sue case, fuggendo il commercio dello persone pericolose, e tenendo ben serrate e assicurate le porte sue, per l’ordinario non contrae la peste, purchè non fosse appestata l’aria tutta di quella terra o città (il che quasi mai non avviene), e purchè l’abitazione sua non sia così stretta o mal posta, che per necessità le si comunichi l’aria infetta delle camere abitate da infermi di mal contagioso. Lo stesso che accade ai monisteri, succede per gli abitanti delle case private, ogni qual volta queste case si facciano diventare come tanti monisteri di religiose. Nulladimeno perchè la necessità costringe anche la maggior parte di coloro che stanno volontariamente rinchiusi a provvedersi di cibi e d’altre cose che loro mancano, basta che usino alcune circospezioni praticate allora da tutti i saggi con buon successo. Voglio dire che stando le persone rinserrate nelle case senza uscirne, possono elle provvedersi di tutto, calando corde con una cesta o canestro o altro simile ricettacolo dalle finestre, e tirando su tanto i cibi quanto i medicamenti, utensili ed ogni altra cosa che loro occorra. Si fa star fuori di casa un servo che provvegga di tutto; che se non si ha tal comodità, [85] non mancano persone che per pochi soldi vanno provvedendo e portando giornalmente i cibi e le altre cose a chi ne ha bisogno; e mancato un provveditore estraneo, se ne trova immediatamente un altro, perciocchè o il magistrato deputa questi vivandieri, o suppliscono i men comodi e bisognosi che allora sono molti, ingegnandosi ciascuno di vivere alle spese de’ cittadini comodi. Quali robe possano riceversi e maneggiarsi senza sospetto, e come s’abbia ad assicurar le altre, il vedremo fra poco. Sicchè il primo gran preservativo per chi può è il fuggire; e il secondo per chi non può o non dee fuggire, si è lo starsi ritirato in casa e lontano dall’altrui commercio.
C’è di più: non solamente chi si chiude fra le mura della sua casa, ma eziandio chi o per bisogno, o per uffizio ha da uscire fuori di casa e aver qualche commercio con gli altri, potrà farlo e dovrà farlo intrepidamente, purchè lo faccia colle cautele che si andranno accennando e che possono molto ben conservarlo illeso, anche se tratterà ne’ lazzeretti e con persone infette o sospette, come accade a molti uffiziali, cerusici, ecc. Sarebbe bene allora per tutti quei che escono di casa, ma certo sarà specialmente bene, anzi necessario per chi dee praticar gente ammorbata, il portare una sopravveste di tela incerata, oppure di marrocchino o d’altro cuoio sottile (queste si credono migliori di tutte), ovvero di taffettà o d’altra manifattura di seta, perchè alle vesti di lana troppo facilmente s’attaccano gli spiriti velenosi del morbo, ma non già s’attaccano se non difficilmente (per quanto vien creduto) alle [86] incerate e a’ marrocchini, e non si possono ritener lungo tempo dalla seta spiegata. Avvertasi però che le vesti di seta non debbono esser fatte con lusso, nè con gran cannoni e piegature, ma hanno da farsi povere e piuttosto corte, avendo lasciato scritto il Mercuriale che alcuni medici nella peste di Venezia de’ suoi dì si tirarono addosso la rovina per aver nelle visite degl’infetti portate vesti lunghe e larghe, e delle pelliccie, secondo l’uso d’allora. Chi non ha seta, nè altro di meglio, usi almeno lino o canape piuttosto che lana. Alcuni hanno talvolta usato di coprir anche la faccia con una maschera, o bautta, a cui mettevano due occhi di cristallo; ma non è necessaria tanta scrupolosità. Per chi non potesse trovar incerate, nè saperne fare, stimo bene insegnarne loro la ricetta. Si fa bollire a fuoco moderato per quattro o cinque ore olio di noce, o di semenza di lino, e quando non s’abbia altro, d’uliva, mettendovi dentro per ogni libbra d’olio un’oncia di litargirio e una dramma di mastice, e dimenandolo di quando in quando con una spatola. Raffreddato che sia l’olio, si dà con pennello una mano d’esso al taffettà colorito che si vuol incerare, facendolo stare ben tirato in telaio, e mettendolo poi al sole per due o tre giorni occorrendo, tanto che sia bene asciugato. Quindi se gli dà un’altra mano d’esso olio, e si torna a far asciugare, con che si avrà senza cera il taffettà incerato, pieghevole e maneggiabile. Nella stessa guisa si potranno incerare altre tele sottili di lino. Per le tele grosse si mescola coll’olio terra d’ombra bea sottilizzata e passata per setaccio, di quel colore che si vuole. [87] Ma per queste usano di mettere più litargirio nell’olio, cioè sino a tre once per libbra d’olio, chiudendolo in una pezza, la quale si fa stare immersa e sospesa nel suddetto olio quando bolle.
Appresso convien adoperare profumi, spugne inzuppate in liquori, ed altri preservativi de’ quali si andrà parlando di mano in mano. Si può anche passar per le contrade e far altre faccende per la città, ma badando di non toccar robe sospette e di non accostarsi a gente infetta o dubbiosa, secondo i segni ch’essa ha da portare; e sarà sempre maggior sicurezza il fidarsi poco di tutti. Dovendo parlare a tal gente, se le parli in lontananza; e pel resto degli uomini sarà anche buon consiglio il tenersi in qualche distanza da loro, e non accostarsi molto alle medesime senza necessità. Così i medici possono parlare agl’infermi con farli venire alle porte o alle finestre, intendendo lo stato loro e prescrivendo loro opportuni rimedj. Che se pur vogliono o debbono accostarsi e toccare il polso agl’infetti di morbo pestilenziale, hanno da toccarli colle dita prima bagnate nell’aceto, che porteran sempre seco, e con tener la faccia rivolta all’indietro guardarsi di non ricevere il fiato dell’infermo, usando anche un ventaglio, con cui spingano l’aria verso la persona malata, siccome ancora osservando che non ispiri vento dalla parte d’essa verso il sano. Altrettanto avran cura di fare i cerusici, uffiziali e serventi. Nè entrino in camera ove sieno infetti, se prima le finestre non saranno state aperte per buono spazio di tempo, e rinnovata e rettificata l’aria d’essa stanza con qualche profumo. Oltre a ciò sogliono alcuni chiamati a [88] medicar infetti turarsi per quanto possono il naso e la bocca, e tutti poi si difendono il respiro (e questo basta) con la spugna inzuppata in aceto, anzi alcuni si coprono quasi tutto il volto con un panno bianco inzuppato del medesimo liquore.
Con queste diligenze e con gli altri preservativi ed ordini che accennerò intorno alla dieta, egli è certo che prudentemente si può praticare ancora con gli abitanti d’una città o terra infetta senza timore e con virile coraggio. In fatti l’esperienza (torno a dirlo) troppe volte ha fatto vedere essere convenevole e fondatissimo un tal coraggio, e potersi facilmente preservare il savio in mezzo alla peste e nel commercio degli appestati. Nel contagio di Roma dell’anno 1656 il sommo pontefice con assai cardinali stette fermo in città; e di tanti prelati e nobili che governarono allora quel popolo e tutto dì cavalcavano per la città, visitavano lazzeretti e faceano tante altre funzioni, non si sa che alcuno perisse di quel male; e pure entrò esso anche nella famiglia bassa d’alcuno di loro. Lo stesso avvenne durante la peste della nostra città nel 1630, e noi sappiamo che Marsilio Ficino, Filippo Ingrascia, Girolamo Fracastoro, Silvio de le Boe e tanti altri medici famosi si trovarono in mezzo alle pestilenze, e coraggiosamente vi assisterono senza riportarne alcun nocumento. Bernardino Cristini, cognito fra i Minori Osservanti per gli Arcani del Riverio, ed altre opere di medicina da lui pubblicate, era stato dianzi medico d’un lazzeretto in Roma nel poco fa mentovato contagio, in cui nota anche il cardinal Gastaldi che Gregorio Rossi, medico valente, [89] praticò sempre e curò gli appestati, e non contrasse mai morbo alcuno. Il Diembrochio, celebre medico, anch’egli senza menoma lesione medicò infetti e non infetti nella pestilenza di Nimega del 1636 col metodo che diremo più a basso. Tanti altri medici che scrivono della peste, furono la maggior parte intrepidi in tempi d’essa, e non lasciarono di visitar gli appestati.
Non è degno di minor attenzione il sapere che, quantunque talvolta anche qualche principe sia morto di peste, e sia avvenuta la stessa disgrazia a dei nobili, deputati allora al governo; tuttavia le persone nobili e civili d’ordinario si preservano molto bene nelle stesse città infette, ed esercitano egregiamente i loro uffizj, nè si tengono in una volontaria prigione. Il potersi eglino nutrire di cibi sani, e l’abbondare di molti comodi e preservativi, con case larghe, vesti a posta, e senza necessità o ingordigia di toccar robe infette, serve loro di un continuo riparo contro il veleno. Se principi e nobili in tali occasioni mancarono di vita, ciò fu per un ardente zelo di carità che li fe’ troppo esporre ai pericoli per benefizio del popolo loro e della lor patria, ovvero perirono essi per poco uso del lor giudizio, e solamente in città che per la gran popolazione e strettezza rendevano indomita e stranamente comunicabile la fierezza della peste. Del resto nell’altre terre e città meno strette e meno abitate, le persone nobili, civili e comode, purchè savie, sogliono passarla netta: e ciò costa da troppe esperienze. Contro il povero volgo, e contro chiunque è costretto allora dal bisogno a non istare in riguardo, o è lusingato [90] dalla brama d’arricchire, si suole scaricare il furor del contagio. Osservò il Rondinelli nel contagio di Firenze del 1630 come cosa degna di gran considerazione che essendo in varie case di gentiluomini entrato il male, portatovi o dalle serve o da’ servitori, non vi fu esempio che si attaccasse ai padroni, i quali pure erano stati serviti e maneggiati da chi aveva l’infezione addosso. Anche nella peste che tre anni sono afflisse cotanto la Polonia, toccò quasi tutto alla misera plebe il flagello, restando intatta la nobiltà; e ciò tuttavia si osserva in quella che sì malamente infesta le province dell’Austria, della Boemia e le circonvicine: il che però non adduco per bastante esempio agli Italiani, essendo io assai persuaso che in questi paesi più caldi la peste sia meno discreta, e ch’ella farebbe strage anche della nobiltà, se questa non usasse più riguardi di quei che si praticano in Germania. Finalmente è da osservare che in cadauna peste si trovano persone giovani e vecchie, maschi e femmine, infermicci e mal nutriti, oppur sani, robusti e nutriti bene che, quantunque vivano con appestati e tocchino le robe loro, pure non contraggono la peste a cagione della lor particolar disposizione o complessione, dotata d’un’occulta attitudine per resistere agli aliti e spiriti pestilenziali. Perciò si mirano allora tanti beccamorti, serventi, cerusici ed altri che si mantengono sani ed illesi in mezzo agli appestati. Sarebbe temerità il fidarsi o far prova di questo senza necessità; ma posta la necessità, è bene ricordarsi ancora di tale osservazione. Similmente gioverà il non dimenticarsi che tal sorta di gente, restando essa [91] illesa dall’infezione, la può poi facilmente portare ad altri che non si guardano dal loro commercio.
Il perchè torno a dire che chi non può, o non vuol ritirarsi dalle terre e città infette, dee far coraggio: che si può molto bene anch’ivi resistere a questo nimico, purchè si mettano in opera gli avvertimenti e preservativi che ci sono insegnati da maestri di sperienza, e ch’io ho nella presente opera raccolti. Anzi aggiungerò cosa che parrà strana ad alcuni, e pure vien insegnata da chiunque tra i medici e politici ha trattato di questa materia: cioè che lo stesso aver coraggio, e il vivere allora senza paura, è un potentissimo preservativo contra la peste. Ci assicurano i medici trovatisi a questo fuoco, essere al sommo nociva la forte apprensione, e il timore che d’ordinario s’imprime allora nella maggior parte del popolo, di dover morire e di non poter fuggir questo colpo e di aver da prendere la peste ad ogni passo. Così disposti, e mal affetti gli animi e i corpi, troppo facilmente contraggono allora il mal pestilenziale; e non pochi, anche senza aver la peste, vengono a morire per paura della medesima peste; laddove all’incontro tanti altri, benchè tutto dì conversino con appestati, pure si preservano: frutto del loro coraggio, il quale non teme la vicinanza di quel male, benchè mostrino, secondo i consigli della prudenza, di temerlo col non trascurar que’ riguardi e preservativi che convengono in tali occasioni. Anche i più coraggiosi in guerra van cauti; altrimenti sarebbono non coraggiosi, ma temerarj ed audaci, e intanto il loro coraggio suol difendere essi, toccando poi le busse ordinariamente ai soli paurosi.
[92]
Come si possa guardare dall’aria infetta. Odori preservativi, e varie ricette. Odori sottili e calidi nocivi. Maniere di purgar l’aria delle case e delle città.
Passiamo all’aria, per mezzo di cui può comunicarsi ai sani l’altrui malore. Certo è che la respirata dagli appestati, e quella che è ambiente del corpo loro, può sino alla distanza d’alcuni passi stendere il suo veleno. Perciò i sani debbono passar lontano, e tenersi lungi dalla gente infetta e sospetta; e molto più hanno da guardarsi d’entrar nelle camere, ove sieno o sieno stati infermi di mal contagioso; o entrandovi, hanno da usar le cautele dette di sopra, e l’altre che diremo trattando dell’espurgazion delle case. Ma per assicurarsi bene di non tirar col respiro l’aria infetta, chiunque esce di casa, e molto più chi ha da praticar con persone pericolose, porterà sempre seco in un vasetto, bussolotto, o palla una spugna inzuppata di aceto, o pure porterà pomi artifiziali odoriferi, e o quella o questi andrà odorando e fiutando, e non li deporrà mai, quando sia vicino a persona infetta o sospetta e alle robe loro. Da quasi tutti i corpi, anche duri, e molto più dagli animali, dai vegetabili, dai minerali, ecc., escono continui effluvj che formano un’atmosfera o circonferenza intorno a quel corpo; e però quei di gagliardo e sano odore diffondendosi all’intorno della persona, la difendono dai pestiferi, o tenendoli lontani o correggendoli.
[93]
L’aceto solo, purchè fatto di buon vino, è bastevole preservativo. Tuttavia chi può, gli accrescerà il vigore nella seguente forma.
Aceto imperiale.
Recipe radici d’angelica, d’imperatoria, di garofoli ana (cioè parti eguali, o sia di cadauna) dramme due. Soppistale leggiermente, e mettile in un vaso di grandezza mediocre, dove sia aceto ottimo e bianco se fia possibile. Chiudi bene il vaso, e agitalo, sbattendolo molte e molte volte, acciocchè gl’ingredienti si mescolino bene. Lascia il tutto in infusione per una notte sopra le ceneri calde. Di poi conservalo per gli tempi di bisogno, inzuppandone una spugna da portarsi in mano serrata nella palla, per gli buchi della quale ne tirerai spesse volte l’odore. Oltre a ciò potrai ancora con lo stesso aceto ungere le narici, i polsi delle tempia e delle mani.
Pomo o palla odorifera che preserva dalla peste.
℞. Polvere di garofoli, cannella, noci moscate ana mez. onc., storace, bengioino ana dram. 2, maggiorana, menta, salvia, ana dram. 1. Si pongano in acqua rosa, ove prima sia dissoluta gomma dragante. Se vorrai, potrai aggiungervi alquanto di muschio o di zibetto, e con questo formerai un pomo da portare in mano per odorarlo.
Avverto però qui, che per parere dei più accreditati medici servono poco, e fors’anche potrebbono [94] nuocere in tempi di peste gli odori del muschio, dello zibetto ed altri simili di qualità, per così dire, dilatante, lussuriosa e offensiva del capo, siccome troppo sottili e calidi. L’ambra grisa dovrebbe entrare in questa classe; ma veggo molti commendarne l’uso in varie guise ne’ tempi di peste, e però non mi arrischio a condannare i pomi appellati d’ambra. All’incontro sono di un mirabil aiuto gli altri odori, per dir così, restringenti, freddi e confortativi che andrò accennando. Assaissimo in primo luogo è da stimarsi la canfora, usandola allora o per l’odore portandone in una palla bucata, o nei medicamenti. Alcuni se ne fidano più che dell’aceto. Io non direi tanto, perchè l’aceto è il re degli odori preservativi in tempo di contagio; ma dirò bene che la canfora anch’essa vien concordemente da tutti i migliori autori commendata assaissimo, siccome uno dei più potenti preservativi; e perciò si troverà qui consigliata in molte altre guise, ma coi riguardi che dirò a suo luogo. La comunità di Ferrara fa manipolar certe palle odorose di mistura particolare che son credute molto giovevoli. Ma io son d’avviso che ogni palla, purchè di gagliardo e sano odore, possa produrre il medesimo effetto; perciocchè inclino a credere che non dal semplice contatto delle robe, per chi è sano di cute, ma dal respiro del fiato per cui s’introducono i corpicciuoli pestilenziali nel corpo, soglia sempre, o per lo più venire la comunicazion della peste, e però qualunque odor grave e vigoroso che si adoperi, sia bastevole a tener lontani o a correggere gli effluvj pestilenziali.
[95]
Vogliono altri che mirabilmente serva da odorare, da tener in mano, e da ungere le narici quest’altra composizione.
Palla odorifera oliata.
℞. Olio di carabe fatto per distillazione parti due, olio di noce moscata fatto per espressione parte una, cera bianca tanta che possa tenere in corpo questi olj. Poi liquefà la cera, scalda gli olj, il tutto separatamente. Mescola dipoi insieme, lascia raffreddare, e formane palla, che o porterai in mano, o terrai chiusa in un vasetto per andarla odorando.
Altri pomi o palle preservative dalla peste, da portarsi in mano per odorarle spesso, ed anche in seno, si possono formare delle seguenti cose o di parte d’esse ben polverizzate e passate per setaccio, e impastate con gomma arabica, o dragante con olio di spica, o con acqua rosa, o altro liquore; Rose rosse, sandali bianchi e rossi, legno aloè, cinnamomo, macis, canfora, noce moscata, seme e scorze di cedro, storace, calaminta, ladano, fiori di nenufari, spodio, basilico, maggiorana, cubebe, carabe, mastice, calamo aromatico, mirra, bengioino, radici di valeriana, di tormentilla, dittamo, foglie di ruta, trementina bislavata, ecc.
Per tutte le persone e per tutti i tempi servirà l’avere una palla rotonda o come ovata, da tenersi comodamente in mano, fatta d’argento o d’avorio o di stagno o di cipresso, lauro, ginepro o d’altro legno, se si può odoroso, vota di dentro e perforata nella parte di sopra, che possa aprirsi e serrarsi, [96] entro cui si mette ordinariamente un pezzetto di spugna nuova inzuppata in acqua rosa, malvagía, e buon aceto rosato o violato, o di ruta. Una tal palla è utile a tutti, e sbattendola alle volte sopra la palma delle mani, si possono bagnare i polsi. Altri vi aggiungono alcune delle polveri odorifere dette di sopra; o aggiustano l’aceto con ruta ed angelica, aggiungendovi tre grani di canfora; o pure pigliando la ruta fresca e agitandola con aceto, mentre si pesta nel mortajo, la pongono entro la palla. Chi non avesse palla, potrà tenere composizioni odorose fasciate dentro zendado, o tela di lino rara. E chi non potesse far altro, porti seco mazzetti di fiori ed erbe odorifere, come ruta, melissa, maggiorana, menta, salvia, absintio, origano, rosmarino, fiori d’arancio, di cedro, ninfea, basilico, timo, appio, aneto, foglie di alloro, cipresso, aranci, limoni, cotogni, ecc. Di queste cose ancora gioverà il tenerne nelle stanze. Benchè l’aceto rosato, o di ruta, sia di miglior perfezione e maggiore efficacia, tuttavia il semplice aceto, purchè fatto di vin generoso, è bastevole preservativo; e i poveri non cerchino altro, nè credano che le composizioni sieno sempre più utili perchè composte di più ingredienti. Angelo Sala prescrive con assaissime robe la ricetta per comporre un aceto bezoartico, tenuto da lui per mirabile in resistere all’infezione, con andarlo odorando. Insegna ancora un balsamo bezoartico, a cui attribuisce la medesima efficacia, coll’ungerne di quando in quando le nari, le tempia e i polsi. Io lasciando tali composizioni inventate per gli ricchi, riferirò solamente la ricetta prescritta da lui di un
[97]
Aceto preservativo per gli poveri.
℞. Grani di ginepro freschi, absintio, ruta secca ana once 4. Incenso, mirra, ana once 2. Si taglino i grani di ginepro coll’erbe minutamente, e grossamente si polverizzi il resto. S’infonda tutto in due misure d’ottimo aceto, entro d’un vaso ben serrato con sughero. Si ponga in luogo caldo, o in un cantone presso il fuoco, di modo che tal materia stia calda per due o tre giorni. Poi si sprema e si conservi per valersene ad odorarla.
Per tutti poi potrà servire quest’altra facile composizione.
Aceto rosato preservativo.
℞. Aceto rosato, acqua rosa e vin bianco ana, cioè parti eguali, e ponvi dentro carlina, genziana, radice di ruta capraria, detta giarga, manipolo, cioè pugno uno, scorze di cedro, e un poco di zedoaria. Fa bollire alquanto e stare in infusione per 6 ore; poi cola e riponi in vaso. Di questo alle occorrenze bevi spesso una gocciola, e spesso bagnati le mani e il viso, e alcuna volta con la spugna tutta la persona.
Egli è necessario difendersi il corpo, o per dir meglio il respiro, con questi ed altri odori dall’aria pericolosa ne’ tempi di peste, e sarà ancora molto giovevole e necessario il procurar la pulizia e purgar l’aria medesima nelle proprie abitazioni. Poco prima del tramontar del sole per parere di tutti egli è necessario chiuder le finestre, e non [98] aprirle se non levato il sole; avvertendo ancora, che passando cadaveri per le strade, o potendo venir cattiva aria dalle vicine camere o case, ove sieno infetti, bisogna custodirsi bene con tener chiuse allora le finestre e gli usci pericolosi. Quindi si debbono profumar le stanze con solfo, pece, incenso, mirra, ed altri simili odori sani, benchè talvolta spiacevoli, o pure con far ivi bollire aceto, in cui sia infusa canfora, garofoli, scorze di cedri, aranci, ecc. Gioverà nella stessa guisa spruzzar le camere con aceto o con altre decozioni odorifere; siccome ancora il far ivi bruciare ed il tener ivi legni di buon odore segati, come sono il ginepro, il pino, il lauro, il cipresso, l’abete, il mirto, il rosmarino, il frassino. Alcuni usano allora di aver due camere separate, cambiandole mattina e sera, con istare nell’una, mentre purgano l’aria dell’altra; e si bagnano spesso le mani e la faccia con acqua fredda mischiata con aceto rosato, profumando ancora le vesti e asciugandole bene al fuoco. Si astengono allora dalle saponette in lavarsi, essendosi osservati de’ cattivissimi effetti di tutto il sapone, saponate e ranno, o sia liscivo, in tempi di peste. Altri procurano di rinovar l’aria e di purificarla nelle medesime camere ove stanno infetti, tenendo aperte le finestre e facendovi giocare il vento, se si può: con avvertenza però di non infettar con quell’aria pestilente le vicine camere sane.
Non è di minore importanza il tener purgata o il purgare l’aria della stessa città. A questo fine appena s’ode romor di contagio, che in ogni ben regolato governo si danno tutti gli ordini più premurosi [99] e si fanno prontamente eseguire e mantenere per la pulizia della città, e con far nettare diligentemente le strade e piazze e ogni altro luogo dalle immondezze e da qualunque cosa fetente, e con rigorosamente proibire il gittarvene alcuna, e sopra tutto gli escrementi e le orine delle persone inferme. Si vietino i porci, le oche ed altri o uccelli o bestie immonde, e il far massa alcuna de’ letti de’ vermi da seta o delle foglie di moro, dovendosi tali puzzolenti masse, almeno di due in due giorni, portar fuori di città e ben lontano, senza permettere il gittarli in canali o canalette. Hanno scritto alcuni che dai fetidi letti de’ vermi da seta la peste di Desenzano del 1567 ed altre del Piemonte avessero origine. Lascio la verità al suo luogo, credendo io che questo possa aumentare e non cagionare una peste vera. Stimano altri che sia giovevole e preservativo in tempi di peste l’odore o sia il puzzo che esala dalle concie e fabbriche de’ corami, cordovani, ecc., siccome ancora dai maceratorj della canape; ma vien posta in dubbio una tal opinione da altre sperienze e da accreditati autori, essendosi veduto entrar molto bene in que’ luoghi o strade il contagio, e farvi forse più strage che altrove. Più facilmente s’allignano e si dilatano gli spiriti velenosi del male, quando si possono mettere in groppa a vapori e alle esalazioni del succidume e di tutte le robe marce e fetenti. S’ha eziandio da vietare il movere allora alcuna cloaca e il dar alle fiamme per la città erbacce, pagliacci e simili materie che recano cattivo odore, e tanto più se avessero servito a gente infetta o inferma, dovendosi [100] queste portar a bruciare fuori della città, lontano almeno due miglia. Hanno anche le sagge città da usare una straordinaria diligenza per gli Ebrei, nazione d’ordinario abitante assai sporcamente, e assegnar conservatori particolari che abbiano cura della lor pulizia.
Vogliono alcuni che giovi il far allagare nei bollori della state le strade, per chi ha la comodità d’acque o fontane correnti. Anzi v’ha chi crede non inutili a purgar l’aria i tiri d’artiglierie, scrivendo Levino Lemnio, che la città di Turnai fu coi frequenti sbarri delle medesime liberata in breve da una fiera peste, pel movimento e per l’odore impresso con esse nell’aria. Che che sia di ciò, egli è ben certissimo che la polvere da archibuso bruciata co’ debiti riguardi è un profumo di somma energia ed utilità per le case; e che di un’universale ed incredibil aiuto a preservarsi dal contagio e ad espurgar le robe e a profumar le abitazioni, è il solfo, di cui perciò bisogna far buona provvisione e fidarsi non poco in tempo di peste. Anche gli antichi ne conobbero la forza antipestilenziale, essendo giunti coi profumi d’esso a liberar molte città da sì crudel nemico, e insino l’antichissimo Omero nel 22 dell’Ulissea fa chiedere ad Ulisse fuoco e solfo, ch’egli chiama medicina de’ mali, per purgar le stanze della casa.
[101]
Commercio di robe infette proibito. Necessità di prima espurgarle. Tre maniere di spurgo. Più utile e più facile quello dei profumi. Dose e metodo per profumar robe, case ed altri luoghi. Ordini rigorosi per lo spurgo, e necessità di questo rimedio.
Per l’ordinario le pesti hanno l’origine o la loro dilatazione dalle robe, cioè dalle suppellettili, panni o merci procedenti da luogo infetto o maneggiate da persone contaminate da esso morbo. Certo nessuna cosa più spaventosamente fomenta in tempi tali la carnificina degli uomini, quanto la diabolica ingordigia di tanti, che entrando nelle case derelitte per la morte de’ padroni, quindi furtivamente asportano robe infette, contaminando con ciò sè stessi, altre famiglie e talora altri dopo molto tempo. Il perchè una delle più importanti cure del governo della sanità ha da esser quella d’impedire il commercio delle merci o robe infette e sospette. Per questo, su i primi timori d’una pestilenza vicina, si proibisce l’ingresso a qualsiasi roba de’ paesi infetti, e non si ammettono le procedenti da luoghi sospetti se non dopo la quarantena, e dopo una leggittima espurgazion delle medesime, che si dee fare prima d’introdurle in città, cioè in qualche luogo eletto a questo fine fuori della città e lungi dall’abitato. E notino i magistrati, essersi più d’una volta alle porte della città sotto carra di fassine o di fieno o di [102] paglia, trovate robe, delle quali non era permesso l’ingresso. La confiscazion d’esse e delle carra servì a benefizio de’ lazzeretti, e il gastigo per esempio degli altri. Di più convien avere particolarmente l’occhio sopra gli Ebrei, siccome gente che fa uno de’ suoi maggiori capitali il traffico e trasporto di tali robe. In Germania alcune città nè pure concedono a tal gente le fedi della sanità, perchè vogliono interdetto ogni loro commercio.
Penetrato il male nella terra o città, allora si volgerà tutto lo studio a trattenere i sani dal toccar le robe toccate dagl’infetti o sospetti. Per attestato del Rondinelli, che parla con la sperienza alla mano, siccome quello che ci ha lasciata un’utile relazione del contagio di Firenze dell’anno 1630 e 1633, se fosse possibile spuntar questa cosa, in qualunque città agevolmente si sbarberebbe il contagio; e se rimedio alcuno ci ha, è solo uno, cioè straordinario rigore contro chi nasconde i panni infetti o li vende, li compra o in altro modo li semina. Ordinare pertanto con pene rigorosissime, siccome fu fatto in Roma, ed anche nella nostra e in altre città, che nessuno senza licenza del deputato ardisca levare o far levare qualsivoglia roba da alcuna casa, monistero o altro luogo ove sia stato alcun malato o morto, ancorchè non infetto di mal contagioso. Che a niuno sia permesso l’introdurre lettere o altre robe, fuorchè per le porte aperte della città e con participazione de’ deputati, sotto pena della galera ed anche della vita, al qual castigo furono sottoposte per ordine espresso del papa ancora le persone ecclesiastiche, secolari e regolari e costituite in [103] dignità. Che i confessori, medici, cerusici, barbieri, mammane, sospetti o esposti, e i lor servitori, i beccamorti e ogni altra persona non possano estrarre senza licenza del deputato roba di qualunque sorta dalle case o luoghi segnati per cagione di sanità, ancorchè la levassero per pagamento de’ lor crediti o per loro mercede o per limosina o per convertirla in suffragio delle anime o per iscarico della coscienza de’ padroni o per espressa commessione de’ medesimi. E qualora ne sieno state asportate, tutti, sì asportatori, come complici e consapevoli, debbano in termine di tre giorni sotto pena della vita e confiscazione, a cui sieno sottoposte d’ordine del vescovo anche le persone ecclesiastiche, darne esatta notizia al tribunal destinato, stante il troppo danno che nasce dal commercio, maneggio e traffico di robe non espurgate; con promettere l’impunità ai denunzianti, purchè non sieno già carcerati o inquisiti per tal fatto. Si dee aggiungere una proibizion rigorosa di non poter vendere, comperare, prestare e permutare senza licenza sì fatti mobili, panni e vesti usate di qualsivoglia sorta; e per ogni maggior cautela proibir l’introduzione in città di mobili e suppellettili, a riserva delle biancherie di bucato, degli arnesi di cantina, rami o altri metalli, vietando nella stessa guisa, se sarà creduto bene, il poter dare a tingere o a lavare ad altri senza licenza le suppellettili, lasciando solo che ognuno possa lavar le sue in sua casa o all’acqua corrente.
Essendo poi stato conosciuto anche dagli antichi che il maggior male vien dal contatto di robe [104] e mobili infetti, una volta si bruciava una gran quantità d’esse, a fin di levar l’occasione alla gente inavvertita o maliziosa ed avara di tirar addosso a sè stessi la morte e di parteciparla ad altri. Ma perciocchè il ripiego di bruciar tante robe, oltre che riusciva di non poca afflizione e danno ai padroni e di pregiudizio ancora al pubblico, e tanto più se l’incendio si faceva entro la città per cagion degli aliti pestiferi che ne esalano, era anche cagione che tutti s’ingegnassero di nascondere e trafugar le robe infette senza espurgarle, del che non può darsi uno sproposito più pregiudiziale: furono dunque inventate espurgazioni regolate, mercè delle quali si possono conservar quasi tutte le masserizie, vesti e mobili delle case infette e sospette. Basta oggidì solamente consegnare al fuoco i pagliacci o pur le sole paglie, i guanciali, i cuscini, i cenci o sia gli stracci ed altre robe di minor conto che abbiano immediatamente servito agli appestati, siccome ancora le piume dei materassi, poichè si possono molto bene espurgar le lane e le fodere d’essi.
In tre maniere pertanto può farsi l’espurgazion delle robe. La prima si è d’esporle all’aria aperta, spiegandole e aprendole ben bene, affinchè possano giocar in esse e in tutte le lor parti per molto tempo il sole e l’aria, e battendole di quando in quando con bacchette. Ciò si dimanda sciorinare, e col Ficino e col Mercuriale credo anch’io che possano bastare venti giorni a tal sorta di spurgo; con avvertenza però, che se fosse tal tempo solamente umido o spirassero scirocchi, non sarebbe tolto ogni pericolo. La seconda è di [105] mettere in una caldaia d’acqua bollente, e di far bollire le robe capaci, e di lavar le altre che possono sofferirlo, nell’acqua corrente, e di bagnare e pulire la superficie degli altri mobili con aceto o simili potenti antipestilenziali liquori. In Roma trovarono la forma di valersi a tal effetto di folli che nell’acqua di canale andavano coi loro martelli movendo e purgando le robe. Alle merci nuove, come lane, bombaci, sete, lini e simili, che non possono senza gran discapito bagnarsi, basterà la sciorinatura. La terza maniera è quella de’ profumi, cioè di accender materie odorose, al fumo delle quali esposte le robe infette o sospette, perdono qualunque spirito velenoso da loro contratto. Ancor questo è un costume antico, e si praticavano profumi anche nelle antiche pesti; ma se n’è fatto conoscere dipoi maggiormente l’utilità del P. Maurizio da Tolone cappuccino, che gli adoperò con grande utilità del pubblico in varie città, e massimamente in Genova nella peste del 1656 siccome abbiamo dal suo Trattato politico. Esporrò io qui il metodo suo, siccome quello che a me sembra il più facile, plausibile ed utile.
Prescrive egli tre sorte di profumi, de’ quali ecco la composizione:
[106]
Profumo per espurgare le case ed altre suppellettili grosse; e dose per comporne cento libbre.
Profumo più violento; e dose di cento libbre per purgare i lazzeretti, le sepolture, ed altre robe bisognose di maggior purgazione che le case.
Profumo più soave, appellato della sanità; e dose di cento libbre.
[107]
Tanta quantità d’ingredienti spaventerà forse alcuni e rincrescerà ad altri; ma io per me tengo essere bensì utili, ma non essere necessari molti d’essi, e bastare per li primi due profumi i principali d’essi ingredienti che sono presso a poco i sei primi. E per conto dell’ultimo profumo della sanità, dovrebbono bastarne alcuni altri, fra’ quali non si dee mai tralasciare il solfo, la cui virtù contra gli spiriti pestilenziali è di troppo momento, anzi sola basterebbe allo spurgo delle case e delle robe. Che se ancora tali aromati mancassero alla povera gente, procuri essa almeno di prendere legno o foglie e grani di cipresso e di ginepro, rosmarino, timo, lavanda, salvia, maggiorana, absintio o sia medichetto, o sia assenzio, melissa ed altre erbe simili di sano e potente odore, e ben secche le riduca in polvere, e mescolatele con un poco di solfo, ne faccia profumo. Le ragioni fisico-mediche comprovano il valor di tali profumi; e Francesco Ranchino con altri stima essere maggior l’efficacia di quei che son fetenti o velenosi; ma io lasciando tali ricerche, mi ristringo alla sperienza e all’uso, per quanto c’insegna il mentovato cappuccino.
Il profumo, dice egli, della sanità è un preservativo mirabile; e se dall’uomo, cui convenga trattar con altri ed esporsi ad evidente pericolo di restar ferito, sarà applicato a sè e alle vesti prima di partirsi di casa, non si contrarrà il veleno pestilenziale, mercè della qualità contraria impressa avanti da quel fumo, la cui virtù da me scoperta (dovea dire, ancora da me conosciuta alle prove, perchè ancora i vecchi usarono tali profumi, e il suddetto Ranchino, medico di Mompeliere [108] ne avea fatto molto prima un Trattato a posta per lo spurgo della peste) la provarono i maestrati di Genova, i quali, benchè più fiera che mai incrudelisse la peste, ad ogni modo, uscendo per soddisfare nella città alle obbligazioni delle cariche loro, mai più per divin favore non s’infettarono. Impedirono cotali profumi che non si dessero alle fiamme tante robe, come si faceva prima con danno incredibile de’ particolari, e pericolo della stessa città per altri conti. Per mezzo d’essi non si smarrisce cosa alcuna, nè meno abbandonandosi dagli abitanti le lor case, e si toglie a’ ladri la comodità di rubare.
Questi profumi mutano l’aria delle case. Giovano, è vero, ancora i gran fuochi ne’ cortili e innanzi alle finestre; ma non s’hanno a tralasciare gl’interni delle medesime. Vero è che le robe sospette o infette, purchè possa in tutte le lor parti giocar l’aria e il sole, se vi stiano esposte per lungo tempo, si purgano abbastanza. Senza questo si coverà quel veleno e potrà far gran danno anche molti anni dopo. Più sono stimabili i profumi perchè in termine di ventiquattro ore restano purgatissime le case e i lazzeretti medesimi e insino i letti degli appestati; laddove le robe esposte all’aria han bisogno di quaranta giorni, tempo molto lungo per una purga, e sono sottoposte a vari accidenti di pioggia e ladri, e ad altri incomodi.
I profumi si fanno così. Bisogna chiuder porte, finestre e cammino; e sopra una corda distribuire e collocar le vesti infette, lenzuola, coperte, ecc., scucendole prima. Poi prese quattro o cinque libbre [109] di fieno molto secco, e compresso ben questo fieno vi si ponga sopra tanto profumo, quanto capirà in ambe le mani unite insieme per due volte; e poscia ricoprir questo con altro poco fieno spruzzato d’aceto, acciocchè quella materia non si consumi se non a poco a poco. Si attacchi il fuoco dalla parte di sotto in due o tre luoghi del fieno, sostenendolo con bacchetta; e non si parta il profumatore, se nol vedrà ben acceso. Dopo di che si ritiri ognuno, e si chiudano le porte molto bene. Alcuni persuadono l’esporre anche dipoi le robe all’aria libera, e il maneggiarle e batterle con verghe. Sarà utile, ma non è forse necessario.
Per le robe non infette, ma sospette, basterà aprir le casse, le credenze, gli armari, le scatole, gli scrigni, ecc. Le robe preziose si potran coprire con qualche tovaglia o tela grossa, affinchè non ricevano in sè la parte più grossa e terrea del fumo. Le vesti, ove sia argento, e così i vasi d’argento patiscono notabilmente, come ancora le pitture; e però si può adoperar loro qualche leggier profumo in camera aperta, o pure esporli all’aria e al sole per quindici dì. Alle robe solamente sospette si può adoperare il solo profumo della sanità. Per l’espurgazion delle case infette è necessario il primo dei suddetti profumi, fatto il quale, si lascino per tre giorni ben chiuse la casa e le stanze; e dipoi spalancate le porte e finestre, si faccia che l’aria vi giuochi e ne scacci il cattivo odore. Si può dipoi, occorrendo, far ivi qualche soave profumo, per liberar le camere dal puzzo. Oltre a ciò è ottimo consiglio il fare, e prima e poscia, scopar ben bene tutte le stanze e [110] insino i cammini, e in fine imbiancar di nuovo le muraglie; e credo io che gioverebbe ancora il solo bagnarle con acqua ove fosse stemperata calce viva. Certo la calce smorzata con acqua entro le camere infette, è creduta bastante col suo penetrante fumo a dissipare o consumare i semi nascosi del contagio; e la sperienza lunga ha poi fatto conoscere che il dare più d’una mano d’essa alle pareti, riesce uno spurgo delle case sicuro ed egualmente comodo a’ poveri che a’ ricchi. Deesi pur lavare il pavimento ed altri mobili delle stanze, purchè ne sieno capaci, con un forte liscivo o aceto; avvertendo di non lasciare indietro alcun ripostiglio o masserizia e mobile capace di simili lavande e sospetto d’infezione, con levar via insino le tele de’ ragni, e mandar lontano dalla casa tutte le immondezze ivi raccolte e bruciarle. Natal Conti narra che nella peste di Venezia del 1576 più di tutti gli altri giovarono dodici Grigioni, i quali tra due o al più quattro giorni, purgavano le robe contagiose; nè molti, quantunque diligentissimi perscrutatori, poterono intendere il modo da lor tenuto. Usavano diversi, spessi ed efficacissimi profumi, e praticando nelle case senza nocumento alcuno, restituirono le robe purgate ai padroni che più non ne sentirono danno. Così era vicina nell’anno 1675 a rimanere affatto spopolata per cagion della peste l’isola e città di Malta; ma chiamati colà i profumatori di Marsiglia, non diversi nell’operare dal P. Maurizio da Tolone, seppero così ben profumare case, robe e persone, che indi a poco cessò interamente quella terribile pestilenza.
[111]
Per li lazzeretti e per le sepolture, ove imprudentemente fossero stati seppelliti cadaveri d’appestati, a fine di non perderne l’uso e di levar anche i pericoli, caso che s’aprissero un giorno, usava il suddetto cappuccino il secondo de’ profumi, cioè il più violento. In Genova nella peste del 1656 purgò egli 430 tombe, ripiene sino al colmo, colla seguente ingegnosa invenzione. Fece fare un tabernacolo di legno, cioè il telaio d’una gran cassa quadrata lungo e largo dodici palmi; e fattolo tutto al di fuori coprire e foderar molto bene di tela incerata, di modo che non potesse il fumo aver uscita, lasciava nelle parti che poggiavano in terra due fenestrelle quadrate di quattro palmi l’una, acciocchè per l’una d’esse si aprisse il sepolcro e per l’altra si preparasse o presentasse il profumo. Questo telaio si andava postando sopra cadauna sepoltura; e mentre questa dall’una delle fenestrelle facilmente s’apriva, dall’altra si accendeva e spingeva dentro la composizione violenta. Ciò terminato, tutte e due subito si chiudevano; e quel terribil fumo penetrando nelle tombe, non solo soffocava e distruggeva il veleno pestilenziale, ma corrodeva e consumava i cadaveri stessi. Dopo un’ora estinto il profumo, si rimoveva il cassone dall’avello, e in esso gittata copiosa quantità di terra, e calata poi con una fune nel vacuo rimanente nuova materia da profumare ben aspersa di solfo pesto, vi si lasciava accesa, con riporre al suo luogo la pietra e suggellarla diligentemente con calcina, acciocchè il profumo di dentro purgasse ogni cosa. Dopo qualche anno si poteano liberamente aprire ed usar quelle sepolture. Ma [112] chi abbonderà di giudizio, non avrà mai bisogno di fare espurgar le tombe, perchè in tempi di peste non permetterà che alcuno sia ivi seppellito.
Già è manifesto doversi espurgar tutte le robe infette o sospette, sieno del paese o della città, sieno forestiere, nè poter queste rientrar nel commercio degli uomini e de’ padroni stessi, se non sarà preceduto lo spurgo: sopra che debbono farsi ordini rigorosissimi, con replicarli ed accrescerli, affinchè tutto venga denunziato fedelmente ai deputati, ancorchè fossero robe d’altri, e benchè rubate; nel qual caso non si procederà criminalmente contra i ladri denunzianti. In Roma, ove ogni cosa dovea portarsi agli espurgatorj e ben lontano, con quel grave incomodo che si può facilmente immaginare, ma che si può anche schivare usando i sopra insegnati profumi, i deputati allo spurgo prendeano per sè una nota di tutte le robe loro consegnate, e un’altra simile ne lasciavano ai padroni. Erano costituite gravi pene ai deputati che levassero cosa, benchè di minimo valore, portata allo spurgo: il che dee praticarsi in ogni sistema. Le gioie, danari, ori ed argenti si purgavano senza levarli dalle case dove si trovavano, e doveano subito consegnarsi ai padroni, o non essendovi essi, portarli al Monte di Pietà in credito d’essi padroni o eredi. Era vietato a tutti, ed anche agli ecclesiastici, l’entrare senza licenza negli espurgatorj, siccome luogo infetto o sospetto. Sogliono anche deputarsi religiosi per sovrastanti allo spurgo; e i medesimi assistono all’inventario delle robe, entrando anch’essi nelle case per impedire che i ministri non rubino. Sempre [113] poi dee avvertirsi che gli espurgatori e i condottieri di robe infette o sospette non hanno da praticar con altri, e saran tenuti a portare abiti e segni distinti, siccome gente sospetta. Nella nostra città fu nel 1630 prudentemente pubblicata intimazione che i mobili e le case da espurgarsi non si potessero espurgare nè far espurgare senza l’intervento dei pubblici deputati e senza servare il modo prescritto per tal funzione; ed altrimenti facendo, dovea riputarsi nullo, e rifarsi lo spurgo. Le città ricche alle spese del pubblico fanno espurgar case e robe o almeno esentano i poveri da tale aggravio. Quantunque poi molti de’ beccamorti ed espurgatori sogliono resistere al mal contagioso, tuttavia per ogni buon fine vien loro consigliato e prescritto, allorchè hanno da entrar in case ammorbate, il prendere prima qualche antidoto e il non andarvi digiuni. Abbiano sempre la lor sopravveste di tela incerata ed anche alle mani guanti di simil materia. Entrino colà portando avanti a sè vasi di fuoco che faccia fumo. Entrati, aprano le finestre e gli usci, ritirandosi, finchè l’aria abbia fatto un poco di sventolamento, e dispersi que’ maligni vapori. Dopo di che facciano l’uffizio loro. Altri sogliono, e saggiamente entrar nelle case infette con de’ soffioni accesi, composti di polvere da fuoco, salnitro, canfora, carbone di salce, e con un poco d’acquavite, o pure con torcia da vento accesa. Per alcuni già avvezzi a trattar dimesticamente con gli spiriti pestilenziali, parran forse superflue alcune di queste precauzioni; ma pur troppo quello è un nimico da non fidarsene mai; e però anche gli espurgatori [114] abbiano manopole, legni lunghi, graffi di ferro, mollette, forchette ed altri ordigni per maneggiare il men che potranno colle mani le robe.
A fin poi di ben comprendere la somma importanza e necessità di una esatta e fedele espurgazion delle case e robe infette, ha ciascuno da imprimersi altamente nell’animo che tali robe e case facilmente possono portar la morte a’ padroni stessi e a qualunque altra persona che le maneggi o le abiti, non solamente allorchè dura la peste, ma eziandio dappoichè essa è cessata. Quella di Roma nell’anno 1656 finì verso la metà di marzo; ma per l’occultare che suol farsi delle robe infette e non spurgate, il male ripullulò, con succedere varie morti anche per alcuni mesi dipoi, finchè, replicate le diligenze, restò esso affatto espugnato circa il principio dell’agosto. In tali casi, benchè fosse stato restituito il commercio colle terre e città confinanti, è necessario levarlo francamente di nuovo, col bandire sè stesso dai sani, così esigendo la buona politica e la carità cristiana; e s’ha poi da restituire a poco a poco la comunicazione, secondochè detterà la prudenza. In Marsilia l’anno 1649, già cessata la peste e restituito il commercio, dal contatto d’alcune vesti non ancora purgate fu riacceso il fuoco in alcuni quartieri della città, il quale con rigoroso governo fu sì valorosamente ristretto che non s’innoltrò in altre parti della città con incendio maggiore. Il che si noti ancora, per chiudere, occorrendo, quelle contrade che sole fossero infette, tentando la preservazione di quelle che fossero sane. Gli editti pubblicati in Modena l’anno 1630 fanno [115] giustamente sospettare o credere che anche dopo il dì tredici di novembre (in cui la festa che tuttavia si fa, venne instituita, perchè in quel dì non morì alcuno di contagio) succedessero casi di peste entro la medesima città, essendo rimaso nel solo seguente gennaio affatto estinto il malore per le diligenze che si replicarono. Quello ancora che dee far più spavento, si è la sicura testimonianza di Filippo Ingrascia, celebre medico, il quale narra che finita in Palermo la peste, per cui egli tanto scrisse ed operò, questa da lì ad un anno ripullulò, e sì fieramente, come se non vi fosse stata dianzi; colpa di robe non purgate e portate colà da altri luoghi non peranche liberi dal male. Così, terminato affatto in Firenze il contagio l’anno 1631, e restituita col commercio la pubblica tranquillità, vi fu esso di bel nuovo portato da Livorno nel 1632. Come si potè il meglio fu fatto riparo a questo nuovo assalto con rimettere il lazzeretto e usar le altre diligenze, tanto che si credette con grande allegrezza della città estinto il malore. Ma sul principio del 1633 divampò esso in un più grave incendio per cagione di panni infetti venduti agli Ebrei e seminati per la città. E però anche finita la peste, bisogna invigilare a’ casi che seguono, perchè questo è un male che rifiglia. Nè per altro è credibile che si rinnovi tanto spesso in Costantinopoli e in altre città del Turco la pestilenza, se non perchè ivi troppo bestialmente si sprezzano o si trascurano gli spurghi. Il Fracastoro, Giorgio Garnero, Alessandro Benedetto, Erasmo Edeno, Mattia Untzero ed altri scrittori raccontano vari casi di robe infette che dopo molti [116] mesi ed anche anni, tirate in luce e toccate infettarono le persone. Tralascio tanti altri esempi, bastando questi per ben concepire che grave tradimento, sì del pubblico come di sè stesso, commetta chiunque nasconde robe, vesti e masserizie infette senza i convenevoli spurghi, e quanto sia biasimevole e nociva in questo punto la negligenza o indulgenza de’ magistrati.
Cautela per esentar dallo spurgo varie robe. Provvisioni per gli cani e gatti. Monete ed altri metalli se suggetti a portar infezione. Regole per le robe ed animali. Luoghi eletti pel commercio de’ commestibili, e maniera di farlo. Se si dia contagio disseminato o dilatato dalla malizia. Riflessioni intorno a’ mali effetti del terrore, e cautele.
Noteremo ora altri ricordi intorno all’infezione che può venir dalle robe, e intorno allo spurgo delle medesime. E primieramente a fin di salvarne molte dalla necessità dello spurgo, riuscirà di maggior quiete e minore incomodo del pubblico, e di sommo vantaggio de’ particolari prima che nella casa succeda accidente alcuno di peste, il levare dalle guardarobe e stanze tutti i mobili, le scritture, pitture ed ogni altra suppellettile che non servisse all’uso quotidiano o non potesse bisognare in que’ pericolosi tempi, e far tutto rinchiudere in una o più stanze con far sigillare le porte di essa o di esse camere per mano di pubblico ministro, [117] e con sigillo del pubblico o almeno con sigillo e rogito di pubblico notaio, di maniera che nessuno possa entrarvi senza rompere quel sigillo. Operando così, qualora dipoi avvenisse disgrazia di peste in quella casa, le robe tutte ivi rinserrate s’intenderanno non suggette all’incomodo degli spurghi. In Ferrara nel 1630 fu per buona precauzione ordinato agli ufiziali del monte di pietà e a’ banchieri ebrei di mettere in luogo separato i pegni da loro presi per l’addietro, e non di confonderli coi susseguenti, bollando le stanze ove li riponevano, con sigillo e notizia del pubblico o in altra maniera che assicurasse non aver eglino dipoi maneggiate più quelle robe.
Gli animali irragionevoli possono ricevere nei loro peli o piume gli spiriti pestilenziali e portarli seco e comunicarli a chi degli uomini non si guarda, benchè eglino per l’ordinario nulla ne patiscano, essendo cosa notissima che la peste d’una spezie d’animali non suol ferire quei dell’altre spezie, ma sì ben dilatarsi e comunicarsi per mezzo ancora di chi non ne resta internamente infetto. Così all’incontro è avvenuto ed avviene nella terribil mortalità delle bestie bovine, che da tre anni in qua va devastando senza rimedio tanti territorj di Lombardia, ed entra, mentre sto scrivendo, anche nel nostro paese, con far parimente una misera strage nel regno di Napoli, nello Stato della chiesa romana, in Olanda e in altre parti dell’Europa, mentre gli uomini praticando con buoi e vacche infette senza provarne eglino danno alcuno nella persona portano via quegli alimenti velenosi e infettano disavvedutamente [118] le stalle, proprie o d’altrui. Perciò in tempo di peste convien provvedere al pregiudizio che possono recare i cani e gatti col portare nella lor pelle alle case e persone sane l’infezione raccolta altrove, siccome ce ne assicurano Marsilio Ficino, Guglielmo Grattarolo ed altri. Sogliono perciò le ben regolate città allora far editto che si uccidano tali bestie, e il pubblico d’alcune ha talvolta pagato sei o otto giulj per cadaun cane ucciso, purchè fosse d’altri. Dovendosi nondimeno osservare che nel 1630 per essere stati ammazzati tanti gatti in Padova, fu quella città col suo territorio soggetta per gli due anni seguenti ad una mirabil quantità di sorci; parrebbe più sicuro ripiego il solamente ordinare che tutti custodissero con diligenza, anche per proprio bene, i loro gatti e cani, con facoltà poi ed ordine di ammazzar quelli che uscissero delle case e vagassero per le strade o per le case altrui. Si può esser più rigido co’ cani cittadini, perchè la lor vita regolarmente importa poco al pubblico, e sarebbe sciocchezza il volere unicamente per lusso esporre a un gran pericolo la propria e l’altrui vita.
Per poi regolarsi bene nel commercio o contatto degli altri animali e delle altre robe, si osserveranno le seguenti regole tratte da’ migliori maestri. Alcuni (e fra essi l’Ingrascia, il Mercuriale e il Diemerbrochio) tengono che l’oro, l’argento e gli altri metalli non ricevano nè serbino contagio; e il suddetto Ingrascia fa sapere agli altri medici che piglino pur le monete allegramente, mentre anch’egli faceva lo stesso insino dagli appestati, e così caldi caldi se li metteva in tasca, [119] non avendo operato diversamente gli altri medici e cerusici del suo paese, e tutti senza infezione e danno. Certo la superficie de’ metalli per sè stessa, a cagione della lor densità e freddezza, non par capace di ritener gli spiriti velenosi della peste. Tuttavia perchè può essere attaccata qualche ruggine, feccia, untume o altra materia impura o terrea ad essi metalli, e massimamente a’ danari, e con ciò unirsi gli aliti pestilenziali, e possono i medesimi essere stati toccati dal sudore d’un infetto: per ogni maggior cautela si dee ritenere o non abbandonare la regola inveterata di purgarli, mettendoli in aceto o in acqua ben calda. Le pietre preziose anch’esse si porranno solamente in acqua, acciocchè non restino offese dall’aceto. Da altri si crede che la carta e per conseguente le lettere non contraggano nè ritengano l’infezione per cagione della lor superficie consistente e liscia. Trattandosi nondimeno di risparmiare i pericoli, s’ha da ritener la saggia cautela di profumare o bagnar coll’aceto le carte sottili da scrivere o da stampare, e di profumare i libri, ma con più diligenza; e non sarebbe se non bene il tenere, dopo i profumi, la carta grossa e i cartoni e le pergamene all’aria per molti giorni. Per conto poi delle lettere suddette, costume lodevole si è il profumarle ben bene, bagnandole anche prima con aceto, e il tagliare i pieghi affinchè entro vi penetri il profumo. Gli espurgatori di esse lettere debbono contenersi come gente sospetta, e perciò non trattar co’ sani, e hanno anch’essi da preservarsi con guanti, incerate, profumi, ecc. Le lettere che vengono da paese infetto o non si debbono [120] ammettere, o convien aprirle e profumarle con più diligenza. Che se ne’ pieghi delle lettere si chiudesse altro che carta, s’ha da provvedervi con aprirle; avvertendo di deputare per sì geloso ufficio persone timorate di Dio, ed anche religiose che prendano giuramento di non rivelare i fatti altrui.
I vasi di vetro coperti di paglia o vimini si purghino col profumo; se nudi, con acqua sola. Ogni sorta di panno, corde e tele, sì di seta come di lino, canapa, bambagia, e massimamente di lana, si purghi per due ore col profumo della sanità. Le piume, i peli e le pelli d’ogni animale, quando non sieno salate di fresco ed umide, sono soggette a ricevere e comunicar l’infezione; e però si debbono ben purgare o con profumi o con esporle per molto tempo all’aria e al sole. I cavalli, buoi, vitelli, muli ed altri giumenti e le capre, purchè si facciano prima transitar per acqua ovvero sieno immersi più volte in essa o lavati interamente due o tre volte con essa, potranno ammettersi, avvertendo però che vengano nudi; perchè portando capezze, corde, briglie o selle, si dovranno tali arnesi profumare o almeno lavar con lisciva o con sapone. A’ castrati ed agnelli e alle pecore, se avranno pelle, e molto più se questa sia ben lanuta, sarà necessaria maggior diligenza, per essere certo che la lana riceve e nutrisce più delle altre cose il veleno pestilenziale. I polli, i capponi, le galline e gli uccellami tutti, quando abbiano le piume, insegnano alcuni che non basti il tuffarli nell’acqua, ma che si ricerchi l’immergerli più volte nell’aceto, ovvero per più [121] sicurezza, spogliatili delle piume, abbrostolirli; ma altri tengono che sia sufficiente una buona lavata con acqua pura.
L’uova cavate dalle ceste e poste sulla nuda terra, si prenderanno senz’altro con rimetterle in altre ceste; e lo stesso può farsi per le erbe e frutta e per le carni fresche senza pelle. Andrà nulladimeno più sicuro chi laverà con acqua robe tali. L’olio può prendersi colle nude pelli senza altra diligenza, purchè non vi si lascino corde oltre a quella che lega sufficientemente la bocca della pelle, la quale non è capace d’infezione. Il pane, vino, zucchero, i limoni, cedri e aranci, il mele, i salumi e formaggi, gli aromati, le robe medicinali, le cere e le droghe d’ogni sorta si possono ricevere liberamente, avvertendo solo di levare gli invogli, le corde, i secchi, le carte, le casse, i vasi, i barili ove fossero tali robe. Così le farine, il frumento, frumentone, o sia grano turco, e tutti gli altri grani e legumi si possono liberamente prendere, a riserva sempre de’ sacchi e d’altri simili invogli ed arnesi, che si debbono lasciare indietro o profumare o lavar con acqua secondo la loro qualità.
Ed a fine di regolar bene colle maggiori cautele possibili il commercio tra chi conduce o vende e chi ha da comperare grani, vino ed altre grasce e commestibili che abbiano detto esenti dal portar seco infezione, è da fuggirsi per quanto si può l’avvicinamento delle persone e il contatto delle vesti, de’ sacchi e d’ogni altra roba che possa, coll’aver seco la peste, pregiudicare a chi è sano. Per questo ottima regola si è il deputar certi siti [122] e luoghi aperti, fuori, se si può mai, della città, con piantar ivi due file di cancelli o palizzate, che impediscano dall’una parte e dall’altra il passaggio e contatto de’ cittadini e paesani. Le robe vendute si depongono in terra, o sopra lenzuoli o coperte stese in terra, quando si possa, e poi vanno a prenderle i compratori. I vini ed altri liquori si vôtano da quei di fuori ne’ vasi deposti in terra dai cittadini, senza toccar punto essi vasi. Il danaro che si sborsa sarà purgato per ogni buon fine da chi il riceve, bagnandolo in aceto. E perciocchè troppo è necessario che vengano alla città le grasce o vettovaglie, e ciò dee anche farsi senza pregiudizio della salute de’ condottieri; sarà libero a questi il poter andare e venire colle loro fedi di sanità, purchè non si levino dal diritto cammino e si guardino di praticar per viaggio con genti sospette. A qualche osteria deputata in mezzo al cammino dovrà farsi la posata dai vetturali. Fuori della città saranno deputate osterie per loro soli; e si farà il commercio della roba da loro condotta ai cancelli posti fuori d’essa città, in maniera che i sani esteri non pratichino coi sospetti cittadini. Nulla si dovrà consegnare se non alla presenza de’ commissari, che invigileranno all’esecuzione degli ordini, affinchè non segua miscuglio nè contatto. I consoli o massari delle arti si troveranno ad essi cancelli per istabilire i prezzi e far tosto pagare e sbrigare i condottieri. Si vieterà ai commessari delle porte il comperare e mercantar le vettovaglie portate ai cancelli, per rivenderle poi ai bottegai, benchè per altro sia da procurare che, mancando compratori, vi sia qualche deputato [123] il quale comperi quelle robe, affinchè si tenga viva ne’ rustici e in altre persone estere la voglia di condurne e di accrescere il mercato, e a fine ancora di spedire in breve i poverelli del contado, aspettati a man giunte dalla misera lor famigliuola con qualche soccorso.
Con queste ed altre simili precauzioni un popolo sano può aver commercio di vettovaglie con un altro infetto, senza contrarne la stessa disgrazia. E perciò, posto ancora che l’uno bandisca l’altro, si può ai confini fare una specie di mercato, quando vi sia bisogno di ricevere o comperar grasce, obbligando però tutti a non far questo commercio se non ne’ luoghi destinati e sotto gli occhi de’ deputati da ambedue le parti. In Modena fu fatto editto che niuno potesse toccar vettovaglie, frutti e simili commestibili prima d’averli pagati. Nelle città, e massimamente in quelle di gran popolazione, bisogna provvedere che tutta la gente non concorra ad un luogo solo per comperar da vivere, perchè ci vuol poco ad intendere che mescolandosi e fregandosi insieme moltissimi, alcuni pochi infetti, de’ quali ne trapela sempre fuori qualcheduno, possono appestar gli altri; pericolo a cui sono sottoposti tanto i poveri quanto i ricchi, quelli per andarvi in persona, e questi pel commercio con la servitù. Tutte le botteghe ove si vendono robe soggette a ricevere infezione e quelle dei commestibili, e così le spezierie, dovranno tener chiuse le loro porte o con rastrelli o in altra forma, di modo che niuno v’entri, ma si eseguisca la consegna delle robe o per le finestre o pei cancelli; nè si faccia adunanza entro o davanti [124] bottega alcuna. Specialmente si usino tali riguardi alle botteghe de’ fornai e a’ macelli, o sia alle beccherie. Le stesse cautele possono proporzionatamente osservarsi nel somministrar cibi ed altre robe agl’infetti o sospetti di mal contagioso, potendosi ciò bene spesso fare senza accostarsi loro e senza toccare i loro vasi e robe. Nella peste di Roma del 1656 furono pubblicate sagge istruzioni, raccolte poi tutte dal cardinale Gastaldi nel suo Trattato della Peste, con insegnar al popolo la maniera di governarsi nel commercio delle robe e persone. Altre ne furono fatte pei deputati ai quartieri ed ai mercati fuori della città; pei medici, cerusici, speziali, osti, guardarobieri, soldati di guardia ed altri ministri de’ lazzeretti; pei deputati all’espurgazione delle case e robe infette o sospette, insegnando ancora la maniera di far tali spurghi. Così nel 1680 furono stampati in Ferrara vari ordini da osservarsi in sospetti e tempi di contagio da tutti gli uffiziali della sanità, con un editto ancora del vescovo pei conventi delle monache, mentre allora la peste di Vienna metteva molta apprensione all’Italia tutta. È degna quell’opera di essere studiata e tenuta davanti agli occhi dai maestrati delle altre città, alla prudenza de’ quali in tempo di contagio apparterrà il vedere quali e quante istruzioni s’abbiano a formare e pubblicare, secondo le forze e il sistema di ciascuna.
Hanno in oltre i maestrati da invigilare non solamente per impedire che il morbo non si comunichi e dilati inavvertentemente per lo commercio delle persone e robe infette o sospette, ma ancora per vedere che non sia esso accresciuto [125] dalla malizia e diabolica ingordigia degli scellerati. È cosa che fa orrore, anzi può comparir tosto come incredibile, cioè che si dieno delle pesti suscitate o dilatate per via di veleni, polveri ed unzioni pestifere. Alcuni negano che ciò sia avvenuto mai o possa avvenire; ma superiori in numero e più accreditati sono quelli che l’asseriscono, e citano i casi. Raccontano essi che nella peste di Casale del 1536 furono giustiziati molti i quali in numero di 40 s’erano congiurati per moltiplicare la mortalità con unguenti e polveri pestilenziali. Niccolò Polo scrive succeduto lo stesso in Franchestein l’anno 1606. Ercole Sassonia e il celebre nostro Falloppia attestano il medesimo della peste de’ loro tempi, ed altri narrano fatta la medesima scelleraggine in diverse pesti di Ginevra, Parma, Padova e d’altre città. Non importa che io citi gli autori. Mattia Untzero nel lib. 1, cap. 17 del suo Trattato della Peste ne ha raccolto molti. Ma nessun caso è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630 furono prese parecchie persone che confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne esiste ivi tuttavia (e l’ho veduta anch’io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov’era la casa di quegli inumani carnefici. Il perchè grande attenzione ci vuole affinchè non si rinnovassero più simili esecrande scene.
Tuttavia avvertano i saggi maestrati e i lettori che una tal vigilanza non degenerasse poi in superstizione e in timori ed in apprensioni spropositate, dalle quali potrebbono poi nascere altri non meno gravi disordini. Il punto è di particolare [126] importanza, e però bisogna pesar bene e tenersi a mente anche le seguenti riflessioni: Egli è facilissimo, secondo me, che sia accaduto spesso ed accada spessissimo anche di nuovo ne’ tempi di peste ciò che veggiamo tante volte accadere nei mali straordinari o non molto usitati delle donne e de’ fanciulli del volgo, mentre con gran leggerezza s’attribuiscono quasi tutti a malie e stregherie e ad invasioni di spiriti cattivi, giungendosi anche talvolta non solo a sospettare, ma a credere streghe certe povere donne che altro delitto non hanno se non quello d’esser vecchie. Molto più senza paragone possono occorrere tali sospetti nell’inusitato ed orrendo spettacolo d’una pestilenza, al mirar tante morti, e tanti che, di sani che erano, restano all’improvviso estinti. Basta che un solo cominci a sparger voce, benchè dubbiosa e timida, che quella misera e non mai più veduta carnificina proceda da stregherie, unguenti, o polveri di veleno artefatto, affinchè tal voce prenda gambe e corpo, e diventi una indubitatissima verità in mente dei più del popolo. Il solo aver letto o inteso a dire che si danno e si sono date dilatazioni di peste per empia e crudel manifattura d’alcuni, è bastante a cagionare in molti una fiera apprensione dello stesso, e che l’apprensione gagliarda ad ogni picciol rumore od osservazione passi in ferma credenza. In que’ tempi sì calamitosi, nei quali, per attestato di chi n’ha veduta la prova, non si può dire quanto sia il terrore del popolo, passando esso insino a farne molti stolidi ed insensati, egli è troppo facile il concepir simili spaventi, e che alla fantasia sembri poi di trovar qua [127] e là fattucchierie, e unti i martelli delle porte, o le panche o i vasi dell’acqua santa nelle chiese, e sparse polveri pestifere, e simili altre visioni.
Da questo stravolgimento di fantasmi nasce poi un’incredibil miseria di molti che temono la morte anche dove non l’hanno da temere; e alcuni si muoiono, anche senza peste, di pura apprensione e spavento. Anzi si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confessione di delitti ch’eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli. Questa malattia dell’immaginazione è vecchia in altri simili; ed è curioso quanto abbiamo dal famoso arcivescovo e scrittore Agobardo, il quale nel libro de Grandine et tonitruis al cap. XVI narra che, insorta a’ suoi tempi, cioè nell’anno 810, la mortalità de’ buoi, quale ancor noi abbiamo provata, si ficcò nella mente a molti che tale disavventura procedesse da Grimoaldo duca di Benevento, il quale, per esser nemico di Carlo Magno imperadore, avesse mandato in Francia persone a spargere polveri micidiali pe’ campi, monti e prati. Furono presi non pochi su questo sospetto, ed alcuni ancora trucidati; e il mirabile era che taluno confessava questo delitto, senza mai porsi mente come potesse formarsi una polvere sì giudiziosa e discreta che desse morte ai soli buoi e non agli altri animali. Così Agobardo. Ma i tormenti (torno a dirlo) hanno il segreto di far confessare misfatti anche agl’innocenti. Ho trovato gente savia in Milano che avea buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che [128] fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste del 1630. Anzi ho osservato esserne stato in dubbio lo stesso cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo allora di Milano, personaggio di santa ed immortale memoria e gran filosofo ancora, il quale fece insigni azioni durante quella pestilenza, e potè parlarne con fondamento. Fu anche più orrida la scena nella terribilissima peste del 1348, poichè, sparsa la voce che alcuni, e specialmente i Giudei, fossero quegli che con vari veleni e malie avessero introdotta e dilatata quella incredibile mortalità, furono trucidati molti Cristiani, e moltissime poi migliaia d’Ebrei per la Francia e per la Germania, di modo che lo stesso papa Clemente VI fu mosso dalla carità cristiana a soccorrere e proteggere con varie Bolle quella povera gente, al certo non rea di questo delitto. Bisogna dunque andar adagio in profferir sentenze e in avvalorar sospetti allorchè si spargono tali voci. Nel presente anno 1713 abbiamo co’ nostri occhi veduto nella nostra città che rumori, che paure e cavate di sangue abbia cagionato la voce disseminata che si mirasse di notte una fantasima per le contrade. Oh! molti la videro; ma loro la fece vedere la sola precedente apprensione e paura, la quale è un’industriosa dipintrice, massimamente in tempo di notte. Quel solo che si può credere senza veruna difficoltà essere avvenuto qualche volta e poter di nuovo avvenire, si è che qualche scellerato possa in tali occasioni valersi di veleni o d’unguenti pestiferi per incamminare all’altro mondo qualche particolare e determinata persona, [129] la quale non avesse gran fretta o voglia d’andarvi, per isperanza di cogliere i loro danari, o saccheggiare le loro case: il che avrà anche dato motivo a più larghi e generali sospetti, e al che si dee ben por mente, invigilando specialmente alla condotta de’ beccamorti, gente ingordissima, e di chi volesse fare il medico e il cerusico allora senza le legittime licenze ed approvazioni della sua abilità e fedeltà. Per altro, che si dieno congiure di gente la quale con simili unti e veleni si metta a far morire il popolo alla rinfusa, io non m’indurrei a crederlo se non dopo una grande evidenza. La peste sola ha troppa possanza d’empiere una città di stragi, senza ricorrere ad altre incerte e straordinarie cagioni, lasciata la visibile e certa. Che se faransi ben eseguir le regole fin qui prescritte non sarà facile che alcun particolare insidj alla vita altrui, perchè tolta la comodità di poter rubare o trasportar le robe infette, sarà anche tolto il prurito di rubar prima la vita alle persone comode con falsi medicamenti e veri veleni. Dirò in fine ch’io concepisco per cosa possibile che infuriando la peste in una città, naturalmente compariscano talvolta i martelli delle porte ed altri corpi duri come unti, qualora sia umida o sciroccale l’aria, poichè la gran dissipazione e svolazzamento che allora si fa di spiriti e vapori sì da tanti infermi come da tanti cadaveri, può esser cagione che si fermi sulla superficie di alcuni corpi qualche untuosità, se pure il gran terrore non fa allora prendere per untumi la sola umettazione dell’aria e dello scirocco.
[130]
Preparamento di lazzeretti per gl’infetti e pei sospetti. Regole per luoghi tali. Danni che provengono dai lazzeretti; sequestri ed altri rigori. Precauzioni necessarie. A chi si possa permettere il sequestro. Attenzione sopra i beccamorti.
Un’altra gran cura de’ maestrati della sanità in tempo di peste ha da esser quella de’ lazzeretti, per prepararli sul principio, se già sieno fatti, o pure per costruirli, se mancassero, con provvederli di tutto il bisognevole, cioè di ministri, letti, mobili, medicamenti, vettovaglie, ecc. Sieno questi separati, se si può, dal corpo della città, ma non molto lontani, in sito d’aria buona, ed abbiano le stanze che non comunichino l’una con l’altra, acciocchè sia diviso chi abita, e ricevano aria più tosto dalla tramontana che dal mezzogiorno, dovendosi tener chiuse le finestre allorchè spirano dalle parti meridionali venti caldi, sempre mal sani, ma specialmente in tempo di peste. Abbiano fosse e mura d’intorno che impediscano ai sani il commerciare e l’accostarsi, e agl’infermi il fuggire; con due sole porte ben custodite dalle guardie, per l’una delle quali entrino gl’infermi ed escano i cadaveri, e per l’altra passino gli uffiziali e le vettovaglie. Il cimitero sia per un gran tratto distante da essi, acciocchè i suoi vapori non arrivino ad accrescer l’infezione di chi sta ne’ lazzeretti. Le case o camere degli uffiziali sieno segregate anch’esse in buona forma dalle camere degl’infetti; [131] anzi, se mai si può, la loro abitazione sia separata affatto dallo stesso spedale, poichè, per attestato de’ saggi, ciò ajuta di molto per conservar quelli che operano in servigio degli appestati. Si provvederà d’uno o più sacerdoti che ministrino i sacramenti e celebrino la messa nella cappellina aperta da tutti i lati, la quale sarà situata in mezzo al cortile, onde gl’infermi tutti dalle loro camere possano vedere il santo sacrifizio. S’abbia ivi, se si può, un medico; ed è indispensabile l’avervi uno o più cerusici, speziale, cuochi, vivandieri, o sia provveditori del vitto, beccamorti, oste, o sia dispensiere de’ cibi, con un direttore supremo ed altri uffiziali subalterni e serventi, tanto uomini quanto donne per servigio dell’uno e dell’altro sesso, che ivi ha da essere segregato. Tali basse persone sogliono allora non difficilmente trovarsi, avvertendo eziandio che ai disubbidienti del popolo si cambia talvolta la pena da loro meritata nell’aggravio di servire ai lazzeretti: nel che però si dee camminare con pesatezza, perchè la forza è un duro maestro al ben fare. Si tenga nota del nome, cognome e parrocchia di chi vi entra e della sua morte, occorrendo, per avvisarne poi il paroco o altri uffizi, cosa da ricordarsi anche pel resto della città. Si faccia anche provvisione di molte donne lattanti, avendole pronte pei fanciulli sani, ma rimasi orfani e abbandonati per la morte de’ suoi. E in difetto di nutrici, si procurino per tempo molte capre, le quali sono ottime balie in caso di necessità, come s’è tante volte provato. Alle donne che lattano bisogna levare, immediatamente che s’ha indizio del loro [132] male, i fanciulli, con poscia provveder cagnoline che tirino il latte loro, quando ve ne sia bisogno. Si terranno rinchiuse tali bestie come se fossero persone sospette; e infettandosi esse (il che succede) debbono tosto ammazzarsi e prontamente seppellirsi in fosse profonde.
Due lazzeretti indispensabilmente convien costituire. Il primo per gl’infetti, ove debbono condursi senza dilazione coloro che si scoprono aver segni o infermità pestilenziale; e l’altro per gli sospetti, cioè per condurvi coloro che non sono già infetti, ma hanno praticato con infetti o robe infette. Egli è una crudeltà somma l’obbligare quest’ultima sorta di persone ai lazzeretti degli appestati, perchè potendo facilmente essere elle con tutto il sospetto ben sane, la carità e giustizia esige che non si espongano al gravissimo pericolo di divenir veramente infette nel coabitar con tanti altri appestati. Se in questo secondo lazzeretto alcuno si scoprirà ferito dalla peste, si trasferisca subito all’altro degl’infetti, acciocchè non si ammorbino gli altri; e si profumi la stanza sua per renderla abitabile ad altri che sopravvengano. Chi dei sospetti dopo 20 giorni resta sano, si licenzj; e può in questo lazzeretto tenersi unita cadauna famiglia, con che però, se venisse ad ammalarsi alcuno in essa con segni d’infezione, e perciò s’avesse immediatamente da trasferire all’altro lazzeretto, debba il resto della famiglia cominciar da capo la contumacia de’ sospetti. Ma avvertasi che prima di licenziare alcuno tanto da questo quanto dall’altro lazzeretto, s’hanno di nuovo da purgare le vesti e il corpo di lui. Cioè nel lazzeretto degl’infetti, [133] risanato che uno sia ben bene, v’ha da essere una gran caldaia d’acqua bollente in cui si purgheranno le lenzuola, i panni e le vesti che servono o hanno servito a lui, purchè sieno robe che soffrano tal purga; e si useranno i profumi coll’altre robe incapaci di sofferir la caldaia. Intanto il guarito, trattenendosi nudo in una stanza per un quarto d’ora, si laverà o lascerà lavarsi il corpo con una buona lavanda d’aceto. A chi dovrà licenziarsi dal lazzeretto de’ sospetti, basterà fare sì a lui come a’ suoi panni un leggier profumo per lo spazio di mezz’ora. Consigliano alcuni che i liberati dal male e dal chiostro degl’infetti si facciano passare per alquanti giorni a quello dei sospetti. In tutti e due i lazzeretti si faranno giornalmente dei profumi. Veggasi che anche i poveri Ebrei costituiscano per lazzeretti della lor nazione alcune case del loro ghetto colle necessarie provvisioni, ed abbiano carretta a posta che in sito determinato fuori della città conduca i loro cadaveri ad essere seppelliti. In difetto di fabbriche di pietra pei lazzaretti, si sono talvolta fatte gran file di capanne alla campagna aperta con tavole e travicelli a guisa de’ lazzeretti formali, e tutto alle spese del pubblico. Dee anche avvertirsi che i condottieri degl’infetti, siccome gente sospetta, debbono regolarsi come tutti gli altri uffiziali e serventi de’ lazzeretti nell’abitare e vestire, acciocchè ognuno fugga il commercio loro; ed essendo costoro per lo più di genio ed impiego poco diversi da’ beccamorti, sarà necessario aver sopra di loro una somma attenzione, perchè nel trasporto degl’infermi non nascano que’ disordini, che non [134] sono rari, di violenze, di ruberie o di strapazzi a quei miseri pazienti. Chi poi potesse costituire un terzo lazzeretto per i convalescenti a fine di condurvi i risanati dalla peste, per assicurarsi meglio, farebbe un’utilissima provvisione. Ciò si è praticato e si pratica dalle città doviziose. Ma le altre appena han forza da reggere agli altri più necessari lazzeretti. Almeno si noti ciò che scrive il P. Maurizio cappuccino colle seguenti parole: Gli ammalati attuali s’hanno a separare dai convalescenti, perchè questi sono molto più facili ad infettarsi dei primi, come in Genova, Marsiglia e Tolone ed altrove ho diligentemente notato.
Null’altro dirò io intorno al governo de’ lazzeretti per non ingrossar di troppo quest’opera. La prudenza de’ maestrati supplirà facilmente a ciò ch’io tralascio; e il volume del cardinale Gastaldi risparmierà loro la fatica di pensarvi molto. Più tosto mi preme di esporre qui alcuni dei mali effetti e disordini che nascono dall’introduzione ed uso tanto dei lazzeretti quanto dei sequestri degli infetti o sospetti nelle loro case, in difetto di lazzeretti. Certo la sperienza ha fatto vedere che tali ritrovamenti, utilissimi senza fallo, quando se ne fa buon uso, accrescono, non diminuiscono i malori della peste, se sono male usati. Il perchè presso alcuni scrittori è un punto disputato forte, se talvolta sia maggiore l’utilità o il danno dei lazzeretti, sequestri ed altri simili rigorosi rimedi politici. Se crediamo a Lorenzo Candio e ad altri, nel 1478, essendo fiera la peste, furono introdotti rigori inusitati, e cominciarono circa que’ tempi a dirizzarsi lazzeretti (forse prima si mandavano [135] gl’infetti alle sole capanne, praticate anche dipoi in alcune città), e a mettersi pena la vita per ogni minima cosa. La misera plebe spaventata e dal male e dai rimedi del male, cadeva morta per tal timore impresso vivamente nella loro immaginazione, massimamente al mirar tante morti ogni giorno. Si facevano tutto dì ripari nuovi e consigli di medici, ma senza frutto e sempre peggio. Finalmente aperti gli occhi, fu risoluto generosamente di rallentare l’austerità; laonde cominciò a declinare il male, e in breve cessò. Perciò non par buon consiglio l’usar talvolta eccessivi rigori, sostenendo alcuni essere alle volte stati più quelli che in tempi tali sono morti d’inopia e terrore senza peste, che gli altri estinti di peste vera.
L’invenzione de’ lazzeretti e sequestri, soggiungono essi, apre l’adito a mille ingiustizie, oppressioni e rubamenti, mentre quando non si possa convenevolmente provvedere al bisogno degl’infermi e sequestrati, è cagione che molti periscano di fame, di fetore, di doglia di cuore e disperazione, essendo i lazzeretti d’ordinario mal tenuti e mal provvisionati, e bene spesso serviti da gente empia e ladra. Il solo timore d’essere condotto colà o di essere sequestrato, fa che molti ascondano il male e conversino con gli altri; e senza medicarsi, e, quel che è peggio, senza sacramenti, se ne muoiano e facciano morir altri che alla buona hanno praticato con esso loro. Certo è che la maggior parte naturalmente abborrisce l’essere strascinato sul carro e il venir consegnato a gente non conosciuta e inumana, fra i puzzori e le schifezze di tanti ammorbati. Che se vengono nelle lor case [136] sequestrati, niuno talora ardisce di dar loro mangiare e di medicarli, morendo perciò alcuni abbandonati e disperati, anche per mali non pestilenti, perchè nè pure i parenti osano entrare in casa di que’ meschini, per non esser poi anch’eglino sequestrati o condotti al lazzeretto. E poi, chi è d’animo sì forte che non si atterrisse e non cadesse in qualche o disperazione o passione straordinaria d’animo al vedersi per ogni picciolo motivo di male, che talvolta nè pure è di peste, levato e rapito improvvisamente, e con rigori e violenze, dal proprio letto e casa, o dalle braccia de’ suoi più cari, con pericolo ancora o perdita di tutte le robe sue (come tuttavia succede in qualche paese d’Europa), e al mirarsi portato in massa con altri ammorbati in que’ lazzeretti, che pur sono come tante beccherie, e luoghi regolati e serviti per lo più da gente di poca o niuna carità, la quale non aiuta nè consola, e se pur si risolve a soccorrere, il fa colla punta d’una lunga picca, e con roba che non sollieva, ma accresce la miseria?
E per conto degli altri usi e rigori, egli è troppo facile l’avvilirsi e il morire di spavento al vedere o sentire i ministri de’ lazzeretti e i beccamorti andare attorno con facce orribili, abiti stravaganti e voci spaventevoli, e portar via infermi e sani, vivi e morti, purchè vi sia da rubacchiare. Nè si può dire che orrore spiri il frequente suono di que’ loro campanelli. Certo si sa per relazione di persone accreditate che molti da questi e simili spaventi oppressi, senza essere appestati, vi lasciarono la vita. Perciò anche Livio narra essersi [137] in una peste mossi i Romani a rallentar tanti rigori; il che fe’ in breve cessare la mortalità. Narrano parimente che ne’ contagi di Firenze del 1325 e 1340 fu provveduto che si levassero via certi segni funebri, certi suoni di campanelli per le strade, i quali aumentavano la mestizia e il terrore ai poveri infermi, e che si rammentassero loro i vivi e non mai i morti, con assicurarli di non muoverli dalle loro case. In Bologna nella peste del 1527 fu ritrovato in fine per miglior rimedio il levare i sequestri, e, lasciata la libertà e rimesso il commercio, permettere che tutti comprassero e vendessero: con che, tolta la strettezza, slargossi il cuore al popolo, e molti camparono che sarebbono morti. Così in Venezia una volta e in alcune terre grosse di Lombardia nel 1630 e 1631, dove moriva in quantità la povera gente, nè si sapeva più che rimedio prendere, ho letto che furono levati i sequestri, e subito que’ miseri tanto si rallegrarono, che uscendo tutti all’aria libera e andando a procacciarsi le cose necessarie, cominciarono a risanarsi la maggior parte, e cessò la mortalità.
Tali sono i sentimenti d’alcuni scrittori, ed io n’ho fatta menzione non perchè s’abbia a mutare alcuna delle regole prescritte da tanti saggi e praticate da loro, ma perchè questi disordini e danni facciano ben tenere aperti gli occhi a’ maestrati, affinchè i rimedi non diventino mali intollerabili anch’essi. Vero è che la costituzione dei lazzeretti e il rigore dei sequestri soggiacciono a diversi abusi; ma così è di tanti altri savi ritrovamenti e costumi politici, il bene de’ quali non si [138] ha da dismettere, perchè esso non vada disgiunto per l’ordinario da molti pericoli e mali. Sicchè considerino seriamente i maestrati di prevenire e rimediare, per quanto si può, agli accennati abusi. Quando non possano provvedere di tutto il bisognevole i lazzeretti, si contentino de’ sequestri. Men male sarà, o almeno men crudeltà, il lasciare in mano alla divina Provvidenza i poveri infermi nelle case loro e fra i loro parenti, che trascinarli a morire di disperazione e di stento in lazzeretti informi e senza misericordia. Che se mancassero anche le forze per mantenere i sequestrati bisognosi, meno male sarà il permettere a tutti qualche forma di libertà, attendendo allora a regolar solamente il commercio, affinchè si distinguano e si fuggano dai sani gl’infetti e i sospetti, con obbligar questi a non camminare senza certi convenienti segnali, e coll’impedire il più e il meglio che si potrà i concorsi e miscugli delle persone; ricordandosi che è un gran vantaggio nella state e nell’autunno il guadagnar tempo con salvare la gente, poichè d’ordinario il freddo del verno suol metter fine a tante miserie. Non si nieghi ai sequestrati l’ingresso de’ medici, cerusici e sacerdoti; o pure sieno essi dalle finestre o porte ascoltati e consigliati da essi medici. Chi può curarsi in sua casa nelle debite forme, o essere inviati a’ suoi poderi, sarebbe da esaudire. Coi poverelli abbandonati e privi di scampo, e con chi sarebbe troppo di danno agli altri, e massimamente per chi abita case anguste, si venga al ripiego del lazzeretto, ma con tutti i buoni termini e carità cristiana. S’abbia cura delle loro [139] vesti, esponendole all’aria e purgandole, e salvando loro quel che lasciano in casa e quel che vogliono portar seco, giacchè non dee essere interdetto a chi è condotto ai lazzeretti il menar seco quelle comodità o robe che a lui saranno più in grado, e di cui egli sia padrone. Si procuri di non accrescere il terrore al popolo, ma di sminuirlo per quanto sia possibile. E per questo non si suonino allora campane a morto, nè si lascino mirare ai fanciulli, alle donne, ai melanconici le carrette dei cadaveri, nè altri funesti spettacoli. Consentono tutti i medici che sia di un singolar pregiudizio alla sanità in tempi sì fatti il timore e lo spavento. Una divota allegria può recare allora un giovamento incredibile. Del pari si procurerà, per quanto si può, di destinar ministri fedeli e serventi caritativi e timorati di Dio alla cura degli infermi ne’ lazzeretti ed altrove; e vi sia soprintendente il quale ogni dì faccia la visita con informarsi dalla bocca propria di ognuno se hanno avuto i medicamenti destinati, e come si portino gli astanti messi per loro servizio, i quali non saranno allora presenti, per correggerli o scacciarli occorrendo. E torno a dire che si abbia una rigorosa avvertenza sopra gli andamenti de’ beccamorti e de’ condottieri degl’infermi, nè mai si permetta che chi è solamente sospetto sia condotto ai lazzeretti degl’infetti, quando non meritasse, per essere caduto in pena, d’essere forzato a fermarsi colà per servire agl’infermi. Non si portino sullo stesso carro infetti e sospetti ai lazzeretti; non insieme morti e semivivi alla sepoltura: queste sono crudeltà indegne d’uomini, non che di cristiani. [140] Nella peste di Milano del 1576, cioè a’ tempi di S. Carlo, accadde questo caso. Fu portato dallo spedale, o sia lazzeretto di S. Gregorio un uomo non peranche morto di peste alla sepoltura, confuso con gli altri. Stette egli tutta la notte in una massa di que’ cadaveri. Passando la mattina per quelle bande il sacerdote che portava il viatico agli appestati, il povero uomo per gran desiderio di quel divino cibo, si alzò in ginocchioni tutto pieno d’allegrezza e d’ansietà, e con quella voce che potè, siccome spirante, chiese la santa comunione. Avendogliela volontieri data il sacerdote, ed avendola egli ricevuta con somma venerazione e tenerezza, da lì a poco in quel luogo tutto consolato se ne morì. Alessandro Benedetto racconta d’una nobil matrona portata inavvertentemente alla fossa, creduta già morta. Licostene, l’Ildano, il Crafizio, il Diemerbrochio riferiscono altri simili casi accaduti nelle pesti de’ loro tempi. Adunque raccomandare e invigilare, affinchè non si commettano somiglianti errori o barbarie dai beccamorti, soliti in qualche luogo a portar via i poveri agonizzanti, o tuttavia spiranti, con quell’indegno pretesto che tal gente si può contare per morta. Alcuni già tenuti per estinti, si sono riavuti ed hanno ricuperata la vita e la salute. E perciocchè talvolta accade che alcuni cerusici o per ignoranza o per poca diligenza mandano al lazzeretto persone inferme, ma non di contagio, perciò fatti depositare gl’infermi in un lettuccio prima d’introdurli, e ben visitati da’ cerusici del lazzeretto alla presenza del religioso, se vi troverà che sieno appestati, loro si dieno ivi i sacramenti, e poscia entrino; [141] o pure, scoperti infermi d’altro male, si mandino al luogo de’ sospetti.
Nelle città opulente e capaci di far grossissime spese per la salute del popolo suo, tutto può venir ben fatto, e non seguiranno tanti disordini, cagionati per lo più dal voler certi buoni fini senza aver anche buoni mezzi per arrivarvi. Ed eseguendosi le leggi fin qui accennate, i lazzeretti, sequestri ed altri rigori torneranno tutti in vantaggio del popolo. L’altre città o terre debbono regolarsi come possono il meglio. Almeno procurino di formare un lazzeretto per gli appestati, poichè alle persone solamente sospette si può provvedere in caso di bisogno con ben regolati sequestri, e senza lazzeretto a posta. Nella nostra città l’anno 1630 tre erano gli spedali degl’infermi, cioè uno a S. Lazzaro, un altro nelle Sgarzerie e il terzo nelle Stimmate, tutti e tre mantenuti alle spese del pubblico. Si lasciavano nelle loro abitazioni le persone comode, e molte altre che aveano case capaci per separar gl’infermi e i sospetti dai sani, restando proibito che nè essi infetti o sospetti, nè chi loro serviva potessero praticar con altri, e venendo obbligato al sequestro medesimo chiunque avesse conversato con esso loro. I poveri e alcuni altri, secondo la prudenza dei conservatori e deputati, si mandavano ai lazzeretti. Nella peste di Roma sul principio si camminò con gran rigore; e il condurre irremissibilmente ai lazzeretti anche i cittadini più comodi, fece che gli altri furono più ritirati dal conversare e più cauti dal contagio. Ma non istettero molto ivi a permettere che restassero in casa propria, per far [142] ivi la contumacia, le persone civili o agiate, purchè con rigorosa separazione dai sani. Altrettanto è da fare in altre simili funeste congiunture, asserendo ancora accreditati scrittori che basta rinserrare i sospetti nelle loro case, con profumar bene le medesime e le robe loro, e con visita giornaliera dei medesimi rinchiusi, facendoli venire alle porte o finestre, per chiarirsi se alcuno si fosse di nuovo ammalato. Dopo quindici dì trovandosi eglino tutti sani, si può dar loro la libertà. Certo i profumi serviranno di gran rimedio e di risparmio di molte altre spese ed incomodi. Morto che sia di peste alcuno, profumandosi la sua stanza colle robe ivi poste o che abbiano servito a lui, possono ivi abitar fra non molti giorni altre persone; e potendo i sospetti sequestrati in essa casa abitar altre stanze, non c’è necessità precisa di forzarli ad uscire, giacchè il soccorso dei profumi può liberar quelle stanze e le robe loro dai vapori pestilenziali che per disavventura vi fossero penetrati. Vero è che in Firenze nel 1630, essendosi osservato che il lasciar fare la quarantena nelle case ove era morto alcuno di peste, riusciva di gran nocumento ai sani, perciò fu risoluto da lì innanzi di condurli tutti al lazzeretto de’ sospetti; ma il danno procedeva dalle anguste e pestilenti stanze: al che ci è rimedio, come s’è detto, e massimamente per chi ha case larghe e abbonda di comodità. Ivi medesimamente ripullulato il contagio nel 1633, vinse il parere di chi consigliava il contentarsi dei soli sequestri nelle case proprie degl’infetti; ma conosciuto da lì a non so quanti giorni che si andava di male [143] in peggio, si aprì di nuovo il lazzeretto, non ostante l’abborrimento che vi aveva il povero volgo, e se ne provò in breve buono effetto. In Ferrara nel 1630 fu preparato per lazzeretto il monistero di S. Giorgio degli Olivetani, ed altre città si sono pure servite d’altri conventi in sì estremo bisogno.
Luogo e regole della quarantena. Se sieno necessari 40 giorni per essa. Regolamenti per l’introduzione delle vettovaglie. Obbligazione dei ricchi di soccorrere i poveri. Doversi facilitare il fare i testamenti. Cura degli spedali e delle prigioni.
Volendo persone o robe procedenti da luoghi sospetti introdursi in un territorio sano, ognuno sa che debbono elle soggettarsi alla contumacia, o sia alla quarantena, la quale nè pur si dee, se non con gran riguardo, concedere a chi venga da paese infetto e vicino. Per la quarantena si ha da eleggere un luogo ameno e separato dalla frequenza degli altri, colle sue divisioni per varie famiglie e persone, e regolarsi poi nella seguente forma. Sul principio, spogliate le persone delle loro vesti, si lavino ben bene i loro corpi con aceto in ogni parte e si rivestano con altri vestimenti non sospetti. In mancanza di questi altri abiti, dovranno sopportare il profumo della sanità per lo spazio di mezz’ora in circa con tutte le robe che avranno portato, in una camera ben chiusa, avendo ben distese essa robe ivi, in maniera che per due ore [144] possano ricevere perfettamente il profumo, dopo il quale si possono usar come nuove. Ciò fatto, si noti in un libro il giorno da cui comincerà la quarantena. Non parlino, nè trattino con altri se non con le cautele prescritte per la gente sospetta. Se si ammalasse alcuno, il visitino i medici o cerusici; e scoperto appestato o temuto per tale, si farà porre in una capannetta molto separata dall’altrui abitazione con guardie. Ma non avendo peste, si potrà curare in compagnia de’ suoi, i quali, solamente in caso ch’egli fosse scoperto infetto di mal contagioso, dovranno ricominciare la quarantena. Sui principj si può con questo ripiego soffocar la peste nascente.
Il tempo della quarantena, secondo la pratica de’ prudenti maestrati di Venezia, ora è di pochi, ora è di molti giorni, prendendosi la misura di ciò dal maggiore o minor pericolo e sospetto, e dalla maggiore o minor lontananza dell’infezione. L’intera quarantena è di 40 dì, dal che venne il suo nome, e tanto si suol richiedere negli urgenti sospetti di peste. Nulladimeno a me sembra meritevole di molta riflessione e fondatissima la sentenza di Lodovico Settala e del P. Maurizio da Tolone cappuccino, dell’ultimo de’ quali rapporterò i sentimenti e le ragioni. La pratica, dice egli, di 20 e più anni mi dà animo di francamente asserire essere bastevoli 20 giorni di quarantena, benchè l’uso sia introdotto di 40. Certo è che chi avrà maneggiato robe infette, o attratta aria appestata, in guisa che gli si sia attaccato il male, proverà prima che passino 15 dì qualche grave accidente, come di febbre con vertigini ed inquietudine; [145] camminerà vacillando; avrà gli occhi ottusi ed aggravati, la faccia pallida e livida, vomito, sonno grave che ha del letargo, frenesia, ecc., o veramente mostrerà segni esterni di buboni, petecchie, ecc. Quindi è che se qualche persona sospetta si sarà, nell’entrare in quarantena, lavata bene con aceto, mutando le vesti e insieme profumando tutte le altre suppellettili, nè avrà sentito ombra o apparenza di male, si può, passato il ventesimo giorno, licenziare come sicura di ogni infezione, avendo io più volte osservato non esservi infetto che prima de’ 15 evidentemente non si conosca, o abbia passato quel termine con salute e poi si sia scoperto appestato. Vero è che se si trascurassero le cautele suddette e le diligenze prescritte ne’ lazzeretti, potrebbe la peste divampare non solo dopo i 30, ma anche dopo i 40 giorni. Avverto che la mutazione dell’aria fatta da luogo infetto in altro sano è cagione che la malignità del morbo si dia più presto a conoscere che se si fosse fermato nel primo.
Stieno poi bene oculati i conservatori della sanità, perchè nel dare le quarantene si commettono tutto dì dei gran disordini, con venir delusi i saggi editti. Le guardie, persone vili, per danari permettono tutto, e spezialmente l’oltrepassar le mete sì a’ quarantenari come a quei di fuora. Spirando scirocco, o aria umida e piovosa, avvertano che l’infezione delle robe, anche esposte all’aria, non si leva, ma si fomenta, facendosi talvolta la quarantena intera senza purgarsi. Si dee anche temere d’un inconveniente nel verno che non suol accadere la state, cioè che in tempo freddo, o spirando [146] la tramontana, si nascondono e si concentrano nei panni e nelle robe gli spiriti pestilenziali, i quali, venuto poi il caldo, fanno strage orribile. Ma in qualunque tempo che corra, se saranno ben fatti i profumi alle robe e verrà ben custodita la persona e governata coll’aceto e colla mutazione dei panni, la quarantena sarà mezzo sicuro per accertarsi se la persona abbia condotta seco l’infezione, e per liberarnela ancora. Nessuno (aggiunge il mentovato Cappuccino) adduce una ragion soda e vera per cui si assegnino 40 giorni alla purga suddetta. Ma posto per vero che la pestifera qualità del male non può stare più di 15 dì a scoprirsi, hanno da bastar 20 giorni. E per le robe, quantunque infettissime, si purgano queste in 24 ore a segno che si potranno dipoi maneggiare con tutta sicurezza. Ad un uomo che parla colla sperienza alla mano e reca buone ragioni, parmi che si possa acquetar la prudenza anche a’ tempi nostri. Veggasi Paolo Zaccaria, lib. 9, tit. 5 delle Quist. Medico-Legali, che tiene e diffusamente tratta la sentenza medesima.
Una delle più dure e difficili, ma delle più necessarie applicazioni di chi governa in congiuntura di contagio, si è quella dell’annona e delle grasce, cioè di provveder grani e vettovaglie, e massimamente per mantenere alle spese del pubblico i poveri e chiunque non ha mezzo allora per alimentarsi colle sue rendite o colle sue fatiche. Il cardinale De Luca saggiamente insegna che i due punti principali del buon governo in tempi di peste sono l’ubbidienza rigorosa, eguale in tutti e senza eccezione o rispetto di persona alcuna, e [147] l’allettamento e la piena libertà de’ vivandieri che da’ paesi non infetti, colle dovute cautele, portino vettovaglie. E certo non si dee in tempi tali perdonare a diligenza e spesa veruna, perchè la fame può fare non meno danno allora che la peste medesima. Questo è un atto di somma carità, ed è medesimamente un interesse importantissimo, perchè, perduti gli artigiani, i contadini, i trafficanti e gli altri operai, non si può dire che pregiudizio ne venga a coloro che restano in vita. È misero il capo allorchè nol servono o gli mancano le membra. Finita la peste del 1630, e finite tante altre, fu carestia in alcuni paesi perchè erano mancati i contadini. Le persone ricche e nobili furono gastigate nella morte dei poveri, perchè non trovavano più chi loro servisse, nè chi rendesse loro frutto de’ loro poderi, case, botteghe, dazi, gabelle e fondachi. Tutte le mercatanzie, sì del paese, come straniere, e le manifatture del vestire, fabbricare, ecc., vennero carissime, con tanti altri danni e sconcerti che si possono bene immaginare moltissimi, ma che non si possono saper bene tutti se non da chi ha la disavventura di farne la prova. Il perchè gran gastigo è la peste, anche dopo esser finita, per gli effetti suoi, e per conseguente i principi, le città, i ricchi e i nobili dovrebbono ben accudire per preservare il paese da sì aspro flagello, o almeno per conservare in vita il più che potessero il misero popolo, contro del quale suol per l’ordinario sfogarsi il principal furore della pestilenza. E i vicini sani anche debbono, purchè possano, vendere e condurre al paese infetto, che ne abbisogni, i viveri, sì per motivo [148] di carità cristiana, e sì per altri riguardi. Si ricordino che nella peste del 1576 i cittadini di Monza rinserrati, non sapendo come vivere, per disperazione saccheggiarono il paese circonvicino.
Non solamente hanno i maestrati e i principi da adoperare ogni sforzo per la pronta ed anticipata provvisione delle biade, e perchè si seguiti a fare il trasporto delle vettovaglie, col concedere ancora, occorrendo, esenzioni al condottieri, ma debbono con egual cura invigilare, affinchè non succedano monopolj e frodi, assai facili in tempi sì sconcertati, con troppo aggravio o delle borse o della sanità del popolo. Non si vendano dunque commestibili a prezzo eccedente, nè vini guasti, nè altre robe nocive; e però sieno vietate le frutta acerbe o fradice, i citroni, l’uve immature, i moscatelli, le persiche, i funghi di qualsivoglia sorta, il latte quagliato e il pesce preso con pasta o esca, o pur cattivo o fradicio, e anche il marinarlo o friggerlo per poi venderlo. Ricordo nondimeno che il sugo d’agresta è utile in tempi tali per condirne le vivande entrando esso fra gli acidi che possono o debbono adoperarsi. Nella nostra città fu in fine proibito il vendere anche ogni sorta di pesce forestiero fresco, tanto vivo quanto morto, a fine di fuggire vari mali effetti che ne venivano o ne poteano venire. Così è da vietare l’estrazione dell’olio, delle droghe, dei commestibili e d’altre robe non facili ad aversi. Appresso è da tener l’occhio attentissimo ai macelli, acciocchè non si vendano se non carni sane, e molto più ai fornai e ai provveditori di grani, farine e pane, per impedire che non si vendano [149] biade guaste o immonde, o non si assassini, col pane stesso pieno di loglio e d’altre brutture, il povero popolo, e non succedano frodi o ruberie nella loro distribuzione. Meglio è pane sano con acqua pura che cibo guasto. Tengano l’occhio ai mulini ove sì macina grano, perchè si schivi il mescuglio de’ sacchi per quanto si potrà. Facciano custodire con buon recinto i pubblici forni, ed abbiano premura che i fornai si tengano lontani dal commercio dei popolo, mentre più volte è accaduta la disgrazia che o morti, o caduti infermi essi fornai per poca loro avvertenza, s’è provata per qualche giorno nella città non lieve penuria d’un alimento sì necessario. In Firenze l’anno 1630 la maggior parte de’ fornai s’infettò pel concorso di tante persone e maneggio di tante asse e tele. Convien pensare al rimedio. Dovrassi anche ordinare per tempo che le spezierie sieno provvedute con abbondanza di medicamenti, droghe ed altre cose occorrenti in simili congiunture, prestando anche danaro del pubblico agli speziali, qualora mancasse loro il mezzo di far simili provvisioni. Toccherà poi ai medici l’osservare che non si vendano ivi robe tarlate, muffate o guaste, e medicamenti inutili o finti, senza verun giovamento e forse con pregiudizio della salute altrui, e nulla si venda a troppo caro prezzo. Sarà anche interdetto agli speziali il vendere medicine solutive e a’ barbieri il cavar sangue senza licenza de’ medici per le ragioni che si diranno.
E perchè in sì fastidiosi tempi sogliono i nobili, i cittadini e l’altre persone comode allontanarsi dalla città, il che pure s’è da me ancora [150] consigliato di sopra, alla riserva di quelli che sono tenuti alle pubbliche incumbenze e a certe obbligazioni per la cura della patria, sarà necessario provvedere che la loro ritirata non gli esima dal sovvenimento dei poveri e dall’impiego dei pubblici uffizj, quotizzando tutti nel far collette di letti, biancherie, buoi, cavalli, carrette e simili cose, e obbligandoli, se sarà creduto bene, a supplir col danaro l’opera che negassero prestar colla propria persona, essendo pur troppo in tali disgrazie gravissimi i pubblici dispendi. Nella nostra città l’anno 1630, a dì 3 di settembre si venne al seguente placido ripiego. Fu fatta pubblica intimazione a tutti i capi di famiglia, abitanti o soliti ad abitare in città in casa propria o tenuta ad affitto, e ad ogni altro cittadino originario abitante del distretto, purchè questi possedessero beni in essa città o suo distretto, che in termine di tre giorni sotto pena di molti scudi si trovassero, o venissero, o mandassero deputato in città a fare l’infrascritta obblazione, con obbligare a ciò anche i minori e le donne, ed altri che fossero capi di famiglia, per i quali erano tenuti i tutori e curatori. Cioè sapendosi pur troppo il bisogno della città per le intollerabili spese che giornalmente si faceano in occasione della peste, doveano tutti fare un’offerta di danari, o biade, o argento, o oro conforme alla loro possibilità, presentandola con polizza a chi era deputato. Si aggiunse che non si voleva far colletta forzata, perchè più si sperava dalla spontanea amorevole carità de’ cittadini. Tuttavia a chi fosse più scarso di quello che portassero le forze sue (sopra che s’invigilerebbe) si [151] facea sapere che verrebbero presi contro di lui altri spedienti; e che incorrerebbe nella pena chi mancasse all’offerta fatta, la quale si dovea poi pagare in termine di quindici giorni: sperandosi intanto che il Signore Iddio avrebbe inspirato nella mente e nel cuore di tutti un acceso e piissimo sentimento di carità, e una pronta risoluzione d’impiegare tutto quel che potessero in soccorso e servizio dell’afflitta loro patria.
Fu anche nella nostra città facilitata con dispensa del principe la maniera di far testamento durante il contagio. In città era lecito il farlo con un legittimo notaio e tre testimoni, bastando pei codicilli il notaio con due testimoni. Quanto al distretto e alle ville sue, ove non si potesse facilmente trovar notaio, bastava che del testamento o codicillo si rogasse il proprio paroco, o pure il cappellano, in assenza o legittimo impedimento del paroco, alla presenza di due soli testimoni; ma che non si usassero fraudi, perchè, scoperte, sarebbono con ogni rigor punite. Che se venissero a mancare nella città i notai, allora anche per la città si concedeva la facoltà conceduta alle ville suddette. Così furono levate via le dispute che possono nascere per le formalità d’essi testamenti, intorno ai quali hanno, oltre a vari legisti, scritto due teologi, cioè il P. Marchino o il P. Gio. Angelo Bossio, t. 2, tit. 9. Gli appestati si potranno far portare alle finestre o alle porte, ed ivi alla presenza de’ testimoni e del notaio pubblicare la loro ultima volontà. Non aggiungo altro intorno a questo argomento per non entrare nel caos. Certo è che in tempo di peste sono validi molti atti, [152] benchè mancanti di alcune solennità richieste dalle leggi in altri tempi; perchè, a cagion d’esempio, allora basta un testimonio, dove regolarmente ce ne vorrebbero due; e una donna può servire di testimonio a un testamento, ed essa può far dei contratti senza l’intervento de’ parenti o vicini, per tacer altri privilegi di que’ miseri tempi. In Roma fu anche ordinato che gli strumenti pubblici allora fatti si conservassero diligentemente ne’ protocolli, e se ne desse copia senza dilazione al pubblico archivio.
Abbiano cura i maestrati anche degli spedali. Se ve n’ha di quegli ove si ricevano bambini esposti, orfani e vecchi inabili, non si permetta che vi entri o ne esca alcuno se non per necessità e con gran riguardo, tenendoli chiusi con rigoroso sequestro. Si può provvedere al loro bisogno senza capitarvi dentro; e quando vi penetrasse il morbo, sarebbe difficile l’impedire che non vi facesse un eccidio universale. Gli altri spedali, ne’ quali si sogliono ricevere o i febbricitanti, o i piagati, sarà necessario chiuderli affatto per tali persone, affinchè sotto l’apparenza d’altro male non vi entrasse la peste che di tutti farebbe scempio. Non meritano minor attenzione le pubbliche carceri. Per le segrete, ove non suol trattenersi che uno o pochi altri per cadauna, la disgrazia stessa è una specie di ventura per quei prigionieri, mentre, segregati dal commercio altrui, possono facilmente assicurarsi ancora dal morbo. Solamente per costoro s’ha d’aver cura de’ loro custodi, acciocchè incautamente somministrando il cibo, non portino la morte entro que’ nascondigli, [153] o pure se venissero a mancar tali guardiani, i miseri carcerati, coll’essere dimenticati, non perissero anch’essi. Il pericolo e la difficoltà maggiore si è per le prigioni comuni, che essendo d’ordinario ripiene di rei e di sordidezze, sono per conseguente una facile occasione e un più facile pascolo alla pestilenza. Adunque o liberare i rei di minore importanza e mettere nelle segrete gli altri, o pur chiuderli tutti, o trovarvi altro più utile o più plausibile e spedito ripiego, comandato dalla giustizia o consigliato dalla carità. In Palermo nella peste del 1625 non si carcerava alcuno per liti civili. Per delitti criminali leggieri si assegnava la casa per carcere sotto pena della vita; e per gli eccessi gravi il reo si metteva in prigione, ma non se gli lasciava portar seco altro che il solo vestito e una camicia bianca. E ciò sia detto del Governo Politico io tempo di peste. Passiamo al Governo Medico.
[154]
Regole mediche per preservarsi dall’aria. Ricette varie per profumi. Come si debba governare nell’uso del mangiare e bere; del sonno e della vigilia; del moto e della quiete, e delle passioni dell’animo. Grande utilità dell’intrepidezza, e del coraggio.
Dopo le diligenze de’ magistrati per tener lontano il contagio o per impedirgli venuto che sia, ulteriori progressi e maggiori stragi, è da vedere quanto dal canto loro debbano e possano fare i medici per ottener lo stesso fine. Ancor qui l’arte loro principalmente si divide in preservativa e curativa. In quanto alla prima; c’insegnano essi a regolarci bene, massimamente in que’ tempi, nella dieta, cioè nell’uso di sei cose appellate da loro non naturali, che sono l’aria, il mangiare e bere, il movimento e la quiete, il sonno e la vigilia, la retenzione ed escrezione delle cose consuete, e le passioni dell’animo.
[155]
Non occorrerebbe dir qui altro intorno all’uso dell’aria, perchè già di sopra se n’è parlato diffusamente, coll’addurre ancora i rimedi preservativi, affinchè essa resti purgata, o per mezzo di essa non si contragga l’infezione. Tuttavia aggiungerò qui che il fuoco è uno de’ migliori correttivi dell’aria pestilenziale, avendo insin lo stesso Ippocrate, per quanto si crede, domata ed estinta quella fierissima pestilenza che a’ suoi dì passò dall’Etiopia nella Grecia col far accendere, e specialmente in tempo di notte, dei gran fuochi per la città. Questi tanto più riescono utili quanto più sono odorose le legna accese. Ma sovente, costando troppo simili incendi, e potendo essi talvolta cagionarne anche de’ maggiori nelle città, basterà ritenerne l’uso per purgare l’aria interna delle case, bruciando ivi per le camere ginepro, frassino, cipresso ed altre simili legna di grato e sano odore, che sono mirabili correttivi degli effluvj pestilenziali. Nicolò IV, sommo pontefice, nella pestilenza del 1288, e Clemente VI in quella del 1348 si tenevano chiusi nelle loro stanze, facendo far ivi e per tutto il palazzo gran fuoco anche nel mese di luglio. In tempo di state ardendo tai profumi e fuochi in una camera, si può stare ritirato in un’altra; e allora ancora gioverà il valersi di sprazzi d’aceto, e di fiori, e d’erbe odorifere sparse per le stanze. Ho veduto alcuni che in vaso di maiolica o d’altra terra bene inverniciata conservavano varie erbe con fiori di buona fragranza, alquanto spruzzate di sale, bagnandole di quando in quando con acqua in tempo di state, con che davano buon odore a tutta la stanza. Sono erbe [156] sane ed odorifere la menta, la salvia, l’origano, l’abrotano, il puleggio, la calaminta, la satureja, la lavanda, l’erba sangiovanni, cioè la sclarea o sia il gallitrico, la ruta, l’artemisia, la matricaria, ecc. Il più sicuro però fra simili preservativi si è l’uso dei profumi sopra da noi descritti. Si facciano dunque per le camere in tutti i tempi dell’anno due o tre volte il giorno. E perciocchè abbiamo già biasimato certi odori acuti e calidi, come quei del muschio e dello zibetto, ora non vo’ tacere che dopo il Massaria, seguitato da altri, il Diemerbrochio, uno de’ più dotti ed esperti maestri di questa materia, ci assicura d’aver notato che i suffumigi di soave e sottile odore (quali dice egli essere anche lo storace, il ladano, il belzoino, i garofoli, ed altri simili) non solamente poco giovavano nella peste del suo tempo, ma ancora a moltissimi erano di gran nocumento, se non per altro, per recar loro doglia di capo. Però lasciando egli stare i lussi del naso, prescriveva odori anche poco soavi, ma più sani, e non già molti, ma pochi. Utilissimo è il suo ricordo; nè ciò si oppone a quanto ho consigliato di sopra colla scorta d’altri autori intorno al valersi ancora di alcuno d’essi odori sottili, essendo bensì da dir nocivi i profumi composti di soli ingredienti, per dir così, effemminati, ma non già se alcuno d’essi venga unito ad altri odori maschili e alquanto o molto spiacenti alle narici.
Il perchè lo stesso Diemerbrochio commendava quasi a tutti le seguenti cose: Cioè far profumi con incenso e bacche di ginepro parti eguali, essendochè tal profumo, quantunque vile e comune, [157] vince però in vigore moltissimi altri. Prescriveva egli anche i seguenti
Pastelli per profumi.
℞. Incenso, grani di ginepro, succino bianco, ana (cioè parti eguali, o sia di cadauno) mezz’oncia; mirra, belzoino, mastice, storace, ana dram. 2; garofoli dram. 1 e mez. Si polverizzi tutto, e con mucilagine di dragante se ne formino pastelli da bruciar sulle brage.
Altri pastelli.
℞. Zolfo, incenso, grani di ginepro, pece navale, ana mezz’onc. Mescolati e preparati si riducano in pastelli.
Altri pastelli.
℞. Incenso onc. 1, solfo onc. 1, mirra dram. 4, pece navale, belzoino, storace, succino, ana dram. 1 e mez.; garofoli dram. 1. Se ne faccia polvere, a cui aggiungi olio di ginepro scrup. 2 con mucilagine di dragante quanto basti, e se ne facciano pezzetti per profumi.
Il Sennerto pei poveri prescrive le seguente
Polvere da far profumi.
℞. Bacche di ginepro manipoli o pugni 2, scorze di bacche di lauro manip. 1, incenso mez. lib., foglie d’assenzio, o sia medichetto, ruta, quercia, ana manip. 2, segatura di legno di ginepro [158] manip. 4, ambra bianca onc. 1. Se ne faccia polvere.
Il medesimo e Gregorio Horstio lodano molto per la prova fattane quest’
Altra polvere da far profumi.
℞. Bacche o sia grani di ginepro manip. 4, radici di ellenio, di scorza esteriore di bieta, corno di becco raspato, sabina, ana manip. 2; foglie di quercia, mirra, ana onc. 1. Se ne faccia polvere e si bruci per le stanze.
Torno poi ad inculcare che il solo solfo può servire d’un mirabil profumo, poichè il suo alito e fumo resiste mirabilmente agli aliti pestilenziali e toglie in poco tempo ed ottimamente le corruzioni dell’aria. Ma perchè solo esso riesce troppo spiacevole e stringe il respiro, perciò gioverà mischiarlo con altri meno molesti suffumigi. Anche la pece è stimatissima, ed essa dicono che fu il segreto d’Ippocrate per correggere l’aria infetta. Lo stesso buon effetto può sperarsi da altri bitumi. Pazienza se il naso ne ha disgusto: la sanità ne avrà ben vantaggio. Oltre di che non c’è necessità di star nelle stanze allorachè si profumano col solfo. È anche migliore il solfo col nitro, e perciò la polvere da fuoco è tenuta per egregia ed ottima medicina per purgare l’aria. Levino Lemnio ed altri lodano molto pei suffumigi le corna delle bestie, siccome ricche di sale volatile, e massimamente quelle di becco. Possono anche bruciarsi scarpe vecchie, e peli, e unghie ed anche sterco di bestie bovine: delle quali cose io [159] fo menzione perchè in difetto di meglio possano i poveri ricorrere ad un sì facile profumo. Anche il fumo del buon tabacco è creduto giovevole più di moltissimi altri per impedire o estinguere il contagio dell’aria nelle case. Sembra poi ottimo consiglio, quando il tempo non sia piovoso o nebbioso, l’aprire la mattina, una o due ore dopo la levata del sole, le finestre delle camere, quelle però che riguardano l’oriente, e molto più le volte a tramontana, acciocchè v’entri buon’aria, lasciando sempre chiuse quelle che mirano il mezzodì, e le cloache fetenti o altre case confinanti ove fossero ammorbati. Il vento aquilone, o sia la tramontana, è tenuto da Ippocrate e dagli altri medici per molto salutifero in Europa; e all’incontro i venti spiranti dall’austro, cioè dal mezzodì, sogliono essere nocivissimi, essendo stato osservato insin da Plinio che spirando gli scirocchi s’aumenta la peste.
Per conto del mangiare e bere, allora più che mai debbono guardarsi gli uomini da cibi malsani e di cattivo nutrimento, e dalle bevande guaste o perniciose anche in altri tempi. Non è qui luogo da copiare la Scuola Salernitana; e sarebbe anche per altro impresa tendente al ridicolo il mettersi, come appunto fanno alcuni medici, ma non di prima sfera, in trattando del contagio, a decidere sopra l’utile o danno d’una lunga serie di carni, pesci, frutta, ecc., ventilando tutto come vuole la lor fantasia, e pronunziando: Questo è buono e sano; quell’altro è cattivo. Una tale scrupolosità viene derisa dai medici più assennati, perch’eglino sanno non doversi, nè potersi camminare con sì [160] rigoroso bilancino, e dependere il buono o il cattivo dei cibi non tanto dalla loro qualità, quanto dalla disposizione di chi ha da prenderli. Basterà pertanto avvertire che i commestibili, de’ quali abbiam detto di sopra doversi proibire il mercato, regolarmente si hanno a fuggire da tutti in tempo di contagio, ed esser bene l’astenersi, per quanto si può, da quelli che si credono di mal sugo o per la loro troppa grassezza, o troppa durezza, o troppa facilità a corrompersi, come per esempio le carni di porco ed altri simili grassumi, i salmoni, le anguille, i legumi, il latte, i cocomeri, i melloni, le cerase, le pesche, o sia i persici, esortando insino alcuni a non mangiare quasi mai frutta in tempo di peste: il che a me sembra troppo, e così credo che parrà ai più intendenti di me. Convengono ancora gli scrittori doversi allora più che mai lasciare i cibi molto dolci, come il mele, i canditi, lo zucchero, ed altre simili dolcezze anche dei vini e delle frutta (nè l’acquavite è creduta giovevole), attenendosi per quanto si può a cibi e bevande che abbiano sapore naturale e sano di acido e di amaro. Perciò sono anche da ricercarsi allora, siccome utilissimi, i limoni, cedri ed aranci, i pomi cotogni e i granati, il ribes e simili, che possono coll’acetoso ed astringente loro preservare dalla corruttela e dallo scioglimento gli umori e il sangue, mischiandone il sugo col vino o spremendolo sopra le vivande. Anche le scorze degli agrumi sono buone. Del resto chi è solito a nutrirsi di cibi grossi, non dee allora mutar registro, siccome nè pure chi è assuefatto a cibi leggeri e di facile digestione. E [161] perchè è comune opinione, assistita ancora da non pochi medici, che gli agli e le cipolle sieno un gran preservativo contro la peste, si vuol avvertire che tal credenza viene impugnata da altri medici, tenendo essi che sì fatti cibi, almeno l’aglio, sieno di cattivo sugo, e producano dei mali effetti nel corpo umano. Tuttavia per la gente di stomaco gagliardo e usata alle fatiche, quali per l’ordinario sono i contadini e i facchini, l’arte medica li permette, e forse loro giovano assai. Potrebbe consigliarsi ai delicati e a’ nemici della fatica corporale che se ne astenessero, almeno dall’aglio, chiamato da Galeno triaca bensì dei rustici, ma non già di tutte le persone; quando non volessimo supporre che l’aglio, preso in discreta quantità, potesse colle sue parti saline e penetranti avvalorare la digestione del ventricolo, spesso languente nelle persone delicate, e introdurre col suo odore ne’ fluidi certe parti vigorose per resistere agli aliti pestilenziali. E che questi frutti dell’orto possano, se non con altro, almeno col grave loro odore difendere dagli spiriti velenosi della peste, io facilmente il credo, nè trovo chi fra i medici si metta a risolutamente negarlo, per nulla dire, scriversi dal Sennerto che se non sono buoni per alimento, sieno ben buoni per medicamento contro il morbo suddetto.
E questo quanto alla qualità de’ cibi e delle bevande. Quanto alla quantità, si dee ricordare che il troppo e il troppo poco sono due estremi da’ quali dee allora più che mai tenersi lontano chi vuol preservarsi ed ama la sua salute. Se si ha da pendere all’uno di questi due estremi, si [162] faccia allora verso il poco, più tosto che verso il molto, con guardarsi accuratamente dai conviti e dalle gozzoviglie e dalla moltiplicità delle vivande, e sopra tutto da certe composizioni inventate dal frenetico lusso della gola per rovina degli stomachi e dispendio delle borse. S’hanno per consiglio di tutti da amare ed eleggere cibi e vivande semplici e naturali; e ancora di questi conviene mangiar moderatamente per ischivar le indigestioni e crudità, cioè la sorgente della maggior parte dei mali che fanno fare il mestier del corriere ai medici e buone faccende alla morte. Questi sono ricordi utilissimi per tutti i tempi, ma specialmente per quei del contagio, ne’ quali per l’ordinario chi ha umori cattivi più degli altri è in viaggio per quel paese ove i medici non hanno giurisdizione. La sperienza poi ha fatto vedere con troppi casi (non dovendosi attendere alcuni pochi in contrario) che l’ubbriachezza allora è più che mai perniciosa; anzi alcuni proibiscono affatto in quelle congiunture il vino. Ma per parere de’ migliori esso, purchè sano e moderatamente preso, è preservativo dalla pestilenza: il che fu asserito ancora dagli antichi. Anzi alcuni il lodano, e permettono insino alle persone febbricitanti, ferite dalla peste medesima, e ne concedono più spessi i bicchieri alle malinconiche.
Che la stessa moderazione s’abbia a servare nell’uso del sonno e della vigilia, essendo cattivo l’eccesso d’amendue, ce ne avvertì, son già due mila anni, Ippocrate in uno de’ suoi Aforismi. Ai dormiglioni ha un gran genio la peste per parere dell’Untzero. Egli è sempre pericoloso il dormire [163] sopra fieno e paglia fatti di fresco, o di notte a certe arie, ma specialmente in tempi di peste. Similmente convien temperare il troppo moto o la troppa quiete del corpo, con questa avvertenza però che ne’ tempi sani inertia atque torpedo plus detrimenti facit, quam exercitium, come diceva Catone, riferito da Aulo Gellio, ma qualora l’uomo si trovi in mezzo alle morti, più sicura o meno pericolosa sarà la quiete e l’ozio, e massimamente per chi non è avvezzo in altri tempi a tener molto in moto i piedi e le braccia. Certo non sarà se non giovevole il guardarsi allora da qualunque grave fatica che riscaldi di soverchio e stanchi le membra, inducendo sudore, perchè così troppo aperti i pori più facilmente contraggono i malori dell’aria impura. Hanno osservato i saggi che dopo i violenti esercizi molte persone venivano sorprese dalla peste, di modo che avvedutisene anche i contadini, non si arrischiavano poi a continuare le loro necessarie fatiche. In alcuni paesi il gusto del nuotare ne’ fiumi era pagato bene spesso dal terribile disgusto della peste che sopravveniva. Intorno alla ritenzione ed escrezione delle cose consuete non potrei dire se son cose spettanti alla dietetica di tutti i tempi; e però mi basterà di aggiungere avere la sperienza insegnato che allora più che mai s’hanno con gran temperanza da cercare i piaceri leciti del santo matrimonio, perchè ciò in tempi pestilenziali troppo dispone i corpi a facilmente ricevere gli spiriti velenosi della pessima influenza che corre. Sel ricordino specialmente gli sposi novelli, fra’ quali è stato notato che spesse fiate la morte ha introdotto un eterno divorzio.
[164]
Finalmente le gagliarde passioni dell’animo, regnando il contagio, possono chiamarsi i primi beccamorti dell’uomo. Gridano qui ad una voce tutti i medici che specialmente la collera, la malinconia e il terrore s’hanno a fuggire come la peste medesima, e doversi in loro vece dar luogo all’intrepidezza, ilarità e quiete dell’animo. Tucidide racconta che nella gravissima peste da lui descritta più degli altri cadevano estinti i melanconici e paurosi. Altrettanto hanno osservato ai tempi loro diversi medici; e fra gli altri il Sennerto attesta essere stati presi da questo morbo non pochi pel solo terrore conceputo al mirar da lontano, o pure, senza vederlo, al solo ascoltare che passava sotto le finestre il carro funereo su cui erano condotti i cadaveri degli estinti. Altri spaventati da un solo sogno funesto, si sono tanto abbattuti di cuore, che caduti infermi hanno deluso tutti i medicamenti. Ed è anche stato avvertito essere più rade volte scampati coloro che dopo un gran terrore contraevano la peste che gli altri assaliti dal morbo, ma senza precedente costernazione d’animo. Ferita l’immaginazione e messi in disordinato moto gli spiriti e gli umori da qualche spaventoso spettacolo, troppo agevolmente si prende il veleno pestilenziale, ed anche senza peste si muore talvolta di pura costernazione ed umor nero. Per lo contrario le osservazioni fatte ci assicurano che i coraggiosi, gl’intrepidi ed allegri sono meno soggetti all’infezione; e però dovrà allora eleggersi una forma di costanza cristiana e di allegria onesta d’animo, fuggendo la mestizia e la paura e le occasioni d’adirarsi, con tenersi a [165] memoria le parole del Bauderon parlante della peste: Confidentes ut plurimum servantur; contra, meticulosi facile corripiuntur. Tanto è ciò vero, che non mancano filosofi e medici, condottiere dei quali è l’Elmonzio, i quali pensano che la cagione prossima ed essenziale della peste altro non sia che il terrore e non già la comunicazione de’ sottilissimi spiriti pestilenziali. Anche il Rivino, trattando della peste di Lipsia dell’anno 1679 o 80, ha tenuta la medesima opinione. Il suddetto Elmonzio però insegna non bastare il non apprendere per terribil cosa la peste, ma essere necessario il credere e tener per certo che non ne resteremo infetti, perchè in tal maniera l’archeo, o sia l’aura vitale dell’uomo, viene a fortificarsi con un’idea contraria all’idea perniciosa che può in noi imprimere il terrore e la paura. Io per me non credo vero tutto ciò che in questo proposito hanno alcuni autori, e molto meno mi assicuro sopra l’idea fantastica dell’Elmonzio; ma con tutto ciò possiamo almeno di qui maggiormente imparare essere allora di sommo giovamento il guardarsi dalla paura e da ogni gagliarda apprensione di quel morbo micidiale, essendo probabile che una tal passione cagioni la depressione delle parti spiritose del sangue, nel quale stato poi si renda esso più atto a ricevere con minore contrasto le velenose impressioni degli effluvj contagiosi. Finirò con riferir qui ciò che ha il Rondinelli nella Relazione della peste di Firenze del 1630 e 1633. Quei che erano portati al lazzeretto si esaminavano come avessero preso la peste, se per aver mangiato robe infette, ovvero praticato con appestati, [166] si trovò che alla maggior parte veniva senza averle dato occasione. Una delle principali era essersi riscaldato o nel camminare, o nel durar fatica, o per essersi messo sudato al fresco, o aver bevuto, di modo che l’aver preso una calda era delle principali disposizioni per la peste. Si conosceva, seguita egli a scrivere, che quello che per ordinario sarebbe stato male di punta, febbre maligna, quartana, terzana, si convertiva in buboni e carboncelli. Nè in Firenze, nè altrove fu in questi tempi alcuna sorta di febbre, ma quasi tutti i mali battevano in contagio. Io nondimeno, quanto a me, sarei duro a credere tutto questo. Egli è difficile pel volgo il saper dire cosa abbia loro nociuto in tempi tali. Ma di questo non più.
Cauteri commendati per preservarti dalla peste. Quali persone più facilmente contraggano il morbo. Salassi e medicine solutive, preservativi biasimati. Amuleti o pericolosi, o dubbiosi contro la pestilenza. Attenzione de’ magistrati contro chi spaccia rimedi vani o nocivi. Sacchetti preservativi. Olio del Mattiolo utile anche nella preservativa.
Altri rimedi, che più da vicino servono a preservar dalla peste, ci vengono suggeriti dall’arte medica. E primieramente i cauteri, o sia le fontanelle, fatte o nelle braccia o nelle cosce, non hanno più presso alcuni medici moderni quel credito che aveano presso gli antichi. A me non [167] si conviene l’esaminar le ragioni dell’una e dell’altra parte, ma l’avvisar solamente che in moltissime pesti si sono veduti dei mirabili effetti di un tale sfogo artifiziale degli umori nocivi e corrotti del corpo umano; e perciò ne è sommamente commendato e consigliato l’uso per preservarsi dal contagio nelle opere dell’Ingrascia, dell’Arcolano, del Parisino, del Pareo, d’Antonio Porto, di Niccolò Massa, d’Ercole Sassonia, del Sennerto, dell’Untzero e d’altri assaissimi medici insigni, coi quali s’accordano il Diemerbrochio, l’Etmullero ed altri moderni che ne hanno vedute eglino stessi le prove. Anzi gioverà rapportar qui le parole precise di Alessandro Massaria: Illud, scrive egli, experientia satis confirmavit, quandoquidem accurata observatione compertum est, non solum apud nos, verum etiam apud Venetos, Patavinos et alios, ex infinitis pestilentia sublatis, aut nullos, aut certe paucos objisse, quibus alicubi cauteria inusta essent. Abbiamo parimente da Guglielmo Ildano che nella fiera peste di Losanna del 1612 niuno di quei che portavano cauteri vi morì di peste, a riserva d’uno o due, pieni prima di mali umori; e però aggiunge egli d’avere osservato in sè stesso e in altri quanto sia efficace un tal preservativo. Giorgio Guarnero anch’egli attesta di non aver veduto che nella peste di Venezia del 1576 morisse alcuno di quei che s’erano premuniti con fontanelle; e il Quercetano scrive d’aver conosciuto molti cerusici destinati alla cute degli appestati che si difesero meglio con questo che con alcun altro rimedio. Girolamo Mercuriale, uomo anch’egli di sperienza e credito riguardevole, ne scrive nei [168] seguenti termini: Dicam quod ego experientia vidi. Possum testari, me innumeros hac peste extinctos vidisse, nec unquam vidisse quemquam qui haberet cauterium, præter unum tantum, atque ille erat sacerdos. Interrogavi etiam hac de re multos medicos qui testati sunt, neminem se vidisse. Quod quidem argumentum esse potest, hoc genus auxilii magnopere conducere, et summa cum ratione; quandoquidem per cauteria, tamquam per cloacas, continuo ichores, pravi et putredini obnoxii educuntur. Parimente Giovanni Doleo attesta di averne veduta felicissima la sperienza nel contagio de’ suoi giorni. E però mi ha quasi fatto ridere Olao Borrichio, uomo per altro celebre, il quale appresso il Boneto pubblica come un segreto inobservatum hactenus il vantaggio che nella peste si ricava dai cauteri. Deprehensum, dice egli, nobis, grassante hinc ante 20 annos pestilentia, propemodum extinctum fuisse eorum neminem, quibus in aliqua corporis parte hiabant fonticuli. La stessa osservazione fu fatta dal P. Chirchero, il quale nel suo Trattato della Peste asserisce che durante il contagio di Roma del 1656, ov’egli si trovò, niuno segnato con questi spiragli della natura fu invaso dalla peste, a riserva d’alcuni di vita epicurea e dissoluta, siccome egli intese dipoi da medici degni di fede. Parmi che in questo anche il Chirchero possa meritar fede da noi; e tanto più perchè ne fa fede ancora il celebre ed accuratissimo monsignor Lancisi, medico pontificio.
Nulla però di meno hanno licenza i lettori di dar qualche calata a tanti magnifici encomi dei cauteri, giacchè del loro valore, per quel che [169] concerne la preservativa, non è sì facile l’addurre qualche fisico-anatomica ragione che appaghi. Oltre di che può avvenire che non in tutte le pesti si ottenga lo stesso buon effetto; e in fatti il Diemerbrochio scrive di aver osservato in quella dei suoi giorni che qualche persona mancò di vita pel veleno contagioso, tuttochè provveduta di fontanelle. Forse era gente disordinata. Comunque però sia, buon consiglio reputo io il non trascurare in occorrenza di peste questo preservativo, o almeno questo tentativo, che che sentano in discredito di esso alcuni moderni seguaci delle ingegnose, ma non di rado stravaganti idee dell’Elmonzio, giacchè la sperienza, più venerabile di tutte le speculazioni, sembra commendarlo per utile, e vien esso consigliato anche dal mentovato Diemerbrochio; e tanto più perchè non è molto l’incomodo di tali emissari, quand’anche fossero superflui, e cessata la peste e il bisogno, si può facilmente lasciarne l’uso. Fu anche notato che alcuni sentendosi assaliti dalla peste, avendo prontamente preso qualche rimedio sudorifero, ne restarono liberi in breve, coll’avere la natura cacciato fuori per le fontanelle una marcia nera e velenosa. Il suddetto Chirchero scrive d’aver conosciuto un medico, deputato alla cura d’uno de’ lazzeretti di Roma, che si fece cinque cauteri, e si preservò sempre illeso. Io non assicurerei però che questa fosse la precisa cagione d’essersi egli felicemente salvato; ma dirò bene d’esser io persuaso che almeno per la curativa possano recar molto vantaggio sì fatti emissari. Per queste medesime ragioni è lodato da alcuni medici, al primo sospetto d’aver contratta la peste, [170] il forar la cute di qua e là nell’estremità de’ muscoli delle braccia, ovvero de’ fianchi, con poi mettervi e tenervi dentro radice d’elleboro nero, come si fa a’ buoi e cavalli, essendo veramente tal erba un semplice di gran forza per attraere (mi sia lecito di così parlare) o per purgare (qualunque sia il modo con cui ciò si faccia) i cattivi umori e i sali peccanti, e potendo esso in tal guisa impedire la generazione de’ carboni e de’ tumori pestilenziali. Se poi tale operazione, chiamata setaccio, e dai nostri popolari sedagno, riesca di grande utilità alle prove, nol so dire; ma sembra che non dovrebbe se non giovare per l’analogia che ha coi cauteri. Angelo Sala molto la magnifica, citando ancor qui la sperienza sua, e contando miracoli dell’elleboro nero, del quale dice egli non darsi medicamento più efficace per tirar via gli umori peccanti. Nulladimeno essendo i medici-chimici, fra’ quali è celebre questo autore, in concetto di aprir molto la bocca, bisogna star cauto in credergli tutto; e in fine essendo questo un rimedio dolorosissimo, si dovrà andare adagio a valersene e a consigliarlo. Quello sì che vien tenuto per certo si è, che non meno, e forse più de’ cauteri artificiali, giovino e difendano dalla peste i cauteri fatti dalla natura, quali sono la rogna, le ulcere e le fistole; e però allora non bisogna chiudere, nè levare questi canali e sfoghi de’ perversi umori, ma lasciarli aperti per isperanza d’un maggior benefizio. Questa è sentenza quasi comune.
Oltre a queste persone sottoposte meno dell’altre all’infezione della peste, ne accennerò qui per [171] parentesi alcune che più o meno vi sono soggette. Già notammo che i fanciulli e i giovanetti, a cagione non meno della loro tenera complessione, che della loro poca avvertenza, più di tutti sono facili a contrarre questo morbo attaccaticcio. Ai vecchi difficilmente s’appicca esso; e le donne più degli uomini, e più le parturienti, e più le gravide che le altre il contraggono. I podagrosi, o sia gottosi, e quartanarj meno degli altri; e i flemmatici meno de’ sanguigni e biliosi prendono la pestilenza. Così le persone comode e ricche meno dei poveri, a cagione del loro miglior nutrimento e governo, e non già per altro privilegio; perciocchè in Firenze l’anno 1630 fa osservato che pochissimi bensì de’ nobili s’infettarono, ma pochissimi ancora ne guarirono. Del resto quantunque regolarmente più sieno in pericolo di restar ferite dal veleno della pestilenza le persone piene di cattivi umori e disordinate nella dieta, che non sono i ben sani di corpo e ben regolati nel vivere, tuttavia bisogna confessarlo, la peste non porta rispetto nè meno a queste; nè serve allora il gloriarsi di sentirsi ben forte, giovane e sano, perchè più forte si è la malignità di questo nemico nell’assalire i corpi umani, o deboli o robusti che sieno, qualora essi non istan bene in riguardo. Il che sia detto per consigliar le cautele a chi può, poichè per altro è degno di molta attenzione l’osservazione fatta da alcuni; cioè che nel principio de’ contagi molti di coloro che servono agli appestati si appestano anch’essi, e molti ancora ne muoiono. Crescendo la strage del morbo, meno di queste persone resta infetto; e allorchè il [172] contagio è nel suo furore e in declinazione, pochissimi e quasi niuno di tali serventi o beccamorti s’infettano; o pure infettandosi, meno degli altri restano offesi. Può proceder questo o dal restare in vita quei che hanno interna disposizione per resistere al veleno pestilenziale, mancando gli altri che ne sono privi, o pure dalla poca apprensione e dal molto coraggio di costoro, essendo questo un gran preservativo autenticato dalla sperienza; ovvero dall’assuefarsi eglino a poco a poco e col lungo uso a quel veleno, talmente che non ne sentano poi nocumento. Appresso è da avvertire che chi una volta ha avuta la peste e ne è guarito, per l’ordinario non è più soggetto a questo pericolo durante la medesima; dissi per l’ordinario, perchè Marsilio Ficino ed altri non concedono sì francamente questa esenzione, raccontando essi qualche caso di chi più d’una volta è stato colto da questo morbo e ne è restato morto alla seconda o alla terza. Ma siccome si osserva che chi ha provato una volta i vaiuoli e la rosolia, o sia le ferse, non torna più a patirne, contuttochè si legga qualche caso di chi per la seconda volta ne è stato o si crede che sia stato colpito; così è da dir della peste, in cui per lo più i guariti dalla medesima sogliono poscia andarne esenti finch’essa dura. Tuttavia le eccezioni, osservate ancora a questa regola, debbono rendere guardinghi e cauti i risanati dal medesimo mortalissimo morbo. Anche Evagrio nel lib. 4, cap. 28 della Storia Ecclesiastica narra che in quella orrenda peste, che durò 52 anni e girò per tutta la terra, accadde alle volte che chi una e insin due fiate era guarito da esso morbo, alla terza ne restava oppresso.
[173]
Ritorniamo ora ad altri antidoti preservativi della peste, insegnatici o dalla chirurgia o dalla farmacia. Alcuni professori di medicina, il cui gran capitale consiste nel prescrivere a diritto e a rovescio la purgazione del ventre e la cavata del sangue, vogliono ancora promettere l’immunità dalla peste a chi si premunisce per tempo con questi due gran rimedi, replicati di quando in quando. Ma i medici più accreditati e saggi non solamente ne biasimano il consiglio, ma ci assicurano essere riuscito un tal preservativo in quei tempi nocivissimo, non potendo certamente i purganti rendere più gagliardi gli umori e gli spiriti contro la peste, dopo averli sì fattamente agitati e indeboliti; nè potendo sperarsi di meglio dal salasso, il quale anzi può far sì che più intimamente si mescolino colle particelle del sangue gli aliti pestilenziali. Certo è stato allora osservato in assaissime prove che con tali preservativi mirabilmente si preparavano e disponevano i corpi a ricevere con più facilità la peste, e che più questi che gli altri ne rimanevano estinti. Gioverà dunque il solo riserbare in que’ tempi qualche alleggerimento di sangue ai temperamenti pletorici; e lasciati stare i gagliardi purganti, sarà da lodarsi il tener con piacevoli medicamenti sufficientemente lubrico il corpo. Anzi queste benigne medicine non si dovranno scegliere a capriccio, ma comporle d’ingredienti che abbiano del balsamico per resistere alla putredine e alla malignità de’ veleni, e servano dì corroborativo alle viscere. Mi sia lecito il valermi di questi termini, perchè credo che abbastanza esprimano ciò che voglio dire. Sono [174] in questo genere decantate e lodate da tutti le antichissime pillole di Rufo, o sia pillole De Tribus, come un antipestilenziale maraviglioso; e tanto più sono esse da stimare, quanto che si fanno con poca spesa, e tengono senza sensibile incomodo lubrico e netto il ventre. Si compongono nella seguente forma.
Pillole di Rufo, o De Tribus.
℞. Aloè, incenso, ammoniaco, ana part. 2, mirra part. 1. Pestati, si mescolino con vino odoroso, e se ne formino pillole.
Oggidì però la maggior parte dei medici prescrive quest’altra composizione e la crede migliore.
Altre pillole di Rufo più usitate.
℞. Aloè epatico dram. 3, mirra dram. 2, croco, o sia zafferano dram. 1. Di queste cose peste si formano pillole, con acqua di melissa o d’acetosa, o con vino odoroso.
Altri vi uniscono mezz’oncia di diagridio, e mezzo ottavo di canfora. Altri v’aggiungono altri ingredienti. Vedi lo Scradero, il Lemery, o pure il Donzelli nel Teatro Farmaceutico, part. 3, pag. 654. Una o due volte per settimana prese due o tre o quattro di sì fatte pillole grosse come un pisello o cece, senza incomodo tengono in ubbidienza il corpo, e si credono un utile preservativo. Il Diemerbrochio dice che 4 once del seguente vino fanno il medesimo effetto.
[175]
Vino d’aloè.
℞. Radici d’angelica, d’elenio, di petasitide, di dittamo, scorze d’aranci ana dram. 1; aloè lucido scrup. 6 e mez., cardo santo mezzo pugno, centaurea minore pugn. 2, assenzio pugn. 1. Si taglino minutamente e si ripongano in un sacchetto entro lib. 6 di vino generoso, e non si levi via il sacchetto se non finito di bere il vino.
Prima però d’inoltrarmi nel gran caos de’ preservativi farmaceutici che si prendono in bocca o per bocca, mi sbrigherò dagli esterni. Che non fa l’intenso natural desiderio che ha ognuno di conservare la sanità e la vita in mezzo ai gran pericoli? Esso ha anche inventato non pochi antidoti esteriori ed amuleti contro la peste, con dar loro, o buonamente o maliziosamente, un credito e spaccio considerabile. Gli astrologi e i superstiziosi hanno inventato molti sigilli, medaglie, bullettini, anelli, carte e simili cose con figure, segni, numeri e parole anche sacre. Alcuni, e massimamente in Germania, esaltano e danno per un preservativo maraviglioso il portare in tempi di contagio sospeso al collo un rospo seccato o bruciato e ridotto in cenere, e chiuso in un sacchetto. Altri nella stessa guisa, consigliano il portare argento vivo ben chiuso e sigillato con cera in una noce o in una penna da scrivere, e ne raccontano mirabili effetti. Per parere d’altri lo smeraldo, lo zaffiro, il giacinto ed altre gemme appese al collo, in maniera che tocchino l’esterna regione del cuore, atterriscono talmente la peste, che non osa accostarsi. Più [176] celebri degli altri sono gli amuleti d’arsenico cristallino puro, o varie paste e composizioni di polveri ed erbe, nelle quali entra arsenico o sublimato, da portar chiuse in uno zendado o sacchetto di tela vicino al cuore. Anche i nostri medici italiani, e fra essi alcuni de’ primi, commendano forte questo segreto, citando massimamente l’esempio di papa Adriano VI, che dicono preservato dal contagio per mezzo d’una lamina d’arsenico portata sopra la regione del cuore, e sostenendo che l’un veleno resiste all’altro.
Io lascio altri simili curiosi antidoti, e mi ristringo a dire che i precetti della religione infallibile sono chiari contro que’ rimedi che vengono manipolati dalla superstizione, essendo non meno delitto presso a Dio che follia presso gli uomini il prestar fede a tali invenzioni. E per conto degli amuleti velenosi, creduti contravveleni, i più saggi tra i medici li vogliono sbanditi dall’uso; e ciò perchè la ragione fa intendere che o non sono atti a giovare, come si crede, o possono anche nuocere. In fatti la sperienza adduce vari casi funesti, che qui non importa riferire, avendo essi avvelenato chi veniva a sudare e chi per mezzo loro si credeva sicuro dall’altro veleno, e non avendo essi difeso tanti altri dalla peste, che pur deridevano i medici con portar simili amuleti. Io per me non oserei affatto riprovare l’uso di questi pretesi rimedi; ma dirò bene che non saprei fidarmene molto. E se taluno rispondesse che per attestato d’insigni medici hanno essi giovato e giovano nella peste, se gli vuol rispondere essere più che difficile in molti casi (e possono in ciò [177] prendere abbaglio anche le prime teste) il decidere qual cagione o rimedio abbia precisamente preservato dal male o salvato dalla morte un uomo. Ne’ tempi di contagio può essere che si sieno preservati molti, portanti simili velenosi amuleti, non per cagione d’essi amuleti, ma per altre circostanze, ed anche talora per la gran fede che appunto aveano riposta in essi e che li riempieva d’intrepidezza e coraggio, due già da noi dichiarati buoni preservativi contro la pestilenza. All’incontro sapendosi che rospi, ragni, arsenici, argenti vivi ed altri di questi almeno sospetti ritrovamenti, sono stati avvertiti per inutili ne’ medesimi contagi da altri più attenti e men creduli medici, egli è difficile che la sperienza di questi abbia preso abbaglio; e perciò bisogna qui andar cauto per non cadere nel cerretanismo, da cui pur troppo non sanno talvolta tenersi lontani alcuni ancora che fanno strepito nella medicina. Aggiungo nulladimeno che se tali amuleti, e specialmente il mercurio, di cui so alcuni mirabili effetti in altri casi, verranno portati in maniera da non poter nuocere, allora se ne potrà permettere l’uso; purchè non si tralascino altre diligenze e preservativi non pericolosi e degni di più fede. È bizzarro il Rivino nel trattar della peste di Lipsia, che dopo aver derisi tutti gli amuleti, ne eccettua la radice dell’erba colchico, la quale è da lui commendata come un sicurissimo amuleto contro la peste. Io non ne so il perchè.
Egli è poi qui da ricordare ai savi maestrati che nascendo e crescendo più in tempo di peste che negli altri i ciurmatori, i medicastri e i venditori [178] di specifici e di segreti, con attribuirsi allora anche le persone idiote il diritto di prescrivere medicine, bisogna con pubblico e rigoroso editto rimediare al disordine di tali rimedi. Cioè convien proibire che senza l’approvazione de’ medici deputati non sia venduta o spacciata cosa alcuna sotto nome di preservativo o di curativo per la peste, nascendo per lo più tali invenzioni o da una ridicola e temeraria ignoranza, o da unico motivo di proprio interesse, senza pensare all’inganno della povera gente, facilissima a credere ciò che desidera, e per tali imposture distratta dal procacciarsi altri o meno disutili, o più giovevoli medicamenti. Fanno anche gran male in tempi tali alcuni cerusici che in loro cuore credendosi degni della toga dottorale, la fanno da medici risoluti, e prescrivono rimedi soporiferi, purganti, amuleti ed altri medicamenti, in parte ancor qui riprovati, mandando per le poste all’altra vita infermi che forse sarebbono guariti. Ci bisogna rimedio per quanto si può a questi omicidi. Per parere ancora del signor Gian-Domenico Santorini, valente protomedico della sanità in Venezia, d’una cui giudiziosa Istruzione MS. ho anch’io profittato in questa occasione, si è sperimentato più volte riuscir veleni quei che si dispensavano come antidoti, non già perchè si sapessero e si dispensassero come tali da una abbominevole malizia, ma perchè senza cognizione e metodo venivano impastati e spacciati dalla temeraria ignoranza. Noi vedremo che anche il cavar sangue e il dar medicine solutive agli appestati, possono essere due veleni che così alla [179] buona vengano prescritti nelle pesti da chi è dottore senza dottrina, o ha sempre il nome, ma non sempre il giudizio de’ medici veri.
Del resto non è che non possano permettersi e anche lodarsi in tempi di contagio alcuni sacchetti da portarsi appesi al collo e sulla regione del cuore, purchè la loro composizione ammetta soli ingredienti chiamati per la loro qualità o odore antipestilenziali. In questa forma, quand’anche non giovassero, siccome dovrebbono coll’espansione delle loro particelle odorose, certo non nuoceranno, e potrebbono almen recare quel non picciolo benefizio d’indurre animosità e fiducia in chi li portasse: il che in tempi sì fatti è di molto vantaggio. Tale sarà la seguente composizione:
Sacchetto preservativo.
℞. Radici d’angelica, zedoaria, elenio, dittamo, ana mez. dram., castorio dram. 1, canfora scrup. 1, croco, cioè zafferano mez. scrup., incenso mez. dram., triaca d’andromaco dram. 1 e mez., olio d’ambra gocce 4, olio di ginepro gocce 2. Polverizzate le robe, e mischiate con mucilagine di dragante in aceto di ruta, se ne faccia una massa o crescentina, e chiusa in un pezzo di seta si porti appesa al collo.
L’uffizio della sanità di Milano divulgò nel 1630 quest’altra composizione, come usata per preservativo da chi senza appestarsi spargeva la peste colà (così fu preteso); e molte altre città l’approvarono. Per le ragioni di sopra addotte è da considerare se sia da ritenere uno di questi ingredienti, [180] cioè l’arsenico; e di tal composizione potrebbe forse valersi chi sta esposto al servigio degli appestati o al maneggio delle robe e dei cadaveri loro. Eccone la ricetta:
Sacchetto preservativo.
℞. Incenso maschio bianco, solfo, ana onc. 6, arsenico cristallino onc. 1, bacche di lauro, garofani di droga, ana num. 9, radici di verbena, di zenzero, foglie di peonia, rafano, centaurea, erba sampietro, ana manip. 1, scorze di melarancio, noce moscata una, mirra, mastice, ana gran. 5, semi di ruta num. 30. Si pestino tutte, e ridotte in polvere si pongano in un sacchetto di raso o di damasco o simile che abbia corpo, acciocchè non escano, e questo sacchetto si porti dalla banda del cuore.
Sono ancora consigliati e descritti dai medici per preservativi della peste molti balsami, unguenti, pittime, ecc., o da tener sulla regione del cuore, o da ungerne le narici e i polsi. Il P. Maurizio da Tolone loda la seguente
Pittima per corroborare il cuore.
℞. Acqua rosa di buglossa ana onc. 6, vino ordinario onc. 3, aceto rosato onc. 1, polveri d’angelica, mirra, alchermes, ana mez. dram., garofani e cannella polverizzata, ana mez. onc., confezione d’alchermes e di giacinti, ana dram. 1. Di tutte le suddette cose si formino pittime con olio di scorpioni del Mattiuolo da mettere sopra la parte del cuore.
[181]
Si noti qui non essere approvate da alcuni dei migliori medici le pittime da tenere sulla regione del cuore che sono composte di Semplici cotti in acqua o vino, o mischiati con acqua distillata. Può essere che ancor le altre non influiscano con quella forza che taluno crede a preservare l’interno dell’uomo; ma purchè non sieno atte a nuocere, si permettano pure; e per altro io so da persone intendenti che l’olio di scorpioni, con ungerne lo stomaco, fa degli utilissimi movimenti interni contro la malignità d’altre febbri. Ed appunto, giacchè abbiamo parlato di quest’olio, appellato ancora del Mattiuolo, benchè nella sostanza esso fosse conosciuto molto prima del Mattiuolo, egli è da sapere che questo vien comunemente lodato da tutti e commendato come un ottimo preservativo antipestilenziale, e se ne contano de’ mirabili effetti anche fuori dei casi di peste. Consigliano gli autori di ungersene prima d’uscir di casa le tempie, le narici, le palme della mano e tutta la regione del cuore. Se ne può anche bere una o due gocciole in un poco di brodo. Non ne rapporto la ricetta perchè facilmente si trova negli antidotari degli speziali e presso vari medici. Lo stesso olio ha preso diversi nomi, secondochè alcuni vi hanno aggiunto nuovi ingredienti. Tale è l’olio chiamato del Gran Duca, del Brasavola, (non so se diverso da quello che fa fare ogni anno il comune di Ferrara, ed è ivi molto lodato) del Minderero, di Lodovico Leoni, valoroso pratico bolognese, e d’altri, che tutti possono giovare al fine proposto. Il Diemerbrochio prescriveva ai desiderosi di rimedi non usuali l’unguento che segue:
[182]
Unguento preservativo.
℞. Triaca d’Andromaco dram. 1, canfora gran 9, olio di noce moscata spremuto, olio di scorpioni, sugna di serpenti, ana scrup. 2, olio di succino, olio di ruta distillata, ana mez. scrup., olio di cinnamomo, di garofani, ana gocc. 1, olio di scorza di cedro gocc. 5. Si mescolino insieme, e ogni mattina se ne ungano le narici, le tempie, i polsi e la regione del cuore.
Io lascio di riferire altri simili olj, unguenti, balsami, ecc., nei quali, per consiglio d’alcuni più sinceri medici, non s’ha poi da confidar troppo, sì perchè non sono assai note o certe le loro forze, e sì ancora perchè molti paiono inventati parte per soddisfare agli uomini timorosi in que’ terribili tempi, e parte dall’avarizia di certi medici o speziali, che non solo spremono volentieri le borse altrui, ma molto più facilmente le spremono quanto più è il numero degl’ingredienti dei loro recipe, e quanto più costano sì fatte composizioni, quasi ciò che è più prezioso, e si paga più caro, sia ancora più atto a guarir dai mali e a sbandire la morte. Così in oggi nelle città ove sono medici di gran sapere e di buon gusto, e che amano i disinganni suoi e gli altrui (tale per la Dio grazia è la nostra città) non hanno più voga, o almeno tanta voga, come una volta, i magisteri, le tinture e le confezioni di perle, d’oro e di gemme, avendo insegnato i chimici più accreditati colle sperienze fatte che queste ricche preparazioni sono o inutili trasmutazioni, o superficiali corrosioni delle materie [183] preziose, le quali per la sanità non hanno altro valore se non se quello che loro impone la vanità di chi le prescrive, o la credenza dei corrivi che a gran prezzo le comperano, sperandone, ma indarno, salute o profitto.
Preservativi da prendersi per bocca. Erbe e tavolette a questo effetto. Mitridate minore commendato da molti. Altre bevande, polveri, conserve, elettuari, vini, unguenti, ecc., creduti preservativi. Aceto, e lodi d’esso, e d’altri acidi contro il veleno pestilenziale. Metodo d’alcuni medici per preservarsi nel commercio con appestati.
Un’altra classe di preservativi contro la peste si è quella dei rimedi che possono prendersi per bocca. E primieramente in que’ fieri tempi, siccome vien consigliato dai saggi il non aprir le finestre delle case se non dopo la nascita del sole, e il chiuderle prima ch’esso tramonti; e siccome per loro parere non si dee uscir di casa finchè non sia levato il sole, e vi s’ha a tornare avanti il fine della giornata, quando gravi urgenze non impedissero l’uso di questa regola, così ci viene da tutti consigliato il non partirsi la mattina di casa, nè accostarsi a parlar ad altri, o a medicare infermi, o trattar persone o robe sospette, senza aver prima preso qualche medicamento preservativo. Quando altro non s’abbia, almeno si faccia colazione con qualche cibo sano e una bevuta di [184] vino generoso. Il ventre digiuno è un mal compagno in questi pericoli. Uscendo dal corpo e specialmente dalla bocca di chi s’è così premunito una evacuazione odorosa, non tanto per la qualità della bevanda, quanto perchè l’aiuto sopravvenuto allo stomaco mette più in moto gli umori del corpo, e viene a formarsi, per così dire, un’atmosfera di buoni aliti, che hanno forza di tener lontani gl’impuri e pestilenziali, o pure di correggerli allorchè si accostano.
Ma quali saranno questi interni preservativi? Ne contengono una gran farragine i libri de’ medici. Io ne trasceglierò quelli che scorgerò più accreditati dalla sperienza e dalla riputazione degli autori, dovendosi qui anteporre quelli che per la loro balsamica, odorosa e spiritosa qualità si conoscono più propri per resistere ai veleni, alla putredine e ai vapori maligni. Correndo dunque tempi di peste, può giovare molto, massimamente a quei che debbono uscir di casa, il tenere in bocca e andar masticando qualche cosa odorosa e sana. L’Ingrascia asserisce che moltissimi si preservarono dalla peste ch’egli descrive, e in particolare i beccamorti e i serventi de’ lazzeretti e simili altre persone, col masticare fra giorno l’erba zedoaria e inghiottir quella saliva. Altri lodano il tenere in bocca la radice d’essa erba, o quella di dittamo, o di genziana, o dieci grani di ginepro macerati in aceto, o pure la polvere di cardo santo. Anche il nostro Falloppio scrive che a’ suoi dì chi serviva agli appestati, non si preservò con altro che col masticare la mattina zenzero e bevervi appresso un bicchiero di malvagìa e coll’andare [185] masticando dipoi tutto il giorno zedoaria. Così un grano di garofano di quei di Levante tenuto in bocca, quando non s’abbia di meglio, vien creduto giovevole, siccome ancora le scorze di cedro o di melangolo. Altrettanto scrivono alcuni della mirra coll’inghiottire di quando in quando la saliva; ma questa suol riuscire pel suo sapore troppo spiacevole, e l’Elmonzio l’ha osservata fallace in casi tali. La radice d’angelica viene assaissimo consigliata ai poveri da masticare. Quella poi dell’elenio, o masticata secca, o presa in polvere, o condita con un poco di zucchero, in guisa però che resti più tosto disgustosa al palato, è sommamente lodata dal Diemerbrochio, il quale consigliò a moltissimi questo solo preservativo, facendone mangiar delle condite due o tre o quattro la mattina, perchè dice d’averle trovate più giovevoli che assaissimi altri medicamenti preparati con gran fatica e spesa. Jacopo Primerosio ed altri credono che il tabacco nulla vaglia contro la peste. Ma il fumarlo nelle pipe vien decretato da altri per un potente preservativo; e il suddetto Diemerbrochio attesta d’averne provato in sè stesso e in assaissimi altri un insigne giovamento nel contagio dei suoi giorni; sostenendolo per un’erba di qualità specifica per resistere a simili veleni e alla corruzione, ed aggiungendo che non solo moltissimi coll’unico uso del fumar tabacco restarono illesi da quel morbo, ma che alcuni ancora, colpiti dal medesimo, coll’uso del solo fumo di tabacco sul principio del male se ne liberarono. Ma conviene adoperarne, dell’ottimo e colle foglie non putride e ben torte, e valersene poi anche moderatamente. [186] Chi però se ne serve (che tutti non possono) si guardi dall’acquavite, non convenendo insieme tal rimedio con tal disposizione, secondo il parere di alcuni. Nè credesse persona che il bere sugo di tabacco o l’inghiottire la sua sostanza, producesse l’effetto medesimo. Sarebbe anzi un veleno tanto nella preservativa quanto nella curativa della peste, per le deiezioni di ventre e per gli sconvolgimenti di spirito che da esso provengono. Il noto, perchè l’esempio d’alcuni pazzi potrebbe tornarsi a vedere.
Per preservativi da prendersi per bocca vengono lodate le seguenti
Tavolette preservative.
℞. Fiori di solfo mez. onc., trocisci di vipera dram. 3, polvere di diarrbodon e diamargariton freddi, ana onc. 1, confezione d’alchermes e di giacinti, ana scrup. 4, zucchero bianco dissoluto in acqua di scorzonera o di cardo santo quanto basta. Con ciò formerai pasta e tavolette. Pigliane la mattina una dramma, bevendovi appresso un poco di vino puro.
Altra sorta di tavolette preservative.
℞. Fiori di solfo dram. 6, canfora scrup. 1, zucchero bianco dissoluto in acqua di scabbiosa quanto basta. Formane tavolette come sopra; e camminando o dimorando in luoghi infetti potrai tenerne in bocca.
[187]
Altre tavolette preservative.
℞. Polvere bezoartica dram. 1, liberante mez. dram., radici d’elenio secche, d’angelica, di petasitide, ana scrup. 1 e mez., fiori di solfo tre volte sublimati dram. 1. Se ne faccia polvere sottilissima, e discioltala con zucchero bianco e acqua di cardo santo quanto basta, se ne formino tavolette.
Altre tavolette sono prescritte dai medici, impreziosite ancora da perle e coralli preparati, da oro in foglia e da altre gemme: cose tutte che bene spesso entrano per sovrammercato in composizioni per altro buone.
A tutti, ma specialmente ai poveri, si può consigliare il Mitridato minore, che è un preservativo antichissimo, attribuito, non so se con tutta ragione, a Mitridate re di Ponto, ma certo comunque sia, generalmente lodato da tutti i medici per i tempi di peste, dicendosi ancora che Carlo V salvò dal contagio con questo sì facile, ma stimatissimo rimedio l’esercito suo: nel che io lascio la verità a suo luogo.
Mitridato minore preservativo.
℞. Foglie di ruta num. 20, due fichi secchi, due noci secche con 4 grani di sale comune. Se ne faccia un boccone da prendere la mattina a digiuno. Il sale però non è di necessità. O pure si formi con una libbra per uno dei tre suddetti ingredienti. Vi si può anche aggiungere siroppo di [188] limoni quanto basta per fare elettuario, dopo aver pestato ben bene in mortaio di pietra con pestello di legno gl’ingredienti ad uno ad uno.
E qui si noti che per parere di tutti la ruta è di una singolare efficacia contro la pestilenza; e però doversene far molto capitale, giovando anche sola. Ma perchè non a tutti sempre è permesso l’avere ruta fresca, si può prepararne molto medicamento in una volta sola, a proporzione della seguente composizione. ℞. Foglie di ruta fresche onc. 1 e mez., noci secche nette onc. 2, fichi secchi onc. 1. Si pesti ogni cosa benissimo, e si faccia passare per setaccio con aceto rosato quanto basti per distemperare la mistura. Fatta questa, se vi si vede soprannuotare l’aceto ed esser troppo, si ponga al sole o a simil caldo in vaso atto ad asciugarsi, finchè resti in debita forma d’elettuario, del quale si debbono prendere ogni mattina due cucchiai. Si potrebbe anche aggiungere all’elettuario fatto un’oncia d’estratto di bacche di ginepro. Le noci si monderanno dalla pellicina con tenerle per un poco in acqua caldetta.
Che se taluno vorrà conservarsi delle foglie di ruta come fresche per ogni tempo, ne ponga molte in qualche vaso di vetro dalla bocca larga, acciocchè ne possa cavar fuori senza gran pena, e le cuopra di buon aceto, tenendo anche il vaso ben coperto. Così egli conserverà la ruta, ed avrà pure aceto preparato con essa, il quale anche da per sè viene molto stimato in tempi di peste, e serve per odorarlo, e per prenderne anche la mattina un poco in bevanda. Altri medici hanno accresciuto, ciascuno a suo gusto, il Mitridato [189] minore; ma io penso d’avere accennato quello che basta.
Altri lodano come utilissima la seguente
Bevanda preservativa.
℞. Dieci noci fresche mondate dalla pellicina, 10 spicchi d’aglio mediocri mondati, 3 onc. in circa di bacche di ginepro, un pugno di foglie di ruta. Le prime si pestino grossamente; la ruta si tagli minuta. Posto tutto in pignatta vetriata con una inghistara in circa di buon aceto, si copra essa pignatta sicchè non respiri, accomodando creta o simil cosa tra il coperchio e la pignatta, e lasciandola per 24 ore sopra le ceneri calde. Poi si levi dal fuoco e si ponga ogni cosa insieme in fiasco ben turato al sole per tre o quattro giorni. Di tal composizione si beva ogni mattina a digiuno mezzo cucchiaio, ed anche un intero; e con lo stesso aceto si bagnino le tempie, i polsi e le narici.
Io volentieri accenno qui le composizioni facili e di poca spesa, affinchè tutti, e massimamente i poveri, possano provvedersi di qualche riparo contro gli assalti della pestilenza. Allorchè questa è padrona del campo, a molti mancano gl’ingredienti, e a più manca ancora il danaro per procacciarseli. E se taluno dicesse di non aver gran fede in certe semplici o vili composizioni, ho il dispiacere di rispondergli che nè pur egli s’ha a fidar troppo d’altre composizioni e preservativi più preziosi e faticosi; perciocchè in mezzo alla peste nessun altro rimedio sicuro e privilegiato c’è se non la mano di Dio; e per conto dei rimedi [190] umani più talvolta gioverà un poco d’aceto, di solfo, di ruta, di canfora o altro semplice, che un lunghissimo recipe composto dall’ambizione. Seguitiamo dunque a dire che alcuni trovano buono il seguente
Preservativo antipestilenziale.
℞. Fiori di solfo e zucchero bianco in polvere in egual quantità; e mescolati insieme, prendine la mattina a digiuno un mezzo cucchiaio per bocca, bevendovi appresso un poco di vino bianco buono.
Potrà parimente giovare ai poveri il porre in infusione entro vino buono foglie verdi di pimpinella, e beverlo alquante ore dopo. Ovvero mettere la sera in aceto buono, sicchè stia coperta, una noce secca mondata dalla pelle; e la mattina seguente si mungi la noce e si beva l’aceto. Questo, benchè tanto facile, pure si dà per un buon difensivo. Può essere che si metta a ridere qualche medico, non però addottorato in medicina; ma sappia egli che in fatti alcuni, anche valentuomini, col solo aiuto dell’aceto, preso in picciola dose le mattina con un poco di pane, e fiatato alle occasioni, si sono preservati. Ne parleremo fra poco. Le bacche poi di ginepro mature e fresche, cioè di color nero o pavonazzo, e non rosse, vengono commendate da tutti, ed entrano in moltissime composizioni contro la peste. Si potrà farne estratto, cioè cavarne il sugo con acqua, dove sieno state infuse e calde per tre giorni, spremendole dipoi per pezza netta. O pure si tengano in fiasco con vino buono sopra, per mangiarne tre o quattro per volta, riuscendo anche utile lo stesso vino.
[191]
Angelo Sala insegna a fare il mele, o sia l’estratto di ginepro, con pestare grossamente nel mortaio le bacche fresche, e cuocerle poi in acqua, finchè si vegga separata la materia glutinosa. Spremuta la decozione, per quanto si può, si faccia essa di nuovo cuocere, finchè si riduca in consistenza di mele, che sarà dolce e fragrante. Servivasi poi il medesimo autore di questo estratto per uno degl’ingredienti a formare la seguente composizione, chiamata da lui Triaca de’ poveri, e consigliata come un eccellente antidoto contro la peste:
Triaca de’ poveri.
℞. Erb. veronica, scordio, cardo santo seccate, ana onc. 2, feccie d’aro, fiori di solfo, ana onc. 1, zedoaria, radice d’imperatoria, di elenio, di irundinaria (che m’immagino essere la chelidonia), di carlina, di valeriana, mirra eletta, dram. 6, olio di vitriuolo dram. 1, mele odoroso spumato lib. 3, estratto di ginepro mez. lib. L’erbe e le radici separatamente si polverizzino bene, e si triti a parte la radice d’aro preparata. Poi si mettano il mele e l’estratto in pignatta ben vetriata, facendo solamente scaldare e non bollire la materia; e dopo vi si mescolino le polveri suddette, movendo tutto fortemente con pestello di legno, finchè si riducano in forma di elettuario. Raffreddata la composizione, aggiungi i fiori di solfo, la mirra e l’olio di vitriuolo; e mettendo tutto in vaso di terra vetriata, riponlo a fermentarsi. Se ne prenda, secondo la diversità de’ corpi che debbono valersene, da uno scrupolo fino a una dramma.
[192]
Varie erbe possono servire di preservativo. Sei d’esse fra l’altre sono credute contravveleni, cioè l’ipperico, il vincetossico, l’enula, il dittamo, l’aristolochia e il rafano selvaggio. Marsilio Ficino dice d’aver dato del rafano un poco per volta ai poveri con utile notabile. Si prendono tali erbe in boccone mattina e sera, o seccate in polvere con buon vino, o il loro sugo si bee al peso di un’oncia in circa. L’assenzio, che anche medichetto si chiama, è tenuto da tutti per un egregio preservativo contro il veleno pestilenziale, e moderatamente preso tiene in buon appetito le persone. In varie maniere si può prendere; la più facile è d’infonderlo nel vino, e prendere talvolta una bevuta di questo. Sono ancora lodate quest’altre: Scabbiosa, tormentilla, pimpinella, sassifraga, acetosella, imperatoria, scorzonera, angelica, carlina. A chi la borsa non suggerisce di meglio, potranno giovare questi facili medicamenti, che in fine anche dai medici migliori sono riconosciuti per non inutili, anzi adoperati come molto proficui nelle loro ricette. La galega, o sia ruta capraria, appellata da alcuni castracane, si tiene anch’essa per potente preservativo contro il veleno pestilenziale. Si usa in vari modi, cioè cruda in insalata, o cotta in minestra. Si piglia polverizzata in vino o altra bevanda appropriata. Si mette in infusione entro il vino o in aceto, che poi di quando in quando si bevono. Se ne bee anche il brodo e l’acqua distillata; ed è nel verno buona anche la sua radice. Dell’una e dell’altra piantaggine dicono cose grandi alcuni medici per preservarsi dalla peste; e lodano altri non poco l’acetosa, cioè [193] l’oxalide, prescrivendone un boccone d’essa ogni mattina a digiuno.
Per la gente delicata possono servire, secondo il Diemerbrochio, le scorze di melarancio o di cedro condite, o alcune gocce d’olio di ginepro da bersi con un poco di vino, o sia l’estratto di bacche di ginepro, quanto una noce moscata da mangiarsi. Anche gli spiriti di sale e di vitriuolo, e di zolfo, e di sugo di cedro ed altri simili acidi, appunto per questa loro qualità, vengono celebrati per efficacissimi in resistere alle putredini, se mi lice usar questo termine degli antichi. Si prendono in bevanda d’acqua di scabbiosa, di cardo santo, di betonica, di melissa, o in altro liquore. I coriandoli preparati, e presi la mattina a digiuno, e anche dopo pasto, possono essere di qualche utilità. Per rimedio facile, di poca spesa e di non poca virtù, viene consigliata da alcuni la seguente
Polvere preservativa.
℞. Bolo armeno onc. 1, tormentilla, dittamo bianco, ana mezz’onc. Pesta ogni cosa sottilmente, e pigliane la mattina un meno cucchiaio in mezzo bicchiero di vino o in acqua d’acetosa.
Il cardinale Gastaldi insegna quest’altro preservativo, da prendersi per bocca in rotoline di peso d’una dramma prima di cena o prima di dormire, aggiungendo che se ne videro degli ottimi effetti nella peste di Roma del 1656.
[194]
Tavolette o rotoline preservative.
℞. Confezione di giacinto dram. 1, bolo armeno, radici di carlina, perle preparate, succino, ana mez. dram; zucchero bianco disciolto in acqua di cardo santo quanto basta per farne delle rotoline.
Il Diemerbrochio, lasciati stare tanti altri elettuari, sciroppi, conditi, polveri, tavolette, ecc., formati con gran moltiplicità d’ingredienti, più per ostentazion di sapere che per altrui utilità, usava di prescrivere in qualunque tempo l’uso del mitridato minore, descritto di sopra, e talvolta le seguenti composizioni:
Condito preservativo.
℞. Polvere liberante scrup. 4, radici d’elenio condite con zucchero, scorze di aranci condite dram. 6, diascordio del Fracastoro dram. 3, olio di ginepro scrup. 1, sciroppo di limoni quanto basta, e se ne formi condito, o più tosto conserva.
Altro condito preservativo.
℞. Conserva d’acetosa di rose rosse, scorze d’aranci condite, rob di ribes rosso, rob di ginepro, ana mez. onc., polvere liberante dram. 1 e mez., sciroppo di limoni quanto basta. Mesci, e fanne condito, o più tosto conserva.
[195]
Elettuario preservativo.
℞. Triaca d’Andromaco, mitridato di Damocrate, ana dram. 1 e mez., diascordio del Fracastoro mez. onc., scorte d’aranci condite, rob di ribes rosso, ana dram. 6, succino mez. scrup., sciroppo di scordio quanto basta. Mesci, e formane elettuario.
Altro elettuario preservativo.
℞. Polvere bezoartica del Renodeo dram. 1 e mez., fiori di solfo dram. 1, conserva d’assenzio dram. 3, radici d’elenio condite onc. 1, mitridato minore, diascordio del Fracastoro, ana mez. onc., sciroppo di sugo di cedro quanto basta, e fanne elettuario.
Non vi mischiava egli polvere di corno di cervo, terra sigillata, croco, e assaissimi altri ingredienti, perchè tutti stanno nella confezione liberante, nella polvere bezoartica, nel diascordio, ecc. Prescriveva ancora ad alcuni il seguente
Aceto bezoartico preservativo.
℞. Radici d’angelica, carlina, petasitide, elenio, dittamo, ana mez. onc., zedoaria dram. 2, erbe cardo santo, scordio, ana dram. 6, centaurea minore, ruta ana mez. onc., fiori di stecade dram. 2 e mez., semi di cardo santo, di cedro, ana dram. 1, bacche di ginepro dram. 3. Facciasi polvere grossa, e s’infonda in lib. 5 o 6 d’aceto fortissimo, esponendo il vaso ai raggi del sole per 14 o più dì, e dipoi si coli con forte spremitura. Potrai, se [196] vuoi, infondere una sola volta di nuovo in tale aceto la medesima polvere, e allora sarà molto più efficace.
Il Minderero scrive d’essersi servito per suo primario rimedio preservativo nella peste de’ suoi tempi del seguente
Vino medicinale preservativo.
℞. Assenzio volgare un manip. e mez., scordio, cardo santo, ana un manip., dittamo cretico mez. manip., scorze di cedro mez. onc., radici di pimpinella onc. 1 e mez. Si taglino grossamente, e se ne faccia massa entro tela bianca da sospendersi nel vino, di cui si beva un bicchiero dopo la colezione.
Scrivono alcuni che in una peste d’Inghilterra fu approvata da tutti i medici, e trovata alle prove un felice antidoto per chi ne prendeva un poco ogni mattina, la seguente
Polvere preservativa.
℞. Aloè epatico, cinnamomo eletto, mirra eletta, ana dram. 3, garofani, macis, legno aloè, mastico, bolo armeno, ana mez. onc. Si polverizzino sottilissimamente.
Può confermare la buona opinione di questo antidoto il vedere che Cornelio Gemma scrive tenersi dal re di Spagna per segreto riguardevole (poco importa quand’anco non sia vero) una composizione affatto simile colla giunta d’una porzione eguale di terra sigillata e di croco, o sia [197] zafferano. Giovanni Cratone anch’egli con poca diminuzione insegna lo stesso; e nella peste di Napoli e di Roma del 1656 fu formato di questa polvere un elisire chiamato preservativo potentissimo nelle Regole pel Contagio pubblicate l’anno 1680 in Ferrara, con aggiungervi solfo puro e rosmarino, ana dram. 4 macerando poi tutto in acquavite secondo l’arte, ed estraendone il liquore. La dose era di 3 in 4 gocciole prese in acqua di cardo santo o scorzonera. Abbiamo detto di sopra che il mitridato minore è un preservativo stimatissimo anche per la facilità di comporlo; ora si vuol aggiungere che la triaca, il diascordio del Fracastoro, e altri simili rinomati contravveleni sono de’ più lodati, e consigliati in tempo di contagio, anche per preservarsi, ma non già col solo odore, che questo gioverebbe poco. L’Etmullero antepone il diascordio; e il Pareo preferisce a tutti i cordiali creduti preservativi la triaca e il mitridato, prendendo mezz’oncia della prima, mischiata nelle stagioni calde con un’oncia e mezzo di conserva di rose, o di borraggine o di viole, e dramme 3 di bolo armeno. Altri però stimano necessario il mischiare e temperare la triaca con qualche acido in tempi di peste. E qui avverto, per chi nol sapesse, venire stimata più la triaca vecchia che la nuova, purchè non passi i trenta anni, dopo il qual tempo essa va perdendo la forza. Di più se per ogni libbra di triaca impasterai dentro once 4 di polvere di contrajerba, lasciandola così riposare e fermentare per alquanto tempo, dicono che riuscirà essa di gran lunga migliore contro la peste e i veleni. È anche lodatissimo [198] il prendere la mattina prima d’uscire di casa un bicchiero di vino canforato. Si accende un grano di canfora grosso come un pisello, e si mette a nuotar sopra il vino tanto che finisca ivi di bruciarsi; e tornandolo ad accendere finchè si consumi, si bee dipoi quel vino. Così nell’ultima peste di Lipsia si trovò sommamente giovevole l’olio di succino canforato con prenderne alcune poche gocce in acqua di scordio; anzi pare che d’esso si valessero i medici anche nella curativa.
Nell’ultima pestilenza di Polonia del 1709 il miglior preservativo che si dica ivi provato fu l’elisire dello Schomberi, i cui ingredienti sono quei che seguono:
Elisire preservativo.
℞. Tintura bezoartica secondo l’arte, elisire di proprietà secondo l’arte, tintura di genziana, essenza di canfora parti eguali. Mesci tutto insieme, e bevine da 40 a 60 gocce nell’acquavite, o nella birra calda, o nel buon vino.
L’elettuario, chiamato d’Angrisani, vien chiamato dal Cristini con parola assai magnifica miracoloso contro la peste, aggiungendo egli che dell’anno 1656 nella peste di Napoli, Roma ed altri luoghi fu il medesimo con gli esperimenti provato per uno de’ migliori preservativi ed anche curativi. Eccone la ricetta:
Elettuario d’Angrisani preservativo.
℞. Radici d’angelica, carlina, dittamo bianco, imperatoria, tormentilla, contrajerba, corallina, bistorta, [199] aristolochia rotonda, legno aloè, seme di senape bianca, di cardo santo, d’acetosa e di portulaca, ana onc. 1; croco orientale mez. onc. Si polverizzi tutto, e sia ben lamisato. Poi prendi estratto di bacche di ginepro delle rosse e delle nere, ana lib. 2, triaca d’Andromaco vecchia lib. 2, unicorno, belzoaro ottimo, corno di cervo, ana dram. 2; siroppo d’agro di cedro quanto basta per unir le robe; e se ne formi elettuario, di cui prendi per bocca una mezza dramma o un’intera per volta.
Scrive il P. Chirchero che nella peste di Roma del 1656 chiunque si servì del seguente rimedio si preservò, ancorchè dimorasse nella casa stessa con appestati o avesse cura di loro. Tanto più volentieri il rapporto, quanto che è di poca spesa. Così avesse egli anche notata la dose.
Antidoto preservativo del P. Chirchero.
℞. Aceto esquisitissimo, ruta, pimpinella, betonica, noci, aglio, bacche di ginepro. Aggiungi, se hai il comodo, un pocchetto di canfora, o almeno un poco di spodio cervino. Fa stare tutto infuso nell’aceto per 40 ore al sole o pure in qualche stufa. Poscia colatolo, serbalo per valertene al bisogno, prendendone un cucchiaio la mattina a stomaco digiuno, ed avrai per quel giorno un preservativo sicurissimo. Nè ti dispiaccia il sapore ingrato, perchè tanto più simili antidoti sono contrarj alla peste, quanto più dispiacciono al gusto.
Stimo anche bene di aggiungere, benchè fuor di luogo, che lo spirito d’orina per testimonianza del Doleo e del Wedelio s’è provato utile fiutandolo [200] in simili tempi, e m’immagino che si potrà sperar lo stesso dagli spiriti e sali ammoniacali per la salutevol forza del loro odore. Parimente non reputo inutile il descrivere qui un’unzione, che dicono adoperata da coloro che in Milano nel 1630 dilatarono con veleni la peste, preservandosi eglino che forse non ebbero bisogno o non si servirono mai d’antidoto alcuno. Soggiugnerò tre altre composizioni, attribuite pure ai medesimi, forse per dare ad esse più credito, ma che tuttavia non paiono da sprezzarsi.
Unguento preservativo.
℞. Cera nuova, olio comune, olio di lauro, olio di sasso, erba aneto, bacche di lauro, rosmarino e salvia, pestate tutte grossamente. Poi fa bollir tutto insieme con un poco di aceto, e riducendolo in forma d’unguento, ungine alle occorrente le narici, i polsi e sotto le braccia e le piante de’ piedi.
Altro unguento preservativo.
℞. Cera nuova onc. 3, olio comune, olio di edera, ana onc. 2, olio di sasso, foglie d’aneto, bacche di lauro, ana onc. 5, foglie di rosmarino onc. 2 e mez., foglie di salvia onc. 2. Si polverizzino le foglie e le bacche, e con un poco di buon aceto unito ai suddetti olj si faccia bollir tutto, mescolando, finchè se ne formi unguento da ungere i polsi, ecc.
[201]
Elettuario preservativo.
℞. Imperatoria, carlina, genziana, dittamo cretico, dittamo bianco, bacche di lauro parti eguali. Polverizzato tutto si mescoli con mele spumato e chiarificato, facendone elettuario da prenderne per bocca un cucchiaio la mattina ed anche altra volta fra il giorno.
Altro unguento preservativo.
℞. Olio di trementina, di sasso, di gelsomino, di lauro, grasso di tasso, ana onc. 5, cera nuova, olio comune, ana onc. 3. Si facciano bollire insieme circa un quarto d’ora; poi vi si aggiunga polvere d’assenzio, aneto, camedrio, salvia, ruta, ana un’oncia in circa o un pugno. Si faccia bollir tutto a bagno finchè si riduca in forma d’unguento da ungerne i polsi e la region del cuore.
E giacchè abbiam nominato il celebre olio di sasso che nasce nello stato di Modena, dirò che forse non è peranche ben conosciuto tutto il suo valore, quantunque esso venga portato e ricercato per tutta l’Europa. Bisognerebbe che eccellenti fisici ne tentassero con varie prove le virtù. Forse anche egli è da mettere fra i preservativi contra la peste, sì per l’odore suo, e sì per le qualità balsamiche, delle quali abbonda, se pure la sua calidità non sia da temere in tali casi.
Ma io avrei un bel che fare, se volessi rapportar qui tanti altri antidoti preservativi che si leggono ne’ libri dell’Untzero, Alberti, Quercetano, [202] Cratone, Foresto, Horstio, Dodoneo, Sennerio, Etmullero, Diemerbrochio, di Cellino Pinto e di altri autori. Forse ne ho anche rapportato troppi, potendo nascerne confusione ai lettori in tanta copia; e finalmente nè pur io son persuaso che tanti bei rimedj abbiano la forza che talun crede contra la peste. Ma che si ha a fare? La gente vuol dei rimedj da preservarsi. Io ne suggerisco i più facili, o pure altri, i quali se non gioveranno, certamente nè pur dovrebbono nuocere, e sono in fine i più commendati dai pratici. Finirò dunque la serie de’ preservativi con ritoccare per consolazion de’ poveri un punto di molta importanza, cioè che il Diemerbrochio, uno de’ più eccellenti medici osservatori e trattatisti di questa materia ch’io conosca, consigliava nel contagio de’ suoi giorni alla gente povera il bere ogni mattina uno, due o tre cucchiai d’aceto ben forte, e fatto di buon vino, con alcuni pochi grani di sal comune, o pur senza, mangiandovi immediatamente dietro un pezzo di pane, avendo egli osservato che questo fu allora uno degli ottimi preservativi purchè non se ne servissero gli asmatici ed altri afflitti da mal di petto o di polmoni o di reni. Anzi aggiunge d’aver veduto gran copia di poveri meglio preservati con questo solo antidoto che molti altri provveduti di preziosissimi preservativi. Anche S. Carlo e i suoi che lo servivano nella peste di Milano, benchè praticassero sì spesso con persone e in luoghi infetti, pure si preservarono tutti, senza usare altro preservativo che non spugna bagnata in aceto, e posta entro una palla che andavano odorando. Oh! si dirà: egli era un santo. Or bene: Francesco [203] de le Boe Silvio non è stato altro che eccellente medico, e pure anch’egli attesta di non aver preso altro preservativo nella peste de’ suoi dì, se non un cucchiaio d’aceto con una fetta di pane inzuppata in esso ogni mattina prima di visitar gli appestati; e benchè seguitasse per otto mesi continui a curare tal sorta di gente, pure con questo solo rimedio non sentì mai infezione di pestilenza. Avendone egli nel declinar del morbo dismesso l’uso, provava solamente un certo dolor di capo ogni volta che entrava in qualunque casa infetta. Non tutti, e spezialmente quei di temperamento melanconico, potrebbono seguitare per alcune settimane l’uso dell’aceto; ma a noi basta di poter qui conchiudere che la virtù dell’aceto per resistere al veleno pestilenziale è grandissima, ed halla per tale comprovata anche la sperienza di troppi secoli; ne si troverà medico rinomato che non la commendi assaissimo. Insino l’antico Rasis tanto la stimava, che in tempo di peste consigliava il mischiarne ne’ cibi e nelle bevande e ne’ medicamenti, e il premunirsene coll’odore e lo spargerne insino per casa. Alcuni medici aggiungono all’aceto in infusione, o in altra forma, qualche altro semplice di qualità antipestilenziale, e preferiscono a tutti i preservativi gli aceti triacali. Forse non han torto. Ecco la composizione d’uno di questi aceti fatta dal Timeo, che dice d’averne veduto un felicissimo successo nella peste de’ suoi tempi. Altre simili men ricche, ma forse egualmente efficaci, se ne possono fare.
[204]
Aceto triacale preservativo.
℞. Orvietano onc. 2, diascordio onc. 2 e mez., triaca onc. 1, radici d’angelica, di contrajerba, d’enula, di pimpinella, di tormentilla, di scorzonera, di dittamo bianco, di petasitide, ana dram. 6; foglie di scordio, di ruta, di millefiori, ana manipol. 1; fiori di calendola, di tunica, ana mez. manipol., scorze di frassino, di cedro, ana mez. onc.; bacche di ginepro onc. 1 e mez.; macis, sedoaria, ana dram. 3, canfora scrup. 2, croco orientale mez. dram., mirra eletta mez. onc., aceto di sugo di rovo ideo, cioè di fambrois, quanto basta. Mischiati tutti gl’ingredienti stieno in luogo caldo ben coperti, finchè se ne cavi la tintura, la quale colata si conservi per valersene a suo tempo.
Anche l’aceto solo in cui sia stata disciolta canfora, dicono che preservi egregiamente. Egli è probabile che gli spiriti pestilenziali ordinariamente penetrino ne’ corpi de’ sani coll’aria, che si tira col respiro; e però bisogna più di tutto difendere le entrate dell’aria infetta nelle viscere nostre; al che può mirabilmente servire l’odore e la sostanza dell’aceto, anche per correggere quegli aliti maligni. Il Massaria scrive che nella crudelissima peste del suo tempo molti in vece di aceto, si valevano dell’erba acetosa con effetto felicissimo, prendendo il sugo d’essa, spremuto, o solo o mischiato con altri medicamenti, e da questa unicamente riconoscevano la salute preservata. E perciò il Gordoni ed altri lodano cotanto e con gran ragione per gli tempi della pestilenza tutti gli acidi, come sono i [205] sughi degli agrumi, dell’agresta, de’ meli granati, del ribes, dell’acetosa e d’altri simili, fra’ quali è forse dovuto il primo luogo all’aceto stesso. Anche il sale comune si trova commendato come un buon preservativo contra il veleno pestilenziale dell’Augenio, Jouberto, Witichio e da altri autori.
Solo dee avvertirsi che in tutti questi antidoti, consigliati per la preservazione, ci vuol parsimonia, per non cadere nel troppo, che in tutte le cose suol essere nocivo, affinchè per guardarsi da un male, disavvedutamente gli uomini non se ne tirino addosso degli altri. Così gli acidi si prendano a poco a poco, e non in furia, affinchè lo stomaco non se ne risenta, e massimamente vadano cauti quei che patiscono mali di petto, come asma, tosse, ecc. Il soverchio uso dell’aceto o del vino d’assenzio o d’altre simili bevande prese per preservativo, può indurre tali indisposizioni o sconcerti di stomaco che taluno giunga a credersi appestato senza però esser tale. Anzi l’Ingrascia è di parere che si debbano andar mutando fra la settimana que’ preservativi che si prendono per bocca, sul timore che assuefacendosi troppo la natura ad un solo, non ne provasse poi il benefizio che suol venir dalle cose nuove. Perciò consigliava egli il prendere nel primo dì le pillole di Rufo al peso di una dramma in circa, la sera o la mattina, due o tre ore avanti il cibo, per ripigliarle dopo quattro o cinque giorni. Nel secondo triaca dram. 1. Nel terzo qualche bevanda o conserva appropriata. Nel quarto l’elettuario de sanguinibus, noto agli speziali, e lodato comunemente dai medici. Nel quinto triaca di dioscoride o sia mitridato minore [206] con la giunta d’altri ingredienti; e così di mano in mano.
Bernardino Cristini, che fu uno dei medici dei lazzeretti di Roma nella peste del 1656, e discepolo del Riverio, confessa che sulle prime si sentiva battere forte il cuore in petto. Cominciò a valersi di rimedj antimoniali (da fiero chimico ch’egli era) e di vomitivi e di bezoartici, bagnando i polsi, le narici e la region del cuore con balsami o essenza di scorza di cedro, e usando la triaca, canfora, controierva, angelica, carlina, rosmarino, ginepro, tormentilla, ecc., e vedendone benefizio, prese coraggio con altri medici. Il costume, tanto suo, come de’ suoi famigliari, fu di andar prendendo due o tre volte per settimana, un quarto d’ora avanti cena, al peso di mezza dramma, certe pillole piacevolmente purganti e corroborative, le quali in fine son quelle di Rufo, caricate con altri ingredienti, e descritte a noi dal Riverio. Eccone la composizione.
Pillole preservative.
℞. Aloè lavato ed estratto con sugo di rose fatto ad uso d’estratti, zafferano, mirra, ana mezz’oncia; balsamo orientale e occidentale chiamato opobalsamo, ana mezza dramma, ossa di cuor di cervo num. 6; unicorno e bezoartico orientale, legno aloè, ana grani 10; ambra grisa gr. 5, magisterio di tartaro e tintura d’elettro quanto basta per formar la massa delle pillole.
[207]
Il medesimo ogni mattina ancora si ungeva le tempie, le narici, la gola, il cuore e i polsi colla sopraddetta composizione liquida, aggiuntevi tre gocce d’essenza di rosmarino e tre altre d’olio di carabe: il qual uso fu seguitato da altri medici, nessun dei quali risentì nocumento dalla peste. E certo si noti che l’olio di carabe pel suo potente e confortativo odore è da stimare assaissimo per preservarsi. In Firenze nel contagio del 1630 fu esso molto usitato, ungendosene alcuni le narici ed altri portandone una spugnetta inzuppata entro la palla di ginepro bucata. Per altro hanno alcuni chimici ed empirici non poca inclinazione ad esaltar come mirabili tutti i lor medicamenti, che per lo più sono anche astrusi e difficili a prepararsi e trovarsi, allorchè il contagio fa il padrone delle città e impedisce troppo il commercio. Lascerò dunque stare molti di quei meravigliosi alessifarmaci, estratti, tinture, quintessenze e simili strepitosi e prolissi recipe d’Angelo Sala, dell’Untzero, del suddetto Cristini e di altri lor confratelli, sì per non eccedere di troppo, e sì perchè la sperienza ha fatto vedere alle occasioni essere bene spesso splendidissime le promesse di tal gente, ma poco felici gli effetti. E questo sia detto col rispetto sempre dovuto ai veri e non ai ciarlatani e non visionarj chimici, da’ quali riconosce la medicina molti utilissimi rimedj e dei gran vantaggi. Tali sono il Quercetano, lo Scrodero, lo Zvelfer, il Rolfiacio, l’Homberg, il Lemery, ecc., e tali reputo io i due nostri viventi cittadini, cioè il sig. Domenico Corradi, commessario generale dell’artiglieria e matematico del mio padron serenissimo, rinomato per altri suoi studj, [208] e il sig. Giovangirolamo Zannichelli, che ultimamente ha pubblicato in Venezia un suo trattato De ferro ejusque nivis praeparatione. Molto più poi lascerò alla gente troppo facilmente credula il Fioravanti con tutti gli altri cerretani e segretisti, perchè quantunque ne’ libri loro probabilmente v’abbia de’ rimedj anche eccellenti, pure il miscuglio di molti altri inutili e falsi fa che non si può fidar nè pure dei veri, senza vederne prima le prove. Anzi qualora io lodo, o dico essere lodati da altri alcuni rimedj, non intendo io mai di fare la sicurtà che se ne abbiano a veder dei miracoli.
Darò fine alla parte preservativa coll’accennare ancora il metodo tenuto dal Diemerbrochio (insigne autore, come dissi, d’uno de’ più utili e più celebri trattati della peste che si abbiano) per guardarsi dal contagio dell’anno 1635 e dei due seguenti che afflisse tutta la Fiandra e gran parte della Germania. Si maravigliava la gente com’egli visitasse tanti infermi e case d’infetti, intrepido sempre ed illeso. Ecco la sua forma di vivere. Non avea punto paura del male, nè permetteva che collera, terrore o tristezza d’animo alloggiasse con esso lui. Venendo la malinconia, facile a lasciarsi vedere, mentre in tutta Nimega non v’era casa esente da peste, egli ordinava a tre o quattro bicchieri di vino che la cacciassero tosto di casa. Non potendo dormire assai la notte per le troppe faccende del giorno, dopo il pranzo prendeva sonno d’un’ora. Medicava per carità anche i poveri. Il suo vitto era di cibi di buon sugo e di facil digestione, con fuggire gli opposti; e la bevanda [209] vino mediocre, preso talvolta sino all’ilarità, non mai all’ubbriachezza. Una o due volte fra la settimana prima d’andare a letto prendeva una o due delle seguenti
Pillole antipestilenziali.
℞. Radici di petasitide, carlina, dittamo, angelica, elenio, ana mezz’oncia, gentiana dram. 1 e mezz., rabarbaro ottimo onc. 1 e mezz., agarico bianchissimo mezz. oncia, erbe di scordio, centaurea minore, ruta, ana mez. onc., cardo santo dram. 6, fiori di steccade dram. 1 e mez., semi di cedro d’aranci, di zedoaria, ana dram. 1. Di tutto si formi polvere grossa che per due o tre dì si maceri in due o tre libbre di vino bianco, poi si faccia cuocere per un quarto d’ora e si coli con forte spremitura nel torchio e la colatura si coli di nuovo per carta sorbitrice. In questa colatura disciogli aloè ottimo onc. 3 e mez., mirra chiara in gocce dram. 3 e mez., e in una scudella si faccia svaporare l’umidità, finchè diventi massa da comporne pillole provate utilissime in tempo di peste.
La mattina per la nausea egli non poteva prendere medicamento alcuno prima d’andare alla visita degli ammalati, ma solamente masticava alcuni grani di cardamomo minore. Da lì però a due ore prendeva un poco di triaca o di diascordio o una scorza d’aranci condita, ovvero per lo più tre o quattro pezzetti di radici d’elenio condite. Da lì a poco mangiava un pezzo di pane con butirro e cacio verde pecorino, bevendovi appresso birra e talvolta un bicchier di vino medicato con assenzio [210] o sia medichetto. Due ore prima del mezzodì, se gli era permesso, fumava una pipa di tabacco; dopo il pranzo ne fumava due o tre altre, e dopo cena altrettante. Talvolta in qualche ora del dopo pranzo ne prendeva ancora qualche altra pipata. Se punto punto si sentiva alterato dal fetore delle case o persone appestate, subito, lasciato stare ogni altro anche necessario affare, qualunque ora del giorno fosse, fumava due o tre pipe di tabacco, avendo egli sempre creduto e coll’esperienza provato per un primario preservativo nella peste il tabacco in fumo. Teneva egli che non fosse mai stato inventato migliore preservativo contra la peste, purchè fosse tabacco d’ottima qualità e colle foglie ben mature ridotto in corda, e purchè fumato, appena che si sentisse qualche vertigine, nausea o ansietà di cuore, che possono facilmente assalire chi pratica tra i fetori degli appestati, con passar poco dopo in vera infezione. Contento egli del tabacco solo, non si valeva d’altri suffumigi ed odori, avendone consumato non poca quantità, durante essa peste, la qual poi finita finì anch’egli di fumar tabacco, affinchè l’uso lodevole non passasse in un abuso detestabile, come si vede tuttodì avvenire a molti. Può essere che non pochi alla prova non ne sentissero tanto profitto; ma egli attesta che altri ancora il provarono utilissimo. Arrigo Sayer, medico valentissimo d’Oxford, per quello narra il Willis, medicava tuttodì francamente poveri e ricchi appestati, e maneggiava le ulcere loro senza danno alcuno e senza adoperare altro preservativo che una buona bevuta di vino generoso prima di uscir di casa. Chiamato poscia [211] ad un castello dove la peste era più atroce, avendo avuto l’animo di dormire nel medesimo letto con un duca suo grande amico infetto della medesima, la contrasse anch’egli e vi lasciò la vita. Majuscola fu questa bestialità. Non mi fermerò a pregare i medici nostri di non imitarlo. E ciò basti intorno alla preservazion della peste per quanto si può sperare dalla medicina.
Rimedj curativi della peste. Nessuno specifico e sicuro finora trovato. Periodo delle pestilenze in una città, principio, mezzo e fine e lor diversi effetti. Medicamenti come trovati efficaci in una peste e non in altre. Salassi e medicine solutive, rimedj allora o pericolosi o nocivi.
Veniamo ora a trattar dei medicamenti e rimedj per curare chi è già infetto, cioè preso dal morbo pestilenziale. Per tempo sono obbligato anch’io ad intonare quella spiacevol sentenza, cioè: che non si dà antidoto alcuno specifico, il quale per sua particular qualità sia atto a preservare ogni persona dalla peste, e che molto meno si dà alcun determinato rimedio per guarire chi è già colpito dalla medesima. Perciò tutto quello che ha mai saputo pensare e suggerir qui la medicina e la sperienza, consiste in certi rimedj generali per espugnare la malignità dei veleni contratti e resistere alla putredine, che per analogia possono anche servire contra la peste. Nè c’è da maravigliarsene da che l’arte medica con tutti i suoi studj [212] nè pure ha trovato finora rimedj specifici a tanti altri mali e malattie di molto minor importanza e malignità che non è il crudelissimo della peste. Ora anche la curativa può ben vantare per questo morbo un’infinità di rimedj, pubblicati già in varj ed assaissimi libri che trattano della pestilenza; ma di nessun d’essi può dirsi con sicurezza: Questo guarirà. Anzi è da por mente che tanto nella preservazione, quanto nella cura ad uno gioverà un rimedio che nulla poi servirà ad un altro ferito del medesimo male, perchè concorre il temperamento e la disposizione interna delle persone a fare che sia giovevole ad uno e inutile nello stesso tempo ad un altro il medesimo rimedio. Anzi si osserva che alcuni medicamenti provati efficaci in una peste, non servono poi in altre, essendo che quasi ciascuna peste ha qualche suo proprio e particolar sintoma diverso da quei delle altre. Forse ancora è avvenuto, ed avverrà, che un medicamento sia stato e sia per essere utile tra i Franzesi, Tedeschi, Inglesi, ecc., e questo non riesca poi tra gl’Italiani; oltre al vedersi che ce ne vengono proposti dagli autori di quei che sono d’indole contraria per preservare e per guarire dalla stessa stessissima peste; riflessioni tutte che rendono anche me perplesso e timoroso nel trattar qui dei rimedj. Ma finalmente un pessimo rimedio potrebbe essere il non voler nè pure tentare veruno di tanti rimedj che veggonsi ancor qui lodati dai medici saggi.
Credono alcuni che non si trovi, se non tardi, rimedio alla peste, e che appunto i contagi facciano tanta strage prima di cominciare a cedere ai medicamenti, [213] perchè non si giunge a scoprire il proporzionato, se non dopo molte esperienze. Dissi che così credono alcuni; ma non dirò già che sia certa questa opinione, perchè non ben sussiste che tardi si trovi il rimedio; ma sussiste più tosto che non si trova giammai. In qualsivoglia peste v’ha delle cose strane, la cagion delle quali non si sa rinvenire, almeno con sicurezza, potendo essa attribuirsi alle qualità meno o più fiere del male, alla buona o rea disposizion dell’aria e de’ corpi, o pure a un complesso e concorso d’altre sconosciute circostanze che la man di Dio unisce per gastigare i cattivi e purgare la terra. Per altro son da avvertire tre tempi diversi di qualsisia peste, cioè il principio, mezzo e fine. Nel principio o sia nell’accessione di questo malore, un solo, o pochi almeno saran quegli che porteranno la peste in una terra o città e la parteciperanno a chi disavvedutamente con esso loro tratti. Costoro quasi infallibilmente morranno o perchè non sarà conosciuto per tempo il male, o i rimedj non avran forza, o nè pure s’applicherà loro alcun rimedio essendo tutti sul principio d’un contagio pieni più di spavento che non s’è all’arrivo d’un fiero esercito di nemici in paese disarmato e che gode da gran tempo la pace. Se però conosciuto tal disordine, con pronte ricerche e rigorosissime determinazioni, verranno scoperte e serrate quelle case, e sequestrate persone e robe che possano aver portata o contratta l’infezione, con separar le famiglie sospette dal commercio degli altri, e si provvederà coi profumi alle case e robe loro; la peste sarà soffocata e forzata a cedere e morire, potendosi [214] con ciò tuttavia preservare la Città, perchè il veleno non è peranche invigorito, nè dilatato.
Il mezzo, o sia lo stato della pestilenza è quando essa ha preso possesso delle città e scorre liberamente, atterrando chi le capita alle mani, e facendo girar le carrette senza riposo. O sia che allora l’aria stretta delle contrade s’imbeva tutta di quegli aliti e vapori mortiferi, cagionando con ciò tanta carnificina; o sia che difficilmente possano le persone, almen popolari, guardarsi allora dall’ambiente o contatto di qualche aria, persona o roba infetta; o sia in fine che il veleno pestilenziale si trovi allora nel maggior suo auge, malignità e furore; certo è che in tale stato di cose i rimedj non sembrano aver forza e difficilmente si veggono guarir gl’infermi. Anzi è stato osservato che alcune persone, benchè si tenessero chiuse nelle lor case, nè conversassero con alcuno, pure se per altri lor disordini o casualmente venivano assalite da una febbre, non si fermavano qui, perchè la febbre degenerava poscia in peste. Del pari scrivono alcuni che altri mali spontaneamente allora si mutavano in pestilenza: il che però potrebbe essere stato cagionato o dalla visita di qualche medico, o da altre persone o robe infette, senza che se ne accorgessero i poveri infermi. Nel fine poi, o sia nella declinazion del contagio, il male così facilmente non si comunica, nè passa dall’uno nell’altro della stessa famiglia, e gl’infetti facilmente guariscono, riducendosi le morti a poco a poco in nulla. Può essere che dopo avere il morbo perduto il suo pascolo con essersi perduta tanta gente, venga egli meno, non già perch’esso manchi di [215] malignità, ma perchè manchi a lui la preda; ovvero che restando solamente in vita quei che sanno ben difendersi o col ritiro o con altri preservativi, e quei che hanno (e non son pochi) un temperamento talmente opposto alla qualità del male che anche in mezzo agli appestati e senza alcun preservativo, non ne risentono danno; può, dico, essere che il morbo non trovi finalmente alcuno, sopra cui infierire; nè fomite o esca, ove più attaccare il suo incendio; o non gliel lasci trovare il buon governo de’ maestrati, i quali non ommettendo diligenza e premura alcuna di profumi, sequestri ed altri mezzi, si studino di conservare illesi quei che fin allora son campati.
Contuttociò non sembra nè pure improbabile che il veleno stesso della peste possa andare a poco a poco smarrendo il suo vigore dopo alcuni mesi di dimora entro d’una città, tanto che si lasci vincere o dalle naturali forze dei corpi umani, o da quelle de’ medicamenti che dianzi nel suo furore valevano poco o nulla. Anche il morbo gallico sul principio e per molti anni, era quasi immedicabile o certo faceva dei terribili danni. Va esso a poco a poco perdendo la sua rabbia, e si lascia medicare con facilità, benchè la calata in Lombardia di tanti eserciti dalla parte del Rodano ne abbia tornato ad inferocire alquanto gli spiriti dal 1701 fino ai dì nostri, siccome ho inteso dire ad eccellenti medici che l’hanno osservato. Non m’arrischierò già di dire che passando il veleno pestilenziale da tanti in tanti altri corpi si vengano a poco a poco a rintuzzare le particelle acute, fiammeggianti e maligne che il compongono; perciocchè [216] so che se da quella città, in cui esso finisce, passerà ad un’altra fin’allora intatta, si vedrà ch’esso ivi sarà quel vigoroso tiranno di prima. Ma dirò bene che per un vento, il qual venga a soffiare in quella città, portando seco o nitro o zolfo o altri effluvj e vapori, correttivi dell’aria e contrarj al veleno pestilenziale che vien creduto da alcuni formato di particelle d’arsenico o napello o aconito, questo potrà infiacchirsi, e divenir tale che dia poi luogo ai medicamenti, o non sia ivi tanto attaccaticcio, o non conduca sì facilmente alla fossa. Ovvero potrebbe immaginarsi che tali venti e vapori, senza cangiar punto la qualità di questo veleno, cangiassero la costituzion dell’aria e de’ corpi umani di quella città, onde eglino da lì innanzi non sentissero sì presto, nè provassero così fiero questo crudelissimo morbo, rendendosi disposti a maggiormente resistergli. Così qualora accade che, contro il costume ordinario, infierisca più una peste in tempo di verno che di state, probabilmente ciò verrà de qualche pernicioso scirocco che ostinatamente allora soffj, e con alterare e mettere in moto il sangue e gli umori, faccia strada alle devastazioni del veleno pestilenziale. La tramontana molte volte ha snervata o fermata affatto la peste. Guai se da qualche cagione esterna, operante o nell’aria, o ne’ corpi, o pure contro le particelle del fermento contagioso, non venisse indebolito e finalmente estinto questo morbo: non si rimarrebbe esso mai di fare strage nelle città finchè vi fosse popolo. E pure si sa ch’esso dopo il periodo d’alcuni mesi per l’ordinario si estingue, e che talvolta un improvviso gran freddo l’abbatte affatto.
[217]
Comunque sia, Bernardino Cristini scrive che nel contagio di Roma del 1656 sul principio si adoperavano vari rimedi, ma indarno tutti. Sospetta egli che non giovassero agl’infermi del lazzeretto, perchè non erano ministrati al debito tempo dai serventi, impauriti dal pericolo della morte; ed aggiunge che non si può esprimere qual fosse il disordine dei cerusici; ma che nel progresso del male cominciò egli con altri medici a far di belle cure e a guarir non pochi appestati. All’incontro il cardinale Gastaldi nella descrizione di quella peste medesima, ove egli sostenne la prefettura dei lazzeretti, attesta essere stati di gran lunga più i guariti ne’ lazzeretti romani per benefizio della loro natura che i risanati dal sapere e dalle ricette dei medici. Quegl’infermi che aveano gagliardìa di spiriti vitali, espugnavano il contratto veleno per mezzo di ascessi o sudori, effetti tutti della loro benefica natura, benchè poi paressero ridonati alla vita dal possente aiuto delle medicine; ed appunto anche senza medicamenti guarirono molti dai buboni. Di più scrive egli essersi conosciuto alle prove che niuno seppe trovare un vero e specifico antidoto contro quella pestilenza; che i medicamenti giovevoli agli uni, riuscivano poi nocivi ad altri; e che meno degli altri medici conobbero o seppero medicare tal morbo quei che si credeano più barbassori nella professione medica; e in fine che tanti bei rimedi e consigli suggeriti dai libri de’ medici, o dalla loro viva voce, o mandati anche dagli stranieri a Roma in soccorso di quella misera congiuntura, più tosto portarono confusione che sollievo; e [218] ancorchè per avventura avessero giovato in altre pesti, in quella si trovarono vani, e talvolta ancora dannosi.
Queste sono cattive nuove. Contuttociò non bisogna perdersi d’animo. Certo io per me sono abbastanza persuaso (e di questo sentimento sono anche tutti i medici, non ciarlatani nè ipocriti, ma galantuomini), cioè che la guarigione de’ mali venga per lo più dalla natura, vera medicatrice d’essi, qualora è alle sue forze permesso il fare le separazioni ed espulsioni de’ cattivi umori, nel che consistono le vere crisi. Ma credo ancora del pari che il dotto e giudizioso medico possa contribuir molto alla salute degl’infermi, prescrivendo opportunamente rimedj che aiutino i movimenti regolati della natura, e che in certo modo la correggano se talvolta ella sceglie le strade non convenienti, o pure se caccia fuori con disordine gli umori confusi e non peranche ben separati. Perciò siccome può essere che alcuni medici romani si facessero vento alla barba con troppa facilità nell’attribuire a sè la guarigione di tanti, così può darsi caso che anche il cardinale Gastaldi si dilungasse alquanto dal vero nell’ascrivere al solo benefizio della natura ciò che ancora fu benefizio d’alcuni medicamenti opportunamente dati e trovati buoni in quella occasione. Passiamo dunque avanti per consultare ancor qui la medicina, di cui in fine, non ostante tutta la sua incertezza e debolezza, si dee fare anche ne’ tempi di peste un gran capitale.
Ma prima d’accennare ciò che può essere utile, convien dire quello che può nuocere. Il Mercati, [219] il Mercuriale, il Foresti, il Massaria, Zacuto Portoghese con altri insigni medici sostengono che si abbia da cavar sangue nel principio del male agli appestati, mettendo mano a vari raziocini e testi de’ medici antichi, e il Settala cita anche la sperienza sua. Certo non è improbabile che in qualche peste ciò sia stato di giovamento; io però inclino a credere che queste lodi del salasso sieno procedute dall’osservazione di soli pochi casi che non bastano a fissare una decisione legittima, o pure che s’esso giovò, fu per cagione de’ sintomi e non della peste medesima; e però quando non ne apparissero chiari da un’accurata inspezione i suoi buoni effetti, quanto a me senza fallo non mi lascerei allora cavar sangue; e quando la sperienza non gridasse in contrario, consiglierei anche a tutti gli altri il non lasciarsi aprire la vena in casi tali: sì se fanno conto della loro pelle. Un’altra folla d’eccellenti medici, fra’ quali il Fracastoro, il Cardano, il Fernelio, il Platero, il Salio, il Riverio, il Barbetta, il Doleo, il Sorbait, il Waldschmidio, e per tacer di tanti altri, il celebre nostro Falloppio, asseriscono che questo è un colpo mortale, recando non solamente ragioni e testi migliori, ma anche la sperienza, vera maestra in simili dispute. Il Falloppio scrive che nella lunga peste che dal 1524 durò in Italia sino al 1530, morirono tutti coloro a’ quali fu cavato sangue; e molti, che se ne guardarono, salvarono anche la vita. Anche il Pareo interrogò una gran moltitudine di medici e chirurghi trovatisi nella peste del 1565, che infestò quasi tutta la Francia, e n’ebbe per risposta che nessuno campò dopo il salasso, risanati [220] all’incontro moltissimi coll’uso de’ soli alessifarmaci. Lo stesso fu osservato in altre pestilenze dall’Andernaco, da Arrigo Fiorentino, dal Dodoneo, Minderero, Hildano, Gesuero, Bauhino e da altri assaissimi rinomati fisici, che per brevità tralascio. E per parlare de’ contagi più recenti, abbiamo anche l’attenta osservazione del Diemerbrochio, il quale ci assicura che chiunque ferito dalla peste de’ suoi giorni era salassato, indubitatamente e presto moriva. Anzi osservò egli di più che gl’infermi d’altri mali, se si lasciavano aprir la vena, poco dopo venivano presi dalla peste; e che anche a moltissimi dei sani dopo il salasso incontrò la medesima disgrazia. Misera condizione degli uomini, diventando carnefici nostri quei che sono scelti per conservare la nostra vita. Abbiamo ancora dal Cristini che nella peste di Roma del 1656 fu perniciosissima la cavata del sangue, notizia confermata medesimamente dal cardinale Gastaldi con dire essersi avverata anche allora l’osservazione del Falloppio, il quale narra che un medico famoso de’ suoi tempi fece cavar sangue a mille appestati, e che appena due scamparono dalla morte. Aggiunge però il Gastaldi che fu meno dannoso il taglio della safena per alcuni pletorici e robusti. Finalmente anche nella nostra città, grassandovi la peste nel 1630, fu stampato un avvertimento in cui si faceva sapere come osservato in varie città che il cavar sangue e dar medicine da purgare il ventre, affrettava irremissibilmente la morte ai malati, e probabilmente uccideva alcuni che sarebbono guariti. Il punto è importantissimo, e però mi son qui diffuso. Tuttavia [221] concepisco io molto bene che in alcune pesti la sperienza possa far conoscere utile la cavata del sangue, almeno per le complessioni pletoriche, e solo in principio, o pure quando il morbo cagionasse sintomi di pleuritidi o altre infiammazioni: al che i saggi medici porranno ben mente. Il moderno contraddittore d’Ippocrate, Michele Sinapio, scrive che a quanti della corte del principe di Radzvil, ambasciatore di Polonia a Vienna, fu aperta la vena nella peste dell’anno 1679 tutti guarirono, morti all’incontro quei d’essa famiglia che se ne astennero. Aggiungo di più insegnare il Sidenham che il salasso, purchè fatto con larga mano e replicato più volte, prima che escano fuori i buboni, giova assaissimo; e nuoce solo il cavarne poco, o pure l’aspettare a cavarlo dopo l’uscita dei tumori. Cita la sperienza sua e l’autorità di Leonardo Botallo. Così egli; la disgrazia però si è che lo stesso Sidenham in fine, vedendo, che questo suo metodo zoppicava forte, abbandonò i salassi, e si diede anch’egli ai sudoriferi, che trovò meno pericolosi e più utili. In una parola, ci vuol qui gran cautela trattandosi d’un rimedio che può essere anch’egli pestifero.
La medesima ragione ha poi fatto che anche il cavar sangue colle ventose e colle sanguisughe o colle scarificazioni, venga riprovato da qualche eccellente medico, tuttochè Galeno conti una storia d’una scarificazione ben fortunata in una gamba, da cui poscia han preso motivo altri di lodare un tal tentativo ne’ tempi di peste, con citare anch’essi dal canto loro qualche prova fortunata. Oltre a questi pericolosi rimedi chirurgici, è da avvertire [222] il pericolo medesimo in un altro che è farmaceutico. Certo non meno de’ salassi ha fatto conoscere la sperienza che le medicine solutive del ventre in tempi di peste, e prima che la natura avesse sciolto il morbo degl’infermi, erano veleni, conducendo in breve alla morte con una diarrea che teneva lor dietro: il che si verificava eziandio nei corpi pieni di mali umori; essendosi all’incontro osservato che la stitichezza del ventre non noceva ad alcuno. Imperocchè non hanno le medicine purgative ingegno da scegliere e votare con distinzione gli umori, nè hanno forza di purgarci dagli umori cattivi, potendo anzi con gli scioglimenti e con le precipitazioni che cagionano corrompere i buoni, e dissipare ed infettare gli spiriti, i quali nella pestilenza, più che in qualsivoglia altro male, bisognerebbe che fossero puri e vigorosi. Perciò Ippocrate, Cornelio Celso, il Fernelio, il Saraceno, il Fracastoro, il Palmario, il Cardano, l’Acquapendente, il Barbetta, ed assaissimi altri de’ più rinomati medici, riprovano colla sperienza alla mano in tempo di peste i purganti; e nel secolo prossimo passato le infelici prove d’alcuni insegnarono troppo agli altri di astenersene, per non accrescere i mali della pestilenza. Anche il Marchino e il Grillot lasciarono memoria che nella peste di Firenze del 1630 e 1631, e in quella di Lione del 1628 furono perniciosissimi i purganti. Aggiungono che i salassati morirono quasi tutti: il che ci fa svanir fra le mani l’autorità del Rondinelli, da cui nella Descrizione della medesima Peste di Firenze fu notificato ai posteri essersi allora veduto per isperienza che nel principio del [223] male, mentre l’ammalato aveva buone forze, quegli a chi si cavava sangue la maggior parte guarivano, se bene fosse apparito o il bubone o il carbonchio, con questa eccezione però di farlo parcamente, e molto meno di quello che per l’ordinario si farebbe, ecc. In fatti lo stesso Rondinelli scrive altrove che fu proibito assolutamente il dar medicine, siccome il cavar sangue; poichè per esperienza si vedeva che tutti quelli che in casa loro o altrove l’avean fatto morivano; e in Firenze non ne campò niuno. È ben vero che quando la natura sfogava da per sè, o pel naso, o venivano alle donne le solite purghe, purchè non in quantità straordinaria, nell’uno e nell’altro caso era segno di salute. La conclusione pertanto si è non essere molto da fidarsi di chi ha cotanto esaltato i salassi e gli evacuanti, anche violenti, per chi è preso dal morbo pestilenziale, mentre nè pure i lenienti e nè pur le pillole di Rufo sogliono allora se non recar nocumento a chi è già infermo. Non sono tanto pericolosi allora i cristeri, o sia i lavativi; anzi per parere d’alcuni riescono utili. Ma perchè l’uso loro vien riprovato dalle ragioni d’altri, e, quel che è più, da sperienze in contrario, perciò converrà andar cauto a valersene. Così gli emetici, o vomitori, anche stibiati, de’ quali son tanto amici i chimici ed alcuni oltramontani ed empirici, per disgrazia talvolta di chi in loro s’incontra, benchè dal cardinale Gastaldi venga scritto che talora parevano giovevoli nella peste di Roma, dati nel principio del male, tuttavia per l’ordinario in tempi di peste si son fatti conoscere per aiutanti e sergenti della morte. [224] Così attestano insigni autori. In somma egli è una gran felicità rincontrarsi in medici che rendano, se è possibile, agli infermi la vita; ma non è minore o è anche maggior felicità il trovar medici i quali sappiano non levar la vita ai miseri infermi, che pure tanto si fidano del loro aiuto. Passiamo ora a rimedi più accettati in tempo di peste, perchè conosciuti per giovevoli, o almeno per non nocivi.
Sudoriferi uno de’ rimedi più commendati nella cura della peste. Varie ricette di questi.
Subito che si scorge l’uomo preso dal morbo contagioso, cerca di dargli soccorso la medicina con sudoriferi e con antidoti creduti opposti alla corruzione, procurando o di vincere in casa il fermento pestilenziale, o di ridurlo alla cute e di espellerlo fuori. Per conto dunque del far sudare, io non voglio tacere che il cardinale Gastaldi, ragionando della peste di Roma, dice che un tal rimedio talvolta fu utile e talvolta ancora nocivo; e che i sudoriferi si formavano di pietra bezoar sino a cinquanta grani, o pure di polvere viperina o di bacche di lauro, e di simili cose, con riguardo sempre ai vari temperamenti. Anche il Sidenham trova in questa operazione degl’incomodi, o perchè cagioni frenesie in chi difficilmente può sudare, o perchè impedisca il nascere o faccia tornare indietro i buboni, che potrebbono essere più legittimi ascessi del male. Nulladimeno la comune [225] opinione si è che il promovere sulle prime il sudore ai feriti dalla peste, possa e soglia riuscir loro di sommo giovamento, purchè si faccia con prudente moderazione e con diversi riguardi alle forze, al sesso, all’età, al paese e alla stagione. Lo stesso Sydenham, come dicemmo, lasciati stare i salassi, si diede in fine tutto ai sudoriferi, coi quali confessa d’aver guariti moltissimi.
Un’infinità di sudoriferi ci viene suggerita dai medici: io trasceglierò quei massimamente che sono più facili a trovarsi o a comporsi, e che possono venire più prontamente alle mani della povera gente, rimettendo al discernimento de’ medici il prescrivere quei che meglio converranno, secondo la disposizione degl’infermi e del morbo. Vero è però che non è sempre in mano de’ medici il far sudare; e in oltre dubito io se certi generosi diaforetici meritino le lodi con cui sono esaltati, appunto perchè forse troppo generosi, credendo io che possano adoperarsi con profitto maggiore quei che senza far troppa violenza alla natura e agli umori sono buoni da promuovere benignamente il sudore. Per altro a tal crisi la natura suol inchinare al morbo pestilenziale. Appena dunque si scopre alcuno ferito dalla peste, che dovrà egli mettersi in letto, e preso uno dei seguenti diaforetici, a cui beverà dietro, un’ora dopo, un poco di brodo caldo, si coprirà bene affinchè si provochi il sudore; replicando poi varie volte lo stesso rimedio, e aiutando con qualche cibo o bevanda il corpo subito che si sentirà infiacchito dall’espansione degli spiriti ed umori.
[226]
Sudorifero I.
Prendi una cipolla bianca e scavala alquanto, poi mettivi dentro scrup. 4 di triaca, e ricopertala col tassello o pezzo prima levato via, e involta in carta sorbitrice bagnata d’aceto, falla cuocere o arrostir lentamente sotto le ceneri calde. Dipoi spremuto quanto puoi il sugo, aggiungivi aceto semplice o bezoartico onc. 1, e bevi. Alcuni fanno cuocere nella cipolla anche della ruta e un poco di zafferano e d’acquavite.
Sudorifero II.
℞. Triaca dram. 1, aceto di vino generoso o di calendola o bezoartico onc. 2; olio di ginepro gocce 7, o mez. scrup. o uno intero. Mischia insieme, e fanne bevanda. Scrivono che sia efficacissima per far sudare.
Sudorifero III.
℞. Foglie di ruta fresca manip. 1. Pestale nel mortaio, e unisci loro aceto bezoartico o di calendola onc. 2. Spremi forte, e al sugo colato aggiugni sale d’assenzio scrup. 1 e mez.; triaca o diascordio dram. 1 o scrup. 4. Mesci, e fanne bevanda.
Sudorifero IV.
℞. Radici di petasitide, angelica, elenio, ana dram. 1; erba ruta, cardo santo, scordio, ana [227] mez. manip; vino bianco quanto basta. Si cuocano secondo l’arte, e si colino. Prese di questa colatura 2 o 3 onc., aggiugni sale di scordio o di cardo santo scrup. 1, triaca scrup. 2, e fanne bevanda.
Sudorifero V.
℞. Radici di dittamo, petasitide, ostruzio, angelica, ana dram 2; scordio, cardo santo, ruta, ana mez. manip. Si cuocano per qualche tempo in parti eguali di aceto e vino; e la colatura spremuta si beva.
Sudorifero VI.
℞. Radici d’angelica, imperatoria, enula campana, ana dram. 1; scordio, cipresso, salvia, assenzio, o sia medichetto, cardo santo, ana manip. 2; artemisia, celidonia, ana manip. 1; anisi bacche di ginepro onc. 6; cannella, garofani pestati mez. dram. Si secchino bene l’erbe; poi metti ogni cosa in infusione in 2 lib. di vino bianco ottimo, e lasciavelo per 3 dì in bagno maria. Distilla, e serba il liquore in vaso di vetro ben serrato per quando ne avrai bisogno, perchè veramente è efficace. Si prenda mezzo bicchiero di quest’acqua e vi si metta dentro triaca dram. 1; confezione d’alchermes dram. 2. Dissolvi tutto, e bevi per sudare. Si piglia ancora della suddetta acqua per preservativo la mattina a digiuno due volte la settimana, quanto è un bicchierino d’acquavite.
[228]
Sudorifero VII.
℞. Ossimele onc. 2, aceto onc. 3, sugo di cipolla onc. 1. Mesci, scalda, e bevi. Con tale bevanda Michele Mercati narra che nella peste di Sicilia molti appestati sudavano assai, e si liberavano.
Sudorifero VIII.
℞. Aceto forte onc. 4, mitridato onc. 1. Distempera, e bevi. Scrivono che ancor questo faceva guarir molti.
Sudorifero IX.
Altri in essa peste davano polvere di bacche di lauro dram. 1 e mez. in acqua di cardo santo o in altra simile, e faceano guarir molti. Anche il Cristini dice d’aver provato con buon effetto questo sudorifero.
Sudorifero X.
℞. Sugo di calendola, o pure di verbena, o di tormentilla, o di zedoaria, o di scabbiosa, o di cardo santo, o di ruta capraria. Chiarificato con zucchero e riscaldato, se ne diano all’infermo onc. 3 o 4, e poi si copra bene. Aggiungendovi mez. dram. di triaca, sarà meglio. Ma non si tardi a dar tali sughi più di 7 ore dopo scoperto il male.
[229]
Sudoriferi vari XI.
℞. Tormentilla, o angelica, o bistorta dram. 1, ovvero contrajerva, o bolo armeno scrup. 1; o pure radici d’aristologia tonda, di dittamo bianco, di tormentilla, scorze di cedro, sandali rossi, bolo armeno, ana dram. 1; canfora mez. dram; zucchero mez. onc. Mesci tutto, e prendine dram. 1 per volta due volte il giorno con qualche acqua cordiale. Ovvero prendi radici di contrajerva o di bistorta, bacche di ginepro e di lauro, ana dram. 1; canfora mez. dram., e fa come sopra.
Sudorifero XII.
℞. Sugo di cipolla bianca, di millefoglie, di ruta, parti eguali; aceto fortissimo a discrezione quanto basta. Si mescoli tutto, e se ne formi bevanda calda, dandone due terzi di un bicchiero all’infermo da 6 in 12 ore dappoichè è scoperto appestato, ed anche più presto se si può.
Sudorifero XIII.
℞. Cipolla cotta e pestata in mortaio. Infondi 4 o 5 cucchiai d’aceto buonissimo. Cola con pezza di lino, e danne all’infermo per farlo sudare.
Dicono ancora che serve molto bene a far sudare alquanto di polvere di radici d’angelica in un bicchiero d’acqua della stessa pianta, replicando ciò ogni sette ore; e mancando l’erba fresca da farne acqua, si può farla con infusione o decozione [230] della radice. È decantata anche la polvere di bacche d’edera colte ben mature e seccate all’ombra, prendendola in un mezzo bicchiero di vino bianco buono. Le bacche esposte alla tramontana si credono di più virtù. Se in luogo di ciò darai 3 once d’acqua distillata d’esse bacche fresche, attestano che se ne vedrà più felice l’effetto. Ottimo per far sudare la gente povera scrive l’Etmullero che è il darle alcuni capi d’aglio ben pestati con aceto o vino generoso. Anche 2 once di sugo di cipolla bianca con mezz’oncia di aceto ottimo in acqua di cardo santo, o in altre simili, bastano per far sudare. Lo stesso otterrai bevendo un bicchiero di decozione di foglie e bacche di ginepro, o pure quella di cardo santo, cotta insieme con una dramma di triaca, o anche prendendo prima la triaca in un bocconcino, e poi bevendole dietro la decozione. Ovvero cotta che avrai una cipolla, infondila in aceto rosato; cavala dall’aceto e spremila; aggiungi poscia a tal sugo una dramma di triaca e un’oncia di siroppo d’agro di cedro. Parimente mezza dramma o due scrupoli di fior di solfo o di solfo sublimato, che è lo stesso, presa con 3 once d’aceto tepido comune, fa egregiamente sudare. Pietro da Castro scrive che nella peste di Roma del 1656 sommamente giovò il dar 2 dramme di solfo ben polverizzato con 2 o 3 once di buon aceto. È tenuto ancora per facilissimo sudorifero il solfo vergine con sale, bollito in vino a bagnomaria, o pure quello del Crollio. Lo stesso dicono del sale di frassino preso in acqua di cardo santo al peso di 12 grani. Oltre a ciò un bicchier di vino bianco potente, con [231] alquante gocce di spirito di vitriuolo, ma moderatamente, e non in guisa che diventi brusco, servirà egregiamente ad ottener l’intento; il che però camminerà nel supposto che la peste sia dissolvente, come poi cercheremo. Teofrasto anch’egli il loda; e l’Untzero tiene che questo spirito sia uno de’ migliori medicamenti contro la peste sì per preservarsi, come per curarsi, e cita moltissimi autori che sono dello stesso parere. In fatti la ragione s’accorda con tale sentenza, se non che avendo esso del corrosivo, potrebbe lo stomaco risentirne grave nocumento, ove con qualche intemperanza e senza la compagnia di molto fluido si prendesse. L’olio di vitriuolo anch’esso è stimatissimo. Entra esso nel seguente
Sudorifero XIV.
℞. Estratto di cardo santo, sale d’assenzio, ana scrup. 1; sale di cardo santo mez. scrup.; triaca dram. 1; acqua triacale e di cardo santo, ana onc. 1; olio di vitriolo gocc. 15. Mesci, e fanne bevanda.
Le bevande tutte hanno da esser caldette. Già si sa che per far sugo di qualunque erba convien pestarla in mortaio, spremerla forte, e lasciare che il sugo deponga le parti più grosse. Chi avesse abborrimento al sugo dell’erbe crude, le faccia cuocere in poca acqua e non tanto che sfumi tutto il balsamico, e spremute poi ben bene esse erbe, ne beva quella decozione, entro la quale chi ancor volesse far cuocere un poco di carne, può farlo.
[232]
Buona parte dei sudoriferi fin qui descritti è stata da me a bello studio trascelta, per essere d’ingredienti e materie facili a trovarsi e a manipolarsi, e di poca spesa, sul riflesso di somministrar consigli, e soccorsi alla gente povera o poco comoda, cioè ai più del popolo. Del resto i medici, la giurisdizione de’ quali io non pretendo di usurpare, potranno suggerirne non pochi altri di composizioni più strepitose, le quali può essere che facciano miglior effetto, ma può anche essere che non uguaglino talvolta il valore d’alcune più semplici. Certo s’io riferissi come utile sudorifero una modesta bevuta d’aceto fortissimo con un poco di sale, questo non avrebbe passaporto presso di alcuni; e pure per attestato di qualche insigne medico, non poca gente colta dalla peste s’è osservata guarir prestissimo dal pericolo con tale sudorifero preso sul principio del male, perchè cagione a loro d’un sudor copiosissimo. In una cosa poi non si potrà fallare, e sarà nell’aggiungere, quando non manchi il comodo, ad alcuni de’ suddetti diaforetici qualche ingrediente antipestilenziale di più, come sarebbe un poco di mitridato, di triaca o di diascordio, o pure qualche acido, come l’aceto, il sugo di cedro, l’olio o spirito di vitriuolo, il sale d’assenzio, o simili. Veggo ciò fatto da eccellenti medici. E perciocchè alle prove si può trovare che alcuni sudoriferi riescano deboli pel bisogno degli appestati, ne riferirò alcuni altri più potenti nel seguente capitolo, e finirò il presente con rapportare la ricetta d’un’acqua ed estratto di maggior vigore, ma troppo laboriosa, insegnata e praticata dal Diemerbrochio [233] con felicissimo, per quanto egli scrive, e maraviglioso successo nella peste del suo paese. La mischiava però egli con alcun altro de’ medicamenti antipestilenziali poco fa accennati, o con sale di ruta, o di cardo santo, o di scordio, o con estratto d’angelica, o di cardo santo, o coll’aceto bezoartico riferito di sopra nel capo III, ovvero con bolo armeno o con terra sigillata.
Acqua sudorifica.
℞. Radici d’ostruzio, o sia d’imperatoria, petasitide, angelica, carlina, valeriana, ana onc. 2 e mez.; radici d’enula campana, scorze d’aranci secche, ana onc. 3; erbe scordio, assenzio, ana onc. 2; cardo santo onc. 3; fiori di rose rosse mez. onc., di stecade dram. 3; bacche di ginepro onc. 2 e mez.; grani di cardamomo minore dram. 5; cinnamomo eletto onc. 1. Tutte queste cose sieno secche, si tritino insieme e si pestino grossamente in mortaio di pietra, infondendovi poi vino bianco buono mediocre lib. 22, acqua di rose lib. 2. Serrato bene il vaso, stieno per 10 dì in infusione, e dipoi vi si aggiungano queste altre erbe verdi e fresche, tagliate minutamente e pestacchiate, cioè foglie di ruta manip. 6, tanaceto manip. 4, rosmarino, pimpinella, ana manip. 1 e mez. Stieno insieme in infusione per altri 8 o 10 giorni, movendole ogni dì con una bacchetta. Dipoi mettivi dentro sugo di cedro lib. 2. Stieno in infusione per 3 o 4 altri giorni, e poi fatto bollir tutto leggermente al fuoco, si coli, e si sprema gagliardamente nel torchio. La colatura spremuta si distilli [234] in bagno maria, o nella rena, per lambicco di vetro.
Soggiugne l’autore la preparazione d’un estratto dalle fecce nel modo seguente:
Quello che dopo la distillazione resta nel fondo, aggiuntavi acqua di cardo santo, s’ha da colare per carta sorbitrice; e tal colatura s’ha da essiccare a lento fuoco, tanto che giunga a consistenza d’estratto il quale si ha da salvare pel bisogno. Abbiamo dato il nome di Magistrale a questo estratto.
Altri medicamenti per curar la peste. Quali usati ne’ contagi del 1630 e 1656. Canfora commendata assai, e varie composizioni canforate. Solfo, e suoi pregi contro la pestilenza. Bolo armeno, triaca, diascordio, ed altri antidoti o lodati, o riprovati.
Per espugnare l’interno veleno della peste hanno sempre studiato i medici, ma senza trovar finora medicamento alcuno sicuro, specifico ed universale. In difetto di ciò si sono eglino rivolti a prescrivere que’ rimedi che per la loro naturale attitudine sono o paiono contrari ai veleni, ed atti ad impedire o correggere la corruzione, o il troppo o troppo poco moto dei fluidi del corpo umano, e non senza apparenza di aver eglino con ciò aiutata di molto la natura, allorchè ne seguita la sanità degl’infermi. Egli è incredibile, quanta copia di radici, erbe, fiori, frutta, semi, oli, pietre, sali, estratti, siroppi, conserve, conditi, minerali, polveri, [235] elettuari, ecc., ci venga posta davanti nei libri loro col bell’elogio di medicamenti efficaci o mirabili contro la peste, sì semplici come composti. Io non prenderò qui ad esporre, come fa l’Untzero con assai curiosa minutezza, ad una per una tutte l’erbe, radici, frutta, ecc., che servono o si pensa che possano servire contro i morbi pestilenziali. Non crederebbono nè pure gli altri a me, siccome io non credo a tanti discorsi prolissi degli altri intorno alla virtù di sì gran copia di medicamenti. E dopo ancora che avessi riferito tutto, ci resterebbe da imparare a fare il medico (che tale non sono nè pur io) per sapere a chi convengano questi medicamenti, e come s’abbia a mescolare ed usare ora questo ed ora quello; cosa nondimeno anche difficile per i medici stessi, perchè dipendente dal giudizio pratico e dalla prudenza, con la quale, per colpire nel segno, s’hanno da considerare non solamente il mal della peste, ma ancora i sintomi che l’accompagnano, e il temperamento, le forze degl’infermi, ed altre non poche circostanze, dalle quali nascono diverse indicazioni. Mi ristringerò io dunque a notar solamente i primari e più facili de’ medicamenti e rimedi che sono creduti a proposito per guarire, piacendo a Dio, il morbo della pestilenza. E sono principalmente, per quanto ho ricavato da vari autori, gli aromatici e balsamici, de’ quali vien creduto che possano col loro sale volatile oleoso resistere, diciamo così, alla corruzione degli umori; e i diaforetici, o sia sudoriferi, prescritti con intenzione di espellere fuori della cute il veleno pestilenziale, ed aiutar la crisi più salutevole che possa tentar la [236] natura. Hanno pure tra questi alessifarmaci il luogo loro e le lor lodi molti acidi, i quali possono in alcune pesti impedire o levare lo squagliamento e sfibramento degli umori e del sangue, e talvolta ancora, secondo il parere d’alcuni, o col precipitare o col dar tuono alle fibre, contribuire all’operazione del sudore, alla quale dee allora particolarmente mirare la diligenza dei medici.
E primieramente nella peste del 1630, per quanto apparisce dall’Avvertimento stampato allora in Modena, si vede che in molte città fu costume, subito che appariva la vanguardia più ordinaria del morbo contagioso, cioè febbre mista con dolore di capo, il prendere in bevanda alquanto di polvere, creduta cordiale, con un poco di brodo o acqua di scorzonera, ed ungere la regione del cuore con olio del Granduca o del Mattiuolo. Poco dopo si bevea una dramma di triaca o di elettuario del Mattiuolo, distemperata in 6 once dell’acqua suddetta, o in altra simile, per promuovere il sudore, dopo il quale solevano uscire i carboni, o buboni. Il corno di cervo, la terra sigillata e gli occhi di granchio si costumavano ancora con profitto; cose nondimeno che non veggo tenute per rimedi di gran forza contro il ferocissimo assalto della pestilenza. Anzi essendo stato osservato da altri che i coralli, gli occhi di granchio e la creta sono medicamenti che opprimono l’acido e levano l’appetito, perciò vien consigliato che si vada cauto a valersene nelle pesti, le quali pur troppo sogliono indurre inappetenza. Non trovo poi qual altro preciso rimedio giovasse allora, se non era il ben curare i carboni e i buboni; del che parleremo [237] a suo luogo. È bensì notato ivi che tutti gli altri esperimenti contro la febbre pestilenziale di quel tempo riuscivano vani, e che nella forma suddetta quasi tutti cominciarono a guarire; il che però si noti essere stato avvertito solamente nella declinazione della peste, lasciando ciò dubitare che forse nel suo furore anche il mentovato metodo riuscisse inutile, siccome avviene allora di tanti altri medicamenti.
Nel contagio di Roma del 1656 per quanto abbiamo dal cardinal Gastaldi, parve che giovassero le seguenti cose: Cioè, scoperta in alcuno la malattia pestilenziale, ungergli la region del cuore con olio del Mattiuolo o della comunità di Ferrara o del Granduca e simili; dargli prontamente bocconi cordiali di confezion di giacinto, d’alchermes e altri di tal fatta; nel secondo giorno fargli bere sugo di cedro mischiato con acqua triacale e con alquante gocciole di spirito di vitriuolo e con polvere di bolo armeno in brodo o acque distillate di galega, scabbiosa, sonco, scorzonera e simili alessifarmaci. Di più parea salutifero l’applicare i vescicanti nel principio, particolarmente alle gambe. Si osservò ancora giovevole nello stesso ardore della febbre il bere orzate, e spezialmente nel tempo estivo, temperandosi anche la sete col tenere in bocca sal prunello. Bernardino Cristini espone anch’egli il metodo da sè tenuto in medicare nella medesima peste di Roma. Certo farà egli prendere più coraggio a chi subito voglia accomodar la sua fede a quanto egli lasciò scritto nel suo libro intitolato Arcana Riverii. Chi però non crede sì tosto alle magnifiche promesse dei [238] chimici, nè si lascia incantare dai grandi o strani nomi delle cose, anderà lento a fidarsene.
Secondo lui, per medicare allora gl’infetti, non v’era cosa più potente delle confezioni ristorative in forma soda o liquida, prese per bocca, e massimamente giovavano i bezoartici diaforetici, o sia sudoriferi. Prescriveva egli in forma soda il seguente
Antidoto curativo.
℞. Conserva di fiori di borraggine, di rose, di viole, ana mez. onc; fiori di cedro, di pomi medici, di anthos, ana dram. 2; conserva di tutto cedro, radici di tormentilla, d’angelica, bistorta, scorzonera, contrajerva, ana dram. 1; confezion d’alchermes, di giacinto, ana dram. 1 e mez.; unicorno vero, bezoartico animale, corna di cervo, bezoartico solare, joviale, lunare, minerale, ana mezza dram. Mischia insieme, e prendine un cucchiaio per volta cinque o sei volte il dì, come ancor nella notte.
Antidoto curativo in forma liquida.
℞. Acqua di cardo santo, di scorzonera, di ruta capraria, di borraggine, di scordio, di acetosa di rose, di tutto cedro, ana onc. 6; spirito di zolfo, dram. 1; essenza di triaca, di contrajerva, di ginepro, d’angelica, di carlina, di tormentilla, di bistorta, scorze di cedro, elixir vitae, elissire di proprietà, balsamo di vita, balsamo di salute, ana mez. scrup. Mischia insieme, e prendine 2 onc. per volta quattro o cinque volte il dì e altrettante la notte.
[239]
Questi medicamenti, se crediamo all’enfasi del suddetto autore, faceano dei miracoli, richiamando uomini ad una nuova vita; e quantunque possa parere diversamente a molti medici, pure tal sorta di rimedj fra gl’infiniti che furono adoperati, questa dice egli che fu divina. Aggiunge d’aver egli dato ad alcuni infermi con dei bezoartici bolo armeno e terra sigillata che a questo effetto son decantati da molti per mirabili; ma che in quel contagio servivano solamente a far del male, nè mai operavano bene. Ordinava egli per le stanze dei malati, affinchè non s’infettassero anche le camere e case dei sani, alcuni profumi di legni di ginepro, cipresso, incenso, mirra, belzoino, storace calamita e simili. Erano profumi più gagliardi quei ch’egli due volte il giorno adoperava nelle stanze sue e de’ suoi amici, cioè le fecce di regolo antimoniale; ma perciocchè riesce troppo ingrato l’odore solfureo, vi aggiungeva pastelli composti di storace o altri simili grati odori, con che egli e tutti i suoi amici si conservarono sempre sanissimi in mezzo ai lazzeretti.
Passiamo noi innanzi a cose forse più sicure. E primieramente la canfora nella cura della peste è esaltata dal Goclenio, dal Cratone, dal Minderero, dal Sennerlo e da altri per uno de’ più potenti ed efficaci rimedj, e alcuni la tengono quasi il migliore di tutti. Fra gli altri l’Etmullero scrive che la canfora leva la palma a tutti gli altri alessifarmaci nella peste. Certo in lodarla assai s’accordano i migliori medici, considerata la sua qualità e attesi i buoni effetti che ne ha fatto veder la sperienza. Perciò abbiamo dagli autori varj medicamenti, [240] ne’ quali entra la canfora. Il Minderero loda come più utile di tutti i più preziosi bezoartici, purchè non vi sieno dolori gagliardi di capo o di ventricolo, la seguente polvere descritta anche dal Platero e del Diemerbrochio, e commendata dal Follino.
Polvere canforata.
℞. Zucchero candito dram. 3; zenzero bianco dram. 2; canfora dram. 1. Si faccia polvere. La dose è di dram. 1 in liquore conveniente e si beva.
Il Riverio prescrive quest’altra, di cui dice essersi egli felicemente servito.
Altra polvere canforata.
℞. Bezoartico minerale dram. 3; sal prunello dram. 2; canfora dram. 1. Se ne formi polvere e se ne prenda dram. 1 in acqua di cardo santo o altra conveniente.
Il Cratone si valeva d’un elettuario lodato poi come eccellente da altri medici. Eccone la ricetta.
Elettuario canforato.
℞. Scordio dram. 3; tormentilla, dittamo bianco, zedoaria, genziana, angelica, garofanata, ana dram. 1; zafferano, canfora, ana scrup. 2. Polverizzato sottilissimamente si spruzzi con acqua di cardo santo, in cui sieno state disciolte 2 dramme di triaca, e con sciroppo di sugo di cardo si formi elettuario.
[241]
Fu anche dal suddetto Cratone composta e poi lodata da altri la seguente
Polvere canforata.
℞. Radici di tormentilla dram. 3; dittamo bianco dram. 2; osso di cuor di cervo, sandalo rosso, ana dram. 1; canfora scrup. 2. Mischia insieme e fanne polvere. La sua dose è di dram. 1 in liquore conveniente.
Cornelio Gemma formò un altro elettuario canforato con dire d’averne egli e suo padre provato felici effetti.
Altro elettuario canforato.
℞. Canfora part. 1; zenzero bianco part. 2; zucchero rosato part. 4; vino quanto basta. Mescolato tutto ben bene, se ne formi elettuario, e se ne dia una dramma all’infermo per farlo sudare.
Più generoso o almen più composto è questo
Altro elettuario canforato.
℞. Canfora, dittamo eretico, scordio, radici di angelica, di zedoaria, cinnamomo, zenzero, ana dram. 1; noce moscata dram. 2; bolo armeno mez. dram., seme di ruta, macis, zafferano, ana scrup. 1; muschio gran. 7; zucchero bianco, vino odoroso, ana quanto basta. Si formi il tutto a guisa d’oppiata.
Giovanni Poppio disciolta la canfora in aceto ne dava un cucchiaio all’infermo. Giovanni Hartmanno [242] racconta che nella peste del 1611 giovò ad assaissimi la seguente
Acqua canforata.
℞. Spirito di vino ottimo lib. 1; canfora scelta dram. 7 e scrup. 1 per la state, e dram. 10 e scrup. 2 pel verno. Mischia insieme, tritata prima la canfora, la quale si scioglierà tosta sensa fuoco. Appendi in una pezza croco orientale mez. scrup. Lo spirito di vino diverrà di color d’oro. L’acqua si conservi in un vetro capace e non pieno, cioè lasciandone vota la quinta o sesta parte.
Mattia Untzero forma uno spirito triacale con canfora da darne una dramma e mezza o pur due dramme in alquanto d’acqua di cardo santo, per far sudare: il che narra egli essere egregiamente succeduto nella peste di Halla del 1610. Eccone la composizione:
Spirito triacale canforato.
℞. Triaca vecchia onc. 5; mirra rossa onc. 2 e mez.; croco orientale mezz. onc., spirito di vino ottimo onc. 10. Posto tutto in boccia di vetro e sovrapposto lambicco cieco, nel cui becco sieno prima poste dram. 2 di canfora, stia in infusione per 8 dì in luogo caldo; poi si distilli in bagno maria a fuoco lentissimo e ne avrai spirito triacale sottilissimo.
Se vogliam credere al suddetto Untzero, purchè con dram. 5 di questo spirito triacale si mescolino dram. 3 di spirito di tartaro ottimamente rettificato sopra colcothar di vitriuolo, cioè sopra vitriuolo [243] bruciato, e dram. 1 e mez. di vitriuolo, si ha una composizione mirabile, contenente tutti i requisiti per la perfetta cura de’ morbi pestilenziali e superiore a tutti gli altri antidoti contra la pestilenza. Una tal composizione certo sarà da stimarsi; ma l’Untzero fu chimico di professione, e perciò magnifico nelle promesse. L’olio pestilenziale dell’Einisio medico veronese scrivono che facesse delle maraviglie nella peste della sua patria, di maniera che gli fu dopo la morte alzata una statua. Si compone di parti eguali d’olio di canfora, olio di succino, olio di scorze di cedro ben mischiate, con prenderne dieci o quindici gocce, secondo le circostanze. Entra anche la canfora nell’acque triacali e cordiali composte dagli autori contra la pestilenza; ma è tempo di finirla.
Mi sono steso forse più del dovere intorno all’uso della canfora; ma mi dee essere perdonato, perchè son persuaso che veramente possa trarsene gran benefizio in tempi di peste. Solamente è da avvertire col Sennerto che chi è debole di capo o di ventricolo, o ha abborrimento alla canfora, dee medicarsi con altro, e massimamente essendo utile per altre ragioni l’andare allora mutando medicamenti. Di più hanno alcuni avvertito che trattandosi della preservazione i medicamenti o gli odori canforati possono indebolire negli uomini la virtù generativa. Ho veduto impugnata da altri tal opinione, ma dappoichè il Diemerbrochio attesta d’aver egli dovuto medicare varie persone che per l’uso d’essa canfora aveano patito il suddetto difetto, non so se non consigliare a chi ha interesse di conservarsi quella virtù, il valersene per la preservazione [244] con gran riguardo. Per altro quando si tratta d’infermi di peste s’hanno a dar loro liberamente gli antidoti canforati, dovendo maggiormente ad essi premere la conservazion della vita, giacchè la canfora è in questo credito di contribuir cotanto a risanar dalla peste.
Già di sopra abbiam detto essere il solfo per la sua qualità uno de’ più efficaci rimedj contra gli spiriti pestilenziali per preservarsi da loro. Aggiungiamo ora che può il medesimo produrre ottimi effetti anche nella cura di chi già ha contratta la peste, e che tutti gli autori s’accordano in chiamarlo un potente rimedio contra quel morbo, di modo che Paracelso (autore però, il quale non si può negare che non abbia avuto parecchie idee stravaganti) scrive che il solfo e il sale bastano alla cura della peste, nè bisognarvi altri medicamenti. Servono, come abbiam già osservato, i fiori di zolfo per promuovere il sudore; e congiunti con estratto d’enula campana vien creduto che giovino assaissimo; ma più, secondo il parere di alcuni, gioveranno se con esso loro si unirà un poco di triaca e di canfora. Il Sennerto descrive una composizione di questi fiori, dice egli, efficacissima contra la peste; ed altri medici ne commendano fortemente l’uso e la virtù. Ma lo Zvelfero ha più fede al solfo depurato che alla preparazione dei suddetti fiori. Sopra tutto poi vien decantato l’elisire pestilenziale, composto d’essi fiori di zolfo dal Crollio, e predicato per singolare e miracoloso contra il morbo pestilenziale da molti e massimamente dall’Untzero che dice d’averne fatte felicissime prove nella peste del 1610 allorchè tal [245] rimedio veniva preso per tempo nel principio del male, con far sudare due o tre volte. Tanto il Crollio, quanto l’Untzero furono spargirici, e però bisogna andar cauto in prestar loro fede. Tuttavia la qualità degl’ingredienti basta essa sola ad accreditare di molto questa composizione. Così fosse ella men faticosa e meno astrusa per la manipolazione, onde potessero parteciparne i più del popolo. Si fa nella seguente forma:
Elisire pestilenziale del Crollio.
℞. Fiori di solfo preparati spargiricamente onc. 3. Mettivi sopra olio di bacche di ginepro rettificato in bagno, tanto che vi stia sopra all’altezza di tre o quattro dita. Aggiungi olio di succino tre volte rettificato in bagno, e sia tanto come la quarta parte dell’olio di ginepro. Stieno insieme in fuoco di ceneri o di rena, movendoli spesso, acciocchè i fiori senza bruciarsi si sciolgano e diventino liquidi. Poscia
℞. Triaca di Venezia lib. 1, da cui con ottimo spirito di vino estrarrai la tintura, la quale separata dallo spirito di vino serberai in disparte. Estrarrai col medesimo spirito tintura di radici d’elenio, angelica, bacche di ginepro pestate, ana onc. 3. Presa questa tintura separata in bagno dallo spirito di vino, la mescolerai colla tintura della triaca, e vi metterai sopra gli olj di ginepro e d’ambra uniti co’ fiori di zolfo, e filtrati prima per carta sorbitrice; poi lascerai per 14 giorni sopra lentissimo calore di ceneri tutta la composizione, dimenandola di quando in quando.
[246]
La dose per la preservazione è di una o due gocciole in vino o aceto ogni mattina, o pure in cadauna settimana 8 o pur 10 gocciole a digiuno, aspettando il sudore. Chi è preso dalla peste, subito nel principio ne prenda da uno o due scrupoli in vino o aceto di ruta o altro conveniente liquore, e sudi.
Il bolo armeno vien descritto da Galeno per un singolare antidoto contra la peste, preso in un bicchier di vino bianco mediocre. Il Cristini, siccome vedemmo, sente diversamente; ma quasi tutti gli altri medici s’accordano in ciò con Galeno, aggiungendo ancora non pochi d’averne scorto colla sperienza buon effetto. Le qualità d’una peste, diverse per lo più da quelle dell’altre, possono esser cagione che in una non riesca ciò che si provò per utile in un’altra. Molto poi più sono da stimare quegli altri due nobili e certo antichissimi antidoti, cioè la triaca d’Andromaco e il mitridato di Damocrate, le virtù de’ quali contra i veleni e contra quello ancor della peste, hanno già conseguita dal consenso di molti scrittori e dalla sperienza di tanti secoli una competente approvazione, essendosi trovato aver essi già fatto dei miracoli, ma giovato più in tali casi che innumerabili altri medicamenti, esaltati con gran bocca da chi cerca il bel titolo d’inventore e di autore, col proporre nuove ricette e screditar le antiche. Presi questi antidoti discretamente, e con varj riguardi all’età e qualità delle persone, servono o vien creduto che servano mercè della qualità dei loro ingredienti atta non meno a difendere dalla malignità degli spiriti velenosi e dalla corruzione, [247] le viscere e gli umori del corpo umano; che ad espellere per li pori della cute colla lor qualità sudorifica il veleno stesso della pestilenza. L’elettuario dell’uovo, la triaca del Monavio ed altre nuove triache di varj autori, vengono anch’esse predicate per molto utili ne’ casi di pestilenza; e quantunque non manchino valentuomini che antepongano loro di molto la triaca ordinaria e il mitridato suddetti, nulladimeno potrà esserne giovevole l’uso. Il Sennerto rapporta un medicamento composto dal celebre Ticone Brac (se però è vero) di triaca, fiori di zolfo, ecc.; ma per essere troppo prolisso e non facile a manipolarsi, io il tralascio con tutte le sue lodi. Così l’antidoto magno, o sia elettuario del Mattiuolo, se noi vorremo ascoltare una gran folla di medici è anch’esso un rimedio felicissimo contra la peste. Alcuni altri non lo stimano tanto, non bastando i grandi epiteti dei lodatori per far che sia veramente grande la virtù d’un medicamento, siccome non basta un’eterna filza d’ingredienti a formare un antidoto di mirabil efficacia, e tanto più perchè non è peranche deciso che molti ingredienti non perdano la lor forza e virtù, ammassati con tanti altri e non possano con ciò diventare anche nocivi. Quell’antidoto è quasi il compendio d’un’intiera spezieria. I moderni si servono più volentieri di medicamenti semplici che composti, per quanto possono. Contuttociò io non vieto, nè biasimo ad alcuno il seguire ancor qui la corrente, e valersi di quell’elettuario con isperanza di frutto. Il diascordio bensì del Fracastoro (la cui dose è di prenderne in bevanda dram. 1 con sugo d’acetosella onc. 2, [248] sugo di cedro onc. 1, specie cordiali di gemme scrup. 2, aceto onc. 1, mischiando tutto) vien comunemente dai medici di maggior reputazione creduto e predicato per un insigne antidoto contra la peste, perchè è concorsa la sperienza ad accreditarlo per tale. Il Minderero, che ne fa de’ grandi elogi, e sperimentollo con felicità nel contagio de’ suoi giorni, stima che per le persone delicate, come i fanciulli e per le donne gravide, sia il diascordio medicamento anche più sicuro della triaca e del mitridato, siccome men calido d’essi. Debbo nondimeno avvertire che nel contagio di Palermo del 1624, 1625 e 1626 fu provato per esperienza che gli appestati guarivano più facilmente con cose rinfrescative, come cucuzze lunghe, latte, sugo di limoni, ecc., che con triache ed altre robe di sostanza ed aromatiche. Forse nel clima caldo della Sicilia saranno riusciti giovevoli tali rimedj che in altri poi non riusciranno; o pure noi crediam troppo a certi strepitosi antidoti composti, e perciò trascuriamo i semplici, che talora sono i migliori, e non badiamo ad altri metodi forse più utili. Certo il P. Filiberto Marchino attesta anch’egli che il metodo suddetto di Palermo riuscì più giovevole nella peste di Firenze del 1630. I saggi medici ne faranno le prove ne’ tempi di bisogno.
Oltre all’acqua triacale del Diemerbrochio, descritta nell’antecedente capitolo e da lui celebrata assaissimo per gli effetti da lui osservati in valersene durante la peste del suo tempo, si leggono nei libri di medicina oltre acque triacali, bezoartiche e cordiali del Sassonia, del Sennerto, del Porzio, del Quercetano, del Langio, del Bauderon, [249] del Mattiuolo, del Platero, ecc., che tutte possono probabilmente servire, siccome ancora varj altri decotti, estratti, aceti bezoartici, apozemi, quintessenze, ecc., riferiti dall’Untzero, dal Diemerbrochio e da altri. Non la finirei mai, se volessi copiarli tutti e massimamente quei recipe che empiono le facciate de’ libri e danno da faticar ben bene agli speziali. Mi basterà di rapportarne solamente quattro altri, lodati non poco dai professori della presente materia. Il primo è una bevanda, la quale per attestato del cardinal Gastaldi giovò assaissimo nella pestilenza di Roma.
Bevanda antipestilenziale.
℞. Radici di carlina, zedoaria, angelica, scordio, dittamo cretico, scorzonera, cinnamomo, croco orientale, ana dram. 1; mirra, mastice, aloè socotrino, ana mez. dram. Facciasi polvere di tutto, la cui dose è una dramma con un’oncia di sciroppo di limoni e 3 onc. d’acqua di acetosa. Si prenda prima del sonno, essendo attissima a liberar dalla peste.
Decotto antipestilenziale.
℞. Radici di calendola, di elenio, fiori di ruta, di nepeta, di nasturzio acquatico, ana onc. 1 e mez.; radici di aristolochia fabacea onc. 1; occhi di granchio onc. 1 e mez., aceto comune di vino buono lib. 8. Si cuoca tutto, finchè se ne consumi la metà. Colato il sugo aggiungivi onc. 1 e mez. di triaca e mischia insieme. Se ne dia un buon bicchiero all’infermo, e sudi.
[250]
Aceto di Paolo Barbetta.
℞. Radici d’angelica, zedoaria, ana onc. 1; di petasitide onc. 2; foglie di ruta, di melissa, scabbiosa, fiori di calendola, ana onc. 2; noci immature tritate lib. 2; pomi di cedro freschi e tritati lib. 1. Pesta tutto insieme, e dipoi mettivi sopra aceto ottimo sino a tre quarti. Fa digestione in boccia di vetro nella rena, e poi distilla a fuoco lento sino a seccarsi, ma non a bruciarsi. Adopera questo aceto per preservativo. Che se fossi sorpreso dalla peste, allora congiungi diascordio scrup. 4; sal prunello scrup. 1; assenzio mez. scrup.; aceto suddetto, acqua di cardo santo, sciroppo di berberi, ana onc. 1. Bevi, e suda.
Condito del medesimo autore.
℞. Radici di contrajerva mez. onc., di petasitide, tormentilla, enula campana, ana dram. 2; terra sigillata, bolo armeno, ana dram. 3; polvere di corno di cervo, d’avorio, ana dram. 1; coralli rossi preparati scrupol. 4; cinnamomo acuto, dram. 2; antimonio diaforetico mez. onc. Formane condito. Per la cura prendine scrup. 1, e aggiungi tartaro vitriolato gran. 8; sale di coralli gran. 15; confezione d’alchermes mez. dram.; aceto descritto qui sopra onc. 1 e mez.; acqua di ruta quanto basta. Bevi e suda.
Il croco, o sia zafferano, può aver qualche adito ne’ rimedj antipestilenziali; ma non è da usare se non con gran parsimonia, perchè può offendere il [251] capo, e per altro non se n’è veduto mai gran profitto. Il bere l’urina propria è stato creduto in alcuni paesi per efficace rimedio; ma le prove non l’hanno mai autenticato per tale. È stata bensì da non pochi usata e predicata anche per eccellente antidoto nella peste la pietra bezoar; e gli encomj suoi non son leggieri anche per questo conto. Ma il Sassonia, il Minderero, il Cratone, il Diemerbrochio ed altri sostengono esser ben utile questa pietra per altri morbi maligni, ma non già per quello della pestilenza; anzi asseriscono eglino di non averne mai veduto alcun buon effetto, e che si trovarono troppo burlati coloro che nel principio del male si confidarono nel solo bezoar: il perchè non ne fecero più essi medici capitale per quei tempi e mali. In Firenze l’anno 1630 morì chiunque ne prese a riserva d’un solo che si ridusse in malissimo stato. Le confezioni di alchermes e di giacinto son lodate in tempi di peste, e veggendole io usate da’ medici men creduli, penso che possa aversene qualche stima, avvertendo solo che sieno preparate senza muschio, il quale nuoce regolarmente agli appestati. Altri antidoti, ove entra polvere di smeraldo, di zaffiro e d’altre gemme, hanno gran credito presso alcuni medici; ne han poco o nulla presso altri e probabilmente con più ragione. Non è men controversa la virtù dell’unicorno e de’ medicamenti viperati, ove si tratti di domar la peste. Al sapersi però che questi ultimi in tanti altri mali son rimedj assai valorosi, pare che per la peste ancora meritino riflessione, e tanto più, perchè col loro sal volatile possono aiutare ai sudore. Del corno di [252] cervo particolarmente bruciato o filosoficamente calcinato, leggo io presso alcuni di gran lodi anche per guarire il morbo pestilenziale; ma non veggo poi che tali encomj s’accordino colla sperienza d’altri. Oltre di che, quando il corno suddetto sia bruciato o dai vapori dell’acqua calcinato, sembra ch’esso non abbia d’avere maggior virtù che altri alcalici per assorbire, come essi dicono, le particelle velenose, ed impedire i flussi e tormini del ventre. In fine non convien credere sì facilmente ai chimici, e nè pure ad alcuni medici per altro insigni, allorchè s’empiono la bocca delle lodi di questo medicamento (lo stesso è di altri antidoti cari a loro, o da loro inventati per la peste) perciocchè altri autori ci avvisano essere la virtù sua contra il fermento pestilenziale di gran lunga minore di quel che corre la fama; e per conseguente non doversi contentare di lui solo. Se io non vo citando gli autori, non è già ch’io non gli abbia prima consultati. Alcune composizioni mediche fatte col corno di cervo e stimate potenti contra la peste, saran forse tali non per la sua, ma per la virtù d’altri ingredienti.
Veggo convenire i medici nell’asserire per utili in tal occasione i sali di varie erbe e massimamente quei di ruta, d’artemisia, discordio e di scabbiosa; ma più d’ogn’altro il sale di cardo santo e quel d’assenzio. Certo l’erbe stesse per parere di tutti hanno delle qualità sommamente correttive del veleno pestilenziale. Da alcuni è creduto che non sieno di men profitto che la triaca stessa contra la peste le bacche di ginepro, le quali perciò son chiamate triaca de’ Tedeschi, allorchè se [253] ne fa estratto e se ne cava il rob, cioè il sugo inspissito. Il P. Marchino scrive che la controyerva o sia contrajerva a noi portata dalle Indie, si provò nella peste di Firenze del 1630 pel più salutare di tutti i rimedj. Ridotta in polvere si prendeva con qualche acqua creduta cordiale, o di cedro o di scorzonera; o pure distillata riusciva meglio. Presa tre o quattro volte dall’infermo, se ne vedeano mirabili effetti, mentre per sudori ed orine si scaricava la natura. Per parere d’altri è moltissimo da stimare ed usare allora l’olio di vitriuolo. La sua singolar possanza in conservare mercè del suo sanissimo acido i corpi ed umori dalla corruzione è attestata dal Sassonia, dal Mercuriale, dal Mattiuolo, dall’Augenio, dal Diemerbrochio e da assaissimi altri, di modo che stima il Minderero con altri che se venisse impedito l’uso dei medicamenti vitriolati, si resterebbe senz’armi per curare la peste. Se ne guardino però gli asmatici e gli altri che patiscono mali di petto, di reni o di vescica. Contra la peste uno de’ più famosi ed accreditati rimedj si è l’olio di scorpioni o sia olio del Mattiuolo, che preparato diversamente si chiama anche olio del Granduca. Non solamente serve a preservare dalla pestilenza, ma ancora alla cura della medesima, bagnando con esso i polsi delle tempie, mani e piedi e la region del cuore, ed anche le parti circonvicine ai buboni. È comune sentenza che quest’olio e nel morbo pestilenziale e in altri participanti di veleno, possa produrre e produca de’ mirabili effetti. Il punto sta ad averne del ben preparato e del non finto dall’avarizia e poca coscienza d’alcuni. La sua ricetta è notissima [254] agli speziali, e si legge in varj libri. Il Rondinelli nella descrizion della peste di Firenze del 1630 e 1631 avvertì che sopra tutti gli altri antidoti avea giovato la triaca e l’olio contra veleni del Granduca, co’ quali due rimedj soli molti guarirono, e dove era la febbre non troppo ardente, l’averne dato dodici o quindici gocciole per bocca su lo sciroppo, riuscì con ottimo successo, essendo periti pochissimi di coloro che il presero. E questo basti intorno agli antidoti pestilenziali. Poco importerebbe e pochissimo gioverebbe ai più dei lettori, se volessi adunar le sentenze de’ medici intorno a tanti altri semplici e composti che son descritti come antipestilenziali, ma che non si saprebbe come o quando avessero da usarsi. Quanto più fosse il numero de’ medicamenti, tanto più sarebbono alcuni intrigati a scegliere. Convien dunque contentarsi di quelli che son creduti i migliori, e che mi sono ingegnato anch’io di raccogliere o di accennare in questa mia operetta. E mi si perdoni se ho voluto più tosto sovrabbondare in ciò, che scarseggiare, poichè non tutti hanno libri di queste materie alle mani, e può esser utile il conoscere ed aver pronte molte armi diverse per tentare di far fronte a sì gagliardo e sì strano nemico.
[255]
Metodo da tenersi nel curar gl’infetti. Sudoriferi rimedio creduto il più utile degli altri. Aforismi intorno ai sudori, e maniera di far sudare. Camere degl’infermi come s’abbiano a custodire. Quai cibi e bevande loro convengano.
Veniamo ora al metodo tenuto dai migliori medici nella cura degli appestati. Sogliono precedere in qualsivoglia peste alcuni sintomi, indicanti che uno sia già stato preso dal male. Tali sono dolori acuti di capo, vertigini, vomiti, abbattimenti di forze, una fiera ansietà, rosseggiamento d’occhi, sonnolenza, febbre, ecc., riuscendo in ciò molto diverse l’una dall’altra le pestilenze, ma riuscendo anche facile in cadauna l’accorgersene dall’esempio degli altri. Appena dunque si ha un giusto sospetto o una chiara cognizione di aver contratto il morbo, debbono il più presto che sia possibile le persone infette ricorrere all’ajuto di qualche buon sudorifero, mettendosi in letto ben coperti e procurando di promuovere il sudore. Quanto più tardi si darà di piglio a questo rimedio, tanto più difficile sarà il superar l’infezione; siccome all’incontro quanto più presto, tanto più agevolmente si potrà vincere l’interno nemico, purchè non sia di quei terribilissimi che in poche ore affogano la fiamma vitale e fanno cader morte all’improvviso le persone, come in alcune pesti è accaduto. Il perchè dee ben procurarsi di non perdere tempo, ma di venire ai sudoriferi, prima che le particelle pestilenziali abbiano onninamente infettati i fluidi e [256] dissipati gli spiriti salutevoli, e in tempo che la natura non peranche abbattuta fa i suoi sforzi per cacciar fuori il veleno; altrimenti a poco o a nulla servirebbe poi la virtù delle medicine. Al che riflettendo anche l’Ippocrate dei latini, voglio dir Celso, in proposito della peste lasciò così scritto: Quo celerius ejusmodi tempestates corripiunt, eo maturius auxilia, etiam cum quadam temeritate, rapienda sunt.
I sudori dunque per quanto abbiamo dalla sperienza, o spontanei, o provocati sollecitamente con antidoti antipestilenziali, son creduti un potentissimo rimedio, anzi il migliore di tutti contra il morbo della peste, e forse non si troverà contagio, in cui i sudoriferi non sieno stati di giovamento, in tanto che infiniti esempj han fatto conoscere che pochissimi senza sudare e moltissimi all’incontro col sudare sono scampati da quel fierissimo tossico. Vero è che muoiono allora anche persone che pure son ricorse ai sudoriferi; ma può essere che alcuni d’essi vi sieno ricorsi troppo tardi; o che la loro immaginazione o soverchia paura gli abbia, malgrado i medicamenti, strascinati alla morte; o che sopra la loro malsana costituzione abbiano preso tal possesso i cattivi afflati del veleno che non sia rimasto campo all’operazion degli antidoti. Perciò, a riserva d’alcuni pochi medici, che forse son di coloro, i quali non altronde cercano gloria fuorchè dall’impugnare coi loro acuti raziocinj, ma non già colla sperienza alla mano, le sentenze degli altri: comune parere dei medici e spezialmente dei più accreditati, si è che speditamente si ha da far sudare chiunque è ferito [257] dal morbo, e che da questo più che da altri rimedj si può sperar la salute. Quasi tutti gli antidoti da me rapportati ne’ due capi antecedenti hanno questa mira. Si noti pertanto che non facendo i sudoriferi idonei sudare, per lo più morranno quegl’infermi. Dove è sudore spontaneo più copioso, ivi è maggiore speranza di salute. Provocato esso ancora con medicamenti diaforetici e temperanti l’acrimonia del veleno pestilente, fa molto sperare. Per lo più esce fetente; e tal fetore può essere che sia dispiacevole al malato, ma non si sa che punto gli riesca dannoso. Allorchè l’infermo suda, il dormire sarebbe per lui nocivissimo (il che però parrà strano ad alcuni che veggono diversamente succedere in altre febbri); e però se ne guardi ben egli con gran premura, e se non altro, abbia d’intorno chi colle parole, o in altra guisa il tenga svegliato. Gioverà per tener lontano il sonno l’odore dell’aceto semplice o rosato, accostando alle narici una spugna o pezza bagnata in esso. Chi prima d’aver finito di sudare la seconda volta dorme, s’è osservato esserglisi talmente sminuite le forze che più non le ricuperò; e pochissimi si salvarono di quei che dormirono nel primo sudore. E qui mi sovviene d’aver lodato per sudoriferi la triaca, il diascordio ed altri oppiati, che pure incitano al sonno; perciò chi non avesse buoni svegliarini appresso, pensi se abbia da ricorrere a sudoriferi tali. Appresso si badi che il malato non sudi più di due o tre, o al più quattro ore, avuto riguardo alle forze maggiori o minori del corpo suo. E perciocchè dall’un canto non si può di meno che il sudore non debiliti, e [258] sarebbe dall’altro di sommo pregiudizio, se restassero abbattute le forze dell’infermo, appena finito il tempo di sudare ed ancora, occorrendo, durante la sudatura, egli si dee rifocillare e corroborare con odori confortativi o con acque o bocconi cordiali, e con vino generoso o in altra guisa. I medici suggeriscono alcune compositioni utili a questo effetto, perchè composte d’ingredienti che resistono alla malignità, ed eccone un saggio:
Condito corroborativo.
℞. Scorze di melaranci condite, miva di cotogni, rob di ribes rossi, ana dram. 5; polvere liberante dram. 1, magisterio di perle, confezion di giacinto, ana scrup. 2; sciroppo di limoni quanto basta: formane condito.
Bevanda ristorativa.
℞. Acqua di rose odorosissima, di acetosa, ana onc. 8; aceto di rovo ideo, aceto rosato, ana onc. 6; vin bianco odoroso lib. 1; sciroppo di limoni, giulebbe rosato, ana onc. 2; scorze di cedro esteriori fresche, minutamente tagliate onc. 1 e mez. Tutto mischiato stia in vaso di vetro, tanto che tiri ben l’odore delle scorze di cedro, e se ne diano all’infermo dopo il sudore onc. 5 ovvero 6.
[259]
Acqua ristorativa.
℞. Scorze di cedri fresche, esteriori e ben nettate dalla polpa. Bagnate con sugo di pomi, acqua rosata e vino malvatico; poi cavane secondo l’arte il liquore, che resiste alla peste, e rimette egregiamente le forze del cuore.
Sciroppo confortativo.
℞. Vino di granati acidi onc. 4; sciroppo di sugo d’acetosa onc. 3; di limoni onc. 2; di sugo di cicoria, d’agresta, ana onc. 1; giulebbe rosato onc. 1 e mez.; olio di vitriuolo quanto basta per un acido giocondo. Mischia insieme, e prendine ad ogni due ore un’oncia e mez., o mescolandovi qualche acqua cotta, formane un giulebbe da estinguer la sete.
È creduto da’ più saggi un grande errore il negar da bere o brodo caldo, o acque calde ai malati allorchè sudano, ed anche allorchè il sudore non vuol uscire, lasciando che i miseri si tormentino, e venga loro deliquio per mancanza d’umidità. Una bevanda calda e moderata fa più facilmente sudare. Se l’acqua fresca possa anch’ella convenire nel sudar che fanno gli appestati, siccome certo conviene in altre febbri, io nol trovo, nè oso determinarlo.
Quando il sudore uscisse difficilmente, consigliano alcuni che si applichi ai piedi, alle ascelle e all’anguinaia qualche sacchetto di tela di lino pieno di rena secca riscaldata, che questo aiuterà. [260] Se il malato rigettasse col vomito i sudoriferi, si replichino due e anche tre volte; o pure in vece di bevanda se gli diano bocconi o polveri sudorifere, come sarebbe triaca, diascordio, ana scrup. 1 e mez., sale di scordio mez. scrup., olio di vitriuolo goc. 5. Mischia insieme e fanne un boccone, a cui si può aggiugnere ancora qualche grano di bezoar orientale, o scrup. 1 di confezione di giacinto senza muschio, ecc. O pure se gli dia polvere liberante scrup. 1, bezoar orientale mez. scrup., canfora gran. 2, ovvero 3, formandone polvere. Il Sydenham osservò che appena promosso alquanto il sudore, cessava la nausea; e però a chi rigettava i sudoriferi, consigliava il procurar di sudare alquanto a forza di coperte; ed appena bagnati da un poco di sudore, porgeva loro triaca, o altri sudoriferi, che erano poi molto ben ritenuti, e faceano buon effetto. Alcuni lodano il mutare spesso le camice e le lenzuola degl’infermi nel sudare e dopo aver sudato; ma altri, come il Diemerbrochio e il Barbetta, hanno osservato che i panni freschi di bucato, ed anche i chiusi lungo tempo nelle casse, sono di sommo nocumento, e a ciò attribuiscono il peggioramento, anzi la morte d’alcuni infermi. Per questo consigliano essi l’adoperar panni lini o tovaglie scaldate per asciugare il sudore, o pure il mutarsi con camice e lenzuola prima adoperate da altri; aggiungendo che il fetente sudore degli appestati loro non è punto nocivo. Io non so se così riuscirà in altre pesti; ma non sel dimentichino i medici e i lettori. Abbiamo detto altrove che il sapone e il ranno o sia lisciva, in tempi di peste [261] si sono osservati nocivi. Participando della loro qualità i panni di bucato, non sarebbe da maravigliarsi che nocessero anch’essi. Crederei nulladimeno che si potesse rimediarvi con far prima profumare tali biancherie con solfo, mirra, o altro odore antipestilenziale e distruttivo o correttivo de’ sali lisciviali. Se non sente il malato dopo il primo sudore alleviamento, ma cresce il male, dopo alcune poche ore si ripeta, e poi si torni a ripetere il sudorifero, non dovendosi per questo desistere dagli antidoti, nè perdere il coraggio. Se dopo il secondo sudore la febbre con gli altri sintomi cresce, è pessimo segno; siccome all’incontro il sollievo suo e la diminuzione dei sintomi dopo il primo o secondo sudore, suol dare grande speranza di salute. Dopo dieci o dodici ore, e ne’ dì seguenti anche per quattro o cinque volte, secondo il bisogno, si potranno ripetere i sudoriferi. Il Barbetta loda il dare due ed anche tre volte il giorno i sudoriferi, e crede meglio il non ammettere indugio. Nelle ore frapposte si facciano pigliare all’infermo vari antidoti antipestilenziali, che anch’essi è creduto che spingano la malignità dal centro alla circonferenza. Il sudor freddo, e massimamente se grosso e vischioso, dà indizio di cattivo stato. Venendo esso poi caldo, vi resterà da sperare per l’infermo. L’esporsi dopo il sudore all’aria o al freddo, non andrà sì di leggieri esente da un gran precipizio. Dopo tali osservazioni gioverà avvertire che il sopra mentovato Sydenham riprova forte l’interrompere i sudori per paura che i malati perdano le forze, mentre quando sudano, allora eglino si sentono in vigore meglio di [262] prima. Però egli usava di far continuare il sudore per 24 ore agl’infermi, nè voleva che si asciugassero punto, nè che mutassero camicia, anzi nè pure permetteva che questa si levasse finito il sudore, desiderando ch’ella si seccasse in dosso al malato. Imperocchè dice d’aver colla sperienza conosciuto che promovendo il sudore per sole poche ore, i sintomi dipoi tornano crudi come prima, e resta di nuovo in pericolo la vita dell’infermo, che sarebbe in salvo mediante una sudata più prolissa. Che quanto più sudavano le persone, tanto più crescevano loro le forze. Osservò ancora più volte che verso le ultime ore del sudare soleva uscire un sudore più naturale e copioso di quel primo che era tirato fuori a forza di medicamenti. Però potersi dare a chi suda brodi ed altri liquori confortativi, se ne avessero bisogno; e se verso il fine paresse che venissero meno, si dia loro un uovo da sorbire, o brodo caldo, o altro liquore congiunto a cordiali e a sudoriferi, come sarebbe sythogala alterata dalla salvia, per continuare il sudore. Finalmente dice che questo metodo gli riusciva utilissimo, avendo guarito moltissimi appestati, e che dopo averlo trovato non gliene morì alcuno. Sarà cura dei medici il farne la prova. A me basta d’averlo notato. Aggiungo che nel Ferrarese l’anno 1630, siccome abbiamo dalle Memorie stampate di quella città, fu provato che il sudare in eccesso fu il migliore d’ogni rimedio, laonde chi ebbe forze sufficienti si salvò.
Si tengano poi ben pulite e nette le stanze degl’infermi, e ne’ primi tre o quattro dì ben chiuse [263] (se così richiedesse il tempo) affinchè gli umori maligni possano uscire o per sudore, o per insensibil traspirazione, nè vengano serrati i pori dal freddo. Ma se il vomito, la diarrea, o altra cagione di fetore vi fosse, allora converrà per un quarto d’ora, ed una o due volte il dì, aprir qualche finestra verso settentrione o verso oriente, per dissipare la puzza. Ne’ tempi freddi si tenga continuamente ivi acceso il fuoco, diminuendolo secondochè diminuisce il freddo; e ne’ tempi caldi si lasci affatto il fuoco, e in sua vece si spargano per la camera foglie di ninfea, pimpinella, ed altre erbe odorose refrigeranti immerse in aceto non caldo. Tre o quattro fiate ciascun giorno si facciano profumi per le stanze. Finiti i tempi di sudare, potranno i malati dormire, ma con moderazione scrupolosa.
Dopo l’uso de’ sudoriferi, che avanti ad ogni altra cosa si hanno da adoperare nel principio dell’infezione, bisogna attendere a cibare e cibar bene gl’infetti. Non è questo come alcuni altri morbi. Qui si fa una gran dissipazione e corruzione di spiriti vitali; e però bisogna rimetterli, e si debbono anche sforzare allora gl’infermi a prender cibo. Chi patisce inedia allora, dà segno d’essere spedito. Conobbero ciò anche i medici antichi; anzi Ippocrate, Galeno ed Avicenna scrivono che solamente o più facilmente guariva nelle pesti chi più valorosamente mangiava e beveva. Credo nulladimeno che tutti intendano non doversi empiere spropositatamente il sacco, perchè gli eccessi sono sempre eccessi. Buon consiglio pertanto sarà il prendere allora (eccetto che nei [264] due o tre primi giorni) il vitto con mano liberale. I cibi sieno di buon sugo, e facili a digerire, come il lesso, i brodi, e cose simili, astenendosi da tutti i pesci e da tutte le carni salate, o di porco, o molto calide, quando la necessità altrimenti non vi costringa. Ai cibi stessi gioverà aggiugnere qualche acido sano, che non solo svegli o mantenga l’appetito ai malati, ma anche resista alla putredine e alla malignità del veleno. Tali sono i sughi de’ limoni, cedri ed aranci, e l’aceto semplice, o pure rosato, o calendolato, co’ quali sarà bene andar condendo i cibi. Vengono massimamente stimati dal concorde giudizio dei medici i cedri, e credo ancora i limoni, per la loro forza antidotale, e tanto il sugo quanto i semi e la scorza loro, e specialmente l’esteriore gialla. Tagliati dunque in fette questi agrumi, possono cuocersi coi cibi, e il sugo loro mischiarsi con le bevande. Similmente saranno utili i brodi di carne bollita con acetosa, pimpinella, borraggine, melissa, radici di petrosemolo, ribes rossi, marene, cedri, limoni, aranci, cotogni, ed altre simili cose. Coi cibi non si mescoli triaca, nè altra materia disgustosa, per non far prendere loro abborrimento dai malati. Fra i medici è gran disputa se convenga e sia giovevole l’acqua in sì fatto morbo. Gli antichi tengono di sì; buona parte de’ moderni inclina al contrario. I neutrali tengono per utile la medesima, purchè sia purissima ed ottima, come appunto sono le ammirabili fontane della nostra città, celebrate dal chiarissimo nostro Ramazzini, e purchè se ne beva con parsimonia, giovando ancora l’aggiungervi un poco di sugo di [265] cedro o limone. Non è minore fra i medici la lite se abbia a permettersi o negarsi il vino agl’infermi di pestilenza. I più saggi tengono ch’esso allora giovi, purchè di buon odore, brusco, leggiero o inacquato, e purchè moderatamente preso, e purchè non vi sia delirio o grande infiammazione. Certo la sperienza concorre ad accreditarlo nelle infermità di peste anche per un gran medicamento; e il Minderero, il Riverio, Zacuto Portoghese ne contano degli ottimi successi. Se non mancano medici che ancora in altre febbri hanno permesso l’uso moderato del vino, dicendo d’aver eglino fatto più felici e numerose cure con tal metodo, e con cibare di buoni cibi gl’infermi, che non faceano altri ai nemici di questo liquore; quanto più converrà esso nella peste, ove certo è da osservarsi che mirabilmente si ricreano gli spiriti e si ristorano le forze dei malati? Ma in Firenze si attribuì all’aver bevuto di soppiatto un po’ di vino l’essere alcuni poche ore appresso mancati di vita. Ma nè pur questa è sperienza sicura. Certo è bensì aver usato alcuni in qualche città, allorchè ai sentivano presi dalla peste, di correre ad ubbriacarsi con del buon vino, credendolo un valoroso antidoto; ma a quasi tutti è costato la vita questo spropositato ripiego. Altre bevande, acque stillate, giulebbi, conserve, ecc., sono insegnate qui dai medici. Io non credo necessario il riferirne di più.
[266]
Buboni, carboni e petecchie; sintomi ordinari di questo morbo. Pronostici intorno ai buboni. Tre maniere di curarli. Più sicura dell’altre quella di condurli alla suppurazione. Vari empiastri utili o efficaci per maturar buboni. Metodo e medicamenti vari per finirne la cura. Uso dei vescicanti.
Allorchè il veleno pestifero co’ suoi sottilissimi spiriti, che facilmente si diffondono per l’aria, è penetrato ne’ corpi umani, regolarmente la natura pare che si sforzi di scaricarsene con tramandarli alla cute. S’ella è sì debole da non poter condurlo colà o da per sè, o aiutata dai sudoriferi o dagli antidoti antipestilenziali, il caso è spedito per l’ordinario. Tramandandolo, nasce una giusta speranza di guarigione; e tanto maggiore sarà cotale speranza, quante più gagliarda sarà la natura del corpo infetto, essendosi, come dicemmo di sopra, osservato che non pochi sono talvolta guariti anche senza medicamenti, e per valore della sola benefica loro natura. Uscito dunque sul principio il sudore, o spontaneo, o procurato dai diaforetici, non di rado restano liberi gl’infermi, quando il veleno sia debole, uscendo le sue particelle per i pori. Ma quando ciò non succeda, è solita la natura prorompere fuori in tre altre guise, cioè o coi buboni, o coi carboni, o colle petecchie. Potrebbe qui mettersi in disputa se tali tumori e macchie sieno critiche separazioni ed industriose espulsioni [267] della natura, o pure scarichi solamente sintomatici fatti da una fissazione o stravasazione d’umori o di sangue nelle glandole o tra le fibre dei muscoli, con medicare i quali non si possa propriamente levar via il male, essendone essi un effetto e non la cagione. Ma non volendo, nè dovendo io metter bocca in tali quistioni, chiederò qui licenza di potermi valere, occorrendo, delle espressioni o degli antichi o de’ moderni, e di credere che i carboni e le petecchie sieno un segno funesto della gravezza del male, che per lo più conduce alla morte; e che i buboni possano essere una separazione fatta consigliatamente dalla natura, la quale voglia valersi degli emuntorj per isbrigarsi dai sali pestilenziali. Che che però ne sia, parleremo ora di questi ultimi tumori, che, secondo la differenza delle glandole, buboni e parotidi vengono chiamati, e presso il volgo hanno anche il nome di ghiandusse. Vengono essi o sotto le fauci e gli orecchi, o sotto le ascelle, o all’anguinaia; e la lor cura principalmente spetta ai cerusici, troppo necessari in tali congiunture, non dovendosi però disperare alcuno, quand’anche manchi l’aiuto d’essi, perchè non pochi si fanno medicare da’ parenti ed amici, ed anche possono talvolta medicarsi da sè stessi; anzi ad alcuno è accaduto che i buboni senza suppurazione (venire a cò il chiamano i nostri popolari) sieno spontaneamente svaniti con loro salute.
Notinsi dunque i seguenti pronostici lasciati a noi dal Diemerbrochio e dal Barbetta, che però, siccome fondati in non molte pesti, potrebbe darsi caso che a puntino non confrontassero con altre, [268] non essendo per l’ordinario gli stessi i sintomi di tutti i contagi. — 1.º Quanto più presto escono i buboni pestilenziali, tanto più sogliono dare speranza di salute, mostrando una tal prontezza che c’è gagliardia nella natura. 2.º Maggiormente si avrà da sperare se usciranno senza febbre; e tutto il contrario se dopo la febbre, e molto più se dopo gran febbre. 3.º Quando i predetti tumori, e specialmente i nati sotto le orecchie e le fauci, crescano a una gran mole nello spazio di 12 o di 20 ore, e si sentano teneri a guisa d’un tumore ventoso, con infiammazione o senza, sogliono sempre essere mortali; e benchè allora i malati per qualche tempo paiano passarsela bene, pure tutti sogliono morire. 4.º All’incontro ove nel principio sieno duri e rigidi, e crescano a poco a poco, divenendo lunghi con dolor tollerabile, sarà buon segno; e massimamente se crescendo riterranno quella durezza per qualche tempo. 5.º Ma se quei buboni duri avranno un certo cerchio intorno di vario colore a guisa d’un’iride, come ancora se diventeranno lividi o neri, sarà pessimo segno. Per altro l’infiammazione grave in essi non dee spaventare il cerusico. 6.º Svanendo e ritirandosi essi al di dentro, è spedito il malato, quando però svaniscano a precipizio e duri la febbre, e la natura non si scarichi altrove. 7.º Se verranno presto alla suppurazione, daranno indizio di salute; ed anche svanendo a poco a poco senza alcuna suppurazione, purchè cessi la febbre, nulla avrà da temersene. — E qui torno a ricordare che il Sydenham, il quale tiene questi tumori per ascessi lodevoli tentati dalla natura, crede pregiudiziali i [269] sudoriferi allora che i buboni sono usciti fuori, quasi che s’interrompa il corso preso dalla natura di scaricare gli umori o spiriti peccanti pel tumore, e perciò retrocedano i buboni colla rovina dell’infermo. Quantunque il Sydenham fosse di quelli che presero per qualche tempo le Pillole dei Tre Avverbi, pure la considerazione sua dee tenersi a mente dai medici per consultarla meglio colla sperienza, avvertendo però che il medesimo autore non sembra dipoi fare gran caso di questa paura, mentre tiene minor pericolo il promuovere i sudori per 24 ore, che il tardi aspettare la legittima maturazione delle aposteme, la quale in un affetto sì precipitoso suol riuscire molto incerta e fallace. Per altro anch’egli praticò, e con felice successo, i sudoriferi prima che nascessero tali tumori.
In tre maniere si fa la cura dei buboni pestilenziali. La prima, che si chiama per discussione, e che non so se fosse meglio appellar derivazione, vien lodata e insegnata da alcuni medici di gran nome; ed è tale: Sotto dei tumori mettono essi due o tre ventose l’una sotto l’altra, e nell’inferiore posto un vescicante, e svegliata la vescica, di là procurano di tirar fuori la materia peccante, applicando ai buboni degli emollienti caldi con pezza di lino, o del decotto di betonica, isopo, malva, meliloto, aneto, camomilla, e semi di comino e di fenicolo, applicandolo caldo al tumore con piumacciuolo di stoppa sopra, mutando tutte ad ogni ora. Se dopo il settimo giorno non isvaniscono i buboni, vengono poi ai suppuranti. Altro non dirò di questo metodo, perchè quantunque [270] sia buono, pure dalla comune de’ medici savi non è creduto il migliore, e gioverà fermarsi ove più importa. Il secondo metodo, appellato per diversione, viene anch’esso commendato assaissimo da alcuni, e descritto nella forma seguente: Nelle parti più lontane dal cuore e meno pericolose, e specialmente in mezzo alle cosce, fanno un picciolo taglio della cute, ove mettono dentro un pezzetto di pseudoelleboro, o sia veratro nero, a cui sia levata la scorza, sovrapponendovi poi un empiastro tenace; e custodiscono per 24 ore l’infermo colle mani e coi piedi legati, finito il qual tempo, dicono che tutto il veleno è tirato colà dalla forza dell’elleboro, e che l’infermo è guarito da ogni pericolo. Angelo Sala esalta sino alle stelle questa maniera di curare i buboni, dicendo d’aver fatto dei miracoli colla radice dell’elleboro, ch’egli tiene per dotato d’una incredibil forza magnetica ed attrattiva. Ma dall’un canto noi non possiamo assicurarci che un tal rimedio faccia sì meravigliosi effetti; e dall’altro è chiaro riuscire il medesimo sì doloroso ai poveri infermi, ch’eglino sono vicini ad impazzire, nè ci vuol meno d’una forte legatura per tenerli saldi in sì aspro martirio ed ambascia. Il perchè non oserò io consigliare ad alcuno questo barbaro ripiego, siccome nè pure l’applicar tali ventose agli stessi buboni, cosa per altro lodata da alcuni riguardevoli professori di medicina, e praticata anche da taluno in Roma nella peste del 1656, perchè quantunque ciò non abbia contraria la ragione, ha però contraria la sperienza, avendo altri insigni medici osservato con vari sperimenti che tali ventose nessun buon [271] effetto hanno prodotto, ma solamente hanno dopo di sè lasciato negl’infermi maggiore l’inquietudine, più acerba la febbre, e più smoderato il tormento del male. Si è anche avvertito non ricavarsi frutto dalle sole ventose applicate alle parti più vicine ai buboni, nè dall’applicar galline o colombi squarciati vivi ai buboni tagliati; e riuscir troppo pericolosi e dolorosi tutti i tagli fatti avanti che la materia delle aposteme e dei tumori sia venuta ad una competente suppurazione. Racconta l’Alberti d’un contadino, il quale si tagliò un bubone che gli dava intollerabil dolore all’anguinaia. Vi trovò dentro materia bianca, tenace e grossa. Tentando di tirarla fuori (nel qual tentativo sentiva eccessivo dolore) la ruppe in modo che mezza restò dentro. Tuttavia essendo egli rimaso molto sollevato dal solito cruccio, fatto buon animo, poco dipoi curò il resto, e rimase come per miracolo libero del tutto dal tormento. Nettò egli poscia e medicò da sè stesso la ferita, e serrato in pochi giorni il taglio, si trovò affatto sano. Fo menzione di questo caso non per animare alcuno a fare altrettanto, ma appunto per avvertire che questi sono pericolosi eccessi, e cure sregolate da lasciare a chi vuole con gli spasimi o affrettare, o tirarsi addosso la morte. Conchiudo colle sagge parole d’Alessandro Massaria: Sententiæ nostræ summa est, hos tumores non admodum graviter ed aspere tractandos esse, tam incipientes, quam declinantes; quum perpetuo nos oporteat operam dare, ut naturam juvemus ac foveamus, at nullo pacto ut eam magis vexemus et labefaciamus: illa namque sola et vera est morborum omnium medicatrix.
[272]
La terza maniera dunque di curare i buboni si è quella della suppurazione e maturazione, lodata e approvata da tutti, cioè di applicarvi rimedi chiamati emollienti e maturanti, i quali aiutino la concozione della materia trattenuta nel tumore, e dispongano il medesimo al taglio. Ne rapporterò qua alcuni, e massimamente de’ più facili per la povera gente.
I. Empiastro per ammollire i buboni.
℞. Butirro e trementina, e fanne mistura calda che stenderai sopra il bubone, dappoichè l’avrai prima fomentato con acqua calda per un pezzo. Tienlo poi ben coperto e caldo.
II. Ovvero ℞. Mele crudo con fior di farina di frumento. Fanne empiastro, che è buono per far maturare e rompere.
III. O pure. ℞. Butirro ben rotto con due rossi d’uovo fresco. Sbatti tutto per mezz’ora, e poi mettilo in catino grande, con acqua fresca, e lava bene quella composizione, mutando l’acqua molte volte: Quindi mettilo grosso sopra i buboni, e di sopra foglia di verze, o sia di cavoli.
IV. Altro empiastro.
℞. Rosso d’uovo duro, cotto a lesso, e si mescoli con lievito acido (levatore si chiama fra noi altri) di farina di frumento e sugna di qualunque sorta (salata o non salata non importa), o pure in luogo di sugna, si metta cipolla cotta, formandone empiastro in buona forma. Oppure fa [273] empiastro di rosso d’uovo, zucchero e zafferano che sarà utilissimo. È anche sufficiente quello di rosso d’uovo e sale.
V. Altro empiastro per maturar buboni coperti di carne e duri.
℞. Foglie di malva e di verze, e cipolle di gigli bianchi, e cuoci tutto in acqua. Dappoichè saranno ben cotte e ben trite, unisci loro sugna di porco vecchia, e tanto lievito acido di farina di frumento quanto è la metà della sugna. Si ponga e mantenga caldo sopra il tumore. È rimedio attissimo anche per gli altri buboni.
VI. Altro empiastro per ammollire.
℞. Radici di giglio bianco, cipolla bianca, fichi, malavischio, o sia altea, lapazio, malva, scabbiosa parti eguali a discrezione. Con queste cose cotte si metta farina di frumento; e con sugna, butirro e un poco di triaca e di mitridato, si formi empiastro.
VII. Empiastro maturante.
℞. Radici di altea decott. lib. 1. Si tritino e si mescolino con cerotto diachilò con gomma onc. 6; grasso d’oca, midolla d’ossa di vitello, ana onc. 3; olio di camomilla, di aneto e di gigli bianchi, ana quanto basta, e fanne empiastro.
[274]
VIII. Altro empiastro del Cristini più gagliardo per ammollire que’ buboni che sembrano difficili a venire alla suppurazione.
℞. Malva, scabbiosa, ana manipol. 1; cipolla detta squilla, radice di narciso, ana onc., 2; radice d’iride mez. onc.; semi di senape, semi di bombace, ana dram. 6; lumache senza guscio num. 10; sugna di porco onc. 4; triaca, mitridato, ana onc. 1; zafferano dram. 1. Si formi empiastro.
IX. Altri empiastri suppuranti.
℞. Radici d’altea onc. 3; fiori di malva, viole, di sonco, ana manipol. 1. Fa bollir tutti,e dopo averli spremuti, aggiungi unguento di altea, di mucilagine, butirro, sugna vecchia di porco e di gallina, ana onc. 1 e mez. Mischia e fanne empiastro, adoperandolo caldo mattina e sera.
X. Ovvero ℞. Malva e radici, o cipolle di giglio bianco; e cotte bene, e tritate, se ne metta in quantità sopra il tumore.
XI. O pure ℞. sugna di porco la più vecchia che si trovi mezza libbra, e mescolata con onc. 3 di lievito, si scaldi e si metta sopra il bubone.
XII. Empiastro emolliente ed attrattivo del Diemerbrochio.
℞. Radici di gigli bianchi onc. 2; erbe ruta, malva, altea, ana manipol 1; scabbiosa manipol. 1 e mez. (quest’erba è lodatissima da tutti per maturar [275] buboni) fiori di camomilla mez. manipol., fichi secchi polputi num. 9; acqua comune quanto basta. Si cuocano seconda l’arte, e si pestino minutissimamente nel mortaio, con aggiungervi tre o quattro bulbi, o spicchj di cipolle, prima involti in carta sorbitrice bagnata d’aceto e alquanto abbrustoliti sotto le ceneri. Poi prendi polvere di radici d’altea mez. onc.; sterco di colombi onc. 2 e mez.; lievito di pane onc. 1 e mez.; farina di frumento dram. 3. Unisci queste cose alla colatura delle precedenti, e tutto mischiato si cuoca alla forma de’ cataplasmi, a cui in fine aggiungi mele onc. 1; unguento basilicon mez. onc.; sugna d’anitra, ovvero olio di scorpioni e butirro onc. 1. I ricchi vi possono aggiungere talvolta anche un poco di triaca d’Andromaco, e i poveri alquanto della triaca de’ rustici.
XIII. Altri empiastri suppuranti.
℞. Ruta verde, rafano tagliato in fette, ana mez. manipol.; senape un cucchiaio. Cadauna cosa separatamente si pesti, e poi mischiato il tutto, si metta sopra il bubone.
XIV. Ovvero ℞. Sterco di gallina mischiato con chiaro d’uovo in forma di cataplasma. Forse è da scrivere rosso, o sia tuorlo d’uovo.
XV. O pure ℞. Corteccia di mezzo del sambuco onc. 1; farina di avena onc. 2; e fatto cuocer tutto in latte dolce a guisa di cataplasma, applicandone alle aposteme, dicono che le fa maturar presto.
XVI. O pure ℞. Lievito mez. onc., rafano onc. 1 e mez.; farina di semi di senape dram. 1; cipolla [276] cotta sotto le ceneri dram. 2 e mez.; aglio cotto nella stessa forma dram. 1 e mez.; triaca dram 3. Mesci tutto nel mortaio, e fanne empiastro.
XVII. Ovvero ℞. Fichi secchi polputi dram. 3; polpa d’uve grosse, gomma ammoniaca, ana mez. onc.; bdellio, sagapeno, ana dram. 2 e mez.; sugo d’oppio onc. 2 e mez. Si disciolgano le gomme in aceto; poscia tutto si mescoli nel mortaio, e di sei in sei ore si muti questo empiastro.
XVIII. O pure. ℞. Fichi secchi: cuocili e pestali, o pur cipolle sotto le ceneri; poi mischia con esso loro un pochetto di butirro vecchio e di triaca, che ancor questo ha giovato a molti.
Oltre a tanti empiastri che ho qui notato per tutti, e principalmente per la povera gente, sappiasi ancora che le sole foglie di cavolo rosso unte con olio di rape, bastano a maturare i buboni coll’andarle mutando, e innumerabili in questa maniera furono ne’ tempi addietro curati. Altri presa una cipolla e scavandola alquanto vi metteano dentro un poco di triaca; poi fattala arrostire sotto le ceneri calde, la pestavano ben bene e ridottala in forma d’empiastro e mischiatavi sopra sugna di porco se ne servivano con felice successo a maturare i buboni. Alcuni stimano meglio l’aggiungervi la triaca, dappoichè la cipolla è cotta; siccome ancora credono meglio non arrostir molto la cipolla affinchè non perda la miglior sua forza. Scrive il Foresti che un chirurgo d’un lazzeretto si valea spezialmente di cipolle cotte e tritate con senape bianca frescamente macinata, o in vece di senape mischiava alquanto di triaca colle cipolle, e senz’altro spesse volte in due o tre dì, e al più [277] in quattro i buboni restavano maturati. Non parlo qui del servirsi che fanno molti oltramontani di rimedj mercuriali, o sia argento vivo, ovvero di rospi secchi per curare i tumori pestilenziali, imperocchè il primo rimedio è stato trovato da altri sommamente dannoso o pericoloso; e l’altro non porta seco un carattere autentico che il lasci facilmente approvare. Chi volesse qui fidarsi dei chimici e spargirici, troverà lodatissimi fra essi un empiastro di Paracelso per maturar buboni, e un altro d’Angelo Sala, e finalmente uno di Paolo Barbetta, decantato assaissimo. Io per me non oserei riprovare, ma nè pur consigliare sì fatti rimedj sulla fede sola dei loro per altro celebri autori, perchè le promesse e idee di molti chimici o empirici non son diverse da quelle degli alchimisti. Nulladimeno perchè il Barbetta è medico di gran credito e scrive di non aver conosciuto empiastro più nobile ed utile del seguente, mentre posto sopra i buboni, senza far crosta ne traeva sì egregiamente gli umori maligni, che il bubone fra quattro o sei dì si levava affatto via, io il riferirò qui. L’aveva egli preso dall’Agricola e vedremo che Angelo Sala se ne era fatto bello anch’egli.
Empiastro magnetico arsenicale.
℞. Gomme sagapeno, armoniaco, galbano, magnete arsenicale, ana dram. 3; trementina di larice, cera, ana mez. onc.; olio di succino dram. 2; terra di vitriuolo dolcificata dram. 1. Disciogli le gomme in buon aceto, e spremutele per panno di lino fa che bollendo insieme di nuovo s’inspissiscano sino [278] a prendere la prima consistenza. Poi separatamente fa liquefare la cera e la trementina, e agita tutto fuori del fuoco, finchè si riducano in forma d’unguento. Aggiungi poi le gomme, la magnete e il resto degl’ingredienti, e avrai un empiastro efficacissimo a tirar fuori ogni sorta di veleno.
Come si faccia la magnete arsenicale, la quale manipolata che sia non è più velenosa, per quanto dicono, potendone ognuno farne prova con darne ai cani, l’impareremo più a basso da Angelo Sala. Venendo crosta ai buboni, si leverà facilmente via (e questo importa assaissimo) con una sola spatola dopo un giorno, o poco più, se unirai all’empiastro suddetto un poco d’unguento basilicon o di triaca.
Allorchè si sarà continuato per qualche giorno sopra i buboni l’uso de’ suddetti cataplasmi e cominceranno a maturarsi le materie, allora si lascino stare gli attraenti, come sono lo sterco di colombi, il lievito ecc., con adoperar poi soli maturanti. Il Diemerbrochio scrive d’essersi spesse volte servito, e con felicità, del solo seguente empiastro dal principio fino al fine della cura. ℞. Gomma galbano disciolta in aceto, empiastro oxicrocco, diachilò con gomma, ana onc. 1, mischiando tutto. Nota egli ancora di non aver medicato con gagliardi attraenti i buboni nati presso alle orecchie per ischivare il pericolo della soffocazione, avendo anche osservato che con empiastri que’ tumori in poche ore crescevano a dismisura e portavano poscia molti alla buca, e però medicava quelli con soli emollienti o con leggieri attraenti. Con gli altri non occorreva tanto riguardo. Maturati perfettamente i buboni, per lo [279] più nè pure si rompono da per sè stessi; e però bisogna allora tagliarli o romperli con un legnetto acuto, se si può; se no, col ferro. Si facciano aprire non nella cima, ma in fondo, e nella parte più bassa affinchè la marcia più facilmente ne esca. I cauterj potenziali non son qui lodati. Consigliano alcuni medici di tagliare i buboni maligni e pestilenziali prima che sieno perfettamente maturi; e l’Ingrascia è di parere che quando coi buboni va congiunto qualche grave accidente, o febbre, che minacci rovina, allora sia meglio aprirli, benchè non maturi. Ma la sperienza ci avvisa che per lo più a tentativi sì animosi succedono fieri dolori, infiammazioni e cancrene; e però non s’ha per lo più a ricorrere, se non con gran riguardo, a queste troppo sollecite operazioni. Nella peste della nostra città del 1630 in un avvertimento pubblico fu lodato il tagliar profondamente sul principio i buboni d’umor tenero e liquido, curandoli poi con digestivi. Fu anche notificato che in quei d’umore molle sì, ma non fluido, conveniva dopo il taglio coprir le taste di corrosivi. Questi però non sono metodi da approvarsi così alla cieca. Avvisavano bensì saviamente che i buboni duri come ghiande non si doveano tagliare; altrimenti l’infermo se ne andava, e che però conveniva ungerli con olio di giglio bianco più volte, che così o si risolvevano in nulla, o si maturavano. Pare a me d’aver suggerito empiastri più gagliardi a questo effetto. Tagliati i tumori, e spremuta la marcia, si attende poi a curar la ferita, tenendovi tasta con digestivo e sopra un qualche empiastro emolliente, ungendo intorno con olio rosato. Si può far anche [280] senza tasta, secondo il metodo stimabilissimo del Magati, ultimamente illustrato dal dottore Dionisio Andrea Sancassani, purchè la piaga stia aperta e si possa andar purgando: il che in questo caso è più necessario che nelle piaghe non pestilenti. Per un digestivo insigne vien commendato dal Diemerbrochio il seguente
Empiastro digestivo per i buboni tagliati.
℞. Scordio sottilissimamente polverizzato dram. 2; rosso d’un uovo, trementina di Venezia, mele, unguento degli apostoli, ana mez. onc. Mesci tutto.
E Silvio de le Boe scrive d’aver adoperato con buon esito, per guarire in breve essi buboni aperti il balsamo di zolfo trementinato e anisato, insieme con unguento basilicon e triaca, mettendo di più sopra esso medicamento l’empiastro diapompholygos o altro simile.
Resta ch’io dica qualche cosa dell’uso dei vescicanti nella cura dei buboni. Alcuni li riprovano con varj raziocinj; ma Ercole Sassonia, e meglio ancora di lui altri valorosi medici, hanno diffusamente risposto a tali difficoltà; e noi abbiam qui la sperienza anche del soprammentovato Diemerbrochio, il quale ha osservato mille volte che i vescicanti, purchè applicati nel primo apparir dei buboni, son riusciti di un notabilissimo giovamento, di modo che scaricandosi per la loro ferita il maligno umore a molti sono da per sè svanite quelle velenose aposteme. Il suo metodo perciò era questo. Subito che apparivano essi buboni egli applicava un vescicante alla lor parte inferiore talmente [281] che toccasse la lor durezza. Svegliata nello spazio di otto o dieci ore la vescica, e levatala via, metteva sopra la piaga una foglia di cavolo rosso o di bieta unta con butirro vecchio o con olio di rape, acciocchè restando aperto il luogo si potessero per colà evacuare i cattivi umori. Noi abbiamo nelle nostre spezierie il cerotto vescicante. Tuttavia aggiungerò altre ricette.
I. Vescicante.
℞. Radici di piretro, semi di senape bianca, ana mez. dram.; cantaridi scrup. 1 e mez., o pure scrup. 2; mele dram. 1; lievito di pane acido dram. 1 e mez. o dram. 2; aceto rosato quanto basta. Se ne formi pasta vescicatoria.
II. Altro vescicante.
℞. Semi di senape bianca, di euforbio, ana dram. 1; radici di piretro mez. dram.; cantaridi dram. 2; ragia di pino, cera quanto basta. Si faccia pasta.
III. Vescicante del Mercuriale.
℞. Cantaridi preparate dram. 3; lievito mez. onc.; un poco d’aceto fortissimo, e mischia.
IV. Vescicante del Pareo.
℞. Cantaridi, pepe, euforbio, piretro, ana mez. dram.; lievito dram. 2; semi di senape dram. 1; un poco d’aceto, e mischia.
[282]
Silvio de le Boe scrive di non aver mai potuto avvertire qual buon effetto succeda dai vescicanti; ma giacchè non dice d’averlo veduto nè pur cattivo in tempo di peste, e gli altri ne contano molti vantaggi, pare che sia bene il valersene. Altri poi hanno usato di applicare i vescicatorj lontano dai tumori, per esempio a mezza la coscia, se questi erano all’anguinaia; ma un tal metodo non è approvato da altri intendenti che il pretendono o inutile o nocivo. Se il vescicatorio non eccita secondo il suo costume la vescica, è quasi inevitabile la morte; e ciò sia detto della cura dei buboni.
Carboni pestilenziali. Pronostici intorno ad essi. Varj metodi per curarli poco lodevoli. Maturarli e separarli, maniera più commendata dell’altre. Varj medicamenti per questo effetto, ed altri per levar via l’escara.
Più perniciosi delle finora descritte aposteme pestilenziali sono i carboni, chiamati antraci dai Greci, e formati anch’essi dal veleno della peste, il quale venendo probabilmente spinto dalla natura alla cute per via dell’arterie e della circolazione del sangue disciolto, ed ivi arrestandosi per qualche stagnazione o fissazione d’esso sangue, forma in varie parti esterne ed anche interne del corpo delle vesciche e pustole dolorosissime e infiammate che mortificando, cioè rendendo morta la carne, a poco a poco diventano dure, livide o nere. Talvolta si son vedute insino a trenta di queste fierissime pustole [283] in un solo appestato, nascendo esse nel petto, collo, schiena, braccia, cosce, diti, ecc, ed anche internamente nelle tuniche del ventricolo e in altre viscere: nel qual ultimo caso è spedita la vita degl’infermi. Notinsi le seguenti osservazioni fatte da medici accurati: I. Se nascono carboni nelle glandule emuntorie in luogo di buboni, ciò è mortalissimo. II. Quei che vengono o nel principio del male, o poco dopo, in siti carnosi, sono lodevoli o tollerabili. III. All’incontro i nati nelle dita de’ piedi e delle mani e sopra la spina del dorso e sopra nervi, danno campo di pessimi augurj; e però questi debbono eccettuarsi dalla regola d’alcuni medici, i quali stimano tanto men pericolosi i carboncelli, quanto più escono lontani dal cuore. IV. Se hanno una certa coda, o pure se nascono tardi, è cattivo indizio; pessimo se prorompono in molta quantità, essendo ciò un effetto di maggiore e più grave copia di veleno. Il Mercuriale con altri tiene diversamente; ma il Sennerio, il Riverio, il Barbetta ed altri assaissimi confermano con troppe sperienze l’osservazione suddetta; potendosi nondimeno immaginare che tal diversità di pareri sia proceduta dal diverso carattere delle medesime pesti. V. carboni biancheggianti senza diminuzion di febbre, levano la speranza di guarire; ma se fra due o tre dì fanno un cerchio rosso all’intorno, più facilmente e più presto degli altri guariscono. VI. Se diventano molto larghi e di gran mole, come talvolta accade, riescono difficilissimi a curarsi, anzi mortalissimi se spuntano sopra qualche parte nervosa. VII. Qualora nel principio si fermano e quasi spariscono, o pure restando in [284] vigore la febbre si seccano, predicono la rovina dell’infermo. Nella peste, che in questi medesimi giorni affligge Vienna ed altri paesi, escono buboni, ma non già carboni, segno non essere quella epidemia di gran malignità, e perciò doversene sperare la fine con la venuta del verno. Ivi il maggior benefizio si è ottenuto finora dai sudori provvocati sul principio del male coll’uso delle seguenti
Pillole antipestilenziali d’Emanuele, chiamate anche di Gesù e del general Cusani.
℞. Aloè epatico purissimo onc. 1; zafferano, mirra, ana dram. 1; zedoaria, genziana, ana scrup. 1; rabarbaro scelto dram. 2; agarico bianco dram. 1; triaca d’Andromaco, quanto una noce. Si polverizzino separatamente, poscia si mescolino in mortaio e se ne facciano pillole della grossezza d’un pisello. Per la preservativa se ne prende una ciascun giorno; per la curativa 8 o 10 in acqua, e il malato ben coperto sudi. Non è necessario l’agarico nè il rabarbaro.
In quanto alla cura de’ carboni, il cardinal Gastaldi scrive che nel contagio di Roma del 1656 nessun rimedio era più giovevole, quanto l’adoperare la scarificazione, cioè il tagliar loro d’intorno, con separare la carne morta dalla viva, e lo scarificarli anch’essi e cavar via molta copia di sangue, ungendoli poscia con unguento egiziaco, triaca ed olio di scorpioni, e finalmente ungendo l’escara, o sia la crosta, con sugna, o butirro, finch’essa cadeva. Essendosi prima trovati inutili altri rimedj, questo in fine parve il metodo più utile per curare [285] i carboni ed anche i buboni. Nell’avvertimento stampato in Modena pel contagio del 1630 si legge che i carboni si medicavano con refrigeranti d’intorno e con empiastri in mezzo; tanto che separati dalla carne buona, si cavassero con la molletta, applicando poi in que’ fori gli ordinarj digestivi delle ferite. Oribasio, Egineta ed altri antichi e moderni consigliano anch’essi lo scarificare profondamente, ovvero il tagliarli sino alle radici con un rasoio; imperocchè temono che sia rimedio troppo debole e lento quello degli empiastri.
Il perchè secondo altri si può tagliar la crosta del carbonchio in croce, o in più tagli (quanti più se ne fanno, tanto dicono che sia meglio) profondandoli sino a toccar del vivo, ma non penetrando nel vivo per timore d’arterie, vene, nervi, ecc. Indi si ha da procurar l’uscita al sangue, sbruffandolo d’acqua salsa calda, o fomentando il luogo con ispugna bagnata nell’acqua suddetta, ma avvertendo di far uscire il sangue in quantità discreta e non troppa. Poscia si dee asciugar bene la ferita, e far entrare nei tagli zucchero candido fatto sottilissimo come fior di farina, mettendovi poi sopra qualche empiastro.
Un’altra via di debellare il carbone, è scottarlo con ferro infocato, come sarebbe testa di chiodo grande; e sarà bene aver prima levato via della grossezza della crosta ciò che si potrà levare senza dar dolore al paziente. Dee la scottatura essere tanto larga, che tutto intorno tocchi del vivo; potendosi anche scottarlo in diverse volte con ferro picciolo a parte a parte. Così ci son molti che nelle parti carnose li separano dalla carne [286] buona con ferro tagliente, e dipoi li spiccano, operando in più volte un poco per giorno, affinchè il dolore riesca più tollerabile. Fanno il taglio in maniera che si veda la carne buona, mettendo, finchè si finisca di spiccarli, tra il buono e il cattivo della carne o zucchero candido ben sottilizzato, o rosso d’uovo con sale ben polverizzato, o pure rosso d’uovo con trementina, ovvero fili asciutti. Se vi resta del cattivo, convien porvi qualche corrosivo, o pure tagliare quel che resta sino a toccar del vivo, facendo uscire il sangue con acqua calda. Che se il carboncello è duro, alcuni lo scarnano tutto intorno assai profondamente in una o più volte; poscia legatolo bene con uno spago o simile legatura, il cavano con una pronta strappata, sicchè talvolta resta la carne netta di sotto, e talvolta ancora vi resta qualche bisogno di mondificare. Altri ancora adoperano vescicatorj e acqua forte, e altri simili aspri rimedi.
Ma si avverta che tutti i metodi finora accennati sono da lasciarsi il più che si può, non solo perchè portano degl’intollerabili dolori agl’infermi, con accrescer loro anche la febbre e la vigilia, ma ancora perchè moltissimi altri medici hanno osservato che questi sì precipitosi tagli, o rimedi crudeli, poco o nulla giovano, e conducono bene spesso più velocemente alla morte i miseri infermi. Siccome per lo contrario la sperienza ha mostrato che i carboni quanto più piacevolmente sono trattati, tanto più presto sono guariti, Tommaso Cornelio, celebre medico, in un suo Dialogo favoloso, composto alla guisa di quei di Luciano, [287] consiglia il lasciare più tosto alla natura che il dare in mano ai medici i malati di peste; perocchè, dice egli, i medici adoperano facilmente rimedi perniciosi, facendo essi ciò che talvolta non giungerebbe a fare il morbo medesimo. Può essere che il Cornelio parli da burla; ma può anche essere che burlando egli colpisca nel vero, e che la suddetta disgrazia non si fermi nella sola malattia pestilenziale. Certo nei lazzeretti troppo spesso s’è fatta vedere la crudeltà de’ cerusici nel ricorrere al ferro infocato per curare i carboni, mentre senza badare bruciavano nervi, tendini, muscoli e vene (e l’osservò anche il Cristini nella peste di Roma del 1656), di maniera che molti non solamente morivano, ma morivano ancora martiri della cirugia per 25 o 30 bottoni di fuoco. Nè pare che si opponga a tali sperienze ciò che testè ci fece udire il cardinal Gastaldi; perchè forse quelle furono scarificazioni modeste, o pure elle cominciarono a trovarsi utili solamente nella declinazione della peste, cioè in un tempo in cui il morbo suol cedere da per sè stesso, con attribuirsi poi la gloria della guarigione ai rimedi che si usano allora: dal che mi figuro io che sieno procedute altre contrarietà, e probabilmente alcuni inganni di molti medici nell’esaltare o biasimare or questo ed ora quel rimedio. La conclusion nondimeno si è, che i tagli prima del tempo nei carboni s’hanno da abborrire, e doversi eleggere il metodo più regolare, più mite e meno pericoloso, qual è quello che ora soggiugnerò.
Presi che avrà l’infermo i sudoriferi ed altri antidoti interni, che sono creduti abili a spingere [288] fuori il più che si può del veleno pestilenziale per i pori, ed usciti i carboni, si dee immediatamente metter loro sopra una foglia di cavolo, o sia verza rossa unta con olio di rape. Dipoi, ed anche sul principio, sarà meglio mitigare il dolore de’ carbonchi con de’ rimedi emollienti ed anodini, a fine di separar con essi la carne morta del carbone dalla vicina viva e buona. Ecco la ricetta d’uno presa dal Diemerbrochio:
Suppurante per i carboni.
℞. Radici di consolida maggiore secche, erba scordio secca, ana dram. 2; radici d’altea secche, farina di semi di lino passata per setaccio, fior di farina di frumento, ana onc. 1. Fanne polvere sottile, in cui metti dentro acqua comune quanto basta. Si cuocano alquanto, acciocchè si sciolgano le mucilagini, e la composizione venga in forma di polenta grossa. Aggiungi mele, trementina, unguento d’apostoli, ana dram. 3; pece liquida, unguento basilicon, ana dram. 2; il rosso d’un uovo; zafferano scrup. 1. Mescola tutto. Se gli può anche aggiungere triaca dram. 2.
Il suddetto Diemerbrochio scrive d’aver provato molti medicamenti; e di non averne trovato alcuno migliore di questo, con cui in breve si otteneva la separazione de’ carboncelli, stendendolo grosso sopra i medesimi, e rinnovandolo due o tre volte il giorno. Ma per facilitare ai poveri e a chi non ha comodità di speziali e di meglio, i soccorsi pel bisogno loro, raccoglierò qui altri suppuranti suggeriti dai medici in tal congiuntura, benchè non tutti di egual vigore.
[289]
Altri suppuranti per maturar carboni.
℞. Cipolla cotta con triaca, o aggiuntavi dopo la cottura, ed olio di lino o di noci; e quando questi olj manchino, quello d’ulive, mischiando tutto.
Ovvero ℞. Tuorlo d’uovo e sale prima seccato, poi polverizzato sottilmente come fior di farina. Aggiungi caligine, butirro e carbone pesto ben bene, di quel che è bruciato sul focolare. Unisci tutto con diligenza, e formane empiastro. In vece di sale comune è meglio un oncia di sale ammoniaco.
O pure Empiastro di butirro mischiato con olio rosato. O empiastro fatto di cipolle di gigli bianchi cotte sotto le ceneri e pestate, o sole, o insieme con butirro o con olio rosato.
Dicono che questi tre empiastri tra i facili e di poca spesa sono i principali che vengano lodati per maturare e far separare i carboni. Nel primo si può mettere mitridato di Diamocrate in vece di triaca; ma comunque si faccia, il tengono per molto utile al suddetto oggetto. Altri adoperano butirro solo lavato, quando loro manchi tutt’altro. Altri mischiano insieme rosso d’uovo, zucchero bianco ben polverizzato e zafferano. Altri foglie di lapazio, che rumice suol chiamarsi, foglie di piantaggine, butirro, o sugna di porco senza sale, pestando tutto insieme. Dicono che sia potente empiastro il prendere radici d’altea, che è malvavischio, cotte nell’acqua, e poi ben peste, e mescolate con alquanto d’olio di lauro e con rosso d’uovo. Il Rondinelli scrive che in Firenze per i [290] carboni grandi si trovò cosa ottima l’applicar loro l’empiastro di cinque farine, che manteneva il calore, e li separava. Ai mezzani si applicava un poco di capitello per poter arrivare più alle radici, e così si fermavano. Ai piccioli si adoperava unguento egiziaco. Nè si trovò mai che chi aveva i carboni non avesse anche i buboni. Se crediamo a Giovanni Tragaulzio, l’erba consolida maggiore, pestata fra due pietre, sana egregiamente i carbonchi, e in termine di 24 ore. Io per me non crederei tanto senza vederne più d’una prova. Anche il Bauderon attribuisce il medesimo valore alla scabbiosa verde, pestata in mortaio di pietra; ed altri scrivono che la carne di bue diligentemente pestata e posta sopra i carboni, in tre giorni li stacca. Paracelso, il Sennerto, ed alcuni spargirici lodano il premere la circonferenza del carbone, subito ch’esso è nato, con un zaffiro o giacinto, girandolo intorno per un quarto d’ora, tanto che il cerchio sulla carne apparisca livido. Scrivono che questo accelera la separazione del carbone, e che la stessa gemma zaffiro è anche buona da impedire il nascere ai carboni, e che in oltre posta sopra i medesimi li estingue. Il rapporto io, non perchè mi senta disposto a crederlo buonamente, ma per dire agli altri che non se ne fidino nè pur essi senza averne veduto de’ legittimi sperimenti.
Altri prendono fichi secchi, sugna di porco maschio e sterco di colombo, il qual empiastro conviene a maturare ogni altro tumore. O pure mele crudo con fior di farina di frumento, dicendo essere empiastro ottimo per far maturare. Anche le [291] foglie di cavolo crude pestate con sale, e ridotte in empiastro; e parimente il rafano preparato nella stessa maniera, possono servire alla suppurazione de’ carboni. Lodano alcuni come empiastri molto efficaci i due seguenti, e il secondo specialmente dicono che quasi violenta i carboni a cedere.
Suppuranti per maturar carboni.
Togli farina di frumento onc. 1; un rosso di uovo; sterco rosso di gallina, sterco bianco di colombo, seme di eruca, o sia rucula, ana mez. dram.; sale polverizzato sottilissimamente dram. 1; mele tanto che basti per far buona composizione. Tutte le cose sieno ben macinate, e miste insieme.
O pure ℞. Un pomo granato garbo, cioè di mezzo sapore, e tagliatolo in pezzi minuti, fallo cuocer benissimo in aceto; dipoi ben pestato fanne empiastro, accomodandolo al carbone con pezza bianca, sopra bagnata nello stesso aceto della decozione; e tienlo così senza muoverlo, attendendo a bagnarlo coll’aceto sopra la pezza. Va messo grosso questo empiastro, e tenuto caldetto.
Altri consigliano per la gente povera il prendere trementina lavata in acqua di scordio, e mele rosato mezz’oncia per sorta, e farne empiastro. Se gli può aggiungere pece liquida, con un poco di sapone spagnuolo, per renderlo più efficace. E a proposito della pece, in Olanda i poveri in tempo di peste prendono pece navale liquefatta, e mischiando seco altrettanta quantità di pece liquida, ne formano empiastro, attestando il Diemerbrochio d’aver osservato moltissime volte i carboni egregiamente [292] separati con questo solo rimedio. Viene stimato e consigliato assaissimo l’empiastro di diachilon con gomma, o il basilicon, o l’empiastro formato di galbano, oxicroceo e diachilon mischiati insieme. Aggiungerò ora altri empiastri creduti anch’essi molto utili. Il Pareo scrive d’essersi spesse volte servito con felicità del primo d’essi.
Empiastro suppurante per i carboni.
℞. Caligine di cammino onc. 4; sale comune onc. 2. Si riducano in polvere sottile, e aggiunti due rossi d’uovo, si sbattano finchè prendano consistenza, e si mettano tepidi sopra i carboncelli.
Altro empiastro maturante.
℞. Fichi secchi polputi, uve passe, noci monde, ana onc. 2. Si cuocano per alquanto tempo in vino bianco quanto basta; dipoi si pestino bene in forma di cataplasma, a cui aggiungi due rossi d’uovo e un poco di sale.
Empiastro di Giulio Palmario.
℞. Rossi d’uovi freschi num. 6; sale comune ben seccato onc. 1; olio di gigli mez. onc.; triaca dram. 1; farina d’orzo quanto basta. Fanne empiastro, che sarà anche più gagliardo se vi aggiungerai sapone, calcina poco fa smorzata, e un poco di lievito acido e di sugna vecchia e salata di porco.
[293]
Empiastro lodato assai da Francesco Joele.
℞. Triaca d’Andromaco, mitridato, ana dram. 2; trementina lavata in acqua di scordio, butirro senza sale, ana mez. onc.; mele rosato dram. 3; sale seccato dram. 2; caligine dram. 5; sapone nero dram. 6; un rosso d’uovo. Si pestino e maneggino secondo l’arte, e se ne formi empiastro.
Empiastro d’Angelo Sala.
℞. Pece navale, ragia di pino, gomma ammoniaca depurata, cera vergine, ana onc. 1 e mez.; asfalto onc. 1; mele cotto sino a divenir nero mez. onc.; canfora disciolta in olio di succino dram. 1. Si faccia empiastro.
Il medesimo Sala prescrive un altro empiastro attraente e rottorio per i carboni, chiamato da lui eccellentissimo specifico, e tale ch’egli non crede trovarsi un rimedio simile fra tutti i topici, operando esso in poche ore effetti mirabili. Quantunque io mi sia astenuto dal produrre molte altre composizioni di certi medici spargirici, perchè troppo difficili, e perchè non credute da me di quel valore che viene spacciato da’ loro autori, tuttavia riferirò questo, che però non è molto diverso da quello del Barbetta riferito nel cap. antecedente.
[294]
Empiastro chiamato efficacissimo dal Sala.
℞. Gomme sagapeno, ammoniaca, galbano, ana dram. 3; trementina cotta, cera vergine, ana dram. 4 e mez.; magnete arsenicale sottilmente polverizzata dram. 2; radici d’arone polverizzate dram. 1. Le gomme si depurino, cioè si sciolgano con aceto scillitico, e si cuocano a consistenza di empiastro.
Ma affinchè si sappia ciò che sia la magnete arsenicale, ecco la maniera di prepararla:
℞. Arsenico cristallino, solfo vivo, antimonio crudo, ana, cioè parti eguali. Polverizza tutto in mortaio di ferro, e ponlo in vaso fortissimo di vetro al fuoco di arena, finchè il vetro ottimamente si riscaldi, e le suddette cose si disciolgano e liquefacciano, il che si osserverà quando si manderà giù al fondo qualche filo, il quale tirato su sarà rigido a guisa di trementina, e darà segno di bastante cottura. Poi leva il vetro dal fuoco, e quando sarà raffreddato, rompilo, e sottilmente polverizza quella pietra, serbandola per l’uso.
Silvio de le Boe anch’egli loda assaissimo la suddetta magnete. Nell’anno 1655, allorchè la peste malmenava la città d’Utrecht ed altre molte in Fiandra, fu ritrovato per la cura dei carboni l’olio, o sia il butirro d’antimonio. La maniera di adoperarlo era questa: Ungevano leggermente con una piuma intinta in esso olio il carbone, dopo averlo prima attorniato con un cerotto difensivo per impedire la dilatazione del corrosivo. Ora scrivono che esso carbone mirabilmente in poco tempo si [295] separava dalla carne sana, e che potevasi facilmente staccare. Di più era tale unzione efficacissima per impedire il serpeggiare e dilatarsi dei carboni. Con fidanza m’induco a proporlo e a credere che possa veramente riuscire di gran profitto, perchè il Diemerbrochio, medico poco creduto, e assai guardingo e sincero, ci assicura d’averne provato maravigliosi effetti, con chiamarlo anche acerrimum quidem, sed aureum certe remedium. Altrettanto ne attesta per esperienza anche il suddetto Silvio de le Boe. E sapendo io che del pari i medici italiani se ne servono con buon successo, come d’ottimo rimedio caustico o corrosivo, in altri casi, purchè se ne vagliano a tempo e con cautela, perciò me l’immagino giovevolissimo anche in tempi di peste. Lo Scradero nella sua Farmacopea, e il Donzelli nel Teatro Farmaceutico con molte lodi rapportano la ricetta della composizione suddetta nella seguente forma:
Olio, o sia butirro d’antimonio.
℞. Antimonio purissimo, mercurio sublimato, parti eguali. Mischia accuratamente in mortaio di pietra con pestello di legno, avvertendo di non toccar mai colle mani la composizione; e poi mettila nella storta di vetro, e quindi posala in cantina per tre giorni, acciocchè gl’ingredienti s’inumidiscano. Appresso per la stessa storta si distillino in arena a fuoco mediocre o a fuoco aperto accresciuto a poco a poco. Ne uscirà liquore, o sia butirro d’antimonio a guisa di ghiaccio. Se si quagliasse nel collo, accostavi cautamente un carbone [296] infuocato, acciocchè resti libera l’uscita al medesimo. Uscito il butirro, accrescendo il fuoco, sublima nel collo della storta il cinabro, che chiamano d’antimonio. Si rettifichi dunque per istoria il liquore uscito; o pure quest’olio avanti la rettificazione s’impregni del suo cinabro, il che si fa coll’aggiungere al suddetto olio il cinabro tritato, e farlo stare così per 24 ore in vetro chiuso entro la cenere, affinchè in tal maniera s’unisca bene il tutto, dopo di che si rettifichi per istoria di vetro.
Voglio aggiugnere la maniera tenuta dal Cristini (chimico anch’esso) nel curare i carbonchi durante la peste di Roma del 1656. Applicava egli alla vescica de’ carboni, coprendola tutta, uno dei seguenti trocisci, inventati però dal Riverio suo maestro.
Trocisci per curare i carboni.
Togli fecce di regolo d’antimonio, e mettile in luogo umido sopra un marmo e sotto d’un vaso, di modo che non vi possa piovere sopra, ma vi penetri la sola aria. Si scioglieranno in olio, che poi si dee esalare a fuoco lento, e se ne formerà un sale pungentissimo, del quale prendi onc. 1. Aggiungi mercurio sublimato onc. 1; farina d’orzo e di lente, ana onc. 2; gomma dragante liquefatta in acqua rosata dram. 2. Formane trocisci, che applicati ai carboni, mirabilmente corrodono la carne cattiva.
[297]
Empiastro da applicarsi intorno ai carboni.
℞. Unguento di mucilagine, d’altea, ana onc. 2; sugna vecchia e non salata di gallina e di porco, ana onc. 1; fichi secchi onc. 6; uva passa mondata da’ suoi acini, o granelli, onc. 3; lievito acido mez. onc.; farina di semi di lino e di fieno greco, ana onc. 1; zafferano scrup. 2; olio di camomilla e di gigli, ana onc. 1. Mescola, e fanne empiastro.
Col sopraddetto trocisco si formava l’escara, o sia la crosta sopra il carbone; e coll’empiastro si maturava in tal maniera, che in termine di 24 ore il carbone si poteva staccare con tutta la sua radice. Espurgava dipoi il Cristini la fossa restata nella carne buona, e la medicava con unguenti atti a rimettere la carne. Se s’incontrava in carboni ostinati che in 24 ore non venissero alla separazione, tagliava loro intorno, e levata via con un coltello l’escara, applicava di nuovo il trocisco e l’empiastro, ed anche la terza volta occorrendo, finchè si sterpasse la radice del carbone, dopo di che adoperava i digestivi ordinari per sanar quelle piaghe. Notisi nondimeno che è proprio de’ chimici, e specialmente di certi empirici, il promettere di guarir molti mali coi loro rimedi in 24 ore; ma il mantener la parola, oh questo è il difficile. Molto più si noti che in tutti i metodi, allorchè il carbone si vede suppurato, o, per dir meglio, disposta la sua carne morta a separarsi dalla viva, si ha da aiutare a cavarlo fuori col ferro. Nell’Avvertimento stampato in Modena l’anno 1630 si vede che ai carboncelli si [298] metteva sul principio una pezzetta sopra, o pure sfilacci, con unguento egiziaco e triaca insieme, e sopra empiastro diachilon semplice. L’altro giorno, dopo aver unto il carbone con butirro, se gli metteva sopra una pezzetta con unguento isis, a cui era mischiato alquanto di precipitato, e sopra essa aggiungevasene un’altra con unguento diapalma. Vedutosi nel terzo dì il carbone mortificato, che si scarnava, il tiravano via colla molletta, medicando poi la piaga con digestivo, e di sopra diachilon semplice o mollitivo, ovvero unguento semplice. Benchè un tal metodo abbia del triviale e qualche pregiudizio de’ nostri vecchi, nè sia proprio per far dei miracoli, tuttavia ho voluto farne menzione, perch’esso in fine non è pericoloso, e può trarsene profitto. Paolo Barbetta scrive che se dal vescicante o da un cauterio attuale in termine di 12 o di 24 ore non è impedito il crescere del carbone, è imminente la morte dell’infermo, come ancora se non ne esce umidità alcuna; ma che venendo la vescica e la marcia nella debita forma, e facendosi la separazione, si salverà. Lascerò considerar meglio a chi è della professione questo aforismo.
E perciocchè accade che i carboni facciano escara, o sia crosta dura, che impedisce l’operazione dei rimedi, insegnavano i secoli antecedenti di ammollirla con butirro fresco, aggiuntovi un poco di zucchero, o con sugna di porco, o con altri simili lenitivi. O pure adoperavano sughi di appio o di porro, cotti con mele; ovvero mollica di pane con sugo d’appio o di basilico; siccome ancora digestivo di rosso d’uovo o d’olio rosato [299] con trementina, a cui si può aggiungere un poco di zafferano. L’Ingrascia insegna la seguente composizione da usarsi sopra sfilacci, siccome proporzionata non solo per far cadere l’escara, ma per mondificare la piaga.
Unguento per levare l’escara de’ carboni.
℞. Mele rosato onc. 3; sapa onc. 1 e mez.; sugo d’appio, di assenzio, ana dram. 7; sugo di scabbiosa onc. 1 e mez.; trementina onc. 6; farina d’orzo, di frumento, ana onc. 2. Purificati prima i sughi, si bollano insieme tutte le suddette cose, finchè si faccia unguento, a cui s’aggiunga in fine sarcocolla dram. 3, zafferano mez. dram.
Empiastro per far cadere l’escara.
℞. Farina di frumento, d’orzo, ana onc. 3. Impastisi con decozione di malva, di viole, di radici d’altea; aggiugnendo sugna di porco liquefatta e butirro, ana onc. 2, e due rossi d’uovo. Pestate le cose pestabili, si cuocano e si mescolino insieme, facendone empiastro.
Unguento del Barbetta per far cadere la crosta de’ buboni e carboni.
℞. Mele vergine, sugna d’anitra, ana onc. 1; caligine di cammino dram. 6; trementina onc. 1; rossi d’uovo 2; triaca dram. 3; olio di scorpioni semplice quanto basta. Mescola, e fanne unguento.
[300]
Quando l’escara sia pertinace, si osservi che non è bene il fare violenza col ferro, apportando ciò molto cruccio e qualche pericolo ai poveri pazienti. Si attenda coi rimedi ad espugnarla. Finalmente separato ed estratto il carboncello, convien purgare e governar la piaga coi digestivi, e poscia a guisa delle altre ulcere condurne la cura, finchè s’incarni a poco a poco, e senza precipizio si cicatrizzi. A questo effetto potrà bastare unguento composto di cera nuova, sugo d’appio o mele bene spumato. Francesco de le Boe Silvio scrive che a mondificar presto la piaga serve mirabilmente il balsamo di solfo, e specialmente l’anisato, mischiato con unguento tetrafarmaco e basilicon, e applicato alla piaga. E fin qui della cura de’ carboni.
Petecchie, febbre, delirio, vigilia, sonno, vomito, siccità di lingua, emorragie, ed altri sintomi delle pestilenze. Sollecitudine necessaria in curar per tempo gl’infetti. Veleno pestilenziale se coagulante o squagliante il sangue. Quai rimedi maggiormente s’abbiano ad aver pronti per i tempi della peste.
Suol anche scoprirsi il veleno pestilenziale per via di certe macchie, picciole per lo più, e di colore purpureo, le quali veggono chiamate petecchie. Io non son da tanto che possa mettermi ad esaminare se queste sieno prodotte della coagulazione o dallo scioglimento del sangue, siccome [301] ancora se sieno porzioni di questo, fermatesi nelle boccucce delle vene capillari, o pure efflorescenze di sali volatili d’esso sangue venuti alla cute. Lascio volentieri ai medici l’importanza di queste riflessioni per regolamento de’ pronostici e della cura in tali casi; e solamente oserò, fidato sul parere de’ più saggi, chiamar esse petecchie, nella peste vera, peggiori degli stessi carboni, con farne di più un infausto pronostico, per essere stato osservato allora che comparendo esse, o purpuree, o verdi, o violacee, hanno quasi sempre annunziata vicina la morte. Alcuni medici di gran nome le hanno credute salutevoli; ma è da vedere se tal credenza sia stata appoggiata solamente sopra acuti raziocini, perciocchè la sperienza ha fatto apparir troppe volte l’opposto, mentre in alcune pesti non è campato nè pur uno di quei che le aveano, e senza giovare che fossero in poca quantità, poichè il caso era tuttavia disperato. Così parlo io secondo l’altrui sentenza e sperienza, non lasciando però di concepire che si possano dar pestilenze di tal natura e discretezza, che lascino anche guarire le persone assalite dalle petecchie, perciocchè son persuaso che da una sola peste non si può nè si dee misurare ogni altra peste, per quel che riguarda alcuni medicamenti e sintomi. Non è costume delle petecchie il dare allora tempo a’ rimedi. Ma prendendo gl’infermi senza dilazione alcuna i sudoriferi e gli altri antidoti contro la pestilenza, può accadere che la natura (mi sia lecito il valermi sempre di questo nome, perchè qui non occorre entrar nelle dispute delle scuole) con altre più favorevoli crisi si liberi [302] dai sali pestilenziali intenti ad opprimerla, e prevenga le petecchie, indizio allora di morbo già troppo avanzato e malignato.
La febbre è uno degli ordinari corteggi della peste, e ad espugnarla servono gli antidoti finora descritti. Ed avvertasi accadere spesso in tempi di peste che le febbri continue, terzane e simili, e i vaiuoli, ed altri mali, facilmente degenerino, ed anche molti giorni dipoi, in febbre pestilenziale; e perciò saggiamente opereranno i medici, trattando allora tutte le febbri nel principio d’esse come veramente pestilenziali, e prescrivendo i sudoriferi ed antidoti che sono a proposito contro la peste. Probabilmente però non succederà questo, ove si tenga il malato in debita distanza dall’aria, ambiente le persone, robe e case appestate. Appresso con questo fierissimo morbo s’accompagna sovente una fiera doglia di capo, che porta intollerabil tormento agl’infermi; ma anch’essa suol cedere agli antidoti suddetti; e, occorrendo, i medici possono prescrivere qualche anodino. Lo stesso dico del delirio e della frenesia, avvertendo qui che il dar bevande di mandorle, che mandolate si chiamano, e vengono lodate contro il delirio e il dolor di capo, ecc., s’è osservato non solamente lontano dal giovare, ma anche molto nocivo, cagionando esse dipoi vomiti, ansietà, ed altri gravi sintomi. Così i medicamenti oxirrodini, e i frigidi, e i narcotici, e i meri sonniferi sono da fuggire, non potendosi allora adoperare senza pericolo d’altri sconcerti. Scrive il Belcaire che in una peste di Firenze le fanciulle divenendo frenetiche, si andavano ad affogar ne’ pozzi; ma fatti [303] per ordine dal magistrato strascinare per la città i cadaveri nudi delle sommerse, un tale spettacolo indusse cotanta vergogna e terrore nell’altre, che si frenò meglio con questo ripiego, che col timore della morte la loro insania. Sit fides penes auctorem. Trovo io però in Eliano che le fanciulle di Mileto, benchè non corressero tempi pestilenziali, caddero in una somigliante disgrazia, e vi fu adoperato il medesimo rimedio. La vigilia è stato avvertito che non fa gran danno. Bensì ne porta dei gravissimi il sonno nel principio del morbo, e finchè non sieno presi i sudoriferi, al contrario di quel che si osserva in altri mali, ne’ quali ricevono gl’infermi tanto ristoro dal sonno, e massimamente solendo esso contribuir molto all’operazione del sudore. Perciò allora a tutti i patti bisogna tenere svegliati gl’infermi, permettendo poi loro dopo il terzo o quarto giorno di dormire per tre o quattro ore, finchè abbiano ricuperata la sanità. Al più al più, quando la vigilia fosse continua, unger loro le tempie con olio di noce moscata spremuto; ma non dar loro nè oppiati, nè altri soporiferi per bocca, a riserva della triaca, del diascordio, dell’orvietano, e d’altre simili composizioni, che sono bensì alquanto oppiate, ma non in guisa da nuocere per questo, essendo poi necessarie per altri effetti. L’aceto canforato, lo sbuffar nel viso alquanto di vin bianco generoso, ed altri rimedi possono giovare a tenersi svegliato. Dopo il sudore suol cessare la gran voglia di dormire.
Sono ancora compagni per l’ordinario del morbo pestilenziale una somma debolezza, un’ansietà di [304] cuore e un vomito o nausea fastidiosissima, inutile, anzi sommamente nociva, di modo che non si vuol prendere, nè si può ritenere alcun medicamento. Per provvedere a tutto vengono sommamente lodate le seguenti composizioni dal Diemerbrochio.
Rimedi per la debolezza e pel vomito.
℞. Conserva di rose rosse onc. 1 e mez.; diascordio del Fracastoro dram. 3 ovvero 4; acqua triacale descritta di sopra in questo libro onc. 4; sugo di limoni fresco, acqua di cinnamomo, ana onc. 1 e mez. Mischia, e dopo aver lasciato posare per una o due ore, cola tutto con pezza bianca. Aggiugni alla colatura confezione di giacinto senza muschio dram. 1, e mischia. Prendine spesse volte il giorno un cucchiajo.
Linimento.
℞. Olio di noce moscata spremuto, olio di scorpioni del Mattiuolo o di lauro, triaca, ana dram. 1; olio di ginepro mez. scrup., di succino scrup. 1, di garofani o di cannella gocce 3. Mischia insieme, e fanne linimento, col quale tiepido ungi la bocca dello stomaco due o tre volte il giorno. Dipoi mettivi sopra la seguente
Pasta.
℞. Radici di calamo aromatico, noce moscata, ana dram. 1; garofani, benzoino, ana mez. dram; [305] foglie di menta dram. 2. Polverizzato il tutto sottilmente, aggiungi onc. 3 o 4 di mollica di pane, e aceto rosato quanto basta, e fanne pasta, che stesa sopra una pezza, e scaldata, applicherai alla regione del ventricolo.
Il Sennerto, citando la sua sperienza, scrive che a comprimere la voglia del vomitare è rimedio quasi miracoloso il dare una dramma di sale di assenzio in un cucchiajo di sugo fresco di limoni. Altri danno del vino bianco con entro polvere di cannella e di noce moscata caldissimo all’infermo, e il fanno alquanto dormire. Per rimettere l’appetito del cibo consigliano altri lo spirito dolce di sale e l’elisire di proprietà. Così vien creduto che conforti assai l’olio di scorpioni del Mattiuolo o del Granduca, per tacere altri rimedi.
Alla gran siccità della lingua molte abluzioni sono prescritte dai medici. S’è osservato che la migliore di tutte è l’acqua semplice. Il mischiarvi aceto fa che dopo essersi sciacquato ritorni la sete e la siccità più molesta di prima. Non occorre sperar rimedio agli spessi starnuti, nè al singhiozzo nella peste, perchè questi sono irritazioni convulsive, e segni allora di morte imminente ed inesorabile; e poco ci manca a poter dire lo stesso delle orine grosse, oleose e nericce. Rarissime volte ancora accade che in tempi tali si freni lo sputo del sangue, o il suo flusso per le parti d’abbasso, cagionato probabilmente dai sali corrosivi della peste, che aprono le bocche dei vasi, e sfibrano, e disciolgono il sangue. Alla emorragia bensì delle narici, quantunque non tanto pericolosa, e ai flussi naturali, ma fuor di [306] tempo, delle donne, si può talvolta rimediare, ed è necessario rimediare, per quanto si sa, non essendo questa per l’ordinario in tempi pestilenziali una salutevol crisi della natura (come alcuni si sono figurato, e può esser vero in altri morbi acuti) ma un effetto pernicioso della violenza del male. Tutte le emorragie sono allora indizio di pericolo, o pure di morte inevitabile. Così scrivono comunemente i medici, e l’avverte ancora Paolo Barbetta; ma non vo’ lasciar d’avvertire anch’io venire asserito dal medesimo Barbetta che chi nella peste del suo tempo aveva l’emorragia del naso e il flusso mestruo, per lo più si salvava. Qualora dunque si scorga nocivo il flusso del sangue, converrà dar di piglio a rimedi esterni ed interni, refrigeranti ed astringenti, come insegna la medicina, e non perdere tempo. In Firenze si trovò molto buono il sugo d’ortica, con cui si bagnava la fronte e le tempie, turando ancora le narici con due taste intinte nel medesimo sugo. Altri pigliavano pelo di lepre tirato finissimo, e il soffiavano nel naso. In quanto alla diarrea, conosciuta dai più saggi anch’essa per uno dei più perigliosi sintomi della peste, e massimamente allorch’ella sopravviene a chi è già ferito dalla peste (essendo all’incontro la stitichezza un indizio lodevole); la ragione e la sperienza hanno insegnato che s’ha da procurar di fermarla e senza menoma dilazione, altrimenti il malato sen va. Quando ciò non succeda nel principio, si rende questo incomodo incurabile. I sudoriferi ed antidoti astringenti sono quelli che debbono usarsi e che possono domarlo, scegliendo specialmente i [307] più propri per resistere al veleno e alla putredine della pestilenza. Il Pareo loda assaissimo la seguente
Polvere per curare il flusso del ventre.
℞. Bolo armeno, terra sigillata, pietra ematite, ana dram. 1; pece navale dram. 1 e mez.; corallo rosso, perle preparate, corno di cervo bruciato e lavato con acqua di piantaggine, ana scrup. 1 e mez.; zucchero rosato in tavolette onc. 1. Se ne faccia polvere, di cui si dia un cucchiajo al malato prima del cibo o con un rosso d’uovo.
Eustachio Rudio per la cura di questo flusso loda molto lo scordio dato con zucchero rosato o conserva d’acetosa. Più gioverebbe prendendolo colla suddetta polvere, o pure con un poco di triaca o di diascordio, ovvero, se la febbre fosse ardentissima, con alquanto di conserva di rose rosse, o con rob di cornio, o sia corniolo, o di acacia.
Ed ecco ciò che ho creduto di dover notare intorno alla cura e al Governo Medico del morbo pestilenziale. — Finirò con alcune poche osservazioni. La prima, e più importante di tutte, si è che in ogni male, ma specialmente in questo, è pericoloso ogni indugio nel prendere i medicamenti. Non bisogna perder tempo, nè si vogliono imitare que’ poveri sconsigliati che per paura di perdere il commercio, o di tirarsi addosso altri danni, occultano il male con sua ed altrui inevitabile rovina. Allorchè il veleno s’è impossessato degli umori ed ha indotta la corruzione in essi o nelle [308] viscere, non c’è rimedio che vaglia, e l’esterminio è certo. Attesta il Rondinelli, che fu spettatore del contagio in Firenze l’anno 1630, che coloro i quali presto ricorrevano ai rimedi per lo più guarivano; e il Sennerto, ed altri valentuomini hanno anch’essi troppo spesso osservato in pratica che molti i quali appena sentendo d’essere feriti dalla peste, ricorrevano ai sudoriferi ed antidoti, dopo copioso sudore si trovavano sani; siccome per lo contrario di cento che tardavano molto a curarsi, appena uno ne campava. Talvolta il veleno pestilenziale preso sarà poco, sarà debole, si potrà con facilità espugnare da chi non è pigro coi medicamenti, ma se gli si lascerà prender piede e forza, egli resterà il vincitore senza difficoltà. E specialmente avverto ciò per le donne, e molto più per le fanciulle, alle quali venendo buboni ed altri perniciosi effetti della peste in parti che il pudore tien celate, facilmente nascondono il male, perendo esse, e facendo perire altri poco appresso. Presto dunque ai rimedi; che il far presto in casi tali si può chiamare il recipe principale e il più efficace rimedio.
Appresso, in ogni costituzione di peste hanno immediatamente i medici da considerare tutti i suoi più ordinarj sintomi, procurando anche, prima che arrivi il morbo, di risaperlo da chi già ne ha fatto o ne fa miseramente la prova, per poi stabilire, se fia possibile, la qualità del suo veleno, e qual metodo sia da tenere per curarlo ed espugnarlo. Dichiamola però schietta: questo non è che troppo difficile, e più difficile ancora sarà che felicemente colpisca il bianco in tali dispute chi non è libero [309] da certi ciechi pregiudizj in favore dell’antichità, e solo incensa Galeno ed Avicenna, (benchè non mai letti) e non sa, o non ha mai ben pesato il valore di molte opinioni moderne. A determinare le qualità precise d’un veleno pestilenziale, molto più de’ meri empirici, potrà giovare un chimico non visionario e un acuto e sincero esaminator della natura, perchè meglio intendente della combinazione, configurazione e risoluzione delle particelle dei misti, dei sali, ecc. Nulla dirò io delle opinioni dell’Elmonzio, del Langio e d’altri, se non che sembrano a me molto improbabili. Altrettanto avrei detto ancora dell’opinione del P. Atanasio Chirchero, il quale fa consistere le pestilenza in certi vermicciuoli infettanti e corrompenti il sangue degli uomini, se il chiarissimo nostro signor Antonio Vallisnieri in una sua lettera al signor Cogrossi intorno al male contagioso de’ buoi, ultimamente pubblicata in Milano, non avesse corretto insieme e mostrato possibile, anzi probabile un sì fatto sistema. Vero è (per tacer altre cose) che presso di me resta incerto, se, posti anche vermi nel sangue de’ corpi appestati, sieno essi poi subito da dirsi cagione di quel morbo, e tanto più ove si ammettesse col Levenocchio che trovinsi vermi anche nel sangue dei sani. Vero è altresì, non trovar io finora spiegata una cosa, di cui son persuaso, cioè quel diffondersi dal fiato e dalla traspirazione di tutto un corpo vivente appestato (e proporzionatamente ancora dei cadaveri), fino ad una certa distanza, semi di pestilenza per l’aria, i quali possono e sogliono infettare chi s’avvicina e non va premunito; il che non so come ben cammini in [310] questo sistema, e perciò figurarmi io tuttavia per più verisimile che la peste consista in effluvj e spiriti velenosi. Ma ciò non ostante confesso io pure ingegnosa ed utile, anche per altre ricerche, l’opinione suddetta; e potrebbe un dì la sperienza recar lumi tali che maggiormente credibile ce la rendessero. Intanto nel mio, cioè nell’ordinario sistema, gioverà considerare i veleni come di due specie, secondochè vien fatto da molti moderni, cioè o dissolventi o coagulanti, proprio de’ quali si è o lo squagliare e disciogliere il sangue e gli umori del corpo umano, o pure di coagularli e di legare gli spiriti necessarj alla vita. Si dovrà dunque osservare se si potesse ad una di queste due spezie ridurre la pestilenza che corre, la quale in fine altro non pare che sia, se non un veleno, per determinare con quali antidoti si debba susseguentemente combattere in tal congiuntura. A questa diversità è probabile che s’abbia da riferire il trovarsi alcuni rimedj giovevoli in una peste, e non giovevoli o nocivi in un’altra. Il Willis, il Langio, il Doleo e il Rivino tengono che il veleno della peste operi col coagulare. Carlo della Fonte difende l’opposto, e seco s’accordano il Diemerbrochio, il Barbetta, il Graff, Luca Tozzi ed altri. Veramente sembra più probabile che d’ordinario le pesti sieno un veleno dissolvente, perchè non se ne troverà forse alcuna, in cui i medicamenti acidi non sieno riusciti un efficace rimedio tanto nella preservazione, quanto nella cura della medesima, e perchè ordinariamente si osserva divenire il sangue negli appestati sì fluido e sottile che spesso prorompe fuori del naso e per bocca [311] e per i canali dell’infimo ventre e talvolta infin per la cute, di modo che per lo più è difficile, o impossibile il metter freno all’emorragia. Taccio altre ragioni. Ma perchè io non veggo stabili alcuni supposti di chi tiene questa sentenza, e discordano fra loro i medici nel descrivere i sintomi di varie pesti, perciò volentieri sospendo qui il mio giudizio, e confessando che da una, due o tre pesti non si dee, nè si può dedurre una regola generale per tutte le altre, rimetto all’accurata osservazione de’ medici il deliberare su questo punto, allorchè s’avesse la disavventura di doverne mirare il terribil aspetto. Noterò solo, pensare il Sydenham che questo veleno consista in particelle infiammatorie che rompano le fibre del sangue; e Francesco de le Boe Silvio il fa consistere verisimilmente in un sale volatile, lisciviale ed agro, il quale penetrando nel sangue il renda più fluido del solito, sfibrandolo e inducendo la putrefazione in esso o in altri umori e parti del corpo, dove egli si scarica o si ferma. E conciossiachè, secondo il suo sistema, da questo maligno sale vien diminuito o distrutto l’acido che era, ed ha da essere nel sangue, utilissimo per conseguente, anzi necessario per rimetterlo si è il ricorso all’aceto, agli agrumi, al vitriuolo ed altri simili acidi, riuscendo all’incontro nocivi i medicamenti puramente alcalici. Così l’acquavite semplice o triacale ed altri alcali si sono osservati pregiudiziali a molti in que’ tempi; il che non suol avvenire degli acidi, purchè presi colla debita moderazione e senza esorbitanza. Chi nondimeno abborrisse gli acidi meri in bevanda, non farà male mischiando con esso loro un poco d’acquavite, [312] o temperando in altra guisa l’austero o acerbo d’alcuni acetosi, per accidente spiacevoli. In fine si ricordino bene i saggi medici di ciò che viene avvertito anche dal suddetto sig. Vallisnieri nel tom. X de’ Giornali d’Italia, cioè darsi o potersi dare dei veleni pestilenziali che rechino seco tutti e due i sintomi dello squagliamento e della coagulazione; nel qual caso poscia s’intenderà il perchè ne’ rimedj antipestilenziali si mescolino gli acidi e gli alcalici.
Per altro può di leggieri accadere che nè pure a’ valenti medici riesca di determinare la vera natura e il costitutivo d’una peste, perchè la sua malignità potrebbe consistere in altre cagioni e maniere a noi incognite. Nulla però dovrebbe conferir tanto alla conoscenza del male, quanto il vedere quali rimedj o cose giovino o nuocano allora. Pazienza, se questa non è forma diritta di filosofare e s’ella è suggetta a molti inganni. Può essa nondimeno avvicinarsi non poco al vero. Ordinariamente si medicano, e talvolta bene, tanti altri mali; e pure la vera loro essenza e cagione è poco nota ai medici. Non voglio qui lasciar di aggiungere che dai professori della chimica son forte lodati nella peste i rimedj e le preparazioni antimoniali. E certo essendoci degli antimoniali che per la lor preparazione son privi di forza emetica e catartica, e solamente son diaforetici, questi potrebbono senza gran paura, anzi con isperanza di molto vantaggio, consigliarsi e accettarsi nella cura delle pestilenze, siccome sono utili e lodevoli in altri mali. Anche Giovanni Zvelfero avverte che la maggior parte di quei che infetti di peste usarono al peso d’una [313] dramma l’antimonio diaforetico, restò guarita, ed egli medesimo si confessa testimonio di sì felici successi. Molti altri autori citati da Paolo Boccone gli danno la stessa lode; e Pietro Moratti in una Relazion della peste del 1630 attesta che in Bologna riuscì molto utile un estratto d’esso antimonio diaforetico, triaca, zedoaria, angelica e fiori di solfo, infondendo tutto prima in ispirito di vino per lo spazio di quattro giorni, poi colando e di nuovo infondendolo, con farlo finalmente esalare a bagnomaria. Se ne davano dram. 2 al paziente in acque, o brodi, o siroppi, con che si movevano sudori le più delle volte puzzolenti e si provocavano le orine. Ma non è da tutti il preparar così bene l’antimonio ch’esso riesca solamente sudorifero, e non ritenga, o non ricuperi la forza emetica, o sia vomitoria. E perciò ripeterò io qui ciò che ha il nostro sig. Zannichelli nella Dissertazione della Neve di ferro: Agitur de vita hominum; proinde satis admirari neque facilitatem, qua medicamenta, præsertim ex mercurio et antimonio passim conficiuntur: res certe plena periculi, adeo ut non solum artificibus quibusdam mechanicis, se ipsis etiam artis professoribus timorem incutere debeat. Caveant qui ista jactitant absque sufficienti peritia et diligentia; sed multo magis caveant, qui eisdem fidunt, propriamque vitam hujusmodi farinæ hominibus committant. Questi sono sentimenti d’un saggio ed onorato chimico; e perciò non sarà se non bene per conto di certi antimoniali e d’altri simili strepitosi rimedj l’assicurarsi prima colle felici prove altrui dell’innocente e benefica loro natura. Il Willis descrive alcuni sudoriferi e cordiali, [314] proprj per combattere contra la coagulazione, ed altri contra la dissoluzione del sangue.
Ma perciocchè, posta o l’una o l’altra natura della peste, non si saprà combinar seco da alcuni il tanto poi lodarsi l’uso di non pochi medicamenti, che paiono opposti fra loro, e pure sono stati commendati da me, io lascerò volentieri sì fatte quistioni e ricerche alla scuola, e mi contenterò di dire che comunque si senta dalla natura della peste, resterà sempre certo che gli acidi e il solfo e i sudoriferi sono i rimedj più potenti e i più approvati della peste, secondo il parere di tutti i medici e di qualunque pratico di que’ fieri tempi, il che più di tutto a noi importa di sapere. E però venendo contagi, chi non ha, nè può aver medici, medicamenti e speziali, vegga di provvedersi almeno di buon aceto e di solfo, che questo può bastare. L’aceto suol mancare a pochi e il solfo è facile negli stati del principe nostro ad averlo, ed ottimo, dalla miniera di Scandiano. Silvio de le Boe tiene che nulla ci sia di sì vigoroso per mitigare l’acrimonia del sale pestifero e di fissare la fluibilità del sangue, come il solfo minerale, ch’egli però desidera prima fissato dall’arte. Per parere di lui il salnitro, e massimamente lo spirito di nitro, hanno somma virtù per fissare ed espugnare il sale maligno della pestilenza, dovendosi però questi, come anche altri acidi, temperare con umore acqueo conveniente, acciocchè soli non recassero altri mali. Abbiam lodato assaissimo la canfora, la triaca, il diascordio, l’olio di scorpioni. A questi pochi rimedj si può ridurre la privata spezieria di chi non ha maggiori comodità. [315] Dell’erbe e di molte altre cose da noi commendate in questo libro, per l’ordinario non ci vuol fatica o spesa a trovarne. Coraggio dunque, che ancora con provvisione di sì poco, e senza fastose e lunghe ricette, possono le persone condur seco la speranza di preservarsi e guarire dalla pestilenza col nome del Signore, del cui potentissimo e necessario aiuto passerò ora a parlare, con esporre da qui innanzi il Governo ecclesiastico ne’ tempi di contagio.
[316]
Necessità di ricorrere a Dio e di placarlo, massimamente in tempo di peste. Quali in pericolo di contagio abbiano da essere le incumbenze de’ vescovi e degli altri ecclesiastici per tener lungi il morbo; e quali i preparamenti prima ch’esso venga.
Spediti dalla cura politica e medica del morbo pestilenziale, passiamo alla terza, che è la più importante di tutte, cioè alla cura dell’anime in tempi di peste e a ciò che riguarda Dio; il che vien compreso nel Governo ecclesiastico. E primieramente chiara cosa è che in forma distinta convien ricorrere al possente aiuto di Dio, allorchè s’ode fischiare in qualche vicinanza il terribil flagello della peste. Per comando o permissione di lui vengono le calamità, ma spezialmente si conosce che vengono quelle più strepitose che affliggono i popoli interi, o per castigo de’ peccati o per ispurgo dei malviventi, o affinchè la gente, che facilmente si [317] addormenta sopra la terra, quasi incantata da questi pochi beni transitorj, si risvegli, e conosca che c’è Dio padrone delle robe e delle vite, e a lui si converta. Perciò la peste vien bizzarramente chiamata da Tertulliano, Tonsura lascivientis ac silvescentis generis humani. Ora se questo gran Dio vuol punire o purgare la terra secondo i decreti della sua infinita giustizia e della sua sapientissima provvidenza, chi ci sarà che possa resistere alla sua volontà? Indarno si oppongono al supremo suo volere le prevenzioni e diligenze umane; e indarno veglia chi fa la guardia alla città, se non la custodisce colla sua invisibile parzialità ed assistenza l’Onnipotente e saggio Regolatore del tutto. Certo non si vede mai così bene, come sia corta e fallace l’umana prudenza, e come Dio sappia confondere la sapienza del secolo, quanto nei tempi di peste. Dopo tutte le cautele e le precauzioni usate, si trova bene spesso passato il contagio per dove meno s’aspettava, entro un paese e nelle città. Non bastano le guardie; anzi le guardie son quelle talvolta che l’introducono. O pure permette il Signore Iddio che i principi o i maestrati, dimentichi del debito loro, anzi di sè stessi, o cadano in una supina negligenza, o trascurino allora alcune opportune diligenze, col non ascoltare o non curare il consiglio de’ migliori, lasciando con ciò aperta la via al morbo desolatore. All’incontro si veggono preservati altri paesi, e con diligenze molto minori; essendo stato anche osservato che mentre la peste facea nell’anno 1630 strage sì grande nello stato di Milano, l’armata spagnuola che trattenevasi a Casale di Monferrato, e tuttodì [318] ricevea vettovaglie dai Milanesi, pure si mantenne sempre intatta ed esente dall’infezion dominante. Abbiam anche detto altrove che la città di Faenza si preservò nel fiero contagio dell’anno suddetto, e il fermò a’ suoi confini; e pure si sa che segretamente ne uscivano e vi tornavano non pochi, a’ quali premeva più il proprio guadagno col trasporto delle grasce verso Bologna, che la salute del pubblico suo.
Adunque la più ferma speranza di tener lontana la peste dee riporsi nella misericordia del nostro Dio; e per rendersi capace di questa, egli è necessario il fare per tempo un fedele e non finto ricorso a lui con pubbliche orazioni e con una seria emendazion della vita, acciocchè liberi il suo popolo dal pericolo che sovrasta. Siccome abbiamo dal lib. 3, cap. 8 dei Re, e dal lib. 2 dei Paralipom., cap. 6, la maggior fiducia del popolo Ebreo in tempi di calamità veniva riposta nell’umiliarsi colle preghiere a Dio; altrettanto e più dovrà fare e sperare il suo eletto e diletto popolo della legge nuova, per cui la somma sua clemenza non ha risparmiato il sangue e la vita del suo Unigenito, e a cui questo medesimo suo benedetto Figliuolo ha promesso tante cose, e tante volte, nel suo santo infallibile Vangelo. Pertanto correndo sì gran pericolo, dovrà il vescovo, secondo le istruzioni di S. Carlo, ordinare processioni per tre giorni, come ancora digiuni ed altre opere di penitenza e di pietà per placar Dio e implorare la sua gran benignità, con ordinare ancora una comunion generale in qualche giorno di festa. Disporrà il giro delle quaranta ore per l’esposizion del Venerabile, [319] acciocchè in nessun’ora manchino le preghiere e il culto a chi ha da essere la nostra maggiore speranza. In oltre prescriverà un giorno o due di digiuno per ogni settimana; e in una festa determinata darà le ceneri benedette a tutto il popolo, come se fosse il principio della quaresima. Così fece ancora S. Carlo. Quindi tanto esso vescovo, quanto i parochi e i predicatori e i direttori e capi de’ monisteri rivolgeranno lo studio loro a levar via e sradicare quelle corruttele e que’ peccati pubblici che più irritano lo sdegno di Dio, come sono gli adulterj, i concubinati, le usure, le ingiustizie, i contratti illeciti, le oppressioni dei poveri, le usurpazioni della roba altrui, le nemicizie, l’irriverenza a sacri templi e simili altre offese del Creatore. Qui più che mai ha da accendersi e da sfavillare lo zelo de’ ministri di Dio senza però mai dimenticare le leggi e i consigli della prudenza, fedele compagna d’ogni operazione e virtù.
Oltre a ciò se l’intenderà il vescovo co’ principi e magistrati secolari per levar via dal paese gli scandali, i pubblici giuochi e balli, le bestemmie, le ubbriachezze, i banchetti, certe conversazioni ed altre somiglianti azioni o pubblicamente peccaminose, o almen tali che da loro non va bene spesso disgiunto il peccato. Medesimamente esorterà egli co’ suoi editti e per mezzo ancora dei parochi e predicatori, tutto il popolo alla pace e concordia, a compor le liti, gli odj e le fazioni, a perdonar le ingiurie, a lasciare il lusso, a restituire il mal tolto, e, in una parola, a mutare e migliorar la vita e far penitenza, unico mezzo per mitigar [320] l’ira di Dio ed ottenere la protezion del suo braccio nelle calamità imminenti. Chiunque ben rifletterà all’orribilità, alla prontezza, alla crudeltà e desolazion d’una peste, e al pericolo che sta tutto giorno davanti agli occhi, di chi la sente vicina o la rimira presente, se non è un pazzo o un empio, non tarderà punto a convertirsi. Appresso dovrà inculcarsi a tutti il tenersi ben lungi, massimamente allora, da ogni offesa di Dio, e se mai cadessero, il confessarne subito e il farne ancora, occorrendo, un’intera purga con una confession generale, e in somma lo star ben preparati. Il terribil rendimento de’ conti forse non è lontano, e però si dee far loro considerare che venendo la peste, essa o non lascia tempo da confessarsi, o non permette facilmente comodità di confessori e di altri aiuti spirituali. Del pari s’avrà da persuadere la frequente comunione, almeno una volta per settimana, e l’impiegarsi allora più che mai in orazioni, digiuni, limosine ed altre opere di pietà e di carità. E perciocchè niuno potrebbe promettersi nel fiero scompiglio d’una pestilenza tempo ed agio di ben disporre gli affari suoi e della sua famiglia, convien ricordarsi e far ricordare agli altri che dichiarino i lor debiti e crediti, che facciano testamento, se ne han bisogno, che paghino, per quanto sia in loro potere, i debiti contratti senza lasciarne la cura agli eredi. Può essere vicina la partenza: chi ha tempo, non aspetti tempo.
In questo mentre non si dovrà ommettere alcuna delle diligenze pubbliche e private che si credono proprie per tener lontano il contagio. Non [321] è questo un temerario opporsi alle risoluzioni divine. Sarebbe anzi una temerità e un tentare Iddio il tralasciar simili diligenze; imperocchè quantunque non in esse, ma nella clemenza e nell’aiuto dell’Altissimo, s’abbia a confidare, tuttavia essendo solito il Signor Iddio di operare i suoi voleri per mezzo delle seconde cagioni e giusta le leggi ordinarie della natura, sarebbe un obbligarlo a fare un miracolo, anzi infiniti miracoli, quell’esigere ch’egli allora preservasse chi senza necessità non volesse guardarsi dal commercio delle persone e robe appestate o sospette. Il perchè, qualora occorresse, contribuirà anche il vescovo co’ suoi editti alla difesa della pubblica salute, ordinando quelle cose che inviolabilmente si debbono osservare dai sudditi suoi ecclesiastici e ne’ luoghi ecclesiastici, e accordandosi col maestrato secolare, nel promuovere il bene della repubblica, con dar anche facilità ai vicarj foranei e ai parochi di ordinar lo stesso secondo i bisogni. Può essere che ciò non sia necessario; ma certo sarà ben poi indispensabil cura de’ parochi, predicatori, confessori, ecc., l’istruire il popolo che tutti sono obbligati in coscienza ad ubbidire ed osservare esattamente in casi di sì terribil conseguenza gli editti e le regole de’ principi e maestrati secolari, sì per non coprire il suo o l’altrui male, come ancora per non maneggiare, vendere o trasportar robe infette conosciute tali. Per parere di tutti i teologi, anzi per dettame della stessa natura e della retta ragione, non può alcuno senza peccato gravissimo tirar addosso a sè stesso colla trasgression delle leggi un malore cotanto micidiale, nè introdurlo [322] in paese sano, nè comunicarlo a chi ne è libero. Davanti a Dio e davanti agli uomini sarà sempre reo d’una gran colpa e degno di gravissime pene chi non volendo eseguire le provvisioni e leggi dei principi (le quali certo è che in questi casi obbligano sotto pena di peccato mortale, e ciò quando anche l’ubbidienza dovesse costare un danno grave di roba) cooperasse all’esterminio suo e del prossimo e della patria sua. In Roma nella peste del 1656 erano non men dei secolari sottoposti gli ecclesiastici di qualsivoglia fatta ai gastighi temporali intimati contra simili trasgressori. Così è stato fatto e dee farsi in altre simili congiunture. Questa legge vien dalla natura; e oltre a ciò non lasciando gli ecclesiastici d’essere parte della repubblica, son perciò tenuti anch’essi, almeno al pari degli altri, se non anche più di molti altri, alla conservazione, quiete e felicità d’essa, e a preservarla, per quanto possono, dalla rovina.
I maestrati secolari, non già per titolo di giurisdizione, ma per titolo di natural difesa possono impedir l’ingresso o prescrivere sequestri alle persone ecclesiastiche sospette di pestilenza, acciocchè non infettino i sani, siccome ancora opporsi, affinchè nè pur gli ecclesiastici morti di peste vengano seppelliti in chiesa. Nulladimeno affinchè i vescovi conservino quelle prerogative che hanno debbono in tempo di peste delegare la loro autorità sopra gli ecclesiastici al magistrato secolare, per tutto quello che possa bisognare a tener lontano il contagio e a mantenere la sanità, l’annona e l’altre leggi stabilite allora pel pubblico bene. O pure hanno essi da unire un loro deputato ecclesiastico [323] per assessore ad esso maestrato secolare, dandogli facoltà di esercitare la giurisdizione sopra i chierici sì coattiva, come punitiva, riservando a sè la sola pena della morte. Tanto si ha dal Diana. Ricorderò anch’io qui ciò che prima di me consigliò il P. Filiberto Marchino ch. reg. barnabita nel suo utilissimo libro intitolato, Bellum divinum, cioè che il vescovo pestis tempore de ecclesiastica jurisdictione admodum ne sit sollicitus, nam inde scandala multa orientur; caveat ab excommunicatione; comiter et suaviter facultatem suam aliis deleget; ipseque ad spiritualem curam animarum studium omne convertat. Tunc non est de jurisdictione altercandum. Finalmente sarà cura del prelato e de’ ministri di Dio il raccomandare che il popolo sia divoto verso Dio, e nello stesso tempo sia rassegnato e ubbidiente ai maestrati. Che non fugga l’andare ai posti, alle porte e agli uffizi destinati. Che accuratamente assista, acciocchè nulla entri o passi che non sia ben riveduto o purgato dal suddetto anche menomo d’infezione. Che niuno tradisca la fede che si ha in lui con parzialità, negligenza o interesse. Non si creda di farsi poco merito presso chi ha da giudicare i vivi e i morti quel cittadino che s’applichi a servire con tutta fedeltà ed attenzione in sì gran pericolo alla patria sua. Purchè intenda di servire a Dio, nel servire al prossimo suo, questo sarà un atto di nobilissima carità, talvolta più meritevole di mercede in cielo che non sono moltissimi altri atti di divozione.
Prima poi che s’interrompa affatto il commercio, e allorchè s’avrà giusto sospetto di dover soggiacere al flagello che gira nelle vicinanze, cerchi il [324] vescovo dal sommo pontefice facoltà di dispensare indulgenza plenaria agli appestati che si confesseranno o mostreranno segni degni di contrizione. Come ancora altre indulgenze per chi ogni giorno reciterà le orazioni o farà altre azioni pie che saranno prescritte dal vescovo stesso. E a fine di maggiormente accendere le persone all’esercizio della carità cristiana, cotanto necessaria e meritoria in que’ tempi, chiederà delle altre indulgenze per i parochi ed altri ecclesiastici sì secolari, come regolari che assisteranno agli appestati. Altre ne dimanderà per i medici e chirurghi, per le nutrici e levatrici, per gli altri ministri nobili o ignobili, facchini e beccamorti, sì dei lazzeretti, come fuori dei lazzeretti che piamente attenderanno alla cura e al governo del popolo infetto. Altre per chi farà limosine o con altre azioni caritative soccorrerà allora agl’infermi ed anche i sani bisognosi. In oltre chiederà facoltà di assolvere di qualunque censura e caso riservato al papa nella bolla in cœna Domini e in tutte l’altre bolle, specificando per maggior sicurezza il delitto dell’eresia, e di poter delegare ad altri tal facoltà e di poter liberare i sacerdoti da alcune irregolarità incorse, ancorchè per morte involontariamente accaduta e di assolvere dalle censure suddette anche nel fôro esterno. Non intendo io qui di derogare alla facoltà oggidì disputata d’assolvere da tutte le irregolarità e sospensioni, nate da delitto occulto, fuorchè dall’omicidio volontario e da tutti i casi occulti riservati alla S. Sede, che nel concilio di Trento sess. 24, cap. 6, fu conceduta o conservata ai vescovi e anche di delegarla ad altri. Chieda ancora per chi [325] farà opere di carità la licenza di eleggersi un confessore, benchè regolare, il quale assolva da ogni caso e censura riservata. Di più procurerà l’autorità di permutare l’uno d’alcuni legati pii in sollievo de’ poveri, potendo ciò essere necessario o utilissimo in quelle misere contingenze e gratissimo a Dio, che che potesse parere ad alcuni, i quali talvolta non sanno assai bene estimare le intenzioni pie dei testatori e i privilegi della carità e necessità. Chieda eziandio di poter adoperare, anche senza la permissione de’ loro superiori, que’ religiosi che volessero santamente dedicarsi al servigio de’ lazzeretti e degli appestati; siccome ancora di poter costringere le persone religiose ed altri ecclesiastici, o luoghi, esenti dalla giurisdizione episcopale, a far ciò che richiederà la pubblica utilità durante il tempo della peste. Di tutto poi si varrà il vescovo, caso che ne venga il bisogno, secondo la sua prudenza. Finalmente egli è da sperare che se si avvicinassero le minacce d’una pestilenza, si moverà di buon’ora il piissimo zelo de’ sommi pontefici a concedere un Giubileo che potrà essere efficacissimo mezzo a placare lo sdegno divino o ad incitar maggiormente i popoli al timore di Dio, alla divozione e alle opere sante.
[326]
Quanto sia necessario il coraggio ne’ tempi della pestilenza. Fede e speranza, virtù divine e fonti d’intrepidezza e di giubilo. Bontà e misericordia di Dio ricordate ai peccatori. Rassegnazione a Dio, e darsi tutti a lui.
Allorchè la peste entra in qualche città per la prima volta e già si scorge cominciare, vittoriosa d’ogni ostacolo, a mieter le vite del popolo, pochi son quelli che spettatori di sì orribile, non mai veduto e tanto pericoloso spettacolo, non s’empiano di terrore, di costernazione ed anche di viltà. E benchè non pochi ripiglino animo coll’andar più innanzi, simili a certi soldati, timorosi nella prima battaglia, ma che poi vanno a poco a poco formando il coraggio nell’avvezzarsi al fuoco; pure più son quelli che durante il contagio pusillanimi sempre, sempre conservano il primiero orrore, temendo di tutto, e da per tutto mirando dipinta nelle morti altrui la propria morte. Ma se c’è tempo in cui sia necessaria la costanza dell’animo, l’intrepidezza e il coraggio, quel della peste è sicuramente, e più degli altri, tale. L’ho detto e il torno a ripetere: secondo la conclusione di tutti i più saggi medici e di qualunque pratico di sì funeste occasioni, uno dei gran preservativi della peste si è il non aver paura della peste. Il coraggio, l’allegria, la tranquillità dell’anima tenendo in un sano equilibrio e senza alterazione, gli spiriti ed umori del corpo, tengono serrato in qualche guisa il passo anche al veleno esterno della pestilenza. [327] Non s’hanno a trascurare gli altri mezzi e i rimedj per preservarsi; ma questo ha da essere uno dei primi. L’apprensione, il terrore e la malinconia sono anch’essi una peste ne’ tempi di peste, disordinando la fantasia e disponendo la massa degli umori a facilmente ricevere e in certa guisa chiamar da lontano il veleno regnante, siccome con infiniti casi ha fatto vedere la sperienza. Necessarïssima dunque si è allora la fortezza e costanza dell’animo per benefizio di cadauno in particolare; ma spezialmente ve n’è estrema necessità, per benefizio del pubblico, nei maestrati, nei sacerdoti e in qualunque altra persona, a cui sia appoggiato il governo o spirituale o temporale del popolo in mezzo a sì fiera calamità. Se questi son dominati dalla paura, se questi fuggono, lasciando di regolare e di soccorrere con opportune provvisioni e colla lor presenza il povero popolo, immenso è il disordine, somma la disperazione, infinita la strage. Ma se questi, fortificato il lor cuore da un nobile e savio coraggio, accenderanno in esso anche il fuoco della carità, viscere d’amore paterno e cristiano, e nulla ommettendo per salute della lor patria, non si può dire quanti metteranno in salvo, loro mercè, la vita dell’anima, e quanti ancora quella del corpo.
Abbiamo altrove accennato alcune ragioni umane da far coraggio ne’ contagi; abbiam di più riferito que’ preservativi che giustamente accrescono la speranza di esentarsi dal morbo in mezzo al morbo. Ora aggiungiamo che nulla più può inspirare e rassodare negli uomini la tranquillità e fortezza, quanto le massime della legge cristiana, cioè la [328] scuola del santo Vangelo. Allora dunque convien mettersi davanti agli occhi la brevità e miseria di questa vita, la speranza della beata eternità e la sommessione che dobbiam tutti al sommo nostro padrone Iddio. Brevi sono i giorni dell’uomo: chi nol vede? e volere o non volere, tutti andiamo a gran passi verso il nostro fine. Quand’anche menassimo sino all’estrema vecchiaia i nostri giorni, pochissimo sarebbe ancora questo tempo. Ora speriamo noi forse la nostra felicità da pochi momenti di vita temporale? Troppo è caduca, troppo incerta, piena troppo d’angustie e d’afflizioni si è questa misera terra; ognuno il sa per prova. Il nostro Dio anche per questo ordinò che i mali abitassero nel mondo, acciocchè ci andassimo ricordando che questa non è la patria nostra, ma un esilio, ed esilio penoso, e qui non abbiamo una città, in cui si possa fare lunga permanenza, ma cercarne noi un’altra che ha da venire. Animo dunque: se si avrà a sloggiare, facciamolo con franchezza, perchè già si ha a fare o presto o tardi, e sempre si farà da un paese di miserie. Il rattristarsi, il darsi in preda all’apprensione, al dolore sarebbe un dolore e un male di più, e non già una via di fuggire la morte. Facciamo intrepidamente di necessità virtù, e senza fermare il pensiero in que’ pochi beni, o veri o apparenti, che ci dà questa vita terrena, pensiam più tosto a quei tanti veri mali, onde essa abbonda, avendone noi provato in sì gran copia finora o nell’animo o nel corpo nostro; e perciò prepariamci, se così sarà volere dell’Altissimo, ad uscirne fuori con coraggio, con rassegnazione e con giubilo.
[329]
E giubilo appunto proveremo, se ravvivando in noi la virtù della fede per credere fermissimamente il regno dell’eternità e le sublimi promesse lasciate a noi dal veracissimo e onnipotentissimo Dio, si ecciterà in nostro cuore la speranza di que’ sommi ed infiniti beni che non avranno mai fine. Speranza dolcissima, speranza confortatrice, alla cui voce si rallegra tutto l’interno de’ veri fedeli, e il timore di più non dover vivere si cangia in un vivo desiderio o almeno in un saggio sprezzo di morire quaggiù per avere a regnare eternamente con Dio. Ma perchè si oppone per lo più a così nobile speranza la memoria de’ molti e moltissimi peccati nostri, dobbiamo allora di nuovo rivolgerci a Dio con un forte e vero pentimento delle colpe nostre, considerando più che mai, quanto grande, quanto costante sia la sua divina misericordia. Non c’è alcuna sua dote, di cui ci abbia egli dato più spesso, nè più ampiamente, idea e sicurezza, quanto della sua immensa bontà e clemenza. Egli la replica, e tante volte la replica nelle sacre carte, quasi questo buon Dio temesse che ce ne dimenticassimo qualche volta o che ne avessimo da dubitare un giorno. Egli sempre fa e sempre si ricorda che noi siam polvere, che noi siam facili a cadere, e purchè ci vegga pentiti di cuore delle offese a lui fatte e veracemente determinati a servirlo e a non offenderlo, ci corre questo buon Padre incontro, ci cade sul collo con tenerezza inudita e mette tutta in festa la sua real corte per la gioia d’aver ricuperato i figliuoli che s’erano perduti. Adunque possiamo sperar tutto del nostro benignissimo Dio, purchè ci presentiamo a lui con vero abborrimento [330] al peccato, e con filiale amore verso di lui che è il Dio della misericordia. Ma che dissi possiamo? Anzi dobbiamo sperar tutto di lui, perchè egli stesso ci comanda che speriamo, e c’inculca nelle sue divine Scritture la celeste virtù della speranza; nè si dee mai partire dal nostro cuore e dalla nostra bocca quella tanto vera e tanto dolce sentenza: Chi spera in lui non sarà confuso in eterno.
Finalmente si dee allora di continuo considerare l’obbligazione che tutti abbiamo di fare la volontà di Dio. Siamo sue creature, suoi servi, suoi figliuoli: adunque se il Creatore, se il Padrone, se il Padre ci chiamerà a sè, dobbiamo ubbidirgli con tutta sommessione e rassegnazione, e di buona voglia. Diciamo tuttodì nell’orazione insegnataci dal suo divin Figliuolo che venga il regno suo, che sia fatta la volontà sua. Non la vorremo noi fare allora? o pur la faremo con ripugnanza ribelle e con un timore e dispetto a lui ingiurioso? Ad ogni modo si ha da eseguire il volere santissimo di Dio: sarà una deforme debolezza e una spezie di stoltizia il non far volentieri ciò che per necessità si ha da fare. È amara la morte a quei soli che han riposta ogni lor felicità in questa per altro fallace e misera vita terrena, e non amano di sottomettere la propria volontà a quella dell’amantissimo nostro padre Iddio. Tolga egli per la sua infinita clemenza e colla sua potentissima grazia che noi siam di questi. Se ci rifletteremo bene e non saremo accecati dalla passione, ci apparirà chiaro che se mancheremo di vita in un contagio, mancheremo in un tempo in cui più che in altri è facile alle anime cristiane il passare da questa [331] valle di miserie e di peccati, al beatissimo regno del nostro gran Dio e Salvatore Gesù. In altri tempi suole arrivarci addosso la morte all’improvviso, con trovarci mal preparati al viaggio dell’eternità; ovvero, assalendoci le febbri ed altri mali, non ci lasciano l’uso della ragione e dei sensi per poter saldare i conti con Dio e col mondo, prima di metterci in cammino. Ma infierendo la pestilenza, l’aspetto ed esempio altrui grida a gran voce che la morte viene, e che ci convertiamo a Dio, potendosi perciò colla mente sana disporre ciascuno ad agevolmente conseguire la gloria che ci aspetta nell’altra vita. Oltre di che, la peste è un gran campo da esercitar le virtù, e a darsi un ampio capitale di merito appresso il Padron della morte e della vita. Lo stesso sofferir la morte di buon grado, con intenzione d’ubbidire allora a Dio, sarà di un merito immenso presso Dio. Questa peste, così diceva S. Cipriano di quella de’ suoi giorni nel sermone della mortalità, questo morbo che si mostra sì spaventoso e mortifero, va investigando chi sia o non sia dabbene, ed esamina le menti del genere umano; se i sani servano agl’infermi; se i parenti con carità si amino insieme; se i padroni abbiano compassione de’ servitori che languiscono; se i medici non abbandonino gl’infermi; se i crudeli raffrenino la loro violenza; se i rapaci, almeno per paura della morte, estinguano il continuo ed insaziabile ardore della furiosa avarizia; se i superbi pieghino il collo; se gli scellerati depongano l’audacia; se i ricchi, almeno dappoichè muoiono i lor cari e restano senza eredi, e sono anch’essi vicini alla morte, donino alcuna cosa. Queste [332] non sono per noi disgrazie funeste, ma esercizi che porgono all’animo la gloria della fortezza, e col dispregio della morte ci preparano alla corona.
Adunque il miglior partito in sì fatti tempi sarà il prepararsi, come se si avesse infallibilmente a morire, e poi gittarsi tutto in braccio alla Provvidenza divina; e, ciò fatto, attendere coraggiosamente a’ suoi affari, senza però trascurar le diligenze e cautele umane. Quindi verrà confidenza ed allegria, quindi coraggio e costanza di cuore. Se così piacerà a Dio, resteremo qui suoi; se no moriremo parimente suoi, e con isperanza anche più grande che in altri tempi di passar tosto o in breve all’immortalità beata. Eroico poi e degno d’invidia sarà il coraggio di chi allora si sacrificherà tutto agli esercizj della carità cristiana nella cura e nel soccorso del povero popolo. Ma di questo a suo luogo. Chiudiamo il presente argomento con un ricordo a coloro che non solamente ripongono allora tutta la speranza di schivar l’infezione nelle sole diligenze umane, senza curar molto la grazia e la protezione di Dio, ma ancora cercano più che mai lo sfogo dei loro appetiti, nulla movendosi ad una delle maggiori prediche che loro si possano fare nel mondo, cioè al terribilissimo aspetto d’una peste. Sappiano essi avere eglino allora da temer più degli altri che il potente braccio di quello stesso Dio gli arrivi. Non mancheranno mezzi allo sdegno divino di deludere i loro aerei scampi e consigli, e di colpirli quando meno sel penseranno. Durante la peste di Milano del 1586, siccome narra il Giussano nella vita di S. Carlo, s’erano ritirati alcuni nobili cittadini in un castello, per fuggire il [333] pericolo del contagio, e dandosi eglino falsamente a credere che ottimo rimedio, per non prendere il mal della peste, fosse lo stare in qualunque maniera allegri e il darsi di buon tempo, concertarono certi trattenimenti profani ad imitazion del Boccaccio, formando una raunanza con titolo di Accademia d’amore; ed ivi consumando tutto il giorno in giuochi, novelle e trastulli, quasi affatto se ne stavano dimentichi di Dio e della loro eterna salute. Ma mentre in questi spassi e diletti pensavano d’essere sicuri da ogni pericolo di male per le diligenze che usavano in guardare quel castello, ecco che tutto in un tratto si scoprì loro addosso lo sdegno di Dio, entrando colà la pestilenza e facendovi più strage che altrove. Un’allegria, ma cristiana, ma santa, cioè fondata sopra una coraggiosa rassegnazione a Dio e sopra un vero desiderio di piacere in tutto a lui, e nutrita dall’orazione e da altri onesti esercizi, con pregar anche l’Altissimo che ci mantenga liberi dall’apprensione e dal timore dei mali temporali e senza voler punto scrutiniare i suoi profondi giudizj; quella sarà la vera allegria che dee accompagnarsi con esso noi, e che principalmente contribuirà a tenerci lontana la peste, ministra fedele dell’ira e provvidenza di Dio.
[334]
Uffizio de’ vescovi venuto il contagio. Provvisione di ministri e d’altri soccorsi temporali e spirituali. Lazzeretto per gli ecclesiastici. Consolare e animare il popolo colla presenza e con altri aiuti. Varie licenze da concedersi dal prelato. Messe ove da dirsi. Prediche e processioni come da farsi. Quali regole in tempo di generale quarantena.
Felici que’ popoli a’ quali il cielo comparte e principi, e maestrati, e vescovi pieni in tutti i tempi d’amore paterno verso i sudditi, e di nobilissimo zelo pel pubblico bene. Ma non mai si prova cotanto che bel regalo del cielo sia questo come nella disgrazia d’una peste. Sogliono allora i buoni pastori ecclesiastici fare un’offerta a Dio di tutti sè stessi, promovendo poscia con vigilanza continua non meno la felicità spirituale, che la politica delle loro pecorelle, con aiutare il governo secolare a difenderle, per quanto mai si può, dalla peste insieme e dalla fame, e con accudire a far curare gl’infermi, e a consolare e rincorare il popolo afflitto. Sarà pertanto cura del prelato, entrata che sia la peste, l’assistere ai maestrati, acciocchè senza dilazione sieno messi in ordine, o fondati, se la possibilità il permette, lazzeretti ben capaci per gl’infetti e sospetti, e affinchè vengano essi ben provveduti di medici, cerusici, medicamenti, serventi, balie, levatrici, capre, beccamorti, ed altri ministri, colla distinzione degli [335] uomini dalle donne, anzi con procurare eziandio, se si potrà, che le maritate stieno segregate dalle fanciulle, il che per vari riguardi vien consigliato dai saggi; e che non si permettano visite, passaggi e colloqui sotto pretesto alcuno di parentela, amicizia, o d’altro. Veglierà il vescovo, acciocchè ivi non abbia luogo alcun altro scandalo, ma vi si eserciti la carità con esattezza, e vi si promuova la pazienza e la divozione. Metterà ogni applicazione per adunar sacerdoti, confessori, visitatori, ed altre persone tanto ecclesiastiche quanto secolari, che assistano ai lazzeretti, ai monasteri delle monache, e alla cura d’alcuni degl’infetti, ed altri dei sani, e specialmente in sussidio dei parochi, pensando a tutto quello che possa occorrere per l’amministrazione de’ sacramenti. A questo fine sul principio convocherà gli ecclesiastici della città e i capi degli ordini religiosi, e insinuerà, o farà loro insinuare, quello essere il tempo da far conoscere a Dio e al mondo lo spirito della loro pietà, carità e santa vocazione, coll’impiegarsi in servigio specialmente spirituale del prossimo e de’ loro fratelli in Cristo. E qui proseguirà adducendo i motivi più forti per esortarli ed animarli a non mancare d’aiuto in sì estremo bisogno al popolo di Dio, ciascuno secondo le sue forze, abilità ed inclinazioni, per farsi del merito in cielo, e beneficare la patria. Per mezzo ancora de’ parochi, o de’ predicatori, o di qualche editto, o in altra guisa che si trovi più praticabile, farà esporre questo medesimo invito ai secolari maschi e femmine. Tutti quegli, sì laici, come ecclesiastici, che accesi del fuoco dell’amore di Dio si [336] offeriranno al servigio o dei lazzeretti, o degl’infermi, o per altri ministerj caritativi, col nome di oblati, si daranno in nota al vescovo, che ne terrà buon conto per distribuirli a suo tempo, e secondo il bisogno, ne’ vari impieghi della carità cristiana, avvertendoli poi di non ricevere cosa alcuna dalla gente infetta o sospetta, affinchè non pregiudichino al proprio corpo, e all’anima ancora, coll’esporsi all’evidente pericolo di contrarre l’infezione anch’essi.
Fu praticato in Milano (e sarebbe desiderabile che potessero far lo stesso altre città) di non mandare gli ecclesiastici al lazzeretto comune degl’infetti; ma erettone un altro a posta per i medesimi, si liberò il pubblico da questa cura, e si provvide con più comodità e decenza al bisogno dei ministri di Dio, con obbligare l’università degli ecclesiastici medesimi a somministrare quanto occorreva. In questo luogo verranno ricoverati gl’infermi dell’uno e dell’altro clero, con questa differenza nondimeno, cioè che per carità e senza spesa alcuna saranno ivi accolti e mantenuti quegli ecclesiastici tanto secolari quanto regolari che avessero preso il male nell’attuale servigio dei lazzeretti o degl’infermi, o pure per la loro povertà non potessero spendere; resteranno obbligati a pagare gli altri che non faticano e possono pagare.
Quindi rivolga il prelato il suo studio a levare dagli animi del popolo la costernazione e la stupidezza, che spesso allora assalisce quasi tutti, ed impedisce non solamente l’esercizio de’ vari uffizi, ma eziandio la buona cura di sè stesso, non che [337] degli altri. Anch’egli esorterà ciascuno alla costanza e al coraggio, dandone prima, per quanto potrà, egli medesimo esempio a tutti. A ciò contribuirebbe assaissimo s’egli potesse di quando in quando lasciarsi vedere per le contrade e piazze della città a cavallo, come hanno costumato in simili occasioni i cardinali S. Carlo e Federigo Borromei, arcivescovi di Milano d’immortale memoria, Gianfrancesco di Sales vescovo di Ginevra, successore e fratello degnissimo di S. Francesco, e tanti altri cardinali, vescovi e principi. Non si può dire che consolazione e che gioia inspiri ne’ cuori o mesti o abbattuti della gente, il poter mirare allora dalle porte o dalle finestre, o pure a cielo aperto il volto del loro sacro pastore, o di chi li governa. Quell’osservare che personaggi tanto loro superiori non paventano la peste, è una grande scuola di non paventare anche agli altri; e quel chiarirsi che i governatori dati loro da Dio si prendono in persona tanta cura d’essi, e si sforzano di rimediare alle loro miserie e pericoli, accresce a tutti il conforto e il coraggio per non disperar da lì innanzi, e per sopportare con più tolleranza gli incomodi di quella misera congiuntura. Utilissimo pertanto al popolo e glorioso ai vescovi e ad altri superiori sarebbe allora il portarsi sino alle porte dei lazzeretti e il passeggiar talvolta per le contrade, informandosi eglino stessi dello stato degli infermi e di qualunque altro bisognoso, con ascoltarli o dalle finestre o in una convenevole lontananza, tenendo poi registro di tutto per soccorrere, come si potrà il meglio, alle necessità di cadauno. A questo atto d’eroica fortezza e d’insigne carità [338] cristiana, certo è che terranno dietro le benedizioni non meno di tutto il popolo, che di Dio. Qualora non sia loro possibile il farlo, almeno mandino i loro primari ministri o altre accreditate persone, che in loro nome s’informino, e confortino, e rincorino chi ne ha bisogno, soccorrendo poi con gli effetti alle indigenze altrui.
Parimente dovrà il vescovo concedere a tutti i confessori da sè approvati, e specialmente ai parochi, e in caso di necessità anche ai sacerdoti semplici (che si riputeranno approvati senza esame in caso di necessità) la facoltà di assolvere non solamente gli appestati, ma eziandio tutto il resto del popolo dai casi e dalle censure riservate a loro, ed anche riservate al sommo pontefice, avendone prima ottenuta la licenza dalla S. Sede. E perciocchè può accadere che in que’ sì sconcertati tempi non possano i parochi, confessori e vicari foranei facilmente ricorrere al prelato, concederà loro in tal caso le più ampie facoltà, come sarebbe di potere, occorrendo il bisogno, ascoltare le confessioni senza tutti i sacri riti esteriori che si usano in altri tempi, purchè il facciano con pia decenza; e di sottoporre le parti delle parrocchie di villa alle più comode ed intatte, qualora per i passi levati non potessero accorrere alla propria parrocchiale, o l’una parte fosse infetta e l’altra illesa; e di ommettere le denunzie per contrarre matrimonio fra persone che in pericolo di morte volessero appagar la loro coscienza e legittimare la prole. Darà ancora licenza di poter celebrare messa in ogni chiesa, ed anche con altare di legno fuori di chiesa, o nelle piazze e vie; e di poter [339] soddisfare in essi altari all’obbligazione di celebrare in altri; e di poter costituire ed approvare confessori secondo il bisogno. Il Diana mette in dubbio se il vescovo possa anche dar licenza di celebrare il santo sacrifizio nelle case private. Dicono di sì il Marchino e il Pasqualigo; e alla loro sentenza si può saggiamente aderire. Imperocchè non essendoci più salutevol mezzo umano per isfuggire o non comunicare ad altrui la peste, quanto lo star ritirato e consolato, non pare conveniente il costringere le persone, e massimamente le nobili, ad uscir di casa, e a portarsi con tanto loro ed altrui pericolo alle chiese o ai pubblici luoghi per ascoltare la messa, quando si possa in altra più comoda e sicura forma soddisfare alla loro divozione e pietà. Cessano qui i motivi per cui non si concede tal grazia in altri tempi; e vi entra il motivo di concederla pel pubblico e privato bene; anzi vi ha luogo il riflesso della necessità, che, considerato dalla Chiesa, fa in altri tempi accordare la licenza medesima. E quantunque non vi sia, rigorosamente parlando, questa necessità, perchè allora non corre il precetto di uscire di casa per portarsi ad udite la messa, tuttavia si può chiamare in certa guisa necessario il consolare; per quanto si può, la gente ivi ristretta, alla quale è fuor di dubbio che riesce allora di una somma consolazione il poter assistere al divino sacrifizio senza pericolo alcuno. E giacchè ai pastori ordinari non è vietato da alcuna precisa legge il dare questa facoltà nei pericolosissimi casi della peste, e la Chiesa tacitamente concede ai vescovi il provvedere e dispensare in [340] casi tali secondo il bisogno e l’utilità della loro greggia, perciò è da preferire la sentenza dei teologi suddetti. Lo stesso credo io che si possa tenere intorno al dar licenza di mangiar carne per alcuni giorni di quaresima, cioè tre o quattro per settimana, con ritener però l’obbligo del digiuno. Alcuni teologi l’insegnano. Sarà eziandio cura dei vescovi il proibire anch’eglino allora, caso che i magistrati ne facessero istanza, la pompa e ogni altra formalità di funerali; e l’ordinare che niuno sia seppellito entro le chiese e ne’ cimiteri soliti, quantunque nè pur fosse stata la sua morte di peste, a fine d’evitare ogni pericolo ed inganno, potendosi solo esentare da tal divieto qualche persona di molta distinzione con permetterle sepolcro solitario e in casse impiombate. Ordineranno ancora i vescovi che la notte di Natale si canti la messa, ma a porte chiuse, e senza ammettervi il popolo, con proibir parimente certi presepi o sepolcri, ai quali si potesse fare un imprudente concorso di gente. Ho udito dire che nella peste di Genova del 1656 l’essere corso il popolo ad un luogo da dove si facevano sperar miracoli per preservarsi dal morbo, costò la vita a molte migliaia di persone, che s’infettarono in pochi giorni.
Di troppa importanza si è il non permettere allora le grandi raunanze in luogo alcuno, e per conseguente si dovrà andare con gran riguardo a permetterle anche nelle stesse chiese, perciocchè sarebbe facilissimo l’attaccare l’uno all’altro il contagio. Non si dee tentar Dio che faccia dei miracoli per preservarci ne’ luoghi sacri dagli [341] effetti naturali di quel morbo. Il perchè è stato in uso in altre pesti, e viene ancora approvato dal consiglio de’ teologi, il dirizzare altari nelle piazze e in capo alle contrade, e far ivi celebrare la santa messa, acciocchè le genti preventivamente avvisate dal suono delle campane, e a certe ore determinate, possano assistervi, o stando alle finestre e porte, o pure all’aperto, ma colla dovuta distanza fra loro. Regolerà il prelato questa faccenda, e concederà le facoltà necessarie. L’arcivescovo di Firenze nella peste del 1630 proibì il suonar campane o campanelli per invitar gente all’accompagnamento del sacro Viatico, essendosi provato molto nocivo un tale concorso. Così nella peste che afflisse la città di Palermo negli anni 1624, 1625 e 1626 si lasciò di mettere l’acqua santa nelle chiese, perchè si riconobbe pigliarsi facilmente per mezzo d’essa il morbo. Altrettanto gioverà fare in simili congiunture. Il levare poi affatto le prediche in tempi tali non sembra conveniente, siccome soccorso che allora è più che mai utile o necessario al popolo per far coraggio e concepire sentimenti di vera penitenza e divozione, e prepararsi per tutti gli avvenimenti. Osservisi dunque se si potesse predicare in diversi luoghi spaziosi della città, e con dividere e diradare quanto più fosse possibile gli uditori. In Firenze l’anno 1630 furono sospese le prediche, giudicandosi questo il partito più sicuro.
Prima della peste lodano tutti l’implorare il soccorso divino con pubbliche numerose processioni, avuto riguardo però che non v’intervengano o concorrano persone le quali potessero portar [342] seco il malore. Venuta poi la peste, suole disputarsi se convenga fare lo stesso. Certo ci assicurano le storie essersi osservata in varie città e terre, anche anticamente, la diminuzione o cessazione della pestilenza dopo sì fatte processioni, e il P. Teofilo Rinaldo ne reca vari esempi. Ma, secondo altri, meglio sarà l’astenersene per la ragione suddetta di non doversi esigere da Dio degli evidenti miracoli, e per altri motivi che tralascio. Noi sappiamo che dappoichè in Milano nel 1576 ne fu fatta una solennissima da S. Carlo, e un’altra addì 13 giugno 1630 dal cardinale Federigo Borromeo, si vide immediatamente aumentarsi il furore della pestilenza. Così per attestato del P. Marchino addì 28 giugno del 1630 furono da Nonantola con solenne processione portati a Modena i corpi de’ SS. Sinesio e Teopompo (siccome per relazione del Sigonio fu anche fatto nell’anno 1006), ed esposti per due giorni nel duomo con gran concorso di popolo, vennero finalmente ricondotti a Nonantola. Io non leggo che prima di quel dì la peste fosse entrata nella nostra città; leggo bensì che da lì a pochi giorni essa cominciò a farci strage. Perciò in Roma, cioè in quella città che fu regolata con mirabile saviezza nel contagio del 1656, non fu, per quanto io sappia, ordinata alcuna di queste sì strepitose processioni nel bollor della peste. All’incontro in Firenze nell’anno 1630 ne furono fatte alcune, ma dal solo arcivescovo e da alcuni ecclesiastici secolari e regolari diradati, stando intanto il popolo alle finestre, o pure in orazione entro le loro case, avvertito dall’invito generato delle campane. E [343] questa appunto è una via di mezzo che sembra la più lodevole e la più da praticarsi in altre simili occasioni. In tal guisa potrebbero anche portarsi per la città i sacri corpi de’ santi protettori, o altre insigni e più venerate reliquie; e specialmente sarebbe da farsi qualche volta la processione del santissimo Sacramento, conducendola ora per queste ed ora per quelle contrade: il che tutto riuscirebbe d’incredibile consolazione ed utilità al popolo in que’ miseri tempi. Il mandare ancora sacerdoti, o secolari o religiosi, qualche volta a benedire i cibi de’ poveri infermi o altre cose, calate giù dalle finestre o esposte alle porte, è riuscito di gran conforto, ed ha inspirato coraggio, allegria e divozione alla viva fede dei medesimi. Anzi per tenere santamente allegra la gente, ottimo consiglio allora sarà rinviare per ogni parocchia a certi tempi, e massimamente alle prime ore della notte, senza bisogno che gli abitanti aprano allora le finestre, un determinato numero di soli ecclesiastici, o secolari o regolari, i quali per le strade cantino con voce divota le laudi del Signore, o altre preghiere e componimenti di divozione in lingua volgare, il più che si può intelligibili da tutti, ed approvate prima dal vescovo, le quali inanimiscano il popolo, consolino ed inspirino l’amore di Dio, la speranza in lui, la pazienza, e lo sprezzo del mondo. Ma ci vuole il giudizio d’astenersi allora da quelle espressioni che possono accrescere il terrore o la mestizia. Di queste due micidiali passioni non v’è inopia in que’ tempi: v’è bensì penuria di coraggio e d’ilarità, che pure sono potenti rimedi, non [344] tanto per preservarsi, quanto per risanare dall’infezione. A questo fine potrebbe ancora giovare l’aver pronte e il far cantare in qualche divoto tuono dal popolo certe preghiere a Gesù, prima d’ora stampate, potendo esse servire di gran conforto nei continui bisogni, e massimamente nel gravissimo della pestilenza. Così gioverà il prescrivere orazioni da recitarsi privatamente, o pure da cantarsi pubblicamente circa l’un’ora, o la mezz’ora di notte alle finestre pel popolo, invitato a ciò dalla campana d’ogni parrocchiale.
E perciocchè può darsi il caso che s’abbia a mettere in quarantena tutto il popolo, sequestrando, fuorchè le persone necessarie, tutti gli altri nelle loro case per 40 giorni, il che fu fatto in Milano dell’anno 1576, essendosi trovato questo ripiego veramente utile, da che si vide che il morbo non cessava; e potendo essere il medesimo utilissimo anche nei principj dell’altre pestilenze, gioverà a tutti il sapere quali ordini prescrivesse allora S. Carlo, acciocchè in così lungo ozio d’un popolo numeroso tutti santamente s’impiegassero nel bene e schivassero il male, e fosse servito, non offeso Iddio. Pregò egli i laici di confessarsi e comunicarsi tutti il giorno avanti che entrassero in quarantena. Per gli esercizi spirituali di quel tempo, ordinò prima che ciascuno sentisse messa divotamente ogni dì, al qual fine fece ergere molti altari ai capi delle strade e a’ luoghi cospicui della città, per dar comodità a tutti di assistere al santo sacrifizio stando in casa propria, e trovò sacerdoti che vi celebravano ogni giorno. Così provvide di confessori, i quali andavano con un treppiede in [345] braccio per sedervi sopra di porta in porta, confessando tutto il popolo. Stava il penitente dentro, e il confessore sedeva di fuori, servendo la porta chiusa per confessionale. La domenica poi si comunicavano nel medesimo luogo con molta riverenza, perchè veniva il curato col santissimo Sacramento, accompagnato da alcune persone pie con lumi accesi, e da un cherico che il serviva, comunicando cadauno alla porta della loro casa. Di maniera che quasi tutto il popolo facea la sacra comunione ogni domenica a guisa di tante persone claustrali, non potendosi spiegare la tenerezza con cui i buoni ricevevano in quella forma il vero conforto dei tribolati. Ordinò che ogni vicinanza facesse orazione sette volte tra il giorno e la notte a due cori, come se fossero stati collegi di canonici. Cantavano salmi, litanie, laudi ed altre orazioni accomodate ai bisogni di quel tempo; e l’ore erano distribuite ordinatamente, dandosi il segno di ciascuna d’esse col suono della campana più grossa del Duomo. Allora tutte le famiglie andavano alle finestre, e un sacerdote o altra persona deputata dava principio all’orazione, e tutti gli altri genuflessi rispondevano, e seguitavano sino al fine, avendo ognuno il suo libro in mano, stampato per tal effetto, come fanno i canonici in coro. Perciò era cosa di stupore e che faceva intenerire ognuno il vedere o udire quella gran città, numerosa di circa 200 mila persone, lodar Dio in un tempo medesimo da ogni parte, e sentire un rimbombo d’infinite voci, che chiamavano aiuto da tutto il cielo in quella pubblica calamità. Certamente pareva allora Milano non solamente [346] un miracoloso monistero di claustrali dell’uno e del l’altro sesso, che servissero a Dio rinchiusi nelle proprie celle, ma quasi un’altra Gerusalemme santa, piena di gerarchie celesti. Pubblicò ancora il piissimo arcivescovo una lettera pastorale, in cui insegnava ed esortava a fare certe altre orazioni vocali e mentali, e leggere libri spirituali; ed egli stesso mostrava i punti che s’aveano a meditare ogni giorno, stampati in essa lettera; e in fine concedeva varie indulgenze per la facoltà apostolica ch’egli aveva a tutti quelli che si esercitavano in queste pie divozioni e pregavano Dio per gli appestati. Ed ecco un vivo esempio e modello su cui si potranno regolare i vescovi in simili congiunture, per promuovere allora più che mai l’unione delle anime a Dio, a cui dee rassegnarsi totalmente ogni fedele per sua maggior quiete e conforto, e in cui solo si dee sperare e confidare per preservarsi in mezzo ai pericoli e alla confusione del contagio. A tal fine ancora dovranno i vescovi in occasione di qualche editto proibire l’uso ingiurioso a Dio e stolto di tutti i bullettini, anelli, ecc. e d’altri simili preservativi superstiziosi che allora facilmente si mettono in campo o dall’ignoranza, o dalla malizia.
[347]
Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi.
Per conto de’ parochi, confessori ed altri sacerdoti, si ponga mente alle seguenti cose. Appena si udirà avvicinarsi o essere già pervenuta ai confini la peste, che dovrà ogni paroco di terre, castella e ville ammonir per tempo tutti a confessarsi prima del morbo, predicare il pericolo della morte, l’ira di Dio, l’emendazione della vita, i quattro Novissimi, ne præoccupati die mortis quærant spatium pœnitentiæ, et illud nequeant invenire. Dovrà pure sostituire anch’egli una solenne e divota processione di penitenza, con digiuni, comunione generale, ed altre opere di pietà, a fine di placare Dio e d’implorare il suo santo aiuto. Da queste pubbliche e strepitose divozioni, tanto della città quanto della diocesi, ne risulterà anche un vantaggio temporale. Cioè i popoli si metteranno in maggior apprensione di quel terribile ed imminente flagello; cosa utilissima, perchè così ognuno, aperti gli occhi per tempo, si guarderà con più cura dal pericolo di prendere, o d’introdurre il contagio. Non si può dire fin dove giunga alle volte la zotica e supina disattenzione, o sciocca temerità [348] della gente rozza. Vanno alcuni senza pensarvi a cogliere la peste fuori del loro distretto sano in territori infetti o sospetti, conversando alla buona con persone appestate, o maneggiando robe, che portano poi la morte ad essi e l’esterminio alla patria loro. Bisogna perciò che anche la Chiesa con azioni vistose di pietà faccia avvertiti tutti del suo e dell’altrui pericolo. Anzi debbono i predicatori e i parochi dall’altare e in altre guise andar per tempo inculcando la miseria della peste, il rischio che sovrasta, la necessità di guardarsi per sè e per gli altri, e il peccato grave di chi trascura sè stesso, e tradisce il suo prossimo, e disubbidisce al principe e alle leggi, e in un affare di tanta conseguenza e rovina. Mostrino ancora al popolo, finchè è tempo (che questo pure sarà un atto di carità), in quante guise si possa contrarre e comunicare il veleno della pestilenza, e come le buone cautele hanno forza di preservare e difendere le popolazioni dall’infezione. Fatto uno sproposito, indarno si cercherà il rimedio, e in vano si dirà: Bisognava governarsi in questa o in quella maniera.
Che se la peste entrerà, allora i parochi vadano similmente ricordando, come potranno il meglio, ai loro parochiani quanto gravemente pecchino quelli che celano l’infezione contratta, non per altro che per timore di qualche suo danno, perchè maggiore sarà sempre il danno che recheranno non solamente agli altri con disseminarla e comunicarla, ma anche alla propria vita, col non lasciarsi curare, e coll’esporsi al pericolo d’una morte repentina, e senza tempo di sacramenti e [349] di contrizione. Gran conto dovrà rendere a Dio chi per sua colpa o negligenza dilata il male e l’attacca agli altri che con buona fede hanno commercio con esso lui, o colle robe di lui. Nel contagio di Palermo del 1625 fu proibito sotto pena della vita che nessuno potesse trasportar robe da una casa in un’altra, ed anche vi fu imposta la pena della scomunica; e a certi tempi colle cerimonie solite della Chiesa venivano dichiarati scomunicati i trasgressori: il che faceva grande effetto per lo spavento che cagionavano tali cerimonie. Questo è un rimedio troppo violento, e da non praticarsi così facilmente altrove, benchè non sieno scomuniche latæ sententiæ, e perciò s’intimino solamente a terrore. Si può provvedere in altre guise. Dovranno al certo i ministri di Dio inculcare la grande obbligazione di non trasportare, rubare o contrattar robe infette o sospette, e quella altresì di denunziar subito ai deputati quei della sua famiglia, o gli altri che vengano a scoprire infetti. Molto maggior obbligazione si è quella di denunziare gl’infetti medesimi al paroco o al sacerdote deputato per l’amministrazione dei sacramenti, affinchè niuno manchi di vita senza i soccorsi spirituali della grazia di Dio. Nella nostra città, allorchè la peste del 1630 ci prese piede, fu dai conservatori della sanità con pubblico proclama ordinato che se alcuno o parente, o coabitante nella casa di qualche infermo fosse ricercato da esso malato di chiamare il confessore, e non vi andasse, costui cadesse in una grave pena pecuniaria, da estendersi anche ad arbitrio sino alla galea.
[350]
Per maggiormente preservarsi i parochi ed altri sacerdoti nel dire la messa, avranno cura di mettere cancelli, sbarre, o altro impedimento intorno all’altare dove dovranno celebrare, affinchè niuno del popolo vi si accosti, o la dicano essi in chiesa o fuori. Maggior cautela sarebbe che cadauno avesse i suoi determinati paramenti, de’ quali nessun altro allora si servisse. E tal cautela sarà poi necessaria per chi abbia da praticare con ammorbati o sospetti. I sacerdoti che dovranno amministrare i sacramenti saranno divisi in due classi, cioè altri per i sani, ed altri per gl’infetti e sospetti, secondo la disposizione e distribuzione che ne farà il vescovo. I primi, cioè quei dei sani, che si appelleranno sacerdoti o confessori ordinari, non potranno, se non in caso di estrema necessità, ministrare i sacramenti a gente appestata o sospetta; e se per necessità, o pure disavvedutamente, praticassero con infermi di questa fatta, o dessero loro i sacramenti, non potranno eglino per alquanti giorni praticare con sani, ma staranno ritirati, facendo una specie di contumacia in casa propria. All’incontro i destinati per la gente infetta o sospetta, che si chiameranno sacerdoti o confessori della carità, e saranno anche essi divisi in due schiere, non potranno conversar con sani, nè ministrare i sacramenti ad alcun sano, anzi nè pure a chi fosse infermo d’altro male che di peste, qualora questi non si trovasse in pericolo di vita e in necessità legittima del loro ministero. Per assicurarsi meglio di non errare in questo, potrebbe praticarsi che gl’infetti e sospetti ricavassero una fede del medico d’essere tali; e [351] allora sarebbe moralmente sicuro il sacerdote della carità di non accostarsi ad infermi d’altro male. Così fu praticato nel contagio della nostra città l’anno 1630. Per questo ancora la sacra pisside destinata agli infetti dovrà tenersi non nelle chiese ove entrano i sani, ma in luogo decente separato secondo che prescriverà il vescovo, ove sia tabernacolo e lampana di continuo accesa. Non è lecito ai principi l’impedire ai parochi o ad altri sacerdoti l’amministrazione de’ sacramenti; ma sarà loro ben lecito l’impedire a quei che gli amministrano ad infetti il commercio coi sani, passando in ciò d’intelligenza coi vescovi, siccome stabiliscono il Marta, il Barbosa e il Benzoni, con altri. E però di necessità si ha da dare uno o più coadiutori al curato esposto al servigio degl’infetti, secondo il c. tua nos, de clerico ægrotante. Avverto qui che i parochi non sono allora tenuti ad assistere alla sepoltura dei defunti, nè ad accompagnare verun cadavero; anzi se ci fosse chi volesse allora che il paroco seppellisse alcuno de’ suoi in luogo sacro, quando occorresse sospetto d’infezione, egli dovrà costantemente opporsi, e molto più poi se avrà ordine dai superiori in contrario.
Sarà poi cura dei sagrestani ogni mattina e sera il far de’ profumi, quando se ne conoscesse il bisogno, intorno agli altari ove si celebra e nella sagrestie, e certo non tralascino di farlo ai confessionarj. Anche intorno a questi sarà necessario mettere allora qualche sbarra o steccato o altro impedimento con panche, sicchè si trattenga la gente dall’accostarsi al confessore. Anzi allora dovranno star assai radi fra loro e in una competente distanza [352] dal sacerdote, al quale non s’avvicineranno se non chiamati da lui. Oltre alle grate perforate di ferro, il costume è di tenere ai confessionarj una membrana o sia una carta pecorina, o almeno una carta ordinaria ben incollata, con telajo che chiuda ben le fissure; perciocchè con essa benissimo s’ascoltano i penitenti e restano difesi dal pericoloso lor fiato i confessori. Gioverà il rimutare e profumare di quando in quando tali membrane. Fuori del confessionale (il che facilmente allora può accadere e si dee permettere dal vescovo) il confessore potrà ascoltare i penitenti in distanza di tre o quattro braccia, badando che il sito non sia esposto alle orecchie altrui. Tanto prescrisse S. Carlo ne’ suoi piissimi e prudentissimi regolamenti intorno alla peste, pubblicati nel concilio V provinciale di Milano. Per purificare le dita dopo aver comunicato il popolo, si tenga aceto in cambio d’acqua; e i sacerdoti che comunicano, si tengano il più che possono lontani dalle persone che prendono il sacramento, procurando ancora di star sempre in mezzo a due torce accese, acciocchè venga purificata l’aria. Non diasi abluzione, non si metta tovaglia alcuna, siccome nè pure per qualunque festa o funzion che si faccia, non si dovranno ornare con paramenti le mura delle chiese. Anzi han praticato i saggi di levare insin le panche da esse chiese e le portiere e simili altre robe che possono facilmente pigliare infezione. Qualora abbiano i confessori della carità da ascoltare infermi appestati, prima d’andarvi prendano qualche antidoto preservativo interiore ed esteriore; e alquanto prima d’entrar nelle stanze d’essi, facciano aprir le finestre, [353] acciocchè l’aria sventolando disperga quei cattivi effluvj, o per dir meglio, facciano ben profumare, se si potrà, quella stanza. Ad ogni buon fine però v’entrino essi sempre con un profumo davanti o pure abbiano in mano una torcia accesa, che terranno fra la bocca loro e quella dell’infermo. I beccamorti ed espurgatori entrando nelle case infette sogliono coprirsi il naso e la bocca con un fazzoletto bagnato in aceto, ove sia stato dell’aglio in infusione potranno i confessori cautelarsi in altra somigliante maniera. In Firenze l’anno 1630 un sacerdote esposto, andando a sacramentare infetti, pigliava una spugna divisa pel mezzo ed allacciatasela agli orecchj con due nastri, bagnatala prima con aceto rosato fortissimo, l’accomodava in maniera che pigliava tutta la bocca e le narici, correggendo così l’aria che respirava; invenzione non men felice che ingegnosa, poich’egli si conservò sempre senza male. L’esempio è da notarsi ed imitarsi. Se poi si può senza intollerabil incomodo degl’infermi, il confessore li faccia venire in luogo aperto o in un cortile, o alla porta, o alle finestre della casa, o all’uscio della camera che potrà star chiuso e ascoltarsi anche bene la confessione. Il P. Filiberto Marchino insegna che potendo gl’infetti uscir di letto e venire all’aria aperta o tenere altra via di confessarsi senza pericolo della vita del paroco, e non volendolo fare, esso paroco non è tenuto ad entrare in lor casa per ascoltarli. È interesse del pubblico e degli altri parrocchiani che i pastori si conservino illesi. In Firenze si servivano tali confessori di un certo strumento di legno o di ferro, atto a ripararsi dal fiato pestifero [354] degl’infetti. Nel portare il Viatico al malati, usino i sacerdoti veste corta con cotta e stola, lasciando stare il piviale, in cui vece terranno sopra la cotta una veste di tela incerata. Anzi nè pur la cotta sarà necessaria e nè pure la stola secondo la sentenza di Leandro; e il vescovo potrà dispensar da tal obbligo, massimamente per i lazzeretti, ne’ quali i sacerdoti sogliono accostarsi agl’infermi colla lor sola veste incerata e col Santissimo chiuso in una borsa con piccola pisside, pendente dal collo e con ombrella di cuoio, la quale anche per città si terrà nel portare il Viatico, bastando una o due torce accese per accompagnamento del Signore, e senza far precedere suono di campana o di campanello. Abbiano sempre seco una spugna bagnata in aceto per purificarsi le dita.
Ma chi dei sacerdoti è obbligato ad amministrare i Sacramenti agli appestati? E a che son tenuti allora i parochi? Regolarmente parlando, i semplici sacerdoti, tanto secolari come regolari, cioè quelli che non han cura d’anime, non sono tenuti a ciò per debito di giustizia. Possono solamente venirvi obbligati da qualche caso d’estrema necessità del prossimo, perchè allora entrano a comandarlo loro le leggi della carità cristiana. La sentenza è comune. In quanto ai vescovi e parochi, certo è ch’essi in tempo di peste hanno gravissima obbligazione di risedere nella lor parrocchia e di non abbandonare per conto alcuno la loro greggia. Veggasi il Barbosa con altri autori. Ma per quel che riguarda l’amministrazione dei sacramenti alla gente infetta è stato disputato fra i teologi, se i curati sieno a ciò eglino obbligati, ancorchè con troppo verisimil [355] pericolo della lor vita. Il Molfesio e alcuni altri tengono di sì, stante la gran necessità d’essi sacramenti per la salute del prossimo, e stante il diritto che hanno le pecorelle di chiedere e d’ottenere il cibo dell’anima dai proprj pastori. Ma il Marchino, il Diana ed altri esentano il paroco da obbligo tale, a condizione però che vi sia altro sacerdote che in luogo di lui supplisca al bisogno degl’infetti. E all’opinione loro può starsi, perchè il Barbosa ed esso Diana sì nella Somma come nel tomo II delle sue opere e il Tamburino citano le risposte date a S. Carlo dalla sacra congregazione il dì 10 di dicembre del 1576, con approvazion del Santissimo che sono del seguente tenore: Parochi tempore pestis teneantur omnino residere in suis ecclesiis parochialibus; et si non resideant, agendum contra eos, etc. Ministrent vero parochianis peste infectis sacramenta pœnitentiæ et baptismi per alios. Et hoc ad commodum parochianorum, qui verisimiliter nollent conversari cum parochis euntibus ad infirmos peste. Et licet Alciatus diceret, quod ex duobus ultimis verbis videatur prohiberi, ne parochi, etiam volentes, per se ipsos hæc duo Sacramenta ministrent: tamen tota congregatio dixit, quod ista erat mens Sanctissimi in prohibendo hæc parochis ad commodum parochianorum, qui sani essent; hi enim universaliter nollent conversari cum parochis cuntibus ad infirmos peste.
Il Benzoni prova a lungo e seco s’accordano altri antichi teologi che il vescovo e il paroco non pecchino fuggendo dal luogo della peste, purchè provveggano il grege loro di un vicario o sostituto sufficiente, e mancando questo, ne somministrino un [356] altro o tornino essi alla lor residenza. Ma stante il suddetto decreto non è più da seguitare una tal sentenza. Anzi è da avvertire col Marchino e con altri essere tenuti alla residenza in tempi tali ancora i confessori di monache, gli abati, i priori, guardiani ed altri capi di case religiose. Dal suddetto decreto parimente si ricava che ogni qual volta il paroco abbia o pure il vescovo deputi (siccome egli ha da fare e fu fatto anche nel contagio di Modena del 1630) altri sacerdoti che amministrino i sacramenti ai parrocchiani appestati, egli sarà esente da tale obbligazione, e dovrà allora attendere alla cura dei soli sani o infermi, ma non di peste, cioè ai più della sua parrocchia. Nulladimeno accadendo che manchino tali sacerdoti sussidiarj, allora esso paroco sarà tenuto egli in persona, ancora con pericolo della vita, a soccorrere gl’infetti, non solamente per debito di carità, stante la necessità delle sue pecorelle, ma ancora per obbligo di giustizia a cagione del carico ch’egli ha come pastore; poichè in tal caso non mancherà via agli altri parrocchiani non infetti di ricevere i sacramenti da altra mano, non essendo questi in eguale necessità, potendosi più facilmente trovar sacerdoti che soddisfacciano al bisogno del popolo intatto dalla peste. Di più il paroco è tenuto a ricercare chi stia in pericolo o articolo di morte e se abbia bisogno di confessarsi. Che se mancassero ministri idonei per l’amministrazione de’ sacramenti, sarà tenuto il vescovo a provvederne anche con sua grave spesa. Così tengono S. Tommaso, il Bagnez, il Sa, il Benzoni. Dovranno però anche i parochi contribuire una porzione delle rendite loro, e non [357] bastando nè il vescovo nè i parochi a tale spesa, i parrocchiani dovrebbono somministrar dell’aiuto. Avvertasi col Marchino e con altri autori, non esser bene che il vescovo vieti la fuga ai parochi sotto pena della scomunica, ma bastare che intimi pene pecuniarie, perdite di frutti o la privazione del benefizio, benchè per altro non sia lecito al paroco in tempo di pestilenza nè pure il rinunziare alla sua chiesa. Io non ho veduto, ma so esserci un libricciuolo di Francesco Lazzaroni de privilegiis parochorum tempore pestis, stampato in Venezia dell’anno 1631 in ottavo. Il Benzoni col Turrecremata, in caso che non si trovassero sostituti, stimerebbono bene che il vescovo tirasse a sorte tre o quattro parochi, i quali assistessero agl’infetti, restando gli altri al servigio de’ sani, e mancando i primi, succedessero gli altri. Parimente nelle terre e castella ove non sia che un solo sacerdote, il vescovo dovrà mandare almeno un altro coadiutore, acciocchè l’uno attenda ai sani e l’altro agli appestati, e se il coadiutore non vorrà per carità ministrare i sacramenti ad essi infetti, allora questo carico apparterrà per giustizia al curato. Mancando i parochi, sarebbe di dovere il subito conferire la lor chiesa al sostituto che avesse con generosa carità preso a servire agl’infetti; anzi potrebbe il vescovo per tempo ricercare dal sommo pontefice la facoltà di stabilire una spezie di coadiutori, a’ quali si conferisse tosto la chiesa, accaduta la morte del paroco, meritando tal grazia il pio coraggio di simili sacerdoti. Che se il curato o altro prete fosse solo, allora potrà egli più discretamente governarsi nel ministrare i sacramenti, affinchè mancando lui, non manchi l’aiuto [358] spirituale a tanti altri che possono averne bisogno, essendo egli in parità di circostanze tenuto più ai molti che ai pochi. Ma non si credesse alcuno esentato dall’obbligo di confessare gl’infetti per quella sola ragione che da taluno è stata addotta, cioè perchè essi possono fare un atto di contrizione, e salvarsi senza l’attual confessione ed assoluzione del ministro di Dio. Imperocchè tal sentenza è troppo pericolosa, lasciando esposti i peccatori ad un evidente rischio di non pentirsi come debbono, e perciò di dannarsi. Per altro chi infermo di peste non ha confessore, è tenuto a formare un atto di contrizione, e potendo aver confessore è tenuto a non differire di confessarsi.
Appresso è da notare che il ministrare l’Estrema Unzione agli appestati sarà sempre bene, e si dee procurar loro, per quanto si potrà, questo spirituale aiuto e conforto; tuttavia non essendo esso un sacramento necessario alla salute, dicono i teologi che non è obbligato il paroco sotto rigoroso precetto ad amministrarlo allora. Il che però secondo il Diana ed altri si dee intendere quando l’appestato si sia prima confessato ed abbia ricevuta l’assoluzione; altrimenti s’egli non avesse potuto confessarsi per aver perduta la favella, converrà dargli almeno questo sacramento. Per altro essendo da amministrare, per quanto si può ancora questo sacramento, si avverta per parere del Chapeavilla, Silvio, Layman, Diana ed altri essere lecito l’ungere una sola parte del corpo, e fare una sola unzione, unendo poi nella forma delle parole l’udito, la vista e gli altri sensi dell’uomo. Per sentenza ancora de’ suddetti teologi, del Marchino, [359] Suarez, Barbosa ed altri sarà lecito ungere gli appestati con una lunga bacchetta, in cima alla quale sia bombace intinto nell’olio sacro che dovrà subito o almen poco dopo bruciarsi. In oltre tengono il Filiarco, il Marchino, il Tamburino ed altri, appoggiati anche al suddetto decreto, che purchè l’infetto sia legittimamente confessato, non son obbligati i parochi a ministrargli con tanto lor pericolo il Viatico, siccome non necessario alla salute; e nè pure il sacramento della Penitenza, quando si fosse moralmente certo che l’infermo non avesse peccati mortali. Così ancora tiene il Benzoni vescovo di Recanati. Avvertasi però che questo ultimo non si dee presumere senza gravissime ragioni. Vedi il Molfesio e il Diana alla parola Communionis minister e parochus. E per conto del Viatico bisogna far quanto si può per ministrarlo; essendo poi non solo lecito, ma obbligo di non darlo, quando il paroco fosse solo e la sua morte potesse ridondare in danno di tanti altri. Mancando i sacerdoti o non volendo essi dare l’Eucaristia, per comune sentenza potranno ministrarla i diaconi. In caso poi che nel distribuir le sacre particole mancasse all’improvviso di peste il sacerdote, le altre particole si hanno non già da bruciare, ma da conservare o pur debbono distribuirsi a persone infette o assumersi da qualche sacerdote esposto. Qualora sovrasti pericolo di morte a molti appestati, basterà che ciascuno dica qualche peccato al confessore, acciocch’egli possa assolverli di tutti. Così insegnano il Coninco, Diana, Suarez, ecc. E basterà ancora, quando non si possa far di meglio, che mostrino segni di penitenza a fine di poterli assolvere. Parimente tengono non pochi [360] teologi, cioè Zambrana, Granado, Laiman, Conioco, Hurtado, Turriano, Suarez, Diana, ecc., che si possa assolvere l’appestato colla confessione non intiera, quando il confessore probabilmente tema d’infettarsi anch’egli, come sarebbe o pel troppo fetore, o per la troppa dimora dell’infermo, con assicurare il malato che una tal confessione è sufficiente, restando nondimeno l’obbligazione, guarito che sia, di confessarsi di quei che tralascia. Queste sentenze sembrano anche a me tutte ragionevoli e da osservarsi in pratica. Che poi i semplici sacerdoti non approvati per le confessioni possano in tempo di peste confessare e assolvere dai peccati i sani, è sentenza del Marchino, del Corneo, di Polidoro Ripa e dell’Homobono, perchè, dicono essi, allora gli uomini sono moralmente posti tutti, benchè sani, in pericolo di morte; e per conseguente secondo il loro parere cessa allora anche la riservazione di tutti i casi e delle censure. Il Diana, il Benzoni, il Bossio tengono il contrario. Io qui distinguerei: Se la peste fosse di quelle fierissime che in un momento fanno cader morte le persone, come è qualche volta accaduto, ed allora la persona sana non avesse in pronto un confessore approvato, in tal caso ogni semplice sacerdote potrà confessarla, ed assolverla da tutto, con obbligo però che ella si presenti subito che potrà ai superiori, caso che avesse censure. Anzi il Preposito, il Laiman e il Diana tengono per opinion probabile che anche il semplice chierico e il laico stesso possano assolvere non già dai peccati, ma sì ben dalle suddette censure chi è posto in articolo di morte; e il Marchino scrive che tal sentenza non solo si [361] può, ma si dee praticare in casi di tanto bisogno. Quando poi la peste sia tale che dia, siccome d’ordinario accade, tempo di poter cercare confessori approvati, e questi sieno nel luogo della peste, allora non sarà lecito ai semplici sacerdoti, sieno secolari, sieno regolari, senza l’approvazione del vescovo, l’ascoltare ed assolvere penitenti sani. Per chi è gravemente infermo o in pericolo di morte, ove il paroco o altri confessori legittimi mancassero, allora qualunque sacerdote ha facoltà di dargli l’assoluzione da ogni peccato e censura. Questa è cosa chiara.
Alcuni teologi hanno scritto che in tempi di contagio è stato in uso, ed essere lecito il porgere alle persone infette il santissimo Viatico sopra un foglio di carta, lasciandolo ivi prendere ad esse, con poi bruciare la carta; o pure si può porgerlo in un cucchiajo d’argento o con legno lungo formato a guisa d’una foglia di palma, nella cui sommità incavata a guisa di patena si mette l’ostia sacra, o pure in altre guise. Ma il Diana con alcuni altri disapprovano tutti questi ripieghi, come poco decenti, adducendo per ragione che la Chiesa ha i suoi usi, e questi non è convenevole mutarli, e che S. Carlo nel concilio provinciale V riprovò tali industrie della paura. Contuttociò si vuol qui riflettere, doversi per quanto si può provvedere ai pericoli altrui e conservare la salute de’ poveri sacerdoti o parochi, essendo ancor questo un debito della carità e della giustizia de’ superiori, i quali senza precisa necessità non debbono esporre a rischio manifesto la vita dei pastori, e ciò anche per bene delle lor pecorelle. Ora quando si possa con [362] qualche onesto ripiego ministrare agl’infetti l’Eucaristia, e provedere nello stesso tempo all’identità di chi la ministra, tenendolo lungi dal pericolosissimo fiato degli appestati, c’è una ragion troppo gagliarda di non rigettare questo partito e di non esigere troppo dalla debolezza altrui. Bisogna qui facilitare il santo ministero e figurarsi non di essere a decidere ad un quieto tavolino, ma in mezzo a quella gran tempesta; nè si dee camminar con un rigore che potrebbe tirar addosso a’ poveri sacerdoti la morte e spaventar gli altri da così pio e caritativo impiego. Qui poi non c’è divieto preciso della Chiesa in contrario; le costituzioni, o, per dir meglio, le istruzioni di S. Carlo, sono bensì venerabili, ma da sè sole non hanno forza d’obbligar tutti i fedeli; anzi son tali che possono molto bene interpretarsi in questo caso per non obbliganti a peccato grave nè pure i sudditi di quella metropoli. Oltre di che non bisogna misurare coi riti del tempo placido quei che possono convenire alla necessità de’ tempi miseri e stravaganti d’una peste. Nè v’è indecenza, ma solamente ve la fa nascere la nostra immaginazione in alcuni di questi ripieghi, e molto meno vi sarebbe, se gl’infermi si prendessero in sè il sacro Viatico posto sulla patena, la qual poscia si potrebbe purificare. Nei primi secoli non credette mai la Chiesa che fosse indecente il porgere l’Eucaristia in mano agli uomini e sopra un fazzoletto alle donne che si aveano da comunicare, per tacer d’altre usanze che una volta erano lodate o permesse. E tanti autori che tengono per lecito ad un laico il ministrare il Viatico ad un infermo o pure a sè stesso, in caso di [363] estrema necessità, non trovano già indecente un tal atto. Il che sia detto per modo di disputa, poichè qualora i vescovi ordinassero in contrario, dovranno ubbidire i sacerdoti loro sudditi, e tutti poscia ubbidire, se dalla S. Sede uscisse decreto su questo punto. Intanto reputo io questa sentenza per molto probabile, sì per le ragioni addotte, e sì perchè l’approvano o non la disapprovano il Possevino, il Mancino, il Vettorelli, il Bonacina, il Venero, il Marcanzio, il Gavanto, il Tamburino ed altri teologi.
Oltre a ciò si osservi che i fanciulli poco fa nati, qualora sieno o infetti o pure sospetti per essere nati da madre infetta, si dovran tosto battezzare da sacerdote deputato, con farli portare all’aria aperta e adoperando acqua pura; ovvero saran battezzati in caso di bisogno da altre persone, per far poscia le cerimonie della Chiesa a suo tempo, se resteranno in vita. In caso di estrema necessità, affinchè un’anima non perisca, è tenuto sotto grave peccato ciascuno a soccorrerla, anche con pericolo della sua vita. Questa è sentenza comune. Battezzati che sieno i fanciulli, si dovrà subito registrare il nome loro nel libro de’ battesimi, o pure battezzandoli qualche laico, avverta egli di por al collo, se è possibile, un bullettino di carta pecora o almeno di ordinaria, ove sia scritto il giorno ed anno in cui sono nati e battezzati col nome del padre e della madre. Sono ancora consigliati i parochi, secondo l’istruzione di S. Carlo, a guardarsi dall’indurre gl’infermi a far testamento, quando questo non si richiedesse per atto di carità, cioè per bisogno dei figliuoli o parenti. In oltre si asterranno, [364] per quanto possono, dallo scriverlo essi, e non condescenderanno a ciò se non in caso di particolar necessità. Comunque poi sia, fuggano ogni ombra d’interesse e di guadagno sordido, e non convertano in loro pro le disgrazie altrui. Nè persuadano voti dispendiosi, ma più tostò que’ voti che riescono più facili e di maggior profitto spirituale dell’anime. Anche le città in que’ tempi debbono andar con riguardo ad obbligarsi a certi voti di spesa grande, perchè o questi malamente si eseguiscono poi, o pure elle hanno bisogno di soddisfare ad altri debiti antecedenti, (e se ne fanno e se ne debbono fare assaissimi anche in tempo di contagio) e la giustizia vuole che questi si paghino e si sgravi per quanto è possibile il popolo dagli oneri imposti loro dalla necessità e dalle disgrazie de’ tempi. Alle volte noi trattiamo con Dio e coi santi, come se li supponessimo dediti all’interesse a pari di noi. Così è da invigilare che alcuni allora non facciano guadagno, ed altri non facciano abuso di certe divozioni esteriori e di qualche amuleto sacro da portare addosso, con riporre in essi una tal fidanza che poi si trascurino le cautele umane prescritte per guardarsi dal prendere e dall’attaccare ad altri la pestilenza, e si disubbidisca senza positiva necessità ai comandamenti de’ superiori spirituali e temporali. Il miglior preservativo e la più soda divozione allora, e sempre, sarà la vera penitenza e il darsi ad una vita santa e caritativa, con fiducia in Dio e con ricorrere anche all’intercessione dei santi, senza però ommettere le diligenze e precauzioni prudenti per sicurezza propria e d’altrui. Queste ancora le ama e le comanda Dio che non vuol fare de’ miracoli sensibili a capriccio nostro.
[365]
Carità verso il prossimo quanto essenziale al cristiano, e massimamente nelle calamità d’una peste. Obbligazione de’ secolari in tempi tali di soccorrere il prossimo. Varie maniere di esercitare la carità. Confraternità della misericordia. Lode di chi assiste alla cura de’ suoi parenti infermi.
Sempre siam tenuti ad avere in noi la regina di tutte le virtù, cioè la carità verso Dio e verso il prossimo nostro, e ad esercitarla secondo le occasioni; ma nessun tempo ci è, in cui sia più da accendersi in noi e da praticarsi questa celeste virtù, quanto ne’ tempi della pestilenza. Allora il bisogno della repubblica e dei privati suol giungere al sommo; e però il dar loro quel soccorso che ognuno può secondo le forze e il grado suo, non è per lo più solamente una lodevol cosa, ma è anche un’obbligazione precisa, ed obbligazione non solo di cittadino, ma ancora di cristiano. Tutti siam tenuti a difendere ed aiutare la patria nelle necessità, per un patto stabilito dalla natura e dal diritto delle genti, allorchè entriamo nella società degli altri uomini. Ma molto più, e più largamente fu, ed è imposto a noi questo debito dalla legge santissima di Cristo, legge a noi mandata dal cielo, spezialmente per introdurre e dilatare fra gli uomini lo spirito della carità. Nulla più ci comanda, o ci raccomanda il nostro divino Salvatore e maestro, per bocca sua e degli apostoli suoi, quanto [366] l’amar Dio, e dopo Dio l’amarci l’un l’altro, l’aiutarci, e il mettere anche la vita nostra in soccorso de’ nostri fratelli, sì se vogliamo distinguerci dalle bestie irragionevoli, dai gentili e dai pubblicani. E il suo santo apostolo Paolo scrive che potremo forse avere molte e molte virtù, e divozioni; ma che se non avremo ancora, e in primo luogo, la carità, noi non saremo niente buoni e nulla faremo di bene; perciocchè in questa virtù è riposta l’essenza, non che la perfezione della vita cristiana. Amare Iddio, e amare il prossimo per amore di Dio, sono i due precetti massimi della nostra santa legge, e chi gli eseguisce sarà salvo, sarà beatissimo. Il perchè, ben considerate le angustie, alle quali in tempo di peste è soggetta la patria e il prossimo nostro, ognuno dee allora maggiormente ravvivare in sè le fiamme santissime della carità, e fissarsi bene in mente e in cuore che quello è più che mai il tempo di farsi conoscere per buon cittadino alla patria, e per vero seguace e discepolo di Gesù all’afflitto prossimo suo. Divozione più accetta a Dio in que’ tempi, nè che tanto possa impegnare la divina sua misericordia a preservarci illesi, anche in mezzo agl’infermi e ai cadaveri, non ci è, quanto questo applicarsi alla carità verso la patria e verso i nostri fratelli, con far del bene e porgere aiuto, per quanto sarà in nostra mano, ai corpi e alle anime loro.
Da questi principj deriva l’obbligazione che hanno i nobili cittadini, e i meglio stanti di far certe guardie ed ufizj che non possono farsi dai poveri e dagli artigiani, perchè intenti a guadagnarsi il vito, e che debbono farsi da gente piena [367] d’onore, la quale si presume incapace di lasciarsi corrompere. Quindi anche viene l’obbligo de’ medici, cerusici e d’altre persone, di assistere allora in persona ai bisogni del pubblico. Chi fa questo, senza fallo esercita un atto di nobile carità cristiana; e indirizzando a Dio l’offerta di tali sue fatiche in pro del suo prossimo non si può dire quanto sia per dar gusto al nostro comun padre Iddio. Tutti gli altri poi, se hanno sentimenti di vera carità verso Dio, debbono anch’essi in qualche altra guisa porre in opera la carità verso il pubblico e verso i privati, impiegandosi o colla persona o colle facoltà, e meglio poi se in tutte e due queste forme, per sovvenire agli altrui bisogni. È incredibile la spesa che allora dee fare un comune. E come farla, se mancassero i fondi e l’erario del pubblico, e non soccorressero i cittadini? Bisogna allora alimentar tutti i poveri, mantenere i lazzeretti, provvedere agli altri infermi, pagar medici, cerusici e tanti altri o ufiziali o serventi. Mille altre cure ed impensati aggravj si debbono sostenere, uno però dei quali non vo’ lasciar di accennare, cioè, che non pochi degli operai, degli artigiani e de’ servitori restano allora senza traffico e senza padroni che li licenziano, riducendosi con ciò alla mendicità e per conseguente al bisogno di essere nutriti dal pubblico. Ora in tali casi non è solamente un consiglio, ma è un precetto chiaro chiarissimo della dottrina cristiana, registrato da tutti i teologi che cadauno, secondo la sua possibilità, ha da concorrere al mantenimento degli altri cittadini bisognosi e impotenti a guadagnarsi il vitto in sì miseri tempi, ed è tenuto [368] in coscienza a contribuire in aiuto altrui il suo superfluo, e talvolta ancora parte di ciò che è a lui necessario, se fosse in urgente ed estremo pericolo di morir di fame e di stento uno de’ nostri fratelli in Cristo. Anzi in sì gravi bisogni hanno i maestrati da fare quanto possono di bene, e usare gran carità insino ai poveri Giudei, creature anch’essi di Dio e prossimi nostri. Santamente fecero in Roma nel contagio del 1656 que’ maestrati nell’aiuto che diedero anche agl’infelici Ebrei, fra i quali poi fu osservata, per attestato del cardinal Gastaldi, questa carità, cioè che quei d’altre città d’Italia sane spedirono non leggieri soccorsi di danaro all’università appestata degli Ebrei di Roma. Sicchè chiunque ha viscere di carità cristiana e stimolo d’onore, come può essere che potendo soccorrere non soccorra al miserabile e compassionevole stato di tanti suoi concittadini, che non per loro colpa, ma per la costituzione del tempo, si veggono esposti ogni momento a morir di fame o pure di peste, e a cagion della loro miseria? Perduto è quello che si dona al lusso e ai peccati: non è così di ciò che s’impiega in sollevare le altrui calamità. Prescindendo anche dalla legge cristiana, non ci può essere secondo le leggi del mondo azione più gloriosa ed eroica che il sovvenire ai bisogni della patria e del prossimo. Quanto più dunque dovrà ciò farsi da chi seguita Cristo, il quale nel dì del giudizio null’altro più dimanderà agli uomini, quanto se abbiano usata carità e misericordia verso dei bisognosi? Oltre a ciò egli ha detto in S. Giovanni al cap. XIII, 35 (e ce ne abbiam da ricordare tutti, e sempre) che un [369] distintivo d’essere vero cristiano e suo buon seguace, consiste nell’amarci l’un l’altro. In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem. E questo santo amore, senza il quale non saremo riconosciuti nè dagli uomini, nè da Dio per veri cristiani, non ha già da essere un amor di sole parole, ma un amore di fatti; e ce ne avvisò il suo diletto discepolo Giovanni nella epist. I, cap. III, 18, con quelle parole: Filioli mei, non diligamus verbo, neque lingua, sed opere et veritate. Cioè: miei cari figliuoli, amiamoci non colle parole, e colla sola lingua, ma colle opere e colla verità. Certo poteva il Signore Iddio fare che chi ora è comodo e ricco, nascesse, e durasse per tutta la sua vita nel numero dei pezzenti e del povero volgo. Non l’ha fatto per sua bontà. Ora che ingratitudine non sarebbe mai, se in così evidente incredibile necessità i benestanti non sovvenissero col superfluo loro ai bisogno e ai guai dell’infelice plebe? Questa giustizia l’esige Dio; questa gratitudine l’aspetta quel benefico Signore da tutte le persone comode, e da quel remuneratore potentissimo ch’egli è; non mancherà poi di ricompensarla con centuplicata mercede in terra, difendendo spezialmente la vita dei caritativi, e poi d’infinitamente premiarla, quando a lui piacerà, nel suo beatissimo regno.
La carità è ingegnosa allorchè ci sta nel cuore; e però sarebbe superfluo l’insegnar qui ad alcuno, come si debba o si possa giovare in tempi di peste al prossimo nostro. Dirò nulladimeno che primieramente bisogna di buon cuore concorrere alle collette, che facesse il pubblico di letti, biancherie, [370] legnami, vettovaglie, danari, ecc. Girolamo Previdello, legista reggiano, nel suo Trattato della peste tiene con Baldo, che nessuna persona, quantunque privilegiatissima, sia scusata da queste collette e nè pure gli ecclesiastici, i quali però s’intende che debbono essere regolati in questo dai loro prelati. Poscia sarà un bell’impiego della carità il ritenere per amore di Dio que’ servitori che già si avevano in casa, senza ascoltare l’interesse o la politica del mondo che forse in quelle strettezze e timori consiglierebbero il licenziarli. Diventerà ancora assai meritorio presso a Dio il dare allora (senza che se ne abbia bisogno) da lavorare ai poveri, acciocchè si guadagnino il pane, ad oggetto appunto di far loro del bene; perchè se ben paresse agli occhi del mondo interessata questa azione, pure agli occhi di Dio comparirà per un atto di lodevol carità. Chi poi prendesse ad alimentare allora alcuni determinati poveri (e i parenti spezialmente, se ne avessero bisogno) scaricando i conservatori del pubblico dal peso d’essi, e dandone loro contezza, acciocchè non cogliesse tal gente anche la limosina altronde; certo è che di lunga mano più inviterebbe sopra di sè le benedizioni di quel gran Dio che ama e consiglia tanto la beneficenza verso il prossimo. Molto più si farebbe, ricoverando povere fanciulle rimaste orfane, e perciò in pericolo di perdere l’onestà e la vita, e il vescovo spezialmente accudirà e farà accudire a questo, con provveder poscia dopo la peste, per quanto potrà, al sostentamento e all’asilo di quelle che ne avessero bisogno. Che se il Signor Iddio preserva qualche [371] terra o parte del paese, hanno gli abitanti d’essa da tenere sempre davanti agli occhi le calamità de’ vicini infetti, e inviar loro quell’ajuto che possono. Queste son divozioni sode, perchè la carità è la principale delle virtù e la regina delle divozioni. In una parola, con danari, vettovaglie, mobili, medicamenti, ecc., si può allora porgere soccorso al bisogno e alle infermità altrui; e il non porgerlo per timore che possa poi mancare un giorno a sè il bisognevole, sarà talvolta un poco fidarsi di Dio, e un consigliarsi colla sola avarizia e col troppo amor di sè stesso. Se non faremo allora del bene al prossimo, quando poi vorremo noi fargliene?
E perciocchè alcuni appunto ci sono che in tempi di pestilenza credono che loro debba mancar la terra sotto i piedi, e non si saziano d’unir vettovaglie, quasichè il cattivo influsso avesse a durar degli anni; anzi si trovano di quelli che sol pensano a far traffico e guadagno delle disgrazie altrui, dovranno i parochi e predicatori raccomandare anch’essi a tutti, sia chi si voglia, il non nascondere e non incarire i grani, essendo obbligo di peccato grave il vendere allora e a giusto prezzo, l’annona superflua al bisogno suo. Troppo è facile in sì fatte congiunture che la povera gente muoia di fame e di disagio. Uniscasi appresso coi magistrati il vescovo zelante, per adunar limosine e apprestare ogni aiuto al prossimo, studiandosi, se mai si potesse, di raccogliere in un luogo solo tutti i mendicanti, e di alimentarli ivi, siccome ancora d’impiegare in varj ministeri, necessarj allora al pubblico, le persone che restassero [372] senza padroni, o senza mezzo di procacciarsi il vitto coll’arte ed impiego loro consueto. Tanto pur fece S. Carlo, concorde coi maestrati nella peste di Milano, avendo egli procurato un luogo fuori della città a tre o quattro cento di questi poveri artisti e servitori sfaccendati, con alimentarli dipoi e farli regolare come se fossero stati entro d’un monastero. Oltre al soccorso ch’egli contribuiva del suo, inviava poi gli stessi poveri ordinati in ischiere per le vicine terre, cantando le Litanie ed altre orazioni col crocifisso avanti, per eccitar maggiormente i fedeli a far loro larghe limosine. E perchè venuto il verno, non si trovava provvisione per vestirli e difenderli dal freddo, non potendo sofferire il pietoso padre di vederli patire, trovò finalmente un buon partito, che fu di pigliare tutte le tappezzerie, portiere, padiglioni e quanti altri panni e drappi egli aveva in casa, non riservando per sè e per la sua famiglia, se non da mutarsi una volta; e questi panni e drappi di varj colori fece convertire tutti in vesti per quei poverelli. A tanto ancora si ridusse il santo e caritativo cardinale che si privò infino del proprio letto per soccorrere alle necessità del suo dilettissimo popolo.
Dovrà dunque il vescovo tener conto esatto di tutti quelli che avran bisogno d’aiuto, inchiudendo in questo numero anche i monasteri ed ogni altro ecclesiastico povero, per provvedere a ciascuno, secondo che potrà il meglio, anteponendo sempre i più miserabili e bisognosi agli altri. A questo effetto sarà non solo utile, ma ancora necessario l’instituire una pia confraternità, che si chiamerà [373] della misericordia o della carità, o pure instituirne molte, cioè una per quartiere, ufizio di cui sia il visitare i poveri e gl’infermi, e l’invigilare ai lor bisogni, l’avvisarne i deputati e il raccogliere limosine di danari, farine, pane, vino ed altri commestibili, o pur di biancherie, vesti, mobili, ecc., per poi distribuirle ai lazzeretti, ovvero ai bisognosi della città e de’ quartieri, e per mantener loro medici, cerusici, spezieria, ecc. Medesimamente si arroleranno a questa divota compagnia tutti quegli dell’uno e dell’altro sesso, che, animati dallo spirito di Dio con particolar vocazione, si offeriranno al servigio degli appestati e de’ lazzeretti. Nella pestilenza che accadde a’ tempi di S. Cipriano in Cartagine, per quanto narra Ponzio Diacono, il santo vescovo esortò ognuno agli ufizj della carità, in maniera che tutto quel buon popolo infervorato si accinse ad aiutarsi l’un l’altro. Appresso distributa sunt continuo pro qualitate hominum atque ordinum ministeria. Multi, qui angustia paupertatis, beneficia sumtus exbibere non poterant plus sumptibus exibebant, compensantes proprio labore mercedem divitiis omnibus cariorem. Non si ammetteranno però se non persone che sieno dabbene, e dalle quali si possa ragionevolmente sperare fedeltà e carità. Ogni paroco descriverà nella sua parrocchia quei che si esibissero a questo santo impiego, e ne darà nota al vescovo, il quale secondo le occorrenze destinerà loro gli impieghi. Leggiamo del suddetto S. Carlo che osservatasi dalle finestre dell’arcivescovato una fanciulla, poco lontana dallo spirar l’anima, a cui la madre presente non osava accostarsi, nè porgere [374] aiuto, il santo Cardinale avendo egli medesimo veduto il misero stato della povera figliuola, mosso a compassione di lei, fece chiamare una vergine di S. Orsola, che già se gli era offerta per somiglianti bisogni, e la mandò a soccorrere l’infelice moribonda. Entrò coraggiosamente la vergine in quella stanza, e levando di mezzo a due fratelli morti l’agonizzante zittella, la lavò e le fece altri fomenti, con che si riebbe, in guisa che dopo varj altri ajuti fu condotta al lazzeretto e restituita in perfetta sanità. Altrettanto fece nella peste di Lione del 1629, per attestato di Teofilo Rinaldo, un’onesta e generosa vedova, per nome Giovanna Mauris, che inteso esser morti di peste i genitori d’un bambino lattante, corse in quella casa, e preso l’abbandonato fanciullo, diede poscia a lattarlo ad una capra.
La distribuzione delle limosine si farà non dal paroco, ma dai capi d’essa confraternità, o da altri conosciuti per molto fedeli e savj. Che se il paroco dovrà farla egli, abbia in sua compagnia qualcuno d’essi confratelli o altre persone timorate di Dio. E si ricordi ai raccoglitori e distributori che sarebbe reo di colpa mortale chi dispensasse, o ritenesse per sè tali limosine senza necessità, essendo questo un rubare a quei che hanno vero bisogno. Dovrà poi il vescovo, quando la necessità il richiedesse, permettere che s’impieghino in sollievo de’ poveri alcuni legati annui, destinati ad altre opere pie. Raccomandi ancora, se ne conoscesse il bisogno, ai maestrati e deputati, di non lasciar mai abbandonato alcuno o sospetto o infetto, finchè sia vivo, perchè il fare altrimenti è un’indicibile crudeltà. Di più raccomandi [375] loro che per quanto si potrà, non impediscano che i figliuoli ai genitori, i genitori ai figliuoli, e i parenti ai parenti servano nell’infermità o nel sospetto di peste, essendo ciò un ufizio di gran carità e pietà. Anzi accadendo pur troppo che allora molti si avviliscano, e dimentichi delle leggi della natura e molto più di quelle della carità, pensino a salvar solamente sè stessi nel naufragio, senza badare nè al pericolo nè al bisogno de’ loro più congiunti, sarà cura dei parochi e predicatori il raffrenare, per quanto potranno, una tale mostruosità, con rappresentarne la bruttezza, e con inculcare a tutti il debito della gratitudine, e i bellissimi e santissimi insegnamenti della carità cristiana. Ci avvisa qui S. Antonino che il non somministrare quando si possa agl’infetti le cose necessarie al corpo e all’anima loro, est contra charitatem, humanitatem, et cristianam pietatem. E giacchè il Signor Iddio (non si può ricordare abbastanza) nel finale giudizio più d’ogni altra cosa ci chiederà se avremo esercitate le opere della misericordia verso il prossimo nostro, quanto più sarà inesorabile il suo sdegno contra chi nè pure avrà aiutato i congiunti che noi più degli altri dobbiam amare e soccorrere; e quanto più perdonerà il Dio della carità, e darà premj di vita eterna a coloro che, coraggiosi e fedeli, senza lasciarsi atterrire nè da pericoli, nè da incomodi, nè dall’aspetto della morte terrena, avranno assistito con santa unione e pazienza alla cura e al bisogno de’ lor genitori, figliuoli e parenti?
A questo proposito non sarà grave ad alcuno l’intendere ciò che scrive uno degli antichi storici [376] italiani, cioè Matteo Villani, il quale descrivendo la spaventosa peste de’ suoi giorni, accaduta nel 1348, così parla: Tra gl’infedeli cominciò questa inumanità crudele che i padri e le madri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e i padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti; cosa crudele e maravigliosa, e molto strana della barbara natura, ma molto più detestanda tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le nazioni barbare ed infedeli, questa crudeltà si trovò. Essendo cominciata nella nostra città di Firenze, fu biasimato da discreti la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono, e rinchiusono in luoghi solitarj e di sana aria, forniti d’ogni buona cosa da vivere ove non era sospetto di gente infetta. Ma in diverse contrade il divino giudizio (a cui non si può serrar la porta) gli abbattè come gli altri che non s’erano provveduti. E molti altri, i quali si disposero alla morte per servire i loro parenti ed amici malati, camparono avendo male; e assai non l’ebbono, continuando, in quel servigio: per la qual cosa cadauno si ravvide, e cominciaro senza sospetto ad aiutare e servire l’un l’altro; onde molti guarirono; e guarendo erano più sicuri a servir gli altri. Anche Evagrio nel lib. 4, cap. 28, della Storia narra che in una gran peste molti servendo ai suoi parenti malati, benchè desiderassero anch’essi di morir con esso loro, pure non s’infermavano punto. L’ordine poi della carità richiede che si aiuti prima il padre e l’avolo che gli altri parenti; prima i figliuoli che la moglie; prima i parenti che gli amici; prima chi è posto in estrema necessità spirituale, che il costituito in sola estrema [377] necessità corporale. Finalmente per animar sempre più il popolo a soccorrersi caritativamente in occasione sì propria e di sì grave bisogno, potrebbe il vescovo far dare alle stampe cose pie, spettanti a simili calamità, come un’omelia di S. Gregorio Nazianzeno, due sermoni di S. Gregorio Nisseno intorno al soccorrere i poveri, un sermone di S. Cipriano della mortalità, ed uno sopra la limosina, e così altre omelie del Crisostomo e d’altri SS. Padri che inspirassero e dilatassero la santissima virtù della carità ne’ fedeli, e tutte tradotte in italiano, affinchè il latino non ristringesse il frutto a quei soli pochi che l’intendono.
Carità de’ principi verso i lor sudditi. Maggiore si esige dagli ecclesiastici che dai laici e molto più dai benefiziati. Obbligazione dei regolari. Doversi in caso di necessità impiegare anche i vasi sacri. Carità eccellentissima di chi si espone alla cura degl’infetti. Come s’abbiano da preservare tali caritativi.
Ma se, in tempi massimamente di pestilenza, tutto il popolo dee aver tanto a cuore ed esercitare le carità, quanto più poi dovranno averla ed esercitarla i capi del popolo, i principi della terra? Sanno essi che il difendere, conservare e soccorrere i proprj sudditi, è un debito patente del loro grado, e un interesse premurosissimo della lor potenza, e che non possono altronde sperar gloria più grande quanto dal ben soddisfare a [378] questo ufizio. Sanno che il Signor Iddio nel costituirli sopra il popolo gli obbligò a procurare più la felicità di questo popolo che la loro propria; e che appunto dalla conservazione e felicità dei sùdditi dipende la maggiore lor felicità e riputazione. Il perchè, quando s’odono le minacce, o si prova il flagello della pestilenza, i buoni principi prima degli altri sottopongono sè stessi alle leggi ed ai riguardi comuni, per tener lontano questo fiero nemico, e non portare in seno ad alcuno la rovina. Non permettono che i lor ministri, dazj e gabelle sieno d’impedimento alla preservazione del popolo; anzi stimano gran guadagno le perdite loro, se queste possono contribuire alla salute del pubblico. In una parola, siccome veri padri del popolo, non perdonano a spesa, diligenza e premura alcuna, per salvare e sovvenire in tanta calamità la gente, consegnata alla lor prudenza e carità dalla provvidenza divina, come se fossero tanti loro figliuoli.
E qui merita d’essere rammemorato uno dei principi italiani del secolo prossimo passato, per le sue gloriose azioni in occasion di contagio, cioè Ferdinando II, granduca di Toscana. Entrò la peste in Firenze nel 1630, e quel caritativo principe mantenne sempre del suo ed anche con suntuosità i tre lazzeretti allora costituiti. Non cessando poi la strage, si venne finalmente al ripiego di mettere sul principio dell’anno seguente in general quarantena tutta la città, e nello stesso tempo ancora tutti i luoghi del suo distretto; risoluzione che da tutti i saggi fu creduta e provata in fatti per l’unico antidoto che estinse affatto il male. [379] Descritti pertanto gli abitatori tutti colla loro età, condizione e sesso, emanò un editto che chi avea bisogno di vitto dal pubblico, stesse per 40 dì in casa (si allungò poi questo sequestro sei altri giorni di più per arrivare al principio della quaresima) nè potesse sotto qualsisia pretesto uscirne senza licenza de’ deputati. A chi potea vivere a sue spese, era prescritto che un solo ben sano della famiglia potesse, con licenza però del maestrato in iscritto, uscir di casa una sola volta il dì al suono d’una campana, per provvedersi di quello che bisognava, con poter anche andare ai cancelli fuori di tre porte per comperarne dai rustici affatto esclusi. Per i bisognosi erano preparati magazzini di vino, olio, grano, farina, ecc., a’ quali soprintendevano nobili, portandosi alle case d’essi poveri la porzione, cioè per ciascuna persona, senza riguardo di sesso o di età, due libbre di pane, una misura di vino e mezz’oncia di sale ogni dì, mezza libbra di carne ogni tre dì della settimana, e negli altri giorni due uova o talvolta due once di cacio, oltre a certa distribuzione di olio, aceto, fascine, ecc., nel che quella città impiegò rilevantissime somme di danaro. Dì e notte i soldati battevano la pattuglia, e due del maestrato della sanità andavano ogni dì girando a cavallo per udire il bisogno di tutti. Ora durante la suddetta quarantena il granduca Ferdinando, non contento di tanti altri atti del suo amore, che qui tralascio, verso il suo popolo, non lasciava giorno, quantunque la stagion fosse rigida, che anch’egli non passeggiasse per le contrade, consolando i mestissimi sudditi, ascoltando le lor necessità e [380] provvedendo a tutto; atto veramente eroico di un principe vero padre del suo popolo.
È chiara l’obbligazion dei laici di soccorrersi l’un l’altro in tempi di tanta miseria; ma molto più senza fallo dovranno allora accendersi di carità e giovare al prossimo, gli ecclesiastici sì secolari, come regolari. Parla da per sè questa verità, ed è superfluo il citare autori. Per l’obbligo ch’essi hanno di dar buon esempio agli altri, e per debito della lor professione, che è d’essere più virtuosi degli altri, siccome entrati nella sorte ed eredità del Signore, questo medesimo Dio richiede e aspetta da loro nelle calamità della pestilenza ogni ufizio di carità fraterna. Chi può colla roba, dee soccorrere con essa alla miseria del popolo; chi non può con questo, vegga di potere colla persona o in altra forma. I vescovi spezialmente sono a ciò obbligati dai sacri canoni e dai ss. Padri. E per conto della roba, è da ricordarsi che se bene gli ecclesiastici che godono commende, abbazie e benefizj, o semplici o curati, conceduti loro dalla Chiesa, son tenuti in ogni tempo sotto pena di grave peccato a distribuire in usi pii, e massimamente in benefizio de’ poveri, le rendite d’essi beni, con potersi eglino solamente riservare quello che è necessario all’onesto e non pomposo loro sostentamento, pure allorchè infierisce la pestilenza, cresce questo obbligo, dovendo eglino vivere allora più frugalmente che mai, e sottrar molto alle loro comodità, per rimediare in quel che possono ai tanti incomodi ed affanni che il popolo è costretto allora a sofferire. Le rendite della Chiesa, per comune sentenza de’ concilj, de’ ss. Padri e de’ teologi, [381] sono Bona Christi, Pauperum Patrimonia. Quando mai è più proprio il tempo che i poveri godano il frutto di questi lor patrimonj, che nelle estreme necessità e sciagure d’una pestilenza? E quand’anche non ci fosse questa obbligazion precisa, imposta dalla Chiesa, anzi, per così dire, dalla natura stessa, a tutti i benefiziati di qualunque ordine e grado che sieno, dovrebbe essere più che sufficiente a muovere gli ecclesiastici che possono, all’altrui sovvenimento, l’aspetto e la considerazione di tante miserie, nelle quali è allora involta l’infelice plebe, se pur eglino han cuore in petto e si ricordano d’essere servi dichiarati di Cristo, e ministri del vangelo e da chi eglino han ricevuto que’ beni stessi. Ma che sarebbe poi, se taluno del clero, in vece di contribuire le sue sostanze in sollievo de’ miseri, s’industriasse di far anche guadagno sulle sciagure altrui, e facesse servire il suo contribuir soccorsi spirituali al popolo per veicolo de’ proprj temporali profitti?
Corre poi questa medesima considerazione anche per i luoghi pii e per qualunque monistero, convento e comunità religiosa benestante, dovendo anch’essi contribuire il loro superfluo, anzi assai più del superfluo, con risparmiar quanto possono allora, per soccorrere quel popolo, onde eglino una volta riceverono i beni temporali. Guglielmo, abate di S. Benigno di Digione, o sia Divionense, uomo di santa memoria, nel secolo XI tornato d’Italia, trovando che i suoi monaci aveano la dispensa e il granaio pienissimo, e che contenti di dare ai poveri l’ordinaria limosina, non soccorrevano ad essi come potevano, sdegnato sbalzò [382] su dalla sedia, e girando pel monastero non si saziava di replicare o con alta o con bassa voce: Ubi est charitas? Ubi est charitas? Dove è la carità? Quindi fece chiamare i poveri e distribuir loro quanto gli venne alle mani e ai monaci che voleano dipoi placarlo, andavano pure rispondendo: Ubi est charitas? Anzi nelle calamità d’un contagio nè pure si hanno allora a lasciare in dietro i ricchi arredi e i vasi sacri delle chiese; ma conviene, o è necessario il convertirli in soccorso de’ poveri, qualor ne corra il bisogno. Non solo non sarà disgradevole a Dio un impiego tale delle oblazioni a lui fatte, ma anzi sarebbe a lui troppo disgradevole, se non si facesse e se l’umano interesse, furtivamente ammantandosi delle vesti della pietà e religione, trovasse colori e via per consigliare il non farlo. Premono più senza fallo al Signore i poveri, cioè la sua famiglia, e i tempj animati dello Spirito Santo, che gli ornamenti esterni del tempio materiale, i quali sono bensì lodevoli e parte ancora necessarj, ma senza che sia necessaria anche la lor ricchezza ed abbondanza. Io potrei provare più diffusamente questa sentenza, se credessi che alcuno ne avesse bisogno. Basterà pertanto il ricordare qui che S. Giovanni Grisostomo, S. Girolamo, S. Bernardo ed altri SS. Padri non lasciano dubitarne, da che eglino non hanno molto lodato chi fa servire senza necessità al lusso dei sacri tempj ciò che sarebbe meglio impiegato in soccorso delle necessità dei poveri. Ma più degli altri, parla chiaro un altro dottore della chiesa, cioè S. Ambrosio nel lib. 2, cap. 28 de officiis, le cui parole furono poi riferite [383] da Graziano nel c. Aurum 13, Qu. 2. Eccone alcuni sensi: Hoc maximum incentivum misericordiæ, ut compatiamur alienis calamitatibus; necessitates aliorum, quantum possumus, juvemus, et plus interdum quam possumus, etc. Aurum ecclesia habet, non ut servet, sed ut eroget, et subveniat in necessitatibus. Quid opus est custodire, quod nihil adjuvat? Nonne melius conflant sacerdotes propter alimoniam pauperum, si alia subsidia desint? etc. Nonne dicturus est Dominus: Cur passus es tot inopes fame mori? Et certe habebas aurum, ministrasses alimoniam. His non posset responsum referri. Quid enim diceres: Timui ne templo Dei ornatus deesset? Responderet: Aurum sacramenta non quærunt. Ornatus sacramentorum redemtio captivorum est. Vere illa sunt vasa pretiosa, quæ redimunt animas a morte, etc. Numquid dictum est S. Laurentio: Non debuisti erogare thesauros ecclesiæ, vasa sacramentorum vendere? Veggasi il resto. Basterà qui a me in luogo d’ogni altro esempio quello del B. Ricardo abate di S. Vitono di Verduno. Nell’orrenda mortalità cagionata dalla fame nell’anno 1028 che desolava la città, quell’uomo di Dio, per quanto narra Ugone Flaviniacense nella sua cronaca: dopo aver distribuito alla povera gente quanto aveva, non perdonò ai tesori della sua chiesa; anzi vendute le cose più preziose d’essa a quella di Rems, ne distribuì subito il prezzo ai poveri, de’ quali ancora ritenne presso di sè un determinato numero per alimentarli. Inviò ancora lettere e messi ai re, principi e vescovi suoi amici, chiedendo soccorso di carità a tutti. Impegnò ancora i beni del monastero per [384] soccorrer pure in quante maniere poteva alla miseria del popolo. Questi sono santi, questi esecutori veri della mente di quel buon Padre che abbiamo in cielo.
Ma il più eccellente atto di carità che possa farsi in tempo di peste verso il prossimo, e per conseguenza verso Dio, da cui vien ricevuta come fatta a sè ogni opera di misericordia che esercitiamo verso il prossimo nostro, purchè accompagnata da essa carità e dall’intenzione di piacere allo stesso Dio, si è l’esporre allora la propria vita in soccorso degli appestati e spezialmente nei lazzeretti, o per medicarli, governarli e cibarli o per aiutar l’anime loro alla pazienza, ovvero al passaggio dell’eternità coi sacramenti e con altri mezzi della pietà e carità cristiana. Certo che di un sommo merito presso Dio si è ancora l’attendere con indefesso studio alla preservazione dei sani e del povero popolo, e il sovvenir loro con aiuti temporali o spirituali; e massimamente perchè ciò non può farsi d’ordinario senza esporsi a molti rischi di lasciarvi un giorno o l’altro la vita. Ma il vedere allora persone non solamente ecclesiastiche, ma ancora secolari che volontariamente e senza obbligo, rinunziano a tutte le speranze della vita terrena, e, lasciata al Signore la cura della lor sorte, corrono piene d’allegrezza e di coraggio, e accese del fuoco celeste della carità, al governo e soccorso o temporale o spirituale degl’infetti; questo è uno spettacolo degno degli occhi del paradiso, e che supera tutti gli altri, e che non si può abbastanza lodare da noi, ma si saprà ben premiare infinitamente ed eternamente [385] da Dio. Quando anche la morte accada in così eroico e santo ministero, il morire, quantunque non sia propriamente un martirio, pure è una similitudine o spezie di martirio, siccome il P. Teofilo Rinaldo mostra in un suo trattato. E S. Bernardino coll’autorità delle Scritture prova in una delle sue prediche quaresimali che se un assassino, un ladro o altro più gran peccatore, corresse in soccorso di qualche appestato abbandonato dai suoi e in pericolo di perdere per la disperazione il corpo e l’anima, a fine di confortarlo e di aiutarlo a salvarsi, mosso a ciò da vera carità cristiana, cioè da un eroico amore di Dio, e costui in sì pio ufizio venisse colpito dalla peste, e tanto improvvisamente morisse che non potesse pensare a’ suoi peccati, nè confessarsi, egli si salverebbe, mercè di quell’atto coraggioso di santissima carità, tanto commendata da Cristo, e contenente in sè virtualmente anche la contrizione. Ed appunto in questa scuola di carità si segnalarono i cristiani d’Alessandria a’ tempi di S. Dionisio, e in altre pestilenze e mortalità S. Cipriano, S. Gregorio taumaturgo, S. Cutberto, S. Antonino arcivescovo di Firenze, il venerabile Girolamo Emiliano, S. Gaetano, il B. Luigi Gonzaga, e tanti altri vescovi e santi: in questa incominciò Bernardino da Siena, giovane di venti anni, con dodici altri pii giovanetti il noviziato della sua santità; in questa finalmente fece il santo arcivescovo di Milano Carlo Borromeo sì mirabili azioni ch’elle non si possono leggere nella sua vita senza lagrime di tenerezza. Così in altre pesti si son veduti divoti e generosi secolari dell’uno e dell’altro sesso, [386] sacrificare al Signore ogni riguardo di questa vita terrena, per servire e soccorrere i poveri infermi. E gli ecclesiastici secolari, non meno che gli ordini religiosi, hanno spesse volte fatto a gara nel contribuire (anche sopra le loro forze, e con tirarsi addosso non pochi debiti) o aiuti spirituali, o pur grani, medicamenti ed altri simili soccorsi della lor carità; essendosi in oltre quasi sempre distinti nell’assistere o al governo, o alle confessioni della gente infetta, i PP. cappuccini e i PP. della compagnia di Gesù con dare molti di loro lietamente la vita per la salute del prossimo loro.
E non è già che tutti poi questi generosi servi del Signore sieno mancati di vita in mezzo alle morti altrui. Di moltissimi ha accettato il medesimo Dio la prontezza, ed offerta di morire nel Suo santo servigio, ma gli ha voluti anche preservare sani e gli ha risanati infermi. Tuttavia si mirano in Firenze appesi ad un altare nella chiesa delle Carmelitane, per voto fatto a S. Maria Maddalena de’ Pazzi, gli abiti che portava nella peste della nostra città l’anno 1630 il P. D. Vincenzo Maccanti fiorentino, cherico regolare teatino, il quale intrepido sino al fin del contagio assistè agli appestati; cioè una sopravveste e una sottanella ambedue di cuoio, una stola bianca, due stivali e un’ombrella pure di cuoio, con altri arnesi. Mi contento di questo solo esempio, perchè sono infiniti gli altri ecclesiastici, medici, cerusici, serventi, ecc., che non risentirono infezione alcuna dal praticare fra tanti infetti. Anzi parrà incredibile, e pure viene attestato, come fatto patente [387] e notissimo da Auberto Mireo, dall’Elmonzio, da Antonio de Lions, che la pia confraternità di S. Eligio instituita in Fiandra e in Normandia, prova una particolar protezione da Dio per la lor carità verso gli appestati. Assistono essi agl’infetti, ne toccano le piaghe, i cadaveri, e pure si mantengono illesi in questo caritativo esercizio, e tornando alle lor case non portano la rovina alle lor famiglie. Che che sia di questo, so bene che per attestato del P. Marchino nella peste di Firenze del 1631 i confratelli della misericordia, almeno in due per volta, accompagnavano i morti alla sepoltura in una debita distanza con lumi accesi, fermandosi poi fuori delle porte della città, nè si vide che alcun d’essi morisse di peste. Qui nondimeno reputo io necessario il ricordare, non doversi nè pure chi con una vocazione sì degna d’invidia tutto allora si sacrifica a Dio, tralasciar le umane cautele, e i riguardi e preservativi, per tener lungi da sè il morbo e la morte. Il fare altramente, sarebbe un tentare Iddio, e uno scialacquare que’ giorni che la carità vorrebbe impiegati nel corso intrapreso per benefizio del popolo. Perciò sarà loro cura di andar continuamente premuniti con vesti incerate di tela Sangallo, o di seta, o di cuoio sottile (il che è meglio) e con odori e profumi, e con aceto ed altri alessifarmaci, e di guardarsi dall’affaticarsi in maniera da sudare e da rendersi con ciò più atti a contrarre l’infezione, dovendosi eglino conservare, se non a sè, almeno al prossimo, lasciando poi che il celeste Padre disponga, come a lui parrà meglio, della loro vita. Portino ancora berrette di cuoio, e giunti alle proprie [388] stanze, benchè non sudati, mutino spesso camicia e vesti, esponendo le altre all’aria. Nel lazzeretto di Firenze per relazione del Rondinelli, i PP. cappuccini che ne avevano cura, si governavano nella seguente forma per non infettarsi. Pigliavano della bambagia rassodata, e tuffandola nell’elisire, si turavano con essa le narici e le orecchie, perchè il cattivo fiato degli appestati non penetrasse, o penetrando restasse corretto dall’altro odore confortativo della testa. In bocca tenevano incenso o solfo; e quando uscivano, si cavavano la bambagia e lasciavano libera la bocca, bagnandosi tutto il capo con acquarello di elisir-vite, perchè non è tanto potente. Avevano due abiti, l’uno, col quale stavano nel lazzeretto, mutandolo la sera e facendolo profumare con incenso, mentre il solfo dava loro troppo fastidio, e si mettevano l’altro. Si lavavano di quando in quando la persona con aceto, ovvero con qualche bagnuolo odorifero. E tale era la lor maniera per difendersi.
Finirò con accennare una particolarità degna di essere tenuta a memoria, e registrata dal P. Teofilo Rinaldo della compagnia di Gesù, in occasione di parlare della peste che afflisse Lione a’ suoi tempi, cioè l’anno 1629. Dopo aver egli narrato in quante maniere esercitassero allora i PP. Gesuiti la loro carità in pro del popolo, aggiugne che quantunque molti d’essi religiosi stessero nella loro chiesa quasi continuamente esposti a confessar la gente, pure niuno di que’ confessori fu mai toccato dalla peste. Due soli, che non andavano mai, o di rado andavano a quel santo ministero, e si credevano più sicuri dal pericolo con lo star [389] ritirati, morirono di pestilenza, ad esempio nostro, che non si ha da mettere la speranza della sanità nella ritirata, quando non assista Iddio, e che chi è assistito dalla sua misericordia, può andar franco in mezzo a tutti i pericoli. Perirono in quell’occasione anche molti sacerdoti secolari per aver data solenne sepoltura ad alcuni morti, come non morti di peste, secondo le fedi false dei medici, e per aver toccato danari ed altre robe loro date dai penitenti. Del resto nota il medesimo scrittore essere stato il popolo di quella numerosa città in mezzo alle terribili angosce della pestilenza sì divoto, sì compunto e disposto a ricevere dalla mano di Dio qualunque sorte, e con tal disprezzo delle cose caduche di questo misero mondo, che parevano persone della primitiva Chiesa. Chi potè colla roba, aiutò; chi era povero, colla fatica e con altri atti di carità. Inspiri il Signore Iddio a tutti i popoli fedeli, e massimamente al nostro, in tutti i tempi, e molto più quando egli volesse visitare un giorno con mano più pesante i nostri peccati, questo spirito di rassegnazione, penitenza e carità, per l’amore ch’ei porta al suo dilettissimo figliuolo, Gesù, e faccia che i mali temporali servano a noi d’incentivo a maggiormente temerlo ed amarlo, e di scala a goderlo un dì nel regno della sua carità.
[390]
Pietà e divozione quanto necessarie in tempo di pestilenza. Malvagità d’alcuni, che diventano allora peggiori. Quali prediche si convengano per costoro. Esercizi per accrescere e nutrire la pietà. Lezione spirituale, orazioni vocali, meditazioni e giaculatorie.
Sempre dovrebbe la pietà, o sia la divozione, essere il mestiere de’ cristiani, ma specialmente ha da essere nelle influenze pestilenziali. Ognuno allora ha più che mai bisogno del potente soccorso di Dio per preservarsi in vita. L’offenderlo, o l’essere in disgrazia di lui, certo non è un mezzo proprio per prometterlo a sè stesso. Ognuno conosce che stando allora la morte ai fianchi di tutti, v’ha bisogno di sempre andar preparato pel gran viaggio dell’eternità, e per conseguente d’intendersela bene con chi ha in suo pugno di farci eternamente felici, o eternamente miseri. E pure, di che non è capace la corrotta ed infelice natura degli uomini? Ho gran pena ad accennarlo, ma pur si dee accennarlo per istruzione nostra. In quei miserabili tempi, la sola relazione de’ quali, non che l’aspetto effettivo, dovrebbe pur bastare per santamente atterrirci tutti e condurci totalmente a Dio, in que’ tempi, dissi, non mancano persone che non solo non diventano migliori, ma più che mai s’immergono ne’ peccati con temerario sprezzo di Dio, giudice onnipotentissimo, e con pazza dimenticanza del grande interesse dell’anima [391] loro. Alcuni pur troppo intuonano il Mangiamo e beviamo, che domani morremo; ed altri già descritti dalla divina Sapienza si fanno animo l’uno all’altro con dire: Godiamo dei beni finchè li abbiamo; coroniamoci di rose prima che marciscano; nè ci sia prato per cui non passi la nostra lussuria. Peggio fanno altri, i quali, figurandosi di portar seco un’infallibile salvaguardia, non credono che la peste abbia veleni per loro, e però si danno a ladrerie e ad ogni altra sorta d’iniquità ed eccesso. Non si crederebbono cose tanto stravaganti se la sperienza non le avesse più volte fatto vedere, e non fosse ancora per rinnovarne gli esempi. In somma è pur troppo vero ciò che anche il grande arcivescovo S. Carlo diceva d’aver conosciuto per prova nella peste de’ suoi tempi, cioè: Che il buono si emenda sotto il flagello, e il cattivo sempre peggiora.
Ora contro tali pazzi ed empj egli è necessario che vegli e s’armi in primo luogo la giustizia dei principi, gastigando immediatamente e con qualche rigore certi delitti enormi, o pure pubblicamente scandalosi, ove sia con loro mischiata la disubbidienza agli editti allora pubblicati dal buon governo; e ciò per salutevol terrore ed esempio degli altri. Benchè non sarà tanto facile il commetterne di questi, ove si proceda con quelle provisioni e leggi che si sono proposte in trattando del governo politico. Contro certi altri delitti che non appartengono alla giustizia punitiva del fôro o per la loro qualità, o per la loro segretezza, ma che senza fallo non fuggiranno gli occhi di Dio, dee in quei tempi sfavillare più che mai lo zelo e l’eloquenza [392] de’ predicatori e confessori, inculcando a questa gente cieca e dimentica di sè stessa, ora con aspri ed ora con piacevoli modi, ma sempre con paterna censura, il tremendo giudizio di Dio, la sua gran giustizia, la sua immensa potenza in gastigare i figliuoli ribelli ed ostinati. E conciossiachè a certe persone di scorza dura, e tali ordinariamente non per altro se non perchè credono poco, essendo la divina virtù della fede troppo languida in esse, non fanno gran forza, nè mettono terrore certi esempi ed insegnamenti delle sacre Scritture, appunto perch’esse credono poco, bisogna dar di piglio anche alle ragioni umane e filosofiche, per levar loro di mente, se fia possibile, gl’incanti delle loro passioni e la sciocchezza de’ loro consigli e raziocini. Gioverà per tanto dilucidar loro questi inganni, e mettere in mostra tutto il pericolo e l’orror della morte imminente che quegli infelici mirano ben allora con gli occhi del corpo, ma non già con quei dell’anima, e quindi passare a far conoscere quanto sia folle e nemico di sè stesso chi in tempi tali va sì malamente spendendo i forse pochi momenti che gli restano di vita e quanto sia terribile il cadere nelle mani di Dio vivo e vero, giustissimo punitore delle offese e degli strapazzi contro di lui usati, e usati con tanto sprezzo di lui, perchè in tempi sì fatti; e quanto in fine sia necessaria a tutti la penitenza e la divozione e pietà, per preservarsi allora dalla morte temporale, e molto più dall’eterna. S. Gregorio il Grande, scrivendo appunto della pestilenza a Domenico vescovo di Cartagine, nell’epist. 41 del lib. 8 già ci avvertì che Inter flagella positos, [393] flagellis digna committere, contra ferientem est specialiter superbire, et sævientis acrius iracundiam irritare.
Ma per tali miscredenti ed iniqui, che finalmente poi, allorchè il flagello di Dio fa una lesione cotanto sensibile ai peccatori, si riducono a poco numero, pongasi mente di non atterrire la maggior parte del popolo che o è buona da lungo tempo, o certo allora si dà di vero cuore al pentimento de’ suoi peccati. A questi si ha da dire che non si parla, ma sì bene a certi ostinati, per i quali hanno anzi tutti gli altri veramente pentiti e compunti e tutti i buoni da implorar con preghiere la divina misericordia che li muova e converta. Colla gente già buona, o divenuta buona nelle calamità, io torno a ripeterlo, non si ha allora da metter mano al terrore, ma sì bene alle consolazioni, parlando della infinita clemenza di Dio verso chi daddovero ricorre a lui, e inanimendo, e confortando chi fa profitto dei gastighi di lui. Corrono bene; non bisogna avvilirli nel corso, servendo già loro di sprone la terribil faccia della stessa pestilenza.
Appresso è da promuovere la pietà nel popolo, in guisa però che non si contravvenga alle sagge regole del governo politico con adunanze pericolose, o pure con disubbidienze che dispiacerebbono al medesimo Dio. Prescriverà dunque il vescovo certe regole di vita cristiana, orazioni vocali, meditazioni, ed altri simili esercizi di vera pietà; o pure, non facendolo il vescovo, ognuno si aiuterà da sè stesso, e potrà essere aiutato dai confessori e predicatori. Gioverà pertanto leggere allora più [394] che mai libri divoti che trattino delle tribolazioni, per imparare da essi la maniera cristiana di tollerarle; ed altri che insegnino la vita divota e la perfezione, per unirsi bene a Dio, e rassegnarsi al suo santo volere. Alcuni consigliano il leggere, oltre ad alcune omilie da me accennate di sopra, l’operetta di Tertulliano intorno alla pazienza, il Trattato del Disprezzo del Mondo d’Innocenzo III, il Tesoro della Misericordia di Gabriello del Toro, il Cacciaguerra della Tribolazione, il Conforto degli Afflitti di Gasparo Loarte, alcuni Sermoni di Gabriello Biele e del Busto in materia di peste, le Opere del P. Bartolomeo da Saluzzo, il Conforto degl’Infermi del P. Stefano Binetti. Io per me consiglierei tutti a leggere allora in primo luogo, per chi può, i divini libri, specialmente del nuovo Testamento; e secondariamente le vite dei santi o beati, scegliendo anche i più caritativi, sieno martiri, sieno confessori e vergini, purchè scritte da autori approvati, e con semplicità di stile, e con verità di storia. Quelle dei santi e beati degli ultimi secoli, siccome più diffuse, e per lo più composte o tradotte in volgare, riusciranno maggiormente comode ed utili al popolo. S. Filippo Neri, gran maestro di spirito, raccomandava più che gli altri libri di divozione la lettura di queste vite, perchè sapeva che ivi nel medesimo tempo s’imparano le massime della santità, e si mira la santità posta in esercizio, restando chi legge egualmente istruito e spronato dall’esempio altrui. In terzo luogo essendo facilissimo l’aver seco o il trovare l’aureo libro dell’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis, o sia dell’abate Giovanni Gersen, e [395] tutte le sugose ed eccellenti opere del P. Luigi Granata e di S. Teresa, e quelle ancora di S. Francesco di Sales, io persuaderei tutti ad attenersi ben forte più alla loro lettura piena di santa unzione, che a quella d’alcuni altri libri, i quali non toccano bene spesso il cuore, benchè parlino o insegnino tanto. Chi potesse anche leggere il Trattato dei Travagli di Gesù del P. Tommaso di Gesù agostiniano, e l’Erario della Vita Cristiana del P. Giambatista Sangiurè della compagnia di Gesù, e le Opere Ascetiche del piissimo cardinale Giovanni Bona, e del P. Lorenzo Scupoli, cherico regolare teatino, per tacer d’altri autori, ne speri gran soccorso e consolazione spirituale.
Quindi si potrà e dovrà esercitare la divozione in orazioni vocali e mentali, che ognuno sceglierà secondo la capacità sua, o pure secondo la direzione del vescovo o del confessore. Il basso popolo, che non sa leggere, ha le sue orazioni, che basteranno purchè accompagnate dal buon cuore e dall’intenzione pura di pregare o lodar Dio. Quei di sfera un poco superiore ne aggiungeranno dell’altre conformi alla necessità di que’ tempi, con ricordarsi principalmente di recitare almeno una volta il giorno, più col cuore che con la bocca, gli Atti di fede, di speranza, d’amore di Dio e di contrizione, siccome le più sode orazioni che dopo la dominicale e il simbolo della fede, dovrebbono praticarsi nella nostra santa religione. Ma non si può dire che utilità e divozione, e qual soave conforto possano recare in ogni tempo, e specialmente in quello della calamità, alcuni salmi della divina Scrittura. D’ordinario non se ne sente il [396] mele e non se ne cava gran profitto anche recitandoli, perchè o non s’intende la lingua in cui si recitano, o non si ferma l’attenzione, nè fa posata la mente sopra i loro santissimi sensi e mirabili affetti. Sarà pertanto allora di un sommo vantaggio e conforto alla gente pia il parlare attentamente con Dio mercè d’alquanti salmi, scelti apposta per cura del prelato, ed anche volgarizzati, con lasciar da parte tutti que’ versetti che non si adattano al bisogno d’allora, ovvero che esigono troppo comento per capirne gli alti loro sensi e misteri. Gli abbiamo tradotti in volgare per opera di Pellegrino degli Erri, nostro Modenese, e stampati in Venezia l’anno 1573. Anzi perchè i più del popolo, a cagione del non intendere il latino, non sono atti a trarne tutto quel frutto che possono gl’intendenti, sarebbe da desiderarsi che venisse composta una selva di varie orazioni e di affetti, tutta di versetti de’ salmi, per quanto si può continuati, e talvolta ancora di salmi interi, con aggiugnere in un’altra colonna la loro traduzione, e con ridurre essi sotto diverse categorie, come sarebbe di pentimento, di speranza, di coraggio pio, di preghiere nelle tribolazioni, di risoluzione per eseguire la santa legge, di consolazione per i giusti, di confidenza de’ buoni in Dio, di ringraziamento, di lodi del Signore, e simili. Certo è che quelle parole, per esser dettate dallo Spirito Santo, purchè intese e recitate con attento e divoto cuore, più di qualunque altra orazione formata dagli uomini, ci possono riempiere di tenerissimi e santi affetti. Sarebbe propria di qualche anima innamorata di Dio, e insieme molto giudiziosa e intendente, l’esecuzione di un [397] tal disegno; ma quando niuna di queste vi si applicasse, bramerei di poter io un giorno tentare, se mai ciò mi riuscisse, in una forma tollerabile.
Chi poi ha il costume e la grazia da Dio di potere e saper meditare, più allora che mai si dovrà esercitare in questo efficacissimo pascolo della vera divozione, ricordandosi però che il profitto dell’anima non consiste in pensar molto, ma in amar molto Dio, e in determinarsi a conformare in tutto e per tutto la nostra volontà a quella di Dio, e ad operare e patire assaissimo per amore di lui, e in farlo poi quando se ne offra l’occasione. Ancor qui potrà il vescovo suggerire, o pure cadauno consigliandosi col suo direttore, o coll’intendimento suo, eleggerà i punti che principalmente sono da meditare ne’ tempi di gran calamità, mettendo in primo luogo la Passione del nostro divino Redentore per addestrarci coll’esempio del nostro divino Duce a patire, e a patir coraggiosamente e volentieri, per dar gusto a lui e per fare il suo santissimo volere. Lo sprezzo del mondo, la rassegnazione che dobbiamo a Dio, la grandezza dei beni ch’egli ci riserva nel suo regno, la misericordia sua, l’utilità delle tribolazioni, i mirabili insegnamenti di carità dati a noi da esso Dio, sopra tutto coll’esempio e colla voce del suo divino Figliuolo, ed altri simili argomenti saranno a proposito per eccitar allora maggiormente le anime a pensieri ed opere sante, e all’effettivo loro esercizio. S’hanno in fine da scegliere varie giaculatorie ben vivaci e pie, essendo queste per consiglio de’ maestri un cammino de’ più corti e de’ migliori per unirsi e per istare continuamente unito a Dio.
[398]
Ricorso all’intercessione de’ santi; ma spezialmente ricorso a Dio. Sua immensa bontà, e meriti di Gesù che ci fanno coraggio. Amore e divozione verso Gesù e speranza in lui; utili e necessarj soccorsi in ogni tempo, ma in quei massimamente delle calamità.
Sarà ancora utile il ricorrere nei calamitosi tempi della pestilenza alla protezion de’ santi, nel che è da desiderare, che siccome noi certo possiamo sperar molto dalla loro intercessione, così ancora si potesse in ciò ben regolare il corso d’alcune persone o rozze o non abbastanza istrutte. Sarà cura dei vescovi, e degli altri uomini dotti e pii l’osservare che l’interesse umano non entri a persuadere certe divozioni troppo superficiali e molto meno a contaminare le pratiche pie, e che l’ignoranza non giunga ad abusarne con dispiacere della chiesa santa. Gioverà principalmente il ricorrere all’intercessione della purissima e santissima Madre di Dio e de’ santi protettori della città e di quelli spezialmente dei quali si conserva il sacro deposito, al qual fine serviranno quelle che appelliamo Litanie della Vergine e dei Santi. Ma la vera maniera d’impegnare i beati del cielo alla nostra tutela, si è quella di pentirsi daddovero, e di lasciar le offese di Dio, e di praticar le virtù che piacciono a Dio, e piacquero tanto anche agli stessi buoni servi di lui. La divozione verso i santi, consistente in una sola esteriorità o di orazioni [399] vocali, o di voti, o di offerte, ma scompagnata dall’interiore e vero amore di Dio e del prossimo, contuttochè possa essere anche lodevole, pure non dee e non può promettersi molto da que’ fortunati cittadini del cielo, amanti troppo dell’onore e della gloria del nostro e loro Dio. Allora sì potremo confidare assai nel patrocinio loro ed anche per ottener grazie temporali, quando li pregheremo del pari che interpongano le lor preghiere appresso l’Altissimo, acciocchè per sua clemenza, e colla sua potente grazia di cattivi ci faccia buoni.
Ma s’egli è utile e lodevole sempre, e molto più ne’ pericoli e guai della pestilenza, il fare ricorso ai santi nostri avvocati, egli è più poi necessario il farlo ancora, e principalmente e con più attenzione a Dio, cioè all’Onnipotente e comune padrone di tutti e del tutto. Questo ricorso ha da consistere in un verace pentimento delle nostre colpe, e in una risoluzione ferma di volerlo amare, ubbidire e servire sempre sempre. Dopo ciò esporremo a lui le nostre miserie, e i bisogni nostri anche temporali, e la nostra debolezza, con supplicarlo di pietà, d’aiuto e di conforto. Io non so se ci sia, o ci possa essere alcuno, il quale metta tutto il suo studio e la sua speranza nell’amicizia e nel culto dei santi, servi del Signore, quasi non osando presentarsi egli giammai a dirittura al soglio di Dio, per pregarlo di soccorso e di grazie. Ma se mai ci fosse, sappia ch’egli fa torto a quello stesso Dio, a cui non ricorre e non può piacere ai santi medesimi, e si allontana dai dogmi della chiesa cattolica romana. Sarebbe un [400] gravissimo errore il figurarsi in Dio i difetti degli uomini e dei principi della terra. Nulla più egli desidera, quanto che tutti a lui ricorrano di buon cuore e il preghino; anzi esige da noi questi atti d’ossequio, d’umiliazione, d’amore e di confidenza, non tanto come nostro adorabil sovrano, quanto ancora come padre di tutti. Che se mai taluno rispondesse di non avere merito, anzi di scorgere in sè dei gran demeriti e mancandogli ragion di sperare beneficenza dal suo diritto ricorso a Dio, rivolgersi perciò egli all’intercessione dei servi di Dio che hanno tanto merito presso di lui; oda egli per suo disinganno e conforto ciò che c’insegna colle scritture sante la chiesa di Dio: Buono è sempre di raccomandarsi anche ai buoni della terra, non che ai santi e beati del cielo che preghino e intercedano per noi; ma non dee tralasciarsi mai di sempre ricorrere al supremo loro e nostro Padrone. Imperocchè ognuno è a ciò tenuto per debito di suggezione; e ognun di noi, per gran peccatore ch’egli sia stato, o sia, ha poi due potentissime ragioni di sperar da Dio un favorevol rescritto di quanto non disconvenga a Dio il concedere, e sia utile alle anime nostre l’ottenerlo.
La prima si è l’immensa bontà, benignità e clemenza dello stesso Dio. Giustissimo, egli è vero, e terribile si fa sentire Iddio contra de’ peccatori ostinati, e massimamente contra chi si abusa delle grazie e della misericordia di lui, e non curando le sue divine chiamate gli vuol pure mantener viva la guerra. Ma per chi fedelmente l’ascolta e umilmente a lui ricorre, e con amore e confidenza da figlio chiede a lui pietà e soccorso, non si dimentica [401] mai il buon Dio della sua misericordia infinita, nè d’essere nostro Padre. E Padre appunto ci ha insegnato a chiamarlo il suo unigenito Figliuolo nella celeste orazione del Pater noster, dettataci da lui stesso e a questo medesimo oggetto, affinchè noi misere creature avessimo ogni giorno un mezzo fortissimo per placare il suo divin Padre, e impetrarne con questo dolcissimo esordio le grazie che ci bisognano. Anzi sull’immensa bontà di questo comun Padre è principalmente fondata e dee fondarsi la speranza, cioè una delle virtù soprannaturali che esso Dio concede al suo popolo fedele, giungendo egli a prometterci tutto in bene delle anime nostre, se con fede ed amore ricorrendo a lui, in lui riporremo ogni nostra speranza e fiducia. L’altra stabilissima ragione di potere e dovere sperare ogni grazia spirituale e soccorso ne’ travagli dal nostro celeste Padre, viene dai meriti infiniti del suo dilettissimo Figliuolo e Signor nostro, Cristo Gesù. Apposta per nostro amore, apposta per giovare a noi tutti, e per unirci tutti all’eterno suo Padre, è venuto dal cielo, ed è morto sopra la croce questo benedetto divino Salvatore. Ed egli con quell’augusto sacrifizio della sua gran carità divenne per sempre la nostra redenzione e la nostra propiziazione, di maniera che basta che il peccatore, per iniquissimo che egli sia, o sia stato, mostri a Dio le piaghe del di lui dolcissimo Figliuolo, e di vero cuore chiegga pietà e si emendi, per disarmar subito tutto lo sdegno divino, e per impetrar da lì innanzi ogni favore ed aiuto. Se dunque non abbiam merito noi, anzi se proviamo in noi tanti demeriti, ha [402] bene il nostro Gesù un merito infinito e l’ha tutto per noi; perciocchè non per bisogno ch’egli ne avesse per sè, ma solo pel bisogno che n’aveano, ed erano per avere gli uomini, sparse questo amoroso Dio fatto uomo tutto il suo sangue, sangue di prezzo immenso, e che noi possiamo offerire come cosa nostra al suo celeste Genitore, per iscontare i nostri peccati, ed impetrar tutto ciò che è per nostro bene, e ci può condurre a lui. E però finchè abbiamo Cristo Gesù dalla nostra (e il non averlo può solo venire da mancamento nostro) noi possiamo e dobbiamo sperar tutto dall’eterno suo Padre.
Queste son verità di fede, e che debbono consolarci tutti; ma quello che importa più, sono verità che dovrebbono farci tutti innamorare, e senza misura, del nostro amantissimo Redentore Gesù, via, verità e vita di tutti gli uomini, il quale tanto ha amato ed ama noi altri, che per un eccesso del suo amore e per cibarci, aiutarci, e farci suoi e del suo divin Padre, vuol sempre ancora starsi in persona fra noi, rinchiuso nell’ineffabile Sacramento dell’altare. E giacchè noi trattiamo della pestilenza, ora debbo soggiungere che in tutti i tempi, ma spezialmente in quei delle terribili calamità, non ci ha da essere divozione a noi più cara di quella del nostro Gesù che è la divozion delle divozioni. Le altre possono esser buone ed utili; ma questa sarà sempre e senza paragone più utile dell’altre; anzi è la necessaria ad ogni cristiano, mentre c’insegnano gli apostoli e la Chiesa, che nell’onorare, amare ed imitare per quanto si può; massimamente nell’esercizio [403] della carità, la sacrosanta persona di Gesù Cristo, consiste l’essenziale e più sodo impiego che s’abbia d’avere la vita del cristiano. Oltre di che nulla possiamo sperare noi peccatori da Dio, se non per mezzo del santo de’ santi, cioè di Gesù, mediatore di Dio e degli uomini, terminando appunto per questa ragione la Chiesa, custode della verità, tutte le orazioni e preghiere sue con quelle parole: per Dominum nostrum Jesum Christum, etc. Nulla possiam fare senza Gesù: l’ha detto egli di sua bocca in S. Giovanni; tutto possiamo e potremo con Gesù e colla sua potentissima protezione e grazia. Il perchè non ha molto, il P. Nepueu della compagnia di Gesù in un suo libro (tradotto, accresciuto e ristampato dal P. Paolo Segneri juniore, insigne missionario della stessa compagnia, le cui incomparabili virtù abbiam noi pure ammirato in Modena, e la cui morte, ah troppo immatura! accaduta in Sinigaglia nel presente anno 1713, ha riempiuto di dolore noi tutti) deplorava l’uso di molte persone nel cristianesimo, anche delle più pie, le quali s’occupano in tante altre divozioni non comandate, non necessarie e parte ancora superficiali, trascurando poi la divozion di Gesù che è d’obbligo, e che sopra ogni altra dee abbracciarsi, e dee consigliarsi dai predicatori e direttori d’anime siccome la più propria, sicura e facile per condurci tutti alla perfezione e ad ogni vera felicità di spirito.
Adunque convien seriamente applicarsi in questa misera nostra vita a contemplare la vita di Gesù, esempio a noi di tutte le virtù e motivo di tutte le consolazioni. Bisogna impiegar quanto possiamo [404] per intendere le obbligazioni che gli abbiamo, per dargli l’onore ch’egli merita, per conformarci a lui per amarlo. L’Apostolo delle genti, innamoratissimo di questo amabil Redentore, non potè ritenersi nell’epist. 1 a quei di Corinto d’intimare una grave scomunica a chi non ama il nostro Signor Gesù Cristo. Si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum, sit anathema. E lo stesso Signore ci ha detto egli di sua bocca appresso S. Giovanni che se ameremo lui saremo amati dall’eterno suo Padre. Qui diligit me, diligetur a Patre meo, et ego diligam eum. Che pretendiamo di più? Che se c’incontreremo nelle tribolazioni, nessuno maggior conforto e vigore potremo ritrarre, che dal considerare che Gesù ci va avanti condottiere amoroso colla sua passione e croce; e che questa medesima croce e i travagli, e non già le terrene felicità sono la via che conduce sicuramente al cielo; e che nel patir volentieri per amor di Gesù, le persone buone e pie trovano (e questa è una verità certissima: così avessimo la fortuna d’intenderla ancor noi) più consolazione e godimento, che i tepidi e i cattivi in tutti i loro sognati o veri piaceri dal mondo. In oltre se avremo bisogno di grazie e d’aiuti, anche per questa vita temporale, o per noi stessi, o pel popolo e prossimo nostro, a chi meglio ci potremo rivolgere che a Cristo Gesù, e in chi più confidare che in lui? Egli ci ama, e svisceratamente ci ama: basta mirarlo sulla croce per noi e nell’augustissimo Sacramento dell’altare per nostro amore; e basta ricordarsi di quelle tenere parole che lasciò scritto, non un uomo volgare, [405] ma il suo diletto apostolo Giovanni nell’epist. 1, cap. 2. Filioli mei, hæc scribo vobis, ut non peccetis. Sed et si quis peccaverit, advocatum habemus apud patrem Jesum Christum Justum; et ipse est propitiatio pro peccatis nostris; non pro nostris autem tantum, sed etiam pro totius mundi. Cioè: Figliolini miei cari, vi scrivo queste cose, affinchè non pecchiate. Che se pure alcuno per sua miseria avrà peccato, noi abbiamo appresso il padre per avvocato nostro Gesù Cristo, giusto ed innocente. Egli è quello che il placa, e il rende propizio ai peccati nostri, e non solo ai nostri, ma a quelli ancora di tutto il mondo. Adunque egli (non ce n’ha da esser dubbio) vorrà aiutarci. Di più egli può tutto non solo come Dio, ma ancora come uomo, non essendo già questa un’esagerazione divota, ma un indubitato articolo di fede, avendo detto egli stesso appresso S. Matteo nel cap. 28, che lo stesso suo divin Padre ha dato a lui ogni potere in cielo e in terra: Data est mihi omnis potestas in cœlo et in terra. Adunque non solo egli vorrà, ma potrà aiutarci in ogni nostra angustia e ne’ tempi massimamente della pestilenza, se a lui ci rivolgerem daddovero, e se ameremo di cuore questo benedetto ed amatissimo Dio e confideremo in lui.
Ora per quante divozioni io ed altri sapessimo consigliare ne’ fieri pericoli e bisogni d’un contagio, anzi in tutti i tempi, niuna mai ne troveremo che uguagli la divozione verso la sacratissima persona del nostro Gesù. Divozione pertanto alla sua croce e passione dolorosissima, divozione al divino Sacramento dell’altare, divozione al suo [406] dolcissimo e santissimo nome. Ed appunto il solo suo nome è bastante a riempierci di consolazione e di tenerezza, perchè ci ricorda ch’egli ci ha salvati, e se noi ricorreremo fedelmente a lui ci salverà dall’ira ventura. Anzi, cosa non possiamo noi sperare dal suo Padre Iddio e da lui medesimo, nominandogli con viva fede questo amoroso nome, e pregandolo per gli suoi meriti infiniti? Tutto potremo sperare, da che egli stesso, che non può mentire, ce ne ha espressamente assicurati in S. Giovanni al cap. XIV con dire: Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam. Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam. Animo dunque ne’ pericoli, nelle infermità, nelle pestilenze. Ricorriamo a Gesù che potremo sperar tutto. E sappiasi a questo proposito che S. Bernardino, uno dei santi più innamorati di Gesù, predicando un quaresimale in Padova, ed esponendo nel Sermone XLI i raggi co’ quali egli faceva scolpire questo santo nome, scrisse che il terzo d’essi raggi era detto remedium infirmitatum, perchè il Signor nostro in S. Marco al cap. XVI, promise che i fedeli nel suo nome scaccerebbono i demonj, guarirebbono gl’infermi e farebbono altre maraviglie. Soggiugne poscia che vedendo le pesti, elle cederanno alla forza del nome santissimo di Gesù, citando appunto ciò che era avvenuto in Ferrara sotto i suoi occhi, mentre quel popolo, mercè d’esso nome posto sopra le porte delle case, si vide in breve libero dalla peste, quand’ella dovea naturalmente aumentarsi. Ecco le sue parole: Sequitur pestilentia in aliqua terra, vel regione, et talis pestilentia cum nomine Jesu [407] auferetur. Illud expertus sum, quod me prædicante tempore vigentis pestis Ferrariæ de nomine Jesu, ad tantam fidem illius nominis fuerunt accensi et devoti, ut quasi totus ille Ferrariensis populus, mediante nomine Jesu, quod superliminari cujuscumque domus apposuerat, remedium illius pestiferi morbi senserit, nam illa pestis cessavit, quando secundum naturalem rationem debebat accrescere. Non c’è già necessità di tenere scolpito in marmo sopra le porte delle case il nome del Salvatore. Basta averlo, ed è necessario l’averlo scolpito nel cuore da un tenero amore e da una viva fede.
Riguardi per conservare illesi i conventi de’ religiosi. Varie cautele a tal fine ed altre in caso che v’entrasse il male. Quando sieno tenuti i religiosi a ministrare i sacramenti agl’infetti e quando gli ecclesiastici secolari. Monasteri delle monache come s’abbiano a custodire, e regole se vi penetrasse la peste. Esortar la gente allo spurgo. Dopo il contagio promovere la pietà. Conformità al volere di Dio cagione della vera tranquillità.
Ai magistrati secolari, e molto più alla cura del vescovo sarà ne’ tempi di peste raccomandata la preservazione de’ conventi de’ religiosi e delle religiose. Certo è (il ripeto) che questi luoghi, ma senza paragone molto più quei delle monache, si possono e si sogliono difendere, essendosi osservato anche nel contagio del 1630 della nostra [408] città che colà non entrò, o appena entrò in due o tre, che da lì a poco fu soppresso il morbo, e quel che è più, de’ PP. Benedettini Cassinesi che restarono nel loro monastero in questa città, eccettuatone un solo, niuno s’infettò, laddove alcuni d’essi che s’erano ritirati in villa a S. Cessario, morirono e di contagio. In Firenze per attestato del Rondinelli si conservarono illesi tutti i monasteri delle monache, a riserva di S. Maria sul Prato, ove, secondochè alcuni credettero, morirono di peste due religiose, ma non vi seguì altro danno. Ivi all’incontro quasi niuno de’ conventi de’ frati restò intatto. Furono più fortunati, perchè più guardinghi, alcuni gran conventi di religiosi in Palermo. Anche Roma nella peste del 1656 vide preservati i suoi monasteri; e ho inteso a dire che in Genova stessa, ove del medesimo anno fece tanta strage il male, pure rimasero illesi tutti i conventi delle monache. In quanto alle case dei religiosi dovrà avvertirsi che vivendosi ivi in un continuo commercio di coro, di refettorio e d’altri impieghi, troppo danno potrebbe recare a tutta la comunità un solo che vi portasse dentro disavvedutamente la pestilenza. Il perchè trattandosi di famiglie sacre molto numerose, sarà necessario custodire tai luoghi nella guisa de’ lazzeretti, con questo divario però che laddove dai lazzeretti non si lascia uscire persona o roba che sia sospetta o infetta, nei conventi non v’ha da entrare nè persona, nè roba che abbia minimo sospetto d’infezione, a riserva di quelle che sono necessarie al mantenimento de’ religiosi. Vi si ammetteran dunque i commestibili che d’ordinario sono incapaci [409] d’infezione, e se dovrà introdursi per necessità altra roba o persona atta a portar seco il morbo, non verrà ammessa senza le cautele e i riguardi, e profumi che son prescritti per tutti dal governo politico. Del resto sarà interdetto a qualunque dei religiosi o de’ ministri e serventi l’uscir fuori, o pure, usciti che sieno, si dovrà loro vietare il ritorno. A questo effetto il pubblico, o il vescovo potrà, occorrendo, destinare un custode secolare della sanità, che alle spese d’essi religiosi guardi continuamente la porta del convento, la quale sarà una sola in que’ tempi, acciocchè più sicuramente venga eseguito il suddetto regolamento, ovvero si provvederà in altra competente forma. Pei conventi di poche persone non occorre tanta esattezza o strettezza.
Agli ecclesiastici secolari che s’impieghino in opere di carità, come di confessione, comunione o d’altro, assistendo agl’infermi o moribondi, sarà permesso il ritornare alle lor case e dimorarvi, benchè fieno sospetti, avvertendo solo che non passi commercio fra loro ed altri sani, e che la lor famiglia, siccome sospetta, non pratichi con altri. Ma per gli regolari di grossa famiglia, quando uno o due o più d’essi consacrassero sè stessi all’assistenza caritativa del prossimo infetto, si dovrà camminare con diverso stile. Cioè sarà utile il proibir loro il ritorno in convento, affinchè non rechino la disgrazia a que’ molti che si conservano coi necessarj riguardi della salute e possono esser utili per altri tempi ed impieghi. Viveran dunque tali caritativi religiosi esposti, ritirati in qualche casa decente ed appartata, ove possano recare men [410] pregiudizio che ai loro conventi; e venendo ivi nelle debite forme soccorsi e mantenuti, sarà loro facile il continuare la necessità del loro sacro utilissimo ministero. Il che sia detto in caso che il convento non avesse delle stanze in disparte con passaggio o con porta propria, da collocarvi per quel tempo simili zelanti servi di Dio, e separarli dal resto della comunità. Si ha da stendere tal cautela sino a non praticare per qualche giorno que’ religiosi che fossero chiamati a visitare o confessare qualche infermo, benchè non sospetto di morbo contagioso. Le chiese dei religiosi dovranno regolarsi anch’esse come l’altre della città, cioè o tenerle chiuse, o pur coi rastrelli o cancelli agli altari e a’ confessionarj, per impedire i mali influssi dell’avvicinamento delle persone. Tengano ai campanelli della porta, della sagristia, ecc., un filo di ferro in cambio di corda, fin dove possono arrivar le mani. Ripongano ancora, e chiudano in luogo a parte ben sigillato le scritture e cose più preziose della chiesa, acciocchè se alcun sagrestano cadesse mai infermo di peste, rimangano tali robe esenti dal bisogno dello spurgo.
Se non ostanti simili diligenze e cautele, forse non eseguite con gran puntualità, venisse ne’ chiostri d’essi regolari a scoprirsi alcuno infetto, si dovrebbe anch’esso con celerità trasportare al lazzeretto pubblico, o pure a quello degli ecclesiastici se vi fosse. Si procurerà ancora di levare tutto ciò che potesse indurre ulteriore infezione negli altri religiosi, e di separare i sani da quei che avessero avuto un intrinseco commercio coll’infetto, restando però tutti come sospetti rinchiusi [411] nel proprio convento. Ma quando al claustrale infetto riuscisse, siccome spesso suole, di grande spiacimento l’essere portato al lazzeretto, e ciò servisse d’occasione ad altri per occultare il male e per comunicarlo con poca carità a chi non se ne guarda, sarebbe miglior consiglio, qualora il permettesse la capacità dell’abitazione, il segregarlo interamente con chi l’ha da servire, dagli altri religiosi, mettendolo in camere ben appartate, ovvero in qualche capanna nell’orto: il che pure si può e suol praticare, però con particolar inspezione dei pubblici deputati, per gli secolari abitanti case grandi e comode della città. In tal guisa è da credere che il religioso non atterrito dalla paura del lazzeretto, immediatamente rivelerà la sua infezione, ed apporterà men pericolo agli altri che tosto si segregheranno da lui. Caso poi che crescesse in quella sacra famiglia il furore del contagio, allora converrà estrarne tutti gl’infetti, conducendoli al lazzeretto o in altro luogo proprio; ovvero si faranno uscire i rimasti sani, ma per rinserrarli siccome sospetti in qualche casa fuori del monastero.
Si disputa fra i teologi se gli ecclesiastici regolari sieno tenuti a servire agl’infetti di peste quando il loro prelato glielo comandasse. A me piace la saggia sentenza del Sanchez che, nel tom. II sopra precetti del Decalogo, decide con varie limitazioni la quistione. Cioè: eglino non sono obbligati a servire gl’infetti estranei; ma in quanto ai religiosi domestici appestati sarà obbligato al servigio loro quel religioso a cui il suo superiore il comanderà; avvertendo solo che imprudentemente [412] opererebbe il prelato, qualora esponesse a questo pericolo, chi fosse di pochissima sanità o persona egregia, e per le sue rare qualità utile al pubblico o all’ordine suo. I Certosini e i monaci di S. Benedetto, di S. Girolamo, ed altri simili che non hanno per loro instituto la vita attiva, non sono tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti estranei e possono fuggire dal luogo infetto. Nè pure sono a ciò rigorosamente obbligati, nè si possono obbligare dal loro superiore i religiosi che si chiamano mendicanti, o che godono i lor privilegi, benchè facciano professione di vita attiva; e però anch’essi regolarmente sono esenti dall’obbligo di fermarsi in luogo ove sia la peste. Avverto però essere sentenza del Benzoni che la fuga di questi religiosi difficilmente sarà scusata da peccato mortale pel gravissimo scandalo che ne verrebbe al popolo, da cui essi hanno ricevuto, o ricevono tante rendite e limosine, e a cui poscia non vogliono assistere in caso di sì premurosa necessità. Ma la suddetta libertà ed esenzione dee intendersi qualora vi sieno parochi o altri sostituti, i quali sufficientemente possano adempiere l’ufizio di ministrare i sacramenti al popolo infetto. Altrimenti, essendovi penuria di questi, o troppa abbondanza d’infermi bisognosi di soccorso spirituale, e non trovandosi altri sacerdoti, che o per carità o per mercede, e alle spese del vescovo, aiutassero o supplissero il difetto de’ parochi (i quali sussidiarj è in primo luogo tenuto il vescovo a provvederli), allora i religiosi mendicanti si giudicheranno obbligati a soccorrere il popolo infetto e a ministrargli i sacramenti, [413] perchè, secondo l’ufizio loro, eglino son coadiutori de’ vescovi e de’ parochi nel procurar la salute spirituale del prossimo, e vengono per questo fine mantenuti dalle limosine de’ fedeli, come ottimamente insegnano con S. Tommaso varj teologi. Anzi è tenuto il prelato regolare a somministrar soccorso, e inviare alcuno de’ suoi religiosi anche da un luogo sano ad un infetto, qualora in questo venissero meno i parochi, nè vi fosse altro sovvenimento al bisogno spirituale di quel popolo. Anche il Benzoni con altri autori sostiene le suddette conclusioni, ricordando egli in oltre essere obbligati per debito di giustizia, non che di carità, a servire gl’infermi que’ religiosi che per professione si sono obbligati a tal servigio, come quei della congregazione di S. Giovanni di Dio, chiamati Fate bene Fratelli.
Aggiungo io che molto meno de’ religiosi saranno obbligati i sacerdoti secolari non legati da cura d’anime a servire gl’infetti, siccome nè pure a ministrar loro i sacramenti, quand’anche fosse loro comandato dal vescovo, perciocchè nè pure hanno essi quello strettissimo voto d’ubbidienza verso i proprj prelati, come hanno i regolari verso i lor superiori. E però concedono i teologi che i preti ed ancora i canonici, purchè non curati, si possano ritirare dal luogo infetto, come si può vedere nel Trattato del suddetto monsignor Benzoni e presso il Marchino, il quale con altri teologi stabilisce che un canonico assente per tal cagione non perde le distribuzioni, ove sia l’uso di non perderle per cagione giusta. Qualora nondimeno vi fosse necessità estrema di ministrare la Confessione o altro sacramento agli appestati, e mancassero o giustamente [414] o ingiustamente, i parochi ed altri sussidiarj, in tal caso ogni sacerdote, o certosino, o monaco, o secolare è obbligato sotto pena di grave peccato a soccorrere i popoli costituiti in bisogno, con pericolo ancora della sua vita, sia egli persona malsana o sia quanto si voglia di gran valore ed utilità al pubblico. Senza che nessun prelato il comandi ciò è comandato dalle leggi santissime della carità cristiana, ricordate a noi in tal proposito da S. Agostino, da S. Tommaso e dalla maggior parte dei teologi. Per altro intervenendo simili estreme necessità, il vescovo può e dee comandare a tutti, sì secolari come regolari, il supplire secondo che giudicherà bene la sua prudenza, avvertendo però di non ordinar ciò in individuo ad alcun religioso, ma solamente al loro superiore. Che se questi non volesse poi permettere, nè comandare che alcuno de’ suoi venisse in soccorso, allora egli peccherebbe, e i religiosi saranno tenuti, secondo il Bagnez, Benzoni, Vigant ed altri, ad ubbidire più al comandamento del vescovo che a quello del loro superiore. Se poi sia vero per sentenza del suddetto Vigant che in tal caso restino più obbligati gli ecclesiastici secolari ad ubbidire al vescovo che i regolari esenti, io non voglio metterlo, ma si può certo mettere in disputa, e il vescovo Benzoni e il P. Marchino tengono appunto il contrario. A noi basti di sapere che tutti sono tenuti, e potersi inferire dalle annotazioni del cardinal de Luca al concilio di Trento, essere più de’ semplici sacerdoti secolari obbligati in tal caso a servire quei che hanno uffizj e benefizj residenziali, come i canonici, i cappellani ed altri che costituiscono qualche [415] spezie di capitolo o di congregazione. Nella peste di Palermo del 1625 furono assegnati quattro o cinque religiosi per parrocchia, che abitavano insieme; ma per l’infezione d’uno infettandosi gli altri, si provò miglior partito l’assegnare ad ogni due contrade uno col suo compagno, e in camere vicine a qualche oratorio già fatto, o pure costituito con licenza dell’ordinario, ove egli celebrava, senza che alcuno entrasse in tal casa od oratorio, dove teneva il Santissimo Sacramento e l’Estrema Unzione.
Le medesime cautele prescritte per i conventi de’ religiosi, ed anche più dovranno osservarsi per preservare e custodire quei delle monache. Perciò è assolutamente da assegnarsi un custode della sanità alla porta o al rastrello del loro monastero, che avrà buona serratura anche al di fuori, con obbligazione di non allontanarsi mai da quella porta o rastrello per cui solo, e non per altre porte o finestre, che tutte s’intendano chiuse, dovran le monache ricevere il bisognevole al sostentamento loro. Per bisognevole s’intendono le cose spettanti al vitto o vestito, dovendosi allora astener le monache dal ricercare e dall’accettar altro che sia non necessario e sia capace di portar entro i loro recinti l’infezione, e dovendo elle valersi anche delle cautele comuni agli altri nel ricevere le cose sospette loro necessarie.
Il vescovo in oltre assegnerà un canonico o altro ecclesiastico co’ suoi assistenti per commessario ad ogni tre o quattro conventi di monache, il quale unito ai sindici farà, occorrendo, la visita e darà gli ordini opportuni del buon governo de’ monasteri [416] a lui appoggiati. Sarà sua cura il fare che le religiose si provveggano il più presto e il più che potranno di vettovaglie e massimamente di frumento, farina, vino, olio, formaggio e sapone; con poi ricordar loro l’economia, e prescriverla ancora, se bisognasse, con suprema autorità. Visiterà il medesimo commissario co’ sindaci a’ primi sospetti tutto il recinto della clausura, facendo chiudere ogni porta, o altro luogo, per cui si potesse parlare, dar fuori o ricevere roba, lasciando solo aperta la porta comune colle ruote e co’ parlatorj annessi. Sceglierà ancora in ogni monastero due siti appartati e capaci per servire di lazzeretti, Infetto e Sospetto, in caso di bisogno, tagliandone il meglio che si potrà la comunicazione col resto della casa o pur disponendo tutto per far capanne nell’orto, quando a ciò la necessità costringesse. E a fine di risparmiare l’entrar sovente nella clausura, potrà farsi fare una pianta distinta di tutto il convento con tutti i siti e specificazione d’ogni cella e di chi l’abita, ordinando poscia che niuna muti abitazione senza licenza di lui, e di ciò terrà egli registro. Ogni dì ancora visiterà i monasteri assegnati a lui (e non potendo egli farà farlo da uno degli assistenti) informandosi e osservando se le monache sieno tutte sane e di buon colore, e incoraggiandole per quanto si potrà, mentre il timor nelle donne può cagionar, più che negli altri, dei gravi disordini; e sopra tutto badando che se il male fosse in città, niuno vada loro contando le nuove funeste. Ammalandosi alcuna, se ne darà tosto avviso al commessario suddetto, e il medico invigilerà a tutti gli accidenti del male, per vedere [417] se vi fosse sospetto di contagio. Morendo essa, non potrà seppellirsi senza l’attestazione del medico che non vi sia segno di contagio, e senza la licenza del commessario in iscritto, dovendo questi notare al suo libro tanto le inferme, quanto le morte per mandarne nota ogni sera al notaio destinato dal vescovo, il quale ne trasmetterà poi copia alla congregazione della sanità. Comanderà ancora esso vescovo con precetto penale che ognuna che si ammali vada indispensabilmente all’infermeria, e che quantunque non vi sia sospetto di contagio, non possano visitarla, nè capitarvi se non le monache o converse, deputate infermiere, perchè in tal maniera, accadendo maggiori disgrazie, le altre resteranno esenti dall’obbligo della quarantena.
Sarà parimente d’uopo l’assegnare, se mai si potrà, al confessore una casa contigua al monastero, con vietargli l’uscirne mai, se non per entrare nella chiesa delle monache, e con ordinargli di non conversar con altri, nè di ricevere altra roba dal di fuori del monastero che per le mani del solo custode della sanità, il quale dovrà essere persona d’una inalterabile fedeltà e puntualità. In questa forma conventi ben numerosi in que’ calamitosi tempi si sono sempre conservati illesi. Ma per maggiormente ottener questo intento, il vescovo formerà un’istruzione per cadaun convento, prescrivendo come s’abbia a contenere il custode e il confessore, e come si debbano ricevere ivi le vettovaglie ed altre robe necessarie. Non permetterà, se non in caso di gran necessità, l’entrata nella clausura a persone estranee e nè pure visita alcuna al parlatorio, ordinando che le monache non possano ammetterla [418] senza ordine sottoscritto dal vescovo medesimo. Dovranno pertanto star sempre chiusi i parlatoj e le grate, e se pur occorresse di parlare ad alcuno, ciò si potrà fare senza aprir le stesse grate, alle quali ancora aggiugneranno un telaio di carta per guardarsi dal fiato delle persone estere. Prima ancora della formal dichiarazione della peste o dell’evidente pericolo d’essa, vieterà il vescovo alle religiose l’accettare in custodia robe di estranei, anche parenti, non tanto per esimere il chiostro da ogni introduzion di male, quanto ancora per risparmiare alle medesime varj disturbi. Parimente proibirà alle monache il ricever altre lettere che le scritte o dai superiori, o per bisogno del monastero, le quali ancora non dovranno ammettersi senza cautela, cioè prendendole con due forbici o molette, e purgandole poi con aceto o ripassandole sopra il fuoco. Sarà loro interdetto il dar fuori a lavare panni, o, non potendosi di meno, s’insegneran loro le precauzioni. Così ancora sarà necessario prescrivere buona regola per gli paramenti ed altri ornamenti e vasi dell’altare, con avvertenza di lasciar fuori i soli che fossero necessarj e con prevenire che chierici o sacerdoti estranei non possano portar colà pericolo d’infezione. Non ripiglieran, dico, indietro i paramenti destinati ai lor cappellani; e occorrendo farli imbiancare, ciò si faccia a spese loro fuori del convento. Dovendo far macinare, mandino il grano per gli uomini loro e con il lor carro al mulino, facendovi assistere i medesimi uomini, acciocchè i lor sacchi non tocchino quei degli altri. Gioverebbe allora aver forno nel proprio monastero.
[419]
Che se con tutte queste cautele giungesse il morbo a penetrare in qualche chiostro di religiose, al primo indizio d’esso, immediatamente se ne darà avviso al commessario, il qual subito lo spedirà al vescovato e alla congregazione di sanità per provvedere sì dentro come fuori. Quindi farà quanto prima mettere l’infermo nel luogo destinato pel lazzeretto delle infette, e le altre persone, che avran praticato con esso lei almeno quel dì, nell’altro delle sospette. Ammetterà poscia i ministri del pubblico lazzeretto degl’infetti che bruceranno quello che occorresse, e seppelliranno, accadendo la morte, il cadavere fuori del convento, ove sarà creduto bene dal vescovo. Similmente introdurrà gli espurgatori per espurgare subito l’infermeria, o cella, e l’altre robe che ne avessero bisogno. Quando le monache o converse non s’inducessero per carità a servir le infette nel loro lazzeretto, il vescovo penserà se voglia costringerle o pure provveder loro donne di fuori. Niuna delle sane entrerà nei lazzeretti, e nel somministrare il vitto le sane non toccheranno gli arnesi che servono alle infette o sospette. Alla cura di queste verranno i medici, cerusici e religiosi esposti o sospetti del pubblico, entrando i quali tutte le monache si ritirino in luogo appartato. Guarendo le inferme, e avutane la fede dal medico, passeranno poi, senza portar seco cosa alcuna, a fare la quarantena nel lazzeretto delle sospette. Di tutto si andrà comunicando notizia al vescovo, e questi la darà al magistrato secolare per camminar di concerto. Si avrà del pari gran cura che le robe toccate da infette o sospette non entrino in commercio, se prima non saranno state ben espurgate [420] dai ministri pubblici dello spurgo. Lo stesso dovrà farsi alle camere e ad altri luoghi che ne abbiano bisogno.
Avvertasi ancora che occorrendo introdur colà persone straniere o per medicamenti o per altro, dovrà tal cura, per quanto si potrà, appoggiarsi dal vescovo, non ad uomini, ma a donne di conveniente probità e perizia. Posto poi che crescesse l’infezione fra le religiose, allora il vescovo determinerà se sieno da cavarsi fuori di clausura le malate, lasciandovi le illese, o pure le sane, lasciandovi le infette, inerendo alla costituzione di Pio V, che comincia Decori et honestati. Questo ultimo sarà partito più sicuro. Qualunque determinazione però si prenda, converrà trovare a quelle che saranno estratte una decente abitazione, congiunta o vicina, se mai si potrà, al monastero medesimo, ove le religiose verranno accomodate in onesta forma e con una spezie di clausura e coi riguardi e soccorsi convenienti a persone consecrate a Dio. E perciocchè sogliono le monache frequentemente desiderare, ed anche talora senza molto bisogno, l’aiuto del medico, qualora il monastero tutto si sia conservato illeso (ciò milita ancora per quei de’ religiosi e per gli conservatorj de’ poveri e simili gran corpi), potrà entrarvi il medico non sospetto, ma in maniera che non abbia verun commercio nè con robe, nè con persone; ma visiti secondo il costume dei lazzeretti, cioè osservando per quanto sia possibile e ordinando medicamenti in distanza, affinchè egli, tuttochè riputato sano, disavvedutameute non portasse in monastero l’occulta fin’allora infezione sua, forse contratta dal commercio col resto della città. [421] Finalmente prescriverà il vescovo alle religiose quel metodo di orazioni e di opere di pietà ch’egli giudicherà più conveniente ne’ tempi di tanta tribolazione e necessità.
Resta ora da dire che i vescovi, parochi, predicatori e confessori debbono, per quanto possono, non solo impedire anch’essi la dilatazione del morbo contagioso, ma ancora aiutare ad estinguerlo. Faranno perciò conoscere, e il vescovo con suo editto potrà farlo meglio degli altri, uniformandosi ai maestrati, che grave peccato sia il nascondere vesti, mobili ed altre robe infette, e il non denunziarle ai deputati dello spurgo, potendo questa disubbidienza comunicare ad altri e rinovar la pestilenza anche estinta, e recar morte agli stessi possessori, quando tali robe non sieno diligentemente espurgate da chi è atto a farlo. Mostrino ancora (io nol ripeterò mai abbastanza) essere vietato dalle leggi divine e naturali il toccare, contrattare e asportare non solamente le altrui, ma anche le robe proprie infette, e molto più poi il rubarle. Doversi prima denunziare e poi spurgare anche ogni minimo panno sì per la propria, come per l’altrui sicurezza, non essendo capace di assoluzione chi non vuol ubbidire a questo precetto naturale. Data che sia dai maestrati l’impunità ai ladri di simili robe, si persuaderà loro dai confessori l’andarle a rivelare. Che se non fosse peranche stata conceduta questa impunità, non si dovranno essi obbligar tosto a rivelarle e denunziarle in persona, ma si regoleranno i confessori o secondo i dettami del vescovo o pure secondo i consigli della prudenza. L’anno 1633 l’arcivescovo di Firenze proibì sotto pena di scomunica [422] da incorrersi ipso facto, riservando l’assoluzione a sè medesimo, eccettuato l’articolo di morte, il rubare, trasportare, nascondere, tenere in deposito o custodia, maneggiare, vendere o comprare o in qualsivoglia modo contrattare per sè o per interposta persona, direttamente o indirettamente, robe d’altri o proprie appestate o sospette o state in luogo infetto o sospetto di mal contagioso, senza licenza espressa, intervento o permissione dei deputati per la sanità; comandando a tutti i confessori sotto pena di scomunica latæ sententiæ di non assolvere alcuno incorso in tal peccato, senza sua licenza o di alcuni deputati da lui, volendo che, se occorresse qualche dubbio in questa materia, lo partecipassero o seco o coi suddetti, senza palesare nè direttamente, nè indirettamente il penitente, per ricercare que’ rimedj che fossero giudicati opportuni.
Finita poi la peste, allora il vescovo e i parochi rimetteranno in piedi e promoveranno più che mai la pietà e l’estirpazione de’ vizj, perciocchè talvolta forse più di prima ve ne potrà esser bisogno. Certo in molte terre e città la sola terribile scuola de’ gastighi di Dio ha fatto per lo più riformare i costumi; ed avendo gli uomini conosciuto meglio di prima che c’è Dio e che non si può sperar felicità dai peccati, nè far capitale in questa miserabile e caduca vita del mondo, si sono dati alla pietà e alle virtù con una santa perseveranza. Ma in qualche paese, benchè paia poco verisimile, pure la verità è che dopo la pestilenza comparve questo mostro, cioè che gli uomini in vece d’essere diventati di miglior coscienza e più timorati di Dio e più amatori del prossimo, pel [423] flagello che aveano veduto ed anche provato, pure si mostrarono più perversi e peggiori di prima in ogni conto e in ogni iniquità, e non meno i poveri che i ricchi, quasi che paresse loro, superato quel gran pericolo, di non dover più morire, nè di dover più temere l’ira di Dio, o pure si credessero di aver da compensare la malinconia passata con ogni sorta d’allegria anche disordinata e con lo sfogo di tutti i loro appetiti. Matteo Villani, il cardinal Federigo Borromeo ed altri scrittori, testimonj oculati ed autentici di tale mostruosità, non mi lasciano mentire. Ed ecco la gratitudine che usano alcuni cristiani al proprio Dio per la parzialità de’ benefizi ch’egli ha usata verso di loro. Sarà pertanto incumbenza del vescovo, allorchè si scorgerà ben quetata ed estinta la pestilenza, l’intimare ed ordinare tre giorni di divozioni e processioni, non guidate dall’allegria, ma dall’umiltà e dalla compunzione, per un solenne ringraziamento all’Altissimo dall’essersi egli finalmente lasciato cader di mano il flagello meritato dai peccati degli uomini. E qui verrà in acconcio ai predicatori d’esortar tutti ad essere da lì innanzi fedeli ed attaccati a Dio, esponendo le obbligazioni che il popolo preservato in vita ha verso la divina misericordia, e con inveir poi particolarmente contra chi non s’è emendato peranche, o pensa più che prima a soddisfare alle sue passioni, senza curarsi dello sdegno di Dio e senza voler apprendere che quel gastigo ed altri possono tornar di nuovo e presto, siccome è altre volte avvenuto, e che il non profittar dei flagelli è uno dei più chiari indizi che si vuole ad onta di Dio dannare e perdere l’anima [424] per sempre. Vedesi un libricciuolo esquisito, composto dopo la peste da S. Carlo col titolo di Memoriale, stampato nell’Acta Mediolanensis Eclesiæ, con tutte le altre accurate istruzioni che quel zelantissimo e santo pastore lasciò scritte per simili tempi calamitosi.
Farò io qui fine con dire, che per quante regole e rimedj io abbia raccolti in questo trattato a fine di tener lungi o di scacciare la peste, io non ho però insegnato tanto da assicurare alcun paese o persona da così fiera tempesta. Nei pericoli e nei disordini massimamente d’una pestilenza non si può dai magistrati preveder tutto, nè proveder tutto. La medicina anch’essa, arte in tanti altri mali incerta e cieca, molto meno ci può promettere immunità in questo che è sì fiero, e che porta seco tante stravaganze che indarno l’umano intelletto studia per trovarne la sorgente e i rimedj. Anzi si è osservata tante volte e si osserverà di nuovo una cosa che dee affatto confonderci tutti; cioè, che le stesse provvisioni politiche e gli stessi rimedj della medicina son quelli talvolta che aiutano la peste o a dilatarsi maggiormente, o a levar dal mondo assai persone, le quali probabilmente senza tante invenzioni della prudenza e speculativa umana avrebbono schivata la morte. La conclusione dunque si è, non dover già i magistrati e la prudenza di ciascuno, lasciar mettere in opera quanti documenti e mezzi si credono più propri per salvare il pubblico e sè stesso, da questo miserabile infortunio; ma dover molto più noi metterci tutti nelle mani di Dio, dispensiere dei beni e dei mali anche sopra la terra, e che, secondo il suo beneplacito, può disporre dei giorni della [425] nostra fugace vita terrena. Questo ha da essere non l’ultimo, ma il primo dei rifugi; questa è l’âncora a cui dobbiamo attenerci tutti. Abbassiamo dunque il capo, vili creature che siamo, adorando la sua divina provvidenza e considerando che noi tutti dal canto nostro abbiam dei peccati, e molti e grandi; e che non farà mai torto a noi il nostro supremo Padrone con qualunque flagello ch’egli ci mandi. Pensi ciascuno come egli abbia trattato Dio ne’ tempi della prosperità, della sanità, della ricchezza. Superbissimi vermi della terra, allora più che mai ci siamo dimenticati di lui, anzi abbiam calpestata pazzamente la sua santissima legge. Diciamolo dunque ora e diciamolo sempre tutti: Justus es, Domine, et rectus judicium tuum. Che se durante l’età nostra si degnerà la sua bontà di farci solamente udire in lontananza il fischio della sua spada sterminatrice, impariamo a far profitto degli esempj altrui, e con ricordarci che al Signor non mancano altri flagelli e che noi siam degni di tutto, emendiamoci, e mettiamci cadauno in quella via, ove brameremo che il Signor Iddio ci trovi alla morte, la quale infallibilmente ha da venire o tosto o tardi, ma che sempre verrà più presto di quel che crediamo. Che se altrimenti avvenisse, impieghi ciascuno e studio e preghiere a Dio per impetrare, e preparare una santa rassegnazione ai voleri del medesimo Dio per tutte quelle avventure che piacesse a lui di mandarci nel tempo che ci resta di vita. Miseri di noi che o non intendiamo, o troviam troppo dura questa mirabile lezione dei santi, anzi questa dottrina dello stesso Dio. E pure se abbiam qualche discernimento, [426] non possiamo non conoscere ancor noi per certissimo che l’unica e vera strada di godere una dolce e stabile contentezza di cuore in questa abitazione terrena e in tutti i tempi, si è quella di conformare la nostra alla volontà di Dio, siccome protestiamo ogni dì nell’Orazion dominicale, e di bramare che sia fatto in tutto e per tutto, non il nostro, ma il volere del nostro celeste Padre, che sempre è rettissimo e sempre torna in bene de’ buoni figliuoli che in lui si rassegnano. Le tribolazioni, la pestilenza, la morte, al solo pensarle, non che al vederle o provarle, empiono di malinconia o trafiggono il cuore a tanti di noi, perchè si oppongono al nostro volere; ed appunto per questo sono o son dette mali nel mondo. Ma chi non vuole se non il gusto del suo Signore, si trova sempre in pace, aspettando senza pena e ricevendo ancora con allegria gli stessi travagli, e il fine stesso de’ suoi giorni, perchè ciò s’accorda col proprio volere tutto attaccato a quel del sommo padrone, e si uniforma al non desiderar altro, se non che sia fatta come in cielo, così anche in terra la volontà divina. Prudenti dunque e felici quelli che per tempo si danno tutti a Dio e si riposano in una coraggiosa e pia rassegnazione ai voleri dell’Altissimo, mettendosi tutti nelle sue pietosissime mani. Questo è un farsi anche presso di lui un indicibile merito, essendo certo che in un tal atto si contiene un atto eroico di fede, di speranza e d’amor di Dio, virtù che sono l’anima del vero cristiano. Beati in somma quei che imparano per tempo a dire, e dicono sempre di cuore: Ego autem in te speravi, [427] Domine: dixi: Deus meus es tu: in manibus tuis sortes meæ. — Ora io, o Signore, ho riposta in voi ogni mia speranza. Ho detto: Voi siete il mio Dio, il mio padrone. Fate di me quel che volete. In mano vostra stanno le sorti mie. Egli intanto col suo unigenito figliuolo Cristo Gesù, Signor nostro, e con lo Spirito Santo, sia, non meno nelle prosperità nostre che nelle nostre avversità, benedetto, amato e glorificato da noi e da tutti, per tutti i secoli de’ secoli. E così sia.
FINE.
[429]
[431]
Non sarà inutile ai lettori che io presenti loro il compendio di una Relazione francese intorno al terribil contagio, da cui non è per anche ben libera la misera città di Marsiglia, affinchè meglio impari il pubblico a conoscere l’atrocissimo nemico che va desolando la Provenza e che fa tremare tutti i vicini; e, conosciuto che l’abbia, ognuno si accinga a quelle diligenze e rigori che possono tenerlo lungi dall’Italia. Fu composta la Relazione suddetta dai signori Chicoyneau, Verny e Soullier, medici di Mompelieri, i quali spediti in soccorso di quella città, con incessante zelo hanno assistito alla medesima in tanta calamità, con avere anche diligentemente notato gli accidenti e sintomi d’essa peste, e i tentativi da loro fatti per curarla. Fu creduto bene di pubblicarla colle stampe in Marsiglia stessa dopo il dì 20 dicembre del 1720, e venne essa immediatamente ristampata in Torino per pubblico bene. Ecco ciò che ho creduto opportuno di tradurre per istruzione ancora degl’Italiani.
Tutti i malati di peste in Marsiglia possono ridursi a quattro classi.
La prima, osservata specialmente nel primo periodo, e nella più gran foga del male, era assalita dai seguenti sintomi. Cioè si notavano in tali persone dei rigori sregolati di freddo, un polso picciolo, molle, raro o pure frequente, ineguale, concentrato; una pesezza di testa sì considerabile, che il malato stentava molto a tenerla su, parendo [432] egli occupato da uno stordimento e da una turbazione simile a quella d’una persona ubbriaca; la vista fissa, appannata, che mostrava lo spavento e la disperazione; la voce tarda, interrotta di quando in quando, lamentevole; la lingua quasi sempre bianca, sul fine secca, rossiccia, nera, ruvida; la faccia pallida, di colore piombino, sparuta, cadaverosa; de’ mali di cuore frequentissimi; delle inquietudini mortali; un abbattimento e abbandonamento generale, degli sfinimenti, de’ sopimenti, delle voglie di vomitare, de’ vomiti, ecc. Le persone in tal forma assalite morivano ordinariamente nello spazio di alcune ore, d’una notte, d’un giorno, o al più al più di due o tre, come per consumamento degli spiriti, talvolta con moti convulsivi e tremori, senza che apparisse al di fuori alcun tumore o macchia. Egli è facile a giudicare da tali accidenti che infermi di tal fatta non erano in istato di sostenere il salasso. E in fatti coloro coi quali si è tentato questo rimedio sono mancati di vita poco tempo dopo. Gli emetici e i purganti riuscivano loro egualmente inutili, e sovente nocivi con effetto funesto. I cordiali e sudoriferi erano i soli rimedi ai quali si ricorreva, ma che nondimeno a nulla servivano, o che al più facevano prolungare di qualche ora gli ultimi momenti.
La seconda classe è di coloro che tosto risentivano rigori di freddo, come i precedenti, e la stessa specie di stordimento, e un dolore di capo aggravante; ma i ribrezzi erano seguitati da un polso vivo, aperto, gagliardo, ma che nondimeno si perdeva per poco che si premesse l’arteria. Questi malati sentivano interiormente un ardore che li bruciava; e intanto il calore al di fuori era mediocre e temperato; la sete era ardente, e per così dire inestinguibile; la lingua bianca, o di un [433] rosso scuro; la parola precipitata, balbettante, impetuosa, gli occhi rossicci, fissi, scintillanti; il colore della faccia d’un rosso molto vivo, e talvolta inclinante al livido; e provavano mali di cuore molto frequenti, benchè assai meno dei precedenti. Il respiro era frettoloso, faticoso, o grande e raro, senza tosse, senza dolore; nausee e vomiti biliosi, verdastri, nericci, sanguinosi; profluvj di ventre della stessa specie, senza però tensione o dolore nel basso ventre; deliri frenetici; orine spesso naturali, qualche volta torbide, nericce, bianchicce o sanguinose; sudori di odore rare volte cattivo, che in vece di sollevare il malato, altro non facevano che indebolirlo; in alcuni casi emorragie, le quali, benchè mediocri, sono sempre state funeste; un grande abbattimento di forze; e soprattutto una sì gagliarda apprensione di morire, che non v’era modo da poter incoraggiare questi poveri infermi, considerandosi eglino dal primo istante del male come destinati a una morte sicura. Ma quello che merita d’essere ben osservato, e che sempre è sembrato caratterizzare e distinguere questo morbo da ogni altro, egli è che quasi tutti avevano dal principio o nel progresso dei buboni dolorosissimi, situati nelle parti del corpo descritte nel lib. 2, cap. 8 del Governo della Peste; come ancora dei carboni, sopra tutto nelle braccia, gambe e cosce; e delle piccole pustole bianche, livide, nere, sparse per tutta la superficie del corpo. Di rado si salvavano i malati di questa seconda classe, ancorchè la durassero un po’ più dei precedenti. Eglino sono periti quasi tutti con segni d’infiammazione cancrenosa, specialmente nel cervello e al petto. E una cosa che parrà singolare fu che quanto più essi erano robusti, grassi, pieni e vigorosi, tanto meno restava loro da sperare.
Quanto ai rimedi, tali persone non sopportavano [434] meglio delle prime la cavata del sangue, la quale, a riserva dell’essere fatta al primiero istante del male, riusciva loro evidentemente nociva. Elle impallidivano, e cadevano, anche nel tempo del primo salasso, o poco dopo, in isfinimenti che non potevano per lo più essere attribuiti ad alcuna paura, ripugnanza o diffidenza, poichè elleno stesse chiedevano con premura che si aprisse loro la vena. Tutti gli emetici, eccettochè l’ipecacuana, erano loro spessissimo più nocivi che utili, cagionando irritazioni e soprappurgazioni funeste, che non si potevano poi calmare, nè fermare. I purganti alquanto forti e attivi tiravano dietro a sè i medesimi malanni. I prescritti sotto forma di tisana rilassativa, come ancora le bevande copiose, nitrose, rinfrescanti e leggermente alessiterie, recavano qualche sollievo, ma non impedivano il ritorno degli accidenti. Tutti i cordiali e sudoriferi, se non erano dolci, leggieri e benigni, non servivano che ad affrettare il progresso delle infiammazioni interne. In fine, se pure ne scampava (il che era ben di rado), pareva ch’eglino non da altro dovessero riconoscere la loro guarigione che dalla sortita del male al di fuori, allorchè questa notabilmente succedeva o per le sole forze della natura, o coll’aiuto dei rimedi tanto esteriori come interiori, che determinavano il sangue a scaricar sè stesso fuori del corpo dal maligno fermento, di cui esso era infetto, nella forma che si dirà più abbasso.
Bisogna anche por mente che un grandissimo numero di differenti specie di malati non risentivano accidenti che molto mediocri, la forza e malignità dei quali pareva assai minore di quella che tutto dì si osserva nei sintomi delle febbri infiammatorie o putride le più comuni, o in quelle che comunemente si chiamano maligne, eccettuati i [435] segni del timore e della disperazione, che erano estremi o nel più alto grado; di maniera che di questo gran numero di malati, che sono morti, pochissimi ve n’ha avuto che dal primo istante del male non si sieno creduti perduti senza riparo, qualunque cosa potessero dire i medici per far loro animo. Anzi non pochi d’essi, quantunque comparissero innanzi all’accesso del morbo con un carattere di spirito costante, coraggioso, e risoluto ad ogni avvenimento, pure appena ne sentivano i primi assalti, che ai loro sguardi e ragionamenti era facile il conoscere quanto eglino fossero convinti che il loro male era irrimediabile e mortale, tuttochè nello stesso tempo nè il polso, nè la lingua, nè il male di testa, nè il colore della faccia, nè la disposizione dell’animo, nè in fine la lesione di qualche altra funzione del corpo umano, indicassero cosa alcuna di funesto, o dessero occasione di predizione così dura.
La terza classe è di coloro che erano bensì assaliti dagli stessi accidenti che sono riferiti nella seconda, ma in guisa che tali accidenti si sminuivano o sparivano da sè stessi al secondo o al terzo giorno, fosse effetto dei rimedi interni, o a cagione della notabile sortita de’ buboni e carboni, nei quali il maligno fermento, sparso nella massa del sangue, pareva tutto raccogliersi, di modo che questi tumori crescendo di dì in dì, e venendo poscia aperti, e giugnendo a suppurarsi, i malati scampavano dal minacciato pericolo, per poco che fossero aiutati. Avvenimenti sì facili indussero i medici a raddoppiar la loro attenzione durante tutto il corso di questo male, a fine di affrettare, per quanto comportava lo stato degl’infermi, l’uscita, l’elevazione, la suppurazione e apertura dei suddetti buboni e carboni, con intenzione di sbrigare il più presto che fosse possibile per tal via [436] la massa del sangue dal funesto fermento che la corrompeva, aiutando la natura con un buon governo e con rimedi purgativi, cordiali e sudoriferi convenienti allo stato presente e al temperamento degli infermi.
La quarta ed ultima classe abbraccia tutti i malati che senza sentire alcuna commozione, e senza che apparisse alcun tumulto o lesione nelle funzioni, aveano dei buboni e carboni che crescevano a poco a poco, alcuni dei quali facilmente giugnevano alla suppurazione, ed altri divenivano scirrosi, e talvolta ancora, ma di rado, si dissipavano insensibilmente senza lasciare alcuna conseguenza fastidiosa; di maniera che senza alcun abbattimento di forze e senza mutare maniera di vivere, si vedeva quantità di tali infermi andare e venire nelle strade e piazze pubbliche, medicandosi eglino stessi con qualche semplice empiastro, o chiedendo ai medici e cerusici i rimedi dei quali abbisognavano per queste specie di tumori suppurati o scirrosi.
Il numero dei malati compresi in queste due ultime classi è stato sì considerabile, che si crede di poter dire senza esagerazione alcuna che da quindici a venti mila persone si sono trovate in tal caso, e che se il male non avesse preso spessissimo questa piega, ora non resterebbe in Marsiglia la quarta parte de’ suoi abitanti.
In fine i rimedj impiegati qui dai medici sono quelli che per la loro efficacia e maniera d’operare vengono giornalmente dalla lunga sperienza commendati, e riconosciuti proprj a soddisfare a tutte le indicazioni rapportate di sopra, non essendosi per altro ommessi alcuni pretesi specifici, come la polvere solare, il kermes minerale, gli elisiri ed altre preparazioni alessiterie comunicate da persone caritative e attente al pubblico [437] bene; ma furono i medici dalla sperienza convinti, che tutti quei rimedj particolari non erano al più al più utili che a rimediare a certi accidenti; ed intanto riuscivano bene spesso contrarj a molti altri, e per conseguente, incapaci di guarire un male caratterizzato da un numero di diversi sintomi essenziali.
Metteremo ora qui i differenti metodi praticati per curare i malati compresi nelle suddette quattro classi. E, quanto a quelli della prima, purchè si faccia un poco d’attenzione alla natura degli accidenti rapportati di sopra, cioè al polso piccolo, ineguale e concentrato, ai ribrezzi del freddo, e al freddo universale, sopra tutto nelle estremità, e ai mali di cuore quasi continui, e a quelle facce piombine, smorte, cadaveriche, all’abbattimento generale di tutte le forze, egli sarà facilissimo (dicono quei saggi medici) di giudicare ch’eglino non avevano a ricorrere se non ai cordiali più attivi e più spiritosi, come la triaca, il diascordio, l’estratto di ginepro, il fioraliso, o sia giglio delle convalli, le confezioni di giacinto, d’alkermes, gli elisiri cavati dai misti, che più degli altri abbondano di sal volatile, le acque triacali e di ginepro, i sali volatili di vipera, d’armoniaco, di corno di cervo, i balsami più spiritosi, in una parola tutto ciò che è capace di animare, eccitare, fortificare; aumentando, raddoppiando e triplicando anche la loro dose ordinaria, secondo che il caso era più o meno pressante.
Tutti questi rimedj ed altri della stessa natura, erano senza fallo proprïssimi a rianimare e risuscitare, per così dire, le forze quasi estinte di quei poveri infermi, e pure (bisogna confessarlo con dolore) si vedevano perire quasi tutti subitaneamente; cosa che confermava il sentimento generalmente ricevuto, che la malignità del [438] fermento pestilenziale è di una forza superiore a quella di tutti i rimedj. Ma essendo che essi medici in alcuni casi particolari ne videro un buon successo, perciò s’apre il campo a presumere (e pur troppo se ne professano essi convinti da una fatale sperienza) che la ritirata, e il non operare della maggior parte delle persone, le quali potevano dar soccorso, e la mancanza del nutrimento, dei rimedj e del servigio, siccome ancora la funesta persuasione d’essere assaliti da un male incurabile, e la disperazione di vedersi abbandonati senza riparo alcuno, tutte queste cagioni unite insieme hanno, più che la violenza del male, contribuito a far perire tanto subitaneamente sì gran numero di malati, non solo della prima classe, ma ancora delle seguenti. Perciocchè a misura che questa mortal paura del contagio è andata diminuendo, e che le persone vicendevolmente hanno dato aiuto l’una all’altra, la fidanza e il coraggio sono ritornati, e in una parola il buon ordine si è ristabilito in Marsiglia per l’autorità, la costanza e la vigilanza del sig. cavaliere di Langeron, per le somme attenzioni del signor governatore, e per le premure continue e infaticabili dei signori Escevini, e da lì innanzi si è veduto diminuire insensibilmente il progresso e la violenza di questo terribile flagello, e i medici hanno provata più felicità nel governo degl’infetti.
Quanto ai malati della seconda classe, la cura d’essi, più che quella dei precedenti, ha tenuto in esercizio i medici a cagione della moltiplicità e varietà degli accidenti, che nello stesso tempo offerivano molte indicazioni tutte meritevoli d’osservazione. Potevano queste ridursi a due principali, che esigevano tanto più d’attenzione e di prudenza, quanto più erano opposte; imperocchè si osservava nel medesimo malato un miscuglio prodigioso [439] di tensione e di rilassamento, di freddo e di caldo, d’agitazione e di sopimento; di modo che erano essi medici obbligati a stare continuamente attenti per cacciare i maligni fermenti chiusi nelle prime vie, o sparsi in tutta la massa del sangue, senza però inferocirli, o a corregerli e a rintuzzarne l’attività, senza però indebolire l’infermo. Bisognava, per esempio, far vomitare, o purgare, senza irritare o consegnare gli spiriti; procurare una libera traspirazione, o il sudore, senza dare troppo moto o infiammare, fortificare senza troppo riscaldare; finalmente temperare senza rilassare: cose tutte ch’eglino procurarono d’eseguire col metodo seguente.
Supposto che fossero chiamati sul principio del male, e che l’infermo non sembrasse loro affatto abbattuto, gli prescrivevano tosto un rimedio proprio a nettare lo stomaco, cioè un leggier vomitivo, come l’ipecacuana, avuto sempre riguardo per la dose all’età e al temperamento, facendolo prendere in un poco di brodo o d’acqua comune. Usarono essi di rado il tartaro o il vino emetico per ischivare le troppo gagliarde irritazioni, se non allora che si trattava di corpi robusti e pletorici, o che qualche accidente particolare sembrasse richiederlo. Sollevano di poi l’azione del rimedio con quantità d’acqua tiepida o thè o decozione di cardo santo. Produceva ordinariamente questo primo rimedio un maggior abbattimento di forze; e però s’ingegnavano essi di fortificare l’infermo con qualche leggier cordiale, e massimamente colla triaca e col diascordio, perchè questi sono proprj a prevenire o fermare le soprappurgazioni.
A questi due rimedj tenevano dietro i purganti mediocri per nettare senza irritazione gl’intestini dalle materie grosse, che potevano opporsi all’operare [440] degli altri rimedj, o al loro libero passaggio nei vasi. Questi purganti erano tisane rilassative fatte con senna e cristallo minerale, e ordinate per bevanda; le decozioni di tamarindi, o le infusioni d’erbe vulnerarie, nelle quali si dissolveva manna, sal prunello, cassia, sciroppi di cicorea col reobaro. A’ quali succedevano ancora i cordiali e alessiterj dolci, per fortificare e fermare le soprappurgazioni che infallibilmente avrebbono cagionato qualche funesto abbattimento di forze. E supposto che la triaca e il diascordio fossero insufficienti per soddisfare a questa ultima indicazione, essi aggiugnevano terra sigillata, coralli, bolo armeno, ec., che venivano renduti anche più efficaci in caso di necessità, mischiandovi qualche goccia di balsamo tranquillo o laudano liquido, cosa che ha prodotto buoni effetti in molti casi, non solamente per fermare le evacuazioni smoderate, ma ancora pei sogni e delirj frenetici, per le emorragie ed altri sintomi di questa specie.
La polvere solare d’Amburgo, il kermes minerale, ed altri rimedj, loro comunicati e molto raccomandati, sono stati impiegati come emetici e purganti, e talvolta con buon successo, avendo anche osservato che in alcuni casi hanno fatto sudare e traspirare; ma, come si è detto, comparvero sempre insufficienti ad operare la guarigione radicale di questo morbo.
Quanto ai sudoriferi, subito che essi medici osservavano qualche anche menoma disposizione a una traspirazione libera o al sudore, qualunque fosse il tempo della malattia, attendevano diligentemente a promuoverla, e tanto più da che alcuni scamparono per questa via, confessando essi valentuomini di sapere molto bene che tal sorta di crisi è raccomandata come salutevolissima da tutti gli autori che trattano di peste. Ricorrevano dunque [441] ai cordiali riferiti di sopra, e massimamente alla triaca e al diascordio, ai quali si aggiugneva polvere di vipera, antimonio diaforetico, zafferano orientale, canfora, ecc. Veniva ajutato l’effetto di tai rimedj da bevande replicate di thè, infusioni d’erbe vulnerarie degli Svizzeri, acque di scabiosa, di cardo santo, di ginepro, scordio, ruta, angelica ed altre commendate per ispingere dal centro alla circonferenza, cioè per depurare la massa degli umori per la via dell’insensibil traspirazione senza troppo commovere; osservando sempre che i malati non fossero d’un temperamento troppo secco ed ardente, o che in procacciando troppo questa sorta di crisi, egli non venissero a restare esausti con loro rovina.
Si rimediava ai gran caldi, all’alterazione, o sete ardente con bevanda abbondante e replicata d’acqua di pane, orzate ed altre acque, nelle quali si faceva distogliere sal prunello o nitro purificato, mescolandovi di tanto in tanto alcune gocce di spirito di zolfo, o di nitro dolcificato o di vitriuolo, come ancora le confezioni di giacinto, d’alkermes, sciroppi di limone, o alcun altro leggier cordiale per ischivare la sopraccarica e il rilassamento.
Tutti questi rimedi impiegati a proposito e maneggiati colla dovuta prudenza, bastavano per soddisfare alle diverse indicazioni di questa seconda classe, purchè il terribil pregiudizio della incurabilità, la costernazione e la disperazione non ne sospendessero gli effetti; potendosi all’incontro citar molti esempli di coloro che, sostenuti da molta fiducia, coraggio e costanza, ne hanno provato un buono e salutevol soccorso; di maniera che la natura, coll’aiuto di essi fortificata, sollevata e sbrigata in parte dai maligni fermenti che l’opprimevano, e sopra tutto liberata dal pericolo [442] d’infiammazioni interne per mezzo delle eruzioni esterne, voglio dire dei carboni, buboni, parotidi, ecc., altro più non occorreva che curare metodicamente questi tumori; al che si applicavano i medici dal principio del male con tanto maggior premura, quanto che avevano molto ben osservato che il destino degl’infermi quasi sempre dipendeva dal successo di queste sortite del morbo, la cura delle quali si dirà appresso.
Circa il metodo impiegato nel governo de’ malati della terza classe, conobbero i medici che principalmente doveva esso consistere in ben curare i buboni e carboni. Egli è vero che i sintomi, i quali si manifestavano dal principio nei malati di questa classe, erano quasi gli stessi che quei della seconda; e però si praticarono i rimedi proprj, come gli emetici dolci; i purganti leggieri e i sudoriferi della stessa specie, secondo le indicazioni occorrenti, facendo intanto osservare agli infermi una dieta molto esatta. Ma dipendendo, come è detto, il buono o tristo successo principalmente dalla notabil sortita e lodevol suppurazione de’ buboni e carboni, questi tumori erano sempre l’oggetto primario della diligenza e attenzione de’ medici, la cura de’ quali tumori è stata la seguente, comune a tutte le classi.
Cioè per conto de’ buboni, o sia delle parotidi, che comparivano in vari siti del corpo ove sono glandule ed emuntorj, in qualunque tempo che uscissero, si applicavano i medici a curarli. Se il tumore era picciolo, profondo e doloroso, e restava tempo per procurare di ammollirlo, si cominciava dall’adoperare cataplasmi emollienti e anodini. E perciocchè la miseria e l’abbandonamento non permettevano che si ricorresse a droghe scelte, si faceva preparare e applicar subito, e caldamente, una specie di pappa con mollica di pane, acqua [443] comune, olio d’ulivo e qualche rosso d’uovo, o pure una grossa cipolla cotta sotto le ceneri, bucata prima e riempiuta di triaca, sapone, olio di scorpioni o d’ulivo, impiegando poscia per le persone comode i cataplasmi fatti con latte, mollica di pane, rossi d’uova e con polpe d’erbe e radici emollienti.
Ma perocchè i malati delle prime classi perivano spesso subitaneamente, e allorchè meno vi si pensava, in tal caso non si perdeva tempo, e senza altra applicazione di cataplasma s’accingevano i medici all’apertura del tumore. A questo effetto senza dilazione gli facevano applicare un caustico, o sia pietra da cauterio, o cauterio potenziale, lasciandovelo per lo spazio d’alcune ore, più o meno secondo la profondità, situazione e volume delle parti, e la costituzione grassa o magra dei malati. Formata l’escara, si tagliava e apriva senza ritardo per poter poscia meglio esaminare le glandule gonfiate, che bisognava appresso curare coi digestivi, dopo averle un poco tagliate, o pure estirparle s’elle erano mobili, e se si potevano cavare senza tirarsi dietro delle emorragie, le quali, secondochè si osservò, riuscirono sempre mortifere, quantunque mediocri; per la qual ragione giudicarono bene di rigettare il metodo di estirpare sì fatti tumori, usato prima che essi medici entrassero nell’afflitta città di Marsiglia. Quello di aprirli subito colla lancetta, benchè più spedito che quello de’ cauteri, sembrò loro in molti casi insufficiente e men sicuro, come quello che recava poco lume e che lasciava bene spesso dopo di sè degli ascessi, delle fistole e dei tumori scirrosi. Quanto alle ventose e ai vescicatorj, il loro effetto comparve pigro e inutile, e talvolta gli ultimi riuscirono pericolosi in certe persone, avendo prodotto l’applicazione d’essi delle infiammazioni interne, particolarmente nella vescica.
[444]
Ritornando dunque al cauterio o caustico, essendo formata l’escara e fatto il taglio colla precauzione di ben discoprire le glandole gonfiate in tutta la loro estensione per non lasciarvi delle reliquie maligne, non si badava ad altro che a curare queste medesime glandole per mezzo di buoni digestivi, che si formavano con parti eguali di balsamo d’arceo, d’unguento d’altea o di basilicon, aggiungendovi trementina e olio d’ipericon, che si mischiava esattamente. E posto che vi fosse una corruzione notabile nella parte, si aggiungevano alla trementina e all’olio d’ipericon le tinture di mirra, aloè, acquavite canforata e sale ammoniaco; tergendo poscia e nettando la marcia, allorachè era spessa e troppo corrosiva, con lavande fatte d’acqua d’orzo, mele rosato, canfora, o con le decozioni vulnerarie di scordio, assenzio, centaurea minore e aristolochia. Da che l’ulcera era ben nettata e le glandole gonfie interamente consumate per la suppurazione, altro non restava da fare che applicare un semplice empiastro per condurre la piaga a una perfetta cicatrice.
Per conto del curare i carboni, trovarono essi medici, tal sorta di tumori in un grandissimo numero d’infermi di tutte le classi, benchè meno frequentemente che i buboni; e si osservavano anche bene spesso nella medesima persona tutte e due queste eruzioni. Comparivano essi a tutta prima in forma d’una fistola o di un tumore bianchiccio, giallognolo o rossiccio, pallido nel suo mezzo, o di colore tendente al rosso scuro, che diveniva insensibilmente nericcio, con crosta, specialmente ne’ contorni.
S’intraprendeva tosto la cura d’essi carboni per via di scarificazioni, facendo dei tagli a diritta e a sinistra, nel mezzo e ne’ contorni, fino alla carne viva. E posto che l’escara fosse grossa e callosa, si forava con portar via tutta la grossezza e callosità, [445] per quanto la situazione delle parti poteva permettere.
Non credettero que’ saggi medici a proposito l’adoperarvi de’ cauterj attuali o potenziali, perchè avendoli usati sul principio, osservarono che producevano delle infiammazioni sì considerabili, che ne seguitava poco appresso la cancrena. Il cauterio potenziale non riusciva bene che per i piccioli carboni, i quali guarivano quasi, senza verun soccorso. Dopo avere scarificati questi tumori, vi si applicavano sopra de’ piumacciuoli carichi di un buon digestivo, come si costumava anche per i buboni, con questa differenza, che ne levavano gl’ingredienti che fanno marcire, adoperando solamente triaca, trementina, balsamo d’arceo, olio di trementina. E posto che vi fosse della corruzione, vi si aggiungevano le tinture d’aloè, di mirra, di canfora, ecc.
Su i piumacciuoli si mettevano cataplasmi emollienti, anodini o spiritosi e risolventi, come sopra i buboni, secondo la diversità delle indicazioni. Nel suo proseguimento si faceva la stessa cura ai carboni che ai buboni, conforme all’esigenza dei casi. E se nel corso della suppurazione le nuove carni erano di tanta sensibilità che i digestivi applicati vi cagionassero un dolore vivissimo, come spesso accadeva, si sostituivano piumacciuoli carichi di unguento nutritum con riportarne tutto il buon successo che se ne sperava.
Il metodo per la cura dei malati della quarta classe era lo stesso che degli antecedenti, nè merita particolar menzione. Intanto il detto fin qui potrà bastare per istruzione ai giovani medici e cerusici, caso mai (il che Dio non voglia) avessero da governar gente infetta di peste, e nello stesso tempo affinchè il pubblico sappia quale speranza egli abbia a collocare in certi metodi particolari [446] e in certi pretesi specifici sì vantati dal popolo e da alcuni empirici.
Finalmente con lettera sua a parte aggiugne il signor Chicoyneau, cancelliere dell’università di Montpellier (cioè uno dei tre suddetti medici inviati in soccorso di Marsiglia, che fino al dì 20 dicembre, 1720, assisterono continuamente alla cure di quel povero popolo, e fecero la relazione riferita fin qui), ch’egli non entra ad esaminare la cagion primaria d’un male sì funesto, persuaso che nulla si possa dire intorno a ciò che non sia molto problematico; e che tutto quello che ne hanno scritto gli autori e i più valenti fisici è puramente un’ipotesi, e a nulla può servire per la guarigione degl’infermi. Perciò soggiugne egli che necessariamente convien contentarsi di por ben mente alle cagioni evidenti che sono effetti della cagion primaria, essendo queste cagioni evidenti indicate dai sintomi del morbo.
Per altro dice egli che dopo molte sue riflessioni ed osservazioni sopra il contagio, egli non è affatto persuaso che questo male si comunichi per contatto, ma ben più tosto per via di miasmi o corpicciuoli, i quali scappano fuori o dalle mercatanzie infette, o dalle viscere della terra, o da qualche sorgente superiore, e che si spargono per l’aria, o, mischiati con gli alimenti, producono i lor funesti effetti sopra i corpi e spiriti mal disposti; di maniera che la ripienezza, le crudità, le passioni dell’animo, e sopra tutto il terrore, la tristezza, e l’agitazione degli spiriti danno a questi corpicciuoli forza di operare con tanta malignità. Anzi asserisce egli di non aver osservato caso alcuno di peste in Marsiglia (nella quale città nondimeno egli aveva veduto perire di tal morbo quasi 50 mila persone) che non se possa attribuire con più giusto titolo ad alcuna delle suddette cagioni, [447] più tosto che al contagio. Finalmente scrive egli d’aver assistito con molti suoi colleghi medici, dappoichè giunse in quella città, a un grandissimo numero d’appestati, e ch’eglino gli aveano toccati, maneggiati ed esaminati, come se questo fosse stato un male ordinario senza provarne alcun sinistro effetto, e col non prendere altra precauzione che quella di fare un solo pasto per giorno all’ora del pranzo, essendo eglino per altro persuasi che tutti i preservativi che si è costumato di praticare in simil caso sono più tosto nocivi che utili. Così il signor Chicoyneau.
Ora io aggiugnerò che quantunque sia verissimo che nulla suol influire alla guarigione degli appestati il disputarsi fra i medici qual sia la cagione primaria di questo morbo desolatore; tuttavia chi potesse penetrare nella cognizione de’ suoi veri primi principj, potrebbe anche giovare assaissimo al pubblico, se non per la cura, almeno per la preservativa. Anzi bisogna guardarsi di non istabilir qui, e in trattando ancora delle cagioni seconde e delle maniera di operare di questo morbo, massima alcuna che tornasse poi in danno al pubblico. Perciocchè quando non sia evidente il sistema che possa formare taluno intorno alla pestilenza (il che non avverrà giammai), ragionevol cosa è che citiamo più tosto col volgo in ben custodirci anche più di quel che conviene, che in seguitare le opinioni filosofiche con pericolo di non difenderci abbastanza. Dico ciò, perchè, a udire il signor Chicoyneau dubitante, se tal morbo si comunichi per contatto, ma par questo un quasi far coraggio alla [448] gente che si vadano ad appestare. Certo è che per contatto e contagio intendiamo il toccarsi insieme de’ corpi, ed è lo stesso in tal caso il toccarsi un corpo umano, o un panno infetto di peste, che il toccare gli spiriti pestilenziali che sino a una tal distanza possono diffondersi da quel corpo o panno. Ma se noi mettiamo che non dal contatto di queste cose infette proceda l’appestarsi d’un uomo poco prima sano, egli potrà liberamente e senza precauzione praticare con infetti e maneggiar robe appestate, senza timore che gliene abbia a venir male. Ma questa opinione il buon popolo, e molto più i saggi, hanno da cacciarla via colle pertiche, anche senza esaminarla, non essendo saviezza il farne, senza necessità, la sperienza con pericolo della propria vita. E tanto più poi perchè non si sa intendere come mai venga nè pure in pensiero a persone che riflettano alquanto ai passi d’una peste, ch’ella non si comunichi per contatto o contagio. La peste de’ buoi l’abbiam veduta; e ciò che avviene in tal disavventura a quella specie di animali, è un vivo ritratto di quanto è altre volte succeduto e può succedere di nuovo agli animali ragionevoli. Si toccava con mano che le tali e tali stalle erano infette, perchè per la vicinanza del morbo o esse bestie avevano conversato con altre ammorbate, o pure con uomini che aveano praticato con buoi appestati. Le lontane si salvavano; e se in siti remoti saltava su un sì micidial malore, indagando si trovava la maniera e via per cui era stato portato colà. E l’aver subito sequestrate le bestie infette e gli stessi padroni, con far loro dì e notte le guardie, non solo tratteneva che il male non s’inoltrasse, ma giunse ancora ad estinguerlo in alcune stalle nel cuor del paese, dove era passato sul principio (e se ne sapeva il come) allorachè si faceva men diligenza per impedire [449] la comunicazione degli infetti co’ sani. Salvossi in tal maniera la maggior parte del ducato di Modena e di Reggio, con evidente documento che, tolta essa comunicazione, cioè il contagio o contatto, venivano anche tolti i piedi al morbo per avanzarsi. Altrettanto visibilmente accade anche oggidì in Provenza nella fiera mortalità degli uomini, ed accaderà in tutt’altro paese. La vera peste non nasce come i funghi, nè ha l’ali di volar lontano se non gliele prestano gli uomini stessi.
E però su tal riflessione dee maggiormente animarsi lo zelo dei principi e de’ maestrati d’Italia a procurare che il morbo desolatore della Provenza, il quale per via di contatto si va sempre più dilatando per quelle contrade, non valichi l’Alpi, e non riduca in solitudine anche le città e campagne d’Italia. Supposto sempre l’aiuto potentissimo di Dio, si può tener lungi un sì tiranno avversario. Se le diligenze umane han fatto che per lo spazio di novant’anni la Lombardia, la Toscana ed altre parti d’Italia si sono preservate dalla peste, e se ne preservarono infin quando nel 1656 le città di Roma, Napoli e Genova provarono questo terribil flagello, perchè non potrà sperarsi il medesimo felice effetto anche oggidì, se metteransi in opera quelle diligenze e que’ rigori che non sono mai abbastanza in casi di tanta necessità e interesse del pubblico? L’esempio è notabilissimo, e tale da far di nuovo coraggio ai nostri medesimi tempi e paesi, purchè oggidì si adoperino quelle sbarre che saggiamente furono in altri tempi usate. Ma se si addormenterà chi è obbligato ad abbondare in vigilanza, se non si metterà una forte briglia all’ingordigia del privato interesse, se si vorrà lasciare aperto il passo a merci straniere, benchè non necessarie, procedenti da paese sospetto, affinchè le gabelle e dogane non patiscano danno; [450] la desolazione pur troppo verrà, cioè per non perdere un poco si perderà tutto, e arriveremo a mirare quella grande scena che fa ora tanta paura, e pure non par temuta abbastanza da chi potrebbe e dovrebbe far molto per tenerla lontano, e forse nol fa.
Un’altra massima de’ medici che hanno operato in Marsiglia, è quella di attribuire tanta rovina nel genere umano a varie altre cagioni, più tosto che al contagio. E tali cagioni sono, secondo essi, l’indisposizione de’ corpi e degli spiriti animali dell’uomo, cioè la troppa copia o crudezza degli umori, le passioni dell’animo, e sopra tutto il terrore e la tristezza. Incontrandosi in corpi e spiriti sì mal disposti certi corpicciuoli e miasmi che escono da merci infette, o dalle viscere della terra, o da qualche sorgente superiore (vorran dire gli influssi delle stelle) e che volano per l’aria, o si mischiano con gli alimenti, se ne produce, secondo essi, il terribilissimo morbo e la morte di tanti, in guisa che più tosto all’indisposizione interna degli uomini, che alla maligna attività di quei corpicciuoli s’hanno da imputare questi mortiferi effetti. Primieramente si vuol rispondere che l’attribuire la cagion della peste alle costellazioni (se pure d’esse si parla), è sentenza oramai troppo rancida, conoscendosi chiaramente che la forza delle stelle non fa all’improvviso uscir fuori la vera peste in qualche paese, s’ella non vi è portata da un altro già infetto. Nè può credersi che escano dalle viscere della terra i corpicciuoli pestilenziali, siccome nè pure che entrino mischiati con gli alimenti nell’uomo, perchè niuno in tal sistema sarebbe sicuro, anche astenendosi dal praticar persone o robe infette; il che è contrario alla sperienza e all’asserzione d’innumerabili autori che si sono trovati a questo medesimo fuoco. [451] Ed ultimamente il signor Bartolomeo Corte, dottissimo medico di Milano, in una sua lettera quivi stampata intorno alle Cagioni della peste ha assai concludentemente provato non poter venire la peste nè dall’aria, nè dai nutrimenti cattivi.
Secondariamente godo io che que’ valenti medici rilevino e facciano ben ravvisare i cattivi effetti del terrore, della tristezza e dell’altre passioni dell’animo, allorachè la pestilenza arriva con mal talento di spopolare le città. Imperocchè, abbattuti gli spiriti animali nell’uomo e tolto l’equilibrio agli umori del corpo, riesce facile al morbo l’entrare in una piazza sì mal difesa e l’atterrarla anche prestissimo. Perciò colla scorta di moltissimi altri autori ho anch’io nel Trattato del Governo della Peste sommamente raccomandato, e più d’una volta, l’armarsi allora di fiducia, di coraggio, di persuasione di non dover essere colto dal male, e di guardarsi con particular cura dalla tristezza, dalla paura, dal terrore, dalla disperazione; poichè questi abbattimenti d’animo fanno la strada all’abbattimento ancora della vita del corpo. Quand’anche non fosse vera tale opinione, pure non potendo essa dall’un canto nuocere, e potendo forse dall’altro giovare assaissimo, ottimo consiglio sarà sempre il tenerla e figurarsela per vera. E quantunque, presa che si sia la peste, non paia che sia da attribuirsi, siccome vorrebbono i medici suddetti, la morte delle persone alla funesta persuasione che il male sia incurabile, o alla disperazione, o ad altre simili gagliarde passioni dell’animo, essendochè il terrore, la malinconia, ed altre perniciose affezioni sono effetti quasi inseparabili del morbo preso, che è micidiale, e non già cagioni ch’esso morbo diventi micidiale; tuttavia gioverà ancora sposare sì fatta opinione, perch’essa in fine può recare singolar giovamento [452] e non mai nocumento agl’infermi. Certo noi veggiamo che il solo terrore, anche senza la peste, cagiona di gravissimi sconcerti nella sanità delle persone; e l’abbandonarsi poi un malato a questa e ad altre somiglianti passioni, può dare il tracollo a ogni speranza di riaversi. All’incontro il coraggio serve a rinforzare i conati che fa la natura per iscaricarsi del nemico interno. Servirà a ciò l’esempio degli stessi medici che hanno operato in Marsiglia, i quali, ancorchè continuamente conversassero con appestati e li maneggiassero, nè usassero particolari preservativi, pure si son salvati in mezzo a sì fiero conflitto; e ciò a cagione, per quanto essi sostengono, dello sprezzo ch’essi facevano di quel male, e del coraggio che rinforzando i loro spiriti, li rendeva abili a resistere agli spiriti pestilenziali, e a non risentirne offesa. In somma, secondo tale opinione, avviene lo stesso nel conflitto della peste che accade nella guerra; chi ha più cuore e men paura d’ordinario non è vinto, e vince gli altri. Che se la filosofia non sapesse ben trovarne la ragione, e movesse qui di grandi difficoltà, poco importa; anzi sarà sempre meglio il fortificare, che il tentare d’abbattere una sì fatta sentenza, perchè sentenza utile, e non pregiudiziale ad alcuno.
In terzo luogo. Ma non si può, ne si dee già menar buono al signor Chicoyneau ch’egli metta per più nocivi che utili tutti i preservativi che si costumano in tempo di peste. Si esalti pure qual preservativo gagliardo il suddetto coraggio; ma escludere poi tutti gli altri, questo è troppo; e una tal massima potrebbe tirarsi dietro delle conseguenze sommamente funeste. Non v’ha dubbio, di tanti preservativi per la peste, de’ quali è fatta menzione ne’ libri che trattano di questo argomento, moltissimi saranno inutili, ed alcuni ancora [453] nocivi, siccome anch’io ho accennato nel Governo della Peste; ed alcuni ancora utili, perchè usati troppo spesso, o in troppa quantità, potranno divenir pregiudiziali alla salute. Ma non per questo s’hanno da screditare e sconsigliare universalmente alla rinfusa. Con tutto il nostro bel dire egli non è certo che il coraggio, la fidanza e l’intrepidezza sieno bastevoli a difendere il corpo umano dagli assalti di questo potentissimo e feroce avversario. Adunque esige la prudenza che aggiugniamo a questo anche altri preservativi, o esterni o interni, i quali maggiormente si trovino commendati dalla sperienza e dai saggi, a fine di ottenere con più sicurezza il grande intento di salvare la vita d’un uomo. Purchè sieno riconosciuti per incapaci in sè stessi di nuocere, e si prendano colla dovuta moderazione, e solo nella necessità; che male si farà a valersene, quando, per parer d’altri e per fondate ragioni, si può credere o sperare che riescano di giovamento? Troppo distruggono queste nuove opinioni; e il saggio ha da adoperarle con discretezza, altrimenti è da temere che si paghi caro, cioè con lasciarvi la vita, la troppo poca stima delle opinioni de’ vecchi e dei preservativi innocenti in tante altre pesti adoperati, e giudicati giovevoli. Meglio è fallare moltiplicando senza bisogno i riguardi e i ripari, allorchè si tratta d’un sì poderoso nemico, che trascurandoli o sprezzandoli tutti per bizzarria d’opinioni. E però sia bensì l’intrepidezza uno de’ preservativi, ma non sia sola; e si ponga mente anche ad altri mezzi che sempre più potranno custodire illesa fra’ pericoli la salute del corpo.
In quarto luogo merita d’essere e ricordata e lodata, siccome molto ingegnosa, l’opinione d’alcuni dottissimi uomini dell’età nostra, che son d’avviso consistere la peste, non meno de’ buoi che [454] degli uomini, in certi maligni sottilissimi vermicciuoli che corrompono il sangue e gli umori del corpo, e che la propagano col moltiplicarsi e insinuarsi ne’ panni e nelle persone di chi vi si accosta. Così hanno creduto, per tacer d’altri, il celebre P. Kirchero e il vivente rinomatissimo signor Vallisnieri; e non ha molto in Milano l’ha sostenuta il soprallodato signor medico Corte in una sua lettera stampata intorno alle cagioni della peste. Ma per quanto accennai nel lib. 2, cap. 10 del Governo della Peste, è ben soggetta a molte difficoltà una tale sentenza. Imperocchè traspirando pei fori della gente appestata corpicciuoli atti ad infettar altre vicine persone, ed essendo anche portati per l’aria, con restarne in qualche maniera impregnato l’ambiente degli infetti, bisogna per conseguente ammettere una mirabil sottigliezza in questi pretesi vermicciuoli, e farli volare per aria vivi e compiuti, e dar loro quella mole stranamente minuta che noi diamo agli spiriti che escono del corpo. Io vo’ mettere che non sia assurdo l’immaginare, nè impossibile il trovare di questi per così dire atomi animali, incomparabilmente minori degli acari, ma certo è difficilissimo il provare o mostrare che esistano o sieno essi i promotori e disseminatori della peste. Che se si trovano vermi ne’ corpi appestati, forse non ne vanno senza gli umori del corpo anche fuori de’ tempi di pestilenza, ed anche in sanità. E poscia sì fatti vermi dovrebbono appellarsi effetti più tosto che cagioni d’esso morbo, e tanto più perchè, osservati in qualche persona infetta, non saranno mai di quella estrema mirabil minutezza che necessariamente bisogna supporre in essi, se hanno da galleggiare, o sia nuotare e muoversi per l’aria. Oltre di che se il sangue o altri fluidi sono il loro elemento, come poi ne vivono fuori? Come si mantengono [455] vivi in panni e merci per molto tempo? E ciò sia detto col rispetto dovuto ai filosofi di tanto nome, e alla loro, se non vera, certo giudiziosa sentenza, potendo essere ch’eglino sapranno ben dileguare queste ed altre difficoltà che potrebbono farsi; benchè in fine poco giovi e poco importi se sieno animati o inanimati que’ sottilissimi corpicciuoli che van facendo tanta strage sulla terra, perchè in tutti e due questi sistemi l’hanno fatta, e la faran tuttavia.
Intanto verrò io dicendo che dovendo noi cercare non il nuovo, ma il vero, sembra più probabile e fondata, e soggetta a men difficoltà, l’opinione antica e corrente, cioè: altro non essere la peste che corpicciuoli, effluvj, atomi e particelle sottili e velenose, le quali, o sia, come anch’io credo, sempre vivo il loro seminario nei vasti paesi dell’Asia e dell’Affrica, che ne vanno regalando talvolta anche l’Europa, o sia che essi talvolta spuntino fuori per accidental corruzione in qualche popolo, penetrano nelle interne parti dell’uomo, ed ivi con subitanea ferocia sconvolgendo gli umori e atterrando gli spiriti, cagionano quei tanti sintomi che sono descritti nella Relazione di sopra, conducendo in tal guisa le persone a pagare con gran fretta il tributo della natura, se pure non le aiuta il benefizio degli emuntorj, a’ quali tenta naturalmente la massa del sangue infetto di condurre il maligno fermento per isgravarsene. Non occorre cercare se questi velenosi corpicciuoli sieno di arsenico o d’altra sorta di veleno. Basta sapere che possono appellarsi veleno, da che producono lo stesso effetto che il veleno; e può dirsi che fra tanti veleni, tutti possenti ad atterrar l’uomo, la peste ne sia uno che formi una sua specie particolare. Se crediamo al signor Chicoyneau, la forza d’uccidere non è già in questi [456] corpicciuoli, ma sì bene loro la dà la mala disposizione de’ corpi umani, ne’ quali per avventura abbiano essi l’adito. Non mi metterò io a negare risolutamente questa partita; anzi dirò di giudicarla assai probabile, per non dir certa, ma in forma differente da quello che crede il medico suddetto. Per cattiva disposizione egli intende il trovarsi nel corpo umano troppa copia di sangue o d’altri fluidi, o pure questi indigesti e crudi, ovvero l’animo tutto sconvolto da qualche gagliarda passione. Io per me tengo che un’altra più larga e a noi occulta disposizione d’umori e di spiriti si richiegga nell’uomo, affinchè gli effluvj pestilenziali possano ivi esercitare la loro attività. Perciocchè alcuni, anche paurosi, anche melanconici, anche malsani, non risentono verun danno dal praticare con appestati; e coloro che son colpiti una volta da questo atrocissimo morbo, e ne guariscono, d’ordinario sono sicuri di non provarlo più. Lo stesso avviene de’ vaiuoli, della rosolia, e di simili morbi, che non cagionano i lor maligni effetti nel corpo umano, se prima in esso corpo non trovano una disposizione che è incomprensibile a noi ed occulta. E può osservarsi il medesimo arcano in altri morbi epidemici, endemici e sporadici. Ora io crederei più proprio e più fondato il dire che i corpicciuoli pestilenziali quei sono che seco portano l’abilità e forza di sconcertare ed abbattere il microcosmo umano, e non già che loro la somministri l’interna cattiva disposizione dell’uomo, avvegnachè senza tal disposizione non sogliano essi far uso della lor fierezza. Quello che più importa si è, che dovendo ogni persona in tempi di peste dubitare e temere di portare dentro di sè una disposizione a contraere questo terribil male, dee per conseguenza camminar con riguardo, e molto più studiosamente [457] cercare di preservarsi, che non fa chi, non avendo mai provato i vaiuoli, desidera anche di non provarli giammai.
Ma un’altra rilevantissima osservazione vo’ io qui aggiugnere, accennata già nel Governo della Peste, non che io osi tenerla e spacciarla per certa e indubitata, ma perchè a me sembra almeno probabilissima, e da avervi particolar attenzione in tempi di tanta miseria. Coloro che non hanno allora bisogno alcuno di trattar con gente infetta o sospetta, stieno pure alla ritirata, abbondino in preservativi anche inutili, e studino tutte le cautele anche superflue e vane; che in fine meglio è, trattandosi d’un sì feroce nemico, eccedere nella troppa che nella troppo poca difesa. Ma tanti altri ci sono, che per necessità o del loro impiego caritativo, o del vitto, non possono a meno di non conversare con appestati, e debbono toccarli e maneggiarli: ora che preservativi debbono essi portare con seco? Quanti ne possono, rispondo io, ed anche una carretta; ma insieme aggiungo, inclinar io forte a credere che si debba ridurre, e si riduca in fatti, ad un solo punto il gran segreto per preservarsi dalla peste (anche trattando con chi ne è già tocco, anche stando in mezzo alle città appestate), cioè al saper difendere dagli spiriti ed effluvj pestilenziali le due porte della umana respirazione, voglio dire il naso e la bocca. Il che dicendo, non escludo mai, anzi amo sempre in compagnia di questo preservativo l’altro del coraggio e della fidanza, con escludere que’ brutti ceffi del terrore e della malinconia. So che la comune sentenza vuole che anche per la cute s’introduca la peste. Ma ecco i motivi che io ho da dubitarne: e non sarà inutil cosa che valenti filosofi e medici ne facciano un più accurato esame. Già abbiam premesso come sentenza più probabile [458] dell’altre che la peste consista in corpicciuoli e spiriti sottilissimi e velenosi. La struttura del corpo umano vivente è costituita in maniera che col calore e moto del sangue e col vigore elastico dell’aria inchiusa ne’ vasi e respirata continuamente sta in esso una tensione al di fuori; cioè per un certo meccanismo gli spiriti ed umori sono in qualche forma spinti e inclinati ad uscir fuori per tutta la circonferenza del corpo. In effetto quasi sempre per li pori della cute vanno insensibilmente uscendo spiriti e particelle dal corpo umano in tal guisa, che secondo la statua del Santorio, una tal traspirazione ogni dì ascende a una considerabile quantità.
Ciò posto, facilmente s’intende come entrati nell’uomo essi spiriti velenosi, e introdotto nel sangue e negli altri umori un pessimo fermento, ivi si formi una fierissima corruzione, per cui gli spiriti ed umori prima sani, si rendono maligni ed omogenei al fermento entrato, ed agitati forte scappano poi fuori anche per li pori, non che pei soliti meati della respirazione, potendo essi per conseguenza portar l’infezione ad altri non infetti. Ma sarà ben difficile il provare che tali spiriti ed effluvj pestilenziali possano introdursi per i fori della cute in un uomo, da che loro è chiuso l’adito e fatta resistenza dagli altri spiriti ed umori che per l’interna pressione traspirano o cercano di traspirare dal corpo d’ognuno. La forza che dal di dentro spinge al di fuori, è evidente nella struttura degli animali. Ma, giacchè l’attrazione è omai troppo screditata fra i migliori medici, si penerà ad assegnare una forza al di fuori che possa cacciar dentro per via de’ pori una torma di spiriti velenosi, e tale da vincere l’opposta interna forza, che tende ad espellere; e tanto più perchè l’accuratissimo Malpighi nel suo Trattato dell’Organo del Tatto osservò formarsi della cuticola ne’ vasi [459] escretorj del sudore una certa pellicella convessa, che a guisa di valvula sembra impedire l’ingresso ai fluidi esterni.
Si può forse dare che applicati con forza alla cute dell’uomo alcuni corpi, come unzioni, liquori, empiastri, cataplasmi, ecc. possono introdurre pei fori qualche lor particella sottile; benchè più probabilmente sia da chiamar bene spesso un’illusione quel credere con tanta facilità che tali corpi applicati al di fuori operino con penetrare ne’ corpi per la cute, quando essi solamente giovano, se pur giovano, o con difendere dall’aria nociva, o con fomentare il calore nelle parti offese o pure con ammollire, cioè con rarefare i pori, pei quali poi esce sottilizzata l’interna nociva materia; o finalmente col penetrare, non già per la cute, ma per la bocca o pel naso, nel corpo umano mercè delle particelle sottili ed odorose, nocive o giovevoli che vanno da essi emanando. Non parlo dei caustici, perch’essi colle loro particelle aguzze ed infiammatorie rompono la tessitura della cute, applicate ad essa, e si fa sentire al di fuori la loro operazione. Parimente non parlo nè delle cantaridi, nè del mercurio esteriormente applicato nelle unzioni, perchè ne’ medesimi possono concorrere delle ispezioni particolari.
La maniera con cui ne’ corpi viventi operano, o nocendo o giovando, gli altri corpi, non rade volte si asconde anche agli occhi più acuti di chi contempla la natura; e molte sentenze passano per vere solamente perchè ci riposiamo sulla corrente degli scrittori e dell’uso, ma non perchè un diligente esame ci abbia persuasi della loro verità e certezza. Serva per esempio la torpedine. Tanti e tanti, sì antichi come moderni, hanno insegnato avere in sè quel pesce la virtù d’istupidire la mano che il piglia; e ciò appunto potrebbe rammentarsi [460] per provare che certi spiriti velenosi trovano benissimo l’adito per penetrare dentro la cute dell’uomo. In fatti non è questa una favola, avendone fatta la prova anche l’attentissimo Redi, il quale nondimeno confessa che bisogna stringer forte la torpedine, se ha da cagionare stupore e dolore nel braccio. Veggasi ancora il Willugby nella Storia de’ Pesci. Ma il celebre Borelli avendo con più attenzione e con esperimento più esatto esaminata questa faccenda, tiene non operar la torpedine per qualche aura velenosa che da lei si tramandi, perchè toccata e maneggiata quando essa riposa, ed anche prendendola stretta colla mano nelle parti laterali, non nuoce. Allora dunque solamente induce stupore e dolore quando la mano stringe il torace di lei vicino alla spina, dove sono de’ nervi e muscoli in gran copia; perciocchè insorgendo in quel pesce un tremore e uno scotimento gagliardo, questo si comunica alla mano e al braccio, cagionando in essi una sensazione molesta, anzi insoffribile. Che poi il preteso veleno della torpedine passi all’uomo fino per l’asta o per le funi delle reti, questa è una frottola secondo il suddetto Borelli. Lo stesso probabilmente è da sospettare d’altre simili immaginazioni. Comunque nondimeno ciò sia, quand’anche si ammettano corpi che introducano nell’uomo le lor parti sottilissime, verisimilmente si troverà ancora che da qualche vibrazione o forza esterna sono introdotte sì fatte particelle. Ma ciò non appare già ne’ corpicciuoli pestilenziali, che, siccome sciolti, leggieri, svolazzanti e non applicati con forza, sembra per conseguente che sieno incapaci di entrare per li forellini della cute, nè son già descritti per corrosivi da potersi fare strada per essa. Anzi quando anche il corpo avesse piaghe o ferite, non perciò questo veleno sembra atto a penetrare e infettare [461] per quella parte, giacchè tanti e tanti commendano i cauterj per preservativo della peste medesima, e la rogna vien creduta giovevole in tal tempo: il che è sommamente da notare. Nè l’Elmonzio è un autore di tanto credito che s’abbia a riposare sulla sua fede, allorchè narra che, capitata a certuno una lettera scritta da città appestata, appena apertala, cominciò costui a sentirsi nelle dita un dolore come di punture d’aghi, e appresso a tremare con tutto il corpo; del che egli morì fra pochi giorni. O la storia non sussiste, o se sussiste, può attribuirsi l’infezione di costui all’aver egli bevuto gli spiriti pestilenziali chiusi nella carta col tirare del fiato. Nè un altro simile esempio, poco però verisimile, recato dal Diemerbrochio, può fare stato, perciocchè infiniti altri hanno maneggiato e maneggiano corpi e robe infette senza provare puntura veruna alle mani; il che parimente avvien tutto dì a coloro che toccano altri veleni e materie mortifere, le quali se non entrano o per ferita fatta, o pei canali del respiro, nessun danno recano alle persone. Nè alcuno dei tanti medici i quali hanno conversato con sì gran numero di appestati, e ci han lasciato le loro osservazioni su questo morbo, ha mai accennato che l’accesso del medesimo si risentisse alla cute o per qualche dolore, o anche per semplice prurito; siccome nè pure ciò si osserva nella comunicazione de’ vaiuoli e d’altri malanni epidemici, simili nel corso, benchè diversi nella ferocia dalla vera peste.
All’incontro una via certa e indubitata per nuocere all’uomo, l’hanno i corpicciuoli pestilenziali, ed è quella del respiro; e questa è la facile per introdurre il nemico in casa, e per portar tosto a dirittura l’incendio nelle viscere e nel sangue; e questa è la confessata da chiunque ha scritto di [462] questo fierissimo morbo; nulla importando se non ben sappiamo tutte le vie per le quali l’aria respirata si comunica ad esso sangue, perchè basta sapere che si comunica. Dal corpo infetto non v’ha dubbio che si fa una copiosa emanazione di effluvj per i pori della cute e per la respirazione. Si diffondono per l’aria questi atomi o spiriti maligni fino a quella distanza ove può giugnere la maggiore o minore vibrazione che si fa dal calore che li spinge fuori, o pure più lungi, se l’aria impregnata d’essi viene per avventura mossa da altro corpo. Osservisi nondimeno che se l’aria commossa giugnerà a segregare e diradare la massa di questi corpicciuoli micidiali, tanto meno sarà da temer d’essi; e può essa facilmente disperderli in maniera che quand’anche alcun d’essi si bevesse col respiro, pure non avrà assai forza per nuocere. Chi dunque si troverà nell’ambiente di un corpo appestato vivo (poichè de’ non viventi, quantunque appestati, cioè de’ cadaveri, è cosa dubbiosa se s’abbia a temere) costui, se non istà in guardia, in tirando il fiato, di leggieri si tirerà addosso anche l’infezione, perciocchè verrà insieme coll’aria a tracannare quegli spiriti maligni. Nè qui sta tutto il pericolo. Siccome accade a chi maneggia corpi odorosi o sta loro vicino, e massimamente se qualche calore o percossa mette in moto gli spiriti odorosi di quel corpo, che le sue vesti e mani ed altre membra portino via con seco di quelle particelle odorifere; così ai panni e ad altre robe degli infetti e di qualunque altra persona che entri nell’ambiente dell’aria da loro respirata e degli spiriti venefici emananti dal corpo loro, insensibilmente si attaccano particelle pestilenziali, le quali asportate possono lungi di là essere tirate col fiato da altri sani, e comunicar loro l’infezione e la morte. E questa medesima, [463] s’io mal non m’oppongo, è l’economia con cui anche tanti altri malanni epidemici, ma non così feroci e micidiali come la peste, cioè i vaiuoli, la rosolia, i flussi di sangue, certe febbri maligne o petecchiali, ecc., si dilatano talvolta pel popolo, con cagionare pericolose malattie, e morti non poche.
Ora posto questo sistema, il quale mi contento che nol creda vero chi in occasione sì funesta può custodirsi col ritiro, dico che chiunque è in necessità di praticar gente infetta o sospetta di peste, dee farsi coraggio, e non figurarsi che il vedere un infermo di questo terribil morbo, e il doversegli accostare e toccar lui e le robe sue, abbia tosto a far cadere lui pure infermo o morto. Lasciata anche stare quella natural disposizione che alcuni godono, e probabilmente altri formano in sè stessi mediante l’intrepidezza, per resistere agli spiriti micidiali della peste, purchè si studino essi di ben difendere le suddette due porte della respirazione, hanno quasi da tenersi in pugno la loro salvezza, anche trattando con persone appestate. Tanti medici e cerusici ed ecclesiastici, ed altri che hanno toccato e curato essi infermi o maneggiate le robe loro, ne sono usciti illesi; non per altro, a mio credere, se non perchè seppero custodirsi in maniera che non entrò col respiro nel petto loro effluvio alcuno, procedente da corpo o robe infette; o se vi entrò, entrò corretto, mortificato, o mutato da altri effluvj antipestilenziali e preservanti. È un bell’esempio quello del sacerdote fiorentino che con la spugna inzuppata o spruzzata di buon aceto (sarebbe lo stesso di un fazzoletto) si preservò sempre in mezzo agl’infetti siccome si raccoglie dalle Giunte che ho fatto al mio Governo della Peste. Ma si può dire lo stesso di tant’altri che si sono salvati, dovendosi per l’ordinario [464] attribuire la lor salute a questa buona difesa. Che se attestano i medici di Mompellieri che non venne loro danno alcuno dal luogo lor conversare con tanti appestati di Marsiglia, quantunque scrivano di non aver usato preservativo alcuno fuorchè quello del coraggio, quanto più poi dovrà sperare di passarsela netta chi al coraggio e all’intrepidezza aggiugnerà eziandio que’ preservativi che possono impedire l’introduzione de’ corpicciuoli velenosi pei canali del fiato, cioè per quella probabilmente unica via ch’eglino hanno per nuocere?
Io so che anche riducendo a questo il pericolo d’infettarsi, non si toglie perciò ch’esso pericolo non sia grandissimo. Ma da che si sa da qual parte il nemico o il ladro ha da tentare l’entrata, egli non è tanto difficile il mettersi in difesa. Già nel suddetto Governo della Peste colla scorta dei migliori ho rapportato gran copia di profumi e d’altri corpi odorosi, che per la maggior parte son atti o a tener lontani, o a correggere in guisa gli effluvj pestilenziali, che o non passino nelle persone, o passino senza ritener più la possanza di nuocere. Dee ognuno studiarsi secondo la sua prudenza di valersene, e con ricordarsi sempre di difendere sè stesso non solo dagli altrui, ma anche da’ propri panni, con profumarli dipoi, qualora si sia conversato con infetti o sospetti, ma senza sottilizzarla tanto che si apprenda in ogni oggetto e movimento la propria morte. Giungono alcuni a temere che fin le mosche ed altri insetti possono apportar loro da qualche luogo infetto il congedo per l’altro mondo; e chi credesse ad altri buoni scrittori di questo argomento, udirebbe simili casi strani intorno alla maniera di prendere il morbo, e che gli spiriti pestilenziali si conservano per anni e anni ne’ panni, nelle funi, e infin nelle tele di ragno, con altre avventure che fan battere forte [465] il cuore a chi è figliuolo della paura. Ma oltre a tanti rimedi e preservativi inutili e vani per la peste che si leggono in certi libri di cerretani, vi ha ancora non poche favole o immaginazioni alle quali non dee punto fermarsi l’uomo saggio e coraggioso. Similmente dee deporsi la credenza che la peste venga dall’aria corrotta, essendo ciò falso a riserva di quella che attornia i corpi e le robe infette. Ed ogni minimo venticello, purchè possa ben giocare e sventolare, è atto a scuotere dai panni e a dispergere per l’aria tutti i corpicciuoli maligni, siccome avviene de’ panni che han preso l’odore se stanno esposti all’aria suddetta. E non v’ha dubbio che può un sano passeggiate per città appestata, e attendere a’ suoi affari, senza pericolo d’infettarsi, purchè cammini o stia in una competente distanza dall’altre persone, e vada tenendo munite con qualche odore antipestilenziale le porte del respiro. Ferrara, e tanti altri luoghi assediati intorno intorno dal morbo divoratore, che pure in essi non penetrò, o se penetrò, vi fu ben presto soffocato ed estinto; e tanti monasteri di religione che in mezzo a città infette si son valorosamente preservati illesi, sono ben chiari documenti che questo malore non procede dall’aria; e ch’esso non si comunica se non per contagio o contatto nella forma che si è detto di sopra, e che può molto bene accordarsi il dovere star saldo in una popolazione appestata col potersi difendere dalla peste, purchè si sappia ben custodire da’ suoi velenosi effluvj il respiro. Replico nondimeno dovere bensì questa sentenza far cuore a chi sarà necessitato a comunicare con gente infetta o sospetta; ma non dover già essa rendere alcuno temerario. Cioè non hanno le persone poste in sì fatta necessità da lasciar l’uso di quelle vesti alle quali men che all’altre possono attaccarsi i semi della [466] pestilenza; non hanno senza gran bisogno da accostarsi ad infermi, non fermarsi a bel diletto nelle loro stanze. In una parola, per le ragioni recate, possono tenere per vera essa sentenza, siccome giovevole ad accrescere l’intrepidezza; ma nello stesso tempo debbono praticare ogni altra possibil cautela e riguardo, come s’ella non fosse vera; perchè in tal maniera si verrà a soddisfare al bisogno e alla prudenza. E ciò basti per ora.
Modena, 25 febbrajo, 1721.
FINE.
[467]
Brevi Cenni intorno alla vita e alle opere dell’autore | pag. v |
Prefazione e Dedicazione | 1 |
LIBRO PRIMO | |
GOVERNO POLITICO. | |
Capo I. Spiegazione della peste: origine e durata d’essa. Differenze fra l’una peste e l’altre. Suo orribil danno ed aspetto. Obbligazione e possibilità di difendere il paese da questo flagello. Diligenze umane utili e necessarie | 17 |
Capo II. Argini e difese da opporsi affinchè il contagio non accosti. Con quali diligenze se gli abbia a disputar l’ingresso e l’avanzamento. Entrato il morbo, tentativi per soffocarlo. Quarantena proposta a questo effetto | 32 |
Capo III. Alleggerire le città d’abitatori. Poveri se si abbiano da escludere. Libertà ai cittadini di ritirarsi in villa. Fuga utile e permessa a tutti, fuorchè alle persone necessarie per la repubblica | 42 |
Capo IV. Necessità di magistrati prudenti e attivi pel governo della peste. Autorità e rigore conveniente ad essi. Loro cautele per preservarsi. Elezione d’altri subordinati. Non doversi forzare i medici alla cura degl’infetti; e come governarsi per conto d’essi | 48 |
Capo V. Peste comunicata pel contatto dell’aria, de’ corpi e delle robe appestate. Come l’una parte del paese abbia da difendersi dall’altra. Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera di opprimere la pestilenza introdotta | 56 |
[468] | |
Capo VI. Commercio fra le persone come da regolarsi, qualora non si possa opprimere la peste. Lazzeretti e sequestri, e attenzione agli infermi. Provvisione per li mendicanti. Cimiteri pubblici fuori della città. Regole per li medici, cerusici, confessori, e loro segni. Sequestro de’ fanciulli e delle donne. Provvisioni per li beccamorti. Commercio fra’ cittadini e contadini | 65 |
Capo VII. Commercio co’ forestieri interdetto. Regole per preservarsi illeso nelle terre e città appestate. Cautele del vestire e del praticar con infetti. Prove che si può facilmente preservare, tratte dalla sperienza. Necessità e utilità del coraggio in tali casi | 80 |
Capo VIII. Come si possa guardare dall’aria infetta. Odori preservativi, e varie ricette. Odori sottili e calidi. Maniere di purgar l’aria delle case e delle città | 92 |
Capo IX. Commercio di robe infette proibito. Necessità di prima espurgarle. Tre maniere di spurgo. Più utile e più facile è quello dei profumi. Dose e metodo per profumar robe, case ed altri luoghi. Ordini rigorosi per lo spurgo, e necessità di questo rimedio | 101 |
Capo X. Cautela per esentar dallo spurgo varie robe. Provvisioni per gli cani e gatti. Monete ed altri metalli se suggetti a portar infezione. Regole per le robe ed animali. Luoghi eletti pel commercio de’ commestibili, e maniera di farlo. Se si dia contagio disseminato o dilatato dalla malizia. Riflessioni intorno a’ mali effetti del terrore, e cautela | 116 |
Capo XI. Preparamento di lazzeretti per gl’infetti e pei sospetti. Regole per luoghi tali. Danni che provengono dai lazzeretti; sequestri ed altri rigori. Precauzioni necessarie. A chi si possa permettere il sequestro. Attenzione sopra i beccamorti | 130 |
Capo XII. Luogo e regole della quarantena. Se sieno necessari 40 giorni per essa. Regolamenti per l’introduzione delle vettovaglie. Obbligazione dei ricchi di soccorrere i poveri. Doversi facilitare il fare i testamenti. Cura degli spedali e delle prigioni | 143 |
[469] | |
LIBRO SECONDO | |
GOVERNO MEDICO. | |
Capo I. Regole mediche per preservarsi dall’aria. Ricette varie per profumi. Come si debba governare nell’uso del mangiare e bere; del sonno e della vigilia; del moto e della quiete, e delle passioni dell’animo. Grande utilità dell’intrepidezza, e del coraggio | 154 |
Capo II. Cauteri commendati per preservarsi dalla peste. Quali persone più facilmente contraggano il morbo. Salassi e medicine solutive, preservativi biasimati. Amuleti o pericolosi, o dubbiosi contro la pestilenza. Attenzione de’ magistrati contro chi spaccia rimedi vani o nocivi. Sacchetti preservativi. Olio del Mattiolo utile anche nella preservativa | 166 |
Capo III. Preservativi da prendersi per bocca. Erbe e tavolette a questo effetto. Mitridato minore commendato da molti. Altre bevande, polveri, conserve, elettuari, vini, unguenti, ecc., creduti preservativi. Aceto, e lodi d’esso, e di acidi contro il veleno pestilenziale. Metodo d’alcuni medici per preservarsi nel commercio con appestati | 183 |
Capo IV. Rimedi curativi della peste. Nessuno specifico e sicuro finora trovato. Periodo delle pestilenze in una città, principio, mezzo e fine e lor diversi effetti. Medicamenti come trovati efficaci in una peste e non in altre. Salassi e medicine solutive, rimedi allora o pericolosi o nocivi | 211 |
Capo V. Sudoriferi uno de’ rimedi più commendati nella cura della peste. Varie ricette di questi | 224 |
Capo VI. Altri medicamenti per curar la peste. Quali usati ne’ contagi del 1630 e 1656. Canfora commendata assai, e varie composizioni canforate. Solfo, e suoi pregi contro la pestilenza. Bolo armeno, triaca, diascordio, ed altri antidoti o lodati, o riprovati | 234 |
[470] | |
Capo VII. Metodo da tenersi nel curar gl’infetti. Sudoriferi rimedio creduto il più utile degli altri. Aforismi intorno ai sudori, e maniera di far sudare. Camere degl’infermi come s’abbiano a custodire. Quai cibi e bevande loro convengano | 255 |
Capo VIII. Buboni, carboni e petecchie: sintomi ordinari di questo morbo. Pronostici intorno ai buboni. Tre maniere di curarli. Più sicura dell’altre quella di condurli alla suppurazione. Vari empiastri utili o efficaci per maturar buboni. Metodo e medicamenti vari per finirne la cura. Uso dei vescicanti | 266 |
Capo IX. Carboni pestilenziali. Pronostici intorno ad essi. Vari metodi per curarli poco lodevoli. Maturarli e separarli, maniera più commendata dell’altre. Vari medicamenti per questo effetto, ed altri per levar via l’escara | 282 |
Capo X. Petecchie, febbre, delirio, vigilia, sonno, vomito, siccità di lingua, emorragie, ed altri sintomi delle pestilenze. Sollecitudine necessaria in curar per tempo gl’infetti. Veleno pestilenziale se coagulante o squagliante il sangue. Quai rimedi maggiormente s’abbiano ad aver pronti per i tempi della peste | 300 |
LIBRO TERZO | |
GOVERNO ECCLESIASTICO. | |
Capo I. Necessità di ricorrere a Dio e di placarlo, massimamente in tempo di peste. Quali in pericolo dì contagio abbiano da essere le incumbenze de’ vescovi e degli altri ecclesiastici per tener lungi il morbo; e quali i preparamenti prima ch’esso venga | 316 |
Capo II. Quanto sia necessario il coraggio nei tempi della pestilenza. Fede e speranza, virtù divine e fonti d’intrepidezza e di giubilo. Bontà e misericordia di Dio ricordate ai peccatori. Rassegnazione a Dio, e darsi tutti a lui | 326 |
[471] | |
Capo III. Uffizio de’ vescovi venuto il contagio. Provvisione di ministri e d’altri soccorsi temporali e spirituali. Lazzeretto per gli ecclesiastici. Consolare e animare il popolo colla presenza e con altri aiuti. Varie licenze da concedersi dal prelato. Messe ove da dirsi. Prediche e processioni come da farsi. Quali regole in tempo di generale quarantena | 334 |
Capo IV. Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi | 347 |
Capo V. Carità verso il prossimo quanto essenziale al cristiano, e massimamente nelle calamità d’una peste. Obbligazione de’ secolari in tempi tali di soccorrere il prossimo. Varie maniere di esercitare, la carità. Confraternità della misericordia. Lode di chi assiste alla cura dei suoi parenti infermi | 365 |
Capo VI. Carità de’ principi verso i loro sudditi. Maggiore si esige dagli ecclesiastici che dai laici e molto più dai benefiziati. Obbligazione dei regolari. Doversi in caso di necessità impiegare anche i vasi sacri. Carità eccellentissima di chi si espone alla cura degl’infetti. Come s’abbiano da preservare tali caritativi | 377 |
Capo VII. Pietà e divozione quanto necessarie in tempo di pestilenza. Malvagità d’alcuni, che diventano allora peggiori. Quali prediche si convengano per costoro. Esercizi per accrescere e nutrire la pietà. Lezione spirituale, orazioni vocali, meditazioni e giaculatorie | 390 |
Capo VIII. Ricorso all’intercessione de’ santi; ma spezialmente ricorso a Dio. Sua immensa bontà, e meriti di Gesù che ci fanno coraggio. Amore e divozione verso Gesù e speranza in lui; utili e necessarj soccorsi in ogni tempo, ma in quei massimamente delle calamità. | 398 |
[472] | |
Capo IX. Riguardi per conservare illesi i conventi de’ religiosi. Varie cautele a tal fine ed altre in caso che v’entrasse il male. Quando sieno tenuti i religiosi a ministrare i sacramenti agl’infetti e quando gli ecclesiastici secolari. Monasteri delle monache come s’abbiano a custodire, e regole se vi penetrasse la peste. Esortar la gente allo spurgo. Dopo il contagio promovere la pietà. Conformità al volere di Dio cagione della vera tranquillità | 407 |
Relazione della peste di Marsiglia | 429 |
Osservazioni intorno all’antecedente Relazione | 447 |
PUBBLICATO
IL GIORNO XXX GENNAJO
M. DCCC. XXXII.
Se ne sono tirate due sole copie
in carta turchina di Parma.
1. Per eseguire la ristampa di quest’opera ci siamo serviti delle due edizioni di Modena 1714 e di Milano 1720, ed abbiamo scrupolosamente collocate a debito luogo le aggiunte che si trovano in fine di ambedue le edizioni. — Il Corniani dice che non vi è libro del Muratori, il quale vanti un egual numero di edizioni.
2. V. il vol. CCLV della nostra Bibl. scelta, an. 1830.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.